Febe Parker e gli dei aztechi

di Charles and Paul
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Faccio crescere accidentalmente delle piante di mais ***
Capitolo 2: *** Viaggio insieme ad un gruppo di squinternati ***
Capitolo 3: *** Vengo assalita da una lontra gigante ***
Capitolo 4: *** Un' asiatica con l'alitosi mi prende di mira ***



Capitolo 1
*** Faccio crescere accidentalmente delle piante di mais ***


Faccio crescere accidentalmente delle piante di mais
 
Se il vostro migliore amico decide di portarvi in un campo scout in mezzo al nulla, accettate questo consiglio: scappate il più lontano possibile.
Probabilmente non crederete alla storia che sto per raccontare. Insomma, non ci crederei nemmeno io se fossi nei vostri panni. Ma vi assicuro che questa è la pura verità.
Mi chiamo Febe Parker, e ho tredici anni. Potrei benissimo partire da qualsiasi punto della mia storia, ma tanto finirei di parlarvi sempre e comunque di questa cosa.
Era l’ultima ora dell’ultimo giorno di scuola della Mondelez Academy. Probabilmente la scuola più brutta di tutta l’Alabama. E non sto parlando solo dell’aspetto fisico dell’edificio, ma anche dei suoi componenti.
Vi ricostruisco la scena.
Io ero seduta dietro al mio migliore amico, Ignacio Garcia. Ignacio era un ragazzino messicano continuamente bersagliato dalle angherie dei bulli. O meglio, della bulla. Ma di questo ve ne parlerò più tardi.
Sembrava che per lui lo scoppio di maturità non giungesse mai. Aveva lunghi capelli scuri che gli arrivavano alle costole - erano persino più lunghi dei miei -, e sul labbro superiore si intravedevano i primi peletti e qualche brufolo. Come se tutto questo non bastasse, aveva cominciato a portare già da due anni un eccentrico orecchino che culminava con una piuma rosa.
Ignacio faceva schifo in tutto. Ma proprio in tutto.
Era negato per la matematica, per la letteratura inglese, per la chimica, per educazione fisica… ma non lasciatevi ingannare, quando ogni settimana si presentava il giorno dei nachos alla mensa, lui correva come se fosse stato figlio di Usain Bolt. Da qui, nacque il suo soprannome: “Nacho”, che era anche un diminutivo del suo nome.
L’orologio appeso alle spalle del mio professore di matematica percorse il quadrante e si spostò sulle 14:55. Dal lato opposto della classe, Ping-Mei colpì in piena faccia il mio migliore amico con una pallina di carta e saliva sputata fuori da una cerbottana-fai-da-te, improvvisata con il corpo di una penna.
– Signorina McCarthy, cosa vogliamo fare? Anche oggi vogliamo fare visita al preside? – Tuonò il professor Morrison.
La ragazza asiatica grugnì qualcosa di incomprensibile. Ping-Mei era una ragazza davvero adorabi… cioè, carin… cioè, era una ragazza. Credo. Intorno a lei aleggiava un’aura di morte e distruzione. Il suo banco era pieno di scritte ed incisioni.
– Solo perché – Continuò il professore, – i tuoi genitori non sono una coppia eterosessuale, non significa che devi colpire i ragazzi gracili e poveri per attirare l’attenzione. – Ping-Mei scattò in piedi grugnendo, ma la campanella suonò e non ebbe tempo di aprire bocca. – La lezione è conclusa. Ci rivediamo il prossimo anno, e mi raccomando, Parker, questa volta cerca di non far mangiare i compiti delle vacanze a… che cos’era? Il tuo struzzo domestico? Arrivederci, ragazzi. – E se ne andò.
Inficcai tutte le cose che erano rimaste sul mio banco nel mio zaino ed uscii da scuola.

Nacho si avvicinò a me mentre aspettavo il bus. – Struzzo domestico? Non potevi, che so, inventarti la storia del cane come tutti i ragazzi normali? –
Io sbuffai. – Sarebbe stato meno d’effetto. – Nacho rise, e mi diede un buffetto sul naso.
Lo scuolabus passò, e si fermò di fronte alla fermata, proprio davanti a noi. Feci un passo in avanti, ma Ignacio mi fermò. – No, aspetta. Non è questo il nostro autobus. –
Io lo guardai confusa. – Ignacio, ma che stai dicendo? Questo è il nostro autobus. Ci porta sempre a casa. –
Il mio migliore amico sembrò innervosirsi. – Sì, beh… ma ecco, io… – In quel momento, Ping-Mei spintonò Nacho giù dal marciapiede.
– Ehi! – Protestai. Lei mi guardò altezzosa dall’alto del suo metro e settanta. Intanto, lo scuolabus era già partito.
– Mi è sembrato di sentire un moscerino ronzare al mio orecchio, ma forse mi sono sbagliata. Infondo, io i moscerini… proprio non li sopporto. E lo sai cosa succede se mi infastidiscono? Che io li schiaccio.
– Beh, se cerchi guai, McCarthy, li hai trovati – Ringhiai.
– Come ti permetti, moscerino dalla tinta sbiadita? – Mi portai una mano ai capelli.
Okay, okay, ora vi spiego.
Mio nonno aveva un pollaio.
Mia madre doveva ridipingere il suo pollaio.
Ed ora mi chiederete, “Ma Febe, che c’entrano i polli con i moscerini e le tinte sbiadite?”
Beh, in realtà… non molto. Soltanto che quel giorno, mentre mia madre riverniciava di celeste confetto il pollaio, io, dolce bambina di cinque anni, tirai la gonna di mia madre. Mia madre perse l’equilibrio, fece volare in aria il barattolo di vernice che mi finì dritto dritto in testa. E sapete la cosa divertente? Che gli agenti chimici della vernice hanno impedito a qualsiasi prodotto per capelli di coprire quell’osceno azzurro confetto. E non crediate che non abbia provato a cambiare tinta: grosso, grossissimo errore. L’unica volta che c’ho provato, mi sono ritrovata con i capelli di un color grigio topo. Così adesso mi ritrovavo ad avere tredici anni ed i capelli di un colore azzurro sbiadito.
Nacho si intromise. – Smettila di infastidire Febe!
– Uh-uh, il piccolo Ignacio è innamorato del moscerino. Quanto sei patetico. Sei uno sfigato, Garcia, e sempre uno sfigato rimarrai. Tua madre lavora come domestica. Il tuo patrigno è un insegnante di yoga squattrinato… e gira voce che siate anche in bolletta. Sei così patetico. – Gli occhi di Nacho si riempirono di lacrime, e strinse i pugni fremendo dalla rabbia con il viso in fiamme.
Gne-gne, il bambino piang… – Ero piena di collera, e non ce la feci proprio a trattenermi, così mi gettai su di lei ed incominciai a tirarle i capelli ed a menare calci e pugni a vanvera. Mossa sciocca da parte mia, dato che lei era molto più alta di me ed era anche il capo della squadra di rugby della scuola.
Lei mi tirò un pugno sulla gola, ed io persi per qualche secondo il fiato. Poi mi tirò i capelli, persi l’equilibrio ma caddi sopra di lei, picchiando col gomito il suo stomaco. Ping-Mei grugnì di dolore.
Intanto, intorno a noi si era formato un cerchio di ragazzi che gridavano cose tipo, “Tirale un pugno in faccia”, “A sinistra! Mira a sinistra!”, o altre del tipo, “Ehi, lo sapevi che in centro hanno aperto un nuovo locale di Frozen Yogurt chiamato MuuMilk? Sembra interessante!”.
L’asiatica si riprese in poco tempo, mi scansò con una spinta, si rialzò, e torreggiò sopra di me. Un fiotto di sangue fuoriusciva dal suo naso. Probabilmente uno dei miei pugni l’aveva presa in pieno.
Lei ringhiò: – Sei finita, Parker. –
Alzò in aria il suo enorme pugno, e stava per centrarmi dritto dritto in un occhio, quando un autobus completamente celeste si fermò davanti a noi.
Sul fianco, era appeso uno striscione bianco con su scritto Blue Bee, scritto del medesimo colore dell’autobus. Ping-Mei si fermò di colpo. Anche i ragazzi che si erano riuniti intorno a noi e che fino a poco tempo fa ci stavano incitando alla rissa, si erano ammutoliti tutt’ad un tratto.
Le porte dell’autobus si aprirono cigolando. Dall’interno fuoriuscì una nube di vapore turchese.
Gli occhi dei nostri compagni divennero vitrei, e si guardarono storditi l’un con l’altro. Poi, mormorarono parole incomprensibili e se ne andarono via come zombie in trance.
– Ma che diavolo… – Ping-Mei approfittò della mia distrazione per tornare all’attacco. Mi prese per il colletto della maglia e mi sbatté ad un albero, staccò un braccio dalla presa e con il dorso della mano si pulì il sangue dal naso.
– Come hai osato, Parker? Non sai neanche chi è tuo padre! –
Sentivo la rabbia ribollire nel mio stomaco. Non riuscii a trattenermi.
Le sputai in faccia.
Ping-Mei divenne viola di rabbia. – Stupido moscerino! – E mi tirò una testata così potente che la vista mi si annebbiò. Barcollai. Sentii le mie orecchie ronzare, il sangue che mi colava da un orecchio. Vidi Nacho che arrancava verso di me.
– Febe? Febe! – Ma la sua immagine era sfocata. Mi appoggiai con una mano al tronco dell’albero. Ping-Mei mi sferrò un pugno, ed io per evitarlo scivolai a terra.
– Ciao ciao, moscerino! Saluta Xolotl da parte mia! –
Xolotl?
Sentii il sangue pulsarmi nelle vene. Una morsa gelata mi attanagliò lo stomaco. Le falangi delle dita incominciarono a formicolarmi. Sentii un soffio leggero al mio orecchio, come se qualcuno stesse sussurrando parole antiche. “Fallo, Febe, fallo”.
Anteposi le mani in avanti e strinsi gli occhi. Sentii i palmi delle mani bruciarmi.
Riaprii gli occhi soltanto dopo che Ping-Mei cacciò fuori un urlo.
Ignacio mi sorreggeva per le ascelle e la ragazza asiatica stava strappando ferocemente delle piante di mais nel tentativo di liberarsi dalla feroce presa dei vegetali.
Le porte dello strano autobus blu si chiusero di botto, con un suono metallico ed assordante, e ripartì con un rombo di motore, lasciandosi alle spalle una folata di gas. Nacho impallidì. – Oh, questo non va bene. Non va affatto bene. – La temperatura intorno a noi scese di dieci gradi. Ignacio si torse le lunghe dita. – Questo non va decisamente bene. –
Mi rialzai. Nel frattempo Ping-Mei era riuscita a liberarsi da quel groviglio di piante, ma la sua espressione non era infuriata, bensì, sul suo volto era comparso un cipiglio di preoccupazione. – Dobbiamo andarcene di qui – Disse Nacho. – E… e anche alla svelta.
– Fai silenzio, Garcia! Io non ho paura di uno stupido Ahuizotl! –
Da lontano, si sentì un ululato. – Forse… però… sarebbe il caso di…
DARCELA A GAMBE! – Completò la frase Nacho. Corse via con le braccia alzate ed urlando di terrore con noi al seguito.

