Lost girl

di WillofD_04
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Confusione ***
Capitolo 2: *** Presentazioni ***
Capitolo 3: *** Risate ***
Capitolo 4: *** Risposte ***
Capitolo 5: *** Lettera ***
Capitolo 6: *** Festeggiamenti ***
Capitolo 7: *** Proposte ***
Capitolo 8: *** Sbarco ***
Capitolo 9: *** Nuova arma ***
Capitolo 10: *** Ricatti ***
Capitolo 11: *** Annuncio ***
Capitolo 12: *** Saluti ***
Capitolo 13: *** Nuovo inizio ***
Capitolo 14: *** Disobbedienza ***
Capitolo 15: *** Compleanni ***
Capitolo 16: *** Addestramento ***
Capitolo 17: *** Incidenti ***
Capitolo 18: *** Notti inquiete ***
Capitolo 19: *** Operazione ***
Capitolo 20: *** Esplorazione ***
Capitolo 21: *** Debiti ***
Capitolo 22: *** Battaglia ***
Capitolo 23: *** Sensi di colpa ***
Capitolo 24: *** Vendetta ***
Capitolo 25: *** Sangue freddo ***
Capitolo 26: *** Pericoli ***
Capitolo 27: *** Vecchie conoscenze ***
Capitolo 28: *** Insonnia ***
Capitolo 29: *** Dialoghi notturni ***
Capitolo 30: *** Scuse ***
Capitolo 31: *** Svago ***
Capitolo 32: *** Separazione ***
Capitolo 33: *** Ritorno al sottomarino ***
Capitolo 34: *** Punto di partenza ***
Capitolo 35: *** Complicazioni ***
Capitolo 36: *** Articoli di giornale ***
Capitolo 37: *** Taglia ***
Capitolo 38: *** Dolci ricordi ***
Capitolo 39: *** Equivoci ***
Capitolo 40: *** Epidemia ***
Capitolo 41: *** Esperimenti ***
Capitolo 42: *** Sbornie ***
Capitolo 43: *** Sacrificio ***
Capitolo 44: *** Disperazione ***
Capitolo 45: *** Miracoli ***
Capitolo 46: *** Magia ***
Capitolo 47: *** Incontro ***
Capitolo 48: *** Destino ***
Capitolo 49: *** Terrori notturni ***
Capitolo 50: *** Libertà ***
Capitolo 51: *** Confronti ***
Capitolo 52: *** Cicatrici ***
Capitolo 53: *** Conseguenze ***
Capitolo 54: *** Invadenza ***
Capitolo 55: *** Preparativi ***
Capitolo 56: *** Viaggio ***
Capitolo 57: *** Promesse ***
Capitolo 58: *** Ricongiungimento ***
Capitolo 59: *** Banchetto ***
Capitolo 60: *** Casa ***



Capitolo 1
*** Confusione ***


“Sai chi sei? Capisci che cosa ti è successo? Vuoi vivere in questo modo?”
 
 
Di sicuro avevo sbattuto la testa. Come lo sapevo? Mi faceva un male cane. Un’altra cosa di cui ero sicura era di essere a letto, sotto di me sentivo il morbido contatto con il materasso. Ancora nell’oscurità, cercai di pensare a cosa poteva essere successo. Probabilmente, come mio solito, ero inciampata sul gradino della mia portafinestra e avevo picchiato la testa da qualche parte. Però c’era qualcosa che non tornava. Insomma, sarebbe stato tipico di me cadere come una pera cotta, ma non poteva essere successo, non quella volta. Era come se fosse successo tutto in un attimo, come se all’improvviso fossi stata risucchiata da qualcosa. Cercai di ricordarmi cosa potesse essere successo e mi venne in mente che poco prima di sentirmi misteriosamente inghiottita, avevo udito qualcuno che mi diceva qualcosa. Non mi ricordavo le parole precise, ma dicevano più o meno “scusa per il ritardo, ma non ho molta memoria e faccio confusione”. Chi poteva essere? Ero sola in casa e non era nessuno dei ragazzi, perché se ne erano chiaramente andati e davanti ai miei occhi per giunta e non ero abbastanza pazza da sentir parlare il gatto della vicina. Quindi, come al solito mi ritrovavo davanti a un mistero. Immaginavo non fosse né l’unico, né l’ultimo. Decisi che dovevo scoprire cosa stava succedendo. La stanza – ammesso che fosse una stanza – in cui mi trovavo era buia e l’unica fonte di luce proveniva da un oblò situato al centro di una delle pareti. Ok, era chiaro che non mi trovavo nella mia camera, perché la mia camera non aveva oblò, fino a prova contraria. Mi imposi di rimanere calma e di scendere dal letto per cercare l’interruttore della luce. Fui sicura che quella non era la mia stanza quando, allungando le gambe per posarle sul pavimento, mi accorsi che dal lato da cui scendevo di solito – il sinistro – c’era un muro. Provai dalla parte opposta e una volta in piedi, constatai che la testa mi girava anche leggermente. Qualsiasi cosa fosse successa, dovevo aver dato una bella botta. Sfruttai la fioca luce che proveniva dall’oblò per guardarmi in giro e provare a vedere se riuscivo a riconoscere qualcosa. Niente. Cercai a tastoni per tutta la stanza l’interruttore della luce, senza però trovarlo. Andai nel panico un paio di volte, prima di rimettermi a cercare più ossessivamente di quanto non avessi fatto in precedenza. Avevo troppa paura per uscire dalla stanza, ma avevo altrettanta curiosità di scoprire dove accidenti mi trovavo. Non sapevo che fare e non sapere che fare mi metteva in agitazione. Prima di tutto però, dovevo trovare quel maledetto interruttore. Dopo circa cinque minuti – che mi parvero secoli e secoli di errare umano – riuscii finalmente a trovarlo. Prima di premerlo, però, aspettai un attimo. Se avessi acceso la luce sarei potuta trovarmi davanti a uno spettacolo che non mi sarebbe affatto piaciuto. Avrei potuto perdere la testa. Quindi inspirai ed espirai lentamente. Chiusi gli occhi, strizzando le palpebre. “Non di nuovo, non di nuovo, ti prego, non di nuovo”. Lo premetti, ancora con gli occhi chiusi e quando li riaprii non ebbi la reazione che mi immaginavo. Come pensavo ero sola nella stanza. Stanza in cui non ero mai stata, non avevo la benché minima idea di dove fossi. Ma non mi agitai, anzi rimasi calma. Quella camera mi sembrava di averla già vista, aveva qualcosa di familiare. Era fatta interamente di legno, muri compresi, e non era grandissima. C’era un solo letto e dalla parte opposta una scrivania con una sedia girevole. Non ci avevo fatto caso fino a quel momento, ma la camera profumava di erbe e unguenti. Dopo una rapida occhiata decisi che quella doveva essere un’infermeria o qualcosa di simile. Cercai di sforzarmi e di fare mente locale su dove fossi finita e perché, o cosa fosse successo, ma l’agitazione del momento e il male alla testa non aiutarono affatto. Poi mi ricordai che esistevano i cellulari, e che potevo tranquillamente chiamare i miei genitori. Per fortuna lo avevo nella tasca degli shorts. Feci per andare a prenderlo, quando mi accorsi che nella tasca non c’era niente. Sgranai gli occhi e lasciai il posto nel mio cervello a tutti i pensieri negativi che potevo fare. Stavo sognando? No, no, quello non era un sogno, ne ero certa. Ero morta e mi trovavo in Paradiso? O mi trovavo all’Inferno? Ero finita in coma? Mi trovavo in una dimensione alternativa parallela? Ero andata a un rave e qualcuno mi aveva drogata? Tra tutte, ne spiccò una in particolare. Mi avevano rapita.
«Merda» sibilai muovendo appena le labbra per evitare di essere sentita. Poi vidi una cosa che mi rassicurò un minimo. Lì, sulla scrivania, in bella vista e splendente, c’era il mio amato cellulare accompagnato dalle mie cuffiette e molto sorprendentemente, dal caricabatterie. Lo presi, digitai la password e senza pensarci due volte composi il numero di mia madre. La vocina registrata dell’operatrice telefonica che mi diceva che non ero abilitata alla chiamata mi fece perdere ogni speranza. Solo dopo aver riprovato tre o quattro volte notai che effettivamente non c’era campo. Ma dove cavolo ero finita? E perché tutte a me dovevano capitare? Se quella non era l’occasione per impazzire, ero a prova di manicomio.
Notai che c’era uno specchio, subito dopo il letto. Nel dubbio che mi avessero fatto qualche strano intervento chirurgico, decisi, raccogliendo tutto il mio coraggio, di andare a guardarmi. Rimasi di lato allo specchio per qualche secondo. Presi un bel respiro di incoraggiamento e feci un passo, posizionandomi al centro di esso. Quasi mi ruppi una mascella per quanto la mia bocca si era spalancata nel fissarmi. Non ero io quella. O meglio, ero io ma ero...diversa. La prima cosa che mi saltò all’occhio fu il decolleté più prorompente e i fianchi più stretti. Mi girai anche per controllare il mio posteriore. Non male neanche quello. Per quanto riguardava il viso, dovetti strizzare gli occhi e avvicinarmi. Ignorando il fatto che la mia testa era fasciata, i capelli castani e mossi mi ricadevano sempre sotto il seno, ma erano meno voluminosi. Gli occhi erano più grandi e dalla forma strana, delle mie spesse e folte sopracciglia non c’era più traccia, ora c’era solo una linea sopra alle palpebre. Le iridi erano bordate da una linea circolare nera, mentre dentro erano color nocciola caldo. Il viso invece era perfettamente ovale, ma la bocca si era ridotta a poco più di un segmento leggermente incurvato dello stesso colore della carnagione – rimasta del colore olivastro di cui era prima – e solo il labbro inferiore era vagamente visibile. Il naso, prima leggermente a patata, ora era leggermente alla francese. Infine, come ultimo particolare, notai una cintura metallica che avevo alla vita che prima non avevo. O comunque, non che ricordassi. Non potevo credere di essere io. Ero stata rapita, portata da dei chirurghi esperti che mi avevano cambiato i connotati così nessuno avrebbe potuto riconoscermi e probabilmente mi avevano venduta come schiava in qualche paese inesistente sulla cartina geografica. Mi avevano anche affibbiato una cintura che chissà cosa faceva, magari succhiava la mia energia vitale o funzionava come il collare degli schiavi dei Draghi Celesti. Forse sarei esplosa da un momento all’altro! Magari avevo un marchio di riconoscimento, tipo un codice a barre o un tatuaggio. No, no, non poteva essere. Dio, dovevo smetterla di guardare film polizieschi. Feci una specie di saluto alla me nello specchio, per vedere se davvero quella là davanti ero io o me lo stavo solo immaginando. La figura riflessa faceva i miei stessi movimenti. Quella ero io. Effettivamente, come potevo non esserlo? Avevo sempre avuto i capelli castani e mossi e gli occhi nocciola. E c’ero solo io in quella camera, che ora mi sembrava angusta ed opprimente. Non poteva esserci intrappolata un’altra ragazza simile a me dall’altro lato dello specchio. Nel dubbio lo toccai. Era un normalissimo specchio. E se invece fosse stato uno di quegli specchi a doppio vetro che usano gli scienziati per studiare i soggetti dei loro esperimenti? Poteva essere, mi avevano tramortito dandomi una botta in testa e mi avevano portato lì, togliendo la sim al cellulare così non potevo essere rintracciata. L’angoscia si impadronì di me. Mi misi a camminare avanti e indietro per tutta la stanza, cercando di tranquillizzarmi. “Ti prego, non di nuovo. Qualsiasi cosa, ma non qualcosa di brutto, ti prego”. Mi misi le mani tra i capelli, fermandomi a metà dopo essermi ricordata delle fasciature e del dolore alla testa. Mi sedetti sul bordo del letto scuotendo con convinzione la testa, per evitare che la disperazione prendesse il sopravvento. “No. No. No. No. No. No, no, no, no, no”. Affondai la faccia negli avambracci, poggiati sulle ginocchia e rimasi per un po’ in quella posizione. Mi ci volle tutta la mia forza di volontà per non iniziare a singhiozzare senza ritegno. All’improvviso però, alzai la testa. Mi ero ricordata delle cuffiette ancora sulla scrivania. Le presi e le attaccai al cellulare. La musica mi aiutava molto in questi momenti di sconforto. Misi una canzone piuttosto azzeccata per una situazione del genere, “Keep breathing” di Ingrid Michaelson. In pratica la canzone diceva che tutto ciò che dovevo fare era continuare a respirare, e lo feci. Sembravo una donna in gravidanza ad un corso pre-parto. Quando l’ebbi ascoltata a sufficienza, avevo respirato tutta l’aria che c’era in quella stanza. Avevo bisogno di altra aria. Aria vera. Ossigeno puro. Nemmeno a farlo apposta, sentii una voce abbastanza lontana provenire dall’altra parte della porta. Mi voltai di scatto e fissai l’oblò. Era arrivata l’ora di uscire di lì. Rimisi in tasca i miei effetti personali. Mi alzai e mi diressi verso l’unica via d’uscita da quella stanza. Inspirai ed espirai un’ultima volta. Stavo per farlo. Stavo per fare una gran cazzata o la cosa più intelligente che potessi fare. Misi la mano sulla maniglia. Chiusi gli occhi. La abbassai.
«Tutto ciò che ti chiedo, è di farmi ritrovare davanti la mia amata camera una volta che avrò aperto questa porta. Vedi di non deludermi, Manny. Ti prego, non di nuovo. Non un’altra volta.» supplicai l’Uomo della Luna, esattamente come avevo fatto prima di accendere l’interruttore.
Tirai indietro la porta e riaprii gli occhi. Quando lo feci, la luce mi investì a tal punto che per vederci qualcosa dovetti portarmi una mano alla fronte. Quando le mie pupille si furono abituate ai travolgenti raggi solari mattutini, misi a fuoco la situazione. Un odore salmastro mi invase le narici. Ero sul ponte di una nave. A giudicare dalla posizione in cui ero dovevo essere a poppa. Decisi di scoprirne di più. Raccolsi tutto il mio coraggio e mi avventurai in giro per l’imbarcazione. Dalla parte opposta a dove stavo si sentivano degli schiamazzi. Appoggiandomi alla ringhiera e procedendo con molta cautela, seguii i rumori. Poco ci mancò che non caddi all’indietro dall’incredulità. Infatti dovetti reggermi agli stipiti della porta che era dietro di me per rimanere in piedi. Dieci paia di occhi mi fissavano, tutti con un’espressione diversa. C’era chi era divertito, chi indifferente, chi curioso e chi stupito.
«Oh cazzo...è successo di nuovo!» esclamai, al limite dell’esasperazione.



Angolo autrice:
Ciao a tutti! Eccomi qui, sono tornata con il (forse) tanto atteso seguito di "Lost boys". Non penso ci sia molto da dire su questo primo capitolo, spero solo che vi sia piaciuto. Vi starete chiedendo (ma anche se non ve lo state chiedendo ve lo dico lo stesso) perchè ho pubblicato la storia proprio oggi. Ebbene, ci tenevo a pubblicare il seguito proprio oggi perchè è un giorno speciale. Oggi è il compleanno della mia amica Mariaace e questo è il mio regalo per lei. Quindi tanti auguri Mariaace e spero che questo primo capitolo ti piaccia! :* <3

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Capitolo 2
*** Presentazioni ***


Dire che ero sconvolta era dire poco. Come poteva essere accaduto? Come accidenti potevo esserci finita lì!? Io non avevo fatto niente. Non avevo espresso nessun desiderio di andare lì. Si, avevo la volontà di andarci, ma un meccanismo come quello della Seconda Stella a Destra non può essere messo in moto dalla mera volontà. Non capivo. Mi poggiai il palmo della mano sulla fronte, per poi lasciarlo scorrere su tutta la testa, questa volta non curandomi delle fasciature. Almeno stavolta non ero svenuta, avevo fatto progressi. Non potevo vedermi, ma ero certa di avere l’espressione di una a cui era appena morto il cane. Eppure, mi ero immaginata tante volte quel momento. Sapevo che era impossibile, ma ci avevo sperato così tanto, l’avevo desiderato così ardentemente. E ora che ero lì, guardando tutti quei visi che mi sorridevano cordiali, non riuscivo ad essere contenta. Non ero mai contenta. C’era sempre qualcosa, un peso sul petto, che me lo impediva.
«Ti fa male la testa?» mi chiese una vocina, costringendomi a guardare in basso.
Boccheggiai. Non sapevo che dire. O meglio, sapevo la risposta, ma non mi usciva niente. Ero troppo scombussolata per poter anche solo replicare a una semplice domanda.
«Forse non dovresti ancora alzarti dal letto» continuò il proprietario di quella voce, avanzando di qualche passo verso di me.
 Mi appoggiai con il gomito destro allo stipite della porta. «No, no tranquillo. Sto...sto bene» gli sorrisi, cercando di sembrare il più convincente possibile, anche se l’unica cosa di convincente in me era lo stato di confusione. Ora si spiegava perché l’infermeria alle mie spalle mi sembrava familiare. L’avevo vista più e più volte, disegnata su un foglio.
«Oh, allora va bene. Ma se senti che ti fa male non esitare a dirmelo. Piacere comunque, io sono Chopper» la piccola renna si era avvicinata ancora e ora era a un passo da me.
«Chopper. Tony Tony Chopper» annuii con voce tremante. Caddi in ginocchio e prima che me ne resi conto i miei occhi si riempirono di lacrime.
«Cami!» quasi tutti accorciarono la distanza tra me e loro salendo le scale, preoccupati.
«No, sto bene» alzai una mano «è solo che ancora non mi capacito della situazione in cui sono finita»
«Probabilmente è lo shock del momento, vai a riposarti» mi suggerì il piccolo dottore
«Sto bene, dico davvero. Sono...felice. Confusa. Non so cosa sia successo, ma sto bene»
Non avevo bisogno di riposo, avevo bisogno di risposte. Ero la classica persona razionale che andava in panico se non sapeva cosa stava succedendo. Si era visto quando la prima volta che mi era successa una cosa del genere ero svenuta miseramente e mi ero risvegliata sul tavolo della sala da pranzo. Ma non ero triste, ero solo annebbiata. Però ero anche felice, perché avevo appena conosciuto la renna più carina dei sette mari. E li avrei conosciuti tutti, uno a uno. Quindi si, ero felice. Ricacciai indietro le lacrime e mi ripresi un po’.
«Sei stato tu a curarmi?» chiesi a Chopper. Lui annuì.
«Sei stato molto gentile e hai fatto un ottimo lavoro, grazie!» gli sorrisi
«Smettila idiota! Lo sai che non amo i complimenti» disse mentre si gongolava. Risi e mi rialzai.
«Credo di non essermi presentata. Ciao a tutti, io sono Camilla, ma potete chiamarmi Cami!»
«Ciao, piacere, io sono Nami e sono la navigatrice di questo equipaggio di squinternati! Ma suppongo che tu già lo sappia» la rossa sorrise, furba
«Ehi, i vostri nomi si assomigliano!» esclamò Rufy. Aveva ragione, non ci avevo mai fatto caso.
«Molto piacere signorina, io sono Brook, il canterino! Yohohoho» lo scheletro fece un inchino «mi mostreresti le tue mutandine?» chiese poi, beccandosi un calcio da Sanji
«Mia bella Cami, ti andrebbe qualcosa da mangiare?» domandò il biondo subito dopo. Feci di no con la testa e passai oltre. Mi presentai all’archeologa, gentile come al solito, e infine al carpentiere, che era impegnato in una riparazione della nave.
«Allora, vuoi sapere cosa è successo?» chiese quest’ultimo
«Si, decisamente»
Il turchino poggiò il martello e mi mostrò il buco che stava riparando.
«Ecco, cosa è successo. Sei piombata giù dal cielo»
Rimasi a fissare quell’enorme cratere per qualche secondo.
«Q-questo è opera mia? L’ho fatto io?»
«Si mia cara»
«Come faccio a essere ancora viva!?»
«Sfiga» una voce lontana, ma chiara come il sole mi raggiunse dall’altra parte della nave. Mi voltai verso di essa.
«Traffy» attraversai tutto il ponte della Sunny e lo raggiunsi. Avevo tante domande che mi vorticavano nella testa, ma non potevo farle e soprattutto non a lui. Per fortuna mi anticipò come suo solito.
«Se ti stai chiedendo cosa ci faccio qui, il mio sottomarino ha un guasto e il cyborg si è offerto di ripararmelo» fece un lieve cenno del capo verso la poppa della nave. Allungai la testa e vidi la piccola imbarcazione gialla trainata dalla nave. Mi feci scappare un’esclamazione di sorpresa. Quando ero uscita dalla porta dell’infermeria non l’avevo notata. Molto probabilmente era stata l’agitazione del momento.
«I miei uomini sono lì. Il carpentiere mi aveva promesso che lo avrebbe riparato entro oggi, ma sei arrivata tu»
«Io...scusa» ero mortificata. Gliene avevo fatte passare di cotte e di crude e ora anche questo, doveva odiarmi
Sogghignò «Sei sempre tra i piedi»
«Non sai quanto mi dispia...» mi fermai quando vidi che aveva allargato il suo ghigno.
«Marco se n’è dovuto andare prima che cadessi dal cielo, ma sono sicuro che se sapesse che sei qui ne sarebbe molto felice» s’intromise cappello di paglia. Un altro dubbio l’avevo risolto. Ora ne rimanevano all’incirca altri duemila. Per esempio, che cosa diavolo era la cintura che mi avevano messo alla vita. La toccai. Mi dava uno strano calore.
«Non la toglierei se fossi in te» fece glaciale Law. Sobbalzai all’indietro. Che voleva dire? Che sarei esplosa se l’avessi tolta?
«Quello è un congegno che abbiamo progettato io e Franky» disse Usop orgoglioso, portandosi le mani ai fianchi. La parola congegno non mi rassicurava tanto.
«Toglitelo, avanti»
«Come si toglie?»
Mi fece vedere che c’era un sistema di sbloccaggio strano e mi aiutò a levarmi la cintura. A vederla sembrava più pesante, mentre addosso quasi non si sentiva. Mi disse di scegliere un “bersaglio” che non fosse Rufy, Zoro o Sanji. Scelsi Nami – chissà per quale assurdo motivo – e andai da lei. Provai a parlarle. Niente. Mi misi davanti a lei, ma non riusciva a vedermi. All’improvviso Usop mi toccò e la navigatrice sussultò portandosi una mano al petto.
«Usop! Ti sembra questo il modo di fare le cose!?»
Il cecchino si fece piccolo piccolo «Scusa Nami. Scusa, scusa, scusa, scusa» alzò le mani all’altezza del viso. Poi la rossa gli strappò la cintura dalle mani e si mise a guardare un punto impreciso davanti a lei.
«Cami, metti questa»
Io la presi delicatamente e la infilai, sbloccandola come mi aveva mostrato il cecchino poco prima.
«Molto meglio, ora riesco a vederti» mi sorrise e se ne andò, lasciandomi più perplessa di prima.
«Quanto tempo sono rimasta priva di sensi?» chiesi a chiunque volesse rispondermi
«Non molto, tre ore» fece il cyborg, ancora impegnato nel riparare il buco
«E voi in tre ore siete riusciti a progettare questo marchingegno?»
«Si, non è stato difficile. Quando sei piombata qui, solo pochi di noi riuscivano a vederti, infatti non riuscivo a capire cosa fosse successo. Poi Usop mi ha spiegato che quando loro erano nel tuo mondo nessuno a parte te poteva vederli, a meno che non avessero avuto un contatto diretto con te. Quindi insieme al nasone abbiamo ideato questa cintura che trasmette la sua stessa temperatura, in questo modo tutti potremo vederti e sentirti»
«Wow. Una spiegazione più che dettagliata. Ho sempre saputo che eravate incredibili»
«Suuuuupeeer!» Franky si mise nella sua tipica posa. Dovevo dire che visto da vicino era molto più imponente di quanto potessi pensare. Non osavo immaginare il Generale Franky come sarebbe potuto apparire ai miei occhi, o Orso Bartholomew, o Kaido.
«Perciò io posso apparire e scomparire semplicemente mettendo e togliendo la cintura? Questa cosa mi piace» stavo cercando di trovare quanti più punti a favore possibile di quella assurda situazione. Non potevo permettermi di avere un crollo. Dovevo restare lucida e pensare razionalmente a una soluzione. Ci doveva essere una via d’uscita. C’era sempre una via d’uscita. Niente svenimenti o crisi di pianto stavolta. Lucida. Razionale. Distaccata. Solo così avrei potuto cavare qualche ragno dal buco. Non che mi piacesse, cavare ragni dai buchi. Certe volte avrei voluto farmi prestare il cervello da Law. Lui era sempre così posato. Io di posato non avevo nemmeno i piedi per terra.
«Mia principessa, anche se sei diversa da come eri nel tuo mondo, sei sempre splendida! Anzi, così sei ancora più bella! Ti ho fatto un tè freddo» il cuoco mi volteggiava intorno con una bibita in mano. Gliela sfilai dalle mani e ringraziai prima di attaccarmi alla cannuccia. Tutto quel suo girarmi intorno mi aveva fatto venire la nausea. Posai il bicchiere sulla panca che circondava l’albero maestro e mi misi a sedere, accarezzandomi lo stomaco.
«È solo mal di mare. È normale avere la nausea, se non sei abituato. Comunque ti posso dare qualche erba medicinale per calmare il senso di vomito»
«Sei molto gentile, ma per ora non ne ho bisogno. Se più in là mi servirà te lo farò sapere» sorrisi al piccolo dottore. Perché tutti i medici non potevano essere come lui? Invece a me toccavano sempre quelli scorbutici e indelicati, a partire da Trafalgar Law. Aspettai ancora qualche minuto – in cui la situazione non migliorò affatto – e poi mi alzai, decisa, battendo le mani una volta per richiamare l’attenzione. Qualcosa doveva cambiare. Non potevo assolutamente restare lì.
«Ok ragazzi, è stato bello finché è durato, ma ora devo tornare a casa».

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Capitolo 3
*** Risate ***


«Cami?»
Aprii lentamente gli occhi nella direzione del proprietario della voce, Sanji.
«Mi dispiace disturbarti, ma sono le tre del pomeriggio passate»
Le tre del pomeriggio? Avevo dormito così tanto? Era vero che mi ero addormentata all’alba e che avevo del sonno arretrato, parecchio sonno arretrato, ma non pensavo che sarei riuscita a dormire così tanto. La scena mi aveva ricordato l’ultima mattina che in teoria avrei dovuto passare con loro, quando Marco mi aveva dolcemente svegliata. Tanto più che entrambi erano biondi.
Annuii con gli occhi ancora un po’ socchiusi e mi trascinai giù dal letto.
«Hai saltato il pranzo» mi disse il cuoco un po’ pensieroso.
“Al diavolo il pranzo” pensai. Avevo questioni più urgenti da risolvere. Tipo che ero stata catapultata in un mondo a me praticamente sconosciuto e non sapevo come tornare a casa. O che nello sparire non avevo lasciato tracce e nessuno sapeva dove ero andata. O che non avevo niente con me a parte un telefono che non prendeva, il suo caricabatterie e delle cuffiette. A pensarci bene, quest’ultima non era una cosa negativa, perché erano gli oggetti che avrei voluto con me se fossi finita su un’isola deserta. Ma forse non erano gli unici oggetti che erano stati trasportati con me. L’occhio mi cadde sulla scrivania dell’infermeria. Il giorno prima nella fretta e nello scompiglio non l’avevo notato, ma c’era un libro. Mi avvicinai, guardai la copertina e non potei fare a meno di sorridere quando lessi il titolo. “Le avventure di Peter Pan” di James Matthew Barrie. Lo toccai, quasi mi servisse a confermare che fosse reale. Non sapevo perché la Stella avesse deciso di trasportarlo qui ma se non altro mi avrebbe tenuto compagnia.
«Ehm...» il biondo si schiarì la voce un po’ imbarazzato, come a ricordarmi della sua presenza. Mi girai verso di lui e vidi che aveva in mano la cintura argentea che mi avevano fatto Usop e Franky e che la sera prima avevo gettato malamente in qualche parte dell’infermeria. Senza fargli dire altro la presi e me la misi. Poi mi avviai verso il ponte della nave. Ancora una volta il sole pomeridiano mi costrinse a mettere una mano sulla fronte per farmi ombra sugli occhi. Una volta che ebbi messo a fuoco la situazione, mi imposi di sorridere. Ci avevo riflettuto a lungo la sera precedente ed ero giunta alla conclusione che non potevo mostrarmi triste o depressa. Principalmente per due motivi: non volevo rovinare la giornata a nessuno con il mio broncio e soprattutto la nuova Cami non era questo. La nuova Cami non si sarebbe lasciata guidare dalla tristezza e dalla negatività.
«Buongiorno ragazzi!» gridai al resto della ciurma aprendomi in un sorriso «anzi forse sarebbe meglio dire buon pomeriggio» ci ripensai, grattandomi la nuca leggermente imbarazzata.
«Cami! Come ti senti oggi? La testa ti fa male?» mi chiese premuroso il piccolo Chopper
«Sto benissimo, grazie per la premura!» gli sorrisi dolcemente e lui ricambiò.
«Mia dea, posso prepararti qualcosa?» mi domandò il biondo cuoco alle mie spalle. Feci segno di no con la testa. Al momento più che di cibo avevo bisogno di spazzolino da denti e dentifricio, seguiti da deodorante, bagnoschiuma e saponi vari, spazzola, pigiama e vestiti di ricambio. Di certo non avrei chiesto queste cose a Nami e Robin, non avevo la confidenza tale per fare una cosa del genere. Però potevo chiedere un’altra cosa alla navigatrice.
«Nami scusa, quanto pensi che manchi alla prossima isola?»
La rossa, che stava sorseggiando quello che presupponevo essere un succo al mandarino, mi squadrò con un’espressione indecifrabile. Sinceramente un po’ la temevo e temevo che potesse perdere le staffe con molto poco. Ma la mia ipotesi quella volta venne scartata quando la vidi sogghignare.
«Se le condizioni atmosferiche sono a nostro favore potremmo arrivare anche stasera. Altrimenti non attraccheremo più tardi di domattina. La prossima isola è un’isola primaverile».
La ringraziai e esultai mentalmente. Almeno non avrei puzzato a lungo e non sarei morta di freddo.
«Cami- chan» mi richiamò lei «non è che per caso hai dei soldi con te?»
«No, mi dispiace ma sono povera. Non ho niente» alzai le spalle e lei dopo un primo momento di avvilimento mi lasciò perdere.
 Non sapevo che fare, quindi feci una panoramica di tutti i mugiwara. Zoro e Franky non si rivedevano, molto probabilmente il primo era in palestra ad allenarsi, mentre il secondo nel suo laboratorio a mettere a punto qualche strana invenzione. Chopper stava tranquillamente bevendo latte, buttando un occhio ogni tanto alle erbe che stava facendo essiccare poco più in là. Robin al contrario annaffiava le sue amate piantine. Sanji volteggiava per tutta la nave senza pace, offrendo cibo e bevande a destra e a manca – solo a noi donne ovviamente –. In tutto ciò Rufy – che altrimenti avrebbe disturbato il vagabondaggio del cuoco – dormiva beatamente appoggiato schiena contro schiena al suo compagno cecchino anch’esso addormentato sulla balaustra, con la canna da pesca in mano. Era una scena molto tenera e il fatto che nessuno vi prestasse attenzione significava che accadeva più spesso di quanto immaginassi. Ma la mia attenzione fu catturata da altro. Precisamente da una figura che se ne stava per conto suo, all’ombra, con un’espressione seria. Passai oltre Brook che stava componendo una ballata con il violino e mi appropinquai a raggiungere l’impassibile uomo dagli occhi di ghiaccio, che ora mi fissavano.
«Sei ancora su questa nave?»
«Io posso andarmene quando voglio, a differenza tua»
Lo fulminai con lo sguardo. Questo era un colpo basso. Poi però mi venne l’illuminazione.
«Certo, puoi andartene quando vuoi, ma perché andarsene da una nave grande, soleggiata e allegra come questa quando l’altra opzione che hai è passare il resto dei tuoi giorni segregato nella sala operatoria del tuo angusto sottomarino dove un orso polare non la smette più di lamentarsi per il caldo?» ghignai malefica. Non volevo offendere Bepo, insomma chi offenderebbe mai Bepo? Però dovevo vendicarmi.
«Sei qui da meno di un giorno e ti sei già fatta un nemico» mi disse, ma non era del tutto serio
«Chi, tu? Non mi spaventi affatto» poi mi avvicinai al suo orecchio – il tanto che la mia misera altezza concedeva – e gli sussurrai «conosco i tuoi punti deboli»
«Non parlavo di me infatti, ma del mio lamentoso orso polare»
«Sono sicura che invece gli starò simpatica» lo lasciai lì ai suoi pensieri e me ne andai. Ero davvero sicura che sarei stata simpatica a Bepo, se mai lo avessi conosciuto. Di sicuro lui mi sarebbe stato simpatico più del suo capitano.
«Cami-san!» una voce mi distolse dalle mie riflessioni, facendomi alzare la testa. Ora, ad altezza occhi c’era una gabbia toracica e capii subito che doveva appartenere a Brook. Alzai ancora un po’ la testa e infatti eccolo lì, sorridente – o forse era solo una mia impressione – come al solito.
«Brook» mi aspettavo la sua abituale richiesta giornaliera di mostrargli le mutande, invece riuscì a stupirmi.
«Posso fare qualcosa per te, signorina?» mi chiese garbatamente
Ci pensai su e poi risposi «In effetti sì, qualcosa che potresti fare per me c’è»
«Qualsiasi cosa!»
«Potremmo cantare insieme “Il liquore di Binks”»
«Conosci “il liquore di Binks?» domandò sorpreso
«Puoi scommetterci!»
«Sentire queste parole è una tale gioia per le mie orecchie! Anche se io...le orecchie non ce l’ho! Yohohoho»
Dopo una breve risata lo incitai a cominciare. Cantammo tutta la canzone a squarciagola e in quei minuti mi sentii bene. Riuscii a dimenticarmi perfino della sventura, se così si poteva chiamare, che mi era capitata. A noi si unirono anche Chopper, Nami, Usop e Rufy, che con tutto quel baccano si erano svegliati. Una volta finita, mi sedetti per riprendere fiato e così fece lo scheletro canterino.
«Hai grinta!» mi fece. Nessuno mi aveva mai detto una cosa del genere e sentirla da un membro della ciurma di cappello di paglia mi fece ancora più piacere. Stavo per rispondergli, ma qualcosa sulla giacca del musicista mi distrasse. Lo notò anche lui e si controllò la manica.
«Ah! Maledetti! Con quei denti affilati mi hanno bucato tutti i completi che avevo! Dovrò rifarmi il guardaroba!» si lamentò
«Parli dei visoni di Zou?»
«Esatto»
«Beh, hanno trovato pane per i loro denti...o in questo caso ossa»
«Yohohoho! Mi piaci ragazza! Suonerò qualcosa per te»
Lo ringraziai e ascoltai la melodia emessa dal suo violino. Ma a proposito di Zou, non avevo avuto modo di leggere com’era finita la vicenda, per cui decisi di chiedere al capitano. Non che lo ritenessi affidabile, ma da quando ero lì non avevo avuto modo di farci due chiacchiere e ne approfittai. Come al solito, se ne stava seduto a gambe incrociate sul muso della polena della nave e per raggiungerlo dovetti salire su una scala. Tuttavia mi fermai alla criniera del leone – non senza aver avuto difficoltà ad arrivarci – sapendo che tra lo sballottamento dato dalle onde e il mio scarso senso dell’equilibrio sarei sicuramente caduta in mare se mi fossi spericolata come Rufy.
«Ehi» dissi una volta arrivata in cima. Non lo vedevo bene, ma notai che si girò al suono della mia voce
«Cami! Che ci fai quassù? Sappi che questo è il mio posto»
«Lo so, non avevo intenzione di rubartelo» feci poi aggrappandomi al primo appiglio che trovai e chiedendomi come facesse a stare in equilibrio come se niente fosse
«Ah. Bene. Spero che tu non sia più triste»
«Come? Ah no, no» feci un gesto con la mano come a scacciare quel pensiero
«Ottimo! Perché sai, si vedeva che eri infelice nel tuo mondo. Almeno qui puoi essere felice come hai sempre desiderato».
Giuro, quelle parole pronunciate proprio da Monkey D. Rufy mi fecero venire i brividi. Mi destabilizzarono a tal punto che mi dovetti mettere seduta. Se lui aveva notato una cosa del genere dovevo proprio essere in una condizione disastrosa. Forse non aveva tutti i torti. Era ora di farla finita con tutta quella tristezza e cominciare a guardare i lati positivi delle cose. Il primo della lista, ad esempio, era il non dover più andare a scuola. Solo questo mi portava grande felicità.
«Che volevi dirmi?» la voce del moro mi riportò alla realtà. Non lo vedevo per niente ora perché ero di spalle e nascosta dalla chioma della testa del leone.
«Ehm...ah si. Di Zou. Volevo chiederti di Zou»
Fece una faccia perplessa. Gli spiegai che volevo sapere com’era andata a finire la vicenda nel paese dei visoni. Lui mi raccontò tutto – ovvero quello che si ricordava, che era relativamente poco – e scoprii che in mia assenza Kinemon, Kanjuro e Momonosuke, non avendo trovato chi cercavano avevano ripreso il viaggio per conto loro, Sanji aveva consegnato Caesar a Big Mom ed era riuscito a tornare indietro, non dopo aver scoperto di appartenere a una famiglia nobile e aver scampato un matrimonio con una delle figlie di Big Mom – motivo per cui erano inseguiti dall’imperatrice –  mentre loro, una volta aiutati gli abitanti a far rifiorire la loro isola-elefante, si stavano dirigendo da Jack per “prenderlo a calci in culo” come aveva detto Rufy, tuttavia sempre con l'aiuto di Traffy, con cui il patto di alleanza ancora valeva. Sinceramente la cosa mi inquietava parecchio, visto che mi sarei trovata non tra due ma tra tre fuochi. L’idea di essere inseguiti da Charlotte LinLin non mi entusiasmava molto e ancora meno quella di mettersi contro un altro imperatore contemporaneamente. E sicuramente sarei stata costretta – se non dai mugiwara, dal senso di fratellanza – a combattere e io di armi ne sapevo quanto Zoro ne sapeva di orientamento. Per precauzione chiesi se la prossima isola non fosse l’isola dove stava Jack. A quanto pareva no, quella era solo un’isola dove fermarsi per fare scorte varie. Cappello di paglia ci tenne a precisare che non saremmo andati dal sottoposto di Kaido finché non si fosse rimesso. Certo. Perché andare da lui mentre era debole e indifeso, quando potevamo complicarci la vita e aspettare che colui che è stato capace di radere al suolo un’intera nazione solo per il gusto di farlo avesse recuperato le forze e fosse più incazzato che mai? Se le cose stavano così, ok. Mi serviva decisamente un’arma e qualcuno che mi insegnasse a combattere. E io sapevo da chi andare.



Angolo autrice:
Prima di tutto, scusate il ritardo. Come al solito, purtroppo sono stata parecchio impegnata.
Poi, volevo informarvi che ho scritto questo capitolo prima di venire a sapere del matrimonio di Sanji, pertanto ho dovuto adeguare la fan fiction al delinearsi delle ultime situazioni e ne è uscito questo. Spero non vi dia fastidio, ma essendo una storia che è stata pensata prima che nel manga accadessero tutti gli ultimi eventi, probabilmente si discosterà un po' (anche più di un po') dall'originale.
Mi auguro come sempre che il capitolo vi sia piaciuto. Alla prossima e grazie a chiunque vorrà recensire! :)

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Capitolo 4
*** Risposte ***


«E come pensi di tornarci? Volando?»
«Mi piacerebbe, Traffy, ma non ho né pensieri felici, né una fata che mi inondi di polverina magica a disposizione, al momento» feci sarcastica
«Perché non provi a buttarti dalla vedetta e vedere come va?» sogghignò
«Ma certo! Dopo di te» gli indicai l’albero maestro e il breve scambio di frecciatine terminò lì.
«Cami perché non ti rilassi un po’? Sei appena arrivata, divertiti!» Rufy la faceva facile. Mi sarebbe tanto piaciuto rilassarmi, ma non potevo farlo finché non trovavo un modo sicuro per tornare a casa.
«Rufy ha ragione, rilassati e pensa a divertirti» Sanji mi sorrise dolcemente, ma ciò non mi calmò molto. Avevo bisogno di risposte e al più presto. Ero capitata lì per una ragione precisa e dovevo scoprire qual era. Per fortuna, una mano me la diede involontariamente Law.
«Cerca di ricordarti le parole esatte che hai usato nell’esprimere l’ultimo desiderio»
Spostai lo sguardo in basso e di lato mordendomi un labbro, cercando di riflettere. Che cosa avevo chiesto alla Stella? Passai due minuti buoni pensandoci. Poi, d’un tratto, capii tutto o quasi. Alzai la testa, negli occhi un velato terrore e la bocca leggermente spalancata.
«Parla, avanti» mi incitò il chirurgo
«Forse dovremmo farla riposare, tutte queste emozioni sono troppe per una ragazza che è appena caduta di testa da una trentina di metri» suggerì il piccolo medico. Io scossi la testa in segno di negazione, non per quanto aveva detto Chopper, ma perché ero sconvolta. Mi portai una mano alla bocca fissando il vuoto.
«Ho chiesto alla Stella che tutte le persone presenti sul balcone tornassero al proprio mondo di appartenenza»
I più svegli mi si strinsero intorno, consapevoli di cosa significasse.
«Deve essersi sbagliata» annaspai. Ora però, tutto aveva senso. La polvere dorata, le parole di quella che si era scoperto essere la Stella, tutto. Da quel momento in poi, persi totalmente la cognizione di dove ero e di cosa stavo facendo. Qualcuno, probabilmente Nami, mi cinse le spalle e mi portò a sedere sulla panchina attorno all’albero maestro. Parlavano tra di loro e mi chiamavano. Chiamavano il mio nome, ma io li sentivo a malapena. Sanji mi portò dell’acqua fresca mentre il dottore suggerì di riportarmi in infermeria. Non avevo né sete, né stavo male. Gli altri erano preoccupati per me e mi dispiaceva farli preoccupare, però anche provandoci non riuscivo a emettere un solo suono dalla bocca, né a muovermi. Rimasi in quella posizione senza dire una parola per ore, finché non arrivò la sera. Avevano provato di tutto, ma niente. Avevano persino improvvisato un teatrino per provare a farmi ridere, ma non stava funzionando. Me ne stavo lì, in stato catatonico come una che ha perso totalmente le speranze. I pirati a un certo punto erano andati a cena. Ora ero sola e sarei potuta crollare. Ma per qualche assurda ragione non lo feci.
«Voglio tornare a casa» mi limitai a dire, piano. Ma a quanto pareva non avevo fatto bene i miei conti.
«Non sarà stando seduta lì che troverai una soluzione al tuo problema» disse una voce alle mie spalle. Non ci fu nemmeno bisogno di girarsi per riconoscerne il proprietario. Comunque rivelò lo stesso la sua identità, superandomi e dirigendosi verso la sala da pranzo dagli altri. O almeno così pensavo, invece si fermò davanti a me e mi fissò.
«Con la botta che hai preso ti farebbe bene mangiare e bere qualcosa»
D’accordo. Se me lo diceva lui non avevo altra scelta. Alla fine, non so come, quella canaglia di un chirurgo mi convinse e mi alzai con cautela, prevedendo già qualche sbalzo di pressione. Sfortunatamente però, l’unica cosa che subì uno sbalzò fu la nave. Mi sbilanciai all’indietro e mi preparai a ricadere sulla panchina, ma una mano prontamente mi afferrò il polso, impedendomi di cadere.
«Grazie» dissi stupita, all’unica persona lì presente. Law annuì rapidamente e ci avviammo dagli altri. Ma quando Traffy aprì la porta, la scena che ci si presentò davanti fu memorabile.
«Smettila di berti tutto il sakè, stupido marimo!»
«Come hai detto sopracciglione!? Pensa a Rufy, che intanto si sta spazzolando tutta la carne!»
«Smettila, idiota! Queste cose sono per tutti. Cerca di lasciare qualcosa, se non a noi almeno a Cami» la rossa infuriata diede un pugno al suo capitano. Nel frattempo Sanji, con una cinquantina di piatti retti da tutto il suo corpo, stava cercando di allontanare Zoro dalle bottiglie di sakè; mentre gli altri stavano trasferendo viveri e vettovaglie fuori dalla sala da pranzo. Tuttavia quando si accorsero della nostra presenza smisero di fare le grandi manovre e si rallegrarono.
«Oh mia dolce dea! Temevamo che non arrivassi, così Rufy ha suggerito di portare direttamente la cena da te» fece il cuoco, lasciandomi sbalordita
«Non puoi rimanere senza cena!» esclamò cappello di paglia, facendomi scappare una risata
«Beh, visto che sei arrivata, proporrei di rimettere tutto a posto e iniziare a mangiare» cantò lo scheletro. Cinque minuti dopo eravamo seduti al grande tavolo della sala da pranzo, chiacchierando, mangiando e ridendo come se niente fosse. Avevo ritrovato un po’ della mia allegria e ora stavo ascoltando Usop, seduto vicino a me, che raccontava una delle sue grandi avventure nel mio mondo mentre tenevo d’occhio il mio piatto, consapevole che il braccio di qualcuno si sarebbe potuto allungare e avrebbe potuto svuotare in un attimo il suo contenuto. E paradossalmente mi ricordai perché avevo sempre desiderato essere lì con loro. Tuttavia la mia ritrovata serenità non durò molto.
«È un peccato che non sia riuscita a salutare Marco» commentai tra un boccone e l’altro
«Già, ma se n’è andato due settimane fa. Non poteva sapere che saresti venuta» disse Rufy, intento a sgraffignare qualcosa dalla scodella del povero Chopper. Per poco non sputai tutto quello che stavo masticando. Quell’affermazione mi lasciò secca.
«Cosa!? Due settimane fa!? Ma non è possibile! No, certo che non è possibile. Tu sei Monkey D. Rufy, di sicuro hai una concezione del tempo del tutto assurda»
«Quanto tempo pensi che sia passato prima che tu finissi qui?» mi chiese Zoro, guardandomi con un’espressione indecifrabile, che interpretai come “guarda tu questa cretina che pretende pure di avere ragione”.
«Non più di cinque minuti!» mi stavo agitando
«Probabilmente lo scorrere del tempo tra i due mondi è relativo» intervenne Law, calmo come al solito. E anche se la sua frase lasciava parecchio all’immaginazione, con quelle parole riuscì a calmarmi. In fondo riflettendoci aveva ragione. L’autore ci aveva messo due anni per descrivere una vicenda di nemmeno un giorno e un mese per raccontare due anni. Quindi poteva avere senso logico che nel mio mondo fossero passati cinque minuti e lì una settimana. Ma questa non era una bella notizia, perché non avevo risolto un bel niente. Anzi, brancolavo ancora di più nel buio. Ciò significava che nel mio mondo potevano essere passati due minuti, come un giorno, come tre anni. Se così fosse stato i miei genitori dovevano essere preoccupatissimi e io in un solo pomeriggio mi ero persa anni di vita. Già. I miei genitori, i miei amici...chissà che cosa stavano facendo in quel momento. Mi mancavano e io dovevo mancare a loro, che fossero passati cinque minuti o un mese. Ma non importava, perché non li avrei mai più rivisti. Ero condannata a rimanere lì, per sempre. Non c’era via d’uscita. Mi alzai all’improvviso facendo strisciare rumorosamente la sedia per terra e richiamando l’attenzione su di me. La mia allegria era durata ben poco.
«Ecco perché quando vi abbiamo detto che siamo stati via un mese ci avete guardato storto e ci avete detto che siamo mancati solo per dieci ore!» l’ultima cosa che sentii fu la voce trillante del capitano della Sunny.
Con le mani ancora appoggiate sul tavolo, parlai «Scusate, ma adesso sono proprio stanca. C’è un posto dove posso dormire?»
«Certo! Per il momento puoi dormire in infermeria se non è un problema. Poi più tardi passo a controllarti la testa»
«No grazie Chopper, non ce n’è bisogno. Sto bene, davvero»
«Sicura?»
«Sì»
Il peso del mio corpo gravava sulle mie braccia e avevo la sensazione che se avessi lasciato il tavolo, tutto quel peso sarebbe stato troppo da sopportare e mi avrebbe schiacciato. Ma lo feci lo stesso, lo lasciai e mi avviai verso la porta, consapevole che sarei potuta crollare da un momento all’altro.
«Buonanotte allora» la voce delicata della piccola renna mi mise tanta tenerezza, facendomi aggrottare le sopracciglia e mordere il labbro. Con la mano sulla maniglia, mi girai e li guardai uno ad uno. Avevano tutti un sorriso gentile sulla faccia, ma li tradiva la loro espressione preoccupata.
«Buonanotte» mi sforzai di sorridere. Non aspettai la risposta dei pirati e me ne andai a passo svelto in infermeria. Una volta arrivata chiusi la porta appoggiandomici contro e scivolando lentamente verso il pavimento. Mi tolsi la cintura e la buttai in qualche angolo indefinito della stanza. Era buio. Non mi premurai nemmeno di accendere la luce, anche perché vattelappesca dov’era l’interruttore. Iniziai a respirare sempre più profondamente, ma ad ogni respiro che facevo mi mancava sempre più l’aria. Cercare di calmarmi non sarebbe servito a niente, quando avevo questi momenti dovevo solo arrendermi alle brutte sensazioni. E lo feci, mi arresi. Lasciai che il buio penetrasse anche la mia anima. Non doveva andare così. Era tutto sbagliato. Io sarei dovuta rimanere nel mio mondo, con la mia monotona vita e la mia famiglia imperfetta ma piena d’amore. E di certo non era così che mi ero immaginata il giorno in cui sarei capitata lì. Lo avevo sperato e immaginato tante volte. Sarei arrivata – su due piedi e non di testa – un po’ imbarazzata ma felice. Felice come non mai che il mio sogno di essere con la mia ciurma preferita sulla mia nave preferita si fosse realizzato veramente. E insieme a tutti loro avremmo vissuto avventure incredibili.
Accesi finalmente la luce. Magicamente trovai una presa che si adattasse al mio caricabatterie e misi in carica il telefono. Guardai ancora una volta lo schermo. Non c’era campo, com’era prevedibile. Mi misi ad osservare tutte le foto della galleria. Tra vari selfie imbarazzanti e modelli senza maglia c’erano anche quelle con i miei cari. Ora erano tutto ciò che mi rimaneva di loro. Non li avrei mai più rivisti. E fu con questo pensiero che incominciai a piangere a dirotto. Non so per quanto tempo piansi, in fondo il tempo era relativo come avevo potuto apprendere proprio quella sera. Cercai solo di non farmi sentire da nessuno – anche se senza cintura potevano sentirmi solo in cinque – per non farli preoccupare ancora di più ma soprattutto perché non avrebbero potuto capire e io non avrei saputo spiegare il perché non fossi contenta di stare dove avevo sempre desiderato stare. Dopo singhiozzi su singhiozzi, mi calmai. In fondo non avevo sempre vissuto in quel modo? Intrappolata in una realtà che mi era sempre andata stretta e da cui non potevo scappare. Per tutta la vita mi ero sentita come se non appartenessi a quel mondo, a quell'esistenza. Se ora la Stella mi aveva mandata lì doveva esserci un motivo. E anche se non ci fosse stato, mi sarei adattata. Mi sarei adeguata di nuovo a vivere in un mondo che non era il mio, lontano da dov’era la mia mente o il mio cuore. O se non a vivere, perlomeno a sopravvivere. Non avevo altra scelta. Dovevo tenermi aggrappata a quelle poche certezze che mi rimanevano e cercare di costruirmene di nuove, a cui mi sarei abituata con il tempo. Dovevo resistere. Non c’era altro che potessi fare, se non aspettare.


Angolo autrice:
Ciao a tutti!
Scusate se ho pubblicato il terzo capitolo solo ora, ma questi giorni sono stata indaffaratissima! (Solita scusa, lo so, ma stavolta è vero!)
Imploro il vostro perdono e come al solito spero che il capitolo vi piaccia. Se vi va lasciate qualche recensione!
A presto! :)

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Capitolo 5
*** Lettera ***


Come prevedevo, Franky stava lavorando al sottomarino di Law, quindi rinunciai all’idea di andargli a parlare. Non volevo dare altre grane a Traffy ma soprattutto non volevo ritrovarmi con il cuore in una scatola. In un certo senso era bello che il chirurgo si fidasse a tal punto della ciurma di cappello di paglia. Insomma, avrebbe potuto benissimo affidare le riparazioni a uno dei suoi sottoposti, invece aveva preferito chiedere allo stravagante carpentiere dei mugiwara. Ma del resto come biasimarlo? Era grazie a loro se ora Doflamingo era in gattabuia e lui aveva finalmente avuto la sua agognata vendetta, se era finalmente libero. O forse il motivo per cui si ostinava a rimanere su quella nave di pazzi era molto più semplice e meno nobile di quanto pensassi. Forse voleva solo evitare che il suo alleato facesse altri danni. Fu con questo pensiero che arrivai all’ingresso della palestra personale di Zoro. C’era il tipico odore maschile. Ovviamente lui dormiva come un ghiro. Che si era  allenato si vedeva, il suo corpo statuario era imperlato di sudore e alcune ciocche dei capelli color menta erano appiccicate al viso. In quel momento fui presa dall’istinto materno e raccolsi l’asciugamano che era per terra vicino a lui, passandoglielo delicatamente su tutto il corpo. Va bene che era una roccia e un mostro di potenza, ma anche lui era umano e poteva benissimo ammalarsi con gli spifferi d’aria che c’erano lassù, meglio non correre rischi. Comunque, stanchezza o non stanchezza, riposino o no, avevo bisogno dello spadaccino e dovevo svegliarlo. Dapprima tentai con un approccio gentile. Lo chiamai più volte con un tono di voce moderato. Niente. Così passai a strattonarlo leggermente, ma non funzionò nemmeno questo. Provai a dargli degli schiaffi sulla faccia. Era impassibilmente dormiente. Se non avesse avuto il respiro regolare e un po’ più forte del normale, tipico di chi era addormentato, avrei pensato che fosse morto. Alla fine dopo dieci minuti passati a cercare inutilmente di svegliarlo, optai per un ultimo, imbarazzante tentativo. Mi sistemai a cavalcioni su di lui e cominciai a rimbalzargli sullo stomaco, ripetendo il suo nome a macchinetta. Se qualcuno ci avesse visto avrebbe sicuramente pensato male, ma non ci veniva mai nessuno lassù a parte il marimo, perché questa volta sarebbe dovuta essere un’eccezione? In più, dovevo vendicarmi per avermi usata come bilanciere. Non c’era niente da fare. Non si svegliava neanche a pagarlo e andò a finire che cedetti prima io di lui. Ancora sopra di lui, cominciai a strattonargli le spalle. Poi lo presi a pugni sui pettorali.
«Il cuoco mi ha mandato a dire che la cena è pronta»
Mi girai di scatto verso la porta. Un Trafalgar Law visibilmente perplesso ci osservava in tutto il suo scetticismo. Lo fissai assottigliando gli occhi, non capendo le sue intenzioni. Lui non disse, né fece niente. Ghignò semplicemente e se ne andò, lasciandomi lì come un’ebete. Perché me la dovevo sempre gufare?
«Ma che...diavolo...» il verde si era svegliato da nemmeno dieci secondi e già mi guardava male. Velocemente mi tolsi da sopra di lui e gli sorrisi innocentemente.
«Ciao» lo salutai con la mano e feci la vocina di una bambina di cinque anni
«Che vuoi?» fece lui grattandosi la testa, ancora assonnato e confuso
«Ehm...la cena è pronta» esitai. A quanto pare chiedergli di insegnarmi a combattere era più difficile di quanto pensassi per un’orgogliosa come me. E poi, quello non era decisamente il momento adatto. Si era appena svegliato trovandomi seduta sul suo stomaco e mi guardava storto, forse pure più del solito.
«Bene» non disse altro e si avviò verso la porta. Prima di raggiungerlo mi rimirai qualche secondo nello specchio a muro di quella palestra-osservatorio. Dovevo dire che ero proprio sexy. Il mio nuovo corpo e il mio nuovo viso mi piacevano. Non mi sarebbe di certo dispiaciuto tenermi le mie nuove forme per tutto il resto della mia vita. E in fondo sapevo che anche se ero stata “cartoonizzata” ero sempre io.
La cena andò bene, Sanji aveva preparato delle squisitezze come suo solito e la compagnia degli altri era sempre piacevole, tranne quando cuoco e spadaccino si mettevano a litigare per sciocchezze o Rufy tentava di fregarmi il cibo. Ma ormai ero abituata a tutta quella baraonda e in fondo – molto in fondo – mi faceva piacere il pensiero di passare il resto della mia vita in quel modo. Non che mi facesse felice trascorrere la rimanenza dei miei giorni senza la mia famiglia o i miei amici, ma se non altro adesso ne avevo di nuovi, di amici e chissà che un giorno non mi sarei fatta anche una nuova famiglia.
«Che volevi chiedermi?»
«Cosa?» mi girai verso lo spadaccino che mi osservava serio con l’unico occhio rimasto
«Di sicuro non stavi saltando sul mio stomaco solo per dirmi che la cena era pronta»
«No infatti...»
«Allora sputa il rospo»
«Forse prima dovrei parlare con Franky»
«Ok...» mi guardò scocciato
«Li finisci quelli?» una vocina pacata appartenente a una renna raggiunse le mie orecchie. Il piccolo medico mi fissava speranzoso e al contempo mortificato. Esaminai il mio piatto e mi venne un piccolo conato di vomito. Broccoli e carote. Scossi la testa e gli passai la stoviglia.
«E io che pensavo li avresti mangiati» Law sorrise. In tutta risposta esaminai il contenuto della sua portata.
«Che peccato, con quella carne il pane sarebbe proprio un ottimo accompagnamento per il sughetto» appoggiai il mento alla mano e attesi una risposta che però non arrivò. Il moro infatti si concentrò sul cibo e non mi degnò più di uno sguardo. Un’altra piccola vittoria da aggiungere alla mia collezione.
«Cami, senti» cominciò a un certo punto Rufy, facendomi voltare verso di lui «quando ce ne siamo andati hai dato a Sanji una lettera, vero?»
«Oh...si»
«Tra tutte le cose che mi sono successe non abbiamo ancora avuto modo di aprirla e quindi di leggerla» si intromise Sanji. Forse avevo fatto la scelta sbagliata nel dare la lettera a lui con tutte le cose che gli erano successe, ma se l’avessi data allo spadaccino o al capitano chissà dove sarebbe finita.
«In poche parole, ce la leggeresti?» a Nami non erano mai piaciuti i giri di parole.
«P-perché devo leggervela io?» la cosa mi imbarazzava alquanto. Un conto era che loro la leggessero una volta tornati nel loro universo, quando ormai io ero lontana e non ci saremmo più rivisti. Un conto era che la leggessi io, nel loro universo in cui sarei stata costretta a rimanere per sempre, davanti a tutti, compreso quell’antipatico del chirurgo. Mi avrebbero di sicuro sfottuto.
«E dai! Leggicela, leggicela, leggicela!» iniziò a cantilenare cappello di paglia.
Sospirai e mi rassegnai al fatto che avrei dovuto leggerla «E va bene». Il cuoco me la passò e io la aprii. Il profumo mi invase le narici e non potei fare a meno di sorridere. Affinché si ricordassero meglio di me, avevo spruzzato sulla carta un po’ della fragranza che usavo di solito. Passai il dito sulle righe della lettera scritta a mano. Quella era senza dubbio la mia calligrafia, con tanto di cancellature qua e là.
Mi schiarii la voce e cominciai a leggere:
 
Caro Rufy e cari ragazzi,
non credo che con voi servano tante parole. Anzi, ne serve solo una. Grazie. Mi avete donato la cosa più preziosa che si potesse donare, il vostro tempo. Il mese che ho trascorso con voi è stato il più bello della mia vita. E anche il più travagliato, sono svenuta ben tre volte in quel mese e ho rischiato l’infarto almeno una decina di volte. – risi – Ma nonostante me ne abbiate combinate di tutti i colori, se ripenso al tempo passato con voi non posso fare a meno di sorridere. Era come se fino al vostro arrivo fossi ibernata. Voi mi avete risvegliata dal mio torpore e mi avete fatto sentire viva. Mi avete fatto sentire amata e soprattutto mi avete insegnato ad amare me stessa e di questo non potrò mai ringraziarvi abbastanza.
Rufy. Non c’è bisogno che te lo dica, ma...io credo in te. Credo che tu diventerai il Re dei Pirati, credo che troverai il One Piece, che realizzerai tutti i tuoi sogni e credo anche che tu sia il miglior pirata che possa esistere. Sei una persona buona. Tutti ti vogliono bene e vogliono aiutarti. Anche se forse non te ne rendi conto hai fatto tanto per me. Mi hai insegnato a non arrendermi, non importa quanto la situazione sia dura. Mi hai insegnato a trovare la forza per reagire dentro di me e a non perdere mai il sorriso. Tutto quello che io posso fare per te è continuare a credere in te e seguirti nelle tue strampalate avventure settimana dopo settimana. Ti sosterrò sempre Rufy, tutti lo facciamo.
Zoro. Sei sicuramente uno spadaccino formidabile e un lavoratore infaticabile. Puoi fare di tutto e io mi affiderei ciecamente a te, tranne quando prendi il comando di una spedizione, in tal caso è meglio tenersi alla larga. – gli sorrisi anche se lui sembrò non capire – Comunque, sono sicura che un giorno siederai sul trono del più abile spadaccino del mondo. Aspettiamo tutti il momento in cui finalmente affetterai Mihawk. Tu mi hai insegnato il valore delle promesse, mi hai insegnato che è giusto sacrificarti per le persone a cui vuoi bene. Mi hai insegnato che la fatica non deve spaventare, perché è solo faticando che i miei sogni si realizzeranno. Non so se te ne rendi conto ma sei quello che mi ha insegnato più cose. Grazie. So che un giorno realizzerai tutti i tuoi sogni.
Sanji. Hai cercato di insegnarmi a cucinare. Questo ti fa davvero onore, considerato che una volta ho quasi bruciato la cucina per cucinare della pasta. Scherzi a parte, ti ringrazio per avermi sempre trattato come una principessa, anche quando non me lo meritavo. Sei riuscito a farmi sentire una regina e hai fatto una cosa che quasi nessuno aveva mai fatto prima. Mi hai fatto sentire bella e apprezzata. Grazie. Ti ricordi quando abbiamo ballato insieme? Io ti pestavo continuamente i piedi perché ero negata, ma tu non ti sei mai arrabbiato o infastidito e con un sorriso hai continuato a farmi volteggiare, almeno fino a quando non sono svenuta, ma quelli sono dettagli...giusto? Ad ogni modo dovrebbero esserci più uomini come te, anzi più persone come te in generale. Se fosse così il mondo sarebbe un posto migliore, con una percentuale più alta di obesità, ma migliore. Sono sicura che con la tua tenacia e i tuoi potenti calci riuscirai a trovare l’All Blue.
Usop. Mi hai insegnato che va bene avere paura. Anzi, che la paura è umana, è normale e a volte è proprio quest’ultima che ci spinge ad agire e ci fa migliorare sempre di più. Altre volte invece, avere paura ci salva la vita. Mi hai anche insegnato che le bugie sono sbagliate, ma alcune volte sono necessarie per proteggere chi ami. Quindi continua ad avere paura, a mentire, ad essere pessimista e a usare l’astuzia in combattimento e sono sicura che diventerai un grande guerriero del mare. Come ho imparato da te, non tutte le volte i più forti vincono. E ricordati sempre che non c’è coraggio senza paura.
Ci tenevo a dirvi queste parole, anche se a voi sembreranno solo stupide lettere messe in fila su un foglio di carta profumato. Volevo dirvele e volevo che voi le leggeste perché siete voi la mia ragione di vita. In tutti questi anni che vi seguo mi avete insegnato tante cose senza nemmeno esserne consapevoli. Quindi grazie, grazie, grazie. Non vi dimenticherò mai, promesso! Vi prego, non fatelo neanche voi. Questa mia lettera non è un addio, ma un arrivederci. Sono sicura che un giorno da qualche parte, ci rivedremo. Per il momento devo salutarvi, le nostre strade si separano qui. Voi avete un’avventura da vivere, ma adesso anche io ho la mia avventura da affrontare! Quando ci rivedremo sono sicura che avremo tutti realizzato i nostri sogni. A presto ragazzi e ancora grazie di tutto! Crederò sempre in voi!
                                                                                                 Camilla"

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Capitolo 6
*** Festeggiamenti ***


Finii di leggere leggermente emozionata e ripiegai la lettera accuratamente, poggiandola sul tavolo nella speranza che Rufy non la confondesse con una sottiletta e la ingoiasse intera. Erano parole che venivano dal cuore, quelle che gli avevo scritto. Ora come ora sembravano assurde perché io mi ero ritrovata lì sulla loro nave appena due settimane dopo che ci eravamo lasciati, almeno secondo il loro orologio. Secondo il mio la faccenda era ancora più assurda perché erano passati cinque miseri minuti dalla separazione prima che mi fossi ritrovata catapultata lì. Attesi che qualche reazione facesse capolino sui loro volti, un po’ perplessi. Furono i tre secondi più lunghi della mia vita probabilmente, poi, accadde. Con loro mai ci fu detto più azzeccato di “la quiete prima della tempesta”.
«Dolce Cami! Che belle parole che mi hai dedicato, grazie! Possiamo danzare insieme quando vuoi! Ti farò volteggiare fino in cielo tra le mie braccia!» il cuoco prese a girare come una trottola, completamente perso. Nami invece batteva le mani ridendo.
«Oh che bella lettera!» con la coda dell’occhio vidi Franky che stava allagando il pavimento a lui adiacente affiancato da Chopper con gli occhi lucidi e Robin che passava un fazzoletto a entrambi, sempre sorridente. «Proprio commovente!» continuò poi il cyborg mentre si soffiava il naso
«Il cuore mi si riempie di gioia ad ascoltare quello che hai scritto per i nostri amici Cami!» fece lo scheletro «anche se io...il cuore non ce l’ho! Yohohoho»
«Ehi, aspetta un momento» Usop venne vicino a me leggermente infastidito «vuoi dire che io sono un codardo, bugiardo e pessimista?»
«No! No...cioè si...ma in senso buono!»
«Che vuol dire in senso buono!?»
«Nel senso che in altre persone le caratteristiche che hai tu sarebbero viste come difetti, ma invece in te sono qualità. Sono proprio queste cose che fanno di te una grande persona! E poi, anche io sono fifona e pessimista, insieme faremmo una bella squadra» gli feci l’occhiolino e non solo si calmò, ma parve anche soddisfatto.
Ero senz’altro contenta di quelle reazioni, ma fra tutte non avevo avuto modo di notare le due che mi importavano di più, ovvero quelle di capitano e vicecapitano. Così mi avvicinai a loro e indagai. Lo spadaccino aveva la sua tipica posa rilassata, con la schiena appoggiata allo schienale della sedia e le mani dietro la nuca.
«Zoro?» lo chiamai. Non ottenni risposta. «Zoro?» riprovai, ancora niente. Ci misi un po’ per accorgermi che il verde stava beatamente dormendo. Un po’ ero delusa, ma dall’altra parte mi venne da ridere, del resto dovevo aspettarmelo. Aveva dimostrato di essere capace di dormire perfino durante una tempesta, quell’idiota.
«Beh, buonanotte» dissi rassegnata
«Cosa!? Quell’imbecille di una testa d’alga ha dormito per tutto il tempo!? Bella Cami spostati per favore, non vorrei che ti finisse del sangue sulla maglietta.» il cuoco sembrava infuriato come non mai. Mi scansò delicatamente e io mi feci da parte, ormai abituata alle sfuriate del biondo. Come previsto, il “povero” spadaccino venne svegliato con un potente calcio che lo fece cadere dalla sedia ma purtroppo non si fece niente.
«Ma che cazzo!?»
«In piedi, idiota di un marimo!»
«Brutto cuoco di merda, come osi svegliarmi!?»
«Come osi tu dormire in un momento del genere!?»
La lite continuò, senza mancare di minacce e insulti, almeno finché la bella navigatrice non mise fine al conflitto con un paio di pugni ben assestati. Io però a un certo punto smisi di prestarvi attenzione e andai dal capitano. Aveva assunto una posa preoccupante, a dire la verità. Stava seduto composto sulla sedia – e già questo di per sé era un segnale allarmante – con le braccia incrociate e la tesa del cappello calata sugli occhi, che impediva di vedere che espressione avesse. Che si fosse arrabbiato per qualcosa che avevo scritto nella lettera? Che stesse dormendo anche lui?
«Rufy?» lo richiamai con cautela e tenendomi a una distanza di sicurezza di circa un metro. Non rispose nemmeno lui. Ok, stava dormendo pure lui.
«Ho deciso.» all’improvviso il moro si alzò e sbatté una mano sul tavolo, facendomi perdere qualche anno di vita. Per quanto la mia curiosità impazzisse, evitai di chiedergli cosa. Avevo leggermente paura.
«Faremo una festa di benvenuto per Cami!»
Tirai un sospiro di sollievo e ripresi tutti gli anni di vita che avevo perso in quegli attimi.
«Non ne hai avuta una quando sei venuta qui, quindi la faremo ora! Ah, bellissima lettera, mi è piaciuta»
Ne fui molto contenta, ma non potei rispondere perché in quel momento intervenne la rossa «Ottima idea Rufy!».


Qualche minuto dopo mi ero ritrovata sul ponte con un boccale di birra in mano. C’era la musica e come c’era da aspettarsi erano tutti allegri. Cappello di paglia aveva detto a Law di chiamare anche la sua ciurma perché “più siamo meglio è”, o almeno così aveva detto. Il chirurgo era un po’ riluttante ma alla fine lo fece, dopotutto erano alleati. Per educazione mi presentai ai Pirati Heart, che rimasero piacevolmente colpiti dalla presenza di un’altra “bella donna” come me e intavolai una conversazione con Shachi e Penguin. Solitamente mi era difficile parlare con gli sconosciuti ma con loro mi risultava sorprendentemente facile. Erano buffi e a loro modo facevano ridere. Non so per quanto rimasi a parlare con loro ma fu piacevole e sicuramente tempo speso bene. Nel frattempo avevano cominciato a suonare musica allegra e la metà dei presenti ballava. Dell’altra metà che non ballava, l’occhio mi cadde su una persona in particolare. Appoggiato alla balaustra della Sunny c’era una figura solitaria e silenziosa con in mano un bicchiere di vino. Poggiai il boccale di birra e presi un flute con dello spumante, o almeno l’equivalente di quel mondo. Affrettai il passo e lo raggiunsi. Non disse niente, si limitò ad osservare la scena, con sguardo imperscrutabile come al solito.
«Allora, come procedono le riparazioni del tuo sottomarino?»
«Procederebbero più veloci se non avessi fatto un buco nel pavimento con la tua testa vuota, ma nel complesso bene, il carpentiere sta facendo un buon lavoro»
«Dì la verità, non sei qui solo per controllare che Franky faccia le riparazioni come si deve»
«Il motivo per cui sono qui non è affar tuo» rispose, si staccò dalla balaustra e fece per andarsene
«Senti» dissi per non farlo andare via «so che molto probabilmente mi odi ed è chiaro che non mi sopporti» a quelle parole si fermò. Era di spalle e non potevo vedere la sua faccia, ma ero sicura che su di essa vi sfoggiava un ghigno.
«Ma se l’istinto non mi inganna, navigheremo nello stesso mare per ancora molto tempo» continuai «e se resterò su questa nave mi vedrai molto spesso, in quanto alleato del cappellaio»
«Dove vuoi arrivare?» tagliò corto
«Potremmo semplicemente riappacificarci? Potresti fare uno sforzo per cercare di non odiarmi?»
A quelle parole, girò appena il volto e potei finalmente vedere il suo sogghigno provocatore. Sbuffai e scossi impercettibilmente la testa, poi in un gesto spontaneo alzai il calice contenente il liquido dolciastro verso di lui. Stavolta si rigirò completamente e guardando il mio braccio alzato lo alzò anche lui, con una lentezza di movimenti che facevano presumere lo stesse facendo controvoglia. Finalmente i nostri bicchieri tintinnarono insieme.
«Alla pace» brindai io
«Alla tua permanenza qui» replicò lui innalzando il bicchiere appena prima di berne il contenuto. Poi si dileguò nell’ombra, nemmeno fosse invisibile. Rimasi lì come un’ebete e decisi che prima di tornare dagli altri mi sarei goduta lo spumante e quel meraviglioso cielo notturno.
«Ho letto la tua lettera. Complimenti» una voce profonda alle mie spalle aveva parlato, spaventandomi un po’. Era Zoro che si era affiancato a me e ora poggiava i gomiti sulla balaustra della nave. Per un po’ rimanemmo in silenzio.
«Che cosa volevi chiedermi di così importante da saltarmi sullo stomaco per svegliarmi?» disse ad un certo punto, dopo aver finito quella che mi pareva essere la sua quarta bottiglia di sakè.
Per fortuna era buio e non poté vedermi arrossire. Non sapevo che rispondere o meglio, mi vergognavo a rispondere, ma lo feci ugualmente.
«Io...ecco...ti volevo chiedere se puoi insegnarmi a combattere»
Per un attimo sul suo volto vidi apparire la sorpresa, che fece presto posto al suo sorriso di sfida.
«Io posso ma tu vuoi?»
Quella domanda mi lasciò spiazzata. Volevo? Lo volevo davvero? O lo stavo facendo per convenzione? Pensai a tutti i motivi per cui avrei potuto voler combattere. E poi, all’improvviso, mi apparve chiaro come il sole. Nella mia mente fecero capolino la mia famiglia. La mia casa. I miei amici. Era per loro che avrei combattuto. Li avrei rivisti, a tutti i costi. Dovevo sopravvivere per questo, per loro.
«Devo parlare con Franky. Mi serve un’arma personalizzata e penso che lui possa costruirmela»
«Molto bene. Fossi in te chiederei una mano anche a Usop, ci sa fare con queste cose. Tuttavia ci parlerai domani»
Aggrottai la fronte. «Ora va’ a divertirti. È la tua festa» il verde mi indicò con un cenno della testa la pista da ballo improvvisata che le due ciurme avevano istituito sul ponte della Sunny. Gli rivolsi uno sguardo grato e andai a scatenarmi in pista. Ballai fino a quando non mi fecero male i piedi – il che stava ad indicare che avevo ballato molto visto che ero scalza – e a quel punto dovetti sedermi. Contrariamente alle mie abitudini, mi sedetti composta, sulla panca circolare dell’albero maestro, con le mani sulle ginocchia. Sospirai, muovendo le dita dei piedi per lasciare che la fresca erba sotto di essi le solleticasse. Erano sospiri di felicità quelli che feci. Ero felice, stanca ma felice e rilassata. Almeno finché l’occhio non mi cadde sulla navigatrice che guardava nella mia direzione con un sorrisetto furbo che non faceva presagire nulla di buono. Infatti, in pochi istanti raggiunse il suo capitano e sempre guardandomi e ghignando, gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Ora, la vecchia Cami si sarebbe allarmata e sarebbe scattata verso di loro, ma la nuova, seppur con una vena di preoccupazione, rimase lì seduta a torturarsi il labbro. Mi sembrò un lunghissimo tempo quello in cui dovetti aspettare che il capitano venisse da me, armato di un sorriso a trentadue denti. Questo mi tranquillizzò un po’. Subito dopo, al moro si affiancò la rossa e questo riportò in me lo stesso livello di preoccupazione che avevo prima.
«Ti diverti Cami?» chiese lei. Annuii.
«Sono contenta» si limitò a dire, ma stavolta il suo sorriso era sincero.
«Ehi Cami!» gridò il moro
«Si?»
«Hai scritto proprio una bella lettera! Nami mi ha fatto notare che scrivi bene»
«Davvero? Grazie!» guardai entrambi e sorrisi grata, ma Rufy ancora non aveva finito di parlare «Per questo voglio farti una proposta»
Forse ero eccessiva, ma per un attimo mi si gelò il sangue nelle vene. Il capitano dei mugiwara non era uno che stava a pensare a quello che diceva, sputava tutto fuori di getto come gli veniva. Ma quella volta, porca miseria, fece una maledetta pausa.
“Coraggio, sputa il rospo!” pensai.
«Entra nella mia ciurma»
«Cosa?» rimasi totalmente spiazzata
«Sarai l’addetta al diario di bordo e scriverai delle nostre avventure, cosicché un giorno tutti possano leggere del viaggio del re dei pirati» sorrise di nuovo, lasciandomi completamente senza parole. Dopo due minuti buoni che non dicevo niente, Nami mi sollecitò.
«Allora? Tanto hai comunque bisogno di un posto dove stare e noi siamo disposti ad accoglierti comunque, qui ti troveresti molto bene»
«Io...ehm...» deglutii, anche se c’era poco da deglutire «io...»
Capitano e cartografa mi guardarono interrogativi e impazienti, in attesa di una risposta.
«Io...ci...devo pensare».

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Capitolo 7
*** Proposte ***


Ero diventata completamente scema. Si, sicuramente. Monkey D. Rufy, detto “cappello di paglia” mi aveva proposto di entrare nella sua ciurma. Quante possibilità c’erano che mi potesse proporre una cosa del genere? Una su un miliardo? Nemmeno, visto che tecnicamente lui nemmeno esisteva. Lo avevo incontrato per puro caso, perché tra mille altri la Stella aveva scelto proprio me. Ed ora ero lì sulla sua nave per altrettanto puro caso. Avevo avuto una seconda occasione che non tutti hanno. Avevo ricevuto una proposta che tutti vorrebbero ricevere e che tutti accetterebbero senza un minimo di esitazione, se ne avessero la possibilità. Io invece che gli avevo detto? “Ci devo pensare”. Ero un’ingrata. Una cretina ingrata. Che cazzo mi passava per la testa!? Se non altro però, ora potevo capire le ragazze dei romanzi o dei film che nonostante avessero una relazione perfetta, alla proposta di matrimonio del fidanzato rispondevano con un “ci devo pensare”. Certo, tutto il pubblico rimaneva deluso ed ero sicura che se qualcuno mi fosse stato a guardare sarebbe stato molto deluso anche dalla mia risposta, ma che ci potevo fare? Era una cosa importante e definitiva e a me, le cose definitive non piacevano per niente, come si era potuto appurare. Volevo la garanzia che sarei potuta tornare indietro se le cose prendevano una piega che non mi piaceva. Come avrebbero potuto prendere una piega che non mi piaceva quando ero nell’universo di One Piece, sulla Thousand Sunny e nella ciurma di cappello di paglia? Tanto per cominciare, loro avevano un sacco di nemici. Ed erano tutti, chi più chi meno, mostri di potenza. Io invece non avrei saputo sterminare neanche una mosca con una bomba atomica, figuriamoci combattere con nemici del calibro di un imperatore.
Passai la notte alternando momenti di scotimento del capo a sorrisi. Alla faccia che l’aria salmastra faceva bene, a me aveva fatto impazzire. Certo, non che la colpa la attribuissi direttamente all’aria marina, quando l’intera situazione era assurda. Però ero sia contenta che mortificata. Se da un lato ero onorata, dall’altro ero intimorita e molto indecisa. Non avevo il coraggio di presentarmi davanti alla ciurma. Di sicuro avrei subito le loro occhiate inquisitorie e le loro – anche se temevo in particolare per un membro solo – domande insistenti che mi avrebbero messo alle strette e mandato nel pallone. Fosse stato per me e per la mia codardia, sarei rimasta l’intera giornata chiusa in infermeria. Avrei potuto dire che la testa mi faceva male...no, no meglio non rischiare, magari Chopper si sarebbe appiccicato a me per tutta la giornata. Perché non togliersi la cintura, se bastava così poco per rendersi invisibili? No. Rufy e qualcun altro avrebbero comunque potuto vedermi. Avrei tanto voluto nascondermi, ma avevo promesso a me stessa che non l’avrei più fatto.
Qualcuno bussò alla porta. Mi prese il panico per un momento. Pensai a chi potesse essere mentre mi alzavo dal letto e con il timore negli occhi andavo ad aprire. Mi ero figurata tutti i nomi possibili che avrei potuto trovarmi davanti, ma mai mi sarei aspettata di trovare sull’uscio Robin, con in mano una tazza fumante di qualcosa e un piatto contenente due toast.
«Buongiorno Camilla» disse lei, sorridente come al solito
«Buongiorno Nico Robin» replicai io, un po’ meno sorridente e piuttosto perplessa
«Come ti senti oggi?»
Non risposi alla sua domanda. Non perché non volessi farlo, ma per dare una risposta sincera avrei dovuto pensarci.
«Sanji mi ha chiesto di portarti la colazione» mi porse quello che aveva in mano e scoprii che la bevanda calda era tè
«Oh, che gentili. Grazie» le sorrisi. Avrei voluto chiederle com’era la situazione di là, se il capitano aveva parlato di me, se loro sapevano. Invece tacqui.
Dopo qualche imbarazzante minuto di silenzio, la mora parlò.
«Se oggi stai meglio, che ne dici di fare da vedetta?»
Rimasi interdetta un paio di secondi. Io? Da vedetta? E perché?
Vedendo che non spiccicavo parola, continuò.
«Sai, è un posto tranquillo. Nessuno ci va mai e poi in prossimità di un’isola sarebbe utile qualcuno che stia in coffa»
Mi ci volle un po’ per capire. Robin aveva dovuto pensare che ero mezza muta o che so io, visto che quella mattina era più il tempo che boccheggiavo che altro.
«Oh. Oh, certo. Certo, ci vado io a fare la vedetta»
«Ti consiglio di andarci entro breve, perché tra poco finiranno di fare colazione»
«Si, vado subito. Grazie mille» le sorrisi grata e lei ricambiò il sorriso, poi se ne andò, lasciandomi alla mia deliziosa colazione. Non me la potei gustare come volevo perché avevo fretta, ma pazienza.
Mi ci volle un po’ per arrivare sulla coffa. La scala di corda era instabile, io ero goffa di mio e il vento non migliorava di certo le cose. Però dovevo ammettere che Robin mi aveva dato davvero un ottimo consiglio. Era meraviglioso là in alto. Tutto era migliore, lassù. L’aria era più pura, il mare sembrava più azzurro che mai ed era una tale pace per i sensi che non avrei saputo come descriverla. Era il posto ideale per scrivere. Avrei tanto voluto avere con me un taccuino e una penna per poter immortalare quel momento così idilliaco...ma mi accontentai della sensazione del vento che mi sferzava la pelle. Non mi faceva male, anzi, mi faceva il solletico. Sorrisi, ripensando che l’ultima volta che avevo provato una sensazione del genere era proprio poco prima della partenza dei ragazzi, quando io e Marco avevamo volato. Ripromisi a me stessa che lo avrei rivisto e che avrei fatto sapere alla fenice che ero lì. Tutto il mondo avrebbe percepito la mia presenza, anche se tecnicamente la mia presenza era legata ad una cintura di ferro. Ad ogni modo, non potevo restarmene lì tutto il giorno. Dovevo prendermi le mie responsabilità. Mi alzai in piedi e cominciai a scrutare l’orizzonte. Niente terra in vista e nemmeno i mugiwara si rivedevano. Di sicuro si erano persi in chiacchiere nella sala da pranzo o in qualche siparietto divertente, tipo Chopper che si infilava le bacchette nel naso o Rufy che divagava in qualche scemenza. Risi al pensiero e appoggiai i gomiti sul bordo di legno della piattaforma. Forse la mia vita lì non sarebbe stata tanto male.
 
 
Rimasi a fare la vedetta per un paio d’ore. O almeno così mi sembrava. Non avevo un orologio con me e non potevo dirlo. A dire la verità non avevo niente. Robin mi aveva messo fretta e mi ero dimenticata di portarmi qualcosa che potesse intrattenermi, come per esempio il mio telefono. Non che servisse a molto, data la mancanza di una connessione dati, ma avevo ancora qualche stupido giochino con cui far passare il tempo. Della ciurma non c’era traccia, né di Law. L’unica cosa che si vedeva da quella postazione – oltre i chilometri di oceano – era il sottomarino giallo dei Pirati Heart. Rispetto alla Sunny era piccolo ed era senz’altro buffo. Nessuno dell’equipaggio però era sul ponte. Forse Franky stava finendo di fare le ultime riparazioni. Quasi automaticamente mi venne da fischiettare “Yellow submarine” e nel mentre mi chiesi come sarebbe stato vivere là dentro. Di sicuro non era un posto adatto ai claustrofobici. Tuttavia dovetti interrompere le mie riflessioni filosofiche perché sentii delle voci. I mugiwara, in tutta la loro irruenza, uscirono dalla sala da pranzo.
«Ehiiiii Camiiiii» sentii gridare. Chiusi gli occhi e storsi la bocca. Mi avrebbe chiamato finché non fossi venuta fuori e poteva andare avanti per tutta la mattinata. Meglio togliersi il dente subito. Mi alzai, guardai di sotto e lo salutai con la mano.
«Ecco dov’eri! Ti sei persa la colazione!»
«Lo so, ma non avevo fame lo stesso»
«Allora? Qual è la tua risposta alla proposta che ti ho fat...» Rufy fu fermato dalla mano della navigatrice che gli coprì interamente la bocca e gli sussurrò qualcosa all’orecchio, dandogli poi un immancabile pugno in testa.
«Buongiorno Cami!» esclamò poi con aria innocente, grattandosi la nuca «vedi qualcosa all’orizzonte?»
Scrutai l’oceano e dopo poco mi accorsi che in lontananza, molto in lontananza, si vedeva un’isola!
«Terra! Vedo la terra!» urlai all’equipaggio tutta concitata
«Ottimo! Tra due ore circa dovremmo attraccare al porto di Shogyoshima»
Due ore, eh? Ora che la navigatrice aveva messo a tacere il suo capitano non dovevo più nascondermi lassù e avevo due ore di tempo per fare quello che volevo e che dovevo fare già dal giorno prima. Scesi e andai diretta dal carpentiere. Stava mettendo appunto gli ultimi progetti sulle modifiche da fare al sottomarino del chirurgo.
«Ehi. Disturbo?» feci capolino sulla soglia della porta del suo laboratorio
«Ah, ciao! No, no dimmi» disse senza distogliere gli occhi dai fogli che aveva in mano.
«Mi servirebbe un’arma» dissi un po’ imbarazzata
«Oh. Quindi deduco che hai deciso di unirti a noi. Super!» Franky fece la sua classica posa con gli avambracci uniti
«Ehm...veramente...non ho ancora deciso...» se prima ero imbarazzata ora lo ero anche di più. Lo sapevano tutti? Beh, avrei dovuto immaginarmelo con uno come Rufy.
«Non importa. Un’arma è sempre utile» commentò il cyborg. Poi chiamò Usop a gran voce e una volta che fu arrivato potemmo cominciare la messa a punto della mia arma.
Il cecchino stava seduto a gambe accavallate su una sedia, con carta e penna in mano e con fare teatrale mi poneva certe domande assurde – almeno assurde per me – tipo se preferivo il combattimento corpo a corpo o a distanza o in quale dei due me la cavassi meglio. Come facevo a saperlo!? Ma soprattutto, perché partivano dal presupposto che mi piacesse combattere?
«Se scuoti la testa e alzi le spalle a tutte le domande che ti faccio non ci aiuti» fece il moro
«Lo so, ma come pretendi che io sappia certe cose quando non ho mai preso in mano un’arma e soprattutto non ho mai preso in considerazione di doverlo fare?»
«D’accordo. Dalle risposte che hai dato sappiamo che non ti piace il combattimento corpo a corpo e hai una cattiva mira»
«Pessima. A meno che non si tratti di una scarpa. Ma non credo che io possa abbattere nemici con una scarpa»
«L’unica opzione che resta è una via di mezzo tra il combattimento ravvicinato e a distanza. Quindi ci serve un arma tipo una lancia»
«Mi serve un’arma che possa essere anche difensiva»
«Le cose semplici non ti piacciono, eh ragazza?» Franky poggiò le carte che stava studiando da prima e si alzò. Non aveva tutti i torti, ma se mi fossero piaciute le cose semplici non sarei stata lì. Già che c’ero ne approfittavo.
«Ok, penso di sapere che cosa cerchi» comunicò il turchese dopo aver dato un’occhiata ai fogli di Usop
«Ah si?»
«Si. Ora per favore attendi fuori, è pericoloso qui»
«Pericoloso? Ma posso almeno sapere di che si tratta?»
«Volano scintille. Fidati di me e Franky, siamo maestri in queste cose!» mi rassicurò Usop con un sorriso
«D’accordo allora aspetto fuori. Grazie e buon lavoro» feci per andarmene ma mi fermai «solo per curiosità, quanto pensate che ci vorrà?»
«Dipende» mi rispose il cyborg, già al lavoro. Nessuno aggiunse altro e io uscii dalla stanza.
 
Passai l’ora e mezza successiva a chiacchierare con i membri della ciurma. Erano tutti fantastici, specialmente Robin. Non era una di troppe parole, ma quello che diceva ti lasciava senza fiato. Anche la sua voce era stupenda. Era seria ma allo stesso tempo dolce. Parlammo di libri. Mi disse che il suo genere preferito, oltre ai saggi storici, era l’avventura – che casualmente era anche il mio preferito – ma che le piacevano tutti i generi e che amava leggere in generale. Come se non lo sapessi. Chiacchierai anche con Chopper, che mi diede un’infarinata generale sulle erbe mediche. Mi spiegò quali erano le più comuni e per cosa erano usate. Queste cose mi affascinavano. Infine parlai con la navigatrice. Le dissi che una volta sbarcati sull’isola avrei dovuto comprare un po’ di vestiti e di effetti personali. Speravo che capisse che mi servivano dei soldi, senza dover stare a spiegarglielo. Quale persona sana di mente avrebbe chiesto dei soldi a Nami? Lei però mi disse che non c’era problema, che mi avrebbe dato duecento berri. Un ottimo risultato, direi. Mi consigliò anche di togliermi la cintura qualora non mi fossero bastati e di prendere tutto ciò che mi serviva già che c’ero. Non aveva tutti i torti. D’altronde vivevo in un mondo dove la pirateria era molto diffusa e dubito che sarei stata la prima che commetteva un furto. A dire la verità non mi sarebbe dispiaciuto provare il brivido ma mi sarei sentita troppo in colpa per quelle persone che lavoravano onestamente. “Prendetevela con la navigatrice tirchia” non era una buona scusa. Sorrisi immaginandomi la scena.
«Eccoti finalmente! Non riuscivo a trovarti da nessuna parte! Abbiamo finito!» esclamò Usop leggermente a corto di fiato
«Sul serio? Arrivo!» feci emozionata
«Temo che la tua arma dovrà aspettare» disse calma Nami mentre raggiungevo il cecchino. Entrambi la guardammo perplessi. Lei si limitò ad indicare un punto alla sua sinistra e a sorridere.
«Siamo arrivati» annunciò.



Angolo autrice:
Ciao a tutti. Come sempre, spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Ultimamente avrete notato che sto pubblicando con una cadenza minore rispetto a prima. Purtroppo i mille impegni mi impediscono di scrivere quanto vorrei e spesso non trovo nemmeno una mezz'ora di tempo per pubblicare. Per questo, con mio sommo dispiacere e a malincuore, sto pensando di sospendere momentaneamente la fan fiction. Non me ne vogliate. Ovviamente la riprenderò a scrivere e a pubblicare il prima possibile, questa è una promessa! Comunque, non è una decisione definitiva, bisogna vedere come si mettono le cose. Per il momento però, sto pensando di fare così anche se mi dispiace tanto. Come sempre, se volete lasciate una recensione, mi farebbe molto piacere :)
A questo punto vi dico "a presto", nella speranza che sarà davvero presto.

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Capitolo 8
*** Sbarco ***


L’isola Shogyoshima era bellissima. Il porto era pieno di navi, alcune delle quali ben più grandi della Sunny e c’era un via vai di persone e merci incredibile. Era un’isola viva e vitale, che ti metteva il buonumore. Forse era solo l’aria frizzante della primavera che c’era lì a rendermi allegra, ma sospettavo che mi sarebbe piaciuto soggiornarvi.
«Aspetta di vedere il centro della città» mi disse Nami, che aveva notato la mia meraviglia e che la accrebbe ancora di più dopo quella frase.
Dieci minuti dopo eravamo tutti scesi dalla nave, tranne Chopper che era rimasto a guardia di essa. Ero sempre contenta, ma ora ero anche spaesata. La rossa mi aveva dato i miei duecento berri e mi aveva lasciato lì da sola come tutti gli altri. Rufy aveva esplicitamente detto che andava in qualche locanda a mangiare, Zoro era di sicuro andato a bere e Sanji a comprare le provviste per il viaggio. Tutti gli altri si erano volatilizzati nel nulla. “Ricordatevi che questa è solo un’isola di passaggio. Staremo qui solo per il tempo necessario che ci serve a rifornirci delle provviste. Ci rivediamo alla Sunny alle due di pomeriggio per poi salpare alle tre.” aveva detto la navigatrice. Perfetto, considerato che non avevo idea di che ore fossero. Non avevo un orologio con me e stupidamente non avevo nemmeno regolato l’ora del telefono con quella attuale. Pazienza, in qualche modo me la sarei cavata, come sempre.
Mi ritrovai a camminare per le vie della città senza sapere bene dove andare. Alla fine, però, scovai una zona con parecchi negozi e cominciai lo shopping. Per prima cosa comprai un po’ di vestiti. Considerato che lì c’erano sedici stagioni e io ero molto preveniente, si può dire che mi risparmiai. Comprai un cambio normale per la stagione mite come quella, un paio di bikini per le isole estive e per fare il bagno, dei vestiti più pesanti da mettere sulle isole autunnali e poi sciarpa guanti e cappotto per quelle invernali. Comprai anche abbastanza biancheria intima e un pigiama, che non poteva mancare. Per quanto riguarda le scarpe, invece, dovetti ridurre al minimo le spese. Acquistai giusto delle infradito e degli stivali un po’ pesanti. Come previsto finii i soldi prima di aver preso tutto ciò che mi serviva. Chiesi l’ora ad un passante, che mi rispose che era l’una. Avevo ancora un'ora di “libertà”. Tutti quei pacchi mi ingombravano parecchio, così decisi di ritornare alla nave e posarli, anche nella speranza che la tenera renna avesse qualche soldo da prestarmi.
 
Come pensavo, Chopper non aveva soldi con sé. A me però servivano assolutamente per comprare saponi e cose varie per l’igiene personale. Non avevo intenzione di rinunciarvi, né di chiederli in prestito e di certo non avrei aspettato fino alla prossima isola anche perché tra Jack, Kaido e Big Mom non c’era da stare tranquilli nemmeno un attimo e vattelappesca quando saremmo sbarcati di nuovo. Per cui optai per la soluzione più pratica che mi venne in mente in quel momento, che era anche la soluzione più piratesca. Mannaggia a Nami e alla sua influenza negativa. Dissi al piccolo medico che mi sarei tolta la cintura e avrei temporaneamente lasciato in infermeria i pacchi. Si stupì un po’ ma non chiese nulla e mi lasciò andare.
Giravo per le vie di quella cittadina e mi lasciavo meravigliare ancora da quel clima così sereno e quel paese così pittoresco. Il fatto che ero invisibile agli altri mi aiutava molto. Ah, se solo avessi potuto essere invisibile anche nel mio mondo. La cosa curiosa era che mi sentivo più a casa lì – seppur non visibile, in un mondo non mio e sola in una città di un’isola sconosciuta – che nella mia città natale. Forse la Stella aveva fatto la cosa giusta. Dovetti arrestare lo scorrere dei miei pensieri quando arrivai davanti a una profumeria. Bingo. Una volta dentro, non fu facile atteggiarmi come se nulla fosse. Il commesso era un uomo sulla sessantina con gli occhiali, magrolino e non molto alto. Teneva il gomito appoggiato al bancone della cassa mentre la mano sosteneva la testa. Doveva essere uno di quelli che venivano comandati a bacchetta dalla moglie grassa e frustrata che si sfogava sul marito e se la prendeva con la sua inettitudine. Infatti il povero uomo aveva l’aria annoiatissima, come se preferisse essere altrove. Del resto non c’erano molti clienti. Ero molto a disagio a rubare le cose che mi servivano. Mai l’avevo fatto e mai avrei pensato di farlo. Però era elettrizzante, a dire il vero. In un brivido di pazzia – o di stupidità, chi può saperlo – presi tutto ciò che mi serviva e attenta a non farmi vedere dal commerciante, o meglio, attenta a non far vedere degli oggetti fluttuanti che uscivano magicamente dalla porta del negozio, mi dileguai. Una criminale. Ero una criminale! A metà strada presa dal panico che qualcuno avesse potuto vedermi mi misi a correre a perdifiato. Peccato che non avevo dei polmoni capienti e dopo poco fui costretta a fermarmi, in preda al fiatone. Per precauzione mi fermai in un vincolo defilato dalle strade principali. Posai per terra le varie cianfrusaglie che avevo rubato e appoggiai le mani sulle ginocchia, piegandomi su me stessa. “Neanche avessi corso la maratona. Sei proprio fuori allenamento Cami” pensai tra me. Rimasi in quel vicolo e in quella posizione ad inspirare ed espirare quanta più aria possibile per almeno cinque minuti. Quando ebbi ripreso un po’ di fiato raccolsi i prodotti e mi incamminai verso la nave. Avevo preso parecchia roba e trasportarla senza una busta era faticoso e soprattutto ingombrante. Non capita tutti i giorni di vedere saponi e deodoranti che galleggiano a mezz’aria. Per fortuna su quell’isola ognuno andava per la propria strada e nessuno sembrava notare niente.
«Sei qui da due giorni e già ti comporti da criminale?» tra le altre spiccò una voce alle mie spalle.
Mi gelai. In meno di un secondo mi passarono per la testa milioni di pensieri. Mi avevano scoperto. Ma chi poteva avermi visto? Non ero invisibile? Che dovevo fare? Scappare? Ma tutti quei prodotti mi avrebbero rallentato. Forse era meglio lasciarli cadere a terra e correre via senza voltarsi. Presi un respiro profondo e lentamente, molto lentamente, poggiai a terra la roba che avevo tra le braccia, poi mi girai. Appena vidi di chi si trattava misi una mano sul petto ed emisi un sospiro per allentare la tensione che in quei secondi era cresciuta a dismisura in me. Poi mi arrabbiai.
«Tu.» puntai l’indice contro la losca figura che ora mi era di fronte «tu mi farai morire, Law»
In risposta il chirurgo sogghignò.
«So che per te sarebbe una gioia vedermi morire ma se permetti prima di spirare vorrei avere anche io qualche gioia nella vita»
Dapprima mi guardò con aria perplessa, quasi scettica. «Facendomi incontrare te il destino ha privato per sempre me della possibilità di avere qualche gioia»
A quelle parole incrociai le braccia e alzai un sopracciglio. Lui allargò il suo ghigno e io lasciai perdere l’opzione di mandarlo a quel paese o di trafiggerlo con il mio nuovo pettine.
«Se non c’è altro, data l’inconsistenza della conversazione, io me ne torno alla nave».
Per un po’ rimanemmo in silenzio e immobili tutti e due. Tuttavia quando feci per andarmene, le sue parole mi fermarono.
«Che hai deciso di fare con la proposta di mugiwara-ya?»
«A quanto vedo le notizie corrono veloci» feci, leggermente infastidita. Poi mi ricordai che parlavamo di Monkey D. Rufy, quello che aveva dichiarato apertamente guerra a Big Mom tramite un Den Den Mushi e della sua ciurma scatenata.
«Perché me lo chiedi?» tornai all’attacco, sapevo che stava tramando qualcosa
«Per interesse personale»
«Sputa il rospo Traffy» gli intimai, spostando il peso del corpo sul piede destro, mettendo le mani sui fianchi e fissandolo nel modo più minaccioso che potessi permettermi
«Forse il cappellaio non ti ha messo al corrente della reale situazione»
Che voleva dire? Non capivo. La cosa però non mi piaceva affatto.
«Spiegamela tu allora»
Mi fece cenno di ritornare nel vicolo dove pochi minuti prima mi ero fermata a riprendere fiato. La cosa mi piacque ancora meno. Raccolsi tutti gli oggetti da terra e me li portai dietro per poi posarli di nuovo a terra. Evitai di chiedergli il perché di quel suo gesto e soprattutto evitai di interrogarmi su cosa stesse succedendo. È buffo. Sembra quasi una sorta di contrappasso dantesco. Le persone più paranoiche sono quelle che si ritrovano nelle situazioni potenzialmente più preoccupanti. Comunque, una volta che fummo andati nel vicolo ricominciò a parlarmi.
«L’alleanza tra me e cappello di paglia vale ancora e varrà fino a che non avremo sconfitto Kaido»
«Si, questo lo so»
«Ma non lo combatteremo ora. Prima mugiwara-ya ha espresso il desiderio di combattere contro Jack, il sottoposto di Kaido che ha distrutto Zou»
«So chi è Jack e so anche che Rufy ha intenzione di andare a rompergli il culo» ancora non riuscivo a capire dove volesse arrivare
«Se sai chi è Jack allora saprai anche quale sia la sua potenza»
«Si, ne sono consapevole. Quindi?»
«Non sei pronta per affrontare un nemico di tale calibro»
Dovetti ammettere che per quanto vere fossero le sue parole, un po’ mi spiazzarono. Non tanto perché mi aveva schiaffato la verità in faccia come se nulla fosse, ma per la durezza che aveva il suo tono di voce nel momento in cui me lo disse. Me lo disse quasi con sprezzo e ancora una volta mi fece sentire inadeguata. Quelle parole mi ribollirono dentro e si tramutarono in rabbia, ma cercai di contenermi.
«Pensi che non lo sappia? Ma non mi importa, io voglio farlo lo stesso. Se devo morire morirò»
«Non è questo il problema. Dovresti rifiutare la proposta del cappellaio. La vita da pirata non fa per te»
«Cosa!?» spalancai gli occhi «Certo. Adesso ho capito dove vuoi andare a parare. Non comandi tu qui, non sarai tu a dirmi quello che devo fare solo perché non mi sopporti»
«Non fraintendermi»
«No, no ho capito benissimo quello che stai cercando di fare! Non funzionerà stavolta Law.» ora ero davvero arrabbiata. Sentivo che sarei esplosa in una scenata da un momento all’altro, quindi feci quello che faceva sempre la vecchia Cami quando era troppo arrabbiata per riuscire a pensare lucidamente. Se ne andava e lasciava che la rabbia la consumasse dentro. E così feci io, me ne andai. O almeno ci provai. Come mossi un passo sentii una forte presa al braccio che si stringeva sempre più, quasi fino a farmi male. Mi rigirai di scatto e mi ritrovai il dottore a meno di dieci centimetri dalla faccia.
«Adesso ascoltami bene perché non lo ripeterò due volte» i suoi occhi erano incastrati nei miei, fermi e decisi «qui non si tratta di te. Questa è un’alleanza che coinvolge anche me e i miei uomini. Se un membro di una delle ciurme coinvolte nell’alleanza non è pronto per la battaglia, il peso graverà su tutti»
«Traffy, io ti capisco. Stai cercando di salvaguardare te stesso e la tua ciurma e io ti capisco, davvero. Ma anche tu dovresti capire me. Hai rinunciato a tredici anni della tua vita per pianificare la tua vendetta contro Doflamingo. Io ho rinunciato a tante cose nella mia vita, ora non voglio più rinunciare a niente. So di essere egoista ma non intendo avere rimpianti»
«Li avrai se deciderai di unirti a cappello di paglia. Metterai in pericolo tutti noi»
«No Law, stavolta non andrà così. Non starò ferma su un’isola a mangiarmi le mani dal rimorso per non essere partita con Rufy e per non essere su una nave in mezzo al mare a vivere l’avventura che ho sempre desiderato vivere. E soprattutto non starò a marcire su un’isola perché tu mi hai detto di farlo. La Stella mi ha messo qui per un motivo. Mi ha dato una seconda occasione. L’occasione di poter non condurre una vita mediocre, vissuta nella paura. Sono pienamente consapevole dei rischi che corro e che potrei far correre agli altri e sinceramente non mi importa niente. Mi impegnerò, diventerò forte per non intralciare nessuno e per proteggere i miei compagni. Ma voglio farlo, voglio rischiare e voglio metterci tutta me stessa. E non sarai tu a fermarmi, né tantomeno le tue parole.» lo dissi tutto d’un fiato «Direi che non abbiamo altro da dirci. Me ne torno alla nave. In caso non ci rivedessimo più e ti venisse il dubbio sulla mia identità, io sarò quella con la testa di Jack in mano.».
Raccolsi la mia roba e me ne andai, senza dargli il tempo di replicare. Forse avevo esagerato con quella cosa della testa di Jack, ma ero arrabbiata. Non potevo credere a quello che mi aveva detto.



Angolo autrice
Salve a tutti. Eccomi qui, sono tornata finalmente! Non vedevo l'ora di ricominciare a scrivere e a pubblicare i capitoli di questa Fan Fiction, sono contentissima. Sarei ancora più contenta se dopo tutto questo tempo mi voleste lasciare una recensione, se non altro per sapere che ne pensate!
Mi dispiace per il lungo dialogo che avviene tra Law e Cami, ma il discorso diretto era l'unico modo che potevo usare per far capire la situazione e soprattutto per far capire il pensiero e il punto di vista di Law.
Un saluto, alla prossima!

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Capitolo 9
*** Nuova arma ***


Tornai alla nave più scocciata che mai. Mi aveva fatto proprio incazzare. Come si permetteva quel...quello zombie ambulante di dirmi cosa fare con la proposta di Rufy!? Chopper mi accolse calorosamente quando ritornai, dato che ero stata la prima ad arrivare, ma da quanto ero infuriata lo ignorai completamente e mi chiusi in infermeria, sbattendo pure la porta. Sistemai alla rinfusa sulla scrivania shampoo, pettine, bagnoschiuma e tutte le altre cose e mi levai la cintura che mi ero appena rimessa per farmi vedere dalla renna. Provai a calmarmi sedendomi compostamente sul letto ma funzionò poco perché tre secondi dopo mi rialzai e cominciai a camminare su e giù per la stanza. Forse il problema non era quello che mi aveva detto, ma il fatto che aveva ragione. Per quanto volessi farlo, non ero pronta ancora e non si trattava solo di me ma era una questione quasi globale. Non volevo essere un peso per la ciurma, qualunque fosse stata. Ma cosa potevo fare? Volevo vivere un’avventura, volevo avere dei compagni che mi proteggessero e da proteggere. In quel mondo non mi bastava avere me stessa. Non era il mio mondo e avevo bisogno di persone che mi guidassero, almeno all’inizio. Certo, non volevo nemmeno mettere in pericolo nessuno e tantomeno ostacolare i sogni di qualcuno. Non sapevo davvero cosa fare. Se prima ero confusa, dopo la chiacchierata con Law lo ero ancora di più.
«Cami! Che fai qui? Vieni a vedere la nuova arma!» Usop entrò come una furia
«Ah, si arrivo» dissi senza nessun entusiasmo
«Prima però mettiti quella» mi indicò la cintura e io da brava obbedii. Appena fui fuori della porta però, ci ripensai.
«Sai, credo che ora andrò a farmi un bagno. La possiamo vedere dopo l’arma?»
Parve leggermente deluso ma annuì e mi mostrò il bagno. O meglio, la stanza con la vasca da bagno. Era una vasca enorme, degna di una Jacuzzi. Già mi pregustai il momento in cui mi ci sarei immersa. Mi diede gli asciugamani e mi spiegò che ciascuno di loro li aveva di un colore diverso per non confondersi, anche se poi alla fine ognuno usava quello che gli capitava. A me capitarono bianchi. Cominciai a riempire la vasca e lui mi lasciò sola. Una volta che ebbi preso tutto l’occorrente, mi spogliai e mi infilai nella vasca. La sensazione dell’acqua tiepida che mi avvolgeva era una sensazione bellissima. Sarei potuta rimanerci per ore in quel modo. Chiusi gli occhi e abbandonai la testa all’indietro. L’acqua mi rilassava. Non mi capacitavo ancora di come facesse chi aveva ingerito un frutto del diavolo. Se non avessi più potuto nuotare per il resto della vita mi sarei volentieri sparata o quantomeno, mi sarei lasciata annegare. Lasciai affondare la testa nel liquido trasparente. Una volta che fui totalmente immersa tutto mi fu più chiaro. Quello era il mio ambiente, mi aiutava a pensare. Se solo avessi potuto respirare sott’acqua nessuno mi avrebbe più rivisto. Invece dovetti riemergere purtroppo, i polmoni cominciavano a bruciarmi. Emersi inspirando profondamente. Mi stropicciai gli occhi e iniziai a insaponarmi. Ci misi circa una mezz’ora per finire di sciacquarmi e decidermi ad uscire. Sapevo che al piano di sotto Usop e Franky mi stavano aspettando impazientemente. Presi l’asciugamano – che mi pareva un po’ troppo striminzito per i miei gusti – e me lo avvolsi intorno al corpo, poi con quello più piccolo ci feci il turbante. Una volta che ebbi frizionato a sufficienza il mio corpo e i miei capelli, iniziai a vestirmi con gli abiti appena comprati. Sopra l’intimo misi semplicemente una canottiera bianca e degli shorts di jeans, accompagnati da degli stivaletti e dall’immancabile cintura metallica. Dopo essermi accertata che la vasca si fosse svuotata e dopo aver messo gli asciugamani nel cesto dei panni sporchi, scesi dagli altri.
«Eccoti finalmente! Ci hai messo un’eternità!» si lamentò Usop
«Si lo so, scus...»
«Cami-chan! Sei meravigliosa!» Sanji mi interruppe
«Ha ragione il fratello cuoco. Questi vestiti sono supeeeeeer!» fece Franky, che non perse occasione di sfoggiare la sua posa
«Che carini questi vestiti, avrai occasione di prestarmeli se resterai su questa nave» la gatta ladra – in tutti sensi a questo punto – mi fece l’occhiolino
«Al diavolo i convenevoli, vieni» il cecchino mi tirò per un braccio e mi trascinò nella sua “fabbrica”. Il cyborg ci raggiunse poco dopo.
«Allora, sei pronta a vedere questa nuova arma super?» chiese eccitato il turchese
«Certo! Prego, procedete pure» feci io scherzando in tono solenne
«Si accomodi, signorina» il moro mi fece segno di sedermi su una sedia.
Avevano organizzato una presentazione curata nei minimi dettagli, con tanto di riflettori, sipario improvvisato e spara coriandoli, tipica di Usop. Alla faccia che non amava i convenevoli. Lui non aveva una via di mezzo, o faceva le cose esageratamente in grande o non le faceva per niente. Perciò, aspettai pazientemente – e anche un po’ emozionata – che finissero. Dovevo ammettere che però era divertente vedere quei due che decantavano la mia nuova arma così energeticamente. La mia nuova arma. Mi faceva strano pensarlo. Chi avrebbe mai detto che da due mesi a questa parte avrei avuto un’arma? A pensarci bene, chi avrebbe mai detto che mi sarebbe accaduto tutto questo? Un mese e mezzo fa mi sarei data della pazza per aver anche solo pensato che potesse essere possibile.
«Ed ecco qui ultimata la nuova Extensible Axe 4!» esclamò il cecchino tutto concitato distraendomi dalle mie riflessioni.
Guardai quella meraviglia che mi mise davanti Franky. Era un’ascia, come avevo dedotto dal nome ed era assolutamente fantastica. Mi piacque subito, fu un amore a prima vista. L’argento delle lame sembrava risplendere di luce propria e il metallo era stato lavorato benissimo. Il manico, anch'esso lavorato benissimo e anch'esso color argento, era pieno di dettagli e ricami. La parte finale, quella vicino alle lame, era appuntita e immaginavo anche affilata. Non c’era che dire.
I due inventori di cotanto splendore mi mostrarono quali erano le sue funzionalità e mi spiegarono che, come suggeriva il nome del prototipo, aveva quattro modalità d’uso. Le prime tre, più che modalità d’uso, erano “lunghezze d’uso”. L’ascia, dalla sua lunghezza standard che era quanto il mio avambraccio, poteva diventare lunga quanto il mio braccio o una mia gamba o coprire la mia intera altezza. Ora cominciavo a capire perché prima di congedarmi avevano voluto prendermi le misure. Usop mi spiegò che quest’ultima modalità serviva anche a scopo difensivo dal momento che per parare i colpi potevo mettere il manico per orizzontale. Tranne che per la modalità standard, le altre tre potevano attivarsi premendo dei pulsanti colorati e con impresso sopra il numero della rispettiva modalità d’uso situati sull’impugnatura. Per la modalità 1 il pulsante da premere era verde, per la 2 il pulsante era giallo, mentre per la modalità 3 era rosso. La quarta ed ultima modalità invece, si poteva attivare insieme a qualsiasi altra modalità. Premendo il pulsante blu con il numero quattro, le lame, tenute insieme al resto dell’ascia da una catena, si staccavano dal manico con un effetto repentino, simile a quello che aveva l’attacco “Strong right” del carpentiere. Infine, le lame tornavano al loro posto premendo un pulsante argento posto sul fondo del bastone dell’arma, che al contempo faceva ritirare le falci in dentro per non creare pericolo. Mi fecero provare tutte le modalità e un po’ mi spaventai quando partì il colpo, ma di sicuro non era per lo spavento che ero senza parole. Insomma, era bellissima.
«Allora? Che ne dici? Ti piace? Pensi che per te possa andare bene?» chiese Usop, che fremeva
«Ma l’avete ideata e creata in sole due ore?»
«Puoi scommetterci, sorella» fece fiero il turchese
«Ragazzi. Io vi adoro! È stupenda! Spero solo di essere all’altezza di questo capolavoro»
«Oh, lo sarai» disse deciso e sicuro il cyborg «piuttosto, hai deciso come chiamarla?»
«Ehm...non le avete già dato un nome voi?»
«Infatti! Pensavo che avessimo già deciso come chiamarla!» protestò il nasone
«Noi abbiamo assegnato un nome al prototipo. Ora quest’arma è tua e il nome puoi, anzi devi deciderlo tu» affermò Franky rivolto a me. Guardai l’ascia. Ultimamente stavano cercando di farmi prendere troppe decisioni. Tuttavia, quella non fu affatto difficile. Fu strano. Fu come se il nome mi fosse riecheggiato dentro. Me lo sentii.
«Sapete, credo che la chiamerò Mr. Smee»
«Ottimo!» esultò il carpentiere
«Mr. Smee!? Ma che razza di nom...» cominciò il moro, ma fu subito azzittito dal suo compagno di ciurma che ormai era partito con i festeggiamenti. Non mi chiesero nemmeno per quale motivo avessi deciso di chiamarla così. La verità era che Mr. Smee altri non era che Spugna, il fidato assistente di Capitan Uncino e io sospettavo che così come il caro aiutante del pirata più temuto dell’Isolachenoncè, la mia nuova arma mi avrebbe fatto da fida spalla nelle battaglie più dure. Se ero fortunata magari mi avrebbe fatto anche da compagna di bevute.
«Bene, direi che è ora di provarla» annunciò il cecchino
«Cosa? Ora?»
«Certo! Che stai aspettando? Rufy te l’ha spiegato, no? La battaglia contro Jack, ahimè, si avvicina sempre di più e non possiamo rischiare di perdere nessuno» fece il carpentiere. Ascoltando quelle parole mi resi conto di una cosa. Io non ero pronta.
«Avete ragione. Vado a chiamare Zoro» dissi fissando un punto imprecisato sul pavimento
«Sai che c’è? Non fa niente. Cominceremo domani, intanto prenditi un giorno per familiarizzare un po’ con Mr. Smee, sarà più facile per te se sai con che cosa hai a che fare» Franky mi guardò negli occhi. Forse aveva capito, forse era più empatico di quanto pensassi o di quanto non fosse il suo compagno, che continuò ad insistere finché non ricevette un pugno ben assestato in testa. Mi congedai uscendo dal laboratorio con la mia nuova arma. Prima di farlo però, diedi un’occhiata all’orologio a muro e vidi che erano le tre, l’ora prestabilita per salpare.
Quando uscii sul ponte la prima cosa che vidi fu parte della ciurma che si muoveva avanti e indietro sotto le direttive della navigatrice, preparandosi a salpare. E fu proprio da quest’ultima che andai, una volta che i preparativi furono ultimati e che l’ancora fu alzata. Ero decisa a parlare con lei.
 
Contrariamente a quanto pensavo, Nami fu gentile con me e ci facemmo una bella chiacchierata. Mi spiegò tutte le dinamiche della nuova alleanza. Mi spiegò che mentre loro sarebbero andati a combattere Jack, i samurai si sarebbero diretti a Wa nella speranza di infiltrarsi in quello che ormai era un regno governato da Kaido e li avrebbero aspettati una volta che avessero finito, preparando un’altra battaglia. Inuarashi invece sarebbe rimasto a Zou nella speranza di far ritornare il paese al suo antico splendore mentre Nekomamushi sarebbe andato a cercare Marco. Infine, Law si sarebbe ricongiunto con i mugiwara solo al momento di combattere contro l’imperatore, momento che comunque a quanto avevo capito non sarebbe arrivato tanto presto. Prima doveva fare alcune cose di cui non era dato sapere niente a nessuno. C’era da aspettarselo visto che si trattava di lui, anche se la rossa mi confessò che secondo lei lui e la sua ciurma sarebbero andati a fare qualche missione umanitaria come curare bambini e vecchi che non potevano permettersi cure mediche in giro per il Nuovo Mondo, ma Law non l’avrebbe mai ammesso. Onestamente io me lo immaginavo su una spiaggia steso a prendere il sole con un cocktail in mano. Almeno per i primi cinque secondi, per il resto del tempo si sarebbe rintanato nel suo freddo e buio sottomarino ad elaborare un piano d’attacco. Non fosse mai che se avesse preso troppo sole si sarebbe squagliato. Una volta che la navigatrice mi ebbe spiegato nel dettaglio il funzionamento dell’alleanza, passammo a parlare della mia nuova Mr. Smee. Mi chiese se mi piaceva e se mi ci trovavo bene e io risposi che ne ero entusiasta, ma che ancora non avevo avuto modo di testarla perché gentilmente Franky mi aveva concesso un giorno di “riposo”. Poi gliela mostrai e se ne meravigliò anche lei. Disse che un’arma così non si vedeva tutti i giorni, che se avessi imparato ad usarla propriamente sarebbe stata sicuramente letale per i nemici e mi rassicurò facendomi presente che se ce l’aveva fatta lei ad Alabasta a vincere contro una temibile avversaria con un bastone che sparava uccellini allora ce l’avrei benissimo potuta fare anche io. La cosa che mi piaceva del mondo di One Piece era che ognuno aveva una propria arma fatta su misura e un proprio stile di combattimento, con tanto di attacchi personalizzati. Lì potevi combattere con una pistola, con una ciabatta o una padella e vincere lo stesso, non faceva differenza. L’importante era essere pienamente consapevoli delle capacità proprie e dell’arma con cui si combatteva e all'interno della ciurma di cappello di paglia tutti sapevano perfettamente cosa erano in grado di fare e come farlo. Non era tanto la forza a fare di un combattente quello che era, ma l’astuzia, il saper usare e sfruttare le proprie doti al meglio. Avrei dovuto imparare questo, avrei dovuto scoprire le mie possibilità e i miei limiti, avrei dovuto creare una sintonia tra la mia mente, il mio corpo e la mia arma. La domanda era: ce l’avrei fatta in una sola settimana? E la risposta non la sapevo. O meglio, dentro di me la sapevo, solo che mi rifiutavo di ammetterlo.
«Posso farti una domanda Nami?» chiesi alla cartografa
«Per la risposta sono cinquanta berri»
La guardai alzando le sopracciglia. Togliendo il fatto che la sua cupidigia di denaro mi pareva un po’ eccessiva e fuori controllo, non l’aveva ancora capito che ero una poveraccia senza un soldo?
«Scherzavo! Chiedimi pure» mi fece un occhiolino che però non mi convinse del tutto, secondo me non stava scherzando affatto. Ma la domanda gliela feci lo stesso, al massimo avrei chiesto i soldi in prestito a qualcuno.
«Perché ci tenete così tanto ad avermi nella vostra ciurma? Voglio dire, non sono forte, non so combattere, non ho un obiettivo da raggiungere e non ho particolari abilità come te che sei un’ottima navigatrice o Chopper che è un medico strabiliante. Non sono la persona indicata per far parte della ciurma del futuro re dei pirati»
«Ascolta. Quando Rufy è tornato qui, era entusiasta delle avventure che ha vissuto nel tuo mondo. Sarà pure uno sprovveduto, ma è il nostro capitano. Tutti noi ci fidiamo di lui, diciamo che ci vede lungo. Ci ha parlato molto bene di te, ci ha detto quanta passione metti nelle cose che fai. Sei in gamba e lui ti vuole con sé» la rossa mi sorrise materna. Io non sapevo che dire, nel profondo ero commossa per come Rufy mi vedeva e per come aveva parlato di me ai suoi uomini. Nami continuò a raccontarmi quello che le aveva riferito Rufy. Mi disse di quell'episodio in cui rischiavamo di essere scoperti da mio padre e di come il moro fosse stato colpito dalla mia prontezza di spirito e dal fatto che nonostante avessi il terrore di venire scoperta non mi fossi buttata giù e avessi lavorato sodo affinché ciò non avvenisse. Non l’avevo mai considerata sotto questa prospettiva.
«Però nessuno di noi può obbligarti a rimanere qui. Se non te la senti va bene così, è normale avere paura. Qualsiasi decisione tu prenda, fai in modo di esserne convinta al cento per cento, non se ne esce vivi altrimenti»
«Già. Ma come faccio a sapere qual è la decisione giusta?»
Alzò le spalle. Effettivamente se non lo sapevo io, figurarsi se lo sapeva lei.
«Quando eri nel tuo mondo che cosa avresti voluto fare nella vita?»
Stavolta toccò a me alzare le spalle. Mi misi a fissare l’albero maestro e ci riflettei. «Non ci ho mai pensato, in realtà. Scrivere mi piace, ma ho sempre pensato che avrei fatto altro. Mi sarebbe piaciuto aiutare le persone, magari fare l’infermiera. Ma a voi non serve un’infermiera, avete già Chopper che fa per un intero reparto ospedaliero». Forse non ci avevo mai pensato perché dentro al mio cuore lo sapevo benissimo.
«Non si puoi mai sapere! Magari a Chopper serve un’assistente»
«Senti, credo che adesso me ne tornerò in infermeria, tanto per restare in tema. Grazie della chiacchierata» le appoggiai una mano sulla spalla sorridendole e me ne andai. Avevo ancora i capelli umidi e c’era un po’ di vento, non volevo prendermi un raffreddore tre giorni dopo il mio arrivo lì. Ma onestamente non era quello il motivo per cui avevo deciso di ritirarmi nella mia “stanza”. Dopo che avevo parlato con Nami, c’erano ancora più cose da considerare per poter scegliere. Che dovevo fare? Che volevo fare? Per quanto ci provassi, mi sembrava di non considerare tutte le opzioni, di lasciare fuori qualcosa. Qualcosa di decisivo. Ma cosa? Mi sedetti sul bordo del letto e cominciai a mordermi una nocca. Per fortuna la renna non era nei dintorni. Con il palmo della mano picchiettavo la tempia per cercare di spremermi le meningi. La scelta che dovevo prendere era davvero tra il rimanere su quella nave e vivere milioni di avventure – circondata da un alone di allegria e festeggiamenti – che per quanto belle potessero essere, erano anche piene di pericoli, nemici, armi e sangue o il passare il resto della mia vita su un’isola a fare la commessa, sistemarmi e vivere una vita lunga e noiosa? Se la prima opzione non la dovevo scegliere, la seconda non volevo sceglierla. Dovevo pensare ad altro. Mi focalizzai sull'alleanza e su quello che ognuno dei membri era stato incaricato di fare. Cercare Marco era fuori discussione, sarebbe stato come cercare un ago in un pagliaio – in questo caso più un ananas – e poi sarei stata sola nella ricerca, senza nessun punto di riferimento da cui partire. Non ero in grado di riconoscere il Nord dal Sud né tantomeno di partire con una barchetta e girare per il Nuovo Mondo per conto mio. A Wa non ci sarei andata neanche se mi avessero pagato, non ero pronta per affrontare Jack, figurarsi se ero pronta ad andare sull'isola comandata da Kaido e strettamente sorvegliata dai suoi sottoposti migliori! E poi, chi mi ci avrebbe portata? I samurai erano già partiti da un pezzo e probabilmente erano già arrivati. I mugiwara erano impegnati altrimenti e sarebbe stato egoista da parte mia chiedergli un tale favore. A Law non lo avrei chiesto sicuro, tanto sapevo la sua risposta, anzi, non fosse mai che si sarebbe arrabbiato e per dispetto me ne avrebbe combinata una delle sue. Inoltre il signorino aveva di meglio da fare. Mi bloccai di colpo e spalancai occhi e bocca. Fu lì che ebbi l’illuminazione. Avevo trovato il pezzo mancante del puzzle. Avevo messo in moto tutti gli ingranaggi giusti. Quasi a farlo apposta, sentii bussare alla porta.
«Avanti!» gridai leggermente infastidita.
 “Ah, i casi della vita. Parli del diavolo e spuntano le corna” pensai divertita quando la porta si aprì e potei vedere chi vi si celava dietro.
«Ti sei persa per strada questo» disse Law mostrandomi una bottiglietta e tirandomela subito dopo. La presi al volo, era il balsamo per i capelli. Evidentemente nella fretta e nella furia doveva essermi caduto e non me ne ero accorta.
«Grazie» gli dissi. A quanto pareva non era poi così stronzo come pensavo. Lui mi rivolse un lieve cenno d’assenso e fece per andarsene.
«Aspetta!» esclamai. Lui si rigirò e mi guardò interrogativo. Sbuffai. Già sapevo che mi sarei pentita di quello che stavo per dirgli.
«Avevi ragione» mi alzai dal letto e lasciai il balsamo da parte «non sono pronta. Odio ammettere che avevi ragione, ma purtroppo è così. Non sono affatto pronta ad affrontare tutto questo, è una cosa troppo grande per me. Rischierei di mettere in pericolo me stessa e anche tutte le persone che sono coinvolte in questa alleanza».
Mi costò molto pronunciare quelle parole e lui non ghignò come mi aspettavo, ma le sue iridi grigie fissarono le mie e il suo viso assunse un’espressione indecifrabile. Lo avrei fatto, non mi sarei tirata indietro. Non sapevo se era quello il momento giusto. Forse avrei dovuto aspettare, forse non era la cosa ideale da fare. Forse...al diavolo! La nuova me sarebbe stata sempre sicura delle sue azioni!
Incrociai le braccia e sogghignai, sostenendo il suo sguardo.
«Ecco perché ho una proposta da farti».



Angolo autrice
Eccomi qui con un altro capitolo! Spero che sia di vostro gradimento, ma soprattutto spero che ci abbiate capito qualcosa sulla spiegazione dell'arma. Non è stato facile per me scriverla cercando di essere il più chiara possibile! Se c'è qualcosa che non vi è chiaro mi scuso in anticipo, se volete potete pur sempre lasciarmi una recensione o scrivermi in privato per chiedermi maggiori spiegazioni! :) Inoltre, come avrete potuto constatare, per esigenze di trama della Fan Fiction, ho dovuto cambiare un po' le carte in tavola. Come avevo già annunciato, questa storia si discosterà dalle vicende del manga. Però mi auguro che vi piaccia lo stesso!
Alla prossima!

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Capitolo 10
*** Ricatti ***


«Allora siamo d’accordo?»
«Ripetimi ancora una volta perché dovrei accettare» fece, tutt'altro che convinto e piuttosto riluttante all'idea
«Perché come hai detto tu stesso, ne va dell’incolumità tua, della tua ciurma e dell’intera alleanza. Mi pare che tu ci tenga particolarmente alla salvezza, no?» lo provocai. Tralasciai la specie di ricatto che gli avevo fatto posto poco prima.
«E come credi che questo mi garantirà l’incolumità?»
«Non credo che tu abbia opzioni migliori. E soprattutto non credo che tu abbia altre opzioni»
«Io piuttosto credo che non ce le abbia tu» sibilò
«Mi dispiace Traffy, ma questa volta il gioco lo conduco io» gli sussurrai all’orecchio una volta che mi fui avvicinata. Poi misi la mano sulla maniglia della porta e la girai.
«Fammi sapere se decidi di accettare» mi fermai ad osservare la sua nuca – dato che non si era né rigirato a guardarmi, né si era mosso di un passo – poi uscii lasciandolo lì come un ebete. Se non altro per una volta l’ebete che rimaneva immobile senza sapere che dire non ero io.
Non ci volle molto prima che Law venisse a comunicarmi il verdetto finale, ma a me parve lo stesso un’eternità. Per tutto il tempo mi rintanai nella coffa a riflettere. Avevo preso la decisione giusta? Era quello il mio destino? La cosa buffa era che per proporre al chirurgo una cosa simile non ci avevo pensato nemmeno tre secondi mentre sopra alla proposta di Rufy ci avevo rimuginato giorno e notte. Forse dovevo semplicemente fidarmi del mio istinto. In fondo non stavo andando al patibolo, giusto? Beh, oddio forse...no, no, non ci stavo andando. Stavo facendo la cosa giusta per tutti, compresa me stessa. Ma stavo facendo ciò che davvero volevo fare? Quello non lo sapevo, solo il tempo avrebbe potuto dirmelo. Solo il tempo avrebbe potuto tracciare la linea della persona che volevo diventare e della persona che poi sarei diventata.
Scesi dalla coffa e neanche a farlo apposta incrociai il chirurgo che si aggirava nei pressi dell’albero maestro, come suo solito. Non gli dissi niente, sapevo che sarebbe stato lui a comunicarmi la sua decisione quando fosse stato pronto. Lui mi guardò, io aspettai che parlasse o che se ne andasse. Parlò.
«Ci ho riflettuto» iniziò e fece subito una pausa piuttosto lunga «suppongo, per il bene della coalizione e della maggior parte delle persone, di dover accettare la tua proposta»
Le mie labbra si aprirono in un sorriso sincero.
«In fondo avrei dovuto prevedere a che cosa sarei andato incontro nello stringere un’alleanza con cappello di paglia. All'interno di una collaborazione si devono pur fare dei sacrifici, no?»
«Più che sacrifici userei la parola “compromessi”. Mi sembra più appropriata. E poi cosa credi? Che io sia felice di questo?» lo provocai un po’ e lui fece per rispondermi, ma io lo fermai «non ne dobbiamo parlare ora. Abbiamo stretto un patto che più o meno conviene ad entrambi. La cosa finisce qui». Lo avevo detto con molta tranquillità, non con rabbia o risentimento o cattiveria. Fece un cenno d’assenso prima di dirigersi dalla parte opposta alla mia. Si poteva dire che la prima fase del piano era stata superata, ora dovevo passare alla parte più difficile. Dovevo comunicarlo a tutti.
 
“«Avanti, parla» mi incitò quasi spazientito, anche se ormai avevo imparato a conoscerlo e sapevo che quel suo atteggiamento era più che altro per trepidazione.
«Prendimi nella tua ciurma» dissi tutto d’un fiato dopo aver preso un respiro profondo. Osservai la sua reazione. Alzò un sopracciglio, quel tanto che bastava a dargli un aria a metà tra lo stupito e lo scettico.
«E perché dovrei farlo?»
«Perché questo è l’unico compromesso a cui possiamo giungere»
«Più che compromesso mi sembra una tua richiesta disperata»
«Una mia richiesta disperata!? Hai idea di quello che stai dicendo!? Io non devo supplicare nessuno di prendermi nella propria ciurma e di certo non te! So che è difficile da credere e non vorrei rimanessi sconvolto dalle mie parole, ma non sei il centro del mondo, Law! E non sei nemmeno la mia prima scelta!» cercai di calmarmi. Non era di certo quello il modo in cui avrebbe accettato. Il potere di farmi passare da calma a incazzata in un nanosecondo ce lo aveva solo lui. Il maledetto ghignò. Non potevo fare così, non potevo perdere subito le staffe o mi avrebbe avuta in pugno.
«Sai che c’è? Hai ragione. Ti prego, prendimi nella tua ciurma. Qualcuno, ad esempio Bepo, può insegnarmi a combattere» cercai di sembrare il più dolce e disponibile possibile
«Bepo è bravo in questo genere di cose» riflesse lui, facendomi sorridere «ma non può fare miracoli» concluse, trasformando il mio sorriso speranzoso in un grugno carico d’odio.
«Allora potresti insegnarmi tu qualcosa. Credo che tu sia un ottimo medico e io ho sempre desiderato fare l’infermiera» era vero, fin da quando ero piccola desideravo essere un’infermiera. Non avevo mai dato un peso a ciò che volevo diventare da grande fin quando non ero capitata nel mondo di One Piece e fin quando Rufy non mi aveva fatto la proposta di entrare nella sua ciurma. Ma io lo sapevo, lo avevo sempre saputo quello che volevo fare. Aiutare le persone e prendermi cura di loro mi faceva sentire bene. Ciò, però, non toglieva che stavo supplicando il mio peggior incubo di farmi da insegnante. Beh, tutti i sogni hanno un prezzo, giusto?
«Abbiamo già abbastanza personale medico sul sottomarino»
Sbuffai. Avevo finito le carte da giocare e di certo non avevo assi nella manica. Tuttavia lui fece qualcosa che mi sorprese. Si avvicinò a me, con la testa chinata verso il mio viso e gli occhi ben piantati nei miei «Voglio che tu mi dia una ragione valida per cui devo prenderti nella mia ciurma» soffiò. Abbassai lo sguardo per poi rialzarlo subito dopo. Dovevo tener testa a quegli occhi di ghiaccio che bramavano una risposta, sadici.
Allargai le braccia quasi sconsolata. «Non ho una motivazione da darti, Traffy, se non quelle che ti ho già dato»
Sorrise compiaciuto «In tal caso, io non ho niente da offrirti».
Rimasi di sasso. Davvero? Lo diceva davvero? O era solo un altro dei suoi crudeli giochetti? Se lui fosse serio o no non lo sapevo, ma il vero problema era che io ero serissima. Non avevo un motivo da fornirgli affinché mi prendesse nella ciurma. Insomma, che dovevo dirgli? Che potevo dirgli? Di prendermi con sé perché ero bella? O perché ero intelligente? Forse se mi fossi inginocchiata ai suoi piedi e avessi fatto un po’ di moine avrebbe ceduto. No, no, non era il tipo...
Fece per andarsene e io non potei fermarlo. Provai a dire qualcosa, ma dalla mia bocca non uscì niente. Si richiuse la porta alle spalle e mi lasciò lì come un’ebete, come sempre. Mi sedetti sul mio letto improvvisato e cominciai a disperarmi. Che poi, non ce n’era nessun motivo! Io una ciurma con cui stare ce l’avevo, perché stavo a dannarmi così per far parte di una ciurma che non era nemmeno la mia “prima scelta”? E pensare che era stato lui a dirmi che ero l’anello debole e che dovevo trovare un’altra soluzione per non pesare su tutta l’alleanza! E ora che l’avevo trovata che faceva? Rifiutava la mia proposta. Dopo tutto ciò che avevamo condiviso. Dopo che mi ero aperta con lui, dopo che mi ero preoccupata per lui, dopo che...un momento. Sorrisi involontariamente. Mi venne l’illuminazione. Law era sempre stato un tipo riservato. Nessuno, tranne pochi, lo conosceva fino in fondo. Ma io si. O se non altro, lo conoscevo a sufficienza da poter usare i suoi punti deboli come ricatto. Perché io avevo letto la sua storia e in un certo senso l’avevo anche vissuta. Conoscevo buona parte dei suoi segreti e avrei potuto usarli contro di lui, se necessario.
Uscii sparata dalla porta dell’infermeria e lo andai a cercare. Dopo che ebbi gridato il suo nome un paio di volte, lo trovai all’ombra dell’albero maestro. Cominciavo a pensare che nemmeno lui volesse andarsene dalla Sunny.
«Ho trovato il motivo per cui dovresti accettarmi nella tua ciurma» annunciai con un sorriso spavaldo. Lui ghignò a sua volta, pronto ad ascoltare. Gli feci cenno di tornare in infermeria. Quella era una conversazione privata e tutti sapevano che la privacy su quella nave era praticamente inesistente. Quando fummo entrambi rientrati nella stanza e la porta fu chiusa, ricominciai a parlare.
«Non ho abilità particolari. Non sono forte, non sono agile, non sono un genio e non sono nemmeno un bravo medico, purtroppo. Non ho nulla da offrirti. Però posso distruggerti in un attimo»
«Fammi indovinare, vorresti scrivermi una lettera in cui mi dici quanto io sia spregevole?» fece sarcastico. Fortunatamente le sue parole non mi toccarono, il coltello dalla parte del manico ce l’avevo io.
«Quello forse lo farò dopo e te la farò recapitare direttamente nella tua stanza. Nel frattempo, però, è meglio se mi dai retta»
«Sentiamo»
«A meno che tu non voglia vedere la tua biografia e i tuoi segreti più intimi su tutti i giornali, ti conviene portarmi con te. Non prenderlo come un ricatto o come una minaccia. Prendilo come qualcosa che non mi farei nessuno scrupolo a fare. Per il bene dell'alleanza, ovviamente» lo dissi in maniera disinvolta, ma un po' provocatoria e sarcastica. lo dissi in maniera disinvolta, ma un po' provocatoria e sarcastica. Avevo trovato un altro talento. Ero brava a rigirare la frittata. Che finalmente Law si fosse accorto che le parole che mi aveva detto su Shogyoshima erano diventate un'arma a doppio taglio?
«Oppure potrei ucciderti e la questione finirebbe qui e ora» disse freddo, forse lo avevo infastidito
«Arriveresti ad uccidere una povera ed innocente ragazza pur di non darle ragione?» sorrisi, inclinai la testa da un lato ed alzai le sopracciglia
«Non sono sicuro che tu sia tanto innocente»
«Allora a maggior ragione dovresti prendermi nella tua ciurma!»
Si immobilizzò per un attimo. Per la prima volta da quando ero lì, il suo sguardo sembrava pensieroso. Avrei scommesso che stesse soppesando le mie parole e stesse stilando una lista di pro e contro che avrebbero comportato l’avermi nella sua ciurma. Strizzai leggermente gli occhi e lo studiai attentamente, anche se come al solito la sua espressione non lasciava trasparire nulla. Dopo un silenzio che mi sembrò pressappoco interminabile, parlò.
«Hai giocato bene la tua partita. Non sei così sprovveduta come credevo».
Alzai un sopracciglio e incrociai le braccia, cercando di incoraggiarlo a finire la frase.
«In tal caso suppongo di non avere altra scelta»."



Angolo autrice
Salve a tutti! Eccomi qui con un altro capitolo, il decimo. Proprio nello scrivere questo decimo capitolo ho voluto provare una cosa nuova: il flashback. Spero di essere riuscita ad utilizzarlo al meglio o comunque di non aver fatto proprio schifo. :D Se vi va fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione! :) Ovviamente sono anche curiosa di sapere la vostra opinione su questa piega inaspettata che hanno preso le cose!
Grazie e alla prossima!
 

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Capitolo 11
*** Annuncio ***


«Cosa!? Perché te ne vai con Law? Non vuoi stare con noi?» gridò Rufy
«No Rufy...ragazzi, non fraintendetemi» cercai di giustificarmi al gruppo
«E allora perché non rimani qui?» chiese Nami un po’ delusa e contrariata. Non era così facile rispondere. Anzi, non lo era affatto. Non potevo mica dir loro che lo stavo facendo perché non volevo essere d’intralcio. Conoscendo tutti, mi avrebbero sicuramente detto che non importava e di rimanere con loro. Ma purtroppo a qualcun altro importava. Non sarei stata così meschina da addossare la colpa a Law, anche perché non aveva tutti i torti. Avrei semplicemente spiegato che i miei sogni erano diversi dai loro e che per questo credevo fosse meglio andare con i pirati Heart.
Stavo per iniziare a parlare, nella speranza che avrei saputo rispondere a tutte le domande con cui mi stavano tartassando, quando qualcuno sovrastò la mia voce. Il sangue mi si gelò nelle vene. Era Law. Chissà che avrebbe detto, avrebbe potuto rovinare tutto! Pregai con tutte le mie forze che non si mettesse a raccontare della nostra conversazione e soprattutto che non si mettesse a rivelare il vero motivo per cui avevo fatto quella scelta.
«Mugiwara-ya» esordì «non ti preoccupare. È sotto la mia protezione, ora è un membro del mio equipaggio. È stata Camilla a chiedermi di prenderla nella mia ciurma cosicché potesse diventare un’infermiera. Le insegnerò l’arte della medicina e sarò responsabile per lei».
Alle sue parole rimasero tutti di sasso. Io rimasi letteralmente a bocca aperta. Lo aveva detto sul serio? Quanto avrei voluto avere con me un registratore. Era uno di quei momenti più unici che rari. Era una dichiarazione. Una dichiarazione che spiazzò tutti. Il chirurgo della morte stava praticamente affermando che si sarebbe preso cura di me.
Rufy, dopo un primo momento di stupore, si alzò in piedi con fare deciso.
«E va bene» poggiò le mani sul tavolo «se le cose stanno così, non posso che lasciarti andare, Cami» sorrise e guardò prima me e poi Law «Traffy, mi fido di te. So che manterrai la tua parola. Con te è al sicuro».
Il capitano dei Pirati Heart asserì. Sanji si avvicinò a lui e lo minacciò che se non mi avesse trattato bene ci avrebbe pensato lui a fargli passare una brutta giornata. Non potei fare a meno di ridere e di essere grata al mio cuoco preferito. Beh, ero grata a tutti loro. Per quanto incredibile potesse sembrare, ero grata perfino a Law.
«Direi che a questo punto dovremmo fare una festa d’addio» intervenne Zoro, che ottenne il consenso di tutti.
«Assolutamente sì! A proposito, quando partite?» chiese la rossa
«Domani, in tarda mattinata. Le riparazioni del sottomarino sono state ultimate e i rifornimenti sono stati fatti. Non c’è motivo di trattenersi» spiegò il chirurgo. Quella risposta mi causò non poca tristezza. Non sapevo se ero davvero pronta a separarmi dalla mia ciurma preferita. Ma cercai di non lasciare spazio ai brutti pensieri. Se quello doveva essere il mio ultimo giorno su quella nave, sarebbe stato memorabile e soprattutto felice. La festa iniziò subito e si protrasse fino a tardi. Come al solito non mancarono alcol, musica, baldoria e risate. Cominciavo a pensare che non ci sarebbe stato tutto questo sul sottomarino di Law. Ne avrei sentito la mancanza? Certo. Ma dovevo pensare che stavo andando verso qualcosa di meglio, verso qualcosa che mi piaceva fare. Volevo diventare un’infermiera sin da quando avevo sei anni e ora potevo farlo. E non solo, potevo imparare dal migliore. Il quale aveva detto velatamente – molto velatamente – che si sarebbe occupato di me. Ero in una botte di ferro, come quella che si stava tracannando Zoro senza ritegno.
 
Era sera tardi e mentre Nami barcollava sul ponte della Sunny e Rufy, Usop e Chopper ballavano a braccetto, io mi congedai. Seppur felice, ero stanca e dovevo ancora fare la valigia. Se così poteva chiamare, dal momento che non avevo una valigia. Durante il breve soggiorno a Shogyoshima non avevo considerato l’eventualità che me ne potesse servire una, perciò Robin mi aveva gentilmente prestato una sacca dove poter stipare tutta la roba che avevo. Ci misi un’ora per fare mente locale di tutto ciò che dovevo prendere e infilarlo nella borsa. Avevo appena finito e mi ero seduta sul bordo del lettino a scorrere le foto nella galleria del cellulare, soffermandomi su una foto che avevo fatto con i miei migliori amici, quando Rufy la valanga entrò.
«Ehi! Ma nemmeno ci saluti!?» gridò
«Cosa?» feci confusa
«Nemmeno ci saluti!? Dopo tutto questo tempo che abbiamo passato insieme, te ne vai senza salutare!?»
«Oh, no! Certo che no! Avevo intenzione di salutarvi tutti come si deve domani mattina al momento della partenza» spiegai
«Ah. Allora va bene, buonanotte Cami! A domani!»
Sorrisi. «Buonanotte Rufy, a domani». Nel pronunciare quelle parole realizzai che quella sarebbe stata l’ultima volta che glielo avrei detto. Mi pervase un lieve senso di tristezza, ma cercai di non pensarci. In fondo, dal giorno dopo lo avrei detto a qualcun altro, qualcuno altrettanto degno di stima.
«Cami! Dammi la tua cintura! E anche la tua arma!» Usop aveva aperto la porta
«Perché?» chiesi, leggermente terrorizzata che ne sarei stata privata ora che me andavo
«Tu dammele!» fece impaziente. A quel punto, controvoglia dovetti consegnargliele.
«Tieni, sono tutte tue»
«Grazie!» esclamò e fece per richiudere la porta, quando ci ripensò «Cami»
«Si?»
«Mi dispiace che te ne vai! Pensavo di aver trovato una compagna di fuga!»
Sorrisi e poi risi.
«Dispiace molto anche a me» dissi con una punta di amarezza
«E allora perché ci lasci?»
Bella domanda. Non avevo una risposta. Sapevo solo che dovevo farlo.
«Forse è meglio così» alzai le spalle e feci un’espressione sconsolata. Per fortuna il cecchino capì al volo e dopo avermi augurato la buonanotte, se ne andò.
Fu così che rimasi da sola con i miei pensieri. Era pericoloso, molto pericoloso, lasciarmi in balia delle mie riflessioni. Chissà cosa avrei potuto fare. Magari avrei cambiato idea. Ero ancora in tempo per farlo, no? No. Sarei salpata con i pirati Heart e avrei fatto ciò che c’era da fare. Fu con questo pensiero che mi addormentai, stremata dalla giornata impegnativa che avevo trascorso.
 
La sveglia del telefono suonò, facendomi emettere un mugolio lamentoso e piuttosto grottesco. Controllai l’ora con un occhio aperto e uno chiuso. La luce del cellulare mi investì in pieno e ne rimasi folgorata. Erano le otto. Presto. Troppo presto per me. Ma dovevo alzarmi e finire di fare quello che c’era da fare. Mi crogiolai nel letto ancora per qualche minuto, per poi decidermi a scostare le coperte e a mettermi seduta sul bordo del letto. Era ancora semi-buio e io ero ancora in dormiveglia, ma squadrai ogni singolo angolo dell’infermeria. Era una bella stanza, calda e accogliente, proprio come Chopper. Dal momento che era una delle ultime volte che l’avrei guardata, me la volli assaporare come si doveva. Passati dieci minuti e passato il sonno, mi alzai in piedi. Raccattai le ultime cose e le misi nella borsa, poi tirai un sospiro di sollievo.
Proprio in quel momento, entrò il cecchino che, come una furia, spalancò la porta.
«Cami! Sono venuto a ridarti la cintura!» esclamò facendola penzolare dalla mano.
Devo ammettere che mi spaventò un po’. Mannaggia a lui. Mannaggia ai mugiwara e alla loro esplosività. Notai subito che la cinta metallica aveva qualcosa di diverso, ma a dirmi cosa era cambiato ci pensò Usop.
«Io e Franky ieri sera abbiamo fatto alcune modifiche. In questo modo potrai portare la tua arma sempre con te!».
Si riferiva al porta arma metallico che avevano annesso alla cintura.
«Oh, è fantastico, grazie!»
«Non ringraziarci, l’abbiamo fatto con piacere» disse, poi dalla tasca tirò fuori qualcosa.
«È un bracciale magnetico. Se premi il pulsante nero attivi una calamita che ho inserito all’interno del bracciale per richiamare la tua “Mr. Smee”» calcò sul nome dell’ascia con quello che mi parve un po’ di disprezzo «Ne ho inserita una anche nell’arma. Quella non avrai bisogno di attivarla. Ho fatto in modo che fosse sempre pronta all’uso» mi sorrise e mi consegnò il bracciale. Era fatto dello stesso materiale di cui era fatta la cintura e, come essa, era color argento. Il pulsante nero spuntava dalla superficie liscia al tatto. Mi accorsi che vi era anche una sorta di legenda con tutti i colori dei pulsanti e la corrispondente funzione dell’ascia che si sarebbe attivata premendoli.
«Sì, è una legenda. Ho pensato che almeno per i primi tempi ti sarebbe potuta servire»
«Hai fatto benissimo. Sappiamo entrambi quanto sbadata io possa essere e sappiamo anche che il campo di battaglia non perdona».
Annuì e solo in quel momento notai che all’interno del bracciale vi era inciso qualcosa. Era il jolly roger dei pirati di cappello di paglia.
«Ti piace? L’ho fatto incidere da Franky, così potrai averci sempre con te senza che nessuno se ne accorga» mi fece l’occhiolino e io non potei fare a meno di illuminarmi di gioia. Durante la permanenza con loro avevo presto imparato che non servivano tante parole, erano i gesti che contavano. Per cui mi alzai dal lettino su cui ero ancora seduta e senza dire una parola abbracciai Usop. Lui, dopo un primo istante di sorpresa, fu ben felice di ricambiare l’abbraccio. Dopo qualche secondo cominciò a darmi lievi pacche – probabilmente di incoraggiamento a staccarmi – sulla schiena.
«Usop!» una voce arrabbiata ci fece sussultare e voltare in direzione della porta. Sanji vi era arpionato, paonazzo. Subito il cecchino si distanziò da me e portò le mani all’altezza del viso, in segno di resa. Misi le mani sui fianchi ed alzai gli occhi al cielo. Volevo porre fine a quella assurda situazione prima che si trasformasse in un funerale. In cuor mio speravo che il biondo non trovasse mai una fidanzata o sarebbero stati cavoli amari per chiunque le si fosse avvicinato a meno di un metro. E poi eravamo noi ragazze quelle gelose.
«Non starai toccando con le tue mani luride la mia Cami!?»
Prima che il moro potesse rispondere mi avvicinai al cuoco e cominciai a rivolgergli lo sguardo più dolce che potessi fare.
«Sanji» dissi in tono mellifluo prima di accarezzargli una guancia «è tutto a posto.» gli sorrisi e lo abbracciai. Lui quasi si sciolse. Cominciò a balbettare parole a caso. Per quanto non volessi ammetterlo, quell’abbraccio serviva anche a me. Era forse uno degli ultimi che gli avrei dato e ne avevo davvero bisogno. Mi sarebbero mancati molto. Quando ci allontanammo cominciò a volteggiare come una trottola per tutto il ponte, facendomi aggrottare la fronte dalla perplessità. A certe scene non ci si abituava mai; anche se era già tanto se non aveva avuto un’epistassi. Usop, poco dietro, era perplesso almeno quanto me. Quando finalmente ebbe finito, si fu ricomposto, ebbe rimesso i pensieri a posto ed ebbe riacquistato la capacità di parlare, mi invitò gentilmente a fare colazione insieme al resto della ciurma. Accettai con piacere.
 
La colazione scorse briosamente, come mi aspettavo. Non mi accorsi del tempo che scorreva perché mi persi in chiacchiere. Nami mi chiese un po’ di cose riguardanti il mio mondo e io cercai di rispondere a tutte le domande che mi faceva. Poi, quando ebbi finito di parlare, mi misi ad ascoltare i racconti dei mugiwara. O meglio, alcuni frammenti dei racconti, dal momento che parlavano tutti insieme e si capiva poco o nulla. Questo clima di allegria che li avvolgeva sempre e da sempre sarebbe stato capace di mettere di buonumore chiunque. A casa mia l’unico rumore che si sentiva a tavola era la tv. Spesso nemmeno facevo colazione insieme alla mia famiglia, tra la vita frenetica che conducevamo tutti. Invece qui era diverso. Sebbene le cose fossero più movimentate, c’era più calma. Quasi come se tutto andasse a rallentatore. La confusione a molti sarebbe risultata fastidiosa, ma per me era un alito di vita. Mi chiesi se sarebbe stato così anche con i pirati Heart.
«Che lo finisci quello?» chiese Zoro indicando un onigiri e distogliendomi dalle mie riflessioni
«No, no, prendilo pure» risposi, dopo che ebbi focalizzato la domanda
«Sai, conviene averti nella ciurma» fece Rufy con la bocca piena «Sanji cucina di più, tu mangi di meno e c’è più cibo per noi» rise, seguito da tutti. Non aveva tutti i torti. Quel giorno non avevo quasi toccato cibo – giusto una fetta di pane tostato – forse per l’agitazione che mi metteva la partenza.
«Ehi, marimo! Non togliere il cibo di bocca alla dolce Cami!»
«Stai zitto torciglio. È stata lei a dirmi che potevo finirlo.».
Prima che me ne accorsi, scoppiò un’altra lite tra il cuoco e lo spadaccino.
«Con permesso» mi congedai da tavola. Non avevo voglia di stare ad assistere all’ennesimo battibecco di quei due, non le mie ultime ore su quella nave.
Quando uscii sul ponte il calore del sole mi avvolse completamente. Mi sedetti sul prato, mi tolsi le scarpe e lasciai che ancora una volta l’erba solleticasse i miei piedi. Poi chiusi gli occhi, alzai la testa e allargai leggermente le braccia. Un piccolo sorriso si stava facendo strada tra le mie labbra.
«Ti mancherà» disse una voce proveniente dalle mie spalle. Non mi girai subito, non c’era bisogno di guardare per sapere chi fosse.
«Assolutamente sì. Così come mi mancherà l’esplosività di Rufy, la cucina di Sanji, i racconti di Usop, le battute e la musica di Brook, le feste e tutto il resto della ciurma. Ma queste cose non sono niente in confronto al privilegio di assistere ad una tua accurata lezione su come sezionare cadaveri in una cella frigorifera»
Sbuffò una risata. «Sei sicura che non lo stai facendo perché non vedi l’ora di sentire le lamentele del mio orso polare che soffre il caldo?»
«Ah, quasi mi dimenticavo di lui!» risi e poi mi girai verso Law «In tal caso per fortuna che c’è la cella frigorifera» lo guardai negli occhi sorridendo quasi provocatoria e lui ricambiò il sorriso.
Tutto sommato forse mi sarebbe piaciuto fare parte del suo equipaggio.

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Capitolo 12
*** Saluti ***


«Non vorrei rovinare questo tuo momento catartico, ma tra poco è ora di andare» fece Law; e sebbene non lo disse in modo duro, alle sue parole provai una morsa allo stomaco. Feci un respiro profondo e annuii, fissando l’orizzonte dritto davanti a me ed evitando così di guardare il mio futuro capitano in faccia. Sentii i suoi passi e capii che se ne stava andando, lasciandomi agli ultimi momenti di contemplazione. Squadrai la Sunny da cima a fondo, cercando di imprimermi nella mente ogni singolo dettaglio di quella nave spettacolare. L’avevo vista un sacco di volte, era vero, ma mai dal vivo e non potevo perdermi un’occasione come quella. Quante persone potevano dire di esserci state? La mia paura, però, era che con il tempo i miei ricordi sarebbero sbiaditi. Fu così che mi venne l’idea di fotografarne con il telefono ogni angolo, per portarla sempre con me. Quella imbarcazione era scolpita nel mio cuore, così come tutto il suo equipaggio e la sua predecessora, la Going Merry. Non so per quanto tempo rimasi immobile sul ponte dopo aver scattato le foto. Per me avrebbero potuto essere anche anni. Anzi, avrei potuto anche morirci, lì. Si stava così bene, mi sentivo così in pace. Quasi istintivamente guardai il cielo, in cerca della Seconda Stella a Destra, nonostante fosse mattino. Avrei tanto voluto chiederle se sarei stata altrettanto bene con i pirati Heart. Avrei voluto chiederle molte cose, a dire la verità. Tutta quella situazione incerta mi stava tormentando da giorni ormai. Affondai la faccia tra le mani, prima di passarmele sul viso, quasi a sciacquare via tutta l’ansia che mi era nata in quei giorni e si era accumulata sempre di più.
«Non oserai andare via senza salutare, vero?»
Mi girai di scatto. Dietro di me, appoggiato alla ringhiera, c’era Sanji.
«Ci spezzeresti il cuore, Cami-san. Anche se io, il cuore non ce l’ho! Yohohoho»
Un po’ più indietro rispetto al biondo, c’era Brook.
Prima che avessi il tempo di rispondere, il cuoco scese le scale con la sua solita grazia e mi fu accanto. Mise il braccio sinistro dietro alla schiena, mentre si portò la mano destra all’altezza della spalla, tesa verso di me con il palmo all’insù.
«Mi concederesti un ultimo ballo?» chiese, tutt’altro che ironico
«Sai che sono una pessima ballerina» sorrisi un po’ mortificata; ma vedendo il modo in cui mi guardava, non potei fare altro che sovrapporre la mia mano alla sua e lasciarmi condurre, da lui e dal suo passo deciso, al centro della “pista”. Ci voltammo uno verso l’altra e lui mi cinse la vita. Aveva una presa salda, sicura, ma allo stesso tempo delicata. Brook cominciò a suonare e noi iniziammo a muoverci. Dopo due o tre passi, mi bloccai. Rimasi di sasso quando sentii le prime note emesse dal violino. Guardai lo scheletro, più interdetta che mai.
«Ma come...? Come...come può? Chi...»
«Non te ne preoccupare, adesso» Sanji mi riportò nella posizione in cui eravamo prima e mi sorrise. Io ero ancora incredula. Com’era possibile che Brook stesse suonando “My heart will go on”? Come faceva a conoscere il brano se non l’aveva mai sentito prima?
Per un po’ continuammo a ballare, ma poi mi fermai di colpo e mi scrollai delicatamente le sue braccia dal corpo.
«No, no, aspetta. Non posso continuare se non mi dici come avete fatto. La questione mi tormenterà giorno e notte altrimenti.»
Sospirò. «Non riesci a goderti un semplice ballo senza farti mille domande?»
Scossi la testa. La “vecchia Cami” voleva avere una risposta. E proprio come risposta, il biondo mi avvicinò a sé e quando fummo abbastanza vicini mi sussurrò: «è stato l’ultimo film che abbiamo visto nel tuo mondo. Quella sera dovevamo tornare a casa e tu eri distrutta. Non abbiamo finito di vederlo e ho pensato che se ne avessi avuto l’occasione, avrei potuto darti io un finale, magari un ballo. Quindi ho cercato di memorizzare come meglio potevo la melodia della musica e poi l’ho canticchiata a Brook. Il resto l’ha fatto lui, d’altronde è lui il genio quando si parla di queste cose.»
Non sapevo che dire. Ero...ero senza parole. Proprio perché nessuno parlava, mi accorsi che c’era più silenzio di quanto ce ne dovesse essere. Con la coda dell’occhio notai che Brook aveva smesso di suonare. Sanji mi guardò, poi rivolse un’occhiata allo scheletro e annuì. Il violino riprese a suonare.
«Ora che hai tutte le risposte che cercavi, goditi questo ballo e questa composizione personalizzata»
«Grazie Sanji, grazie di cuore» lo dissi quasi commossa.
«Oh, non c’è di che mia bella Cami!» iniziò a fare moine e a volteggiare per tutto il ponte. Mi misi le mani sui fianchi, scuotendo la testa sconsolata. Non c’era verso di farlo cambiare. In fondo, era meglio così. Era questo che lo contraddistingueva.
«Che devo fare, Cami-san?» dall’alto Brook osservava la scena, chiedendosi e chiedendomi se fosse il caso di continuare a suonare.
Acchiappai Sanji al volo, gli diedi un paio di schiaffi non troppo violenti e quando si fu totalmente ripreso dal delirio di cui era stato preda, ricominciammo a ballare.
Fu meraviglioso. La prima volta che avevamo danzato, nel soggiorno dell’appartamento che avevo rimediato per loro, quando io ero febbricitante, non era quasi niente a confronto. Questa volta fu diverso. Sanji mi fece volteggiare, mi sollevò in aria come se fossi la cosa più leggera di questo mondo e fu così bravo da riuscire a guidarmi in un altro luogo. Fu quasi come essere sul Titanic, nella sala da ballo della terza classe. Sorridevo. Avevo sorriso per tutta la durata della danza improvvisata. Ma il mio non era il sorriso di una persona felice o gioiosa. Era il sorriso di una persona che era in pace con se stessa. Talmente in pace con se stessa che quasi non si sarebbe accorta che la musica che stava suonando il suo violinista preferito si discostava un po’ dall’ originale. Forse, però, quella era una melodia ancora migliore.
«La musica è di tuo gradimento?» mi chiese il biondo mentre mi faceva fare una giravolta
«Assolutamente. È anche meglio di quanto non fosse l’originale» risposi in totale estasi prima di abbandonarmi all’indietro con la schiena.
Quello era il finale perfetto per un film fino a quel momento perfetto. Avrei tanto voluto che la mia storia fosse finita così, con un ballo romantico accompagnato da un’armonia meravigliosa, sul ponte di una nave. Ma quella non era la fine. Era soltanto l’inizio. Non ero nemmeno sicura che le “avventure” che avevo avuto fino a quel momento si potessero chiamare propriamente tali. Fossero degne di chiamarsi tali. Questo era tutto quello che sapevo e tutto quello a cui pensai mentre, ad occhi chiusi, Sanji mi faceva fare un casquet.
Qualcuno si schiarì la voce. Aprii gli occhi di scatto. Solo in quel momento mi accorsi che Brook aveva smesso di suonare. Ero a testa in giù, ma potevo vedere benissimo nove persone che ci osservavano perplesse. Mi tirai su di scatto, appena un istante prima di diventare rossa come un peperone. Per istinto, mi nascosi dietro al cuoco, che più che imbarazzato sembrava alquanto infastidito.
«Hai fatto conquiste, eh, cuoco di merda?» soffiò lo spadaccino
«Come hai detto stupido marimo!?» ringhiò il biondo in risposta. Non ci volle molto prima che i due si misero a battibeccare come loro solito, ma stavolta il litigio durò poco.
«Aspetta un momento...hai ragione testa di muschio! Ho fatto conquiste! Ho conquistato la meravigliosa Cami-chan!».
 
Brook fu il primo che salutai. Mi chiese se poteva vedere le mie mutandine e per quanto assurdo potesse sembrare, decisi di regalargliene un paio di quelle che avevo acquistato il giorno prima e che di conseguenza non avevo mai messo. Fu felice come una Pasqua. Poi passai a Franky. Erano tutti allineati in fila e mi sembrava una processione, oltre che una tortura.
«Generale Franky»
«Sorella»
Abbandonai per un attimo la serietà – che non mi aveva mai contraddistinto ma che il momento richiedeva – e feci la posa che faceva sempre il cyborg, quella con gli avambracci uniti.
«Super!» esclamai io
«Super!» gridò lui in tutta risposta, mettendosi in posa.
Mi chinai per salutare la piccola renna, nella cui espressione percepivo un po’ di commozione. Mi regalò la sua bottiglia di latte, confidandomi che se avessi ritenuto avrei potuto berne un sorso ogni volta che mi fossi sentita triste. Mi rivelò che non c’era male che un bel sorso di latte non potesse curare. Io la accettai volentieri, sebbene il latte non mi facesse impazzire. Avevo paura che mi ci sarebbe voluto ben altro per farmi sentire meglio.
Poi toccò a Robin e Nami. La prima mi rivolse un sorriso gentile ed eloquente. Mi salutò con grazia ed eleganza ed anche con un pizzico di formalità. Come biasimarla, del resto erano solo pochi giorni che ci conoscevamo. Però sentivo che tra di noi si era creato un legame di affetto. La rossa invece, fu molto più informale e mi gettò le braccia al collo.
«Ci mancherai, Cami» disse. «Cerca di tenerti fuori dai guai, ok?»
Mi limitai a stringerla forte e a sussurrarle un “anche voi”. Non ero nelle condizioni di parlare molto in quel momento.
Mi ritrovai davanti ad Usop, che mi guardava un po’amareggiato.
«Abbi cura della tua Mr. Smee. Se imparerai ad usarla bene, ti salverà la pelle tante volte»
Quasi istintivamente portai la mano all’ascia che il cecchino e il carpentiere avevano costruito per me con tanta cura. Poi guardai il bracciale che mi era stato dato poco prima. Annuii con convinzione e gli dissi di non preoccuparsi. Decisi di rompere il silenzio solenne che seguì.
«Questa volta non ho particolari raccomandazioni da darti, Usop. Solo...scappa finché puoi!» alzai le spalle e ridemmo insieme. Ci battemmo il cinque. La stretta di mano che venne dopo fu vigorosa, quasi ad indicare la stretta di un patto.
Sospirai, consapevole che da quel momento mi sarebbe aspettata la parte più difficile.
«Ehi Cami. Insegui i tuoi sogni» Rufy mi sorrise, con lo stesso sorriso puro e meraviglioso che mi faceva innamorare ogni volta di quel volto vispo e allegro.
«E se non hai un sogno, cerca di capire cosa desideri e combatti per esso» fece Zoro, serio come al solito ma allo stesso tempo sorridendo quasi provocatoriamente. Li abbracciai entrambi senza pensarci due volte. In fondo loro erano i miei ragazzi. Quelli che avevano vissuto in casa mia, nel mio mondo, con me, per un mese. Il loro fu un saluto veloce ed abbastanza indolore, ma carico di significato.
«Principessa» disse Sanji
«Principe» replicai
«La sua carrozza la attende»
«La mia carrozza mi attende» gli feci eco io, con una punta di malinconia nella voce. Ci abbracciammo. Fu uno di quegli abbracci caldi ed eterni, carichi di sentimento. Niente in confronto a quello che avevamo avuto poco prima.
«Proteggi i tuoi sogni, Cami. Non permettere a nessuno di portarteli via. Capito?» mi sussurrò mentre ci stringevamo. Non pensavo che sarebbe stato così con lui. Pensavo sarebbe caduto in depressione perché una bella ragazza se ne stava andando o che magari durante gli ultimi saluti avrebbe avuto un’epistassi o addirittura che avrebbe minacciato Law. Ma questo andava oltre ogni mia previsione. Mi piacque molto, però. Anche se in parte avevo ragione, perché quando si staccò da me – controvoglia – lanciò un’occhiata eloquente al chirurgo, che parve recepire, sebbene penso non ne fosse affatto intimorito. E solo in quel momento mi accorsi che una piccola barca ormeggiata alla Sunny ci aspettava in acqua. Mi prese un po’ di angoscia.
«Oh, al diavolo» sibilai, e mi apprestai a scavalcare la ringhiera per raggiungere la scialuppa. Qualcuno mi acchiappò al volo.
«Dove credi di andare? Ti aspetta un abbraccio di gruppo ora. Vero, ragazzi?»
Si riversarono su di me con tanta foga che quasi mi sembrò un assalto. Risi. Risi di gusto per quella dimostrazione d’affetto. Ripensai all’ultimo abbraccio di gruppo. Era stato triste e bello allo stesso tempo, come questo. Ma stavolta c’era qualcosa di diverso. Era più confortevole e forse c’era la consapevolezza che questa volta difficilmente ci saremmo rivisti. Non che la prima volta non ci fosse stata. Insomma, quante possibilità c’erano? Una su un milione? Eppure questa volta avevo davvero l’impressione che saremmo rimasti separati, se non altro per lungo tempo. Ma quell’abbraccio era anche carico di speranza. La speranza che un giorno ciascuno di noi avrebbe realizzato il proprio sogno e che ci saremmo rivisti.
Quell’abbraccio mi infuse forza e mi diede coraggio. Mi fece fissare nella mente un obiettivo da raggiungere e mi elargì la determinazione per portarlo a termine.
 
Il tragitto per arrivare al sottomarino giallo di Law, per quanto breve, mi sembrò interminabile. E in parte desideravo che lo fosse. Non ero sicura di essere pronta per tutto quello che mi avrebbe aspettato. Ma in fondo, chi mai lo è?
«Saresti stata quella con la testa di Jack in mano, eh?» fece sarcastico quello che era appena diventato il mio nuovo capitano, riferendosi alla conversazione che avevamo avuto sull’isola su cui eravamo sbarcati il giorno prima.
Feci spallucce. «Ammetto di aver esagerato un po’, ma ero arrabbiata. Mi avevi fatto infuriare»
«Sono sicuro che avrai numerose occasioni per tagliare la testa a qualcuno. Di qualsiasi testa si tratti, sarò ben felice di aggiungerla alla mia collezione personale».
Devo ammettere che rimasi leggermente inorridita da quel pensiero. Cercai di scacciarlo via, consapevole che a breve mi avrebbero aspettato dissezioni di cadaveri e altre terribili mansioni.
«Pensavo che tu prediligessi i cuori» dissi, lasciandolo interdetto per un attimo. Poi, dal momento che eravamo arrivati al sottomarino, aggiunsi: «prego, prima il capitano». E fu con queste parole che cominciò la mia nuova avventura.

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Capitolo 13
*** Nuovo inizio ***


Quando misi piede sul sottomarino di Law per la prima volta, mai avrei potuto immaginare ciò che mi aspettava. Il chirurgo mi aiutò a scendere dalla barca tendendomi la mano. Quando mi girai verso la nave dei mugiwara strinsi gli occhi per vedere meglio. In lontananza mi parve che stessero tutti a guardare il mio nuovo inizio su quel sommergibile e che mi salutassero. Nel dubbio, scossi la mia mano in segno di saluto. Decisi di imprimermi bene quella scena nella mente e nel cuore.
Tutta la ciurma, composta da venti uomini, dei Pirati Heart si era radunata sul ponte.
«Capitano! Finalmente ci hai portato un’altra ragazza nell’equipaggio!» fece quello che riconobbi essere Penguin. Il suo amico Shachi annuì compiaciuto. Non sapevo come comportarmi. Tutti mi fissavano, forse in attesa che dicessi qualcosa.
«Ciao» cominciai «io sono Camilla. Ma chiamatemi pure Cami» dissi, incerta. Ci furono attimi di silenzio che mi parvero interminabili. «Anche se alcuni di voi credo che lo sappiano già, visto che mi avete già conosciuta durante la festa di qualche giorno fa, sul ponte della Thousand Sunny» proseguii poi, decisa a terminare quel momento fatto di quiete imbarazzante.
«Cami, giusto» proclamò poi Penguin, come se stesse soppesando quel nome e ricordandosi di me. «Mi piace» da sotto il cappello potei vedere il suo viso aprirsi in un largo sorriso.
«Beh, Cami, benvenuta a bordo!» esclamò il compagno che lo aveva appoggiato poco prima.
«Grazie!» la mia voce un pochino stridula tradiva la mia emozione.
«Non fare caso a questi idioti. Possono essere fastidiosi, ma ti garantisco che sono innocui» una figura minuta si fece largo tra la folla.
«Io sono Maya, molto piacere» una ragazza dalla pelle color caramello, gli occhi color cioccolato fondente, il naso alla francese e i capelli ricci, abbastanza corti e folti, mi si parò davanti con uno smagliante sorriso e la mano tesa. La strinsi debolmente.
«Tanto per la cronaca, sono contenta che ci sia un’altra donna nell’equipaggio. Cominciavo a sentirmi un po’ sola. Law ha fatto bene a dirti di venire!» continuò lei vedendo che io non spiccicavo parola. A quella sua esclamazione io e Traffy ci scambiammo un’occhiata fugace. Dovetti sforzarmi per non scoppiare a ridere davanti a tutti i suoi sottoposti. Se avessero saputo che lo avevo incastrato...a pensarci bene, avrei potuto ricattarlo ancora con quella storia. Gli avrei potuto chiedere di avere dei privilegi in cambio del mio silenzio. Comunque, fino a quel momento ero stata così presa dal cercare di apparire normale davanti alla ciurma di Law, che non mi ero accorta che il tempo era cambiato. Non c’era più il sole ma solo una vasta distesa di nebbia. Mi girai freneticamente in cerca della Sunny, ma non ce n’era traccia. Fui presa da un momento di panico misto a sconforto. Fu come se tutte le mie sicurezze fossero crollate nel preciso istante in cui i miei occhi non avevano trovato l’imponente nave. Presi un profondo respiro nel tentativo di calmarmi e di non far vedere a tutti la mia agitazione e il mio malessere. Una mano dalle lunghe dita affusolate si strinse decisa attorno al mio braccio, riportandomi alla realtà e facendomi in parte calmare. Rimasi a fissarla più a lungo di quanto avessi voluto.
«Ti mostro la tua stanza» annunciò il mio capitano. Senza aspettare risposta, fece una leggera pressione sul braccio affinché lo seguissi. Non obiettai e mi lasciai condurre, sotto lo sguardo vigile di tutti.
 
Osservavo con meticolosità tutti i particolari dei corridoi angusti – ma non troppo – del sottomarino. Erano piuttosto grigi e spogli, come mi aspettavo che fossero. Avevano un’aria solenne, non come un edificio antico dalle ampie volte e dalle decorazioni rifinite, ma come un luogo dove si salvano vite o dove si fanno ricerche mediche di estrema importanza. E probabilmente proprio per questo sui muri non vi era una crepa e sul soffitto non c’era alcun segno di qualche infiltrazione d’acqua. Giurai perfino che sul pavimento ci si potesse mangiare da quanto era pulito. Gli interni del sommergibile rispecchiavano il modo di essere di Law. Freddo, impersonale e spento, ma impeccabile ed ineccepibile.
«Da adesso in poi scordati qualsiasi soprannome con cui tu mi abbia mai chiamato. Per te, come per il resto dei miei sottoposti, io sono il Capitano» calcò sull’ultima parola quasi fosse una questione di vita o di morte. Beh, forse per me lo era...
«Bepo ti spiegherà tutte le altre regole da rispettare e ti consegnerà la divisa»
Mi fermai di colpo e lasciai cadere il borsone con i miei effetti personali sul pavimento.
«Divisa? Quale divisa?» il mio sguardo era bieco. Poi d’improvviso mi ricordai.
«No. No, no. Non esiste. Io quella cosa non me la metto. Non sono né un’apicoltrice, né una disinfestatrice, né tantomeno una carcerata. Non intendo indossare quella trappola infernale fatta tuta. Mai e poi mai.»
Il chirurgo della morte non si era fermato. «Come te la cavi con il nuoto?» chiese.
«Nuoto?»
«Se parti adesso, potresti raggiungere Mugiwara-ya in cinque ore, al massimo.»
Buttai fuori un sospiro rassegnato e sibilai un “ti odio” così a bassa voce che a malapena mi sentii io.
In poco tempo arrivammo alle cabine. Ne passammo una decina prima di arrivare in fondo al corridoio. Eravamo arrivati all’ultima porta a sinistra. Il pirata la aprì. La stanza che mi si presentò davanti era una singola.
«Sei stata fortunata. Per il momento c’è questa cabina singola disponibile» mi annunciò.
Era abbastanza spaziosa per essere una singola. Al centro vi era il letto, con le lenzuola rigorosamente grigie e bianche, proprio come i muri. A vederla pervadeva un certo senso di tristezza. Accanto al letto, sulla destra, c’era un comodino in mogano, alto e con tre cassetti. Sopra di esso c’era una abat-jour che illuminava fiocamente il resto della stanza. Schiacciato lungo la parete destra c’era l’armadio, anch’esso grigio. Lungo la parete opposta, invece, c’era un piccolo scrittoio accompagnato da un’altrettanto piccola lampada. Allungai la testa per capire se la cabina fosse finita lì, ma ancora non avevo visto il bagno, la cui porta d’ingresso era situata accanto alla scrivania. Non era molto grande, ma lo era abbastanza per farmi sentire a mio agio. Per di più era pulitissimo. Comprendeva un water, un lavandino, una doccia e un mobiletto a specchio per i medicinali. Non c’era il bidet ma avrei potuto farne a meno. Non pensavo di poter avere il privilegio di avere un bagno privato. Avrei detto che finora la sistemazione mi andasse più che bene. C’era un’unica pecca: non c’erano finestre. Gli unici sprazzi di luce, oltre alle due lampade, provenivano da un oblò situato sopra al tavolo.
«Da questo momento fino a nuovo ordine, questa è la tua stanza. Puoi gestirla come ti pare, ma dovrai averne cura» si pronunciò Law, calmo e serio come suo solito. «Vedi di non affezionartici troppo».
Questo poteva essere un problema. Io non sapevo nemmeno come si rifacesse un letto. Cercai di non scoraggiarmi. Avrei avuto tempo e modo di imparare tutto quello che c’era da imparare sulle faccende domestiche. Prima che me ne accorsi, il chirurgo si era già avviato alla porta.
«La chiave non c’è, vero?» chiesi io, nella speranza che in realtà ci fosse
«Non siamo più nel tuo mondo» mi rispose lui «ma non temere, i miei uomini sono educati. Busseranno» lo disse quasi con disprezzo.
«Il pranzo è alle tredici. La cena alle venti» aggiunse, prima di chiudersi definitivamente la porta alle spalle. Fissai il punto in cui era scomparso a braccia larghe e sguardo attonito. Una prigione. Ero finita in una prigione. Mannaggia a quello stupido medico.
 
Prima che me ne accorgessi fu l’ora di pranzo. Uscii dalla mia camera dopo aver sistemato la mia roba ed aver testato che tutto fosse funzionante. Avevo passato a fare su e giù con l’interruttore delle lampade per mezz’ora buona. Mi ero anche sdraiata sul letto per capire se fosse comodo. C’era di peggio.
«Oh! Bentornata tra noi, Cami!» esclamò Penguin vedendomi arrivare. Era un tipo piuttosto esuberante. In risposta chinai leggermente il capo e sorrisi.
C’erano due tavoli apparecchiati nella sala da pranzo. Li fissai un po’ disorientata. Tutti avevano preso posto come se nulla fosse, ma io non avevo idea di dove sedermi. Per fortuna arrivò in mio soccorso Maya, che mi fece cenno di prendere posto accanto a lei.
«È una delizia per gli occhi sapere che finalmente ora siamo bilanciati» fece un tizio seduto vicino a Maya. Non riuscivo a capire. Per fortuna ci pensò la mia nuova amica a spiegarmi.
«Ora che sei dei nostri, siamo ventuno togliendo il capitano, che sta a capotavola. Questo vuol dire che ci sono undici membri per tavolo e undici membri per lato. Siamo perfettamente equilibrati» mi rivolse un sorriso raggiante. I conti non mi tornavano. Se Law sedeva a capotavola, perché eravamo undici per lato? Chi mi ero persa? Dovevo avere una faccia piuttosto stranita, perché l’altro tizio intervenne.
«È perché Jean Bart occupa due posti» sussurrò, suscitando la mia allegria. Anche tre, avrei voluto dirgli io, una volta che ebbi osservato meglio la sua stazza. Ma se in quel modo eravamo in equilibrio, non fosse mai che mi sarei permessa di sconvolgerglielo. Del resto, sapevo bene quanto a Law piacessero le cose bilanciate.
«Io comunque sono Omen, piacere» aggiunse.
Ci presentammo e per qualche minuto parlammo del più e del meno. Era un ragazzo di aspetto e di corporatura normali. L’unico tratto particolare che lo contraddistingueva erano i capelli dritti e ondulati. Mi aveva anche confidato che quando c’era da combattere si metteva una maschera sul volto. Non chiesi il perché. Lui e Maya però, sembravano parecchio affiatati; anche se avrei scommesso la mia nuova camera singola che Omen fosse più giovane di lei di qualche anno.
«Scusate, ma che stiamo aspettando?» chiesi ai due ragazzi, quando notai che, nonostante il cibo fosse stato servito e tutti fossero seduti, nessuno stava mangiando.
Entrambi mi guardarono con un po’ di tenerezza, come si guarda una bambina ingenua che ha appena detto una cosa stupida.
«Il capitano!» disse Maya con enfasi, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Solo in quel momento mi accorsi che Law non era a tavola.
«Capita spesso che si trattenga nel suo studio e faccia tardi» mi spiegò.
Perciò non solo noi dovevamo essere puntuali come orologi svizzeri mentre lui poteva prendersela con tutta calma, ma pretendeva addirittura che lo aspettassimo? Certo. Equo. Davvero molto equo. Dopo un primo momento di irritazione, che mi aveva portato ad appoggiarmi contro lo schienale della sedia, incrociare le braccia ed agitare il piede sul pavimento, pensai a come avesse fatto la ciurma di Law su Zou, senza il suo prezioso capitano. Non avevano mangiato per niente in attesa che ritornasse? O per una volta se ne erano fregati? A giudicare dalla corporatura di qualche presente, il cibo non doveva aver costituito un problema per loro.
Finalmente il chirurgo si degnò di presentarsi. Era in ritardo di un quarto d’ora. E pensare che quando eravamo nel mio mondo mi aveva ripreso infinite volte per la mia tendenza ad essere sempre in ritardo. Dunque anche lui era un altro di quelli che predicavano bene e razzolavano male.
Dopo che tutti ebbero osannato il capitano, potemmo finalmente iniziare a mangiare. Nel menu erano compresi spaghetti al sugo, vari contorni e braciole di maiale.
«Ti piace?» mi chiese Maya indicando il mio piatto di pasta. Mi piaceva? Sì, non c’era che dire, era buono, ma dopo aver assaggiato la cucina di Sanji – e aver mangiato solo piatti cucinati da lui per lungo tempo – tutto il resto sembrava senza sapore. Feci di sì con la testa assumendo un’espressione nostalgica.
«Il capitano ci ha detto delle incredibili capacità del cuoco di cappello di paglia» fece Omen, che probabilmente aveva intuito a cosa stessi pensando
«Non c’è molto da dire. Ciò che cucina è magico. Lo assaggi e ti sembra di essere in un altro mondo»
«Wow»
«Già. Ti auguro di non provare mai la sua cucina o ti sognerai il sapore delle sue pietanze la notte» scherzai io, arrotolando gli spaghetti alla forchetta.
Poco dopo finii di mangiare. Avevo già deciso che non avrei preso le braciole. Per pranzo era meglio tenersi leggeri. Fissavo il piatto non del tutto vuoto. C’era rimasto del sugo. Mi guardai attorno per cercare il pane. Non ce n’era traccia. Potevo capire l’avversione di Law per tutto ciò che contenesse lievito e farina, ma come si poteva vivere senza il pane? Senza la pizza? Come poteva sopportarlo la sua ciurma? Ma ciò che mi premeva di più era un'altra cosa: come la facevo io la scarpetta?
 
 
Più i giorni passavano, più riuscivo a capire come funzionavano le cose su quel sottomarino e più mi ambientavo. I primi tempi furono tremendi. Mi dividevo tra faccende domestiche – che comprendevano apparecchiare, sparecchiare, lavare i piatti, fare il bucato, pulire e una lunga lista di altre cose –, l’addestramento con Bepo, che era tutt’altro che l’adorabile orsetto che voleva far credere, e Law che mi dava da studiare pesanti tomi di anatomia e biologia. Non avevo idea di come riuscissi ad arrivare fino a sera senza stramazzare per terra e avevo ancor meno idea di come facessi a ricominciare tutto da capo il giorno dopo. All’ inizio, prima di coricarmi, piangevo silenziosamente nel letto, incapace di trovare pace. Con il passare del tempo la stanchezza accumulata era talmente tanta che non avevo la forza nemmeno di piangere. Appena poggiavo la testa sul cuscino gli occhi mi si chiudevano da soli e nel giro di due minuti cadevo nelle braccia di Morfeo. Poi, tutto ricominciava. La mia vita era diventata solo quello. Mi svegliavo, mi addestravo, pulivo, mangiavo, mi addestravo ancora, studiavo biologia, pulivo, mangiavo, studiavo anatomia e andavo a letto. Dormire era la mia unica consolazione, sebbene fossi in debito di sonno di parecchie ore, forse di giorni. Però una cosa positiva dello stare lì c’era: ero così impegnata che non avevo tempo per pensare a quale enorme cazzata avessi fatto e di conseguenza non potevo nemmeno deprimermi più di tanto.
Comunque, le cose pian piano cominciarono a migliorare. Avevo fatto un patto con il mio capitano, per cui dovevo indossare quella ridicola divisa solo quando sbarcavamo su un’isola. E visto che non mi era praticamente permesso sbarcare, potevo pure cestinare quell'orribile cosa. Mi ero perfino abituata all’assenza di pane in tavola. E dopo circa sei settimane che mi dava da studiare quegli enormi libri di medicina, il chirurgo della morte mi interrogò. Fece domande abbastanza meticolose e puntigliose. Alcune mi misero in difficoltà non poco, ma alla fine riuscii a richiamare la risposta nel mio cervello grazie alla mia memoria fotografica. Non avevo mai studiato tanto in vita mia. Di tutti i quesiti che mi aveva posto, ce n’era solo uno a cui non ero riuscita a rispondere. Law mi aveva detto di studiare meglio – come se fosse possibile – perché mi avrebbe interrogato ancora.
Quando, un altro paio di settimane dopo, disse che ero pronta, fui veramente molto felice. Avevo lavorato duro per essere “pronta” e sebbene ancora non sapessi per cosa, ero decisamente di buonumore e soddisfatta di me stessa. Tuttavia, quel momento idilliaco durò poco. Il capitano mi fece entrare in ciò che lui e il resto dell’equipaggio chiamavano “cella frigorifera”. Io avrei definito l’intera stanza più come un obitorio. C’erano almeno tre cadaveri. Avevo sempre scherzato su quanto Law avesse potuto essere macabro, sul fatto che dissezionasse cadaveri e quant’altro, ma non pensavo potessi avere ragione. Ma dove diavolo li aveva presi tre cadaveri!? Li aveva uccisi lui? Da quanto erano lì?
Fissavo quell’orribile e raccapricciante spettacolo con la faccia per metà perplessa e per metà disgustata.
«Voglio che tu mi dica la causa del loro decesso»
«Cosa?»
«Procedi.» mi ordinò.
Ci misi un po’ a realizzare che era serio. Mi avvicinai titubante al tavolo degli strumenti chirurgici. Mi infilai i guanti in lattice e deglutii. Sapevo cosa dovevo fare, ma non potevo farlo in quel momento. Lo sguardo del chirurgo incombeva su di me, come una catastrofe naturale.
«Non sapevo che le infermiere avessero anche il ruolo di medico legale» mi permisi di dire. Tenevo il bisturi in mano e fissavo il corpo del povero uomo morto.
Dopo qualche minuto di inattività e silenzio, mi decisi ad agire. Prima di tutto, procedetti con l'esame esterno, per il quale - per la mia gioia - dovetti momentaneamente appoggiare lo scalpello anatomico sul tavolo. Notai che tutti e tre gli uomini avevano un rash cutaneo non troppo esteso o visibile. Poi iniziai l'esame interno. Incisi la cassa toracica, per poi praticare il classico taglio a “Y”. Faceva uno stranissimo effetto sentire per la prima volta la pelle di un altro essere umano squarciarsi sotto la lama del bisturi. Piazzai i divaricatori e presi le forbici. Quando venne il momento di tagliare nervi e costole, il mio corpo fu scosso da violenti conati. Vidi con la coda dell’occhio che lo stupido medico mi aveva avvicinato con il piede un secchio dove poter rimettere. Non si era sconvolto neanche un po’. Era rimasto lì, impassibile, in attesa che io riprendessi il mio operato. Ma io non avrei ripreso a tagliuzzare cadaveri molto presto, anzi, non avrei ripreso affatto, perché stavo piegata in avanti con una mano poco sopra lo stomaco e l’altra davanti alla bocca. Non potevo vedermi, ma probabilmente ero anche esangue. Probabilmente in quel momento sembravo più morta io che quei corpi senza vita.
Non faceva per me. Mi ero sbagliata. Appena non ebbi più l’impulso di rigettare tutto quello che avevo mangiato per pranzo, mi raddrizzai, soffiai l’aria fuori dai polmoni e senza dire una parola mi avviai verso la porta. Ormai l’avevo aperta e stavo per uscire, quando lo sentii. Law che sbuffava una risata. Chiusi gli occhi strizzandoli leggermente, la mano ancora sulla maniglia. Non gliela avrei data vinta. Tornai sui miei passi, dove mi aspettava a braccia incrociate il mio capitano, che non si era mosso un centimetro. Ripresi le forbici in mano, tagliai quello che c’era da tagliare ed estrassi gli organi interni. Cercai di sembrare impavida per tutto il tempo, ma lo stomaco ancora era in subbuglio e di certo quelli che stava facendo non erano salti di gioia. Esaminai organo per organo – la parte più schifosa fu quando toccò all’intestino – di ogni cadavere presente in quella stanza. Non tralasciai neanche di esaminare il cervello. Poi, come se niente fosse, rimisi tutto al proprio posto, come dovevo fare.
«Tutti i pazienti sono morti per cause naturali. C'è un'alta probabilità che a stroncarli sia stato un virus letale» conclusi, riponendo gli strumenti con cura sul carrello e guardando dritto negli occhi il mio interlocutore.
«Spero per te che non sia contagioso» dissi poi, togliendomi i guanti, appallottolandoli e lanciandoglieli. Lui sorrise compiaciuto e fece un lieve cenno del capo. Feci per andarmene ma cambiai idea.
«Spero che tu ti diverta a dissezionare con tanta leggerezza cadaveri di persone che una volta avevano una vita, una famiglia, dei compagni.» sputai, dandogli le spalle e rivolgendomi verso l’uscita.
«Io non li ho toccati. Sei stata tu a fare tutto il lavoro»
Strinsi i pugni in preda ad un attacco di rabbia. Per fortuna in quei giorni avevo imparato a controllarmi molto di più di quanto non facessi prima.
«Stai pur certo che prima o poi lo farò anche con te. E non sai quanta gioia proverò.» affermai duramente, senza voltarmi. Potevo immaginare che sulla sua faccia fosse apparso un ghigno di soddisfazione. Infilai la porta a passo deciso. Ero accecata dalla rabbia, era come se andassi a fuoco. Quel ragazzo era l’unico in grado di farmi perdere il controllo. O almeno, era l'unico capace di farmi perdere la ragione così tanto e così facilmente. Doccia. Mi serviva una doccia per sbollirmi.


Angolo autrice
Ciao a tutti! Capitolo un pochino macabro, me ne rendo conto. Soprattutto l'ultima parte.
Comunque, i nomi Maya e Omen me li sono inventata io, ispirandomi ad una tavola che ha disegnato Oda con la ciurma dei pirati Heart al completo. Per le descrizioni mi sono ispirata proprio alla ragazza presente in quella tavola e al ragazzo accanto a lei. Spero apprezzerete questa mia iniziativa (anche perché ci saranno altri personaggi di cui dovrò inventare il nome e probabilmente anche la descrizione) e soprattutto spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Come sempre, fatemi sapere che ne pensate!
A presto!

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Capitolo 14
*** Disobbedienza ***


I giorni passavano inesorabilmente, alcuni più lenti, altri più veloci. Ero riuscita ad inserirmi abbastanza bene all’interno della ciurma e avevo più o meno socializzato con tutti. Avevo già individuato un paio di persone con cui non avrei mai fatto amicizia, per divergenze di pensiero e modo di fare.
«Bepo, che giorno è oggi?»
L’orso polare sembrò riflettere per un paio di secondi. «È giovedì. Perché?»
«Questo lo so. Intendo la data» feci io, un po’ infastidita. Effettivamente non avevo specificato e benché avessi perso la cognizione del tempo, che era giovedì poteva arrivarci anche un bambino.
«Oh. Chiedo scusa» chinò il capo in segno di dispiacere. «Dunque, vediamo...è il 29 Settembre»
Feci un paio di conti rapidi a mente.
«Oh, cazzo!» esclamai ad occhi strabuzzati. Poi corsi via, lasciandolo lì, più perplesso di prima.
Pochi giorni dopo sarebbe stato il compleanno di Marco, a cui avrebbe seguito quello di Law. Avevo un piano in mente. Avrei fatto i regali ad entrambi per tempo. Ma quello era stato un periodo così intenso per me, che ne ero stata completamente assorbita. Ora ero nella merda fino al collo. Dovevo trovare due regali – di cui uno spedirlo chissà dove – in pochissimo tempo. Accidenti a me e alle mie scarse capacità organizzative. Comunque, secondo i miei calcoli saremmo sbarcati l’indomani su un’isoletta tranquilla. Siccome al chirurgo piaceva passare inosservato, ogni volta che sbarcava per fare scorta di cibo o carburante, ordinava a sei o sette subordinati di scendere insieme a lui. Gli altri sarebbero dovuti rimanere rigorosamente a bordo a “fare la guardia al sottomarino”, che tradotto stava a significare che i malcapitati sarebbero stati a girarsi i pollici per tutto il tempo. Non c’era mai niente da fare su quello stupido sottomarino. Come lo sapevo? A parte il fatto che l’avevo sempre sospettato, erano due mesi che ero rinchiusa là. In tutto quel tempo eravamo emersi sei volte. Solo una volta, per puro miracolo, mi era stato concesso di scendere dal sommergibile e visitare uno scorcio di mondo. “Di solito il personale medico rimane a bordo”, aveva detto Penguin “a meno che non si tratti di una missione pericolosa o di affari seri. In quel caso siamo tutti tenuti a scendere”. Non mi interessava un bel niente delle questioni in cui si andava ad invischiare Law, io dovevo assolutamente scendere dall’imbarcazione, in un modo o nell’altro.
 
La sera stessa, provai con il “metodo Cami”, lo stesso metodo che usavo per evitare di andare a scuola. Andai in camera mia e iniziai a cercare l’ombretto porpora nella mia trousse. Ne presi un po’ con l’apposito pennello ed iniziai ad applicarlo appena sotto alla rima ciliare inferiore. Una volta finito, con il dito cercai di sfumarlo il più omogeneamente possibile. Aggiunsi anche un tocco di grigio. Il capitano era uno a cui non sfuggiva niente, per questo dovevo cercare di farlo sembrare più reale possibile. Ad opera conclusa mi avviai verso lo studio di Law. Bussai quando fui arrivata alla porta.
«Avanti» disse. Aprii la porta con cautela, premurandomi di assumere un’espressione da cane bastonato, di posizionare una mano sullo stomaco e di chinarmi leggermente in avanti. Lui era seduto, intento a trascrivere qualcosa su una pagina di un quaderno. Mi rivolse un occhiata veloce e tornò a concentrarsi su quello che stava facendo. Poi sembrò ripensarci e mi squadrò da capo a piedi, in attesa che dicessi qualcosa.
«Credo che sarebbe una buona idea se domani mi dessi il permesso per sbarcare» iniziai, cercando di mimare conati di vomito e malessere generale.
Si abbassò leggermente con indice e pollice gli occhiali che portava e interruppe il suo lavoro, girandosi verso di me.
«E perché dovrei farlo?»
«Perché ho il mal di mare. Ho bisogno di un paio di ore sulla terraferma»
Si tolse gli occhiali. «Quindi pensi che un paio di ore sulla terraferma risolvano il problema, che tra l’altro, si è presentato all’improvviso?»
Annuii appoggiandomi con una mano alla parete e portandomi il braccio libero alla bocca per simulare fastidio allo stomaco.
«Non vorrai mica che io battezzi il tuo sottomarino con la mia bile, vero?» chiesi, nel modo più provocatorio che il mio finto malessere mi permetteva.
«Il mio sottomarino è molto prezioso per me. Se pensi di non essere in grado di contenerti, chiuditi in bagno. Ne hai uno tuo, un privilegio che non molti hanno».
Non aveva tutti i torti – e questo era uno dei motivi principali per cui certe volte lo detestavo – ma dovevo trovare assolutamente un modo per convincerlo a farmi sbarcare.
«Non puoi sapere per quanto tempo avrò il mal di mare. Tu sei un medico, dovresti volere che le persone stiano bene. Domani sbarcheremo e a me basterebbero due ore su quell’isola per stare meglio»
«Io non posso saperlo, ma nemmeno tu. Se pensi che la nausea non passerà entro 24 ore, allora vai in infermeria e prendi dei farmaci antiemetici. Oppure fatti una flebo. Ormai dovresti esserne in grado.»
A quelle parole mi irrigidii per qualche secondo. Mi aveva messo all’angolo. Ma quel che era peggio era che probabilmente mi sarei dovuta ficcare un ago in vena per rendere la mia messinscena credibile. Certo, avrei potuto rigirare la situazione a mio vantaggio. Avrei pur sempre potuto rivendicare l’inefficacia delle medicine e convincere così Law a farmi evadere per un po’ da quella trappola per topi. Ma una flebo non era il prezzo che ero disposta a pagare per uno stupido regalo.
«Io sono per i rimedi naturali. Aria fresca, piedi che poggiano per terra. Pavimento che non oscilla. Questo genere di cose. Non puoi tenermi attaccata ad una flebo per tutta la vita, no?»
«Rimedi naturali...dunque hai sbagliato specializzazione. Se è così che la pensi, non intendo più istruirti all’arte della medicina. Non esistono rimedi naturali.»
«Cosa?» spalancai gli occhi. La situazione stava degenerando. Scossi la testa, quasi incredula. «Non è questo il punto! Ti sto dicendo che basta solo che tu mi dia il permesso per sbarcare per qualche ora.»
«No.»
«Perché no!? Io ho bisogno di aria. Aria fresca. Sono due settimane che sono rinchiusa in questo angusto sottomarino! Non ce la faccio più! Ho bisogno di aria.»
Cominciavo a pensare di aver davvero bisogno di sbarcare.
«Domani tu non lascerai il sottomarino. E la questione è chiusa.»
A quelle parole, per un attimo, non ci vidi più dalla rabbia. Lo fissai dritto negli occhi, il mio sguardo carico di odio. Feci un paio di respiri profondi prima di girarmi, infilare la porta e sbatterla con forza alle mie spalle.
Camminavo iraconda per il corridoio che portava alla mia camera.
«Ehi, Cami, hai un aspetto schifoso oggi!» scherzò Penguin, che passava di lì.
Girai la testa con uno scatto e lo fulminai con lo sguardo. «Vaffanculo!».
 
Dovetti cercare di mantenere la calma mentre vedevo parte dell’equipaggio che si allontanava sulle scialuppe adibite allo sbarco. Però stringevo i pugni, tanto che le nocche mi erano diventate bianche. Quella era la mia occasione d’oro per poter comprare i regali di compleanno a Marco e Law e quest’ultimo me l’aveva portata via con incredibile indifferenza. Non che lo sapesse, certo, ma di sicuro gli piaceva rendere impossibile la vita agli altri. Quello che non aveva capito era con chi aveva a che fare. La “nuova Cami” era un tipo tosto e non avrebbe mollato tanto facilmente.
Appena le barchette non furono più visibili all’orizzonte, mi girai verso Maya.
«Abbiamo altre scialuppe?»
«Certo. Ma perché me lo chiedi?»
«Perfetto. Chi vuole accompagnarmi in un’emozionante avventura?»
«Oh, no. Non vorrai mica disubbidire al capitano, vero?» un bagliore di terrore si insinuò nel suo sguardo.
«E che male c’è? Mi servono due orette di aria fresca sull’isola»
Una figura slanciata mi prese per un braccio e mi trascinò in disparte.
«Hai idea di cosa ti accadrebbe se il capitano venisse a sapere che hai ignorato un suo ordine?» Omen mi guardava serio, come non aveva mai fatto.
«No. E non lo voglio sapere. Ecco perché voi mi aiuterete e terrete la bocca chiusa»
«Io e Maya non intendiamo essere tuoi complici. Che cosa devi fare di tanto importante?»
«Stammi bene a sentire. Io devo fare una cosa importante per il capitano. E lui non lo deve sapere. Dal momento che la prossima volta che sbarcheremo sarà troppo tardi per poterla fare, questa è l’occasione perfetta e non me la farò sfuggire. Perciò puoi anche non voler essere mio “complice”, ma levati di mezzo e lasciami fare quello che devo fare.» pronunciai il tutto con un tono molto minaccioso.
Il mio interlocutore sospirò, si spostò da un lato e mi lasciò passare. Poi, fece cenno a Maya di seguirmi. Mi indicarono le scialuppe e mi aiutarono a portarne una sul ponte. Mi fecero raccomandazioni di ogni tipo. Ad un certo punto li fermai, non solo perché mi stavano leggermente spaventando, ma anche perché dovevo remare da sola per cinquecento metri per arrivare alla spiaggia e sapevo che ci avrei messo una vita e mezzo.
 
Infatti così fu. Mi ci volle almeno una mezz’ora prima di poter attraccare sulla spiaggia. Durante la “traversata” avevo continuato a ripetere nella mia mente il ritmo con cui dovevo remare. Ma dopo i primi cinque minuti tutti i miei buoni propositi erano andati a farsi benedire. Non avevo mai fatto una cosa del genere e mai l’avrei fatta se non avessi voluto a tutti i costi comprare i regali per i due pirati. L’addestramento di Bepo mi aveva dato più forza, era vero, ma ancora ero acerba e quando posai i piedi sulla sabbia avevo il fiatone, ero esausta, avevo le mani tutte arrossate e screpolate e braccia e spalle mi dolevano come mai avevano fatto. Maledissi mentalmente il mio capitano e le sue esagerate misure precauzionali. Potevo capire che era bene tenere il sottomarino lontano dal porto per non attirare occhi indiscreti, ma non c’era bisogno di ormeggiare dietro alla baia. Trascinai faticosamente la barca a riva. Oltre ad essere tutta dolorante, ero pure fradicia. Scossi la testa ed alzai gli occhi al cielo mentre mi toglievo la cintura e la mettevo sotto alla barca, che avevo prontamente rovesciato – con quale forza non lo sapevo nemmeno io –. Dovevo essere libera di muovermi inosservata, sia perché non avevo soldi con cui comprare i presenti, sia perché non potevo permettermi di farmi vedere da qualcuno della ciurma. Law mi avrebbe visto comunque, ma a lui sarei stata molto attenta. Sapevo di dover agire in fretta. Non avevo idea di quanto tempo avrebbero passato sull’isola e dovevo tenere da parte anche una quarantina di minuti per poter tornare al sottomarino con la scialuppa e rimetterla a posto indisturbata. Considerato che in media il chirurgo passava tre ore sulla terraferma, avevo a disposizione un’ ora e mezzo. Non era molto, ma me lo sarei fatto bastare.
Lasciai la barca sulla spiaggia e mi incamminai verso il sentiero che portava al villaggio. Era la terza isola che visitavo e mi sentivo un po’ emozionata. In parte lo ero anche perché se fossi stata scoperta per me sarebbero stati cavoli amari. Ma non me ne preoccupavo più di tanto, in quel momento avevo altro con cui arrovellarmi il cervello. Che regalo avrei fatto a Law? E che regalo avrei fatto a Marco? Come avrei fatto a spedirglielo?
 
Quasi senza pensarci ero entrata in una gioielleria. Non sapevo nemmeno perché, visto che né Law né Marco indossavano bracciali e diavolerie varie. Era un’idea stupida. Girai i tacchi e feci per andarmene, quando li vidi. Ne rimasi estasiata e ne fui entusiasta. Cadevano a pennello. Era destino, mi trovavo al posto giusto al momento giusto. Se non era fortuna quella.
Il gioielliere, però, aveva l’aria sveglia. Non sembrava essere come quel commesso a Shogyoshima. Ecco perché per prendere ciò che volevo dovevo escogitare qualcosa e rapidamente, anche. Arrivai fino al bancone, attenta a non urtare niente. Poi mi misi a fissare dritto negli occhi il negoziante, che avevo a pochi centimetri di distanza e che sembrava essere ignaro della mia presenza. Mi appoggiai al tavolo di legno.
«Che cosa potrei fare? Tu cosa suggerisci?» chiesi al mio interlocutore, che stava guardando altrove.
«Le tue cianfrusaglie sembrano avere parecchio valore. Mi dispiace per quello che sto per fare, ma ho un capitano da compiacere, cerca di capirmi» alzai le spalle mentre spazzavo via tutti i gioielli che c’erano su una delle mensole, facendoli cadere a terra fragorosamente. Prima di farlo, però, controllai il prezzo. Non avrei potuto permettermi nemmeno l’anello meno costoso. L’uomo si mise sull’attenti, setacciando la gioielleria per cercare di capire cosa potesse essere successo. Non appena vide per terra collane, bracciali e pietre preziose in frantumi, si precipitò per valutare la situazione. Mi parve di averlo sentito imprecare poco elegantemente. Non si addiceva al proprietario di un negozio di classe ed elegante come quello. Ma come biasimarlo; del resto, io sarei stata la prima ad imprecare senza ritegno in una situazione come quella.
Ripetei il trucchetto altre due volte, su mensole distanti tra loro, per confondere il poveretto. Quando decisi che l’avevo fatto dannare abbastanza, prelevai i due ciondoli, premurandomi di prendere anche le rispettive scatole. Infine uscii.
«È stato un piacere fare affari con te!» gridai, all’uomo disperato, inginocchiato accanto ai pezzi dei suoi gioielli «E scusa ancora».
Prima di andarmene dall’isola pensai di passare anche in cartoleria per rubare dei biglietti di auguri. Lì fu più facile. Fu un attimo. I biglietti erano esposti fuori, insieme alle cartoline. Ne scelsi due bianchi affinché li avessi potuti riempire a mio piacimento.
Mentre percorrevo il sentiero che mi avrebbe riportato alla spiaggia, riflettei sulla persona che ero diventata. Prima titubavo perfino a rubare una caramella. Ora invece distruggevo e rapinavo negozi come se nulla fosse. Certo, mi sentivo in colpa, ma l’avrei rifatto se fosse stato necessario e per una “buona” causa come quella. Law aveva una cattiva influenza su di me. Decisamente. Proprio mentre pensavo a questo, qualcosa mi mandò nel panico e mi arrestai immediatamente. Davanti a me di un centinaio di metri, riconobbi prima le tute bianche di Shachi e Penguin, poi la tuta arancione di Bepo e infine l’inconfondibile cappotto nero di Law. Ero terrorizzata. Non potevano vedermi, non dovevano vedermi. Beh, l’unico che era in grado di farlo senza che avessi la cintura era Law, il che forse era anche peggio; anche perché ero sulla terraferma e non stavo indossando la divisa, come avrei dovuto fare secondo il patto siglato settimane prima. La pena per questo sarebbe potuta essere tre volte peggiore. Mi guardai attorno, imprecando selvaggiamente tra me e me, in cerca di un posto dove potermi nascondere. Decisi di addentrarmi nella boscaglia che avevo a sinistra e aspettare lì finché non fossero andati via. Sempre che se ne fossero andati. Aspettai una decina di minuti nascosta dietro un albero con il cuore che batteva a mille. Avevo scelto una posizione strategica, che mi permetteva di scorgere la ciurma e tutti i loro spostamenti, ma allo stesso tempo di rimanere nascosta agli occhi degli altri. Il capitano stava parlando con un uomo del villaggio che aveva l’aria preoccupata e forse anche un po’ agitata. Dopo un po’ fece segno a tutti di seguirlo e finalmente io potei essere libera di tornare alla scialuppa. Tirai un sospiro di sollievo. Per precauzione attesi un altro paio di minuti, in cui mi persi a fissare i ciondoli che avevo “acquistato” poco prima. Erano una scelta più che azzeccata. Avrei dovuto fare qualche lavoro di manutenzione, ma il più era fatto.
 
Al ritorno impiegai una decina di minuti in meno di quanto non avessi fatto all’andata. Erano pur sempre venti minuti per fare cinquecento metri, ma ero lo stesso fiera di me. Per fortuna nessuno mi aveva rubato la barca. Non avevo ancora rimesso la cintura, giusto per cautela. Arrivai al sottomarino, con Maya e Omen che mi aspettavano in ansia sul ponte. Lasciare la terraferma, viva e colorata, e ritornare a quell’angusto sottomarino, grigio e spento, mi rendeva un po’ triste. Ma questo dovevo fare.
«Ma che cazzo succede!? Perché la barca è vuota?» imprecò il ragazzo dai capelli dritti
«Ops...» mi ricordai solo in quel momento che non avevo la cintura indosso. La misi e poi, per il sollievo di tutti, saltai a bordo. Il moro recuperò la barca e la portò al deposito. Maya mi chiese di farle un resoconto della mia "missione", ma io avevo i pantaloni bagnati ed avevo fretta di cambiarmeli e farmi una doccia. Per cui la salutai, promettendole che le avrei raccontato tutto più tardi. Corsi in camera, tirai fuori da sotto la maglietta le scatole e le riposi accuratamente nel cassetto del comodino. Mi tolsi i vestiti, li gettai nella cesta dei panni sporchi – ebbi cura di mettere i pantaloni fradici sotto al mucchio – e mi buttai sotto la doccia. Che giornata stressante.
Dopo che ebbi finito la doccia, mi vestii con degli abiti puliti e mi stesi sul letto. Sospirai, buttando fuori tutta l’ansia e l’angoscia che avevo trattenuto fino a quel momento. Non ero adatta per fare certe cose. Rimasi a guardare il soffitto per almeno mezz’ora. Poi, qualcuno bussò alla porta. Mi puntellai sui gomiti per vedere chi fosse.
«Avanti!» gridai.
Sulla soglia, c’era il chirurgo. Corrucciai la fronte e mi misi a sedere.
«Che ti serve?» chiesi con circospezione. Lui non disse niente, si limitò a tirarmi un flacone di qualcosa. Lo presi al volo e quando lessi l’etichetta non potei fare a meno di sorridere. “Antiemetico”. Lo ringraziai e gli dissi gentilmente che non ne avevo più bisogno. Lui mi ordinò di tenerlo, in caso ne avessi avuto bisogno di nuovo. Stranamente, iniziammo a conversare del più e del meno. Mi chiese com’era andata la mia giornata. “Piuttosto noiosa” gli avevo risposto, e lui aveva annuito, ignaro che avevo rischiato almeno tre infarti e che le braccia mi avrebbero fatto male per una settimana. Poi mi fece presente che la nausea poteva dipendere da tanti fattori, non solo ed esclusivamente dal mal di mare e mi invitò a fare un prelievo ematico. Rifiutai categoricamente e a quel punto mi comunicò che avrei dovuto farlo comunque prima o poi, perché i membri del suo equipaggio si sottoponevano trimestralmente ad un check up completo. Rimasi con la mascella a penzoloni. Non me l’aveva detto. Nessuno me l’aveva detto. Quei bastardi! Mi avevano fregato!


Angolo autrice:
Ciao a tutti! Questo è quello che definisco un capitolo di passaggio, ovvero non succede nulla di particolarmente eclatante. Tuttavia spero che lo abbiate apprezzato e soprattutto che non l'abbiate trovato troppo noioso.
Come sempre, fatemi sapere che ne pensate. :)
Alla prossima!

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Capitolo 15
*** Compleanni ***


Ci misi un paio di giorni per finire il lavoro. Avevo dipinto accuratamente a mano entrambi i ciondoli che avevo rubato e quando si erano asciugati li avevo fatti passare attraverso un filo di cuoio che avevo tagliato e annodato personalmente. Non che fossi brava a fare queste cose, ma non potevo chiedere aiuto a nessuno. Non mi fidavo molto e non volevo essere in debito con alcuno dei miei compagni. L’unica cosa che avevo chiesto in prestito erano i colori acrilici. Per fortuna il ragazzo che me li aveva prestati non aveva fatto domande. La cosa positiva del fare parte dei Pirati Heart era che avevo imparato ad arrangiarmi. Due mesi prima non sapevo fare praticamente niente. Adesso, invece, me la cavavo egregiamente. O comunque, se non egregiamente, me la cavavo abbastanza da poter sopravvivere o da avere vestiti puliti da indossare ogni tre giorni. Chiusi l’enorme libro di anatomia – che mi era stato d’aiuto per pitturare il ciondolo destinato a Law – e misi i miei capolavori nelle rispettive confezioni, che riposi nel solito e fidato cassetto del comodino. Poi, quando fu notte e mi fui assicurata che tutti stessero dormendo, andai sul ponte e richiamai un News Coo. Per fortuna almeno di notte ci fermavamo ed emergevamo. Non avrei saputo come spedire il regalo altrimenti.
Fu strano. Maya mi aveva spiegato giorni prima come si doveva fare. Accesi la torcia e la puntai in cielo. Poi premetti il bottone del lumacofono che avevo preso dalla sala macchine per permettergli di emettere le proprie onde radio. I News Coo, mi aveva esplicato la mia amica, avevano un lumacofono portatile sempre con loro. In questo modo, oltre a consegnare i giornali, potevano captare i segnali inviati dalle persone che necessitavano del loro servizio di consegna. Rimasi in piedi sul ponte, a congelare al buio, per almeno mezz’ora. Pregai con tutta me stessa che ci fosse un gabbiano disponibile nella zona e a quell’ora. Ma soprattutto sperai che nessun altro avesse intercettato la frequenza. Sarebbe stato spiacevole un assalto notturno sul sottomarino da parte di altri pirati o peggio, da parte della marina. Mi augurai anche che nessuno della ciurma – specialmente il capitano – avesse udito il rumore che emetteva quel maledetto animale. Non che ce l’avessi con il lumacofono in sé, ma dover fare tutte quelle diavolerie per spedire un pacco mi pareva assurdo, considerato che nel mio mondo bastava chiamare una ditta di spedizioni. Ero persa in queste riflessioni nostalgiche, quando sentii un garrito. Mi spaventai non poco e puntai istantaneamente la torcia in direzione del rumore. Sulla ringhiera, proprio di fronte a me, c’era un News Coo. Girò la testa da un lato e si coprì gli occhi con un’ala, nel tentativo di evitare il bagliore emesso dalla torcia. Imprecai poco elegantemente contro di lui. Fortunatamente quello sciagurato non capiva cosa gli stessi dicendo. Si vociferava che fossero uccelli intelligenti e che riuscissero a capire e ad eseguire quanto veniva loro ordinato. A prima vista quello che avevo davanti non mi sembrava tanto sveglio, ma dovevo riporre le mie speranze in lui. Spensi il lumacofono e mi avvicinai al volatile. Gli porsi il secchio con il pesce crudo che avevo rubato in cucina, come mi aveva detto di fare la mia amica. Ultimamente non facevo altro che rubare. Ero diventata una criminale. Aspettai cinque minuti buoni che quel pennuto finisse di ingozzarsi e quando fu soddisfatto gli impartii gli ordini.
«Devi portare questo pacchetto a Marco “la fenice”» mi assicurai di scandire bene e lentamente ogni parola. Poi gli misi davanti il giornale con l’avviso di taglia di Marco e indicai la sua foto, come mi aveva detto di fare Maya. L’animale sembrò recepire e io misi nella borsa che aveva al collo tutto il materiale. Emise un verso di approvazione ed io lo salutai con la mano, augurandogli buon viaggio. Lo osservai allontanarsi finché non fu più possibile vederlo. Il giorno dopo avrei puzzato di pesce e avrei dovuto subire l’ira del cuoco, quindi mi auspicavo vivamente che il News Coo riuscisse nella sua impresa.
“Fuori uno” pensai, soddisfatta ma anche un po’ in pena. Il regalo sarebbe arrivato alla persona giusta? Sarebbe arrivato in tempo? Gli sarebbe piaciuto? Non lo sapevo, potevo solo aspettare e sperare.
Avevo deciso di regalargli una collana. Il filo era fatto dello spago che avevo precedentemente tagliato ed annodato, mentre il ciondolo era una fenice di cristallo, che avevo dipinto di blu e giallo, i colori dell’uccello leggendario di cui Marco prendeva le sembianze. Speravo che gli sarebbe piaciuta, anche se pitturare ciondoli non era esattamente il mio cavallo di battaglia. Quello di Law, però, mi aveva dato più filo da torcere. Non che me ne stupissi, era così anche nella realtà. Infatti, puntavo più sui biglietti di auguri. Il biglietto che accompagnava il pendente per Marco era semplice e informale.
 
Non è niente di speciale,lo so, ma questo è solo un piccolo presente per farti sapere che non ti sei liberato di me. Sono qui e ti penso. E non vedo l’ora di incontrarti di nuovo, nella speranza che ne avremo l’occasione un giorno. Mi auguro che sia il prima possibile, però, perché non vedo l’ora di batterti di nuovo a Machiavelli.
Tanti auguri, pennuto! Vediamo se indovini chi sono.
-C.
 
P.s. Nella speranza che torni a riprendere presto il volo e che, proprio come una fenice, tu risorga dalle ceneri e prenda finalmente ciò che ti spetta. Io continuo a credere in te, come ho sempre  fatto.
 
Mi fermai sul ponte per un po’ e tirai fuori il cellulare dalla tasca. Mi misi a scorrere le foto della galleria e mi soffermai su quella che avevo fatto con Marco, prima che ci separassimo. Un impercettibile sorriso si fece largo tra le mie labbra. Il mio ananas. Il mio Marco. La mia fenice. Guardai il modo in cui sorrideva arrogante, anche nella foto, e sentii il desiderio di rivederlo. Con lui si era instaurato un legame speciale, anche se era quello con cui avevo passato meno tempo. Non sapevo spiegarmi perché, sapevo solo che era così. Certo, volevo bene a tutti e con tutti avevo creato un rapporto, ma con lui era diverso. Forse perché aveva esaudito il mio secondo desiderio e mi aveva fatto provare il brivido di un’ora di totale libertà e spensieratezza. Sospirai e decisi che era ora di rientrare. Un’altra dura giornata mi avrebbe aspettato l’indomani.
 
Passarono altri tre giorni ed arrivò il giorno del compleanno di Marco, che era anche il giorno prima del compleanno di Law. Questa cosa mi faceva sorridere. Non credevo nell’astronomia – anche se credevo nel potere delle stelle. Come non farlo, dopotutto? – ma il fatto che quei due fossero dello stesso segno zodiacale rendeva il tutto ancora più realistico. In fondo, avevano in comune alcuni aspetti caratteriali da non sottovalutare. Entrambi erano calmi e freddi all’apparenza, ma dietro alle loro espressioni impassibili si nascondeva un mondo. L’unica differenza era che Marco era gentile. Giustamente, con il più stronzo dovevo averci a che fare io. Era a me che era capitato il più infame dei due come capitano. Scacciai dalla testa queste riflessioni ed andai a parlare con il cuoco. All’inizio fu irremovibile. Non voleva in alcun modo che io utilizzassi la sua cucina. Non aveva tutti i torti, nemmeno io mi fidavo del tutto di me stessa quando si trattava di mestoli e fornelli – o di armi, bucati e chirurgia – ma era di vitale importanza che mi lasciasse adoperare la cucina. Gli stavo chiedendo solo il tempo di fare una torta, gli ingredienti necessari e un piccolo spazio nel frigo. Gli feci perfino vedere la ricetta, che avevo miracolosamente ritrovato tra i promemoria del cellulare. Alla fine, dopo mezz’ora di discussione, accettò di farmi fare la torta a patto che ci fosse stato lui a controllare. Il cuoco era un tipo scorbutico, il contrario di Sanji, e non volevo farmelo nemico, per questo, in modo del tutto gentile, gli intimai che se avesse osato toccare la mia creazione se ne sarebbe pentito.
Nel tardo pomeriggio, quando Law si ritirava nel suo studio e gli altri usufruivano del loro tempo libero chissà per fare cosa, cominciai a preparare il dolce sotto la supervisione dello chef. Per i primi venti minuti in cui trafficavo con ingredienti, cucchiai e scodelle, mi guardò male. Poi si rilassò un po’ nel constatare che avevo tutto sotto controllo. Gli avrei cucinato la torta che avevo cotto nel mio mondo, per il mesiversario. Con quella andavo a colpo sicuro, dato che non l’aveva disprezzata la prima volta che gliel’avevo proposta. Quando ebbi finito, misi la torta nel frigorifero affinché si raffreddasse per poter applicare la glassa, anch’essa fatta da me.
Ero soddisfatta del risultato e lasciai la cucina felice. Mi feci una doccia veloce e scelsi l’outfit che avrei messo il giorno dopo. Optai per un completo non troppo elegante ma nemmeno troppo informale. Io potevo. Non avevo l’obbligo di indossare la divisa anche sul sottomarino. Nel pensarlo provai un leggero senso di superiorità, che si placò immediatamente quando Jean Bart mi disse che il capitano mi aveva ordinato di andare a pulire i bagni. Alzai gli occhi al cielo conscia che avrei dovuto farlo comunque e andai nel ripostiglio a prendere gli attrezzi.
 
