Fiabe Slash

di Bab1974
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il principe ranocchio ***
Capitolo 2: *** Nome in codice: Cappuccetto Rosso ***
Capitolo 3: *** La fortuna del Gatto ***
Capitolo 4: *** Il guerriero e la Bestia ***
Capitolo 5: *** Le ali della libertà ***
Capitolo 6: *** Il ladro e il bell'addormentato ***
Capitolo 7: *** L'inganno ***
Capitolo 8: *** Il finto fidanzato ***
Capitolo 9: *** Il fu brutto anatroccolo ***
Capitolo 10: *** Nulla da perdere ***



Capitolo 1
*** Il principe ranocchio ***


Storia partecipante al contest di Sango_79, indetto sia sul forum di efp che su quello di Disegni e Parole, ispirato alla seguente immagine

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Il principe ranocchio




Il principe Hermin osservò il lago e decise di sedersi sul bordo. Era fuggito dal matrimonio di sua sorella maggiore che, finalmente, aveva trovato la sua anima gemella e il futuro re del paese. Un sospiro profondo attrasse la sua attenzione e a pochi passi da sé vide un ranocchio osservare l'orizzonte depresso. Hermin lo conosceva bene: per quasi un anno era stato ospite a palazzo, mangiando dal piatto di sua sorella, bevendo dal suo bicchiere e dormendo nel suo letto. E tutto questo solo perché le aveva recuperato una palla dorata dal mezzo di quello stesso lago. All'inizio tutti erano disgustati dalla sua presenza poi, alla fine, ci si erano abituati, compresa la principessa, che che si era affezionata a lui tanto da invitarlo al matrimonio.
"Padon, non ti è andata troppo bene con Olefia. Si vedeva quanto fossi innamorato di lei, ma puoi supporre che non poteva cedere le sue grazie a un ranocchio."
Quello sospirò ancora, più profondamente e in una maniera che strappava il cuore dal petto.
"Hermin, tu non puoi capire qual è la mia situazione." Il respiro di Padon era pesante per la disperazione "Ero certo che lei fosse quella giusta per tornare com'ero. Invece ieri sera sono riuscito a convincerla a baciarmi e... non è accaduto nulla, sono rimasto in queste scomode vesti."
"Non capisco." ammise Hermin, sorvolando sul fatto che la sorella aveva baciato un rospo. "Cosa sarebbe dovuto succedere?"
"Dovevo tornare umano. Ho fatto tutto ciò che quella stregaccia mi ha detto, lanciandomi la maledizione, non capisco dove ho sbagliato."
Hermin ci pensò su e decise che non aveva abbastanza informazioni per rispondere ai dubbi di quel povero essere.
"Perché non mi racconti cosa dice di preciso la maledizione? Magari potrei aiutarti a trovare una risposta."
Padon pensò che non aveva nulla da perdere a quel punto e recitò la formula che lo teneva incatenato in quel corpo di rettile.
"Ti maledico, diventa ranocchio
solo un bacio normale ti farà tornare,
per eliminare l'indegno malocchio,
labbra di sangue blu ti devon sfiorare."
Hermin strinse un attimo gli occhi, indeciso se mettere a parte Padon del motivo per cui il contro incantesimo non aveva funzionato. Aveva sprecato un anno che poteva essere sfruttato in modo migliore.
"Io so perché non è successo nulla." annunciò in maniera teatrale.
Lo sguardo di quel brutto ranocchio fu talmente stupito che Hermin non riuscì a trattenersi dal ridere.
"Come hai fatto a capirlo, appena ti ho recitato quell'incantesimo?"
"Semplicemente so una cosa di cui tu eri all'oscuro. Olefia, non è di sangue blu." Padon strabuzzò gli occhi e se li stropicciò, mentre Hermin continuava nel racconto "La mia adorata sorellona, è figlia di una cameriera che fu messa incinta da qualche bastardo che la abbandonò. I miei genitori, non riuscendo ad avere figli, decisero di allevarla come una principessa e continuarono a volerle bene anche quando nacqui io. Due anni fa, quando li avvisai che mi piacevano gli uomini e che non avevo intenzione di salire al trono, decisero che le avrebbero trovato un buon partito, un principe senza regno che potesse diventare re."
Padon sospirò di nuovo.
"Come me. Io sono un principe senza regno, sarei stato idoneo a quel compito."
"Lei, purtroppo per te, non lo era."
Tacquero entrambi per un lungo momento, poi Hermin lo fissò in maniera strana.
"La filastrocca che hai cantato parla solo di sangue blu, non del sesso di chi ti deve baciare o del fatto che ti devi per forza sposare con chi ti fa tornare uomo? O no?"
Padon, non sapendo dove Hermin doveva andare a parare, ci pensò un attimo, poi scosse timidamente la testa.
"In effetti avresti ragione tu. Avrei potuto farmi baciare da tua madre volendo."
"Oppure da mio padre. Ti ricordo ancora che non si parla di nessun sesso." gli rammentò di nuovo Hermin "Potrei baciarti io e sciogliere l'incantesimo cosicché..."
Interruppe la sua arringa, vedendo lo sguardo disgustato di Padon "Ehi, non c'è bisogno di fare quella faccia. Sono o non sono io quello che dovrebbe baciare un rospo? Non mi sembra il caso di fare lo schizzinoso!" s'irritò Hermin, che poi scattò in piedi. "Come ti pare, spero che tu rimanga un rospo per sempre!" E fece per andarsene.
"No, aspetta." lo chiamò Padon "Forse ho reagito male, non mi aspettavo una proposta del genere. Scusami." La frase fu seguita da un sonoro verso rospesco che Padon non riusciva a trattenere quando era nervoso. Il principe rise e tornò sui suoi passi.
"Beh, almeno la smetterai con questi sospiri strappa cuore." commentò "Cosa farai poi, quando tornerai umano?"
"Mi cercherò una principessa libera, oppure un lavoro, se dovessi essere tanto sfortunato da non trovarne. Potrei anche tornare al mio paese, per vedere come vanno le cose. Dopo duecento anni nel corpo di un rospo, potrei ritornare sul trono."
"O forse ti potrebbero bruciare come uno stregone." gufò Hermin "Comunque non credo che dovremmo pensare a quello che potrai fare dopo. L'importante è che funzioni e che la maledizione finisca."


Il lago in quel momento non era molto frequentata, la maggior parte degli invitati era impegnata nei giochi appositamente allestiti per intrattenere gli ospiti. Comunque Hermin e Padon decisero di inoltrarsi nella boscaglia perché fossero nascosti alla vista. Anche se non era in corsa per il trono, il ragazzo era pur sempre un principe e non stava bene che si facesse vedere in giro a baciare rospi o qualsiasi altro tipo di animale sulla bocca. Si misero uno di fronte all'altro, poi Hermin prese il rettile fra le mani e depositò un casto bacio sulle fredde labbra dell'altro. Lo osservò un attimo e lo ridepositò a terra. Contò mentalmente fino a dieci, poi, vedendo che non accadeva nulla, s'imbronciò.
"Uff, non mi dire che il mio sacrificio non è servito a nulla?" sbuffò "Ti avverto che un bacio più profondo, per quanto possa essergli amico, a un ranocchio non lo do."
Padon scosse la testa, il morale sotto le zampe.
"Non so dove possa avere sbagliato." commentò tristemente "Che sia possibile che dopo tanti anni mi sia dimenticato la precisa composizione della maledizione?"
"Oppure è passato troppo tempo. Com'è possibile che in duecento anni tu non sia mai riuscito a farti baciare?"
Un gracidare innervosito fu la risposta: avrebbe voluto vedere lui al suo posto! Come se fosse facile trovare qualcuno, oltretutto di sangue blu, disposto a baciare un ranocchio, per quanto educato e parlante!
Si stava girando di schiena, pronto ad andarsene per sempre, quando sentì un dolore sordo all'altezza del petto e le membra che si irrigidivano. L'ultima cosa che sentì prima di perdere i sensi fu la voce di Hermin che lo chiamava per nome.


"Padon, Padon, stai bene?" insistette la voce del principe. La testa gli girava vorticosamente, benché sentisse di essere sdraiato ed ebbe la tentazione di mandare all'inferno Hermin, che continuava a chiamarlo.
"Lasciami perdere nel mio dolore." non intendendo di certo quello fisico "Me ne farò una ragione e passerò l'eternità in questo corpo sgraziato." La sua voce, che rimase ferma nonostante la tensione che sentiva dentro, era carica di rammarico. "Ti ringrazio per tutto ciò che hai fatto per me, sei stato un buon amico."
"Sarebbe un peccato lasciare andare un bel ragazzo come te." fu il commento di Hermin "Non mi avevi detto che oltre ad essere un principe, eri pure un giovanotto niente male."
La risposta di Hermin lasciò un senso di stupore nell'altro, che per un momento in testa ebbe solo il vuoto, riempito in seguito dall'idea, confusa, che forse questa volta il bacio aveva funzionato e che era tornato finalmente uomo.
"Perché mi sento come se una carrozza trainata da venti cavalli mi sia passata sopra?" chiese, poi, nonostante non ci fosse un solo nervo che non gli dolesse riuscì ad abbassare la testa e vide il suo corpo nascosto sotto una coperta improvvisata "E perché mi hai coperto con il tuo mantello?"
Hermin lo osservò sorridendo, la testa mora piegata leggermente da un lato.
"Non mi stupisce che tu stia male, dopo la trasformazione che hai avuto. Ho visto il tuo corpo prendere forma e diventare alto e snello. La magia di quella strega doveva essere forte, se è riuscita a farti questo." Lo spettacolo era stato rivoltante, ma allo stesso tempo affascinante e non era riuscito a staccare gli occhi neppure un istante. "Per quanto riguarda il fatto che tu sia coperto dal mantello, non lo immagini? Eri un ranocchio nudo e lo stesso sei diventato da umano."
"Ops, in tutti i miei sogni a occhi aperti non ho mai pensato che sarei stato senza vestiti. Non era la mia priorità, ma grazie per la cortesia." Padon cercò di mettersi seduto, ma la testa gli girò più forte.
"Non avere fretta, hai atteso duecento anni, puoi aspettare qualche altra ora di rimetterti in forze" disse Hermin, alzandosi "Vado un attimo nelle mie stanze a recuperare qualche vestito. Dovrei averne di qualche anno fa che credo siano delle tua misura. Tu intanto stai qui tranquillo. Questa è una parte del boschetto che è recintata e nessun invitato può entrarvi. Se poi dovesse capitare qualche membro della famiglia reale, digli la verità. Dovrebbero crederti, la tua voce è quasi uguale, anche se un po' più chiara."
Hermin si allontanò, lasciando il ragazzo a terra. Quando tornò era appoggiato ad un albero, il mantello sceso al punto che faticava a nascondere le sue nudità. Il giovane principe inghiottì un paio di volte prima di parlare, cercando di non pensare a quanto fosse bello e che era completamente nudo.
"Stai meglio?" s'informò alla fine.
Padon annuì, lentamente.
"Ce la fai a vestirti da solo?"
"Sì, credo di ricordarmi come si fa, anche se è tanto tempo che non ho bisogno di vestiti." ridacchiò il ragazzo.
Hermin, ringraziando qualche divinità della fortuna, depose il fagotto accanto a lui e se ne andò, prima che l'altro si accorgesse dell'ingombrante erezione che gli aveva provocato.
"Fai con calma. Torno fra una mezz'ora con qualcosa da mangiare. Hai qualche preferenza?"
Padon scosse la testa, sempre piano. Forse era meno in forma di quello che dava a vedere, ma era talmente tanta la gioia di avere di nuovo un corpo umano che qualsiasi acciacco passava in secondo piano.



Hermin si ritrovò di nuovo in mezzo ai festeggiamenti. Olefia, con un gran sorriso, lo raggiunse e lo invitò a ballare.
"Sei sparito!" lo rimproverò bonariamente, mentre volteggiavano in pista "Perché mi hai abbandonata in questa bolgia infernale?"
"Questo è nulla, mia cara. Pensa a quanto sarai regina e dovrai ascoltare, assieme a tuo marito, i problemi di tutti e cercare di risolverli. Non so, se non avessi avuto dei gusti sessuali diversi, se sarei stato in grado di prendere il posto di mio padre."
La donna strizzò gli occhi, guardandolo con sospetto per la prima volta.
"Giurami che non hai finto che ti piacessero gli uomini per evitare di salire al trono." Il tono di accusa non offese Hermin che, anzi, si fece una grassa risata.
"Non l'ho fatto per questo e non sarebbe stata neppure una gran scusa, se non ci fosse stata una graziosa principessa pronta a prendere marito e nostro padre non fosse stato di larghe vedute. Non sarei stato il primo e probabilmente neppure l'ultimo a prendere moglie pur non trovando attraenti le donne." Hermin sospirò "Anzi, mi sono innamorato proprio un istante fa, temo."
"L'amore non è da temere, a patto che non sia a senso unico." sentenziò a fanciulla, dimostrando già una certa saggezza.
"Il caso è proprio questo. Credo che tu gli piaccia più di me." ammise il poveretto, già in ansia al pensiero di tornare da lui.
"Oh, è qualcuno che conosco? Dai, indicamelo!" ordinò, guardandosi in giro con circospezione "Voglio proprio sapere chi ti ha fatto alzare la bandiera in tale maniera." aggiunse accennando alle sue parti basse con il capo.
"Per Dio!" esclamò Hermin "Si vede molto?"
"No, la conchiglia e il bordo della giacca lo nascondono." rise Olefia "Per fortuna, nessun altra ragazza in età da marito desidererebbe danzare con te, se non costretta, altrimenti la vicinanza potrebbe esserti fatale e creare delle aspettative. Allora, mi dici di chi si tratta? Lo conosco bene?"
"Abbastanza, anche se durante questa festa è fiorito in una maniera che non crederesti. Voglio convincerlo a raggiungerci alla festa. A quanto pare è una specie di principe con una maledizione che si è risolta."
Vide la donna oscurarsi in viso e quasi bloccarsi in mezzo alla pista da ballo allestito nell'enorme giardino reale.
"Stai parlando di Padon, vero?" La faccia stupita del fratello le fece capire che era proprio così, senza bisogno che confermasse "Mi ha chiesto di baciarlo e sapevo che c'era qualcosa sotto. Ci sono rimasta davvero male quando non è successo nulla. Per non parlare di lui! Sembrava che un gruppo di baccanti gli avessero ballato sopra per una settimana di seguito. Allora, è riuscito a trovare la persona giusta!" Sembrava che la ragazza non sapesse se essere felice per lui o triste per non essere stata in grado di farlo lei stessa. "E dimmi, è così bello da farti reagire in questa maniera?"
"Lo è, ma il problema principale, al quale non avevo pensato al momento, è la sua nudità." confessò "Hai mai visto un ranocchio indossare delle braghe?"
Olefia capì il problema e cercò di trattenersi dal deridere il fratello.
"Come hai risolto il problema?"
"L'ho coperto con il mio mantello e sono corso a prendere qualche mio vestito dello scorso anno. L'ho lasciato dentro al giardino privato e sono tornato qui, con la scusa di prendergli qualcosa da mangiare e cercare di sbollire, ma non mi sta riuscendo molto bene."
"Voglio proprio vederlo. Non che sarebbe cambiato molto se si fosse trasformato ieri sera, con il matrimonio alle porte. Con tutto il bene che mi vuole, sono convinta che papà mi avrebbe uccisa, se avessi fatto saltare tutto." sentenziò Olefia.
Come se fosse stato chiamato dalla donna, il re apparve improvvisamente alle loro spalle.
"Hermin, ti dispiace se faccio un ballo con questa adorabile sposa?" chiese imponendo la sua presenza.
Il ragazzo si ritirò, contento che la sua erezione si fosse ridimensionata. La voce dell'uomo lo aveva spaventato e abbassato la sua eccitazione.
"Con piacere, padre." E cedette il posto al genitore.
"A proposito, dov'è Padon? Non l'ho più visto dall'inizio dei festeggiamenti."
"L'ho visto in riva al lago. Credo che la faccia disgustata di molti invitati e la paura di essere schiacciato, lo abbiano allontanato." disse, prima di avvicinarsi al buffet.
Riempì il piatto una prima volta e mangiò di gusto, poiché si sentiva improvvisamente debole, poi lo riempì ancora, guadagnandosi lo sguardo severo dei camerieri. Ricambiò con una smorfia altezzosa e se ne andò, allontanandosi dalla folla. Cercando di non dare nell'occhio, tornò al parco in cui aveva lasciato Padon e lo trovò appoggiato ad un albero, completamente vestito, fissare un punto indefinito nel folto del bosco. Era così bello da mozzare il fiato, ma almeno ora era vestito e Hermin si sentì più rilassato. Appoggiò il piatto a terra e si avvicinò alle spalle del ragazzo. Lui era distratto e non sembrava essersi accorto della sua presenza. li toccò una spalla e, dopo un primo sussulto, essendosi accorto che si trattava di lui,gli sorrise.
"Sto molto meglio, ora. Ti ringrazio per tutto ciò che hai fatto per me."
"Nulla di che, in fondo siamo amici. Anzi, potrebbe essere più divertente giocare a carte o a scacchi con te, ora che hai il pollice opponibile e non devi farti aiutare da un servitore."
Padon tornò a fissare l'infinito.
"Non ha senso che rimanga, me ne andrò il prima possibile alla ricerca del mio destino." rivelò l'ex ranocchio "Sono passati quasi due secoli da quando sono stato trasformato e la magia mi ha tenuto giovane, anche se in quel corpo sgraziato. Ora, però, tornerò a invecchiare come qualunque altro essere mortale e mi rendo conto di non poter perdere tempo."
"Non è necessario. Ho accennato qualcosa a Olefia e lei ha già capito. Le è molto dispiaciuto di non essere stata lei l'artefice della tua trasformazione e, se vorrai, sono certo che ti troverà un impiego a palazzo. Sei giovane e puoi imparare qualsiasi mestiere e i secoli di esperienza che hai alle spalle possono solo esserti d'aiuto."
Padon non rispose e si sedette sull'erba. Hermin lo imitò e cominciò a guardare quell'essere spaesato che, dopo aver ottenuto ciò che aveva atteso per secoli, ora non sapeva che fare della sua vita. Prima di rendersene conto aveva unito le sue labbra a quelle del ragazzo e lui non si era ritratto, anzi, aveva alzato il braccio per invitarlo a proseguire. Si sdraiarono sull'erba umida, continuando a baciarsi con passione. Hermin si rese conto di stare perdendo il controllo e non voleva costringere il ragazzo a fare qualcosa di cui poteva pentirsi. Separò le labbra e interruppe il bacio. Padon si lasciò sfuggire un sospiro dispiaciuto.
"Perché hai smesso?" lo interrogò "Era così bello!"
"Sei certo che sia quello che vuoi?" ribatté Hermin "Non voglio che tu mi rimproveri in seguito di non essere riuscito a dominare i miei istinti."
Padon sorrise al ragazzo che era sdraiato sopra di lui e gli accarezzò una guancia.
"In questo momento non vorrei essere da nessun altra parte, ma mi fa piacere che tu ti preoccupi per me." lo rassicurò Padon.
Hermin non era convinto di fare la cosa giusta: Padon era confuso e su di giri per la sua ritrovata umanità e, se si fosse pentito, lo avrebbe odiato per i secoli a venire. Purtroppo, era troppo eccitato per reagire in maniera saggia. Le attenzioni di Padon avevano risvegliato la sua poco sopita eccitazione annebbiando la ragione che gli diceva che doveva fermarsi, attendere che fosse passato un ragionevole tempo prima di abusare della sua virtù. Le mani del principe cominciarono a scogliere i legacci che erano stati appena stretti, permettendogli di accarezzare la pelle morbida, anche se non delicata. Gli anni passati all'aperto l'avevano resa elastica e resistente, ma con un aroma particolare e per nulla spiacevole. Passarono le seguenti ore a fare l'amore, incapaci di saziarsi l'uno dell'altro. Alla fine, avvolti dai due mantelli, giacquero esausti ma soddisfatti. Hermin si sentiva in pace con il mondo e vedere anche il suo amante così contento, lo rilassò.
Un rumore di dubbia provenienza lo spaventò e si rizzò seduto.
"Sembra il ringhio di qualche animale famelico." commentò Hermin, portando la mano alla spada corta che teneva accanto a sé più per decorazione che per altro. "Chissà come ha fatto ad entrare?"
Padon arrossì e si coprì con la sua porzione di mantello.
"La fame è di sicuro la colpevole, ma non è stato nessun animale. Il mio stomaco si sta ribellando, è troppo che non tocca cibo."
Risero assieme, poi Hermin rivolse l'attenzione al piatto che aveva portato e si rese conto che piccoli abitanti della foresta, soprattutto scoiattoli e formiche, ne stavano facendo scempio.
"Temo che dovremo tornare alla festa. Non credo che nel corpo di umano riuscirai a cibarti dei loro resti."
Padon scosse la testa, disgustato nonostante il brontolio continuo.
Si alzarono e vestirono, poi, rassettandosi alla meno peggio, uscirono dal giardino privato. I festeggiamenti era giunti quasi fino a lì. Alcuni bambini che giocavano nei dintorni scattarono incuriositi sperando di entrare prima che il cancelletto si chiudesse. Ci rimasero male quando Hermin lo serrò davanti ai loro volti e si mise la chiave in tasca.
"Al largo, qui è pieno di mostri che vi mangerebbero le budella." li minacciò il principe, cercando di non ridere.
I bambini erano impauriti e ancora più curiosi.
"Ma perché voi potete entrare?" chiese il più spigliato del gruppo.
"Hanno bocche piccole e denti deboli e non riescono a masticare la carne di un adulto, ma con la vostra, tenera e succulenta, farebbero un bel banchetto."
Uno dopo l'altro i bambini scapparono urlando dai propri genitori. Hermin si mise a ridere, mentre Padon sorrideva dietro di lui.
"Ora saranno ancora più incuriositi." lo avvisò.
Hermin non ribatté e lo invitò a seguirlo con un gesto della mano. Raggiunsero gli altri al banchetto. Olefia al vedere Padon tornato umano rimase senza fiato: era davvero di una bellezza che non aveva eguali. Hermin si avvicinò al padre e rifece le presentazione. Anche lui rimase molto sorpreso. Appena liberi i due ragazzi corsero al tavolo del buffet e Padon cominciò ad assaporare, senza abbuffarsi, ogni pietanza. Sembrava che i cibi avessero un sapore diverso, ora che era tornato uomo.
Olefia,appena ebbe un attimo di tempo, raggiunse il fratello.
"Sembra che non veda del cibo da secoli, eppure mi sembrava che gliene avessi portato una bella porzione, prima."
Hermin arrossì, come se fosse stato colto in fallo.
"Abbiamo avuto altro da fare e non mi chiedere cosa perché non ti dirò altro." rispose "Nel frattempo, alcuni animaletti si sono serviti del suo pasto e siamo dovuti tornare qui."
"Mi sembra che le cose stiano andando per il verso giusto. Sono contenta per voi." poi vide il volto serio di Hermin "C'è qualcosa che non va?"
Hermin cominciò a fissare il ragazzo che aveva stretto fra le braccia fino a poco prima e sospirò.
"Temo che tutto possa finire da un momento all'altro. Potrebbe essere solo un momento di confusione da parte sua, potrebbe stufarsi di me, potrebbe..." Olefia gli mise una mano davanti alla bocca, interrompendo i suoi sproloqui.
"Non pensare a quello che potrebbe succedere." lo invitò "Immagina che starete per sempre insieme. Non vale la pena avvelenarsi l'esistenza per qualcosa che non è ancora successo. Goditi la felicità e pensa che durerà per sempre."
Hermin sorrise alla sorellona e pensò che aveva ragione: sarebbero stati per sempre contenti. Se avesse pensato ciò, tutto sarebbe andato per il meglio.

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Capitolo 2
*** Nome in codice: Cappuccetto Rosso ***


Storia partecipante al contest di Sango_79, indetto sia sul forum di efp che su quello di Disegni e Parole, ispirato alla seguente immagine

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Nome in codice: Cappuccetto Rosso

 

 

 

 

Un ragazzo, con un vestito da Cappuccetto Rosso e una benda da pirata sull'occhio destro, entrò nel locale gay, dopo aver lasciato la parola d'ordine al buttafuori. Essendo l'ultimo giorno di Carnevale, nessuno fece caso all'abbigliamento, ce n'erano di ogni genere quella sera. Si avvicinò immediatamente al bancone del bar, appoggiò il cestino e ordinò un cocktail analcolico. Alla fine, mentre l'uomo lo serviva aggiunse:
“Il mio nome è Cappuccetto Rosso. Mamma vuole che porti questo cestino a Nonna, ma non sa dove si trovi. Mi hanno detto che lei ha quest'informazione.”
Il barista si bloccò immediatamente e capì che non era il solito gay arrapato in cerca solo di avventure. Appoggiò il bicchiere che stava pulendo e, nonostante le proteste degli altri avventori, lo fissò intensamente.
“Non sei l'unico che desidererebbe parlare con Nonna. Purtroppo la maggior parte di loro vorrebbe fargli del male. Non posso farti andare da lui così facilmente. Mi serve più che un vestitino rosso per convincermi che sei dalla sua parte.”
“Forse potrebbe convincerti quello che sta dentro questo cestino. Mamma è convinta che la Nonna lo gradirebbe molto.” Lo spinse verso di lui che sbirciò dentro e il suo viso si illuminò.
“Lo credo anch'io che si farebbe ammazzare per qualcosa del genere, purtroppo nessuno è perfetto, ma ugualmente non posso dirti dove si trova di preciso. Devo proteggerlo a ogni costo, anche se non vorrebbe.”
Cappuccetto Rosso sembrò piuttosto contrariato del rifiuto dell'uomo e mise un broncio adorabile che sciolse il cuore dell'uomo e gli indurì qualcos'altro, ma si trattenne da scavalcare il bancone del bar e mettergli le mani addosso: anche se in pausa momentanea, era sul posto di lavoro e quel ragazzo era troppo giovane per lui.
“Non posso aiutarti. Potrebbe essere un trucco per raggiungere Nonna. Devi usare le informazione che ti ha dato Mamma per raggiungerlo, senza altro aiuto. Però, attento, se sei dalla sua parte! Parecchi potrebbero utilizzarti per arrivare da lui. Soprattutto sta attento al Lupo. È molto furbo e potresti non riconoscere in lui un essere malvagio, ma lo è fino al midollo.”



Cappuccetto Rosso si allontanò dal bancone del bar abbattuto, con il cestino in mano e senza un indizio per la ricerca di una persona di cui non aveva neppure una foto. Un nome, certo, gli era stato dato, Olimpio Bassotti, ma la donna che lo doveva pagare, di cui non conosceva le generalità, lo aveva pregato di non usarlo, per la sua sicurezza.
“Se dovessero sapere dove si trova, la sua incolumità sarebbe minata e io non le pagherei nulla.”
Alla fine Omar Tassoni, questa era la vera identità di Cappuccetto Rosso, un giovane investigatore privato al momento senza lavoro, si era convinto ad accettare il caso per cui aveva sottoscritto un contratto che alla fine gli avrebbe portato un bel gruzzolo, se tutto fosse finito bene. Peccato che fosse meno facile del previsto!
“Ehi, Cappuccetto Rosso, che ne dici di fare un giro nella mia tana?” lo abbordò un tipo, vestito casualmente da Lupo, con tanto di orecchie e coda finte. Omar si voltò e gli venne quasi da sorridere per l'assurdità della faccenda, poi venne colto da un dubbio: e se si fosse trattato del Lupo Cattivo che voleva rubargli il cestino, oppure raggiungere Nonna?
“Scusami, ma devo raggiungere la mia nonnina e portargli questo cestino di cibarie.” disse con la voce più innocente possibile. Sperò che così il tipo si arrendesse e lo lasciasse perdere, ma sembrava in vena di scopare e in quel preciso momento di montare proprio sopra a lui. Gli strattonò il cestino, lo gettò a terra e lo sbatté contro il muro.
“Avanti, non fare storie, sono certo che la nonna potrà aspettare un paio d'ore che abbia finito di mangiarti.” E fece un ululato mentre, senza troppo cerimonie, la sua mano si infilò dentro i pantaloncini rigati, gli spostò il perizoma e andò dritto fino ad entrare nel suo buchetto.
“Ahi, mi stai facendo male!” si lamentò Omar, cercando di respingerlo, ma era alto, forte e pure piuttosto belloccio. Sapeva che non avrebbe resistito a lungo se non fossero intervenute causa di forza maggiore. Era troppo chiedere che tirasse un terremoto di primo grado proprio in quel momento?
“Su, si vede che non sei un novellino e che ti piace. Rilassati e ti farò vedere le stelle.” lo invitò con voce suadente il Lupo, sussurrandogli all'orecchio mentre, con mano esperta, cominciava a farlo godere con i suoi movimenti lenti ma decisi. Omar sentì la sua mente vagare e il suo membro erigersi, quando l'uomo ritirò la mano, più bruscamente di quanto l'aveva infilata, facendogli ancora più male. Poi lo prese per il collo, schiacciandolo contro il muro in maniera tutt'altro che erotica.
“Tu non sei un Cappuccetto Rosso qualsiasi! Dov'è Nonna? Dimmelo o ti strangolo.” lo invitò rudemente.
“Accidenti, non lo so, il barista non me l'ha voluto dire.” gridò Omar. Il cambiamento improvviso del ragazzo lo aveva stravolto, ma capì che doveva essere informato su Olimpio meglio di lui, se conosceva così bene quali erano i suoi gusti al punto che gli era stato sufficiente osservare quei biscotti, per capire che glieli doveva consegnare.
“Quindi lui non si fidava di te.” ragionò il Lupo, senza mollare la presa “Ora tornerai da lui, con il viso più innocente che puoi e glielo richiedi, se non vuoi che ti stringa fino a farti uscire gli occhi dalle orbite. So che è un vero porco, se gli sbatti il culetto bene in faccia, nonostante voglia dare la sensazione di essere molto posato, e tu hai un fondoschiena per niente male.”
“Posso riprovare, se non mi uccidi. In effetti mi è stato molto sulle palle il suo rifiuto.” Omar cercò di essere accondiscendente. Forse poteva convincere il barista a chiamare la polizia, oppure a farlo fuggire dal retro. Non aveva ancora finito questi pensieri, quando sentì la mano lasciare la presa e il Lupo cadere a terra. Da dietro di lui spuntò un ragazzo dall'aria truce, armato di un fucile d'assalto girato dalla parte del calcio. Lo aveva colpito alla testa proprio con quello.
“Oddio, ti ringrazio, quello voleva farmi del male, in una maniera o nell'altra.” Gli saltò quasi in braccio dalla gioia.
L'altro si ritrasse, osservandolo in maniera torva alle parti basse.
“Non sembra che ti dispiacesse la violenza.” lo accusò “Sempre che io non mi confonda e tu non abbia una 44 magnum nascosta nei tuoi short.”
Omar arrossì e si osservò lui stesso: nonostante avessero appena cercato di strangolarlo, l'erezione causata dall'intrusione forzata non voleva diminuire e faceva capolino attraverso la stoffa leggera.
“Comunque io sono il Cacciatore. E tu, che ci fai vestito da Cappuccetto Rosso in un'orgia come questa? Sembra che tu voglia che tutti i gay della zona ti saltino addosso.” Nonostante il tono continuasse a essere duro, si chinò a raccogliere il cestino. Nel porgerglielo l'occhio gli cadde sul contenuto e si bloccò pure lui.
“Omini di Pan di Zenzero! Non dirmi che ti manda la Mamma? Ora capisco perché il Lupo ha reagito in quella maniera. Lui è ossessionato da Nonna.” commentò porgendoglielo “Tu almeno sai dove si trova? Non lo vedo da qualche giorno, sono preoccupato.”
Omar scosse la testa sconsolato. Non sapeva se poteva fidarsi di lui. Secondo il barista, l'unico in quella faccenda che non aveva il nome di un protagonista della fiaba, ma forse solo perché erano finiti, il Lupo era molto furbo, quindi non poteva fidarsi fino in fondo di questo nuovo venuto.
“Beh, come travestimenti sono banali, i vostri, se anche normalmente siete noti con questi nomi.” Omar cercò di rassettarsi, ma non faceva che mettere in risalto l'erezione.
“Fai bene a non fidarti di nessuno.” si complimentò il Cacciatore “Però, ora aiutami a nascondere questo porco vestito da lupo, prima che qualcuno lo veda e che chiami aiuto. Anche se siamo a Carnevale e siamo in una zona in cui non è difficile trovare qualcuno svenuto per l'alcol, è meglio stare dalla parte del sicuro.”
Fu doloroso portare un peso con il pene dritto e si sentì sollevato quando lo depositarono dietro un vicolo. Appena mollato il ragazzo respirò a fondo e iniziò a contare mentalmente per rilassarsi.
“È meglio che tu ti liberi, prima di fare qualsiasi altra cosa. Potresti avere dei problemi se prosegui così conciato.” poi osservò il proprio pacco “Accidenti, alla fine avete eccitato pure me. Però ho un'idea geniale. Allo stesso tempo troveremo entrami soddisfazione e ci vendicheremo di questo cretino.”


