amnesia.

di alwaysursluke
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***



Capitolo 1
*** I ***


I.
Quando si svegliò, un anziano signore era nella sua stessa stanza d’ospedale che controllava la sua cartella clinica e altre scartoffie.
Subito l’ansia l’avvolse. Cercò di riassumere:
Come mi chiamo? ...
Dove vivo? ...
Il nome dei miei genitori? ... Dei cani? Ho cani?
Subito sentì le lacrime pizzicargli agli angoli degli occhi, ma poi, quello che presunse fosse un medico, si girò verso di lei con aria compassionevole e le rivolse un sorriso.
— Finalmente ti sei svegliata, Heather. Io sono il dott. Irwin. —
— Cosa mi è successo? — domandò in preda alla disperazione.
— Hai avuto un incidente d’auto. — rispose guardando la sua espressione cambiare e cercando di dedurne qualcosa. Non ricordi nulla dell’accaduto? —
Adesso aveva tirato fuori dal taschino dell’uniforme una penna e aveva fatto scattare fuori la punta con l’inchiostro. Aveva aggrottato le sopracciglia e si stava avvicinando al letto.
Lei scosse la testa.
— Non ricordi neppure chi ci fosse con te? —
Scosse ancora la testa.
Lui annotò qualcosa sui fogli.
— Ricordi come ti chiami? —
Fece per scuotere la testa, ma poi esitò e ricordò: “Finalmente ti sei svegliata, Heather.”
— Heather, — annuì. Il dott. Irwin sembrò illuminarsi. — ma solo perché l’ha detto lei un attimo fa. —
Socchiuse la bocca come per dire qualcosa, ma poi continuò ad annotare sulla carta, e quando finì e ripose la penna nel taschino superiore del camice, guardò la ragazza con uno sguardo pieno di rancore e dolore.
— Perdonami, Heather, sono stato un maleducato. Sì, questo è il tuo nome. Ti chiami Heather Porter e i tuoi genitori sono Elizabeth Houston e Cole Porter, ma scommetto che non ricordi molto di loro. —
Heather sapeva che quello era solo un modo carino del dottore per dire che non ricordava nulla di loro, o nulla in generale, e che quello non era esattamente un buon segno, ma le venne comunque da dire, — In realtà, non ricordo nulla di loro. — con tono amareggiato.
— Okay, be’, non c’è da allarmarsi sin da subito, ma adesso devo proprio assentarmi un momento. Tornerò non appena avrai bisogno di me. —
E detto ciò, uscì dalla stanza lasciandola sola.
Cominciò ad interrogarsi, a provare a ricordare, a sforzarsi di evocare qualche immagine chiudendo gli occhi, ma finì soltanto con l’irritarsi e incolparsi, per poi prendersela fisicamente col cuscino dietro la sua schiena.
Era passata una mezz’ora, se non di più, e il dottore ancora non si era fatto vedere, così decise di uscire da quella camera. Magari avrebbe visto i suoi genitori, lì fuori, e li avrebbe riconosciuti, e tutto sarebbe tornato alla normalità. Il dott. Irwin aveva anche detto che c’era qualcuno con lei? Suo fratello? Sorella? Ammesso che ne avesse alcuni.
Reprimendo lo sconforto e la vocina nella testa che le diceva di rimanere lì dentro, raggomitolarsi in un angolo e piangere, lei spalancò la porta con tutto il camice bianco indosso, i capelli scompigliati e il viso stravolto, e uscì a piedi scalzi per il corridoio. Non era una ragazza che si arrendeva facilmente, e quello, anche se non poteva ricordalo, era qualcosa che non scompariva con un incidente stradale, qualcosa che sentiva dentro. Qualcosa che un impatto, quanto forte vuoi che sia, non può cancellare. Allora perché i ricordi dei suoi genitori sì? Non erano ugualmente importanti?
Il corridoio sembrava apparentemente vuoto, e le venne istintivamente da chiedersi che ore fossero. Quando fece qualche altro passo sul linoleum bianco sporco, due figure apparvero nella sua visuale, verso la fine del corridoio.
Un’infermiera che veniva verso di lei e un ragazzo biondo alle macchinette del caffè.
Heather si nascose nella rientranza del muro davanti a sé, dove c’era un tavolino di acciaio di quelli da sale operatorie con utensili per operare, medicine e saponi per le mani, e aspettò che l’infermiera passasse.
Quando accadde, si sporse abbastanza per vedere il ragazzo di prima aspettare con impazienza che il suo caffè fosse pronto, con un braccio sulla macchinetta e l’altro lungo il fianco.
Decise che di sicuro lui non lo conosceva, e rise fra sé. Era troppo carino, con quei suoi occhi blu spenti e quel piercing al labbro. Era completamente vestito di nero e aveva dei strappi sui skinny jeans all’altezza delle ginocchia. Sul suo labbro c’era un taglio piuttosto lungo e aveva dei piccoli cerotti sulla tempia che probabilmente coprivano dei punti.
Pensò che per una ragazza che aveva appena scoperto di essere completamente sola perché non ricordava nemmeno il proprio nome, e che non sapeva a chi dare la colpa per questo, se non a se stessa (non che avesse scelto lei di dimenticare), non era molto importante il fatto che si fosse appena mostrata in tutto il suo dolore e la sua solitudine ad un ragazzo sconosciuto.
Si sedette sulle sedie di plastica verdi circa tre posti lontano da lui, con la testa contro il muro e gli occhi chiusi.
Lì fuori non c’era ombra di due signori di mezza età addolorati perché la loro figlia era in ospedale e probabilmente aveva un amnesia.
Sospirò e si impose di reprimere le lacrime, perché non poteva di certo piangere di fronte ad uno sconosciuto... che la stava fissando. Sembrava non aver toccato il suo caffè e Heather pensò che dovesse scottare abbastanza, in mano.
— Se non fosse perché sono qui e non ricordo neppure com’è il mio riflesso allo specchio, ti direi che non è carino fissare la gente. Ma con più irritazione nel tono. — disse, e realizzò di non ricordare nemmeno la sua voce da quando l’aveva usata per parlare col dottore una mezz’ora prima.
La sua mente stava facendo uno sforzo enorme per pensare a qualcosa che fosse precedente a quei trenta minuti appena passati, ma sembrava completamente vuota, e cominciava a venirle mal di testa.
— Anche se non sono sicura che la me di prima lo avrebbe fatto. Ma la me di ora sì. Decisamente sì. —
Il ragazzo, che ora stava guardando davanti a sé il muro verde acqua, non disse una parola. Semplicemente inghiottì nervosamente (come se lei potesse metterlo a disagio? Magari era davvero brutta) e abbassò la tazza di caffè fino al ginocchio.
Heather non disse nulla per un lungo tempo, pensando che ‘fanculo se aveva fatto una figura di merda. Era contenta di ricordarsi come si parlava, scriveva, leggeva, quali erano i colori o come si provavano emozioni. Ammesso che si potessero dimenticare cose del genere.
— Quel caffè ti sta scottando la mano. — Dopo aver lasciato vincere la parte di sé che voleva dirglielo, fece per alzarsi e congedarsi, ma lui, che adesso aveva passato la tazza di caffè nell’altra mano, per la prima volta, parlò: — Devi essere bella incasinata per stare qui. —
E quello era tutto ciò che, con quella voce profonda, Heather sperò non le avrebbe detto.

A/N
holaaaaaaaa
alour, sono tornata dopo quattro mesi! 
vorrei solo dirvi che questa è una sorta di esperimento, dal momento che stavo prendendo in considerazione l'idea di non pubblicare più le mie storie, né qui né su wattpad, dove dopo insanity sono stata un po' più attiva. perché sarei più tranquilla; almeno se facessi errori errori o avessi bisogno di maneggiare la mia storia, potrei farlo tranquillamente.
inoltre, sto lavorando su questa storia da quasi un anno ormai, mi sento molto migliorata e ho messo davvero il massimo, però sono tipo venticinque capitoli avanti...
come potete vedere, questa volta i protagonisti sono i 5 seconds of summer, in particolare luke (si vede che sono una luke's girl?), mentre heather io la immagino come selena gomez.
volevo anche dire che, sebbene dal titolo possa sembrare una storia sentita e risentita, vi prego di dargli una chance, poiché io non ho mai letto una storia con la stessa idea messa appunto. ovviamente, magari c'è anche già in circolazione, ma quello che voglio dirvi è che non ho copiato nessuno, e mi ci sono impegnata tanto. inoltre, come vi ho detto, ci sto lavorando da quasi un anno ormai.
aaanyway, ditemi cosa ne pensate, se c'è ancora qualcuno che mi segue, e mi scuso in anticipo se mai dovessi eliminarla. non piacerebbe neppure a me se una scrittrice di cui seguo la storia la eliminasse. bye x

p.s. non sono ancora sicura riguardo al font.


