Via Lucis

di AdeleBlochBauer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La possibilità che due uomini pensierosi si incontrino sul lungosenna ***
Capitolo 2: *** Utilità dei viali alberati ***
Capitolo 3: *** Perchè una pistola, caduta in acqua, non può più sparare ***
Capitolo 4: *** 'Nescit vox missa reversi' ***
Capitolo 5: *** 'Militat omins amans' ***
Capitolo 6: *** Ritratto di tigre ***
Capitolo 7: *** Gratia Plena ***
Capitolo 8: *** Silenzio ***
Capitolo 9: *** Dove si conosce una strana attrazione parigina ***
Capitolo 10: *** Regina ***
Capitolo 11: *** (On The Line) ***



Capitolo 1
*** La possibilità che due uomini pensierosi si incontrino sul lungosenna ***


 

VIA LUCIS 



“La mer est ton miroir;
tu contemples ton âme

Dans le déroulement infini de sa lame,
Et ton esprit n'est pas un gouffre moins amer.”


 
“Il mare è il tuo specchio;
contempli la tua anima
Nello svolgersi infinito della sua onda,
E il tuo spirito non è un abisso meno amaro.”



- Charles Baudelaire, L’homme et la mer [L’uomo e il mare]


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PARTE PRIMA
ECCE HOMO

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1. La possibilità che due uomini pensierosi si incontrino sul lungosenna


“Macchinalmente, Jean Valjean si affacciò alla finestra e si chinò verso la via, che è breve e rischiarata dal fanale da un capo all’altro. Rimase alquanto meravigliato non scorgendo più nessuno. Javert era andato via.”

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Jean Valjean  percorreva il lungosenna nella direzione del Quai des Ormes. Seguiva, senza saperlo, il tragitto di un altro uomo, che pressappoco un’ora prima aveva percorso quello stesso tratto di strada nella medesima direzione. I passi di Jean Valjean erano, come quelli di chi l’aveva preceduto, lenti; le sue mani erano incrociate dietro la schiena esattamente come aveva fatto l’altro, su quello stesso sentiero. In effetti, solo un particolare differenziava la camminata di Valjean dall’uomo di cui lui, ignaro, calpestava le impronte: e questo particolare era la testa, che lui teneva alta, mentre l’altro aveva proceduto con lo sguardo basso.

Forse i lettori più accorti (o i più appassionati dell’opera a cui noi facciamo umilmente riferimento) hanno già intuito l’identità di questa figura misteriosa che, prima di Valjean, si era diretta da Rue de l’Homme-Armè al lungofiume. A chi si ritrova invece disorientato, poiché non tutti sono obbligati a conoscere a menadito il romanzo che ha ispirato la stesura di questo racconto, diciamo questo: il nome di quest’ uomo, singolarissimo personaggio in marcia da sempre e vagabondo per la prima volta, è il protagonista di questa breve storia.
Ma torniamo a Valjean, che fiancheggiava la Senna con lo sguardo rivolto verso le stelle. L’altro uomo, che davanti alla Senna ha abbassato la testa, lo incontreremo fra poco.

Valjean, dunque, era appena uscito da casa sua a Rue de l’Homme-Armè. Lì, aveva già regolato tutto il necessario: aveva avvertito Cosette delle condizioni di Marius, spiegandole che l’avrebbe trovato a casa del nonno in Rue des Filles-du-Calvaire, le aveva dato tutte le indicazioni del caso e l’aveva abbracciata per l’ultima volta. Valjean aveva ben visto che Javert era indubbiamente sparito da sotto casa sua, ma non aveva creduto neppure per un istante che egli potesse aver rinunciato ad arrestarlo: era dolorosamente ma fermamente convinto che sarebbe stato scortato in prigione da lì a poco. Conosceva fin troppo bene l’indole di Javert per considerare le cose in modo diverso. Dal canto suo, si sentiva già le manette ai polsi: aveva quindi sfruttato il tempo che Javert, volontariamente o no, gli aveva concesso, per regolare le ultime disposizioni con Cosette e per i suoi averi.

I motivi che avevano spinto Javert ad allontanarsi da Rue de l’Homme-Armè era l’ultima cosa che lo preoccupavano. Magari l’ispettore, ricordandosi della strabiliante forza fisica di Valjean, aveva ritenuto più saggio chiedere rinforzi al più vicino posto di Polizia, tanto per essere sicuro di stringerlo fra gli artigli una volta per tutte. Oppure, al contrario, ormai certo di averlo in pugno, si era assentato per uno qualsiasi dei suoi doveri di funzionario a cui era stato urgentemente richiamato. Ma che importava? Qualunque fosse la causa della momentanea assenza di Javert, una cosa era certa: era momentanea. Se Valjean aveva ricevuto la grazia di qualche istante in più da uomo libero era perché, non aveva dubbi, la sua condanna all’ergastolo era già decisa e firmata.

Non era stato facile, per Valjean, uscire di casa per quella passeggiata, l’ultima che lui avrebbe potuto condurre all’esterno di quattro mura. Una grande parte di lui avrebbe voluto passare quei minuti a casa sua, assieme a Cosette. Ma il pensiero di sedersi accanto a lei, guardarla piangere per Marius sapendo che, appena Javert sarebbe tornato, quella ragazza avrebbe dovuto sopportare il dolore non solo per il pericolo mortale del fidanzato, ma pure per la condanna del padre, lo opprimeva. Non le aveva detto nulla dell’arresto: perché mai infliggerle anche questo colpo, in un tale momento, quando lei già era distrutta dal dolore e dalla paura di perdere Marius? No, si sarebbe consegnato a Javert senza dirle nulla, e le avrebbe spiegato tutto il giorno dopo con una lettera dalla prigione.

Il comportamento di Jean Valjean potrebbe non sembrare corretto a più di uno dei lettori, e forse avrebbero ragione: aspettare che una cicatrice si rimargini, approfittare della sua guarigione solo per infliggere allo stesso corpo un’altra ferita mortale, sanguinosa come la prima? Sembra impossibile che un padre, e soprattutto un padre sensato e amorevole come Jean Valjean, possa ragionare in questo modo nei confronti della figlia. Ma, prima che il lettore imponga su Valjean un giudizio che davvero lui non merita, ci limitiamo a fare osservare ciò: che Valjean, benché sia un essere umano di proporzioni morali quasi divine, un essere umano rimane. E, come tale, soffre la paura. Lui, che per tanti anni mai aveva dato segno di temere qualcosa, era ora terrorizzato dal pensiero di assistere all’espressione di Cosette alla notizia del suo arresto. Dopo tutto quello che aveva fatto, non era riuscito a tirare fuori il coraggio per restare nella stessa stanza della figlia con un tale segreto nel cuore. L’essere umano è così: noi non lo biasimiamo né lo lodiamo, semplicemente ne contempliamo le affascinanti discordanze e le profondità di certi contrasti totalmente illogici, eppure così innegabilmente semplici e naturali.

Inoltre, per amor di esattezza, dobbiamo dire che non fu solo la paura umanissima di padre a spingerlo fuori casa quella sera: qualcosa di profondamente intimo e ignoto gli aveva suggerito di assaporare quella notte parigina, la sua ultima da uomo libero. Quella camminata sotto le stelle, con il fiume nero alla sua destra e le fronde degli alberi del viale del lungosenna alla sua sinistra, le figure di Notre-Dame e del Palazzo di Giustizia che si stagliavano in lontananza, il tutto che annegava nel buio e nel silenzio della mezzanotte inoltrata, sentiva che quella era una camminata che voleva e doveva fare in solitudine.

Sarebbe arrivato fino al Pont d’Arcole, l’ultimo della Ile de la Cité, poi si sarebbe voltato e ripreso lo stesso tragitto al contrario, verso Rue de l’Homme-Armé, ad aspettare nel cortile il ritorno di Javert. Aveva ormai oltrepassato il Pont Neuf, davanti a sé vedeva il Pont-Au-Change e, ancora più avanti, il Pont Notre-Dame. Su questo, cosa curiosa, scorse una figura nera appoggiata sul parapetto, immobile. Jean Valjean era troppo lontano per distinguerla con chiarezza: riusciva solo ad intuire quello che forse era il profilo di un cappello, un cilindro, forse da funzionario, che la figura indossava.

Se per caso il lettore se lo stesse chiedendo, avrebbe ragione: questa figura è la stessa che ha preceduto Jean Valjean nel sentiero del lungosenna che passa fra Rue de l’Homme-Armè e il Pont Notre-Dame.

Valjean, comunque, non le badò affatto, e continuò con le proprie meditazioni.

Quell’ex galeotto considerava il proprio futuro con una sorta di cupa serenità. Stava per tornare in prigione, è vero, ma la sua consolazione era che c’era già stato. Sapeva cosa voleva dire la galera, ci aveva passato diciannove anni della sua vita. A quel tempo aveva sofferto molto, sì, ma ora era un uomo completamente diverso da quando era stato arrestato a 26 anni. Ora, Valjean si sentiva infinitamente più forte e preparato di quel ragazzo impaurito e ignorante che era. E poi, c’era anche da considerare che ormai Jean Valjean aveva 62 anni: nonostante la sua proverbiale potenza e abilità muscolare fosse ancora possente, di certo la sua resistenza aveva ormai perso molto. Era sicuro che, in qualunque caso, non avrebbe resistito a lungo in prigione: gli stenti non avrebbero tardato ad ucciderlo. Lui pregava solo perché Marius si riprendesse, così che Cosette avrebbe potuto vivere felicemente anche dopo la morte di lui, Jean Valjean.

Molti altri pensieri egualmente cupi avrebbero potuto seguire Valjean nel suo cammino, se la sua mente non fosse stata improvvisamente distratta da una strana visione. La figura nera sul Pont Notre Dame, il quale ora gli stava davanti, si era appena tolta il cappello, quel cilindro che Jean Valjean aveva distrattamente scorto, appoggiandolo sul parapetto. La vide salire in piedi sull’orlo di questo, fronteggiando in bilico il fiume in piena sotto di sé.

Valjean, che distingueva più chiaramente la figura ora che era completamente esposta al chiaro di luna, riconobbe in essa un uomo alto con una redingote scura.

Il cappello posato sul parapetto era un cappello da ispettore di Polizia.

Valjean riconobbe Javert.

“Javert!” gridò lui, d’istinto, confuso e allibito. Ma l’ispettore, che ora si era chinato verso la Senna, sempre in equilibrio sul cornicione, non lo sentì.

Valjean aveva l’impressione di assistere ad una scena puramente onirica. Cosa aveva intenzione di fare Javert? Era impazzito? Cosa ci faceva lì sopra? Il pover’uomo, gli occhi spalancati fissi su Javert, non capiva o non voleva capire. Riconosceva in quella visione qualcosa di orrendamente lugubre e inquietante, ma il suo spirito così sinceramente religioso rifiutava con forza la spiegazione che la ragione gli suggeriva.

“Non capisco. E’ impossibile” si disse, mentre la figura nera si rialzava sul bordo del ponte, “perché mai dovrebbe…”

“JAVERT!” urlò.
Javert si era buttato. 

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Capitolo 2
*** Utilità dei viali alberati ***


 

2. Utilità dei viali alberati

 

La bontà è una qualità estremamente complessa, forse la più complessa fra le qualità. Incredibilmente più ardua da riconoscere e da giudicare in un uomo di quanto non lo siano, per esempio, l’onestà o la rettitudine. E sia ben inteso: quando parliamo di qualità riconoscibili in un individuo, non prendiamo in considerazione il giudizio esterno. Delle considerazioni su tale fenomeno, soprattutto nella sua sfumatura di giudizio popolare, spesso falso ed ipocrita, ci spingerebbero solo ad esprimere astio e diffidenza. Ma sarebbe inutile soffermarci sul disgusto che ci provocano le calunnie e le insinuazioni, le ruffianerie e le lusinghe interessate, scaturite da una massa di lingue pigre e dipendenti l’una dall’altra, a catena, formando così un circolo chiuso, arrogante ed ignorante, dove verità e dignità semplicemente non hanno posto. No: su chi è tanto cieco e ottuso da difendere a spada tratta giudizi e opinioni basati, e motivati, unicamente sulla terribile epidemia del “sentito dire”, piaga che in continuazione rovina vite, anime e storie, non vogliamo spendere troppo del nostro tempo e del nostro risentimento. “Non ti curar di loro, ma guarda e passa”. Dante docet.