Ping-Mei era scomparsa su una limousine, che l’aveva afferrata al volo mentre stavamo correndo. Nacho era corso in casa sua urlando, “Ahuizotl ci mangerà, ci mangerà tutti!”. Io rallentai il passo, e continuai a camminare. Camminai per ore ed ore, fino a che non mi ritrovai in un vicolo cieco. Mi guardai intorno e borbottai fra me e me: “Questa non è casa mia”. Tirai fuori dalla tasca dei jeans il cellulare ed impostai il GPS. Odiavo soffrire di dromomania. Avevo l’abitudine di girovagare senza una meta fissa, camminando in continuazione. Alcune leggende dicevano che chi soffriva di questa sindrome, era perché, infondo, stava cercando di trovare la sua vera casa. Ma io non ci credevo. Erano tutte stupide dicerie dette da qualche sciamano con un osso come piercing al naso decenni di milioni di anni fa.

Quando tornai a casa vidi mia madre che stava pulendo la gabbia dagli escrementi di Bobo, il nostro macaco giapponese domestico. Perché sì, beh, le madri normali quando andavano in viaggio in Giappone, portavano come souvenir alle loro figlie al massimo un kimono. La mia mi ha portato una scimmia. – Ciao, mà – Dissi indifferente.
– Ciao, tesoro! –
GAH! FEBE! GAH! CRAIG VUOLE CRACKER! GAH!
Quello era Craig, il mio vecchio ed irascibile pappagallo. Ce l’avevo da quando avevo quattro anni. Presi un cracker dalla credenza, e glielo misi nel becco. Poi gli accarezzai il petto. Craig era un pappagallo un po’ burbero, come un vecchio e rugoso nonno a cui non hanno consegnato il giornale della domenica. Il suo piumaggio era principalmente rosso, con qualche piuma di rilievo gialla, blu e verde. Tranne sul suo sedere: lì non c’era alcuna piuma. Solo chiappette rosa, per il povero Craig.
Sentii che qualcosa mi stava leccando la caviglia. Alcuni di voi penseranno che forse era il mio cane, ma io non avevo un cane. Abbassai lo sguardo, e vidi… nessuno. Ulisse. – Mamma, Ulisse mi ha scambiato di nuovo per un camaleonte femmina! – Strillai.
– Suvvia, Ulissino! – Disse in tono smielato mia madre.
Riuscii a prendere Ulisse, che fra le mie mani si tornò di nuovo visibile, e lo misi nel suo solarium. Craig mi volò sulla spalla ed urlò qualche parolaccia. Non guardate me, è stata mia madre ad insegnargliele. – Craig! – Disse mia madre, spostandosi una ciocca bionda dietro le orecchie ed appoggiando gli occhiali da vista sulla testa. Presi un cartone di latte dal frigo ed incominciai a berlo. – Non ti ci metterai anche tu, Febe! Lo sai che non sopporto quando bevi il latte direttamente dal cartone! – Sbuffò, mentre mi tracannavo il latte come se non ci fosse un domani. Solo in quel momento, notai che accatastate accanto alla porta, c’erano due valigie in pelle, una borsa di juta ed un pratico zainetto da viaggio.
– Mà, dove andiamo? – Mia madre si irrigidì, e fece cadere la palettina con cui sorreggeva gli escrementi di Bobo. Notai solo in quel momento che il volto di mia madre era pallido e teso. Le sue mani tremavano e continuava a tamburellare il piede sul pavimento, frenetica. Aprì la bocca per dire qualcosa ma fu interrotta dall’arrivo di Ignacio.
– Salve, signora Parker!
– Buongiorno anche a te, Ignacio. Se cerchi Febe… –
Io alzai la mano. Nacho venne verso di me, mentre Craig strillava: “STUUUPIDO RAGAZZO, GAH!”.
– Senti, Febe, – Disse Nacho, – ti sarai chiesta come siano spuntate all’improvviso quelle piante, non è vero? – Il mio migliore amico stava sudando freddo. Io feci spallucce.
– Nah. –
Strabuzzò gli occhi. – Ma ti sarai pur fatta delle domande.
– …Nah.
– Ma… Febe! Come puoi non fartene? E cosa mi dici di quel freddo improvviso? –
Tirai su rumorosamente un sorso di latte. – Buco nell’ozono?
– Bu… buco nell’ozono?! Oh, andiamo, Febe! – Sbuffò. – Comunque sia… che ne dici di…
– No – Risposi.
– Ma non mi hai fatto nemmeno finire di parlare!
– Qualunque cosa essa sia, ti dirò di no. –
Dovevo dare un freno a Nacho: sapevo benissimo che stava per propormi qualcosa di veramente stupido e moralmente imbarazzante. Come quella volta che gli venne la brillante idea di passare l’estate a New York. Un’estate veramente tragica. Vi basta solo sapere che avevo visto un ragazzo che avrà avuto sì e no la mia stessa età che stava brandendo una spada contro… contro… Dio, non saprei neanche descriverlo. Probabilmente avevo preso un colpo di sole il giorno prima.
– Non puoi passare tutta l’estate senza far niente!
– Sì che posso. Non vedi? Lo sto già facendo.
– Se tu venissi a… a quel… a... ti ricordi di quel campo scout in cui… – Sussultai. Campo scout? Valigie accanto alla porta? Mi avevano incastrata!
– Non puoi dire sul serio, Nacho! Sai che odio i campi scout! Con quelle stupide divise, quelle stupide canzoncine davanti al falò… –
Mia madre sbuffò. – Ignacio, non si è fatto un po’ tardi? Non dovresti tornare a casa?
– Ma sono soltanto le… oh. Oh, sì, certo. Devo andare. A domani, Febe. – E se ne andò.

Ero molto arrabbiata con mia madre. Odiavo quando prendeva decisioni per conto mio.
– Come hai potuto incastrarmi?! Sai che io odio questo genere di cose, Cinnamon!
– Febe, siediti. Devo parlarti. –
Questo era un brutto segno. L’ultima volta che mia madre mi aveva chiesto di sedermi per parlarmi, era stato uno di quei discorsi tipo: “Quando una mamma e un papà si vogliono molto bene…”, oppure del tipo: “Ti ricordi tua zia Edna, quella che non hai mai conosciuto, ma che ti giuro era una persona tanto buona? Beh, è morta,” tutte cose che non erano affatto divertenti.  – È giunto il momento di dirti la verità, – Proseguì mia madre, – Ti ricordi quando dissi che tuo padre era un cialtrone buono a nulla e che mi aveva lasciata prima che tu nascessi? Beh, sì, in effetti in parte è così, ma non ti ho raccontato tutta la storia. –
A dirla tutta non mi interessava, ma feci finta di niente ed ascoltai. – Vedi, Febe, un uccellino mi ha informata di cosa è successo dopo la scuola.
– Non è colpa mia, è stata quella ragazza a provocarmi…
– Questo non ha importanza. Non è questo che mi interessa. A dispetto di ciò che hai detto a Nacho, sei abbastanza intelligente per sapere anche da sola che le piante che sono spuntate dal nulla non sono cose di tutti i giorni. Quando io abitavo ancora a casa dei tuoi nonni in Kentucky, conobbi tuo padre. Non era né particolarmente bello né particolarmente forte, ma era molto carismatico e gentile. La sua risata era come il vento che sferzava sui campi di granturco. Ma tuo padre, Febe, non era un comune mortale. Tuo padre era un dio. Gli dei esistono ancora, e sono dappertutto. Non hanno una dimora fissa. Si manifestano ovunque loro vogliano. Quindi questo fa di te una semidea. –
Trattenni una risata. – Di tutte le bugie che mi hai detto, questa è sicuramente la più spassosa. Vi state veramente impegnando, tu e Ignacio, per costringermi ad andare a quel campo, vero, mà? – Mia madre mi scrollò per le spalle.
– Non ti sto mentendo, Febe, tu sei veramente una semidea. Sei una semidea azteca! Non hai sentito una voce che ti sussurrava all’orecchio? Parole quasi arcaiche? –
Come faceva a saperlo? Beh, in effetti era così, ma… che mia madre stesse dicendo il vero? Che io fossi veramente una semidea? Sentivo che la testa mi stava scoppiando. – Febe, io capisco che per te sia difficile accettare tutto questo, ma non ti preoccupare, lo affronteremo insieme, io e te, come abbiamo sempre fatto. –
“Ssscappa, Febe, ssscappa!” Mi sussurrò una voce nella mia testa, che assomigliava ad un sibilo.
La temperatura divenne di nuovo gelida. Mia madre impallidì, prese le valigie e me le diede. – Sbrigati, non c’è più tempo!
– Tempo? Tempo per cosa?
Ahuitzotl ti ha trovato!
– Chi è Ahuitzotl? – Mia madre mi afferrò la mano, e mi trascinò per l’uscita posteriore.
– Ahuitzotl è un mostro che si ciba di carne umana. Probabilmente ha sentito il tuo odore, ed ora vuole la tua carne. –

Nota a fine capitolo
Salve a tutti! Questa è la nostra prima storia sul server. ...forse, hehe. 
Un tempo eravamo tre, ma in questa storia saremo solo due anime in pena: Charlie e Poly, il duo dei perdenti. 
Se la storia vi è piaciuta, lasciate una recensione. Se non vi è piaciuta... chissene, a noi è piaciuta!
-Charles&Paul. 

