Myricae

di Celtica
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Quarto capitolo ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


Cap 1

Al tuo cane,
perché ti ha amato e ti amerà
fino al suo ultimo giorno.


Capitolo primo

Vado a casa e casa non ce l’ho.
Vado a casa e casa non la so.
Ho provato a stare senza te…
Son perduto e son tradito.
Ma ti sto annusando,
e ti sto cercando … e non so mica dove sei.
Stanco più stanco al vento.
Che piove già… Sta gocciolando.
In questa notte sola che… Cancella i passi e il tempo.
Cancella me, cancella il mondo.
(Tobia di Zucchero)



L’aria ha l’odore della pioggia.
È sollevando il muso al cielo che se ne accorge. Presto si bagnerà. Non ha un riparo, non sa dove nascondersi. E l’acqua gli porterà via quell’unica traccia rimasta.

Come tornerà a casa?
È sicuro che il suo padrone lo stia chiamando.

Grida più forte! Pensa, mentre avanza lungo la strada.

Quando il portellone dell’auto si è aperto, ricorda di essere sceso con un salto, di aver scodinzolato vedendo le campagne.
Non lo portavano mai in campagna, conosceva appena il profumo dell’erba, o il tocco morbido della terra bagnata; e ricordava il colore degli alberi contro il cielo, ma arbusti diversi, che non riuscivano a riempire di verde il parco. Nulla rispetto all’immensità che lo circonda.
Se loro fossero ancora con lui, ora potrebbe dedicarsi a tutti gli odori che ha intorno, potrebbe mettersi a scavare la terra e strofinarla con il muso. Potrebbe inseguire pietre, mordere bastoni, correre contro il vento.

Sono passate ore da quando l’auto è ripartita.

Lui si chiede come sia possibile che lo abbiano dimenticato lì… Ha corso con tutta la forza che aveva quando li ha visti andare via.
Come hanno fatto a non vederlo?
La ruota ha strisciato appena contro la sua gamba, lo sa, ha dovuto leccare quel punto a fondo perché smettesse di bruciare.

Si sente perduto. Ha paura, ha paura di non ritrovarli, ha paura che possano accorgersi che lui non è con loro. Si arrabbieranno, ne è sicuro.

Sa di aver sbagliato spesso, nell’ultimo periodo.
La casa era sempre piena di grida, di indici puntati contro di lui. Di mani sollevate, pronte a colpirlo.
A niente serviva mettere la coda tra le gambe, chinare la testa e chiedere perdono. Scodinzolava per scusarsi, in modo lieve, quasi per timore di creare disturbo.

Dove sei…

Comincia a sentirsi stanco.
La paura, il vento che gli arruffa il pelo, la solitudine, sono tutte cose che lo distruggono dentro. Mette una zampa davanti all’altra, sperando di vedere casa.
Ma sta iniziando a non sentire più nulla… L’odore del suo padrone è scomparso. È durato un istante, l’istante in cui erano entrambi fuori dall’auto, un momento prima che il suo amato risalisse senza di lui.

Cosa dirà Marta quando non lo vedrà rientrare? Loro non possono stare soli, lui deve proteggerli.

Prende a correre, di nuovo, come se il galoppo riuscisse a riportarlo a casa.
Sposta tutto il peso su una zampa e, mentre salta, resta un istante senza toccare terra. È uno sforzo, per lui che non è abituato a correre.
Rallenta, passa dal trotto all’ambio finché non si ferma.

Sta facendo buio. Sta iniziando a piovere.

Pensa al suo amore, il suo padrone lontano, che non sa ancora di essere solo. Cosa dirà… Cosa farà quando, aprendo il portellone, troverà il bagagliaio vuoto?
Finalmente capisce: deve aspettare.

Presto, molto presto, i fari dell’auto lo accecheranno, il suo padrone tornerà a prenderlo, e Marta sarà di nuovo felice, con lui.
È certo di essere stato perdonato dopo il loro gioco, dopo la sgridata della Mamma. È più che sicuro che Marta gli si getterà al collo e lo stringerà forte, riderà di nuovo con lui, come quando era solo un cucciolo.
Ha sette mesi adesso, un bisogno impellente di mordere, di muoversi, di giocare.

Siede a lato della strada, nella cunetta, e ripensa a ciò che ha passato in quei suoi mesi di vita. Ricorda il sapore del latte di sua madre, ricorda i suoi fratelli, che lo schiacciavano sotto di loro, ricorda l’uomo, quello alto, che l’ha malamente separato dalla sua famiglia.

Ricorda i primi giorni, il buio della scatola, il viso di Marta… La cosa più dolce. Ricorda i biscottini a forma d’osso, il naso premuto nella sua pipì, quando il suo padrone voleva solo insegnargli…

E ricorda la pioggia.
Una pioggia diversa da questa, una pioggia vista attraverso un vetro, quasi desiderata, quasi temuta.
Eppure Marta l’ha sempre odiata… Odiava andare a scuola quando pioveva, odiava separarsi da lui.

Fino a quel giorno.

Aveva cambiato i denti da poco, e ricorda, ricorda quasi con dolcezza la risata tenera che faceva Marta ogni volta che ne trovava uno da latte. Ricorda il suo bisogno di affondare in qualcosa, in qualunque cosa. Ricorda il sapore cattivo della prima ciabatta rubata, della prima pallina fatta a pezzi, della gamba del tavolo rosicchiata.
Tutto è cominciato da lì.

Fino a quel giorno…

Marta giocava con lui, si lasciava rincorrere, ma certe volte, certe volte esagerava. La prima volta, afferrandogli il pane secco davanti al naso, lui era rimasto immobile, limitandosi a guardarla con delusione.
Ma alla seconda volta era partito l’avvertimento.

Non toccarlo.
È mio.

Era suo. Marta non avrebbe dovuto toccarlo. E più lui la avvertiva, più mostrava le zanne, più lei sembrava divertirsi a fargli i dispetti.

Fino-a-quel-giorno.

Giocavano, Marta gli tirava la palla nel parco, la Mamma li seguiva a distanza. Ma quando lui aveva guadagnato la palla, quando l’aveva stretta tra le fauci e aveva cercato di fuggire, Marta gli aveva preso la coda.

Era stato istinto.

La palla era finita nell’erba, bagnata di bava, e le sue labbra nere erano corse al braccio magro di lei.
Può ancora udire il grido di Mamma, il colpo contro di lui, il sapore del sangue quando Marta ha tirato via il braccio, strappando la pelle.

Quella sera stessa l’aveva passata rinchiuso in cantina, mentre loro, e l’auto, erano via. Al ritorno Marta aveva una fascia bianca intorno al braccio e un muso lungo puntato contro di lui.
Era stato suo padre a farlo uscire e a spingerlo in casa.

Nulla è più stato lo stesso, da quel giorno.

Se chiude gli occhi sente ancora l’odore di Marta, quello strano profumo che sembra mischiare fiori e fumo. Si chiede quando potrà tornare ad annusarla.
Rimane immobile, l’acqua gli inzuppa il pelo, ma lui tiene la testa bassa. E aspetta.

I cani, quando amano, amano in modo costante,
inalterabile, fino all’ultimo respiro.
(E.Von Arnim)

Sfoglia il libro di poesie, e si sente sopra una nuvola.
Tobia la guarda, seduto accanto a lei, mentre il docente di Economia Politica è intento a spiegare Il Dilemma del Prigioniero. Ma Luna non ascolta, si lascia accarezzare dalle parole di Montale.

“Giravano al largo i grovigli dell’alighe e tronchi d’alberi alla deriva.
Nella conca ospitale della spiaggia non erano che poche case di annosi mattoni, scarlatte, e scarse capellature di tamerici pallide più d’ora in ora; stente creature perdute in un orrore di visioni.”

«Che fai?» sussurra Tobia, incrociando le braccia mentre si china su di lei.

È alto, e Luna lo vede piegare la schiena per arrivare al suo orecchio.

«“Fine dell’infanzia”.»
«Dal titolo non…»

I ragazzi davanti a loro si voltano, ed è allora che Tobia sembra accorgersi del silenzio. Il docente li sta guardando.
Luna lo vede aprire la bocca in un largo sospiro, prima di riprendere con i suoi esempi sulla nozione.
Lei la conosce già, ha passato il pomeriggio precedente a leggerla sul libro, e pensa che sia spiegata molto meglio.
Non è il migliore dei docenti, per lei, ma a Tobia sembra piacere.
Lei preferisce persone più appassionate.

Quando la lezione finisce, i ragazzi si affollano alla porta, ma loro due rimangono seduti. Aspettano, sanno che è inutile gettarsi nella confusione per niente.

«Alla fine tua madre ha preso un cane?» domanda Luna, scostando le ciocche ribelli dalla guancia. Le accompagna lentamente dietro l’orecchio e, come al solito, qualche capello rimane incastrato all’anello.

È Tobia ad aiutarla a liberare la mano. Le sue sono grandi, callose, con le unghie corte.
Luna ha una fissazione per le mani.

«No…» Sembra più un mugolio che una risposta, e Tobia abbassa gli occhi. «Non le piacciono i cani.»

«Ma perché!» si infervora lei, mentre si stanno alzando. «Cioè, io proprio non la capisco! Tuo padre l’ha lasciata, almeno lo sa che un cane non si separerebbe mai da lei? Lo sa che un cane piuttosto ne morirebbe? Cavolo, diglielo! Digli che lo vuoi!»

Tobia si sistema la giacca marrone prima di parlare. Sembra sapere che è meglio aspettare che il “treno”, come la chiama lui, finisca il suo discorso.

«Sei tu che lo vuoi, Luna» confessa infine.

«Tu no?»

C’è delusione nella sua voce, e Tobia sembra accorgersene. Non riesce mai a sostenere il suo sguardo, arrossisce ogni volta che Luna alza il viso per guardarlo negli occhi.
È molto più bassa di lui, eppure sembra lei la gigante quando parlano.

«Sì» mormora Tobia, grattandosi il naso. «Anch’io…»

Luna non sembra accorgersi della sua voce incrinata. Rimane ancorata a ciò che ha detto un momento prima. Tira indietro i capelli e solleva il mento con fare di sfida.