Il tipo di giudizio su cui vogliamo ora concentrarci, quindi, non è esterno, bensì interno. Ovvero: come un cuore giudica se stesso. È da questo punto di vista che affermiamo la natura poliedrica della bontà, rispetto alle altre caratteristiche dell’uomo. Un individuo, infatti, può facilmente dire di se stesso: “sono onesto” o “sono retto”. Non altrettanto facile è poter affermare, con la certezza di dire del vero, nel senso più assoluto: “sono buono”. 

Ma perché questa sorta di tabù interiore? Noi crediamo che la risposta a quasi ogni domanda stia nella comprensione, che deriva dalla conoscenza, che deriva dall’analisi. Analizziamo, quindi, la bontà: come definirla? Sicuramente qualcosa sta, per dirlo molto banalmente, nel compiere buone azioni.

Ed è proprio qui che sta il punto: qui sta la questione, il vero interrogativo, la possibile biforcazione nella linea retta. Tale argomento è uno dei temi principali non solo della storia che il lettore sta ora leggendo, ma (cosa ben più importante) dell’opera che ci ha così grandemente ispirato. Con che criterio un’azione può essere definita “buona”? E buona per chi? Terribile e impenetrabile questione. Questo, lo ricordiamo, fu il dilemma che ossessionò Jean Valjean durante il caso Champmathieu. L’ex galeotto, per tutti il sindaco Madeleine, si era ritrovato a scegliere con quale bontà avrebbe dovuto agire: quella in vantaggio di Fantine e delle centinaia di operai che dipendevano da lui, o quella in vantaggio del paesano Champmathieu e della propria stessa identità? Questa scelta, apparentemente irrisolvibile, lo aveva gettato come sappiamo in una grande crisi. Come poteva sapere dove stava il volere di Dio? Era il dovere di sindaco o quello di ex galeotto a cui doveva adempiere?
Ciò che comprese, infine, fu che la propria dignità davanti a Dio doveva essere cercata nella verità, mai nella menzogna. Quindi scagionò Champmathieu, denunciandosi.
Abbiamo voluto rievocare con poche parole tale vicenda di Valjean perché il lettore rammenti con viva memoria il tortuoso dilemma della bontà e, soprattutto, le situazioni quasi impenetrabili in cui seguire i principi della bontà non è certo cosa da poco. Lo esortiamo, inoltre, a non dimenticarsi di questa breve, ma necessaria, digressione, situata in un tale punto focale del racconto. La natura contorta di ciò che è buono è un tema sul quale ritorneremo.

Diciamo, comunque, un’ultima cosa: che le lunghe ore spese a risolvere il dilemma Champmantieu furono un’eccezione per la coscienza di Valjean. La sua, infatti, era una di quelle rare nature in cui la bontà non nasceva dalla ragione, bensì dall’istinto. Fu per questo che, quando assistette al tuffo di Javert, non vide il suo nemico più temuto che rinunciava finalmente a tormentarlo. Non si accorse del feroce ispettore di Polizia che, con quel gesto, gli rendeva finalmente la libertà assoluta, agognata da quasi tutta una vita. Quando Javert si buttò, Valjean seppe che doveva salvare un uomo che stava per morire.

Tutto questo fu il suo pensiero.

A Valjean vennero in mente gli alberi del viale che costeggiava il fiume. Volse le spalle alla Senna e  spezzò il ramo più grosso e robusto che riuscì a scorgere. In quel momento sentì alle sue spalle un tonfo sordo: il corpo di Javert aveva raggiunto l’acqua. Valjean pregò disperatamente che fosse sopravvissuto all’impatto. Gettò il grande pezzo di legno nel fiume e si tuffò di seguito.
Aggrappato al ramo, che lo aiutava contro le micidiali rapide del fiume in piena, riuscì ad afferrare il braccio inerte di Javert. 

E’ scientificamente dimostrato come le potenzialità massime del nostro corpo vengano sfruttate nella loro totalità solo in momenti assolutamente particolari, dettati dai sentimenti o dagli affetti uniti alla necessità. Il profondissimo legame che si interpone fra la mente e il corpo è uno di quei misteri della natura umana che non finiranno mai di stupirci. Assistendo al pericolo di morte di una vita cara, una forza prodigiosa e talvolta insospettabile può emergere negli animi delle persone appartenenti principalmente a tre categorie: quelli spinti da un sentimento famigliare, quelli spinti da un sentimento amoroso e quelli, dei quali spesso ci si dimentica, spinti da un semplice e universale sentimento d’umanità. Questi ultimi stimano troppo il valore di ogni singola vita umana per non considerarla indispensabile, tanto quanto si considera indispensabile la vita di un famigliare o della persona amata. Jean Valjean apparteneva a quest’ultima categoria di persone: la necessità di salvare Javert gli era imposta dal sentimento profondamente religioso e umano che l’aveva guidato per tutti quei diciassette anni.

Con questa potenza prodigiosa nelle braccia e nelle gambe scaturita, dunque, dalla necessità, sorretto dal grande pezzo di legno e trascinandosi dietro Javert, riuscì infine a raggiungere e risalire la riva da cui si era gettato. Mollò il ramo e trascinò in salvo anche il corpo inanimato di Javert. Fradicio, spossato e tremante, Valjean gli tastò il polso. Batteva debolmente.

Con un flebile “oh!, grazie”, Valjean si accasciò sul terreno erboso, scosso da violenti colpi di tosse, completamente privo di forze.
Dopo qualche minuto, quando finalmente riuscì a riprendere un poco il controllo del proprio corpo e gli spasmi erano diminuiti, si voltò verso l’altro.

Javert si era svegliato, e lo guardava.

“Voi!” sibilò Javert.
Il suo sguardo non era mai stato tanto feroce.

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Capitolo 3
*** Perchè una pistola, caduta in acqua, non può più sparare ***


3. Perchè una pistola, caduta in acqua, non può più sparare

 
 
Javert si alzò e fece per andarsene, ancora debole, ma invaso da una sorta di rabbiosa risolutezza.
“Javert!” gli gridò dietro Valjean (facciamo presente al lettore che, sebbene noi abbiamo usato or ora il termine ‘gridare’, ciò che uscì dalla bocca di Valjean in quel momento fu tutt’altro che un grido: con la voce ancora stentata dall’immensa fatica appena compiuta, il richiamo di Valjean suonò pressappoco come un roco gracidio).
Javert lo sentì. Non si voltò.

Valjean si rialzò, lo rincorse e, in uno sforzo titanico, lo superò piazzandosi di fronte a lui, respirando affannosamente, con le braccia unite tese e i dorsi delle mani che formavano un angolo retto con gli avambracci, come se dicesse a Javert: ‘alt!’.

Javert, agendo meccanicamente, con uno scatto allenato della mano, prese la pistola dalla tasca della redingote e la puntò dritta contro Valjean.

L’espressione di Javert era terribile e, di certo, nella sua carriera di poliziotto mai aveva guardato nessun miserabile, ladro o assassino con la stessa ira truce con cui ora guardava l’uomo che gli aveva salvato la vita.
La mano che reggeva la pistola tremava impercettibilmente, ma la colpa non era del freddo.

“Javert,” incominciò Valjean, cercando di riprendere qualche controllo del proprio respiro, in tono calmo benché fosse mortalmente preoccupato: “quella pistola non sparerà mai. La polvere al suo interno si è bagnata.”
Javert, senza muovere lo sguardo tremendo fisso su Valjean, gettò a terra la pistola con tale violenza che la canna si conficcò nel terreno, restando quasi verticale, a pochi centimetri dalla Senna.

Jean Valjean, pallidissimo, tremava visibilmente dal freddo. Sembrava che il suo vecchio corpo –il quale tuttavia, ricordiamo, possedeva ancora straordinarie capacità fisiche-, fradicio nella notte fredda, dopo quell’enorme fatica, si reggesse in piedi unicamente per l’enorme forza di volontà del padrone il quale, preoccupatissimo, altro non percepiva che la formidabile e inquietante bizzarria della situazione presente.

“Javert, che cosa…”
“VALJEAN!” esplose Javert, perdendo improvvisamente ogni controllo: “Andatevene! Ne ho abbastanza di voi! Basta! Lasciatemi! Voi mi perseguitate! Mi distruggete! Basta! Avete vinto! Avete vinto, lo capite, Valjean? Non vi arresto! Siete libero! Insomma, lasciatemi in pace! Andatevene!”
“Così che possiate tornare sul ponte a buttarvi un’altra volta?” replicò Valjean, severamente, restando dritto sul posto, scandendo le parole in modo da poter parlare più chiaramente con il poco fiato che aveva. “Non ho la minima intenzione di lasciare che voi moriate in questo modo.”
“E perché? Perché mai? Voi siete impossibile! Mi fate impazzire!” alla sua furia si era ora unito un certo accento esasperato. “Non è affar vostro! In cosa mai ciò vi riguarda! Ecco, spiegatemi questo, Valjean! Perché continuate a salvarmi? Ero uno dei vostri carcerieri, da anni sono il funzionario  incaricato alla vostra cattura, sono il vostro persecutore, la vostra condanna, la spada di Damocle che vi pende sul capo! Diavolo!” imprecò, “ Perché mi avete salvato, alla barricata? E perché mi salvate ora? Ebbene? La mia morte sarebbe solo la vostra liberazione, come fate a non capirlo?”
“La mia liberazione non dipende da voi. Galera o no, la mia sorte non dipende da questo. E come pensate che io possa arrecarmi il diritto di lasciarvi morire? O di permettere che i ragazzi della barricata, per quanto nobili siano i loro ideali, decidano a sangue freddo sulla vita di un altro uomo? Una morte umana non vale nessun calcolo, contratto o fine sociale di ogni sorta: è una vita che si spezza. E non c’è vita, neanche la più misera, che valga la pena sacrificare. C’è una sola giustizia che ha il potere di vita e morte sugli uomini, e non è quella legislativa né tantomeno quella del popolo. Si staglia al di sopra di tutto ciò. Ho fatto ciò che ho fatto perché così è giusto.”

“Giusto, Valjean? Giusto? Voi credete sia giusto? Questo non è possibile, questo… no! Così non è giusto, Valjean, voi non riuscite a capirlo! E mi fate impazzire!” riprese, esasperato, Javert, il quale si faceva sempre più sconnesso e confuso ad ogni parola che diceva. Quell’uomo semplice e onesto, quella ghigliottina ferma e implacabile, non abituato ai terremoti dell’animo in quanto mai nella vita ne aveva subito l’effetto, era ancora sotto il profondo sconvolgimento della crisi che l’aveva spinto a buttarsi dal Pont de Notre-Dame. Valjean era ben riuscito a salvare Javert dal fiume, ma la mente e l’animo di quel pover’uomo erano ancora sul fondo della Senna. Il suo scardinamento interiore era vivo e lacerante. A ciò, nell’animo naufragato di Javert si era ora aggiunto lo sconcerto di essere stato ostacolato ancora una volta, e proprio in quell’estremo atto, da colui che di quella crisi ne era stata la causa. Lo salvava dal precipizio lo stesso che l’avevo spinto sull’orlo del baratro.
Gli sembrava, ma solo ora se ne rendeva conto (per quanto lucido poteva essere il suo pensiero), che durante la sua vita quel Valjean fosse sempre stato come appostato ad ogni angolo, per disorientarlo, impensierirlo, frastornarlo ogni volta di più. Gli sembrava che Valjean fosse il granello di sabbia lanciato sul motore della perfetta macchina che lui era, e che fosse appositamente formato per penetrare e incrinare uno ad uno i suoi ingranaggi, partendo da quelli in superficie fino ad arrivare, attraverso gli anni, a quelli centrali e portanti, e in questo modo distruggere quella macchina dall’inesorabile potenza. Ogni qualvolta che la strada di Javert si era incrociata con quella di Valjean, aveva sempre comportato per Javert uno sconvolgimento interiore di varia potenza: l’aveva incontrato per la prima volta a Montreuil-sur-Mer quando Valjean era ancora “il signor Madeleine” e non “il signor sindaco” (ricordiamo come Javert avesse fin da subito dubitato dell’identità di quello schivo imprenditore), e l’aveva stupito la pacifica serenità con cui quel borghese rispondeva ai suoi sguardi ostili e sospettosi. Avevano cinto Madeleine della fascia di sindaco, e Javert aveva tremato nel vedere quello che poteva essere un ex galeotto, un miserabile, un furfante, venire insignito degli onori della magistrature. Aveva arrestato la prostituta Fantine, ed era rimasto paralizzato dall’incredulità nell’udire la richiesta del sindaco di rimettere in libertà quella disgraziata, dopo che questa gli aveva sputato in faccia. Aveva denunciato Madeleine alla prefettura e, dopo essersi scontrato con l’apparente insensatezza del suo giudizio, era crollato in un tale senso di vergogna e prostrazione da portarlo a chiedere al sindaco le proprie dimissioni dall’ordine di Polizia. Aveva poi ricevuto la conferma che i suoi sospetti erano fondati, ed era rimasto profondamente scosso nello scoprire che il sindaco Madeleine, identità del quale, certo, non dubitava più, nascondeva le deprecabili fattezze dell’ex galeotto Jean Valjean. L’aveva creduto morto, come annunciava il giornale, annegato in mare dopo aver portato soccorso ad un marinaio del vascello Orion, ed era rimasto sconvolto nel riconoscerlo nelle vesti del bizzarro e riservato abitante della stamberga Gorbeau. Ancora, non aveva potuto credere ai suoi occhi quando Jean Valjean gli era sfuggito in rue du Chemin-Vert-Saint-Antoine, proprio quando la sua cattura sembrava ormai inesorabile. Appena poche ore fa, salvato da Valjean dalla condanna a morte degli studenti della barricata, aveva subìto una tale lacerazione interiore da spingerlo al suicidio. E, per ultimo, aveva perso la testa quando lo stesso Valjean gli aveva impedito di portare a compimento le sue intenzioni. Se la sua mente fosse stata in quel momento più lucida Javert si sarebbe chiesto se, in tutti quegli anni, era stato lui a perseguitare Jean Valjean o il contrario. Dopo la riflessione sul Pont du Notre-Dame gli era sembrato che il suicidio fosse l’unica scelta logica, la sola via che gli rimaneva che fosse priva di dubbi, incertezze o impedimenti. E ora, dopo che tutto il suo universo era stato squarciato da parte a parte, Jean Valjean gli aveva tolto anche quell’ultima certezza che gli rimaneva.