Andai a letto distrutta e con la schiena a pezzi. Impostai la sveglia sul cellulare per le sei, perché dovevo finire di glassare la torta. Non avevo la forza di farlo quella sera. Forse non avrei avuto la forza di farlo nemmeno la mattina dopo, ma almeno a quel punto avevo la valida scusa del non poter più procrastinare.
Dormii un sonno profondo e senza sogni. Alle sei precise, la sveglia suonò. Emisi un suono gutturale e la disattivai, consapevole che sarebbe suonata dieci minuti dopo. C’era tempo, perché affrettarsi? Alle sei e dieci, puntuale come un orologio – del resto di quello si trattava – quell’oggetto malefico trillò ancora. Andai avanti così fino alle sei e mezza. Dovevo alzarmi, lo sapevo, ma ogni molecola del mio corpo si rifiutava di obbedire al mio cervello. Gridavano tutte insieme “al diavolo il compleanno di Law! Al diavolo il dolce, al diavolo il regalo, al diavolo tutto! Dormi, ne hai bisogno”. Fui quasi tentata di ascoltarle. Alle sei e quaranta la sveglia suonò ancora. Decisi di comune accordo con il mio corpo che per alzarmi avrei aspettato le sette.
«E che cazzo, Cami! Spegni quel maledetto affare! Sono le sei e mezza, cazzo! Fa un casino assurdo, si sente per tutto il corridoio!»
Alle sei e quarantadue, Penguin fece irruzione nella mia camera.
Il mio mugolio rimbombò per tutta la stanza.
«Ora...ora la spengo. Sì» mugugnai con la voce impastata. Allungai il braccio verso il comodino e con un occhio aperto e uno chiuso bloccai la sveglia.
«Stai bene?» mi chiese, un po’ apprensivo.
Annuii incapace di tenere sollevate le palpebre. «Dammi...dammi una mano a tirarmi su».
Penguin mi lasciò in bagno, dove mi feci una doccia rinfrescante e mi vestii. Gli chiesi se secondo lui Law poteva aver sentito l’incessante trillo della sveglia e lui mi rispose di no, perché la cabina del capitano era lontana. Era buffo. Non l’avevo mai vista. Non sapevo nemmeno dov’era.
Quando vidi che erano già le otto, mi fiondai in cucina. Stavo aprendo il frigo furtivamente, quando una voce alle mie spalle mi fece irrigidire.
«Come mai stamattina ci onori della tua presenza così presto?» Law era proprio dietro di me, ghignante. Richiusi il frigorifero con uno scatto deciso, tanto che pensavo di aver rotto lo sportello. Porca miseria, avevo aspettato troppo.
«Insonnia» dissi cercando di sembrare disinvolta.
«Per quello posso darti delle gocce» annunciò incastonando i suoi occhi ai miei. Era da un po’ che mi fissava e io non capivo che volesse. Ero appiattita contro lo sportello del frigo. Pregavo solo che si girasse e se ne andasse al più presto.
«Mi serve il latte» fece seccato. Di prima mattina era facile farlo irritare e raramente era di buonumore.
«No!» esclamai con fin troppa convinzione. Mi guardò interrogativo.
«È finito, capitano» comunicai al mio interlocutore
«Ce n’era un gallone pieno ieri» potevo vedere la vena del collo ingrossarsi. Forse era meglio spostarsi e fargli prendere il latte.
Alzai le spalle innocentemente. Lui mi rivolse un’occhiata truce.
«Capitano. La cerca Bepo» il cuoco mi salvò il sedere. Vidi il chirurgo posare la tazza di caffè fumante sul tavolo e sospirare nervosamente. Due minuti dopo si era finalmente dileguato. Lo chef mi squadrò eloquentemente. Io ricambiai lo sguardo, grata. Potevamo entrambi metterci nei guai per quello. Glassai la torta in meno di cinque minuti e spolverai sopra una pioggia di confettini colorati. Non era un brutto dolce, solo che si vedeva che non era stato fatto da un pasticcere. La rimisi ben nascosta in frigo e tornai in camera mia come se nulla fosse.
 
Presto arrivò l’ora di pranzo. Non che a tavola mi aspettassi festeggiamenti e celebrazioni, ma almeno che ci fosse un clima ilare e allegro. Invece c’era perfino più silenzio del solito. Tutti si avventavano sui propri piatti senza dire una parola. Con la coda dell’occhio guardavo Law, che al contrario degli altri mangiava compostamente, tagliare impassibilmente un pezzo di bistecca.
«Ma perché nessuno festeggia?» mi decisi a chiedere alla mia vicina di posto, intenta a gustarsi un boccone di carne. Sembrò cadere dalle nuvole. Mi guardò con uno sguardo interrogativo e inconsapevole.
«Perché? Che cosa dovremmo festeggiare?» chiese a sua volta con la bocca piena. Poi diede una gomitata a Omen e gli domandò la stessa cosa. Anche lui, come la sua compagna, parve cadere dal pero.
«Che c’è da festeggiare? Qualcuno ha trovato un tesoro?».
Capii che era meglio lasciar perdere. Che il chirurgo non avesse detto ai suoi uomini che oggi era il suo compleanno? Eppure ero sicura che qualcuno lo sapesse, se non altro i suoi sottoposti più fidati. Squadrai Bepo, poi Penguin, Shachi e infine Jean Bart. Sembravano tranquilli e rilassati come al solito. L’unico agitato era il cuoco – che scoprii chiamarsi Ryu – che sapeva tutto a causa mia e osservava nervosamente ad intervalli regolari prima me e poi il frigorifero. Lo pregai con gli occhi di non dire una parola. E pregai ancora di più che Law non intercettasse le nostre occhiate.
Finito il pranzo, sparecchiai e, visto che di celebrazioni non ce n’era nemmeno l’ombra, nel primo pomeriggio mi concessi un pisolino di un paio d’ore. Ne avevo bisogno. Fu rigenerante. Quando mi svegliai mi misi a consultare un volume di medicina che trattava di cardiochirurgia. Leggevo ma non ero davvero concentrata. Scuotevo la gamba sul materasso e di conseguenza facevo muovere tutto il letto. Posavo lo sguardo sul cassetto dove era custodito il regalo più spesso di quanto avessi voluto. Sospirai un paio di volte dalla frustrazione, imponendomi di continuare a studiare. Ma non ci riuscivo. Ero impaziente. Andai avanti così per due ore, ma smisi definitivamente quando sentii delle voci fin troppo contente in corridoio. Chiusi il libro e sbirciai dalla porta. Poco più avanti c’erano Bepo, Penguin e Shachi in compagnia del capitano. I due inseparabili amici si cingevano le spalle con le braccia a vicenda e barcollavano visibilmente. Bepo li rimproverava e diceva loro di fare silenzio. Solo in seguito mi accorsi che il medico stringeva in una mano una bottiglia di champagne. Per uno che non voleva festeggiare, si trattava piuttosto bene. Ubriachi alle sei di pomeriggio. Non male.
Ero lontana e in più quei due cretini biascicavano, ma mi parve di sentire un “ti invecchi, capitano!” seguito da un “ora basta, fate silenzio, idioti!” di Bepo. Il medico non si esprimeva, quasi come se non gliene fosse importato nulla. O forse era ubriaco anche lui. Il navigatore spintonò in camera loro i due bevitori, che si lamentarono del trattamento poco gentile subito, e li mise a letto. Poi si dileguò anche lui. Per fortuna a bordo c’era il visone che faceva da baby sitter un po’ a tutti. A me faceva anche da addestratore, ma quello era un campo in cui non l’avrei definito esattamente “tenero”.
Lasciai passare una mezz’ora. Mi accertai che il capitano fosse solo e che non ci fosse nessuno nel tragitto tra la cucina e il suo studio. Prelevai la torta e in meno di un minuto fui davanti alla sua porta. Esitai prima di bussare. Avrebbe potuto odiarmi, punirmi o peggio, ammazzarmi, per quello che ero in procinto di fare. Forse se detestava festeggiare il suo compleanno c’era una ragione. Ma io che ne potevo sapere? Mi dispiaceva anche che non avessi candeline da mettere sul dolce, ma non ci avevo proprio pensato. Sentii dei rumori di passi lungo il corridoio e mi affrettai ad entrare e a chiudermi la porta alle spalle. L’avevo fatto. Non potevo più tornare indietro.
Law mi squadrava da dietro gli occhiali rettangolari. Io stavo lì in piedi come un’ebete, senza sapere bene che dire. Ero nervosa allo stesso modo di una ragazzina al suo primo saggio di danza.
«Oggi ho letto alcune pagine del volume di cardiochirurgia che mi hai dato qualche giorno fa» affermai, pentendomi subito dopo della cazzata che avevo detto. Mi sarei presa a schiaffi, se non avessi avuto le mani impegnate a reggere la torta.
«Qualcosa non ti è chiaro?» domandò guardandomi come se fossi stupida
«No. È tutto cristallino» risposi, anche se non era vero
«Allora perché sei qui?» aveva lo stesso tono di un maestro che tenta di cavare le parole di bocca al suo alunno impreparato all’interrogazione. Decisi di parlare chiaro e smetterla – o perché no, cominciare – di rendermi ridicola.
«Io...ho fatto questa torta per te. So che oggi è il tuo compleanno e volevo fare qualcosa per il mio capitano. Non ci sono le candeline, lo so, ma...beh, c’è...la torta» alzai le spalle e mi avvicinai, permettendogli di osservarla meglio.
Rimase in silenzio per almeno due minuti, valutando il mio operato con espressione imperscrutabile.
Scossi la testa, mi girai ed andai verso la porta. «Sai che c’è? È stata un’idea stupida. Ora la rimetto in frigo e dico agli altri che...»
«No. L’hai fatta per me. Sarebbe un peccato sprecarla».
Rimasi piacevolmente colpita dalle sue parole e non potei fare a meno di sorridere. Mi ordinò di andare in cucina e prendere la bottiglia di vino che c’era in frigorifero – che nemmeno avevo notato –, dei calici e un coltello. Ero contenta come una Pasqua. Mi avrebbe permesso di festeggiare con lui!
Al mio ritorno trovai una sedia accanto alla sua. Mi ricordai del regalo che avevo in tasca e che dovevo dargli e iniziai inconsciamente a blaterare che sapevo che non lo avrebbe mai messo ma che avevo voluto lo stesso fare un tentativo, che lo avevo fatto io con le mie mani e che era il pensiero che contava, finché Law mi intimò di stare zitta e sedermi. Obbedii e gli consegnai la scatola. La aprì e dentro vi trovò un bracciale, con il filo fatto di cuoio – che avevo lavorato sempre io – e il ciondolo a forma di un cuore umano, dipinto da me nei minimi particolari. Beh, diciamo che ci avevo provato. Almeno a qualcosa il libro di cardiochirurgia mi era servito. Il biglietto recitava:
 
Così sono sicura che mi porterai sempre nel cuore, anche se molto probabilmente non lo metterai mai, perché odi gli orpelli.
Buon compleanno, Traffy. Anzi, Capitano.
 
«Un regalo fatto con il cuore» commentò dopo poco
«Più cuore di così» feci io, sorridendo. E forse per la prima volta da quando lo avevo conosciuto, vidi sorridere anche lui, di un sorriso sincero. Se non lo avessi conosciuto avrei detto perfino grato. Ripensai a tutte le notti in cui avevo pianto, convincendomi che avevo fatto la scelta sbagliata. Ripensai al povero negoziante a cui avevo distrutto la gioielleria e al rimorso che avevo per averlo fatto. All’infarto che mi era preso nel ritrovarmelo a pochi passi da me su quell’isola su cui non dovevo assolutamente essere. Al mal di braccia che avevo avuto per giorni per aver remato incessantemente. Ai pesanti addestramenti di Bepo, che mi sfinivano ogni volta. A tutti i libri di medicina che avevo dovuto studiare, alle terribili autopsie che mi aveva costretto a fare, all’impertinenza di Shachi e Penguin, ai turni in cui mi toccava pulire i bagni. Alle volte in cui avrei voluto scappare via da quell’incubo e tornare nel mio mondo o correre dai mugiwara. A tutto ciò che mi era capitato e che mi sembrava orribile. Ma poi pensai che per quel sorriso ne valeva la pena. Tutto ciò che avevo passato era scivolato via in un istante. Era quello il potere di un sorriso sincero. Di un suo sorriso sincero.
«Suppongo che dovrei ringraziarti ora» disse, riportandomi alla realtà.
Io feci spallucce e gli porsi il bicchiere. «Oppure potresti versarmi del vino».
 
Mi appoggiai allo schienale della sedia, le braccia incrociate e il bicchiere mezzo pieno ancora in mano. Doveva essere il terzo, o forse il quarto. Avevo perso il conto, ma ero alquanto rilassata.
Risi sommessamente e indicai la bottiglia di vino ormai quasi vuota. «Dovresti compiere gli anni più spesso»
Law a sua volta indicò il piatto dove prima c'era la torta, ora contenente solo briciole. E pensare che l’avevo fatta per tutti.
«E tu dovresti cucinarmi torte più spesso».
Bevvi un lungo sorso di vino e alzai il calice. «Abbiamo un patto».




Angolo autrice
Salve a tutti! Eccomi qui con un altro capitolo. Volevo dire solo due paroline sul metodo di spedizione del regalo per Marco. Come avrete capito, è un metodo completamente inventato da me. In questa impresa mi ha aiutato la mia amica, anche lei scrittrice qui su EFP, _Lady di inchiostro_ , che si è sforzata di trovare una soluzione insieme a me ed infine ha concordato che suddetto metodo potesse essere il più azzeccato.
Quindi grazie di cuore _Lady di inchiostro_ <3 e un grazie in anticipo a tutti coloro che vorranno recensire! <3
Come sempre (lo ripeterò fino alla noia), spero che questo capitolo vi sia piaciuto.
A presto!

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Capitolo 16
*** Addestramento ***


Fu bello scoprire che nel giorno del mio compleanno, Law fece lo stesso per me. Anzi, fece anche di più. Scoprì quando era il mio compleanno, per cominciare. Io non lo avevo detto a nessuno per non creare imbarazzo o far sentire i componenti della ciurma in dovere di fare qualcosa, e mi stupii non poco quando i miei compagni mi svegliarono entrando impetuosamente e chiassosamente nella mia stanza, gridando “tanti auguri”. Ryu aveva preparato una torta deliziosa per me e c’erano ben diciotto candeline sopra. Soffiai su di esse come se fosse di vitale importanza spengerle. Fu un giorno felice, ma anche malinconico, considerato che da sempre progettavo di passare il mio diciottesimo con i miei familiari e amici. Li pensai per tutto il giorno e mi scese anche una lacrimuccia. Stavo diventando grande, adulta, una donna, e loro non potevano vederlo. O forse sì, ma comunque non erano lì con me. Li avrei tanto voluti accanto in un giorno speciale ed importante come quello, ma dovevo accontentarmi dei miei compagni un po’ goffi e impacciati. E mangioni, soprattutto. Ero riuscita a prendere appena una fetta di torta prima che se la spazzolassero tutta in quattro e quattr’otto. Erano quasi peggio di Rufy. Ma avevo imparato a voler loro bene, come loro avevano imparato a farlo con me. O almeno credevo. Ma nessuno ancora mi aveva ucciso nel sonno e quello era un buon segno. Comunque, quel giorno non avevo turni di nessun genere e non dovevo fare niente. Anche io, come il chirurgo, dovevo compiere gli anni più spesso.
Quando tutti si furono dileguati, spuntò il mio capitano, con un pacchetto in mano. Me lo diede senza dirmi niente ed io lo aprii, non senza un po’ di emozione.
«Non può aprire il mio cuore. Ma almeno può chiudere la tua porta» sogghignò e io feci altrettanto. Mi aveva regalato una collana, il cui ciondolo era una chiave d’argento con una “C” arancione dipinta sopra. Per molti quello poteva sembrare un regalo stupido, ma per me significava molto. Quella chiave significava che Law mi rispettava, mi ascoltava e in qualche modo ci teneva a me. Era come se mi avessero dato una promozione, come se mi avesse detto che ora mi ero guadagnata la sua fiducia. Il primo giorno in cui avevo messo piede sul sottomarino gli avevo chiesto della chiave e mesi dopo ancora se ne ricordava. Per me questo valeva più di qualsiasi altra cosa. In più, l’arancio era il mio colore preferito, per cui non potevo non apprezzare il suo regalo. Era mio e mio soltanto e l’iniziale che vi era sopra lo dimostrava.
«Sai che odio i gioielli e che non li porto» dissi scherzosamente
«Lo so benissimo. Ti ho solo ricambiato il favore» fece sarcastico
«Beh, suppongo che dovrò ringraziarti».
Lui tirò fuori una bottiglia di vino bianco e me la tirò. Per poco non cadde.
«Goditela» ghignò e fece per andarsene.
«Law» lo richiamai. Si girò verso di me.
«Grazie, davvero».
Fece un cenno con la testa e si allontanò. Non dissi niente a riguardo perché sapevo che aveva del lavoro da svolgere. Da settimane ormai stava chiuso in laboratorio a dannarsi con qualcosa che gli impegnava le giornate e probabilmente non lo faceva dormire la notte, ma contai di tenere da parte un po' di vino per lui, così avremmo potuto scolarcelo insieme.
 
 
I giorni passavano e con essi la mia voglia di fare addestramento con Bepo. Fuori dalla palestra – o meglio, dalla stanza che era stata allestita come palestra – adoravo quell’orso polare, ma durante l’addestramento...avrei voluto essere più abile solo per vedere la sua testa rotolare giù dal corpo. Era come se si trasformasse quando combatteva o quando mi insegnava a combattere. Una sorta di Dottor Jekyll e Mr. Hide. Sembrava posseduto da un demone, tanto che qualche volta mi faceva paura. Oltre alla violenza fisica, il visone faceva anche violenza psicologica, alle volte. Era peggio che stare nella marina militare. Se avesse continuato di questo passo, sarei morta prima di poter combattere in una battaglia vera.
Camminavo verso la palestra, o meglio, trascinavo i piedi con la testa bassa, consapevole che mi avrebbe atteso un altro terribile allenamento. Non mi sbagliai. Fu un’ora e mezza di pura tortura. Il navigatore si era messo in testa che dovevo imparare a combattere anche senza ascia, nel caso i miei avversari mi avessero disarmato. Nei mesi precedenti avevo imparato qualche mossa “ginnica” e oggi toccava al salto mortale. Shachi e Penguin mi reggevano mentre io mi davo la spinta con le gambe e contraevo i muscoli. All’ennesimo salto di fila che feci, ricaddi in ginocchio. Ero esausta e mi era venuto a mancare anche il sostegno delle braccia dei miei due compagni, che ora si massaggiavano i bicipiti.
«Ancora. Devi riprovare finché non sarai in grado di eseguirlo perfettamente. In battaglia non ci saranno loro ad aiutarti e non avrai né tempo per pensare, né margine d’errore»
«No. L’abbiamo ripetuto almeno una cinquantina di volte di fila e siamo tutti sfiniti. Per oggi direi che può bastare» pronunciai in tono aspro, rialzandomi.
I due accanto a me annuirono dandomi ragione.
«Questi due sono sfaticati, un po’ di allenamento farà bene anche a loro. Per quanto riguarda te, finché siamo in questa stanza devi obbedire ai miei ordini.»
«Non lo farò. Non stavolta. E poi, mi pare che il tuo compito sia quello di insegnarmi a combattere. Non devo diventare prima ballerina.»
«Io lo faccio per te.» mi disse, lo sguardo fermo come non lo avevo mai visto
«Cosa? Farmi fare salti mortali fino a portarmi all’esasperazione? Ti posso assicurare che te ne sono molto grata» feci sarcastica alzando un sopracciglio e incrociando le braccia al petto.
Lui non mi rispose. In meno di un secondo lo vidi volteggiare sopra le nostre teste, poi sentii uno spostamento d’aria all’altezza del viso e mi ritrovai a terra, con un dolore lancinante alla tempia, senza sapere come ci fossi finita.
Mi portai una mano alla testa. Buttai fuori l’aria come se in qualche modo avessi potuto buttare fuori anche il dolore e rimasi sul pavimento ancora per qualche istante. Ero stordita e la vista era sfocata.
«Ma ti sembra questo il modo di trattare una signora!?»
Sanji?
«Ma che modi sono!? Brutto visone ignorante!»
No. Penguin e Shachi.
Insultarono Bepo come non avevo mai sentito insultare nessuno. Mi vennero vicino per aiutarmi a rialzarmi, ma li fermai.
«Sto bene» annunciai tirandomi su. Da lassù il mondo sembrava girare un po’. Forse avevo una commozione cerebrale. L’importante era non avere segni, di qualunque tipo. Se quel maledetto orso avesse osato rovinare il mio bel faccino gliel’avrei fatta pagare.
Prima che potessi perfino respirare, vidi il visone girarsi su se stesso con una rapidità impressionante, alzare la gamba e puntarla dritta verso il mio volto. Non avrei fatto in tempo a scansarmi. Il suo piede si fermò a due centimetri dalla mia guancia destra. Deglutii e guardai l’arto poco distante da me, terrorizzata.
«Ora capisci? Non si può esitare in combattimento. In battaglia i nemici non si faranno scrupoli a farti del male e di certo non aspetteranno che tu ti riprenda prima di sferrarti un altro colpo. Per questo non devi mai mostrarti vulnerabile» lo disse in modo dolce, come il Bepo che conoscevo. Aveva ragione. Lo guardai e annuii. Abbassò la gamba e chinò il capo, in segno di scuse.
«Mi dispiace di averti fatto male. Possiamo fermarci per oggi. O preferisci fare una pausa e poi ricominciare?»
«Niente pausa. Riprendiamo» affermai decisa.
Non potevo permettergli di vincere.
 
«Cerca di prevedere dove colpirà l’avversario. Osserva gli occhi! E poi schiva!»
Guardai dove puntava il suo sguardo. Destra. Puntava a destra! Spostai il peso del corpo sulla gamba sinistra e cercai di schivare. Peccato che mi arrivò un pugno proprio sulla guancia sinistra. Non era un colpo forte, ma faceva male ugualmente.
«Non hai osservato attentamente!» si lamentò l’orso
«Sì invece!» mi massaggiavo lo zigomo e lo guardavo con odio
«Non hai guardato fino alla fine! Non hai percepito
Corrucciai la fronte. «Che devo percepire? Tu mi hai detto di guardare gli occhi per vedere la direzione in cui puntavano e io l’ho fatto!»
«Io ti ho detto di osservare gli occhi. È comune che un avversario faccia una finta, come ho fatto io ora. Devi percepire e capire. È in questo che consiste un combattimento. Potrai non essere forte, o agile, o veloce, ma se sai anticipare le mosse del tuo avversario, in parte hai già vinto»
«Quello che dici è giusto. Ma perché mi hai colpito!?» ero furiosa
«Perché devi darti una svegliata! È ora che iniziamo a fare sul serio. Non potrai nasconderti su questo sottomarino per sempre, Law prima o poi ti porterà con sé e se ci sarà da combattere non avrai scampo. Non ci sarà nessuno a proteggerti. Sarà tutto nelle tue mani»
Abbassai lo sguardo a quelle parole. Sapere che la mia vita era solo ed esclusivamente nelle mie mani, mi rendeva un po’ nervosa. Ovviamente sapevo che non poteva essere altrimenti, che la mia vita dipendeva da me e da me soltanto, però se pensavo che mesi prima non avevo nemmeno idea di come si tenesse un’arma in mano, mi veniva un po’ di magone. Certo, non pretendevo di avere un intero esercito a proteggermi, ma abbandonarmi a me stessa nel bel mezzo di una battaglia non mi pareva molto saggio.
Sbuffai mentre mi asciugavo la fronte imperlata di sudore con un asciugamano. Lo passai sul resto del viso e frizionai anche nuca e collo, poi bevvi un sorso d’acqua – che prosciugò mezza bottiglia – e mi alzai dalla panca su cui ero seduta.
«Su, riprendiamo» fece Bepo indicando l’ascia «oggi togliamo i proteggi lame».
Fino a quel momento mi ero allenata con le lame della mia Mr. Smee protette da copri lama in plastica, per rendere più sicuro l’addestramento.
«Sei sicuro che sia una buona idea?» Penguin mi precedette. Avrei voluto chiederglielo io.
«Dobbiamo iniziare a fare sul serio» si limitò a rispondere l’orso. Questo voleva dire che non pensava che fosse una buona idea, il che non era affatto rassicurante. Provai a dirgli che non mi sentivo pronta, ma lui ignorò tutte le mie lamentele e suppliche. Alzai gli occhi al cielo, consapevole che non c’era verso di fargli cambiare idea. Presi la mia ascia e mi misi in posizione. Gambe divaricate e piegate e mani sull’arma all’altezza del petto, come mi aveva insegnato il visone, che si mise anch’esso in posizione da combattimento. Ero un po’ agitata ma sapevo che l'agitazione non sarebbe servita a nulla, anzi, forse mi avrebbe addirittura nuociuto, quindi cercai semplicemente di liberare la mente.
«Avanti. Cerca di colpirmi. Senza paura.»
“Senza paura”. Era una parola – o due –. Era facile parlare quando si sapeva combattere. Non era per lui che avevo paura. Era per me stessa. Come darmi torto, in fondo? Cercai di scacciare quei pensieri di incertezza con un movimento rapido della testa e mi preparai a combattere. Sul serio, stavolta.
Bepo alzò le sue sottili e impercettibili sopracciglia, invitandomi a fare la prima mossa. Se era quello che voleva, l’avrei accontentato senza pensarci due volte. Allungai l’ascia di una misura e mi scagliai su di lui con una furia che non avevo mai avuto e che nemmeno pensavo di avere. Parò il colpo, come c’era da aspettarsi. Poi, fece una strana giravolta su se stesso e mi respinse. Indietreggiai di qualche passo, mi rimisi in posizione ed attaccai un’altra volta. Stavolta però, provai a colpirlo su un fianco. Non funzionò lo stesso, perché lui prontamente afferrò il manico della mia ascia e senza sapere che strana magia avesse fatto, mi ritrovai suo ostaggio. Era riuscito a strapparmi dalle mani la mia amatissima Mr. Smee e mi aveva intrappolato, la mia schiena contro di lui e la sua mano puntata alla gola, a simulare un coltello o una spada. Ero bloccata. E in trappola. “Se non sai cosa fare, improvvisa! Saper combattere è anche questo” le parole che mi aveva detto una volta l’orso polare mi risuonarono nella mente. E così feci. Improvvisai. Alzai di poco la gamba e colpii più forte che potevo il suo piede con il mio tallone. A quanto pare dovevo avergli fatto male, perché allentò la presa per un secondo, il secondo che mi bastò per liberarmi, riprendere l’arma e puntargliela alla gola. Niente esitazioni. Sorrisi soddisfatta e compiaciuta.
«Complimenti. Mi hai battuto» riconobbe lui «ma...regola numero uno in battaglia...»
Assottigliai gli occhi. Fu troppo tardi quando capii.
«Mai abbassare la guardia!» gridò afferrando il manico dell’alabarda e facendomi capovolgere in aria. La scelta più saggia sarebbe stata abbandonare la presa, ma non avrei lasciato la mia Mr. Smee in mano al nemico. Prima che potessi schiantarmi al suolo, poggiai una mano per terra e mi diedi la spinta necessaria a riatterrare in piedi. Tuttavia, l’ascia era ancora contesa tra me e l’orso, che la impugnava saldamente e ne approfittò del mio breve momento di leggera instabilità per muovere velocemente il braccio all’indietro, come se stesse sferrando un colpo di frusta. Feci un volo oltre le sue spalle di un metro e mezzo in altezza e almeno due in lunghezza ed insieme a me la mia arma. Per fortuna non sbattei la testa. Però caddi con un tonfo fragoroso, battendo la spalla e il fianco sinistri. Fu inevitabile sentire dolore. Non sapevo se era frutto della mia immaginazione o era successo per davvero, ma giurai di aver sentito un “crack”. Però non lasciai che ciò mi fermasse. Mi rialzai quasi subito e impugnai di nuovo l’ascia. Bepo mi aspettava sorridente. Forse era impressionato dal fatto che io fossi riuscita a rialzarmi. Ci scontrammo di nuovo; e di nuovo parò il colpo. Solo che stavolta insistetti. Pensavo che prima o poi avrebbe ceduto. Spinsi con tutta la forza che avevo. E fu quello il mio errore. Sentii un dolore acuto e lancinante alla spalla. Per un attimo vidi tutto bianco. Lasciai involontariamente la presa sull’ascia – che tenevo proprio nella mano sinistra – e subito dopo mi lasciai sfuggire un lamento sofferente. Quando la vista ritornò normale, la prima cosa che vidi fu il navigatore. Era in piedi, immobile ed impietrito. Poi mi resi conto che il lamento che avevo emesso poco prima, non era a causa della spalla. Guardai in basso, prima il mio avambraccio destro e poi il fianco. Erano entrambi coperti di sangue.
«Oh oh» dissi. Era davvero il mio sangue? Osservai Bepo. Non sembrava avere ferite, stava bene a parte lo shock dipinto sul suo volto. Fissai l’ascia, ora tutta insanguinata. Sentivo dolore, ma nemmeno troppo. Non ero neanche sicura di cosa mi facesse male.
«Bepo! Ma che cazzo hai combinato!?» dietro di me sentii le voci di Shachi e Penguin, ma non riuscivo a distinguerle bene. Spostai il peso del mio corpo all’indietro e i due pirati mi ripresero prontamente. A quella scena, l’orso sembrò riprendersi.
«Capitano! Capitano!» urlò, sfrecciando via dalla stanza.




Angolo autrice
Ciao a tutti!
Finalmente è arrivato il tanto atteso (?) momento: Cami che si cimenta con i duri allenamenti di Bepo e combina disastri come suo solito. A parte gli scherzi, come sempre spero che il capitolo vi sia piaciuto. Fatemi sapere che ne pensate, se ne avete voglia. :)
Alla prossima!

P.s. Mi scuso per il breve paragrafo sul compleanno di Cami, fosse stato per me avrei dedicato un capitolo intero a quella giornata, ma per quanto possibile sto cercando di restringere i tempi perché ci sono ancora tante cose da dire e da fare e se mi soffermassi su tutto ciò su cui mi vorrei soffermare, "Lost girl" diventerebbe davvero una storia infinita. Rischieremmo di fare come con One Piece e io non voglio prolungare ulteriormente la vostra sofferenza. :D
Mi auguro comunque che sia stato un paragrafo esauriente e che abbiate apprezzato. :)
Di nuovo alla prossima!

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Capitolo 17
*** Incidenti ***


«Oh oh» avevo detto, guardando in basso. Poi ero ricaduta all’indietro e Penguin e Shachi mi avevano afferrato. Bepo aveva fissato le mie ferite per un po’, poi si era ripreso e si era catapultato fuori della stanza chiamando Law a gran voce. Questo è tutto ciò che ricordo. Non avevo perso i sensi, semplicemente non mi ricordavo come avessi fatto ad arrivare sul lettino dell’infermeria. Ed ora ero lì, con un tizio che mi stava disinfettando il braccio e la parte destra dell’addome. Non ero nemmeno sicura di sapere il suo nome. Lo lasciai fare, osservando il tutto in silenzio. Era pur sempre un’occasione per imparare. Quando finì di pulire le ferite, scostò la sedia dal lettino e si tolse i guanti in lattice. Se non fossi stata troppo stordita per parlare, gli avrei chiesto dove stava andando. Rimasi stesa per un paio di minuti e fissai le ferite. Senza tutto quel sangue, sembravano molto più innocue. Erano pur sempre due notevoli squarci, però. Sentii dei passi in lontananza e la porta scricchiolare.
«Vedi cosa succede a prendersela con gli orsi polari lamentosi?»
Avevo la vista un po’ sfocata – forse per la quantità di sangue che avevo perso – ma non c’era bisogno di vedere per capire chi fosse.
«Gli chiederò un risarcimento per danno biologico alla mia persona» cercai di essere spiritosa, per sdrammatizzare, ma la voce mi uscì leggermente impastata. In più, oltre alle ferite che mi aveva procurato l’ascia, provavo dolore anche per i calci di Bepo e per la botta che avevo preso ricadendo per terra. Insomma, ero stata sicuramente meglio.
«Sarai tu a ricucirmi?» chiesi dopo aver fatto mentalmente il punto della situazione
«Non temere, sarò delicato» ghignò, mentre si infilava i guanti. Rabbrividii leggermente. Avevo imparato a non fidarmi di quel suo ghigno malefico. Non portava niente di buono.
Come sempre, il mio istinto aveva ragione. Un bagliore di terrore attraversò i miei occhi quando lo vidi con una siringa in mano.
«C-che ci devi fare con quella?» domandai balbettando e cercando di indicare l’oggetto. Sembrò sorpreso della mia domanda e mi rispose quasi scocciato, come se fosse ovvio. Io, poi, che stavo studiando medicina avrei dovuto saperlo meglio di tutti. E lo sapevo, poteva starne certo, ma semplicemente desideravo e speravo che si fosse sbagliato o che l’iniezione non fosse destinata a me.
«Devo anestetizzare le ferite. O vuoi provare il brivido di sentir ricucire i lembi della tua pelle con l’ago una trentina di volte?» sorrise ancora, più sadico che mai.
Scossi la testa. Aghi, troppi aghi. Aghi ovunque. No. Non mi avrebbero avuta. Mi alzai e mi misi a sedere sul bordo del lettino, con cautela. Law era di spalle, intento a prendere il filo da sutura. Quando si rigirò, mi guardò con uno sguardo che non ammetteva repliche.
«Capitano» esordii «sto bene. Me ne torno nei miei alloggi. Non c’è bisogno di farti perdere ulteriormente tempo. Arrivederci».
Poggiai i piedi per terra ma esitai prima di muovere un passo. Mi girava un po’ la testa e la cosa peggiore che avessi potuto fare sarebbe stata cadere come una pera cotta davanti al chirurgo. Chissà che in quel caso non avrebbe deciso di farmi una flebo. Avrei avuto ancora aghi infilati nella carne, tanto per non farmi mancare nulla.
«Mi stai facendo perdere tempo ora. Torna a distenderti sul lettino.» ordinò, aspro. Il suo tono di voce e il suo modo di fare mi ricordarono di quella volta che mi ero presa un’insolazione, nel mio mondo e di quando il mio – allora non ancora – capitano aveva spinto la mia testa con due dita sul cuscino per impedirmi di alzarmi e andarmene. Pensavo che il nostro rapporto fosse cambiato, che avessimo fatto dei passi in avanti. Invece mi sbagliavo. O forse, era davvero così e lui semplicemente non sopportava le persone codarde, come lo ero io in quel momento. Obbedii e mi rimisi sdraiata.
 
Guardai l’intero processo. Ci volle circa una mezz’ora per suturare le ferite e per me fu quasi una tortura. Mi ci vollero trentuno punti di sutura per ricucire i lembi di pelle, dodici per il braccio e diciannove per il fianco. La parte più dolorosa fu quando Law conficcò l’ago contenente il liquido anestetico nelle lacerazioni. Era così che si doveva fare, lo capivo, ma faceva un male cane uguale. E pensare che nel mio mondo molte persone mi prendevano in giro per questa mia paura “irrazionale” degli aghi. Avrei voluto vedere loro al mio posto! Comunque, quando il chirurgo iniziò a mettermi i punti, l’anestesia locale aveva fatto effetto e non avevo sentito alcun dolore, solo una leggera pressione. La parte brutta era stata il dover guardare ogni passaggio di quella operazione. Dovevo osservare per poter imparare, aveva detto il capitano, perché un giorno avrei dovuto farlo anche io, forse perfino su me stessa, e a quel punto non ci sarebbe stato nessuno ad aiutarmi o a guidarmi passo per passo e se avessi sbagliato avrei potuto pagarne caramente le conseguenze. La medicina è una cosa molto delicata. È un po’ come andare in battaglia. Un’esitazione, un minimo sbaglio e sopraggiunge la morte. Solo che non sei tu a morire, ma la persona che ha affidato la propria vita nelle tue mani. Un fardello piuttosto pesante da portare, un fardello che ancora non ero pronta a sostenere, ma che prima o poi avrei inevitabilmente dovuto caricare sulle spalle.
Quando finì quello che doveva finire, il moro ebbe anche il coraggio di chiedermi se sapevo dirgli perché non aveva usato una garza per coprire le ferite suturate. Non gli risposi. Ero ancora troppo rintronata per fare qualsiasi cosa, perfino per cercare di ribattere alla sua “comunicazione” che, sebbene le ferite non fossero profonde, sarebbe stato meglio se fossi rimasta un paio di giorni in osservazione in infermeria. Avevo pur sempre perso una quantità di sangue non indifferente e avevo anche altre contusioni ed era bene che non mi sforzassi troppo, per non far saltare i punti. Li osservai e feci una faccia un po’ schifata, ricordandomi di quanto avevo visto poco prima. Poi guardai Law cestinare i guanti e pulire e rimettere a posto gli strumenti. Di solito erano gli assistenti che facevano queste cose, ma lui era meticoloso e non voleva che qualcuno si occupasse di ciò che era suo. Fece il giro del lettino e si avvicinò a me. Iniziò ad alzare ed abbassare il mio braccio sinistro. Poi passò alla spalla, stavolta facendole compiere movimenti circolari. La toccò e io mi feci sfuggire un sussulto. Non solo mi faceva male, ma aveva anche le mani fredde.
«È solo una contusione. Basterà applicare una pomata e tra qualche giorno il livido scomparirà» sentenziò. Dopodiché, mi abbassò leggermente i pantaloncini – non senza un certo imbarazzo da parte mia – e controllò la coscia. C’era un brutto livido anche lì, però era sempre una contusione, niente da temere, dunque. Il mio capitano si offrì perfino di spalmarmi la crema sul momento, ma io risparmiai l’imbarazzo ad entrambi e declinai gentilmente l’offerta.
«La faccia come sta?» chiesi infine, preoccupata di aver subito qualche deformazione. Lui prese il mio mento con l’indice e il pollice della sua mano e mi girò delicatamente il viso.
«Ha passato periodi migliori» constatò dopo averlo osservato attentamente. Non lo disse con freddezza ma quasi come se fosse una battuta. Infatti un mezzo sorriso era apparso sul suo volto.
«Chi bello vuole apparire, un poco deve soffrire» feci io, ridendo delle mie stesse parole e facendo subito dopo una smorfia di dolore. I punti tiravano. Lui mi rivolse uno sguardo di rimprovero ed io non parlai più.
 
Poco dopo qualcuno bussò alla porta e Law fece entrare il misterioso visitatore, che si rivelò essere Bepo. Avanzò a testa china e per quel poco che potei vedere, sul suo viso c’era dipinta un’espressione estremamente mortificata. Il capitano gli fece cenno di prendermi tra le braccia e di trasportarmi nel letto dalla parte opposta della stanza. Mi sollevò con una delicatezza quasi surreale, quasi come se fossi una bambola di porcellana fragilissima e potessi rompermi da un momento all’altro se avesse applicato troppa pressione. Fu molto accorto anche nel breve viaggio dal lettino al letto vero e proprio, evitando di sballottarmi troppo. Si premurò perfino di coprirmi con la coperta. Evidentemente doveva sentirsi molto in colpa per quello che mi era capitato. Ma non era colpa sua, come poteva esserlo? Era vero, mi aveva lanciato in aria senza pensarci due volte ed io ero riatterrata in malo modo, ma le ferite me le ero procurata da sola, perché non ero stata abbastanza attenta nel valutare la situazione.
Il moro, capendo prontamente la situazione, se ne andò e ci lasciò soli. Non si disturbò nemmeno ad inventarsi una scusa. Non che ce ne fosse bisogno, ma di solito era consuetudine fare così, almeno da dove venivo io. Era questo che amavo ed odiavo allo stesso tempo di lui. Se ne fregava delle convenzioni e non era imbarazzato nel fare ciò che andava fatto. Per quanto potesse apparire controllato, distaccato, freddo e calcolatore, era comunque un pirata, un capitano, e quindi uno spirito libero. O perlomeno, lo era da quando non aveva più vendette da attuare contro ex draghi celesti membri della flotta dei 7.
«Sono profondamente dispiaciuto per l’accaduto» Bepo, con le mani congiunte e il capo chino, richiamò la mia mente alla realtà. Girai la testa verso di lui, sospirai e portai la mia mano “sana” sopra le sue.
«Non è stata colpa tua, Bepo. Tu stavi solo cercando di insegnarmi» gli dissi dolcemente. Poi continuai. «In più, tecnicamente sono stata io ad infliggermi le ferite, quindi sei scagionato da ogni accusa».
Gli sorrisi, cercando di non farlo sentirlo in colpa più di quanto già si sentisse, ma non sembrò funzionare.
«È stata colpa mia. Non avrei dovuto forzarti così. Dovevo capire che non eri pronta» aveva un tono amareggiato e teneva ancora la testa bassa.
Sospirai ancora. Dovevo fargli entrare in quella stupida testa pelosa che non aveva nessuna colpa. Non che un pochino non lo incolpassi, ma di questo non ne sarebbe di certo venuto a conoscenza.
«Non sei tu che dici sempre che la battaglia non aspetta?» chiesi, retoricamente. Lui annuì debolmente.
«Ecco. Quindi non devo essere pronta, ma preparata. Tu mi stai addestrando ad essere preparata e gli incidenti capitano durante il processo. Anzi, meglio che tutto questo sia successo qui, sul sottomarino, sotto gli occhi del migliore chirurgo in circolazione, che non durante un combattimento vero e proprio»
«Avrei dovuto prestare più attenzione» piagnucolò
«Non sono morta, ok? Non è successo niente che con qualche giorno di riposo non si possa risolvere. Vedrai che ci dimenticheremo tutti in fretta dell’accaduto e tra un paio di settimane riprenderemo l’allenamento come se nulla fosse»
«No. Io...io sarei dovuto essere più prudente. Quando si tratta di combattere mi trasformo in un’altra persona, in un mostro, e non mi rendo conto di quello che faccio...non posso più farti da maestro. Chiederò a Jean Bart di sostituirmi. Lui ci sa fare con queste cose e poi...»
«Bepo!» lo interruppi. «Non chiederai a nessuno di sostituirti.» gli presi la testa tra le mani e incastonai il mio sguardo al suo. «Io voglio che sia tu ad addestrarmi. Tu sei il migliore maestro che potessi desiderare. Non sei un mostro, ma un combattente. Io voglio che sia un combattente ad addestrarmi. Non mi addestrerò con nessun altro all’infuori di te. Chiaro?»
Si morse il labbro, perplesso sul da farsi.
«Ma guarda! Guarda cosa ti ho fatto!» esclamò prendendo dalla mensola uno specchio e puntandomelo dritto in faccia. Vidi il mio riflesso e per un attimo mi spaventai. Sullo zigomo destro e sulla guancia sinistra c’erano due chiazze violacee non indifferenti. Mi avvicinai un po’ per capire se quelle non fossero allucinazioni. No, avevo visto benissimo. Le toccai. Mi facevano un po’ male. Pensai che se mia madre mi avesse vista così le sarebbe preso un colpo. Mio zio avrebbe dato di matto e i miei amici avrebbero riso di me, facendo congetture su come avessi fatto a ridurmi in tale modo. L’ipotesi più quotata sarebbe stata che ero caduta dalle scale, ma avrebbero potuto scherzare sul fatto che avessi fatto a botte. La nostalgia si stava facendo strada nella mia mente e mi sfuggì un sospiro.
«Mi dispiace tanto, non sai nem...»
«Guariranno. Sono solo lividi. Non mi hai deformato il viso» mi affrettai a dire, anche se un po’ incerta. Non avevo ossa rotte o deformazioni, vero? No, Law me lo avrebbe detto altrimenti.
«Ma potrebbero rimanerti per sempre le cicatrici, per colpa mia, per questo stupido incidente che poteva essere evitato! Che io potevo evitare!» gridò.
Cicatrici? Parlava sul serio? Mi sarebbero rimaste le cicatrici? Mi intristii un po’ al pensiero, ma cercai di non darlo a vedere. Dovevo chiederlo al chirurgo.
«Non importa. Potrò pur sempre mostrarle con orgoglio ai miei figli e raccontare loro in quale modo eroico me le sono procurate. Sono cicatrici di guerra, dopotutto»
«Ma io...» iniziò il navigatore. Lo fulminai con lo sguardo, sbuffando dal naso. Alzai le sopracciglia per assicurarmi che il concetto gli fosse arrivato alle orecchie – e soprattutto che l’avesse recepito – forte e chiaro.
«D’accordo. Grazie di avermi perdonato» abbassò ancora la testa, sorridendo sollevato. Era stato quasi un parto, ma finalmente l’aveva capito.
«Se c’è qualsiasi cosa che posso fare, chiedi pure» annunciò. Stavo per congedarlo, perché ero stanca e avevo bisogno di riposare e tutta quella faccenda mi aveva un po’ innervosita, ma poi ci ripensai e lo mandai in camera mia a prendere il mio smartphone, le cuffie e il caricabatterie. Prevedevo che sarebbero stati dei giorni di degenza noiosi, dovevo passare il tempo in qualche modo.

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Capitolo 18
*** Notti inquiete ***


Avevo passato in infermeria quattro giorni e tre notti e per la quasi totalità del tempo era stata una noia mortale. Non avevo fatto altro che ascoltare musica, guardare le foto nella galleria del telefono e giocare agli stupidi giochi che avevo scaricato nel mio mondo. Non ne potevo più. Due volte al giorno Law passava a controllare le mie “condizioni” e spalmava una pomata su tutte le mie tumefazioni, che da nere e viola erano diventate verdastre. Bepo passava a trovarmi ogni giorno, mi chiedeva come stavo e io puntualmente gli rispondevo che andava alla grande, per non fargli venire altri complessi. Sarei stata capace di sputargli in faccia se si fosse autocommiserato ancora. Poi mi raccontava di come era andata la giornata e di cosa aveva fatto di bello. Shachi e Penguin venivano dopo di lui e mi ripetevano che se avessi voluto far fuori l’orso mi sarebbe bastato far loro un fischio. Ridevamo insieme delle scemenze che dicevano, anche se si erano parecchio indignati per il trattamento che mi aveva riservato il visone e se non avessi loro imposto di non fare niente contro di lui, probabilmente qualcuno sarebbe stato a farmi compagnia fissa là in infermeria. I due però non stavano mai molto, perché avevano sempre qualcosa di meglio da fare. Maya e Omen, invece, venivano a portarmi i pasti – puntualmente purea di patate e polpette – e mi svelavano tutti gli ultimi pettegolezzi, soprattutto quelli più succulenti. Una volta era venuto perfino il cuoco a trovarmi. Aveva riso di me e della mia situazione e io tra me e me avevo giurato che mi sarei vendicata. Almeno il pranzo che mi aveva portato era buono.
Erano stati solo tre giorni, ma mi erano sembrati un mese. E ora che per la prima notte ero tornata a dormire nella mia stanza e nel mio letto, non riuscivo a prendere sonno. Mi rigiravo all’infinito tra le lenzuola, senza trovare pace. Non potevo sdraiarmi sul fianco destro – per ovvie ragioni – e non riuscivo a scoprire quale fosse la posizione giusta per coricarsi. All’ennesimo tentativo fallito, incrociai con accortezza le braccia e sbuffai ripetutamente. Come quasi ogni notte, eravamo riemersi in superficie e ci eravamo fermati, ed ora perfino la luce della Luna che filtrava dall’oblò pareva darmi fastidio. In infermeria non avevo di questi problemi. Girai la testa verso il comodino, su cui c’era poggiato un flacone di antidolorifici. Ne presi una pasticca. Un po’ mi facevano male i punti. Forse era per quello che non riuscivo a dormire. Mi agitai nel letto ancora un po’ aspettando che facesse effetto. Decisi di alzarmi definitivamente quando mi venne sete. Aprii piano la porta per non farmi sentire da nessuno e mi avviai verso la cucina. Era buffo. Ormai la cintura di Usop era praticamente diventata parte di me. Non me la toglievo neppure per andare a letto o per fare una retata furtiva notturna in cucina.
Stavo camminando per il lungo corridoio, attenta a non fare rumore, quando sentii dei versi provenire da una delle cabine. Un po’ mi spaventai, ma mi ripresi subito e cercai di capire a chi appartenesse la stanza incriminata. Quella sembrava essere la camera del capitano. Lo era, ne ero sicura. Shachi mi aveva mostrato la sua posizione una settimana prima. All’inizio mi meravigliai non poco, perché pensavo che Law stesse facendo sesso. Poi però ascoltai meglio e mi resi conto che quelli che stavo udendo erano lamenti. Aspettai per qualche minuto fuori dalla sua porta, per cercare di capire cosa stesse succedendo, ma i gemiti non accennavano a fermarsi. Che stesse piangendo? Che si fosse fatto male? Che avesse bisogno di aiuto? Che stesse sognando? Bussai senza pensarci. Nessuno mi rispose. Entrai, molto cautamente e chiedendo permesso. Era buio e non riuscivo a vedere bene. Ma sentivo. Sentivo chiaramente dei rumori abbastanza inquietanti e sinistri. Non avevo il cellulare con me e non potevo illuminare la stanza. Non potevo nemmeno accendere la luce perché non avevo idea di dove accidenti fosse l’interruttore. Così, procedetti a tastoni verso la presunta origine di quei versi. Sperai di non urtare né far cadere niente nel mentre. Con la mano sinistra, tastai qualcosa di morbido. Un letto. Era un letto. Procedetti ad esplorare finché non toccai qualcosa di duro. Ritrassi immediatamente la mano. Era un ginocchio. Il ginocchio di Law. Mi aveva sentito? Per quanto ne sapevo, se lo avessi svegliato starei subendo la sua ira, o almeno le sue minacce di morte. Quindi no, non mi aveva sentito.
«Non lasciarmi...» sentii sussurrare angosciosamente. Mi avvicinai al viso del mio capitano, che per quanto riuscivo a vedere era imperlato di sudore.
«Traffy?» lo chiamai debolmente
«No...ti prego...no!» la sua voce era rotta, accompagnata da un’espressione inquieta. Aveva il fiato corto, il suo petto si alzava e si abbassava rapidamente, i polmoni erano bramosi di ossigeno, la pelle madida di sudore.
«Traffy» provai a richiamarlo con un po’ di preoccupazione. Non si svegliava. Continuava ad agitarsi nel sonno. Non sapevo che fare. Forse dovevo semplicemente andarmene ed aspettare che l’incubo fosse finito.
Rimasi lì in piedi per un paio di minuti, senza sapere bene come agire. Sospirai. Non potevo lasciarlo così. Avevo già avuto a che fare con incubi di questo genere e sapevo che non erano piacevoli. In più sembrava sofferente, come non lo avevo mai visto prima.
«Law! Svegliati!» gridai, raccogliendo tutto il mio coraggio e scuotendolo. Niente, non apriva gli occhi. Se non fosse stato per i gemiti che emetteva e per il respiro affaticato, avrei temuto che fosse morto. All’improvviso, smise di dimenarsi. Nella stanza calò il silenzio. Mi accostai a lui. I nostri visi erano a pochissimi centimetri di distanza. Ero tentata di prendergli la frequenza del polso, quando aprì gli occhi di scatto, come un defunto che si rianima all’improvviso. Mi spaventai a tal punto che ricaddi all’indietro, sul pavimento. Nonostante la stanza fosse quasi totalmente immersa nell’oscurità, potevo vedere chiaramente gli occhi di ghiaccio del chirurgo che mi fissavano. Mi portai una mano al petto.
«Oddio, che spavento» sussurrai più a me stessa che a lui. Sospirai per l’ennesima volta.
«Che ci fai qui?» chiese con disprezzo.
Non sapevo esattamente cosa rispondere, per cui, come facevo sempre, mi inventai la prima stronzata che mi venne in mente.
«Mi era venuta sete e così mi sono avviata verso la cucina per prendere un bicchiere d’acqua. Ma mentre attraversavo il corridoio ho sentito il ronzio di una zanzara. Ho tentato di ucciderla ma la bastarda si è introdotta nella tua cabina e...» alzai le spalle alquanto imbarazzata. Entrambi sapevamo che enorme cazzata gli avessi detto ed entrambi sapevamo che era meglio non proferire più parola.
«Non importa. Credo che sia meglio se me ne torno a letto. Buonanotte» dissi, contenta di avere ancora tutti i pezzi del mio corpo al loro posto. Mi rialzai da terra e mi avviai verso la porta.
«Aspetta. Se vai in cucina portami un bicchiere d’acqua»
Mi rigirai verso di lui, sorpresa. «Sì. Sì, certo capitano».
 
Tornai con l’acqua e Law mi ringraziò. Nessuno dei due sapeva bene cosa dire, finché lui ruppe il silenzio e mi chiese se i punti mi facevano male. Gli risposi che mi davano un po’ di fastidio, ma che avevo preso una pasticca del flacone di antidolorifici che mi aveva dato e lui mi avvertì che era meglio andarci piano con quelli. Apprezzai molto che si fosse interessato alle mie “condizioni mediche” come le chiamava lui.
Stavo per congedarmi ed andarmene, era tardi, avevamo esaurito gli argomenti di conversazione, ero stanca ed ogni minuto che passava l’imbarazzo tra di noi cresceva.
«Che cosa dicevo?» mi domandò all’improvviso. Spalancai gli occhi e aggrottai la fronte.
«Nel sonno» specificò vedendo la mia espressione perplessa «che cosa dicevo?»
«Oh...ehm...non...» balbettai
«Puoi dirmelo. Tranquilla» mi rassicurò.
Gli riferii quelle poche parole che avevo sentito e lui annuì, come se gli stessi comunicando una diagnosi e lui dovesse valutare se avesse senso o meno.
«Ti tormentano da tanto questi incubi?» raccolsi tutto il mio coraggio per fargli quella domanda. Non rispose. D’altronde non c’era bisogno che mi rispondesse, sapevo che era così. Le sue occhiaie me lo confermavano. Il suo continuo malumore me lo confermava. Il suo passato me lo confermava.
«Se non c’è altro, me ne torno in camera» annunciai
«Stai pensando di prendere un altro antidolorifico» me la pose come un’affermazione, più che una domanda. Nel dubbio annuii e mi stupii della sua capacità di osservazione. Certo, era un dottore e aveva l’occhio allenato e di sicuro era un attento osservatore anche al di fuori dell’ambito medico, ma io non avevo fatto intuire niente. Stavo semplicemente tenendo la mano sinistra poggiata sul fianco destro, niente di più. Nessuna smorfia, nessun lamento, nessuna posizione strana.
«Fammi controllare i punti».
Mi fece cenno di avvicinarmi ed io titubante eseguii i suoi ordini. Non si scomodò ad alzarsi, ma mi fece spazio e io mi sedetti accanto a lui. Accese la luce della lampada che c’era sul comodino, poi mi alzò la maglietta. Rabbrividii al contatto della mia pelle con le sue dita gelide.
«La sutura del braccio ti dà fastidio?»
Feci segno di no con la testa. Controllò meticolosamente la ferita sul fianco, finché non parlai. Mi uscì di getto, spontaneamente e senza pensarci su.
«Sai che quando ero piccola, quando facevo brutti sogni, cantavo sempre una canzone per calmarmi e farmi ritornare a dormire? Ancora oggi ogni tanto lo faccio, con i sogni particolarmente sgradevoli»
«Per fortuna me l’hai detto. Questo sì che ha una rilevanza storica notevole» fece sarcastico. Se non altro era stato educato nel farmi presente che non gliene importava nulla. Gli feci la linguaccia e lui ghignò fiero.
«Sai che c’è? Avrei lasciato perdere, ma quel tuo sorriso impertinente mi ci ha fatto ripensare. Te la canterò. Non temere, è breve, sarà quasi indolore».
Tornò serio immediatamente. «Il tuo capitano ti ordina di non farlo.»
«Ma tu ora non sei il mio capitano. Tu sei il mio paziente e io sono il tuo medico. E questa è la terapia che ti è stata prescritta» feci compiaciuta
«Terapia per cosa?»
«Subirai la mia vendetta, che ti piaccia o no» annunciai facendogli l’occhiolino. Senza aspettare la sua risposta mi sistemai comoda e iniziai a cantare.
 
Se cerchi la luce che splende per te, lassù...è la Seconda Stella a Destra, splende un po’ di più. La Stella ti indicherà l’Isolachenoncè...la luce ti accompagnerà, mostrandoti dov’è.”
 
«Ammettilo, non è stato tanto male» lo guardai sorridente e valutai se dargli una spallata amichevole. Meglio di no. Non eravamo diventati migliori amici all’improvviso dopo una chiacchierata notturna e lui non amava il contatto fisico.
«Quindi questo sarebbe il tuo rimedio contro gli incubi?» chiese scettico.
Annuii. «E contro l’insonnia. Questa canzone mi rilassa» aggiunsi.
Avrei voluto spiegargli che non era solo questo. Quella canzoncina, per quanto potesse risultare stupida, era una sorta di Credo per me. Era un promemoria per ricordarmi che le cose belle esistono. Che la luce della Stella mi avrebbe guidato verso posti meravigliosi ed incantati. Che mi avrebbe accompagnato lungo il mio cammino e, come aveva detto quella sera, che non dovevo avere paura, perché non sarei mai più stata sola. E mi sembra inutile dire che dal momento in cui erano piombati quei sei nella mia vita, i versi di quella canzone erano diventati sacri per me e più veri che mai. Perché la Stella aveva compiuto un miracolo con me e forse ne avrebbe compiuti altri. Perché mi aveva condotto lì e sebbene la mia famiglia talvolta mi mancasse così tanto da non riuscire a respirare, io sapevo che c’era una ragione per quella sua scelta, per le sue parole, per le sue azioni. Doveva esserci.
 
Mi risvegliai con il collo tutto indolenzito. Dall’oblò filtravano le prime luci dell’alba. Mi guardai intorno e feci una rapida ricognizione. Quella non era la mia cabina. Guardai alla mia destra e i miei sospetti si rivelarono fondati. Mi ero addormentata nel letto di Law, proprio accanto a lui, con la schiena poggiata alla testiera. Ecco perché mi faceva male il collo. Mi tirai su stiracchiandomi e cercando di non fare troppo rumore. Aveva il sonno leggero, il capitano, quando non faceva incubi vividi. Con un po’ più di luce ebbi modo di osservare meglio la stanza. “Però, non se la passa affatto male” pensai. La camera era grande e spaziosa ed aveva annesso anche il bagno privato con tanto di vasca. Ora, non che io mi lamentassi, anch’io avevo un bagno privato comunicante con la stanza da letto, ma lui aveva una vasca da bagno in cui entravano come minimo tre persone contemporaneamente e le dimensioni di tutta la cabina erano almeno il doppio di quelle della mia. La sera prima non avevo notato neanche che come coperta aveva un piumino di seta. Si trattava più che bene, avrei detto. Ad ogni modo, mi alzai. Spensi la luce della lampada sul comodino – che era rimasta accesa – e guardai un’ultima volta il mio capitano che dormiva. Sembrava tranquillo. Quella notte eravamo entrambi crollati senza accorgercene. Lui prima di me, altrimenti mi avrebbe cacciato via. A vederlo così indifeso mi faceva un po’ di tenerezza, ma mai lo avrei ammesso. Scacciai questi pensieri dalla testa e me ne tornai nella mia stanza, chiudendo piano la porta. E mentre percorrevo la strada a ritroso verso la mia camera, mi tornò in mente un flebile borbottio: “dovrei punirti per aver fatto irruzione nella mia cabina nel bel mezzo della notte ed esserti messa a cantare stupide canzoncine”. Sorrisi. Forse avrebbe dovuto far fare una chiave anche per sé. O forse gli sarebbe convenuto direttamente ordinare una porta blindata. Ma non ero sicura che sarebbe bastata a fermare la mia furia. Nessuno, nemmeno Trafalgar D. Water Law, poteva scappare da me e dalle mie “prescrizioni mediche”.
 
 
Fine prima parte.

 


Angolo autrice
Ciao a tutti!
Come avrete notato, alla fine del capitolo compare la scritta "fine prima parte". Tra questo e il prossimo capitolo, infatti, avverrà un salto temporale, ci sarà quindi un timeskip. Non posso rivelarvi altro, posso solo augurarmi che abbiate apprezzato la storia fino a qui. :)
Preparatevi perchè la notte è buia e piena di terrori la seconda parte sarà luuuunga e movimentata. Si entrerà nel vivo della narrazione (o almeno spero) e finalmente Cami inizierà a vedere un po' il mondo e a far parte delle "dinamiche" di One Piece.
Alla prossima e grazie per aver seguito la Fan Fiction fino a qui! <3
WillofD_04


P.s. A chi si stesse chiedendo la provenienza della canzone che canta Cami, lascio il link di questo video: https://www.youtube.com/watch?v=slYw48zk7Cs (è la parte iniziale di "Peter Pan - Ritorno all'Isola che non c'è"). :)  

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Capitolo 19
*** Operazione ***


“Sai chi sei? Capisci che cosa ti è successo? Vuoi vivere in questo modo?”
 
Marzo. Un anno dopo.
 
Camminai fino alla cucina, affamata. Un giornale dispiegato copriva il viso dell’unica persona presente.
«Buongiorno, capitano» trillai con voce allegra
«Buongiorno» rispose lui, intento a leggere le notizie.
Mi allungai per prendere i biscotti sulla mensola in alto e con la coda dell’occhio notai che Law aveva temporaneamente distolto lo sguardo dal suo giornale per guardare me.
«Hai deciso di far penare i miei uomini anche oggi?» domandò retoricamente, sogghignando. Mi girai verso di lui.
«Sei sicuro che non sia tu a penare?» chiesi, ghignando a mia volta. In tutta risposta lui mi allungò la tazza ed io presi la caraffa di caffè.
«E poi» aggiunsi mentre glielo versavo «sono stati Shachi e Penguin a regalarmi queste mutande. Non vorrei offenderli» sorrisi maliziosa e alzai un sopracciglio. Poi, osservai il mio abbigliamento. Era vero, ero in canottiera e mutande, ma non vedevo quale fosse il problema. Erano anche mutande carine, nere, in cotone e con un pinguino e un’orca disegnati sulla parte posteriore. Tempo addietro non mi sarei mai presentata così in un luogo dove chiunque avrebbe potuto vedermi, ma ormai ero entrata in stretta confidenza praticamente con tutti e non mi importava di essere vista mezza nuda. Tanto non avrebbero osato alzare nemmeno un dito su di me, Law li aveva educati bene e io mi fidavo.
Non mi rispose e tornò a concentrarsi sul giornale, così io procedetti a versargli una sola goccia di latte nella tazza e poi aggiunsi esattamente mezzo cucchiaino di zucchero. All’inizio era stato difficile prendere le misure, ma ormai ci avevo fatto l’abitudine e per me era diventata nient’altro che routine.
Mangiai i miei biscotti in silenzio. C’era troppo silenzio in quella cucina.
«Ma dov’è Ryu?» domandai dopo che mi fui accorta della sua assenza
«Non si sentiva molto bene e così gli ho concesso un giorno di riposo» replicò tranquillamente Law, sorseggiando il suo caffè. Tante cose erano cambiate in un anno, ma la sua magnanimità, no. Quella andava quasi peggiorando. Avrebbe potuto concedergli anche tre o quattro giorni di riposo, visto che per tutto il tempo che ero stata lì, non si era assentato nemmeno per mezza giornata. Poverino, doveva proprio stare male per chiedere al chirurgo di non lavorare, visto che adorava cucinare.
Non feci altre domande sulle condizioni del cuoco, ma mi congedai ed andai a vestirmi. L’addestramento mi aspettava.
 
«Se sei pronta, cominciamo» disse Bepo. Ero prontissima. Prima però, dovevo legarmi i capelli. Mi guardai allo specchio della pseudo palestra e mi feci la coda di cavallo. Sì, dopo una lunga ed estenuante lotta avevamo convinto il capitano a mettere degli specchi lungo tutta una parete della stanza. In questo modo assomigliava ad una sala da ballo ma ciò che vi avveniva dentro era tutt’altro che una lezione di danza. Avevo persuaso il navigatore e Law propinandogli la scusa che così avremmo potuto esaminare le mosse che facevamo e avrei imparato meglio, avrei visto i miei errori e mi sarei corretta più velocemente e più facilmente, ma la verità era che dopo l’incidente accaduto mesi prima ci tenevo a tenere d’occhio la mia faccia ed il resto del corpo. Era una vittoria per tutti.
Impugnai Mr. Smee e cominciammo a combattere. Attaccò prima Bepo, io riuscii a schivare facendo un salto mortale – ormai mi veniva facile quasi quanto camminare – e passai al contrattacco. Nell’ultimo anno ero migliorata parecchio ed avevo anche avuto occasione di notare che alcuni movimenti erano più facili da eseguire qui rispetto al mio mondo. Riuscivo a saltare più in alto, muovermi più velocemente e fare alcune acrobazie complesse senza schiantarmi al suolo. Anche la mia soglia di sopportazione del dolore sembrava essersi alzata e notevolmente, anche. Forse perché la percezione del dolore era diversa nell’universo di One Piece. Questo avrebbe spiegato perché alcuni personaggi erano in grado di amputarsi una gamba quasi senza pensarci due volte e buttarsi a capofitto in battaglie pericolose, senza paura; e perché non ero morta sul colpo il giorno in cui ero letteralmente piovuta dal cielo sulla nave di Rufy, formando un cratere di dimensioni notevoli.
“Quando usi l’ascia, le mani devono stare distanti nel momento in cui parte il colpo, poi, quando ti avvicini al bersaglio, le devi unire. In questo modo l’attacco che sferrerai sarà più forte. Impugnala saldamente, però. Non la lasciare mai. Ricorda sempre che un’arma è un’arma, così come lo è per te, lo è anche per i tuoi nemici” le parole del mio temporaneo avversario mi risuonarono nella mente. Allungai l’ascia di due lunghezze e la ruotai orizzontalmente per parare il colpo del navigatore. Quando si fu allontanato abbastanza, feci staccare le lame dal manico premendo il pulsante blu. Gli arpionai la caviglia con la catena e tirai indietro l’arma, sorridendo. La sua gamba slittò e lui cadde al suolo, ma si rialzò subito con un movimento repentino.
«Brava! Una mossa che gli avversari non si aspettano!» esclamò soddisfatto. Sapevo che era davvero contento per quella mia mossa inaspettata, ma sapevo anche che non avrebbe avuto timore a farsi sotto con più carica di prima.
Ci scontrammo contemporaneamente. Lui provò a darmi una ginocchiata, ma parai il suo colpo anche stavolta. Ci distaccammo per qualche secondo, poi lui tornò alla carica. Osservai attentamente il suo sguardo e i movimenti del suo corpo. Avrebbe colpito a sinistra, il mio lato più debole. Girai su me stessa e fermai il suo pugno con l’avambraccio destro. Ero molto più esperta di quanto lo fossi mesi prima e non mi sarei fatta fregare. Ma soprattutto non l’avrei deluso. Avremmo potuto continuare per ore quel combattimento amichevole, ma qualcosa – o meglio, qualcuno – ci fermò.
«Mi dispiace interrompervi, ma il capitano ti vuole in infermeria. Ora.» Jean Bart aveva fatto irruzione nella stanza e guardava serio verso di me. Sapevo che era meglio non contraddirlo e soprattutto non farlo aspettare. Per cui riposi Mr. Smee, mi congedai e mi diressi a passo veloce dal mio capitano.
 
«Mi hai fatto chiamare?» chiesi aprendo la porta. Non ottenni risposta. Law si limitò ad indicare il lettino, su cui vi era steso qualcuno.
«Sappi che Bepo era molto dispiaciuto di essere stato interrotto nel bel mezzo dell’addestramento» continuai
«Niente addestramento. Ho qualcosa di meglio da farti fare, oggi» annunciò il chirurgo. Solo dopo notai che l’uomo sul lettino era Ryu. Non aveva per niente un bell’aspetto. Era pallido e sudato, e sembrava che si contorcesse per il dolore. Il cuoco era sempre stato serio e diligente e vederlo così mi preoccupava un po’. Era un uomo abbastanza imponente, non il più grosso della ciurma ma comunque sicuramente più grande di me. Era pelato e i baffi squadrati gli incorniciavano il labbro superiore. Sebbene per la maggior parte del tempo avesse un’espressione rigida ed austera sul volto, c’erano delle volte in cui diventava buffo. Supponevo che fosse anche per via del suo viso a forma di pera. Non eravamo ciò che avrei definito “amici”, ma si era creato un rapporto di rispetto reciproco tra di noi e vederlo in quella situazione mi dispiaceva.
Il capitano mi ordinò di valutare le sue condizioni e di capire quale fosse il problema. Non ci misi molto per formulare una diagnosi. Prima, chiesi al paziente dove sentisse dolore e che sintomi avesse, poi tastai l’addome in diversi punti ed arrivai ad una conclusione in meno di cinque minuti.
«Sembra un caso di appendicite acuta. Forse potremmo fare altre analisi per conf...».
Venni interrotta.
«Cosa suggerisci di fare?» chiese Law
«Beh, vista la gravità della situazione, gli antibiotici non servono a nulla. È necessario procedere con la rimozione chirurgica dell’appendice»
«Bene» mi lodò.
Sorrisi.
«A te l’onore» disse. Il sorriso svanì dalla mia faccia in meno di un secondo. Al suo posto si insinuò lo sgomento.
«Cosa?» domandai a bocca aperta. Speravo di aver capito male.
«Cosa!?» mi fece eco il cuoco.
Ma era troppo tardi. Il chirurgo aveva già chiamato i portantini. Entrambi provammo a protestare, Ryu in agonia, io in preda al panico. Non ci fu nulla da fare.
Non so neanche come ci arrivai in sala operatoria. Tutto ciò che mi ricordo è che durante il tragitto avevo fatto una promessa.
Il cuoco mi aveva preso la mano – il che fa capire quanto potesse essere disperato, vista la sua natura burbera – e con occhi sofferenti mi aveva detto: “ti prego, non farmi morire”. Io gli avevo replicato che non potevo garantirgli niente, ma lui aveva stretto più forte la presa e mi aveva sussurrato di nuovo “ti prego”, con occhi carichi di disperazione mista a paura, ma anche speranza. Avevo raccolto tutto il mio coraggio per dirgli che non sarebbe morto quel giorno, non per causa mia, almeno. Glielo avevo promesso. Il guaio era che io non ero mai stata brava nel mantenere le promesse. Questa volta, però, non si trattava di riuscire ad andare ad una festa di compleanno. Si trattava di riuscire a salvare la vita ad un uomo.
 
«È per questo che mesi e mesi fa mi hai fatto fare pratica con dei cadaveri?» chiesi, mentre ci lavavamo le mani nel lavabo appena fuori della sala operatoria e aspettavamo che l’anestesia di Ryu facesse effetto. Per fortuna mi ero ripresa dallo stato catatonico in cui ero piombata appena dopo aver saputo la notizia che sarei stata io ad operarlo.
«Bisogna fare pratica sui morti, prima di affettare esseri umani vivi. Almeno non puoi fare più danni di quanti non ne abbiano già subiti» affermò Law in risposta
«Giusto. Sai, io volevo solo fare l’infermiera. Quel lavoro noioso che consiste nel fare prelievi, inserire cateteri, sostituire e svuotare sacche da diuresi, imboccare gli infermi, pulire il sedere ai vecchi...» dissi in tono ironico ma non provocatorio. «Era il mio sogno fin da bambina. Fare del bene, prendersi cura delle persone...ho sempre pensato che fosse la mia vocazione»
«Ho visto del potenziale in te ed ho voluto sfruttarlo. Saresti stata sprecata per pulire il culo ai vecchi. Ho voluto testare le tue capacità. E a quanto pare, ho scommesso bene»
«Davvero lo pensi?» ero stupita ma più che altro lusingata. Trafalgar Law che diceva a me che avevo del potenziale come chirurgo. Il mondo doveva essersi capovolto.
«Quel giorno eri furente. Quei cadaveri mi sono stati consegnati personalmente dai parenti delle vittime. Io non manco di rispetto a chi ha subito un lutto»
«Capisco. Mi dispiace di essermela presa con te e di aver dubitato della tua moralità. Mi impegnerò al massimo per diventare un ottimo chirurgo».
Annuì senza guardarmi. «Lo farai» disse, prima di allontanarsi. Gli ero molto grata per la fiducia che stava riponendo in me. Trafalgar Law era tante cose, ma di certo non era uno che si fidava di persone a caso o di persone che non riteneva degne della sua fiducia. Ma la sua fede sarebbe stata abbastanza affinché l’intervento avesse avuto successo?
“Ci siamo” pensai “sto per affrontare la mia prima operazione”. Buttai fuori tutta l’aria che avevo in corpo. Stavo in piedi fuori della porta, guardando il tavolo operatorio con sopra il paziente. Il mio paziente. A dire la verità, in quel momento non mi sentivo un chirurgo. Mi sentivo più come un corridore. La soglia della porta era la mia linea di partenza. Una volta attraversata, non potevo più tornare indietro. Dovevo andare dritta verso il traguardo, che era la riuscita dell’operazione. Certo, era una grande responsabilità. Non ero solo io a correre, con me c’era anche Ryu. Stringevo letteralmente una vita umana tra le mie mani. Dipendeva da me. Dipendeva tutto da me. Avrei voluto scappare via. Ma quella non ero io, non più almeno. Ora non potevo far altro che restare ed affrontare il mio destino, quale che esso fosse. E fu quello che feci. Varcai l’uscio tenendo lo sguardo fisso sul corpo immobile del cuoco e mi preparai ad affrontare una delle prove più dure a cui la vita mi avesse mai messo davanti. Perlomeno fino a quel momento.
 
Mi infilai i guanti, mentre il chirurgo della morte mi dava le ultime istruzioni. Più che istruzioni erano promemoria, dal momento che sapevo già cosa dovevo fare.
«Capitano. Per poter proseguire la rotta dobbiamo per forza passare per una Fascia di Bonaccia» Jean Bart fece capolino sull’uscio della porta. Lo guardai terrorizzata. Persi completamente la ragione quando vidi Law annuire. Ma aveva idea di cosa ciò significasse!? Oh sì che ce l’aveva, voleva rendermi la vita complicata! Passare per una Fascia di Bonaccia significava fare lo zig zag tra mostri marini di ogni tipo. Sempre che non ci avessero inghiottiti vivi.
«Possiamo fermare il sottomarino e riemergere, per favore?» chiesi esasperata. L’operazione sarebbe cominciata di lì a breve e le mie mani tremavano dall’agitazione. Tentavo di persuadere il capitano, ma era l’ennesimo tentativo fallito.
«No. Non ce n’è alcun bisogno, sprecheremmo solo tempo» mi rispose. Il suo tono di voce era rilassato, non era il tipico tono duro che aveva sempre.
«Sto per tagliare, per la prima volta in vita mia, le budella a quest’uomo, che non è un cadavere ma è vivo. Le mie mani tremano già abbastanza per conto proprio. Basterebbe un minimo spostamento a farmi sbagliare. E visto che stiamo per attraversare una Fascia di Bonaccia, è molto probabile che l’intero sottomarino si muova e traballi pericolosamente. Ora, io voglio bene a quest’uomo. Ma soprattutto voglio bene ai waffles che prepara la mattina, al pollo arrosto, agli spaghetti con le vongole, al tiramisù e a tutte le altre deliziose pietanze che si impegna a cucinare per noi ogni giorno. E non intendo perdere il privilegio di mangiare queste prelibatezze. Non intendo prendermi la responsabilità di cucinare per tutta la ciurma, né voglio che gli altri mi addossino la colpa della sua morte. Perché sappiamo che toccherebbe a me cucinare, perché sono una donna e perché sono stata io ad uccidere il cuoco!» pronunciai tutto molto velocemente e l’ultima parola mi uscì più stridula di quanto avessi voluto.
Il mio maestro fissò i suoi occhi ai miei. «Non dare di matto» disse «sai tutto ciò che c’è da sapere. Sei pronta. Ti ho insegnato tutto il necessario per eseguire un’operazione chirurgica di questo tipo con estremo successo».
Sospirai. Se lo diceva lui, allora ero davvero pronta. Mi girai e lasciai che mi aiutasse a mettermi la mascherina, poi, mentre io prendevo posto al tavolo operatorio, lui andò a sistemarsi in un angolo.
 
L’operazione durò un’ora e mezzo. Fu l’ora e mezzo più lunga della mia vita, almeno fino a quel momento. Ora, ero perfettamente consapevole del fatto che una normale rimozione dell’appendice non dovrebbe durare più di sessanta minuti, ma c’erano stati degli “intoppi” nella sala operatoria che avevano prolungato l’agonia di tutti, soprattutto la mia. Per fortuna Jean Bart, da abile macchinista qual era, era riuscito a non far muovere troppo il sottomarino. Ma c’erano stati lo stesso un paio di momenti in cui avevo posato il bisturi ed ero corsa verso la porta. Il personale aveva dovuto riprendermi e riportarmi al mio posto. Law aveva osservato meticolosamente il tutto senza dire una parola. Apprezzavo che avesse fiducia in me, ma mi chiedevo se non l’avesse malriposta. Ad un certo punto ero quasi svenuta. Il monitor con i parametri vitali di Ryu segnava che la saturazione era in calo. Avevo spalancato gli occhi e per una decina di secondi ero andata in panico totale. Che dovevo fare? La cosa terribile fu che nessuno in sala muoveva un dito. Stavano aspettando tutti me. Erano davvero così scemi e incompetenti o erano stati istruiti così dal chirurgo della morte a rimanere immobili finché non mi fossi mossa io? Cercai di riprendermi e di controllarmi. Osservai il monitor. Osservai il paziente; e infine, osservai il mio maestro, che guardava la scena da un angolo della sala. Ci fissammo per qualche secondo, dritti negli occhi. Entrambi annuimmo impercettibilmente e di colpo mi fu chiaro come dovevo agire. Fortunatamente tutto si sistemò e il resto dell’operazione procedette quasi liscia come l’olio. Non per vantarmi, ma ero diventata una dea a fare le suture.
Quando riportarono il cuoco in infermeria, mi accasciai là, appena fuori dalla sala operatoria, appoggiata al muro. Cestinai i guanti in lattice, mi tolsi la mascherina e sospirai a fondo, gettando indietro la testa e passandomi una mano sulla fronte per asciugare il sudore.
«È stato tanto terribile?» mi chiese la voce della persona che si era palesata affianco a me. Era Law. Gli tirai un’occhiataccia. A dire la verità, per rispondere alla sua domanda, no. Non era stato tanto terribile. Anzi, mi era quasi piaciuto. Forse il chirurgo aveva davvero puntato sul cavallo giusto, scegliendo di istruirmi. Forse era quello che ero destinata a fare, forse ci aveva visto giusto fin dal principio e aveva fatto bene a cercare farmi diventare un chirurgo. Non potevamo saperlo, nessuno poteva, solo il tempo ci avrebbe detto la verità. Ma io gli ero comunque grata. Non solo per quello, ma per tante altre cose che con il tempo avevo imparato – sbagliando – a dare per scontate.
«Sia chiaro, ora che il cuoco è in convalescenza, io non cucino.» feci presente al mio interlocutore, che se ne stava andando. Si fermò e anche se era di spalle, immaginai un sogghigno dipinto sul suo volto.
«Non sono così sprovveduto da affidarti un tale compito. Non ci avvelenerai con le tue pietanze» disse; e poi se ne andò, lasciandomi lì con un'espressione da ebete dipinta in faccia.

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Capitolo 20
*** Esplorazione ***


«Come sta il mio paziente preferito oggi?» chiesi, facendo il mio teatrale ingresso in infermeria
«Vuoi dire il tuo unico paziente» mi corresse l’uomo, comodamente sdraiato sul letto.
Mi limitai a sogghignare e a scostare delicatamente le coperte.
«Il bendaggio sembra a posto. La ferita ti fa male?»
«Non più. Sono passati dieci giorni, ormai»
«Ottimo. Hai visto che eri in ottime mani?»
«Per quanto hai intenzione di rinfacciarmelo ancora?» mi domandò Ryu con un sorriso sulle labbra
«Fino al tuo ultimo respiro, di cui non sono stata la responsabile» gli feci l’occhiolino «Anche perché, lasciamelo dire, sono ben undici giorni che andiamo avanti a pasta in bianco insipida e insalata»
«Sì, ne sono stato informato. Conto al più presto di tornare ai fornelli» annunciò deciso e fremente
«Vacci piano, grande chef» gli poggiai una mano sulla spalla, quasi a dirgli di non agitarsi «prima devi riprenderti. Noi possiamo sopportare le pseudo pietanze che ci propina Bepo ancora per un po’».
Dopo l’intervento del cuoco le cose sembravano essere in discesa per me, cibo a parte. Il visone era una bravissima persona e un ottimo addestratore, ma quando si trattava di culinaria sarebbe stato meglio se avesse ceduto il mestolo a qualcun altro. Quando riemergeva tra i vapori della cucina ed annunciava che era pronto, tutti tremavamo un po’. Persino lo sguardo del capitano, che di solito era indifferente a tutto, vacillava leggermente a quelle parole. I pirati Heart, famosi in tutto il mondo per la loro spietatezza, avevano paura dei pasti cucinati dal loro navigatore. Era paradossale e a molti avrebbe fatto ridere, ma era così. Tutti mi erano estremamente grati per aver salvato il cuoco e non vedevamo l’ora che tornasse. Non aspettavamo altro, immaginandoci con la bava alla bocca quali deliziosi piatti ci avrebbe preparato una volta riappropriatosi della sua amata cucina. Ad ogni modo era bello vedere gratitudine negli occhi dei miei compagni. Era come se con quell’intervento fossi diventata ufficialmente parte integrante della ciurma. Avevo salvato uno di loro e in cambio avevo ottenuto il rispetto e la fiducia di tutti. “Essere chirurghi non è solo affettare e tagliuzzare persone” mi aveva detto Law, ed aveva ragione. Ma la gratitudine delle persone, dei pazienti e dei loro cari, l’ammirazione che hanno per te, è una sensazione che non si può capire a meno che non la si abbia vissuta. Ed io l’avevo vissuta eccome. A soli diciannove anni avevo operato di appendicite un uomo. Quante persone potevano dire di averlo fatto?

 
Me ne stavo tranquillamente seduta sul mio letto, a gambe incrociate, a leggere un libro che mi aveva consigliato e prestato Penguin. Parlava di un avventuriero che aveva fatto il giro del mondo e aveva visitato posti variegati e meravigliosi. Era un bel romanzo. Chissà perché, mi venne in mente Sabo. Quando ero più piccola avevo il suo stesso sogno. Ora lo stavo coronando, o almeno ci stavo provando, visto che praticamente non mi era concesso di uscire dal sottomarino. In quell’anno e mezzo mi ero persa tante isole da visitare e tanti posti da vedere. Proprio mentre riflettevo su questo, qualcuno bussò alla porta. Chiusi il libro, premurandomi di mettere il segnalibro alla pagina giusta, ed andai ad aprire.
«Capitano. A cosa devo la tua visita?»
«Sono 100 berry. Fanne buon uso»
Mi consegnò un sacchetto con delle monete. Non capivo.
«Che ci devo fare?»
«Tra mezz’ora riemergeremo. Ci fermeremo un paio di giorni sull’isola Nyusu per fare rifornimento».
D’improvviso la mia espressione cambiò. Passai dallo stupore alla gioia in meno di un secondo.
«Davvero posso venire anche io?» chiesi, timorosa di aver capito fischi per fiaschi.
«Fatti trovare sul ponte tra venti minuti» disse prima di andarsene.
Non potevo crederci. Ero contentissima. Finalmente avrei visto uno scorcio di mondo. Finalmente avrei sperimentato cosa significava davvero essere un pirata. Avevo tante aspettative, ma allo stesso tempo non sapevo cosa aspettarmi. Avremmo esplorato l’isola? Avremmo fatto shopping? Avremmo curato i malati? O ci saremmo semplicemente goduti la permanenza lì? Ci saremmo fermati in una locanda a fare festa come facevano il resto dei pirati? O saremmo rimasti in un luogo appartato? Avremmo dormito in un albergo? O avremmo dormito sotto le stelle? Forse era meglio chiedersi se avremmo dormito. Se io avrei dormito, eccitata com’ero. Poi, mentre girovagavo e saltellavo allegramente per tutta la stanza, mi ricordai che forse sarebbe stato il caso di preparare una borsa con quello che mi sarebbe servito sulla terraferma e magari anche di cambiarmi d’abito.
Quaranta minuti dopo ero su una delle scialuppe che navigavano verso Nyusu.
«Qualcosa mi dice che sei felice» commentò Penguin
«Sei perspicace, eh? È da mezz’ora che ha un sorriso che le va da un orecchio all’altro stampato sulla faccia» fece Shachi, quasi irritato
«Ragazzi, non prendetemi in giro. Sono contenta di avere finalmente la possibilità di visitare un’isola del Nuovo Mondo» dissi alzando le spalle e senza perdere il mio sorriso.
«Sbarchiamo su quest’isola per fare rifornimento di carburante e provviste» sentenziò Law, serio, con l’aria di chi mi aveva appena rovinato la festa. Storsi la bocca. Non era il massimo girare per Nyusu con pesanti scatoloni di fagioli tra le braccia. La sola immagine mi deprimeva alquanto.
«Ma ti sei meritata un po’ di riposo» continuò, facendo riaccendere la speranza nei miei occhi «quindi suppongo che dovremo cavarcela senza di te. Tu sarai in grado di cavartela senza di noi?»
«Certo che sì!» esclamai, non del tutto sicura di cosa stessi dicendo, ma troppo contenta per soffermarmi a pensarci.
 
«La smetti di sorridere?» Penguin era infastidito.
«Tsk. Che ingiustizia. Noi qui a caricare provviste e tu a scorrazzare liberamente in giro per l’isola» commentò il suo amico
«Provviste che Ryu trasformerà in succulenti pasti solo e soltanto per merito mio».
Sorrisi ancora di più e battei le mani, godendomi quella mia piccola – e meritata – vittoria.
«Almeno portaci dei souvenir!» mi gridò Shachi, mentre io mi allontanavo per il sentiero che portava ad uno dei villaggi, dopo aver ascoltato le ultime raccomandazioni.
Il capitano mi aveva detto che sarei dovuta essere alle otto di sera alla locanda del Fiore, che si trovava nel secondo villaggio. A parte quello, ero libera di fare quello che volevo senza dare nell’occhio o combinare casini. Considerato che erano le undici di mattina, avevo il tempo più che sufficiente per mettermi nei guai. Ma la cosa non mi preoccupava più di tanto, se le cose si fossero messe male sarebbe bastato un “click” e sarei diventata invisibile al resto del mondo.
La struttura geografica di Nyusu era particolare. Al centro dell’isola ergeva una montagna, che in realtà era un vulcano non attivo. Tutt’intorno, disposti ad anello, vi erano cinque diversi villaggi, ognuno collegato all’altro tramite una stradina stretta e sterrata. Essendo disposti in pendenza, non erano esattamente l’ideale per chi voleva fare una tranquilla e rilassante passeggiata. Ma non era quello il mio caso. Io ero lì per apprendere la loro cultura, il loro modo di vivere, scrutare i paesaggi e imprimermi nella mente ogni singola immagine di ciò che avrei visto.
Andai di villaggio in villaggio, ammirando il panorama, i negozi, le locande. Era tutto bellissimo e surreale, e il clima, nonostante fosse marzo, era mite. Era tutto perfetto. In ogni villaggio, nella piazza principale vi era allestito il mercato. C’era chi vendeva frutta e verdura, chi vendeva tappezzeria, alcuni tentavano perfino di rifilare alla povera gente elisir d’amore e strane pozioni. Quel posto pullulava di vita. Era vibrante e caotico e allegro. Mi faceva bene un po’ di aria fresca, un po’ di aria gioiosa, se non altro per evadere un po’ dalla monotonia e dal grigiore del sottomarino di Law. Per non parlare di cadaveri e tomi di chirurgia. E ultimamente a tutto il resto si erano aggiunti anche gli orribili pasti che preparava Bepo. Il mio capitano ci aveva visto giusto lasciandomi quella giornata di libertà. Ne avevo proprio bisogno. Ma non lo avrei mai ammesso.
«Signorina, vuoi acquistare una mela rossa? È dolce e succulenta. Ed è fresca, l'ho raccolta personalmente questa mattina» un uomo anziano e ricurvo su se stesso mi aveva porto una mela
«Oh. Va bene. Quanto costa?» sorrisi al venditore nel modo più gentile che conoscessi. Mi faceva un po’ pena.
L’uomo sembrò illuminarsi. «Soltanto due berry».
Rovistai nel sacchetto che mi aveva dato il mio capitano e pagai il vecchio, che mi ringraziò tante volte. Ero felice di poterlo rendere contento, anche se sperai vivamente che la mela non fosse avvelenata. La addentai. Era davvero gustosa e non sembrava contenere veleno. E mentre finivo di mangiarla, constatai che nessuno in quel marasma di gente sapeva chi fossi, da dove venissi o quale fosse la mia storia. Agli occhi degli altri ero parte di quel mondo esattamente come loro. Ero semplicemente una ragazza che si godeva la sua mela su un’isola qualunque del Nuovo Mondo.
 
«Posso consigliarti questi sandali? Sono molto comodi e si indossano facilmente»
«No, grazie».
Ero entrata in un negozio di calzature.
«Vorrei degli stivali. Alti fino a metà polpaccio, se ce li ha».
Il negoziante tornò dal magazzino con tre scatole. Mi mostrò tutti i modelli che aveva e me li fece provare. Scelsi degli stivali neri, in cuoio, che erano comodi e perfetti per ciò che avevo intenzione di farne. Pagai e uscii. Mi trovavo nel terzo villaggio, questo significava che ne avevo ancora due da visitare, ma era ora di pranzo e cominciavo a sentire un certo languore allo stomaco, così decisi che mi sarei fermata da qualche parte per pranzare.
Entrai in una locanda e mi concessi delle focaccine salate niente male. “È la specialità della casa!” aveva esclamato la pingue e simpatica proprietaria. Finii di bere la mia aranciata, poi pagai e me ne andai. Ma prima di farlo mi concessi un momento per osservare il posto. C’era gente di tutti i tipi. Alcuni avevano una faccia poco raccomandabile, probabilmente erano masnadieri. La donna che mi aveva servito le focaccine li aveva tenuti sommessamente d’occhio per tutto il tempo, per fortuna non avevano creato problemi, ma anche se lo avessero fatto avrei saputo come contrastarli. O almeno, ci avrei provato. Poi, c’erano clienti abituali, turisti e persone come me, che non erano niente di tutto ciò. Probabilmente in quella taverna c’era più di un pirata in incognito, ma fortunatamente non c’era nessun marine in vista. Mi sarei agitata altrimenti, anche se nessuno avrebbe potuto dirmi o farmi niente dal momento che per loro ero una sconosciuta. Essere “nessuno” poteva avere i suoi vantaggi. Nemmeno a farlo apposta, proprio mentre uscivo dalla locanda, sorridendo ancora una volta alla gentile proprietaria – che per fortuna non sospettava di me – mi imbattei in due marines che entravano. Mi ghiacciai sull’uscio per un nanosecondo ed istintivamente portai una mano all’ascia. Poi mi ricordai che non c’era pericolo e quando mi sorrisero ebbi la conferma che non c’era nulla di cui preoccuparsi. Ricambiai il sorriso ed uscii.
Passai il pomeriggio a finire il tour dell’isola e a fare acquisti, improbabili – soprattutto per me – ma pur sempre utili. La sera tornai verso il secondo villaggio, dove si trovava la locanda in cui avrei dovuto incontrarmi con Law e gli altri. Ero stanca, ma felice e soddisfatta.
Ci misi un po’ per trovare la taverna. Con il mio pressoché inesistente senso dell’orientamento e la mia incapacità di decifrare insegne e indicazioni, avevo dovuto chiedere a dei negozianti la strada da percorrere. Non che “vai a sinistra, dopo cento metri svolta a destra, prendi il primo sentiero a destra, percorri la salita per arrivare in piazza e poi svolta a sinistra dopo aver percorso la prima via sulla destra” mi fosse stato tanto utile, ma in qualche modo l’avevo trovata. Ero in ritardo e temevo per la reazione del mio capitano, ma quando entrai e perlustrai il locale, vidi che non c’era ancora nessuno della mia ciurma. Così, presi posto – e una birra – e li aspettai.



Angolo autrice
Ciao a tutti!
Questo è quello che definisco un "capitolo di passaggio", ovvero un capitolo in cui non succede nulla di particolarmente eclatante, ma come si dice, tutto fa brodo. :D Spero comunque che vi sia piaciuto e ringrazio in anticipo chiunque vorrà lasciare una recensione. <3
Alla prossima e grazie per aver letto!

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Capitolo 21
*** Debiti ***


Aspettavo i miei compagni da venti minuti ormai. Cominciavo a spazientirmi. Avevo fame ed ero abbastanza stanca. Law era il primo ad osannare la puntualità e mi affidava la pulizia dei bagni per una settimana se tardavo di qualche minuto per il pranzo o per la cena o per qualsiasi altra cosa fosse richiesta puntualità, e adesso era il primo ad essere in ritardo. Se avessi avuto uno straccio di potere all’interno della ciurma mi avrebbero sentita, eccome. Ma dal momento che ero l’ultima nella gerarchia sociale dei pirati Heart, mi consolai bevendo la pinta che avevo ordinato. Proprio mentre sorseggiavo la mia buonissima birra, vidi passare accanto a me qualcuno che non potevo ignorare. No, non era per la sua fluente chioma bionda o i suoi occhi blu oltremare. Era perché io quel volto lo avevo già visto prima. Ci scambiammo uno sguardo fugace mentre lui prendeva posto a un tavolo con tutto il suo seguito. Sembrò osservarmi compiaciuto, poi fece un’espressione gonfia d’orgoglio, tipica di una star di Hollywood inseguita dai paparazzi. Temevo che potesse attaccare bottone, ma per fortuna non lo fece. Invece andò a sedersi poco più in là con la sua cricca.
Aspettai ancora per parecchio l’arrivo della mia ciurma e nel frattempo finii il boccale di birra. Ne ordinai un altro e mentre attendevo che me lo portassero, dalla porta fecero il loro ingresso – o forse dovrei dire che si degnarono a fare il loro ingresso – i miei compagni, con in testa il mio capitano.
«Era ora. Cominciavo a darvi per dispersi» commentai mentre si mettevano seduti. Ovviamente i due marpioni si sedettero accanto a me, uno per lato.
«Non è colpa nostra» cercò di giustificarsi Penguin mentre faceva segno alla locandiera di venire al nostro tavolo «è il capitano che ci ha trattenuti».
«Sette bistecche. Prendi la bistecca anche tu, Cami?»
«Perché no. Sto morendo di fame, grazie a voi»
«Allora otto» ordinò Shachi, poi alzò le spalle e guardò Law, come a scaricare la colpa su di lui.
Non vedevo l’ora che arrivasse il cibo. Non ci vedevo più dalla fame.
Mentre aspettavamo la cena – quasi con la bava alla bocca – il mio duo preferito mi chiese se avevo fatto shopping. Annuii e mi chiesero di mostrare loro il bottino. Sbattei sul tavolo gli stivali che avevo comprato, ma nessuno sembrò apprezzare il mio acquisto.
«Wow. Stivali» commentò Penguin con tono piatto
«Avrei voluto essere lì. Di sicuro mi sarebbero venuti i brividi per l’adrenalina» fece il suo compagno, sarcastico.
Li ignorai e continuai ad esibire la mia merce. Tirai fuori da una delle buste dei guanti in pelle nera, che coprivano solo le dita e il palmo della mano.
«Fammi, indovinare, hai anche comprato un abito attillato e un rossetto rosso ciliegia. Vuoi sedurre il capitano, per caso, stasera?».
In altre occasioni avrei rivolto un’occhiataccia ad entrambi i miei interlocutori e poi avrei rifilato loro una potente gomitata, ma dopo essermi accertata che Law non avesse sentito le strampalate ipotesi dei loro sottoposti, non feci niente di tutto ciò. Ghignai con fierezza e poggiai sul tavolo gli oggetti che avevo acquistato quel pomeriggio. Avevo intenzione di farmi insegnare da Bepo ad usarli al meglio e di chiedere a Maya se poteva cucirmi una tasca fatta apposta sulla parte esterna di entrambi gli stivali. In tutto quel tempo avevo imparato tante cose, ma a cucire proprio no. O meglio, avevo imparato a ricucire persone, non capi di abbigliamento.
«Wow! Pugnali!» esclamò estasiato Penguin, facendomi sorridere ancora di più. Proprio così, avevo comprato due stupendi e lucenti pugnali. L’impugnatura era in cuoio bordeaux ed il pomolo era color argento, mentre la lama di entrambi era di un metallo molto pregiato; e complessivamente erano lunghi quasi una trentina di centimetri. Avevo dovuto faticare parecchio per trovarli, e soprattutto per trovare quelli giusti, ma alla fine ce l’avevo fatta.
«Mi dispiace deluderti, Shachi, ma non c’è nessun rossetto rosso stasera. Però se ti piace tanto quel colore possiamo compensare» dissi «Fai un’altra affermazione del genere e ti garantisco che userò i miei nuovi gioiellini per prosciugarti di tutto il sangue che hai in corpo, tanto che il sottomarino da giallo diventerà rosso per una settimana.» aggiunsi sibilando. Mi ero avvicinata pericolosamente al mio interlocutore ed avevo una mano a stringergli il colletto della divisa. Non potevo vedermi, ma ero quasi sicura di avere uno sguardo da pazza psicopatica. Shachi era leggermente intimorito e mi guardava un po’ perplesso, ma sapevo che non l’avevo spaventato, altrimenti non mi avrebbe guardato con un lieve sorriso ebete dipinto sulla faccia. Del resto, le mie minacce non erano serie. Beh, non del tutto. Però non potevo farci niente. Avevo speso gran parte del mio tempo passato sul sottomarino a cercare di migliorarmi sempre di più, per dimostrare che valevo qualcosa. Ero diventata un chirurgo accettabile e avevo ancora tanta strada da fare. Ero riuscita ad apprendere qualcosa sul combattimento ed anche se ero perfettamente consapevole di essere debole, odiavo quando qualcuno mi etichettava come la ragazza che pensa solo a vestiti, trucchi e “seduzione”. C’era molto di più in me. Ero molto di più di questo – non ero nemmeno sicura di essere questo – e stavo lottando strenuamente perché tutti se ne accorgessero.
 
«Capitano» chiamai il chirurgo, mentre la cameriera mi piazzava davanti un bel piatto di carne. Lui, che era intento a tagliare la sua bistecca, alzò lo sguardo. Mi avvicinai, ignorando Penguin che era in mezzo ed abbassai il tono della voce per non farmi sentire, come se con quel casino qualcuno avesse potuto sentirmi comunque. Ma era sempre meglio essere prudenti, avevo imparato che anche i muri avevano le orecchie.
«C’è una tua vecchia conoscenza» quasi glielo sussurrai, poi feci un cenno della testa in direzione del pirata interessato. Lo osservò attentamente, valutando il da farsi. Sapevo che tra di loro c’era una sorta di intesa silenziosa, l’intesa di chi ha combattuto la stessa battaglia e ha rischiato la vita. Quello che non sapevo era chi altro ne era a conoscenza. Nel dubbio rimasi zitta. Law avrebbe eventualmente gestito la cosa. Cavendish “cavallo bianco” e capitano dei Pirati Bellissimi, non era sicuramente uno facile da gestire, sia per la sua doppia personalità, sia per il suo difficile carattere da diva di Hollywood. Ma avevo fiducia nel mio capitano, che come sempre se la sarebbe cavata egregiamente. Però il biondo continuava a fissarci e questo non mi lasciava affatto tranquilla. Solo dopo un po’ mi accorsi che avevo involontariamente portato la mia mano sull’impugnatura di Mr. Smee e avevo smesso di mangiare. Cercai di scacciare dalla testa tutte le mie paranoie e ripresi a godermi quella succulentissima bistecca.
Passammo il resto del pasto a fissarci a vicenda. I pirati Heart fissavano i pirati Bellissimi con diffidenza, mentre al contrario, i pirati di Cavendish fissavano noi con un bagliore di spavalderia negli occhi. Il biondo guardava prima Law, poi me. Che voleva? Che aveva in mente?
Non potei non notare che accanto al capitano dei nostri “rivali”, sedeva una ragazza dai capelli argentei, gli occhi azzurri e la pelle chiarissima. Penguin la stava fissando da almeno mezz’ora con aria torva. Osservandola meglio, notai che vi era una certa somiglianza tra lei e Cavendish.
«Secondo te sono fratelli?» chiesi al mio vicino di posto, dopo avergli dato una gomitata per farlo riprendere. Non la stava guardando con occhi avidi, la sua era più curiosità, ma non era lo stesso cortese fissare a lungo una signora.
«Non lo so. Eppure mi sembra di aver già visto quella ragazza...» disse in maniera sfuggente
«Forse su qualche manifesto di taglia» ipotizzai, tagliando un pezzo di carne e portandomelo alla bocca. Lui annuì, anche se non era del tutto convinto e continuò ad avventarsi sulla sua cena.
Quando terminammo di cenare il clima era tornato normale. Tutti stavano chiacchierando amabilmente e io mi stavo godendo quel momento. Stavo prendendo in giro Shachi perché si stava lamentando di quanto gli facessero male i muscoli dopo una giornata passata a caricare rifornimenti e provviste, quando alla sua sinistra apparve un’ombra che fece rabbrividire la metà di noi.
«Da quanto tempo, Trafalgar Law»
«Cavendish-ya».
La tensione si poteva tagliare con il coltello. Il chirurgo era stato distaccato e freddo come suo solito nel pronunciare il nome del suo interlocutore, che sorrideva audacemente.
«Chi non muore si rivede, eh?» chiese ironicamente, sempre ghignando impertinentemente. Accanto a me Penguin, Shachi e Bepo fremevano. Io speravo solo che il tutto non sarebbe sfociato in una battaglia. Mi fidavo dei miei compagni e soprattutto del mio capitano, ma mi fidavo un po’ meno di Suleiman il “Tranciacolli” e di “Hakuba”.
«Non posso fare a meno di notare che in questi anni hai fatto nuovi acquisti per la tua ciurma» gettò un rapido sguardo nella mia direzione ed io rabbrividii. Come faceva a sapere che io ero carne fresca? Doveva essere decisamente uno stalker. Pazzo. Era un pazzo! Dovevamo andarcene subito da lì.
Spostai la sedia verso Penguin, come a cercare protezione e riparo da quel maniaco con un sorriso sadico sulla faccia.
«Perché non ti unisci a noi, Cavendish-ya?» chiese pacatamente Law. Lo guardammo tutti esterrefatti. Aveva perso la ragione. Totalmente. Quello ci avrebbe tagliati a pezzettini senza pensarci due volte e il nostro capitano gli stava offrendo la benedetta occasione su un piatto d’argento. Per fortuna avevo comprato i pugnali. Non mi sarei fatta scrupolo ad usarli, se necessario.
«Ti ringrazio Trafalgar, ma non ho tempo per queste cose. Dal momento che sono molto impegnato, arriverò subito al punto».
Drizzammo le orecchie. Io mi misi a fissarlo con la fronte leggermente aggrottata.
«Se la memoria non mi inganna, dopo quanto accaduto a Dressrosa, sei in debito con me» si pronunciò il biondo, quasi sadico
«E sentiamo, che cosa vorresti da me?» domandò il moro appena infastidito.
Seguivo la loro conversazione come se fosse una partita di tennis. Guardavo prima l’uno poi l’altro, osservavo le espressioni e i movimenti, soppesavo le parole che si dicevano e cercavo di interpretare il tono delle loro voci per capire come sarebbe potuta andare a finire. L’aria tesa non faceva presagire nulla di buono.
Cavendish sogghignò. «Non cosa, ma chi».
Law alzò un sopracciglio, io corrugai la fronte, sinceramente stupita.
«Non ti dispiacerà se prendo in prestito il tuo ultimo acquisto, spero» lo disse quasi con scherno e poi guardò me. Mi squadrò dalla testa ai piedi, come se stesse valutando la “merce”. «Davvero uno splendido acquisto».
Rimasi congelata nella posizione in cui stavo. Davvero stava chiedendo di me? Voleva me? Feci l’unica cosa che mi venne in mente in quel momento. Spostai il mio sguardo sul mio capitano. Mi fidavo e sapevo che avrebbe rifiutato l’offerta.
«Sarò ben felice di estinguere il mio debito» pronunciò lui ad alta voce. Strabuzzai gli occhi.
«Cosa?» chiesi, iniziando a guardarmi in giro. Stavo prendendo in considerazione l’opzione di togliermi la cintura e scappare in un posto lontano, dove nessuno mi avrebbe mai più rivisto.
«No, no, no. Non si può fare» sussurrai a Penguin, nel panico più totale «non voglio diventare la concubina di un pazzo bipolare!»
Mi stavo agitando. Davvero quello che fino a quel momento mi aveva fatto da maestro, aveva intenzione di cedermi come se niente fosse all’Orlando Furioso della situazione? Non potevo crederci.
«Tuttavia» continuò poi il capitano, facendo scomparire il ghigno di soddisfazione dalla faccia di Cavendish «non credo che ciò sia possibile. La signorina qui presente non è merce di scambio. È una mia promettente allieva ed è sotto la mia protezione».
Tirai un sospiro di sollievo. Solo dopo un po’ mi soffermai a riflettere sulle sue parole, e senza darlo a vedere mi commossi. Non capitava tutti i giorni che Trafalgar D. Water Law dicesse pubblicamente cose positive su qualcuno, chiunque fosse. E il fatto che si era premurato di far sapere a tutti che ero sotto la sua protezione suscitava in me una gioia incredibile e mi dava un senso di sicurezza che non avevo mai provato prima.
«In questo caso abbiamo un problema» fece Cavendish, serio.
Rabbrividii. L’ultima cosa che volevo era essere la causa di un combattimento, a cui tra l’altro non avevo nessuna intenzione di prendere parte.
«Credimi, il problema lo avrai se fai diventare la mia apprendista un membro della tua ciurma» affermò il mio capitano, poi volse lo sguardo a me «sarebbe una disgrazia per te. Non sapresti come gestirla»
«Amo le sfide» rispose il biondo dall’altra parte del tavolo, con un guizzo pericoloso negli occhi
«Non ne sei in grado. Sarebbe una battaglia persa in partenza. Ti consiglio, per il tuo bene, di farti da parte».
C’era sempre più tensione nell’aria e gli animi si stavano scaldando. Non potevo reggere quella situazione un minuto di più, così come non potevo permettere a quei due maledettissimi testardi di affrontarsi in uno scontro fisico. Mi alzai in piedi di scatto, facendo indietreggiare rumorosamente la sedia.
«Un ballo. Che ne dici di un ballo? Insieme?» domandai tutto d’un fiato, pentendomi subito dopo. Non sapevo come funzionavano le cose lì e temevo di aver fatto un passo falso. Avevo parlato senza permesso e per di più rivolgendomi ad un capitano.
Tutti i presenti riuniti attorno a quel tavolo guardarono prima me, poi Law e infine Cavendish.
«In più il mio maestro e capitano si impegnerà ad offrire da bere per tutti, per questa sera» mi pronunciai ancora, attendendo che l’ira funesta dei due si riversasse su di me. Ma invece niente di ciò che mi aspettavo avvenne. Il pirata dagli occhi color zaffiro sorrise ed allungò il braccio porgendomi la mano.
«Per questa volta ti è andata bene, Trafalgar» disse lui guardando verso il chirurgo, poi riportò lo sguardo su di me «come ho detto, proprio un ottimo acquisto. Bella e anche intelligente, non capita tutti i giorni di vedere una donna così. Tienitela stretta Law, qualcuno potrebbe decidere di portartela via, un giorno. E stai sicuro che non sarà indulgente come me».
Non potei fare a meno di essere lusingata dalle sue parole. Avrei voluto vedere la reazione del mio maestro, ma purtroppo gli davo le spalle ed ero troppo impegnata a sorridere cortesemente a Cavendish per potermi voltare.

Ballammo per qualche ora buona. Nonostante la sua arroganza, che lo faceva apparire come un tipo sgradevole e presuntuoso, il capitano dei pirati Bellissimi era una persona piuttosto piacevole. Tra una giravolta e l’altra riuscimmo a scambiare qualche parola. Ovviamente feci attenzione a non rivelare troppo di me, non c’era da fidarsi di uno che avrebbe gettato un membro della sua ciurma in pasto ai re del mare solo per avere attenzione mediatica. Mi inventai la prima storiella che mi venne in mente su chi ero e da dove venivo. Usop sarebbe stato fiero di me. Con la coda dell’occhio vidi Penguin che ballava con la ragazza albina. Chiacchieravano amabilmente e sembravano conoscersi, ma avevo notato che ogni tanto il mio compagno gettava lo sguardo su di me per controllare che stessi bene. Cavendish mi comunicò che la ragazza si chiamava Becky e che erano amici di infanzia, lei era quasi una sorella per lui. Poi mi chiese che cosa sapessi sul suo conto ed io riportai tutte le notizie – che riuscissi a ricordare – che avevo appreso leggendo il manga. Mi rivelò come e perché aveva deciso di andare per mare e fare il pirata e mi raccontò alcune delle avventure che aveva avuto fino a quel momento. Mi fece anche sapere che non sarebbe rimasto sull’isola per la notte – e ciò mi fece tirare un sospiro di sollievo perché significava che avremmo evitato di essere prede della carneficina di Hakuba – e che ero una discreta ballerina, considerando che riuscivo a tenere il suo ritmo. Questo fu tutto quello che si sbilanciò a dire. Lo ascoltai per tutta la sera, annuendo e sorridendo, ma la mia testa era altrove. Non incrociai nemmeno una volta lo sguardo di Law, perché avevo paura che fosse arrabbiato con me o peggio, deluso dal mio comportamento. Cercai di non pensarci troppo e mi concentrai sui passi della danza. A differenza di me, proprio come sosteneva, era un eccellente ballerino, il caro Cavolish. Certo, niente in confronto all’eleganza e delicatezza di Sanji, ma aveva un che di magico anche lui.
Quando fu mezzanotte passata, ci salutammo in armonia e lui e la sua ciurma uscirono dal locale, per poi lasciare l’isola. Io tornai al mio posto a testa bassa e non scambiai neanche una parola con il chirurgo della morte. Poco dopo decidemmo di comune accordo che ce ne saremmo andati ognuno nella propria stanza a dormire.
 
Ero in piedi, davanti alla porta della camera del mio capitano. Presi un profondo respiro. Non volevo farlo, ma dovevo farmi coraggio. Bussai.
«Grazie» sputai fuori non appena mi aprì «per oggi, per avermi difeso, intendo».
La sua faccia assunse un’espressione divertita. Feci per andarmene, ma lui mi porse un flute. Gli sorrisi e scossi la testa. Sapeva che non potevo rifiutare, e nonostante la mia espressione contrariata ero contenta, perché quel suo gesto mi stava dando la conferma che non era né arrabbiato, né deluso. Forse era perfino un po’ – ma veramente poco – fiero di me.
«A cosa brindiamo?» chiesi
«A niente, bevi e basta» rispose atono
«Ai debiti» dissi alzando il calice con lo spumante.
«Alle sottoposte fastidiose» pronunciò dopo un po’
«Alle sottoposte irresistibili, vorrai dire» replicai facendogli l’occhiolino
«Se avessi avuto addosso la divisa, tutto questo non sarebbe successo. Da domani la indosserai come tutti gli altri» ordinò Law, leggermente infastidito
«Sarebbe accaduto comunque, perché io sono una bomba sexy, Law. Non puoi negarlo, così come non puoi obbligarmi ad indossare quella stupida divisa»
«Ne discuteremo con più calma» disse, poi cambiò argomento «stai diventando un’alcolizzata» indicò il mio bicchiere ormai vuoto, che poco dopo posai sul tavolino.
«Sei tu che mi ci stai facendo diventare, prenditi le tue responsabilità» scherzai «e comunque, se non ci fossi io a salvarvi il culo ogni volta, non sapreste proprio come fare»
«Sei tu a causarci problemi» rispose, secco
«È vero...ma poi li risolvo, quindi non c’è motivo di alterarsi. Prima o dopo sarai costretto ad ammettere che sono una grande aggiunta per la tua ciurma e che qualora dovessi andarmene ti mancherò»
«Non hai il coraggio di andartene» disse mentre mi dava le spalle e si riempiva il bicchiere. Potrà sembrare stupido, ma quella frase mi colpì come uno schiaffo in piena faccia. Mi appoggiavo a Law, ai pirati Heart e vivevo su quel sottomarino scricchiolante e malandato solo perché non avevo il coraggio di fare altrimenti? No, si sbagliava. Forse all’inizio poteva essere così, ma ora era tutto diverso. Io ero con loro perché volevo stare con loro. Avrebbe dovuto darmi più fiducia.
«Bei pugnali, a proposito» affermò dopo qualche attimo di silenzio
«Allora li hai notati. Stai attento, capitano, da oggi dormirò con uno di questi sotto al cuscino» sogghignai
«Servirebbe a me un pugnale sotto al cuscino dopo la tua ultima incursione» scherzò, ma neanche tanto. Risi e mi versai altro spumante nel flute. Quando ebbi prosciugato il calice fino all’ultima goccia, lo posai di nuovo sul tavolino.
«E così non saprebbe come gestirmi, eh?» chiesi ironicamente e provocatoriamente mentre mi sedevo sulla poltrona, appoggiandomi allo schienale, con le mani dietro alla nuca e le gambe accavallate. «Come se tu ci riuscissi» ghignai.
«Gli ho fatto un favore» affermò, trattenendo un sogghigno
«Certo...sei sicuro che non lo hai fatto a te stesso il favore?»
«Se l’avessi fatto a me stesso non saresti qui» disse in tono provocatorio
«Farò finta di crederti» mi alzai e mi avviai verso la porta, aprendola «Buonanotte Traffy».
Alzò un sopracciglio.
«Ops...» mi misi a camminare a ritroso per il corridoio in modo da poterlo guardare in faccia e allargai le braccia «buonanotte, capitano».
Mi rigirai e tornai in camera mia, lasciandolo sulla soglia della porta. Ero consapevole di avere un’aria strafottente, ma ero anche contenta e un po' più leggera, perché ora sapevo che lui mi considerava un membro della sua ciurma a tutti gli effetti e che mi rispettava e che per questo, se fosse stato necessario, avrebbe combattuto per me, qualunque fosse stato il prezzo da pagare. Del resto, non è questo che fanno i compagni? Combattono l'uno per l'altro senza curarsi delle conseguenze, a qualunque costo.
Appena prima di addormentarmi, ripensai alla Stella e sorrisi. A quanto pareva, non era così sprovveduta come voleva farmi credere. Perché ora avevo la certezza che il mio terzo desiderio fosse stato esaudito appieno. Avevo trovato i miei nakama.



Angolo autrice:
Ciao a tutti e buona giornata!
Eccomi qui con un altro capitolo. Un capitolo che è nato dalla richiesta di una mia cara amica, anche lei autrice qui su EFP con il nickname Becky313, di inserire come personaggi Cavendish e la sua amica dai capelli argentei. E niente, è venuta fuori questa cosa che spero soddisfi tutti. :)
Fatemi sapere che ne pensate, ringrazio in anticipo chiunque vorrà lasciare una recensione! <3
Un abbraccio e alla prossima!

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Capitolo 22
*** Battaglia ***


Sospirai, sollevata più che mai.
«Non sai quanto sono contenta di vederti tornare ai fornelli» confessai al mio interlocutore «un’altra insalata di cavoli bolliti e avrei preso a pugni Bepo».
Ryu rise di gusto e mi disse di non preoccuparmi, perché ci avrebbe pensato lui da quel momento in poi. Questo era assolutamente rassicurante.
L’avevo dimesso due giorni prima, ma dal momento che la ferita non si era ancora rimarginata del tutto gli avevo intimato di rimanere a letto a riposarsi. Ora però era più in forma che mai ed era pronto e determinato a riprendere possesso della sua amata cucina.
«Bentornato tra noi» affermò Law sorridendo distrattamente. Solo in quell’istante notai che l’intera ciurma si era radunata nella stanza.
«Ryu! Siamo felicissimi di vederti di nuovo in cucina!» gridò Shachi, e mi parve di notare che lui e il suo compare avevano gli occhi lucidi dalla felicità.
Nei giorni precedenti mi avevano ringraziato mille volte e mi avevano anche tartassato di domande su quando il cuoco avrebbe potuto riprendere la sua attività. Per fortuna nessuno aveva più detto una parola su quanto accaduto alla Locanda del Fiore, a Nyusu. Era meglio dimenticare e avevo avvertito che avrei fatto a pezzi chiunque avesse osato riportarmi alla mente o divulgare al resto della ciurma l’accaduto.
«Fate silenzio. Vi ho chiamati per dirvi che sbarcheremo. Tutti» annunciò il capitano «abbiamo un lavoro da fare. Tra un’ora vi voglio sul ponte».
Ci fu un mormorio generale. Da quando ero lì questa era la prima volta che saremmo tutti scesi a terra. Non sapevo cosa aspettarmi, semplicemente perché non avevo idea di come funzionasse. Di che lavoro parlava Law? Non ero sicura di volerne venire a conoscenza. Certe volte, quando si trattava di lui, era meglio rimanere nell’ignoranza. A quanto pareva lo avevano capito anche i miei compagni, e molto prima di me. Quello che mi importava era che potevo mettere di nuovo piede fuori dal Polar Tang. Ormai lo conoscevo come le mie tasche, tanto era il tempo che avevo trascorso lì.
Prima che il chirurgo della morte ci congedasse, Maya mi fermò. Mi consegnò gli stivali che le avevo affidato giorni prima. Le avevo chiesto di aggiungere delle tasche, sempre in cuoio, sulla parte esterna di entrambi, così avrei potuto riporci i pugnali. Non che non fossi contenta della mia ascia, ma la mia permanenza lì – anche se ancora non avevo combattuto una vera battaglia – mi aveva insegnato che era sempre meglio avere un asso nella manica o in questo caso, due pugnali negli stivali.
Ringraziai di cuore la mia amica, che ormai per me era quasi una sorella e che alcune volte, essendo un po’ più grande ed esperta di me, mi faceva addirittura da mamma. Lei mi rispose che tra donne dovevamo aiutarci, ed essendo noi le uniche due ragazze della ciurma, era necessario che collaborassimo per la nostra sopravvivenza. Le sorrisi e lasciai che raggiungesse Omen. Maya non lo avrebbe mai ammesso, ma ultimamente il loro rapporto era diventato più intimo e non ero l’unica ad averlo notato.
Quando furono usciti tutti dalla cucina, mi avvicinai a Law.
«Capitano. Credi che sia una buona idea lasciare che Ryu sbarchi con noi? Il decorso postoperatorio è buono e la ferita si è rimarginata bene, ma non sono sicura che sia ancora abbastanza in forze per affrontare uno sbarco» lo dissi a voce bassa, per non farmi sentire dal cuoco, che era ancora lì. Non si sarebbe mosso tanto facilmente, ora che si era riappropriato dei suoi utensili da cucina.
«Non lo so, sei tu il suo medico» si limitò a rispondermi. Capivo che dovevo imparare a gestire quel genere di situazioni, ma ogni tanto il suo parere mi avrebbe fatto comodo.
«Tranquilla Doc, sto benone! Mi farà bene prendere un po’ di aria fresca. E poi, mi servirebbero alcune scorte di cibo. Sono finiti i cavoli».
A quanto pareva il tentativo di non farmi sentire era fallito. Ryu mi sorrideva, cercando di rassicurarmi. Non potei non sorridere di rimando, anche perché ero perfettamente consapevole del motivo per cui i cavoli fossero finiti.
«D’accordo allora. Se mi assicuri che ti senti bene, ti do il permesso per sbarcare. Compra quanti cavoli vuoi, ma ti prego, a nome di tutta la ciurma, non cucinarceli per almeno un paio di settimane» lo pregai scherzando. In realtà ero serissima e lo sapeva anche lui, che rise e annuì.
Gli avevo dato il permesso di venire con noi e questo mi faceva sentire potente ed importante, ma ero anche responsabile per lui. Dovevo tenerlo d’occhio o la colpa di qualsiasi cosa gli fosse successa sarebbe ricaduta su di me.
 
Eravamo tutti in fila sul ponte, a braccia incrociate. Sembravamo quasi seri. Aspettavamo che le scialuppe venissero calate.
«Secondo voi di che lavoro si tratta?» chiesi ai miei compagni vicini
«Non lo so, su questo il capitano è sempre abbastanza criptico» mi rispose Penguin
«Non lo sapremo finché non lo vedremo. Mettiti il cuore in pace» aggiunse Shachi. Mi ero messa il cuore in pace, volevo solo capire a che cosa saremmo andati incontro, per essere più preparata.
«Di sicuro non stiamo andando lì per rifornirci di provviste e carburante, visto che abbiamo fatto il pieno l’altro giorno» constatai
«Vuoi dire quando noi abbiamo sgobbato come muli trasportando scatoloni pesantissimi mentre tu te ne sei andata beatamente a zonzo per tutta l’isola a rimorchiare piratucoli squilibrati?»
Alzai gli occhi al cielo. «Ti serve un calmante, Shachi? Perché posso portartelo se vuoi».
In tutta risposta lui mi lanciò un'occhiataccia, strinse i pugni, arricciò il naso e digrignò i denti.
«Almeno si può sapere il nome di questa fantomatica isola su cui sbarcheremo?» domandai sbuffando
«Si chiama Rethgif» comunicò Bepo, facendoci voltare verso di lui
«Ti pareva che il cocco del capitano non sapesse dove stiamo andando» fece Shachi, inacidito
«Avete ragione, chiedo umilmente scusa. Avrei dovuto dirvelo prima» il visone abbassò la testa, mortificato. Sospirai e gli misi una mano sulla spalla.
«Non è colpa tua, non farne una questione di Stato. È solo nervoso» assicurai all’orso polare, che però continuò a scusarsi, infastidendo il resto della ciurma. D’improvviso sembravano essere diventati tutti irascibili. Forse erano preoccupati come me, ma nessuno voleva ammetterlo.
«Comunque Rethgif è un nome del cazzo» commentò Penguin
«Concordo» lo appoggiai io.
Avevo l’impressione che sarebbe stata una lunga e dura giornata, che l’avessimo voluto o no.
 
«Qualunque sia il lavoro che dobbiamo fare, non intendo sventrare altri cadaveri» annunciai mentre spostavo l’ennesimo ramo per poter continuare a passare lungo lo stretto e insidioso sentiero sterrato. Gli stivali nuovi, che avevo messo per la prima volta quel giorno, avevano imbarcato più fango di quanta acqua avesse imbarcato il Titanic. Camminavamo da parecchio ormai, e cominciavo a fremere per l’impazienza. In più, l’irritazione generale rendeva nervosa anche me.
«Stai zitta e continua a camminare» soffiò con disprezzo Shachi, dietro di me. Stavo per rispondergli per le rime, quando Bepo mi interruppe.
«Ti conviene risparmiare il fiato. A quanto ho capito c’è da camminare ancora per un po’».
Non lo disse in tono duro, ma dolce e pacato. Per fortuna era ancora rimasta una briciola di tenerezza in lui.
«Finalmente siamo arrivati» dissi espirando ed appoggiandomi le mani sulle ginocchia. Avevamo fatto una bella scarpinata, senza dubbio. Mi girai verso Ryu. «Tutto a posto?» gli chiesi apprensiva.
Annuì, anche se sembrava un po’ affaticato e aveva la fronte madida di sudore. Avrei dovuto tenerlo d’occhio per il resto della nostra permanenza lì. Forse non era stata una buona idea farlo venire con noi. Cercai di non pensarci – o meglio di pensare che tutto sarebbe andato bene – e mi rivolsi al capitano.
«Allora, adesso ci vuoi dire il motivo per cui siamo dovuti venire qui su questa isola sperdu...» qualcosa mi interruppe e mi fece gelare il sangue nelle vene. Ci raddrizzammo tutti e iniziammo a guardarci in giro, più vigili che mai.
«Trafalgar Law, in compagnia della sua fidata ciurma. Quale onore» disse una voce che non riuscii a localizzare bene.
Rethgif era un’isola piuttosto ostile, l’unico villaggio che c’era era circondato da un anello di fitta vegetazione. Ovunque si sbarcasse si doveva prima camminare a lungo attraverso la giungla prima di raggiungere quel villaggio. E ora che finalmente vi eravamo approdati, qualcosa – anzi, qualcuno – ci impediva di proseguire.
“Non di nuovo” pregai nella mia mente. Perché dovevo avere un capitano con così tanti nemici!? Il panico iniziò a salire in me quando alla nostra destra dei rumori ci fecero immediatamente voltare e dalla foresta cominciarono a venir fuori delle sagome. I miei compagni cominciarono a restringersi in cerchio e io feci altrettanto, premurandomi di rimanere vicino a Bepo. La piazza principale era deserta. C’eravamo solo noi pirati e quei dannati tizi di cui non conoscevo l’identità. Evidentemente i cittadini avevano capito che era meglio tenersi alla larga e si erano rinchiusi in casa. O forse erano stati avvisati in precedenza e avevano deciso di non interferire. Anche se, a dire la verità, quella sembrava tutt’altro che un’isola abitata. Le case, arroccate in cima al villaggio, erano fatiscenti e piene di crepe e parecchie finestre erano rotte. Tutto sembrava così immobile, come se il tempo si fosse fermato. Forse si era fermato davvero.
«I cacciatori di taglie» sibilò il visone, distraendomi dalle mie riflessioni filosofiche, quando il gruppo di persone fu abbastanza vicino da poter essere identificato. Istintivamente ed istantaneamente, proprio come fece il resto della ciurma, sfoderai Mr. Smee e mi preparai al peggio.
«Maledetto pipistrellaccio» soffiò Shachi
«Quello» Bepo mi indicò il più grosso e spaventoso della banda, poi abbassò la voce «è Ruben, detto “Mano Alata”. Stai molto attenta, può trasformarsi in un pipistrello. Non farti ingannare, non è stupido come sembra, ed è riuscito a mettere le mani sulle taglie di molti pirati importanti».
Chissà perché, la notizia non mi rassicurava affatto. Anzi, molto probabilmente sarebbe stato meglio non sapere. Fino all’ultimo secondo avevo sperato che fosse tutto uno scherzo, che quelle persone dall’aria estremamente minacciosa e poco raccomandabile non volessero veramente iniziare un combattimento, ma magari andare a bere qualcosa tutti insieme in un pub e chiacchierare amabilmente del più e del meno. Ma a quanto pareva non era così. Erano lì per prendere le nostre teste. Per la seconda volta, nel giro di qualche giorno, mi ritrovavo a pensare di togliere la cintura e scappare via. In quegli anni me l’ero immaginata tante volte come sarebbe stato combattere nella realtà, ed ora che era arrivato il momento in cui potevo scoprirlo, non ero sicura di volerlo fare. Non ero sicura di essere pronta. Ma come tutte le cose, non si è mai pronti abbastanza.
 
La battaglia iniziò senza che me ne accorgessi. Il capo, quello più grosso di tutti, gridò che sarebbe stato un piacere arricchirsi grazie alle nostre morti; e poi, in un nanosecondo, si trasformò in un orribile pipistrello gigante. I suoi compari – che precedentemente si erano disposti a semicerchio attorno a noi – seguirono il suo esempio e avanzarono verso di noi con molto impeto. Solo in quel momento mi resi conto che eravamo in netta inferiorità numerica. La proporzione era di almeno uno a quattro, ma non mi sarei lasciata scoraggiare da questo. Noi eravamo più forti e avremmo vinto. Mi fidavo dei miei compagni. La domanda era: mi fidavo anche di me stessa?
Prima che avessi il tempo di prepararmi mentalmente, sentii il clangore delle armi che si scontravano tra loro e capii che dovevo fare qualcosa. A quel punto qualsiasi cosa sarebbe andata bene. Potevo sfilarmi la cintura e tentare di dileguarmi tra le fronde del bosco, evitando lance, spade e l’intera battaglia, o potevo combattere. In un breve momento di ilarità isterica, pensai che forse l'opzione migliore sarebbe stata la fuga con Cavendish qualche giorno prima, quando mi aveva proposto di andare con lui. Se non altro, ero sicura che il biondo non si sarebbe mai cacciato in tutti questi guai. Scossi la testa, intimandomi di riprendermi. No. Questa volta non sarei scappata. I miei compagni non mi avrebbero mai perdonato se lo avessi fatto. Chiusi gli occhi e strinsi l’impugnatura dell’ascia con entrambe le mani. “Non è qui che morirò” ripetei a me stessa più volte. “Non è qui che morirò” pensai e sperai, e me lo dissi così tante volte che iniziai a crederci. Tuttavia, quando riaprii gli occhi, vidi un energumeno di almeno tre metri venire verso di me a gran velocità. Puntava me, puntava proprio me. Le gambe iniziarono a tremarmi, il cuore batteva all’impazzata, la paura mi paralizzava e sentivo la presa su Mr. Smee allentarsi sempre di più. Che potevo fare? La mia mente era completamente vuota. Per fortuna, quando quel colosso era ad una decina di metri da me, intervenne Jean Bart. “Prenditela con quelli della tua stessa stazza!” aveva esclamato, anche se lui era quasi il doppio. Poi, tra i due iniziò un violento e feroce corpo a corpo. Distolsi lo sguardo intimandomi di non far tremare le gambe. Mi ci volle una forza di volontà incredibile per eseguire quell’ordine, ma alla fine ce la feci. Mi guardai intorno. Tutti stavano lottando. Bepo era alle prese con un tizio con la pistola e fortunatamente stava riuscendo a schivare tutti i colpi; Shachi e Penguin stavano combattendo insieme contro quattro o cinque persone, la loro sincronia era pazzesca, a tal punto da ricordarmi quasi Rufy ed Ace che lottavano insieme a Marineford. Tutti gli altri tentavano di rimanere vivi contrastando i nemici come meglio potevano. Non riuscivo a vedere la faccia di Law, ma ero sicura che fosse incazzato e che avrebbe fatto di tutto per distruggere quel pipistrello del cazzo e il suo sorriso arrogante che aveva scombinato i suoi piani, come io stavo facendo di tutto per evitare la battaglia. Non potevo più permettermelo. Dovevo aiutare i miei amici. A qualunque costo. Prima che potessi fare qualsiasi cosa, però, un potente calcio alla mandibola mi fece cadere a terra. Mi puntellai sul gomito sinistro, mentre con la mano destra mi massaggiavo il punto in cui quel barbaro sconosciuto aveva colpito. Il calcio che mi aveva dato Bepo mesi prima non era niente in confronto. Quel colpo aveva fatto scaraventare la mia ascia a qualche metro da me. L’uomo che avevo davanti mi fissava con aria sadica, come se fossi carne da macello. In mano stringeva un pugnale e sospettavo che fosse pronto ad usarlo. Senza indugiare – e senza perderlo d’occhio nemmeno per un secondo – strisciai con i gomiti fino alla mia arma e riuscii a riprenderla appena prima che questo sferrasse il suo attacco. Repentinamente allungai al massimo l’ascia e parai il colpo, tenendola orizzontalmente con entrambe le mani. Da terra, però, non avevo la forza necessaria per respingere il cacciatore di taglie, che stava riuscendo ad avvicinare sempre di più a me il suo coltello. Così, feci quello che a quanto pare sapevo fare meglio: improvvisai. Gli sferrai un calcio nel punto maschile più vulnerabile. Funzionò, perché fece una smorfia di dolore e indietreggiò di qualche passo, dandomi il tempo di rialzarmi e di colpirlo alla testa con la parte piatta di Mr. Smee. Svenne sul colpo. Il giorno dopo avrebbe avuto un gran mal di testa, ma se l’era cercata. Non lo uccisi, perché ancora prima di iniziare l’addestramento avevo prestabilito che non avrei portato via la vita a nessuno. Io stessa non ero nessuno per poter fare una cosa tanto orribile ad un altro essere umano. Però avendo studiato anatomia a fondo, sapevo dove colpire per mettere fuori combattimento un nemico senza ucciderlo.
Tirai un sospiro di sollievo – anche se c’era ben poco per cui essere sollevati – e gettai il coltello lontano dall’uomo che avevo appena messo ko, tra le fronde della fitta vegetazione, giusto per precauzione. Sentivo l’adrenalina scorrermi nelle vene e senza perdere tempo mi guardai intorno, per cercare di capire se qualcuno dei miei compagni avesse bisogno di aiuto. Sembravano tutti cavarsela egregiamen...
«Maya!» urlai, vedendola in seria difficoltà. Era dall’altra parte della piazza e non esitai a correrle incontro, abbassandomi ogni tanto per schivare colpi non diretti a me.
Quando la raggiunsi, stava combattendo contemporaneamente contro due cacciatori di taglie. Ansimava visibilmente e stava avendo dei problemi. Presi uno dei due alle spalle e, tenendo l’ascia – che avevo accorciato al minimo – in posizione orizzontale, gliela premetti contro la gola, tentando di soffocarlo. Il poveretto si dimenava parecchio, ma la mia presa era salda e non avrei mollato tanto facilmente. Quando qualche minuto dopo sentii il suo corpo abbandonarsi contro il mio, capii che le forze lo avevano lasciato e smisi di fare pressione.
«Grazie!» esclamò Maya con il poco fiato che le rimaneva in corpo. Non ci fu tempo per risponderle perché un altro gruppetto di uomini si scagliò contro di noi. Per un po’ combattemmo fianco a fianco e in qualche – forse patetico – modo riuscimmo a respingerli tutti. Lei con la sua Sunny Spear ed io con la mia Mr. Smee. Facevamo una bella squadra insieme. Ci furono un paio di volte in cui rischiai di inciampare sui corpi degli uomini a terra. Nessuno mi aveva preparato a questo. Era uno spettacolo inquietante e spaventoso al tempo stesso. Sebbene ce l’avessi a morte con quei maledetti cacciatori, sperai che nessuno di loro fosse realmente morto. Nessuno si meritava una fine del genere. Ma la cosa più agghiacciante di tutte, paradossalmente, era il rumore. Era un rumore assordante, armi che si scontravano, colpi di pistola, uomini che gridavano nell’impeto del momento o di dolore, corpi che cadevano a terra, esanimi. Non era una cosa che si vedeva – o sentiva – tutti i giorni e molti si auguravano di non vederla mai. Ora capivo perché tanti soldati nel mio mondo soffrivano di disturbo post traumatico da stress. Vedere anche solo una volta cose agghiaccianti di quel tipo, poteva essere devastante per qualcuno, figurarsi viverle. Sospettavo che mi sarei sognata per molte notti quei momenti.
«Vieni via dalla room del capitano!» gridò la mia amica, tirandomi per un braccio. Nel mio attimo di riflessione e smarrimento, non mi ero accorta che una sfera bluastra mi aveva circondato. Non era un bene trovarsi nel campo d’azione di Law durante una battaglia. Bepo me ne aveva parlato più volte durante l’addestramento. Di solito il chirurgo ispezionava l’area prima di agire, ma quando era particolarmente arrabbiato – o era messo alle strette – non ci faceva caso, chi c'era c'era, lui avrebbe scatenato comunque il putiferio. In fondo i suoi sottoposti erano ben consapevoli che dovevano tenersi lontani dalla sua “sala operatoria”. Per fortuna me ne tirai fuori appena in tempo, ma in quel secondo di distrazione, uno degli uomini di Ruben mi colpì allo stomaco con una mazza chiodata. Caddi a terra. Non riuscivo a respirare. La cintura metallica aveva attutito la botta, ma era comunque alquanto doloroso. Tossivo, sputavo saliva e stavo rannicchiata in posizione fetale, incapace di alzarmi. Boccheggiavo e mi tenevo lo stomaco, sperando che non fosse nulla di grave. Non ce la facevo a rialzarmi, avevo esaurito tutte le energie e forse anche l’adrenalina.
«Questa qui non ha nessuna taglia sulla testa» comunicò il cacciatore che mi aveva colpito ai suoi compari vicini «però potrebbe esserci utile in altri modi...Ruben sarebbe felice di ritornare da questa battaglia con qualche souvenir» il sorriso dell’individuo che mi sovrastava mi fece ghiacciare il sangue nelle vene. Con una mossa fulminea calciò l’ascia lontano da me, poi mi prese per i capelli e mi trascinò via dal campo di battaglia, nel bosco. Mi obbligò a inginocchiarmi. Gli davo le spalle e sentivo il suo fiato puzzolente sul collo, mentre una daga premeva sulla mia gola.
«Prova a muoverti e ti taglio la gola, ragazzina» sibilò quel viscido cacciatore. Avrei voluto sputargli in faccia, ma non avevo più la mia ascia e non potevo fare niente. Pregai con tutte le mie forze che qualcuno venisse a salvarmi. Che qualcuno si accorgesse che ero sparita. Ma sapevo che erano tutti troppo impegnati a combattere per salvarsi la pelle, per pensare a me; e questo era un bene da un certo punto di vista, non dal mio però.
Nel posto in cui ero, potevo osservare bene tutta la battaglia. Solo in quel momento notai il cuoco. Nella confusione e nell'impeto di quei minuti me ne ero totalmente dimenticata. Avevo commesso un errore imperdonabile.
«Ryu!» gridai con tutta la forza che avevo in corpo, dimenandomi e tentando di liberarmi. Era lì, ad una cinquantina di metri da me, a terra, sanguinante e con una pistola puntata contro. Sembrava esausto e incapace di reagire. Non potevo permetterlo. Non potevo lasciare che morisse, ero io che gli avevo dato il permesso per venire con noi su quell’isola, era mia la responsabilità!
«Stai ferma, stupida ragazzina! O ti faccio stare ferma io.»
Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Ero bloccata lì e sarei stata costretta ad assistere alla fine di un mio compagno senza poter fare niente. E pensare che qualche ora prima mi stavo lamentando perché i miei stivali nuovi si erano sporcati di fango. Spalancai gli occhi. Ma certo! Gli stivali! Perché cazzo non ci avevo pensato prima!? Se avessi potuto, mi sarei schiaffeggiata da sola per la mia stupidità. Che diavolo li avevo comprati a fare se poi non ne usufruivo!? E mi ci ero anche fatta cucire delle maledettissime tasche apposite, accidenti a me.
Con una mossa repentina sfilai il pugnale dallo stivale destro e lo conficcai dritto nel polpaccio dell’uomo che mi teneva prigioniera. Quello gridò di dolore e lasciò la presa abbastanza a lungo da permettermi di scattare in avanti e correre verso il cuoco. Corsi più veloce che potevo. Dovevo aiutarlo. Tenni lo sguardo puntato su di lui e sul suo aguzzino per tutto il tempo. Lo aveva in pugno e non si fece scrupoli ad alzare il cane. Percorsi i metri che ci separavano in circa cinque secondi. Li raggiunsi. Arrivai alle spalle del cacciatore di taglie. Da quel punto potevo vedere bene l’espressione di Ryu. Era l’espressione di un uomo che si era rassegnato a morire; ma io non lo avrei permesso. Ancora con il pugnale in mano e senza pensarci due volte, mi avventai sull’uomo che mi dava le spalle, che non si era minimamente accorto della mia presenza. Gli tagliai la gola. Senza fermarmi a riflettere, io gli tagliai la gola. Fu un taglio netto e preciso. Il sangue sgorgava a fiumi dalla ferita. L’uomo agonizzò per qualche secondo prima di cadere in ginocchio e poi abbandonarsi al suolo. Il mio compagno mi guardò con estrema gratitudine, ma io quasi non ci feci caso. Tutto sembrava essersi fermato attorno a me. Deglutii e mi guardai intorno. Era tutto confuso. Osservai il pugnale sporco di sangue che stringevo ancora tra le dita, poi fissai il corpo a terra, esanime, dell’uomo che qualche secondo prima minacciava la vita di Ryu. Attorno ad esso c'era un lago di sangue color rosso vivo. Mi portai una mano alla bocca.
Era morto. Lo avevo ucciso.

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Capitolo 23
*** Sensi di colpa ***


AVVISO: Questo capitolo contiene un po' di angst.

Indietreggiai. Di colpo mi sentivo spompata e sentivo il dolore causato dalle ferite che mi erano state inflitte durante la battaglia, come se tutta l’adrenalina fosse svanita all’improvviso. Continuai ad indietreggiare finché il mio corpo colpì qualcosa di morbido. Mi girai di scatto, puntando il pugnale contro la figura che avevo davanti. Lo abbassai solo quando realizzai che era Bepo. Aveva le braccia tese verso di me, come a rassicurarmi, ma io non volevo che mi toccasse. Mi osservava preoccupato, come se potessi fare qualcosa di avventato, come se potessi crollare da un momento all’altro. E aveva ragione, ero in un momento di confusione totale. Mi guardai attorno. Solo in quell’istante notai che c’era silenzio. La battaglia era finita e noi avevamo vinto. Ma non riuscivo ad essere felice, avevo ucciso un uomo e tanti altri erano morti o gravemente feriti. Per fortuna nessuno dei nostri sembrava aver riportato troppi danni.
«La prossima volta ci penseranno bene prima di iniziare combattimenti che non sono in grado di portare a termine» udii qualcuno in lontananza. Sanji. Sembrava una cosa che avrebbe detto lui.
«Beh, compare, credo che per loro non ci sarà una prossima volta» disse un’altra voce a cui seguitarono delle risate. Non era Sanji, erano solo Penguin e Shachi. Strinsi i pugni con rabbia. Come potevano essere tanto insensibili? Delle persone erano appena morte! E la cosa che mi faceva stare peggio era che una di queste era morta per causa mia. Mi girai verso Ryu. Era ancora steso per terra, puntellato su un gomito, in attesa che qualcuno lo aiutasse ad alzarsi. Nonostante il suo sguardo fosse pieno di gratitudine verso di me, non riuscivo ad essere felice o appagata, perché niente avrebbe riportato indietro l’uomo che avevo ucciso.
«D’accordo. Forse è meglio se ti riporto sul sottomarino» fece Bepo, apprensivo.
D’improvviso, come temeva lui, crollai. Tutta la forza abbandonò i miei muscoli ed io dovetti appoggiarmi a lui per non accasciarmi al suolo. Mi cinse le spalle con il braccio e mi strinse a sé, sostenendo il mio peso. Qualcuno recuperò da terra la mia ascia e la consegnò a Bepo, che la prese in custodia. Poi cominciammo a camminare in quel modo, con lui che mi sorreggeva, ripercorrendo a ritroso la strada che avevamo fatto prima, con al seguito alcuni componenti della ciurma.
 
«Segui la luce» mi ordinò uno dei medici, puntandomi contro una di quelle apposite piccole torce. Feci quello che mi aveva comandato. Non ne avevo nessuna voglia ma non avevo la forza per ribattere. Avrei potuto benissimo medicarmi da sola, ma Bepo aveva insistito affinché si occupasse qualcun altro di me. Forse non aveva tutti i torti visto lo stato in cui stavo. A peggiorare la situazione, c’era Omen che lungo tutto il tragitto di ritorno aveva continuato a rassicurarmi dicendomi che quei brutti ceffi erano sconfitti e che non ci avrebbero mai più dato fastidio, finché l’orso polare non gli aveva intimato di darci un taglio. Capivo le buoni intenzioni, ma come uomo e soprattutto come pirata, non ci aveva capito un cazzo. Non era perché ero spaventata che ero in quelle condizioni. Maya ebbe la decenza di stare zitta; e ogni tanto mi osservava con uno sguardo compassionevole e un sorriso che sembrava spruzzare solidarietà da tutti i pori. Bepo aveva provato a consolarmi, ma non c’era niente che potesse smuovermi da quello stato semi-catartico in cui ero e anche durante il viaggio in barca, in cui un po’ mi ero ripresa, ero stata terribile con lui. Altri sensi di colpa da aggiungere alla lista.
«Come ti senti?» mi chiese il medico.
Come mi sentivo? Bella domanda. Uno schifo. Un vero schifo.
«Sto bene» risposi leggermente infastidita mentre scendevo dal lettino. L’addome mi faceva male – come biasimarmi, mi ero presa in pieno una mazza chiodata sullo stomaco – ma non era quello a provocarmi più sofferenza. Per quello sarebbe bastata la fasciatura che mi avevano fatto e qualche antidolorifico, nel remoto caso in cui il dolore fosse diventato insopportabile. Le ferite sarebbero guarite in pochi giorni, almeno quelle visibili. Per quelle dentro, quelle dell’anima, temevo che ci sarebbe voluto più di una semplice fasciatura e qualche giorno di riposo.
Mi sedetti su una sedia dell’infermeria, appoggiai i gomiti sulle gambe e congiunsi le mani, sistemandoci sopra il mento. Law era rimasto sull’isola con Penguin, Jean Bart e qualcun altro per finire il lavoro che doveva svolgere, e la sua mancanza cominciava a sentirsi ora che la stanza cominciava ad affollarsi di persone che lamentavano dolori in ogni dove. In altre circostanze mi sarebbe venuto da ridere perché sospettavo che l’assenza del capitano facesse sentire paradossalmente tutti un po’ più rilassati, come se con il chirurgo non osassero lamentarsi del dolore che provavano. Ora invece erano quasi tutti riuniti lì, in attesa che qualcuno li visitasse. Per fortuna non c’era nessuno che fosse ferito gravemente.
Una figura grossa e pelosa mi si sedette accanto e mi poggiò una mano sulla schiena.
«Hai fatto un ottimo lavoro oggi. Sono fiero di te.» mi comunicò. Lo guardai per un attimo, poi mi rimisi a fissare il pavimento.
«Beh, qualsiasi addestratore sarebbe fiero di te. Sei stata brava, sveglia, veloce e pronta di riflessi» continuò lui «sono sicuro che anche il capitano è fiero di te».
Girai la testa. «Questo dovrebbe rassicurarmi?» chiesi quasi sarcasticamente.
Bepo sospirò. «So che è difficile. Il primo non è mai facile da digerire. Ma le battaglie sono anche questo».
Aggrottai la fronte. «Digerire? Non è un piatto di pasta, Bepo. Stiamo parlando della vita di un uomo!» distolsi lo sguardo «Una vita che ho stroncato senza pensarci due volte».
«Hai tutto il diritto di essere sconvolta, arrabbiata e triste, ma non lasciarti lacerare dalla sofferenza per quanto successo oggi. Quello era un cacciatore di taglie»
Mi alzai in piedi, mi posizionai di fronte a lui ed allargai le braccia. «E quindi? Era lo stesso un uomo innocente!» avevo alzato un po’ troppo la voce ed ora la maggior parte dei presenti si era azzittita e mi guardava con aria interrogativa.
Il visone trattenne una risata. «Non era così innocente come credi. Non c’è nulla di innocente in un uomo che si guadagna da vivere privando un altro uomo della propria vita o peggio, della propria libertà. Uccidendolo hai fatto un favore a tanti pirati e ad uno in particolare».
Incrociai le braccia e scossi la testa. Forse Bepo aveva ragione, forse quel cacciatore di taglie aveva ucciso parecchie persone ed aveva fatto cose sbagliate, orribili. Forse non era affatto innocente come credevo, ma io non riuscivo a togliermi di dosso il senso di sporco. Sebbene mi fossi lavata le mani, sentivo ancora il sangue secco di quell’uomo sulla pelle. Lasciai la stanza per dirigermi in camera mia. Dovevo pulire le mie armi, farmi una doccia, lavare i miei vestiti e cambiarmi.
 
Sedevo sul mio letto fissando la piccola scrivania attaccata alla parete. Non potevo vedermi, ma ero abbastanza sicura che il mio sguardo fosse vuoto, come la mia testa. In casi come questi non potevo permettermi di pensare, sarebbe stato devastante.
Qualcuno bussò, richiamandomi dai miei non pensieri.
«Il capitano ha richiesto la tua presenza in infermeria» mi comunicò un ragazzo.
Sbuffai. Non avevo nessuna voglia di passare il resto della giornata – di merda – a sistemare scartoffie o peggio, a suturare ferite.
«Digli che ho da fare» risposi al ragazzo. Però quello non se ne andò, rimase sull’uscio della porta, in attesa. Sbuffai un’altra volta. Supponevo di dovermi rassegnare al mio destino. Mi alzai e lo seguii.
Aprii la porta. Law, contrariamente a quanto mi aspettassi, era in piedi e si asciugava le mani con un asciugamano. Ci fissammo negli occhi per un po’, i suoi limpidi e seri, i miei stanchi e tormentati.
«Mi hai fatto chiamare» affermai, con un tono di voce piatto. Avrei voluto chiedergli perché, ma in realtà non volevo saperlo.
Si avvicinò a me ed osservò la mia mandibola.
«Niente male» commentò
«Passerà tra un paio di giorni» dissi. Poi mi afferrai i gomiti con le mani, visibilmente a disagio. «Senti Law, qualsiasi cosa ti serva, oggi non sono in ve...»
«Siediti» mi interruppe, indicandomi il lettino più vicino. Obbedii, un po’ stupita dalla sua richiesta. Senza che dicessi o facessi niente, mi sollevò delicatamente la maglietta ed iniziò a cambiarmi la fasciatura che avevo sulla pancia.
«Pensavo di averti insegnato meglio. Le garze non sono tanto efficienti se ti ci fai la doccia sopra».
Sentii il nervosismo salire piano piano. Strinsi i pugni e mi imposi di darmi un contegno. L’ultima cosa che volevo era fare una scenata davanti al mio capitano.
«Ho fatto attenzione, ma a quanto pare non è servito a niente» cercai di minimizzare l’accaduto e di scherzarci su. La verità era che non me ne sarebbe potuto fregare di meno delle garze. Mi sentivo così in colpa che quasi pensavo di meritare le lesioni che avevo e il dolore che mi causavano, anche se non era poi tanto.
«Allora, hai portato a termine il lavoro che dovevi fare oggi?» gli chiesi mentre mi disinfettava le ferite. Sentivo che avevamo entrambi bisogno di distrarci cambiando argomento.
«Sì. Presto verrai a conoscenza dei risultati» rispose, enigmatico come sempre.
Alzai gli occhi al cielo. C’era da aspettarselo, quando era così si poteva solo attendere che fosse lui a dare maggiori delucidazioni.
Una volta che ebbe finito di medicarmi, si sedette accanto a me sul lettino. Entrambi fissavamo la parete davanti a noi.
«Oggi hai imparato una lezione importante» affermò dopo qualche minuto di silenzio.
Lo guardai esterrefatta. Davvero voleva parlarmi di lezioni e stronzate varie dopo una giornata del genere?
«Quale? Come tagliare la gola ad un uomo innocente?» domandai retoricamente
«No. Che è bene non farsi influenzare dai propri sentimenti quando si tratta di un paziente».
Spalancai gli occhi, incredula. Aveva voglia di prendermi in giro? Sentii la rabbia salire dal petto alla gola. L’avevo trattenuta per troppo tempo, dovevo sputarla fuori o mi avrebbe avvelenata.
«Non me ne frega un cazzo delle tue stupide lezioni di vita! Un uomo è morto oggi! Per colpa mia, perchè io l’ho ucciso! Sono stata io a mettere fine alla sua vita. Era un uomo innocente, che non si meritava questo. Magari aveva una famiglia, una moglie, un figlio, un padre, una madre, un fratello. E tutti loro stanno fiduciosamente aspettando che quel pover’uomo torni a casa, ma non lo farà, non può più farlo, grazie a me. Non sapevo neppure il suo nome, gli ho tagliato la gola a sangue freddo. Non ero nemmeno io il suo bersaglio. Oggi ho ucciso per la prima volta una persona, e non starò qui a sentirti blaterare su cosa dovrei fare per essere un buon medico, perché un medico le vite le salva e oggi non è stato così. Quindi non posso farlo, non posso più farlo. Ho chiuso con queste stronzate.» mi ero alzata in piedi e ora passeggiavo nervosamente per la stanza scuotendo la testa. Ero troppo furiosa per poter rimanere seduta e ferma.
«Siediti e calmati.» mi intimò Law
«Non dirmi di calmarmi! Io non sono una stronza senza cuore come te, Law! Io non uccido gente a caso a sangue freddo e poi faccio una festa per celebrare il fatto che sono riuscita a procurarmi altri cadaveri da sventrare. Questa è una cosa che non sarebbe mai successa nel mio mondo. È una cosa che non mi sarei mai lontanamente neanche sognata di fare, nel mio mondo. Perché noi, là, diamo valore alle vite umane! E voi invece che fate? Voi avete piacere nel distruggerle. Tu più di tutti.» mi pentii all’istante delle parole che pronunciai. Le cose che gli stavo dicendo erano crudeli e non erano da me. E lo dissi con così tanto disprezzo e così tanta cattiveria che non lo avrei biasimato se mi avesse dato uno schiaffo. Tuttavia lui non vacillò nemmeno per un istante.
«La prima vittima non si scorda mai» iniziò a dire lui «questo vale sia come persona che come medico. Oggi, come medico hai sbagliato».
Stavo per inveirgli contro, stavo per urlargli che non tutto girava intorno all’essere dottori, ma lui sembrò voler continuare e così cercai di contenermi.
«Ma devi ricordarti che nel momento in cui mi hai chiesto di poter venire con me, hai scelto di navigare sotto una bandiera pirata. Prima di tutto il resto devi ricordarti che sei un pirata. E oggi, come pirata, hai fatto la cosa giusta. Hai protetto un compagno» pronunciò quelle parole lentamente ed io in qualche modo mi calmai all’istante.
«Ho agito per la ragione giusta, ma ho fatto la cosa più sbagliata che si potesse fare» fissai il pavimento. I sensi di colpa mi stavano tormentando, avevo un enorme nodo in gola.
«Come si fa ad andare avanti?» chiesi, spostando lo sguardo sul mio capitano. Sentivo gli occhi bruciare e riempirsi di lacrime, ma per qualche motivo che non riuscivo a comprendere, esse rimasero incastrate tra le palpebre e non mi rigarono mai le guance.
«C’è del vino» affermò lui, capendo quanto sconvolta potessi essere.
«Rosso?»
Annuì. D’improvviso mi ritornò in mente la raccapricciante scena a cui avevo assistito alcune ore prima. Una scena di cui ero stata l’artefice.
«Non lo voglio. Non voglio più vedere niente di rosso oggi» mi alzai e cominciai a guardarmi intorno. Ero stata nell’infermeria tante volte, ma ora nulla mi sembrava familiare. C’erano bisturi, garze, siringhe. Troppo. Era troppo. Iniziai ad ansimare.
«Devo...devo andare a farmi una doccia» biascicai confusamente prima di trascinarmi fino alla porta ed aggrapparmi alla maniglia. Law si diresse a passo deciso verso di me per poi prendermi per le spalle. Incastonò i suoi occhi ai miei.
«Hai già fatto la doccia. E ti sei cambiata i vestiti. Sei pulita. Ora idratati e vai a riposarti. Sei sotto shock.»
«No. No, devo lavarmi. Non sono pulita. Sono...sporca. Devo fare la doccia» le parole mi uscirono in un sussurro.
«Ok» asserì il mio capitano dopo averci riflettuto per qualche istante. Lasciò che lo precedessi e mi seguì in camera. Per tutto il tempo in cui rimasi sotto il getto scrosciante dell’acqua e anche quando fui uscita dalla doccia, lui restò lì, fuori dal bagno. Questa volta avevo fatto molta attenzione a non bagnarmi le bende, me lo avrebbe rinfacciato per secoli altrimenti.
Ancora con l’accappatoio addosso ed il turbante in testa, mi sedetti sul letto, accanto a lui.
«Io...» cominciai, dopo qualche minuto di totale immobilità e silenzio «mi dispiace per quello che ho detto prima».
Il mio interlocutore, contrariamente a quanto mi aspettassi, ghignò. «Me ne farò una ragione»
«Non lo pensavo davvero» confessai sorridendo malinconicamente.
Per un po' nessuno dei due parlò. Ero sicura che non se la fosse presa per quello che gli avevo urlato poco prima, in fondo sapeva come ero fatta. E di certo non si sarebbe fatto offendere dagli insulti di una misera ragazzina in stato di shock.
«Passerà» affermò lui, tornando a guardare dritto davanti a sé. Poi, fece qualcosa di totalmente inaspettato. Poggiò una mano sul mio ginocchio, che dopo qualche secondo usò per farsi leva ed alzarsi. Lo guardai quasi incredula, ma non dissi niente. Continuai ad osservarlo per tutto il tragitto che fece per andare dal letto alla porta. Mi guardò un’ultima volta, forse per assicurarsi che non sarei andata ancora fuori di testa, prima di chiudersela alle spalle.
«Me ne farò una ragione» dissi, alla porta chiusa.
Nel frattempo, supponevo che ci fosse il vino a consolarmi.



Angolo autrice
Ciao a tutti, eccomi qui con un altro capitolo. Mi rendo conto che questo è un capitolo un po' angosciante, soprattutto perché Cami mette a nudo le sue sensazioni ed emozioni negative. Tuttavia spero lo stesso che vi sia piaciuto e spero che mi facciate sapere cosa ne pensate. Nel frattempo ne approfitto per farvi gli auguri di Buone Feste un po' in anticipo.
Buon Natale a tutti! <3 E se non dovessi riuscire a pubblicare entro la fine del 2016, Felice Anno Nuovo! Che il 2017 vi porti serenità, fortuna e tante nuove OTP! :) <3
A presto!

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Capitolo 24
*** Vendetta ***


I giorni passarono e i miei lividi svanirono, così come i miei sensi di colpa. In qualche modo mi ero convinta che l’uomo a cui avevo tagliato la gola meritasse il suo destino. Non l’avrei mai dimenticato, ma avevo deciso che dovevo andare avanti. Anche perché ero piuttosto sicura che ce ne sarebbero stati degli altri e alcune volte ucciderli era l’unica soluzione possibile. Vigeva la legge del più forte e per sopravvivere in quel mondo si doveva fare questo ed altro. Non era una cosa a cui mi sarei mai abituata, ma del resto non ero l’unica che aveva qualcosa da ridire sul sistema governativo di quell’universo. Il tempo aveva giocato un ruolo fondamentale in quella situazione ed ora riuscivo perfino a dormire per tutta la notte senza risvegliarmi all’improvviso in preda ai terrori notturni. Le prime notti dopo l’accaduto continuavo a sognare l’uccisione di quell’uomo. Forse perché anche da sveglia non facevo altro che pensare a quella scena. Mi tormentava, era come se qualcuno l’avesse impressa nella mia mente con un ferro rovente. Certe volte pensavo che quella fosse una punizione più crudele della morte che avevo dato a quel cacciatore di taglie. Di certo era una vera tortura. I miei compagni mi erano stati vicini in quel momento così difficile della mia esistenza, Bepo mi aveva consigliato di inventare un nome ed una storia per l’uomo a cui avevo tolto la vita. Forse così sarebbe stato più facile. Mi aveva confessato che con i primi uomini che aveva ucciso aveva fatto in questo modo, lo aiutava a commemorare le sue vittime. Così, avevo decretato che quell’uomo si chiamasse John e che prima di diventare un cacciatore di taglie facesse il pescatore. Era un ubriacone e non aveva famiglia, né uno scopo nella vita. Era entrato nella compagnia di quello stupido pipistrello per caso, perché era avido di denaro e cercava un modo veloce e non del tutto illegale per arricchirsi. Che fosse un lavoro moralmente accettabile e corretto, non gliene importava un fico secco. Poi aveva incontrato me e, beh, non gli sarebbe importato più nulla di niente. Fine della strada, fine della corsa. Certo, Bepo mi aveva anche detto che dopo un po’ aveva smesso di fare quella specie di gioco perché aveva perso il conto di quanti ne avesse ammazzati, e io speravo di non dover mai arrivare a quel punto, ma se c’era una cosa che avevo imparato da tutta questa orribile storia era che il mio obiettivo era di sopravvivere. E ovviamente di proteggere i miei compagni. E avrei fatto tutto quanto in mio potere perché ciò si realizzasse.
Penguin e Shachi, invece, mi erano stati vicino a modo loro, e in quelle settimane eravamo diventati affiatati compagni di bevute.
Anche la musica mi aveva aiutato parecchio. Certo, non avevo Brook che mi suonasse “Il liquore di Binks” giorno e notte, ma lo avevo registrato e avevo anche il mio amato Ludovico Einaudi e quella che io chiamavo “la canzone della Stella”. Ad alcuni sarebbe sembrato stupido, ma mi aiutava a stare meglio.
«Canti ancora quella stupida canzone?» una voce alle mie spalle mi fece spaventare. Mi tolsi le cuffiette e mi voltai.
«Ho trovato il regalo perfetto per il tuo prossimo compleanno. Delle scarpe da tip tap. Almeno così potrò sentirti quando arrivi».
Law rimase indifferente alla mia affermazione, aprì uno dei tanti sportelli che c’erano in cucina, prese la sua tazza e si versò del caffè dalla caraffa. Poi si sedette al mio stesso tavolo e mi fece cenno di passargli il giornale che stavo leggendo. Mi lanciò un’occhiataccia quando vide che era spiegazzato ai lati ed io gli rivolsi un sorriso imbarazzato. Non era colpa mia se aveva il passo felpato e mi metteva paura proprio mentre avevo in mano il giornale quando faceva uno dei suoi soliti agguati.
Per un paio di minuti osservò distrattamente gli articoli sul rotocalco, poi posò il quotidiano e spostò lo sguardo su di me.
«Ho un lavoro per te» mi annunciò con indifferenza.
Storsi la bocca. Quando pronunciava quelle parole non era mai un bene. L’ultima volta che le aveva dette ne era un esempio.
Sospirai. «Suppongo di non poter declinare l’offerta» feci rassegnata
«Non è un’offerta» puntualizzò lui, anche se non ce n’era alcun bisogno, perché sapevo bene che quella non era una proposta.
«Allora dimmi, coraggio» lo esortai io accompagnandomi con un gesto della mano.
 
Tre ore dopo mi trovavo su una delle scialuppe che portavano ad un’isola di nome Lyborn. Law mi aveva spiegato a grandi linee quello che aveva intenzione di fare e che avremmo fatto nei prossimi giorni e l’idea, chissà perché, non mi allettava per niente. Sarebbe stata una settimana caotica e stancante, stando a quel poco che avevo capito. La cosa brutta era che non potevo nemmeno godere della vicinanza dei miei compagni di bevute, perché solo all’equipe medica era stato concesso di sbarcare. Non che loro non fossero esperti, avevano assistito a molte operazioni, ma gli ordini del capitano erano indiscutibili. Shachi, Penguin e il vino sarebbero rimasti a bordo del Polar Tang, con mio grande dispiacere.
Sbuffai e, con il gomito appoggiato sul bordo della barca, posizionai il mento sopra alla mano. Quel matto del chirurgo aveva deciso che non avevo abbastanza esperienza nel campo della medicina forense – come se l’autopsia di quei maledetti cadaveri non fosse stata abbastanza – e che quindi sarei stata responsabile di catturare un dannatissimo insetto, che era la causa di tutto quel trambusto e da tempo l'oggetto delle sue ricerche, e successivamente di portarglielo cosicché potesse estrarre un antidoto miracoloso ad una malattia a me - e praticamente anche al resto del mondo - sconosciuta. Come al solito il lavoro sporco sarebbe toccato a me, mentre lui sarebbe rimasto all’accampamento a curare anziani e bambini, a prendersi tutto il merito e a divertirsi.
Law mi aveva spiegato che l’isola su cui stavamo approdando era un’isola ormai deserta. Nessuno vi metteva più piede, a causa di una malattia molto contagiosa che avevano contratto misteriosamente gli abitanti di quel posto. Il mio maestro, da più di anno, stava raccogliendo dati ed informazioni utili per cercare di curare questa patologia apparentemente incurabile e fatale. Ora che finalmente aveva un quadro generale soddisfacente, aveva decretato che lo staff medico dei Pirati Heart sarebbe accorso in aiuto di quei poveracci e che a Camilla, l’ultima ruota del carro, sarebbe spettata la cattura del Rubeus Candidum, un insetto simile ad uno scarabeo ma più piccolo, rosso e con una chiazza bianca sul dorso. Inutile dire che la cosa non mi entusiasmava affatto. Soprattutto perchè era proprio quel cavolo di animaletto velenoso la causa della malattia che affliggeva i poveri abitanti di quell'isola.
 
Quando sbarcammo, non sapevo cosa aspettarmi. Sapevo poco e niente, a dire la verità. Le uniche informazioni che mi erano date sapere, a detta di Law, erano che il virus entrava in circolo nel corpo tramite le ferite aperte, che era altamente contagioso e che si diffondeva abbastanza rapidamente, quindi prima di darmi l’ok per sbarcare si era assicurato che sul corpo non avessi nessuna ferita. Non c’era pericolo, le lesioni causate dalla battaglia erano scomparse da tempo ormai. Questo però non voleva dire che mi entusiasmava cercare possibili scarabei – o qualunque altro insetto stessimo cercando – tossici.
«Io andrò al campo per valutare la situazione, voi assicuratevi di catturare il Rubeus Candidum. Quando l’avrete fatto, raggiungetemi. Ne basta un esemplare per il momento» annunciò il capitano, poi si diresse verso quello che aveva precedentemente nominato “capo” della squadra medica e si mise a confabulare con lui, consegnandogli un lumacofono.
«Se ci dovessero problemi, usalo» disse al suo fidato sottoposto «ma confido che non ce ne saranno, visto che l’isola è deserta. E voi sapete esattamente quello che dovete cercare».
Fantastico. Non solo avremmo passato la mattinata a spaccarci la schiena alla ricerca di un minuscolo insetto che avrebbe potuto essere dovunque, ma avremmo anche rischiato di contrarre quel misterioso virus, o peggio. Potevamo incappare in qualsiasi problema. Perché affidare un Den Den Mushi a uno dei suoi uomini e fare certe affermazioni, altrimenti? E poi, era davvero serio quando aveva detto che sapevamo esattamente cosa cercare? Io non sapevo nemmeno perché mi trovassi lì. Anzi no, lo sapevo. Perché ero una maledettissima testa di cazzo. Facevamo a gara io e Traffy. Certe volte, per non dire spesso, pensavo che sarebbe stato molto meglio se fossi rimasta con Rufy.
Sbuffai, mentre mi dirigevo verso la zona di perlustrazione che mi era stata assegnata. L’isola era divisa in due parti, collegate tra loro da un ponte di pietra simile a quello che collegava Green Bit a Dressrosa, solo che attraversandolo non si rischiava di diventare cibo per Pesci Combattenti. Almeno, era quello che speravo.
La parte sinistra, quella dove stavamo noi e molto probabilmente anche l’adorabile animaletto, era formata interamente da una fitta ed alta vegetazione. Sarebbe stato facile perdersi. Il mio pensiero andò a Zoro e per un attimo mi rallegrai, nella consapevolezza che c’era qualcuno messo peggio di me.
La parte destra, quella dove invece si trovava l’accampamento dei malati, a quanto avevo potuto vedere era più meno uguale, con l’unica differenza che dall’altro lato riuscivo a scorgere una parvenza di civiltà. O era così, o c’era un incendio nel bosco, considerato che dagli alberi si innalzava una cappa di fumo.
La costa era rocciosa, frastagliata e alta. Molto alta. Almeno una cinquantina di metri. Avrei fatto meglio a stare lontana dai bordi se non avessi voluto sfracellarmi.
 
Con molta riluttanza mi misi al lavoro. Mi infilai i guanti in lattice e cominciai letteralmente a tastare il terreno. Proprio non riuscivo a capire perché Law avesse scelto me per un tale compito. Io non ne sapevo niente di queste cose, ero molto più utile come medico che come scova-virus. E se avessi avuto la causa della malattia sotto gli occhi e me la fossi fatta sfuggire? Per me un insetto valeva l’altro, mi facevano tutti indifferentemente ribrezzo. Maledetto chirurgo della morte. Quella sarebbe stata la mia, di morte, se non avessi fatto attenzione. L’unico motivo per cui non avevo obiettato era che non mi avrebbe comunque ascoltato. Dopo tutto il tempo che avevamo passato insieme avevo capito che contraddirlo o perfino supplicarlo, non faceva altro che rafforzare la sua decisione. Mi ero scelta un irremovibile stronzo come capitano. La prossima volta avrei dovuto annotarmi di non prendere decisioni di alcun tipo. Tanto sarebbero state lo stesso sbagliate.
Era a questo che pensavo mentre vagavo per la foresta in cerca di qualcosa di cui non sapevo assolutamente niente. L’unica nota positiva era che mi avevano assegnato la parte che comprendeva il ponte, per cui se mi fossi stufata avrei potuto benissimo attraversarlo senza dover dare spiegazioni a nessuno. Per fortuna l’isola non era molto grande e considerato che eravamo in sette, a ciascuno spettava una parte con un perimetro di più o meno cinquecento metri.
Un’ora dopo avevo quasi finito di perlustrare la zona, ma non avevo ottenuto nessun risultato. C’era da dire che la mia era stata un’ispezione piuttosto approssimativa, però questo era il massimo che potevo fare. Avevo perfino visto tre diverse specie di ragni senza gridare come una bambina. Ma di quel dannato insetto non c’era traccia. “Rosso e con una macchia bianca sul dorso” mi ero ripetuta, ma fino a quel momento non avevo visto niente che corrispondesse a tale descrizione. Fissai il contenitore di plastica – vuoto – che mi era stato consegnato prima di iniziare a cercare e che sarebbe temporaneamente diventato la casa della tenera creaturina responsabile di tutta quella baraonda e sospirai, sperando che qualcuno avesse avuto più fortuna di me. Si trattava pur sempre di salvare la vita ad alcune persone.
Proprio mentre mi avvicinavo al ponte – con l’intenzione di attraversarlo e dirigermi all’accampamento dei malati – sentii delle voci provenire dalla stessa direzione in cui ero diretta. Dovevano essere sicuramente i miei compagni che avevano trovato l’insetto ed erano in procinto di avviarsi al campo. Affrettai il passo, non volevo rimanere indietro.
«Allora, avete trovato quel Rubeus qualcosa?» sorrisi mentre lo dicevo, stavo proprio diventando come Rufy «io no, ma tanto sapevo che lo avreste fatto v...».
Mi bloccai. Tre facce a me sconosciute si voltarono nella mia direzione. No, non erano i miei compagni. Spostai il peso del corpo da un piede all’altro, visibilmente in imbarazzo.
«Oh» mi lasciai andare ad un'esclamazione di sorpresa, poi continuai «Scusate per il disturbo, devo essermi sbagliata. Buona giornata» dissi facendo qualche passo indietro e voltandomi.
«Ehi, aspetta un attimo» mi richiamò uno degli uomini. Mi rigirai.
«Tu.» disse un altro, più grosso e decisamente più minaccioso. Lo osservai. Eppure, quella faccia non mi era del tutto nuova.
«Tu sei la puttana che ha ucciso Leon e che mi ha ficcato un coltello nella gamba.» continuò quest’ultimo.
D’improvviso mi fu tutto chiaro. Ecco perché la sua faccia non mi era nuova. Perché quelli erano gli uomini di Ruben che avevamo affrontato in battaglia alcune settimane prima. Giustamente, con tutte le isole che c’erano nel Nuovo Mondo, quei tre cacciatori di taglie – tra cui l’unico uomo che avessi mai ferito – erano andati a rifugiarsi proprio nel luogo in cui ero sbarcata io. E per di più li avevo incontrati da sola, senza che ci fosse nemmeno l’ombra di uno dei miei compagni. Cominciavo a pensare che qualcuno da qualche parte mi stesse facendo il malocchio. Non si spiegava, altrimenti. Oppure quei due burloni di Shachi e Penguin mi avevano organizzato un bello scherzo e da un momento all'altro sarebbero saltati fuori da qualche cespuglio e la faccenda si sarebbe conclusa in armonia ed allegria.
«Brutta stronza, la pagherai per questo!» esclamò il terzo uomo
«Tu e quella feccia della tua ciurma ci avete mandato in rovina. Siamo dovuti venire qui in questo posto nauseante a nasconderci come vermi. Avete ammazzato più della metà dei nostri compagni! Maledetti pirati.» a parlare era stato il più grosso, quello che a quanto pareva avevo accoltellato al polpaccio. «ma adesso tu sei qui e dovesse essere l’ultima cosa che faccio, ti farò soffrire come un cane.» continuò lui. Sputò fuori quelle parole con così tanto disprezzo che mi provocò i brividi su tutto il corpo. Avrei dovuto abbandonare l'ipotesi dello scherzo. Solo in quel momento, abbassando lo sguardo, notai che portava una fasciatura sulla caviglia. La responsabile ero io. Avrei voluto dirgli che ero sinceramente dispiaciuta per quello che era capitato, che mi ero tormentata per settimane per aver ucciso il loro compagno, ma dubitavo che mi avrebbero creduto o che mi avrebbero perdonata. Indietreggiai di qualche passo mentre loro iniziavano ad avanzare. Potevo scappare e tentare di raggiungere uno dei miei compagni in esplorazione in quella parte dell’isola, ma loro erano più veloci di me e non avevo molto vantaggio. Di certo mi avrebbero raggiunta in meno di un minuto. A quanto pareva non mi restava che prepararmi a combattere. Gettai il mio zaino e il piccolo contenitore trasparente da un lato. Ora la cattura del Rubeus Candidum non mi sembrava più così tanto male. Promemoria: quando pensi che le cose non possano andare peggio, non ti crucciare. Lo faranno.
«Isola deserta un cazzo.» sibilai mentre sfilavo dalla cintura la mia ascia, ripensando alle parole di Law. Altro promemoria: mai dare retta a Law.
 
Come sospettavo, in un attimo mi furono addosso tutti e tre. Avevo allungato l’ascia al massimo e riuscii a parare contemporaneamente i loro colpi. Per fortuna non erano troppo svegli e mi avevano attaccato tutti da davanti. Feci un balzo indietro. Non saranno stati svegli, ma erano decisamente più forti di me. Non potevo contrastarli in quel modo. Dovevo elaborare una strategia. E in fretta, anche.
Mi guardai attorno. C’erano solo alberi. Mi arrampicai su uno di essi. Dovevo ammettere che avevo sviluppato una certa abilità nel farlo. Non era molto ma almeno mi avrebbe fatto guadagnare qualche minuto. Quando fui abbastanza in alto, osservai il panorama. C’erano solo altri alberi. E il ponte di pietra. Ma certo, il ponte! Mi sarebbe “bastato” portarli sul ponte e poi spingerli in acqua.
«Vieni giù, maledetta puttana!» gridò sempre il più grosso, sbattendo la mazza chiodata sul tronco dell’albero e facendolo tremare per un attimo. L’eleganza e la grazia non erano delle qualità che avevano. Non si poteva dire lo stesso della forza bruta, purtroppo.
Guardai in basso. Uno di loro si stava arrampicando. Sulle labbra aveva stampato un ghigno assolutamente poco raccomandabile. Sfilai uno dei pugnali dalla tasca degli stivali senza farmi vedere e aspettai che mi raggiungesse. Quando poggiò la mano sul ramo dove mi trovavo anche io, non esitai a conficcargli il pugnale nella carne. Urlò, ma non mollò la presa. Anzi, tentò di issarsi sul ramo.
«Maledetta!» lo sentii sibilare a denti stretti. Come avevo capito, non era molto furbo.
«Carlos!» esclamò il suo amico, sinceramente preoccupato, prima di iniziare ad arrampicarsi.
Affondai di nuovo il coltello nella mano del pover’uomo che si era avventurato fin lassù, stavolta però toccò all’altra. E non mi limitai a piantarglielo nell’arto per qualche secondo. Lo lasciai lì e poi glielo rigirai nella carne, provocandogli tanto dolore, a giudicare dalle grida strazianti. Nell’attimo in cui – finalmente per lui – lo sfilai, l'uomo cadde giù. Non sarebbe sicuramente morto dato che ad occhio e croce eravamo ad appena cinque metri da terra. Al massimo avrebbe avuto una commozione cerebrale. A me bastava che fosse fuorigioco per qualche ora. Pulii velocemente il pugnale sulla corteccia dell’albero per poi rimetterlo nello stivale e scendere. Mi abbassai di un paio di metri e mi preparai all’impatto con il secondo uomo, che ora era di poco sotto di me. Non so come mi venne l’idea, forse era colpa dei troppi film d’azione che avevo visto o forse ero molto fiduciosa nell’addestramento di Bepo e nelle capacità che avevo acquisito, ma mi aggrappai al ramo su cui ero e mi lanciai giù proprio nell’esatto momento in cui quello saliva. Ebbi fortuna e, con un tempismo perfetto, gli stampai una pedata in faccia e una all’altezza dello sterno prima che potesse dire o fare qualsiasi cosa. Fece un'espressione stordita, perse l’equilibrio e precipitò giù dall’albero. Quando smisi di oscillare, mi staccai e scesi definitivamente a terra. Non sarei andata alle Olimpiadi, ma ero lo stesso fiera di me.
Analizzai attentamente la situazione. Quello con le stimmate aveva perso conoscenza. Gli altri due, però, sembravano più vivi e incazzati che mai. Scattai ed iniziai a correre più velocemente che potevo verso il ponte. Ovviamente quelli fecero lo stesso ed iniziò il mio inseguimento. Corsi a zig zag – per precauzione – per un paio di minuti. Non avevo quasi più fiato in corpo e dovetti obbligatoriamente rallentare. In un attimo quello più grosso e anche più assetato di sangue, mi fu addosso. Non so per quale miracolo divino riuscii a schivare la sua mazza chiodata, ma lo feci. Mi abbassai ed il colpo andò a vuoto. Quel bastardo aveva tentato di colpirmi alle spalle. Me l’avrebbe pagata. Sfoderai Mr. Smee in un secondo netto, il tempo che ci misi a girarmi, raddrizzarmi e parare un altro suo colpo. Era indubbiamente forte, più di me, e le mie energie si stavano esaurendo. Non avrei retto a lungo. Dovevo fare qualcosa. Prima che potessi anche solo fermarmi a pensare, però, il mio nemico mi disarmò. Non mi persi d’animo e sfilai entrambi i coltelli dagli stivali. Mi lanciai contro di lui con più rabbia che mai. Lui però mi respinse prontamente ed io rotolai indietro e finii a terra, in ginocchio. Chissà perché, la situazione non mi era nuova. Stavolta tuttavia non era dietro di me, ma di fronte.
Sogghignò, facendomi rabbrividire. «Spiacente piccola sgualdrina, lo stesso trucchetto non funziona due volte con me» mi annunciò estremamente soddisfatto scalciando via entrambi i miei pugnali. Ero disarmata e anche alquanto terrorizzata. Ma non sprovveduta. Durante la battaglia sull'isola di Rethgif ero così sopraffatta dalle mille emozioni che avevo provato che non ci avevo ripensato, ma avevo un altro asso nella manica. Non avrei mai ringraziato abbastanza Usop e Franky. Il cecchino era davvero un Dio, come si vociferava che fosse, mentre il carpentiere era assolutamente e indiscutibilmente “Super!”. Premetti il pulsante nero sul bracciale che avevo al polso senza pensarci due volte e richiamai la mia ascia, che in un paio di secondi finì dritta nella mia mano. Mi ci era voluto un po' per perfezionare quel trucchetto ma era stato tempo speso bene. Mi guardò, sorpreso, infastidito ed atterrito allo stesso momento. Proprio in quell'istante, ci raggiunse il suo compare, che come me era leggermente a corto di fiato.
Stavo iniziando a stancarmi, in tutti i sensi. Mi rialzai. Non avrei mai voluto farlo, perché non mi piaceva giocare sporco e non era eticamente corretto, ma loro erano in due contro una povera e – quasi – indifesa donzella, quindi lo feci. Mi tolsi la cintura lasciandola da una parte e mi godetti appieno la loro espressione stupita. Ennesimo promemoria di quel giorno: a volte, quando se ne ha la possibilità, scomparire è la miglior cosa che si possa fare.
Vidi le dita di entrambi stringersi attorno alle loro armi e le loro nocche diventare bianche. Si guardavano intorno con circospezione. Sorrisi compiaciuta. Per quella volta me lo sarei anche potuto permettere, in fondo.
«Che mi dici di questo trucchetto invece, eh Grand’uomo?» chiesi senza aspettarmi una risposta. Del resto non poteva sentirmi. Li osservai ancora un’ultima volta. Potevo dire dallo sguardo sulle loro facce che dentro di loro stava cominciando a farsi strada un po’ di paura. Impugnai la mia ascia e mi preparai ad attaccare. Ora si faceva sul serio. Al diavolo la pietà e la compassione, questa volta ero io o erano loro. Giurai a me stessa che non mi sarei fatta scrupoli di alcun genere con quei due. Non avrebbero dovuto sfidarmi una seconda volta.



Angolo autrice
Ultimo capitolo di questo 2016. Capitolo con un po' di parolacce e sproloqui vari, tanto per concludere questo anno con il "botto" (come quello che ha fatto quel pover'uomo cadendo dall'albero). Che dire? Sicuramente è un capitolo introspettivo ma che contiene anche la giusta dose di azione. Del resto, ogni tanto un po' di violenza ci vuole, giusto? Comunque non temete, il combattimento continuerà e si vedrà chi avrà la meglio. Per il momento Cami è carica e pronta a spaccare i deretani a quei brutti ceffi. Nel frattempo spero di essere riuscita a rendere e descrivere al meglio questa piccola battaglia che c'è stata e ovviamente che questo ultimo capitolo (in tutti i sensi) vi sia piaciuto. Come sempre spero che mi lasciate una recensione o comunque che mi facciate sapere che ne pensate. :) Ci aggiorniamo l'anno prossimo! :)

P.s. Se ci sono errori chiedo scusa, ma purtroppo non ho avuto il tempo di rileggerlo! Ah, ancora Buon Anno Nuovo! <3

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Capitolo 25
*** Sangue freddo ***


C’era da dire che essere invisibile agli occhi di quei maledetti cacciatori di taglie era un enorme vantaggio. Ero riuscita a condurli al ponte, ora dovevo “semplicemente” cercare di spingerli in acqua con le ultime energie che mi restavano. Però iniziavano ad essere stanchi anche loro e sospettavo che prima o poi avrebbero ceduto. Mi avevano gridato “Strega!” un paio di volte. Questo mi riportò alla mente il primo incontro che avevo avuto con i sei pirati, nella mia sala da pranzo. Anche Usop mi aveva additato come una strega, e questa storia doveva finire. Non ero una strega, né tantomeno un’eretica, ero semplicemente una persona che aveva avuto sfiga ed ora si stava avvantaggiando della propria particolare – e precaria – situazione per salvarsi la pelle.
Stavo combattendo con il più grosso, che ora si trovava in difficoltà. Quei due non vedevano me, vedevano solo un’ascia che si muoveva apparentemente da sola e questo bastava per farli andare in confusione. Loro non sapevano dove colpire mentre io sì. Schivai l’ennesimo colpo a vuoto che lanciò il cacciatore di taglie e contrattaccai. L’uomo parò il mio attacco con la sua mazza chiodata, ma io non demorsi, mi allontanai con un balzo, tirai fuori dallo stivale uno dei pugnali – che ero riuscita a recuperare nella corsa selvaggia verso il ponte – e lo colpii alla mano. La sua arma cadde inevitabilmente a terra e lui si lasciò sfuggire un lamento di dolore. Raccolsi la mazza e non mi feci problemi a buttarla in acqua. Ora era disarmato e spaesato. Il suo amico provò ad aiutarlo scagliando colpi a casaccio con la sua spada ma non fu né furbo, né efficiente. Rimisi il coltello nell’apposita tasca e con la parte piatta dell’ascia colpii il cacciatore più grande un paio di volte per stordirlo, prima allo stomaco, poi al viso. Gli resi pan per focaccia quando gli feci sputare saliva, così come avevo fatto io durante la battaglia di Rethgif. Quando ritenni di averlo intontito abbastanza, lo spinsi di lato, verso il parapetto di pietra del ponte. Perse l’equilibrio ma non cadde. Aveva bisogno di un ulteriore aiuto, a quanto pareva. Feci appello a quelle che erano le mie ultime forze, gli diedi un’altra spinta e nel momento in cui sembrò essere più instabile mi abbassai, gli afferrai i piedi e gli tirai su le gambe. L’altro uomo, nel tentativo di aiutare il suo compagno, sferrò un rapido colpo di spada che schivai all’ultimo momento per miracolo scansandomi sulla destra e, involontariamente, colpì proprio l’amico, che emise un ultimo rantolo di dolore prima di cadere giù. A debita distanza, lo osservai precipitare per una trentina di metri finché non lo vidi sparire sotto il pelo dell’acqua. Feci una smorfia, sinceramente dispiaciuta per l’uomo, che era andato giù di testa. Se non altro non avrei avuto sensi di colpa, visto che la responsabile per la sua presunta morte non ero io.
«Noel!» gridò disperato il suo compare, che come me aveva osservato il suo “tuffo” sporgendosi dalla ringhiera. Seguirono una serie di pesanti insulti rivolti a me, promesse di vendetta per i suoi due compagni caduti – l’ultimo letteralmente – e imprecazioni estremamente rabbiose e poco eleganti.
Strinse la daga che aveva nella mano e si scagliò con violenza nella mia direzione. Aveva capito come fare per colpirmi. In un altro momento avrei anche potuto esclamare “era ora!”, ma ne andava della mia vita e non mi sarei di certo complimentata perché quella sottospecie di organismo monocellulare allo stato larvale era riuscito – dopo secoli – a capire che doveva puntare alla mia Mr. Smee. Colpiva con così tanta rabbia e forza che pensavo che mi avrebbe spezzato l’ascia e forse anche un polso. Ero indietreggiata molto per parare i suoi attacchi, ora eravamo all’inizio del ponte. Non ci voleva. Se non potevo spingerlo in acqua non lo avrei mai battuto. Tutto ad un tratto sembrava che avessi risvegliato un demone. Non mi dava nemmeno il tempo di contrattaccare. Potevo solo continuare a difendermi finché non si fosse stancato troppo. Al primo spiraglio di tregua, dovevo attaccarlo e finirlo una volta per tutte.
 
Continuammo a combattere per un paio di minuti. Potrebbero sembrare pochi ma per me furono due minuti lunghissimi di strenua resistenza. Colpiva, colpiva e colpiva senza smettere mai. Cominciavo a pensare che avrei ceduto prima io di lui. Avevo il fiatone, e stavo sudando. Quando fui sul punto di cedere, lo vidi. Esitò. Stava iniziando a perdere energia anche lui. Non aspettai nemmeno un secondo e lo attaccai. Indietreggiò di qualche passo. Era ricurvo in avanti, il machete abbandonato in una mano ora toccava terra. Lo colpii alla testa con la parte piatta delle lame dell’ascia e lui cadde da un lato, appoggiandosi al parapetto del ponte. Scosse la testa rapidamente cercando di riprendersi, sputò e poi si rimise dritto, pronto a colpire di nuovo. Stavolta però non glielo avrei lasciato fare. Dovevo mettere un punto a quella storia, e in fretta anche. Ci scontrammo, il tocco delle nostre lame produsse un rumore sordo. “Ora o mai più” mi dissi. Spinsi con tutta la mia forza e lo feci arrivare al bordo del ponte. Lui guardò giù per un attimo, poi fece qualcosa di inaspettato. Iniziò a far vorticare il suo machete, costringendomi a fare lo stesso con la mia arma. Riuscii sorprendentemente a parare l’attacco, ma la sua lama scivolò sulla mia gamba e mi fece uno squarcio orizzontale sulla coscia destra. Mi lasciai sfuggire un gemito gutturale di dolore. Ero stata stupida ed imprudente a decidere di sbarcare vestita solo con una canottiera e dei pantaloncini corti. Ora però mi aveva fatto decisamente incazzare. Feci qualche passo indietro fino ad arrivare al corrimano dall’altro lato del ponte – che non era molto largo – per prendere la rincorsa. Poi, premetti il pulsante con il numero 4 sul bastone dell’ascia e puntai alle caviglie di quello che ben presto sarebbe diventato uno dei tanti malcapitati. Le lame si staccarono dal resto dell’arma e la catena si attorcigliò attorno alla sua caviglia sinistra. Proprio in quell’attimo corsi verso l’uomo, che aveva osservato la scena con un’aria molto perplessa e stupita e quando gli fui molto vicina, tirai Mr. Smee verso di me. Perse l’equilibrio e si ritrovò gambe all’aria, con la schiena appoggiata sul parapetto del ponte. La sua spada era stata scaraventata a qualche metro da noi. Non sprecai altro tempo ed iniziai a spingerlo con la spalla destra per buttarlo in acqua. Sembrava che stessi tentando di sfondare una porta, ma in realtà la situazione era ben più imbarazzante, visto che avevo il gomito sul suo sedere. Tuttavia non ci badai molto e continuai a spingere. Le sue mani erano aggrappate alla pietra della ringhiera, non avrebbe mollato tanto facilmente. Ma nemmeno io lo avrei fatto, non ora che ero sul punto di riuscire nella mia impresa. Con un ultimo sforzo premetti la mia spalla contro il corpo del cacciatore di taglie più che potei e contemporaneamente feci una cosa orribile. Colpii la sua mano con l’ascia. Nel momento in cui la lama toccò le sue dita, emise un grido di dolore. Gli tranciai indice e medio di netto e il sangue cominciò a sgorgare copioso dalle sue ferite fresche. Staccò istantaneamente la mano dal parapetto, mentre io ebbi un conato. Però dovetti rimandare a dopo tutto il mio disgusto e concentrarmi su quel momento, perché ora che non aveva più una presa salda sulla ringhiera, con un’ultima potente spallata potei farlo cadere giù dal ponte.
Era fatta. Li avevo sconfitti, finalmente. Sospirai e mi presi giusto un momento di pausa per distendere i nervi. Non avevo tempo per riposare, dovevo recuperare la mia cintura, il mio zaino e trovare i miei compagni. Prima di farlo, però, feci appello a tutto il mio coraggio e, ancora con la faccia schifata, raccolsi dita e machete e li buttai in acqua. Era giusto che stessero con il loro proprietario. Mi sentivo terribilmente in colpa per quello che avevo fatto, ma allo stesso tempo cominciavo a capire che quella era la strada che avevo scelto. Non era una strada gloriosa, questo era quello che si doveva fare se si voleva sopravvivere, e come pirata avrei dovuto saperlo bene. Non ci provavo di certo gusto ad infliggere dolore ad altri uomini, non lo avrei mai fatto nel mio mondo e se avessi avuto una scelta non lo avrei fatto nemmeno qui, però purtroppo era una questione di mera sopravvivenza. Se qualcuno mi sfidava non potevo far altro che raccogliere la sfida e fare di tutto per non perdere e se questo comprendeva staccare dita, buttare uomini in mare, uccidere e, perché no, anche giocare sporco, allora lo avrei fatto. Malvolentieri, si intende, ma lo avrei fatto come avrebbe fatto chiunque con un briciolo di intelligenza nella mia stessa situazione. Se i miei amici mi avessero visto in quel momento avrebbero smesso all’istante di dire che ero una fifona. Mia madre sarebbe direttamente svenuta sul colpo e probabilmente anche la me di un anno prima sarebbe collassata, con tanto di schiuma alla bocca. Ora invece raccoglievo – e staccavo – dita come se nulla fosse. A ripensarci, avrei potuto tenerne uno come souvenir di quella assurda situazione e regalare l’altro al mio capitano. Non era un cuore, ma poteva pur sempre andare bene, giusto?
Feci una smorfia di dolore. Fino a quel momento non avevo avuto il tempo di controllare la ferita alla gamba, né le avevo dato molto peso, ma con lo svanire dell’adrenalina stava cominciando farmi male.
«Maledetto cacciatore di taglie» sibilai tra i denti.
Diedi una rapida occhiata alla lacerazione. Era lunga una quindicina di centimetri e a giudicare dalla distanza dei lembi di pelle doveva essere piuttosto profonda. Il sangue era colato giù per tutta la gamba fino al mio scarpone ed io, presa com’ero dal combattimento, non me ne ero nemmeno accorta. Dovevo assolutamente disinfettarla e coprirla, ma tutti i miei strumenti erano nello zaino che era rimasto da qualche parte nel bosco. Mi incamminai tra la vegetazione per cercarlo, sperando nel frattempo di non avere altri incontri ravvicinati con umani o insetti di nessun tipo e pregando che da quella ferita non mi rimanesse la cicatrice.
 
Vagavo da qualche minuto ormai, in cerca della mia roba, senza trovarla. Possibile che su quell’isola sparisse tutto? Purtroppo non avevo un gran senso dell’orientamento e nella foga del combattimento non avevo esattamente fatto caso a dove avevo lasciato le mie cose. Confidavo che il destino me le avesse fatte trovare, se non a breve almeno prima che le avesse trovate qualcun altro. Per fortuna, dopo un’altra decina di minuti ero riuscita a recuperare sia la cintura che lo zaino. Tornai al ponte, mi serviva un luogo relativamente igienico dove poter pulire adeguatamente la ferita. Per tutto il tragitto le gambe avevano continuato a tremarmi. Ora che tutta la tensione era pian piano svanita, potevo rendermi conto alla perfezione di quanta paura avessi provato durante il combattimento. Avrei davvero potuto rischiare di lasciarci la pelle. Invece, per fortuna, ne ero uscita quasi sana e salva. Se non altro, ero tutta intera.
Mi sedetti sulla ringhiera di pietra del ponte e, dopo aver rimesso la cintura, tirai fuori dallo zaino garze e disinfettanti. Iniziai a pulire la ferita. Odiavo l’alcol, bruciava tantissimo, ma cercai di stringere i denti e continuai a disinfettare. Questo era il motivo per cui preferivo di gran lunga che fossero gli altri a curarmi, perché almeno non si sarebbero fermati alla mia prima esclamazione di dolore. Tuttavia, quella volta non fu a causa mia che dovetti interrompere. Dal bosco, a qualche metro da me, provenivano dei rumori. Scattai in piedi e osservai gli alberi, guardinga. Pochi secondi dopo, dalla boscaglia uscì il terzo cacciatore di taglie, quello che qualche minuto prima avevamo lasciato svenuto a terra. Sembrava sfinito, a momenti nemmeno si reggeva in piedi, ma nello sguardo aveva una determinazione enorme e fiammeggiante, che lo faceva continuare a camminare e che lo rendeva pericoloso per me. Infatti quando notò la mia presenza strinse i pugni e digrignò i denti.
«Che ne hai fatto dei miei compagni!? Leon era il mio migliore amico! Io lo vendicherò! Vendicherò tutti loro!» gridò, prima di partire all’attacco.
Correva verso di me sbandando da tutte le parti, con la daga in mano. Sbuffai ed alzai gli occhi al cielo. L’unica cosa che lo faceva stare in piedi era la rabbia che provava verso di me e il suo desiderio di vendicare i suoi compagni. Era ammirevole da parte sua, non c’era che dire. Tuttavia io non avevo tempo da perdere. Quando fu a circa due metri di distanza da me, mi sfilai la cintura e mi spostai a sinistra. Sembrò molto sorpreso, proprio come i suoi compari. Inchiodò i piedi al suolo ed iniziò a guardarsi intorno, atterrito. Senza sprecare altri secondi preziosi, feci un balzo verso di lui, gli afferrai la nuca con la mano destra e gli spinsi la faccia con forza verso la ringhiera. Il rumore della sua testa che impattava contro la pietra fu agghiacciante. Fu come sentire una noce che veniva spappolata nella possente morsa di uno schiaccianoci. Mi dispiacque molto per quel poveretto. Lo ritirai su per i capelli e gli osservai il viso. Il sangue gli colava copioso dalla fronte e dal naso; la bocca, aperta, lasciava intravedere un paio di denti mancanti. Era ancora cosciente, ma il suo sguardo era totalmente perso, come se non fosse stato lì. Lasciai la presa, impietosita da quello spettacolo. Tuttavia l’uomo non sembrò mollare. Si aggrappò con tutte le sue – poche – forze alla ringhiera e si rialzò. Non si voleva arrendere. A quel punto mi dispiacque ancora di più per quello che stavo per fare. Per correttezza aspettai che si fosse stabilizzato e quando si fu eretto completamente misi in pratica un colpo che mi aveva insegnato tempo prima Bepo. Feci un passo in avanti, poi, spostando tutto il peso del mio corpo sulla gamba destra, feci mezzo giro su me stessa, sollevai l’altra gamba e contemporaneamente abbassai di poco il busto. Infine, sfruttando la rotazione, con il tallone colpii il collo del cacciatore di taglie. Il navigatore sarebbe stato fiero di me se mi avesse visto, quello era un calcio rotante eseguito in modo esemplare. Non ci fu bisogno che facessi niente. Il poveretto era messo così male che cadde giù dal ponte a peso morto. Probabilmente aveva perso conoscenza. Questo era un bene perché almeno non avrebbe sofferto al momento dell’impatto con l’acqua. Era andato anche lui. Tuttavia non potei godermi la scena a lungo. Una fitta dolorosissima che proveniva dalla ferita che avevo sulla coscia mi fece cadere, ginocchia e mani a terra. Non avrei dovuto farlo, sapevo che il mio arto inferiore non avrebbe retto tutto il peso del mio corpo, e a causa di questo potevo aver aggravato la lesione ancora di più.
Rimasi in quella posizione finché il dolore non diminuì. Ansimavo da un paio di minuti, quella piccola “battaglia” mi aveva davvero provato, sia fisicamente che psicologicamente. Il cuore ancora mi batteva veloce. Mi sedetti per terra, con la schiena appoggiata al parapetto e tirai fuori dallo zaino dell’altro cotone e delle altre garze. Quelle vecchie non erano più sterilizzate ormai. Tirai fuori anche un paio di pantaloni. Erano pantaloni lunghi che mi arrivavano fino alle caviglie, non volevo che i miei compagni vedessero la fasciatura, né che sapessero del combattimento. Sospirai mentre iniziavo da capo a pulire la ferita. Avrei avuto bisogno di una ventina di punti di sutura, ma era già tanto se avevo delle garze fascianti con me. Avrei dovuto arrangiarmi fino al ritorno al sottomarino. Per fortuna mi era andata bene e me l’ero cavata solo con un squarcio sulla gamba e qualche livido qua e là, ma sapevo che sarebbe potuta andare molto peggio. Non era questo a preoccuparmi maggiormente, però. Che cosa sarebbe successo ancora? Chi sarebbe uscito dal bosco? Una pantera affamata? Un cinghiale infuriato? Un orso? Una mandria di bufali impazzita? Un Tirannosauro? Un Imperatore? Il Grand’ammiraglio Sakazuki? Non potevo saperlo e non ero nemmeno sicura di volerlo sapere, ma tutto era possibile a questo punto. Nemmeno a farlo apposta, proprio mentre stavo finendo di legare tra di loro i lembi estremi della garza con cui avevo coperto la ferita, sentii provenire delle voci da non molto lontano. Drizzai le orecchie. Dovevo smetterla di gettarmi addosso sfortuna da sola o ci avrei davvero lasciato la pelle prima o poi.




Angolo autrice
Ciao a tutti! Eccomi qui con questo venticinquesimo capitolo, finalmente. Un capitolo all'insegna del "Mai una gioia", direi. Ma non temete! Se pensate questo sia stato un capitolo infelice per Cami, aspettate di leggere il prossimo!😂
Però vi prometto che a breve avremo anche una gioia. Piccola, ma l'avremo!
Ad ogni modo non vi crucciate, perchè questa fanfiction ha ancora molta strada davanti a sé (a ripensarci, forse avete il diritto di essere un po' afflitti).
La smetto di farneticare, va. Come sempre ringrazio in anticipo chiunque abbia voglia di lasciare una recensione e ringrazio anche chi ha avuto la pazienza di arrivare a leggere fin qui.
Alla prossima! <3

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Capitolo 26
*** Pericoli ***


Mi tirai su più in fretta che potevo, rimisi alla rinfusa gli strumenti medici dentro allo zaino e mi infilai in fretta e furia – e con poca delicatezza – i pantaloni lunghi sopra alle garze e agli altri pantaloncini. Chiunque fosse stato, non doveva vedere che ero ferita. Sfilai l’ascia dal suo fodero e la impugnai con entrambe le mani, assottigliai gli occhi e mi portai in posizione di combattimento, preparandomi a lottare. Tirai un sospiro di sollievo e rimisi Mr. Smee al suo posto solo quando notai che le voci che avevo sentito appartenevano ai miei compagni.
«Eccoti! Finalmente ti abbiamo trovato!» esclamò uno di loro.
Sospirai, esausta da tutto quel susseguirsi di eventi surreali. I sei si fermarono un momento a squadrarmi. Avevo ancora un po’ di fiatone, i pantaloni – che avevo infilato a tempo record – erano storti e spiegazzati e anche se non potevo vedermi ero piuttosto sicura di avere un’aria stravolta e i capelli spettinati, quasi elettrici. In più, non avevo in mano il contenitore trasparente che avevano tutti gli altri. Nella confusione mi ero totalmente scordata di recuperarlo. Non che ci tenessi, comunque. Mi osservarono con aria interrogativa per un po’.
«È stata una caccia piuttosto...avvincente» cercai di giustificarmi io, sorridendo goffamente «ma alla fine ho vinto io» dissi con orgoglio, tirando su il braccio e mostrando i miei muscoli in segno di vittoria.
«E dov’è il Rubeus Candidum?» chiese uno dei miei compagni, sospettoso.
Boccheggiai. «Beh, ho vinto, ma...è fuggito» alzai le spalle.
Quelli scossero la testa con disappunto. Non mi avevano mai visto di buon occhio da quando ero entrata nella ciurma, forse pensavano che avrei potuto rubargli il favore ed il riguardo che il capitano aveva per loro. O forse erano solo seccati – esattamente come me – di aver dovuto svolgere quel compito ingrato. Dopotutto eravamo medici, non entomologi e tantomeno acchiappa-insetti. Comunque, se solo avessero saputo la verità su quello che era successo, avrebbero smesso di essere così scettici nei miei confronti. Ma avevo deciso che nessuno sarebbe venuto a conoscenza di niente, era una questione mia e mia soltanto. Quei tre cercavano me.
«Per fortuna ci abbiamo pensato noi» annunciò un terzo, mostrandomi il suo contenitore con dentro quel maledetto insetto. Aveva un aspetto innocuo, visto così. E pensare che aveva causato tutte quelle morti e tutto quel trambusto.
Fortunatamente nessuno dei miei compagni aveva notato le chiazze rosse di sangue disseminate qua e là per il ponte. Mi sarebbe piaciuto ripulire anche quelle, se ne avessi avuto il tempo. Ma i medici parevano avere fretta. Di solito, come Law, andavano sempre con calma, ma evidentemente c’era qualcosa di quest’isola che li inquietava particolarmente. Come dar loro torto, del resto?
«Coraggio, non perdiamo altro tempo e raggiungiamo il capitano. Lo abbiamo già avvertito con il lumacofono che stiamo arrivando» ordinò quello che era stato temporaneamente nominato capo.
Raccolsi da terra tutte le mie cose e poi ci incamminammo verso l’accampamento, abbandonando finalmente quella parte di isola che per me aveva rappresentato un incubo vivente. Eravamo d’accordo che avremmo proceduto per il sentiero principale, che era un percorso sterrato a forma di spirale. Saremmo dovuti passare all’esterno dell’isola e ci avremmo messo un po’ di più, ma era un percorso più sicuro di quanto non sarebbe stato se avessimo tagliato per la foresta.
«Per fortuna nessuno di noi si è ferito nel cercare di catturare quel dannatissimo insetto, avremmo rischiato la vita, altrimenti» commentò poco dopo uno di loro.
Mi bloccai all’istante. Di colpo mi ricordai le raccomandazioni di Law e spalancai gli occhi. In tutto quel trambusto non avevo avuto modo di ripensarci. Non potevo farlo. Non potevo andare al campo o sarei stata contagiata sicuramente. Bastava un taglio, un piccolo, minuscolo taglio e il virus si sarebbe furtivamente e silenziosamente intrufolato nella ferita e si sarebbe lentamente sparso in ogni arteria e ogni vena del corpo del malcapitato, prendendo il comando di quella ormai fragile figura umana e portandola alla morte. Non potevo assolutamente rischiare, anche perché il mio non era un misero taglietto, ma un vero e proprio squarcio.
«E adesso che ti prende?» chiese uno dei medici notando che mi ero fermata. Aveva un tono piuttosto infastidito e sospettavo che non avrebbe ammesso repliche, ma io ci dovevo provare lo stesso.
«Non posso venire al campo con voi, mi dispiace» dissi decisa
«Che cazzo dici? Smettila di farci perdere tempo e muoviti».
Sperare che avrebbero capito era superfluo.
Iniziai ad indietreggiare, quasi terrorizzata al pensiero di poter contrarre la malattia.
Almeno un paio dei miei compagni sbuffò prima che uno di loro mi afferrasse il braccio e mi intimasse di non dire stronzate e di continuare a camminare. Mi spinsero nel mezzo e mi circondarono così da non poter fuggire, quasi avessi una scorta personale di guardie del corpo. Mi avrebbero fatto comodo anche prima che mi imbattessi negli uomini di Ruben, ma sarebbe stato chiedere troppo. E anche se fossero stati al mio fianco, non ero del tutto sicura che mi avrebbero protetto o anche solo aiutato. Sospettavo che fossero un po’ sadici, proprio come il mio maestro. Il colmo, per un dottore. Oltretutto loro non ne erano consapevoli, ma mi stavano conducendo al patibolo.
Proseguimmo a camminare in quella formazione per qualche minuto, finché non ricominciò a farmi male la ferita. A quel punto dovetti retrocedere nelle ultime file, sia perché avevo rallentato il passo, sia perché iniziavo ad avere una faccia sofferente. Non volevo darlo a vedere, ma stavo soffrendo ed ero anche parecchio preoccupata. Praticamente mi stavo dirigendo verso morte quasi certa.
 
Camminavamo, camminavamo e camminavamo da quello che ormai mi sembrava un tempo infinito. Ore, minuti, non lo sapevo più. Avevo totalmente perso la cognizione del tempo. Ormai procedevo in automatico. La mia mente era concentrata su un solo ed unico pensiero. Il dolore. Mi stava dilaniando e dalla coscia si era irradiato a tutto il mio corpo. Avevo i brividi, stavo sudando e anche la vista cominciava ad essere sfocata. Sentivo il cuore martellarmi incessantemente nel petto e respiravo a fatica. Iniziavo a mostrare i primi sintomi di una probabile setticemia. Non potevo continuare così o sarei morta prima di arrivare al campo. Potevo sentire il sangue scorrermi giù per la gamba e poi coagularsi e rapprendersi. Avevo bisogno di punti di sutura e in mancanza di essi, la ferita, medicata alla buona e troppo in fretta, molto probabilmente si era riaperta. Pregai che i pantaloni coprissero le tracce del macello che stava avvenendo all’interno e al di fuori del mio corpo. Purtroppo però, i pantaloni non avrebbero potuto impedire di dissanguarmi o fermare l’emorragia.
«Quanto manca?» chiesi, sforzandomi di rendere la mia voce il più normale possibile
«Una decina di minuti» rispose qualcuno «Perché? Hai fretta di arrivare?» mi domandò sempre lo stesso – o almeno credevo, non riuscivo più nemmeno a distinguere le voci – con tono canzonatorio.
Non risposi. Non avevo la forza di rispondere e non lo sapevo nemmeno. In entrambi i casi non si prospettava un futuro prossimo roseo per me. E comunque, anche se non volevano darlo a vedere, anche loro erano inquieti e se la sarebbero voluta svignare da quell'isola maledetta il più presto possibile.
«Avete un ago, del filo e un anestetico?» chiesi dopo un altro po’.
Si girarono tutti a guardarmi. Strinsi gli occhi e mi sforzai di cogliere i loro sguardi. Mi fissavano come se fossi ebete. Dovevano averlo imparato da Law.
«Io non ce li ho, e qualcuno potrebbe averne bisogno al campo» mi giustificai, sperando che se la bevessero. In realtà, inutile dirlo, quegli strumenti servivano a me e con una certa urgenza, anche. Quelli scossero la testa e tornarono a camminare. Io fui costretta a fare lo stesso, ma iniziavo a perdere le speranze. Potevo solo avanzare, verso la morte o verso la salvezza.
Ad un certo punto, il dolore che provavo si fece così forte che la mia gamba cedette ed io mi ritrovai con un ginocchio a terra. L’uomo più vicino a me si girò.
«Tutto bene?»
«Sì. Sono inciampata su una radice» mi affrettai a rispondere, tuttavia tradendo un certo affanno.
«Sicura? Non hai una bella cera» mi comunicò con una leggerissima nota di apprensione nella voce dopo avermi osservato meglio per qualche secondo.
Annuii. «Sono solo stanca» dissi in un sussurro. Ormai non avevo nemmeno più la forza di parlare. Ricorsi a tutta la mia forza di volontà per rialzarmi.
Per fortuna i miei compagni, per quanto potessero essere formidabili come medici, non erano proprio mostri di intelligenza. Law li aveva plasmati e formati affinché fossero macchine da guerra guaritrici, ma forse non gli aveva mai detto di quanto potesse essere importante sviluppare anche un minimo di intelligenza logica, o di empatia. Il filosofo e scrittore francese Michel de Montaigne sosteneva che ci fosse un’ignoranza da analfabeti e un’ignoranza da dottori e i miei compagni medici ne erano la prova vivente.
«Ci rallenti il passo. Non possiamo stare ad aspettarti ogni volta, noi andiamo avanti. Tu ci raggiungerai quando ti sarà più comodo. La strada la trovi da sola, basta seguire il sentiero» affermò il capo della spedizione, pronunciando le ultime parole con un po’ di disprezzo.
Sorrisi, totalmente d’accordo con la sua decisione. Finalmente le cose sarebbero girate in mio favore.
«Potreste lasciarmi il lumacofono, per favore?» chiesi con un filo di voce.
Il mio interlocutore alzò le spalle e me lo lanciò, totalmente incurante di sapere le mie motivazioni. Lo afferrai per miracolo. Non è facile prendere al volo qualcosa quando ci vedi doppio. Poi, insieme al resto del gruppo, si allontanò.
«Non capisco perché le permettiamo di fare sempre i propri porci comodi» fu l’ultima cosa che sentii dire da uno di loro. Scossi la testa, disgustata da tanto disprezzo nei miei confronti. Giurai che se ne fossi uscita viva da lì gliel’avrei fatta pagare per quella affermazione.
 
Avrei voluto semplicemente sdraiarmi a riposare per qualche minuto. Ma sapevo di non potere. Il mio tempo si stava esaurendo. Non sarei morta a breve, ma avrei sicuramente perso conoscenza e nessuno mi avrebbe trovato in quel bosco sperduto. E con il Rubeus Candidum in circolazione, non era esattamente il massimo svenire, ora che i miei compagni mi avevano abbandonata. Ma forse l’insetto mi aveva già contagiato. Scossi la testa, cercando di scacciare dalla mente quel pensiero terrorizzante. Non c’era altro tempo da perdere. Rigirai i tacchi, misi in funzione il lumacofono ed aspettai che qualcuno all’altro capo mi rispondesse. Pregai con tutta me stessa che qualcuno lo facesse e nel frattempo continuai a camminare nella direzione opposta in cui sarei dovuta andare.
«Qui Jean Bart» si annunciò una voce dopo qualche minuto. Sul Den Den Mushi giallo apparve una cresta nera e due tatuaggi bordeaux a forma di Y al contrario.
I miei occhi brillarono di speranza ed il mio volto affaticato si aprì in un ampio sorriso. Speranza. C’era una speranza per me.
«Jean Bart, sono Camilla. Potresti passarmi Penguin o Shachi, per favore?» chiesi, cercando di impormi una parvenza di serietà. Anche se adesso non mi importava più di sembrare affannata.
«Ci sono problemi?» domandò a sua volta il pirata, dubbioso
«No, assolutamente. Tu però passameli. Ordini del capitano» risposi esasperata e mentendo spudoratamente. Non c’era bisogno, però, che lui lo sapesse. Ammiravo la dedizione di Jean Bart, ma quello non era il momento di mettersi a fare i pignoli. Non avevo né tempo, né energie da perdere.
«D’accordo» affermò, dopo qualche secondo di titubanza «attendi in linea» disse, prima che il lumacofono tornasse al suo aspetto originale. Era andato a chiamarli.
Annuii anche se lui non poteva vedermi e cominciai a ridere. Era fatta. Ancora qualche secondo e avrei chiesto a Shachi e Penguin di venirmi a prendere alla baia sulla costa. Dovevo solo continuare a camminare, poi sarei tornata al Polar Tang e a quel punto sarei stata salva. Probabilmente non ero in grado di occuparmi da sola della ferita, ma qualcuno lo avrebbe sicuramente fatto. Sarebbe stata una questione di ore, al massimo. Dovevo resistere, dovevo solo resistere per un altro po’ di tempo. Law non mi avrebbe mai perdonata per quel brutto scherzo. Molto probabilmente mi avrebbe cacciata via, lasciandomi sulla prima isola che incontravamo, o mi avrebbe direttamente messa su una scialuppa e se ne sarebbe andato, condannandomi a vagare in mare finché non fossi morta di fame o freddo. Oppure mi avrebbe torturata; o peggio, mi avrebbe fatto pulire i bagni per un mese di fila. Non avrebbe più accettato di farmi da mentore, mi avrebbe abbandonata a me stessa. Le punizioni di Law erano ben peggiori della morte. Sbuffai una risata al pensiero che comunque andasse a finire ero spacciata. Ed era tutta colpa mia. Io mi ero cacciata in quella situazione, perché ero stata troppo stupida e orgogliosa per ammettere che ero stata ferita. Ma in quel momento non mi importava, non mi importava più di niente. Volevo solo che quel dolore lancinante finisse. Non era più la mia forza di volontà a tenermi in piedi, era il desiderio che il dolore sparisse.
Continuai a trascinarmi avanti, in attesa che qualcuno prendesse quel dannato lumacofono e mi rispondesse. Non riuscivo neanche più a stare dritta. Ero ricurva su me stessa,  avevo il fiato corto, la testa pesante, la fronte madida di sudore e gambe e mani mi tremavano, anche se questo non era un problema, perché non me le sentivo più. Sentivo solo un dilaniante e lancinante dolore costante. Guardai davanti a me. Ero arrivata alla parte più esterna della costa, che da dove mi trovavo ora era all’estremo Ovest dell’isola. Il campo era dalla parte opposta, ad Est. Riconoscevo quel sentiero, ci eravamo passati poco prima, era vicino al ponte! Dovevo solo fare attenzione nel passare su quel pezzo di strada, che era proprio sul ciglio del dirupo. Dopodiché una volta arrivata al ponte sarebbe davvero stata una questione di minuti raggiungere la baia. Una cosa era certa: se fossi uscita viva da lì, avrei assolutamente avuto bisogno di farmi una doccia.
«Spero che sia una questione di vita o di morte, Cami, perché stavo facendo il mio pisolino quotidiano» fece sarcasticamente una voce metallica.
Spostai lo sguardo sul lumacofono, sul quale era comparso un berretto con un pon pon rosso e la scritta “Penguin” in maiuscolo.
«Penguin!» lo richiamai, alquanto sollevata. Finalmente qualcuno mi aveva risposto. «Ascoltami bene, mi serve il tuo aiu...»
Successe tutto in un attimo. Una fitta improvvisa alla gamba mi fece sussultare ed il Den Den Mushi mi cadde dalle mani.
«Cosa? Non ho capito, Cami! Parla più forte!» mi incitò Penguin all’altro capo della linea. Dovevo finire la frase. Dovevo dirgli di venire a prendermi.
Sospirai, prima di munirmi di tutto il mio coraggio e di abbassarmi a raccogliere l’animale. Sembravo una zombie, gli occhi lucidi e persi nel vuoto, il respiro affannoso, le labbra secche e screpolate, la carnagione pallida e umida di sudore. Mi chinai, la mano già allungata e pronta a prendere il lumacofono. Tuttavia, mentre lo raccoglievo, un’altra fitta lancinante alla coscia mi fece perdere l’equilibrio e fui costretta a ritirarmi su per non cadere a bocca davanti. Indietreggiai di qualche passo per riacquistare stabilità.
«Cami!? Mi rispondi!? Ti garantisco che se questo è uno scherzo vengo a strozzarti con le mie mani!» il mio compagno strillava attraverso il Den Den Mushi.
Provai ad abbassarmi di nuovo, e di nuovo persi l’equilibrio. Penguin, dall’altra parte si stava spazientendo.
«Ora riattacco! E non chiamare mai più!» gridò infuriato
«No...» sussurrai. Mi chinai un’ultima volta, in un estremo, disperato tentativo di riprendere il lumacofono prima che il mio amico chiudesse definitivamente la telefonata. Mi inclinai troppo rapidamente, persi stabilità nuovamente e fui costretta ad indietreggiare ancora. Stavolta, però, feci un passo di troppo. Mi sbilanciai all’indietro e scivolai.
Allargai le braccia, tentando di riprendermi, ma non ci fu niente da fare. La terra cominciò a mancarmi da sotto i piedi ed io iniziai a precipitare giù dalla scogliera. Era una sensazione orribile sentire il terreno scivolare via, essere strappati così dal suolo, ma io non avevo nemmeno più la forza per gridare. Ero così debole che non riuscivo quasi ad avere paura.
Caddi per un tempo che mi sembrò interminabile. Quindi era così che sarebbe finita? Dopo tutto quello che avevo fatto, dopo tutto quello avevo superato, sarei davvero morta così? Senza nessuna gloria, senza nessuno che avesse potuto vedermi? Sarei semplicemente scomparsa? Qualcuno sarebbe venuto a ricercarmi? Se non mi avesse ucciso l’impatto con l’acqua lo avrebbe sicuramente fatto l’emorragia provocata dalla ferita. Ero troppo debole per sopravvivere ad una caduta del genere. “Chi di spada ferisce, di spada perisce” diceva il detto, e cominciavo a pensare che fosse vero. Avrei subito lo stesso destino degli uomini che avevo battuto qualche ora prima. Non ero mai stata una ragazza molto religiosa, ma in quel momento, con le ultime energie che mi rimanevano, pregai il Cielo che qualcuno fosse venuto in mio soccorso. Sapevo che non sarebbe stato così, non c’era più nulla che potessi fare, se non sperare di non soffrire troppo.
Continuai a precipitare, con in mente le ultime parole che aveva pronunciato tempo prima il mio capitano. “I deboli non possono scegliere come morire”. Aveva ragione. Io ero debole, troppo debole per quell’universo. Ed ora stavo pagando il prezzo della mia presunzione. Sarei morta con parecchi rimpianti, ma tra i tanti che avevo, ce n’era uno in particolare che bruciava più di tutti. Proprio come Ace, non avrei potuto vedere Rufy che coronava il suo sogno. Mi ero ripromessa che lo avrei visto con i miei occhi diventare Re dei Pirati, ma a quanto pareva avrei dovuto infrangere anche quella promessa. Mi sarebbe piaciuto diventare un grande chirurgo, come il mio maestro, ed aiutare tante persone. Era buffo, perché l'unica persona che avrei dovuto aiutare e che non ero stata in grado di soccorrere, ero proprio io. Suppongo che un bravo medico non avrebbe mai fatto la fine che stavo per fare io. A dire la verità, credo che nessuno avrebbe fatto la fine che mi aspettava, perché nessuno era così stupido. In fondo, forse, meritavo di morire così.
Law se la sarebbe presa tantissimo con me, mi avrebbe odiato finché nel suo corpo ci fosse stata vita. La cosa che più mi faceva sentire una persona orribile era che sarebbe stato molto deluso da me e dal mio comportamento. Non avrei voluto che finisse in questo modo, non avrei mai voluto deluderlo così tanto. Però, ora non potevo e non avrei più potuto farci niente, perché stavo per morire.
 