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Capitolo 2
*** Viaggio insieme ad un gruppo di squinternati ***


Viaggio insieme ad un gruppo di squinternati
 
Mia madre continuava a correre trascinandomi fuori per le stradine del quartiere in cui vivevamo io e Nacho.
Ignacio spuntò fuori da un vicolo con appresso sua madre Consuela, che non faceva altro che baciargli la fronte e piangere, singhiozzando frasi del tipo “Recuerde que debe cepillarse los dientes”, oppure: “No te mueras, te recomiendo!”.
Nacho aveva a tracollo solo un vecchio borsone da ginnastica. Dietro di me, dei bidoni della spazzatura volarono per aria.
– Consuela! – Urlò mia madre. – Porta i ragazzi al sicuro! Ad Ahuitzotl ci penso io! –
Consuela esitò. – Va’! – Urlò nuovamente mia madre. La madre di Nacho mi afferrò per un braccio.
– Mamma! – Urlai.
– Tua madre starà bene, – Disse Consuela con un forte accento spagnolo. – Ci penso io a coprirla. Nacho, prendi l’autobus e corri più veloce che puoi. – Nacho sembrò protestare, ma fu per una breve frazione di secondo. Poi afferrò saldamente la mia mano e scappammo.

Non mi sentivo più le mani. I piedi mi bruciavano ed Ignacio si era offerto di portare le mie valigie, ma io avevo rifiutato. – Amico, dove stiamo andando?
– Non ne ho idea, Febe.
– Grandioso. – Ci fu un breve silenzio. – Amico? –
– Sì, Febe?
– Ti ricordi quando avevo detto che mia madre a volte mi faceva così arrabbiare che avrei voluto che Bobo le staccasse la testa a morsi? – Nacho annuì. – Beh, dovrei stare più attenta a quello che dico, se non voglio che il Karma mi si ritorca contro. –
Ignacio sospirò rassegnato. Poi mi propose di fermarci per qualche minuto, si avvicinò a me e mi offrì una bottiglietta d’acqua di plastica della Water Production. Io e Nacho ci guardammo negli occhi, e con un sorrisetto furbo cantammo il motto della Water Production:
Bevi acqua fresca in quantità, la Water Production, la migliore in città!
Scoppiammo in una fragorosa risata. Quel motto era veramente stupido, ed ancor più stupido era il tizio che la sponsorizzava: un uomo sulla cinquantina con la pelle caramellata dalle troppe lampade, i capelli impomatati ed un sorriso talmente finto che gareggiava con il mio durante le foto dell’annuario scolastico. – Quel tizio è un completo idiota, – Disse Nacho, sedendosi accanto a me sul bordo del marciapiede.
– Senti, Nacho, mi dispiace per… non averti creduto, prima. – Ignacio mi dette un buffetto sul naso.
– Tutti si comportano in quel modo, all’inizio. –
Ed iniziò a spiegare.
A spiegare di cosa, vi starete chiedendo: spiegò che gli dei aztechi esistono tutt’ora, e che a volte possono unirsi a mortali per generare semidei.
Il suo vero padre non era Camil, l’insegnante di yoga/terapeuta/specializzato in erbe curative/hippie, bensì il dio Camaxtli, il dio del… del tutto, praticamente. Della caccia, del fuoco, della guerra e del fato. Mi aveva anche detto che mio padre era una divinità.
Ero molto confusa sebbene mia madre mi avesse fatto un discorso simile. – Non ti preoccupare, Febe, – Continuò Nacho, – quando arriveremo al campo Aztlán tutto ti sarà più chiaro. –
Alzai lo sguardo al cielo. Il sole batteva molto forte, ed intorno alle nostre teste, su, molto in alto, volava un'aquila. Solo allora, notai che c’eravamo fermati proprio davanti ad una fermata del bus. Accanto a noi, c’era un cartello con su scritto: “Fermata dell’autobus 23: prossime fermate: Montgomery – Orange Beach – Selma – Anniston – Fairhope – Opelika – Campo Aztlán”.
Aspettate un momento... cosa?
Sul cartello della fermata, si posò uno strano uccello. Era un incrocio fra un pappagallo ed una pulcinella di mare. Il becco era piccolo e giallo. Il suo corpo era tozzo e goffo, ostacolato da tutto quel piumaggio bianco. Sul petto aveva una macchia gialla, mentre le zampe erano inglobate nel piumaggio. Non avevo mai visto un uccello simile. Il volatile mi guardò con i suoi occhietti lucidi e penetranti, arruffò le penne ed emise uno strillo raccapricciante: un incrocio tra un ragazzino obeso che si sta soffocando con una polpetta e un vecchietto con la broncopolmonite. Nacho gli lanciò una pietra e il volatile cadde a terra come morto, ma dopo qualche secondo si rialzò come se non fosse successo niente e continuò a guardarmi insistentemente. Mi voltai bruscamente verso Ignacio con uno sguardo interrogativo, che mi dava un po' l'aria da scimmia. Il pennuto aprì il mio zaino che giaceva per terra in cerca di cibo, supposi. Ignacio urlò: – NO! Cattivo Mambo! E lo cacciò correndo nella sua direzione.
All’improvviso si sentì un rumore di freni; scostai lo sguardo verso la mia sinistra e rividi quel maledetto autobus. Le porte si aprirono e dietro una nube di vapore turchese si stagliava una figura minacciosa. Indietreggiai.
Quando la nube scomparve completamente, vidi solo un ragazzo. Aveva dei capelli neri scompigliati, occhi leggermente a mandorla e verdi scuri. La sua faccia era gioviale come quella di un bambino, con un sorriso stampato in faccia; le lunghe dita affusolate erano serrate sul volante, madido di sudore. Indossava una stupida divisa da caposcout, con tanto di uno stupido cappello a falde larghe da caposcout. Sopra la sua divisa, in un nastro erano appese più di 1500 spille. Odorava di un acre odore di dopobarba ed aghi di pino. – Ciao, ragazzi! – Proferì. – Bentornato, Nacho! Benvenuta, Feb… – Un bambino probabilmente di dodici anni con visibili problemi di peso e con indosso un cappello da capo indiano, premette con le sue dita cicciotte e odoranti di salsicce il clacson. BEEP.
– Benvenuti al… – BEEP. – Benvenuti a… – BEEP. RUSSELL PER L’AMOR DEL CIELO, SMETTILA! – Il ragazzo sospirò. – Benvenuti nel Blue Bee, ragazzi. Nacho, porta le valigie di Febe dentro. –
Lo guardai insistentemente. – Ci conosciamo? –
Non avevo mai visto quel tizio, eppure sapeva il mio nome. – Oh, ma che maleducato – Farneticò togliendosi il cappello, – non mi sono presentato. Il mio nome è Lawrence Shakusky, caposcout del Campo Aztlán. Bene, è il momento che io ti spieghi le 101 regole del funzionamento del campo! – Nel frattempo, Nacho era tornato stracarico di valigie e si stava facendo largo a spintoni. Lawrence, invece, era partito, continuando a blaterare. – Beh, devi sapere che la nostra prima regola… mentre la seconda… la terza invece è già meglio… oh ma dovresti sentire la quarta!...
– Ehi, baby! Ti conviene dartela a gambe, piuttosto che sentire quelle inutili regole. Credimi, nessuno è mai riuscito ad ascoltarle tutte senza addormentarsi, tranne forse Godiva Wells… È sempre stata una ragazza un po’ strana… – Mi voltai sbuffando – e mamma mia, vidi il ragazzo più bello che avessi mai visto… assomigliava terribilmente a Nacho, ma era una versione di Nacho migliore! I suoi capelli erano lunghi quanto quelli di Nacho, ma tenuti incredibilmente meglio. Portava uno shatush biondo. La sua faccia era leggermente ustionata dal sole; indossava una maglietta con la scritta “Santa Monica Bay”, e dei bermuda rossi con fiori bianchi. Aveva una gamba sopra il sedile, il braccio destro appoggiato al ginocchio, mentre l’altro stringeva una tavola da surf. Quel ragazzo era… era… bello come un dio greco! – Ehi, ciao. – Ammiccò. – Mi chiamo Marcelo. Marcelo Garcia.
– Io mi chiamo… Fe… F… Feb…
FEBE, HO TROVATO DEI POSTI! – Urlò Nacho in lontananza. Sobbalzai.
– Uh, uhm, ciao. – E girai sui tacchi rigida ed impacciata, convinta ogni secondo che passava che le mie guance fossero rosse come due pomodori. Nacho stava agitando freneticamente le braccia, così non notai che qualcuno aveva sporto la gamba fuori dal suo posto, ed io finii sdraiata sul pavimento del bus, con la faccia schiacciata a terra come quella di un carlino.
– Chi non muore si rivede, moscerino.
– Ping-Mei – Ringhiai.
– Benvenuta sul mio autobus, mocciosa. – Accanto a lei una ragazza tremendamente bassa e con in braccio un fucile a pallini ed indosso una tuta mimetica con macchie fosforescenti e rosa rideva. – Ti renderò quest’estate la peggiore di tutte, Parker. Ho visto che là in fondo c’è ancora un posto libero, accanto a quell’idiota di Ignacio nell’angolo degli sfigati! – Mentre sibilava la parola “idiota”, emise un fischio: solo allora notai che c’era una rilevante sporgenza fra i due incisivi centrali superiori.
– Tu, stupida… – Ping-Mei divenne rossa di rabbia. Stavo per sferrarle un pugno dritto dritto su quel suo ghigno ipocrita, quando una ragazzina tutta pelle e ossa mi fermò il braccio. Puzzava di fermenti lattici ed ossido di carbonio, come se si fosse fatta una doccia dentro degli agenti chimici. Portava spesse lenti a fondo di bottiglia, i capelli erano ricci e crespi ed erano di un color rosso pel di carota, strinti in due massicce trecce; la faccia era intrisa di lentiggini. Aveva i denti da castoro ed indossava vestiti da hippie nomade, con una bandana psichedelica legata sulla testa.
– Andiamo, andiamo, andiamo – Farneticò la ragazza, trascinandomi accanto ad Ignacio; poi mi strinse la mano energicamente. – Il mio nome è Godiva Wells, ho tredici anni, mi piacciono i cavalli, la scienza e Law and order, e questo è tutto. Lui è Steve – Disse indicando un ragazzino con indosso un busto di ferro ed un apparecchio a baffo. – Steve Dumont. – Poi mi sussurrò all’orecchio, – Non parla molto, non credo che sappia l’inglese; viene direttamente dalla Francia! –
Ad un certo punto sentii delle mani appiccicaticce chiudermi gli occhi. – I tuoi capelli somigliano ad un confetto – Sussurrò una voce inquietante; dopo aver detto ciò, mi leccò la testa. Rabbrividii. Godiva gli diede uno schiaffo; era stato lo stesso bambino di prima, Russell. – Ahi, mi hai fatto male.
– Smettila di importunare i nuovi arrivati!
– Ma ho tanta fame, ed ho finito le mie scorte di cibo! – Prese una manciata di spaghetti dalla tasca e se li ficcò in bocca.
– Sei disgustoso, Russell! – Piagnucolò Ignacio. – Ehi, per caso nelle tasche hai dei nachos?
– Con o senza chili?
– Con, ovvio. – Russell frugò dentro le sue mutande e tirò fuori una bottiglietta di chili.
– Ma che schifo! – Dicemmo in coro io e Godiva.
Mon Dieu! – Disse Steve.
– Sei un animale, Russell! Ma non lasciarti intimorire, la regola 26… – Continuò Lawrence in lontananza mentre era alla guida.
Nacho se ne fregò altamente, prese i Nachos di Russell, ci spalmò sopra un po’ di chili e li ingurgitò. Ero sul punto di vomitare.
Sfortunatamente, Steve mi precedette. E mi vomitò addosso.