Impossibile, ora, analizzare con chiarezza ciò che accadeva nelle mente di quel granito spezzato, di quel soldato disarmato: era la violenza delle più grandi onde contro i più impervi scogli, onde molto più temibili di quelle della Senna che stavano per inghiottirlo, ecco cos’era la portata della tempesta che tuonava nel cranio di Javert, un cranio che fino ad allora non aveva conosciuto altro che l’assoluta, ordinata e metodica certezza di una strada sempre dritta.
Gli impeti furiosi che ora Javert sfogava contro Valjean erano le reazioni infuocate di questa mente stanca, una dolorosa rivolta verso un mondo di cui aveva ormai perso il controllo, quando il controllo era stato tutto ciò che aveva. L’ira di Javert era una sorta di scudo, una maschera rovente costruita per  evitare di affrontare Valjean e, soprattutto, per evitare se stesso.

Una cascata di rabbia per tentare di ignorare ciò che davvero lo tormentava, per sopprimere quel raggio che lo trafiggeva da parte a parte, per non essere costretto a fronteggiare di nuovo le riflessioni che lo avevano spinto al suicidio. E queste riflessioni, questo calmo, inesorabile sottile rivolo di pensieri nella mente in fiamme di Javert era costituito da una serie di domande di cui non sopportava le risposte: “Perché…? E se davvero fosse che…? Dovrei quindi…?”

Dopo questa parentesi torniamo ora a ciò che, di quel groviglio disperato che era l’animo di Javert, uno spettatore esterno, ovvero Valjean, poteva afferrare: un’esplosione che si faceva a tratti sempre più annebbiata e talvolta delirante. Le condizioni di Jean Valjean peggioravano in modo allarmante: il freddo gli penetrava le ossa, la sua vista cominciava lievemente ad offuscarsi, le gambe si facevano sempre più deboli. Ma continuava ad ascoltare Javert con la massima attenzione, incurante e quasi inconsapevole di qualsiasi proprio sintomo di malessere, cercando come poteva di seguire e di riflettere.

Javert continuava: “Voi credete che sia giusto? Un funzionario della legge che sfugge al proprio dovere di applicare giustizia, e per colpa di cosa? Di… che io sia dannato!... di nulla! Di nulla, perdio, di nulla! Nulla glielo impedisce, assolutamente niente! Eppure non lo fa!” Javert, completamente preso dal suo delirio, aveva preso a passare da una parte all’altra del viale mentre parlava, senza posa, avanti e indietro, a casaccio, rivolto a nessuno in particolare, con lo sguardo di Valjean, immobile, sempre fisso su di lui. “Non lo fa! Ha l’occasione, mille occasioni, ma non agisce! Perché? Ah, diamine! Vede il crimine che avanza e si sposta per lasciarlo passare, come con il Re! La legge che si piega al galeotto, è questo giusto, credete? Ma è inaudito! Ma sarebbe da parassiti! Sì, è un parassita chi è al servizio della società per poi applicare la legge secondo i propri comodi! Che canaglia! Tradire tanto clamorosamente e inutilmente un dovere sacro! Anteporre giudizi e motivi personali alla rettitudine della giustizia! La legge è uguale per tutti, un carcerato è un carcerato e un poliziotto è un poliziotto, niente altro deve contare! E’ così, perdio, è così! Nient’altro! Nient’altro! Nient’altro…”  
La sua voce, così come il suo movimento febbrile,  si affievolì nelle ultime parole: infine si fermò, e Javert rimase muto, di schiena rispetto a Valjean, le mani chiuse a pugno che ancora tremavano leggermente, lo sguardo nel vuoto, una furiosa, gelida disperazione incisa nel volto e le onde che ancora sbattevano dentro il suo cranio.

“D’accordo” fece Valjean, in tono basso. Era profondamente scosso. Comprese, in parte se non del tutto, la sublimità dell’episodio a cui stava assistendo. Abbassò le braccia, le quali erano ancora ferme nella loro posizione, distese ad angolo retto davanti a sé, poi continuò, calmo, faticando a restare grave: “E tuttavia… voi avete preferito tentare il suicidio piuttosto che arrestarmi, dopo avermi dato la caccia per anni. Se nulla ve lo impediva, come voi dite, e se anzi il dovere vi ci obbligava, cosa è successo perché abbiate cambiato idea?
Perché non mi avete arrestato, Javert?”.

Passò qualche istante di silenzio.
Infine, Javert lo guardò.

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Capitolo 4
*** 'Nescit vox missa reversi' ***


4. Nescit vox missa reversi*


Per quanto strano possa sembrare, noi –il quale compito è quello di raccontare una storia così com’è successa- assicuriamo il lettore che quella semplice domanda di Jean Valjean rivolta a Javert fu tutto quello che servì a placare la tempesta. Una folgore che riporta l’azzurro, un dardo lanciato alle spalle, una pallottola attraverso la carne viva e agitata che, uccidendola, ne calma la foga. La mente di Javert, ora nuovamente, istantaneamente imprigionata dalle terribili riflessioni che quella questione portava con sé, non aveva più bisogno di lampi e turbini per schermarsi da essa. Qualsiasi arma era inutile; la catastrofe l’aveva ormai raggiunto. Di nuovo.

Nel tempo di qualche momento, dunque, l’animo di Javert tornò calmo, rassegnato e non meno disperato di prima. Si dissolse la tempesta, ma la nebbia rimase. Un punto interrogativo fu ciò che fece riemergere, in tutta la sua sublime violenza, il lucente rivolo di pensieri malamente sepolto nel torrente d’ira, ora prosciugato. A Javert non rimanevano più difese, più nessuna maschera o nascondiglio: fu costretto, ancora una volta, ad affrontare disarmato il più intimo cuore della sua crisi interiore. E la Senna rimaneva.

Javert, dunque, si voltò piano verso Valjean, il quale ebbe un improvviso lampo di memoria: subito, infatti, gli venne alla mente la scena di molti anni fa in cui, a Montreuil-sur-Mer, l’ispettore Javert era venuto a pregargli la propria disposizione dal servizio. Jean Valjean trovava -non senza un certo stupore- che il volto di Javert ricalcava perfettamente, ora, quell’espressione di profonda umiltà e dignitosa afflizione che già gli aveva osservato, anni fa, durante quell’insolito colloquio.

In quell’occasione, Jean Valjean aveva potuto scoprire il sincero senso di giustizia e la quieta grandezza che animava quel cane da caccia quale era Javert; ora, prodigioso e inaspettato miracolo, ne scopriva l’umanità: vale a dire l’essere (e, molto più importante, il saper d’essere) fragile, irrazionale e fallace.

Lo sguardo cupo di Javert si spostò da Valjean sulla pistola rimasta conficcata nell’erba, poco distante da lui, dalla parte
del fiume.
Jean Valjean cominciava a vedere delle macchie nere sul suo campo visivo. Tutti i muscoli del suo corpo urlavano. Il freddo l’aveva ormai spietatamente incatenato.
Ma Javert non poteva accorgersene. A malapena si stava rendendo conto di ciò che era successo negli ultimi minuti, dal
momento in cui si era risvegliato e aveva riconosciuto Jean Valjean, fradicio e tossente a pochi metri di distanza.
Javert accomodò le mani dietro la schiena e, distrattamente, imperturbabile, spinse brevemente con lo stivale la canna della pistola, la quale si inclinò fino a staccarsi dal terreno e precipitare nella Senna.

Con gli occhi fissi sull’arma che affondava, rispose finalmente, calmo e dalla voce solo un po’ arrochita: “Non era
previsto che mi salvaste la vita. Credo.”

Jean Valjean non resse. Javert gli aveva appena dato la conferma di quelle speranze –che quasi Jean Valjean non aveva osato tradurre in vere ipotesi, tanto sembravano improbabili- che erano sorte in lui, con tutta l’aura propria dei miracoli, durante quel burrascoso colloquio con il poliziotto.

La sublime e potente commozione che ne seguì fece abbassare per un istante le difese del corpo di Jean Valjean, e la qual cosa bastò perché l’età, la spossatezza e il gelo riuscissero finalmente a sovrastarlo: le gambe cedettero, la vista si offuscò. Jean Valjean, forse senza neanche averne coscienza, si accasciò a terra.

Ricordiamo per un istante quale poliziotto di straordinaria rarità fosse Javert: quella particolarissima specie dell’istinto che nega se stesso, l’istinto della razionalità, che in Javert si traduceva nell’istinto dell’uomo di legge, era in lui onnipresente e mai inattivo. Qualsiasi altro sentimento era sempre stato ad esso subordinato: nessun dolore o affetto, nessuna paura o umanità, mai, aveva prevalso su quell’istinto che costruiva e delineava ogni minimo particolare di Javert. Perfino il sentimento più innato e primordiale dell’uomo, l’amore per la vita, in Javert rappresentava solo uno fra i tanti calcoli che il suo spirito (ma è perfino corretto chiamarlo spirito?) razionale e calcolatore inseriva nei propri conti. Il tentativo di suicidio a cui abbiamo da poco assistito ne è la prova.

Sebbene appena prima, in quei terribili istanti di formidabile tensione e sconvolgimento interiori che abbiamo visto, la lucidità di Javert fosse stata indubbiamente messa alla prova ora, finalmente, l’improvvisa visione di Jean Valjean che precipitava risvegliò il suo occhio attento. Rivide all’istante ed in modo vivido la notte, l’aria fredda, l’acqua del fiume e gli effetti che possono fare ad un uomo di quell’età. Si prese appena il tempo per pensare: “sono un idiota!”, e si scagliò immediatamente su Jean Valjean.

Un particolare confronto si mostrava a Javert: rifletteva –nell’animo, se non nella mente- sul fatto che tutte le vicende dell’ultima giornata, dalla barricata fino al fiume, si riassumevano in queste parole: distruggevano Javert e riempivano di gloria Jean Valjean. Jean Valjean era il filo conduttore, l’omnipreasens, il riferimento, la sola traccia che era stata concessa a Javert in quella straordinaria successione di formidabili eventi.

Javert aveva perso tutte le sue convinzioni, ogni certezza, qualsiasi possibile appiglio: persino l’annullamento, la morte, gli era stato negato. Aveva estremo bisogno di un nuovo punto d’appoggio, qualsiasi cosa che potesse restare sicura anche nel nuovo, imprevedibile caos di un mondo che aveva appena scoperto. Vedeva Valjean, e lo vedeva in una folgore: se d’inferno o di paradiso, se di fuoco o di stelle, ormai aveva poca importanza. Luce era. Il forzato misericordioso, angelo o demonio, non cessava di esistere fissamente nel bagliore lacerante che emanava. L’assurdità di quell’uomo era perfettamente costruita nell’essere assolutamente e sistematicamente sconcertante, la sua bontà non si arrestava neanche di fronte alla promessa di una libertà eterna. In un mondo dove tutto era franato, Jean Valjean era colui che si stagliava fra le rovine, diritto, invulnerabile, splendente.