 
 
Angolo autrice
Salve a tutti!
Allora, sento di dover spiegare un paio di cose riguardanti questo capitolo.
Cami non ha detto ai suoi compagni della ferita e/o del combattimento perchè non vuole essere un peso per nessuno. Non vuole mostrarsi debole. La battaglia contro i cacciatori di taglie era una questione sua e sua soltanto, che ha dovuto risolvere da sé. E la situazione che si è venuta a creare dopo è una situazione che dovrà risolvere da sola, allo stesso modo. A chi crede che sia stata stupida a non farlo presente subito agli altri rispondo che sì, è stata stupida, molto stupida, ma penso che non sarebbe stata l'unica a decidere di agire così, anche e soprattutto perchè i suoi compagni la vedono ancora come l'anello debole della "catena" dei Pirati Heart. A questo proposito, qualcuno potrebbe chiedersi perchè degli abili medici non abbiano subito notato che qualcosa non andasse in Cami. La risposta è molto semplice, in realtà. Innanzitutto perché si trovano in una situazione scabrosa ed estremamente rischiosa e dal momento che ci tengono a non morire e vorrebbero andare via al più presto dall'isola, non è che badino molto a quelli che per loro sono solo i "capricci" di una ragazzina. E poi perchè, scarsa intelligenza a parte (come viene detto anche nel capitolo), a loro non potrebbe fregare di meno del destino di Cami. Sono pur sempre membri dell'equipaggio di Law e seguono la sua stessa linea di pensiero: ognuno pensi per sé. Con questo non voglio dire che il chirurgo e i suoi subordinati siano egoisti o menefreghisti, ma semplicemente che ciascuno deve provare a farcela con le proprie capacità. E se la ragazza non chiede aiuto, perché loro dovrebbero andare in suo soccorso? Anche perché, come spero si sia dedotto dal capitolo, i dottori non hanno una gran considerazione di lei. La ritengono in parte una buona a nulla ed in parte un’usurpatrice. La vedono come una minaccia venuta a prendere il loro posto di “preferita” del capitano. Per loro è una sorta di raccomandata, mettiamola in questi termini. Sarà invidia? Sarà che in parte la temono? Chi lo sa, spero di riuscire ad approfondire il rapporto che si è creato tra Cami e gli altri medici in futuro. Per il momento questo è quanto. Vedremo cosa accadrà nel prossimo capitolo.
Spero di aver spiegato tutto e bene e di aver risolto i vostri dubbi (se ne avevate). :) Scusate per questo sproloquio ma ci tenevo a chiarire queste cose.
Ovviamente quella su Law e i Pirati Heart è una mia opinione e siete liberissimi di essere in disaccordo. Io la penso così e mi sono ritrovata a pensarla così anche per esigenza di trama, diciamo. Spero comunque che questo capitolo vi sia piaciuto, sarei curiosa di sapere il vostro parere in merito. :)
Ringrazio chi ha avuto il coraggio e la voglia di leggere fin qui e ringrazio anche in anticipo chiunque voglia lasciare una recensione. :)
Alla prossima! <3

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Capitolo 27
*** Vecchie conoscenze ***


La scogliera, rocciosa e frastagliata. E poi il cielo, terso e limpido, di un celeste così puro da infondere pace e tranquillità persino agli animi più tormentati. Furono queste le ultime cose che vidi. I miei ultimi pensieri andarono alla mia famiglia, che non avrei mai più rivisto e non avrei più neanche sperato di rivedere. Avevo paura, ma ero di gran lunga più dispiaciuta. Avrei voluto che le cose fossero andate diversamente? Sì, certo. Nessuno vorrebbe morire nel bel mezzo di un’avventura, nessuno vorrebbe morire mentre sta inseguendo un sogno. E di certo nessuno vorrebbe andarsene prima di aver portato a termine l'obiettivo che con tanto ardore si è prefissato e per il quale ha compiuto tanti sacrifici. Ma io avevo già avuto una seconda occasione, era stata proprio la Stella a darmela, involontariamente. Quindi quella era la fine della mia corsa. Ancora qualche secondo e poi non ci sarebbe stato più niente. Io stessa non sarei stata più niente. Chissà se qualcuno avrebbe sentito la mia mancanza o si sarebbe ricordato di me con il passare degli anni. Se qualcuno avrebbe tenuto vivo il mio ricordo o se questo sarebbe sbiadito con il tempo.
Com’era strano il destino, proprio adesso che stavo iniziando a riacquistare la voglia e la forza di vivere, il mio cammino si interrompeva. Non avevo fatto grandi cose, non avevo mai amato davvero, non avevo visto il mondo – nessuno dei due in cui ero stata – e non avevo del tutto realizzato i miei sogni, ma in fondo ero contenta così, perché anche se quella di morire non era stata una mia scelta, le mie ultime azioni lo erano state. Ero stata io a scolpire e determinare il mio destino, e se quel destino mi aveva portata lì, allora non potevo essere triste. Come mi aveva insegnato Tom il carpentiere, non bisogna mai rinnegare ciò che abbiamo creato, perché questo significherebbe rinnegare noi stessi. Sulle mie labbra comparve un impercettibile sorriso. Avevo lasciato tante cose incompiute e di certo ero molto spaventata, ma sarei lo stesso morta in pace con me stessa.
Chiusi gli occhi, preparandomi all’impatto con l’acqua. Mi sembrava di stare cadendo da una vita. Mi sembrava di aver visto albe e tramonti interminabili, di aver sentito freddo e poi caldo e di aver sentito profumo di talco. Chissà perché con tutti i profumi che esistevano avevo sentito proprio quello.
Precipitavo, precipitavo e precipitavo ancora, erano solo pochi secondi, eppure quei secondi furono infiniti. O forse ero già morta e non me ne ero accorta. O magari quello era solo un brutto sogno troppo vivido, come quello che avevo fatto su Dressrosa. Se così fosse stato, pregai di svegliarmi il più presto possibile da quell’incubo. Oppure mi trovavo in una sorta di realtà virtuale, come in un videogioco e se fossi morta, sarei tornata incolume alla vita reale. Non lo sapevo, in fondo la morte, che sia vera o meno, non dà molte certezze.
Il cuore mitragliava contro il mio sterno, con più coraggio di quanto non avessi io. Non voleva arrendersi all’evidenza. Non avrebbe desistito tanto facilmente. Forse aveva capito che quelli sarebbero stati i suoi ultimi battiti. Ogni fibra del mio corpo aveva paura, ma sapevo che avrebbe combattuto. Avremmo combattuto. In fondo, cosa avevamo da perdere? Non c'era rimasto più niente a cui aggrapparsi, se non il battito del mio cuore, l'unica cosa che ancora potevo sentire chiaramente. Finché la vita non avesse abbandonato il mio corpo, non mi sarei arresa.
Presi un ultimo, profondo respiro, prima di impattare con l’acqua. Presto i miei polmoni si sarebbero riempiti di quel liquido salino e tutto il mio corpo sarebbe stato inghiottito in quell’immensa distesa blu.
Chiusi gli occhi. Le mie narici furono invase sempre dallo stesso odore. Talco. Sentivo profumo di talco. Forse era proprio questo l’odore della morte.
 
Ad un tratto, all’improvviso, la mia caduta si arrestò.
 
Riaprii gli occhi di scatto, aspettandomi di trovarmi in un letto o qualcosa di simile. Ma sopra di me c’era solo il cielo. Lo stesso cielo azzurro e limpido di poco prima. All’appello non mancava neanche la scogliera rocciosa e frastagliata. Ero sempre nello stesso posto, ma non ero annegata. Ero sospesa a mezz’aria. Ma come avevo fatto? Cos’era successo? Perché non ero morta?
«Il tempo passa, ma tu non cambi mai. Anzi, direi che sei diventata ancora più goffa».
Una voce mi risvegliò temporaneamente dal mio stato di torpore. Solo in quel momento notai che due braccia forti e sicure mi stavano sorreggendo. Il proprietario di quelle stesse braccia, che riconobbi subito e che tanto avevo desiderato rivedere, mi aveva impedito di capitombolare in acqua e mi aveva appena salvato la vita.
Iniziai a buttare fuori l’aria dalla bocca, sospirando di sollievo. In pochi secondi, i miei sospiri si trasformarono in una risata sommessa. Sebbene avessi il fiato corto a causa della ferita e della paura, mi lasciai andare ad una risata liberatoria.
«E tu sei sempre il solito pennuto arrogante e un po’ sadico, a quanto vedo» risposi, in un sussurro. Non sapevo nemmeno come fossi riuscita a parlare. Ero senza fiato, il mio corpo era più fiacco che mai, ma mi sentivo leggera come una piuma tanto ero sollevata. Non ero morta – perlomeno, non ancora – ma avevo perso almeno dieci anni di vita e qualora fossi sopravvissuta avrei dovuto trascorrere altrettanti anni da uno psicoterapeuta per rimuovere quel brutto trauma dai miei ricordi.
«Dovevo fare un’entrata ad effetto» si giustificò lui.
Raccolsi parte delle mie ultime energie per staccarmi dal suo petto e guardare in basso. Le sue fiammeggianti ali gialle e blu, fiere e maestose come sempre, sbattevano con una tale potenza da creare dei cerchi sulla superficie dell’acqua. Non che fossimo tanto distanti dal mare, ad occhio e croce non eravamo a più di un metro dall’immensa distesa blu. Non si poteva dire che era impaziente di salvarmi. Aveva aspettato proprio l’ultimo secondo. Ma lui se lo poteva permettere. Del resto, anche la prima volta che avevo volato con lui mi aveva propinato quasi la stessa scenetta.
«Mi sei mancato, Marco la Fenice» gli annunciai, sorridendo.
Non potevo vedere il suo viso, ma ero sicura che stesse sorridendo arrogantemente anche lui. In quel momento, notai una cosa che fece allargare ancora di più il mio sorriso.
«Allora l’hai ricevuta» affermai soddisfatta. Alzai con fatica il braccio, che si rivelò essere più pesante di quanto pensassi, e posai la mia mano sul ciondolo che pendeva dal suo collo. Il ciondolo con la fenice, quello che gli avevo fatto come regalo di compleanno.
«Quando quel News Coo me l’ha portata insieme al biglietto, non potevo credere che fossi stata proprio tu. Eppure, eccoti qui» disse con voce calma e serena «beh, grazie. L’ho apprezzata. E grazie per esserti ricordata del mio compleanno»
«Non c’è di che» risposi io. Appoggiai la testa sulla sua spalla, non per affetto, ma perché mi girava terribilmente. Ansimavo e il mio corpo tremava, ma nonostante questo ero felice.
«Vedo che anche tu hai una collana nuova» affermò, riferendosi al ciondolo con la mia iniziale dipinta di arancione. Come aveva fatto a notarla così in fretta?
«Non ti si può nascondere niente» dichiarai, sorridendo, per quanto la mia condizione mi concedesse. Non ero nemmeno sicura di stare sorridendo davvero, forse mi stavo immaginando l’intera scena.
«Mi dovrai raccontare come sei approdata qui e perché ti sei unita al chirurgo» disse divertito, poi fece una pausa. Rimasi molto stupita dalle sue parole. Come diavolo aveva fatto ad intuire che mi ero unita a Law? Era forse veggente? Onnisciente? Iniziava a spaventarmi un po’. Forse ero morta e lui era un angelo. Le ali c’erano. Mancava solo l’aureola, ma magari ce l’aveva e io nel delirio non l’avevo notata. Però, se ero davvero morta, perché continuavo a sentirmi così male? Perché il dolore non spariva?
«Ma prima forse è meglio tornare sulla terraferma. Che ne dici?» chiese, distogliendomi dai miei macabri pensieri «sai, non hai una bella cera» aggiunse poi.
“Mi sembra un’ottima idea” pensai, ma non ero del tutto convinta di aver emesso qualche suono. Ad ogni modo, anche lui doveva spiegarmi un paio di cose, come ad esempio cosa ci faceva su un’isola del genere. Ma temevo che avremmo dovuto rimandare i convenevoli e le spiegazioni a più tardi, o non ci sarebbero stati affatto perché io ci avrei lasciato le penne.
«Non è facile sbarazzarsi di te, eh?» fece sarcasticamente mentre con un paio di colpi d’ala ben assestati mi riportava – letteralmente – con i piedi per terra. Un ghigno arrogante era ricomparso sulla sua faccia. Avrei voluto rispondergli che se non avessimo fatto qualcosa e per giunta molto in fretta, si sarebbero tutti liberati per sempre di me, ma non avevo più alcuna forza per parlare.
«Ora ti metto giù. Ce la fai?» chiese, una volta che ebbe toccato terra. Annuii. Allentò lentamente la presa e mi posò delicatamente al suolo. Quando fui in piedi, una dolorosa fitta alla gamba mi fece piegare le ginocchia e mi costrinse a reggermi a Marco, che prontamente mi sollevò e mi sistemò senza sforzo e senza battere ciglio tra le sue possenti braccia.
Non avevo più la forza per trattenermi, per fingere che fosse tutto a posto, per nascondere il mio malessere. Non che la Fenice non se ne fosse accorta, non c’era dettaglio che non sfuggisse al suo occhio allenato, ma quello per me era il punto di non ritorno. Abbandonai la testa all’indietro, gli occhi persi, assenti. Il mio corpo non rispondeva più ai miei comandi.
«Accidenti a te, Cami. Resisti. Ti porto dal tuo capitano» affermò il biondo, iniziando a muoversi.
“No!” avrei voluto gridargli, sarebbe stata una condanna a morte se mi avesse portato in mezzo ai malati, con la mia ferita avrei contratto sicuramente quel virus maledetto. Ma non ci fu niente che potei fare per fermarlo, perché all’improvviso tutto iniziò a diventare sempre più sfocato, sempre più chiaro, sempre più bianco, ed io precipitai in uno stato di semi-incoscienza che mi impedì di protestare o di agire in qualsiasi altro modo.
 
Non ricordo molto di quello che successe dopo. Ricordo che c’era agitazione generale, qualcuno forse aveva alzato la voce. Probabilmente c’era stata una discussione. Ero quasi sicura di aver sentito la voce di Law. Da un lato, forse, sarebbe stato meglio morire. Se fossi sopravvissuta non avrei mai e poi mai avuto il coraggio di affrontare il suo sguardo amareggiato. Non era un tipo che faceva prediche o cose simili, ma si poteva star certi che non le mandava a dire e soprattutto faceva perfettamente intendere quello che pensava, in particolar modo se era deluso da una persona. Se voleva farla pagare a qualcuno, lo avrebbe fatto senza alcuno scrupolo. Bastava pensare a Donquijote Doflamingo. Era Law che temevo di più, non un'emorragia o uno stupido virus letale.
Ricordo che mentre cercavo di formulare pensieri lucidi in proposito, mi era sembrato di essere stata sballottata e trasportata da una parte all’altra dell’isola. Ormai non ero più in me e non avevo idea né di quello che stava succedendo, né di quello che sarebbe successo. Mi sembrava tutto surreale. Vedevo il mondo intorno a me muoversi e sentivo dei rumori – perlopiù delle voci concitate – e il mio corpo oscillare, ma era come se tutto fosse ovattato, attutito. Come se mi trovassi in un sogno e non avessi idea di come svegliarmi. Nonostante tutto, però, mi sentivo in pace. Ero in una sorta di stato di quieta rassegnazione. Avrei vissuto? Sarei morta? Non mi importava quasi più.
Aprii gli occhi, piuttosto frastornata. Una luce mi investì in pieno. Cercai di mettere a fuoco il posto in cui mi trovavo. Girai lentamente il volto, alla ricerca di qualcosa di familiare. Non riuscivo a distinguere nulla che conoscessi di quel luogo. A prima vista sembrava essere una tenda da accampamento, una di quelle che si potevano trovare negli accampamenti dei soldati in guerra. Di certo non era una misera tenda da campeggio, era ampia e dava l’impressione di essere anche piuttosto confortevole. Una cosa era certa: non mi trovavo sul Polar Tang. La mia schiena poggiava sul morbido. Ero distesa in un letto a due piazze. Guardai alla mia destra. Il cuscino mancante si trovava sotto alla mia gamba destra, probabilmente serviva a far defluire meglio il sangue. Mi soffermai per un po’ sulla ferita. L’emorragia si era fermata, ma non c’era traccia di punti. Era ancora aperta. Ora avevo la certezza che il mio capitano era stato informato di quella faccenda. Solo Law avrebbe potuto prendere una tale decisione. Probabilmente era meglio così, se l’avesse ricucita sarebbero potuti rimanere dei batteri all’interno e a quel punto la situazione sarebbe peggiorata ancora più velocemente. Mi chiesi quale fosse l’ubicazione della tenda in cui stavo, se fosse al campo dei malati o se fosse da un’altra parte. Mi chiesi anche se il virus mortale si fosse impadronito del mio corpo o se gli fossi scampata per miracolo. Quale che fosse la mia situazione, ero viva ed era questo che contava.
Spostai lo sguardo alla mia sinistra. Un’espressione disgustata apparve sulla mia faccia non appena notai l’asta porta flebo, che aveva ben tre sacche appese ad essa. La prima conteneva un liquido trasparente ed era sicuramente soluzione fisiologica. La seconda era una sacca di sangue. Evidentemente avevo avuto bisogno di una trasfusione, dopotutto avevo perso parecchio sangue. L’ultima invece, era una sacca di colore giallastro. Probabilmente conteneva qualche tipo di antidolorifico, perché non sentivo più alcun dolore. Evitai di guardare il mio braccio sinistro, su cui si trovava il catetere intravenoso fissato con della garza. Odiavo gli aghi. Li disprezzavo con tutto il mio cuore, soprattutto se erano conficcati nelle mie vene. Un brivido mi percorse lungo tutta la schiena ed io scossi la testa. Si poteva dire che la mia fosse una fobia vera e propria. Supponevo che fosse quella la mia “punizione”. Distolsi velocemente lo sguardo e controllai di nuovo la ferita, per scrupolo. Senza tutto il sangue potevo vedere più chiaramente i margini. Dovevo dire che i due lembi orizzontali erano piuttosto distanti tra di loro, era proprio una bella lacerazione. Avrei fatto i complimenti all’uomo di Ruben, se non l’avessi ucciso. Come medico, però, sospettavo che purtroppo mi sarebbe rimasta la cicatrice. Sospirai. Mi convinsi che prima o poi sarebbe dovuto accadere per il tipo di vita che avevo scelto. Forse era quasi motivo d’orgoglio. Rufy, Zoro e perfino quell’idiota di Bellamy avevano delle cicatrici da sfoggiare. Certo, se l’avesse vista mia madre non ne sarebbe stata affatto contenta, ma per fortuna lei non era lì a preoccuparsi e non poteva nemmeno vedermi. Solo in quel momento, soffermandomi sulla ferita, notai che non avevo più i pantaloni. Ero in mutande. Sentii la mia faccia avvampare. Chi me li aveva tolti? Iniziai a vagare con lo sguardo per tutta la tenda, alla ricerca dei miei capi d’abbigliamento e anche della mia amata Mr. Smee, che non si vedeva da nessuna parte e della mia cintura, che mi ero accorta di non avere più addosso e che sembrava essersi volatilizzata.
«Ti lascio da sola per qualche minuto e guarda come va a finire» una voce – piuttosto divertita – interruppe la mia perlustrazione.
Mi girai alla mia destra in direzione del suono. Non potei fare a meno di sorridere. Una testa bionda aveva fatto capolino dalla tenda. Non avevo mai adorato tanto una persona in vita mia. Per fortuna lui poteva vedermi anche senza cintura.
«Sapevi di non poterti fidare di me, pennuto. È tutta colpa tua che mi hai abbandonato in mezzo a questa gentaglia» gli dissi, ridendo. Marco era la mia salvezza, sia in senso letterale che figurato. Riusciva a mettermi di buonumore semplicemente con la sua presenza. Tra tutte le persone con cui avevo avuto a che fare in quel mondo, era lui quello con cui sentivo di avere una connessione più forte. E fra tutti, ragazze a parte, era l'unico con cui non mi sentivo in imbarazzo a stare senza pantaloni. Non avevo idea del perché, era così e basta.
«Hai ragione» mi rispose «è tutta colpa mia. E io che pensavo di averti lasciato in buone mani. Non avrei dovuto fidarmi del sadico chirurgo»
«Perché, ti sei mai fidato di lui?» chiesi, guardandolo di sottecchi
«Solo nelle ultime due ore, quando l’ho guardato rimetterti a posto la gamba» annunciò con tranquillità, indicando la mia coscia.
Feci una faccia decisamente stupita e solo dopo un po’ sorrisi. Mi fidavo del mio capitano ed ero certa che avesse fatto un lavoro egregio, ma sentirlo dire da un’altra persona era comunque motivo d’orgoglio per me.
«Non c’è che dire, è stato impeccabile, veloce, pronto di spirito e non ha vacillato nemmeno per un secondo. Anche se l’ho visto un po’ sorpreso e per mezzo secondo forse anche preoccupato» mi comunicò «non pensavo che avessi fatto così tanta breccia nel suo gelido cuore. Insomma, non mi pare il tipo che si preoccupa per gli altri tanto facilmente e considerati i vostri trascorsi pensavo che ti avrebbe lasciata morire» commentò poi Marco, portandosi una mano a grattarsi la nuca e sorridendo.
Alle sue parole abbassai lo sguardo, che si posò inevitabilmente sulla mia gamba destra. Ero oltremodo grata al mio capitano per avermi curata ed ero felicissima e lusingata che si fosse almeno in piccolissima parte preoccupato per me, ma sapevo anche che nel momento in cui Marco era andato da Law e lui mi aveva visto quasi collassata tra le sue braccia, era rimasto molto deluso da me. Ed io me ne vergognavo molto. Non ero sicura che avrei potuto affrontare il suo sguardo tagliente e carico di disappunto. Scossi velocemente la testa, cercando di scacciare l’immagine che mi si era creata nella mente. Per il momento era meglio non sapere dove fosse il mio capitano. E non volevo nemmeno sapere dove fossero andati a finire i miei dannati pantaloni o che razza di posto fosse quello. Meno sapevo, meglio era. Mi sarei semplicemente goduta quel momento con il mio vecchio amico, che avevo ritrovato per una pura e fortunata casualità su quell’isola sperduta. Era davvero il caso di dire che non tutti i mali venivano per nuocere.
Alzai la testa, sorridendo maliziosamente.
«Ehi, pennuto» richiamai il mio interlocutore, che mi guardò interrogativo «non tentare di cambiare argomento» lo sgridai scherzosamente, con l’indice che oscillava da destra a sinistra. Poi battei piano la mano sul materasso un paio di volte e, accompagnata da un cenno della testa, lo invitai a sdraiarsi accanto a me.
«Devi raccontarmi come hai fatto a finire qui e perché sei su quest’isola» gli ricordai.
Un sorrisetto arrogante apparve sulle sue labbra mentre iniziava a venire verso il letto.
«E va bene. Tanto non ho niente di meglio da fare» fece, alzando le spalle.
Eccolo. Ecco il mio Marco, quello che avevo conosciuto nel mio mondo. Ora sì che iniziavamo a ragionare.
Sorrisi e alzai le spalle a mia volta. «Se è per questo nemmeno io».
Mentre lo guardavo stendersi accanto a me, pensai che mi era mancato più di quanto pensassi e che era stupendo tornare, anche solo per qualche minuto, ai cari vecchi tempi.




Angolo autrice
Che squillino le trombe! Marco è tornato!!!
Ve l'avevo promesso, ed eccolo qui, in carne e ossa piume. Ovviamente nel prossimo capitolo verrà spiegato perché la nostra amata Fenice si trovi su un'isola così ostile e sperduta nel nulla.
Come sempre spero che abbiate apprezzato questo capitolo (e il ritorno di Marco) e ringrazio chiunque voglia lasciare una recensione. Ci terrei davvero molto a sapere la vostra opinione. :)
Alla prossima!

P.s. Non so per quale motivo, ma mi sono immaginata che Marco profumasse di talco. A qualcuno potrà sembrare assurdo ma non sapendo di cosa odorino le fenici e in mancanza di dati certi, questo è l'unico profumo che mi è venuto in mente per l'ex Comandante della Prima Flotta di Barbabianca. Anche qui se avete qualcosa da dire in proposito lasciate pure una recensione o scrivetemi in privato se vi va. :)
 
P.p.s. Anche in questo capitolo ho preferito "tenere" le braccia di Marco nella sua forma ibrida, perché del resto si sa, un paio di braccia in più fanno sempre comodo! xD

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Capitolo 28
*** Insonnia ***


Non riuscivo a dormire. Non solo perché l’effetto dell’antidolorifico stava svanendo e di conseguenza il dolore alla gamba stava tornando, ma anche perché ero tormentata da mille pensieri. In più, l’idea di avere un ago conficcato nella vena del braccio non mi faceva stare affatto tranquilla. Finché ero stata in compagnia di Marco ero riuscita a non pensarci, ma quando se ne era andato lasciandomi sola, in testa avevano iniziato a vorticarmi tante cose. E in parte era colpa sua e di quello che mi aveva detto.
Aveva iniziato a raccontarmi che dopo la Guerra dei Vertici e la morte di Ace e Barbabianca a lui e a quel che restava della sua ciurma non era andato bene niente. Questo era prevedibile e in parte lo sapevo. Sapevo che il tentativo di vendetta su Barbanera non era andato a buon fine e sapevo anche che tante persone li stavano cercando ed inseguendo. Alcuni volevano le loro taglie, altri volevano solo avere il piacere di ammazzare dei membri di una ciurma che prima era tanto rinomata. Erano braccati e per loro non c’era un attimo di pace, ovunque andassero. Per questo avevano deciso di rifugiarsi lì, su Lyborn. Conoscevo la ciurma di Barbabianca e sapevo bene che non erano i tipi che si tiravano indietro dinnanzi ad un combattimento. Era per questo che ero preoccupata. Marco non me l’avrebbe mai detto né dato a vedere e se gliel’avessi fatto presente io non l’avrebbe mai ammesso, ma io lo avevo guardato negli occhi e lo avevo visto. Avevo visto la stanchezza che aveva addosso, era tanto stanco. Era esausto. E non sarebbero bastati un paio di giorni a letto per farlo riprendere. Sulle spalle portava un peso enorme e non ce la faceva più. Sospettavo che avesse un po’ lasciato andare e che in parte si fosse arreso. Quella notte ero stata davvero molto in pena per lui. Non volevo che soffrisse e non potevo sopportare che cadesse a pezzi, per quanto tentasse di nasconderlo. Dovevo fare qualcosa, ma non sapevo davvero cosa. Inspirai a fondo l’aria che mi circondava e la buttai fuori con un potente sbuffo. Erano passati quasi due anni dall’ultima volta che avevo visto Marco, ma non era cambiato affatto. L’unica cosa che era diversa era la sua faccia. Beh, non proprio la sua faccia, ma l’espressione su di essa. La Fenice aveva un viso vispo, che traboccava di arroganza, alla stessa maniera in cui la figura di Shanks il Rosso traboccava di ambizione. Mi ricordavo bene la prima volta che lo avevo visto, disegnato impeccabilmente in una delle tante tavole del manga. Avevo pensato subito che lui sarebbe diventato uno dei miei personaggi preferiti e che avesse un gran potenziale, ma avrei anche voluto prendere a schiaffi quella sua faccia così sfrontata e altezzosa. Sbuffai una risata e scossi la testa al ricordo. Perché purtroppo, di quello si trattava. C’era qualcosa che non andava in lui adesso. I suoi occhi erano spenti, stanchi, esausti. Quella dipinta sul suo volto non era più un’espressione arrogante e sicura, era l’espressione di un uomo rassegnato. Non so per quale motivo, mi chiesi se avesse festeggiato il suo compleanno. O se non lo avesse fatto perché per lui non c’era niente da festeggiare o perché nessuno se lo era ricordato, oppure perché se anche i suoi compagni se lo fossero ricordato, erano tutti troppo impegnati a fare altro. Magari stavano combattendo contro l’ennesimo nemico che voleva le loro teste o stavano fuggendo dinnanzi a un ammiraglio della marina e alle dieci navi da guerra che volevano catturarli. Marco era potuto rimanere poco e non aveva potuto – o meglio, non aveva voluto – raccontarmi molto. Ma io volevo e dovevo sapere.
Girai la testa, accanto a me il letto a due piazze era vuoto. Deglutii e strinsi le lenzuola tra le dita, preoccupata e frustrata perché in quello stato non avrei comunque potuto fare nulla, almeno per un po’. Non sarebbe stata una mossa intelligente quella di avventurarsi in giro per Lyborn con una ferita alla gamba aperta. E poi, ero stupida solo fino ad un certo punto. Quell’isola non era affatto deserta e chissà che brutti ceffi o brutte bestie giravano di notte. Avrei dovuto capirlo dai tempi di Punk Hazard che quando Law diceva che su un’isola non c’era nessuno al di fuori di lui – e in questo caso anche del resto della ciurma – non c’era da fidarsi.
Sospirai, per la millesima volta quella sera. La pallida luce della luna illuminava la tenda, il cui ingresso non era stato chiuso. La fissai. Quella notte era piena. Era così grande, così bella, così luminosa. Fu come se fosse riuscita d’improvviso a liberarmi la testa da tutti quei pensieri angoscianti. Da quando ero finita lì la mia intera esistenza era stata stravolta ed erano cambiate tante cose, ma per fortuna il cielo era rimasto lo stesso. Questo mi infondeva un po’ di speranza e mi faceva sentire più vicina ai miei cari, che avevo perduto per sempre. Mi piaceva pensare che stessimo tutti sotto la stessa volta celeste.
Tirai su la schiena e con molta cautela, spostai la gamba sana in modo da sedermi sul bordo del letto. Prima di sollevarmi, mi infilai gli stivali che erano ai piedi del letto. Constatai con piacere che almeno i pugnali erano rimasti dove li avevo lasciati. Sempre molto cautamente, sollevai la coscia destra dal cuscino su cui poggiava, poi feci leva sulle braccia e mi alzai. Mi appoggiai all’asta porta flebo con entrambe le mani – se non altro era utile a qualcosa – e zoppicai piano fino ad arrivare appena fuori dalla tenda. Dovevo stare molto attenta a non far sanguinare di nuovo la ferita. Sempre appoggiata all’asta, cercai di rimettermi più dritta che potevo e alzai lo sguardo.
«Ehi, Manny. È da parecchio che io e te non ci facciamo una chiacchierata, eh?» sorrisi fissando l’enorme sfera color latte «Sei meraviglioso come sempre. Avrei molte cose da raccontarti, ma suppongo che tu le sappia già. Del resto tu vedi e conosci tutto».
Per qualche ragione a me sconosciuta, feci l’occhiolino al satellite. Quella sera la luna si vedeva così bene. Sembrava davvero che i crateri grigi su di essa formassero un viso.
«Avrei anche parecchie cose da chiederti, a dire la verità, ma so che non mi risponderai. O almeno, non subito. Dico bene?»
Aspettai in silenzio per qualche secondo per poi sorridere malinconicamente. Avrei soltanto voluto che qualcuno mi avesse dato delle risposte. Ma supponevo che non avrei mai saputo perché mi trovassi lì o quale fosse il mio destino.
«Che ci fai in piedi? Il tuo capitano ha detto che devi riposarti» una voce nel buio mi fece sussultare. Scossi la testa solo quando capii che era quell’idiota di un pennuto, che a quanto pareva adorava le entrate a sorpresa.
«Sì, beh, il mio capitano dice tante cose, ma non vuol dire che io debba per forza fare come dice. E poi, l’ha detto a te per cui tecnicamente non me l’ha detto di persona...»
«Noto con piacere che rispetti molto il tuo capitano» fece il biondo, sogghignando.
Abbassai lo sguardo. Ci misi un po’ per trovare una risposta adatta alla sua affermazione.
«In realtà lo rispetto molto. È solo che mi sento come se non abbia importanza quello che faccio o che dico, perché so che tanto non sarà abbastanza, che sarà comunque sbagliato per il mio capitano. E anche per gli altri miei compagni, che non mi hanno mai vista di buon occhio. Quello che è successo oggi ne è un esempio lampante» feci una pausa e presi un lungo respiro «quindi se tanto devo essere vista come l’anello debole della catena, preferisco sbagliare a modo mio» buttai fuori quelle affermazioni tutto d’un fiato. Avevo proprio bisogno di sfogarmi con qualcuno, avevo bisogno di parlare con una persona che non fosse un membro dell’equipaggio di Law. Mi fidavo di Marco e sapevo che se anche non mi avesse capito, almeno avrebbe avuto la decenza di stare zitto. Dopotutto, non erano affari che lo riguardavano.
Non mi sbagliai. Non disse nulla e per qualche minuto nessuno dei due parlò. Lo guardai di sottecchi. La sua espressione era impassibile e imperscrutabile. Forse era d’accordo con quello che pensavano di me i Pirati Heart, forse non sapeva semplicemente che dire o non voleva dire niente. Finché stava zitto e non peggiorava la situazione, mi andava bene così.
«Ma tu piuttosto, che ci fai ancora in piedi?» gli chiesi, rompendo il silenzio.
«Ero preoccupato per te» mi disse, alzando un sopracciglio. Lo alzai a mia volta e annuii, consapevole che mi stava dicendo una bugia. Tuttavia decisi di non infierire, speravo solo che quella notte insonne fosse un’eccezione e che non avesse di questi problemi ogni sera.
«E ho fatto bene a venire qui, visto che parli da sola» continuò poi, con un sorrisetto arrogante sulle labbra. Era buio, ma c’era abbastanza luce affinché io potessi notare ogni sua espressione. Non eravamo a più di un paio di metri di distanza, dopotutto.
Roteai gli occhi. «Che impertinente» commentai sogghignando.
Alzò le mani all'altezza del viso. «Riferisco solo quello che vedo» affermò con un ghigno.
Scossi la testa. In quel momento mi accorsi che la gamba stava iniziando a farmi male. Sarebbe stato meglio tornare a letto. Mi rigirai verso l’ingresso della tenda e spostai l’asta porta flebo davanti a me.
«Ti serve una mano?» mi chiese, vedendo che ero un po’ in difficoltà
«A dire la verità mi servirebbe più una gamba, ma non credo che tu sia disposto a darmela, quindi sono a posto così, grazie» risposi, cercando di sdrammatizzare. Funzionò, perché fece una piccola risata. Almeno lo avevo fatto ridere. Chissà da quanto tempo non aveva un momento di spensieratezza.
Mi rigirai con molta cautela verso di lui ed iniziai ad andargli incontro. Lui mi guardò alzando un sopracciglio, tuttavia rimase a braccia incrociate e non cercò di aiutarmi. Lo apprezzai, se non altro aveva rispetto per me e per le mie decisioni. Quando gli fui abbastanza vicina, lasciai la presa sull’asta e mi buttai addosso a lui con tutto il peso. Per un attimo si irrigidì, poi sentii il suo corpo rilassarsi. Affondai il viso nell’incavo della sua clavicola e afferrai i lembi della sua camicia con entrambe le mani. Li strinsi tra le dita, che contrassi a tal punto da sgualcire la stoffa azzurra. Tuttavia non me ne curai. E non mi curai nemmeno delle sacche di liquidi ancora collegate alla mia vena, i cui aghi iniziavano a tirare un po’ e a darmi qualche fastidio. Avevo bisogno di farlo. Avevo bisogno di sapere che lui era davvero lì davanti a me, che non stavo sognando e che non avevo nemmeno le allucinazioni. Ma soprattutto, avevo bisogno di sapere che stava bene, almeno fisicamente. Lui capì il mio bisogno, perché poggiò delicatamente le mani sulla mia schiena e mi cinse i fianchi. Mi ci volle tutta la mia forza di volontà per non scoppiare a piangere. Provavo tante emozioni contrastanti tutte insieme. Da una parte ero felicissima che fosse vivo e che avessimo avuto l’occasione di rivederci prima della dipartita di uno dei due. Dall’altra ero triste perché si vedeva che c’era qualcosa che non andava, che era un uomo ormai distrutto, ed ero anche in pena per lui perché non sapevo come poterlo aiutare e questo mi causava molta rabbia e frustrazione. Un’altra piccolissima parte di me, invece, avrebbe voluto prenderlo a pugni per avermi fatto preoccupare così tanto. Non sapevo davvero come comportarmi, o che fare, o da dove iniziare.
Gli lasciai la camicia – l’avevo sgualcita a sufficienza – e appoggiai il mento sulla sua spalla. Con le mani risalii il suo corpo fino ad arrivare alla nuca. Accarezzai i suoi capelli, corti e ispidi al tatto e lasciai che le dita mi scivolassero tra le ciocche. Durante il tempo che eravamo stati separati gli erano cresciuti anche lì. La mia testa d’ananas. Chiusi gli occhi e respirai a fondo il suo odore, imprimendomelo nelle narici. Talco. Profumava di talco. Quello d’ora in poi sarebbe stato il profumo della salvezza per me.
«Non dirmi che hai avuto paura di morire» mi sussurrò. Non potevo vederlo, ma sapevo che stava sorridendo arrogantemente.
«Stai zitto, idiota» gli risposi, ridendo. Forse c’era qualcosa a questo mondo che Marco non poteva capire. Ma non mi importava, perché lui era lì, stretto a me. E soprattutto era vivo, e finché c’era vita in uno di noi, c’era anche speranza.

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Capitolo 29
*** Dialoghi notturni ***


«Che ore sono?» chiesi sospirando, ormai rassegnata al fatto che non avrei dormito quella notte. Avrei dovuto essere stanca morta – anche letteralmente parlando – ma invece sembravo non accusare il colpo e non sentire addosso la stanchezza. Forse stare a contatto con il mio pennuto preferito mi dava nuove energie, anche se sospettavo che la mattina dopo sarei stata uno straccio, un morto che cammina con un pesante dopo sbronza.
«Ha importanza?» rispose a sua volta con una domanda il mio interlocutore, distogliendomi dalle mie riflessioni pessimistiche.
Supponevo che non ce l’avesse.
Ero riuscita a convincerlo a rimanere con me quella notte. Mi aveva confessato che Vista, il suo provvisorio compagno di tenda, russava rumorosamente e che era impossibile dormire in mezzo a quei garriti di elefante. Feci finta di credergli e, dato che ero io la responsabile di quel fatto – visto che stavo abusivamente occupando la sua tenda – mi offrii di ospitarlo; gli avevo anche ceduto il cuscino che tenevo sotto alla gamba, che in realtà era sempre stato suo. Ma nessuno dei due aveva sonno. Stavamo sdraiati, in silenzio, ad aspettare che il sonno arrivasse almeno per uno dei due.
Per un po’ avevamo ingannato il tempo chiacchierando del più e del meno, mi aveva raccontato che gli ex comandanti rimasti rendevano la permanenza su quell’isola estremamente difficile. Erano solo un paio di mesi che si trovavano lì e già qualcuno iniziava a mostrare segni di insofferenza verso gli altri compagni. In particolare mi aveva raccontato dei siparietti comici che avevano da offrire Fossa e Izo, che condividevano la tenda e che a causa della troppa diversità fra loro erano sempre in modalità litigio. Questo mi riportò alla mente le assurde litigate che facevano Sanji e Zoro, ma anche quei due matti di Shachi e Penguin, che ogni tanto sembravano una vecchia coppia sposata. Il che mi fece ripensare alla mia vita sul sottomarino, che, sorprendentemente, non mi mancava affatto. E sospettavo che mi sarebbe mancata ancora meno quando avrei dovuto ritornarci e fare i conti con Law.
«Come lo sapevi?» chiesi all’improvviso, guardandolo. «Come sapevi che mi sono unita a Law?»
Non avevamo ancora avuto occasione di parlarne, ma volevo e dovevo assolutamente saperlo.
Si girò a guardarmi. «Non c’è voluto molto a capirlo. Ho fatto semplicemente due più due» affermò calmo
«E da dove li hai presi i numeri?» domandai, perplessa
«Nel momento in cui ho ricevuto la collana, ho capito che in qualche modo e per qualche strano motivo eri finita qui» disse, serio «Sapevo che eri stata tu a mandarmela» fece poi, girandosi verso di me e sorridendomi. Era superfluo dirlo ma fui lo stesso contenta di sentirlo dichiarare quelle parole con le mie orecchie. Mi chiesi se sapeva che fossi io la mittente per le parole che avevo usato nel biglietto o perché ai suoi occhi io ero l’unica che potesse ricordarsi del suo compleanno.
«E sapevo anche che ovunque fossi finita, non avresti mai potuto fermarti semplicemente su un’isola e vivere una vita ordinaria e tranquilla» le sue parole mi distolsero dalle mie riflessioni tristi e mi fecero sorridere. Come mi conosceva lui, nessun altro. Forse nemmeno il mio capitano. O mia madre.
Annuii a confermare le sue supposizioni.
«E dal momento che non riesci a stare lontana dai guai, ero piuttosto sicuro che ti fossi andata ad invischiare nella pericolosa alleanza stipulata tra i due novellini, che a quanto ho sentito ora si sono messi contro l’uomo più forte che ci sia in terra, in cielo e in mare» mi spiegò
«La bestia...» sussurrai io, assorta nei miei pensieri. Non avevo mai visto Kaido. Bepo mi aveva mostrato un paio di sue fotografie stampate su dei vecchi giornali, ma niente più di quello. Sapevo che era statuario, che aveva due lunghe corna in testa – non avevo la più pallida idea di quale animale potessero essere – e che aveva serie tendenze suicide, ma non moriva mai. Il pensiero che di lì a breve avremmo dovuto scontrarci con lui mi metteva non poca ansia. Per la maggior parte del tempo cercavo di non pensarci, cercavo di pensare alle cose positive e spesso neanche avevo il tempo di fermarmi a riflettere – fortunatamente – per via di tutto il lavoro che c’era da fare sul sottomarino. Però quella era una situazione che andava affrontata, prima o poi. Erano passati quasi due anni e le acque si erano mantenute calme, fin troppo calme per i miei gusti. Nessuno aveva fatto niente, nessuno aveva realmente agito per realizzare qualcosa. Nemmeno Kaido stesso, nonostante fosse accecato dalla rabbia. Non aveva mosso un dito contro la nostra alleanza. Mi chiedevo se dietro non ci fosse qualcosa di molto, molto peggio di quello che mi aspettavo. La sola idea mi faceva rabbrividire.
«Ed ecco come facevo a saperlo» annunciò Marco, riportandomi alla realtà.
«Cosa?» feci io girando la testa verso di lui, confusa. Non avevo sentito una sola parola di quello che aveva detto.
Sbuffò una risata, consapevole che non lo avevo ascoltato.
«Ti stupirà, ma noi comandanti siamo molto informati su chiunque metta piede su quest’isola» rispose, senza guardarmi ma scandendo bene le parole e assicurandosi che stavolta lo stessi a sentire «nel momento in cui abbiamo appreso dell’arrivo di Law e dei suoi sottoposti, ci siamo mobilitati»
«Mobilitati?» lo guardai interrogativa
«Eravamo a conoscenza della sua presenza e di quella di parte del suo equipaggio nel momento in cui hanno messo piede su quest’isola» spiegò «così vi abbiamo tenuto d’occhio. Non potevamo lasciare che un ex membro della Flotta dei Sette facesse i propri comodi indisturbato nel nostro territorio senza tenerlo d’occhio»
«Capisco» dissi, con l’aria di chi la sapeva lunga. In realtà non avevo del tutto compreso perché quelli che una volta erano stati dei comandanti di un Imperatore avessero paura del mio capitano. Erano davvero così distrutti come temevo? Forse lo erano anche più di quanto pensassi. E non mi piaceva affatto che Marco avesse definito quell'isola dimenticata da Dio come "il suo territorio".
«Dovevo vedere con i miei occhi se facevi parte del suo equipaggio. E sono stato molto stupito di vedere che i miei sospetti si sono confermati reali» disse sorridendo arrogantemente «non pensavo che il chirurgo ti avrebbe mai accettato nella sua ciurma. O che tu volessi farne parte. Soprattutto visti i precedenti» incastonò i suoi occhi, in quel momento allegri, ai miei e nel momento in cui lo fece mi tornò in mente tutto quello che avevamo vissuto nel mio mondo. A quella volta che Law aveva tentato di strangolarmi, a quella volta che si era presentato a casa mia all’improvviso e mi aveva puntato una torcia negli occhi per svegliarmi, a quando aveva scambiato la mia personalità con quelle di Rufy e Sanji, a quando mi aveva quasi fatto saltare il pranzo per farmi fare delle ricerche al computer e ai mille altri ricordi che avevamo. Non potei fare a meno di sorridere nostalgicamente.
«Diciamo che potrei, in maniera molto velata, averlo ricattato per...» cercai di spiegare il resto della frase a gesti. Marco rise scuotendo la testa ed io mi accodai a lui.
«Comunque, mi hai trovata ora. È tutto vero, mi sono unita a quel matto del chirurgo. Un giorno, con più calma e magari davanti a un boccale di birra, ti racconterò tutto quello che mi è capitato su quel maledetto sottomarino» dissi.
Lui annuì. Anche se un boccale di birra non sarebbe bastato per raccontare tutte le peripezie a cui ero andata incontro. Se avessi dovuto narrargli per filo e per segno tutto quello che avevo passato, saremmo andati avanti a bere per almeno due giorni interi. Non che il pensiero mi dispiacesse, ma ero sicura che il pennuto non avrebbe retto per così tanto. Comunque, a quel tempo non potevo saperlo, ma quei due anni che avevo passato in quell’universo non erano stati niente in confronto alle cose che sarebbero venute dopo.
«Ovviamente voglio sapere per filo e per segno anche quello che hai combinato tu in tutto questo tempo che non ci siamo visti. E voglio sapere anche cosa è successo prima del nostro incontro, dopo Marineford» ribadii.
Marco fece un flebile cenno della testa. Sospettavo che non avesse tanta voglia di parlarmi di quanto accaduto. Per un po’ nessuno disse niente, ci limitammo a rimanere sdraiati in silenzio e ad osservare il meraviglioso bagliore della luna che illuminava l'interno della tenda. Poi, la Fenice fece leva sulle braccia e si tirò su, appoggiando la schiena alla testiera del letto.
«Non è stato facile trovarti» iniziò, serio «sei cambiata» mi disse poi, spostando lo sguardo su di me. Mi tirai su anche io, mettendomi nella sua stessa posizione e mi voltai a guardarlo.
Corrugai le sopracciglia. «Non è vero. Sono la stessa» gli risposi, senza realmente capire quello che voleva dirmi.
«Nel senso che i tuoi tratti sono cambiati. Ora sembri una donna di queste parti»
«Oh, in quel senso. Sì, beh, è stato un regalo di benvenuto. Credo» risposi, indicandomi prima la testa e poi il resto del corpo. Dovevo ammettere che era una figura degna del più bravo chirurgo plastico. Mi piacevo in queste vesti, sebbene non fossero il massimo quando si trattava di combattere, dal momento che dovevo portarmi appresso dei “pesi extra”. «Ma anche se sono diversa, sono comunque bellissima, giusto?» lo fissai assottigliando gli occhi per fargli capire che c’era una sola risposta corretta.
Alzò gli occhi al cielo sbuffando una risata ed io gli diedi una leggera pacca sulla spalla, fingendomi offesa.
«Devo ammettere che ci ho messo un po’ a riconoscerti, ma la collana ti ha tradito» commentò indicando il ciondolo con la scritta “Ace”. Potevo essere cambiata, ma la collana, quella era rimasta sempre la stessa. La presi tra le dita e lasciai che il pollice scorresse lentamente sulle lettere del pendente.
«Vuoi dire che mi ha salvato» lo corressi io.
«Suppongo che si possa vedere anche da questo punto di vista» affermò lui, serafico.
«Non lo avresti fatto per chiunque, eh?» lo canzonai io, ghignando. Non mi rispose e distolse lo sguardo. Rimanemmo in silenzio per un altro po’.
«Non è ironico, Marco?» gli domandai dopo qualche minuto, incapace di sopportare quel silenzio. «Stavo per lasciarci le penne e proprio un pennuto è venuto a salvarmi» commentai ridendo.
«Se questo è il tuo ringraziamento allora la prossima volta ti lascerò morire» mi rispose, sogghignando arrogantemente.
«Mi auguro che non ci sarà una prossima volta» feci io, seria.
«Ci sarà invece, solo che non sarò io a salvarti» lo disse con una tranquillità quasi surreale. Sentendo le sue parole sentii lo stomaco restringersi. Presi un respiro profondo e buttai fuori con foga – senza però farmi sentire dal mio interlocutore – tutta l’aria che avevo in corpo. Quindi anche lui la pensava come Law. Anche lui pensava che io non fossi in grado di farcela. Che io non fossi abbastanza forte per sopravvivere da sola in quel mondo. Ottimo.
«E così alla fine l’hai fatto» affermò criptico fissando un punto imprecisato davanti a sé, senza farmi del tutto capire di cosa parlasse.
Corrugai le sopracciglia. Dove voleva andare a parare?
«Hai trovato il coraggio di inseguire il tuo sogno e di vivere l’avventura che hai sempre desiderato vivere» continuò dopo un po’, grave ma assente. Era quasi come se non fosse lui a parlare, quasi come se non fosse davvero lì ma con la mente si trovasse altrove.
Sorrisi, con un po’ di amaro in bocca. Forse avevo capito che cosa voleva dirmi.
«È ammirevole, non c’è che dire. Tuttavia sono rimasto sorpreso dalla decisione che hai preso»
«Perché?» domandai titubante. Non ero sicura di voler venire a conoscenza della risposta che mi avrebbe dato. Aspettò un po’ prima di pronunciarsi.
«Tu sei e sei sempre stata un piccolo pulcino indifeso. Potrai essere diventata più forte e avere tutta la determinazione e il coraggio di questo mondo, ma qui nel Nuovo Mondo ancora non sei altro che un misero pedone come tanti altri in una scacchiera composta da Re e Regine potentissimi. Basta molto poco perché tu venga schiacciata sotto il peso di una di queste forze imponenti e importanti. Il tuo capitano ha scelto la strada più pericolosa per sopravvivere, ovvero quella di mettersi contro gli Imperatori anziché cercarne la protezione. Ti sei infilata in una cosa più grande di te, e lo sai anche tu».
Le sue parole mi fecero molto male. Si conficcarono nella mia carne come se fossero coltelli affilati e la penetrarono fino ad arrivare alle ossa. E al cuore. In confronto, la ferita che avevo alla gamba non era niente. Mi fecero male perché sapevo che erano vere, ma anche e soprattutto perché provenivano da lui. Proprio da lui, la persona da cui non mi sarei mai e poi mai aspettata una cosa del genere. Per un attimo potei sentire il mio mondo che crollava. Probabilmente era un mondo che avevo costruito su menzogne, bugie ed illusioni, ma tutte le certezze che avevo, tutta la fiducia in me stessa che ero riuscita a guadagnare con tanta fatica fino a quel momento, erano andate in pezzi. Fu come ricevere uno schiaffo in piena faccia, fu come se mi avesse gettato un secchio d’acqua gelido addosso per svegliarmi dal sogno che stavo vivendo. Ma quello che mi faceva più male, era che se la pensava davvero così, questo voleva dire che non credeva in me e che probabilmente non aveva mai avuto fiducia in me. E questo bastava a destabilizzarmi. Non ero morta, ma di certo ne ero uscita un po’ più distrutta di quanto avessi programmato.
Distolsi lo sguardo dai suoi occhi, freddi e seri. Mi si era formato un nodo in gola e stavo facendo di tutto pur di non piangere. Non era facile, però. Mi umettai le labbra con la lingua prima di ritirarle in dentro e cercare di ricacciare indietro tutte le lacrime che stavano spingendo con forza per uscire. Per fortuna era buio e Marco non poteva distinguere bene la mia espressione. Afferrai il lenzuolo sotto di me e lo strinsi con forza, fino a farmi tremare le dita. Non potevo guardarlo. Non potevo e basta. Ero troppo sopraffatta dalla rabbia, dalla tristezza, dalla delusione, da tutto. Mi passai una mano tra i capelli. In quel momento desideravo solo che la Fenice se ne andasse. Non volevo parlargli e non volevo vedere la sua brutta faccia. Mi ero offesa, forse senza motivo, ma non potevo farci niente. In fondo questa ero ed ero sempre stata io, proprio come aveva detto lui. La storia si stava ripetendo. Era proprio come quello che mi aveva detto Law in quel vicolo dell’isola Shogyoshima. Solo che stavolta faceva ancora più male, perché quelle stesse parole provenivano da Marco. E perché per arrivare dove ero avevo davvero lavorato sodo. Mi ero allenata tutti i giorni con Bepo, avevo studiato quasi a memoria libri interi di medicina e avevo sgobbato tanto anche nelle altre cose. Mi ero ritrovata lì per caso, non per scelta e stavo facendo tutto il possibile per sopravvivere, per non crollare sotto il peso dei giorni passati lontano dai miei cari, per inseguire un sogno che dopo le sue parole sembrava lontano anni luce. Era terribile, davvero terribile. E a quanto pareva mi ero sbagliata, non lo conoscevo affatto. Non solo Marco non aveva capito, ma non aveva avuto neanche la decenza di stare zitto e di non immischiarsi in affari che non lo riguardavano. Che cosa lo aveva fatto diventare così? E perché dovevo essere io a farne le spese?
«Non dici niente?» chiese, piegando la testa da un lato.
«E cosa dovrei dirti esattamente? Sapere che non hai un briciolo di fiducia in me non mi è proprio di conforto» sputai, furiosa. Lo fissai, gli occhi fermi e pieni di rabbia.
«Non è così, non è affatto così» si giustificò lui.
«E allora com’è? Spiegami, coraggio. Perché evidentemente io non ho capito.» il mio tono di voce si era alzato pericolosamente, ero vicina al gridare. Non volevo parlarne. Mi sarei alzata e me ne sarei andata via più velocemente della luce, se solo avessi potuto.
«Sai anche tu che le mie parole sono vere» iniziò, facendomi infuriare ancora di più «è mio dovere dirtelo. Sei qui e ne sono felice, ma come tuo amico devo salvaguardarti in qualche modo» disse poi.
Sbuffai una risata. Non riuscivo nemmeno ad essere contenta del fatto che mi considerasse una sua amica. «Questa conversazione è assurda» affermai, cercando di troncare quella discussione sul nascere. Anche se aveva già fatto più danni di quanti ne potessi contare. Se quello era il suo modo di cercare di aiutarmi, non era molto efficace.
«Devo metterti in guardia sui pericoli che si celano in ogni angolo del Nuovo Mondo. Non sei al sicuro qui. E a quanto ho visto, pare che nemmeno il tuo capitano ti abbia avvisato in maniera appropriata».
Sbuffai un’altra risata. Stava mettendo in discussione anche l’affidabilità di Law, ora? Se c’era una cosa certa, era che il chirurgo mi aveva messo meticolosamente al corrente dei rischi che avrei potuto correre. E contrariamente a quanto quel pennuto idiota pensava, ne ero ben consapevole. Ma non ne avrei discusso con lui, e soprattutto non in quel momento.
«Sì, beh, per fortuna il mondo è rotondo» commentai, con il tono più sarcastico che riuscii a fare ed alzando un sopracciglio.
Marco sospirò, prima di staccare la schiena dalla testiera del letto, girarsi e sedersi a gambe incrociate verso di me.
«Puoi scherzare quanto vuoi, puoi arrabbiarti, insultarmi e gridarmi contro, ma sai che ho ragione, Cami» lo disse in modo pacato, quasi dolce stavolta.
Scossi la testa ed alzai gli occhi al cielo. Avrei potuto imprecargli contro, dargli un pugno o cercare di controbattere, ma non potevo. Perché – capitano negligente a parte – aveva ragione. E in circostanze totalmente diverse sarei stata contenta che si fosse preoccupato per me. Cercai di calmarmi e, scivolando più giù con il corpo, mi rimisi supina.
«Non ti sei nemmeno resa conto che ti stavo seguendo da un po’, prima di cadere dalla scogliera» dichiarò dopo qualche minuto di calma.
Iniziai ad innervosirmi, di nuovo. Mi ritirai su in fretta e mi riportai nella posizione in cui ero prima. La pace era durata ben poco. La testa d’ananas era appena diventata testa di cazzo, per quanto mi riguardava.
«Beh, sai com’è, stavo cercando di rimanere viva. Non ero esattamente in perfetta forma» lo informai, velenosa.
Convinsi me stessa che in condizioni normali mi sarei accorta che ci fosse qualcuno che mi seguiva. Sarebbe stato sicuramente così. Non poteva essere altrimenti, me ne sarei decisamente accorta.
«E poi, se mi stavi seguendo da un po’, perché cazzo non mi hai aiutato con quei cacciatori di taglie!?» gli urlai dopo qualche secondo.
«Perché erano già spariti quando ti ho trovata» rispose, con il tono più calmo che gli avessi mai sentito, come se fosse una cosa da nulla.
Allargai le braccia, in segno di resa. «E questo non è sufficiente a farti avere almeno un briciolo di fiducia in me?»
«Quelli erano solo pesci piccoli, pesci piccolissimi, Camilla. E il fatto che avessi bisogno dell’aiuto di qualcuno per sconfiggerli parla da sé» affermò, sempre tranquillo. Riuscivo, però, a percepire un’iniziale leggera alterazione nel suo tono di voce. Non capivo perché si scaldasse tanto, perché si prodigasse per la mia causa. Tra i due, per come la vedevo io, era lui quello messo peggio.
«Perché non li avete eliminati quando sono arrivati qui?» chiesi, più pacatamente.
«Perché non ce n’era bisogno. Non erano una minaccia e non si erano nemmeno accorti della nostra presenza» rispose, imperturbabile. Entrambi sembravamo essere ritornati in noi. Altri minuti di silenzio riempirono l’aria. Tutti e due fissavamo dritto davanti a noi. Buttai fuori l’aria dal naso e tornai ad appoggiare la schiena alla testiera del letto.
«Io lo dico per te» annunciò a un certo punto. Mi girai a guardarlo, tagliente. Ne ero ben consapevole, ma mi aveva lo stesso ferita in qualche modo. In quel momento della mia vita non avevo bisogno di persone che non credevano in me. Avevo bisogno di positività e fiducia.
«Non voglio buttarti giù. Sei un pirata adesso e sei libera di non ascoltarmi. D’altronde è questo il bello dell’essere pirati, giusto? Poter fare quello che si vuole» pronunciò quelle parole con un po’ di amarezza. Come se gli mancasse la vita da pirata, come se avesse nostalgia di quello che aveva e che era prima.
«Ma in qualità di tuo amico e salvatore onorario, è mio dovere avvisarti» disse poi, con un gran sorriso stampato sulle labbra.
«Non arrabbiarti» ribadì, in modo dolce e sempre sorridente, mentre portava una mano sulla mia testa ad arruffarmi i capelli. Alzai un sopracciglio e me la scrollai subito di dosso.
«Non trattarmi come se fossi una bambina» gli imposi, dura.
«Ti tratto come se fossi un pulcino» scherzò lui. E per quanto cercassi di trattenermi, non potevo negare che mi fosse scappato un sorriso.
«Diventerò più forte, vedrai. Diventerò una temuta Regina» proclamai poco dopo, seria, fissando le sue iridi, che con il buio apparivano nere.
Marco ghignò, vidi i suoi occhi brillare e illuminarsi nell’oscurità. «Lo vedremo» rispose, facendomi sbuffare.
«Per il momento, però, facciamo pace» me lo chiese sfoggiando uno dei sorrisi più innocenti che riuscì a fare.
«Chiudi il becco.» gli intimai, girandomi dal lato opposto del letto, per quanto la mia gamba e gli aghi che avevo nel braccio mi concedessero «se questa tenda non fosse tua ti avrei già mandato a dormire con il Rubeus Candidum».
Lo sentii sbuffare una risata. Supponevo che per quella notte avessimo chiacchierato abbastanza.

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Capitolo 30
*** Scuse ***


Mi svegliai. Il bagliore della luce mattutina mi investì in pieno. Non sapevo per quanto avevo dormito, ma a giudicare dalla posizione del sole in cielo doveva essere all’incirca mezzogiorno. Mi ero addormentata tardi, molto tardi – o molto presto, dipendeva dai punti di vista – e di conseguenza mi ero svegliata a giorno inoltrato, sebbene non avessi dormito molto. Non mi sentivo neanche tanto riposata. Accanto a me, il letto era vuoto. Io e Marco ci eravamo addormentati quasi all’alba e supponevo che si fosse alzato presto e se ne fosse andato. Da un lato mi dispiaceva, ma dall’altro ero contenta così, perché non avrei potuto affrontare un’altra conversazione come quella che avevamo avuto la sera precedente e soprattutto non alla luce del sole. Non sarebbe stato affatto facile guardarlo negli occhi.
Girai la testa verso sinistra. Accanto a me notai una bacinella chirurgica con dentro anestetico, disinfettante, guanti in lattice e tutto l’occorrente per poter applicare i punti di sutura. Sospirai. Sapevo bene chi li aveva lasciati lì, come sapevo che quella stessa persona in quel momento non voleva avere nulla a che fare con me. Cominciavo a pensare che la situazione fosse più critica di quanto mi fossi immaginata. Affondai la testa nel cuscino e chiusi gli occhi. Rimasi in quella posizione per qualche minuto, poi mi decisi a ridestarmi. Avrei dovuto cavarmela da sola. Afferrai la bacinella, mi infilai i guanti ed iniziai ad applicare il disinfettante sulla ferita, pulendola a fondo e con cura. Il difficile – per non dire impossibile – arrivò quando venne il momento di anestetizzare la gamba. Detestavo gli aghi dal profondo del mio cuore e l'infinito disprezzo che nutrivo verso di essi non aiutava, soprattutto se si trattava di infilzarne uno di mia spontanea volontà in una ferita aperta. Sospirai un paio di volte, guardando afflitta la mia coscia. Rimasi a fissare quello scempio, con la siringa in mano, per cinque minuti buoni. Sbuffai, consapevole che avrei comunque dovuto farlo prima o poi. Proprio mentre con l’altra mano mi accingevo a separare i due lembi della lacerazione, così da riuscire a vedere meglio, percepii una presenza accanto a me che mi costrinse a voltarmi e ad interrompere – non che mi dispiacesse – quello che stavo facendo.
«Ti serve una mano?» chiese la figura, quasi divertita. Lo fissai con espressione truce. Non c’era niente di divertente in quella situazione.
«A dire la verità, sì» risposi io, piuttosto scocciata. Gli feci cenno di avvicinarsi e quando ebbe posato sul lenzuolo il cesto di frutta fresca che aveva portato, gli spalmai il disinfettante sulle mani, fino ad arrivare a metà avambraccio. Non lo avrei mai ammesso ad anima viva, ma venire a stretto contatto con i suoi muscoli vigorosi mi aveva dato un brivido di piacere. Mi sarei volentieri offerta per fargli un massaggio, se mai ne avesse avuto bisogno. Dopodiché gli passai la siringa. Mi vergognavo non poco a chiederglielo, ma non vedevo altra soluzione plausibile. Se per farlo avessi aspettato me stessa, sarei morta di vecchiaia.
«Potresti anestetizzarmi tu la ferita, per favore?» gli chiesi, stavolta con più dolcezza. Per tutto il tempo il suo sguardo era stato a metà tra il perplesso e il divertito. Come risposta, sbuffò una risata. Alzai gli occhi al cielo. Come se non fosse bastata la batosta che mi aveva dato la sera prima, ora gli domandavo anche questo.
«Che devo fare esattamente?» domandò a sua volta Marco. Gli spiegai la procedura e quando fui sicura che ebbe capito – non che ci volle molto – dilatai ancora una volta i lembi della ferita per lui e lasciai che mi anestetizzasse la zona. Guardarlo mentre lo faceva fu una tortura. Non soltanto perché avevo un ago conficcato nella carne, ma anche perché così facendo avevo di nuovo dato prova della mia inadeguatezza.
Quando ebbe finito lo ringraziai e gli permisi di osservarmi mentre suturavo. Li contai. Mi ci vollero ventiquattro punti di sutura per riparare il taglio. Non era molto esteso, ma era piuttosto profondo. Non fu facile, ma mi feci coraggio e cercai di fare più in fretta possibile.
«Quindi sei un’aspirante medico che ha paura degli aghi» commentò il biondo una volta che ebbi finito.
«Vai a quel paese» gli risposi senza nemmeno guardarlo, intenta a fasciare la ferita.
«Non so se te ne sei accorta, ma già ci sono» disse lui, sorridendo. Risi e scossi la testa. Non aveva tutti i torti. Questo era il suo potere. Un potere molto pericoloso. Poteva farmi saltare i nervi cento volte, e cento volte lo avrei comunque perdonato e ci avrei riso su, perché lui era in grado di strapparmi un sorriso anche nelle situazioni più brutte.
«Comunque, vedo che il chirurgo ti ha insegnato bene» confessò dopo un po’ «hai fatto un lavoro impeccabile».
Sorrisi quasi inconsapevolmente ed annuii. Almeno qualcosa di giusto riuscivo a farlo, a quanto pareva.
Quando ebbi terminato tutta la procedura, rimisi la bacinella con dentro il kit da sutura dove l'avevo trovata e mi sciacquai le mani nell’altra bacinella, quella con l’acqua. Marco aveva preso una mela dal cesto ed ora la stava sgranocchiando.
«Mi hai portato la colazione?» domandai allungando una mano a prendere un mandarino.
«Vista l’ora, più che colazione direi pranzo» mi rispose, assumendo la sua tipica espressione piena d’arroganza.
Anche qui non aveva tutti i torti. Iniziai a sbucciare il frutto che avevo recuperato dalla cesta con le unghie.
«Se vuoi posso preparati una spremuta d’arancia» scherzò lui. Allora si ricordava. Questo bastò a farmi scappare un sorriso. Sorriso che durò poco, visto il soggetto della sua proposta.
«No. La spremuta no.» feci io, in preda al disgusto.
Ora che era pieno giorno e che quindi c’era molta più luce ed io ero più lucida, però, vidi qualcosa che mi fece passare l’appetito all’istante. Posai il mandarino e spalancai gli occhi. Poi fissai Marco, incredula.
Sul lenzuolo bianco, quasi immacolato, c’erano chiazze di sangue rosso scuro. Non erano grandi,  né molto estese e a giudicare dal colore non dovevano essere fresche, eppure la sfumatura che avevano sembrava essere viva. Mi portai una mano alla bocca.
«Io...io ho...fatto questo?» chiesi con voce tremante al mio interlocutore. Il suo sguardo non cambiò, rimase limpido e non vacillò nemmeno per un istante.
«Oddio, non sai quanto mi dispiace! Ti cambierò le lenzuola e se non ne hai di ricambio te le comprerò da qualche parte e ti rifarò il letto. Ti comprerò anche un materasso nuovo!» sputai fuori tutto d’un fiato. Poi mi presi la testa tra le mani.
«Non sai davvero quanto mi dispia...»
«Non ce n’è bisogno» la voce divertita della fenice mi interruppe.
Lo guardai interrogativa.
«Non è il tuo» disse, calmo e tranquillo.
Aggrottai la fronte. Non capivo. «Come?» domandai, ancora stordita.
«Il sangue» rispose «non è il tuo».
Spalancai ancora di più gli occhi. Non era il mio? E allora di chi era?
«M-ma...ma tu stai bene? Voglio dire, sei ferito?» cercai di informarmi. Ogni muscolo del mio corpo era teso, le sopracciglia sollevate, l’espressione angosciata.
Ero attonita. Non sapevo che dire o come comportarmi. Ero molto confusa ma anche preoccupata, quelle macchie di sangue avevano fatto franare il mio cervello e lo avevano ridotto ad una misera poltiglia. Avrei voluto chiedergli tante cose, come ad esempio chi gli aveva causato quelle ferite o quanto tempo fa era successo, ma rimasi zitta e mi limitai – da bravo medico – a chiedere se stesse bene.
Marco, in tutta risposta, rimase fermo in piedi, incrociò le braccia e sorrise, con un’impercettibile punta di amarezza.
 
Presi un profondo respiro prima di sfilare il catetere intravenoso dal braccio. Ormai stavo bene e non ne avevo più bisogno. Era una tortura anche quella ma se non l’avessi fatto io nessuno l’avrebbe fatto. Non vedevo Law dalla mattina prima e Marco se ne era andato da un pezzo. Ovviamente non gli avevo permesso di lasciare la tenda senza che prima mi avesse dato spiegazioni esaustive sulle macchie di sangue che c’erano sul suo lenzuolo e, dal momento che erano due giorni che non ne avevo più notizia, sull’ubicazione dei miei pantaloni. Dei pantaloni, come della cintura, non c’era traccia in giro, ma almeno ero riuscita ad ottenere delle delucidazioni su quello che aveva fatto nel periodo in cui eravamo stati separati. Erano stati mesi molto duri per gli ex comandanti della ciurma di Barbabianca. L’unica cosa positiva era che né loro, né io ci eravamo beccati il virus del Rubeus Candidum. Nel loro caso era quasi impossibile, visto che nel momento in cui avevano messo piede su Lyborn l’insetto non aveva ancora fatto la sua comparsa. Nel mio caso, invece, era stata tutta fortuna mista all’abilità medica del mio capitano.
Sospirai, in preda alla noia. Non c’era nulla da fare. Non avevo nemmeno il telefono con me e non potevo cimentarmi in uno dei giochi che avevo scaricato. Ormai era quasi il tramonto ed io, contrariamente a quanto mi aspettassi, non avevo sonno. Non avevo neanche fame, stavo bene. Fisicamente mi sentivo quasi in perfetta forma. Era dentro, il problema.
Non appena abbandonai all’indietro la testa, appoggiandola sulla testiera del letto e rassegnandomi all’idea che la mia unica compagnia da lì in poi sarebbe stata la noia, sentii dei rumori di passi che mi fecero raddrizzare e mettere in allerta.
Feci una faccia estremamente infastidita quando vidi il gruppetto di persone che stava entrando nella tenda.
«Ma guarda, chi non muore si rivede» commentai molto sarcasticamente, con un sorriso sprezzante stampato sulle labbra. Non tentai nemmeno di nascondere il momentaneo disprezzo che provavo verso quei sei. Si allinearono ai piedi del letto davanti a me, ciascuno con una faccia funerea.
«Cami-san» cominciò uno di loro, visibilmente in imbarazzo, guardando un punto imprecisato innanzi a lui «ti abbiamo portato questa» continuò poi, allungando il braccio davanti a sé e porgendomi quella che riconobbi essere la mia cintura. Piegai la testa di lato e sorrisi nostalgicamente. Mi era mancata, ormai faceva parte di me.
Tuttavia mi ricomposi subito ed alzai un sopracciglio.
«Grazie» dissi al mio interlocutore, in maniera fredda. Poi protesi la mano verso di lui ed aspettai che me la passasse. Non si mosse.
«Ah, già...» mi ricordai. Non potevano né vedermi, né sentirmi senza che indossassi quel pezzo metallico. Distesi la schiena e mi allungai per recuperarla. Nel momento in cui la toccai, tutti i dottori presenti ebbero un piccolo sussulto. Quindi fino a quel momento non avevano potuto vedere la mia espressione corrucciata. Era quasi ironico. Per una volta che volevo che qualcuno mi vedesse arrabbiata, nessuno poteva vedermi.
Finii di legarmela alla vita e li salutai con la mano, sperando che se ne andassero. Non avevo la minima voglia di stare a discutere con loro.
«Il capitano ha pensato che saresti stata più al sicuro se nessuno ti avesse potuto vedere» mi comunicò quello che mi aveva passato la cintura, visibilmente in imbarazzo.
«Siamo venuti a vedere come stai» fece un altro, a testa bassa e torturandosi le dita.
«Ti abbiamo portato anche un po’ di acqua» mi fece sapere un terzo, con in mano un bicchiere «in caso avessi sete. Dove te lo posso lasciare?»
Gli indicai un punto imprecisato per terra, accanto a me e quello lo posò con estrema delicatezza.
«E i tuoi pantaloni» aggiunse poi un altro dei medici, che dal nervosismo si stava rigirando tra le dita l’orlo del suo camice bianco. Per l’occasione avevano sostituito le normali divise che portavano i Pirati Heart con dei veri e propri camici da dottore. Anche a me sarebbe piaciuto indossarne uno, per una volta.
«Li abbiamo lavati perché erano...» si fermò qualche secondo a riflettere sulle parole giuste da usare «sporchi di sangue» disse infine, quasi mortificato.
Annuii in segno di ringraziamento e lasciai che l’uomo che li teneva li appoggiasse ai piedi del letto. Non sapevo come comportarmi con loro. Mi avevano praticamente sempre trattato come spazzatura ed ora sembravano docili agnellini al mio cospetto, erano addirittura gentili. Se non altro, avevo risolto il mistero della cintura e dei pantaloni – anche se all’appello mancava ancora la mia Mr. Smee – e avevo anche scoperto che in fondo, molto in fondo, Law ci teneva a me. La sua idea di rendermi invisibile togliendomi la cintura mi aveva protetta ed ero salva solo ed esclusivamente grazie a lui. Questo mi faceva sentire una persona orribile, a dire la verità. Avevo deluso le sue aspettative e non c’era nulla che potessi fare, almeno non in quel momento, per fargli cambiare idea su di me.
«Allora, come ti senti?» la voce di uno di loro mi distolse dai miei pensieri.
«Non c’è male, grazie» risposi in tono distaccato.
«Siamo venuti a scusarci» annunciò tutto d’un fiato quello che riconobbi essere il capo della spedizione avvenuta il giorno prima. Corrugai le sopracciglia. Erano venuti a scusarsi? Quindi ora si volevano pure scusare? E per quale motivo, poi?
«Avremmo dovuto accorgerci che c’era qualcosa che non andava, invece ci siamo comportati male con te. Ti abbiamo trattata in maniera orribile e tutto perché siamo stati troppo stupidi e orgogliosi per ammettere che sei un bravo medico» continuò lui
«Vedi, noi...eravamo prevenuti verso di te. Ed inoltre non capivamo perché il capitano si prodigasse tanto per la tua causa».
Per “la mia causa”? Che diavolo voleva dire? Ero diventata – o lo ero sempre stata – un caso umano per tutta la ciurma? Dovevo ammettere che peggio di così non poteva andare. Prima Law, poi Marco ed ora questo.
«Ci siamo comportati come dei bambini. Ci dispiace di essere stati gelosi di te» disse un altro, ma io non stavo più ascoltando. Non ne potevo più di sentire cose che non avrei dovuto e non avrei mai voluto sentire. Mi passai una mano tra i capelli, più per nervosismo e disperazione che per sistemarmeli.
«Il capitano ha ragione. Siamo dei medici mediocri» affermò uno dei dottori dopo qualche secondo di silenzio.
Quindi il chirurgo se l’era presa anche con loro e li aveva sgridati. In fondo non mi dispiaceva condividere con loro l’essere bersagli delle ire di Trafalgar Law. E il fatto che se la fosse presa anche con gli altri dottori implicava, almeno in piccola parte, che ci teneva a me. Anche se lo conoscevo bene e sapevo che quello che interessava a lui non era tanto il paziente, ma l’errore che avevano commesso i medici.
Sospirai. Non li volevo intorno in quel momento e mi serviva un espediente per mandarli via.
«Non è vero. Siete i medici più bravi che io abbia mai conosciuto. A parte il capitano, si intende» annunciai sorridendo, con il tono più mellifluo che riuscissi a fare. Evitai di nominar loro Chopper per non peggiorare ulteriormente la situazione, ma io sapevo bene che lui era uno dei dottori più bravi che ci fossero in circolazione. Ad ogni modo, non volevo le loro scuse, desideravo solo che se ne andassero al più presto.
«E poi, sono stata io quella troppo stupida ed orgogliosa, avrei potuto dirvi che ero stata ferita, ma non l’ho fatto» aggiunsi, questa volta sincera.
«Perché noi non te ne abbiamo dato modo. Ci dispiace molto» si affrettò a rispondere uno di loro
«Va tutto bene ragazzi. Sto bene, sono viva e non sono neanche in pericolo di vita. Sto bene, davvero. Ho solo bisogno di riposare ora» li tranquillizzai, e sperai che capissero la situazione.
«Ne siamo felici! Ora ce ne andiamo e ti lasciamo riposare. Se ti serve qualcosa, qualsiasi cosa, faccelo sapere» mi rispose il capo della combriccola. Poi tutti insieme fecero un piccolo inchino con la testa per congedarsi e finalmente uscirono.
Sbuffai. Se fossero esistiti degli antidolorifici per l’anima ne avrei presi in quantità industriale. Perché in quel momento era proprio l’anima quella messa peggio. Mi sentivo come se una mandria di bufali mi fosse passata sopra a tutta velocità, e non era per il dolore alla gamba. In quei due giorni tutto il mio mondo era stato stravolto e messo sottosopra. Mi appoggiai con la schiena alla testiera del letto, gettai all’indietro la testa e sbuffai di nuovo, in preda alla frustrazione. Poi iniziai a scuotere la testa, mordendomi contemporaneamente il labbro inferiore. Mi ci sarebbero voluti più di un paio di giorni per guarire da tutto quel casino. Chi l'avrebbe mai detto che un "piccolo" taglio ad una gamba avrebbe potuto causarmi così tanti guai.

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Capitolo 31
*** Svago ***


«Sono venuti a farti un check up completo?» chiese Marco, che nel frattempo era entrato nella tenda, indicando un punto imprecisato alle sue spalle e costringendomi a ritirare su la testa. In tutta onestà non avevo voglia di vedere nemmeno lui in quel momento, ma forse un po’ di compagnia mi avrebbe fatto bene e mi avrebbe aiutato a non rimuginare troppo su tutte le cose spiacevoli successe negli ultimi giorni. Purché non avesse infierito come aveva fatto la sera prima. Per ore ed ore ero stata da sola ad annoiarmi ed ora che non volevo vedere nessuno ecco che venivano a trovarmi tutti. Davvero curiosa la vita.
«Sono venuti a scusarsi» risposi, stringendomi nelle spalle.
«Per cosa?» domandò, incuriosito.
«Dunque, vediamo...per avermi trattata come un rifiuto umano e avermi ignorata a tal punto da non essersi accorti che ero ferita e che sarei potuta morire» spiegai, in tono sarcastico.
«Ora capisco perché se ne sono andati con la coda tra le gambe» commentò il biondo, sorridendo arrogantemente.
«Ti sbagli. Io non ho fatto niente. Se se ne vanno in giro con l’aria da cani bastonati è perché si sentono in colpa, di certo non perché li ho aggrediti verbalmente. Io li ho perdonati e ho persino cercato di rassicurarli» dichiarai io. Avevo la coscienza a posto. Almeno in tutto quel caos c’era qualcosa che era al proprio posto.
Marco sorrise. «Dov’è finita la ragazzina che si infuriava ogni volta che cappello di paglia lasciava qualche briciola qua e là?» mi chiese.
Sbuffai una risata. «È andata in pensione» risposi, distogliendo lo sguardo e sorridendo nostalgicamente al ricordo dei vecchi tempi «ma qualche volta ritorna a farmi visita e ci prendiamo un tè insieme. Si sa, il lupo perde il pelo ma non il vizio».
L’ex comandante si stese accanto a me, incrociando le mani dietro la nuca e mettendo un piede sopra l’altro.
«E per la cronaca, non era “qualche briciola”. La sua bocca ne perdeva a cascate. Rufy era uno sbriciolatore seriale» specificai divertita.
Per un po’ nessuno parlò. La tenda venne avvolta da un silenzio pacifico. Io ero troppo impegnata a ripensare ai vecchi tempi – e di conseguenza a sorridere come un’ebete – e Marco sembrava altrettanto pensieroso.
«Com’è andata la tua giornata?» domandai dopo qualche altro minuto di silenzio catartico
«Non male, la tua?» fu conciso come al solito. Non si poteva dire che la testa d’ananas fosse un tipo loquace.
«Sono bloccata in un letto da due giorni, il mio capitano probabilmente mi detesta, ho dovuto applicarmi da sola ventiquattro punti di sutura alla gamba e ho dovuto anche dare il contentino a dei medici che, a quanto ho capito, a causa della loro gelosia per poco non mi hanno lasciata morire» feci, sarcastica «quindi direi non male nemmeno la mia» lo guardai di sottecchi e gli sorrisi. E lui fece lo stesso. Quando sorrideva in maniera sincera era molto più bello di quanto non fosse quando aveva la sua tipica espressione annoiata.
«In mare la vita è più divertente, eh?» chiese – ma entrambi sapevamo che la sua era una domanda retorica – con l’aria di chi la sa lunga sull’argomento.
«Già» mi limitai a rispondere, sospirando. Nei suoi occhi c’era un velo di nostalgia che non gli avevo mai visto prima. Avrei voluto accarezzargli una guancia e dirgli che sarebbe andato tutto bene, ma mi trattenni. Non riuscivo a capire perché non riprendeva il mare se gli mancava così tanto. O forse lo capivo bene ma non volevo credere e non volevo ammettere a me stessa che si fosse arreso una volta per tutte. Chissà se lui l’aveva fatto. Chissà se si era rassegnato del tutto e aveva appeso al chiodo il suo Log Pose.
Mi lasciai cadere indietro con la schiena e affondai la testa nel cuscino, prima di emettere un suono gutturale dalla gola.
«Pagherei per un bicchiere di vino in questo momento» affermai, sconsolata. «O anche per tutta la bottiglia...» feci poi, in un sussurro così da non farmi sentire da Marco.
«Non sono un esperto, ma non credo che l’alcol mischiato agli antibiotici faccia molto bene» commentò lui, divertito
«L’alcol fa sempre bene, Marco. Sempre. Non te lo scordare mai» affermai seria incastonando i miei occhi ai suoi.
«Allora un giorno potremmo berci un bicchiere insieme» propose, facendomi sorridere e annuire con vigore. Glielo avevo già proposto io il giorno prima, ma sentirlo da lui aveva tutto un altro effetto.
«Ovviamente offri tu» gli imposi, facendogli l’occhiolino.
Lui si tirò su e si mise a sedere sul bordo del letto.
«Solo se mi batti a Machiavelli» mi rispose dandomi le spalle, chinandosi e tirando fuori da sotto il materasso un mazzo di carte. C’era da dire che era ben equipaggiato per il tipo di vita spartana che si era scelto. Forse giocare a carte era uno dei pochi modi decenti per passare il tempo su quell’isola ostile. Mi chiesi se sotto il letto non nascondesse anche una scacchiera. No, sarebbe stato meglio non saperlo. Se mi avesse costretto a giocare a scacchi non avrei nemmeno potuto darmela a gambe, visto che ero bloccata in un letto.
«Me la vuoi servire su un piatto d’argento, eh?» replicai, passandomi la lingua sul labbro superiore e sfregandomi le mani.
«Non sarà così facile, stavolta» dichiarò lui, con lo sguardo fermo. Entrambi stavamo ghignando arrogantemente. A breve avremmo visto chi l’avrebbe spuntata tra di noi.
 
«Sarò anche debole fisicamente, ma caro mio, ti ho battuto di nuovo» gli annunciai, mentre effettuavo la mossa che avrebbe messo fine alla partita.
Marco scosse la testa sconsolato, gettando le carte che aveva in mano al centro del letto, che ci aveva fatto da campo di gioco. Alzai un sopracciglio e incrociai le braccia. Se non altro gli avevo dato prova che c’era qualcosa che ero capace di fare. Non che saper giocare a Machiavelli fosse utile in quell’universo, ma tutto faceva brodo.
«Se vuoi domani ti concedo la rivincita» gli proposi, con una punta di scherno nella voce.
Non mi rispose. Era intento ad osservare il cielo, che si era tinto di un meraviglioso arancione fiamma. Stava tramontando il sole. Lo guardai per qualche minuto fissare l’immensa distesa dai toni aranciati. Aveva un’espressione indecifrabile. Era pensieroso, ma allo stesso tempo aveva lo sguardo sereno. Se solo avessi avuto il telefono con me gli avrei fatto una foto.
«A che pensi?» mi azzardai a chiedergli, sapendo che non mi avrebbe risposto; o comunque, non in maniera sincera. «Guarda che se ti sei offeso perché ti ho battuto, te l’ho detto, ti concedo la rivincita» provai a sdrammatizzare dopo qualche secondo di assoluto silenzio.
Il biondo si girò a guardarmi. Mi squadrò da capo a piedi e si soffermò piuttosto a lungo sulla coscia destra, all’altezza delle garze che coprivano la ferita. Non sapevo cosa gli stesse passando per la testa, con lui era sempre un’incognita, ma dallo sguardo che aveva sembrava quasi che stesse valutando le mie condizioni.
«Che ne dici di fare un giro turistico dell’isola?» chiese, dopo un po’ che mi osservava. Avvicinai ed abbassai le sopracciglia, stupita dalla sua domanda.
«Non so se ti sei accorto, ma in queste condizioni ci metto un po’ a camminare. E poi, non vorrei avere un altro incontro ravvicinato con quel maledettissimo insetto» risposi, scettica. Avrebbe dovuto saperlo bene, soprattutto lui, che era uno a cui non sfuggiva niente.
Il suo volto si illuminò. «Chi dice che dobbiamo farlo camminando?» rispose a sua volta, con un’altra domanda. Alle sue parole aggrottai ancora di più la fronte. Non capivo dove voleva andare a parare. Ci arrivai solo quando iniziò ad avvolgermi nella coperta del letto. Notai di nuovo le macchie di sangue sul lenzuolo e mi un brivido mi scese lungo tutta la schiena.
«Che stai facendo?» domandai, perplessa.
«Forse non è il modo migliore per trattare la ferita, ma ti assicuro che è il modo migliore per passare il tempo» dichiarò, cingendomi le spalle con un braccio e facendo passare l’altro sotto alle mie ginocchia. Mi sollevò come se fossi una piuma, il tutto sotto i miei occhi increduli.
«I tramonti e persino quest’isola visti dall’alto non sono affatto male» annunciò.
Avrei tanto desiderato volare con lui ancora una volta e di certo avrei voluto vedere il tramonto insieme a lui, dall’alto. Avrei desiderato sentirmi libera e lasciarmi alle spalle tutte le mie preoccupazioni e i miei brutti pensieri, che in quei giorni erano senz’altro lievitati, almeno per quella mezz’ora. Lo avrei voluto più di ogni altra cosa al mondo in quel momento, ma non potevo. Mi divincolai dalla sua presa salda.
«Mi dispiace tanto, ma non posso. Non solo è rischioso in termini medici, ma ne va anche della mia reputazione già abbastanza distrutta. Se Law vedesse che non sono nel mio letto mi detesterebbe ancora di più e la mia posizione sociale all’interno della ciurma cadrebbe più in basso di quanto non sia già. Non posso rischiare» gli comunicai, a malincuore «e poi, devo vederlo. Devo guardarlo negli occhi e capire quanto mi odia su una scala che va da uno a Doflamingo» aggiunsi, seria e amareggiata.
Marco, dopo un primo momento di sbigottimento, allentò la presa su di me e mi lasciò sul letto. Poi sorrise, stavolta sembrava un sorriso più tenero, sebbene riuscissi a percepire sempre una punta di arroganza.
«Non ti facevo così responsabile» disse, quasi come se quello fosse stato un test per giudicare la mia idoneità a qualcosa.
«Sei tu che sei diventato irresponsabile, Marco» ribattei, quasi rimproverandolo. Non sapevo come altro rispondere. Ero cambiata, era vero, ma anche lui lo era. Non sembrava più se stesso, era totalmente un’altra persona rispetto a come lo avevo conosciuto. In risposta lui scosse la testa ghignando, in disaccordo con me. Mi appoggiò una mano sul capo, con abbastanza forza da farmi abbassare il collo.
«Il pulcino è uscito dall’uovo» dichiarò divertito, avviandosi poi verso l’uscita della tenda.
Allargai le braccia in segno di resa, poi alzai le spalle e sbuffai una risata mentre lo guardavo varcare la soglia. Che assurdità. Era cambiato, ma le sue frasi incomprensibilmente criptate non le avrebbe mai abbandonate.
«Credi che il tuo capitano ti odi?» mi chiese dopo qualche secondo, fermandosi appena fuori della tenda e girandosi a guardarmi.
Sospirai, non sapendo cosa rispondere. «Beh, rispetto alla scala che ho nominato prima, direi che siamo al livello “pane”» replicai dopo averci pensato un po’.
Corrugò la fronte. «Sei sicura di stare bene? Non stai delirando, vero?» domandò, fingendosi preoccupato per la mia salute mentale.
No. Non stavo delirando. Purtroppo sapevo bene cosa stavo dicendo. E anche lui avrebbe dovuto saperlo, visto che nel mese di convivenza forzata aveva avuto modo più volte di notare il profondo odio che il chirurgo nutriva per pagnotte e derivati. Gli tirai il cuscino che avevo sotto la gamba, che lui prese al volo e non si risparmiò di lanciare indietro. Ci fu un istante, un istante solo, in cui ridemmo tutti e due e fu come se fossimo due vecchi amici che si erano rivisti dopo tanto tempo e insieme avevano dimenticato le loro preoccupazioni, ricordando i tempi andati con nostalgia, ma anche e soprattutto con allegria.
Sollevai il braccio fino a portarmi l’indice davanti al viso. Iniziai a scuoterlo lentamente, ghignando ed alzando un sopracciglio.
«Non ci si accanisce contro i feriti, non è leale» lo rimproverai scherzosamente.
Sbuffò una risata, poi si rigirò e continuò a camminare. «Buonanotte, Cami» disse semplicemente.
«Ehi, dove vai?» mi informai. Non volevo che se ne andasse, non così presto almeno.
«I feriti hanno bisogno di riposare» affermò arrogantemente, senza degnarmi di uno sguardo e salutandomi di spalle con la mano. Adesso che volevo che rimanesse con me, se ne andava via. Davvero assurda, la vita.
 
Ero rimasta di nuovo sola. Marco se n’era andato, giustificando il suo lasciarmi a morire di noia con un semplice “Vista ha sentito la mia mancanza stanotte, non può stare senza di me e tu devi riposare”. Law non si era proprio fatto vedere, almeno non nel periodo di tempo in cui ero stata sveglia e cosciente, mentre gli altri medici erano capitati giusto un paio di minuti per portarmi la cena – che consisteva in un pesce cucinato allo spiedo e un’arancia – e per accertarsi che stessi bene. Avevo provato a trattenerli un po’ di più, giusto per fare un paio di chiacchiere, ma dovevano andare al campo ad occuparsi dei malati, che si stavano rimettendo sempre più in forze. Avevo provato un po’ di invidia sentendo le loro parole. Anche a me sarebbe piaciuto contribuire almeno in minima parte a curare quelle persone e vedere il loro volto illuminarsi di gioia e gratitudine. In quel breve lasso di tempo che i miei compagni erano stati con me, però, ne avevo approfittato per chiedere loro di portarmi un pezzo di carta, una penna ed una torcia. Per fortuna erano stati rapidi ed efficienti e soprattutto non avevano chiesto nulla sull’utilizzo che avevo intenzione di farne. Poi, dopo avermi passato quello che avevo chiesto ed avermi risistemato il cuscino sotto la gamba, mi avevano salutato, augurato la buonanotte e se ne erano andati, lasciandomi a marcire di noia. Fortunatamente, però, avevo trovato un modo per occupare le ore di monotonia e solitudine che mi aspettavano. Non fu facile scrivere al buio e con una superficie morbida sotto al foglio di carta, ma in qualche modo ci riuscii. Ci impiegai due ore per scrivere la lettera, due ore in cui mi rischiai più volte di slogarmi la mascella – perché in mancanza di altri posti avevo dovuto tenere la torcia in bocca per la maggior parte del tempo – e di incrinarmi qualche vertebra a causa della posizione scomoda in cui stavo, ma ne valse assolutamente la pena. Furono due ore in cui lasciai uscire tutto quello che avevo dentro, senza freni né costrizioni. Le parole quasi vennero spontanee, senza che io avessi fatto alcuno sforzo. Uscirono e basta. E quando finii di scrivere, ripiegai il foglio con cura e lo misi sotto al cuscino. Non avevo nemmeno bisogno di rileggerla, sapevo che andava bene così.
Sospirai e finalmente mi distesi completamente sul letto, sprofondando la testa nel cuscino. Quella sera di luna nuova, due lacrime silenziose rigarono le mie guance. Proprio come erano uscite le parole, uscirono anche i sentimenti. Li buttai fuori tutti in una volta e si riversarono all’esterno del mio corpo come se fossero uragani. La sensazione di non essere adeguata, di essere troppo debole, perfino di essere un peso per tutti, il sospetto che il mio capitano non volesse più avere nulla a che fare con me, la tristezza che mi pervadeva al pensiero di essere relegata in un letto senza possibilità di muovermi quando avrei dovuto essere io ad aiutare gli ammalati. Sopraggiunse anche il nauseante senso di nostalgia per casa mia, la mia vera casa e per i miei genitori, che mi mancavano da morire. E poi, poi c’era Marco. O meglio, non c’era perché non riuscivo a riconoscerlo. Non era più lui. Che cosa gli era successo? Come era diventato così? Perché non c’era nulla che potessi fare per aiutarlo? Cosa lo aveva portato ad arrendersi completamente? A rinunciare alla sua vita da pirata? Non capivo e questo mi uccideva. Vederlo così distrutto, per quanto lui lo nascondesse, distruggeva un po’ anche me. Perché la verità era che nonostante fossi stata poco insieme a lui, in un certo senso mi ci sentivo legata, come se ci conoscessimo da sempre. E volevo che stesse bene, che tutti loro stessero bene, perché erano diventati una parte di me e se non stavano bene non stavo bene nemmeno io.
Mi coprii il viso con le mani, mentre con i pollici asciugavo gli angoli degli occhi, ancora umidi. Quelle furono tutte cose che insieme mi stroncarono. Mi mangiarono viva, senza risparmiarsi nemmeno un po’. Ma per quella sera, soltanto per quella sera, mi dissi che andava bene così.

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Capitolo 32
*** Separazione ***


Passarono due giorni e finalmente arrivò il momento di ripartire. Il capitano – che comunque non avevo ancora rivisto – aveva decretato che mi ero ristabilita abbastanza per poter lasciare quell’isola maledetta, la cui aria ormai mi sembrava tossica da respirare. La gamba non mi faceva più male e anche le ferite dell’anima stavano guarendo, anche se per quelle ci sarebbe voluto un po’ di più e sospettavo che non sarebbero guarite completamente. Avevo preso proprio una bella botta, sia fisicamente che psicologicamente.
Furono due giorni piuttosto piatti e noiosi, in cui il contatto con altri esseri umani fu praticamente inesistente a parte per le partite a Machiavelli con Marco – che vinsi inequivocabilmente tutte io – e le frecciatine provocatorie che ci lanciavamo a vicenda; e le sporadiche visite dei miei compagni medici, che a quanto pareva erano stati incaricati da Law in persona di provvedere a me. Non che avessi bisogno di qualcuno che mi reggesse il moccolo, ma un aiuto mi faceva pur sempre comodo. E poi, il lato positivo di tutta quella faccenda era che mi venivano serviti i pasti direttamente a letto. Certo, il cibo non era minimamente all’altezza di quello che cucinava Ryu, ma era sufficiente a non farmi morire di fame. E con tutto quello che era successo non ci tenevo proprio a spirare. Dovevo farmi forza, stringere i denti e andare avanti. Dovevo dare il buon esempio a Marco, così forse avrebbe seguito il mio cammino e avrebbe finalmente ripreso il mare, che era il posto a cui apparteneva davvero. Per il momento, però, mi sarei limitata a raccogliere le mie cose, mettermi lo zaino in spalla – zaino che avevano miracolosamente ritrovato i dottori – e prepararmi per ripartire. Mi dispiaceva lasciare il biondo, e soprattutto lasciarlo in quello stato, ma non potevo fare altrimenti. Non volevo passare nemmeno un’ora di più quell’isola pericolosa e malsana e se la Fenice era intelligente come pensavo e credevo, sarebbe salpata altrettanto al più presto e non si sarebbe voltata a guardare indietro. Dopotutto, a causa del mio capitano Lyborn non era più un’isola considerata altamente pericolosa e l’alone di mistero che la avvolgeva era appena svanito, assieme al virus. Ormai niente e nessuno impediva a chiunque volesse o a chiunque passasse da quelle parti di sbarcarvi. E poi, a quel punto fin troppe persone sapevano della sua presenza lì e sebbene né io, né il mio capitano avremmo mai parlato ad anima viva di lui, non sarebbe stato lo stesso sicuro e prudente rimanere in quel posto.
«Sei pronta ad andare? Dovremmo incamminarci verso la costa dove sono ormeggiate le scialuppe tra una ventina di minuti, ma prima dobbiamo raggiungere il capitano e gli altri all'accampamento dei malati» mi annunciò uno dei medici che aveva fatto capolino dall'ingresso della tenda, proprio nel momento in cui avevo finito di mettermi i pantaloni e di allacciarmi la cintura metallica.
Mi girai in direzione della voce ed annuii con convinzione. Poi afferrai lo zaino accanto a me e me lo misi in spalla. Mi alzai con cautela, evitando di appoggiare a terra la gamba ferita.
«Ce la fai a camminare?» chiese l’uomo a qualche metro da me, piegando la testa da un lato.
«Non sono pronta a correre la maratona, ma di sicuro posso arrivare fino alla costa dell’isola» risposi io con un sorriso.
Quello mi guardò confuso per un attimo – supponevo che non avesse idea di cosa fosse una maratona – per poi annuire ed uscire dalla tenda.
Non ero del tutto certa di poter riuscire a camminare, non tanto per il dolore, ma perché temevo che mi sarebbero saltati i punti. Avevo fatto un buon lavoro, ma dopo tutto quello che era successo la prudenza non era mai troppa. E poi, ero scampata al virus per pura fortuna la prima volta, per scampargli una seconda volta mi ci sarebbe voluto un miracolo divino qualora la ferita si fosse riaperta. Era vero, tutti i malati erano guariti e l'isola era diventato un luogo relativamente sicuro, ma l'insettaccio maledetto era ancora in circolazione e bisognava usare la massima cautela. Per fortuna però, non essendo disinfestatori, non spettava a noi Pirati Heart sbarazzarcene.
Sperai che tutto andasse meglio e poi presi un respiro profondo, inspirando dal naso ed espirando velocemente dalla bocca. Dopo aver spostato una ciocca di capelli ribelle dietro l’orecchio, mi preparai ad uscire. A breve avrei rivisto il mio capitano e non avevo nessuna idea di come avrebbe reagito. Potevo solo auspicarmi che fosse clemente e che non mi congelasse con lo sguardo. Oppure che non mi lasciasse lì in mezzo al nulla e che mi consentisse di proseguire il viaggio con lui. Non avrei sopportato l’idea che non volesse più farmi da insegnante. Ci tenevo molto a diventare chirurgo. Lui mi aveva avvicinato a quella branca della medicina e me l’aveva fatta amare, e il pensiero che proprio lui potesse infrangere per sempre quello che ormai era il mio sogno ed il mio obiettivo, mi faceva preoccupare molto. Ma decisi che avrei comunque dovuto affrontarlo, come dovevo affrontare il mio destino.
Mi diressi verso l’uscita della tenda. Mentre mossi il primo passo, la gamba destra cedette un po’ e si piegò. Mi portai delicatamente la mano a toccare le garze.
«Coraggio gamba, resisti ancora un po’» cercai di incoraggiarmi – da sola – mentre mi fissavo la coscia.
 
Uscii dalla tenda a denti stretti, cercando di sopportare il fastidio che mi davano i punti. Seguii l’uomo che era venuto a prendermi e lui mi guidò all’accampamento dove risiedevano i malati e dove attualmente si trovava anche il nostro capitano, che era a Nord-Ovest dell’isola. Ci impiegammo una decina di minuti ad arrivare – complice anche la mia gamba – e quando giungemmo lì, fui molto sorpresa nel vedere la scena che mi si presentò davanti. Era la prima volta che assistevo – dal vivo – ad uno scenario simile. Un gruppo di persone che fino a qualche giorno prima erano malate e in fin di vita, stavano ringraziando sentitamente i miei compagni, che facevano parte di una ciurma di pirati considerata spietata e senza scrupoli. Dovevo ammettere che era davvero bello avere la possibilità di osservare un tale spettacolo. In mezzo a loro, c’era Law. Il mio cuore perse un battito quando lo vidi, al punto che dovetti appoggiarmi con la schiena al tessuto che costituiva una parete di una delle tende. Il suo viso sembrava disteso, non sapevo se mi avesse vista o meno. Certo, non si poteva negare che fosse bello. Con quei suoi lineamenti delicati, i suoi tatuaggi estremamente sexy sulle dita, sulle mani e sul petto, il pizzetto sul mento, le basette ai lati del viso, nere come la pece, e gli orecchini tondi e dorati appesi ai lobi delle orecchie. Persino il suo strano cappello maculato calato sugli occhi era bello. La sua era una bellezza particolare, oscura. Sì, era una bellezza capace di oscurare il sole. Sorrisi impercettibilmente, tenendo lo sguardo fermo sul mio capitano. In quei giorni quasi mi era mancata la sua facciaccia. Sbuffai una risata per poi scuotere la testa, come a scacciare quegli assurdi pensieri. Non mi avrebbe perdonata. I suoi occhi mi avrebbero trafitto ed io non avrei potuto dire o fare niente per migliorare la situazione.
«Sei pronta?» uno dei medici mi si era avvicinato senza che me ne accorgessi. Lo fissai un po’ seccata per aver interrotto quel momento catartico ma anche catastrofico. Lo seguii senza dire niente, con la paura nelle vene. Quando finalmente ci ricongiungemmo con gli altri poco più avanti, il chirurgo mi guardò. Tutto il mio corpo si irrigidì. Fu uno sguardo fugace, quasi rubato. Durò un secondo. Forse anche un secondo di troppo. I suoi occhi seri e di ghiaccio incontrarono i miei, incerti e timorosi, e mi fissarono impassibili. Ci mise un attimo a squadrarmi da capo a fondo, con una punta di disprezzo nelle iridi. Aprii la bocca per cercare di dire qualcosa, ma finii per boccheggiare. Non sapevo che dire, e la prima cosa che mi aveva insegnato Law era che se si era nel dubbio, era meglio stare zitti. E così feci. Rimasi ad osservare mentre il capitano faceva un debole cenno con la testa ai suoi sottoposti prima di appoggiarsi la nodachi sulla clavicola ed incamminarsi verso la boscaglia. Questi si caricarono in spalla i bauli che gli avevano donato le persone che avevano curato e lo seguirono.
Setacciai tutta la zona con cura, ma dell’unica persona che avevo interesse di vedere oltre al mio capitano non c’era traccia. Sospirai. Che si fosse dimenticato di me? No, Marco non era il tipo che si dimenticava così facilmente. Che non sopportasse gli addii? Per quanto questa ipotesi potesse essere fondata, non ci credevo molto; altrimenti non mi avrebbe salutato nemmeno la prima volta, nel mio mondo. Che non volesse venire a salutarmi? Non lo sapevo.
Diedi un ultimo sguardo al gruppo dei malati e rivolsi loro un sorriso sincero, anche se un po’ malinconico. Ero davvero contenta che fossero guariti, mi dispiaceva solo di non aver contribuito in alcun modo alla loro guarigione. Quella poteva essere la mia occasione per imparare e per fare del bene ed io l’avevo sprecata in modo molto stupido. Quando notai che anche loro mi stavano sorridendo, sospirai e scossi la testa. Sarebbe stato meglio muoversi o sarei rimasta indietro e se fossi rimasta un’altra volta sola in mezzo alla foresta in compagnia di quell’adorabile animaletto e chissà che altro, sarei impazzita. Eppure, ero sicura di stare dimenticando qualcosa. Avevo il mio zaino, i miei stivali, i miei pantaloni e la mia cintura. Ma c’era qualcosa che mancava, come se su quell’isola stessi involontariamente lasciando un pezzo di me. Scossi nuovamente la testa cercando di scacciare quello strano pensiero e mi affrettai a raggiungere gli altri. E quando lo feci, nemmeno a farlo apposta, vidi Law che mi fissava con un'espressione imperscrutabile dipinta sul volto. Rimasi ferma a fissarlo di rimando come un’ebete per qualche minuto buono. Non sapevo davvero come comportarmi, né perché mi stesse guardando. Che voleva da me? Che cosa aveva in mente? Cosa dovevo aspettarmi? Mi ripresi dal mio stato mezzo catatonico solo quando lo vidi allungare il braccio nella mia direzione. Mi lasciai scappare un’esclamazione di sorpresa. Ecco che cosa mi stavo dimenticando ed ecco dov’era. In mano, il mio capitano stringeva la mia adorata Mr. Smee. Ce l'aveva lui. Ce l'aveva sempre avuta lui.
«Grazie» gli dissi sorridendo, sbrigandomi a recuperarla dalla sua mano e a rimetterla nel suo apposito porta-arma. Lui non mi degnò nemmeno di uno sguardo e si rimise in cammino. Lo guardai allontanarsi da me e mi abbandonai ad un sospiro. Per quanto ancora ce l’avrebbe avuta con me? Le cose si sarebbero sistemate? Quanto tempo ci sarebbe voluto?
Strinsi il ponte del naso tra pollice e indice e chiusi gli occhi, giusto per un paio di secondi, prima di riprendere a camminare. Adesso era importante solo riuscire ad arrivare vivi al Polar Tang.
 
In pochi minuti arrivammo a quello che riconobbi essere il ponte dove giorni prima era avvenuto il combattimento. Tutti camminavamo in religioso silenzio, quasi fosse una processione. Nessuno voleva o osava dire niente. Io fremevo, prima di lasciare quell’isola avrei avuto piacere di salutare Marco, ma ancora non si era fatto vedere ed ormai cominciavo a perdere le speranze. Non avevo chiesto niente su di lui ai miei compagni perché quella era una faccenda mia e mia soltanto. Buffo, l’ultima volta che avevo ragionato in questi termini ero quasi morta, ma così come era comparsa dal nulla e mi aveva salvato, la Fenice l’avrebbe potuto fare benissimo una seconda volta. Ero abbastanza fiduciosa che avrebbe avuto la decenza di venirmi a salutare.
Arrivai a metà del ponte di pietra con una leggera angoscia e un senso di insicurezza che si era propagato velocemente in tutto il mio corpo. Per terra si riuscivano ancora a vedere le chiazze rossastre di sangue. E viste in quel modo non sembravano tanto diverse dalle macchie che c’erano sul lenzuolo del biondo. Sospirai, cercando di non farmi sentire dagli altri. Quel sangue sulle pietre testimoniava quanto fosse reale l’esperienza orribile che avevo vissuto. Un rumore simile ad uno sfarfallio, ma più forte, alle mie spalle mi costrinse a girarmi. Il mio volto si illuminò quando lo vidi. Istintivamente mi portai le mani al petto, una sopra all’altra, come se dovessi contenere l’esplosione di gioia che stava avvenendo nel mio cuore. Marco, con un battito d’ali, si era posato sul parapetto del ponte ed ora mi fissava con la sua tipica aria arrogante, accovacciato sulle pietre della ringhiera. Mi lasciai scappare una piccola risata. Dietro di me, i miei compagni osservavano la scena con aria seria; le dita di alcuni sfioravano le else delle loro spade. Feci loro un cenno del capo, che indicava che era tutto a posto e che potevano tranquillamente proseguire, ma non si smossero fino a quando anche Law non annuì. A quel punto si rilassarono all’istante e dopo averci dedicato un’ultima occhiata se ne andarono, lasciandoci soli. Il pennuto aveva continuato a ghignare per tutto il tempo, come se non fosse minimamente preoccupato dell’aria minacciosa che avevano i pirati. Ero piuttosto sicura che se fosse avvenuto un combattimento li avrebbe schiacciati come formiche. E non avrebbe avuto alcun problema nemmeno a sconfiggere il mio capitano. Trattenni un potente sospiro. Stava sprecando il suo talento stando relegato lì. Se non l’avessi convinto con l’ultima carta che avevo da giocare, che era anche il mio asso nella manica, mi sarei messa il cuore in pace ed avrei accettato che il Marco che avevo conosciuto io se n’era andato per sempre.
«Alla fine sei venuto a salutarmi» affermai, cercando di evitare di sorridere come un’ebete.
«Avevi dei dubbi? La tua mancanza di fiducia mi ferisce nel profondo» mi rispose, fingendosi offeso.
«Chiudi il becco, pennuto. Lo sappiamo tutti che ti piace farti desiderare» gli dissi, facendolo ghignare.
«Hai intenzione di scendere?» gli chiesi poi, indicando il suolo con un dito. «Così ti posso salutare come si deve».
«Dipende cosa intendi per come si deve» fece lui, facendomi sbuffare, incrociare le braccia ed alzare gli occhi al cielo. Il ghigno sulla sua faccia si allargò ancora di più. Il mio sguardo, però, non ammetteva repliche e così alla fine si decise a scendere dal parapetto e posare i piedi a terra.
«Non deve essere per forza un addio» disse dopo essersi rimesso in posizione eretta, con l’aria di chi la sapeva lunga.
«Che vuoi dire?» domandai io, non capendo cosa intendesse.
«Puoi restare qui, se vuoi. Potrei, in via del tutto eccezionale, ospitarti nella mia tenda. Condivideremmo il letto e saresti relativamente al sicuro» mi propose, con espressione seria ma neanche troppo.
Mi morsi un labbro.
«Per quanto la tua proposta mi alletti, devo rifiutare. Non posso rimanere qui con te, mi dispiace molto» risposi, fissandolo dritto negli occhi «ho un sogno da inseguire, un’avventura da vivere, un obiettivo da raggiungere e anche un capitano da compiacere. Non posso arrendermi ora. E nemmeno tu dovresti farlo» gli comunicai con sguardo apprensivo e compassionevole, seppur con una punta di rimprovero.
Alle mie parole abbassò gli occhi, per poi rialzarli subito dopo e sorridere. Non persi tempo e lo abbracciai. Fu un abbraccio diverso dall’ultimo che ci eravamo scambiati. Fu meno intenso e più rapido, ma non per questo meno bello. Quello era un abbraccio tra due vecchi amici che si erano ritrovati e che ora si stavano per lasciare, ma in totale serenità e leggerezza. Senza alcun rancore o conto in sospeso, solo con un po’ di nostalgia per i tempi andati, in cui tutto era un po’ più semplice per entrambi. Fino a pochi anni prima io non avevo un capitano capriccioso e fin troppo puntiglioso da dover accontentare, mentre lui aveva ancora un capitano, che gli faceva anche da padre, e tutti i suoi compagni. Entrambi avevamo le nostre famiglie. Nel momento in cui ci eravamo incontrati per la prima volta le cose non erano perfette per nessuno dei due e forse non eravamo esattamente le persone più felici dell’intero universo – né del mio né del suo – ma eravamo stati bene insieme.
Mi staccai da lui un po’ controvoglia, poi incastonai i miei occhi ai suoi. Aveva lo sguardo sereno in quel momento. Gli appoggiai una mano sul collo, appena sotto l’orecchio e gli accarezzai la mandibola con il pollice. Non resistetti all’impulso e lo abbracciai di nuovo, stavolta con un po’ più di forza. Sentii la sua mano posarsi delicatamente tra le mie scapole.
«Grazie per avermi salvato la vita» gli sussurrai all’orecchio «ti voglio bene. Anche dopo tutte le cose cattive che mi hai detto» continuai in tono appena un po’ meno serio.
«Le ho dette per il tuo bene» si giustificò lui, con la stessa intonazione di voce che si usa con una bambina capricciosa.
«Lo so. Non roviniamo questo momento» dissi, a voce più alta stavolta.
«Va bene» rispose, sbuffando una risata.
Rimanemmo abbracciati per un po’ prima di staccarci definitivamente. E quando lo facemmo, infilai la mano nella tasca dei pantaloni e presi la lettera che avevo scritto due giorni prima. La tenni tra il medio e l’indice, come se fosse una carta da gioco in procinto di essere lanciata. Poi allungai la mano e gliela porsi, ghignando. Marco aveva un’espressione indecifrabile, ma anche lui stava sogghignando.
«Questa è per te. Leggila molto attentamente, parola per parola» gli intimai, allargando il mio ghigno ed alzando un sopracciglio «ma non farlo ora, aspetta che me ne sarò andata».
Prese il foglio ripiegato in quattro, lo osservò e se lo rigirò tra le mani. «La custodirò molto gelosamente. Se gli altri dovessero scoprire che ho ricevuto una lettera da una ragazza mi prenderebbero in giro per l’eternità e vorrebbero leggerla a tutti i costi» mi annunciò ridendo e facendo ridere anche me.
Avevo deciso che quello sarebbe stato il mio modo di salutarlo. Non gradivo molto gli addii strappalacrime con lunghe frasi di circostanza o peggio, con banalissime frasi fatte. Quindi quella lettera sarebbe stata il mio regalo di ringraziamento per lui. Per avermi salvato la vita e per avermi in un certo senso aperto gli occhi su quello che ero e sulla strada che avrei dovuto fare per raggiungere quello che volevo e dovevo diventare. E poi, non volevo che si sentisse escluso, avevo scritto una lettera a Rufy, Sanji, Zoro e Usop e non potevo non scriverne una anche per il più abile giocatore di scacchi della combriccola. Sorrisi al pensiero.
«Arrivederci Marco» lo salutai, con un po’ di melancolia. Non potevo rimanere a guardarlo a lungo, o mi sarebbe mancato troppo. Ed inoltre non potevo perdere il passo con il resto del gruppo, che sospettavo mi avesse distaccato già di parecchio; anche se per lui valeva la pena di rischiare di dover vagare da sola per la foresta.
«Arrivederci, pulcino» replicò lui, quasi con scherno. Gli davo le spalle e non potevo vederlo, ma ero sicura che stesse sghignazzando.
Mi voltai completamente a guardarlo, incrociando le braccia e scuotendo la testa. In un altro momento lo avrei insultato e non avrei perso l’occasione di chiamarlo pennuto, ma non volevo rovinare l’atmosfera che si era creata. E soprattutto, non sapendo se mai l’avrei rivisto – per quanto potessi essere fiduciosa – non volevo che le mie ultime parole per lui fossero insulti o denigrazioni verso la sua persona. Quindi mi limitai ad osservare la sua chioma bionda a forma d’ananas e il suo volto sorridente. Decisi che era così che volevo ricordarmelo e fu così che me lo impressi nella mente. Perché l’espressione che aveva in quel momento, era la stessa, identica espressione che aveva il giorno in cui ci eravamo salutati per la prima volta. Questo era il vero Marco. Era così che lo avevo conosciuto, era così che gli avevo detto addio, era così che lo avevo ritrovato ed ora sarebbe stato così che lo avrei lasciato per la seconda volta.
Mi rigirai e non guardai più indietro. Mi incamminai per il sentiero che mi avrebbe portato alla costa e per tutto il tragitto mi accompagnò un senso di malinconia. Ma, per fortuna, mi ricordai delle parole che avevo scritto al pennuto e mi venne da sorridere.
 
 “Caro Marco,
ti scrivo perché ci sono un paio di cose che mi piacerebbe dirti e questo è l’unico modo per farlo senza che tu cerchi di cambiare argomento in modo discreto o ti inventi una scusa per andartene nel bel mezzo della conversazione. Starà a te decidere se leggere o meno la lettera. Io ti consiglio di farlo. E non perché ho passato due ore al buio china sul letto nel tentativo di scriverla, ma perché...non lo so. Tu leggila e basta. Le parole che ci sono su questo foglio vengono dal mio cuore, quindi prendi questa lettera come il mio regalo di ringraziamento per te, per avermi salvato la vita e non solo.
Mi dispiace tanto di non esserci stata per te, come tu hai fatto per me. Avrei dovuto capire il tuo dolore e avrei voluto starti vicino, ma non ho potuto. D'altronde, non ho saputo nemmeno salvare me stessa, figurati se avrei potuto salvare te. Però, sai, io ci sto provando. Sto provando ad essere felice. Sto provando anche a restare viva, anche se non sono molto brava in quello. Ma del resto, non si può essere bravi in tutto, no? E poi, finché ci sarai tu a salvarmi all’ultimo momento posso anche permettermelo. Ad ogni modo, ti sto dicendo questo perché devi farlo anche tu. Devi ritrovare te stesso, in modo da poter ripartire da zero ed essere finalmente di nuovo felice. Ci vorrà un po’, è un processo lungo e non senza ostacoli, me ne rendo conto, ma niente è impossibile se lo si vuole davvero. Si può ricominciare dopo aver perso tutto. Si può. Basta solo non arrendersi. Tu l’hai fatto. Ti sei arreso. E va bene così. Ma devi rialzarti, Marco. Devi farlo per te stesso, perché te lo devi. Non puoi lasciare che la vita ti scivoli via così dalle mani.
Comunque, non ti ho scritto per farti la predica. Voglio solo chiederti una cosa. Che cosa ti è successo?
Non ho idea di cosa sia accaduto nell’anno e qualche mese in cui siamo rimasti separati. Potrei mentirti dicendo che non lo voglio sapere, ma in realtà muoio davvero dalla curiosità di conoscere gli eventi che hanno portato un uomo forte, tenace e brillante come te a diventare...così. Non credo che ci sia nemmeno bisogno di specificare come, perché sono sicura che tu lo sappia benissimo da solo.
Ti chiederai come farai a rispondermi dal momento che quando leggerai queste righe io non sarò più lì con te. Prenditi tutto il tempo che ti serve per pensare ad una risposta. Me la comunicherai quando ci rivedremo. Perché, mio caro, ci rivedremo presto. E non sarà su Lyborn (col cavolo che ci rimetto piede dopo tutto quello che è successo) ma sarà su un campo di battaglia. E stai attento, perché questa volta potrei essere io a salvare te. Ti ho detto che diventerò una temuta Regina, e una Regina protegge sempre il Re. Sì, hai capito bene. Ti considero un Re. Quindi alza le chiappe dal tuo letto e vai a riprenderti la corona che ti spetta. Fai vedere a questi piratucoli da quattro soldi chi comanda.
Comunque, se sopravviviamo poi ce andiamo in una taverna a bere qualcosa, come mi hai promesso. Sei un uomo di parola, per cui non te lo scordare e non provare a fregarmi, perché queste cose me le ricordo (soprattutto se c’è di mezzo il vino).
Nei tuoi occhi c’è ancora una piccola scintilla. Quella è la scintilla della vita, è la scintilla del pirata. Non riesci a sentire il mare che ti chiama? È quello il tuo posto, Marco. Non prendere in giro te stesso, lo sai meglio di me. E non fare come me. Non avere paura di vivere. Te lo ripeto. Non arrenderti, non lasciare che la vita ti scivoli via dalle mani. So di non essere nessuno per dirti queste cose, ma una volta tanto ascoltami e dammi retta. E se proprio non vuoi ascoltare me, ascolta il tuo cuore e fai quello che ti dice di fare. Non puoi sbagliare se lo segui. Di cosa hai paura? Di poter essere di nuovo felice?
Pensa ad una risposta anche per questa domanda. Io nel frattempo ti aspetto in mare. Ci rivedremo presto tra le onde dell’oceano del Nuovo Mondo. E quando lo faremo, saremo entrambi di nuovo felici e spensierati.
Stai attento, però. Molte persone ti cercano e vogliono la tua testa, primo fra tutti un certo Edward Weeble. Ma questo non significa che devi per forza scappare e nasconderti da loro. Tu sei Marco la Fenice, il Comandante della Prima Flotta di Barbabianca! Puoi negarlo quanto ti pare, ma nel profondo sai di non aver mai smesso di esserlo, lo sei sempre stato. Non puoi cancellare il passato, né rinnegarlo. Quell’appellativo sarà sempre con te. E non puoi odiarlo, perché ti ha reso ciò che sei. E voglio che il mondo tremi ancora nel sentire il tuo nome. Quindi smettila di fare il cretino e smettila di fare il pennuto a cui hanno tarpato le ali. Sei una maledettissima fenice, comportati da tale e spicca il volo! Ovviamente ti dico queste cose perché ti voglio bene, proprio come hai fatto tu l’altra notte. Sappi che non ce l’ho con te per quello che mi hai detto, so che è la verità e mi impegnerò per diventare più forte. Ma non posso farlo se non lo fai con me. È una battaglia che dobbiamo combattere insieme. Io sarò al tuo fianco, se vorrai. Ti basterà pensarmi. Io lo farò. Ti penserò e controllerò il giornale ogni giorno per vedere se ci sono notizie del tuo esplosivo ritorno alla pirateria. Visto che è di te che stiamo parlando, non mi stupirei se facessi un rientro in grande stile. E dal momento che sono io che te lo sto “chiedendo”, spero che tu non voglia deludere le mie aspettative.
Possiamo vincere questa lotta, dobbiamo solo continuare a darci da fare e non perderci mai d’animo.
Ad ogni modo, a furia di scrivere in questa posizione scomoda mi è venuto il mal di schiena, quindi è meglio se concludo qui questa lettera.
Ti voglio bene, ci rivediamo presto. E non ti dimenticare che non sei solo.
Il mondo ha bisogno di te. Io ho bisogno di te. Non ti arrendere.
Vivi, Marco la Fenice.
                                                                                              Con affetto,
                                                                                                       Camilla.”
 
 

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Capitolo 33
*** Ritorno al sottomarino ***


Finalmente avevamo lasciato Lyborn. Tutta l’equipe medica si trovava sulla scialuppa diretta al sottomarino. Esattamente come all’andata, anche al ritorno stavamo tutti in silenzio. Quando si trattava di suturare o formulare diagnosi eravamo un bel team, ma purtroppo non potevamo dire lo stesso quando si trattava di fare due chiacchiere tra di noi. Non sapevamo davvero che dirci, ogni volta era un dramma per trovare un argomento che non fosse di natura medica che stesse bene a tutti o che tutti conoscessero. Il più delle volte era una noia mortale con loro in sala operatoria. In più, in quell’occasione c’era di mezzo anche una bella quantità di tensione. Law aveva rimproverato i miei compagni, che si sentivano in colpa per non avermi soccorsa, mentre a me non aveva proprio più parlato per giorni; e io non avevo idea di cosa dire a tutti gli altri perché non sapevo se erano tornati a vedermi come la “pupilla del capitano” o se erano ancora in modalità “sensi di colpa”. Quindi nel dubbio, per non litigare con nessuno avevo deciso che sarei rimasta zitta e che avrei aspettato il momento in cui finalmente avrei potuto buttarmi a faccia in giù sul mio letto e sprofondarci dentro.
Avevo salutato Marco, l’unica ragione per cui mi dispiaceva lasciare l’isola. Forse sarebbe stato meglio accettare il suo invito e rimanere con lui, considerato che mi aspettavano i lavori forzati non appena avessi messo piede sul Polar Tang. Mannaggia a me che non accettavo mai le offerte che mi facevano i miei amici. Ero proprio masochista.
Mi lasciai sfuggire un sospiro; e tutti – compresi i due che remavano – tranne il capitano si girarono a guardarmi. Sorrisi, per rassicurarli e per evitare tutti quegli sguardi ingombranti ed indesiderati addosso. Il mio sorriso sortì l’effetto sperato, perché i miei compagni si tranquillizzarono e ritornarono a fissare l’oceano davanti a loro, anche se data la nebbia che c’era, c’era poco da vedere. “Che situazione del cavolo” pensai scuotendo la testa, prima di appoggiare il mento sul palmo della mano. Se prima non mi entusiasmava molto il fatto di ritornare sul sottomarino, ora non vedevo l’ora di tornarci, solo ed esclusivamente per scampare a quelle circostanze decisamente imbarazzanti. E poi, prima di buttarmi sul letto come avevo intenzione di fare, avrei davvero avuto bisogno di aprire il frigo, tirare fuori una bottiglia di vino, versarmene un’abbondante quantità nel bicchiere e berlo tutto d’un fiato. No, a ripensarci bene, un solo bicchiere non sarebbe bastato.
 
Arrivammo finalmente al sottomarino. Sulla fiancata gialla c’era già la scaletta pronta per farci salire. Dal momento che la mia gamba non era in perfetta forma, non avevo idea di come avrei fatto a risalire a bordo. Ma non ebbi nemmeno il tempo per studiare una soluzione efficace, perché uno dei miei compagni medici mi ordinò di aggrapparmi a lui e senza che potessi dire o fare niente, dopo essersi assicurato che la mia presa su di lui fosse salda, iniziò a salire su per la scaletta preceduto da Law.
«Ehm...grazie» fu tutto ciò che riuscii a mugugnare, fortemente imbarazzata dalla situazione.
«Non dire niente» disse il medico con un po’ di fiatone «te lo devo» continuò poi, sorridendo. Almeno così mi sembrava, visto che essendo sulla sua schiena non potevo vederlo bene in volto.
Arrivammo in cima in quello che mi sembrò un attimo, mentre nel frattempo i Pirati Heart che erano sul sottomarino tiravano su la scialuppa. All’orizzonte, complice anche la nebbia piuttosto fitta, non si riusciva a vedere nessuno, quasi come se quella fosse una nave fantasma. Da una parte speravo davvero che fosse così, non ero pronta e non avevo alcuna voglia di affrontare i loro sguardi accusatori e le loro domande. Volevo solo trovare un modo per riuscire ad arrivare al frigo, prendere il vino e poi sgattaiolare in camera senza che nessuno mi vedesse. Erano stati giorni intensi e pesanti e volevo stare in pace. Se poi fossi stata anche alticcia non sarebbe stato affatto male.
Il mio compagno mi fece scendere delicatamente dalla sua schiena.
«Stai bene?» mi chiese totalmente a corto di fiato, piegandosi in avanti ed appoggiando le mani alle ginocchia.
«Io sì...tu piuttosto?» gli chiesi, perplessa.
Rise, mentre l’ultimo dei medici che era appena arrivato in cima gli dava una pacca sulla spalla. Se con noi ci fosse stato Marco sarebbe stato tutto più semplice.
«Sei piccolina, ma non sei un peso piuma» scherzò, soffiando fuori tutta l’aria che aveva in corpo. In un’altra occasione mi sarei offesa per il fatto che mi avesse dato implicitamente della grassa, ma dal momento che per una volta aveva fatto un gesto gentile di sua spontanea volontà, decisi di passarci sopra. Se ci fosse stata una prossima volta, però, gli sarei passata sopra con un carro armato.
«Da domani mi metterò a dieta» scherzai a mia volta, lasciando trapelare un certo fastidio.
«Non devi! Io scherzavo! Sono io che sono fuori allenamento» si giustificò lui. Entrambi sbuffammo una risata, che fu interrotta da dei rumori sinistri a pochi metri da noi.
La nebbia nel frattempo era diventata ancora più fitta, al punto da non riuscire a vedere più in là dei nostri nasi, e quando intravidi delle sagome nella foschia che venivano verso di noi, mi spaventai – per non dire che a momenti mi venne un infarto – ed istintivamente mi aggrappai al braccio del medico accanto a me, che mi guardò stupito. Mille pensieri mi passarono per la testa in pochissimi secondi. Avevo paura che durante la nostra assenza il Polar Tang fosse stato assaltato e sequestrato da chissà quale insulsa banda di pirati, o di cacciatori di taglie. O peggio, dalla Marina. Che avremmo fatto se avessimo ritrovato i nostri compagni morti? Che avremmo fatto se il sottomarino fosse stato preso da un Ammiraglio?
Assottigliai gli occhi nella speranza di riuscire a riconoscere le sagome, portandomi allo stesso tempo una mano sul manico dell’appena ritrovata ascia. Qualora ci fosse stato il bisogno di combattere, a causa della ferita alla gamba non avrei potuto farlo al meglio delle mie possibilità, e questo mi rendeva nervosa e preoccupata al tempo stesso. In più, se eravamo rimasti così tanto a lungo sull’isola era solo ed esclusivamente colpa mia; quindi se ne fossimo usciti vivi, Law mi avrebbe prima torturata e poi trucidata senza alcuna pietà. Ma perché non me ne andava bene una!? Perché per una volta non poteva filare tutto liscio!?
«Capitano!» gridò qualcuno dall’altra parte della coltre di nebbia.
Lasciai la presa sul braccio del povero malcapitato – che ora era violaceo da quanto avevo stretto – e tirai un lungo sospiro di sollievo quando tra tutte le figure ancora abbastanza sfocate, ne riconobbi una con la sagoma di un orso.
Mollai all’istante la presa sulla mia Mr. Smee e rilassai i muscoli del mio corpo, che fino a quel momento erano stati tesi come corde di violino. Cielo, mi sembravo la Camilla dei primi tempi, quella che si era diretta con incertezza nella sua sala da pranzo con un righello e delle ciabatte come armi e che era svenuta miseramente quando si era accorta di avere dei pirati in casa. Che quella ferita, oltre ad intaccare pelle e muscoli, avesse anche riportato alla luce parti di me che pensavo fossero morte e sepolte?
«Cami!» Bepo mi richiamò dai miei lugubri pensieri e mi accorsi che era a qualche centimetro da me.
«Il capitano ci ha informato di cosa ti è capitato! Sono stato molto in pensiero per te! Meno male che sei sana e salva!» esclamò con gli occhi lucidi l’orso. Senza che potessi replicare, si lanciò su di me e mi abbracciò così forte che per poco non cademmo giù dall'imbarcazione.
«Ehi, Bepo, fai piano» lo rimproverò quello che ormai era diventato il mio dottore.
Quando finalmente si decise a staccarsi da me – anche perché sarei morta asfissiata altrimenti – mi vennero incontro i miei compagni di bevute preferiti, Shachi e Penguin. Non ci fu bisogno di troppe parole con loro, ci fu un semplice e complice scambio di sguardi, che solo noi sapevamo decifrare. Quando terminammo di scambiarci le nostre brevi occhiate in codice, i due si posizionarono accanto a me, uno alla mia destra e l’altro alla mia sinistra, ed entrambi mi cinsero le spalle con il braccio. Camminammo in quella posizione per un po’, diretti sottocoperta, finché non mi intercettarono Maya e Omen. A quel punto l’orca e il pinguino lasciarono la presa su di me e si avventurarono all’interno del sottomarino.
«Ehi, ragazza» iniziò Maya con un gran sorriso sul viso «te la sei vista brutta, eh? Forza, dammi un abbraccio!» disse con enfasi allargando le braccia. Ci abbracciammo e sentii le sue dita strofinarmi la schiena in un gesto di conforto. Omen non disse niente, si limitò a posarmi delicatamente una mano sulla spalla.
Poco dopo sopraggiunse anche Ryu. Quando lo vidi dovetti trattenere una risata. Aveva un mestolo in mano e indossava sia il suo grembiule che il suo cappello da chef. Guai a chi glieli sfiorava.
«Ho sentito bene o vuoi metterti a dieta!? Non esiste, signorina! Finché ci sarò io su questa nave nessuno si metterà a dieta.» dichiarò solennemente, facendomi scappare un sorriso.
«Coraggio, andiamo in cucina. Devi mangiare per rimetterti in forze» affermò il cuoco, dandomi una potente pacca sulla spalla. Talmente potente che mi fece perdere l’equilibrio e sbilanciare in avanti. Aggrottai la fronte e spalancai gli occhi. Stavo per cadere miseramente per terra.
«Oh!» esclamò Ryu, sorpreso e dispiaciuto allo stesso tempo, appena prima di riacciuffarmi per un braccio e rimettermi in posizione eretta.
«Scusa, era troppo forte. Mi sono lasciato trasportare dall’entusiasmo» si giustificò, imbarazzato.
«Non c’è problema» lo rassicurai, sorridendogli. Se non altro aveva i riflessi pronti. Dopodiché mi fece cenno di andare sottocoperta ed io lo precedetti.
«Camilla» mi richiamò, costringendomi a voltarmi «cerca di fare più attenzione la prossima volta e vedi di non morire» mi redarguì «altrimenti chi mi farà da medico?» chiese poi, abbandonandosi ad una fragorosa risata. Alle sue parole accennai un sorriso, per poi abbassare lo sguardo subito dopo. Di colpo mi ritornò in mente quello che mi aveva detto Marco. Il suo discorso mi apparve chiaro e nitido in testa, ed io sapevo che non potevo fare promesse a vuoto. Avrei vissuto? Sarei morta? Non potevo saperlo con certezza. Decisi che non volevo pensarci e mi avviai con un’espressione cupa in cucina, come mi aveva detto di fare Ryu.
 
Avevo detto pochissime parole da quando ero ritornata sul sottomarino. Non mi aspettavo un’accoglienza così calorosa e ne ero rimasta piacevolmente sorpresa, ma c’era qualcosa che mi impediva di essere contenta. Non sapevo cosa fosse, sapevo solo che c’era. C’era sempre qualcosa. Forse era il fatto che Law mi guardasse come se fossi una busta della spazzatura contenente pane. O forse la mia era solo paura che la “magia” sarebbe svanita non appena avessi tolto i punti. Come se tutto quell’affetto e quel riguardo che avevano i miei compagni nei miei confronti fosse solo di facciata.
«Coraggio Cami, banchettiamo!» mi incitò Ryu «Abbiamo organizzato tutto questo apposta per te!» esclamò subito dopo, dandomi un’altra pacca sulle spalle, stavolta meno forte della precedente. Sorrisi al cuoco prima che sparisse nei meandri di quello che era il suo regno. Ero davvero lusingata dalle parole che mi aveva riservato. Tuttavia prima dovevo occuparmi di una questione.
Mi girai verso il capitano con aria angosciata, come a chiedergli il permesso. Lui mi guardò con uno sguardo talmente affilato che se gli fossi stata un po’ più vicina molto probabilmente mi avrebbe fatto saltare i punti della ferita e lacerato nuovamente la carne. Poi si era rigirato dalla parte opposta e si era immediatamente ritirato nelle sue stanze. Supponevo che per lui non ci fosse nulla da festeggiare. In quell’occasione non potevo contestare il suo comportamento, perché non aveva tutti i torti.
«Gli passerà, vedrai» mi rassicurò Penguin, mettendomi un braccio intorno alle spalle. Lui lo conosceva da più tempo di me e sicuramente meglio, ma stavolta, chissà perché, non mi fidavo delle sue parole. Lo avevo deluso. Avevo tradito la sua fiducia e le sue aspettative. Odiavo averlo fatto, lo odiavo davvero, soprattutto perché ci avevo messo un’eternità a conquistare la sua stima ed ora era andata distrutta, forse per sempre.
«Sai, abbiamo messo Jean Bart a fare il cameriere» mi comunicò Penguin appena prima che entrassimo in cucina «è tutta la mattina che traffica con piatti, posate e cose varie. Non ha smesso di brontolare neanche un secondo» continuò, cercando di strapparmi una risata.
Lo guardai con espressione perplessa. «Perché avete messo Jean Bart a fare il cameriere? Voglio dire, è più sgraziato di un elefante in un negozio di cristalli, e lo sapete meglio di me»
«Sì, è davvero sgraziato e scoordinato, ma è il più grosso. In queste occasioni Ryu tende ad esagerare con le porzioni e lui è l’unico che riesce a portare più piatti contemporaneamente» mi spiegò «ora vedrai» disse poi, quasi eccitato al pensiero.
Effettivamente, se sul ponte della nave ci fosse stato anche Jean Bart ad accoglierci, probabilmente non mi sarei fatta tutte quelle paranoie. La sua figura era inconfondibile. Risi al pensiero di quanto potesse essere beffardo il destino, non solo per via di quell’episodio, ma un po’ per tutto quello che mi era accaduto negli ultimi due anni.
Penguin spalancò le porte della cucina. Per poco non mi slogai la mandibola dallo stupore. Non era più una cucina. Sembrava la casa della strega di Hansel e Gretel, eccetto che non c’erano solo dolci, ma anche portate salate. C’era cibo in abbondanza, ce n’era così tanto che la superficie del tavolo non bastava per contenere tutte quelle prelibatezze. Erano ovunque, sulle sedie, sui ripiani, alcune perfino per terra. Ed effettivamente Jean Bart portava due o tre piatti su ogni mano e continuava a fare avanti e indietro sotto le severe direttive di Ryu. Mi portai una mano alla bocca ed iniziai a ridere. Quando il cuoco mi vide mi fece segno di raggiungerlo.
«Avanti, prendi tutto quello che vuoi! Tanto c’è cibo in abbondanza!» esclamò, scoppiando a ridere fragorosamente.
«Lo vedo...» commentai, accodandomi alla sua risata ed osservando ancora una volta, completamente incredula, tutto quel ben di Dio sparso per la stanza.
Presi uno spiedino di carne, di quale animale non lo sapevo e non avevo nessuna intenzione di scoprirlo, e quando fui in procinto di addentarlo Shachi e Penguin comparirono all’improvviso accanto a me.
«Cami, ci sei mancata» fece l’orca con espressione voluttuosa, piegandosi ed allungando la testa in direzione del mio seno.
«Già...» confermò l’amico, che aveva compiuto i suoi stessi movimenti e aveva la stessa faccia compiaciuta.
Alzai gli occhi al cielo e posai lo spiedino. Non si riusciva nemmeno più a mangiare in pace. Poggiai i palmi delle mani sulle loro fronti e li spinsi via con poca delicatezza.
«Ti vogliamo bene anche quando ci tratti male!» mi fecero sapere con voce stridula i due idioti, che in quel momento mi ricordavano tanto Sanji. Eccetto che lui era un gentiluomo, mentre loro...Scossi la testa e sbuffai una risata. L’idea del banchetto non si era rivelata poi così maligna come pensavo. Se non altro mi stavo divertendo.
«Cami...» esordì Penguin, che mi era tornato vicino. Ero già pronta a lasciargli l’impronta delle mie cinque dita sulla guancia.
«A proposito di quella storia del lumacofono...» continuò poi, serio «mi dispiace» mi fece sapere con espressione cupa.
Ecco. Con quella frase aveva rovinato tutto. All’improvviso mi ritornarono in mente tutte le vicende accadute su Lyborn e il senso di inadeguatezza ritornò a farsi vivo in me, a bruciare, a consumarmi da dentro. Lo stomaco mi si era attorcigliato e mi si era formato un nodo in gola. Era come se mi fossi svegliata da un bel sogno e fossi ritornata alla realtà, che era ben peggiore. E adesso mi trovavo lì, senza sapere perché mi trovassi lì, in mezzo a gente che mangiava e beveva generosamente, con Jean Bart che era stato obbligato a fare da cameriere, Penguin e Shachi che lanciavano brindisi a vuoto come scusa per trangugiare alcolici e Ryu che dava direttive a destra e a manca. Ed io, in mezzo a tutte quelle facce allegre e festose, avevo un’espressione da cane bastonato. Mi sembrava di essere ritornata nel mio mondo, quando le mie amiche mi costringevano ad andare in discoteca ed io me ne stavo ferma in mezzo alla pista da ballo a fare il palo mentre tutti gli altri si scatenavano.
Mi avviai in automatico verso quella che al momento era la mia unica fonte di salvezza. Aprii il frigo, con un bagliore negli occhi. Non vedevo l’ora di assaporare quel nettare degli dei. Lo cercai in lungo e in largo, su tutti i ripiani. Aprii perfino il congelatore. Ma della bottiglia di vino che avevo avviato qualche giorno prima non c’era traccia. Mi girai verso i miei compagni per chiedere spiegazioni.
«Ah, già. Abbiamo finito il vino» mi comunicò in tutta tranquillità Shachi.
Spalancai gli occhi.
«Avete finito il vino!?» urlai, furiosa. I due idioti annuirono. Non mostrarono nemmeno un po’ di rimorso o di dispiacere per aver finito la mia bottiglia di vino.
Mi misi le mani tra i capelli e scossi la testa. Come avrei fatto adesso? Ci sarebbero voluti secoli prima che Law mi avesse dato il permesso per sbarcare di nuovo. Non avrei potuto sopravvivere senza vino, non così a lungo almeno.
Sbuffai e decisi che ne avevo abbastanza di tutti quegli stupidi festeggiamenti. Cosa c’era da festeggiare, poi? Il mio fallimento? Per quanto mi costasse ammetterlo, aveva ragione il capitano. Non c’era nulla da celebrare. Uscii dalla cucina e mi diressi a passo svelto – il massimo che la mia gamba ferita potesse concedermi – verso la mia stanza. Non mi importava più nulla del banchetto e speravo vivamente che nessuno fosse venuto a cercarmi.
Mi chiusi la porta alle spalle e mi ci appoggiai contro, sospirando. Non era neanche arrivata l’ora di pranzo e già non ne potevo più di quella giornata. Quando pensavo di aver ricevuto abbastanza sorprese, la vidi. Sulla trapunta blu notte del letto, c’era appoggiato un indumento bianco ripiegato con cura. Mi avvicinai con cautela, quasi come se quel pezzo di stoffa potesse animarsi ed attaccarmi all’improvviso. Credevo di sapere cosa fosse quel vestito. I miei sospetti vennero confermati nel momento in cui ebbi modo di osservarlo meglio. Era una divisa. In alto, sul suo lato sinistro, color giallo ocra e bordato di nero, c’era ricamato il jolly roger dei Pirati Heart. Quella era la divisa dei Pirati Heart. Presi un profondo respiro ed annuii, poi ritirai in dentro le labbra e guardai in alto, nel tentativo di scampare alle lacrime che premevano per scendere. Mi dissi che non c’era nulla da piangere. Che ero stata io stessa a mettermi in quella posizione. Avevo fatto un errore e dovevo pagarne le conseguenze. Era giusto così. Me lo meritavo.



Angolo autrice

Salve a tutti, eccomi tornata con un nuovo capitolo. Questo è quello che definisco un capitolo di passaggio in cui non succede nulla di particolarmente eclatante. Tuttavia spero comunque che vi sia piaciuto e che non l'abbiate trovato noioso! :)
Finalmente Cami è riuscita a ritornare sul sottomarino (sana e salva oltretutto, è un traguardo per lei), ma per avere sviluppi bisognerà aspettare il prossimo capitolo, che vi prometto sarà più movimentato. Questo è stato più un modo per dare spazio anche agli altri membri dei Pirati Heart, che meritano di avere il loro "momento di gloria". Mi auguro di avervi strappato qualche sorriso con i siparietti comici che ho inserito. :)
Ci tenevo a fare solo una precisazione. La reazione eccessivamente ansiosa di Cami nel vedere le ombre e nel pensare che il sottomarino sia sotto assedio, è un modo per far capire che è praticamente tornata al punto di partenza sotto più aspetti. Infatti, per chi se lo ricorda, all'inizio della storia era piuttosto paranoica, inquieta e guardinga. È quasi regredita al suo status iniziale e a conferma di questo c'è il fatto che Law le abbia fatto trovare la divisa dei Pirati Heart, che da adesso in poi sarà costretta ad indossare. Comunque, si capirà tutto meglio nel prossimo capitolo.
Detto questo, ringrazio in anticipo chiunque vorrà lasciarmi una recensione. :)
Alla prossima! :)
 

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Capitolo 34
*** Punto di partenza ***


Non mi sbagliavo. Furono settimane d’inferno per me. Nel momento in cui tolsi i punti e la mia gamba iniziò a guarire, tutto ripartì al triplo della velocità. La magia era svanita, proprio come mi aspettavo. Fu come tornare ai primi tempi, quando ero così stanca che avrei potuto dormire in piedi. L’unica differenza che c’era tra adesso e i primi giorni, era che ora volevo riconquistare a tutti i costi quel poco di fiducia che mi ero guadagnata. Non sarebbe stato facile, ma volevo, dovevo e potevo farlo. Certo, non avevo vita facile. Tra lo studio, l’addestramento e i turni per le pulizie, non avevo più nemmeno il tempo per guardarmi allo specchio. Non che volessi farlo, ero sicura di essere diventata uno straccio ambulante, pallida e con due occhiaie che mi arrivavano fino ai piedi. E per di più, purtroppo, non mi sbagliavo neanche su un altro fatto. Mi era rimasta la cicatrice della ferita, e non avevo nessuna voglia di vedere quello sfregio antiestetico anche riflesso in un vetro.
Law non mi aveva praticamente più rivolto la parola in quei giorni, se non per rispondere alle mie domande con dei meri monosillabi e dei flebili accenni del capo. Non mi aveva più fatto fare pratica, non aveva richiesto la mia presenza in infermeria nemmeno una volta, né mi aveva dato il permesso per sbarcare su alcuna isola. Di conseguenza andavo avanti da settimane senza le due cose che amavo di più. Il vino e le operazioni chirurgiche. Inutile dire che in quel modo mi sembrava che stessi sprecando il mio tempo. Bepo, invece, aveva deciso che finché la mia gamba non fosse guarita del tutto avremmo lavorato solo ed esclusivamente sulla flessibilità, perché sosteneva che per essere un bravo guerriero servisse anche avere i muscoli e le ossa flessibili. Per cui i miei allenamenti andavano avanti a crampi muscolari e lamenti di dolore. L’esercizio più efficace secondo lui era prendere due sedie, distanziarle di circa un metro e mezzo l’una dall’altra e farmi appoggiare un piede su una ed il ginocchio della gamba opposta sull’altra. Sarebbe superfluo dire che più che aumentare la mia flessibilità, tale pratica mi sembrava più una tortura cinese. E, non soddisfatto dai risultati, talvolta si sedeva anche sopra di me, come se fossi un’amaca, costringendo le mie gambe a divaricarsi ancora di più. No, non era una metafora sessuale, non lo era affatto. Era semplicemente un vero e proprio supplizio. Il Visone non mostrava alcuna pietà per me e per i miei poveri legamenti. Per non parlare della mia schiena. Tra tutte le parti martoriate del mio corpo, forse era quella messa peggio. Un brivido attraversava tutto il mio corpo quando di tanto in tanto sentivo le ossa scricchiolare. Non sapevo cosa si fosse messo in testa, ma avrei dovuto imparare a combattere, non partecipare alle Olimpiadi di ginnastica ritmica, per quanto mi sarebbe piaciuto, forse in un’altra vita. Come se l’essere diventata una fisarmonica umana agli occhi di Bepo non fosse bastato, a peggiorare la situazione c’erano i turni di pulizia del bagno. Quelli erano davvero massacranti. E avrebbero messo a dura prova la compostezza e la sanità mentale di chiunque, perfino degli animi più ferrei. Non avevo idea di cosa ci facessero in quei bagni – o meglio, ce l’avevo perfettamente solo che pensarci mi faceva ribrezzo – ma ogni volta sembrava che là dentro avessero banchettato con dei ratti morti da un anno. Anche la cucina di Ryu, che tendeva sempre ad esagerare con le spezie, non era d’aiuto. E a proposito del cuoco, anche lui mi dava il suo bel da fare con piatti da lavare e tentativi di insegnarmi a cucinare. Ancora non aveva capito che non era quella la mia vocazione. La sola cosa che ero capace a fare era la torta con la glassa che avevo preparato per il compleanno del Chirurgo della Morte. Gli unici momenti liberi che avevo li utilizzavo per leggermi i pesanti ed enormi tomi di medicina che mi aveva dato Law, che spesso si riducevano a tre pagine alla volta, lette fugacemente prima di andare a dormire o prima di fare colazione. La mia unica fonte di sostentamento e di salvezza – che era diventata tale anche per forza – era il caffè. Non mi piaceva particolarmente, ma ero arrivata al punto in cui se non ne prendevo almeno una tazza la mattina non arrivavo intera alla sera. E l’unica cosa positiva in tutto quel caos di compiti da svolgere – che non ero sicura fosse poi così positiva – era che non dovevo nemmeno alzarmi troppo presto dal letto, perché spesso nemmeno ci andavo a letto. Mi addormentavo direttamente sulla scrivania, sopra ai libri e con la lampada ancora accesa, stremata dal troppo lavoro. Poi mi risvegliavo la mattina dopo – per miracolo – con il collo dolorante e più stanchezza del giorno prima. A volte nemmeno potevo avere la soddisfazione di sdraiarmi due minuti sul materasso. Mi toccava fare il turno come vedetta, le notti in cui risalivamo in superficie. Era un compito molto ingrato, che fino a quel momento avevo avuto la fortuna di non svolgere. Lo facevo. Facevo tutto senza lamentarmi ed accettavo di buon grado i compiti che mi davano da eseguire, ma dentro di me sapevo che quello era troppo. Era troppo per me e sarebbe stato troppo per chiunque. Mi chiedevo per quanto tempo ancora sarei potuta andare avanti senza impazzire o avere una crisi di nervi e scoppiare in lacrime. Mai come in quel momento della mia vita mi ero sentita più vicina ad avere un esaurimento nervoso. Assurdo come un paio di decisioni sbagliate potevano portare allo scatafascio di un sogno, o di un rapporto. Era un equilibrio molto fragile quello che si era creato. Quello che avevo creato, con tanta fatica e tanti sacrifici. Finché non avevo fatto cazzate era andato tutto bene, ma nel momento in cui avevo fatto un solo, piccolo sbaglio, tutto era andato a puttane. Tutto si era sgretolato ed ero dovuta tornare al punto di partenza, come succedeva nel Monopoli o nel Gioco dell’Oca. Bastava un tiro di dado sbagliato ed eri fottuto. E a me dispiaceva, dispiaceva molto, soprattutto perché tutto il mio duro lavoro era andato perduto. Era stato inutile, cancellato da quel mio unico errore. Da un lato sapevo di meritarmi la mia “punizione”, ma dall’altro...ero un essere umano, come quasi tutti su quel sottomarino. E sentivo che non fosse giusto pagare un prezzo così caro per la mia negligenza. Tutti noi sbagliamo. Tutti abbiamo dei momenti in cui vacilliamo. Ma poi impariamo dai nostri errori. È questo il bello dell’essere umani. Avevo capito. Non avrei più commesso un errore simile. Quindi perché continuare a fare la guerra e a distruggermi in quel modo? Che utilità aveva tutto questo, se non quella di sfinirmi mentalmente e fisicamente e farmi sentire ancora peggio? Come ci ero finita così? Perché se i pirati erano le persone più libere del mondo, io mi sentivo così in trappola?
 
Sapevo che il giorno in cui avrei dato di matto sarebbe arrivato. Avrei voluto resistere più a lungo, ma ero già oltre le mie possibilità.
Era una normalissima – ed indaffaratissima – giornata come le altre. Era mattina e stavo portando una cesta di panni sporchi nella sala adibita alla lavanderia, mentre riflettevo su quanto orripilante e scomoda potesse essere quella maledetta divisa bianca che ero stata costretta ad indossare. Shachi e Penguin ne erano entusiasti, così finalmente avremmo potuto fare i tre gemellini felici, ma io ne ero disgustata. L’unica nota positiva era che almeno non dovevo indossare quegli orribili stivali che avevano tutti. Mi era stato concesso di tenere ai piedi i miei, che per quanto sembrasse stupido per me erano molto meglio.
Fu una frase a scatenare tutto.
«Fai attenzione, Maya» disse Omen, preoccupato, alla sua amica. Davanti a me, nel lungo corridoio, c’erano i miei due compagni che chiacchieravano amabilmente.
«So badare a me stessa» rispose lei, sogghignando.
«A cosa devi fare attenzione?» chiesi io a quel punto, incuriosita.
Maya esitò un attimo prima di rispondermi. Appoggiai il cesto a terra ed incrociai le braccia.
«Vuota il sacco» la incalzai, con uno sguardo che non ammetteva repliche.
«Non sono sicura che tu voglia saperlo» affermò, in un sussurro che però udii fin troppo bene.
Alzai un sopracciglio e la fissai, seria.
«D’accordo» cedette lei, sospirando «questo pomeriggio sbarcheremo su Kaitei, un’isola estiva»
«E quindi?» domandai io, che ancora non avevo ben chiara la situazione.
«Gli abitanti hanno bisogno di cure, sono vittime di un’epidemia virale che li insidia da mesi» mi spiegò.
Evitai di parlare, per non fare brutte figure e per non scatenare l’inferno. Forse non era come pensavo.
«Il capitano ha richiesto la presenza di tutta l’equipe medica e dal momento che manca del personale, vuole che vada anche io» mi annunciò titubante.
«Tutta l’equipe medica» ripetei io, annuendo lentamente. Era esattamente come pensavo, invece.
«Mi dispiace, Cami» fece la mia amica, mortificata. Alle sue parole scossi la testa.
«E perché? Non c’è nulla di cui dispiacersi» le comunicai, scandendo bene ogni parola.
«Beh...» iniziò, ma io non le diedi il tempo di finire la frase. La superai a passo svelto, sapevo esattamente dov’ero diretta.
Omen, però, mi afferrò il polso, costringendomi a fermarmi e a voltarmi. Guardai prima la sua mano, che mi impediva di continuare a camminare e poi lui, con sguardo truce.
«Non fare cazzate» mi disse, grave. Continuai ad osservarlo per un paio di secondi, poi, mi divincolai dalla sua presa e sfoggiai il sorriso più innocente che riuscissi a fare. Tornai indietro e recuperai il cesto dei panni sporchi.
«Non ti preoccupare, so come si fa il bucato. I bianchi devono essere lavati separatamente dai colorati. Non voglio che la divisa di Bepo si scolorisca, né tantomeno che le nostre si macchino» lo rassicurai, sempre sorridendo.
A quel punto i miei due interlocutori, dopo essersi scambiati un'occhiata perplessa e sospettosa, si tranquillizzarono e mi lasciarono andare. Avevano commesso un errore da principianti, però. E a ripensarci bene sarebbe stato meglio se mi avessero trattenuta con tutte le loro forze.
Inutile dire che non appena finii di caricare ed impostare la lavatrice, mi diressi nello studio di una certa persona, veloce come un fulmine.
 
Bussai, la porta era socchiusa. Non aspettai una risposta e la aprii, piano.
«Posso parlarti?» chiesi alla figura dall’altra parte della stanza, che non mi aveva ancora degnato di uno sguardo. Law scostò di poco la sedia dal tavolo, si tolse gli occhiali rettangolari – quelli che usava solo quando aveva intenzione di leggere per molto tempo – e li posò sul libro che stava leggendo. Poi poggiò la schiena allo schienale della seggiola, incrociò gambe e braccia e mi fissò. Evidentemente aveva capito l’antifona.
«Se è necessario» fece, con aria di sufficienza.
«Lo è» gli risposi io, in maniera dura. Se era la guerra a chi usava il tono più freddo che voleva, la guerra avrebbe avuto. Anche se per me quella era già guerra. Una guerra psicologica infida e insidiosa. E sarebbe stata anche pericolosa, se avessimo continuato così. “Non svegliare il can che dorme”, recitava il detto; ed io fino a quel momento ero stata fin troppo buona, ma ora il cane si era svegliato ed era pronto ad attaccare, qualora fosse stato necessario.
«Qual è il problema?» volle sapere lui, che cominciava ad infastidirsi. Lo conoscevo bene, sapevo che odiava chi non andava subito al punto e gli faceva perdere tempo. Ma non gliel’avrei data vinta, anzi, gliel’avrei fatta sudare.
«Ho sentito che sbarcherete su Kaitei, oggi» iniziai io «tu e tutto il personale medico» continuai, appoggiandomi allo stipite della porta ed incrociando a mia volta le braccia.
«Le notizie volano» commentò, facendo un piccolo ghigno «Quindi?» chiese poi, fissandomi negli occhi.
«Quindi non sono stata convocata» gli feci presente in tono piatto.
«Ne sono consapevole» replicò lui, con un tono altrettanto piatto.
«E a quanto pare porterai Maya al posto mio. Mi sbaglio?».
Cercai di sembrare il più distaccata possibile, anche se non era affatto facile.
Si limitò ad annuire quasi impercettibilmente, tornando a concentrarsi sulla sua lettura, come se io non fossi lì.
«Per quanto ancora hai intenzione di andare avanti con questa farsa?» gli domandai. Lui alzò gli occhi dal libro e ricominciò a fissarmi. Intercettai il suo sguardo e lo fissai a mia volta, scura in volto. «Per quanto ancora andremo avanti così? Per quanto ancora tu continuerai a rispondermi a monosillabi e a rivolgermi sguardi fugaci e disgustati? Quanto dovrò aspettare prima di rivedere un paziente, un’isola o una sala operatoria?».
Alzò un sopracciglio, ma non disse niente. Forse non sapeva cosa rispondermi.
«Sai che sono brava. Sai quanto valgo e sai anche che di tutto l’equipaggio medico sono quella con più potenziale. Quindi per quanto ancora hai intenzione di punirmi per aver commesso un errore?» continuai, fiera e sicura.
«Tu non hai commesso un errore» cominciò serio.
Corrugai le sopracciglia. Dove voleva arrivare?
«Tu hai deciso di commettere un errore» mi spiegò, impassibile.
Sbattei le palpebre un paio di volte per cercare di comprendere quello che mi aveva appena detto. Quando, pochi secondi dopo, ci arrivai, non seppi cosa rispondergli. Non immediatamente, almeno.
«E anche se fosse? Sono un essere umano, come quasi tutti su questo sottomarino. E come tutti posso sbagliare, o decidere di sbagliare o quello che è. Quindi perché continui a trattarmi come se ai tuoi occhi fossi spazzatura?»
Alla fine avevo trovato qualcosa da dire. E la mia era anche un’argomentazione valida.
«Ti tratto come meriti di essere trattata» rispose. Lo annunciò con una calma disarmante. E fu proprio il modo in cui lo disse ad offendermi e ferirmi.
«Mi merito una seconda occasione. Mi merito di sbarcare su quell’isola, e tu lo sai meglio di me» lo incalzai. Se voleva giocare a chi era più bravo a rigirare le parole, sarei stata al suo stupido gioco. E avrei anche vinto, perché ci sapevo fare.
«Tu non ti meriti niente» sputò. Lo disse con un tale disprezzo nella voce che il mio stomaco si attorcigliò su se stesso «l’unico motivo per cui sei qui è perché io ti permetto di stare qui. Ma ricordati che niente ti è dovuto».
Rimasi in silenzio a riflettere sulle sue parole. O meglio, su quanto le sue parole mi avessero ferito. Non aveva tutti i torti, se ero lì su quel sottomarino era semplicemente perché il chirurgo mi aveva gentilmente concesso di stare lì. Ma questo non gli dava il diritto di comportarsi come se non esistessi, come se fossi meno di zero.
«Se questo è quello che pensi, allora io e te non abbiamo più niente da dirci.» gli annunciai freddamente «Non intendo sprecare un secondo di più del mio tempo a stare con persone che non apprezzano né me, né il mio lavoro.»
Si intrecciò in tutta tranquillità le dita dietro la nuca. «Nessuno ti costringe a rimanere qui. Se non ti sta bene il modo in cui vieni trattata sei libera di andartene» disse semplicemente.
Chiusi le dita a pugno e le strinsi fino a far diventare bianche le nocche. Ero furiosa oltre ogni misura.
«Ma guardati. Guarda come sei diventato. Era davvero così che volevi essere? Hai passato una vita a cercare di non assomigliare a Doflamingo e a dire che non eri affatto come lui. E invece sei identico. Quando ti guardo riesco quasi a vedere la stessa persona. Non mostri pietà o compassione per nessuno. Se solo Cora-san potesse vederti adesso...»
A quelle parole scattò in piedi, senza darmi il tempo di finire la frase.
«Non osare pronunciare il suo nome. Tu non sai niente di lui.» sibilò, in preda alla furia omicida.
Mi portai le braccia sui fianchi e spostai il peso del corpo da un piede all’altro. Non ero preoccupata da quel suo gesto. Non avevo paura di Law. Anzi, ero contenta di essere finalmente riuscita a provocarlo, a farlo reagire in qualche modo.
«E tu invece? Tu cosa sai di preciso? Cosa sai di me? Sono quasi morta e da quel momento tu non mi hai più rivolto la parola. Ti sei mai preoccupato, bendaggi e medicazioni a parte, di sapere come stessi? Ovviamente no, perché l’unica cosa che hai visto è stato il mio errore!» gli gridai con rabbia.
«Se il fatto di essere quasi morta ti spaventa così tanto, dovresti rivedere le tue priorità e il tipo di vita che hai scelto» rincarò la dose, in tutta tranquillità, rimettendosi a sedere e apparentemente calmandosi. Il Chirurgo della Morte non poteva mostrarsi preda delle emozioni, perché lui era freddo e calcolatore, aveva il cuore di pietra e non aveva sentimenti. Ma a me non la dava a bere. Non l’aveva mai data a bere. Non gli avrei permesso di ferirmi, non questa volta. Avrei contrattaccato con tutti i mezzi a mia disposizione, se necessario.
«Tu sei il capitano di una ciurma di pirati. Dovresti preoccuparti di informarti sulla salute fisica e mentale dei tuoi sottoposti. Noi non siamo macchine. Siamo esseri umani, con dei pensieri, dei sentimenti e dei limiti. Se il fatto che io non sia infallibile non ti sta bene allora sei tu a dover rivedere le tue azioni e il tuo comportamento.» gracchiai «Forse dovresti iniziare a valutare di formare una ciurma nuova, composta interamente da bestie, come quella di Kaido» gli consigliai poi, con sarcasmo.
Ci fu un attimo di silenzio. In quei secondi pensai di aver vinto, ma invece lui tornò alla carica.
«Sono il tuo capitano. Non devo farti da padre. Se hai bisogno di una figura paterna trova un modo per tornare a casa ed evita di piagnucolare»
«Non pretendo e non ho mai preteso che tu mi faccia da padre, o da fratello, o da angelo custode. E tu lo sai. Mi piacerebbe semplicemente che tu non mi vedessi come un automa o come un tuo esperimento fallito» gli comunicai, cercando di tranquillizzarmi. Non solo non mi rispose, ma si premurò anche di ignorarmi completamente e di tornare alla sua lettura. Questo dimostrava che persona fosse davvero Law e quanto poco realmente ci tenesse a me.
«Ti ho salvato la vita. Io ho fatto il mio dovere, al contrario di te» mi comunicò poco dopo. La sua voce era così calma e indifferente che fu come se una lama mi attraversasse il corpo da parte a parte. Mi morsi un labbro, cercando di tenere a bada le lacrime di rabbia che premevano per uscire. Non sapevo perché quella frase mi avesse fatto così male, eppure mi ritrovavo a lottare per far uscire le parole, che morivano in gola a causa della mia voce spezzata. Una frase. Era bastata una frase per demolirmi completamente. Per farmi sentire come se fossi un completo fallimento su tutta la linea.
«Marco. È stato Marco a salvarmi la vita, se vogliamo essere precisi» lo corressi, in tono leggermente altezzoso, una volta che mi fui ripresa dal mio malessere «senza di lui tu non avresti avuto nessuna ferita da medicare e nessuno da incolpare per quanto accaduto o da disprezzare. Non sarei qui a farti da schiavetta se non ci fosse stato lui. Dovresti ringraziarlo, ha salvato una tua sottoposta. Ha fatto quello che avresti dovuto fare tu» soffiai, quasi accusandolo di essere stato troppo negligente.
Alzò la testa dal libro, senza guardarmi, sfoggiando un piccolo ghigno sul viso.
«Che ne è della tua riconoscenza verso il tuo capitano?» chiese, con una voce suadente e provocatoria. Sapevo che stava iniziando ad arrabbiarsi, e quel suo sogghigno altro non faceva che confermarmi che stava semplicemente giocando con me. Ma stava giocando con il fuoco ed io lo avrei bruciato, stavolta. Perché se così non fosse stato, sarei bruciata io, piano piano, pezzo per pezzo, dall'interno; proprio come aveva fatto Ace.
«Tutto ha un limite.» risposi con sprezzo. Mi rendevo conto che probabilmente stavo esagerando. Mi aveva pur sempre accolta sul suo sottomarino e presa con sé nella sua ciurma, mi aveva insegnato l’arte medica e affetto, gratitudine e pane a parte, non mi aveva mai fatto mancare nulla. Ma io ero arrivata ad un punto in cui non potevo più starmene in silenzio. Dovevo lasciar uscire tutto quello che pensavo, perché altrimenti i miei pensieri mi avrebbero ucciso lentamente dall’interno. Erano troppo logoranti per poter fare finta di nulla. Ormai non potevo più tenermeli dentro. Prima che potessi dire altro, però, fui preceduta da Law.
«Se la Fenice non ti avesse salvata io mi sarei liberato di un’enorme scocciatura» commentò girando una pagina del suo libro, come se non fossi lì. Sentii la rabbia partire dal petto ed irradiarsi rovente in tutto il mio corpo. Il cuore martellava rapido contro le pareti della mia gabbia toracica, la mascella era ermetica, le mani mi tremavano. Le chiusi a pugno, inspirai ed espirai profondamente un paio di volte e poi sorrisi amaramente.
«Ecco dove volevo arrivare» gli annunciai puntandogli l’indice ancora tremante contro «tu non hai mai smesso di vedermi come una palla al piede» affermai contrariata.
«È quello che sei. Lo sei sempre stata e sempre lo sarai. Fattene una ragione» dichiarò freddamente.
Nel sentire le sue parole, prima annuii ritirando in dentro le labbra, poi abbassai lo sguardo e cominciai a scuotere la testa, per nascondere le lacrime che a breve avrebbero rigato le mie guance. Presi un respiro profondo per infondermi forza. Non potevo piangere davanti a lui. Quello sarebbe stato il gesto che mi avrebbe fatto toccare il fondo, sempre che non l’avessi già toccato.
«Fattene una ragione? Sul serio?» chiesi, senza aspettarmi una risposta, con gli occhi pieni di lacrime. Cercai di ricacciarle tutte indietro. Piangere, in quel momento e arrivati a quel punto, era fuori discussione.
«Certo. Ha senso detto da uno che per tredici anni ha bramato e pianificato la sua vendetta contro un altro uomo» considerai sarcasticamente allargando le braccia. Quella conversazione, se così si poteva chiamare, stava diventando assurda e surreale.
«Non era un uomo» si affrettò a precisare in un sibilo. Vidi le sue dita stringersi con vigore attorno al libro che teneva in mano. Le sue nocche erano diventate esangui e i suoi occhi erano pieni di odio. Una solitaria gocciolina di sudore era comparsa sulla sua fronte, mentre il libro iniziava a scricchiolare sotto la pressione della sua violenta presa. Temevo che potesse ridurre in poltiglia quel povero manuale. E non era escluso che lo facesse anche con me.
Si voltò verso di me in uno scatto, potevo vedere chiaramente le sue iridi grigie fiammeggiare per l'ira.
«Non ti immischiare in affari che non ti riguardano.» mi ordinò. Percepivo una velata rabbia nella sua voce. Era ancora convinto di poter riuscire a celarmi le sue emozioni.
«D'accordo. Tanto è questo tutto quello che sai dire. Continui sempre a ripetere le stesse cose» dichiarai, sbuffando una risata.
Non disse nulla. Si limitò ad avvicinare la sedia al tavolo, poggiarci sopra il manuale e ricominciare a leggere.
«Esci e chiudi la porta» mi intimò dopo un po’, sempre immerso nella sua misteriosa lettura. Evidentemente si era stancato di me e di quella discussione. O forse aveva paura di perdere, per una volta. Mi voltai e feci per andarmene, ma poi mi bloccai, asciugai velocemente gli angoli degli occhi con la mano e mi rigirai verso il capitano. Non poteva finire così. Non potevo dargliela vinta. Corrugai le sopracciglia, incrociai le braccia e tornai ad appoggiarmi allo stipite della porta.
«Perché devo essere io? Perché devo sempre essere io quella che paga il prezzo più alto?» gli chiesi nuovamente, sperando in una risposta più esauriente questa volta.
«Smettila di lamentarti. Smettila di fare la vittima e di comportarti come se fossi una mocciosa di quattro anni» rispose lui con durezza e senza degnarmi di uno sguardo.
«Quindi è così che mi vedi? Ci conosciamo da quasi due anni, abbiamo passato gli ultimi mesi sempre insieme e ancora mi vedi come una ragazzina stupida, immatura ed indifesa, oltre che una palla al piede?» domandai, annuendo ripetutamente, come per convalidare quello che già pensavo.
«Il tuo comportamento non fa altro che confermare quello che penso su di te» mi comunicò, voltando un’altra pagina del libro che aveva sotto gli occhi.
«Sai che c’è? Hai ragione. Ho deciso di commettere un errore scegliendo di stare sulla tua nave» feci, molto amareggiata. Poi scossi la testa sbuffando una risata, appena prima di umettarmi le labbra con la punta della lingua «non so perché sto qui a perdere il mio tempo»
«Se credi che sia una perdita di tempo, vattene. Te lo ripeto. Nessuno ti trattiene qui, tantomeno io. Sei libera di fare ciò che desideri» annunciò, sempre preso dal suo stupido libro.
«Bene. Allora facciamola finita con questa farsa. Cacciami dal sottomarino. Te lo ripeto anche io. Non intendo stare un secondo di più con persone che non mi apprezzano. Valgo troppo per sprecare così il mio talento.» ribadii. Ero così arrabbiata che avrei voluto tirargli un pugno dritto sul naso. Ero davvero arrivata al limite stavolta.
«Sentiremo la tua mancanza» affermò ironicamente Law prima di inumidirsi il pollice con la saliva e girare l’ennesima pagina.
Quello era troppo. Eravamo arrivati al punto di non ritorno.
Sbuffai mentre sentivo l’ira impossessarsi di tutto il mio corpo. Mi voltai velocemente e feci per andarmene per non peggiorare ulteriormente la situazione, ma prima di togliere le tende, sentivo il bisogno di dirgli un’ultima cosa.
«Sei proprio come quel mostro di Doflamingo» dichiarai, scuotendo la testa e guardandolo come si guarderebbe un povero cane randagio in cerca di cibo. Non era rabbia quella che c’era nel mio sguardo. Era pietà.
Fu un attimo. Non lo vidi nemmeno spostarsi e non udii il rumore della sedia che si scostava dal tavolo. Sentii solo le sue dita gelide e affusolate premere contro il mio collo. Quella sensazione mi era fin troppo familiare. Il giorno in cui ci eravamo incontrati aveva fatto lo stesso, e nel momento in cui sentii il suo tocco sussultai, proprio come avevo fatto la prima volta. Ma stavolta non era la paura ad avermi fatto sobbalzare, semplicemente mi aveva colta di sorpresa.
Mi soffermai ad osservare il suo braccio, teso ed allungato verso di me. Da quella distanza potevo sentire il suo profumo inondarmi le narici. Poi alzai lo sguardo e lo fissai negli occhi, così intensamente che pensai che avrei quasi potuto entrare nella sua mente.
«Attenta a quello che dici. Dovresti sapere bene che cosa gli è successo. Potrei farti fare la sua stessa fine in meno di un secondo» soffiò. Nei suoi occhi grigi c’era una rabbia che non gli avevo mai visto prima. Eccolo. Il suo punto debole, quello che gli faceva abbandonare tutta la calma e la compostezza che lo caratterizzavano. L’avevo trovato, finalmente. Ero riuscita a far perdere le staffe a Trafalgar D. Water Law. Il mio era davvero talento.
«Oh, allora non c’è bisogno che io mi preoccupi, visto che non sei stato tu a sconfiggerlo. È stato Rufy. E lo sai bene.» lo dissi quasi ridendo, come se mi stessi prendendo gioco della sua debolezza, della sua incapacità di portare a termine l’obiettivo che si era prefissato da tutta una vita.
«Non mi provocare, Camilla. Credi di sapere tutto di me solo perché hai letto qualche insignificante pagina di uno stupido manga, ma non sai di cosa sono realmente capace» mi ammonì con tono vellutato. Pronunciò quelle parole così a sangue freddo che mi venne la pelle d’oca su tutto il corpo. Sapeva essere molto raccapricciante, a volte. Pensai che mi sarebbe piaciuto vedere il suo vero potenziale un giorno, purché non ne fossi io la vittima. Forse sarebbe stato meglio andarci più piano e darsi una regolata. Ma arrivati a quel punto, non potevo più fermarmi.
Sentii la sua mano premere con più forza contro la mia pelle.
«Forza, uccidimi» soffiai «non ho paura di te. Non ho nulla da perdere» pronunciai quelle parole con un bagliore di follia negli occhi. Erano parole vere. Non avevo davvero nulla da perdere. L’unica cosa che avevo e che volevo, che era la stima del mio capitano, l’avevo già persa lungo la strada.
I nostri volti erano a pochi centimetri l’uno dall’altro. Io lo osservavo con sfrontatezza, mentre lui mi fissava con un’espressione impassibile. Era tornato in sé, a quanto pareva.
«Porterò i tuoi saluti a Cora-san. Non sono sicura che ne sarà felice, però» continuai poco dopo, sogghignando. Non sapevo più cosa stavo dicendo. Non ero più io a parlare, era la collera. Tutta l’ira che avevo accumulato dentro in quei mesi era esplosa in quei minuti ed ora si stava riversando violentemente fuori dal mio corpo tramite le parole. Non ero io quella persona. Io non ero così meschina e cattiva. Non pensavo davvero quello che avevo detto. Oppure sì?
Le sue dita si strinsero ancora di più attorno alla mia gola. Deglutii. Stava cominciando a mancarmi il respiro e gli occhi iniziavano a bruciare. Potevo sentire chiaramente il mio collo pulsare sotto la sua morsa stritolatrice.
«Non ti darò questa soddisfazione» sibilò poco dopo, appena prima di lasciare la presa su di me.
Sbuffai una risata e allargai le braccia. «Non mi sorprende. Tu non dai soddisfazioni a nessuno» lo schernii.
«Stai al tuo posto, ingrata. Non sei altro che una ragazzina troppo immatura, presuntuosa, viziata e insignificante» sputò, con aria minacciosa.
Presuntuosa a me? Immatura? Viziata? Insignificante? Ingrata? Serrai la mascella e scossi la testa. Questo era davvero troppo. Sentivo il cuore martellarmi nel petto e tutto il mio corpo tremare, tanto ero adirata. Decisi che invece di esplodere come un vulcano in eruzione sarebbe stato meglio mantenere un approccio freddo.
«Wow. Usi addirittura le stesse parole del Demone Celeste» dissi, alzando ed abbassando velocemente le sopracciglia e ghignando con insolenza a mo’ di provocazione.
«Se la tua morte avverrà per mano mia, mi assicurerò che tu muoia lentamente e tra atroci sofferenze» si pronunciò, con calma e scandendo bene le parole, prima di voltarsi, sbattermi la porta in faccia e tornare a sedere composto.
La cosa mi inquietò non poco. Non solo perché il tono con cui l’aveva detto era estremamente serio, ma anche perché sapevo che non si sarebbe fatto problemi a mettere in pratica le sue minacce. Tuttavia non era quello che mi premeva al momento. Mi aveva sbattuto la porta in faccia. La porta. In faccia. A me. Digrignai i denti e la spalancai con forza. Una folata di vento invase la stanza.
«Sei ancora qui? Togliti dalla mia vista.» ribadì con disprezzo.
«Non mi guardare, se ti do tanto fastidio» replicai «E comunque, mi tolgo volentieri dalla tua vista, devo solo dirti un'ultima cosa» gli comunicai. Dopodiché aspettai qualche secondo in cui ci fu solo silenzio.
«Sarai anche il capitano di questo sottomarino, ma non sei Dio sceso in terra, Law. Quando te ne accorgerai sarà troppo tardi per te» lo avvertii. In tutta risposta lui ghignò. Ormai aveva smesso di ascoltarmi. Era completamente disconnesso.
«Farò in modo di sgombrare la mia camera e radunare tutte le mie cose per tempo, così non appena arriveremo in prossimità della prossima isola su cui sbarcherete sarò pronta a lasciare la ciurma e il sottomarino» lo informai, seria.
«Mi hai fatto perdere fin troppo tempo» commentò lui, velenoso, sempre concentrato sul suo libro.
In quel momento tutto quello che avevamo passato insieme, comprese le esperienze belle, divenne insignificante, schiacciato dal peso della furia che avevo dentro.
«Va’ all’inferno.» gli raccomandai con disprezzo. «E con questo ho finito. Non abbiamo più niente da dirci.» ribadii, stavolta sul serio.
Senza nemmeno aspettare la sua risposta me ne andai e mi precipitai in camera mia più velocemente della luce, assicurandomi anche di sbattere rumorosamente la porta, così che tutti capissero il mio disappunto.
«Adesso basta.» sibilai a me stessa, in preda alla collera più totale.
Mi guardai intorno, setacciando ogni minimo particolare presente nella mia stanza e facendo al contempo mente locale su ciò che dovevo fare. Quando ebbi un quadro ben chiaro della situazione, non persi tempo e mi diressi subito verso l’armadio. Spalancai le ante, tirai fuori la borsa – gentile concessione di Nico Robin – e la gettai sul letto. Poi, presi quanti più vestiti potevo tenere in mano ed iniziai a buttarli caoticamente nella sacca. Sembravo in preda alle convulsioni, tanto si muoveva rapido il mio corpo. Il cuore batteva come un martello contro la cassa toracica e potevo sentire il sangue pulsarmi nelle vene, da quanto ero infuriata. Dovevo calmarmi o mi sarebbe venuto un ictus. Fissai il borsone, ormai pieno, abbandonato sul letto ed indietreggiai di qualche passo, continuando a tenere lo sguardo fisso su di esso e ansimando. Mi passai una mano, tremante, su tutta la faccia e poi la portai al petto, come se quel gesto potesse in qualche modo rallentare il mio battito cardiaco. Provai a prendere dei respiri profondi. Avrei dovuto ragionare sul da farsi quando fossi stata più calma e più lucida. Per il momento non avevo idea di che cosa avrei fatto. Non potevo rimanere lì, ma non potevo neanche andarmene. Non così, non in quel momento. Non potevo dargliela vinta; ma non potevo continuare ad andare avanti in quel modo. Non avrei retto la tortura logorante a cui mi sarei dovuta sottoporre giorno dopo giorno. E le cose, dopo la sfuriata che avevo fatto a Law, sarebbero peggiorate ulteriormente.
Sbuffai con violenza. La situazione era critica, il malumore era alle stelle e non mi ricordavo un momento della mia vita in cui fossi stata più incazzata di quanto lo ero ora. Non ero riuscita a calmarmi neanche un po’. Ogni volta che sembravo rilassarmi, ripensavo alla discussione avuta poco prima con quell’idiota e tornavo ad essere furiosa. Avevo i nervi a fior di pelle, il cuore mi batteva a mille, le mani non avevano smesso di tremarmi un attimo, gli occhi bruciavano di rabbia e non riuscivo a stare ferma. Passeggiavo nervosamente avanti e indietro per tutta la stanza, aprendo e chiudendo i pugni ad intermittenza. Avevo agito d’impulso ed ero esplosa, forse stupidamente, perché se mi avesse davvero cacciato dal sottomarino non avrei saputo dove andare; e quasi con certezza avrei dovuto rinunciare al mio sogno. Per quanto mi scocciasse ammetterlo, Law era il mio biglietto d’oro. Il mio unico biglietto. L’unica possibilità che avevo di diventare un bravo medico e di vedere Rufy coronare il suo sogno. Anche se a quel punto non sapevo più se il gioco valesse la candela. E non sapevo se volevo restare sul Polar Tang. Era vero, avevo sbagliato. Avrei dovuto tenermi il chirurgo buono e caro fino al momento in cui avrei avuto l'opportunità di realizzare i miei sogni, ma ero incazzata. Dio, se ero incazzata. Ero al limite della sopportazione e molto probabilmente avevo passato di gran lunga il punto di non ritorno. La situazione stava davvero precipitando, ma stavolta non sapevo se sarei stata in grado di rimediare. Avevo paura di aver mandato tutto a puttane in una manciata di secondi. Che quella fosse la fine della mia carriera come medico sul sottomarino dei Pirati Heart? Non lo sapevo.
Forse, però, avrei trovato un modo per sistemare le cose poco dopo.



Angolo autrice

E fu così che scoppiò la Terza Guerra Mondiale. Ve l'avevo promessa, vi avevo avvisati, ed eccola qui. Adesso si salvi chi può.
Scherzi a parte, lo so. È il festival dell'OOC. Non solo Law si discosta da quello che è il suo personaggio usuale, ma anche Cami lo fa in questo capitolo. Prima che mi puntiate i forconi contro, però, ci tengo a dire una cosa. Le azioni e le parole di entrambi i personaggi sono guidate dalla rabbia. Nel caso di Camilla, è una collera che si è insinuata in lei piano piano, per poi crescere sempre di più, che si è portata dentro per settimane e che alla fine è uscita fuori nel modo più violento e sbagliato possibile. Nel caso del chirurgo, invece, è più un fastidio provocato dalla sua sottoposta, che non vuole e non può stare zitta, che poi è sfociato in furia omicida nel momento in cui la ragazza ha capito quali armi usare contro di lui e ha fatto leva sui suoi nervi scoperti.
Questo è quello che la mia mente ha partorito. Mi scuso per l'incredibile lunghezza del capitolo e vi avviso in anticipo che anche i prossimi saranno piuttosto lunghi. Per il momento, però, possiamo solo aspettare di vedere come evolverà la situazione e se questo conflitto tra "Titani" si risolverà una volta per tutte.
Spero comunque che questo trentaquattresimo capitolo vi sia piaciuto, che sia scorrevole da leggere e che i contenuti siano coerenti. Fatemi sapere cosa ne pensate se ne avete voglia, mi farebbe molto piacere conoscere la vostra opinione! :)
Bene, mi pare di aver detto tutto quello che c'era da dire. A presto!

P.s. E voi, da che parte state? Spalleggiate il gelido e tenebroso chirurgo o siete dalla parte della sua (probabilmente non ancora per molto) piccola e graffiante subordinata?

P.p.s. Buona Pasqua a tutti e Buon Lunedì dell'Angelo! <3

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Capitolo 35
*** Complicazioni ***


«Tocca a te» comunicai annoiata a Shachi, appoggiando la schiena al parapetto del ponte e sorseggiando il drink che Ryu aveva gentilmente preparato per me. Non c’era il vino dentro, ma era pur sempre meglio di niente. Quel giorno avevo davvero bisogno di bere qualcosa di alcolico che mi annebbiasse i pensieri almeno per una mezz’ora.
L’orca guardò le carte che aveva in mano e quelle che erano in “tavola” con una faccia estremamente concentrata. Assottigliò gli occhi e si morse il labbro, indeciso sul da farsi.
«Su, muoviti, che non abbiamo tutto il giorno!» si spazientì Penguin.
«Stai zitto, idiota! Questo è un gioco che va affrontato con calma, bisogna riflettere! Ah già, dimenticavo che tu non puoi farlo perché non hai un cervello!» gli urlò l'altro, irritato.
Il pinguino tirò un pugno al braccio del suo compagno. Alzai gli occhi al cielo. Era sempre la stessa storia. Anzi che questa volta nessuno aveva tentato di sbirciare le carte a qualcun altro. Quei due avrebbero fatto di tutto pur di vincere, ma io non glielo avevo e non glielo avrei mai permesso.
«Ti decidi a tirare questa cazzo di carta, per amor del cielo!?» gridai all’improvviso, parecchio infastidita dalla lentezza con cui Shachi compiva le mosse.
Tutti i miei compagni presenti sul ponte si voltarono a guardarmi, sconcertati. Li fissai uno ad uno con sguardo estremamente truce. Compresero alla svelta che sarebbe stato meglio per loro se fossero tornati a fare ciò che stavano facendo fino a pochi secondi prima. Ero sicura che tutti avessero notato che quel giorno qualcosa non andava, ammesso che non fossero stati ad origliare il litigio furioso avvenuto tra me e il capitano, di cui tra l’altro portavo ancora i segni sul collo. Erano lividi lievi, la pelle era appena un po’ arrossata e non si vedevano tanto, ma un occhio attento, come il mio o quello di qualche altro dottore, se ne sarebbe facilmente accorto, qualora ci fosse soffermato. Tuttavia l’unica cosa che al momento non volevo che i miei compagni notassero era la borsa piena di vestiti ed effetti personali che giaceva immobile sul mio letto. Non avevo ancora deciso cosa fare e per il momento speravo di riuscire a rilassarmi un po’ facendo quello che a quanto pareva mi riusciva meglio. Bere e giocare a carte.
«Forse è meglio se bevi un altro po’ di quello» azzardò l’orca, indicando il bicchiere accanto a me, ormai quasi vuoto.
Alzai un sopracciglio. «State cercando di farmi ubriacare per vincere la partita?» indagai, scettica. «Perché non funzionerebbe comunque. Potrei battervi ad occhi chiusi, per quanto siete scarsi» affermai poi.
«Ah, quanto mi manca Marco...almeno con lui era divertente giocare a carte» bisbigliai a me stessa, cosicché nessuno sentisse, bevendo un altro generoso sorso del drink. Era buono. Sapeva di mango e ananas. Un’altra cosa che mi riportò alla mente la Fenice.
«No, non lo faremmo mai!» si difese Shachi «io lo dicevo perché un po’ d’alcol forse ti aiuterebbe a distendere i nervi» mi spiegò cautamente.
Aveva ragione. Avevo davvero bisogno di distendere i nervi e calmarmi un po’. Ero ancora agitata per l’accesa discussione che avevo avuto con Law quella mattina e supponevo che l’arrabbiatura non mi sarebbe passata presto. Per rimettere a posto le cose, ammesso che sarebbero tornate a posto, ci sarebbe voluto più di qualche giorno. E delle semplici scuse, che fossi stata io a scusarmi oppure lui, non sarebbero bastate. Per fortuna nel primo pomeriggio era partito con una delle scialuppe ed era andato sull’isola. Non sapevo per quanto ci sarebbe rimasto, ma almeno avrei avuto qualche ora di tranquillità. La cosiddetta quiete prima della tempesta. Mi avrebbe cacciato dal sottomarino? Si sarebbe scusato? Avrei deciso io di andarmene? O avrei ceduto e gli avrei chiesto scusa? Non potevo saperlo. Si sarebbe deciso tutto durante la resa dei conti decisiva.
«E tira questa benedetta carta!» urlai, indicando con il palmo della mano il pavimento dove c’erano le altre carte calate in precedenza.
I miei due momentanei avversari si guardarono tra loro, perplessi e anche un po’ impauriti, poi Shachi finalmente si decise a fare la sua mossa.
«Tsk. Sei stato un’ora a pensare a cosa fare e alla fine che hai fatto? Hai pescato. Sei proprio un idiota» lo derise il suo compagno.
Iniziò un altro battibecco. Quei due a tratti erano peggio di Zoro e Sanji.
«Fatela finita» intimai loro molto fiaccamente, sapendo che non mi avrebbero ascoltato comunque. Posai le carte che tenevo in mano accanto al drink. Ci sarebbe voluto un po’ prima che quei due avessero smesso. Non si poteva giocare così.
Appoggiai il mento sulla mano ed iniziai a vagare con la mente, con in sottofondo le urla dei due imbecilli. Chissà che stava facendo Rufy. Chissà se lui e la sua ciurma stavano bene. Chissà se avevano sconfitto Jack. Era da tanto che non avevo più loro notizie. Sapevo – e confidavo – che prima o poi ci saremmo rivisti, dopotutto l’alleanza era ancora in piedi, ma mi chiedevo quanto ci sarebbe voluto prima che ciò accadesse. Ora che la situazione era quella che era, sentivo più che mai il bisogno di rivederli.
Mi portai indice e medio al colletto della divisa ed iniziai a tirarlo con un’espressione infastidita sul viso. All’improvviso mi sembrava troppo stretto, cominciavo a sentire caldo. Ora capivo la sofferenza di Bepo. Sebbene fossimo lontani dalla costa di Kaitei, il clima estivo ed afoso dell’isola si faceva sentire anche sul sottomarino. Il sole picchiava cocente sulle nostre teste. Caldo, sentivo caldo. Incominciai a sventolare la mano davanti alla faccia per farmi aria. Tutto ad un tratto mi accorsi che stavo sudando. Dovevo fare qualcosa o mi sarei squagliata. Non riuscivo a respirare. Sentivo la pelle bruciare nel punto in cui poco prima mi avevano toccato le dita di Law. Era come se mi avesse lasciato delle impronte roventi sul collo. Mi slacciai la cerniera della divisa fino all’ombelico e mi sfilai le maniche. Ero praticamente rimasta in reggiseno, ma non importava.
«Cami, stai bene?» mi chiese Penguin, che aveva interrotto la discussione con l’amico a causa del mio strano comportamento.
«Ti sembra che io stia bene!?» gli urlai, in preda all’isteria.
«Forse il troppo lavoro ti ha dato alla testa. Dovresti andare a riposarti un po’» mi consigliò Shachi, anche lui leggermente impensierito.
«Ha ragione. Rischi l’esaurimento nervoso di questo passo» gli diede man forte l’altro.
«Fatela finita con queste stronzate. Io sto...» mi fermai un secondo, consapevole che la parola che stavo per dire era totalmente incoerente e assurda «bene» dissi infine, sospirando.
«Se lo dici tu...» fece il pinguino, poco convinto.
Presi un respiro profondo. «Dai, riprendiamo la partita» li incoraggiai.
Sarebbe stato un lungo pomeriggio, anche senza Law.
 
«E con questa fanno tre vittorie di seguito» dissi io, sghignazzando e mimando con le dita il numero di volte in cui avevo sconfitto i miei compagni. Recuperai il mio drink – il terzo di quella giornata – e feci per portarmelo alle labbra, ma purtroppo non fui abbastanza svelta.
«Ehi!» protestai. Penguin mi aveva strappato il bicchiere dalle mani con faccia stizzita ed ora stava tranquillamente prosciugando il suo contenuto. Sbuffai e lo colpii ripetutamente al braccio finché non si decise a restituirmi il cocktail. Storsi la bocca quando mi accorsi che dentro c’era rimasto solo il ghiaccio.
«Ragazzi...» ci richiamò all’improvviso uno dei nostri compagni «venite a vedere...quella non è Maya!?».
Maya? Perché stava tornando? Non sarebbe dovuta rientrare così presto. Mi alzai ed insieme agli altri mi precipitai verso la ringhiera. In mezzo all’immensa distesa blu, una piccola scialuppa di legno navigava verso il sottomarino.
«Mi sbaglio o c’è qualcuno con lei?» chiese uno degli spettatori.
«Ma chi è?» domandò un altro.
«Sembra un ragazzo...non mi pare di averlo mai visto prima» commentò un terzo.
Mi alzai in punta di piedi – come se così facendo potessi vedere meglio – e assottigliai gli occhi.
«Oh, stai a vedere che Maya si è trovata un fidanzato...» piagnucolò Penguin, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Omen.
«Che disgrazia...» commentò Shachi.
Di sicuro quei due avevano qualche problema mentale. Ma non avevo tempo per analizzare le loro turbe mentali. La cosa mi puzzava. C’era qualcosa che non andava, senza dubbio.
Aspettammo che la scialuppa si avvicinasse un po’ di più e quando fu ad una decina di metri da noi, inorridimmo. Omen scattò. Lo dovettero tenere in tre per evitare che si tuffasse in mare per soccorrere la sua amica.
«Presto! Tiriamola su!» gridò qualcuno. Gli addetti al recupero delle scialuppe si mobilitarono e in un paio di minuti Maya e il ragazzo sconosciuto furono sul ponte. Entrambi sanguinavano parecchio, ed il giovane sembrava sotto shock. Per fortuna la mia amica era sveglia e sapeva mantenere la calma anche nelle situazioni più critiche, per cui non ci fu bisogno di chiederle niente. Parlò da sola.
«La Marina...» ansimò Maya, tenendosi il costato «La Marina è qui. C’è una nave da guerra ormeggiata a Sud-Est, poco distante dalla costa e da noi! Kizaru...Kizaru ha riconosciuto le nostre divise e ci ha attaccati» continuò poi con fatica.
«Kizaru!? Mi vuoi dire che sull’isola c’è anche Kizaru!? Merda! Siamo fottuti!» gridò Penguin.
«A quanto pare ha ricevuto l’ordine di uccidere Law e tutti noi con lui» sussurrò la mia amica, ormai allo stremo delle forze «quel pazzo quando ci ha attaccati ha colpito anche dei civili per sbaglio» continuò, con un'espressione disgustata «salvate questo ragazzo...» ci supplicò; e questo fu tutto ciò che riuscì a dire prima di svenire.
Tutti i Pirati Heart presenti sul sottomarino andarono in confusione. Bepo correva da una parte all’altra del ponte gridando come un forsennato, Omen aveva una agitazione addosso che non gli avevo mai visto prima, nemmeno in battaglia, ed era andato ad aiutare la sua amica, non senza una buona dose di preoccupazione. Shachi e Penguin imprecavano come se fossero due camionisti turchi. E poi c’ero io, che in mezzo a quel marasma ero rimasta immobile. La Marina? Kizaru? I compagni feriti? Non riuscivo a pensare a niente di tutto ciò. Non riuscivo a preoccuparmi di niente. L’unica cosa che mi era venuta da pensare era che era tutta colpa delle divise se Maya era stata ferita. Mi ci volle buona parte della mia forza di volontà per trattenere il sorriso che avrei voluto fare. Un ghigno arrogante, che solo i vincitori si possono permettere. A quanto pareva non era infallibile nemmeno il tanto temuto e rinomato Chirurgo della Morte. Gliel’avrei rinfacciato fino a che nel mio corpo ci fosse stata vita, a quel bastardo. Quindi forse per poco, vista la situazione e considerato il fatto che molto probabilmente mi avrebbe ucciso al suo ritorno.
Decisi che avrei avuto tutto il tempo di chiedermi che cosa non andasse in me dopo. Prima dovevo soccorrere i feriti. Bepo si fermò davanti a me, in preda al panico. Mi prese per le spalle e mi scosse abbastanza violentemente.
«Che facciamo!? Che facciamo!? Il capitano non c’è! È in pericolo anche lui! Dobbiamo salvarlo! Oddio, che facciamo!?» strillò, prendendosi il viso tra le mani ed assumendo una posizione simile a quella che si poteva ammirare nel dipinto “L’Urlo” di Munch. Gli diedi un ceffone ben assestato.
«Ora calmati» gli intimai. «Calmatevi tutti» dissi poi, ad alta voce così che tutti potessero sentirmi. Inspiegabilmente i miei compagni si calmarono e si misero in ascolto. Dovevo pensare ad una soluzione molto rapidamente.
«State lontani da me, luridi pirati!» gridò il ragazzino con odio e in totale confusione. Si reggeva in piedi per miracolo e si teneva l’occhio sinistro con una mano. Dal suo viso gocciolava una copiosa quantità di sangue.
«Sedatelo» ordinai, a qualcuno di indefinito. Non avevamo tempo per stare dietro ai capricci di un ragazzino.
Quel folle di un Ammiraglio aveva colpito degli innocenti cittadini. Che l’avesse fatto per sbaglio o no, era veramente un idiota. Qualcuno avrebbe dovuto fermarlo e fargliela pagare. Fino a dove si sarebbe spinto il Governo Mondiale pur di fare fuori persone ritenute pericolose? Eppure c’era qualcosa che non mi tornava. Perché Kizaru? Non era Fujitora quello incaricato di portare al Quartier Generale le teste di Rufy e Law? Che si fosse rifiutato di adempiere ad un tale compito? Scossi la testa, cercando di non pensare al decadimento a cui stava andando incontro quel mondo e agli enigmi che vi si celavano dietro. Non era il momento.
«Chiunque sia esperto di primo soccorso porti i feriti in infermeria ed inizi a curarli, io vi raggiungerò a breve» esordii, una volta che il sedativo ebbe fatto effetto sul ragazzo. Stranamente mi diedero retta ed un gruppetto di persone si diresse in infermeria con i feriti.
«Bepo, hai una mappa dell’isola?» chiesi poi rivolta al navigatore. Dovevo cercare di rimanere calma e mostrarmi sicura, o sarebbero andati nel panico un’altra volta e a quel punto la situazione sarebbe peggiorata ulteriormente, probabilmente diventando irrecuperabile.
L’orso annuì.
«Ok, fammela vedere» gli imposi. Lui corse subito a prenderla sottocoperta. Ci serviva assolutamente un piano B, considerato che saremmo andati nella tana del lupo se avessimo seguito quello originale. Evidentemente sapevano quali erano le nostre intenzioni. Una cosa così non si azzecca per puro caso. A quanto pareva erano molto più preparati loro di quanto lo eravamo noi. Quando il Visone tornò, circa trenta secondi dopo, la srotolammo sul pavimento del ponte e la studiammo insieme. Dovevamo agire in fretta o non ci sarebbero stati superstiti.
«Con il capitano eravamo d’accordo che li avremmo aspettati a Sud-Est, esattamente dove siamo ora» mi annunciò Bepo «c’è una baia ad Ovest, potremmo andare a prenderli lì» propose, tracciando la rotta sulla mappa con il dito. Tutti i presenti annuirono.
«Dobbiamo avvertire il capitano del cambio di piano» affermò Jean Bart «vado a prendere il lumacofono»
«No» lo fermai. Lui mi guardò interrogativo.
«Non possiamo utilizzare il lumacofono. Kizaru ne porta uno nero sempre al polso» spiegai, calma. Ringraziai i miei neuroni, che in quel momento così delicato e particolare avevano avuto quella geniale intuizione e si erano ricordati del piccolo Den Den Mushi che aveva a disposizione l'Ammiraglio per le intercettazioni.
«Merda. Sarebbe un suicidio» commentò Penguin.
«Sì, ma allora come lo avvertiamo?» chiese Bepo, che stava ricominciando ad agitarsi.
Seguirono momenti di silenzio, interrotti da sospiri angosciati. Abbassai la testa e cercai di concentrarmi. Non potevamo perdere altro tempo. L’Ammiraglio con cui avevamo a che fare aveva un potere che lo rendeva veloce come la luce. Nel tempo che stavamo impiegando per elaborare una strategia, quell’uomo poteva aver distrutto l’intera isola ed essersi preso un caffè. In più, in quanto unico medico presente a bordo al momento, dovevo andare al più presto a curare i feriti, che erano messi piuttosto male.
«Andrò io» annunciai all’improvviso. Tutti spalancarono gli occhi. «Senza cintura nessuno può vedermi, a parte il capitano» chiarificai.
«È troppo pericoloso» si espresse Jean Bart.
«Sei sicura di potercela fare?» mi domandò Bepo, apprensivo.
Annuii, seria. «Posso farcela. Kizaru non può vedermi e l’isola non mi sembra così grande. Li troverò e li riporterò qui sani e salvi» affermai, sorridendo lievemente.
Bepo si commosse e mi abbracciò. «Grazie, Cami» mi sussurrò tra un singhiozzo e l’altro.
Sospirai mentre l’orso mi si strofinava addosso. In cosa mi ero andata a cacciare? E perché, poi?  Pregai qualsiasi divinità di darmi una mano, o nessuno ne sarebbe uscito vivo.
 
«Sia Maya che il ragazzo vanno operati» comunicai a tutti quelli che al momento si trovavano in infermeria.
«Ma Jean Bart ha detto che...» iniziò Penguin, che fu subito interrotto.
«Sì, lo so che cosa ha detto Jean Bart. Ma non possiamo aspettare. Il raggio laser di Kizaru ha perforato un polmone a Maya, mentre questo ragazzo potrebbe aver riportato delle lesioni al nervo ottico»
«Quindi come hai intenzione di fare?» chiese Shachi, più razionale del suo amico.
«Faremo l’intervento senza macchinari» annunciai. Ero piuttosto titubante sulla ragionevolezza delle mie parole, ma cercai lo stesso di mostrarmi seria e risoluta «Sono tutte e due operazioni relativamente semplici, non servono per forza strumenti elettrici. Posso eseguirle manualmente, ma i degenti hanno lesioni che vanno trattate subito» aggiunsi, cercando di dare delucidazioni al resto della ciurma sulla procedura che avremmo dovuto seguire.
Ero stata fino a quel momento ad analizzare i pazienti. Avevo dovuto formulare una diagnosi molto in fretta, considerato che i tempi erano stretti, ma se non li avessimo operati subito avrebbero potuto riportare danni permanenti o addirittura morire. Era vero, operarli praticamente senza elettricità era un rischio enorme, ma era l’unica opzione che avevamo se volevamo salvarli. Jean Bart ci aveva detto che da qualche mese a questa parte, la Marina aveva sviluppato una tecnologia sonar molto avanzata, che permetteva alle navi di identificare sott’acqua, anche ad un’elevata distanza, qualsiasi cosa avesse emesso il minimo rumore. Perciò non sarebbe dovuta volare una mosca – letteralmente – all’interno del sottomarino in quel lasso di tempo o ci avrebbero spediti in fondo al mare a fare da cibo per i pesci. L’energumeno in sala macchine stava aspettando solamente che noi gli dessimo l’ok per immergersi e procedere verso la baia ad Ovest.
«Cosa!? Ma sei matta!? Non puoi farlo!» protestò Penguin.
«No, no, no, no. Non ti lascerò operare Maya sapendo che potrebbe morire da un momento all’altro senza che tu nemmeno te ne accorga» sputò Omen.
Serrai la mascella e spostai il peso del corpo da un piede all’altro. Adesso capivo quanto in realtà fosse duro e stancante il lavoro di un capitano.
«Statemi bene a sentire, tutti quanti. Nel momento in cui sono piombata qui, in questo mondo, nessuno mi dava un soldo di fiducia. Nessuno. Sono sopravvissuta un anno e mezzo. Sono sopravvissuta agli addestramenti di Bepo, alla pazzia e al sadismo di Law, alla pulizia dei bagni. Ho salvato delle vite e sono quasi morta. Ma sono ancora qui, contro ogni probabilità. Perciò, oggi, ho bisogno di avere accanto gente che crede in me. Perché sto per fare una cosa molto rischiosa e molto stressante che in pochi hanno fatto fino ad ora. Quindi, tutti quelli che non credono in me o che non sono d’accordo con la mia decisione, escano dall’infermeria. Ho bisogno di avere persone positive al mio fianco.» dichiarai molto solennemente, come se stessi per andare in guerra. I miei compagni mi fissavano attoniti. Non si aspettavano che potessi fare un discorso del genere. «E fareste meglio a non rompermi ulteriormente le palle, perché oggi non è proprio giornata!» gridai poi, sull’orlo di una crisi isterica. Tuttavia dovetti prendere un respiro profondo, farmi forza e non dare di matto davanti a quella marmaglia di gente che già non aveva un briciolo di fiducia in me.
«E tu» mi voltai verso Omen «apri bene le orecchie. Non sei un medico. Io sì. Capisco la tua preoccupazione, è un intervento semplice che in questo modo diventa estremamente rischioso e anche io sono preoccupata, per non dire che me la sto facendo sotto. Ma se non facciamo qualcosa, e alla svelta anche, la tua preziosa Maya morirà lo stesso. E comunque non sei tu a dover decidere, perché ti ripeto, non sei tu il medico» glielo dissi fissandolo negli occhi quasi con sprezzo e lui rimase in silenzio. Non ebbe nulla da ribattere nemmeno dopo un po’.
«Ora con permesso, avrei delle vite da salvare» affermai, uscendo dall’infermeria «Nel frattempo voi pregate che il capitano e il resto dei nostri compagni stiano bene» raccomandai loro, per poi sparire nel lungo corridoio che conduceva alla sala operatoria.
Lo show sarebbe cominciato a breve. E sarebbe stato un successo o...un totale disastro.
 
Era fatta. Uscii dalla sala operatoria asciugandomi il sudore della fronte con la manica della divisa, poi cestinai mascherina e guanti. Osservai i miei compagni mentre facevano sfilare davanti a me i lettini dei pazienti per riportarli in infermeria. Per fortuna erano vivi e stavano bene. Li avevo salvati. Avevo compiuto un'impresa che ai miei occhi – e anche agli occhi degli altri – sarebbe stata impossibile da compiere. Certo, non era stato facile e c’erano stati un paio di intoppi lungo il percorso. Per mezz’ora – il tempo che ci era voluto ad arrivare alla baia – eravamo stati senza macchinari in sala operatoria. In quel lasso di tempo era successo di tutto. Shachi e Penguin mi avevano assistito e fatto da monitor umani. Questo voleva dire che per tutto il tempo in cui avevo operato “alla cieca”, avevano tenuto le loro dita sui rispettivi polsi dei pazienti. Anni e anni passati al fianco di Law avevano dato loro la qualifica necessaria per farlo. Dopo venti minuti, l’orca mi aveva fatto cenno di controllare il battito di Maya, perché c’era qualcosa che non andava. Fortunatamente ero riuscita a scongiurare il peggio, ma il come rimane un mistero perfino per me. Circa cinque minuti dopo, come se non bastasse, io e Shachi avevamo dovuto eseguire una manovra molto delicata. Il pinguino stava per starnutire. E i suoi starnuti, quando ci si metteva, erano così forti che persino la mia famiglia avrebbe potuto sentirli. Perciò, con un intervento fulmineo, io gli avevo tappato il naso mentre il suo amico aveva provveduto a coprirgli la bocca con la mano. Era stata la mezz’ora più lunga della mia vita. Ed era stata anche la mezz’ora in cui avevo mentalmente imprecato di più. Ma tutto era andato per il meglio. Avevo riparato il polmone della mia amica ed il ragazzo dal nome sconosciuto non aveva subito danni al nervo ottico. Avrebbe vissuto una vita lunga e sana e avrebbe potuto vederla scorrere con entrambi i suoi occhi. Avevo dovuto arrangiarmi come meglio potevo, ma ce l’avevo fatta lo stesso e con le mie sole forze, senza una guida e senza strumenti elettrici per i primi trenta minuti.
Ero stata in sala operatoria per cinque lunghe ore ed ero estremamente soddisfatta di quello che avevo fatto. Incrociai le braccia e sorrisi. Ero stanca ma felice. E in quei minuti in cui rimasi in piedi appena fuori dalla sala, mi dissi che era questo il motivo per cui facevo quello che facevo. Questi erano i frutti di tutte le mie fatiche. Salvare vite. Salvare preziose vite umane. E non potevo assolutamente rinunciare al mio sogno. Perché questo, per quanto fosse stressante ed impegnativo, era quello che mi piaceva fare. Era quello che volevo fare, e che mi faceva stare bene. E cominciavo a pensare e a capire che forse era proprio questa la mia vocazione. Ero nata per fare il chirurgo. Ancora una volta, Law ci aveva visto lungo.
«Sei stata grande oggi» mi fece sapere Penguin, dandomi una piccola pacca sulla spalla.
«Un vero fenomeno!» aggiunse Shachi facendo lo stesso.
Abbassai la testa, un po’ imbarazzata da tutti quei complimenti e in parte anche per nascondere il sorriso a trentadue denti che mi era inevitabilmente scappato. Tuttavia il momento idilliaco durò poco.
«Ragazzi!» ci gridò Bepo correndoci incontro a gran velocità. Provammo a spostarci, ma non ci fu nulla da fare. Ci saltò addosso con una tale foga che cademmo all’istante tutti e quattro.
Tra imprecazioni, insulti vari e pianti commossi, riuscii a sentire – anche perché l’aveva praticamente urlato – il Visone che ci annunciava che il capitano e il resto dei medici avevano fatto ritorno al sottomarino e che stavano tutti bene. A causa della durata dell’operazione, alla fine non ero potuta sbarcare per avvisare il chirurgo del cambio di programma. Un po’ mi dispiaceva di non aver potuto fare l’eroina della situazione, ma ero molto sollevata di essere scampata ad una sorte infausta. E poi, in un certo senso ero comunque stata l’eroina della situazione. Il mio intervento su Kaitei sarebbe stato lo stesso inutile, visto che Law si era intestardito che sarebbe rimasto finché non avesse finito di fare quello per cui era sbarcato. Non conoscevo i dettagli, né come fosse andata a finire con Kizaru, ma non mi interessava sapere nulla. Mi bastava sapere che i miei compagni stessero bene.
Mi tolsi di dosso l’orso e tutta la sua pelliccia e mi rialzai, sputacchiando peli. Era stata una giornata lunga e difficile, ma tutto sommato bella; e adesso che avevo la certezza che tutti stessero bene, dato che non potevo contare sul vino, volevo solo stendermi un po’ sul letto, riposarmi e bearmi dei risultati ottenuti.
 
«Cami» mi chiamò Omen proprio mentre abbassavo la maniglia della porta di camera mia. Chiusi gli occhi, ritirai in dentro le labbra e strinsi il pugno della mano libera. Adesso che voleva? Perché c’era sempre qualcosa o qualcuno che mi impediva di andare a stravaccarmi sul letto?
Mi girai verso di lui e lasciai andare la maniglia con grande disappunto. «Sì?»
Prese un respiro profondo. «Grazie per aver salvato Maya» mi disse in tono dolce «mi dispiace di aver dubitato di te» aggiunse, rammaricato.
Non dissi niente. Mi limitai a posargli delicatamente una mano sulla guancia e a sorridergli. Dovevo ammettere che la tentazione di tirargli un calcio nei cosiddetti, qualche ora prima, era stata tanta, ma supponevo di potermi lasciare tutto alle spalle. Il punto era: avrei potuto farlo anche con Trafalgar Law? Mi voltai verso la porta, la spalancai e me la richiusi alle spalle. Vedere il letto fu come avvistare un’oasi in mezzo ad un deserto. Invece che lanciarmici sopra come avevo pianificato, però, feci una cosa che stupì anche me. Mi tolsi finalmente la mia tanto odiata divisa e rimasi in canottiera e mutande. Le stesse mutande con l’orca e il pinguino disegnati sul retro che mi avevano regalato Shachi e Penguin. Poi presi il telefono, attaccai le cuffiette, alzai il volume al massimo ed iniziai a saltare sopra al materasso e a ballare scompostamente sulle note di “Girl on fire” di Alicia Keys. Ero proprio una ragazza in fiamme, come diceva la canzone. In quel momento, in quel preciso momento, mi sentivo come se nessuno potesse fermarmi. Ero inarrestabile. Durante gli ultimi versi, mi inginocchiai, alzai le braccia e mimai le parole agitando il sedere. E fu solo in quel momento che dietro di me intravidi una macchia bianca indefinita. Mi voltai e spalancai gli occhi. Shachi aveva aperto la porta ed ora mi fissava con aria estremamente perplessa. Con una mossa fulminea mi rigirai e mi misi a sedere sul letto con le gambe incrociate, cercando di darmi una parvenza di compostezza.
«Che diavolo stavi facendo?» mi chiese l’orca, corrugando le sopracciglia.
Boccheggiai. Non sapevo proprio cosa rispondere. Ma perché tutte le figure di merda dovevo farle io su quel sottomarino!?
«Stavo...celebrando la mia vittoria?» dissi, con molta incertezza e più come una domanda che come un’affermazione.
L’orca in tutta risposta fece un gesto delle mani che stava a significare di lasciar perdere.
«Non che mi dispiacesse vederti sculettare» mi confessò «e quelle mutande ti stanno proprio bene» continuò alzando il tono di voce di un paio di ottave – proprio come faceva Sanji – e piegando la testa di lato con espressione sognante.
Alzai un sopracciglio. Sarebbe rimasto un marpione a vita.
«Comunque» si riprese scuotendo la testa «il capitano ti cerca. È in infermeria» mi annunciò indicando con il pollice un punto imprecisato alle sue spalle. Poi se ne andò, lasciando la porta aperta.
Sbuffai e mi lasciai cadere con la schiena sulla morbida superficie del letto. Rotolai fino al bordo del materasso, raccolsi la divisa e mi rivestii.
Nel tempo che mi ci volle per arrivare in infermeria non pensai a niente. Avevo deciso che avrei scoperto cosa volesse il chirurgo nel momento in cui l’avrei visto. Qualsiasi fosse stata la sua decisione mi sarebbe andata bene. Dopotutto ci ero andata giù pesante con lui e gli avevo mancato di rispetto. Mi sarebbe dispiaciuto dover abbandonare la ciurma, ma avevo le idee chiare. Non mi sarei arresa. Sarei comunque diventata un ottimo medico, con o senza Law.
Arrivai sulla soglia della porta dell’infermeria e lo vidi. Stava controllando i pazienti. Forse non si fidava di me, o forse lo faceva semplicemente per scrupolo. Comunque ero contenta di vedere con i miei occhi che stesse bene. Mi avvicinai a lui. Presi un respiro profondo. Non sapevo che dire o come comportarmi, ma da qualcosa dovevo pur cominciare.
«Non pensavo quello che ho detto stamattina» iniziai «beh, diciamo che non pensavo proprio tutto. Mi dispiace» continuai «se non mi vuoi più nella tua ciurma lo capisco. E mi sta bene» affermai infine.
Per un po’ non mi rispose e non si voltò, era intento a controllare che i liquidi contenuti nelle sacche delle flebo fossero stati somministrati nella giusta quantità.
«Il tuo posto è qui» disse semplicemente Law, sempre senza guardarmi, per poi girarsi ed andarsene subito dopo.
Rimasi in piedi fuori dalla stanza dei pazienti a sorridere come un’ebete per più di cinque minuti. Sapevo quanto fosse difficile per lui ammettere una cosa del genere. Sapevo che gli costava molto dirlo, soprattutto ad alta voce ed in particolar modo con me. Per fortuna, però, almeno uno di noi due era abbastanza maturo da lasciarsi alle spalle le scaramucce. Ci sarebbe voluto un po’, ma potevamo ricominciare. Potevamo ripartire da zero e ricostruire piano piano, passo dopo passo, il nostro rapporto.



