That's the way it is

di Mistralia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le storie che non so spiegare ***
Capitolo 2: *** Sii Solo Una Regina ***



Capitolo 1
*** Le storie che non so spiegare ***


1

“Le storie che non so spiegare”

 

“La storia della mia vita io la porto a casa

guido tutta la notte per cercare di tenerla al caldo

ma il tempo è congelato ormai

Alla storia della mia vita do speranza,

ma spendo il suo amore finché non ne ha più dentro”

 

 

24/11/2015

Caro Diario,

lasciatelo dire, mi fa davvero impressione ritrovarmi qui, la mattina alle 3:49 precise, con una penna in mano, a scrivere la solita formuletta che usavo da bambina sulla cima di questa tua prima bianca pagina.

Ora che ci rifletto meglio, mi sembro davvero una stupida ad affidare le mie memorie a un misero blocco di cartone con delle pagine spiegazzate in mezzo, però, caro mio, sono stanca, devo ancora struccarmi e tanto vale finire quello che ho cominciato.

Quando sono nata, in una austera stanza di un costoso ospedale privato, faceva freddissimo, talmente freddo che le persone giravano ancora per le strade armati di doposcì e scalda-collo di lana; tutta questa situazione era alquanto strana perchè era il 17 Febbraio e, con Marzo alle porte, si presupponeva un briciolo di sole, dopo un inverno abbastanza rigido. 

Mio padre dice sempre che mettermi al mondo non fu facile, poiché non volevo decidermi a uscire da quel caldo rifugio che mi aveva ospitato per nove mesi, per cui, riuscii a vedere la luce del giorno solo dopo dieci ore di tormentato travaglio, al termine del quale mia madre crollò sfinita sul lettino.

Da neonata ero bellissima, ma talmente gracile da sembrar prematura, nonostante i nove mesi di gestazione, e forse, proprio per questo mio essere così candida e indifesa, decisero di chiamarmi Susanna, che in ebraico significa giglio e indica l’innocenza.

Ricordo pochissimi attimi dei miei primi anni di vita, qualche particolare sfuocato, disperso nella mia mente, episodi sconnessi e non chiarissimi, a loro modo, però, affascinanti.

Un frammento spesso ricorrente in quel dilemma che è il mio cervello è, ad esempio, il mio rientro a casa dopo pochi giorni nell’incubatrice; rammento una strana sensazione, come il canto di una sirena, e la smisurata voglia di andare verso quella luce che, in quel grigio giovedì, era debole e fioca, eppure, sembrava irradiare come uno strano calore che mi cullava, mi faceva sentire al sicuro come mai le braccia di mia madre avevano fatto.

“Tu hai sempre amato il caldo, non quello torrido che ti fa irritare la pelle, piuttosto quello debole, tipico della nuova primavera e dei bucaneve che spuntano timidi dalla neve sciolta.” diceva sempre mia nonna.

Tuttora adoro quel periodo dell’anno, poiché simboleggia la rinascita, un nuovo ciclo che cancellava il vecchio, nuove emozioni, sguardi, sentimenti e pensieri, ma anche cambiamenti nell’animo, nella personalità e nelle abitudini.

Era come liberarsi dei pesi accumulati durante l’anno e, in quei pochi attimi di pace, non c’erano versioni di latino, orali da recuperare, ricerche di storia da consegnare, compiti che non andavano mai come dovevano andare; c’eravamo solo io e il mio prato preferito, illuminati dal cielo ceruleo e immersi nel silenzio.

I miei genitori mi diedero tutto: vestiti, giocattoli, una bella cameretta, un’enorme villa in campagna, scordandosi, in compenso, di quella piccola ed insignificante prerogativa di ogni maledetto nucleo familiare che si rispetti: l’affetto.

C’era solo il loro lavoro, il modo più facile di fare soldi, arricchirsi, come se quelli che tenevano in banca non fossero abbastanza; per loro era facile, da bravi chirurghi quali erano, ma per me sopportare che mia madre non mi aiutasse mai a scegliere i vestiti, che mio padre non mi insegnasse mai ad andare in bicicletta, non vederli mai in cucina, vicino al bancone a scambiarsi un casto bacio, per poi abbracciarmi e dirmi quanto mi amavano, non sentire il profumo stuzzicante dei biscotti e delle torte fatte in casa, solo quello degli insipidi preparati Cameo, litigare, piangere e poi sorridersi, era inconcepibile.

Per questo adoravo quella radura dietro la nostra villa, era il posto dove correvo ogni volta che dovevo pensare, isolarmi, oppure scappare da una casa troppo grande quanto fredda per una bambina in cerca di affetto.

Quando la trovai avevo dodici anni ed era il giorno del mio compleanno; ero convinta che quest’anno finalmente i miei genitori non avrebbero avuto l’ennesimo turno in ospedale e avremmo potuto festeggiare insieme come una famiglia qualsiasi, ma una volta svegliata, c’era sono Paulette, la nostra domestica, ad accogliermi, con un vassoio d’argento e una busta di carta beige; mentre mi alzavo dal mio sontuoso letto a baldacchino rosa e facevo per leggerla, già sapevo che avrebbe contenuto il canonico messaggio di scuse scritto al computer, in cui si rammaricavano per la loro assenza dovuta a chissà quale collega da sostituire e promettevano l’ennesimo costoso regalo che non avrebbe mai colmato il vuoto che mi avevano lasciato.

Forse fu l’espressione impietosita di Paulette, forse il messaggio che questa volta sembrava ancor più formale del solito, forse la rabbia scaturita dal mio eterno secondo posto nei loro pensieri, ma, per la prima volta, non mi limitai ad annuire e tornare a dormire, presi un cappotto ed uscii come una furia da quel posto che sembrava soffocarmi ed iniziai a camminare senza una apparente destinazione.