E Javert non tollerava che quell’uomo potesse ora crollare. Un Jean Valjean che cadeva era inconcepibile. Permettere che accadesse era imperdonabile.

Rapidissimo, lo afferrò prima che potesse toccare terra.

Riguardo a Valjean, nell’istante in cui aveva ascoltato Javert, un attimo prima di venir meno, aveva avuto nello sguardo come un riflesso di una stella cometa. Il suo silenzio, lungi dall’essere semplice assenza di verbo, era quello proprio dell’atto religioso. Aveva lo stato d’animo della contemplazione, la sacralità del pensiero di chi assiste ad un miracolo. Coloro che furono testimoni della resurrezione di Lazzaro non provarono lo stesso sublime sbalordimento che illuminava, in quel momento, l’animo di Jean Valjean. In quella frazione di secondo aveva contemplato, ancora una volta, lo straordinario prodigio di un universo in cui lo spirito umano, vale a dire Dio, poggia il filo di ogni destino sul palmo della propria mano.

Javert riconobbe immediatamente le gravi condizioni di Jean Valjean. Sorreggendolo, gli sentì il polso: era debolissimo. Si sarebbe ripreso, ne era certo, ma necessitava di cure immediate, o il danno poteva essere fatale. Difficile dire se avesse completamente perso conoscenza: gli occhi erano chiusi, ma le palpebre sussultavano lievemente. Javert si tolse la redingote, la quale era bagnata anch’essa, ma almeno riparava dal vento, e coprì Valjean; poi lo sollevò supino, reggendolo da sotto le gambe e per le spalle, si rialzò e si diresse rapidamente e a lunghe falcate verso Rue de l’Homme Armè.

 In un momento del tragitto Jean Valjean riuscì ad aprire appena gli occhi. A fatica, molto roco, interrotto da frequenti colpi di tosse, riuscì solo brevemente a dire: “Passerete da me. Quando vorrete. Devo parlarvi. Ma… vi prego… non cercate più di buttarvi nel fiume, Javert. Avete una scelta.”

Javert, che guardava diritto davanti a sé, per un istante solo abbassò gli occhi su Valjean, incrociando il suo sguardo, per poi tornare attento sulla strada da percorrere.

La folgore aveva parlato.

“Benissimo”.









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Orazio: “La parola, una volta detta, non torna indietro.”

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Capitolo 5
*** 'Militat omins amans' ***



“Au-dessus des étangs, au-dessus des vallées;
Des montagnes, des bois, des nuages, des mers,

Par delà le soleil, par delà les éthers,
Par delà les confins des sphères étoilées.”


 
“Al di sopra degli stagni, al di sopra delle valli,
Dei monti, dei boschi, delle nuvole, dei mari
Al di là del sole, al di là dell’aria,
Al di là dei confini delle sfere stellate.”



- Charles Baudelaire, Élévation [Elevazione]


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PARTE SECONDA
FIAT LUX

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1. Militat omnis amans*


La mattina precedente Cosette si era svegliata quasi all’aurora, nella più completa serenità. Era rimasta nella convinzione (del tutto scontata, a quell’ora, dopotutto) che la Toussaint e il vecchio padre fossero ancora a letto.

Le procurò solo qualche turbamento scoprire che Jean Valjean, contrariamente a quanto credeva, era uscito di casa ancora prima del suo risveglio, vale a dire prima dell’alba. La sua preoccupazione crebbe di fase in fase quando Jean Valjean non si fece vivo né a pranzo, né a cena, né al tramonto. La ragazza si trovava, inoltre, impossibilitata a chiedere qualsiasi aiuto: sia lei che il padre mancavano di amici quanto di conoscenze. Era anche molto reticente a chiedere servizio alla polizia, ben conscia che, fin da sempre, il padre aveva accuratamente evitato ogni contatto con le autorità.

Non si può dire che ne comprendesse il motivo appieno (diciamo, anzi, che molte delle abitudini di grande riservatezza di Jean Valjean la trovavano ancora piuttosto perplessa), ma fin da bambina si era abituata senza troppe storie alle bizzarrie di quell’uomo buono e schivo. D’altronde, Cosette non era una ragazza vana: sapeva osservare e, avendo osservato Jean Valjean per anni, si fidava.

Se non comprendeva i suoi motivi, ne capiva però i sentimenti. Vedeva che Jean Valjean rifuggiva la società, senza odiarla; capiva che i suoi nascondigli non erano privi di luce. Sapeva che la sua reticenza non era pericolosa. E, in più, lo amava.

Nessun sospetto avrebbe mai potuto sfiorare il candore del suo amore filiale. Jean Valjean era padre, madre, fratello, amico, salvatore: una sua prospettiva in negativo non era accettabile. Una parola contro Valjean, era un’accusa alla parte più sublime del genere umano. C’era Jean Valjean, c’era Marius, c’era il resto del mondo. Cosette non trovava motivo migliore al mondo di essere coraggiosa, e di avere fede, se non per lui: avrebbe offerto il collo nudo alla ghigliottina del peggiore dei boia, se Jean Valjean le avesse assicurato che non avrebbe corso pericolo.

A notte fonda, tuttavia, senza osare coricarsi prima del ritorno del padre, Cosette aveva deciso che se non avesse avuto notizie di lui entro il mattino seguente sarebbe andata certamente dalla polizia.
Non fu necessario: Cosette rivide Jean Valjean a casa verso la mezzanotte. Come purtroppo ben sappiamo, il suo ritorno non fu volto ad alleviarle i dolori: sporco e sanguinante, la avvertì che Marius era ferito (gravemente ferito, come ammise infine), a casa del nonno paterno, in estremo bilico fra vita e morte.

E’ terrificante constatare la potenza di un istante. I precisi attimi di lacerazione che, necessariamente, si accompagnano alla vita. E’ durante i quali si viene trafitti, o illuminati. Sangue o luce. Istanti di crollo o di elevazione, che irrompono spaccando un bivio nella rettitudine di una vita, rompendo muri, rovesciando palazzi o, nell’altro caso, spalancando portoni e inondando di raggi. Tali squarci, che salvano, dannano o –più spesso- semplicemente insegnano, a seconda del Fato, irrompono con violenza in una vita, in un’idea, in un affetto, e delineano altre vie, o una soltanto, scelte o imposte, inesorabili o solo possibili.
Il cielo, in quell’istante, era crollato sulla fronte di Cosette. Marius, Marius Pontmercy, poteva morire.

Consideriamo, per un attimo, la vita di Cosette.

Cosette non ricordava sua madre; aveva vissuto dai Thenardièr in una sorta di vaga, acre nebbia mnemonica. Poi, era stata salvata da Jean Valjean. Da quel giorno, non aveva conosciuto che luce; aveva sorriso e aveva studiato; aveva passeggiato e aveva conversato con Jean Valjean; aveva letto i libri che lui le prestava, aveva meditato e chiacchierato, si era vestita e aveva sognato. Aveva incontrato Marius e, per lo stesso principio con cui si alzava ogni mattina, se n’era innamorata. Del tutto semplicemente. Tale era stata la sua vita: aveva subito passivamente, era rinata, aveva amato appassionatamente. Ora, in un istante, sprofondava.

Marius era quindi ferito? Era privo di coscienza e coperto di sangue? Rischiava di morire? Cosa significava tutto questo? Pazzia, tutta pazzia! Marius, il suo Marius, non era certo solo corpo, un corpo che poteva essere ferito o danneggiato: Marius era spirito, luce, aurora. Perché doveva essere importante quel fragile rivestimento di pelle, tendini e ossa, ora quasi fatalmente indebolito, a cospetto dell’invincibile entità quale era Marius per Cosette?

Amare un’anima che si fa corpo, e questo corpo che muore. Orrore come pochi. Rendersi conto che una sola ferita fisica basta per spazzare via quell’immenso empireo di mente, anima e sentimento al cui cospetto abbiamo donato vita e cuore.
Scoprire l’esistenza della morte avvicinata, unita, compenetrata, per la prima volta, a quella dell’amore. Chiediamo al lettore, consci della nostra profonda insufficienza, di darci il sostegno che può, cercando davvero di assimilare tale concetto.

Amare, e vedere morire. Immaginate, se potete, un dolore peggiore e più ingiusto. Cos’è l’amore, se non l’istintiva negazione della morte? E cosa succede quando, invece, la morte impone la sua presenza in quel terreno a lei non consacrato? Amare per sempre, sapendo l’esistenza della fine e della morte, cosa significa questo? Cosa si prova ad amare una persona, una in tutto il mondo, una, solo una, e vederla abbandonarci per sempre, per un volere brutale e innaturale? Ed essere costretti a vivere, quando ci sentiamo morti, ma per quanto amiamo la vita, davvero l’abbiamo amata, di un amore spasmodico e cristallino, ora dunque, ora, solo ora, in un istante, ci vogliamo morti! Perché così sarebbe il giusto, così sarebbe naturale, perché non può essere che siamo ancora vivi, che ci è stato negato di morire al posto suo, e quell’orribile, straziante senso di colpa di respirare quell’ossigeno rubato, rubato alla sua vita, ai suoi respiri immobili, e perché non soffocarsi per questo!
E sapere che se solo avessimo potuto, se solo ci fosse stato qualcosa, helàs, qualunque cosa che avessimo potuto fare per evitare la tragedia, come Orfeo, fino al Regno dei Morti a piedi saremmo arrivati per raggiungere la nostra Euridice! Sapere che avremmo dedicato tutta la nostra vita alla sua felicità, tutto il nostro cuore a riempire il suo petto, tutta la nostra anima a combattere ogni suo momento di dubbio o d’angoscia, sapere che ogni particella di questo straziante amore è ora inutile, vuoto, impotente al cospetto della sua tomba! Lo sgorgare continuo, incontrollato e silenzioso di un cuore dissanguato, che non un grido né mille possono esaurire; l’angoscia di continuare a vivere nella sua assenza, senza vita, nella notte, a esistere.
Il pensiero della sua perdita solo per causa di un danno causato al corpo, un mero rivestimento, così fragile, così fallace, attorno ad un’anima. La sua anima.

Tuttavia, non possiamo impedircelo. In tutto questo orrore, ad oggi, noi crediamo.

Crediamo nel vincere, conquistare, annullare la morte. Crediamo nell’amore, inteso come espressione suprema dell’infinito nella mente umana, e crediamo nell’amore che sopravvive oltre l’ignoto e l’oblio. Scrive Gautier: “Si è veramente morti soltanto quando non si è più amati”. Noi ci crediamo. Potremmo fare altro?

Questa che esponiamo, sia ben chiaro, non è una nostra opinione: nessuna speculazione filosofica o tantomeno letteraria ci spinge a tali considerazioni. Non abbiamo pretese di convincere nessuno della bontà delle tesi qui ricordate: ci limitiamo ad arrenderci alla loro evidenza. La genuflessione di fronte alla sublimità di ciò che osserviamo, ecco tutto ciò su cui si basano le nostre dimostrazioni. “Lo studio del bello è un duello in cui l’artista grida dallo spavento prima d’esser vinto”. Questo è Baudelaire. Ebbene, noi gettiamo le armi e ci inchiniamo a testa bassa davanti al bello, inteso come ciò che è essenza di poesia, ben lungi dall’essere un giudizio materiale o superficiale, e per provarne la santità e la verità ci limitiamo a dire: guardate.
Osservate voi stessi.
Verità e sublimità sono due aste di una stessa bilancia.
Contemplate le case abitate davanti a voi, l’anima che brilla dentro di voi e il cielo stellato sopra di voi, e provate a dire che non esiste un infinito sacro in tutti e tre i luoghi.
E ora, fermatevi a raccogliere tutto l’amore provato o latente che avvertite nell’anima.
Congiungete insieme ogni emozione, sentimento e commozione che abbiate mai avuto la grazia di provare nella vostra vita.
Rivivete ogni abbraccio, ogni sorriso, ogni passione, ogni contemplazione; il moto di affetto dedicato a chi compone la vostra luce, la lacrima nata nella poesia di un istante, quello slancio di allargamento del cuore dovuto a tutto ciò la cui natura è avvolta da un mistero alato e celeste: provate dunque ad affermare a voi stessi che tutto questo è semplice materia, e che con la materia si distruggerà.