Omar si chiese come fosse finito dietro quel vicolo a fare una sega a uno appena conosciuto, mentre quello lo ricambiava tenendo in mano il suo pene. Insomma, lo sapeva, ma la faccenda, che all'inizio gli sembrava solo una cavolata, prendeva contorni sempre più assurdi e inquietanti. Non che non fosse piacevole, ma era strano come si era giunti a questo. Dopo qualche minuto, a poca distanza di tempo l'uno dall'altro, vennero copiosamente, sul viso e sui vestiti del Lupo, che non fece neppure un movimento. Se ne andarono, prima che riprendesse i sensi e tornarono in strada per occuparsi della ricerca di Nonna.
“Vado io dal barista. A me dirà di sicuro qualcosa.” La sua convinzione sollevò Omar che ne sapeva di più di lui, ma la faccia che aveva all'uscita, lo confuse alquanto.
“Non lo vuole dire neppure a me!” sbottò “Non ci capisco più nulla. Non credo che Nonna sia più in pericolo del solito. O almeno credo. Mi aiuteresti a trovarlo?”
“Forse se mi dicessi qualcosa di più su questo tipo. A parte il nome vero, non so altro.”
“Non posso darti troppe informazioni. Potresti essere qualcuno che vuole fargli del male. Ma se sai il suo nome, dimmelo e dimostrami di aver parlato davvero con Mamma.” lo sfidò.
A quel punto Omar fu colto da un dubbio: e se questa non fosse che una commedia per sfilargli informazioni? Non aveva ancora capito che cosa volevano tutti da Nonna, ma doveva essere qualcosa di importante, se ci si impegnavano tanto.
“No, non vorrei essere ingannato. Mi terrò per me quel poco che so, per evitare che sia raggiunto da qualcuno che non dovrebbe.”
Il viso del Cacciatore si allungò per la sorpresa.
“Tu non puoi pensare che voglia fargli del male!”
“Io non ti conosco, come tu non conosci me. Quindi dimmi quello che puoi e vediamo se riusciamo a trovarlo.”
Il Cacciatore, nonostante si sentisse offeso, dovette ammettere che la Mamma aveva scelto bene: era un ragazzo di cui potevano fidarsi.



“Per prima cosa tenterò di contattare la Mamma.” annunciò il Cacciatore
Dopo parecchi minuti al cellulare e averlo scaraventato a terra frantumandolo, si rivolse di nuovo a Omar.
“Cappuccetto, non riesco a rintracciarla. Non ti ha dato nessuna indicazione per contattarla nel caso che avessi avuto del problemi?”
Omar scosse la testa, rendendosi conto di essersi impelagato in una storia senza nessuna certezza.
“Comincio a credere che si tratti di una specie di scherzo di Carnevale.” si lamentò “Che razza di fesso che sono! Chi ti promette un mare di soldi senza darti alcuna informazione a parte il nome del ricercato.”
“Allora perché non mi dici quel nome e tagliamo la testa al toro.”
“Perché sarebbe poco professionale da parte mia, se invece fosse vero e ci fosse davvero qualcuno che rischia la vita solo per mangiarsi dei biscotti fatti in casa.”
Il Cacciatore sorrise.”

“Così sei una specie di investigatore. Sai, anch'io faccio un lavoro tipo il tuo, solo che non sono molto in regola.”
“Nessuno che porti un fucile del genere può esserlo, se è vero come sembra. Questa faccenda è tutta così assurda. A parte me, che sono qui per caso, tutti sembrate essere così ogni giorno dell'anno, anche se non si tratta di carnevale. Il tuo amico Lupo, per esempio. Il suo costume non era affatto originale.”
“ Il tuo lo è invece. Molto particolare l'idea della benda sull'occhio. Comunque tutto è cominciato per caso. Cappuccetto Rosso era la fiaba preferita di Nonna e l'ha scelta come riparo quando ha dovuto cominciare a nascondersi.”
“Ho sbattuto nella scrivania. Ma da che cosa fugge Nonna?” chiese Omar, sempre più curioso.
“Non me la sento di dirtelo, non ho il diritto di farlo, anche se a volte, come spesso succede, il suo peggior nemico è se stesso. La paura di fare le cose sbagliate, spesso ci fotte a tal punto che finisci per fare nulla o per peggiorare la situazione. All'epoca però anch'io pensavo che non ci fosse altra soluzione. Ero troppo giovane e immaturo per poter immaginare altre vie. Ora, se tornassi indietro, sono certo che avrei potuto aiutarlo in altra maniera, oltre che a difendere la casetta in mezzo al bosco che lo protegge.”
Omar era ancora più confuso e non lo credeva possibile. Cosa era accaduto a Nonna che lo aveva portato a nascondersi? Era stato testimone di fatti sangue? Era fuggito da una setta religiosa che non lo voleva lasciare andare? Aveva compiuto atti osceni e se ne vergognava? Gli scenari erano innumerevoli e capì che non avrebbe mai indovinato. Forse se avesse avuto tempo, avrebbe potuto informarsi presso un suo amico poliziotto, se conosceva questo Olimpio Bassotti. Sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto l'indomani, se quella serata fosse proseguita male com'era cominciata.
Il Cacciatore gli chiese il cellulare per chiamare Nonna, che Omar gli consegnò solo dopo essersi fatto promettere di non romperlo, ma non ricevette risposta.
“A casa non risponde e al cellulare neppure.”
“Allora, come ci comportiamo?" chiese Omar "Puoi dirmi qualcosa, senza tradire la sua fiducia?”
“Ora andiamo in un posto che frequenta di solito. Vediamo se si è fatto vedere negli ultimi tempi.”



Omar non sapeva certo che aspettarsi, ma la vista del centro anziani lo stupì. Si era fatto l'idea, nonostante il soprannome che si era affibbiato, che Olimpio fosse un giovane uomo. Vide il Cacciatore aggirarsi fra i vecchietti e domandare se Nonna si era vista negli ultimi tempi. A ognuno dovette ripetere la sua domanda almeno tre volte e dopo tre quarti d'ora aveva ricevuto solo risposte negative.
“Non credo che hai fatto molti progressi, magari dovresti provare in qualche altro luogo.”
“Questo è il suo preferito. Qui si sente al sicuro.” rispose il moro.
“Deve fare proprio una vita di merda!” esplose Omar, correndo fuori dalla porta principale. Quell'aria calda, fra odori di medicinali e puzza di pipì, lo stava soffocando. Il Cacciatore gli corse dietro e lo prese per un braccio.

“Dove credi di andartene? Devi aiutarmi a trovarlo.”

Omar fece un respiro profondo e cercò di calmare i nervi, cercando di spiegare con calma come si sentiva.

“Stamani, quando ho accettato il lavoro da Mamma, avevo del tempo libero, perciò ho pensato che non ci fosse nulla di male. Mi ha dato un buon anticipo e mi ha promesso una lauta ricompensa a lavoro eseguito. Però ora me me sto pentendo. Mi sembra che qualcuno mi stia prendendo per il culo, solo che non sto godendo.”

L'aria da cane bastonato dell'uomo, lo convinse che almeno lui non lo stava prendendo in giro: era davvero preoccupato per Nonna, chiunque fosse.

“Ok, continuo ad aiutarti, ma ti avverto che domani pomeriggio devo seguire un tizio per dimostrare alla moglie se gli è infedele, non posso seguirti per sempre.”

“Non so perché Mamma abbia scelto uno come te, sa che non sopporto la vostra categoria e il fatto che siate disposti a fare ogni tipo di lavoro pur di guadagnare.” sbottò il Cacciatore.

“Non accetto lezioni di galateo professionale da uno che se ne va in giro con un fucile d'assalto. Io la licenza per la mia pistola, non credo che tu possa affermare altrettanto.”

“Ostia, come sei permaloso. Ok, passerò sul fatto che sei una sottospecie di sbirro, ma aiutami. Devo scoprire dov'è Nonna e sperare che si stia nascondendo. Non oso immaginare che gli potrebbero fare, se lo avessero trovato.”

Omar si trattenne dal picchiarlo per il commento poco carino e cercò piuttosto di informarsi sulle mosse seguenti.

“Ho intenzione di setacciare tutti i luoghi che frequenta, sperando di trovare un qualche indizio che mi possa portare dove si trova. Magari si nascondo proprio lì, molti sono aperti h24.”

Omar cercò di trattenere un sospiro scocciato e so preparò a una lunga, lunghissima notte di veglia. Sperò di riuscire a riposare al mattino, o si sarebbe addormentato durante l'appostamento pomeridiano. Dopo il centro anziani, si diressero verso un negozio che sembrava essere uno dei preferiti di Nonna, una rivendita di libri e film. A detta del commesso, che conosceva anche il Cacciatore, l'anziana era stata da loro tutto il pomeriggio. Se n'era andata qualche ora prima.

-Quindi non è molto che è sparito.- pensò Omar, tutta questa ansia mi sembra esagerata.

In seguito proseguirono la ricerca verso un sexyshop, che era stato svaligiato dall'arzilla vecchietta solo una mezzora prima.

Dalla musica che ascoltava, dai libri che leggeva e dagli oggetti che comprava, Omar si convinse sempre più che Olimpio fosse un giovane omosessuale che, per qualche motivo che gli sfuggiva e del quale nessuno lo voleva mettere a conoscenza, si travestiva da vecchina rock.

Visitarono qualche altro negozio. Sembrava che Nonna preferisse le attività con apertura continua, perciò non fu difficile capire che fino a qualche minuto era a prendere un caffè in un bar che distava poco dalla sua abitazione.”

“Io non capisco.” fu il commento del Cacciatore “Perché tutta questa storia, se in realtà sta bene? Perché non mi risponde al telefono?”

Ritentò di nuovo al cellulare e a casa, ma entrambi suonarono a vuoto. Anzi no, a casa rispose la segreteria telefonica e, per la prima volta, Omar ebbe un'idea della sua voce. Poteva sembrare quella di un uomo che cercava di imitare un'anziana signora.

Erano seduti su una panchina e l'aria abbattuta del Cacc... uff, per cominciare non sarebbe stato male chiedergli il nome, giusto per smettere di chiamarlo così. Gli accarezzò i capelli neri, che gli arrivavano alle spalle e si accorse che il gesto non gli era dispiaciuto. Il moro gli baciò il palmo della mano e un attimo dopo si baciavano teneramente sulle labbra.

“Mi dispiace per la mia reazione di prima.” si scusò sorridendo il Cacciatore “In realtà la mia è solo invidia. A causa del mio carattere irruento e del fatto che non riesco a concentrarmi su nulla, ho perso l'occasione di prendere io stesso l'abilitazione e, sempre per lo stesso motivo, mi trovo a bisticciare con quelli che invece ce l'hanno fatta.”

“Ti perdono, ma solo se mi dici il tuo nome.” rise il biondo “Io mi chiamo Omar e, come ti ho rivelato, sono un investigatore privato.”

“Davide, piacere.” ribatté l'altro, tendendogli la mano come a presentarsi sul serio “E, come avrai già capito, io faccio più o meno il tuo stesso lavoro, solo che non sono proprio in regola e spesso sono costretto ad accettare lavoretti poco puliti per tirare avanti. Allora, poiché sei tu quello abilitato fra noi due, cosa ne dici di suggerirmi cosa fare come prossima mossa?”

L'aria interrogativa e demoralizzata del ragazzo, lo divertì. Sembrava aperto a ogni proposta e sperò che la sua non lo trovasse troppo spiazzato.

“Andiamo a casa sua.” disse perciò Omar.

 

 

 

Lo stupore che vide sul volto del giovane uomo, fu maggiore a ciò che aveva supposto. Forse, se gli avesse proposto di cercarlo sulla Luna, avrebbe reagito in maniera meno esagerata. Se, come gli aveva detto, aveva tentato di prendere l'abilitazione, doveva aver seguito qualche corso su come si segue un'indagine e la prima cosa di sparizione era visitare il luogo in cui abitava.

“Non può essere in casa. Mi avrebbe risposto, non sono un estraneo.”

“Non è detto che fosse in casa, in fondo fino a poco tempo fa era al bar, ma devi tenere conto che qualcuno ha attaccato la segreteria, che prima era spenta. Comunque dobbiamo scoprire qualcosa in più. Hai le chiavi, o dobbiamo forzare la serratura?”

Come risposta Davide prese un mazzo di chiavi dalla tasca e glielo dondolò davanti agli occhi.

“Ora capisco perché non ho preso l'abilitazione.” si lamentò “Era una cosa talmente banale.”

“Quando si è coinvolti emotivamente l'ovvio va a farsi benedire.” lo consolò Omar “Io andrei subito.”

Davide lo strinse per la vita.

“Dimmi, una volta risolta la faccenda di Nonna, credi che potremmo proseguire il discorso che abbiamo cominciato prima?”

Omar gli accarezzò le labbra con un dito.

“Me la prenderei molto se tu non lo facessi.” fu la sua risposta.

 

 

 

Ci volle davvero poco per raggiungere il palazzo in cui abitava Nonna. Persero più tempo ad arrivare all'appartamento dalla strada, poiché era una costruzione vecchia. Non che cadesse a pezzi, anzi era piuttosto pregiato, ma la mancanza di un ascensore si faceva sentire. Questo confermò a Omar che Olimpio dovesse essere un giovanotto. Nessuna signora anziana, per quanto arzilla, sarebbe sopravvissuta a quelle venti rampe di scale. Pure lui, che era allenato, arrivò davanti alla porta con il fiato corto. Osservò il campanello e notò che non c'era nessun nome, ma solo un disegno floreale.

“Ma gli arriva la posta?”

“Una signora al primo piano, che lo conosce, gliela ritira e gliela consegna quando lo vede passare.” lo informò Davide, prima di impugnare il fucile e osservarsi attorno con circospezione.

“Non credo che siamo in pericolo.” cercò di calmarlo Omar, ma non servì a placargli i nervi. Davide lo teneva per la vita, come se volesse proteggerlo dal pericolo, anche se in realtà non c'era nulla che sembrava prevedere che ce ne fosse. Lo lasciò fare per alcuni secondi, pensando che non stesse facendo nulla di male. Poi decise che era il caso di prendere in mano la situazione.

“Ora finiscila di fare il buffone ed entriamo.” lo invitò Omar, sciogliendosi dall'abbraccio. Davide, ancora convinto che qualcosa non tornasse in quella faccenda, obbedì, lasciò cadere il braccio, rimise a posto il fucile e si frugò in tasca alla ricerca delle chiavi. Fece per infilarle nella toppa, quando Omar lo fermò.

“Scusami, perché non suoni il campanello prima?

Lo sguardi stordito di chi si sente preso in giro (almeno Omar non si sentiva più solo) lo colpì, ma proseguì comunque nel suo intento. Senza chiedere ulteriori permessi, suonò brevemente, con il dito pronto per un altro trillo più prolungato.

Non ci fu bisogno. L'attesa fu più breve del previsto. Sembrava quasi che fossero attesi. Ad aprire non fu una vecchina, ma neppure un uomo.

-Un angelo!- pensò Omar, folgorato dall'immagine di chi gli si era parato davanti.

Ok, si trattava senza dubbio di un maschio, ma con lunghi boccoli biondi, grandi occhi azzurri e un viso talmente delicato che poteva essere scambiato con quello di una donna a una prima occhiata sfuggevole, o se avesse voluto travestirsi.

Sia Omar, che Davide, per motivi diversi, rimasero senza parole a osservare quella apparizione, avvolta in un candido accappatoio.

Fu la voce del ragazzo a scuoterli.

“Su, entrate, smettetela di guardarmi con quelle facce da ebeti.” li invitò brusco “E scusati l'abbigliamento, sono appena uscito dalla doccia.”

Omar obbedì, vergognandosi del proprio comportamento poco professionale. Al contrario, notò che l'ira (causa di molti suoi guai) stava montando copiosamente in Davide. E, mentre Omar accettò di buon grado di sedersi sul divano, l'altro cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza.

“Se ti siedi, sono certo che potremmo discutere con più calma.” lo invitò Olimpio (beh, anche se ancora non si erano presentati ufficialmente, Omar era convinto si trattasse di lui).

“Olli, non credo di riuscire a stare fermo, non se non riesci a farmi capire perché mi stai prendendo in giro in questa maniera. Ti rendi conto quanto sono stato in ansia?”

“Lo so, tu ti preoccupi davvero molto per me.” convenne Olimpio “Ed è per questo che non riesci a prenderti abbastanza cura di te stesso. Avresti una vita mediamente normale, se non dovessi ogni santo giorno occuparti della incolumità.. Per questo, con la mamma, ho pensato che avevi diritto a essere più sereno.”

“Cosa significa? Nessuno può starsene da solo, neppure tu.”

“Beh, potrei non essere solo, almeno al momento. Che mi diresti, se ti confessassi che forse ho trovato il ragazzo della mia vita?”

“Ne sei certo?”

“Solo alla morte non si può sfuggire, ma mi piace pensare che sarò felice con lui per sempre.”

“Chi è? Lo conosco?”

“Al momento lo tengo per me, ma non temere, lo saprai presto.”

Davide, un po' meno arrabbiato, divenne però pensieroso. Si accarezzò il volto e per qualche minuto tacque. Omar, che sentiva di non fare più parte della situazione, si chiese se non fosse il caso di levare le tende. Alla faccia della ricompensa, in fondo neppure l'anticipo non era male e si sarebbe potuto accontentare. Perse l'occasione e Davide ricominciò a parlare.

“Quindi, poiché ha sistemato te, la mamma si è ricordata di avere un altro figlio e vuole aiutarlo creandogli una vita migliore? E cosa centra Omar in questa buffonata?”

“Tu conosci la mamma, non lascia mai nulla la caso.” gli ricordò Olimpio “Mentre cercava un investigatore privato che seguisse il mio ragazzo, poiché non si fida di nessuno, ha incontrato Omar, ha trovato che fosse carino e che potesse essere adatto a te. Oltre a farti imparare qualcosa del mestiere di investigatore che non ti è ancora entrato in testa, seguendolo nelle sue indagini.”

“Un attimo...” farfugliò Davide, meno confuso ma comunque incredulo. “Tutta questa follia era un appuntamento al buoi per me.” Davide non sapeva come reagire alla faccenda.

La risata cristallina di Omar interruppe lo scambio di sguardi tra i due. Il ragazzo si teneva la pancia e quasi si rotolava sul divano a causa dell'ilarità dall'aver scoperto di essere stato una pedina di una stramba partita a scacchi giocata da due tipi un po' pazzi, per un motivo del genere.

“Che c'è di divertente?” sbottò Davide, scocciato.

“E che questo significa che la lauta ricompensa che Mamma mi aveva promesso... eri tu.” disse, cercando di dominarsi e asciugandosi i goccioloni che gli scendevano sul viso.

Davide arrossì, ricordandosi del momento di intimità che c'era stato fra loro solo pochi minuti prima. Doveva ammetterlo, Mamma aveva avuto l'occhio lungo. Alla fine si rilassò e si sedette accanto a Omar.

A quel punto, in cui nessuno sembrava che altro dire, Omar decise che voleva soddisfare la curiosità. Perché Olimpio si travestiva da vecchietta e perché tutti lo proteggevano in quella maniera?

Raccontando a turno, la storia che venne fuori fu la seguente. I due, che in realtà erano fratelli, anche se non si assomigliavano per nulla tra di loro, avevano quasi due anni di differenza.

Davide, che era il più grande, si era sempre occupato di difendere il fratellino dagli attacchi degli altri. Da bambini, picchiava tutti coloro che lo canzonavano per il suo aspetto poco mascolino, nell'adolescenza lo doveva difendere dalla corte di chiunque si avvicinasse a suo raggio d'azione. Non importava che fossero gay o etero, uomini o donne, nessuno rimaneva immune al suo fascino angelico e tutti si impegnavano per circuirlo. Era riuscito a stento a diplomarsi senza che coetanei o insegnanti riuscissero a profanarlo e anche in seguito non era andata meglio.

L'idea di abbruttirlo era venuta alla madre. Omar, con il senno di poi, pensò che Olimpio assomigliava moltissimo alla donna, che era ancora bella nonostante dovesse avere più di cinquant'anni. L'idea non fu vincente. Sembrava che non ci fosse nulla che lo rendesse abbastanza brutto da farlo rendere meno attraente, senza rovinargli la vita.

“Non capisco come il fatto di vestirti da anziana ti abbia portato ad avere una vita migliore.”

“In effetti, alla fine ci siamo resi conto che ho solo buttato nel cesso più di quindici anni di vita. Avrei dovuto imparare a gestire al meglio quello che avevo alla luce del sole. Spero di riuscirci ora, se non è troppo tardi.”

“Comunque è stato utile per levarti dalle palle certi esseri indegni come quel Lupo, per esempio. Ha preso questo nome quando ha scoperto che si vestiva da vecchia.”

“E tu ti sei fatto passare per il Cacciatore per difendermi. Sarebbe stato divertente, se non fossimo stati coinvolti.”

“Il Lupo è ancora un pericolo. Quello è un porco di prima categoria. Ha quasi violentato Omar, prima che si rendesse conto che portava quei biscotti a te. Poi ho avuto la sensazione che volesse strozzarlo. Per fortuna l'ho bloccato.”

“Mah, non mi fa più paura.” disse semplicemente Olimpio, alzando le spalle “Il mio unico timore è di non riuscire a crearmi una vita fuori da quella della Nonna. Spero che mi aiuterete.”

“Lo faremo di certo.” accettò con entusiasmo Omar che poi scattò in piedi e si rivolse a Davide “Ehi tu, domani pomeriggio c'è la prima lezione di appostamento. Cosa ne dici se andiamo a riposarci. Ti aspetto a casa mia, vestito sobriamente e senza quel cannone.”

Davide sorrise ed acconsentì. Gli sarebbe piaciuto se gli avesse proposto di riprendere il discorso interrotto, ma andava bene anche così.

Omar lasciò il cestino e se ne andarono assieme.

 

 

 

Epilogo

 

Olimpio si rilassò sul divano una volta rimasto solo, osservando controluce il biscotto prima di addentarlo. Chiuse gli occhi e cercò di non pensare alla città che si stava divertendo mentre lui viveva rinchiusa nella prigione che si era creato.

Il suonare del campanello lo distrasse dai propri pensieri. Un codice che conosceva benissimo, tre trilli, pausa, due trilli, pausa un trillo. Aprì la porta, sapendo chi era.

Il Lupo, con un sorriso malizioso e una busta in mano, apparve sulla soglia.

“Allora, come sono andate le cose?” chiese l'uomo.

“Non male, direi.” rispose Olimpio, allacciandogli la vita, anche se poi gli pizzicò la schiena.

“Ahio, che ho fatto?” si lamentò massaggiandosi la parte lesa, mentre l'altro gli chiudeva la porta alle spalle.

“Davide mi ha detto che sei stato parecchio convincente nella parte dello stupratore/omicida seriale.”

“Sei geloso, allora?” disse tornando a sorridere “Beh, sei stato tu a dire che dovevo spaventare il ragazzino. E scommetto che non ti ha raccontato tutto. Sa che odi certe cose.”

“Silvio, che ti ha fatto il mio fratellone?”

“Non lo so di preciso, ma mi sono risvegliato in un vicolo ricoperto di sperma,”

“Oddio!” Olimpio si portò una mano alla bocca “Quando lo rivedo mi sente.”

“L'importante è che si levi dalle palle finalmente. Sento in continuazione il suo fiato sul collo.”

“Sentirai molto più del suo fiato, appena saprà la verità su noi due. Non ti scollerai mai né lui né mia madre.”

“Tua madre è più sopportabile, anche se il fatto che mi faccia seguire è piuttosto offensivo. Ormai sono sei mesi che ci frequentiamo.”

“Non illuderti, non succederà mai. Mamma è troppo abituata ad avere tutto sotto controllo.” lo contraddisse, poi puntò il sacchetto “Allora, vuoi dirmi cosa c'è dentro, o preferisci che tenti di scipparti?”

“Magari un'altra volta. Sarebbe un'idea carina per una serata sexy. Questo è il tuo costume per stasera ed è meglio che ti sbrighi se non vogliamo perderci il meglio.”

La smorfia sul volto di Olimpio fu di disgusto.

“Non ho più voglia di truccarmi per stasera. Sono appena uscito dalla doccia.” Si aprì in maniera maliziosa l'accappatoio: forse voleva fare l'amore, o forse solo distrarlo dal suo intento.

“Non indurmi in tentazione, se entro un'ora non spedisco a quella rompiballe di tua madre una foto scattata in un locale pubblico, mi fa una scenata.” disse, richiudendolo di malavoglia “Oltretutto non c'è bisogno che ti trucchi, Mamma ti ha cucito un vestito che si abbini al tuo viso in maniera perfetta.”

Improvvisamente curioso, Olimpio strappò la busta dalle mani del fidanzato e notò come fosse piuttosto pesante. Conteneva quella che sembrava una lunga camicia da notte, delle ballerine e delle ali posticce, tutte bianche.

“Un vestito da angelo?” mormorò stupito ma non troppo.

“Già, mi sembra adatto a te.”

Olimpio buttò l'occhio su Silvio, che non si era ancora levato un lungo impermeabile, dal quale spuntavano un paio di pantaloni e delle scarpe, entrambe rosse.

“Scommetto che ha cucito qualcosa anche per te. Da cosa saresti travestito?” lo stuzzicò.

“Per fortuna, il mio costume da Lupo era inutilizzabile. Mamma ha puntato sugli opposti che si attraggono.” spiegò, poi si slacciò e mise in mostra un costume da diavolo “Mancano solo le corna, ho il cerchietto in tasca.”

“Molto idoneo anche il tuo. Mamma ti conosce meglio di quanto vorresti.” lo abbracciò “Allora, dove andiamo?”

“Sorpresa, sorpresa.”

Olimpio capì che non aveva altra scelta e forse era meglio così. Un nuovo capitolo della sua vita si stava aprendo e sperò che fosse più godibile del precedente.

 

 

 

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Capitolo 3
*** La fortuna del Gatto ***


Storia partecipante al contest di Sango_79, indetto sia sul forum di efp che su quello di Disegni e Parole, ispirato alla seguente immagine

http://s1182.photobucket.com/user/DisegniParole/media/ayumikasai5.jpg.html?sort=3&o=970

 

 

 

 

La fortuna del Gatto

 

 

Manuel osservò la banconota nella propria mano e sospirò. Quei 100 euro erano gli ultimi suoi risparmi e doveva farli bastare per l'affitto, le bollette, il cibo.

Uff, se voleva mangiare doveva rinunciare a qualcosa e capì che avrebbe dovuto rimanere al buio, senza acqua, né riscaldamento, poiché era già moroso da mesi.

-Un panino, devo abituarmi a cibarmi di cose che non hanno necessità di essere scaldate o cotte.-

Per fortuna la sua era una casa ad equo canone e gli bastava poco per mantenerla. Purtroppo la malattia improvvisa della madre lo aveva lasciato spiazzato e senza soldi. E il poco che era rimasto lo aveva speso per un funerale modesto.

Intanto avrebbe dovuto decidersi a mollare l'Università. Ci aveva provato a studiare e a lavorare per mantenersi, ma non era un genio e negli ultimi mesi aveva dovuto smettere di servire pasti alla mensa degli operai per concentrarsi nei suoi studi di veterinaria. Purtroppo era arrivato al punto di non ritorno. Non avrebbe avuto i soldi per pagare le tasse Universitarie del successivo trimestre.

-Oltretutto i miei voti fanno schifo, non ne vale la pena morire di fame per nulla. Mi troverò un lavoro e smetterò di sognare ad occhi aperti.-

Passeggiava per la città, immerso in questi cupi pensieri, in cui erano incluse altre opzioni del genere, omicidio, suicidio, rapimento etc., che sentì delle grida soffocate provenire da un vicoletto poco illuminato: sembrava una richiesta d'aiuto. Vi si infilò dentro e vide un gruppo di ragazzetti, poco più che adolescenti, che malmenava qualcuno bloccato in un angolo. Non era certo del numero. Potevano anche assere di più, ma di sicuro erano ubriachi fradici. Nel buio non si vedeva bene e, senza essere certo di quello che stava facendo, si avvicinò.

Erano talmente fusi che nessuno si accorse della sua presenza, finché non fu tanto vicino da toccare uno di loro che incitava la rissa. E nemmeno allora quello capì che era giunto uno sconosciuto. Forse, con la mente annebbiata dall'alcol, pensava fosse uno di loro. Allora ebbe un'idea per fermare il macello prima che le conseguenze fossero peggiori. Prese i soldi, i suoi ultimi risparmi, e li buttò nella mischia.