Angolo autrice
Salve a tutti! Eccomi tornata con un altro capitolo. Capitolo che, come sempre, spero sia stato di vostro gradimento.
In queste righe appare una Camilla decisamente più risoluta e fredda del solito. Una Camilla capace di prendere in mano la situazione senza lasciarsi assalire dal panico e capace di accantonare i drammi personali e farsi coraggio per poter agire nel modo giusto. È diventata una donna che, nonostante abbia ancora tanta strada da fare, ha dimostrato di sapere il fatto suo. E se tra lei e Law non c'è stato un chiarimento, è perché non ce ne è stato bisogno. Gli eventi hanno parlato per loro. Cami si è resa conto di voler continuare a seguire con dedizione il cammino che ha intrapreso, mentre il chirurgo forse ha finalmente capito il suo valore, come medico ma anche come persona. Non c'è stato bisogno che nessuno dei due si scusasse con l'altro, perché avevano entrambi torto in egual misura. Ovviamente non diventeranno pappa e ciccia da un momento all'altro (e probabilmente non lo diventeranno mai) ma è pur sempre un inizio. Anche perché non è che abbiano proprio fatto pace, diciamo che hanno evitato di uccidersi a vicenda e hanno scelto di sancire una tregua. Si vedrà in seguito come evolverà il loro rapporto, nella speranza che nel frattempo nessun'altro sul sottomarino rischi di morire.
Scusate per lo sproloquio, ma sentivo il bisogno di spiegare il mio punto di vista. Voi se ne avete voglia lasciate una recensione, sono curiosa di sapere che ne pensate di questo capitolo. Mi farebbe molto piacere conoscere la vostra opinione in proposito! :)
Grazie per aver avuto la pazienza di leggere fino a qui e a presto! :)

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Capitolo 36
*** Articoli di giornale ***


Mi stiracchiai con cura prima di decidermi a scendere dal letto e dirigermi in cucina. Essere un’eroina aveva decisamente i suoi lati positivi. Law mi aveva molto gentilmente concesso un paio di giorni di riposo prima di ritornare ai lavori pesanti, così da potermi occupare al meglio dei miei pazienti, ancora convalescenti. Le cose non erano ritornate del tutto a posto tra di noi, ma se non come persona, almeno ero riuscita ad ottenere di nuovo la sua stima come medico. Ero fiduciosa che prima o poi avremmo seppellito l'ascia di guerra e saremmo ritornati ad essere quello che eravamo prima, ammesso che fossimo qualcosa.
Non era male la vita sul sottomarino, messa in quei termini. Se non altro non c’era astio o rancore tra nessuno di noi, chirurgo compreso. Una volta mi aveva perfino sorriso mentre ci eravamo incontrati nel corridoio.
Scostai le coperte e mi alzai, andando alla ricerca della divisa. La sera prima io e i miei fidati compagni di bevute ci eravamo scolati un po’ troppa birra e ora non mi ricordavo dove avevo gettato l’odioso indumento. La ritrovai in bagno, la indossai e raggiunsi il resto dei miei compagni in cucina. Per fortuna quella mattina non avevo i tanto temuti postumi della sbornia. Avevo solo la gola un po’ secca, ma a quello avrei rimediato prendendo il caffè. Affrettai il passo. Sapevo di dover arrivare presto, o in quattro e quattr’otto avrebbero svuotato la caraffa.
«Buongiorno!» trillò Ryu con voce allegra.
«Buongiorno a te» gli risposi sorridente mentre mi avviavo verso la brocca con il caffè.
Mi sporsi per prendere la mia tazza – quella arancione – dal ripiano in alto e ci versai il liquido scuro dentro, soffiandoci subito dopo per farlo raffreddare. Non feci in tempo a prenderne un sorso, che qualcuno mi chiamò concitatamente ed io fui costretta a girarmi verso quella voce trafelata. A chiamarmi era stato uno dei medici.
Sbuffai. «Ci sono problemi, vero?» chiesi, immaginando già quale fosse la risposta.
Il mio interlocutore annuì e a quel punto fui costretta a posare la tazza – malvolentieri – sul tavolo e dirigermi verso l’infermeria.
Quando entrai, notai che due dottori stavano cercando di tenere fermo il ragazzo che avevamo imbarcato clandestinamente qualche giorno prima, che si dimenava come se fosse posseduto da un demone e tentava di togliersi di dosso tubi e attrezzature varie. Continuava a dire che non voleva avere nulla a che fare con “noi sporchi pirati”. Aveva una grande energia, non c’era dubbio. Tuttavia non gli avrei permesso di fare il diavolo a quattro, non sotto la mia supervisione, almeno. Rischiava di far riaprire le ferite.
Sospirai e mi strinsi il ponte del naso tra pollice ed indice. Ormai senza caffè carburavo poco ed ero più aggressiva di quanto non fossi in realtà. Ma proprio perché avevo urgenza di andare a bere il mio espresso, ero anche più sbrigativa.
«Tu!» sputò il ragazzo con disprezzo guardando nella mia direzione «perché mi hai salvato!?» mi chiese mentre i due dottori cercavano di bloccargli le braccia.
Alzai un sopracciglio ed incrociai le braccia. «Mi dispiace, ma non parlo con gli sconosciuti» risposi, calma «e se fossi in te non mi dimenerei troppo. I punti potrebbero saltare e così facendo la ferita si riaprirebbe. Tu sentiresti molto dolore per nulla e potresti anche perdere del tutto la vista» gli spiegai poi mentre prendevo una sedia e mi ci sedevo. Il mio avvertimento parve funzionare, perché lui si calmò e i miei compagni poterono tirare un sospiro di sollievo.
«Odio i pirati» affermò ad un certo punto.
«Questo lo vedo, non fai altro che ripeterlo» dissi io sbuffando una risata.
Il ragazzino osservò i due medici che ancora lo tenevano fermo con sguardo truce. Io feci loro un cenno del capo in direzione della porta. Loro mi guardarono titubanti, come a chiedermi se fosse una buona idea lasciarmi sola con lui ed io annuii.
«Mi chiamo Jasper» esordì il ragazzo quando fummo soli.
«Un bellissimo nome» commentai sorridendo lievemente.
«Ho quattordici anni» annunciò, poi abbassò la testa «e la mia famiglia è stata sterminata da una maledettissima ciurma di pirati» mi confessò a bassa voce.
Mi umettai le labbra con la punta della lingua ed incrociai gambe e braccia.
«Mi dispiace per la tua famiglia» mi pronunciai, sinceramente addolorata.
«Tu sei un pirata. Quindi perché mi hai salvato?» domandò, ignorando le mie – se così si potevano chiamare – condoglianze. Non si poteva dire che non arrivasse subito al punto.
«È vero, io sono un pirata. Ma ancora prima di essere un pirata, sono un medico. E in quanto tale è mio dovere soccorrere i malati e i feriti e provare a salvare loro la vita. Non mi interessa razziare ed uccidere per il semplice gusto di farlo. Non mi interessano i tesori e come vedi non ho una gamba di legno, né una benda sull’occhio. E purtroppo non ho nemmeno un pappagallo da tenere sulla spalla» gli spiegai. Lo vidi trattenere una risata alle mie ultime parole.
«Non puoi fare di tutta l’erba un fascio. I pirati che conosco io non sono come te li immagini tu. E anche la mia amica, quella lì» indicai il letto accanto al suo, in cui c'era Maya che si stava riposando amabilmente – era un miracolo che non si fosse svegliata con tutti quegli strepitii – con il dito «ha voluto portarti qui perché sapeva che ti avremmo salvato e che ci saremmo presi cura di te. Non tutti i filibustieri sono brutti, grassi e cattivi» lo ammonii «alcuni di noi ti sarebbero perfino simpatici».
«Ne dubito» commentò, freddo.
«Sei libero di non credermi. Ma comunque non ti devi preoccupare. Nessuno su questo sottomarino ti farà del male» lo rassicurai, alzandomi e rimettendo a posto la sedia «nel pomeriggio passerò a controllarti le medicazioni e parlerò con il mio capitano affinché tu possa ritornare su Kaitei» gli annunciai mentre mi dirigevo verso la porta. Gli diedi un’ultima occhiata prima di uscire e notai che era un po’ più rilassato. Ero sicura che da grande sarebbe diventato un bel ragazzo. Aveva due meravigliosi occhi blu che sembravano due zaffiri, tanto erano brillanti. Era anche per questo che ci tenevo a salvargli l’occhio sinistro. I capelli, biondo caramello e di media lunghezza, erano mossi ed un po’ arruffati. Il naso era piccolo ed armonioso, leggermente all’insù, mentre la bocca era carnosa e a forma di cuore. Mentre correvo in cucina pensai che avevo fatto proprio bene a salvarlo.
Varcai la soglia della stanza che ci faceva anche da sala da pranzo e mi diressi a passo svelto verso la mia tazza. Vuota. Era vuota. Mi avvicinai alla caraffa del caffè. Era vuota anche quella. Era finito il caffè. Allargai leggermente le braccia per poi lasciarle ricadere rapide lungo i fianchi. Mi voltai con sguardo estremamente minaccioso verso le uniche due persone che potevano essere responsabili di una tale atrocità.
«Non bastava il vino. Anche il caffè dovevate finire!?» tuonai, furiosa.
Ryu rise, mentre sia Shachi che Penguin tentarono di riparare al danno con un sorriso innocente stampato sul volto. Lanciai un’occhiataccia a tutti e tre. Il cuoco smise di ridere all’istante, mentre i cretini si misero con il corpo in posizione di difesa.
«Se non l’avessimo bevuto si sarebbe freddato!» cercò di giustificarsi l’orca, portandosi le mani ai lati del viso in segno di resa.
Annuii con veemenza e mi passai la lingua sulle labbra prima di prendere la parola.
«Freddato, eh?» feci io, sorridendo sadicamente appena prima di avvicinarmi ai loro volti «la prossima volta vi ci faccio un clistere. E vediamo se il caffè si raffredda o meno, nei vostri colon» sussurrai loro con sguardo tremendamente truce.
Mi raddrizzai, scossi la testa e sospirai. Quei due non sarebbero mai cambiati. Ma se avessero osato finirmi di nuovo il caffè – o il vino, era sottinteso – gliel’avrei fatta pagare cara.
 
«Ecco fatto. Come te le senti?» chiesi a Jasper dopo che gli ebbi cambiato le bende. Lui alzò il pollice per dirmi che le fasciature andavano bene, ma non disse niente. Sospettavo che non gli piacesse parlare in presenza di altre persone di cui non si fidava.
Quando ebbi controllato che anche il resto fosse a posto, lo salutai, sorrisi a Maya – che si era ripresa alla grande ma era ancora in convalescenza – e ad Omen, che da quando la sua amica era stata "ricoverata" gravitava sempre da quelle parti, ed uscii dall’infermeria.
Mentre ritornavo nella mia stanza incontrai uno dei miei compagni, che aveva un’aria estremamente infastidita.
«Guarda!» esclamò, mettendomi a due centimetri dal naso la divisa che aveva in mano. Allontanai il viso e la presi in mano. «C’è una macchia! Che cazzo Cami, potevi lavarla meglio!»
Osservai il capo d’abbigliamento. Era bianco immacolato, eccetto per una minuscola macchia – sbiadita, tra l’altro – di sugo di pomodoro appena sotto il simbolo dei Pirati Heart. Gli restituii l'indumento e mi portai la mano sinistra sul fianco. Poi, iniziai a sventolargli l’indice dell’altra mano sotto alla faccia.
«Se non ti sta bene il modo in cui lavo la tua divisa, lavatela da solo!» urlai, pungolandogli la spalla con il dito «Oppure comprati un bavaglino, così eviti di sbrodolarti mentre mangi!» gli strillai adirata. Il giorno in cui avevo fatto il bucato e lavato quella divisa doveva essere quello in cui avevo litigato con il Chirurgo della Morte. Effettivamente non si poteva dire che avessi prestato particolare attenzione al lavaggio dei vestiti, in quella peculiare giornata. Ma ciò non mi rendeva responsabile per la sua incapacità di chiudere la bocca quando masticava il cibo.
«Smettila di discutere con i miei sottoposti e vieni con me» la voce tagliente ed affilata di Trafalgar Law mi arrivò dritta alle orecchie. Mi sporsi oltre il mio compagno per osservare la sua figura scomparire lungo il corridoio. Spintonai l’idiota che contestava i miei metodi di lavaggio per levarmelo di torno, senza dargli tempo di fare o dire altro e mi affrettai a seguire come un cagnolino obbediente il mio capitano. Non sapevo cosa volesse, ma quando mi aveva ordinato di seguirlo non aveva usato un tono troppo duro, né sembrava arrabbiato. Non sembrava niente, a dire la verità. Non sapevo mai cosa aspettarmi da lui. Ma in fondo, questa sua velata imprevedibilità mi piaceva. Era un continuo stimolo per me, che mi spingeva a cercare di addentrarmi sempre di più nella sua mente e nei suoi pensieri.
Aprì la porta del suo studio e, senza perdere tempo, andò a sedersi sulla sua sedia. Sul tavolo di fronte a lui, al posto dei soliti enormi tomi di medicina, c’era un giornale. Lo fece scorrere sulla superficie liscia e lignea finché non arrivò a me. Poi reclinò la schiena, si intrecciò le mani dietro la nuca e portò i talloni sul bordo della scrivania, appoggiando un piede sopra l’altro.
Rigirai il giornale dalla mia parte e piegai la testa. Quando finii di leggere il titolo dell’articolo in prima pagina, non potei fare a meno di sorridere e gioire.
 
“Cappello di paglia colpisce ancora e ritorna a causare scompiglio nel Nuovo Mondo:  Jack ‘la siccità’, una delle punte di diamante dell’Imperatore Kaido delle 100 Bestie, dato per morto tempo addietro, è stato sconfitto. Fonti non confermate sostengono che sul posto dello scontro fosse presente anche il Capo di Stato Maggiore dell’Armata Rivoluzionaria, il nuovo possessore dei poteri del frutto Mera Mera, Sabo.”
 
Quel malandrino ce l’aveva fatta, finalmente. Guardando il lato positivo – l’unico della situazione –  questo significava che a breve ci saremmo ricongiunti con quegli scalmanati. E a quanto pareva, Cappello di Paglia aveva fatto prima a ricongiungersi con suo fratello. Quella notizia mi fece sorridere. Ero felice che quei due si fossero rivisti. Mi chiesi se stessero tutti bene o se fossero ridotti male. Jack mi era parso fin dal primo momento un osso duro. Non tutti sono capaci di combattere giorno e notte per cinque giorni di fila contro i due combattenti più forti della Tribù dei Visoni. L’articolo conteneva una sua foto. La osservai meglio e inorridii leggermente. Nei suoi occhi c’era una tale follia che sarebbe stata impossibile da spiegare. Le sue iridi erano ferme e spavalde, non aveva paura di niente e nessuno. Avevo avuto modo di apprendere della sua irrazionalità, ma vederla da “vicino” era un altro paio di maniche. In cuor mio, per quanto orribile fosse, sperai che quella specie di mammut fosse morto una volta per tutte, seppure l'articolo non spiegasse quali fossero le sue reali condizioni. Era deceduto? Era stato mandato in prigione? Era ancora in libertà nonostante le gravi ferite? Non si sapeva. In momenti come questo odiavo profondamente il Governo Mondiale e il loro maledetto bisogno di censurare le notizie.
Spostai lo sguardo su Law, che durante il tempo che avevo impiegato a leggere il trafiletto mi aveva osservato con espressione impassibile.
«Sai che cosa significa questo, vero?» mi chiese dopo un po’.
Abbassai lo sguardo, per poi rialzarlo subito dopo.
«Sì, lo so» risposi. Dopo l’iniziale gioia, era arrivata la consapevolezza. La consapevolezza che, a causa dell’alleanza che ci legava alla ciurma di Cappello di Paglia, a breve saremmo dovuti andare a Wa ed avremmo dovuto affrontare la furia distruttrice di Kaido. Non solo Rufy lo aveva privato dei suoi amatissimi Smile e dello scienziato che gli forniva il materiale per poterli ricreare, ma adesso gli aveva anche portato via uno dei suoi sottoposti più promettenti ed in gamba. Non per niente, l’occhiello recitava:
 
“Come reagirà l’uomo più forte del mondo a questo affronto da parte della Supernova?”
 
E la verità era che non ne avevo idea. Nessuno ce l’aveva. Ma ero piuttosto sicura che tutti sperassero di riuscire a cavarsela in qualche modo. Io per prima speravo di non dover affrontare un Imperatore, ma la realtà dei fatti differiva di molto dalle mie speranze. Finora il mondo se ne era rimasto tranquillo a guardare, ad aspettare che qualcuno facesse qualche mossa. E questo era il risultato. Qualcosa era scattato ed ora sia il mio capitano che Rufy, dovevano agire e prendersi la responsabilità di quello che avevano combinato. Li avrei sostenuti come avevo promesso di fare, ma ciò non significava che io volessi prendere parte a quella battaglia impossibile da vincere. Era un gioco al massacro e tutti ne erano più che consapevoli. La fortuna non ci avrebbe aiutato, dovevamo diventare più forti se volevamo sopravvivere. Questo erano i Quattro Imperatori, era inevitabile che alla fine si finisse con il non avere scelta.
«Pensi di essere pronta?» mi domandò il chirurgo con tono piatto.
Non dovetti pensare nemmeno un secondo alla risposta.
«No. Ma ormai non posso più farci niente» affermai «non c’è via di scampo» cercai di sdrammatizzare. Era l’unica cosa che potevo fare, vista la situazione.
«Non sei obbligata a partecipare ad una battaglia che non ti appartiene» mi disse Law, calmo.
«Ti sbagli. Questa battaglia è anche mia» lo corressi «sei il mio capitano. Che razza di subordinata sarei se scappassi a gambe levate di fronte al primo ostacolo che incontriamo?»
Sul suo volto vidi comparire un ghigno.
«Se questa è la tua decisione, ho solo una cosa da dirti» dichiarò poco dopo. Mi misi in ascolto, seria. «Diventa più forte.» mi consigliò, anche se il tono con cui lo disse mi faceva pensare che la sua fosse più un’imposizione.
Annuii con convinzione. Non c’era bisogno che me lo dicesse lui, sapevo benissimo da sola di dover diventare più forte. Ma apprezzai il suo gesto, questo voleva dire che in parte ci teneva a me.
«Puoi andare» mi congedò. Feci per andarmene, ma poi mi ricordai.
«A dire il vero vorrei parlarti di una cosa» gli annunciai, titubante.
Fece un lieve cenno del capo per incitarmi a continuare.
«Il ragazzo che abbiamo curato, Jasper, dovrebbe ritornare su Kaitei» gli feci presente.
«Non vedo quale sia il problema» ribatté il chirurgo.
«Beh, dovremmo accompagnarlo. Non possiamo lasciarlo andare da solo» replicai io, alzando le sopracciglia e piegando appena la testa.
Parve rifletterci un attimo, giusto quei tre secondi che gli ci vollero per arrivare alla soluzione.
«Bene, allora lo accompagnerai tu» mi comunicò in tutta tranquillità.
A quelle parole aggrottai la fronte e spalancai gli occhi.
«Io!?»
Mi rispose alzando un sopracciglio. Quello era il segnale che la sua decisione sarebbe stata irrevocabile ed incontestabile. Qualsiasi cosa avessi detto sull’argomento, da quel momento in poi non avrebbe più sortito alcun effetto. Sospirai. Non sarebbe servito a niente protestare, dovevo rassegnarmi al mio destino. Avrei accompagnato Jasper su Kaitei.
 
***
 
Ero appena uscita dalla doccia dopo essere tornata dall’addestramento di Bepo, che improvvisamente aveva deciso di smetterla di lavorare sulla flessibilità ed iniziare a lavorare sulla forza. Da circa una settimana mi toccava sollevare pesi. Da elegante ed aggraziata ginnasta sarei diventata una lottatrice di sumo. Ma era giusto così. Dovevo diventare più forte. Per me stessa, ma anche per tutte le altre persone coinvolte nell’alleanza. Non volevo essere un peso per nessuno. Feci appena in tempo ad avvolgermi uno striminzito asciugamano intorno al corpo, che sentii la porta della camera aprirsi. Di sicuro erano quei due idioti di Shachi e Penguin, che avevano sentito lo scroscio dell’acqua della doccia e volevano venire a “controllare che stessi bene” nella speranza di vedermi nuda. Ancora non avevano capito che non avrebbero comunque potuto vedermi nuda, visto che per fare la doccia toglievo la cintura. Era vero, avrei potuto chiudermi a chiave, ma la verità era che mi piaceva troppo osservare le loro espressioni deluse quando scoprivano di non poter vedere le mie grazie. Ogni volta era sempre la stessa storia, eppure loro non demordevano mai.
«Pagina sette» fece una voce dall’altra parte della sottile porta che separava la stanza da letto dal bagno. Corrugai le sopracciglia. Non erano Shachi e Penguin, era Law che era entrato di straforo.
«Cosa?» chiesi quasi strillando. In parte non ero sicura di aver sentito bene e in parte non avevo capito a cosa alludesse.
Prima di uscire dal bagno mi assicurai di aver legato bene l’asciugamano per evitare eventuali figuracce, visto che lui poteva vedermi anche senza cintura. Ma quando varcai la soglia della porta, il chirurgo se n’era già andato. Sul letto mi aveva lasciato qualcosa. Mi avvicinai all’oggetto in questione mentre mi frizionavo i capelli con un altro asciugamano.
«Ah, un giornale» esclamai sorpresa quando lo identificai. Iniziavo a capire che cosa volesse dirmi il capitano.
Mi sedetti sul bordo del letto e feci come mi aveva consigliato il chirurgo. Andai a pagina sette e quando lessi la notizia il mio cuore quasi scoppiò per la gioia. Alzai le braccia al cielo ed esultai con un sorriso a trentadue denti stampato sulla faccia.
 
“Secondo alcune fonti non confermate, pare che sull’isola Red Fushi, nel Nuovo Mondo, ci sia stato un incontro ravvicinato tra l’Imperatore Shanks il Rosso e l’ex Comandante della Prima Flotta di Barbabianca, Marco la Fenice. Sull’isola sembra che fossero presenti anche le rispettive ciurme. Sia il motivo del loro incontro, sia le parole che si sono scambiati, sono sconosciuti.”
 
L’articolo sosteneva che le fonti non fossero confermate, ma a me non importava più di tanto, perché era pur sempre qualcosa! Insomma, Marco non era il tipo di persona che si confondeva facilmente con qualcun altro e Shanks nemmeno. Volevo credere che l’incontro fosse avvenuto realmente e che Marco fosse sulla buona strada – anzi, rotta – per ritornare ad essere un pirata. Forse, le mie parole lo avevano fatto rinsavire e si era finalmente deciso ad iniziare la sua rinascita, proprio come fanno le fenici. Mi piace pensare che fu così che andarono le cose. Che in qualche modo io fossi in piccola parte responsabile per quella sua scelta. Che fosse merito mio – o colpa mia – se il mondo avrebbe potuto di nuovo tremare nel sentir pronunciare il suo nome. Certo, l’articolo non diceva niente sulla natura dell’incontro avvenuto con l’Imperatore, ma in cuor mio speravo che fosse stata una visita amichevole da parte del biondo, probabilmente per discutere di alcune questioni rimaste in sospeso tempo prima. Che si fosse deciso, insieme agli altri comandanti, ad accettare la proposta del Rosso di entrare nella sua ciurma?
Quale che fosse la risposta alla domanda, ringraziai mentalmente Law per la sua premura. E perché si era ricordato del meraviglioso rapporto che avevo instaurato con Marco. Anche se il suo gesto mi confermava quello che già pensavo da tempo. Lui sapeva, molto probabilmente. Se ne era accorto. E chissà che non ci avesse messo lo zampino anche lui. In quei due giorni in cui io ero rimasta bloccata a letto, quei due potevano essersi incontrati e aver chiacchierato tra di loro. E forse il mio capitano dagli occhi di ghiaccio aveva contribuito a convincerlo. Sogghignai al pensiero. Ogni tanto anche il Chirurgo della Morte faceva delle opere buone. Ma se fosse stato l’artefice di quella oppure no, supponevo che non lo avrei mai saputo.
 
***
 
«Buongiorno!» esclamò allegro Ryu non appena varcai la soglia della cucina. Non capivo perché al mattino fosse sempre così vivace.
Feci un lieve cenno del capo nella sua direzione e poi mi precipitai verso la caraffa del caffè. Presi in fretta e furia la mia tazza e poi diedi una gomitata a Shachi, facendolo spostare di lato, per impedirgli di finire di nuovo quel poco caffè che era rimasto.
«Ehi!» protestò lui. Lo fulminai con lo sguardo e lui capì che era meglio starsene buono ed andare a sedersi, ma non prima di commentare qualcosa sul fatto che il caffè sarebbe stato contaminato dal veleno una volta che lo avessi bevuto io, ottenendo il consenso di Penguin.
Scossi la testa ed alzai gli occhi al cielo per poi soffiare sul liquido scuro per raffreddarlo.
«Sei stanca?» mi chiese il cuoco, che aveva notato che tenevo gli occhi aperti a malapena. Annuii debolmente prima di prendere un abbondante sorso di espresso dalla tazza.
«Spero che la tua stanchezza non sia a causa dei miei allenamenti» commentò serio Bepo, quasi risentito.
«No» risposi «è perché ieri ho riaccompagnato Jasper a casa. E già che c’ero, ho visitato tutta Kaitei» spiegai, sbadigliando.
«Com’era?» domandò incuriosito Ryu.
A quella domanda i miei occhi si illuminarono. Iniziai a raccontargli tutto quello che avevo visto su quell’isola, di quanto fosse particolare e meravigliosa. Gli raccontai che un po’ mi era dispiaciuto separarmi da Jasper, perché dopo una decina di giorni che era stato con noi avevo iniziato ad affezionarmi a lui. Dopotutto, tra medico e paziente si crea un legame che nessuno potrebbe spiegare; anche se io vedevo Jasper più come un fratellino che come un semplice paziente. In qualche modo mi sentivo responsabile per lui e non mi ero allontanata dall’isola finché non mi ero accertata che fosse tutto a posto e che lui stesse effettivamente bene. Poi, feci sapere a Ryu con entusiasmo che finalmente avevo comprato il vino! Ne avevo preso in abbondanza, così non sarebbe finito. Non subito, almeno. Ma stavolta col cavolo che lo avrei lasciato alla mercé di tutti. Non lo avrei condiviso mai più con quei due ingordi.
«Oh, e poi c’è una fontana, nella piazza principale. Non so come facciano, ma la fontana spruzza acqua colorata! Non sembra nemmeno acqua quella che sprizza! È come se la polla schizzasse l’arcobaleno!» esclamai elettrizzata, memore di quello spettacolo fantastico e quasi inverosimile.
Tutti i presenti mi ascoltavano attentamente con un sorriso stampato sulla faccia. Sembravano quasi rapiti dal mio racconto.
«L’intera isola è colorata, è vibrante, è...» cercai di accompagnare la mia spiegazione con dei gesti delle mani. Non riuscivo a trovare le parole per descrivere quanto quel mondo potesse essere affascinante. Tuttavia mi interruppi notando che Law aveva smesso di ascoltarmi. Tutti si erano voltati a fissarlo, estremamente sorpresi. Assottigliai gli occhi per capire se quello che stavo vedendo non fosse un miraggio. Forse c’era davvero del veleno nel mio caffè ed ora stavo avendo le allucinazioni.
Per la prima volta nella mia vita, stavo osservando il Chirurgo della Morte completamente sconvolto. Era impallidito all’improvviso, sudava freddo ed aveva gli occhi spalancati, la mascella serrata ed il respiro affannoso. Stringeva la carta del giornale che teneva in mano con così tanta forza che i bordi si erano accartocciati e le sue nocche erano diventate bianche. Le sue iridi grigie si erano svuotate e fissavano un punto imprecisato davanti a lui. Se fosse stato qualcun altro avrei persino detto che fossero piene di terrore.
«Capitano, stai bene?» chiese Bepo estremamente preoccupato.
Shachi e Penguin erano scattati in piedi e lo osservavano seri. Accanto a me, Ryu aveva smesso di cucinare. Con la coda dell’occhio lo vidi irrigidirsi e tendere i muscoli del collo.
«Capitano» lo chiamarono a turno tutti i suoi sottoposti presenti nella stanza.
«Law...» tentai di richiamarlo io. Cominciavo ad essere ansiosa. Quel comportamento sarebbe stato preoccupante per qualsiasi essere umano, ma dal momento che si trattava di lui, c’era da agitarsi ancora di più.
Niente. Sembrava precipitato in una sorta di trance, era totalmente assente. Per la prima volta, avevo il “privilegio” di vedere dal vivo il temibile Trafalgar Law in totale shock. Mi chiesi che cosa potesse aver letto sul giornale che lo avesse ridotto così. Provai ad avvicinarmi a lui, ma nel momento in cui mossi un passo, non solo sembrò riprendersi, ma si alzò anche in tutta fretta dalla sedia e uscì dalla stanza, portando con sé il quotidiano.
 
Avrei agito di notte, mentre tutti dormivano. Per tutto il giorno ero stata a scervellarmi sul motivo della reazione di Law. Lui non solo non aveva voluto dirlo a nessuno, ma aveva anche messo sottochiave nel suo studio l’unico giornale che avevamo a disposizione. Doveva essere qualcosa di grosso, di molto grosso, se aveva fatto vacillare perfino lui. Per questo dovevo assolutamente scoprire di cosa si trattava. Non era solo un mio desiderio egoistico, era anche un modo per capire se tutta la ciurma avrebbe dovuto temere quell’infausta notizia o meno. Sapevo che il capitano non avrebbe mai fatto qualcosa che avesse potuto metterci in pericolo, ma allo stesso tempo in quell’occasione non mi fidavo molto di come aveva intenzione di gestire le cose. Ecco perché avevo deciso che avrei compiuto un’operazione estremamente pericolosa.
Recuperai una torcia dal cassetto del mio comodino e mi diressi verso la cabina di Law. Sapevo che non era nel suo letto a dormire come un angioletto. L’ultima volta che lo avevo visto stava sorseggiando un bicchiere di vino sul ponte – per non dire tutta la bottiglia, bottiglia che avevo comprato io e che gli facevo la gentile concessione di bere solo ed esclusivamente perché sembrava il fantasma di se stesso, e sapevo quanto il vino aiutasse in questi casi – sotto la tenue luce della luna. E sospettavo che ci sarebbe rimasto ancora per qualche ora. O almeno, lo speravo, perché se mi avesse scoperta sarebbero stati guai. Avevo la scusa pronta – ovvero quella di dover prendere delle medicine – qualora mi avesse colta in flagrante, ma temevo che non sarebbe stato tanto facile mettere nel sacco proprio lui.
Premetti l’interruttore all’interno della sua cabina e accesi la luce. Il suo profumo mi invase le narici e mi fece sorridere impercettibilmente. Andai a passo svelto verso il cassetto del suo comodino e cercai la chiave. Ci misi un paio di minuti, ma finalmente la trovai. La presi in mano e la fissai vittoriosa, poi, uscii in fretta dal luogo del misfatto per dirigermi verso lo studio del chirurgo. Infilai la chiave che avevo recuperato con tanta cura nella serratura e quando la sentii scattare aprii la porta. La luce della lampada illuminò la stanza. Sembrava tutto in ordine, come al solito. Ci impiegai una buona mezz’ora per trovare il tanto agognato quotidiano. Se c’era una persona scrupolosa quella era proprio Trafalgar D. Water Law. L’aveva nascosto proprio bene. Ma con me ogni suo sforzo di tenere all’oscuro gli altri dei suoi affari era vano.
Dispiegai il giornale e mi apprestai a leggere. Meno di due minuti dopo, il rotocalco cadde a terra con un tonfo sordo. Lo shock fu tale che dovetti appoggiarmi ai bordi della scrivania per continuare a sorreggermi. Mi portai una mano alla bocca con espressione estremamente angosciata, per poi passarmela su tutta la faccia, come a scacciare via quell’orribile sensazione. Non era possibile. Non poteva essere. D’improvviso capii perché il mio capitano aveva reagito in quel modo. A stento trattenni le lacrime. Iniziai a soffiare fuori l'aria dalla bocca e a picchiettare nervosamente il piede sul pavimento, sperando che quanto ci fosse scritto sul corriere uscito quella mattina non fosse vero. Dei passi provenienti dal corridoio mi fecero allertare. Mi affrettai a raccogliere da terra il giornale e a poggiarlo dove lo avevo trovato, premurandomi di rimetterlo nella stessa posizione in cui lo aveva lasciato Law.
Ecco come aveva agito Kaido. Mi sarei aspettata una reazione estrema da parte sua, ma mai quello. E se da una parte questo poteva voler dire che probabilmente non avremmo dovuto affrontare le sue ire, dall’altra stava a significare che eravamo nel mirino di qualcun altro, la cui sete di sangue – soprattutto nei confronti del chirurgo – era inimmaginabilmente grande. E per quanto l’idea di non dover combattere contro un Imperatore mi rassicurasse, non ero affatto sicura che il destino che ci attendeva fosse migliore. Ci trovavamo tra l’incudine e il martello. Non c’era davvero via di scampo. Eravamo spacciati. Fottuti. Caput.
Mi richiusi la porta dello studio alle spalle, rabbrividendo ancora al ricordo delle parole scritte nell’articolo.
 
“Impel Down di nuovo nel caos: violata la sicurezza della fortezza – non così – inespugnabile. Necessario l’intervento degli Ammiragli della Marina e di diversi Cipher Pol.
L’Imperatore Kaido delle 100 Bestie irrompe nella prigione con tutta la sua furia.
Molti i feriti, tra cui Direttore e Vice-direttore del penitenziario.
Ad oggi, stando al calcolo dei prigionieri, si conta un solo evaso. Secondo le fonti pare che sia proprio questo il motivo per cui l’Imperatore si sia voluto intrufolare nel carcere di massima sicurezza. Infatti, sebbene Kaido abbia fatto una toccata e fuga, sembra che sia riuscito a far evadere uno dei carcerati. Sono ancora apparentemente sconosciuti i motivi che legano i due.”
 
Mi trascinai fino in camera, ancora sconvolta. Kaido era riuscito ad introdursi in una prigione sotterranea di massima sicurezza con un'incredibile disinvoltura. Sembrava stesse andando a fare scampagnata, più che a fare una crociata in un territorio nemico ed estremamente ostile. Era veramente un mostro di potenza, e questo era innegabile. Ma non era tanto quella la notizia che mi rendeva estremamente angosciata, quanto le parole dell’articolo che compariva appena sotto.
 
“Il mondo è in subbuglio. Il broker malavitoso più famoso ed influente del Nuovo Mondo torna in attività.
Grazie all’aiuto di Kaido, che ora lo tiene sotto la sua ala protettiva, Donquijote Doflamingo è riuscito ad evadere di prigione.
Né il governo, né la Marina sembrano intenzionati a catturarlo. Il ritorno sulle scene del ‘Demone Celeste’ ha causato non pochi problemi alle istituzioni in queste ore, e per scongiurare il peggio, un Ammiraglio del Quartier Generale della Marina è stato inviato a Dressrosa. Per ora, tuttavia, pare che l’ex membro della Flotta dei Sette non abbia tentato di rivendicare quelli che una volta erano i suoi possedimenti. Le sue intenzioni sono ancora sconosciute.
Non resta che chiedersi: quale sarà la sua prossima mossa?”
 
Fine seconda parte.
 



Angolo autrice

Eccomi qui con un altro capitolo! Capitolo ricco di informazioni succulente, che va a concludere la seconda parte di questa Fanfiction. Come sempre spero che vi sia piaciuto e invito chiunque ne abbia voglia a darmi il proprio parere. :)
Nello scrivere questo capitolo mi sono immaginata un Kaido furioso che per pura "ripicca" decide di far evadere Doflamingo di prigione. Non so se nell'opera di Oda agirebbe davvero così, ma dopotutto, chi può dirlo? Dell'Imperatore sappiamo ben poco, purtroppo (o per fortuna). Nella mia testa ho pensato che avesse potuto decidere di fare così nella speranza di riuscire ad ottenere di nuovo i suoi tanto agognati Smiles, dopo che ha perso anche uno dei suoi sottoposti più promettenti. E chissà che il Demone Celeste e la Bestia non stiano tramando anche qualcos'altro...Ovviamente per avere ulteriori sviluppi bisognerà aspettare e stare a vedere che succederà. Nel frattempo ringrazio di cuore chi ha avuto la voglia e la pazienza di leggere fino a qui. Avete tutta la mia stima, credetemi! <3 Mi auguro che da qui in poi la mia storia non vi annoi, ma anzi, che vi entusiasmi e vi regali qualche emozione! :)
A presto!
Un bacione,
WillofD_04 <3

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Capitolo 37
*** Taglia ***


“Sai chi sei? Capisci che cosa ti è successo? Vuoi vivere in questo modo?”
 
Novembre. Sei mesi dopo.
 
«A quanto pare l’amore è nell’aria» commentò Penguin compiaciuto, osservando la scena che ci si presentava davanti.
Quattro mesi prima, Omen e Maya finalmente si erano decisi a dichiararsi l’un l’altra. A quanto pareva dopo l’episodio avvenuto su Kaitei e le conseguenti ferite – anche piuttosto gravi – che aveva riportato Maya, nel mio amico era scattato qualcosa e i due si erano avvicinati sempre di più. Con i mesi, la cosa si era fatta sempre più seria, fino al punto in cui per loro fu impossibile nascondere il loro amore nascente. Ed ora, io e parte dell’equipaggio, ce ne stavamo immobili, da una parte, ad osservare i due piccioncini che si scambiavano stupide effusioni amorose. Certo, erano teneri da vedere, ma per noi iniziava a diventare una tortura. Soprattutto perché eravamo costretti a guardare tutta quella sdolcinatezza, ormai nauseante, tutti i santi giorni. Non che i due innamorati fossero i tipi da tenersi la mano e farsi gli occhi dolci, ma ogni tanto c’erano dei momenti in cui l’uno si perdeva nello sguardo dell’altra ed io dovevo sorbirmi Shachi e Penguin che si lamentavano del fatto che non avevano una ragazza. L'intera faccenda sembrava una scena uscita direttamente da "Il Re Leone". I cretini interpretavano Timon e Pumbaa, mentre i fidanzatini si cimentavano nel ruolo di Simba e Nala. Avrei perfino giurato di sentire "L'amore è nell'aria stasera" in sottofondo quando Maya ed Omen si fissavano nelle palle degli occhi, che avevano apparentemente proprietà ipnotiche, accompagnati dalla melodia dei pianti isterici delle mammolette, che stavano a guardare da una parte – ma non in silenzio – e si soffiavano il naso, consolandosi reciprocamente. Ci mancava solo che si mettessero tutti a rotolare giù per la collina, iniziassero a correre per i prati e si tuffassero nelle limpide acque di un ruscello. Per fortuna non avevamo un prato, né una collina a disposizione sul sottomarino. Per chi si fosse voluto tuffare in acqua, c'era pur sempre l'oceano. Poi, però, io non li avrei recuperati neanche morta. E per quanto mi riguardava potevano pure affogarsi a vicenda.
Inutile dire che quello che ne risentiva di più era Ryu. Pensavo che prima o poi avrebbe avuto un infarto, tanto si arrabbiava ogni volta che quei due si sedevano al tavolo della cucina e gli impedivano di utilizzare utensili e apparecchiature varie nel modo in cui avrebbe voluto, perché troppo distratto a guardarli mentre si fissavano negli occhi e si sorridevano complici. Già, perché a dirla tutta non erano tanto le effusioni a darci fastidio – perché non se ne facevano molte – ma era il modo in cui si guardavano. Avevano proprio perso la testa l’uno per l’altra; e ne ero felice nonostante tutti i problemi e le complicazioni che ci causavano. Io stessa li avevo sollecitati più e più volte a darsi una svegliata e a dichiararsi a vicenda. Forse così era un po’ troppo, ma non potevamo aspettarci di meno da dei giovani pirati innamorati. Dopotutto, se i corsari erano liberi, lo erano anche di amarsi. Per quanto riguardava me, invece, non sentivo il bisogno di trovare l’uomo della mia vita. Non in quel momento, almeno. Prima avevo delle cose da sistemare.
«Allora ci conviene comprare l’insetticida» feci io, acida. Mi guadagnai l’occhiata fiera e divertita del chirurgo. Ci guardammo complici. “Sì, caro Traffy, mi hai insegnato bene” gli comunicai implicitamente. Per fortuna in quei mesi le cose tra di noi si erano appianate del tutto ed eravamo tornati al nostro complicato e disfunzionale rapporto di amore-odio.
«Non ce l’abbiamo, l’insetticida. Siamo su un sottomarino, a che ti serve?» domandò Bepo, ingenuo come al solito. Alzammo tutti gli occhi al cielo e scuotemmo la testa.
«Cami, ci resti solo tu» piagnucolò Penguin, guadagnandosi una mia occhiataccia.
«Magari ce l’avessi io una ragazza così» si lamentò Shachi, sospirando e continuando a fissare la scenetta romantica che si stava consumando davanti a lui. Aveva gli occhi completamente persi.
Il cuoco sbuffò con forza, infastidito.
«Ecco, ci risiamo» dichiarò estremamente scocciato, riferendosi ai due idioti. Era un caso che fosse con noi e soprattutto che fosse fuori dalla sua amata cucina, ma nessuno di noi voleva entrare ed assistere alla scena ancora più da vicino. Così come nessuno di noi aveva intenzione di dire loro che l’intera situazione ci causava un po’ di disagio, perché non volevamo infrangere il loro meraviglioso ed idilliaco sogno d’amore. Più volte avevo sollecitato il chirurgo a fare qualcosa, ma lui non ne aveva voluto sapere niente. Perciò, adesso ci ritrovavamo tutti sulla soglia della porta a guardarli ridere.
«Ma tu ce l’hai una ragazza, Shachi» affermai «è Federica» continuai facendo l’occhiolino all’orca. Law sbuffò una risata. Allora se ne era ricordato. Questo mi fece sorridere.
«Chi? Federica? E chi è? La conosco? Perché non ne ho mai sentito parlare? È una tua amica? Me la presenti?» chiese Shachi, con un luccichio di speranza negli occhi.
Stava facendo troppe domande, inutili per giunta perché non avrebbe capito comunque e di certo non sarei stata io a spiegargliene il significato.
«Ti spiegherò, un giorno. Forse» accompagnai le mie parole con un gesto della mano e mi rigirai per tornarmene in camera. Il capitano mi seguì a ruota e ci separammo, lui doveva andare in laboratorio. Ormai avevo quasi imparato a memoria tutto l'itinerario che compiva nei vari giorni della settimana.
 
Mi allungai verso il comodino per prendere il libro che avevo iniziato a leggere – o meglio, a rileggere per l’ennesima volta – per poi appoggiare la schiena alla testiera del letto, allungare le gambe e posare un piede sopra l’altro.
Sospirai compiaciuta mentre toglievo il segnalibro dalla pagina a cui ero arrivata. Finalmente ero riuscita a ritagliarmi un po’ di tempo per me stessa. Erano stati giorni caotici e tra Law che trascorreva gran parte della giornata relegato nel suo studio e tutte le altre cose che c’erano da fare – più precisamente che ero stata incaricata di fare in vece del capitano – non avevo avuto nemmeno un attimo per respirare. Ma ora avevo sistemato tutto quello che c’era da sistemare, almeno per quanto riguardava le cose che avevano una scadenza a breve termine, e potevo godermi un paio di ore libere prima del pasto serale.
Avevo letto appena due pagine, quando un urlo stridulo iniziò a propagarsi rapidamente per tutto il corridoio ed arrivò fin troppo chiaramente alle mie orecchie. Chiusi gli occhi, serrai la mascella e inspirai profondamente, nel vano tentativo di mantenere la calma. Sapevo bene chi era che stava gridando e, anche se non ne conoscevo il motivo, sapevo perfettamente dove era diretto.
La porta della mia camera si spalancò con una tale velocità che avvertii chiaramente lo spostamento d’aria causato dalla sua apertura un po' troppo impetuosa.
«Ehi, Cami! Corri, presto!» strillò Penguin, in piedi sulla soglia, con un po’ di fiatone.
Sbuffai. Mannaggia a me che non chiudevo mai a chiave la porta. E dire che ne avevo avute di occasioni per imparare la lezione. A quanto pareva ero recidiva nella vita. Per fortuna, però, non lo ero né in sala operatoria, né sul campo di battaglia.
Chiusi controvoglia il libro che avevo appena iniziato a leggere, premurandomi di rimettere il segnalibro sulla pagina a cui ero arrivata.
«Che hai da urlare tanto?» chiesi infastidita, per poi alzare un sopracciglio «È morto qualcuno?» domandai, d'un tratto interessata.
Corrugò le sopracciglia. Sapevo che si stava chiedendo cosa ci fosse di sbagliato in me. Scosse la testa, come per scacciare quel pensiero e tornò a fare la faccia entusiasta che aveva nel momento in cui aveva spalancato la porta.
«Vieni a vedere, sbrigati!» esclamò eccitato, accompagnandosi con un gesto della mano. Senza nemmeno darmi il tempo di rispondere, me lo ritrovai accanto. Mi prese per il polso ed iniziò a tirarmi con forza. Smise soltanto quando minacciai di colpirlo con il libro che stringevo nell’altra mano, sebbene sapesse che non lo avrei mai fatto; quel libro era troppo prezioso per me e non avrei rischiato di rovinarlo per picchiare un emerito idiota. Era uno dei pochissimi oggetti che era finito con me in quell'universo e ci tenevo troppo. E a parte quello, aveva da sempre un immenso valore affettivo per me. Lo accompagnai con lo sguardo mentre lo posavo delicatamente sul letto. Le avventure di Peter Pan, di James Matthew Barrie. L'incanto che racchiudeva quell'opera d'arte riusciva a trasportare tutti, adulti e bambini, nel luogo fantastico più perfetto e felice che potesse esistere. Anche solo sfogliare velocemente le sue pagine mi faceva rilassare e distendere i nervi. Era semplicemente magico.
Quello era un periodo piuttosto tranquillo per la ciurma e non appena ne avevo avuto l’occasione avevo iniziato a rileggere quel capolavoro, che non solo era una delle poche cose che mi collegava ancora alla mia famiglia e al mio mondo di provenienza, ma sospettavo potesse anche darmi degli indizi su come fare per tornare a casa. Dopotutto, ci doveva pur essere un motivo se la Stella aveva deciso di trasportarlo lì insieme a me.
Dovetti rimuovere tutte quelle riflessioni dalla testa nel momento in cui vidi il mio compagno, ancora accanto a me, saltellare ed agitarsi come un cucciolo di cane che è in procinto di ricevere la pappa. Mi alzai e, con faccia estremamente scocciata, gli feci cenno di guidarmi dovunque avesse intenzione di portarmi. Poi sospirai sconsolata mentre davo un’ultima fugace occhiata al mio libro. Anche per quella volta, avrei dovuto dire addio al mio tempo libero e ai miei tentativi di scovare un modo per tornare dai miei famigliari.
 
Spalancai occhi e bocca, incredula. Poi guardai verso Penguin e Shachi come per chiedere informazioni, ma loro in tutta risposta alzarono le spalle e mi sorrisero complici. Supponevo che ne sapessero quanto me. Mentre controllavo attentamente le parole scritte sul pezzo di carta che avevo tra le mani, iniziai a sogghignare. Ero al settimo cielo. Sul giornale c’era un intero articolo dedicato ai Pirati Heart e allo scompiglio che avevamo causato in una delle tante isole su cui eravamo sbarcati. La cosa abitualmente non mi avrebbe toccato, in fondo eravamo pur sempre pirati. Era più che normale per noi creare confusione e portare caos ovunque andassimo. Mi sarei perfino infuriata con quei due per aver interrotto uno dei miei sporadici momenti di relax. Ma quella volta, c’era un particolare che mi aveva quasi fatto fare i salti mortali di gioia. Una buona parte di quell’articolo era dedicata a me. E, sotto al brano, compariva un manifesto. Un manifesto da ricercato. Il mio manifesto. Il mio avviso di taglia. Adesso, avevo una taglia sulla testa anche io.
«Dobbiamo festeggiare!» si affrettò a fare presente il pinguino. Tipico di lui, la sua unica preoccupazione era quanto alcol avrebbe potuto reggere il suo corpo. Non che avessi nulla da obiettare sulla questione del celebrare quella nostra – ma soprattutto mia – piccola vittoria.
«Vado ad avvertire Ryu» ci comunicò Shachi, eccitato al pensiero che quella sera avrebbe potuto abbuffarsi di cibo e trangugiare qualsiasi bevanda alcolica avesse avuto davanti, per poi sparire nel lungo corridoio.
«Io vado a dare la notizia al resto della ciurma!» esclamò Penguin quasi cantando. Poco dopo anche lui uscì dall’infermeria ed io rimasi sola.
Scossi la testa e risi. Una delle poche certezze che avevo, era che quei due non sarebbero mai cambiati.
 
“Il ‘Chirurgo della Morte’ Trafalgar Law, causa scompiglio ancora una volta. Il luogo da lui prescelto, questa volta, è l’isola Fuyuka, isola invernale situata nel Nuovo Mondo. Secondo le autorità, il temibile pirata non avrebbe causato danni gravi né ai cittadini, né ai siti storici del posto in cui ha fatto incursione, complice anche il tempestivo intervento della Marina, i cui valorosi soldati hanno rischiato coraggiosamente le proprie vite riuscendo prontamente a contenere l'assalto. C'è stato solo un grande spavento generale per gli abitanti. Ma la vera sorpresa, è stata una dei sottoposti del capitano di una delle ciurme più chiacchierate degli ultimi anni. La ragazza dagli occhi nocciola, finora sconosciuta al resto del mondo, infatti, ha suscitato non poco scalpore e si è fatta notare per le sue particolari abilità.”
 
Così recitava l’articolo all’inizio. Sotto di esso c’era il mio avviso di taglia accompagnato da una fotografia in cui sorridevo beffarda. Il vantaggio di avere quel corpo e quel viso era che non potevo venire male in foto. Il Maestro Oda aveva preso la decisione giusta scegliendo di caratterizzare il genere femminile in quel modo, e la Stella aveva capito e colto l’occasione al volo. Tuttavia mi chiesi quando potevano avermela scattata. Pazienza, non era importante saperlo. Sorvolai anche su quanto avevano detto della Marina quei giornalisti idioti. Non era vero niente. Erano dei buoni a nulla fifoni. Quello che era importante era che ora la mia testa valeva venti milioni di Berry. Non ero a conoscenza del come o del perché, visto che a quanto mi ricordassi non avevo fatto nulla di male. Né sapevo a quali particolari abilità si riferisse l’articolo. Ora, su quell’isola era successo di tutto, ma ciò che era scritto in quel brano era avvolto da un alone di mistero.
Fissai ancora una volta il mio avviso di taglia e, ancora una volta, senza accorgermene fui pervasa dalla gioia. Non che fossi contenta di avere una taglia sulla testa, ma quello significava che ero qualcuno. Che forse, da qualche parte, qualche pazzo mi temeva. Venti milioni di Berry non erano tanti, ma era un buon inizio. Anche Rufy aveva cominciato da trenta. Tutti avevano cominciato dal basso, nessuno escluso. Roger stesso all’inizio dell’avventura che avrebbe cambiato la storia della pirateria altro non era che un semplice mascalzone vagabondo. Il mio obiettivo era arrivare a cento milioni, anche se dubitavo molto sulla sua riuscita. Dopotutto, l’unica abilità che avevo che era degna di nota era quella di saper ricucire le persone. In combattimento, in mezzo a quei mostri di potenza, metaforicamente parlando ero un moscerino che tentava di combattere contro un T-rex. Ma non mi sarei arresa. Avrei proseguito per quella strada, avrei continuato la mia avventura e un giorno, forse, avrei coronato tutti i miei sogni e completato tutti i miei obiettivi.
Tuttavia la mia gioia durò poco. Finì nell'esatto momento in cui notai l'articolo a pagina successiva, che era il continuo di quello precedente.
 
«Law!» gridai infuriata, dirigendomi a passo svelto verso il suo laboratorio e spalancando la porta.
«Che cos'è questo scempio!?» urlai sbattendo il giornale sul tavolo, proprio davanti a lui, e costringendolo ad interrompere la sua ricerca al microscopio.
Mi guardò piuttosto male. Quasi avevo paura che potesse folgorarmi ed uccidermi definitivamente con il suo Counter Shock.
«Cosa c'è?» il suo tono di voce era alquanto scocciato.
«Leggi.» indicai il foglio con una forza tale che avrei potuto bucare il tavolo.
«Tsk. Assegnano le taglie a cani e porci, a quanto pare» commentò acido.
«Non quello.» ignorai la sua provocazione e gli indicai l'articolo giusto.
 
“La misteriosa ragazza che fa parte della tanto temuta ciurma di pirati capitanata da Trafalgar Law, il cui nome sembra essere Cami, possiede le stesse abilità del suo capitano.
La giovane donna, apparsa all’improvviso dal nulla, ha suscitato l’interesse dei media grazie alla sua speciale capacità di rubacuori. Infatti, non solo sembra essere avvezza alla stessa perversione del suo capitano – quella, appunto, di rubare cuori a chiunque capiti a tiro – ma pare anche che tra tutti i cuori, ne abbia rubato uno in particolare, molto prezioso.”
 
Sotto allo spezzone c’erano due foto. A sinistra c’era sempre una mia foto mentre tenevo in mano un cuore umano, mentre sulla destra c’era una foto mia e di Law che apparentemente ci abbracciavamo. La sua mano sinistra sfiorava la mia coscia destra, mentre io sembravo cingergli il collo con le braccia. Entrambi stavamo ghignando divertiti. Adesso capivo molte cose. Era un enorme equivoco. Tutto. L’intera faccenda era una colossale stronzata. Ma purtroppo non era finita lì, perché l’articolo continuava.
 
“Trafalgar Law e la ragazza dagli occhi nocciola sono stati visti in atteggiamenti intimi. Più persone lo hanno confermato e le fonti sono attendibili.
Che il ‘Chirurgo della Morte’ si sia fatto rubare il cuore da questa fantomatica Cami? Che il gelido e tenebroso pirata si sia lasciato travolgere dalla passione per questa bella e giovane ragazza?
Qualunque sia la verità, la sua vicinanza con Trafalgar Law la rende pericolosa, facendole guadagnare una taglia e l’appellativo di ‘Regina di Cuori’.”
 
«Perché non chiamiamo questi cazzo di media e non gli diciamo che ci sposiamo, già che ci siamo!?» gli gridai dopo cinque minuti di intensa discussione, in cui lui non aveva detto una parola. Praticamente avevo strillato e strepitato solo io. Non solo sembrava che l’articolo non lo infastidisse, ma addirittura che non lo riguardasse minimamente. E questo mi mandava in bestia.
«Non capisco perché la cosa ti turbi tanto. È solo un nomignolo, che non potrai cambiare comunque in alcun modo» affermò, calmo ed impassibile come al solito.
«Senti, Law» iniziai, stringendo le mie dita attorno alla sua felpa «non intendo essere la tua sgualdrina.» sibilai, avvicinandomi pericolosamente a lui. Ero totalmente accecata dalla rabbia.
«È assurdo! Io i cuori li aggiusto, non li strappo dal petto delle persone, come te!» esclamai poi, esasperata.
«Ho ucciso per molto meno.» fece lui alquanto infastidito, abbassando lo sguardo sulle mie mani. Mollai la presa sul suo indumento e allargai le braccia in segno di resa. Se non importava a lui, non sarebbe importato nemmeno a me.
Poco dopo, Law rise sommessamente e abbandonò la schiena sullo schienale della sedia.
«Il fatto di essere etichettato come tuo amante dovrebbe infastidire più me che te. Non trovi?» decretò sogghignando.
Mi portai le mani ai fianchi e simulai un’espressione offesa.
«Tu sei fortunato ad avere una finta amante come me. E il fatto che tu non abbia detto niente in proposito, ci porta a due conclusioni. O sei gay e non vuoi che la gente lo sappia; e per questo ti serve una copertura. E diciamocelo, io sono proprio una bella copertura» affermai compiaciuta, facendo scorrere le mie mani su tutto il mio corpo per evidenziarne la sagoma «Oppure...sei fiero di me ma non lo vuoi ammettere e questo è il tuo modo contorto di farmelo sapere» dichiarai, incastonando i miei occhi ai suoi ed alzando un sopracciglio.
«Comunque, io non ho niente contro i gay. Anzi, sono contenta per te! Spero che finalmente riuscirai a trovare l’amore della tua vita. Fosse la volta buona che ti addolcisci un po’ e diventi meno odioso. Stai attento però, voi maschietti non siete facili da gestire» aggiunsi, facendogli l’occhiolino.
Incrociò le braccia e per un po’ non disse niente. Teneva lo sguardo fisso sul microscopio e sembrava pensieroso. Forse stava riflettendo sulla sua ricerca, quella che avevo interrotto entrando nel suo studio come un uragano.
«Per fortuna l’hai notato. Non ce la facevo più a mantenere questo segreto. Ora con te posso aprirmi ed essere sincero. Mi sono tolto un peso» annunciò con voce soave poco dopo, fissandomi negli occhi. Sembrava sollevato.
Il mio cuore perse un battito. Forse anche più di uno. Aggrottai la fronte, spalancai gli occhi e lo guardai atterrita. Era gay? Sul serio? Ed io, in tutto questo tempo, non me ne ero accorta!? Effettivamente, però, questo spiegava molte cose.
Lo fissai per qualche altro secondo estremamente scioccata e perplessa, aspettando che dicesse o facesse qualcosa. Lui mi guardò con un’espressione impassibile, appena prima di ghignare arrogantemente. Sentii i muscoli del mio corpo distendersi e quelli del mio viso aprirsi in un sorriso. Ed io che ero convinta che non si prestasse a questi “stupidi scherzi”. A quanto pareva mi ero sbagliata. O forse avevamo raggiunto un punto nel nostro rapporto in cui lui cominciava a fidarsi di me, a non vedermi più come una mocciosa immatura ed insicura, ma come una persona degna di stima. E il fatto che scherzasse con me in quel modo stava a significare che piano piano si stava aprendo e mi stava dando la possibilità di vedere il vero Law. Non lo sapevo e non era quello il momento di pensare ad una cosa del genere.
Incrociai le braccia e scossi la testa. «Sei proprio un bastardo» gli dissi, ridendo.
 
Avevamo chiarito la faccenda sulla sua eterosessualità. Ora restava da chiarire tutto il resto.
«Quindi? Che facciamo?» chiesi io, riprendendo in mano il giornale che avevo abbandonato sulla scrivania del capitano.
«Se la cosa non ti è di troppo disturbo, io vorrei finire la mia ricerca al microscopio» affermò, affilato.
Digrignai i denti, innervosita dalla sua eccessiva tranquillità.
«Intendo per l’articolo» specificai.
«Eviti di farti catturare» mi consigliò, intento ad esaminare un altro vetrino.
Sbuffai. Non che avesse torto, ma non mi era di alcun aiuto così. Per di più, non avevo capito se fosse ironico o meno.
«Capitano!» una voce quasi stridula alle nostre spalle fece voltare entrambi. Era Penguin. Come facesse ad avere tanta energia per andarsene a gridare per tutto il sottomarino, non lo sapevo.
Prima di parlare osservò leggermente stupito prima me e poi Law.
«Oh» esclamò sorpreso «allora lo sai» affermò – anche se sembrava più una domanda – rivolto al chirurgo.
«Sì, lo sa. E stiamo cercando di trovare una soluzione al problema» risposi al posto del capitano, stizzita.
Il pinguino corrugò le sopracciglia. «Quale problema?»
«Nessuno» replicò Law, impassibile come al solito, mentre scriveva dei dati su un quaderno o qualcosa del genere.
«Come fai a dire che non c’è nessun problema!? Il problema c’è eccome!» gridai infuriata.
«La questione è irrilevante per quanto mi riguarda» dichiarò il mio interlocutore – se così si poteva chiamare, visto che parlava a monosillabi – gelido.
«Ma che cazzo, Law! Come fa ad essere irrilevante? Me lo spieghi?» gli chiesi, cercando di tranquillizzarmi e chinandomi per guardarlo negli occhi, sebbene lui fosse occupato a guardare negli oculari del microscopio. Avevo di nuovo abbandonato il quotidiano sul tavolo. Non volevo che si spiegazzasse troppo per colpa della mia furia, era pur sempre un reperto da tenere immacolato.
«Ehi Cami, calmati. Non è successo nulla di male» disse l’altro mio compagno, avvicinandosi a me. Forse voleva proteggere il capitano dalla mia ira. Non aveva capito che se il chirurgo avesse voluto, avrebbe potuto spazzarmi via con un solo colpo. Quali che fossero le sue intenzioni, evidentemente non aveva letto l’articolo per intero. Tipico di lui. Non faceva mai niente per intero, ad eccezione dell’ubriacarsi e del suo pisolino pomeridiano.
Sospirai e mi rimisi in posizione eretta. Mi sarei dovuta rassegnare al fatto di essere stata etichettata come l’amante di Law. La cosa che mi dispiaceva di più era che era scaturito tutto da un equivoco, e che il mio nome sarebbe stato associato per sempre a quello del mio capitano. Non avevo una taglia sulla testa per ciò che avevo fatto, ma per le persone a cui ero legata. Era incredibile come ogni più piccola azione potesse essere rigirata ed usata contro di te, per farti sembrare una persona che non eri assolutamente. Ed era ai limiti dell'assurdo che la gente non solo lo permettesse, ma credesse anche a tutte le notizie false che venivano propinate loro. Possibile che nessuno alzasse un dito su quella grave situazione di mala-informazione? Era tutto un immenso malinteso. In un certo senso mi sentivo nella stessa situazione di Ace. Anche lui era stato vittima dei suoi legami, e per anni si era trascinato dietro le derisioni degli altri e aveva portato dentro quel peso, accompagnato da un’incredibile rabbia  e un immenso disprezzo verso quel legame di parentela che lo aveva condannato senza che lui avesse fatto niente di male. Ma ormai non potevamo più farci niente. Questa era la realtà. Io ero appena diventata la fidanzata di Trafalgar Law, che ruba i cuori e va in giro a farsi chiamare “Regina di Cuori”.
Sbuffai una risata. Dovevo cogliere al volo quell’occasione.
«E va bene. Vogliono una Regina di Cuori? E allora avranno una Regina di Cuori.» proclamai incrociando le braccia, con il tono più deciso che avessi mai sentito provenire da me.
Il pinguino annuì sogghignando. «Così ti voglio» mi incoraggiò, alzando il pugno a mezz'aria. Non ero sicura che avesse capito il nesso, visto che non aveva letto tutto l’articolo, ma pazienza. Non era il tipo che si faceva domande scomode o paranoie inutili.
Io ricambiai il sorriso ed il cenno d’assenso. Poi, mi venne in mente una cosa. Ripresi il quotidiano in mano per accertarmi di aver letto bene le parole contenute nell’articolo. Quando ebbi finito, mi rilassai, allentai la presa sul giornale ed iniziai a ridere prima sommessamente e poi fragorosamente.
«Si può sapere perché ridi adesso?» chiese molto infastidito il mio compagno, che non riusciva a comprendere la mia logica. Law, invece, il cui lavoro quel giorno era stato interrotto – da me e dalla mia furia – proprio sul più bello, serrò la mascella ed alzò gli occhi al cielo, estremamente seccato. Prima o dopo avrebbe usato la sua Room per farmi a pezzettini e gettare la mia testa in mare.
Vidi Penguin scuotere la testa, roteare le pupille e soffiare un "donne", come se tutto il genere femminile fosse altamente volubile. Non che avesse torto, ma io stavo ridendo per una ragione che in quel caso non c'entrava nulla con l'essere lunatici.
"L'avevo detto a Marco che sarei diventata una regina!" pensai tra me e me, mentre mi asciugavo gli angoli degli occhi, umidi per le troppe risate. Di certo non si poteva dire che non mantenevo le promesse. Non sapevo perché la cosa mi suscitasse tanta ilarità –  e nemmeno perché fossi scoppiata a ridere così all'improvviso – ma non mi importava. In fondo, molto in fondo, ero contenta di avere una taglia sulla testa, seppure piccola in confronto a quelle esorbitanti che circolavano nel Nuovo Mondo, e di avere un soprannome che incutesse almeno un po' di terrore. D’altronde, non era importante la storia che c'era dietro di essi ma quella che ci avrei costruito.
Mi chiesi se anche la Fenice, la ciurma di Rufy e il resto delle persone che avevano avuto l’occasione di conoscermi in quel mondo, avessero letto le notizie uscite quella mattina. Feci una piccola risata al pensiero di come ognuno di loro avrebbe potuto reagire. Avevo motivo di credere che sarebbero stati fieri di me. Soprattutto perché non conoscevano la verità sugli eventi che avevano causato la stesura di quell’articolo. Ma in realtà, sospettavo che sarebbero stati lo stesso fieri di me e di tutta la strada che avevo fatto per arrivare fin lì. Ero riuscita a sopravvivere per ben due anni nel Nuovo Mondo, nel mare governato dalle persone più potenti di quel particolare universo, che tanto faceva paura ai pirati di quel tempo. E questo bastava per certificare il mio valore come persona, combattente e medico.
 
Quella sera, prima di andare a letto, sorrisi malinconicamente. Se solo i miei amici e la mia famiglia mi avessero potuto vedere...di certo alcuni sarebbero stati fieri di me, altri spaventati ed altri ancora sconcertati. Mia madre sarebbe stata estremamente preoccupata ed ero sicura che se fosse venuta a saperlo, sarebbe stata sull'orlo di uno svenimento. Del resto, la nostra era una dote di famiglia. Per fortuna, però, nessuno avrebbe potuto dirglielo. Il mio migliore amico, invece, non ci avrebbe creduto mai e poi mai, mentre mia cugina avrebbe avuto paura di me e della mia potenziale pericolosità. Sospirai, mentre una piccola lacrima solitaria scendeva sulla mia guancia. Quanto mi mancavano. Tutti loro. Dio, mi mancavano perfino gli odiosi ed infiniti pranzi di Natale assieme. Avrei dato tutto quello che avevo, persino i venti milioni di Berry che pendevano sulla mia testa per rivederli, anche solo per qualche minuto.
Decisi che quella giornata si sarebbe conclusa in modo allegro. Dopotutto, non c’era nulla per cui essere tristi. Forse c’era da preoccuparsi un po’, considerato che ora valevo qualcosa e che presto avrei potuto avere alle calcagna marines, cacciatori di taglie e brutti ceffi vari. Però sapevo che chiunque avesse provato a farmi del male poi se la sarebbe vista con i miei compagni. C’erano loro con me adesso. Mi avrebbero protetta, ne ero certa, così come io avrei fatto con loro. La Stella aveva fatto una buona cosa. Ne aveva fatta più di una, a dire la verità, tra i tanti casini in cui mi aveva messo. Perché alla fine tutte le sue azioni apparentemente strampalate mi avevano portato a questo. Avevo trovato i miei compagni, finalmente.
 E fu proprio con questo pensiero che appena prima di addormentarmi, iniziai a ricordare il susseguirsi di eventi completamente equivoci che aveva spinto il Governo Mondiale a ritenermi pericolosa e ad assegnarmi una taglia sulla testa.




Angolo autrice

Salve a tutti! Eccomi tornata con un altro capitolo, il primo di questa terza parte della storia, per la precisione.
Allora, riducendo la faccenda all'osso: Law apparentemente NON è gay, Cami sta cercando un modo per tornare a casa (buona fortuna a lei) e adesso ha pure una taglia sulla testa, che è un avvenimento che in realtà è nato da un enorme equivoco. Equivoco che verrà spiegato meglio e chiarito nei prossimi capitoli, promesso. Oh, e non dimentichiamoci che è sbocciato un amore in questi sei mesi!
Ad ogni modo, riassunti a parte, qualora ci fossero errori di qualsiasi tipo, me ne scuso. Purtroppo non ho potuto rileggere prima di pubblicare.
Nel frattempo ringrazio chiunque abbia avuto la voglia e la pazienza di continuare a seguire la storia fino a qui e chi continuerà a seguirla. Inoltre ringrazio in anticipo chiunque voglia lasciare una recensione e tutti coloro che hanno recensito "Lost girl" negli scorsi capitoli. Grazie di cuore! <3
A presto! :)

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Capitolo 38
*** Dolci ricordi ***


Isola Fuyuka.
Una settimana prima.
 
Non sapevo che dire. Ero sorpresa, basita, quasi commossa.
«Tu...tu hai...tutto questo...è per me?» gli chiesi, ancora sconvolta. Facevo fatica ad immaginare che lo spettacolo che avevo di fronte fosse reale. E soprattutto che fosse destinato a me.
Non mi guardò. Si limitò a fissare dritto davanti a sé e a sogghignare. Sembrava quasi divertito dal mio stupore. Stupore che però era del tutto lecito. Anzi, avrebbe dovuto aspettarselo.
Di fronte a noi, c’era un hotel di lusso, completamente deserto al suo interno. Non c’era nessuno, nemmeno il personale. Aveva scacciato tutti gli abitanti di quell’isola, terrorizzandoli e minacciandoli. E tutto perché quel giorno era il mio compleanno. E anche se Law non me lo aveva detto a voce, voleva che io avessi un giorno speciale. Era riuscito a mandare via tutti gli abitanti di un’intera isola. Per me. Che cosa gli era successo? Come mai faceva tutto questo, all’improvviso? Non era da lui. Non era da lui fare gesti così eclatanti, né dare importanza ai compleanni. Quindi, perché lo faceva? Era davvero lui a volerlo? O era stato costretto da qualcuno? Magari nel suo corpo si era introdotto un parassita alieno che l’aveva reso malleabile e dolce come il miele.
Una folata di vento gelido mi penetrò fin dentro le ossa e mi costrinse a stringermi nelle spalle. Era un’isola invernale, e il freddo si faceva sentire. Il capitano mi fece un rapido cenno con la testa in direzione della porta e ci avviammo verso l’ingresso dell’albergo. Quando varcai la soglia, quasi mi si slogò la mascella per l’ampiezza con cui spalancai la bocca. Era uno spettacolo incredibile. Davanti a noi c’era una stanza enorme con otto divani bianchi disposti in forma di due quadrati – ognuno di essi faceva da “lato” che ne delimitava il perimetro – attorno a dei tavolini da aperitivo. Al centro della stanza, penzolante dal soffitto, c’era un enorme lampadario ornato d’oro e con gocce di cristallo che illuminava l’intera hall, impreziosita da quelli che ero sicura fossero quadri antichi e da pavimenti in marmo. Non avevo mai visto un hotel di lusso, non in quel mondo almeno. Anche se, per quanto mi riguardava, potevamo anche andare in una topaia sporca e puzzolente. Mi sarebbe andato bene lo stesso, pur di festeggiare il mio compleanno in allegria e con i miei amici.
«Ognuno si scelga una camera e si vada a preparare! Ci rivediamo qui alle otto in punto!» ordinò Penguin, contento come non mai. «E per quanto riguarda voi due» si rivolse a Maya e Omen, trattenendoli posando una mano sulle loro spalle, mentre il resto della ciurma si dileguava ai piani di sopra «tenete d’occhio l’orologio, mentre siete impegnati a fare altro. Non potete tardare, dobbiamo festeggiare il compleanno della nostra Cami!» esclamò ammonendoli, ma facendo loro l’occhiolino subito dopo.
Dovevo ammettere che sentire un mio compagno dire “la nostra Cami” mi scaldò il cuore, e non poco. Fu la frase ideale per riscaldarmi in mezzo a quella bufera di neve.
 
Scesi la rampa di scale molto lentamente. Quella era una delle poche volte in cui mettevo i tacchi e dovevo stare attenta a non cadere. In più, per una volta che ne avevo l’occasione volevo fare un’entrata in scena degna di una principessa. Fremevo di agitazione, ma ero contentissima. In fondo alla scalinata mi aspettavano tutti i miei compagni. Ero in ritardo, come al solito, ma quella volta era un ritardo pianificato. Mi fissavano tutti con sguardo meravigliato, in particolare Shachi e Penguin che erano sempre i Sanji della situazione, se non fosse stato per il loro poco tatto nel comunicare il loro apprezzamento. Presi un respiro profondo e con un gran sorriso finii di scendere gli ultimi tre scalini. Non ero né inciampata, né caduta. Questo era un gran traguardo per me. Raggiunsi i miei compagni, che non si risparmiarono con i complimenti – soprattutto i due sopracitati e Ryu – e mi fecero gli auguri. Li ringraziai un po’ imbarazzata, ancora non potevo credere che avessero organizzato tutto quello per me. Quando la folla si aprì, lo vidi. In fondo, dietro a tutti gli altri, c’era il mio capitano. Era vestito nello stesso modo in cui era vestito a Punk Hazard, con il cappotto lungo e nero e i jeans blu maculati. Aveva perfino lo stesso cappello di sempre. Ma aveva poggiato la sua nodachi su uno dei tanti divani della hall. Mi stava sorridendo. Non era il suo solito ghigno arrogante, era un sorriso più morbido, ma sempre impertinente. Mi avvicinai a lui e gli sussurrai un “grazie” sentito.
«So che dovrei sempre indossare la mia divisa, ma per stasera possiamo fare un’eccezione?» gli domandai con voce suadente.
«Vuoi far penare i miei uomini anche oggi, con questo vestito?» chiese lui a sua volta, con un po’ di arroganza.
Abbassai la testa nel tentativo di scrutare il mio abbigliamento. Per l’occasione, avevo messo un vestito che avevo comprato qualche mese prima in una delle isole su cui eravamo sbarcati. Dovevo ammettere che era un vestito abbastanza provocatorio e sexy. Era di un rosso vivo, come le scarpe, di seta, lungo e abbastanza scollato, con un ampio spacco che mi lasciava scoperta tutta la coscia destra. Per fortuna ero riuscita a nascondere la cintura metallica sotto l’abito e si intravedeva appena. Dal momento che mi era rimasta la cicatrice dopo la colluttazione con i cacciatori di taglie su Lyborn e quel giorno non volevo che mi si vedesse, avevo comprato una giarrettiera dello stesso colore e tessuto per coprire lo sfregio. Non era affatto maliziosa come si poteva pensare, anzi, io l’avevo trovata molto carina. La fascia era a balze e vi era perfino un piccolo fiocco con dei minuscoli Swarovski al centro. Mi piaceva come mi stava, mi faceva sembrare più matura, più sensuale, più donna.
Sogghignai divertita. «Cosa c’è? Non ti piace? Oppure è troppo persino per te?» volli sapere, con una punta di provocazione negli occhi.
A quel punto alzò un sopracciglio e si avvicinò a me. Eravamo a pochi centimetri di distanza. Lo vidi allungare una mano verso la mia coscia e afferrare la giarrettiera con un gesto repentino. Per evitare che la strappasse fui costretta a fare un passo verso di lui. Data la mia goffaggine, aumentata sensibilmente con i tacchi, dovetti appoggiarmi alle sue spalle per non cadere a terra come un sacco di patate. Lo guardai esterrefatta. Che diamine stava cercando di fare!? Voleva uccidermi? Se così fosse stato, avrebbe potuto farlo anche senza tutta quella messa in scena. Una cosa era certa. Se mi avesse strappato la giarrettiera lo avrei ammazzato prima io.
Diede una fugace occhiata alle mie mani, che tolsi immediatamente dalle sue spalle per non rischiare l’amputazione, e poi tornò a fissare me. Eravamo ancora più vicini. Sentivo il suo respiro sulla fronte – a causa della nostra differenza d’altezza – e potevo vedere i suoi occhi grigi guizzare divertiti. La sua mano tirava ancora la stoffa della giarrettiera. Doveva essere stato quello il momento in cui ci avevano scattato la foto. Quegli ignobili reporter non avevano capito niente. Se non altro avevano avuto la decenza di non farsi notare e di non venire a rovinarmi la festa, ad esempio chiamando la Marina.
«Sei un pirata. Non hai bisogno di nascondere le tue cicatrici. Anzi, dovresti andarne fiera» soffiò serio, ma allo stesso tempo divertito. Poi, con un rapido e delicato movimento della mano, mi fece scivolare la giarrettiera fino alla caviglia. Come avesse fatto non ne avevo idea. Era un mago. Aveva davvero le dita magiche come pensavo. Dopo l’iniziale stupore, mi piegai e spostai la gamba per raccoglierla da terra.
«Tieni. È tua. Se ci tieni tanto, te la regalo» sussurrai con maliziosità, porgendogli il pezzo di stoffa rossa.
Sbuffò una risata e per un po’ nessuno dei due disse niente. Ci limitammo a guardarci con provocazione e complicità.
«E comunque, se la metti così, anche io devo farti un appunto sul tuo abbigliamento» iniziai, guadagnandomi lo sguardo incuriosito del chirurgo «non si indossa il cappello in un luogo chiuso, è maleducazione» lo avvertii, agitandogli l’indice sotto il naso.
«E poi, è il mio compleanno. Almeno per oggi devi soddisfare le mie richieste. Non nascondere il viso sotto una visiera» aggiunsi infine, con un tono un po’ più dolce di quanto mi sarei aspettata. Evitai di toccarlo, però. Le sue reazioni erano sempre imprevedibili e non volevo rovinare quel momento, né perdere qualche arto. Sebbene avesse lasciato da parte la sua Kikoku, avrebbe potuto fare chissà quale magheggio ed io mi sarei ritrovata la testa al posto del lampadario. Ero un chirurgo, e mi servivano tutte le parti del corpo al posto giusto.
Gli diedi un’ultima, eloquente occhiata, prima di girarmi e dirigermi verso il piano bar, che era già stato preso d’assalto dai miei due compagni di bevute. Già prevedevo che sarebbe stata una serata interessante.
 
«Ragazzi!» ci gridò Shachi da una stanza a noi ignota poco lontano da dove stavamo «ho trovato le coperte!» esclamò, ricomparendo subito dopo nella hall con un groviglio di coperte di lana tra le braccia. Era ubriaco perso. Lui e l’altro suo compare avevano bevuto più alcol di tutti noi messi insieme. La mattina dopo si sarebbero svegliati con un gran mal di testa, poco ma sicuro.
«Al diavolo le coperte, dobbiamo fare il taglio della torta!» urlò il cuoco. Aveva le gote rosse e biascicava un po’, ma era solo un po’ alticcio. Lo vidi andare in cucina e tornare poco dopo con una torta enorme tra le mani. Aggrottai la fronte e spalancai leggermente la bocca. Mi stava bene che Ryu fosse sempre un po’ esagerato, ma quello mi pareva troppo. Il dolce si sviluppava su cinque piani. Il piano di base aveva lo stesso diametro di quello che avevano le mie braccia quando erano aperte. Il piano più piccolo – quello in cima – misurava almeno quanto il mio girovita. C’era da dire, però, che la torta era bellissima. Era color pesca, ed ogni piano era decorato con delle rose bianche e arancioni fatte con la crema. In cima, splendeva un’unica, grande candela. Altro non era che una “C” color mandarino. Assomigliava molto a quella dipinta sulla chiave che portavo al collo. Mi girai verso Law mentre Jean Bart aiutava il cuoco a poggiare la torta sul ripiano del bar. Gli rivolsi uno sguardo grato. Sapevo che era stato lui a sollecitare quello che era stato il mio primo paziente a fare il dolce arancione, che era il mio colore preferito da sempre. Lui si limitò a farmi un cenno del capo in avanti, per dirmi di procedere con il taglio della torta.
Raggiunsi il piano bar, dove il cuoco e tutti gli altri – che avevano quasi la bava alla bocca – mi stavano aspettando impazientemente. Stavo per dire al pelato che tutto quello non era necessario, ma lo chef fu più svelto di me.
«I venti anni si compiono una sola volta nella vita» si giustificò Ryu. Corrugai le sopracciglia. Se da una parte il suo ragionamento non faceva una piega, dall’altra non aveva nessun senso. Come se ci fossero degli anni che si compiono due volte. Scossi la testa ed alzai gli occhi al cielo per cercare di non pensare a quali assurde conclusioni fosse arrivato il cuoco e presi il coltello che mi stava porgendo. Lo affondai nella torta – emozionata ma anche dispiaciuta di dover rovinare quel capolavoro – e quando tagliai la prima fetta si udì un boato. Stavano esultando come dei matti per un semplice dolce. Erano proprio fuori di testa. E ubriachi. Anche quello faceva la differenza.
La assaggiai. Era sopraffina. Sapeva di mandorle e mandarini. Pensai che a Nami sarebbe piaciuta molto.
«Avanti, Cami! Non fare la timida! Brinda insieme a noi!» strillò l’orca, quasi perforandomi un timpano con la sua voce troppo alta e cingendomi le spalle con un braccio. Dal momento che praticamente non si reggeva nemmeno in piedi, appoggiò tutto il peso su di me, rendendomi ancora più instabile di quanto non fossi già. Non caddi per miracolo e quando ebbi ritrovato il giusto equilibrio, lo fulminai con lo sguardo. Lui mi rivolse un gran sorriso sornione ed io dovetti farmi passare in fretta l’arrabbiatura. Sospettavo che non sapesse nemmeno dove si trovava. E poi, non potevo arrabbiarmi con loro, non quella sera.
Dall’altra parte della stanza, notai che Penguin mi stava fissando con il boccale di birra alzato a mezz’aria ed un occhio chiuso per mettere meglio a fuoco l’intera situazione. Quando si accorse che lo stavo osservando, ghignò e tirò su il braccio, in un gesto eloquente, che stava a significare che brindava alla mia salute.
Sbuffai una risata e scossi la testa. Nessuno mi avrebbe lasciato stare se prima non avessi fatto un brindisi.
«Beh, come diceva il buon, vecchio Zio Reginaldo» iniziai, liberandomi dalla morsa soffocatrice di Shachi ed alzando il mio bicchiere in aria «beati coloro che si sbronzano tra loro!» esclamai ridendo. Tutti i presenti sollevarono i loro calici e li fecero cozzare con quelli dei compagni, rovesciando litri di alcol sul pavimento – per fortuna solo lì e non anche sul mio bellissimo vestito – e poi, all’unisono, fecero un urlo simile a quello che facevano gli eserciti dei popoli antichi prima di andare in battaglia. Supponevo che non gliene fregasse un accidente di sapere chi fosse Zio Reginaldo, e mi venne da ridere al pensiero.
Finii di bere il mio drink alla goccia, posai il bicchiere su un tavolino e mi diressi verso il bancone del bar con passo deciso. Era il momento di dare una svolta definitiva alla serata.
 
Mi sedetti sul divano e la prima cosa che feci fu liberare i piedi da quelle trappole infernali sotto forma di scarpe. Mi abbandonai ad un sospiro di sollievo e appoggiai cautamente la schiena al morbido schienale del sofà. Avrei tanto voluto che qualcuno mi massaggiasse i piedi. Sarebbe stata la conclusione perfetta di una sera perfetta. Era da tanto tempo che non passavo una serata così, in allegria e spensieratezza. Sospirai ancora e mi lasciai scappare un sorriso.
Era passata la mezzanotte da un pezzo ed erano crollati tutti sui divani per il troppo alcol. Io, sebbene avessi bevuto, non mi sentivo stanca, anzi, mi sentivo piena di energia, come non lo ero da tempo. Ne avevo proprio bisogno. E poi, non avevo ingurgitato troppo alcol appositamente, perché mi volevo godere appieno quella serata speciale. Avevo deciso di rimanere anche io a dormire nella hall dell’hotel, con i miei compagni. Dovevo volere un gran bene a tutti, considerato che le stanze di quell’albergo erano meravigliose. Tra l'altro, il letto della camera che avevo scelto io aveva un’aria estremamente comoda ed invitante. C’erano perfino le lenzuola di seta viola. E la testiera del letto era in velluto. Quando mai avevo avuto una testiera in velluto? Ma era quella la cosa giusta da fare per concludere la mia giornata al meglio, rimanere lì con loro. E se il richiamo di quel comodissimo materasso sarebbe stato troppo forte, sarei pur sempre potuta tornare nella mia stanza.
Osservai Bepo che si era beatamente addormentato accanto a me. Era proprio tenero quando dormiva. Sotto di lui c’era una delle coperte che aveva riesumato da chissà dove Shachi. La tirai, piano, per non svegliarlo. Ci provai per cinque minuti buoni, ma non riuscii nel mio intento. Feci un ultimo tentativo e le diedi un forte strattone. Riuscii a sfilarla dalle grinfie dell’orso, ma così facendo fui responsabile anche della sua caduta dal divano. Cadde a terra con un tonfo sordo. Arricciai il naso, temendo che potesse essersi svegliato. Niente. Continuava a ronfare come un angioletto, con tanto di bolla al naso. Decisi che lo avrei lasciato a dormire per terra. Sarebbe stata una faticaccia riportarlo sul sofà, quindi mi limitai a coprirlo – sebbene in quanto orso polare non ne avesse bisogno – e lo lasciai riposare. Ripercorsi con la mente tutto quello che era successo in quel giorno. L’assalto all’isola, la presa di possesso dell’hotel di lusso, la festa, la giarrettiera, la torta e il tango che avevo ballato sopra il bancone del bar. Sì, mi ero cimentata anche in un appassionato – e solitario – tango sulle note di “Roxanne”. Il Moulin Rouge mi sembrava il modo perfetto per concludere quel selvaggio party. Mentre avevo ballato mi ero divertita tantissimo e non avevo pensato a niente, se non a far ondeggiare i miei ormai lunghi capelli castani e a muovere i fianchi. Non mi ero preoccupata nemmeno del fatto che potessi cadere dal ripiano. E quando la musica era finita ed io avevo terminato di improvvisare il mio sensuale tango, mi ero girata di schiena su sollecitazione del pinguino e dell’orca e mi ero buttata tra le loro braccia, nella speranza che mi avessero preso. Mi avevano afferrata al volo, per fortuna, ma anche se non l’avessero fatto, l’allenamento a cui mi aveva sottoposto il Visone mi avrebbe permesso di riatterrare in piedi in tutta tranquillità e fresca come una rosa, nonostante i pericolosi trampoli che avevo ai piedi. Stavo facendo grandi progressi anche lì, non c'era che dire. Quasi mi ammiravo da sola per il livello di maestria che avevo raggiunto.
Insomma, era stata una serata esplosiva e sicuramente molto divertente. Ed io non riuscivo a dormire. Ero stanca, molto stanca; era stata una giornata intensa. Eppure non riuscivo a prendere sonno. Mi succedeva anche da bambina. Spesso, quando ero troppo contenta per qualcosa che era successa il giorno prima, o che sarebbe successa l’indomani, stavo sveglia tutta la notte a pregustarmi o rivivere mille volte quel momento. Non pensavo che sarebbe stato possibile, ma dopo tanto tempo mi era successo di nuovo. Ero così contenta per come era andata quella giornata che non riuscivo a smettere di pensarci. C’era da dire che la mia insonnia, oltre alla felicità, era causata anche dall’inquinamento acustico – pari a quello di un aeroporto – che producevano i miei compagni, addormentati accanto a me. Ma fu lì che avvenne. Mai me lo sarei aspettata e mai avrei potuto crederci. Law si avvicinò a me. Feci finta di dormire. Non era più il mio compleanno e questo stava a significare che avrebbe potuto chiedermi chissà quali cose strampalate. E con quel freddo e quel buio non avevo proprio voglia di andarmene in giro per l’isola a cercare insetti o quant’altro. Tuttavia non fece niente di tutto ciò. Prima sogghignò nel vedere il suo fedele vicecapitano spalmato per terra, poi spostò lo sguardo su di me ed osservò il mio viso per un po'. Per fortuna era buio e non si accorse che avevo un occhio mezzo aperto e che potevo vedere quello che faceva. Rimase fermo a scrutare il mio volto per un altro paio di minuti. Chissà cosa aveva pensato in quel momento, cosa gli era passato per la testa. Fuori, una folata di vento improvvisa fece tremare i vetri delle finestre e mi fece venire la pelle d’oca. Il mio corpo tremò lievemente. Stare su un’isola invernale con quel vestito succinto non era l’ideale. Ma se anche mi fossi presa un raffreddore non mi sarebbe importato, perché per quello ne sarebbe valsa la pena. Non riuscii a vedere l'espressione di Law, lo sentii solo sbuffare sommessamente, come se stesse per fare una cosa che non avrebbe mai voluto fare. Si chinò nella mia direzione, afferrò i lembi della coperta e li tirò su, fino a coprirmi le spalle. Dopo quel suo gesto mi ci volle tutta la mia forza di volontà per impedire che sul mio viso spuntasse un sorriso a trentadue denti. Fortunatamente la luce scarseggiava e il capitano non si accorse che gli angoli delle mie labbra si erano piegati all’insù. Se si fosse accorto che stavo facendo finta di dormire mi avrebbe direttamente torturato; ero pur sempre la testimone di una delle rare volte in cui faceva qualcosa di gentile per qualcuno. Però mi sbagliavo. Non mi serviva un massaggio ai piedi per finire la serata in modo perfetto. Mi serviva quel gesto. Un gesto che fatto da lui, per me, significava molto. Aspettai che se ne andasse, per poi scoppiare a ridere. Dovevo fare piano per non svegliare i miei compagni, anche se sospettavo che nello stato in cui erano non li avrebbe svegliati nemmeno un colpo di cannone. Quasi mi commossi, quella notte. Li avevo trovati. I miei compagni. Erano loro le persone che stavo aspettando da sempre. E non vi avrei rinunciato per nulla al mondo.




Angolo autrice
Salve! Eccomi tornata con questo trentottesimo capitolo. Come vi avevo promesso, è iniziato il flashback, che durerà ancora un capitolo. Capitolo, il prossimo, in cui verrà spiegato meglio l'equivoco che si è venuto a creare sull'isola Fuyuka. Non voglio svelare troppo, ma sarà più movimentato rispetto a questo, che invece è stato un po' più "dolce" (giarrettiera a parte, si intende :D). Mi auguro comunque di essere riuscita a chiarire qualcuno dei misteri nati nel capitolo precedente.
Nel frattempo, come sempre, spero che questo vi sia piaciuto ed invito chiunque ne abbia voglia a lasciarmi una recensione per farmi sapere che ne pensa. :)
Grazie e alla prossima! :)

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Capitolo 39
*** Equivoci ***


Isola Fuyuka.
Una settimana prima.
 
Mi svegliai con un leggero languore. Non sapevo che ore fossero, ma sospettavo che non fosse più tardi delle sei di mattina. Avevo dormito poco e niente quella notte, ma non mi sentivo neanche troppo stanca. Ero felice. E la felicità, su di me, aveva lo stesso effetto eccitante del caffè. Mi alzai dal divano, consapevole che non mi sarei comunque più potuta addormentare a causa dei trapani elettrici – ovvero il russare di tutti i Pirati Heart – in funzione a pochi metri da me, ed evitando di calpestare Bepo, mi diressi a piedi nudi verso la cucina, con l’intenzione di prendere un pezzo di torta. Certo, a quell’ora era più che altro un mattone per lo stomaco, ma a meno che non volessi uscire e mettermi a leccare la neve, quella era l’unica opzione commestibile che avevo a disposizione per saziarmi.
Non ci misi molto a trovare quello che stavo cercando e quando arrivai sulla soglia della porta della cucina, con mia grande sorpresa, scoprii che c’era qualcuno già in piedi. La figura si girò verso di me e mi diede una rapida occhiata, per poi rigirarsi e tornare a concentrarsi sul pezzo di carta che aveva sotto gli occhi.
«Buongiorno» gli dissi, con la voce ancora un po’ impastata «non si può dire che tu non sia un tipo mattiniero, eh?» scherzai poi.
Non mi rispose. Effettivamente aveva un’aria stanca, quasi stravolta. Piegai la testa da un lato e corrugai le sopracciglia, nel tentativo di capire cosa lo turbasse tanto. Poi, mi venne l’illuminazione. Incrociai le braccia e mi appoggiai con la spalla allo stipite della porta.
«Un altro articolo su Doflamingo?» chiesi cautamente. Lo vidi irrigidirsi leggermente nel sentire quel nome, e il fatto che non mi avesse risposto era la conferma che quello che pensavo era giusto.
Sospirai, mi staccai dalla porta e lo raggiunsi. Ero alle sue spalle e potevo vedere la foto della faccia sprezzante del Demone Celeste stampata sulla carta. Vista in quel modo metteva molta più inquietudine di quanta ne mettesse sulle pagine del manga. Appena alla destra del giornale, notai una tazza di caffè nero ancora piena e fumante.
«Hai fatto il caffè?» chiesi, non ottenendo alcuna risposta «Posso prenderne un po’?» domandai nuovamente. Il capitano annuì flebilmente ed io mi diressi verso gli scaffali, in cerca di una tazza. Quando la trovai me ne versai una piccola quantità e lo bevvi quasi tutto d’un fiato. Senza zucchero non era il massimo, ma non potevo affrontare una conversazione delicata come quella se ero mezza addormentata.
Erano passati quasi sei mesi dall’uscita dell’articolo che aveva annunciato l’evasione dell’ex flottaro e in tutto quel tempo non si era più sentito parlare né di Doflamingo, né di Kaido, né di Rufy. Mi chiedevo a che gioco stessero giocando tutti e tre, ed ero sicura che anche Law si stesse chiedendo la stessa cosa. Eravamo d’accordo che Cappello di Paglia ci avrebbe chiamati quando fosse stato in procinto di andare a Wa, affinché noi avessimo potuto raggiungerlo il prima possibile per ingaggiare una battaglia contro lo Shogun del paese, e di conseguenza anche contro l’Imperatore che vi era affiliato. Ma per il momento tutto taceva. Che i piani fossero cambiati? Non ne avevo idea, nessuno ci aveva informato.
Poggiai la tazza vuota sul tavolo e fissai il chirurgo negli occhi, sebbene lui per tutto quel tempo avesse continuato a guardare il rotocalco. Riflettei a lungo se fare o no la mossa compromettente che volevo fare. Alla fine, con molta cautela, la feci. Mi misi seduta accanto a lui su uno sgabello e poi mi allungai a toccargli molto delicatamente il ginocchio con la mano. Lui spostò velocemente lo sguardo prima sulle mie dita, poi su di me. Aveva un’espressione imperscrutabile. Non capivo se fosse infastidito da quel mio gesto o se gli andasse bene. Nel dubbio, tolsi velocemente la mano dalla sua gamba e la richiusi a pugno.
«Ascolta» iniziai «in questi sei mesi è successo di tutto».
Mi guardò, impassibile.
«Per poco non prendeva fuoco il sottomarino a causa mia» cominciai, ma dovetti interrompere il mio discorso perché Law aveva iniziato a guardarmi male.
«Ammetto i miei errori» affermai, portando le mani ai lati della faccia «per fortuna Bepo è prontamente intervenuto ed è riuscito ad evitare la catastrofe» dissi, sorridendo divertita. Feci una piccola pausa, poi continuai a parlare.
«Abbiamo dovuto sopportare giorno dopo giorno Maya e Omen che facevano i piccioncini, riuscendo a non ammalarci di diabete. Abbiamo rischiato più volte di essere catturati da quel maledettissimo ammiraglio del cavolo, anche se alla fine siamo riusciti a fargliela sempre sotto il naso, per fortuna. Siamo stati presi a sassate durante una battaglia. Sono stata quasi catturata da una banda di sequestratori e sono stata salvata per un pelo da un colpo di pistola che apparentemente nessuno di voi ha sparato. Poi che altro? Ah, già! Mi hai addirittura difeso da un tizio che mi ha dato della poco di buono. Chissà che fine avrà fatto la sua testa...o il suo cuore...».
Mi persi per un attimo nei ricordi. Erano stati davvero mesi intensi ed incredibili. Era accaduto di tutto ed io me li ero goduti appieno, tentati rapimenti e sassate a parte. Eppure ero riuscita a vedere chiaramente il lieve tormento, cresciuto a poco a poco sempre di più, che si era insinuato in Law. Era preoccupato, quasi non sembrava più lui. Certo, lo capivo. Se la persona che odiavo di più al mondo fosse uscita di prigione, dopo tutti gli sforzi disumani che avevo fatto per portarle via tutto ciò che aveva, dopo essere quasi morta ed aver pianificato una vendetta per la metà degli anni in cui avevo vissuto, dire che sarei stata frustrata sarebbe stato decisamente poco. Ecco perché comprendevo la sua angoscia, che nonostante non trasparisse, c’era e lo sapevamo tutti. In parte, involontariamente, la trasmetteva anche a noi con quel suo chiudersi in se stesso.
Il capitano inspirò con la bocca, come se fosse sul punto di dire qualcosa, ma poi ci ripensò e rimase zitto.
«E sì...» cominciai, riluttante all’idea di doverlo pronunciare ad alta voce «ho esagerato più volte con il vino e una delle tante volte in cui ero ubriaca, potrei, accidentalmente, aver sbagliato cabina, essere entrata nella tua ed essermi spogliata davanti a te...» ammisi, con un grande imbarazzo e con tanta vergogna. Nel momento in cui lo dissi, però, riuscii a strappargli un ghigno. Quel maledetto. Osava addirittura ghignare delle mie sventure.
«Non fare quell’espressione con me» lo ammonii puntandogli l'indice contro «era buio ed io non ero in me. Era compito tuo fermarmi in tempo, invece non l’hai fatto. Questo significa che non ti è dispiaciuto del tutto che io sia rimasta in reggiseno e mutande davanti a te» constatai, alzando un sopracciglio ed incalzandolo. C’era da dire che per aver sbagliato cabina dovevo essere proprio tanto ubriaca. E anche se non l’avevo fatto assolutamente apposta, una vocina nel profondo – molto nel profondo – mi diceva che in fondo non mi era del tutto dispiaciuto aver sbagliato stanza. Se non altro ero sopravvissuta. E questo era un gran traguardo.
Law continuò a sogghignare per un minuto buono, senza dire niente. Non che ce ne fosse bisogno, la sua espressione parlava da sola. Alzai gli occhi al cielo e scossi la testa.
«Comunque» cominciai, riprendendo il filo del discorso che avevo intenzione di fare «stiamo bene. Stiamo tutti bene. E finché stiamo bene dobbiamo goderci questo momento» gli dissi, con sguardo eloquente. Dovevo assicurarmi che capisse quello che volevo dire e che si tranquillizzasse un po’. Nel momento in cui la notizia dell’evasione di Doflamingo si era diffusa, tutti noi della ciurma eravamo stati a lungo in ansia. Anche io ero molto preoccupata, ma dovevamo cercare di non pensarci, o non saremmo andati avanti.
Quando ebbe finito di bere un sorso del suo caffè gli posai di nuovo una mano sul ginocchio, costringendolo così a guardarmi.
«Quel mostro non potrà più farci del male» dichiarai, cercando di sembrare il più convinta possibile. Corrugò le sopracciglia e mi guardò storto. «Farti. Volevo dire farti del male» mi corressi rapidamente. Non potevo di certo stargli a spiegare che se soffriva lui soffrivo anche io. Mai. Non lo avrei mai ammesso, neanche sotto tortura.
«Staremo bene, vedrai» gli dissi dolcemente. Per qualche secondo nessuno si mosse, poi Law annuì impercettibilmente e ripiegò il giornale in quattro. Finì il caffè nella sua tazza con una rapida e lunga sorsata e poi si alzò in piedi.
«Non hai segreti per me, Trafalgar D. Water Law» gli annunciai ghignando, riferendomi al fatto che avevo capito al volo cosa lo disturbasse ed ero stata in grado di alleviare, almeno in piccola parte, la sua agitazione «ormai ci conosciamo da tanto tempo».
«Troppo, per i miei gusti» commentò acido. Furono le prime parole che mi disse quella mattina.
«Tsk. Ma smettila!» lo rimproverai poco seriamente, accompagnandomi con un gesto della mano. «Comunque, se vogliamo fare gli ingordi, in frigo ci sono gli avanzi della torta di ieri sera» gli comunicai alzandomi dallo sgabello ed abbandonandomi subito dopo ad un potente sbadiglio. Il caffè non era servito a molto, a quanto pareva.
Un attimo dopo, notai che il suo corpo si era irrigidito e che si stava guardando intorno con circospezione. Aggrottai la fronte, in attesa che parlasse.
«C’è la Marina. Siamo circondati» sibilò serio.
«Cosa?» chiesi io, stordita. «M-ma c’è anche Kizaru?» domandai, terrorizzata al pensiero.
«Non mi pare. Nessuna delle presenze che avverto è particolarmente forte» dichiarò calmo, ed io potei tirare un sospiro di sollievo.
«Quindi? Che facciamo? Li combattiamo o...» non potei finire di formulare la domanda, perché mi interruppe.
«Ci apriremo un varco e poi ce ne andremo dall’isola. Non ho tempo da perdere con queste nullità» annunciò con sprezzo. Poco dopo vidi comparire un pericoloso ghigno sul suo viso.
«Era prevedibile che ci rintracciassero» commentò compiaciuto. Capii troppo tardi dove voleva andare a parare.
«No...Law, no. L’hai detto tu che non hai tempo da perdere con queste nullità» cercai di dissuaderlo, invano.
«Ma questo non ci impedisce di divertirci un po’» affermò, pregustandosi il momento in cui avrebbe scomposto le parti del corpo di quei poveri – era il caso di dirlo – Marines.
«Sveglia gli altri. Radunate alla svelta le vostre cose e preparatevi per partire» mi ordinò con un tono che non ammetteva repliche.
Sbuffai e gettai la testa all’indietro, nello sconforto totale. Dovevo segnarmi da qualche parte di comprargli, come prossimo regalo di compleanno, un puzzle da mille pezzi. Così forse avrebbe smesso di giocare a scomporre esseri viventi a suo piacimento. Se non altro non aveva perso il suo tocco sadico.
 
Ero quasi letteralmente volata su per le scale dopo aver svegliato parte della ciurma. Dormivano tutti come sassi. Gli unici a svegliarsi quasi subito erano stati Maya e Jean Bart. Con Shachi e Penguin avevo dovuto adottare il metodo che aveva usato Usop a Thriller Bark, tempo prima, per svegliare Rufy, Zoro e Sanji. Gli avevo detto che ero rimasta completamente nuda e che per coprirmi avevo solo una bottiglia di rum in mano. Aveva funzionato alla perfezione. Come avevo previsto si erano ridestati, ma erano rimasti alquanto delusi dal fatto che fossi vestita e non avessi alcolici con me. Non potevo credere che dopo tutto quello che si erano scolati la sera precedente avessero ancora voglia di bere. Con Bepo, invece, c’era voluta l’artiglieria pesante. Mi ero dovuta mettere a saltare sulla sua pancia con i piedi per farlo svegliare. Il che mi aveva riportato alla mente l'imbarazzante episodio accaduto tempo prima con lo spadaccino; quando per svegliarlo, dopo aver provato di tutto, mi ero messa a cavalcioni su di lui ed avevo iniziato a rimbalzare sul suo torace. Poi era sopraggiunto il mio capitano, il verde si era svegliato ed io ero diventata più rossa di un peperone. Il resto era storia. Con il Visone ci era voluto un po’ e avevo anche rischiato di cadere più volte, ma alla fine ero riuscita nel mio intento e gli avevo comunicato gli ordini del capitano. L’orso era scattato in piedi, si era scusato con me un paio di volte per non essersi svegliato prima e poi era corso anche lui nella sua stanza per radunare le sue cose e prepararsi all’attacco. O alla fuga. Ancora non mi era ben chiaro come avremmo agito.
Stavo buttando alla rinfusa, dentro alla borsa che mi aveva gentilmente prestato Robin tempo prima, tutte le cose che avevo portato su Fuyuka e che erano sparse per tutta la stanza. In fretta. Dovevo fare in fretta.
«Dov’è il profumo?» chiesi a voce alta a me stessa, cercando di fare mente locale su dove avessi potuto lasciarlo.  «Ah, sì!» esclamai, correndo in bagno e prendendo la boccetta che stavo cercando. Non potevo e non volevo dimenticare niente su quell’isola invernale.
Mi tolsi il vestito e lo misi nella borsa assieme alle scarpe. Una volta che mi fui accertata di aver preso tutto, chiusi la lampo del borsone ed indossai degli abiti – ovvero la divisa dei Pirati Heart – più consoni a quello che stavamo per fare. Saltellai su un piede nel tentativo di infilarmi l’altro stivale e quando ci riuscii, afferrai la maniglia della porta. Tuttavia fui costretta a fare retromarcia nel momento in cui mi ricordai che non avevo la cintura – e quindi nemmeno la mia Mr. Smee – addosso. Me la legai in vita, recuperai la borsa che avevo temporaneamente abbandonato a terra ed uscii dalla camera. Il corridoio era immerso nel caos più totale. I miei compagni correvano agitati da una parte all’altra con in mano vestiti ed altri oggetti personali. Quasi mi venne da ridere. Non sembravano dei pirati. Sembravano studenti delle superiori in gita. Mi sembrava di assistere alla scena tipica a cui si assiste l’ultimo giorno: a breve saremmo dovuti ripartire e nessuno di noi aveva sentito la sveglia, per cui dovevamo portare a termine gli ultimi preparativi in un tempo record. Il paragone sarebbe stato più che azzeccato, se non fosse che noi rischiavamo la vita. Però dovevo ammettere che tutta quella confusione, un po' la amavo. Mi fermai ad osservare quella deliziosa e frenetica scenetta giusto per un paio di secondi, nei quali mi lasciai andare ad un sorriso materno.
«Fermi tutti!» ci intimò Ryu – che era nel bel mezzo del corridoio – con espressione estremamente preoccupata. Aveva le braccia protese in avanti e leggermente allargate.
«Dobbiamo prendere la torta!» urlò, con l’appoggio di Bepo, Shachi e Penguin.
«Al diavolo la torta, dobbiamo salvarci la pelle» fece Jean Bart, piuttosto contrariato. E per quanto mi dispiacesse abbandonare quel capolavoro di bellezza e bontà, non potevo essere più d’accordo con l'omone.
«Lasciamogliela come ringraziamento per l’ospitalità» suggerii io, mentre mi accingevo a scendere la rampa di scale che mi avrebbe portata nella hall.
Quando, pochi minuti dopo – strano ma vero, non ero io l’ultima ad essere scesa – fummo tutti nel punto prestabilito, il capitano ci fece un cenno della testa e noi ci apprestammo ad uscire dall’ingresso principale. Dopotutto, non potevamo mica dileguarci in tutta sicurezza dalla porta sul retro, giusto?
 
Eravamo accerchiati, come previsto. Saremmo stati accerchiati anche se fossimo fuggiti dalla porta sul retro, ma di sicuro avremmo avuto più possibilità di farcela. Lasciai cadere la borsa sulla neve, accanto a me e poi sfoderai l’ascia con espressione seria. Di fronte a noi, i Marines stringevano le loro armi, leggermente tremanti. Avevano paura e non li biasimavo. Sembravano quasi tutti reclute o comunque soldati di basso rango. Mi guardai intorno. C’erano circa una cinquantina di uomini, e continuavano a spuntare da tutte le parti. Mi chiedevo come avremmo fatto a batterli. Non che non avessi fiducia nel mio capitano, ero solo un po’ spaventata.
«Commodoro Brandnew» si pronunciò Law, guardando dritto davanti a sé. Anche se era di spalle, ero sicura che stesse sogghignando compiaciuto.
Proprio di fronte a noi, c’era un uomo alto, magro e piuttosto buffo. Aveva i capelli verdi e ricci, tanto che sembravano la chioma di un albero. Portava degli occhiali da sole con le lenti molto scure ed aveva le basette ricurve, al punto che gli incorniciavano gli zigomi e scendevano fino ai lati della bocca, larga e carnosa. Indossava una camicia blu notte aperta sul torace, con dei disegni azzurri che a mio parere erano estremamente astratti. Sulle spalle portava la giacca della Marina. Mi pareva di averlo già visto. Ma certo. Era il tizio del Quartier Generale della Marina che era stato incaricato di assegnare le taglie ai criminali. Ripensandoci, tutto tornava. Era grazie a lui e alla sua presenza se ora avevo una taglia sulla testa.
«Trafalgar Law» rispose il commodoro, grave. «Hai finito di terrorizzare intere popolazioni?» chiese retoricamente. Sapevo che il ghigno sulla faccia del capitano si era allargato ancora di più. Cominciavo a riconoscere il vecchio Law, quello dell’Arcipelago Sabaody e quello che era piombato dal nulla a casa mia. Il sadico, pazzo, Chirurgo della Morte.
«Grazie per essere venuti. Vi stavo aspettando» soffiò il moro, molto emozionato all’idea di poter fare una strage.
Il commodoro Brandnew strinse i pugni e fece un’espressione a metà tra il disgustato e l’infuriato – doveva proprio disprezzarci – poi, con un gesto della mano, diede ai suoi uomini l’ordine di avanzare ed attaccarci.
«Pensavo che fosse un uomo più loquace» commentò Shachi.
«Già. A quanto pare ha fretta di farsi sconfiggere dal capitano» affermò Penguin, come sempre in armonia con l’amico.
«Capitano, attendiamo ordini» gli annunciò Bepo. Nonostante la situazione, nessuno di noi era preoccupato. Eravamo tutti immobili, tranquilli, in attesa che il nostro capitano elargisse disposizioni.
«Cercate di restare vivi» disse semplicemente. Sospettavo che stesse continuando a sogghignare sfacciatamente. Dopodiché lo vidi alzare la mano sinistra e portarla appena sopra il bacino.
«Room» pronunciò, appena prima che l’intera zona venisse inghiottita da una sfera bluastra.
 
«Scusa» dissi ad un marine privo di conoscenza, mentre utilizzavo la sua divisa per ripulire l’ascia dal sangue prima di riporla nel suo apposito porta-arma. Era stata una battaglia veloce ed indolore, almeno per noi. Ero convinta di non aver ucciso nessuno, ne avevo storditi una decina e feriti tre o quattro, ma niente di più. Da che ricordassi era la prima volta che non le prendevo durante una battaglia. Facevo grandi passi avanti, i duri allenamenti di Bepo iniziavano a dare i propri frutti. Non che gli avversari fossero forti, ma erano comunque soldati.
Mi rimisi in piedi, mi spolverai la divisa e aspettai che mi passasse il lieve fiatone che avevo. Spostai lo sguardo su Law. Aveva ritirato la sua Room ed ora era in piedi a pochi passi dal commodoro Brandnew, steso per terra e sanguinante. Lo stava silenziosamente deridendo. Lo raggiunsi e mi fermai poco dietro di lui e appena qualche metro avanti rispetto al resto della ciurma. Attendevamo tutti lui.
«Ora possiamo andare?» chiesi, nella speranza che smettesse di prendersela con quel pover’uomo. Ero pur sempre un dottore e mi dispiaceva vedere qualcuno versare in quelle condizioni. Come prevedibile, Law non mi rispose.
«Uccidimi, non mi importa» sputò il marine con un sorriso. Ero appena riuscita a sentirlo, tanto era bassa e sofferente la sua voce «mi basta sapere di aver guadagnato abbastanza tempo per permettere a Kizaru di raggiungere quest’isola. Ci penserà lui a voi. Sarà la vostra fine, finalmente» annunciò, ridendo e tossendo allo stesso tempo.
Alle sue parole mi allertai. Kizaru stava venendo qui? Dovevamo assolutamente darcela a gambe! Non c’era tempo da perdere. Dovevamo dirigerci al Polar Tang e salpare immediatamente.
Per tutto il tempo, il chirurgo non si era mosso, né aveva detto niente. Non potevo vederlo in faccia, per cui non sapevo che espressione avesse, sempre che ne avesse una in quel momento.
«Capitano?» lo richiamai, nella speranza che dicesse qualcosa.
Non mi rispose. O meglio, non a voce. Vidi Brandnew iniziare a contorcersi e a gridare dal dolore per qualche secondo, poi smise ed iniziò a fissare Law con sprezzo. Ci impiegai un attimo a capire. L’attimo in cui vidi una piccola scatola trasparente viola piombare verso di me. Mi sporsi velocemente in avanti per recuperarla al volo prima che potesse cadere a terra. Un cuore. Avevo tra le mani un cuore umano. Il cuore del commodoro Brandnew.
Avrei voluto dire qualcosa, ma non sapevo cosa. Boccheggiai un paio di volte prima di rigirarmelo tra le mani ed osservarlo con attenzione. Non c’era che dire, era sicuramente affascinante. Ma non capivo perché l’avesse tirato proprio a me. E non c’era alcun dubbio che il suo lancio fosse diretto a me, lui non sbagliava mai.
«Che ci dovrei fare con questo?» chiesi confusa al moro, che non si era ancora mosso.
«È un regalo di compleanno» rispose Law. Anche se mi dava le spalle, potevo sentire dalla sua voce che era piuttosto soddisfatto «è tuo. Fanne ciò che vuoi» mi disse poi con noncuranza.
Aggrottai la fronte e spalancai la bocca. Ero perplessa e anche piuttosto allibita. Un regalo di compleanno? E che avrei dovuto farci con il cuore di un marine? Anzi no, che avrei dovuto farci con un cuore umano ancora battente in generale?
Feci per parlare un paio di volte, ma dalla mie labbra non uscì nulla. Ero talmente sconcertata che non riuscivo nemmeno a trovare le parole giuste.
«Per quanto sia elettrizzata al pensiero, io...» quando finalmente mi decisi ad aprire bocca, non potei finire la frase, perché venni interrotta.
«Muoviamoci» ci intimò il capitano, muovendo un passo in avanti ed incamminandosi verso il porto, seguito dal resto della ciurma.
Non potevo starmene con le mani in mano. O meglio, con i cuori in mano. Andavo di fretta, non volevo diventare una groviera a causa dei raggi laser di Kizaru.
Aspettai che gli altri del gruppo fossero andati avanti – non volevo che mi vedessero fare quello che avevo intenzione di fare – e poi mi avvicinai con molta cautela al commodoro. Sia io che i miei compagni sapevamo bene che Law era ironico quando mi aveva detto del regalo di compleanno – sebbene una piccolissima parte di me avesse gioito nel sentirlo – ma non volevo lo stesso che mi vedessero ridare il cuore a Brandnew. Ero un pirata e in quanto tale avrei dovuto fregarmene ed andarmene, o addirittura “divertirmi” un po’ e farlo soffrire, ma non volevo farlo; e non volevo che i ragazzi cominciassero a considerarmi una rammollita.
Mi avvicinai cautamente al marine, ancora steso per terra. Feci per abbassarmi per riconsegnargli il cuore, ma mi fermai appena in tempo. Aveva tirato fuori – dal nulla a quanto pareva – una carabina e ora me la stava puntando contro. Aveva uno sguardo fermo e deciso, non avrebbe esitato a premere il grilletto. Alzai le braccia in segno di resa. Ci mancava solo che mi facessi sparare da quell’imbecille dopo che avevo tentato di fare un gesto gentile per lui. Poi, all’improvviso, capii quello che dovevo fare. Guardai alla mia sinistra. Tra le dita avevo qualcosa di suo.
«Fossi in te non lo farei» gli dissi, con un sorriso beffardo. E doveva essere esattamente in quel momento che mi avevano scattato la seconda foto. Ricordandomi di quegli eventi cominciavo a capire. Eravamo stati tutti vittime di un gigantesco equivoco. Ma ormai non si poteva più tornare indietro.
Il commodoro fece per premere il grilletto. Tuttavia, prima che potesse farlo, gli schiacciai con forza il cuore. Quello iniziò a dimenarsi, torcersi e strillare per il dolore. Stavo giocando sporco? Sì, ma quella era la mia unica possibilità di salvezza. Approfittai del suo momento di debolezza per calciare via la sua arma, in modo che non potesse raggiungerla nemmeno se avesse strisciato per qualche metro. Quando mi fui assicurata che non potesse più nuocermi, rilassai le dita e allentai la presa sul suo cuore. Stringevo letteralmente il potere in mano; e dovevo ammettere che quella sensazione mi piaceva. Dio, come mi piaceva. Mi chiesi se anche Law si sentisse così, anche se la risposta mi sembrava ovvia. Era evidente che si sentisse così. Non lo faceva solo per puro e semplice sadismo, sebbene quello fosse innegabilmente presente. Cominciavo a capire le sue motivazioni e anche il delirio di onnipotenza di cui era preda qualche volta, a discapito di noi poveri sottoposti. Stringere tra le dita la vita di qualcuno e avere il potere di deciderne le sorti era una sensazione indescrivibile. Stupenda, ma anche pesante. Ad ogni modo, dopo un iniziale momento in cui mi sentii in colpa per il marine, mi misi a ghignare. Fissai fiera l’organo che stringevo in mano. Cominciavo a capire quanto bello e prezioso fosse come regalo di compleanno. Tuttavia non era comunque mio e dovevo restituirlo al suo legittimo proprietario.
«Sai che c’è? Io volevo solo aiutarti, ma tu sei stato scortese con me» comunicai all’uomo che avevo di fronte – o meglio, sotto di me – fingendomi offesa. «Perciò, questo te lo dovrai andare a prendere da solo» gli annunciai poi, tirando la scatola trasparente che avevo in mano poco lontano da noi. La neve attutì la caduta, ma comunque nel momento in cui il cuore toccò terra potei vedere Brandnew sussultare.
Non persi altro tempo, ignorai la sua espressione carica d’odio verso di me, lo superai ed affrettai il passo per raggiungere il resto della mia ciurma. C’era pur sempre il presunto arrivo di un Ammiraglio del Quartier Generale in ballo.
Mentre zampettavo sulla neve, ebbi modo di riflettere su quanto fossi cambiata in quegli anni. Se prima l’idea di avere un cuore battente in mano mi faceva assolutamente ribrezzo, ora avrei fatto carte false per avere la possibilità di toccarne uno. E se da un lato ero convinta di aver fatto la cosa giusta nel lasciare l’organo all’uomo a cui apparteneva, dall’altra me ne dispiaceva molto. Però dovevo ammettere che nonostante l’iniziale amarezza, era gratificante fare la scelta corretta. Mai l’avrei pensato, ma ormai il mio mondo era fatto da bisturi, addestramenti, sangue, aghi – purtroppo – e organi umani. Tutto quello mi affascinava terribilmente, al punto che non mi riconoscevo quasi più. Ero sempre io, ma non ero io. Sembravo un’altra persona, eppure ne ero contenta. Perché la persona che ero diventata era una persona più felice. Una persona più consapevole e più padrona di se stessa. Una persona che sapeva cosa voleva, sapeva in che modo ottenerlo. Sapevo dove ero diretta e sapevo come arrivarci. Ma per il momento, l’unico posto in cui volevo tornare era il caldo e sicuro sottomarino di Law. E fu proprio con questo pensiero che ritrovai i miei compagni ed insieme, senza intoppi o ammiragli di mezzo, ce ne ritornammo al nostro accogliente e familiare Polar Tang. Da che mi ricordassi, quello era stato uno dei più belli compleanni di sempre, cuori rubati, corse contro il tempo e Marina compresi.
C’era, però, una cosa che non mi tornava in tutta quella faccenda. Perché il Chirurgo della Morte era stato così incosciente? Di solito era un tipo minuzioso e di certo non sprovveduto, in tutto quello che faceva, quindi avrebbe dovuto sapere che cacciando via gli abitanti di un’intera isola, la Marina o il Governo si sarebbero mobilitati. Prima o dopo qualcuno li avrebbe chiamati. Era vero, aveva sequestrato loro tutti i Den Den Mushi, ma niente impediva a quelle persone di raggiungere in barca un’isola vicina. E perché non si era accorto dei reporter? O se ne era accorto e aveva fatto finta di non vederli? Poteva anche essere, del resto la mente del medico dagli occhi di ghiaccio funzionava in modo complicato e a dir poco incomprensibile. Eppure non riuscivo a scrollarmi di dosso questo pensiero. Da quando Doflamingo era uscito di prigione, il chirurgo aveva sempre tenuto un basso profilo, evitando in ogni modo di esporsi. Non si era fatto notare e aveva sempre limitato i danni e gli sbarchi. Quindi perché usciva allo scoperto proprio ora? E perché in questo modo? Forse le mie erano solo paranoie. Scossi la testa e sbuffai una risata, mentre camminavo accanto a Bepo, che sembrava quasi dispiaciuto di dover lasciare quell’isola dal clima gelido, come piaceva a lui. Proprio non riuscivo a stare una mezz’ora senza macchinare assurde ed improbabili teorie. E fu proprio in quel momento che congegnai la teoria più assurda di tutte. Alzai la testa, spostai lo sguardo di lato, fissando un punto imprecisato e corrugai le sopracciglia, mentre un sorriso sbocciava come un fiore in primavera sulle mie labbra. E se avesse soltanto voluto regalarmi una serata speciale, senza badare ai giornalisti ed ai nemici – che fossero la Marina, il Governo o  Doflamingo – per una volta? Qualunque fosse stata la risposta a quella domanda, non mi importava. Ne era valsa la pena, per tutto. E poi, avevo bisogno di quella gita fuoriporta. Anzi, ne avevamo bisogno. Tutti noi. Perché ormai eravamo diventati quasi una famiglia. Ed è esattamente questo che fanno le famiglie. Condividono momenti speciali ed indimenticabili. E io ero sicura che di quelli ce ne sarebbero stati ancora tanti altri, sebbene gli imprevisti fossero dietro l'angolo.





Angolo autrice

Salve! Eccomi tornata con un altro capitolo. Come sempre spero che vi sia piaciuto ed invito chiunque ne abbia voglia a darmi un parere in proposito. :)
Il flashback, come penso si capisca, è terminato. Dal prossimo capitolo si ritornerà al presente, e vi preannuncio già che i capitoli successivi saranno più blandi e rilassati. Spero di non annoiarvi. Comunque, ci tenevo a fare una piccola precisazione. Alcune degli episodi nominati quasi all'inizio da Cami e accaduti nei sei mesi di "buio", verranno approfonditi in seguito. Quindi abbiate pazienza e..."stay tuned"!
Concludo ringraziando tutti coloro che hanno ancora la pazienza e la voglia di seguire questa Fanfiction. Grazie a tutti! <3
Alla prossima! :)

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Capitolo 40
*** Epidemia ***


Polar Tang.
Quindici giorni dopo.
 
Finalmente il supplizio era finito. Non sapevo chi ci avesse fatto questo immenso favore – anche perché altrimenti gli avrei fatto una statua gigante – ma qualcuno aveva detto ad Omen e Maya di darsi un contegno. Ed i due, che erano già abbastanza pudichi per conto loro, avevano pressoché completamente smesso di farsi effusioni. Era una vittoria per – quasi – tutti. Tuttavia, se ci eravamo liberati di quel peso, ce ne eravamo dovuti accollare presto un altro. Perché giustamente, le cose non potevano, per una volta, filare lisce come l'olio.
Non sapevo come, ma praticamente tutti i Pirati Heart si erano ammalati, uno dopo l’altro. Gli unici ancora in piedi e sani eravamo io, Law, Jean Bart e Ryu. Sebbene Ryu fosse il mestolo più veloce della Grand Line, Jean Bart valesse come tre uomini ed io e Law – che vale la pena ricordarlo, come Rufy non si ammalava mai – fossimo medici ben addestrati, era lo stesso una fatica occuparsi di diciotto persone malate. E non erano persone qualunque, tra l’altro. Tra di loro, oltre ad esserci più piagnucoloni di quanti ne potessi sopportare, c’era anche chi era estremamente puntiglioso. Non c’è cosa peggiore dei medici che tentano di curare altri medici. E in qualità di unico dottore ancora in buona salute – dal momento che nessuno osava lagnarsi in presenza del capitano – ero io a dover subire tutte le lamentele. Non lo avrei mai augurato a nessuno, nemmeno al mio peggior nemico. Li odiavo. Prima o dopo li avrei uccisi tutti. Dal primo all’ultimo. Neanche a dire che avessero contratto una malattia mortale. Si trattava solo di quella che nel mio mondo sarebbe stata considerata una banale influenza, se non fosse stata appena un po’ più debilitante ed aggressiva di quanto non fosse nel mio universo. Andavamo avanti così da cinque giorni e la cosa cominciava ad essere stancante e soprattutto snervante. Tra medicine, cibo e brontolii vari iniziavo a non capirci più niente. Specialmente perché ognuno aveva dei sintomi diversi. C’era chi aveva forti capogiri, chi alternava brividi a vampate di calore, chi aveva la nausea, chi vomitava direttamente, chi era costipato e chi aveva la febbre alta. Dovevo tenere nota di chi lamentava cosa e di quale medicina dare a ciascuno dei malati. Ma la cosa peggiore era che in infermeria non c’era abbastanza spazio per tutti, quindi quegli stronzi dei miei compagni se ne stavano rinchiusi beatamente nelle proprie cabine e a me toccava correre ogni volta da una parte all’altra del sottomarino. Law mi dava una mano, era vero, ma il più delle cose le aveva delegate a me ed io faticavo molto a stare dietro a tutti.
Chiusi gli occhi, abbandonai appena all’indietro la testa, mi appoggiai al bancone della cucina e mi lasciai cullare dal sapore forte ma allo stesso tempo delicato del liquido scuro e caldo che mi stava scivolando in gola. Tenevo la tazza con dentro il caffè con entrambe le mani e ne inspiravo l’aroma a pieni polmoni. Anche solo quello bastava a ridestarmi.
Mi lasciai sfuggire un verso gutturale dalla gola, che poteva essere molto equivoco ed ambiguo.
«Ah, pausa caffè» sussurrai, con la stessa espressione sul viso di uno che aveva appena visto il Paradiso.
«Ultimamente ne ingurgiti parecchio. Forse dovresti fare una pausa» commentò Ryu, intento a trafficare con mestoli e utensili vari. Non capivo come facesse ad avere tante energie anche in una situazione del genere. Certo, il suo lavoro era un po’ diverso dal mio e non differiva tanto da quello che faceva di solito, ma era comunque un compito oneroso quello di preparare i pasti per dei malati.
Girai di scatto la testa verso di lui e sbuffai una risata, appena prima di assottigliare gli occhi.
«Noi medici non facciamo pause» dichiarai solennemente «almeno, non finché tutti i nostri pazienti non stanno bene» constatai poi.
Il mio cellulare trillò, facendomi sussultare per un attimo, al punto che la bevanda scura quasi fuoriuscì dalla tazza. Ormai faceva lo stesso identico suono da cinque giorni, ma io ancora mi ostinavo a sperare che mi fosse arrivato un messaggio o che qualcuno della mia famiglia mi stesse chiamando. Lo presi dalla tasca, controllai lo schermo sbuffando, e molto controvoglia appoggiai la tazza dietro di me. Con un colpo di reni mi rimisi in piedi e mi scostai dal bancone.
«Devo andare» biascicai «Bepo ha bisogno dei suoi antibiotici» annunciai, con una voce più lagnosa di quanto volesse essere in realtà.
Per tenere le fila di tutto, avevo escogitato un sistema che comprendeva fogli e foglietti vari sparsi per tutta l’infermeria e promemoria impostati sul telefono che mi ricordassero quale medicinale dovevo somministrare a quale paziente.
«Come avrà fatto ad ammalarsi anche lui?» domandò il cuoco, perplesso, appena prima che varcassi la soglia della cucina.
Effettivamente non mi sarei mai aspettata che un orso polare potesse prendersi l’influenza. Soprattutto non uno come lui.
«Me lo chiedo anche io...» risposi pensierosa, per poi scuotere la testa e dirigermi dal Visone.
 
«Ecco, tieni» dissi, porgendo a Bepo due pasticche. Poi presi il bicchiere con l’acqua dal suo comodino e quando ebbe ingoiato le pillole glielo passai, facendo attenzione a non sbattere contro nessun oggetto. La sua stanza, a parte la fioca luce data dalla piccola lampada sulla sua scrivania, era immersa nel buio più totale. Adorava l’oscurità e il fresco. Dopo tanti anni ancora mi stupivo che non se ne andasse a dormire nella cella frigorifera o in una delle sale operatorie.
Gli tolsi delicatamente il panno bagnato dalla fronte, lo immersi nella bacinella lì accanto, lo strizzai e glielo appoggiai di nuovo sulla testa. Dopodiché gli rimboccai le coperte e gli intimai di non stancarsi troppo. Non era il tipo a cui piaceva starsene fermo e rimanere con le mani in mano. In più, essendo il navigatore della ciurma, si sentiva responsabile per la nostra sorte. Ma aveva la febbre abbastanza alta e le vampate di calore, quindi doveva riposarsi e stare a letto, o non sarebbe mai guarito. E se non fosse mai guarito io non avrei mai più avuto un attimo di pace. E mi serviva, un po’ di pace.
Feci per andarmene, ma la sua zampa avvinghiata al mio polso me lo impedì. Cercai di capire quale fosse il problema, anche se nella penombra non era facile.
«Cami...» iniziò l’orso, serio, facendomi allertare «grazie per tutto quello che fai per me e per gli altri» disse dolcemente, allentando la presa sul mio braccio.
Sollevai le sopracciglia e dischiusi le labbra, che poco dopo si aprirono in un luminoso ed ampio sorriso. Tirai un sospiro di sollievo ed iniziai a ridere sommessamente. Era un peccato che non potessi vedere bene la sua faccia, perché in quel momento metteva tanta tenerezza.
«Sono un medico. È mio dovere prendermi cura degli ammalati» gli spiegai mentre mi chinavo in avanti con il busto e gli poggiavo una mano su quello che mi pareva essere il suo ginocchio. Con il buio e le coperte di mezzo potevo solo sperare di averci preso.
«E poi, voi siete i miei compagni quindi lo faccio con piacere» aggiunsi sorridente «anche se qualche volta mi fate penare» confessai, scherzando ma neanche troppo.
Era in momenti come questo che tutto il mio duro lavoro veniva ricompensato. A volte bastavano delle semplici parole gentili o dei piccoli gesti per rendermi felice e soddisfatta delle mie scelte.
«Mi dispiace che...» cominciò, ma io non lo lasciai finire.
«Smettila di dispiacerti Bepo, è tutto a posto» lo rassicurai mentre tiravo su la schiena e mi rimettevo dritta. «Ti spengo la luce?» chiesi poi mentre mi dirigevo alla porta, ricevendo una risposta affermativa.
Deviai verso la sua scrivania, sulla quale vi erano sparpagliate varie mappe, un log pose, una stilo, delle squadre ed un compasso.
Mi rigirai verso il navigatore con un sopracciglio alzato.
«Ti devi riposare.» gli intimai, scandendo bene lettera per lettera. Il Visone nascose il viso sotto le coperte ed io scossi la testa, sconsolata. Nemmeno la morte gli avrebbe impedito di finire quello che doveva fare. Era proprio un orso stakanovista. Sospirai, spengendo la piccola lampada e salutandolo. Poi, nella speranza di non inciampare su niente, mi feci strada a tastoni per arrivare alla porta. Avevo altri pazienti da curare.
 
Non feci in tempo a varcare la soglia della cucina, che Ryu mi intercettò. Piegai la testa da un lato, allargai le braccia in segno di resa e mi abbandonai ad un’espressione estremamente afflitta.
«Pietà!» esclamai al limite dell’esasperazione.
«Devi portare la cena a Maya ed Omen e anche a Shachi e Penguin» mi informò lui, nemmeno un po’ toccato dalla mia scenetta.
«Non può farlo il capitano?» mi lamentai. Il cuoco alzò un sopracciglio e mi guardò come se fossi matta. Ripensai a quello che avevo detto e feci un gesto della mano come per scacciare via quell’enorme stronzata.
«E di Jean Bart che mi dici?» domandai speranzosa.
«Tu sai pilotare il sottomarino?» chiese a sua volta, con l’aria di chi la sapeva lunga.
Sbuffai e digrignai i denti.
«E tu, allora?» volli sapere, in un ultimo, disperato tentativo di scampare a quella rottura di scatole.
«Io ho ventidue persone da sfamare» replicò, tornando a controllare pentole e padelle sui fornelli.
«Giusto...» mi ricordai, poi mi lasciai sfuggire un lungo sospiro. Supponevo che sarebbe toccato a me portare la cena ai malati. Presi i vari vassoi, li incastrai tra di loro e ripartii alla volta delle cabine dei rispettivi affamati.
 
Bussai, ma non ottenni risposta. Ero consapevole del rischio che correvo entrando senza che nessuno mi avesse detto di entrare, ma non avevo tempo da perdere. Ero stanca, dovevo farmi una doccia per lavare via tutto quello stress e quella fatica e avevo bisogno di riposarmi.
Come aprii la porta distolsi lo sguardo, temendo di poter vedere cose che non avrei voluto e non avrei dovuto vedere.
«Sono venuta a portarvi la cena, lascio il vassoio sul tavolo» li informai «io non ho visto niente» aggiunsi, sbirciandoli con la coda dell’occhio. Per fortuna Maya e Omen si stavano solo scambiando un innocente bacio. “Innocente” con loro era una parola grossa. Non era un segreto per noi della ciurma quanto quei due si facessero trasportare dalla passione. Avevano provato a tenerlo segreto, ma erano due pessimi attori; e poi la specialità dell’altra coppia dei Pirati Heart – Shachi e Penguin – era ficcanasare negli affari degli altri, quindi non ci era voluto molto prima che i poveri piccioncini fossero stati costretti a venire allo scoperto. Nonostante questo, ammiravo i due amanti, o fidanzati, o quello che erano, perché sebbene avessero a che fare con dei compagni molesti e fastidiosi con cui erano costretti a passare la maggior parte del tempo, sapevano come tenere privati i loro "affari".
Mentre poggiavo il vassoio sulla scrivania, li osservai, sempre di sottecchi, staccarsi l’uno dall’altra velocemente. Sui loro visi c'era dipinta un'espressione imbarazzata. Sembravano due persone completamente diverse. Forse era proprio quello il potere dell’amore. L’amore li rendeva così felici, così gioiosi, faceva brillare i loro occhi. Certo, li rendeva anche più fragili, ma ero sicura che in cuor loro ne fossero contenti; anche perché insieme erano invincibili, avrebbero potuto affrontare qualsiasi cosa. Pensai che mi sarebbe piaciuto trovare qualcuno con cui condividere quella felicità, qualcuno che mi facesse ridere come Omen faceva ridere Maya e che mi facesse dimenticare tutti i miei problemi per un po’. Qualcuno che mi facesse sentire libera e spensierata, che con la mente mi portasse in luoghi sconosciuti, che fosse capace di esplorare tutto di me e di scoprire ogni mio segreto, anche quelli più reconditi.
«Ti serve qualcosa?» la voce roca della mia amica interruppe il mio flusso di pensieri poetici. Scossi velocemente la testa e cercai di tornare in me.
«Cosa?» chiesi, ancora un po’ intontita. Mi guardarono entrambi come se fossi io quella malata.
«Comunque no, non mi serve niente. Anzi, fatemi sapere se serve qualcosa a voi. Ora vado» risposi, avviandomi verso la porta. Poi ci ripensai e mi rigirai di scatto, spaventandoli un po’.
«Non stancatevi troppo e non cimentatevi in attività faticose» mi raccomandai, facendo loro l’occhiolino. Ci abbandonammo tutti e tre ad una risata e poi li lasciai alle loro occupazioni, preferendo non indagare sulla natura di esse.
 
Mi chiusi la porta della mia cabina alle spalle e mi ci appoggiai con tutto il peso. Buttai fuori tutta l’aria che avevo in corpo. Doccia. Mi serviva una doccia. Avevo servito la cena a tutti ed ora ero sfinita. Non vedevo l’ora di lavarmi e poi di andare a dormire. Ovviamente non prima di aver bevuto un bicchiere di vino.
Il cellulare emise un altro trillo. Sussultai ancora una volta nel sentirlo e controllai lo schermo per capire a chi dovessi somministrare cosa, questa volta. “Antiemetici per Penguin” ripetei nella mia testa mentre sbuffavo, mi rigiravo stancamente e aprivo la porta della mia stanza per andare in infermeria.
Mi trascinai fino all’armadietto dei medicinali come se le mie gambe pesassero cento chili ognuna. Un debole rumore di passi alle mie spalle mi fece girare sospettosa.
«Ah, sei tu» affermai con indifferenza, osservando la figura, altrettanto indifferente, a pochi passi da me. Era solo Law, che ricompariva da chissà dove dopo essere stato latitante per tutto il pomeriggio. Comodo, far fare tutto il lavoro sporco a me.
Lo fissai assottigliando gli occhi. Poi corrugai le sopracciglia e piegai la testa da un lato.
«Quella non è la felpa che ti ho regalato per il tuo compleanno?» gli domandai, piuttosto perplessa. Osservò per appena mezzo secondo i suoi indumenti, poi tornò a guardarmi.
«Quindi?» chiese, leggermente infastidito.
«Quindi non pensavo che l’avresti mai messa. Quando te l’ho regalata l’hai guardata come se davanti avessi avuto un piatto di umeboshi» affermai sarcastica.
La osservai per un altro po’. Era molto simile alla felpa gialla che indossava prima del salto temporale, davanti avevo anche fatto ricamare il jolly roger dei Pirati Heart. Solo che era meno aderente al corpo, le maniche erano più lunghe ed era di un color arancione pastello – il mio preferito – che si stendeva a tinta unita su tutto l’indumento. Quando gliel’avevo data gli avevo spiegato che era un modo per rendere il suo guardaroba un po’ più colorato, perché fino a quel momento gli avevo visto indossare solo colori cupi – eccetto il giallo – come il nero, il blu e il grigio. Serviva un po’ di colore nella sua vita e, sebbene mi rendessi conto che fosse una scelta azzardata, avevo voluto comunque regalargliela così.
«Non avevo altro da mettere» rispose, fingendo indifferenza.
Nel sentire le sue parole le mie labbra si aprirono in un sogghigno. Involontariamente mi aveva appena confessato che in fondo la felpa un po’ gli piaceva. E quello fu abbastanza per rallegrarmi la giornata e ridarmi un po’ di energie.
«Trafalgar Law che non ha vestiti puliti» ribattei alzando un sopracciglio «non ci crederei neanche se vedessi il tuo armadio con i miei occhi. Tu fai il bucato due volte a settimana, il lunedì e il giovedì. Ormai a momenti lo sa anche Rufy. Quindi è impossibile che...»
«Non hai delle cose da fare?» mi interruppe. Contrariamente a quanto mi aspettassi, il suo tono non sembrava scocciato. Ad ogni modo, aveva ragione. Sarebbe stato meglio non perdere altro tempo per cose futili e concentrarsi su ciò che c’era da fare.
Mi rigirai verso il mobile in cui erano contenute le medicine e mi allungai – in punta di piedi – per prendere il flacone di pasticche che serviva a Penguin. Tuttavia, a causa di un forte capogiro dovetti smettere di cercare il medicinale per appoggiarmi al bancone. Chiusi gli occhi nella speranza che la testa smettesse di girarmi. Era stato un capogiro improvviso e potente, ma speravo che sarebbe passato presto. Molto probabilmente quello era il mio corpo che mi diceva di andarci un po’ più piano.
Dietro di me, sentii il capitano ridere sommessamente. Mi sarei voltata e lo avrei guardato male, se non avessi rischiato di cadere per terra come una pera cotta ad ogni minimo movimento brusco.
«E così hai finito per ammalarti anche tu» commentò piuttosto divertito.
Inspirai ed espirai forte con il naso, poi cercai di staccare le mani dal bancone e di riprendere quello che stavo facendo prima.
«Non mi sono ammalata» gli risposi, contrariata, mentre spostavo una scatola di antibiotici «sono solo un po’ stanca» aggiunsi poco dopo. Ma un altro forte capogiro mi impedì di continuare la ricerca degli antiemetici. Questo, però, fu così forte che iniziai a vedere sfocato e fui costretta a piegarmi ed appoggiare gli avambracci al bancone. Rimasi in quella posizione per un paio di minuti. Nell’intera stanza era calato il silenzio e non sapevo cosa stesse facendo Law o se ci fosse ancora. Alle mie spalle udii soffiare una risata. A quanto pareva era ancora nella stanza.
Ancora con l’avambraccio destro appoggiato alla superficie piana del bancone, mi passai la mano sinistra tra i capelli e sospirai.
«È solo un calo di zuccheri, non c’è da preoccuparsi» mi giustificai, dopo essermi umettata le labbra con la punta della lingua.
«Non mi preoccupo, infatti» rispose lui, calmo, facendomi sbuffare e roteare gli occhi. Figurarsi se il Chirurgo della Morte si preoccupava per me. Non era mai successo e sospettavo che non sarebbe successo nemmeno in futuro.
«Fai bene» replicai convinta «come ti ho detto, è solo un calo di zuccheri. Non sono abituata a gestire diciotto pazienti contemporaneamente. È più faticoso di quanto mi aspettassi e dato che non sono nemmeno tanto autosufficienti, mi ci vuole il doppio delle energie. C’è anche da dire che non è che tu mi stia aiut...»
Per la seconda volta quel giorno, il medicastro mi interruppe nel bel mezzo della frase, e per all’incirca la centesima volta, sussultai. Senza che me ne accorgessi, mentre parlavo – a questo punto da sola – il chirurgo si era avvicinato di soppiatto, si era posizionato accanto a me ed ora il dorso della sua mano ghiacciata era sulla mia fronte. Il suo era stato un gesto rapido ma delicato, come solo un dottore esperto sa fare. Spostai lo sguardo, perplesso, su di lui. Boccheggiai un paio di volte. Non me lo aspettavo. Non mi aspettavo un gesto simile e così improvviso. Non da lui. Ma invece, in qualche modo, riusciva sempre a sorprendermi.
«C-che stai facendo?» chiesi infine, titubante. Lo sentii premere di più la mano sulla mia fronte.
«Trentotto e tre» decretò lui, appena prima di abbassare il braccio.
Sospirai. Dovevo rassegnarmi al fatto di aver preso l’influenza. Dopotutto, ipse dixit.
«E da quando sei diventato un termometro umano?» cercai di informarmi, ma senza ottenere alcuna risposta. Non ce ne fu bisogno, in realtà, perché la risposta arrivò direttamente dal mio corpo. La testa iniziò a girarmi nuovamente e stavolta non bastò appoggiarsi al bancone. L’unico altro appiglio che avevo a disposizione per non stramazzare a terra, era il capitano. Gli artigliai un braccio e lo trattenni involontariamente per un paio di minuti. Lui, al contrario di quanto mi aspettavo, non disse niente. Si limitò ad intimarmi di andare in camera mia a riposarmi. Fu proprio in quei minuti di instabilità che mi ricordai che anche quando mi ero presa quella tremenda insolazione, tempo addietro, per misurarmi la temperatura aveva usato lo stesso metodo che aveva utilizzato poco prima. Questo, in una situazione più normale, mi avrebbe fatto ridere, o almeno sorridere. Invece in quel momento tutto ciò che potei fare fu stringere ulteriormente la presa attorno al magro ma muscoloso braccio del Chirurgo della Morte.
Quando il capogiro finì, finalmente lo lasciai e lui girò i tacchi per andare dall’altra parte della stanza. Mi girai anche io e lo seguii con lo sguardo. Poi, quando fu a qualche metro da me, parlai.
«Non ti preoccupi, eh?» gli domandai – retoricamente – alzando un sopracciglio e sfoggiando un sorrisetto di scherno.
«Faccio solo il mio dovere da medico» si affrettò a rispondermi, infastidito.
«Certo...» sussurrai, per non farmi sentire da lui, distogliendo lo sguardo.
Lo vidi rigirarsi e avviarsi verso la porta dell’infermeria.
«Aspetta, aspetta!» esclamai, raggiungendolo a passo svelto, per quanto i giramenti di testa mi concedessero.
Si voltò per l’ennesima volta, con espressione plausibilmente scocciata. Quando fummo a circa un metro di distanza, gli afferrai il polso e poi mi lasciai sfuggire un’esclamazione di piacere. Avevo preso la sua mano fredda e l’avevo portata sulla mia fronte rovente. Dovevo dire che quella sensazione era una benedizione divina. Aveva lo stesso effetto di un ventilatore puntato in faccia in una calda giornata estiva, quando fanno trenta gradi all’ombra.
«Vai a riposarti.» mi intimò duramente, liberandosi con uno scatto repentino dalla mia presa. Poi, senza indugiare oltre, se ne andò, lasciandomi sola.
Era buffo, perché anche quella volta non mi ero accorta di essere malata. C’era voluto lui per farmelo capire. A breve sarei diventata un medico a tutti gli effetti, sapevo elaborare diagnosi complicate in pochi minuti ed operare i pazienti anche senza monitor accesi, eppure per qualche strana ragione ero completamente inerme quando si trattava di me stessa. Forse questo stava a significare che non potevo salvarmi da sola, che dovevo per forza affidarmi a qualcun altro. Oppure, più semplicemente, voleva dire che il mio corpo era più resistente di quanto pensassi. Non lo sapevo. Una cosa però era certa. Finalmente sarei potuta andare a riposarmi.
 
Letto. Il mio amatissimo letto. Non vedevo l’ora di ritornare a farmi avvolgere da quelle soffici coperte, e alla fine ci ero riuscita. Certo, non avrei voluto mettermi a letto per colpa dell’influenza, ma era sempre meglio di nulla, giusto? Almeno così non dovevo più occuparmi dei miei lagnosi compagni. Sarebbe toccato a Law ed io sarei rimasta a guardarlo all’opera – si faceva per dire, visto che ero bloccata a letto – e a ridermela sotto i baffi. Non poteva più sottrarsi ai suoi doveri di medico e di capitano. Ma avevo la certezza che se la sarebbe cavata egregiamente, molto più di quanto avessi fatto io. Lui era bravo, molto bravo. Era intelligente come pochi ed era veloce e organizzato. Non gli piaceva perdere tempo e da che mi ricordassi era la persona più efficiente che io avessi mai conosciuto. In fondo, non era poi tanto male se lo si imparava a conoscere. Anzi, avrei potuto dire persino che fosse una bella persona. Tutti i Pirati Heart erano belle persone. Un po’ stravaganti, forse, ma era anche questo il bello di far parte di una ciurma come la loro. Non mi annoiavo e non mi sentivo neanche sola, a parte in momenti come questi, quando ero praticamente impossibilitata ad avere contatti umani. Anche se in realtà non mi importava più di tanto. Tutti abbiamo bisogno di passare del tempo da soli. Dobbiamo ritrovare noi stessi. Dobbiamo stare in pace e rilassarci, altrimenti rischiamo di impazzire. Perciò mi stava bene stare da sola per qualche giorno, anzi, ne ero contenta.
Chiusi gli occhi, assaporando quel raro momento di quiete e silenzio e abbandonando completamente la testa alla morbidezza della federa. Neanche a farlo apposta, la porta della mia stanza si spalancò. La chiave. Mi scordavo sempre di chiuderla a chiave.
Sollevai controvoglia la testa dal cuscino e controllai chi fosse venuto a disturbarmi, anche se un’idea già ce l’avevo.
«Ehilà!» mi salutò Penguin, allegro. Come facesse ad avere tutte quelle energie con trentanove di febbre ancora mi sfuggiva.
«Il capitano ci ha detto che alla fine ti sei beccata l’influenza anche tu» mi fece sapere Shachi, facendo capolino da dietro il compagno.
Annuii. Cominciavo a pensare che i muri del Polar Tang avessero le orecchie, tanto si diffondevano veloci le notizie. Mi puntellai sui gomiti per sostenermi meglio, consapevole che quella conversazione non era occasionale e non sarebbe finita di lì a breve.
«Voi non dovreste essere a letto?» chiesi loro assottigliando gli occhi con circospezione.
«Sì, infatti» asserì tranquillamente l’orca.
Per qualche secondo nessuno di noi disse o fece niente. Poi, vidi i due amici avvicinarsi al mio letto, scostare le coperte, sedersi sul bordo, uno per lato, ed infine sdraiarvisi come se nulla fosse.
«Che diavolo state facendo!?» gridai, estremamente confusa, spostando rapidamente lo sguardo dalla mia destra alla mia sinistra.
«Ci mettiamo a letto» mi rispose calmo Penguin, ritirando su il lenzuolo e sistemandosi sul materasso.
Sbattei le palpebre un paio di volte. Forse la febbre mi stava provocando delle allucinazioni. O forse le stava provocando a loro.
«La febbre vi ha dato alla testa, per caso? Questo è il mio letto» precisai con stizza.
«Lo sappiamo» dissero all’unisono, avvicinandosi di più a me, che ero al centro del talamo. La cosa cominciava a diventare inquietante. Li conoscevo e sapevo che non mi avrebbero mai fatto del male, ma chissà cosa passava per le loro menti febbricitanti.
«Ma adesso siamo tutti malati e visto che tu ti sei presa cura di noi con tanto ardore, permettici almeno di farti compagnia» continuò poi Shachi.
«Non vogliamo lasciarti sola. Ti annoieresti probabilmente e noi vogliamo darti un po’ di conforto, esserti d’aiuto in qualche modo» aggiunse Penguin, sorridendo sornione.
Aggrottai la fronte e mi lasciai scappare una piccola risata.
«Sul serio?» chiesi loro, guardando prima uno e poi l’altro.
«Beh, se vuoi ce ne andiamo» cominciò il pinguino «ma credo che cambierai idea dopo aver visto questa».
Il pirata tirò fuori da sotto il pigiama una bottiglia di vino. Non c’era che dire, ero sicuramente stupita.
«L’abbiamo sgraffignata dal frigo sotto agli occhi di Ryu» mi sussurrò l’orca. Feci una smorfia a metà tra il contrariato e il divertito nell'immaginarmi uno dei due idioti che tentava di distrarre il cuoco mentre l'altro agiva indisturbato e trafugava la bevanda alcolica dal frigorifero.
«Ragazzi, non dovremmo mischiare gli alcolici con gli antibiotici» li rimproverai io «ma comunque potete restare. Possiamo pur sempre bercela una volta guariti» affermai guardando la bottiglia con bramosia.
«Ah, eccovi!» trillò una voce poco distante da noi. Ci girammo istantaneamente verso la figura che stava in piedi sulla porta, leggermente affaticata e con la coda dell’occhio vidi Penguin nascondere svelto il vino sotto a quello che era appena diventato il suo cuscino. Complice anche la febbre, trattenni una fragorosa risata che sarebbe stata decisamente inappropriata. Mi sembrava di essere tornata a scuola, quando i miei compagni più svogliati intimavano al secchione della classe di non dire alla professoressa che il giorno prima aveva assegnato dei compiti che ovviamente nessuno aveva fatto.
«Bepo! Che ci fai qui?» chiese con finta cordialità l’occultatore di bottiglie.
«Scusate per l’interruzione» disse chinando il capo e facendo roteare gli occhi a tutti e tre «ma...anche io voglio fare compagnia a Cami» annunciò serio.
«Non c’è posto» constatò Penguin.
«E poi tu hai la pelliccia. E sudi. E faresti sudare anche noi» rincarò la dose l’amico.
«Non è il massimo per chi ha l’influenza» riflesse il primo.
L’orso fece il labbruccio. Piegai la testa da un lato, impietosita. Era così tenero quando faceva quell’espressione, non sapevo proprio resistergli. Era la versione più in grande del Gatto con gli Stivali che compariva in Sherek.
Sbuffai e gli feci cenno di venire.
«Tanto peggio di così...» commentai, stringendomi ai miei compagni per far posto a Bepo. Ovviamente i due non persero l’occasione di lamentarsi per il calore corporeo che emetteva quest’ultimo.
«Chissà che cosa dirà Law quando ci vedrà così...» pensai ad alta voce, facendo ricadere pesantemente la testa sul cuscino. Eravamo schiacciati come sardine e per trovare una posizione comoda avevo impiegato parecchio tempo e avevo fatto parecchi sforzi. Ma, se fosse stato necessario, non avrei esitato e buttare giù dal letto qualcuno.
«L’abbiamo già informato» mi comunicò Shachi «gli abbiamo detto che per quanto lui sia un ottimo dottore...»
«Degno della nostra stima» lo interruppe l’amico, che si beccò un’occhiataccia.
«Dicevo, per quanto noi lo stimiamo e lo consideriamo un ottimo dottore, preferiamo te» affermò, lasciandomi totalmente spiazzata. Preferivano me? Sul serio? Ma questo che voleva dire? Che avrei dovuto continuare a curarli io? Supponevo che la febbre facesse sbarellare anche loro. Ma non mi importava, anche se ero malata rimanevo pur sempre un medico e avevo il dovere di curarli, avrei solo dovuto fare qualche sforzo in più.
«Sei sempre gentile con noi e sei dolce e premurosa con tutti i tuoi pazienti, anche con quelli più difficili» mi spiegò Penguin.
«È vero!» confermò Bepo.
«Ragazzi» cominciai, ritirandomi su a fatica. Dovevo ammettere che cominciavo ad accusare i primi sintomi dell’influenza. Feci cenno anche agli altri – che ormai si erano tranquillamente stesi e messi comodi – di ritirarsi su. Quando lo fecero, con un po’ di riluttanza, allargai le braccia e cinsi le loro spalle, almeno quelle dell’orca e del pinguino, visto che non riuscivo ad arrivare al Visone, che era più distante da me.
«Vi voglio bene» dissi loro, sorridendo.
I miei compagni si strinsero a me e appoggiarono delicatamente le loro teste alla mia.
«Anche noi te ne vogliamo» mi informarono all’unisono, con dolcezza.
In quel momento il mio corpo fu avvolto da una sensazione di calore improvvisa e piacevole. Non era Bepo, né la febbre, erano le loro parole e le loro azioni. Era sapere che, finalmente, qualcuno ci teneva a me, a tal punto da fare quello che avevano fatto loro. Era sapere che i miei compagni apprezzavano me e il mio lavoro. E quello fu abbastanza affinché tutti i miei sforzi e le mie fatiche venissero ripagate.
Avrei dovuto rinunciare all’idea di stare da sola, ma non mi dispiaceva. Perché quello era decisamente meglio.

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Capitolo 41
*** Esperimenti ***


«Via! Viaaaa!» gridai, infilando rapidamente la porta e facendo cenno anche alle altre persone presenti di scappare. Mi riversai fuori dal laboratorio come un uragano, e mentre cercavo una via di fuga nel corridoio, mi imbattei nell’ultima persona che avrei voluto incontrare. Peccato che ero così intenta a cercare di salvarmi la pelle che non lo vidi e lo travolsi con tutta la mia foga. Cademmo ed io atterrai sopra di lui. Normalmente mi sarei scusata e lo avrei supplicato di risparmiarmi, ma questa volta pensai solo ed esclusivamente ad allontanarmi il più possibile da quella stanza maledetta. Mi tirai su malamente, piantandogli un ginocchio nello stomaco. Lo vidi sussultare e fare una smorfia a metà tra il sorpreso e il sofferente.
«Scappa!» gli consigliai distrattamente, lanciandomi in avanti.
Tentò di rialzarsi anche lui, ma purtroppo nella fretta, data la mia goffaggine, inciampai sul suo braccio e ricaddi a terra come una pera cotta. Non c’era più tempo. Gattonai per qualche metro fino a che non ritenni di essere ad una giusta distanza di sicurezza, dopodiché mi appiattii al muro, raggomitolai le ginocchia al petto, abbassai la testa, chiusi gli occhi e mi coprii le orecchie con le mani. Rimasi in quella posizione per qualche secondo. Non successe niente.
Aprii un occhio per controllare la situazione. Quando mi accorsi che tutto era tranquillo, tirai un sospiro di sollievo, distesi le gambe e appoggiai la testa al muro.
«Che diavolo stai facendo?» mi chiese Law, ora accanto a me, con aria estremamente accigliata.
Lo guardai, quasi mortificata per l’incidente di poco prima e tentai di propinargli un sorriso innocente.
«Avevo paura che esplodesse» gli spiegai, sempre sorridendo candidamente.
«Che esplodesse cosa?» mi incalzò, fissandomi con sguardo truce.
«Il laboratorio» dissi in un sussurro, nella speranza che non mi sentisse. Ma non c’era pericolo – o meglio, c’era eccome – perché lui poteva sentire il ronzio di una mosca anche a trenta metri di distanza.
«E perché il laboratorio sarebbe dovuto esplodere?» domandò, alzando un sopracciglio. Ero piuttosto sicura che la risposta la conoscesse da solo, tuttavia voleva sentirla pronunciare dalla mia bocca.
Esitai per qualche istante prima di parlare. Dovevo trovare le parole giuste.
«Perché...beh, a causa degli agenti chimici che ho usato» affermai timorosa «direi che neanche questa è la formula giusta» dichiarai sconsolata, facendo leva sul pavimento con la mano ed alzandomi in piedi.
«A proposito, mi dispiace per averti investito, prima» lo informai «è che stavo cercando di scappare...» mi interruppi nel momento in cui lo vidi scuotere debolmente la testa ed alzare gli occhi al cielo.
«Vedi di non distruggere il mio laboratorio.» mi impose, grave. Poi si rigirò e se ne andò. Mi parve di vederlo massaggiarsi lo stomaco. Feci una piccola risata, consapevole che quel giorno mi ero salvata da due morti molto spiacevoli. Almeno il capitano non si era arrabbiato troppo. Cominciavo a pensare che io stessi iniziando a piacergli, o comunque che stesse iniziando a non odiarmi. Quella non era la prima volta che sfioravamo la catastrofe, già mesi prima avevo rischiato di dare fuoco a tutto il sottomarino. Per fortuna grazie alla prontezza di riflessi di Bepo eravamo scampati al pericolo e avevamo evitato di diventare carne alla brace. Sapevo quanto Law tenesse al Polar Tang e al suo laboratorio, e il fatto che avesse continuato a permettermi di utilizzarlo per i miei esperimenti azzardati significava molto per me. Forse si stava rammollendo un po’, ma questo era un pensiero che mi sarei tenuta per me e mi sarei portata nella tomba.
«Cercherò di non fare troppi danni» gridai, al corridoio ormai vuoto. Dopodiché sospirai e ritornai nella stanza degli orrori.
Erano settimane che ero chiusa in laboratorio nel tentativo di mettere a punto una formula chimica che mi desse l’effetto sperato. L’epidemia che ci aveva colpiti aveva interrotto il mio lavoro di ricerca e sperimentazione, ma ora che eravamo tutti guariti niente mi impediva di riprendere le ricerche. A parte la morte, che se avessi continuato così sarebbe sopraggiunta sicuramente; per me e per tutti i miei compagni. Rischiavo di ripetere l’incidente provocato da Caesar Clown avvenuto a Punk Hazard anni prima. Ero stata per mesi a studiare tutti gli elementi chimici e le loro reazioni a contatto con liquidi e gas vari e pensavo di riuscire a cavarmela un po’ meglio di così, ma dopo settimane di tentativi ero riuscita ad arrivare soltanto ad una conclusione: purtroppo non ero Walter White; e cominciavo a perdere le speranze che un giorno sarei mai potuta diventare come lui.
 
«Oh, mio Dio! Oh, mio Dio! Oh, mio Dio!» gridai, portandomi entrambe le mani, con i palmi aperti, a ventilarmi il viso. Non ci potevo credere.
«Cos’è successo!? Si sono di nuovo incendiate le provette!?» chiese Bepo entrando nel laboratorio con irruenza. Aveva una faccia preoccupata e un po’ spaventata. Doveva essere corso fino a lì non appena mi aveva sentito urlare, perché sembrava piuttosto trafelato.
«Bepo!» esclamai, andandogli incontro ed allargando le braccia. Lo abbracciai energicamente, sotto il suo sguardo alquanto perplesso. Quando finalmente mi staccai, gli presi i polsi ed iniziai a saltellare euforica su e giù come se fossi una fan che finalmente incontra il proprio idolo.
«Sono contento che tu sia felice, ma mi spieghi che cosa è successo?» domandò dopo un po’, confuso ma anche curioso.
«Oh, Bepo...» sussurrai con aria sognante e guardandolo con tenerezza. «Ce l’ho fatta, finalmente! Ce l’ho fattaaaaa!» strillai alzando le braccia in aria.
Ero così contenta che qualsiasi cosa fosse successa, non mi sarebbe importato. Dopo settimane di estenuanti – e pericolose – ricerche, finalmente avevo trovato la giusta formula.
«Chiama il capitano. Chiama...chiama tutti! Devono sapere che cosa ho creato!» ordinai al Visone. Per fortuna il mio interlocutore era docile e disponibile e fece immediatamente come gli avevo detto, senza fare altre domande.
Quando tutti i Pirati Heart si furono radunati al mio cospetto, iniziai la mia presentazione, se così si poteva chiamare. Ignorai il fatto che alcuni di loro erano infastiditi a causa delle attività che stavano svolgendo e che io avevo bruscamente interrotto – tipo Ryu che aveva lasciato la carne sul fuoco – e con entusiasmo cominciai a spiegare la scoperta che avevo fatto. Mi serviva quel momento. Mi serviva quella mia piccola vittoria per prendermi una rivincita personale e non sentirmi più come se fossi un fallimento. Ora mi sentivo più completa e sicuramente un passo più vicina a realizzare i miei sogni.
«Prima di iniziare mi serve una cavia da laboratorio» annunciai. Tutti mi guardarono estremamente perplessi. «Ehm, cioè, un volontario. Altrimenti non posso farvelo capire» mi corressi sorridendo candidamente e sperando di non aver spaventato nessuno.
«Non guardate me. Io sono il cuoco, vi servo vivo» dichiarò lo chef, facendo un passo indietro. Effettivamente non gli si poteva dare torto.
«Se è per questo io sono il navigatore. Senza di me sareste letteralmente persi» disse Bepo.
«Io mi occupo di pilotare il sottomarino e sono l’unico che può farlo» ci comunicò Jean Bart.
«Noi siamo i tuoi compagni di bevute, ti serviamo integri» mi fece sapere Penguin.
«E poi, ti vogliamo bene» aggiunse Shachi, ruffiano come al solito, nella speranza di poter evitare la Spada di Damocle.
«Mi serve integro solo uno di voi due» precisai seria fissandoli alternatamente negli occhi.
Si guardarono preoccupati ed aspettarono qualche secondo prima di rispondermi, con le pupille di tutti puntate addosso. Avevo incrociato le braccia ed ora stavo picchiettando nervosamente il piede sul pavimento. Ero sicura che quei due vigliacchi avrebbero sacrificato l’altro senza indugi, invece non smettevano mai di sorprendermi.
«È qui che ti sbagli» iniziò l’orca «perché più siamo e più bottiglie di vino possiamo procurarti» mi spiegò, gesticolando lentamente e con accondiscendenza. Digrignai i denti, consapevole che quando il discorso cadeva sul vino diventavano automaticamente intoccabili.
Setacciai con lo sguardo tutte le possibili vittime sacrificali.
«Noi passiamo» annunciò Omen, cingendo Maya con un braccio ed indietreggiando di qualche passo, portandosi la fidanzata con lui, nel momento in cui si accorse che lo stavo fissando.
Piano piano, uno per uno, si stavano tirando indietro tutti.
Fissai Law, chiedendogli implicitamente di dire o fare qualcosa. In tutta risposta cominciò a sogghignare. Quel ghigno stampato sulla sua facciaccia mi confermava che non si sarebbe offerto come tributo volontario e che non avrebbe mandato al macello nessuno dei suoi uomini. Certo, perché l’unico agnello sacrificale tra tutti loro ero io, solo io e sempre io. Alzai gli occhi al cielo. Perché diavolo non si fidavano di me, quegli idioti!?
«Grazie per la fiducia che riponete in me, compagni» sputai con disprezzo, calcando sull’ultima parola. Stavo iniziando ad infastidirmi. Non che non li capissi. Si fidavano ciecamente di me come medico, ma facevano bene a non fidarsi di me in qualità di piccola chimica. Nemmeno io mi fidavo di me stessa, in quei panni. Eppure erano pur sempre i miei compagni, i miei amici, e mi aspettavo che mi sostenessero almeno un po'. Non li avrei uccisi. Perlomeno, non di proposito.
«Ehm...» una vocina timida si elevò dal mezzo del gruppo. Tutti ci girammo a guardare incuriositi la persona dalla quale proveniva.
«Se non è un problema lo faccio io» si offrì la voce.
«Kenji!? Ma che diavolo fai!? Vuoi morire!? Non fare l’idiota!» gli gridò uno dei medici.
Kenji era un ragazzo con cui non avevo particolari rapporti. Era un mio compagno, era vero, ma lo consideravo più come un collega che come un amico, come invece potevano essere Shachi o Penguin. E neanche a farlo apposta, in realtà era simile a loro, tanto che i primi tempi lo avevo confuso più volte con l’orca e il pinguino, ovviamente senza risparmiarmi figure barbine. Indossava sempre un cappello, sotto al quale portava i capelli rossicci pettinati in due lunghe trecce. Talmente lunghe che gli arrivavano fino all’ombelico. Quando l’avevo conosciuto io mi sembrava che avesse un’aria minacciosa, ma a vederlo adesso sembrava più uno di quei docili topolini spaventati ed indifesi che fanno, appunto, da cavie da laboratorio. La cosa positiva era che non ce l’avevo mai avuta con lui per l’episodio accaduto su Lyborn, perché lui almeno aveva avuto la decenza di stare zitto e di non infierire sulla situazione già abbastanza complicata. Era stato l’unico ad avermi chiesto se stessi bene nel momento in cui la gamba mi aveva ceduto, e qualche giorno dopo, quando eravamo ritornati sul sottomarino, era anche venuto a scusarsi di persona con me, da solo e di sua spontanea volontà. Era una ragazzo a posto. Non lo avrei sottoposto ad un pericolo se non fossi stata estremamente sicura che non avrebbe corso dei rischi.
«Ripensaci» gli consigliò qualcuno.
«Senti, sei un dottore. E a noi serve quanto più personale medico possibile» affermò grave il più anziano dei medici, facendosi avanti e prendendolo per le spalle. Kenji si divincolò dalla sua presa e lo fissò serio.
«No. Voglio farlo.» dichiarò, e io non potevo esserne più felice.
«Grazie per avermi concesso una possibilità» gli dissi dolcemente con un sorriso sincero stampato sulle labbra una volta che mi ebbe raggiunta. Lo vidi arrossire violentemente e mi venne da ridere. Con la coda dell’occhio vidi che anche il capitano se la rideva sotto i baffi.
«Prima di iniziare devo avvertirti dei rischi che corri» gli dissi, sospirando e sperando che non ci ripensasse una volta sentiti «dunque, potresti sperimentare per qualche settimana dei crampi muscolari o formicolii agli arti. Potresti avere una lieve aritmia cardiaca per qualche giorno con conseguenti sincopi e potresti andare incontro all’ipossia. C’è anche una piccolissima e remota possibilità che tu possa rimanerci secco» pronunciai l’ultima parte della frase a voce bassa. Non tanto perché non volevo che sentisse lui, ma perché non volevo assolutamente che sentissero gli altri. Già qualcuno era riluttante all’idea di lasciarmi effettuare quella dimostrazione, figurarsi se tutti avessero sentito che un loro compagno sarebbe potuto morire.
Nell'ascoltare le mie parole, Kenji spalancò gli occhi.
«Ehm...non sono sicuro che...» iniziò, ma io non lo lasciai continuare, perché prontamente gli presi le mani e lo guardai sbattendo le ciglia. Sì, ero diventata ruffiana anche io per colpa di quelle due sottospecie di mammiferi.
«Ma non ti preoccupare, io non ti lascerò morire. Non lascerò che ti accada nulla. Mi prenderò cura di te» lo rassicurai, con voce suadente e con un sorriso torrido. La mia strategia funzionò, perché si convinse.
«Ma che mi succederà? L’hai mai fatto prima?» mi domandò con molta titubanza.
«Ti fidi di me?» gli chiesi a mia volta, facendogli gli occhi dolci. Arrossì un’altra volta e sembrò tranquillizzarsi.
“Come pensavo” riflettei vittoriosa mentre gli passavo una provetta contenente un liquido color glicine scuro. Gli feci cenno di berlo e quando lo fece, ripresi la provetta dalle sue mani e la riposi in un luogo sicuro, per evitare che si rompesse.
«Adesso osservate tutti» esortai i miei compagni a voce alta.
Passarono un paio di minuti in cui non successe niente e tutti, tranne me, stavano iniziando ad essere perplessi. Avevano davvero una gran fiducia in me, non c’era che dire.
«Ci muoviamo, che devo andare a controllare la carne?» fece Ryu, infastidito. Avrei voluto rispondergli che ci avremmo messo molto meno tempo se qualcuno non avesse fatto tante storie e si fosse fatto avanti subito, ma avevano tutti una diffidenza nei miei confronti che rasentava il ridicolo.
Gli rivolsi uno sguardo eloquente, imponendogli implicitamente di aspettare ancora qualche secondo.
La reazione di Kenji non tardò ad arrivare. Il suo corpo si irrigidì e prima che potesse cadere mi premurai di prenderlo.
«Oddio! Lo sapevo! L’hai ammazzato!» gridò uno dei medici in preda al panico più totale. Con calma, stesi il dottore per terra, mentre il resto dei Pirati Heart cominciava a terrorizzarsi.
Guardavano tutti Law, che fino a quel momento non aveva fatto la sua mossa. Era in piedi, con le braccia incrociate e sembrava apparentemente tranquillo. Alzai lo sguardo su di lui e gli chiesi silenziosamente di avere fiducia in me. Assottigliò gli occhi e corrugò le sopracciglia, probabilmente domandandosi come sarebbe andata a finire la faccenda.
«Sì, l’ho ucciso» risposi ghignando «ma solo per una decina di minuti» aggiunsi in seguito, facendoli rimanere a bocca aperta per lo stupore. Avevano smesso di andare nel panico – anche grazie al non intervento del Chirurgo della Morte, che aveva voluto darmi fiducia ed era rimasto a guardare – e ora erano immobili e mi stavano fissando per metà come se fossi una totale cretina e non sapessi quello che stavo dicendo, e per l’altra metà con curiosità, impazienti di vedere come si sarebbe evoluta la situazione. Sorrisi impercettibilmente, aspettando che l’effetto del siero svanisse. Li avrei sicuramente sorpresi.
 
«Ti rendi conto?» chiesi entusiasta alla persona accanto a me «Questa mia scoperta potrebbe rivoluzionare il mondo!» esclamai al culmine della felicità.
Il mio interlocutore non disse niente, lasciò che io portassi avanti il mio discorso euforico ma non completamente senza senso. Il resto della ciurma se ne era andato e tutti erano tornati alle proprie attività. La maggior parte dei miei compagni era rimasta meravigliata dal mio siero miracoloso. Kenji era ancora vivo e a parte lo stordimento iniziale e le vertigini, era in perfetta forma.
«Potrei mettermi in proprio e venderlo ai paesi che sono in guerra» riflettei ad alta voce.
«Pensavo che fossi per la pace mondiale» commentò Law, che era l’unico ad essere rimasto con me in laboratorio.
«Infatti sono per la pace!» dissi con enfasi, voltandomi a guardarlo.
«Mettiamo che stia avvenendo una guerra tra due paesi, uno dei quali nettamente più debole rispetto all’altro» iniziai «i cittadini del paese più debole potrebbero assumere il siero e fingersi morti. Se riuscissi ad allungarne l’effetto fino a farlo durare per un paio di giorni, i soldati dell’altro paese belligerante potrebbero pensare di averli uccisi tutti e a quel punto la guerra finirebbe, senza che ci siano ulteriori vittime e spargimenti di sangue» spiegai, probabilmente gesticolando eccessivamente. Il capitano mi guardava divertito, nello stesso modo in cui si guarda una recluta nel suo primo giorno di lavoro.
«Capisci ciò che intendo? Questo potrebbe segnare l’inizio di una rivoluzione nel mondo!» strillai con voce acuta «Beh, una rivoluzione pacifica, ovviamente...» dissi poi, a voce più bassa.
«E chi ti dice che il tuo siero non possa venire somministrato ai nemici per ucciderli con più facilità?» chiese il chirurgo, calmo.
Ci pensai per qualche secondo, a testa bassa. Con una sola domanda era riuscito ad affossare tutte le mie speranze e le mie utopie di un mondo in pace e senza guerre. Questo indicava quanto la frase che aveva pronunciato il Demone Celeste poco prima che iniziasse la Guerra dei Vertici fosse vera. “I bambini che non conoscono la pace e quelli che non conoscono la guerra vedono il mondo con occhi molto diversi” aveva detto, e aveva ragione. Io non conoscevo la guerra e forse ero ingenua nel pensare di poter restituire un po’ di sollievo ai popoli che avevano dovuto affrontarla, ma la persona accanto a me la conosceva bene. Conosceva bene la sofferenza che poteva essere inflitta da altri esseri umani e conosceva altrettanto bene la crudeltà con cui essa veniva inflitta. Quel mondo era bello, era fatto di isole particolari e di paesaggi mozzafiato, di fenomeni atmosferici assurdi e di oceani meravigliosi, di misteri in attesa di essere risolti e di legami indissolubili, ma c’era anche tanta oscurità. E, proprio come nel nostro mondo, era pieno di persone senza alcuno scrupolo e di altrettante persone disperate, il cui grido d’aiuto veniva ignorato da tanti. Però, in quel mondo, credevo di aver fatto una cosa buona. No, non era il siero. Era l’essermi unita alla ciurma di Trafalgar Law. Mi piaceva pensare che scegliendo di seguirlo, anche se in piccolissima parte, fossi riuscita a contribuire ad alleviare le sofferenze del mio capitano ed avergli restituito la sua tanto agognata – e meritata – pace. Di certo non me ne prendevo il merito, ma quelle rare volte in cui mi sorrideva, con quel suo sorriso puro e sincero, sapevo di aver fatto la scelta giusta, nonché una buona azione.
Scossi la testa, riprendendomi da tutti quei pensieri profondi e fin troppo melensi. Per fortuna Law non poteva guardare nella mia testa, mi avrebbe cacciato immediatamente dal sottomarino. Oppure avrebbe fatto finta di nulla e mi avrebbe preso in giro in seguito, alla prima occasione utile. Non per niente non lo avrei mai ammesso ad anima viva.
«Sarà meglio non sfidare la sorte e tenersi il siero per sé» affermai, ridendo «potrebbe pur sempre essermi utile in qualche futura battaglia. Magari salverà davvero la vita di qualcuno, come mi sono immaginata» aggiunsi poi con lo sguardo basso e sorridendo amaramente.
«Se finissimo l’anestetico potremmo usarlo come tale» propose il moro dopo un po’.
Lo fissai stupita. Me lo stava proponendo davvero o si stava prendendo gioco di me?
«Magari quando riuscirò ad prolungare la durata dell’effetto, potremmo farci un pensiero» replicai, ancora non del tutto sicura che dicesse sul serio.
«Allora dovresti lavorarci» fece, tranquillo. Non lo disse come un rimprovero, ma più come un incoraggiamento.
Sorrisi impercettibilmente e mi guardai le mani, leggermente imbarazzata.
«Grazie per aver creduto in me e per avermi fatto continuare i miei folli esperimenti in laboratorio» dissi, torturandomi le dita. Con la coda dell’occhio lo vidi ghignare divertito e venne da ridere anche a me. Se c’era una cosa del mio capitano per cui ero grata, era che con lui non servivano tante parole. Anzi, spesso non servivano proprio, le parole.
«Come hai deciso di chiamarlo?» mi domandò il chirurgo dopo qualche secondo di silenzio.
Spostai lo sguardo su di lui e le mie labbra si aprirono in un sogghigno. Apprezzavo il fatto che si stesse interessando a me e alla mia creazione.
«Siero “Giulietta”» gli annunciai con fierezza. Lo vidi corrugare le sopracciglia giusto un istante, prima di ritornare alla sua solita espressione imperscrutabile.
«È il personaggio di un'opera letteraria molto famosa nel mio mondo. Una tragedia in cinque atti in cui la protagonista, una ragazza chiamata appunto Giulietta, beve un sonnifero che per qualche ora la fa sembrare morta. Ho preso spunto da lì per creare il mio siero» gli spiegai meticolosamente, nella speranza che capisse al volo. Non che avessi dubbi di alcun genere sulle sue capacità intellettuali, lui era uno degli uomini più intelligenti che avessi mai incontrato. Infatti non mi sbagliai neanche quella volta, perché annuì, probabilmente approvando la mia scelta. Non mi aspettavo che conoscesse la storia di Romeo e Giulietta, però era uno a cui non serviva di comprendere fino in fondo le ragioni degli altri. E poi, essendo un pirata, conosceva bene le regole. Mia la creazione, mia la decisione del nome.
Mi voltai alla mia sinistra, dove c’era il tavolo con tutte le provette che avevo utilizzato per creare quello che personalmente definivo il mio capolavoro. Ci avevo messo mesi per arrivare alla giusta formula, avevo rischiato la vita più volte per mischiare insieme vari liquidi e avevo dovuto sacrificare alcuni becher, che si erano corrosi o avevano preso fuoco. Ma ne era valsa la pena, per quel momento, perché sprizzavo gioia da tutti i pori. Avevo ideato qualcosa di unico. Una specie di pozione che era capace di rallentare il cuore per dieci minuti a tal punto da far sembrare morto chiunque lo assumesse, che fosse per via orale o per via endovenosa. Non c’era nessun pericolo di morire davvero e il rischio che il corpo non ricevesse abbastanza ossigeno in quei minuti di morte apparente era basso. Kenji ne era la prova vivente, proprio perché era vivente. Come avevo previsto, per una decina di minuti il suo corpo era entrato in uno stato di letargia completo, il suo battito cardiaco si era ridotto al minimo indispensabile per non farlo essere in pericolo di vita ed il respiro era diventato impercettibile. Sembrava morto, ma in realtà stava solo dormendo. Stava bene, le sue funzioni vitali erano stabili e nella norma e nessuno, a parte un medico esperto, avrebbe potuto capire che era vivo. Era vero, c’erano ancora parecchie controindicazioni e l’effetto durava poco, ma quello era solo l’inizio. Ci avrei lavorato ancora e ancora finché non lo avessi perfezionato. Per il momento, però, mi sarei goduta quel mio piccolo successo.
«La cena è pronta!» esclamò Penguin, facendo capolino dalla porta del laboratorio.
Io e Law ci fissammo per qualche secondo, finché lui non mi fece un cenno del capo in direzione della porta. Sorrisi, annuii e mi alzai, dirigendomi insieme a lui fuori dalla stanza. Ero sicura che a cena qualcuno mi avrebbe chiesto come mai, tra tutte le medicine o “pozioni” – perché per alcuni di loro il lavoro svolto in laboratorio era pura magia – che potevo creare, avevo scelto di concentrarmi proprio su un siero che desse questo effetto, apparentemente inutile. Ed io, a chiunque me l’avesse domandato, avrei risposto in maniera chiara e semplice. Avrei potuto creare gas tossici e letali, che avrebbero fatto da armi di distruzione di massa come quelle di Caesar – e negli ultimi giorni ci ero andata vicino, dato che rischiavo di far esplodere l’intero sottomarino – ma non ne sentivo il bisogno e non ne vedevo l’utilità. Invece quello lo avevo fatto per me stessa. Per il piacere di avere successo in qualcosa, ma soprattutto perché sapevo che più saremmo andati avanti e più le cose si sarebbero fatte difficili in battaglia e di conseguenza mi serviva una scappatoia. Una garanzia che, qualora le mie capacità, le mie armi e la cintura non fossero bastate contro i temibili avversari che avremmo dovuto affrontare di lì a poco, avrei potuto contare su qualcos’altro, che mi avrebbe fatto evitare la morte o che comunque me l’avrebbe resa indolore. Quello era un ragionamento che era stato elaborato dalla "vecchia me", ma la "nuova Cami" nel profondo la ringraziava per questa intuizione. Con tutto ciò che doveva succedere, la prudenza non era mai troppa, e io avevo troppo da perdere.
«Cami» mi chiamò il pinguino, intercettandomi. Guardai il chirurgo incamminarsi per il lungo corridoio, perfettamente consapevole che ci stava lasciando indietro. Sospirai. Per una volta che potevo fare il mio ingresso trionfale nella sala da pranzo accanto al mio capitano, ecco che qualcuno mi rovinava i piani. Mi sembrava strano che Penguin fosse venuto ad avvisarci che la cena era pronta. Di solito non lo faceva nessuno, all’ora prestabilita dovevamo presentarci noi in sala.
«Cosa c’è?» chiesi sconsolata.
«Io non me ne intendo di queste cose, ma...hai fatto una scoperta decisamente sensazionale» mi disse, per poi sorridermi. A vederlo in quel modo mi sembrò un fratello maggiore fiero della propria sorellina.
Mi morsi un labbro, nel tentativo di evitare di sorridere come un’ebete, dopodiché allungai il collo per guardarmi intorno e controllare che nel corridoio non stesse transitando nessuno.
«Sì, è vero, l’ho fatto!» urlai con voce stridula, iniziando a saltellare ed esultare, al punto che Penguin dovette prendermi per le spalle per farmi ritornare in me.
«Dobbiamo festeggiare» dichiarò serio guardandomi negli occhi.
Mi divincolai dalla sua presa, incrociai le braccia ed alzai un sopracciglio.
«Vuoi fare un’altra serata delle tue?» gli chiesi, con l’aria di chi la sapeva lunga sull’argomento. Non per niente, in tutta risposta mi strizzò l’occhio ed iniziò a sogghignare.
«Beh, di sicuro non sarò io a tirarmi indietro» gli comunicai, sfregandomi le mani tra loro e ghignando a mia volta.
Si prospettava una serata decisamente interessante. Ma, qualunque cosa fosse successa quella sera, per quanto assurda, non sarebbe stata nulla in confronto a quello che sarebbe successo il giorno dopo. Quello sarebbe stato un giorno che nel bene e nel male – ma più che altro nel male – mi sarei ricordata per sempre.



Angolo autrice

Salve a tutti! Eccomi di nuovo, sono tornata.
Dunque, non so a cosa stessi pensando quando ho scritto questo capitolo. Probabilmente anche io ero sotto l'effetto del siero di Cami. Ad ogni modo, vi posso assicurare che non è stato scritto perché non avevo nulla da fare e c'è un motivo se è stato pubblicato. Tutto fa brodo. Aspettate e vedrete. Per il momento non dico altro e lascio a voi i commenti. :)
Spero che si capisca chiaramente in cosa consiste la creazione della ragazza, così come spero che vi sia piaciuto il nuovo personaggio che ho introdotto (meglio tardi che mai!). Come per gli altri, anche per lui ho preso ispirazione dalla tavola disegnata da Oda-sensei che appare nel capitolo 815, nella quale vengono presentati i Pirati Heart al completo.
Mi auguro che non vi siate annoiati nel leggere questo quarantunesimo capitolo, ma anzi, che vi sia piaciuto e che magari vi abbia anche fatto fare una risata, ed invito chiunque ne abbia voglia a darmi il proprio parere in proposito. :)
Grazie e alla prossima!

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Capitolo 42
*** Sbornie ***


Fu bello vedere che a cena tutti parlavano di quello che era successo qualche ora prima in laboratorio. C’era addirittura chi mi considerava un mito. Io non mi consideravo tale, ma non potevo non accogliere con gioia i loro elogi ed i loro complimenti. Mi facevano sentire apprezzata e l’atmosfera che si creava in questi casi era la stessa che c’era in una famiglia. Paradossalmente, tra tutti il più orgoglioso di me era Ryu, che quella sera mi aveva servito una doppia porzione di carne e patate al forno. Chi l’avrebbe mai detto che io ed il burbero cuoco saremmo diventati quasi come padre e figlia?
«Quindi?» la voce di Penguin interruppe i miei pensieri.
«Quindi cosa?» chiesi, confusa.
«Quindi che facciamo?» domandò lui, a sua volta, impaziente. Erano le undici di sera e la cena era finita da un pezzo. La maggior parte dei Pirati Heart si era ritirata nelle proprie stanze, a parte Jean Bart che stava ancora effettuando qualche manovra a me incomprensibile in sala macchine e qualcun altro, tra cui forse il capitano. Ryu aveva finito da poco di riporre l’ultimo piatto in quella specie di credenza che stava sopra al lavello della cucina, poi si era congedato e se n’era andato a dormire. Io, Shachi e Penguin, avevamo aspettato pazientemente che finisse di lavare ed asciugare i piatti per poter prendere possesso della cucina. Lo avevamo perfino aiutato affinché facesse più in fretta. Noi. Che lavavamo dei piatti. Non si era mai visto. Ma il nostro desiderio di trangugiare alcolici e di festeggiare era più forte di qualsiasi altra cosa. Dovevamo solo metterci d’accordo e decidere come agire e che tipo di sbronza volevamo prenderci. Potevamo fare di tutto, avevamo solo due restrizioni: non distruggere la cucina di Ryu e non svegliare il capitano, sempre che stesse dormendo. La prima non era mai stata infranta da nessuno, mentre la seconda...beh, non l’avevo infranta, ma si poteva dire che ci avevo marciato sopra un paio di volte, entrando senza permesso nella cabina di Law. Per fortuna non se l’era mai presa troppo, anzi, ci aveva riso sopra – almeno per quanto mi ricordassi – e non aveva perso l’occasione di ricordarmelo e sfottermi il giorno dopo.
Ora, però, ci trovavamo momentaneamente in crisi perché eravamo a corto di idee; e ce ne stavamo in corridoio a bisbigliarci proposte a vicenda. Sembravamo tre adolescenti in procinto di fare qualche stupida effrazione.
«Decidete voi, per me è uguale. Basta che ci sia il vino di mezzo» dissi distrattamente. Non mi importava un fico secco di come avremmo fatto, mi interessava semplicemente bere.
«Festeggiamo te, quindi devi decidere tu» mi rimproverò il pinguino.
Ci pensai un attimo, dopodiché feci un’alzata di spalle, proponendo la prima cosa che mi veniva in mente. Non pensavo che potessi avere così tanta importanza nel processo decisionale, ma mi piaceva essere presa in considerazione in quel modo.
«Una partita a carte?» proposi, aggrottando la fronte. I miei compagni mi guardarono perplessi per un momento.
«Ci potrebbe stare, purché sia alcolica» fece Penguin, serio.
«Quello era scontato» replicai io, allargando le braccia e stupendomi del fatto che ancora non avessero imparato a conoscermi sotto quell’aspetto.
«Bene, allora io vado a prendere le carte. Torno subito» ci informò Shachi appena prima di sparire tra i lunghi e stretti corridoi.
 
«Facciamo che chi perde beve» propose Penguin.
«Perché chi perde? Facciamo che chi vince beve!» avanzai io.
«Sei davvero così sicura di poter vincere?» mi chiese lui, assottigliando gli occhi.
«E tu sei davvero così sicuro che perderai?» lo incalzai, con un sorriso di scherno. Mi guardò in cagnesco ed io alzai un sopracciglio, pronta ad insultarlo.
«Facciamo che ci ubriachiamo tutti fino a che non riusciamo più a tenere le carte in mano?» domandò retoricamente – perché sapeva già la risposta – l’orca, che nel frattempo era ritornata con le carte ed ora si trovava poco dietro di noi, interrompendo il nostro scambio di sguardi.
Mi girai e gli posai una mano sulla spalla.
«Tu sì che hai capito qualcosa della vita» gli dissi, fiera.
«Compare, non ci deludi mai» aggiunse Penguin, compiaciuto.
Tutti e tre insieme entrammo finalmente in cucina. Scostai la sedia dal tavolo e presi posto.
«Avanti, non perdiamo tempo. Inizia a mischiare le carte!» esclamai, rivolta a Shachi, che si era sistemato dalla parte opposta rispetto a me.
«Io prendo il vino!» gridò eccitato l’amico, dirigendosi a passo svelto verso il frigo.
«Prendi anche sakè, rum e birra» gli consigliò l’altro – anche se sembrava più un ordine – che aveva iniziato a mescolare il mazzo di carte «ci serviranno» aggiunse poi con un lieve accenno di malizia.
«Si preannuncia una bella serata» affermai con aria sognante, più a me stessa che ai miei compagni.
Shachi posò le carte sulla superficie piatta del tavolo, facendomi segno di alzare.
«Ora si fa sul serio» ci annunciò una volta che anche Penguin – che era tornato con una quantità inverosimile di alcol e boccali grossi come la testa di Big Mom – si fu seduto.
Tutti e tre sogghignammo, consapevoli del fatto che l’orca non si stesse affatto riferendo alla partita a carte.
 
Un raggio di sole filtrato dall’oblò colpì in pieno i miei occhi. Dovevamo essere fermi in superficie. Mi lasciai sfuggire un suono gutturale dalla gola e mi girai dall’altra parte del letto. In testa avevo il blackout più totale riguardo a quello che era successo dalle undici e mezzo della sera prima fino a quel momento. Non sapevo nemmeno come fossi arrivata a letto o di chi fosse quella stanza. Sollevai le palpebre a fatica. Riconobbi il mio armadio ed il mio comodino. Quella era la mia cabina. Non avevo idea di come avessi fatto a ritrovarla o a raggiungerla, ma ci ero riuscita e mi bastava sapere questo per rimettermi a sonnecchiare. Avevo davvero bisogno di dormire per qualche ora. In testa mi sembrava di avere uno zoo in cui gli animali erano a piede libero. Le orecchie fischiavano, in bocca mi pareva di sentire un sapore a metà tra l’amaro e l’aspro, la gola era secca, lo stomaco completamente sottosopra e ogni volta che aprivo gli occhi il riverbero della luce era così forte che mi sembrava di stare fissando il sole da cento metri di distanza. Stavo da schifo. Avevo esagerato con l’alcol e adesso mi sentivo come se mi fosse passato sopra un tram, anzi, come se mi avesse investito in pieno una palla di cannone. “Mai più. Non toccherò mai più una goccia d’alcol” pensai, un attimo prima di richiudere gli occhi e tornare ad appisolarmi. Ovviamente sapevo che non avrei dato retta alla vocina nella mia testa. Tempo una settimana e sarei tornata a bere vino nella stessa misura in cui Franky consumava la Cola.
Nell’esatto attimo in cui serrai le palpebre, nella speranza di riuscire a tornare tra le delicate braccia di Morfeo, qualcuno bussò alla mia porta. Smisi perfino di respirare per qualche istante per non fare alcun rumore, nella speranza che chiunque fosse stato avrebbe capito l’antifona e non avrebbe insistito. Ma figurarsi se su quel sottomarino c’era qualcuno disposto a lasciar perdere. Sentii i cardini cigolare e con molta fatica alzai la testa dal cuscino per vedere chi ci fosse sulla soglia. La riabbassai lentamente – non potevo assolutamente fare movimenti bruschi o avrei rischiato di vomitare perfino l’anima – e chiusi gli occhi. Sbuffai, consapevole che se il capitano era venuto fino alla mia cabina, non era per una visita di cortesia. Forse era lì solo per fissarmi divertito mentre io mi struggevo ed emettevo lamenti a causa delle condizioni in cui stavo. Stavolta però, qualunque cosa volesse, non potevo biasimarmi per non aver chiuso a chiave la camera, perché era già un miracolo che ci fossi ritornata. Se non altro almeno lui aveva bussato.
«Che vuoi?» chiesi debolmente e con fastidio. Mi sembrava un miracolo che fossi riuscita ad emettere dei suoni che avessero un senso.
«Alzati. Stamattina devi fare l’inventario» mi informò calmo.
Alle sue parole mi tirai le coperte fin sopra la testa nella speranza di poter sparire magicamente dalla sua vista e ritrovarmi su una spiaggia di un’isola deserta a sorseggiare acqua e solo acqua.
«No, l’inventario no...» piagnucolai. Non avevo nessuna voglia di passare la mattina – quella in particolare – in infermeria a tenere il conto dei medicinali che avevamo a disposizione e di quelli di cui dovevamo fare scorta.
Grugnii poco elegantemente. La testa mi sarebbe esplosa a breve. Ne ero sicura.
«Lo farai, e ti darai anche una mossa» mi ordinò il chirurgo, freddo, ancora sulla soglia della mia camera. Cercai di esprimere tutto il mio disappunto con un suono gutturale emesso dalle profondità della gola. Era l’unico modo che avevo per provare a protestare, visto che riuscivo a malapena a parlare.
«Nel pomeriggio sbarchiamo» aggiunse Law, sempre con tranquillità.
Mi tolsi le coperte dalla faccia con un gesto secco delle braccia. Forse troppo secco, perché la testa iniziò a girarmi pericolosamente e dovetti celare con tutte le mie forze il conato di vomito che mi stava raschiando la gola. Aspettai qualche secondo, deglutii ripetutamente per accertarmi che l’esofago fosse sgombro e a posto e solo dopo parlai.
«Chi sbarca? Dove? E per fare cosa?» domandai, piano. Ora che ero più sveglia mi rendevo conto di quanto la mia voce facesse male alla mia testa. Ogni volta che usavo le mie corde vocali, sembrava che all’interno del mio cranio stesse avvenendo un test nucleare. Rimbombava tutto, era come sentire delle onde che si stagliavano violente contro gli scogli. In tutto quel tempo me ne ero presa parecchie di sbornie, ma questa era decisamente la peggiore di tutte.
«Sbrigati e preparati» mi intimò.
Sospirai. Ormai aveva decretato la sentenza e preso le sue decisioni e non c’era nulla che potessi fare per cambiare anche solo di poco il mio destino di quel giorno. Però, anche se sapevo che non era un tipo chiassoso, sentivo il bisogno di dirgli un’ultima cosa.
«Adesso arrivo. Non sbattere la port...»
Non potei finire la frase, perché udii un tonfo allucinante che per la mia povera testa equivalse a sentire una potente esplosione a tre centimetri da me. Aveva sbattuto la porta. Che bastardo. L’aveva fatto apposta.
Grugnii poco elegantemente, rigirandomi nel letto alla ricerca di una posizione comoda. Ero perfettamente consapevole che avrei dovuto alzarmi, ma mi servivano giusto altri tre minuti di riposo prima di iniziare quella giornata infernale.
«Ti odio.» biascicai, alla porta ormai chiusa, appena prima di sprofondare la testa nel cuscino.
 
Feci un debole cenno della mano per salutare Shachi e Penguin, con i quali mi ero incontrata casualmente appena fuori dalla cucina e che erano messi come me, se non a tratti peggio. Prima di farmi coraggio ed uscire dalla mia camera, ero andata in bagno e mi ero guardata allo specchio. Avevo scelto di sorvolare sul mio aspetto da zombie, mi ero legata i capelli in una crocchia veloce e alquanto disordinata, mi ero infilata la maledetta divisa che mi aveva imposto di indossare Law, avevo preso un paio di pasticche per calmare il tremendo senso di nausea che mi attanagliava le viscere e mi ero premurata di proteggere gli occhi dalla troppa luce nascondendoli dietro alle lenti scure dei miei occhiali da sole. La mia unica magra consolazione era vedere che anche i miei due compagni sembravano usciti direttamente da un film horror.
«Ragazzi, la prossima volta cerchiamo di festeggiare un po’ meno. O ho paura che non ci sarà una prossima volta» dissi fissando l’ingresso della cucina, dalla quale provenivano voci fin troppo allegre ed acute. Sapevo che nel momento in cui sarei entrata mi avrebbe investito una quantità di luce che per come stavo sarebbe stata paragonabile ai riflettori che si usano per gli spettacoli a teatro, quelli che puntualmente ti puntano contro e ti accecano momentaneamente. Gli occhiali da sole mi sarebbero serviti a ben poco. Mi lasciai sfuggire un mugugno. Sarebbe stato meglio non pensarci. Nel tentativo di distrarmi, tirai fuori dalla tasca il mio personale flacone di antiemetici, lo aprii e passai ai miei compagni una pasticca ciascuno, che non esitarono ad ingerire.
«Avresti dovuto inventare un rimedio per i postumi della sbronza, invece di quella specie di inutile sonnifero» fece contrariato Shachi, entrando in cucina e trascinandosi fino alla prima sedia disponibile. Avrei voluto rispondergli che il giorno prima erano rimasti affascinati da quell’“inutile sonnifero” e che ne erano entusiasti, ma temevo di non avere la forza di parlare. E poi, non aveva proprio tutti i torti. In quel momento avrebbe fatto comodo a tutti e tre un siero che ci facesse passare quell’inabilitante e fastidioso malessere.
«Mi sento come se fossi appena uscito da un’operazione chirurgica a tutti i miei organi senza anestesia» mi annunciò solenne – ma allo stesso tempo sconsolato – Penguin. Capivo esattamente come si sentiva. Non avrebbe potuto usare una metafora più azzeccata. Annuii debolmente e varcai la soglia di quella stanza maledetta. L’unico motivo per cui avevo deciso di entrarci era perché avevo bisogno di bere del caffè. Una tazza di caffè caldo, nero e intenso, che mi desse le energie per affrontare quel calvario. Con il tempo avevo imparato che quello, oltre ad essere una imprescindibile fonte di energia senza la quale non potevo carburare, era anche un ottimo rimedio contro la sbronza. Non che avessi tante alternative, o mi imbottivo di pillole e ingurgitavo quantità industriali di caffè, o mi preparavo una fisiologica e me la iniettavo in vena. E per me, inutile dirlo, quello era un rimedio che non avrei preso in considerazione neanche se fossi stata a rischio di morte imminente. Ignorai tutte le persone allegre e scattanti che mi salutarono e mi diressi a colpo sicuro verso la caraffa contenente il liquido scuro che tanto bramavo, situata sempre sul solito ripiano.
«Ma come accidenti te li sei conciata stamattina i capelli?» mi domandò il cuoco, perplesso, che si era voltato ad osservarmi per puro caso mentre trafficava con le pentole. Mi aspettavo di dover avere a che fare con le luci al neon, ma non avevo fatto i conti con il nemico più temibile di tutti. La voce baritonale ed estremamente troppo alta di Ryu. Lo squadrai da capo a piedi da dietro alle lenti degli occhiali da sole.
«Almeno io ce li ho, i capelli» risposi, allungandomi – cautamente – verso uno degli sportelli per recuperare la mia amata tazza arancione. Con la coda dell’occhio lo vidi portarsi le mani ai fianchi, incurvare le spalle ed assumere un’espressione offesa. Purtroppo c’era da dire che, oltre ad essere rumoroso, era anche permaloso. Grugnì e poi sbatté con forza il mestolo di metallo che aveva in mano sulla superficie del ripiano. Strizzai gli occhi e mi irrigidii. Fu come se qualcuno mi avesse dato una martellata in fronte. Anzi, peggio. Fu come sentire il rumore di uno sparo che era partito ad un centimetro dal mio orecchio. Mi portai le dita a massaggiare una tempia, mentre tra me e me maledicevo quel dannatissimo cuoco del cazzo che l’aveva fatto apposta, per ripicca. Su quel sottomarino le persone erano collaborative solo ed esclusivamente se qualcuno stava male. Si poteva star certi che quando qualcuno versava in condizioni pietose a causa dell’alcol, il resto della banda faceva comunella e si metteva d’impegno per peggiorare la situazione. Quella mattina chiunque incontrassi produceva – che fosse di proposito o per puro caso – del rumore estremamente fastidioso e decisamente non richiesto.
Dietro di me, udii Shachi e Penguin, collassati sul tavolo, farfugliare dei lamenti incomprensibili. Anche loro erano stati involontariamente colpiti dalla furia di Ryu, che evidentemente era consapevole della nostra serata da leoni. E molto probabilmente era anche a conoscenza del detto “la sera leoni e la mattina...” sarebbe stato meglio non pensare al continuo della frase. Dopotutto io, l’orca e il pinguino ne eravamo gli esempi lampanti. Presi la caraffa del caffè e feci per versarne un po’ nella mia tazza. Quella sarebbe stata la mia unica consolazione.
«Finito...anche il caffè è finito. Come la mia vita» piagnucolai nel constatare che la brocca era vuota e non usciva nemmeno una goccia di quel liquido di cui avevo tanto bisogno. Ma perché cazzo ogni volta che volevo bere qualcosa, era tutto inspiegabilmente finito!? La rimisi al suo posto con molta riluttanza e mi diressi verso il frigo. Se non potevo avere il caffè, almeno avrei bevuto un po’ d’acqua. Aprii lo sportello alla ricerca della bottiglia.
«Tesoro, stai bene? Non hai una bella cera» constatò Maya, che aveva osservato tutta la scena – dal mio ingresso nella cucina fino ad ora – in silenzio e seduta comodamente su una delle sedie. Certo che non avevo una bella cera. Avrei sfidato lei ad avere una bella cera dopo aver ingerito una tale quantità d’alcol la sera prima e dopo essere stata svegliata con la notizia di dover fare l’inventario in infermeria. Ma del resto, che ne sapeva lei? Tutto ciò che faceva da mesi a questa parte era amoreggiare con il suo fidanzatino del cazzo. Sbuffai e mi limitai ad alzare debolmente un pollice, mentre mi chinavo per prendere la bottiglia. Tuttavia evidentemente mi piegai troppo in fretta, perché un violento conato di vomito si riversò nella mia gola. Aspettai – e pregai – che mi passasse, poi finalmente presi l’acqua e mi accinsi a versarne un po’ nella tazza.
«Forse è meglio che questa la prenda io per un po’» fece una voce alle mie spalle, sfilandomi dalle mani la bottiglia. Mi girai molto lentamente, pronta ad aggredire chiunque fosse stato a farmi quell’affronto. Era stato Kenji. Aprii la bocca e presi fiato, pronta a riversare la mia furia contro di lui, ma dovetti rinunciare all’idea nel momento in cui notai che quello che aveva in mano era un piccolo fiasco di vino. Assottigliai gli occhi per inquadrarlo meglio. Era proprio un fiasco di vino. Ero così stordita che avevo sbagliato bottiglia. Il mio subconscio a quanto pareva, oltre ad essere recidivo, mi voleva anche male. Come avessi fatto a confondermeli, rimane un mistero anche per me. Forse era perché speravo di tramutare l’acqua in vino – o in questo caso viceversa – o più probabilmente perché ormai mandavo giù il liquido alcolico rosso come se fosse stato acqua. Il ragazzo mi fissò e mi sorrise, dopodiché rimise il vino in frigo, prese la bottiglia giusta per me e me ne versò gentilmente parte del contenuto nella tazza. Lo ringraziai e mentre lui si apprestava a parlare con Ryu, io andai a sedermi accanto a Shachi. Se non fossi stata consapevole del fatto che io apparivo esattamente come lui, mi avrebbe fatto pena. Sembrava in fin di vita, aveva la schiena ricurva e la testa, la cui fronte era appoggiata alla superficie liscia e fresca del tavolo, nascosta tra le braccia. Penguin, vicino a lui, era in una posizione simile. Chi meglio di me poteva capirli? Con un gesto alzai gli occhiali da sole e me li portai sul capo, poi chiusi gli occhi e con pollice ed indice mi strinsi il ponte del naso.
«Rafano!? E dove diavolo lo trovo il rafano adesso!?» urlò il cuoco al povero Kenji. Nel sentire la sua voce mi irrigidii di nuovo e mi passai le mani su tutta la faccia.
«Cercalo dove ti pare, ma ti prego, dai tregua alle mie orecchie e vallo a cercare il più distante possibile da me» lo supplicai, parlando molto lentamente e assicurandomi di non superare un certo numero – molto basso – di decibel. Che ci doveva fare, poi, con il rafano? Anzi, cosa accidenti era il rafano!?
«Ben detto» biascicò il pinguino, che si era ridestato giusto un momento dal suo stato catatonico ed era riuscito a sollevare fiaccamente la testa dal tavolo per pochi secondi. Mi girai a guardarlo con un’espressione da cane bastonato. Bastò un’occhiata perché capisse. Annuì e poi collassò di nuovo. Mai più. Non ci saremmo presi mai più una sbronza. Mai. Più.
 
Sbuffai mentre prendevo un altro foglio bianco. Era il terzo che finivo. Ero chiusa in infermeria da un’ora e mezzo e non avevo ancora cavato un ragno dal buco. Ero ad appena un quinto di tutto il lavoro che dovevo fare. Maledetto inventario. Maledetto Law. Maledetta me che avevo deciso di darmi alla medicina. E anche maledetto alcol. Non ero nelle condizioni per poter schedare e catalogare tutti i medicinali. A dire la verità, non ero nelle condizioni per poter fare nulla.
La porta dell’infermeria si aprì. Girai piano la testa per controllare chi fosse entrato. In cuor mio speravo che potesse essere qualcuno venuto apposta per liberarmi da quel compito ingrato.
«Ciao» esordì timidamente la figura che si stava dirigendo verso di me.
«Ciao» lo salutai controvoglia. Era Kenji. Tutt’a un tratto ecco che appariva ovunque ci fossi anche io. Comunque, qualunque cosa avesse intenzione di dirmi, non la volevo sentire. Non era per cattiveria, era semplice istinto di autoconservazione. La legge di Murphy recitava: “se qualcosa può andar male, lo farà”; ed io ero convinta che quella giornata sarebbe peggiorata a momenti.
«E così ieri sera hai festeggiato» fece, senza farmi capire se fosse una domanda o un’affermazione.
«Purtroppo o per fortuna, sì» gli risposi, abbandonando temporaneamente il mio incarico per guardarlo negli occhi. «Me lo stai facendo presente perché ho un’orribile faccia post-sbronza? O perché magari la prossima volta ti piacerebbe unirti a noi?» chiesi poi, togliendo gli occhiali da sole per osservarlo meglio.
«Perché sai, non credo che ci sarà una prossima volta molto presto» aggiunsi assottigliando gli occhi per l’improvvisa ondata di luce che mi si era riversata sulla faccia.
Rise. Lui si divertiva, ma non c’era nulla da ridere. La mia non era affatto una battuta.
«In qualità di medico dovrei dirti che la quantità di alcol che hai ingerito ieri sera è abbastanza per danneggiare le cellule del fegato» replicò, con l’aria di chi la sapeva lunga «ma in qualità di pirata non posso far altro che dirti che hai fatto bene. Anzi, la prossima volta dovreste festeggiare con ancora più enfasi» disse, sorridendo. Non era un ghigno impertinente come avrebbe potuto essere quello di Law se avesse pronunciato una frase del genere, era un sorriso sincero.
Sbuffai una risata. Non era poi così male parlare con lui. Non gridava come Ryu, non giudicava come Omen, non faceva presupposizioni – sbagliate – come Maya e non era il Chirurgo della Morte. Il che era tutto dire.
«Ci siamo scelti due stili di vita contrapposti tra loro, eh?» riflessi, appoggiando la schiena allo schienale della sedia ed accavallando una gamba sopra l’altra. L’inventario avrebbe potuto aspettare per qualche minuto.
«Già» asserì abbassando lo sguardo «è anche questo il bello, no?».
Annuii e per un attimo ripensai a tutto quello che era successo e che mi aveva portato ad essere lì in quel momento.
«Comunque, per ritornare alla tua domanda, credo che si siano accorti tutti che ieri sera tu, Penguin e Shachi abbiate alzato un po’ troppo il gomito» affermò, quasi dispiaciuto di dovermelo dire.
Boccheggiai. Per qualche secondo nessuno parlò.
«Mi dispiace» dissi infine «ma esattamente, che cosa è successo?» domandai, terrorizzata di venire a conoscenza della risposta, ma anche estremamente curiosa. Non sapere cosa fosse accaduto la sera prima mi tormentava nello stesso modo in cui mi stava tormentando il mal di testa.
Forse sarebbe stato meglio non sapere. Mi disse che era stato lui a riportarmi in camera, perché aveva sentito le mie urla nel corridoio e pensava fosse successo qualcosa di grave. Quando era accorso sulla “scena del crimine” aveva trovato il pinguino e l’orca collassati sul pavimento, mentre io stavo bussando con poca grazia alla porta della cabina del capitano, gridando qualcosa tipo “è tutta colpa tua! Tu ci hai messo in questa situazione! Adesso salvaci, Traffy!”. Kenji non aveva perso tempo e, dopo avermi tappato la bocca con una mano, mi aveva riportato nella mia stanza. Praticamente mi aveva salvato la vita. Se Law avesse aperto la porta, mi avrebbe fatto in tanti piccoli pezzi e li avrebbe buttati tutti nello schifosissimo water di uno dei bagni che usavano i miei compagni. Non osavo immaginare fine peggiore. Per fortuna ci aveva pensato il mio compagno, che oltre ad essere premuroso era anche un gentiluomo, visto che era uscito dalla mia cabina non appena si era accertato che stessi bene, senza approfittarsi della situazione. Non come quel caprone del chirurgo, che era rimasto a guardare mentre mi spogliavo davanti a lui e aveva anche riso di me. Kenji era un uomo galante. Almeno, così mi aveva detto. Ma io volevo crederci. Dopotutto, non avevo alcun motivo per non farlo. Poi, mi aveva raccontato che si era occupato anche degli altri due, praticamente svenuti al suolo, e li aveva trascinati nella loro cabina. E tutto questo quando il pomeriggio prima aveva quasi rischiato di morire sottoponendosi al mio esperimento e quindi probabilmente di conseguenza aveva parecchia stanchezza addosso. Ammirevole, non c’era che dire.
«E a questo proposito, permettimi di darti una mano» disse, una volta che ebbe finito di narrare le avventure della sera prima secondo la sua prospettiva.
«Con l’inventario?» chiesi speranzosa, fissandolo con un bagliore negli occhi.
«Con i postumi della sbornia» specificò, infrangendo tutte le mie illusioni. Lo vidi prendere il bicchierone contenente un liquido denso verdastro che aveva appoggiato sul tavolo non appena era arrivato. Non gli avevo dato molto peso prima, ma ora la cosa mi inquietava.
«Trangugialo tutto d’un fiato e non annusare» mi consigliò. Ma io purtroppo ero testarda, per cui non feci come mi aveva suggerito ed annusai quel beverone. Aveva un odore nauseabondo e decisamente poco raccomandabile. E l’aspetto, visto da vicino, era anche peggio.
«Cosa contiene esattamente?» domandai, disgustata dall’idea di dover bere una tale schifezza.
«Credo che sia meglio se tu non lo sappia» rispose, umettandosi le labbra con la punta della lingua.
«Devo sapere se rischio un’intossicazione alimentare» insistetti io, seria.
Alzò le braccia in segno di resa.
«Se ci tieni a saperlo, contiene succo di pomodoro, cavolo, uovo crudo e salsa piccante. Manca la barbaforte, Ryu non è riuscito a procurasela, ma ti garantisco che è un ottimo rimedio contro i postumi di una sbornia» mi informò. Feci una faccia a dir poco schifata.
«No. Non esiste che io beva questa cosa. Non lo farò mai» mi rifiutai categoricamente.
«Ti fidi di me?» mi domandò con voce soave. Questa l’avevo già sentita il giorno prima. Da me. Imparava in fretta, il ragazzo. Stavolta fui io ad alzare le braccia.
«Touché» ammisi. Poi, facendomi coraggio, mi portai quell’intruglio disgustoso alle labbra e mi preparai a berlo. In fondo l’aveva gentilmente fatta preparare apposta per me. Guardando il lato positivo, per quanti ingredienti stomachevoli ci fossero in quella bevanda – ammesso che si potesse chiamare così – almeno non conteneva i broccoli e la spremuta d’arancia.
Se avessi saputo che il rimedio post-sbronza di Kenji non sarebbe stata la cosa peggiore che mi sarebbe capitata quel giorno, non l’avrei assolutamente bevuto. O meglio, l’avrei bevuto cento volte se avessi potuto evitarmi quello che sarebbe successo nel pomeriggio.
 
«Qualsiasi sia il motivo di questo sbarco improvviso e non programmato, basta che facciamo in fretta. Ho delle cose da fare» dichiarai.
Law alzò un sopracciglio e mi guardò con eloquenza, come se il suo sguardo volesse dirmi: “che cosa devi fare di così importante?”
«A parte disintossicarmi dalla sbronza, devo finire di leggere gli ultimi due capitoli del libro. Forse ci sono informazioni utili affinché io possa finalmente tornare a casa» spiegai. Quel pomeriggio eravamo sbarcati sull’isola Tekashi ed ora camminavamo nel lungo viale che ci avrebbe portati all’ospedale. Il capitano mi aveva riferito che eravamo sbarcati lì perché su quell’isola c’era un grande sanatorio dove potevamo fare rifornimento di tutte le medicine di cui necessitavamo, in cambio di un piccolo aiuto da parte nostra. Se avessimo insegnato ai medici di quel posto una particolare tecnica chirurgica, avremmo potuto svaligiare tutte le loro scorte di medicinali. Dal momento che quella mattina ero stata io a fare l’inventario in infermeria e che di tutti i dottori della ciurma, solo io e Law conoscevamo quella procedura, eravamo sbarcati soltanto noi due. Dovevo ammettere che nonostante tutto mi faceva piacere essere d’aiuto e soprattutto essere considerata degna di fiducia al punto da avere un tale incarico. Però fremevo, perché tra i miei impegni in laboratorio e tutto il resto, non avevo avuto tempo da dedicare alla lettura di Le avventure di Peter Pan, che ora giaceva abbandonato sul mio letto in attesa di essere finito.
«Sarebbe ora che tu tornassi a casa» ribadì calmo «avresti già finito di leggerlo se avessi evitato di ubriacarti come un primate di prima categoria» constatò poi.
«Che c’è? Ho per caso disturbato la tua quiete, ieri sera?» chiesi sarcastica, girandomi a guardarlo con aria di sfida.
«La mia quiete? Hai disturbato la quiete pubblica. Chiunque nel raggio di un chilometro ti ha sentito» affermò, freddo «se nel tuo mondo avessi ingerito la stessa quantità d’alcol che hai ingurgitato ieri sera, saresti morta» commentò, all'apparenza distrattamente.
Sbuffai una risata. «Nel mio mondo non mi sarei mai sognata di fare una cosa simile» risposi, sistemandomi meglio sulla spalla il borsone pieno di strumenti chirurgici che mi aveva affidato – per non dire appioppato – il capitano. Era vero. Nel mio mondo mi ero ubriacata qualche volta, ma mai a questi livelli, per vari motivi. Innanzitutto non avevo la libertà che avevo ora, non mi ero mai sentita libera come adesso. Era questo il bello della vita da pirata, non c’erano costrizioni o regole, o coprifuoco. E poi, mi fidavo dei miei compagni. Cosa che non si poteva dire dei soggetti con cui giravo nella mia città. Non che non mi fidassi dei miei amici, ma con loro non potevo mai sapere cosa sarebbe successo e non mi godevo mai del tutto l’ebbrezza che mi dava l’alcol. E poi, qui avevo un motivo per cui festeggiare. Qualcosa che mi rendesse fiera ed orgogliosa di me stessa, mentre lì c’era ben poco da celebrare. Al massimo potevo bere per dimenticare.
«Oltre che una ragazzina immatura, viziata e debole, sei diventata anche un’alcolizzata» considerò, scuotendo teatralmente la testa.
«Sono diventata un’alcolizzata nel momento in cui sono diventata una tua sottoposta. Fatti qualche domanda» gli sussurrai all’orecchio. Poi, gli diedi una pacca sulle spalle ed affrettai il passo, come se in qualche modo potessi evitare l’occhiata truce che mi stava rivolgendo o la punizione per l’affronto che aveva subìto.
«Sorvolerò sui tuoi commenti pungenti e non veri. Mi hai portata qui. Questo vuol dire che almeno in piccola parte credi in me» dissi, girandomi verso di lui e sorridendo con malizia, assumendo l’espressione di chi gliel’aveva appena fatta sotto il naso. Ovviamente non mi rispose, ma io sapevo di averlo piccato in qualche modo. Le sue difese stavano iniziando a vacillare.
«Se ieri sera mi hai sentito, perché non hai aperto la porta?» domandai curiosa, una volta che mi ebbe raggiunto. Il chirurgo si limitò a guardarmi come se fossi ebete. Alzai gli occhi al cielo. Potevo capire che la risposta fosse ovvia, e una parte di me lo ringraziava per non aver aperto quella porta. Sarebbe stato molto più imbarazzante affrontare quella conversazione e di sicuro non avrei potuto evitare di fare una figuraccia la sera prima, mi sarei messa in ridicolo davanti ad uno degli uomini più odiosi di quell’universo, ma era comunque snervante cercare di intavolare una conversazione con qualcuno che rispondeva a suon di occhiatacce. Eravamo solo io e lui su quell’isola e avevo bisogno di intrattenermi un po’, soprattutto ora che mi erano del tutto passati i postumi della sbronza, grazie al rimedio magico di Kenji. Dovevo ammettere che aveva avuto un’ottima idea, ero tornata come nuova. Ma perfino gli alberi che ci circondavano e che incorniciavano il viale su cui stavamo camminando erano più di compagnia del chirurgo. Comunque, apprezzavo il fatto che avesse deciso di portarmi con lui nonostante fosse pienamente consapevole di quanto accaduto la sera prima e di quali potessero essere le mie condizioni quel giorno. Si fidava di me, mi riteneva degna della sua fiducia. Pensava che potessi fare l’inventario di tutte le medicine che avevamo a bordo del Polar Tang e che fossi in grado di insegnare procedure chirurgiche ad altri medici anche con una forte e martellante emicrania e con dei potenti e fastidiosi conati di vomito. E questo mi bastava per essere contenta di essere lì con lui. E sebbene non fosse la persona più adatta per parlarne, c’era uno sfizio che mi dovevo assolutamente togliere.
«So che la cosa non ti riguarda minimamente e che non te ne potrebbe fregare di meno, ma c’è una cosa che devo chiederti» iniziai, seria. Lui mi guardò e mi fece un cenno del capo, come per incitarmi a continuare.
«Credi che Kenji stia iniziando a provare qualcosa per me?» gli domandai, aspettandomi una risposta alquanto menefreghista da parte sua.
«Spero per lui di no» disse, lasciandomi di stucco per un attimo. Schiusi le labbra e aggrottai la fronte, dopodiché smisi di camminare ed incrociai le braccia.
«Cos’è? Sei geloso?» gli chiesi, sogghignando arrogantemente.
Sbuffò una risata, quasi con disprezzo.
«Ci tengo ai miei sottoposti. Se qualcuno di loro si innamorasse di te, non esiterei a farlo rinsavire» affermò con distacco, calandosi la tesa del suo solito cappello maculato sugli occhi e ghignando prepotentemente. Alzai un sopracciglio.
«Se tenessi ai tuoi sottoposti, non ci faresti pulire i bagni» lo rimproverai.
«Se non vi facessi pulire i bagni, sarebbe ancora peggio, non credi?» fece, calmo.
Rimasi interdetta per qualche secondo. Con una sola frase mi aveva completamente annullata. Ricominciai a camminare, affrettando il passo per raggiungerlo.
«Comunque, sul serio. Credi che Kenji provi qualcosa per me?» gli chiesi nuovamente, cambiando argomento e ritornando a quello precedente. Dovevo togliermi ogni dubbio, e non c’era persona migliore a cui domandare. «Perché se fosse così dovrei...»
Smisi di parlare nel momento in cui lo vidi bloccarsi completamente ed impallidire. Le nocche della sua mano stavano diventando bianche per quanto stretta fosse la sua presa sulla nodachi. Iniziò a sudare freddo e giurai che per qualche istante avesse perfino smesso di respirare. Solo una volta in tutta la mia vita lo avevo visto così. Cominciavo a preoccuparmi.
«No...» sussurrò disperato, a denti stretti. Continuava a fissare un punto imprecisato davanti a sé con uno sguardo vuoto. «Maledizione» sibilò ancora. Sentii la pelle della fodera della sua Kikoku scricchiolare sotto la sua presa vigorosa.
«Law» lo richiamai «che succede?» volli sapere, estremamente in ansia.
«Togliti la cintura e vai a nasconderti tra gli alberi» mi ordinò, e solo dopo aver scoperto cosa lo aveva fatto piombare in quello stato mi stupii del fatto che fosse riuscito a pronunciare quelle parole.
«M-ma...perché? Che cosa sta succedendo?» chiesi ancora, confusa e inquieta. Continuavo a spostare rapidamente lo sguardo dal suo viso sudato e sconvolto al viale, che si ergeva lungo e dritto davanti a noi. Non riuscivo a vedere nulla, ma poco più in là doveva esserci qualcosa di terrificante se era riuscito a mandare Trafalgar D. Water Law nel panico.
«Fai come ti ho detto. E non uscire dal tuo nascondiglio per nessuna ragione al mondo.» replicò, duro. Un lieve tremore si stava impossessando del suo corpo. Spalancai gli occhi in preda all’angoscia. Non capivo cosa stesse accadendo e cosa – o meglio, chi – avesse visto, ma feci come mi aveva detto senza obiettare. Deviai dal viale per andare a nascondermi tra la fitta vegetazione che ci circondava e lasciai cadere la cintura metallica ed il borsone con gli strumenti chirurgici ai miei piedi.
Avrei dovuto capirlo subito. Dopotutto, nel momento in cui eravamo arrivati, non avevamo incrociato nessuno su quella strada alberata. Non un passante, non una singola persona. E fu solo nel momento in cui lo vidi che ne compresi il perché. Iniziai ad ansimare e tremare, in preda al terrore più totale. Non potevo credere che quella fosse la realtà. Una gelida risata sguaiata mi fece inorridire. Era troppo tardi per scappare. E data la situazione, supponevo che non avremmo fatto ritorno sul sottomarino tanto presto come avevo sperato. Anzi, forse non vi avremmo fatto ritorno proprio per niente.