 

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Capitolo 2
*** II ***


II.
Il dott. Irwin tornò una ventina di minuti dopo che Heather fu rientrata nella sua stanza d’ospedale, ancora più amareggiata di prima.
— Allora, Heather, ho appena parlato con i tuoi genitori, e, se e quando tu sarai d’accordo, potrai incontrarli. —
— Che vuol dire se e quando? Sono i miei genitori, è ovvio che io voglia vederli! —
Heather si sentiva stordita. Una parte di lei – una grossa parte di lei – le diceva che quelle persone erano estranei, che non era pronta e vedere i loro visi distrutti e a realizzare che fosse colpa sua e che non potesse fare niente al riguardo; ma un’altra parte le diceva che se li avesse visti, magari qualcosa sarebbe scattato. Qualcosa che le avrebbe fatto tornare alla mente ricordi.
Il dott. Irwin poggiò le cartelle che aveva in mano sul tavolo di plastica all’angolo della stanza e si avvicinò al letto.
— Ascolta, Heather, so che tu lo dici con le buone intenzioni, perché speri di ricordare qualcosa, e non posso neppure immaginare quanto questo desiderio sia forte, ma ti sei svegliata da un coma di una settimana appena un’ora fa, e non sappiamo ancora cosa sia successo nella tua mente durante questo tempo. — Heather cominciava a perdere il filo del discorso. — Non voglio essere la persona che ti ha impedito di vedere i tuoi genitori e che ha distrutto una speranza... dico solo che, se tu avessi avuto un’amnesia – perché ormai penso tu abbia capito di cosa si tratti – solo dei scorsi cinque anni, magari vederli sarebbe stato d’aiuto, ma nel tuo caso... —
— Sta dicendo che non c’è speranza io recuperi la mia memoria? — domandò Heather con un pizzico di irritazione, quando capì cosa il dottore volesse dire.
Lui spostò lo sguardo da lei ai fiori che erano stati portati e che si trovavano sul comodino accanto al letto d’ospedale. Erano peonie rose e margherite bianche. Pensò che dovesse adorarli una volta, ma adesso non le dicevano niente.
— Sai quanti anni hai, Heather? — chiesi poi il dottore, rialzando il suo sguardo su di lei. Sembrava che quella domanda fosse più complicata di quello che appariva, e non ebbe nemmeno la forza di arrabbiarsi col dottore perché, andiamo, o si stava prendendo gioco di lei (ed era una cosa davvero crudele) o era una domanda davvero importante. Ma non le andava di pensarci troppo su. Era stanca di pensare così tanto.
— Non lo so. — rispose con voce atona.
— Be’, io sì. Hai diciotto anni. E hai una bellissima famiglia. E i tuoi genitori hanno acconsentito che io ti raccontassi cosa è successo una settimana fa. Hai avuto un incidente stradale, come tu sai. I tuoi genitori ti avevano fatto, come regalo per la promozione all’ultimo anno di scuola, un weekend col tuo ragazzo in una baita di montagna di proprietà della loro famiglia. Ma quando stavate tornando... —
— Come si chiamava il mio ragazzo? — Le fece strano pronunciare quella parola e poi non ricordare neppure il nome di quella persona.
Il dott. Irwin sospirò, come se fosse successo qualcosa di sbagliato.
— Perché si è salvato, vero? — domandò Heather con più ansia di quella che si aspettò di trovare nella sua voce. Non voleva avere sulla coscienza un’altra persona che comunque non avrebbe ricordato. Sarebbe stato il culmine.
— Oh, sì, si è salvato, tranquilla. Il fatto è che... ha chiesto se fosse possibile non fare il suo nome o qualunque suo riferimento. —
Heather, nonostante non conoscesse quel ragazzo, lo odiò, e pensò che fosse davvero una cosa spregevole quella che aveva fatto. Lo odiò e si sentì ancora più amareggiata, come se lei fosse una persona che non valeva la pena di conoscere, se si aveva l’opportunità.
Come un reset. La sua testa si era appena resettata.
Lo sguardo della ragazza era vuoto e perso. Aveva solo voglia che il dottore uscisse e le facesse vedere i suoi genitori come attraverso una vetrina di un negozio di vestiti: se le fosse piaciuto ciò che vedeva lo avrebbe preso, altrimenti no. Se avesse riconosciuto i suoi genitori, li avrebbe accettati, altrimenti no. E sapeva che era crudele, ma sentiva che loro potevano essere la su unica speranza o la sua condanna. Sarebbe scoppiata se non li avesse riconosciuti.
— Heather? —
Si accorse che il dottore era davanti a lei e la stava chiamando.
— Oh, sì? —
— Non mi sembra il caso di far entrare i tuoi genitori– — le disse, probabilmente dopo aver visto quanto tutto quello l’avesse colpita. Ma come poteva pensare non fosse così?
— Ma io voglio vederli. — affermò decisa.
Il dottore esitò un momento senza dire nulla, poi: — Va bene. — disse, e si dileguò.
Heather ebbe appena il tempo di pentirsi di tutta quella sicurezza e lasciar sgretolare il castello di speranze che si era creata, che due signori con lo sguardo pieno di trattenuta impazienza e un dolore straziante entrarono.
La donna – quella che era sua madre – aveva un caschetto nero che le accarezzava dolcemente il collo e degli occhi verdi, adesso lucidi. Sembrava molto più giovane di come Heather se l’era immaginata. Eppure, quando cominciò ad avvicinarsi, poté notare le piccole rughe intorno agli occhi e alla bocca, segno anche della stanchezza o di quel dolore che le sembrava quasi tattile.
Una morsa le attanagliò lo stomaco.
L’uomo accanto a quella donna aveva i capelli più chiari, sul castano scuro, che si curvavano dietro l’orecchio – si notava fossero stati manomessi da mani agitate più volte. Aveva gli occhi azzurro chiaro, e Heather sperò di essere almeno la metà di quanto erano belli loro.
Si tenevano le mani e alle dita avevano delle fedi nuziali che fecero venire a Heather la voglia di piangere.
— Oh mio dio, Ettie! — urlò subito quella che era sua madre, lasciando la mano del marito e portandola alla bocca. Heather poteva vedere i suoi occhi inumidirsi mentre correva verso di lei.
Ettie? Doveva essere il suo soprannome, capì. Si lasciò abbracciare, perché non solo lei aveva perso qualcosa. Non voleva ferire ancora quelle persone, eppure, sin da quando erano entrati, e tutt’ora che la stavano guardando con tanto amore da regalarne ai bambini orfani, lei non vi aveva riconosciuto nulla.
Per Heather, quelle erano solo due persone che avevano appena perso una figlia. Probabilmente per sempre.
E si sentì maledettamente, tremendamente sofferente per questo. E per la prima volta, capì che forse il male peggiore non era capitato a lei.
I suoi genitori erano rimasti con lei per una buona mezz’ora, e sarebbero rimasti anche di più se Heather non avesse finto di essere stanca e avere bisogno di riposo. Il che era vero, ma non aveva realmente intenzione di mettersi a riposare. Non dopo tutto quello che era successo. La stanchezza nel suo corpo era contrastata dalla dieci volte più intensa adrenalina.
Inizialmente, Elizabeth e Cole avevano taciuto per un po’, seduti sulle sedie scomode dell’ospedale, alternando lo sguardo da lei alle loro mani. Non sapevano che dire, ed era comprensibile. Parlare del passato? Paura di turbarla. Parlare di quello che le era successo? Metà del racconto non potevano nominarlo perché riguardava il suo ex–ragazzo, che poi non voleva più avere nulla a che fare con lei. Non che ricordasse nulla di lui. O nulla in generale dell’incidente.
Si sentiva inutile, e quello era ancora peggio.
Poi, avevano cominciato a parlare di quello che le piaceva fare, di quello che le piaceva mangiare.
Aveva persino una migliore amica, Leona. Non che quello fosse qualcosa di tanto sconvolgente, ma come avrebbe fatto a fronteggiare tutto questo? E tutte quelle persone a cui avrebbe solo causato dolore, involontariamente?
Sospirò, ancora nel suo letto, e portò le dita alla tempia, pensando che quel mal di testa dovesse essere aumentato con la visita dei suoi genitori.
Decise di andare a cercare un’infermiera o il dottore per chiedere qualcosa da prendere, e uscì dalla stanza.
— Mi scusi, sono la ragazza della stanza 104. Ho un forte mal di testa, ha qualcosa da darmi? — chiese alla prima infermiera che trovò. Questa annuì e le disse di aspettare nella sala d’attesa, mentre lei recuperava un’aspirina o qualcosa di simile.
Heather fece come detto, anche se le avrebbe davvero voluto chiedere di cercare anche un sonnifero o qualcosa di pesante, perché la medicina per il mal di testa non l’avrebbe fermata dal torturarsi mentalmente.