Quelli li riconobbero subito.

“Ragazzi, guardate! Cento euro, andiamo a berli al bar all'angolo. Lì non chiedono i documenti.” gridò uno in preda a una gioia sfrenata.

“E di questo che ce ne facciamo?” chiese un altro.

“In queste condizioni non se ne va da nessuna parte.” ribatté quello che sembrava una specie di capo “Appena abbiamo finito i soldi, torniamo qui e questa volta lo riduciamo in briciole il mostro.”

Manuel cercò di trattenere un conato di vomito e la voglia di mettergli le mani addosso: erano troppi, ci avrebbe rimesso. Attese buono che uscissero da vicolo, uno dopo l'altro, ridendo e sorreggendosi l'un l'altro per non cadere.

-Bastardi.- pensò Manuel. Si chiedeva dove avessero trovato la forza per malmenare il poveretto, a fatica si reggevano in piedi. Si sporse dal vicolo e, appena li vide entrare in uno dei bar più malfamati della città, tornò indietro e si buttò sul ragazzo. Era vestito in modo casual ma aveva una particolarità: aveva orecchie e coda da animale. Inoltre i suoi vestiti erano sporchi e stracciati in alcuni punti.

-Ehm, ora capisco perché lo chiamavano mostro. Certo che a dicembre siamo fuori stagione per i travestimenti.-

Cercò di farlo rinvenire, ma non vi riuscì e, a fatica, lo trascinò fuori. Casa sua non era molto lontana e sperò di arrivarci in tempo, prima che quelli si ricordassero di lui. Ci mise più dei soliti cinque minuti e non incontrò nessuno che potesse aiutarlo. Si chiese che ci faceva quello lì. Non lo aveva mai visto e di solito li notava i bei ragazzi.

Dopo mezz'ora, con un fiatone da fare compassione, si ritrovò davanti alla porta dell'appartamento. Era al quinto piano senza ascensore, quindi si poteva ritenere fortunato di non essere crepato. Prese le chiavi, le infilò nella toppa e si ritrovò nell'unico posto in cui si era mai trovato veramente a casa. Forse perché il rischio che glielo portassero via, com'era accaduto anni prima alla villa del padre, non c'era più. Depositò il ragazzo sul divano e, per la prima volta, lo osservò bene. Era davvero carino come lo aveva visto, al buio e con la concitazione del momento. I capelli era bianchi e lunghi fino alle spalle e fra essi spuntavano le due orecchie da gatto.

“Mi dispiace, ragazzo, queste sono le prime che se ne vanno.” borbottò a mezza voce e tirò per sfilarle. Con disappunto non vi riuscì, anzi, provocò un gemito di dolore al giovane che si lamentò nell'incoscienza.

“Accidenti, ma quanto le hai incollate?” si lamentò, rivolgendosi allo svenuto “Ok, sono un veterinario, o quasi, adoro gli animali, ma non me ne andrei mai in giro conciato in questa maniera.”

Gli scostò, allora, i capelli, alla ricerca dell'attacco della protesi. Fu allora che scattò all'indietro, rischiando di cadere rovinosamente a terra. Aveva osservato bene, ne era certo: quelle orecchie erano vere!

Cercò di dominarsi e di proseguire la cura dello sconosciuto, nonostante le mani gli tremassero e le gambe non lo reggessero al meglio. L'Essere, chiunque fosse, aveva bisogno di cure. Si procurò ogni medicazione che aveva in casa e cercò di curarlo meglio che poteva. All'improvviso, la consapevolezza che non poteva chiamare né un'ambulanza, né la polizia, lo aveva colpito come una bastonata ed era già abbastanza stordito. Non poteva sapere cosa avrebbero fatto ad un ragazzo del genere e non poteva farlo diventare un fenomeno da baraccone senza motivo.

Lo spoglio del tutto, cercando di fingere di non vedere il corpo tonico e di pensare solo a quanto era inquietante quella coda attaccata appena sopra al fondo schiena. Era pieno di ematomi, per fortuna non particolarmente gravi. Le uniche perdite di sangue erano al viso: un labbro spaccato e il naso forse rotto.

-Ehm, qui ci vorrebbe uno specialista, ma non posso fare di più, al momento. L'importante è che respiri, se proprio si è rotto il naso, ci penserò dopo.-

Un movimento del viso, provocato dal bruciore del disinfettante, gli fece capire che stava riprendendo i sensi. Si preparò a descrivergli cosa era successo, sperando di non spaventarlo troppo.

 

 

 

I suoi occhi erano molto chiari, quasi bianchi, ma belli come due diamanti. Manuel inghiottì un paio di volte per evitare che la voce si rompesse e che un rivolo di bava gli colasse dalla bocca.

“Non ti spaventare, sei in salvo ora.” gli disse “Come ti chiami e come mai hai la coda e le orecchie?” Forse non era la domanda più giusta da fare di primo acchito, ma non era riuscito a resistere.

Il ragazzo non rispose ma non scattò: era un buon segno. Voleva significare che aveva capito di non essere in pericolo in quella casa. Cercò di spiegargli quello che era accaduto e benché continuasse a fissarlo muto, sembrava avere capito.

Un rombo distrasse entrambi. Lo stomaco del giovanotto reclamava cibo e Manuel si sentì in imbarazzo: non aveva molto da dargli, per non dire nulla. Con quei soldi che aveva gettato per salvarlo, doveva fare la spesa. Si era distratto molto dalla morte della madre e non si occupava abbastanza di se stesso da comprarsi cibi sani o in quantità sufficiente.

“C'è del latte nel frigo e ho un po' di pane di ieri. Spero che ti sia sufficiente per ora.” Lo coprì con un plaid, accese il camino e scaldò il latte, lo versò in una ciotola in cui aveva messo il pane e prese un cucchiaio. Tornò a sedersi sul divano, con l'intenzione, in seguito, di appoggiare sul tavolo la ciotola. Non fece in tempo che il ragazzo, davvero affamato, si gettò verso di lui, nudo com'era, e cominciò a leccare il latte direttamente dalla ciotola. Era una situazione piuttosto imbarazzante, anche perché la posizione gli impediva qualsiasi movimento, escluso quello del proprio pene che si erse in tutta la sua grandezza. Concentrarsi sul caminetto acceso non riuscì a distrarlo e la speranza che il ragazzo non se ne accorgesse fu vana. Dopo la voracità iniziale, pur continuando a non parlare, quello smise di colpo e cominciò ad osservare proprio il punto in cui l'erezione gli puntava sul petto. Doveva trovare una scusa plausibile, subito!

“Ah, è il cucchiaio. Me lo sono messo in tasca. Poiché vedo che non ti serve, direi che lo posso riportare in cucina. Ti scoccia se appoggio la ciotola sul tavolino?” chiese, cercando di fare apparire la conversazione banale e non un tentativo di fuga.

Il ragazzo si scostò quel tanto da farlo passare e, appena arrivato in cucina, Manuel si rese conto che aveva capito al volo ciò che gli era stato detto. Uhm, questo significava che era meno scemo di quanto volesse apparire. Forse la sua condizione semi-umana lo portava a comportarsi come fosse un finto tonto solo per difendersi. Si chiuse a chiave in bagno e si liberò del dolce fardello e quando tornò, lo trovò intento a fare le pulizie come avrebbe fatto un qualsiasi Gatto. Con la lingua. Raggiungendo zone che lui a malapena riusciva a vedersi se si specchiava. E a volte facendo contorsioni pazzesche.

-Cavolo, non posso continuare a fissarlo, sembro un maniaco sessuale.- pensò. Decise che era il caso di proporgli dell'abbigliamento e andò a prendere alcuni vestiti sportivi della madre, felpa e pantaloni, che erano circa della sua misura, una sua vestaglia e dell'intimo che, anche se era un po' grande, era meglio di nulla.

Glieli porse e lui li annusò con fare sospetto, poi fece una smorfia.

“Mi dispiace, Micetto, non ho altro da darti. Puoi dormire nella stanza di mia madre, se ti va.”

Come tutta risposta, questo si accoccolò davanti il caminetto acceso, dimostrando di gradire il tepore del fuoco. Manuel, sospirando, gli portò una coperta che questa volta fu accettata, con un rumore che sembrava quello delle fusa.

“Cerca di riposare.” lo consigliò “Domattina devi svegliarmi presto. Ho bisogno urgente di un lavoro, se vuoi qualcosa di diverso dal latte on il pane secco. Mi sa che mi tocca tornare alla paninoteca Speriamo che mi riprenda, il capo sembrava soddisfatto del mio lavoro.”

Mentre parlava accarezzava la testa a Micetto (aveva deciso di chiamarlo così poiché lui non sembrava intenzionato a dirgli il nome) che gradì le sue attenzioni, aumentando la frequenza delle fusa. La notte Manuel dormì pochissimo. Passò il tempo a pensare a quel ragazzo completamente nudo e si chiese se fosse anche disponibile. Si vergognò di quel pensiero sconcio diretto verso un essere di cui non conosceva identità, gusti sessuali e neppure quanto era umano. Non riuscì però a evitarlo e durante i pochi momenti di sonno, lo sognò. Non faceva più le fusa, ma si concedeva docilmente per ringraziarlo di averlo salvato.

 

 

 

Dopo la notte insonne, cercò di acconciarsi meglio che poteva per fare una figura decente davanti al suo ex capo. Uscì dal bagno, sbarbato e vestito casual elegante e si diresse in cucina. Preparò la colazione per entrambi con ciò che era rimasto del latte e lo appoggiò sul tavolino davanti al camino. Ora era spento e Micetto, forse sentendo freddo, si era vestito con l'intimo che gli aveva portato.

-Almeno non mi girerà più davanti nudo, è un miglioramento.-

Poi gli diede qualche consiglio.

“Non aprire la porta, se senti suonare. Deve sembrare che non ci sia nessuno. Non si accettano né ospiti, né animali in questo stabile e tu sei entrambi.”

Manuel ebbe l'impressione che un sorriso sfiorasse il volto del ragazzo, ma fu solo un attimo e non fu neppure sicuro.

“Non usare il telefono, non funziona. Questo l'ho fatto staccare appena morta la mamma, mi conveniva di più il cellulare.”

Fece altre piccole raccomandazioni, sempre tenendo conto del fatto che Micetto sembrava capire, poi uscì.

Raggiunse il locale a piedi. Non era molto lontano e non voleva sprecare neppure un euro per il tram. Entrando fu salutato calorosamente dal proprietario, con cui si era lasciato in amicizia e dal quale si serviva spesso se non riusciva a cucinare.

“Allora, come va?” gli chiese l'uomo.

“Non bene, Tommaso. Come ti ho già detto, ho scoperto che non posso campare senza lavorare e non posso studiare se lavoro. Ho deciso di mollare gli studi.”

Tommaso s'intristì.

“Mi dispiace. Ma non ti mancavano solo otto esami? Sei sicuro di non riuscire a stringere i denti?” insistette.

Manuel scosse la testa.

“Non ce la faccio.” ribatté il ragazzo “Hai ancora la possibilità di darmi un lavoro? Mi accontento anche di poco, giusto per riuscire a pagarmi da mangiare. Sono davvero in bolletta.”

“Uh, sei messo così male? Avresti dovuto fermarti prima, allora.” lo contestò l'altro.

“Hai ragione, ma avevo in mano cento euro e pensavo di avere un minimo di protezione, ma li ho ceduti per salvare un... un gattino e ora in casa mia siamo in due e ho rimasto solo qualche litro di latte a lunga conservazione.”

“Ma sapevo che non potevi tenere animali in casa.” gli ricordò con un sorriso Tommaso.

“Beh, se vedi qualcuno del mio palazzo, non lo dire. Potrebbero farmi cacciare e al momento non posso permettermi altro.”

Tommaso tenne il sorriso sul volto ancora un po', poi, senza guardarsi attorno, gli disse osservare il nuovo aiutante, osservò l'orologio e cominciò un conto alla rovescia partendo da venti. Arrivato allo zero, si sentì un rumore di stoviglie rotte.

“Meglio di un orologio svizzero. Ogni venti minuti mi rompe qualcosa. Potrei andare in rovina, se proseguo di questo passo.” si lamentò “Dammi due minuti per licenziarlo e il posto è tuo.”

Manuel abbassò la testa, vergognandosi di essere contento che il nuovo aiuto fosse tanto imbranato. Dopo i fatidici due minuti (Tommaso era davvero preciso nelle tempistiche) tornò con un grembiule e lo porse a Manuel.

“Puoi aiutarmi subito o devi tornare a casa a controllare il gattino?”

“No, credo di poterlo lasciare da solo per qualche ora. Questa notte non mi ha neppure pisciato sul tappeto. Deve essere ben educato.”

“Hai trovato un gatto di razza, dunque? Potresti pure prenderci una ricompensa.”

“Non so. Comunque è una razza mista, questo è certo.” furono le ultime parole di Manuel, prima di cominciare a lavorare. Sarebbe stato divertente inchiodare la foto di Micetto agli alberi della città. Probabilmente la maggior parte avrebbe pensato ad uno scherzo cattivo gusto.

Dopo un turno di sei ore, Tommaso lo fece andare a casa obbligandolo a prendere su alcuni scarti bruciacchiati, ma ancora commestibili, da portare al gatto.

“E fagli una foto che la esponiamo nel negozio. Magari i suoi proprietari lo stanno cercando.” insistette. Manuel ringraziò senza promettere nulla.

 

 

 

Al suo ritorno, non trovò più Micetto. Lo aveva lasciato solo per troppo tempo e lui se n'era andato. Forse aveva pensato che volesse abbandonarlo, oppure voleva solo tornarsene a casa sua. Non aveva l'aspetto di un giovane sbandato, probabilmente aveva una famiglia che se ne prendeva cura e quelle teste calde lo avevano bloccato sulla via del ritorno. La cosa lo rattristò e fissò il cibo che aveva portato a casa per un bel po' prima di convincersi che non lo avrebbe mai più rivisto. Il giorno seguente, al lavoro, avvisò Tommaso della fuga dell'animale e del fatto che non aveva più bisogno di cibo per lui. L'uomo lo vide davvero triste e cercò per tutto il giorno di convincerlo che non poteva più starsene solo.

“Devi trovarti un ragazzo!” fu la conclusione del capo “Quanto tempo è passato dall'ultima volta che ti sei fatto una bella cavalcata senza pensieri?”

Manuel arrossì per il tono confidenziale che si era preso Tommaso. Si conoscevano da tanto tempo, ancora prima che cominciasse a lavorare per lui forse lo considerava il figlio maschio che non aveva e gli dispiaceva che fosse gay per non appioppargli una delle sue donne, ma lo metteva in imbarazzo quando gli parlava così.

“Non sono certo che sia un argomento che voglio discutere con te.” lo ammonì, ma sembrò proprio che l'uomo non lo volesse lasciare perdere.

“Non fare storie, fingi che parliamo di ragazze e non di maschi. Ti piace qualcuno?”

La mente di Manuel si fermò a immaginare ancora una volta Micetto, il suo corpo snello e il suo sguardo così espressivo, nonostante il silenzio. Tommaso ghignò, pensando di aver colto nel segno.

“E dimmi, è un amore impossibile?”

Manuel scosse la testa sconsolato.

“Non so neppure il suo nome.” ammise tristemente.

Tommaso smise di ridere e capì che non era un buon argomento di cui trattare. Meglio affogare i dispiaceri nel lavoro, per l'amore e il sesso c'era sempre tempo.

 

 

 

La vita di Manuel continuò per i seguenti due mesi in un tranquillo trambusto. Nonostante avesse giurato che si sarebbe ritirato, aveva deciso di non sprecare l'esame che aveva già pagato e di farlo comunque. Non studiò, eppure prese le votazioni più alte mai ottenute negli anni precedenti.

-Sembra che qualcuno mi prenda per i fondelli.- pensò irritato da quella situazione. Poi prese da parte il professore e gli disse che non avrebbe più frequentato.

“E allora perché hai pagato le tasse per il prossimo trimestre?” chiese stupito dottor Dominici.

“Ehm, ci deve essere un errore, prof. Io non ho più di qualche centinaio di euro in banca, tutto ciò che ho guadagnato in questo periodo l'ho usato per pagare alcuni debiti che avevo contratto, non ho più nulla per l'Università. Per questo ho deciso di ritirarmi.”

“Nessun errore, ne sono certo. Forse ti hanno dato la borsa di studio che avevi chiesto?” suppose l'uomo.

“Mi dissero che i miei voti erano troppo bassi per potervi accedere.” Manuel non sapeva come ribattere a quella novità.

“Allora qualche benefattore ti ha preso in simpatia e ti ha donato a possibilità di proseguire gli studi. Fossi in te non sprecherei questa occasione.”

Gli diede una pacca su una spalla e lo lasciò imbambolato a riflettere, ma non ne veniva a capo.

Non notò due diamanti grigi che lo fissavano intensamente, forse perché era troppo preso da se stesso per accorgersi di qualcun altro. A meno che non fosse in pericolo.

 

 

 

Manuel passò in segreteria: la donna che interpellò controllò i suoi incartamenti e confermò l'avvenuto pagamento.

“Mi può dire chi è stato, per cortesia?” La curiosità lo stava divorando.

“Mi spiace, è avvenuto in forma anonima. Chi le ha pagato le tasse, non vuole essere rintracciato.”

“Ma qualcuno deve pur avere accettato il pagamento. Sa a chi potrei rivolgermi per informazioni più dettagliate?”

La donna si guardò con circospezione attorno, poi cominciò all'improvviso a sussurrare, quando un secondo prima la sua voce era squillante quanto una suoneria fastidiosa.

“Non sono certo di poterglielo dire, ma visto che comunque sono documenti che lei può consultare, le consiglio di osservare bene la firma di colui che ha preso in mano il pagamento. Ma si ricordi che io non le ho suggerito nulla, le è venuto in mente da solo.”

Poi lo salutò, mentre Manuel se ne andava con la sua copia. La osservò bene. Era firmata Gualtiero Senise. Nulla di meno che il preside di facoltà. Questo significava che chiunque lo avesse aiutato doveva essere un pezzo grosso e non capiva che aveva fatto per attirare l'attenzione di una personalità del genere. Sapeva che se si fosse rivolto direttamente a lui non ne avrebbe ricevuto risposta, ma doveva tentare comunque e chiese un appuntamento.

 

 

 

“Signor Maltoni, cosa la porta da queste parti? Ha problemi con lo studio?” chiese l'uomo che lo accolse con un sorriso studiato e inquietante.

“Li avevo, fino a poco tempo fa. Non avevo più i soldi per pagare le tasse, questo era l'ultimo esame che avrei potuto sostenere. Ma, stamani, mi è giunta voce che qualcuno, senza alcun motivo apparente, mi sta pagando tutto e vorrei sapere chi e perché.”

“Non so perché lo stia chiedendo a me.” Senise aveva deciso di fare lo gnorri e di fingere di non sapere.

Manuel, allora, gli mostrò il foglio con la sua firma e pretese spiegazioni. Senise allora scosse la testa capendo di essere stato scoperto, ma non si arrese.

“Non posso dire nulla. Si accontenti del fatto che potrà finire gli studi senza problemi.” concluse il dirigente scolastico e, senza dargli occasione di controbattere, chiamò la sua segretaria e la pregò di accompagnarlo fuori.

Manuel, esasperato da quella situazione che aveva del paradossale, uscì e se ne tornò al lavoro, dove si sfogò con Tommaso.

 

 

 

 

“Davvero ti ha detto che non avrai problemi per tutto il resto dell'Università?” chiese il capo alla fine del racconto. “Beh, dovresti esserne contento. Avrai tutto il tempo per studiare e ti basterà fare qualche ora qui per mantenerti. Anche se sei un ottimo aiuto, non ereditai la mia attività, non potendo sposare una delle mie ragazze. Devi cercare il tuo futuro da un'altra parte.”

“Tutti mi dicono che devo essere contento.” sbottò Manuel “Nessuno capisce che vorrei sapere chi mi sta aiutando e, soprattutto, perché proprio ora. Ho avuto dei periodi che mi sarei ammazzato per una borsa di studio, ma fra il lavoro e la mamma non aveva abbastanza tempo per avere dei voti decenti.”

“Forse qualcuno ha capito che non avresti potuto continuare gli studi e si è impietosito.” suggerì Tommaso.

“Non sono un tipo cui piace piangersi addosso. Tu sei l'unico a cui ho detto tutto.” Poi ebbe un dubbio “Ehi, non avrai mica raccontato a qualcuno la mia situazione? Mi seppellirei in questo caso.”

“Ma no, lo so che tu non vuoi che si raccontino i fatti tuoi in giro. Anche se...” Tommaso si bloccò un attimo, poi proseguì “Ora che mi ci fai pensare, qualche settimana fa è arrivato un tipo, con un macchinone lungo un chilometro che mi ha chiesto se tu lavoravi qui. Ho detto che avevi fatto il turno di notte e che non c'eri al momento e se n'è andato. Mi è sembrato strano, ma non ci ho più pensato, anzi, mi sono addirittura dimenticato di dirtelo. Probabilmente non mi sarebbe mai tornato in mente, se non avessi avuto questa curiosità.”

Manuel si agitò: doveva sapere e questo era un gran bell'indizio.

“Ti ricordi che macchina era e la targa?” chiese speranzoso.

“Eh, la targa! Chi sono Derrick? Però ti posso dire che quella era senza dubbio una Rolls. Potrebbe essere il tuo uomo. O forse era solo il suo autista, ora che ci penso aveva la livrea.”

I pensieri di Manuel cominciarono a girare vorticosamente. Un uomo con una macchina da miliardario era venuto a cercarlo. Si chiese quante Rolls Royls potessero esistere in Italia, ma al momento capì che era successo qualcosa, di cui non si era reso conto, che lo aveva messo in buona luce con qualcuno d'importante. Mentre cercava di capire cosa, fece quello che tutti gli avevano suggerito: si approfittò della situazione e ricominciò a studiare di brutto.

 

 

 

Un giorno, uscendo da una lezione, si sentì osservato. In realtà non era la prima volta che gli capitava di avere quella sensazione, ma in quel momento, per la prima volta, si accorse di chi lo stesse spiando. Lo conosceva di vista, anche se non si erano mai parlati, forse perché era davvero sfuggente. Era convinto che sotto quella bandana, gli occhiali scuri e i vestiti larghi, si nascondesse un ragazzo niente male, ma che non dava occasione di avvicinarsi. Questa volta era riuscito a sgamarlo, prima che distogliesse lo sguardo fingendo di essere impegnato a leggere un mattone grosso un dito. Manuel sorrise e si chiese se fosse il caso di avvicinarlo. Come gli aveva ricordato più volte Tommaso, non aveva un ragazzo da un pezzo ed era ora di rifarsi.

Sorrise e si avvicinò. Vide il ragazzo osservarsi attorno spaventato e quando capì di essere stato colto in fragranze, Manuel era già a una spanna da lui.

“Ciao. Frequenti anche tu Veterinaria, se non sbaglio. Mi chiamo Manuel, e tu?”

Il ragazzo, cercò di defilarsela, ma andò a sbattere contro un energumeno e cadde a terra rovinosamente. Il ragazzone si voltò e benché non avesse ricevuto alcun danno, fissò l'altro in maniera truce.

“Ehi, tu! Hai bisogno della badante o riesci andare a fare in culo da solo.” La battuta fece ridere tutta la sua combriccola, tanto che ebbe voglia di proseguire e lo prese per il colletto della giacca. “Forse dovrei darti una lezione, così la prossima volta ti ricorderai di guardare dove metti i piedi.”

Manuel, vedendolo in difficoltà, intervenne.

“Senti, amico, sei sicuro di volerti mettere nei guai per un'idiozia del genere?” domandò.

“Vuoi fare la spia?”

“Può darsi, ma prima ti spezzo le gambe.” disse fingendo una sicurezza che non sentiva. Conosceva i tipi come lui, solo si sentivano in inferiorità, mollavano l'osso.

“Non credo che una mammoletta come te possa farmi nulla.” ghignò, lasciando andare un ragazzo e puntando l'altro.

“Fossi in te non rischierei, ma sei libero di tentare.”

In fondo era cintura nera di karate e se i suoi amici non intervenivano, poteva avere la meglio. Non accadde, però, nulla almeno al momento. Il tipo si allontanò borbottando che qualcuno gliela avrebbe pagata salata e tutta la combriccola lo seguì.

Manuel soccorse il giovanotto che cominciò a balbettare.

“Tu... tu mi hai salvato... un'altra volta?” chiese con voce strozzata dall'emozione.

“Ma se a fatica ci conosciamo? Comunque, non volevo spaventarti, scusami. Se la mia presenza tifa innervosire in questo modo, forse è meglio che ti ignori.”

L'altro scosse la testa.

“A questo punto sarà difficile. Mi chiamo Arturo. Ti dispiace se troviamo un luogo appartato in cui parlare?”

Manuel, che dopo un tale incipit non pensava di avere molte chance, fu rallegrato dal cambiamento della situazione e trotterellò dietro lui, finché non raggiunsero un'aula che al momento non era in uso, essendo in ristrutturazione. Dentro, senza aggiungere altro, Arturo si levò gli occhiali e la bandana, mostrando i suoi occhi chiari e le inconfondibili orecchie.

“Mi...Micetto?” balbettò a sua volta Manuel “Ops, scusa, ora che ci penso era davvero un nome stupido. Quindi tu parli?”

Arturo gli si avvicinò e lo fissò bene.

“Mi hai salvato la vita un'altra volta.” ripeté come una cantilena.

“Ma che dici?” si schernì arrossendo Manuel, imbarazzato dalla situazione “Se non fossi intervenuto io, lo avrebbe fatto qualcun altro.”

“No, sono certo di aver sentito delle voci, che si sono allontanate, anche se non ero completamente in me.” Poi decise di spiegarsi meglio “Come avrai immaginato, non sono un essere umano come tutti gli altri. Soffro di una malattia rarissima, o un difetto genetico di cui la mia famiglia sperava di essersi liberata, poiché era tanto tempo che nessuno ne era affetto che si cominciava a pensare che si fosse estinta. Qualcuno diceva addirittura che si trattava di una leggenda.” Sospirò “Purtroppo io sono la dimostrazione che questa malattia esiste ancora e le orecchie e la coda non sono il problema più grave. Ogni tanto perdo la cognizione di me e cerco in ogni modo di fuggire di casa. I miei genitori fanno di tutto per preservarmi, ma l'ultima volta sono riuscito a scappare e sai com'è finita. Sarebbe stata la fine per me, se non ti fossi preoccupato della mia salvezza.”

Manuel, commosso dalla sua rivelazione, si avvicinò e lo abbracciò senza secondi fini. Fu Arturo a prendere l'iniziativa e a porgergli le labbra. Nonostante la consapevolezza di stare approfittando di un momento di debolezza di una ragazzo che aveva già i suoi problemi, non poté fare a meno di appoggiare le labbra su quelle del compagno di Università e di assaporare quella bocca che si donava docilmente a lui.

La porta che si aprì e l'entrare di alcuni operai li interruppe.

“E quattro!” esclamò uno di loro ridendo “Vinciamo una bambolina alla decima volta?”

Manuel cercò con il proprio corpo di nascondere Arturo, mentre si rinfilava bandana e occhiali.

“Ehm, scusatemi, pensavamo foste in pausa pranzo.”

“Beh, almeno voi non siete ancora nudi. Però è la prima volta che ci capitano due maschi. Conta lo stesso?” chiese uno all'altro.

“Perché no?” fu la riposta “Come premio, ti pago il dolce della mensa.” E una smorfia di disgusto apparve sul viso divertito.

Manuel e Arturo uscirono di corsa. Almeno non erano stati gli unici deficienti che si erano fatti beccare. Questo li rincuorava parecchio.

“Hai rischiato di farti vedere.” esordì Manuel.

“Non preoccuparti, sono campione mondiale di bandana.” lo consolò l'altro “Dopo due secondi l'avevo già infilata. Non sai quante volte ho corso il rischio di essere visto nei pochi momenti di relax. In effetti è piuttosto scomoda, anche se è l'unica maniera per avere una vita normale. Se non è questa è un berretto, o un cappello, oppure una fascia, qualunque cosa che mi possa infilare in testa senza destare sospetti.”

Manuel gli passò un braccio dietro le spalle e lo attrasse a sé.

“Credi che sia troppo sconveniente se ti invito a mangiare qualcosa questa sera? Nulla di che, non posso permettermi molto. Oltretutto, visto che è il posto dove lavoro, ho anche dei vantaggi economici. Questo per farti capire che sono uno spiantato e che, se ti metti con me per i soldi, parti male.”

Arturo scoppiò a ridere e cominciò a scuotere la testa, per fargli capire che non era interessato alla faccenda, ma senza riuscire a calmare la sua ilarità. Allora anche Manuel rise e continuarono finché si furono chetati, attirando la curiosità di tutti. Si misero d'accordo per la serata. Arturo si sarebbe fatto trovare al locale, poiché Manuel non aveva i mezzi per andarlo a prendere, poi si separarono.

 

 

 

 

“Stasera ho appuntamento con un ragazzo. Qui.” annunciò a Tommaso con il fiatone. Aveva fatto tutta la strada di corsa, per risparmiare anche i soldi che di solito spendeva nel tram.

“Ehi, ultimamente ti gira bene di brutto.” si complimentò l'uomo battendogli una mano sulla spalla “Un misterioso anfitrione ti paga gli studi, ti fai il ragazzo. Hai pensato di giocare alla lotteria? Potrebbe essere il tuo momento.”

“Non mi hai chiesto se è carino?” gli fece notare Manuel.

“Forse perché non m'intendo molto di maschi.” gli ricordò “Nelle donne, per quanto cesse siano, riesco sempre a trovare qualcosa che mi potrebbe attrarre, ma gli uomini mi lasciano alquanto indifferenti. L'importante è che piaccia a te.”

Allora organizzò la serata. Il tavolino migliore, un paravento per celarsi agli occhi e un menù studiato alla perfezione. Voleva che tutto fosse perfetto, anche se dovevano mangiare dei panini.

“Per il menu faccio io, fidati di me.” propose Tommaso. Il ragazzo capì che non poteva rifiutare e sperò che almeno si facesse pagare: ultimamente era stato troppo buono con lui e non voleva approfittarsene. Verso sera raggiunse il locale e vide che Arturo era già arrivato e camminava avanti e indietro.

“Potevi entrare, fa freschino questa sera.” si presentò Manuel.

“Non so, c'è scritto chiuso per inventario e temevo di disturbare.”

Il moro si avvicinò alla porta, abbassò la maniglia che cedette subito e si ritrovò nella penombra. Nel locale c'era un solo tavolino apparecchiato, al centro, illuminato da delle candele. Manuel allargò gli occhi e vide Tommaso, vestito come un damerino, che lo accolse con un sorriso.

“Allora, è già arrivato?”