«E perché hai detto così? Perché hai detto che sono io che lo voglio? Mica posso costringerti.»

Tobia sembra farsi piccolo piccolo, ed è impressionante vedere quel ragazzone arrossire nell’aula vuota.
Non c’è nessuno ad ascoltarli.

«Ma mi hai convinto tu… Tempo fa.»

Luna passa lo sguardo intorno a loro: l’aula enorme, ora vuota, è solo una sfilza di sedie con ribaltina, muri bianchi e scrostati, una cattedra rossa che fa contrasto con il pavimento a puntini neri.
Dai finestroni alti entra una luce opaca, che schiarisce i suoi capelli ramati, ma non riesce ad attraversare il nero che Tobia ha in testa.

«Convinto? Non ci dovrebbe essere qualcuno che ti convince ad amare gli animali…»

Tobia solleva le braccia al cielo: sembra un’invocazione, e Luna capisce di avergli fatto perdere la pazienza. Di nuovo.

«Miseria, Luna!» grida lui, e finalmente sembra trovare la forza di guardarla negli occhi. «Non ne ho mai avuti! Non so cosa significhi! Sei tu che non parli d’altro! È la tua ossessione! Dovresti preoccuparti di più di chi hai intorno, invece che pensare solo e soltanto ai cani!»
Lo vede prendere la sacca e uscire di filato dall’aula.

Luna si sente in colpa. Il fuoco che ha albergato dentro di lei sembra ormai svanito. Tobia è in grado di fare questo, a volte.
Mette lo zaino in spalla e lo segue, raggiungendolo in cima alle scale. Un paio di ragazzi sono in fondo alla rampa, vicinissimi, come se stessero per baciarsi, ed è allora che Tobia la guarda.

Ma è un istante, e subito distoglie gli occhi da lei.

«Mi dispiace…»
«No che non ti dispiace!» grida ancora Tobia, scendendo le scale di fretta. «Sempre così con te! Non si può dire niente!»

I due di prima li guardano con astio, come se avessero interrotto qualcosa. E Tobia, in genere così riservato, se ne accorge.
Purtroppo per loro.

«E voi? Andatevene in albergo, va!» grida, davanti a loro.

Luna si sente in imbarazzo: sono due che seguono Diritto Privato con lei. Sorride come a scusarsi, mentre l’indice corre alla tempia. Si sfiora la fronte con il dito quando è in difficoltà. Sempre.

È quando sono fuori che lo raggiunge.
Gli sfiora il braccio per sentirsi puntare i suoi occhi azzurri addosso. Sono ancora carichi di furia.
Luna non sa perché, ma Tobia si arrabbia solo con lei. Con nessun altro.

«Mi dispiace.»

«L’hai già detto, Luna. Possibile che ti ripeta sempre?» Tobia sospira, sposta la sacca da una mano all’altra, e sembra averla già perdonata. «Ti ho detto che lo voglio. Voglio-un-cane. Ma non ho il coraggio di andare in canile… Non saprei come scegliere, da quello che mi hai raccontato stanno tutti lì a guardarti. Mi sentirei in colpa dopo aver scelto, capisci?»

Luna assume di nuovo il suo cipiglio di guerra.
Porta le mani ai fianchi e si sente pronta ad affrontare l’ennesima battaglia. Vuole convincerlo, non c’è verso.

«E cosa pensi? Che cada dal cielo? Certo che è brutto, lo so. Ma darai la casa a un cane, capisci? Ne salverai uno, e sarà come aver salvato l’umanità intera.»

Tobia sorride divertito.
«Che c’entra l’umanità? Credevo parlassimo di cani.»
«È lo stesso» risponde lei, convinta.

Dall'assassinio degli animali
all'assassinio degli uomini il passo è piccolo.
(Lev Tolstoj)


Marta torna a casa da scuola.
Si sente triste e un po’ colpevole. Ma sa che sua madre, presto, le farà tornare il sorriso. Hanno detto addio al suo cane, ma era giovane, ha detto papà, e avrà un futuro bello anche da solo. Lontano da loro.
Quando attraversa il giardino, l’occhio corre alla casetta dell’animale. È vuota, ora. È triste.
Capisce di essere davvero una persona sensibile a preoccuparsi del cane. L’ha pur sempre morsa, le sue amiche le hanno chiesto perché non l’ha fatto abbattere.

“Ti hanno messo i punti? Dio, che schifo. Ma perché lo avete preso, poi? Puzzava.”

La porta si apre davanti a lei, una grande porta rossa con vetri decorati, e il sorriso lucente di sua madre la accoglie.
Marta sistema meglio i capelli lisci, Anna l’ha avvertita che il biondo sta iniziando a svanire e, davvero, non riesce a pensare ad altro.
Deve andare a farsi sistemare il taglio, il colore, tutto!

Ma poi il ricordo del cucciolo invade il suo campo visivo. È preda di una visione, forse. Le sembra di vederlo, quando le correva incontro, scodinzolando, gli occhi illuminati alla sola sua presenza.
Era sempre felice quando lei tornava da scuola.

«Com’è andata? Stai meglio? Fammi vedere il braccio» È l’esordio di sua madre.

«Ma’, ti prego, non sei un medico. Ho la fascia, la cambio stasera, ok? Mi cambio che devo andare da Becca.»
«Che hanno i tuoi capelli?» chiede sua madre, mentre l’atrio, pulito e ordinato, è sgombro dall’odore di cane. «Se me lo dicevi prendevo appuntamento anche per me.»
«Vado con Anna.»

Marta ricorda la prima volta che ha sentito quell’odore… È stato quando il loro cucciolo ha cominciato a crescere, ne è certa. Quando è arrivato non “sapeva di niente”.
Ma poi, un giorno, se n’è accorta.
E il suo naso ha fatto tutto il resto, l’ha abituata, mentre ora, ora che lui non c’è, Marta si accorge del profumo dei prodotti di casa. Profumo di pulito. Mancanza di qualcosa…

«Potevo venire con voi!»

Marta sbuffa e fa cenno di no con la testa.
Sale le scale, coprendo la voce di sua madre con il rumore degli stivali. Deve vestirsi, cambiarsi, non vuole che Anna le faccia altre battute.
Certe volte la detesta, ma è la sua migliore amica…

Il corridoio, vuoto, è strano. Il tappeto è sempre lì, i peli, per quanto sua madre possa aver tentato di toglierli, sono al solito posto.
Manca solo lui.
Marta pensa che dovrà farci l’abitudine o, al più, prendere un altro cane.

È notte quando l’auto si ferma.
La donna scende quasi con timore, lo guarda e capisce.
Si chiede come si possa, si chiede perché.

In questa notte sola che cancella i passi e il tempo.
Cancella me… Cancella il mondo.
Guardo fuori, dove va la strada e i perduti orrori.
“Vieni… La notte è aperta per te.
Questa notte di porte, di carezze e di stelle aperte di notte.”
Amore in mano al vento.
Non piove, ma… Sta gocciolando.
(Zucchero)

nn

Note dell’autrice:

Rieccomi con una nuova storia!
Non so perché, ma sono già molto affezionata a questi personaggi e a ciò che succederà. Per ora mi limito a presentarveli, è vero, ma dal prossimo avrete uno scorcio dell’ambientazione, delle relazioni che li legano e ulteriori indizi.
Sì, perché vi ho fornito molti, molti indizi su ciò che accadrà. Anche sul finale a dire il vero.
Non sono solita mettere note, a meno che non sia assolutamente necessario, ma ci sono diverse cose che, sono certa, potrete individuare facilmente.
Vi aspetto per sapere quale sia la vostra prima impressione su questa storia e, spero, per il prossimo capitolo!

Celtica

P.S.: il titolo è ispirato alla raccolta di poesie di Pascoli.

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


Cap 2

Capitolo secondo

Luna non dirmi che a quest'ora tu già devi scappare

in fondo è presto l'alba ancora si deve svegliare

bussiamo insieme ad ogni porta

se sembra sciocco cosa importa, Luna.

(Luna, Gianni Togni)


Sta ancora aspettando.
È fradicio di gocce di pioggia, tiene la coda tra le gambe e il muso chino. Non riesce a guardare la strada, non riesce nemmeno a dormire.

Si sente estremamente solo.

Dovrebbe cercare un riparo, con l’arrivo del buio ha visto alcune luci in lontananza. Ma non osa andare, non osa lasciare il punto in cui il suo padrone tornerà a prenderlo.
Perché lui è certo che arriverà.

Finalmente, dopo quello che è sembrato un tempo infinito, i fari di un’auto compaiono in lontananza. Li guarda muoversi e intanto sente il cuore accelerare il battito.
Si alza, e prende a correre verso la luce, dimentico dell’acqua. Non è più stanco, d’improvviso è tornato a sentire l’energia dentro di sé, e la speranza, quella speranza che lo ha spinto ad aspettare, sembra essere stata ricompensata: non ha mai dubitato del ritorno del suo padrone.
Batte le zampe sull’asfalto, spostando tutto il peso da una parte all’altra, attraversa le pozzanghere formate nei tratti di strada avvallata, e va incontro al suo amore.

Prestò tornerà a casa.

Con la lingua a penzoloni continua il suo galoppo, mentre la pioggia si placa.
È vicino, le luci diventano sempre più grandi e illuminano la pioggia che scende trasversale.

Ma quando l’auto rallenta, quando il finestrino si abbassa e lui fa un balzo per aggrapparsi alla portiera, non è il suo padrone quello che trova. È una donna.
Una donna che non conosce.
Torna con le zampe a terra e tutta la frenesia, che aveva colmato la sua solitudine, scompare.

È di nuovo solo, adesso.

Sente il suono del freno a mano, quello che ha imparato a riconoscere aspettando il ritorno del suo padrone nel giardino di casa. Ma non è lui.
La delusione spinge di nuovo le orecchie verso il basso e la coda tra le gambe. Si volta per tornare nel punto di attesa. Ma la donna lo chiama, scende dall’auto e si avvicina.