Sospirò, ritrovandosi ad aprire le palpebre che non sapeva di aver chiuso. Subito una figura fece capolino nella sua visuale.
Era il ragazzo di qualche ora prima, che stazionava davanti a lei, con le mani nelle tasche e uno sguardo indeciso. Non appena si scambiarono un’occhiata, lui sembrò immobilizzarsi sul posto, come se non fosse stato preparato al fatto che lei potesse riaprire gli occhi.
Si guardarono per svariati secondi, finché lui non dondolò sui talloni e disse: — Ciao. —
Lei non rispose, ma rimase a guardarlo con distaccato interesse.
— Ehm, volevo solo scusarmi per quello che ho detto ‘stamattina. — Abbassò lo sguardo sulle sue vans nere.
Heather scosse la testa. — E’ okay. —
Poi tornò a guardarlo e si accorse che le sue spalle si erano ammorbidite ed erano immensamente larghe sotto quella camicia rossa a quadri nera. I suoi occhi azzurri non erano più spenti, e Heather si rese conto che il loro colore accesso e intenso era più bello.
Pressò le labbra in una fessura e poi – dopo un’apparente lotta interna – si sedette accanto a lei.
Heather riconobbe l’odore di thè verde e agrumi su di lui (o meglio, sui suoi vestiti), un mix un po’ azzardato, ma che gli donava. Riuscì ad immaginarselo mentre prendeva gli abiti lavati dalla madre dalla cassettiera per indossarli.
Si chiese come le fosse venuto quel pensiero. Un po’ di eccitazione le crebbe dentro, perché magari era un ricordo che la riguardava ma che inconsciamente aveva associato a qualcun altro.
Stava per sorridere, quando il ragazzo accanto a lei (si era dimenticata fosse ancora lì), parlò: — Mi piace il tuo tatuaggio. — Quando Heather lo guardò, notò che i suoi occhi erano fissi su un piccolo segno sulla sua mano destra.
Concentrando lo sguardo, scoprì fosse un piccolo cuoricino sul dorso, appena sotto il pollice, della grandezza di una noce. Per metà l’inchiostro era nero, mentre per l’altra metà era bianco, e aveva intorno un’area rossastra. Non sembrava essere stato fatto molto precisamente: le linee sembravano oscillare un po’ e delle parti erano più ricalcate di altre. Portandovi un dito sopra, scoprì fosse leggermente in rialzo, il tracciato del tatuaggio, e capì che dovesse essere recente.
Quando realizzò che probabilmente lo aveva fatto nel weekend nella baita in montagna, le prese un colpo al cuore.
Te lo avrà fatto lui, pensò, ma ciò non migliorò come si sentisse in quel momento.
Il suo respiro si era fatto improvvisamente tremante e solo poco dopo si accorse di star leggermente tremando.
Avrebbe avuto per tutta la vita un tatuaggio che non avrebbe ricordato di aver impresso, fatto da un ragazzo che lei non avrebbe ricordato e che non voleva ricordare lei, e che, per di più, le avrebbe sempre riportato a mente ciò che era successo.
— Ehi. — Il ragazzo poggiò titubante una mano sulla sua. Ma quando il contatto avvenne, sembrò rilassarsi e intrecciò le sue dita con quelle di lei. — Mi piace il casino. — le mormorò dolcemente, cercando di far alzare il suo sguardo.
Lei, poco dopo, lo fece, e si perse nel calore e nella sicurezza che quegli occhi emanavano. Come se, in quella vita incerta che le era stata imposta, lui fosse qualcosa di certo.
Come se fosse la stella da seguire quando si smarrisce la strada.
Come se fosse la sua ancora.
Ma come poteva succedere?
Strinse la sua mano involontariamente e pensò che avrebbe tanto voluto avere quell’effetto con i suoi genitori.
— Cosa? — domandò lei con tono smarrito, rendendosi conto di non aver ascoltato ciò che aveva detto. Lui sorrise, il che non aiutò il senso di stordimento della ragazza.
Si ritrovò a rimproverarsi per sentire quelle cose con lui, quando aveva appena saputo di avere un amnesia che si sarebbe portata dietro per tutta la vita, probabilmente.
— Ho detto che mi piace il tuo casino. —
Lei sorrise, ma più come se volesse rassicurare lui, perché era stato così carino con lei.
Era confusa. Qualcosa dentro la sua testa si stava muovendo, e lei sperò fosse un ricordo, magari di ciò che provava per il suo ex–ragazzo.
— Ti va di uscire di qui? Solo per poco. Ho bisogno di compagnia e distrazione da tutto questo, — Fece un ampio gesto per indicare la sala d’ospedale. — e mi sembra anche tu. — Arricciò il naso adorabilmente, pensò Heather.
Lo guardò per un tempo che a lui parve infinito, poi annuì, alzandosi.
Rimasero con le mani l’una nell’altra e a lei bastò seguire lui, che li portò lungo un paio di corridoi, quindi entrarono di soppiatto in una porta. O meglio, uscirono. Sembrava che lui conoscesse a memoria quel posto.
La porta dalla quale uscirono sbucava sul retro dove le cucine probabilmente gettavano il cibo avanzato, perché c’erano buste nere accantonate agli angoli del muro e secchioni dell’immondizia colmi. E, come per dare un tocco di classe, aleggiava nell’aria la puzza di muffa e pesce marcio.
Heather e il ragazzo misterioso risero e si incamminarono oltre quella via, sbucando su un prato verde all’inglese, sul quale, qua e là, spuntavano alberi non troppo ingombranti e tenuti decisamente con cura.
Heather notò che fosse sera, probabilmente l’ora di cena, e si chiese per chi fosse lì quel ragazzo.
Lui la porto sulla l’erba, umida sotto i suoi piedi nudi, e vi si accucciarono sopra, nascosti dall’ombra di un arbusto. Fuori non c’era nessuno, a quell’ora, se non qualche parente di pazienti che fumavano per il nervoso o semplicemente respiravano boccate d’aria. Heather notò che c’era una donna, seduta sui scalini dell’entrata di emergenza, che piangeva con le mani sul viso. Le venne in mente l’immagine di sua madre, e ancora una volta si sentì in colpa verso quella donna a lei sconosciuta, ma che una volta amava.
E le venne da piangere anche per se stessa, perché non sapeva ancora come sarebbe andata avanti se già dopo una sola ora e mezza dal suo risveglio di un coma, avrebbe preferito morire in quell’incidente. Avrebbe risparmiato tutto quello.
— Andrà bene, okay? — esordì il ragazzo che si era persino dimenticata di avere accanto. Aveva lasciato la sua mano e adesso esse si sfioravano a malapena. — Qualunque cosa ti sia successa, andrà bene, perché sei viva. — continuò, guardandola dritta negli occhi con convinzione.
Lei credette a quella bugia, per un attimo.
La più bella bugia che qualcuno le avesse mai detto.
— H–ho visto tua madre, ogni tanto, nei giorni passati, girovagare per i corridoi. Insomma, se ti stavi chiedendo perché ti stia dicendo queste cose e–e... sì, voglio dire... —
— Grazie. — Interruppe il suo discorso impacciato, notando le sue guance leggermente tracciate da un torpore rosa. Era carino da parte sua dire quelle cose.
Poi sospirò e tornò a guardare davanti a sé, come se il contatto con lo sguardo di lei gli facesse male.
— Perché sei qui, a proposito? — domandò Heather, aggrottando le sopracciglia.
— Uhm, la mia ragazza ha dovuto fare un’operazione. Nulla di grave. — Annuì, ma senza guardarla, come per convincere se stesso. Oh.
Qualcosa si scatenò dentro di Heather e il mal di testa sembrò tornarle tutto d’un tratto.
— Oh, okay. —
Pensò che sarebbe dovuta rimanere almeno per le medicine, prima di uscire con...
— Come ti chiami? —
— Luke. —
— Mi piace. — ammise involontariamente lei, senza pensarci, e questa volta toccò a lei arrossire. Si morse il labbro e arricciò il naso, chiedendosi perché l’avesse detto ad alta voce. Lui le sorrise.
— E tu? —
— Heather, ma a quanto pare puoi chiamarmi Ettie. — disse lei, tirando un sospiro. Le sarebbe piaciuto ricordare suo padre pronunciarlo quando era arrabbiato con lei.
— E a te piace? — Lui la distolse dai pensieri, e pensò che fosse meglio così, infondo.
Fece spallucce. — Non lo so. Forse. —
— Chi sei, Ettie? — sputò di getto. Ma non in modo rude o invadente. Il suo tono era pieno di qualcosa che Heather non riusciva a decifrare. Come se fosse stato pronto a scoprirlo, fino in fondo. Lo disse spontaneamente, perché sembrò voler ritirare quelle parole subito dopo, ma non lo fece.
— Non lo– —
— No, intendo... chi sei? Chi vuoi essere? Ti è successo qualcosa di brutto? Qualcosa che non puoi, vuoi ricordare? Bene. Decidi chi vuoi essere da adesso e vedrai che ci sarà qualcuno pronto a seguirti dovunque tu voglia andare. —
Lei sembrò rifletterci su.
— Non voglio essere sola. Questa è la prima cosa che desidero. —

