Brandon & Anita

di Dafne ThyCapulet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Capitolo Primo - L'infanzia di Brandon (Anita's version) ***
Capitolo 3: *** Capitolo Primo - L'infanzia di Brandon (Brandon's version) ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


Introduzione

Introduzione

 

 

Buongiorno a tutti voi, signori (molto pochi) e signore (sicuramente di più) che avete fra le mani questo libro. Buongiorno, se ne state sfogliando le pagine di prima mattina, magari nel vostro letto, alle otto di una tranquilla domenica di sole, avvolti nelle vostre candide lenzuola singole o matrimoniali. O buon pomeriggio, se state leggendo le mie parole comodamente sprofondati nella vostra poltrona in salotto, con le gambe accavallate ed una tazzina di tè in una mano. E infine buonasera, se i miei saluti vi arrivano con dolcezza nel dormiveglia che precede il sonno, alla luce fioca della abat-jour che irradia dal vostro comodino, nel silenzio surreale della notte.

 

Dio, quanto mi piace quando fa così…la sua vena poetica mi ha sempre affascinato…

 

Oh, Brandon caro, ti ringrazio. Per favore, però, non interrompermi, altrimenti perdo il filo del discorso.

 

Giusto, tesoro. Scusa.

 

Dunque…allora…stavo dicendo…ah…dove ero rimasta? Santo cielo, hai visto, Brad?!

 

Cosa, Anita cara?

 

Come sarebbe a dire “cosa”?! Ora, secondo te, non dovrei arrabbiarmi? Ti rendi conto che in questo momento milioni di persone stanno leggendo tutto questo?! E guarda che figura ci faccio, peggio di un attrice che dimentica le battute mentre è in scena!!

 

Perché peggio?

 

Perché, Brandon caro,“verba volant sed scripsa manent”.

 

Ah. D’accordo. Fingerò di aver capito.

 

Bene. Anzi, male…dannazione, dove diavolo ero rimasta?!

 

Eri arrivata al buongiorno. O al buon pomeriggio o alla buonasera. Giù di lì, insomma.

 

Oh, sì!! Brandon caro, ti ringrazio. Sei sempre così dolce, anche quando ti tratto male…

 

Ci ho fatto l’abitudine, Anita cara. E in fondo, anche se mi faccio schifo ad ammetterlo, mi piace quando mi tratti male.

 

Quanto sei masochista…

 

Eh, si nasce. Ora che ne dici di continuare la presentazione? Non vorrei che il pubblico di lettori si fosse già tanto annoiato di questo misero libretto da riporlo sul polveroso scaffale da cui l’aveva preso.

 

Oh, no no no! Come giustamente suggerisce mio marito, direi di mettere al bando i convenevoli e di passare direttamente al sodo. Questo libro è il frutto di anni ed anni di lavoro, un lavoro intenso e pieno di passione, un’opera per cui sia io sia lui abbiamo dato l’anima.

 

Tesoro, l’abbiamo scritto in due giorni.  

 

Diamine, Brandon…due giorni di intensissimo e durissimo lavoro di squadra. Così va meglio?!

 

Sì, decisamente.

 

Ad ogni modo, vi starete sicuramente chiedendo di che cosa questo libretto tratti. In realtà potremmo definirlo una“trance de vie”, ossia uno spaccato di vita, in particolare della mia e di quella di Brandon, il mio dolce marito. Ai vostri occhi potremmo sembrare nient’altro che persone ordinarie, ma siamo molto di più di questo. Le due persone più originali (e di conseguenza più potenzialmente patologiche) che abbiate mai conosciuto.   

 

Hawwwn…li vedo già nasconderlo sotto una pila di manuali culinari anni ’50.

 

Cosa stai insinuando??

 

Amore, non mi sembra particolarmente efficace come presentazione.

 

Amore, sono io la giornalista fra noi due. A te il dominio sul pc, a me quello sul libro.

 

Posso soltanto aggiungere una cosa?

 

Nel nostro racconto parleremo entrambi in ugual misura, ognuno dal suo punto di vista per ogni capitolo. Avrai il tempo di parlare, tesoro.

 

Una cosina sola…ti prego, ti prego, ti prego…

 

A una condizione: non dire cose stupide. Ne va del decoro di entrambi.

 

Ma certo, tesoro. Voglio solo fare una precisazione: la pancetta non compromette la qualità né la quantità della prestazione sessuale. Concordi, vero, amore?

 

Sì…ma che c’entra, scusa?

 

C’entra, c’entra. Lo so io quanto c’entra.

 

Brandon!!!

 

Cosa, che c’è? Amore, ma quanto sei maliziosa…! Oh, un’altra cosa!!

 

Mi sa che hai già detto abbastanza…

 

No, no, questa è importante!! Non hai esposto il motivo per cui, sebbene sommersi dagli impegni di lavoro e semi-strozzati dalle rate del mutuo, abbiamo deciso di scrivere e di far pubblicare questo libretto.

 

Cribbio, hai ragione!! Rimedio seduta stante: il Tradimento. Sì, sì, non è un errore di stampa, il Tradimento con la t maiuscola. E’ stata questa presenza che alberga sempre dentro di noi, questa paura che ristagna nelle nostre viscere, questo mostro invisibile ma terribilmente doloroso che ha rivoluzionato la nostra vita, che ha messo in discussione tutto ciò che davamo per scontato e, soprattutto, tutti i valori che ci sono stati inculcati dal senso comune.

 

Un infido bastardo, per tagliare corto.

 

È stato il suo avvento, o meglio l’avvento del suo dubbio (unito all’arrivo delle rughe e della cellulite, è inutile nasconderlo) che ci ha spinto a mettere nero su bianco la nostra esperienza di coppia. A voi giudicare se potrà essere istruttiva o meno per le nuove generazioni. 

 

Dubito che possa esserlo…ma spero che almeno vi diverta, che possa rallegrarvi nelle tristi serate invernali e magari farvi sorridere di indulgenza quando acquisterete finalmente la saggezza della vecchiaia.

 

Diamine, stai diventando passionalmente poetico, amore.

 

Quisquiglie. E’ solo l’effetto della tua benefica vicinanza.

 

Awww…quanto mi piaci quando fai l’umile…diventi incredibilmente sexy…

 

Anita…asp…

 

Vieni qui, pupottolo mio…

 

Tesoro, non in pubblico, ti prego!!

 

Al diavolo il pudore!!

 

Ma, Anita, sei stata tu a dirmi che dovevamo mantenere un minimo di decoro in questa presentazione!