Mezz’ora più tardi, quando ormai mi ero inoltrata nel boschetto dietro la nostra abitazione, vidi uno spiraglio di luce provenire da delle felci addossate a un masso e cercai di capire da dove provenisse; scostando alcune pietre, vidi una piccola fenditura, abbastanza grande da farmici passare in mezzo, e la superai.

Hai presente quando ti batte forte il cuore come se avessi un infarto? A me successe una cosa simile; il sole, quel timido amato sole di fine inverno, che alle mie pupille brillava come un faro, il fiato che mancava nonostante il mio disperato tentativo di respirare, tutte quelle piccole violette, bucaneve e denti di leone che cercavano di vincere la neve, quasi del tutto scomparsa, la rugiada cristallina sui fili d’erba e il canto soave degli usignoli, risvegliatesi dopo mesi di inattività.

Quel luogo, per quanto piccolo e semplice, sembrava chiamarmi per nome, tirarmi verso di se, suggerirmi che avevo finalmente trovato il posto giusto per me, sussurrarmi che ora il dolce silenzio sarebbe stato il mio eterno migliore amico.

Ho passato interi pomeriggi a fissare il cielo inebetita, distesa sul prato, raccogliendo fiori, leggendo interi capitoli ai ragni silenziosi e agli uccelli canterini; che piovesse, grandinasse, ci fosse un caldo torrido, o semplicemente un cupo grigiore, ogni qual volta mi sentissi abbandonata o avessi bisogno di respirare e recuperare la salute mentale, questa radura era la mia destinazione preferita.

E ti assicuro che ci andavo spesso.

Il fatto è che a casa mia, nemmeno un santo avrebbe potuto resistere per più di una settimana, a meno che non avesse avuto un buon apparecchio acustico.

Infatti i miei genitori, quelle poche volte che si ricordavano di avere una vita e anche una figlia, non facevano altro che litigare su ogni cosa, rimproverandosi a vicenda le colpe e i difetti più disparati, tanto da far sembrare che tutti quei volgari epiteti li cercassero la notte sul dizionario; la mia giornata era un continuo sbattere di porte, imprecare, rinfacciarsi anni di insoddisfazione e sputare sentenze su tutto.

Mamma aveva sempre da ridire sulla famiglia di papà, che a parer suo non gli aveva dato la giusta educazione, mentre lui la denigrava per il suo carattere introverso e distaccato e faceva il pazzo geloso; erano entrambi di carattere forte, orgogliosi nelle loro affermazioni e decisioni, per cui quando si scontravano, le reazioni erano pressoché simili a una bomba nucleare.

Quando non discutevano, se ne stavano ognuno per i fatti propri, chi nel suo studio, chi nel giardino d’inverno a leggere, dimenticandosi di me, una bambina prima di cinque, poi sette, poi dieci, poi sedici anni, abbandonata ad una esistenza troppo piena di sfarzi e non di attenzioni.

Rammento che una volta, per la mia promozione, mi regalarono una macchinetta fotografica professionale, completa di una serie di obiettivi e una comoda borsa per portarmela dove volevo; appena tornata da scuola, ogni pomeriggio, la prendevo e iniziavo a fare istantanee un po’ ovunque, dalle orchidee nella serra, al fuoco che divampava nel camino di mattoni, conservando, in tal maniera, frammenti di quella mia infanzia trascorsa nel bosco umido ad osservare e scattare immagini di una solitaria farfalla monarca che, leggiadra, si posava sui deboli fili d’erba illuminati dalla luce aranciata del tramonto, mentre un paziente grillo attendeva la venuta del silenzio, per poter finalmente cominciare il suo abituale canto; un pomeriggio, me ne ricordo benissimo, era maggio e, stranamente, i due instancabili chirurghi se ne stavano, fin troppo quieti, al fresco nella veranda, appena fuori la cucina, sul dondolo, parlando del più e del meno, sorridendosi a vicenda, come due innamorati spensierati.

Con passo felino, mi nascosi dietro il grande vaso di un albero di limone, non per spiarli, ma semplicemente per ammirare la vita che avremmo potuto avere, la famiglia che avremmo potuto essere, l’amore e l’affetto che avremmo potuto far crescere insieme, mentre l’unica cosa che sapevamo fare era guardare da lontano la pubblicità del Mulino Bianco, sempre che avessimo tempo tra un convegno e un’operazione, si intende!

Papà era sereno, la sua bocca si apriva all’insù ad ognuna delle parole di mia madre, che rideva, rideva, rideva, le brillavano gli occhi come due zaffiri ed io, non potevo che esserne contenta e il mio cuore si riempiva di gioia quando lei attaccava a straparlare e mio padre, ingegnosamente, la baciava tenero, amorevole, come se volesse farle una carezza.

A quel punto, con le lacrime agli occhi, tremante come una foglia, premetti un semplice bottone e con un click, impressi per l’eternità quell’attimo fuggente e tornai a rimirarli, conscia che momenti come questi erano più unici che rari.

Dopo una manciata di minuti, però, feci un passo falso ed urtai una mattonella, al che i miei si ridestarono e, quasi come se fossero stati colti in fragrante, mi domandarono cosa stessi facendo, acquattata dietro la terracotta.

  • Vi osservavo mamma e mi chiedevo perchè deve essere tutto così difficile.
  • Difficile cosa tesoro? Spiegati non riusciamo a capirti…
  • Da sopportare papà, è difficile da sopportare.

Loro mi guardarono increduli, non capendo cosa intendessi con queste parole, per cui presi in mano il mio nuovo regalo e glielo porsi, con la loro foto in bella vista.