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Capitolo 43
*** Sacrificio ***


«Finalmente ti ho trovato, Law» recitò una voce estremamente compiaciuta. Inspirai a fatica, mentre il panico più totale si impossessava di me. “Ti prego, no. Chiunque, ma non lui” pensai, cercando di convincermi che fosse solo un sogno e nient’altro che un sogno. Ma purtroppo non lo era. Era tutto reale. L’incubo che avevo fatto tanto tempo prima si era avverato, ed era peggio di quanto immaginassi. Osservavo quella scena surreale da dietro un albero e pregavo con tutto il mio cuore che quella faccenda si risolvesse nel migliore dei modi. Ma stavolta non sarebbe andata a finire come volevo. Nessuno poteva aiutarci. Com’era possibile che fosse tornato? Perché? Perché quell’atrocità stava capitando proprio a noi?
«Lo ucciderà...» sussurrai a me stessa, mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime.
«Ci ho messo un po’ per stanarti, ma alla fine ci sono riuscito. Tu mi conosci, sapevi che ti stavo venendo a cercare» affermò l’imponente figura a qualche metro di distanza dal mio capitano. Ero abbastanza lontana e non riuscivo a vedere bene le loro espressioni, ma ero sicura che il mio capitano stesse cercando di mantenere sotto controllo il suo panico malcelato.
«Quindi perché sei uscito allo scoperto? Sarebbe stato meglio per te se fossi rimasto nascosto in quella fogna che tu chiami sottomarino» soffiò, poi iniziò ad agitare l’indice davanti alla faccia «ti facevo più furbo, Law» confessò ghignando, quasi ridendo. Il modo in cui si prendeva gioco di quella situazione mi mandava in bestia.
«Sai, sapevo di trovarti qui, tra i poveri e i malati. Rispecchia quello che sei. Feccia umana. Anche se non pensavo potessi essere così caritatevole» constatò l’uomo di fronte al Chirurgo della Morte, con un sadico ghigno dipinto sulle labbra.
La risata che seguì mi fece gelare il sangue nelle vene.
«Oddio...» piagnucolai terrorizzata.
«Doflamingo» sibilò con odio il chirurgo. Negli ultimi minuti avevo sperato che quello che avevo visto fosse un miraggio, frutto della mia fantasia, magari perfino un effetto collaterale del rimedio post-sbornia che mi aveva fatto bere Kenji. Ma il fatto che lo vedesse anche Law, aveva fatto miseramente crollare ogni mia illusione. Avevo visto fin troppo bene. A pochi metri da me, c’era il Demone Celeste, in carne, ossa e piume. Era venuto fino a lì per vendicarsi dell’affronto subito. Non si sarebbe risparmiato. E il Chirurgo della Morte non avrebbe mai potuto sconfiggerlo. Non senza Rufy. Non aveva alcuna possibilità di vittoria.
«Se sei qui per vendicarti di me, non perdiamo altro tempo» annunciò apparentemente calmo Law. Strabuzzai gli occhi. Ma che cazzo stava facendo!? Aveva così tanta fretta di crepare!? Era diventato scemo all’improvviso!?
Doflamingo sogghignò compiaciuto.
«Hai così tanta fretta di finire all’altro mondo, dottorino?» gli chiese, e per quanto in quel momento fossi angosciata, non potevo che essere d’accordo con il suo pensiero. Mi disprezzai per questo, ma dovevo anche guardare in faccia la realtà.
«Dopotutto, sai di non avere speranze contro di me senza il tuo amichetto del cuore affianco» sembrò gioire delle sue stesse parole. Questo dimostrava quanto perverso potesse essere. “Scappa, ti prego” lo implorai silenziosamente. Ma sapevo che anche se mi avesse sentito non mi avrebbe dato retta. Maledetto orgoglio. Si sarebbe fatto ammazzare.
«A proposito, dov’è?» gli domandò poi, allargando il suo ghigno. «Suppongo che non importi. Soccomberà comunque anche lui. Del resto voi due avete proprio fatto incazzare Kaido» annunciò compiaciuto «un vero peccato, avrei piazzato la mia scommessa su Cappello di Paglia. Invece adesso sparirà dalla faccia della Terra, proprio come te» constatò dopo qualche minuto di silenzio tombale.
«Perché non dici niente, Law? Il gatto ti ha mangiato la lingua? O è la paura a paralizzarti?» volle sapere il Demone Celeste, sempre più eccitato all’idea di fare una carneficina.
«E va bene, parlerò io. Tanto morirai comunque» lo informò «Vuoi sapere perché Kaido mi ha fatto evadere di prigione? Affinché ti uccidessi e ti facessi provare la più grande sofferenza della tua vita. Ha voluto darmi una seconda occasione e non posso fallire. Quindi ora dovrò ucciderti per forza» lo disse quasi come se fosse una cantilena.
«Come mi hai trovato?» chiese il chirurgo, che era riuscito a rimanere impassibile di fronte a cotanta crudeltà e follia. Come facesse, sarebbe per sempre rimasto un mistero per me.
«Fufufu» rise, facendomi rabbrividire all'istante. La sua risata sembrava carta vetrata che raschiava le carni di chiunque avesse la sfortuna di udirla. «Mi sono informato sul tuo itinerario e mi sono limitato a seguirlo. Come ti ho detto, c’è voluto un po’, ma sai che io sono un tipo paziente» spiegò, calmo. Aggrottai la fronte e sbuffai una risata, nonostante fossi atterrita. Non ero esattamente d’accordo con la sua ultima affermazione.
«Ho sfidato la sorte venendo qui. Ti ho aspettato per due giorni in mezzo a questo marciume» iniziò «oh, ma non mi sono annoiato. Mi sono intrattenuto con gli abitanti dell’isola» aggiunse, spostando leggermente indietro la testa ed abbandonandosi ad una risata soddisfatta.
Spalancai la bocca, inorridendo. Li aveva uccisi tutti. Non potevo credere che avesse sterminato un intero villaggio così a cuor leggero. Che razza di mostro era? Chi mai farebbe una cosa del genere? Nello stesso momento, vidi Law serrare la mascella e sbiancare appena per qualche istante, per poi riprendersi subito dopo e cominciare a ghignare. Nel vederlo sorridere per poco non mi slogai la mandibola. Era impazzito.
«Ti avevo sottovalutato» confessò il moro. A quelle parole anche Doflamingo iniziò a sogghignare.
«Grave errore, moccioso» replicò, estremamente sicuro di sé. Visto a pochi metri di distanza, faceva ancora più paura di quanto non la facesse visto su un foglio. Ma non era tanto la paura che attanagliava le mie viscere, quanto l’inquietudine. Era una sensazione indescrivibile. Era come se la pazzia del fenicottero bastasse a rendermi vulnerabile. Tutto di lui, a cominciare dal suo bizzarro modo di vestire, mi destabilizzava completamente. Tutta quella situazione mi faceva sentire così piccola ed impotente, e mi faceva incazzare. Aveva ucciso a sangue freddo un intero villaggio. Non aveva risparmiato neanche le donne, gli anziani o i bambini. Erano tutti morti. Erano completamente innocenti ed erano morti. E perché? Perché non aveva di meglio da fare! Li aveva sterminati per puro intrattenimento, perché non sapeva come passare il tempo e non voleva annoiarsi. Era un individuo spietato, che non aveva il minimo rispetto per la vita umana.
«Sei ancora più stronzo di quanto non fossi prima» sputò il mio capitano.
«La prigione mi ha cambiato» rispose l’ex Re di Dressrosa, sarcastico. Quasi mi venne da ridere per la leggerezza con cui affrontava quelle circostanze. Non che non se lo potesse permettere, comunque.
«Ad ogni modo, se proprio vuoi saperlo, le persone di questo villaggio si erano macchiate di un imperdonabile peccato» dichiarò il biondo.
«Quale?» chiesi io con un filo di voce, incredula, nonostante fossi consapevole – e contenta – che il mio nuovo amichetto per la pelle non mi potesse sentire. Cristo, la situazione stava diventando surreale. Forse non volevo credere di essere davvero lì. Forse non ero lì, ma ero davanti al computer a vedere l’ennesima scena di combattimento tra quei due, nell’anime. Ero protetta da uno schermo ed ero al sicuro. Era la mia fantasia che stava galoppando, perché come al solito mi ero immedesimata troppo nei personaggi. Molto probabilmente l’intera avventura che avevo vissuto era stata un sogno. Un sogno parecchio vivido, ma pur sempre un sogno.
Mi parve di vedere Law alzare un sopracciglio, come per incitare il suo avversario a parlare.
«Avevano chiesto il tuo aiuto» proclamò, mentre la vena sulla sua fronte iniziava a gonfiarsi. Chiusi ermeticamente gli occhi e ritirai in dentro le labbra.
«Cazzo!» imprecai. Quale folle farebbe una cosa del genere? Quale pazzo truciderebbe un intero villaggio soltanto perché i suoi abitanti erano implicati con una persona che odiava? Non c’erano parole per descrivere la sua mentalità contorta ed estremamente perfida. Ora avevo la conferma che il mio capitano sarebbe morto a breve. Se Doflamingo non si era risparmiato con quei poveri martiri, semplicemente perché avevano chiesto aiuto al soggetto di cui si voleva vendicare, niente e nessuno gli impediva di massacrare malamente il Chirurgo della Morte.
«Un pirata che aiuta dei semplici civili» fece contrariato il possessore del frutto Ito-Ito «sei la mia più grande delusione, Law. Avevo così tante aspettative su di te, e invece ti sei rivelato un enorme fallimento. Ma c’è un modo affinché io possa perdonarti. E tu sai qual è» continuò lui, iniziando a sorridere alle sue ultime parole. Non era una sorpresa, ormai chiunque seguisse One Piece lo sapeva.
«Sei disposto ad espiare le tue colpe?» chiese il biondo con strafottenza. Seguirono attimi di silenzio in cui rischiai di morire di infarto.
«Finiamola con questa pantomima, Demone Celeste» proclamò serio Law, portando una mano sull’elsa della sua nodachi.
«Non potrei essere più d’accordo» asserì l’altro, con un sorriso a trentadue denti.
«Ci vediamo all’Inferno, demonio!» urlò il mio capitano.
Scattarono in avanti nello stesso identico istante.
«Room!» invocò il chirurgo, concentrato.
«Goshikito» chiamò invece il biondo, sogghignando insopportabilmente.
 Smisi di respirare ed il mio cuore si arrestò nel momento in cui la spada di uno incontrò i fili dell’altro. Non potevo credere che stesse succedendo davvero. Non ero preparata a questo. Non ero io a dover combattere, era vero, ma non ero lo stesso preparata ad assistere ad una tale scena. E comunque, non era detto che non potessi intervenire per dare una mano a quel pazzo di un chirurgo. Sarei stata disposta a farlo? Non lo sapevo. Speravo con tutto il cuore che non ce ne fosse bisogno, in realtà. Anche perché non sarei stata di molto aiuto, forse avrei perfino peggiorato le cose con il mio intervento. Non sapevo davvero che fare. Non riuscivo nemmeno a pensare, tanto erano raccapriccianti le immagini che si stavano susseguendo davanti ai miei occhi.
 
Appoggiai la schiena all’albero dietro cui ero nascosta, mentre mi portavo una mano sulla fronte, quasi a sentire se avessi la febbre, e l’altra sulla bocca, a coprire i miei impietosi singhiozzi. Un’ora. C’era voluta solo un’ora perché il mio capitano cadesse preda del fenicottero. Non potevo dire che non me lo aspettassi, ma vederlo con i miei occhi era una cosa totalmente differente. Ci avevo sperato fino in fondo. Avevo sperato che il finale potesse essere diverso. Invece non lo era. Dopotutto, i buoni non potevano vincere sempre, giusto? Avrei voluto fare qualcosa, avrei dovuto fare qualcosa, invece ero rimasta ferma come un’ebete, paralizzata dalla paura. Ed ora Law si trovava alla mercé di quel malvagio e sanguinario pirata.
«Non so che devo fare...» piagnucolai, passandomi le mani tra i capelli e stringendomi alcune ciocche tra le dita, tirandole fino a farmi male. Mi accasciai al suolo, completamente affranta.
«Che cazzo devo fare!?» gridai disperata. «Qualcuno me lo dica, per favore» supplicai, iniziando a tremare e ad ansimare. Alzai gli occhi al cielo, pregando che qualcuno potesse aiutarmi, poi cominciai a sbattere ripetutamente la testa contro il tronco dell’albero a cui mi ero appoggiata. “Vinci la paura e fai qualcosa, Cami” mi imposi mentalmente, ma ero totalmente immobilizzata. Non sapevo davvero cosa fare o come aiutarlo. Era una situazione senza via d’uscita.
«Scappa...» mi arrivò come un sussurro, quasi come se fosse stato portato dal vento.
Mi girai a guardare il mio capitano. I nostri sguardi si incrociarono per un istante. I miei, terrorizzati, ed i suoi, ormai vacui e quasi svuotati di ogni speranza. Era steso in terra, coperto di sangue dalla testa ai piedi. Aveva tutti e quattro gli arti bloccati. Doflamingo era riuscito con precisione a trapassargli tutti i nervi di gambe e braccia con i suoi fili. Il cappello maculato del chirurgo giaceva riverso a terra, abbandonato, a qualche metro da lui. Lo aveva praticamente ridotto ad un colabrodo e lui ormai aveva esaurito ogni forza vitale per poter invocare la sua Room. Era indifeso di fronte ad un mostro di potenza che aveva ancora tanta vitalità. Se ripensavo a tutti gli attacchi terribili che aveva rivolto a Law, mi veniva la pelle d’oca. Era stato un combattimento tremendo, a cui non avrei mai augurato a nessuno di assistere. Il fenicottero aveva agito lentamente, prolungando la sua agonia il più possibile e lasciandolo piano piano e perfidamente senza difese ed incapace di muoversi. Il Chirurgo della Morte sembrava una mosca intrappolata nella tela di un ragno, un ragno il cui soprannome era Demone Celeste. La cosa che più mi faceva incazzare, era che quel demonio ne era uscito semplicemente con qualche misero graffio. Trafalgar Law non poteva nulla contro di lui. Era nettamente più debole del fenicottero ed in più quest’ultimo ormai conosceva tutti i suoi attacchi. Non poteva nemmeno provare ad ingannarlo.
No. Non potevo scappare. Non potevo lasciarlo così. Io dovevo fare qualcosa. Dovevo almeno tentare di proteggerlo, di salvarlo. Almeno questo glielo dovevo. Scossi la testa, sempre fissandolo, mentre un fremito faceva tremare il mio labbro inferiore e altre lacrime mi rigavano le guance.
«Io ti salverò. Non importa come e a quale prezzo.» dichiarai, distogliendo lo sguardo ed alzandomi in piedi. Sapevo bene che non poteva sentirmi, ma non era importante che lui mi ascoltasse. Era importante che io agissi. Mi ripulii il naso con la manica della divisa e mi asciugai gli occhi. Dovevo elaborare una strategia, e in fretta anche.
Un brivido attraversò il mio corpo nel momento in cui sentii un urlo, a pochi metri da me, provenire dal chirurgo. Non avevo più tempo. Mi arrampicai in fretta sull’albero e, cercando di non fare rumore, saltai di ramo in ramo finché non arrivai abbastanza vicina ai due combattenti.
«Stai per morire» cantilenò il Demone Celeste «ma prima lascia che io mi diverta ancora un po’ con te» aggiunse, assumendo l’espressione più folle che avessi mai visto fare ad una persona.
Lo vidi lanciare alcuni fili dalle dita, che si conficcarono nella carne del capitano e lo tirarono su come se fosse una marionetta in balia del suo burattinaio. Poi, lo fece avvicinare a sé e lo afferrò per un polso.
«Avresti potuto risparmiarti tutto questo. Hai buttato via tredici lunghi anni della tua vita a pianificare la tua vendetta. Ma è stato tutto inutile, sai che non puoi vincere contro di me. Ti strapperò via ogni scintilla di vitalità che ti rimane, lentamente. E ti farò provare una profonda sofferenza che ti porterà alla disperazione più totale.» proclamò il biondo. Chiunque avrebbe saputo e capito che la sua era una solenne promessa. Dopodiché, senza perdere tempo, sollevò la gamba destra e la appoggiò sulla spalla del medico. Uno scintillante filo spuntava da sotto i suoi pantaloni, fino ad arrivare al suo tallone.
«Itonoko» fece, annunciando il suo prossimo attacco. Law digrignò i denti ed io spalancai gli occhi. Entrambi sapevamo in cosa consisteva quel colpo. Trattenni il respiro per quella che mi sembrò un’eternità.
«No, non di nuovo» sussurrai, in preda al panico. Stava accadendo un’altra volta. Stavolta, però, non sarei rimasta a guardare, impotente. Potevo e dovevo fare qualcosa.
Senza pensarci due volte saltai giù dal ramo su cui ero appollaiata, sfoderai l’ascia e provai a colpirlo di spalle. Era l’unica possibilità che avevo per poter almeno provare a ferirlo. Gli andai incontro silenziosamente, scagliandogli addosso la mia Mr. Smee con tutta la potenza che avevo in corpo. Doflamingo, con una mossa repentina, lasciò andare Law, si girò e parò il mio colpo con una sola mano e senza nessuna difficoltà. Inorridii di fronte alla sua potenza sovrumana. Non che io avessi chissà che forza, ma parare un’ascia con una sola mano non era una cosa che si vedeva tutti i giorni. Un piccolo rivolo di sangue zampillò sulla lama della mia arma. Alzai lo sguardo. I suoi tre metri di altezza sovrastavano la mia figura minuta. Ma che diavolo mi ero messa in testa? Non potevo assolutamente batterlo, né tantomeno provare a tenergli testa per cinque minuti. Allentai la presa sull’ascia, fino a farla cadere in terra con un rumore metallico. Il chirurgo mi guardava con un’aria estremamente contrariata. Quasi non credeva che io potessi essere lì, a pochi passi da lui. Non avevo seguito i suoi ordini, ma qualsiasi cosa avesse detto o fatto, non avrebbe cambiato la mia decisione. Tentò di convincermi a lasciarlo lì e ad andarmene con un’ultima occhiata disperata, tuttavia non ci fu nulla da fare. Non avevo intenzione di voltargli le spalle proprio ora che aveva più bisogno di qualcuno che gli desse una mano. Ero consapevole di non poter fare molto, però potevo almeno tentare.
Il fenicottero si rigirò lentamente verso la sua vittima.
«Ah, Law. Mi conosci. Sai che questi trucchetti con me non funzionano. Puoi fare meglio di così» lo rimproverò ironicamente «però adesso mi hai fatto incazzare, perché hai tentato di ingannarmi. Non è corretto giocare sporco».
Pensava che fosse stato il mio maestro ad architettare quell’attacco. L’ex Nobile Mondiale non poteva vedermi, nemmeno con l’Haki della Percezione.
Il mio capitano sbuffò una risata, e lo vidi sputare sangue.
«Parli proprio tu?» gli chiese retoricamente, con malizia. Perché non gli diceva che non era stato lui? Gli avrebbe fatto del male! Perché si ostinava a proteggermi?
«Mi offendi, così. Overheat» l’ex flottaro prese di nuovo la parola, chiamando il suo prossimo attacco. Andai nel panico, di nuovo. Quello era un colpo potentissimo. Era stato in grado di tagliare a metà un palazzo a chilometri di distanza. Law non sarebbe sopravvissuto. Era ridotto troppo male ed era troppo vicino. Iniziai a guardarmi intorno, alla ricerca di qualcosa che potesse distrarre il Demone Celeste. Il tempo stringeva. Stava per scagliare la sua frusta incandescente contro il mio povero capitano, che nel frattempo si preparava a morire, rassegnato al fatto che fosse quello ormai il suo destino. Non potevo permetterglielo. Non potevo lasciarlo morire e soprattutto non potevo lasciarlo morire per colpa mia! I miei occhi si illuminarono. Mi scapicollai tra gli alberi, recuperai la mia cintura e la indossai senza esitazione.
«Non farlo!» gridai «Ti prego» dissi poi, con più lucidità, mentre mi accingevo a venire fuori dalle frasche della vegetazione. Quale distrazione migliore c’era di una nuova vittima da poter torturare e con cui poter giocare?
Notai un certo stupore nell’espressione del fenicottero, per non dire addirittura interesse. Law, invece, trasalì quasi impercettibilmente e mi fissò con disappunto. Non ce l’aveva con me perché non avevo seguito i suoi ordini, ce l’aveva con me perché era preoccupato e non gli andava giù l’idea di non riuscire a proteggermi. Glielo leggevo negli occhi. Gliene ero grata, ma era giunto il momento che cominciassi a provvedere io a lui. Non aveva colpe, era stata una mia decisione quella di espormi con il Demone Celeste.
«Sono stata io a giocarti quel brutto scherzo con l’ascia» gli comunicai fredda – per quanto dentro mi sentissi morire – raccogliendo la mia Mr. Smee da terra.
«E tu chi saresti?» chiese divertito, allungando il collo.
Abbassai lo sguardo per poi rialzarlo subito dopo. Aspettai un po’ prima di rispondere. In una situazione del genere, la strategia ed il tempismo erano tutto, dal momento che né io, né il mio capitano potevamo contare sulla forza fisica. Osservai Law. Era riverso a terra, esausto, sanguinante. Non riusciva a muoversi ed era un miracolo che fosse ancora cosciente. Come avrei potuto aiutarlo? Cosa avrei potuto fare?
Il fenicottero alzò un sopracciglio, impaziente. Sospirai, ripensando al motivo per cui non potevo in alcun modo lasciare che Trafalgar Law morisse. Era piombato in casa mia all’improvviso e da quel momento la sua comparsa mi aveva totalmente cambiato e sconvolto la vita. Avevo rischiato di morire per mano sua più volte, mi aveva quasi strangolata due volte, mi aveva svegliata all’improvviso puntandomi una torcia nelle pupille, mi aveva minacciata, fulminata con lo sguardo e denigrata. Era una delle poche persone che mi conosceva così a fondo che sapeva come farmi infuriare in un tempo massimo di tre secondi. Ci eravamo fatti la guerra e più volte ci eravamo andati giù pesante. Era l’unico che sapeva come distruggermi, ma anche l’unico che con poche parole e una bottiglia di vino sapeva come rimettermi in piedi. Mi aveva curata quando ero stata male, mi aveva presa con sé nella sua ciurma e mi aveva fatto lavorare sodo affinché imparassi ad essere un bravo medico. Si era preso cura di me e non mi aveva mai fatto mancare niente. Mi aveva salvato la vita ed era stata la prima persona che conoscessi a credere in me. A credere davvero in me. Era stato il primo e molto probabilmente l’unico a credere che potessi essere brava in qualcosa, che valessi qualcosa. Mi aveva fatto da mentore e si era accollato la responsabilità di insegnarmi tutto ciò che sapeva. Mi aveva spronata e mi aveva aiutata a superare i miei limiti. Mi aveva punita quando avevo sbagliato e mi aveva incoraggiata quando più ne avevo bisogno. Si era esposto per me e mi aveva difesa quando non potevo farlo da sola. Si era fidato di me e mi aveva resa una persona migliore, sotto tutti i punti di vista. Il nostro era un rapporto travagliato e complicato, ma genuino. Era una brava persona. La migliore che conoscessi. Mi aveva protetta e adesso toccava a me farlo. Lui doveva vivere. Ed io dovevo fare tutto quanto in mio potere perché ciò accadesse. Ecco perché sarei stata pronta a dare la mia vita per lui, se necessario. Mi morsi un labbro, per cercare di ricacciare indietro le lacrime di commozione che stavano premendo per uscire. Non c’era altro modo, se non quello.
«Sono la sua fidanzata» mentii spudoratamente. Alle mie parole, il capitano strabuzzò gli occhi, fissandomi come se fossi una pazza. Lo fissai di rimando, cercando di rassicurarlo. Avevo avuto un’epifania e adesso avevo un piano.
«Che cosa cerchi di fare!? Non immischiarti in cose che non ti riguardano e va’ via!» sibilò il mio maestro a denti stretti, guardandomi con uno sguardo che non ammetteva repliche. Per la prima volta in vita mia, però, vidi i suoi occhi vacillare.
«Ho tutto sotto controllo. Non ti preoccupare» volli tranquillizzarlo, allungando una mano davanti a me a palmo aperto, sebbene dentro di me tutto stesse cadendo a pezzi. Perfino le dita tremolavano violentemente. Chiusi il pugno, per non far vedere quanto in realtà avessi paura e quanto stessi vacillando.
Doflamingo sogghignò, sempre più incuriosito dall’assurda situazione che si era venuta a creare. O forse sarebbe stato meglio dire dal casino in cui mi stavo andando a cacciare.
«La cosa si fa interessante» commentò, passandosi la lingua sul suo labbro superiore e ritirando la sua frusta. Se non altro ero riuscita a guadagnare un po’ di tempo.
Allargò il suo ghigno ancora di più.
«Perché non ho percepito la tua presenza con l’Haki?» cercò di informarsi.
«Perché so come passare inosservata» risposi, sostenendo il suo sguardo. Il clima su quell’isola non era particolarmente rigido, ma io sentivo parecchio freddo. Riuscivo a sentire il sangue congelarsi nelle mie vene e smettere di circolare. Temevo che sarei diventata cianotica da un momento all’altro.
«Hai mangiato un Frutto del Diavolo?» mi chiese, calmo e divertito da quelle circostanze bizzarre.
Alzai le spalle, cercando di mostrarmi sicura nonostante fossi terrorizzata.
«Perché non lo scopri tu stesso?» domandai a mia volta con una punta di malizia negli occhi, dopo aver fatto un respiro profondo.
«E così il famigerato e gelido Chirurgo della Morte si è fatto una fidanzata» commentò, allietato da quel finto evento di cronaca rosa «adesso che ci penso, ho sentito parlare di te» mi comunicò, sempre più allegro. Rabbrividii un istante nel notare il sorriso perverso che mi aveva rivolto e poi mi ricordai degli articoli di giornale che erano circolati qualche settimana prima.
«Non è la mia fidanzata.» sputò Law, con convinzione ma a fatica. Era ancora a terra e a quanto pareva non si sarebbe rialzato tanto presto «Stanne fuori, Camilla» mi ordinò, furioso.
«Chiudi la bocca, Traffy.» lo azzittii, fulminandolo con lo sguardo. Doflamingo accennò una risata. Se io e il capitano fossimo sopravvissuti a quella giornata, mi avrebbe prima torturata e poi uccisa senza alcuna pietà.
«Sei venuta a salvare il tuo amato?» volle sapere.
«No. O meglio, sì. Sono qui per proporti un accordo» lo informai. Mi ci volle tutta la mia forza di volontà per non far tremare le corde vocali.
Congiunse le mani ed iniziò a tamburellare le dita una contro l'altra.
«Sentiamo» mi invitò a proseguire. Il suo sorriso era diventato così largo che mi aspettavo che gli si spaccasse la faccia a metà da un momento all’altro. Mai soprannome fu più azzeccato di “Joker” per lui.
Deglutii a fatica e mi schiarii la voce.
«Prendi me al suo posto» dissi «lui ti ha portato via tutto ciò che avevi. Io sono la persona che più gli sta a cuore in questo mondo. Mi ama. Se tu mi uccidessi, adesso, uccideresti anche lui. Una parte di lui morirebbe con me e sarebbe costretto a vivere per il resto della sua vita con questo peso enorme sulla coscienza e con un vuoto incolmabile nel cuore. Se è la vendetta che vuoi, non c’è modo migliore per ottenerla. Prendendo la mia vita faresti a lui esattamente ciò che lui ha fatto a te» gli spiegai, impassibile, facendo qualche pausa ogni tanto per umettarmi le labbra e deglutire, sebbene ci fosse ben poca saliva da mandare giù. Quasi non mi riconoscevo. Non sapevo dove avessi trovato il coraggio per fare un tale discorso, né avevo idea del perché gli stessi offrendo la mia vita su un piatto d’argento. Ma ormai non importava più. Quel che era fatto era fatto. Mi sentivo come la Katniss Everdeen della situazione, con l’unica differenza che io non sarei mai e poi mai sopravvissuta a quel supplizio.
«Non ascoltarla! Non una sola parola di quanto ha detto corrisponde alla verità!» urlò il chirurgo facendo appello a tutte le forze che gli rimanevano, nella vana speranza di dissuaderlo dall’accettare la mia proposta.
Il Joker rise per due minuti buoni, compiaciuto, poi si voltò verso il mio capitano.
«Di sicuro la tua fidanzata è più astuta di te, caro Law» affermò soddisfatto.
Chiusi gli occhi, cercando di rimanere calma, consapevole che quelle sue parole avevano sancito il nostro accordo. Adesso ero io quella che si doveva preparare a soccombere. Sollevai le palpebre e diedi un’ultima occhiata al mio capitano, mentre una lacrima silenziosa mi scendeva sul viso. Annuii e gli sorrisi, mentre per la prima volta vedevo le sue pupille abbandonarsi alla paura. “Va bene così” cercai di comunicargli con lo sguardo. Ero pronta a morire.
«Mi piace la tua attitudine e il tuo modo di pensare» mi informò Doflamingo con voce suadente «ma vedi, signorina» continuò poi «c’è un piccolo problema. Ho fatto un patto con un Imperatore. Ho promesso che avrei ucciso il qui presente Trafalgar Law e non posso venire meno alla parola data» affermò infine.
Sentii il chirurgo sospirare impercettibilmente, sollevato. Se lui era sollevato, io non lo ero affatto. Non sapevo ancora dove voleva andare a parare il Demone Celeste, ma l’espressione sulla sua faccia non mi faceva presagire nulla di buono.
«Però mi hai dato una bella idea» dichiarò, ghignando pericolosamente. «Ucciderò te e lascerò che lui ti guardi mentre ti spengi tra atroci sofferenze. Poi ucciderò anche lui, riservandogli il tuo stesso trattamento» annunciò con una tranquillità disarmante.
Sussultai, e insieme a me anche Law. Il mio cuore perse un paio di battiti, poi iniziò a martellarmi nel petto con insistenza. Inspirai ed espirai profondamente. Ogni singolo muscolo del mio corpo era teso come una corda di violino, al punto che se non avessi avuto tutta quella adrenalina addosso mi sarei contorta dal dolore causato dai crampi. Quella era la nostra fine. Eravamo arrivati al capolinea insieme. No. Non poteva essere. Non poteva finire così. Io dovevo salvarlo, cazzo. Io dovevo...proteggerlo. Perché? Dove avevo sbagliato? Perché, ancora una volta, non ero stata in grado di salvaguardare la persona a cui tenevo di più?
Volevo solo accasciarmi al suolo e piangere fino a che non avessi chiuso gli occhi definitivamente. Era stato tutto vano. Non avrei potuto salvarlo comunque. Non sarei stata in grado di risparmiargli quell’enorme sofferenza. Che persona inutile che ero. Non ero stata nemmeno capace di proteggere il mio capitano. Scossi la testa amareggiata, distogliendo lo sguardo da entrambi gli uomini che avevo davanti. Abbassai la testa, continuando a scuoterla violentemente e mi portai una mano a coprirmi gli occhi. All’improvviso era diventato difficile perfino stare in piedi. Vergogna, disperazione, che importava cosa provavo? Sarebbe finito tutto in pochi minuti, o almeno così mi auguravo.
“Che fai? Ti arrendi così?” la voce di Rufy mi risuonò in testa. La sua immagine mi apparve davanti come se fosse un ologramma. Mi sorrise e mi intimò di non mollare. Aveva ragione. Non potevo darla vinta ad un idiota che portava gli occhiali da sole – e che occhiali da sole – anche per dormire e che vestiva con uno stupido cappotto di piume rosa. Non potevo lasciare che fosse proprio lui a distruggerci. Cappello di Paglia sarebbe stato deluso dal mio comportamento. Chiunque ne sarebbe stato deluso. Un mese. Ero stata un mese con lui e in quel mese mi aveva ripetuto più volte che non avrei dovuto mai smettere di combattere, anche se l’avversario davanti a me fosse stato imbattibile. Quel mese non si poteva cancellare, così come non si potevano cancellare i due anni che avevo passato al fianco del Chirurgo della Morte. Lui mi aveva insegnato che non era importante quanto fosse grave la situazione, si poteva sempre recuperare un paziente, se si rimaneva calmi e concentrati. E io dovevo almeno tentare.
Rialzai la testa con fierezza.
«Mi dispiace» dissi, squadrando prima Law e poi Doflamingo. Il primo fece una smorfia sofferente, mentre il secondo ghignò allegro.
«Mi dispiace, ma non intendo morire senza prima combattere» proclamai «per entrambi» specificai in seguito, rivolgendo il mio sguardo al Chirurgo della Morte, che scosse la testa sconsolato.
«Non farlo, Camilla. Scappa finché sei in tempo» cercò di convincermi, inutilmente, un’ultima volta.
«Sono un uomo d’onore. Rispetterò la tua scelta. Basta che tu e il tuo fidanzatino non mi facciate perdere troppo tempo» affermò il biondo, deciso e sicuro di sé.
Sfoderai la mia ascia e mi misi in posizione d’attacco, come mi aveva insegnato Bepo. Se proprio dovevo morire, almeno volevo farlo combattendo con onore. Molto probabilmente non mi rendevo conto di ciò che avevo appena fatto, tuttavia questo era un bene. Perché se così non fosse stato, non avrei mai trovato il coraggio e la forza per lottare.

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Capitolo 44
*** Disperazione ***


AVVISO: Questo capitolo sarà lungo, oscuro e pieno di terrori. Dopo averlo letto capirete perché è stato necessario alzare il rating. Quindi leggete a vostro rischio e pericolo. Buona lettura (o forse sarebbe meglio non dirlo).



Allungai al massimo la mia Mr. Smee, preparandomi a tornare all’attacco. Combattevamo da appena cinque minuti ed ero già stremata. Fino a quel momento il fenicottero aveva solo giocato con me, ma i suoi fili, che facesse sul serio o meno, erano comunque acuminati e taglienti. Più taglienti di quanto mi aspettassi. Ero piena di graffi, ferite e lividi sparsi per il corpo, ed iniziavano a farmi abbastanza male. Stavo provando parecchio dolore, per quanto tentassi di nasconderlo ed ignorarlo. Non volevo che Law mi vedesse soffrire, e poi, dovevo continuare il mio assalto disperato verso l’uomo che ci aveva rovinato la vita, che però aveva schivato praticamente tutti i miei colpi. Ed era riuscito ad annullare con una facilità disarmante tutti quelli che non aveva schivato. Non avrei resistito a lungo, di questo passo. Ma non potevo mollare, non proprio ora. Mi scagliai contro il Demone Celeste con una violenza inaudita, ci misi tutta la forza che avevo in corpo. Ovviamente il biondo parò il colpo con una semplicità spiazzante e la mia ascia cadde di nuovo a terra, sempre con un tonfo metallico. Doflamingo mi afferrò il polso sinistro ed io mi ritrovai sospesa in aria, a penzolare come un salame. La posizione in cui ero non era tanto diversa da quella in cui era Law, a Dressrosa, appena prima che il Joker gli mozzasse il braccio. Ecco perché ero terrorizzata da quello che avrebbe potuto farmi. Ero in totale balia di quel mostro, che aveva promesso di farmi soffrire atrocemente prima di darmi il colpo di grazia. Non era un uomo onorevole, ma di sicuro manteneva la parola, quando si trattava di far provare dolore alle sue vittime. Cinque minuti. Ero riuscita a resistere per soli cinque minuti. Non potevo più nulla contro di lui, ormai. Lo osservai attentamente, cercando di capire quali fossero le sue intenzioni, mentre un brivido di terrore mi attraversava il corpo. Purtroppo non riuscivo a captare niente, dato che si stava limitando a ridere sguaiatamente. Mi aspettavo che da un momento all’altro potesse sollevare la gamba e poggiarla sopra la mia spalla, per poi riservarmi lo stesso identico trattamento che in passato aveva riservato al chirurgo. Ma invece, agì in un modo che non mi sarei mai aspettata. Fece un’improvvisa ed impercettibile – ma brusca – mossa con la mano con cui mi reggeva. Sentii un crack. Mi aveva spezzato il polso. Urlai in preda alla sofferenza più totale, come non avevo mai fatto, e per qualche secondo tutto si fece bianco e sfocato. Era il dolore peggiore che avessi mai provato in vita mia. Quando la mia vista ritornò normale, notai che il chirurgo, di fronte a me, aveva un’espressione turbata ed angosciata. Il fenicottero mollò la presa ed io caddi a terra come un sacco di patate. Mi afferrai il polso e rimasi a dimenarmi al suolo, preda di lancinanti fitte. Percepivo formicolii dolorosi lungo tutto il braccio e potevo sentire l’osso nell’esatto punto in cui si era rotto. Tentai di aprire e chiudere il pugno, per impedire che la circolazione si arrestasse, ma ogni minimo movimento che compivo, faceva un male cane. Tutto il mio corpo tremava e dalla mia gola uscivano lamenti soffocati. Dovevo tenere fermo il polso con qualcosa, o avrei rischiato grosso.
«Adesso smettila, Doflamingo» gli intimò il mio capitano, che non mi aveva persa di vista nemmeno per un secondo «la tua battaglia è contro di me. Lei non c’entra nulla».
L’ex membro della Flotta dei Sette rise di nuovo.
«Si è offerta lei di prestarsi a questo piccolo gioco» si giustificò. Effettivamente non aveva tutti i torti. Mi prese per un braccio – il sinistro, tanto per cambiare – e mi tirò su come se fossi un manichino. Probabilmente ero proprio questo per lui.
«Dimmi, Camilla» esordì, pronunciando il mio nome con enfasi, quasi come se fosse una parola proibita. Con uno scatto mi fece fare mezzo giro, in modo tale che guardassi in faccia il chirurgo. Il biondo era alle mie spalle e il suo avambraccio avvolgeva il mio collo in una morsa da cui era impossibile liberarsi e che mi impediva di fare qualsiasi movimento. Era come un pitone che strangolava lentamente la sua preda. «A chi di voi due devo dare ragione?» mi chiese.
«A chiunque tu voglia.» sputai. Tanto ormai non c’era più nulla da perdere e non avrebbe comunque fatto alcuna differenza. Nessuno di noi due si poteva più salvare. Avevo fatto una stronzata, ma almeno avevo agito per una giusta causa. Saremmo morti entrambi, però io sarei morta con la consapevolezza di aver fatto qualcosa. Per la prima volta, nella mia breve vita, non ero stata una codarda. Mi ero esposta per qualcuno che non fossi io e non ero rimasta nascosta a guardare impotente l’orrore che avevo davanti. Di certo la mia non sarebbe stata una morte eroica, ma se proprio fossi dovuta scomparire da quel mondo, lo avrei fatto con il cuore un po’ più leggero. Almeno, cercavo di convincermi che sarebbe stato così. Perché non mi sentivo affatto sollevata all’idea di dover trapassare, e tantomeno lo ero all’idea che lo avrebbe fatto anche Law.
Con la coda dell’occhio vidi l’ex sovrano di Dressrosa alzare le sopracciglia, come se la mia risposta avesse reso ancora più divertente quel suo stupido gioco.
«Furba, la ragazza. Te la sei scelta proprio bene, Law» asserì, con una disgustosa punta di malizia nella voce.
«Non darle retta. Non sa quello che dice» replicò il mio maestro, rivolgendomi uno sguardo eloquente, che sapevo bene cosa stesse a significare e cosa mi volesse comunicare.
«A me pare che sappia il fatto suo» commentò Doflamingo, sempre più intrigato da quella situazione assurda e surreale.
«Lei non è altro che una mia semplice sottoposta. Non significa e non ha mai significato nulla per me.» affermò fissandomi negli occhi, gelido ed impassibile. Sussultai. Le sue parole, dette così a sangue freddo, mi fecero male, ma sapevo che stava solo cercando di proteggermi da un destino infausto.
«Allora non ti dispiacerà se la uccido» disse, tirando fuori la sua pistola con uno scatto repentino e puntandomela alla tempia. Lo vidi spalancare gli occhi, digrignare i denti e stringere i pugni per un solo secondo, prima di ritornare alla sua solita espressione composta. Potevo comprendere bene la sua frustrazione per non poter fare niente per aiutarmi. Mi sentivo alla sua stessa maniera. Lo guardai, i miei occhi, per quanto impauriti, erano fermi, pronti ad accettare il loro destino. L’ex re di Dressrosa alzò il cane. La scena si ripeteva esattamente come nel mio sogno. Solo che stavolta nessuno avrebbe potuto salvarmi. Law trasalì ed io abbassai le palpebre e strinsi i pugni, dimenticandomi che avevo un polso rotto, che in quella posizione mi faceva ancora più male.
«Va bene così, Traffy. È stato bello fino a qui, ed è stato bello conoscerti» gli sussurrai con un filo di voce, nella speranza che mi sentisse. Lo dissi tutto d’un fiato, avevo paura che da un momento all’altro il biondo mi avrebbe sparato e non avrei più potuto dire quello che sentivo il bisogno di dire. Cercai di sorridere per rassicurarlo il più possibile, ma chissà come mai l’idea di morire non mi rendeva tanto allegra. Ed io non avevo la famigerata “D.” nel nome, quindi non potevo spirare con il sorriso sulle labbra.
“Ci siamo” pensai, stringendo ancora di più le palpebre. Supplicai che fosse una cosa veloce ed indolore.
«Fufufufu» Doflamingo rise di gusto. Poi, inaspettatamente lasciò la presa, spingendomi in avanti e facendomi cadere in ginocchio. Gridai di nuovo nel momento in cui appoggiai involontariamente la mano sinistra a terra per tenermi in equilibrio. Iniziai ad ansimare pesantemente. In quel momento provavo un miscuglio di emozioni e sensazioni che sarebbero bastate a mandare in confusione chiunque. Ero sollevata di essere ancora in vita, ma allo stesso tempo provavo un intenso dolore in tutto il mio corpo causato dalle innumerevoli ferite che mi aveva inflitto il Joker ed ero terrorizzata all’idea che lui e il suo infinito e malato sadismo potessero tornare alla carica con nuovi modi per farmi soffrire. Inutile dire che il mio vago senso di sollievo durò ben poco. Finì nell'esatto momento in cui svanì anche l'adrenalina e la sofferenza che provavo per il mio povero polso triplicò.
Paura e dolore. C’era soltanto questo dentro di me. Non c’era rimasto nient’altro. Non avevo più alcuna speranza, né alcun desiderio, se non quello che questo supplizio finisse presto. Dentro di me c’era il vuoto più totale, una vasta desolazione. Mi chiesi se anche Law si fosse sentito così in tutti quegli anni. Nel pensarci mi venne da sorridere nervosamente. Supponevo che non lo avrei mai saputo.
«Goshikito» pronunciò una voce alle mie spalle. Feci appena in tempo a girarmi e a rendermi conto che cinque fili colorati stavano venendo verso di me a gran velocità. Mi avrebbero fatto letteralmente a fette. Non potevo difendermi, non ne avevo il tempo, né la forza. Alzai le braccia ed abbassai la testa. Quello era tutto ciò che potevo fare, anche se non sarebbe servito ad un bel niente.
«Room» mi parve di udire debolmente dietro di me «Shambles».
Fu un attimo. Mi ritrovai in ginocchio al fianco del mio capitano, incolume – si faceva per dire – e decisamente sorpresa. Al mio posto, un sassolino era stato completamente disintegrato. Una piccola sfera bluastra dal diametro di circa cinque metri circondava me e il chirurgo. Era grande appena quanto bastava per coprire la zona in cui ci trovavamo noi. Tirai un sospiro di sollievo, sebbene ci fosse ben poco da essere sollevati. Mi aveva salvato. Law mi aveva salvata. Lo guardai con gli occhi lucidi e colmi di gratitudine e con le labbra mimai un “grazie” molto sentito. Tuttavia la mia gioia durò ben poco. Il medico ritirò quasi subito la sua Room, stremato. Ogni volta che la evocava spendeva tantissime energie e nelle condizioni in cui era doveva aver fatto uno sforzo enorme per trarmi in salvo. Questo mi fece apprezzare il suo gesto ancora di più, sebbene fossi molto preoccupata per il suo stato di salute. Lui, più di me, aveva bisogno di cure immediate.
Poco più in là, un fenicottero arrabbiato camminava lentamente verso di noi. La vena sulla sua fronte si era gonfiata pericolosamente.
«Avete la pellaccia dura» constatò, sempre avanzando lento verso le sue due vittime.
«E va bene. Se la mettete così, non vi ucciderò» affermò. Corrugai le sopracciglia. Che diamine aveva intenzione di fare?
«Lo farete voi al mio posto. Vi ucciderete a vicenda» ci annunciò, calmo e sorridente. Al pensiero di poter fare una cosa del genere, inorridii e feci una faccia disgustata. Guardai Law e notai che fissava il Demone Celeste con disprezzo.
«Parasite» fece quello, senza neanche darmi il tempo di capire quello che stava succedendo o ciò che intendesse dire. Solo nel momento in cui sentii un pizzico alla base del collo, capii la sua strategia e rabbrividii ancora di più.
«No, no, no. Ti prego» lo supplicai, ma invano. Ormai aveva preso la sua decisione.
La situazione era tragica e in quel momento mi lasciai andare alla disperazione. Dentro di me avevo abbandonato ogni speranza di riuscire a salvarmi e avevo ceduto al buio e all’oblio. Sarei morta, insieme al mio capitano. Non solo, lo avrei ucciso io stessa. E nei miei ultimi istanti di vita, non avrei nemmeno potuto controllare i miei movimenti. I nostri corpi si alzarono automaticamente. Lo scenario si stava rivelando esattamente uguale a quello che avevo sognato anni prima. Lo sapevo. Sapevo che quello non era semplicemente un sogno. Lo avevo sempre saputo, dentro di me. Avevo solo represso quelle sensazioni negative e mi ero rifiutata di credere che il mio istinto avesse ragione.
Il chirurgo si chinò a raccogliere la sua nodachi, mentre io camminai fino a raggiungere la mia ascia, superando un Doflamingo alquanto eccitato all’idea di vederci diventare carne allo spiedo. Sulla sua faccia c’era dipinta un’espressione estremamente perversa e compiaciuta, che mi ripugnò al punto da farmi venire un conato di vomito.
Stava succedendo esattamente la stessa cosa che era successa nel mio incubo. Perché cazzo non ero riuscita ad evitarlo!? Mi odiavo profondamente per questo. Avrei dovuto prevederlo e invece mi ero fregata con le mie stesse mani.
Fummo obbligati a voltarci l’uno verso l’altra. Eravamo a qualche metro di distanza. Entrambi iniziammo ad avanzare lentamente con le armi in mano, contro la nostra volontà.
«Puoi usare la Room?» chiesi speranzosa. Anche se più che speranza, quello era un ultimo, disperato tentativo di assicurarmi che avremmo evitato l’orrida fine che ci aspettava. Provai in ogni modo a staccarmi dalla mia Mr. Smee, a gettarla in terra e a liberarmene, ma le mie dita sembravano quasi fuse con il maledetto manico dell’arma. Non potevo nemmeno deviare il colpo, ero completamente controllata da quel mostro.
«No, ho esaurito tutta la mia energia» affermò. Non capivo come potesse rimanere così tanto tranquillo di fronte ad una tale atrocità. Forse ne aveva viste e passate di peggio, ma cazzo, perché non provava neanche a ribellarsi a quell’ingiustizia? Stavolta i poteri del frutto Ope Ope non avrebbero potuto salvarci. Non era come nel mio incubo. Era molto peggio, anche perché quella purtroppo era la realtà e la sofferenza che avremmo provato sarebbe stata vera.
«Non voglio morire, Traffy. E non voglio che muoia neanche tu» gli confessai, sul punto di piangere, mentre continuavo ad avvicinarmi a lui. Ero adirata, ero triste, non ne avevo neanche più idea.
«Chiudi gli occhi, per favore» rimase calmo, ma quasi mi supplicò.
«È tutta colpa mia!» esclamai tra un singhiozzo e l’altro.
«Non è colpa tua» cercò di rassicurarmi «ora chiudi gli occhi, ti prego» stavolta mi implorò con più convinzione.
«Ho combinato un casino» feci, mortificata, mentre le mie braccia si alzavano da sole. Il polso mi faceva terribilmente male ad ogni minimo movimento che facevo. Ma non dipendeva da me. La mia unica consolazione era che la mia agonia sarebbe finita presto.
«Sì, lo hai fatto» asserì Law «io sarei morto comunque, ma tu avresti potuto e avresti dovuto sopravvivere» continuò, mentre anche lui sollevava le braccia. Tutto quel potere in mano ad un tale folle, era sprecato. Il Chirurgo della Morte non poteva muoversi, perché i nervi principali di tutti e quattro i suoi arti erano stati compromessi. Eppure il fenicottero lo controllava con estrema facilità. Se solo avesse usato quell’immenso dono che aveva per fare del bene. Avrebbe potuto ridare speranza alle persone, invece che toglierla loro miseramente. Ma a lui non importava niente, perché per lui le persone non erano degne di vivere, di rimanere al mondo. Ci considerava tutti come se fossimo immondizia da gettare via alla prima occasione. Spostai lo sguardo su Doflamingo, per quanto la mia visuale periferica me lo permettesse, e lo fissai estremamente disgustata. Continuava a sogghignare impunemente, mentre le sue dita affusolate si muovevano in automatico, come se stesse suonando un pianoforte. Mai come in quel momento fui più contenta di non aver tirato fuori i pugnali dalle tasche degli stivali. Con un avversario come lui, anche un bastoncino poteva trasformarsi in un’arma a doppio taglio. Avevo deciso che se fossi sopravvissuta, per nulla al mondo avrei usato i coltelli.
«No, sono stata una stupida a pensare di poterti proteggere!» esclamai, delusa da me stessa.
«Va bene così. Presto finirà tutto. Tu non guardare» ribadì, quasi teneramente. Non era lui. Non poteva essere il Chirurgo della Morte a parlare. Era questo l’effetto che faceva il patibolo? Perché sembrava un’altra persona. Con me, adesso, si stava comportando quasi da fratello maggiore. Forse era il sangue che gli colava copioso dalle tempie ad avergli dato alla testa. Magari stava avendo un’emorragia cerebrale in corso e nessuno di noi se ne era accorto. Sbuffai una risata, che riuscii a camuffare come singulto. Che importava? Tanto saremmo comunque dovuti soccombere.
«Perché? Perché dobbiamo essere noi a morire!?» gridai, infuriata. Per qualche secondo l’aria intorno a noi fu riempita soltanto dalla crudele risata del Demone Celeste. Poi, quando finalmente si decise a smettere di sghignazzare, sentii il mio capitano sospirare. Eravamo a pochissimi passi l’uno dall’altra.
«Perché i deboli non possono...» iniziò, ma io non gli lasciai finire la frase.
«Non dirlo, Law. Non pensarlo neanche per un secondo.» gli imposi, gelida «non osare ripetere davanti a me la frase che ha pronunciato quel mostro.»
L’ex flottaro nel frattempo se la rideva a crepapelle, prendendosi gioco di noi nel modo più vile possibile.
«Non capisci? Non ha più importanza ormai» dichiarò. Se avesse potuto muoversi avrei giurato che mi avrebbe fatto un’alzata di spalle. Si era arreso. Si era arreso così, senza combattere. Perché? Perché lo stava facendo? Perché si stava mostrando così docile di fronte al suo peggior nemico? Non era più Law, quello che avevo davanti. Non era più il Law che conoscevo io, almeno. In quel preciso momento era diventato l'ombra di se stesso. Forse era solo stanco. Stanco di combattere, stanco di dover avere a che fare con il suo passato, che non lo abbandonava mai e si ripresentava sempre alla sua porta, in un modo o nell'altro. E forse, voleva chiudere una volta per tutte quel conto. Voleva trovare la pace e probabilmente ormai si era convinto che l'unico modo per farlo fosse raggiungere la sua famiglia e Cora-san.
Mi morsi un labbro. Gli occhi ed il petto iniziavano a bruciarmi terribilmente.
«Per me ce l’ha!» urlai, mentre una lacrima iniziava a scendermi piano sulla guancia «Se permetti, vorrei morire almeno con un po’ di dignità» gli feci sapere, mentre altre lacrime mi rigavano il viso. Non erano lacrime di tristezza, o di disperazione, o di paura. Erano lacrime di frustrazione, di rabbia, di amarezza.
«Allora smetti di piangere e chiudi gli occhi» mi intimò, serio, mentre il suo braccio indietreggiava ed io sollevavo ulteriormente l’ascia. Ci stavamo preparando a darci a vicenda il colpo di grazia. Io, però, non avevo più paura. Né del dolore che avrei provato, né della morte. Non ero sola nel dover affrontare il mio destino, avevo accanto il mio maestro ed il mio capitano, una delle persone più complicate ma anche più belle che avessi mai avuto la fortuna di incontrare.
Lo fissai un’ultima volta, cercando di imprimermi bene in mente il suo volto. Anche se non c’era bisogno che lo osservassi, un viso così non si dimenticava facilmente ed io non lo avrei dimenticato mai.
«Puoi perdonarmi?» gli domandai affranta.
Mi sorrise con dolcezza. Quella era la prima – e ultima, a questo punto – volta che lo vedevo sorridermi in quella maniera. Il suo sorriso sincero sarebbe stato il mio ultimo ricordo. Un ricordo stupendo da portare con me nella tomba.
«Non hai nulla di cui farti perdonare» affermò. Il suo sguardo limpido fu abbastanza per comunicarmi tutto quello che voleva che io sapessi. Gli occhi mi si riempirono di nuovo di lacrime. Questa volta, tuttavia, erano lacrime di gioia.
«Adesso, però, fai come ti ho detto e chiudi gli occhi. Non devi vedere questo scempio» ribadì, con una punta di apprensione ma anche di disgusto verso il nostro carnefice.
«Ma io...»
Alzò un sopracciglio, impedendomi di finire la frase e facendomi sbuffare.
«Traffy?» lo chiamai piano. Ormai eravamo ad appena un metro di distanza.
«Sì?» chiese. Potevo percepire dalla sua voce che si era quasi completamente arreso.
Sollevai un’ultima, decisiva volta le braccia, mentre le sue mani indietreggiavano e la sua spada si assestava in una posizione parallela al terreno. La fine era vicina. Dovevo dirglielo e lui doveva sentirlo almeno una volta.
«Voglio che tu sappia che...» cominciai, preparandomi al peggio e chiudendo finalmente gli occhi «ti voglio b...»
Un gemito di dolore mi fece morire le parole in gola. Trasalii. La sua nodachi mi aveva trapassato il fegato da parte a parte. Non faceva tanto male, non più di quanto mi avesse fatto male Doflamingo rompendomi di netto il polso. Ma di sicuro non era una sensazione piacevole. Iniziai a soffiare fuori l’aria dai miei polmoni ritmicamente, per sopportare meglio quell’agonia. Tenni gli occhi chiusi, come mi aveva detto di fare Law, mentre aspettavo il momento in cui la vita avrebbe abbandonato il mio corpo. La spada era fredda a contatto con la mia pelle. Un freddo che iniziava a diffondersi in tutto il mio corpo. Ad ogni respiro e ad ogni minimo movimento potevo sentire la tagliente lama della nodachi muoversi dentro di me e lacerarmi la carne e il mio organo interno un po’ di più.
«Il vostro dialogo stava iniziando a stancarmi» si giustificò il Joker, come se in qualche modo si potesse scusare quel suo perfido e insano gesto. Se solo fossi stata più forte, o più potente, gliel’avrei fatta pagare cara. Non poteva e non doveva passarla liscia. Lo ignorai e mi concentrai sul punto in cui provavo più dolore, anche se in realtà nemmeno io sapevo quale fosse.
Riaprii gli occhi ed osservai in basso. Sotto di me stava iniziando a formarsi una piccola pozza di sangue color rosso vivo. Già cominciavo a sentirmi indebolita e svuotata a causa dell’emorragia. Se avessi potuto muovermi a mio piacimento, avrei almeno tentato di fermarla. Le mie braccia erano immobili, protese in avanti e incastrate in quella posizione scomoda. Le mie mani stringevano la mia Mr. Smee, e per quanto provassi a staccare le dita, era tutto inutile. Sembravano incollate, cucite su quel pezzo di metallo, che ora non potevo fare a meno di odiare e di considerare stupido.

«Law!» urlai alzando lo sguardo, quasi come se mi fossi ricordata all'improvviso di lui e della sua presenza. La voce, tuttavia, mi uscì roca e sofferente.
Il vero dolore, il dolore peggiore di tutti, arrivò quando lo vidi. Conficcata tra la sua gola ed il suo torace, c’era la lama della mia ascia. Non mi ero mai sentita peggio in vita mia, e non era perché un corpo estraneo piuttosto appuntito mi stava trapassando il fegato. Sbattei le palpebre un paio di volte, nella speranza che avessi visto male. Ma invece avevo visto benissimo. Ed ecco che l’angoscia ed i sensi di colpa iniziavano a farsi strada in me come una mandria di bisonti impazzita. Proprio quando stavo per lasciarmi andare alla più profonda delle disperazioni, notai un dettaglio che nemmeno il fenicottero pareva aver notato. Il taglio che gli avevo fatto – o meglio, che ero stata costretta a fargli – era profondo, ma non abbastanza da poter recidere arterie o organi vitali. Aveva concentrato le ultime energie che gli restavano per poter usare l’Haki dell’Armatura per parare il mio attacco. Purtroppo non era stata abbastanza forte da poter contrastare il colpo, ma era stata potente quanto bastava per potersi salvare. Dovevamo solo scappare il più presto ed il più lontano possibile da lì. Rivolsi un’occhiata fugace al Joker, che sghignazzava soddisfatto e sembrava del tutto ignaro della strategia elaborata da Law per salvarsi la pelle. Di colpo, una piccola scintilla di speranza si riaccese in me, nell’esatto momento in cui Doflamingo ci liberò dal suo controllo.
Il capitano cadde a terra, mentre io non fui capace di mantenermi eretta e scivolai in ginocchio, accanto a lui. Eravamo entrambi esausti, incapaci di rialzarci ed ancora con le rispettive armi ben piantate nelle carni. Appoggiai la mano destra e terra e molto delicatamente e lentamente mi misi a sedere, appoggiandomi su un fianco. Dovevo estrarre la spada. Feci una smorfia di dolore nell’esatto momento in cui le mie dita sfiorarono la lama della Kikoku. Ogni minimo movimento, anche il più impercettibile, contribuiva a lacerarmi ancora di più le pareti del fegato. Trattenni il respiro e cominciai ad estrarla piano piano, cercando di essere il più precisa possibile. Nel momento in cui anche la punta della nodachi fu fuori, mi sembrò passata un’eternità. Mi ero concentrata solo ed esclusivamente su quello ed avevo perso la cognizione del tempo e di quello che era successo attorno a me. Un violento colpo di tosse, simile ad un conato di vomito, provocato dalla lacerazione del mio organo interno, fece scuotere tutto il mio corpo. Mi portai la mano, tremolante, a pulirmi la bocca. Mi guardai le dita. Non avevo sputato saliva. Avevo sputato sangue. Non era un buon segno. Non era affatto un buon segno. Guardai il chirurgo. Aveva ancora l’ascia conficcata tra la gola ed il torace. Del resto, non poteva muoversi. Dovevo assolutamente togliergliela e cercare di fermare il sanguinamento, ma sospettavo di non avere più forze.
Il Demone Celeste stava venendo verso di noi, a passo svelto e non contento. Storse la bocca ed arricciò il naso.
«Perché siete ancora vivi?» chiese infastidito, digrignando i denti, probabilmente più a se stesso che a noi. Alzò le spalle, tornando a ghignare.
Fu un attimo. Non me ne accorsi minimamente, ma in una frazione di secondo mi ritrovai sospesa a mezz’aria, con la mano dell’ex sovrano di Dressrosa che mi stringeva il collo. Tentai di dimenarmi da quella stretta scalciando con le gambe, ma ogni mio movimento peggiorava la situazione. Portai le mie mani sul suo braccio, teso verso di me, nel tentativo di liberarmi dalla sua presa. Ogni volta che stringevo le mie esili e deboli dita attorno al suo braccio, lui faceva lo stesso con il mio collo, quindi dopo qualche secondo smisi di divincolarmi. Lo fissai piena di odio. Che voleva ancora da me? Perché non mi lasciava in pace? Quanto ancora dovevamo soffrire io e il mio mentore prima che lui si ritenesse soddisfatto?
Mi osservò per qualche secondo, poi grugnì e mi ributtò a terra con brutalità. Mi lanciò come se fossi una buccia di banana e nell’atterrare battei il mio polso ferito, mentre il fegato si stava lacerando sempre di più ed il sangue usciva copioso dalla mia ferita. Gridai ancora per il dolore, strepitai e mi contorsi. La mano sinistra stava diventando blu. Non circolava abbastanza sangue, di questo passo l’avrei persa. Se fossi sopravvissuta sarei diventata come Capitan Uncino, probabilmente. Dentro di me sbuffai una risata. Un chirurgo senza una mano. Facevo prima a morire se non potevo essere quello che volevo essere.
«Ora sì, che ragioniamo» disse il fenicottero, fissando il quadretto che aveva davanti con la testa piegata di lato. Sospettavo che si riferisse al fatto che adesso io e Law eravamo a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altra. Lo potevo percepire. Il moro si era arreso da un pezzo, ormai. E dopo il colpo che gli avevo dato con l’ascia, era arrivato davvero al suo limite. Anche se io sospettavo che si fosse arreso già da tempo, da quando aveva scoperto che il suo arcinemico era riuscito ad evadere di prigione. Forse aveva rinunciato all’idea che il mondo potesse essere un posto giusto. Non potevo dargli torto, non proprio io che di ingiustizie ne avevo subite tante. Ma era proprio per questo che non potevo arrendermi. Non proprio ora. Girai debolmente la testa verso destra. La vista iniziava ad appannarsi a causa della perdita di sangue non indifferente, che mi debilitava di più ogni secondo che passava. Anche lui mi stava guardando, ma non riuscivo a capire a cosa stesse pensando. Era uno di quei suoi sguardi imperscrutabili.
«Io cercherò di trattenerlo il più possibile. Tu togliti quella maledetta cintura e scappa» mi disse, in un sussurro appena udibile. Era troppo affaticato persino per parlare. Aggrottai le sopracciglia. Ero consapevole di avere un aspetto abbastanza ridicolo.
«Non esiste. Non ti lascio qui da solo con lui. E poi, in queste condizioni non puoi più fare niente, ormai» dichiarai decisa, anche se in un momento del genere non sapevo quanto potessi effettivamente risultare decisa.
«Non te lo sto consigliando, te lo sto ordinando» sibilò a denti stretti, un po’ per l’irritazione di dover avere a che fare con una testa dura come me, un po’ perché probabilmente sentiva molto dolore.
«Non so se te ne sei accorto, ma non credo di riuscire ad andare molto lontano» ansimai, indicandogli con il dito quella che ormai era diventata una voragine sul mio addome.
«Che avete da confabulare, voi due piccioncini?» volle sapere il mostro, non lontano da noi, che però fu prontamente ignorato da entrambi.
«Cerca di non muoverti troppo e blocca l’emorragia con le mani» mi consigliò. Sapevo come dovevo fare, non c’era di certo bisogno che sprecasse energie preziose per dirmelo. Eravamo ambedue a corto di fiato. Con le ultime forze che mi rimanevano mi girai sul fianco destro e appoggiai la mia mano sul manico dell’ascia, che si alzava e si abbassava a ritmo irregolare ogni volta che Law tentava di respirare. Feci un ultimo, delicato sforzo per estrarla dalla sua pelle. Il capitano trattenne un lamento di dolore. Riuscivo a sentire il rumore che faceva la lama mentre veniva fuori dalla sua morbida carne. Era un suono simile al gocciolare di un rubinetto che non era stato chiuso correttamente. Di sicuro non mi sarei mai dimenticata di quel gorgoglio. Non volevo fargli male, ma quella era l’unica soluzione che avevo a disposizione. Il moro si voltò a guardarmi interrogativo.
«Tu sei messo peggio di me. È più urgente fermare la tua emorragia. Devo estrarre l’ascia» mormorai, precedendolo, per evitare che si sforzasse troppo. Versava in condizioni così gravi che il minimo movimento avrebbe potuto stroncarlo. Sotto di noi, riuscivo a sentire il terreno bagnarsi del sangue appiccicoso che colava dalle nostre ferite.
Una fitta lancinante al braccio destro mi costrinse ad interrompere quello che stavo facendo. Strillai ed imprecai poco elegantemente.
«Quando faccio una domanda, esigo che mi venga data una risposta» affermò il Joker, che si era premurato di lanciarmi uno dei suoi fili proiettile dritto nel bicipite. Si abbassò rapidamente e con un gesto secco estrasse l’ascia dal corpo del chirurgo, che gridò in preda alla sofferenza. Non mi sarei mai dimenticata il rumore che fece, né la quantità di sangue che si riversò fuori dal corpo del mio capitano.
«No!» esclamai, pentendomi subito dopo della mia azione, che mi aveva causato non poco dolore. Quel movimento, quello stupido ed avventato movimento, poteva averlo ucciso, maledizione!
Doflamingo rise e piegò la testa da un lato, deliziato dallo spettacolo che gli stavamo involontariamente offrendo.
«Non importa. Tanto presto sarete morti» constatò ghignando. Poi, tirò fuori la sua pistola dal fodero e la puntò verso la mia testa, proprio in mezzo agli occhi. Mi irrigidii.
«Ho promesso che saresti morta per prima. E io sono un uomo di parola» proclamò, facendo una smorfia appagata, a celebrare la sua stessa crudeltà «Ma non temere, dopo arriverà anche il suo turno» aggiunse, indicando l’uomo accanto a me con un lieve cenno del capo e sfoggiando un ghigno malefico sulla bocca.
Ritirai in dentro le labbra e chiusi gli occhi. Era arrivata la fatidica ora. Non volevo morire, ma a quanto pareva non avevo scelta. Inspirai profondamente, mentre il fegato iniziava a farmi sempre più male. Avevo ancora tante cose da fare. Troppe, per poterle lasciare incompiute. Dentro di me sentivo di non aver finito, di non aver dato tutto quello che potevo dare. Una sensazione beffarda ed orribile, quando sei in punto di morte. Forse anche peggio della morte stessa. Sapere che avrei potuto e avrei dovuto dare di più. Che avrei potuto fare meglio. Ma soprattutto, sapere che il mio stesso destino, dopo di me, sarebbe toccato anche ad una delle persone più preziose che io abbia mai avuto. E non potevo evitarlo, in alcun modo. Sarebbe stato questo il mio rimpianto più grande. Non ero riuscita a salvarlo. Riaprii gli occhi ed osservai il mio capitano. Volevo che i miei ultimi istanti fossero dedicati a lui.
«Una romantica conclusione, non vi pare?» ci domandò Doflamingo, con un disgustoso sogghigno. Del resto sapeva fare solo quello e massacrare qualsiasi essere vivente che non gli andasse a genio.
Sbuffai una risata. Romantica. Come se la morte fosse romantica. Un uomo astuto come lui avrebbe dovuto capire che avevo detto una bugia. Che io e Law non eravamo Romeo e Giulietta, sebbene ne stessimo per condividere lo stesso orribile fato. Il biondo alzò il cane, mise il dito sul grilletto e si preparò a sparare.
Un momento. Romeo e Giulietta. C’era una speranza. C’era un’ultima cosa che potevo fare per salvare il Chirurgo della Morte. Era un azzardo, ma dovevo tentare il tutto per tutto.
«Aspetta!» lo supplicai. Il biondo alzò un sopracciglio. Sembrava piuttosto contrariato.
«Cosa vuoi ancora, mocciosa?» mi domandò, mentre la vena sulla sua fronte cominciava a gonfiarsi pericolosamente.
Deglutii quella poca saliva che mi era rimasta.
«Un bacio» dissi con un filo di voce «concedimi un ultimo bacio con il mio amato» lo pregai umilmente, implorandolo anche con lo sguardo. Il moro era così malridotto che non sapevo più nemmeno se potesse sentirci.
Il fenicottero scoppiò a ridere fragorosamente. La leggerezza con cui si prendeva gioco di noi mi faceva infuriare fino a farmi bruciare le interiora.
«L’amore è per i deboli» sputò, sempre ridendo «e dimmi, perché dovrei farlo?» mi chiese poi, fissandomi intensamente da dietro le sue lenti rossastre. Lo fissai di rimando. I miei occhi erano vuoti e privi di ogni speranza o motivazione. Scossi fiaccamente la testa e tentai di fare un’alzata di spalle. Perché nessuno poteva venire ad aiutarci? Perché nessuno riusciva a sentire le nostre grida disperate? Perché doveva finire così? Aveva tolto di mezzo tutti gli abitanti del villaggio poco distante da noi, anche perché non voleva avere testimoni scomodi dei suoi misfatti e non voleva interferenze di alcun tipo. Ma non c’era davvero nessun altro che potesse aiutarci?
«E va bene. Dal momento che mi hai reso il gioco più divertente ti concedo il tuo ultimo stupido bacio. Ma fai in fretta, non ho tempo da perdere con voi mocciosetti impertinenti» dichiarò, abbassando momentaneamente la pistola. Tirai un sospiro di sollievo che mi costò la perdita di altro sangue e altro dolore. Mai in vita mia ero stata più sollevata di essere stata così vicina alla morte e di esservi scampata, solo perché dovevo fare un’ultima cosa.
«Ti piacciono i baci al sapore di sangue, eh?» mi domandò ironicamente continuando a sbellicarsi dalle risate, mentre tentavo di sollevare il busto. Lo guardai di sottecchi e lo fulminai con lo sguardo, ma decisi di ignorarlo. Mi ci vollero tutte le energie che mi erano rimaste e tutta la mia forza di volontà per tirarmi su. Avrei persino chiesto una mano al Demone Celeste, se non avessi avuto una dignità. Mi alzai per miracolo, come se avessi trovato la forza perché sapevo di dover compiere una missione finale. Mi sistemai a cavalcioni su Law, stando molto attenta a non fargli ulteriormente male, per quanto la situazione fosse già estremamente dolorosa per entrambi. Poi, mi chinai verso di lui con cautela.
«Non lo fare...» mi consigliò in un bisbiglio appena udibile. Aveva capito le mie intenzioni, come sempre, anche nelle disperate e gravi condizioni in cui versava.
«È tutto a posto, permettimi di tentare di salvarti, almeno questa volta» gli risposi in un mero sussurro. Riuscivo a percepire il nostro sangue che colava dalle nostre ferite e si mischiava, quasi come se stessimo diventando un unico essere.
Senza farmi vedere dal mostro a pochi metri da noi, tirai fuori dallo stivale la fiala di siero che avevo portato con me, per ogni evenienza. C’era la possibilità che il suo corpo, già tanto provato, non ne reggesse gli effetti. Ma arrivati a quel punto, tanto valeva tentare.
«Devi vivere, Law. Non puoi morire. Non qui. Non ora» gli mormorai all’orecchio, stremata. Ormai era precipitato in uno stato di semi-incoscienza che mi faceva pensare che non si stesse più rendendo conto di quello che stava accadendo attorno a lui. Dopodiché gli versai il contenuto della fiala in bocca. Mi piegai ulteriormente, fino a far sfiorare le mie labbra con le sue ed aspettai che il liquido violaceo sortisse il suo effetto. Era un azzardo, un totale salto nel vuoto. Così facendo avrei decretato la sua salvezza, oppure avrei emesso una sentenza di morte certa, portandogli via ogni capacità di difendersi ed esponendolo al crudele trattamento del Demone Celeste. Anche se ormai non poteva praticamente difendersi lo stesso. Lo avevo reso vulnerabile e senza difese, nella peggior maniera possibile. Potevo solo sperare che il biondo cadesse nel tranello e credesse alle mie parole.
Le nostre labbra erano a pochi millimetri di distanza, ormai eravamo in quella posizione da un paio di minuti. Potevo sentire il suo respiro mescolarsi al mio e svanire lentamente. Mi stupì che Doflamingo ci lasciasse fare come se nulla fosse.
«Ok...ok» sussurrai sorridendo e annuendo, quando sentii che il suo respiro era diventato impercettibile. La mia sarebbe stata senza dubbio una morte memorabile. Avevo quasi baciato Trafalgar D. Water Law. Nessuno – o quasi – poteva dirlo.
Spostai la mia mano sul suo collo e posai le dita appena sotto la sua mandibola. Bene. Non c’era battito.
Iniziai a ridere sommessamente e ad ansimare, appoggiandomi con tutto il peso sul suo corpo e facendo toccare la mia fronte con la sua. Ero arrivata al limite anche io.
«Ti prego, sopravvivi» gli raccomandai in un mormorio appena udibile, mentre due lacrime iniziavano a scendermi dalle guance e a bagnare anche la sua pelle. Eravamo davvero diventati un tutt’uno in quel momento. Forse era questo quello che riusciva a fare la disperazione. Riusciva ad unire anche gli animi più diversi.
Mi lasciai scappare un’esclamazione di dolore.
«Ora basta.» disse il Joker, che mi aveva presa per i capelli e tirato via da sopra il mio capitano con poca grazia. Ansai, mentre lo osservavo puntare di nuovo la sua pistola contro di me.
«Prima di morire, lascia che ti dica un’ultima cosa» feci, con affanno «non sprecare i tuoi preziosi proiettili con lui» guardai verso il mio capitano, mentre sentivo la bocca riempirsi di un sapore amaro «è morto» dichiarai, lasciando che altre lacrime silenziose bagnassero le mie gelide guance.
Doflamingo fece quella che mi parve un’espressione sorpresa. Per la terza volta, quel giorno, abbassò la sua pistola. Mi stesi in terra, stanca e distrutta. Vidi il biondo chinarsi verso il mio capitano ed avvicinarsi abbastanza affinché potesse udire se in Law vi fosse rimasta anche la più piccola scintilla di vita e verificare che stessi dicendo il vero. Digrignò i denti. Era fatta. Mi lasciai andare ad un impercettibile ma lieta risata. Ero riuscita a salvarlo.
«Ah, Law. Come al solito mi rovini i piani» lo rimproverò. Sembrava molto deluso del fatto che il suo giochetto fosse terminato troppo presto «Ma tu sai che così non posso perdonarti» gli disse, iniziando a ghignare. Spalancai gli occhi. No. No. No. Non poteva essere. Non poteva farlo.
Gli puntò contro la pistola ed alzò per l’ennesima volta il cane. Mirava alla testa. Tentai di trascinarmi con i gomiti verso di loro, ma ogni volta che mi muovevo il fegato, il polso ed il braccio iniziavano a pulsare e a fare male, lasciandomi completamente senza forze. Poi, però, sembrò ripensarci. Lo vidi spostare il braccio e puntare al suo petto.
«Se avessi messo da parte i tuoi stupidi risentimenti avrei potuto renderti un grande uomo» affermò «La tua debolezza è stata proprio quella di ragionare con il cuore e non con la testa. E adesso finirà come tutto è cominciato. Con un cuore infranto» annunciò compiaciuto.
«No! No! Ti prego!» gridai, supplicandolo. Stavo mandando a puttane tutto il mio piano, gli stavo praticamente suggerendo di farlo, ma non potevo trattenermi. Doflamingo rise. Fu una risata breve ma penetrante ed estremamente insana, che non mi sarei dimenticata neanche se qualcuno mi avesse lobotomizzato.
Fu un rumore sordo. Un colpo partì dalla canna della pistola. Uno. Due. Tre. Tre rapidissimi colpi di pistola. Gli aveva sparato tre volte, con mano ferma e precisa e senza alcuna esitazione. Vidi il corpo di Law piegarsi ed incurvarsi all’impatto con i proiettili di piombo, mentre una pozza rosso scuro cominciava a dilagarsi sotto di lui.
Il mio cuore si fermò per un attimo che mi sembrò un’eternità, per poi ripartire al doppio della velocità. Boccheggiai, impietrita. Fissavo quella terrificante scena ad occhi strabuzzati. Non potevo muovermi. Avevo paura che se anche solo avessi tentato di compiere il più piccolo gesto, il mio corpo sarebbe andato in mille pezzi. Nelle mie orecchie ronzava un solo, unico suono. Quello dei colpi che partivano dalla pistola del biondo. Era come il rumore pressante di un elettrocardiogramma completamente piatto, eccetto che quel frastuono continuo nella mia testa era dato dal boato causato dai proiettili partiti dalla canna della rivoltella, che avevano attraversato il corpo di Law come se avessero trapassato un foglio di carta.
Ero distrutta. Era stato tutto cancellato, demolito in pochi secondi. Non c’era rimasto più niente. Aria. Avevo bisogno di aria. Di colpo non riuscivo a respirare. Gli aveva sparato. Era finita, era morto. Non ero riuscita nel mio intento. Era...morto. Lo aveva ucciso. Davanti a me. Senza che io potessi fare niente. L’aveva ammazzato senza alcuna esitazione. L’aveva ripetutamente colpito al petto con dei fottutissimi proiettili di piombo, e non c’era alcuna possibilità che fosse sopravvissuto, non in quelle condizioni.
Spostai lo sguardo su Doflamingo. Mentre lo osservavo riporre la pistola, ancora fumante, nel fodero, un intenso dolore, misto a rabbia, cominciò a dilagare nel mio petto per poi espandersi in tutto il corpo.
Mi portai una mano, tremolante, alla bocca, con un’espressione angosciata. Poi strillai, in preda alla sofferenza più lacerante. Iniziai a tremare violentemente e ad ansimare pesantemente, profondamente segnata da quanto avevo appena visto. Incontrollabili e potenti conati di vomito fecero vibrare il mio corpo. Era tutto perduto.
«No! Nooooo!» mi sgolai, con gli occhi che mi bruciavano. Dentro di me tutto fiammeggiava e si contorceva, provocandomi fitte e spasmi. Ero sicura che il petto mi sarebbe esploso, tanto era forte il male indescrivibile che sentivo.
La macchia rossa si stava allargando. Adesso era ad appena qualche centimetro da me. Allungai la mano come per toccare quel viscoso liquido organico. Forse non era reale. Forse era tutta un’allucinazione e Law non era morto davvero. Era solo la mia mente che mi stava giocando un brutto scherzo.
No. Quella desolazione e quell’infinita tristezza erano troppo vere per poter essere un miraggio. Calde lacrime rigarono le mie guance mentre fissavo il mio capitano. Aveva gli occhi chiusi e sembrava essere in pace. Mi passai la mano destra su tutta la faccia e poi anche tra i capelli, dove la trattenni per qualche secondo. Non era più vivo. Abbassai la testa e mi sfiorai il petto con le dita, per sentire se il mio cuore battesse ancora o se invece fosse andato in mille pezzi. Sapevo che, se anche fossi riuscita a sopravvivere a quell’inferno, con la morte del mio mentore era morta anche una parte di me ed io non mi sarei mai più ripresa da quel meschino colpo, che faceva più male di qualsiasi tortura alla quale avessi mai potuto immaginare di essere sottoposta. Mi distesi al suolo, distrutta ed estenuata. Nella mia testa c’era il vuoto più totale. Non riuscivo a pensare a niente. Eccetto che ad un unico, martellante e tormentante pensiero. Trafalgar Law era morto. Davanti ai miei occhi. Avevo assistito impotente alla morte della persona a cui tenevo di più. E questo bastava per gettarmi nello sconforto più totale. Disperazione. La parola che stavo cercando era disperazione. Una profonda, torturante ed infinita disperazione. Non avevo nient’altro che questo. Non c’era rimasto più nulla.
«Oddio...l’ha ucciso...» mugolai, strizzando le palpebre nella speranza che le lacrime smettessero di uscire dai miei occhi.
«L’ha ucciso! L’hai ucciso, brutto bastardo!» urlai a squarciagola, fissando con ostilità il carnefice di quell’agghiacciante omicidio. Il cuore mi martellava nel petto, tanto che credevo sarebbe uscito fuori, rompendomi le ossa e strappandomi la carne. Non c’era rimasto più niente, tranne la rabbia, la disperazione ed il profondo disprezzo che nutrivo verso il Demone Celeste, e in parte anche verso me stessa.
«Oh no, avrei voluto. Ma purtroppo era già spirato. Io l’ho solo perdonato» lo sentii rispondere. Stava ridendo e non mi aveva degnata di uno sguardo. Era totalmente assente, era troppo impegnato a godersi la scena della morte del nemico che in quegli anni più gli aveva dato filo da torcere.
«Ti odio. Ti odio, stronzo maledetto!» sbraitai, senza più sapere se mi stessi riferendo a Doflamingo o a me stessa. Perché in fondo, ero colpevole quanto lui. Ero stata io ad averlo ammazzato.
Fu solo quando lo realizzai pienamente, che cominciai a singhiozzare disperatamente, urlando e strepitando, mentre con le unghie grattavo sul terreno, preda di una sofferenza inimmaginabile ed immensa. Sentivo il terriccio conficcarsi sotto le dita, fin dentro la pelle. Non avrei dovuto muovere il polso, mi faceva così male che neanche me ne rendevo più conto. Ormai non mi importava più niente. Mi rannicchiai in posizione fetale, tenendomi il polso ferito, mentre mi dondolavo avanti ed indietro con il busto, invocando l’aiuto di qualcuno che non sarebbe mai arrivato in nostro soccorso.
Chiusi la mano destra a pugno e cominciai a sbatterla ripetutamente per terra, con forza.
«Rufy...aiutaci. Vieni a salvarci, per favore» piagnucolai, quasi soffocando dai miei stessi singulti. La sofferenza che provavo aumentava sempre di più. Era ovunque, affliggeva ogni singolo millimetro del mio corpo.
Tutto inutile. Era stato tutto inutile. Respiravo affannosamente e tremavo, mentre aspettavo che arrivasse anche la mia, di fine. Non volevo altro. Desideravo solo che quell’insopportabile dolore si fermasse. Che quella follia senza senso si fermasse. Se non potevo avere accanto la persona a cui tenevo di più, che era stata al mio fianco per tutto quel tempo e mi aveva insegnato l’arte della medicina, contribuendo a farmi diventare la persona che ero diventata e che volevo essere, allora non avevo più ragione di vivere. Non potevo farcela senza di lui.
«Basta...» pregai tra i singhiozzi, mentre il terrore si faceva largo tra le mie viscere. Non ne potevo più. Mi ero arresa, finalmente. Alla fine avevo ceduto anche io. Chiusi gli occhi e mi lasciai andare ad un pianto disperato. Urla di dolore mi morivano in gola e si tramutavano in meri lamenti. Non ero stata abbastanza forte. Non ce l’avevo fatta. Era stata tutta colpa mia. Non ero stata in grado di proteggerlo e scegliendo di fare quella mossa azzardata lo avevo privato di ogni cosa. Era deceduto a causa mia, dannazione!
«Fufufufu! Era ora! Non aspettavo altro da due anni!» esclamò felice il Demone Celeste «ora sei stato perdonato, Law, proprio come ho perdonato mio padre e mio fratello» affermò, facendomi inorridire ancora di più. Non era giusto. Non era affatto giusto, maledizione. Non era così che doveva finire.
Sentii i suoi passi sul terriccio, stava venendo verso di me. Un brivido mi corse lungo la schiena e mi fece gelare quel poco sangue che mi era rimasto nelle vene. Quando mi raggiunse, mi prese poco delicatamente per i lembi della divisa, quella stessa divisa che avevo odiato e che adesso non avrebbe significato più nulla, e mi tirò su.
«Che potrei farmene di te?» mi chiese divertito, fissandomi negli occhi. La sola vista della sua enorme faccia da cazzo bastava per farmi venire la nausea. Cercai di distogliere lo sguardo, ma lui staccò una mano dal mio indumento e, stringendomi il mento tra le dita, mi costrinse a girarmi e a guardarlo.
«Ora che il tuo amato è morto, sarebbe un peccato se io ti uccidessi. Potrei lasciarti andare, ma abbiamo stipulato un accordo. E dal momento che sei legata all’uomo che odio, o meglio, odiavo di più su questa Terra, farei un torto a me stesso se ti lasciassi vivere, per quanto l’idea che tu possa passare il resto dei tuoi giorni senza la tua dolce metà mi intrighi. Quindi, che fare?» fece, mentre io gli comunicavo tutto il disgusto che provavo per lui con la mia espressione schifata. Mi trattava come se fossi un mero giocattolo. Rabbrividii e mi irrigidii mentre sentii le sue dita allungarsi sulla mia guancia ed asciugarmi una lacrima. Sembravano ferri roventi a contatto con la mia pelle. Mi bruciavano, o forse ero io che stavo andando a fuoco e non me ne rendevo conto.
«Via, non piangere. Non ti meritava. Non si meritava niente. Era solo un patetico buono a nulla» ribadì, quasi sfottendomi.
Tremavo così tanto di rabbia, che anche il suo braccio, che mi teneva sospesa per aria, oscillava. Lo odiavo, lo detestavo con tutto il mio cuore. Mi aveva fatto la peggior violenza che si potesse mai commettere. Mi aveva portato via davanti agli occhi una persona a cui volevo molto bene. Un mostro. Era un misero e meschino mostro.
«Potrei venderti come schiava» rifletté, mentre mi girava la faccia a suo piacimento e mi osservava attentamente da capo a piedi «mi frutteresti parecchi soldi» constatò sogghignando.
«Oppure potrei tenerti per me e farti essere la mia schiava personale» si eccitò per quell’idea stomachevole, mentre il ribrezzo si impossessava di tutto il mio corpo. Disprezzavo Doflamingo e disprezzavo anche me stessa per aver permesso che accadesse tutto ciò. Erano emozioni troppo forti da sopportare. Non volevo più provare niente. Desideravo che quell'ira, quella tristezza e quel senso di vuoto, si annichilissero e si annullassero completamente. Non potevo più sopportarlo.
Deglutii. Ero sfinita, ma quel mostro non doveva vedermi vacillare. Lo guardai negli occhi, incastonando il mio sguardo stanco e nauseato al suo, che invece era alquanto divertito. Sebbene avesse le lenti rosse a coprirgli le iridi, potevo vedere benissimo l’occhiata penetrante che mi aveva lanciato.
«Tu mi disgusti.» sputai con disprezzo. Il biondo si lasciò andare ad una fragorosa risata.
«Law potrà anche essere morto, ma il suo ricordo continuerà a vivere nelle persone che lo amano, cosa che non accadrà con te, perché ti odiano tutti. Nessuno ti vuole bene. E non è un’ingiustizia, è solo colpa tua. Sei tu l’unico patetico qui. Sei uno schifoso e spietato mostro» gli dissi, rimanendo calma e composta. Sentii la mascella scricchiolare sotto la sua presa, che di colpo si era fatta più serrata.
«Ci sarà qualcuno che porterà avanti la volontà del mio capitano, vedrai. Lui non morirà mai. E questa sarà la tua rovina, Doflamingo. Le persone come te verranno spazzate via ed il mondo verrà finalmente liberato da questo flagello» sputai con rancore, per poi continuare, incurante dell’espressione seria che aveva assunto «mai sottovalutare la Volontà della D.»
Alle mie parole, la vena sulla sua fronte si ingrossò. Ora sì che lo avevo fatto infuriare. Sorrisi beffarda. Non temevo la mia sorte, qualunque essa fosse.
«E l’amore non è per i deboli. L’amore ti dà forza e ti infonde coraggio. Non ti lascia mai solo. Ti aiuta a non perdere mai la speranza e a non lasciarti sopraffare dalle emozioni negative, che sono quelle che corrodono l’animo. L’amore ti salva. Ma tu questo non lo potrai mai sapere» fu l’ultima cosa che gli dissi, riservandogli uno sguardo pietoso e caritatevole.
Digrignò impercettibilmente i denti ma non replicò. Aprì entrambe le mani e mi lasciò cadere. Atterrai in piedi, ma la stanchezza e le innumerevoli ferite mi fecero stramazzare al suolo, proprio con la faccia ad un passo dai suoi piedi. Trattenni a fatica dei gemiti di dolore. Ero sicura che mi avrebbe dato un calcio sul viso. Invece non lo fece. Con molta calma, si spostò di appena un paio di passi di lato rispetto a me. Purtroppo, però, questa volta non potei trattenermi dall’urlare a squarciagola quando sentii la punta della sua scarpa affondare nel mio fegato, già messo malissimo. Spalancai gli occhi, talmente tanto che temevo mi sarebbero uscite i bulbi oculari dalle orbite, e chiusi la mano destra a pugno, contorcendomi e piagnucolando. Per almeno cinque secondi ero rimasta senza vista. Mi sentivo come se mi avesse squartato il ventre, e praticamente lo aveva fatto. Mi mancava il respiro. Mi rannicchiai tenendomi la pancia con una mano, poi tossii e sputai una quantità non indifferente di sangue. Mi stavo dissanguando e lo stavo facendo al doppio della velocità dopo quel potente colpo. Temevo a guardare in basso, avevo paura che il fegato ed il resto delle mie viscere fossero usciti fuori dal mio corpo. Mi spintonò fiaccamente la spalla con il piede e mi costrinse a girarmi a pancia in su. Ero completamente inerme. Mi superò e poggiò la suola della sua scarpa sopra il mio polso sinistro, facendomi sussultare. Gridai, nel momento in cui iniziò a schiacciarlo e calpestarlo come se fosse un mozzicone di sigaretta. Sentivo l’osso, già dissestato, scricchiolare e spezzarsi ancora di più. Continuai a strillare e strepitare in preda a fitte lancinanti. Quanto ancora avrei dovuto soffrire prima che finalmente mi desse il colpo di grazia? Non era già abbastanza così? Era proprio vero, non c’era limite al suo sadismo.
«Smettila di urlare come un’oca giuliva. Mi hai stancato.» tuonò.
Fu un attimo. Non lo vidi nemmeno arrivare. Ma lo sentii chiaramente. Aveva lanciato uno dei suoi fili proiettile proprio sopra il mio sterno, nel punto in cui le clavicole erano più vicine tra loro. Non potevo più urlare. Mi aveva chiuso la bocca per sempre. Un sommesso colpo di tosse partì dal mio petto e fece schizzare altro sangue dalla mia bocca. Adesso era davvero la fine. Senza perdere altro tempo posizionò il suo piede sulla mia trachea e spinse con tutta la forza che aveva. Smisi di respirare e cominciai a soffocare in silenzio.
«L’amore non salva nessuno.» dichiarò «Di certo non è bastato a salvare nessuno di voi due» sghignazzò e lo sentii premere ancora di più il piede sulla mia gola «È il potere quello che conta davvero a questo mondo. Ricordatelo in questi tuoi ultimi, insulsi istanti di vita» sibilò. Seguì una diabolica risata che mi penetrò fin dentro le ossa. Non importava più. A breve avrei smesso di soffrire. E lo avrei fatto con la consapevolezza che sebbene avesse vinto quella battaglia, quel giorno, contro di noi, aveva perso la guerra con la vita. Perché un’esistenza senza amore, di qualsiasi tipo esso fosse, non valeva la pena di essere vissuta.
Con le ultimissime energie che mi rimanevano diedi un’occhiata finale al corpo esanime di Law, immerso in una pozza di sangue, mentre un’ultima lacrima solitaria mi rigava la guancia ed andava a mescolarsi con il terriccio sotto di me. Era morto senza che io gli potessi dire quello che volevo davvero dirgli. Non gli avevo fatto sapere che gli volevo bene e non lo avevo ringraziato per tutto quello che aveva fatto per me. La mia vita si sarebbe conclusa con questo enorme rimorso.
“Scusa...scusami, Law” mi immaginai di dirgli nella mia testa. Forse, in Paradiso o ovunque si finisse una volta deceduti, ci saremmo rivisti e allora gliel’avrei finalmente detto. Gli avrei detto tutto. Questa era la mia unica, magra consolazione.
Il mio ultimo pensiero andò alla mia famiglia e agli amici che avevo in quello che ormai non avrei più potuto chiamare il mio mondo. Non li avrei mai più rivisti, ma ero sollevata del fatto che non potessero vedermi in quel momento. Chissà, forse un giorno ci saremmo ritrovati tutti ed insieme saremmo stati felici, come non lo eravamo stati prima che fossi trasportata in questo universo. Me ne andavo con la consapevolezza che la Stella, per quanto il suo fosse stato un azzardo, aveva fatto la scelta giusta. E chissà che finalmente non mi sarei ritrovata nel luogo in cui avevo sempre voluto andare, fin da quando avevo sei anni. Nel luogo più pacifico, bello e paradisiaco che ci fosse. L’Isolachenoncè. A quel pensiero, un sorriso impercettibile si fece strada sulle mie labbra.
Sussultai ed ebbi uno di quelli che erano i miei ultimi spasmi, accompagnato da un colpo di tosse che mi fece sobbalzare il petto e inarcare la testa all’indietro. Un rivolo di sangue mi scivolò giù dalla bocca, mentre il mio palato e la mia lingua venivano invasi da un sapore metallico, e lentamente tutto cominciò a farsi scuro, nero come la pece. Non potevo più respirare. Il mio battito rallentò. Avevo tanto sonno e sentivo freddo. Volevo solo che tutto smettesse, volevo riposarmi, solo per cinque minuti. Avevo tante cose da fare ancora, ma nello stato in cui ero sentivo di non avere più motivi per rimanere aggrappata con le unghie e con i denti alla vita. Era finita.
Chiusi gli occhi, questa volta per sempre.
 
Non fu dolce come me l’ero immaginata o come avevo sperato. Non c’era pace, o consolazione, o luce. Non c’era nulla. Eppure avevo finalmente smesso di provare dolore. La mia anima era tranquilla, rassegnata al suo destino. Smisi di soffrire e poi non sentii più niente. Non riuscivo a percepire nemmeno il mio peso corporeo. Tutto si era annullato nell’infinità di quell’immenso mistero che era l’eterno sonno. C’era solo il buio, il freddo ed il vuoto. E la solitudine, una pesante e schiacciante solitudine. E il silenzio. Un silenzio assordante.
Allora era così che era la morte. Vuota e silenziosa. Era un solitario e quieto niente. Il nulla più totale.
 
Però, immersa in quel buio freddo, deserto e calmo, mi parve di udire una rassicurante voce che mi diceva che sarebbe andato tutto bene. Ascoltai la voce e mi tranquillizzai, lasciandomi cullare dalle dolci onde di quello che era appena diventato il mio fato.
 
 
 
You taught me the courage of stars, before you left.
How light carries on endlessly, even after death.
With shortness of breath, you explained the infinite.
How rare and beautiful it is to even exist.
 
I couldn’t help but ask for you to say it all again.
I tried to write it down, but I could never find a pen.
I’d give everything to hear you say it one more time,
That the universe was made just to be seen by my eyes.
 
I couldn’t help but ask for you to say it all again.
I tried to write it down but I could never find a pen.
I’d give anything to hear you say it one more time,
That the universe was made just to be seen by my eyes.
 
With shortness of breath, I’ll explain the infinite.
How rare and beautiful it truly is, that we exist.

 






Angolo autrice
Vorrei dire qualcosa di sensato per giustificare questo mattone sullo stomaco, tuttavia temo che qualsiasi cosa dirò, non solo verrà usata contro di me in tribunale, ma sarà anche inutile, visto che verrò comunque lapidata.
Se vi può consolare, però, questi due ultimi capitoli sono stati molto pesanti da scrivere anche per me. Quest'ultimo in particolare è stato un parto lungo, doloroso e difficile. Credo che non ci sia bisogno di spiegare perché sia stato necessario alzare il rating.
Vi prometto che mi farò perdonare, nella speranza che nel frattempo non verrò catturata, torturata ed uccisa senza pietà come il povero Law e la piccola Cami. Mi farò perdonare, lo prometto!!!
Spero, nonostante tutto, che il capitolo vi sia piaciuto e soprattutto che vi abbia trasmesso qualcosa. Mi auguro davvero di essere riuscita a catturare le emozioni di Camilla e Law e di essere stata capace di descriverle in modo chiaro e coerente. Mi auguro anche di non aver esagerato con l'OOC!
Ringrazio in anticipo chiunque abbia voglia di farmi sapere la propria opinione. :) Ci terrei molto ad avere un vostro parere!
Alla prossima (non odiatemi <3)!

P.s. Per chi se lo stesse chiedendo, i versi alla fine del capitolo appartengono al testo di "Saturn" degli "Sleeping at Last". Vi consiglio di ascoltarla, è una canzone stupenda!

 
 
 

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Capitolo 45
*** Miracoli ***


Aprì gli occhi, finalmente. La frustrazione per non potergli parlare era tanta, ma se non altro aveva sollevato le palpebre e sembrava essere sveglio. Osservò l’ambiente in cui si trovava e poi girò lentamente la testa verso di me. Gli sorrisi dolcemente e con gli occhi lucidi, sinceramente contenta che si fosse ripreso. Poi alzai la mano destra per fargli un saluto. Mi morsi un labbro per cercare di controllare la mia immensa contentezza, ma non potevo proprio evitare di essere felice. Per nove lunghissimi giorni avevo aspettato con ansia il momento del suo risveglio ed ora che finalmente aveva aperto gli occhi, il mio cuore scoppiava di gioia. Vederlo sveglio, nel letto accanto al mio, ad appena tre metri di distanza da me, bastava per rasserenarmi.
«Dove ci troviamo?» chiese, facendo una smorfia sofferente subito dopo. Aveva riportato ingenti danni e le sue ferite sarebbero guarite solo dopo molto tempo e con tanta pazienza. Avrei voluto aiutarlo in qualche modo, ma avevo fatto già troppo ed avevo finito con il fargli del male involontariamente. Oltretutto, non ero nelle condizioni fisiche e mentali per poter aiutare qualcuno.
Presi la lavagnetta che era situata accanto al letto ed iniziai a scrivere con il pennarello. Trattenni il fiato nel momento in cui sentii i punti tirare ed il braccio estremamente pesante.
In Paradiso”.
Lo vidi alzare un sopracciglio, estremamente perplesso ed infastidito che lo stessi prendendo in giro così. In realtà cercavo solo di sdrammatizzare. Cancellai e scrissi di nuovo.
“Nell’ospedale della base dei Rivoluzionari”.
Sembrò quasi sorpreso dalla mia risposta. Si guardò attorno, per quanto il dolore gli concedesse di muoversi, squadrando ogni centimetro di quella stanza. Era una stanza piuttosto triste. I muri erano bianchi e grigi, esattamente come il pavimento – in cotto – e del tutto spogli. Alla nostra destra c’era la porta d’ingresso della camera, in legno, mentre sulla parete opposta alla nostra, proprio in mezzo ai nostri due letti, c’era la porta che conduceva al piccolo bagno. Sospettavo che non avremmo mai avuto l’occasione di usarlo ed i cateteri che ci attraversavano i corpi ne erano la conferma. Era già un miracolo che non fossimo diventati due groviere umane, in tutti i sensi. La camera non aveva finestre, eccetto per una minuscola apertura che si trovava in alto a destra sulla parete alla mia sinistra, che però si apriva solo parzialmente. Sembrava tutto così asettico ed impersonale. Del resto, era pur sempre una stanza d’ospedale. Sì, era decisamente un posto triste. Eppure non potevo essere più contenta di esserci finita.
Quando ebbe finito di scrutare ogni anfratto di quel luogo cinereo, riportò lo sguardo su di me, in attesa di risposte. Avrei dovuto spiegargli tutto e bene. Meritava di sapere quello che ci era successo dopo che avevamo incontrato quel mostro.
Per quanto sembrasse assurdo, non eravamo morti. Erano passati tredici giorni da quel fatidico e quasi fatale incontro. Quello che era successo dopo era al limite del razionale. Ma eravamo vivi. Malridotti, ma vivi. Ed era questo quello che contava. Quel giorno ero pronta ad affrontare il mio destino ed andarmene, ma la verità era che avevo troppo da perdere. Non sapevo chi avesse deciso che dovevo essere salvata, ma ero così sollevata di essere ancora in vita che se avessi potuto mi sarei alzata dal letto e sarei andata a baciare uno per uno tutti i Rivoluzionari. Ed ero ancora più sollevata che lo fosse Law. Non potevo perderlo. Avevo fatto una promessa. Sarei diventata un grande medico e avrei visto Rufy coronare il suo sogno. Fino a quel momento, niente e nessuno mi avrebbe portata via da questo mondo. E avrei fatto tutto questo con accanto il mio capitano, che avesse voluto – o che gli fosse piaciuto – o meno.
 
«Quindi l’Armata Rivoluzionaria cercava te?» chiese il chirurgo – anche se la pose quasi come un’affermazione – dopo che gli ebbi comunicato tutto quello che era successo in quelle due settimane. Mi ci volle circa mezz’ora, non era facile scrivere con una mano sola, soprattutto se in quella mano vi era conficcato un ago – che tanto odiavo e tanto mi faceva ribrezzo – che si muoveva sotto la pelle ogni volta che spostavo il braccio, già dolorante di per sé. Mentre scrivevo, come sottofondo c’era soltanto il rumore dei macchinari che suonavano ogni volta che i nostri cuori battevano e che indicavano anche gli altri parametri vitali. Accanto ai nostri letti, invece, c’erano i nostri vestiti e le nostre armi, che se possibile erano ancora più malridotti di noi.
A quanto pare” scrissi sulla lavagnetta, poi aggiunsi “Se non è fortuna questa”.
Se non fossi stata in uno stato pietoso come lo ero in quel momento, probabilmente mi sarebbe venuto da ridere del fatto che avevo invocato l’aiuto di Rufy ed era venuto a salvarci suo padre. È una cosa buffa, il destino. Spesso e volentieri accoglie le nostre richieste e le soddisfa nel modo più insolito. Non mi sarei stupita se avessi scoperto che dietro a tutta quella faccenda ci fosse lo zampino della Stella.
«Ti fa male la gola?» mi domandò, con quella che mi parve una punta di apprensione nella voce. Aveva notato la garza verticale che copriva i punti, che mi attraversava la gola ed arrivava fino ad un paio di centimetri sotto le clavicole. Era quasi comico che lui chiedesse a me se mi facesse male qualcosa, dato che era in una situazione ben peggiore della mia.
Annuii. I medici di quell’ospedale mi avevano consigliato di far riposare la voce per un po’, per evitare ulteriori complicazioni, ma la verità era che per quanto ci provassi, non riuscivo comunque a parlare. Tra il filo proiettile che mi aveva lanciato Doflamingo proprio sopra lo sterno e lo schiacciamento della mia povera trachea ad opera del suo piede, la mia gola se l'era vista molto brutta.
«Aggiornami sulle condizioni di entrambi» mi esortò, serio. Aveva la pelle traslucida tipica di chi è malato, o comunque sta soffrendo. Ero sicura di avercela anche io, ma su di lui, quel filo di sudore che gli imperlava la fronte e gli contornava il viso, era pura arte. Non che ne fossi sorpresa, Law era sempre bello. Sarebbe stato bello anche se si fosse rotolato nudo nello sterco dei maiali. Era una meraviglia per gli occhi, e per me, in quel momento, lo era ancora di più. Non pensavo che lo avrei mai rivisto.
Gli dedicai uno sguardo perplesso, che comunicava implicitamente che sarebbe stato meglio se non lo avesse saputo, ma lui mi rivolse un’occhiata inflessibile e così fui costretta ad informarlo.
Io: polso sinistro spezzato in tre punti (frattura complessa irregolare), muscolo bicipite del braccio destro lesionato. Nulla di grave, considerato che riesco ancora a muovere bene il braccio e non mi causa tanto dolore. È più il dolore che mi causano il fegato e la trachea, entrambi perforati. Ho delle lesioni anche alla laringe e all’esofago. I medici mi hanno consigliato di non sforzare la voce, per aiutare e velocizzare la guarigione. Sono stata priva di conoscenza per quattro giorni. Ho subito due interventi.” scrissi sulla lavagnetta. Omisi varie altre ferite che avevo sparse per il corpo, del resto erano lesioni minori.
Data la portata delle informazioni, avevo dovuto scrivere molto piccolo. Lui assottigliò gli occhi per leggere meglio ed io – sperando che non lo notasse – non potei fare a meno di sorridere. Quando lo faceva, la sua espressione diventava tenera. In quel momento sembrava così indifeso, sembrava essere tornato un bambino. E la cosa che più mi compiaceva era che pareva non curarsene minimamente. Lo ringraziai mentalmente per questo, perché aveva capito che con me le sue difese potevano cadere, che non gli avrei mai fatto del male – non volontariamente, almeno – e che non lo avrei giudicato. Sarei sempre rimasta al suo fianco e lo avrei sempre supportato, quali che fossero le sue decisioni.
Lo vidi annuire impercettibilmente mentre leggeva. Sospettavo che fosse perché si era accorto del mio “piccolo” problema al fegato. Non mi ero potuta vedere in quei giorni, ma ero sicura di avere le sclere gialle come quelle di un gatto. Il mio organo interno era ridotto piuttosto male. Insieme al polso e alla trachea, mi aveva causato non pochi fastidi e complicazioni.
Cancellai e titubai nello scrivere quello che stavo per scrivere.
Tu: da dove comincio? Hai delle gravi lesioni ai nervi principali di tutti e quattro gli arti, che difficilmente guariranno. Lo sterno ti è letteralmente andato in mille pezzi a causa dei proiettili di piombo di Doflamingo, e alcuni residui ossei ti hanno perforato un polmone. Hai qualche costola incrinata e una frattura complessa irregolare alla clavicola, per cui cerca di muoverti il meno possibile. Ti hanno tenuto in coma farmacologico per tredici giorni, hai subito quattro operazioni chirurgiche e fino ad un paio di giorni fa sei rimasto intubato perché non riuscivi a respirare da solo” girai la lavagnetta per fargli leggere. Annuì pensieroso. Potevo capirlo. Non era messo affatto bene. E non volevo rincarare la dose comunicandogli quali fossero stati gli interventi chirurgici a cui era andato incontro. Anche perché avevo motivo di credere che lo sapesse benissimo.
Cancellai e scrissi di nuovo.
Guariremo, vedrai.” cercai di rassicurarlo, anche se le mie parole non sembrarono tranquillizzarlo molto. Non aveva tutti i torti, nemmeno io avevo piena fiducia in quello che avevo scritto. Tra tutte le bende e le fasciature che avevamo, sembravamo due mummie risorte. Per non parlare di aghi, cateteri e tubi vari. In più, il gesso che avevo attorno all’avambraccio sinistro non smetteva di darmi prurito. E non c’era atrocità peggiore di sentire un pizzicore alla pelle e non potersi grattare. Per fortuna eravamo stati imbottiti con una quantità industriale di antidolorifici che, sebbene ci riducessero al minimo il dolore, ci facevano sentire la testa leggera, la voce – in questo caso solo quella del chirurgo, per quanto si sforzasse di mascherarlo – impastata e ci rallentavano i movimenti. E in quei giorni in cui Law era rimasto privo di conoscenza, la morfina era diventata la mia migliore amica. A molti sarebbe sembrata una tortura – e in parte lo era – ma io non potevo essere più felice. Ero viva. Eravamo vivi. Eravamo vivi, cazzo! Mi bastava sapere questo per rallegrarmi la giornata. Se fossi riuscita a parlare di nuovo, avrei avuto qualcosa da raccontare ai miei nipoti.
Comunque, i medici hanno detto che non appena tornerà Emporio Ivankov, che adesso è in missione, potrà farci un’iniezione di ormoni che ci faranno guarire. O comunque che accelereranno il processo di guarigione. Non ho ben capito come funzionino i suoi poteri” scarabocchiai sulla lavagna, voltandola e facendola vedere al mio capitano, che sembrò prendere visione di quella notizia. Non pareva molto presente. Il suo corpo era lì – anche perché non poteva andare da nessun’altra parte – ma la sua mente era altrove, potevo percepirlo. Forse ancora non credeva che potessimo essere vivi. Come biasimarlo, anche io facevo fatica a crederci. Non capitava tutti i giorni che il capo dell’Armata Rivoluzionaria in persona passasse "per caso" sull’isola in cui ci trovavamo e ci salvasse da morte certa appena in tempo. Mi sembrava quasi un sogno. Ci avevano trovati all’ultimo secondo, ma ci avevano trovati e ci avevano portati in salvo. Chiamavano Ivankov la “persona dei miracoli”, ma a me sembrava che il miracolo l’avesse compiuto il padre di Rufy, trovandoci e sottraendoci alla morte. Oppure era stato semplicemente un miracolo voluto dal cielo, perché forse le nostre storie non erano finite. Dovevamo continuare a vivere, perché avevamo ancora qualcosa da raccontare. Quale che fosse la risposta, non avrei mai ringraziato abbastanza tutte le divinità esistenti e non, per averci concesso un’altra occasione.
«La ciurma è stata avvertita?» domandò, ridestandosi dal suo stato parzialmente catatonico.
Sbuffai con il naso e ripresi in mano la lavagnetta che avevo appoggiato temporaneamente sulle gambe.
Hanno detto di sì. La Base dei Rivoluzionari è in un posto segreto e protetto, nessuno sa dove sia e loro non intendono rivelarlo a nessuno che non appartenga all’Armata, per cui Bepo e gli altri non possono venirci a cercare. Ma hanno anche detto che provvederanno a fornirti una nave, con tanto di scorta, affinché tu possa tornare al sottomarino una volta che ti sarai rimesso” gli spiegai, poi aggiunsi “sanno che siamo vivi e che torneremo da loro, prima o poi”.
Mi rivolse un’occhiata eloquente ed annuì, serio. Vidi parte della preoccupazione che aveva addosso abbandonarlo ed il suo viso distendersi un po’ di più.
«Il mio navigatore starà dando di matto, adesso» constatò, mentre un lieve sorriso affiorava sulle sue labbra. Provai a ridere, ma fallii miseramente ed iniziai a tossire a tutto spiano. Per poco non mi strozzai. Per un attimo temetti che mi si sarebbero riaperti tutti i punti che mi erano stati messi e che avevo sparsi per il corpo. Aggrottai la fronte dopo che mi fui asciugata gli occhi che lacrimavano per lo sforzo che avevo fatto. Law mi stava guardando male. Ricambiai l’occhiataccia. Non era colpa mia se le sue parole mi avevano fatto ridere, o meglio, soffocare.
«Dalle tue parole deduco che tu non tornerai con noi» affermò dopo qualche minuto di completo silenzio.
Mi morsi un labbro, scossi la testa e ripresi in mano il pennarello. “Come ti ho spiegato prima, Dragon ha richiesto la mia presenza qui. Non so perché o cosa voglia, ma direi che è il minimo che possa fare dopo quello che ha fatto lui per noi”.
Non avevo paura del padre di Rufy, sebbene non sapessi cosa desiderasse da me. Ci aveva salvati, e questo mi bastava per concedergli la mia fiducia. Inoltre, a differenza di un ipotetico Kaido, mi sembrava un uomo ragionevole ed io, da che ricordassi, non avevo mai fatto niente che potesse aver intralciato il raggiungimento dei suoi scopi, per cui non avevo nulla da temere. Qualsiasi cosa avesse voluto, non era un nostro nemico.
Il capitano annuì, poi appoggiò la testa sul cuscino e sembrò ritornare pensieroso.
Ma non temere (o meglio, temi). Tornerò al sottomarino non appena avrò fatto quello che devo fare. Dovessi tornarci a nuoto e dovesse essere l’ultima cosa che faccio” scrissi, girando la lavagnetta per fargliela vedere. Nel leggere le mie parole, mi guardò di sottecchi ed iniziò a ghignare, facendo sorridere anche me.
«E così Monkey D. Dragon, il capo dell’Armata Rivoluzionaria, ti cerca» ripeté Law dopo qualche altro minuto di silenzio. Ancora una volta, non capii se la sua fosse una domanda o un’affermazione.
L’avresti mai detto che sarei diventata una celebrità?” gli domandai, sbuffando una risata. Cancellai e mi apprestai a scrivere di nuovo. “E tu che non mi davi un soldo di fiducia” lo rimproverai, sebbene le parole scritte sulla lavagna facessero molto meno effetto rispetto all’intonazione che avrei dato loro se avessi potuto parlare.
«Comincio a pensare che non mi libererò mai di te» rifletté lui con finta amarezza.
Alzai gli occhi al cielo e scossi la testa. Poteva fingere quanto voleva, ma ormai tutti sapevano che in piccola parte ci teneva a me. Anche il gelido Chirurgo della Morte si affezionava, a quanto pareva. Rimanemmo senza parlare – o scrivere – per un altro po’. Law sospirò un paio di volte. Lo conoscevo e sapevo che c’era qualcosa che lo tormentava. Forse mi voleva parlare di un argomento che aveva paura di affrontare. E se il mio istinto non falliva, sapevo esattamente cosa volesse chiedermi. Decisi che lo avrei preceduto; ma proprio nel momento in cui ripresi in mano il pennarello, si fece forza e parlò.
«E Doflamingo? Doflamingo è...»
La voce gli tremava leggermente. Probabilmente non ebbe il coraggio di finire la frase. Ma non serviva che lo facesse, avevo capito e lui lo sapeva. Così aspettò che finissi di scrivere, senza mai guardarmi, ma sempre fissando il soffitto.
Doflamingo è stato sconfitto. Pare che sia intervenuto Dragon in persona, non appena ho perso conoscenza. Mi sembra inutile specificare che non c’è stata storia. Mi hanno riferito che quel mostro ha tentato di scappare, ma non gli è stato possibile. Adesso si trova nelle prigioni sotterranee di questa base, sorvegliato a vista ed incatenato dalla testa ai piedi con catene di agalmatolite. A quanto ho capito anche il pavimento e le sbarre della prigione sono dello stesso materiale” gli spiegai.
La prima cosa che avevo fatto, dopo essermi ripresa e dopo aver chiesto di Law, era stato informarmi su Doflamingo. O meglio, ci avevo provato. Non avendo ancora la lavagnetta e non potendo usare la voce, sarebbe stato più corretto dire che mi ero fatta capire. Mi avevano riferito che quella tra il capo dei rivoluzionari ed il Demone Celeste era stata una battaglia degna di essere vista. Ero piuttosto sicura che fosse così, visto che avevo provato sulla mia pelle, sui miei muscoli e sulle mie ossa la potenza distruttrice del biondo. Non conoscevo le potenzialità di Dragon, tuttavia dovevano essere enormi, considerato che era uscito praticamente illeso da uno scontro con l’ex Re di Dressrosa e lo aveva annientato quasi senza sforzo. Quando avevo appreso della dipartita di quel demonio avevo provato un’immensa leggerezza, ma poi non avevo potuto fare a meno di chiedermi perché i Rivoluzionari avessero deciso di agire così. Avrebbero potuto rispedirlo a Impel Down, senza farsi scoprire o avrebbero potuto direttamente ammazzarlo. Dopo tutto il male che aveva fatto a praticamente chiunque avesse avuto la sfortuna di capitargli a tiro, meritava di crepare tra atroci sofferenze. Quindi perché lo avevano imprigionato e lo tenevano lì? A che gli serviva quel mostro?
A quanto pareva anche il mio capitano se lo stava domandando. Lo vidi serrare la mascella e stringere i pugni fino a far diventare bianche le nocche. Se avessi avuto la voce, gli avrei detto di non sforzarsi in quel modo.
«Perché non l’hanno ucciso?» sibilò a denti stretti.
Sospirai, ripresi per l’ennesima volta la lavagnetta in mano e ricominciai a scrivere. La girai verso di lui alzando le spalle.
Non ne ho idea. Forse i Rivoluzionari vogliono qualcosa da lui. Magari sanno che quell’abominio è sotto la protezione di Kaido e non vogliono fare mosse azzardate per non trovarsi faccia a faccia con un Imperatore infuriato. O magari vogliono delle informazioni che solo il Demone Celeste può dare loro. Non lo so, Law. E non voglio pensarci. Quello che so è che siamo vivi e che dobbiamo ringraziare Dragon per questo” gli feci sapere, quasi ammonendolo. Lo capivo. Capivo bene il suo risentimento e la sua preoccupazione, ma questo non era un motivo valido per prendersela con il nostro salvatore.
Dovevo ammettere che l’idea che Doflamingo stesse sulla nostra stessa isola ancora una volta e si trovasse appena qualche piano sotto di noi, per quanto fosse controllato a vista e legato come un salame, faceva stare un po’ – per non dire parecchio – in ansia anche me. Tuttavia avevo scelto di non pensare alle cose negative o alle cose che potevano andare storte. Avevo bisogno di positività in quel momento così difficile. Ne avevamo bisogno entrambi. Law, forse, anche più di me, dato che non era ancora del tutto fuori pericolo.
Comunque, da quanto mi è stato riferito, non è messo benissimo neanche lui. Dragon non ci è andato leggero” lo informai poi, per tentare di ridargli un po’ di speranza e di giustizia, che ormai sembravano perdute per sempre. Evitai accuratamente di dirgli che avevo ragione di credere che, seppure ferito, quello stronzo stesse di gran lunga meglio rispetto a noi. Se non altro, però, lui era imprigionato – di nuovo – mentre noi eravamo liberi. Malandati ma liberi. Catturai il fugace sguardo affilato che mi rivolse il capitano. A quanto pareva la notizia che gli avevo dato non gli era stata molto di consolazione. Effettivamente, sarebbe stato meglio se l’avessero ucciso. Un morto non può tormentarti, mentre il solo pensiero che la persona che odi e temi di più sia ancora viva, dopo tutti gli sforzi che hai fatto per annientarla, è abbastanza per segnarti per sempre. Doveva essere devastante per lui, in quel momento. Ma, come era arrabbiato il chirurgo, lo era di sicuro anche il suo nemico, ammesso che qualcuno gli avesse detto che Law era ancora vivo. Il Demone Celeste si era preso tanto disturbo per nulla, in fin dei conti. C’era sempre qualcuno che interveniva, mandava in fumo i suoi piani e salvava il moro. Il demonio occhialuto sembrava essere destinato a finire in gattabuia. Una fine ben peggiore della morte, per un uomo come lui. Il karma esisteva, dunque.
Cancellai le parole che avevo scritto, sospirando, decisa a non riprendere più in mano il pennarello. Stavo iniziando a stancarmi, avevo pur sempre una lesione anche al braccio destro. E i dottori mi avevano consigliato di non muoverlo troppo. Però, c’era una cosa che da giorni teneva la mia mente impegnata e la tartassava. Era un arcano che solo il capitano poteva risolvere. Era l’unico che potesse confermare ufficialmente i miei sospetti. Per cui, per la milionesima volta, mi ritrovai a scrivere di nuovo su quella maledetta lavagna.
Grazie per essere ancora vivo” scrissi. Se qualcuno avesse letto quella frase, in quel momento, molto probabilmente si sarebbe messo a ridere. Del resto, potrebbe sembrare stupido ringraziare qualcuno per essere ancora vivo. Perché la mia frase avesse un senso, avrei dovuto ringraziare Dragon in primis e poi i dottori di quella base. Ma Law non rise, piegò solo un lato della bocca all’insù, per fare quello che poteva essere considerato un piccolo ghigno. Perché io e lui sapevamo cos’era realmente successo. Avevo motivo di credere che i miei sospetti fossero più che fondati. Lo sapevo per certo. Non era stata solo fortuna e non era unicamente merito dell'intervento tempestivo dei rivoluzionari se il mio capitano era ancora vivo. L’avevo capito un paio di giorni dopo che mi ero svegliata, quando ero più lucida e più consapevole. I medici della base erano venuti da me a dirmi che fosse un vero miracolo che il mio capitano fosse ancora vivo, perché nonostante il suo cuore avesse smesso di battere, le sue funzioni vitali erano ancora perfettamente intatte. “Perfettamente” si faceva per dire, visto che era in fin di vita, ma comunque l’importante era che il sangue circolasse e che l’ossigeno arrivasse al cervello. Per fortuna quando l’avevano soccorso l’effetto del mio siero era finito, altrimenti l’avrebbero davvero dato per morto ed io mi sarei torturata dai sensi di colpa per tutta la vita. Non che già così non mi sentissi in colpa, ma se non altro il fatto che il mio capitano fosse vivo era già un gran passo avanti.
Mi ci era voluto qualche minuto per realizzare, ma alla fine avevo capito. La sua era stata una trovata geniale e mi rammaricavo di non averlo compreso prima. Dopotutto, avevo imparato a conoscere il chirurgo. Eppure, persa nel panico, nel dolore e nella disperazione della battaglia, era precipitata in un totale oblio, che non mi aveva fatto ragionare lucidamente e razionalmente. La mia non era stata una mancanza di fiducia nei confronti di Law, ma solo...pura e semplice disperazione. Certo, avrei preferito che me lo avesse detto, così avrei evitato di arrendermi davanti al fenicottero e forse avrei lottato un po’ più duramente dopo la sua “dipartita”, ma non potevo biasimarlo per questo. E poi, ormai quel che era fatto era fatto. Chissà per quanto tempo si era – letteralmente – portato dentro questo segreto, senza spifferare niente a nessuno.
Di chi è il cuore che hai nel petto?” chiesi, riflettendo su quanto potessi essere stata stupida nel non pensare che fosse praticamente certo che il chirurgo avesse elaborato un piano di riserva che avrebbe potuto garantirgli la salvezza.
«Di un marine che abbiamo affrontato su Fuyuka» mi rivelò tranquillamente. Ripensai a quello che era successo su quell’isola. Impegnata com’ero nella battaglia, non mi ero accorta che avesse preso il cuore ad uno dei soldati. Ma era decisamente possibile e plausibile. Un po’ mi dispiaceva per il marine, però. Forse non se lo meritava. Morire così, all’improvviso e senza sapere perché. Magari si trovava in congedo e stava giocando con suo figlio o stava ritornando dalla madre dopo mesi di assenza. Un quadretto decisamente triste. Pazienza, fintanto che Law era vivo, il resto mi scivolava addosso facilmente. Anche perché avevo avuto ampiamente modo di comprendere che “i deboli non possono scegliere come morire”.
«Il mio è nascosto al sicuro sul sottomarino dal giorno in cui ho appreso la notizia che il Demone Celeste era evaso di prigione» mi spiegò poi, sempre calmo.
Annuii eloquentemente. Ora si spiegavano tante cose. I vestiti lunghi e larghi che portava avevano contribuito a non farmi notare il buco che aveva nel petto. Ma la mia teoria era giusta. Avrei dovuto aspettarmelo, però. Dopotutto, l’ingegno era una delle sue prerogative più brillanti ed era sempre stato un tipo meticoloso e pieno di risorse. Molto probabilmente era per questo motivo che il capitano aveva voluto rimanere a combattere contro i marines. Mi sentivo proprio scema a non aver pensato ad una soluzione del genere. Soprattutto perché se lo avessi saputo prima, mi sarei evitata parecchie sofferenze. E magari avrei evitato di stare male, di disperarmi, dimenarmi e gridare come una pazza. Eppure, è questo che fa la disperazione. Annebbia la mente e ti getta nello sconforto più totale. Non riesci a vedere altro che dolore e desolazione, non riesci a pensare ad una soluzione alternativa. Per fortuna, però, se io ero scema, il biondo lo era ancora più di me. Sparandogli al cuore e non alla testa aveva indirettamente contribuito alla salvezza del suo acerrimo nemico. Forse avrei dovuto iniziare anche io a fare collezioni di organi vitali. Un giorno mi sarebbero potuti tornare utili, sebbene io non disponessi del potere straordinario di cui disponeva il chirurgo. Corazòn ritornava di nuovo in ballo. Aveva fatto la cosa più giusta rubando il frutto Ope Ope per lui e facendoglielo ingerire a forza. Lo implicitamente aveva salvato per l’ennesima volta. Almeno qualcuno di noi riusciva a salvarlo.
«Tu invece hai avuto pura fortuna» confessò il moro, distogliendomi dalle mie riflessioni. Girai istantaneamente la testa verso di lui, in cerca di spiegazioni. Ancora una volta, non riuscivo a capire cosa intendesse.
«Quando Doflamingo ci ha fatti scontrare, la nodachi non mirava al tuo fegato» mi fece sapere. Mi irrigidii all’istante, provocando così uno spasmo al mio organo danneggiato.
Mirava al mio cuore?” gli domandai, temendo – insensatamente – la risposta. Sebbene lo scontro si fosse concluso da tempo, le immagini di quella sanguinosa battaglia a senso unico continuavano a scorrermi davanti agli occhi come se tutto fosse accaduto appena pochi secondi prima. E l’idea che avrei potuto restarci secca con il colpo che mi aveva sferrato Law, mi rendeva la cosa ancora più difficile da elaborare.
«Sì. Non è uno sprovveduto. Non lo è mai stato. E non ha neanche una cattiva mira. Ha solo avuto la sfortuna di essere alto tre metri, come suo fratello» affermò.
Corrugai le sopracciglia e assottigliai gli occhi. Non capivo appieno il nesso tra l’aver sbagliato mira e l’essere alti tre metri, ma dovevano essere gli antidolorifici che gli davano alla testa. Forse c’era di mezzo anche l’anestesia delle operazioni chirurgiche che avevamo subìto, che ancora non aveva del tutto esaurito il suo effetto.
Disegnai sulla lavagnetta un punto interrogativo.
Sospirò. Sapevo che non aveva nessuna voglia di mettersi a dare delucidazioni sulla faccenda, ma io dovevo sapere e non avrei demorso. Cominciai a fissarlo insistentemente, sebbene lui non mi stesse degnando di uno sguardo. Alla fine si decise a parlare.
«L’ho appurato nei mesi in cui sono stato con Cora-san» iniziò a spiegare «la sua anatomia non corrispondeva a quella di un normale essere umano. Deve essere così anche per suo fratello. La sua percezione degli organi interni è alterata. Probabilmente è per questo che ha mancato il tuo cuore» continuò, sotto il mio sguardo vigile e perplesso. Era assurdo che un mostro di potenza come Doflamingo si facesse prendere dall’eccitazione del momento e, a causa della particolare disposizione dei suoi organi interni, si fosse fatto scappare l’occasione di farmi ammazzare. Non che non fossi contenta, anzi. Mi faceva solo ridere questo fatto. Dimostrava che chiunque poteva sbagliare, anche quando si trattava di compiere un’azione estremamente semplice, e che la fortuna aiutava gli audaci. O i giusti. Non che l’imbattersi nel Demone Celeste fosse di per sé una fortuna, ma quanti, tra tutti quelli che si erano ritrovati faccia a faccia con lui, potevano raccontarlo?
Continuai a fissare il chirurgo. Sembrava un po’ sofferente. Non era il caso di prolungare oltre la nostra chiacchierata, soprattutto perché adesso avevo le risposte che avevo cercato per più di una settimana.  E poi, stavo incominciando ad essere stanca anche io. Avevamo bisogno di riposare.
Lo guardai, annuii e feci un piccolo sorriso, per ringraziarlo della spiegazione. Poi presi la lavagna e scrissi quelle che erano le mie ultime parole per quel giorno.
Buona guarigione” scarabocchiai, disegnando un piccolo cuore – in quell’occasione più che appropriato – accanto alla scritta.
«Altrettanto» disse, prima di affondare la testa nel cuscino. Il modo in cui lo pronunciò mi fece sorridere. Non era sarcastico, per una volta era sincero.
Appoggiai la lavagnetta e il pennarello sulla specie di comodino situato alla mia destra e poi premetti il pulsante per chiamare i medici. Law, a quel mio gesto, mi guardò interrogativo. I dottori mi avevano detto di farlo quando si fosse svegliato, ma io avevo voluto dargli un attimo di tregua. In realtà, nella gioia del momento, me ne ero completamente dimenticata. Ma il mio capitano pareva stare bene per le condizioni in cui versava, quindi non avevo fatto un torto a nessuno.
Entrarono un paio di uomini con il camice. Furono contenti di vedere che il chirurgo si fosse finalmente svegliato. Fecero tutti i controlli che dovevano eseguire per prassi. Ero sicura che il moro mi stesse odiando in quel momento e non aveva tutti i torti. Li avevano fatti anche a me ed era stato piuttosto umiliante. Il mio povero orgoglio ne era uscito distrutto, ma questo era quello che si doveva fare per rimanere vivi, quindi mi andava bene così. Per il tempo in cui i dottori si occuparono del loro collega, cercai di non guardare, per rispetto verso il mio maestro. Invece, fissai la cintura, appoggiata sulle mie gambe. Non avevo mai avuto modo di chiedere loro come facessero a sapere che quello era l’unico modo in cui ero visibile agli occhi degli altri, anche perché non me ne ero preoccupata più di tanto. Avevo cose più importanti a cui pensare. Tipo sopravvivere. Evidentemente dovevano averlo capito da soli qual era l’importanza di quella fibbia. In fondo, non era poi tanto difficile arrivarci. O forse, ne erano già a conoscenza per chissà quale motivo.
«D’accordo, adesso vi lasciamo riposare. Bentornati tra noi» fece sorridente quello con gli occhiali, che era anche il più gentile. Ci erano voluti una decina di minuti perché si accertassero che fosse tutto a posto. Prima di uscire applicarono delicatamente il collare ortopedico e la mascherina per l’ossigeno a Law, che non poteva muoversi, e poi fecero lo stesso con me. Li salutai con un debole gesto della mano e li osservai mentre si richiudevano la porta alle spalle.
Il vantaggio di avere un capitano che era anche un rinomato chirurgo, era che sapeva già tutto quello che c’era da sapere sulle varie procedure. Si sarebbe addormentato a breve e per dormire aveva bisogno di qualcosa che gli tenesse ferma, almeno in parte, la spina dorsale e che lo aiutasse a respirare. Io non avevo bisogno del collare, ma della mascherina sì. Anche io avevo qualche difficoltà a respirare quando dormivo, soprattutto perché non potevo controllare i movimenti.
Non ci volle molto prima che il mio vicino di letto cadesse preda di un sonno profondo. Rimasi sveglia quasi tutta la notte a guardarlo mentre dormiva. Sapevo che stava soffrendo molto, anche se non lo dava a vedere. Ma a parte questo, ritenevo che fosse un vero e proprio miracolo che lui fosse vivo. E adesso che si era risvegliato dopo nove giorni di coma farmacologico, avevo intenzione di dirgli tutto quello che mi ero ripromessa di dirgli in punto di morte, se mai fossi riuscita a riacquistare la voce.
 
***
 
I giorni che seguirono il risveglio di Law furono giorni molto difficili. Una notte mi svegliai, turbata dal rumore dei monitor che impazzivano. Il capitano aveva avuto una ricaduta. A causa del polmone perforato, aveva avuto una complicazione che gli aveva causato una crisi respiratoria ed era stato necessario portarlo d’urgenza in sala operatoria. Per tutte le cinque ore della durata dell’operazione, avevo pregato che si riprendesse e avevo pianto lacrime amare, interrogandomi sul perché tutto quello stesse capitando a noi, che non avevamo fatto nulla di male. Quando lo avevano riportato nella stanza e mi avevano detto che avevano fatto tutto il possibile per riparare il danno e che per il momento era stabile, avevo tirato un sospiro di sollievo. Non potevo fare nulla in quelle condizioni, se non augurarmi che tutto andasse per il meglio, e mi sarei volentieri data un pugno sull'addome, se a distruggermelo non ci avesse già pensato quel mostro. Certo, gran parte del processo di guarigione dipendeva dalla forza di volontà del Chirurgo della Morte e in questo non avrei comunque potuto aiutarlo. Era tutto nelle sue mani, anche perché le mie erano messe maluccio. Speravo che Emporio Ivankov tornasse presto dalla sua missione, cosicché potesse somministrarci i suoi ormoni, perché non potevamo andare avanti in quel modo. La situazione era frustrante sia per me che per il mio maestro e ogni giorno che passava diventavamo sempre più stanchi di aspettare, più impazienti e più deboli. Le circostanze peggiorarono ulteriormente quando un pomeriggio anche io ebbi una crisi respiratoria. All’improvviso un potente pizzicore aveva iniziato a risalirmi per la gola, che aveva cominciato a dolermi parecchio. Mi ero schiarita più volte la “voce”, cercando di scacciare quella fastidiosa prurigine. Le cose erano precipitate in fretta quando avevo iniziato a tossire con violenza e senza sosta. Mi ero sentita soffocare e avevo temuto che i punti di sutura che tenevano insieme la mia gola sarebbero saltati. Dallo sforzo, avevo anche sentito lo stomaco contorcersi ed iniziare a fare male. Avevo cercato di recuperare il pulsante per chiamare i medici dell’ospedale, ma nella fretta e in quello stato convulso mi era scivolato giù dal letto e non ero più riuscita a riprenderlo. Avevo udito il chirurgo sibilare un “maledizione” a denti stretti, quasi per caso. La frustrazione che aveva provato il mio capitano era la stessa che avevo provato anche io quando tutto quello era capitato a lui. Mi ero sentita svenire ed il battito cardiaco era salito alle stelle. In un ultimo disperato, tentativo di salvarmi, avevo guardato il mio maestro implorando aiuto con lo sguardo. “Camilla, la mascherina” mi aveva detto. Io avevo guardato in alto alla mia destra, l’avevo presa – facendo attenzione a non far cadere l’unico, prezioso oggetto che potesse salvarmi in quel momento – e con mani ancora tremanti l’avevo messa più in fretta che avevo potuto. Poi avevo allungato il braccio e avevo aperto la valvola della bombola d’ossigeno. Nel momento in cui il gas inodore ed incolore mi era arrivato alla bocca, avevo smesso di tossire e avevo potuto rilassarmi. Appena la crisi era passata, avevo affondato la testa nel cuscino, ancora respirando affannosamente, e poi mi ero premurata di regalare uno sguardo estremamente grato al mio capitano, che nonostante non si potesse muovere, mi aveva comunque salvato la vita. Era anche per questo che nutrivo cieca fiducia nei suoi confronti. Era il primo di cui mi fossi fidata così tanto ed era il primo a cui avrei affidato volentieri la mia vita. Tuttavia, dopo quell’episodio, avevo cominciato a pentirmi amaramente dell’enorme stronzata che avevo fatto interferendo nel combattimento tra lui e Doflamingo.
 
***
 
Per fortuna, ancora una volta, le mie preghiere vennero ascoltate da qualcuno. Era incredibile come in quegli anni mi fossi trasformata in una ragazza casa e chiesa.
«Eccomi quiiiii» cantilenò una voce. La porta della stanza si spalancò con una folata di vento. Aggrottai la fronte, decisamente sorpresa. Con la coda dell’occhio vidi Law allertarsi ed iniziai a preoccuparmi anche io. Che fosse Doflamingo? No, impossibile. Aveva una voce troppo acuta. Il rumore di passi lenti e pesanti precedette la figura che poco dopo entrò nella camera. Chiusi gli occhi e sospirai, estremamente sollevata. Era Emporio Ivankov. Ce l’aveva fatta, finalmente! Era venuto a guarirci!
«Sono tornata dalla missione e mi hanno detto che quaggiù avrei trovato dei giovincelli a cui serve il mio aiuto» fece allegro. Forse sarebbe stato meglio dire allegra. Non avevo idea di come rivolgermi al trans-formato. Era un lui? Era una lei? Non era facile da dire. Per fortuna non potevo parlare, mi sarei evitata decine di figuracce.
«Che cosa abbiamo qui?» chiese «Oh!» esclamò subito dopo, iniziando ad agitarsi. Io e il capitano ci scambiammo un’occhiata perplessa.
«Siete il sexy chirurgo e la sua reginetta rubacuori!» urlò, portandosi teatralmente i palmi delle mani sulle guance. Assottigliai gli occhi e storsi naso e bocca. Come ci aveva chiamati? Notai che Law aveva irrigidito la mascella ed era visibilmente imbarazzato.
«I dottori mi hanno spiegato tutto. Tu» disse voltandosi verso di me ed indicandomi «non puoi parlare. Mentre tu...» spostò lo sguardo sul Chirurgo della Morte «sei in condizioni praticamente critiche» affermò con una calma disarmante. Trasalii. Sapevo che il moro era messo male, ma sentirlo dire da un’altra persona era un colpo al cuore.
«Che carini che siete! Due bambolotti innamorati che giacciono uno accanto all’altro!» quasi strillò in preda all’eccitazione «Aspettavo da tanto di conoscerti, piccola Cami-girl. Ma non immaginavo che avrei avuto il privilegio di fare la conoscenza anche del tuo fidanzato» mi disse compiaciuto, squadrando prima me e poi il mio capitano.
Sgranai gli occhi. Ero decisamente sorpresa da quella sua affermazione. Aspettava da tanto di conoscermi? Come era possibile? Sapeva chi ero? E perché, poi? Ma soprattutto, perché diavolo era convinto che io e Law stessimo insieme!?
Mi affrettai a prendere la lavagnetta ed il pennarello appoggiati sul comodino accanto a me, mentre il chirurgo si schiariva la voce, a disagio. Non lo avevo mai visto così. Se non l’avessi conosciuto avrei pensato che sarebbe arrossito da un momento all’altro.
«Emporio-san, noi non siamo...» provò a dire, ma fu subito interrotto dall’impeto della Regina – o del “Regino” – di Kamabakka.
«So che siete amici di Cappello di Paglia-boy. Il suo fratellino monello ha garantito per voi» affermò Ivankov. Ancora una volta, mi ritrovai a corrugare le sopracciglia. Mi ero persa parecchi passaggi, evidentemente. Perché Sabo – ammesso che si trattasse di lui – avrebbe dovuto parlare di me e del Chirurgo della Morte al trans-formato? Io non lo conoscevo e sospettavo che neanche il mio capitano avesse avuto il privilegio di fare la sua conoscenza, almeno non in modo approfondito. Non volevo pensarci e decisi che non lo avrei fatto. Avrei affrontato una cosa alla volta, e in quel momento la mia unica preoccupazione doveva essere quella di guarire il più in fretta possibile. Solo in futuro mi sarei interrogata sul perché l’intera Armata Rivoluzionaria mi cercava e conosceva il mio nome.
«Alleati» precisò il mio maestro, quasi infastidito di essere stato additato come l’amico del futuro Re dei Pirati. Supponevo che nemmeno lui ci stesse capendo molto. Il Rivoluzionario che avevamo di fronte sfrecciava da un argomento all’altro così rapidamente che non gli si riusciva a stare dietro.
Noi NON siamo fidanzati!!!” scrissi e poi girai la lavagna, enfatizzando molto affinché capisse il concetto una volta per tutte.
Mi sembravo l’Internet Explorer della situazione. Ma non era colpa mia se andavo così a rilento, solo Rufy poteva tenere il passo con lei. Lui. Comunque, andava troppo veloce e io più celermente non riuscivo a scrivere, soprattutto adesso che avevo un polso fratturato ed il bicipite dell'altro braccio lesionato.
Fissò le mie parole per un paio di secondi, sbattendo le voluminose ciglia.
«Certo cara, raccontati quello che vuoi» mi freddò con una sola frase, accompagnandosi con un gesto della mano e facendomi un ampio sorriso malizioso. Poi tornò a guardare Law, con lo sguardo da predatore. Ero sicura che se accanto a me non ci fosse stato l’impassibile ed imperscrutabile Chirurgo della Morte, avrei visto delle goccioline scivolare giù dalla fronte di chiunque fosse stato il povero malcapitato. Tuttavia, non potei bearmene tanto, perché avevo ancora gli occhi spalancati per quanto mi era stato detto dal rivoluzionario. Ero ancora scossa dalla sua risposta, tanto che per cercare di riprendermi dovetti sbattere le palpebre cinque o sei volte. Perché nessuno mi credeva? Insomma, non stavamo insieme e non lo saremmo stati mai, se non come allieva e maestro o capitano e sottoposta.
Scossi la testa ed appoggiai la schiena al cuscino, poi mi girai verso il moro e quando ebbi incastonato il mio sguardo al suo, con un cenno della testa – e guardandolo minacciosamente – gli intimai di dire qualcosa. Lui alzò gli occhi al cielo ed io ebbi la conferma che non avrebbe fatto nulla. Non faceva mai niente, quando si trattava di smentire stupide voci di corridoio. Forse gli piaceva vedermi annaspare in quell’oceano di stronzate da cronaca rosa. Gliel’avrei fatta pagare per questo, prima o dopo.
Proprio nel momento in cui iniziavo a congegnare un piano di vendetta contro il mio “fidanzato”, Ivankov sembrò riprendersi dall’ipnosi che gli aveva causato la visione mistica di Law. C’era da dire che con quel suo abbigliamento stravagante, comprendente calze autoreggenti a rete, una specie di body – se così si poteva chiamare – fucsia decisamente troppo scollato e stivali e guanti che facevano pendant con il resto, e poi con quelle ciglia che parevano uscite direttamente da una fabbrica di mascara, quelle labbra così viola da sembrare cianotiche e tutto quel cerone sulla faccia, sulla quale tra l’altro aveva dipinta un’espressione sempre entusiasta, metteva allegria e infondeva positività, calore e speranza. Con la sua corporatura massiccia e il suo atteggiamento sfrontato mi ricordava vagamente Platinette, teschio purpureo tatuato sull’addome a parte. E con quel suo testone accompagnato da una corona assomigliava anche alla Regina di Cuori – tanto per rimanere in tema – che aveva interpretato Helena Bonham Carter in “Alice nel Paese delle Meraviglie”.
«Veniamo al dunque, piccioncini» iniziò, facendomi digrignare i denti per l’ennesima volta «Sapete qual è il mio potere?» ci chiese. Annuimmo all’unisono. Io lo conoscevo per ovvie ragioni mentre il mio capitano, che era un ottimo chirurgo, non poteva non sapere quale fosse il potere miracoloso di cui disponeva il rivoluzionario.
«Ottimo» esclamò Ivankov, questa volta serio «Allora immagino che sappiate anche quali siano i suoi effetti collaterali» suppose. Annuimmo di nuovo.
«Io posso aiutarvi a guarire, ma questo vi costerà alcuni anni della vostra vita» ci comunicò per correttezza «Dieci anni, per l’esattezza. E comunque, il funzionamento del trattamento dipenderà tutto dalla vostra forza di volontà. Eventualmente durerà tre giorni. Non vi mentirò, saranno tre giorni di intensa sofferenza, cioccolatini miei. E una volta che vi avrò iniettato gli ormoni, non ci sarà più modo di tornare indietro» ci spiegò poi. Sembrava quasi contento di darci quella notizia.
«Quindi devo chiedervelo» disse, facendo poi una pausa «Volete che proceda nonostante le conseguenze?» domandò alzando le sopracciglia e attendendo pazientemente la nostra risposta.
Spostai lo sguardo su Law. Ci fu un attimo in cui ci fissammo intensamente. Ero convinta che stesse silenziosamente cercando di dirmi qualcosa, ma qualsiasi cosa fosse, non sarebbe servita a nulla e questo lo sapeva. Avevo già preso la mia decisione e anche se lui era il mio capitano, non aveva alcun potere decisionale per quanto riguardava quello. Paradossalmente, quella sarebbe dovuta essere una delle scelte più difficili che avrei mai affrontato nella vita, invece decidere mi venne estremamente facile. Mi bastò ripensare a tutto quello che mi era capitato. Che ci era capitato. Le immagini mi scorsero velocemente davanti agli occhi come se stessi guardando il trailer di un film. Le cose che dovevo fare erano ancora tante e non potevo sprecare mesi e mesi per rimanere stesa su un letto d’ospedale. Quello che c’era in ballo e che avrei potuto perdere, era molto più prezioso di qualche anno di vita e di appena tre giorni di sofferenza. Il capitano lo capì, perché con un lieve cenno del capo mi incoraggiò a procedere.
Riportai lo sguardo sul rivoluzionario e feci di sì con la testa con convinzione. I miei occhi erano fermi e decisi.
Ivankov squadrò prima me e poi il chirurgo, probabilmente per cercare di capire se fossimo convinti della nostra scelta.
«Bene!» strillò e batté le mani, quasi provocandomi la rottura di un timpano «Procediamo. Da chi di voi zuccherini devo cominciare?» volle sapere, sorridente. Si stava rivelando piuttosto sadico.
«Prima le signore» fece, trasformando le unghie in aghi. Inorridii un po’. Non avevo esattamente considerato la parte in cui un trans-formato completamente matto mi avrebbe infilato cinque aghi nella carne e mi avrebbe iniettato nel corpo ormoni di cui sapevo poco e nulla. Scossi la testa, cercando di scacciare i pensieri negativi. Potevo solo sperare che non facesse troppo male e che non mi giocasse brutti scherzi. Avrei preferito tenermi il mio prorompente décolleté.
La Regina di Kamabakka fece un verso simile a quello che fanno i cowboy quando fanno schioccare il lazo. Scostò le coperte e alzò il mio camice. Poi sollevò la mano e a quel punto distolsi lo sguardo per evitare di guardare. Era troppo persino per me. E poi, c’era già Law che da dietro il rivoluzionario osservava meticolosamente tutto il processo. Il fatto che rimanesse a guardare mentre io ero in mutande con degli aghi infilati nella pelle, non mi dava tanto conforto. Almeno dopo sarebbe toccato anche a lui.
Sentii fin troppo chiaramente le unghie di Ivankov conficcarsi nella mia carne. Aveva fatto penetrare nella mia pelle anche le dita, fino alla terza falange. Strizzai gli occhi e respirai a fondo. Per fortuna non potevo usare la voce, avrei urlato altrimenti. Le sue unghie non mi avevano fatto male come pensavo, forse dopo il combattimento con Doflamingo avevo sviluppato una più alta soglia del dolore; era il liquido che mi aveva iniettato che bruciava terribilmente. Se nemmeno uno come Rufy si era trattenuto dal gridare, figurarsi se una come me poteva evitare di soffrire. Fu proprio a lui che pensai, in quei brevi – ma per me eterni – cinque secondi. Le sue urla disperate ad Impel Down ancora risuonavano nella mia mente. Lui ce l’aveva fatta, però. E ce la dovevo fare anche io.
Certo, non si poteva dire che il trans-formato dai capelli viola fosse tanto delicato. Tirai un sospiro di sollievo nel momento in cui staccò la sua mano dal mio corpo. Sollievo che purtroppo durò poco, visto che il mio corpo tornò a bruciare. Tutto, dalla testa alla punta dei piedi, mi andava a fuoco. Iniziai a respirare affannosamente e strinsi le dita della mano destra attorno alla sbarra metallica del letto. Non volevo che Law mi vedesse in quelle condizioni, per cui mi voltai verso di lui e lo pregai con lo sguardo di non guardarmi. La mia espressione sofferente non gli impedì di continuare a fissarmi. I suoi occhi erano fermi ed estremamente seri.
«Adesso è il tuo turno, gioia» cantilenò, rivolgendosi al mio maestro. Scostò anche la sua coperta. Entrambi rimanemmo estasiati per un attimo. Vederlo così, per quanto martoriato fosse il corpo del moro, era sempre un belvedere, nonché un efficace antidolorifico.
Lui poteva usare la voce e lo fece. A stento trattenne i gemiti di dolore nel momento in cui la sostanza iniettatagli da Ivankov entrò in circolo. Cominciò ad ansimare anche lui. Se avesse potuto muoversi, ero sicura che si sarebbe contorto e dimenato. Nemmeno l’orgoglio del tanto temuto Chirurgo della Morte poteva nulla in una situazione del genere. Il pensiero che avrei dovuto sentirlo strepitare per altri tre giorni, mi faceva stare ancora peggio.
«Ottimo, il mio lavoro qui è finito» dichiarò sfregandosi le mani, come se si stesse togliendo la polvere dalle dita.
«Ora me ne vado, ciao ciao pasticcini!» ci salutò infilando la porta, premurandosi di farci l’occhiolino prima di uscire.
Io e Law rimanemmo lì, a fissarci a vicenda, consapevoli che i prossimi giorni sarebbero stati giorni di intenso tormento. La situazione non mi era nuova. Se non altro avremmo sofferto insieme. Questa era la mia unica consolazione. Potevamo solo sperare che quella procedura estremamente dolorosa e stancante potesse guarirci in fretta e del tutto. Anche se certe ferite, quelle radicate nel profondo dell’animo, non guariscono mai. Ma noi eravamo il Chirurgo della Morte e la Regina di Cuori, e potevamo farcela. Ero fiduciosa. Io e lui avremmo potuto fare tutto, finché saremmo rimasti uniti.
 
 
 
 
Did you lose what won’t return?
Did you love but never learn?
The fire’s out but still it burns
And no one cares, there’s no one there.
 
Did you find it hard to breathe?
Did you cry so much that you could barely see?
In the darkness all alone
And no one cares, there’s no one there.
 
But did you see the flares, in the sky?
Were you blinded by the light?
Did you feel the smoke, in your eyes?
Did you? Did you?
Did you see the sparks filled with hope?
You are not alone
‘Cause someone’s out there, sending out flares.
 
Did you break but never mend?
Did it hurt so much you thought it was the end?
Lose your heart but don’t know when
And no one cares, there’s no one there.
 
But did you see the flares, in the sky?
Were you blinded by the light?
Did you feel the smoke, in your eyes?
Did you? Did you?
Did you see the sparks filled with hope?
You are not alone
‘Cause someone’s out there, sending out flares.
 
Did you lose what won’t return?
Did you love but never learn?
 
But did you see the flares, in the sky?
Were you blinded by the light?
Did you feel the smoke, in your eyes?
Did you? Did you?
Did you see the sparks filled with hope?
You are not alone
‘Cause someone’s out there, sending out flares.
 
But did you see the flares, in the sky?
Were you blinded by the light?
Did you feel the smoke, in your eyes?
Did you? Did you?
Did you see the sparks filled with hope?
You are not alone
‘Cause someone’s out there, sending out flares.
 




Angolo autrice
Hello everybody! :) Dopo una piccola pausa, eccomi tornata.
No, non potevo uccidere Law e Camilla. Non così e non ora, almeno.
Non so se con questo capitolo mi sia fatta perdonare, ma, se così non fosse, sono sicura che riuscirò nel mio intento con il prossimo. Per il momento, spero che ciò che la mia mente ha partorito vi sia piaciuto. Mi auguro di essere riuscita a spiegare più o meno tutto. Ovviamente ci saranno altre cose che verranno chiarite in seguito (ad esempio cosa vuole Dragon da Cami). Invece, per quanto riguarda le condizioni dei due sventurati, ho azzardato. Non essendo un medico, potrei aver fatto degli strafalcioni e vi prego di scusarmi qualora dovessero esserci incongruenze gravi. Btw, so che l'espediente del "Doflamingo ha sbagliato mira perché è alto tre metri e ha gli organi deformati" potrebbe sembrare assurdo, ma o questo o Camilla sarebbe morta. E voi non avreste voluto che Camilla fosse morta, giusto? Con Law è stato più facile, lui è astuto, lungimirante e possiede dei poteri che gli permettono di fare cose straordinarie. <3
I versi alla fine del capitolo sono della canzone "Flares" dei "The Script". Questa è un'altra canzone che ritengo molto bella e ho voluto inserirla perché sia la melodia che il testo comunicano speranza, in mezzo ad un mare di tristezza. E quelle due povere anime hanno bisogno di quanta più speranza possibile per guarire. Ce la faranno? Chi lo sa. Niente è scontato. Dopotutto, sono ridotti piuttosto male. Ma almeno sono al sicuro, l'aiuto che avevano invocato è arrivato (tardi, ma è arrivato).
Che altro? Ah, sì. Spero che Ivankov sia IC!
Ve lo aspettavate che potesse essere andata a finire in questo modo? È stato un colpo di scena o era prevedibile? Che ne pensate? Se vi va, fatemelo sapere! Come sempre, ci tengo ad avere la vostra opinione! :)
Nel frattempo, ringrazio chiunque abbia avuto la voglia e la pazienza di seguire la storia fino a qui e chi vorrà continuare a seguirla. Grazie di cuore. <3 
Alla prossima! :)

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Capitolo 46
*** Magia ***


Erano passati cinque giorni da quando Ivankov era venuto a farci visita e ci aveva iniettato i suoi ormoni, e i tre giorni successivi erano stati tre giorni di intensa sofferenza per me e per Law. Era vero, lui non era un normale essere umano ed aveva tempi di ripresa più rapidi, ma aveva preso una bella botta e sospettavo che stavolta non se la sarebbe cavata tanto facilmente. Nella stessa misura in cui io avevo perso la mia voce, lui aveva perso la sua capacità di muovere gli arti e non appena aveva smesso di sentire dolore – il dolore causato dagli ormoni – aveva provato a muovere braccia e gambe, senza risultati. Avevo evitato di infierire per non infastidirlo, ma speravo che potesse guarire e recuperare tutta la mobilità che aveva prima.
I restanti due giorni erano state giornate di calma piatta. Non ci eravamo scambiati molte parole, in parte perché eravamo un po’ in imbarazzo, in parte perché eravamo stanchi. E poi, scrivere su quella maledetta lavagnetta mi faceva affaticare molto.
«Emporio Ivankov è senza dubbio una persona particolare» commentai, persa nei miei pensieri, dopo aver sbuffato una risata.
Spalancai gli occhi e guardai il capitano, esterrefatta. Poi iniziai a sorridere come un’ebete, mentre allo stesso tempo sospiravo ripetutamente, decisamente sollevata. Non me ne ero praticamente accorta, ma mi era tornata la voce! Non avrei potuto essere più felice. Non vedevo l’ora di ritornare a parlare. Ero in estasi. Adesso finalmente potevo fare quello che progettavo di fare da tempo. Tediare il Chirurgo della Morte continuando a cantare ripetutamente e per tutto il giorno “È un mondo piccolo” e “Ho tante noci di cocco splendide”. Non potendo muoversi – e di conseguenza non potendomi tappare la bocca con il lenzuolo o peggio, uccidermi – doveva sopportare quella che per lui sarebbe stata sicuramente una tortura.
Law mi osservò, in un modo diverso da come mi aveva guardato le altre volte. Quasi avrei potuto dire che mi stesse rivolgendo uno sguardo dolce. Mi sorrise e da quel sorriso percepii che anche lui era contento che avessi ritrovato la voce. Ma lo era solo perché ancora non sapeva quali fossero le mie intenzioni diaboliche. Ghignai, in modo ambiguo. Avevo imparato dal migliore.
Riportai lo sguardo dritto davanti a me e mi sfiorai la gola con le dita. Allora gli ormoni che mi aveva somministrato il rivoluzionario avevano davvero fatto effetto. Quasi non ci credevo. Del resto, noi medici siamo sempre un po’ scettici quando si tratta di cose “mistiche”. Il polso sinistro e il fegato erano ancora messi male, ma l’aver riacquistato la capacità di emettere suoni bastava per rendermi felice. Dopotutto, il trans-formato faceva i miracoli fino a un certo punto. Era risaputo che quello della guarigione fosse un processo lento e doloroso e non si poteva pretendere troppo dal proprio corpo.
«Te l’avevo detto» dissi rivolgendomi al chirurgo e stupendomi di me stessa ancora una volta. Non avevo intenzione di pronunciare quella frase. C’erano tante cose che avrei voluto dire al mio capitano non appena avessi ripreso a parlare, e adesso che l’avevo fatto, mi era scappata proprio l’ultima cosa che pensavo che avrei mai affermato. Evidentemente era stato un riflesso involontario, era il mio subconscio che mi spingeva ad iniziare quel discorso.
Il moro mi guardò storto.
«Te l’avevo detto» ripetei leggermente offesa «ti avevo detto che il sogno che ho fatto tempo fa era reale. Ma non mi hai ascoltato. Nessuno lo fa mai» sputai fuori tutto d’un fiato, quasi senza rendermene conto. La voce, fino a quel momento, mi era uscita un po’ roca, come era normale che fosse.
Sentii Law sbuffare, seccato.
«Se mi avessi ascoltato, se mi avessi dato retta, a quest’ora non saremmo...»
Fui interrotta dalla voce calma e piatta del mio capitano.
«Fare la vittima, lamentarti ed accusare me di essere stato negligente, non allevierà i tuoi sensi di colpa».
Trasalii e boccheggiai per qualche secondo. Finii per abbassare la testa, senza sapere bene che dire. Aveva fatto centro con poche parole, come sempre.
«Come fai a sapere che mi sento in colpa?» gli domandai, rialzando il capo e fissandolo con un aria da cane bastonato.
«Tu ti senti sempre in colpa» sentenziò senza aspettare nemmeno mezzo secondo.
Sospirai. Aveva ragione. E io avevo ragione quando sostenevo che il Chirurgo della Morte fosse la persona che meglio mi conosceva al mondo; che fosse quello da cui provenivo o quello in cui mi trovavo ora.
«Mi hai disubbidito» tuonò all’improvviso dopo alcuni minuti di silenzio tombale, facendomi istantaneamente voltare verso di lui. Sembrava molto arrabbiato.
«Lo so. Perdonami» gli risposi. Supponevo che quello fosse un argomento molto delicato da affrontare e che lo avesse preservato fino a quel momento proprio perché voleva discuterne a voce. Dopotutto, gli avevo fatto un affronto enorme. Non solo avevo bellamente ignorato i suoi ordini, ma mi ero anche finta la sua fidanzata. Per non parlare del fatto che gli avevo intimato di stare zitto in più occasioni e lo avevo chiamato con il nomignolo che tanto detestava. Forse avevo sbagliato, tuttavia lo avevo fatto a fin di bene e per una causa più che giusta. Almeno questo, avrebbe dovuto riconoscermelo.
«Saresti potuta morire» rincarò la dose dopo un po’. Evidentemente questo pensiero era diventato il suo chiodo fisso. La domanda era...con chi di noi due ce l’aveva di più?
«Ti sembro morta?» gli chiesi, con un tono a metà tra l’ironico e l’infastidito.
«Ti accorgerai molto presto delle conseguenze» quasi mi minacciò, freddo e calmo. Aggrottai la fronte, non sapendo che pensare. Dovevo avere paura? O dovevo ridere delle sue intimidazioni infondate? Non c’era motivo di spaventarsi, ora che il peggio era passato. E le uniche conseguenze che c’erano state erano l’accorciamento della mia vita e la permanenza in un letto d’ospedale, che tanto mi andava stretto. Tuttavia, ammettevo che il pensiero che ci potessero essere altre conseguenze – e da come lo aveva detto Law, che era uno che sapeva il fatto suo, specialmente su queste cose – mi metteva addosso un po’ di inquietudine.
«Sono viva. È questo ciò che importa» gli dissi convinta poco dopo.
«Ma a quale prezzo sei viva?» mi domandò, sempre impassibile.
«La vita. La vita è un prezzo più che sufficiente» replicai scettica e senza guardarlo, non capacitandomi di come facesse, proprio lui, a non capire le mie motivazioni. Non c’era bisogno che lo informassi sui miei obiettivi da raggiungere e su tutte le cose che avevo ancora da fare e per cui non potevo assolutamente mollare, perché li conosceva benissimo. Mi aveva sentito ripetere tutto almeno mille volte in quei due anni.
«Non era la tua battaglia. Perché lo hai fatto?» volle sapere, cambiando argomento repentinamente. Aspettava di chiedermelo da tanto, ne ero sicura.
«Perché sei il mio capitano. È mio dovere proteggerti. E poi, te lo dovevo» affermai, evitando il suo sguardo inquisitorio e concentrandomi sul pollice che mi stavo mordicchiando.
«Perché. Lo. Hai. Fatto.» ripeté arrabbiato, scandendo bene le parole ed alzando la voce. Non c’era cascato. Dovevo fare qualcosa, stavo diventando troppo prevedibile. Avevo perso il mio tocco magico. O forse, eravamo stati a contatto l’uno con l’altra per così tanto tempo che ormai non avevamo segreti.
Esitai qualche istante prima di rispondere, dedicandomi al mio povero pollice, che stavo martoriando. Mi ci volle un’enorme forza di volontà per dichiarare quello che dissi e per non scoppiargli a piangere in faccia. Mi morsi un labbro e piegai la testa da un lato, fissandolo quasi afflitta. Le mie sopracciglia si incurvarono, facendo formare rughe d’angoscia sulla mia fronte. Presi un paio di respiri profondi, nel tentativo di mascherare la mia commozione.
«Perché, al momento...tu sei tutto ciò che ho» risposi con voce rotta, stavolta sinceramente, sull’orlo di una crisi di pianto. I miei sforzi di mantenermi impassibile erano stati vani. «Tu, i Pirati Heart. Tutti voi. Siete parte di me. Non posso perderti. Non posso perdervi» mugolai, sprofondando la testa nel cuscino e affossando il collo nelle spalle. Ma non avevo ancora finito, così presi coraggio e parlai di nuovo.
«Se fossi rimasta lì a guardare mentre quell’abominio ti massacrava e poi fossi scappata alla prima occasione utile...non avrei avuto il coraggio di ritornare sul Polar Tang, di guardare in faccia i miei compagni uno ad uno e di dire loro che tu eri morto. Che tu eri morto perché io ero stata troppo codarda per intervenire. Ma soprattutto...non avrei avuto il coraggio di guardare me stessa allo specchio, giorno dopo giorno. Il rimorso mi avrebbe lentamente consumata e allora, la mia, non sarebbe più stata una vita. E credimi quando ti dico che ci sono già passata e che in quei momenti avrei preferito la morte» feci, mentre una lacrima scendeva delicatamente lungo la mia guancia destra. Le mie corde vocali tremolavano un po’, ma non era per lo sforzo. Era perché nel petto sentivo uno strano senso di malinconia che ben presto si era diffuso anche nel resto del mio corpo. Law non mi aveva mai guardata. Per tutto il tempo in cui avevo parlato, lui era rimasto a fissare la porta del bagno davanti a sé.
«Come vedi, la mia è stata una scelta facile. Piuttosto sofferta, ma relativamente facile. Perché io non sono più la persona che ero una volta. Nel bene e nel male. Ti prego di capirlo e di accettarlo. Anche perché tu hai contribuito a rendermi diversa e mi hai aiutato a diventare una persona migliore» continuai, nella speranza di ridestarlo dallo stato catatonico in cui era piombato. Non sarei tornata indietro sui miei passi, nonostante le mille difficoltà che avrei dovuto affrontare. Perché Zoro mi aveva insegnato che se non fossi neanche riuscita a proteggere il mio capitano, le mie ambizioni sarebbero state senza valore.
Seguì qualche minuto di tormentante e pesante silenzio, in cui mi sforzai di scacciare le lacrime che premevano per uscire.
«Sei una stupida» mi disse con disprezzo ad un certo punto, facendomi sbuffare una risata e scuotere la testa.
«Sapevo che me lo avresti detto» iniziai, con tono saccente «Ma sai che c’è? Questa stupida ti ha salvato il culo» continuai risentita. Di certo adesso non avrei pianto.
«Non ti ho chiesto di farlo» sibilò, quasi come se fosse offeso.
«No, infatti. L’ho fatto perché volevo farlo. Perché ci tenevo a farlo» precisai, iniziando a picchiettare le dita della mano destra sulla sbarra metallica del letto. Mi stavo innervosendo.
«È vero, forse ho sbagliato a farti ingerire il siero, ma almeno sono intervenuta. Ho fatto qualcosa, nonostante fossi completamente paralizzata dalla paura. Ho agito e così facendo ho messo entrambi nei casini, ma ti ho dato abbastanza tempo perché tu non morissi miseramente davanti ai miei occhi» sputai. Stavo iniziando ad agitarmi sul serio. Se avessi potuto, mi sarei alzata dal letto e me ne sarei andata dalla stanza.
«Non voglio stare a discutere per una cosa così futile, ora che ho appena recuperato la voce. Ma, mi dispiace dirlo, non ti saresti salvato se non fossi intervenuta. Così facendo ho fatto guadagnare abbastanza tempo ad entrambi perché Dragon e il resto dei Rivoluzionari potesse raggiungerci e sconfiggere quell’immondo mostro. Se fossi scappata o se fossi rimasta a fare la bella statuina, tu saresti crepato» proclamai, cercando di mostrarmi fiera e sicura «A pensarci bene, non mi sarebbe dispiaciuto così tanto, visto che così avrei evitato questa stupida e scomoda conversazione» borbottai poco dopo. Ero passata dalla commozione alla rabbia in meno di un secondo netto. Solo lui aveva la capacità di rendermi così umorale.
«Se disobbedirai un’altra volta ad un mio ordine o oserai fare una cosa del genere, ti ucciderò con le mie mani» dichiarò serio, facendomi alzare un sopracciglio «Ma suppongo che per questa volta io debba dirti grazie» continuò poi, rilassandosi.
Feci per alzare il dito medio, ma ci ripensai e lo riabbassai subito. Invece sospirai.
«Prego» replicai. Anche io mi ero calmata.
Seguirono istanti di silenzio in cui riflettei a fondo su quello che dire.
«Senza di te che mi fai da insegnante bacchettone o che mi insulti, mi esasperi e mi rompi le scatole, non ha senso vivere» affermai infine, abbassando la voce fino a ridurla ad un mero sussurro – nella speranza che quell’affermazione sfuggisse all’udito canino di Law – e roteando gli occhi «Me lo volevi proprio far dire, eh?» gli chiesi retoricamente, con l’aria scocciata di chi aveva appena detto qualcosa completamente controvoglia.
Scosse la testa e sbuffò una risata. Per un po’ non parlò. Forse stava pensando a quale fosse il modo più giusto per rispondermi.
«Ti ringrazio» ripeté, anche lui riluttante all’idea di dover ammettere che in fondo, molto in fondo, mi era grato per quello che avevo fatto. Ritirai in dentro le labbra per nascondere il sorriso che stava spuntando sulle mie labbra ed annuii, con l’espressione di chi stava aspettando quelle parole da tanto ma anche di chi era contento di sentirsele dire. Tornai seria nel momento in cui ripercorsi mentalmente tutta la vicenda.
«Oh, non c’è di che. Ti ho quasi ucciso con piacere» feci, sarcastica. Ero consapevole del fatto che il mio intervento gli avesse fatto guadagnare tempo e gli avesse garantito la salvezza, ma mi sentivo comunque responsabile per quanto accaduto. Sapevo di aver fatto tutto il possibile, sapevo di essermi spinta fino ai limiti delle mie capacità, ma in un certo senso sentivo che avrei potuto fare di più.
«Dovresti chiamare i medici e comunicare loro che hai recuperato l’uso delle corde vocali» mi consigliò poi Law, troncando la discussione sul nascere.
Gli rivolsi un’occhiata fugace e poi asserii. Per sicurezza era bene che controllassero la situazione. Nella mia mente lo ringraziai anche per quello. Se non altro qualcuno di noi si ricordava che ci trovavamo in fottuto ospedale. Ma non c’era bisogno che sapesse della mia gratitudine, c’erano stati fin troppi ringraziamenti per quel giorno.
Cercai il pulsante per chiamare i dottori, che era scivolato sotto le coperte e ci era rimasto per giorni, a tastoni e quando lo trovai lo premetti senza indugiare. Poi aspettai giusto un paio di minuti che arrivassero, diedi loro la lieta notizia e lasciai che mi visitassero, sotto gli occhi vigili ed attenti del mio capitano.
 
C’era da dire che quei medici non erano molto efficienti. Ma a quanto avevo capito quello era un ospedale immenso ed il personale scarseggiava. E comunque, di certo non erano impreparati, sapevano bene quello che facevano, ci mettevano solo un po’ di più per arrivare quando venivano chiamati. Si vedeva la passione con cui si adoperavano per curare i loro pazienti e la dedizione con cui aiutavano i feriti e i malati. Correvano come matti – spesso avevano il fiatone – da una stanza all’altra, ma nonostante questo erano quasi tutti sempre sorridenti ed era senza dubbio una bella cosa.
«Dragon-sama sarà felice di sapere che hai ripreso a parlare!» esclamò sorridendo il dottore occhialuto. Lo guardai poco convinta.
«Ci ha chiesto di informarlo sulle tue condizioni» si giustificò, leggermente imbarazzato.
Mi scambiai un’occhiata perplessa con Law ed annuii. Ancora non sapevo cosa volesse da me il Capo dell’Armata Rivoluzionaria, e quella maniacale ossessione che sembrava aver sviluppato per me mi faceva stare decisamente in ansia. Da un lato volevo assolutamente capire quali fossero le sue intenzioni e perché stesse mostrando tanta premura nei miei confronti, lui che apparentemente non ne aveva avuta nemmeno con suo figlio, dall’altra, proprio per questo motivo, non ci tenevo affatto a scoprire che cosa avesse in mente quello che al momento era considerato l’uomo più pericoloso del mondo.
I medici mi diedero le ultime raccomandazioni, ci salutarono ed uscirono, quasi senza che me ne accorgessi. Ero troppo impegnata a macchinare assurde teorie su quale ruolo potessi giocare in quella confusionaria scacchiera di eventi e persone che costituiva l’Armata Rivoluzionaria.
«Lo scoprirai quando uscirai da qui, smettila di preoccuparti» mi intimò asciutto il chirurgo. Lo fissai a bocca semischiusa, con quella che mi rendevo conto essere un’espressione a metà tra lo sconcertato e l’ebete. Cos’era? Mi leggeva nel pensiero? Ero davvero diventata così scontata e penetrabile? O aveva dei superpoteri di cui non ero a conoscenza? Forse erano stati gli ormoni di Ivankov ad averlo reso così sensibile e accorto. Non è che si sarebbe trasformato in una donna di lì a breve? Scossi la testa, cercando di scacciare quel pensiero infausto. Law, come donna, sarebbe stato decisamente sprecato. Stava benissimo – si faceva per dire – come stava.
Sospirai e mi persi di nuovo nei miei pensieri. “Smettila di preoccuparti”, mi aveva consigliato – o meglio, ordinato – il medicastro. La faceva facile, lui. Come facevo a smettere di preoccuparmi quando non avevo fatto altro dal momento in cui ero nata? Rufy. Avevo bisogno di più Rufy nella mia vita. Eravamo stati distanti per troppo tempo e cominciavo ad accusare il colpo. Doveva aiutarmi a vivere in maniera un po’ più leggera e spensierata, come aveva fatto in passato. Era lui la mia unica cura. Ma supponevo che così come io non sarei mai riuscita a convincere Cappello di Paglia a diventare vegetariano, la sua vicinanza non sarebbe mai riuscita a cambiarmi del tutto. Questo era quello che ero. Come tutti avevo i miei pregi ed i miei difetti, e ne andavo fiera. Dopotutto, l’imperfezione fa parte dell’esperienza umana, giusto?
«Non puoi chiedermi questo. Mi conosci, sai come sono fatta» lo rimproverai a mia volta. Rimanemmo immersi a lungo nel silenzio, a contemplare e riflettere su quanto incasinati fossimo davvero. Nonostante tutto, però, mi sentivo di dire che quello era un casino fottutamente bello. Non sapevo perché lo pensassi, sapevo che era così e basta. In fondo non mi dispiaceva di essermi cacciata in quel guaio. No, non mi dispiaceva affatto. Non se così facendo avevo contribuito a salvare una persona a cui tenevo. Forse le conseguenze di cui parlava Law erano solo stronzate che mi aveva propinato in un momento di incazzatura, perché si sentiva offeso dal fatto che avessi osato scavalcarlo. Doveva essere decisamente così. Ero tranquilla e fiduciosa del fatto che saremmo guariti presto.
 
«Smettila di guardarmi in quel modo.» quasi mi rimproverò dopo un po’. I suoi taglienti occhi grigi si erano posati su di me ed ora mi squadravano da capo a piedi con aria seccata.
Corrugai le sopracciglia, assumendo un’espressione interrogativa. “In quel modo” come? Con quale sguardo lo stavo fissando? A dire la verità, non mi ero neanche resa conto che lo stavo fissando, per di più con insistenza, a suo dire.
Nel dubbio continuai a fissarlo per un altro po’, tamburellando le dita sulla sbarra metallica del letto. Effettivamente c’era qualcosa che mi tormentava. C’era qualcosa che dovevo dirgli, da giorni. Aspettavo solo di recuperare la voce. Non potevo scriverglielo su una misera lavagnetta. Ma ero indecisa, non sapevo se fosse il caso o meno di farlo.
«Che c’è?» chiese avendo notato il mio nervosismo. Non c’era nulla che gli sfuggisse, neanche in quelle condizioni.
«Law» iniziai titubante, richiamandolo, sebbene avessi già la sua attenzione. Volevo che quello fosse un momento solenne. Mi incitò a continuare con un debole gesto della mano – che ancora aveva a difficoltà a muovere bene – ma che captai subito, facendomi intendere di saltare i convenevoli.
«C’è una cosa che devo dirti» gli comunicai «Anzi, che sento il bisogno di dirti, da giorni ormai. Te lo voglio dire per correttezza perché devi e hai il diritto di saperlo» continuai, seria «e tu la devi sentire almeno una volta perché...perché sì. Ci tengo che sia così».
«Avanti, allora» mi sollecitò. Iniziava ad essere impaziente.
Deglutii e mi feci coraggio. Avevo pensato tante volte a come affrontare quel discorso in quei giorni di silenzio e sofferenza, ma ora che ero sul punto di farlo non sapevo da dove cominciare. Era una cosa molto delicata da trattare, per quanto mi riguardava.
«Vuoi sapere perché ho fatto quello che ho fatto? Intendo oltre alle motivazioni che ti ho già dato» chiesi dopo qualche minuto al mio interlocutore, con un’espressione molto seria. Law rimase zitto, ma sapevo che era desideroso di conoscere le mie ragioni.
«Mi costa molto dirlo, perciò cerca di essere comprensivo» feci, sempre molto seria.
«Non dovresti parlare troppo, infatti. Potresti causare ulteriori danni alle tue corde vocali» mi ammonì, altrettanto solenne.
«Non è per quello» replicai io, secca ed infastidita. In un altro momento sarei stata contenta che lui si fosse preoccupato per me, ma non ora. Oltretutto non c’era motivo di stare in apprensione, stavo bene. Era vero, i dottori mi avevano detto di non parlare troppo in quei primi giorni, ma era una questione che se non avessi affrontato quel giorno non avrei affrontato mai più. E non potevo lasciare che cadesse nel dimenticatoio della mia mente.
«È una questione di orgoglio» specificai dopo poco. Con la coda dell'occhio vidi il mio capitano assumere uno sguardo seccato.
«Mi rendo conto di aver agito con avventatezza e di essere stata stupida. Ho messo in pericolo non solo la mia vita, ma anche la tua, che era già sul filo del rasoio, nonostante mi avessi ordinato di nascondermi e non fiatare e poi di fuggire» mi pronunciai dopo aver inspirato ed espirato a fondo.
«Già» confermò lui, assorto. Non sapevo a cosa stesse pensando, ma sembrava che non mi avesse ascoltato attentamente. La sua testa era altrove. Forse era stanco di discutere di quell’argomento, e potevo capirlo. Non ci sarei ritornata più, tuttavia quello dovevo dirglielo.
«Ma non sono intervenuta nello scontro per insubordinazione o perché sei il mio capitano, come ti ho già detto. E nemmeno perché una minima parte di me prova dell’affetto per te» feci una pausa, aveva iniziato a farmi terribilmente male la gola.
«Taglia corto» mi impose. Odiava chi lo teneva sulle spine, era sempre stato un tipo sbrigativo. Ma quella volta, nel suo tono c’era più apprensione che fastidio. Proprio perché ai suoi occhi attenti e vigili non sfuggiva niente.
«Sapevo bene di non poter vincere e che stavo andando incontro a morte certa, ma ho agito lo stesso, perché...non potevo sopportarlo» dissi, mordendomi poi un labbro.
«Cosa non potevi sopportare?» chiese, innervosito da tutta quella suspense.
«L’espressione sulla tua faccia. Ti ho guardato e sul tuo volto ho visto sofferenza e disperazione. E non potevo sopportare di vedere tale scena, né di rimanere con le mani in mano mentre tu venivi annientato. Non potevo sopportarlo allora, quando per me eri solo inchiostro su un foglio, figurati quando eri a pochi metri da me in carne ed ossa» gli confessai, fissandolo intensamente nelle sue iridi di ghiaccio «Tu...tu ti eri arreso. I tuoi occhi erano vacui. E io...» continuai, tuttavia dovetti fare una piccola pausa per cercare di riprendere il controllo dell’improvviso senso di costrizione che si era impossessato del mio petto. Odiavo essere così emotiva. Soprattutto davanti a Law. Tuttavia non potevo farne a meno, quando si trattava di lui.
«Non potevo permetterlo, non dopo tutto quello che abbiamo passato insieme. Sarei stata una cattiva subordinata, una cattiva persona e soprattutto una cattiva amica» affermai fiera dopo essermi ripresa «Sempre che siamo amici...» riflettei poi, a voce un po’ più bassa.
«Non ti saresti dovuta immischiare. Non c’era comunque niente che tu avessi potuto fare» lo disse con una durezza tale che mi spiazzò. Non capivo se era arrabbiato con me per avergli disubbidito o se invece ce l’aveva con se stesso, per non essere stato capace di proteggermi. Avrei voluto rassicurarlo e dirgli che non doveva sentirsi in colpa, perché ero stata io stessa a prendere quella decisione; sapevo bene a cosa andavo incontro ed implicitamente ne avevo accettato tutte le possibili conseguenze. Invece, non so per quale assurdo motivo, mi arrabbiai.
«Te lo ripeto. Ho trattenuto Doflamingo abbastanza da impedire che ti trucidasse.» lo pronunciai tutto d’un fiato. Stavo iniziando ad alzare la voce ed ad alterarmi anche io, ma non avrei dovuto farlo, perché una fitta dolorosa alle corde vocali mi fece fare un piccolo sussulto. Sperai che Law non se ne fosse accorto.
«Smetti di parlare» ribadì, freddo, fulminandomi con lo sguardo.
Mi azzittii all’istante, annuii e lo guardai con la coda dell’occhio. Quello che mi faceva uscire dai gangheri più di tutto, era che non riuscivo a comprenderlo. Non riuscivo a leggere il mio capitano. Non sapevo mai che intenzioni avesse, se fosse grato del fatto che gli avessi salvato la vita o se fosse arrabbiato perché ero intervenuta nello scontro nonostante mi avesse ordinato di non farlo, oppure ancora se quando mi diceva di stare zitta era perché era preoccupato per la mia salute o infastidito dai miei commenti probabilmente fuori luogo. Sospirai, in parte per la frustrazione, in parte rassegnandomi al fatto che non lo avrei mai compreso del tutto. In fondo sapevo che anche per lui era lo stesso con me. Buffo, non è vero? Eravamo due persone incomprese e parzialmente incapaci di comprendersi, che si erano ritrovate a condividere lo stesso destino. Ma d’altronde, come si suol dire, “mal comune, mezzo gaudio”. Giusto?
 
***
 
Mi svegliai di soprassalto e gridai, forte. Il cuscino era fradicio del mio sudore, come quasi tutte le altri notti dopo la colluttazione. Avevo il fiato corto, mi sembrava di non riuscire a respirare e tremavo. Erano passati altri dieci giorni dopo il dialogo che avevo avuto con il capitano. Avevo recuperato la voce senza problemi, i medici mi avevano detto che la mia gola stava benissimo e la mia pelle aveva riassorbito i punti. Potevo parlare, urlare e cantare tutto il giorno senza rischiare nulla e senza neanche avere mal di gola, finalmente. Anche il mio braccio destro ed il mio fegato stavano bene, e il polso sinistro iniziava a guarire. Gli ormoni di Ivankov stavano svolgendo il loro lavoro. Ma il mio tormento era ben lontano dal finire. Il chirurgo non si era sbagliato quando mi aveva detto che mi sarei accorta presto delle conseguenze di quel mio gesto avventato. Non sapevo come, né perché, ma ad un certo punto avevo iniziato ad avere incubi tremendi ogni volta che mi addormentavo.
Ogni notte rivivevo quella battaglia. Ogni notte facevo sempre lo stesso incubo. Ripercorrevo all’infinito quell’orribile incontro nella mia testa. Ogni singola parola, ogni singolo gesto e quel dolore senza fine che mi aveva causato Doflamingo. Ed era tutto così vivido, come se lo stessi affrontando da capo. Provavo lo stesso dolore, udivo il terrificante rumore dei colpi di pistola, vedevo Law immerso in una pozza di sangue, esanime e poi sentivo l’agghiacciante risata del Demone Celeste mentre mi stritolava il polso con il piede. Sentivo il suo filo affilato attraversarmi la gola e la suola della sua scarpa che spingeva sulla mia trachea. Ogni notte mi sembrava di morire. Poi mi svegliavo e mi rendevo conto di essere in una stanza d’ospedale, al sicuro, con accanto il mio capitano che per la maggior parte delle volte era sveglio e mi fissava nel buio. E mi sentivo terribilmente in colpa perché lui era messo molto peggio di me ed era costretto a sopportarmi mentre gridavo e mi dimenavo nel sonno, senza poter dire né fare niente. Perfino i dottori ormai non correvano più in camera quando mi svegliavo urlando, anche se in parte erano stati sollecitati da me a stare alla larga dalla nostra stanza di notte, qualora non fossero stati chiamati. Il fatto che loro si precipitassero tutti trafelati nella camera mi faceva sentire ancora più umiliata. Stavo bene. Non c’era niente che non andasse, almeno fisicamente.
Buttai fuori tutta l’aria che avevo in corpo. Poi girai la testa verso il moro.
«Mi dispiace» dissi, anche stavolta.
«Sempre lo stesso incubo?» mi chiese atono.
«Sempre lo stesso» asserii io. Dopo il quarto giorno di urla notturne disperate, avevo deciso di togliermi la cintura del tutto prima di addormentarmi. La appoggiavo sul comodino, affianco a me, cosicché nessuno potesse sentirmi gridare. Non potevo risparmiare quella sofferenza solo al povero Law, che purtroppo mi sentiva e mi vedeva comunque.
«È tutto a posto. Starai bene, vedrai» cercò di rassicurarmi, purtroppo invano. Cominciavo a perdere le speranze. Cominciavo a credere che quella tortura sarebbe durata in eterno e cominciavo a desiderare che quel giorno quel mostro mi avesse uccisa.
«Ehi» mi richiamò, facendomi voltare verso di lui. Evidentemente si era accorto del mio stato emotivo piuttosto instabile. «Ce la faremo, te lo prometto» mi sussurrò. Nel buio le sue iridi sembravano brillare, come se fossero riempite da una luce di sincera speranza, la stessa che entrambi avevamo perso tempo addietro.
Boccheggiai un paio di volte con gli occhi che mi bruciavano. Quelle che mi disse potevano sembrare parole stupide, ma quando le pronunciò mi vennero le lacrime agli occhi. Poi, fece qualcosa di totalmente inaspettato, che mi lasciò senza fiato e che mai mi sarei scordata. Nella penombra – l’unica cosa che illuminava la stanza era la luce della luna che filtrava dalla piccola finestra in alto a sinistra – riuscii a scorgere Law che allungava delicatamente e lentamente il suo braccio verso di me, attraverso le sbarre metalliche del letto. Strabuzzai gli occhi fissando le dita ed il dorso della sua mano macchiati di inchiostro nero. Non ci potevo credere. Lo stava facendo davvero? Mi stava davvero tendendo la mano? Lui? Di sua spontanea volontà? O stavo avendo un’allucinazione? Quando capii che le sue intenzioni erano serie, non mi feci scappare l’occasione e, ancora incredula, feci altrettanto. Ci stringemmo le mani – stranamente entrambe calde – e iniziai a piangere silenziosamente. Quel gesto significava tutto per me. Sapevo quanto anche il minimo movimento gli provocasse dolore. Le sue ferite erano più profonde delle mie e di conseguenza, nonostante il suo corpo fosse più forte e resistente rispetto al mio, gli ci voleva più tempo per guarire e sebbene avesse recuperato la capacità di movimento degli arti, ancora non riusciva a muoverli senza sentire un male tremendo. Questo contribuiva a duplicare il valore della sua azione.
«Sei stata coraggiosa. Sono orgoglioso di te. Ti devo la vita. Grazie» si pronunciò; così delicatamente che quasi stentai a credere che fosse la sua voce. Lo guardai e lui mi sorrise. Non c’era malizia nella sua espressione, solo gentilezza.
A quel punto cominciai a singhiozzare senza ritegno. Strinsi con più forza le mie dita tremolanti attorno alle sue, evitando però di fargli male. Quando, un paio di secondi dopo, allentai la presa, sentii la sua mano stringere un po’ più debolmente la mia. Entrambi avevamo bisogno di quel gesto. Ne avevamo bisogno come l’ossigeno. Ero sicura che da fuori quella sembrasse una scena a tratti patetica. Dopotutto, eravamo due persone malridotte, costrette in un letto d’ospedale, che avevano le mani – livide, fasciate e piene di fori a causa degli aghi delle varie flebo inserite nelle nostre vene – congiunte. Ma per me, quella che stavo vivendo era una scena magica, piena di affetto e gratitudine.
«Sai perché sono intervenuta, contro Doflamingo? La paura mi bloccava, ma mi è bastato guardarti. Nei tuoi occhi c’era disperazione, c’era il vuoto. Tu non sei così, non sei questo. E non potevo sopportare di stare lì senza fare niente e vedere la luce nel tuo sguardo spegnersi a poco a poco. Ero così angosciata per te e per quello che sarebbe stato il tuo destino» gli feci sapere con voce rotta, lasciando che le lacrime andassero a bagnare il cuscino.
«Lo so, me l’hai già detto» disse, calmo. Mi lasciai sfuggire un’esclamazione di sorpresa. Era vero, già gliel’avevo detto. Nella confusione del momento me ne ero dimenticata. Forse sentivo solo il bisogno inconscio di ripeterglielo quante più volte possibile, per evitare di doverlo rivedere in quello stato pietoso. Eppure non era stato tagliente come era di solito quando qualcuno gli ripeteva più volte le cose. Era stato...dolce. Comprensivo. Questo contribuì a farmi versare altre lacrime roventi.
«Non te lo meritavi...non te lo meritavi» piagnucolai, ricominciando a singhiozzare e tirando su con il naso un paio di volte.
«Nessuno di noi se lo meritava!» esclamai in un mugolo di rabbia. Anche se c’era molto più della rabbia in quella frase. C’era dolore, tristezza, paura e soprattutto stanchezza. Ero stanca di stare male, stanca di essere bloccata in quel letto e stanca di dovermi svegliare ogni notte per colpa di quegli incubi soffocanti. Ero stanca. Tanto stanca.
«Staremo bene, vedrai» cercò di rassicurarmi. Non lo avevo mai visto essere così delicato e “mieloso”. Dovevo essere proprio messa male. O lui era impazzito completamente.
Tirai su con il naso.
«L’ultima volta l’ho detto io a te, e guarda...» feci una pausa, perché non riuscivo a parlare «Guarda come siamo finiti...» gli dissi infine tra i singhiozzi, con il timbro di voce più alto di almeno due ottave rispetto a quello che avevo di solito, quasi rimproverandolo affettuosamente. In un’altra occasione forse ci avremmo riso sopra, ma non era quello il momento di mettersi a dare false speranze. Eravamo vivi, certo, ed io ne ero felicissima. Ma saremmo stati bene? Saremmo veramente guariti? O quel maledetto giorno ci avrebbe tormentati per sempre?
«Hai visto la tua famiglia?» mi domandò ad un certo punto. Le nostre mani erano ancora l’una nell’altra. La sua, complici anche le sue dita affusolate, era parecchio più grande della mia, che quasi spariva, avvolta e protetta da quell’involucro sicuro.
Mi rivolsi a lui con uno sguardo incredulo, mentre l’ennesima lacrima mi rigava una guancia. Non c’era bisogno che mi spiegasse a cosa si riferiva, avevo capito benissimo.
«Sì...» asserii «Come fai a saperlo?» chiesi a mia volta, decisamente sorpresa dalla sua domanda.
Ci fu qualche attimo di silenzio in cui mi tormentai nel cercare di indovinare la risposta.
«Perché io ho visto la mia» mi rispose, con tono piatto.
Ricominciai a piangere senza ritegno. Chiusi gli occhi e feci un paio di respiri profondi, imponendomi di darmi un contegno.
«Erano felici?» chiesi, trovando il fiato per parlare tra un singulto e l’altro. Ci mise un po’ per replicare anche a quella domanda.
«Sì» affermò pensieroso, senza guardarmi. Tuttavia sentii le sue dita, tra le mie, irrigidirsi leggermente.
Ritirai in dentro le labbra e mi portai la mano sinistra al petto – sebbene il massiccio gesso che mi avvolgeva il polso mi rendesse i movimenti pesanti – ed iniziai a stritolare quell’orribile camice bianco che portavo da settimane con le mie deboli falangi. Il mio corpo era scosso da potenti tremori. Non avevo idea se quelli che stessi provando fossero sollievo e gioia o se invece fossi preda di una profonda tristezza. Tirai su con il naso almeno quattro o cinque volte.
Le nostre famiglie erano lì, da qualche parte. Ci aspettavano. E sembravano felici, in pace, consapevoli che prima o poi ci saremmo rivisti. Eppure, non sentivo il desiderio di tornare da loro, non subito, almeno. E sospettavo che fosse così anche per l’uomo accanto a me.
Non riuscivo più a contenermi, ormai ero in totale balia di un violento pianto convulso. Sarei esplosa prima o poi, se avessi continuato così. Frignavo e gemevo come se fossi stata una neonata in preda alle coliche. Non sapevo davvero più se stessi piangendo per la tristezza o per la gioia. Non sapevo più niente. Non sapevo neanche cosa pensare. Cosa dire. Cosa fare.
«Non piangere» mi intimò dopo un po’, tuttavia in maniera dolce. Inutile dire che non smisi affatto di singhiozzare. Anzi, continuai, incapace di fermarmi. Poi sospirò, come se stesse per fare una cosa contro la sua volontà. «Com’era quella canzone?» volle sapere.
Quale canzone? Che c’entrava adesso una canzone? Non riuscivo a capire e non riuscivo nemmeno a parlare. Potevo solo sperare che in qualche modo captasse i miei pensieri.
Approfittai del breve momento di silenzio che seguì, per asciugarmi il naso con il gesso che ormai faceva presenza fissa sul mio polso sinistro. Non era molto elegante, ma in mancanza di altro mi facevo andare bene anche quello. Di certo non avrei staccato la mia mano da quella di Law.
«Se cerchi la luce che...» iniziò a cantare, molto piano. Supponevo che nemmeno lui avesse troppa forza per comunicare. Mi lasciai scappare un'esclamazione di sorpresa. Ecco di cosa parlava. Allora se la ricordava. Provai a sbuffare una risata. Invece che migliorare la situazione, però, quella canzone cantata da lui la peggiorò. Il letto ora tremava, scosso dai miei singhiozzi. Paradossalmente erano singhiozzi di gioia. Potevo aver odiato il chirurgo, avergli imprecato contro, potevo avergli mandato malefici, malanni, potevo essere stata sul piede di guerra tante volte con lui. Da quando navigavo sotto al suo vessillo ero quasi morta una trentina di volte ed un paio di queste era stato lui a tentare di uccidermi. Ma era questo che adoravo di Trafalgar Law. Spesso poteva avere un atteggiamento freddo e distaccato, e quasi sempre era realmente distante con le persone con cui si rapportava, ma quando si trattava di qualcuno a lui caro, se questo aveva bisogno d’aiuto, sapeva confortarlo in un modo così profondo che sarebbe stato impossibile da spiegare. Ed era così bello e così commovente, perché a vederlo mai avrebbe dato la parvenza di uno che ci tenesse o a cui importasse qualcosa. Eppure eccolo lì, la sua mano nella mia, a canticchiare una canzone che aveva sentito forse una volta in vita sua e che per giunta detestava. Ma lo stava facendo, perché sapeva e capiva che io ne avevo un immenso bisogno.
«Aiutami. Non me la ricordo tutta» mi sollecitò.
Mi feci forza e smisi di piangere. Raccolsi le mie energie per non far tremare la voce e cominciai a cantare. Dovevo farlo.
«Splende per te lassù...è la Seconda Stella a Destra, splende un po’ di più. La Stella ti indicherà l’Isolachenoncè...la luce ti accompagnerà, mostrandoti dov’è» canticchiai soave, per quanto fosse difficile nello stato in cui ero.
Un calore improvviso si irradiò in me mentre, ancora con la mano ben salda in quella del moro, davanti agli occhi mi passavano le meravigliose immagini di quella che era stata la mia vita dal momento in cui la Stella mi aveva trasportato lì, fino a quel suggestivo istante. Era stata senza dubbio una vita intensa ed interessante. In quell’attimo, qualcosa scattò. Fu come se nel mio cuore si fosse riaccesa la fiamma della speranza. E dentro di me, giurai che non si sarebbe mai più spenta, per nessun motivo al mondo.
 
«Una canzoncina orecchiabile, non trovi?» chiese Law, una volta che avemmo finito di cantare, probabilmente più per farmi contenta che altro. Comunque, ancora una volta mi stupì il fatto che potesse fare una cosa del genere.
Avevamo deciso, di comune accordo, che sarebbe stato meglio separare le mani. Stava iniziando a diventare troppo imbarazzante.
Annuii guardandolo e sorridendogli mentre con il palmo della mano mi asciugavo una lacrima fugace.
«Non pensavo ti piacesse, l’altra volta mi hai detto che ti faceva schifo» commentai, prendendolo un po’ in giro.
«È che sei stonata» mi informò sogghignando.
Sbuffai una risata, anche se mi uscì più come l’ennesimo singhiozzo.
«Hai un aspetto pietoso» mi disse, tornando alla sua solita espressione arrogante. Aggrottai la fronte e spalancai la bocca, fingendo di essermi offesa.
«Pensa per te!» esclamai ridendo e squadrandolo da capo a piedi.
«Sarà meglio rimettersi a dormire, ora» affermò il mio capitano dopo che entrambi ci fummo lasciati andare ad una breve risata. Se non altro, ero riuscita a dare un po' di sollievo dai suoi tormenti anche a lui.
Feci di sì con il capo, cercando di ricompormi. Poi feci sprofondare la testa nel cuscino.
«Grazie Law, per tutto. Davvero per tutto.» mi pronunciai, con voce tremolante per la commozione.
«È stato quasi un piacere» rispose. Era tornato ad essere il Chirurgo della Morte che conoscevo. «Buonanotte Camilla» disse subito dopo, sistemandosi in una posizione un po’ più comoda.
«Buonanotte capitano» replicai, stanca ma felice.
 
No. Non poteva finire così. Tra le tante cose, ce n’era ancora una che desideravo dirgli. Mi sporsi per arrivare fino al comodino – che in realtà non era un comodino – e quando lo trovai, premetti l’interruttore che accese la piccola lampada che stava appena sopra al mio letto, accanto alla sacca di liquidi per la flebo. Vidi il chirurgo guardarmi di sottecchi, infastidito.
«Ehi, Law» lo richiamai, adagiandomi sul fianco destro – facendo attenzione a tubi e aghi vari – cosicché potessi osservarlo bene. Girò la testa verso di me ed alzò un sopracciglio.
«Che c’è?» fece, cercando però di contenere il suo fastidio.
Sorrisi e sollevai il braccio ingessato, chiudendo la mano a pugno ed alzando solo indice e medio, in segno di vittoria. Mi guardò con quella che mi parve un’espressione sorpresa.
«Ti voglio bene!» esclamai, socchiudendo gli occhi e facendo un sorriso sghembo a trentadue denti. Finalmente gliel’avevo detto. E il modo in cui l’avevo fatto, era un modo decisamente particolare. Un modo che lui avrebbe dovuto riconoscere subito.
Per un attimo mi parve di vederlo spalancare gli occhi e corrugare le sopracciglia. Una gocciolina di sudore gli scivolò lungo la mascella, irrigidita e serrata. Quasi mi sembrò di essermelo immaginato, da quanto rapido fu l’istante. Infatti, si riprese subito e si mise a sogghignare, scuotendo poi la testa e sbuffando una risata con quella sua aria arrogante. Speravo, con quel gesto, di avergli ricordato il suo Cora-san, anche solo per un secondo. Speravo di non avergli fatto un torto, ma anzi, di averlo reso felice in qualche modo. Questo si meritava, più di qualsiasi altra persona al mondo. Si meritava di essere felice. Si meritava di lasciarsi alle spalle tutti i demoni del passato che tanto lo avevano tormentato e fatto soffrire, privandolo di un’esistenza normale. Si meritava di ricominciare da capo. Di vivere una vita felice, prospera e piena di soddisfazioni, proprio come avrebbe voluto il suo mentore. E si meritava delle persone accanto che sapessero donargli affetto e calore. Si meritava solo il buono che c’era in quel mondo per gran parte marcio. Si meritava un futuro ed una vita migliori di quanto finora gli fosse stato concesso. Incurvai le sopracciglia, sorrisi appena e lo fissai con gli occhi leggermente lucidi dalla commozione.
«Dormi» mi raccomandò, distogliendomi dalle mie poetiche riflessioni e riportando lo sguardo dritto davanti a sé.
Feci una piccola risata e mi allungai sull’interruttore per spegnere la luce.
Quella notte si era consumata la magia più potente di tutte, che avrebbe fatto sembrare quella della Seconda Stella a Destra un semplice trucco di un mago di strada mediocre e squattrinato. Quella era la magia dell’amore. La magia di due persone che si volevano bene e che, sebbene spesso fossero in disaccordo e litigassero, e si insultassero, tenevano l’una all’altra più di qualsiasi altra cosa al mondo e avrebbero fatto di tutto pur di salvarsi a vicenda. La magia di due anime complicate che entravano in simbiosi. Una magia così potente e forte che nessuno sarebbe mai stato in grado di spezzare. E mai in vita mia più di quella volta, avevo avuto così tanto rispetto per Law e gli avevo voluto così tanto bene.
E, con quello che fece quella sera per me, riuscì anche a farmi passare gli incubi. Almeno per un po’ di tempo.
 
 
 
 
When you were standing in the wake of devastation
When you were waiting on the edge of the unknown
And with the cataclysm raining down
Insides crying "Save me now"
You were there, impossibly alone.
 
Do you feel cold and lost in desperation?
You build up hope, but failure's all you've known
Remember all the sadness and frustration
And let it go
Let it go.
 
And in a burst of light that blinded every angel
As if the sky had blown the heavens into stars
You felt the gravity of tempered grace
Falling into empty space
No one there to catch you in their arms.
 
Do you feel cold and lost in desperation?
You build up hope, but failure's all you've known
Remember all the sadness and frustration
And let it go
Let it go.
 
Do you feel cold and lost in desperation?
You build up hope, but failure's all you've known
Remember all the sadness and frustration
And let it go
Let it go
Let it go
Let it go
Let it go.
 
Do you feel cold and lost in desperation?
You build up hope, but failure's all you've known
Remember all the sadness and frustration
And let it go
Let it go.




 
Angolo autrice
Salve a tutti. :)
Allora, prima di tutto, ci tengo a dire che stavolta la canzone alla fine del capitolo non era programmata (anche perché in realtà c'è già una canzone all'interno del capitolo). Tuttavia, visti i recenti eventi, ho voluto inserire questi versi per rendere omaggio (a modo mio e per quanto questo si possa considerare un omaggio) ai Linkin Park, un gruppo che mi è sempre piaciuto molto. Tra tutte le loro canzoni, ho scelto "Iridescent" perché mi è sembrata la più adatta per descrivere il particolare momento che stanno attraversando Law e Cami. Spero che apprezziate la scelta e che nessuno si senta offeso da ciò, perché come ho detto la mia è un'iniziativa personalissima, un modo per ringraziare questa band che mi ha accompagnato negli anni ed ha anche contribuito a fornirmi l'ispirazione per qualche capitolo. :)
Spero che "Magia" vi sia piaciuto e spero di essermi fatta perdonare una volta per tutte con le scene finali che vi ho proposto qui. Lo confesso: ho adorato scrivere le ultime parti. Dopo tutta la disperazione che hanno provato quelle povere anime (e che ho provato anche io, perché sono pur sempre i miei "bimbi"), finalmente un po' di dolcezza! Direi che ci voleva proprio un loro momento speciale. <3 Certo, la disperazione c'è sempre, ma sorvoliamo su questi insignificanti dettagli...apprezzate il mio tentativo di non fare la sadica, per una volta. :D
Lo ammetto, all'inizio il resto del capitolo non mi convinceva pienamente, ma non sono riuscita a pensare ad un altro modo in cui avrei potuto scriverlo o impostarlo. Per cui, eccolo qui. Mi auguro che non sia noioso e/o ripetitivo! E mi auguro anche che si capiscano le emozioni contrastanti che prova Camilla nei primi paragrafi. La ragazza si sente in colpa per aver fatto ingerire il siero al suo capitano, perché così facendo ha contribuito a far peggiorare ulteriormente la situazione, ma allo stesso tempo è consapevole che, nonostante i rischi che ha corso, se non fosse intervenuta Law sarebbe morto.
Bene, direi che questo è tutto. Come sempre, il vostro parere è sempre ben accetto e gradito! :)
Alla prossima e grazie a chi ha seguito la storia fin qui e a chi vorrà continuare a seguirla! <3

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Capitolo 47
*** Incontro ***


Base dei Rivoluzionari. Posizione e nome sconosciuti.
Un mese dopo.
 
Percorsi gli ultimi metri che conducevano a quella specie di porto improvvisato con un groppo in gola. Non potevo credere che fosse già arrivato il momento di salutarci. Insomma, mi era sembrato di aver passato un’eternità in quel dannato letto d’ospedale, ma adesso che ero vicina a salutare il mio capitano, per poi non vederlo più per diversi mesi, tutti i giorni trascorsi in quella monotona stanza grigia scivolavano via come le gocce di pioggia che si posavano sul vetro del finestrino di un’auto. Erano passati due lunghi e difficili mesi, ma adesso che Law stava per partire, mi sembrava appena una settimana.
Il sentiero che stavamo percorrendo finì, per fare posto alla banchina portuale arrangiata quasi sul momento. Giustamente, non sarebbe stato prudente per i Rivoluzionari avere un vero e proprio porto sull’isola su cui risiedevano. Dovevano agire nell’ombra e senza farsi notare troppo. A pochi metri da noi c’era l’oceano. Mi era mancato sentire lo sciabordio delle onde che si infrangevano contro la scogliera e lo stridio occasionale dei gabbiani che volavano liberi sopra le nostre teste. Mi era mancato il cielo, che chiusa in quella camera non avevo avuto il privilegio di vedere per parecchio tempo e anche il profumo di salsedine che aleggiava nell’aria che ci circondava e che mi entrava dentro e andava ad incastonarsi nei miei polmoni. Vedere il mare luccicare delle scintille che rifletteva il sole, alto nel cielo, era uno spettacolo meraviglioso, soprattutto se era accompagnato da una leggera brezza che mi solleticava il viso e che mi faceva ondulare i capelli. Era curioso, non ci avevo mai fatto caso prima d’ora. Non che ne avessi avuto proprio modo, visto che la mia ciurma per navigare usava un sottomarino. Però, quelle poche volte che risalivamo in superficie, non avevo mai notato l’argenteo scintillio dell’acqua. Poi era capitato quello che era capitato e avevo imparato a vedere la vita da una diversa prospettiva. Una prospettiva forse migliore. Adesso apprezzavo tutto di più, a cominciare dalla mia stessa esistenza e dal fatto che avessi il beneficio di respirare, di camminare e di parlare. Ma soprattutto, avevo iniziato a dare molto più valore alle persone a me care. Il fatto che il moro fosse lì, accanto a me e che riuscisse a passeggiare tranquillamente, mi infondeva calma, speranza e coraggio.
Lo stomaco mi si chiuse quando davanti a noi scorsi la caravella che doveva riportare Law dal resto della ciurma. Era piccola, ma aveva l’aria di una nave che sapesse cavalcare fieramente le onde. A bordo c’erano già alcuni dei pochi rivoluzionari incaricati di fare da scorta al mio capitano. Avevano tutti un lungo mantello di vari colori. Prevaleva il marrone, ma si potevano notare anche il verde ed il blu notte. Mi chiesi se il colore che portavano addosso fosse una loro scelta o se corrispondesse a qualche preciso criterio di distinzione. Un uomo, accortosi che eravamo giunti a destinazione, sorrise ed alzò il braccio in direzione del chirurgo, facendogli segno di salire a bordo. Non avevo idea di dove si trovava quell’isola sperduta – né di come si chiamasse – ma qualunque fosse stata la durata del viaggio, già sapevo che il medicastro si sarebbe rintanato per tutto il tempo nella sua cabina. Non fosse mai che troppi sorrisi e troppa gentilezza lo facessero ammalare.
«Quindi ci siamo. Siamo arrivati al capolinea» considerai tenendo lo sguardo basso e concentrandomi nel calciare via un piccolo, innocente sassolino che stava proprio davanti ai miei piedi. Sia io che il mio maestro eravamo più o meno guariti, e per lui era tempo di tornare dai Pirati Heart. Dopotutto, quegli scalmanati, avevano bisogno di lui più di quanto ne avessi io. Non proprio, anche io avevo bisogno di lui, ma per il momento potevo cavarmela, mentre i miei compagni indubbiamente no. Sospettavo che Bepo, Penguin e Shachi – ma in particolare l’orso – soffrissero molto per la mancanza del loro mentore. Avevano bisogno di una guida e sapevo che il moro non li avrebbe delusi, per quanto, nonostante tutta la fiducia che riponessi in lui, temevo che dopo quello che aveva passato potesse vacillare e crollare.
Scossi debolmente la testa, dando di nuovo un calcetto ad un altro sasso. Lui non era come me. Lui era più forte. Più risoluto. E soprattutto, era un vero capitano. Lo dimostrava il fatto che fosse in piedi accanto a me riuscisse a camminare perfettamente, sebbene fino a tre settimane prima nemmeno ce la facesse ad alzarsi dal letto.
«Temo che purtroppo ci rivedremo presto» replicò Law in tono eccessivamente sarcastico, facendomi tornare alla realtà. Lo guardai male e lui sogghignò. Poi feci lo stesso anche io.
«Non temere, il tuo segreto è al sicuro con me» lo rassicurai, dandogli un leggero colpetto con la spalla destra. Sembrò pensarci appena un paio di secondi, dopodiché annuì e cominciò a ghignare. Era comodo avere un interlocutore a cui non servisse spiegare nulla. Il quasi bacio, la canzone e la mano nella mano, sarebbero per sempre rimasti dei segreti che avrei custodito gelosamente nel mio cuore. Con lui andavo sul sicuro, non avrebbe rivelato quello che era successo in quei due mesi nemmeno sotto tortura, anche perché nella sua vita aveva sopportato cose ben peggiori. Ma l’imbarazzo e la derisione per essersi lasciato andare una volta tanto ad un gesto dolce, quelli no, non li poteva sopportare.
«Hai pur sempre una reputazione da cattivo senza cuore da mantenere, giusto?» scherzai, facendogli l’occhiolino.
«Law-san, quando vuole, è tutto pronto» gridò un rivoluzionario dall’imbarcazione, facendoci voltare entrambi verso di lui. Lo stomaco mi si strinse ancora di più nell'udire quell’affermazione. Era arrivata l’ora fatidica. Dovevamo separarci. Feci un passo di lato e mi voltai completamente verso Law, posizionandomi tra lui e la barca, come se in qualche modo potessi dissuaderlo dal partire. Ora eravamo uno di fronte all’altra. Lui squadrava la piccola caravella al di sopra della mia spalla, quasi come se fosse impaziente di salirci. Assottigliai gli occhi per cercare di penetrare la sua espressione imperscrutabile. Non riuscii a trattenere un sorrisetto beffardo. Cos’era? Aveva paura di salutarmi? Il temibile e tanto temuto Chirurgo della Morte, colui capace di ghiacciare con uno sguardo un’intera Nazione, aveva paura di pronunciare un semplice “arrivederci”?
Riportò le sue iridi grigie su di me, un po’ spazientito. Presi un respiro profondo.
«Mi mancherai» dissi, fissandomi le punte dei piedi «Beh, mi mancherete tutti» mi corressi poi, riportando lo sguardo su di lui e sorridendo impacciata.
«Anche tu mancherai ai miei uomini» affermò con un piccolo ghigno. Sbuffai una risata e roteai gli occhi. Non lo avrebbe mai ammesso. Mai e poi mai, neanche sotto tortura. Ma probabilmente non c’era nulla da ammettere. Io avrei sentito la sua mancanza – e quella di tutti i Pirati Heart – ma lui non avrebbe sentito la mia. Ne ero quasi certa.
«Immagino che invece tu sia felice di passare qualche mese senza dover stare a sentire le mie allegre canzoncine giorno e notte» considerai, incrociando le braccia ed alzando un sopracciglio con aria di sfida.
Fece un lieve cenno d’assenso con il capo accompagnandosi con una rapida alzata di sopracciglia ed allargò il suo ghigno, ma non disse niente. Sospettavo che fosse sollevato all’idea di poter stare per un po’ senza avere i timpani perforati da quelle che lui chiamava “torturanti cantilene infinite”, che in realtà altro non erano che orecchiabilissime canzoncine provenienti dai più disparati film Disney. Mi finsi offesa per qualche secondo, poi tornai seria e scura in volto.
«Vorrei salutarti come si deve, ma...l’ultima volta che ci siamo quasi abbracciati siamo finiti sul giornale, io sono diventata la tua amante e mi hanno assegnato una taglia sulla testa e affibbiato un soprannome odioso, per cui...» feci impacciata e in imbarazzo, ma anche divertita. Non per niente per il disagio presi a grattarmi nervosamente la nuca.
«Però una cosa posso dirtela lo stesso» continuai, riprendendomi dalle mie titubanze ed incastonando le mie iridi ambrate alle sue di ghiaccio. Lo squadrai da capo a piedi, soffermandomi sul suo torace, che vista la mia scarsa altezza era proprio al livello dei miei occhi.
Poggiai le mie mani sul colletto del suo lungo cappotto nero con aria maliziosa. Mi trattenni un attimo ad osservare il rigido tutore che da qualche giorno avvolgeva il mio polso sinistro al posto dell’ingombrante gesso, che essendo anch’esso nero si abbinava perfettamente con l’indumento indossato dal mio capitano. Non c’era da meravigliarsi, avevano fatto scegliere a me il colore per grazia concessa – non che avessi avuto molta scelta, o quello o un fucsia abbagliante – ed io lo avevo scelto color pece lucida, una gradazione che coincideva con il mio stato emotivo di quei giorni. Mi arrivava appena sotto il gomito ed era molto più leggero e comodo del gesso, avevo più libertà di movimento. C’era da dire che quando mi avevano tolto il gesso, avevo sussultato nel vedere il mio polso. Aveva un aspetto orribile. Era pallido, di un bianco cadaverico e sembrava molto più sottile di quanto me lo ricordassi. Avrei detto perfino che era emaciato. C’erano ancora dei lividi violacei e giallastri dovuti alla rottura delle ossa e dei capillari. Cercai di non pensarci troppo e feci scivolare le mie dita sul petto di Law. Lo sentii irrigidirsi e trattenere il fiato. Incastonai di nuovo i miei curiosi occhi nocciola alle sue pupille cineree, che invece mi guardavano interrogative. Dopodiché, afferrai la zip e la feci lentamente scivolare giù, fino al suo ombelico. Lasciai che le mie falangi scorressero sulla cicatrice che attraversava il suo torace per obliquo, quella che era stata provocata dalla mia ascia e che gli era rimasta come un ricordo della dura battaglia fisica e psicologica che avevamo combattuto. Al tatto era quasi impercettibile, gli ormoni di Ivankov avevano fatto il loro dovere e lo sfregio era guarito piuttosto bene. Tenni le dita in quella posizione per un po’ di tempo e le feci seguire i contorni della cicatrice per qualche secondo, come se stessi dipingendo un disegno ben preciso sulla sua pelle.
Mi fermai, con la mano appoggiata a palmo aperto sul suo torace, ed alzai un sopracciglio.
«Sei un pirata. Non devi nascondere le tue cicatrici» lo rimproverai, ghignando arrogantemente. Sollevò appena il mento, con occhi fieri e divertiti. Poi girò di poco il viso ed annuì impercettibilmente, come a concedermi quella mia piccola vittoria.
«Chi è stato a dirtelo?» chiese, serio, anche se nel suo sguardo c’era una punta di piacere. Era stato proprio lui a dirmelo ed evidentemente doveva ricordarsi bene di quel giorno. Non che fosse una novità, lui si ricordava di ogni cosa. Questo mi fece sorridere, ma mi trattenni.
«Me l’ha detto un tale, una volta. Un tipo un po’ burbero, scontroso, indisponente» scherzai, roteando lentamente gli occhi e fingendo di perdermi nei ricordi «Ma che sa il fatto suo» constatai in seguito, ritornando a fissarlo in volto. Mi guardò con uno sguardo eloquente, mentre gli poggiavo le mani sulle spalle e gliele stringevo leggermente con le dita.
«Abbi cura di te» mi raccomandai, seria ma serena.
«Anche tu» rispose, con un tono di voce ed un’espressione imperscrutabili.
«Lo farò» gli assicurai, annuendo solenne. Sollevai le braccia e lo liberai dalla mia presa, sospirando. Fece un impercettibile cenno del capo e poi si voltò per incamminarsi verso l’imbarcazione, il cui equipaggio aspettava solo lui per partire. Lo guardai fare qualche passo.
«Ah, capitano» lo richiamai, facendolo voltare. Non sembrava infastidito come mi aspettavo, era tranquillo. «Mi prometti che tu e Rufy non affronterete Kaido finché non ti sarai pienamente ristabilito?»
Sembrò pensarci un attimo, poi annuì fiaccamente. Incrociai le braccia e lo rimproverai con gli occhi. Sperai davvero che in quei mesi mantenesse la promessa. Non ci sarebbe stata cosa peggiore che leggere sul giornale la notizia che lui e il suo alleato erano morti per affrontare un Imperatore, mentre io mi trovavo bloccata lì, senza che avessi potuto fare niente per evitarlo.
«Che sia chiaro, al tuo ritorno sul mio sottomarino io tornerò ad essere il tuo capitano e non ci saranno trattamenti speciali o di favore» mi informò freddamente. Alzai gli occhi al cielo e ghignai.
«Certo, capitano» asserii annuendo «Ora vai a riprenderti il tuo cuore» gli dissi poi, sorridendo. Lui sbuffò una risata e fece un cenno d’assenso. Dopodiché, ripercorse la breve distanza che ci separava, sotto il mio sguardo sorpreso, e mi posò delicatamente una mano sulla spalla. Mi fissò negli occhi. Feci per parlare, ma ero alquanto stupita da quel suo gesto e non riuscivo a trovare le parole adatte. Ad ogni modo, non ce ne fu bisogno, perché fu lui il primo a prendere la parola.
«Ritrova te stessa, Camilla» mi disse serio. Sgranai gli occhi e schiusi la bocca. Poi ritirai in dentro le labbra ed annuii convinta. Non potevo credere che me l’avesse detto davvero. Non potevo credere che me l’avesse detto proprio lui. Lui, che quasi non credeva a queste cose spirituali. Eppure eccolo lì. Non avevo sentito male e quelle parole le aveva pronunciate davvero. E proprio quelle parole mi confermarono quanto Law fosse un bravo capitano. Quanto ci tenesse ai suoi subordinati, seppure non lo desse a vedere. Come al solito, aveva capito. Aveva capito che mi sentivo un po’ spaesata e che ancora non avevo accusato del tutto il colpo per quello che era successo con Doflamingo. Però, secondo il chirurgo, quelle parole erano il massimo conforto che poteva darmi, ora che partiva. Glielo leggevo negli occhi. Era ben nascosto, ma c’era. Il desiderio di rimanere alla base dei rivoluzionari ancora un po’. Ma non poteva restare, perché aveva una ciurma intera da rassicurare e da guidare. Ed era giusto che partisse. Io, in fondo, potevo cavarmela da sola. Non ero più una bambina e non avevo bisogno di tenere la mano di qualcuno per attraversare la strada. Forse il moro avrebbe voluto fare di più, ma io volevo che partisse sereno, senza pesi da portare sulle spalle o rimpianti. Ecco perché volli tranquillizzarlo con un’occhiata eloquente.
«Non stare troppo in pena per me» scherzai – ma neanche tanto – con un’alzata di sopracciglia.
A quel punto, chiarificato ciò che c’era da chiarificare, fece un passo indietro. Sollevai una mano e mossi delicatamente il polso in segno di saluto e lo osservai sorridermi blandamente, rigirarsi e percorrere il tragitto che lo separava dalla nave.
«Ci rivediamo tra quattro mesi, Traffy» gli urlai, non appena fu salito sull’imbarcazione.
Dopotutto era stato chiaro. Sarebbe tornato ad essere il mio capitano al mio ritorno sul suo sottomarino. Fino a quell’istante ero libera di chiamarlo e comportarmi come più mi aggradava.
Era troppo lontano perché io potessi vedere la sua reazione, ma dal momento che non sembrava intenzionato a rispondermi, mi voltai e feci qualche passo verso la struttura che ospitava l’armata rivoluzionaria e che mi avrebbe ospitato nei mesi a seguire.
«A quanto pare» commentò acido dopo un po’, assicurandosi che lo sentissi «un vero peccato, Regina di Cuori».
Mi fermai all’istante – con tanto di gamba a penzoloni per aria –  nel sentire il soprannome che tanto detestavo. Mi irrigidii e digrignai i denti. Tuttavia non potei neanche fare a meno di sorridere. Senza girare il viso alzai il braccio con la mano chiusa a pugno, eccetto per il dito medio, che si ergeva dritto sugli altri. Ero sicura che Law stesse sogghignando. Era così che ci saremmo lasciati. Non saremmo stati noi stessi se avessimo fatto altrimenti. E poi, dovevo ammettere che pronunciato da lui il mio appellativo non era niente male.
Udii i marinai dare l’ordine di alzare l’ancora. Feci un respiro profondo. Quello era il punto in cui ci salutavamo. Sarebbero stati quattro mesi impegnativi senza il mio capitano, soprattutto dopo quel periodo, in cui avevamo passato giorno e notte insieme. Mi sarebbe mancato, ma era giusto così. Lui doveva tornare dal suo equipaggio ed io dovevo adempiere ai miei obblighi di riconoscenza verso Dragon. E poi, era ora che il Chirurgo della Morte si rimettesse il suo vero cuore nel petto. Non ero ancora riuscita ad abbracciarlo da quando ero stata catapultata in quel mondo, ma prima o poi avrebbe ceduto e ce l’avrei fatta. In questi quattro mesi Law avrebbe fatto meglio a prepararsi alla mia “furia”. Dopotutto, un abbraccio non avrebbe fatto male a nessuno dei due. Sbuffai una risata al pensiero, mentre mi avvicinavo sempre di più alla porta di quell’enorme struttura che era l’effettiva base dell’Armata Rivoluzionaria e mi preparavo ad incontrarne il capo. Era arrivata l’ora di scoprire le sue motivazioni.
 
Non mi avevano nemmeno lasciato il tempo di fare una doccia. Un rivoluzionario, piuttosto giovane e impacciato, mi aveva detto di seguirlo. Gli avevo chiesto se potevo perlomeno andare a cambiarmi prima, perché se dovevo presentarmi alla persona che stava ai vertici di un’organizzazione importante come lo era l’Armata Rivoluzionaria, ci tenevo a fare almeno una figura decente. Invece non era stato possibile, ed ecco che mi ritrovavo a camminare per il lungo ed ampio corridoio della base appresso ad un ragazzo poco più grande di me, che mi stava conducendo dal padre di Rufy, con indosso una t-shirt color grigio topo e dei pantaloni neri che mi arrivavano di poco sotto al ginocchio. Law aveva voluto tenere a tutti i costi il suo cappotto, che era comunque meno malridotto ed insanguinato dei miei vestiti. Io, invece, avevo accettato di mettermi quello che mi avevano portato, insistendo sul fatto che mi sarei tenuta addosso i miei stivali, con i pugnali, immacolati, ancora dentro alle apposite tasche.
Sospettavo che Monkey D. Dragon avesse fretta. Del resto, probabilmente aspettava questo momento da due mesi e aspettava di conoscermi da ancora prima. Il perché non lo sapevo e non ero sicura di volerlo scoprire. Era un mistero un po’ per tutti. D’altronde non avevo mai fatto nulla di memorabile da quando ero lì. La taglia che avevo sulla testa si poteva dire che mi fosse stata assegnata per pura coincidenza. Tutto il resto era roba di poco conto, di certo non degna dell’attenzione del capo supremo dell’Armata Rivoluzionaria. Mi persi in queste riflessioni mentre mi guardavo intorno ed osservavo l’ambiente che mi circondava. Da fuori, l’aspetto che avevano l’isola e la struttura in cui risiedevano, sembravano ben diverse da Baltigo, sebbene l’avessi vista solo un paio di volte tempo addietro e non me la ricordassi granché. Ma all’interno, l’architettura era pazzesca. Già solo il corridoio non era nulla in confronto a quello obsoleto e monotono del Polar Tang. Era...immenso. Ampio, areato, forse non molto luminoso, ma dalle grandi finestre filtrava abbastanza luce per poter vedere chiaramente le infinite e minuziose decorazioni che infestavano le pareti color crema e le arcate che costituivano l’alto soffitto. Il pavimento era in marmo lucido, le mattonelle nere e bianche che si alternavano davano la parvenza di essere finiti in una scacchiera. L’androne era così vasto e spazioso che avrebbero potuto attraversarlo Orso Bartholomew, Jean Bart e Gekko Moria fianco a fianco e ci sarebbe stato ancora un sacco di spazio. Sembrava quasi di essere all’interno di un’antica residenza per famiglie reali. Non pensavo che i rivoluzionari, che in un certo senso predicavano uno stile di vita umile e segreto, potessero trattarsi così tanto bene.
Il ragazzo che mi precedeva si arrestò di fronte ad un’immensa porta, poi si girò verso di me e si fece da parte, facendomi cenno di entrare. Aggrottai la fronte e presi un respiro profondo. Non sapevo che aspettarmi da quell’incontro, ora che Law se ne era andato non avevo più certezze o punti di riferimento. Appoggiai la mano sul portone e provai a spingere. Dovevo ammettere che era più pesante di quanto mi immaginassi. Mi voltai verso il giovane rivoluzionario.
«Dovrei bussare?» gli domandai titubante. Mi fece un sorriso.
«Non serve, puoi entrare» mi rassicurò, aiutandomi ad aprire le ponderose ante. Lo ringraziai e poi entrai, richiudendomi la porta alle spalle e trattenendo il fiato. Sentivo il cuore battere forte nel petto. Non era da tutti fare la conoscenza di un uomo importante come Dragon ed io, senza avere idea del perché, stavo per farla. Ero un po’ titubante e non ero riuscita a nascondere un certo timore, ma ero anche elettrizzata all’idea di incontrare il criminale più ricercato al mondo.
 