Il bus si fermò davanti ad una grande insegna fatta di tronchetti di legno, con su scritto “Campo Aztlán”. Tutti presero i loro bagagli ed in una cacofonia di suoni uscirono dall’autobus. Entrarono dentro il campo, e si dispersero velocemente. Come tutto quel rumore era iniziato, ben presto tutti i membri scomparvero chissà dove. Il sole era un po’ calato, e nell’aria c’era una dolce brezza estiva. All’improvviso, sentii un fruscio di foglie e di sassi che si spostavano.
Qualcosa di molto grande e molto pesante si stava avvicinando. Mi misi subito in allerta.
Credetemi, non sono un genio della sopravvivenza, ma ehi, so riconoscere un pericolo quando lo sento. Mi girai. Fu un attimo.
Davanti a me, un enorme serpente rosa dalle piume multicolore oscurava il sole; era così grande che non avrei saputo dirvi quanto fosse lungo. Poteva essere lungo quando un chilometro o forse anche di più; il suo busto era della larghezza di un baobab. La sua lingua sibilò. Rimasi impietrita dal terrore.
Ho sempre odiato i serpenti, e converrete con me che non ho tutti i torti.
Il mostro fece sibilare nuovamente la lingua; i suoi occhi gialli, grossi quanto palle da calcio, erano come due gocce ambrate, fisse su di me.
Benvenuta al Campo Aztlán, Febe.

Nota a fondo capitolo
Charlie: Era un mostro? Era un dio?
Poly: ERA UN ANGELO!!!!!!!!!!!!
-Il duo dei perdenti
 
 

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Capitolo 3
*** Vengo assalita da una lontra gigante ***


Vengo assalita da una lontra gigante 

Barcollai all' indietro e afferrai un ramo di betulla agitandolo minaccioso davanti a me.
– S-sappi che io ho partecipato a molti corsi di… di sopravvivenza…­ – Nella mia mente riaffiorò l’immagine di mia madre intenta a mostrarmi come difendermi da un orso grizzly utilizzando il povero Bob come cavia, mentre lui urlava come un matto. – Si beh…più o meno – borbottai.
Il mostro emise uno strano sibilo gutturale, come se stesse ridendo.
– Siete così carini quando siete dei cuccioli –.
Il serpente mi girò attorno con il suo enorme corpo, scrutandomi. Ora che era così vicino che potevo sentire un leggero odore di biscotti bruciacchiati e di colori acrilici provenire dalle sue squame. La sua voce era calda e per niente spaventosa. Lo dovetti ammettere, accanto a lui mi sentivo proprio a mio agio.
– Come fai a sapere il mio nome? Dove diavolo mi trovo? E tu che accidenti saresti? Un lombrico gigante pronto per il carnevale di Rio De Janeiro?
– Cara bambina, io sono Queztalcoatl. Il dio del vento, di Venere, dell’alba, dei mercanti e delle arti, dei mestieri e della conoscenza. Ma ora basta cincischiare, suvvia; ci saranno altri momenti per discutere di queste noiosissime questioni. Ora va’, e divertiti ad esplorare il Campo Aztlán. –
Ero più confusa che mai, ma non ebbi tempo di farmi molte domande che accanto a me una ragazza con la pelle caramellata dalle troppe lampade, degli stupidissimi occhiali da sole di plastica viola a forma di cuore inforcati sul naso, degli shorts sbiaditi, i capelli biondi platino ed un frappè di Starbucks in mano mi assordò con uno squittio: – Tu devi essere nuova! –
Non dava l’impressione di essere molto intelligente. – Vedo che hai conosciuto Quetzalcoatl, il nostro dio principale e direttore del Campo!
– Buongiorno, Candy.
– Buongiorno, Quetzy!
– Candy, accompagneresti Febe a fare un giro del Campo?
– Sicuro, con grande piacere! Vieni, Fancy!
– Ehm, io mi chiamerei…
– Coraggio, non è il momento di perdere tempo!! –
Credetemi, sono sicura di aver perso un decibel dall’orecchio in cui mi stava urlando, da quel giorno.
Afferrò il mio polso con la sua manina smaltata di un rosa barbie, e mi trascinò dentro il Campo. Mentre ondeggiava, - dovete sapere che lei non camminava, lei ondeggiava -, notai che portava lo stesso identico orecchino eccentrico di Ignacio, tranne per il fatto che il suo era di uno sfavillante blu zaffiro. Aprii bocca, ma la richiusi immediatamente: non avevo alcuna voglia di sentire ancora la sua fastidiosissima voce da criceto.
– Allora – Ricominciò lei, – come prima cosa devi sapere che noi dormiamo in tende, tende che cuciamo noi stessi, in particolare nel mio corso! Ovviamente tutti i ragazzi più grandi dirigono un corso… Sam e Dave quello di difesa, Marcelo quello di atletica, e Lawrence quello di mitologia e di lingue. Io dirigo quello di artigianato… – Sghignazzai. Lei mi si avventò contro: – Credi come tutti gli altri che il mio corso sia inutile, eh?! Ma ti sbagli di grosso! Il mio corso è pericoloso, anzi, pericolosissimo! Se sbagli un punto croce, è la fine! La tua impresa potrebbe essere compromessa! La tua tenda potrebbe rompersi perché un diluvio ti si è avventato contro, così non avrai un riparo e sarai costretto a salire su un albero, dove i gufi ti caveranno gli occhi!! –
Candy riprese fiato, ed io deglutii. – Ho… ho capito. –
Appunto personale: mai fare arrabbiare la principessina lampadata di Malibu, a meno che non avessi voluto essere accoltellata nel sonno con una limetta per unghie. – Candy – Dissi.
– Sì, cara?
– Non abbiamo delle maglie… o delle divise che ci contraddistinguono? –
Candy emise una sonora risata nasale. – Ah, che cosa idiota! Perché dovremmo avere delle maglie con scritto il nome del Campo? Sarebbe come mettere un’insegna luminosa per mostri con su scritto “Ehi gente! Siamo qua”! Ma dico, sei fuori? –
Effettivamente, non aveva tutti i torti. – Beh, vediamo un po’, cosa manca… ah, sì, giusto! I bagni! Vedi quella latrina laggiù? – Indicò una latrina malandata su cui delle mosche giravano attorno. – Quello è il nostro bagno… – Si avvicinò a me, sussurrando: – …ma non ti consiglio di andarci. Le docce, invece, sono dietro il campo di mais. Ah, a proposito, abbiamo un campo di mais! La sala mensa è dietro l’albero totem, precisamente al centro del Campo. Laggiù infondo, invece, vicino ai confini del Campo, c’è il “Laghetto delle anatre”… io non so perché l’hanno chiamato così, effettivamente non ci sono anatre, e non è neanche così tanto piccolo… ma quando fa veramente caldo, Lawrence ci permette di fare il bagno… credo di averti detto tutto. Prima che me ne dimentichi… – Prese dalla tasca posteriore dei jeans una pergamena su cui c’erano scritti gli orari dei corsi.

LUNEDì: dalle ore 10 alle ore 12 – corso di lingue mesoamericane con Lawrence Shakusky
         dalle ore 15 alle ore 17 – corso di mitologia mesoamericana con Lawrence Shakusky.

MARTEDì: dalle ore 13 alle ore 15 – corso di artigianato con Candy Walker
           dalle ore 16 alle ore 17 – corso di difesa con Sam e Dave Smith.

GIOVEDì: dalle ore 13 alle ore 16 – corso di atletica con Marcelo Garcia
          dalle ore 16 alle ore 17 – corso di difesa con Sam e Dave Smith.

VENERDì: dalle ore 14 alle ore 16 – corso di difesa con Sam e Dave Smith
          dalle ore 16 alle 17 – corso di artigianato con Candy Walker.