  • Vedete ho sempre desiderato sentirmi dire che mi volete bene, quando invece questa semplice frase poche volte è arrivata. Quando vedo un padre, o una madre, e una figlia abbracciarsi per strada trattengo le lacrime. Faccio di tutto pur di farmi apprezzare, per meritarmi delle parole affettuose, per rendervi fieri di me. Ma non basta mai. Vi sto dicendo questo, anche se so che voi non mi ascolterete, chiedendomi se sia io ad essere sbagliata. Ho sempre desiderato una famiglia felice e che si vuole bene come quelle delle mie amiche, ma non l'ho mai avuta. Ho sempre desiderato che voi riflettiate su ciò che fate, su quanti litigi consumate ogni giorno, che vi diciate “quella è la persona che ho sposato, ma che sto facendo? Io la amo.” , ma sono sicura che voi non l'abbiate mai fatto. Non riuscite a controllare la rabbia, e lo sapete bene, eppure non avete mai fatto nulla per migliorare.

Quando rialzai il capo, cercando lo sguardo dei miei genitori, trovai solo un capo chino e dei muti singhiozzi, come a voler testimoniare quanto avessi ragione e che le mie, forse un poco dure, constatazioni avessero fatto loro del male.

Almeno, mi dissi, hanno imparato la lezione.

Oh quanto mi sbagliavo caro diario!

Era l’estate del 2012, le scuole medie erano, finalmente, un lontano ricordo ed eravamo nel pieno del mese di agosto; in un anno, dal giorno del mio discorso, la situazione era rimasta sempre la stessa e questi 365 giorni erano stati un assordante concerto di piatti rotti, cocci sparsi sul parquet, nonne maledette, monotone frasi di scuse nei miei confronti per qualche evento al quale non avevano potuto partecipare e turni in ospedale sempre troppo lunghi.

Non sapevo che quella sarebbe stata un’estate che mi avrebbe cambiata, dalla quale non sarei mai uscita come ero prima; stavo per precipitare nell’Inferno come Lucifero, per non far più ritorno.

Quel fatidico giorno, ero nella mia camera, cercando disperatamente di far entrare il dizionario di greco dentro la libreria, mentre con un piede reggevo il volume gigantesco dei Promessi Sposi, chiedendomi quale strano elfo dai poteri superiori mi avesse convinto ad iscrivermi al Liceo Classico.

Udii solo dei suoni attutiti di vetri che si sfracellavano al suolo ed urla arrabbiate, ma una frase, una su mille, rimase impressa indelebile nella mia mente.

  • Se la nostra vita fa schifo, se il nostro rapporto è ridotto in briciole, se tua figlia è un disastro, è solo colpa tua e dei tuoi atteggiamenti da adolescente!
  • La smetti di urlare? Ho solo ricevuto una telefonata di lavoro e tu cominci a sbraitare come una ragazzina! La vuoi finire una buona volta con questa gelosia? Non mi lasci respiro hai capito?
  • Io la devo piantare? Ma se non fai altro che tornare ogni sera tardi e fare strane chiamate nel cuore della notte! Sono una donna, non sono stupida! E non puntarmi il dito contro, incivile! O la tua mammina non ti ha insegnato la buona educazione?
  • Mia madre non la devi neanche nominare! Sei tu che non hai saputo fare la madre, hai pensato solo alla carriera! Nostra figlia diventerà una di quelle debosciate drogate che si truccano come spogliarelliste, si ubriacano e tornano tardi la sera! E tutto solo perchè tu, incapace come nessun altro, non hai mai voluto fare la madre!
  • Tu non sai nemmeno dove sta di casa l’esser genitori! Quando mai ti ho visto insegnarle ad andare in bicicletta, oppure controllarle un tema di scuola? Quando? Se diventerà una delinquente, come tu la dipingi, sarà solo colpa tua!
  • Allora, visto che nessuno di noi sa assumere questo ruolo, abbiamo sbagliato a fare una figlia! Ci saremo risparmiati mille litigi! Avremmo potuto lavorare finché volevamo e far carriera liberamente, senza lo stress di una neonata in giro per casa!
  • Pensi davvero che la bambina sia stata un errore?

Silenzio. Ci fu solo il silenzio a quella domanda e un suono di passi, tacchi che si allontanavano.

Passarono uno, due, tre, secondi, o forse cinque minuti, ma il mio corpo era immobile, la mia mente non voleva accettare ciò che mio padre, il mio papà, l’uomo che mi aveva messa al mondo, aveva urlato a quella donna che, invece di difendermi, si era limitata a chiedergli conferma di quelle cattiverie.

Un tonfo, credo quello stupido vocabolario caduto a terra, un altro, Renzo e Lucia, ed uno ancora più forte: io.

E poi la disperazione, ho pianto, ho provato a gridare, ma la voce non usciva, intrappolata com’era tra le corde vocali, il groppo che avevo in gola diventava sempre più grande, ingombrante, soffocante ed era insopportabile anche la sola aria che respiravo.

Grosse lacrime salate mi solcarono il viso ed io non feci nemmeno lo sforzo di asciugarmele, lasciandole libere di rovinarmi il mascara e il trucco, e depositarsi sulle mie labbra rosse che ormai sanguinavano per il troppo morderle.

Avrei voluto morire, quel giorno, tanta era la voglia di lasciarmi andare al dolore che mi avevano inflitto quei pochi minuti di conversazione, durante i quali la mia più profonda paura, quella di essere la causa di tutti i disastri della nostra vita, si era rivelata giusta e, nello stesso momento, il peso di come ero, lentamente mi schiacciava, come a voler prolungare quel tormento, per far si che non me lo sarei più dimenticato.

Colta da un raptus d’ira presi la macchinetta fotografica e la scagliai contro il muro, ma questa, come a voler farsi beffe di me, si accese e si focalizzò proprio su quella foto, scattata più di un anno fa, dove la mia famiglia per una volta era riunita.