Mi accolse subito il senso di grandezza, non solo della stanza, ma della persona che la occupava. La camera era immensa, ma anche vuota. In fondo, al centro di essa, c’era una scrivania grande come un letto a due piazze, piena di scartoffie, alla quale sedeva l’uomo tanto temuto dal Governo Mondiale, intento a leggere qualcosa, probabilmente uno degli ultimi rapporti che aveva ricevuto. Dietro di lui, troneggiava un’enorme finestra semicoperta da dei drappi rossi di velluto con le frange dorate.
«Tu devi essere Camilla» una voce profonda e solenne mi distrasse dalle mie considerazioni. Riportai lo sguardo su di lui e feci qualche passo impacciato verso la scrivania. Sapeva il mio nome per intero, era più di quanto molti giornalisti idioti si fossero presi la briga di conoscere.
«S-sì...» balbettai incerta, sporgendomi in avanti come se stessi facendo capolino da dietro un muro invisibile.
«Prego, accomodati» fece la voce, accompagnata da un gesto della mano. L’uomo aveva alzato la testa e mi stava scrutando da dietro lo scrittoio con uno sguardo incomprensibile.
Il cuore mi batteva a mille, ma trovai la forza per muovermi e per mettermi seduta di fronte a lui su una delle due sedie che c’erano. Sospettavo che se non lo avessi fatto, le gambe mi avrebbero ceduto. Fino a quel momento, cosa volesse da me il capo dell’Armata Rivoluzionaria era un problema che mi ero posta velatamente. Avevo cose più importanti a cui pensare – ad esempio cercare di sopravvivere – e non avevo dato il giusto peso all’intera faccenda. Ma adesso che mi ritrovavo a pochi metri da lui, la questione era diventata più che mai reale e tangibile. Per tutto il tragitto, dal porto improvvisato fino quella gigantesca e pesante porta, non avevo fatto altro che chiedermi ed ipotizzare che cosa volesse da me. Voleva informazioni? Cercava risposte? Se sì, di che tipo? Come avrei potuto aiutarlo, sempre che gli fossi stata d’aiuto in qualche modo? E perché proprio io? Avevo i miei sospetti, ma avevo precedentemente deciso che avrei aspettato di sentire di persona le motivazioni di Dragon, invece che torturarmi il cervello con strampalate teorie campate quasi tutte per aria. Anche perché se c’era una cosa che avevo imparato stando lì, era che le situazioni imprevedibili prolificavano come la diffusione del virus che aveva portato il Rubeus Candidum su Lyborn.
Davanti a me, l’ombra di una figura imponente sovrastava tutta la superficie della scrivania. Incuteva timore, ma anche rispetto. Era un uomo dall’aspetto rude e quasi trasandato, ma aveva un’importante presenza e sotto alla sua apparenza da duro celava una grande intelligenza. Le spalle erano avvolte da un ampio mantello color verde bottiglia. I capelli erano scuri, spettinati – avrei detto perfino dritti – e lunghi, tirati indietro in quella che era la tipica pettinatura a “leccata di mucca”. Aveva la mascella squadrata e pronunciata, il naso aquilino e al tempo stesso un po’ schiacciato. Finalmente potevo ammirare i misteriosi tatuaggi, che a me sembravano riconducibili a qualcosa di tribale, color rosso rubino che sfoggiava sul lato sinistro del volto. Le labbra carnose facevano risaltare ancora di più gli occhi sottili e seri, a tratti arrabbiati, cerchiati di nero. Il tocco finale da uomo consumato glielo dava quel pizzetto incolto appena accennato sul mento, che evidentemente aveva deciso di farsi crescere in quegli anni. Era senza dubbio l’aspetto di un uomo che sapeva il fatto suo.
Mi torturai le dita per un po’ – stando attenta a non farmi male al polso – a testa bassa, senza sapere bene che dire o da dove cominciare.
«Ehm...ecco, io...volevo ringraziarla per quanto ha fatto per n...»
«Non serve. È mio dovere proteggere gli innocenti» mi interruppe bruscamente, troncando sul nascere i miei tentativi di ringraziarlo «Passiamo alle cose serie, piuttosto. Sai qual è il motivo per cui ho voluto incontrarti?» mi chiese, tagliando decisamente corto.
Scossi la testa, mortificata ed impaurita. Evidentemente si accorse del mio disagio, perché guardò alla sua sinistra. Spostai lo sguardo anche io e solo in quel momento mi accorsi che tra i vari fogli e le varie cartelle, vi era una bottiglia di vino rosso affiancata da due bicchieri.
«So che ti piace il vino» iniziò, accondiscendente. Boccheggiai. Fui un paio di volte sul punto di chiedergli come facesse a saperlo, ma poi ci rinunciai e decisi che sarebbe stato meglio non conoscerne il motivo.
«Serviti pure» mi incitò con un blando gesto della mano. Se mi dava il permesso lui, di certo non mi sarei messa a fare complimenti.
Con il tutore al polso non fu facile versarmi da bere, ma dopo qualche minuto ce la feci lo stesso. Cosa non avrei fatto per amore...o meglio, per amore del vino...
Mi portai il calice alle labbra e quando assaporai quella sostanza alcolica vermiglia fu come ritrovare un paradiso perduto. Dopo la sera in cui io, Penguin e Shachi ci eravamo ubriacati pesantemente, avevo giurato che non avrei più toccato una goccia d’alcol per molto tempo, ma non pensavo che sarebbe passato così tanto tempo. Ma adesso il mio fegato stava perfettamente bene ed era pronto ad immagazzinare tutto l’alcol che avevo intenzione di ingerire dopo quei mesi di astinenza forzata. Non per niente, bevvi ed un paio di sorsi dopo fui subito più rilassata e pronta per affrontare qualsiasi discorso stessimo per affrontare, a tal punto che appoggiai la schiena allo schienale della sedia su cui ero seduta. Tuttavia dovetti rapidamente abbandonare quella comoda posizione, perché vidi Dragon far scivolare un pezzo di carta verso di me. Era un giornale ed era al contrario, quindi lo rigirai e piegai la testa per leggere.
Rimasi allibita quando finii di dare una scorsa all’articolo, che risaliva a sei settimane prima.
«Non sono stata io. Non siamo stati noi. È stato quel mostro di Doflamingo» precisai subito, tentando di giustificarmi. La mia taglia era stata aumentata di quaranta milioni, per un totale che ammontava a sessanta milioni di Berry. Perché? Perché i giornalisti del cazzo, probabilmente su ordine del Governo Mondiale, avevano scritto che eravamo stati io e Law a sterminare l’intero villaggio di innocenti sull’isola su cui avevamo “incontrato” Doflamingo. Non era vero niente. Non eravamo stati noi, era stato quel demone ed il fatto che quell’orribile massacro venisse attribuito a me e al mio capitano mi faceva ribollire il sangue nelle vene. Tutto perché era più comodo rigirare la frittata e lasciare la gente nell’ignoranza più pura. Era peggio che stare nel romanzo di Orwell “1984”. Tutto era offuscato e sebbene la maggior parte delle persone ne fosse consapevole, a nessuno sembrava importare un accidente. Sbuffai ripetutamente ed iniziai a sbattere il piede per terra a ripetizione, segno che mi ero innervosita parecchio.
«Lo so che non siete stati voi. So riconoscere una notizia falsa. Volevo solo informarti di quanto è accaduto in queste settimane» mi comunicò, calmo «Più la tua taglia diventerà alta, peggio sarà» aggiunse poi, riprendendo il giornale e riponendolo in un cassetto.
«Veniamo al dunque» mi sollecitò, non lasciandomi il tempo di riflettere sulle sue ultime parole «Ho richiesto la tua presenza qui perché ho sentito diverse cose su di te, Camilla».
Incurvai le sopracciglia facendo spuntare una ruga in mezzo alla fronte, desiderosa di sapere di quali cose stesse esattamente parlando.
«Il mio Vice Comandante, ha combattuto al fianco di mio figlio Rufy e lo ha aiutato a sconfiggere uno dei sottoposti di Kaido» cominciò, tranquillo, facendomi quasi mangiare le unghie dalla trepidazione. Quella era una cosa più che risaputa. Avrei voluto urlargli di darsi una mossa e sputare il rospo una volta per tutte, ma sarebbe stato del tutto irrispettoso.
«E una volta conclusasi la battaglia, sono emersi alcuni particolari interessanti» affermò, versandosi anche lui un po’ di vino nel bicchiere. Assottigliai gli occhi.
«Quali?» chiesi piegandomi in avanti, leggermente spazientita. Voleva andare al sodo, ma lui era il primo a metterci un’eternità per arrivare al punto. Non che lo biasimassi, supponevo che quell'argomento andasse affrontato cautamente e con una certa delicatezza, ero solo impaziente.
«Si vocifera che tu provenga da un altro mondo» lanciò la bomba come se quella fosse la cosa più naturale di sempre. Schiusi la bocca, serrai le palpebre ed inalai tutta l’aria che i miei polmoni riuscirono a contenere. Guardai nervosamente alla mia sinistra, come se in qualche modo potessi chiedere l’approvazione per parlare al mio capitano, che mi dava forza in momenti del genere. Ma la sedia era vuota. Law non c’era. Non c’era nessuno a parte Dragon, di fronte a me. Decisi che sarebbe stato meglio non dire niente. Avrei aspettato che fosse stato lui a fare il prossimo passo.
 
«Quindi...lei crede alla mia provenienza?» gli domandai titubante, dopo che avemmo chiacchierato per un altro po’ di tempo e dopo che gli ebbi confermato la veridicità delle voci che giravano sul mio conto.
«Dovrei?» chiese a sua volta, serio ma sempre tranquillo.
«Per quanto assurdo possa sembrare...sì, dovrebbe. Perché io...» feci una piccola pausa per riuscire a trovare le parole giuste «Non sono di queste parti» confessai con voce leggermente tremolante. Ero sicura di apparire buffa, ma ammettere questo fatto con qualcuno che non fosse un componente della mia ciurma o un mugiwara, mi sembrava alquanto strano e a tratti ridicolo. Se qualcuno, prima di tutto quello che mi era successo, fosse venuto da me a dirmi che proveniva da un altro universo, molto probabilmente gli avrei riso in faccia e gli avrei procurato un biglietto di sola andata per il C.I.M. più vicino. Eppure lui non aveva battuto ciglio. Non solo, sembrava anche interessato a saperne di più sulla mia vicenda. Avrei voluto raccontargli tutto, ma c’era qualcosa che mi frenava. Non era la mancanza di fiducia, solo che c’era qualcosa che ancora non mi quadrava.
«Come...come ha fatto a saperlo? Voglio dire, che cosa l’ha portata a credere a questa conclusione strampalata?» gli chiesi, trattenendo il respiro. Non ero sicura di voler venire a conoscenza del motivo, ma allo stesso tempo sentivo di doverlo sapere, di dover dare una risposta ai miei dubbi.
«Come ti ho detto, è stato il mio Vicecomandante a suggerirmi questa bizzarra idea, dopo aver parlato con Cappello di Paglia» ancora una volta tagliò corto, ma la sua replica fu più che sufficiente per far accendere in me la lampadina. Ma certo. Come avevo fatto a non pensarci prima? E pensare che il capo dell’Armata Rivoluzionaria me l’aveva detto appena pochi minuti prima. Sabo e Rufy si erano rivisti durante la battaglia che li aveva visti impegnati contro Jack; e con la bocca larga – in tutti i sensi – che si ritrovava il moro, avrei dovuto aspettarmi che mi avesse menzionata e avesse parlato di me al tanto adorato fratello, che evidentemente gli aveva creduto subito ed era corso ad avvisare il suo capo. Quello che non mi aspettavo e che mai mi sarei aspettata, però, era che Cappello di Paglia ancora si ricordasse di me. Il ragazzo in questo era simile a Peter Pan, e di certo entrambi erano famosi per non avere una memoria a lungo termine. Il figlio di Dragon era capace di scordarsi di qualsiasi cosa nel giro di un minuto. Ma se non si era dimenticato di me, in quei due anni in cui eravamo stati separati, significava che io ero una persona speciale per lui e questo bastava per farmi sentire felice, di quella particolare felicità che avvolge tutto il tuo corpo e ti scalda il cuore.
«So di potermi fidare del Capo di Stato Maggiore e di mio figlio» dichiarò dopo un po’, facendomi ritornare con i piedi per terra e piegando l’angolo sinistro della bocca in un sorriso beffardo. Il modo in cui pronunciò la parola “figlio” mi mise un po’ di tenerezza. Si capiva che nonostante la lontananza e l’assenza gli voleva bene ed era fiero di lui. Certo, questo non bastava per farmelo etichettare come “padre modello”.
«Nel momento in cui ha cominciato a credere a quanto sostenevano Rufy e Sabo, ha iniziato a cercarmi?» volli sapere, piegandomi in avanti e sistemando il mento sopra al pugno destro. Avevo poggiato il gomito alla scrivania. Prima di rivelare i miei segreti, dovevo scoprire di più.
«Dovevo verificare che la loro teoria fosse vera» affermò, portandosi di nuovo alla bocca il bicchiere con il vino.
«E da cosa ha capito che era vera?» chiesi, facendo lo stesso. Mentre mandavo giù un grosso sorso di quel liquido alcolico, mi intimai di non bere troppo. Non potevo ubriacarmi.
«Me lo hai confermato tu stessa» ribadì, appoggiando la schiena allo schienale della sua poltrona e congiungendo le mani, probabilmente in attesa che cominciassi a raccontargli la mia storia.
«Giusto...» riflettei, umettandomi subito dopo le labbra per togliere i residui del sapore agrodolce che mi aveva lasciato la bevanda.
«Oltretutto, sembri disporre di particolari abilità. Puoi scomparire e riapparire a tuo piacimento, ma non hai mangiato un frutto del diavolo. L’agalmatolite non ha alcun effetto su di te» dichiarò calmo. Nei suoi occhi, però, potevo percepire una crescente curiosità. Distolsi lo sguardo da lui, soffermandomi su una pila di documenti appena adiacenti al suo gomito destro. Mi ci vollero un paio di minuti, in cui lui mi lasciò ragionare – e molto probabilmente metabolizzare – per capire da dove avesse racimolato tutte quelle informazioni. Poi, però, ebbi un’epifania. Assottigliai gli occhi ed iniziai ad annuire, come se avessi fatto la scoperta del secolo. Dunque il mistero era risolto. Questo spiegava anche come facessero a sapere che ero visibile solo se il mio corpo era a contatto con la cintura.
«Quindi, su quell’isola, mesi fa, quella volta che sono stata quasi catturata da un gruppo di sequestratori, è stato uno dei suoi uomini a sparare il colpo di pistola che mi ha permesso di scappare e mettermi in salvo?» domandai, dopo qualche altro minuto di pesante silenzio. Mi persi per un attimo a ricordare quell’episodio. Era stato sicuramente un avvenimento bizzarro, a cui non avevo dato troppo peso nei mesi a seguire. Con tutto quello che era successo, non potevo pensare anche a una vicenda del genere, per cui avevo preferito archiviarla in un angolino remoto del mio cervello. Dopotutto, mi bastava sapere di essermi salvata il sedere.
«Suppongo di sì. Era da tanto che ti stavamo tenendo d’occhio. Volevo parlare con te di persona, per discutere di alcune questioni. Non potevamo lasciare che ti accadesse qualcosa» mi spiegò, sempre calmo e posato «Purtroppo, siamo arrivati un po’ tardi sull’isola Tekashi e per gli abitanti non c’è stato nulla da fare. Ma almeno adesso un pericoloso criminale è rinchiuso al sicuro e tu e il tuo capitano state bene».
Mi lasciai sfuggire un’alzata di sopracciglio. “Bene” era una parola che non mi sarei azzardata ad usare. Ma almeno eravamo vivi, e questo era più di quanto potessi aspettarmi al momento del faccia a faccia con Doflamingo che avevamo avuto un paio di mesi prima.
«Capisco...beh, grazie per averci salvati e soccorsi. Lo apprezzo molto. E sono sicura che anche il mio capitano lo apprezzi» lo ringraziai, questa volta senza essere interrotta.
Fece un lieve cenno d’assenso con il capo, mentre io continuai a ricordare quel famoso episodio accaduto mesi e mesi prima, quando ancora non avevo una taglia sulla testa. Quei bastardi dei sequestratori avevano tentato di indebolirmi usando stupide – e inutili, era il caso di dirlo – catene di agalmatolite, ma ovviamente il loro piano era andato in fumo quando avevano visto che il mio “potere” funzionava ancora. A quel punto si erano impauriti e mi avevano dato della strega, proprio come aveva fatto Usop la prima volta che ci eravamo incontrati. Ma il più grosso di loro non si era lasciato intimorire troppo ed era tornato all’attacco, colpendo le catene, l’unica cosa visibile ai suoi occhi. Io, che ero legata come un salame e non potevo contrattaccare in modo efficace, ero caduta per terra; e proprio quando tutto sembrava perduto, era intervenuto quel mio misterioso salvatore che con uno sparo mi aveva dato abbastanza tempo per fuggire via. Avevo raggiunto in fretta e furia i miei compagni e mi ero fatta slegare. Le catene ce le eravamo tenuti, per ogni evenienza. Avremmo dovuto portarle anche su Tekashi, accidenti a noi. Disponevamo di oggetti utili che poi nessuno di noi usava mai, come per esempio la chiave della mia stanza che tenevo appesa al collo. Supponevo che fosse la maledizione dei Pirati Heart.
«Quindi lo sapevate» feci io, un po’ risentita. Se fossero venuti a parlarmi prima, ci saremmo evitati buona parte delle sciagure che ci erano capitate. Forse non avevano avuto modo di farlo. Sospettavo che non lo avrei mai saputo.
«Come ti ho detto, ti tenevamo d’occhio. Per una buona causa. So che sai come funzionano le cose in questo mondo» pronunciò la parola “mondo” con un po’ di scetticismo. Effettivamente non era facile trovare un termine adatto per chi non era avvezzo agli eventi. I primi tempi anche i Pirati Heart facevano fatica ad accettare la mia provenienza. Per fortuna a nessuno di loro era mai importato troppo. Anzi, ero sicura che alcuni di loro ancora credessero che le mie fossero per la maggior parte bugie. Ma con Dragon era diverso. Lui mi credeva. Anzi, voleva credermi. Ed il fatto che lui sapesse che io ero a conoscenza di varie cose, mi fece capire perché davanti a me si era riferito a Rufy come “suo figlio” senza farsi alcun problema. Evidentemente si fidava di me fino a tal punto. Questo gli faceva guadagnare punti. Certo, faceva ancora fatica a rendersi conto di ciò che gli era capitato sottomano. Poteva mostrarsi sicuro e interessato, ma ciò non toglieva che aveva davanti a sé una persona con una storia assurda e ai limiti del reale. Una storia che a questo punto meritava di essere raccontata. Conosceva cose sul mio conto che neanche alcuni dei miei compagni sapevano. Mi aveva tenuto sotto stretta osservazione, ma questo non mi disturbava, anzi, mi faceva sentire importante. Era pronto ad ascoltarmi senza pregiudizi e questo gli faceva onore. Ecco perché scelsi di fidarmi e di cominciare a riferirgli quello che mi era successo. Prima, però c’era un’altra cosa che dovevo chiarire.
«Le racconterò tutto ciò che vuole sapere. Ma prima di chiedermi qualsiasi cosa debba chiedermi, c’è una cosa che anche io devo sapere» esordii seria «La prego, mi racconti della battaglia tra lei e Doflamingo. Voglio sapere come è andata a finire».
Dragon prese un piccolo ed impercettibile respiro, poi annuì.
«Che cosa vuoi sapere?» mi chiese, altrettanto serio.
«Tutto» proclamai con sguardo deciso. Ero a conoscenza dell’esito di quella battaglia, ma dovevo conoscerne il principio e lo svolgimento. Sentivo che nel mio cuore solo così mi sarei potuta dare pace.

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Capitolo 48
*** Destino ***


«Non c’è che dire. Una storia particolare. E senza dubbio interessante» mi confessò Dragon immerso nei suoi pensieri, una volta che ebbi finito di spiegargli tutto.
Ero stata tre ore seduta su quella sedia a raccontargli per filo e per segno di tutte le vicende che mi avevano portato lì, davanti a lui. Mi ero sfiatata, la testa aveva iniziato a pulsare e sentivo un pizzicore alle corde vocali, che erano guarite, ma fino ad un certo punto. E ancora c’era tanto da dire, così tanto che era stata un’impresa anche solo cominciare da qualcosa. Gli eventi che mi aveva raccontato lui, poi, non aiutavano molto. O meglio, non aiutavano molto il mio cervello, che nelle ultime ore aveva dovuto elaborare ed elargire troppe informazioni. Tuttavia, il mio spirito si era decisamente risanato nell’ascoltare il racconto di Dragon su quante ne avesse prese il Demone Celeste da un nemico che non poteva in alcun modo battere.
Mi portai la mano destra alla tempia ed iniziai a massaggiarla compiendo movimenti circolari.
«Una storia più che vera, glielo posso assicurare» risposi a sguardo basso, continuando a massaggiarmi la testa. Avevo chiuso gli occhi, giusto il tempo che bastava per far smettere la testa di pulsare incessantemente.
«Non lo metto in dubbio. Ma ci sono ancora un paio di passaggi che mi piacerebbe chiarire. C’è sicuramente tanto materiale su cui discutere» affermò. Sentii la sua poltrona scricchiolare leggermente.
Mi lasciai sfuggire un sospiro esasperato. Avrei voluto collassare con la fronte direttamente sulla superficie liscia della scrivania.
«Ma abbiamo tempo. È per questo che ho richiesto la tua presenza qui per i prossimi quattro mesi» mi spiegò, rassicurandomi.
Smisi di massaggiarmi le tempie e rialzai lo sguardo su di lui, per poi spostarlo subito dopo sulla bottiglia di vino. Dragon capì le mie intenzioni, perché me l’avvicinò con la mano, facendola scivolare sul tavolo. Non persi tempo e versai un po’ del contenuto – quello che ne restava – nel bicchiere e me lo portai alle labbra.
«Quello che mi preme al momento è approfondire questa storia che ci ritrae tutti come personaggi di un mondo immaginario creato da una persona del tuo mondo» dichiarò calmo. La sedia scricchiolò di nuovo, segno che probabilmente aveva incrociato le gambe sotto la scrivania. Lo osservai. Il suo volto era impassibile, concentrato ma al tempo stesso rilassato. Non aveva tutti i torti. Praticamente gli avevo sganciato una potente bomba atomica sopra la testa.
Sospirai. Era una questione delicata ed andava affrontata con tutta la prudenza del caso.
«Esattamente cosa vuole approfondire?» chiesi, alzando un sopracciglio. Mi rendevo conto che la mia era una domanda piuttosto stupida, dopotutto, sapere di provenire da un universo che in realtà altro non era che un disegno riprodotto su un foglio frutto di un comune essere umano, era una notizia sconvolgente. E assurda, decisamente assurda. Io ormai ero abituata alle assurdità, ma forse il capo dell’Armata Rivoluzionaria non lo era ancora del tutto e quello poteva essere stato il colpo di grazia. Quasi mi aspettavo che si alzasse dalla sedia, sbattesse le mani sullo scrittoio facendo crollare tutte le pile di documenti che vi erano sopra e mi intimasse infuriato di non dire stronzate, sebbene fossi consapevole che non era il tipo che si sarebbe comportato in una tale maniera. Non per niente rimase in silenzio. Forse nemmeno lui sapeva da dove cominciare. L’orribile e tormentante sensazione di avere mille domande che ti vorticano incessantemente in testa non mi era nuova, perciò decisi di non parlare per un po’, per dargli il tempo di metabolizzare il tutto.
 
Mezz’ora dopo, avevamo più o meno chiarito il ruolo chiave che giocava la figura di Oda. Adesso Dragon sapeva chi era, da quanto andava avanti questa storia e sapeva anche che lo scorrere del tempo nell’universo in cui ci trovavamo era imprevedibile e diverso da quello del mondo da cui provenivo. Gli avevo spiegato ciò che sapevo e non avrei saputo fare di più o meglio. Del resto, era tutto abbastanza confuso anche per me. E tornare a riflettere su quelle cose non faceva affatto bene alla mia povera testa, che aveva ripreso a pulsare con più insistenza di prima. Adesso che i punti salienti erano stati chiariti ed archiviati, mi aspettavo che mi chiedesse di Rufy e di cosa aveva combinato in quel mese in cui era rimasto da me. Oppure che mi chiedesse della mia cultura, della storia, persino della geografia e dei mille altri argomenti che si potevano trovare sul mio mondo. Ma non mi sarei mai aspettata che mi rivolgesse una tale domanda. Eppure avrei dovuto immaginarmelo. Era quasi evidente che proprio lui volesse sapere una cosa del genere.
«Perciò, secondo quanto mi hai detto, ogni cosa che facciamo in questo universo, ogni movimento che compiamo, ogni parola che pronunciamo, ogni battito di ciglia...nasce dalla penna di un presunto autore?» domandò, facendosi estremamente serio e scuro in volto.
Sollevai le sopracciglia, sorpresa, e boccheggiai. Poi mi passai la lingua sul retro dell’arcata dentale superiore e distolsi lo sguardo, concentrandomi sul drappo rosso dietro all’uomo.
Feci un’alzata di spalle e scossi la testa, quasi mortificata. Non ci avevo mai pensato. Non l’avevo mai vista in questo modo.
«Io...io non...so cosa...» balbettai, cercando di darmi un contegno. Ovviamente fallii miseramente.
«È questo che mi stai dicendo? Che noi, tutti noi, altro non siamo che burattini controllati dalle mani e dalla mente di una singola persona?» volle sapere, spostando il busto in avanti e avvicinandosi a me, squadrandomi grave. Non capivo se era arrabbiato o se invece cercava “semplicemente” delle risposte.
Lo fissai negli occhi. Potevo sentire le sue pupille nere come il carbone quasi penetrarmi il cranio. In attesa di trovare una degna replica alla sua domanda, ripensai a tutto quello che era successo in quei due anni. Tutto mi passò davanti velocemente, dal momento in cui ero approdata sulla Sunny fino a quando Doflamingo mi aveva quasi chiuso gli occhi per sempre. E fu lì che mi resi conto di una cosa fondamentale per la mia esistenza. In fondo l’avevo sempre saputa, ma probabilmente non avevo mai avuto abbastanza tempo per soffermarmi a rifletterci sopra.
Scossi di nuovo la testa e sbuffai una risata. Poi appoggiai la schiena allo schienale della sedia e mi rilassai. Incrociai cautamente le braccia, accavallai le gambe una sopra l’altra e sogghignai sommessamente. Cercai di contenermi e di non mostrarmi troppo presuntuosa, non volevo risultare irrispettosa o maleducata.
«Mi creda, le posso assicurare che non è così. Nessuno di voi è controllato da entità superiori» esordii convinta, allungandomi per prendere il mio bicchiere e bevendo ciò che ne rimaneva del contenuto «Se c’è una cosa che ho imparato nel tempo in cui ho avuto l’occasione di rimanere qui, è che ognuno è l’artefice del proprio destino».
Dragon inclinò leggermente la testa, d’un tratto interessato.
«Non esistono gerarchie di alcun tipo tra gli esseri umani. O almeno, non dovrebbero esistere. Gli uomini sono nati liberi. Ognuno di noi ha il potere di cambiare le cose» continuai, suscitando ancora di più l’interesse dell’uomo seduto di fronte a me.
«Gli unici a cui dobbiamo rendere conto delle nostre azioni, che siano giuste o sbagliate, siamo noi stessi. Quello che mi è successo in questi mesi, mi ha fatto arrivare ad una conclusione, piuttosto scontata, in realtà» dissi, sorridendo ed iniziando a muovere ritmicamente il piede sotto al tavolo.
Fece un lieve cenno della mano per incitarmi a proseguire. Prima di farlo, però, mi concessi un attimo per riflettere sulla vicenda dei due fratelli Donquijote. Entrambi avevano vissuto lo stesso, tragico passato. Eppure, Rocinante era diventato un uomo buono, compassionevole e giusto. Mentre Doflamingo...era l’incarnazione del male puro. Era diventato un mostro, sadico e spietato, che non guardava in faccia a nessuno pur di raggiungere i suoi scopi. Cora-san era umile e servizievole, ma suo fratello era addirittura convinto di essere superiore ai comuni mortali e non esitava a strappar loro la vita, spesso e volentieri con leggerezza, solo per il gusto di farlo. Si era macchiato di crimini indicibili e aveva versato tanto, troppo sangue. Era arrivato persino ad uccidere i suoi famigliari. E tutto perché aveva scelto di essere così. Aveva scelto di essere un mostro. Ma, per fortuna, suo fratello era la dimostrazione che non è il passato a renderci ciò che siamo. Magari è vero, c’è un destino designato per noi. Tuttavia, sono le decisioni che prendiamo che definiscono la nostra strada, le nostre mete e quello che siamo realmente.
«Sono piuttosto convinta che in questo universo, come in quello da cui provengo, tutti abbiano una propria volontà. Nessuno è una marionetta i cui fili sono collegati ad un essere superiore che ne controlla ogni singola azione o parola» affermai, con un bagliore negli occhi «Magari, Oda, l’autore del manga in cui apparite tutti voi, non crea nulla, ma si limita a riportare i fatti che accadono e che in qualche modo riesce a vedere» ipotizzai poi.
Il rivoluzionario annuì un paio di volte. Anche lui, come Law, aveva un’espressione imperscrutabile e misteriosa.
«Prima o poi, Eiichiro Oda terminerà di scrivere e disegnare la storia. Ma ciò non vuol dire che questo mondo cesserà di esistere. Né che le vostre vite, o la mia, finiranno di punto in bianco» feci con lo sguardo di chi la sapeva lunga, cominciando a picchiettare un piede sul pavimento.
«Siamo liberi. Siamo padroni di noi stessi» ripetei infine, buttando fuori tutta l’aria che avevo in corpo, come se mi fossi liberata di un gran peso.
«So che avrà qualcosa da ridire su questo, dopotutto è a capo di un’armata che mira a rovesciare il Governo Mondiale per poter liberare gli oppressi. E so anche che la realtà dei fatti purtroppo è ben diversa. Ma non si deve preoccupare per questo. E soprattutto, non si deve arrendere adesso, dopo tutto ciò che ha fatto per far cadere quello schifo di istituzione. Non smettete di lottare, la riuscita del vostro obiettivo dipende solamente da voi. Da voi e da nessun altro. Non sarà di certo Oda, l’autore, a decidere per voi» aggiunsi poco dopo. Le mie erano parole sincere. «C’è un destino designato per tutti. Voglio dire, se sono qui molto probabilmente è grazie al destino, al caso. Ma ho imparato e capito che gran parte delle nostra storia siamo noi a scriverla. È la nostra volontà che ci fa compiere le azioni e creare le occasioni da noi tanto cercate. Non possiamo starcene in panciolle ad aspettare qualcosa che non arriverà mai. Dobbiamo combattere fino alla fine per ciò in cui crediamo e per ciò che vogliamo. Non dobbiamo avere paura di cadere e dobbiamo rialzarci se cadiamo e reagire in qualche modo. Perché se non lo facciamo noi, per noi stessi, nessun altro lo farà al posto nostro» continuai. Tuttavia dovetti fare una pausa. Nel pronunciare quelle parole, non sapevo perché, mi erano venuti gli occhi lucidi e non volevo che Dragon mi vedesse, perciò abbassai lo sguardo. Non avevo idea di quando fossi diventata così saggia, né mi capacitavo di quello che avevo appena detto, eppure in realtà mi ero resa di conto di pensarlo davvero. Forse era questo che mi faceva commuovere, il fatto che mi fossi soffermata a riflettere su tutta la strada che avevo percorso, con fatica, in quegli anni. Ero la persona che ero perché avevo smesso di stare seduta, immobile, ad attendere un miracolo divino e avevo iniziato a cercare di salvarmi da sola. Non che non fossi grata alla Stella, ma da lì in poi me l’ero cavata da sola, rimboccandomi le maniche ed iniziando a vivere. A vivere davvero.
«Mi dispiace per questo mio sermone inadeguato e senza senso» mi scusai, rialzando gli occhi e fissando il rivoluzionario. Molto probabilmente ero andata completamente fuori tema, ma tutte quelle ore di chiacchiere infinite lì dentro mi avevano rimbambito e non ci stavo capendo più niente.
«No. Le tue sono parole nobili, Camilla. Sono piene di speranza e infondono coraggio. Saresti un’ottima aggiunta per l’Armata Rivoluzionaria» constatò Dragon, tornando ad assumere un’espressione imperscrutabile, ma tuttavia sorridendo velatamente.
Aggrottai la fronte e boccheggiai per qualche secondo. Sentirmi dire una cosa del genere dall’uomo che avrebbe potuto cambiare le sorti del mondo mi rendeva orgogliosa, al punto che mi sentii avvampare.
«Wow. Grazie. Io...sì, mi sarebbe piaciuto essere una rivoluzionaria» riflettei ad alta voce, un po’ imbarazzata. Era vero, mi sarebbe piaciuto. Avevo sempre condiviso la maggior parte degli ideali per cui combattevano loro e avevo sempre pensato che se fossi nata in quel mondo, probabilmente mi sarei unita all’Armata Rivoluzionaria. Le cose poi erano andate un po’ diversamente, ma di certo non me ne ero pentita. Avrei rifatto tutto da capo, se necessario. Magari mi sarei risparmiata la traumatica vicenda con Doflamingo, ma anche quella era stata un’esperienza di vita.
«C’è sempre posto per chi è convinto che questa sia la giusta strada da seguire e per chi è disposto a combattere con noi per una tale causa» affermò. Il suo sguardo era fermo, ma sulle sue labbra era spuntato un sorriso. «Avrai tempo per pensarci» aggiunse poi, buttandosi all’indietro con la schiena, fino a farla poggiare sullo schienale della poltrona.
Spostai lo sguardo di lato e per un secondo corrugai le sopracciglia. Speravo vivamente che la sua non fosse una proposta. Non ero brava con le proposte, si era visto anche quando Rufy mi aveva chiesto se volevo entrare nella sua ciurma. Lo era? No, non lo era. Non potevo diventare una rivoluzionaria. Per quanto mi allettasse l’idea, io ero un pirata. E avevo delle cose da fare e degli obiettivi da conseguire.
«Direi che per oggi abbiamo chiacchierato abbastanza» dichiarò incrociando le braccia. Schiusi leggermente la bocca, serrai le palpebre e lo guardai grata, lasciando che le mie labbra si aprissero involontariamente in un sorriso. Non ne potevo davvero più. Feci leva sulle gambe, già pronta ad alzarmi ed andarmene.
«Tuttavia c’è un’ultima cosa che vorrei chiederti» prese di nuovo la parola, vanificando ogni mia speranza di uscire da lì entro pochi minuti.
Storsi il naso quasi senza rendermene conto. Sperai che fosse una cosa veloce ed indolore, o sarei collassata lì sul tavolo, davanti ai suoi occhi.
«Mi piacerebbe sapere di più sul mondo da cui provieni» si pronunciò, calmo.
Alzai un sopracciglio e lo incitai con un cenno del capo a proseguire. Immaginavo che me lo chiedesse, aspettavo solo che facesse la sua mossa.
«La politica, la cultura e il resto delle cose che ci sono da sapere» fece una brevissima pausa «per cui, dato che per i prossimi mesi rimarrai qui, che ne dici di dedicare un’ora al giorno del tuo tempo a raccontarmi i vari aspetti che caratterizzano il tuo universo di provenienza?» mi propose, aspettando pazientemente la mia risposta.
Presi un paio di respiri prima di replicare.
«Posso farlo» asserii, poggiando entrambe le mani sulla scrivania e – finalmente – alzandomi. La sedia, dietro di me, produsse un fastidioso rumore nello strisciare indietro sul pavimento. «Ma in cambio, anche se so di non essere nella posizione per chiederlo, vorrei che voi mi faceste un piccolo favore» avanzai, fissando con sicurezza e decisione il mio interlocutore. Fece un rapido gesto della mano, incoraggiandomi a continuare. Non sembrava infastidito, ma curioso, piuttosto.
«Devo diventare più forte» confessai seria. Non c’era bisogno che gli spiegassi altro. Lo vidi quasi sogghignare. Forse anche lui si aspettava quella richiesta da parte mia.
«Parlerò con Hack» disse. Non era di tante parole nemmeno Dragon. Del resto, non c’era bisogno che mi spiegasse chi fosse Hack. Lo sapevo benissimo da sola e lui ne era consapevole.
Sorrisi ed annuii, per poi congedarmi e dirigermi verso l’uscita.
 
Uscii e mi richiusi la porta alle spalle. La testa mi scoppiava e avevo bisogno di una boccata d’aria. E di altro vino. Assolutamente di altro vino. Ero sopravvissuta a quella lunghissima chiacchierata, certo, ma il pensiero che ce ne sarebbero state altre – e per giunta tutti i giorni – mi faceva venire voglia di andare a sotterrarmi. Non che non fossi contenta o lusingata, solo che c’era così tanto da dire sul mio mondo che non sapevo se ne sarei mai uscita. Almeno, non in senso figurato. Ma l’accordo che avevo stretto con Dragon beneficiava anche me stessa, per cui avrei dovuto farlo e avrei dovuto anche evitare di lamentarmi troppo.
Mi girai con l’intenzione di andare a cercare qualcuno che mi indicasse quale fosse la mia stanza, ma non feci in tempo a muovere un passo, che dovetti arrestarmi per non andare addosso ad una figura che era apparsa all’improvviso alle mie spalle.
«Oddio» mi lasciai scappare, portando le mani in avanti, all'altezza del petto. In parte mi aveva spaventata ed in parte cercavo goffamente delle scuse per essermi quasi scontrata contro di lui. Ma il ragazzo che si trovava a pochi centimetri da me non sembrava minimamente turbato o infastidito. Infatti non ci mise molto a sfoggiare un raggiante sorriso a trentadue denti.
«Ciao» esordì, sempre sorridente. Aggrottai la fronte e schiusi la bocca, per poi riprendermi subito dopo. Feci un passo indietro per osservare meglio la sua sagoma e cercare di dare un nome a quel volto solare, ma anche perché eravamo comunque troppo vicini.
«Ciao» mi pronunciai anche io «Tu devi essere Sabo» constatai sorridendo e piegando la testa da un lato, come una vera ebete. Era proprio lui, non c’erano dubbi. I capelli biondi e mossi gli ricadevano ai lati del viso e la sua espressione era serena e allegra. L’occhio sinistro era sfregiato da una cicatrice la cui superficie era rosea ed irregolare, in parte coperta dalle ciocche dorate. In testa portava il suo inconfondibile cappello a cilindro nero, attorno al quale vi erano agganciati degli occhiali da aviatore con le lenti blu. La sua corporatura era snella ma muscolosa ed era valorizzata dalla lunga e piuttosto aderente giacca nera che indossava. Sotto di essa e sotto al grande fazzoletto bianco che portava al collo, si intravedeva una camicia blu accompagnata da una cintura nera molto semplice. I pantaloni che aveva addosso erano celesti, gli stivali neri ed i guanti che gli avvolgevano le mani erano marroni. Una vocina nella mia testa mi confermò la sua identità, sebbene fosse tanto tempo che non rivedevo una sua immagine. Non era un tipo che si scordava facilmente. Sorrisi nel soffermarmi sui suoi grandi occhi limpidi.
«In persona» rispose, sogghignando divertito. C’era da dire che aveva il ghigno contagioso. Normalmente sarei stata imbarazzata o perplessa, invece ero quasi a mio agio in quella situazione.
 «E tu sei la ragazza che viene da un altro mondo» rifletté subito dopo «Qual era il tuo nome?» chiese poi, portando una mano a grattarsi la nuca e incurvando le sopracciglia.
Annuii un paio di volte mordendomi il labbro. Me lo aspettavo. Aveva la memoria corta come suo fratello.
«Camilla» gli comunicai. Chissà perché non riuscivo a smettere di sorridere. «Cami, per gli amici» specificai poco dopo.
Allungai il braccio e gli tesi la mano. Lui la guardò perplesso ed io la ritirai immediatamente, stringendola a pugno. Loro non si stringevano le mani, al massimo si prendevano a pugni per salutarsi. Le vecchie abitudini erano dure a morire. Distolsi lo sguardo, soffermandomi ad ammirare le finiture del soffitto e mi schiarii la voce un paio di volte, per cercare di lavarmi via l’imbarazzo.
«Bene, Cami» si pronunciò, riportandomi alla realtà. Aveva calcato il tono al momento di pronunciare il mio nome. Che quello significasse che eravamo appena diventati amici? Non lo sapevo, ma in caso mi sarebbe andato bene. Se non altro non aveva confuso le lettere come faceva di solito anche suo fratello. «ti farà piacere sapere che da questo momento in poi sei sotto la mia responsabilità. Sono stato incaricato di occuparmi di te» mi annunciò, tranquillo.
Lo fissai estremamente perplessa.
«In...in che senso?» chiesi, assottigliando gli occhi. Non capivo a cosa si riferisse.
«In tutti i sensi che vuoi» si espresse, sfoggiando un pericoloso sorrisetto arrogante. No, quel ghigno non prometteva nulla di buono, sia nel bene che nel male. Incurvai le sopracciglia fino a far spuntare una riga in mezzo alla fronte.
«Tranquilla, non ti farò del male, se è questo che ti preoccupa» mi rassicurò, sghignazzando della mia espressione sconcertata «Sarò bravo, vedrai. Sei in buone mani».
Lo guardai, esattamente come si guarda un malato mentale ed accennai un lievissimo sorriso, che racchiudeva in sé molti dubbi.
«Il tizio con il naso lungo mi aveva detto che sei diffidente» considerò poi ad alta voce, ridendo di nuovo e voltandosi di spalle.
Alzai un sopracciglio e sbuffai una risata. Io? Diffidente? Ok, forse un po’ lo ero. Ma chiunque lo sarebbe stato se avesse passato le sciagure che avevo passato io. E poi...Usop? Sul serio? Da che pulpito veniva la predica!
«Seguimi» mi sollecitò, distogliendomi dalle mie riflessioni astruse «Ti mostrerò il resto di questo posto e poi ti accompagnerò nella tua stanza».
Senza neanche darmi il tempo di sbattere le ciglia, iniziò a camminare. Rimasi interdetta per un paio di secondi, immobile e a palpebre serrate, poi decisi di darmi una mossa e di seguire quello che a quanto pareva era appena diventato il mio nuovo mentore. Dopotutto, non capitava tutti i giorni che il Capo di Stato Maggiore dell’Armata Rivoluzionaria facesse da chaperon a qualcuno, e mi sarebbe piaciuto visitare per intero la nuova base dei rivoluzionari. Ma soprattutto, non vedevo l’ora di prendere possesso di quella che per un po' di tempo sarebbe stata la mia camera. Avevo bisogno di farmi una doccia e di riposare un po’.
 
«Avete un bar?» chiesi sorpresa e quasi con scetticismo mentre mi guardavo intorno. Eravamo in giro in quella immensa e sofisticata base operativa da una decina di minuti e ormai tra me e il biondo il ghiaccio si era sciolto. Non avevamo esitato a chiacchierare amabilmente del più e del meno. Non avevo idea del perché, ma con lui mi veniva facile parlare. In sua presenza tutta la timidezza scivolava via e lasciava il posto all’allegria e un po’ anche alla sfrontatezza, la stessa che aveva lui. Mentre mi mostrava le varie stanze e me ne spiegava l’utilità, mi aveva raccontato del suo ultimo incontro con suo fratello. Mi aveva riferito ciò che gli aveva detto il moro su di me e varie altre cose. C’era da dire che quando parlava di Rufy metteva sempre tanta tenerezza.
«Che c’è di strano?» domandò a sua volta, dirigendosi a passo deciso verso uno degli sgabelli. La sala era immensa ed era simile ad una di quelle che si potevano ammirare su una nave da crociera. Le mattonelle erano sempre in marmo bianco e nero, e esattamente come quello del corridoio, il pavimento sopra al quale stavamo camminando adesso ricordava una scacchiera. La stanza era deserta, non c’erano né tavoli, né sedie, né divani a riempirla. C’era solo un bancone – relativamente piccolo rispetto al resto del locale – all’estrema sinistra e quasi attaccato al muro, con una decina di sgabelli in cuoio bordeaux, disposti in fila e paralleli al ripiano in legno. Il bar era illuminato da un paio di lampade al neon, che erano l’unica fonte di luce dell’intero ambiente. L’atmosfera data dalla luce soffusa, mi ricordava vagamente la stanza con l’acquario che c’era sulla Sunny, che era anch’essa un bar.
«Pensavo che i rivoluzionari avessero cose più importanti da fare che sedersi su uno sgabello di un bar e bere» riflettei incrociando le braccia una volta che l’ebbi raggiunto al bancone.
«Siamo esseri umani anche noi» si giustificò sogghignando.
Non potei fare a meno di sorridere anche io.
«Come darti torto...» sbuffai una risata.
«Credi che sia un male avere un bar a propria disposizione?» chiese. Tuttavia non riuscii a decifrare la sua espressione.
«Oh no, credimi. Questo è decisamente un bene» considerai, inarcando le sopracciglia e accompagnando le mie parole con un movimento assertivo della testa.
«Non pensavo che ti piacesse bere» si espresse, appoggiando il gomito al bancone del bar e fissandomi con aria enigmatica.
«È tanto strano per un pirata?» volli sapere con un’alzata di sopracciglia.
«No. È che Rufy non me lo aveva detto» si affrettò a dire.
«Sì, beh, a quei tempi ero ancora una brava ragazza» rivelai, portandomi una mano sulla guancia, quasi a dispiacermene, e distogliendo lo sguardo dal rivoluzionario. Sorvolai sul fatto che ero fermamente convinta che suo fratello avesse la memoria di un pesce rosso e che quindi era già tanto che si ricordasse il mio nome. «Non credo che tu voglia sapere la lunga storia di come sono diventata un’alcolizzata. Credo che basti sapere che succede quando navighi sotto il vessillo di Trafalgar Law» sospirai. Ancora sentivo il richiamo dei bagni per la loro pulizia settimanale. Feci una faccia disgustata, poi scossi con violenza la testa mentre un brivido mi percorreva la schiena.
«Non c’è nessun problema che non possa essere risolto dall’alcol» affermai sicura, poi ripensai ancora una volta ai bagni del Polar Tang «Tanto alcol...» quasi piagnucolai. Sabo rise. La cosa che mi era subito saltata all’occhio era che oltre ad essere una persona rilassata, non faceva troppe domande scomode. Evidentemente non gli interessava conoscere i retroscena di quell’orrore. Non lo biasimavo, nessuno avrebbe dovuto saperli.
Mi fece cenno di sedermi su uno degli sgabelli in pelle bordeaux ed io mi accomodai. Prima di sedersi accanto a me, mi squadrò da capo a piedi, facendomi assumere un’espressione interrogativa. Il suo sguardo, non sapevo perché, mi metteva un po’ di soggezione. Non era lo sguardo freddo e autoritario che aveva Law, o quello serio e duro di Dragon. Era uno sguardo piuttosto sereno, eppure in qualche bizzarro modo che non capivo, riusciva a scatenare qualcosa dentro di me. Riusciva a scombussolarmi. E da che ricordassi, era l’unico che riuscisse a farlo dopo appena dieci minuti che ci conoscevamo.
«Mi sembri più il tipo da vino bianco» constatò, dopo che mi ebbe osservata ben bene.
Sorrisi, piegai la testa da un lato ed annuii debolmente.
«Bel tentativo» feci, con gli occhi luccicanti di malizia. Con lui, contrariamente al mio capitano, sentivo di potermi permettere di essere sfacciata, anche se non ci conoscevamo. «Ma preferisco il rosso» precisai, indecisa se fargli l’occhiolino o meno. No, sarebbe stato meglio non farlo. Sarei sembrata una ragazzina stupida ed immatura.
Entrambi ci lasciammo andare ad una piccola risata.
«Che vino rosso sia» proclamò allegro, facendo segno al barista di servirci da bere. Mentre osservavo l’uomo posizionarmi davanti il calice di quel nettare scarlatto che bramavo tanto, notai che a Sabo era stato servito un bicchiere con un liquido trasparente biancastro. Non avevo idea di cosa fosse e non avevo intenzione di scoprirlo. Eventualmente lo avrei fatto in seguito, d’altronde c’era tempo.
«Conosco uno dei nostri che ha sempre un bicchiere di vino in mano» commentò il biondo accanto a me.
Pensai un attimo a chi potesse essere, poi annuii, sorridendo con l’aria di chi la sapeva lunga.
«Inazuma. Giusto?» chiesi, spostando lo sguardo su di lui ed assottigliando lievemente gli occhi.
Sbuffò una risata.
«Sono sicuro che andreste d’accordo» sentenziò, tamburellando le dita della mano sinistra sul bancone.
«Oh, quando c’è di mezzo il vino vado d’accordo con tutti» affermai, facendo una rapida alzata di sopracciglia. Accennò una piccola risata.
«Adesso è in missione, ma appena torna potrei fartelo conoscere» mi propose.
«Con piacere» accettai di buon grado.
«Devi essere un pirata piuttosto sofisticato, se preferisci il vino rosso al rum» commentò dopo qualche secondo di silenzio, appoggiando il mento al palmo della mano e fissandomi con un’espressione enigmatica.
Mi limitai a scrollare le spalle. Preferivo di gran lunga i sapori delicati a quelli forti.
Il biondo alzò il suo boccale ed io lo guardai interrogativa.
«Brindiamo alla tua permanenza qui» disse, fingendo una certa solennità «Dopotutto, sono stato io a richiedere la tua presenza» constatò compiaciuto.
Alzai le sopracciglia e piegai – di nuovo – la testa da un lato.
«Sei stato tu?» domandai, per poi riprendermi e raddrizzarmi subito dopo «Giusto. Dragon me l’ha spiegato. È stato Rufy a raccontarti la mia storia».
Non potei nascondere una certa contentezza nel constatare che era stato proprio lui e volermi al fianco dell’Armata Rivoluzionaria. Questo dimostrava quanto si fidasse e quanto fosse importante per lui suo fratello. E proprio per questo sapevo che in quei mesi avrebbe avuto un occhio di riguardo per me. Senza contare che praticamente, seppur indirettamente, era stato lui a salvare me e Law da morte certa. Ad ogni modo, sperai che il moro e la sua ciurma di squinternati non avessero raccontato proprio tutto di me al rivoluzionario. C’erano alcune cose che avrebbe dovuto scoprire da sé – e sospettavo che gli sarebbe piaciuto farlo – ed altre che non avrebbe mai dovuto scoprire.
Sollevai il calice e lo feci cozzare con delicatezza contro il suo, già alto.
«Brindiamo alla mia permanenza qui. E...» feci una piccola pausa, per tenerlo sulle spine e rendere la conversazione un po’ più intrigante «Alla mia personale guida turistica» feci infine.
I suoi occhi si illuminarono e le sue labbra si aprirono in un ghigno, così come fecero le mie.
«Ho l’impressione che sarà divertente averti qui per i prossimi mesi» mi confessò con una certa soddisfazione.
«Oh, lo penso anche io» concordai, portandomi il bicchiere alla bocca e bevendo un lungo sorso di vino.
Sì, sarebbero stati mesi davvero interessanti. Di fuoco, avrei osato dire.




Angolo autrice
Ciao a tutti, eccomi qui! Vengo da due settimane di vacanza in cui sono stata senza connessione. Ma ora sono tornata, per vostra sfortuna.
Ho voluto inserire questo Angolo Autrice solo per avvisare che molto probabilmente Sabo sarà OOC, per varie ragioni. La prima fra tutte, è che il biondo fratello di Rufy è un personaggio di cui si sa relativamente poco e che io definirei come "ambiguo". Non riesco ad inquadrarlo bene e per questo mi è difficile rappresentarlo. Il resto dei motivi li scoprirete strada facendo. Per il momento mi limito a dire che è stato necessario modificare un po' quello che è il suo personaggio. È probabile che anche il resto dei Rivoluzionari risulti OOC. Posso solo augurarmi che questo non vi dia troppo fastidio. :)
Come sempre, spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Se vi va, fatemi sapere che ne pensate. :) A presto!

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Capitolo 49
*** Terrori notturni ***


Base dei Rivoluzionari. Posizione e nome sconosciuti.
Un mese dopo.
 
Non potevo credere che fosse già trascorso un mese. Mi trovavo così bene che non mi ero accorta del tempo che era passato. Certo, mi mancava Law – seppure non lo avrei mai ammesso – e mi mancava il resto della ciurma, dopotutto avevo vissuto giorno e notte insieme a loro per due anni. Si poteva dire che fossi quasi in simbiosi con i miei compagni e adesso che non erano più con me, mi sentivo un po’ vuota. Ma lì non stavo male. Erano tutti simpatici e gentili e mi avevano fatto avere tutto ciò di cui avevo bisogno. La stanza in cui risiedevo era stupenda. Era spaziosa e luminosa, come il resto delle camere. Sembrava una di quelle stanze di un castello medievale. Il pavimento era in cotto, e tutto sembrava così antico, prezioso ed altisonante che quasi avevo timore di toccare i vari oggetti per paura di sciuparli o addirittura romperli. I primi tempi mi ero fatta persino dei problemi per dormire, perché non volevo sgualcire le lenzuola di lino bianco, situate su un letto matrimoniale enorme e comodissimo a baldacchino – a baldacchino! Quando mai, in vita mia, avevo avuto un letto a baldacchino!? – alla cui destra era collocato un comò in legno con intarsi preziosi. Sempre a destra, addossato alla parete, vi era l’armadio, fatto dello stesso materiale e rifinito allo stesso modo del comodino. Accanto all’armadio c’era la porta per accedere al bagno privato. Ora, la parola “bagno” era riduttiva, per quanto mi riguardava, dal momento che era praticamente grande quanto la cabina che condividevano Shachi e Penguin sul Polar Tang. E dentro c’era tutto ciò che mi serviva e anche di più. I rivoluzionari mi avevano fatto gentilmente trovare anche sapone, spazzolino da denti, asciugamani e tutto il necessario per l’igiene personale. C’era perfino una vasca da bagno piuttosto ampia, nonostante ci fosse già la doccia. Se quello non era comfort, non ci avevo capito niente. Tutto sommato facevo una bella vita. Mi ero persino abituata ai duri, durissimi allenamenti di Hack. Se Bepo era tremendo, l’uomo-pesce lo era trenta volte di più. Era un gelido e sadico schiavista. Non faceva sconti a nessuno, nemmeno a me che ero l’ultima arrivata ed ero pure mezza malandata. Era vero, avevo tolto il tutore al polso, ma questo non voleva dire che ero del tutto guarita o che non mi facesse male, e soprattutto, non poteva pretendere che io non ci andassi cauta. Avevo preso una bella botta e mi servivano i miei tempi per riprendere fiducia in me stessa e per farmi passare la paura. Eppure non c’era nulla da fare, il mio nuovo addestratore era irremovibile. Un vero negriero. Che poi, io non ero mai stata brava nel corpo a corpo; era per questo che Franky e Usop avevano forgiato l’ascia per me, perché potessi servirmene in battaglia. Quindi a che mi serviva imparare il karate e stare tutto il giorno a tirare pugni per aria? Non lo sapevo e non lo capivo, ma avevo deciso di lasciare da parte le mie perplessità ed eseguire ciò che mi veniva detto senza fiatare. Dovevo diventare più forte. A tutti i costi. E magari, senza che me ne fossi accorta, piano piano avrei fatto enormi progressi.
Mi ero abituata anche all’idea di dover trascorrere un’ora al giorno assieme al “Grande Capo”. Ogni giorno, alla stessa ora, entravo nel suo ufficio, se così si poteva chiamare, ci versavamo un bicchiere di vino – rigorosamente rosso – e nel mentre conversavamo amabilmente sui vari aspetti del mio mondo di provenienza. Gli avevo parlato della disposizione dei continenti, della storia che caratterizzava – a grandi linee – il mio universo, della politica che vigeva e di tante altre cose. Così tante, che ogni giorno uscivo dalla sua stanza con la testa che mi scoppiava. Ma mi stava bene così, se quello era il modo in cui potevo ripagare l’Armata Rivoluzionaria per avermi salvato la vita.
Certo, non ero io la persona più indicata per spiegare il funzionamento di un pianeta ad una persona completamente estranea ad esso. Non ero un’esperta di legge o politica – gli aspetti che più interessavano al rivoluzionario – anche perché non avendo un Governo Mondiale, ogni Stato aveva le proprie regole legislative ed amministrative, ed io non avevo idea di quali fossero per la maggior parte delle Nazioni. Eppure Dragon si era mostrato sempre interessato a ciò che avevo da dire e non mi interrompeva quasi mai. Più volte mi ero chiesta se quell’uomo fosse veramente il padre di Rufy. A quanto pareva lo era sul serio e di certo non mi sarei messa a contestare quel fatto, né avrei chiesto un test del DNA.
Avevo risolto anche la questione vestiti. In quel mese avevo fatto amicizia con Koala, una ragazza con cui ero andata subito d’accordo, proprio come avevo fatto con Sabo. Era simpatica, gentile e ci capivamo al volo. In più, avevamo anche la stessa taglia, per cui ogni tanto mi prestava i suoi indumenti, che mi calzavano alla perfezione. Non che mi sentissi molto a mio agio con le calze autoreggenti e le minigonne inguinali, ma questo era quello che passava il convento – o meglio, l’Armata Rivoluzionaria – e dovevo accontentarmi. E poi, c’era da dire che quei capi d’abbigliamento così succinti non mi stavano affatto male. E non ero l’unica a pensarlo. D’altronde, la percentuale di rivoluzionari maschi era nettamente superiore a quella delle rivoluzionarie femmine e sebbene fossero tutti impegnati a portare a termine le loro missioni e a compilare scartoffie, avevo notato che là dentro circolava una certa quantità di testosterone.
Con Sabo, invece, era nata un’amicizia. In quei mesi, ci incontravamo spesso all’interno della base. Più volte di quante potessi contarne ci eravamo ritrovati per caso nella stessa stanza, che di solito era il bar, ma non era escluso che io andassi a cercarlo in camera sua o che lui piombasse di colpo nella mia. Una volta mi aveva persino colto in flagrante mentre uscivo dalla porta del bagno dopo aver fatto la doccia, con addosso solo un misero e striminzito asciugamano di cotone. In quell’occasione non mi ero arrabbiata, però. Non avevo addosso la cintura e non poteva vedermi, ma anche se fosse stato il contrario, non mi sarei lo stesso arrabbiata. Non ci riuscivo. Era più forte di me. Con Sabo era come se tutto gli fosse perdonato, perché ero terribilmente affascinata dal suo modo di essere. Un modo che il più delle volte mi dava sui nervi – un’altra cosa che avevo in comune con la mia nuova amica Koala – ma che allo stesso tempo ammiravo. Esattamente come suo fratello, che era casinista e che non si poteva rimproverare per questo, lui era un tipo che faceva ciò che gli andava, e a tutti, me compresa, sembrava stare più o meno bene. Non che non avessi desiderato squarciargli la giugulare ogni volta che nel bel mezzo di una conversazione con me prendeva e se ne andava senza dire niente, oppure si distraeva e smetteva totalmente di ascoltarmi perché aveva trovato un passatempo migliore e più divertente. A volte faceva anche bruschissimi ed inaspettati cambi di argomento proprio nel momento in cui prendevo io la parola. Era decisamente snervante perché sembrava che non gliene fregasse nulla – e il più delle volte era così – però non potevo fare a meno di pensare che anche a me sarebbe piaciuto essere così diretta e menefreghista. E poi, oltre a quello, c’era anche il suo lato sognante, quello che ai miei occhi lo faceva ritornare un po’ bambino. Non sapevo come mai, ma sentivo che lui potesse capirmi. Mi veniva facile rapportarmi con lui, perché come Rufy era estroverso, sorridente e spensierato, eppure aveva anche un lato profondo, intelligente e serio. Lo avevo notato quando un giorno ci eravamo messi a parlare di chissà quale argomento ed eravamo finiti a discutere del combattimento contro Teach e i suoi uomini e di quanto gli fosse dispiaciuto essersi dovuto trasferire su un’altra isola. Mi aveva raccontato che era stato un combattimento duro, ma che per fortuna non aveva causato grandi perdite a nessuna delle due fazioni. Era stato peggio lasciare Baltigo, che era stata la sua casa da tempi immemori. E proprio in quell’occasione si era stabilita una specie di connessione tra noi. Dopotutto, chi meglio di me poteva capirlo? Nonostante non mi dispiacesse, ero stata pur sempre strappata dalle braccia sicure del luogo in cui ero cresciuta e mi ero ritrovata in un posto a me praticamente sconosciuto. Gli avevo perfino dato dei consigli su come affrontare quel cambiamento. Non che gli servissero, aveva un’indole di acciaio; e ormai, esattamente come me, erano passati alcuni anni da quel misfatto e si era abituato piuttosto bene. Poi, avevamo continuato il discorso passando a parlare della ciurma di Cappello di Paglia. Si era detto soddisfatto di ciò che Rufy aveva costruito in quegli anni ed aveva fatto particolari apprezzamenti per Nico Robin – che aveva conosciuto di persona – e per Nami. Lì avevo capito che in quel posto esistevano anche uomini normali a cui piaceva fare osservazioni piccanti. Aveva ammesso che le due donne gli erano sembrate serie e coscienziose e non si era risparmiato nel parlare dell’abilità e dell’intelligenza dell’archeologa. Non avevo potuto fare a meno di chiedermi se un giorno avrebbe parlato così anche di me o se invece io altro non fossi che una mera ragazza di “passaggio” nella sua vita. Ad ogni modo, ero felice di averlo conosciuto, così come ero contenta di aver trovato un’amica attenta, gentile e responsabile come Koala. In verità, ero contenta di aver conosciuto tutti quelli che avevo conosciuto lungo il mio tortuoso e difficile cammino. Tutti, indifferentemente dal fatto che fossero stati buoni o cattivi, mi avevano portato ad essere dove ero ora e mi avevano reso la persona che ero. Avevo ancora molta strada da fare prima di potermi ritenere completamente soddisfatta, ma ero a buon punto.
Insomma, avevo un enorme letto a baldacchino in cui dormire, nuovi amici, una vasca da bagno tutta per me e vino gratis ogni giorno. E la parte più bella di tutto ciò era che non dovevo fare il bucato o pulire i bagni! Per non menzionare la presenza del pane, in tavola ad ogni pasto. La prima volta che me l’ero ritrovata davanti, a cena, avevo quasi pianto di gioia. Tutti mi avevano fissato come si fissa una malata mentale, ma era solo perché loro non potevano capire che razza di tortura fosse vivere anni e anni senza uno straccio di pagnotta con cui fare la scarpetta.
Potevo di certo ritenermi soddisfatta; e nonostante non mi trattasse benissimo, ero grata anche ad Hack, che mi stava trasformando nella nuova Wonder Woman. Purtroppo, però, come accade in tutte le cose, non tutto filava liscio come l’olio. Dopo una ventina di giorni, la mia mente era tornata ad essere infestata dagli incubi. Pesanti e potenti terrori notturni che mi impedivano di dormire e rendevano infinite le mie notti. Avevo provato a parlarne con Koala, che aveva avuto il mio stesso problema quando era una bambina a causa del traumatizzante periodo in cui era stata schiava dei Draghi Celesti. Lei mi aveva consigliato di prendere qualche goccia di sonnifero e in caso di rivolgermi ai medici della base, e così avevo fatto, ma niente sembrava funzionare. Mi ero quasi arresa all’idea che non avrei più avuto pace. Che forse, addirittura, sarebbe stato meglio non addormentarsi proprio, perché non avrei mai più avuto sonni tranquilli.
Finché un giorno, ci fu un incubo che fu così intenso che dentro di me si stravolse tutto.
 
***
 
«Abbassa il baricentro!» mi strillò Hack con una certa cattiveria. Lo fissai di sottecchi, infastidita. Era la decima volta che mi diceva di abbassare il baricentro, ma se lo avessi abbassato più di così mi sarei fratturata il bacino. E poi, quello non era il giorno per mettersi a gridare e a dispensare sguardi accusatori e carichi di giudizio. Se voleva urlare, poteva benissimo farlo sott’acqua, ai pesci. Di certo loro lo avrebbero ascoltato ed apprezzato più di me. Io non ero concentrata. Avevo dormito poco ed ero stanca. Gli incubi, che avevo ricominciato ad avere da qualche notte, mi tormentavano e mi portavano via ogni energia e ogni speranza. Il caffè ormai era diventato acqua per me. Ne bevevo così tanto per tenermi sveglia, che praticamente non mi faceva più alcun effetto.
Sbuffai, sistemai i capelli spettinati dietro alle orecchie e mi portai una mano alla tempia, per massaggiarla. Per fortuna quella giornata infernale era quasi giunta al termine. Normalmente, dopo la sessione di addestramento dovevo andare da Dragon, ma quel giorno il caso aveva voluto che lui avesse degli impegni, di conseguenza terminata la tortura avrei potuto gettarmi direttamente sul comodissimo materasso del mio letto a baldacchino. Sempre se fossi sopravvissuta.
«Rimettiti in posizione, coraggio» mi intimò subito il Sergente Maggiore Hartman, con un tono che non ammetteva repliche, ma piuttosto amichevole per i suoi standard. Forse si era accorto che c’era qualcosa che non andava.
Sbuffai di nuovo, abbassai lo sguardo e provai a rimettermi nella posizione d’attacco che mi aveva mostrato qualche minuto prima. Aveva almeno una ventina di studenti da torturare, eppure, tra tutti, ero io quella che veniva perseguitata di più dalla sua voce roca. Tra l’altro, mi vergognavo un po’ ad addestrarmi assieme a dei dodicenni, visto che ero l’unica “adulta” in quel gruppo. Non che si notasse, la mia altezza in questo mi favoriva; ma avrei dovuto decisamente chiedere ad Hack se fosse stato possibile allenarmi privatamente.
Molleggiai le gambe un paio di volte prima di immobilizzarmi in quella scomoda posa. Tutti gli arti mi tremavano, ero stanca, frustrata e demoralizzata e l’ultima cosa di cui avevo bisogno era di qualcuno che mi impartisse ordini e pretendesse la massima concentrazione da me. Non ero nelle condizioni fisiche e mentali per farlo. Non potevo ascoltare il mio addestratore e non potevo guardare il suo viso severo. A momenti non riuscivo neanche a stare in piedi.
«Devi aprire di più il fianco destro» si spazientì «Concentrati».
Il suo sarebbe voluto essere un incoraggiamento, tuttavia io desideravo lo stesso sputargli in faccia. Mi trattenni e non lo feci. Presi un respiro profondo e mi sistemai di nuovo le ciocche di capelli ribelli cercando di appiattirle sulla testa, poi guardai l’uomo-pesce con disprezzo.
«Il sole sta tramontando» constatai fiaccamente «Per oggi abbiamo finito» suggerii, facendo forza sulle gambe e rimettendomi in posizione eretta.
«L’addestramento non è ancora terminato» affermò Hack, secco.
«Sì, invece. Per oggi, per me lo è» risposi, voltandogli le spalle ed iniziando a camminare verso l’enorme portone di metallo che costituiva l’ingresso della base. Dovevo andare a stendermi sul mio letto per cinque minuti.
«Un guerriero, per definirsi tale, non abbandona mai la battaglia prima che essa sia finita» disse calmo e scandendo bene le parole.
“Risparmiami le tue massime del cavolo per domani” pensai con una punta di rabbia. Fui tentata di pronunciarlo ad alta voce, ma per fortuna decisi di non farlo.
«Non siamo in battaglia» biascicai infastidita, senza voltarmi e continuando a camminare.
«Se lo fossimo stati, avresti fallito» constatò. Essendo dietro di me, non potevo vederlo, ma ero sicura che avesse incrociato le braccia e che mi stesse fissando con uno sguardo torvo. Mi girai verso di lui. Avevo ragione, era proprio così.
«Beh, oggi non lo siamo» replicai, allargando leggermente le braccia ed alzando le spalle. Non riuscii a nascondere una certa seccatura. Mi voltai di nuovo e ricominciai a camminare, evitando buche e sassi.
«Non è oggi» fece il rivoluzionario. Mi fermai e mi rigirai per l’ennesima volta verso di lui.
«Il tuo problema» specificò «Non è oggi. È sempre presente. Non so quale sia, ma risolvilo. E poi, se desidererai ancora diventare più forte, torna qui» mi consigliò. Sembrava essersi rilassato. Presi un respiro profondo. Le sue parole mi avevano colpito. Sapevo che dietro la scorza dura si nascondeva un uomo di grande valore.
«Hack-san!» lo rimproverò velatamente Koala, che vegliava su di me come se fosse il mio angelo custode. Anche lei era stata addestrata da lui e sapeva cosa voleva dire stare sotto i suoi comandi, per questo assisteva alle mie sessioni di addestramento quando poteva; e talvolta, quando riteneva che l’uomo-pesce fosse troppo duro, lo riprendeva. Ma in realtà, Hack aveva pienamente ragione. Per una volta ero d’accordo con lui. Non era solo quel giorno. C’era sempre, persisteva nel tempo. Era la testa, il problema. Sentivo che non funzionava correttamente e questo mi mandava in confusione, mi faceva dannare. Soprattutto perché conoscevo la causa di quel mio disordine mentale ma non conoscevo il rimedio per porvi fine. Non sapevo più come fare. Volevo solo stare bene. E invece, ancora una volta, mi ritrovavo in quella situazione del cavolo. Cominciavo a pensare che non importava dove andassi, il malessere non mi avrebbe mai abbandonato.
 
Camminavo per il lungo corridoio che mi avrebbe finalmente condotto in camera mia. Hack mi aveva lasciato andare, così mi ero congedata e avevo salutato Koala, che mi aveva più volte chiesto se stessi bene e se avessi bisogno di qualcosa. Ovviamente le avevo risposto che era tutto a posto, ero sicura che non avrebbe potuto capire e comunque non avrebbe potuto fare niente per aiutarmi. Però apprezzavo molto il fatto che si preoccupasse così tanto per me. Non era una cosa da tutti. Tuttavia avevo dovuto liquidarla con un finto sorriso a trentadue denti e qualche rassicurazione scadente, accompagnata da dei blandi gesti delle mani. Poi mi ero diretta dritta in camera mia, con l’intenzione di gettarmi sul letto e rimanerci per un paio di secoli.
La testa pulsava terribilmente. Era come se ci fosse qualcuno intrappolato dentro che premeva contro le pareti del mio cranio per uscire. Temevo che sarebbe esplosa da un momento all’altro. Alzai lo sguardo e cominciai a fissare davanti a me, senza smettere di camminare. Contavo i metri che mi separavano dal letto, ma non era facile farlo con la vista offuscata. Nemmeno i piedi rispondevano più. Iniziai a traballare e barcollare pericolosamente. Sbandavo così tanto che mi sembrava di fluttuare in aria, come se il pavimento sotto di me si fosse aperto e non ci fosse più niente a sostenere le mie gambe. Di fronte a me si palesò una sagoma indistinta. Corrugai le sopracciglia ed assottigliai gli occhi per capire chi fosse, ma soprattutto per escludere l’ipotesi che stessi avendo un miraggio. Vedevo del blu e dei capelli chiari; mossi, molto probabilmente. Doveva essere Sabo.
La figura alzò una mano in segno di saluto. Feci lo stesso e cercai di sorridere, sebbene non sapessi più dove fossero finite le mie labbra. Né se avessi ancora una faccia. Prima che me ne accorgessi mi passò accanto e mi superò. Sentii il suo profumo invadermi le narici. Non sapevo se fosse stato il profumo oppure la stanchezza a destabilizzarmi, ma nel momento in cui provai a muovere un passo in avanti, tutto si fece sfocato. Mi sbilanciai e spostai tutto il mio peso all’indietro. Caddi con la schiena rivolta verso il pavimento, e mi sembrò di precipitare per quello che era un tempo infinito. Finché non sentii un braccio forte e sicuro cingermi la vita. La mano di Sabo, rapida e decisa, ora mi sfiorava il fianco.
«Ti ho presa» fece, divertito. Non capivo che cosa ci fosse di divertente in quella situazione.
«Tutto a posto?» mi chiese, sempre con una certa vivacità.
«Sì» asserii, non senza un certo sforzo, afferrandogli la spalla e cercando di fare leva sulle gambe per rimettermi in piedi. Mi voltai per un secondo per guardare oltre la mia scapola. Ero ad appena venti centimetri da terra, mentre il biondo era in ginocchio e non sembrava fare il minimo sforzo nel sorreggermi.
Il rivoluzionario mi aiutò a rialzarmi e mi sostenne finché non mi fui rimessa in posizione eretta.
«Sono solo un po’ stanca» mi giustificai, sfoggiando un sorriso un po’ amaro. Oltre a Koala e ai medici, nessuno sapeva dei miei incubi. E nessuno doveva saperlo. Non Dragon e né tantomeno Sabo.
«Lo vedo» commentò lui, squadrandomi dalla testa ai piedi e sbuffando una risata.
«Sai, Hack e i suoi...» feci una pausa e roteai gli occhi «Allenamenti» decisi infine di dire. Il ragazzo davanti a me sorrise.
«Il vecchio Hack sa essere duro» concordò «Ma non lo fa apposta. In realtà ha un gran cuore» aggiunse poi, piegando all’insù l’angolo sinistro della bocca. Per quanto stanca fossi, non potei fare a meno di apprezzare l’espressione che aveva assunto. Mi ricordava quella di Ian Somerhalder quando interpretava Damon Salvatore.
«È solo una questione di abitudine» disse poi Sabo, richiamandomi alla realtà. Sperai che le sue parole fossero vere, che dovessi solo abituarmi ai duri metodi di addestramento dell’uomo-pesce, perché non avrei potuto sopportare altri tre mesi in quel modo.
«O forse è stato il mio fascino ad averti fatto cadere ai miei piedi» ipotizzò spavaldo. Il suo sguardo era diventato arrogante, come quello che faceva sempre Marco.
Lo fissai alzando un sopracciglio, poi sbuffai una risata e scossi la testa. Avrei potuto intavolare una conversazione sui mille motivi per cui anche il mio ex vicino di casa sessantenne, calvo e peloso come un orso avesse più fascino di lui, ma ero davvero esausta e non mi pareva il caso di affrontare un tale argomento nel bel mezzo del corridoio, dove tutti potevano sentirci.
«Sei proprio uno sbruffone, Sabo» soffiai provocatoria, tenendo lo sguardo fisso sulle sue iridi di carbone.
Lo vidi schiudere appena la bocca. Aspettò qualche secondo prima di parlare, evidentemente gli piaceva tenermi sulle spine.
«Lo sono?» domandò infine, ghignando. Le pupille gli brillavano di chissà quale malizia.
Sbuffai, alzai gli occhi al cielo e mi voltai, dandogli le spalle e liquidandolo con un gesto della mano. Il richiamo del letto era diventato davvero troppo forte. Avremmo continuato un’altra volta la nostra discussione sul suo charme e sul fatto che non fosse Cavendish o meglio, Cavolish, come forse se lo ricordava lui. Se non altro il rivoluzionario non era bipolare, sonnambulo e non aveva grosse manie di protagonismo. Un punto a suo favore.
Non lo salutai nemmeno, mi limitai a camminare verso la mia stanza, ancora troppo lontana per i miei gusti. Dietro di me, sentii che Sabo si allontanava sempre di più. Anche lui aveva ripreso a camminare nella direzione opposta. Ad un certo punto, però, il rumore dei suoi passi si arrestò.
«Ehi, Cami» mi richiamò, costringendomi a voltarmi «Vieni con noi al bar stasera?» mi chiese, con un gran sorriso stampato sulla faccia.
«Festeggiamo la riuscita della missione affidata ad alcuni dei nostri» mi spiegò poi.
Sorrisi, sinceramente contenta che mi avesse invitata a festeggiare. Tuttavia dovetti declinare l’invito. Ero esausta e non credevo che mi sarei svegliata in tempo, quindi scossi debolmente la testa e mi rigirai, proseguendo il mio cammino verso la mia camera.
Quando finalmente mi richiusi alle spalle la porta della stanza in cui risiedevo e avvistai il mio adorato letto a baldacchino, quasi piansi dalla gioia. Mi fiondai a passo svelto verso di esso, chinandomi ed accarezzando amorevolmente il cuscino, per poi gettarmi sopra al materasso e sistemarmi nella posizione che ritenevo più comoda. Nel momento in cui la schiena toccò la superficie di quel morbido giaciglio, mi abbandonai ad un lieve gemito di piacere. Mi sfilai gli anfibi e li lasciai ai piedi del letto. Non scostai nemmeno le coperte, tanto non faceva freddo e non avevo bisogno di coprirmi. Avevo solo bisogno di dormire.
Mentre il sole tramontava definitivamente e le pareti della mia camera, da aranciate, tornavano a tingersi del loro consueto colore celestino, sperai che quella potesse essere una notte tranquilla, caratterizzata da un sonno profondo e privo di sogni di qualunque tipo.
 
Doflamingo mi aveva spezzato il polso. Avevo il suo braccio stretto alla gola e la sua rivoltella puntata alla tempia. Poi, con un gesto secco, mi aveva ributtato a terra. La nodachi di Law mi aveva trafitto lo stomaco e la mia ascia gli aveva colpito il torace. Eravamo entrambi stesi al suolo, esausti. Il Demone Celeste aveva sparato tre rapidi colpi di pistola al petto del mio capitano e la pozza di sangue sotto di lui era diventata un lago. L’avevo visto spegnersi davanti ai miei occhi. Il biondo era tornato da me, mentre io cadevo nella più profonda e totale disperazione. Mi aveva sollevato da terra, le sue dita stringevano il mio collo come se fossero un cappio. Volevo solo che tutto finisse. Aveva dato un calcio al mio stomaco. Aveva calpestato il mio polso rotto. Mi aveva trapassato la gola con uno dei suoi fili e poi l’aveva impietosamente schiacciata con la suola della scarpa, facendomi soffocare. Paura. Dolore. Buio. Disperazione. Vuoto.
Ancora una volta, mi svegliai di soprassalto. Il cuscino era fradicio del mio sudore, le guance erano bagnate dalle lacrime. Era sempre lo stesso incubo. Mi tormentava da giorni e mi privava di ogni energia. Non ce la facevo più, sebbene ormai mi fossi abituata e rassegnata al fatto che probabilmente mi avrebbero tenuto compagnia ancora per un bel po’. Rivivevo quel momento a ripetizione, ogni sensazione, ogni emozione, come se fosse accaduto pochi secondi prima. Perché non potevo sognare birra e ciambelle come Homer Simpson? Perché dovevo essere sottoposta a quella dolorosissima tortura ancora e ancora?
Mi asciugai le guance con il dorso delle mani, poi mi misi a sedere sul bordo del letto, i gomiti appoggiai alle ginocchia e la testa nascosta tra le braccia. Più volte buttai fuori tutta l’aria che avevo in corpo. Dovevo darmi una calmata. Poi sarei andata in bagno a sciacquarmi il viso, mi sarei rimessa a letto e avrei cercato di riaddormentarmi, come facevo sempre. Eppure, c’era qualcosa che mi impediva di calmarmi. Di brutti sogni ne avevo fatti a bizzeffe, soprattutto nell’ultimo periodo. Ma l’incubo di quella sera era stato diverso. Era stato potente ed era come se dentro il mio corpo stesse infuriando una battaglia, come se ci fosse una feroce valanga, che premeva e spingeva per riversarsi fuori dal mio corpo. Era come se tutto dentro di me fosse stato stravolto e ora niente fosse al posto giusto. Mi sentivo strana, diversa. Anche le cose attorno a me erano cambiate. Quasi potevo sentirle, potevo percepire la loro aura. No. Scossi la testa con violenza. Le cose, gli oggetti non avevano un’aura.
Alla salute, ragazzi! Speriamo che ci possano essere cento di queste missioni!”.
Scattai in piedi. Chi era? Di chi era quella voce? Chi cazzo aveva parlato!?
Mi auguro di poter tornare presto da mio figlio. Ormai ha otto anni, si è fatto grande”.
Trattenni il fiato. Di nuovo.
Quando otterrò il permesso per tornare a casa, devo ricordarmi di non dire di nuovo a mia moglie che il suo pasticcio di pesce fa schifo. Quella è capace di lasciarmi senza cena per tutto il tempo di congedo”.
Iniziai a guardarmi intorno con occhi spalancati, spaesata. In camera non c’era nessuno. Mi precipitai ad aprire la porta e guardai in corridoio. Era vuoto. Erano andati quasi tutti al bar.
Non dovrebbero bere così tanto. Domani li aspetta una giornata di duro lavoro”.
Questo era sicuramente Hack. Ma non era nei paraggi. Dov’era? Perché riuscivo a sentirlo?
Certo che Koala si è proprio fatta una bella ragazza”.
Ancora. Da dove diavolo venivano quelle maledettissime voci!? Iniziai a respirare affannosamente, gli occhi sempre strabuzzati dal terrore. All’improvviso un tremendo sospetto si era fatto strada dentro di me. No, non poteva essere quello che credevo. Era impossibile, era escluso categoricamente. Aria. Mi serviva aria. Corsi alla finestra e la spalancai, chinandomi in avanti e mettendo la testa fuori. Inspirai a pieni polmoni tutto l’ossigeno che riuscii ad immagazzinare nel mio esile e tremante corpicino. Rimasi con le imposte spalancate e in quella posizione per cinque minuti buoni, ma le voci nella mia testa non accennavano a smettere, né a diminuire. Anzi, aumentavano sempre di più. Quasi automaticamente camminai fino alla porta ed uscii dalla stanza. Cominciai a barcollare, proprio come avevo fatto quel pomeriggio. Non sapevo nemmeno dove ero diretta, sapevo solo che me ne dovevo andare. Dovevo scoprire l’origine di quel fastidioso chiacchiericcio che stava avendo luogo nella mia testa. Appoggiai la mano destra al muro, quasi come se quel gesto potesse evitare di farmi crollare definitivamente, come se in qualche modo il sorreggermi alla parete potesse placare quei versi sconnessi tra loro. Continuai ad avanzare per un tempo che mi sembrò infinito. Finché qualcuno non mi trovò.
«Cami-chan...» mi richiamò una voce familiare. Alzai la testa per capire a chi appartenesse. Era Koala.
«Stai bene?» chiese, preoccupata. Bastò che la guardassi perché capisse la risposta. I miei occhi parlavano per me. Erano confusi, stanchi, distrutti. La vidi venire velocemente verso di me ed allungare una mano a toccarmi la spalla. Tuttavia io mi discostai, non volevo che nessuno mi toccasse, avevo paura che quel gesto potesse peggiorare la situazione.
«Che ti è successo?» domandò di nuovo. La sua apprensione era palpabile, una ruga di preoccupazione era comparsa sulla sua fronte. Mi guardava come se fossi un vaso antico e prezioso che potesse rompersi da un momento all’altro. Non aveva tutti i torti, io stessa temevo di potermi spezzare e infrangere di lì a breve.
«Cami...» chiamò di nuovo il mio nome, facendomi sospirare. Ero sul punto di scoppiare a piangere. «A me puoi dirlo» mi rassicurò, con un tono dolce.
Scossi violentemente la testa mentre le lacrime iniziavano a riempire i miei occhi.
«Sono...» feci una pausa per cercare di riprendermi, non riuscivo neanche a parlare «Sono diventata pazza» dissi in un sussurro. Il mio corpo tremava per i potenti fremiti che lo facevano sobbalzare, ma non avevo staccato la mano dal muro. Poi mi sembrò di iniziare a ridere convulsamente, al punto che non seppi più se stavo ridendo o piangendo. Mi portai una mano alla bocca, per poi passarmela sul resto della faccia, come a scacciare quell’orribile sensazione. Era come se tutto fosse amplificato. I sensi, le emozioni, tutto. Nella mia testa riuscivo a percepire la presenza delle persone ed era sfiancante e alquanto inquietante. Ogni minima cosa rimbombava nella mia mente, e non capivo come ciò fosse possibile, né per quale motivo stesse capitando proprio a me. Desideravo solo che tutto si fermasse e tornasse come prima.
«Aiutami...» la supplicai sottovoce. Mi piegai in avanti, chinai la testa e portai la mano libera sul ginocchio. Presi un respiro profondo, talmente profondo che agli occhi di chi osservava quella raccapricciante scena avrebbe potuto sembrare il respiro disperato di chi è stato per due minuti sott’acqua e quella fosse la prima boccata d’aria che riuscisse a prendere.
«Qualsiasi cosa sia la risolveremo» cercò di confortarmi, tendendomi simbolicamente la mano «Tu non ti muovere da qui. Vado a chiamare un dottore, ok?».
I capelli mi nascondevano la faccia, ma anche se l’avesse potuta vedere, non sarebbe cambiato nulla. Non mi serviva un medico. Molto probabilmente mi serviva un esorcista. Uno di quelli bravi, per giunta.
«Ehi, ragazze. Che succede?»
Un’altra voce. No. Basta. Non potevo più sopportarne altre.
«Sabo-kun...» fece Koala, quasi disperata. Rialzai per l’ennesima volta lo sguardo. La mia non era un’allucinazione, questa volta quello che avevo sentito era reale. Infatti, a pochi passi da noi, c’era il rivoluzionario. Per un attimo, solo per un attimo, le nostre iridi si incontrarono. Le sue concentrate, le mie vuote. E in quell’attimo, parve capire esattamente di cosa avessi bisogno.
Non sentii il resto della conversazione tra la ragazza e il biondo, anche se potevo immaginarmela. Non era difficile, perfino per una persona nel mio stato.
«No.» dissentì Sabo ad un certo punto «Non serve che chiami alcun medico. Ci penso io» dichiarò poco dopo.
«Ma...» provò a protestare la mia amica, ma fu subito interrotta.
«È tutto a posto. Tu vai e stai tranquilla, ci penso io» la tranquillizzò lui, troncando sul nascere la discussione. Dopo un po’ sentii la ragazza sbuffare.
«Per qualsiasi cosa, chiamami» si raccomandò lei. Poi imboccò il lungo corridoio e si allontanò da noi.
«Ehi» disse, in un modo che visto chi era il mio interlocutore poteva essere considerato tenero, facendomi spostare lo sguardo su di lui.
Spero che Sabo-kun non combini un disastro come suo solito. Non intendo prendermi la responsabilità per i suoi casini un’altra volta. Farà meglio a trattare bene Cami-chan, o dovrà risponderne a me. Quella povera ragazza non si merita tutto questo. E se dovesse succedere qualcosa anche stavolta, non lo coprirò con Dragon-sama.”.
Ma che...cazzo era stato!? Mi sporsi oltre la sagoma del rivoluzionario. Doveva essere stata Koala a parlare. Eppure non c’era più nessuno oltre a me e al biondo in quel corridoio. Oltretutto quest’ultimo non sembrava essersi accorto di nulla. Che mi stava succedendo? E perché stava accadendo proprio a me?
Cominciai a guardarmi intorno, terrorizzata. Non c’era nessuno lungo il corridoio eccetto me e il rivoluzionario. Eppure io sentivo delle voci. Le sentivo da tempo. Non potevo più andare avanti così. Lo fissai. Scossi la testa e indietreggiai. Tutto si faceva confuso. Le voci, le immagini, i pensieri. Era come se tutto il dolore, fisico, mentale e psicologico che avevo provato in quegli anni fosse tornato, tutto insieme, tutto in una volta. Come un uragano manifestatosi all’improvviso che distruggeva e spazzava via qualsiasi cosa nel suo raggio d’azione. Non dava scampo. Non aveva pietà, per niente e nessuno. E tutto quel dolore era troppo per me. Non potevo gestirlo. Mi avrebbe sopraffatto. Non ce l’avrei fatta. Non potevo farcela.
«Cami?»  Sabo chiamò il mio nome e fece un passo verso di me. Iniziai a scuotere il capo violentemente, ad occhi spalancati.
«Falli smettere.» lo pregai, tra i singhiozzi. La mano destra era sempre sigillata al muro.
«Cosa? Chi?» volle sapere. Mi tese una mano. Ma io non ero lì. Vedevo cose. Sentivo cose. Vedevo persone che non avevo mai visto prima e sentivo cose che non erano lì. Che mi stava succedendo? Stavo diventando pazza? Tutto ciò era reale? O mi stavo immaginando tutto? Forse...forse era opera della Stella. Forse voleva che tornassi alla mia solita vita, nel mio universo, e quello era il suo modo per farmelo sapere. Farmi impazzire per poi riportarmi gradualmente alla “realtà”. Ammesso che esistesse una realtà. A quel punto, non lo sapevo più neanche io.
Mi portai le mani tra i capelli, li stringevo tra le dita, con così tanta forza che avrei potuto tranquillamente strapparli via dal cuoio capelluto.
«Falli smettere!» gridai, disperata. Lui mi guardava quasi inorridito.
Fissai il pavimento mentre le lacrime cominciavano a scendermi copiose lungo le guance. Non ressi, e prima che potessi accorgermene mi ritrovai in ginocchio.
«Falli smettere, falli smettere, falli smettere!» urlai. Poi alzai lo sguardo, per l’ennesima volta quella sera. Lui era lì, angosciato e preoccupato, stava in piedi senza sapere bene che fare.
«Falli smettere, ti prego. Perché io non posso...non posso continuare così» lo implorai con voce strozzata.
Rimanemmo immobili ad osservarci per qualche secondo. Poi, si precipitò verso di me, si inginocchiò e mi abbracciò stretta. Iniziai – di nuovo – a singhiozzare. Gli occhi mi bruciavano.
«Ok» disse «Ok» ripeté poi in un sussurro. Sentivo le sue dita strofinarmi la schiena delicatamente.
«È tutto a posto. Ci penso io. Non ti preoccupare, ok? Non sei sola» mi mormorò. Sentivo il suo profumo invadermi le narici. Le sue braccia, il suo calore, mi davano sicurezza. La sua presa era decisa e salda, ma non mi faceva male. Mi faceva sentire al sicuro.
«Voglio tornare a casa» mugolai, con il mento appoggiato sulla sua spalla. Mi strinse più forte.
«Domani faccio contattare il tuo capitano» cercò di rassicurarmi.
«No.» mi rifiutai, premendo le mani sul suo petto ampio e muscoloso. Mi staccai da lui e mi appoggiai alla parete con la schiena. Poi portai le ginocchia al petto e le cinsi con le braccia.
«Io voglio tornare nella mia vera casa. Voglio tornare dalla mia famiglia, dai miei amici. Voglio tornare nel mio mondo. Voglio tornare alla monotona e noiosissima vita che facevo prima. Prima di tutto questo. Voglio andare a casa e dimenticarmi di ogni cosa che ho vissuto» piagnucolai esasperata. Non ce la facevo più. Volevo davvero tornarmene nel mio universo, dove ero al sicuro da mostri che tentavano di uccidermi e dove non ero vittima di allucinazioni psicotiche.
Mi voltai rapidamente verso Sabo, che si era sistemato accanto a me, nella mia stessa posizione ma con le gambe allungate verso l’interno del corridoio.
«Aiutami a tornare a casa. Devo...dobbiamo trovare un modo» dissi decisa, seppure con voce tremante.
Lui mi guardò per un po’, con un’espressione indecifrabile. Poi, lo vidi girare il busto verso di me, allungare le braccia e posizionarmi delicatamente le mani sulle guance. Con un tenue e gentile movimento dei pollici scacciò via le lacrime che non ero riuscita a trattenere e che ormai continuavano a scendere indisturbate.
Sempre con il viso tra le sue mani, lo osservai abbassare di poco la testa, in modo che i suoi occhi fossero allo stesso livello dei miei. Incastonò le iridi nere alle mie e mi fissò, con serietà ma anche con dolcezza.
«Lo troveremo» affermò, annuendo impercettibilmente.
Abbassai lo sguardo e mi umettai le labbra con la punta della lingua. Non sapevo se credergli o meno. Davvero, non lo sapevo più. Non sapevo più a chi o a cosa credere. Mi sembrava tutto così futile. Effimero. Irreale. Come se fino a quel momento avessi vissuto in un sogno, in un’allucinazione, perfino in una bolla. Inspirai ed espirai lentamente.
«Ti prego, lasciami sola» lo supplicai, tuttavia con un tono duro. Tornai a fissare il vuoto che c’era davanti a me.
Con la coda dell’occhio lo vidi alzarsi. Sospirò e poi se ne andò senza dirmi nulla.
Da una parte avevo sperato e desiderato che non se ne andasse, che rimanesse con me. Dall’altra, invece, volevo solo essere lasciata in pace, stare da sola con i miei demoni e il mio tormento.
Gettai all’indietro la testa, fino a che non toccò il muro. Osservai il soffitto, ricco di decorazioni, per un po’. Dopodiché chiusi gli occhi. Le palpebre tremavano. Sotto di esse percepivo le lacrime che premevano per uscire.
«Spero tanto che voi stiate meglio di come sto io in questo momento» bisbigliai mentre una lacrima solitaria mi bagnava la pelle e dava il via a quello che sarebbe stato un pianto silenzioso. Presi un respiro profondo e poi ritirai in dentro le labbra. Mai come in quel momento mi erano mancati i miei famigliari. Mi mancava il conforto ed il calore che avrebbero potuto darmi anche solo con la loro presenza. Mi mancava il profumo dei biscotti appena sfornati che faceva mia nonna, mi mancavano i brontolii di mio padre e il canticchiare di mia madre mentre apparecchiava la tavola. Non era giusto. Mi erano stati strappati troppo presto. Avrei dato tutto per poterli vedere anche solo per cinque minuti. Mi sarebbero bastati solo cinque minuti. Avrei voluto sentirmi semplicemente dire che andava tutto bene. Che loro stavano bene.
Un rumore di passi frettolosi che risuonava lungo il corridoio mi distrasse dai miei pensieri. Non cercai di scoprire chi fosse. Non mi importava.
La figura mi raggiunse e si inginocchiò. Gli stivali neri ed i pantaloni azzurri mi indicavano che era Sabo, che era tornato da me. Non se ne era andato, a quanto pareva. Spostai controvoglia lo sguardo su di lui e notai che in mano aveva due bicchieri. Nella mano sinistra stringeva un boccale contenente il solito liquido lattiginoso trasparente che beveva sempre lui, mentre nella destra teneva un calice con dentro una sostanza color rosso vinaccia.
Alzai un sopracciglio e soffiai una risata. Lui mi avvicinò la coppa ed io la presi con entrambe le mani. Poi si mise a sedere nell’esatto punto in cui era seduto prima di andarsene. Adesso, però, le nostre spalle si toccavano.
«L’hai detto tu che il vino risolve tutti i problemi, no?»
Mi fece un sorriso sghembo e non potei fare a meno di sorridere anche io, sebbene avessi gli occhi appannati e brucianti a causa delle lacrime.
Lo intravidi alzare il suo calice a mezz’aria.
«A giorni migliori» proclamò. Lo guardai male, con lo stesso sguardo di chi poteva risparmiarsi quell’enorme stronzata, a cui ormai credevo poco. Eppure alzai lo stesso il mio bicchiere – evitando però di farlo cozzare con quello del biondo – come se quello fosse un ultimo, disperato, gesto di speranza. Sospirai con forza appena prima di ingollare il vino. A dirla tutta, non avevo nemmeno voglia di berlo. Questo mi faceva realizzare quanto fosse grave la situazione. Tuttavia mi dissi che un po’ di alcol non mi avrebbe potuto fare male, e avevo ragione. Il rivoluzionario ci aveva visto giusto. Nel momento in cui percepii il sapore amarognolo della sostanza alcolica disciogliersi in bocca e poi scivolare giù in gola, mi sentii subito meglio.
Poggiai il bicchiere accanto a me, alla mia sinistra.
«Sono ovunque» dichiarai seria portandomi una mano alla tempia e premendo le dita contro la pelle «Sono ovunque» ripetei, facendo lo stesso con l’altra mano e chiudendo gli occhi. Non stavo più piangendo, e neanche mi veniva da piangere. Credevo di aver esaurito persino le lacrime. Sbuffando ripresi in mano il calice con il vino e ne bevvi un altro sorso. In quel momento mi sarebbe piaciuto avere vicino i miei compagni. Loro avrebbero saputo tirarmi su di morale e distrarmi da quella situazione del cazzo. Non che il fratello di Rufy non fosse bravo in questo, se la cavava piuttosto bene, ma non era i Pirati Heart.
«Conosco un modo infallibile per alleviare le tue sofferenze» disse ad un certo punto, dopo che fummo rimasti in silenzio per un bel po’.
«E qual è?» gli chiesi, guardandolo esausta. Lui scosse la testa, piano e con eloquenza.
«Non stasera. Te lo mostrerò, un giorno» affermò comprensivo, per poi aprirsi in un sorriso appena accennato.
Tornai a guardare il corridoio, dritto davanti a me. Qualunque fosse stato il suo metodo, non avrei insistito. Non ero nelle condizioni di farlo. Mi fidavo di Sabo e se diceva che quella non era la sera giusta, allora non lo era. Ma prima o dopo lo avrei scoperto, che lo avesse voluto o meno. Perché avevo davvero bisogno di qualcosa che alleggerisse le mie pene, e il vino cominciava a non bastarmi più.




Angolo autrice
L'avevo detto che l'angst sarebbe comparso ancora, e infatti eccolo qua. Le vecchie abitudini sono dure a morire.😂
Ho fatto impazzire definitivamente la povera Cami. Non che mi dispiaccia troppo, onestamente.😂 Mi auguro solo di aver reso bene il tormento e l'angoscia della ragazza. Ma Camilla è davvero diventata pazza, o dietro la sua apparente alienazione si cela qualcos'altro? Chissà! Quello che è certo, è che vuole tornare a casa, dalla sua famiglia. Ci riuscirà? Riuscirà a trovare un modo per farlo?

Ad ogni modo, ciò che le sta succedendo verrà spiegato meglio nel prossimo capitolo. Nel frattempo, spero che questo vi sia piaciuto e che i personaggi non siano risultati troppo OOC. Fatemi sapere che ne pensate, se vi va. :)
Alla prossima!

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Capitolo 50
*** Libertà ***


Quella notte sognai tutti le persone a me care che avevo lasciato involontariamente indietro. Ridevano felici, proprio come l’ultima volta in cui li avevo visti, quando ero rimasta per giorni priva di conoscenza dopo lo scontro con Doflamingo. Sembravano stare bene, e questo in qualche modo mi tranquillizzò. Non che ci avessi messo poco per addormentarmi. Ci erano volute cinque ore, e per tutte quelle cinque ore Sabo era rimasto con me. Mi ero praticamente addormentata all’alba. Nonostante la compagnia del biondo, che aveva fatto molto di più di quanto chiunque avesse potuto immaginare, le voci non erano svanite. Se mi ero addormentata, era stato solo perché ero esausta ed avevo ceduto fisicamente prima che potessi farlo mentalmente. Ad un certo punto le mie palpebre si erano chiuse automaticamente, ed io mi ero lasciata trasportare tra le braccia di Morfeo. Mi ero svegliata quattro ore dopo, ancora più rintontita di prima, seppure sollevata, almeno in piccolissima parte. Sabo si era addormentato accanto a me, anche lui stanco e pure un po’ ubriaco. Non avevo potuto vederla, ma ero sicura che fosse stata una scena piuttosto tenera. Al mio risveglio, però, lui se ne era già andato. Così, mi ero alzata, mi ero tolta la cintura, mi ero fatta una doccia e per circa cinque minuti mi ero fissata allo specchio. Non sembravo neanche più io. Sembravo l’ombra di me stessa, quello che era successo la sera precedente mi aveva sconvolta oltre ogni misura. Due moleste occhiaie violacee erano comparse sotto ai miei occhi, che erano infossati ed incavati nel volto. Sembravano affaticati, tristi ed anche un po’ vuoti; le sclere erano rimaste arrossate dalla notte prima e a causa della stanchezza dovuta alla scarsa quantità e qualità del mio sonno di quei giorni. Ma un paio di secondi prima di addormentarmi avevo deciso che non mi sarei lasciata sopraffare dal dolore, dalla tristezza o dalla nostalgia. Perché io non ero più questa persona. Le voci che continuavo a sentire nella mia testa erano sicuramente fastidiose, ma ce n’era una che era più forte di tutte le altre e mi spingeva a non abbandonarmi allo sconforto. Era la mia. Mi incitava a non mollare. Avrei vinto, avrei superato tutto, così come avevo fatto con il resto degli spiacevoli episodi che avevo dovuto vivere in quegli anni.
Ecco perché subito dopo avevo preso un respiro profondo, mi ero vestita, mi ero pettinata ed ero uscita dalla mia stanza come se nulla fosse accaduto.
 
«Ti dico che è proprio così» insistette l’uomo-pesce. Io facevo ancora fatica a credere che fosse vero. Anzi, mi pareva oltremodo assurdo.
«No. Non... non può essere» feci incredula, continuando a scuotere la testa ad occhi spalancati.
«Fidati di me, una buona volta» si espresse, cominciando ad infastidirsi «So riconoscere l’Haki dell’Osservazione» aggiunse poi Hack, incrociando le braccia e fissandomi con sguardo torvo.
Per quanto lo trovassi discostante da me e da quelli che erano i miei modi di agire, avevo comunque deciso di andare da lui per cercare spiegazioni e risposte, perché – mi costava molto ammetterlo – era la persona migliore da cui andare quando si trattava di queste cose. Così, piuttosto controvoglia, mi ero recata nella minuscola sala dove in teoria si tenevano le riunioni tra gli individui più influenti dell’Armata Rivoluzionaria. Ora, non era esattamente minuscola, ma rispetto agli standard di quella base era piuttosto ristretta, anche a causa di tutti gli scaffali pieni di documenti disordinati che c’erano nella stanza. Mi ricordava vagamente l’archivio che c’era nella mia scuola. C’erano persino banchi e sedie in legno, e anche una specie di cattedra. Pensare che Dragon si sedesse dietro di essa, era quasi esilarante.
«Sì, ma come...» mi portai le falangi alla tempia, confusa e ancora un po’ rintontita dalle presenze che mi rimbombavano in testa «Come è possibile?» gli chiesi infine, sempre più spaesata.
Fece una blanda alzata di spalle.
«Non lo so» si limitò a dire. Stava iniziando anche ad esasperarsi. Non era un tipo molto paziente, soprattutto quando era convinto di avere ragione e l’interlocutore che aveva davanti al momento continuava a negare quella che per lui era l’evidenza. Ma in quel caso avevo motivo di credere che l’opinione che stava sostenendo non fosse affatto un’ovvietà.
«Ho sentito dire che può essere risvegliata involontariamente da un individuo dopo che questi ha subito un grande trauma» spiegò dopo qualche secondo di silenzio.
Mi appoggiai con le gambe al tavolo dietro di me, nella speranza che potesse sostenere il mio peso ed il peso di quei rumori selvaggi che stavano avendo luogo nella mia mente. Congiunsi le mani, intrecciai le dita fra loro e vi posai il mento sopra.
«Sì, l’ho sentito dire anche io» gli feci eco, pensierosa. Messa su quel piano, la sua teoria apparentemente strampalata, non era poi così assurda.
«Credi che siano stati gli incubi a risvegliare in me l’Ambizione?» domandai, alzando lo sguardo e fissandolo titubante. Facevo ancora fatica a pensare che fosse una cosa possibile. Anzi, per me era proprio inconcepibile. Non poteva essere vero. Io provenivo da un altro mondo, e lì non esisteva l’Haki. Di conseguenza, era impossibile che io avessi acquisito – anche per "sbaglio" o per caso – un tale potere. C'era qualcosa di strano. La faccenda non mi tornava.
In risposta alzò di nuovo le spalle. Supponevo che in realtà ne sapesse quanto me. Decisi di non fare altre domande per non rischiare di alterarlo, ma mi concessi un lungo sospiro. Sorprendentemente, sentii sospirare anche il mio interlocutore.
«La tua è un’Haki speciale. Non ho mai avuto a che fare con un’Ambizione di questo tipo» considerò, perso nei suoi pensieri. Aggrottai la fronte, decisamente stupita dalla sua constatazione.
«Ti permette di andare oltre le mere presenze. Puoi sentire le persone, captare i loro pensieri» aggiunse subito dopo con aria assorta. Aveva iniziato a lisciarsi la punta dei baffi con l’indice ed il pollice. Lo fissai assottigliando gli occhi.
«In che senso? E come fai a saperlo?» chiesi con un filo di voce. Se prima ero confusa, ora lo ero ancora di più. Potevo sentire il cuore martellarmi nel petto. Cominciavo ad agitarmi, e questo non era un bene. Perché più mi agitavo e più le voci nella mia testa si facevano forti.
«Lo so e basta» tagliò corto. Sembrava addirittura leggermente seccato. Ma io avevo tutto il diritto di domandargli qualsiasi cosa mi passasse per la testa riguardante quella assurda storia. Anche se, in realtà, sospettavo che nemmeno lui fosse a conoscenza di troppi dettagli. Dovevo fidarmi. Era l’unica opzione che avevo.
«Quindi, come facciamo? Come gestiamo questa situazione?» volli sapere, staccandomi da quella specie di cattedra alla quale mi ero appoggiata. La mia testa aveva decretato che ne aveva abbastanza di supposizioni e teorie campate per aria. Avevo bisogno di risposte concrete e pratiche.
«Intensificheremo gli allenamenti» affermò solenne.
Storsi naso e bocca. Non era esattamente quello che volevo sentire. Il pensiero che avrei dovuto passare più tempo insieme a lui di quanto dovessi fare già, non mi faceva venire voglia di fare i salti di gioia. Mi avrebbe massacrata ancora di più.
«Se mi ascolterai e farai ciò che ti dico, ti insegnerò a padroneggiarla, in modo da poterla sfruttare in battaglia» continuò poi, assumendo un’espressione severa e guardandomi come un genitore che tenta di convincere il proprio figlio a non commettere più la marachella di cui si è appena macchiato il bambino.
Sbuffai ed annuii impercettibilmente, rassegnandomi al fatto che sarei dovuta scendere a patti con il diavolo; o, in questo caso, con Hack, che poteva essere perfino peggio.
«Puoi aiutarmi, vero Hack-san?» quasi lo implorai. Una ruga di preoccupazione era comparsa in mezzo alla mia fronte. Non sarebbe servito a niente chiederglielo, ma in un momento così delicato avevo bisogno di conferme.
«Io posso» affermò convinto, guardandomi negli occhi «Sta a te decidere quello che vuoi fare» disse poi, serio. Capii subito ciò che intendeva. Tentava di dirmi che avrei dovuto essere io la prima ad aiutarmi. Tentava di dirmi che quella, per quanto difficile, era la strada più giusta da prendere. Certo, avrei dovuto starlo a sentire e avrei dovuto accettare anche qualche compromesso. Talvolta avrei dovuto fare dei sacrifici, ma se avessi deciso di intraprendere quel cammino, sarei stata bene. E soprattutto, sarei diventata più forte. Questo bastava per convincermi. Dovevo farlo. Avevo bisogno di farlo.
«Allora? Accetti la mia proposta?» mi sollecitò Hack, che aveva iniziato a sbattere il piede per terra, impaziente di ricevere una risposta. Supponevo che avesse cose più importanti da fare che stare a badare ad una ragazzina.
Sorrisi ed annuii ripetutamente. Feci un piccolo inchino con il capo, in segno di gratitudine e rispetto. Dopodiché, ipotizzando che quella conversazione fosse giunta al termine, mi congedai e mi diressi a passo svelto verso l’uscita della stanza. Come l’uomo-pesce, anche io avevo delle cose da fare.
«Risolverai il tuo problema» si pronunciò, facendomi arrestare e voltare verso di lui. Sul suo volto stava iniziando a comparire un piccolo ghigno, come se per lui quella fosse una sfida. Aveva un’aria calma e rilassata, perfino spavalda, che ha solo chi è sicuro di poter vincere. Il mio sguardo convinto parlò per me. Quella chiacchierata mi aveva ridato un po’ di fiducia, sebbene ancora stentassi a credere che quanto mi aveva detto il rivoluzionario fosse vero.
«Inizieremo domani» dichiarò infine, alzando un sopracciglio.
Feci un rapido cenno d’assenso ed alzai frettolosamente il pollice mentre abbassavo la maniglia della porta. Dovevo andare a dirlo a Sabo. Dovevo comunicargli che avevo parzialmente risolto il problema e che gli allenamenti del Sergente Maggiore Hartman non mi spaventavano affatto, non se mi avrebbero fatto diventare più forte, almeno.
 
«Cami!» la voce allegra e squillante di qualcuno mi costrinse ad arrestare la mia sottospecie di corsa. Scivolai per una decina di centimetri nell’improvviso tentativo di fermarmi, poi barcollai su un piede e, quando recuperai l’equilibrio, finalmente mi girai verso la figura che mi aveva chiamato. Non mi aspettavo che qualcuno potesse venire a parlarmi. Avevo fretta e non volevo interferenze.
«Koala!» esclamai, piacevolmente sorpresa. Entrambe iniziammo a camminare l’una verso l’altra, sorridenti. Se l’interferenza era Koala, potevo anche fare un’eccezione. La sua compagnia era sempre godibile. Proprio come Sabo, anche lei aveva questo strano potere; sapeva sempre dire o fare la cosa giusta al momento giusto, solo che lei non era irritante come il biondo. Anzi, era gentile. Ma nel suo modo d’agire c’era un lieve tocco autoritario che la rendeva la persona perfetta con cui fare amicizia e scambiare quattro chiacchiere. E poi, per la prima volta in vita mia, in quell’universo avevo conosciuto qualcuno che fosse alto quanto me. Era anche per questo che quella ragazza mi ispirava fiducia. Perché, all’apparenza, sembrava così minuta e fragile di fronte ai mostri di potenza che circolavano lì, eppure in qualche modo riusciva a rimetterli in riga tutti, perfino il suo spesso troppo emancipato partner di avventure, e non esitava a prendere a calci chiunque ritenesse che ne fosse meritevole. Alle persone veniva facile adorarla, ma era anche temuta. Era un concentrato di dolcezza e letalità allo stesso tempo, ed io l’ammiravo molto per questo. A dire la verità, ero convinta che lo facessero tutti, Sabo per primo. Mi ero ripromessa di prendere esempio da lei per diventare una guerriera decisa e risoluta ed un medico paziente e disponibile con tutti. Certo, non potevo fare a meno di invidiarla un po’. Oltre ad essere intelligente, responsabile e forte, era anche bella. Aveva un viso armonioso, incorniciato da sorrisetto furbo che sfoggiava quasi sempre e dai liscissimi capelli biondo fragola che portava in un caschetto corto ed ordinato. E poi, aveva quei due grandi occhi blu da cerbiatta che assomigliavano più a due zaffiri incastonati in una scultura già perfetta di per sé, contornata da abiti aderenti e piuttosto succinti che la valorizzavano ancora di più.
«Come stai, Cami-chan?» mi chiese Koala una volta che fummo poco distanti. Poi si allungò a prendermi le mani. Esitai un attimo prima di rispondere. Come stavo? In piedi, e questa, per me, già era una conquista al momento.
«Non male» decisi di rispondere infine, facendo una smorfia indefinita con la faccia. La mia amica fece per parlare, ma io la interruppi, perfettamente consapevole di cosa volesse domandarmi.
«Sì, la mia testa è ancora affollata da queste... voci» pronunciai l’ultima parola con una punta di scetticismo. Non volevo sembrare pazza e non volevo neanche accettare l’idea di esserlo. Liberai le mani dalla sua presa delicata.
«In realtà non sono proprio voci» mi corressi, corrugando la fronte e portandomi una mano a grattarmi la nuca «Non so come spiegarlo. È solo che... riesco a percepire la presenza delle persone attorno a me. È come se tutto d’un tratto sia più chiaro» dissi poi, finendo per alzare le spalle. Ero piuttosto sicura di aver fallito nel mio intento di sembrare una persona ragionevole.
«Tranquilla» mi rassicurò Koala, con un sorriso sincero. Per fortuna non era una che aveva pregiudizi e non mi aveva etichettata come malata mentale.
«Posso immaginare. Non deve essere una sensazione piacevole» constatò, fissandomi negli occhi con quella che mi pareva una punta di compassione.
«No, infatti» concordai, con un po' di malinconia «Ma ora che ho più o meno inquadrato il problema, mi sento meglio. Sono più tranquilla e più fiduciosa. So che c’è una speranza» le confessai con un sorriso amaro dipinto sul volto. La vidi piegare leggermente la testa verso destra ed allungare il braccio per toccarmi delicatamente la spalla, come se mi stesse compatendo. Sapevo che non era così, perché Koala non era il tipo che compativa le persone, eppure odiavo questa sensazione. Non mi chiese niente, però. Forse era già a conoscenza di ciò che mi aveva detto Hack, oppure era semplicemente educata e capace di farsi gli affari propri. Le notizie, in quella base, circolavano in fretta, quindi prima o poi lo avrebbe comunque saputo.
«Cose da medico. È più facile per noi lavorare quando abbiamo una diagnosi da cui partire» dichiarai, stringendomi nelle spalle. Nel corridoio era calato un silenzio imbarazzante, che avevo preferito riempire con quelle parole, che, per quanto stupide, erano assolutamente veritiere.
Feci per parlare di nuovo, ma mi arrestai nel momento in cui la sentii sospirare. Ritirò il braccio – che per qualche istante era rimasto poggiato sulla mia spalla – e si strinse il pugno al petto.
«Sai, qualche anno fa c’è stato un...» fece una breve pausa, forse doveva trovare i termini giusti «Episodio simile» confessò poi, abbassando lo sguardo. Corrugai la fronte, cercando di fare mente locale su chi potesse essere lo sfortunato che aveva dovuto passare dei momenti tanto orribili come quelli che avevo passato io la sera prima. Alzai le sopracciglia nel momento esatto in cui mi ricordai; e per poco non mi lasciai scappare un’esclamazione di sorpresa.
Mi guardai intorno con circospezione, come se non volessi farmi sentire da nessuno, poi mi avvicinai un po’ alla mia interlocutrice.
«Parli di Sabo, vero?» le chiesi, quasi in un sussurro. Lei annuì flebilmente, probabilmente quell’evento raccapricciante accaduto anni prima ancora la sconvolgeva.
«Forse è per questo che ha voluto intervenire di persona per aiutarti» rifletté, spostando lo sguardo alla sua sinistra, quasi come se fosse in contemplazione. Non riuscii a capire subito dove volesse andare a parare.
«Si sente responsabile per te, Cami-chan. Ma non è solo per questo che è venuto in tuo soccorso» si concesse un’altra piccola pausa, durante la quale incastonò i suoi occhi zaffiro nei miei ambrati. Sembrava leggermente angosciata. «Non me lo dimenticherò mai. Aveva il tuo stesso sguardo, quel giorno» sussurrò con un filo di voce.
Piegai la testa da un lato. Ora ero io a guardarla con compassione. Non ci avevo mai riflettuto troppo, ma la scoperta della morte del proprio fratello – che non si ricordava di avere – doveva essere stato un duro colpo per il rivoluzionario. E anche la sua amica non sembrava averla presa bene. Quasi mi venne da sbuffare una risata, nel pensare che io e Sabo eravamo più simili di quanto mi fossi immaginata. Anche io avevo assistito inerme alla “morte” di una persona a me molto cara, solo che a differenza sua ero stata presente. Avevo combattuto e avevo cercato di evitare il peggio fino quasi alla fine. Lui non aveva avuto questa possibilità. Aveva dichiarato di non avere rimpianti, ma nel momento in cui aveva realizzato il tutto doveva essersi sentito molto, molto in colpa. Conoscevo bene anche quella sensazione. L’attimo in cui tutto riaffiora e ritorna a galla. L’attimo in cui realizzi che non c’è più nulla da fare, che è andato tutto perduto. Non rimane niente, solo una fredda disperazione ed un dolore nel petto che annichilisce ogni altra cosa e ti porta via tutto ciò che hai. Gioia, allegria, speranza, fede. Tutto. Ti priva di tutto.
Forse era per questo che aveva deciso di rimanere con me la sera precedente. Perché lui poteva capirmi meglio di chiunque altro. E forse, come aveva detto la mia amica, si era rivisto in me. Difficilmente lo avrei detto, eppure ci stavamo rivelando sempre di più anime affini.
Deglutii e poi mi umettai le labbra con la punta della lingua.
«Ci ha fatto prendere uno spavento. Proprio come te, ieri sera» mi confidò Koala, distogliendomi dalle mie riflessioni. Notai che la voce le tremava un po’ e che aveva gli occhi lucidi. Stavolta fui io a prenderle le mani e a stringergliele con vigore.
«Il peggio è passato» commentai – in parte anche perché non sapevo che altro dire – cercando di tranquillizzarla. Lei annuì convinta e sbatté le palpebre un paio di volte per cercare di scacciare quel sottilissimo velo di lacrime che le si era formato attorno alle iridi.
Apprezzavo che Koala si fidasse di me al punto da esporsi così su una questione tanto delicata. Molto probabilmente cercava di consolarmi, di farmi forza. Magari quello era il suo modo per farmi capire che tutto sarebbe passato, presto o tardi, e che sarei riuscita a lasciarmi la faccenda alle spalle. Mi faceva piacere che qualcuno condividesse con me certe esperienze e mi incoraggiasse. Sorrisi quasi senza accorgermene. Era nata proprio una bella amicizia.
«Oh» l’esclamazione che fece la bionda mi riportò alla realtà «Quasi mi dimenticavo! Più tardi passo a portarti dei vestiti nuovi!» trillò allegra. Aggrottai la fronte e scossi rapidamente la testa, sicura di aver capito male. Vestiti nuovi? E a che mi servivano dei vestiti nuovi?
La mia amica notò la mia espressione confusa e si spiegò meglio.
«Non puoi andare in giro sempre con gli stessi abiti!» quasi mi rimproverò, squadrandomi contrariata. Allungai il collo e abbassai la testa per controllare il mio abbigliamento. Effettivamente era un mese che andavo avanti ad indossare ciclicamente le stesse tre combinazioni di vestiti. Rialzai il capo e feci per parlare, ma mi arrestai nell’istante in cui notai l’espressione severa sul viso di Koala. Quando era così, era meglio tacere. Il suo sguardo accigliato non ammetteva repliche. Mi arresi alla sua volontà, allargai le braccia e feci un’alzata di spalle.
«Vada per i vestiti nuovi» feci sconsolata «Grazie» aggiunsi poi, riferendomi alla gentilezza e alla premura della mia interlocutrice. In tutta risposta lei mi fece l’occhiolino, dopodiché si congedò. Dopo che anche io l’ebbi salutata, ci dirigemmo in direzioni opposte, ritornando così sui nostri passi e alle cose che dovevamo fare. Quella breve interruzione mi era stata utile sotto più punti di vista. E, nonostante tutto, mi aveva fatto piacere scambiare due chiacchiere con la rivoluzionaria.
 
Procedevo con cautela ma a passo svelto verso gli alloggi di Sabo. Dal momento che le porte erano tutte uguali e la base – che si sviluppava su più piani – era piena di corridoi simili tra loro, spesso e volentieri mi confondevo e sbagliavo stanza. Una volta ero entrata in quella di Iva, che era un paio di porte più in là. Non era stato un bello spettacolo. Vivendo per anni all’interno del Polar Tang mi ero abituata alle cose stravaganti, ma ero sicura che un’altra persona al mio posto sarebbe stata ancora sconvolta. Da quel giorno, comunque, avevo fatto molta più attenzione ed avevo imparato a riconoscere la strada. Ed eccola lì. La penultima porta in fondo a sinistra, primo piano, corridoio centrale dell’ala destra della struttura. Io mi trovavo nella sua stessa ala, un piano sopra di lui, ma il corridoio era quello a sinistra. Ci avevo messo un po’ anche per registrare la posizione della mia camera, ma dopo un mese avrei potuto ritrovare il percorso giusto ad occhi chiusi.
Ero appena ad un paio di metri dalla tanto agognata porta, quando quello che mi parve un calo di pressione mi costrinse ad arrestarmi e ad appoggiarmi al muro. Mi piegai leggermente in avanti, poi mi portai la mano destra alla tempia. Per un istante la vista mi si era appannata e le gambe avevano quasi ceduto sotto al mio peso. Ansimai per qualche secondo, poi mi ripresi, mi raddrizzai e mi staccai dalla parete. Sbuffai, conscia che quei capogiri erano provocati dalla fusione di più cose insieme. Prima fra tutte, la stanchezza fisica e mentale. Non dormivo bene da giorni, e quello che era accaduto la sera prima era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Hack mi aveva spiegato che l’Haki dell’Osservazione, oltre ad essere sviluppata tramite uno specifico e mirato allenamento, poteva manifestarsi in vari altri modi. Mentre mi trascinavo fino alla porta della camera di Sabo, pensai ad Usop e a come si fosse manifestata la sua Ambizione per la prima volta. Era a Dressrosa, e la sua era stata quasi una necessità. Aveva bisogno di capire con precisione dove doveva indirizzare il colpo e così aveva letteralmente iniziato a vederci chiaro, e davanti ai suoi occhi erano comparse delle aure. Non sapevo se poi avesse iniziato ad allenare questa sua nuova abilità. Non sapevo neanche se se ne fosse reso conto. L’Haki era infida. E c’era una persona che, come me, lo sapeva bene. Kobi. Anche lui aveva subito un trauma e di conseguenza aveva risvegliato l’Ambizione della Percezione. A pensarci bene, tutto aveva un senso più o meno logico, anche se non per questo era più facile credere a questa idea – nonché ferma convinzione dell’uomo-pesce che si era offerto di aiutarmi – strampalata. Mi sembrava una fantasticheria campata per aria, un modo per giustificare quelli che per me erano i primi sintomi che indicavano l’inizio di una psicosi. Quasi mi venne da ridere. Il cecchino dal naso chilometrico vedeva le aure, come se fossero apparizioni divine, mentre io e il marine dai capelli rosa sentivamo la presenza delle persone nella testa, che rimbombava ogni secondo di ogni minuto e peggiorava sempre di più. Anche in quel momento la mia mente era affollata. Ma se Hack sosteneva che si poteva controllare, allora mi fidavo di Hack. Dovevo fidarmi. Non avevo altra scelta, lui era il mio unico biglietto di uscita da quella situazione scabrosa.
Arrivai davanti alla porta del biondo e feci per bussare, ma mi fermai. Dalla sua stanza provenivano dei rumori, forse non era solo. Avvicinai l’orecchio alla porta, corrugai la fronte – come se quel gesto potesse farmi udire meglio – e mi misi all’ascolto. Non volevo origliare le sue conversazioni, né farmi gli affari suoi, volevo solo capire se quello fosse un momento propizio o meno per parlargli.
«È una situazione delicata. Mi sembrava giusto fartelo sapere» fece il rivoluzionario. Sembrava serio.
«Sì. Hai fatto bene ad informarmi» mi parve di udire. Era una voce familiare, eppure non riuscivo a riconoscerla.
«Allora, credi di potermi dare una mano?» chiese il rivoluzionario. Storsi il naso ed assottigliai gli occhi. Di che stava parlando? Di cosa aveva bisogno? E per quale motivo?
L’altra voce parlò, ma non riuscii a capire cosa disse. Non era facile quando di mezzo c’era una porta di legno spessa quindici centimetri.
«Fatti vivo se trovi qualcosa» sentii dire al biondo. Poi udii un “clack”, un rumore sordo seguito da un fruscio, e capii subito che chiunque fosse il suo interlocutore, non era lì con lui. Si stavano parlando tramite un Den Den Mushi e Sabo aveva riattaccato con quello che mi era sembrato un gesto secco e piuttosto brusco.
Mi ricordai di Dressrosa e di come Koala si arrabbiasse ogni volta perché il biondo riattaccava sempre prima del tempo e mi venne da ridere. Supponevo che fosse fatto così. E comunque, chiunque ci fosse stato all’altro capo del lumacofono, non erano affari miei.
Un rumore di passi mi ridestò dalle mie riflessioni. Mi staccai dalla porta appena in tempo, giusto mezzo secondo prima che si aprisse. Sulla soglia, c’era il rivoluzionario, che non sembrava affatto sorpreso di vedermi. Sorrisi angelicamente.
«Ciao» lo salutai con il tono più melenso ed innocente che potessi fare.
«Ti serve qualcosa?» domandò, congiungendo le mani dietro la schiena. A differenza del mio capitano, quando capitavano queste situazioni – a tratti imbarazzanti – lui sembrava divertito, anziché seccato. Forse la vedeva come una sfida. Di certo era sveglio, e presumibilmente si era accorto che stavo tentando di spiarlo da dietro la porta. Piegai il busto di lato per scrutare la stanza, ma del lumacofono non c’era traccia. Molto probabilmente era una tipologia tascabile, e ora era al sicuro – sebbene non fossi molto convinta che con il biondo l’animaletto potesse essere al sicuro – in una delle sue tasche. Era strano che lui fosse così furtivo, tuttavia c’era da aspettarselo; era pur sempre un rivoluzionario ed era giusto che avesse i suoi segreti. Oltretutto, non mi aspettavo di certo che li rivelasse a me, che ero l’ultima arrivata, di cui sapeva poco e niente. Non appartenevo nemmeno all’Armata.
Tornai a fissarlo negli occhi e quando lo feci, chissà per quale strana ragione, cercai di immaginarmi lo sguardo vuoto, perso e distrutto che aveva fatto il giorno in cui si era ricordato di avere un fratello e in cui aveva scoperto che quest’ultimo era morto senza che lui avesse potuto fare nulla per impedirlo. E per un attimo, per quell’attimo, il resto del mondo sparì. Non c’erano colori, suoni o odori. C’eravamo solo io e lui. La sua figura mi apparve nitida, come non mi era mai apparso nessun altro. Non solo il suo corpo, ma riuscivo a vedere chiaramente anche il suo spirito, e ciò che aveva dentro. Fu come se fossi riuscita a percepire la sua aura, fu come se i suoi pensieri si fossero fusi con i miei. Era una sensazione stranissima; ma non per questo brutta. Se non fossi stata scettica a riguardo, avrei potuto dire che si era creata una specie di connessione tra noi. Supponevo che fossero gli effetti collaterali dell’Haki, che mi stava giocando parecchi scherzi. Probabilmente aveva stravolto il mio cervello più di quanto immaginassi, soprattutto perché lui non sembrava essersi accorto di nulla e mi fissava con curiosità.
«Sì?» mi incitò, sempre più rallegrato da quella situazione.
Scossi la testa, sforzandomi di tornare alla realtà. Ero sicura di avere un’espressione alquanto idiota dipinta in faccia. Come se non bastasse, boccheggiai un paio di volte prima di parlare.
«Mi dispiace disturbarti, volevo solo riferirti quello che mi ha detto Hack» dissi infine. Lo squadrai da capo a piedi e lo vidi prima annuire e poi sogghignare.
«Prima pensiamo al pranzo» mi sollecitò, incrociando le braccia.
«Al pranzo?» chiesi corrugando le sopracciglia «Mancano almeno due ore al pranzo» feci confusa.
«Non per me» annunciò, alzando le spalle e sfoggiando un sorrisetto furbo. Dopodiché sollevò un braccio e recuperò la sua tuba dall’attaccapanni alla sua destra. Se la mise in testa con un gesto rapido ed esperto, poi varcò la soglia della sua camera e si incamminò verso la cucina. Lasciai che mi precedesse di qualche passo e quando fu ad un paio di metri di distanza, sospirai, mi rigirai ed iniziai a seguirlo.
Soffiai una risata. Il pranzo. Nel bel mezzo della mattina. Quel ragazzo era una continua sorpresa, proprio come i suoi fratelli.
 
Sospirai, mentre osservavo il meraviglioso cielo terso color zaffiro sopra di me, illuminato dai pallidi raggi della luna e dal lucore della miriade di stelle che si potevano osservare quella sera. Quello di quella notte era uno spettacolo fantastico. Avrei detto perfino imperdibile.
«Forse dovresti andare a letto. Domani devi partire per una lunga e faticosa missione» ribadii al mio interlocutore dopo qualche attimo di silenzio, spostando lo sguardo su di lui. Il biondo mi rivolse un fugace sorrisetto furbo, come se mi stesse comunicando che non aveva bisogno di dormire.
«Se è per questo, anche tu dovresti andare a letto. Domani ti aspetta un duro allenamento con Hack» rimarcò Sabo con un ghigno di scherno. Sbuffai e scrollai le spalle. Non c’era alcun bisogno che me lo ricordasse, lo sapevo benissimo da sola. E comunque, dopo gli eventi delle ultime settimane, non credevo che sarei riuscita a dormire. Per questo preferivo stare in compagnia il più a lungo possibile. Per attenuare le voci nella mia testa, ma anche perché non volevo sentirmi sola.
«Il primo di una lunga serie...» mi lasciai sfuggire, sconsolata. Abbassai lo sguardo e lo spostai sulle mie dita, che avevano iniziato a tamburellare sulla superficie liscia del parapetto di pietra.
«Non è così terribile come sembra. È una brava persona. E un discreto insegnante» disse il biondo, sorridendomi complice.
«Beh, a parte questo, suppongo che il suo addestramento sia necessario» constatai, sospirando per l’ennesima volta «Non avrei mai pensato che le cose sarebbero potute andare così» riflettei. Ero sincera. Se qualcuno un paio di anni prima mi avesse detto dove e come sarei finita, probabilmente gli avrei riso in faccia e gli avrei raccomandato di andare a farsi curare in un centro specializzato in malattie mentali. Invece, contro tutte le probabilità, eccomi lì, ancora in piedi, nonostante tutto, dopo mille avventure e peripezie.
«Ci sono cose che non si possono prevedere» affermò il rivoluzionario. Lo aveva detto con un tono divertito, tuttavia quella sera sembrava pensieroso. «Se imparerai a controllare l’Haki ne riparleremo» scherzò poi. Era proprio un burlone.
Soffiai una risata e scossi la testa. Quando gliel’avevo detto, durante il “pranzo” di quella mattina, era rimasto sorpreso. Supponevo che fosse contento e si era detto disponibile ad aiutarmi affinché potessi incanalare e gestire al meglio questa mia nuova abilità.
«Voi la chiamate così. Nel mio mondo, le manifestazioni di questo tipo le chiamiamo “Disturbi Post Traumatici da Stress”» constatai con una vena di cinismo ed ironia «Sapete, avreste davvero bisogno di uno psicologo, qui in questo universo» sostenni, perdendomi di nuovo nel contemplare la bellezza di quell’infinita volta celeste. No, forse un solo psicologo non sarebbe bastato. Ci sarebbe voluta un'intera squadra composta dai più bravi psichiatri e terapisti a livello mondiale. Di certo avrebbero avuto tanto materiale su cui lavorare.
Non sapevo perché eravamo lì, né come ci eravamo finiti, eppure non mi dispiaceva affatto esserci. Stavo bene. La temperatura era perfetta, ed una leggera brezza tiepida di tanto in tanto aleggiava attorno a noi. La vista, neanche a dirlo, era mozzafiato e la compagnia non era male. Ci trovavamo sull’immenso terrazzo situato all’ultimo piano, il terzo. Per quanto mi ricordassi era molto simile a quello che avevano su Baltigo e qualcuno mi aveva detto che anche questo puntava verso il Mare Orientale. La cosa mi aveva fatto sorridere, non avrei mai pensato che Dragon potesse essere così sentimentale. Ad ogni modo, da lì si poteva ammirare sia l’immenso e puro cielo, sia la vasta ed azzurra distesa acquea che era l’oceano. I tramonti e le albe, visti da lì, erano spettacolari; e quando c’era la luna piena, come quella sera, la notte diventava magica. Io ero finita su quel terrazzo solo perché avevo saputo che il giorno dopo Sabo sarebbe partito per una missione insieme a Koala e a qualche altro rivoluzionario, di conseguenza non lo avrei visto per una settimana. Non sapevo perché, ma ci tenevo ad augurargli buon viaggio, proprio come avevo fatto con la mia amica dagli occhioni blu. Sospettavo che mi sarebbero mancati in quei giorni; soprattutto perché mi sarei ritrovata senza sostegno durante gli allenamenti di Hack.
Qualche volta il biondo veniva in quel posto per contemplare il cielo, la luna e le stelle. Io volevo solo salutarlo, ma una volta lì, non ero più stata capace di andarmene, perché l’atmosfera era molto suggestiva ed io non avevo saputo resisterle. Così, ci eravamo messi a chiacchierare. Gli avevo chiesto dove sarebbero andati l’indomani in missione e lui non aveva saputo rispondermi. Anzi, mi aveva detto che non gli importava di saperlo, lasciandomi alquanto perplessa, ma anche stupita dalla sua spigliatezza. Poi aveva espresso il suo parere sul mio abbigliamento, premurandosi di darmi la sua approvazione anche per il “retro”, che aveva controllato meticolosamente. A quel punto avevo alzato gli occhi al cielo e scosso la testa. Non lo facevo così attento a certi particolari. Poi avevo precisato che quello che indossavo era uno dei vestiti nuovi che mi aveva gentilmente portato quel pomeriggio Koala. Entrambi avevamo concordato che quando la bionda si metteva in testa qualcosa, non c’era nulla che potesse fermarla, e ci eravamo lasciati andare ad una piccola risata.
Eravamo andati avanti a conversare del più e del meno per una decina di minuti e adesso eravamo lì, senza sapere bene che dire. Probabilmente avevamo esaurito gli argomenti a nostra disposizione. Ma io non me ne sarei andata, non ancora almeno, perché preferivo rimanere ad osservare ancora un po’ la candida luna piena, la stessa a cui chiedevo conforto nei momenti di difficoltà. Ciò che mi piaceva di Sabo era che con lui non c'era imbarazzo. Di alcun tipo. Perfino i lunghi silenzi, in sua compagnia non erano imbarazzanti.
«Che aspetto aveva il tuo mondo?» mi chiese dopo qualche minuto di completo silenzio in cui si udì solo il frinire dei grilli. Lo vidi piegarsi in avanti, appoggiare i gomiti al parapetto e la testa sul palmo di una mano. Mi voltai a guardarlo ad occhi quasi spalancati, stupita. Non pensavo che avesse mai potuto farmi una domanda del genere.
«Scommetto che era un posto bellissimo» commentò poi. Aveva un’espressione sognante, sapevo che con la mente stava iniziando a fantasticare e mi venne da sorridere. Presi un respiro profondo prima di rispondergli. Apprezzavo che volesse saperlo, ma certo non era facile trovare una degna replica.
«Sai» iniziai «se me l’avessi chiesto qualche anno fa, ti avrei detto che faceva schifo. Sul serio» feci, spostando il mio sguardo su di lui «Ma ora che sono lontana da tanto tempo da quella frenetica follia quotidiana, posso dirti che un po’ mi manca» confessai con un velo di malinconia.
«Non devi raccontarmelo per forza, se non vuoi» mi rassicurò il rivoluzionario. Lo guardai. Stava sorridendo.
«Non è questo» dissi, scuotendo la testa e alzando le spalle «È che non so nemmeno da dove cominciare» confessai, ridendo per mascherare quanto in realtà fossi sconsolata. Dovevo scontrarmi con quelli che erano gli aspetti comuni del mio mondo tutti i giorni, quando andavo da Dragon appositamente per parlargliene. Ma quello che mi stava chiedendo Sabo era diverso. Non voleva sapere della politica o della geografia, voleva sapere altre cose. Voleva che gli dipingessi paesaggi pittoreschi ed evocassi cieli cangianti e città vibranti. Voleva che gli descrivessi le persone, le usanze, i costumi e che gli disegnassi i contorni di un mondo che per lui era pieno di meraviglia e possibilità. Così, iniziai a raccontargli ciò che sapevo e ciò che i miei occhi avevano visto fino al momento in cui ero stata costretta a lasciare quella Terra.
 
«Capitava che ogni tanto non riuscissi a dormire, la notte; e allora mi piaceva affacciarmi dalla portafinestra che dava sul balcone e guardare l’alba. Vedere il cielo che si rischiara e si tinge di rosa e poi di azzurro pallido, la città che pian piano si risveglia, i lampioni che si spengono, gli uccellini che iniziano a fischiettare melodiose ma fastidiose cantilene infinite, sentire il rumore degli autobus e delle macchine che passano sotto casa... Non è qualcosa che si può descrivere» commentai, con l’aria di chi la sapeva lunga. Sebbene non potessi vedermi, ero sicura che le iridi mi brillassero nel buio.
«Wow» si lasciò sfuggire il mio amico quando finii di parlare. Aveva gli occhi pieni di meraviglia, mentre io non avevo più fiato. Avevo parlato per almeno un’ora e mezzo senza sosta ed avevo cercato di rispondere a tutte le sue domande. Non era come con Dragon, lui si limitava ad ascoltarmi e ad annuire di tanto in tanto. Invece Sabo era curioso, era affamato e desideroso di sapere cosa si celava dietro alla mia storia. Se avesse potuto mi avrebbe tempestato di altre mille domande. C’era così tanto da dire e da sapere. Non era una conversazione che si sarebbe potuta affrontare con leggerezza. Come minimo ci sarebbe voluta una bottiglia di vino, che in quel momento non avevamo con noi.
Sospirai senza farmi sentire, cercando di riprendere fiato. Poi lo fissai e sorrisi. Sembrava contento, proprio come me. Aveva ancora i gomiti appoggiati alla larga balaustra di pietra e stava guardando dritto davanti a sé. L’oceano aveva assunto i toni di un pacifico blu cobalto e scintillava, illuminato dalla fioca luce delle stelle. Il bagliore della luna, invece, ne aveva tinto di argento una piccola porzione. Sotto di noi, echeggiava il rumore delle onde che si infrangevano calme sugli scogli che circondavano l’isola.
«Cosa ti manca del tuo mondo?» mi domandò il biondo. Il suo sguardo, a differenza di quello che si poteva pensare, era limpido e sereno. La sua mente ormai era affollata da posti e creature immaginarie, aveva iniziato a vagare con la fantasia e non c’era modo di fermarlo. Del resto, gli avevo appena descritto quella che per lui era una realtà sconosciuta ed estremamente affascinante.
«Non lo so» feci, sospirando verso la luna «Non mi manca andare a scuola tutti i giorni, non mi mancano le verifiche, le interrogazioni e i pomeriggi passati sui libri. Non mi mancano i sabato sera in discoteca, nemmeno mi piaceva andare in discoteca» riflessi ad alta voce, mentre il biondo mi ascoltava interessato, anche se ero sicura che non riuscisse a seguire tutto quello che dicevo. C’erano cose che non poteva capire.
«La Nutella, quella mi manca» considerai con una punta di nostalgia «E la pizza, e il pane... Non puoi capire quanto pagherei per avere del pane sul sottomarino!» esclamai esasperata, facendolo ridere. Notai compiaciuta che quando rideva così, sembrava un bambino. Avrei detto persino che era tenero.
«Comunque, non so cosa mi manca. Davvero, non lo so. So solo che quello è il mondo in cui ho vissuto per quasi diciotto anni. E non si possono cancellare diciotto anni della propria vita, soprattutto considerando che io ho appena venti anni» constatai, stringendomi tra le braccia, un po’ a disagio.
«Quindi, se tu trovassi un modo per ritornare dalla tua gente, lo faresti?» mi chiese Sabo, girandosi verso di me e guardandomi con un’espressione interrogativa ma anche un po’ arrogante.
Aggrottai la fronte. Per la seconda volta, quella sera, rimasi stupita da una sua domanda. Ci impiegai un po’ per rispondere. Non ero sicura di sapere la risposta, non per niente boccheggiai più volte. Alla fine, però, trovai il coraggio per parlare e le parole giuste da dire.
«Non lo so. Mi mancano i miei cari, il loro calore, il loro affetto. Mi mancano molto. Ma qui non sto male» gli rivolsi un sorriso appena accennato «Beh, pirati sanguinari che tentano di uccidermi e Hack a parte» aggiunsi, ridendo. Evitai di fargli presente delle voci che continuavano a ronzarmi in testa, perché ancora non mi sembrava un argomento che si poteva affrontare con leggerezza. Si mise a ridere anche lui. Poteva essere uno scapestrato, ma era una brava persona ed io mi ci trovavo bene. Era come se stando con lui, per quanto snervante potesse essere, avessi trovato la mia dimensione perfetta, il mio equilibrio. Con lui, persino le voci sparivano dalla mia testa per un po’.
«Qui hai potuto ricominciare. È un privilegio che non tutti hanno» constatò. Mi piegai in avanti e poggiai anche io i gomiti sulla balaustra, assumendo la sua stessa posizione. Poi alzai un sopracciglio e lo guardai di sottecchi. In quell’istante, ci fu una scena in particolare che mi venne in mente. Una scena del manga per cui avevo pianto un paio di volte. Ok, forse più di un paio di volte. Ad ogni modo, si trattava della scena in cui Sabo incontra per la prima volta Dragon, nel Regno di Goa, e gli dice che le persone di quella città sono marce dentro, che non avrebbe mai potuto essere libero, finché fosse rimasto lì, e che si vergognava di essere nato nobile; per poi collassare tra le braccia dell’uomo. Quello per me era stato un momento chiave, perché – sebbene le nostre storie fossero diverse – mi sentivo in qualche modo alla stessa maniera in cui si sentiva il biondo. Intrappolata in una realtà che non mi apparteneva e che non mi era mai appartenuta. Una realtà che, alla luce di tutti gli eventi successi, mi sembrava priva di senso.
«Beh, tu l’hai fatto e hai trovato la tua dimensione» affermai, dopo qualche attimo di silenzio. Non riuscii a nascondere il sogghigno che era sbocciato sulle mie labbra.
Annuì, sorridendo appena. Forse si era perso – di nuovo – nei ricordi. Tornai ad osservare l’incantevole spettacolo che mi stava offrendo il mare quella notte.
«Credo di poter affermare che l’ho fatto anche io. Ho vissuto di più in questi due anni passati qui, nonostante io abbia rischiato di morire parecchie volte, che in diciotto passati...» mi fermai per cercare di trovare il termine giusto, ma ci rinunciai ed alzai le spalle «Non so neanche come li ho passati» lo dissi quasi ridendo. Poi mi passai una mano sulla faccia.
«È che... non mi sentivo nel posto giusto. Non mi sentivo... libera» ammisi con un’alzata di spalle «Qui, invece, posso essere chi sono davvero e fare ciò che amo davvero. Senza costrizioni o impedimenti» aggiunsi poi, piegando la testa da un lato e sorridendo. Mi accorsi che anche lui stava sorridendo. Sul suo volto era comparsa un’espressione un po’ arrogante.
«La libertà è una cosa molto potente. Non c’è nulla che un uomo libero non possa fare» sentenziò Sabo, fissando la meravigliosa luna che illuminava la notte con sguardo quasi sognante. Era come se non fosse lì. Forse con la mente si trovava in un altro luogo. Annuii più volte, concordando pienamente con le sue parole. Poi mi rimisi dritta, mi girai di schiena e appoggiai i fianchi e le mani al parapetto.
«Sai» iniziai sovrappensiero, mentre – come se fosse un segno divino – una folata di vento fece ondeggiare i miei capelli «Per una volta nella mia vita, una sola volta nella mia vita, mi piacerebbe assaporare la pura libertà. Quella che ti fa sentire potente, come se avessi il mondo in mano. Per un giorno, un giorno soltanto, mi piacerebbe essere spensierata e senza preoccupazioni» confessai, chiudendo gli occhi e gettando all’indietro la testa. Ripensai alla prima volta che avevo volato sulla schiena di Marco. Quella era stata una delle notti più belle della mia vita. In quella breve ora mi ero sentita potente e leggera allo stesso tempo. E quello che avevo provato quella sera, era un’emozione che non si poteva descrivere a parole. Il mio corpo aveva vibrato, era diventato un tutt’uno con il cielo. Mi era sembrato quasi di potermi mescolare con le nuvole; o, perché no, con le stelle. Tutto era in pace, quella notte. Tutto era dove doveva essere, e l’armoniosa melodia delle scintillanti ali della Fenice che sbattevano nel cielo aveva riecheggiato nella calda aria di quella nottata estiva. La stessa aria che con tanta noncuranza e spavalderia mi aveva scompigliato i capelli e li aveva fatti volteggiare leggiadri nel vento.
Un brivido mi attraversò il corpo nel momento in cui mi immaginai la sensazione che si provava ad essere davvero liberi. Non che lì non mi sentissi libera o spensierata, solo che avevo ancora un po’ di timore a muovermi in quell’universo e a lasciarmi andare. Mi ero integrata bene all’interno di quel mondo, ma ancora mi sentivo come se fossi un’ospite, e le chiacchierate che facevo con Dragon giorno dopo giorno altro non facevano che aumentare questa mia sensazione, già parzialmente incrementata dalla lontananza della mia ciurma.
Il biondo accanto a me non disse niente. Riaprii gli occhi e ritirai su la testa, riprendendomi dal mio momentaneo stato di trance. Mi staccai dalla ringhiera, mi schiarii la voce e poi deglutii.
«Forse sarebbe meglio andare a letto. Si è fatto tardi» dissi con una punta di imbarazzo. Nessuno di noi due aveva un orologio, ma, se ce l’avessimo avuto a disposizione, le lancette avrebbero indicato sicuramente le due o le tre. Sabo non rispose neanche stavolta, così mi girai a guardarlo. Si era staccato dal parapetto e si era voltato. Mi stava fissando. Notai che sulle labbra sfoggiava un ghigno di quelli che io definivo pericolosi, e vidi i suoi occhi rilucere nel buio di uno strano bagliore, mentre percorreva i pochi metri che ci separavano a passo sicuro e trascinando una mano sulle pietre della ringhiera.
Alzai un sopracciglio e lo guardai interrogativa. Iniziava ad inquietarmi un po’. Si fermò a qualche centimetro da me. La sua mano, poggiata sulla balaustra, sfiorava la mia. In meno di un secondo, mi fu davanti. Incastonò gli occhi ai miei e ci fissammo per quello che a me parve un tempo infinito, ma che in realtà non fu più di un paio di secondi. Stavolta non percepii nessuna connessione, ma solo un senso di incertezza che mi metteva angoscia e mi faceva palpitare forte il cuore. Appoggiò anche l’altra mano al parapetto, circondandomi così con le braccia. Ero bloccata, appiattita contro la pietra del muretto.
«C-che fai?» chiesi, balbettando titubante e osservando quella “prigione” con circospezione. Non sapevo davvero cosa aspettarmi. Speravo solo che non fosse stato posseduto da qualche demone e che non fosse in procinto di uccidermi.
In tutta risposta il rivoluzionario allargò il suo ghigno e, senza darmi il tempo di realizzare, si chinò verso di me. Le sue labbra si posarono sulle mie, in quello che sarebbe potuto sembrare un innocente bacetto. Tuttavia quel bacio era tutt’altro che casto. Spalancai gli occhi e mi irrigidii completamente. Il mio cuore perse un paio di battiti, per poi ripartire al doppio della velocità. Ero totalmente incredula. Lo stava facendo davvero? Era davvero così sfrontato o stavo sognando? Forse era uno degli effetti collaterali dell’Haki. O forse, era una mia fantasia nascosta e custodita nel profondo del mio subconscio e mi stavo immaginando tutto. No, quel bacio era troppo reale perché me lo fossi immaginata.
Per un brevissimo istante si staccò da me e con il braccio destro mi cinse la vita, avvicinandomi ancora di più a sé. Contemporaneamente portò la sua mano sinistra alla mia nuca e ricominciò a baciarmi. La passione con cui mi baciò mi tolse il fiato. Nessuno mi aveva mai baciato così intensamente. Alla fine mi arresi, chiusi gli occhi e ricambiai il bacio. Mi lasciai trasportare da quell’attimo pieno di impeto. Lo volevo? Non ne avevo idea, ma di certo in quel momento non mi dispiaceva. Non mi dispiaceva affatto. Assaporai la sua bocca con veemenza ed assaggiai il suo sapore. Sapeva di mare e di cielo, e di una storia mai raccontata. Le mie braccia, dapprima rigide, piano piano si piegarono e scivolarono sul suo petto, per poi risalire fino al collo e posizionarsi sulla sua mandibola muscolosa. I nostri corpi aderivano l’uno all’altro. I nostri respiri erano quasi sincronizzati. Le nostre lingue danzavano all’unisono. Fui costretta ad inclinare leggermente la schiena all’indietro, tanta era l’irruenza di quel bacio. Di più. Sabo voleva di più. E io? Io cosa desideravo?
La mia fu una domanda che non trovò risposta, perché proprio in quel momento il rivoluzionario si staccò da me, facendomi barcollare e lasciandomi inebetita e molto, molto confusa.
Quando ripresi possesso di me stessa – che fossi io quella posseduta da un demone? – spalancai la bocca e aggrottai la fronte, poi soffiai fuori tutta l’aria che avevo in corpo. Ansimavo e tremavo leggermente. Non mi capacitavo di ciò che era appena successo. Mi sembrava di essere stata travolta da un camion. Un camion biondo e... bello. E anche innegabilmente sexy.
Il biondo sogghignò, si girò, e senza ulteriori indugi si avviò verso l’entrata della struttura. Boccheggiai un paio di volte e sbattei le ciglia, ancora incredula.
«E questo cos’era?» chiesi, indecisa se essere arrabbiata, contenta o perplessa.
«Libertà» rispose lui senza voltarsi, né fermarsi. Ero sicura che stesse continuando a ghignare. Poi, lo vidi sparire nel buio all’interno della Base.
Mi portai una mano sulle labbra, ancora sorpresa per quel suo gesto, per poi toglierla velocemente e sorridere scuotendo la testa. Me l’aveva fatta proprio sotto il naso, quel mascalzone. E mi aveva anche lasciata lì come un’ebete.
Sospirai e mi sistemai i capelli – anche loro erano rimasti sconvolti a causa di quel bacio – dietro le orecchie. Supponevo che se quella fosse una piccola dimostrazione del suo concetto di libertà, allora, in fondo – molto in fondo – non mi sarebbe dispiaciuto averne un altro assaggio, in futuro.

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Capitolo 51
*** Confronti ***


Quel bacio. Quel bacio era stata la mia rovina. Continuavo a pensarci da giorni, ormai. Mi tormentava, dovevo saperne di più. Perché lo aveva fatto? Che cosa aveva significato per Sabo? Ma soprattutto, che cosa aveva significato per me? Qualunque fosse stata la risposta, quel bacio era stato potente. Era riuscito perfino a quietare le presenze che mi rimbombavano in testa, fino quasi ad annullarle. Era da tanto tempo che le mie labbra non si posavano su quelle di qualcun altro, e quel gesto apparentemente banale aveva risvegliato qualcosa in me. Dovevo ancora capire cosa, precisamente.
Un pugno, che mi arrivò a due centimetri dal naso, mi distolse dalle mie riflessioni.
«Si può sapere dove hai la testa?» chiese Hack infastidito. Sbattei le ciglia un paio di volte e cercai di concentrarmi su quella sessione di allenamento.
“Sapessi...” pensai tra me e me, evitando accuratamente di pronunciare quelle parole ad alta voce. Erano passati cinque giorni da quella famosa sera e quel maledetto rivoluzionario biondo, insieme ad un gruppetto di suoi colleghi, era partito per una missione di cui non mi era dato sapere nulla. Dopo quella notte non l’avevo più rivisto e non avevo avuto modo di chiedergli spiegazioni. Visto il soggetto, sospettavo che in parte l’avesse fatto apposta. Perché dovevo avere a che fare con persone così enigmatiche e sadiche che ci tenevano a rimanere a guardarmi – o comunque a pensarmi – mentre il mio cervello si tormentava in cerca di risposte? Ero convinta che ci fosse un girone dell’Inferno anche per loro. Se così non fosse stato, sarei scesa personalmente nell’Ade e lo avrei creato. Parola mia, l’avrebbero pagata. Tutti. Law, Marco, Sabo. Tutti. Uno per uno.
«Allora?» la voce dell’uomo-pesce mi richiamò di nuovo alla realtà. Lo osservai. Si era fermato, aveva le braccia incrociate e stava nervosamente picchiettando un piede contro il suolo.
«Sì, scusa. Riprendiamo» dissi in un sospiro e rimettendomi in posizione d’attacco. Hack alzò un sopracciglio e non si mosse.
«La Tonalità dell’Osservazione è un tipo di Haki che si può apprendere e padroneggiare solo se si ha la mente sgombra. Non per niente si basa sulla percezione» rimarcò il rivoluzionario, per poi sbuffare. Strofinai le mani sulle cosce e spostai lo sguardo altrove. Non aveva tutti i torti. Anzi, quella volta aveva proprio ragione. Dovevo rimanere concentrata o sarebbe stato inutile. Tuttavia, il tempo stringeva e sebbene fossero passati appena cinque giorni dall’inizio di quell’addestramento intensivo, non vedevo risultati. Anzi, non vedevo nessuna possibilità di miglioramento. Non era perché non mi fidassi del mio “coach”, ma piuttosto perché credevo che quello non fosse il metodo giusto per me.
«Se io ti attaccassi adesso, riusciresti a prevedere la direzione dalla quale arriva il colpo?» la domanda di Hack, forse per la decima volta quel giorno, mi strappò dalle mie riflessioni. Scossi la testa con convinzione. Non era assolutamente possibile che io ci riuscissi. A stento riuscivo a controllare le presenze nella mia mente, figurarsi prevedere un attacco.
Vidi il maestro di karate assumere un’espressione seria per qualche istante, dopodiché il suo viso diventò ermetico.
«Scopriamolo» affermò piatto, appena prima di darsi la spinta e lanciarsi verso di me, che ero inerme qualche metro più in là.
Spalancai gli occhi, totalmente atterrita. Non me lo aspettavo. Istintivamente mi portai la mano destra nel punto in cui di solito era riposta la mia ascia, ma quella volta non era lì. Avevo lasciato la mia Mr. Smee ed i miei coltelli in camera, perché il rivoluzionario sosteneva che non mi servissero per quello che dovevamo fare. In un’altra situazione avrei sbuffato una risata. Me l’aveva quasi letteralmente fatta sotto il naso e mi aveva dato una bella fregatura.
Schivai il pugno per miracolo, spostando la testa ed il corpo a sinistra. Se non l’avessi fatto, mi sarei presa in pieno un potente colpo. Senza temporeggiare ed istintivamente, strinsi con le mani l’avambraccio teso di Hack per tenerlo fermo, poi alzai velocemente la gamba sinistra e spinsi con forza il piede sul bicipite del mio avversario. Piegò leggermente il braccio ed in quel breve momento ne approfittai per salirvi sopra, costringendolo così ad abbassarsi per sopportare meglio il peso. Sempre stringendo il suo polso, poggiai la gamba sinistra a terra, ruotai il corpo, spostai il busto verso il basso e provai a sferrargli uno dei calci rotanti che mi aveva insegnato Bepo. Tuttavia non andò a segno, perché con un abile e veloce scatto della testa lo schivò e approfittò dell’istante in cui persi l’equilibrio per liberare anche il braccio dalla mia presa. Alla fine, non sapevo come, mi ritrovai immobilizzata in ginocchio, chinata in avanti e con entrambe le braccia dietro la schiena, tenute ferme da Hack con una sola mano. Grugnii. Anche questa volta ero stata battuta con una facilità disarmante.
«Devi rimanere concentrata, devi riuscire a percepire ogni singolo movimento, ogni respiro, ogni battito di ciglia dell’avversario. Devi imparare a conoscerlo, solo così potrai capire le sue intenzioni ed avrai una possibilità di batterlo» disse Hack, appena prima di sospirare e di liberarmi. Sbuffai, mi rialzai e mi tolsi la polvere dai vestiti. Quelle stesse parole, tra lui e il nostro navigatore, le avevo sentite ripetere migliaia di volte. E, tutte le volte, sembravano inevitabilmente entrarmi da un orecchio ed uscirmi dall’altro. C’era qualcosa che non funzionava.
«Ti affidi molto alla vista, ma la vista, in una battaglia, non è la cosa fondamentale. Devi aprire la tua mente, connetterti con ciò che ti circonda e captare i pensieri di coloro che hai davanti» rimarcò l’uomo-pesce. Mi voltai verso di lui e lo guardai, grattandomi la nuca. Aveva le braccia incrociate e un’espressione seria ma tranquilla. Gli davo ragione fino ad un certo punto. Per lui la vista non era importante, per me, però, era fondamentale. In una battaglia potevo affidarmi solamente a quella. Forse era proprio in quello che sbagliavo. Forse dovevo imparare a cambiare prospettiva e mettermi in testa che c’erano altri modi per combattere e che potevo usufruire di altre doti in combattimento.
«Forse dovremmo cambiare il metodo di addestramento» proposi, cercando di usare un tono che non fosse né saccente né presuntuoso «Un metodo che magari sia più efficace e più mirato e che si adatti meglio a me» continuai, sempre cercando di sembrare rispettosa. Speravo che non si arrabbiasse o non se la prendesse troppo.
Per un breve momento mi parve di vedere Hack ghignare e mi stupii non poco.
«Cosa proporresti, eventualmente?» mi chiese, d’un tratto interessato. Accompagnò le sue parole con un rapido cenno del capo. Non mi aspettavo che si mostrasse incuriosito. Ero convinta che avrebbe messo il broncio e che avrebbe respinto la mia proposta su due piedi.
Schiusi la bocca e feci per parlare, ma non feci tempo ad emettere alcun suono.
«Camilla-san» mi richiamò una voce. Sia io che il mio addestratore ci girammo verso l’uomo che aveva parlato.
«Dragon-sama vuole vederla» mi comunicò, una volta che fu sicuro di avere la mia attenzione.
Corrugai la fronte ed ebbi un breve scambio di sguardi con Hack.
«Sì, di solito ci vediamo verso le sei, quando tramonta il sole» specificai io, osservando il cielo con occhi sottili. Ad occhio e croce, a giudicare dalla posizione del corpo celeste, non doveva essere più tardi delle quattro e mezzo. Tempo addietro Bepo mi aveva insegnato alcuni trucchetti da navigatore. Non che ci capissi molto, ma questo l’avevo imparato subito.
L’uomo di fronte a noi fece una blanda alzata di spalle.
«A quanto pare desidera vederti ora» si limitò a dire. Non che lo biasimassi, lui non sapeva niente ed il suo unico compito era quello di recapitare i messaggi che il Grande Capo destinava ai suoi collaboratori.
Mi parve di sentire l’uomo-pesce sbuffare, proprio nell’esatto momento in cui io sospirai. Gli diedi un’ultima occhiata fugace e lui mi diede il permesso di abbandonare l’allenamento con un cenno del capo. Prima di muovermi lo guardai di nuovo, come a chiedergli conferma e lui annuì debolmente. A quel punto lo ringraziai fugacemente con lo sguardo e mi avviai verso l’interno della base. Supponevo che l’indomani mi avrebbe aspettato un faticoso addestramento. In quel momento, però, i miei pensieri si concentrarono su altro. Che cosa potesse volere da me Dragon – e per giunta di così urgente, al punto da interrompere i miei allenamenti con Hack – non ne avevo idea.
 
Sospirai senza farmi sentire, mentre tamburellavo le dita sulle ginocchia e mi guardavo in giro, impaziente. Ero stata nell’ufficio del criminale più ricercato al mondo tante volte, ma stavolta proprio non avevo idea di cosa aspettarmi.
Dragon si schiarì la voce per richiamare la mia attenzione ed io smisi di girovagare con lo sguardo e mi concentrai su di lui, in attesa che finalmente parlasse.
«Sai perché ti ho convocata?» mi chiese, fissandomi con un’espressione indecifrabile. In tutta risposta mi umettai le labbra con la punta della lingua e scossi la testa. Ero tranquilla, in realtà. Non avevo nessun motivo di preoccuparmi, sebbene non sapessi quali fossero le sue motivazioni.
«Domani mattina il Demone Celeste verrà prelevato da qui e trasferito in un altro posto, che per sicurezza rimarrà ignoto ai più» mi spiegò, calmo. Il mio cuore perse un battito quando udii l’appellativo “Demone Celeste”. Nei mesi che avevo passato su quell’isola, avevo più che altro pensato a guarire. E, una volta che ero guarita, avevo dovuto affrontare un paio di questioni spinose che mi avevano assorbita completamente. Doflamingo era stato del tutto cancellato dalla mia mente dopo un paio di settimane. Forse perché in cuor mio credevo che archiviare quel mostro e ciò che era capitato a me ed a Law in un angolino remoto del cervello fosse l’unico modo per andare avanti e per tentare di ricominciare. Ma ecco che adesso spuntava di nuovo fuori il suo nome e ritornava a tormentarmi.
«Ho preferito comunicartelo per correttezza» aggiunse Dragon dopo qualche istante in cui non dissi niente. Doveva aver capito che con la mente non ero lì.
«Dove verrà trasferito?» chiesi, evitando accuratamente di pronunciare l’appellativo di quel mostro. Udii l’uomo di fronte a me prendere un respiro prima di parlare.
«Per la tua sicurezza, è meglio che tu non lo sappia» disse semplicemente. Distolsi lo sguardo e sbuffai. La mia sicurezza era andata a farsi benedire tanto tempo prima. Era stata intaccata proprio dalla stessa persona che adesso era al centro dei nostri discorsi, quindi mi sentivo in diritto di sapere dove stavano portando quel demonio. Tuttavia non dissi niente.
«Andrà in un posto dove non potrà più fare del male a nessuno» proclamò serio, cercando di tranquillizzare il mio animo inquieto. Per quanto mi riguardava, l'unico posto in cui mandare quella sottospecie di Satana per far sì che non potesse più nuocere a nessuno era l'Inferno.
Mi passai la mano sinistra su tutta la faccia, ad asciugarmi le piccole goccioline di sudore che si erano formate sulla mia fronte e poi sospirai. Mi accorsi che le dita mi tremavano leggermente.
«Che dovrei fare?» chiesi confusa al mio interlocutore, piantando le mie pupille nelle sue.
Fece un’impercettibile alzata di spalle, ma non distolse lo sguardo e non smise di fissarmi, solenne e tranquillo allo stesso tempo.
«Non rivedrai mai più Doflamingo» affermò deciso, poi continuò «Dati i vostri precedenti, se senti il bisogno di dirgli qualcosa, o anche solo di verificare quali siano le sue condizioni, oggi è l’ultimo giorno utile per farlo».
Nel sentire le sue parole ritirai in dentro le labbra, chiusi gli occhi e scossi la testa un paio di volte. Non riuscivo a capire perché avrei dovuto desiderare di rivedere il mostro che per poco non mi aveva uccisa. Il mostro che mi aveva provocato tutta quell’angoscia, che tornava comunque a trovarmi quasi ogni notte perché era il protagonista degli incubi che mi tormentavano, e che aveva causato così tanto dolore al mio capitano.
«No! Io non lo voglio vedere! Per quanto mi riguarda, quell’abominio deve marcire in prigione per il resto della sua vita. Per me è morto.» dichiarai convinta. Volerlo vedere sarebbe stato da pazzi.  Ero appena riuscita a ritagliarmi un angolino pacifico, stavo iniziando a riprendermi; incontrarlo avrebbe potuto provocarmi una ricaduta. Eppure c’era una parte di me che sosteneva che mi avrebbe fatto bene controllare con i miei occhi che Doflamingo stesse soffrendo.
«Prenditi del tempo per pensarci» mi consigliò Dragon, con una punta di arroganza nella voce. Forse non era proprio arroganza, ma c’era qualcosa nel suo tono che mi rivelava che lui la sapesse lunga su queste cose. Ciò mi confermava quello di cui ero sempre stata convinta: era un uomo ragionevole e di grande intelligenza.
«Qualunque sia la tua decisione, sentiti libera di agire come preferisci. Nel caso in cui decidessi di andare nelle prigioni sotterranee, chiamerò Inazuma affinché ti faccia da scorta» mi fece sapere poi, abbandonando la schiena allo schienale della poltrona su cui sedeva.
Sospirai. Sospettavo che se avessi deciso di recarmi nei sotterranei Inazuma non sarebbe stato – o stata, dipendeva dai punti di vista – abbastanza come scorta. Il Demone Celeste era molto pericoloso, avrebbe potuto approfittarsi della situazione. Sarebbe bastata una piccola distrazione e ci saremmo ritrovati morti entrambi, mentre il capo dei rivoluzionari avrebbe dovuto avere a che fare con un vero e proprio demonio a piede libero. Avrei dovuto decidere in fretta, ma non sapevo davvero cosa fare.
 
Deglutii, mentre il rivoluzionario mi dispensava le ultime raccomandazioni utili.
«Io sarò qui fuori. Per qualsiasi cosa, se c’è qualche problema, grida» si raccomandò Inazuma.
Guardai l’uomo con uno sguardo piuttosto angosciato. Lui non disse nulla, si limitò a sorridere e ad annuire impercettibilmente, probabilmente per cercare di incoraggiarmi ad addentrarmi nella tana del lupo. I due rivoluzionari incaricati di sorvegliare il mostro dai capelli biondi erano già andati via da un paio di minuti. Di solito, verso le diciassette del pomeriggio avveniva il cambio della guardia, come a Buckingham Palace. Solo che qui avveniva in maniera molto più informale. Non c’era tempo per le cerimonie, bisognava tenere gli occhi aperti con quel bastardo. Quel giorno, Dragon stesso aveva detto ai due addetti del turno successivo di tardare un po’, proprio perché avevo parlato con lui ed alla fine mi ero decisa ad incontrare il mio carnefice; e gli avevo chiesto di poterci parlare da sola. Non sapevo perché fossi così tanto masochista, sapevo solo che dovevo farlo, dovevo andare a trovarlo da sola.
«Posso?» chiesi, indicando il bicchiere di vino che reggeva con la sua mano sinistra. Lo sentii fare un risolino prima di passarmelo. Ne bevvi un paio di sorsi, poi glielo restituii.
«Un po’ di vino potrebbe infondere coraggio anche ad una formica che sta per andare in guerra contro un esercito di elefanti» rifletté, strappandomi una risata. Non potevo dargli torto. Apprezzai il suo tentativo di farmi sentire meno angosciata, non lo avrebbe fatto per tutti, lui che di solito era così serio e posato.
Tornai a guardare dritto davanti a me, dove un corridoio relativamente breve – che aveva più l’aspetto di un cunicolo umido ed oscuro – mi separava dal mostro che stavo per incontrare. Law non aveva voluto vedere Doflamingo nei mesi di convalescenza che aveva passato lì – non lo biasimavo affatto per questo – ma io avevo deciso che dovevo vederlo. Dovevo sapere che stava soffrendo e che aveva avuto ciò che meritava. Dovevo sapere che era stata fatta giustizia. Ne avevo un gran bisogno. Solo così avrei potuto andare avanti per la mia strada e guarire del tutto dalle ferite fisiche e psicologiche che mi aveva lasciato.
Presi un respiro profondo, prima di iniziare ad incamminarmi lentamente per il corridoio.
«Stai molto attenta. Quello non è un tipo con cui si può abbassare la guardia» mi avvisò Inazuma alle mie spalle.
Strinsi i pugni e annuii, estremamente concentrata. Sembravo un’atleta che stava per giocare la partita della sua vita, quella che gli avrebbe garantito successo o che avrebbe messo fine alla sua carriera. Quasi mi venne da ridere – più per il nervoso che altro – per aver pensato ad un paragone tanto assurdo quanto veritiero. Perché alla fine era questo che stavo andando a fare. Stavo andando incontro alla salvezza, oppure stavo per salire sul patibolo che avrebbe messo fine alla mia vita. Comunque fossero andate le cose, mi ero ripromessa che non me ne sarei pentita.
 
Mi accolse una gelida e sarcastica risata, che coagulò buona parte del sangue che mi scorreva nelle vene. Mi fermai proprio davanti alla cella di Doflamingo, come se sul pavimento ci fosse stata una di quelle stelline che usano a teatro per far mettere gli attori nella giusta posizione. Mi soffermai un attimo ad osservare quel posto dimenticato da Dio. Delle goccioline d’acqua cadevano incessantemente e ritmicamente dal soffitto, scandendo i secondi che passavano. Sospettavo che i pochi minuti che avrei passato là sotto mi sarebbero sembrati ore. Se non altro, mi confortava il fatto che doveva essere così anche per quel mostro. I sotterranei della base dei rivoluzionari erano bui e umidi, e mi davano l’idea che fossero anche molto primitivi. A parte il pavimento, le sbarre e le pareti della cella dentro cui era rinchiuso il biondo, che erano fatti di agalmatolite, tutto l’ambiente sembrava essere stato appositamente scavato nella roccia. La pietra scura conferiva all’ambiente che ci circondava l’aspetto di una vera e propria caverna. Non riuscivo a capire se il freddo che sentivo provenisse da quel posto così ostile o se invece provenisse da dentro, causato dall’agitazione e dall’inquietudine che avevo nel dover rivedere la persona più spregevole che ci fosse in circolazione. Spostai per un istante lo sguardo alla mia destra, come a voler essere sicura che qualche metro più in là – sebbene non potessi vederlo – ci fosse Inazuma ad aspettarmi, che era preparato per ogni evenienza.
Mentre con le dita mi torturavo nervosamente una ciocca di capelli, fissai il Demone Celeste. Era steso a pancia in su e fissava il soffitto. Non poteva muoversi, le pesanti catene del minerale che irradia la stessa energia del mare gli avvolgevano completamente il corpo e ne impedivano qualsiasi movimento. Piegai leggermente la testa da un lato. Così era quasi divertente da osservare. Era legato come un salame, dal collo fino ai piedi. Mi chiedevo come facessero a nutrirlo, ma soprattutto, a chi era toccato l’ingrato compito. Non ero sicura di voler sapere la risposta, però.
«Fufufu» Doflamingo rise di nuovo e la sua risata distorta interruppe il mio flusso di pensieri. Riportai lo sguardo su di lui, concentrata, per captare ogni suo più piccolo gesto.
«Lasciamelo dire» iniziò compiaciuto «Chi non muore si rivede» disse, sfoggiando un ghigno impertinente. Feci una smorfia disgustata con la bocca. Avrei tanto voluto infilarmi tra le spesse sbarre di quella prigione, andare da lui, chinarmi, togliergli i suoi stupidissimi occhiali con le lenti rosse – che a quanto pareva erano incollati alla sua faccia e non lo abbandonavano mai – e conficcargli i miei pugnali negli occhi. Ma purtroppo non avevo abbastanza fegato per farlo, né avevo idea di dove fosse la chiave – o l’ingresso – della cella. Chissà come avevano fatto a portarlo lì dentro.
«Allora ti ricordi di me» gliela posi a metà tra un’affermazione e una domanda. Poi incrociai le braccia, cercando di rimanere calma e mostrarmi senza paura.
«Non sottovalutarmi, ragazzina» mi ammonì «Mi ricordo sempre delle mie vittime più ostinate, quelle che si rifiutano di morire» sputò con disprezzo. Presi un respiro profondo prima di rispondergli. Quando pronunciò l’ultima parola, fu come se mi fossi ritrovata su Tekashi, l’isola che era stata il teatro del nostro violento ed impari scontro. Di conseguenza, tutte le voci che fino a quel momento ero riuscita a tenere sotto controllo, tornarono a riecheggiare e a vorticare nella mia testa. Riuscivo a percepire di nuovo la presenza di tutti. E, fra le molte che sentivo, la più forte era proprio quella del Demone Celeste, davanti a me. Erano insopportabili. Mi portai entrambe le mani alla testa, strizzai le palpebre e mi chinai in avanti, come se quello fosse un peso troppo grande da sopportare per le mie spalle. Sentii Doflamingo ridere. Avendo gli occhi chiusi non potevo vederlo, ma ero sicura che avesse sollevato di poco la testa e mi stesse guardando con una punta di scherno ed anche di allegria.
«Che c’è? I demoni del passato sono venuti a tormentarti?» chiese divertito. Le gambe iniziavano a cedermi, le ginocchia stavano cominciando a piegarsi pericolosamente.
«Sei tu il mio unico demone del passato» replicai distrattamente, mentre cercavo di tenere a bada quelle fastidiose voci, che incominciavano a diventare troppo potenti per essere contrastate.
“È demone di nome e di fatto” pensai, dedicando al biondo una rapida occhiata infastidita non appena lo sentii sghignazzare sadicamente.
«Povera, piccola, ragazzina» fece ironicamente il fenicottero «Troppo fragile per sopportare un trauma del genere» aggiunse poi. Si stava prendendo gioco di me, e ne stava anche traendo un enorme piacere. Non risposi. La mia testa sembrava essere diventata un’area adibita a test nucleari. Temevo che sarebbe esplosa a breve. Era come se stessi rivivendo tutto da capo. Era un incubo terribile ed infinito.
Cercai di darmi un contegno, ma sentivo di non potercela fare. Cominciava a mancarmi l’aria. Dovevo andarmene da lì. Dovevo uscire. Stavo per chiamare Inazuma a gran voce e chiedergli di venirmi a prendere, perché avevo paura di non riuscire a camminare da sola fino all’uscita, ma Doflamingo parlò di nuovo.
«A quanto pare questa volta ho vinto io» mi canzonò, quasi cantilenando e sbattendomi in faccia una verità che bruciava. Perché purtroppo era quella la verità. Forse aveva davvero vinto lui. Forse era così che doveva finire. Forse non mi sarei mai ripresa da quello che mi era successo e mi sarei portata per sempre le cicatrici, sia sulla pelle sia nell’anima, che quel mostro mi aveva procurato. Pensai a Law e mi chiesi se anche lui era nelle mie stesse condizioni o se invece il suo spirito era finalmente in pace. Mi immaginai quanto brutto potesse essere doversi portare quel peso dentro in silenzio, per anni, e lasciarsi corrodere dal dolore. Per la prima volta da quando ci eravamo separati, mi balenò in mente un pensiero alquanto infausto. Anche lui, come me, era solo. Era vero, aveva i suoi compagni, ma non poteva parlare a nessuno di ciò che era capitato, perché i suoi sottoposti erano estremamente apprensivi quando si trattava della salute del loro capitano. Quindi, ancora una volta, si era ritrovato a dover sopportare tacitamente quel macigno che per tanto tempo gli aveva impedito di respirare. Come stava? Stava bene? Soffriva? Riusciva a dormire la notte? O il suo sonno era tormentato dagli incubi, come lo era il mio? Avrebbe voluto che io gli fossi rimasta accanto, durante quei giorni difficili? Aveva bisogno di me? Io... non lo sapevo. Dovevo scoprirlo. Dovevo tornare dai Pirati Heart. Perché avevo bisogno di loro, e probabilmente loro avevano bisogno di me.
Riaprii gli occhi di scatto. No. Ero più forte di così. Non avrei ceduto. Non l’avrei data vinta ad un mostro. Mi raddrizzai, poi staccai le mani dal capo e riportai le braccia stese lungo i fianchi. E d’un tratto, come per magia, le presenze nella mia testa si dissolsero. Sgranai gli occhi. Non erano più voci confuse. Adesso riuscivo a vedere sagome ben distinte. Aure di luce in mezzo all’oscurità. Potevo controllarle. Potevo percepirle, riuscivo a captare i respiri delle persone e ad anticiparne le mosse.
Sbuffai una risata, che mi uscì più come un sussulto. Avevo ripreso il controllo della situazione. Ero di nuovo padrona di me stessa. Era questo che riusciva a fare la nuova Camilla. Era diventata capace di risorgere dalle sue ceneri come una fenice, di rialzarsi ed andare avanti, nonostante tutto e tutti, voltando pagina.
Ghignai. Il mio era il sorriso impertinente di qualcuno che poteva permetterselo.
«Buffo, detto da uno che si ostina a non voler accettare che il suo posto è in una lurida prigione» affermai, tornando ad incrociare le braccia e a guardare il mio interlocutore con aria di sfida.
«Fufufu. Da quando sei diventata così sfrontata?» domandò. Sembrava quasi soddisfatto di quel mio cambiamento repentino. L’avevo sempre saputo. Era pazzo, non ci stava tanto con la testa, e la sua prigionia doveva aver peggiorato le cose.
«Da quando io sono qui e tu sei lì» risposi gelida, indicando la sua posizione con uno sprezzante cenno del capo.
«Che cosa sei venuta a fare quaggiù?» volle sapere «Sei venuta a prenderti gioco di me?» chiese poi, ridendo.
Aspettai un po’ prima di replicare. Volevo essere sicura che la risposta che avevo formulato nella mia testa fosse trasposta con le giuste parole ed il giusto tono di voce, affinché fosse ben chiara al Demone Celeste.
«Sono soltanto venuta a portarti i saluti miei e del mio capitano» gli comunicai, seria, nonostante un sorrisetto di scherno stesse affiorando sulle mie labbra «Sai, stiamo bene. Lui sta bene. È in perfetta salute. E ti ringrazia per il regalo che gli hai fatto. Adesso, con la consapevolezza che tu rimarrai confinato in uno sporco buco per il resto della tua misera esistenza, può finalmente vivere in pace. Gli hai donato una seconda occasione inconsapevolmente, e te ne è grato. Stai pur certo che non la sprecherà e vivrà la sua vita al massimo. Giusto perché tu lo sappia, sarà una vita lunga e felice, piena di bei momenti, proprio come si era augurato tuo fratello Corazòn» aggiunsi. Lo dissi con una tale freddezza e con una tale convinzione che mi stupii di me stessa per qualche secondo. Quelle parole, ne ero sicura, per il fenicottero erano state come una pugnalata al cuore. Non per niente, udii il rumore inconfondibile della vena sulla sua fronte che si gonfiava. Sogghignai, estremamente compiaciuta da me stessa.
«Per guarire dalle ferite che tu ci hai provocato ci è voluto tempo. Abbiamo impiegato tante energie e tanta forza di volontà. E ci è costato anche qualche sacrificio importante» iniziai, tornando seria e ripensando ai mesi che io e Law avevamo passato chiusi in una stanza d’ospedale ed immobilizzati in un letto, ed anche ai dieci anni di vita a cui avevamo dovuto rinunciare affinché gli ormoni di Ivankov facessero effetto. Nessuno di noi ne aveva più parlato, io nemmeno ero stata a pensarci troppo, ma col senno di poi mi rendevo conto che era stata una scelta pesante da mandare giù. Per il momento, però, non rimpiangevo nulla. Avevo fatto quel che dovevo e avevo pagato il prezzo che dovevo pagare.
«Ma noi staremo bene» affermai poco dopo, riprendendomi dalle mie riflessioni «Tu invece... beh, non è il caso di mentire. Tu non sei mai stato bene, né con te stesso, né con gli altri. Ma a me non importa. Mi basta sapere che non sarai mai felice e che non sarai mai più libero. Dopotutto, chi è causa del suo mal pianga se stesso» lo presi gelidamente in giro. Stavo mostrando una fermezza che non era da me.
Il biondo grugnì malamente, mentre io sospirai soddisfatta. Il fatto che non sogghignasse più come un idiota mi dava un immenso piacere e mi rendeva allegra. Lo avevo fatto incazzare, solo che stavolta non poteva nulla contro di me. Non aveva vinto lui. Avevo vinto io. Però, su una cosa aveva ragione. Ero una ragazza che era rimasta tenacemente aggrappata alla vita anche quando sapeva di non avere speranza. Ed ero felicissima di averlo fatto. Perché la vita, quella vita, poteva offrirmi tante belle occasioni. Occasioni che aspettavano solo me e che erano pronte a farsi cogliere al volo.
Un po’ mi spaventai nel vedere il corpo di Doflamingo che si contorceva sotto le catene e fremeva per liberarsi. Potevo percepire addirittura le sue dita ribollire di rabbia e muoversi pulsanti sotto le corde metalliche. Indietreggiai di qualche passo, giusto per sicurezza. Poi, però, mi dissi che non c’era nulla da temere. Non poteva niente contro di me, incatenato com’era. Dragon sapeva bene che tipo di minaccia aveva davanti e non era stupido come lo erano i marines, quindi nel momento in cui il fenicottero era stato trasportato alla base aveva pensato di prendere tutte le precauzioni del caso, che erano almeno il doppio di quelle che aveva preso la Marina.
Mi passai la punta della lingua sul labbro superiore, poi la feci schioccare contro il palato. Il mio sguardo era limpido. Così limpido che il Demone Celeste avrebbe potuto vedere le mie iridi brillare nel semibuio in cui era immersa quella prigione.
«Ci rivediamo all’Inferno. Addio.» sputai, dedicandogli un’ultima occhiata compiaciuta e tentennando teatralmente le dita della mano a mo’ di saluto. Tuttavia, proprio quando feci per muovere un passo, lui parlò di nuovo ed io fui costretta a fermarmi.
«Non puoi cancellarmi, ragazzina.» affermò, alzando la testa e fissandomi negli occhi. Nonostante le lenti rosse dei suoi occhiali si frapponessero tra i nostri sguardi, lo percepii chiaramente. Per un attimo, per un solo attimo, il mio corpo fu attraversato da un potente brivido. Le sue pupille mi trafissero la carne. Erano perfino più affilate dei suoi fili. Ma io non sentivo dolore, né avevo paura.
«Non spetta a te decidere quello che posso o che non posso fare.» dichiarai in tono piatto, alzando il mento e fissandolo dall’alto verso il basso.
«Fufufu» rise, quasi di gusto «Ti accorgerai molto presto di ciò che voglio dire» lo pronunciò ghignando ed in tono di scherno, come se volesse canzonarmi. All’improvviso, una furia schiacciante cominciò a montare dentro di me, proprio all’altezza del petto, e a crescere sempre di più. Strinsi i pugni. Osava ancora prendersi gioco di me? In un paio di falcate mi ritrovai imprudentemente davanti alle sbarre della cella di quel demone. Senza pensarci, piegai le gambe e mi accovacciai, per fissare meglio la faccia deformata del biondo. Quello, per me, era anche un gesto simbolico, che stava ad indicare che lui era caduto in basso, molto in basso, e che quella superiore adesso ero io. Lui, da dietro le lenti rosse, mi fissava divertito ed infastidito allo stesso tempo. L’intera situazione mi inquietava non poco, le sue parole ambigue, il suo sguardo penetrante e la sua espressione divertita avevano contribuito a generare in me una minuscola scintilla d’angoscia. Potevo solo sperare di non scoprire mai il significato delle sue affermazioni. Però, non potevo farmi schiacciare da lui. Non un’altra volta.
«Hai perso tutto, Doflamingo. I tuoi compagni, la tua ricchezza, la tua reputazione e la tua libertà. Forse, come hai detto, io non potrò cancellarti, ma neanche tu potrai cancellare la tua enorme e bruciante sconfitta. Non potrai mai raschiare via i tuoi errori.» proclamai con sguardo fermo «Se non ti conoscessi, mi faresti quasi pena. Invece, ti meriti tutto quello che ti è successo. Ogni cattiveria, ogni giorno di prigionia, ogni catena, ogni colpo che ti è stato inferto e ogni sofferenza che hai provato. E sai perché? Perché lo hai scelto tu stesso. Tu hai scelto di finire così. È tempo che affronti le conseguenze delle tue azioni e che sconti la tua pena.» gli feci sapere, impassibile.
Era lui la causa del suo male. Un male che si era insinuato in lui e piano piano si era allargato a macchia d’olio, radicandosi sempre più nel profondo, annebbiando il suo buon senso e distruggendo qualsiasi cosa avesse attorno. Le sue sconfitte e la sua prigionia, altro non erano che il risultato delle scelte che aveva fatto. Non c’era rimasto più niente di sano in lui, c’era solo il male puro.
Mi rialzai e finalmente mi allontanai dalle sbarre.
«Come ti ho detto, ci vediamo all’Inferno, Doffy.» sputai dedicandogli un’ultima occhiata decisa. Poi me ne andai, senza dargli il tempo di replicare, lasciandolo lì, a logorarsi dalla rabbia.
 
Camminai per il corridoio – che adesso sembrava decisamente più breve – finché l’aura di Inazuma non si tramutò in una vera e propria sagoma. Mi sentivo improvvisamente più leggera di almeno venti chili. Era come se in quella specie di grotta avessi lasciato tutta la mia angoscia e tutte le mie preoccupazioni. Quando la luce del sole toccò la mia pelle, non potei fare a meno di chiudere gli occhi, reclinare la testa e allargare le braccia. Inspirai profondamente e sorrisi, godendomi appieno quel momento. Ero viva. Ed ero libera.
«Stai bene?» la voce di Inazuma interruppe il mio momento catartico. Riaprii gli occhi, lasciai ricadere le braccia lungo i fianchi e lo guardai.
«Sì!» esclamai, sorpresa di me stessa, annuendo e ridendo. Anche il rivoluzionario si stupì di vedermi così allegra, ma non disse niente. Dopotutto, non era una persona di molte parole e di certo sapeva come essere discreto. E adesso che non avevo più addosso tutta la tensione che avevo prima, quasi mi veniva da ridere nell’osservarlo. Era proprio buffo. Non avevo mai visto nessuno che fosse bicolore. Però, da amante di quei colori, dovevo ammettere che mi piaceva quella combinazione di bianco ed arancione. Certo, la sua espressione perennemente seria ed imbronciata non migliorava la situazione. Per non parlare del suo papillon e dei suoi occhiali, anch’essi variopinti. Forse come donna era più attraente. Le due cose che ai miei occhi lo rendevano estremamente rispettabile, erano la cicatrice a forma di saetta che gli attraversava il lato destro del viso ed il calice contenente il liquido alcolico rosso che tanto bramavo che stringeva nella mano sinistra.
«Però ho bisogno di vino» confessai, quasi in un sussurro. L’uomo mi porse il suo bicchiere, ormai quasi vuoto. Scossi la testa.
«Ho bisogno di una bottiglia di vino» specificai, sollevando le sopracciglia.
Il mio interlocutore fece un risolino, poi indicò con un gesto eloquente del capo l’ingresso della base. Wein, il fidato e fedele barista dell’Armata Rivoluzionaria, avrebbe fatto meglio a prepararsi per il mio assalto al bar. Perché io potevo farlo, e mi meritavo la bottiglia del miglior vino che avesse a disposizione. Come il mio capitano, anche io avevo avuto una seconda occasione – anzi, addirittura una terza – e non avevo nessuna intenzione di sprecarla.
 
***
 
«Non vedo niente» ripetei per la terza volta, ormai infastidita.
«Bene, allora cominciamo» mi intimò serio Hack «Vediamo se il metodo che hai proposto tu funziona» aggiunse poi. Dal tono compiaciuto della sua voce capii che per lui quella sessione d’addestramento era diventata una sfida.
Sospirai sconsolata. Speravo solo che non ci fosse andato giù troppo pesante con me. Soprattutto adesso che avevo una benda sugli occhi e non potevo vedere niente.
«Concentrati e cerca di controllare l’Haki, come hai fatto due giorni fa» mi disse il rivoluzionario. La faceva facile, lui. Potevo sentire i suoi passi sul terriccio. Stava andando a posizionarsi a qualche metro da me.
In quei due giorni, mi era tornato in mente l’addestramento – o meglio, parte dell’addestramento – che aveva fatto Rufy con Rayleigh su Rusukaina. Per imparare a gestire l’Haki dell’Osservazione, il Re Oscuro aveva bendato Cappello di Paglia e lo aveva praticamente picchiato con un bastone fino a che non era stato capace di prevedere e quindi di schivare i suoi colpi. Ora, io e l’uomo-pesce non avevamo due anni, avevamo a malapena tre mesi per raggiungere risultati simili a quelli che aveva raggiunto il moro, quindi dovevamo lavorare duramente. Ma ero fiduciosa. Mi sarei impegnata al massimo affinché ciò fosse stato possibile. E poi, io non partivo proprio da zero, avevo già risvegliato l’Haki, si trattava “solo” di imparare a controllarla.
Cercai di concentrarmi al massimo e mi misi in posizione di difesa. Sapevo che Hack avrebbe attaccato per primo. Senza la mia Mr. Smee mi sentivo un po’ nuda, ma non potevo farci niente. Dopotutto, eravamo riusciti a raggiungere un compromesso. Il rivoluzionario aveva accettato di allenarmi con il metodo che gli avevo proposto, ma aveva continuato ad insistere che sarebbe stato più utile imparare a combattere senza armi. Non aveva tutti i torti, in fondo, e per quanto potessi essere riluttante all’idea, alla fine avevo ceduto anche io e tra noi avevamo stipulato quell’accordo silenzioso. Saremmo riusciti a cavare qualche ragno dal buco? Non ne avevo idea. Per fortuna, avendo la benda sugli occhi, non avrei comunque potuto vedere quelle disgustose creaturine che uscivano dalle fessure delle pareti.
 
Dalla mia gola uscì un mugugno sofferto e poco elegante. Era la trentesima volta che ricadevo di schiena come un’ebete e sempre a causa dello stesso attacco da parte di Hack. Il metodo che avevo proposto non si stava rivelando molto efficace. Ma eravamo solo agli inizi ed io non avrei di certo demorso.
«Ci riusciremo. Rialzati e riprendi la posizione» mi incoraggiò quello che ormai era diventato il mio nuovo maestro. Che fosse diventato più bonario ultimamente? Forse gli piaceva quel metodo di lavoro perché in questo modo poteva prendermi a pugni più facilmente. Rimasi per un paio di secondi stesa a terra, mi scrocchiai il collo e poi afferrai la sua mano, mentre con l’altra feci leva sul terriccio per rialzarmi.
«Ehi» mi richiamò Hack, facendomi drizzare le orecchie «Hai afferrato la mia mano al primo colpo. Fai progressi» constatò soddisfatto. Ci riflettei un attimo, poi schiusi la bocca e aggrottai la fronte.
«Cazzo, è vero!» esclamai contenta. Subito dopo mi tolsi la benda e gli diedi d’istinto una pacca sulla spalla. L’uomo-pesce mi guardò malissimo.
«Scusa» feci, sfoggiando uno dei sorrisi più innocenti che riuscissi a fare.
«Rimettiti la benda. Continuiamo» ordinò il rivoluzionario. Normalmente avrei fatto come mi aveva comandato – nonostante la riluttanza e le obiezioni – ma quella volta qualcosa catturò la mia attenzione. Mi sporsi oltre la spalla del mio addestratore per scrutare il porto improvvisato, poco in più là.
«Hack-san, ti chiedo scusa se abbandono il tuo addestramento nel bel mezzo di...» neanche riuscii a finire la frase, tanto ero distratta «Ma c’è una cosa urgente che devo fare» gli dissi, sperando che capisse. Poi, senza aspettare una sua risposta, iniziai a camminare verso la piccola baia che distava una cinquantina di metri da me.
«Dove stai andando?» mi chiese lui, contrariato.
«A chiedere spiegazioni» risposi distrattamente. Mi girai verso di lui e feci un piccolo inchino un paio di volte, per scusarmi. Lo sentii più di una volta grugnire per la frustrazione e borbottare qualcosa sul fatto che i giovani non avessero più alcun tipo di rispetto. Non me l’avrebbe perdonata con tanta facilità, stavolta. Mi avrebbe aspettato una settimana faticosa. Tuttavia non mi fermai mai e rischiai anche di inciampare su un sasso e cadere rovinosamente. Ma, avessi dovuto arrivarci rotolando, avrei raggiunto il porto. C’era una persona che dovevo rivedere e che mi doveva delle spiegazioni.
 
I rivoluzionari passavano accanto a me ed alcuni di loro – sebbene non avessi idea di chi fossero – mi salutavano. Io rivolgevo loro un gesto della mano che ai più sarebbe sembrato frettoloso e seccato. Osservavo alcuni uomini scaricare grosse casse di legno dalla caravella su cui si trovavano e dirigersi verso l’interno della base. In sottofondo sentivo un lieve mormorio, che altro non erano che chiacchiere sull’esito positivo della missione appena svolta. Io stavo da una parte, con il collo allungato da dieci minuti buoni nel tentativo di individuare il volto che stavo cercando. Ma non ce n’era traccia. Il ragazzo che stavo cercando sembrava essersi volatilizzato nel nulla. Quel maledetto. Oltre a farmi venire il torcicollo mi avrebbe anche fatto venire un esaurimento nervoso.
Fissavo la nave da qualche minuto ormai, così intensamente che probabilmente nemmeno avevo sbattuto le palpebre.
Chiusi le mani a pugno e digrignai i denti.
«Dove sei, Sabo? Questa è la nave su cui sei partito. Non puoi nasconderti da me in eterno. Forza, vieni fuori» sibilai sottovoce. Ero consapevole che agli occhi di un esterno sembravo più inquietante di Jack Nicholson in “Shining”, ma non potevo evitarlo. Era passata una settimana dalla sera in cui io ed il biondo fratello di Rufy ci eravamo scambiati quel famoso bacio, dopodiché non ci eravamo più parlati perché lui era partito per una missione segreta in qualche remoto posto del Nuovo Mondo. Adesso che la nave su cui era partito era tornata alla base, dovevo sapere. Era un mio diritto, sapere. Avrebbe dovuto assolutamente darmi delle spiegazioni, lo avrei obbligato, se necessario, perché non avevo idea di cosa avesse significato quel bacio. Quell’intenso e passionale bacio. Non ero a conoscenza neanche di che cosa avesse significato per me, figurarsi di cosa fosse stato per lui. Dovevo scoprirlo. In quei giorni ci avevo pensato e ripensato, e il pensiero mi aveva logorato, perché brancolavo nel buio; ma mi aveva anche fatta sentire bene. Mi aveva rinvigorito e dato nuove energie per affrontare quelle giornate particolarmente dure. Si poteva dire che quasi stessi vivendo per saperne di più su quel bacio. Dovevo chiarirmi le idee una volta per tutte. Non sapevo davvero cosa pensare. Era stato un episodio unico e accaduto per caso? O quello era l’inizio di qualcosa di più? Sarebbe successo di nuovo? C’era del sentimento tra noi due? Le cose si sarebbero complicate?
Sbuffai per il nervosismo e cominciai a sbattere ritmicamente le mani sull’esterno delle cosce. Avrei aspettato Sabo al varco. Lo avrei intercettato non appena avesse messo piede sulla terraferma e lo avrei costretto a vuotare il sacco. Sarei rimasta lì in piedi anche per due giorni, qualora fosse stato necessario.
«Cami-chan!» esclamò una voce che riconobbi appartenere alla squillante Koala «Che ci fai qui?» mi chiese. A quanto pareva doveva essere scesa dalla nave senza che me ne accorgessi, tanto ero impegnata a controllare se fra la gente ci fosse un biondo con una tuba in testa.
«Sì, sì» risposi sovrappensiero. La sentii vagamente fare un paio di esclamazioni di sorpresa e poi blaterare qualcosa che in quel momento non avevo alcun interesse ad ascoltare, mentre corrugavo la fronte assumendo un’espressione assorta e corrucciata ed allungavo di nuovo il collo verso la caravella per scorgerne meglio il ponte.
«Hai visto Sabo, per caso?» chiesi alla mia interlocutrice – se così si poteva chiamare – voltandomi verso di lei. La ragazza grugnì, strinse i pugni e sbuffò, così forte che le si alzarono anche le spalle.
«Non me ne parlare.» borbottò infuriata. Poi pronunciò di nuovo qualcosa di incomprensibile e se ne andò, dirigendosi verso l’entrata della base. Spalancai gli occhi e allargai le braccia, sinceramente sconcertata. Molto probabilmente il biondino aveva fatto arrabbiare anche lei, ma non avrei saputo indovinare il motivo, sebbene avessi varie ipotesi. Avere a che fare con lui era come avere in mano una granata pronta ad esplodere, non si poteva mai sapere. Tuttavia al momento quello che mi premeva di più era incontrarlo, cosa che sembrava impossibile, visto che non si trovava da nessuna parte. Che avesse paura di me? No, non era il tipo che si spaventava per cose così futili. Magari aveva paura di Koala. Forse sarei dovuta salire sulla nave e cercarlo lì una volta per tutte. No, sarebbe stato meglio non fare mosse avventate. Mi sarei data una calmata, avrei disteso i nervi e lo avrei aspettato.
«Camilla?» una voce stupita mi chiamò, ma io la ignorai prontamente. Molto probabilmente era un rivoluzionario che voleva salutarmi, o peggio, che voleva chiedermi qualcosa. Non avevo tempo per quelle stronzate adesso.
«Camilla!» la voce fastidiosa tornò alla carica e alla fine fui costretta a voltarmi verso il suo proprietario. Quando mi resi conto di chi fosse quel misterioso e molesto figuro, per poco non mi slogai la mascella dallo stupore.
«J-Jasper?» farfugliai, sbattendo gli occhi un paio di volte per accertarmi che la figura che avessi davanti non fosse frutto della mia immaginazione. Non era da escludere, visti i recenti eventi.
«Ciao» mi salutò, stupito quanto me. Aggrottai la fronte e abbassai il mento. Quella sì che era una sorpresa.
«Che ci fai qui?» chiesi, scuotendo rapidamente la testa.
«A quanto pare sono diventato un rivoluzionario» fece in tutta tranquillità, accompagnando le sue parole con un’alzata di spalle.
«Come... Come?» domandai semplicemente, ancora stordita dalla piega inaspettata che aveva preso la situazione. Ero alquanto confusa al momento.
«È una storia lunga» affermò. Le sue labbra si piegarono per fare un sorriso appena accennato. In quel momento, con la coda dell’occhio notai un movimento sospetto che mi fece girare la testa di scatto alla mia destra, verso la barca. Eccolo lì. Sabo era saltato giù dalla nave. Avrei dovuto aspettarmelo, non poteva mica scendere sulla terraferma usando la rampa di legno che usavano i comuni mortali. Mi morsi un labbro e lo fissai intensamente, sebbene lui non si fosse accorto di me. Eravamo a pochi metri di distanza. Era mio.
«E a quanto pare tu hai altro da fare» constatò Jasper leggermente risentito, facendomi riportare lo sguardo su di lui.
«Oh, no. No, è che...» mi interruppi a metà della frase, per poi schiarirmi la gola. Anche quella era una storia lunga da spiegare. Scossi la testa ed alzai gli occhi al cielo.
«Non importa... Sai che c’è? Adesso ce ne andiamo al bar, ci prendiamo qualcosa da bere» iniziai «Per te un succo di frutta e per me del vino» specificai subito dopo, da bravo medico e da brava baby sitter. Dopotutto, era ancora un ragazzino e non volevo essere io la causa dei suoi futuri problemi al fegato. Proprio in quel momento mi passò davanti il biondo, che mi sorrise radioso e mi salutò con un cenno del capo. Lo osservai camminare verso la base per qualche secondo, con sguardo sconsolato. Possibile che non gli fosse neanche passato per l’anticamera del cervello che avrei potuto volere delle delucidazioni per quanto accaduto!? Per una settimana non avevo fatto altro che pensare a quel momento, mentre ora la mia occasione per chiedergli – o meglio, estorcergli – chiarimenti, era andata in fumo.
«Tanto vino» sussurrai, tornando a guardare il ragazzino di fronte a me «E mi racconti tutto» gli proposi infine, dando un’ultima occhiata alla sagoma del rivoluzionario che mi era passato accanto qualche secondo prima che si rimpiccioliva sempre di più man mano che si allontanava da me. Ma perché mi dannavo tanto? Visto il soggetto, probabilmente neanche si ricordava di quel bacio.
«Perché devo prendere un succo di frutta? Io voglio una birra» protestò Jasper, distogliendomi dalle mie infauste riflessioni. Sbuffai, feci schioccare la lingua sul palato in segno di dissenso ed indicai l’entrata del base con un gesto seccato della mano. Il ragazzo mi precedette senza controbattere ed io lo seguii, sebbene fossi io quella che avrebbe dovuto guidarlo.
Tra un passo e l’altro mi lasciai sfuggire un amaro sospiro. Ricapitolando la situazione, Koala ce l’aveva con il suo “compagno di avventure” per chissà quale motivo, Hack se l’era presa con me perché ero andata via nel bel mezzo del suo allenamento e per questo mi avrebbe fatto faticare come una dannata nei giorni successivi, mentre con Sabo – che era la ragione per la quale avevo abbandonato l’allenamento dell’uomo-pesce e per cui avrei dovuto pagare quel mio affronto – non avevo cavato un ragno dal buco. In compenso avevo trovato un mio vecchio paziente a cui ero particolarmente affezionata, che si era appena unito all’Armata Rivoluzionaria per qualche strampalato motivo a me ignoto che nel frattempo era diventato un potenziale alcolista come me. Non male come quadro generale. Supponevo che avrei dovuto rimandare le spiegazioni che tanto bramavo a data da destinarsi. Ma il biondino non se la sarebbe cavata così. Non mi sarebbe sfuggito un’altra volta. Lo avrei inseguito anche a Marijoa, se fosse stato necessario.

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Capitolo 52
*** Cicatrici ***


«Quindi, hai capito che il Governo Mondiale in realtà è un governo falso e corrotto e ora miri a rovesciarlo?» chiesi al mio interlocutore, mandando giù un sorso di vino – ero già al terzo bicchiere – con l’aria di chi la sapeva lunga sull’argomento.
Il ragazzo poggiò il grosso boccale di birra sul bancone. Era Wein, il barista, quello da biasimare per tutto ciò, di certo non io. Io avevo provato a dissuadere Jasper dal diventare un alcolista, ma avevo fallito. Tuttavia non ero stata io a servire birra al ragazzino come se fosse la cosa più naturale di questo mondo.
«Sì, i pirati sono il male peggiore di questo mondo, ma la Marina e le forze militari non sono migliori di loro. Da quando Akainu è al comando, le cose sono peggiorate ulteriormente. Ecco perché mi sono unito all’Armata Rivoluzionaria, perché spero di annientarli tutti» rispose, con una calma pressoché disarmante. Feci per parlare – con tanto di indice alzato – ma poi mi arrestai e corrugai la fronte. Avrebbe dovuto sapere che stava parlando con un pirata. Un pirata che, giusto per precisare, gli aveva salvato la vita.
«Ovviamente, tu no. Tu non c’entri niente con questa misera gentaglia» specificò dopo qualche secondo, come se mi avesse letto nel pensiero. Bevvi un altro lungo sorso di vino, tanto per cambiare.
«In realtà credo di essere più simile a loro di quanto pensi» gli confessai, appoggiando pensierosa un gomito sul bancone.
«No, credimi. Non lo sei. Tu sei migliore» affermò convinto. Incastonai i miei occhi nocciola ai suoi acquamarina e accennai una risata. Potevo leggere la determinazione nelle sue iridi. Era assolutamente sicuro di ciò che aveva detto. Non era da biasimare, dopotutto era ancora un ragazzino. E a quell’età quasi tutti i ragazzini sono impavidi. Jasper mi ricordava un po’ Rufy. Ma, proprio come quest’ultimo, una volta cresciuto, avrebbe capito che in quel mondo nessuno era migliore di nessuno.
Mi sistemai meglio sullo sgabello in pelle ed accavallai le gambe.
«Che ci facevano i rivoluzionari su un’isola come Kaitei?» volli sapere, cambiando argomento. Non era il caso di proseguire a parlare di stermini di massa. Già avevo scoperto con mio grande dispiacere e disappunto che era diventato un bevitore, ci mancava soltanto che si proclamasse il nuovo Hitler di turno. Prima di rispondermi svuotò un altro po’ il boccale di birra che aveva davanti e, nel tempo che ci mise per bere, riflettei sul fatto che quella sera, una settimana prima, Sabo non si era ricordato il nome dell’isola sulla quale sarebbero approdati. Se l’avesse fatto, molto probabilmente le cose sarebbero andate diversamente. Ci saremmo dilungati a parlare di Kaitei e di come avessi salvato un ragazzino provenente da quell’isola e scongiurato il pericolo in un momento di crisi per la mia ciurma, e non ci saremmo baciati. Supponevo che questo non lo avrei mai saputo. Dopotutto, come recitava il detto, “con i se e con i ma, la storia non si fa”.
Vidi Jasper scuotere la testa mentre deglutiva il liquido amarognolo.
«Non si trovavano su Kaitei. Quando sono salito sulla loro nave ci trovavamo nel Regno di Aprea» mi comunicò. Mi lasciai sfuggire un’esclamazione di sorpresa. In quella mezz’ora di tempo mi aveva raccontato la storia di come era diventato un rivoluzionario, ma aveva tralasciato dei dettagli importanti, tipo il luogo dove si trovava nel momento in cui aveva deciso di unirsi all’Armata; un luogo che, tra l’altro, non avevo mai sentito nominare prima. Con un ultimo, lungo sorso, svuotai il mio calice e lo trascinai sul bancone per attirare l’attenzione del barista. Mi ci voleva altro vino per affrontare quel tipo di discorso.
«Forse per oggi è il caso che ti fermi qui, Cami-san» mi fece notare Wein. Alzai un sopracciglio e lo fissai. C’era da dire che aveva un aspetto piuttosto buffo. Era alto e mingherlino, di sicuro non aveva un fisico adatto al combattimento. Ma neanche io ce l’avevo, ecco perché lui serviva alcolici ed io li bevevo, marinando gli allenamenti di Hack. La sua faccia era perfettamente ovale, e i capelli neri e cortissimi, per quanto folti, non aiutavano a nascondere questa sua curiosa peculiarità. Ultimamente, poi, si era lasciato crescere dei baffi squadrati alla Hitler che gli incorniciavano la bocca. Mi ricordava vagamente Ryu, e questo mi faceva sorridere.
Senza perdere altro tempo mi alzai dallo sgabello, mi sporsi in avanti verso di lui e avvicinai la bocca al suo orecchio.
«Non fare lo stronzo, Wein.» lo rimproverai, poi continuai sottovoce per non farmi sentire dal ragazzino con i capelli a zazzera accanto a me «Servi birra ad un quindicenne come se nulla fosse e ti rifiuti di servire a me un quarto bicchiere di vino?» gli chiesi, quasi indignata.
Era palese che dopo aver ingurgitato una certa quantità d’alcol diventassi sboccata. Mi prendevo più confidenza del solito, ma Wein – che ormai lo sapeva bene – ci aveva sempre riso su e non mancò di farlo anche stavolta. Alla fine cedette alle mie “suppliche” e mi accontentò; anche perché le mie argomentazioni erano più che valide. Jasper aveva osservato divertito tutta la scena. Non sapevo perché, con lui accanto mi sentivo autorizzata ad avere un atteggiamento più autoritario verso il resto del mondo. Anche se ormai potevo permettermelo, almeno con Wein, visto che più della metà del mio tempo libero – che era comunque poco – lo trascorrevo sui suoi sgabelli. Tanto che ero considerata quasi una di “famiglia”.
Dopo che mi fui di nuovo accomodata sullo sgabello e che ebbi bevuto un altro po’ di vino rosso, parlai.
«Come mai ti trovavi nel Regno di Aprea?» gli domandai. Avevo il diritto di sapere perché non fosse su Kaitei, dopo tutta la fatica che avevo fatto per riportarcelo.
«Mi sono trasferito un paio di mesi fa. Avevo bisogno di un posto dove poter ricominciare, così ho preso una mappa, ho chiuso gli occhi e ho puntato il dito sulla carta. Quando ho sollevato le palpebre, ho visto che l’indice puntava verso il Regno di Aprea. Ho raccolto tutta la mia roba e una settimana dopo sono partito. E non mi sono più voltato a guardare indietro» mi spiegò. Lo osservai attentamente. Sembrava sereno mentre lo diceva, come se quella mossa azzardata gli avesse fatto bene. Era un ragazzo coraggioso. Aveva dovuto diventarlo per forza. Era rimasto orfano a causa di un’incursione pirata. Era rimasto solo e aveva dovuto crescere in fretta. Troppo in fretta, per quanto mi riguardava. Non era giusto, non era giusto che a quindici anni avesse già lo sguardo di una persona che non ha più nulla da perdere. Mi chiesi se anche io avevo quello sguardo dopo che mi ero convinta che Law fosse morto davanti ai miei occhi.
«Non riconoscevo più Kaitei come un luogo da chiamare “casa”» continuò il ragazzo, abbassando gli occhi. Dovevo riconoscere che avevo fatto proprio un buon lavoro con lui, non gli era nemmeno rimasta la cicatrice. Mi dispiaceva solo che i suoi magnifici occhi azzurri non fossero limpidi come avrebbero dovuto essere.
Appoggiai il gomito al bancone e posai il mento sulla mano. Poi presi un respiro profondo.
«Ti capisco» quasi lo sussurrai, come se avessi paura che scoprisse i miei segreti e il mio passato. Tuttavia, ero sicura di avere un’aria beata mentre lo dicevo. Eravamo più simili di quanto immaginassi. Entrambi, se non altro, avevamo avuto il privilegio di ricominciare. Avevamo resettato le nostre vite e ci eravamo costruiti dei nuovi inizi, inizi lontani dai posti che ci facevano stare male e inizi liberi dai pesi che ci portavamo sullo stomaco. Nel mio caso non era stato facile lasciarmi alle spalle i miei cari e la mia vecchia vita, ma molto probabilmente lo avrei rifatto cento volte. Senza contare che dopo diciotto anni – diciotto anni vissuti inutilmente – avevo scoperto il piacere dell’alcol.
«Tu, invece, come ci sei finita qui?» mi domandò curioso Jasper, facendomi tornare alla realtà. Sbuffai una risata, mi portai alle labbra il calice contenente quel poco di vino che rimaneva e ne bevvi un sorso, l’ennesimo di quella giornata.
«È una storia lunga» risposi, distogliendo lo sguardo «E in tutta onestà, non mi va tanto di raccontartela» confessai, sinceramente dispiaciuta. Nonostante fosse molto maturo per la sua età, non ero del tutto convinta che potesse capire. Certo, avrei potuto mentire, ma era un ragazzo scaltro e molto probabilmente avrebbe intuito che c’era qualcosa sotto. E poi, non volevo mentirgli. Forse, un giorno, gli avrei raccontato tutto per filo e per segno e ci saremmo fatti una risata. Per il momento, però, sarebbe stato meglio custodire il segreto della mia provenienza.
«Capisco...» rifletté pensieroso, poi afferrò il suo boccale di birra, praticamente vuoto, e lo sollevò «Allora, brindiamo alle storie lunghe» fece. Non potei fare a meno di ridere per quanto tenero apparisse in quel momento.
“Oh, al diavolo” pensai.
«Ehi, Wein» richiamai il barista, che dopo la mia ultima performance mi prestò subito attenzione «Non possiamo brindare con i bicchieri vuoti» lo informai con sguardo eloquente. Quello capì subito e li riempì rispettivamente di vino e di birra.
«Ora ci siamo» affermai soddisfatta, poi alzai di nuovo il mio calice e il ragazzino fece lo stesso «Alle storie lunghe» dichiarai ironicamente solenne.
Quel pomeriggio, con me, Jasper si era aperto, e per come lo avevo conosciuto, non era il tipo che lo avrebbe fatto con chiunque. Per questo lo apprezzai molto. Fare il medico era un mestiere così bello e così pieno di soddisfazioni che veniva ampiamente ripagato ogni sacrificio che faceva chi svolgeva questa professione. Avevo presto imparato che non si trattava solo di curare ferite e guarire malattie. Spesso e volentieri si trattava di curare anime e guarire cuori. E quel pomeriggio, seduta su quello sgabello al bancone del bar nella base dei rivoluzionari, giurai che avrei guarito anche il suo, di cuore e che lo avrei fatto tornare il ragazzo spensierato che era stato una volta.
Tuttavia, in quello stesso pomeriggio, Jasper riuscì a stupirmi per l’ennesima volta. Infatti, il mio cuore si riempì di gioia e di soddisfazione quando mi disse che per merito mio aveva iniziato ad interessarsi alla medicina e che da grande sarebbe voluto diventare un dottore. Mi chiese perfino di aiutarlo a far sì che il suo sogno si avverasse. Forse, la mia guarigione sarebbe dipesa dalla sua. E magari, sarei riuscita a ritrovare me stessa, come mi aveva detto di fare Law, se avessi aiutato Jasper a capire chi voleva diventare.
 
Bussai, fremente. Erano le undici passate e da brava mamma chioccia avevo mandato a letto Jasper, sebbene fossi pienamente consapevole che non sarebbe spettato a me farlo e che non mi avrebbe ascoltato comunque. Tuttavia non me ne preoccupavo affatto, perché al momento avevo questioni più grandi da risolvere. Quella era stata una giornata lunga e piena di sorprese, ma tutto sommato piacevole; e adesso l’avrei conclusa con il botto. Non mi importava se era tardi e se Sabo dormiva, lo avrei svegliato, qualora fosse stato necessario – anche a costo di rovesciargli sulla faccia un secchio di acqua gelida – e gli avrei chiesto spiegazioni su quel maledettissimo bacio.
«Avanti» recitò una voce. La sua voce. Dunque era sveglio e reattivo.
«Tu mi devi delle spiegazio...» iniziai molto convinta, aprendo la porta con foga. La mia energica incursione, però, venne interrotta. Mi arrestai sull’uscio nel momento in cui notai che non era solo. Sul letto matrimoniale, stesa accanto a lui, c’era Koala che rideva beatamente. Alla faccia che era arrabbiata con lui. Mi ghiacciai sul posto, mentre nella mia testa pensavo che avevo appena fatto l’ennesima figura di merda. Sollevai l’indice e boccheggiai un paio di volte. I due, mi fissavano curiosi e divertiti.
«Credo che me ne andrò. Scusate per il disturbo» feci infine, indietreggiando di qualche passo ed accompagnando piano la porta per richiuderla. Ero così tanto imbarazzata che avrei potuto strisciare per terra come un serpente e nessuno si sarebbe accorto della differenza. Ma, oltre all’imbarazzo, c’era anche qualcos’altro che mi bruciava nel petto, solo che non riuscivo a capire che cosa. Che fosse rabbia? Che fosse fastidio per non essere riuscita a parlare con il biondo neanche in questa occasione? Che fosse... no, no. Non poteva essere gelosia. Era una cosa che escludevo categoricamente. Che motivi avevo per essere gelosa? Tra me e Sabo c’era stato solo un bacio. Un misero bacio. Un bacio che non significava niente e che probabilmente mi aveva dato solo perché in quel momento gli andava di farlo. O perché voleva provocarmi. D’altronde lui era fatto così. Ma non c’era assolutamente nessun motivo per cui avrei dovuto provare gelosia. Il bruciore che sentivo nel petto e che mi faceva ribollire il sangue nelle vene non era gelosia. Molto probabilmente era una gastrite provocata dall’eccesso di consumo di bevande alcoliche. Dovevo smetterla con il vino. Non faceva bene alla mia salute. Il mio fegato – che era rimasto insieme per miracolo dopo tutti gli infausti colpi che aveva ricevuto – avrebbe ceduto, prima o poi. No. Non ero gelosa. Era stato solo un bacio. Un lungo e intenso... bacio. Che non aveva significato niente!
«Cami, aspetta!» urlò la ragazza, facendomi fare di nuovo capolino nella stanza «Resta con noi» mi propose, sorridendo bonaria. Feci un’alzata di sopracciglia, sorpresa. La mia lingua incespicò più volte nei miei stessi denti quando arrivò il momento di darle una risposta. Odiavo le situazioni così, in cui io mi trovavo per forza di cose a fare il terzo incomodo. Succedeva spesso con Maya ed Omen, ma almeno loro li conoscevo, sapevo quando davo loro fastidio e quando invece avevano piacere di stare in mia compagnia. Non avevo idea di quali fossero i rapporti tra Sabo e Koala, né di cosa stessero facendo prima che irrompessi nella camera del biondo, ma qualsiasi cosa fosse, non mi ci volevo immischiare.
«Avanti» mi incoraggiò il rivoluzionario, per poi fissarmi con un familiare bagliore malizioso negli occhi «Non essere timida» rincarò la dose, ghignando impercettibilmente. Lo fissai di rimando e digrignai i denti. Se non ci fosse stata la nostra amica, mi avrebbe sentito. Con la coda dell’occhio vidi la ragazza piegarsi da un lato e recuperare da terra una bottiglia di quello che mi sembrava rum. Solo in quel momento notai che sul letto c’erano sparse carte di caramelle e cioccolatini di tutti i tipi, e nonostante la mia iniziale perplessità, alla fine mi abbandonai ad una sana risata. Molto probabilmente avevo frainteso la situazione, abituata com’ero ai due piccioncini della mia ciurma.
«Dopo le missioni, ci piace rilassarci così» si giustificò Koala, trangugiando subito dopo un lungo sorso di rum direttamente dalla bottiglia. Ed io che pensavo che ci andasse giù più leggera di me...
«Non farti pregare, resta con noi» aggiunse poi, sorridendo sorniona. Spostai il mio sguardo su Sabo. Sarei dovuta restare? Sarebbe stata una buona idea? Ero combattuta. Alla fine, lo sguardo di sfida del biondo mi convinse – in barba al buonsenso – ad accettare quella proposta mascherata da provocazione. Però ero contenta che mi avessero chiesto di restare, ciò significava che volevano stare con me ed apprezzavano la mia compagnia.
«Vado a prendere una bottiglia di vino» suggerii – ma era più un mio imperativo – indicando con il pollice un punto imprecisato alle mie spalle.
«Oh, no! Vado io, Cami-chan!» esclamò allegra Koala, alzandosi repentinamente dal letto e uscendo dalla stanza. Corrugai la fronte e la osservai perplessa per tutto il tragitto dal letto alla porta fino a che non scomparve dalla mia visuale.
«È ubriaca?» chiesi a quello che per un po’ sarebbe stato il mio unico interlocutore.
«Un po’» confesso sorridendo «È l’unico modo che ho per farmi perdonare» aggiunse poi, tranquillo. Non potei fare a meno di ridere. Povera Koala. Non si meritava un tale trattamento.
«Si può sapere che accidenti le hai fatto? Questo pomeriggio era molto infervorata» lo informai, incrociando le braccia ed appoggiando la schiena al muro dietro di me.
Sabo annuì distogliendo lo sguardo per qualche secondo, forse ricordandosi di quello che era successo durante la missione.
«Nulla di che» rispose, con una blanda alzata di spalle. Supponevo che non fossero affari miei, perciò evitai di fare ulteriori domande sulla questione.
Quando, poco dopo, Koala tornò – con ben due bottiglie di vino e varie confezioni di cioccolatini e caramelle – ci stendemmo uno accanto all’altro sul letto, io a destra, la rivoluzionaria in mezzo ed il biondo a sinistra, e cominciammo a raccontarci piccoli aneddoti su quello che era successo nella settimana in cui non ci eravamo visti, facendo al contempo scorpacciata di dolci e di alcolici. Quella particolare serata mi ricordò un po’ i vecchi tempi, quando al posto dei due ragazzi ce n’erano altri, ben più molesti, che si chiamavano Shachi e Penguin. Dovevo ammettere che un po’ mi mancavano, ma l’allegria che mi mettevano Koala e Sabo, compensava per tutto.
 