 

Al diavolo quella stupida Anita che ti ha detto una sciocchezza del genere! Coraggio, dì la verità, non mi vorresti qui, adesso, davanti a tutte queste milioni di persone??

 

Santo cielo, Anita, non provocarmi così…lo sai che non resisterei alla tentazione…

 

E allora che diavolo stai aspettando?! Lancia il primo capitolo e cedi al peccato.

 

Asp…io? Tu stai dando a me il permesso di lanciare il primo capitolo?!

 

A condizione che ti sbrighi. Guarda che mi raffreddo in fretta, io.

 

A questo so io come porre rimedio, bambolina…ladies and gentlemen, a voi il permesso di accedere al primo capitolo della nostra storia di coppia.

 

Ovviamente cominceremo dall’inizio, dalle origini più remote della nostra fervida unione

 

Provocami ancora così e ti salto addosso, Anita. A voi tutti, invece, auguro una splendida permanenza nel nostro folle ed incantevole universo. Con la recondita speranza che vi faccia piangere e ridere come è successo a noi.

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Capitolo 2
*** Capitolo Primo - L'infanzia di Brandon (Anita's version) ***


Capitolo Primo - L'infanzia di Brandon (Anita's version)

Capitolo Primo

 

L’infanzia di Brandon (Anita’s version)

 

La prima volta che vidi una foto di Brandon da bambino fu qualche mese prima del nostro matrimonio, quando lui mi portò nella sua casa di Toronto per farmi conoscere la sua tribù familiare (in seguito capirete perché l’ho definita in questo modo e converrete con me che ho usato l’espressione assolutamente più aderente alla realtà); nel momento in cui vidi i suoi ridenti occhioni blu (gli stessi di sempre), il suo faccino pacioccone (che ha tuttora e di cui non capisco perché si vergogni) e il suo sorrisone sdentato (che, fortunatamente, non ha più e spero non rivedrò almeno fino ai suoi settantanni), mi dissi che, semmai avrei superato il terrore del parto e mi sarei convinta a fare un pupazzetto tutto mio, doveva essere identico a lui.

Brandon non ha mai amato raccontarmi della sua infanzia, dunque fino al momento in cui misi piede nella sua casa di famiglia io non sapevo pressoché nulla a riguardo, tranne che l’aveva vissuta sbattuto qua e là fra Stati Uniti, Canada ed Europa esattamente come un pacco postale, perché suo padre era una cosa tipo ambasciatore e dunque costretto a spostarsi di continuo trascinandosi dietro l’intera famiglia, che doveva avere il passaporto cucito in mano ed un francobollo postale perennemente incollato alla fronte, suppongo.

Ma, si sa, quando ti ritrovi sprofondata nel divano accanto alla tua futura suocera, sebbene l’imbarazzo sia palpabile e ancora di più la curiosità reciproca, non c’è nodo che tenga: l’infanzia del tuo futuro coniuge ti viene spiattellata in faccia in tutta la sua cruda bellezza e, ovviamente, senza alcuna pietà per la sua privacy, particolare che (Brandon non me ne voglia) ho apprezzato enormemente.

Brandon Juliàn Ferrere venne al mondo il 4 dicembre di un bel po’ di anni fa in un piccolo ospedale statale di Toronto dove dovevano avere un chiodo fisso per la fotografia pedofila, perché non appena era sgusciato fuori da sua madre gli avevano scattato cinque o sei foto con tanto di flash che la signora Ferrere aveva gelosamente custodito nel voluminoso album di famiglia che quel giorno mi mostrò pagina per pagina con enorme orgoglio e soddisfazione. Il pupone strillante e piangente ritratto in quelle foto pesava ben tre chili e mezzo già alla nascita, ma la signora Ferrere mi disse che secondo lei i medici l’avevano imbrogliata: già al quinto mese Brandon pesava così tanto che la povera neomamma era stata costretta a camminare piegata in due con il marito a braccetto per evitare che, per la forza d’inerzia, cadesse a faccia in terra. Dunque molto probabilmente alla nascita Brandon pesava come minimo quattro chili e qualcosa, anche se la versione ufficiale dei fatti lo smentisce apertamente. Tutto ciò mi fa credere che sia stato da allora che Brandon ha cominciato la sua lotta con la bilancia che, me tapina, infuria tuttora e, a mio parere, senza più un motivo seriamente fondato.

Ad ogni modo, anche il signor e la signora Ferrere dovevano avere un debole per la fotografia pornografica, perché le foto risalenti alla primissima infanzia di Brandon raccolte nell’album di famiglia non fanno altro che ritrarlo nei suoi momenti di maggiore intimità: una volta nel bagnetto, un’altra sull’asciugatoio, un’altra ancora durante il cambio del pannolino, insomma, non appena il piccolo pupottolo era senza veli, qualche membro della sua tribù familiare si preoccupava di immortalare il momento con un bel click. Forse vi pare che stia esagerando, forse vi state dicendo che è normale che un neonato sia quasi perennemente nudo e che in fondo non c’è nulla di male o di perverso nel fatto di bombardarlo di scatti fotografici e forse avete perfettamente ragione: soltanto che io sono stata abituata diversamente. Ma questa è un’altra storia che forse vi racconterò successivamente, se ne avrò tempo e voglia.

Tornando a quello splendido pomeriggio di fine settembre in cui venni finalmente a conoscenza del passato immacolato del mio dolce neomarito, le successive foto che la signora Ferrere mi mostrò lo ritraevano già un po’ più grande: erano tutte bellissime, perché Brandon era un bimbottolo bello da togliere il fiato, ma ce n’era una che mi aveva particolarmente colpito, non tanto per la foto in sé, ma per l’episodio correlato ad essa che mia suocera mi raccontò. Nella suddetta foto Brandon doveva avere più o meno cinque anni: era seduto a gambe aperte sul prato di un parco pubblico, di profilo, era scalzo, indossava dei pantaloncini azzurri corti al ginocchio ed una camiciola bianca a mezze maniche e mostrava un cipiglio concentrato sul viso pacioccone semisommerso dai capelli castani. Fra le mani, infatti, aveva un oggetto tecnologicamente molto avanzato per l’epoca, una macchina fotografica con rullino.