– Ah, giusto! – Continuò Candy, – Tu sei stata assegnata alla tenda numero 13. Ora devo andare, prima che Sam minacci di sparare a Marcelo in sala mensa un’altra volta! –
E se ne andò.

Le tende erano disposte in fila indiana. Sul tessuto giallo sbiadito e stopposo erano ricamati a grandi lettere rosse i numeri delle tende; 1, 2, 3… così via dicendo.
Cercai la numero 13, e mentre guardavo il numero delle tende, inciampai su qualcosa. Erano le valigie di Godiva Wells.
– Oh, scusami, non volevo! Che sbadata, non devo lasciare le valigie fuori dalla tenda! Mia madre me lo dice sempre: Per multum cras, cras, crebro dilabitur aetas!
La mia faccia doveva sembrare molto perplessa, perché Godiva cambiò subito argomento. – Anche tu nella tenda 13, eh? – Rise. Poi afferrò una torcia e si illuminò il viso. – Si dice che qui un tempo sia morta una bambina… e che le sue urla tormentino chiunque ci dorma! – Rise di nuovo. – Stavo scherzando! Su, vieni, entra, ti faccio vedere la tua branda! –
Mi trascinò all’interno della tenda; poi scaraventò sotto la sua branda le valigie. Le mie erano state messe da Nacho sotto la mia branda.
Mi sdraiai sul materasso; puzzava di muffa, e c’erano delle sospette macchie gialle. Godiva masticava rumorosamente un chewing gum alla fragola. – Beh, Febe, sembra che saremo compagne di tenda. Raccontami qualcosa di te! – Fece esplodere la bolla di chewing gum.
– Ehm, non c’è molto da dire su di me.
– Ma io so che sei una persona eccentrica, Febe, basta guardarti!
– Eh?
– Per esempio, chi è il tuo genitore divino, Febe?
– Io… ecco… ancora non lo so. – Mi diede delle pacche sulla spalla.
– Tranquilla, arriverà anche a te il momento! A differenza di ciò che ti dicono gli altri, essere un semidio è veramente straordinario! Sì, insomma, rischi di morire tutti i giorni, ma, insomma, chi non lo fa di questi tempi? –
Sentii una tromba squillare, ed io e Godiva uscimmo dalla tenda.

Era ormai tarda sera. Io, Godiva, Russel e Steve stavamo cenando, seduti su un tavolo da pic-nic. Se si alzava lo sguardo, si poteva vedere la via lattea. Intorno a noi, riecheggiavano urla animalesche e risate improbabili da parte di Candy.
– Russel, smettila! – Urlava Godiva.
– Guardatemi, sono un tricheco!! –
Russel si era inficcato in bocca due cannucce come se fossero zanne. Poi montò sul tavolo, si tolse la maglietta e la fece roteare sopra la sua testa.
Guardai in direzione di Ignacio, che mi salutò nervoso con un sorriso tirato da un altro tavolo.
– Io ti uccido – Gli sibilai, mimando il gesto di strangolarlo.
Ignacio mi aveva spiegato che il Campo suddivideva i ragazzi in base agli anni che avevano passato in quel luogo. Ogni ragazzo possedeva una piuma diversa per gli anni che aveva trascorso; le piume venivano cambiate ogni due anni. I primi due anni le piume erano bianche; seguivano le piume rosa, verdi, arancioni e blu.
La suddivisione dei tavoli, degli alloggi e persino delle lezioni erano suddivise sempre in base alle piume. Io, come il resto dei nuovi arrivati, avrei ricevuto la mia piuma bianca a fine estate.
Spostai lo sguardo verso Steve. Steve prendeva delle patatine fritte con la forchetta, sminuzzandole in piccoli pezzettini in modo tale che riuscisse a mangiarle senza troppa difficoltà, dato il suo apparecchio a baffo. Dietro di lui, la ragazza bassa e vestita con una tuta mimetica che avevo già intravisto nel bus urlò:
– Bene bene, guarda chi abbiamo un po’ qui! Dei novellini! – La ragazza si sistemò il berretto da caccia in testa. Steve sobbalzò, e la forchetta cadde a terra dalle sue dita tremanti, facendo un rumore metallico. – Tsk, ti ho spaventato, cucciolotto? – Steve si abbassò per raccogliere la forchetta, e con gran difficoltà, era comunque riuscito quasi ad acciuffarla, pur avendo indosso il busto di metallo. La ragazza diede un calcio alla forchetta, facendola finire ad un angolo della sala. – Ops, scusa, palo
Russel smise di agitare la maglietta e divenne serio. – Questo non è affatto divertente – Disse.
– Oh, sta’ zitto, palla di lardo. Io sono Sam Smith, insegnante del corso di difesa del Campo Aztlán, figlia di Painal, messaggero di Huitzilopochtli, e renderò la vostra estate un inferno! –
Godiva scattò in piedi, digrignando i denti, rossa quanto i suoi capelli. Sam ridacchiò, e ritornò al tavolo dei ragazzi dalla piuma blu, battendo il cinque a Ping-Mei, mentre gli altri incominciarono a discutere iracondi sul fatto di non prendersi gioco dei bambini del primo anno.

I ragazzi più grandi, insieme a Lawrence, avevano acceso un falò. Mi sedetti su una panca.
Nacho si avvicinò a me con un largo sorriso ed una busta stracolma di marshmallow.
– Scusa, Febe, mi dispiace averti trascinato qua. Vuoi un marshmallow? – Stavo allungando la mano per afferrare il marshmallow, quando Marcelo arrivò con un largo sorriso, i capelli con lo shatush biondo legati in una coda bassa ed in mano un bastoncino con sopra infilzati dei marshmallow. Marcelo si sedette proprio in mezzo a noi due.
– Spero che Sam non ti abbia spaventata, chica! Vuoi un marshmallow? –
Annuii con un’aria da ebete, e diedi un morso ad un marshmallow.
– Sei forte! Uno di questi giorni se vuoi ti insegno a surfare!
– Su quale mare, Pepe? – Rispose acido Ignacio.
– Oh, cuginetto adorato! Non ti avevo notato! – Disse scompigliandogli i capelli. – Vedo che ti sono cresciuti dei peletti, finalmente! Zia Consuela temeva di aver partorito una donna, invece che un uomo. – Nacho strinse così forte la busta dei marshmallow che prese fuoco.
Io e Marcelo lo guardammo sbalorditi, ma fummo riscossi dall’urlo di Nacho che aveva le mani completamente ustionate. Marcelo calpestò il sacchetto ed estinse le fiamme, poi accompagnò il cugino nella tenda del pronto soccorso.
Lawrence si sedette al posto di Ignacio, armato di chitarra. – Beh, com’è stato il tuo primo giorno al Campo Aztlán? Ti sei divertita? –
Lo guardai. – Ma certo che mi sono divertita. Chi non amerebbe stare in mezzo ad un branco di disagiati e di piccole psicopatiche armate di fucili a pallini? Un vero spasso.
– Devi scusarci per Sam. Non è mai stata una persona… brava con le presentazioni. – Ed incominciò a strimpellare la chitarra, suonando il ritornello di Knocking on heaven’s door. Il suono assomigliava a quello di un gatto che struscia gli artigli sulla lavagna, ma tutti si misero a cantare. Volevo morire.
All’improvviso l’aria divenne gelida ed il fuoco si spense. Lawrence fece cadere la chitarra, che emise un suono stonato. – TUTTI NELLA BARACCA PRINCIPALE! – Urlò. – QUESTA NON È UN’ESERCITAZIONE! RIPETO, TUTTI NELLA BARACCA PRINCIPALE!
In poco tempo scoppiò il caos: Sam afferrò Steve e lo issò su una spalla come un sacco di patate, mentre Steve urlava: – Qu'est-ce qui se passe?! –.
Ping-Mei radunò dei ragazzi con le piume verdi, Candy afferrò la mano di Godiva e mise in salvo il gruppo dei ragazzi con le piume arancioni. Voltai lo sguardo: sulla collinetta centrale dove risiedeva l’albero totem, intravidi un essere mostruoso. Aveva il corpo simile a quello di una lontra, ma molto più grande; il suo manto era liscio e lucido, nero, come la gomma, pareva molto scivoloso; aveva piccole orecchie a punta, simili a quelle di un cane. All’estremità delle sue arti non vi erano comuni zampe, bensì somigliavano a mani di procioni o di scimmie. I suoi occhi erano piccoli e rossi, come fari insanguinati nella notte. Le sue zanne erano affilate come rasoi.
Ma ciò che mi fece paralizzare dal terrore, fu la coda: la sua coda era dotata di una mano all’estremità, proprio una mano umana. Lawrence si voltò, mi guardò ed urlò: – Febe, scappa! –
Ma io non riuscivo a muovermi. Ero paralizzata dal terrore. Lawrence imprecò, – Maledizione! – e corse verso di me, ma nel momento esatto in cui lo fece, anche Ahuizotl corse nella mia direzione. Le mie gambe ripresero a funzionare; corsi più in fretta che potei. Il mostro stava inseguendo me, non Lawrence. Sentii l’adrenalina entrarmi in corpo, il cuore pompare sangue all’impazzata. Il vento mi sferzava contro il viso, e non riuscivo a vedere bene dove stessi andando. Grandioso, primo giorno da semidea e già stavo per diventare la cena di una lontra troppo cresciuta. Al diavolo il “essere un semidio è davvero straordinario” di Godiva, lei non stava per diventare cibo per mostri!
Pensavo di essere veloce, ma probabilmente non lo ero abbastanza, perché il mostro mi saltò addosso, facendomi cadere in mezzo al campo di mais. Riuscii a tirargli un calcio sul muso, facendo mugolare il bestione di dolore, e con una forza immane, sgusciai fuori dalla sua presa, non prima però che Ahuizotl mi graffiasse sulla gamba. La mano-coda scattò per afferrarmi, ma io feci un balzo all’indietro e pestai la mano del mostro, che ululò di dolore, mentre la sua mano diventava gonfia e violacea. Ripresi a correre, senza voltarmi; il mostro ruggiva infuriato. Avevo l’impressione che dietro di me il campo di mais stesse crescendo più assiduamente del normale.
Ma all’improvviso, inciampai su una roccia troppo sporgente. Come facevo ad essere così sfortunata? Imprecai contro qualsiasi dio esistente.
Ahuizotl stava per raggiungermi anche se le piante di mais lo stavano intralciando visibilmente.
Cercai di rialzarmi, ma la caviglia mi faceva un male pazzesco. Pensai che fosse la fine, per me, quando vidi qualcosa brillare alla flebile luce lunare. Provai ad estrarlo dal terreno, ma più cercavo di tirarlo, più quello sembrava fare resistenza, come se avesse una propria volontà.
Sembrava essere, essenzialmente, una spada in legno, ma aguzzando la vista, notai che sui lati c’erano delle lame di una pietra scura come la pece, ciò che sembrava essere ossidiana.
Il mostro si liberò dalle piante; i suoi occhi fiammeggianti mi puntarono, prese a caricarmi e, con un balzo, cercò di avventarsi su di me. Detti uno strattone ancora più forte alla spada. Era la mia ultima possibilità di salvezza.
All’improvviso i palmi delle mani incominciarono a bruciarmi, le falangi mi formicolarono, mi sentii rinvigorita di un’energia sconosciuta, come se stare in mezzo a quel campo mi stesse ricaricando le batterie. La spada non mi sembrava che facesse più tanta resistenza, e proprio mentre il mostro era a mezz’aria, riuscii ad estrarla, e con un rapido movimento del braccio scagliai un fendente che tranciò di netto la testa del mostro. Ahuizotl sembrò perplesso per qualche secondo, prima di esplodere in una nuvola di vapore. Mi abbandonai a terra, con la spada ancora stretta nel mio pugno. I capelli erano incrostati di fango ed avevano un colore ancora più osceno di prima. La gamba ferita mi faceva un male pazzesco. Vidi delle torce che si avvicinavano dal campo di mais, la voce di Lawrence riecheggiò nelle mie orecchie, lontana e ovattata, come se lo stessi ascoltando dal fondo del mare.
– Febe? Febe, mi senti? Febe, dove sei? –
Sentii le palpebre farsi pesanti. Poi, il buio mi avvolse.