«Bene, credo che per me sia ora di andare a letto. Domani ho dei rapporti da consegnare» ci comunicò la ragazza. Poi, con un’abile mossa, scavalcò Sabo, scese dal materasso e si diresse verso la porta, premurandosi di riservare un’ultima occhiataccia al biondo. Eravamo stati almeno due ore a chiacchierare e a ingurgitare cioccolatini e vino e sospettavo che fossimo tutti e tre stanchi. Io, però, ero stata brava e mi ero limitata a bere appena mezza bottiglia di vino. Non potevo ubriacarmi, non prima di aver fatto quello che ero venuta a fare, almeno.
«Buonanotte» ci disse sorridente, aprendo la porta. Dopo averci salutato con la mano, uscì, richiudendosela alle spalle.
«Credo che sia ora di andare anche per me, si è fatto tardi» annunciai al rivoluzionario, alzandomi dal comodissimo letto sul quale mi ero adagiata nelle ultime ore.
«Buonanotte» mi salutò, e con la coda dell’occhio lo vidi appoggiare un piede sopra l’altro e portarsi le mani dietro la nuca, allargando i gomiti e riprendendo così possesso del suo materasso. Mi stavo avviando con soddisfazione verso la porta, quando mi arrestai all’improvviso. Tra caramelle, aneddoti divertenti e alcolici, mi ero momentaneamente dimenticata il reale motivo per cui ero andata in camera del biondo. Noi due non avevamo ancora fatto i conti.
«No, no. Invece no! Buonanotte un cazzo!» urlai, girandomi di scatto sotto lo sguardo sorpreso – ma divertito – di Sabo. Ebbi un momento di tentennamento. Tutto il vino che avevo bevuto in quella giornata iniziava a farsi sentire. Tuttavia non ci badai.
«Tu mi devi delle spiegazioni.» tuonai infuriata «Mi devi spiegare perché cazzo quella sera mi hai ba...»
«Come si è comportato Rufy, quando era nel tuo mondo?» la sua voce assolutamente calma e serena mi impedì di finire di formulare la domanda.
«Cosa?» feci, confusa. Non mi capacitavo di come facesse ad effettuare cambi di argomento tanto repentini. Forse mi stavo immaginando tutto. Probabilmente era avvenuto tutto nella mia testa, era stato il vino a creare quella scena surreale.
«Come si è comportato Rufy, nel tuo mondo?» ripeté, divertito dal mio stato confusionale.
«Ma ti sembra questo il momento di chiedermelo!? Abbiamo cose più importanti di cui parlare, adesso!» mi arrabbiai, stringendo i pugni ed incurvando le spalle. Il biondo rise, perso nei suoi pensieri. Ormai aveva smesso di ascoltarmi ed io avrei – di nuovo – dovuto rassegnarmi al fatto che da quella situazione non avrei cavato un ragno dal buco.
«Scommetto che deve averti causato non pochi problemi» rifletté assorto.
Sospirai, in segno di resa. Sospettavo che avremmo parlato di quello per il resto della serata. Non sarebbe finita lì, però. Questo era poco ma sicuro.
«Sì, ha fatto parecchi danni... e mi ha completamente svuotato più volte il frigo» ricordai, ridendo. Il rivoluzionario allungò una mano e la sbatté un paio di volte sul materasso, facendomi cenno di accomodarmi accanto a lui. Alla fine cedetti e mi sdraiai sul suo comodissimo letto, che quella sera sembrava attirarmi a sé con particolare intensità. C'era da dire che la stanchezza non mi aiutava.
 
«Doveva essersi proprio arrabbiato il tuo capitano» commentò Sabo, ridendo. Iniziai a ridere anche io ed annuii.
«Beh, se non altro Sanji è stato contento di passare un pomeriggio nel mio corpo. E Law poi mi ha aggiustato la ringhiera. Tutto sommato non è stato così male» constatai, ricordando con nostalgia il giorno in cui il chirurgo aveva scambiato la mia personalità con quella di Rufy e Sanji.
«Stare nel corpo di mio fratello deve essere stato impegnativo» rifletté il biondo accanto a me. Annuii di nuovo, accompagnandomi con un’alzata di sopracciglia.
«Però è stato bello. È stato tutto bello» affermai. Un sorriso un po’ amaro aveva fatto capolino sulle mie labbra.
«E adesso qual è il tuo rapporto con il chirurgo?» mi chiese il biondo, girandosi a guardarmi con curiosità. I suoi occhi erano sereni e splendevano di una luce che non riuscivo a decifrare. Era un bagliore simile a quello che aveva la notte in cui mi aveva baciato.
Chiusi un occhio e posizionai l’altro appena sopra al collo della bottiglia che tenevo in mano. Era rimasto ancora un po’ di vino. Cielo, dovevo proprio smetterla di bere. Ancora un altro po’ e sarei finita direttamente agli Alcolisti Anonimi. Quasi avrei voluto chiedere a Sabo di controllare se le mie sclere fossero gialle o meno. Non mi sarei stupita se avessi scoperto di avere una cirrosi epatica. Con tutto l’alcol che avevo ingurgitato in quel mese, era già un miracolo che fossi viva. D’altra parte, però, ero giustificata. Per più di due mesi non avevo potuto bere, costretta in quel dannato letto d’ospedale, quindi nella mia testa in realtà stavo solo recuperando il tempo perduto. Alla fine trangugiai quel poco di liquido che era rimasto.
«Complicato» risposi in un sospiro «Un giorno gli voglio bene, il giorno dopo lo odio e il giorno dopo ancora non so se voglio strangolarlo o abbracciarlo» aggiunsi, accarezzando con le dita la bottiglia che stringevo tra le mani. Decisi di poggiarla in terra e presi uno dei pochi cioccolatini ancora interi che erano sparsi sul letto. Lo scartai e lo mangiai. Dovevo ammettere che era molto buono, soprattutto perché era accompagnato dal sapore amarognolo del vino.
«Anche se in realtà il problema nemmeno si porrebbe. Se provassi a strangolarlo mi ucciderebbe. E se provassi ad abbracciarlo... anche» riflettei sardonica, leccandomi i residui di cioccolata che mi erano rimasti sulle falangi. Non avevo guardato il rivoluzionario neanche per mezzo secondo, ma non avevo bisogno di guardarlo per sapere che era estremamente divertito dalla mia risposta e dalle mie conseguenti riflessioni. Non per niente lo sentii ridere.
«Con Koala, invece?» cercai di informarmi, alzando la testa e tornando ad osservarlo.
«Vuoi sapere quale sia il mio rapporto con lei?» chiese, sfoggiando un ampio sorriso. Avevo l’impressione che avesse capito le mie intenzioni. Tuttavia non me lo fece pesare, anzi. Avevo bisogno di più persone come Sabo nella mia vita. Tra Marco, che rispondeva sempre enigmaticamente a tutte le mie domande e Law, che neanche si premurava di replicare alle richieste che riteneva più scomode – e lui reputava troppo personale anche un semplice “come stai?” – non era affatto facile intavolare una conversazione. C’erano, poi, da considerare anche Shachi e Penguin, che il più delle volte erano ubriachi e farfugliavano risposte insensate ed incomprensibili, Bepo, che si scusava ogni due per tre, Rufy, che spesso e volentieri neanche mi ascoltava, e Zoro, che quando avevo bisogno di qualche consiglio sincero il più delle volte ronfava beatamente. Ryu non era la persona più adatta per dispensare suggerimenti e Maya ed Omen erano troppo impegnati a guardarsi teneramente per poter formulare una frase di senso compiuto. Usop, neanche a dirlo, mentiva una volta sì e l’altra pure. L’unico su cui potevo contare era Sanji, a cui però preferivo non chiedere niente, perché come mi avvicinavo diventava euforico e partiva per la tangenziale. Il problema, comunque, non mi si poneva neanche, visto che erano secoli che non rivedevo i Mugiwara. Sabo, però, era un giusto compromesso. Se non altro replicava senza fastidio a ciò che gli chiedevo.
«Il nostro rapporto è molto semplice» la sua voce mi distolse dalle mie riflessioni dal retrogusto amaro.
«Cioè?» lo incalzai, sollecitandolo a parlare con un’alzata di sopracciglia.
«Siamo partner di missione. E ci conosciamo da una vita. Siamo buoni amici, anche se spesso la faccio infuriare» affermò semplicemente, per poi sbuffare una risata.
«Quindi, tra di voi non c’è altro oltre all’amicizia?» indagai, fissandolo di sottecchi.
«No! Ci conosciamo da tempo immemore, è come se fosse una terza sorella per me» mi spiegò, osservandomi con sguardo eloquente. Trovai molto tenero il fatto che parlasse così della sua amica e che addirittura la considerasse quasi come una sorella. Nel sentire le sue parole girai il viso dalla parte opposta rispetto a dove si trovava lui e stando ben attenta a non farmi vedere mi lasciai andare ad un piccolo ghigno. Questo era un bene, perché stava a significare che non dovevo sentirmi in colpa per il bacio che c’era stato tra me ed il biondo. Se quello che mi aveva detto lui era vero, allora non c’era da preoccuparsi. Non ci sarebbero state scenate inutili di gelosia, né imbarazzo, tra nessuno di noi. Non che avessi intenzione di permettere che accadesse di nuovo qualcosa di simile a ciò che era successo la sera prima che Sabo partisse per la missione, questo era sottinteso.
Senza accorgermene, mi ritrovai preda di un potente e lungo sbadiglio, che sembrò contagiare involontariamente anche il biondo.
«Credo davvero che sia arrivato il momento di andare a letto» annunciai tirandomi su e mettendomi a sedere sul bordo del letto. Ormai mi ero arresa all’idea che non avremmo parlato del nostro bacio. Non quella sera, almeno. Feci un piccolo sospiro e poi mi chinai per raccogliere le bottiglie vuote da cui avevamo bevuto sia io che Koala. Non potevo lasciarle lì, avrei dovuto buttarle via.
«Aspetta» fece Sabo. Prima che potessi accorgermene, rotolò sul materasso, che si piegò sotto il suo peso facendomi perdere l’equilibrio – già compromesso dal vino che avevo tracannato per tutto il giorno – per un attimo, e mi fu accanto. Spostai lo sguardo alla mia destra e notai che stava fissando un punto ben preciso sotto il mio mento. Poggiai le bottiglie di nuovo in terra. Che stesse fissando il mio décolleté? Era molto probabile, visto il soggetto. Effettivamente i suoi occhi avevano transitato per tutta la sera in quel punto. Io l’avevo lasciato fare, in fondo, non mi dava troppo fastidio. La Stella mi aveva fatto un dono – anzi, due – quindi che motivo c’era di sprecarlo? Vedendo che però non accennava a distogliere lo sguardo, abbassai la testa per cercare di capire cosa ci fosse di tanto eclatante da fissare. Poi capii e mi venne da sorridere. I suoi occhi sfavillavano, tuttavia non riuscivo a decifrare la sua espressione. Sfiorai con le dita il ciondolo che portavo al collo, quello che replicava il tatuaggio di Ace e che era rimasto sempre con me. Lui, a differenza di me, non si era mai spezzato, né scheggiato, neanche durante la battaglia contro Doflamingo. Era rimasto sempre intatto – seppure si fosse un po’ consumato ed annerito – e non mancava mai di scintillare fiero ed orgoglioso. Senza che Sabo dicesse nulla, slacciai la collana e gliela porsi, proprio come avevo fatto con Marco e poco dopo con Rufy. Il rivoluzionario fece un cenno del capo e mi fissò serio in volto, come a chiedermi il permesso di prenderla. Annuii, allungai la mano e gliela porsi. Nel momento in cui la prese tra le mani, la sua espressione divenne identica a quella che aveva fatto suo fratello. E proprio come lui, se la rigirò tra le dita. Sembrava che potesse percepire il calore di Ace. Le sue falangi accarezzarono tutta la superficie del ciondolo, ne analizzarono ogni minimo particolare e ne colsero ogni dettaglio. Lo strinse con delicatezza, ma anche con forza, come se dovesse imprimersi le parti in rilievo sulla pelle. Nelle sue mani, le lettere sembravano incandescenti, sembravano vive. Anche lui, come Rufy, si soffermò a lungo sulla lettera “S”, barrata da due linee incrociate tra loro. Quella era la sua lettera. La lettera che Pugno di Fuoco si era tatuato per lui, per ricordarsi che Sabo si trovava da qualche parte, forse in mare, forse in cielo, e che così facendo non lo avrebbe abbandonato mai. Non avrebbe mai fatto svanire il suo ricordo. E adesso, il Capo di Stato Maggiore dell’Armata Rivoluzionaria, avrebbe fatto lo stesso con lui. Perché il Dottor Hillk mi aveva insegnato che un uomo muore davvero solo quando viene dimenticato da tutti.
«Sai, è come se con il suo calore mi stesse vicino, mi scaldasse l’anima e mi proteggesse. In questo modo, è sempre con me» dissi, dopo qualche minuto di rigoroso silenzio in cui avevo lasciato il biondo a contemplare quel misterioso oggetto. Lui, nell’ascoltare le mie parole, sembrò tornare alla realtà. Mi guardò, un piccolo sorriso era spuntato sulle sue labbra.
«Sì, lo so che è da stupidi. Insomma, io tuo fratello nemmeno lo conoscevo! Non l’ho mai conosciuto, in realtà. Però...» tentai di giustificarmi, ma non potei completare la frase.
«Io ho vissuto per anni nell’oblio. Ho passato dieci anni della mia vita senza che mi ricordassi di conoscerlo. Capisco cosa vuoi dire e capisco quello che senti» fece, sorridendo amaramente. Incurvai le sopracciglia, facendo comparire una ruga in mezzo alla fronte e piegai la testa da un lato. Rimasi senza dubbio stupita da quelle parole. Lo vidi chiudere la mano a pugno e stringere il ciondolo per qualche secondo, poi, distese le dita ed allungò il braccio per restituirmi la collana. La ripresi; tuttavia, quando feci per rimettermela al collo, notai che il biondo stava di nuovo fissando un punto imprecisato sotto il mio mento. Capii subito cosa stava guardando. No, non stava fissando il mio décolleté neanche stavolta. Con le falangi mi sfiorai la gola, d’un tratto a disagio. Fino a quel momento, il ciondolo di Ace aveva sempre coperto e nascosto la cicatrice che mi era rimasta dopo la battaglia con Doflamingo, quella infertami dal suo filo proiettile, perciò non me ne ero mai preoccupata troppo. Ma senza pendente, si vedeva. E questo mi faceva sentire nuda e vulnerabile. Distolsi lo sguardo, imbarazzata. Non sapevo neanche perché, non ne avevo motivo, non con Sabo, che era una delle pochissime persone al mondo con cui mi sentivo me stessa. Eppure, il fatto che qualcuno potesse vedere la piccola cicatrice rossiccia sulla mia gola, mi turbava. Forse perché questo rendeva tutto più... reale. Finché fosse rimasta nascosta, nessuno l’avrebbe fissata e nessuno mi avrebbe chiesto che cosa mi era capitato, e io non avrei dovuto ricordare. È incredibile come determinati fatti o determinate persone possano distruggerti la vita. Il Demone Celeste l’aveva fatto con me, e dentro, mi aveva lasciato una cicatrice molto più profonda di quella che avevo impressa sulla pelle. Ma adesso dovevo solo lasciarmi il passato alle spalle, cercare di guarire dalle mie ferite e godermi la vita. Perché ero viva. Ce l’avevo fatta. Ero una sopravvissuta. E non mi sarei più dovuta preoccupare di quel mostro. Mai più. Ero libera.
«Le cicatrici rendono le persone più interessanti. È intrigante scoprire l’enigma di quale storia ci sia dietro di esse» fece Sabo, con una punta di malizia negli occhi. Lo guardai con perplessità. Non che non fossi d’accordo, era il suo sguardo infiammato a farmi dubitare della sua sanità mentale. Per fortuna dopo qualche secondo in cui non mancò di squadrarmi attentamente, la sua espressione ritornò la sua solita. Lo vidi alzarsi dal letto e posizionarsi di fronte a me. Poi, si chinò un po’ ed io d’istinto – e con una certa dose di allarmismo – appoggiai le mani al materasso e reclinai leggermente la schiena, allontanandomi dal suo viso. Dopo l’ultima volta, avevo imparato. Non mi avrebbe infinocchiato di nuovo. Tuttavia lui non sembrò neanche accorgersi della mia mossa.
«Questa» iniziò, scostandosi di poco i capelli dal viso e portandosi la mano appena al di sotto dell’occhio sinistro «Mi ricorda di come il mare non perdoni» disse, facendo un piccolo sorriso. Sapevo che si era di nuovo perso nei ricordi. Anche il suo sfregio era stato provocato da un evento assai traumatico. Lui, però, aveva avuto la fortuna – o la sfortuna, a seconda dei punti di vista – di non ricordarsene per una decina d’anni.
«E di quanto io sia stato stupido allora...» aggiunse, amareggiato ma divertito allo stesso tempo.
«Stavi cercando la libertà che tanto bramavi. Niente è sbagliato o stupido se combatti per ciò che vuoi davvero» affermai con sguardo eloquente. Il biondo sogghignò, fiero e al contempo pensieroso. Quando nei discorsi che affrontavamo si parlava di libertà, sorrideva sempre. Sorrisi anche io.
«E comunque, se ti può consolare...» cominciai, riprendendo il filo del discorso, sollevando di poco la gonna e scoprendo la coscia, sotto lo sguardo curioso del rivoluzionario «Questa me la sono fatta in un modo molto, molto stupido. E ho anche rischiato di morire» lo informai, ridendo di quella mia piccola sventura subito dopo. Solo Sabo era capace di trasformare uno dei miei tormenti peggiori in un episodio divertente da raccontare. Con mia grande sorpresa, mi sfiorò la gamba, proprio nel punto in cui sorgeva la cicatrice.
«Non è male» constatò, con una punta di esaltazione nella voce, dopo averla osservata per un po’. Non mi chiese niente della vicenda. Supponevo che volesse scoprirlo da solo, con il tempo. Era questo che lo rendeva così affascinante ai miei occhi, e sospettavo che fosse anche ciò che rendeva le altre persone affascinanti ai suoi, di occhi.
«Nemmeno la tua» affermai tranquilla a mia volta. Tuttavia, c’era ben poco da stare tranquilli. Avevo ancora la gonna sollevata e il biondo continuava a fissarmi la coscia con un’espressione indecifrabile. Toccò di nuovo la cicatrice, disegnandone i contorni con il dito. Sussultai nel momento in cui la sua falange venne a contatto con la mia pelle. Potevo sentire il cuore martellarmi nel petto. Quasi mi sentivo soffocare. Ma quel suo gesto non mi spaventava. Dopo lo scherzetto che mi aveva giocato una settimana prima, ero pronta a tutto, e stavolta ero preparata a respingerlo.
«Le cicatrici sono parte di noi, e sono un costante promemoria di come...» iniziò, fermandosi a metà frase. Continuava a fissare la mia coscia con voluttà, era quasi come se fosse assuefatto.
«Di come?» chiesi fissandolo incerta, in un sussurro. All’improvviso mi afferrò la gamba e strinse con veemenza la carne tra le sue dita. Trasalii, smettendo di respirare per qualche buona frazione di secondo. Mi guardò. Nelle sue pupille splendeva un luccichio molto pericoloso. Senza darmi il tempo di riprendere fiato, mi prese la mandibola con una mano, premendo lievemente sulle guance e “costringendomi” ad alzare la testa. Passò rapidamente il pollice sul mio labbro inferiore e poi si avventò su di me con foga. Nel momento in cui le sue labbra toccarono le mie, il battito del mio cuore aumentò ancora ed i miei occhi si sgranarono. No. Non sarebbe dovuto succedere ancora. Io sapevo a cosa stavo andando incontro. Ero preparata. Ero pronta ad ogni evenienza. Avrei dovuto respingerlo. Avrei dovuto... ma chi volevo prendere in giro? Ero senza difese, contro di lui. Non mi dispiaceva, però. Non mi dispiaceva affatto.
Successe di nuovo. Cedetti e ricambiai il bacio. Ma, se la prima volta era stato impetuoso, questa volta fu elettrico. C’era qualcosa di decisamente diverso nell’atmosfera, qualcosa di strano che dovevo ancora classificare come positivo o negativo. Forse ero io ad essere diversa, proprio perché avevo una consapevolezza differente. Quello che era certo era che l’elettricità mi scorreva nelle vene e tutto il mio corpo vibrava di energia. Un’energia intensa e misteriosa, che mi faceva andare in confusione e annebbiava tutti i miei pensieri.
Nel momento in cui le sue labbra si staccarono dalle mie, la sua mano si spostò dietro la mia nuca e sentii tutto il suo peso addosso. I nostri corpi aderivano perfettamente l’uno all’altro ed io fui costretta ad appoggiare la schiena sul materasso per non rimanere schiacciata dalla sua mole, sicuramente più imponente della mia. Quando lo feci, in un attimo, Sabo saltò sul letto, piantò le ginocchia ai lati dei miei fianchi, si chinò verso di me e, senza neanche darmi il tempo di sbattere le ciglia, mi fu di nuovo addosso. I nostri respiri erano sincronizzati e ci muovevamo all’unisono, descrivendo onde sinuose ed indefinite con i nostri corpi, che stavano piano piano diventato un tutt’uno. Non avevo mai avuto una sintonia del genere con nessun altro, nemmeno quando mi trovavo nel mio mondo di provenienza. Sapevo solo che essere connessi in un tale modo a qualcuno era una sensazione magnifica. Liberatoria e rigenerante. Ed estremamente piacevole.
Quella sera ero andata in camera sua con l’intento di chiarire cosa avesse significato quel bacio, ma adesso mi sentivo quasi una stupida. Le cose si erano complicate ulteriormente e chiarire quello non sarebbe stato affatto semplice. Soprattutto con uno così sfuggente come Sabo. Ma al momento, inutile dirlo, non me ne importava un bel niente.
Stritolai il lenzuolo sotto di me con le dita. Ogni muscolo del mio corpo era teso, ma allo stesso tempo ero incredibilmente rilassata e cedevole. Il biondo mi baciava con una tale passione che resistere a lui e a quella tentazione era molto difficile. Avrei detto persino impossibile. Ci sapeva fare, accidenti a lui. Ed io mi premurai di lasciarlo fare. Ad un certo punto, mi afferrò per le ascelle e mi tirò su da sotto di sé, senza alcuno sforzo. In questo modo tutto il mio corpo si trovava trasversale sul materasso. Dopodiché agguantò il sotto delle mie ginocchia, le sollevò e mi divaricò le gambe. La gonna, già corta, si alzò ulteriormente, lasciando scoperto un pezzo di slip. Sussultai. Non me l’aspettavo. Tuttavia, al contrario di quello che si sarebbe potuto pensare, non provavo imbarazzo. Non tentai nemmeno di coprirmi. Per qualche secondo – che a me sembrò un tempo infinito – ci fissammo. I suoi occhi brillavano di bramosia. Avrei voluto fermarmi, ma ormai non potevo più. Ghignai. Poi, con una mossa rapida, alzai di poco il busto, intrecciai le mani dietro alla sua nuca e lo attirai a me. Ricominciammo a baciarci con veemenza, come non avevo mai fatto con nessuno. Giocavo con i suoi boccoli biondi, li stringevo con forza, al punto che mi stupii del fatto che non si lamentasse dal dolore. Sembrava noncurante di tutto, o quasi. Prima che potessi accorgermene, però, mi bloccò le mani ai lati del viso, con un tale impeto che la mia schiena rimbalzò sul materasso. Mi guardò con la stessa intensità con cui un giaguaro fissa la sua preda. In fondo, non era poi tanto diverso. Mi passò una mano sul gola, che presto scese sul mio petto. Applicò una lieve pressione sul mio sterno con il palmo, come ad impedirmi di scappare. Ma io non volevo scappare. Non adesso che le cose si stavano facendo bollenti. Il mio corpo tremava lievemente, scosso dalla voluttà. Lo pregai con lo sguardo di darmi di più. Stavolta ero io a volerlo. Si abbassò per l’ennesima volta su di me ed iniziò a baciarmi lentamente – ma non dolcemente – il collo. Brividi di piacere si diffusero presto su tutta l’epidermide e si insinuarono fin dentro le ossa. Schiusi la bocca ed iniziai ad ansimare, piano. La sua bocca slittò più in basso, fino ad arrivare tra i miei seni. E, se non ci fossero stati i vestiti ad impedire alla sua lingua rovente di imprimersi sulla mia carne, sarebbe sceso ulteriormente e sarebbe andato anche più a fondo. Le sue mani scivolavano lungo la mia pelle, e in quel momento pensai che si incastrassero perfettamente tra le curve del mio corpo. Erano ruvide ed impetuose, ma al contempo delicate; e di certo sapevano bene cosa stavano facendo. Chiusi gli occhi ed inclinai la testa all’indietro, incurvando anche la schiena, ebbra di piacere. Piccoli gemiti, che tentai invano di camuffare, partirono dal fondo della mia gola e si andarono a mescolare all’aria. Andavo a fuoco. Temevo che il mio petto sarebbe esploso da un momento all’altro. Le dita dei piedi si arricciarono, strusciando contro la suola degli stivali. Stivali che, ad un tratto, mi andavano stretti. Desideravo liberarmene. Cominciò ad ansare anche lui. Sospettavo che fosse al suo limite. Mi chiesi se si sentisse come me o se quello per lui fosse solo un semplice gioco. La sua pelle, coperta da un velo di sudore – che lo rendeva ancora più bello ed intrigante – ed un equivocabile bozzo, che fece capolino dai suoi pantaloni e si andò a scontrare con il mio ventre, confermarono la mia prima ipotesi. Tirò su il busto, staccandosi di nuovo da me.
“E adesso?” pensai tra me e me continuando a fissare il rigonfiamento sotto i suoi pantaloni, spaventata all’idea di quello che sarebbe potuto succedere. Forse ci eravamo spinti troppo oltre e nessuno dei due sarebbe stato in grado di fermarsi. Ma noi dovevamo farlo. Perché non doveva succedere. Quello era sbagliato. Era una cattiva idea. Era... incredibilmente eccitante. Maledizione. Chiusi gli occhi, nel vano tentativo di togliermi la sua immagine dalla mente, e presi un paio di respiri profondi, per cercare di calmare il pressante desiderio che stava prendendo possesso di me e di rallentare il battito cardiaco. Purtroppo fu tutto inutile. Il mio ventre bruciava di desiderio ed in quel preciso istante non potei fare altro che piegare ed allargare leggermente le gambe, dandogli inconsciamente il permesso che gli serviva per poter andare oltre. Non perse tempo e si slacciò la cintura, allentando i pantaloni ed impedendo al suo inturgidimento di tirargli la pelle ulteriormente. Sembrò leggermente sollevato dopo che ebbe compiuto quel gesto. Nel frattempo, io mi ero finalmente sfilata gli stivali e avevo tirato su il busto. Eravamo a qualche centimetro di distanza. Iniziò a sbottonarmi la camicetta dell'abito con una frenesia che faceva quasi paura. Fu lì che iniziai a titubare.
«Aspetta» feci. Tuttavia lui non si fermò. Continuò imperterrito a slacciare i bottoni della mia camicia, ora era arrivato all’ombelico.
«Aspetta!» esclamai con più convinzione, piantandogli le mani sul torace. Sentii i suoi muscoli contrarsi. Alla fine, piuttosto controvoglia, si arrestò e mi guardò.
«Che fai, ti tiri indietro proprio ora?» scherzò, anche se dalla sua voce traspariva una certa delusione.
«Io...» distolsi lo sguardo ed iniziai a scuotere la testa «Non posso» dichiarai, togliendomelo di dosso con poca grazia e arrancando fino al bordo del materasso.
«Non puoi?» mi chiese, scettico. Si era rialzato anche lui e si era messo di nuovo a sedere accanto a me.
«Non posso. Non posso. È... sbagliato.» ripetei convinta, fissando il pavimento, visibilmente in imbarazzo per la situazione che si era venuta a creare.
Il biondo si girò completamente verso di me e si sistemò sul letto, piegando ed incrociando le gambe. Con la coda dell’occhio lo vidi sporgersi di poco in avanti.
«Cami» mi chiamò. Mi voltai a guardarlo, con un’aria un po’ afflitta. Mi vergognavo per quello che era successo, infatti abbassai subito lo sguardo, soffermandomi sui dettagli della coperta che ricopriva letto, ormai visibilmente sgualcita dall'impeto dei nostri corpi.
«Per tutta la vita sei stata bloccata in un posto a cui non appartenevi e che non ti apparteneva, con persone che non ti capivano, schiava di un’identità che non era quella giusta per te» affermò. Deglutii. Le sue parole mi provocarono un tuffo al cuore. Perché erano assolutamente vere, e non pensavo che potesse pronunciarle proprio uno come lui. Eppure avrei dovuto immaginarmelo. Avevamo provato per anni le stesse sensazioni. Non per niente, quando parlò, dubitai del fatto che si stesse riferendo a me. Rialzai gli occhi e lo fissai. Non sapevo come lo stavo guardando. Forse con tenerezza, forse con comprensione, o con l’aria da cane bastonato, oppure perfino con malinconia. Non ne avevo idea, perché al momento dentro di me provavo così tante emozioni contrastanti. Avrei voluto alzarmi ed andarmene, ma chissà perché, c’era qualcosa che me lo impediva. Iniziavo a credere che sotto al materasso ci fosse una calamita.
«Se mi dirai che non vuoi o che hai altri impedimenti, ti lascerò stare. Non succederà niente e tu potrai tornartene in camera tua. Domani mattina faremo finta di niente» mi propose, serio «Ma non dirmi che non puoi perché senti che è sbagliato, Cami. Sei qui, adesso. Non sei più nel tuo mondo. Non devi cercare l’approvazione degli altri. Non è sbagliato, se lo vuoi. E mi è parso di capire che tu lo voglia» quasi mi rimproverò. Non potei fare a meno di sospirare. Non aveva tutti i torti. Ma io non sapevo cosa volevo in quel momento. Ero molto combattuta. E non ero in grado di discernere ciò che era giusto da ciò che era sbagliato. Era come se dentro di me stesse avvenendo una lotta all’ultimo sangue tra istinto e ragione; e non avevo idea di cosa scegliere. Sospirai di nuovo.
«Mi dispiace, ma non posso» mi limitai a dire evitando di guardarlo, poi mi alzai di scatto dal letto, recuperai gli stivali e mi diressi verso la porta a passo svelto, reggendomi con una mano i lembi del vestito – ormai stropicciato – per coprirmi come meglio potevo.
«Tu mi desideri, Cami» lo sentii dire, compiaciuto, quasi come se quello fosse il suo ultimo tentativo di convincermi. Mi fermai un attimo, conscia che in realtà stava dicendo la verità. Mi morsi un labbro e mi voltai a guardarlo, terribilmente indecisa. Lui era sempre lì, non si era mosso – né aveva riallacciato la cintura – ed aspettava che io prendessi una volta per tutte una decisione, a sopracciglia alzate.
No. Non potevo concedermi. Non così. Non con lui. Che ne sarebbe stato della mia reputazione? E se la mia famiglia avesse potuto vedermi? Non ne sarebbero stati orgogliosi. Per non parlare dei Pirati Heart. Se l’avessero scoperto me ne avrebbero dette di tutti o colori o peggio, mi avrebbero preso in giro a vita. Era un azzardo, era troppo rischioso. Avanzai fino al portone di legno, afferrai la maniglia e feci per girarla ed aprire la porta. Prima di farlo, però, mi umettai le labbra con la punta della lingua. Constatai con piacere che il sapore del rivoluzionario era ancora ben impresso su di esse. Dovevo ammettere che era un sapore niente male. Era proprio inebriante. E di certo non me lo sarei scordato facilmente. Sospettavo che mi avrebbe tormentato per molte notti, così come il suo odore, che aveva impregnato i miei vestiti e mi aveva mandato in confusione la testa. E anche il suo tocco. Aveva un modo di toccarmi che non aveva mai avuto nessun altro. Sapeva esattamente qual era la cosa giusta da fare al momento giusto. Ripensai alle sue parole e alle nostre conversazioni di quella sera. Il petto continuava ad ardere di passione e non sapevo come stoppare questa sensazione, quasi mi aspettavo che rompesse la mia gabbia toracica e uscisse fuori dal mio corpo, copiosa. Tamburellai le dita sulla maniglia. Il fratello di Rufy mi aveva detto tante cose. Mi aveva fatto ridere. Mi aveva fatto stare bene. E io avevo bisogno di stare bene. Di sentirmi bene. E, in quel momento, il Capo di Stato Maggiore dell’Armata Rivoluzionaria sembrava essere l’unico in grado di farmi sentire bene. Era l’unico che fosse in grado di guarire le mie ferite e risanare le mie cicatrici. Quindi, era davvero così che volevo concludere la serata?
Alla fine, diedi una piccola spinta alla porta e la richiusi. Lasciai cadere a terra gli stivali con un tonfo e mi girai lentamente verso il biondo, che mi guardava soddisfatto. In fondo, non stavo facendo male a nessuno. Come mi aveva detto prima il nuovo possessore dei poteri del frutto Mera Mera, non era sbagliato, se lo volevo. Ed io lo volevo. Eccome, se lo volevo. Lo desideravo con tutta me stessa. Non potevo continuare a negarlo, così come non potevo continuare a rinunciare a ciò che volevo per delle stupide – e talvolta irrazionali – paure.
«Al diavolo!» esclamai sogghignando allegramente, sotto il suo sguardo estremamente compiaciuto. Poi, con molta calma, sbottonai i rimanenti bottoni del vestito, quelli che ancora non aveva slacciato il rivoluzionario, e lasciai che l’indumento scivolasse sul mio corpo, per poi farlo cadere morbidamente a terra.
Ero rimasta in intimo.  La cintura metallica – che ormai avevo deciso di portare sotto i vestiti – scintillava sulla mia vita. Il ragazzo di fronte a me ghignò nell’osservare la scena. Non persi tempo e mi fiondai verso di lui. Non avevo bisogno di fingere una sensualità che non avevo, volevo solo prendermi ciò che per quella sera sarebbe stato mio di diritto. Salii sul materasso con un ginocchio, dopodiché mi sistemai a cavalcioni su di lui e gli regalai un bacio appassionato. Poi, feci scivolare le mie mani sotto al fazzoletto bianco che portava al collo ed iniziai a sbottonargli la camicia con impeto. D’un tratto, tutti quei vestiti mi davano fastidio. Erano troppi, dovevo toglierglieli di dosso. Ma non sapevo come si facesse, i suoi erano indumenti strani ed assurdi. Iniziai a tirargli il colletto, in preda alla foga. Al punto che dovette afferrarmi per i polsi e fermare la mia follia.
«Che ne è del tuo pudore? Non riesci più a contenerti?» fece, ridendo beffardo. Assunsi un’espressione corrucciata.
«Sta’ zitto» gli imposi, spingendolo sul materasso ed aspettando pazientemente che si togliesse la maglia. Quando lo fece, lo raggiunsi, sdraiandomi sopra di lui; tuttavia imprigionandogli i fianchi con le mie cosce. Prima, però, non mancai di bearmi della vista del suo petto nudo. Era proprio come piaceva a me. Era abbastanza ampio e muscoloso, ma allo stesso tempo asciutto e compatto. Più in basso, i muscoli fieri e tesi disegnavano un addome tonico e scolpito su una pelle imperlata dal sudore. Era perfetto. Tutto. Un quadro perfetto con una cornice perfetta, in una serata perfetta. Gli piazzai i palmi delle mani sui pettorali, fissandoli con occhi scintillanti e quasi trattenendo il fiato dalla soddisfazione. Potevo sentirli ribollire e fremere sotto il mio tocco. Feci scorrere le mie labbra sul suo collo e poi sul suo torace. Assaporai la sua pelle, che il lieve strato di sudore su di essa rendeva un po’ salata, e lasciai che il suo profumo mascolino mi inebriasse le narici. Stavolta toccò a lui inclinare la testa all’indietro dal piacere. Sorrisi compiaciuta. Non avevo perso il mio tocco magico.
Quando arrivai all’ombelico, però, il biondo mi afferrò i fianchi, chiedendomi implicitamente di fermarmi. Lo guardai interrogativa. Lui, di nuovo, mi tirò su per le braccia e quando i nostri visi furono a pochi millimetri di distanza, mi spostò i capelli da una parte e avvicinò la bocca al mio orecchio libero. Era davvero arrivato al suo limite. Non poteva più resistermi. E per me era lo stesso.
«Vuoi che sia delicato?» mi chiese in un mormorio. Mi leccai il labbro superiore con malizia, poi inclinai la testa da un lato, mi piegai ulteriormente verso di lui ed anche io accostai le labbra al suo orecchio.
«No.» risposi in un sussurro deciso appena udibile.
 
Quella sera, forse per la prima volta in vita mia, mi lasciai andare. Mi lasciai davvero andare alla passione. Perché con Sabo potevo farlo. E per quella notte, solo per quella notte, potevo permettermelo.







Angolo autrice
Ebbene, sì. Sono tornata! Sono molto contenta di essere finalmente riuscita a pubblicare il cinquantaduesimo capitolo di questa storia, dopo un'eternità e mezzo di stand-by. Che dire in proposito? Sono piuttosto sicura che non vi aspettavate un capitolo del genere. È un po'... particolare, diciamo. Credo si possa dire che (anche letteralmente parlando) si sia acceso il fuoco della passione, in Cami, ma anche nel bel biondino. Chissà questo a cosa porterà. Che sia l'inizio di altri guai per la protagonista? Oppure, quella tra Camilla e Sabo, è stata solo la scappatella di una notte?
Ad ogni modo, quella descritta nell'ultimo paragrafo di questo capitolo è in assoluto la prima scena dai toni "lime" che scrivo, per cui non so come possa essere venuta fuori. Spero davvero di aver reso bene il tutto. E ovviamente mi auguro che anche il resto vi sia piaciuto! Cami, adesso che sa qual è il sogno di Jasper, avrà il suo bel da fare anche con lui! A proposito del ragazzo, vi è piaciuta la sua storia? Il vostro parere in merito (positivo o negativo che sia), è sempre ben accetto! :)
Ringrazio di cuore chi continua a seguire questa fanfiction ed a recensirla! A presto! <3

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Capitolo 53
*** Conseguenze ***


«La mia testa...» mi lamentai, portandomi una mano sulla tempia. Il vino che avevo tracannato come se fosse acqua durante tutto il giorno prima cominciava a farsi sentire. Dalla finestra alla mia sinistra, iniziavano a filtrare i primi raggi di sole mattutini. Mi rigirai nel letto, senza trovare pace. Finché la mia schiena non si scontrò contro qualcosa. Aprii gli occhi di scatto, terrorizzata. Girai la testa verso destra e lo vidi. Accanto a me, c’era Sabo. Era a torso nudo, dormiva come un angioletto e non sembrava minimamente aver sentito i miei lamenti, né aver percepito i miei movimenti sgraziati.
Un pensiero molesto mi balenò in mente e mi assalì il panico. Sollevai delicatamente le coperte e guardai in basso. Eravamo entrambi nudi. Nudi. Senza alcun vestito addosso. L’unica cosa che copriva un misero lembo della mia pelle – oltre al lenzuolo – era la mia cintura.
«Oddio...» feci, atterrita. Allora non era stato un sogno. Era successo davvero. Avevamo fatto sesso! Al pensiero, non potei fare a meno di ridere. Risi di me stessa, risi della situazione assurda in cui mi ero andata a cacciare. Risi e basta. Tutto quel ridere, però, non fu una buona idea, perché mi provocò un tremendo dolore al basso ventre. Mi lamentai di nuovo e mi toccai la pancia. All’improvviso, mi ricordai. Gli avevo detto di non andarci piano con me. Un po’ me ne pentivo, ma di certo non mi ero pentita di quello che era successo, neanche per un secondo. Era stata una nottata di fuoco, come non ne vivevo da molto tempo. E dovevo ammettere che ero rinata. Davvero. Mi sentivo benissimo, testa e ventre doloranti a parte. Alzai di nuovo il lenzuolo, per dare un’altra occhiata a quel belvedere. Mi dispiaceva solo che il biondo mi desse le spalle. Non potevo gustarmi appieno il panorama. Gli poggiai delicatamente l’indice sul collo e lo feci scorrere su tutta la sua spina dorsale, finché non arrivai ad un piccolo graffio. Non potei fare a meno di sorridere. Quella notte ci eravamo lasciati andare ad una passione selvaggia e primitiva. Anche io avevo i segni di quella nostra “lotta”. Ero sicura di avere un paio di morsi sparsi qua e là per il corpo, alcuni anche in posti piuttosto compromettenti. Ma, nonostante tutto, mi era piaciuto. Mi era piaciuto eccome. Tanto che lo avrei fatto di nuovo. E di nuovo. E di nuovo... Insomma, mi era piaciuto e basta. Le mie riflessioni piccanti – ammesso che si potessero chiamare così – però, vennero interrotte da un movimento sospetto delle lenzuola. Sabo si era rigirato nel letto, si era svegliato ed ora mi stava guardando con un’espressione indecifrabile.
«Buongiorno» mugolò sorridente. Alzai un sopracciglio, perplessa. Come accidenti ci riusciva ad essere così contento di prima mattina? E perché la sua voce non era impastata dal sonno? Che fosse già sveglio da un pezzo? Senza aspettare una mia risposta, sollevò le coperte anche lui ed osservò la situazione per qualche secondo, compiaciuto. Lo lasciai fare. In fondo, aveva avuto modo di bearsi di quello spettacolo anche qualche ora prima.
«Ti ho svegliato?» gli chiesi, osservandolo pacificamente. Era innegabilmente bello. I suoi capelli erano ancora intrisi di sudore e alcune ciocche gli erano rimaste appiccicate alle tempie. Sembrava sereno, esattamente come dovevo sembrarlo io. I suoi occhi, però, seppure vispi e ricettivi, tradivano un po’ di stanchezza. Non c’era da stupirsi, avevamo dormito sì e no per quattro ore. La notte prima eravamo entrambi stremati e mi aveva detto che potevo rimanere a dormire lì, perché per lui non era un problema. Inutile dire che non mi ero fatta problemi neanche io ed avevo accettato di buon grado di coricarmi accanto a lui. Così, dopo aver finito quello che c’era da fare, avevamo spento la luce e ci eravamo addormentati.
«Allora» iniziò, girandosi verso di me e puntellandosi su un gomito. Già sapevo dove volesse andare a parare. «Ti sei divertita?» mi chiese, brioso. Roteai gli occhi e scossi la testa, evitando di guardarlo per non scoppiare a ridere. Era spavaldo anche quando si trattava di sesso, dunque. Ma sapevo essere spavalda anche io, e gli avrei tenuto testa.
«La questione non è se mi sono divertita io, ma quanto ho fatto divertire te» feci beffarda, spostando solo a fine frase lo sguardo su di lui e fissandolo con occhi da cerbiatta. Sabo aveva un gomito poggiato sul cuscino e la testa appoggiata al suo pugno, quindi la sua figura quasi mi sovrastava ed i nostri visi erano a qualche centimetro di distanza. Il rivoluzionario ghignò compiaciuto, confermando implicitamente i miei sospetti. Il mio ex fidanzato – quello che avevo nel mio mondo di provenienza – era sicuramente uno stronzo, ma mi aveva insegnato un paio di trucchetti niente male. Trucchetti che non avevo esitato a mettere in pratica con il bel biondino, che ero sicura fosse rimasto piacevolmente impressionato.
«Se affrontassi la vita come hai fatto con me stanotte, saresti invincibile» disse, lasciandomi praticamente senza parole. Non era una novità che riuscisse a stupirmi, ma quella frase mi aveva quasi sconvolto. Perché aveva ragione. Perché io, nonostante in quegli anni fossi cambiata, avevo sempre affrontato la vita con un po’ di timore. Avevo paura di sbagliare, avevo paura del giudizio degli altri, avevo paura di lasciarmi andare e di perdere il controllo. Avevo paura e basta. Per anni avevo vissuto nell’angoscia, nel dubbio. Ma la sera precedente mi ero lasciata scivolare tutto addosso. Mi ero tolta la corazza, mi ero spogliata della paura, e avevo iniziato a vivere come avrei dovuto fare da sempre. Con Sabo non ero spaventata, sentivo di non avere nulla da temere, di essere al sicuro, e mi sentivo libera di essere chi ero davvero, senza inibizioni o freni. Il biondo mi faceva lo stesso effetto che mi faceva il vino, solo che il suo era un effetto amplificato ed il piacere che ne scaturiva era superiore di almeno un centinaio di volte.
«Devo ammettere che quando ci siamo incontrati per la prima volta e mi hai detto che ero in buone mani, non pensavo a questo. Eppure...» evitai di finire la frase. Tanto aveva benissimo capito benissimo da solo. Invece, soffiai fuori con forza l’aria dai polmoni. Ancora dovevo riprendermi e realizzare pienamente. Altro che dita magiche di Law.
«Te l’avevo detto» si vantò lui. Allungai molto blandamente una mano e gli diedi un piccolo schiaffo sul torace, nel vano tentativo di ridimensionare il suo immenso ego. Mi sembrava uno di quegli animali che durante la stagione dell’accoppiamento gonfiano il gozzo per risultare più appetibili alle femmine della loro specie. Con l’unica differenza che se lui avesse gonfiato il petto, molto probabilmente sarebbe esploso dalla troppa sicurezza che aveva in se stesso. Non che la disprezzassi, anzi, mi avrebbe fatto comodo averne anche solo un quarto di quella che aveva lui. Avrei vissuto sicuramente meglio e se non altro sarei stata in pace con me stessa. Avrei decisamente dovuto prendere spunto da lui.
«Sabo» lo richiamai dopo qualche minuto di silenzio.
«Sì?» volle sapere, tornando a distendersi a pancia in su ed osservando il soffitto. Presi un respiro profondo. Quello che stavo per affrontare era un discorso abbastanza delicato.
«Quella sera, quando ero...» iniziai, ma mi fermai un attimo per pensare al giusto termine da usare «In quello stato» decisi infine di dire. Lui si girò ad osservarmi serafico.
«Quando mi hai detto che conoscevi un metodo infallibile per alleviare le mie sofferenze... era a questo che ti riferivi?» gli chiesi, fissandolo con titubanza. Lui si limitò a sbuffare una risata, ma non mi rispose. Supponevo che non gli andasse di parlare di quello al momento. Ma se era come credevo, non si era sbagliato neanche quella volta, qualche giorno fa. Di certo, quello che mi aveva proposto la notte prima era un metodo purificatore e funzionante. Fu con questo pensiero che, colta dalla stanchezza, mi addormentai di nuovo. E come me, lo fece anche il biondo.
 
Mi svegliai di soprassalto. La mia Haki si era risvegliata – di nuovo – all’improvviso e avevo percepito la presenza di qualcuno. Solo dopo qualche secondo di stordimento mi ero resa conto che l’aura della misteriosa figura era lontana da noi. Era al di là del muro che delineava le pareti della camera di Sabo e stava tranquillamente passeggiando in corridoio. L’idea che qualcuno potesse scoprirci mi rendeva nervosa ed inquieta, non volevo essere vittima del giudizio della gente o di battutine e frecciatine scomode. Ma per il momento eravamo al sicuro, non c’era nulla da temere. Così, avevo tirato un sospiro di sollievo ed ero tornata a distendermi sulla superficie del comodissimo letto del rivoluzionario. Stavo facendo del mio meglio per controllare l’Ambizione, ma purtroppo non era così facile. Spesso e volentieri si risvegliava all’improvviso ed io non sapevo come gestirla o dopo quanto tempo si sarebbe assopita di nuovo. C’era da dire, però, che non era fastidiosa come i primi tempi, anzi, adesso era quasi piacevole captare la presenza delle altre persone. Si trattava solo – come con tutte le cose – di prenderci la mano. Infatti, se mi concentravo abbastanza, potevo evocare questa mia nuova abilità durante i combattimenti contro Hack. Non ero in grado di tenerla sotto controllo a lungo e mi ci voleva parecchia concentrazione, ma facevo progressi ogni giorno che passava.
«Buongiorno di nuovo» bisbigliò il biondo accanto a me, girandosi lentamente a guardarmi. Gli sorrisi. Più lo osservavo e più mi sembrava attraente. Tuttavia non riuscivo proprio a capirne il perché. Sapevo solo che c’era qualcosa in lui che era sufficiente a mandarmi in confusione.
«Buongiorno di nuovo anche a te» risposi, stiracchiando le braccia. Il biondo continuò a fissarmi con un’espressione distesa e rilassata, ma un po’ assente.
«A che pensi?» gli chiesi, resistendo alla tentazione di allungare una mano ed accarezzargli una guancia. No. Non poteva essere così. Era successo quello che era successo, ma era stato un episodio isolato, dettato da particolari circostanze. Niente di più. Tra noi non c’era e non ci sarebbe stato altro che quello. Una sola notte di passione sfrenata.
«Sto pensando che sono riuscito in un’impresa in cui finora non era riuscito nessuno» affermò, intrecciandosi le mani dietro alla nuca e ritornando a scrutare il soffitto. Non ero sicura di voler sapere quale fosse tale impresa.
«Quale?» alla fine, vinta dalla curiosità, glielo domandai comunque. Prima di rispondermi si lasciò andare ad una risata che non faceva presagire nulla di buono.
«Ho fatto sesso con un’aliena» annunciò allegro, continuando a ridere. Soffiai una risata e scossi la testa, ma poi mi immobilizzai. Aveva ragione, accidenti a lui.
«Scherzavo» si giustificò, notando che ero piombata in uno stato di religioso silenzio e che avevo assunto un’aria pensierosa.
«No, no. In realtà hai ragione. Non l’avevo mai vista in questi termini, ma... è così» dissi cercando di sembrare convinta, con un’alzata di spalle e un mezzo sorriso. Non l’avevo mai pensata così, né ci avevo fatto troppo caso, ma effettivamente ero quella che poteva essere considerata un’aliena a tutti gli effetti. E adesso che avevo l’occasione di rifletterci, mi ero sempre sentita un po’ l’E.T. della situazione. Non avevo un dito in grado di emettere luce, ma qualche giorno prima anche io avevo avuto un attacco di nostalgia stile “telefono casa”. Per fortuna, almeno, comunicare non era un problema, e le persone che mi stavano vicino non rischiavano di prendersi una malattia infettiva. Mi trovavo piuttosto bene lì, solo che provavo sempre una lieve amarezza data dalla mancanza dei miei cari.
«Spero vivamente che il Governo Mondiale non lo scopra... Non voglio finire a fare la cavia da laboratorio per i loro esperimenti malsani» dichiarai, leggermente disgustata all’idea. Sentii Sabo ridere appena. Che cosa ci trovasse da ridere nelle mie parole, era un mistero.
«Non succederà. I tuoi amici ti proteggerebbero a tutti i costi» affermò il biondo. Sospirai.
«Probabile» considerai, piegando la testa da un lato. Non ero del tutto sicura che Law lo avrebbe fatto a qualunque costo, ma se non altro non se ne sarebbe stato con le mani in mano. Eppure il fratello di Rufy sembrava così sicuro quando l’aveva detto. Che sapesse qualcosa che io non sapevo? Che mi stesse sfuggendo qualcosa? Oppure era convinto che i miei compagni fossero come quelli del suo fratellino?
«A proposito di amici...» iniziai, ricordandomi di una questione molto importante «Noi, esattamente... cosa siamo?» gli chiesi, trattenendo il respiro. Un po’ mi spaventava l’idea di saperlo.
«Ha importanza?» volle sapere, rigirandosi nel letto, scostando le coperte e mettendosi a sedere sul bordo del materasso. Persino la sua schiena era stupenda. Così liscia e levigata. I muscoli sembravano scolpiti nel marmo da Michelangelo in persona. Scossi rapidamente la testa, cercando di riprendermi.
«Beh, sì. Ha importanza» replicai, un po’ stizzita. Lui riusciva a farsi scivolare tutto addosso. Per fortuna, qualcuno di noi riusciva a farlo.
«Possiamo essere quello che vuoi» fece, con voce suadente. Sbuffai con forza nel sentire le sue parole.
«Il fatto che tu sia così enigmatico non ti rende sexy, o intelligente» affermai infastidita «Ma solo un idiota incredibilmente fastidioso» specificai poi, tirandomi su ed appoggiando la schiena alla testiera del letto. Con una mano reggevo il lenzuolo – aderente al mio corpo – in modo tale che mi coprisse i seni.
«È stato strano farlo con quella tua cintura» disse, cambiando argomento all’improvviso e facendomi roteare gli occhi per la millesima volta quella mattina.
Alla fine mi abbandonai ad una risata. Dopotutto, era fatto così. Supponevo che fossimo semplicemente due amici. O conoscenti. Non era cambiato assolutamente niente dopo la notte precedente.
«Però, sono disposto a concederti il secondo round alieno» propose, girandosi verso di me con un sorrisetto furbo.
Alzai un sopracciglio, scostai rapidamente le lenzuola e mi misi a sedere sul bordo del letto.
«Chiariamo una cosa» cominciai, raccogliendo il vestito da terra «Io adesso me ne tornerò in camera mia e mi farò una lunga e rilassante doccia. Nel momento in cui uscirò da questa stanza, sarà come se stanotte non fosse successo nulla. Tu non ne farai parola con nessuno e la cosa non si ripeterà più» dichiarai decisa, infilandomi l’indumento striminzito che mi aveva gentilmente prestato Koala.
«Se devi fare la doccia, possiamo farla insieme» ritornò alla carica, provocandomi un po’. Evitai di guardarlo e continuai a dargli le spalle, consapevole che così sarebbe stato più facile resistergli. Poi, quando mi fui infilata anche lo stivale sinistro, raccolsi le bottiglie vuote sparse per la camera – rimaste lì dalla sera prima – mi alzai e mi diressi verso la porta, lasciandolo a bocca asciutta.
«Buona giornata» lo salutai, ghignando «E mi raccomando. Silenzio stampa.» gli imposi, assumendo un’espressione che non ammetteva repliche.
Non aspettai la sua risposta ed uscii dalla stanza, richiudendomi la porta alle spalle. Avevo deciso di fidarmi di lui.
 
Alzai la testa e mi ghiacciai a pochi passi dalla soglia della camera di Sabo. A qualche metro di distanza da me, c’era Hack, che mi fissava con uno sguardo a metà tra il perplesso e il contrariato. Cercai di sfoggiare un sorriso che sembrasse il più innocente possibile.
Boccheggiai un paio di volte prima di riuscire a dire qualcosa di concreto. Era in momenti come questo che mi sarei data volentieri una martellata in testa. Perché diavolo non mi ero tolta la cintura prima di uscire!? E dire che ero fortunata ad avere questo vantaggio sugli altri esseri viventi appartenenti a quel mondo. Eppure, così come sul sottomarino evitavo come una stupida di chiudere a chiave la porta della mia stanza – nonostante fossi ben consapevole dei rischi che correvo a lasciarla aperta – qui mi dimenticavo sempre di togliere la cintura. Ero proprio una masochista recidiva.
«Non è come sembra» tentai infine di giustificarmi. Ora, le mie parole non erano tanto credibili. Stavo sgattaiolando fuori dalla stanza di un ragazzo di mattina, con i vestiti sgualciti, i capelli spettinati e quattro bottiglie vuote di superalcolici in mano. Chiunque avrebbe fatto fatica a credere a qualsiasi spiegazione che non fosse la più ovvia. Non per niente, l’uomo-pesce alzò un sopracciglio ed io andai nel panico per qualche secondo.
«Ero andata da Sabo per...» iniziai, visibilmente a disagio e senza avere la più pallida idea di che dire. Hack continuò a fissarmi quasi con perplessità.
«Un rapporto!» farfugliai infine, strabuzzando gli occhi e stupendomi della mia stessa inventiva «Un rapporto dell’ultimo minuto, ma urgente» precisai poi, cercando di mostrarmi sicura. Sperai che mi credesse. Anche perché tecnicamente non avevo mentito. Quello che era successo tra di noi la sera prima si era trattato davvero di un rapporto. Solo, non del tipo che poteva immaginarsi il rivoluzionario in piedi davanti a me, che infatti fece quello che mi parve uno sbuffo.
«Ti aspetto al campo tra mezz’ora» mi avvisò, tassativo, superandomi e bussando educatamente alla porta del biondo «E ti è saltato un bottone del vestito» aggiunse tranquillamente mentre fissavo tutta la scena con l'espressione da ebete. Quando entrò nella stanza del suo compagno, spostai lo sguardo in basso e lo notai. Aveva ragione il rivoluzionario. Mi era saltato un bottone. Sabo, travolto dalla passione della sera prima, doveva aver slacciato il vestito con un po’ troppo impeto.
«Merda!» sibilai a denti stretti. Koala si sarebbe sicuramente arrabbiata se lo avesse visto. Non potevo neanche rivelarle il reale motivo del perché fosse saltato un bottone. Dovevo assolutamente escogitare qualcosa, o sarebbero stati cavoli amari per tutti. Maledettissimo Sabo. Riusciva a mettermi nei guai anche senza volere. E come se non bastasse, quella mattina avrei dovuto allenarmi con quel negriero. Ero quasi tentata di non fare la doccia, tanto poi avrei dovuto rifarla una volta conclusa la sessione d’addestramento. L’addestramento! Ma certo! La soluzione era chiarissima. Se la mia amica avesse visto il vestito prima che fossi stata in grado di ripararlo, avrei dato la colpa ad Hack e ad uno dei suoi allenamenti. Il mio ragionamento – che al momento credevo geniale – non faceva una piega, al contrario dell’abito sgualcito che indossavo. Sorrisi compiaciuta e mi sbrigai a ritornare in camera mia – sperando e pregando di non essere vista da nessun altro – consapevole che quella sarebbe stata una giornata infernale.
 
Schivai l’ennesimo pugno che provò a tirarmi Hack. Adesso che riuscivo a controllare meglio l’Ambizione, non gli avrei permesso di colpirmi. Nonostante la benda che avevo sugli occhi, riuscivo a percepirlo. Percepivo la sua presenza, i suoi movimenti e le sue intenzioni. C’era molto più gusto a combattere così, sebbene fossi consapevole di non essere minimamente al livello dell’uomo-pesce. Non mi sognavo neanche di sconfiggerlo, ma se non altro potevo provare a contrastarlo. Ci fu un rapido corpo a corpo in cui provai a sferrargli un calcio rotante, ma dovetti rinunciare nel bel mezzo del movimento che mi ero accinta a compiere, dato che un fastidioso bruciore all’inguine mi impedì di utilizzare il colpo alla sua piena potenza. Di nuovo, Sabo e quello che era successo la notte prima tornavano indirettamente a tormentarmi. Così, optai per l’opzione più semplice, mi allontanai di qualche metro.
«Karate degli Uomini-pesce: Pugno delle 200 tegole!» annunciò all’improvviso il mio addestratore. “Pugno delle 200 tegole”!? Non ero preparata per una cosa del genere! Non avevo idea di come fare per parare quell’attacco o per respingerlo. Mi bloccai, mentre un’aura bianca veniva verso di me a gran velocità. Tutto ciò che riuscii a fare, fu togliermi la benda con uno scatto e fare un salto all’indietro per ritardare il colpo. Ma il rivoluzionario era più veloce di me, ed il suo pugno era ancora più rapido di lui. Feci appena in tempo ad incrociare le braccia davanti al volto per proteggermi dalla potenza dell’impatto. Riuscii solo ad intravedere il suo braccio che si allungava verso di me. Poi, ci fu un rumore sordo e raccapricciante. Crollai in ginocchio, tenendomi il polso sinistro con l’altra mano e sistemandomelo in grembo. La vista si oscurò per qualche secondo. Ansimai, tremai e gemetti, preda di un dolore fortissimo. Mi chinai in avanti ed appoggiai la fronte sul terreno. Quasi piansi, per l’intensità delle fitte di cui era preda il mio braccio. Iniziai a soffiare aria dai polmoni senza sosta, per cercare di sopportare meglio la sofferenza. Violenti e dolorosi crampi iniziarono a diffondersi dal gomito fino alla punta delle dita, che non accennavano a smettere di formicolare. Con quel pugno, Hack aveva mandato a puttane tutto. Tutto. Lo sentii chinarsi verso di me, appoggiarmi una mano sulla spalla e balbettare delle scuse.
«Mi dispiace, ho esagerato. Pensavo fossi pronta, invece mi sbagliavo» si scusò, con una leggera punta di apprensione nella voce «Per oggi, è meglio se smettiamo di allenarci. Riprenderemo domani, con calma» affermò poi, rialzandosi.
«Forse è meglio se passi in infermeria» mi consigliò mentre si allontanava da me. Io lo ignorai e rimasi ferma a terra per qualche altro minuto, respirando a fatica e massaggiandomi il polso facendogli compiere movimenti circolari per tentare di riattivare la circolazione. Aprii e chiusi la mano più volte, cercando di far cessare quei fastidiosi crampi. Continuai a mugolare ancora per qualche minuto, dopodiché mi decisi finalmente a rialzarmi da terra. Quando lo feci, non mi stupii nel constatare che facevo un po’ di fatica a stare in piedi. Quello con il pugno dell’uomo-pesce era stato un impatto forte, troppo forte affinché il mio corpo – già abbastanza provato – potesse sopportarlo. Emisi un debole respiro tremante e scossi la testa, mettendomi a sedere sulla prima roccia utile. Restai lì per un po’, terrorizzata all’idea che il mio polso potesse non guarire più del tutto. Un colpo. Un solo colpo era bastato a mandare all’aria tutti i miei progressi e tutta la mia fatica. Aveva cancellato tutto, sicurezza compresa.
 
«Non capisco come cucire un bottone possa aiutarmi a diventare un buon medico» sbuffò il ragazzo, visibilmente deluso «Non sarebbe meglio se mi insegnassi come si usa un bisturi?» chiese poi, con occhi speranzosi. Nel sentire le sue parole non potei fare a meno di sospirare.
«Se tu fossi un paziente, ti faresti operare o anche solo curare da un ragazzino che non sa le basi della medicina?» chiesi, con un’espressione eloquente.
«Ma io le so le basi della medicina. Ho letto i libri» si lamentò Jasper. Scossi la testa, risi e mi alzai in piedi. Constatai con piacere che in quel momento sembrava aver perso tutti gli anni che lo rendevano eccessivamente maturo. Stavo facendo un buon lavoro, stavo riuscendo a farlo ritornare bambino.
Dopo quello che era successo quella mattina, avevo fatto un po’ di fatica a riprendermi, così, avevo pensato che la soluzione migliore fosse passare del tempo con un vecchio amico. Avevo evitato Sabo come la peste, perché quando stavo insieme a lui non succedeva mai nulla di buono. Per tirarmi un po’ su di morale, avevo escogitato un metodo niente male che mi permetteva di prendere due – se non tre – piccioni con una sola fava. Dal momento che non ero capace di ricucire il bottone mancante – che avevo ritrovato per miracolo sul pavimento della stanza del biondo all’ora di pranzo, ora in cui il rivoluzionario non era in camera sua neanche se lo avessero pagato per rimanerci – al vestito di Koala e che di me non ci si poteva fidare quando si trattava di stoffa, con la scusa di insegnare a Jasper come fare le suture, gli avevo detto di venire il pomeriggio in infermeria e lo avevo messo all’opera con ago e filo. Quasi mi stupivo di me stessa, stavo diventando sempre più geniale. Non che mi fidassi del tutto del ragazzo, ma di certo era molto più affidabile e competente di me. Io potevo essere chiamata in causa solo se si trattava di rattoppare tessuti umani.
«La medicina è un’arte. È qualcosa che ti scorre nelle vene, proprio come il sangue. La devi sentire. Gli strumenti chirurgici non devono essere dei semplici attrezzi che tieni in mano e muovi sapientemente per aprire e tagliuzzare carne umana su un tavolo operatorio. Li devi percepire come una parte di te, come se fossero un’estensione del tuo corpo» spiegai, avvicinandomi a lui ed iniziando a far scorrere due dita sul suo braccio, percorrendolo al contrario, dalla mano fino alla spalla. Lo osservai divertita mentre cercava di nascondere i brividi e mi fissava con estrema perplessità.
«Adesso mi dirai che pillole e pasticche sono come le note musicali» fece sarcastico, roteando gli occhi e sottraendosi alle mie solleticanti dita.
«Non proprio» affermai, sorridendo compiaciuta, superandolo e chinandomi per appoggiare i gomiti al tavolo metallico. Piegai la testa con fare teatrale e lo guardai con un bagliore negli occhi «Sono come le meccaniche di una chitarra. Quando uno strumento musicale non è ben accordato, il suono che ne esce risulta poco armonioso. Accade lo stesso con il nostro corpo. Quando c’è qualcosa che non funziona bene, è necessario somministrare le giuste medicine per far sì che esso torni a produrre la giusta melodia. È questo che fanno i medici quando prescrivono un medicinale. Si tratta di saper accordare un corpo umano che ha qualche problema a funzionare nel modo giusto» parafrasai, orgogliosa di me stessa per la metafora che ero riuscita a tirare fuori.
Aggrottò la fronte, ancora più perplesso di prima. Non poteva capire ancora, ma con il tempo e con i giusti insegnamenti ci sarebbe arrivato.
«Non perdiamo tempo in chiacchiere, cuci» gli imposi, indicando il vestito e stroncando così sul nascere una conversazione che avremmo dovuto affrontare più avanti. Dopo un paio di sbuffate, alla fine si convinse e si mise all’opera.
 
«Secondo te qual è il colore adatto del filo da usare?» mi domandò, dopo qualche minuto passato a scrutare attentamente la vasta gamma di colori disponibili. Apprezzavo il fatto che prendesse sul serio la questione. Forse le mie parole avevano funzionato e lo avevano convinto. Mi avvicinai con fare pensieroso alla scatola dove i rivoluzionari tenevano fili, gomitoli, matasse e quant’altro in modo disordinato. Chi l’avrebbe mai detto che l’Armata Rivoluzionaria disponesse di filo da cucito e di altri materiali? Eppure, c’era da aspettarselo. Appena un mese prima avevo scoperto l’esistenza del bar nella loro base, e da quel momento ero piuttosto sicura di aver consumato una quantità di vino che da sola valeva la metà del loro consumo annuo di alcol.
«Fingiamo per un attimo che tu sia un chirurgo e che stia richiudendo il paziente dopo aver completato un’operazione. Quale filo sceglieresti per farlo?» gli chiesi. L’apprendimento attivo era il miglior metodo di apprendimento che si potesse usare in un campo come quello della medicina. Me lo aveva insegnato Law, con le sue raccapriccianti autopsie e le sue operazioni a sorpresa.
Jasper sembrò rifletterci un attimo, poi venne a capo del dilemma.
«Il vestito è violetto, per cui direi... questo lilla» decretò, prendendo in mano il filato avvolto giusto.
«Ottima scelta» commentai, allontanandomi da lui per lasciarlo lavorare in pace, tuttavia continuando a supervisionarlo meticolosamente. Se avesse fatto anche il minimo errore e Koala se ne fosse accorta, mi avrebbe tritata in pezzi così piccoli che neanche il mio capitano sarebbe stato in grado di riconoscermi. Almeno, così pensavo io. Magari la ragazza si sarebbe mostrata compassionevole, dolce e comprensiva come sempre. Nel dubbio, sarebbe stato meglio non rischiare e sperare che Jasper svolgesse un lavoro impeccabile come mi aspettavo che facesse.
Fu una mezz’ora di incredibile tensione, sia per me che per il mio aiutante, a cui in realtà avevo affibbiato tutto il lavoro “sporco”. Al punto che un paio di volte avevo dovuto anche asciugargli le goccioline di sudore dalla fronte con una pezza e riposizionare la lampada scialitica – perché sì, per rendere il tutto più credibile avevo deciso di usare la lampada scialitica – affinché vedesse meglio. Ma alla fine l’avevamo sfangata. Avevamo vinto noi. Ed il bottone sembrava tornato come nuovo. Il mio nuovo allievo preferito – nonché unico allievo che avessi mai avuto – doveva solo tagliare il filo con le forbici e poi era fatta.
«Ahi!» lo sentii lamentarsi. Scattai in piedi ed andai subito in suo soccorso. Si era fatto un piccolo taglio sul dito, era stato poco attento. Situazioni come questa mi inducevano a pensare che era meglio non cantare vittoria troppo presto.
«Fa’ vedere» gli dissi, infastidita dal fatto che facesse resistenza mentre tentavo di controllargli la ferita. A quel poco che avevo potuto vedere, era un semplice taglietto, ma andava disinfettato e coperto.
«Non è niente di che» fece lui risentito, ritraendo la mano di scatto al mio ennesimo tentativo di esaminargli il dito. Sbuffai. Mi rendeva tutto così difficile quando si trattava di farsi curare.
«Senti» iniziai spazientita «Ti devo disinfettare il taglio. Puoi continuare a fare i capricci oppure fare l’uomo e lasciarti medicare. Oltretutto, ti garantisco che se una sola goccia di sangue finisce sul vestito, il dito sarà la tua preoccupazione minore.» tuonai minacciosa.
«D’accordo. Ma solo perché così posso imparare qualcosa» si arrese alla fine. Annuii convinta e mi diressi verso l’armadietto dei medicinali appeso alla parete. Recuperai il disinfettante, un po’ di cotone, delle garze e dei cerotti, il tutto sotto lo sguardo vigile di Jasper.
Stappai l’antisettico con un po’ di emozione. Era da tanto che non avevo occasione di utilizzare le mie abilità mediche. Era una manovra elementare, che chiunque avrebbe saputo eseguire, ma ero lo stesso felice di aver la possibilità di tornare ad operare sul campo.
Disinfettai e pulii la piccola ferita senza intoppi. Il problema arrivò quando si trattò di applicare il cerotto. Mentre toglievo la plastica adesiva, iniziai ad avvertire un crescente dolore al polso, che poi cominciò anche a tremare pericolosamente. Lo fissai con preoccupazione, sperando che il ragazzo di fronte a me non si accorgesse di nulla. Il tremore non accennava a smettere o a diminuire. Chiusi la mano a pugno, sperando che così potesse passare, ma non funzionò.
«Perché non ti applichi il cerotto da solo? Così fai pratica» gli proposi. Cercai di mascherare il mio malessere con una voce sicura e atteggiandomi da persona perfettamente consapevole di ciò che stava facendo, ma la verità era che ero terribilmente angosciata. Il cuore prese a palpitarmi nel petto ad una velocità impressionante, al punto che per qualche secondo mi vennero le vertigini. Per fortuna il mio paziente temporaneo accettò di buon grado la mia proposta e mi prese il cerotto dalle mani.
Non persi altro tempo. Mi alzai di scatto, mi diressi verso il mobile che i rivoluzionari usavano per conservare i referti medici e tirai fuori la cartella contenente le mie radiografie al polso. Poi, posizionai la lampada scialitica un po’ più in alto e mi misi ad osservare le lastre controluce. Le avevo osservate tante volte, così tante che avrei saputo designare i contorni delle mie ossa a memoria, ma adesso mi sembrava tutto senza senso. Il polso sembrava ridotto mille volte peggio di quanto molto probabilmente fosse in realtà. E ognuna delle ossa discostate sembrava una strada senza via d’uscita. Una strada che mi portava verso l’oblio e che mi allontanava sempre di più dal mio sogno di diventare un bravo chirurgo. Mille pensieri mi passarono per la testa in pochi secondi. Era quella la fine della mia carriera? Dopo tutta la fatica che avevo fatto per arrivare a quel punto, avrei dovuto rinunciare al mio sogno? Ero arrivata al capolinea? Erano davvero bastati cinque secondi ed una sola mossa del Demone Celeste per porre fine a tutto?
«Ho finito. Guarda come sono stato bravo!» si compiacque ironicamente Jasper, piazzandomi l’indice incerottato a due centimetri dal naso ed interrompendo la mia minuziosa osservazione.
«Sì, sì. Bravo» dissi distrattamente, allungando il collo per mettere di nuovo a fuoco le radiografie.
«Wow» si meravigliò il ragazzo, che si era sistemato dietro di me e stava squadrando le lastre da sopra la mia spalla «Di chiunque sia quella radiografia, quel polso sembra messo molto male» commentò, peggiorando involontariamente la situazione.
«Non adesso, Jasper.» sibilai, assumendo un’espressione corrucciata. Sentivo il petto e gli occhi bruciare di rabbia e frustrazione. Il polso sinistro continuava ad essere scosso da potenti tremori.
«Ma...» provò ad obiettare; io, però, non lo lasciai finire.
«Non adesso.» gli imposi, con la mascella serrata.
Stavolta capì, perché si chetò e lo sentii allontanarsi da me.
«Allora io vado. Ti lascio il vestito sul tavolo» mi comunicò, tuttavia lo ignorai. Quando sentii la porta richiudersi e fui sicura che se ne fu andato, appoggiai le lastre sul tavolo di metallo davanti a me. Ero così furiosa che temevo che le gambe non avrebbero retto il peso del mio corpo. Mi misi a sedere, cercando di calmarmi. Avevo il respiro affannato, le pulsazioni accelerate e le narici dilatate al massimo. Iniziai a tamburellare le dita sul tavolo e a digrignare con forza i denti, al punto che avrei potuto consumarli. Fissavo un punto imprecisato di fronte a me, senza trovare pace. Dentro di me si era fatta strada una voce che non riuscivo a placare in nessun modo, una voce che diceva che era tutto perduto, che era andato tutto a farsi fottere. Mi guardai nervosamente intorno. Non c’era nessuno. Ero sola. Law non c’era. In quel momento avrei davvero avuto bisogno di lui. Anche solo della sua presenza, di averlo accanto. Lui era l’unico che sarebbe stato in grado di gestire una situazione del genere e di rassicurarmi. Perfino con il suo silenzio sapeva come colmare questo vuoto nel petto. Invece non c’era. Dove cazzo era quando avevo bisogno!?
Mi alzai con un potente scatto. La sedia, dietro di me, strusciò per qualche metro e cadde a terra con un tonfo. Fissai con disprezzo le lastre sparse sul tavolo davanti a me per alcuni secondi, poi, mi avventai su di loro e, grugnendo poco elegantemente, le scaraventai in aria con energia, trascinando le mani sulla superficie metallica. Non me ne fregava niente del dolore al polso o del protocollo medico, tanto era andato tutto a puttane lo stesso. Un paio di urli sommessi partirono dalla mia gola. Non era sofferenza o tristezza, o disperazione. Era rabbia. Una rabbia così profonda e reale che avrei quasi potuto toccarla.
«Dieci anni! Ho sacrificato dieci anni della mia vita per guarire!» esclamai, furiosa.
«Dieci fottutissimi anni di vita! E non ha funzionato!» gridai, sbattendo subito dopo i pugni sul tavolo con forza. Ero così infuriata che neanche sentii dolore. La superficie a specchio traballò, tanta era la potenza con cui mi ci ero riversata contro.
«Dopo tutto quello che ho fatto, cazzo!» mi sgolai. Uno passava una vita a costruirsi un futuro, a lottare per un sogno, a investire tempo, energie, fatica, sudore e lacrime per conseguire un obiettivo, e veniva spazzato via tutto in un attimo; bastavano pochi secondi per demolire tutto. Strinsi i pugni fino a conficcare le unghie nella carne. Il polso sinistro ancora tremolava. Adesso capivo che cosa voleva realmente dire Doflamingo il giorno del nostro incontro nelle prigioni sotterranee. Iniziai a scuotere la testa con forza. Non potevo cancellarlo. Per quanto ci provassi, lui sarebbe sempre stato bloccato dentro di me. La sua figura avrebbe sovrastato la mia e dominato i miei incubi, e la sua ombra sarebbe stata incollata alla mia pelle per sempre. Non avevo dove rifugiarmi. Non potevo scappare. Non da lui e dal suo ricordo. Aveva ragione. Non potevo cancellarlo. Non potevo cancellarlo.
Un senso di puro terrore iniziò a farsi strada in me. Se non potevo eliminarlo dalla mia testa, dalla mia anima, di conseguenza non potevo neanche guarire. Almeno, non fino in fondo. In quei mesi mi era passato più volte per la testa un pensiero molesto, che tuttavia avevo deciso di ignorare per rimanere positiva. Ma ora non potevo più ignorarlo, così come non potevo più restare positiva. Perché... che avrei fatto se avessi dovuto rinunciare alla mia carriera di chirurgo per colpa di quel maledetto tremore al polso?
«Cazzo. Cazzo. Cazzo. Cazzo. Maledizione!» imprecai, piegandomi in avanti e strillando contro un nemico invisibile ed intangibile. Se qualcuno mi avesse sentito, da fuori, avrebbe pensato che fossi posseduta da un demone. Ma non era così. Ero arrabbiata, e avevo tutto il diritto di esserlo. E poi, non mi interessava. Per quanto mi riguardava potevano anche stare accalcati fuori dalla porta in massa ad origliare. Non avrebbe fatto alcuna differenza. Non avrei smesso di essere arrabbiata o di urlare.
Un paio di lacrime provarono a scendere lungo le mie guance, ma io le ricacciai prontamente indietro. Mi morsi un labbro con forza, finché non sentii un sapore metallico in bocca. Passai la lingua sopra il taglio che mi ero appena fatta per togliere il sangue. Mi bruciava. Bruciava tutto, ogni centimetro del mio corpo. Mi sembrava di stare attraversando l’Inferno. Anzi, mi sembrava di avere l’Inferno dentro. Comunque la si mettesse, stavo vivendo un incubo. Un incubo da cui cominciavo a credere che non sarei più uscita. Non avrei dovuto farlo. Non avrei dovuto darla vinta ai mostri che portavo dentro me stessa. Eppure, più provavo a contrastarli, più loro diventavano potenti. Forse era giusto che fosse così. E anche se non potevo e non volevo arrendermi, potevo pur sempre allentare un po’ la presa. Solo per un attimo. Solo per riposarmi da quella pressante stanchezza interiore che mi portavo dietro da mesi. Se mi fossi schierata dalla loro parte e avessi accettato l’accaduto, magari avrei finalmente trovato un po’ di pace interiore. Ma non potevo farlo. Non potevo lasciare che qualcosa che era una mera proiezione della mia testa si mettesse tra me e i miei sogni. Gli stessi sogni per cui avevo lavorato così duramente.
Presi un paio di respiri profondi per cercare di tranquillizzarmi, dopodiché mi passai le mani tra i capelli e le lasciai lì per un po’. La mano sinistra oscillava ancora sopra la mia testa.
«Smettila di tremare, dannazione!» strillai, fissandomi il polso. Come se la colpa si potesse attribuire ad un polso. Tutta quella situazione di merda non era colpa mia. Law me l’aveva detto, tempo addietro, ma io non avevo voluto ascoltarlo. Mi aveva detto che ci sarebbero state delle conseguenze per il mio gesto apparentemente sconsiderato, eppure io non gli avevo creduto. Ma aveva ragione, come sempre. E adesso avrei tanto voluto che fosse accanto a me per risolvere quell’enorme problema. Perfino un “te l’avevo detto” sarebbe andato bene, purché fosse uscito dalla sua bocca. Lui, però... non c’era. Ed era colpa sua. Era tutta colpa sua! Lui mi aveva fatto amare la chirurgia, lui mi aveva insegnato tutto quello che c’era sapere, lui aveva creduto nelle mie potenzialità e fatto di me ciò che ero. E poi, indirettamente, aveva distrutto tutto nel giro di qualche minuto. No. Non dovevo incolparlo per questo. Avevo scelto io di intervenire nella battaglia contro il suo arcinemico, e avevo scelto implicitamente di assumermi le conseguenze di quel mio gesto. Ciò, però, non significava che pensavo che tutto ciò fosse giusto. Quasi mi venne da ridere dal nervoso. Era proprio vero che le buone azioni non restavano mai impunite.
«Basta.» decretai disgustata, scuotendo la testa. Non avrei più gridato, non mi sarei più arrabbiata. Non gliela avrei data vinta. Sarei uscita da quella situazione, con l’aiuto di qualcuno o meno. Non mi importava più niente. Lo dovevo a me stessa e a nessun altro.
Spensi la lampada scialitica e mi avviai verso la porta. Non pensai neanche per un secondo di rimettere a posto le radiografie. Non erano le lastre che avevano bisogno di essere rimesse a posto, comunque. Ero io quella che aveva bisogno di ritrovare se stessa. Ancora una volta, tornava in gioco il mio capitano. Prima di partire mi aveva detto di ritrovare me stessa. E ancora una volta, aveva avuto ragione. Solo che stavolta non sapevo se sarei stata in grado di farlo. Non sapevo se ne avrei avuto le forze.
Diedi un calcio alla sedia che era caduta in terra qualche minuto prima, spostandola di lato e liberando il passaggio verso la porta.
«Spero che tu sia consapevole di ciò che hai fatto, Stella.» sputai, uscendo dalla stanza.
 
Bevvi un generoso sorso di vino, dopodiché staccai le labbra dal collo della bottiglia – ancora mezza piena – e la poggiai in terra, a lato della porta che dava sull’enorme balcone. Ero sicura che lo avrei trovato lì. Gli piaceva stare su quel terrazzo. Soprattutto di sera, quando poteva osservare le stelle e contemplare in silenzio la meraviglia dell’infinito cielo notturno. Mi lasciai andare ad un piccolo sorriso, prima di iniziare a camminare verso di lui. Era di spalle, appoggiato con i gomiti alla balaustra ed il capo leggermente sollevato per fissare il cielo. Anche se non potevo vederlo, ero sicura che avesse il volto disteso. Mentre mi avvicinavo a lui, mi ritornò in mente il ricordo del nostro bacio appassionato, che era avvenuto ad appena pochi metri dalla posizione in cui si trovava ora il biondo. Quella era stata una bella notte.
«Hai ripensato alla mia offerta?» mi chiese Sabo, senza girarsi, con una punta di malizia nella voce. Non c’era bisogno che si voltasse perché capisse che si trattava di me. Dopotutto, gli unici a venire su quel terrazzo eravamo io, lui e Dragon. E di certo il capo dell’Armata Rivoluzionaria aveva un passo più felpato del mio. O più pesante, dipendeva dalle occasioni.
«Quale offerta?» domandai a mia volta, un po’ confusa.
«Quella di concederti il secondo round alieno» rispose divertito, sempre continuando a scrutare il cielo. Sbuffai.
«Non sono in vena di stronzate, stasera» feci contrariata, raggiungendolo e posizionandomi alla sua destra. Solo allora si voltò a guardarmi.
«Senti...»  iniziai prendendo un respiro profondo «Lo so che ho detto che sarebbe stata una cosa da una notte sola, ma...»
«Non dire altro» mi interruppe, girandosi completamente verso di me e sorridendo. Non era un ghigno provocatorio, solo un sorriso sincero. Forse aveva capito. Aveva capito che il mio non era un semplice capriccio e che quello che gli avevo chiesto – o meglio, che avevo tentato di chiedergli – non era dato dal mero fatto che non sapessi resistergli o che lo desiderassi. Aveva capito che avevo davvero bisogno di distrarmi in qualche maniera. E quello, al momento, era il solo modo che avevo a disposizione che potesse realmente funzionare. Nemmeno il vino era stato in grado di risolvere il problema. Sabo era la mia unica opzione. La mia unica via d’uscita. E quella che fino a quella mattina mi era sembrata una cattiva idea, adesso per me era la salvezza. In fondo, il biondo un po’ ci teneva a me. Ne avevo avuto la conferma quando avevo notato che per qualche secondo mi aveva fissato il labbro inferiore, nel punto in cui una piccola quantità di sangue rappreso aveva formato una minuscola crosta. Quando aveva finito di osservare il taglio, aveva sorriso impercettibilmente, con lo stesso sorriso di chi la sa lunga sull’argomento. Come avesse fatto a rendersene conto con quel buio, era un mistero anche per me. Prima che potessi scoprirlo, però, mi baciò. Fu un bacio meno passionale rispetto a quelli che ci eravamo scambiati in precedenza ed in un certo senso più dolce. Ma non per questo meno speciale.
Gli poggiai delicatamente una mano sulla guancia e lo baciai anche io, alzandomi sulle punte dei piedi per avvicinarmi di più al suo viso. Chiusi gli occhi. Con quel bacio, solo con quel bacio, fu capace di farmi dimenticare la mia giornata storta. Sembrò perfino cancellare tutti i miei errori e tutta la mia sofferenza. Sabo fece scivolare le sue mani dal mio collo fino ai miei fianchi e mi cinse la vita con le braccia. Percepivo il suo respiro sulle mie labbra. Ne avevo bisogno, come se quel gesto potesse ridarmi la vita. La vita giusta per me, quella che mi spettava e che avrei dovuto vivere. Avevo bisogno del suo contatto, di sentire il suo calore sulla mia pelle. Le nostre lingue si intrecciavano alla perfezione ed andavano a disegnare motivi astratti sui nostri palati. Motivi che parlavano di passione, di avventura, di fiamme mai estinte.
Quello fu un bacio purificatore. Fu in grado di disinfettare le mie ferite, quelle visibili e quelle invisibili, e mi entrò nell’anima con prepotenza. Mi tolse di dosso la fatica e la tristezza e mi donò energia. Un’energia nuova, vibrante e rigenerante.
Ci staccammo controvoglia l’uno dall’altra, tuttavia consapevoli che quella non era la fine di nulla, almeno per quella sera. Anzi, era solo l’inizio. Il biondo fece un rapido cenno del capo in direzione del portone d’ingresso, chiedendomi implicitamente di rientrare. Annuii, e subito dopo iniziammo ad incamminarci verso la porta. Quando notò la bottiglia di vino abbandonata a terra, si girò verso di me con sguardo interrogativo. Accennai un piccolo sorriso e scossi la testa. Forse per la prima volta in vita mia, mi stavo rifiutando di recuperare una bottiglia di vino ancora parzialmente piena. Stavolta toccò a lui annuire eloquentemente. Si voltò di nuovo e rientrò nella base, con me al seguito.
Mentre ci dirigevamo nella sua stanza, la stessa stanza nella quale la sera prima avevamo fatto scintille, mi ripetei che stavo facendo la cosa più giusta che potessi fare. Mi serviva un “amico di letto”. O un compagno di sesso, perché no. Dopotutto, se non potevo reggermi in piedi da sola, dovevo appoggiarmi a qualcuno. Qualcuno di cui mi fidavo e con cui potevo diventare un tutt’uno.
E proprio come Sabo, avevo deciso che dall’attimo in cui la porta della sua camera si sarebbe richiusa, avrei vissuto senza rimpianti di alcun tipo. Avrei vissuto la mia vita – o quello che ne restava – al massimo. E anche se al momento non ne avevo la forza, prima o dopo mi sarei presa ciò che era mio. Ciò che volevo. A qualsiasi costo. Perché ormai non avevo più nulla da perdere.

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Capitolo 54
*** Invadenza ***


Base dei rivoluzionari. Posizione e nome sconosciuti.
Due mesi dopo.
 
Buttai fuori tutta l’aria che avevo in corpo con un potente sbuffo. Un sottile strato di sudore ricopriva la mia pelle, il cuore pulsava veloce e il mio petto si alzava ed abbassava velocemente, facendomi ansimare. Mi voltai alla mia destra e notai compiaciuta che anche il biondo che giaceva accanto a me era nella mia stessa situazione. Feci leva su una mano e poi feci scivolare il corpo accanto a quello del rivoluzionario, presidiando il suo cuscino con la testa. Lui si girò a guardarmi. Per qualche secondo, il suo sguardo risultò imperscrutabile, poi le sue labbra si aprirono in un ghigno.
«A quanto pare c’è stata un’invasione nemica» commentò, avvicinandosi di più a me e puntando le iridi sulla mia bocca. Risi, come quasi sempre quando ero in sua compagnia. In quei due mesi era cambiato qualcosa nel nostro rapporto. Ci eravamo avvicinati ed eravamo diventati più intimi, anche letteralmente parlando. Ma ciò che c’era tra noi – di qualsiasi cosa si stesse parlando – non era più solo a livello fisico. Si era innescato qualcosa, senza che sapessi come, e adesso mi sentivo connessa con lui anche sul piano mentale. No, in realtà avevo sempre sostenuto che le nostre menti fossero affini. Era più una connessione a livello spirituale, qualcosa che non riuscivo a comprendere e che sospettavo che il biondo ignorasse bellamente. Forse mi stavo facendo troppi film mentali e l’unica a provare certe sensazioni ero io tra i due.
Avvicinai ulteriormente il viso al suo, poi catturai il suo mento con la mano e lo costrinsi a girare la faccia in modo tale da potergli sussurrare qualche parolina provocante all’orecchio.
«Preparati a subire un attacco devastante» lo avvisai maliziosa. I suoi occhi si illuminarono. Adoravo provocarlo, così come lui adorava provocare me.
Posai un dito tra lo spazio che intercorreva fra le sue clavicole e lo feci scorrere delicatamente verso il suo petto e poi verso il suo addome. Mi fermai appena dopo aver superato l’ombelico, nel punto in cui il suo corpo cominciava ad essere nascosto dalle coperte. Mi guardò interrogativo, come a chiedermi perché mi fossi fermata proprio sul più bello. Se avessi avuto tempo da perdere gli avrei spiegato che uno dei motivi era che avevamo appena fatto sesso e che doveva darsi una calmata, perché era diventato veramente insaziabile. Ma non potevo biasimarlo per quello, visto che in realtà lo ero diventata anche io. Non mi riconoscevo più. Da uno come Sabo avrei potuto aspettarmelo, ma da me... Avrei voluto smettere, avrei voluto fermarmi, solo che non ci riuscivo. Non dipendeva da me. Non ero più io a controllare gli impulsi. Sapevo solo che il mio corpo sembrava non averne mai abbastanza e che la mia mente concordava. Non riuscivo a resistere al biondo. E mi sentivo impotente per questo.
Tuttavia, dal momento che non avevo tempo da perdere, mi girai dalla parte opposta e rotolai fino al bordo del letto.
«Sono le cinque e mezzo. Alle sei devo andare da Dragon» gli spiegai, sicura che mi stesse ancora fissando con un’espressione a metà tra il deluso e l’ebete.
Mi misi a sedere e raccolsi tutti gli abiti sparsi per terra nelle vicinanze, dopodiché iniziai a rivestirmi frettolosamente. Quando si trattava del biondo, ma più che altro dell’attività che svolgevamo insieme, perdevo completamente la cognizione del tempo. E se non volevo presentarmi da Dragon in ritardo, dovevo sbrigarmi. Alle mie spalle, udii il rivoluzionario fare lo stesso.
«Io invece devo andare da Koala. Dobbiamo fare il resoconto della nostra ultima missione» mi fece sapere. Mi voltai per un istante verso di lui. Era in piedi e stava saltellando sulle punte dei piedi nel tentativo di rimettersi i pantaloni.
«Intendi la missione sull’isola con gli alberi a forma di spirale?» chiesi, sporgendomi oltre il materasso per cercare i miei stivali, che non riuscivo a trovare da nessuna parte.
«Già» rispose lui. Dal rumore metallico che provenne dalle mie spalle, dedussi che si stava allacciando la cintura.
«Come si chiamava?» domandai distrattamente, sempre alla ricerca delle mie scarpe.
«Non me lo ricordo» fece con indifferenza. Emisi quello che poteva essere considerato un mugugno d’assenso. Era tipico di lui non ricordarsi i nomi. Se li dimenticava sempre, in quattro e quattr’otto, più in fretta di quanto riuscisse a spostarsi Kizaru. E quando – per puro caso – se li ricordava, spesso e volentieri li sbagliava e li reinventava. Mi venne da ridere al pensiero del povero “Petz”, a Dressrosa. I paesaggi, però, non se li scordava mai. Quando ritornava dalle sue missioni ogni tanto mi raccontava cosa aveva visto, ed era capace di descrivere i posti in cui era stato con una tale passione e precisione che sembravano apparire davanti a me come se fossi stata presente anche io sul luogo, come se quei ricordi fossero miei. E tutto diventava così suggestivo e vivido. Il suo era un dono. Sapeva ricreare nelle menti delle persone interi scenari e far sì che li vivessero e respirassero.
«Quando ho finito da Dragon potrei venire ad aiutarvi, se ne avete bisogno» proposi, sempre continuando a cercare i miei stivali, che sembravano essersi smaterializzati nel nulla. In realtà, la mia era una proposta leggermente interessata. Non avevo voglia di passare la serata da sola. Sapevo già che mi sarei annoiata, e perfino stare a compilare delle carte sarebbe stato meglio delle ore di solitudine che mi si prospettavano davanti. Avevo bisogno di stare in compagnia. Certo, sarei potuta andare al bar, ma di sera c’era sempre tanto chiasso e l’ambiente non era troppo godibile. Avrei anche potuto chiedere a Jasper di trascorrere la serata con me, ma sospettavo che in qualche modo la nostra conversazione si sarebbe tramutata in un dibattito riguardante qualche pratica medica particolare. Lui era così entusiasta di venire a conoscenza di nuove informazioni, era praticamente una macchina da guerra. Immagazzinava dati senza sosta, come un automa; e non ne aveva mai abbastanza. Io, invece, di parlare di medicina – non credevo che lo avrei mai pensato – non ne potevo più. In parte mi faceva stare male, perché non sapevo se sarei mai tornata a praticarla, e mi serviva una piccola pausa, per “depurarmi”, schiarirmi le idee e rilassarmi. Quindi, anche Jasper era escluso. Mi restavano solo Sabo e Koala.
«Non c’è bisogno che ti scomodi. È tutta roba noiosa, preferisco risparmiarti questa tortura» mi disse il biondo, risvegliandomi dai miei pensieri «Però, possiamo fare qualcosa di divertente dopo che avrò finito» suggerì con malizia. Sebbene fossi girata di spalle, ero sicura che stesse ghignando. Alzai gli occhi al cielo, scossi la testa e sbuffai una risata. Se con il dottore in erba il discorso ricadeva sempre sulla medicina, con il fratello di Rufy ricadeva sempre sul sesso. Non che mi dispiacesse troppo. Sabo era uno che si stufava facilmente delle situazioni, ed il fatto che dopo due mesi non si fosse ancora stufato di me e delle nostre notti – ma anche mattine e sere – di fuoco, mi rendeva in qualche modo orgogliosa e felice. Non avrei saputo spiegare il perché, però.
«Non è che hai visto i miei stivali?» indagai, continuando a  cercare i miei anfibi scomparsi misteriosamente. Non c’era bisogno che replicassi alla sua offerta, entrambi sapevamo perfettamente quale fosse il mio pensiero a riguardo. Era più urgente trovare le mie scarpe.
«Prova a guardare sotto il letto» mi consigliò distrattamente.
Mi sporsi e scostai il lenzuolo. Eccole lì, le mie scarpe. Dovevo avercele spinte senza accorgermene, nell’impeto del momento di passione intercorso tra me ed il rivoluzionario. Non che ciò mi sorprendesse. Era sempre così. Le recuperai e me le infilai, poi mi diressi svelta verso la porta. Dovevo farmi una doccia prima di vedere il Grande Capo.
«Allora? Come rimaniamo?» chiesi al mio interlocutore, che era in piedi e si stava mettendo il cappello a cilindro.
«Passo io quando ho finito» mi fece sapere. Annuii senza aggiungere altro, poi uscii e me ne tornai in camera mia, sperando che nessuno mi vedesse transitare per il corridoio.
 
***
 
Uscii dalla mia stanza inspirando quella poca aria che transitava per il corridoio. Ero decisamente soddisfatta, come sempre del resto. Anche questa volta, avevamo scampato il pericolo ed eravamo riusciti a concludere al meglio la nostra performance. Avevo lasciato Sabo sotto la doccia – la mia doccia – mentre io, che l’avevo già fatta, avevo deciso di uscire sul terrazzo all’ultimo piano e di fare una breve passeggiata prima dell’allenamento mattutino con Hack. Da quella sera di due mesi prima, le cose erano migliorate. L’uomo-pesce non si era ammorbidito neanche un po’, ma io avevo cambiato atteggiamento nei suoi confronti, e sospettavo che apprezzasse i miei sforzi. Aveva capito che facevo sul serio, che ero davvero intenzionata a diventare più forte. Avevo persino imparato a gestire l’Haki. Non al meglio, ma me la cavavo piuttosto bene per una principiante. Certo, mi ci voleva un’enorme concentrazione per riuscire a mantenere attivata l’Ambizione. Di solito non reggevo più di cinque minuti, ma era pur sempre meglio di niente. E poi, non avevo avuto più terrori notturni o dolori al polso. Il “metodo Sabo” sembrava funzionare alla perfezione. Era un repellente contro tutte le emozioni e i pensieri negativi. Non avevo, però, del tutto rinunciato al vino. Inoltre, il mio rapporto con Koala era diventato ancora più stretto, al punto che stavo iniziando a considerarla la mia migliore amica, nonché la mia fida consulente e confidente personale. Per quanto volessi bene a Maya, con la rivoluzionaria era tutta un’altra cosa. A parte il fatto che da quando aveva scoperto il suo amore per Omen pareva avere occhi ed orecchie solo per lui, la mia compagna non era mai stata in grado di capirmi fino in fondo, perché avevamo due età, due caratteri e due modi di approcciarci alla vita diversi. Con la bionda, però, non era così. Eravamo in simbiosi, al punto da sembrare due gemelle separate alla nascita. Mi trasmetteva sicurezza e positività, ma anche sensazioni familiari. Come se, spettegolando, bevendo alcolici e ingozzandoci di caramelle, fossi tornata nel mio mondo, quando ero un’adolescente e facevo tutte queste cose con gli amici che avevo lì. Ad ogni modo, per fortuna, in quelle settimane non si era mai accorta di quel famoso bottone saltato. Avevo evitato di dirle di Sabo. Non ero sicura di quale potesse essere la sua reazione e, finché ci fossi riuscita, avrei tenuto la nostra “relazione clandestina” segreta.
Con Dragon, invece, avevamo praticamente finito gli argomenti di conversazione. Per questo, spesso e volentieri, se avanzava del tempo gli chiedevo di raccontarmi ancora della battaglia avvenuta tra lui e Doflamingo. Al capo dell’Armata Rivoluzionaria non dava fastidio, anzi, lo faceva quasi con piacere. Sapeva che udire delle sventure del mio carnefice mi rendeva allegra, soprattutto ora che non sapevo che fine avesse fatto il fenicottero.
Io, dal canto mio, a furia di parlare e parlare, gli avevo snocciolato tutto ciò che sapevo sul mio mondo. Lui sembrava soddisfatto delle informazioni che era riuscito a racimolare. Potevo solo sperare che non si mettesse a creare armi nucleari o dichiarasse su due piedi guerra al Governo Mondiale a causa di ciò che gli avevo detto io. Non che ci fosse un qualche pericolo che lo facesse. Non potevo garantire sulle armi nucleari, ma in base alle poche informazioni che avevo raccolto su di lui, sapevo con certezza che era un tipo che preferiva far cuocere le proprie pietanze a fuoco lento. Agiva con calma, nell’ombra, e proprio come il mio capitano, sapeva aspettare il momento giusto. Gli Astri di Saggezza potevano stare tranquilli ancora per un po’. Semmai ero io quella a non poter stare tranquilla. Mancava meno di un mese alla partenza e sapevo fin troppo bene che la parte difficile sarebbe arrivata nel momento in cui fossi tornata sul sottomarino. Perché – e di questo ne ero certa, in quanto avevo meticolosamente controllato il giornale ogni giorno – a me, ai Mugiwara e al resto dei Pirati Heart, sarebbe toccato affrontare la furia di Kaido. Le acque erano rimaste calme per tanto, troppo tempo. Quella era la cosiddetta “quiete prima della tempesta”. Se non altro, Law aveva mantenuto la promessa che mi aveva fatto. Dopotutto, era un uomo rispettabile, almeno con i suoi sottoposti. L’unica incognita di quella equazione perfettamente bilanciata era Jasper. Di certo non sarebbe tornato sul Polar Tang con me, del resto in quei mesi non aveva fatto altro che ripetermi quanto odiasse i pirati, però mi sarebbe dispiaciuto separarmi da lui per la seconda volta. Era stato un mio paziente e adesso era diventato il mio allievo. Il mio unico allievo. E dovevo dire che ne ero un po’ gelosa, perché ci tenevo ad essere io quella che gli avrebbe insegnato tutto sulla medicina, sebbene sapessi che ciò non fosse possibile. Ognuno doveva andare per la propria strada e seguire il proprio percorso. Io per prima avevo ancora tante cose da imparare. Ma lui era famelico, attento e partecipativo. Non vedeva l’ora di apprendere nuove procedure. Probabilmente era un allievo migliore di quanto lo fossi stata io. C’era da dire che – modestamente – io ero un’insegnante molto più accondiscendente rispetto al mio capitano, per quanto fosse indiscutibilmente lui il migliore sul campo.
Mi arrestai dopo aver fatto appena un passo in corridoio e strabuzzai gli occhi. Ad una trentina di metri di distanza, c’era proprio Jasper, che si stava dirigendo a passo svelto da me con dei fogli in mano. “Parli del diavolo e spuntano le corna” pensai mentre in me si faceva strada il panico. Non poteva e non doveva vedermi. Dovevo avvertire Sabo di rimanere chiuso in bagno e di non fare alcun rumore. Feci dietrofront all’istante e tentai di riaprire la porta, spingendo con forza sulla maniglia, che però – giustamente – non si aprì. Maledetti pomelli.
«Cami!» mi chiamò la sua voce squillante.
“Porca miseria!” urlai tra me e me, sbattendo il pugno sulla maniglia. Mi aveva vista.
«Jasper!» esclamai voltandomi, con un sorriso fintissimo stampato sulle labbra «Che ci fai qui?» gli chiesi poi, sperando di potermela cavare in poco tempo. Se avesse visto Sabo uscire dalla mia stanza, non avrei saputo che scusa inventarmi. Sarebbe stata la mia fine. La nostra fine.
«Sono venuto a consegnarti i compiti» annunciò allegro, facendomi corrugare la fronte.
«Quali compiti?» domandai confusa.
«Quelli che mi hai dato una settimana fa» mi spiegò, fissandomi come se fossi scema. Proprio non riuscivo a ricordarmi. Ma avevo fretta, per cui presi i fogli che aveva in mano e finsi di sapere di cosa si trattasse, annuendo eloquentemente.
«Perfetto, grazie. Se non c’è altro, ti saluto. Scusa ma oggi ho molto da fare» mi congedai con un gesto secco della mano ed appiattendomi contro la porta, nella speranza di riuscire ad aprirla al primo colpo stavolta.
Tuttavia, proprio in quel momento, la maniglia fece uno scatto ed una figura varcò l’uscio. Mi gelai sul posto, quasi nel panico. Poi chiusi gli occhi e ritirai in dentro le labbra, consapevole che quello che ne sarebbe uscito da quell’incontro non sarebbe stato nulla di buono.
«Capo di Stato Maggiore» lo salutò rispettosamente Jasper, un po’ sorpreso.
«Ah, Jared» fece il biondo, divertito dalla strana situazione che si era venuta a creare. Non c’era niente da fare, continuava a sbagliare i nomi, proprio come suo fratello. Se non altro, almeno il mio non lo avevano mai storpiato.
«Ehm... veramente è Jasper» lo corresse timidamente. Mi voltai ad osservare il biondo con aria seccata. Tirai un sospiro di sollievo nel momento in cui costatai che era vestito e ringraziai tutti i Santi. L’unico elemento sospetto era la chioma bionda – ancora bagnata a causa della doccia appena fatta – che il rivoluzionario si stava frizionando con uno dei miei asciugamani. Il ragazzino squadrò con circospezione prima lui e poi me. Fortunatamente quel giorno avevo deciso di non lavarmi i capelli. Se lo avessi fatto, li avrei avuti bagnati anche io e nascondere le prove di ciò che agli occhi di chiunque altro sarebbe sembrato evidente, sarebbe stato ancora più difficile. Tuttavia mi sentii lo stesso in dovere di intervenire e mi schiarii la voce.
«Il Capo di Stato Maggiore era venuto qui per...» temporeggiai, in cerca di una valida scusa «Per discutere di un rapporto» dissi infine. La scusa dei rapporti, seppur vecchia, funzionava sempre. Non spiegava perché Sabo avesse i capelli umidi, però.
«Già. È stata una discussione molto intensa» commentò il fratello di Rufy, ghignando. Jasper assunse un’espressione ancora più perplessa.
«Accesa. Accesa. Voleva dire accesa» tentai di rimediare, fulminando il rivoluzionario con lo sguardo.
«Accesissima. Direi persino bollente» proclamò il biondo, con una maliziosa alzata di sopracciglia. Stritolai con le dita i fogli che avevo in mano, che scricchiolarono pericolosamente sotto la mia presa. Era un pregio di famiglia, quello di complicare volontariamente le situazioni.
«Riuscite a sostenere delle discussioni del genere anche di mattina presto?» volle sapere Jasper, quasi ridendo. Avvampai e serrai le palpebre, poi abbassai il capo mi strinsi il ponte del naso con indice e pollice, mentre la testa di rapa che mi era accanto rideva e si grattava la nuca, completamente noncurante delle circostanze imbarazzanti in cui ci trovavamo.
«In realtà, non esiste un momento migliore per affrontare argomenti scottanti di questo tipo» si espresse il biondo, sempre sorridendo sornione.
«Davvero?» domandò il ragazzino, stupito e divertito al tempo stesso. Dovevo intervenire prima che Sabo facesse altri danni.
«Sì! Sì, di mattina presto è il momento migliore, perché...» temporeggiai di nuovo, in cerca di un’altra scusa valida «È un rapporto che dobbiamo consegnare con urgenza, e prima di farlo ci sono alcune divergenze di opinione che dobbiamo appianare».
Artigliai con cattiveria il braccio dell’idiota di fianco a me. Se quel braccio fosse appartenuto ad un normale essere umano, molto probabilmente si sarebbe frantumato sotto la mia presa serrata.
«A me pare che siamo in perfetto accordo» commentò il rivoluzionario dai capelli umidi, osservandomi con malizia e facendomi arrossire ed arrabbiare ancora di più. Assottigliai gli occhi, truce. Gliel’avrei fatta pagare, poco ma sicuro. Avevo già in mente dei metodi di tortura perfetti. Ad esempio, gli avrei potuto negare il sesso. Per sempre.
«Ora scusaci, ma dobbiamo proprio tornare al nostro rapporto» provai a congedarmi di nuovo, sporgendomi oltre Sabo per aprire la porta – che stavolta si spalancò al primo colpo – e spingerlo all’interno della stanza.
Il ragazzino era rimasto immobile, a ridacchiare e ad osservarci attentamente sulla soglia della stanza. Fortunatamente, pareva non aver sentito l’ultima uscita infelice del biondo.
«Allora vi lascio alla vostra discussione» fece Jasper, calcando sull’ultima parola. Mi girai a fissare anche lui con sguardo truce. Dopo qualche secondo di occhiate fulminanti, mi imposi di darmi un contegno. Non volevo perdere quel poco di dignità che mi era rimasta.
«Sì... Lasciaci alla nostra discussione» mi corressi, alzando gli occhi al cielo e spintonando ulteriormente quella testa di legno.
«Grazie per i fogli» dissi distrattamente al ragazzo, che aveva fissato tutta la scena con il tipico sorriso di chi la sapeva lunga sull’argomento. Dunque aveva capito. Ero un pessimo esempio per lui. Davvero pessimo. Prima l’alcol e ora questo. E dire che avrei dovuto essere una guida per lui, un mentore affidabile e responsabile. Invece, gli stavo trasmettendo tutte le più brutte abitudini che si potessero avere. Ad ogni modo, avrei pensato dopo a rimediare e a fargli il discorsetto sulle api e sui fiori. Al momento mi premeva di più tirarmi fuori da quella situazione surreale. Lo salutai con la mano e chiusi frettolosamente la porta.
«Si può sapere che cazzo ti passa per la testa!?» urlai al biondo – che nel frattempo non aveva smesso di ridere nemmeno per un secondo – quando fui sicura che Jasper non potesse sentirci. Sabo mi regalò un’alzata di spalle.
«Per quale motivo dobbiamo nasconderci nell’ombra? Non c’è nulla di cui vergognarsi» fece, gettando l’asciugamano sul letto.
“Forse per te” pensai, ma evitai di dirlo ad alta voce, per scongiurare possibili fraintendimenti e per non offenderlo. Non mi vergognavo di fare sesso con Sabo, era una preda piuttosto ambita tra le giovani rivoluzionarie, e non era un caso. Era sicuramente attraente e quando voleva sapeva anche essere intelligente e comprensivo. Ma se qualcuno avesse scoperto che facevo sesso – indipendentemente da chi fosse il mio partner – sarei andata direttamente a sotterrarmi tre metri sotto terra. Altro che Moccia e i suoi tre metri sopra il cielo. Per me, oltre ad essere una cosa imbarazzante, era ancora un argomento taboo. Soprattutto perché io e Sabo non eravamo come Maya e Omen. Il nostro era puro e semplice sesso occasionale, libero e senza legami. Ora, il termine “occasionale” era abbastanza opinabile, vista la frequenza con cui lo facevamo, ma ciò non toglieva che per me quello era un nervo scoperto. Una sorta di debolezza a cui non sapevo assolutamente resistere, e non mi andava che gli altri lo sapessero. Per non parlare delle occhiate maliziose e delle frecciatine che mi avrebbero lanciato se lo avessero scoperto. Era meglio lasciare le questioni riguardanti la camera da letto in camera da letto. Non mi si poteva biasimare per la mia decisione; dopotutto, vivere senza rimpianti e vivere senza vergogna – o pudore – erano due cose diverse. Tuttavia, non per questo avrei smesso di fare sesso con lui. Mi piaceva, volevo farlo ed oltretutto era terapeutico.
«Non te lo spiegherò un’altra volta.» tuonai, incrociando le braccia e voltandogli le spalle con uno scatto repentino «Sei un idiota» aggiunsi poi, dirigendomi a passo svelto verso la porta. Sentii i suoi passi dietro di me.
«Se lo pensi veramente, perché continui a fare certe cose con me?» mi sussurrò compiaciuto all’orecchio una volta che mi ebbe raggiunto, posandomi le mani appena sopra le clavicole. Per un attimo rimanemmo entrambi immobili. Era evidente che la sua fosse una domanda retorica. Tuttavia del tutto lecita. E qualsiasi fosse stata la risposta, per quanto mi sarebbe piaciuto, non potevo dargli torto. Non del tutto, almeno. Però, mi aveva davvero fatto incazzare. Mi liberai dalla sua presa scrollandomi le spalle.
«Io vado da Hack. Tu vedi di non fare altri danni.» gli imposi, uscendo dalla camera e facendo sbattere il portone con un tonfo sordo. Avrei dovuto rinunciare alla mia passeggiata mattutina, ma se non altro mi sarei potuta sbollire prendendo a pugni – o tentando di prendere a pugni – l’uomo-pesce.
                                                                      
***
 
«Allora?» chiese impaziente, picchiettando un piede per terra.
«Dammi il tempo di leggere» gli risposi, con una punta di rimprovero nella voce.
Per i cinque minuti successivi rimase in silenzio, ma ogni tanto, con la coda dell’occhio, lo vedevo osservarmi di sottecchi per cercare di cogliere qualche mia reazione.
Alla fine, a mente più lucida, mi ero ricordata in cosa consistessero i compiti che avevo lasciato a Jasper. Erano dei fogli sui quali erano descritti cinque diversi casi di pazienti da trattare secondo la procedura che riteneva più opportuna. Gli avevo dato una settimana per compilarli e dovevo ammettere che si era rivelato molto efficiente, visto che me li aveva consegnati addirittura con due giorni di anticipo. Anticipo che era stato fatale, dato che aveva quasi colto in flagrante le due figure che al momento ammirava di più. L’importante era che non ne fosse rimasto sconvolto e che non mi facesse domande di alcun tipo sull’argomento. L’ultima cosa di cui avevo bisogno era di avere tra i piedi un ragazzino traumatizzato, o peggio, indiscreto.
Purtroppo, tra una cosa e l’altra, ero stata in grado di visionare i suoi compiti solo una settimana dopo, e avevo deciso di farlo davanti a lui, cosicché potesse avere una risposta immediata dopo tutto quel tempo in cui si era torturato per sapere qualcosa. In realtà, lo stavo facendo principalmente perché, dopo che Sabo e Koala erano partiti per l’ennesima missione, non c’era niente che riempisse le mie giornate, a parte gli addestramenti di Hack e le chiacchierate con Dragon. Il ragazzo era stato bravo, aveva descritto le varie procedure con meticolosa – quasi morbosa – attenzione. Certo, questo metodo poteva rivelarsi valido fino ad un certo punto. Dopotutto, c’erano moltissimi fattori da considerare quando si trattava di avere a che fare con un paziente vero. Un esempio ne erano le possibili complicazioni che potevano presentarsi. Erano cose di cui avremmo dovuto discutere, anche se sospettavo che solo la pratica avrebbe potuto rimediare a tali carenze. E sfortunatamente al momento non avevo a disposizione feriti o malati da cui poter iniziare. In questo, con Law come maestro, io ero stata più fortunata. Sul sottomarino c’era sempre qualche cadavere da sventrare o qualcuno che si faceva male per i motivi più stupidi e disparati, o ancora qualche epidemia nata da un virus contratto chissà come che costringeva a letto la metà dei Pirati Heart.
«Hai fatto un buon lavoro» gli dissi, appoggiando i fogli sul bancone del bar e sorridendogli fiera «Ho solo una cosa da appuntarti. Va bene somministrare un milligrammo di epinefrina in bolo EV per trattare un arresto cardiaco, ma il tutto deve essere seguito da un flush di soluzione fisiologica» spiegai, scandendo bene le parole affinché capisse. Jasper annuì attento. Assottigliai gli occhi.
«Hai intenzione di scriverlo da qualche parte o te lo ricordi?» gli chiesi, fissandolo di sottecchi. Lui boccheggiò un paio di volte, poi si guardò attorno in cerca di carta e penna.
«Ehi, Wein» richiamai il barista, intento a pulire con uno straccio uno dei boccali «Hai una penna?» gli chiesi. Lui mi fissò come si guarda un matto, poi allargò di poco le braccia e fece una blanda alzata di spalle. Non aveva tutti i torti. Era pur sempre un barman, non un addetto ad una cartoleria.
«Vai a cercare una penna» consigliai a Jasper. Stavo davvero diventando una mamma chioccia, quasi mi facevo paura.
«D’accordo» fece, sconsolato. Sapeva di dovermi ubbidire. Sorrisi mentre lo osservavo alzarsi dallo sgabello in cuoio e dirigersi alla ricerca di una penna. Mi ricordò della soggezione che mi metteva Law i primi tempi. Poi, tutta quella paura era gran parte scemata. Non il rispetto che avevo per lui, però. Quello era aumentato giorno dopo giorno.
«Cami» mi richiamò il ragazzo, distogliendomi dai miei nostalgici pensieri «Perché devo fare un flush di fisiologica dopo aver somministrato l’epinefrina?» volle sapere, alzando il mento e fermandosi appena accanto all’entrata dell’enorme sala. Inspirai aria dalla bocca e feci per rispondergli. Tuttavia, proprio in quel momento, la mia attenzione fu catturata da una figura sospetta che si sedette appena un paio di sgabelli più in là. Mi girai per vedere meglio di chi si trattasse. Quando lo inquadrai, feci fatica a trattenere un ghigno di soddisfazione e contentezza. Capelli mossi e biondi, cappello a cilindro appoggiato accanto a lui sul bancone, soprabito nero, fazzoletto bianco legato al collo. Era tornato dalla missione. Non mi aspettavo che lo facesse così presto, ma non potevo che esserne felice.
«Wein, il solito» fece Sabo, attirando l’attenzione del barista, che piazzò subito un bicchiere davanti a lui. Quel pomeriggio, fortunatamente, non c’era troppa ressa al bar. Anzi, non c’era quasi nessuno.
«Salve» lo salutai, cercando di darmi un contegno. Accavallai le gambe e mi girai di tre quarti verso di lui, per squadrarlo meglio.
«Cami» mi salutò a sua volta, sorridendo. Tuttavia non si voltò a guardarmi. Gli avevo imposto di essere un po’ meno “aperto” in pubblico, nei miei confronti. Lo avevo minacciato con ricatti piuttosto discutibili, dei quali nessuno sarebbe dovuto venire a conoscenza. Ma a quanto pareva lo avevo convinto, il mio ultimatum sembrava funzionare.
«Come è andata la missione?» gli chiesi, sinceramente interessata.
«Un successo, come al solito» rispose tranquillo. Sbuffai una risata. Non avevo dubbi.
«Cami?» una voce, proveniente dalle mie spalle, mi richiamò per la seconda volta in breve tempo. Non avevo bisogno di girarmi per sapere che il proprietario fosse Jasper. Voleva ed aspettava le sue spiegazioni.
«Tu vai a prendere la penna, te lo spiego quando torni» lo rassicurai distrattamente, accompagnandomi con un blando gesto della mano e continuando a fissare il biondo, che ingollò tutto d’un fiato la bevanda lattiginosa che gli aveva versato Wein nel bicchiere. Poi, abbandonò il boccale sul tavolo con un gesto secco, riprese il cappello e si alzò.
«Io vado a farmi una doccia» annunciò a voce alta e scandendo bene le parole, apparentemente diretto al barman. Dopodiché si incamminò verso l’uscita, passandomi accanto e provocando un piccolo spostamento d’aria. Il suo profumo mi invase le narici e non potei fare a meno di sogghignare. Sapevo perfettamente cosa intendeva.
Per un paio di minuti rimasi immobile, senza fare niente, con un’espressione impassibile dipinta sul volto. Solo le mie dita si muovevano, e tamburellavano ritmicamente sulla superficie lignea del bancone. Quando fui sicura di aver aspettato abbastanza tempo, finii quel poco di vino che era rimasto nel mio calice, sospirai e mi alzai.
«Io vado, Wein» lo avvisai, senza aspettarmi una risposta. Wein sollevò un angolo della bocca, mostrando un piccolo ghigno.
«Scommetto che anche tu vai a farti la doccia» considerò con l’aria di chi la sapeva lunga. Mi finsi sorpresa. Immaginavo che sarebbe potuta succedere una cosa del genere ed ero preparata ad ogni evenienza.
«Perché dovrei farmi la doccia? L’ho fatta stamattina» constatai con un’ingenua alzata di spalle «Dragon mi vuole nel suo ufficio tra una decina di minuti» lo informai. Poi, senza attendere una sua replica, mi diressi verso l’uscita del salone.
«Che devo dire a quel povero ragazzo quando tornerà qui?» volle sapere Wein, quasi gridando affinché potessi sentire. Voltai di poco solo il viso. Sembrava leggermente contrariato. Lui ed alcuni componenti dell’Armata Rivoluzionaria lo sapevano. Erano a conoscenza delle dinamiche che intercorrevano tra me e il biondo. Il pensiero che loro potessero aver capito mi rendeva tesa, ma non mi infastidiva più di tanto. Avevo raggiunto una sorta di equilibrio interiore. Avevo realizzato che non c’era nulla di male in ciò che facevo, era soltanto un modo come un altro di passare il tempo, era una cosa che volevo fare e che mi faceva sentire bene. Se gli altri non lo avessero capito e mi avessero additato come la sgualdrina della situazione, sarebbe stato un problema loro. Anche perché ormai ero già passata per l’amante di Law, quindi uno più o uno in meno non avrebbe fatto differenza.
«Digli ciò che ti ho detto. Digli che sono stata convocata da Dragon e che lo cercherò io non appena avrò finito» risposi, sollevando una mano per salutarlo e sorridendogli cordialmente. Giurai di aver sentito il barista sbuffare e mi venne da ridere. Non si poteva contestare un ordine di Dragon, anche i bambini lo sapevano. Tutti rispettavano moltissimo il loro capo, e anche io lo facevo. Era un uomo giusto ed estremamente affidabile. E mi aveva salvato la vita. Un po’ mi sentivo in colpa ad usarlo come capro espiatorio, ma in fondo era solo una piccola bugia innocente. Povero Jasper, però. “Sono proprio una maestra terribile” pensai scuotendo la testa, mentre percorrevo il lungo corridoio che mi avrebbe condotta alla camera di Sabo. Sospirai sconsolata. Predicavo bene e razzolavo male, a quanto pareva. Pazienza, il ragazzino mi avrebbe perdonata per le mie mancanze. Lui avrebbe avuto una vita intera per imparare il mestiere del medico, mentre io avevo solo un paio di settimane per fare il miglior sesso della mia vita. Poi sarei partita, sarei ritornata da Law e dagli altri e molto probabilmente non avrei più rivisto il mio compagno di “avventure”. Dovevo godermi quei momenti al massimo e dovevo approfittarne il più possibile. Ne avevo davvero bisogno.
Bussai alla porta del biondo. Quando mi aprì, il portone di legno scricchiolò un po’.
«Ce ne hai messo di tempo» considerò sorridendo e piazzandosi a due centimetri da me. Come mi aspettavo, era a torso nudo. Alzai gli occhi al cielo e sbuffai.
«Sta’ zitto e fammi entrare» lo rimproverai. Lui rise, si fece da parte e mi fece passare. Quando fui nella stanza e la porta fu chiusa, non potei fare a meno di ammirare la sua figura. Mi erano mancati quei lineamenti e quei muscoli. Per un attimo, mi chiesi se sarei stata in grado di farne a meno una volta che fossi tornata dalla mia ciurma. Fu un pensiero che svanì subito, però, perché nel momento in cui Sabo posò le sue mani sulle mie guance, mi dimenticai del resto del mondo. Quando le sue labbra toccarono le mie, chiusi gli occhi e mi vietai di pensare ad altro, almeno per le ore successive. E quando sentii le sue dita sfiorarmi il collo e scivolare sempre più in basso, capii che forse, la risposta alla domanda che mi ero fatta più e più volte in quei mesi non mi sarebbe piaciuta. Ma non lasciai che questo rovinasse il nostro momento. Niente poteva scalfire le sensazioni che provavo quando il mio corpo si univa al suo.
 
***
 
Sospirai. Fu un sospiro di soddisfazione, un sospiro rilassato. Avevo deciso di farmi un bagno caldo, lungo e rilassante. Me lo meritavo, era stata una giornata impegnativa. Ero stata da Dragon per la nostra solita chiacchierata e poi, in uno dei miei momenti liberi, avevo chiarito a Jasper la questione del flush di fisiologica. Il ragazzino era stato entusiasta di poter riprendere la conversazione che avevamo lasciato in sospeso qualche giorno prima. Mi aveva persino detto che aveva cercato una risposta alla sua domanda nei libri di medicina, ma che non aveva trovato niente sull’argomento. A quel punto, non avevo potuto fare a meno di sorridere. Faceva tutto parte dei trucchi del mestiere che mi aveva insegnato Law. Certo, poi mi ero intristita un po’, perché la mia era una situazione incerta. Mi ero fissata il polso senza farmi vedere e mi ero chiesta se sarei riuscita a recuperare appieno la sua funzionalità e se sarei potuta tornare ad essere il chirurgo che ero prima. Era una situazione troppo in bilico per i miei gusti, e la resa dei conti si stava avvicinando. Se nemmeno il mio capitano fosse riuscito a guarirmi, potevo dire addio ai miei sogni ed alla mia carriera di medico.
Scivolai ancora di più nell’acqua, lasciando che anche il mento si immergesse in quel rigenerante tepore. Sì, me lo meritavo proprio, un bel bagno caldo. Mi serviva per lavare via tutta quell’angoscia che era tornata repentinamente alla carica. Se avessi avuto anche un bicchiere di vino – o perché no, un’intera bottiglia – a portata di mano sarebbe stato perfetto.
All’improvviso, sentii qualcuno bussare al portone della camera e mi tirai su immediatamente, drizzando le orecchie. Chiunque fosse stato, decisi che non avrei risposto. Del resto, se qualcuno bussa alla tua porta e tu non rispondi, vuol dire che non ci sei. Giusto? Ma in quell’universo, purtroppo, nessuno sembrava conoscere quella semplice regola. Oppure la conoscevano tutti e sceglievano di comune accordo di ignorarla. Non per niente, sentii la porta cigolare ed aprirsi. Avevo già un’idea di potesse essere. Sbuffai, consapevole che non avrebbe demorso. Poco dopo, anche la porta del bagno si aprì, confermando i miei sospetti. Era Sabo. Il ragazzo si guardò in giro per un po’. Per fortuna, non avendo la cintura – che almeno per fare il bagno avevo tolto – non poteva vedermi. Rimasi immobile, cercando di non far muovere di un millimetro l’acqua che mi avvolgeva. Se non mi avesse vista, se ne sarebbe andato. Tuttavia, e questo avrei dovuto saperlo bene, il biondo non era il tipo che rinunciava facilmente a raggiungere i suoi obiettivi. Quali erano i suoi obiettivi quel giorno? Rompermi le scatole, ovvio. Maledette porte che non si potevano chiudere a chiave. Ma non erano le porte, quelle da biasimare. Sospettavo che Sabo avrebbe anche sfondato il muro, pur di venire ad infastidirmi. Non per niente, lo vidi chinarsi e raccogliere la mia cintura da terra. Spalancai gli occhi e trattenni il fiato – come se quello potesse aiutarmi in qualche modo a non essere scoperta – cercando di capire le sue intenzioni. Le capii solo quando lo vidi lanciare la fibbia nella vasca con estrema nonchalance. L’impatto dell’oggetto con l’acqua ne fece schizzare una notevole quantità sul pavimento.
«Ma che... ma che cazzo fai!?» gridai sconvolta, ripescando la cintura, ormai immersa nella schiuma.
«Ah. Sei qui» constatò come se nulla fosse. Nel momento in cui avevo toccato la cinta ero tornata visibile, e i miei piani di non farmi notare erano andati in fumo.
Mi passai entrambe le mani su tutta la faccia e sbuffai, rassegnata al fatto che avrei dovuto sorbirmelo per il resto della giornata.
«Cosa vuoi?» gli chiesi, una volta che mi fui ripresa da quel piccolo shock. Immersi di nuovo la fibbia nell’acqua e stavolta me la legai in vita. Quello era l’unico modo per poter fare un discorso sensato con il rivoluzionario, per quanto potessero essere sensati i suoi discorsi. Ormai, il fatto che mi vedesse nuda non mi sconvolgeva più, né mi rendeva nervosa. Anzi, si poteva dire che, al contrario, era una casualità che mi vedesse vestita, e se da un lato questo mi faceva ridere, dall’altro mi faceva sentire una cattiva ragazza. Mi sembrava di stare vivendo nel video di “Teenage Dream” di Katy Perry. Marinavo gli addestramenti di Hack, ignoravo Jasper e venivo meno ai miei doveri e alle mie responsabilità. E tutto per passare il mio tempo con Sabo. Anzi, con quell’idiota di Sabo. Non mi sentivo in colpa, perché nonostante tutto stare con lui – o meglio, svolgere determinate attività con lui – mi faceva sentire bene, solo che non pensavo di essere così cedevole ai piaceri della carne. Supponevo di dover accettare il fatto di aver trovato un mio altro punto debole. Almeno ora ne ero consapevole.
Quello alzò le spalle.
«Niente» rispose con disinvoltura. Lo guardai torva.
«Bene. Allora esci» accompagnai le mie parole con uno scortese gesto della mano per invitarlo ad andarsene. Tuttavia lui non solo se ne andò, ma iniziò anche a spogliarsi.
Spalancai la bocca. Non sapevo che dire. Mi aveva privato della capacità di far uscire frasi di senso compiuto dalla mia cavità orale.
Prima che potessi recuperare le mie perdute capacità mentali, Sabo si tolse i vestiti e rimase completamente nudo, il tutto con calma e davanti ai miei occhi increduli e compiaciuti allo stesso tempo. C’era da dire che nonostante il contesto anomalo ed assurdo, era sempre un bel vedere. Piegai la testa da un lato per poter osservare meglio quello spettacolo divino. Dovevo sembrare proprio un’ebete. Senza chiedere nulla, mise un piede nella vasca da bagno e, quando ci fu entrato con entrambe le gambe, si sedette dalla parte opposta a quella su cui ero sdraiata io.
Osservai tutta la scena in silenzio e con un’espressione indecifrabile, tendente al perplesso.
«Che stai facendo?» domandai, alzando un sopracciglio.
«Mi unisco a te. Anche io ho bisogno di un bagno caldo e rilassante» mi rispose, sistemandosi meglio nella vasca.
Ci fu un attimo in cui nessuno dei due disse o fece nulla. Eravamo due corpi immersi nell’acqua, a contatto tra loro. Poi, però sbuffai una piccola risata, ormai consapevole di ciò che mi aspettava.
Sospirai, annuii rassegnata e poi storsi la bocca.
«Se ti intimassi di andartene ed iniziassi a gridare e tirarti flaconi di shampoo e bagnoschiuma a caso, non ti muoveresti di un millimetro lo stesso. Vero?»
In risposta alzò le spalle, prendendo un po’ di schiuma con le mani ed iniziando a soffiarla verso di me. Era proprio un bambino. Un bambinone troppo cresciuto i cui stinchi premevano contro le mie ginocchia. Sospirai per l’ennesima volta. Se lui aveva deciso di condividere la vasca, perché non rendere il gioco un po’ più interessante? Dopotutto, mi aveva imposto la sua presenza senza chiedermi un parere. Dovevo vendicarmi.
Sollevai le gambe, sistemando i polpacci lungo il bordo della vasca e piazzando i piedi a qualche centimetro dalle sue orecchie, sotto il suo sguardo vigile e libidinoso. Un sorrisetto furbo era comparso sulle mie labbra. Ero sicura che le sue mani, nascoste sapientemente dalla schiuma, stessero fremendo per assaporare la mia carne, ora in bella vista.
«Allora suppongo che tu possa restare» sentenziai sconsolata, tuttavia con un bagliore nelle iridi. Non gli sarebbe di certo servito il mio permesso per rimanere e complicarmi la vita. Sabo ghignò divertito, mentre io alzavo gli occhi al cielo.
«Comunque l’ho trovato» fece dopo un po’.
«Cosa? Il cervello?» chiesi «Ah, dimenticavo. Quello non lo hai mai avuto, proprio come il pudore» aggiunsi poi, sarcastica.
Il rivoluzionario rise di gusto. Se non altro non se la prendeva per le battute – che tanto battute non erano – che facevo. Se avessi detto la stessa cosa a qualcun altro di mia conoscenza, avrei subìto un immediato espianto degli organi interni. Non che ci fosse da preoccuparsi, quel qualcuno non si sarebbe mai venuto a trovare in una situazione del genere. La bizzarria faceva per lui solo fino ad un certo punto. Quello molto probabilmente andava al di là della sua immaginazione.
«Il tubo» disse, sorridendo. Aveva proprio un sorriso magnetico.
«Parli del tuo tubo metallico, vero?» indagai, assottigliando gli occhi. Ripensandoci, qualche ora prima mi aveva detto di averlo perso. Mi aveva perfino chiesto se ce l’avessi io. Come se potessi mettermi a rubare tubi. Pensavo fosse risaputo che l’unica cosa di cui potevo appropriarmi illecitamente, secondo i media, erano i cuori delle persone. Anche se in realtà negli ultimi mesi avevo trovato una valida alternativa ai cuori. Qualcosa di molto più simile ai tubi, effettivamente. Nel pensarci mi venne da ridere.
«Sì, certo. A cosa pensavi che mi riferissi?» volle sapere, divertito. Alzai gli occhi al cielo. Ero sicura che conoscesse già la risposta.
«Lasciamo perdere...» suggerii, distogliendo lo sguardo e grattandomi la nuca con un po’ di imbarazzo.
«Sei una continua sorpresa, Cami» affermò compiaciuto. Sorrisi. Detto da lui, lo consideravo un gran complimento. Mi piaceva essere questa persona. Mi piaceva essere la persona che ero in sua compagnia.
«Tu non sei da meno» constatai ghignando. Lui fece altrettanto. Il fatto che stessimo avendo quella conversazione nudi e schiacciati come sardine in una vasca da bagno rendeva la cosa molto più assurda. Eppure, non mi dispiaceva affatto. Se c’era una cosa che avevo capito di me stessa in quegli anni e soprattutto in quei mesi, era che la normalità mi annoiava a morte. E con i Pirati Heart e i rivoluzionari non mi annoiavo mai; e se un giorno ci fossimo rivisti, ero sicura che i Mugiwara non sarebbero stati da meno.
Per un po’ rimanemmo fermi ed in silenzio, a goderci quel tripudio di schiuma. Ma c’era un po’ troppa pace, per i miei gusti. Dovevo restituire pan per focaccia all’uomo che mi stava complicando la vita.
Con un rapido gesto della mano, spostai un po’ d’acqua e gliela spruzzai dritta in faccia, ghignando perfidamente. Sembrò sorpreso dalla mia azione impertinente. Tuttavia la sua sorpresa durò poco, perché ben presto mi ritrovai i fianchi intrappolati nella sua presa ermetica. Nelle sue pupille brillava una pericolosa scintilla di divertimento. Cercai di ammonirlo con lo sguardo, ma non funzionò. Mi attirò verso di sé, avvicinò il suo viso al mio e fece per baciarmi; poi però, con una mossa molto scorretta, mi piantò due mani sopra la testa e me la spinse sott’acqua. Non ci mise tanta forza, quando voleva sapeva anche essere delicato, ma fu lo stesso abbastanza per farmi colare a picco come il Titanic. Alla faccia che l’acqua lo indeboliva.
Riemersi inspirando a fondo per poi passarmi le mani sugli occhi, come per asciugarli. Goccioline d’acqua scivolavano lungo il mio viso. Controllai la situazione al di fuori della vasca. Il pavimento era diventato un vero e proprio lago.
«Traditore» sibilai, fingendomi offesa e fissandolo intensamente. Il biondino sogghignò.
«Bisogna rispondere al fuoco con il fuoco» dichiarò, compiaciuto da se stesso. Alzai un sopracciglio con aria di sfida.
«Vuoi dire...» iniziai misteriosa, per poi schizzarlo di nuovo in pieno viso «Con l’acqua» lo corressi, leccandomi le labbra con la punta della lingua. Sabo rise per qualche secondo, poi tornò serio, incastonò i suoi occhioni ai miei e mi posò impetuosamente una mano dietro la nuca. Irrigidii il collo e cercai di liberarmi dalla sua presa, troppo salda perché riuscissi nel mio intento. Non che lo spazio ridotto e la mia posizione a gambe “all’aria” aiutassero.
«Ti giuro che se tenti di annegarmi di nuovo ti affogo con le mie mani» lo minacciai, non troppo seria «Lo faccio, Sabo. Tanto più che hai perso la capacità di nuotare.» continuai con un po’ più di convinzione dopo essermi resa conto che non accennava a staccare le sue iridi magnetiche da me. Che intenzioni aveva? Qualcosa mi diceva che erano molto losche.
Mi sbagliavo solo in parte. Infatti, si avvicinò a me e mi baciò. Stavolta il suo fu un bacio più leggero e casto, sempre se così si poteva definire. Fu un bacio giocoso ed innocente, quasi affettuoso. I nostri petti aderivano uno all’altro, complice anche lo spazio ristretto in cui eravamo stipati. La sua mano scivolò sulla mia schiena, tra le scapole, ed io mi protesi ulteriormente verso di lui, per assaporarlo ancora di più. Non avevo ancora capito se volesse approfondire la questione o meno, ma non mi importava.
Per i miei gusti, quel momento catartico durò fin troppo poco. Quando si staccò, lo vidi fare una smorfia strana e storcere il naso. Lo guardai interrogativa.
«Sai di schiuma» constatò, con un’espressione fintamente disgustata. Per un po’ ci fissammo complici, poi ci lasciammo andare ad una fragorosa risata.
«Così impari a giocarmi certi scherzi» lo canzonai, facendogli la linguaccia subito dopo. Rise di nuovo. La sua risata era limpida, rideva come non avevo mai sentito ridere nessuno.
Presi un po’ di schiuma con le dita e gli pasticciai la punta del naso. Lui alzò le sopracciglia, rallegrato, ed io feci lo stesso.
«Così sono ancora più bello» commentò, facendomi l’occhiolino. Non me lo aveva mai fatto prima d’ora. Forse, quel giorno, in quella specie di tinozza, avvenne qualcosa. Qualcosa di incomprensibile, ma di reale. Avrei detto perfino di quasi perfetto. Non avevo il vino con me, ma quello era di gran lunga meglio. Perché a volte, io ed il biondo, presi dalle nostre responsabilità, ci dimenticavamo che eravamo dei semplici ventenni – e qualcosa di più, nel caso di Sabo – che avevano bisogno di svagarsi, di tanto in tanto, e di fare cose stupide ed infantili, come ingaggiare battaglie a suon di schizzi nella vasca da bagno.
«Così assomigli a Voldemort» considerai, piegando la testa da un lato per osservarlo meglio e dandogli subito dopo un piccolo schiaffo affettuoso sulla guancia.
«A chi?» chiese, perplesso e curioso allo stesso tempo.
«Te lo spiegherò, un giorno, forse» mi limitai a dire, distogliendo distrattamente lo sguardo e tornando ad appoggiare la schiena sul bordo ovale della vasca.
Il Capo di Stato Maggiore dell’Armata Rivoluzionaria sapeva essere estremamente fastidioso ed invadente, e di certo non aveva tatto, ma quando ero con lui stavo bene. Mi faceva tornare bambina. Mi faceva ridere. Ma mi faceva anche sentire bella, e sexy, per quanto contraddittorio potesse essere. Del resto, con lui era tutta una contraddizione. In parte mi piaceva anche per questo. Mi faceva sentire una donna. Una donna completa. E leggera. E supponevo che, in fondo, ci fosse abbastanza spazio per tutti e due nella vasca da bagno. Per lui ci sarebbe sempre stato posto nella mia vasca, e anche nella mia anima. Quel ragazzo sapeva irritarmi come nessun altro, ma, proprio come nessun altro, sapeva farmi sentire bene. Molto bene. A conti fatti, ero contenta di averlo conosciuto. Di aver conosciuto il lato di lui che mi permetteva di essere la me stessa più vera, senza filtri e senza paure, o insicurezze. Era bello avere qualcuno come lui accanto. Forse non era la prima persona da cui sarei andata se avessi avuto un problema, ma sapevo di poter contare su di lui. E in un momento del genere, per me, sapere di poter contare su qualcuno significava tutto.
Sarebbe superfluo dire che quello fu un bagno lungo, piacevole e rigenerante. Uno di quei bagni che non mi sarei dimenticata tanto facilmente. Anche perché, come al solito, Sabo non aveva chiuso la porta. Né della camera, né del bagno.





Angolo autrice
Salve a tutti! Eccomi tornata con un altro capitolo. Capitolo in cui non succede nulla di particolarmente eclatante (anche se questo dipende dai punti di vista :D), serve solo a spiegare un po' meglio il rapporto che si è instaurato tra Camilla e Sabo e l'evoluzione generale delle cose che erano rimaste in sospeso. Spero comunque di avervi strappato una risata tra le figuracce di Cami e l'indiscrezione del bel biondino. :)
Mi auguro che questo capitolo vi sia piaciuto, e ringrazio in anticipo chiunque abbia voglia di lasciare una recensione! A presto! <3

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Capitolo 55
*** Preparativi ***


Base dei rivoluzionari. Posizione e nome sconosciuti.
Due settimane dopo.
 
«Vino?» chiese l’uomo seduto di fronte a me, con l’aria di chi la sapeva lunga. Non potei evitare di sorridere.
«Mi conosce. Sa che non ne rifiuto mai un bicchiere» affermai, sempre sorridendo. Anche sulle labbra di Dragon comparve un piccolo sorriso, consapevole che quando si trattava di vino non era mai un solo bicchiere. Poi, prese la bottiglia alla sua sinistra e versò un po’ del liquido vermiglio nel bicchiere. Io, con aria soddisfatta, allungai il braccio per prendere il calice una volta che lo ebbe riempito.
«Di cosa vuole discutere, oggi?» chiesi dopo che ebbi bevuto un sorso della sostanza alcolica, sistemandomi meglio sulla sedia e preparandomi ad affrontare qualsiasi argomento mi avesse proposto.
«Del tuo ritorno» rispose calmo. Il mio cuore saltò un battito e per un attimo mi immobilizzai completamente, con gli occhi sgranati.
«Quattro mesi sono passati, e tu mi hai detto tutto ciò che volevo sapere» continuò poi il padre di Rufy «Per te è tempo di fare ritorno dai tuoi compagni».
Mi umettai le labbra con la punta della lingua, distolsi lo sguardo ed annuii. Era arrivata l’ora di tornare. Non pensavo che il momento di ripartire fosse arrivato così presto, il tempo in quei mesi – a parte le prime settimane, in cui avevo avuto un po’ di problemi ad ambientarmi – era passato piuttosto velocemente. Probabilmente era merito della compagnia che mi avevano fatto Sabo e Koala. Anche Jasper e Hack mi avevano tenuto impegnata a modo loro. E poi c’era Dragon, che tutti i giorni per almeno un’ora aveva ascoltato i miei racconti su quello che era il mio mondo di provenienza. All’inizio non avevo idea di cosa raccontargli, ma con il passare del tempo quasi aveva dovuto zittirmi lui alla fine dei nostri incontri, perché non la finivo più di parlare. Anche se non potevo essere biasimata, data la portata delle informazioni che mi aveva chiesto. C’era così tanto da dire, così tanto da ricordare. A volte, mi faceva un po’ male. Per tutta la mia vita avevo cercato un modo per scappare da quel posto, un posto che sapevo non essere adatto a me e che – proprio per questo motivo – ritenevo orribile. Ma, alla fine, chiacchierando con Dragon, mi ero resa conto che non era poi così male come credevo. Era vero, c’era tanta sofferenza, tanto dolore, tanta indifferenza. Però c’era anche gioia, c’erano posti magnifici da visitare, gentilezza, meraviglia e calore. E il pensiero di aver perso tutto quello per sempre mi rendeva piena di rimpianti; perché ero stata incapace di godermi appieno quello che avevo. Ecco perché mi ero ripromessa di non sprecare l’occasione che mi era stata data dalla Stella. Avevo molto da imparare da Sabo, Rufy e compagnia.
Facendo il bilancio generale della mia permanenza nella base dell’Armata Rivoluzionaria, non avrei detto che quei mesi fossero stati una vacanza per me, ma neanche che non mi aveva fatto piacere trascorrerli lì. Avevo avuto le mie difficoltà, certo, ma mi ero anche divertita. Avrei detto persino che avevo avuto un piccolo assaggio di libertà. Mi morsi un labbro e sorrisi al pensiero, per poi ritornare alla mia espressione assorta. Molto probabilmente quella sarebbe stata la cosa che mi sarebbe mancata di più. Avevo trovato un efficace modo per svagarmi e per abbandonare per un po’ tutti i miei problemi, e mi dispiaceva rinunciarvi. Soprattutto perché sapevo che non avrei trovato qualcuno all’altezza del biondo – che bisognava riconoscerlo, aveva un certo talento – così facilmente, men che meno sul sottomarino. Anche perché non volevo complicare le cose, né la vita dei miei compagni. Stavamo bene come stavamo, eravamo in perfetto equilibrio. Tutti – o quasi – amici, niente complicazioni. Omen e Maya erano l’eccezione che confermava la regola, in cuor nostro tutti sapevamo che quei due non si sarebbero mai lasciati, e ne eravamo felici.
«Partirai tra cinque giorni. Il viaggio dovrebbe durare circa una settimana. Gli accordi sono che tu ti ricongiunga alla tua ciurma in un punto ad Ovest dell’isola Denim» mi annunciò. Presi mentalmente nota di tutto, sebbene al momento nella mia testa stessero vorticando molte domande.
«Non vorrei sembrare impertinente, ma come avete fatto a prendere accordi? Voglio dire, come fate ad essere certi che il luogo ed il giorno dell’incontro siano esatti?» volli sapere, riflettendo sul fatto che Law non aveva menzionato niente di tutto ciò. Quelle erano le prime parole che sentivo in proposito.
«Non te ne preoccupare. Ti ricongiungerai ai tuoi compagni nel giorno e nel luogo prestabiliti, sana e salva» mi liquidò lui, sebbene non sembrasse infastidito dalla mia domanda. Probabilmente, da uomo ragionevole quale era, sapeva che i miei dubbi erano legittimi.
Assottigliai gli occhi, sospettosa. Qualcuno non me la stava raccontando giusta. Tuttavia decisi di non preoccuparmene, mi fidavo di Dragon e dei rivoluzionari, e se dicevano che sarei arrivata a destinazione nel giorno e nel luogo prestabiliti e per di più sana e salva, ero sicura che sarebbe stato così.
«A questo proposito» la voce del padre di Rufy mi distolse dai miei pensieri «Sarò sincero con te, Camilla».
Sollevai le sopracciglia ed annuii, per incitarlo a continuare. L’uomo prese un respiro impercettibile.
«Sei una risorsa preziosa per l’Armata Rivoluzionaria. In futuro potresti essermi molto utile, anche più di quanto lo sei stata in questi mesi» constatò, lasciandomi alquanto sorpresa dalle sue parole. Non pensavo di poter essere così importante per lui. «Per questo è importante che tu non corra rischi, almeno durante il viaggio di ritorno» affermò poi, facendomi aggrottare la fronte. Non sapevo dove voleva arrivare, ma qualcosa mi diceva che la soluzione che mi avrebbe proposto non mi sarebbe andata a genio. Quando voleva, Dragon sapeva essere estremamente conciso. Altre volte, però, la sua capacità di tenermi sulle spine andava oltre ogni immaginazione. Supponevo che un po’ ci marciasse su questo, dopotutto era fatto così. Essere misterioso e sfuggente erano dei tratti che lo avevano sempre contraddistinto. Non avrebbe potuto essere il capo di un’organizzazione volta a rovesciare il Governo Mondiale, altrimenti.
«Ho deciso di affiancarti Sabo. Lui ti accompagnerà e rimarrà con te fino a che non si sarà accertato che sei al sicuro» mi comunicò, calmo. Abbassai il mento e schiusi leggermente la bocca, fissandolo con quella che poteva essere considerata un’espressione da ebete.
«Tra l’altro, so che tra voi è nato un bel rapporto» aggiunse poi, senza darmi il tempo di metabolizzare quella notizia. Avvampai all’istante. Non potevo vedermi, ma ero sicura di essere diventata di un salutare color fucsia acceso. Boccheggiai per qualche secondo. Volevo parlare, volevo dire qualcosa, ma non sapevo da dove cominciare. E temevo che qualsiasi cosa avessi detto avrebbe peggiorato la situazione. Che diavolo voleva dire Dragon affermando che sapeva che tra noi era nato un bel rapporto!? Era a conoscenza del tipo di relazione che avevamo instaurato? O lo diceva solo perché aveva notato un’innocente complicità? Incurvai le sopracciglia. Mi vorticavano così tante domande e così tanti pensieri in testa, al punto che pensavo di non essere in grado di contenerli. Perché, tra tutti, doveva accompagnarmi proprio Sabo? Non che mi dispiacesse, di certo sarebbe stato divertente passare un po’ di tempo con lui su una nave, solo che quella poteva essere una benedizione così come poteva essere una maledizione. I miei compagni lo avrebbero visto? Avrebbero notato il nostro comportamento “strano”? Il biondo avrebbe fatto il malizioso come suo solito e ci avrebbe traditi?
«No.» dissi infine, decisa «Non c’è alcun bisogno di mobilitare il Capo di Stato Maggiore» affermai poi, evitando volutamente di chiamare il rivoluzionario per nome, nel tentativo di darmi una parvenza di formalità che non avevo mai avuto. Non con Sabo, almeno.
Fissai il mio interlocutore con risolutezza, senza nemmeno sbattere le ciglia. Era importante che capisse che non avevo bisogno di essere scortata dal suo uomo migliore per tutto il viaggio. Ed era ancora più importante che capisse che sarei stata in pericolo se il biondo fosse venuto con noi. Perché non ero capace di resistergli. Non potevo resistergli. Già sapevo come sarebbe andata a finire se fossimo partiti insieme. Né io né lui saremmo stati in grado di controllarci. Perché la nostra passione, quella che avevamo l’uno per l’altra, era pericolosa. Estremamente pericolosa. No. Non potevo permettermelo. Non doveva accadere e non sarebbe assolutamente accaduto.
«La mia decisione è irrevocabile» sentenziò Dragon, tranquillo. A quel punto, sospirai. Poi arricciai il naso e storsi la bocca. Sapevo che ormai non c’era nulla che potessi dire o fare per tentare di dissuaderlo. Aveva emesso la sua sentenza definitiva. In un’altra occasione, probabilmente avrei riso. Con Rufy era lo stesso. La mela non cade mai lontana dall’albero, del resto.
Sbuffai, cercando di non farmi sentire dall’uomo dall’altra parte della scrivania. Non era una buona idea. Non era affatto una buona idea. Sabo mi avrebbe trascinata a fondo con lui. Ne ero sicura. Sarei caduta – per l’ennesima volta – in tentazione, e sarebbe stata la fine. La mia fine.
«Abbiamo finito» decretò il mio interlocutore, invitandomi implicitamente ad andarmene. Annuii e, senza indugiare ulteriormente, mi alzai dalla sedia e mi avviai verso la porta, scoraggiata ed infastidita dalla strampalata decisione che aveva preso il “Grande Capo”. Non ero arrabbiata, ero... nervosa. Preoccupata, perfino. Il perché, però, non avrei saputo spiegarlo. C’era qualcosa di quella situazione che mi metteva inquietudine. C’erano Sabo, la mia incapacità di resistergli, un viaggio di una settimana su una caravella che dovevamo affrontare insieme e un ultimo tassello del puzzle che non riuscivo a collocare. Forse, nel profondo, sapevo cosa mi rendeva preoccupata, ma non volevo ammetterlo a me stessa. Se l’avessi ammesso, poi avrei dovuto affrontare il problema, e io non volevo in alcun modo affrontare il problema, quale che fosse. Anzi, non volevo proprio averlo, un – altro – problema da risolvere.
Mi richiusi la porta della stanza di Dragon alle spalle con un enorme senso di frustrazione addosso. Non potei soffermarmi a pensarci più di troppo, però, perché proprio in quel momento dei passi risuonarono in corridoio. Mi voltai alla mia destra, iniziando a picchiettare ritmicamente un piede sul pavimento. Come pensavo, a pochi metri da me, c’era il fulcro dei miei problemi. Il Capo di Stato Maggiore dell’Armata Rivoluzionaria. In un’altra situazione, probabilmente mi sarei abbandonata ad una risata. Dopotutto, era ironico che colui che faceva da repellente per le mie preoccupazioni me ne causasse il doppio. Eppure, eccolo lì, in piedi di fronte a me, con la sua postura fiera e il fastidioso alone di allegria che lo circondava.
«Hai saputo la lieta notizia?» mi chiese, con un sorrisetto fin troppo impertinente stampato sulla faccia. Quindi lo aveva saputo prima di me. Come al solito, ero l’ultima a venire a conoscenza dei fatti che mi riguardavano in prima persona.
Digrignai i denti, con così tanta intensità che per un momento pensai di aver consumato la loro superficie. Poi, sollevai l’indice e glielo piazzai sotto il naso.
«Non. Una. Parola.» lo minacciai torva. Ci mancava che si mettesse a fare lo spiritoso in un momento del genere.
Sabo iniziò a ridere di gusto. Fu quando lo fissai con lo sguardo carico di odio, che capii qual era il problema.
La verità era che non avevo paura di non riuscire a controllarmi. Non avevo paura di cedere ai piaceri della carne. Lo avevo già fatto – fin troppe volte – in passato, e non era di certo un po’ di sano sesso a spaventarmi, soprattutto perché ero piuttosto sicura che in quella base ormai sapessero tutti ciò che accadeva tra me ed il biondo dietro le porte delle nostre camere da letto. Io avevo paura che non sarei più riuscita a staccarmi da lui. Avevo paura che mi sarebbe mancato troppo e che non mi sarei più abituata alla sua assenza. Ma, più di tutto il resto, avevo paura che i miei timori diventassero realtà. Per questo credevo che fosse di gran lunga più semplice salutarlo sulla terraferma, insieme a tutti gli altri. Perché così sarebbe stato più facile prendere le distanze, disintossicarmi da lui, dal suo profumo, dal suo tocco, dai suoi baci e dalle sensazioni che mi faceva provare. Passare una settimana a stretto contatto con lui sarebbe stato il colpo di grazia finale.
Sospirai, fissandomi la punta delle scarpe. Potevo solo sperare che lo scenario che mi ero immaginata non diventasse realtà. Non c’era altro modo di evitare la catastrofe.
«Non fare quella faccia. Vedrai, sarà divertente» fece il biondo, accompagnandosi con un molesto occhiolino. Sbuffai una risata, esasperata, scuotendo la testa. Quando lo vidi ghignare selvaggiamente, alzai gli occhi al cielo, mi voltai di scatto e cominciai a camminare nella direzione opposta alla sua. Dovevo stargli lontano il più possibile in quei giorni, altrimenti lo avrei ucciso. Non valeva la pena di mettersi a discutere con lui, non lì.
Camminavo a passo svelto, aprendo e chiudendo i pugni ritmicamente, per cercare di calmare il mio nervosismo, che sembrava aumentare ad ogni centimetro che percorrevo. Poi, però, ci ripensai. C’era un’ultima cosa che dovevo chiedere a Dragon, e dal momento che ero lì tanto valeva approfittarne. Mi fermai e mi girai di nuovo verso la porta. Sabo non si era mosso. Era rimasto con la schiena appoggiata al muro, ad osservarmi mentre me ne andavo e probabilmente a ridere. Non ne ero del tutto sicura, però. Il rumore dei miei pensieri aveva coperto tutti gli altri suoni. Nel dubbio, lo fulminai con lo sguardo. Solo allora si decise a fare ciò per cui me lo ero ritrovato tra i piedi. Si scostò dal muro e si piazzò davanti al portone della stanza. Non potevo lasciarlo entrare. Lo raggiunsi in un paio di ampie e rapide falcate e non lo spintonai prepotentemente da una parte.
«Non ho ancora finito» lo informai, continuando a guardarlo male. Quello fece un passo indietro, alzando le braccia in segno di resa, tuttavia continuando a sorridere, divertito da quel siparietto.
Quando l’area davanti alla porta fu sgombra, mi sistemai i vestiti – nel tentativo di ricompormi – e bussai, prendendo un respiro profondo.
«Avanti» fece la voce dall’altra parte del portone. Entrai, cercando di sembrare seria e sicura di me, sebbene la situazione non mi facilitasse la cosa. Dragon sollevò la testa, fino a quel momento china sulla scrivania. Molto probabilmente stava leggendo uno degli ultimi rapporti che gli erano arrivati, ed io mi sentivo a disagio ad averlo interrotto, soprattutto perché la questione di cui avevo intenzione di parlargli poteva dare l’impressione di essere futile. Ma per me – e per gli altri poveri Pirati Heart che mi aspettavano fiduciosi – non lo era affatto.
Feci qualche passo in avanti e mi strinsi nelle spalle.
«Mi rendo conto che potrebbe risultare una richiesta inusuale e forse anche un po’ irrispettosa, ma...» feci una breve pausa ed aggrottai la fronte «Potrei prendere un po’ di pane dalle vostre scorte, prima di tornare dalla mia ciurma?».
Mi parve di scorgerlo alzare appena un sopracciglio. Non riuscivo a capire se fosse infastidito o se invece fosse solo perplesso. Boccheggiai un paio di volte, senza sapere bene cosa dire o fare.
«Prendi ciò che ti serve» asserì, tornando poi a concentrarsi sui fogli sotto di lui. Per fortuna aveva risposto senza che ci fosse bisogno di ulteriori – imbarazzanti – sollecitazioni da parte mia. Congiunsi le mani e sorrisi speranzosa.
«Grazie, grazie mille!» esclamai, quasi con occhi lucidi.
Lo salutai, facendo un piccolo inchino in segno di rispetto ed uscii dalla sua stanza per la seconda volta. Se non altro, da quella caotica giornata era venuto fuori qualcosa di positivo. Il pane. Finalmente avremmo avuto un po’ di pane su quel dannato sottomarino. Non che questo risolvesse i miei problemi, ma poter fare la scarpetta con il sugo era già un gran passo avanti.
 
***
 
Chiusi gli occhi e presi un respiro profondo, sollevando anche le spalle. Buttai fuori tutta l’aria che avevo in corpo e, quando riaprii gli occhi, tutto diventò scuro, nero come la pece, ad eccezione di una figura, a qualche metro da me, che invece appariva candida e nitida. Avevo attivato l’Haki. Avevo circa cinque minuti prima che il suo effetto svanisse. Durante quei cinque minuti sarei dovuta rimanere calma. Era necessario non perdere la propria compostezza per poter utilizzare l’Ambizione. Cercai di immaginarmi nei panni di un Angelo della Morte. Non avevo le ali, né una falce, ma potevo farcela lo stesso. Dovevo essere fredda, rapida e precisa. Era la mia ultima occasione per mostrare il mio valore al maestro di karate.
«Sei pronta?» mi chiese Hack, preparandosi a combattere. Annuii e mi misi in posizione d’attacco.
Quello era uno dei miei ultimi addestramenti con lui. Dovevo farcela, dovevo vincere almeno una volta. Dovevo dimostrare che ero in grado di abbattere nemici anche più potenti di me.
Piegai le gambe fino a poggiare una mano per terra. Poi, affondai le unghie nel terriccio. Il cuore mi batteva forte nel petto e tutti i miei muscoli erano tesi. Per la prima volta in vita mia, fremevo per iniziare a combattere.
«Cominciamo» proclamò l’uomo-pesce, solenne.
Senza indugiare oltre, scattai in avanti, e lui fece lo stesso. In meno di un secondo, i nostri corpi si scontrarono. Piegò il busto verso sinistra e provò a sollevare la gamba per tirarmi un calcio, ma io lo anticipai e lo schivai prontamente. Captavo i suoi pensieri, e sapevo esattamente quali sarebbero state le sue mosse. La cosa che rendeva Hack un fantastico addestratore era che i suoi attacchi non erano mai prevedibili. Con Bepo – forse perché avevo passato anni ad allenarmi con lui – non era così. Era molto bravo e sicuramente più paziente del rivoluzionario, ma i suoi movimenti erano sempre gli stessi. Con il tempo avevo imparato a notarlo, li ripeteva ciclicamente, e questo lo rendeva un avversario meno temibile dell’uomo-pesce. Non meno valido, però.
Mi girai su un fianco, piegai la gamba sinistra e tentai di colpirlo allo stinco con un movimento rotatorio della gamba destra. Tuttavia, il colpo andò a vuoto, perché appena prima che il mio piede sfiorasse il suo polpaccio, Hack saltò indietro. Non persi tempo e lo seguii, gettandomi in avanti con tutta la forza che avevo. Feci per tirargli un pugno, ma questi indietreggiò ancora. Lo osservai per una frazione di secondo. I suoi movimenti erano così leggeri ed aggraziati che il suo corpo sembrava fluttuare per aria. In un attimo, la sua mano afferrò il mio avambraccio, stringendolo in una morsa di ferro. Provai a liberarmi, ma la sua presa era troppo salda, e lui era troppo forte per me. Ci guardammo, seri ma inespressivi.
«Non affondare. Non andare dove ti porta il tuo nemico» quasi mi ammonì.
Ghignai impercettibilmente, lo sguardo fiero e sicuro. Non ero andata dove mi aveva portato il nemico. Avevo portato il nemico esattamente dove volevo che fosse. Del resto, avevo imparato dal migliore. Il suo braccio libero indietreggiò, preparandosi a sferrare un pugno che mi avrebbe spazzata via, se mi avesse colpita. Fu lì che scattai. Saltai a piedi pari – schivando per miracolo il suo temibile pugno – ed incurvai la schiena, ritrovandomi a testa in giù in una perfetta posizione verticale. Con il braccio ancora bloccato, c’era ben poco che potessi fare. Ma “ben poco”, non stava a significare che non potevo fare niente. Diedi una rapida occhiata alla sua posizione. Il polso sinistro era ancora teso. Avrei potuto provare a colpirlo, ma sarebbe stato troppo prevedibile. Sollevò un ginocchio. Avevo pochissimo tempo. Mi portai la coscia della gamba destra al petto, poi, senza esitare, stesi la gamba in direzione della sua faccia. Il suo naso sfuggì per pochissimo al mio calcio, ma io non mi lasciai scoraggiare. Ero sicura che lo avrebbe schivato, per questo avevo elaborato un piano B. Senza allentare la presa sul mio braccio destro, fece oscillare la mano con cui lo teneva, pensando di destabilizzarmi. Tuttavia, io avevo previsto anche questo, e inconsapevolmente mi aveva fatto un grosso favore. Artigliai le mie dita alla sua spalla. Fu una mossa che mi permise di eseguire una torsione del busto e di stampargli una potente pedata sulla tempia. Il colpo lo stordì appena e lo fece allentare la stretta sul mio avambraccio, giusto per il tempo di cui avevo bisogno per liberarmi. Quando i miei piedi toccarono terra, qualche metro più in là, non potei fare a meno di sorridere. Il primo round lo avevo vinto io.
Mi girai verso di lui. Non si era mosso di un millimetro, ma aveva accusato il colpo, di questo ne ero sicura. Dopo qualche secondo anche lui si voltò verso di me. Fece un piccolo cenno del capo, che stava ad indicare che avevo la sua approvazione. In un altro contesto avrei sicuramente gioito, tuttavia non era quello il momento di deconcentrarsi. Sapevo che sarebbe tornato all’attacco con più ferocia di prima. Non per vendicarsi del “torto” subìto, ma semplicemente perché sapeva di potersi spingere oltre. Doveva farlo. Perché nella guerra che – presumibilmente – avrei affrontato a breve, contro Kaido e le sue Bestie, di certo non ci sarebbe stato spazio per convenevoli e complimenti. Non avrei avuto neanche il tempo di riprendere fiato. Mi attendevano battaglie cruente, crudeli e senza pietà. Non mi aspettavo che fosse facile, o divertente, ecco perché desideravo che Hack ci andasse giù pesante con me. Fino a un certo punto, era sottinteso.
Scossi la testa, sgombrando la mente da tutte le mie riflessioni superflue e tornai a concentrarmi. Intorno a me divenne di nuovo tutto scuro. La figura del mio avversario si mosse. Indietreggiai di qualche passo, per guadagnare tempo e preparami ad un eventuale attacco. Fece arretrare il gomito sinistro. Voleva darmi un pugno. Un pugno mi avrebbe colpito il torace, appena sotto il seno. Mi accinsi a schivarlo; tuttavia, quando fu ad appena mezzo metro da me, lasciò ricadere il braccio lungo il fianco e saltò in aria. Lo seguii con lo sguardo. Puntava alla mia testa. Maledizione. Mi aveva ingannato! Ero stata troppo impegnata ad osservare, piuttosto che percepire. Bepo me lo rinfacciava sempre. Avevo ancora tanto da imparare.
Digrignai i denti ed incrociai le braccia sopra il capo. Quella era l’unica cosa che avrei potuto fare. Le mie ossa scricchiolarono per la collisione con il tallone dell’uomo-pesce, e dovetti trattenere un gemito di dolore. Non ci era andato giù leggero. Nella settimana successiva mi avrebbero fatto compagnia un paio di macchie violacee sulla pelle. Ma era meglio così. Dovevo essere preparata al peggio, e temevo che quello non ci avvicinasse neanche, al peggio. Per fortuna, in quei mesi Hack non mi aveva solo urlato contro e riempito di botte: mi aveva anche insegnato un modo per ridurre la potenza dell’impatto. Un metodo che quel giorno non fu tanto efficace, perché le mie gambe cedettero ed io caddi in ginocchio, grugnendo poco elegantemente. Senza avere nemmeno il tempo di sbattere le palpebre, mi ritrovai con il ginocchio del rivoluzionario piantato nel petto. Tossii e sputai saliva, poi ricaddi per terra di schiena, con un tonfo. Chiusi gli occhi. Con il fiato corto, cercai di riprendere possesso del mio corpo. Non era facile, dato che ogni muscolo sembrava essersi arreso. Scossi la testa, dispiaciuta ed amareggiata, già pronta ad issare bandiera bianca con il mio addestratore.
Coraggio, Camilla. Reagisci.
La sua “voce interiore” mi arrivò chiara come il sole. Era rimasto immobile a qualche passo da me, forse per darmi il tempo di riprendermi. Ma a me non serviva tempo. Serviva forza.
Ritornai con la mente a quel fatidico giorno. Il giorno in cui Doflamingo mi aveva portato via tutto. Il giorno in cui avevo davvero pensato che sarei morta. Il giorno in cui avevo pensato che Law sarebbe morto. Volevo davvero che accadesse un’altra volta? Volevo davvero che i miei nemici l’avessero vinta così facilmente? Avremmo dovuto affrontare una guerra. Una guerra contro un Imperatore. Una guerra che non avrebbe fatto prigionieri. E questa volta, nessuno sarebbe venuto in mio soccorso. Dovevo farcela con le mie sole forze. No. Non avrei permesso a nessuno di sconfiggermi di nuovo.
Riaprii gli occhi di scatto e mi puntellai sui gomiti, iniziando a strisciare all’indietro. Hack non perse tempo. Mi fermò dal retrocedere bloccando i miei capelli – che avevo raccolto in una coda, come sempre quando si trattava di combattere – a terra con la pianta del piede. Se non fossi stata impegnata a trovare un modo per capovolgere la situazione, probabilmente avrei sbuffato una risata. Tradita dai miei capelli. Chi mai se lo sarebbe aspettato? Per fortuna erano lunghi e mi permettevano di avere un discreto spazio di manovra. Quella che stavo per fare era una delle cose più sleali che avessi mai fatto, ma... come diceva il detto? In amore e in guerra tutto è lecito. Mossi contemporaneamente il braccio e la gamba sinistri, nel tentativo di colpire il mio addestratore. Ovviamente, i miei colpi andarono a vuoto e i miei arti furono bloccati dalle sue mani. Quello, però, era solo un diversivo. Un diversivo che mi diede il tempo di sfilare uno dei pugnali dallo stivale. Non indugiai nemmeno per un secondo e gli graffiai la caviglia. Non se lo aspettava. Lo sentii ringhiare e ritirare il piede. Dentro di sé, stava maledicendo l’intero universo. A quanto pareva non era l’uomo posato ed equilibrato che voleva far credere di essere. Ero piuttosto convinta che non fosse per il dolore, quanto per il fatto di essersi fatto cogliere di sorpresa. Ma questo poco importava, al momento, perché avevo un lavoro da finire. L’adrenalina mi scorreva nelle vene, la sentivo fluire in tutto il mio corpo. Le dita formicolavano, pervase da potenti scosse di elettricità. Il cuore batteva forte, la testa sembrava impazzita, quasi come se fossi un vampiro bramoso di sangue. Non sapevo come, né perché, ma mi sentivo improvvisamente invincibile.
Mi liberai, scattai in ginocchio e poi in piedi. Schivai un colpo di Hack e, tenendo ben stretto il pugnale, ruotai su me stessa con il braccio teso avanti a me, puntando alla gola dell’uomo-pesce. I miei occhi erano fissi e spietati. Ero completamente assorbita dallo scontro; così tanto che neanche mi resi conto che avrei potuto ucciderlo compiendo quella mossa. Mi sentivo come se la mia vita dipendesse dall’esito di quel combattimento. Per fortuna il rivoluzionario era veloce. Si scansò appena in tempo.
L’impeto che avevo messo in quella azione fu tanto che mi ritrovai tutti i capelli sugli occhi. Fu come un colpo di frusta, che mi distrasse. Mi fece perdere l’equilibrio e mi rese cieca per un paio di secondi. Nonostante lo avessi previsto, non potei evitare l’inevitabile. Un potente pugnò affondò nel mio stomaco e mi catapultò all’indietro. Il coltello mi cadde dalle mani. Volai per circa cinque metri, per poi ricadere a terra con un sonoro tonfo, con tanto di capriola all’indietro. Il nero che mi circondava sparì ed il mondo ritornò colorato. Le mie interiora bruciavano e si contorcevano dal dolore nel punto in cui ero stata colpita. Mi mancava il respiro. Annaspavo e tossivo, incapace di muovermi. Il rumore dei passi di Hack riecheggiava nell’aria. Procedeva lento verso di me, segno che il combattimento era ormai giunto al termine. Una delle mie guance premeva contro il terreno, aspro, duro e freddo, mentre con la mente cercavo di metabolizzare la sconfitta. L’ennesima, per la precisione.
«Dannazione!» sibilai a denti stretti, sbattendo un pugno sul terriccio. Ce l’avevo quasi fatta. Accidenti a me e ai miei capelli.
Sopra di me, si ergeva la fiera figura dell’uomo-pesce, che se ne stava a gambe leggermente divaricate e braccia incrociate, in attesa che mi tirassi su. Per quanto mi concerneva al momento, poteva anche starsene ad aspettare in eterno. Non avevo nessuna intenzione di rimettermi in piedi. Volevo rimanere lì, a compatire me stessa.
Mi porse una mano per aiutarmi a rialzarmi. Dovevo ammettere che ancora non mi ero del tutto abituata al fatto che avesse le dita palmate e la pelle giallastra. Alla fine la afferrai sbuffando e mi rialzai. Ci guardammo per un po’, in religioso silenzio e con espressione seria. Poi, il dolore allo stomaco mi costrinse a piegarmi in avanti. Iniziai a massaggiarmi la pancia con movimenti lenti e circolari. Sulla mia faccia era comparsa un’espressione piuttosto sofferente.
«Non male. Sei migliorata» mi fece sapere. Non ne ero sicura, ma mi era parso di cogliere una punta d’orgoglio nella sua voce.
«Ma?» chiesi, in un sussurro soffocato. Ero ancora a corto di fiato. Alzai lo sguardo verso di lui, in attesa. Negli anni avevo imparato che c’era sempre un “ma”, quando le persone iniziavano così i discorsi.
«Dovresti tagliarti i capelli. Non puoi permetterti inadempienze, sul campo di battaglia, e oggi mi hai dimostrato che i tuoi capelli sono uno dei punti deboli che potrebbero portarti alla disfatta».
Espirai con forza, dopodiché mi sforzai di ritornare in posizione eretta. Subito i miei occhi si posarono sulla mia fluente chioma castana, raccolta in una coda alta la cui lunghezza sfiorava l’ombelico. Hack mi consigliava di rinunciare a quella meraviglia, che ero riuscita a far crescere con tanta fatica e dopo tanto tempo.
Non dissi né feci niente. Avevo bisogno di pensarci un po’.
«Dovresti farti disinfettare il taglio» gli consigliai a mia volta, indicandogli la caviglia con un cenno del capo. La ferita perdeva ancora sangue. Pensai che a Jasper avrebbe fatto molto piacere occuparsi di quella lacerazione, sebbene fossi consapevole che l’uomo-pesce non si sarebbe mai affidato alle cure di un ragazzino inesperto. Un piccolo sorriso fece capolino sulle sue labbra. Lo vidi allungare il braccio e porgermi il pugnale che aveva recuperato da terra un paio di minuti prima, mentre io ero troppo impegnata a contorcermi dal dolore. Lo presi, me lo infilai di nuovo nello stivale e lo ringraziai. Poi lo salutai e me ne andai, rientrando all’interno della base. L’allenamento era comunque finito.
 
“Ala sinistra. Terzo piano. Corridoio centrale. Seconda porta a sinistra” continuavo a ripetere nella mia mente. Forse sarebbe stato meglio scriverlo da qualche parte. Non avevo problemi di memoria, quanto di orientamento. E districarsi in quel labirinto di stanze che era la base dei rivoluzionari non era semplice. Mi venne da ridere nel pensare che Zoro probabilmente sarebbe morto nel tentativo di venirne fuori. Io non ero messa così male, ma avevo comunque le mie difficoltà. Più volte mi ero chiesta come facessero gli altri. Forse la forza dell’abitudine li aveva aiutati a memorizzare meglio le varie posizioni di tutti i luoghi, o forse, semplicemente, avevano adottato la mia stessa strategia: ricordarsi solo le ubicazioni dei posti che frequentavano di più e chiedere informazioni per tutto il resto. In quei mesi, avevo appena fatto in tempo ad imparare dove fosse la mia camera, quella di Sabo, quella di Koala, il bar e l’enorme ufficio di Dragon. Non sapevo nemmeno dove fosse la stanza di Jasper, o di Hack. Ma a dire la verità neanche mi importava più di tanto. Sarei ripartita un paio di giorni dopo, e a quel punto qualsiasi legame avessi instaurato con i membri dell’Armata Rivoluzionaria sarebbe svanito. Una morsa mi strinse lo stomaco. Non sapevo se fosse perché ero finalmente giunta a destinazione – dopo essermi persa circa quattro volte – o perché il pensiero che a breve avrei perso gli affetti che avevo trovato lì mi lasciava l’amaro in bocca. Poteva anche essere una reazione ritardata al pugno che mi aveva dato il maestro di karate quella mattina. Qualunque fosse la soluzione giusta al mio “dilemma”, non diedi a me stessa il tempo di rimuginarci sopra, perché non appena fui davanti alla porta della camera che stavo cercando da mezz’ora, bussai. Quando si aprì, pochi secondi dopo, trattenni il fiato. In piedi, davanti a me, apparve la bizzarra figura di una donna. Una donna per metà arancione e per metà bianca. Nella mano sinistra teneva un calice contenente vino rosso. Socchiusi la bocca, un po’ sconcertata. Non mi aspettavo di vederlo – o meglio, vederla – in tali panni, ma supponevo che succedesse più spesso di quanto mi immaginassi. Emporio Ivankov doveva averci messo lo zampino. Anzi, le unghie.
«Camilla» mi salutò la rivoluzionaria, piacevolmente sorpresa.
«Inazuma» la salutai io, accompagnandomi con un cenno del capo.
«Cosa posso fare per te?» mi chiese, accompagnando le sue parole con un sorso di vino. Fissai il bicchiere mordendomi il labbro inferiore. Non lo volevo bere, speravo solo che fissare la sostanza alcolica che di solito mi dava tanto coraggio me ne desse anche quella volta.
Ritornai a guardare Inazuma, poi presi un respiro profondo e mi decisi a parlare.
«Ho sentito che sei il barbiere...» mi stoppai e la squadrai da capo a piedi «La parrucchiera. La parrucchiera ufficiale dell’Armata Rivoluzionaria» mi corressi, iniziando a torturarmi le dita.
«Vuoi una sistemata alla barba?» domandò, ghignando.
Risi, e la tensione che mi ostruiva le vene si sciolse. La sua versione femminile era meno seria e posata di quella maschile. Avrei detto che era perfino più sbarazzina. Anche la sua espressione era diversa.
Si fece da una parte e mi invitò ad entrare nella sua stanza con un cenno del capo. Sospirai, mi dondolai un paio di volte sulle punte dei piedi ed infine varcai l’uscio. Quando la rivoluzionaria richiuse la porta, sperai e pregai di aver preso la decisione giusta. Ma ormai non c’era tempo per i ripensamenti. Era arrivata l’ora di darci un taglio. Letteralmente.
 
***
 
Osservai il mio riflesso. Quella sarebbe stata l’ultima volta che mi sarei specchiata in quello specchio. Lo specchio ovale che c’era in camera mia, sopra al comò, appeso alla parete celestina alla destra del mio letto. Quello con la cornice dorata che sembrava la versione meno inquietante di quello della Regina Cattiva in “Biancaneve e i sette nani”.
Mi sistemai i capelli, ormai lunghi appena abbastanza da sfiorarmi le spalle, dietro le orecchie. Inazuma aveva fatto un buon lavoro con la mia chioma castana. Quasi mi piacevo più, con quel taglio. Il mio viso appariva più luminoso, i miei occhi più grandi e la mia capigliatura sembrava più folta e voluminosa di quanto fosse mai stata. Inoltre, mi sentivo molto più leggera, ed ero più tranquilla per quanto riguardava il dover combattere. Avevo ancora tante pecche, ma se non altro avevo depennato dalla mia lista uno dei punti deboli che avrebbero potuto costarmi la vita. Mi pareva di aver capito che anche a Sabo e Koala piacessi di più, con i capelli corti. Quando Hack mi aveva visto dopo il “cambio di stile” non aveva detto niente. Si era limitato a rivolgermi un cenno d’assenso.
La decisione di accorciare i capelli di circa mezzo metro, fino a qualche anno fa, per me sarebbe stata una scelta critica. Ma la verità era che stando lì avevo imparato a discernere le cose realmente rilevanti da quelle di poco conto. E quella non era una cosa importante; non troppo, almeno. I capelli sarebbero pur sempre ricresciuti, prima o poi.
Appoggiai le mani sulla superficie liscia del comò e sospirai. Il legno, sotto i miei palmi, era freddo. Mi soffermai ad osservare gli intarsi preziosi. Sembravano avere più valore di quanto avesse la mia vita. Mi sarebbe mancato, tutto quello. Il comodissimo letto a baldacchino e la vasca da bagno enorme sarebbero state le due cose che mi sarebbero mancate di più. Ma avrei sentito la mancanza anche dell’incredibile varietà di colori che tinteggiavano le pareti ed i pavimenti di quella base. Una volta tornata sul sottomarino, tutti quei colori si sarebbero ridotti ad appena due – non troppo felici – nuances: il grigio e il bianco. Avrei avuto nostalgia persino degli immensi e maestosi quadri appesi ai muri dei corridoi, che talvolta mi suscitavano inquietudine. Sbuffai una risata al pensiero.
“Al diavolo i colori e i quadri” pensai “ho bisogno di tornare dai miei amici”. I Pirati Heart erano la cosa più vicina ad una famiglia che avessi al momento, ed ero felice di potermi finalmente ricongiungere con loro. Sentivo che era quello il mio posto, con tanto di austerità e grigiore.
Staccai le mani dal mobile e mi diressi verso il bagno. Non volevo pensare alle persone la cui assenza avrei avvertito più, perché non volevo intristirmi. Non subito. Non ero nemmeno partita, ancora. Avrei avuto tutto il tempo di pensarci una volta salita sulla nave. Per il momento, volevo imprimermi tutto nella mente, per ricordarmi di quell’esperienza, di come mi avesse cambiata, fortificata e resa una persona migliore. Volevo pensare solo alle cose positive, come le persone che avevo conosciuto e quelle che avevo rivisto e di cui avevo alimentato i sogni e le speranze. Volevo pensare all’utilità che avevo avuto e al ruolo – seppur decisamente piccolo – che avevo giocato nell’ipotetico rimodellamento e miglioramento di quel mondo. Tenni lo sguardo fisso sulla vasca da bagno per un paio di minuti. Un piccolo sorriso fece capolino sulle mie labbra nel momento in cui mi ricordai dell’episodio avvenuto poche settimane prima proprio in quella vasca: io e Sabo, schiacciati come sardine, che giocavamo con la schiuma, ci schizzavamo e ci provocavamo a vicenda. Il pavimento era diventato il teatro di una sanguinosa guerra all’ultimo schizzo. Quella vicenda faceva parte di una lunga lista di ricordi che avrei custodito nel cuore per sempre.
Mi appoggiai allo stipite della porta ed incrociai le braccia. La stanza era immersa in un silenzio assordante. L’unico suono che udivo era il rumore dei miei pensieri. Sospirai di nuovo, spostando lo sguardo sulla parete di fronte a me. Non ci avevo mai fatto caso fino a quel momento, ma il motivo che vi era dipinto era molto bello. Le piastrelle erano verde bottiglia, mentre alcuni disegni a spirale ed arzigogolati in oro brillante coprivano la parte superiore del muro ed andavano a formare un fiore ad otto punte ogni quattro mattonelle. Di certo, chiunque fosse stato a scegliere l’arredamento delle varie stanze della base in cui mi sarei trovata ancora per poco aveva buon gusto e sembrava essere una persona accorta, raffinata ed elegante. Quasi mi stupii di me stessa nel momento in cui lo pensai. Se non altro, se fossi stata costretta ad abbandonare la mia carriera da chirurgo, avrei potuto pur sempre ripiegare su quella da arredatrice di interni, o da critica d’arte, perché no. Proprio mentre riflettevo sulle possibili professioni alternative che avrei potuto svolgere, qualcuno bussò alla porta. Mi voltai ed aspettai qualche secondo prima di andare ad aprire.
«È tutto pronto, Camilla-san» mi fece sapere la voce di un anonimo rivoluzionario, in piedi di fronte a me, una volta che ebbi aperto la porta.
“Ci siamo. È ora.” pensai, poi annuii un paio di volte.
«Dammi un minuto. Arrivo.»
Quello assentì, dopodiché fece un passo indietro. Richiusi il portone di legno senza curarmi dell’uomo. Non sapevo se mi stesse aspettando o se se ne fosse andato, ma in ogni caso avrebbe capito.
Scrutai per l’ultima volta la camera che in quei mesi mi aveva ospitato. Mi premurai di squadrare ogni centimetro e di imprimermelo bene nella mente. Quando toccò al letto, in me riaffiorarono tanti ricordi. Dopotutto, non avendo altra roba all’infuori delle mie armi e dei miei stivali, i ricordi che avevo di quel posto erano tutto ciò che potevo portare con me. Lo visualizzai con le lenzuola sgualcite, mentre i vestiti giacevano abbandonati sul pavimento; Sabo che tentava di tirare via le coperte per vedermi ancora una volta nuda. Rividi tutte le evoluzioni che io ed il biondo avevamo fatto su quel materasso ed il cuscino bagnato dalle mie lacrime a causa dei terrificanti incubi che per settimane avevano infestato il mio sonno. Ripensai a tutte le volte che mi ero buttata sulla trapunta di ritorno dagli allenamenti di Hack, distrutta, dolorante e stanca morta.
Gettai un’occhiata alla finestra. I tramonti, il cielo stellato e l’oceano, visti da lì, apparivano mozzafiato. Mai quanto la vista che c’era dal terrazzo dell’ultimo piano – avevo passato tutto il giorno precedente appollaiata lassù – ma era pur sempre meglio dell’infinita e scura distesa d’acqua che vedevo ogni volta che mi affacciavo dall’oblò del Polar Tang.
Alzai una mano e la mossi guardando un punto imprecisato all’interno della stanza, come a darle il saluto finale. Non avevo avuto la possibilità di dire addio alla mia famiglia, però potevo rifarmi salutando quella camera. Forse era stupido, ma non mi importava. Non avrei fatto lo stesso errore una seconda volta. Avevo smesso di dare tutto per scontato.
Mi girai, avanzai verso la porta, la aprii e me la richiusi alle spalle, senza voltarmi a guardare indietro. Ero pronta ad andare.
 
«Grazie per non esserti arreso con me. E grazie per essere stato un maestro inflessibile» dissi ad Hack, in piedi di fronte a me «Se sono diventata più forte, è solo per merito tuo» gli feci sapere poi, stringendomi nelle spalle. Eravamo entrambi piuttosto imbarazzati dalla situazione. Lui sembrava addirittura un po’ scocciato di stare lì. Non gli si poteva dare torto, però. Ero sicura che avesse di meglio da fare che mettersi a scambiarsi manifestazioni d’affetto con una ragazzina in pubblico.
Una schiera di persone, allineate come un plotone d’esecuzione sulla banchina di quel porto improvvisato, era venuta a salutarmi. Alcuni erano lì semplicemente per cortesia, dato che non li avevo mai visti prima, mentre altri erano venuti a salutare i loro amici – quelli che facevano parte dell’equipaggio che mi avrebbe condotto dai Pirati Heart –, che non avrebbero rivisto per un paio di settimane. Un gruppetto di rivoluzionarie civettuole, invece, era venuta a salutare Sabo. Vederle sbracciarsi per cercare di attirare l’attenzione del Capo di Stato Maggiore mi aveva fatto ghignare con malizia, e in un momento di cattiveria avevo pensato che ero stata io a vincere l’oggetto dei loro desideri, per giunta senza fare alcuno sforzo. Ma questo non c’era bisogno che lo sapessero.
«Tieni bene a mente quello che ci siamo detti in questi mesi.»
La voce del maestro di karate mi fece tornare alla realtà.
«E cerca di restare viva» si limitò a dire una volta che ebbe di nuovo la mia totale attenzione. Annuii solenne. Apprezzavo molto il fatto che me lo avesse detto, perché stava a significare che in fondo, molto in fondo, si era affezionato a me.
«Non deluderò il mio maestro» affermai convinta, poi feci un piccolo inchino all’uomo-pesce. Non sapevo che altro fare. Sospettavo che odiasse gli abbracci, e non mi sembrava il caso di stringergli la mano. Nessuno lo faceva, in quel mondo. Io, invece, odiavo gli adii. Mi mettevano malinconia e non avevo mai idea di cosa dire o fare. Non mi piaceva pensare che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei mai visto la maggior parte di loro. E mi piaceva ancora meno pensare alle parole giuste da pronunciare. Se dovevo separarmi da qualcuno, volevo che fossero spontanee, come lo erano state quelle che mi ero scambiata con i miei famigliari. A loro, però, non mi era stato concesso di dire addio.
«Fai buon viaggio, Cami».
Per la seconda volta, una voce mi distrasse dai miei pensieri. Alzai lo sguardo di scatto. Koala si era posizionata davanti a me e mi stava fissando con i suoi occhioni color cobalto. Sembrava serena, ma sapevo che le dispiaceva doversi congedare da me. Guardai oltre la sua spalla. I membri dell’equipaggio stavano caricando le ultime casse di legno sulla caravella. Osservai per qualche secondo la nave. Era piccola, ma ero convinta che potesse affrontare il mare e cavalcare le onde con coraggio, proprio come la Going Merry. Sulla fiancata sinistra, di un color bianco brillante, c’era scritto il nome della barca: Marie Jolie. Un nome insolito, per essere una nave appartenente all’Armata Rivoluzionaria. Forse lo avevano scelto apposta, per non destare troppi sospetti.
«Mi mancherai. Mi mancherai tantissimo» confessai alla mia interlocutrice, ritornando a guardarla.
«Anche tu! Ma ci rivedremo, prima o poi. Ne sono sicura» mi disse, prendendomi una mano tra le sue e stringendola. La sua pelle era calda, morbida e confortevole.
Annuii con convinzione. Avevamo entrambe gli occhi lucidi.
«La prossima volta che ci vediamo, andiamo a fare shopping insieme. Offro io. Ti devo dei vestiti, dopotutto» le feci sapere, con un tono scherzoso ed al contempo autoritario.
Ridemmo insieme. Quando rideva, gli occhi le si increspavano agli angoli e la sua espressione era ancora più radiosa del solito. Avrei sentito molto la sua mancanza. Era diventata mia amica molto in fretta, ma non era solo un’amica. Per me era anche una guida, un modello da seguire, una presenza piacevole e positiva nella mia vita. Rappresentava una delle poche certezze che avevo in quel momento, e privarmene sarebbe stata dura.
La abbracciai stretta ed inspirai il suo odore. Perfino il suo profumo era buono. Sapeva di limone, vaniglia e fragola.
«Tieni d’occhio la bestia» si raccomandò Koala una volta che ci fummo staccate, indicando un punto imprecisato della caravella con il capo. Ci guardammo eloquentemente. Ero chiaro come il sole che si riferisse a Sabo, che infatti era già a bordo della barca.
«Lo farò, anche da parte tua. Questa settimana ci penso io a lui, ti prometto che lo terrò in riga. Non farà danni, vedrai» la rassicurai con sguardo fermo «O almeno, non ne farà troppi» aggiunsi, distogliendo lo sguardo e riflettendo sull’impossibile carattere del biondo. La ragazza rise di nuovo.
«Se si comporterà male lo verrò a sapere e gliela farò pagare» affermò, con un grazioso sorrisetto diabolico dipinto sul volto. Avevo trovato qualcosa con cui ricattare il fratello di Rufy.
«Me lo saluti tu Dragon?» le chiesi. Un po’ mi dispiaceva non essere riuscita a farlo di persona, ma non potevo sapere che sarebbe partito per una missione proprio un paio di ore prima che lo facessi io. Non che fosse un problema, sapevo che Koala lo avrebbe fatto al posto mio, e sarebbe stata anche felice di farlo. Di tutti quelli che avevo conosciuto in quella base, lei era la più affidabile. Non per niente annuì.
Ci abbracciamo un’altra volta. Le strofinai affettuosamente le mani sulla schiena e lei fece lo stesso.
«Grazie di tutto» le sussurrai, appoggiando il mento sulla sua spalla.
«Grazie a te!» mi sussurrò di rimando, stringendomi ancora più forte.
Quando ci staccammo, da brava mamma chioccia mi sistemò i vestiti, allisciandone la superficie con il palmo delle mani. Poi mi diede un’ultima occhiata, colma di commozione e nostalgia allo stesso tempo. Le sorrisi. Quello non era un addio definitivo. Ci saremmo riviste, me lo sentivo.
«Pare che tocchi a me» fece Jasper, con un’alzata di spalle. Lo squadrai alzando un sopracciglio.
«Non ho molto da dirti, ragazzino» gli feci sapere, dura.
La sua espressione si incupì appena. Sembrò rimanerci male. Non era di certo un mistero che fosse permaloso. Gliel’avevo fatta.
«La prossima volta che ci vedremo, sarai diventato un grande medico» affermai. Il mio viso si aprì in un ampio sorriso.
Sorrise anche lui. Per la prima volta da quando lo conoscevo, sul suo volto vidi un accenno di gioia.
«Puoi starne certa!» esclamò, negli occhi aveva un luccichio.
Gli sorrisi di nuovo, fiera e materna, poi gli feci l’occhiolino ed un piccolo cenno del capo, che stava ad indicare che avevo piena fiducia in lui. Sapevo che ne aveva bisogno, perché anche io, a suo tempo, ne avevo avuto bisogno. E forse ne avrei avuto bisogno ancora.
Gli poggiai una mano sulla testa – senza mancare di notare che era diventato più alto di me in quei mesi – e gli scompigliai affettuosamente i capelli, che diventarono ancora più vaporosi dopo che li ebbi spettinati. Jasper rise e cercò di scacciare la mia mano dalla sua chioma. Anche se era cambiato, il suo lato burbero era rimasto lo stesso di sempre.
«Ehi, Wein» chiamai il barista, anche lui accorso lì per salutarmi «Non servire troppe bevande alcoliche al ragazzino» mi raccomandai una volta che si fu avvicinato. Ridemmo insieme.
«Senza di te, per la prima volta dopo quattro mesi, le mie scorte di vino rimarranno intatte» disse, facendomi sbuffare una risata «Ecco perché ne ho fatti caricare due barili sulla caravella» aggiunse, strizzandomi l’occhio con aria eloquente. Lo fissai stupita, cercando conferma nella sua espressione. Quando capii che non stava scherzando, alzai le braccia al cielo.
«Oh, grazie a Dio!» dichiarai, con fin troppa enfasi. Per fortuna ci aveva pensato Wein a rallegrarmi la giornata. Entrambi sapevamo che non avrei potuto stare senza vino per una settimana intera.
«Ti stanno chiamando. Forse dovresti andare» intervenne Jasper, osservando la caravella alle mie spalle.
Mi umettai le labbra con la punta della lingua, poi feci un cenno d’assenso. Mi girai e, prendendo un respiro profondo, mi incamminai verso la nave. Percorsi la passerella che fungeva da scala senza pensare a niente. Non sapevo se essere dispiaciuta per le persone che mi stavo lasciando alle spalle o se essere contenta per quelle che avrei rivisto a breve.
Quando misi piede sul ponte della caravella, alzai la testa e vidi Sabo. Mi sorrideva, circondato dal suo solito alone di allegria.
«Sei pronta?» mi chiese.
«Sì» risposi, appena prima che la passerella venisse ritirata.
Mi voltai e mi appoggiai al parapetto di legno, mentre una leggera brezza faceva ondeggiare i miei capelli. Da lì si vedeva tutta l’isola. Koala, Jasper e Wein mi stavano salutando con la mano. Ricambiai il gesto. Mi piaceva pensare che avevo lasciato qualcosa di me, a quelle persone. A quel posto. Loro lo avevano fatto, con me. Era stata un’esperienza difficile, ma unica e magnifica.
Mentre un membro dell’equipaggio impartiva l’ordine di levare l’ancora, nella mia mente riaffiorarono una miriade di immagini. Conservavo un ricordo per ogni centimetro di quella terra dal nome e dalla posizione sconosciuti. Tuttavia non era il momento di pensarci. Da adesso in poi avrei dovuto guardare al presente, prima di tutto, e poi al futuro, che mi stava aspettando a braccia aperte.
La mia partenza da quell’isola non segnava la fine di niente. Era solo l’inizio di un nuovo capitolo della mia vita.





Angolo autrice
Ci siamo! Finalmente Cami sta per tornare dai suoi adorati compagni! Per l'occasione si è anche fatta fare un nuovo taglio di capelli da Inazuma, l'esclusiva e richiestissima parucchiera dei VIP nel mondo di One Piece!
Scherzi a parte, in questo capitolo è presente un paragrafo dedicato interamente all'addestramento di Camilla. Scriverlo è stato un lavoraccio, ma ci tenevo a fare una panoramica generale sull'allenamento della ragazza, sul trattamento che le riserva Hack, su come sia migliorata nell'usare l'Haki e sulle cose sulle quali deve ancora lavorare. Spero che le scene proposte in tale paragrafo siano chiare, scorrevoli e non troppo noiose o ripetitive.
Quanto al resto, mi auguro che il capitolo vi sia piaciuto! Ringrazio di cuore chi ha ancora la pazienza di seguire la storia e chiunque vorrà lasciarmi una recensione. <3
A presto!
 

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Capitolo 56
*** Viaggio ***


Con il gomito poggiato sul freddo legno del parapetto della nave, il busto piegato in avanti, una mano a sorreggere la testa e un bicchiere di vino ancora pieno nell’altra, sospirai. Osservavo l’orizzonte, non troppo distinguibile a causa della leggera nebbia che quel giorno avvolgeva la caravella. Riuscivo ad intravedere solo l’immensa distesa marina e il cielo grigiastro. La base dei rivoluzionari già iniziava a mancarmi, e con essa anche le persone che vi avevo incontrato. Ormai mi ero abituata a quel posto, a stare lì. Mi ero abituata ai duri allenamenti di Hack ed alla sua eccessiva serietà, mi ero abituata agli sguardi severi di Dragon e perfino alle stravaganze di Ivankov, alle quali ogni tanto ero stata costretta a testimoniare. Mi ero fatta un’amica tra le fila dell’Armata, una ragazza che avevo scoperto essere veramente stupenda. E poi, beh, mi ero fatta anche qualcos’altro. O meglio, qualcun altro. Più e più volte.
Mi passai una mano su tutta la faccia al pensiero di quanto successo; poi ingollai un generoso sorso di vino. Se mai avessi rincontrato Rufy, non sarei stata capace di guardarlo in faccia dall’imbarazzo. Certo, lui non sapeva niente – e molto probabilmente neanche avrebbe capito di cosa si stava parlando – ma era pur sempre il fratellino di Sabo. Una parte di me si sentiva colpevole, come se fossi stata io a macchiare il ricordo che il moro aveva di suo fratello, come se fossi stata io a portargli via l’innocenza. Sapevo che non era così, però al momento non potevo fare a meno di crederlo. Scossi la testa e cercai di non pensarci più. Tanto ormai quel che era fatto – e rifatto, anche – era fatto. Non ero sicura che io ed il biondo avessimo finito con i nostri “incontri occasionali”, però. Avevamo ancora sei giorni da passare sulla stessa nave, e nessuno dei due aveva dei compiti da eseguire, né altre attività da svolgere.
Ad ogni modo, mi sarebbe piaciuto rimanere in quella base per un altro po’ di tempo. Anche solo una settimana. Sarei dovuta diventare più forte, avrei dovuto chiedere più informazioni a Dragon, avrei dovuto approfittare di più del tempo che mi rimaneva con Koala, avrei dovuto insegnare a Jasper più cose sulla medicina. Sentivo di non aver finito di fare quello che dovevo fare. Ma la verità era che non mi importava tanto, perché mi mancavano terribilmente i miei amici e non vedevo l’ora di tornare da loro. Mi mancavano i miei compagni di bevute e di bravate, Shachi e Penguin. Mi mancava la premura di Bepo e mi mancavano persino i suoi duri allenamenti, perché in confronto a quelli dell’uomo-pesce erano una passeggiata. E, anche se non lo avrei mai ammesso, mi mancava Law. Mi mancava tanto. In quei mesi avevo pensato spesso ai suoi occhi color grigio platino, alle sue basette nere e folte, al suo pizzetto, ai suoi orecchini dorati, al suo naso perfettamente simmetrico e alla sua espressione, magnetica e misteriosa. Me l’ero immaginato più volte mentre mi rivolgeva il suo ghigno sbarazzino, come ad ammonirmi quando facevo qualcosa di sbagliato o di nocivo per me stessa – ad esempio quando esageravo con il vino – e ad incoraggiarmi, quando invece facevo qualcosa di buono, tipo quando insegnavo a Jasper una nuova procedura medica e lui capiva subito. La medicina, mi mancava molto anche quella. Mi mancava operare, infilare le mani nel corpo di un altro essere umano e vedere gli organi che riprendevano a funzionare grazie al mio tocco. Mi bloccai per un attimo. Santo Cielo, stavo diventando più sadica del mio capitano! Risi, poi sbattei le palpebre un paio di volte nel tentativo di scacciare quell’immagine perversa dalla mia testa.
In un istante, mi incupii. Perché... cosa sarebbe successo se a causa del mio polso tremolante fossi stata costretta ad abbandonare la chirurgia per sempre? Cosa sarebbe successo se non fossi stata in grado di riprendere appieno la funzionalità del mio arto? Se non fossi riuscita a superare le mie paure ed i miei timori?
Una folata di vento improvvisa mi fece rabbrividire e fui costretta a stringermi nelle braccia.
«È tutto a posto, Camilla-san?»
Una voce alle mie spalle mi fece raddrizzare il busto e voltare. Apparteneva ad un rivoluzionario che stava passando lo straccio sul ponte.
«Se sente freddo, posso portarle delle coperte. Oppure posso chiedere al cuoco di prepararle una bevanda calda» mi propose.
«Oh, no, grazie. Sto bene» risposi, con la stessa cordialità che mi aveva rivolto lui. Quello annuì, mi sorrise e poi tornò a pulire il ponte.
Tutti i membri dell’equipaggio erano estremamente gentili con me. In realtà, tutti i membri dell’Armata Rivoluzionaria – Hack a parte – erano stati gentili con me. Se non avessi avuto una ciurma da cui tornare, mi sarei unita volentieri ai rivoluzionari e alla loro causa. Volevano rendere il mondo un posto migliore, e io avevo tanto da dire sull’argomento, così come avevo tanto da imparare. In quei giorni, in mancanza di altro da fare, mi ero divertita ad ascoltare i loro discorsi durante i pasti. Parlavano di missioni andate a buon fine, di posti strani, di incentivi e motivazioni, di popolazioni convertite e di quanto fosse bello combattere per una giusta causa. Ognuno di loro sembrava aver trovato il proprio scopo di vita all’interno dell’Armata, e io non potevo fare a meno di essere un po’ invidiosa. Anche io avevo trovato il mio scopo nella vita, ma forse non avrei potuto più servirlo. La mia era una situazione incerta, e non sapere mi faceva impazzire.
In ogni caso, ognuno dei rivoluzionari presenti sulla caravella sembrava ben felice di compiere quel viaggio apparentemente inutile e di privarsi delle comodità che offriva loro la base. L’equipaggio era composto da dodici persone, oltre me e Sabo; ed io ero l’unica donna a bordo. Sulla nave c’era una sola cabina – e di conseguenza un unico letto – che avevano concesso di buon grado a me. Tutti gli altri, invece, erano costretti a dormire nella stiva, su delle traballanti e scomode amache che avevano sistemato sul momento. Neanche a dirlo, il fratello di Rufy aveva approfittato della situazione per rimediare un letto. Il mio. Non che mi desse troppo fastidio, in fondo, essendo un letto a due piazze, lo spazio per lui non mancava. Tuttavia fino a quel momento ci eravamo limitati a dormirci; e mi ero assicurata che tutti capissero che su quel letto dormivamo e basta. Niente di più. Stavo cercando con tutte le mie forze di depurarmi da lui e dall’effetto che mi faceva. Dovevo farlo.
Mi sembrava comunque assurdo che i rivoluzionari sollevassero così tanta polvere per una sola persona. Una persona che contava meno di zero, oltretutto. Dragon non era dello stesso parere, ma io in cuor mio sapevo che era così. Insomma, che bisogno c’era di mobilitare dodici uomini – più il numero due dell’Armata – per... me? Almeno, con la scorta che mi aveva assegnato, ero abbastanza tranquilla. Non correvamo molti pericoli. Mi avevano detto che avevano scelto la rotta più sicura da percorrere, una rotta studiata a tavolino che riduceva al minimo eventuali rischi di qualsiasi tipo. Inoltre, la caravella era ben camuffata e da lontano nessuno avrebbe detto che fosse appartenuta all’Armata Rivoluzionaria. Con un pizzico di fortuna saremmo arrivati a destinazione sani e salvi.
 
***
 
«Ti odio.» sibilai a corto di fiato, ricadendo pesantemente con la schiena sul materasso.
Sabo emise un debole mugugno, come a ricordarmi che glielo dicevo ogni volta, ed ogni volta andava a finire nella stessa maniera: con delle lenzuola sgualcite e noi stesi sulle suddette lenzuola, nudi, sudati e ansanti.
«Dico sul serio» rimarcai «Io dovrei disintossicarmi da te, ma tu non me lo permetti!»
«Non è colpa mia se ho un fascino irresistibile» commentò il biondo. Udii un lieve struscio, segno che doveva essersi voltato a guardarmi. Io, però, non mi girai e tenni lo sguardo fisso verso il soffitto in legno della cabina.
«Cerca di essere serio, per una volta in vita tua» lo rimproverai, sospirando subito dopo. Per un po’ nessuno parlò.
«Che vuoi che ti dica? Fossi in te mi godrei questi momenti più che potrei» si limitò a dire. Il suo consiglio non era del tutto sbagliato, ma il modo che aveva di ridurre tutti i problemi a dei semplici granelli di sabbia mi dava altamente sui nervi.
Alzò le braccia ed intrecciò le mani dietro la nuca. Le mie narici furono invase da un pungente odore mascolino, che tuttavia ignorai. Invece, sbuffai una risata.
«Certo, la fai semplice, tu...» feci sarcastica – ed anche un po’ risentita – sollevando un sopracciglio.
Iniziai a picchiettare le dita contro il materasso. Due giorni. Avevo resistito per appena due giorni. Nemmeno il vino – che continuavo ad ingerire in quantità industriale – era riuscito a distrarmi. Anzi, se possibile mi aveva reso ancora più anelante. Nulla poteva distogliermi dal bruciante desiderio che provavo per lui. Non c’era niente che potessi fare in proposito. Dovevo semplicemente accettarlo. Dovevo accettare il fatto che ero un essere umano ed in quanto tale avevo delle debolezze. Come il vino, o il caffè. In fondo, il desiderio che provavo nei confronti di Sabo non era poi tanto diverso, giusto? Era solo una debolezza come un’altra.
«Sei tu che ti complichi la vita» affermò calmo. Aggrottai la fronte e schiusi la bocca in procinto di parlare, tuttavia ci ripensai. Anche stavolta, non potevo dargli torto. Ma il fatto che non potessi dargli torto non mi faceva desistere dall’arrabbiarmi. Mi tirai su di scatto, cercando di coprire le mie forme come meglio potevo con il lenzuolo e mi voltai verso di lui.
«No, Sabo! Sei tu! Sei tu che mi complichi la vita!» gli gridai.
«Perché ti scaldi tanto? È solo un po’ di sesso» fece, girandosi dall’altra parte, su un fianco. Grugnii senza farmi sentire. Era tipico di lui. Quando la conversazione iniziava a diventare “scomoda”, o si rivestiva, si alzava e se ne andava, lasciandomi lì come un’ebete, oppure si girava dall’altra parte, mettendosi a sonnecchiare – o fingendo di farlo – beatamente. Era come se per lui non avesse importanza. Come se io non avessi importanza. E non pretendevo di averne, perché sapevo da ben prima di conoscerlo che tipo fosse e sapevo che per lui la maggior parte delle cose era effimera, ma credevo di meritare almeno un po’ di considerazione da parte sua. Non volevo fare la bambola gonfiabile e basta. Non volevo essere una semplice ragazza di passaggio nella sua vita, né volevo che mi considerasse una dai facili costumi.
Lo sbadiglio che udii poco dopo confermò una delle opzioni che avevo vagliato. Sospirai, cercando di rilassarmi. Poi mi stesi di nuovo sul materasso.
«Vuoi davvero sapere perché mi scaldo tanto?» gli chiesi. La luce del sole di mezzogiorno era filtrata prepotentemente dall’oblò della cabina e adesso illuminava quasi completamente la parete alla nostra destra.
La stanza era piuttosto piccola e spoglia, e al suo interno vi era solo l’indispensabile. Le pareti, il pavimento ed il soffitto erano in legno. Di fronte alla porta c’era il letto – che non era molto comodo, ma neanche troppo scomodo – alla cui destra vi era situato un minuscolo comodino, anch’esso in legno, con sopra una lampada ad olio. Accanto ad esso vi erano un paio di casse contenenti le scorte di pane che mi ero fatta procurare. Alla destra della porta, sul muro di fronte al letto, invece, c’era appeso un piccolo specchio antico ed impolverato, che mi serviva giusto per accertarmi di non avere un aspetto troppo trasandato o pauroso al mattino, prima di andare a fare colazione insieme agli altri. Un piccolo oblò situato sulla parete alla sinistra del comodino filtrava la luce diurna e conferiva alla camera una parvenza meno legnosa. Mi ricordava vagamente quello presente nella cabina che avevo sul Polar Tang.
Sabo girò la testa e mi fissò da oltre la sua spalla. Non avrei voluto rivelarglielo, ma in certi casi essere sinceri è la cosa migliore da fare.
«Perché una volta che sarò tornata sul sottomarino, tu non ci sarai più. Sia chiaro, non sei una presenza indispensabile nella mia vita. Posso vivere senza di te, ma al momento, per quanto mi costi ammetterlo, ho bisogno di te. Però tu non ci sarai più tra qualche giorno. Dovremo salutarci a breve, e onestamente...»
Avrei voluto finire la mia frase, ma il biondo non me lo permise.
«Potrei anche decidere di restare per un po’» affermò, con una calma quasi scoraggiante.
Il mio cuore perse un battito. Mi tirai di nuovo su e mi voltai a guardarlo. Pensai subito che stesse scherzando.
«Sul Polar Tang?» gli chiesi, aggrottando la fronte.
«Perché no?»
Cercai di nascondere il sorriso da ebete che aveva fatto capolino sulla mia faccia. Sorriso che scomparve non appena mi raffigurai l’ipotetica situazione che si sarebbe venuta a creare se il rivoluzionario avesse deciso di rimanere e fosse diventato mio ospite sul sottomarino. Per quanto l’idea mi facesse piacere, c’erano troppe complicazioni di mezzo.
«Sul serio? E saresti disposto ad affrontare la furia tripla di Dragon, Hack e Koala?» volli sapere, piegando la testa di lato. Ero piuttosto sicura che sarebbe stato in grado di tenere testa a Dragon e Hack, ma con Koala sarebbe stata tutta un’altra storia...
«Non devo rendere conto a nessuno delle mie azioni» dichiarò. Nella sua voce percepii una punta di risentimento. Sospirai e tentai di farlo ragionare.
«Mi sta bene, ma sei pur sempre il numero due dell’Armata Rivoluzionaria. Il secondo in comando. Contano tutti su di te, non puoi piantarli così, su due piedi» lo ammonii «E poi, non credo che saresti visto di buon occhio dai miei compagni» aggiunsi ridendo. Cercai di immaginarmi la situazione, per poi scuotere la testa subito dopo. Shachi e Penguin lo avrebbero visto come un potenziale rivale, Maya avrebbe fatto delle allusioni inopportune per tutto il tempo e Ryu lo avrebbe guardato male dalla mattina alla sera. C’era, inoltre, un altro soggetto da considerare nell’equazione: Kenji.
«E dal tuo capitano?» mi chiese, forse più per curiosità che per altro. In quei mesi avevo imparato a conoscerlo almeno un po’, quindi ero sicura che a lui non importasse di non essere visto di buon occhio da un branco di squinternati.
Ci riflettei un attimo. Ero incapace di trovare una risposta. O meglio, ero incapace di trovare una risposta giusta.
«Non ne ho idea. Con lui non si può mai sapere» risposi pensierosa, accompagnandomi con un’alzata di spalle.
«A me è parso un tipo piuttosto ragionevole» considerò, facendo rotolare il corpo sul materasso e girandosi completamente verso di me.
Scoppiai in una fragorosa risata, che durò per un paio di minuti buoni.
«Purtroppo o per fortuna, non lo conosci» affermai, asciugandomi teatralmente l’angolo di un occhio con l’indice.
«So chi è, però» replicò atono.
Sbuffai una risolino. Certo che sapeva chi era. La sua fama lo precedeva. Chirurgo della Morte: un soprannome che era un perfetto biglietto da visita per il pirata dagli occhi di ghiaccio. Ma per sapere chi fosse davvero Trafalgar Law non bastava aver letto un paio di articoli di giornale che parlavano di lui. A dire la verità, non bastava neanche viverci tutti i giorni a stretto contatto. Il mio capitano era fatto così. Era la persona più sfuggente ed enigmatica che avessi mai incontrato. Mi accorsi che stavo sorridendo con un’ebete solo nel momento in cui me lo fece notare Sabo.
«Sai che c’è? Non importa. Non ne parliamo più» lo sollecitai, scostando le coperte e cominciando a radunare i miei vestiti. Era pur sempre ora di pranzo, ed ero sicura che il rivoluzionario non se lo sarebbe perso per nulla al mondo.
 
***
 
Il clima, lungo la rotta che avevano accuratamente scelto i rivoluzionari, era imprevedibile; com’era giusto che fosse nel Nuovo Mondo. Un giorno c’era il sole, il giorno dopo c’era una foschia così fitta che non si riusciva a vedere ad un palmo dal naso, mentre quello dopo ancora avrebbe potuto nevicare. E, da quello che avevo capito, gli sbalzi climatici e di temperatura sarebbero andati avanti così per tutta la settimana. Quel giorno – il terzo di navigazione – tirava un vento fortissimo e gelido. Continuavo a ripetermi che sarebbe stato meglio se fossi rimasta nella cabina, al caldo e al sicuro da potenziali malanni, ma mi annoiavo terribilmente. Non avevo niente da fare. Sabo aveva deciso di farsi un pisolino – sul mio letto, ovviamente – dopo il lauto pasto che aveva consumato, ed io non volevo disturbare il suo sonno. No. In realtà non ero così altruista. La verità era che il biondo russava e io non avevo alcuna intenzione di stare a sentire i suoi grugniti dalla dubbia provenienza umana per un lasso di tempo indefinito. Preferivo stare sul ponte, a costo di congelarmi il sedere, ad osservare la nave che onda dopo onda avanzava sempre di più verso il Polar Tang. Verso i miei adorati compagni. A conti fatti, erano quasi sei mesi che non li vedevo. Feci tamburellare ritmicamente le dita sul parapetto di legno della nave, all’improvviso impaziente, quasi smaniosa di riabbracciare i Pirati Heart. Tutti i Pirati Heart. Il mio indice picchiettava sempre più forte contro la superficie lignea della ringhiera.
«Non puoi sfuggirmi, Law» mormorai con un sorrisetto furbo. Le parole si dispersero nella brezza leggera che soffiava quel giorno, quasi come se volessero raggiungerlo a tutti i costi. «Riuscirò ad abbracciarti, prima o poi».
Mi misi a ridere, da sola. Risi al pensiero di quello che avrebbe potuto rispondermi il chirurgo se fosse stato lì con me. Risi perché mi andava di farlo. Perché a breve lo avrei finalmente rivisto, così come avrei rivisto gli altri miei compagni, e non vedevo l’ora. Mi piaceva pensare che anche loro si sentissero come me, che anche loro avessero bisogno di me, almeno in piccola parte. Non ero brava a cucinare, a rammendare, a pulire i bagni – quella era l’unica cosa che mi metteva pensiero e di cui avrei fatto volentieri a meno – o a fare il bucato, ma credevo di dare lo stesso un contributo prezioso alla ciurma. I miei compagni mi volevano bene per quella che ero, difetti e vizi compresi. Mi avevano accettata ed accolta come una di loro, ed erano stati i primi a farmi sentire come se appartenessi realmente a qualcosa. Nel mondo in cui era ambientato “One Piece” avevo riscoperto me stessa, e grazie alle persone che avevo incontrato avevo potuto far cadere la maschera che nel mio universo avevo indossato per tanto tempo, per proteggermi da nemici che non ero ancora riuscita ad identificare, ma che alla lunga erano diventati potenti e temibili. Lì, in quel posto fatto di oceani ed isole, me ne ero liberata. Certo, mi ero fatta altri nemici, forse più potenti e temibili, però cominciavo a pensare di preferirli alle invisibili controparti malvagie del mio mondo di provenienza che mi avevano accompagnato per anni.
Un invitante profumo di cioccolata mi distrasse dai miei pensieri. Spostai lo sguardo alla mia sinistra e vidi un rivoluzionario a pochi passi da me. Tra le mani stringeva una tazza fumante di quella che supponevo essere cioccolata calda. Senza dire niente e con un sorriso radioso stampato sulla faccia, me la porse. La accettai di buon grado, dato che con quel freddo avevo bisogno di qualcosa che mi riscaldasse, poi lo ringraziai e quello se ne andò.
Soffiai sul liquido marrone per intiepidirlo appena, dopodiché ne bevvi un primo sorso. Poi ne assaporai un secondo, e un terzo, e un quarto. Era davvero buona. Né troppo amara, né troppo zuccherata. Era perfetta, ed il suo sapore descriveva esattamente come mi immaginavo che fosse la scena del mio ricongiungimento con i Pirati Heart.
Un movimento sospetto mi distolse dalle mie riflessioni. Sabo era in piedi, accanto alla porta della nostra – mia – cabina e si stava stiracchiando generosamente. Ghignai. A quanto pareva il Bell’Addormentato si era svegliato, nonostante avesse l’espressione ancora un po’ assonnata. Tuttavia, se c’era una cosa che avevo imparato in quei mesi, era che – proprio come Rufy – il rivoluzionario sapeva riprendersi molto in fretta. Avevo ancora una trentina di secondi di pace prima che tornasse vispo e iniziasse a tormentarmi. Perché l’avrebbe fatto, ne ero sicura. Anche inconsapevolmente riusciva a trovare dei modi per perseguitarmi. Nell’attimo in cui mi notò le sue labbra si aprirono in un ghigno che mi fece storcere la bocca. I sogghigni di questo tipo non promettevano mai nulla di buono. Gli diedi le spalle e decisi di ignorarlo con un sospiro. Se voleva qualcosa sarebbe venuto da me. Eravamo su una nave grande quanto la Going Merry, non sarei comunque potuta scappare, a meno che non mi fossi buttata in mare. Bevvi un altro sorso di cioccolata e lasciai che il calore della bevanda scivolasse in gola e mi scaldasse, proprio mentre un gelido soffio di vento mi fece rabbrividire. Tremai leggermente e mi strinsi nelle braccia, emettendo un piccolo mugolio. In quell’istante, intravidi qualcosa di nero piombarmi sulla testa. Appiattii il collo e strizzai le palpebre, nel tentativo di evitare quell’oggetto non ben identificato, ma non servì a niente, perché me lo ritrovai dritto sul capo. Mi ci vollero un paio di secondi per capire che si trattava di un indumento. Una giacca, per la precisione. Me la scrollai di dosso e la presi, osservandola bene. Era la giacca di Sabo.
«Mettila» quasi mi ordinò la figura dai capelli biondi che si era piazzata accanto a me. Rimasi un po’ sorpresa.
«Sicuro? Poi tu non sentirai freddo?» chiesi titubante. Il rivoluzionario mi fissò con aria eloquente. Riflettendoci arrivai alla conclusione che questo per lui poteva non essere più un problema da quando aveva ingerito il Mera Mera. Ace, del resto, girava a torso nudo anche quando nevicava. Lo guardai grata, poggiai la tazza sul parapetto ed infilai la giacca. Percepii subito un piacevole senso di sicurezza. Mi stava un po’ grande e il tessuto con cui era fatta non era neanche troppo consistente, ma adoravo il tepore che mi trasmetteva ed il modo in cui mi avvolgeva il corpo. Mi ci sarei perfino potuta affezionare. In quei mesi avevo indossato praticamente solo minigonne e camicette attillate, e prima ancora la divisa color bianco fantasma dei Pirati Heart che Law mi aveva costretto ad indossare e che adesso mi stava aspettando a braccia – anzi, a maniche – aperte. Non avevo molte occasioni per sbizzarrirmi in fatto di vestiario. La giacca di Sabo rappresentava qualcosa di diverso, così come i vestiti che mi avevano preparato i rivoluzionari per il viaggio. Non mi avevano chiesto niente, li avevo trovati direttamente sulla nave, insieme alle casse di pane ed ai barili di vino. Come o dove li avessero trovati non ne avevo idea, ma erano proprio come piacevano a me: comodi, sobri e confortevoli. Chiunque li avesse scelti, aveva colto la mia essenza. Ecco perché non avevo fatto domande e mi ero limitata ad indossarli. Senza contare che era stato un sollievo per me non dover più mettere le striminzite gonne a balze di Koala. Gli indumenti per quella settimana consistevano in alcune t-shirt semplici – tutte dello stesso modello, ma di diversi colori –, tre paia di pantaloni neri lunghi ed aderenti ed un paio di shorts di un tessuto simile al denim. C’erano persino vari ricambi di biancheria intima, e la taglia era giusta. In fatto di abbigliamento avevo tutto ciò che mi serviva. L’unica cosa che mi mancava era una giacca più pesante per i giorni più freddi, ma a quanto pareva quello non era un problema, perché ci aveva pensato il dolce ed eroico Sabo.
«Koala mi ha intimato di prendermi cura di te e Dragon si è raccomandato di tenerti al sicuro. Se ti succedesse qualcosa, la responsabilità ricadrebbe su di me» mi spiegò, appoggiando entrambe le mani sulla ringhiera e scrutando distrattamente l’orizzonte «Perciò non posso lasciare che tu ti prenda un raffreddore».
Il suo tono esprimeva più malizia che premura. Alzai gli occhi al cielo, per poi sorridere subito dopo. Il fatto che la mia amica fosse tanto premurosa anche a distanza mi metteva di buonumore. Era un tesoro di ragazza. Dragon, invece, stava tentando di salvaguardare una persona che riteneva utile al raggiungimento dei suoi scopi, ed io non potevo che esserne contenta. Sapere di essere sotto la sua protezione mi faceva stare più tranquilla.
«E io che pensavo che fossi sinceramente preoccupato per le mie condizioni di salute» scherzai sogghignando e guardando il biondo di sottecchi «Il Re e la Regina ti tengono sotto scacco, eh?» lo canzonai poi, dandogli una lieve gomitata. Lui fece una blanda alzata di spalle. Stava fissando un punto imprecisato davanti a sé. Non potei fare a meno di pensare che se al suo posto ci fosse stato Marco avrebbe di certo saputo cosa rispondermi. Dopotutto, era lui l’esperto di scacchi.
Sabo si voltò ad osservarmi con un’espressione indecifrabile.
«Ho perso il mio tubo» affermò semplicemente. Alzai un sopracciglio.
«Lo hai perso di nuovo?» domandai, quasi esasperata. Certe volte riusciva ad essere più sbadato di suo fratello. In tutta risposta alzò di nuovo le spalle con noncuranza.
«Perché non mi aiuti a cercarlo?» chiese a sua volta, abbassando il tono di voce, che risultò più profondo e provocante. Lo squadrai da capo a piedi, notando un bagliore pericoloso nei suoi occhi. Annuii un paio di volte con l’aria di chi la sapeva lunga, poi sogghignai. Ora mi era tutto più chiaro. Non aveva perso il suo tubo, ma si era svegliato affamato dal suo pisolino pomeridiano. Io invece non avevo molta fame, ma non si diceva mai di no ad uno spuntino.
Non indugiò troppo. Afferrò i lembi della mia – in realtà sua – giacca e mi attrasse a sé. Vacillai per una frazione di secondo, ma ritrovai l’equilibrio nel momento in cui le sue mani imprigionarono i miei fianchi in una presa ermetica.
«Allora, hai intenzione di aiutarmi?» volle sapere in un sussurro rauco, che sapevo bene cosa stava a significare.
Impiegai un paio di minuti per setacciare tutto il ponte della nave con gli occhi per vedere se ci fosse qualche rivoluzionario di troppo in giro. A quanto pareva la via era libera, eravamo soli. Non c’era nessuno nemmeno di vedetta. Dopotutto navigavamo in acque tranquille e non c’era bisogno che ci fosse un uomo nella coffa tutto il tempo. Probabilmente l’equipaggio stava facendo una pausa caffè, o una pausa pisolino – come Sabo –, perché no.
Feci un sorrisetto compiaciuto, poi gli circondai il collo con le braccia ed intrecciai le dita dietro alla sua nuca.
«Cosa vinco se lo trovo? Meriterei una ricompensa, non credi?» soffiai a qualche centimetro dalle sue labbra. Il suo ghigno si allargò.
«Possiamo discuterne» mi disse con un’espressione maliziosa. Si chinò verso di me e lasciai che mi scostasse i capelli da una parte. Il mio corpo fu invaso dai brividi quando percepii la sua bocca sfiorarmi la pelle. Scivolava su e giù per il mio collo, fermandosi ogni tanto per schioccare qualche piccolo ed innocente bacetto. Vagava alla ricerca di una meta, ma in realtà sapeva benissimo dove stava andando, così come sapeva quello che voleva. Chiusi gli occhi e piegai la testa da un lato. D’improvviso non mi sembrava più tanto freddo come fino a pochi minuti prima. Ormai era quasi una reazione automatica, nel momento in cui Sabo mi toccava nel mio corpo si irradiava un calore intenso e piacevole. E cominciavo a valutare l'ipotesi di restituirgli la giacca. Non mi serviva in ogni caso.
«Questa sarebbe un’anticipazione del premio che mi aspetta?» domandai con voce leggermente roca.
«Consideralo più come un incentivo» mormorò tra un bacio e l’altro. I suoi palmi iniziarono a risalire lentamente la mia schiena. Gli passai una mano tra i capelli, intrappolandone una ciocca tra le dita e costringendolo a sollevare la testa. Incastonai gli occhi ai suoi.
«Stai per caso cercando di corrompermi, Mister Tubo d’Acciaio?» volli sapere, con una rapida alzata di sopracciglia. La mia espressione era seria, ma le mie iridi brillavano di malizia.
Mi avvicinai di più a lui, finché i nostri corpi non aderirono quasi completamente l’uno all’altro. Poi iniziai a percorrere il suo petto facendo camminare lentamente due dita su di esso. Entrambi sorridemmo, consapevoli che quello era il punto di non ritorno per entrambi.
«Mister Tubo d’Acciaio. Mi piace» affermò il biondo, ridacchiando ed abbassando ulteriormente la testa verso di me. Adesso riuscivo a sentire il suo respiro caldo imprimersi sulla mia pelle. Il suo alito sapeva leggermente di pesce, ma non era un cattivo odore. Niente che un sorso di cioccolata calda – che tanto bene avevo a disposizione – non potesse lavare via.
«Certo che ti piace. Io ci so fare con i nomi, non sono mica come te» risposi, allargando il mio ghigno. Lui scrollò le spalle con indifferenza.
«Io sono bravo in altre cose» mi sussurrò all’orecchio. Mi morsi un labbro per cercare di nascondere la mia espressione soddisfatta e voluttuosa, mentre un brivido si diffondeva piano in tutto il mio corpo, provocandomi un lieve tremore.
«Perché non mi mostri ciò in cui sei bravo, allora?» rilanciai, accarezzandogli dolcemente la linea mandibolare con la punta dell’indice. Sorrise, stavolta era un sorriso privo di voluttà. Forse apprezzava quel gesto. Ogni tanto era necessaria un po’ di dolcezza, e a lui serviva esattamente quanto a me, anche se non lo dava a vedere. Perché tra di noi non c’era solo una passione irrefrenabile e clandestina. Il nostro era un rapporto complicato, più profondo di quanto potesse sembrare, fatto di tanti piccoli momenti diversi che si incastravano alla perfezione tra loro, come tasselli di un puzzle composto da due corpi segretamente bisognosi di affetto, ma anche da due anime in cerca della loro libertà. Eravamo due organismi in simbiosi, due spiriti connessi da una forza misteriosa che vorticava attorno a noi e attraeva l’uno verso l’altra.
«Credo di avertene dato ampiamente dimostrazione» affermò compiaciuto, premendo sulle mie scapole per attirarmi ulteriormente a sé. I nostri visi erano vicinissimi, ad un bacio di distanza.
«E se invece non lo avessi fatto?» rincarai la dose sollevando un sopracciglio.
«Dubiti di me?» domandò fingendosi offeso. Ridacchiai.
«Dubito delle tue capacità» soffiai. Ormai ero le nostre labbra distavano appena un millimetro.
Fece per parlare, ma io gli piazzai l’indice sulle labbra e lo zittii. Spostò le mani sulla mia nuca e piegò la testa, mentre io mi alzavo sulle punte per raggiungere la sua bocca. Chiudemmo contemporaneamente gli occhi e ci prodigammo in un bacio appassionato. Con lui ogni bacio aveva un sapore diverso, ed ogni bacio mi faceva provare sensazioni diverse. L’unica emozione che non avevo mai provato era stata la vergogna. Con Sabo nemmeno esisteva, la vergogna; o l’imbarazzo. C’ero solo io, nella più pura e vera versione di me stessa, e un ragazzo bello e in gamba, che mi faceva visitare posti sconosciuti ed inesplorati.
Assaggiai la sua essenza con la lingua, mentre le sue mani vagavano per tutto il mio corpo e le mie scivolavano sul suo petto, sul suo addome, e poi sempre più in basso.
Quando ci staccammo – controvoglia – sogghignammo entrambi.
«Sai di cioccolato» mi disse compiaciuto.
«E tu di pesce» quasi lo canzonai «Ma non lasceremo che questo interrompa le ricerche del tuo tubo».
«Giusto. Il tubo» sembrò ricordarsi all’improvviso «Sono abbastanza sicuro di averlo lasciato in camera».
«No» scossi eloquentemente la testa «Credo di averlo trovato» gli feci sapere, fissando il suo cavallo e ridendo di gusto. Guardò in basso ed iniziò a ridere anche lui. Solo con il fratello di Rufy si poteva passare dalla passione bruciante all’idiozia infantile collettiva in un nanosecondo. Ma era anche per questo che mi piaceva stare in sua compagnia. Non sapevo mai cosa aspettarmi, ed era sia elettrizzante che frustrante.
«Complimenti. Adesso puoi avere la tua ricompensa» mi informò, negli occhi aveva un luccichio sconsiderato. Se non avessi fatto attenzione, quel dannato luccicore sarebbe stato fatale per me. Almeno era di parola. Tuttavia sospettavo che lo fosse solo perché in quella circostanza conveniva più a lui che a me.
Presi la tazza con la cioccolata e gliela porsi, dandogli un paio di pacche sulla spalla con aria eloquente, per esortarlo a berla. La finì in un rapido e lungo sorso. A quanto pareva aveva improvvisamente fretta. Osservai in silenzio mentre si gettava alle spalle la tazza ormai vuota, che poco dopo cadde in acqua con un piccolo splash. Sospirai e scossi la testa. Non c’era rimedio alla sua mancanza di tatto. Ormai mi ero abituata, e nonostante la sua imprevedibilità a volte fosse disarmante, quel suo gesto non mi sconvolgeva affatto.
Mi prese il mento tra pollice ed indice e mi diede un rapido ma languido bacio. Mi leccai le labbra con la punta della lingua e poi le increspai, soddisfatta. Adesso anche lui sapeva di cioccolato.
«Decisamente meglio» commentai, annuendo con finta serietà.
Non disse niente. Ero sicura che per lui avessimo perso fin troppo tempo. Mi afferrò il polso e tirò leggermente, iniziando a camminare in direzione della cabina. Lo seguii senza parlare e mi lasciai trascinare verso quella che sarebbe stata una mezz’ora – o anche di più – di follia.
 