Ciò che il cuore grida di aver perso, l’anima lo ritrova. Come un sasso che cade nell’acqua, ogni cosa che vive genera cerchi che si estendono oltre i confini della materia. Siamo carne e sangue, è vero: ma da questa carne e da questo sangue, da questa pulvis et umbra, nasce qualcosa.
Tale è la verità: l’amore sopravvive nella morte poiché, se così non fosse, né spirito né mente avrebbero mai avuto senso di esistere.

Annullare il dolore è impossibile, ma è necessario ricordare che, l’anima di lutto in lutto, l’uomo di riva in riva, ci si volge all’eternità.

Torniamo alla nostra storia.

E’ chiaro, in tutto questo, lo stato di profondo turbamento in cui Cosette si trovava, nel momento in cui la Toussaint tutta tremante fece entrare dalla porta principale due figure malridotte, di cui solo una nota a Cosette: il vecchio padre adottivo, stremato, appena semi cosciente, sorretto interamente da un poliziotto arcigno, il quale depose delicatamente Jean Valjean sul divano al centro della sala.
Pallidissima e trepidante, Cosette si chinò sul padre e, quasi immediatamente, si rialzò e, assieme alla Toussaint, si profuse nella ricerca di tutte le coperte, cure e medicine che l’istruzione, l’amore e il buon senso potevano suggerirle.

Il poliziotto, appena dopo avere posato il corpo quasi inerme di Jean Valjean, riprese la redingote e, senza dire una parola, se ne andò. 




 

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* Ovidio: “Ogni amante è soldato.”

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Capitolo 6
*** Ritratto di tigre ***


2. Ritratto di tigre

 
Chi, quel giorno, fosse passato per il Quai des Ormes poco prima di mezzanotte e fosse tornato nello stesso punto qualche ora dopo, avrebbe probabilmente avuto un motivo di perplessità: entrambe le volte avrebbe infatti visto uno stesso uomo, dalla statura alta e imponente, nello stesso atteggiamento, a capo chino e con le mani dietro la schiena, che percorreva la stessa via, quella del lungofiume,  nella stessa direzione, dell’Ile de la Citè, con la stessa falcata, lenta e calma, a tarda sera prima e a notte fonda poi.

L’unica differenza nei due momenti era che quella figura nera si era presentata dapprima indossando un cappello a cilindro ben calzato, mentre la seconda volta era a capo scoperto.


Un passante un po’ superstizioso avrebbe forse pensato a quella figura nera come ad un cattivo presagio, per via del suo aspetto particolarmente contrito; uno molto superstizioso potrebbe invece averlo creduto addirittura una creatura della notte, osservandone la fisionomia minacciosa e gli abiti scuri; un passante infine con altro per la testa  avrebbe semplicemente pensato ad una coincidenza. Ma l’uomo che passava per il lungosenna non era né un cattivo presagio, né una creatura della notte, né una coincidenza: era infatti, ma confidiamo che il lettore non abbia avuto difficoltà a riconoscerlo, l’ispettore Javert, mentre lasciava la casa di Jean Valjean a Rue de l’Homme-Armè, per due volte in quella notte.

Apparentemente, dunque, la situazione di Javert non era affatto mutata: si era ritrovato a costeggiare a capo chino il lungosenna prima, si ritrovava ora allo stesso modo, per di più con gli abiti ancora bagnati dalle acque del fiume. Difficile dire se il salvataggio di Jean Valjean l’avesse veramente liberato da qualche pensiero: dopo il colloquio con il vecchio criminale, causa prima di tutto ciò che aveva scatenato la sua crisi, a Javert sembrava di ritrovarsi ancora più confuso di prima.

Dopo che Jean Valjean l’aveva salvato alla barricata, Javert, pur avendo sofferto appieno la violenza fatale dell’impatto che il suo animo aveva subìto, assistendo impotente al crollo di ogni sua verità, consapevole che l’intero mondo fosse ormai inaccessibile al suo controllo, nonostante tutta la disperazione e lo smarrimento di quegli attimi, una certezza gli era ancora rimasta, limpida ed inaffondabile; l’unico potere che gli sembrava essere ancora legittimo: il predominio sulla propria morte.

Ora, non aveva più nemmeno quello.
La sua morte non apparteneva più a lui, a Javert, ma a Jean Valjean.
La promessa che aveva fatto al vecchio galeotto di non ricercare più il suicidio aveva la stessa rilevanza, per Javert, di un patto sancito con San Pietro in persona. L’entità di Jean Valjean, l’abbiamo detto, si era collocata pienamente nello spazio più profondo dell’animo di Javert, lasciato vuoto dopo la distruzione subìta della divinità legale.


Fermiamoci un istante a considerare quest’uomo particolarissimo, questa fatalità che condanna e protegge, quest’arcangelo feroce.

Javert è terribile, disumano, inesorabile. Questo lo sappiamo.

Ed è onorevole, probo, fedelissimo. Sappiamo anche questo.

Come conciliare tali caratteristiche in un unico, efficace metro di giudizio?
In poche parole, chi è Javert? E, soprattutto, quali sono le sue colpe?

Procediamo con ordine. Da cosa derivano le colpe? Dalle scelte. Quali sono state le scelte di Javert?

Osserviamole da vicino: nato da genitori criminali, Javert sceglie la legge. Cresciuto nella miseria, sceglie l’onestà. Educato nell’odio, sceglie l’umiltà. Si forza a leggere, pur non amando i libri. Obbedisce, pur non apprezzando l’autorità. Si autodenuncia, pur non essendo colpevole.

Javert è, dunque, un uomo che consacra la propria vita all’onestà? Sì. Ma non solo.

Da poliziotto, Javert è spietato. Condanna a morte i miserabili, venera i possidenti, identifica la legge morale con quella sociale. Infrange qualche regola? Commette di proposito qualche atrocità? Agisce per proprio tornaconto? No. Ma è cieco, ignorante, incosciente. E non c’è peccato peggiore, per un’anima, dell’essere cieco di fronte alle altre anime. Javert è, dunque, una bestia al servizio del sistema legale? Sì. Ma non solo.

È evidente come le scelte di Javert, durante la sua vita, non possono che essere considerate più che onorevoli. Quando Javert si è trovato in un bivio, ha sempre scelto la via della giustizia. Commettendo tragici errori. Le sue tremende, fanatiche convinzioni non sono giustificabili, ma non possono essere considerate delle colpe, poiché non generate da scelte consapevoli. Le idee di Javert, come quelle di Jean Valjean prima dell’incontro con il vescovo, non sono altro che un tragico effetto della fatalità: Jean Valjean, lo ricordiamo, uscito da galera era un uomo pericolosissimo, di nome e di fatto. Non aveva anche lui, come Javert, ideologie assolute sulle leggi dello Stato? Non era, come Javert, accecato da una visione del mondo cinica e classista? Javert e Jean Valjean non erano le due facce di un’unica medaglia? Ebbene, perché Jean Valjean è, ora, un uomo redento? Cos’è successo perché gli fosse stata concessa una possibilità di perdono? Ha avuto una scelta. L’incontro con il vescovo. È stato messo di fronte alla fallacità di tutte le sue convinzioni, ha attraversato una sconvolgente crisi interiore, e ha scelto di ricominciare.

E Javert, lui, l’ha avuta questa possibilità?

Sì. Ma ha scelto il suicidio. O meglio, ha scelto l’annullamento. La liberazione da parte di Valjean era una possibilità di rinascita per Javert, esattamente come il colloquio di Valjean con Bienvenue Myriel lo era stato per il forzato. Ma a Javert è mancato il coraggio, la forza, la volontà di rinascere. Javert era terrorizzato dal dubbio e dall’incertezza: voleva l’assoluto. E l’aveva ricercato nella legge. Ma quando questo assoluto è venuto improvvisamente a mancargli, in modo così traumatico, non ha potuto fare altro che gettarsi in un altro assoluto, l’unico a lui rimasto: l’ombra. L’annullamento dell’oblio. L’oscuro abisso delle acque del fiume.

Kant concepì tre leggi della moralità, stilate come segue:
Prima legge: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di legislazione universale.”
Seconda legge: “Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo.”
Terza legge: “Agisci in modo tale che la tua volontà possa, in forza della sua massima, considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice.”

Spieghiamo brevemente: la legge morale da seguire deve essere concepita in modo tale da valere ed essere appropriata universalmente, punto primo. L’umanità propria e quella altrui deve essere da considerarsi unicamente come il punto d’arrivo di ogni legge morale, punto secondo. Si raccomanda di giudicare se stessi con gli stessi parametri di come, in virtù della propria legge morale, si osserva il mondo esterno, punto terzo.
Appare evidente al lettore come Javert abbia già fatto proprie la prima e la terza massima.

Ma la seconda?
Parla dell’umanità. Ecco il fine, ecco l’obiettivo della legge morale. Ebbene, qual è l’obiettivo della morale di Javert?

Non l’umanità.

Un piccolo confronto: Javert ed Enjolras. Entrambi assoluti, entrambi integerrimi, severissimi e completamente votati ad un’idea. La differenza? Enjolras ripone la sua fede, la sua legge e la sua intera vita nella salute e nell’avvenire dell’umanità, vale a dire il Progresso; Javert si vota totalmente alla giustizia legale. Non umana, né divina: legale. Entità astratta, completamente slegata all’uomo nella sua essenza. In tal modo, il fine di Javert non è l’umanità, ma l’ordine forzato dell’umanità.

Javert è la negazione assoluta del secondo imperativo kantiano, in quanto non solo sminuisce l’umanità altrui in nome dell’ordine sociale, ma anche la propria: basta osservarne il comportamento durante la sua prigionia nella barricata. Javert accetta con la più impassibile serenità di essere fucilato a sangue freddo. Come potrebbe essere altrimenti? Aveva una missione, affidatagli direttamente dal servizio di polizia, è stato scoperto dal nemico, ha fallito, è giusto che paghi.

Perfettamente in linea con la sua concezione del proprio ruolo. Javert non ha paura, né tiene speranza né volontà di sfuggire alla morte certa: la sua vita è unicamente un mezzo per servire il sistema, il Codice, la legge; una volta che questo mezzo si rende inutile, ovvero quando commette un errore, si fa scoprire, non ha senso lottare per difenderlo. E non ha senso mantenerlo, se servire il sistema è diventato impossibile.


Per questo, Javert si è suicidato. Per questo, solo per questo Javert sarebbe condannabile: non per la vita che ha vissuto, ma perchè, davanti alla redenzione, ha scelto la rinuncia.

Eppure, Javert non è morto. Miracolosamente salvato -imperscrutabili leggi del destino!-, ha ora una seconda possibilità. Il non-morto deve rinascere. Ciò che Jean Valjean ha strappato alla morte, Javert dovrà riportare in vita. Per aspera ad astra*.

Javert, nel suo vagabondaggio, passò davanti al Pont du Notre-Dame. Vide il cappello che aveva lasciato sul parapetto.

Lo lasciò lì.


Proseguì nel buio.



 
 







 
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*  Seneca: “Fra le asperità, verso le stelle.”

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Capitolo 7
*** Gratia Plena ***


3. Gratia Plena


Era certo che il cammino di Javert non seguiva alcun tragitto.

Fu dunque solo un caso che si ritrovò nella direzione di Rue Saint-Denis? I resti della barricata suscitavano forse una particolare attrazione per lui? Era l'inconscio desiderio, naturale in chi è perduto, di ritornare nell'ultimo posto riconosciuto come sicuro? Si potrà obiettare che la barricata non era stata affatto sicura per Javert: era stato imprigionato, ingiuriato, immobilizzato per ore intere, minacciato fin dal principio di fucilazione certa.
Ma Rue Saint-Denis era, in effetti, l'ultimo posto in cui Javert aveva potuto riconoscere se stesso, il proprio ruolo e le proprie certezze. Dopo gli eventi della barricata, solo il caos. Era lì che era cominciato tutto: lì, fra i giovani combattenti e i muri di pietra, davanti alla pistola inesplosa di Jean Valjean, era avvenuto il crollo dell'assoluto nel fallace, dell'ideologia nel dilemma, dell'inflessibile nel nebuloso.

Erano passate solo poche ore dal massacro. Dal sangue ancora per strada, dai morti non ancora raccolti, esalava quel particolarissimo respiro, muto e torbido, della vita appena strappata.

Qui, Javert avanzava.
L'abbiamo detto: non seguiva nessuna direzione. Si accorse quasi per caso del posto in cui si ritrovava.