Nota a fondo capitolo
Siamo stati un po' impegnati in questi ultimi periodi, scusate se non abbiamo postato niente per un po'!

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Capitolo 4
*** Un' asiatica con l'alitosi mi prende di mira ***


 
Un' asiatica con l'alitosi mi prende di mira

Quando riaprii gli occhi, vidi che ero distesa su una branda ospedaliera. Ignacio dormiva su una sedia accanto al mio letto, con la testa appoggiata alla finestrella ed un rigolo di bava che fuoriusciva dalla sua bocca.
– Ben svegliata! – Disse qualcuno.
Voltai la testa; a poca distanza dal mio letto c’era un ragazzo con un camice da dottore, e lo stetoscopio che fuoriusciva da una tasca. I capelli neri di media lunghezza erano unti ed appiccicati alla fronte; la pelle giallastra era madida di sudore, ed indossava degli occhiali tondi appollaiati sul lungo naso aquilino. – Ciao! Io sono Ezekiel, il dottore del campo. – Disse puntando i suoi penetranti occhi neri cerchiati da dolorose occhiaie viola su di me, con un sorriso tenue. – Tranquilla, non ti sei rotta la gamba. Non ancora, almeno. – Tagliò dei piccoli pezzetti di garza. – Dave, per favore, metti un altro po’ di unguento speciale sulla gamba della nostra nuova arrivata. – Dopo che ebbe finito di parlare, un ragazzo che avrà avuto la stessa età di Marcelo, accostò la tenda che separava il mio letto da un altro e si affrettò ad armeggiare con i vari contenitori dell’armadietto con le medicine.
Dave aveva un’aria familiare. Aveva capelli ispidi e neri che gli solleticavano il collo. In testa portava un cappello da cacciatore di coccodrilli, con alcune spillette con le immagini di alcuni My Little Pony. Indossava anch’egli un camice da dottore sopra una maglia di color grigio stinto e dei pantaloni color kaki che arrivavano sopra le ginocchia. Sopra alla maglia c’era un’altra spilla con su scritto “Sono anch’io un piccolo dottore”, e nella tasca del camice, al posto dello stetoscopio, spuntava un cavallino di plastica con la criniera tagliata e sporca di fango. La prima cosa che si notava di quel ragazzo era che soffriva della sindrome di down. Dave non disse niente, prese un barattolo dove dentro era ammassata una poltiglia bianca e marrone, con alcuni spruzzi di nero. Il ragazzo con la sindrome di down alzò le coperte e mi prese la gamba, con delicatezza. Sembrava che si stesse sforzando per essere così delicato. Levò le bende per cambiarle, e dove prima c’era uno squarcio enorme, ora la pelle era solo un po’ arrossata. Dave tolse il tappo dal contenitore e ne fuoriuscì un odore di cannella e di fiori di sambuco. …almeno così avevo sperato. In realtà era un odore pungente, che mi faceva quasi lacrimare gli occhi.
Con l’ausilio di uno stecco mi spalmò quell’unguento maleodorante sulla gamba. Io storsi il naso, e domandai ad Ezekiel cosa fosse.
– Te lo dirò appena sarai guarita del tutto. Tutti hanno la stessa reazione quando lo diciamo per la prima volta, e rifiutano di proseguire le cure. – Dave mi sorrise, e mi fasciò la gamba. Prima che lui potesse andarsene, misi la mia mano sul suo braccio.
– Grazie – Gli dissi. Lui arrossì e scappò via.
Ignacio si risvegliò, spaventandosi per il suo stesso russare. – Febe, come stai?
– Sto bene. Grazie, Ignacio. – Sorrisi. Anche lui arrossì. Chissà perché, oggi arrossivano tutti.
Cercai di alzarmi, ma quando fui in piedi feci una piccola smorfia. Ezekiel non mi stava guardando, ma mi augurò la buona giornata cantando fra sé e sé “I get around” dei Beach Boys.

Ore 15:16. Corso di mitologia e cultura azteca.
Mi piacerebbe dire che era veramente figo ed interessante, ma non sarebbe vero. Era di una noia mortale.
Lawrence blaterava e blaterava, mentre la maggior parte di noi stava dormendo, altri scarabocchiando nei banchi dell’auditorio e Russel attaccava caccole verdi sotto il banco, distribuendole dalle più piccole alle più grandi in ordine crescente.
L’unica che stava veramente prendendo appunti era Godiva Wells.
– …ed il mito narra che un giorno Queztalcoatl se ne andò dal mondo degli umani sopra una zattera fatta di serpenti, ma che un giorno ritornerà! Ed infatti… è ciò che è accaduto. Oggi il grande e magnanimo dio serpente è il nostro direttore del Campo. Ci sono delle domande? –
Russel alzò la mano. – Sì, Russel? – Russel emise un peto. – Molto divertente. Qualcun altro ha delle vere e proprie domande? – Disse con aria seccata.
Questa volta fu Godiva ad alzare la mano. – Mi scusi, caposcout Shakusky, ma esistono altri campi oltre al nostro? –
Lawrence guardò fuori dalla finestra, sovrappensiero. – Che domanda stupida – Borbottò fra sé e sé. – Se ci fossero altri campi scoppierebbe sicuramente una guerra, e noi non saremmo qui. – Poi sorrise a Godiva. – Non ci sono altri campi. Insomma, come potrebbe mai esistere un accampamento di semidei greci?
– O romani – Aggiunse Godiva.
– È palese che la mitologia greca siano solo tutte frottole. Insomma, satiri, cioè uomini metà capre? Ma per favore! Sono tutte storielle per spaventare i bambini. Insomma, se insultassi qualsiasi dio che non sia della nostra meravigliosa cultura non succederebbe un bel niente! Ma comunque il nostro campo non si basa solo sulla mitologia azteca, infatti noi abbracciamo tutta cultura mesoamericana. Ognuno di voi potrebbe essere discendente di un azteco, oppure di un maya, o persino di un tolteco. –
Ping-Mei lanciò una pallina di carta e saliva sputata fuori da una cerbottana fai-da-te sulla guancia di Lawrence. – McCarthy, vuoi chiedermi qualcosa? –
Ping-Mei sogghignò. – Sì, Shakusky. Dopo tutti gli anni che ho passato in questo campo che sta cadendo a pezzi, mi sono sempre chiesta una cosa. Perché si chiama Aztlán? Insomma, potevamo chiamarlo anche “noi amiamo tutti il dio serpente”, oppure “Campo scout dell’amicizia”, o qualsiasi altra cosa poteva passare nella testa zuccherosa della maniaca dell’artigianato, – Disse indicando Candy. Quest’ultima incrociò le braccia sul petto e mise il broncio. Stava per protestare, quando Lawrence la precedette.
– Beh, McCarthy, Aztlán è la leggendaria terra di origine degli aztechi e di tutte le popolazioni di etnia nahua, una delle più importanti culture mesoamericane. Azteca, in lingua nahuatl, significa proprio gente di Aztlán. Se avessi studiato lo sapresti. Aztlán deriva dalle parole “nahuatl aztatl”, che significa Airone, o uccello dalle piume bianche, e “tlan o tlantli”, che significa “posto del”. Aztlán vorrebbe quindi dire “posto dell’uccello dalle piume bianche”, ma deriva anche dal nome del dio Atl, e significa “vicino all’acqua”. In tempi antichi, la città di Aztlán, dove era fondato il nostro campo, era un’isola, ma a causa di un cataclisma ci siamo posti in salvo sulle coste dell’America centrale. Ovviamente, nel corso dei secoli ci siamo spostati fino ad arrivare qui. –
Io chiesi, – Qui dove?
– Beh, mi sembrava ovvio. Siamo in Wisconsin. –
Rimasi sbalordita. Il Wisconsin era quasi al confine con il Canada, mentre l’Alabama dava sul mar atlantico! Erano praticamente agli antipodi!
Lawrence si schiarì la gola. – Per questo, la nostra antica terra di origine viene chiamata anche “Il continente perduto”. –
Mi accigliai. Quel nome mi era già familiare, ma non ricordavo dove l’avessi già sentito.
Lawrence guardò l’orologio. – La lezione è finita. Ma ricordate che tra due giorni si terrà la prima partita di quest’anno del gioco della palla! Vi consiglio di allenarvi bene! – Sogghignò e se ne andò.