E fu proprio allora che capii di esser stata sempre la figlia invisibile, perennemente chiusa in camera da sola, mentre loro non si erano mai interessati di quello che avevo, che provavo. E sarei voluta andare via da quel luogo, sparire perché non ne potevo più. Non ce la facevo a sopportare genitori costantemente pronti a darti addosso, a farti cadere, a vedere in te il problema di qualsiasi fallimento. Genitori che continuano a sostenere di conoscerti fin troppo bene, ma in realtà sanno a malapena quando sei nata. 

Ero stufa di quanto fosse facile per loro puntare il dito quando non avevano mai avuto il tempo di sedersi accanto a me e capire cosa mie rendeva felice e cosa no, bravi come erano a straparlare, ma non a comprendermi.

Loro non sapevano quante volte mi ero lasciata andare, da sola, quante volte mi ero sentita fuori posto, quante volte di notte, non ho dormito.
Non sapevano quante volte ho fatto finta di sorridere, quando in realtà stavo morendo dentro. 

Perciò mi dissi che mamma e papà avevano fallito il loro ruolo di genitori. Una famiglia dovrebbe essere un riparo dal mondo esterno, composto da persone pronte ad accettarti e volerti bene per quello che sei, ad aiutarti e a non lasciarti mai solo. La nostra non era una famiglia, quella foto era solo menzogna. 

Avevano paura che diventassi una poco di buono? Bene, lo sarei diventata.

Mi sarei trasformata in una di quelle figlie incontrollabili, che stanno fuori fino al mattino, che a scuola vengono bocciate tutti gli anni, che spendono tutti i soldi per capricci, questo e molto peggio; così almeno avrebbero capito che non ero così orribile come credevano.

Quella notte, guardando la luna piansi per l’ultima volta e, mentre le palpebre si abbassavano, mi ripromisi che d’ora in poi le cose sarebbero cambiate e che nulla sarebbe tornato come prima; i miei cari genitori avrebbero avuto quel che si meritavano.

E questa, caro diario, è la mia storia, la storia di Susanna Martini, di come sono nata, cresciuta e un giorno d’estate, rinata. 

Con il passare dei giorni ti racconterò molte più cose di me, ti parlerò di quel manicomio dove sono costretta a studiare, degli amici, della quotidianità che mi sono ricostruita, mattone per mattone, tutta da sola e ti prego di non giudicarmi in base alle mie scelte.

Non ho chiesto io di nascere, né tantomeno di essere difettosa rispetto agli altri e sono cambiata perchè m’hanno cambiato, sappilo.

……. anche il Diavolo prima era un angelo.

Perchè è così che va la vita.

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Capitolo 2
*** Sii Solo Una Regina ***


2

“Sii solo una regina”

 

“So cosa sono venuta a fare

E questo non cambierà

Quindi vado avanti e tu dì quello che hai da dire

Perché non abboccherò

Sono qui a fare quello che mi piace

Sono qui a lavorare giorno e notte

Se il mio essere reale non è abbastanza reale per te

Mi dispiace per te, tesoro”

 

 

07/12/2015

Caro Diario,

le persone sono fastidiosamente prevedibili, oltre che una perdita di tempo; da loro puoi solo imparare qualcosa con cui non combinerai mai nulla oppure ciò che non vorresti mai diventare. Credo di essere diventata alquanto sociopatica con il passare del tempo, provo un’irrefrenabile voglia di uccidere brutalmente chiunque mi si avvicini o comunque provi solamente a parlarmi; mi sembra di stare dentro una stanza piena di gente fastidiosa, con quella vocina stridula, irritante all’ennesima potenza, che non sa far altro che ridere, flirtare e scaturire pensieri omicidi nella mia testa, nel disperato tentativo di attirare l’attenzione, in particolare modo della mia.

Se tutti i ruffiani della mia scuola potessero volare, il Liceo sarebbe un dannatissimo aeroporto; non faccio in tempo ad entrare che subito mi assalgono come moscerini fastidiosi, cercando di estorcermi chissà quale favore o consiglio, con l’unico risultato di aumentare il mio disprezzo nei confronti di questo schifo che è la società.

Tutto, dalla famiglia, alla scuola, agli amici, è un teatro, un luogo dove uno per uno recitiamo la parte che meglio ci sta, senza ritegno, intrisi di ipocrisia e perbenismo, nascosti dietro maschere ben costruite ma mal pitturate; questa generazione non fa altro che dire che siamo il risultato di come siamo trattati, che sono gli altri a farci del male che la nostra unica colpa è quella di essere troppo deboli per poter fronteggiare tutti questi attacchi, ma la realtà è ben diversa.

Questo pianeta, i miliardi di persone che lo abitano, sono tanto bravi a inventar pretesti e giustificazioni, quanto ad immedesimarsi in un ruolo, perchè la verità, quella che ognuno, io per prima, evitiamo di rivelare, è che siamo noi a decidere in cosa tramutarci, indipendentemente dagli attacchi altrui, forse perchè siamo dei codardi o semplicemente dei pigri.

Quando, finalmente, iniziamo a comprendere il complesso funzionamento del nostro universo, entriamo in quel che definirei il “grande magazzino della personalità”: vaghiamo, vaghiamo per i corridoi, andando alla ricerca del costume che più ci faccia comodo e siamo consapevoli del fato che trovandolo, non potremmo facilmente tornare indietro.

Ma il punto è proprio questo, nessuno vuole tornare indietro.

L’acida è contenta perchè allontana gli ospiti indesiderati, l’autolesionista perchè può crogiolarsi senza ritegno nel suo fantomatico dolore, la bulimica perchè in fondo le piacciono le gambe magre e il fatto che tutti la guardino, la ragazza facile perchè gode dell’attenzione, buona o cattiva, che gli altri le rivolgono, l’asociale perchè ama starsene in pace il sabato a guardarsi American Horror Story , senza scocciature, cene o feste.