“Sei impazzito? Doveva essere una cenetta semplice, non c'era bisogno di... di tutto questo!” esclamò allargando le braccia, non sapendo come descrivere la situazione.

“E il signore non ha ancora dato un'occhiata al menu. Me lo ha fatto Veronica con il computer. Quegli aggeggi infernali sono utili, alla fine.” Tommaso sorrideva come se fosse in Paradiso “Non ho fatto altro che pensare a ciò che avrei potuto cucinare. Finalmente ho la possibilità di usufruire del mio diploma di alberghiera. Ti farò vedere cosa so fare oltre ai panini.”

Manuel ebbe la sensazione che non fosse completamente in sé, ma era troppo tardi per tirarsi indietro e andò a prendere Arturo, spiegandogli la situazione.

“Ti deve volere bene.” sorrise il ragazzo, che per l'occasione aveva in testa una fascia nera che lo rendeva molto sexy.

Entrarono e i loro cappotti furono presi da una delle figlie di Tommaso, che fungeva da cameriera, vestita con la cresta.

“Mi dispiace, Meli, non pensavo che tuo padre avesse intenzione di fare una cosa del genere.” si scusò Manuel.

“Non preoccuparti, è stato divertente vederlo così impegnato. Neppure sapevo che sapesse cucinare piatti del genere.” lo rassicurò lei.

“Ha esagerato?”

“C'è il menu sul tavolo, giusto per farti un'idea di ciò che ti aspetta.” Sorrise maliziosa e sussurrò “Molto carino, vedi di non sprecare l'occasione.”

Si avvicinò al tavolo e spostò la sedia per Arturo.

“Sei davvero un gentiluomo.” fu il complimento del ragazzo.

“Che vuoi che sia.” si schernì Manuel “Non ho fatto molto per questa serata. E non so neppure che ci aspetta di preciso. Di certo, non panini.”

Passarono il resto della serata mangiando un raffinatissimo posto, sorseggiando champagne di marca (si sarebbe sentito in debito per tutta la vita!) e chiacchierando di tutto ciò che potevano per conoscersi meglio. Almeno Manuel fu sincero fino in fondo. Prima era morto suo padre, quando aveva appena dieci anni, in un incidente d'auto. La madre non si era più ripresa e lavorava saltuariamente quel tanto che le permetteva di pagare un equo canone e le bollette. Aveva quasi rinunciato allo studio, finché non era accaduto il miracolo.

“Qualcuno mi sta pagando gli studi.” rivelò Manuel “Tutti mi dicono che ne dovrei essere contento, ma non ho fatto nulla di eclatante per attirare l'attenzione e non capisco perché. Il preside si rifiuta di rivelarmi il nome e a quanto pare lui è l'unico che conosce l'identità del misterioso donatore.”

Arturo sorrise e cominciò a strisciare con un dito il bordo del bicchiere.

“Chissà! Magari hai fatto qualcosa di cui non ti ricordi o che non pensi che sia stato eccezionale.”

Manuel ci pensò su qualche istante, mentre assaporava un altra coppa di champagne, poi scosse la testa.

“Naaa, nulla.”

Melissa si avvicinò e intervenne.

“Tu fai un sacco cose buone, senza neppure rendertene conto.” lo rassicurò la ragazza “Nessuno avrebbe sacrificato dei soldi, come hai fatto tu, solo per salvare un gatto. Sono certa che se i suoi padroni lo sapessero, ti avrebbero ricompensato.”

L'allusione di Melissa troncò il fiato a Manuel. Il ragazzo cominciò a fissare Arturo che da parte sua tentava di fissare il muro, senza particolare successo. Melissa se ne andò, lasciando sul tavolo due soufflé che dovevano essere il dolce.

“Artie, ti ho parlato molto di me, ti ho raccontato cose che sanno solo persone molto intime.” esordì “Forse ora il caso che tu mi racconti qualcosa della tua famiglia.”

“Sono persone normali.” disse il ragazzo, sentendosi a disagio.

“E non sono persone ricche?” insistette.

“Normale.”

“Suppongo, allora, che se chiedo informazioni, nessuno mi dirà che i tuoi hanno una rolls con autista?”

Arturo non disse per un lungo attimo, poi si arrese.

“Se fosse, avresti dei problemi a riguardo?”

“Ce l'ho con chi mi paga gli studi senza motivo. Non ho bisogno del loro aiuto.” All'improvviso Manuel si era irritato. Non aveva mai volutola carità di nessuno, a fatica sopportava le gentilezze di Tommaso, anche se lo conosceva da tanto tempo che si arrendeva all'evidente inutilità della lamentela. Ora aveva la possibilità di scegliere e preferiva continuare a lavorare, lasciando magari gli studi per qualche anno, piuttosto che ricevere aiuto per un gesto che aveva compiuto senza secondi fini.

“Tu hai salvato loro figlio. Due volte.” gli rammentò alzando indice e il medio per rafforzare la sua posizione “Quando gliel'ho detto, stavano pensando di comprarti anche una macchina, ma li ho convinti che era prematuro. Sono contenti che ci frequentiamo, pensano che mi porti fortuna passare il tempo con te.”

Manuel non rispose e Arturo gli prese la mano sopra il tavolo e gliela strinse.

“Se preferisci posso chiedere ai miei di non pagarti più gli studi. Tu mi piaci e non voglio che un disguido del genere rovini tutto.” propose “Sempre che tu non abbia cambiato idea.”

Manuel scosse la testa, sorridendo.

“Scusami, ci sono rimasto di stucco, non mi aspettavo una cosa del genere.”

“Solo perché sei genuinamente buono e non ti servono ricompense o altro. Domattina parlo ai miei.”

“Ok, preferisco riprendere gli studi quando potrò permettermelo da solo.” Era contento che tutto si fosse risolto così facilmente, almeno con lui e sperò che anche i suoi fossero altrettanto disponibili. “E dimmi, dopo una storia del genere sarebbe sconveniente se ti invitassi a finire la serata nel mio appartamento?”

Arturo ricambiò il sorriso e gli strinse ancora di più la mano.

“Mi sarei preoccupato se non me lo avessi proposto.”

Ringraziarono e se ne andarono. Manuel aveva fatto capire a Tommaso che avrebbe pagato per quella cena, almeno i soldi della spesa, se non voleva quelli per il servizio. Ma avrebbe avuto tempo. Per quella notte voleva pensare solo a loro due.

 

 

 

 

Fare l'amore con Arturo fu un'esperienza straordinaria. Se all'apparenza sembrava un essere umano come gli altri, le sue caratteristiche feline apparivano nei momenti in cui si lasciava andare. Morsi, graffi, miagolii, fusa e una flessibilità fisica incredibile lo rendevano un amante insaziabile e passionale.

Ci furono parecchie notti e altrettanti giorni. I genitori di Arturo lasciarono andare il figlio con un certo timore, sempre paurosi per lui, ma erano felici che avesse trovato un ragazzo del genere, che lo amava e lo coccolava.

La vita con lui non era facile. I momenti in cui la sua natura felina prendeva il sopravvento erano imprevedibili e il fatto che avesse mani prensili, al posto delle zampe, gli impediva di tenerlo al chiuso senza un controllo. Per fortuna poteva portarlo al lavoro quando non era in sé: Tommaso continuava a essere un datore di lavoro molto permissivo. Alla fine aveva accettato la sua fortuna e il fatto che i genitori di Arturo gli pagassero gli studi. Essendo quasi parenti non aveva potuto più rifiutare e la loro conoscenza lo aveva sollevato. Erano davvero disposti a ogni cosa per la felicità del figlio. E anche lui lo era. Arturo era diverso dagli altri ragazzi e lo amava ancora di più per questo.

 

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Capitolo 4
*** Il guerriero e la Bestia ***


 

Storia partecipante al contest di Sango_79, indetto sia sul forum di efp che su quello di Disegni e Parole, ispirato alla seguente immagine

http://s1182.photobucket.com/user/DisegniParole/media/raykit2_zpsbab5bb22.jpg.html?sort=3&o=397


 


 

 

 

 

Il guerriero e la Bestia





 

Prologo



Julius Donovan, sindaco di Monblanc, attendeva nell'enorme sala d'aspetto che l'Imperatore di Gorgo, lo stato di cui anche il suo paese faceva parte, gli desse udienza. Era giunto fin lì spronando la sua cavalcatura allo stremo, tanto che avrebbe dovuto abbatterla all'istante, se non fosse stato per la fretta che aveva. Era corso a palazzo immediatamente, si era fatto annunciare, accennando al Gran ciambellano il problema, ed era stato avvisato che, appena si fosse liberato, lo avrebbero fatto passare.
Non era seduto da neppure cinque minuti, anche se all'uomo era parsa un'eternità, che fu chiamato.
"Sua Maestà vi attende, seguitemi alla sala del trono." Il Gran ciambellano gli fece un gesto nevoso, per intendere che si doveva sbrigare. Non che ce ne fosse bisogno, Julius era tutto tranne che tranquillo. La tensione era palpabile.
L'imperatore Serdes XV lo osservava con aria seria e severa. Era giovane, troppo per comandare un paese, ma la morte in guerra del padre lo aveva costretto a quel ruolo che, per fortuna, sembrava prendere molto a cuore.
Dopo i convenevoli e gli inchini, Serdes prese la parola. La sua voce, nonostante fosse ferma e autoritaria, dimostrava un certo timore.
"Quindi la Bestia si è risvegliata?" chiese a Julius, che aveva ancora il fiato corto per quanto aveva corso.
L'uomo annuì, non sapendo che altro rispondere in quel momento. In realtà non c'era molto altro da aggiungere a quella asserzione.
"Da quanto tempo non accadeva?" chiese ancora "Mio padre mi ha parlato molto di questa storia, ma sempre per sentito dire. Nessuno che abbia conosciuto mi ha riportato notizie di prima mano, ma solo dicerie."
"Non meno di duecentociquantanni, mio signore. Ormai speravamo che si fosse assopita in eterno, non aveva mai riposato tanto a lungo, ma forse si era rifocillata più del dovuto. L'ultima volta che apparve tra di noi fu una vera tragedia. Anche se non ha mai ucciso uomini, se non attaccata, ci ha ridotti alla fame e ci sono voluti decenni per fare ripartire l'economia."
Serdes annuì. Anche se era giovane, anche lui ricordava i racconti che ne venivano fatti. Monblanc era un punto importante per i rifornimenti di bestiame del regno e la sua rovina aveva pesato anche su di loro. Era il più vicino allevamento al castello imperiale, l'unico da cui le carni potessero arrivare fresche.
"Siete sicuri che si tratti di lui, e non di un lupo molto grosso?" chiese Serdes. Prima di mandare un esercito, voleva essere sicuro di quello che stava accadendo.
"Purtroppo sì, sire." confermò l'uomo, annuendo con veemenza per avvalorare ciò che stava dicendo "Non sarei mai corso qui se non ne avessi avuto la certezza. Ho mandato qualcuno dei miei uomini a controllare al castello, lo faccio per abitudine ogni volta che succedono faccende del genere, per escludere che si tratti proprio della Bestia. Questa volta l'uomo che ho mandato è tornato indietro con cattive novelle. Lo ha visto bene in volto, mentre era appostato di fronte al castello. Ha colto la Bestia nell'istante in cui faceva ritorno al Maniero. Anche lui è stato visto, per un attimo si è ritrovato con quell'essere a un palmo di naso, ha temuto per la propria incolumità. Per buona sorte, nonostante la vicinanza, non lo ha attaccato."
"Uhm, fortunato." fu il commento serio di Serdes.
"Non proprio, come vi ho già detto, lui attacca gli esseri umani solo se è in pericolo." ricordò Julius "Probabilmente quel ragazzo, spaventato a morte e disarmato, non lo ha messo in allarme. Per quanto mi è stato raccontato, si è avvicinato, lo ha fissato bene e lo ha annusato. Poi se n'è tornato al suo Maniero. Mi è stato detto che aveva un aspetto meno pauroso di quanto s'immaginava, ma probabilmente era tranquillo perché per quella serata si era divorato un'intera mandria di bovini."
Serdes lo fissò un attimo con gli occhi spalancati. Julius si chiese cosa lo avesse colpito al punto di cambiare la sua espressione seriosa.
"Lo ha annusato?" chiese l'imperatore, incuriosito da quella particolarità.
"Sì, signore, almeno è quello che il ragazzo mi ha detto. Era talmente spaventato che non credo mentisse. Forse voleva solo assicurarsi che fosse un essere umano prima di partire all'attacco."
Serdes scosse la testa.
"Questa Bestia è strana." commentò "Non capisco come ragiona. Che senso ha per un essere immondo evitare di attaccare gli esseri umani?"
"Lei dovrebbe conoscere la leggenda, sire." raccontò l'uomo "Vi assicuro che c'è molta verità in essa. Non siamo sicuri, dopo duemila anni, quale sia il crimine terribile commesso dal padrone del Maniero, ma siamo certi che a condannarlo a questa vita sia stato un Sacerdote del Tempio di Kossonar, offeso o maltrattato. Abbiamo già cercato in passato di contattarli, ma sono inavvicinabili da noi poveri agricoltori. Sono qui anche per questo, oltre per avvisare che potrebbe esserci una carestia come è accaduto duecento anni fa, e che pure voi ne sareste coinvolti. Le nostre armi non bastano contro la Bestia, abbiamo bisogno dell'intervento di qualcuno consacrato dal Tempio per batterlo. A voi darebbero udienza, so che avete la possibilità di discorrere con loro. La colpa di tutto ciò è dei Sacerdoti, che per punire l'errore di un solo uomo, hanno condannato una popolazione intera. Convinceteli che è ora che ci si liberi definitivamente di questa maledizione."
La richiesta di Julius non passò inascoltata: il risveglio della Bestia significava una carestia che sarebbe durata mesi per tutta il paese. L'ultima volta che era apparsa, era arrivato fino ai confini del regno per soddisfare la sua fame e nessun animale gli era sfuggito: mucche, pecore, capre, galline, e pure cani, gatti e uccelli. Ci erano voluti almeno dieci anni per ripopolare la fauna della zona e non potevano permettere che accadesse di nuovo.
"La tua richiesta sarà esaudita, anche perché credo di non poter fare diversamente." accordò Serdes "I sacerdoti, nonostante i loro poteri, non possono permettersi di fare scelte del genere e poi lavarsene la mani. Manderò immediatamente una missiva al Priore in carica del Tempio di Kossonar. Anzi, no, mi recherò personalmente al suo cospetto. Cercherò di essere chiaro, conciso e convincente. Se tutto va come deve, entro due settimane dovreste avere il vostro guerriero."
Julius annuì, non potendo fare altro. Per fortuna la Bestia girava solo di notte e in quel periodo estivo le giornate erano molto lunghe. Inoltre ogni volta tornava al suo Maniero, in modo che la maggior parte del tempo lo passava per ritrovare le prede da cacciare. Tornò a Monblanc con una flebile speranza nel cuore, e buone notizie per i suoi concittadini.



Il Sommo Sacerdote del Tempio di Kossonar, Rubin Hadd, stava riflettendo su quello che era appena accaduto. Lo stesso Imperatore era giunto fin loro, in pompa magna e pieno di guardie del corpo, per esporgli un problema che già qualche contadinotto aveva tentato di portare alla loro attenzione: il Maniero di Monblanc e il suo proprietario, vittima di una maledizione lanciata circa duemila anni prima da un suo predecessore.
Era una questione spinosa, che avevano cercato nei secoli, secondo la politica del Tempio, d'insabbiare e d'ignorare per non far passare i propri membri, o meglio alcuni di essi, per pazzi pericolosi, e che qualcuno si convincesse che era il caso d'intervenire. Purtroppo, in alcuni casi, le conseguenze delle follie dei Sacerdoti, soprattutto in passato, continuavano a venire esposte e ora, con l'intervento dell'Imperatore, Rubin si trovò costretto a fare qualcosa.
Chiamò uno dei suoi vice, che aveva assistito alla discussione.
"Flan, chi mi consigli dei guerrieri consacrati al Tempio, che possa essere in grado di combattere contro questa Bestia?" chiese all'uomo che si era avvicinato.
"Abbiamo parecchi valenti guerrieri, ma quello che mi sembra più adatto a questa impresa in solitario, è Maris Gennario, di certo uno dei più forti in questo momento." consigliò Flan.
Rubin assentì, conosceva le capacità di Maris, e si fidava di Flan se diceva che era il migliore da spedire a Monblanc. L'unico problema era che il ragazzo, che non era un sacerdote ma solo consacrato al Tempio, aveva avuto un lutto recente e temeva che non fosse mentalmente disposto alla lotta.
"Allora, è migliorato a proposito di quella faccenda?" chiese in maniera generale Rubin, senza entrare nei particolari.
"Vuole sapere se soffre ancora per l'improvvisa morte del compagno?" chiese a sua volta Flan, ignorando i tentativi di Rubin di non nominare quella cosa "Le ricordo, ancora una volta, che sono almeno duecento anni che l'omosessualità non è più ritenuta un peccato mortale e che, quindi, Maris non è un peccatore. Comunque, sì, soffre ancora, ma non ha mai smesso di allenarsi, è migliorato tantissimo, ma sono certo che questa missione, oltre che a fare bene alla nostra comunità, risolleverà la sua anima spezzata e guarirà le ferite del suo cuore."
Rubin tacque alle accuse non proprio velate del suo vice: era sempre stato molto prevenuto verso certi peccati e sarebbe volentieri tornato all'epoca in cui venivano messi alla gogna, prima di essere spellati vivi. Flan, invece, assieme alla maggioranza dei Sacerdoti moderni, era di mentalità più aperta. Ormai erano davvero pochi a pensare che l'omosessualità fosse un peccato mortale e non era raro che le donne e gli uomini consacrati al tempio senza essere Sacerdoti, avessero compagni dello stesso sesso. Era un vero peccato che lui come capo del Tempio non avesse la facoltà di tornare indietro. Se fosse stato nel suo potere, Maris Gennario non avrebbe fatto una bella fine. Doveva comunque convenire che era la scelta migliore, come combattente.
"Ok, vada per Maris. Avvertilo tu della missione e fa in modo che sia pronto per partire prima possibile." annunciò con un sospiro Rubin "Dobbiamo cercare di risolvere il problema al più presto. Che sia accompagnato da un paio di confratelli, per essere aiutato e che un messaggero parta immediatamente per Monblanc, per avvisare che nel giro di un giorno al massimo arriverà l'aiuto richiesto."
Flan abbassò il capo in segno di assenso e fece per partire, poi si trattenne un attimo.
"Signore, siamo a conoscenza del peccato aveva mai commesso il proprietario del Maniero, perché fosse maledetto in questo modo?" chiese, per pura curiosità.
"Sinceramente non ne ho idea, anche il Sindaco di Monblanc e l'Imperatore ne sono all'oscuro. Non esistono documenti a riguardo, solo leggende che parlano di gravi offese a un sacerdote del Tempio di Kossonar." rammentò Rubin, scuotendo la testa e ripetendo una frase che gli aveva detto Serdes "Perciò, conoscendo la suscettibilità dei nostri predecessori, potrebbe essere un qualsiasi motivo, dal più grave, come un omicidio, al più banale, tipo che gli ha tagliato la strada mentre camminava. Anche se a volte rimpiango i vecchi tempi, alla fine sono contento che la gente ci ami, più che tenerci. Fino a pochi secoli fa nessuno sarebbe venuto da noi per chiedere il nostro aiuto, anche se era la cosa più logica. Certo che non ci facciamo una bella figura, nonostante sia una faccenda di quasi duemila anni fa."
Flan sorrise, mentre assentiva alle dichiarazioni di Rubin: in fondo, nonostante qualche idea estremista, non era male come Sommo capo del Tempio. Si allontanò per adempiere ai suoi doveri.


Fu facile per Flan trovare un messaggero che partisse per Monblanc. Lo fu meno rintracciare Maris, che ogni tanto si eclissava nel suo dolore e spariva chissà dove.
Appena spedito il messaggero, si accinse a cercare il ragazzo che avrebbe dovuto compiere quella missione. Chiese informazioni a chi lo conosceva meglio e, alla fine, si ritrovò in una locanda che frequentava spesso, secondo gli amici più intimi. Entrando venne travolto dai fumi delle pipe e gli aromi dell'alcol. Storse il naso, non era un luogo adatto a un sacerdote di Kossonar e neppure a un guerriero votato al Tempio. Sperò di non trovarlo ubriaco fradicio o impegnato in atteggiamenti osceni. Anche se i Sacerdoti tolleravano i pederasti, volevano che i loro adepti mantenessero un certo contegno e si comportassero con rigore e disciplina. Il locale era molto frequentato e stava per arrendersi nella ricerca del ragazzo, quando lo vide, seduto in un angolo, con davanti un bicchiere pieno di liquore e una bottiglia appena cominciata.
Stava per avvicinarsi, ma decise di fermarsi a osservarlo: voleva controllare se aveva avuto ragione a consigliare la sua candidatura al Sommo Sacerdote, o se il dolore lo aveva reso un alcolizzato, quindi poco affidabile.






1- Il guerriero

Flan non sapeva se faceva bene a spiare il ragazzo, ma ebbe una sensazione che lo portò a fermarsi dietro di lui e a osservarlo. Di certo non poteva immaginare la fine che avrebbe fatto quell'alcol.
Maris continuava a fissare il bicchiere, come se ci trovasse qualcosa di interessante, o trovasse il liquido ipnotico, però non pareva ubriaco e nemmeno intenzionato a bere. Il Sacerdote decise che era giunto il momento di interpellarlo e stava avvicinandosi al tavolo, quando all'improvviso il guerriero prese il bicchiere, lo sollevò di lato e rovesciò il contenuto a terra.
-Uhm, molto interessante.- pensò Flan, bloccandosi e osservandolo riempire di nuovo il pezzo di vetro e ricominciare a fissarlo. -Chissà che razza di soddisfazione prova in un gesto del genere? Riempire un bicchiere di acquavite, fissarlo per un po, rovesciarlo, quindi ricominciare tutto da capo: non è un ubriacone, ma forse un gesto un po' da folle.-
Gli venne da sorridere: in fondo non faceva nulla di male. Non tutti gli avventori del locale, però, la pensavano come lui. Molte proteste si elevarono a quello spreco indegno del liquido dorato.
Un energumeno, alto e grosso il doppio di Maris, si avvicinò al ragazzo e lo fissò trucemente per qualche istante. Il guerriero non lo guardò neppure, occupato a contemplare il liquido nel bicchiere. L'uomo gli batté su una spalla e lui alzò lo sguardo, indifferente alla rabbia che dimostrava. Era evidentemente brillo.
"Posso fare qualcosa per te?" chiese senza allarmarsi più di tanto. Il suo tono tranquillo sembrò irritare ancora di più l'altro avventore, che sbatté una mano sul tavolo, facendo tremare la bottiglia.
"Non si spreca così un liquore di quella qualità." gridò, facendo tacere immediatamente chi nella sala non aveva ancora capito ciò che stava succedendo "Sono stanco di vederti tutte le sere buttare via delle bottiglie intere."
Lo sguardo del ragazzo non aveva abbandonato un solo attimo il volto dell'uomo, come se non desiderasse perdersi una sillaba del suo discorso. Non che avesse molto da dire.
"L'ho pagata cara quella bottiglia." ribatté semplicemente "Perciò ho il diritto di farci ciò che voglio."
La risposta non piacque molto a chi aveva sollevato il dubbio. L'uomo alzò il pugno, con il chiaro intento di colpirlo, ma era troppo brillo e Maris, abituato ad avversari più veloci e più forti, si alzò e lo evitò senza problemi. Il tavolo non si ruppe per poco e la bottiglia fu presa al volo dal suo proprietario prima che rovinasse a terra. Purtroppo non aveva fatto in tempo a recuperare il bicchiere.
Bloccò sul tavolo il gigante con una mano sola, davanti allo sguardo stupito degli altri che non si aspettavano tanta forza in quel ragazzino, nonostante avesse le insegne dei Guerrieri del Tempio di Kossonar.
"Spero che questo t'insegni a farti gli affari tuoi." gli disse, senza perdere la calma nella voce. Guardò la bottiglia, si ricordò che non aveva più un bicchiere e decise di usare un contenitore diverso. Prese l'uomo per i capelli, gli rovesciò la testa all'indietro e gli ficcò di forza il collo della bottiglia in bocca, rovesciandogli il contenuto. Non smise finché non la ebbe finita, rischiando di far soffocare l'uomo e sporcandolo con il liquido che non era riuscito a ingurgitare. Gli sbatté, poi, la testa sul tavolo, lasciandolo mezzo svenuto.
"Spero che sarai soddisfatto, ora." lo apostrofò, dopo essersi alzato e dirigendosi verso Flan. Lo vide sorridere, mentre dietro loro gli altri ubriaconi aiutavano lo sfortunato avventore.
"Come ti è venuto in mente di provocare un guerriero del Tempio?" gli sussurravano, mentre cercavano di sollevarlo.



"Stavi cercando me?" chiese Maris, che aveva visto Flan già da tempo, ma aveva atteso che si avvicinasse lui, prima dell'intervento fuori programma.
"Già." disse l'uomo che cercava di non ridere, per non irritare gli animi "Parliamone in un posto più tranquillo, però. Non voglio essere interrotto."
Maris fece cenno di seguirlo e si avvicinò al locandiere. Prese qualche moneta e gliela porse.
"Il mio amico e io, avremmo bisogno di discutere in pace. Puoi cedermi una delle stanze di sopra?" chiese, mettendo sul bancone qualche moneta.
"Le camere servono alle ragazze, per accompagnare i clienti." disse l'uomo, indicando alcune donne in attesa, che mostravano la lingua in maniera lasciva e li invitavano a passare la notte con loro.
Maris le guardò con poco interesse, non era strano dati i suoi gusti sessuali, poi tornò a rivolgersi al padrone.
"Randy, non mi sembrano molto occupate." gli fece notare "Mi serve poco tempo e, nel frattempo, tu ci guadagnerai qualcosa. Se dovesse servire la stanza, cosa di cui dubito, bussa e noi usciremo."
Randy ci pensò poco prima di accordare il permesso.
"Vi darò la stanza di Molina, è la meno richiesta." sussurrò a voce bassa "Sarebbe un miracolo se avesse un cliente."
Prese i soldi e gli allungò la chiave.



Entrarono in una stanza con un letto rifatto (altro segno che la ragazza lavorava davvero poco) e Maris si sedette su di esso, invitando Flan a imitarlo. Il Sacerdote scosse la testa e rimase in piedi: preferiva non rilassarsi troppo per quello che stava per dire.
"Maris, come ti senti?" s'informò, come se fosse stato quello il motivo della visita.
"Potrei stare meglio." rispose il ragazzo, serio "Siete molto gentili a venirvi a informare della mia salute mentale. Penserai che sono pazzo, dopo lo spettacolino di prima."
Flan non poté trattenere un risolino.
"No, davvero. L'ho trovato istruttivo, anche se strano."
"Non ho mai bevuto un solo goccio, ma mi piace il profumo e il colore. Valiri, al contrario di me, ne beveva molto. Lui non era propriamente un santo, ma lo amavo lo stesso." confessò sospirando "Mi sembra di averlo ancora vicino: fumo, alcol e... puttane."
Flan allargò gli occhi, stupito.
"Ti tradiva con le prostitute?" chiese, non riuscendo a trattenersi.
"Amava entrambi sessi. Almeno, ero il suo unico uomo, per quello che ne so." ammise tristemente Maris "Ho pensato più volte a lasciarlo e ora che non c'è più, non riesco ad andare avanti senza pensarlo."
"Mi dispiace sentirti parlare in questa maniera. Spero che quello che ho da dirti possa aiutarti a fare a meno di lui." cominciò Flan, deciso a convincerlo "Ho una missione per te da parte del Tempio. Sono sicuro che ti farà bene, oltre che compiere una buona azione. Il proprietario di un Maniero nella città di Monblanc fu vittima di una Maledizione da parte di uno dei nostri Sacerdoti, quasi duemila anni fa. Fu trasformato in una specie di essere bestiale. Solo che le conseguenze per tutto il paese furono devastanti. Infatti, ogni cinquecento anni, la Bestia viene colta da una fame atavica e attacca e divora qualsiasi animale nel raggio di chilometri, finché non è sazia. Il fatto che Monblanc sia uno dei maggiori produttori di bestiame del regno, complica le cose. Fino ad ora, come succede sempre, i nostri sacerdoti hanno messo la testa sotto la sabbia, ma è stato sufficiente che intervenisse l'imperatore in persona, per far cedere il Sommo. Vuole che tu parta il prima possibile."
Maris ragionò un attimo su quello che gli era stato detto. Negli ultimi secoli il Tempio di Kossonar si era evoluto, aveva allargato i suoi orizzonti, e cambiato direzione per migliorare. Non ne avevano guadagnato solo i sodomiti, come lui, ma anche le donne che, pur non potendo ancora fare parte del clero, non venivano più considerate esseri demoniaci.
"Fino a qualche tempo fa neppure l'imperatore avrebbe osato avvicinarsi al Tempio per obbligarvi a fare una cosa del genere. Temo che sia colpa dell'apertura mentale dei Sacerdoti più giovani." ridacchiò Maris, con tono sarcastico "Accetto. Non ho nulla da fare qui, se non piangermi addosso. Prima di partire avrei bisogno di qualche informazione, però. La Bestia attacca gli umani? E di quale orrendo peccato si era macchiato, quest'uomo per meritare una tale punizione?"
Flan sospirò: tutti facevano le medesime domande.
"No, non attacca gli umani, a patto che non sia provocato. Purtroppo è accaduto, Monblanc è un luogo che sopravvive solo grazie alla pastorizia, dati i suoi sterminati pascoli e la popolazione ha tentato di difendersi. Quando è accaduto, però, non si è mai cibato delle carcasse umane." rispose Flan, poi continuò "Per quanto riguarda lo sgarro che sia stato compiuto nei confronti del nostro sacerdote, purtroppo non ci è dato saperlo. Cinquecento anni fa il Monastero prese fuoco. Le mura resistettero, anche grazie alla magia dei nostri adepti, ma tutto il resto andò distrutto, compresi i documenti."
Maris fissò il muro davanti a lui, concentrandosi sulla parete bianca, perso nei suoi pensieri. Flan attese con pazienza che si riscuotesse.
"Dammi il tempo di prepararmi, fra un'ora sarò pronto per la partenza." Non aggiunse altro, si alzò dal letto e aspettò che Flan facesse lo stesso.
"Vieni al Tempio. Il Sommo deve darti ufficialmente le consegne per la missione. Ti aspetteremo." disse Flan, appena si fu messo in piedi.
Uscirono dal locale: Flan si diresse verso il Tempio, per avvertire Rubin di aver trovato il guerriero e che era pronto alla partenza, Maris andò alla casetta che fino a qualche tempo prima divideva con il suo compagno, per vestirsi con le effigie di Kossonar.
Si osservò un attimo allo specchio prima di uscire di casa. L'immagine che si riflesse era triste ma risoluta: doveva molto al Tempio, per averlo aiutato nei momenti di crisi, quindi voleva ricambiare dando il meglio di sé in quella missione.



