Eroi dell'Olimpo ciò che zio Rick ci ha omesso

di SunShineFiruli
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Percy: dalla Casa del Lupo al Campo Giove pt. 1 ***
Capitolo 2: *** Percy: dalla Casa del Lupo al Campo Giove pt. 2 ***



Capitolo 1
*** Percy: dalla Casa del Lupo al Campo Giove pt. 1 ***


La prima cosa che il ragazzo registrò, era che la testa gli stava scoppiando.
-Ahia- si lamentò aprendo gli occhi e sedendosi per poi massaggiarsela.
Si trovava su dei freddi gradini di pietra, molto duri e scomodi. Doveva essercisi addormentato sopra, ma perchè? Avrebbe potuto andare a casa e buttarsi a letto, che sicuramente sarebbe stato più caldo e soffice dell’alternativa a cui era ricorso. Un attimo: ma dove si trovava? Dov’era casa sua? E, cosa un tantino più preoccupante: lui chi era?
Non ricordava il suo nome, o la sua età. Non ricordava la sua vita. Indossava dei jeans e una maglietta arancione, con una scritta davanti che però era troppo rovinata perchè fosse leggibile. Aveva la strana sensazione che fosse qualcosa di importante. Chiuse gli occhi e cercò in modo disperato un appiglio nella sua mente che lo ricongiungesse al suo passato. Nulla. Solo un’immagine sfocata e un nome, che lo aveva accompagnato in tutti i lunghi sogni confusi che aveva fatto di recente.
Annabeth.
Ma chi era? Doveva essere importante per lui, ma… non sapeva proprio cosa pensare. Che avesse sbattuto la testa? Che quella fosse una breve amnesia momentanea, che sarebbe passata con il tempo? Non sapeva perchè, ma ne dubitava.
Sbuffò, e decise che in quel momento la priorità fosse capire cosa stava succedendo. Si alzò dalla gradinata e diede un primo sguardo a ciò che lo circondava: una casa diroccata, abbandonata da anni e apparentemente deserta. Intorno, il niente. O almeno, niente che potesse congiungere alla civiltà. Qualche albero rinsecchito qua e là, un prato in fiore. Doveva essere primavera. Salì gli scalini e attraversò un arco di pietra. Sui muri e per terra notava degli strani segni. ‘Come se si fosse svolta una battaglia’, si disse, per poi rendersi conto di quanto fosse assurda quell’idea. Battaglia? Tra chi, per che cosa? Era un periodo pacifico in America, o almeno così credeva. Quei danni non potevano essere stati causati da una banda di vandali, ma era impossibile che fosse altrimenti.
Gli venne in mente di controllarsi le tasche, tanto per accertarsi di non avere un documento, magari, che potesse rivelargli la sua identità. Niente, solo una penna a sfera. Perchè andava in giro con una penna? Seccato dalla frustrazione, la prese e la scagliò via con tutte le sue forze. Non vide dove atterrò.
-Non una mossa molto intelligente, cucciolotto- disse una voce.
Il ragazzo si voltò, ma non vide nessuno. Tutto, dalle assi crollate ai muri mezzi distrutti e crepati, era esattamente come prima. Eppure era sicuro di non essersela immaginata.
-Chi ha parlato?- domandò, titubante.
Nessuna risposta. Ok, la botta in testa lo stava facendo andare davvero di matto. Spinto dalla curiosità, però, decise di addentrarsi sempre più in quella che una volta, capì dalle dimensioni, era stata una villa. Tese un orecchio pronto a captare ogni minimo rumore, ma tutti quelli che percepiva erano causati da lui. La polvere era smossa in alcuni punti, e molto più marcata in altri. C’era davvero stato qualcuno lì, di recente. Uno strano cigolio lo avvertì in tempo della caduta di una parete. Riuscì a levarsi dal luogo dell’impatto senza rimanerci secco. Per fortuna. Dopo aver dato un’occhiata a tutto il piano terra e non esistendone altri, si arrese. La sua mente gli aveva giocato un brutto scherzo.
Attraversò l’arco di pietra, ma non appena fu fuori dall’edificio si accorse di non essere passato dallo stesso punto dell’entrata. Non si trovava davanti all’immensa gradinata, ma a una grande piscina vuota. Enormi zolle di terra ne ingombravano l’interno, insieme a della fanghiglia. Sulla sponda, era accovacciato un grosso lupo.
Stranamente, il ragazzo non sentì l’impulso di indietreggiare. Non avvertiva neanche una sensazione di pericolo. Non se ne spiegava il motivo, considerando che la bestia avrebbe potuto saltargli addosso da un momento all’altro e scuoiarlo vivo.
-Ci hai messo un po’ a trovarmi- la voce echeggiò di nuovo. Ma da dove proveniva?
Si voltò, si guardò attorno. Ancora nulla.