 

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Capitolo 3
*** III ***


III.
Luke e Heather rimasero lì fuori per circa un’ora, finché l’infermiera a cui lei aveva chiesto le medicine non uscì e li trovò, sgridandoli e intimandogli di rientrare.
Comunque, loro non smisero di ridere un attimo da quando rientrarono nell’edificio, e Heather pensò che lui avesse una risata bellissima.
Poco dopo che avevano smaltito il divertimento, era cresciuto l’imbarazzo, e alla fine Luke l’aveva salutata in modo impacciato, dicendole che doveva tornare dalla sua ragazza. Ma tutto alla fine era finito bene. Il peso sul petto di Heather si era alleggerito almeno un po’, e lo ringraziò mentalmente per quello.
Quando tornò in stanza, c’era il dott. Irwin ad aspettarla, e aveva un cipiglio sulla fronte e dei fogli fra le mani. Come sempre, pensò Heather.
— Heather, quello che hai fatto oggi non si può ripetere. Capisco che tu sia sottopressione, e che quello che hai saputo sia difficile da accettare, ma noi vogliamo aiutarti. —
— Lei non ne ha idea di quanto sia difficile. —
Questo era il riassunto della loro conversazione, e Heather se n’era già dimenticata la sera stessa. Quello che si ricordava era ciò che le aveva detto subito dopo.
— Dovremo fare delle analisi, Heather. Spero tu capisca che abbiamo bisogno di esami, analisi e risposte mediche su ciò che è successo nella tua testa, anche se è più semplice di quello che credi. —
Chiuse gli occhi, cercando di dormire.
Lei non lo vedeva per niente semplice.

Nei tre giorni seguenti, Luke si fece vedere puntualmente sempre all’una e mezza, che era l’ora in cui le infermiere avevano appena lasciato la sua stanza dopo aver ritirato il piatto del pranzo appena consumato, e continuavano il giro. Così, non si sarebbero accorte della sua assenza. Inoltre, gli esami che faceva lei – ne aveva fatti solo due fino ad allora – erano sempre di mattina. Inizialmente, Heather odiò quel fatto, perché la costringeva a svegliarsi presto, ma poi con l’arrivo di Luke, divenne più conveniente.
Lui le disse che la sua ragazza era uscita dall’ospedale appena il primo giorno che loro si erano incontrati di nascosto durante la pausa pranzo, e quando poi tornò il giorno dopo, le disse che erano dovuti tornare per prendere il risultato di un paio di analisi; proprio per questo, si era fermato solo per una mezz’ora.
Alla fine, l’ultimo giorno, con un sorriso sulle labbra, lei gli aveva posto sempre la stessa domanda, e lui in risposta aveva alzato le spalle con le mani nelle tasche.
Adesso che stava per incontrarlo per il quarto giorno di seguito, era agitata e allo stesso tempo a sua agio.
Sapeva che lui aveva la ragazza, ma Luke era diventato importante. Non quanto lei per lui, certo, ma in poco tempo era riuscito a darle una sicurezza in quella vita che nemmeno lei stessa era riuscita a darsi.
Purtroppo era una ragazza che si affezionava subito. Le venne in mente l’ex–ragazzo che non voleva più avere nulla a che fare con lei e pensò cosa sarebbe successo se fosse stato Luke al suo posto.
Anche quel giorno, lui l’aspettava al solito posto; con le mani nelle tasche, la schiena contro il muro e un piede tirato su, poggiato sul calcestruzzo.
Quando sentì la porta chiudersi, alzò lo sguardo dal cellulare che aveva in mano e le sorrise.
Lei ricambiò, un po’ titubante. Stava indossando una vecchia tuta che i suoi genitori le avevano portato da casa, e che una volta le apparteneva. Erano un paio di pantaloni grigi a vita bassa e una maglietta a maniche lunghe che si era leggermente alzata sui fianchi. Lei si accarezzò le braccia per infondersi calore e proteggersi dal freddo pungente di Febbraio. Si strinse nel giacchetto dello stesso colore dei pantaloni e si avvicinò a lui.
— Ehi, tutto bene? — le domandò Luke.
Lei annuì, ma non gli chiese perché fosse lì anche quel giorno. Avrebbe voluto e allo stesso tempo no, paurosa di sapere la risposta.
— Ti ho portato una cosa. — disse lui per smorzare il silenzio che si era creato. Si staccò dal muro e frugò nelle sue tasche prima di tirarne fuori un elastico. Lei sorrise inevitabilmente, dimenticandosi di tutte le incertezze che aveva un minuto prima. — Per la ragazza con i capelli sempre al vento, che le vengono davanti e le danno fastidio. —
Lei prese il laccetto blu dalle mani del ragazzo e lo tenne in mano per un po’, rigirandoselo.
— E’ blu. Il mio colore preferito. Ti ricorderà di me quando lo userai. — la informò lui, guardandola da quei centimetri in più d’altezza che portava. Il sorriso di Heather si ampliò, e non perse tempo a crearsi una piccola crocchia sulla testa.
Luke, istintivamente, le portò un ciuffo di capelli che le era scappato dietro l’orecchio.
Poco dopo, si incamminarono sul prato inglese e vi si sedettero sopra, parlando del più e del meno per la successiva ora e mezza. Stettero insieme più di quanto avessero mai fatto, e lei riuscì a dimenticarsi di tutto ciò che le opprimeva il petto il resto del tempo.
Questo era più o meno ciò che successe anche per i cinque giorni successivi, finché a Heather non venne comunicata la notizia che sarebbe stata dimessa quel pomeriggio.
I suoi genitori rimasero tanto impreparati a quel cambiamento quanto lei.
Sarebbe tornata a casa, nella sua vecchia stanza, alla sua vecchia vita. I suoi genitori avevano cercato sempre di non pressarla troppo o affrettarla a qualche decisione, ma era chiaro che lei sarebbe dovuta tornare a scuola e provare a ricominciare da capo una vita, seppur sempre con la speranza che la memoria potesse tornare.
E lei non sapeva se era pronta, ma non aveva scelta.
Per quanto riguardava quella coppia che chiamava i suoi genitori, ci aveva fatto abbastanza l’abitudine (le faceva male ammetterlo – quasi fossero una presenza che c’è e di cui non puoi liberarti), e pensava che prima o poi avrebbe anche potuto chiamarli nel modo che spettava loro. Il suo problema era la scuola. Tutti quei visi sconosciuti certamente già sapevano quello che era successo, e se non era così, lo avrebbero saputo, e lei non era pronta a tutte quelle occhiate curiose, le voci nei corridoi, i gossip, le domande. Il nervosismo cominciò già a crescerle dentro.

Quel giorno, non incontrò Luke.
I suoi genitori rimasero con lei dalla mattina per sistemare tutte le sue cose portate in ospedale, per parlare con il dott. Irwin e, comunque, per tornare a casa con lei. Così, Heather non ebbe modo di uscire neppure un attimo e avvertire Luke, o comunque dargli la notizia.  
Quando ebbe finito di vestirsi per lasciare l’ospedale, raggiunse i suoi genitori e il dottore nella stanza che loro le avevano indicato.
Quando entrò, i suoi genitori erano seduti davanti ad una scrivania, e dall’altra parte c’era il dott. Irwin che parlava con loro con le mani unite sopra il legno della superficie davanti a sé. Tutti e tre si girarono a guardarla, e subito il padre si alzò dalla sedia, andandole incontro.
— Ettie, il dott. Irwin ha i risultati delle analisi. — mormorò lui vicino al suo viso, come se non volesse rompere il silenzio che si era creato in quella stanza.
La ragazza annuì, un po’ riluttante e in ansia, e poi si sedette sulla terza sedia accanto a quelle di Elizabeth e Cole.
— Bene. — esordì il dottore, puntando gli occhiali sul naso e armeggiando con diversi fogli. Tirò fuori da una busta bianca delle radiografie e poi le puntò su un schermo luminoso. La radiografia mostrò subito il cervello di Heather, che inarcò le sopracciglia cercando di capirci qualcosa.
— Allora, questo è ciò che è successo a Heather con l’incidente. Questo — Indicò un piccolo cerchio grigio nel mezzo del cervello. — è il lobo temporale. Con il colpo è stato danneggiato, e purtroppo sembra in modo permanente. —
Heather trattenne istintivamente il respiro, assimilando le parole che quell’uomo aveva appena detto.
— Sembra che il danno sia profondo, e voglio essere totalmente sincero con voi: è raro che i ricordi tornino. Quello che è successo è stato un gesto istintivo della tua mente per proteggerti da qualcosa di brutto. In questo caso l’incidente. Ha creato una sorta di blocco che ti impedisce di rivivere certi episodi. Poteva cancellarti i tuoi scorsi due, quattro, dieci anni, o tutti quelli vissuti prima del risveglio. E’ chiamata amnesia retrograda. Potremmo provare a rievocare qualcosa, ma io... non so... —
Heather sbatté le palpebre ripetutamente, imponendosi di rimanere forte e non piangere, ma era  davvero difficile.
Non solo le stava dicendo che probabilmente non avrebbe mai recuperato la memoria, ma le stava anche dicendo che le era capitato il peggio. Che avrebbe potuto dimenticarsi di appena due, tre anni, ma che invece si era dimenticata di tutto ciò che aveva vissuto prima di quel momento.
— Solo qualcosa di altrettanto significativo e decisivo potrebbe, forse, sbloccare i tuoi ricordi. —