Quella sera non riuscii a dormire bene. Pensavo a mia madre, e mi chiedevo come stesse. Il mio cellulare era scarico, ed anche se avesse funzionato, il segnale era praticamente inesistente.
Lanciai un’occhiata a Godiva, che stava dormendo con la testa strapiena di bigodini, e nel sonno farfugliava formule di fisica della quale non mi ricordavo.
Uscii dalla tenda cautamente, facendo attenzione a non svegliare Godiva.
Passeggiai per il Campo, zoppicando di tanto in tanto a causa della ferita.
– Ehi, chica. –
Mi voltai. Era Marcelo.
I capelli bagnati gli cadevano sulle spalle e teneva sotto braccio la sua immancabile tavola da surf. Mi sorrise esibendo il suo sorriso a 32 denti, che sembrava brillare sulla pelle caramellata. Marcelo smise di sorridere. – Che cosa hai, Febe? – Mi asciugò con il pollice la lacrima che mi era rimasta sulla guancia. Non mi ero accorta di stare piangendo. – Nostalgia di casa? Vieni con me. – Marcelo mi trascinò nell’aria mensa, dove al centro c’era un enorme falò. – Puoi sempre scrivere a chi vuoi tramite messaggi di fumo. – Prese da sotto il tavolo del buffet una penna a sfera ed un foglio, e me li diede. Indirizzai il messaggio a mia madre, chiedendole se stesse bene e di non preoccuparsi troppo per me. Gli dissi anche che mi ero fatta dei nuovi amici, e di dire a Consuela che Ignacio si lavava i denti tutte le sere. Quando ebbi finito, Marcelo prese il messaggio, frugò fra le tasche dei bermuda e trovò una moneta deformata. Borbottò imbarazzato, – Beh, noi non abbiamo coni particolari come i greci o… popoli del genere. – Mi accigliai.
– Perché ne parli al presente? – Marcelo si innervosì.
– Dicevo tanto per dire. – Si grattò la nuca. – Comunque, qui usiamo oggetti in oro oppure il buon vecchio scambio di merci. – Avvolse la moneta dentro il foglio e la buttò nel falò, dopo averlo acceso. Subito dopo averlo gettato, le fiamme si intensificarono, ed il messaggio bruciò rapidamente, ma della moneta non era rimasta neanche l’ombra. Rivoli di fumo si alzarono nel cielo. Non era fumo qualsiasi. Era molto più denso, e di un colore spettrale. Il fumo non si dissolse come avrebbe dovuto in pochi istanti, ma si spostò in volo verso sud, e si allontanò fino a scomparire.
Marcelo mi mise un braccio attorno alle spalle. – Senti un po’, piccola chica, che cosa ci fai alzata a quest’ora? Tra poco la stella di Queztalcoatl scomparirà del tutto.
– La stella di cosa?
– La stella di Quetzalcoatl. In alcuni miti si dice che quando Queztalcoatl lasciò il mondo degli umani, divenne il pianeta Venere. Lo so che questa cosa è impossibile, ma devi capire che i miti sono un po’ confusi, a volte. –
Stando vicina a lui, sentivo la pelle del suo torace umida sulla mia guancia. Aveva un odore di salsedine, eppure era strano, perché l’unica fonte d’acqua nei paraggi era di acqua dolce. Però dovetti ammettere che il contatto della sua pelle fresca sul mio volto arrossato dal pianto era piacevole. – Non riuscivo a dormire – Ammisi. – E tu, invece, cosa ci fai qui? – Chiesi.
– Stessa ragione, chica.
– Posso farti una domanda, Marcelo? – Lui annuì placidamente. – Perché la tua pelle ha lo stesso odore del mare? –
Sorrise di nuovo. – Mio padre è uno dei molteplici dei dell’acqua. È il dio Atl, lo stesso che ha anche dato nome al Campo, per intenderci.
– Ma se tuo padre ha dato il nome ad il Campo… perché si chiama anche “Luogo dell’uccello dalle piume bianche”?
– Questo non lo so, chica. Non seguivo molto le lezioni di Lawrence quando le frequentavo. – Rise. – Puoi comunque chiederlo a lui oggi pomeriggio. Beh, io ti lascio, chica. Le onde all’alba sono spettacolari. – E si allontanò dalla mia visuale.
In quel momento ero molto confusa. Onde? Ma… come faceva un laghetto ad avere delle onde?
Ma infondo, che importava. Quando un ragazzo così ti stringeva una spalla, che importanza aveva la logica?

 – E QUESTO LO CHIAMI PUNTO CROCE?! SE QUELLO È UN PUNTO CROCE, IO SONO LA PRESIDENTESSA DEGLI STATI UNITI! – Candy stava letteralmente sbraitando. A quanto pare, era una delle poche che prendeva sul serio l’artigianato. – Rifallo da capo! – Sbraitò contro Russel.
Avevo un sonno pazzesco. Il mio ricamo si sdoppiava se ci tenevo lo sguardo troppo fisso, ma una cosa la vidi bene: la giovane principessina di Malibu che stava venendo inferocita verso me e Godiva. Candy strappò dalle mani di Godiva il suo ricamo, poi inforcò gli occhiali di plastica rosa sul naso, come se fossero lenti da gioielliere. Guardò scettica Godiva. – Questo lavoro… QUESTO LAVORO… È SEMPLICEMENTE SUBLIME! Ma guardate le rifiniture! – Si mise il ricamo sopra la testa e si esibì in un pliè. – Mai visto lavoro di tale magnificenza! Sentite come gli occhi preghino di vederne ancora! Com’è morbido al tatto! – E se lo strusciò sulla pelle abbronzata. Era ufficiale: la mia insegnante di artigianato era completamente fuori di testa. – Splendido! – Lo ridette a Godiva, e sembrava che il suo malumore fosse svanito. Perciò, andò a bersi il suo quotidiano frullato di starbucks e si sdraiò su una sdraio, cospargendosi la pelle con olio abbronzante ed ignorandoci beatamente per i restanti venti minuti della lezione.