La signora Ferrere mi raccontò che suo padre gliel’aveva lasciata fra le mani per andare a prendere qualcosa da mangiare al chiosco del parco, raccomandandogli di fare molta attenzione perché era un oggetto molto prezioso (all’epoca un modello come quello doveva costare quasi mezzo stipendio); Brandon aveva annuito obbediente e aveva cominciato a rigirarsela fra le mani, attento e analitico. Non appena la signora Ferrere, che era rimasta a sorvegliarlo, aveva notato quel suo cruccio, ovviamente aveva deciso di catturarlo con la propria macchina fotografica (e qui mi è sorto il dubbio che, se in una famiglia, sebbene con una struttura estremamente ramificata come quella di Brandon, esistono due o più apparecchi fotografici, questo potrebbe essere indice di una qualche mania ossessiva). Nell’attimo successivo allo scatto della madre, però, Brandon aveva sollevato la testa dallo strano oggetto che aveva fra le mani, aveva osservato ad occhi strizzati l’orizzonte del parco di fronte a sé e poi aveva sollevato la macchina fotografica all’altezza del naso premendo il tasto dello scatto. Sua madre aveva sorriso indulgente e gli aveva fatto un caloroso applauso di apprezzamento, ma Brandon non si era voltato verso di lei regalandole il suo solito sorriso da pacioccone; di tutta risposta le aveva dato le spalle per fotografare un’altra parte del parco e aveva continuare a fare scatti di tutto ciò che lo circondava finché il signor Ferrere non tornò da lui e lo rimproverò per aver sprecato quasi mezzo rullino (da ciò dedussi che all’epoca pure il rullino doveva valere mezza fortuna).

Eppure, quando il papà di Brandon andò a farlo sviluppare, invece di ritrovarsi una decina di scatti futili e privi di senso, si vide sfilare davanti agli occhi dei ritratti del paesaggio del parco molto precisi e particolareggiati, quasi come se suo figlio avesse scelto un preciso dettaglio da immortalare e non avesse ripreso a caso la prima cosa che gli era capitata sotto gli occhi, e senza che nessuno, oltretutto, gli avesse mai insegnato prima di allora ad usare un apparecchio fotografico. Fu allora che la famiglia Ferrere si rese conto che il suo componente più giovane aveva un innato talento per la fotografia, passione che infatti Brandon ha coltivato anche da grande, diventando piuttosto apprezzato nel mondo dell’arte d’impressione su carta.

Adesso, io ritengo davvero che mio marito abbia un rilevante talento in questa arte (tanto più che soltanto lui riesce a cogliere la luce giusta che miracolosamente mi occulti le occhiaie, le rughe ed i buchi della cellulite tanto da rendermi addirittura fotogenica), ma non so se il suo talento sia realmente innato.

La mia modesta opinione è che, a forza di scatti di qua e di flash di là, Brandon abbia interiorizzato l’arte della fotografia, che si deve essere impressa nei suoi geni come la luce fa sul rullino. Niente esclude, però, che questa sua passione potesse essere già iscritta nei suoi geni prima ancora dei numerosi servizi fotografici a cui sarebbe stato sottoposto, data la mania compulsiva di entrambi i genitori di imprimere su carta tutto ciò che era di loro gradimento, fosse uno splendido tramonto o un bidone della spazzatura. D’altronde si sa, chi va con gli zoppi impara a zoppicare e, in un modo o nell’altro, Brandon ha imparato a zoppicare meglio di tutti quanti nella sua tribù familiare.

Le tappe successive della sua infanzia vengono scandite dai vari spostamenti che il papà Ferrere ha operato per lavoro: Brandon festeggiò i suoi sei anni a Parigi, i sette ad Amburgo, gli otto a Copenaghen, i nove a Casablanca, i dieci a Madrid, gli undici a Helsinki e i dodici a Mosca. Sua madre mi rivelò che quelli furono anni di intenso stress per il ragazzino, che a tratti sembrava entrare in una sorta di catalessi apatica, incapace di ricordarsi dove si trovava o che ore fossero: a volte dimenticava persino come si chiamava.

Ma Brandon era un ottimista sin da allora: così, invece, di cedere all’esaurimento nervoso, lo sfruttava a proprio vantaggio, facendo finire in cura psichiatrica la maggior parte di coloro che lo circondavano mentre lui, tranquillo, viveva serenamente la sua confusione mentale. Ovviamente questo suo atteggiamento da genio incompreso non piaceva ai suoi coetanei (che oltretutto avevano capito il suo trucco e non avevano alcuna intenzione di finire in cura da uno strizzacervelli ancor prima di essere giunti alla pubertà), così quegli anni non furono caratterizzati da legami particolarmente amichevoli per il piccolo Brandon.

Poi giunse l’adolescenza e con essa tutti i problemi correlati alla creazione della propria immagine e alla costruzione della propria personalità e ancora una volta Brandon si distinse (secondo me in meglio) dai suoi coetanei: mentre loro non avevano nemmeno un briciolo di personalità e nonostante ciò si sentivano soddisfatti della loro apparenza, Brandon aveva una personalità spiccata e molto sicura di sé, ma allo stesso tempo non tollerava la propria immagine.

La signora Ferrere mi disse che era mortalmente ossessionato dal suo peso: in effetti le foto di quell’epoca testimoniano il fatto che fosse un ragazzone robusto, con tanto di maniglie dell’amore e collo taurino, ma non era né grasso né obeso, soltanto lievemente in soprappeso. Eppure se ne faceva una colpa e non faceva altro che dedicarsi con estrema dedizione alle diete e all’esercizio fisico, sperando di poter rimediare a quello che riteneva un difetto spaventosamente aberrante. Un'altra cosa che non sopportava di sé, mi rivelò sempre sua madre, era l’incontenibile altezza: infatti, mentre a tredici anni i suoi coetanei non sfioravano ancora il metro e cinquanta, lui raggiungeva addirittura il metro e settanta.

Ma, si premurò sempre di aggiungere la signora Ferrere, quelle non erano altro che le solite fissazioni tipiche dell’adolescenza e ben presto scomparvero, insieme ai diversi chili in più e alla goffaggine legata ai numerosi centimetri di altezza. Io le rivolsi un sorriso tirato: avrebbe dovuto vedere come ogni mattina suo figlio si esaminava di nascosto la pancia allo specchio del bagno o cercava inutilmente di non picchiare la testa contro lo stipite della porta d’ingresso curvando le spalle (e rimediandosi, di rimando, stellari colpi della strega). Ma mi resi conto che era meglio lasciarla nella sua rincuorata ignoranza.