A/N
hello, 
allora, vorrei solo ringraziarvi tutti per le belle rencensioni, le belle parole, e farvi sapere che le leggo e apprezzo tutte, anche se magari non rispondo. i'm sorry. sto davvero poco su efp, ma continuo a postare la storia per i pochi di voi, e anche perché tengo molto ad essa ed è uscita piuttosto bene. però se non mi do una mossa a continuarla poi la lascio in sospeso come sempre..............
troppa dolcezza in questo capitolo per i miei gusti hahaha. anyway, tutti i vostri dubbi avranno delle risposte soon e not soon, a vedersi. aspettate e siate pazienti. e seguite la storia, please. anche perché io non vi dirò nulla!
e niente, spero che recensiate, mi farebbe molto piacere un'opinione anche da persone random. 
un bacione, byeeeeeeeeee x


 

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Capitolo 4
*** IV ***


IV.
La rabbia montò dentro di lei non appena furono fuori dall’ospedale.
Ce l’aveva con se stessa per essere andata in quella stupida baita con un ragazzo che credeva l’amasse ma che l’aveva lasciata, così da subire l’incidente, e ce l’aveva con se stessa per aver dovuto creare quel maledetto blocco che le aveva fatto dimenticare di diciotto anni di vita. Diciotto anni!
Subito dopo la rabbia, montò la tristezza e disperazione. Le veniva ancora da piangere, ma resistette, perché era in macchina con quelle persone che in quel momento proprio non voleva vedere, e che la facevano sentire in colpa per questi pensieri.
Chiuse gli occhi, ma vide solo il buio.
Quando raggiunsero quella che era casa sua, i suoi genitori le sorrisero senza riuscire a dire nulla e le mostrarono la sua camera.
Lasciarono la porta aperta e le dissero che per qualunque cosa si sarebbe trovati al piano inferiore a preparare la cena.
Heather, però, riusciva a sentire le urla disperate di una donna che stava cercando di accettare il fatto che per sua figlia lei fosse un’estranea.
Se non fosse scesa mai più, probabilmente avrebbe fatto un favore e tutti e tre.
Chiuse lentamente la porta e vi si accucciò contro.
Poco dopo, sentì i passi soffocati di suo padre percorrere la moquette delle scale fino a raggiungere la sua stanza. Si alzò appena in tempo, prima che l’uomo aprisse la porta e con occhi imploranti ma tono apatico le dicesse che la cena era pronta.
Entrambi per tutta la sera non fecero altro che rivolgerle sorrisi dispiaciuti e supplichevoli, e probabilmente non ne erano neppure consapevoli.
Si chiese se anche le sue emozioni si leggessero così bene dal suo sguardo.
Finì la sua cena in silenzio e con la testa bassa. Non riusciva a sopportare di vedere tutto quel dolore che, voleva gridare, aveva provocato lei in un modo che non conosceva.
Le persone non pensano mai a possibilità remote come quella che era capitata a Heather. Perdere la memoria di una vita intera passata era probabilmente la cosa peggiore che potesse capitare fra i problemi cerebrali. Hai perso tutto ciò che avevi, hai il senso di colpa per ciò che stai facendo passare agli altri, però soffri dentro, e non hai il coraggio di dirlo a nessuno perché tutte le persone a te care stanno già patendo di loro.
Ti senti un mostro, ma non sai come lo sei diventato e non l’hai scelto.
Si sentì stringere lo stomaco e con la scusa della stanchezza tornò al piano di sopra e si immerse in una solitudine che, non lo avrebbe mai pensato, in quel momento era la sua migliore amica.