 – Nel mio corso non ammetto che voi perdiate! Ricordate, se siete secondi siete dei perdenti e siete anche molto probabilmente morti! Nel mio corso non c’è posto per mammolette smidollate! E sì, mi sto riferendo a voi, ragazzi del primo anno! – Sam si rigirò il berretto da caccia all’indietro, e sputò sul terreno, mettendosi il fucile a pallini in spalla. – Per cominciare – Solcò a grandi passi il perimetro del campo, – faremo una piccola lezione teorica, e poi vi allenerete in quella che io chiamo “colpisci l’avversario prima che lui colpisca te”! –
Godiva si intromise. – Ehm… intendi scherma?
– Ma beeene, abbiamo una saputella nel nostro corso. Ce n’è sempre uno ogni anno… quello dell’anno scorso è stato seppellito proprio dove sei tu. – Godiva chiuse la bocca e fece un passo indietro. – Bene. Le forze armate azteche erano tipicamente composte da grandi quantità di cittadini comuni, che loro chiamavano Yaoquizqueh, che vantavano solo un addestramento militare di base, ed un relativamente piccolo gruppo di guerrieri professionisti chiamati Pipiltin, organizzate in società guerriere e graduati secondo i loro compiti. Lo stato azteco gravitava attorno all’espansione politica ed al controllo delle altre città stato, compresa l’esazione dei tributi. Se state per chiedermi cosa sono le esazioni dei tributi, – scoccò un’occhiata fiammeggiante a Russel, che abbassò subito la mano, – non ne ho la benché minima idea. Io ho solo imparato a memoria quel che c’era da sapere. Se avete delle domande riguardo a paroloni da fare annodare la lingua, rivolgetevi a quell’idiota quattr’occhi di Shakusky. L’arte della guerra era la principale forza della politica azteca. In pratica, la società azteca si basava e si basa tutt’ora sulla guerra; ogni maschio azteco riceveva un addestramento militare fin dalla giovane età, e l’unico modo che avevano i cittadini comuni per salire la scala sociale era quello di intraprendere una carriera militare, soprattutto grazie al fatto di catturare prigionieri. Il sacrificio dei prigionieri di guerra rappresentava una parte fondamentale di molti riti religiosi aztechi; ovviamente oggigiorno non ci è più concesso uccidere prigionieri di guerra o sacrificarci agli dei - queste pratiche, come il sacrificio umano, sono state reputate primitive nel corso della nostra storia. Per concludere, l’arte militare era la forza che sosteneva l’economia e la religione. Ovviamente le mie lezioni non vi serviranno solo in questo mondo, ma anche se un giorno deciderete di passare all’altro mondo. Infatti, chiunque di voi cade in battaglia, potrebbe entrare a far parte dell’esercito del Sole. In pratica, consiste nel combattere al fianco del dio Huitzilopochtli, per quattro anni, fino a che non sarete degni di ascendere allo Shibalba. Ovviamente, potreste diventare guerrieri del Sole tutt’ora, se lo desideraste, ma è molto difficile che vi accettino dato che siete tutti degli incompetenti. – Sam grugnì. Quell’ora la passammo a ricevere spiegazioni su come avere una prima base di sopravvivenza, affiancate da dimostrazioni dateci da Sam mentre usava Ignacio come manichino.
– …ed è così che si stende un coccodrillo! – Tappò la bocca di Ignacio e lo buttò a terra, schiacciandolo. Qualcuno alzò la mano, ed indovinate chi era?
Non Godiva, fortunatamente.
Ad un certo punto della lezione, Godiva aveva avuto un fortissimo mal di pancia, ed era stata costretta ad andarsene nella tenda dell’infermeria. Chi aveva alzato la mano era stato invece un ragazzo del quinto anno, che indossava una piuma verde. – Sam, che ne dici di spiegare alle matricole quel nostro piccolo potere speciale? – Ammiccò. Portava capelli rasta legati in una coda, e la pelle scura riluceva al sole senza maglietta. Sam giocherellò con la corda del fucile.
– Qualsiasi semidio mesoamericano ha dei poteri speciali, che gli permettono di sopravvivere anche senza l’ausilio di armi. Un nostro semidio è un dromomane, ovvero la malattia che ti porta a camminare all’infinito per la ricerca della tua casa. In questo modo saprete sempre ritornare al Campo Aztlán, da qualsiasi punto vi troviate. La seconda abilità che possediamo è la cleptomania, e credo che qualcuno di voi l’abbia già scoperto. –
Era vero. Molte volte ero stata fermata da sorveglianti e poliziotti per aver rubato involontariamente magliette, crackers al formaggio o robe simili.
– Ora passiamo alla parte fondamentale, e quella più divertente… le armi. Le armi del nostro popolo sono essenzialmente il Macuahuitl, che significa letteralmente bastone, ma essenzialmente è una spada di legno, affilata in ossidiana sui lati. – Riconobbi l’arma di cui stava parlando.
Era quella che avevo usato la notte prima, per uccidere quella bestiaccia. – Era generalmente l’armamento base dei grandi superiori della gerarchia – Continuò. – Un colpo sferrato da questa arma è in grado di decapitare un cavallo! Seguita subito dopo dal Tepoztopilli, lancia in legno con lame affilate in ossidiana in cima! Infine, esiste Huitzauhqui, che consiste in una clava di legno tempestata di lame in ossidiana. Seguono poi le armi comuni, come lance, pugnali di ossidiana o di pietra a seconda dello scopo pattuito, arco e frecce. Le frecce normali si chiamano Mitl, mentre le frecce da guerra con punte taglienti in ossidiana vengono chiamate Yaomitl. Infine ci sono le fionde, fatte in fibra di agave. Se non l’avete notato… noi usiamo per quasi tutte le nostre armi l’ossidiana; l’ossidiana non è ossidiana qualsiasi, bensì ossidiana incantata, un dono che gli dei ci hanno elargito molto tempo fa. Bene, qualche domanda? –
Prima che qualcuno potesse porre una domanda, Sam sogghignò. – Bene! Come allenamento prenderemo due persone a caso… McCarthy e Parker! – Ping-Mei sogghignò. Il ragazzo dalla piuma verde le diede bruscamente una spada di legno, poi si avvicinò a me e mi diede a malincuore la stessa arma di Ping-Mei. – Buona fortuna, darling. –
Aveva un accento strano e molto buffo, ma si vedeva perfettamente che era molto ansioso. Ping-Mei allungò la mano. – Senza rancore, Parker? – Sorrise, mostrando l’apertura sui denti davanti. Ero perplessa. Ma infondo… anche nelle persone cattive c’è un qualcosa di buono!
Mi avvicinai e le strinsi la mano.
Avete presente il detto, “Il lupo perde il pelo, ma non il vizio”? Beh, se Ping-Mei fosse stata un grosso e grande lupo con gli occhi a mandorla e l’alitosi, non avrei mai voluto essere la sua cena.
Perché appena strinsi la sua mano, lei mi tirò una botta sulla nuca con l’elsa della spada di legno.
Barcollai all’indietro, e poi caddi intontita. Vidi Nacho scandalizzato, mentre alcuni ragazzi stavano facendo capannello intorno all’area di combattimento, urlando.
“Coraggio, Ping-Mei, fai vedere chi comanda a queste matricole!”, “Parker, togli quel sorriso dal volto di quell’asiatica a suon di cazzotti!” “Ragazze che combattono? STRAPPATEVI LA MAGLIETTA!”. Tutto intorno a me stava girando. Mi rialzai sui gomiti, ma Ping-Mei mi fu addosso, e mi diede un colpo sulla schiena. Vomitai.
COSA STA SUCCEDENDO QUI?!
I ragazzi si divisero, ed ammutolirono per far passare Queztalcoatl.
Questa volta, non era un enorme serpente piumato, bensì assomigliava di più ad una dracena greca. La parte superiore del corpo era umana. Aveva capelli lunghi ed ispidi, come la sua barba. La sua pelle era coriacea ed abbronzata, dura come il cuoio, solcata da profonde rughe agli angoli degli occhi, neri quanto l’ossidiana. Il torace non sembrava affatto di un vecchietto di miliardi di anni: era bensì tonico e posato su due spalle ampie. Indossava un copricapo fatto di piume ed abiti tradizionali: sui polsi portava due bracciali d’oro; ai lobi delle orecchie, degli orecchini d’oro, e fra il confine della coda da serpente e del torace umano, c’era una cintura d’oro e di piume colorate. Sotto agli occhi, era visibile un impercettibile strato di trucco rosso e bianco, che contornava gli occhi. Secondo Lawrence, odiava portare la sua forma ibrida a causa dello scherzo che gli fu inferto da Tezcatlipoca, suo fratello. La sua espressione era severa, e contratta in un cipiglio, indignato. I suoi occhi guizzarono subito su Sam, poi su Ping-Mei, ed infine su di me.
La sua espressione arrabbiata lasciò il posto a quella amorevole di una madre preoccupata. Strisciò velocemente accanto a me. – Oh, Febe… – Mi prese in braccio. A differenza di lui, sembravo un gattino; pur essendo grande tanto da circumnavigare il confine del campo quando era un serpente, anche nella sua forma umana rimaneva pure un uomo un po’ più alto di due metri. Strisciò lentamente verso una caverna, ai confini del Campo.
Quando entrammo, l’aria era piuttosto accogliente. Il dolore era ancora così lancinante che ricordo solo che Queztalcoatl mi appoggiò su una pietra dalla superficie liscia e che mi imbozzolò in più coperte.
Appena chiusi gli occhi, mi addormentai. E sognai.
Nel mio sogno, ero nel deserto, dove un uomo calvo, grasso e piuttosto brutto stava di fianco ad un chiosco, dove c’erano tre torte: una con un ripieno viola, l’altra con un ripieno arancione ed infine una con un ripieno giallo. Appena mi avvicinai, notai che l’uomo era rivolto di spalle. Gli girai attorno, ma da qualsiasi direzione lo vedessi, l’uomo era rivolto sempre di spalle. Il sole calò rapidamente, e rimase per metà nel cielo. – Non può ascoltarti. E… se è per questo, non può neanche vederti. – Disse una voce.
Mi girai, ma non vidi nessuno. Sul tavolo, però, era comparso un biglietto, con su scritto “Torte magiche. Solo a 150 dollari l’una!”
Alzai lo sguardo verso il sole. Un cespuglio di roveti passò alle mie spalle, mentre l’ombra dei cactus si allungava in modo innaturale. Il sole si ruppe, e tutto si tinse di blu. Sul cielo comparvero miliardi di stelle, che si trasformarono in costellazioni ed incominciarono a rincorrersi.
– Sto sognando o sono morta?
– Stai sognando – Rispose la voce di prima, ora proveniente dalle mie spalle. Sobbalzai e guardai in quella direzione. Alle mie spalle, c’era un coyote. – Belle, non trovi?
– Tu… parli? Ma sei un…
– Coyote? Già. Sono il tuo animale guida. Tutti ne hanno uno. O meglio… tutti voi semidei aztechi. – Il coyote si alzò su due zampe, e guardò in alto. Un’altra volta. Poi camminò in posizione eretta, intorno a me. – Ti stai chiedendo che cosa sia quello, giusto? – Fece un cenno con il muso verso l’uomo; era vero.
– Come…
– Io so tutto. – Rispose. – Passato, presente e… futuro, certe volte. Non sempre. Non sono un oracolo, e non mi è sempre concesso dire cosa accadrà. Quello è il tempo, Febe. Il tempo è immutabile. Il tempo è un vecchio imbroglione calvo. Da qualsiasi parte tu lo veda, lui rimarrà tale. – Aveva un’aria serena, ma quando lui si avvicinò verso il tempo, l’uomo si dissolse, e due soli sorsero. Il coyote sembrò spaventato. – L’animo umano è sempre stato tentato dal potere. Dal potere indissolubile… dalla ricchezza, dalla lussuria, dalla vita eterna. Impadronirsi del tempo è come impadronirsi del mondo stesso. Alcuni semidei stanno proprio facendo questo: stanno combattendo il tempo. Solo il tempo può curare alcune ferite. Solo ricordandoci chi siamo e da dove veniamo possiamo trovare la pace interiore. – Il terreno tremò. – Ops! Ho detto più del dovuto. – Il coyote si riabbassò, e si leccò una zampa. Poi mi guardò, ed i suoi occhi erano privi di pupille. Completamente bianchi. – Febe, forze oscure si stanno risvegliando, e la fine del mondo inizierà con la privazione delle tentazioni. Può sembrarti una buona cosa, ma non lo è. Le tentazioni sono ciò che ci dà un freno, e privando l’umanità del suo lato più marcio, rischierà solo di diventare ancor peggio. In passato qualcuno ha commesso degli errori… e qualcuno ne commetterà ancora in futuro. Ma Febe, tu devi mantenere l’equilibrio, perché solo tu puoi impedire che… –
Il sogno scomparve.
Mi svegliai. 
Nota degli autori
Ragazzi ci dispiace che in questo capitolo non succeda niente di particolarmente entusiasmante poichè ci serviva un capitolo che informasse un po' il lettore sulla cultura e le usanze mesoamericane, ma ehy ! ♥congratulazioni a te che sei riuscito a leggere un capitolo così lungo e con così pochi colpi di scena♥.
Promettiamo che nel prossimo capitolo ci sarà mooolta più azione "con Blackjack e squillo di lusso...anzi senza Blackjack".
Cordiali saluti

Il duo dei perdenti 

 

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