Rubin Hadd fu svegliato nel cuore della notte da uno degli inservienti del castello.
"Flan dice di avere notizie importanti e urgenti per voi, Sommo." cominciò a spiegare l'uomo "Mi ha assicurato che avevate avvertito di interpellarlo a qualsiasi ora."
Rubin, dopo un attimo di smarrimento, durante il quale si chiese che potesse essere successo, rammentò della situazione in cui versavano.
"Sì, sì, fallo attendere nel mio ufficio, appena mi sono cambiato lo raggiungo." confermò l'uomo, andando verso il catino in cui l'attendeva dell'acqua gelata, che lo risvegliò quel tanto da renderlo presentabile. Si mise, poi, gli abiti che gli avevano preparato per il giorno seguente, pregando il suo servitore di mettergliene altri puliti per quando fosse cominciata davvero la giornata.
Nell'ufficio, Flan attendeva camminando avanti e indietro. Non era riuscito a starsene seduto neppure un attimo, nonostante l'invito di Dorian, il servitore del Sommo. Sperò che Rubin Hadd fosse svelto ad arrivare, entro poco sarebbe giunto il Guerriero prescelto per la missione e voleva prepararlo prima.
Per fortuna Rubin conosceva l'importanza del fatto e dopo appena dieci minuti entrò nell'ufficio da una porta nascosta dietro una tenda porpora.
"Flan, non pensavo che saresti tornato prima di domattina, altrimenti ti avrei aspettato alzato." commentò alla volta del vice "È stato difficile trovare Gennario?"
"Abbastanza. Ho dovuto chiedere informazioni ad alcuni amici, ma alla fine ce l'ho fatta." Gli raccontò velocemente l'incontro che aveva avuto con lui. Rubin scosse la testa, come se non credesse alle proprie orecchie. Un Guerriero che sostava in una locanda piena di beoni e prostitute, per di più omosessuale, era la loro migliore arma! Cercò di non far notare il suo disgusto. "Fra meno di un'ora sarà qui." continuò Flan "Sarà meglio preparare i documenti da far vedere all'Imperatore, che sono certo sarà ancora in viaggio per il castello quando s'incroceranno, e per il sindaco di Monblanc, che gli assicureranno della validità del guerriero. Lo aspetteranno con ansia, ne sono certo."
Rubin annuì: era d'accordo con lui riguardo l'urgenza e assieme compilarono i documenti che Maris doveva portarsi dietro.


Non era passata neppure un'ora che Maris fu annunciato. Il ragazzo era vestito di tutto punto, pronto alla partenza. La sua valigia conteneva solo qualche cambio, per le emergenze. Preferiva viaggiare leggero e lavarsi da solo gli abiti se si sporcavano.
Rubin non era in vena di storie. Rimase serio per tutta l'arringa di Flan, che rispiegava per bene la missione: eliminare la Bestia. A breve, con meno fretta, sarebbe arrivato a Monblanc anche un sacerdote, pronto ad aiutare il guerriero nel caso ci fossero stati problemi insormontabili.
"Uhm, è proprio necessario che uccida la Bestia?" chiese Maris "Non si potrebbe semplicemente annullare la maledizione? I Sacerdoti del Tempio erano molto permalosi, nei secoli passati. Potrebbero averlo trasformato per una sciocchezza, magari perché gli ha tagliato la strada."
"Al tempo stesso il motivo potrebbe essere serio: un omicidio, un furto. Non potremo mai saperlo, purtroppo. Non vale la pena rischiare di liberarsi da un Bestia per ritrovarsi con un essere umano peggio di lui. Il tuo compito è di obbedire e ucciderlo, liberaci della sua presenza e sarai ricompensato." Prese un sacchetto e glielo porse "Queste monete d'oro sono per le spese. Usale con saggezza."
Maris prese il sacchetto e ringraziò a voce bassa, ma chiara.
"Il messaggero che abbiamo spedito, oltre che avvisare del tuo arrivo, ha il compito di avvertire le guardie delle varie città che attraverserai, di prepararti cavalli freschi e cibi di scorta, appena presenterai questo." Gli consegnò una pergamena, firmata dall'imperatore.
"Avete pensato a tutto, perché raggiunga la città in tempi brevi" commentò Maris, sorridendo.
"Ogni giorno che ritardiamo, l'economia del paese rischia grosso." intervenne Rubin "Per non parlare delle vite che si spengono."
Gli furono consegnati tutti i documenti necessari per il riconoscimento e Maris, senza aspettare altro, partì.




2- La Bestia



Maris cavalcò come se fosse l'ultima avventura della sua vita. Sperava che quella missione lo aiutasse a dimenticarsi del suo compagno, della disperazione e del dolore che gli aveva lasciato la sua assurda morte.
Erano passati sei mesi dalla sua dipartita, che era diventata la favola di Paalod, la città più vicina al Tempio. Era ubriaco fradicio, come quasi ogni sera, ed era appena uscito dalla locanda nel quale si era appartato con una delle prostitute. La sua andatura era instabile, a quanto gli era stato raccontato, poiché lui era di guardia al Tempio, era inciampato nei suoi piedi ed era caduto a terra, finendo sotto le ruote di una carrozza che si stava fermando, rimanendo schiacciato.
Lo era venuto a sapere il giorno dopo, da altri guerrieri del Tempio che erano di pattuglia per le strade della città. Da allora non aveva pensato altro che a lui e ad allenarsi, non dandosi più tempo per altro.
Ora, mentre proseguiva a spron battuto verso il palazzo dell'Imperatore, cercava di trattenere i ricordi per concentrarsi su quello che stava facendo. Dimenticarsi di Valiri era l'unica cosa che poteva dargli una vita serena.
Dopo qualche ora incontrò la carovana dell'Imperatore, che stava procedendo lentamente per ritornare al castello. Fece vedere i documenti che presentavano lui e la propria missione e Serdes gli diede la propria benedizione assieme a un sigillo che gli avrebbe facilitato la missione.
"Mi raccomando, è davvero urgente che la faccenda venga risolta il prima possibile." lo incitò, come pure avevano fatto Rubin e Flan. Cominciava a essere infastidito da quell'insistenza.
S'inchinò, senza aggiungere altro che un saluto, poi ripartì alla volta di Monblanc. Si fermò pochissimo, appena il tempo di cambiare i cavalli e di riposarsi qualche ora per non crollare. Sorpassò il palazzo dell'Imperatore e raggiunse Monblanc che il messaggero si stava dirigendo alla locanda, per un meritato riposo, dopo aver avvisato il sindaco della città. Si stupì di vedere così presto un guerriero dell'ordine.
"Maris?" chiese l'uomo che lo conosceva "Ma... Sei partito appena dopo di me? Io sono arrivato solo un'oretta fa."
Maris scosse la testa, sorridendo, rilassandosi per la prima volta da molto tempo. Dorian era un buon diavolo, che faceva un lavoro scomodo, sempre in groppa a un cavallo, ma che non si abbatteva mai.
"No, sono partito circa mezza giornata dopo di te." disse.
"Cavolo! Poveri cavalli!" esclamò Dorian "Vieni con me alla taverna. Ti offro qualcosa."
"Lo sai che non bevo."
"Lo so, pensavo che ti fossi stufato di guardare sempre lo stesso liquore. Qui fanno un amaretto rosa che ti farà scintillare gli occhi."
"Grazie, ma devo passare." rifiutò "Oltretutto, credo che mi stiano aspettando. Se mi trovano alla taverna non ci faccio una gran figura."
"Allora ti saluto. Io ho proprio bisogno di bagnare il becco, prima di ripartire. Ci si vede." lo salutò, prima di rintanarsi al buio del locale.
Maris, convinto che il sorriso che aveva in quel momento sulle labbra non fosse consono all'aria cupa che si respirava in città, riprese la sua aria seriosa. Si chiese se l'alcool non fosse l'unica cosa disponibile in città. Vide molti locali, soprattutto di alimentari, chiusi o con vetrine sguarnite.
Chiese dove poteva trovare la casa del sindaco. Con il senno di poi, pensò che avrebbe informarsi con Dorian, ma per fortuna non fu molto difficile raggiungere la dimora del primo cittadino. Maris si fermò solo per chiedere da che parte doveva andare, a un uomo che gli sembrava meno sconvolto degli altri. Quello gli diede le indicazioni e si avviò. L'edificio era il più grande e bello della città, come in ogni altro luogo, ma nemmeno poi tanto facendo il raffronto con altri molto più elaborati. Il fatto di vivere in un paese fondato soprattutto sulla pastorizia, si capiva da lì. Vide che tutti lo osservavano con timore e riverenza. Le insegne del Tempio di Kossonar facevano spesso quell'effetto e forse qualcuno sapeva del suo imminente arrivo. Cercò di rimanere indifferente alle occhiate e alle parole sussurrate, anche per non guardare quei volti disperati. Le donne stringevano i figli, come se temevano che qualcuno li portasse via, gli uomini fingevano una forza che in realtà non avevano, altri, che avrebbero dovuto essere al lavoro, bighellonavano senza meta, non avendo altro da fare.
Suonò la campanella e gli aprì un servitore. Vedendo le insegne di Kossonar, il ragazzo lo fece entrare nella sala d'aspetto.
"Siete il guerriero mandato dal Tempio?" chiese, pieno di speranza.
"Sì, sono qui per vedere il sindaco." confermò Maris. Il servitore gli disse di mettersi comodo e corse a chiamare il padrone.


"Signor sindaco, signore!" chiamò il ragazzo, che aveva attraversato poche stanze di corsa e aveva già il fiatone.
Julius osservò il servo e si sentì pronto a rimproverarlo: non gli sembrava il caso di fare tanta confusione.
"Artue, spero che tu abbia un buon motivo per fare ciò." gli disse con tono sostenuto.
"Il guerriero..." prese respiro "Il guerriero dell'Ordine è arrivato!"
Julius saltò dalla sedia, sulla quale si era gettato dopo aver accolto il messaggero, come se si sentisse svuotato.
"Di già? Da come ne parlava quell'uomo, sembrava che dovesse tardare almeno due giorni." scattò, rimettendosi in ordine, poiché aveva scelto di mettersi in libertà dopo la sua visita. Si prese qualche attimo, sperando di essere presentabile, poi si diresse nel suo ufficio, mentre Artue andava a prendere Maris.
"Il sindaco vi aspetta nel suo ufficio, vi prego di seguirmi." disse, precedendolo fino a una porta di quercia. Lasciò che gli aprissero la porta, lo annunciassero, poi entrò. Un uomo lo attendeva dietro a una enorme scrivania.
"Entrate pure. Accomodatevi." Maris, dopo un inchino molto sobrio, obbedì e si mise in una comoda sedia che gli indicava Julius.
"Vi attendavamo con ansia, anche se non pensavamo che sarebbe arrivato così presto. Il messaggero non sapeva ancora il nome del guerriero che avevano deciso di convocare. Come vi chiamate a proposito?"
"Maris Gennario. In effetti, anche se avevano già pensato a me, hanno deciso di spedire il messaggero appena partito l'Imperatore." rispose "Comunque devo aver sfiancato un paio di cavalli, per arrivare qui. Tutti mi hanno confermato l'urgenza della faccenda e mi sono lasciato prendere la mano, guadagnando quasi mezza giornata sul messaggero. Ora che sono arrivato, spero di concludere al più presto."
"Lo spero anch'io. Lei è sicuro di essere in grado di recuperare a quello che il sacerdote del suo Tempio fece duemila anni fa?" chiese Julius "Mi scusi se sembro pedante, ma la situazione mi sta sfuggendo di mano."
"Ho notato, in paese, molta gente bighellonare senza meta, come se aspettasse il miracolo. Per fortuna sono arrivato in tempo, prima che la gente si rivolti. A parte l'aria smarrita e spaventata, sembravano piuttosto tranquilli." commentò Maris, mentre tirava fuori dalla sua bisaccia le carte che lo presentavano. "A proposito, ecco tutta la documentazione e i permessi, anche se lei non li ha chiesti, posso capire la sua fretta, glieli consegno. Mi tengo solo il sigillo reale, come lasciapassare."
"Oh, mi scusi, ha ragione, ma sono talmente preso." disse l'uomo "Comunque, per guadagnarmi la tranquillità dei miei concittadini, perché non perdessero la calma e non prendessero iniziative inutili, come attaccare me o stupide, tipo andare a cercare la Bestia da soli, ho dato fondo a ogni riserva del paese. Persino le granaglie che avevamo da parte per cibare gli animali, sono servite a sfamare gli uomini. Anche perché gli allevamenti sono rimaste poche decine e di questo passo non avremo altro. Abbiamo deciso di iniziare a macellare gli animali più vecchi per comprarci cibo e di trasportare quelli più giovane in cittadine vicine, in attesa che tutto finisca. Ma finché la Bestia non si sarà sfamata, non smetterà di cacciare. Ormai non c'è neppure più selvaggina, e gli animali da compagnia, cani, gatti e quant'altro, sono già finiti fra le sue fauci. Per fortuna non attacca gli uomini, sempre che si possa considerare fortuna essere costretti alla fame."
Julius non continuò, non ce n'era bisogno. Per la prima volta da quando avevano cominciato a raccontargli quella vicenda, Maris sentì l'angoscia nelle parole dell'uomo e comprese gli sguardi persi dei cittadini. Doveva fare qualcosa per salvarli e alla svelta.
"Le provviste che avete per tempo vi basteranno?" chiese "Potrebbe volerci del tempo per stanarla ed eliminarla. Prima di usare la forza devo capire quale sia il suo punto debole, poi usare ciò per abbatterla."
Julius sorrise, vedendo la serietà con cui il ragazzo, dall'aria giovane, prendeva il suo incarico.
"Di questo non dovete preoccuparvi, non moriremo di fame per almeno un mese, dando fondo alle briciole che avevamo di scorta. Gli esseri umani sono al riparo al momento." lo rassicurò "Di certo non possiamo dare lo stesso tempo per gli animali. Se vogliamo salvare l'economia prima che sia troppo tardi, non possiamo attendere più di due settimane. Se entro questo tempo non sarà risolta la situazione, la Bestia passerà dai nostri animali a quelli dei paesi vicini, com'è accaduto l'ultima volta, e sarà la fine per noi, per i rapporti con i vicini, che già a malapena ci sopportano e per tutti coloro che contano sulle nostre forniture."
Maris si alzò.
"Comincerei domattina." propose Maris "Questa sera ho bisogno di riposarmi dal viaggio."
"Ma non dovete cacciarlo la notte?" chiese Julius.
Maris scosse la testa.
"Devo cacciarla nella sua tana, dov'è meno protetto. Se non esce con il sole, con la fame che ha, è solo perché ha qualche caratteristica che lo tiene fermo durante il giorno. Devo approfittarne. Se sapessi di razza d'incantesimo si tratta, farei prima, purtroppo è andato tutto perso. Entro una settimana, comunque, risolverò ogni cosa." Maris cercò di apparire più sicuro di quanto non si sentisse. In realtà le cose potevano non essere così facili, ma preferiva essere positivo, più per gli altri che per se stesso. Avrebbe pensato poi a risolvere la situazione.
"Quindi posso cominciare a sperare?" chiese Julius, accennando un sorriso rilassato.
"Ci può scommettere." confermò Maris, senza cedere un attimo nella sua certezza.
"Le posso essere d'aiuto in qualche maniera?" chiese ancora l'uomo.
"Mi servirebbe una guida, qualcuno che mi accompagni nelle vicinanze del Maniero maledetto, poi, da lì me la dovrei cavare." disse Maris. "Se mi trova qualcuno che riesca ad avvicinarsi alla zona senza abbandonarmi per la strada, per il momento sarei a posto."
Il sorriso del sindaco si spense: non poteva chiedere a nessuno un sacrificio del genere e capì di doverlo fare lui stesso, benché avesse una fifa blu. Fece un grosso respiro, prima di rispondere.
"Si faccia trovare qui pronto alle otto, domani, la porterò io stesso. Credo di essere l'unico che possa avvicinarsi tanto senza fuggire." accordò Julius "Intanto la faccio accomodare in una delle stanze di questa casa. Ha del bagaglio con sé?" chiese infine.
Non molto, solo qualche abito e le mie armi. Le vado a prendere io stesso, se non le spiace."
"Come preferisce. Artue la accompagnerà nella stanza degli ospiti. Si riposi, domani sarà una giornata piena."


Maris si preparò per riposarsi, ma, nonostante la stanchezza causata dal lungo viaggio, non riuscì a chiudere occhio. Il pensiero del compagno, che durante le ore di attività si assopiva, tornava a torturarlo appena tentava di rilassarsi.
"Valiri, perché? Lasciami andare, ti prego." mormorò a bassa voce.
Capendo che non sarebbe riuscito a chiudere occhio, decise di uscire a prendere una boccata d'aria. Si coprì con una semplice casacca e il mantello, entrambi con le insegne del Tempio e aprì una porta secondaria, cercando di non svegliare nessuno. Il nitrito del cavallo che lo aveva accompagnato fino a lì, attirò la sua attenzione. Ricordò all'improvviso che al suo arrivo non aveva visto nessuna cavalcatura, segno che tutti erano stati attaccati dalla Bestia. Doveva essere molto tempo che non trovava cacciagione vicino alla città.
-Uff, ho lasciato la spada nella stanza, non pensavo che sarebbe giunto fin qui. Comunque finché non scopro il suo punto debole, non posso batterlo.- ragionò -Ha davvero un olfatto fine. Chissà se Dorian è ripartito? Anche il suo cavallo potrebbe fare quella fine se non è arrivato lontano. Però un'occhiatina la potrei dare lo stesso, tanto mi hanno detto che non attacca gli esseri umani. Giusto per farmi un'idea di chi devo combattere.-
Si avvicinò lentamente alla stalla, dove era alloggiato il cavallo. La porta era stata forzata, il che dimostrava che la Bestia aveva una forza non indifferente. Si affacciò all'apertura e la vide all'opera per la prima volta. Era chinata sulla carcassa del cavallo, ormai defunto. Non poteva essere altrimenti, poiché da quando aveva sentito il nitrito a ora che lo vedeva, il cavallo era stato completamente scarnificato.
-Questo essere è davvero vorace.- pensò.
Lo sguardo della Bestia, voltatasi improvvisamente verso di lui, lo trapassò da parte a parte. S'immaginava che sarebbe stato individuato, ma tanto non si cibava di esseri umani, e non ne uccideva, se non in odore di pericolo, quindi non correva rischi. Vide la Bestia alzarsi dal suo laido pasto e avvicinarsi verso di lui. Era davvero spaventoso, con due corna arrotolate sulla testa, zanne in bocca e sangue sul volto. Tatuaggi tribali si notavano dai lembi di pelle alla vista.
Appena fu abbastanza vicino, cominciò ad annusarlo, come dicevano facesse, prima di attaccare. Maris cercò di stare tranquillo, almeno finché non fece qualcosa d'imprevisto: toccò il simbolo di Kossonar ricamato sulla sua casacca e cominciò a osservarlo come se fosse rapito da esso. Maris inghiottì la saliva a fatica, improvvisamente in ansia.
-Accidenti, ha riconosciuto le insegne del Tempio.- pensò -Che faccio ora? Se fuggo potrebbe essere peggio, potrebbe irritarsi e non sembra arrabbiato.-
La Bestia fece una smorfia che sembrò un sorriso, poi, prima che Maris potesse fare qualcosa, si chinò su di lui e lo baciò. Il guerriero si trovò all'improvviso una lingua che si muoveva lentamente nella sua bocca.
-Non bacia male.- fu l'unico pensiero che riuscì a formulare, colto di sorpresa, mentre due braccia muscolose lo avvolgevano. Ricambiò quel bacio, chiedendosi se in realtà non si fosse addormentato e quello non fosse che un sogno dato dalla situazione. Il sapore nauseabondo del sangue, lo riportò alla realtà e respinse con quanta forza aveva in corpo quell'essere immondo. Si piegò, poi, in due, cominciando a vomitare. Il suo stomaco si era rifiutato quell'intrusione e ora cercava di liberarsene. La Bestia non si approfittò di quell'attimo di debolezza per attaccarlo, ma lo sentì andarsene ridendo.
-Mi sta deridendo per la mia reazione. Ma... perché mi ha baciato?- si chiese, fra un conato e l'altro.




3-Il maniero maledetto


 

Rientrò da dove era uscito, senza più curarsi di non svegliare nessuno. Prima che raggiungesse la stanza che gli era stata assegnata, fu raggiunto da Julius, e visto in che stato erano i suoi vestiti, si spaventò.
"Ho avuto un incontro ravvicinato con la Bestia." raccontò Maris, prima che lui chiedesse spiegazioni. "Non si preoccupi, questo sangue non è il mio, e questo altro è vomito. Ehm, scusi la domanda strana, ma la Bestia ha mai baciato nessuno?"
Julius rimase interdetto: che razza di domanda era quella?
"Per quello che ne so io, no. Almeno nessuno me l'ha mai raccontato." rispose l'uomo.
Maris decise di raccontargli l'incontro che aveva avuto. Alla fine Julius era confuso.
"Davvero l'ha baciato? Ed è certo che abbia riconosciuto le insegne del Tempio?"
Maris annuì, non aveva dubbi.
"Credo che mi abbia baciato per farmi un dispetto. Fino al secolo scorso gli omosessuali non erano ben visti al Tempio." disse Maris, spiegando la teoria che gli sembrava più logica "Questo dimostra che nonostante la sua voracità, la sua fame quasi infinita, ci si potrebbe ragionare. Di sicuro si ricorda che è stato un Sacerdote del Tempio a trasformarlo e quella di questa sera sembrava una vendetta."
"Mi stupisco che non vi abbia ucciso. Siete stato fortunato." disse Julius, prendendo respiro. "Lasciate i vostri vestiti davanti alla porta della stanza. Chiamerò uno dei servi e ve li farò avere appena sveglio. Vi consiglio di pulirvi, assieme agli abiti vi farò lasciare una brocca d'acqua pulita per domattina. Cercate di dormire, ci aspetta una lunga giornata."
Maris annuì, poi gli sorse un dubbio.
"Sindaco, il Maniero è molto lontano? Perché senza cavalli ci metteremo del tempo." s'informò.
Julius tornò a osservare il guerriero.
"Mi dispiace di non avervi avvisato, oltretutto non ero certo che la Bestia tornasse per mangiare il cavallo, ma probabilmente era l'animale più vicino al suo olfatto. L'unico pregio è che per questa notte avrà meno tempo per cibarsi delle mandrie rimaste nel paese. Comunque in mezza giornata, camminando di buona lena, raggiungeremo il Maniero. Vi porterò proprio sopra di lui, in un'altura. A voi non rimarrà che scendere giù per un viottolo e sarete arrivato. Non potrete più tornare indietro, però. Vi consiglio di armarvi bene e vi farò preparare una bella scorta di cibo, non troverete selvaggina nei paraggi."
Maris annuì, stanco: il suo incontro con la Bestia era stato fuori da ogni logica.


Fece come gli era stato suggerito, mise gli abiti fuori dalla porta e cominciò la detersione del volto e di ogni parte del corpo che erano sporchi. Dopo pochi minuti sentì un rumore e s'immaginò che qualche servo, svegliato nel cuore della notte e di cattivo umore, stesse maledicendo il suo nome. Non che gli importasse più di tanto. Si addormentò quasi subito, profondamente, come non accadeva da tempo. Il suo non fu un sonno tranquillo, ma, per la prima volta da mesi, Valiri non ne era il protagonista. Maris sognò la Bestia che lo avvolgeva fra le braccia e lo baciava, senza il disgustoso pasto a respingerlo. Infatti questa volta non lo cacciava, ma si godeva quelle labbra esigenti e arrabbiate Si svegliò varie volte durante la notte, con una pessima sensazione e una domanda a cui non riusciva a dare risposta: lo avrebbe respinto, se non avesse sentito l'odore di sangue che gli riempiva la bocca? Si riaddormentava quasi subito, ma la scena non cambiava e nonostante tutto si risvegliò più stanco di prima.
Raccolse i suoi vestiti, le sue armi, cercando di non tralasciare nulla, recuperò la brocca con l'acqua e, una volta finito, raggiunse l'entrata, dove fu accolto da Artue che lo accompagnò a fare colazione. Il sindaco era già pronto e stava mangiando di gusto.
"Buongiorno. Si accomodi, una buona colazione è la miglior maniera per cominciare la giornata." lo salutò Julius "Purtroppo non abbiamo uova e neppure latte. Per fortuna i salumi si sono salvati, sembra che alla Bestia le carni troppo elaborate non piacciano."
"Mi sembra di buon umore, signore." fu il commento di Maris, cominciando a servirsi a sua volta. A parte gli affettati, non c'era alcun prodotto di origine animale sulla tavola.
"Lo sono. Ho ottime speranze per il futuro. Il fatto che lei abbia già incontrato quella cosa mi sembra un buon segnale. Il fatto che abbia riconosciuto il simbolo del Tempio, significa che siamo sulla strada giusta. Dopo tanti secoli, poteva essere una leggenda che fosse stato un Sacerdote di Kossonar a eseguire la maledizione, ma questo conferma tutto." Il Sindaco bevve una generosa sorsata di vino e Maris si chiese se fosse un'abitudine cominciare con l'alcool di prima mattina.
"Se abbiamo un buon passo, dovremmo essere sull'altura appena passato il mezzogiorno." continuò Julius "Poiché non abbiamo cavalcature, dovremo portare tutto noi. Ci accompagneranno anche due uomini, ai quali ho promesso una buona ricompensa. Nonostante la mancanza di lavoro, e il fatto che di giorno la Bestia non attacca, e che comunque non attacca l'uomo, ho dovuto faticare per trovarli. La gente ha paura. Comunque, grazie a loro, riusciremo a portare tutto il necessario per una settimana fuori casa. Questa mattina ho fatto cuocere del pane in più, si mantiene molto se mantenuto al fresco, poi frutta, verdura e carne secca, che per fortuna è una delle cose che abbiamo in quantità, visto che il nostro paese è basato sulla pastorizia. Non dovrà preoccuparsi che le belve feroci divorino tutto, sono i primi animali che sono stati sbranati." Mentre parlava mangiava, riuscendo comunque ad avere un linguaggio fluido e chiaro.
Alla fine del monologo, Maris aveva già finito la colazione. Si chiese come poteva Julius accompagnarlo, dopo aver mangiato così tanto.
Julius aveva appena finito, che Artue apparve sulla porta, annunciando l'arrivo dei portatori. Furono fatti passare e presentati a Maris.
"Maris Gennario, Guerriero del Tempio di Kossonar, vi presento Puolo e Travis. Sono gli allevatori più vicini al Maniero, anche se al momento lui e la sua famiglia vivono qui. Sono sempre disponibili a qualche lavoretto." Finite le presentazioni, si prepararono per la partenza.
Maris prese la sua sacca e andò a recuperare ciò che gli mancava dai resti del cavallo. Aggiunse una borsa piena di cibarie. Il resto fu diviso fra i due pastori. In poco tempo furono pronti. Il ritmo, fin dall'inizio, fu molto buono. Maris si stupì di quanta resistenza avesse Julius, nonostante il fisico non proprio atletico. Oltretutto si chiese come era possibile che non rimanesse senza fiato, poiché era l'unico in vena di parlare e pareva non infastidirsi di essere costretto a una specie di monologo. I tre compagni rispondevano a monosillabi, un po' per risparmiare fiato, un po' perché non avevano spazio per dire altro. All'arrivo all'altura, dal quale si vedeva benissimo l'enorme costruzione che era l'antro della Bestia, Maris era stato messo a conoscenza del nome di ogni proprietario di ogni campo attraversato, in quel periodo incolto, ma comunque tutti coltivati a foraggio per gli animali, quanti erano in casa e se avevano dei problemi. Solo nel terreno di Travis, non disse quasi nulla.
Si erano fermati solo una volta per mangiare qualcosa e un paio di volte per riempire le borracce: l'unica cosa che non mancava, era l'acqua.



"Allora che ne dice, Maris" s'informò Julius, scaricando a terra le sacche che portava, immediatamente imitato dagli altri "Sarebbe un panorama magnifico, se non fosse per quel lugubre castello. La maledizione lo ha tenuto in piedi, nonostante lo scorrere degli anni, ma è più tetro di un cimitero di notte. Alla sua sinistra, dietro quel cespuglio, c'è il viottolo che porta al Maniero, da qui ci vuole pochissimo. In quell'albero cavo metteremo le provviste, giusto perché stiano al coperto se dovesse piovere. In questa sacca c'è il necessario per la notte. Credo che non ci sia altro, io e i signori torneremmo in città, non vorrei trovarmi a camminare al buio."
Maris assentì con il capo, quando sentì un movimento alle spalle, dietro al cespuglio che portava al viottolo. Con uno scatto corse a vedere e fece appena in tempo a vedere un ragazzo, che dimostrava circa quindici anni, fuggire e sparire dietro a una curva.
-Che ci fa qualcuno così vicino al Maniero?- pensò -Sembra che tutti ne abbiano una gran paura.-
Ritornò a voltarsi verso gli altri, che lo guardavano in maniera interrogativa. Decise di tenersi per sé quella notizia, almeno al momento.
"Non ho fatto in tempo a vedere nulla. Mi avevate assicurato che non c'erano animali in giro."
Julius era il più stupito di tutti.
"Vi giuro che è così. A patto che non si tratti di qualche genere di animale di cui la Bestia non si ciba, ma non saprei quale potrebbe essere. Finora nessuno si è salvato. Sarebbe bello saperlo, potremmo allevarlo e non almeno non rimarremo senza carne."
-Non credo proprio.- pensò Maris.
"Indagherò." disse a voce alta. "Voi tornate pure in paese, io comincio a dare un'occhiata all'esterno della costruzione."
Julius e Puolo impallidirono e si prepararono freneticamente per il rientro. Travis restò fermo e, dopo aver guardato Maris un lungo istante, gli rivolse la parola.
"Io potrei rimanere nei paraggi? Ho un conto in sospeso con quell'essere."
"Come tutti, direi. Non voglio essere intralciato, preferirei che tornasse con gli altri."
L'uomo, capendo che poteva dare infastidire il guerriero, annuì e, a malincuore, se ne andò con gli altri. Fuori da orecchi indiscreti, Julius lo rimproverò.
"Travis, smettila di incolpare la Bestia della scomparsa di tuo figlio. L'unico da biasimare sei tu."