Quando si svegliò la mattina dopo, scese giù a colazione senza aspettare che qualcuno la venisse a chiamare e si sedette di fronte a Cole, mentre Elizabeth era ancora ai fornelli.
— Ho bisogno di un cellulare. — fu la prima cosa che disse. Suo padre alzò gli occhi dal piatto e sua madre si voltò verso di lei. Anche la tv sembrò zittirsi per un attimo, poi Cole le sorrise e — Ma certo, ne hai tutto il diritto. — disse, ma gli si leggeva in faccia che si stesse chiedendo cosa una ragazza con un amnesia potesse farci con un cellulare.
Ovviamente, quello che aveva prima era andato distrutto nell’incidente, e lei, anche se le avessero detto che avrebbero potuto fare qualcosa per recuperare foto o contatti, avrebbe rifiutato.
I suoi genitori si erano presi circa una settimana di ferie dal lavoro per rimanere un po’ con la figlia finché le cose non si fossero stabilizzate. Ma le cose non si sarebbero mai stabilizzate, le venne voglia d’urlare quando i suoi genitori glielo dissero, incerti se allungare una mano verso le sue o meno.
Così, quella stessa mattina si recarono in un negozio per comprare un telefono.
Vide vetrine e vetrine di cellulari, pubblicità, cartelloni con le stampe delle foto di quest’ultimi seguite da offerte, e le venne voglia d’essere come tutte le ragazze normali che aveva intravisto sorridere elettrizzate per il nuovo modello d’Iphone che i genitori permettevano loro di comprare.
Non le montò la rabbia a vederle, non pensò che fosse sciocco essere felici per una cosa così stupida, perché desiderò ardentemente essere una di loro, e perché sapeva d’esserlo stata, una volta.
Si voltò e ne puntò uno a caso. Suo padre annuì e si diresse alla cassa.
Quando ebbe il telefono fra le mani, nessuna eccitazione crebbe dentro di lei, ma solo un profondo vuoto. Non aveva numeri da salvare e neppure foto da mettere come sfondo. Non sapeva che musica le sarebbe piaciuta ascoltare.
Lo ripose fugacemente in tasca e si concentrò sulla strada.
Due giorni dopo, fece la seconda proposta ai suoi genitori: — Vorrei uscire. —
Suo padre stava guardando la televisione mentre sua madre lavava i pavimenti, e le sembrò un quadrò così... normale, che le dispiacque aver rotto quella pace con la sua presenza destabilizzante.
— Prendo l’autobus. Ho cercato su internet. — Sorrise loro per la prima volta da quando erano tornati tre giorni prima dall’ospedale.
Da allora, i suoi non avevano fatto altro che chiamarla per uno dei tanti programmi che lei prima seguiva accuratamente. O avevano comprato cibo d’asporto come pizza e messicano per cena, dicendole che lei odiava il cibo cinese. Erano persino venuti a trovarla i suoi nonni da parte di sua madre. Vi ritrovò molto di Elizabeth in loro, soprattutto per la loro sensibilità.
E adesso, si sentiva davvero in vena di fare una passeggiata. Di non rimanere intrappolata lì un minuto di più per paura che dalla cassetta per la posta potessero sbucare fuori i zii.
Sua madre continuò a lavare per terra, ma Heather sapeva l’avesse sentita.
— Sei sicura d’aver controllato? Qui intorno ci sono tre fer– — cominciò suo padre, bloccando la partita di rugby che stava guardando e voltandosi verso di lei.
— Tre fermate dell’auto, lo so. Quello che va verso il centro di Seattle, quello notturno e poi quello con le fermate intermedie nella periferia. —
Lui la guardò sorpreso, mentre sua moglie strizzava lo straccio per i pavimenti e sospirava pesantemente. Heather sperò davvero che non dicesse nulla. Suo padre sembrò pensarci su, poi fece schioccare la lingua contro il palato e le sorrise nel modo più sincero e genitoriale che avessero mai fatto da quando li aveva “conosciuti”.
 — D’accordo, ma all’una in punto ti voglio a casa. —
Ettie si sentì una normale adolescente che chiedeva ai propri genitori di uscire. Sorrise all’uomo che aveva davanti e lo ringraziò, poi prese un giacchetto, le chiavi ed uscì.
Era riuscita a trovare il profilo di Luke su Facebook, dopo aver controllato per tre buone ore tutti i Luke nelle vicinanze che il social network le aveva trovato. Alla fine, il ciuffo biondo e il piercing avevano fatto capolinea nella foto profilo di questo ragazzo: Luke Hemmings. Nella foto c’era lui che sorrideva con un cappellino da baseball rosso a tirargli indietro i capelli biondi. Accanto a lui un ragazzo moro dai lineamenti asiatici. Entrambi avevano in bocca la cannuccia dei drink che stavano bevendo e il moro ci giocava per dare fastidio all’amico.
Così, contenta di vedere una faccia amica, gli aveva mandato un messaggio. Sperò davvero si sarebbe presentato, ma anche in caso contrario, fare una passeggiata le avrebbe fatto bene.
Il cancello bianco in ferro era adesso imponente davanti a lei, così si voltò e per la prima volta si accorse che c’era una piccolo prato verde che faceva da sfondo alla facciata principale dell’ospedale. Terminava in una decina di centimetri di cemento sul quale era impalata una staccionata bianca in ferro, un po’ arrugginita, che tagliava a strisce il quadro della città sottostante.
In un momento in cui non c’era nessuno, Heather si appostò dietro ad alcuni cespugli, seduta contro la ringhiera a guardare di sotto, ed aspettò.
Non vide arrivare nessuna figura nera per una bella ora e mezza, ed era quasi convinta a rinunciare, quando un ragazzo con dei skinny jeans neri, una maglietta fino ai gomiti nera, le converse alte nere e un capellino da baseball rosso non percorse la salita per venire verso di lei. Aveva le mani in tasca e la testa bassa e sembrava stesse pensando a qualcosa.
Quando entrò nella piena visuale di Heather, Luke cominciò a guardarsi intorno, probabilmente cercandola. Aspettò un po’ prima di uscire; voleva vedere cos’avrebbe fatto. Si chiese perché si fosse messa dietro quei cespugli. Non l’aveva fatto per nascondersi, ma adesso sembrava così e se fosse spuntata dal nulla sarebbe sembrata una pazza.
Si rimproverò di farsi troppi problemi e dopo qualche minuto uscì allo scoperto, cercando di non saltargli alle spalle come una stalker.
— Oh, ehi. — la salutò lui, colto alla sprovvista. Sembrava nervoso e un po’ confuso, e a Heather venne da sorridere per quello, ma si trattenne.
Avrebbe tanto voluto salutarlo anche lei, e dirle che non era pazza, che si era appostata in quel posticino solo perché da lì riusciva a vedere tutta la città sotto di loro.
Amava Seattle, e il suo momento preferito era vederla al tramonto. Forse era banale, ma per la sua mente fresca e vuota, quello era il massimo che era riuscita a vedere nella sua vita di appena una settimana.
Spostò l’attenzione dai tetti delle case sotto di loro, illuminate dalla luce del giorno, al ragazzo davanti a sé.
— Scusa per il ritardo. Allora... hai un nuovo profilo facebook? —
Heather sorrise per la domanda che aveva posto, ma lo ringraziò mentalmente per aver rotto il ghiaccio. Luke sembrò pentirsi di questa subito dopo e si morse il labbro, dalla parte opposta al piercing. — Voglio dire, presumo che prima l’avessi... non ti sono mica andato a cercare... — Ettie annuì per farlo smettere di parlare, seppur lo trovasse maledettamente adorabile.
Luke indicò la panchina con la mano ancora nella tasca, — Ti va di sederci? — Heather annuì ancora e lo seguì a ruota. Subito dopo essersi seduti, Luke quasi saltò sul posto, urlando un “Dannazione, è bagnata!” che fece solo ridere ancora più forte Heather. Il ragazzo scese dalla panchina arrugginita per sedersi sull’erba e borbottò un “Non va molto meglio”, poi rimase a guardare un momento indisturbato la ragazza accanto a sé che rideva.
— Mi piace la tua risata. — Lei si fermò immediatamente e — Grazie. — disse, poi scese di livello e si sedette sull’erba umida accanto a lui.
— Allora, come mai hai voluto incontrarci sempre qui? —
Ettie fece spallucce, continuando a guardare davanti a sé il panorama che si estendeva oltre dove il suo sguardo riuscisse ad arrivare.
— Avevo bisogno di un punto di riferimento e questo è l’unico che conosco oltre alle fermate d’autobus intorno a casa mia. A proposito, ne ho saltata una in città per venire qui e ho dovuto rifare tutto il tragitto perché avevo paura di scendere e prendere un altro autobus. —
Luke rise e contagiò anche lei, e poco dopo si ritrovarono a parlare indisturbati di argomenti che permisero loro di conoscersi meglio.
— Allora, che cosa hai fatto di emozionante fino ad ora in questa nuova vita? —
— Be’, diciamo che sono più le cose che non ho fatto. — Arricciò il naso e stese le gambe davanti a sé. Portava un jeans nero strappato all’altezza di un ginocchio e di una coscia, una t–shirt bordeaux e un giacchetto grigio dell’adidas. A Seattle pioveva davvero molto spesso, perciò le temperature non erano mai molto gradevoli.
— Oh, andiamo, hai l’occasione di ricominciare e lasciarti tutto alle spalle. Sai quante persone lo vorrebbero? —
Heather gli sorrise con gli occhi socchiusi per il sole e poi tornò a cercare con lo sguardo il punto più lontano che esso riuscisse a raggiungere.
Sapeva che Luke cercava di tirarla su di morale, che aveva tutte le buone intenzioni, e sapeva anche di avere in parte ragione, ma lei non si sentiva per niente una persona ottimista (non sapeva se lo fosse anche prima) e preferiva darsi tutto il tempo di cui aveva bisogno per crogiolarsi nella commiserazione.
— Non ho ancora pianto. — Si voltò verso di lui. — Mai. Neppure una volta. — Annuì con la testa, come a rivivere gli ultimi giorni dentro di sé e a pensare “Sì, non ho davvero pianto neanche quando ho visto i miei genitori e non li ho riconosciuti”.
Luke la guardò con comprensione in viso, ma non come se gli dispiacesse per Heather, ma come se riuscisse davvero a capire di cosa lei stesse parlando.
— E non mi sono mai guardata allo specchio. — Luke inarcò le sopracciglia istintivamente e poi rimase ad ascoltarla. — Quando la mattina mi lavo i denti, non rimango mai in bagno, ma giro per le stanze: scelgo i vestiti da indossare, sistemo la mia stanza... —
Il suo tono la faceva apparire quasi fiera di questa abitudine che stava portando avanti, ma dentro di sé la faceva sentire ancora più morta di quanto già non si sentisse. Rendeva quella situazione in cui si trovava – che avrebbe dovuto imparare a chiamare vita d’ora in poi – un po’ più surreale. Perché lei non voleva divenisse realtà.
E la cosa non la disturbava affatto. Non voleva vedere il suo viso, com’era fatta. Non voleva guardare quella ragazza pur sapendo che non l’avrebbe riconosciuta.
Come puoi non riconoscere te stessa? Le sembrava assurdo. Le sembrava –
— Okay. — annuì Luke, come fanno gli psicologi. Come se andasse davvero bene il fatto che lei non stesse bene. Forse era così. Forse era normale che una ragazza appena uscita da una coma, con un amnesia, non stesse bene. E Luke sembrava averlo capito, questo, anche prima di lei.
— Okay. — ripeté Heather, mentre quella consapevolezza cominciava a piacerle.