A lui non importa.
Non gli importa di quella donna, non gli importa di essere chiamato da lei, gli importa solo del ritorno del suo padrone.
Con passo mesto si allontana.

«Aspetta!» grida la donna. «Vieni qui, vieni bello… Dai, vieni…»

Quelle parole gli ricordano tanto Marta. La sua Marta.
Volta il capo e la aspetta. È bassa e tozza, molto diversa dalla sua compagna di giochi. Ha uno strano cappello, uno di quelli che Marta gli infilava in testa per poterlo fotografare.

«Non ti faccio niente…» La donna parla con dolcezza, e i suoi movimenti sono lenti, meditati, quasi timorosi. Eppure non ha paura, lui lo sa. «Bravo… Bravo, bello…»

Vede la sua mano allungarsi verso il collo e resta a guardarla. Lascia che se le sue dita frughino nel pelo, finché non è lei ad allontanarle. Le riavvicina per fargli una carezza.

«Non c’è… Non sei perso, piccolo. Però adesso come faccio a farti salire in macchina? Ci verrai con me?»

La donna lo guarda come ad aspettarsi una risposta. Ma lui non ha niente per lei. Né un guaito, né un lamento, non riesce a sentire niente di diverso dalla gratitudine. Gratitudine per quella mano sul suo pelo, per quel tono dolce, per le carezze.

«Vieni, dai… Vieni, piccolo.»

Lei continua a chiamarlo, a chiedergli di seguirla. Ma non può… Cosa direbbe il suo padrone se si allontanasse?
È triste, e non ha voglia di scodinzolare. O forse, semplicemente, non ne ha la forza. Perché tutte le sue speranze sono svanite nel momento in cui il finestrino si è abbassato e, lui, non ha scorto l’uomo che aspettava…

«Com’era il numero da chiamare? Oh, non lo ricordo più! Dai vieni, bello. Vieni con me.»

La donna batte le mani sulle cosce, come a dirgli di seguirla.
Non sa perché, sa solo che è sbagliato, ma va da lei. Arriva all’auto, allo sportello aperto e, senza pensare, senza più chiedersi nulla, sale in macchina.

«Vedrai, starai bene. Non posso tenerti, ma troveremo qualcuno. Non finirai in canile. Non tu.»

                                                                ┌

Chi non ha mai posseduto un cane non sa cosa significa essere amato.

(Arthur Schopenhauer)

                                                        ┘


Sfoglia il libro in riva al mare.
La spiaggia è sassosa, e sembra quasi unirsi al paese che si inerpica sulle colline. L’acqua che ha davanti sembra racchiusa dai due lunghi perimetri di costa che ha intorno.
Tobia si è appena liberato della giacca primaverile. Fa troppo caldo per poterla tenere, Luna lo sa, ma resta coperta.

«Non c’è nessuno» mormora Tobia sedendole accanto. Stringe gli occhi per il sole, e Luna segue il suo sguardo: sono soli.
«Motivo in più per studiare.»

Si porta una ciocca di capelli dietro l’orecchio e lascia che il vento volti pagina per lei. Non è davvero intenzionata a studiare, sa che non è il luogo adatto. Non per lei.

«Qui? Eddai, Luna…»

Lei sposta lo sguardo dalle scarpe da tennis al volto di Tobia. È arrabbiata.
È arrabbiata perché vorrebbe che fosse già venerdì sera, per poter prendere il treno e tornare a casa. È arrabbiata perché sa di dover studiare, ma non ne ha voglia. Ed è arrabbiata anche con Tobia, anche se non sa perché.

«Allora interroghiamoci. Sarà come studiare.»

La fronte di Tobia si sta bagnando di sudore. Non è nemmeno giugno, eppure lui soffre già il caldo. Scuote la testa per dirle di no, che non gli va.
Rimangono un momento in silenzio; Luna distende le gambe sui ciottoli, lascia cadere il libro sul fianco e resta a fissare il mare. È scomoda e dolorante, ma questo non fa altro che farla sentire viva, come se essere sola, in riva al mare, seduta sui sassi, potesse solo farla stare bene.
C’è Tobia con lei, è vero, ma è talmente abituata alla sua presenza da non considerarlo un altro.
È Tobia, il suo amico di scuola, il suo coinquilino fuori sede, che segue i suoi stessi corsi.

«Arriva qualcuno» mormora lui, chinandosi vicino al suo orecchio.

È sempre così silenzioso da farle chiedere come possa fare tanto rumore quando si muove. Ma ha detto la verità: in lontananza una figura si avvicina di corsa, tanto da farle pensare a una madre con un bambino.
Ma non è così.

«C’è un cane!» grida Luna spostando il peso del corpo in avanti. Sorride a Tobia.

L’animale corre sulla battigia insieme al suo padrone. È libero, il mantello crema luccica al sole, e le zampe schizzano acqua salata.
Luna può vedere le gocce splendere di luce. Ma è il cane che osserva, i muscoli che danzano nel galoppo, il muso nero rivolto al ragazzo che è con lui, la lingua di fuori, che rende espressivo il suo muso.
Ma poi lei muove le braccia per farsi notare.

«Ehi!» grida, rivolta all’animale.

E lui la vede.
Il ragazzo si ferma a riprendere fiato mentre il mastiff passa al trotto per raggiungerla. Scodinzola, e Luna si solleva sulle ginocchia per fargli segno di avvicinarsi.

«Ti prenderà per pazza…» sussurra Tobia, facendo un cenno verso il padrone.

Ma a lei non importa.
Adesso la cosa che più vuole è poter accarezzare il cane, e rubargli un briciolo d’amore.

Quando lui è a un passo da lei, Luna allunga la mano per fargliela annusare. Si presenta, così da non spaventarlo, anche se sa già di non essere temuta.

«Argos!» grida il ragazzo facendo qualche passo per avvicinarsi.
Luna sente i suoi occhi impazienti addosso.

«Ciao, Argos…» gli sussurra con dolcezza fra una carezza e l’altra.
Ha il viso vicinissimo al suo muso, e riconosce lo sbuffo di Tobia.

«Scusate, vuole solo giocare. Non vi fa niente» dice il padrone, e sembra abituato a ripetere quella nenia.
Luna gli lancia un’occhiata veloce, sorride, e torna a preoccuparsi del cane. È un bel ragazzo, è riuscita a notare il fisico atletico e i lineamenti decisi.
«Non è un fastidio» risponde Luna scostando le ciocche ribelli. «Anzi.»

Al sole i suoi capelli appaiono rossi, tanto da attirare lo sguardo di lui. Luna sposta gli occhi dal ragazzo a Tobia, e nota la sua espressione contrita.

«Grazie.»
Il padrone di Argos sorride, ed è un sorriso sincero quello che Luna si trova ad ammirare.
«Non sono in molti a fargli i complimenti.»

Argos continua a scodinzolare, tenta di leccarla, e sembra felice delle sue attenzioni.
«Ah no?» chiede Luna rivolta al cane. Solleva il muso con le mani e lo guarda. «E chi è che dice che non sei bello, tu? Eh? Ma chi è che lo dice…»

Argos uggiola e cerca di salirle sopra, spinge le zampe contro di lei e riesce a rovesciarla a terra.
«Basta! Basta, Argos!» Il ragazzo lo afferra per il collare, togliendoglielo di dosso. «Mi dispiace! Scusa!»
Allunga una mano per aiutarla a tirarsi su, e Luna la accetta, sorridendo.

«Ci sono abituata.»

Si scambiano un’occhiata, un istante che sembra durare a lungo, e Luna sente una scossa scenderle lungo la schiena. Lo vede voltare il capo verso la spiaggia, come se fosse tentato di andarsene.
Ma poi ci ripensa.

«Vieni spesso a studiare qui?»
Luna segue lo sguardo di lui, puntato verso il libro di diritto privato. Arrossisce, perché sa di non aver letto nemmeno un paragrafo. Solleva il mento.
«Forse…»
«Che significa forse?»
Luna scrolla la testa e ride: è un gioco al quale non è abituata.

«Significa che forse vengo, forse no…Dipende.»

Il ragazzo la guarda stranito, ma non smette di sorridere.
«Da cosa?»
Luna non gli risponde, gli lancia una lunga occhiata prima di riavvicinarsi ad Argos. Lo accarezza.
«Lo porto qui tutti i giorni» spiega il ragazzo, allentando la presa sul collare. «Se ti va di rivederlo…»

Tobia dà un colpo di tosse quando lei continua a rimanere in silenzio.

«Allora a presto, Argos…» mormora Luna, grattandogli le orecchie.
Lo lascia andare, e il padrone deve tirarlo per riuscire ad allontanarlo da lei. La guarda ancora e ancora, come se si aspettasse qualcosa.

«Il tuo nome?» chiede il ragazzo.
Luna si aspettava quella domanda.

«Luna, e non ricordo mai i nomi dei padroni. Solo dei cani.»
Vuole essere una richiesta, e infatti lui sorride.

«Allora è inutile che te lo dica.»

Luna li guarda allontanarsi, ricambia l’alzata di mano volta a salutarla, e si sente bene. È davvero una bella giornata per lei.

Solo allora sembra ricordarsi di Tobia, e quando si gira lo trova intento a osservare il mare. Ha l’espressione corrucciata di quando litiga con Luna, o di quando lei gli fa qualche torto.
Ma ora non è successo nulla, non hanno nemmeno parlato… Luna non riesce a capire.

«Che hai?» gli chiede, decidendo finalmente di togliersi la giacca.

La mano corre al girocollo di velluto nero, e ne segue i tratti finché non trova il ciondolo. È bello, d’argento, a forma di cane. Luna lo aveva desiderato qualche mese prima, a una fiera; ed era stato Tobia a comprarglielo.

«Niente.»
«Non è vero. Guarda che ti vedo.»

Esce il vento in quel momento, un vento che increspa le onde del mare, facendole apparire minacciose. Sembra riflettere l’animo di Tobia.
Ed è allora che lui si volta a guardarla. Stringe fra le mani la sua giacca leggera, tanto da far diventare bianche le nocche, e arriccia le labbra.