Maris si avvicinò al Maniero. Era davvero una costruzione tetra, nonostante non vi trovasse nemmeno il più piccolo crepo, cosa strana dopo duemila anni di incuria. Sembrava essere impregnata di oscurità, nonostante fosse pieno giorno i muri respingevano la luce.
-Se avessi avuto ancora dei dubbi dell'intervento di uno dei nostri sacerdoti, ora sarebbero fugati. Solo i membri del Tempio di Kossonar sono in grado di creare una maledizione del genere.-
Percorse l'intero perimetro della recinzione, finché non trovò una finestra che era appena scostata, l'unica cosa fuori posto. Non avrebbe voluto entrare subito, ma la curiosità vinse la gara con la razionalità e l'aprì, cercando di fare meno rumore possibile. L'interno era assolutamente scuro. Prese una torcia che portava alla cintura, mormorò un incantesimo e all'improvviso luce fu. Non c'era altra maniera per illuminare quel luogo maledetto, se non un incantesimo.
Osservò i tendaggi e la mobilia: tutto era perfetto, senza che i segni del tempo o anche solo la polvere avessero danneggiato nulla. In effetti, a parte l'aspetto mostruoso, doveva ammettere che anche la Bestia si era conservata bene in quegli anni. A quel pensiero sentì le proprie guance imporporarsi e uno strano calore raggiungere il basso ventre: doveva smettere di pensare a quel bacio!
Girò per le enormi stanze, senza incontrare nessuno, e senza avere sentore che vi abitasse qualcuno, almeno finché non trovò, accanto a quella che una volta era adibita a cucina, delle armi rudimentali e un giaciglio, come se qualcuno vi abitasse regolarmente. Gli sembrò inverosimile che appartenessero alla Bestia: lui non aveva bisogno di armi per cacciare e non era neppure certo che dormisse e comunque non avrebbe avuto senso, con tutte le stanze che aveva quel Maniero, dormire nelle cucine. Ripensò al ragazzo che aveva visto correre via e si chiese se quelle cose fossero le sue. Era l'unico essere che vivesse nei dintorni anche se non sapeva come faceva a regolarsi in quell'oscurità e perché il padrone di casa tollerasse la sua presenza. Doveva essere parecchio tempo che stava da quelle parti ed essersi abituato al buio. Esaminò con attenzione quello che sembrava il resto di una colazione frugale composta di radici e semi. Sentì un altro movimento, ma questa volta scattò e prese il ragazzino che scalciava come un ossesso.
"Toglimi le mani di dosso. Se non mi lasci subito, chiamo Tyron e ti faccio sbranare."
Maris si chiese chi fosse questo tipo e se anche lui si rifugiasse lì dentro, ma al momento era occupato a cercare di trattenere il ragazzo e non aveva tempo di pensare ad altro. Oltretutto temeva di attirare l'attenzione della Bestia prima che si sentisse pronto. In realtà, prima che tentasse di ucciderlo, voleva sapere che cosa era accaduto realmente per una reazione del genere da parte del sacerdote.
"Tyron, Tyron, uccidilo, mi sta facendo del male!" gridò il ragazzo e, improvvisamente, sulla soglia della porta, apparve la Bestia. Maris rimase un attimo senza parole e a bocca aperta e mollò la presa sul ragazzo che si rifugiò in un angolo.
"Suppongo che tu sia Tyron." fu l'unica cosa che riuscì a pronunciare. Non si aspettava di incontrarlo così presto. Era convinto che durante il giorno e, magari, anche durante tutto il periodo in cui non era in attività notturna, dormisse, o almeno fosse in una specie di catalessi. Cercò di non distogliere lo sguardo da quelli della creatura, anche se era meno paurosa di giorno, senza quella luce folle negli occhi. Non voleva dare l'impressione di avere paura anche perché in realtà non ne aveva: sapeva che la Bestia non attaccava mai, a patto di non essere provocata.

“Ho la sensazione che ci siamo già incontrati. O sbaglio?” mormorò in maniera appena comprensibile. Solo l'assoluto silenzio che invadeva il maniero, a parte i borbottii del ragazzo, gli permisero di comprendere le sue parole.

Maris deglutì un paio di volte, per evitare che la sua voce si inceppasse.

“Ieri sera hai sbranato il mio cavallo. Non ce n'è più uno a disposizione per varie miglia, dovrò tornare a piedi.”

Lo sguardo di Tyron s'indurì e la sua bocca fece una smorfia.

“Quindi tu sei il tipo che aveva le insegne di Kossonar sul petto? E, dimmi, com'è stato essere baciato da me?” chiese, mentre un lampo malizioso gli illuminava un attimo gli occhi.

“Nauseabondo.” si lasciò sfuggire il guerriero, prima di poter pesare il significato di quelle parole.

Lo sguardo disgustato di Tyron, gli fece capire di aver sbagliato. Avrebbe dovuto pensare prima di rispondere così secco.

“Voi sacerdoti e la vostra filosofia di perfezione mi date la nausea!” disse, alzando un pelo la voce in una specie di grido. “Tutti coloro che non siete voi, sono dei relitti da scartare. Se non fossi legato a questa maledizione, ti sarei già saltato al collo”

Maris, indeciso su cosa fare, capì che doveva correggere come poteva il suo errore, per evitare che la Bestia facesse del male a qualcuno. Anche se era maledetto, era più forte di lui a livello fisico.

“Non fraintendermi, non parlavo del bacio in sé.” cercò di deviare la sua attenzione “In realtà non ho potuto sincerarmi della sua qualità, mi è salita subito in bocca la nausea per il sapore di sangue e credo di aver sentito anche dei pezzetti di carne.” Al pensiero, gli acidi dello stomaco tentarono di nuovo di uscire e fu la risata della Bestia a calmarlo.

“Quindi se ti ribaciassi ora, che non ho più il fetore del sangue, potresti giudicare meglio le mie qualità amatorie.” La Bestia si avvicinò pericolosamente.

“Probabilmente.” Senza volerlo Maris indietreggiò di un passo, dimostrando a Tyron un certo timore.

“E che farai poi?” lo stuzzicò Tyron “Maledizione peggiore a questa cui sono costretto non esiste. Che farai dopo?” ripeté.

Continuarono ad avanzare e indietreggiare finché Maris non si trovò appoggiato a un muro e la Bestia non toccò la parete alla sinistra della sua testa con una mano.

“Allora, che mi dici?” insistette.

“Beh... dipende.” rispose allora Maris che non sapeva come rispondere. O meglio, non riusciva a interpretare i propri stessi impulsi. Da una parte avrebbe voluto scappare, dall'altra avvinghiarsi a quel corpo seminudo e meraviglioso.

“Da che cosa?” chiese Tyron.

“Da come baci.” fu la risposta secca.

 

 

 

Per un attimo la Bestia rimase attonita: cos'era quella risposta? Una specie di scappatoia o un invito? L'unico modo che trovò per capire, fu di avvicinare le sue labbra a quelle di Maris, che attendeva una sua reazione. Le loro bocche si unirono in un bacio lungo e profondo. Tyron, benché stupito di non trovare alcuna resistenza, non si lasciò sfuggire l'occasione e avventurò le mani lungo il corpo snello e allenato del guerriero che a sua volta incrociò le sue dietro la nuca del mostro, attirandolo sempre più a sé. Si baciarono senza remore dimentichi di tutto e di tutti...

“Ehi, ci sono anch'io. Non vi vergognate a fare certe cose davanti a un minorenne.”

Le guance di Maris s'imporporarono, mentre separava le sue labbra da quelle di Travis. Non voleva dare spettacolo, ma neppure interrompere quel momento, il migliore da quando era morto Valiri.

“Ehm, hai fame?” chiese al ragazzo.

Quello annuì, stufo di cibarsi di radici e frutti.

“Nell'albero cavo dove mi hai visto la prima volta, assieme al sindaco Donovan, c'è una bella scorta di carne secca.”

Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte e scattò, uscendo dalla cucina di corsa. La Bestia lo osservò curioso.

“Pensavo che avresti approfittato dell'occasione per smettere.”

“Perché? Non baci affatto male.”

“Gli altri sacerdoti del tempio di Kossonar sanno di queste tue tendenze?”

“Si sono evoluti anche loro nei secoli.”

Tyron non disse altro e tornò a baciarlo. Maris sperò che il ragazzino avesse capito che aria tirava e non tornasse tanto presto.

 

 

 

Era davvero tanto tempo che Maris non si sentiva così rilassato. Dormire sul petto di un uomo con cui aveva fatto l'amore innumerevoli volte era qualcosa che lo faceva stare bene. Ora, mentre giocherellava con i capezzoli ancora inturgiditi di Tyron, pensava a quanto assurdo fosse l'amore. Soprattutto per lui che finiva sempre con il cedere alle persone più sbagliate. Prima un ubriacone bisessuale che lo usava solo per il sesso, poi con una creatura che avrebbe dovuto uccidere. Il pomeriggio era volato via e il ragazzo non si era più fatto vedere. Il buio si stava avvicinando e, all'improvviso, Maris sentì i muscoli di Tyron irrigidirsi. Lo scosse un attimo e lui, con gli occhi infuocati disse una sola parola.

“Fame.”

Il Guerriero si ritrasse e vide il suo amante scivolare fuori dal letto e, nudo com'era, avviarsi verso l'uscita. Non sarebbe tornato prima dell'aurora e questo diede del tempo ai pensieri di accavallarsi nella mente di Maris.

Pregò per quasi tutta la notte, inginocchiato davanti alla propria spada, chiedendo consiglio a Kossonar, ma senza che l'immagine della Bestia lo abbandonasse un solo istante. Forse aveva ragione chi incolpava i guerrieri consacrati al Dio, senza prendere i voti, di non essere abbastanza lucidi. L'umanità e il sesso si mettevano sempre nel mezzo, rischiando di rovinare tutto. Che ci aveva guadagnato ora che aveva donato il suo corpo a quell'essere immondo? Doveva eliminarlo comunque e non ne aveva voglia affatto. Verso mattina sentì un rumore proveniente dalle cucine e immaginò che il ragazzo fosse tornato. Decise di fare due chiacchiere con lui per chiedergli com'era capitato lì dentro.

“Posso sapere come ti chiami?” gli chiese.

“Travis jr.” rispose quello di malavoglia.

“Uh, sei il figlio scomparso di quello che mi ha aiutato a portare le vettovaglie. Allora aveva ragione il Sindaco a dire che ti eri allontanato di tua volontà.”

“Mio padre è un beone idiota!” sbottò Jr. senza trattenersi, poi se ne pentì e ricominciò a parlare più calmo “Mi picchiava per ogni sciocchezza quando era ubriaco e lo era spesso, glielo posso giurare.”

Maris pensò all'uomo che lo aveva accompagnato e si ricordò di un cinquantenne triste e con pensieri vendicativi, ma sobrio. Forse il dolore per la perdita del figlio lo aveva rinsavito e portato a smettere di bere.

“Tuo padre cerca di convincere se stesso che la Bestia ti ha ucciso, forse perché si sente in colpa e non vuole ammettere che te ne sei andato per colpa sua. Credo che sarebbe davvero contento se tu tornassi.” lo invitò Maris.

La smorfia di Jr fece capire che non era affatto convinto che fosse vero. Non che il cavaliere gli mentisse, ma poteva avere frainteso il comportamento del padre.

“Inoltre non ha l'aspetto di un bevitore abituale, potrebbe avere smesso.” insistette Maris.

La risata genuina di Jr non lo stupì. Essendo abituato a vederlo ubriaco dalla mattina alla sera, doveva essere incredibile che avesse smesso proprio ora che non c'era più.

“Tutti incolpano lui della tua scomparsa, quindi potrebbero averlo costretto a smettere.”

Il discorso cominciava ad annoiare il ragazzo, ce sbuffò e fece per andarsene.

“Stai bene qui con Tyron?” chiese, per cambiare argomento.

“Non c'è cacciagione nel raggio di parecchie miglia, tanto che sono costretto a cibarmi di radici, ma mi sa ascoltare come nessuno ha fatto mai.” spiegò Jr “Si sente molto solo e il fatto di non poter uscire se non che nelle notti in cui è affamato, non migliora le cose.”

“Ammetto che questa maledizione è tremenda, soprattutto perché coinvolge altre persone oltre a lui. Durante i suoi periodi di caccia, quasi tutto il regno rimane senza carne, ma anche senza raccolti, poiché si ciba anche degli animali che aiutano l'uomo nelle arature.” constatò Maris, “Lui, durante i vostri discorsi, ti ha mai detto quale sia il motivo per cui il sacerdote del Tempio di Kossonar gli lanciò la maledizione?” chiese infine.

“In effetti, mi disse qualcosa un giorno, in cui era in una specie di catalessi.” ammise Jr “Non sono neppure certo che parlasse con me, forse solo a se stesso. Dalle sue farneticazioni il succo di ciò che mi raccontò fu che una notte buia e tempestosa un uomo con le vesti del tempio di Kossonar gli chiese ospitalità. Lui acconsentì di buon grado, ma, appena lo vide con vesti asciutte ne rimase colpito. Era bello come un angelo e cominciò a fargli una corte serrata. Benché quello continuasse a tentare di tenerlo lontano da sé, Tyron non riuscì a resistergli e lo baciò. A questo punto non mi è chiaro se bastò quel bacio perché il sacerdote gli lanciasse la maledizione o Tyron arrivò a violarlo sessualmente, ma se fosse il primo caso credo che la Maledizione lanciata sia esagerata, quindi, molto più probabilmente, si tratta del secondo.” Prese un respiro poi proseguì. “Dopo il racconto ho temuto che mi saltasse addosso e attentasse alla mia virtù, ma non si è mosso di un filo, quindi suppongo di non essere il suo tipo IO.”

La maniera in cui spinse sull'ultima parola era piuttosto allusiva, ma Maris finse di nulla e non accettò la provocazione.

“Lo ucciderai, vero?” domandò all'improvviso Jr.

Maris si voltò verso di lui e lo guardò un attimo prima di rispondere.

“Mi hanno mandato qui apposta. Nessuno sembra interessato a interrompere a maledizione. In realtà è possibile che l'affronto subito dal sacerdote sia minore a quello che pensi. Fino al secolo scorso l'omosessualità non era vista di buon occhio e duemila anni fa anche un bacio poteva essere considerato un affronto senza perdono.”

“Quindi che farai?”

“Sono già troppo coinvolto.” Maris alzò le spalle in segno di resa “Me ne andrò.”

“Ma questo significa che manderanno qualcun altro per uccidere Tyron! Non puoi risolvere la faccenda tu, senza spargimento di sangue?”

“Non saprei come fare. Ho passato la notte a pregare Kossonar perché mi desse una risposta che mi potesse aiutare, ma nulla, non ho ricevuto il più piccolo segno.”
Jr non seppe che altro dire e si arrotolò su se stesso, in posizione fetale.

 

 

 

 

4- Il sonno della ragione

 

 

 

Non tardò molto al ritorno della Bestia al maniero e trovò Maris a attenderlo.

“Sei ancora qui?” lo apostrofò Tyron con aria dura e indifferente. Non sembrava ricordarsi ciò che era accaduto la notte precedente, o forse era sempre di cattivo umore appena tornato dalla caccia.

“Non ti preoccupare, non ti disturberò ulteriormente. Domani mattina, al tuo ritorno, non ci sarò più. O forse è meglio che me ne vada ora.” Il tono della Bestia lo aveva irritato e si sentiva ancora più inutile. Tornare indietro e ammettere di aver fallito sarebbe stato un'umiliazione, ma non poteva fare altro. Fece un passo verso l'uscita, ma Tyron lo trattenne per un braccio.
“Tu non te ne vai di qui!” ringhiò e lo attrasse a sé con furia.

Maris lo respinse, ma si ritrovò avvinghiato ancora di più.

“Non puoi resistermi.” gli soffiò sul collo in maniera lasciva.

Maris, se il giorno seguente si era lasciato andare, dopo mesi di disperazione e solitudine, si sentì improvvisamente nauseato dalla mancanza di umanità di quell'essere ed ebbe la sensazione che non fosse colpa della maledizione, ma solo del carattere innato del signore del maniero. Ricco, potente, si credeva di poter avere tutto ciò che voleva, anche andando contro il desiderio degli altri.

“Questi millenni di maledizione sono serviti solo a far disperare i tuoi concittadini, non ha cambiato la tua anima di un filo.”

“Non sei in grado di farmi nulla.” lo sfidò Tyron con un ghigno sul volto.

“Solo perché ieri ti ho concesso il mio corpo, non ti illudere che puoi battermi.” Appoggiò una mano sul petto dell'uomo, mormorò un incantesimo e quello sbalzò all'indietro. Si ritrovò gambe all'aria e con la faccia stordita. Prima che potesse rialzarsi, Maris ne approfittò per indossare il mantello, stringere la spada e uscire dalla porta principale. La luce del giorno lo colpì agli occhi e gli ci volle un attimo per abituarsi a tenerli aperti senza che fossero feriti. Lo stesso non fu per la sua anima quando si rese conto che non aveva una cavalcatura e che la strada per raggiungere il Tempio a piedi era lunga. All'arrivo dei sacerdoti, probabilmente la Bestia sarebbe già stata sazia e avrebbero dovuto stanarla nel Maniero. Tanto peggio per lui! Però non fu di stimolo e rimase abbandonato davanti al portone.

 

 

 

Intanto, all'interno del Maniero...

…Jr trovò Tyron abbandonato a terra. Era rimasto lì dopo che Maris se n'era andato.

“Se n'è andato.” disse al ragazzo, con voce atona come se desse informazioni sul tempo.

Jr si avvicinò e si chinò verso di lui.

“Ti dispiace?” gli chiese.

“Non lo so.” rispose l'altro “L'unica cosa di cui sono certo è che non mi sono mai sentito così triste da... mai. Nemmeno prima della trasformazione, o dopo. Mi sembra che qualcuno mi abbia strappato il cuore dal petto e lo stia calpestando.”

“Ti sei innamorato?”

“Non dire idiozie, l'ho appena incontrato. Solo... non doveva andarsene in quella maniera, io dovevo cacciarlo, io... Sono sempre stato così bastardo?” Alzò lo sguardo e lo puntò su quello del giovane. Sembrava aspettare una risposta.

“Non lo so, non mi hai mai trattato male e mi hai fatto compagnia. Non sapevo com'eri prima, ma prima ho visto come ti sei comportato con Maris e bastardo è proprio la parola giusta.” confermò Jr, poi aggiunse “Se ti sei comportato in maniera simile anche con quell'altro sacerdote, posso capire che si possa essere irritato. Comunque non vorrei averne mai a che fare. Maris è solo un guerriero consacrato, senza obbligo di castità, ed è davvero forte.”

“Senza obbligo di castità? Non esistevano queste cose una volta. Vorrei potergli chiedere scusa, ma non so come fare.”

“Posso chiamartelo io? Si trova qui fuori a chiedersi coma farà a raggiungere il Tempio senza un cavallo, suppongo.” disse indicando il portone.

Tyron lo fissò un attimo, come se non capisse, poi il suo volto si rasserenò e si aggrappò al braccio di Jr.

“Ti prego, chiamalo.” lo implorò “Prima che se ne vada.”
Jr non era sicuro di quello che stava facendo, ma uscì alla luce del sole. Maris non era più seduto sui gradini, ma si era avviato verso l'albero cavo in cui c'erano le provviste. Lo raggiunse dopo una breve corsa.

“Maris, non puoi andartene così. Tyron ha bisogno di parlarti.”

“Io no. Non voglio avere altro a che fare con lui. Ora lasciami andare, è dalla colazione di ieri che non mangio nulla.”

“Ok, ma appena ti sarai riempito lo stomaco cerca di ragionare un attimo. Lui vuole vederti. Mi sembra davvero dispiaciuto del suo comportamento.”

Maris, che aveva camminato di buon passo e che ormai era giunto all'albero cavo, si lo fissò abbattuto e per nulla convinto, ma annuì.

“Se servirà a metterti l'anima in pace e a lasciarmi andare in seguito senza altre storie, tornerò da lui.”

Fece una colazione frugale con ciò che era rimasto nel tronco, non molto in realtà. Il passaggio del ragazzo, affamato come un lupo, aveva lasciato le sue tracce. Finì alla svelta e tornò sui suoi passi, tampinato da Jr. Quest'ultimo, in realtà, avrebbe voluto correre da Tyron per dargli la lieta novella, ma Maris lo aveva pregato di farlo entrare da solo per chiarirsi con lui, quindi si accontentava di stargli dietro.

Appena giunto davanti al portone principale, lo aprì e trovò dinnanzi a sé, seduto a terra, Tyron che piangeva. Scattò all'indietro appena un poco di luce gli colpì il volto, come se fosse stato accoltellato. Maris la richiuse subito alle spalle, chiudendo un furibondo e curiosissimo ragazzino all'esterno.

“Sei tornato? Cominciavo a disperare.” lo accolse Tyron.

“Jr ha insistito. Anche se non capisco come funziona il tempo dentro di te. Sono duemila anni che sei qui dentro, una mezz'ora non mi sembra così tanto.”

Tyron si riavvicinò e lo avvolse in un abbraccio caldo e invitante.

“Mi sei mancato tanto.”

“Ti ripeto quello che ho detto prima. Hai un carattere troppo volubile.”

“Ti do una scelta. O stai accanto a me e tenti di aiutarmi, o mi uccidi. L'eternità senza di te, mi sembra un vuoto presagio.”

Maris si sentì avvampare a quelle parole: era ciò che ognuno desidererebbe sentirsi dire in condizioni normali. Ma non era così per loro.

“Ci siamo appena conosciuti. Chi mi dice che presto o tardi ti stuferai di me e mi caccerai da qui?”

“Non accadrà. Tu sei quello che attendevo da secoli. Giura che mi starai accanto per sempre e non chiederò null'altro per me, se non il perdono per tutti i miei peccati.”

lo sguardo speranzoso che Tyron gli lanciò lo confuse di più del dovuto.

-Ma perché ti vai sempre a impantanare in queste storie senza senso?- si chiese, mentre si perdeva in quegli occhi profondi. Prima Valiri, che diceva di amarlo e lo tradiva appena poteva, ora un demone immortale che avrebbe dovuto uccidere. Oppure la sua presenza e la sua magia avrebbero potuto aiutarlo a non commettere più quegli atti? Anche se in realtà ormai era tardi per quella volta e lui non sarebbe campato a sufficienza per vedere quella successiva. Maris si arrese e si abbandonò sul petto della Bestia, lasciandosi coccolare dal suo abbraccio. Chiusero entrambi gli occhi e giacquero così per alcuni minuti, finché il rumore della porta principale che si apriva, non li distolse da quel momento di pace.

“Avete visto cos'è accaduto?” chiese Jr, gridando mentre entrava “Il castello ha perso la sua aura scura.”

Tyron, che istintivamente aveva portato la mano davanti agli occhi per proteggersi dalla luce solare, corse fuori e se ne lasciò sommergere. Anche se il su sguardo era ferito da duemila anni che non vedeva altro che oscurità, seppe istintivamente che non aveva più bisogno di nascondersi. Si osservò le braccia e notò che non aveva più i disegni tribali sul corpo, si toccò il capo e il viso e la mancanza delle corna e dei canini aguzzi era lampante. Si girò poi verso Maris, che lo osservava commosso da lontano e gli fece cenno di avvicinarsi. Quello, che dopo un'iniziale momento di smarrimento si sentì all'improvviso felice, si gettò di nuovo fra le sue braccia.

“Questo è tutto merito tuo. Un altro sacerdote, al posto tuo, mi avrebbe ucciso senza troppi complimenti. Era il destino che tu salvassi il mio corpo e la mia anima.” sussurrò all'orecchio “Era molto tempo che aspettavo la possibilità di redimermi e stavo per gettarla via.”

“Forse avevi solo paura. Per fortuna tutto è andato per il verso giusto, mi sarebbe dispiaciuto doverti uccidere.”

“Non mi avresti consegnato ad un collega?”

“Mh, forse. Ci sarebbe voluto ancora qualche giorno prima del loro arrivo. Anzi, avrò da impazzire a spiegare perché non ti ho fatto fuori su due piedi.”

Il singhiozzo di Jr, che piangeva dietro di loro, li distrasse dalla conversazione.

“Piangi di gioia?” chiese Tyron.

“No, di disperazione.” sbottò “Non voglio tornare da quel coglione di mio padre. Posso rimanere qui con te? Avrai bisogno di qualcuno, ora che hai un maniero che non si mantiene più da solo.”

Tyron rise.

“Sei assunto. Ma ti consiglio di riavvicinarti a tuo padre, scommetto che se l'è fatta addosso dalla paura. Anzi, vai a dare la buona novella al villaggio, come primo compito.”

Jr obbedì di controvoglia e i due rimasero soli.

“Bisognerà lavorare molto per rimettere le cose a posto nel villaggio e nei paesi vicini. Mi aiuterai?”

“Farò quello che posso.” promise Maris.

Missioni del tempio a parte, si convinse che sarebbe rimasto parecchio tempo in quei paraggi. Ora bisognava rendere di nuovo fertile la zona, far accettare ai concittadini che la Bestia non fosse morta, ma tornata umana e... crearsi una nuova vita assieme a lui. Era certo che Rubin Hadd non ne sarebbe stato scontento, sapeva che lo sopportava a malapena. Una scusa in più per rimanere a Monblanc.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** Le ali della libertà ***


Storia partecipante al contest di Sango_79, indetto sia sul forum di efp che su quello di Disegni e Parole, ispirato alla seguente immagine

http://s1182.photobucket.com/user/DisegniParole/media/aihasukawa5.jpg.html?sort=3&o=990


 

 

 

 

 

Le ali della libertà

 

 

 

Daniele aprì il cassetto che teneva sempre chiuso a chiave e ne controllò il contenuto. Osservò i negativi, poi le foto che aveva stampato in maniera artigianale. Anche se non erano dei capolavori, erano state sufficienti per appropriarsi del corpo e dell'anima di quello che da due anni era il suo amante.

In quelle foto, piuttosto compromettenti, si notava Angelo che montava in maniera inequivocabile sopra l'attrezzo intimo di colui che era stato il suo avversario quando aveva tentato di diventare sindaco di Roma. Un cultore della famiglia, diceva lui.

-Uno stronzo.- pensò Daniele. Con moglie, tre figli e una sfilza di amanti maschi da fare invidia a un harem. Pensava che sarebbe stato buono e giusto metterlo alla gogna, per lui, omosessuale dichiarato, ma che non prendeva per il culo nessuno, almeno non in senso allegorico.

Però era accaduto qualcosa che aveva cambiato tutto.

Si poteva chiamare colpo di fulmine, quello che lo aveva colto nel solo osservare quel giovanotto impegnato nelle sue evoluzioni sessuali? L'unica cosa certa era che aveva fatto carte false pur di incontrarlo. Invece di minacciare il suo avversario, gli aveva chiesto di metterlo in contatto con lui, aveva rinunciato al suo incarico e costretto il ragazzo ad avere una relazione con lui. Minacciandolo di fare vedere le foto ai genitori, all'oscuro di come il figlio si manteneva.

Ora si rendeva conto che non poteva continuare così. Non poteva illudersi, doveva sapere se in questi due anni Angelo avesse continuato a stare con lui solo perché costretto, o si era innamorato, come a volte sembrava.

 

 

 

L'uomo entrò nell'appartamento che divideva con il ragazzo. Angelo gli corse incontro sorridendogli e baciandolo sulle labbra. Daniele cercò di ricambiare e lo abbracciò. Depositò nel solito angolo la valigetta, poi mangiarono ciò che il ragazzo aveva preparato: non era certo un cuoco provetto, ma si impegnava per quanto poteva e i risultati se non ottimi, erano almeno commestibili e non nuocevano alla salute.

Quella sarebbe stata l'ultima sera dell'obbligo di Angelo a compiacerlo e poteva esserlo del tutto, perciò voleva godersela fino in fondo.

Come ogni sera, dopo aver finito di riordinare, Angelo si vestì in maniera sexy. Quella sera aveva un kimono bianco dal quale spuntavano bordature rosse. Amava vestirsi con abiti etnici e Daniele non vi trovava nulla di male, anzi ogni cosa facesse lo eccitava sempre.

Lo avvolse da tergo e assieme abbracciò anche il paravento rosso che usava per cambiarsi, una pudicizia che lo rendeva più interessante. Seduto a terra cominciò a baciare il collo bianco, mentre con una mano cercava di venire a capo di quegli strati di abbigliamento. Lo amò con lentezza, come se volesse godersi ogni istante di quello che stava accadendo per stamparselo nella memoria. Ogni gemito di piacere che strappava dalle labbra di Angelo era la conferma che dal punto di vista sessuale erano anime gemelle.

-E se fingesse? E se non lo avessi mai fatto godere sul serio?- Il dubbio avvelenava anche il momento più dolce, rendendolo tossico. Alla fine, dopo aver raggiunto entrambi l'orgasmo, giacquero soddisfatti e si addormentarono.

La mattina seguente Daniele si svegliò prima del solito e si allontanò in silenzio dalle coltri calde. Raggiunse l'angolo in cui teneva la sua borsa e ne sfilò le foto con i negativi. Andò al lavoro come ogni giorno, anche se fu in ansia fino a sera. Passò la giornata attendendo una chiamata al cellulare, una sfuriata in ufficio, qualsiasi cosa che gli avrebbe permesso di capire come aveva reagito Angelo.

Al ritorno forse tutto si sarebbe aspettato, escluso quello che vide. L'appartamento era vuoto e non c'era più alcuna traccia del fatto che chiunque altro che non fosse lui, avesse abitato lì. Era come se i due anni che aveva passato assieme al compagno fossero spariti nel nulla, inghiottiti da un buco nero.

Si sedette, con la testa fra le mani e lasciò che le lacrime che aveva trattenuto nelle ultime angoscianti ore, uscissero fuori. Si sdraiò nel divano e si addormentò senza mangiare. Al risvegliò si accorse che era tardi per andare al lavoro e che non si sentiva neppure troppo bene per essersi addormentato scoperto. Chiamò l'ufficio e si prese qualche giorno di malattia, senza sapere se avesse mai avuto abbastanza forza per tornarci.

Poi... qualcuno lo chiamò al telefono. Non voleva rispondere e lasciò che la segreteria rispondesse al posto suo. La voce della madre di Angelo, che lo pregava di venire a prendere il figlio che era piombato frignante a casa sua, lo fece scattare in piedi.

“Rosita, ci sono, cos'è accaduto?” chiese scattando dal divano fino al telefono.

Lei gli spiegò che Angelo era giunto, con la macchina carica e che si era messo a piangere come una fontana. Fra le mani teneva una busta che conteneva delle foto piuttosto imbarazzanti.

Perché non le aveva distrutte?

“Mi dispiace se ti ha tradito.” continuò Rosita “Per quanto abbiamo provato a tenerlo sotto controllo, è sempre stato una testa calda. Ma si è pentito, te lo giuro. Non l'ho mai visto così disperato.”