 

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Capitolo 5
*** V ***


V.
La settimana successiva, Heather dovette tornare a scuola.
In realtà, non aveva dovuto, lo aveva scelto lei. Infatti, quando i genitori aveva tirato fuori l’argomento, era stata lei ad anticiparli e a comunicargli che voleva tornare a scuola.
Non ce la faceva più a stare chiusa in casa. A rileggere sempre gli stessi titoli e le stesse trame dei libri che aveva in camera, sperando di sentire anche un minimo dejavù. A lanciare ripetute occhiate alle foto che aveva trovato in una scatola nell’armadio. Ritraevano lei e quelli che presumeva fossero i suoi amici più stretti con dei gran sorrisi sulle labbra, mentre si abbracciavano, o  mentre si trovavano al mare, in montagna, e altre occasioni. Una in particolare l’aveva colpita. Era una fotografia incorniciata che ritraeva lei e altri tre ragazzi mentre sembravano essere stati colti tutti e tre in un attacco di risa inaspettato. Lo sfondo era composto da centinaia di grattacieli in piena notte che si stagliavano come spuntoni di roccia alle loro spalle. Si tenevano tutti stretti, le braccia sulle spalle dell’altro, mentre sembravano aver appena scalato una montagna.
Si era chiesta così tante volte quale di quelli potesse essere il suo ragazzo, dal momento che non aveva trovato neppure una foto di loro due che si baciavano o che si tenevano per mano. Che stessero insieme da poco? Infine, c’erano anche alcune foto di lei e i suoi genitori, simili o che differivano da quelle sparse per la casa. Ma perché mai i suoi genitori le avrebbero nascoste?
Aveva chiuso lo scatolone con sguardo atono e si era rimproverata. Allora aveva cominciato a pensare a ciò che aveva prima sperando di scaturire in lei della tristezza, della rabbia, della delusione, qualcosa, e quando queste erano arrivate, una dopo l’altra, si era rimproverata ancora.
Dopodiché, aveva deciso di eliminare il primo account di Facebook, quello della sua vita precedente — perché ormai avrebbe dovuto chiamarla così —, quello di Twitter e di Tumblr, senza neppure dare loro un’occhiata. E se ne avesse trovati altri, aveva deciso di fare lo stesso. Infondo, che senso ha tenere la prova di qualcosa che non avrai mai più e che è come se non avessi mai avuto?
In quel momento, si era sentita, forse per la prima volta, sollevata.
Aveva continuato a scriversi con Luke tramite Facebook. Lui era l’unico che, seppure non la capisse, sembrava così. Ettie ogni tanto cominciava a pensare che avesse passato qualcosa di simile, ma poi scuoteva la testa e ammetteva: “Alle persone normali queste cose non succedono”. Lei era quell’una su un milione.
Non parlavano mai di quest’argomento, comunque. Parlavano delle più frivolezze che passavano loro per la mente, e il discorso non era mai uscito.
Fino ad ora, Ettie aveva imparato tre cose di Luke: odiava il caffè, amava i pinguini e andavano a scuola insieme. Erano particolari usciti fuori dai loro discorsi per caso, ma che Heather aveva inconsciamente trattenuto nella sua testa.
Era contenta andassero a scuola insieme. Anzi, se doveva essere sincera, prima di quella notizia non avrebbe mai osato essere lei a chiedere ai suoi genitori di tornarci. Era stato solo grazie a lui.
Sapeva di star correndo troppo, e sapeva anche che era dovuto al fatto di sentirsi sola, che lui era la sua unica costante, ma non si sarebbe spinta troppo in là.
Mancavano ormai poche ore al suo ritorno a scuola, e non ricordava neppure quante ore si facessero di lezione. Quali fossero quelle che lei seguisse, poi, neppure a parlarne. E non osava pensare agli sguardi che avrebbe ricevuto se la voce fosse girata, e se non fosse stato così, a quelli che probabilmente la conoscevano e che lei avrebbe dovuto ignorare.
Eppure, ciò che la spaventava di più, era il patto fatto con se stessa. Aveva deciso che la mattina seguente, prima di tornare a scuola, si sarebbe guardata allo specchio.
Se ci pensava, il cuore andava a farsi una corsa e non tornava per un lungo tempo. Non sapeva bene perché neppure lei. Le cose non potevano andare peggio di così, no?
Fissava il soffitto bianco atono da un tempo che non aveva saputo quantificare quando si costrinse a chiudere gli occhi e provare a dormire.
Il mattino successivo, alzarsi dal letto con la prospettiva di quella giornata fu più facile di quello si aspettasse.
Era determinata a muovere avanti, ora che nulla la tratteneva indietro. I suoi genitori, da quando le avevano proposto di tornare a scuola e lei aveva accettato spassionatamente, sembravano anch’essi  leggermente più sollevati. Probabilmente, nonostante il dolore che provassero, ciò che volevano principalmente era il meglio per la loro figlia, e sapere che era abbastanza propensa a ricominciare aveva dato loro un briciolo di speranza.
Inoltre, da quando aveva scovato più o meno le ragnatele più importanti del suo passato (le foto come breve riassunto dei suoi rapporti, gli account, che poi aveva eliminato), si sentiva più sicura. Era come se prima avesse avuto paura di mettere piede nella sua casa, nella sua stanza — di cui non si ricordava — per paura di tuffarsi in una vita che non sentiva sua, e ora che quella trappola in cui aveva messo piede era scattata, sentiva di poter affrontare tutto. Pensava di aver reagito piuttosto bene al tutto, no?
Questa era la convinzione che la portò in bagno, quella mattina, e che la lasciò guardarsi allo specchio senza rifletterci un minuto di più. Senza ripensamenti. Senza soffermarcisi sopra.
Trattenne il respiro.
Si avvicinò ancora di qualche passo finché i suoi fianchi non si pugnalarono col bordo del lavabo. Le mani afferrarono il ripiano.
Poi, alzò una di esse e si accarezzò i boccoli castano ancora bagnati per la doccia che aveva fatto di prima mattina. Le accarezzavano il seno e anche la fronte.
Indossava solo una maglietta nera a maniche lunghe e dei jeans fino all’ombelico, perciò notò subito il piccolo neo sul seno destro. Forse l’unica cosa che le piacque.
Con la mano si accarezzò lo stomaco, poi il petto, dove stazionava un piccolo ciondolo d’oro a forma di sole che i suoi genitori le avevano detto glielo avessero regalato i nonni alla sua comunione. Proseguì ad accarezzarsi le clavicole, dove una lunga cicatrice le arrivava fino al collo. Si era dimenticata di averla. Non le aveva dato problemi, ma ricordava che i primi giorni all’ospedale il dottore gliela controllasse sempre.
Arrivò alle guance e ai capelli ancora una volta. Anche gli occhi erano castani, le labbra erano abbastanza carnose.
Non sentì niente. Assolutamente il vuoto.
Non era bella. Non si vedeva bella. Era nella media, sì? Non sapeva neppure quale fosse il suo punto di riferimento per dire una cosa del genere, ma le venne naturale pensarlo.
Frettolosamente, scosse la testa e legò in una crocchia alta e malandata i capelli per lavarsi il viso.
Dopodiché, li asciugò nella piega migliore che riuscisse a dare loro e preparò il resto per la scuola.
Si chiese se fosse il caso di truccarsi? Insomma, non sarebbe stato un po’ pretenzioso?
Prima di uscire di casa, si lanciò un’altra occhiata allo specchio: ancora nulla. Si sistemò una ciocca di capelli sulla spalle e si guardò il viso tondo. Afferrò al volo il mascara e lo passò un paio di volte sulle ciglia. Niente di più.
I suoi genitori si erano svegliati poco dopo di lei e quando era uscita dalla doccia aveva trovato sua madre intenta a preparare la colazione. Quando scese, riservò loro un sorriso convincente e sincero e si sedette a tavola per consumare il pasto tutti e tre assieme.
Fu meno scomodo di quello che pensasse, anzi, avrebbe osato dire quasi confortante. La normalità lo era. Non aveva avuto neppure un attimo di spazio per pensare che quelle persone non le conosceva, perché le avevano fatto così tante domande con uno sguardo di tale entusiasmo, che l’avevano fatta sentire a suo agio. Le avevano domandato se era agitata per il suo primo giorno di scuola; le avevano fatto i complimenti per come si era acconciata i capelli e come si era vestita; inoltre, le avevano domandato se avrebbe preferito prendere l’autobus o essere accompagnata. Proprio come se fosse una ragazza normale! Non avevano pronunciato o accennato a ciò che era successo neppure una volta, e questo, invece di destabilizzarla, non aveva fatto che altro che renderla più tranquilla e sicura.
Aveva scelto l’autobus, e nemmeno allora era riuscita a vedere una qualunque forma di disappunto o sorpresa nei suoi genitori. Neppure in sua madre, che aveva capito fosse più protettiva nei suoi confronti, e anche un po’ più fragile. Avevano solo cominciato con l’informarla delle varie fermate, di quanto tempo ci impiegasse e dell’ora in cui sarebbe passato. E ciò fu solo d’aiuto.
Così, da prestabilito, alle 7:40 era già fuori ad aspettare l’autobus. I suoi genitori l’avevano salutata dalla porta principale di casa, guardandola incamminarsi verso la fermata dell’auto che distava pochi minuti.
Aveva deciso lei di non essere scortata da nessuna parte perché voleva riacquistare il contatto col mondo. E’ strano e anche insensato da dire, ma lei si era risvegliata da un coma appena poco più di una settimana prima, e da allora non aveva fatto altro che alternare da ospedale a casa, eccetto quella volta che si era incontrata con Luke (sempre davanti l’ospedale), perciò doveva rifare tutto d’accapo: per cominciare, voleva scoprire il mondo che la circondava. E voleva essere come tutte le ragazze della sua età, capaci di uscire di casa conoscendo la zona, o di prendere l’auto senza saltare le fermate.
Arrivò a scuola appena cinque minuti prima che la campanella suonasse. Fu quando mise piede nel cortile che tutti i buoni propositi cominciarono a cedere. Come si era aspettata, gli altri ragazzi la guardavano come se avesse commesso un omicidio e l’avessero dichiarata incapace di intendere e di volere. Con riserva, ma anche con compassione. E lei odiò quelle occhiata lanciatele. Non era un piccolo cucciolo smarrito, tanto meno una povera pazza. Non aveva bisogno della loro pena.
Continuava ad accarezzarsi i capelli per sistemarli dietro le orecchie e a stringere la bretella dello zaino che aveva portato.
La situazione continuò così finché non entrò nel corridoio principale; lì le cose furono anche peggiori. Non solo gli sguardi, ma anche le voci sussurrate. Odiava già quella marmaglia di ragazzi.
Si recò immediatamente alla segreteria e per chiedere nuovamente il foglio con le informazioni sulle lezioni e sul suo armadietto dovette ricevere anche dall’assistente un’occhiata di stupore alla comunicazione del suo nome. Si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo e si allontanò senza neppure ringraziare.
Sapeva che doveva essere una situazione che non si vedeva tutti i giorni e non dava loro tutti i torti per essere un minimo sorpresi, ma avrebbe preferito che la cosa fosse durata meno e che le persone fossero tornate alle proprie vite, dimenticandosi della povera ragazza che ha perso la memoria e neppure il suo stesso ragazzo vuole riconoscere.
I suoi buoni propositi stavano cominciando a crollare, e lei aveva ricominciato a pensarci troppo su.
Stava dirigendosi all’armadietto 555 – apparentemente il suo –, ormai quasi abituandosi a quell’attenzione che riceveva, quando un rumore non la distolse dai suoi pensieri.
Ad una decina di metri, c’era Luke Hemmings con una mano aperta sull’anta chiusa di un armadietto. Il rumore era stata probabilmente la sua mano che chiudeva lo sportello, dedusse Heather guardando il bianco delle nocche che si espandeva sempre di più.
L’altra mano, stesa lungo il braccio, era chiusa a pugno, e neppure il suo viso rivolto verso il basso sembrava essere d’umore differente. Indossava i suoi soliti skinny jeans, questa volta senza strappi, una maglietta completamente nera tirata su fino agli avambracci e delle converse alte nere.
Inutile dire il sollievo che l’aveva invasa quando aveva visto la sua figura fra le persone che le camminavano davanti per dirigersi a lezione. Eppure, si chiese se fosse il momento giusto per avvicinarsi. Luke sembrava piuttosto di cattivo umore. Anche da lì, poteva vedere la leggera barba incolta sulla sua mascella.
Sorrise, poi scosse la testa e si avvicinò a lui lentamente.
— Ciao. — lo salutò. Lui si voltò velocemente e Heather quasi strabuzzò gli occhi per lo sguardo duro che gli vide negli occhi, ma che ben presto si tramutò in dolcezza.
— Ciao. — Le sorrise, togliendo la mano dall’armadietto e volgendosi completamente a lei. Il suo sorriso, tuttavia, sembrava tirato. Poi il suo sguardo si tramutò in qualcos’altro... compassione? — Mi dispiace per quello che stai passando. —
Heather prese un respiro profondo e si preparò a rispondere acidamente, ma poi lentamente lasciò sbollire la rabbia. Luke non lo faceva apposta, magari cercava solo di essere gentile. I suoi capelli biondi gli accarezzavano la fronte ed erano leggermente portati da una parte. — Me lo aspettavo. — Alzò le spalle. — Comunque, al momento mi preoccupa di più il fatto di non sapere neppure quale sia la classe di Biologia Marina, che tra l’altro ho in prima ora. —
Luke sembrò sovrappensiero, ma annuì con la testa e s’incamminò insieme alla ragazza per il corridoio. Le loro spalle si sfioravano a malapena. A Heather venne da sorridere e solo allora si rese conto che il ragazzo fosse più silenzioso del solito.
— Allora, ho bisogno di distrazioni. Come va con la tua ragazza? —
Lui sembrò leggermente sovrappensiero, ma le sorrise. — Bene, diciamo. — Sembrò pensarci su prima di continuare, poi — Mi manca. — pronunciò con tono nostalgico.
— Dov’è? —
— Lontano. Non ci vediamo spesso, purtroppo. —
— Oh. — annuì Heather. Le venne voglia di chiedergli una sua foto, così, per curiosità, ma si trattenne. Luke sembrava nella sua stessa posizione: aveva bisogno di distrarsi.
— Be’, allora, se fossi così gentile dall’accompagnarmi alla classe di Biologia. Non so proprio orientarmi— —
— Scusa, non posso, Heather. — Si fermò nel mezzo del corridoio e si voltò verso di lei con sguardo già stanco, ma dispiaciuto. — Ci vediamo. — Poi, scomparve fra la gente.
Heather era di nuovo sola.