Sono tutti, alla fine, soddisfatti della loro situazione, ma non fanno che lamentarsi, scrivere su Tumblr cose smielate senza senso tendenti al ribrezzo, e piangere, piangere, piangere, come se loro fossero gli unici disgraziati della Terra, mentre sono i primi nullafacenti che si rifiutano di cambiare, di chiedere il reso del loro carattere.

N0n c’è mai bisogno di tagliuzzarsi le braccia, vomitare le lasagne della nonna, fregarsene i tutto e tutti, rintanarsi nei libri o provarci con qualsiasi cosa cammini per essere felici, trovare una soluzione ai proprio problemi o sentirsi in pace con se stessi; nella vita c’è la necessità di una gran bella dose di coraggio e di determinazione.

Cosa che io non ho.

Condanno tanto i modi di fare dei miei coetanei, quando sono la prima a metterli in atto.

Due anni fa, prima di entrare al Ginnasio, dopo la fantastica, usando un eufemismo, uscita dei miei genitori, sono entrata anche io in quel centro commerciale; ho fatto un po’ la schizzinosa, perchè, almeno lo credo, io non volevo cambiare per davvero, volevo solo scrollarmi di dosso quel pesante mantello dell’invisibilità e attirare l’attenzione di coloro che avrebbero dovuto amarmi e ascoltarmi.

Poi però ho visto quello scialle nero, nero come la notte senza stelle, senza decorazioni, senza fronzoli, un banalissimo color antracite e l’ho toccato e ho sentito il freddo polare, lo stesso gelo acuto che aveva invaso le mie vene, me lo sono messa addosso e mi sono specchiata. Battevo i denti per la sensazione di vuoto che mi trasmetteva, ma al contempo, ero affascinata dal riflesso che vedevo; quella ragazza, con le Converse rosse come le mie, la maglietta sdrucita e i jeans stretti identici ai miei, mi fissava, con un volto assai diverso dal mio, poiché mentre io avevo le guance solcate da grumi di mascara, lei aveva un sorriso enigmatico, quasi malizioso, circondato da un’aura di superiorità e di prepotenza che la circondava e sembrava proteggerla come una campana di vetro.

Mi piacque talmente tanto quella sicurezza, quella smorfia che la caratterizzava che non ci pensai due volte ad andarmene con quel foulard tenebroso e da allora non me lo sono più tolto.

Sono entrata al Liceo con la sicurezza di una veterana, spavalda e conscia di me stessa e delle mie capacità, adornata dal mio coprispalle e dello zelo che esso sprigionava e sono rimasta colpita da come, poco tempo dopo, incutesse timore nei confronti di coloro che mi circondavano e del rispetto che esso mi faceva ottenere.

Non mi sono stupita quando i ragazzi hanno cominciato a scrivermi sempre più di frequente, le ragazze a fare mille moine davanti ai miei occhi e cento improperi alle mie spalle, le persone a implorarmi per ricevere miei consigli; mi sono abituata alle occhiate furtive, ai commenti sulla mia forma fisica o sulla mia bellezza, a come sembrassi la regina della scuola, facendo, però, solamente il terzo anno.

E tutto ciò mi piaceva, mi appassionava, mi faceva sentire potente, desiderata, amata e mi sono lasciata cullare da quella situazione, dai suoi pregi e dai suoi difetti e in quel momento mi sono resa conto di una cosa: io non ho mai voluto cambiare me stessa, non ho mai voluto cambiare le mie abitudini, volevo solo che miei genitori mi notassero, ma sono stata troppo pigra, sono stata troppo vigliacca, ho scelto la strada più facile, invece di ragionare, calmarmi e tirare fuori la mia forza, ho continuato su questa strada perchè mi ha fatto comodo più di qualsiasi altra via e mi sono lasciata cadere su questa morbida poltrona.

Poi comunque sono riuscita benissimo ad attirare l’attenzione dei miei, non con le buone, ma con le cattive: credo che ormai si siano rassegnati ad essere convocati nel bel mezzo della giornata dal preside perchè io ho risposto male ad un professore, ho saltato le lezioni o sono stata sorpresa con un ragazzo nel bagno o in cortile, anzi, suppongo che abbiamo stretto una grande amicizia con il nostro caro rettore, fatta di muti accordi e buste con tanti bei soldini, in modo che la loro povera piccola ribelle pargoletta non venisse espulsa, infangando il buon nome della famiglia.

Provo un piacere quasi sadico nel vederli fremere di rabbia all’ennesima nota e, sai cosa c’è caro diario?

Succede che sono contenta, sono contenta di tutto questo, di tutto quel che succede, dei dolori che sto causando loro, poiché li sto ripagando con la loro stessa moneta. Non mi importa più niente del sentirmi dire che sono una delusione, che non valgo niente, che sarebbe stato meglio se non fossi nata, perché ora ci sono, ho il diritto di fare quello che voglio quando voglio e perché voglio. La vita è la mia e la gestisco come mi pare. 

E sai un altra cosa caro diario?

La mia vita è fantastica.

Andrò anche male a scuola, non entrerò mai in nessuna università, non farò mai nulla con latino e con il greco, ma sto alla grande, tutti mi desiderano e ho delle amiche che mi vogliono bene. E non potrei chiedere di meglio.

Ora che ci penso, non ti ho mai parlato delle mie amiche, quindi, se proprio devo raccontare le mie giornate, credo che sarebbe bene descrivertele.