Quando, però, io e la mia futura suocera avevamo ormai cominciato a prenderci gusto a raccontarci a vicenda divertenti aneddoti sul nostro beneamato pupone, Brandon riapparve in salotto e il sorriso che aveva sul volto gli morì in un attimo. Lanciò un’occhiata torva prima in direzione dell’album e poi della madre e, prima che io o lei potessimo aprire bocca, si slanciò atleticamente verso il tavolino, ghermì l’album e se lo strinse al petto riservandoci uno sguardo tradito.

Tutto d’un tratto quell’omone che mi sovrastava dal suo metro e novanta d’altezza mi parve tornare piccolo ed indifeso come il ragazzino in soprappeso delle foto. Ma poi, come se se ne fosse accorto, Brandon adottò un lieve sorriso di cortesia e a denti stretti ci invitò ad uscire da quel cupo salotto per fare un bel giro nel giardino di proprietà che si stendeva sotto di noi; solo quando notai che aveva formulato quella proposta proprio mentre fuori stava infuriando una tempesta di pioggia, vento e grandine che forse preannunciava l’arrivo di qualche tornado, capii che il mio pupone era sempre rimasto il ragazzetto goffo e timido di quelle foto e che molto probabilmente lo sarebbe stato per sempre. Non so voi, ma questa semplice considerazione impregnata di sano intuito femminile mi rese immensamente contenta.

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Capitolo 3
*** Capitolo Primo - L'infanzia di Brandon (Brandon's version) ***


Capitolo Primo - L'infanzia di Brandon (Brandon's version)

L’infanzia di Brandon (Brandon’s version)

 

D’accordo, dimenticate tutto quello che vi ha detto Anita. Non me ne volere, tesoro, ma non si possono raccontare balle a gògò e pretendere che la gente ci creda: mica la massa è tanto stupida come i politici si gongolano di credere. Il fatto è che la mia infanzia fu tutt’altro che rose e fiori: fu più spine e rovi, come d’altronde è quella della maggior parte della popolazione mondiale.

Avete presenti quelle splendide pubblicità della famiglia modello a colazione, in cui la mamma è sempre ai fornelli e truccata come una top model, il papà felice e sorridente con una perfetta messa in piega anni ’50 e i bambini saltellano come cuccioli di lepri da una parte all’altra del tavolo impazienti di fare colazione per poi andare a scuola? Sì, le avete presenti? Bene. La mia famiglia era esattamente il contrario, soprattutto a colazione.

Immaginate la scena: ore 6 del mattino, cucina semisommersa dalle ombre della notte, atmosfera soporifera altamente contagiosa. A capotavola mio padre, frettolosamente vestito per andare a lavoro, la mascella grave, la linea delle labbra contratta in una smorfia infastidita; mia sorella Grace e mio fratello Larry rispettivamente ai due lati della tavola, lei che rigira automaticamente il cucchiaino nella tazza di latte senza mai assaggiarne un sorso, lui che ad occhi chiusi continua a russare con la testa in precario equilibrio su una mano; all’altro capo della tavola mia madre, in vestaglia e bigodini, che mentre si porta alla bocca un biscotto osserva torva mio padre nella tacita speranza che qualcosa gli vada di traverso; infine io, seduto accanto a lei, con la testa abbandonata sul tavolo ed il cuscino ancora stretto al petto. Questa era la nostra famiglia alle 6 di un mattino qualunque, come credo che, con tutte le varianti del caso, fosse anche la vostra. Ma, vi assicuro, la mia era di certo più incasinata di quanto lo fossero tutte le vostre messe assieme.

Ora, prima di continuare, mi sembra però doveroso farvi sapere che ci sono moltissime cose che io odio con tutto me stesso, cose come l’ipocrisia, l’indifferenza, i terroristi, la droga, la sveglia puntata alle sei, il mobbing del mio capo (diamine, forse questo dovevo evitare di dirlo…), gli slip ultraderenti, le diete ipocaloriche, i programmi massacranti della mia personal trainer, i clienti che mi scambiano la pancia per la faccia e via dicendo, ma la cosa che mi fa imbestialire di più in assoluto è il vittimismo. Quindi, sebbene sappia che molti che hanno vissuto un’infanzia come la mia sarebbero entusiasti di farlo, io non farò la vittima. Ciononostante se desiderate provar pena per me, siete liberi di farlo…basta che siate furbi e non me lo facciate capire.

Tanto per cominciare, io so che la mia venuta al mondo non avvenne per puro caso.

Sì, certo, chiunque di voi creda in un Principio Superiore in opposizione al Caos starà dicendo che nessuno mai viene al mondo per puro caso, ma che ognuno nasce per una ragione, per svolgere una funzione più o meno utile in questo mondo; concordo con voi, ma non è questo quello che intendo dire. Voglio dire che il mio concepimento fu il frutto di un progetto ben preciso, un progetto che non stava tanto scritto nella mente di Dio, quanto piuttosto in quella dei miei genitori.

Dopo quasi dieci anni di matrimonio e due figli, infatti, mia madre e mio padre erano entrati in una crisi che pareva irreversibile: non si parlavano, non si toccavano, non si guardavano, se potevano cercavano persino di non ritrovarsi insieme nella stessa stanza. Insomma, non sopportavano più la presenza l’uno dell’altro.

I miei due fratelli più grandi, Grace e Larry, che hanno rispettivamente sei e otto anni più di me, sono stati per me dei fedeli cronisti della situazione familiare precedente alla mia nascita. E, come è logico supporre, Grace stava dalla parte di mia madre, Larry da quella di mio padre.

<< Tu non hai idea di che tormento fosse per mamma dover sopportare quel troglodita di papà - mi diceva Grace sventolando nervosamente la mano in aria come se si fosse scottata con la tazza di tè che aveva in mano - Si comportava come un selvaggio: aborriva la doccia, disseminava vestiti dappertutto, lasciava il lavandino pieno di peli, schizzava sempre la tavoletta del water e, oh…non puoi immaginare in che condizioni fossero le sue mutande. >>

<< Perché, tu le hai viste? >> le domandavo innocentemente.

Di tutta risposta, Grace spalancava la bocca portandosi una mano sul cuore, esattamente come le raffinate signorine inglesi di cui amava tanto leggere.

<< Santo cielo, certo che no!! Mi sono sempre fatta bastare la descrizione che mamma me ne faceva. >>

<< Tutte stronzate!! - sbraitava invece Larry con la sua usuale finezza da scaricatore di porto, spintonandola sempre tanto forte da farle versare metà del suo tè sul pavimento - La verità è che mamma si comportava come un fottuto despota: “togliti quelle scarpe prima di entrare in bagno!”, “non toccare il centrotavola con quelle mani sudice!!”, “sistema immediatamente il casino che hai combinato!!” >>

<< Guarda che queste cose le gridava a te, non a papà. >> interveniva Grace torva, stringendo più saldamente la tazza di tè fra le mani.