-Non ci credo che non hai ancora capito- sbuffò. -Mi sono capitati bambini di 8 anni più intelligenti di te.
-Adesso non esageriamo. Ehm, mi dai un aiutino? Fuoco o acqua?
-E che sarebbe?- la voce sembrava leggermente seccata.
-Io mi avvicino a qualcosa. Se non sei lì, devi dire ‘acqua’. Se invece ci sei, o ti trovi lì vicino, devi dire ‘fuoco’. Se sono a metà, quindi nè troppo vicino nè troppo lontano, ‘fuochino’. Ma andiamo, chi non conosce questo gioco?
-Io, cucciolo. Ma ho paura che se si tratta di avvicinarsi, non finiremo più.
-Allora potresti, non lo so, dirmi chi accidenti sei- disse il ragazzo, alzando la voce alla fine della frase.
-Sono dietro di te.
Quando si girò, non era cambiato niente. La piscina, la terra, il grande lupo che lo guardava in modo strano.
-Dove?- domandò, abbassando il tono per paura di disturbare troppo l’animale.
Quello alzò gli occhi al cielo, gesto troppo simile a quello di un essere umano per passare inosservato. -Qui.
-Aspetta- le rotelle nella testolina del ragazzo iniziarono a girare. -Sei un lupo?
-No- lo corresse la voce. -Sono Lupa. La madre di Roma. Colei che trovò e allattò Romolo e Remo. Sono una divinità. E sono a capo del più grande e forte branco che esista sulla terra.
Divinità. In qualche modo, il tipo sapeva di non essere pazzo, che il lupo diceva la verità. Ma come? Non capiva. Insomma, se avesse già incontrato divinità nel passato, o se fossero anche solo esistite, se lo sarebbe ricordato. Sicuro.
Roma. Quella invece non gli diceva granché. Fu sicuro di non avere voti alti in storia, perchè non si ricordò niente della sua fondazione, o del remo di cui parlava la ‘dea’.
Un’altra parola, però, gli sembrò degna di attenzione.
-Branco?- balbettò.
Notò solo allora tutti gli altri lupi, intorno al perimetro della casa. Era nuvoloso, e la mancanza di luce diretta del sole aveva contribuito a nasconderli, un po’.
-Non preoccuparti- gli disse Lupa. -Ho ordinato loro di stare a distanza. Tendono a spaventare le mie nuove reclute.
-Nuove che..?- quasi si strozzò dalla sorpresa.
-Non fare il finto tonto, lupacchiotto- la dea lo squadrò da capo a piedi. -Sei diverso dalle altre persone. Non sei un mortale. è per questo che sei venuto qui.
-Se stai cercando di dirmi che non sono normale, cercherò di non offendermi. Ho solo una piccolissima domanda. Dove siamo?
-Questa è la casa del Lupo. è qui che vengono quelli come te, quando sono pronti a iniziare l’addestramento.
-Sai chi sono? Da dove vengo?- il ragazzo si sentiva fuori luogo, lì, come se quello non fosse il suo posto. Tuttavia, voleva scoprire qualcosa su di sè.
-So che sei un semidio. Un mezzosangue. Figlio di un mortale e di una divinità Romana. Non so dirti di chi. So che il tuo nome è Percy Jackson. Ma questo dovresti già saperlo.
-é questo il punto- sbottò il ragazzo, che aveva appena scoperto di chiamarsi Percy. -Non ricordo nulla. Cosa sta succedendo? Chi è Annabeth?
Non sapeva perchè aveva rivolto l’ultima domanda proprio a lei. Forse, se era a conoscenza suo nome, sapeva anche qualcosa di più su di lui.
-Non preoccuparti- lo rassicurò Lupa. -Riacquisterai la memoria. Incontrerai di nuovo questa Annabeth, se arrivi vivo alla fine del tuo viaggio. Ma non sarà facile.
-Ehm… che viaggio?- il semidio si innervosì. -E perchè potrei non uscirne vivo?
-é per questo motivo che i mezzosangue vengono qui- spiegò la dea. -Io li alleno perchè possano sopravvivere. Ma sono loro a dover trovare la strada, fidandosi del loro istinto. Lavorerò anche con te, cucciolotto. I miei addestramenti sono piuttosto complicati, ma ho visto ragazzini più giovani di te cavarsela, in un modo o nell’altro.
-Ah. E se non dovessi essere in grado di superarlo?
La lupa scoprì i denti. -Ti conviene farcela. Non accetto falliti, nel mio branco.
Percy ebbe le idee spiacevolmente chiare su ciò che stava cercando di dirgli. Ma non sul viaggio. Decise di tenersi per sè le domande, e di aspettare un momento più propizio per tirarle fuori.
-Ok…- mormorò. Non sapeva se avrebbe potuto tornare sui propri passi e andarsene, ma capiva che doveva andare avanti. -Quindi, per curiosità, questo addestramento durissimo quando dovrebbe cominciare?