Giulia, Marianna, Francesca ed io ci siamo conosciute durante Scuole Medie, ognuna proveniente da mondi diversi e con storie diverse alle spalle; non eravamo particolarmente popolari, anzi, eravamo le meno considerate della classe, ma fu proprio questo nostro essere asociali che ci portò a diventare compagne di vita, nella buona e nella mala sorte, nonostante fossimo così differenti.

Marianna fu la prima con la quale feci amicizia e fu strano, perchè, ai miei occhi, era il prototipo di ragazza-invisibile che non avrebbe mai stretto legami con qualcuno; mi ricordo che fin dal primo giorno lei iniziò a nascondersi dietro i suoi folti capelli ricci, che ogni tanto cambiavano colore, che erano stati viola, rosa, blu, addirittura verdi, e si immerse nel blocco da disegno dal quale mai si separava. Marianna disegnava benissimo, talmente bene che i soggetti che il suo consumato carboncino realizzava sembravano alzarsi e prender vita dalla pagina ed i suoi quaderni erano un susseguirsi di disegni alternati ad appunti presi in modo frenetico con quella calligrafia un po' da bambina, disordinata e senza un preciso stile; quando entrava in aula nessuno la notava, ma lei, invece, notava tutti noi e fin dal principio ci aveva scannerizzato ed esaminato, capendo fino all’ultimo atomo delle nostre personalità. Alcune volte la sorprendevo ad osservarmi, un po’ contrariata, come a volermi sussurrare che così non avrei potuto continuare, e quindi ho preso a guardarla anche io, cercando di capire almeno in parte i suoi comportamenti e i suoi modi di fare. Così, una mattina di maggio, lei venne vicino a me, senza dire una parola, sistemò i libri e mi guardò ed io la fissai di rimando; non so cosa successe, se quella sensazione la provai solo io, ma mi sembrò di essere svuotata completamente, visionata meticolosamente e riempita di nuovo, come se con un solo luccichio di occhi fosse in grado di decifrarmi e, lo sperai, anche di aggiustarmi.

Continuò ad esaminarmi finché, entrato il professore, si girò verso la lavagna, nello stesso momento in cui, con un fil di voce mi diceva:

-Sai Susanna, i dolori fanno meno male se li si affronta in due.

E da quel giorno non fui più sola.

Nell’angolo in alto a destra sotto la vecchi lavagna polverosa ormai in disuso, stava seduta Giulia Lancieri; era una ragazza molto bella, molto più graziosa di tante altre, me compresa, con un portamento aggraziato, occhi color cioccolato fuso e espressioni imperscrutabili.

Si era fatta conoscere come una studentessa un po’ dark, tenebrosa e abbastanza acida e, probabilmente, proprio per questo nessuno le rivolgeva la parola, ma, te lo assicuro, se solo avesse sorriso come poi avrebbe sorriso a me, sarebbe stata una delle persone più frequentate, perchè la felicità di Giulia, quelle poche volte che la vedevi, era in grado di fermare il mondo, le guerre mondiali, far risplendere una ventina di soli, far fiorire distese di petunie e rose, far uscire gli animali dal letargo.

Aveva un dono molto speciale: quello di sapere cosa fare in ogni situazione che le si presentasse davanti, facile o difficile che fosse e affrontarla con tutta la forza e la spensieratezza di cui era capace; fatto sta che però non riusciva fidarsi degli altri, era sempre in allerta, come un cucciolo spaventato, quasi convinta che avremmo potuto farla stare male se ci avesse permesso di varcare anche solo un po' le sue barriere.

Non mi ricordo nemmeno come siamo diventate amiche, forse quel giorno in cui abbiamo scoperto di amare American Horror Story e i vampiri, o forse quando ci siamo ritrovate ad ascoltare gli stessi gruppi musicali, fatto sta che, comunque, dopo poche settimane, le chiacchiere sono diventate discorsi, i discorsi pomeriggi, i pomeriggi serate intere e, quella stessa persona che cercava di allontanare tutti da se, si ritrovò a chiederci di poter diventare una di noi, un poco immersa nella sua timidezza, un poco diffidente, ma pur sempre conscia del nostro affetto nei suoi confronti.

E da due divenimmo tre.

L’ultima della nostra compagnia era Francesca, trasferitasi all’ultimo anno delle Medie dall’Umbria a Milano e, naturalmente, con nessun vero compagno. La sua personalità era una personalità eccentrica, costantemente solare, felice, come se nessun male riuscisse a scalfirla, e particolarmente schietta, incapace di dire bugie per compiacere gli altri, ma sotto sotto alquanto sensibile.

Il suo continuo mettersi in mostra, però, non riuscì a procurarle degli amici, troppo irritati o messi in soggezione da quei suoi modi così determinati e sinceri; passarono le settimane e noi tre continuammo a vederla da lontano, vicino al termosifone a mangiare un panino in solitudine, con gli occhi contratti in un accenno di tristezza tuttavia in nessun caso bagnati da lacrime e rammento che, vedendola, Marianna ci sussurrò, col suo solito fare enigmatico:

-Questa ragazza è nata principessa, ma è cresciuta come guerriera ed ora si ritrova angelo bianco con l’anima nera, chi ti ricorda Susanna?

Ed io vidi me stessa in quella studentessa addossata al termostato, vidi il mio pianto nelle sue pupille arrossate e capii che, anche se le nostre sofferenze erano diverse, tutte e due chiedevamo ogni sera la stessa cosa: essere amate.

Sapevo cosa si provava, sapevo quante e come erano le serate in cui abbandonarsi ad uno straziante pianto era l’unica soluzione e sapevo quanto le cicatrici facessero male, bruciassero, fossero inestinguibili; per cui mi avvicinai, con una sicurezza a me sconosciuta e la voglia esagerata di prendere quella ragazza e portarla via da tutto questo dolore, insegnarle a combattere come una vera soldatessa e non una fante improvvisata, e le dissi:

-Sai Francesca, i dolori fanno meno male se li si affronta insieme.