<< Beh, fa lo stesso!! - la liquidava lui con un gesto noncurante - E poi, non appena papà le chiedeva gentilmente un favore, lei era più acida di un fottuto succo d’arancia: “stiratele tu le camicie!!”, “col cavolo che ti cucino qualcos’altro!!”, “non ci sono piatti puliti? Allora che aspetti a lavarli??” >>

<< Gentilmente?! Ma quando mai papà chiedeva qualcosa gentilmente?? - lo rimbeccava Grace, sollevandosi di scatto dalla poltrona su cui era seduta per fronteggiarlo dall’alto del suo minaccioso metro e sessanta - Un uomo delle caverne sarebbe stato cento volte più cortese di lui!! >>

<< Ti sfido ad essere cortese con un cazzo di bull-dog in procinto di azzannarti! >> ribatteva Larry, alzandosi lentamente dal bracciolo della poltrona per riservarle un sorrisetto sarcastico dai suoi dieci centimetri di altezza in più.

A tal punto imbestialita (ma comunque raffinata), Grace gli versava regolarmente in faccia ciò che era rimasto del suo tè e, sorpreso (ma comunque zotico), Larry le rovesciava addosso i più leggeri improperi che conosceva, perché d’altronde era sempre sua sorella.

Ecco, osservando questa scena più e più volte, arrivai a rendermi conto che le liti fra mia madre e mio padre prima della mia nascita dovevano essere state pressoché identiche a quelle che intercorrevano fra Grace e Larry (tranne che per il linguaggio osceno di mio fratello, ovviamente).

Data dunque la gravità della crisi familiare che stavano vivendo, i miei genitori (ergo mia madre) decise di andare a consultare un medico specializzato in terapie di coppia o in qualcosa del genere insomma, per capire quale fosse il problema reale alla base di quella mal celata insofferenza che l’una provava per l’altro: non poteva certo essere soltanto la propria autorevolezza o la sporcizia del marito, le diceva il suo intuito. Di tutta risposta, il medico/psicologo/agente matrimoniale, chiamatelo come volete, le rivelò che c’era un’unica soluzione a tutti i problemi in cui una coppia poteva incorrere: un figlio.

Mi immagino perfettamente la faccia perplessa di mia mamma nell’udire la sua risposta.

<< …mi sta prendendo in giro? >>

<< Nossignora - dovette ridacchiare insulsamente il medico - Vedrà che un figlio aggiusterà tutto quanto. >>

<< Guardi che io e mio marito abbiamo già due figli e, più che aggiustare tutto, ci stanno portando sull’orlo di un collasso nervoso. >>

<< Oh, ma vedrà che con il prossimo sarà diverso. Il terzo figlio è sempre il migliore: non ha mai sentito dire che tre è il numero perfetto? >>

Tanto disperata da credere a una fesseria del genere, mia madre si convinse che solo la presenza di un’altra piccola peste avrebbe risolto i problemi che aveva con suo marito: così ne parlò a mio padre e lui, che quella sera era appena tornato dal Bangladesh e non capiva più se fosse notte o giorno, si lasciò scappare un assenso assonnato per poi piombare finalmente in fase rem.

La sera successiva, allora, mia madre smise la vestaglia e i bigodini ed indossò la lingerie della sua prima notte di nozze, infilandosi emozionata sotto le coperte in attesa che il marito uscisse dal bagno. Non appena vide mio padre raggiungerla a letto sbadigliando, in ciabatte e pigiama a pois azzurri e verdini, non fatico a credere che la sua esaltazione fosse rapidamente sfumata via per lasciar spazio al più triste ribrezzo. Ma ormai era troppo tardi: non appena mio padre scoprì la sua striminzita biancheria intima, infatti, non ci fu verso di dissuaderlo dallo sfilargliela.

E così quella notte, volenti o nolenti, i miei genitori mi concepirono.

In realtà devo ammettere che per i miei primi cinque/sei anni di vita rappresentai una presenza benefica per il loro rapporto di coppia: nella memoria della mia infanzia più lontana, infatti, non riesco proprio a ricordare di averli visti litigare una sola volta e Grace e Larry mi danno ragione su questo. I problemi ricominciarono nel giorno del mio settimo compleanno: come Anita ha giustamente ricordato, allora risiedevamo tutti ad Amburgo ed io, mi ricordo, ero felice come una pasqua. Peccato che nessuno mi capisse.

<< Leri, Leri, Leriii!! >> urlavo in preda alla frenesia correndo da una finestra all’altra del salotto, già addobbato in vista del Natale.

<< Brandon ti sta chiamando, Larry. >> si limitò a tradurre una annoiata Grace tredicenne seduta sul divano senza staccare gli occhi dalla rivista di moda adolescenziale che teneva in mezzo alle gambe. Di tutta risposta Larry, che allora aveva circa quindici anni, emise un rantolo assonnato e si sistemò meglio il cuscino sotto la testa, continuando a dormicchiare all’altro capo del divano.

Io mi voltai a guardarlo e sbuffai rumorosamente; poi corsi verso di lui e cominciai a scuoterlo con tutta la mia forza (che allora, per un bambino di soli sette anni, era abbastanza destabilizzante). Spaventato, difatti, Larry spalancò gli occhi come se avesse percepito una forte scossa di terremoto.

<< Ehi, cos…cazzo c’è, Brad?! >>

<< Je veux che du mit dem Schnee con me spielst!! >> gli risposi con il mio misto di francese, inglese e tedesco (un connubio dislessico dovuto a quei continui cambi di Paesi di cui la mia dolce Anita ha accennato sopra).

Larry mi lanciò un’occhiata allucinata, come se avesse avuto di fronte un extraterrestre; poi si rivolse a mia sorella con una vocina sommessa che non era affatto da lui.

<< Che ha detto…? >>

<< Ha detto che vuole uscire a giocare con la neve. >> gli tradusse scocciata Grace, che era l’unica in famiglia a capire la mia lingua ibrida e che, a dispetto di quanto si possa credere, non ne era affatto contenta.

Ancor meno contento di lei, Larry si passò una mano sul viso assonnato ed emise un gemito sconsolato.

<< Leriii… >> mi lamentavo intanto io, saltellando irrequieto sul posto.