Quella strage non gli faceva alcun effetto. I denti digrignati dei cadaveri, le loro mani congestionate, gli abiti strappati e ricoperti di sangue: c'era abituato. Aveva visto molte rivolte, partecipato a molte sparatorie, ucciso molti uomini, vecchi e giovani. Non gli avevano mai smosso la benché minima pietà. Anche ora, quei volti così giovani, così rigidi e ancora contorti dalle smorfie di terrore, non lo turbavano affatto. Era gente, si diceva, che aveva cercato volontariamente la morte, in un atto peraltro di tradimento verso la patria e il Re.
Erano criminali.
Perchè averne pietà?
Quei ragazzi avevano deciso di scontrarsi contro una forza maggiore, implacabile, immensa e invincibile: lo Stato. Avevano perso, com’è giusto che sia, avevano pagato. Sapevano di non poter vincere: erano andati incontro alla morte a sangue freddo, per loro precisa volontà. Si erano scelti da sé questa sorte. Le loro ferite aperte, il loro sangue sparso e rinsecchito, la loro pelle ormai grigiastra: tutto questo era inevitabile, dal momento in cui si erano voltati alle leggi della società. Era quello che avevano voluto, era quello che avevano ottenuto.

Javert proseguiva, sempre impassibile, nel proprio passo. Avevano rotto un contratto con la società, ebbene, ecco a cosa ha portato. Le guardie che li hanno uccisi erano parte di una verità universale. I rivoltosi dovevano morire, volevano morire, e sono morti. E la loro fu, senza dubbio, una morte portata da un sistema in giusto ordine…
Una morte, per così dire, necessaria …
… E non c’è vita, neanche la più misera, che valga la pena sacrificare.”

Javert si arrestò.

Non poteva dire come le parole di Valjean lo avessero colto in quel modo, all’improvviso, senza una minima partecipazione da parte sua. Gli erano, come si suol dire, letteralmente cadute dal cielo.

Javert restò immobile, fissando il vuoto, per qualche istante.

All’improvviso, sentì un rumore.

Javert si riscosse dai suoi pensieri e mosse la testa, all’erta. Era una suono acuto e leggerissimo, che andava a tratti. Cercò di muoversi seguendo quello strano pigolio, facendo ben attenzione a non pestare qualsiasi cosa potesse fare il minimo rumore. Credette di individuare l’origine del suono in qualche grossa asse di legno a pochi metri da lui, ammassate l’una sull’altra, numerose e pesanti. Si avvicinò, chinandosi sulle travi. Il pigolio continuava, ora più nitido.

Era una voce, flebilissima.

“Aiuto.”

Javert afferrò le travi, l’una dopo l’altra, liberando un mucchio di detriti.

Fra i detriti, una bambina.

Doveva avere circa cinque anni, ma era minuscola.
Era ricoperta da stracci miseri, i capelli avvolti in un fazzoletto tanto piccolo che, tutto aperto, non avrebbe coperto il palmo di Javert. Era sporca di terra e tutta impolverata. Una grossa ferita le attraversava l’addome.

Ciononostante, appariva piuttosto serena.

Avendo sentito dei passi poco distanti da lei, aveva cercato di chiamare aiuto al meglio che poteva. Era contenta che l’avessero ritrovata.

“Buongiorno”, disse a Javert, candidamente, come se fossero entrambi alla luce del sole e quella fosse una normalissima conversazione di città, “voi chi siete?”.

Javert, in ginocchio, la prese, liberandola dalle macerie, e osservò attentamente lo squarcio che aveva sul petto. Era una pallottola che l’aveva colpita di sbieco, creando una lacerazione relativamente poco profonda, ma molto ampia. Sentì il polso della bambina, poi alzò la testa e si guardò intorno, calcolando mentalmente le distanze. Dopo qualche istante, però, il suo sguardo si posò di nuovo sullo stato della ferita, sulla pelle bianca e gelida e sul polso tanto debole della bambina.
Per lei non c’era speranza; aveva resistito quelle ore, ma era evidente che il cuore stava sforzando i suoi ultimi battiti. Anche cercare una cura, ormai –Javert ne era sicuro- comunque inutile per una ferita di quell’entità e in quelle condizioni, sarebbe valso almeno una decina di minuti: la bambina non aveva che due o tre minuti ancora da vivere.

“Voi chi siete?” ripeté lei, con la giusta ostinazione dei piccoli quando gli adulti non rispondono alle loro domande espresse con tanta chiarezza. “Non vi conosco, non penso… non vi ho mai visto qui… oh! toh!” fece lei, toccando con il ditino la redingote umida di Javert, “siete bagnato. Però non piove”. Vedendo che l’adulto continuava a non rispondere, limitandosi a fissarla, rinunciò a saperne l’identità e a fare commenti su quella stranezza di avere i vestiti bagnati nonostante fuori non piovesse. Voltò vagamente lo sguardo da una parte e dall’altra, poi chiese, con la medesima tranquillità di prima: “Dove sono mamma e papà?”.

Non c’era rimasto nessuno nella via. Una lunga distesa di corpi morti.

Javert fece per rispondere. Infine, non disse nulla.
La bimba non si arrese: “Allora, dove sono? Mi ricordo che mamma e papà erano preoccupati per i rumori di fuori… c’erano un sacco di botti, di là… poi qualcosa di grande è caduto. Non li ho più visti” constatò placidamente. “Voi li avete visti? Li riconoscete: mia mamma è molto bella, mio papà è anche lui molto bello. Poi ci sono i miei fratelli e sorelle, alcuni di loro sono buoni e altri non buoni come loro. Che freddo che fa!” disse all’improvviso, rabbrividendo. “Fa molto freddo, voi siete anche bagnato, dovreste sentirlo. Perché fa così freddo?”.

Javert continuava a tacere. In un gesto del tutto istintivo, la strinse più saldamente.

“È strano. Pensate che sia opera di Dio? Quando ho chiesto alla mamma cosa stava succedendo, e perchè erano tutti così preoccupati, mi ha detto che dovevamo affidarci a Dio, perché Lui è… onnopotente. È Lui che conosce il nostro destino e ci salva”. Guardò Javert, spalancando gli occhi, dubbiosa: “Cosa significa ‘onnopotente’?”

“Onnipotente. Può tutto” rispose finalmente lui, con voce un po’ roca.
“Ah, sì, può tutto. Sì, sì, è vero. Questo freddo è opera di Dio? Ah!... aspettate!... so chi siete!” fece lei, illuminandosi tutta, “mi hanno parlato di voi. Siete un angelo, no?”.
La piccola era entusiasta di questa intelligente conclusione. Era molto fiera di se stessa. Ma la sua vocina si faceva sempre più fioca.
“Siete venuto da parte di Dio per portarmi in Paradiso. Andrò in Paradiso, vero?” si preoccupò immediatamente, “spero di sì. Credo di essere stata abbastanza buona. A parte quando i miei fratelli mi facevano arrabbiare, ma ho sempre chiesto scusa. Però… non avete le ali. Ma forse, non tutti gli angeli devono per forza avere le ali. Allora? È vero? Siete un angelo?”.

Silenzio.

Il sangue dal petto della bambina scendeva sulle dita di Javert.

“Sì. Per questo sono qui.”
“Per portarmi in Paradiso?”
“Sì.”
“Anche mamma e papà sono in Paradiso?”
“Sì.”
“E i miei fratelli e sorelle?”
“Anche.”
“Oh! Che bello! E quando ci andrò? Manca molto?”
“No. Presto.”
“Bene! Sento ancora più freddo… Dio è buono, mi fa andare in Paradiso anche se non sono stata sempre buonissima… a voi posso dirlo, signor angelo. Sono tanto contenta che ci faccia andare in Paradiso tutti insieme! Menomale… ero un po’ spaventata prima, con i botti e tutto quanto… e poi non c’era più nessuno… ma menomale, davvero, che siete arrivato… menomale… la ringrazio, signor angelo.”
 
Fiat mortis.

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Capitolo 8
*** Silenzio ***


4. Silenzio


Esistono eventi, nella storia del mistero umano e divino, che semplicemente devono restare nella dimensione del puro spirito. Troppo intensi, troppo sacri, troppo immensi. Sono gli squarci pieni di luce in un’anima martoriata. Sono gli orrori bestiali da cui l’umanità può o perdersi, o risorgere. Sono le albe, i fuochi, gli oceani; sono i lutti, la vita e la morte, sono le rinascite; sono le rivelazioni dell’infinito, è l’assoluto che pugnala e benedice; sono gli astri e le stelle.

Impossibile, per noi, tradurli in linguaggio. Abbiamo detto: per noi, poiché esistono e sono esistiti uomini e donne che hanno potuto farlo. Le più grandi menti della nostra storia sono coloro che, sfiorando il miracoloso, hanno portato quaggiù un frammento di infinito, per via di macchine, parole, suoni, intuizioni. Uomini o titani, hanno dato uno sguardo all’Eterno e, senza smarrirsi, sono scesi per raccontarlo.
Comuni mortali, hanno prodigato magia senza essere maghi. Scienziati, compositori, poeti, matematici, pensatori: hanno scoperto e, ancora di più, hanno svelato quelle particelle di Alfa e Omega dalle quali la storia è pronta a ripartire. Erede delle loro scoperte, è l’umanità che converge sempre di più verso l’unità.

Lo diciamo ora per ricordarlo sempre: si è al mondo per evolvere, crescere, progredire; vale a dire: insieme. Si nasce grazie ad altri e, benché ci si ostini a dimenticarlo, in funzione di altri. A cosa serve esistere, se si pensa, si agisce, si crede solo in funzione a se stessi? Vivere chiusi, è vivere per nulla. L’uomo esiste, perché parte di un’umanità, di un creato e, come negarlo, di uno spirito comune. Se così non fosse, non esisterebbero animali, né piante, né oceani, né montagne: esisterebbe un solo, unico, immortale essere umano a vagare nell’universo per l’eternità, privo di scopo, potere e significato.

Ebbene: l’uomo non è solo. Nessuno. Mai.

Sia chiaro: noi non predichiamo l’annullazione del singolo, né riteniamo l’esterno tanto più importante dell’interno. Crediamo senza dubbio che uno dei primari scopi della vita terrena sia l’analisi interiore, la ricerca della propria spiritualità e delle proprie scelte; in altre parole, della propria identità. Mai disdegnare le ore di solitudine: sono necessarie. Costruire l’io, innanzi tutto; poi, confrontarsi con gli altri: vale a dire, dare e ricevere. Il modo migliore per essere umani, e restare umani: tale è l’atto del donare.
Donare tempo, pietà, amicizia, perdono.
Donare in modo sensato, sì; ma che sia generoso e disinteressato come l’amore di un bambino. Bisogna amare. Amare come un assetato, amare con tutto il fervore di dieci cuori e venti braccia, che ardono ogni momento a vivere, gettandosi ridendo ogni giorno nel fuoco sacro della vita. L’amore della famiglia, l’amore degli amici, l’amore degli sposi, l’amore delle idee, l’amore dell’umanità: amare è ciò che sconfigge la morte. Nell’istante estremo, una sola cosa importa: quanto abbiamo amato. Non ha senso avere paura della morte: è anche lei stessa la vita. E’ come avere paura di nascere, di crescere, di innamorarsi. E, se si ha amato, nell’accezione più ampia del termine, nessun rimpianto ha più senso di esistere.

Chi ama, vive. Indipendentemente dal resto.

Amare per imparare: storie, emozioni, idee, grandi maestri del presente o del passato.
Ciò è indispensabile, poiché è da qui che un cuore è pronto ad innalzarsi. Amando gli altri, si dona l’unica cosa che può sopravvivere in un altro corpo: l’anima.
Ecco perché donare.
Donarsi totalmente, senza affatto annullarsi, ma riconoscendo negli altri la stessa materia che compone la nostra carne e il nostro spirito. Si vive per l’infinito fuori di noi con l’infinito dentro di noi. Non si può ipotecare il futuro, si può solo credere nella forza e nella parte migliore di noi stessi e degli altri. Accrescere la propria anima, evolverla, santificarla, imprimerla, e infine distribuirla.
Farsi e fare del bene, con la propria saggezza, la propria conoscenza, la propria spiritualità, accumulare la passione, la gioia e il dolore e donarli al mondo.
Così, noi crediamo, è joie de vivre.
Così, è comprendere il valore di quei grandi uomini e quelle grandi donne, noti o ignoti, che ci dimostrano ogni giorno il valore e il significato di essere umani.

Non è necessario compiere straordinarie imprese per cambiare il mondo, né tantomeno è giusto misurarsi da sé in ciò che abbiamo o cosa siamo.
Per cambiare il mondo, bisogna cambiare le persone.
E, per cambiare le persone, bisogna partire da se stessi.