Diventammo quattro e mai più ci separammo.

Ora, iscritte al Classico, con la consapevolezza dell’enorme pazzia che abbiamo fatto, siamo più unite, più determinate e più richieste; non siamo più le indecenti che nessuno vorrà mai, siamo le dive, quelle che ognuno idolatra e cerca di imitare e ci crogioliamo in tutto ciò, nella bava che cola dalle loro bocche invidiose, trovando il modo di essere sempre più belle, perfette, affinché nessuno mai ci raggiunga e ci prendiamo ciò che vogliamo da chi preferiamo. In un mondo tanto egoista, l’egoista ha tanto successo.

Sappiamo che sbagliamo, siamo consapevoli del nostro essere, in un certo senso, sadiche e fin troppo menefreghiste, ma questo è un bene, dato che nessuno mai se ne importerà dei tuoi sentimenti, saranno sempre calpestati e il pesce più piccolo sarà ingoiato da quello più grande.

Le persone cambiano, si evolvono, perchè lo vogliono, lo bramano e anche se molto spesso gli altri possono influire, fin dal principio sei tu che intendi modificare quella che sei stata per cinque, dieci, vent’anni.

Ho capito solo ora, dopo aver riflettuto a lungo e preso in considerazione tutto ciò che mi è successo, dai miei genitori fino ai miei sentimenti infranti, che si, in principio ho avuto voglia di diventare un’altra persona perchè ero ferita dai continui sbagli dei miei genitori e dalle mie mille emozioni che venivano sistematicamente calpestate, però, in più di un’occasione io ho avuto la possibilità di tornare indietro, di recuperare il tempo perduto e cercare di diventare migliore rispetto a come ero prima, ma non l’ho fatto e mi sono seduta ad osservare il tempo che scorreva lento davanti a me, in bianco e nero simile ad un vecchio film, con una bibita in mano, spettatrice di tanti ulteriori litigi di mio padre e di mia madre, di nuovi insulti che venivano utilizzati, di quelle miriadi di porcellane blu a terra, ridotte in schegge, porte che sbattevano, valigie fatte e sfatte, notti passate sul divano invece che nel letto, i pianti sommessi notturni e la speranza di un domani più bello sussurrata nel cuore della notte, durante la quale io ero l’unica silenziosa ascoltatrice.

Tuttavia a me non importava; io godevo di quei pianti isterici, della loro quotidianità che si spezzava, che si riduceva sempre di più in frammenti sconnessi e senza senso, di quelle parole cattive, fredde come la neve e meschine che non facevano altro che rivolgersi, del soave suono di un cuore, forse quello della mamma, ma non me ne importava, che andava scalfendosi e della crepa formatasi che cresceva di continuo.

Da quella ferita volevo che sgorgasse sangue, lo stesso sangue che avevo versato io per anni, volevo vederlo scendere lento, come a rammentare le loro azioni e conseguenze, e desideravo con tutte le forze che bruciasse simile al sale su una cicatrice aperta, che non si chiudesse mai, perchè la mia non si era ancora chiusa ed essi non meritavano che la loro, invece, lo facesse.

Ho combattuto per anni con i nostri mostri, quelli miei di tutta la mia sconquassata famiglia, ed ho puntualmente perso, sono finita in ginocchio tutte le santissime volte, in balia di un insieme di pensieri troppo carichi, troppo pesanti, troppo afosi per riuscire e sorreggerli e la mia fatica si è trasformata in acido, e l’acido in ignoranza, e l’ignoranza in rancore.

Perciò non mi pento di quello che dico, dei miei malati desideri di vendetta, del piacere esasperante che provo nel veder star male le altre persone, troppo incoscienti, troppo sulle nuvole per svegliarsi e capire come diavolo funziona questa palla maledetta che chiamiamo mondo; io sono contenta, felice al settimo cielo, della mia esistenza, di come passo tutte le mie giornate, del modo in cui mi guardano famelici i ragazzi, smaniose e piene di odio le ragazze, con una punta di disapprovazione i professori, poiché, udite udite, io ricambio completamente.

Sono bella, sono in forma, sono acida e ne vado fiera e se a qualcuno non va bene, si procurasse un hobby perchè non ho la benché minima volontà di prestargli attenzione; chi sono loro per giudicare, per capire le mie decisioni? Nessuno, assolutamente nessuno, e sempre lo saranno.

A volte la figlia di Paulette, Alice, che frequenta l’Istituto d’Arte e Firenze e ogni momento che può passa a trovarmi, visto che ci consideriamo quasi sorelle, si siede e resta a guardarmi, mentre metto il mascara o una gonna vergognosamente corta, in un modo troppo serio per il suo carattere, io mi preoccupo, come mi preoccupo sempre per qualcosa che riguarda le mie amiche, e le chiedo insistentemente cose c’è, cosa è successo, se ha litigato con il suo fidanzato, se lui l’ha fatta soffrire, se qualcuno ha osato farle del male; e lei ride, ride di sottecchi, sorride, con quelle sue labbra rosso sangue, mentre mi fissa intensamente dai suoi occhi celeste cielo, nei quali sovente sembri perdertici dentro, e mi ripete le stessa medesima frase:

-Qua l’unica che ci fa soffrire, sei tu Susanna. Stai diventando una landa ghiacciata e desolata nella quale nessuno vorrà mai andare. Lo so che soffri, che ti sei sentita in colpa per gli sbagli dei tuoi, che ti sei sentita un verme. Il punto è che non tornerai mai indietro e un giorno rimpiangerai ciò, per questo ti prego pentiti, pentiti delle tua azioni finché sia troppo tardi!

-Ricorda che sono atea e questi mi sembrano tanto discorsi da chiesa.