«Hai una fissazione con questi cani…»

Suona come un insulto e, se Luna non lo conoscesse bene, se non sapesse che parla così solo perché è arrabbiato, tuonerebbe contro di lui, dando vita a un vero scontro.
Invece sospira, spinge indietro i capelli e, di nuovo, una ciocca rimane incastrata nell’anello.
È Tobia, con un gesto rapido, a liberarla.
Luna sente le mani di lui bollenti, e si chiede come possa avere così caldo. Forse, pensa, è la rabbia.

«Lo sai che ci tengo.»

Sembra una giustificazione, ma Tobia scrolla le spalle. Non la guarda in faccia, come quando è lui a sbagliare, e Luna si chiede perché.
È strano. Tobia si comporta in modo diverso.

«Tieni solo a loro…»

Luna lo guarda accigliata. Il fuoco, quella fiamma che tiene vivi i suoi ideali, torna a bruciare dentro di lei.

«Non è vero!» grida, sollevandosi in piedi.
Sente le gambe indolenzite per le pietre, ma non lo dà a vedere.

«Non è vero, Tobia! Non puoi dirmi così!» Indossa in fretta la giacca, e sembra pronta ad andare via. A tornare al loro piccolo appartamento in affitto, quello che paga sempre Tobia. «Io ci sono per te. Io ci sono sempre stata. Non so perché hai scelto di seguire i miei stessi corsi, ma l’ho apprezzato, perché vuol dire che sono come una sorella per te» Riprende fiato, sente gli occhi bruciare al sole, e cerca quelli di Tobia. «Mi hai detto di non preoccuparmi per la casa, che ci avresti pensato tu. E non l’ho mai dimenticato. Prendiamo il treno per tornare dalle nostre famiglie insieme, anche se io potrei partire il giorno prima, ma ti aspetto. Non sei solo tu a tenerci.

«Anche tu, per me, sei come un fratello.»

Tobia sgrana gli occhi, come se avesse appena ricevuto uno schiaffo in pieno viso.

«È perché non ho ancora un cane, vero?» suggerisce lui, alzandosi a sua volta. Ha un che di minaccioso, ma Luna lo affronta da vicino. «È solo per i cani che fai così! Tu te ne approfitti, Luna!»

Le sue parole sono incomprensibili per Luna.
E le fanno male.

Improvvisamente perde la voglia di litigare. Scuote la testa e fa per andarsene. Afferra il libro abbandonato, lo zaino, e fa qualche passo sulla spiaggia.

Il sapore della salsedine è sulle sue labbra, eppure, mentre pronuncia quelle parole, Luna sente un gusto amaro in bocca.

«È perché non l’hai mai avuto. E non hai idea di cosa significhi» dice.
Poi si volta e se ne va.

                                                        ┌

Auschwitz inizia quando si guarda un mattatoio e si pensa: "sono soltanto animali."

(Theodor Wiesengrund Adorno)

È una bella giornata di sole.
Marta si chiede se Anna la accompagnerà a fare una passeggiata sulla strada che dà sul mare. Sarebbe bello parlare un po’ con lei; quando sono sole, Anna è più dolce e sembra anche più disposta a confidarsi.

«Esci?» È la prima cosa che le chiede sua madre quando la vede prendere la giacca.
«Mando un messaggio ad Anna e guardo se viene con me… Altrimenti vado da sola.»
Sua madre non sembra contenta. Storce il naso e incrocia le braccia sul petto.
«Posso venire io con te, se vuoi…»

«No.»

La risposta di Marta è immediata. In quel momento pensa che se il suo cane fosse ancora con loro, potrebbe portarlo al parco, come faceva sempre. Senza Anna.
Ma adesso che lui non c’è, ora che Marta è costretta a uscire da sola, non le va di andare al parco, e non le va di rimanere senza nessuno. Per questo estrae il cellulare dalla tasca dei jeans e cerca il nome di Anna.

Lungomare?

È una parola sola.
Ma Marta è sicura che Anna capirà e deciderà di accompagnarla. In fondo è la sua migliore amica.
Ha anche aggiustato i capelli per lei, e vuole farle vedere il lavoro benfatto di Becca.

«Io vado, ciao!»

Mentre richiude la porta, lo sguardo corre alla casetta vuota in cortile. Si chiede dove sia ora, cosa stia facendo, se si ricorda ancora di lei.
Ma si risponde di no, perché suo padre le ha spiegato come sono i cani.

«Sono animali, Marta. Sono solo animali.»

Marta tira verso il basso la maglia della tuta nuova, quella piena di glitter che le ha regalato Anna per il suo compleanno. È di un blu scuro, e Marta riesce a pensare solo che prima, quando c’era ancora lui, non l’ha mai indossata. Non voleva che si riempisse di peli, non voleva che si rovinasse.
Ma ora può.

In fondo ci sono cose positive dalla separazione da lui. Non ha ancora ben capito cosa, ma ci sono.

Aveva paura di essere morsa, anche se il medico, dopo aver chiesto la stazza del cane, le ha spiegato chiaramente che non era un verso morso. Le ha detto che se il suo animale le avesse voluto fare male, lo avrebbe fatto. E non sarebbero bastati dei punti per rimettere insieme i pezzi.

Ma suo padre è stato chiaro: niente più cani.
Lei ne vorrebbe prendere un altro, un cucciolo magari. Uno piccolo, così da non correre rischi.
E anche sua madre è contraria…

Non posso.

È la risposta di Anna.
Marta si chiede perché non possa uscire con lei, cosa ci sia di più importante. Pensa che forse suo padre ha ragione, sono soltanto animali, ma il suo cane non le ha mai detto di no.
Non si è mai sentita rifiutata da lui.
Non come ora si sente rifiutata dalla sua migliore amica…

Prende le cuffie e le infila nelle orecchie, saranno la sua unica compagnia quel giorno. Perché sì, saranno soltanto animali, ma se il suo cane fosse ancora con lei, ora non sarebbe sola.

                                                            ┌

È il momento di separarsi.

Lei non sa cosa dire, sa solo che è giusto così.

Perché questo è solo un nuovo inizio…

                                                        ┘

Luna che cosa vuoi che dica non so recitare

ti posso offrire solo un fiore e poi portarti a ballare

vedrai saremo un po' felici

e forse molto più che amici... Luna!

(Gianni Togni)

nn

Note dell’autrice:

Non vi ho ancora svelato il perché del titolo.
Non sarà una storia veloce, forse proprio perché nella mia mente è nata come one shot, per poi diventare una mini long… Adesso invece è una long a tutti gli effetti. Ci sono cose che voglio approfondire, ma rimane una storia, e devo poter dare un soffio di vita a tutti i personaggi.
Alla prossima!
Celtica

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


Cap 3
nn


Terzo capitolo

Quando tornava mio padre sentivo le voci…
Dimenticavo i miei giochi e correvo lì.
Mi nascondevo nell'ombra del grande giardino
E lo sfidavo a cercarmi: io sono qui.

Non so più il sapore che ha
Quella speranza che sentivo nascere in me.
Non so più se mi manca di più
Quella carezza della sera
O quella voglia di avventura…
Voglia di andare via, di là.

(Quella carezza della sera, New Trolls)


È strano trovarsi in una casa diversa.
Non riconosce il suo odore, non c’è niente di lui in quella stanza. Quando la porta si è aperta, ha pensato che li avrebbe trovati ad aspettarlo. Che sarebbero stati lì per lui.

Invece, al posto di Marta e Mamma, ha fiutato altre cose.

Il suo olfatto è stato attratto dal gatto, quell’animale che ora lo fissa spaventato dalla cima di un mobile. Ha deviato verso la cucina, dove alcune voci avevano già dato segno della loro presenza, giusto un istante prima che lui potesse captare il pollo arrosto.
Per ultimo, ha avvicinato il muso alla felce che lo separa dal lungo tappeto liso. C’è una macchia nel centro: riesce a sentire l’odore di logoro.

Irrigidisce le orecchie, mentre una vocina acuta arriva dalla cucina.
«Mamma! È tornata la mamma!»
Lui sgrana gli occhi quando la vede.

Non è la sua Marta, non le somiglia neanche.

È bassa, può giusto guardarla negli occhi, e grida, grida più di quanto non abbiano mai fatto in casa sua. Porta le orecchie indietro e china la testa, i muscoli si irrigidiscono mentre la segue con lo sguardo. Non perde un solo movimento.

«Basta» sussurra la donna alla bambina. Lui deve voltare il capo per poterle guardare. «Lo spaventi così. Torna di là, io arrivo.»

Gli basta vederla sparire oltre la soglia illuminata per rilassarsi. Tira fuori la lingua per l’ansia, ma la donna non capisce; pensa che lui sia felice.

«Non posso tenerti…» ripete, accucciandosi di fronte. Ha un sorriso triste. «Davvero, non posso…»

Lui reclina il muso, come a chiedersi cos’abbia. Il respiro si ferma di colpo prima di tornare normale. Ma lei insiste, lei, proprio, non capisce.

«So che vorresti restare, ma non puoi.»
«Lilli! Vieni qui!»
Un’altra voce, più rigida, da uomo, la richiama. E la donna si alza, obbediente. Gli sfiora un orecchio prima di lasciarlo solo.

Lui si guarda intorno, non è casa sua, ma tante cose gliela ricordano.
Ricorda quando aspettava in giardino il ritorno del suo padrone, ricorda le rincorse con Marta, che finivano sempre con lei aggrappata al suo collo, ricorda le scale. Ricorda il momento in cui la sua compagna lo salutava in cima all’ultimo gradino, prima di andare a dormire.

«Ti farei entrare…» gli ripeteva. «Ma papà non vuole.»

E arrivava la carezza, quella dolce, ultima carezza prima del sonno.
Quella carezza che lo spingeva a chiudere gli occhi, quella carezza che lo faceva sentire amato, che riusciva a fargli dimenticare ogni gioco, ogni desiderio di correre libero in un prato.

Tutto svaniva quando Marta seguiva il suo profilo con le dita. Ogni cosa perdeva importanza perché c’era lei, quel suo premere il pelo, girare intorno all’orecchio e raggiungere la guancia.
Persino l’odore di fumo che circondava Marta svaniva.