Erano finite le sette ore scolastiche e Ettie non era ancora pronta a rinunciare alla positività che l’aveva investita quella mattina. Neppure dopo la prima ora di Biologia in cui il professore (piuttosto oltre l’età in cui si dovrebbe insegnare) non l’aveva riconosciuta e l’aveva pure interrogata. Neppure dopo le successive tre, in cui aveva ricevuto occhiate di sottecchi dai compagni, sguardi sorpresi dai professori e trattamenti speciali che assomigliavano più ad un modo di tenerla a bada. Cos’era nella sua vita precedente, un’assassina? Una bulla?
Aveva cercato di passare il più inosservata possibile, perciò cercò di convincersi fosse quella la ragione per colpa della quale nessuno gli si fosse avvicinato dicendole che prima erano amici o altro.
A pranzo, aveva dato un’occhiata fra i volti della mensa, senza individuare Luke. Le venne spontaneo tirare fuori il cellulare dalla tasca e mandargli un messaggio (si erano scambiati i numeri con Facebook), ma non voleva apparire troppo appiccicosa, perciò si era fatta i fatti propri e aveva mangiato sugli spalti della palestra, da sola.
Adesso, scese i gradini dell’entrata principale della scuola, lasciando andare uno sbuffo.
Aveva detto a Cole ed Elizabeth che Luke e i suoi amici l’avevano invitata a mangiare una cosa insieme solo perché lui lo conoscevano, più o meno, e si sarebbero preoccupati di meno rispetto a dire loro che usciva con nuovi amici.
Non le andava di tornare a casa subito, ma ora che il cortile era vuoto e lei vi si trovava nel mezzo a cercare di infondersi calore muovendosi sul posto, si sentì di aver magari fatto la cosa sbagliata. Come ciliegina sulla torta, il cielo minacciava di piovere e inondarla della sua negatività da un momento all’altro.
Scosse ancora una volta la testa e si convinse ad incamminarsi verso la fermata dell’auto per cercare un posto in cui pranzare. Fin quando non vide il veicolo che avrebbe dovuto prendere sfrecciarle davanti.
L’orologio segnava le 14:37 e lei era sicura che l’auto sarebbe dovuto passare in tre minuti. Fece mente locale e si rese conto di aver invertito gli orari del percorso mattutino. Si schiaffeggiò la fronte con una mano e poi si mise a correre per tentare di fermarlo, invano.
Dentro, alcuni ragazzi risero nel vederla così disperata.
Rimase ferma nel mezzo della strada con sguardo atono.
— ‘Fanculo! — urlò. — ‘Fanculo, ‘fanculo, ‘fanculo! — continuò contro l’auto, ormai a diverse centinaia di metri di distanza. In realtà, l’aver mancato di prendere il mezzo di trasporto che l’avrebbe riportata a casa era solo la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, ma era anche l’unico pretesto con cui prendersela in quel momento.
Infilò furiosamente le mani fra i capelli per scansarli dal viso e cercò di respirare.
Probabilmente solo allora fu abbastanza onesta con se stessa da ammettere che quella giornata era stata uno schifo. Che non aveva reagito bene a tutta quella storia, perché fino ad allora aveva solo negato a se stessa l’evidenza. Aveva cercato di convincersi che andasse tutto bene, quando non era così.
Si voltò verso l’edificio scolastico e notò una figura in piedi sul marciapiede dietro di lei. Luke. La guardava con stanchezza, come se capisse la sua reazione ma non avesse più le forze per dire o fare niente.
Per la prima volta da quando tutto era cominciato, Heather cominciò a piangere.

A/N
chiunque ci tenesse a seguirla, su wattpad la sto pubblicando con aggiornamenti più frequenti. 
c'è la possibilità che qui venga eliminata.
link: amnesia. 

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