<< Brad, fa un freddo cane là fuori… >>

<< Dai, dai… allez, allez!! >>

<< Allez un fico secco! Non ho voglia di gelarmi le chiappe. >>

<< Leri, SCHNELL!! >>

<< Larry, ti conviene portarlo fuori. - intervenne a quel punto Grace, alzando gli occhi al cielo - Sai quanto è testardo quando si mette in testa una cosa, soprattutto quando è il suo compleanno: sarebbe capace di gridare per tutta la sera. >>

Mio fratello sbuffò, mi lanciò un’occhiata torva e dal cruccio determinato che dovette vedere sul mio viso si rese conto che, come sempre, mia sorella aveva ragione; allora si alzò di malavoglia dal divano, mi lanciò il giubbotto e la sciarpa e poi cominciò ad infilarsi gli scarponi. Elettrizzato dalla prospettiva del mio nuovo divertimento, io non facevo altro che corrergli attorno come un fedele cagnolino e poi, quando lo vidi imbacuccato per bene, lo afferrai per la mano e lo trascinai con un sorriso verso la porta di casa.

<< Dai, Leri, schnell! >>

<< Sì, sì, è inutile che continui a ripeterlo, tanto non capisco una fottuta sillaba di tedesco. >>

Ricordo che sguazzai nella neve di fronte a casa con mio fratello (che dopo i primi minuti di disorientamento, ci aveva preso anche più gusto di me) per quello che mi parve un tempo splendido ed interminabile, finché non udii il rombo sordo e poi vidi la carrozzeria grigio chiara della Volkswagen dei miei genitori che faceva per entrare nel box dal sapore gotico adiacente alla villetta.

Con un urlo esaltato, mi sollevai dal petto di Larry e corsi in direzione dell’auto, impaziente di lanciarmi fra le braccia dei miei e di ricevere il mio regalo di compleanno, ma il destino volle che sprofondassi in una collinetta di neve, cadendo lungo a faccia in avanti. Più divertito che infastidito da ciò, mi risollevai in ginocchio sputacchiando neve di qua e di là e fu allora che distinsi le sagome di mia madre e di mio padre accanto all’auto, intente a fissarsi in cagnesco stringendo ciascuna le estremità dello stesso pacco regalo: il loro atteggiamento aggressivo mi stupì così tanto da impedirmi di balzare in piedi e di continuare la mia corsa verso di loro. Ad ogni modo dubito che sarebbe servito a qualcosa: quando due persone muoiono dalla voglia di litigare, non c’è nulla che possa impedirglielo.

<< Leva quelle manacce, Adolphe! >>

<< Sarò io a darglielo, Thandie!! >>

<< Glielo darò io, dato che sono stata io a sceglierlo!! >>

<< Dopo due estenuanti ore di indecisione e dodici battibecchi con le commesse?! Scordatelo!! >>

<< Sei stato tu a farmi innervosire e sai che quando sono nervosa odio dover scegliere!! >>

<< Non scaricare la colpa su di me, perché se avessimo scelto quello che dicevo io, adesso saremmo a casa da un pezzo! >>

<< Quello che dicevi tu?! Ma se non hai un briciolo di buonsenso nel fare i regali!! Credi che al bambino sarebbe interessato un mini manuale di economia aziendale?? >>

<< Beh, sicuramente prima o poi gli sarebbe tornato utile a differenza di questo stupido peluche!! >>

<< D’accordo, se il regalo non ti piace, sarò io a darglielo!! Mollalo! >>

<< No, sono stato io a pagarlo, quindi glielo darò io!! >>

La forza che i miei genitori esercitarono nel tentativo di staccare il pacco regalo l’uno dalle mani dell’altra e viceversa fu tale da farlo schizzare lontano da entrambi fino a farlo precipitare a pochi metri di distanza dal punto in cui ero caduto io. Confuso, gli lanciai una rapida occhiata e poi tornai a fissare i miei genitori nella tacita attesa di una spiegazione sensata, ma loro non mi guardavano: erano ancora intenti a inveire l’uno contro l’altra con tutta l’energia che avevano in corpo.

<< Sei la solita sfrontata, Thandie, esattamente come quando ti ho conosciuto!! >>

<< Ah sì? Ha parlato mister cortesia!! E pensare che una volta ti piaceva la mia sfrontataggine; cos’è, hai per caso trovato qualcuna che riesce ad esserlo ancora di più?! >>

Mio padre si irrigidì tutto, diventando rosso paonazzo sotto il cappello imbottito che aveva in testa.

<< Questo è troppo, Thandie. Hai oltrepassato il limite. >>

<< No, Adolphe. Ho centrato il segno. >>

Rimasero a fissarsi immobili, rigidi come due grossi pupazzi di neve imbacuccati dalla testa ai piedi; poi mia madre si voltò di scatto, il viso contratto in una smorfia furiosa, e si diresse a grandi falcate verso casa. Io la seguii con lo sguardo finché non notai che mio padre stava rapidamente salendo di nuovo in macchina, rimettendola in moto ed ingranando la retro. Lo vidi sgommare nel vialetto d’entrata e poi allontanarsi a tutto gas nella strada principale, lasciandosi dietro una striscia di neve scura come la pece.

Rimasi immobile, in ginocchio nella neve, per un tempo che mi parve infinito, sforzandomi strenuamente di capire che cosa fosse appena successo davanti ai miei occhi. Poi udii un rumore sordo di passi dietro di me e percepii il corpo di Larry che si piegava sulle ginocchia accanto a me, in assoluto silenzio.

Io ero ancora intento a fissare il punto della strada bianca in cui l’auto di mio padre era scomparsa alla mia vista, ma non riuscii a non notare di sbieco la mano di Larry che si allungava verso il pacco regalo, lo stringeva e lo ripuliva delicatamente dalla neve che lo ricopriva. Poi lo sentii avvolgermi le spalle con un braccio e percepii il calore del suo respiro nell’orecchio.

<< Buon compleanno. >>

Mi porse gentilmente il pacco regalo che stringeva nell’altra mano, ma io non lo presi. Lentamente, invece, lo abbracciai e sprofondai il viso nel suo giubbotto a vento, cominciando a piangere.

 

Io non sono un tipo dal pianto facile. Pensate che un giorno mia madre mi rivelò che persino nel momento in cui tirai la mia prima boccata di ossigeno, nel momento in cui qualunque individuo scoppia a strillare, lei ebbe la sensazione che invece di piangere io stessi ridendo. Ma quel giorno, quel 3 dicembre di quell’anno, fu uno dei giorni più tristi di tutta la mia vita.