 

 

 

Daniele non chiese altro, non salutò neppure la madre del suo ragazzo, sbattendole poco elegantemente il telefono in faccia e lasciandola con il dubbio che fosse infuriato. Corse all'auto, improvvisamente rinvigorito, e fece tutta la strada che lo separava da Angelo a tavoletta, fregandosene di limiti, passanti e altre vetture, rischiando più di una volta di avere un incidente e collezionando una serie di accidenti che gli sarebbero stati sufficienti per tutta la vita.

All'arrivo nel paese natio di Angelo, parcheggiò in un posto per gli handicappati e corse a più non posso verso la casa dei suoi genitori. La madre, che era affaccendata in cucina, gli aprì e lo guardò stupita.

“Sei già arrivato?” lo apostrofò “E io che pensavo che fossi così arrabbiato da interrompere la comunicazione!”

“Dov'è?” chiese bruscamente, senza preamboli.

“Nella sua vecchia stanza, in fondo a destra.” lo informò Rosita.

Daniele si fiondò dentro, seguendo la strada che gli era stata indicata, lasciando sulla porta una donna perplessa, ma speranzosa. Aprì la porta e la trovò aperta. Angelo era abbandonato sul letto, ancora in lacrime. Non si voltò neppure, pensando fosse la madre che tentava un'altra volta di dargli da mangiare.

“Perché te ne sei andato, se volevi rimanere?” chiese senza attendere oltre.

Quella domanda gli aveva arroventato il cervello come un chiodo infuocato ed era la prima cosa che gli era venuta in mente, una volta visto.

Angelo scattò seduto, stupito di vederlo al suo fianco. Si morse un labbro, poi lo sfidò con lo sguardo.

“E tu perché mi hai dato quelle foto, se volevi che rimanessi?” domandò a sua volta.

Daniele si sedette accanto a lui e lo abbracciò. Angelo lo lasciò fare, senza però ricambiare e l'uomo capì che gli doveva una spiegazione.

“Sono stati due anni stupendi.” esordì, sperando che così quello che avrebbe detto dopo avesse più senso “Però avevo bisogno di sapere se anche tu mi amavi, o stavi con me solo per paura che mostrassi a tuoi quelle foto. Tua madre le ha viste, pensa che ti abbia lasciato a causa di un tradimento.”

Angelo si accoccolò fra le sue braccia e appoggiò la testa sul petto del compagno.

“Credevo che ti fossi stancato di me.” piagnucolò, ricominciando a frignare.

“Non sono mai stato il tipo da avventure di una notte. Ieri sera, quando non ho più trovato traccia di te, ho pensato che non vedessi l'ora di liberarti di me. Se Rosita non mi avesse telefonato, starei ancora a piangere sul divano, come stai facendo tu.”

“Perché non mi hai semplicemente chiesto se volevo stare ancora con te?” lo accusò, picchiandolo sul petto con un pugno, che faceva male solo moralmente.

“Ora che me lo dici sembrerebbe la cosa più ovvia, ma nei giorni scorsi mi sembrava un'idea pessima.” ammise Daniele “Temevo che sarei morto se mi avessi detto in faccia che non mi amavi e che stavi con me solo per interesse.”

Non dissero nient'altro, finalmente contenti di essere chiariti. Furono disturbati solo qualche ora più tardi da Rosita, che bussò in modo discreto alla porta e avvertì il giovane deputato che gli stavano mentendo le ganasce alla macchina. La notizia non lo stupì più di tanto, gli sarebbe andata bene se fosse finita lì, da come aveva corso.

 

 

 

 

Una settimana dopo i giornali intitolavano:

SEI CONTRAVVENZIONI IN MENO DI UN'ORA: DEPUTATO XX IN MULTA PER AMORE.

 

 

 

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Capitolo 6
*** Il ladro e il bell'addormentato ***


 

 

Il ladro e il bell'addormentato

 

 

 

 

Martin aveva bisogno di parecchi soldi. I debiti lo sommergevano e i suoi sforzi per mantenersi con un lavoro onesto dopo la prigione, non erano stati fortunati, ma neppure ricercati. In realtà non ci si era impegnato troppo, non aveva mai avuto lo sprono a trovarsi un impiego e a farsi una famiglia, forse perché essendo gay e con l'istinto di ricercare più amanti che compagni di vita, non si sentiva parte della società normale. Anche ora che la legge aveva dato agli omosessuali la possibilità di unirsi in regola con la legge, non si sentiva parte di coloro che lottavano per poter adottare i bambini assieme.

-Dovrò tornare ai furti acrobatici, se voglio raggranellare a sufficienza e in tempo utile perché non mi riducano uno straccio.- pensò, passando davanti alla villa di uno degli uomini più ricchi della città -Spero solo che non vengano subito da me non sono tanti, in zona, a saper organizzare cose del genere.-

Villa De Santis, all'apparenza, sembrava impenetrabile: recinto elettrificato, cani, guardie. Però Martin sapeva che c'era sempre un pertugio che poteva sfaldare anche il più sofisticato impianto di sorveglianza e lui lo avrebbe trovato.

 

 

 

Dopo una settimana di appostamenti, scoprì che il modo per entrare nella casa, era o compiendo complicate acrobazie, oppure riuscendo a intrufolarsi nel camioncino delle consegne che ogni giorno varcava il cancello. Pur essendo molto agile, non aveva troppo tempo prima che i creditori, gente poco paziente, lo cercassero per saldare i debiti, perciò pensò che la seconda possibilità fosse la più abbordabile. Per due giorni seguì il furgoncino nei suoi spostamenti. Non riuscì a capire che cosa consegnava, ma notò che usavano dei carrelli, ognuno con il nome della famiglia a cui erano diretti. Forse, riuscendo a entrare lì dentro, sarebbe potuto penetrare nella villa senza problemi. Approfittando del fatto che il fattorino, a ogni fermata, si perdeva in molte chiacchiere, entrò nel retro e cercò il carrello con il nome della famiglia De Santis. Poi si accoccolò al suo interno, stupendosi per il forte odore di medicinale che permaneva nell'aria. Si chiese se non fosse un fattorino della farmacia e, in quel caso, che bisogno c'era, ogni giorno, di consegnare. Non che avesse importanza, l'unica cosa che voleva era riuscire a penetrare dentro la villa. Per l'uscita si sarebbe ingegnato in seguito.

Il furgone ripartì e si agganciò con le mani a uno spessore per non scivolare. Il tragitto fu breve e appena si fermò, il carrello in cui stava fu trascinato fuori, per fortuna con delicatezza perciò non sentì troppi scossoni. Il percorso, per essere portato nella stanza giusta, fu piuttosto lungo e dopo un saluto a qualcuno fu abbandonato. I bip che sentiva erano inquietanti e si affacciò solo quando si accorse di essere stato abbandonato per qualche minuto. Per fortuna sembrava che nessuno avesse intenzione di aprire per il momento. Uscendo dalla posizione, non propriamente comoda, si stiracchio e nella penombra si accorse di essere in una stanza allestita come un ospedale, piena di macchinari e con qualcuno steso in un letto.

-Accidenti, cosa vuol dire essere benestanti! Non sono tanti quelli che si permetterebbero di avere in casa propria una stanza del genere.- pensò Poi ricordò che facendo ricerche in internet, aveva scoperto che il loro figlio di mezzo, Roberto, era entrato in coma dopo un incidente stradale. Si chiese se si trattasse proprio di lui, perché in quel caso erano due anni che versava in stato vegetativo.

Martin si avvicinò al letto e rimase come folgorato. Steso sul letto, apparentemente addormentato, c'era il più bel ragazzo che avesse mai visto. Aveva visto foto del giovane figlio della coppia, ma doveva ammettere che non gli rendevano affatto giustizia. Gli accarezzò i capelli e notò i fili che lo collegavano alla macchina. L'istinto lo portò a cercare di scuoterlo, con il solo risultato che l'aggeggio cominciò a suonare, probabilmente notando un'anomalia. Preso dal panico, Martin si rinchiuse in un piccolo bagno e da lì si preparò a scappare dentro uno stipo che lo conteneva appena, ma che era l'unica cosa che lo poteva nascondere alla vista.

Nel giro di pochi istanti un'infermiera e un medico (ah, i soldi! Ti possono permettere ogni cosa) seguiti dai padroni di casa, intervennero. Dopo aver controllato ogni parametro, il medico scosse la testa, sconsolato.

“Mi dispiace, è stato un falso allarme. Peccato, pensavo che fosse proprio giunto il momento.” si scusò, come se si sentisse in colpa di percepire uno stipendio senza risolvere nulla.

“Ma è un buon segno?” insistette la signora De Santis “In due anni è la prima volta che questo affare dà segno di vita in maniera autonoma. Cominciavo a pensare non funzionasse.”

Il medico alzò le spalle, in un gesto che poteva significare ogni cosa.

“Signora, non la voglio illudere per nulla” disse “Il fatto che abbia reagito in un momento in cui era da solo, senza stimoli esterni, potrebbe significare qualcosa, ma io aspetterei che accada altro, prima di cantar vittoria.”

La signora De Santis sospirò profondamente.

“Se solo quel disgraziato di Attilio non se la fosse data a gambe...” borbottò la voce di una ragazzina, affacciatasi alla porta.

“Attilio è in guerra, non poteva fare altrimenti.” corresse con voce stridula la madre, accarezzando una foto sul comodino in cui erano presenti due ragazzi abbracciati, poi obbligò la ragazza a uscire.

Nel mentre, il dottore e l'infermiera sistemarono meglio il letto e la macchina ricominciò a suonare, poi uscirono.

 

 

 

Martin fu molto deluso del fatto che bastasse così poco per farlo agitare. In cuor suo sperava che fosse stato merito suo e che si sarebbe svegliato all'istante. Si chiese cosa avrebbe fatto se lo avesse baciato. Fulminò con lo sguardo il ragazzo che abbracciava Roberto nella foto sul comodino e lo odiò profondamente. Dal breve scambio di battute aveva intuito che quell'essere ignobile era fuggito pur di non stare accanto a un comatoso. In un attimo si era dimenticato il motivo per cui si trovava lì e cominciò a sussurrare qualcosa al ragazzo, raccontandogli ciò che poteva della sua vita.

Nel farlo cercò di avvicinarsi il più possibile senza fare suonare la macchina. Arrivò fino a un soffio della sua bocca e sulle sua labbra sussurrò delicatamente.

“Sai, ho una gran voglia di baciarti. Non posso credere che quello stronzo del tuo ragazzo ti abbia mollato così. Doveva essere davvero una gran testa di...”

Si bloccò, con il cuore che batteva a mille, perché notò che le labbra di Roberto si erano dischiuse, come se fossero in attesa di qualcosa.

-Oddio, e adesso che faccio. Se non lo bacio perdo l'occasione, se lo faccio e la macchina si mette a suonare, potrei finire ancora in galera.-

Non ebbe tempo di decidere sul da farsi. Due braccia lo cinsero e lo attrassero e le loro labbra si unirono. Martin ricambiò il bacio, al momento totalmente succube. La macchina ricominciò a suonare. Martin scattò, cercando di liberarsi, ma sembrava come preso in una morsa di ferro e non riuscì ad alzarsi.

“Tu chi sei?” sbottò il medico rientrando nella stanza. L'infermiera e la madre rimasero bloccate sulla porta e forse Martin avrebbe fatto una brutta fine se una voce debole non avesse parlato.

“Tu... tu... non ...sei... Attilio.” disse Roberto con un filo di voce.

L'attenzione, al momento catturata da Martin, si riversò tutta su Roberto e sua madre, che improvvisamente sembrava essersi dimenticata della presenza di un estraneo, si buttò sul figlio.

“Oddio, ti sei svegliato.” Si accorse di nuovo della presenza di Martin perché nel tentativo di abbracciare il figlio le loro teste cozzarono.

“Tu chi sei?” lo apostrofò dura la madre.

“Non è Attilio. Dov'è Attilio?” ripeté come una cantilena il ragazzo. “Mi sono svegliato dal sonno, perché pensavo che Attilio volesse baciarmi.” ricordò sforzandosi.

Martin si sentiva sulle spine: era peggio essere entrato per rubare, o aver attentato alla virtù del ragazzo?

“Tecnicamente è lui che ha baciato me.” puntualizzò, sperando che almeno da quel punto fosse in regola “Mi sono avvicinato per osservarlo meglio e mi sono trovato avvinghiato. Anzi, per cortesia, potreste liberarmi?”

“Io non ti sto tenendo!” esclamò Roberto, alzando la voce, o almeno credendo di farlo. Il risultato fu un soffio appena più potente.

Intervenne il dottore, che cercò di disincagliare gli arti di Roberto strettamente avvinghiati alla schiena di Martin.

“Può succedere che ci siano dei movimenti involontari del corpo, dopo mesi di immobilità.” alla fine scosse la testa “No, così rischiamo di lesionare i muscoli e rompere un osso. Dobbiamo dargli un miorilassante, ma prima avvertirei la clinica del suo risveglio. Non voglio dargli medicinali senza il loro consenso.”

Martin capì con terrore che sarebbe rimasto in quella posizione per troppo tempo e si demoralizzò. Avrebbero chiamato la polizia, sarebbe finito ancora dentro e gli avrebbero dato qualche anno. -Brutto Martino!- accusò, usando il nome che dava al proprio membro -Per colpa tua sono finito nei guai.-

 

 

 

 

“Dov'è Attilio?” chiese con un filo di voce Roberto.

La madre inghiottì un paio di volte prima di rispondere, sperando che la voce non gli si rompesse per l'emozione.

“Non ho fatto che parlartene per tutto il periodo in cui sei stato male. Ti ho anche letto le sue lettere.” Inghiottì di nuovo “Lo hanno spedito in Bosnia per la guerra.”

Martin sentì lo sguardo perplesso di Roberto su di sé, come per avere conferma di quello che la madre stesse dicendo la verità.

“Ehm, forse in Afganistan, signora.” intervenne, cominciando a intendere che la donna aveva inventato tutto per nascondere al figlio che il suo fidanzato lo aveva lasciato durante il coma.

“Tu taci!” lo apostrofò dura lei “Appena arriveranno le forze dell'ordine, la smetterai di fare lo spiritoso.”

I carabinieri, chiamati immediatamente dopo la clinica, arrivarono prima di loro poiché avevano una pattuglia in zona. Benché non fossero famosi per la loro propensione al riso, trovarono molto comica la posizione in cui versava il malcapitato e non riuscirono a trattenersi al fare delle battute rivolte a lui, mentre lo identificavano.

“E poi fanno le battute su di noi.”

Nel frattempo, Roberto taceva e cercava di distogliere lo sguardo da Martin il che era piuttosto complicato, visto che lo aveva proprio sopra.

“Mi dispiace che tu sia finito nei guai.” disse, poco prima che i sanitari entrassero nella stanza “Ho creduto di sentire la voce di Attilio che mi chiamava e invece eri tu. Ho aspettato tanto il suo ritorno, forse non volevo svegliarmi perché sapevo che non era più accanto a me.”

“Fattelo dire, quello è davvero un deficiente.” Martin lo pensava sul serio. Roberto era pallido come un cencio ed era bello comunque. Cercò di immaginarlo in forma, abbronzato, felice e Martino reagì alzando la testa.

Roberto sorrise delle scusa di Martin per la sua reazione e le sue braccia, un attimo prima immobili, tornarono a muoversi e attirò ancora a sé il ragazzo, affondò le mani nei suoi folti capelli. Si baciarono ancora, fregandosene se erano presenti i medici, i carabinieri, a madre e la sorella che cominciò ad applaudire. Gli uomini dell'ordine pubblico erano in procinto di intervenire, ma la signora De Santis li trattenne.

“Ehm, è possibile che ritiriamo la denuncia.” annunciò “In fondo, se non fosse stato per lui, non sappiamo quanto tempo Roberto sarebbe rimasto in coma. Lo arresterete la prossima volta.”

I carabinieri scossero la testa e si avvicinarono.

“Ehi, Fortunello, per questa volta ti sei salvato, ma credo proprio che ci rincontreremo.” Intanto osservavano il pad che gli era stato consegnato solo qualche giorno prima, un nuovo computer portatile che consentiva di identificare al volo le impronte digitali. Il giovane era schedato e da come era partito, non ci sarebbe mancato molto al prossimo passo falso.

I due, intanto continuavano imperterriti a baciarsi e la madre, che un attimo prima lo aveva trattato male, ora si sentì sollevata, sperando che non fosse un'altra storia deludente.

“Beh, forse non è atletico come il pompiere, ma sembra che non baci affatto male.” intervenne Cosetta, la sorellina. “Ma forse, dopo più di due anni di coma, anche un criceto sarebbe stato il benvenuto.”

“Cos, ti prego, non rovinare questo momento!” La madre si teneva la testa, come se tutta tensione che aveva trattenuto in quegli anni, fosse esplosa al momento. Un attimo dopo le sue gambe avevano ceduto e si era trovata fra le braccia di uno dei medici che erano giunti per soccorrere Roberto. Vedendo la scena, avevano deciso di aspettare e intanto si presero cura della donna. La signora non voleva abbandonare suo figlio nelle grinfie della sorella, ma non poté che abbandonarsi. Dopo un lungo momento e due si separarono e, con stupore, Martin si accorse che non c'erano più i carabinieri.

“Dove sono finiti?”

La ragazzina rise di cuore.

“Mamma ha ritirato la denuncia. Per questa volta ti sei salvato il culo.”

Martin si alzò da sopra Roberto, ormai libero, ma senza lasciare le sua mani.

“Forse è meglio che me ne vada prima che cambi idea.”

“No, ti prego, rimanimi accanto. Non mi abbandonare anche tu.” lo implorò il ragazzo steso ancora nel letto.

“Mi dispiace, ma è molto meglio per te se ti trovi un ragazzo più serio.” cercò di spiegare “Io faccio una vita troppo pericolosa.”

E scappò prima che qualcuno potesse anche solo pensare di fermarlo. Sulla porta incontrò un uomo che entrava con il fiatone. Immaginò si trattasse del padre di Roberto. Cercò d'informarsi della salute del figlio, ma Martin non aveva tempo e uscì da quella villa malefica. Una settimana sprecata e non aveva ancora i soldi da dare al Viandante.

 

 

 

 

 

Due giorni dopo, fu intercettato dai carabinieri che lo stavano per arrestare in casa De Santis.

“Hanno cambiato idea e vogliono denunciarmi?” chiese Martin.

“Non proprio. A quanto pare loro figlio si rifiuti di seguire qualsiasi tipo di terapia riabilitativa, se non sei presente e ci hanno chiesto di rintracciarti. Sono disposti a pagarti molto bene, se rimani al suo fianco.”

Martin abbassò lo sguardo a terra e ripensò al bacio che si erano scambiati. Era stato genuino e senza secondi fini.

“Non so. Non trovo giusto farmi pagare per una cosa del genere.”

“Fai quello che vuoi, ma abbiamo indagato e i nostri informatori ci hanno detto che devi un sacco di soldi al Viandante e ultimamente non ti è andata molto bene con i colpi. Hai perso lo smalto. Forse è una buona scusa per cominciare a guadagnarti soldi in maniera onesta.”

Martin scosse la testa in maniera sconsolata, ma accettò. Non certo per i soldi, per guadagnare il necessario ci sarebbero voluti almeno vent'anni, senza contare gli interessi che levitavano ogni minuto che passava. Il suo desiderio era di rivedere Roberto e di parlargli. Non aveva pensato che a lui e al bacio che si erano scambiati e pensava che sarebbe stata un'ottima scusa per passare del tempo con lui.

Chiamò il numero che i carabinieri gli avevano lasciato e chiese alla segretaria del signor De Santis quando poteva cominciare. Lei, che era stata avvertita della possibilità della chiamata, lo invitò a trovarlo il giorno stesso alla clinica privata in cui il ragazzo era ricoverato. Tutti erano stati avvertiti del suo arrivo. Non era passato neppure un minuto da quando aveva interpellato l'infermiera dello sportello, che già era davanti alla sua porta. Non sapeva se era il caso di bussare e infatti alla fine decise di entrare senza avvertire. Roberto stava dormendo. Era ancora molto pallido, ma almeno non attaccato a una macchina. Lo osservò un bel po', indeciso se manifestare la propria presenza. Poi si avvicinò e gli accarezzò delicatamente la testa con la mano. Quel movimento lo sveglio e nel trovarlo al suo fianco sorrise.

“Oh, ciao. Non pensavo che saresti venuto. La mamma mi ha spiegato che hai delle pendenze con la legge.” disse accogliendolo.

“Devo dire che quando lei vuole qualcosa, fa di tutto per ottenerla. In realtà, sono contento di avere una scusa per incontrarti ancora. Mi è dispiaciuto lasciarti così.”

“Ti ha chiesto lei di venire qui?” Il suo viso si rabbuiò “Sono riuscita a scucirle la verità su Attilio. Mi ha lasciato dopo appena due mesi di coma. I miei l'hanno pregato tanto, almeno di venire a trovarmi ogni tanto, parlarmi. Se penso che l'anno prima, quando gli ho rivelato di essere gay, avevano minacciato di diseredarmi. Quell'incidente, in fondo, mi ha portato fortuna. Ha aiutato me a capire che il mio ragazzo era un disgraziato e i miei a comprendere che c'è di peggio nella vita.”

Martin abbassò lo sguardo e sentì che non poteva andare lì tutti i giorni, come voleva la madre, senza dirgli la verità. Quindi, dopo aver respirato profondamente, gli raccontò tutto.

“Quindi la mamma ti sta pagando per passare del tempo con me. E perché me lo racconti? Non saresti entrato nella villa, se non avessi bisogno di soldi.”

“Non guadagnerei abbastanza per ripagare i miei debiti, non in tempo perché non mi rompano comunque un braccio, o qualche dito. Volevo solo rivederti e mi sembrava un'ottima scusa.”

Roberto abbassò lo sguardo e fissò i propri piedi coperti.

“Vuoi metterti con me?”

Martin alzò un ciglio: sembrava uno fissato con le relazioni fisse. Forse Attilio sarebbe scappato comunque, se non fosse stata per causa dell'incidente.

“Pensavo più a una sveltina, in un futuro, quando starai meglio. Ho una vita movimentata, devo dei soldi a uno strozzino e non credo che i tuoi sarebbero felici se ti legassi a una persona che potrebbe metterti in pericolo.”

“Mia madre bacerebbe la terra su cui cammini. I medici dicono che è stato merito tuo e del fatto che ti ho scambiato per Attilio, se mi sono svegliato. Ma se non vuoi una storia, non credo che tu sia adatto a me. Usi il fatto di essere un disadattato per non avere una storia vera. Se vuoi continuare a farmi da babysitter, fai pure, ma non avrai altro da me.”

Martin si chiese se avesse ragione e se davvero non fosse solo una scusa. Non si era mai impegnato per tenersi un lavoro, o un ragazzo, o una casa. Era una specie di nomade che usava la criminalità per non sentirsi responsabile di nulla, non per guadagnarci.

“Tu mi piaci davvero, sono rimasto come fulminato da te, ma non so se sono pronto per mettere la testa a posto.” confessò “Però vorrei tentare, se non ti dispiace avere un ragazzo censurato, senza un euro e che, se mai dovesse trovare un impiego, per molto tempo dovrà usare il suo stipendio per pagare uno strozzino, sperando che non aumenti troppo il debito.”

“Non facile, direi.” ammise Roberto “Prima di risponderti, vorrei che mi baciassi ora che sono nel pieno delle mie facoltà mentali.”

Martin non se lo fece ripetere due volte e, prima che l'altro cambiasse idea, si fondò su di lui e sulle sue labbra come un avvoltoio sulla sua preda, come un assetato alla fonte di un'oasi. Questo bacio durò parecchio e entrambi se ne distaccarono con un sorriso ebete.

“Direi che è molto meglio di quanto ricordavo e già mi sembrava buono.” Roberto si appoggiò sul suo petto, respirando a fatica per quanto era rimasto in apnea, ma felice “Mi fa venire voglia di provare il resto.”

“Per quello credo sia meglio attendere un po' più di intimità.” rise Martin stringendolo di più a sé, sperando di fare la cosa giusta. Voleva tentare di avere una vita normale. Non sapeva se ci sarebbe riuscito, anzi la sua testa già gli diceva che non avrebbe resistito e che sarebbe scappato prima di una settimana. Ma chi non risica non rosica, diceva il proverbio, e lui aveva una gran voglia di assaggiare il delizioso pasto che gli veniva servito.

“Non sono abituato alle relazioni serie.” preferì avvisare “Potrei non essere adatto.”

Con sospiro profondo, Roberto si arrese. Se lo voleva, doveva accettare che potesse darsela a gambe. Beh, in fondo la vita era anche rischio, e non sarebbe stata divertente se tutto fosse stato programmato in ogni aspetto. Un secondo bacio suggellò il loro patto di tentare di avere una relazione, la storia avrebbe loro detto se avevano fatto bene.

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** L'inganno ***


L'inganno



Osservò i fiori sul bancone poi il sguardo spaziò all'interno del locale. Non era ancora pronto per perdonarlo per ciò che aveva fatto, perciò quando lo vide osservarlo con il suo viso implorante, si voltò e tornò a dare attenzione al cocktail che lo attendeva e al barista che lo stava servendo. “Non so cosa sia successo, tra te e Sergio, ma lo vedo davvero abbattuto. Forse dovresti passarci sopra e ricominciare. In fondo è un bravo ragazzo.” commentò, vedendo come stava andando fra i due. “Sinceramente, Benny, penso dovresti impicciarti degli affari tuoi.” lo apostrofò l'altro, anche se non troppo duramente. Non era il primo e, temeva, non sarebbe stato l'ultimo che gli consigliava di tralasciare l'errore commesso da Tommaso, soprattutto chi veniva a conoscenza della faccenda per intero. Perfino i suoi genitori, che all'inizio lo detestavano cordialmente, avevano cominciato ad apprezzarlo e trovavano che la colpa non fosse imputabile a lui. Era stato tratto in inganno e aveva reagito di conseguenza. Si perse nel colore rosato del liquido del bicchiere, poi lo bevve tutto d'un fiato. Tanto prima di smontare aveva tutto il tempo per smaltire qualsiasi liquore. La loro storia era cominciata cinque anni prima, in maniera totalmente inaspettata per Tommaso. Non aveva mai avuto un vero rapporto con un ragazzo e riteneva che le fugaci toccatine sotto la doccia della palestra in cui si allenava a pallavolo, facessero parte della crescita e dell'adolescenza. O almeno così gli era stato fatto credere. Stava festeggiando il suo diciottesimo compleanno in compagnia di alcuni amici nell'unico bar decente del suo paesello. Non essendo una metropoli ce n'era solo uno che fungeva da tutto. Di mattina faceva le colazioni, a pranzo e a cena serviva i pasti e per il resto della giornata serviva come osteria per gli anziani. La notte, però, si trasformava e diventava un discopub in cui i giovani potevano divertirsi. Dopo aver cenato, lui e i suoi amici avevano proseguito la serata e si erano gettati a ballare nella discoteca e a bere cocktail al bancone. Dopo un paio di drink, Tommaso prese il coraggio di confessare a una ragazza, non la più bella della scuola, ma quella che riteneva più interessante, che gli piaceva molto. Leonora, che probabilmente non si aspettava una richiesta del genere, fu piuttosto brusca nel mandarlo a quel paese e lasciò il ragazzo di stucco e con un vago senso di nausea. Uscì a prendere una boccata d'aria e nel farlo passò davanti a un gruppo di ragazzi gay dichiarati, che non facevano male a nessuno e che schifavano certi posti squallidi in cui ci si incontrava solo per scopare. Nel farlo, si accorse che uno dei ragazzi che frequentavano la palestra, Jo, e che si era appartato con lui più di una volta, aveva fatto il gran salto e che si trovava tra di loro. Lo vide anche borbottare qualcosa ai suoi nuovi amichetti. Con la testa che gli girava, uscì. Lo schiaffo dell'aria fresca lo aiutò subito a risvegliarsi e cominciò a respirare a pieni polmoni. Forse era un troppo freddo senza giubbotto, ma si ripromise di rientrare prima di prendersi una polmonite. Cominciò a pensare che a farlo stare male non fosse stato il rifiuto, ma solo il fatto che avesse alzato troppo il gomito. Dopo qualche minuto stava per rientrare quando il suo naso cozzò contro il petto di qualcuno. Azò lo sguardo e mise il fuoco il tipo a cui Jo stava parlando poco prima. “Ehm, non mi sembravi così alto, stravaccato su quel divano.” sbottò Tommaso. “Mi hai notato quindi? Mi fa piacere. Stai bene piuttosto? Mi sembra che tu abbia bisogno di aiuto.” Il lumacone! Si voleva approfittare del fatto che fosse sbronzo per portarselo a letto. “Non ho bisogno di aiuto e, per inciso, se ti ho notato è perché stavi con quel deficiente di Jo. Spero che non ti abbia detto troppe cazzate sul mio conto.” No, non riusciva proprio a tenere a freno la lingua. Maledetto alcol! “Se per cazzate intendi che giochi meravigliosamente a pallavolo e che fai dai pompini da urlo, sì, me lo ha raccontato.” rise l'uomo “Mi chiamo Sergio e tu Tommaso a quanto pare.” Tommaso sbuffò e fece per rientrare, quando inciampò in qualcosa e sentì Sergio che lo prendeva al volo, impedendogli di sfracellarsi a terra. “Non devi essere molto abituato a bere.” “Lingua profonda non ti ha detto che ho compiuto diciotto anni oggi? In un paese in cui ti conoscono anche i sassi e loro conoscono tuo padre, non è facile sbronzarsi prima della maggiore età.” Sergio lo aiutò a rimettersi in piedi e lo appoggiò contro il muro. “Ti aiuto a rientrare, prima che ti accada qualche altro incidente.” lo invitò. “Baciami, piuttosto.” lo invitò improvvisamente Tommaso con lo sguardo lucido ed eccitato. Sergio, inizialmente ritroso, decise di accettare l'invito, e si scambiarono un lungo bacio, interrotto solo da uno starnuto del nuovo maggiorenne. Era cominciata così la loro storia, per merito del rifiuto di una ragazza. Peccato che fosse per colpa della stessa ragazza, che tutto era finito. Lorena, con il senno di poi, pensò che fosse colpa sua se Tommaso si era buttato fra le braccia di Sergio. L'uomo, che era un imprenditore noto in paese, non aveva mai nascosto le sue tendenze, ma non frequentava uomini che ne provenivano. Non di solito, almeno. Nella sua mente malata, non conoscendo le passate frequentazioni di Tommaso, decise che avrebbe fatto di tutto per rimediare al suo errore, l'averlo rifiutato in quella maniera brusca. In qualsiasi maniera. In qualsiasi momento avesse avuto l'occasione. L'occasione ci fu dopo cinque anni. Nel frattempo, rubando qualche ora agli studi e alla sua vita sentimentale, aveva studiato un piano particolareggiato e lo mise in atto appena i due amanti, che si erano trasferiti nella villa cittadina dell'imprenditore, tornarono in paese per il matrimonio della sorella maggiore di Sergio, Rossella. In una lettera anonima, Lorena finse di essere un ragazzo che aveva avuto una relazione con Tommaso l'ultima volta che era tornato da solo al paese, finse di voler ricattare il suo amante e finse che la missiva finisse nelle mani sbagliate, quelle di Sergio. Il resto lo fece lui. Non era un uomo geloso, ma era vendicativo. Decise di rendere a Tommaso pan per focaccia e si lasciò trovare nudo e avvinghiato a un uomo con cui aveva appena fatto l'amore. Ne era nata una lite furibonda in cui si erano accusati di tutto e di più. Alla fine era spuntata la lettera con le false accuse e Tommaso, capendo che si era fatto trovare così per dispetto e offeso da alcune parole che gli aveva detto (soprattutto quel mantenuto gli aveva fato male, quando era stato proprio lui a chiedergli di rinunciare al lavoro e all'università) se n'era andato su due piedi, non volendo saperne più nulla e tornando a casa dai genitori. Si era trovato un lavoro, nel pub dove tutto era cominciato e si era iscritto all'università. Ora era single e doveva lavorare ma era meglio che farsi rinfacciare di essere un fannullone. In realtà era accaduto solo quella volta, ma era stato sufficiente per lui. Sia alzò dal balcone, in cui stava facendo la pausa e tornò dietro a lavorare. Senza pensarci un attimo gettò il mazzo di fiori nell'umido, dopo averli sbustati. Era coscienzioso e faceva la raccolta differenziata. Per esempio vi vrebbe volentieri buttato anche lui. Vide il suo ex mettersi la testa fra le mani, disperato per quella situazione senza uscita. Il gesto diede un piacere sordo a Tommaso, che riteneva che la punizione divina fosse caduta su di lui. Ben gli stava per aver creduto al primo che gli aveva mentito, dicendo che lo aveva tradito. Anche all'inizio, prima che la verità venisse a galla, aveva tentato di riavvicinarlo, ma con l'atteggiamento di chi è certo di essere dalla parte della ragione. Si era vendicato di un torto subito, tutto lì. Poi la verità venne a galla. Fu un giorno davvero disgraziato per Sergio, ma esaltante per Tommaso che da tutti era visto come un fedifrago. Era una serata come tante e Lorena, che aveva alzato troppo il gomito, rivelò ad un amica come aveva riparato a un vecchio errore. Più di uno sentì, la voce fece il giro del locale e dopo dieci minuti tutti sapevano a verità. Sergio atterrito sbiancò in volto mentre Tommaso alzava un calice di spumante che doveva dare a un cliente e lo bevve tutto d'un sorso. Quello non si offese e attese che gli fosse dato un bicchiere pulito. Da allora, ogni sera, Sergio tentò un approccio più soft, cercando di riconquistarlo. Arrivò perfino a dire che non era stato davvero a letto con quello, che voleva solo che lui lo credesse, ma a Tommaso a quel punto non importava. Era rimasto molto deluso e nulla avrebbe potuto fare tornare le cose come prima. Ci volle quasi un anno per scalfire l'armatura che Tommaso si era creato come protezione. Alla fine, forse perché non voleva buttare alle ortiche i cinque anni stupendi che avevano passato assieme, Tommaso cedette e riconsiderò di tornare con lui, ma nulla fu più come prima. Non voleva che al prossimo litigio lo tacitasse ancora di essere un approfittatore e un mantenuto, perciò si rifiutò di tornare con lui alla villa, di lasciare il lavoro e l'università. L'errore in cui era stato indotto da altri, lo stava pagando lui, a caro prezzo. Almeno ora vedeva uno spiraglio, anche se dovevano fare i salti mortali per vedersi. Ma forse era meglio così: quell'anno lontani li aveva convinti che non potevano fare a meno l'uno dell'altro, nonostante tutto e le difficoltà possono solo solidificare un rapporto vero.