-Ti sei appena svegliato- gli fece notare Lupa. -Anche subito.
Il semidio non afferrò il ragionamento. La dea si alzò e si allontanò. Probabilmente si aspettava che la seguisse. Quindi, aveva un’ultima opportunità per darsela a gambe, in fondo. Ma non lo fece. ‘Cosa ho scoperto oggi’ si disse. ‘Sono un idiota, un grande idiota attratto particolarmente dalle situazioni suicide. Sono sempre così?’
Deglutì e si decise ad andare dietro a Lupa, affrettando il passo per riguadagnare il terreno perduto. Si fermarono in mezzo al prato, lontano dalla piscina vuota e dalla casa diroccata. La dea fece cenno ad alcuni suoi compagni che erano lì di allontanarsi, e quelli obbedirono senza fiatare. A Percy sarebbe piaciuto avere quel tipo di potere, sulle altre persone. Ma anche solo l’idea di poter diventare a sua volta un dio non lo allettava. Ok, forse non era normale sul serio.
-In cosa consisterebbe questo allenamento?- domandò.
-Devo accertarmi che tu sia abbastanza forte per sopravvivere nel mondo esterno, lupachiotto. Che tu sappia combattere i tuoi nemici, orientarti nell’ambiente, avvertire il pericolo o la salvezza. Certo, cose che in gruppo si fanno meglio, ma un lupo deve anche saper cavarsela da solo, per entrare a far parte di un vero branco. Deve dimostrare il suo valore.
-Io non sono un lupo- commentò Percy.
-No, ma con voi umani il concetto non è troppo diverso. Hai già un’arma. Sai combattere?
-Ehm…- Il semidio iniziava ad avere seri dubbi sulla salute mentale della dea. -Ma io non ho armi. Non ho niente con me.
-Davvero?- Lupa sorrise, per quanto potesse fare. -E quella che hai in tasca cos’è?
Percy non capì. In tasca non aveva niente di niente. Aveva già controllato. Se le tastò nuovamente, tanto per dimostrare alla dea che si sbagliava, ma quando passò su quella destra, sentì sotto le dita uno strano rigonfiamento. Confuso, ci infilò la mano, e afferrò qualcosa. Quando la tirò fuori, la penna a sfera brillò sotto la debole luce che traspariva dalle nuvole.
-Come?- il semidio la lasciò cadere dalla sorpresa. -Ma l’avevo gettata via! Me lo ricordo!
-Non puoi gettare via un’arma incantata-sospirò Lupa. -é fatta apposta per tornarti in tasca, se la perdi.
-Prima cosa: come fai a sapere tutte queste cose? E seconda: cosa dovrei farci con una penna?
La dea doveva essere piena di pazienza. Chissà quante altre volte le erano capitati discorsi simili. -Primo: riesco ad avvertire la magia. Secondo: un’arma di bronzo celeste come quella è molto rara, cucciolo. Dovresti averne più cura.
Percy non comprese cosa fosse il bronzo celeste, ma si affrettò a raccattare la penna, per osservarla meglio. Sembrava un normalissimo strumento di scrittura: piccola, leggera, con un lungo tappo. Ma Lupa aveva nominato la magia. Il semidio stava ancora cercando di abituarsi all’idea degli dei Romani e tutto il resto, quindi non aveva idea di come potesse funzionare. Doveva dire qualcosa in particolare? Stappò la penna, tanto per vedere se sapeva davvero scrivere, e quella gli si allungò tra le mani fino a diventare una spada. Dopo un primo verso di sorpresa, Percy si fermò a darle un’occhiata. Era perfetta. Non sapeva da cosa lo capisse, ma notò che era ben bilanciata, non gli limitava nessun movimento, era leggera e non ingombrante. Era semplicemente perfetta.
-Sai già combattere?- domandò di nuovo la dea. -Difenderti?
-Sai- rispose lui. -Come ho già detto, non mi ricordo un cavolo.
-Lo scopriremo, allora.
Il ragazzo fece per chiederle cosa volesse dire, quando Lupa sfoderò gli artigli e gli saltò addosso. Percy sollevò istintivamente la spada, bloccando l’attacco a mezz’aria, poi impiegò più forza e riuscì senza particolari problemi a spingerla indietro. Non aveva idea di come avesse fatto, ma sentiva che non era la prima volta che combatteva. Che aveva affrontato di peggio. E anche che in quel momento aveva ricevuto una specie di aiutino, da qualche parte. Non era mica normale respingere una dea così facilmente, o almeno, lo supponeva.
-Ti ho sottovalutato- disse la lupa. Gli girò intorno, osservandolo, persa nei suoi pensieri. Che aveva tanto da guardare? Alla fine si fermò e scosse la testa. -Se non sapessi che è impossibile che un novellino come te ci riuscisse… no, niente.