Bastava chiudere gli occhi…

«Tieni» mormora Lilli, tornando dalla cucina con un piatto di carta. Riconosce subito di cosa si tratta: pollo. Si passa la lingua sul naso prima di tirarsi a sedere come gli è stato insegnato. «Ti porto anche l’acqua adesso.»

Non resta a guardarla mentre se ne va, si china sul cibo, pronto a mangiarlo. Ma gli basta un’annusata per tirarsi indietro.
Come può mangiare?
Loro non sono con lui. Sono da qualche parte, lontani, a chiedersi dove sia finito, perché ora non stia mangiando insieme a loro. No, non può mangiare.

Volta il capo al piatto, pensando a quando Marta gli allungava qualche avanzo; era bello stare accucciato ai suoi piedi, aspettare, guardarla pregandola di dargli qualcosa.
E qualcosa arrivava sempre.

«Ecco l’acqua» Lilli fa per tornare in cucina, ma poi si volta e lo guarda. «Mangio e comincio subito a fare un giro di telefonate. Vediamo se sei scappato.»

Ha un’espressione incerta mentre lo lascia, come se non credesse nemmeno lei al fatto che possa averlo fatto…
Ci ha pensato, questo sì. Ha avuto voglia di allontanarsi da Marta, durante il giro al parco. Ma non è mai successo. Ha desiderato la libertà, ma non ha mai lottato per averla.

Perché avrebbe dovuto?
Aveva qualcuno che lo amava.

Ora, però, è solo. Lilli è stata buona con lui, ma Lilli non è Marta, non è Mamma, non è il suo padrone. Lilli è solo la donna che dovrà riportarlo da loro, di questo è certo.
Passa gli istanti successivi sdraiato sul tappeto consumato, lasciandosi studiare dal gatto sopra il mobile. Restano a guardarsi finché quello strano esserino bianco e nero non decide di soffiare. Soffia contro di lui, come se fosse di troppo, come se stesse occupando un posto che non è il suo.

Poi salta giù e corre in cucina.

Lui lo ignora, ma sa, sa che se Marta fosse con lui, se ora tutta la famiglia fosse riunita, passerebbe i momenti successivi a inseguirlo. Correrebbe dietro al gatto per tutta la casa, ignorando le grida, così come le ha ignorate il giorno in cui Marta ha lasciato entrare un randagio.
È stato divertente, per un po’. Ma poi il suo padrone ha lanciato il gatto fuori dalla porta… Ricorda il pianto di Marta, e ricorda il suo senso di colpa. Senso di colpa per averlo inseguito, per non aver capito che non era desiderato in casa.

Ma ora è lui l’estraneo.

Gli occhi verdi del gatto spuntano dietro la colonna della cucina, e lo fissano come Marta aveva osservato, disgustata, la mela marcia che lui aveva preso in giardino.
Lo aveva sgridato, quel giorno.

«Pronto?»
La voce di Lilli corre dritta dentro il suo orecchio, anche se non può vederla. Ignora il gatto e sbuffa, posando la testa sulle zampe anteriori.

«Sandra, ciao! Scusa l’ora, ma ho trovato un cane per… Sì, sì, proprio lì. No, io stavo tornando, a dire il vero… Ah, sì… È… Com’è? Ecco, è grosso. Non saprei dirti la razza. Lo so, lo so che non ti sto aiutando! Aspetta, è… ha il muso nero e il corpo marrone chiaro, è magro ed è come se avesse una ruga sulla fronte… Gli occhi! Ha degli occhi bellissimi. Sono scuri, ma non marroni come quelli degli altri cani, sono… No, no, sono… Non saprei, quasi grigi.»

La vede un istante, mentre sembra accertarsi che lui sia ancora lì.

«Sandra, non so dirti come sono le orecchie!» Scuote la mano davanti a lui, e solleva gli occhi al soffitto. «Sì, sono attaccate alte, sono lisce e larghe. Ah, un segugio dici. Non ne ho idea, Sandra.»

Lilli gesticola davanti a lui, tanto da farlo sbuffare ancora. Dov’è Marta? Perché non è lì con lui? Perché non viene a prenderlo…

«Va bene, sì, chiedi in giro. Ma certo! Ti mando la foto! Subito, cara. Falla girare, tu hai i contatti giusti.»

Lilli lo raggiunge e si china davanti a lui. Gli punta il telefono contro, ed è una fitta di nostalgia quella che lui sente. Quel gesto gli ha ricordato Marta…

«Ecco, ci sei?» continua Lilli, tamburellando le dita sul telefono. «Te l’ho appena mandata. Ce la fai a farmi sapere entro… Ah, ah va bene. Domani mattina? Non saprei… Preferirei farlo restare qui, ti dispiace? Sì, non mi va l’idea di farlo girare come una trottola. Se trovi i padroni chiamami.»

Lui si lascia andare sul tappeto, si gira di lato, sdraiandosi con la pancia all’aria. Marta lo accarezzava sempre quando si metteva in quella posizione… Marta.
Ma ora Marta non è con lui.

                                                            ┌

Lasciate entrare il cane coperto di fango, si può lavare il cane e si può lavare il fango…

Ma quelli che non amano né il cane né il fango...

Quelli no, non si possono lavare.

(Jacques Prevert)

                                                          ┘

Solleva il polso per guardare l’ora: già dieci minuti di ritardo.
I treni non sono mai puntuali, trova a ripetersi. Ma Luna è nervosa e vorrebbe solo tornare a casa sua. È sola, ed è davvero molto tempo che non aspettava in stazione senza Tobia. Troppo tempo.

Si sente ancora arrabbiata con lui, per il modo in cui sta cercando di ignorarla, proprio come faceva quando la sapeva fuori con un ragazzo.
Luna sbuffa e si porta una ciocca ribelle dietro l’orecchio.
Quanto tempo è passato da quando se n’è accorta? Eppure Tobia non ha mai detto una parola, ha sempre comunicato il suo mondo attraverso sguardi e gesti. E silenzi.

C’è un po’ di gente intorno a lei, gente impaziente di prendere il treno, gente che batte i piedi sul cemento e volta la testa verso la galleria.
Ma il treno non è stato annunciato, non deve arrivare.

«Vai via adesso?» le ha chiesto quella stessa mattina, mentre Luna preparava la borsa. «Non aspetti stasera?»
Era uguale a chiederle: non mi aspetti?

No, avrebbe voluto rispondere Luna. Svegliati, Tobia. È anche ora.
Ma sa che lui non avrebbe capito, o, forse, che l’avrebbe ignorata, chiudendosi nei suoi silenzi, chinando lo sguardo al pavimento in cotto, e lasciandola andare via.

Come ha sempre fatto.

La verità è che Luna lo provoca apposta, gli mente apposta, come quando ha detto di essere come una sorella per lui… Non era vero. Ma lei si aspettava una reazione, si aspettava che Tobia si arrabbiasse, che le gridasse contro.
Invece è rimasto in silenzio con i suoi occhi spalancati.
Luna sa di averlo ferito, ma cos’altro avrebbe dovuto fare? Tobia non sembra capire. Tobia vive in un mondo tutto suo. E, questo, Luna non riesce ad accettarlo.

Qualcuno la spinge quando l’altoparlante annuncia l’arrivo del treno. È il nervosismo dell’attesa, l’impazienza derivata dal ritardo. Ma Luna si volta comunque a guardare chi è dietro di lei, e lo fa male, usando i suoi occhi ambrati come una lama.

«Ehi» mormora stringendo i denti.

Chi è dietro di lei, una donna magra, ben vestita e completamente truccata, non risponde, si limita a lasciarle un po’ di spazio. Un po’ di respiro. Ma poi Luna si accorge del motivo per cui le è finita addosso. E, cosa peggiore, la sente.

«Speriamo che non salga» dice la donna a voce bassissima, guardando un cane. «Dovrebbero proibirlo.»

Luna resta in silenzio, ma la vampata di calore che sta crescendo in lei raggiunge le sue orecchie. Saranno diventate rosse, ne è sicura, è stato Tobia a farglielo notare un giorno di tanti anni prima: si imporporano sempre quando è arrabbiata.
Infila le mani nelle tasche dei pantaloni di lino chiaro e aspetta, aspetta che le passi. Sa che rispondere sarebbe inutile, servirebbe solo a litigare.

Ma poi commette un errore…

Quando il treno arriva, Luna commette l’errore di voltare lo sguardo intorno a sé e lo nota: quasi nessuno vorrebbe il cane a bordo.
La padrona del boxer sembra saperlo già. Resta ferma ad aspettare che siano saliti tutti prima di avvicinarsi alla linea gialla. Non cerca le persone, i loro visi, ha gli occhi fissi sul treno.
E Luna prova tanta pena per lei.
Quando è il suo turno di affrontare il gradino si volta e le sorride.

«Prego, andate prima voi.»
Quel voi sembra rendere felice la donna. Le passa davanti facendo un cenno con la testa, mentre il cane la annusa scodinzolando.
Luna li raggiunge nel vagone e li segue, sedendo accanto a loro. È allora che prende ad accarezzare il cane.

«Come si chiama?»
«Fenrir» risponde la donna allentando la presa sul guinzaglio. «Ho preso un biglietto anche per lui.»

Luna annuisce, pensando al giorno in cui ha deciso di convincere Tobia a prendere un cane: viaggiavano in treno in quel momento. E Tobia aveva abbassato gli occhi, confuso.

«Certo, altrimenti non avrebbe potuto portarlo.»
«Però non sembra che per la gente sia cambiato qualcosa…» confida la donna, arricciando con delusione le labbra. «Hanno fatto tante leggi, eppure continuano a essere… Non saprei come definirlo…»

Luna cerca i suoi occhi e pensa, pensa a quando ha affrontato un discorso simile con Tobia.
«Razzisti» termina Luna al posto suo.

Il treno sta ripartendo e lei accompagna una ciocca dietro l’orecchio che, come al solito, rimane incastrata nell’anello. Luna aspetta, sapendo che presto qualcuno la libererà, ma poi si rende conto.