E finisce così, lei che cerca di aiutarmi, io che ho un appuntamento e non voglio ascoltare ciò che ha da dirmi, solito copione, solita minestra.

Pentirsi. Cosa significa? Pentirsi. Mi sono pentita di tante cose in questi anni, ma non ci saranno altre cose di cui pentirsi perchè gli errori non fanno più parte di quella che sono. Ho fin troppi rimpianti e vorrei davvero avere una macchina del tempo per poter tornare a quando avevo cinque o sette anni e reagire come avrei dovuto fare, invece di chiudermi in camera e piangere per dei deficienti senza speranza. 

Mi sono pentita di aver trattenuto con me persone alle quali nulla importava della mia presenza. 

Mi sono pentita di non aver scoperto prima la birra o gli shot di tequila, pensando a qualcuno che non meritava la mia tristezza. 

Mi sono pentita di aver rivolto la parola a persone che non erano adatte nemmeno ad annusare il mio costoso profumo. 

Mi sono pentita di aver ringraziato chi non ha avuto mai rilevanza, considerando che nel mio mondo l’unica che spicca sono io. 

Mi sono pentita di aver chiesto scusa quando sarebbero dovuti essere loro a tornare strisciando pregando per il mio perdono. 

Ma la cosa di cui mi sono pentita di più è di aver lasciato andare i miei sogni. I sogni erano l'unica cosa che avrebbe potuto tenermi in vita, a parte il solo fatto di respirare. Mi sono pentita di aver lasciato che mi schiacciassero, di aver lasciato andare i disegni disordinati da bambina pieni di cose da fare che non so se sarò in grado di portare a termine. 

Quando avevo iniziato la quinta elementare avevo preso un po’ di fogli bianchi ed avevo iniziato a scrivere ciò che avrei voluto realizzare prima di morire; vennero fuori più di cento cose, cento-diciannove per l’esattezza, che includevano sia faccende stupide come “tingermi i capelli di rosa” o “fare paracadutismo”, ma anche volontà nascoste sul fondo del mio, allora, piccolo cuore, traguardi all’apparenza impossibili, che, eppure, avrei desiderato portare a termine con tutta l’anima.

Sognavo di diventare medico, di curare i bambini afflitti da tumori, di salvare le loro piccole e innocenti vite e, addirittura; di vincere il Nobel; da bambina ero spensierata, nonostante tutti i miei problemi, pretendevo di salvare il mondo senza prima aver salvato me stessa, ero altruista in una maniera esagerata e questo ha sancito la mia fine, ha permesso che io fossi facile da influenzare. Tutto ciò che amavo si è trasformato in un'arma di distruzione. 

Pochi giorni fa ho ritrovato quella lista, l’ho letta, letta e ancora riletta, senza realmente arrivare a capire come fossi stata in grado di essere così buona ed anche ingenua e stupida; se avessi compreso prima che preoccuparsi per chi ti circonda porta solo a dei guai e di quanto l’essere disponibili poi ti si ritorca contro, avrei preso a riempirmi d’alcool prima dei sei anni.

La lista l’ho strappata e poi ho riso, una risata amara, che da immemore tempo è diventata la smorfia nella quale si contrae il mio viso ogni volta che vedo le persone soffrire, mentre io vinco, vengo rivestita d’oro e lodi, loro affondano ed io risuscito; eppure, una lacrima ha provato a scendere, la vecchia me ha provato ad uscire, a liberare l’umanità sepolta chissà dove da anni ed io ho resistito, facendola rimanere dov’era e bloccando la sua fuga.

Ho pianto l’ultima volta l’estate prima del liceo e da quel giorno sono stata capace di non far uscire nemmeno una minuscola molecola d’acqua dai miei occhi, neanche guardando Titanic o leggendo i libri di Nicholas Sparks.

Sono la regina del mio universo, oramai, caro diario, ho paura di poche cose, ho imparato a lasciarmi scivolare le azioni altrui addosso, senza tener conto di cosa venga detto o fatto e mi rifiuto di scusarmi per il mio comportamento da acida perché nessuno sì è scusato per avermi trattato come un rifiuto della società.

Prima poi mi vendicherò di molte persone, mi vendicherò di mia madre e degli abbracci mai arrivati, mi vendicherò di mio padre e delle urla troppo crudeli per essere raccontate, mi vendicherò di quei ragazzi delle medie troppo occupati a correre dietro le loro code per accorgersi di come realmente ero, di come erano realmente le mie amiche, di quanto i loro insulti, le loro parole, le loro occhiate maligne e piene di odio, ci facessero male. 

Torneranno tutti indietro in fila indiana, dal più cattivo al più inutile individuo che ha fatto sì che, a causa sua, arrivassi a rovinarmi la vita; non c’è stato qualcuno che si meritasse le mie preghiere all’alba, quando imploravo di rinascere diversa da come ero, quando con gli occhi rossi e circondati da ombre violacee per il poco dormire chiedevo di avere qualcosa, una particolarità, un talento, che mi distinguesse e che facesse notare loro che non ero il disastro che tanto ci tenevano a proclamare.

Gli auguro il peggio, lancio loro le più efferate maledizioni che passano per la mia mente, gli auguro di volere la mia presenza fin dentro le ossa

Devono voltarsi perché convinti di aver sentito la mia voce, riguardare il calendario o le conversazioni di WhatsApp, sperando che io sia loro amica.

Gli auguro di girarsi a cercare la mia risata nella folla o la mia chioma nel piazzale della scuola, gli auguro di sentire la mia presenza tanto fortemente da far mancare loro il respiro. 

Le persone si sono prese la parte migliore di me e io gliel'ho lasciato fare. 

E adesso è ora di chiedere il conto. 

Perché è così che va la vita.

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