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Capitolo 8
*** Il finto fidanzato ***


Il finto fidanzato

 

La strada era sgombra in quel giorno festivo e tutto andava secondo i piani. Luigi aveva scelto apposta quel luogo, che fra settimana era stracolmo di operai che andavano al lavoro e ora sembrava una succursale di qualche zona desertica. Meno testimoni lo vedevano e meno ne avrebbe dovuto uccidere. Sembrava che dovesse fare qualcosa di illegale e, anche se così non era, era in procinto procurarsi qualcosa per rendere più piacevole una giornata in famiglia: un finto fidanzato, di cui aveva tanto parlato alla mamma, per non farla preoccupare o tentare di cercarglielo lei e di cui tutti i parenti volevano fare conoscenza. Perché non gli era capitata una famiglia normalmente razzista che fingeva che il figlio fosse inabile alle relazioni, piuttosto che ammettere che era gay?

Arrivò l'ora in cui sarebbe dovuto arrivare e passarono altri dieci minuti prima che vedesse una macchina. Per fortuna era proprio lui, lo aveva riconosciuto dalla foto mandata dall'agenzia di escort a cui si era rivolto per quell'occasione. Era un bel ragazzo moro, capelli corti, vestito con un completo scuro e cravatta: un vestito elegante, come aveva chiesto esplicitamente. Doveva ammettere che avevano fatto un buon lavoro, si sarebbe rivolto a loro anche in futuro, se ne avesse avuto bisogno. Lui si chiamava Francesco, ma per l'occasione avrebbe dovuto chiamarsi Oscar.

“Sei in orribile ritardo.” lo apostrofò Luigi, dopo le presentazioni ufficiali. Lui, al contrario aveva preferito un completo grigio con camicia nera, senza cravatta. più sportivo, più pratico, il suo genere.

“Non è esatto, sono in adorabile ritardo.” puntualizzò Francesco con un sorriso complice. Poi, prese un fiore da una pianta lì vicino e gliela appuntò sulle giacca “Da un po' di colore.”

“Hai meno tempo per studiare la tua parte.” e gli porse alcuni fogli in cui aveva scritto ogni castroneria che si era inventata sul suo fantomatico fidanzato “Hai il tragitto per la rimpatriata per imparare tutto e distruggerlo. Cerca di non sbagliare, mia madre è peggio di un segugio, quando si tratta di balle e io devo superarla, se voglio che mi creda e che non mi rompa troppo le scatole.”

Francesco cominciò a concentrarsi su quello che era scritto in quei fogli e si interruppe solo per una piccola informazione.

“Se i tuoi genitori sono di mentalità così aperta, perché non gli presenti il tuo vero fidanzato?” chiese.

“Perché io non ho un fidanzato, ma mia madre, anche se è molto aperta, crede ancora nella famiglia e ora che i gay si possono sposare temo che mi chiederà se voglio fare il gran passo.”

“Questo è un po' troppo per me. Mi è capitato di avere dei rapporti con dei clienti che mi piacevano particolarmente, ma il matrimonio è troppo impegnativo.”

Risero entrambi e Francesco continuò la lettura.

“Non ti preoccupare.” lo rassicurò Luigi “Lo è anche per me. Prima che arrivi quel momento, manderò al diavolo anche mia madre, anche se ne dovrò subire le conseguenze.

 

 

 

Francesco si sarebbe chiesto in eterno perché Luigi aveva una tale paura della madre, se non l'avesse conosciuta. Connie, come voleva essere chiamata, era petulante, invadente, insomma una grandissima rompiscatole, di quelle cosmiche. Nel giro di un'ora gli aveva fatto almeno duecento domande la metà delle quali ripetute, come se volesse vedere se metteva un piede in fallo. Se la cavò piuttosto bene, anche se non poteva più ripassare, dopo che Luigi si era fermato in un angolo a bruciare tutto.

Durante il pranzo sembrò che tutti fossero più rilassati e la marea di domande s'interruppe.

“Ora capisco perché eri così ansioso... e perché paghi tanto per questa buffonata.” sussurrò Francesco, avvicinandosi a un palmo di naso da lui.

L'atto provocò una serie di “Bacio, bacio” da parte dei parenti, neanche fossero al loro matrimonio.

“Credi di poter fare uno sforzo?” chiese Luigi.

“Perché no?” ribatté l'altro.

Si avvicinarono e le loro labbra si sfiorarono, per perdersi l'un l'altra sempre più profondamente. All'improvviso Luigi dimenticò i parenti e non sentì più né le loro risa, né le loro imprecazioni. Si separarono quando un cameriere appoggiò davanti a loro un piatto di minestre.

Luigi sorrise, non ricordava di essersi sentito mai così in passato e si chiese se fosse stato disponibile per il dopo festa e per il resto della sua vita.

Beh, aveva tanto tempo per chiedere, solo che sarebbe stata dura spiegare a sua madre perché Oscar era diventato Francesco e faceva cose diverse da quelle che aveva scritto. Almeno sarebbe stato divertente vedere la sua faccia quando le avrebbe rivelato che l'aveva presa per il naso per anni e che lei c'era cascata con tutte le scarpe. Queste sono le soddisfazioni della vita, pensò, ridendo e stringendo la mano a Oscar, ops Francesco.

 

 

 

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Capitolo 9
*** Il fu brutto anatroccolo ***


 

Il fu brutto anatroccolo

 

 

 

 

Una lettera era aperta sul tavolo della cucina e una madre osservò il proprio figlio in maniera severa.

“Ti giuro che se non vai a prendere Emiliano all'aeroporto, ti taglio i viveri e dovrai andare a lavorare per pagarti i tuoi vizi.” lo minacciò agitandogli un dito davanti alla faccia.

“Uff, perché tocca a me andare a prendere Frankenstein. Non c'erano altri amici a disposizione?” rimbrottò il ragazzo, che non ci teneva molto a essere costretto in quella maniera.

“La madre e io siamo rimaste in contatto in questi anni e mi ha pregato di ospitarlo per il suo periodo di studio in Italia. Vuole perfezionare la lingua, anche se in famiglia tutti parlano italiano, vivere in America non gli permette una pronuncia perfetta.” ricordò la madre “Inoltre, Gianni, ti avverto che se non la smetti di chiamarlo così, ti levo pure la macchina e dovrai fartela a piedi.”

Il ragazzo sbuffò e la madre proseguì imperterrita.

“Oltretutto sono convinta che possa essere solo migliorato da allora, poveretto.”

L'immagine di Franky tornò alla sua mente e poveretto era la parola giusta per descriverlo: apparecchio ai denti, occhiali triplo fondo, armatura per correggere la postura e le gambe storte e quei ridicoli capelli rossi che assieme alle lentiggini e al resto lo facevano apparire di sicuro più ebete di quello che era. Nulla di meglio per farsi pigliare per il culo dai coetanei e non solo da loro.

“Beh, peggio di così poteva solo morire.” sbuffò di nuovo “Ok, ci vado, ma per questo merito un premio. Che ne dici dell'ultimo cellulare?”

La madre scosse la testa ridendo: alla fine era facile trattare con lui.

“Solo se lo tratterai bene.”

Alla fine un accordo era stato raggiunto, bastava aspettare che arrivasse il giorno fatidico.

 

 

 

Dopo una settimana Gianni era in aeroporto, con un ridicolo cartello davanti che riportava il nome di Emiliano e l'aria più scocciata dell'universo. Non riteneva necessario che dovesse essere anche simpatico e attese.

Dopo quasi un'ora che se ne stava seduto, rischiando di addormentarsi, venne scosso da qualcuno. Si ritrovò davanti un bel ragazzo, che gli chiese se lui era Gianni Bannoni. Questo annuì come un ebete e lo osservò meglio. Gli ricordava qualcuno, ma non sapeva chi.

“Ci conosciamo?”

“Direi di sì. Stavi aspettando me, se non sbaglio.” Il sorriso del ragazzo, che solo ora aveva capito essere Emiliano, lo disarmò. Frugò nella sua testa per ricercare l'immagine che gli era rimasta del bambino quasi storpio e dovette convenire che non ne era rimasto molto, se non il colore dei capelli e qualche lentiggine.

-Accidenti, spero di non stare sbavando! Si è trasformato in un figo pazzesco.- pensò -Giuro che uccido mia madre, lei e la sua amica si scrivono email, si scambiano foto, non poteva non sapere. Me lo ha fatto per dispetto, lo so.-

“Oh, ciao Emiliano. Sei davvero cresciuto. Dopo tutto questo tempo, stentavo a conoscerti.” disse per scusarsi. Sperò di non essere arrossito e di non sembrare troppo imbarazzato. La sua idea principe sarebbe stata di portarlo di gran carriera alla madre che li stava aspettando e di mollarglielo nella speranza che non gli portasse via più di un'ora a settimana. Ora, invece, la sua prospettiva era cambiata.

“Anche tu sei cambiato. In fondo avevamo otto anni l'ultima volta che ci siamo visti.” convenne Emiliano. “Andiamo?”

“Ok, non vedevo l'ora di liberarmi di questo cartello, mi dava l'aria da deficiente.” e lo buttò nel primo bidone della carta che trovò “Ti va di fermarti per un aperitivo, prima di andare da mia madre? Sono sicuro che non avrà nulla in contrario.”

“Ok, ma avvertila, mia madre si arrabbia se causo dei problemi in famiglia.”

Gianni si accordò, mandò un sms alla madre e si sedette con Emiliano in uno dei locali più esclusivi della città.

Lì, mentre si raccontavano ciò che avevano combinato in quegli anni, sempre cercando di evitare il discorso della trasformazione fisica del ragazzo, Gianni lo osservò meglio. Era vestito molto semplicemente, con un paio di jeans e una camicia bianca sbottonata fino al petto. I suoi capelli rossicci era corti, tenuti con un disordine ricercato e l'unica traccia rimasta del passato erano due occhialini che lo rendevano ancora più sexy.

In un impulso del momento gli sfilò gli occhiali, pentendosi poi amaramente perché non sapeva come spiegargli quel gesto. Dopo un momento di imbarazzo, se li infilò lui e cominciò a fare delle imitazioni. Emiliano rise, ma se li fece restituire subito.

“Se me li rompi, sono nei guai. Non ci vedo nulla senza.”

“In effetti devono essere potenti, mi gira la testa in maniera vorticosa. E non è la prima volta che faccio delle cretinate del genere.” disse riconsegnandoglieli.

“Forse è meglio tornare da tua madre, ci starà aspettando.” Emiliano si scolò quello che rimaneva del suo drink e si alzò.

“Beh... ecco... io pensavo che forse... avremmo potuto passare la serata assieme a divertirci.” Si fermò lì anche se la sua immaginazione andava ben oltre l'uscita.

Francesco si fece improvvisamente serio e lo fulminò con lo sguardo.

“Credi che basti così poco perché mi dimentichi di come mi trattavate tu e tuoi amici, prima che partissi? Frankenstein è l'appellativo più carino che ho sentito uscire dalle vostre labbra. E ora, se permetti, voglio andare a trovare dall'unica persona, oltre a mia madre, che mi abbia mai trattato come un essere umano.”

Gianni mortificato, ma senza riuscire a trovare la voce per chiedere scusa, lo accompagnò a casa della madre. Per tutto il tragitto erano stati entrambi seri. Emiliano non aveva aperto nessun spiraglio per una conversazione e Gianni non sapeva come introdurre un qualsiasi argomento senza mettersi nei guai.

Solo davanti alla porta di casa, prima di lasciarlo con lei, cercò di rimediare come poteva.

“Mi dispiace molto per essere stato così stronzo in passato. Non si è molto maturi a otto anni, è l'unica vera scusante che posso darti” Tralasciò il fatto che fino a un'ora prima lo avrebbe bruciato sul rogo e sperò che la madre evitasse di dirgli quanto era smaronato per quell'incontro. “Posso chiederti di perdonarmi e di essere finalmente amici?”

“Amici?” chiese l'altro poco convinto.

“Hai ragione, se vuoi potremmo essere di più.” E senza avviso lo baciò, poi, in maniera altrettanto fulminea si eclissò, e andò a un appuntamento che aveva con un amico. Sperò di aver lasciato il segno.

 

 

 

Emiliano era rimasto senza parole e non aveva avuto neppure il tempo di formulare un pensiero decente. Dopo che la macchina fu partita, sul suo volto apparve un sorriso malizioso: se Gianni avesse saputo!

Se avesse saputo che anche lui era gay, che lo sfogo di prima era solo una piccola vendetta per come lo aveva trattato da bambino, che erano anni che era innamorato di lui, attraverso le lettere prima e la email dopo della madre. Ma c'era tempo per quello e il bacio gli dava la possibilità di divertirsi un po' alle sue spalle, prima di abbandonarsi alla passione. Di fargli capire quanto male gli aveva fatto in passato, di quanto amore avesse bisogno per il futuro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** Nulla da perdere ***


Storia partecipante al contest di Sango_79, indetto sia sul forum di efp che su quello di Disegni e Parole, ispirato alla seguente immagine
http://i1182.photobucket.com/albums/x449/DisegniParole/alfagame12_zpsa1a27da7.png

 

 

Nulla da perdere

 

 

 

Era una giornata come tante: Jo aveva lasciato la macchina parcheggiata lontana perché qualcun altro si era abrogato, come al solito, il diritto di usufruire del suo parcheggio privato. Decise di non chiamare i vigili, quel giorno aveva troppa premura per permettersi di perdere tempo a discutere con quel deficiente, sempre lo stesso, che non si era ancora stancato di essere denunciato. Forse sperava che alla fine l'avrebbe vinta lui, lo voleva prendere per stanchezza e dovette ammettere che ci stava riuscendo ad esaurirlo. Solo che rischiava un pugno in faccia più che lui si arrendesse.

Davanti al portone di casa sua, mentre cercava la chiave di casa e nel frattempo parlava al cellulare, inciampò in qualcosa e prima di rendersene conto, si trovò aggredito verbalmente.

“Ehi, tu, non ti ha insegnato nessuno a guardare dove metti i piedi?” lo apostrofò un ragazzo seduto a terra, con rabbia mal gestita.

Jo, spaventato da tanta aggressività fece un passo indietro.

“Scusami, di solito non c'è nessuno qui. E ho molta fretta.”

Un ragazzo carino, peccato fosse sporco e vestito di stracci.

“Sempre la solita scusa, la fretta.” sbottò quello.

Jo gli mollò una banconota, sperando che fosse contento ed entrò in casa propria.

Gli andò in contro la babysitter, arrabbiatissima.

“Mi avevi promesso di tornare prima” sbottò.

“Lamentati con il 21/b. Continua a parcheggiare nel mio posto e ho dovuto farmela a piedi dallo stadio. Come sta il piccolo?”

“Dorme. Avrebbe bisogno di sua madre.” lo informò lei, calmandosi improvvisamente.

Neanche non lo avesse saputo!

“Purtroppo lei ha scoperto di aver bisogno di andare in India per ritrovare se stessa. Mia sorella è sempre stata un'anima persa e la maternità non faceva del suo karma. Solo che prima o poi lo stato se ne accorgerà e lo renderà adottabile.”

“Già, è un vero peccato che i single e le coppie gay non possano ancora adottare dei bambini. Ci vorrebbe. Le dispiace darmi la paga, mi aspettano a casa.”

“Oh, certo, scusami.” Con angoscia si accorse di avere in tasca solo dieci euro. “Ops, ho dato i tuoi cento a un barbone qua fuori. Non ho altro, posso pagarti domani?”

La ragazza sbuffò, tornando ad arrabbiarsi.

“Valli a riprendere!”

“Lollo, non sarà neppure più qui fuori, quando mai gli ricapiterà una fortuna del genere.”

Lorenza convenne che anche lei se la sarebbe data a gambe al posto suo e si accontentò dell'anticipo. Fece per uscire, quando si sentì suonare al campanello. Con sommo stupore, Jo si ritrovò davanti il mendicante, che sventolava in mano la banconota.

“Credo che tu ti sia sbagliato a darmi questi.” annunciò e Lollo corse verso di lui e li scambiò con i dieci euro.

“Grazie, caro, almeno ora il mio ragazzo non mi sgriderà.” E uscì di tutta fretta.

 

 

 

Jo lo fissò stupito.

“Chiunque altro se li sarebbe tenuti e io di certo non avrei avuto il coraggio di venirteli a chiedere. Lollo avrebbe potuto aspettare anche domani, nonostante la premura.”

“Non sono un ladro e so cosa vuol dire non riuscire a portare a casa i soldi previsti.” Si strinse in sé, come se fosse abituato a essere punito.

“Sei abbastanza adulto da cambiare vita, se vuoi.”

“Lo so, ma i miei non mi hanno mai permesso di studiare. Non sono riuscito neppure a frequentare le elementari, figurarti prendere un titolo di studio.”

“Mi sembra assurdo ai giorni nostri.”

L'altro scosse la testa, come per dire che erano molte le cose di cui non era a conoscenza. Mise in tasca i soldi e fece per uscire. In quel momento un bambino di circa tre anni uscì da una stanza e si arrampicò su Jo.

“E lui chi è, zio?” chiese.

“Un amico, si chiama...” fece un gesto alla volta del ragazzo perché lo aiutasse.

“Samuele.”

“Ecco, Samuele.”

“E perché è vestito così male?” chiese ancora.

“Non so.” ammise Jo, che doveva ancora abituarsi alla schiettezza dei bambini.

“E' il mio nuovo babysitter? Lollo mi sgrida sempre e non mi fa fare vola vola.” accusò innocentemente il bambino.

“Potrebbe. Sei libero?” chiese Jo all'improvviso.

“Mi stai pigliando per il c... ehm, in giro? Certo! Sei sicuro di volerlo lasciare proprio a me?”

“Non puoi essere peggio di Lollo.” ammise Jo “Fa quello che può, ma non ama i bambini. In realtà il suo sogno sarebbe di fare la parrucchiera. L'unico vantaggio è che con lei mi risparmiavo i soldi per tagliargli i capelli. A volte lo faceva anche a me. Poi non posso non fidarmi di qualcuno che, nonostante il bisogno, mi ha riportato cento euro.”

“Potrebbe essere un inizio per liberarmi dall'influenza dei miei genitori, anche se dovrei lo stesso aiutarli economicamente, ho quattro fratelli più piccoli.” Poi si rivolse al bambino “Tu che ne dici?”

Il bambino tese entrambe le braccine verso di lui.

“Prova a fare vola vola, poi vedo.” disse seriamente.

Entrambi cercarono di trattenersi dal ridere: per il piccolo sembrava essere una faccenda davvero importante.

Samuele lo fece volare in aria cinque o sei volte e dalle risa del piccolo si capì che si stava divertendo parecchio. Alla fine...

“Lo compriamo, zio?” chiese.

“Si dice lo assumiamo.” poi si rivolse a Samuele “Sei assunto. Se preferisci, se riesci a portarmi gli incartamenti, posso metterti anche in regola. Per me sarebbe meglio, odio i contanti, ma mi posso adeguare. Anzi, non ci siamo ancora presentati. Questo bimbo, che dovrebbe già essere a letto da un pezzo, si chiama Giordano Camprini Jr.”

“Lo stesso nome sul campanello.” notò Samuele.

“Già, sono io il Sr.” confermò “Purtroppo mia sorella non è mai stata molto propensa alla maternità. Non sa neppure con certezza chi sia il padre. Frequenta dieci uomini per volta. Sono riuscito a farle giurare di restare fino almeno ai tre anni e il giorno dopo che li ha compiuti, me lo ha mollato, con una procura che mi rende responsabile di lui. Ma sei contento, vero?”

“Era ancora peggio di Lollo, la mamma.” confermò il bimbo, con uno sbadiglio.

“Avresti dovuto adottarlo, visto che è così poco interessata.”

“Lo so, ma i gay ancora non possono farlo.”

“Ah, tu sei...” non finì la frase, ma ci pensò Jr.

“Lo zio Jo preferisce gli uccelli alle farfalle.” disse il bambino.

Jo lo rimproverò, chiedendogli di smetterla di usare quella frase.

“La mamma lo diceva sempre e poi io ti voglio bene lo stesso.” sbadigliò ancora, dopo quell'arruffianamento. Chiese a Samuele di attenderlo, e lo portò a letto.

 

 

Nel frattempo, Samuele attese in piedi davanti alla porta d'ingresso. Sembrò aver paura di appestare qualcosa. A suo ritorno Jo si scusò per non averlo invitato ad accomodarsi.

“Non lo avrei fatto comunque, non vorrei sporcare.” si strinse in se stesso, cercando di farsi il più piccolo possibile.

“In effetti dobbiamo rimediare, non puoi certo andare in giro così, con un bambino. A proposito, hai la patente?” chiese.

Samuele scosse la testa.

“Neppure tu! Beh, tanto qui si gira meglio con i mezzi. Per fortuna il centro è ben servito.” gli arrivò un messaggino “Ah, deve essere Lollo, l'ho avvertita che non aveva più bisogno dei suoi servizi.”

“Tramite sms? Spero non si sia offesa. E non troverà strano che tu mi abbia incontrato così?”

“Lei l'ho quasi investita col carrello, nel supermercato qui sotto, è abituata agli strani approcci.”

“Allora è un vizio il tuo?” Rise Samuele “Potresti menomare qualcuno di questo passo.”

Anche Jo rise, rilassato come non lo era da molto tempo. Di sicuro non con Lollo che era sempre in ansia per qualcosa. Lui, forse perché non aveva nulla da perdere, sembrava che non avesse alcun timore.

“Ora ti preparo dei vestiti di mio padre, dovresti avere la sua taglia e, non preoccuparti, era un tipo piuttosto sportivo. Di là c'è il bagno della zona giorno, per non disturbare Jr.”

Samuele non era troppo contento di doversi lavare. Non aveva mai avuto un gran rapporto con l'acqua e il sapone, anche perché i suoi genitori non erano tipi che contavano su queste cose, anzi, più sei sporco e puzzolente, più fai compassione.

Jo gli riempì la vasca e, prima di rendersene conto, Samuele stava giocando con le paperelle del bambino e divertendosi un sacco. Si chiese se sarebbe stato in grado di prendersi cura di un bambino, uno come lui che non aveva mai avuto una vera infanzia e non sapeva come farlo stare bene. Si sentiva troppo infantile per quel compito, eppure sapeva che era anche la sua vera occasione per cambiare vita e averne una decente, se non perfetta. Certo che quel momento non sarebbe stato male, se ci fosse stato Jo a fargli un pompino Si ritrovò a toccarsi e scattò subito seduto nella vasca, non poteva per mettere che certi pensieri rovinassero tutto, anche se il fatto che lui fosse gay lo aveva eccitato.

Finì di lavarsi cercando di tenere a freno la propria libido e, appena finito, indossò gli abiti. Doveva essere poco che il padre era venuto a mancare, perché erano morbidi e profumati.

 

 

All'uscita dal bagno, Jo lo aveva sorpreso con un pasto leggero per due e si sentì commosso fino alle lacrime. Nessuno, che mai ricordasse, si era comportato con lui con così tanta cura, nei suoi ventidue anni di vita, più di ciò che aveva fatto lui in mezz'ora. Di quel passo si sarebbe abituato male e alla fine avrebbe ricevuto una delusione.

“Sono felice di aver avuto ragione.” sorrise Jo “Mi sarebbe dispiaciuto dover buttare via tutta quella roba, ora che non li usa più.”

“Ti ringrazio. Da quanto tempo è morto, tuo padre? Sembra che li abbia messi fino a ieri.” Samuele li annusò estasiato e l'espressione di assoluta beatitudine sul suo volto fece piacere a Jo.

“Sono certo che sarebbe contento che i suoi abiti sono tornati utili, se potesse capire qualcosa.”

L'espressione interrogativa sul volto di Samuele richiedeva una spiegazione.

“Alzheimer. Allo stadio ultimo, credo.” spiegò tristemente “Prima di perdere completamente la ragione ha fatto in modo che sia io che Monica, mia sorella, avessimo ognuno ciò che desideravamo. Io ho avuto la casa intestata come donazione e lei il corrispettivo in denaro, che non è poco. L'unica differenza che in tre anni lei si è mangiata tutti i liquidi e io ho ancora la casa. Lui ha scelto per sé una delle migliori case di cura per malati come lui, peccato che da un anno, non si ricordi più nulla, o quasi. Certe volte si ricorda mia madre, prima che morisse in un incidente, o addirittura neppure lei.”

Samuele si sentì sciocco per aver pensato che il padre fosse morto, ma non sapeva come consolarlo. Jo cercò di riprendersi.

“Se non hai una casa dove stare, posso ospitarti. Questa casa è enorme, potrei farci un ritrovo per vagabondi e averne alcun disagio, tanto è grande.”

“Da come parli dai l'impressione di sentirti in colpa per essere più fortunato.” si avvicinò “Tu non hai avuto genitori come i miei, che non mi hanno permesso di studiare o di trovarmi un lavoro decente, perché per loro è molto più remunerativo farmi chiedere la carità. In fondo anche tua sorella ha avuto il tuo stesso insegnamento, ma è venuta molto diversa da te, da quello che ho capito.”

“Solo per caso. Anche se mio padre non lo ha mai ammesso, lei ha preso tutto dalla mamma.” confessò “Le ha sempre perdonato tutto, perché era il suo specchio riflesso. Se fosse vissuta al giorno d'oggi, probabilmente farebbe le stesse scelte di Monica. Preferirebbe essere libera.” s'interruppe “Un giorno mio nonno, suo padre, prima di morire, mi ha detto che lei era morta dentro. Aveva bisogno di essere libera per essere felice e in famiglia si sentiva soffocare. Si ebbe il dubbio, anche se all'epoca nessuno me lo disse, poiché eravamo entrambi piccoli, che si buttò sotto la macchina in un momento di depressione.”

Jo si sentì stringere la mano e vide la compassione negli occhi di Samuele. Erano vicini e le loro labbra si sfiorarono.

“Non volevo che succedesse.” si lamentò Jo “Ero davvero intenzionato ad aiutarti e il sesso rovina sempre ogni cosa.”

“Immagino che anche a livello sentimentale non stai molto bene.” Samuele continuava a stargli vicino e non sembrava intenzionato a staccarsi “In effetti hai ragione. Prendere soldi da qualcuno che ti porti a letto è sempre controproducente. Potrei accontentarmi del vitto e l'alloggio, in cambio. Sarebbe già molto per me. Non ho nulla da perdere.”

Si baciarono ancora, più a lungo.

“Lo dici come se fosse cosa fatta. Se non dovesse funzionare dovrei riprendermi Lollo e me lo farebbe pesare parecchio.” lo avvertì Jo.

“Beh, qualsiasi cosa, allora, sarà meglio farla funzionare. Che ne dici?”

Lui era più che d'accordo, ma non disse nulla, tipo chi tace acconsente. Si rinchiusero nella camera da letto, con l'interfono acceso che per fortuna non diede alcun allarme e fecero l'amore. Si sarebbero accordati in seguito su come proseguire il loro rapporto.

 

 

 

 

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