E, non bisogna dimenticarlo, fu anche il giorno in cui il progetto di ricostruzione dei miei genitori fallì miseramente: da quel momento in poi, infatti, entrambi smisero di sforzarsi di andare d’accordo e ben presto anch’io mi abituai alle loro sadiche frecciatine e alle loro occhiate torve che avevano regolarmente luogo quando nelle festività di famiglia erano ancora costretti a coesistere nella stessa stanza.

Fortunatamente, però, non ebbi il tempo di saggiare appieno l’acidità del loro pre-divorzio perché il mio enorme background familiare mi coinvolgeva tanto da distogliermi dal clima teso di casa: non ho ancora capito come, ma in realtà possiedo circa trenta parenti (più relativi figli e nipoti) sparsi in giro per il mondo e tutti quanti, soprattutto nelle grandi feste comandate, hanno l’usanza di tornare al nostro comune ovile, ossia a Toronto, per condividere le loro incredibili esperienze con tutto il resto della loro tribù (mi piace questo termine, Anita, ho deciso che lo userò anch’io da questo momento in poi!!).

Grazie ai loro divertenti resoconti provenienti da ogni angolo del mondo, quindi, ed al fatto che io, essendo il più piccolo ed il più buffone della famiglia, fossi il loro beniamino, quegli anni non furono poi così terribili come avevo temuto: devo ammettere che la vicinanza e l’affetto di tutti i miei parenti e, anche se in sede separata, dei miei splendidi genitori, mi aiutarono a superare tante altre difficoltà davanti a cui la vita mi pose, a cominciare da quella più ardua di tutte, quella che tutti chiamano “adolescenza”, termine che è in realtà un eufemismo per “l’età in cui il tuo corpo diventa così stronzo da farti i peggiori scherzi della natura fino ad arrivare a farti odiare te stesso, sebbene tu sappia che sei una persona meravigliosa” (grr…non potete immaginare quanto mi sapeva di falso quando me lo sentivo dire allora).

Allora, secondo la mia modesta esperienza sul campo, “l’età in cui il tuo corpo…etc etc” è quel periodo della vita in cui, grazie alle esplosioni di ormoni, vorresti fare solo tre cose:

  1. spaccare la faccia a chiunque, anche senza motivo (ma di solito un motivo lo si trova sempre);
  2. fare sempre, continuamente, il contrario di ciò che gli adulti considerano giusto e ragionevole;
  3. fare sesso con ogni bella ragazza che incroci per strada senza preoccuparti di conoscerla.

Guai a voi, e in particolare mi rivolgo ai maschietti, se osate negare anche solo uno dei tre punti suddetti, perché mentireste alla grande: nobili o no, gioiosamente conseguiti o soltanto fervidamente agognati, sono questi i tre grandi desideri dell’adolescente maschio.

Io realizzai il primo all’età di quindici anni: all’epoca risiedevo a New York, i miei erano già divorziati da un pezzo ed io avevo deciso di stare con mio padre, sia perché avevo scoperto che mi piaceva da matti andare in giro per il mondo ogni quattro mesi sia perché avevo testato che non riuscivo a sopportare le acrobazie erotiche in cui mia madre si cimentava con il suo nuovo compagno (quelle di mio padre con la sua nuova donna erano molto meno rumorose per un povero adolescente in calore come ero io all’epoca).

A New York frequentavo una delle classiche scuole superiori americane, sapete, quelle in cui la scolaresca è suddivisa in quattro categorie: i quarterback (= i ragazzotti sportivi tutti muscoli e poco cervello), le cheerleader (= le ragazzette tutte cosce e poco meno cervello), i bulli (= i ragazzoni che, essendo rifiutati dai quaterback per la loro mancanza di stile, sfogano la loro frustrazione a suon di botte e calci su chiunque capiti loro sotto tiro) e gli “sfigati” (= la massa indifferenziata di ragazzi e ragazze che non rientrano in nessuna delle tre categorie precedenti).

Ecco, all’epoca io facevo parte di questa ultima categoria ed in un bel giorno piovoso e tetro in cui ero uscito di casa senza ombrello beccandomi l’intero diluvio universale, ero inciampato nella gamba di un banco provocando un terremoto del terzo grado Richter, avevo ricevuto un elettrizzante “D -” nel compito di chimica ed una rintronante pallonata di football in piena faccia, un corposo gruppetto di bulli mi aveva adocchiato ed avvicinato nello spogliatoio maschile, sperando di poter sfogare su di me l’invidia che avevano provato per tutto il tempo nei confronti del quarterback Henry Woodland, che li aveva letteralmente stesi durante la partita.

<< Ehi. >> mi richiamò un tizio con una voce roca che mi ricordò quella dei mafiosi italiani del Padrino.

Io mi voltai verso di lui con metà della faccia gonfia e un occhio nero socchiuso, il piccolo regalo che mi aveva lasciato il pallone.

<< Hai proprio una faccia di merda. >>

Squadrato il gruppo di poveri imbecilli, decisi di prenderla con filosofia.

<< Grazie. E’ il miglior complimento che mi aspettassi dopo un colpo del genere. >>

Gli feci un mezzo sorriso e tornai a rivolgere la mia attenzione verso l’armadietto, ma il capobanda non dovette essere contento di quella mia risposta.

<< Ehi. >>

Mi voltai di nuovo, sfilandomi la maglietta dalla testa.

<< Non mi piace come mi hai guardato. >>

<< Quando, scusa? >>

<< Poco fa. >>

Mi strinsi nelle spalle, raccogliendo l’asciugamano dalla panca accanto a me.

<< Colpa della mia faccia di merda: ti assicuro che non era mia intenzione. >>

Incollerito per la mia serafica condiscendenza, il capobanda strinse i pugni e mi esaminò dalla testa ai piedi in cerca di qualcos’altro da dire e, sfortunatamente per lui, trovò il mio punto debole.

<< Sei una palla di lardo. >>

Mi immobilizzai con l’asciugamano attorno al collo.

<< Che cos’hai detto? >>

<< Ho detto che sei una palla di lardo. Con la tua ciccia potrebbero farci chili di sapone. >>

I suoi compagni risero di gusto nell’udire la sua considerazione, sgranchendosi i pugni. Io rimasi immobile, più che altro stupito dal fatto che quel tizio che mi sapeva di ritardato conoscesse il processo di fermentazione del sapone, ma quando vidi partire il suo pugno mi mossi con la stessa rapidità di un serpente, riuscendo ad evitarlo per un soffio.