Tobia non è con lei.

«Termine perfetto. Razzisti. Sono proprio razzisti» riprende la donna mentre i finestrini vengono oscurati dal buio della galleria. «Dico sempre ai miei studenti che devono capire, accettare le cose, che ci sono tanti modi per cambiare opinione. Ma non serve…»

Luna libera la ciocca, cercando di non dare peso a quella mancanza che sente dentro. Non è il momento, si dice. Eppure… eppure il cuore prende a battere un po’ più forte.

«Cosa insegna?» chiede poi, per distrarsi, mentre la donna gratta Fenrir dietro le orecchie.
«Italiano in un liceo.»

Luna sgrana gli occhi, sorridendo.
«Io amo leggere. Studio Economia, ma sono appassionata di letteratura e poesia. Passo i pomeriggi a studiare per poi poter trascorrere la lezione a leggere poesie… Non con tutte le materie, ovvio.»

C’è il mare alla loro sinistra, sembra quasi che il treno debba finirci dentro da un momento all’altro. Ma è solo la costa… E i sassi che si affacciano sull’acqua rendono tutto più eccitante.

«Come ti chiami?»
«Luna. E lei?»
«Ludovica. Stai tornando a casa?»


Luna sorride: casa le è mancata. Le manca ogni istante che passa lontano, ed è un amore grande quanto quello che prova per i cani.

«Sì, ci voleva.»
Ludovica sta per rispondere, forse sta per dirle cosa va a fare nel ponente. Ma un vecchio la interrompe, passando vicino ai loro sedili.

«Li portano proprio dappertutto…» dice. Lo fa scuotendo la testa, mentre le persone intorno si voltano a guardare Fenrir.
Ma Fenrir è tranquillo, non sembra rendersi conto di non essere voluto. Ed è questo a far scattare Luna.

«Mi scusi,» comincia, voltandosi con un sorriso al vecchio. Tutti gli occhi sono puntati su di lei, sente di tremare, eppure riesce ad apparire tranquilla. «le dà fastidio il cane?»
Lo dice con una tale dolcezza che il vecchio si ritrova costretto a fermarsi, abbassando il capo sul corridoio.

«Una volta non si potevano portare…»
«La legge è cambiata. Adesso si possono portare, si può vivere con loro ovunque. Non esistono più condomini che possano proibirlo… È la legge.»

Il vecchio borbotta qualcosa su peli e sporcizia, e Luna si porta una mano alla fronte.
«Lei di che anno è, mi scusi?»
«Prego?»

«Adesso siete tutti igienisti, ma lei dovrebbe sapere come vivevano le persone una volta. Non crede che sia esagerato tutto questo? Sono animali, non dico che siano persone, anzi trovo che sia sbagliato trattarli come tali, ma non crede…» Luna si alza in piedi e il tono di voce diventa alto e duro, mentre si rivolge a tutti i presenti. «Non credete tutti che sia assurdo?»

Fa una carezza a Fenrir prima di terminare e tornare a sedersi.
«Sapete una cosa? Vergognatevi. Vergognatevi tutti.»

                                                                ┌

Se hai un cane, hai un amico e più diventerai povero, migliore sarà quell’amico.

(Will Rogers)

                                                                                                                                                    ┘

Marta sbadiglia sul divano.
Sta aspettando da un quarto d’ora che Anna arrivi a casa sua. Fa sempre così, la sua amica.
Quando aveva ancora il suo cucciolo era diverso, però.
Marta restava in giardino a giocare con lui, a tirargli la palla, a farsi rincorrere. Finché non vedeva spuntare Anna in lontananza…

Cambiava tutto quando arrivava lei.

Doveva lasciare il cane fuori dalla porta, perché Anna non sopportava di averlo in casa. Era tutto diverso allora…
Marta sistema la coda di cavallo sui cuscini del divano e si sdraia. Dalla finestra dietro di lei entra la luce del sole. Ma da quando lui non c’è più, Marta ha passato poco tempo all’aria aperta.
Il citofono suona in quel momento, mentre ricorda i latrati del cane fuori dalla porta.

Le sembra ancora di sentirli.

«Ehi!» dice Anna abbracciandola. È vestita di nero, con i lunghi capelli lisci che sembrano sfumare verso il blu. «Come stai?»
Marta la lascia entrare e, senza farlo apposta, l’occhio corre alla scalinata dove lui la aspettava ogni sera. Non le manca, Marta lo sa, eppure non riesce a smettere di pensarci.
Ha passato troppo tempo con lui, è stato questo il problema.
Ma a sbagliare è stato il cane, perché era un animale, proprio come le ha spiegato suo padre.

«Prendi qualcosa?»

Anna le fa cenno di no mentre attraversa il corridoio per entrare nel salotto. C’è tanta luce lì, e il trucco che Anna ha in viso diventa inquietante quando si volta per sorriderle.

«Avete cambiato qualcosa?»

Marta le fa segno di sedersi prima di rispondere. Osserva la maglia larga di Anna, quelle pieghe che le nascondono i fianchi e, di nuovo, il muso del cane torna a farle visita.
Aveva anche lei una maglia simile… prima che lui la rompesse.

«Sì, mia madre ha voluto buttare via un po’ di roba. Sai, soliti cambiamenti… Diceva che era ora di cambiare.»

Anna si morde un’unghia e prende a guardarsi intorno. Marta sa che sta per arrivare un’altra domanda, che Anna le chiederà qualcosa del caminetto bianco, o del tappeto marrone, o quando si decideranno a cambiare il lampadario… Non le è mai piaciuto, e sembra volerglielo fare presente tutte le volte.

«State meglio, no?»

Marta la osserva senza capire. Siede al lato opposto del divano, con le ginocchia sul cuscino, e aspetta spiegazioni.

«Ora che vi siete liberati del cane… state meglio?»

Anna lascia che le ciocche scure le finiscano in faccia e si guarda il pollice prima di riprendere a morderlo. Marta, invece, rimane sgomenta. Forse è perché non la sente rispondere che Anna cambia argomento. È sempre così con lei: bisogna essere sempre pronti.

«Ma quando vi deciderete a cambiare lampadario? Sembra quello di mia nonna…»

Era solo un cane, eppure da lui Marta sapeva cosa aspettarsi.

                                                         ┌

Sua madre la aspetta in stazione.
Luna le va incontro, un po’ pentendosi di essere sola. Dovrebbe essere con Tobia ora.
«Com’è andata? Pronta per gli esami?» chiede sua madre. Non le lascia il tempo di rispondere…
«Abbiamo un ospite.»
Ma Luna non ha idea di chi stia parlando.

                                                                                                                                                                                                                            ┘

nn

Note dell’autrice:

Arrivo in ritardissimo, mi dispiace… Per farmi perdonare non vi lascerò da leggere note! Mi limiterò a chiedervi scusa.
Celtica

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Capitolo 4
*** Quarto capitolo ***


Cap 4
nn


Quarto Capitolo

Come quando fuori pioveva e tu mi domandavi
se per caso avevo ancora quella foto
in cui tu sorridevi e non guardavi.
Ed il vento passava
sul tuo collo di pelliccia e sulla tua persona
e quando io, senza capire, ho detto sì.
Hai detto "È tutto quel che hai di me".
È tutto quel che ho di te.
(Rimmel, De Gregori)


È trascorso un giorno.
Una ragazza è venuta a vederlo: lo ha toccato, ha osservato le orecchie, gli ha scoperto i denti. Poi gli ha sorriso. Lui ha sollevato la coda con indolenza, tentando di rispondere al suo saluto, ma alla fine l’ha lasciata cadere sul tappeto ed è rimasto fermo.

«Cosa ne pensi?» chiede Lilli, inginocchiata vicino a lui.

Riconosce uno strano tono nella voce, quella titubanza con cui Marta parlava alle sue amiche quando andavano a trovarla. Come se cercasse l’approvazione dell’altra…

«Ha mangiato?»

«Non ha toccato niente. Ha solo bevuto» risponde Lilli poggiando le mani a terra.
«Portiamolo in laboratorio» continua la giovane. «Dobbiamo vaccinarlo.»

Lilli non sembra contenta. Rimane ferma, posando le dita sul suo muso, come se volesse proteggerlo.
«E se fosse già stato vaccinato? No, è rischioso.»

La ragazza si alza con fare sicuro. Lui riconosce l’odore di altri cani, un odore che in un momento diverso lo avrebbe spinto ad alzarsi per annusarla.
«Vacciniamolo e basta. Si fa così. Non è rischioso, Lilli.»

Sono sole con lui, sempre se si esclude la presenza del gatto, costante, che lo osserva come se fosse una cosa brutta e pericolosa.

«E per il resto?» insiste Lilli, facendo forza sulle ginocchia per tirarsi in piedi.
«Sembra sano. Dobbiamo solo riuscire a farlo mangiare.»

Sono altrove, ora. In una stanza piastrellata di bianco, odori che si mischiano tra loro, come se lì dentro fossero passati centinaia di animali.
Lui non può fare a meno di sollevare il muso e sentire.
Sente odore di urina di gatto, in parte coperta dall’alcool, un barboncino che ha lasciato alcuni peli vicino al banco d’acciaio, e altri, altri ancora. Se solo volesse, potrebbe riconoscere ogni animale annusato in quella stanza, ogni cane che vi ha messo piede. La paura, quella stessa paura che ora sente anche lui.

Ricorda un posto simile, ricorda di aver tremato, di aver sentito dolore. Ricorda di essere stato messo in malo modo su un bancone freddo e grigio. Ce l’ha davanti, ora.

«Non lo tieni?» chiede la ragazza a Lilli.

Lui si volta a guardarle, il battito accelera, il respiro si fa affannato, cerca di arretrare, la lingua a penzoloni.

«Sai che non vuole…»
«Già. Papà non voleva che lo sposassi.»
«Sandra!» grida Lilli, facendolo agitare ancora di più.
«È la verità, Liliana. Lo sai bene. Se non avessi sposato lui le cose sarebbero andate diversamente.»