***
 
Quella sera, le stelle tremolavano, scosse da chissà quale forza invisibile. Il cielo era limpido, a parte qualche nuvola disseminata qua e là. Non faceva freddo, ma non era neanche caldo, ecco perché mi ero fatta prestare la giacca da Sabo.
Continuai ad osservare il cielo. Quei minuscoli corpi celesti distanti anni luce sembravano così fragili all’apparenza, eppure erano così maestosi e nobili. Erano capaci di illuminare l’oscurità avvolgente della notte, e nel loro silenzio vegliavano incessantemente su di noi. James Matthew Barrie sosteneva che le stelle non potessero in alcun modo immischiarsi nelle faccende umane. Dovevano limitarsi ad osservare in silenzio; era una punizione eterna, che si era abbattuta su di loro così tanto tempo prima che nessuna stella ne ricordava il motivo. Ma lo scrittore del mio romanzo preferito si sbagliava. Ce ne era una capace di trascendere quelle stupide regole, per mia fortuna.
Una nuvoletta di vapore uscì dalla mia bocca. Feci un mezzo sorriso nel pensare che quella notte assomigliava molto alla notte in cui la Stella era comparsa per la prima volta. La notte in cui mi sentivo sola, persa e senza speranza. La notte in cui tutto era cominciato. Ora, però, non ero più sola, non mi sentivo più persa e avevo recuperato la speranza. Era incredibile come fosse bastato poco per cambiare le carte in tavola. Non che i desideri che mi erano stati concessi fossero poco, anzi, erano stati una vera e propria manna dal cielo, ma ci avevo messo del mio per arrivare al punto in cui ero. Mi era costato parecchio, tra sacrifici e sofferenze, però ne era valsa la pena. Avrei rifatto tutto da capo, sbagli compresi, se fosse stato necessario. Perché ero fiera della persona che ero diventata.
«Trascorri molto tempo all’aria aperta» commentò Sabo, che mi aveva raggiunto poco prima e che si trovava dietro di me di qualche passo.
Mancavano due giorni alla fine del nostro viaggio. Due giorni perché potessi rivedere di nuovo la mia ciurma. Gli ultimi due giorni che avrei potuto trascorrere con lui.
«Ne approfitto, come dici tu» gli risposi «Sai com’è, non sarà molto facile prendere aria fresca su un sottomarino».
Lo sentii ridere mentre si posizionava accanto a me. Restammo in silenzio per un po’, senza guardarci, a contemplare il firmamento luminoso. All’improvviso, un lampo fulmineo attraversò il cielo. Mi ridestai e spalancai gli occhi.
«Guarda! Una stella cadente!» esclamai allegra e sorpresa allo stesso tempo, artigliandogli un braccio e distendendo l’altro verso il cielo. Con l’indice seguii la scia dorata di quella stella fino a che non svanì. Mi tornarono in mente i vecchi tempi, quando io, Rufy ed il resto della banda stavamo distesi – anche se sarebbe stato più corretto dire che eravamo schiacciati come sardine –  su dei materassi fino a notte fonda per osservare le stelle e cercare di individuare la Seconda Stella a Destra.
«È meravigliosa» commentai poi, sorridendo nostalgica.
Spostai lo sguardo sul biondo. Lui piegò la testa da un lato con espressione sognante. Avevo motivo di credere che si fosse perso nei ricordi. Faceva sempre quella faccia, quando con la mente tornava bambino.
«Quando eravamo piccoli, prima che arrivasse Rufy, io ed Ace osservavamo spesso le stelle. Lui era convinto che la scia delle stelle cadenti non fosse altro che la scia lasciata da una nave del Popolo del Cielo che si dirigeva qui, probabilmente in cerca di fortuna. Ogni volta si lamentava di quanto fossero stupidi quegli uomini, a cercare fortuna in un posto come questo. Diceva che sarebbero stati molto meglio se fossero rimasti nel posto da cui venivano. Credeva che niente potesse scalfire le persone, in cielo. Allora io, per cercare di togliergli il muso lungo, gli dicevo che un giorno avremmo visitato anche noi quelle terre remote, così che niente potesse più scalfirci. Lui mi sorrideva e diceva che forse sarebbe stato lì che avremmo trovato la nostra libertà» mi raccontò, senza spostare mai le iridi dal punto in cui era comparsa la scia della stella poco prima. Apprezzai che si fosse aperto con me in questo modo, nonostante la sua confessione mi avesse lasciato un retrogusto amaro in gola. Adesso capivo perché gli piaceva tanto osservare le stelle dal terrazzo della base. Chi poteva saperlo, magari Ace era davvero in cielo e vegliava sui suoi fratelli e su tutti coloro a cui aveva voluto bene, proprio come la Seconda Stella a Destra aveva fatto con me.
«Poi siamo cresciuti e...»
Non finì la frase, forse perché non ci riuscì. Invece, sbuffò una risata ed abbassò gli occhi. Aveva i palmi premuti contro il parapetto in legno. Gli appoggiai una mano sulla spalla e strinsi delicatamente le dita attorno ad essa per supportarlo, mentre con l’altra stringevo il ciondolo di Ace. I suoi muscoli erano rigidi e tesi. Distolsi lo sguardo e sbattei rapidamente le palpebre più volte, per cercare di scacciare il bruciore agli occhi. Quando mi fui ripresa, iniziai ad accarezzargli dolcemente il bicipite, nel tentativo di confortarlo. Non serviva a niente, lo sapevo bene, perché era così anche per me, quando ripensavo alla mia famiglia. Tutto ciò che mi rimaneva di loro erano i ricordi. Nessuno avrebbe mai potuto ridarmi quei momenti, che custodivo con tanta cura. Potevo solo continuare a ricordarli all’infinito, proprio come Sabo. Ecco perché era importante che sapesse che c’era qualcuno che lo capiva e che condivideva il suo stato d’animo, almeno in parte.
«Tu sei la prova vivente che mio fratello si sbagliava» affermò, dopo qualche minuto di silenzio. Lo fissai perplessa.
«Cosa?» chiesi confusa, aggrottando la fronte «Voglio dire, in che senso?»
«Le persone che vengono dal cielo, come te, non sempre sbagliano a cercare fortuna in un posto come questo» mi spiegò. Percepii la tensione scivolare via dal suo corpo.
«Mi stai per caso comparando ad una stella cadente?» gli domandai, alzando un sopracciglio. Effettivamente, però, non aveva tutti i torti. Quando ero approdata lì ero letteralmente caduta dal cielo, e mi ci aveva portato una stella. Inoltre, avevo trovato una piccola parte della “fortuna” che tanto avevo cercato. Avevo avuto qualche gatta da pelare, certo, ma chi non ne aveva? Vivere significava anche questo.
«Forse» fece, con una blanda alzata di spalle. Il suo sorriso brillò nella notte, proprio come il sorriso di Peter Pan. Non sapevo perché, ma sentii l’irrefrenabile ed improvviso impulso di abbracciarlo. Di tenerlo stretto senza lasciarlo andare per un po’. Mi protesi verso di lui e gli circondai il corpo con le braccia. Le mie mani disegnavano dei cerchi sulla sua schiena, mentre la guancia sinistra era appoggiata al suo petto caldo. Lui non si mostrò sorpreso nemmeno per un istante. Anzi, ricambiò il mio abbraccio. Non potevo vedere il suo viso, ma ero sicura che stesse sorridendo. Non era un ghigno malizioso, ma un semplice sorriso sincero.
Nel momento in cui ci staccammo provai un inspiegabile senso di imbarazzo. Mi allisciai i vestiti, come per cercare di scacciarlo. Perché provavo imbarazzo? Che motivo ne avevo? Non stavo facendo nulla di male, o di perverso. Era solo un semplice abbraccio tra due amici. O forse no. Quella sera era successo qualcosa. Per la prima volta, avevo visto Sabo nudo. Non il suo corpo, quello lo avevo visto – e ammirato – fin troppe volte; ma la sua anima. Si era messo a nudo, con me, e avevo scoperto un lato di lui che custodiva gelosamente e che aveva mostrato solo a poche persone. Si fidava di me, ed io gliene ero grata, perché quello che mi aveva lasciato intravedere era bellissimo. Era lui, nella sua forma più pura.
Dei risolini ed un chiacchiericcio sommesso attirarono la mia attenzione. Alzai lo sguardo e corrugai la fronte.
«Non è che adesso andiamo a sbattere contro un iceberg, vero?» chiesi sospettosa, fissando i due tizi nella coffa che osservavano ridacchiando me ed il biondo e ricordandomi delle tragiche conseguenze dell’ultima volta in cui qualcuno si era comportato così.
«Cosa?» domandò a sua volta il ragazzo di fronte a me, perplesso. Gli indicai con sguardo eloquente i nostri spettatori e lui non poté fare a meno di ridere. Quando si accorsero che li stavamo guardando ci salutarono con la mano.
«Vogliono solo uno spettacolo. Si annoiano» affermò tranquillo, facendomi alzare un sopracciglio.
«E tu hai intenzione di accontentarli?» indagai, portandomi le mani ai fianchi.
«Potrei» soffiò, avvicinandosi pericolosamente a me. Nei suoi occhi risplendeva un bagliore poco rassicurante. Indietreggiai di qualche passo, ma lui fu più veloce di me. Mi afferrò il polso, bloccando la mia “fuga”. Quando si chinò verso di me spalancai gli occhi. Voleva baciarmi. Ma non poteva farlo. Non sotto gli occhi indiscreti di due membri dell’equipaggio. Ci avrebbero visti, e non avrebbero dovuto.
Mi girai di scatto verso il parapetto della nave, divincolandomi e liberandomi dalla presa di Sabo. Poi mi schiarii la gola, imbarazzata, senza staccare le pupille dal mare, che quella notte sembrava una distesa immensa di petrolio, tanto appariva nero e denso.
«Sai, da dove vengo, crediamo che si debba esprimere un desiderio dopo aver visto una stella cadente» sparai la prima cosa che mi venne in mente, riprendendo il discorso lasciato in sospeso qualche minuto prima, solo per distrarlo. Le mie dita tamburellavano nervosamente sulla superficie lignea della ringhiera. Fissai il fratello di Rufy di sottecchi. Non sembrava esserci rimasto male per il fatto che mi fossi scansata e avessi evitato le sue labbra.
«Allora esprimilo» mi sollecitò divertito. No, non gli dispiaceva affatto per l’accaduto. Sospettavo che adorasse giocare al gioco della volpe e dell’uva, in cui io ero l’uva e lui la volpe. Cercare di ottenere ciò che non poteva avere era il suo passatempo preferito. C’era qualcosa che lo elettrizzava nell’ignorare imposizioni ed infrangere divieti. Non dovevo dargli corda... o sarebbe arrivato all’uva.
Scossi la testa, sorridendo con l’aria di chi la sapeva lunga.
«Io ho già la mia, di stella» gli dissi con una punta d’orgoglio nella voce. Del resto, quella che si era fatta carico dei miei desideri – ben due di più di quanti qualsiasi altra stella concedesse – era una stella speciale.
Sabo ghignò fieramente.
«Capisco. Non vuoi tradirla» scherzò, facendomi alzare gli occhi al cielo. Non era colpa sua, però. Lui non poteva capire il valore che aveva per me la Seconda Stella a Destra.
«Se la vedessi in cielo, che cosa desidereresti?» mi chiese poi, sinceramente curioso.
Boccheggiai un paio di volte, spiazzata da quella domanda. Che cosa avrei desiderato? Non ero sicura di saperlo.
Un fulmine improvviso squarciò il cielo, seguito dal rombo di un potente tuono. Subito dopo iniziò a cadere una scrosciante pioggia, che in pochi secondi mi inzuppò tutti i vestiti. Alzai la testa, coprendomi gli occhi con una mano. Non c’era nemmeno una nuvola sopra di noi. Erano tutte distanti. Come accidenti era possibile che piovesse? Supponevo che fosse un’altra delle stranezze climatiche del Nuovo Mondo. Se ci fosse stata Nami molto probabilmente lo avrebbe previsto. Tuttavia non c’era, per cui sarebbe stato meglio interrompere la conversazione e trovare in fretta un riparo.
L’acqua cadeva copiosa, sferzandomi il viso. Sabo mi fece cenno di rientrare con la testa, mentre un gruppetto di rivoluzionari si prodigava a sollevare le vele per evitare che si bagnassero. O meglio, che si bagnassero ancora di più. A quanto pareva ci saremmo fermati finché non avesse smesso di piovere. I due addetti alla vedetta cercavano di coprirsi con i mantelli come meglio potevano. Sarebbe toccato loro un destino infausto, per quella notte.
Iniziai a correre verso la cabina, seguita dal Capo di Stato Maggiore. Mentre attraversavamo il ponte di corsa per andarci a riparare, pensai che non avesse importanza cosa avrei chiesto alla Stella, perché tanto non l’avrei mai più vista ricomparire.
 
***
 
Addentai un morso del mio panino e lo masticai con calma. Quando ebbi mandato giù il boccone mi leccai le labbra con la punta della lingua per recuperare le briciole.
Feci dondolare appena le gambe, beandomi dell’assenza di un pavimento su cui posare i piedi. Ero seduta sulla ringhiera della nave e sotto di me c’era solo il mare, di uno scintillante color zaffiro. Era calmo, e lo sciabordio dell’acqua che si infrangeva contro la nave, insieme allo stridio dei gabbiani, faceva da colonna sonora a me e Sabo mentre sgranocchiavamo i nostri sandwich ed osservavamo il sole che tramontava. Essendo il penultimo giorno di viaggio, quello sarebbe stato uno degli ultimi tramonti che avrei visto per un po’ di tempo, dal momento che spesso e volentieri quando arrivava il calar del sole il Polar Tang si trovava nelle profondità marine. Poche volte eravamo risaliti in tempo per vedere il crepuscolo, quindi avevo deciso che quello del mio penultimo giorno sulla Marie Jolie me lo sarei goduto. Il biondo aveva voluto farmi compagnia, senza che io gli dicessi niente, e mi sedeva accanto masticando con gusto e rumorosamente. Poco prima ci era venuta fame e ci eravamo fatti preparare dei panini dal cuoco di bordo. Il mio era con tonno e pomodori, due sapori apparentemente contrastanti, ma che insieme erano quasi sublimi. Quel sandwich mi ricordava vagamente me e Law. Il gusto deciso del tonno e quello delicato dei pomodori. C’era da capire chi fosse il tonno e chi i pomodori. Nel tramezzino di Sabo, invece, c’erano tonno, carciofi e uova. Non riuscivo ad immaginarmi niente di più disgustoso. Mancavano solo i broccoli per renderlo un perfetto rimedio anti-sbronza alla Kenji; oppure un potente ed infallibile emetico. Il biondo mi aveva chiesto se volessi assaggiarlo, ma io avevo rifiutato con un “no” secco ed una faccia disgustata. Ad ogni modo, non sapevo perché il rivoluzionario si fosse unito a me, ma finché fosse rimasto zitto sarebbe potuto restare tutto il tempo che voleva. Quello era un tramonto che andava contemplato in silenzio. Il sole era già sparito dietro la linea dell’orizzonte, ma la sua luce continuava a riflettersi sulle nuvole. Quelle più vicine al confine tra cielo e mare erano dipinte di caldi toni aranciati, che poi sfumavano e diventavano rosei sulla pancia delle nuvole più distanti. Proprio come il panino che stavo mangiando, quello era un connubio di colori particolari, che tuttavia insieme creavano uno spettacolo intenso e mozzafiato. In realtà, però, il cielo, pitturato di un pacifico color blu cobalto, era terso. Tutte le nuvole che c’erano, erano raccolte in un punto preciso dell’immensa distesa celeste davanti a me, come se si fossero posizionate lì appositamente per farsi illuminare dai colori caleidoscopici del sole. Quel tramonto sembrava un quadro di William Turner. Bellissimo e poetico. Delicato ma sgargiante. Solo che i colori che avevo davanti agli occhi erano molto più vividi, quasi mi aspettavo che prendessero vita da un momento all’altro. Insomma, era un perfetto ultimo tramonto. Anche la compagnia non era male, ma non si poteva dire che non desiderassi avere accanto Law ed i Pirati Heart. Avrei voluto bearmi insieme a loro di quella vista spettacolare.
Sorrisi appena, persa nei miei pensieri e nella meraviglia di quelle sfumature aranciate. Con la coda dell’occhio percepii un movimento brusco alla mia destra, che mi fece tornare alla realtà. Il corpo di Sabo era pericolosamente piegato in avanti. Aveva gli occhi chiusi e la testa china e ciondolante. Si era addormentato, non prima – ovviamente – di finire il suo tramezzino. Come diavolo aveva fatto ad addormentarsi davanti ad un tale spettacolo!? Supponevo che non avesse importanza, dato che stava per cadere in mare. E se fosse caduto in acqua sarebbe annegato. E poi la colpa sarebbe ricaduta su di me. Non potevo permetterlo. Mi sporsi verso di lui e gli piazzai la mano sull’ampio torace con un rapido gesto per impedirgli di precipitare. Premetti sui suoi muscoli per qualche secondo nel tentativo di anticipare ed arrestare la caduta che stava per fare, ma fu pressoché inutile, visto che era praticamente un peso morto. Proprio quando pensai che stesse per cadere, il suo corpo si irrigidì ed i suoi occhi si spalancarono di scatto. Mi fissò per un po’ con un’espressione indecifrabile, poi il suo viso si aprì in un ghigno divertito e compiaciuto. Quando capii, lo fissai con aria truce. Aveva finto di essersi addormentato, quel maledetto. Mi aveva fatto proprio uno scherzetto carino.
«Sei un idiota» gli dissi sconsolata mentre mi stringevo nelle spalle e allargavo le braccia. Lui rise di gusto.
«Lo finisci quello?» mi chiese, indicando il panino con tonno e pomodori che ero miracolosamente riuscita a salvare. Feci roteare gli occhi e glielo porsi. Tanto non avevo più fame, mi aveva fatto passare l’appetito. Non si fece di certo pregare, e se lo divorò in appena due morsi. Sospirai e cercai di concentrarmi sui colori rosati che avevano invaso il cielo ora che il sole era tramontato. Quello era l’ultimo tramonto che avrei guardato insieme al biondo, ed era anche la mia ultima occasione di chiarire una volta per tutte alcune questioni che lo riguardavano.
Non parlai fino a che il cielo non si fu colorato completamente di indaco ed ogni traccia della luce solare fu scomparsa.
«Sabo» lo richiamai, voltandomi verso di lui. Lui si girò a sua volta e ci fissammo negli occhi per un breve istante. Feci una pausa e presi un respiro profondo. Non era facile trovare le parole giuste, né il coraggio per farle uscire dalla bocca.
«Noi... cosa siamo?» gli domandai con cautela. Mi parve di sentire il cuore fare una capriola nel petto. Lo percepivo rimbombare contro le pareti della gabbia toracica. Ci furono alcuni secondi di silenzio assordante. Poi, udii il biondo ridere. Gli avrei voluto chiedere cosa accidenti avesse da ridere – in un modo poco carino – ma mi trattenni.  Continuai a guardarlo in attesa di una risposta, mentre un gabbiano sopra di noi emetteva uno stridio poco piacevole per le orecchie.
«Due persone in cerca della libertà» mi rispose, spostando il suo sguardo verso l’orizzonte. Feci una rapida alzata di sopracciglia. Non potevo dargli torto, ma non era quello che volevo sapere.
«Intendo... che rapporto abbiamo? Cosa siamo l’uno per l’altra?»
Glielo avevo già chiesto, tempo addietro, dopo la nostra prima notte insieme. Adesso, però, era diverso. Perché dopo quella prima notte ce ne erano state tante altre, e avevamo anche condiviso dei momenti particolari che personalmente non avrei condiviso con tutti. Law a parte, era stato l’unico ad esplorare parti di me che nemmeno sapevo di avere. Sabo mi aveva fatto scoprire cose che non pensavo fossero possibili e mi aveva fatto vedere la realtà sotto una luce diversa. Mi aveva mostrato il lato oscuro e mi aveva aiutato a non averne paura, a capire che faceva parte della natura umana avere delle debolezze carnali. Di certo non lo vedevo come un fidanzato, ma non era neanche un mero amante. Non mi venivano gli occhi a cuoricino quando lo guardavo, non avevo le palpitazioni né sentivo le farfalle nello stomaco, ma non gli ero nemmeno indifferente. Non avevo idea di cosa fosse lui per me, però sapevo che lui mi vedeva allo stesso modo in cui lo vedevo io. E mi andava bene così.
«Ha importanza saperlo?» mi chiese. Un piccolo sorriso era affiorato sulle sue labbra e aveva l’espressione persa. Quello era il segno che per lui la conversazione si sarebbe conclusa lì, che io lo avessi voluto o meno.
«No, immagino di no» replicai. Sorrisi anche io. In fondo, non mi serviva una risposta. Non era sempre necessario conoscere tutte le risposte, era stato propio Sabo ad insegnarmelo. E, ancora una volta, mi stava bene così.
La salsedine mi solleticava la pelle ed un vento tiepido e confortevole mi avvolgeva il corpo e faceva danzare nell’aria i miei capelli. C’era profumo di mare, e di libertà.
Sì, era stato un perfetto ultimo tramonto.
 
Una gocciolina di sudore mi scivolò lungo la tempia. Il soffitto in legno sopra le nostre teste ondeggiava. Non ero sicura che fosse perché era la nave a muoversi o perché invece ero tuttora su di giri per quanto successo poco prima. Sorrisi beata, inspirando ed espirando con forza l’aria ancora elettrica che ci circondava. Gettai una rapida occhiata al biondo accanto a me, che si era puntellato su un gomito e mi stava fissando con un sorrisetto compiaciuto. Feci roteare gli occhi e sospirai.
«Avanti, dillo. So che hai bisogno di vantarti dopo ogni tua performance» lo incoraggiai, canzonandolo appena. La cosa più grande che aveva Sabo, quando si parlava di amplessi, era l’ego. Non per niente, mi aspettavo che si mettesse a decantare le sue abilità da grande seduttore, invece disse qualcosa che mi stupì e mi lasciò senza parole per qualche secondo.
«Sono disposto a fare un’eccezione, per questa volta» iniziò divertito «Ma solo se ammetterai che ti mancherò».
Mi girai su un fianco per guardarlo. I suoi occhi scrutavano il mio corpo, coperto solo da un lenzuolo, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. E in un certo senso lo era. Mi puntellai anche io su un gomito.
«Questo non posso farlo, perché non mi mancherai. O meglio, non sarai tu a mancarmi» gli confessai, facendo leva sul braccio ed avvicinandomi pericolosamente al suo viso, fino a poggiare la testa sul suo cuscino. Lui mi guardava con curiosità. «Diciamo che piuttosto mi mancherà il tuo... tubo» gli soffiai poi, ad un centimetro dalle labbra.
Rimanemmo immobili ed in silenzio per un po’, poi scoppiammo a ridere contemporaneamente.
«Se la metti così, anche io sentirò la mancanza della miglior cercatrice di tubi che sia mai esistita» affermò ghignando. Cercai di trattenermi dal sorridere come un’ebete. Ero contenta che me lo avesse detto e di certo mi sentivo onorata dalle sue parole. Perché quella frase, detta da lui, significava più di quanto potesse sembrare.
«Lo prendo come un complimento» risposi, con un’alzata di spalle.
Non rispose. Appoggiò la testa sul cuscino e si mise comodo, poi mi fece cenno di fare lo stesso. Avevamo entrambi bisogno di dormire, il giorno seguente – l’ultimo giorno di viaggio, nonché il giorno in cui mi sarei ricongiunta alla mia ciurma – si prospettava impegnativo. Feci per allontanarmi da Sabo per ritornare sulla mia “parte di letto”, ma lui mi trattenne poggiandomi una mano sul fianco. Non era un gesto voluttuoso, fu piuttosto delicato. Il suo pollice si mosse un paio di volte, solleticandomi la pelle nuda. Il suo corpo emanava calore e sicurezza, perciò non mi opposi. Del resto, era l’ultima notte che passavo in sua compagnia, quindi perché non approfittarne del tutto? Gli posai la mano sulla spalla e gliela strinsi appena, come per accertarmi che fosse veramente lì, che quel momento praticamente perfetto non era frutto della mia fantasia.
«Sai, avresti bisogno di una doccia» mi fece sapere. Dapprima aggrottai la fronte, stupita, ma poi risi ed annuii. Non potevo dargli torto, avevo sudato parecchio.
«Sì, decisamente» asserii «Anche tu però non scherzi» lo presi in giro, ridendo.
«Se vuoi domani possiamo farla insieme» mi propose subito dopo, accompagnandosi con una provocatoria alzata di sopracciglia.
«Mi sembra un buon compromesso» valutai. Lui ghignò.
«Per te è sicuramente vantaggioso» soffiò, un bagliore gli illuminava le iridi cineree.
Non aspettò una risposta e chiuse gli occhi. Non passò molto tempo prima che si addormentasse. A me, invece, ci volle un po’ di più. Non ero inquieta, solo che provavo tante emozioni diverse e contrastanti, a tal punto che non sapevo come sentirmi. Avrei dovuto essere eccitata di rivedere i miei compagni? O avrei dovuto essere dispiaciuta perché non avrei più avuto a che fare con Sabo e con tutto ciò che riguardava i rivoluzionari? Forse non aveva senso stare a rimuginarci troppo. Forse non era sbagliato provare entrambe le cose. In ogni caso, avevo bisogno di riposare.
Osservai il fratello di Rufy mentre dormiva. Sembrava così tenero ed indifeso, era tornato bambino. Se i suoi nemici lo avessero visto ora, probabilmente si sarebbero inteneriti. Mi chiesi cosa stesse sognando, e sperai che fosse qualcosa di bello.
I capelli biondi gli ricadevano sul viso e ne coprivano una parte. La bocca era socchiusa. Il respiro appena accennato, lento e regolare. Aveva un’espressione pacifica. Non potei trattenermi dall’accarezzargli una guancia. La sua pelle, al tatto, era liscia e soffice. Ricalcai il contorno delle sue labbra con la falange dell’indice. Mi dispiaceva molto non poterle più assaporare. Non poterle assaporare ancora. Mi sembrava di non averne mai abbastanza di quel sapore. Il sapore della libertà, il sapore della passione, il sapore dell’avventura. Lasciai scivolare le dita più in basso e gli sfiorai la cicatrice rosea che gli contornava l’occhio sinistro. Anche quella aveva il suo fascino. E dire che era partito tutto da una cicatrice. La stessa che mi aveva incasinato la vita in un modo estremamente piacevole.
Sorrisi, grata e felice che Sabo fosse lì con me, beandomi ancora una volta della vista del suo viso prima di divincolarmi dal suo tocco e sporgermi verso il comodino per spegnere la lampada ad olio. Se non l’avessi fatto, molto probabilmente si sarebbe incendiata l’intera cabina, e non avevo nessuna voglia di presentarmi ai Pirati Heart con delle ustioni di terzo grado sparse per il corpo.
«Buonanotte, Sabo. E grazie. Di tutto» gli sussurrai dolcemente, scostandogli una ciocca di capelli dalla tempia. Non poteva sentirmi, dato che ronfava come un angioletto, ma questo non importava. Non aveva bisogno di sentirmi, sapeva quello che aveva fatto per me. Nel bene e nel male.
Sì, Dragon aveva assolutamente preso la decisione giusta scegliendo di affiancarmi il suo braccio destro in questo viaggio.
 
 
 
 
He said: “Let's get out of this town,
Drive out of the city,
Away from the crowds”.
I thought: “Heaven can't help me now,
Nothing lasts forever,
But this is gonna take me down”.


He's so tall, and handsome as hell.
He's so bad, but he does it so well.
I can see the end as it begins, my one condition is...

 
Say you'll remember me
Standing in a nice dress, staring at the sunset, babe.
Red lips and rosy cheeks,
Say you'll see me again, even if it's just in your
Wildest dreams.
Wildest dreams.

 
I said: “No one has to know what we do”,
His hands are in my hair, his clothes are in my room.
And his voice is a familiar sound, nothing lasts forever,
But this is getting good now.


He's so tall, and handsome as hell,
He's so bad, but he does it so well.
And when we've had our very last kiss,
My last request is...

 
Say you'll remember me,
Standing in a nice dress, staring at the sunset, babe.
Red lips and rosy cheeks,
Say you'll see me again, even if it's just in your wildest dreams.
Wildest dreams.

 
You see me in hindsight,
Tangled up with you all night,
Burn it down.
Some day when you leave me
I bet these memories follow you around.
You see me in hindsight,
Tangled up with you all night,
Burn it down.
Some day when you leave me
I bet these memories follow you around.

 
Say you'll remember me,
Standing in a nice dress, staring at the sunset, babe.
Red lips and rosy cheeks,
Say you'll see me again, even if it's just pretend.

 
Say you'll remember me,
Standing in a nice dress, staring at the sunset, babe.
Red lips and rosy cheeks,
Say you'll see me again, even if it's just in your

Wildest dreams.
In your wildest dreams.
Even if it's just in your wildest dreams.


In your wildest dreams.



 
Angolo autrice
Salve a tutti! Sono tornata. Questo è un altro capitolo incentrato sul rapporto che hanno instaurato Camilla e Sabo in questi mesi. Dato che il rivoluzionario ci lascerà tra un paio di capitoli (per il momento, non è detto che non possa ricomparire in un lontano futuro), ho voluto concludere questo loro viaggio, sia fisico che spirituale, con una canzone, e ho pensato che "Wildest Dreams" di Taylor Swift fosse perfetta per descrivere il complicato legame che hanno stabilito quei due. Credo che tale canzone si adatti bene a questo capitolo in particolare, ed ecco perché ho deciso di inserirla ora e non in seguito.
Ad ogni modo, spero che il capitolo vi sia piaciuto e che il biondo fratello di Rufy non risulti troppo OOC. Un'ultima precisazione, sempre a proposito di fratelli: la parte in cui Sabo confessa che a lui ed Ace piaceva osservare le stelle da piccoli è frutto della mia immaginazione. Non so perché, ma secondo me è qualcosa che i futuri possessori del frutto Mera Mera avrebbero potuto fare. A me piace immaginarli così, almeno. Anche se non sappiamo molto a riguardo, sono convinta che abbiano vissuto dei momenti molto poetici insieme.
Fatemi sapere cosa pensate del capitolo, se vi va. :) A presto!

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Capitolo 57
*** Promesse ***


Mi svegliai. Un rumore fastidioso continuava a penetrarmi nelle orecchie e ad insinuarsi fin dentro il cervello. Qualcosa gracchiava, ormai da un paio di minuti. E non accennava a voler smettere. Aprii gli occhi controvoglia. Una flebile luce filtrava dall’oblò della cabina, segno che il sole aveva appena iniziato a sorgere. Solo in quel momento realizzai che quel suono irritante proveniva da un lumacofono. Un dannato lumacofono. Ma chi era il pazzo che chiamava all’alba!? E perché, poi? Era forse successo qualcosa? C’era un’emergenza? Al momento non mi importava. Avevo sonno e volevo solo dormire. Inoltre, non era il mio Den Den Mushi che squillava, ma quello di Sabo. Era un problema suo.
Grugnii poco elegantemente, poi infilai la testa sotto al cuscino e me lo premetti sulle orecchie per cercare di attutire i rumori. Percepii il materasso infossarsi dalla parte opposta del letto, segno che il biondino si era finalmente deciso ad alzare il culo e rispondere alla chiamata.
«Dove l’ho messo?» lo udii sussurrare. Sollevai di poco il cuscino e notai che era seduto sul bordo del letto. Proprio come suo fratello Rufy, si stava grattando la nuca nel tentativo di ricordare l’ubicazione di quel simpatico animaletto. Animaletto che sarebbe stato presto buttato giù dalla nave – da me – se avesse continuato a squillare. Mi rigirai dall’altra parte, cercando di ignorare il tutto.
Sentii un “clack” ed emisi un debole mugugno d’assenso. Finalmente l’aveva trovato e aveva risposto.
«Sì?» la voce impastata di Sabo mi risuonò nelle orecchie. Non si era presentato, né aveva chiesto chi ci fosse all’altro capo. Forse lo sapeva già, oppure non gli importava. In ogni caso, non era più sveglio di quanto lo fossi io.
«I piani sono cambiati. È necessario salpare prima che tramonti il sole. L’incontro avverrà nel luogo prestabilito. Avete le coordinate» fece la persona dall’altra parte del lumacofono. Poi, senza nemmeno dare al rivoluzionario il tempo di rispondere – o di realizzare appieno ciò che gli aveva comunicato – riattaccò. Le parole mi arrivarono ovattate e fu un miracolo che fossi riuscita a capire cosa stesse dicendo, ma la voce... la voce mi era familiare. Era una voce delicata ma decisa, ferma ed impassibile, che in quei mesi non avevo sentito e che mi era mancata molto. Law. Era la voce di Law! L’inconfondibile e stupenda voce di Law. Ecco chi era, il pazzo che chiamava all’alba. A ripensarci, sarebbe dovuto essere ovvio fin da subito. Spalancai gli occhi e la bocca per poi togliermi il cuscino dalla testa e girarmi di scatto. Il mio sorriso a trentadue denti si trasformò in un’espressione delusa nel momento in cui realizzai che la conversazione si era conclusa lì e che il mio capitano aveva attaccato. Lo sapevo, lo avevo sentito riattaccare, ma una piccola parte di me sperava di potergli parlare. Fissai il biondo, che aveva gli occhi socchiusi e stava rimettendo il Den Den Mushi dentro alla tasca della sua giacca blu, rimasta afflosciata sul pavimento dalla sera prima. Alzò le spalle, ancora visibilmente assonnato. Storsi la bocca, contrariata.
«Torna a dormire» mi disse. Nella sua voce percepii una punta di dolcezza. «Lo rivedrai tra poco» tentò di convincermi. Aveva ragione. Non c’era motivo di dispiacersi. Avrei comunque rivisto il chirurgo a breve, e non mi sarei limitata a sentire la sua voce attraverso un animale che faceva da telefono. Avrei assaporato appieno il momento, lo avrei guardato negli occhi, nei suoi gelidi occhi grigi di cui tanto avevo sentito la mancanza, avrei inspirato il suo odore e perché no, forse sarei perfino riuscita ad abbracciarlo.
Sorrisi, persa nelle mie fantasie, poi picchiettai la mano sul materasso per indurre il rivoluzionario a rimettersi a letto. Anche lui aveva bisogno di dormire un altro po’. Non si fece pregare e si stese accanto a me. Avremmo dovuto comunicare le novità all’equipaggio della Marie Jolie, e lo avremmo fatto, ma solo dopo esserci riposati un po’. Dopotutto avevamo ancora tempo, e di certo i Pirati Heart non se ne sarebbero andati senza di me. Ci avrei messo la mano sul fuoco.
«Buonanotte» fece Sabo, sprofondando la faccia nel cuscino. Sollevai un sopracciglio.
«Buongiorno, vorrai dire» lo corressi, sarcastica. Si abbandonò ad una piccola risata, prima di chiudere gli occhi e addormentarsi. Non ci volle molto perché lo facessi anche io. Nonostante quella brusca interruzione, andavo – o meglio, tornavo – a letto felice. Perché adesso sapevo che Trafalgar D. Water Law mi stava aspettando.
 
Ancora con i vestiti che avevo addosso la sera prima, uscii dalla camera e, una volta sul ponte, mi stiracchiai ben bene. Il sole era alto nel cielo, anche se coperto in parte da alcune nuvole dispettose. Avrei detto che fossero più o meno le dieci di mattina. Degli uomini uscirono dalla cabina adibita a cucina e sala da pranzo, accarezzandosi la pancia e compiacendosi di quanto fosse buona la colazione. Sabo doveva essere là dentro, a cibarsi di qualsiasi pietanza gli capitasse sottomano. Io, invece, non avevo tanta fame, perciò avevo deciso di saltare quel pasto. Sorrisi nel riflettere che la scena che avevo davanti agli occhi non era tanto diversa dal siparietto a tratti comico che si ripeteva ogni mattina a bordo della Thousand Sunny. La colazione durava circa un’ora, i Mugiwara chiacchieravano amabilmente, arraffavano tutto ciò che potevano e tentavano di ingoiarlo prima che il loro capitano glielo soffiasse da sotto al naso. Poi, tutti – o quasi – uscivano compatti dalla sala da pranzo con l’aria soddisfatta e le pance piene. Con i rivoluzionari non era tanto diverso. C’era perfino il “ritardatario” di turno, ovvero quello che preferiva rimanere ad ingurgitare gli ultimi avanzi. E chi poteva essere, se non il biondo fratello di Rufy? I due non erano fratelli di sangue, ma di certo lo erano di stomaco! Nel pensarci, non potei fare a meno di ridere. Ma supponevo che Cappello di Paglia fosse giustificato, dal momento che con i piatti che preparava Sanji un boccone tirava l’altro. Quel giorno, i miei ricordi sembravano funzionare alla stessa maniera. Fu così che iniziai a sentire il rumore di pentole e scodelle che proveniva dalla cucina della Sunny, accompagnato dal profumo invitante che avevano le pietanze che il cuoco cucinava con tanto amore ed impegno. Sembrava infaticabile. Non avevo mai visto tanta dedizione, passione e cura in un essere umano. Perfino alle cinque di mattina mi era capitato di udirlo armeggiare con mestoli e padelle, e non era mai stanco. Nonostante fossi rimasta poco con loro, non lo avevo visto vacillare nemmeno una volta. Amava quello che faceva e amava le persone per le quali lo faceva. Avevo ipotizzato che fosse questo il suo segreto.
Spostai lo sguardo al centro del ponte. La risata di Brook mi risuonò nelle orecchie. Il suo archetto, stretto tra le dita ossute, scivolava con grazia sulle corde del violino, che produceva una melodia allegra ma delicata. Nelle mani dello scheletro, quello strumento diventava pura magia. Era capace di fare miracoli. Le sue canzoni scandivano la giornata, e tutti parevano svolgere le loro attività di routine più di buon grado con un po’ di musica in sottofondo. Se l’avessi rivisto mi sarei dovuta ricordare di chiedere al musicista della ciurma di Cappello di Paglia di suonarmi di nuovo “My Heart Will Go On”, nella speranza che ne ricordasse le note.
Alzai gli occhi. A qualche metro da terra, poco sopra al propulsone della Sunny, c’era la buffa struttura quasi rotonda che ospitava la palestra della nave. Al suo interno c’era Zoro, coperto da un velo di sudore ed estremamente concentrato a contare le flessioni che aveva fatto. Gli enormi pesi erano momentaneamente abbandonati in un angolo – per così dire – della stanza. Ero stata in quella palestra una sola volta. Era intrisa di un odore mascolino, che però avevo inspirato con piacere, perché quello era l’odore della nobiltà d’animo, dei sacrifici, della determinazione. Di un sogno che ad ogni goccia di sudore versata diventava sempre più reale.
Piegai la testa da un lato e scossi appena la testa con un sorriso sornione. Eccoli lì. Rufy ed Usop, seduti scompostamente sulla ringhiera bianca. Tra le mani avevano una canna da pesca. Erano stati un’ora ad aspettare che qualche pesce abboccasse, sebbene sapessero che fosse inutile, perché si erano mangiati le esche. Dormivano beatamente schiena contro schiena e russavano pure.
«Stai fantasticando sul momento in cui rivedrai i tuoi compagni?»
Una voce alle mie spalle fece svanire le loro immagini dalla mia mente. Non c’era bisogno che mi girassi per capire a chi appartenesse. La conoscevo benissimo. Inoltre, c’era un’unica persona su quella nave che avesse la confidenza – che talvolta era anche troppa – per farmi una domanda del genere. A quanto pareva in cucina non c’era rimasto più cibo da ingerire.
«A dire la verità, stavo ripensando ai momenti passati sulla Thousand Sunny all’inizio della mia avventura, quando ero solo una ragazzina impaurita e piena di insicurezze che non sapeva cosa ci facesse in un posto del genere» affermai calma, incrociando le braccia al petto. Continuavo a fissare il parapetto della caravella, nella speranza di veder comparire davvero Rufy e Usop che pescavano.
«Ne è passato di tempo, eh?» fece Sabo, affiancandomi. Sbuffai una risata ed annuii, indecisa se abbandonarmi alla nostalgia o se essere fiera di me stessa per tutto quello che ero riuscita a superare.
«Però mi mancano, sai?»
«Rufy e la sua ciurma?» volle sapere. Mi strinsi nelle spalle.
«Tutti. Soprattutto i miei genitori» risposi. Mi umettai le labbra con la punta della lingua. All’improvviso mi sembravano aride. «Loro... loro mi mancano più di chiunque altro, perché so che la nostra non è solo una lontananza fisica».
Sospirai, cercando di non pensarci. Se c’era una cosa che avevo imparato in quegli anni, era che non tutti i mali venivano per nuocere. Alcuni mi avevano lasciato cicatrici indelebili, ma tutti, nessuno escluso, mi avevano aiutata a crescere. A diventare una persona migliore, più forte, più tenace, più consapevole.
«Il fatto che tu provenga da un altro mondo mi manda ancora in confusione» confessò il biondo, strappandomi una risata.
«Beh, non è qualcosa che capita tutti i giorni» commentai, spostando lo sguardo su di lui.
«O a chiunque» precisò con una rapida alzata di sopracciglia. Aveva un sorrisetto furbo e ambiguo. Che stava cercando di dirmi? Che dovevo ritenermi fortunata? Oppure quello era il suo goffo tentativo di rivelarmi che mi reputava una persona speciale?
«Ci sono momenti in cui mi chiedo perché la Stella abbia scelto proprio me. E perché abbia fatto tutto questo» allungai le braccia davanti a me nel tentativo di spiegare il concetto «Non riesco mai a trovare una risposta. O meglio, non riesco mai a trovare la risposta giusta. Ma poi dico a me stessa che se non l’avesse fatto sarei ancora la persona che non ho mai voluto essere. Quella che vaga nel buio, impaurita e persa, intrappolata in una realtà a cui non sente di appartenere».
«Forse è proprio questa la risposta che stai cercando» mi suggerì. Lo fissai stupita. Certe volte mi sorprendevo di quando Sabo riuscisse ad essere profondo.
«O forse non mi serve una risposta» dissi, più per cercare di convincere me stessa che lui «Sono qui, adesso, e questo è quanto. Era così che doveva andare ed è così che deve essere».
Distolsi lo sguardo dal biondo per un po’. Quando tornai a fissarlo, notai che nelle sue iridi era comparso un velo di tenerezza. Avrei fatto meglio a trovare un modo per smorzare i toni di quella conversazione, che stava diventando fin troppo seria per i miei gusti.
«Sai, credo di poter affermare che parte della mia felicità sta nel fatto che sono scampata agli esami di maturità» riflettei, fingendomi assorta.
«Ai che?» chiese il rivoluzionario, confuso.
«Meglio che tu non lo sappia» sussurrai con una smorfia. Scossi la testa con disinvoltura e gli diedi una pacca affettuosa e comprensiva sulla spalla. Certe cose sarebbe davvero stato meglio non saperle.
«Il mio unico rimpianto è di aver visto solo una piccolissima parte di quello che era il mio mondo d’origine. C’erano dei luoghi incantevoli che valeva la pena visitare» confessai poi in un sospiro. Avevamo già avuto una conversazione del genere, qualche tempo fa, tuttavia questa era la prima volta che gli rivelavo una cosa simile.
«Allora, quando tutto sarà finito e tu sarai tornata a casa, io visiterò questo mondo anche per te. E tu farai lo stesso, nel tuo universo» mi propose. Aveva lo sguardo sereno, gli occhi grandi e rotondi erano increspati agli angoli e sembravano ridere. Vedere il mondo era sempre stato il suo desiderio più grande, ed era sicuro che sarebbe riuscito a coronare il suo sogno. Sulle mie labbra comparve un sorriso amaro.
«Sempre se riuscirò a tornarci» mi lasciai scappare.
«Se è quello che vuoi, non vedo perché non dovresti riuscirci» fece lui con un’alzata di spalle.
«Già...» feci, poco convinta. Sospettavo che non fosse così semplice come credeva lui. A volte, volere non era potere, come sosteneva Sabo. La Stella era il mio unico biglietto di ritorno per il mio mondo, e non sapevo come farla comparire. E, anche se avessi trovato un modo, avevo già avuto i miei desideri, quindi non c’era possibilità che me ne concedesse altri. Il punto era che non mi dispiaceva più di tanto.
«Sai, sono piuttosto sicura che noi due ci rivedremo, un giorno, da qualche parte. Comunque vadano le cose. E quando lo faremo, saremo entrambi diventati...» mi interruppi, non sapendo come continuare la frase.
«Le persone che siamo destinate ad essere» proseguì lui per me. Era incredibile come certe volte riuscisse a captare i miei pensieri al volo. Eravamo entrati così in sintonia che adesso finiva pure le mie frasi.
Ci guardammo per un breve istante, prima di tornare a fissare il ponte della nave di fronte a noi, ora illuminato da qualche timido raggio di sole. Annuii con convinzione e sorrisi. Non avrei saputo trovare parole più giuste. Tuttavia, non potevo diventare la persona che ero destinata ad essere se prima non mi facevo una doccia. Non avevo intenzione di ritornare dai miei compagni con un odore sgradevole addosso.
Diedi un’ultima occhiata al ponte e poi a Sabo, dopodiché mi voltai e tornai nella mia cabina senza dire niente. La conversazione era caduta lì, ma noi due, quel giorno, ci eravamo implicitamente fatti una promessa.
 
La serratura scattò. Almeno in quel bagno c’era una serratura – seppur malandata e rugginosa – e stavolta mi ero ricordata di farla scattare in modo che nessuno potesse entrare. Avevo appena iniziato a spogliarmi, con il rumore dell’acqua della doccia che scorreva di sottofondo, quando la maniglia della porta iniziò a girare. Mi voltai di scatto.
«È occupato!» esclamai, nella speranza che la persona dall’altra parte mi sentisse. La maniglia si mosse ancora. Non mi aveva sentito.
«È occupato!» ripetei, stavolta con più convinzione. Il tizio non demorse e continuò a provare ad entrare. Sbuffai un paio di volte, poi mi rimisi la maglietta. I pantaloni li lasciai per terra, al massimo me li sarei infilati dopo. Mi rendevo conto che avere un solo bagno per quattordici persone non fosse proprio una soluzione ideale, ma quello era ciò che passava il convento – o meglio, l’Armata Rivoluzionaria – e dovevo accontentarmi. La stanza non era particolarmente grande, ma neanche minuscola. Il pavimento era composto da mattonelle piccole e quadrate color celeste pallido, mentre i muri erano completamente bianchi. Proprio accanto allo specchio sopra al lavandino, la parete era attraversata in verticale da un’impercettibile crepa. La doccia, invece, non ero del tutto sicura che si potesse chiamare tale. Era più una piattaforma quadrata appena rialzata, circondata da una tendina di plastica rosa. Perché fosse proprio rosa, rimaneva per tutti un mistero. Ad ogni modo, lo spazio, là dentro, era relativamente ridotto. Uno come Franky non ci sarebbe mai entrato. Non che ciò fosse un problema, per me, visto che ero abbastanza minuta rispetto ai giganti – letteralmente e non – che circolavano in quell’universo. Quanto al resto, c’era l’essenziale. Niente di più di ciò che ci si potesse aspettare da un bagno. Erano finiti i tempi in cui vivevo nel lusso. Dover dire addio a quella che per un po’ era stata la mia vasca era stato difficile. Però il fatto che non toccasse a me pulire la toilette era già un passo avanti. Un brivido mi attraversò nel momento in cui pensai che a breve Law mi avrebbe di nuovo obbligato a prendere lo scopino in mano.
La maniglia si girò di nuovo. Chiunque ci fosse là fuori, sembrava impaziente. Magari quel pover’uomo fuori dalla porta aveva un’urgenza. Girai il chiavistello ed aprii quel tanto che bastava per fare capolino con la testa. La mia finta espressione cordiale si tramutò in fastidio vero e proprio quando scorsi Sabo, in piedi davanti a me.
«Che cosa ti serve?» gli chiesi seccata. In risposta fece un ghigno malizioso.
«Ho da fare.» lo liquidai perentoria. Il suo ghigno si allargò nel momento in cui notò che ero in mutande.
«Lo so. Stai per fare la doccia» affermò, allungando il collo per scrutare l’interno del bagno. Assottigliai gli occhi.
«No, Sabo. No.» gli imposi con decisione.
«Sei stata tu a proporlo. Non puoi tirarti indietro» mi ammonì, tuttavia scherzando ed esibendo un sorrisetto compiaciuto.
Digrignai i denti. Aveva ragione. La notte prima gli avevo proposto di farci la doccia insieme. Mannaggia a me. E mannaggia a lui, che si ricordava solo quello che gli faceva comodo. Adorava giocare con le parole e rigirarle a suo piacimento.
Feci per chiudere la porta, ma lui la bloccò con una mano.
«Queste sono le tue ultime ore di viaggio. Dovresti approfittarne» disse, poi lasciò cadere la mano lungo il fianco, come se sapesse che alla fine avrei capitolato e lo avrei lasciato entrare. Aveva tentato il tutto per tutto con quella frase.
Scossi la testa e sbuffai. In fondo, non aveva tutti i torti. Quelle erano davvero le ultime ore che ci rimanevano insieme. Che motivo avevo di mettermi a fare la preziosa proprio adesso, quando non lo avevo fatto in tre mesi?
“Al diavolo. Al diavolo tutto” pensai, poi mi feci da parte ed aprii la porta, proprio come aveva previsto Sabo, che infatti non perse tempo ed entrò nel bagno. Sembrava contento, ed io sapevo che non era solo perché aveva “vinto” quella piccola battaglia.
«Ora ascoltami bene» iniziai, piazzandomi davanti a lui ed incastonando i miei occhi ai suoi, curiosi «Se questa è davvero la nostra ultima volta, farai meglio a renderla memorabile.» quasi glielo imposi, le iridi ferme e l’espressione impassibile. In cambio mi regalò uno dei suoi ghigni migliori. Dopotutto, gli avevo appena lanciato una sfida.
Prima di fare qualsiasi altra cosa, però, mi premurai di far scattare – per l’ennesima volta in quella giornata – il chiavistello della serratura. Sarebbe stato meglio non rischiare, soprattutto considerato che qualche tempo prima quell’idiota si era infilato nella mia vasca da bagno dimenticandosi di chiudere tutte le porte.
Quando mi fui accertata che tutto fosse a posto feci per togliermi la maglietta, ma lui mi fermò. Lo guardai interrogativa, tuttavia invece di rispondermi afferrò il lembo inferiore della mia t-shirt ed iniziò a sollevarlo lentamente. Feci un sorrisetto compiaciuto – che celava un po’ di sorpresa – poi alzai le braccia e lasciai che me la sfilasse. Fino a quel momento non era mai accaduto che volesse fare le cose con calma, e non mi aspettavo che potesse essere così paziente e delicato, invece continuava a sorprendermi. Forse aveva preso le mie parole sul serio e stava provando a rendere la nostra ultima volta davvero memorabile. Buon per lui. Anzi, buon per noi.
Osservai Sabo mentre si allentava il fazzoletto che aveva al collo, per poi liberarsene insieme alla giacca. Sebbene non ne avesse bisogno, decisi di ricambiare il “favore” che mi aveva fatto poco prima e lo aiutai a togliersi i pantaloni. Accompagnai l’indumento fino a terra con le mani e con il corpo, dopodiché risalii le gambe del biondo con i palmi, accarezzandone la superficie tiepida e muscolosa. Alzai la testa. Eravamo entrambi rimasti in intimo. Ci scambiammo una rapida occhiata, poi mi prese il viso fra le mani e lo guidò fin verso il suo, costringendomi a rialzarmi. Quando le nostre labbra si toccarono, mi resi conto che il mio corpo non era mai stato così leggero. Mi sembrava di fluttuare in aria o di galleggiare nell’oceano, e non avevo idea del perché mi sentissi così, sapevo solo che quella era la prima volta che mi capitava. Forse era perché ero consapevole che quella sarebbe stata la mia ultima occasione per lasciarmi andare sul serio.
Con un gesto svelto e sapiente Sabo fece scivolare i miei slip sul pavimento e poco dopo anche i suoi boxer subirono lo stesso destino. Ci abbandonammo ad una breve risata. Eravamo nudi e più liberi che mai. Iniziammo a baciarci con veemenza, senza smettere nemmeno per riprendere fiato. Avevo le palpebre serrate, persa in quel paradiso oscuro. Le sue mani erano pressate sulle mie guance, mentre le mie erano attorcigliate attorno al suo collo. Le nostre labbra, inutile dirlo, combaciavano alla perfezione e sembravano sapere esattamente come muoversi. Tra me e il fratello di Rufy c’era una complicità elettrica. Probabilmente c’era sempre stata, dovevamo solo trovare il modo di lasciarla uscire allo scoperto.
In un attimo fummo a qualche centimetro dalla doccia. Lo sentii scostare con la mano la tendina rosa e riaprii gli occhi per un paio di secondi, leggermente sorpresa. Non mi ero neanche accorta che ci stessimo muovendo, tanto ero presa dal momento. Entrammo nella doccia senza perdere tempo, e il biondo si allungò per girare la manopola e aprire l’acqua, che venne giù in uno scroscio gelido. Mi lasciai sfuggire un gemito di fastidio mentre un brivido si propagava in tutto il mio corpo. Il rivoluzionario si chinò verso di me sfoggiando un ghigno poco innocente e mi baciò con passione. Nonostante l’acqua fosse fredda, il mio corpo bruciava. Bruciava di desiderio, bruciava di piacere, bruciava e basta.
Per un breve momento mi fermai ad osservare l’acqua che gocciolava sul suo viso. Dai capelli dorati che gli ricadevano sulle tempie, le goccioline scivolavano sulle guance, poi sulle mandibole ed infine sulla pelle tesa ed invitante del suo collo. La vena pulsante sulla sua gola pareva che stesse chiamando il mio nome, quasi aspettasse di essere marchiata dalla mia lingua. Per una volta fui io a non pensare. Mi avventai sul suo collo, come un predatore si avventerebbe sulla giugulare della propria preda, e cominciai a percorrerlo con bacetti appena accennati che poco dopo si trasformarono in piccoli ed innocenti morsi. L’acqua, adesso un po’ più calda, scivolava copiosa lungo la mia schiena nuda ed ormai libera dai capelli. Probabilmente era anche questo che mi faceva sentire la testa più leggera. Se non fossi stata presa ad assaporare ogni centimetro di epidermide del rivoluzionario, avrei riso. Percepii che il mio “assalto” gli stava piacendo perché mi accorsi che gli era venuta la pelle d’oca. Gli piaceva compiacermi, perché in questo modo compiaceva anche se stesso, ma stavolta... era differente. In un certo senso, volevo ripagarlo per tutte le volte in cui mi aveva fatto sentire così bene che sarebbe stato impossibile da spiegare a parole. Non aveva fiatato fino a quel momento, né una parola, né un gemito, né un lamento; eppure aveva parlato, era stato il suo corpo fremente a farmi capire esattamente quello che voleva. Me. Voleva me. Non era una novità che mi desiderasse – non nel senso strettamente fisico, almeno – ma questa volta c’era qualcosa che mi rendeva euforica al pensiero. Forse perché questo mi dava la certezza che separarsi da me non sarebbe stato troppo facile neanche per lui.
Le sue dita, che fino a quel momento avevano vagato per tutto il mio corpo alla ricerca di una meta ben precisa, smisero di solleticarmi la pelle. Mi fermai anche io e lo guardai interrogativa, pensando che ci fosse qualcosa che non andava.
Incastonò i suoi occhi ai miei, sul volto aveva un’espressione indecifrabile. Le sue iridi di carbone risplendevano di una luce strana, diversa.
Mi spinse con forza verso il muro. La mia schiena aderì completamente alla parete bianca e mi lasciai andare ad un sommesso risolino. Sembrava una contraddizione. Il bianco, un colore puro ed immacolato. Era decisamente inadatto a fare da sfondo a ciò che stavamo facendo. Annaspai, come se stessi cercando un appiglio a cui reggermi per non essere sommersa da tutta quella passione; Sabo, però, mi riportò prontamente le mani sopra la testa ed intrecciò le dita alle mie, come se con quella mossa mi avesse lanciato il salvagente che mi serviva per restare a galla. Le mie mani erano fuse alle sue, circondate da una prigione accogliente e rassicurante, la stessa che mi aveva terrorizzata il giorno in cui il rivoluzionario mi aveva dato il primo bacio e nella quale adesso non vedevo l’ora di trovarmi. Proprio come quel giorno, si prodigò in un bacio. Un bacio talmente potente ed intriso di voluttà che mi fece gemere. Pensavo che la testa mi sarebbe scoppiata, che non avrei retto a tutte le sensazioni che stavo provando. Il cuore batteva fortissimo, la vista era appannata, le gambe erano deboli e tremolanti ed il mio corpo non vedeva l’ora di unirsi a quello di Sabo. Era arrivato il momento. Non potevamo più aspettare.
Le nostre mani si staccarono. Le sue andarono a piazzarsi sui miei fianchi, ormai protesi verso i suoi, mentre le mie finirono tra i suoi capelli. Gli passai le falangi con forza su tutta la testa, stringendo e giocando con ogni singola ciocca umida che riuscii a trovare. All’improvviso, la mia gamba sinistra si sollevò, sorretta dal braccio del biondo. Arricciai le dita del piede, non potendo fare altro. Ero completamente scoperta e vulnerabile, e avevo scoperto che mi piaceva essere in balìa degli eventi. Annuii, dandogli così il permesso di farlo, di diventare un tutt’uno con me. Ci scambiammo un ultimo sguardo ed un ultimo bacio prima che accadesse l’inevitabile.
Nel momento in cui successe, reclinai la testa all’indietro e chiusi gli occhi. L’acqua si riversava violenta sul mio viso. Per un breve momento, attorno a me tutto sparì. C’eravamo soltanto io e Sabo. Il tempo aveva smesso di scorrere e la testa di pensare. Riuscivo a riconoscere solo una sensazione: puro piacere. Non mi ero mai sentita in questo modo. Mai. Ero in estasi. Mi sentivo leggera, come se il mio corpo non avesse un peso, ma allo stesso tempo mi sentivo parte di ogni cosa. E sapevo che Sabo si sentiva alla stessa maniera. Riuscivo a sentire il suo cuore battere forte, quasi frantumare la gabbia toracica per poter uscire dal corpo e unirsi al mio. Non era una cosa fisica, non lo stavo percependo con i cinque sensi, ma lo sapevo e basta. Eravamo connessi. Eravamo una cosa sola. Due anime unite in un solo corpo.
Trattenni il respiro, per poi esplodere in tutto il mio assenso. Fortunatamente per noi, lo scroscio dell’acqua copriva ogni altro rumore e rendeva impossibile sentire urla e gemiti di qualsiasi tipo da fuori. Le mie unghie si conficcarono nella carne della sua schiena, supplicandolo di non fermarsi. Dovevo averne di più. Ancora di più. Sempre di più. Quella sensazione di leggerezza e potenza che non avevo mai provato prima mi rendeva ingorda. Mi diedi una piccola spinta ed avvinghiai entrambe le gambe al suo busto. La mia schiena aderiva completamente al muro, il getto d’acqua era proprio sopra le nostre teste. In quell’intreccio di gambe e braccia, percepii il suo respiro caldo contro la mia pelle. Ansimava, perso in quell’oasi di piacere.
«Questo...» feci per parlare, ma le parole vennero soffocate da un gemito di piacere che mi fece di nuovo reclinare la testa all’indietro.
«Sì...» fece lui, ansando.
«Questo è...» riprovai, venendo zittita dal biondo, troppo impegnato a fare magie per potersi distrarre.
«No, lo devo dire» insistetti, grattando sulla sua schiena «Questo è...»
Stavolta non fui interrotta da niente e nessuno, però mi ero resa conto di non riuscire a trovare la parola adatta per descrivere il momento.
«Magnifico» disse lui per me. Annuii, non sapendo che altro fare, sebbene non fossi del tutto d’accordo. Era molto più che magnifico, accidenti a lui. Se non altro ero contenta che stesse provando le mie stesse sensazioni.
Affondò la testa nella mia spalla, la fronte pressata proprio nell’incavo della clavicola. Lui sosteneva il mio corpo ed il suo. Però, nessuno dei due avvertiva il peso dell’altro, né il proprio, né quello delle cose che ci circondavano. Sentivo il suo fiato bollente sul petto, proprio all’altezza del cuore; come se il suo respiro fosse riuscito a scongelarlo dal torpore in cui era. Lo circondai con le braccia e lo strinsi a me. Rimanemmo in quella posizione senza staccarci o muoverci per un tempo indefinito. Potevano essere secondi, minuti o perfino ore, non ci importava. Volevamo solo rimanere ancora un altro po’ così, avvinghiati, tuttavia senza alcuna malizia. L’acqua scorreva libera lungo la nostra carne. Il suo getto non si era affievolito in quei minuti, proprio come la passione che ci legava. Non avevamo bisogno di dire nulla. Non avevamo bisogno di parole, sapevamo esattamente quello che pensava l’altro. Ci capivamo tramite i nostri corpi. I nostri respiri sembravano essersi sincronizzati. Adesso eravamo davvero una cosa sola. Stavamo tremando tutti e due, scossi dal piacere. A far tremare me, però, non era soltanto il piacere. Era anche la felicità che stavo provando in quel momento. Non ero stanca, non avvertivo la fatica e non mi sentivo svuotata, ma anzi, mi sentivo riempita, riempita di speranza, di libertà, di soddisfazione. E non avevo rimpianti di alcun tipo. Dopo parecchio tempo, sentivo che niente sarebbe potuto andare storto. Mi sentivo invincibile, e sperai che anche per il biondo fosse lo stesso.
Era cambiato qualcosa tra di noi, in quella doccia? Chi poteva dirlo, chi poteva saperlo. Lo avevo praticamente obbligato a rendere memorabile la nostra ultima volta insieme, e lui aveva fatto ciò che gli avevo chiesto di fare.
Quella... fu un’ultima volta memorabilissima.

Ero in piedi, lo sguardo fisso su qualcosa a pochi metri da me. Il cuore batteva forte e lo stomaco faceva le capriole, mentre gli occhi erano lucidi di gioia. Di fronte a me, in tutto il suo giallo splendore, si ergeva il Polar Tang. La mia casa. Mi portai istintivamente la mani al cuore e mi strinsi nelle spalle.
«È questo? Sei sicura?» mi chiese Sabo, alle mie spalle. Annuii distrattamente. Come potevo non esserne sicura? Lo avrei riconosciuto ovunque e tra mille altri sottomarini gialli. Ci erano voluti dieci minuti per arrivare fin lì. Dieci minuti di emozioni intense. Ma alla fine – contro ogni previsione – lo avevamo trovato.
Quando mi avevano comunicato che eravamo arrivati a destinazione, la gola mi si era chiusa ed all’improvviso ero diventata impaziente. Non mi importava più di niente, volevo solo rivedere i miei compagni. Avevo salutato gli altri rivoluzionari e li avevo ringraziati per tutta la gentilezza che mi avevano mostrato e la disponibilità che avevano avuto nei miei confronti. Loro mi avevano detto di prendermi cura di me stessa ed io li avevo ringraziati ancora. Poi ci eravamo dovuti separare, loro erano rimasti sulla caravella, mentre io e Sabo eravamo stati calati in mare su una scialuppa. Mi avevano spiegato che sarebbe stato più sicuro in questo modo, era meglio non avvicinarsi troppo al sottomarino con la caravella, ed io mi ero trovata d’accordo. Dovevamo essere prudenti.
Il biondo aveva remato per un po’, finché non avevamo trovato il sommergibile. Ci era praticamente apparso davanti agli occhi, e quando lo avevo visto il mio cuore aveva smesso di battere per qualche secondo. Non mi era mai sembrato tanto bello e familiare come in quel momento. Tutto sembrava calmo e silenzioso, come mi aspettavo che fosse.
La piccola scialuppa barcollò ed io rischiai di perdere l’equilibrio.
«Bene. La via è libera» constatò il rivoluzionario. Con la coda dell’occhio notai che aveva impilato sulla spalla sinistra le due casse di pane come se fosse la cosa più naturale al mondo, dopodiché assicurò la barchetta alla catena dell’ancora del Polar Tang con una corda.
«Andiamo» mi sollecitò. Poi, senza aspettare un cenno o il permesso di salire a bordo, mi afferrò per la vita, saltò verso l’alto e riatterrò sul ponte del sottomarino, con me e le casse di pane appresso.
Rimasi interdetta per un paio di secondi dopo che appoggiai i piedi sul pavimento del ponte. Non sapevo che dire o che fare. Non sapevo se essere arrabbiata con Sabo per il modo in cui aveva “gestito” il tutto o se essere felice perché a pochi passi da me c’erano i miei compagni. Avrei voluto assaporare di più e meglio il momento, ma in fondo avrei dovuto aspettarmelo. Dopotutto, al biondo non piaceva perdere tempo in convenevoli. In questo era simile a Law.
«Addio entrata trionfale» commentai esasperata.
«Sarebbe stata comunque sprecata» replicò il rivoluzionario. Mi guardai intorno. Aveva ragione. Non c’era nessuno sul ponte. Era deserto. Forse i Pirati Heart volevano farmi credere che non ci fossero per poi farmi una sorpresa. No, il capitano non era il tipo che si lasciava andare a tali sentimentalismi. Quindi, doveva esserci qualcos’altro sotto. Che fossero tutti dentro? Impossibile, soprattutto in una bella giornata come quella. "Bella" era un eufemismo, visto che verso l'ora di pranzo si era fatto piuttosto nuvoloso, ma comunque non pioveva. Risalivamo poco in superficie, figurarsi se si lasciavano scappare un’occasione del genere per prendere un po’ d’aria. Probabilmente erano sbarcati sull’isola Denim e non erano ancora tornati. Eppure eravamo in perfetto orario, avrebbero dovuto essere lì. Un velato senso di angoscia iniziò a farsi strada in me nel momento in cui mi ricordai della telefonata di quella mattina. Non ci avevo dato troppo peso, ma cominciavo a pensare che ci fosse qualcosa che non andava. Altrimenti perché chiamare all’alba e prendere tutte quelle precauzioni?
«Deve essere successo qualcosa. Dobbiamo andare a controllare. Law non è mai in ritardo» dissi decisa. Sabo, accanto a me, mi strinse appena il braccio, come per impedirmi di compiere qualche gesto avventato.
«Non lo è neanche stavolta. Rilassati. Siamo noi ad essere in anticipo» mi spiegò, calmo e sorridente.
«Sul serio? Credevo che fossimo puntuali» dissi, sgranando di poco gli occhi.
«No, siamo in anticipo di circa un’ora» rispose con una blanda alzata di spalle. Mi tranquillizzai. All’apparenza era tutto in ordine e tutto a posto. Sospirai e mi spostai dalla parte opposta del ponte per osservare l’orizzonte. Eravamo distanti dalla costa dell’isola Denim, perciò tutto ciò che riuscivo a scorgere era una linea irregolare di terra e rocce sui toni del verde e del marrone. I miei compagni dovevano essere lì. Avrei tanto voluto vedere cosa stava succedendo.
Il biondo mi raggiunse poco dopo.
«Credi che stiano bene?» gli chiesi, voltandomi verso di lui, lo sguardo leggermente preoccupato. Non potevo perderli di nuovo, non ora che ero così vicina a ritrovarli.
«Non lo posso sapere con certezza, ma il tuo capitano mi sembra uno che sa il fatto suo» affermò ghignando. Sorrisi anche io ed annuii. Ci poteva scommettere che sapeva il fatto suo.
Un brontolio mi distrasse dalle riflessioni. Sbuffai involontariamente una risata. Era stato lo stomaco di Sabo ad emetterlo.
«Non dirmi che hai ancora fame. Hai pranzato un’ora fa» quasi lo canzonai. “Tale fratello maggiore, tale fratello minore” pensai tra me e me, scuotendo la testa e ridendo. Il Capo di Stato Maggiore dell’Armata Rivoluzionaria, in tutta risposta, si strinse nelle spalle e si avviò verso il portone metallico dal quale si accedeva all’interno del sommergibile.
«Hai la chiave?» mi domandò, studiando il possibile funzionamento della porta.
«La chiave? Non so neanche se quell’affare si apra con una chiave» risposi. Se c’era una cosa certa ed appurata – che anche Sabo sapeva, perché lo aveva ammesso lui stesso poco prima – era che Law non era uno sprovveduto. E nemmeno un idiota. Sapeva come tenere al sicuro le cose a cui teneva. Non tutte, ma buona parte, e il sottomarino era tra quelle. Sospettavo che nessuno, a parte forse Bepo, sapesse come sbloccare la serratura. Ammesso che ci fosse una serratura. Il portellone poteva aprirsi solo ed esclusivamente risolvendo un rompicapo cinese o completando il cubo di Rubik, o magari recitando una formula in aramaico antico, per quel che ne sapevo. Non mi ero nemmeno mai posta il problema.
Il biondo picchiettò le nocche un paio di volte sul portone, come a testarne lo spessore.
«Lascia perdere. Se adesso apri quella porta e profani il luogo sacro dietro di essa, ti farai un nemico» lo avvisai, ma lui non demorse «Inoltre, non c’è alcun bisogno che aspetti qui con me. La tua missione è terminata, sono arrivata sul sottomarino sana e salva».
Non mi rispose. Non mi degnò nemmeno della sua attenzione. Era troppo impegnato a cercare un modo per poter entrare all’interno del sommergibile e mettersi a svaligiare il frigo. Ma io non potevo lasciarglielo fare. Non per il frigo, né perché Ryu si sarebbe infuriato se il rivoluzionario lo avesse svuotato, quanto perché l’idea che i miei compagni lo vedessero mi faceva stare in ansia. Law avrebbe sicuramente capito. Lui capiva sempre. Avrebbe capito anche se io e Sabo non ci fossimo guardati. E chissà che cosa avrebbero pensato gli altri Pirati Heart. Quando volevano sapevano tirare fuori allusioni molto fastidiose. Dovevo trovare un modo per farlo andare via prima che ritornassero. Mi avvicinai a lui e gli poggiai una mano sulla spalla.
«Dico sul serio, Sabo» insistetti, nella speranza che stavolta mi ascoltasse «È meglio che torni alla Marie Jolie. Io starò bene, e saremo tutti conten...»
Un tuono vicinissimo e potentissimo squarciò l’aria sopra di noi e mi fece prendere uno spavento, impedendomi di finire la frase. Alzai lo sguardo. Tre nuvoloni neri erano comparsi all’improvviso sopra il Polar Tang. Sembravano essersi radunati lì apposta. Ci mancava solo che si mettesse a piovere. Neanche a farlo apposta, infatti, poco dopo iniziò a piovere davvero. Solo che quella che stava cadendo dal cielo non era acqua normale. Era blu. Blu. Assurdo. E dire che ne avevo viste di cose strane in vita mia.
La pioggia scendeva con così tanta violenza che mi infradiciai in un meno di un minuto. Tuttavia non ebbi il tempo di metabolizzare, perché una mano mi afferrò il polso e mi tirò all’interno del sottomarino. Tirai un sospiro di sollievo. Ero in un luogo asciutto, rassicurante e famigliare. Ero all’interno del Polar Tang. Dopo mesi e mesi di lontananza, ero finalmente ritornata nel mio posto preferito. Il mio sollievo, però, durò poco. Finì nell’esatto momento in cui realizzai che Sabo, per entrare, aveva fuso la serratura della porta, molto probabilmente utilizzando i suoi poteri. Chiusi gli occhi e mi strinsi il ponte del naso con pollice ed indice. Dannato idiota. L'aveva combinata grossa. E la colpa sarebbe ricaduta su di me. Il capitano si sarebbe arrabbiato e me l’avrebbe fatta pagare, poco ma sicuro. Sperai solo che la mia punizione non comprendesse la pulizia dei bagni.
«Dov’è la cucina?» mi chiese il biondo con nonchalance.
Allargai le braccia e le feci ricadere rumorosamente lungo i fianchi, esasperata. Solo in quel momento notai che accanto a me – sane, salve e asciutte – c’erano le due casse di pane. Le tirai su e me le misi in spalla.
«Seguimi» gli dissi, iniziando a camminare in direzione della cucina. Tanto ormai il danno era fatto. Se aveva fame non c’era motivo di non fargli avere ciò che chiedeva.
Gli spiegai la strada per la cucina e gli intimai di non fare altri casini, poi mi diressi in camera mia insieme alle casse. Non potevo lasciarle in bella vista. Se non le avessi nascoste, Law se ne sarebbe sbarazzato.
Sorrisi appena. Il grigio dei muri del corridoio, che tanto mi era sembrato austero, adesso mi sembrava bellissimo. Quelle pareti raccontavano una storia. Ad ogni passo che facevo mi veniva in mente un ricordo. Mi sorpresi nello scoprire che ce n’erano così tanti. Appoggiai le casse di pane per terra e toccai uno dei muri. Era liscio e freddo, ma allo stesso tempo era caldo. Vi appoggiai la fronte per qualche secondo, sorridendo come un’ebete. Poi mi staccai dalla parete e feci un paio di giravolte a braccia larghe.
«Sono tornata» dissi, quasi aspettandomi una risposta da parte del Polar Tang. Non potevo vedermi, ma ero sicura che gli occhi mi brillassero. Non ero mai stata tanto contenta di ritornare in un posto così asettico ed impersonale in vita mia. E comunque, era tutta apparenza. Coloro che ci vivevano sapevano che non era così. In realtà era un posto pieno di vitalità, e di vino, soprattutto. Mancava il pane, ma a quello avevo prontamente rimediato.
Inspirai a pieni polmoni l’aria che mi circondava. Il sottomarino sapeva di disinfettante. Aveva sempre avuto questo odore? Oppure ero io a non essermene mai accorta? Supponevo che non avesse troppa importanza, perché da quel momento in poi quello sarebbe stato uno dei miei odori preferiti. Mi avrebbe ricordato che c’erano delle cose per cui valeva la pena combattere e tenere duro. Io lo avevo fatto, avevo tenuto duro ed ero riuscita a ritornare lì, contro ogni previsione. Non avevo vinto nessuna guerra, ma avevo vinto la mia battaglia personale. Ce l’avevo fatta.
Lasciai momentaneamente le casse lì e vagai per il sottomarino per un po’. Mi fermai davanti alla porta della cabina di Shachi e Penguin e la aprii. Risi nel constatare che era esattamente come me la ricordavo, con l’unico particolare che era ancora più in disordine, se possibile. Chissà quante volte era rabbrividito il povero Bepo, maniaco dell’ordine, davanti a quella confusione.
Mi diressi verso l’infermeria. Accesi la luce ed entrai nella stanza. Ne squadrai ogni centimetro ed osservai minuziosamente ogni particolare, senza perdermi niente. Quanto mi era mancata. C’era stato qualche cambiamento nella disposizione dei mobili e dei medicinali, ma niente di troppo drastico. Era sempre la stanza delle meraviglie, o degli orrori, a seconda dei punti di vista. Ci avevo passato tantissimo tempo, là dentro. Erano stati quasi tutti bei momenti. In quei mesi non mi ero resa del tutto conto di quanto mi fossero mancati i Pirati Heart e il Polar Tang. Adesso che rivedevo quegli ambienti dopo un lasso di tempo infinito, però, iniziavo a realizzarlo. Mi erano mancati terribilmente.
Spensi la luce e mi ritrovai quasi automaticamente davanti alla cabina di Law, che tuttavia era chiusa a chiave. Sbuffai una risata. “Giusto. Quasi mi ero dimenticata delle tue paranoie” gli dissi nella mia mente. Diedi un piccolo colpetto alla porta – che sarebbe stato l’equivalente di una pacca sulla spalla per un essere umano –, poi recuperai le casse e le portai in camera mia, evitando accuratamente di passare per i bagni. Non ci tenevo tanto a rivederli.
Quando finalmente mi ritrovai davanti la mia cabina, prima di lasciarmi andare a sentimentalismi di qualsiasi genere, nascosi il pane nell’armadio. Quando le due casse furono al sicuro, chiusi le ante e mi ci appoggiai mentre osservavo la mia stanza, travolta dai ricordi e dalla felicità che tali ricordi mi provocavano. Era tutto esattamente come lo avevo lasciato, a parte il libro, che non era più sul letto ma sul comodino, e il telefono, in carica anch’esso sul comodino. Per il resto era tutto uguale e famigliare. Persino l’odore era lo stesso. La cabina non era grande come la camera che avevo alla base e non avevo a disposizione una mega vasca da bagno tutta per me, però quello era molto meglio. Perché era in assoluto il mio posto preferito. Un posto che all’inizio avevo odiato, ma che poi avevo imparato ad amare, spazio ridotto e colori spenti inclusi.
Non toccai niente a parte l’armadio, perché non volevo contaminare gli oggetti con quello strano liquido blu che mi si era appiccicato addosso. Invece, mi tolsi i vestiti ed andai in bagno. Anche lì era quasi tutto come lo avevo lasciato. Mi sfuggì un’esclamazione di sorpresa quando notai che c’erano degli asciugamani puliti. Non credevo che ce ne fossero; a quanto pareva qualcuno aveva fatto il bucato per me. Sorrisi grata – sebbene nessuno potesse vedermi – e poi mi infilai sotto la doccia. L’acqua scorreva calda e gentile sulla mia pelle, niente a che vedere con il getto violento di quella mattina. Avevo fatto due docce quel giorno, ed entrambe erano state molto speciali. Era un giorno fortunato, nonostante il risveglio indelicato, i tempi sbagliati, la pioggia blu e la porta fusa.
Mentre mi sciacquavo i capelli, mi chiesi come sarebbe stato il primo incontro con i Pirati Heart. Era una domanda che nell’ultimo mese mi ero posta parecchie volte, ma non ero mai riuscita a trovare una risposta. Forse perché non c’era una risposta giusta. Alla fine, non serviva a niente fantasticare ed immaginarsi lo svolgersi della scena, perché sarebbe stato ciò che doveva essere. Alcune cose non si potevano prevedere, e io nemmeno volevo farlo. Avrei vissuto il tutto godendomelo appieno, senza tentare di indovinare o anticipare le reazioni dei miei compagni. Dopotutto, era anche questo il bello dei ricongiungimenti. La mia unica paura era che i Pirati Heart non fossero felici di rivedermi. Era una paura pressoché irrazionale, visto che sapevo quanto loro tenessero a me e mi volessero bene – mi avevano persino fatto il bucato! Quando mai avevano fatto il bucato per qualcun altro, in vita loro!? – però non riuscivo comunque a togliermi questa spiacevole sensazione di dosso. Era passato tanto tempo dall’ultima volta in cui ci eravamo visti e potevano essere cambiate tante cose, forse troppe perché riuscissi a tenere il passo. E a quel punto, mi avrebbero voluto bene lo stesso? Mi avrebbero vista alla stessa maniera? Sarei stata in grado di rendermi di nuovo utile?
Scossi rapidamente la testa, come se oltre all’acqua potessi scacciare anche quei pensieri molesti dalla mia testa. Non c’era motivo di angosciarsi. Dubitare è umano, ma c’era una cosa, una sola, di cui ero sempre stata certa in quegli anni: una volta che entri a far parte dei Pirati Heart, è per sempre.

Dopo che ebbi finito di fare la doccia, mi avvolsi un asciugamano attorno al corpo. Mi sentivo rinfrescata, pulita e rigenerata. Quando uscii dal bagno, però, per poco non ci rimasi secca. Scattai all’indietro – rischiando anche di scivolare sul pavimento bagnato – e protesi le mani in avanti. Di fronte a me, tranquillo come al solito, c’era il Capo di Stato Maggiore dell’Armata Rivoluzionaria. Nudo.
«Sabo, ma che cazzo fai!?» gli gridai; poi però mi ricordai che non poteva sentirmi perché non avevo la cintura indosso. La recuperai alla svelta, me la misi e lo fissai truce. Per terra, sparsi attorno a lui, c’erano i suoi vestiti.
«Sabo... che diavolo stai facendo?» gli chiesi. Parlai lentamente, ma dal mio tono traspariva una certa furia. «Rivestiti. Ora. Non è questo il momento di mettersi a fare gli idioti.»
«Già che sono qui, ne approfitto. Anche io ho bisogno di farmi una doccia» mi spiegò. Non si scompose troppo, al contrario di me. Per fortuna fui in grado di contenermi e di non dare di matto. Perché ogni volta che uno di noi aveva bisogno di farsi una doccia o un bagno anche l’altro finiva nudo automaticamente?
Osservai gli indumenti riversi sul pavimento. Anche i suoi sembravano piuttosto appiccicosi e bagnati. Effettivamente, aveva bisogno di farsi una doccia, e si era già svestito. Non mi sembrava il momento di mettersi ad obiettare. Il biondo non si sarebbe comunque rivestito tanto presto; che avrebbero detto i miei compagni se fossero tornati e lo avessero visto nudo, e per giunta in camera mia? Meglio dargli ciò che voleva, con un po’ di fortuna la cosa sarebbe stata rapida ed indolore per tutti. Mi feci da parte e lo lasciai passare, con uno sguardo che esprimeva quieta rassegnazione. Gli lasciai un asciugamano pulito sul lavandino e me ne andai in cucina per controllare i possibili danni che poteva aver fatto Sabo.
Non c’era pericolo che qualcuno mi vedesse girovagare per il sottomarino. Se i miei calcoli erano corretti, mancavano ancora una ventina di minuti prima che i miei compagni ritornassero. Dovevo approfittarne, non capitava tutti i giorni di riuscire a passeggiare liberamente per le stanze del Polar Tang con un misero asciugamano addosso. Mi chiesi se quelli fossero i miei ultimi momenti di libertà o se invece fossero i miei ultimi minuti di solitudine, e non potei fare a meno di sorridere. Dopotutto, la risposta ce l’avevo scolpita nel cuore.
Arrivai in cucina e non mi stupii nello scoprire che era pulita ed ordinata, proprio come ci si sarebbe aspettati da Ryu. C’erano delle briciole sparse qua e là, molto probabilmente lasciate dal biondo, ma nulla di troppo serio. Del resto, quando voleva il fratello di Rufy – al contrario di quest’ultimo – sapeva essere una persona rispettosa. Aprii il frigo. Sembrava ancora pieno e ben fornito. Per fortuna il rivoluzionario non aveva mangiato troppo, si era riempito lo stomaco il tanto che bastava per non lasciare tracce evidenti del suo passaggio e per non destare troppi sospetti. Il cuoco ci avrebbe comunque fatto caso, ma non avrebbe fatto storie. Dopotutto, dietro al suo atteggiamento da duro si nascondeva un animo tenero. E poi, uno dei principi fondamentali di un cuoco non era quello di concedere il cibo agli affamati?
I miei occhi si illuminarono e ghignai soddisfatta. Eccole lì, sul primo ripiano in basso. Le mie bottiglie di vino. Le mie amatissime bottiglie di vino! Allora c’era. Il vino c’era! Esultai silenziosamente e pensai a tutti i modi possibili per consumarle senza che nessuno mi importunasse. Tuttavia alla fine resistetti alla tentazione e richiusi il frigo. Non era quello il momento di ubriacarsi. Lo avrei fatto, eccome se lo avrei fatto, ma tutto a suo tempo.
Uscii dalla cucina e controllai la situazione meteorologica, aprendo di poco la porta metallica dell’ingresso, ormai rotta. Aveva smesso di piovere, fortunatamente. Forse anche il cielo si stava preparando all’incontro, e come me voleva che fosse sereno. Sospirai impaziente. Ormai era questione di pochi minuti, poi li avrei rivisti.
Mi affrettai a tornare in camera, con un’idea ben precisa in testa. Sabo era uscito dalla doccia e si era legato l’asciugamano in vita. Storsi appena la bocca nel constatare che anche con poca luce i suoi addominali apparivano perfettamente scolpiti. Non sarebbe stato facile rinunciarvi, ma non si poteva avere tutto dalla vita, e quello era il prezzo da pagare per stare con le persone che amavo.
Mi tolsi la cintura e poi lasciai cadere l’asciugamano al suolo. Avevamo ancora pochi minuti e dovevo sbrigarmi. Aprii l’armadio e frugai tra i vestiti – che erano comunque pochi – sotto lo sguardo perplesso e stupito del biondo, che vedeva soltanto degli indumenti svolazzare da una parte all’altra del guardaroba. Infilai alla svelta il primo paio di mutande che riuscii a recuperare, dopodiché continuai la mia ricerca. Quando la trovai, la strinsi a me. Lasciai che la mia guancia si sfregasse contro l’indumento e ne inspirai l’odore. Poi non persi tempo e lo indossai. Chiusi gli occhi per qualche secondo, assaporando appieno la sensazione familiare di quel particolare tessuto a contatto con la mia pelle. La stoffa mi avvolgeva il corpo alla perfezione, come se ne conoscesse ogni curva e ogni centimetro. In effetti era così. Ne avevamo passate tante, insieme. L’avevo odiata, l’avevo ripudiata, ed infine era diventata la mia seconda pelle. Mi sembrava assurdo, ma mi era mancata. La divisa dei Pirati Heart. La divisa che Law mi aveva imposto di indossare. Ancora con gli occhi chiusi, strinsi i lembi tra le mani e lasciai che le dita scivolassero sulla stoffa appena ruvida. A sinistra, di poco sopra il cuore, c’era ricamato il logo giallo dei Pirati Heart. Ero consapevole che quella non era la mia uniforme, non poteva essere quella che mettevo sempre, perché era andata distrutta nel combattimento contro Doflamingo, però era il valore simbolico che aveva, era ciò che rappresentava, che contava. Adesso ero di nuovo parte di qualcosa. Sorrisi appena nel pensare che i miei compagni avrebbero apprezzato il mio gesto. Qualcosa mi diceva che in particolare lo avrebbe fatto Law, perché era una cosa che non si sarebbe aspettato.
Sabo mi porse la cintura – o meglio, la porse all’aria dato che non poteva vedermi – ed io me la sistemai sotto la divisa. Quando ritornai visibile ai suoi occhi lo vidi fare una faccia compiaciuta.
«Il tuo capitano ha un ottimo gusto in fatto di abbigliamento» commentò, annuendo sporadicamente e fissandomi nella stessa maniera in cui mi fissavano Shachi e Penguin ogni volta che mi vedevano con quell’uniforme addosso. Non erano del tutto da biasimare, visto che era piuttosto attillata. Per di più, non avevo nemmeno tirato su la cerniera, per cui parte del mio corpo era esposto.
«Hai intenzione di lasciarla aperta?» mi chiese poi il rivoluzionario, come se mi avesse letto nel pensiero. Mi immaginai quale sarebbe stata la reazione dei due mammiferi alcolizzati se mi avessero visto in quel modo e mi affrettai a chiudere la divisa.
«Merda!» esclamai a denti stretti. La cerniera sembrava essersi bloccata in un punto proprio sotto al seno. Feci un paio di tentativi per sbloccarla, ma fu tutto inutile. Il tempo stringeva, quello era un inconveniente che non ci voleva.
«Sabo, dammi una mano» gli ordinai. Sul suo volto comparve un ghigno furbo. Fece per parlare, ma io lo stroncai sul nascere.
«Sta’ zitto e tira» gli imposi perentoria. Il mio sguardo non ammetteva repliche.
Si avvicinò e cominciò a trafficare con la cerniera. Provò a disincastrarla per qualche minuto, ma nemmeno il suo tocco parve sortire alcun effetto. Di tutti i giorni possibili, quella stronza aveva deciso di incepparsi proprio ora.
«Più forte. Tira più forte» lo sollecitai. Fece come gli avevo detto e tirò con più forza.
Emisi un lamento.
«Mi hai preso la pelle in mezzo alla cerniera, idiota!» gli gridai. Stavo iniziando ad agitarmi. I miei compagni sarebbero tornati da un momento all’altro e se qualcuno ci avesse visto in quel modo avrebbe sicuramente frainteso la situazione.
Il biondo mi piazzò una mano in mezzo al seno per tenere uniti i due lembi della divisa e facilitare il tutto.
«Sbrigati» lo esortai di nuovo, impaziente. Fissai la porta socchiusa con preoccupazione.
«Devo usare la forza o fare in fretta?» mi chiese, alzando appena lo sguardo – fino a quel momento fisso e concentrato sulla cerniera – e sorridendo beffardo.
«Possibile che tu non riesca a fare entrambe le cose?» gli domandai sarcastica. La sua calma mi stava infastidendo parecchio. Lui non aveva nulla da perdere, ma io sì. La dignità, ad esempio.
Con la coda dell’occhio percepii un movimento alla mia sinistra. Voltai la testa ed avvampai all’istante. Per poco gli occhi non mi uscirono dalle orbite e la mascella non cadde al suolo. Il mio cuore perse un numero considerevole di battiti e la mia vita si accorciò di una ventina di anni.
La porta della camera era aperta. In piedi a pochi metri da noi, sull’uscio, c’era Law. Con il passo felpato che aveva, nessuno lo aveva sentito arrivare.
In quel momento il resto del mondo si oscurò e rimase soltanto lui. Era la prima volta in quattro mesi che lo rivedevo, e mi resi conto di quanto mi fosse mancato solo quando il mio sguardo incrociò il suo. La prima considerazione che feci fu su quanto fosse bello. Era innegabile, persino un cieco lo avrebbe pensato. I capelli neri leggermente spettinati nascosti dal cappello maculato, le basette, il pizzetto sul mento, gli occhi grigi e gelidi che al loro interno celavano un universo, i lineamenti delicati del viso, la carnagione olivastra, il lungo cappotto nero, i tatuaggi, la sua Kikoku stretta tra le dita affusolate... Non era cambiato di una virgola. Era fottutamente bello. La sua era un tipo di bellezza capace di uccidere. Ai deboli di cuore sarebbe bastato un suo sguardo per restarci secchi.
Non ero più abituata al suo fascino travolgente, e mi ci volle un attimo per riprendermi. Quando tornai alla realtà, lo osservai da capo a piedi. Aveva le braccia incrociate e l’espressione impassibile. Il suo sopracciglio sinistro era appena alzato, forse ad esprimere quello che poteva essere un accenno di perplessità.
Ricambiò la mia occhiata, incastonando le sue iridi di ghiaccio alle mie nocciola. Sembrava quasi... sollevato. Nel suo sguardo, però, c’era anche una punta di fastidio, ma non riuscivo a capire se fosse disappunto o irritazione. Mille pensieri presero a vorticarmi in testa. Il cuore martellava contro la mia gabbia toracica.
Gettai un occhio alla situazione. I vestiti di Sabo giacevano abbandonati disordinatamente per terra. Sul letto, invece, c’erano i miei indumenti ed il telo che avevo usato poco prima per detergermi il corpo. Il biondo, coperto solo da un misero asciugamano, stava ancora armeggiando con la mia cerniera, e la sua mano era praticamente poggiata sul mio seno, parzialmente scoperto. Era ad un paio di centimetri da me e aveva lo sguardo molto concentrato. Probabilmente non si era neanche accorto che il mio capitano fosse lì. Oppure non gli importava, perché secondo lui non stavamo facendo niente di male. Le circostanze erano decisamente equivoche.
Fino a quel momento ero rimasta immobile, evitando persino di respirare, forse per l’imbarazzo o forse per le mille emozioni che avevo provato in quei secondi. Nemmeno il chirurgo si era mosso, né aveva detto nulla.
Mi ripresi dallo shock della situazione in un nanosecondo e una ruga di preoccupazione mista a vergogna comparve in mezzo alla mia fronte.
«Non è come sembra. Posso spiegare!» gridai a Law, spingendo via il rivoluzionario e portando le mani ai lati della faccia, come se qualcuno mi stesse puntando una pistola contro. Non che fosse tanto diverso, comunque.
Il capitano non sembrò dare segni di vita, e un senso di frustrazione iniziò a frasi strada in me. Era imperscrutabile, come se stesse indossando una maschera. Non riuscivo a capire cosa stesse provando, ammesso che stesse provando qualcosa. Era infastidito per la situazione che si era venuta a creare? Era contento di rivedermi? Niente, dannazione. Non lasciava trasparire niente.
La ruga sulla mia fronte divenne più profonda. No, non era così che volevo che andasse il nostro primo incontro.

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Capitolo 58
*** Ricongiungimento ***


Law gettò una rapida occhiata a Sabo, ora seduto sul letto, che contraccambiò il suo sguardo leggermente diffidente con uno più sereno. Poi tornò a posare gli occhi su di me e lo vidi fare un piccolo ghigno. Sgranai gli occhi nel momento in cui mi accorsi che avevo un paio di parti del mio corpo piuttosto esposte, e pensai a coprirmi come meglio potei, dato che la cerniera era ancora bloccata.
Una strana sensazione mi invase il corpo. Non era imbarazzo. Non solo, almeno. Percepivo anche un velo di delusione. Avevo pensato a vari scenari per il primo incontro tra me ed il chirurgo, ma questo non mi sarebbe mai venuto in mente. Mentre mi stavo facendo la doccia avevo deciso che avrei lasciato le cose al caso, che avrei preso quello che sarebbe capitato, ma non era così che dovevano andare le cose. Non era così che volevo o speravo che andassero.
Deglutii ed abbassai gli occhi, per non incrociare lo sguardo inquisitore del capitano.
«Bentornata» fece Law. La sua voce, per qualche assurdo motivo, mi fece venire le farfalle allo stomaco. Anche quella mi era mancata dannatamente. In un altro momento avrei sorriso come un’ebete, ma nella realtà non mi sembrava il caso.
Rialzai gli occhi e notai che sul suo viso armonioso era comparso un altro ghigno. Non ne ero sicura, ma mi sembrava che fosse uno dei suoi ghigni di sfida. Decisi di ignorare le sue taciute provocazioni e mi limitai a rivolgergli un piccolo sorriso grato.
«Grazie» risposi, accompagnandomi con un cenno del capo «Posso spiegare, comunque. Intendo... tutto questo» continuai, muovendo un passo incerto verso il moro e gesticolando animatamente. Lo vidi sollevare un angolo della bocca.
«Non mi devi spiegare niente» disse. Poi si girò e se ne andò.
Mi scambiai un’occhiata fugace con Sabo, che mi stava squadrando per cercare di capire quale sarebbe stata la mia prossima mossa. Per lui era quasi un gioco.
Lo lasciai lì e scattai in avanti. Rincorsi Law per il corridoio e lo raggiunsi qualche metro dopo.
«Sul serio, posso spiegare. Prima pioveva, il Capo di Stato Maggiore era fradicio, così gli ho lasciato usare la doccia. Io invece volevo soltanto indossare la divisa dei Pirati Heart. Ho pensato che vi avrebbe fatto piacere se l’avessi messa, solo che poi la cerniera si è...»
«Non mi devi alcuna spiegazione» ripeté, interrompendomi e seguitando a camminare. Perché non mi guardava? Che fosse... arrabbiato?
«Non mi interessa cosa fai, o con chi lo fai» affermò. Stavo iniziando a riconoscere il vecchio Trafalgar Law, quello cinico e distaccato. «Ciò che mi interessa è che ti occupi della riparazione della porta d’ingresso del sottomarino».
Boccheggiai, continuando a seguirlo come un cagnolino segue il proprio padrone.
«C’è una spiegazione anche per quello» dissi infine, quasi mortificata «Ad ogni modo, mi dispiace. Me ne occuperò, puoi stare tranquillo».
Raggiungemmo la cucina in meno di un minuto. Da quando il tragitto dalla mia camera alla cucina era diventato così breve? Forse era l’agitazione a farmi sembrare la strada più corta.
Law si fermò sull’uscio e scrutò la stanza.
«Il cuoco non sarà contento quando si accorgerà che sono sparite metà delle sue provviste» affermò sogghignando.
Socchiusi la bocca, sorpresa. Come diavolo aveva fatto a capire che qualcuno aveva preso del cibo dal frigo!? Sbuffai una risata nel momento in cui mi ricordai che lui era praticamente onnisciente.
«Adesso non esagerare» lo rimproverai scherzosamente «Il frigo è comunque pieno».
Per un po’ rimanemmo in silenzio, in piedi uno accanto all’altro. Quello, però, era un silenzio confortevole e carico di significato. Almeno, così mi piaceva pensare. Mi immaginavo che in quel momento tra di noi non ci fossero gerarchie, né imbarazzo. Eravamo solo due vecchi amici che si ritrovavano dopo tempo e che non avevano bisogno di parole per riempire quella mancanza.
«Dovresti uscire in coperta. C’è qualcuno che ti aspetta» fece Law.
La mia bocca si spalancò ed i miei occhi si illuminarono di gioia.
«Vuoi dire che...» cercai di esprimermi, senza riuscire a finire la frase per l’emozione. Il capitano annuì ed io non persi tempo.
«Camilla» mi richiamò non appena mi fui girata, impedendomi di fare qualsiasi movimento. Mi voltai di nuovo verso di lui.
«Sì?»
Il chirurgo allungò entrambe le mani verso di me, lasciandomi spiazzata per un attimo. Le sue dita a contatto con la mia pelle mi provocarono un brivido di freddo. Aveva le mani gelate. Abbassai lo sguardo. In meno di un secondo riuscì a sbloccare la cerniera e a tirarla su, chiudendomi la divisa. Al primo colpo.
«Oh» mi lasciai sfuggire. Non sapevo se essere sorpresa o imbarazzata. Una cosa era certa: Trafalgar D. Water Law aveva delle dita magiche, lo avevo sempre sostenuto.
«Ti assicuro che prima si era inceppata» provai a giustificarmi, avvampando il giusto. Lui mi rivolse un’occhiata eloquente. «Comunque, grazie. Mi hai evitato l’ennesima figuraccia della giornata».
«Ora va’» mi sollecitò, sogghignando appena. Annuii e feci per uscire dalla cucina; tuttavia mi fermai sull’uscio.
«Capitano» stavolta fui io a richiamarlo. Lui mi guardò con un pizzico di curiosità. «Sono contenta di essere tornata» affermai, facendolo ghignare. Nemmeno io riuscii a trattenere un sorriso. Poi me ne andai, tornando sul ponte dove poco prima c’era stato il Diluvio Universale.
 
Aspettai con il cuore a mille per cinque minuti, ma dei miei compagni non c’era nessuna traccia. Cominciavo a pensare che fossero stati inghiottiti da un’onda anomala o che Law mi avesse preso in giro e che in realtà non ci fosse nessuno ad aspettarmi.
Ad un certo punto, udii dei passi dietro di me. Mi voltai all’istante e notai una figura molto famigliare che si stava avvicinando a me.
«Ma dov’eri finito?» gli chiesi, ricordandomi solo in quel momento della sua presenza sul sottomarino. Sabo sorrise. Mentre si avvicinava mi accorsi che – grazie al Cielo – si era rivestito. I suoi indumenti sembravano essersi asciugati, ma non avrei saputo dire se fossero ancora appiccicosi.
«Questioni da uomini» mi rispose, sogghignando con fare enigmatico.
Corrugai la fronte. Non ero del tutto sicura di voler sapere a cosa si stesse riferendo, anche se forse ne avevo un’idea. L’ipotesi che mi venne in mente mi fece sorridere. Se era corretta, stava a significare che il mio capitano era un uomo d’onore, ma soprattutto che ci teneva a me.
«Quindi, ci siamo. Adesso sono al sicuro, sul Polar Tang, e mi sono ricongiunta al mio capitano» cominciai, stringendomi nelle spalle.
«La mia missione qui è finita» continuò lui. Le sue parole, per qualche strano motivo, mi provocarono una fitta al cuore. Presi un respiro profondo prima di proseguire. Il silenzio di quel momento mi sembrava assordante e mi sentivo un macigno sul petto. Odiavo le separazioni.
«Mi dispiacerà non averti più intorno» gli confessai. Sabo mi raggiunse ed in pochi secondi mi fu di fronte. Il cielo era un po’ nuvoloso, ma a me per qualche ragione sembrava cupo, buio, come se all’improvviso fosse calata la notte.
«Ammettilo, ti ho fatto divertire» disse ghignando. Feci roteare gli occhi. Era ritornato il solito sbruffone pieno di sé.
«Lo ammetto» asserii infine, ridendo. Avrei voluto contraddirlo, ma non si poteva negare l’evidenza. In quei mesi mi aveva fatto divertire – in più sensi – e mi aveva fatto stare bene.
«Hai trovato pane per i tuoi denti» scherzò il biondo. Iniziai a scuotere la testa e corrugai la fronte.
«Non lo dire. Non qui, su questo sottomarino» lo avvisai, nella speranza che Law non avesse sentito. Se c’era una cosa che non mi sarei mai dimenticata, era che il moro odiava il pane, e si irritava anche solo a sentirne parlare, soprattutto all’interno del suo “territorio”. Ecco perché dovevo tenere le casse ben nascoste.
«Comunque... non dimenticherò mai ciò che hai fatto per me» dissi dopo un po’, evitando di incrociare il suo sguardo per l’imbarazzo. Sabo alzò le spalle, fingendo di non sapere a cosa mi riferissi.
«Ti ho soltanto fatto scoprire cosa significa la libertà» si limitò a dire, rivolgendomi un sorriso sghembo.
«No, non è vero. Non hai fatto solo questo. Ma grazie anche per quello» ribattei «Sei stato... fantastico, con me».
«Ho soltanto fatto il mio dovere» rispose, facendomi alzare un sopracciglio. Non sapevo se mi dava di più sui nervi quando faceva lo sbruffone o quando invece faceva il modesto.
Picchiettai i palmi delle mani sulle cosce per un po’, senza sapere bene che dire. Detestavo rimanere senza parole.
«Abbi cura di te. E cerca di non metterti nei guai» lo ammonii alla fine, tuttavia ghignando. Lui mi rivolse un’occhiata eloquente. Non aveva tutti i torti, era pur sempre il numero due dell’Armata Rivoluzionaria, e per quanti casini potesse combinare, di certo non c’era da stare in pensiero per lui. Sapeva badare a se stesso. Più o meno. Alcune volte i guai se li andava a cercare. Se non altro ne usciva quasi sempre indenne.
«Ah, quasi dimenticavo. Non far penare la povera Koala. Non si merita tutta l’ansia che le fai provare» aggiunsi poi, ridendo. Anche il biondo si aggregò alla mia risata, ma non disse niente.
«Cami» mi chiamò dopo un po’. Il modo in cui pronunciò il mio nome mi fece mancare il respiro. Non aveva mai usato questo tono, così soave e serio al tempo stesso.
«Sì?» volli sapere, in un sussurro. Ero a corto di fiato. Avevo paura di quello che sarebbe potuto succedere.
Un istante. Ci fissammo un istante solo negli occhi. Poi mi baciò. Percepii le sue mani sulla nuca, strette in una morsa dalla quale sarebbe stato impossibile liberarsi. Non che volessi farlo. In quel momento non mi preoccupai nemmeno del fatto che qualcuno potesse vederci. Volevo solo assaporare le sue labbra, solo per qualche secondo, solo un’ultima volta. Mi aggrappai alla sua giacca e ne strinsi i lembi con le dita, come ad impedirgli di andarsene, di lasciarmi.
Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare dal momento. Non c’erano parole per descrivere quanto fosse stato meraviglioso quell’ultimo bacio. I nostri corpi aderivano, le nostre bocche erano cucite insieme, i nostri pensieri in simbiosi. Come lo sapevo? Ci muovevamo come se sapessimo esattamente cosa stesse pensando l’altro. Non mi importava niente di nessuno. Avrebbe potuto fotografarci qualche paparazzo invadente, avrebbe potuto attaccarci la Marina, sarebbero potuti tornare i miei compagni e coglierci in flagrante o sarebbe potuto perfino finire il mondo, non me ne fregava niente. Mi sentivo semplicemente come se fossi nel posto giusto al momento giusto. Come se quel bacio fosse scritto nel mio destino, come se fosse dovuto accadere per forza. E proprio di forza si trattava. Una forza invisibile capace di trasportarmi nelle profondità marine e allo stesso tempo sopra le nuvole. Era così con Sabo. Semplice e complicato. Bello e strano. Ed era infinito, anche se il nostro tempo insieme era limitato.
La sua mano sinistra si spostò sulla mia guancia destra. Le sue dita premevano sulla mia pelle, la bruciavano, la elettrizzavano, la rigeneravano.
Quando ci staccammo l’uno dall’altra, ero davvero senza fiato. Il biondo, però, non era messo meglio. Qualcosa mi diceva che gli era piaciuto tanto quanto era piaciuto a me.
Mi leccai le labbra, per gustarmi ancora una volta la sua essenza. Lui mi passò la falange del pollice su di esse, come a volerne memorizzare il contorno. Forse voleva imprimersi bene a mente ciò a cui stava rinunciando, o forse voleva imprimere a me un marchio simbolico che stabiliva che non appartenevamo l’uno all’altra, ma che eravamo stati qualcosa.
«Non ti dimenticare del sapore della libertà» si raccomandò, con un largo sorriso sulle labbra «E non ti dimenticare della nostra promessa».
«Non lo farò» lo rassicurai. Come avrei potuto dimenticarmi del “sapore della libertà”? Era così inebriante che sarebbe stato impossibile non ricordarsene. Quanto alla promessa, quella era un’altra faccenda. Se non avessi trovato il modo per tornare nel mio mondo, sarebbe stato piuttosto difficile mantenerla. Sorrisi. Nel mio sorriso, tuttavia, c’era una punta di malinconia.
«Non lasciare che la paura ti freni. Ti è stata data una seconda occasione, non sprecarla» mi consigliò, quasi con fare materno. Sabo mi aveva insegnato che dovevo fare ciò che mi faceva battere il cuore, senza stare a pensare se fosse moralmente giusto o sbagliato. Dovevo percorrere la strada che mi avrebbe portato alla felicità, senza avere timore. E di questo gli sarei stata eternamente grata.
Annuii, solenne. Sapevo cosa dovevo fare e come farlo, se avessi superato gli ostacoli che avevo davanti nessuno mi avrebbe più fermata. Sarebbe stata mia, la tanto agognata felicità.
Quanto al fratello di Rufy, un giorno ci saremmo rivisti e quando lo avremmo fatto gli avrei insegnato io un paio di cosette sulla libertà.
Dei rumori provenienti dalla mia sinistra mi distrassero. Quando mi voltai di nuovo verso il biondo per cercare di capire se si stesse avvicinando un potenziale pericolo, lui era già scomparso. Non riuscii a mascherare la delusione che era comparsa sul mio volto.
«Ciao anche a te...» sussurrai in un sospiro. Se n’era andato. Da un lato era meglio così, però. Non mi serviva l’ennesimo addio strappalacrime, anche perché il Capo di Stato Maggiore dell’Armata Rivoluzionaria non era il tipo che faceva queste cose. E poi, quello non era un addio, solo un arrivederci.
Mi rigirai e mi concentrai sui rumori. Qualcuno stava risalendo il fianco del sottomarino. Un chiacchiericcio sommesso faceva da sfondo alla risalita. Spalancai gli occhi. Non c’era alcun dubbio su chi fossero i proprietari di quelle voci. I miei compagni. Erano i miei compagni!
Il cuore prese a battermi fortissimo. Non potevo credere che fosse finalmente arrivato il momento. Iniziai a saltellare sul posto, presa dall’eccitazione, tuttavia non mi spostai di un millimetro. Preferivo aspettare che fossero loro ad arrivare sul ponte e a notarmi.
I primi a risalire furono Shachi e Penguin. Poco a poco, li raggiunsero anche gli altri. Gli occhi mi brillavano di gioia e sul mio volto c’era un largo sorriso, che andava praticamente da orecchio ad orecchio. Congiunsi le mani sotto al mento, in attesa che si accorgessero di me.
«Dannata pioggia» commentò Ryu mentre tentava di asciugarsi i vestiti con i palmi delle mani. Allora anche loro erano stati vittime dell’acquazzone, non ero l’unica ad aver avuto sfortuna. Il cielo tuttavia non era scuro, anzi, a me sembrava più terso che mai. Ma forse era solo l’emozione che mi faceva percepire le cose più luminose di quanto fossero in realtà.
«Stammi lontano, Bepo! Puzzi!» esclamò Penguin, allontanandosi dall’orso polare.
«Chiedo scusa. Quando piove il pelo mi si bagna e si impregna di questo odore sgradevole» si giustificò il Visone, chinando il capo per scusarsi umilmente.
Sbuffai una risata. Non era cambiato niente, erano le stesse persone di qualche mese fa.
Nessuno di loro mi aveva visto, però. Forse dovevo fare io la prima mossa. Feci un debole cenno della mano, azzardando un timido saluto. Niente. Erano tutti troppo impegnati a tirare su le scialuppe, a strizzarsi i vestiti – nel caso di Bepo a sgrullarsi – e a chiacchierare tra loro della loro permanenza sull’isola Denim.
Quando finalmente  mi videro, dopo un primo momento di confusione, restarono a bocca aperta. Rimanemmo tutti immobili, in attesa che qualcuno agisse. I nostri sguardi erano intrisi di felicità. Attesi che mi venissero incontro, sebbene il mio corpo volesse precipitarsi da loro ed abbracciarli uno ad uno. I primi a muoversi furono Penguin e Shachi, che iniziarono a correre verso di me. Poco dopo anche Ryu cominciò a spostarsi nella mia direzione. Dopo un paio di metri, però, il pinguino e l'orca finirono stesi a terra a pelle d’orso. Aggrottai la fronte e spalancai la bocca. Il cuoco aveva rifilato loro due schiaffi ben assestati sulla nuca.
«Idioti!» gridò furioso «Siamo arrivati tardi per colpa vostra! Vi avevo detto di sbrigarvi, sapevo che sarebbe tornata! Ma voi due imbecilli avete preferito rimanere a guardare un gruppo di sgualdrine che si facevano il bagno in costume! Adesso non solo ci siamo persi il suo arrivo, ma sono anche in ritardo per la preparazione del banchetto!»
Scoppiai a ridere; risi così tanto che dovetti portarmi una mano alla bocca. Chissà perché, la cosa non mi stupiva più di tanto. Niente di tutto quello mi stupiva, a dire la verità.
I mammiferi in calore si lamentarono, ma optarono per la soluzione più sicura, ovvero rimanere stesi a terra per evitare di prendere altre botte. Quando lo chef ci si metteva d’impegno, i suoi colpi erano capaci di tramortire anche un Re del Mare.
Quando alzò la testa, Ryu passò dalla rabbia alla dolcezza in meno di un secondo. Ricominciò a camminare nella mia direzione, tuttavia, a sorpresa, qualcuno mi raggiunse prima che potesse farlo lui. Una palla di pelo volante atterrò proprio sopra di me e mi fece stramazzare a terra.
«Cami! Sei tornata!» pianse Bepo, strofinando la sua guancia lanuta contro la mia.
«Sì, lo avevo messo in conto» riflettei a bassa voce, corrugando le sopracciglia e trattenendo una risata «D’accordo, pelosone, questo te lo concedo. Anche tu mi sei mancato» gli confessai poi, accarezzandogli dolcemente la testa. Il suo pelo era soffice al tatto e mi solleticava la pelle. Aveva un odore particolare. Non era un odore sgradevole, come invece sosteneva Penguin, però non avrei saputo classificarlo. Sapeva di pioggia, ma oltre a quello c’era altro. Sapeva di un posto sicuro.
Qualcosa – o meglio, qualcuno – lo tirò via da sopra di me. Ryu era arrivato a destinazione e pretendeva il suo momento con me. Mi prese per i polsi e mi rialzò senza fatica. Quando fui di nuovo in posizione eretta, iniziò un’accurata analisi del mio corpo. Abbassai lo sguardo, temendo che la cerniera potesse essersi di nuovo inceppata. All’apparenza sembrava tutto normale.
«Non va bene» iniziò scuotendo la testa, l’espressione cupa. Lo guardai perplessa. «Sei dimagrita» continuò. Sembrava quasi preoccupato. Provai a dire qualcosa, ma non avevo idea di cosa replicare. Non mi pareva affatto di essere dimagrita, forse era lui che mi vedeva sotto una luce diversa.
«Oh, al diavolo!» esclamò, poi mi sollevò da terra e mi abbracciò con una tale forza che le mie ossa scricchiolarono sotto la sua stretta ermetica.
«Bentornata» disse, iniziando a darmi delle energiche pacche sulla schiena.
«Grazie» risposi, quasi soffocando. Per quanto mi facesse piacere che il cuoco si mostrasse così contento, sperai che quell’agonia finisse presto. Per fortuna qualche secondo dopo mi rimise giù.
«Bene, ora vado a preparare il banchetto! Sono molto indietro e c’è tanto da fare!» urlò, con un tono a metà tra l’eccitato e l’impensierito. Diede un’ultima occhiata torva a Shachi e Penguin – che nel frattempo si erano rialzati – e poi sparì all’interno del sottomarino.
«Che fine hanno fatto i tuoi capelli!?» mi domandò Maya. Lei ed Omen mi avevano raggiunta.
«Ah, già» mi ricordai, sfiorandomi appena una ciocca. Da brava amica, la donna era l’unica che aveva notato il mio cambio di look. Forse anche Law lo aveva fatto, ma non mi aveva detto niente in proposito. Non che avessimo avuto modo di discuterne, il nostro primo incontro dopo ben quattro mesi era avvenuto in maniera inaspettata e caotica, con me e Sabo mezzi nudi e le mani di quest’ultimo praticamente sul mio seno. Era assurdo come funzionasse il destino. Avevo fatto di tutto per evitare che il mio capitano scoprisse degli “incontri occasionali” tra me ed il rivoluzionario, e alla fine lo aveva comunque capito. E sì, lo aveva capito anche se non ci aveva colto in flagrante, perché a lui non sfuggiva nulla. Nulla. Probabilmente gli era bastato uno sguardo per capire. Quell’improvvisa realizzazione mi fece tremare.
«Eravamo così in pensiero per te...» la voce di Maya mi richiamò alla realtà.
«Per fortuna stai bene» aggiunse Omen. Sul volto aveva la sua solita maschera, perciò non potevo vedere la sua espressione, ma sospettavo che stesse sorridendo.
«Stai bene, vero?» chiese preoccupata la sua fidanzata, avvicinando la sua faccia alla mia e sgranando di poco gli occhi. Annuii e sorrisi.
«Sono sana e salva» replicai, lasciandomi avvolgere dal loro abbraccio.
Maya mi accarezzò la schiena, materna, e la sentii sospirare di sollievo un paio di volte. Quando ci staccammo, la mia amica mi fece una carezza sulla guancia e poi fece segno al suo fidanzato di rientrare. Il ragazzo, prima di andarsene, mi poggiò una mano sulla spalla, come a farmi sentire il suo supporto.
«Ehilà» mi salutarono all’unisono Shachi e Penguin, fingendo un’indifferenza che non apparteneva loro.
«Smettetela di fare gli idioti e venite a salutarmi come si deve» dissi, con un tono di voce che non ammetteva repliche. Ghignammo tutti e tre, dopodiché ci prodigammo in un abbraccio. Abbraccio che durò qualche buon minuto. Nonostante sapessi che per loro quella stretta avesse una valenza più maliziosa che affettuosa, la cosa non mi dispiaceva affatto. Ero disposta a passarci sopra, perché alla fine quei due mi erano mancati un po’ più degli altri.
«Ho visto le bottiglie in frigo. Non vedo l’ora di scolarmele clandestinamente con voi» sussurrai, sogghignando. Non c’era bisogno che specificassi a quali bottiglie mi stessi riferendo, sarebbe stato palese per chiunque.
«Te le abbiamo tenute in fresco apposta» affermò Shachi con fierezza. Nel sentire le sue parole, li abbracciai ancora più stretti. Sapevo che per loro non era stato affatto facile resistere alla tentazione, ma lo avevano fatto. Per me.
«A proposito... Non ci hai portato nemmeno una goccia di vino?» chiese Penguin, deluso.
Feci per parlare, ma poi decisi di rimanere zitta e mi limitai a scrollare le spalle. Non era il caso di fargli sapere che lo avevo finito tutto durante il viaggio.
«Non ho alcolici con me, però ho riportato qualcos’altro. E credo che apprezzerete molto ciò che vi ho portato. Anche più del vino» li informai, con una punta di malizia. I loro occhi si accesero.
«Che cos’è?» volle sapere l’orca, più curiosa che mai.
«Un’altra donna?» domandò Penguin, pieno di speranza. Quel giorno sembrava ancora più pervertito del solito. Scossi la testa ed alzai gli occhi al cielo. Erano sempre i soliti idioti.
In quel momento, una timida figura che si teneva a distanza mi distrasse. Si stava torturando le dita e aveva la testa bassa.
«Tutto a suo tempo» mi limitai a dire, continuando a tenere lo sguardo puntato sulla figura.
«D’accordo» fecero in coro, leggermente delusi. Con la coda dell’occhio li vidi varcare la porta d’ingresso del Polar Tang. Poi, però, ci ripensarono e si fermarono.
«Bentornata, compagna!» esclamò Penguin, facendomi sorridere. Aspettavo solo che me lo dicessero.
«Ci sei mancata» aggiunse Shachi. Mi girai verso di loro.
«Anche voi mi siete mancati» confessai, dando delle piccole pacche sulla spalla ad entrambi. Pacche che si tramutarono in schiaffi sulle guance nel momento in cui notai che stavano fissando il mio decollété senza alcun pudore. Supponevo che fosse quella la cosa di cui più avevano sentito la mancanza. Ma, di nuovo, mi stava bene così.
«Camilla?» mi chiamò una voce esitante. Mi voltai.
«Kenji» feci, lieta di rivederlo. Gli sorrisi e piegai la testa da un lato.
«Ciao» mi salutò, accompagnandosi con un gesto della mano «Bentornata».
«Ciao anche a te. E grazie» replicai. Notai che aveva i palmi delle mani sudati. Faceva molta tenerezza. Se ne stava in piedi ad un metro da me, senza sapere bene che dire o che fare.
«Sei... sei bellissima. Questa nuova acconciatura ti sta benissimo. Voglio dire, eri bellissima anche prima, ma ora sei davvero stupenda» mi fece sapere dopo qualche secondo di silenzio, abbassando lo sguardo. A quanto pareva c’era qualcun altro che si era accorto che avevo tagliato i capelli. «Sono molto felice che tu sia di nuovo qui con noi» aggiunse poi. All'improvviso avvampò. Divenne rosso come un pomodoro e dovetti trattenere una risata. Prima che succedesse tutto quello che era successo, il nostro rapporto era incerto. Era nata un’amicizia sincera tra noi, ma sospettavo che lui provasse qualcosa per me. Avevo tentato di chiedere il parere di Law in proposito, ma l’arrivo di Doflamingo aveva bruscamente interrotto la nostra conversazione. Adesso, però, ero tornata, e quella era una cosa che andava chiarita. Non in quel preciso istante, ma comunque prima o poi avrei dovuto farlo.
«Anche io sono contenta di essere di nuovo qui» affermai, piegando un angolo della bocca all’insù.
«Come stai?» mi chiese, sinceramente interessato. Esitai un attimo prima di rispondere.
«Bene, grazie» replicai infine, cercando di sembrare il più convincente possibile «Tu come stai?» volli sapere a mia volta. Anche lui tentennò qualche istante prima di parlare.
«Ora che sei qui, benissimo» rispose, nascondendo gli occhi sotto alla visiera del cappello. Rimasi spiazzata da quella risposta, tanto che boccheggiai per vari secondi.
«Allora... ci vediamo dopo» disse per togliersi dall’imbarazzo, giocando con una delle sue trecce rosso fuoco.
«Puoi starne certo. Adesso che sono tornata non intendo andare da nessuna parte. A dopo» lo salutai, osservandolo mentre si appropinquava all’interno del sommergibile. Risi nel momento in cui lo vidi affondare la faccia nelle mani e scuotere la testa affranto. Di tutti i miei compagni, anzi, di tutte le persone che avevo conosciuto in quell’universo, lui era quello che aveva il cuore più puro. Dentro di me sperai che rimanesse sempre così.
Quando ritornai con gli occhi sul ponte, davanti a me era apparsa l’equipe di medici al completo. C’erano tutti, a parte ovviamente Kenji, che mi aveva salutato poco prima.
«Il capitano ci ha dato il suo bel da fare in questi mesi» esordì uno.
«Meno male che sei tornata» aggiunse un altro.
«Adesso possiamo contare sull’aiuto di un’esperta» commentò un terzo.
Feci un mezzo sorriso. Un lieve senso di angoscia iniziò a farsi strada in me. Davano tutti per scontato che stessi bene e che non avessi problemi, ma non era così. La verità era che non sapevo se sarei potuta tornare ad essere un medico. In quei mesi non avevo mai tentato di approcciarmi ad una procedura medica di nuovo, dopo l’episodio con Jasper, perché avevo troppa paura. Adesso che ero di nuovo sul Polar Tang, però, sarebbe stata questione di settimane, forse di giorni, prima che tutti si accorgessero che c’era qualcosa che non andava in me. Non potevo nemmeno più usare il metodo “scacciapensieri” che usavo di solito, perché Sabo se ne era andato. Come se fosse un monito – o più precisamente un segno del destino – il polso sinistro iniziò a tremare. Chiusi le dita a pugno, nella speranza che nessuno notasse quel tremore sospetto.
«Rientrate. Si è fatto tardi, dobbiamo salpare» la voce di Law alle mie spalle arrivò come una manna dal cielo. Tirai un sospiro di sollievo ed il polso smise di tremolare.
I dottori fecero un piccolo cenno del capo e poi obbedirono agli ordini del capitano. Mi voltai anche io, pronta a seguirli, tuttavia incontrai lo sguardo serio del chirurgo. Il mio cuore perse un battito. Che sapesse anche del mio problema alla mano?
«Due minuti» mi disse, e per la seconda volta in pochi secondi sospirai sollevata. Gli sorrisi grata e lo osservai sparire per il corridoio. Come al solito, aveva capito che avevo bisogno di prendere una boccata d’aria e di contemplare un’ultimissima volta il cielo.
«Che è successo alla porta? Perché la serratura è fusa?» chiese uno dei medici ad un altro suo collega. Mi schiarii la voce facendo finta di niente e sperando che non ricollegassero la vicenda a me. Mi allontanai di qualche passo per evitare che mi facessero domande scomode. Quella era un’altra delle cose di cui mi sarei dovuta occupare.
Quando il ponte fu sgombro, mi appoggiai allo stipite della porta e mi trattenni un minuto a scrutare il mare. Una lacrima fugace scese lungo la mia guancia mentre osservavo le ultime luci della giornata affievolirsi sempre di più per lasciare posto ai toni rossastri del tramonto e poi alla notte. Non era il panorama ad avermi fatto commuovere. Era il modo in cui ero stata accolta dai miei compagni. Mi avevano fatto sentire come se non li avessi mai lasciati. Erano rimasti lì, tutti in fila, in attesa di avere un momento con me. Erano contenti di riavermi tra loro. Le mie erano lacrime di gioia, vederli in quel modo mi aveva suscitato una grande allegria. In quel momento mi sentivo così tanto amata che il mio cuore scoppiava di felicità. Mi volevano bene e non avevano paura di mostrarlo. Mi avevano fatto sentire a casa. Avevo trovato dei compagni fantastici con i quali condividere il mio viaggio, che poco a poco erano diventati una seconda famiglia per me.
Nel silenzio di quell’istante, mi dissi che commuoversi era giusto e che ne avevo tutto il diritto. Che ero fortunata ad averli trovati e che, se proprio dovevo piangere, ero contenta di farlo per loro, perché si meritavano tutte le lacrime di gioia che sarei riuscita a versare.

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Capitolo 59
*** Banchetto ***


Prima che potessi accorgermene mi ritrovai in cucina, seduta su una sedia e circondata da pirati che battevano le posate sul tavolo in attesa di avere del cibo.
Avevamo navigato per un paio di ore prima di risalire in superficie e fermarci per festeggiare il mio ritorno. Il pensiero che si tenesse un banchetto in mio onore mi faceva sentire speciale, ma ciò che apprezzavo di più era che per quella sera, in quella particolare occasione, non eravamo obbligati a portare la divisa. Potevamo scegliere come vestirci. Io avevo optato per un semplice – ma sempiterno – tubino nero che mi ero casualmente ritrovata nell’armadio. Avevo preferito l’eleganza alla sensualità. Era un vestito classico e comodo, che per un banchetto da pirati era anche troppo raffinato. Non che mi importasse, ero contenta della mia scelta, e qualora si fosse sporcato avrei pur sempre potuto lavarlo. Ciò che mi aveva letteralmente lasciata a bocca aperta, però, era stato l’abbigliamento di Law. Sopra ai suoi pantaloni maculati spiccava una felpa color arancione pastello. La felpa che gli avevo regalato io per il suo compleanno, qualche mese prima. Quando lo avevo visto, dopo un primo momento di sbigottimento, gli avevo rivolto uno sguardo carico di gratitudine e commozione. Non sapevo perché, ma mi sembrava di stare vivendo un sogno. Oltretutto, era la prima volta che vedevo i due tavoli della sala da pranzo riuniti. L’atmosfera che c’era quella sera mi aveva scaldato il cuore. Erano tutti lì per me, e sembravano contenti di riavermi tra i piedi. Persino il capitano sembrava sereno. Non lo avevo mai visto così disteso e rilassato in tutta la mia vita.
«Ecco qui! Servitevi e mangiate in abbondanza!» gridò Ryu, mentre portava in tavola l’ultimo vassoio, come sempre aiutato dal grosso Jean Bart, ormai diventato il cameriere ufficiale della ciurma. Il menu prevedeva diverse squisitezze ed io già mi leccavo i baffi, pronta a divorare tutto quel ben di Dio. A parte la variegata sfilza di antipasti, non vedevo l’ora di mettere le mani sugli spaghetti ai frutti di mare e, più di ogni altra cosa, sul vino.
«Vino?» mi chiese Penguin, seduto alla mia destra. Lo guardai come se fosse ebete. In effetti, un po’ lo era se aveva bisogno di chiedermelo. Ghignai di soddisfazione nel momento in cui mi riempì il calice. Lo colmò quasi fino all’orlo, con mia somma gioia. Poco dopo, Shachi, seduto alla mia sinistra, mi versò nel piatto due cucchiate consistenti di spaghetti. Non mi feci pregare e – dopo che ebbi preso un paio di tartine al salmone – iniziai a bere e mangiare.
«Ehi!» ci richiamò Maya, ma nessuno le degnò un minimo di attenzione. Eravamo tutti troppo impegnati a ripulire le stoviglie. «Fermi, animali!» ci riprovò, stavolta con più convinzione. Il capitano sollevò una mano e stavolta ci fermammo tutti, tra lo stupore generale.
«Prima dobbiamo fare un brindisi in onore di Camilla» disse la mia amica, guardandomi con dolcezza.
«Giusto!» concordò Ryu, sbattendo una mano sul tavolo e facendo tremare tutte le vettovaglie. Si alzarono tutti in piedi e sollevarono i loro bicchieri. Persino il capitano lo fece.
«A Camilla!» esclamarono all’unisono. Poi fecero cozzare i calici uno contro l’altro, ma io, per tutta la durata del brindisi, guardai solo Law. Anche lui mi stava fissando. Mi sorrise ed io sorrisi a lui. In quel momento fu come se ci fossimo soltanto noi due in quella stanza. Stavamo facendo il nostro brindisi mancato, quello che aspettavamo di fare da tanto tempo. Quello che spettava ai sopravvissuti. Annuimmo entrambi impercettibilmente e sollevammo ulteriormente i bicchieri.
«Alla salute, capitano» mimai con le labbra. Lui ghignò, e per dimostrarmi quello che credevo fosse rispetto, bevve un sorso di vino. Non aspettai di certo un suo cenno per fare altrettanto, anche se la sorsata che ingollai io fu un po’ più generosa.
«Comunque, bel taglio di capelli» commentò uno dei medici mentre masticava una forchettata di spaghetti. A poco a poco, stavano iniziando a notare il mio cambiamento. «Questo caschetto ti dona. Ti fa sembrare più matura e anche più agguerrita» aggiunse. Gli sorrisi e lo ringraziai. Era quello che speravo che qualcuno mi dicesse, in realtà.
«È vero, stai divinamente» lo supportò Shachi.
«Ma tu staresti bene anche calva» mi fece sapere Penguin. Lo sguardo di tutti i Pirati Heart si spostò automaticamente verso Ryu, che – inutile dirlo – fissava con aria minacciosa chiunque osasse guardarlo. Qualcuno si schiarì la voce, mentre io trattenni una risata.
«A dire la verità, staresti bene anche se non avessi le tette» commentò l'orca, ingurgitando una vongola.
«Per fortuna ce le hai» si espresse il pinguino con voluttà. I suoi occhi si posizionarono automaticamente sul mio décolleté e le sue dita iniziarono a muoversi con impazienza.
Sbuffai ed alzai gli occhi al cielo, poi feci strisciare indietro la sedia e cinsi le spalle dei due idioti che mi stavano accanto.
«I miei due piccoli ruffiani pervertiti» proclamai sarcastica, facendo cozzare le loro teste con forza l’una contro l’altra. Si lamentarono per un po’ mentre venivano derisi dal resto della ciurma. Erano molesti, era vero, ma tutto sommato ero felice di poter rivivere quei siparietti.
All’improvviso, qualcosa attirò la mia attenzione. Uno scintillio, più precisamente. Scostai Penguin con poca grazia e mi sporsi verso Maya, seduta ad appena un posto di distanza da me. Sul suo anulare sinistro, risplendeva un anello. Le presi la mano ed assottigliai gli occhi per osservarlo meglio. La fascia di metallo era composta da due fasce più piccole intarsiate di brillanti che si intrecciavano tra loro armoniosamente. La pietra al centro dell’anello doveva essere un diamante. Aveva una forma squadrata, e le proporzioni erano perfette. Non era microscopica, ma non era neanche troppo appariscente. In compenso, però, non si risparmiava sulla brillantezza. Quasi avrebbe potuto fare concorrenza ad un faro per le navi in una notte nebbiosa. Era bellissimo. Non sapevo che dire. Mi chiesi come accidenti avessi fatto a non notarlo prima. Forse, visto il valore che aveva, a Maya non piaceva portarlo in giro e se lo metteva solo nelle occasioni speciali. Come darle torto, se avessi avuto io al dito un brillocco del genere, lo avrei chiuso in cassaforte fino alla fine dei miei giorni.
«È quello che penso che sia?» chiesi alla mia amica, mentre l’eccitazione diventava sempre più palpabile da entrambe le parti. Il suo volto, dapprima titubante, si aprì in un sorriso radioso e lei annuì. I suoi occhi luccicavano. Non la avevo mai vista così contenta. Spostai il mio sguardo su Omen, come sempre accanto alla ragazza, che stava sorridendo fiero. Almeno per mangiare si toglieva la maschera.
Non potevo crederci. Si erano fidanzati ufficialmente e si sarebbero sposati. Ed io non ero stata presente al momento della proposta. Me l’ero persa.
«Quando... Quando è successo? Come? Ma soprattutto... Perché diavolo non me lo avete detto subito!?» domandai confusa, alzando il tono di voce ad ogni parola che pronunciavo. Nella stanza calò il silenzio. Maya sorrise debolmente.
«Te lo avremmo detto con calma. Stasera è la tua serata e non volevamo rovinartela» affermò, piegando la testa da un lato.
«Rovinarmi la serata? Pensavate davvero che una notizia così bella potesse rovinarmi la serata?» feci, leggermente delusa. Era assurdo che credessero ad una cosa del genere.
«Beh, ora lo sai. E ti spiegheremo tutto ciò che vuoi sapere, ma lo faremo con calma» tagliò corto Omen, per evitare una potenziale lite. Annuii, non potendo fare a meno di concordare con lui.
«Ti sei persa tante cose» disse Maya, abbassando lo sguardo.
Sospirai e sorrisi malinconicamente. Era vero, mi ero persa tante cose; e mi dispiaceva, ma che potevo farci? Non l’avevo chiesto io di ritrovarmi in fin di vita dopo essermi scontrata con Doflamingo, né avevo chiesto di passare quattro mesi assieme ai rivoluzionari. Le cose erano andate come erano andate, e per quanto avessi desiderato di ricongiungermi ai miei compagni, non mi dispiaceva che gli eventi avessero preso quella piega inaspettata. Era stata un’esperienza di vita che mi aveva insegnato tante cose e mi aveva fatto diventare più forte, in tutti i sensi.
Sospirai di nuovo e decisi di non stare a rimuginarci troppo. Sarebbe stato meglio riportare la conversazione su argomenti più allegri.
Attorcigliai il dito attorno ad una ciocca di capelli ed iniziai a giocherellarci.
«Se è per questo anche voi vi siete persi tante cose» dichiarai, cercando di rimanere vaga il più possibile. Volevo alimentare la loro curiosità, e anche la loro invidia. Se erano convinti che non sapessi come divertirmi senza di loro, si sbagliavano di grosso. Ma visto il modo in cui mi ero divertita, quella era una cosa che mi sarei tenuta volentieri per me.
«Oh, sì. Il capitano ce lo ha detto» iniziò Shachi, facendomi allarmare.
«E siamo gelosi» continuò Penguin, con la bocca piena. Mi ero dimenticata che l’uno completava le frasi dell’altro. Spalancai gli occhi, terrorizzata. Che cosa volevano insinuare? Lo sapevano? Sapevano come avevo passato la maggior parte del tempo in quei mesi? Law era stato così bastardo da spifferare tutto? Spostai lo sguardo su di lui.
«C-che vi ha... che vi ha detto?» balbettai, per poi assottigliare gli occhi e rivolgere uno sguardo truce al chirurgo. Lui sorrise compiaciuto ed io deglutii sonoramente.
«Ci ha detto che la base dei rivoluzionari pullula di belle donne» mi spiegò Shachi, afflitto. Il mio cuore riprese a battere.
«Oh. Oh, certo. Certo. Già. Ovvio! La base dei rivoluzionari... pullula di belle donne» ripetei, tirando un sospiro di sollievo tra me e me. Rivolsi uno sguardo grato al capitano, seguito poi da uno di ammonimento. Avrebbe fatto meglio a tenere la sua boccuccia chiusa, o gliel’avrei chiusa io stessa. Il pensiero che avesse del materiale con cui ricattarmi mi metteva i brividi. Era un uomo d’onore, che non faceva questo tipo di cose – almeno, non con i suoi sottoposti – ma con lui non si poteva mai sapere.
«Allora, non ci vuoi dire che cosa hai fatto in questi mesi?» tornò alla carica l’orca.
«Scommetto che ti siamo mancati molto» ipotizzò Penguin, sghignazzando ed avventandosi su un povero gamberetto. Ci riflettei bene prima di rispondere.
«Sì, mi siete mancati, ma devo dire che non vi ho pensato molto. Mi sono tenuta piuttosto impegnata» replicai sogghignando.
«A fare cosa?» chiese Bepo, sinceramente curioso.
Mi schiarii la voce e notai con la coda dell’occhio che Law aveva iniziato a ghignare. Voleva vedere quale bugia avrei tirato fuori.
Posai lo sguardo sugli spaghetti che avevo sul piatto. Gli spaghetti erano cibo, quindi non c’era pericolo che ghignassero, facessero domande scomode ed allusioni di qualsiasi tipo. Anche se non potei non ripensare all’ultima volta che li avevo mangiati. Quella era un’allusione grossa come una casa. Era tardi, erano all’incirca le undici di sera, e io e Sabo ci eravamo casualmente persi la cena, così avevamo deciso di passare in sala mensa per spizzicare qualcosa prima di andare a dormire. Era semi-deserta, c’erano solo un paio di inservienti che stavano finendo di pulire. Erano rimasti solo due piatti, che io ed il biondo avremmo dovuto condividere: uno con gli spaghetti al sugo di pomodoro e l’altro con le polpette. Non sapevo come, ma alla fine, invece di mangiare il cibo, ci eravamo ritrovati a tirarcelo. Ad un certo punto, il fratello di Rufy mi aveva tirato una polpetta proprio in mezzo alla scollatura, ed io per vendicarmi gli avevo disegnato una forma fallica sulla guancia con il sugo degli spaghetti. Quanto avevamo riso. Se ci ripensavo, ancora mi veniva da ridere. Per un breve momento mi era sembrato di essere ritornata ai tempi in cui ero un'innocente adolescente. Poi, però, la battaglia si era spostata sotto al tavolo, e ciò che era avvenuto lì... non era tanto da innocenti adolescenti.
Gli inservienti a quel punto se ne erano andati da un pezzo. Eravamo rimasti soli. E là sotto, lontano da occhi indiscreti e con il sugo nei capelli, era avvenuta una delle tante magie che avevamo fatto io ed il rivoluzionario. Quella di quella sera era stata una ricetta perfetta: spaghetti, sugo e polpette. Mancava solo un po’ di pepe per condire il tutto, ma a quello avevamo pensato noi.
Me ne ero dimenticata, ma anche quella era stata una performance degna di nota, nonché la nostra prima volta fuori dalla camera da letto. La nostra prima volta fuori da quella bolla sicura che ci eravamo creati; che mi ero creata. Non mi sarebbe dovuto piacere così tanto, perché eravamo più esposti che mai, eppure era stato elettrizzante. Sabo mi aveva detto che era perché, in fondo, mi piaceva il brivido che mi procurava il rischio di poter essere scoperti. Aveva ragione. Di tanto in tanto, mi piaceva rischiare. Del resto, ero pur sempre un pirata.
Iniziai ad arrotolare gli spaghetti attorno alla forchetta, poi appoggiai il gomito dell’altro braccio sul tavolo ed infine affondai la mano tra i capelli con aria sognante. Risposi di getto e senza pensarci minimamente, tanto ero persa nei ricordi.
«Sess...» spalancai gli occhi e mi bloccai appena in tempo, mentre iniziavano a piovermi addosso gli sguardi interrogativi e perplessi di tutti «...ioni. Sessioni» cercai di correggermi, nella speranza che non avessero capito l’allusione, che più che allusione era un enorme cartello autostradale le cui lettere erano state scritte a caratteri cubitali.
«Sessioni?» si incuriosì ancora l’orso polare.
«E di cosa?» volle sapere Maya con un’alzata di sopracciglia. Quella maledetta ne sapeva una più del diavolo. Forse aveva intuito tutto. Dannazione.
«Di allenamento. Sessioni di allenamento. Di cosa, sennò?» mi affrettai a replicare, tentando di nascondere il panico crescente che si stava impossessando di me.
«Quindi hai faticato parecchio» rifletté Penguin. Rivolsi uno sguardo disperato al capitano, in cerca di aiuto, ma lui stava sogghignando bellamente. Non aveva intenzione di darmi una mano, avrei dovuto cavarmela da sola. Come biasimarlo, però, ero stata io stessa a mettermi nei casini.
«Ma ti hanno dato da mangiare, vero?» per fortuna intervenne Ryu, che con la sua inconsapevole intromissione mi salvò dall’imbarazzo «Perché se così non fosse...».
«Immagino siano stati allenamenti intensi» commentò Law, cercando di trattenere il pericolosissimo ghigno che stava per spuntargli sulla faccia. Alzai un sopracciglio e lo guardai male, posando la forchetta e tenendomi pronta a scattare qualora avesse rivelato troppo. Sì, aveva decisamente capito cosa c’era sotto. Con lui non si poteva sperare di passarla liscia. Mi era mancato, ma non avrei esitato a tappargli la bocca, se avesse osato accennare anche al più piccolo dei particolari. Quando fu di nuovo sul punto di parlare, trattenni il fiato e mi aggrappai al tavolo stringendolo con le dita e sgualcendo malamente la tovaglia.
«E dicci, ti è piaciuto tirare di spada?» chiese, sogghignando malignamente. Lo fissai per qualche secondo, assumendo un’espressione stupita. Mi ripresi quasi subito ed iniziai a ridere sommessamente e scuotere la testa.
“Che impertinente” gli comunicai implicitamente con lo sguardo che gli lanciai.
«Sì, molto» risposi, cercando di rimanere il più seria possibile «Sai, dovresti provarci anche tu. Distende i nervi e libera la mente. Anche se forse preferisci il tiro al bersaglio» continuai, guardandolo dritto nelle pupille con un luccichio malizioso negli occhi.
«Capitano, non sapevo che giocassi a freccette» si intromise Bepo, che fortunatamente non era bravo a cogliere i riferimenti. Nel frattempo, il resto della ciurma aveva iniziato a squadrare prima me e poi il chirurgo a ripetizione, come se stessero osservando un’accesa e movimentata partita di tennis.
«Non ci gioca, infatti» dissi io, tenendo lo sguardo, ormai ermetico, su Law e facendo una rapida alzata di sopracciglia. Ero sicura che gli occhi mi brillassero e non potei trattenermi dallo sfoggiare uno sfrontato ghigno sulle labbra. «Dovrebbe, però. Gli farebbe bene un po’ di movimento».
«Sono sicuro che in questi mesi tu abbia fatto abbastanza movimento per tutti» mi incalzò. La sua espressione era impenetrabile e ferma, attendeva che ribattessi alle sue provocazioni. Non gli avrei dato questa soddisfazione, però. Sapevo di non poter vincere. Nella sala da pranzo era calato il silenzio. Sospettavo, per mia fortuna, che nessuno avesse idea di cosa stessimo parlando io ed il chirurgo. Ormai la conversazione era diventata un passo a due sapientemente studiato per non far capire al pubblico la storia che c’era dietro.
«Io giocavo a freccette» annunciò Kenji ad un certo punto, per smorzare il silenzio «È tutta una questione di baricentro».
Lo disse con una convinzione, ma allo stesso tempo con un’innocenza tali che non potei fare a meno di scoppiare fragorosamente a ridere. Risi così tanto che rischiai seriamente di strozzarmi con il cibo. E anche Law fece lo stesso, sebbene cercasse di trattenersi il più possibile. Fu quando lo vidi ridere così che mi balenò un’idea in testa. Forse, il fatto che lui sapesse, non lo rendeva automaticamente un pericolo, ma anzi, poteva essere addirittura un mio complice in questa faccenda, e chissà che dopo qualche tempo non ci avremmo riso insieme.
«Allora, a quando il lieto evento?» chiesi, rivolgendomi ai due fidanzatini. Dovevo sviare la conversazione in qualche modo, iniziavano ad esserci un po’ troppi doppi sensi per i miei gusti.
I due si scambiarono un’occhiata complice – che solo gli innamorati sono capaci di fare – e poi congiunsero le mani, intrecciando le dita con quelle dell’altro. La maggior parte dei presenti si finse nauseata.
«Non abbiamo una data precisa, ma contiamo di fare le cose con calma» mi spiegò Maya, accarezzando il dorso della mano di Omen «Crediamo che sia meglio aspettare che il conflitto con Kaido si sia risolto».
«Ciò che sta tentando di dire la mia fidanzata è che abbiamo deciso di sposarci dopo che l’Imperatore sarà caduto» chiarì il ragazzo.
«Per mano nostra, ovviamente» si intromise Penguin, che doveva sempre dire la sua.
«Così avremo modo di pianificare e organizzare il tutto e convolare a nozze con più spensieratezza» riprese la mia amica, con un gran sorriso sulle labbra.
Rimasi un po’ perplessa dalla risposta che mi diedero. Stavano dando per scontato che la guerra che ci sarebbe stata a Wa filasse liscia come l’olio. Trattenni una risata nel pensarlo. Non potevano sbagliarsi di più. Avevo imparato bene che quando c’era una battaglia di mezzo tutte le certezze andavano in frantumi, e questo valeva anche per i vincitori. Uno scontro è sempre uno scontro, e in quanto tale non risparmia nessuno. Se avessimo davvero combattuto contro Kaido al fianco di Rufy e fossimo sopravvissuti, la spensieratezza sarebbe stata solo un lontano ricordo, almeno per i primi tempi. Si poteva guarire, ma era un procedimento duro e faticoso. Magari loro ne erano consapevoli ed erano convinti che l’amore che provavano l’uno per l’altra potesse salvarli. Chi poteva saperlo. Nel dubbio, mi versai il terzo bicchiere di vino della serata.
«Comunque, sappiate che mi sono offesa. Avreste dovuto aspettare che tornassi per fidanzarvi ufficialmente. Volevo esserci anche io» dichiarai, appoggiando la schiena allo schienale della sedia e portandomi il calice alla bocca.
«È stato proprio perché non c’eri che ci siamo fidanzati» ribatté la mia amica, con una punta di saccenteria. Corrugai la fronte. Non riuscivo a capire cosa c’entrasse la mia assenza con il loro fidanzamento. Bevvi il vino tutto in un sorso. Ero troppo sobria per poterci capire qualcosa.
«In che senso?» volli sapere, riempiendo di nuovo il bicchiere e buttando giù un’altra sorsata di alcol.
«Quando abbiamo saputo del...» Maya si fermò, incapace di continuare, o forse di trovare le parole appropriate.
«Dell’aggressione di Doflamingo» il suo fidanzato parlò per lei.
«Tutti noi siamo precipitati in uno stato di totale angoscia» continuò la donna «Non sapevamo niente delle vostre condizioni. Non potevamo fare nulla, se non sperare che steste bene».
«Io sono stato sveglio tutte le notti per due mesi» confessò Bepo, per poi abbassare il capo subito dopo «Non potevamo contattarvi, non sapevamo dove eravate, non sapevamo nulla!» proseguì l’orso. La voce gli si increspava di più ad ogni parola che pronunciava.
«Ci sembrava di andare alla deriva. Siamo rimasti per mesi senza il nostro capitano e senza il medico migliore che abbiamo. Abbiamo brancolato nel buio in quel periodo, non avevamo una guida, né un punto di riferimento» disse Kenji. Il mio sguardo si spostò automaticamente su Law, che era immobile, le iridi puntate fisse davanti a sé e l’espressione imperscrutabile. Non mi ero resa conto di quanto potesse essere stato difficile per i miei compagni, né avevo mai pensato ai sensi di colpa che poteva avere il chirurgo per la situazione che si era venuta a creare. Ero sicura che quelle parole gli facessero male. Non lo aveva mai dato a vedere, ma adesso capivo quanta angoscia si era portato dentro. Strinsi la tovaglia tra le dita fino a far diventare bianche le nocche.
«Mi dispiace» mi rammaricai, distogliendo lo sguardo. Non potevo sostenere il peso delle occhiate di tutti i Pirati Heart.
«Non dirlo neanche per scherzo! Non è colpa tua!» urlò Ryu con enfasi. Lo guardai con gratitudine e gli sorrisi. Apprezzavo che fosse proprio lui a dirmelo.
«Avevamo bisogno di un po’ di positività» affermò Maya dopo qualche attimo di silenzio.
«E così, un giorno mi sono inginocchiato di fronte a lei, le ho dato l’anello, le ho chiesto se mi volesse sposare e lei ha risposto di sì» continuò Omen, scrollando le spalle.
«Ci dispiace di non averti reso partecipe dell’evento. Ma, per farci per farci perdonare, vorremmo che ci aiutassi ad organizzare il matrimonio» annunciò la sua fidanzata, sorridendomi materna. Rimasi interdetta per un attimo ed aggrottai la fronte.
«Volete che io vi aiuti ad organizzare il vostro matrimonio?» domandai, ripetendo le parole di Maya. I due innamorati annuirono con decisione. «Potete stare certi che lo farò!» esclamai presa dall’eccitazione. Poi, come per brindare, mi versai un altro po’ di vino nel bicchiere. Tutti i Pirati Heart batterono le mani e si scatenarono con grida di giubilo. Non ero sicura che affidarmi l’organizzazione di un matrimonio fosse la scelta migliore, dato che non ne sapevo niente, ma avrei fatto del mio meglio per organizzare il miglior matrimonio del secolo.
«Cami» mi chiamò Kenji. Lo guardai ed il mio sorriso si spense in un attimo. Ci mise un secolo per riprendere a parlare. «Il capitano ci ha raccontato cosa è successo su Tekashi. Se non fossi intervenuta tu, lui sarebbe morto» affermò, con un tono che non riuscii a comprendere. Non sapevo se mi fosse grato o se invece il pensiero che Law potesse essere morto lo angosciasse. Ad ogni modo, non era andata esattamente così. Non avevo salvato il chirurgo. Anzi, a causa mia per poco non ci aveva rimesso le penne. Molto probabilmente i miei compagni avevano frainteso le parole del capitano. Feci per parlare, ma una voce ruvida me lo impedì.
«Hai messo a repentaglio la tua vita per il capitano. Hai il mio pieno rispetto» mi fece sapere Jean Bart, serio.
«Grazie per averlo salvato!» gridò Bepo subito dopo, alzandosi in piedi e chinando il capo in segno di rispetto. Le sue guance pelose iniziarono a bagnarsi per le lacrime che gli stavano scendendo dagli occhi. Nel vederlo così, il mio cuore sussultò. In un attimo, senza sapere perché, iniziai a piangere anche io. Guardai Law, che stava ghignando. Molto probabilmente si stava prendendo gioco della nostra emotività, ma non voleva rovinare quel momento. Avrei tanto voluto corrergli incontro ed abbracciarlo. Avrei voluto ringraziarlo, per essere vivo, per avermi preso con sé nella ciurma, per avermi insegnato le basi della medicina. Per tutto.
Il Visone, come se avesse colto i miei pensieri, mi raggiunse e mi rivolse uno sguardo colmo di gratitudine. Poi mi abbracciò stretta per un tempo indefinito. A poco a poco, all’abbraccio si unirono tutti i Pirati Heart, a parte il capitano, che era rimasto seduto a guardare quella scenetta che con molta probabilità riteneva patetica. Ma a me non importava. Io ero felice. E non riuscivo a smettere di piangere. In quel momento non potevo chiedere nulla di più. Ero circondata dalle persone che amavo, sentivo il calore dei loro corpi e anche quello dei loro cuori, ed era una sensazione stupenda, che non provavo da tantissimo tempo.
«Siete dei sottoposti deludenti» commentò Law ad un certo punto. Lo guardai male, nonostante non potesse vedermi, in mezzo a tutta quella gente. Non aveva il diritto di prendersi gioco di noi. Solo perché lui era un pezzo di ghiaccio, non significava che dovevano esserlo anche i suoi subordinati.
«Non è questa la serata per mettersi a frignare» ci rimproverò. Aveva le braccia incrociate e la schiena poggiata allo schienale della sedia. Vidi il suo volto aprirsi in un ghigno. «Siamo qui per festeggiare».
L’aria si riempì di esclamazioni di sorpresa, seguiti da urla di allegria e di incitamento a fare festa. L’abbraccio si sciolse e ciascuno ritornò al proprio posto, premurandosi di riempire il proprio bicchiere, o il proprio piatto, oppure entrambi, perché no.
Il capitano, in fondo, aveva ragione. La serata era ancora giovane. Non era il momento di lasciarsi andare ai sentimentalismi. Era il momento di festeggiare al meglio delle nostre possibilità.
 
Mi accarezzai la pancia, il corpo collassato sulla sedia. Tutti i potenziali chili che avevo presumibilmente perso in quei mesi, li avevo recuperati con quel banchetto. La mia unica consolazione era che non ero l’unica ad essere in quello stato. Anche il resto dei Pirati Heart sembrava versare nelle stesse condizioni in cui ero io. Qualcuno emetteva dei versi compiaciuti, qualcun altro, invece, si lamentava per il troppo cibo che aveva ingurgitato. Il banchetto ormai era finito, e si era concluso con il botto. Era all’incirca l’una di notte; non era tanto tardi, ma considerato che era dalle sei del pomeriggio che banchettavamo, la stanchezza iniziava a farsi sentire.
Nella sala da pranzo, lamenti e versi compiaciuti a parte, regnava il silenzio. L’unico rumore di sottofondo che si udiva era la voce di uno dei medici che stava raccontando una barzelletta “da medico” – incomprensibile ai più – e le risate dei suoi colleghi.
Avevo mangiato, avevo bevuto, avevo riso e avevo pianto. Adesso volevo solo augurare la buonanotte ai miei compagni, tornare in camera e buttarmi sul letto. Socchiusi gli occhi e sorrisi beata, assaporando il momento in cui la mia guancia avrebbe toccato il cuscino.
«Insomma, non ce lo hai ancora detto» la voce di Shachi mi arrivò alle orecchie come se fosse un suono distante, come l’eco di una marea che risuonava in una conchiglia.
«Cosa?» chiesi, leggermente infastidita. Non avevo voglia di mettermi a chiacchierare. Improvvisamente sentivo addosso la stanchezza di tutti quei mesi, sia il corpo che la testa pesavano come macigni.
«Perché sei rimasta per quattro mesi con i rivoluzionari?» mi chiese, allungando svogliatamente il braccio per recuperare il suo bicchiere.
«Mi dispiace, ma non ve ne posso parlare. Mi è stato chiesto di mantenere assoluto riserbo sulla questione» tagliai corto. Non era un modo per liquidarlo, Dragon mi aveva davvero chiesto di non rivelare il motivo per cui aveva richiesto la mia presenza alla Base. Da bravo leader di un’organizzazione criminale, aveva preso le sue precauzioni, e dal momento che l’argomento in questione era delicato, preferivo seguire le sue direttive. Nessuno doveva sapere quello che ci eravamo detti, né perché il Capo dell’Armata Rivoluzionaria fosse interessato ad una ragazzina sconosciuta come me. Avevamo entrambi troppo da perdere.
«Ma noi siamo i tuoi compagni!» esclamò Penguin, risentito, ridestandosi dal suo stato catatonico.
«Scommetto che con un altro po’ di vino ti si scioglierà la lingua» fece Shachi sogghignando pericolosamente e arraffando la bottiglia accanto a sé. Alzai gli occhi al cielo e scossi la testa. Non avrei di certo rifiutato il quinto – o sesto – bicchiere di vino della serata, ma se sperava che quel trucchetto mi avrebbe fatto parlare, si sarebbe dovuto ricredere. Dalla mia bocca non sarebbe uscita neanche una parola sull’argomento, che fossi ubriaca o meno.
Quando fui sul punto di bere il contenuto del mio calice, delle dita affusolate mi strapparono il bicchiere dalle mani. Mi girai verso la figura che stava in piedi accanto a me e la fissai con sguardo sorpreso. Non riuscivo a capire il perché di quel gesto.
«Per questa sera basta bere» disse. Sul suo volto c’era un piccolo ghigno, ma il suo tono celava una punta di rimprovero.
«Perché?» gli chiesi atona. Non sapevo come comportarmi, dato che non era mai successo che il capitano mi negasse l’alcol. Eppure, adesso le sue dita tatuate stavano stringendo il bicchiere di vino che avrei voluto bere. «Non sono ubriaca, e non rivelerei nulla comunque!» esclamai, nell’ultimo tentativo di convincerlo a ridarmi il calice. Forse teneva alla mia incolumità e non voleva che rivelassi troppo. Sapeva di non potersi fidare della me ubriaca; e già faceva fatica a fidarsi della me sobria. Qualunque ragione ci fosse dietro alle sue azioni, non riuscivo a comprenderla. Non aveva mai fatto così, non mi aveva mai tolto il bicchiere dalle mani neanche quando non mi reggevo in piedi, neanche quando rischiavo il coma etilico.
«Capitano, questa è una festa tra pirati! Non può mancare l’alcol!» intervenne concitatamente il pinguino, supportato anche dal cetaceo spiaggiato accanto a me, che annuì vigorosamente.
«Ti prego, capitano, concedimi l’ultimo bicchiere» lo implorai «Non saranno di certo tre dita di vino a farmi ubriacare» tentai di convincerlo, ovviamente inutilmente. Aveva preso la sua decisione, senza che mi lasciasse intendere il perché.
«Andate a riposare. La festa termina qui» decretò il chirurgo, assicurandosi che tutti potessero sentirlo.
«Ma, capitano...» provò a protestare qualcuno, tuttavia Law gli rivolse uno sguardo che non ammetteva repliche. Sospirai e mi alzai dalla sedia. Supponevo che la serata di giubilo si fosse conclusa lì.
 
Mi richiusi la porta della mia cabina alle spalle, appoggiandomi contro la sua superficie liscia. La prima cosa che feci fu togliermi quelle trappole mortali che avevo al posto delle scarpe e gettarle in un angolo non ben definito della stanza. Anche se ero stata seduta per la maggior parte della serata, i piedi mi facevano comunque male. Perché accidenti mi ero messa i tacchi?
Gettai la testa all’indietro e risi. Era stata una serata ricca di emozioni. No, era stata l’intera giornata ad essere ricca di emozioni. Prima la doccia bollente, poi l’aver rimesso piede dopo tanto tempo sul sottomarino, il malinteso con Law, l’addio a Sabo siglato da un ultimo bacio, i vari saluti con i miei compagni e infine il banchetto, con le sue rivelazioni inaspettate. Per tutto il giorno mi era sembrato di stare sulle montagne russe, e adesso l’eccitazione aveva lasciato il posto alla stanchezza. Avevo salutato e ringraziato tutti, e andavo a dormire con il cuore leggero, consapevole che l’indomani avrei rivisto i miei compagni. Andava tutto bene.
Marciai a passo svelto verso il letto, poi mi ci buttai sopra e finalmente affondai la faccia nel cuscino, lasciandomi scappare un piccolo gemito di piacere. Sorrisi e strofinai la guancia contro la superficie morbida del guanciale. Che bella sensazione. Gli occhi mi si chiusero automaticamente, e mi resi conto di non avere la forza neanche di togliermi il vestito. Stavo valutando di mettermi a dormire con addosso il tubino nero. Non c’era bisogno di scostare le coperte, ero così stanca che non sentivo nemmeno il freddo.
Qualcuno bussò flebilmente alla porta.
«No...» piagnucolai, affondando ancora di più la testa nel cuscino. Volevo solo addormentarmi in pace. Era chiedere troppo? A quanto pareva, sì, dato che colui che aveva bussato entrò comunque. Ma perché non chiudevo mai a chiave, accidenti a me? E perché, in quel dannatissimo universo, se la persona che bussava non riceveva risposta, si sentiva libera di entrare lo stesso?
Mi tirai su controvoglia e mi sistemai il vestito in modo da coprire gli slip. Era abbastanza corto, e dopo la figuraccia di quel pomeriggio sarebbe stato meglio prevenire, piuttosto che curare. Avevo imparato la lezione.
Il mio interlocutore era in piedi, a pochi passi da me, immobile e con le braccia conserte. La sua espressione era impenetrabile. Sbuffai una risata. In qualche modo mi aspettavo la sua visita. Sperai che almeno mi avesse portato il bicchiere di vino che mi aveva tolto dalle mani qualche minuto prima.
Lo squadrai da capo a piedi per poi storcere la bocca. Niente vino.
«Cosa desideri, capitano?» chiesi, con un finto sorriso cordiale. Per un breve secondo, il suo sguardo si spostò alla mia sinistra, probabilmente alla ricerca di qualcosa che giaceva sul mio comodino.
«Ti ricordi che cosa ti ho detto su Tekashi?» mi domandò Law, fissandomi con un’espressione indecifrabile, che tuttavia non era severa, ma quasi di scherno.
«Beh, mi hai detto diverse cose e non me le ricordo tutte. Sai, per la maggior parte del tempo sono stata impegnata a cercare di evitare di morire» risposi sarcastica. Se era venuto per parlare di quella giornata infernale, lo avrei cacciato dalla stanza a calci nel sedere. Non era il momento, e non avevo proprio voglia di rivangare il passato.
«Ti rinfresco la memoria. Prima che ci raggiungesse Doflamingo, ti ho detto che se ti fossi ubriacata di meno avresti finito di leggere quel libro molto prima e saresti potuta tornare a casa» disse. Il suo sguardo si posò di nuovo su un punto alla mia sinistra. Schiusi la bocca e spalancai appena gli occhi. Il libro. Le avventure di Peter Pan. Con tutto quello che era successo, me ne ero completamente dimenticata. Trattenni il respiro.
«E avevi ragione?» chiesi, con il cuore in gola. Il suo volto si distese e le sue labbra si piegarono per formare un piccolo sorriso.
«Perché non lo scopri tu stessa» mi sollecitò, appoggiandosi ad un’anta dell’armadio. Deglutii sonoramente. Ero abbastanza sicura che in quei secondi il cuore si fosse fermato e fosse ripartito al triplo della velocità. Batteva così velocemente che mi sembrava di avere la vista appannata e sentivo le orecchie fischiare. Mi girava la testa, e non era solo per la stanchezza. Per fortuna ero seduta sul bordo del letto; se fossi stata in piedi molto probabilmente sarei svenuta miseramente.
Allungai il braccio e lo presi tra le mani, che tremavano pericolosamente. Solo in quel momento notai che il segnalibro era stato spostato più avanti rispetto al punto in cui lo avevo lasciato. Guardai il chirurgo, come a chiedergli se fosse il caso di aprirlo. Lui fece un cenno del capo e una piccola ruga di angoscia si formò sulla mia fronte. Alla fine, mi feci coraggio, presi un respiro profondo e lo aprii. Fissai la pagina che avevo davanti per qualche secondo, poi spalancai la bocca. Un velo di lacrime coprì la superficie dei miei occhi. Alzai lo sguardo e fissai il capitano, che aveva un’espressione soddisfatta.
«Oh, mio Dio. Tu...» provai a dire, senza riuscire a formulare una frase di senso compiuto «Oh, mio Dio» ripetei scuotendo la testa. In un attimo, tutta la stanchezza era sparita e aveva lasciato il posto alla confusione e all’incredulità.
Appoggiai il libro sulle ginocchia e mi portai entrambe le mani alla bocca, per poi passarmele su tutto il viso. Non riuscivo a crederci. Mi sembrava impossibile, inverosimile. Nonostante la confusione del momento, però, mi era tutto più chiaro. Ecco perché non mi aveva fatto bere troppo. Perché dovevo essere lucida, quella sera. Era sempre stato lì, sotto al mio naso. Ed io non lo avevo visto. Non ci avevo neanche mai pensato. Ero stata proprio stupida e negligente. Eppure adesso non importava, perché lo avevo trovato. Anzi, Law lo aveva trovato. Aveva trovato un modo per farmi tornare a casa.

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Capitolo 60
*** Casa ***


«È... è reale? Voglio dire, è autentico?» chiesi, fissando intensamente il mio interlocutore.
«Suppongo di sì» mi rispose. Sembrava eccessivamente tranquillo. Io, invece, per poco non andavo in iperventilazione. «Se hai dei dubbi, perché non provi?» mi domandò a sua volta, allargando il suo ghigno.
«Tu... tu lo hai... lo hai trovato per me? Hai letto questo libro dall’inizio alla fine per trovare un modo per farmi tornare nel mio mondo?»
Annuì appena, come se rivelare la verità lo infastidisse.
«La storia narrata nel libro non è male. Un po’ troppo fantasiosa, per i miei gusti» commentò con un sorriso impertinente, quasi a volersi togliere dall’imbarazzo. Decisi di ignorarlo.
«Perché lo hai fatto?» volli sapere, ancora sconvolta. Non potevo credere che Law avesse fatto una cosa del genere per me. Aspettò un po’ prima di rispondere. Sospettavo che fosse un po’ reticente.
«Mi è stato riferito che hai espresso la volontà di tornare a casa, alla tua vera casa» mi spiegò, le sue iridi grigie erano puntate su di me.
«Chi te lo ha detto?» chiesi ancora. Ero consapevole del fatto che tutte quelle domande lo infastidissero, ma dovevo sapere, o non mi sarei data pace.
«Il tuo uccellino preferito» replicò, alzando un sopracciglio. Corrugai la fronte. Perché diavolo doveva essere così enigmatico anche in una situazione del genere?
Pensai subito a Marco, ma non riuscivo a capire cosa c’entrasse lui con tutta quella situazione. Poi, però, realizzai. Il mio “uccellino preferito” era sempre biondo, ma non era Marco. Sbuffai, d'un tratto infastidita.
«Non è il mio... Non importa» decisi di lasciar perdere. Non valeva la pena mettersi a discutere di una cosa così futile in un momento come quello. Mi lasciai sfuggire una risata. A molti sarebbe potuta sembrare una risata sollevata, ma la verità – e il chirurgo, che era un attento osservatore, lo aveva capito – era che era una risata nervosa. «Hai trovato un modo. Non posso crederci».
All’improvviso, tutto mi apparve chiaro come il sole. Spalancai gli occhi e schiusi la bocca.
«Tu e Sabo vi siete tenuti in contatto, in questi mesi!» esclamai, forse mettendoci più enfasi del necessario. Avrei dovuto aspettarmelo. Certo, era palese. Mi ricordai di una telefonata sospetta avvenuta qualche mese prima che avevo origliato per caso attraverso la porta, quando ero andata dal biondo per comunicargli degli sviluppi sull’Haki dell’Osservazione. Mi era parso di captare una voce famigliare, ma non avevo mai dato peso a quella conversazione, perché avevo altro a cui pensare. Ora, però, avevo capito tutto. Sabo stava parlando con Law, quel giorno. E chissà quante altre volte si erano sentiti e avevano parlato di me. Mi morsi un labbro e scossi la testa, pensierosa. Non ne conoscevo il motivo, ma in qualche modo mi sentivo tradita. Per mesi e mesi mi avevano tenuto all’oscuro del fatto che si parlassero, che si scambiassero informazioni su di me. Perché? Perché lo avevano fatto? Perché quell’idiota non mi aveva fatto parlare con il mio capitano? Eppure sapeva quanto fossi in pena per lui e quanto mi mancasse.
«Sei una mia sottoposta. È mio dovere informarmi sulle tue condizioni di salute» lo disse quasi come se fosse una giustificazione per le sue azioni, come se mi avesse letto nel pensiero.
«Sì, ma perché non hai voluto parlare con me? Sono stata per mesi e mesi senza sentire la tua voce, senza sapere come stessi» nella mia voce c’era una punta di rimprovero. Mi sentivo offesa. Il chirurgo si staccò dall’anta alla quale era appoggiato e fece qualche passo verso di me. Si fermò solo quando fu sicuro che i miei occhi fossero intrecciati ai suoi. Un brivido mi attraversò il corpo nel momento in cui percepii l’intensità del suo sguardo.
«Non ti devo alcuna spiegazione, Camilla» affermò, la voce cristallina e calma.
Sospirai. Avrei potuto stare per settimane intere a pensare alle sue motivazioni, a cosa lo avesse spinto a comportarsi in quella maniera. C’erano così tante ragioni che mi erano venute in mente, ed erano tutte nobili, in un certo senso. Mi strinsi nelle spalle. La verità era che non potevo arrabbiarmi con lui. Non potevo prendermela con nessuno, perché non ne avevo motivo. Tutto quello mi aveva portato ad avere un libro aperto sulle ginocchia che mi rivelava il modo per tornare nel mio mondo, perciò mi andava bene così. Fissai di nuovo le parole che vi erano scritte e sorrisi.
Sull’ultima pagina, una pagina vuota se non per quelle poche righe, c’era impressa una frase. Una frase che prima non c’era e che era stata la Stella stessa a scrivere. O almeno, così credevo.
 
“Queste parole sono state scritte con la polverina dorata che ti ha permesso di esaudire i tuoi desideri. Se ti servirà il mio aiuto, ti basterà soffiarci sopra ed io apparirò in cielo.
Sono consapevole di aver compiuto una mossa azzardata trasportandoti in questo universo, ecco perché voglio darti la possibilità di rimediare.
Di solito non lo faccio mai, ma desidero ricompensarti per aver creduto così intensamente in me e per aver avuto tanta pazienza. Ho deciso di ricominciare da capo, con te, e concederti di nuovo tre desideri. Poi, se vorrai e se ne avrai bisogno, potrai esprimere un ultimissimo desiderio. Sappi, però, che non tornerò mai più dopo che avrai espresso i quattro desideri che ti sono stati concessi nuovamente.
A presto.”
 
«Credi che queste parole siano sempre state qui?» chiesi al capitano. Le dita avevano iniziato a tamburellare sulla carta. Law fece un’alzata di spalle.
«Te l’ho detto. Se ti fossi ubriacata di meno, a quest’ora saresti già tornata a casa» ribadì, con un po’ di durezza. Iniziai a ridere senza ritegno sotto lo sguardo infastidito del chirurgo. Non potevo farci niente, non riuscivo a fermarmi. Era più forte di me.
«Vuoi sapere una cosa?» gli domandai tra una risata e l’altra. Ovviamente, la mia era una domanda retorica. «È un bene che io mi sia ubriacata così tanto. Perché in questo modo ho avuto il tempo di capire quello che dovevo capire» continuai, tornando seria. Oppure a furia di ubriacarmi, oltre al fegato, mi si erano disintegrati tutti i neuroni e non avevo la minima idea di ciò che stavo facendo.
«Non perdere tempo, allora. Sai come fare, evoca la Stella» mi incitò il capitano. I miei occhi divennero incerti ed esitai per qualche secondo.
«È che... non so se mi sento pronta per farlo stasera» gli confessai, abbassando la testa. Era stata una giornata ricca di emozioni, e non mi sembrava il caso di aggiungere altra carne al fuoco. Non ero sicura che il mio cuore potesse reggere.
«Stronzate» mi liquidò subito «Aspetti da molto questo momento. Ora va’ e fallo» mi intimò, accompagnandosi con un cenno del capo. Lo osservai. Non avrebbe ceduto, me lo avrebbe fatto fare anche con la forza, se necessario. Presi un respiro profondo, poi mi alzai e mi avviai verso la porta. Gli ordini erano ordini, e avrei dovuto eseguirli, che lo volessi o meno.
 
Una nuvoletta di vapore uscì dalla mia bocca e si andò a mescolare con l’aria. Mi strinsi tra le braccia, tremando leggermente. Non mi ricordavo che facesse così freddo, né lo pensavo. C’era da dire che il mio abbigliamento non aiutava, dato che nella fretta avevo dimenticato di prendere un soprabito. Mi ritrovavo con addosso solo il tubino nero, e sotto di esso la mia inseparabile cintura. Almeno le scarpe, però, ero riuscita a metterle. Non c’era niente di meglio che ritrovarsi ai piedi i propri stivali, caldi e confortevoli.
Quasi mi venne da ridere al pensiero che quella notte era simile alla notte in cui avevo espresso i miei desideri per la prima volta. Allora non lo sapevo ancora, ma quella era stata la notte che aveva cambiato per sempre la mia vita. E adesso, sul ponte del Polar Tang, stava per stravolgersi di nuovo.
Un paio di mani si appoggiarono sulle mie spalle per un secondo, per poi ritrarsi. Sospirai di sollievo e smisi di tremare. Law mi aveva appoggiato il suo cappotto sulla schiena. Dovevo essermi persa qualcosa, nei mesi in cui non c’ero stata. Quando era diventato così gentile e premuroso? Supponevo che non avesse importanza. Nel buio, cercai i suoi occhi e gli rivolsi un sorriso grato. Come quella notte di parecchi anni fa, il cielo era nero e faceva freddo, solo che stavolta non ero sola; e non mi sentivo persa.
Infilai il cappotto, beandomi di quel sicuro calduccio, dopodiché aprii il libro e fissai la scritta, che risplendeva nell’oscurità, come se fosse un faro che guidava la mia anima. Lasciai scivolare le mie dita su quelle parole dorate e brillanti. La carta mi sembrava ruvida sotto il tocco delle mie falangi, potevo percepire le lettere in rilievo rispetto al resto della pagina. Per tutto quel tempo erano state lì, senza che io le vedessi, senza che nessuno le leggesse. Mi avevano accompagnato sempre lungo il mio viaggio, erano state una presenza silenziosa e costante.
«Coraggio» mi sollecitò il chirurgo.
«Loro...» indicai con un cenno del capo l’interno del sottomarino, riferendomi al resto della ciurma «Loro lo sanno?» chiesi con un filo di voce.
«No» mi rispose senza esitare «Ma non te ne preoccupare. Potrai pur sempre salutarli dopo, se vorrai. Altrimenti, dirò loro che hai deciso di fuggire con il biondino dell’Armata Rivoluzionaria» continuò, ghignando impertinentemente. Risi e gli diedi una piccola gomitata.
«Avanti» m’incitò di nuovo, facendomi tornare seria.
Annuii e presi un paio di respiri profondi, dopodiché soffiai sopra al libro, proprio come suggeriva il testo. In un attimo, le parole si staccarono dalla pagina e si librarono in aria, tramutandosi in polvere dorata. Vorticarono per quello che mi sembrò un tempo infinito. Non potei fare a meno di sorridere, però. Era uno spettacolo bellissimo, e avevo il privilegio di vederlo per la seconda volta. La polverina saliva in cielo, sempre più in alto, e rischiarava l’oscurità da cui eravamo circondati. Allungai la mano nel tentativo di toccarla, ma era già troppo lontana da noi perché ci riuscissi. Osservai Law con la coda dell’occhio. Anche lui sembrava colpito da quello spettacolo. Se non lo avessi conosciuto, avrei detto che ne fosse perfino meravigliato.
La polvere sparì per qualche istante dalla nostra vista e svanì dalla volta celeste, per poi esplodere in mille granelli ed andare a formare due stelle, più grandi e lucenti di tutte le altre. Mi portai le mani alla bocca. Avevo le lacrime agli occhi. Non pensavo che le avrei mai riviste. Invece, eccole lì, splendenti, fiere e bellissime. Ancora una volta, brillavano per me. Sulla sinistra, più piccola, ma comunque più luminosa degli altri corpi celesti, scintillava una delle due stelle. Sulla destra, invece, maestosa come sempre e capace di oscurare persino la luce del sole, risplendeva la mia Stella. La Seconda Stella a Destra.
«Avevi ragione» la voce del capitano mi arrivò ovattata, come se fosse lontano chilometri da me. Forse ero io ad essere distante. Con la mente mi trovavo sulla Stella, l’unico suono che riuscivo ad udire chiaramente era il battito molto accelerato del mio cuore.
Quando realizzai appieno il significato delle sue parole, mi voltai a fissarlo, piuttosto sorpresa. Non capivo a cosa si stesse riferendo. Oltretutto, lui non mi dava mai ragione, nemmeno quando avevo effettivamente ragione. Quindi... di che stava parlando?
Per un po' non parlò, continuò ad osservare il cielo. I suoi occhi sembravano sereni.
«È un bello spettacolo» affermò semplicemente. Mi ci volle qualche secondo per rendermene conto. Appena lo feci, spalancai la bocca, incredula.
«Tu... tu le vedi?» gli chiesi, trattenendo il fiato. Law annuì e ghignò.
«Ma allora...» provai a dire, senza riuscire a completare la frase. Non me ne capacitavo. Lui riusciva a vederle. Lui ci credeva. Credeva alla Stella. Ecco perché le vedeva. Non pensavo di poter provare tanta gioia per una cosa simile.
«Ti lascio ai tuoi desideri» annunciò il chirurgo, interrompendo le mie riflessioni «In caso non dovessimo rivederci, è stato quasi un piacere conoscerti» disse poi, voltandosi e cominciando ad avviarsi verso la porta d’ingresso del Polar Tang. Non mi diede nemmeno il tempo di replicare.
«Aspetta!» provai a trattenerlo, ma lui non si fermò, né si girò. Continuò a camminare finché non fu sparito all’interno del sottomarino.
Che razza di addio era quello? Sospirai sconsolata. Sospettavo che gli addii non fossero il suo forte. E forse era meglio così, perché neanche io ero brava a dire addio.
 
«Ciao» salutai la Stella, accompagnandomi con un gesto della mano. Mi ci era voluta un’eternità per trovare il coraggio di parlare e per non cedere alle lacrime. «È passato tanto tempo, eh?» scherzai, anche se la mia voce era rotta. La vidi tremolare appena, come se volesse rispondermi.
«Non sai quante cose mi sono successe. Vorrei raccontartele tutte, ma temo che per questo ci voglia più di una notte, e suppongo che il nostro tempo insieme sia limitato» dissi, rammaricandomi un po’. Non volevo dirle addio. «Però, una cosa posso dirtela. Credo che ti farà piacere saperla. Ti aiuterà a capire, come ha aiutato me» continuai, appoggiando i gomiti alla balaustra del ponte. Presi un respiro profondo.
«Un tizio, dopo uno scontro molto brutto, mi ha ridotto in fin di vita. Mi sono salvata per miracolo, ma ho avuto tanta paura di morire. Quando ero in ospedale, priva di conoscenza, ho fatto un sogno. Un sogno molto vivido, che mi ricordo benissimo. Non l’ho mai raccontato a nessuno, e credo che sia arrivato il momento di farlo».
Fu così che iniziai a ricordarmi e a raccontare quel sogno, che per tanto tempo era rimasto sepolto dentro di me, alla Stella.
 
Era il mio diciottesimo compleanno. Tutta la mia famiglia e tutti i miei amici si erano riuniti per festeggiare insieme a me quel momento speciale. Eravamo nell’appartamento che ci aveva lasciato mio nonno alla sua morte, quello in cui avevano vissuto di nascosto i pirati per circa un mese. Ero perfettamente consapevole che quello fosse un sogno, eppure sembrava tutto così reale ed autentico. Con il tempo, pensavo di essermi dimenticata dei lineamenti di mia madre o delle rughe di mio padre, invece, davanti ai miei occhi erano apparsi talmente veri e concreti che nel momento in cui li avevo rivisti mi era sembrato che non fosse passato nemmeno un giorno da quando ci eravamo separati.
Avrei dovuto essere contenta di essere lì, di avere la possibilità di rivedere i miei cari, eppure, per qualche motivo, non lo ero. Non del tutto, almeno. Indossavo un vestito molto carino, lungo fino ai piedi, senza spalline e con lo scollo a cuore. Il bustino dell’abito, che mi fasciava la vita, era color argento, mentre la gonna, piuttosto ampia e color blu notte, era impreziosita da degli strass, sempre argentati, che la facevano sembrare un cielo stellato. Ai piedi avevo delle décolleté in tinta con l’abito. I capelli, ancora lunghi, erano raccolti in una mezza coda che mi ricadeva sulla schiena in morbidi boccoli. Sembravo una principessa. Avrei dovuto sentirmi bellissima, ma senza la cintura scintillante che portavo sempre alla vita mi sentivo spoglia, nuda, perfino vuota.
Per parecchio tempo il mio sguardo aveva vagato per l’appartamento alla ricerca di Law, Rufy e dei miei compagni, tuttavia non avevo trovato nessuno. Non c’erano. Non erano lì con me.
Mi diressi verso la cucina, presi un bicchiere di plastica e, senza esitare, vi versai dentro una generosa quantità di vino. Quello era l’unico modo per sopravvivere a quella giornata.
«Tesoro» mi richiamò mia madre, che era accanto a me. La guardai. Sentire di nuovo la sua voce mi aveva provocato un brivido lungo tutta la schiena.
«Tu non bevi vino» constatò, quasi come se mi stesse rimproverando. Fissai il mio bicchiere e boccheggiai per qualche secondo.
«Hai ragione, io non... bevo vino» dissi, sospirando e poggiando sul tavolo il piccolo recipiente che tenevo in mano «Volevo prendere un po’ di Coca Cola, devo essermi confusa» mi giustificai, facendo un mezzo sorriso. Lei mi accarezzò la guancia con dolcezza e mi sorrise, poi andò nell’altra stanza. Il suo tocco era unico, lo avrei saputo riconoscere tra mille altri. Quello non lo avevo mai dimenticato.
«Tutto bene, cara?» mi chiese una voce arzilla alle mie spalle. Era mia nonna, lei era l’unica persona in tutto il mondo ad avere un tono sempre gioioso. Mi voltai verso di lei e presi la sua mano, tesa verso di me. Più che una nonna, l’avevo sempre considerata come un’amica. Un’amica a cui potevo confidare tutti i miei segreti. Quella volta, però, non solo non lo feci, ma le mentii anche.
«Sì. Sono solo un po’ frastornata. Compiere diciotto anni non è una cosa da poco» mentre lo dissi la mia voce tremò appena.
«Certo che no! È un’occasione unica ed imperdibile. Capita una sola volta nella vita!» esclamò, allegra e gioviale, ingollando una quantità non indifferente di vino. Ecco da chi avevo preso. Adesso capivo molte cose.
«Già. Capita una sola volta nella vita» ripetei, poco convinta. Le avrei dato ragione, se non avessi già compiuto diciotto anni due anni prima. Il ricordo di quel giorno ce lo avevo sempre ben impresso nella mente. I Pirati Heart avevano fatto irruzione nella mia cabina cantando “tanti auguri” a squarciagola. Ryu aveva preparato una deliziosa torta per me, con diciotto candeline sopra. E Law, Law mi aveva regalato la collana con la chiave della mia stanza e la mia iniziale arancione dipinta sopra. Mi toccai involontariamente il collo. Il ciondolo non c’era. Non c’era niente, nemmeno la collana con il tatuaggio di Ace. Mi sentii di nuovo nuda e a disagio.
«Tanti auguri, piccola mia!» urlò mio padre mentre mi veniva incontro. «Anche se forse non dovrei più usare il termine “piccola”. Oggi diventi grande, dopotutto».
«Grazie, papà» dissi sorridendo. Lui mi diede un bacio sulla guancia e poi mi abbracciò.
«La mia piccolina è cresciuta, alla fine» mi sussurrò all’orecchio. Nel sentire le sue parole, trattenni il fiato. La frase che aveva pronunciato aveva fatto scattare qualcosa in me. Una consapevolezza, che non riuscivo ancora ad identificare. Dentro di me, però, qualcosa si era mosso, potevo dirlo con certezza.
Per la successiva mezz’ora, mi toccò ascoltare tutte le frasi fatte che mi propinavano i miei parenti sul fatto di essere diventata una donna. Terminata quella fase, dovetti ringraziare cordialmente tutte le persone che mi facevano gli auguri. Quando pensavo che il supplizio fosse finalmente terminato, fui costretta anche a farmi una decina di foto insieme a tutti gli invitati.
Le persone lasciavano i loro regali sul tavolino di vetro che stava in salotto. Osservai la pila infinita di presenti che avrei dovuto aprire successivamente. Ce ne erano tantissimi, di tutte le forme e le dimensioni e le carte che li rivestivano facevano sfoggio dei più disparati colori. Eppure, c’era qualcosa che mancava. Una volta avrei adorato tutto questo. Era da quando avevo quattordici anni ed avevo assistito per la prima volta ad un diciottesimo che desideravo arrivare a quel traguardo. Volevo avere il mio giorno speciale, volevo sentirmi una principessa acclamata da tutti, per una sera. Volevo indossare un abito meraviglioso, farmi truccare da un make up artist professionista e farmi acconciare i capelli come le dive di Hollywood. Volevo essere al centro dell’attenzione. Volevo che tutti mi guardassero e pensassero a quanto fossi bella. Volevo perfino farmi invidiare un po’ dalle mie coetanee. Adesso, invece... mi sembrava tutto troppo complicato, troppo artificiale, troppo futile. Troppo finto. Pareva che fosse stato costruito tutto a tavolino, che tutti, compresa me, recitassero una parte. E forse era davvero così.
Mi diressi a passo svelto verso il divano e mi lasciai cadere su uno dei cuscini. Poi mi passai una mano su tutta la faccia. Non mi importava nemmeno che il trucco si sbafasse. Volevo solo che tutta quella gente andasse via. Attorno a me c’era un clima festoso, come avrebbe dovuto essere, la musica era alta, sorridevano e ballavano tutti, ma io non ero in vena di festeggiare.
Non passò molto tempo prima che la mia amica Sara mi raggiungesse e si sedesse accanto a me.
«Adoro il tuo abito» mi confessò, con una punta di invidia «Sei bellissima, stasera».
Tempo fa avrei pagato oro per sentirglielo dire. Per sentirlo dire da lei, che era stupenda anche la mattina appena sveglia. Non sapevo come ci riuscisse, ma appariva sempre perfetta. I suoi capelli erano sempre in ordine ed era bella anche quando indossava una tuta sformata. Persino quel giorno mi sembrava più bella di me. E lo era. Aveva il dono di essere una bellezza naturale.
«Questo divano profuma di talco» constatò, piacevolmente sorpresa.
«Talco» ripetei io, annuendo e fissando il vuoto. Certo che profumava di talco. Ci aveva dormito Marco per un mese. E adesso il divano aveva il suo odore.
«Ti ricordi quando eravamo piccole e sognavamo di fare le trapeziste al circo insieme?» mi chiese. Sbuffai una risata, la prima della serata.
«Certo. Tu volevi un costume con le frange blu, mentre io lo volevo arancione e senza frange» ribattei sorridendo.
«Perché quando ti lanci dal trapezio e l’altra persona ti deve prendere, le frange danno fastidio, mi dicevi. Avevamo otto anni e non ne sapevamo niente di trapezisti, eppure sei riuscita a pensare ad un dettaglio del genere» fece, ridendo e scuotendo la testa «Sei sempre stata la più previdente tra le due».
«Suppongo di sì. Alle volte, però, essere previdenti non è un bene» affermai, con una punta di amarezza nella voce.
«L’arancione è sempre stato il tuo colore preferito» si ricordò, piegando la testa da un lato.
«Già. E il tuo il blu. Blu oltremare, per la precisione» replicai, sorridendo con l’aria di chi la sapeva lunga.
«Almeno questo non è cambiato» lo disse in un sussurro. Mi sembrava che il suo tono fosse diventato d’un tratto malinconico.
«Non te l’ho mai detto, ma mi dispiace molto per come sono andate le cose» mi rivelò dopo qualche secondo di silenzio. La guardai interrogativa.
«Quali cose?»
«Per il modo in cui abbiamo smesso di vederci, di sentirci, di esserci l’una per l’altra» specificò, abbassando lo sguardo. Si sentiva colpevole. Mi strinsi nelle spalle.
«Credo che sia inevitabile separarsi, quando si cresce. È giusto così, ciascuno prende la propria strada» dissi, cercando di non sembrare triste. Il fatto che fosse giusto non lo rendeva meno doloroso. «La strada che porta verso il Sole» scherzai, per cercare di allontanare la cupezza che si stava creando, citando un momento iconico del manga di One Piece.
«Sì, ma io avrei voluto e avrei dovuto starti vicina, Cami. Perché, vedi, ad un certo punto, non so come, quando o perché, i tuoi occhi si sono spenti. Una volta ti brillavano, erano pieni di meraviglia e stupore. Erano come questo vestito» mi sfiorò la gonna con le dita «E poi, quella luce è svanita. E io me ne sono accorta, ma ho fatto finta di niente. Mi ripetevo che saresti stata bene, eppure più passava il tempo e più ti vedevo diventare l’ombra di te stessa».
Un velo di lacrime aveva iniziato a coprire le sue iridi castane. Le appoggiai delicatamente una mano sulla spalla. Non pensavo che un discorso tanto profondo potesse provenire da lei, che aveva sempre avuto la tendenza ad essere un po' approssimativa e superficiale. Eppure, se se ne era accorta anche Sara, la situazione doveva essere più grave di quanto pensassi.
«Non è colpa tua» la rassicurai. Sara mi ignorò e continuò con quello che era appena diventato un monologo.
«Mi sono chiesta tante volte che cosa potesse esserti successo di tanto terribile, ma non ho mai trovato una risposta. O forse, più semplicemente, non ho mai provato a trovare una risposta» scosse la testa, contrariata, poi la rialzò ed iniziò a fissarmi intensamente «Però, quest’estate, quando ti ho rivista, qualcosa è cambiato. I tuoi occhi non erano più cupi. Erano limpidi, sereni, sembravi felice».
Stavolta toccò ai miei occhi riempirsi di lacrime. Quell’estate. Ma certo. Era il periodo in cui in questo appartamento c’erano Rufy ed il resto della banda. Avevo incontrato Sara in due occasioni, in quel mese, ed in entrambe le occasioni ero raggiante. Un po’ esasperata, forse, visti tutti i casini che combinavano quei sei pirati, ma comunque raggiante.
«Quando ti ho vista di nuovo così felice, ho giurato che avrei fatto di tutto affinché la luce nei tuoi occhi non si spegnesse di nuovo. Non posso sopportare di vederti così abbattuta, soprattutto oggi, che è il tuo giorno speciale» le sue mani afferrarono saldamente le mie spalle e le sue iridi si incastonarono alle mie. Gli occhi bruni le si incresparono agli angoli in un sorriso genuino. «Non so chi siano quei ragazzi e che cosa c’entrino con te, ma una cosa è certa: loro ti rendono felice» affermò decisa. Una ruga si formò in mezzo alla mia fronte.
«Noi siamo cresciute insieme, e io ti voglio e ti vorrò sempre bene. Sarai sempre la mia sorella mancata, perciò lascia che te lo dica. Fregatene di tutto e tutti e prendi la tua strada, Cami» si raccomandò, con una tenacia che le avevo visto in poche altre occasioni «La strada verso la felicità, verso il Sole, o quello che è».
Risi, nonostante mi stesse scendendo una lacrima sulla guancia. Ciò che apprezzavo di più di Sara era che lei era la voce della verità, bella o brutta che fosse. Annuii e la abbracciai stretta per qualche secondo. In quel momento mi sembrò che l’odore di talco fosse diventato più intenso. Grazie alle parole della mia amica e a quel profumo, capii cosa dovevo fare.
Mi alzai e mi diressi a passo spedito verso la porta d’ingresso dell’appartamento. Qualcuno, però, mi afferrò per un braccio e fui costretta a fermarmi.
«Dove stai andando?» la voce grave di mio padre mi fece voltare verso di lui. La sua presa era salda, e non aveva alcuna intenzione di lasciarmi.
«Mi dispiace...» provai a dire, sinceramente rammaricata.
«Devi spegnere le candeline e ci sono i regali da aprire...» mi fece sapere, stringendo ancora di più le dita attorno al mio braccio.
«Devo andare» gli comunicai in un sussurro.
«Se uscirai da quella porta, noi non potremo più aiutarti. Potresti morire!» gridò, ad un millimetro dalla mia faccia.
«Lo so, papà.» assentii, impassibile.
«Non lasciarci di nuovo...» mi supplicò, gli occhi pieni di dolore. Mi strinsi nelle spalle. Vederlo così mi faceva male, molto male, tuttavia non potevo restare.
«Mi dispiace, ma devo davvero andare. I miei amici hanno bisogno di me. E io ho bisogno di loro» mi divincolai dalla sua presa «Non abbiate paura per me. Io starò bene. Sono in buone mani» dissi, sorridendo. Per la prima volta in quella sera, il mio era un sorriso sincero.
Guardai per un’ultima volta i miei cari, che continuavano a ridere e a festeggiare, ignari di tutto. Solo tre persone mi stavano osservando. Mio padre, che aveva un’espressione arrabbiata, forse perfino delusa; mia madre, che invece sembrava molto addolorata e preoccupata; e Sara, sempre seduta sul divano, che mi guardava fiera. Poi aprii la porta ed uscii dall’appartamento.
I contorni dei loro visi si fecero sempre più sfocati, finché tutto non fu avvolto di nuovo dall’oscurità. Tornai ad essere circondata dal nulla e a sentire freddo. Stavolta, però, non avevo paura di quel buio vuoto e silenzioso. Sapevo che sarebbe andato tutto bene. Non ero più sola.
 
Tentai di riprendere fiato dopo aver raccontato il sogno alla Stella. Avevo parlato per mezz’ora senza fare nemmeno una pausa. Mi sembrava di essere tornata nell’ufficio di Dragon, nei primi tempi. Mi umettai le labbra con la poca saliva che avevo ancora, poi presi un respiro profondo e feci per parlare.
«Questo è quanto, cara Stella. Non so quando l’ho capito. Forse l’ho sempre saputo, forse l’ho realizzato tanto tempo fa, o forse in questo momento. Non ne ho idea, ma suppongo che non abbia importanza, perché in tutta questa faccenda c’è una sola cosa certa» iniziai, tamburellando le dita sul parapetto di metallo, tesa «Il mio quarto ed ultimo desiderio è stato espresso male. Avrei dovuto specificare, invece sono rimasta vaga. E per fortuna l’ho fatto. Ti ho chiesto di far ritornare ognuno nel proprio universo di appartenenza. E indovina dove sono finita? Qui».
Feci una pausa e mi abbandonai ad una risata nervosa.
«Non devi rimediare a nulla, perché non hai fatto nessun errore. Non tornerò a casa. Non ne ho bisogno. Perché è questa la mia casa, adesso» affermai decisa in un’alzata di spalle «Non fraintendermi, desidero ancora tornare dalla mia famiglia, più di ogni altra cosa al mondo, solo che questo non è il momento giusto. Lo farò quando qui si sarà sistemato tutto e quando sarò pronta a tornare».
La Stella tremolò appena. Se avesse avuto un volto, probabilmente avrebbe avuto un’espressione divertita. Data la sua natura dispettosa, non era difficile immaginarsi la sua reazione.
«Perciò, senza indugiare oltre, adesso esprimerò i miei desideri» proclamai. Il cuore mi batteva forte ed il corpo tremava, ma non per il freddo. Per l’emozione.
 
Buttai fuori tutta l’aria che avevo in corpo e cercai di darmi un contegno. Mi asciugai le ultime lacrime con i palmi delle mani.
«Mi dispiace. Per me non è facile. Ma questa è stata una mia scelta e sono fermamente convinta che sia quella giusta. E poi, non è per sempre. È solo per un altro po’» dissi con voce rotta, più per convincere me stessa che la Stella.
Dopo aver espresso i primi due desideri avevo singhiozzato per una decina di minuti, incapace di fermarmi. Non era stato affatto facile rinunciare alla mia famiglia per la seconda volta – e stavolta volontariamente – ma avevo dovuto farlo, per il mio bene. Perché avevo bisogno di stare lì, ancora un po’. Dovevo ritrovare me stessa e realizzare i miei sogni, non potevo e non volevo lasciare in sospeso niente. Non stavolta.
Come primo desiderio, avevo chiesto che tutte le persone che mi conoscevano nel mio mondo di provenienza si dimenticassero di me fino al mio ritorno. Avevo chiesto che la mia esistenza fosse cancellata completamente. Non dovevano esserci più foto, video o documenti con il mio nome o la mia immagine sopra.
Mi ero ricordata dello sguardo sofferente che avevano i miei genitori nel sogno. Non meritavano di soffrire. Nessuno meritava di soffrire, soprattutto per causa mia. Volevo che stessero bene e che andassero avanti con le loro vite. Si sarebbero ricordati di me solo una volta che fossi tornata da loro. In questo modo mi auspicavo che saremmo stati tutti felici. Non volevo che si preoccupassero per me, perché io, almeno così speravo, sarei stata bene. Mi ci era voluto un gran coraggio per pronunciare quelle parole, ma era stato necessario che lo facessi. Per me stessa e per loro. Ci meritavamo di essere felici. Tutti.
Come secondo desiderio, invece, avevo chiesto di ricevere quotidianamente notizie di tutte le persone a cui volevo bene e che erano lontane da me. Dovevo accertarmi che stessero effettivamente bene. Inoltre, quello era anche un modo per sentirle più vicine. Avevo deciso di non tornare, ma ciò non significava che avrei abbandonato i miei amici e la mia famiglia d’origine. Non sapevo come avrei ottenuto loro notizie, ma la Stella aveva tremolato nel momento in cui avevo espresso il desiderio, e questo voleva dire che lo aveva accettato, proprio come aveva accettato il primo, e che lo avrebbe esaudito.
«Bando alle ciance. Ho un altro desiderio da esprimere, giusto?» le chiesi. Lei tremolò di nuovo. In quel momento mi resi conto che non avevo nessun desiderio da esprimere. Non sentivo il bisogno di desiderare altro. Però, proprio come la prima sera in cui la Stella era apparsa, sapevo esattamente cosa fare.
«Credi che sia possibile fare un favore ad un amico?» domandai, lo sguardo fisso su di lei, nella speranza che capisse ciò che intendevo e che acconsentisse. Mi parve di vederla brillare più intensamente e sorrisi. Ormai ci intendevamo al volo. «Lo prendo come un sì».
«Credevo che fossi già tornata a casa» una voce alle mie spalle rese il mio sorriso ancora più ampio. Aveva avuto un tempismo perfetto, come sempre. Aspettai che il capitano mi fosse accanto prima di rispondere.
«Mi dispiace deluderti, ma non devo andare da nessuna parte» mi voltai verso di lui e notai con piacere che indossava ancora la felpa arancione che gli avevo regalato io per il suo compleanno «Sono già a casa.» gli dissi. Nei suoi occhi percepii un guizzo, forse di divertimento. I miei, invece, erano sereni. Ero in pace con me stessa.
«Hai deciso di tediarci con la tua presenza per sempre?» volle sapere, ghignando.
«Non per sempre. Solo per un altro po’. Te l’ho detto che non ti saresti liberato facilmente di me» mi limitai a dire, alzando le spalle e ridacchiando «E poi, ho un matrimonio da organizzare».
Per un po’ rimanemmo in silenzio. Law non mi chiese nulla, né spiegazioni sul perché avevo preso quella decisione, né quando avessi intenzione di tornare nel mio universo di provenienza. Invece, mi guardò comprensivo. Aveva capito le mie ragioni. Per una volta, apprezzai quella quiete. Dopotutto, lui non aveva bisogno di chiarimenti, ed entrambi sapevamo che non conoscevo la risposta a quelle domande. Lo avrei fatto, sarei tornata dalla mia famiglia, tuttavia il quando era ancora un’incognita. Una grossa incognita. Ma sospettavo che lo avrei capito una volta che fosse arrivato il momento.
«Sai, pensavo che dopo quello che ci è successo con Doflamingo non ci fosse più magia a questo mondo» gli confessai «Ma mi sbagliavo. C’è ancora magia. E c’è sempre speranza» continuai. Feci una pausa per contemplare quel meraviglioso cielo notturno, impreziosito dalla presenza fiera della Stella e da quella della sua più piccola aiutante. Poi posai delicatamente la mia mano sopra alla sua, poggiata sulla ringhiera del ponte. Lui mi guardò compiere quel gesto in silenzio.
«Odio ammetterlo, ma devo essere onesta, perché questa è una cosa che non si può negare. Sei un ottimo capitano. E, nonostante tutto, sei una brava persona. Una persona che sono contenta di aver incontrato e conosciuto lungo il mio cammino» iniziai, pressando appena le mie dita sulle sue nocche tatuate «Sei riuscito in un’impresa impossibile. Mi hai reso una persona migliore, e ti devo molto. Non credo che riuscirò mai a ripagare il debito che ho con te per intero, però, una cosa posso farla».
«Taglia corto» mi interruppe. Tuttavia, invece che infastidirmi per avermi tolto la parola in un momento così serio, mi misi a ridere, anche per sciogliere un po’ di tensione. Non gli erano mai andati a genio i sentimentalismi.
«È tuo» sussurrai, alzando lo sguardo verso il cielo ed indicando le due stelle con un cenno del capo. Sorrisi, mentre Law mi guardava interrogativo.
«Il terzo desiderio. È tuo. La Stella ha acconsentito a cedertelo» gli spiegai con un bagliore negli occhi. Lui alzò un sopracciglio e ritrasse la sua mano da sotto la mia. Mi sembrò infastidito.
«Non mi serve un desiderio. E non mi serve nemmeno la tua pietà» fece con durezza. La sua risposta mi deluse un po’. Pensava davvero che lo facessi per pietà? Non aveva capito niente. Cercai di non arrabbiarmi e rimanere calma. Era stato solo un piccolo fraintendimento, niente di grave.
«Non lo faccio per pietà. Questo è un modo per ripagare parte del debito che ho nei tuoi confronti e per ringraziarti per tutto ciò che hai fatto per me» chiarii cautamente, ricominciando a sorridere. Se lo meritava, e glielo dovevo. Mi aveva accolto sul suo sottomarino, nonostante avesse tutte le ragioni del mondo per non farlo, mi aveva salvato la vita in un paio di occasioni, mi aveva fatto appassionare alla medicina, mi aveva fatto da mentore e mi aveva insegnato buona parte di ciò che sapeva. E poi, aveva trovato il modo per farmi tornare nel mio mondo. La lista era lunga, ma a parte questo, se lo meritava e basta. Perché era una bella persona, dentro e fuori, molto di più di come appariva, o di come voleva apparire. Aveva a cuore i suoi uomini, e me lo aveva dimostrato ancora una volta, quel giorno.
«Riesci a vedere la Stella, il che significa che credi a lei. È giusto così, Law. Per una volta, permettimi di fare qualcosa per te ed accetta questo mio dono» lo sollecitai «Inoltre, tutti hanno bisogno di un desiderio. Non sprecarlo» mi raccomandai poi, dandogli una lieve pacca sulle spalle.
Senza dargli il tempo di obiettare o di replicare, mi tolsi il cappotto e glielo restituii, dopodiché mi diressi verso l’ingresso del Polar Tang. Qualunque fosse stato il suo desiderio, non mi sembrava corretto rimanere ad ascoltare. Lui con me non lo aveva fatto. Tuttavia, a metà strada ci ripensai. Gli corsi incontro e, senza esitare, gli cinsi la vita con le mani da dietro. Per un breve secondo il suo corpo si irrigidì, per poi tornare a rilassarsi. Lo strinsi più a me, la mia guancia era premuta contro le sue scapole. Non potevo credere che me lo stesse lasciando fare. Dopo due anni, ero finalmente riuscita nel mio intento. Ero riuscita ad abbracciarlo! Non mi sembrava neanche vero, mi sembrava di stare sognando. Era un sogno lontano dagli incubi che avevano infestato il mio sonno pochi mesi prima. Un sogno bello e surreale. Io, abbracciata a lui, in quella notte scura illuminata solo dal forte bagliore della Stella. Inspirai il suo odore a piene narici. Aveva un profumo buonissimo, che mi era mancato molto. Sorrisi nel pensare che per un altro po’ non avrei dovuto farne a meno. Avrei continuato a sentirlo. Chiusi gli occhi e, dato che non potevo vederlo in faccia, mi immaginai che Law stesse sorridendo. Non con il solito ghigno strafottente, ma con un semplice sorriso sincero, forse perfino grato. Nonostante non avessi più il suo cappotto a ripararmi dalla frescura di quella notte, non sentivo freddo. Il mio corpo, stretto al suo, era caldo. Mi sentivo al sicuro. Mi sentivo a casa.
Non avevo idea di quanto tempo rimanemmo in quella posizione, ma finché me lo avesse permesso sarei rimasta abbracciata a lui. Non ci servivano parole per comprenderci. Ci servivano più momenti come quello. Tanti di più. Quella sera, magia e poesia si erano incontrate e avevano creato una perfetta armonia.
Alla fine, un po’ riluttante, mi decisi a staccarmi da lui. La Stella non era molto paziente e temevo che potesse decidere di sparire da un momento all’altro se avessi tergiversato ancora.
«Spero che la tua scelta di rimanere non sia interamente dovuta al Capo di Stato Maggiore dell’Armata Rivoluzionaria» commentò il chirurgo ad un certo punto, facendomi sbuffare una risata. Non gli risposi. Non subito, almeno.
Iniziai a camminare verso l’ingresso del sottomarino. Lui si girò a guardarmi, ghignando. Sospettavo che provasse piacere ad avermi lasciato senza parole. Povero ingenuo.
«Non essere geloso, capitano. La gelosia è una brutta bestia» lo rimproverai, sogghignando e continuando a camminare all’indietro. In risposta, lui allargò il suo ghigno.
Mi domandai che cosa stesse per chiedere alla Stella. Poi, però, mi dissi che non aveva importanza. O meglio, che non erano affari miei. Sapevo che qualsiasi desiderio stesse per esprimere sarebbe stato significativo.
 
“Che giornata incredibile!” pensai mentre percorrevo il corridoio a ritroso per tornare in camera. Stentavo ancora a credere a tutto ciò che era successo. Temevo che per riprendermi da quel tripudio incredibile di emozioni mi ci volesse una settimana di sonno. Eppure, adesso, non mi sentivo stanca. Il mio corpo vibrava, sentivo di avere energie da vendere. L’adrenalina scorreva nelle mie vene e si irradiava in tutto il corpo. Non potevo dire di essere pienamente felice, perché sarebbe stata una bugia. La mia famiglia mi mancava terribilmente, e il pensiero di aver tardato ancora il nostro incontro mi rendeva malinconica. Lo avevo scelto io, ma era comunque doloroso rinunciare una seconda volta ai miei cari. Però non ero neanche troppo dispiaciuta. Non dopo l'abbraccio con Law.
«Ti ho detto che i piatti vanno asciugati in senso orario!» il grido Ryu mi ridestò dai miei pensieri.
Mi affacciai in cucina. Quando vidi la scena che avevo davanti, non potei fare a meno di scoppiare a ridere. Cercai di non farmi sentire, altrimenti Jean Bart non mi avrebbe mai perdonato. Una pila di piatti giaceva in precario equilibrio nel lavello. Il cuoco li stava lavando a velocità record, mentre l’enorme addetto alla sala macchine era stato obbligato – o almeno, così supponevo – a dargli una mano nell’asciugarli. Ryu, quando si trattava di cucina, aveva una precisa metodologia per tutto, perfino per asciugare i piatti. E a quanto pareva, il povero Jean Bart stava sbagliando tutto.
Vidi il burbero chef strappargli il piatto e lo straccio dalle mani e mostrargli – a suo dire per l’ennesima volta – il metodo corretto per asciugarlo.
«Ecco, vedi? È così che si fa!» esclamò concitato, mentre l’omone, senza farsi vedere, alzava gli occhi al cielo e scuoteva la testa, sconsolato.
Risi nel pensare che con il suo temperamento il cuoco dei Pirati Heart avrebbe potuto sottomettere persino Akainu.
Proseguii ed arrivai alla cabina di Shachi e Penguin. I due, in pigiama ed assonnati, stavano ultimando gli ultimi preparativi prima di andare a letto. Quando mi videro mi rivolsero un ampio sorriso.
«Vuoi unirti a noi?» mi chiese il pinguino, l’espressione maliziosa. L’orca gli diede una gomitata. Risi e scossi la testa. Quei due non sarebbero mai cambiati. Per fortuna. A me piacevano così com’erano.
«Magari un’altra volta» scherzai. I loro occhi si illuminarono, pieni di speranza.
«Buonanotte, ragazzi» feci, ricambiando il sorriso.
«Buonanotte, Cami!» mi augurarono all’unisono. Facevano quasi tenerezza a vederli così. Erano ignari di tutto ciò che era successo nell’ultima ora, e sarebbe stato meglio lasciarli nella loro ignoranza.
Passai davanti ai bagni comuni, l’unica stanza di tutto il sottomarino, anzi, di tutto l’universo di One Piece, capace di terrorizzarmi più delle prigioni sotterranee dell’Armata Rivoluzionaria in cui era stato rinchiuso Doflamingo.
Bepo, ancora nella sua divisa arancione, si stava lavando i denti e la faccia. Era stato l'unico ad aver indossato la divisa, quella sera, pur non essendo obbligato, confermando ancora una volta quanta dedizione avesse per i Pirati Heart e per il nostro capitano. Decisi di non disturbarlo e continuai a camminare. Davanti alla cabina di Maya, lei ed il suo fidanzato si stavano scambiando un bacio passionale, simile ai baci che ci scambiavamo in privato io e Sabo. Quando mi videro ridacchiarono complici e si ritirarono nella loro cabina chiudendo rumorosamente la porta.
Le luci dell’infermeria erano ancora accese e dal suo interno provenivano delle voci. Feci capolino dalla porta e sbirciai la situazione. Kenji e gli altri medici stavano parlottando intensamente.
«Cami!» mi richiamò il ragazzo dopo che si fu accorto della mia presenza. Poi si avvicinò a me con in mano una radiografia di un torace.
«Secondo te di cosa si tratta?» mi domandò. Presi le lastre in mano e le osservai per qualche secondo.
«Si dovrebbero fare ulteriori esami, ma direi che si tratta di un edema polmonare acuto. Le dimensioni cardiache sono aumentate e c’è una redistribuzione del flusso verso l’alto. Vedi?» gli indicai con l’indice il punto a cui mi riferivo «È presente un importante versamento pleurico bilaterale».
«Bentornata tra noi» disse compiaciuto uno dei medici, sorridendo ed allargando le braccia. Mi strinsi nelle spalle. Mi sentivo lusingata. Non sapevo se sarei stata in grado di riprendere la mia attività di medico, ma per quella sera preferii non pensarci. Una cosa era certa: avrei fatto di tutto affinché il mio sogno si realizzasse. Era anche per quello che avevo deciso di rimanere lì.
«Grazie. Ne stavamo discutendo da parecchio tempo e ci serviva un’altra opinione» confessò Kenji, leggermente in imbarazzo.
«È il mio dovere» risposi, piegando la testa da un lato «Buonanotte, colleghi».
Li salutai con la mano e loro ricambiarono il saluto.
Finalmente arrivai alla mia camera. Mi richiusi la porta alle spalle e presi un respiro profondo. Nel vedere i miei compagni svolgere le loro attività quotidiane e coinvolgermi in parte di esse, avevo acquisito una nuova consapevolezza. Sorrisi.
Adesso ne ero sicura. Era quella, la strada che mi avrebbe portato verso il Sole.
 
 
 
 
Mom and Dad,
Don’t worry about your son.
I’ll be ok,
I’ll take these days one by one.
Though the times are hard,
I still know where I belong.
I keep looking up,
So I know where I belong.
 
For now,
I’ll choose this life I live.
And for now,
I’ll choose to take my hits.
‘Cause at the end of the day
All we have is who we are.
 
Life, hurry now,
I’m running out of time.
And I’m growing weak,
As are these dreams that are mine.
Though the days are long,
I’m still running strong.
 
For now,
I’ll choose this life I live.
And for now,
I’ll choose to take my hits.
‘Cause at the end of the day.
All we have is who we are.
 
For now,
I’ll choose this life I live.
And for now,
I’ll choose to take my hits.
‘Cause at the end of the day.
All we have is who we are.
 
And at the end of the day,
All we have is who we are.
 
 
 
Fine terza parte.



 
Angolo autrice
E con questo capitolo, si conclude la terza parte della Fanfiction. Come sempre, spero che vi sia piaciuto e invito chiunque ne abbia voglia a lasciarmi un parere. :)
Cami ha preso la sua decisione, finalmente. Ma... avrà fatto la scelta giusta? Suppongo che solo il tempo potrà dircelo. Nel frattempo, ringrazio tutti coloro che hanno letto, seguito e recensito "Lost girl" fino a questo punto. Sappiate che siete fantastici, vi adoro! Grazie davvero a tutti per la pazienza e la dedizione che mostrate nei confronti di questa storia. <3 Vi chiedo di resistere ancora un po', prima o poi "Lost girl" finirà, lo prometto!
A questo punto, non mi resta che dire... alla prossima!
Un bacio,
WillofD_04 <3

P.s. La canzone alla fine del capitolo è "Who we are" di Ryan Calhoun, in caso vi andasse di ascoltarla. :) Ho scelto di inserirla perché oltre, a piacermi molto, il testo, secondo me, in parte descrive la situazione di questo capitolo ed il modo in cui si sente Camilla. E poi, un po' di musica ci sta sempre bene! :)

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