Erano due anni che, per modellare a mio piacimento quel mio corpo che non sapeva come assorbire i grassi se non accumulandoli sottopelle, praticavo ogni tipo di sport, dal jogging alla kick-boxing: dunque, sotto quella che a prima vista poteva sembrare semplice carne molla e flaccida, avevo sviluppato dei muscoli da lottatore che neanch’io sapevo di avere fino a quel giorno.

La mia ignoranza, però, non rese meno efficace il colpo che rifilai di rimando al capobanda, che finì lungo steso per terra con un urlo di sincero dolore cozzando rumorosamente contro la panca della fila di armadietti di fronte. I suoi compagni gli lanciarono un’occhiata sconvolta, ma ciononostante o forse proprio per vendicarlo, si avventarono su di me con la furia di un branco di lupi inferociti.

Vedete, quando io perdo le staffe, cosa che succede assai raramente dato che ho sempre il sorriso sulle labbra, divento l’essere più pericoloso sulla faccia della terra: se non mi credete, vi invito a chiederlo al gruppetto di quei poveri imbecilli, se hanno ancora il coraggio di ricordare quello scontro in cui avrei finito per spedirli tutti all’ospedale se il quarterback Henry Woodland, che aveva assistito da lontano al nostro breve diverbio verbale e poi alla rissa, non mi avesse fermato e riportato alla ragione.

L’unica cosa che so è che da quel momento in poi nessun altro ragazzotto frustrato osò minacciarmi e che Henry, affascinato dalla mia ironia da buffone e dalla mia sottovalutata forza, mi accolse sotto la sua ala protettiva da quarterback, rivelandosi allora come oggi il mio miglior amico. E che, ovviamente, fu in quel momento che riuscii ad esaudire il primo dei tre desideri più agognati da un adolescente maschio, quello di fare una bella e sana scazzottata.

Il secondo, beh…dire che sono riuscito ad esaudirlo una volta sola sarebbe una palese menzogna. Ogniqualvolta mio padre o mia madre mi ordinavano o mi consigliavano di fare qualcosa, difatti, la mia risposta era puntualmente negativa (o comunque contraria all’ordine/richiesta ricevuta).

<< Brandon, porta fuori la spazzatura dopo cena. >>

<< No, lo faccio domani mattina. >>

<< Brandon, tesoro, togliti le scarpe prima di entrare in bagno.>>

<< No, tanto sono pulite. >>

<< Brandon, puoi rimettere ordine in cucina?>>

<< No. >>

<< Brandon, vuoi rifarti il letto? >>

<< No. >>

<< Brandon, vuoi venti dollari per uscire con gli amici? >>

<< No…(comprensione tardiva e relativa smorfia frustrata)…cazz!! >>

Per quanto riguarda il terzo desiderio…mah, io ritengo che alla fine, se non proprio fisicamente, almeno mentalmente nella privacy della propria camera ognuno di noi maschietti abbia fatto sesso con una ragazza bellissima e sconosciuta. Ma io sono qui per raccontarvi la mia esperienza, quindi vi racconterò cosa è successo a me.

Io l’ho fatto davvero, fisicamente parlando, con una ragazza molto bella che, tutto sommato, non conoscevo quasi per niente; non chiedetemi come ci sono riuscito perché non lo so neanch’io. Avevo diciannove anni, un fisico che stava cominciando a somigliare più a quello di un atleta imponente che a un obeso, un’altezza al di sopra della media che metteva soggezione ed una faccia simpatica: credo che furono questi i presupposti per cui cominciai ad intrigare le ragazze.

All’epoca mi piaceva uscire insieme alla comitiva di Henry, di cui ben presto grazie alla mia bravura per le imitazioni ero diventato la mascotte, e girare locali e piano bar il sabato sera. Quella sera, non so come (credo che fossi stato così impegnato per tutto il tempo a far ridere gli altri da non accorgermi di dove stessimo andando), finimmo in una discoteca psichedelica nei sobborghi del Bronx. Non rappresentava proprio il mio habitat ideale, ma ero giovane, avevo voglia di divertirmi e di fare cose fuori dall’ordinario, quindi mentre i miei amici si scolavano birre e cocktail a volontà (io ero astemio così come lo sono ora, perché basta mezzo bicchiere di vino per mettermi k.o.), vidi questa ragazza, la ragazza più bella che avessi mai visto fino ad allora. Era afroamericana, un incrocio stupendo, con la pelle color onice, corposi capelli ricci e due occhi di mogano che mi stregarono sin dal primo momento in cui li incrociai. Non mi resi conto di essere stato ipnotizzato da quel suo sguardo ancestrale finché non mi accorsi di essermi avvicinato a lei e di stare lì a fissarla a bocca aperta come un pesce lesso.

Non ricordo una sola parola di ciò che ci dicemmo, a dir la verità non sono neanche sicuro che avessimo davvero parlato, sia perché non mi ricordo neanche lontanamente il suo nome, sia perché la musica e la luce psichedelica di quel posto infernale mi fanno tuttora ripensare a quell’episodio come ad una fantasmagoria ipnotica. So solo che ad un certo punto mi ritrovai con lei nel bagno degli uomini, impegnato a tenerla in equilibrio sul bordo di un lavandino mentre con l’altra mano mi reggevo (e di nascosto guardavo la nostra immagine riflessa, mi vergogno a dirlo ma è vero) dallo specchio di fronte. Se devo essere sincero, e con voi devo esserlo (Dio, ti prego, fa che Anita non stia leggendo tutto questo), quello fu il sesso più eccitante e trasgressivo che feci concretamente in tutta la mia vita (senza, dunque, contare le mie fantasie erotiche mentali). Eppure, nel momento in cui finimmo ed io avrei desiderato tanto tenere quel suo corpo magnifico ancora un altro po’ fra le braccia, la ragazza mi fece cenno di spostarmi, saltò giù dal lavandino, raccolse da terra il suo intimo, lo ficcò nella borsetta e mi ringraziò con un sorriso per poi darsi una sistemata allo specchio e sculettare fuori dal bagno senza degnarmi di un solo sguardo.

Credo che fu in quel momento, mentre triste come mai la osservavo abbandonarmi mezzo nudo nel bagno degli uomini, che passai dall’adolescenza all’età adulta: perché fu allora che capii che il sesso più trasgressivo si rivela essere sempre quello più squallido.

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