Sente la porta chiusa dietro di sé, la sfiora con la coscia mentre le osserva. Ha paura, vuole andare via. Finalmente trova il coraggio di voltarsi e prende a grattare il legno bianco, scalfendolo.

«Fermo! No, no!» grida ancora Lilli, ma è Sandra quella che lo raggiunge.
Lo afferra per il collare, quello di stoffa grigia che gli ha comprato Lilli quella mattina, e lo tira verso il bancone.

Sa già cosa sta per accadere…
Presto lo isseranno sul freddo acciaio. Presto perforeranno la sua pelle, come è già successo in passato.

E infatti accade.

Sandra stringe il collare e pone un braccio intorno alla sua pancia. Quasi non si accorge di essere lassù, dove non voleva andare. Lilli lo raggiunge mentre si sdraia sulle zampe.

«Stai tranquillo…» sussurra Lilli, stringendo la sua testa contro il petto. Sente la mano di lei sul ventre, e capisce di non poter più fuggire.

Tira fuori la lingua, respira con affanno, trema. Sente il cuore scoppiare, è troppo veloce, troppo veloce… E Sandra si avvicina, Sandra e ciò che stringe tra le mani.
Tira la testa indietro con forza, vuole andarsene da lì. Perché Marta non lo porta via? Ma Lilli usa entrambe le braccia per bloccarlo contro il suo corpo.

Eccola: sta arrivando. Sandra è lì. Vede una mano guantata di bianco percorrere il suo corpo, la sente mentre tira un lembo di pelle. No, no, no, deve scappare, deve fuggire!
Spinge sulle zampe per alzarsi, sente la forza di Lilli cedere, sa che può farcela, sa di poter essere libero. Solo uno sforzo…

«Fatto» dice Sandra, allontanandosi da lui.

Lilli allenta la presa, dandogli modo di approfittarne per alzarsi in piedi. Ma è scivoloso quel ripiano… È bagnato.
Ed è stato lui a bagnarlo.

Se ci fosse il suo padrone, ora partirebbero urla e rabbia.
Ma Sandra e Lilli non sembrano accorgersene. Parlano tra loro, come se lui non fosse lì.

«E ora?» chiede la donna con una punta di amarezza. Lo guarda, incrocia i suoi occhi, ma stavolta non gli sorride.

«Se sei sicura di non tenerlo…»
«Sono sicura» dichiara Lilli, distogliendo lo sguardo.

«Dobbiamo trovare qualcuno. Altrimenti lo sai…»
«Cosa?»
«Canile.»

“Se guardi negli occhi il tuo cane, come puoi ancora dubitare che non abbia un’anima?”.

(Victor Hugo)



Non può crederci.
Tobia non riesce a farsene una ragione.

Perché Luna è andata via senza di lui? Non è uscita da molto, sa che, volendo, può ancora raggiungerla. Ma è quasi ora… e lui è sicuro che il treno sia già lì ad aspettarla. È sicuro che se le sue intenzioni fossero davvero quelle di seguirla, non riuscirebbe a correrle appresso. Si ritroverebbe in una stazione vuota, con treni che portano ovunque tranne che dov’è lei…
Non ce la fa.
Luna lo farà impazzire un giorno o l’altro. Perché deve sempre comportarsi così? Come una bambina. Come se non lo sopportasse, come se volesse fuggire…

Tobia intasca il portafoglio, afferra le chiavi ed esce.
Non può andare a lezione in quello stato, proprio no. Deve respirare, calmarsi, fare due passi pensando a cosa può essere successo.

Scende le scale che portano fuori dal condominio dopo aver chiuso la porta a chiave, lo fa pestando i piedi sui gradini, come se il marmo fosse colpevole della fuga di Luna.
Ignora ogni cosa che lo circonda: il mare, che ospita i vacanzieri, le grida della gente sulla spiaggia, il bar, il bar dove Luna non voleva mai entrare.

«Facciamo colazione a casa.»

E per quanto Tobia si fosse arrabbiato in quell’occasione, mettendo il broncio e restando in silenzio, ricorda di aver provato una fitta allo stomaco alla parola “casa” detta da lei.

Percorre il lungomare, lascia che il sale gli sfiori la pelle, e pensa, pensa agli occhi di Luna, quel colore vivo e quello sguardo selvatico. Sempre in lotta con il mondo.

«Perché no?» sono le parole che meglio la identificano, che più gliel’hanno fatta amare.
A ogni cosa, a ogni obiezione, Luna risponde così.
E Tobia non fa altro che lasciarsi convincere…

«Ciao!»

Sente quel saluto quando, d’improvviso, si ritrova vicino alla stazione dei treni. Com’è arrivato fin lì? Ricorda solo di essere uscito, di aver camminato con il mare a fianco…

Solleva gli occhi per guardare chi l’ha salutato e riconosce la ragazzina che per tanti anni ha vissuto vicino alla casa di sua madre. È circa un anno che non la vede, esattamente da quando lei e la sua famiglia si sono trasferiti in città.

«Marta. Come stai?»

Non è sola, ma Tobia non ha idea di chi sia la giovane che l’accompagna. Sa solo che non gli piace, non gli piace il modo che ha di guardare, non gli piace il modo in cui stringe il braccio di Marta, come se volesse tenerla inchiodata lì, come se fosse un cane al guinzaglio.

«Bene» risponde Marta con un sorriso. Ma Tobia lo vede spegnersi quando incontra gli occhi della sua amica. «Come state nel ponente? Ancora tutti interi?»
«Interissimi.»
«E casa mia? La trattano bene?»

Tobia sfrutta quell’incontro per distrarsi.

«Sì. Le rose di tua madre ci sono ancora.»
Marta sorride. È alta quasi come lui, ed è allora che Tobia si rende conto che non è più una ragazzina. Osserva i capelli lunghi e biondi, lisci come seta, e ricorda di non averglieli mai visti sciolti.

Poi un’idea gli attraversa la mente… I capelli rossi di Luna, il modo in cui le incorniciano il viso, in cui le fanno risaltare gli occhi. Il modo in cui sembrano dar vita alle sue passioni.
Tobia sa che se Luna fosse con lui, quella conversazione avrebbe vita breve. Luna odia gli sguardi opprimenti, e l’amica di Marta non fa altro che guardarlo in quel modo.

Non sa perché, o forse lo sa e incolpa Luna, ma Tobia sente di non voler restare a parlare. Osserva l’orologio.

«Ti saluto, Marta. Magari capiterà di rivederci.»
«Oh, ma io ti ho visto tempo fa… Ero al parco con il mio cane e ti ho visto passare con una ragazza. Aveva i capelli rossi.»

Luna.

«Mi sembravate arrabbiati… Così non mi sono avvicinata.»
Tobia sorride con imbarazzo, come se non ricordasse perfettamente quel momento. Ma invece sa ogni cosa, ogni parola che ha innescato il nervosismo di Luna, ogni gesto che ha fatto lui per inseguirla e farsi perdonare.

«Alla prossima, allora.»

La lascia sotto i portici e scende le scale della stazione. Quell’incontro lo ha lasciato perplesso… Luna, il cane, l’incontro con Marta. Sa che se non fosse uscito quella mattina non l’avrebbe vista, sa che se Luna fosse stata con lui Marta non lo avrebbe nemmeno salutato…

Sa troppe cose, e l’unica che gli interessi adesso è conoscere l’orario del prossimo treno diretto da lei.

Cerca la tabella con gli orari e, quando la trova, è deluso.
Mancano tre ore al prossimo treno. Sembra quasi impossibile…

Decide di uscire per camminare un po’, per respirare quell’aria che, ora, non ha la possibilità di condividere con Luna.

Pensa a Marta e alle differenze che ha con lei… Sono due opposti. Marta è sempre stato un tipo solare, ubbidiente, facile da sottomettere. Mentre Luna, la sua Luna, è viva come i suoi capelli rossi, infuocata di passioni, ribelle come i suoi occhi.
Marta invece li nasconde sotto il rimmel, e Tobia ha il sospetto che sia stata la sua amica a spingerla a usarlo.

Raggiunge la piazza e si allontana dalla stazione. Passa davanti all’università, cammina a passo lento e costante verso la salita che lo porterà a vedere l’intera città, e che gli farà abbracciare l’intero mare.
Passa davanti allo studio veterinario dove Luna lo aveva portato per convincerlo a prendere un cane.

«Parlare con un medico ti farà bene. Vedrai che risponderà a tutti i tuoi dubbi.»

E Tobia l’aveva seguita senza sapere cosa chiedere.
Era stata lei a fare tutto.

Osserva la scritta sullo studio, le iniziali S. Birillo del medico veterinario, impresse in nero su una targa dorata. Non è ancora orario di visite, eppure la porta si apre davanti a lui.
Quello che gli si para davanti è un cane sconvolto…

«Salve» lo saluta una ragazza con i capelli bruni. E Tobia la riconosce: è con lei che ha parlato. «Ha bisogno?»
Tobia si sposta per farla passare, per farle passare: dietro alla ragazza c’è una donna, ed è lei a tenere il guinzaglio del cane. Sente una gran nostalgia di Luna… Se ci fosse lei, ora si chinerebbe ad accarezzare l’animale e, forse, lo aiuterebbe a sentirsi meglio.

«No, io…»
«Ma non ci siamo già visti?» insiste la veterinaria. «Aspetti… lei ha una cocorita, giusto?»

Tobia, come guidato dallo spirito di Luna, allunga una mano tremante verso la testa del cane.
Luna non farebbe così, si dice. Ed è la verità: Luna si lascia annusare prima di accarezzare. Sempre.

«No… Sono venuto a chiederle informazioni sui cani.»
«Ma certo! La ragazza con i capelli rossi!» la veterinaria sorride prima di volgersi verso la donna che è con lei. «La sua ragazza voleva a tutti costi fargli prendere un cane.»

Tobia sente le guance in fiamme.
La sua ragazza.

«No, noi… noi non stiamo insieme» sussurra in modo impercettibile.
«Non è con te?» La veterinaria passa a dargli del tu, e Tobia non trova il coraggio di ripetere quel chiarimento. «Magari lei potrebbe aiutarci.»