Tutto nasce dall’uomo nello specchio.

Bisogna desiderare e venerare la gioia, nostra e altrui. Bisogna essere grandi, ma grandi nello spirito, mai meschini: questa è l’immortalità. Perché l’immortalità non viene misurata dagli storici, ma si guadagna nei cuori e nella mente degli uomini con i quali si ha condiviso la vita, o anche solo una parte di essa; e questo sarà un epitaffio molto più forte e duraturo della pietra.

Amare, è donare.

E donare, è insegnare: poiché non si custodisce qualcosa se non con lo spirito; e la memoria di un gesto generoso sarà la più grande lezione. In tal modo, insegnare ad un uomo è insegnare alla sua famiglia, ai suoi amici, ai suoi figli. Una madre e un padre sono una scuola: istruite loro, e istruirete una generazione. La propria essenza spirituale, custodita e tramandata da chi la ricorderà con affetto, rispetto e gratitudine, passerà da un cuore all’altro, vivendo così nei secoli.
Il volto e il nome verranno dimenticati, gli insegnamenti mai.
La memoria di chi dona, agisce e aiuta non verrà esaltata da liriche e discorsi annuali, ma dalle azioni e dai pensieri di chi vivrà influenzato, anche inconsciamente, dal cuore e dallo spirito di chi gli è passato vicino, lasciandogli qualcosa.
Perché nascondersi o ritirarsi? Una moneta in più può salvare una vita, una parola in più può salvare un’anima.

Così si vive nei secoli: non con l’ambizione, ma con la consapevolezza e la generosità. Imparare, capire, insegnare. Ricevere, imprimere su di sé, donare. Restituire al mondo ciò che si è raccolto, spiritualmente ed emotivamente.

E’ esattamente per questo che noi, nel nostro piccolo, offriamo questa storia con le riflessioni che essa ci ispira: sperando che possa suscitarne altrettante, di miglior pregio, nel lettore. Tuttavia ci sono momenti, il lettore l’avrà notato, nei quali siamo costretti a deporre le armi. Come abbiamo detto, sono moltissimi gli eventi che, nella loro ineffabile, insostenibile e, a volte, terribile intensità, non possiamo né vogliamo descrivere a parole.

Fra questi, a cavallo dell’alba e del tramonto, folgore nell’Alfa e nell’Omega, fra la distruzione e la rinascita, c’è la morte di questa bambina nelle mani di Javert.

Per quanto tempo Javert era rimasto immobile, inginocchiato sul corpicino freddo che teneva fra le braccia? Quale lo stato della sua mente in quei momenti, quali i pensieri, quali le emozioni?

Ecco ciò che siamo impossibilitati, per mancanza di capacità e per rifiuto di volontà, a riportare ora su questa pagina. Tali avvenimenti sono degni di essere rappresentati solo dalle penne più sacre. Abbiamo, inoltre, un enorme rispetto per la riservatezza del cuore umano, e riteniamo esserci dei momenti nei quali mai si dovrebbe penetrare nelle sue profondità più recondite: questo, al quale stiamo assistendo, è uno di quei momenti. Riteniamo che entrare nella testa e nel cuore di Javert, ora, sarebbe niente altro che una violenza nei suoi confronti.

E, in fondo: sarebbe così necessario al lettore?

Cosa ci sarebbe da chiarire, più di quanto non sia già stato espresso?

Il soldato, di fronte alla vittima sanguinante.
L’errore granitico e maestoso, la purezza fragile e dolcissima.
L’innocenza, morta fra le braccia dell’assassino.

Nulla più.

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Capitolo 9
*** Dove si conosce una strana attrazione parigina ***


5. Dove si conosce una strana attrazione parigina


Passò, dunque, un tempo imprecisato.

Finalmente, Javert si sollevò in piedi. Fra le braccia teneva sempre la bambina, alla quale aveva già delicatamente abbassato le piccole palpebre.
Negli ultimi istanti, ci aveva riflettuto: doveva portarla via? O sarebbe stato meglio lasciarla lì, fra i corpi dei vicini e famigliari?
Javert, nell’innata discretezza della sua natura, era stato lì per riporla esattamente nel punto in cui l’aveva trovata. Ma un’immagine era apparsa alla mente di Javert: la fossa comune.

Era lì, sicuramente, che la bambina sarebbe stata seppellita. Fra i ladri, gli assassini e i condannati a morte. In un buco orribile.
Era naturale: morta per strada, fra numerosi altri cadaveri, non si perdeva tempo.
Bisognava riconoscere i morti in fretta, o salutare il carretto funebre che passava. Sarebbe stata destinata alla fossa comune, nell’ordine metodico della pulizia stradale, non c’è dubbio. Quest’idea, che fino al giorno prima sarebbe stata naturalissima a Javert, ora gli appariva assolutamente intollerabile. 

Deciso, si alzò, voltò le spalle e, tenendo con cura il corpicino avvolto negli stracci, si diresse marzialmente verso la Morgue*.

Perché la Morgue, e non una chiesa, per darle sepoltura? Intanto, Javert non si riteneva autorizzato a tale circostanza, non essendo lui né un parente né un tutore della bambina.
Non sapeva neanche il suo nome.
Lasciandola alla Morgue, dove i tempi sono decisamente più lunghi che nelle strade, poteva sperare che qualcuno la riconoscesse e le desse funerale da parente o da amico, com’era giusto che fosse.
In secondo luogo, Javert non se la sentiva di entrare, con lei, in una chiesa. Gli sarebbe sembrato di profanare l’ingresso della bambina. Non aveva nessun diritto di accompagnarla in un tale luogo.

Il caratteristico edificio pubblico, di solito oggetto di grandi e continui andirivieni parigini, dato l’orario notturno era ora deserto. Curiosamente, l’obitorio sembrava essere un vero spettacolo a porte aperte per la gente del posto.

Scriveva Zola: “Ci sono degli appassionati che fanno parecchia strada pur di non perdere nemmeno una di queste rappresentazioni della morte”. In fin dei conti, è gratuito, spazioso, aggiornato quotidianamente, prezioso sia dal punto di vista scientifico quanto sociale (non si può negare l’utilità di venire a sapere, liberamente e con una puntualità impeccabile, certi eventi di cronaca mondana di rilevanza non indifferente quali i decessi e, ancora meglio, i suicidi), ricchissimo di stupore e, infine, incarnazione di un certo gusto del gotico e del macabro, di gran moda in quegli anni. Solo l'odore lasciava un po’ a desiderare.

Javert oltrepassò, dunque, la porta sempre aperta della Morgue. I cadaveri più disparati, più o meno trucidati e deformati, riposavano inerti sulle lastre grigie disposte ordinatamente nella sala.

Senza forse volerlo, Javert si soffermò per un attimo alla vista dei cadaveri di annegati, talmente molli e sfatti che la carne veniva via a brandelli dalle ossa.

Il custode, un ometto dall’aria pallida e malaticcia (non molto si può pretendere da un ambiente del genere), lo interruppe alle sue riflessioni per fargli posare il cadaverino sulla lastra più vicina.
“Vediamo”, cominciò lui, con il tono piatto di un ragioniere che si appresta a fare di conto con dati
aziendali: “Dove l’avete trovata?”
Javert, per qualche motivo, aveva evitato di dire di essere un poliziotto. Cercava di rispondere alle domande del custode con quello che sapeva; il che, in effetti, non era molto.

“A Rue Saint-Denis, la zona della barricata.”
“Ah, sì, brutta faccenda. Lei non è un parente, ha detto?”
“No, non lo sono. Vi lascerò quindici franchi per la sepoltura, in caso nessuno la riconosca.”
“Benissimo, benissimo. Dunque. Nome della bambina?”
“Non lo so”.
“Data di nascita?”
“Non la so.”
“Genitori? Famigliari? Amici?”
“Non saprei.”
“Un particolare riconoscitivo? Un epitaffio? Qualcosa?”
“Non so nulla di lei, non l’ho mai vista prima.”
“E io cosa ci scrivo sulla lapide?”
“Non lo so. Se arriverà qualcuno da parte sua, potrà chiedere a quello.”
“E se non arrivasse? Abbiate pazienza, io qualcosa devo scriverci su questa lapide. Bisogna farle bene, le cose. A me vengono richieste due cose: i funerali, o la fossa comune. O è l’uno, o è l’altro. Se è un funerale, bisogna avere un nome, un numero, qualcosa. Se no...”
“Va bene, va bene. E allora…”

Cadde il silenzio. Il custode, indicandogli in modo spiccio un blocco di carta e una penna, poggiate con cura metodica su di un minuscolo tavolino in un angolo della sala, gli fece cenno di scrivere ciò che voleva venisse inciso. Con questo, tornò immediatamente nel suo ufficio. Pare che i guardiani di obitori siano lavoratori enormemente indaffarati.

Javert si avvicinò al tavolino, prese un foglio e la penna.
Rimase in misteriose riflessioni per un po’.
Infine, con la sua grafia più calma e controllata, scrisse un paio di righe. Entrò poi nell’ufficio del custode, dove questi lo prese e lo esaminò.
Ecco cosa recava il foglietto:


‘Dio è onnopotente’

Circa 1827 – 6 giugno 1832


Nonostante la naturale passività del suo carattere, il custode appariva ora decisamente perplesso.
“Scusatemi, penso ci sia un error-”
“Nessun errore”, tagliò corto Javert.
Pagò il dovuto, salutò silenziosamente e, senza dire altro, uscì dall’ufficio. Nella sala d’ingresso, diede un ultimo sguardo al corpo della bambina.
Quell’espressione di perfetta e fiduciosa serenità non era stata mutata, nemmeno dalla morte.

Javert uscì dalla Morgue, diretto verso Notre-Dame.





 


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* L’obitorio francese.

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Capitolo 10
*** Regina ***


6. Regina


La cattedrale di Notre-Dame de Paris.
Il lettore ci scuserà: parlandone, non potremo in alcun modo essere imparziali. Essa rappresenta, per noi, tutto ciò che di più sacro esiste al mondo.
Ecco: la pietra si fa statua, musica e poesia. E tutto sale su, verso le stelle.

Madre immensa di Parigi, bianca aurora di maestà, luce immortale di un passato eterno! Promontorio del sogno di anime strette nella magnificenza! Sublime riparo, solenne e invincibile, tanto per coloro in alto quanto per coloro in basso, custode di fede, amore, speranza e pietà, appartenente all’infinito! C’è la magia a Notre-Dame de Paris. Impossibile non tremare al suo cospetto; non arrendersi alla sua magnifica potenza, è imperdonabile.
La porta incisa di Notre-Dame è un ritrovo di anime sacre.

Quando il tempio di dentro, l’anima, incontra il tempio di fuori, la cattedrale, i due infiniti si uniscono in un canto consacrato.
Chi assiste a tali vibrazioni? L’ombra.
Qui, si trovava Javert.

Fin dal momento in cui era uscito dalla Morgue, Javert aveva avuto l’assoluta certezza che quello fosse il luogo dove avrebbe dovuto dirigersi.
Il motivo, non lo sapeva.

Benché in genere amasse seguire le formalità, egli non andava spesso in chiesa: la sua costante dedizione al lavoro glielo impediva. Javert era uno di quegli uomini che nutrivano un sacro e profondissimo rispetto per la religione umana, senza affatto conoscerla.

Entrò nella cattedrale, completamente deserta. Questa solitudine serrava il cuore e rapiva l’anima. V’era abbandono, rinunzia, oblio, esilio, sublimità. A mano a mano che la religione umana si allontana da quel misterioso e geloso edificio, la religione divina vi entra.

Entrate con la solitudine, ci sentirete il cielo.

Javert si fermò un attimo appena dopo aver superato la soglia, incerto, quasi forse timoroso. I pochi passi avevano già rimbombato per tutte le pareti dell’immenso edificio. Ebbe un moto come per voltarsi ed uscire dalla cattedrale, essendoci appena entrato.

Ma proseguì.

Attraversò, calmo e lento, la navata per intero, arrivando quasi a cospetto dell’altare: l’enorme croce dorata sorgente alle spalle della Madonna, con il viso rivolto al cielo.

Non ci fermeremo, benché ce ne rammarichiamo, a descrivere le meraviglie di tale interno: molte penne ben più capaci di noi hanno già provveduto. Noi, non ne siamo lontanamente degni. Al lettore basterà immaginare una sola entità, diffusa e intrisa fra ogni parete, vetrata e reliquia di quel sacro edificio: la Maestà.