Tobia solleva gli occhi, rendendosi conto che in quel breve tempo in cui si è separato da Luna, ogni cosa nell’universo si è mosso per portarlo da lei.

«Che genere di aiuto?»
«Qualcuno» interviene la donna, facendo un passo oltre la soglia. «Qualcuno che si prenda cura di lui. L’ho trovato per strada.»

Tobia segue lo sguardo della donna e osserva il cane. Sembra stanco, debole, sembra che stia male. Chi mai lo prenderà? Nessuno, e in canile ci sarà un cane in più.
Se Luna fosse con lui, ora Tobia sentirebbe tremare la terra sotto i piedi, e la voce di Luna giungere fino in cielo.

«Non ho mai avuto un cane» confessa Tobia, studiando gli occhi grigi dell’animale. Un’idea lo pervade. Un’idea geniale.
O molto stupida.

«Io…» Sente l’indecisione farsi sempre più spazio dentro di lui, ed è quel momento di incertezza a spingerlo a fare il passo. Un passo oltre l’abisso. Presto non avrà più terra sotto i piedi, e ne sarà pentito. «Potrei provare…»

«Davvero?» mormora la donna, scrutandolo torva. Non sembra fidarsi di lui.
«Lilli, è fantastico! Lui sarà perfetto!»
«Perfetto? Non mi sembra molto sicuro…»

Tobia resta a testa china mentre parlano di lui. Sa di aver sbagliato, ma forse è ancora in tempo per tornare indietro.

«Ma non sarà solo, Lilli! C’è la sua ragazza, lei ama i cani, li ama. Lasciatelo dire.»
«No, sentite…» Tobia scuote la mano per bloccarle. «Ha ragione lei, io non sono nemmeno sicuro di quello che sto facendo. Non ne ho mai avuti… No, è proprio meglio di no.»

La veterinaria afferra il guinzaglio del cane e lo passa a Tobia. Sembra fare piccoli saltelli, e lui capisce che è dalla gioia.
«Sì, sì, invece! Perfetto, è perfetto. Sarai un ottimo padrone, ne sono sicura. L’incertezza è normale, e anzi, è un buon segno: significa che temi di non essere bravo. Per questo lo sarai.»

Tobia sente la stoffa ruvida del guinzaglio tra le dita e si sente oltre il bordo del precipizio. Sta cadendo, e nessuno, nemmeno Luna, riuscirà a salvarlo.

«No, vi ho detto di no. Ho cambiato idea.»
Fa l’atto di riconsegnare il guinzaglio a Lilli, ma la veterinaria lo ferma. Ha un sorriso enorme, e denti grandi e bianchi, più lucidi di quelli di chiunque lui conosca.

«Prendilo» mormora con dolcezza, senza il minimo segno di alterazione. «Non te ne pentirai, fidati di me.»
«Ma nemmeno la conosco…»

La ragazza gli fa cenno di accucciarsi e lo imita. Solleva il mento del cane con due dita e gli impone di guardarlo negli occhi.

«Se vuoi dire di no, devi dirlo a lui. Non a noi.»

E Tobia guarda.
Entra negli occhi grigi e tristi, e persi, entra nel suo mondo fatto di abbandono, di ricordi, di una casa che non vedrà più, di qualcuno che non lo cercherà più. Che non pronuncerà più il suo nome, che non lo chiamerà nel freddo e nella pioggia per offrirgli un riparo. Qualcuno che è da un’altra parte, lontano, troppo lontano per vederlo. Per vedere come sta soffrendo.
Per capire come l’ha ridotto.

Tobia sente gli occhi farsi umidi mentre vede lo spettro del suo viso nelle iridi del cane. È un volto scuro, tondeggiante, come se ogni lineamento di Tobia fosse visto in modo sbagliato dall’animale.

E per ultimo, nello sguardo di lui vede ancora una cosa.
La più importante, la più vera.
Vede Luna.

«E va bene. È mio.»

Anche Lilli sembra felice ora, forse si fida molto della veterinaria. Forse si era già affezionata al cane.

Cosa dirà Luna quando saprà? Lo perdonerà? Tornerà da lui?
Non vuole aspettare, vorrebbe averla lì a disposizione, pronta ad ascoltare ogni sua parola, a vedere quell’umido che gli ha offuscato gli occhi.

«Posso lasciarti il mio numero?» chiede Lilli. «Mi piacerebbe rivederlo.»

Tobia pensa a Luna, al modo di farle sapere. Poi decide, poi capisce cosa deve fare.

«Dite che avrà paura a viaggiare in treno? Non mi conosce nemmeno.»
Lo dice senza pensare di rispondere a Lilli, come se fosse ovvio che si rivedranno. In fondo lei lo ha trovato, è stata lei a portarlo da lui, a farli incontrare.

«In treno? Dove devi andare?» chiede ancora Lilli. «Posso portarti io. Oggi non lavoro.»
Sarebbe una cosa stupenda, Tobia lo comprende subito. In auto farebbe prima, in auto arriverebbe prima. La lascerebbe di stucco, senza parole, senza fiato.
«Davvero mi accompagnerebbe? Ma è lontano… Un’ora di autostrada.»

«Come ti chiami?»
«Tobia.»

Lilli sorride, mentre la veterinaria li osserva.
«Bene, Tobia. Guidare non mi dispiace. E, sinceramente, non contavo di trovare un padrone così presto. Ero pronta a mettere annunci su internet… anche a percorrere mezzo paese in auto pur di trovargli una famiglia.»

«Non so come ringraziarla…»

È la veterinaria a fermarli, prima che possano avviarsi verso il parcheggio. Solleva l’indice, come se fosse ancora a scuola, e fa la sua domanda.

«Come lo chiamerai?»

Tobia non ha esitazioni. Sceglie quel nome perché lo associa a Luna, alle sue passioni letterarie, alle poesie che legge sempre durante le lezioni. Non sa come gli sia venuto in mente, ma è perfetto, perfetto per lui, per loro. Per Luna.

«Myricae.»

Questa volta Tobia stringe il guinzaglio con forza, come se fossero le redini che lo porteranno fino a Luna. E sa che, per quanto abbia cercato di convincersi di aver accettato per lei, per essere all’altezza di lei, il vero motivo è quello di essersi lasciato ammaliare da quegli occhi e dal mondo che hanno visto.
Un mondo che Tobia non gli farà mai più ritrovare.

La grande gioia di avere un cane è quella di poter fare l’idiota davanti a lui:
non soltanto non ti rimprovererà, ma anche lui farà lo stesso.
(Samuel Butler)


Non può credere di aver incontrato Tobia mentre era con Anna.
È stata una sfortuna, questo lo ha capito subito. Ora deve ascoltare le lamentele della sua amica, le sue critiche al modo di vestire di Tobia, le sue domande riguardo alla gente che frequentava nel ponente.

«Non dirmi che sono tutti così grezzi…» insiste Anna, grattando via un poco di rossetto con i denti.

«No, avevo molti amici. Brave persone» cerca di giustificarsi Marta, mentre prendono la strada che porta all’università. Vanno lì spesso, ogni volta che Anna vuole vedere il ragazzo che le piace.
È uno grande.
«Lui era solo il mio vicino» spiega Marta. «Andavo alle elementari quando ha preso il primo motorino… È vecchio per essere mio amico.»
Lo dice con decisione, sperando che Anna la smetta di farle domande, di parlare di lui.

Salgono i primi gradini dell’ateneo, sperando, quasi pregando, che Giacomo stia per uscire. La prima a notarlo è Anna che, dimentica di Tobia, prende a emettere gridolini.

Marta vede solo il pacchetto di sigarette uscire dalla sacca di Giacomo, le mani che ne aspettano una, il colpetto che serve a invitarla a uscire.
«Come va?» chiede Giacomo con la sigaretta in bocca. È ancora spenta, ma a Marta viene una gran voglia di fumare.
Lui sembra intuirlo, e forse è per quello che gliene offre una. Non può fare altro che accettare, sperando che i suoi genitori non se ne accorgano.
Finora le è sempre andata bene, ma sa che prima o poi la scopriranno.

«Hai un profumo nuovo?» chiede Giacomo chinandosi sui suoi capelli, quasi sopra al collo.

No, vorrebbe rispondere lei. È lo stesso che aveva quando lui era ancora con lei, quando lui scappava vedendola indossarlo. I cani non amano i profumi, questo lo aveva capito grazie a lui.

«Figurati» risponde Anna al posto suo, con una vena di sarcasmo nella voce. «Usa sempre il solito…»

Marta riconosce la gelosia nei suoi gesti e si allontana.
Sa di non poter parlare, di non potersi quasi muovere quando è con Anna. Non vuole essere giudicata, vorrebbe solo diventare pari a lei… Comportarsi come lei, parlare come lei, essere guardata come lei.

Ma non può.
Non può essere se stessa, non può essere vera.
Non le importa: sa che è un passo essenziale per somigliare ad Anna.

Eppure… eppure un tempo c’era qualcuno con cui poteva essere se stessa. Qualcuno che non c’è più.
Il suo cane.

Vivere un cane fin da cucciolo è un’esperienza, Luna lo sa bene.
Ma salvarlo, proteggerlo e giurargli amore eterno è meglio.
Anche se fosse il suo ultimo giorno…

E qualcosa rimane,
fra le pagine chiare e le pagine scure,
e cancello il tuo nome dalla mia facciata
e confondo i miei alibi e le tue ragioni,
i miei alibi e le tue ragioni.
(De Gregori)

nn

Note dell'autrice:
Mi ritrovo qui, a scrivere note, dopo mesi dall'ultima pubblicazione... Non so se qualcuno torni a leggere questa storia, di tanto in tanto, ma è giusto che ringrazi le persone che l'hanno fatto, quelle che l'hanno seguita, recensita, apprezzata... le persone per cui ho deciso che Myr dovrà presto tornare. Perché la storia non è e non può essere finita, perché è molto importante per me, legata a un evento e a qualcuno a cui tengo moltissimo. Perché è la mia piccola, e non voglio abbandonarla.


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