Javert, dunque, arrivò all’altare. Qui, si fermò per qualche istante, incerto.
Momento d’infinito.
Appena oltre l’altare dorato, un leggio.
Sopra il leggio, un libro.
Il libro era aperto.

La Bibbia.

Ci sono avvenimenti, nella vita, che non hanno nulla di razionale. Ci si ostina a negare qualsiasi cosa che non si riesce a spiegare, dimenticandosi che il potere della mente umana è immenso, sì: ma non illimitato. Esso non concepisce l’infinito, eppure l’infinito esiste. Le stelle ne sono la prova. Perché tentare di calcolare ciò che è ineffabile, perché agonizzare sotto la sublimità?
Perché essere diffidenti davanti ad un’alba, a un tramonto, a un miracolo che nasce?
Posate gli strumenti, e fermatevi ad ammirarlo. Solo così potrete capirlo.
Essere superstiziosi, è dimenticarsi della mente; essere credenti, è ricordarsi dell’anima.

Javert si avvicinò al libro. Per un’anima che si guarda, e si ritrova sperduta, ogni dettaglio può essere un’ancora di salvezza.
Ad insaputa dello stesso Javert, la sua mente si era fatta un poco più profonda, il suo pensiero un poco più ampio. I grandi traumi, talvolta, sortiscono di questi effetti. Sono palle di cannone alle quali, nel loro impatto distruttivo, accade di rompere incidentalmente qualche temibile barriera, aprendo spiragli qua e là.
Spinto dalla necessità, e da qualcosa di più alto ancora, non poté impedirsi di leggere il testo, un Salmo, sulla pagina già aperta.

Ecco particolari frammenti del testo che lesse:

Beati coloro la cui vita è immacolata,
che camminano nella legge di Dio
.”

L’immagine di Jean Valjean, galeotto immacolato, custode di quella legge che era a lui sconosciuta, gli si presentò d’immediato alla mente.

Tu hai promulgato i tuoi precetti,
da osservare fedelmente.
Dunque, siano stabili i passi miei
nel compiere i tuoi statuti!”


Aveva mai osservato lo statuto cristiano? Ci aveva provato. Ci aveva provato davvero, ma aveva sbagliato a leggerlo: e nessuno, prima di Jean Valjean, l’aveva mai corretto.

Ti loderò con rettitudine di cuore,
istruito dei tuoi giusti decreti.
Voglio osservare i tuoi statuti:
non abbandonarmi ora!”


Dio l’aveva abbandonato? Fino a quella notte, Javert non aveva mai pensato a Dio che come una vaga, astratta definizione formale nei libri di preghiera.
L’immagine nella sua mente passò da Jean Valjean alla bimba appena morta.

Benefica il tuo servo,
affinché viva e osservi la tua parola.”


Javert aveva sfiorato la morte, l’aveva cercata, l’aveva voluto. A lei si era arreso; si era offerto, senza speranza né resistenza, al suo ineluttabile oblio. Eppure, viveva. Per cosa, per chi?

Aprimi gli occhi affinché io contempli
le meraviglie della tua legge.”


Quali erano le meraviglie della legge di Javert? L’ordine, l’inflessibilità, l’assolutezza. Quali, le meraviglie di quella appartenente a Jean Valjean? Il totale annullamento della prima. Da questo nulla, da questa distruzione, si poteva ricostruire qualcosa? Era stato bruciato o illuminato? Trafitto o irradiato? Era perduto, o aveva semplicemente aperto gli occhi?

Tienimi lontano dalla via dell’errore,
fammi grazia della tua legge.”


Questo coraggioso nuovo mondo, questa nuova concezione, questi nuovi esseri umani, gli sembrava tutto così orribilmente, terribilmente folle e caotico. Javert aveva creduto di sconfiggere l’errore con la certezza: ma come sconfiggere l’errore, se non con l’ammissione di essere fallaci?

“Ecco, io desidero i tuoi precetti:
dammi vita per la tua giustizia.”


Giustizia, ingiustizia, scelta giusta, scelta sbagliata, come riconoscerle ancora? Esisteva una traccia?

Osserverò la tua legge per sempre,
senza posa, in eterno.”


Una nuova legge, dunque, una nuova concezione assoluta, sicura, eterna? C’era una speranza?

“Ricorda la promessa fatta al tuo servo,
con la quale m’infondesti speranza.
Questo m’è conforto nella mia afflizione:
che la tua parola mi ridà vita.”

“Non cercate più di buttarvi nel fiume, Javert. Avete una scelta.”

Per la seconda volta in quella notte, le parole di Valjean gli erano apparse alla mente, senza il minimo preavviso.

Ti scongiuro dal fondo del cuore,
pietà di me, secondo la tua promessa.
Rifletto sulla mia condotta,
rivolgo i miei passi ai tuoi insegnamenti.”


Tutti gli errori, le ingiustizie, le tirannie che, inconsapevolmente, aveva commesso.
Ancora, l’immagine della bambina uccisa…

Prima di essere afflitto, mi sviavo,
ma ora osservo i tuoi precetti.”


Decisamente, la sua afflizione era stata fatale. La più tremenda delle crisi.
Tuttavia ora, per la prima volta, Javert non era più così convinto di avere fatto la scelta giusta, tentando di buttarsi nel fiume. E non solo perché gliel’aveva detto Jean Valjean.

Buon per me essere nell’afflizione,
per imparare la tua volontà.”


Quella che aveva considerato come la sua più grande catastrofe, il patibolo designato, la prigione priva di fuga, poteva invece essere il frutto, o l’inizio, di qualcosa di giusto? Secondo Jean Valjean, lo era. Javert considerò se stesso: si trovò minuscolo dinnanzi a Jean Valjean.

Signore, so che sono giusti i tuoi giudizi,
e che a ragione mi affliggesti.
Or il tuo amore mi consoli,
secondo la promessa fatta al servo tuo.”


Cosa sarebbe successo se non fosse mai andato alle barricate, se non avesse incontrato di nuovo Jean Valjean, se non avesse permesso a questi di essere in debito con lui? Avrebbe condotto la sua vita futura nel modo esatto in cui aveva agito durante tutti gli anni precedenti. Il pensiero, inaspettatamente, lo irritò profondamente.

Praticai la giustizia e il diritto:
non abbandonarmi a chi mi opprime.”


Questi, nella sua vita, erano stati tutti i suoi obiettivi: seguire la giustizia e il diritto. Doveva ancora inseguire ciò, ma in un modo completamente differente, che intravedeva ma non capiva.

Volgiti a me, abbi pietà di me,
com’è tua norma con chi ama il tuo nome.
Fissa i miei passi con la tua parola,
Non mi vinca alcun male.”


Javert aveva cercato la morte, perché aveva avuto paura. Paura del futuro, dell’incertezza, dello sbaglio. E aveva avuto orrore di sé. Ma Jean Valjean, lui, aveva avuto pietà.

La tua giustizia è giustizia eterna,
e la tua legge è verità.”


Verità.

Anelo la tua salvezza, o Signore,
la tua legge è la mia delizia.
Viva l’anima mia per darti lode,
mi aiutino i tuoi precetti.
Se mi svio come pecora smarrita,
vieni a cercare il tuo servo,
poiché non ho dimenticato i tuoi comandi.














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Nota (spiacevole) dell'autrice:

Ho iniziato questa storia tre anni fa, al liceo. Non ho mai avuto particolari istinti da scrittrice, la narrazione di storie è una di quelle abilità che davvero non mi viene automatica. Avevo deciso di iniziare questa fanfiction perchè le scene mi ronzavano in testa da tempo. In un altro account, avevo già scritto qualche altra piccola cosa, ma volevo che Via Lucis fosse proprio la "mia" fanfiction: grande (10 capitoli di questa lunghezza sono per me, scrittrice lenta fino all'esasperazione, davvero tantissimo!), che passasse i messaggi a me cari e, soprattutto, che fosse un mio personale omaggio a Victor Hugo di cui potevo essere mediamente soddisfatta.
L'avrei scritta principalmente per me, non ero nemmeno sicura di volerla pubblicare.
È stato solo poche settimane fa che una sera, all'improvviso, mi sono detta "Oh che cavolo! La pubblico".

Avrei voluto una lunghezza finale di circa 20 capitoli. C'erano delle scene già perfettamente delineate nella mia testa, ma la maggior parte erano degli sprazzi confusi. Ad ogni modo, cominciai a scriverla. E ci misi molto di me stessa.

Racconto questo perchè, ora, la fanfiction è finita.
E lo faccio perchè, se una persona è arrivata a leggere fin qui, la buona speranza è che abbia letto la storia intera :') non mi andava di interromperla qui la senza nessuna spiegazione, anche se non ho proprio la folla ad attendere un buon finale -ce n'e "solo" una che ha scelto di seguirmi commentando ogni mio aggiornamento e che mi ha dato grande grande gioia!- preferivo chiarire un po' di cose.

Prima di tutto, che mi dispiace finirla così, a chiunque importerà (e forse la sto anche facendo troppo lunga con questa conclusione, saranno forse in due a leggerla, tuttavia: la speranza non muore mai!).  Perchè ho anche tentato di portarla avanti, ma è da due anni che ormai non la tocco più e, ora come ora, non penso proprio che potrò mai riprenderla. 
Da quando ho finito di scrivere il presente capitolo, concludendo così la Parte 2 della storia (l'avevo pensata di 3 parti in tutto, con al massimo una quarta puramente conclusiva; la terza si sarebbe chiamata "Ecce Luce"), mi sono irrimediabilmente bloccata. Da allora ho scritto neanche un capitolo e mezzo, pieno di imperfezioni e, a rileggerlo, non mi sembra valga neanche la pena. Mi è parso di avere già detto più o meno tutto ciò che volevo dire.
Ho amato scrivere ogni singola parola di questi 10 capitoli, e spero che siano piaciuti anche a qualcun altro. 

Certo, ci sono altre scene che avrei voluto raccontare, inserire in un contesto, ma va bene così.

D'altra parte, questo ultimo capitolo può già essere considerato, forse, una conclusione. Non nella religione in sè, ma nella consapevolezza che da essa ne scaturisce, nella piena concezione hughiana della religiosità intesa solo ed unicamente come identità ed espressione potente dell'anima umana, senza formalismi di sorta.
O, almeno, così la vedo io.

Voi immaginavate un finale ben specifico? Be', allora... perchè non me lo raccontate?
Javert dovrà di sicuro incontrare di nuovo Jean Valjean, come gli aveva promesso. E poi che succede?

Sul serio, sarei molto curiosa. Io so come l'avrei fatto finire, e dopo dirò qualcosa. Ma voi? :D
Fatemi sapere, se volete e se vi interessa abbastanza, come avreste fatto finire questo racconto. Anche via semplice messaggio personale, senza la recensione se preferite. Se capita, io ne sarò molto molto contenta, e ne parleremo.

Riguardo a me...

Dirò solo la poesia che avrebbe introdotto la Parte 3:

{“O miseria di me! O cuore nero come la morte!
O anima reclusa, che, combattendo per liberarti,
Trovi sempre più catene! Aiuto, angeli! Muovete all’assalto!
Piegatevi, caparbie ginocchia; e tu, cuore dalle fibre d’acciaio,
Sii tenero come le membra d’un neonato!
C’è ancora speranza.”


-William Shakespeare, Amleto, atto III}


E quella che avevo intenzione di usare nella conclusione:

{"Il sole ha oscurato la fiamma delle candele:
e, sempre vittorioso, il suo fantasma assomiglia, anima splendente,
al sole immortale."


-Charles Baudelaire, L'aube spirituelle [L'alba spirituale]}


...Dove il sole è Jean Valjean (niente Valvert, preciso: tutto tenuto scrupolosamente canon). 


E, niente, ringrazio moltissimo chi è arrivato fin qui e si è preso la briga di leggere la storia intera.
Ringrazio anche l'amichetto IKilledSiriusBlack  (:D) per avere fatto da beta reader a questa fanfiction.

Grazie, grazie, grazie di cuore!

AdeleBlochBauer

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Capitolo 11
*** (On The Line) ***


7. Une fin que n'est pas une fin (mais je m'en fous)


Forse
La libertà
Non è dimenticare
Non è affogare
Non è lottare
Non è tentare di comprendere
O giustificare
O incolparsi
A tutti i costi
Perché è più semplice
Se è autoinflitto
Non è urlare
O forse sì
Non è piangere
La notte
Da soli
Nei pensieri
Non è stare male
Non è rimuginare
Non è avere paura
E il cuore bloccato
La libertà
Forse
È ricordarsi
Della persona
Che una volta
Hai sognato di diventare.



Questo non è un finale.

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