Evviva. Percy scoprì di non andare particolarmente matto per i misteri.
-Quindi- tagliò corto il semidio. -Posso andare?
-Oh, non stavo facendo sul serio. Mica mi metto ad attaccare i miei nuovi allievi da subito con tutte le mie forze. Di solito non riescono a ribattere come hai fatto tu. Sarebbe interessante una lotta vera.
Il semidio sbuffò. Non aveva voglia di iniziare una ‘lotta vera’. -è necessario?
-Sì- rispose Lupa. -Questo potrebbe diventare l’addestramento più corto della storia. Dimostrami che sei degno di unirti al branco. Non pensare. Segui il tuo istinto. Devi ascoltarlo sempre. Fidati anche dei tuoi sensi: ogni minimo rumore che ignori potrebbe significare morte certa, un attimo dopo. Sopravvivi a questo scontro e sarai pronto ad andare nel mondo esterno, partire per il tuo viaggio.
-E se mi rifiutassi? Cioè, di solito i mezzosangue che ti arrivano quanto ci mettono a superare l’allenamento?
-Alcuni anche mesi.
Percy non aveva intenzione di rimanere bloccato lì per così tanto tempo. La dea gli aveva detto che avrebbe trovato delle risposte lungo il viaggio, che avrebbe recuperato la memoria e incontrato Annabeth, di nuovo. Non voleva aspettare.
-Vada per la ‘lotta vera’- sbuffò. Non era sicuro di poterla affrontare senza rimanerci secco, ma gli sembrava l’alternativa più fattibile. -Posso avere un paio di minuti di preparazione mentale, almeno?
Lupa gli saltò addosso a una velocità impressionante, inchiodandolo a terra.
-Regola numero 1- disse. -Il nemico non ti da mai il tempo di prepararti. Attaccherà quando meno te lo aspetti. Non abbassare mai la guardia, cucciolo, o sei un lupo morto.
Percy stava iniziando ad odiare quelle stupide metafore. La spada gli era caduta di mano. La dea era sopra di lui, ringhiando, e con molta probabilità non avrebbe avuto pietà se il ragazzo non fosse riuscito a fare qualcosa per respingerla. Solo che non sapeva bene cosa. ‘Prova a fidarti di questa pazza’ si disse. Non pensare. Segui il tuo istinto. Beh, sul fatto di non pensare non aveva problemi. Sospirò, cercando di liberare la mente da qualsiasi cosa potesse essergli d’intralcio. Non ci mise molto, considerando che non ricordava niente. Portò alla svelta la mano alla tasca. Quanto passava di solito prima che la penna riapparisse, non avrebbe saputo dirlo, ma sentiva che era lì. E così fu. Lupa non si accorse del suo movimento, era impegnata a sfoderare gli artigli, che avrebbero dovuto lacerargli la carne, nei punti in cui lo toccavano. Ma Percy non sentì nessun dolore. Stappò la sua arma, che si allungò alla svelta, ferendo la dea che fece un balzo all’indietro. Da petto le colava del sangue dorato.
-Non male- commentò la lupa. -Ma questo era solo l’inizio.
Si muoveva a una velocità impressionante. Un nanosecondo dopo, non era più lì, sull’erba. Ma il semidio non vedeva dove si era cacciata. Fidati dei tuoi sensi: ogni minimo rumore che ignori potrebbe significare morte certa. Se la vista non gli era più sufficiente a individuare il nemico, aveva pur sempre altri quattro sensi a cui fare ricorso. No, ok. Il gusto era piuttosto inutile. E di trovare la dea con il tatto ne avrebbe volentieri fatto a meno, prima di ritrovarsi senza una mano. Quindi ne restavano due. Chiuse gli occhi, cercando di fare nella sua mente un quadro della zona circostante. La puzza di sudore doveva venire da lui. I lupi sudano? Da qualche parte alla sua destra, l’erba scricchiolò lievemente. Poteva benissimo essere un uccellino, o un effetto dovuto al vento, che non c’era, ma Percy dubitò fosse così. Riaprì alla svelta gli occhi e tirò un fendente verso la zona da cui era provenuto il rumore. La dea lo schivò aglimente, ma dalla sua espressione il semidio intuì che si aspettava qualcosa di diverso.
-Qualcosa non va?- chiese.
Lupa ringhiò. Lo attaccò alla velocità della luce, una raffica di artigli e denti. Percy si scoprì in grado di mantenere la stessa incredibile velocità e di parare quasi tutti i colpi, mentre quelli che andavano a segno non gli procuravano danni. Che la dea ci stesse andando piano di nuovo? Com’era possibile che riuscisse a starle dietro così facilmente? Un lupo sa avvertire il pericolo o la salvezza. Solo una volta il ragazzo ebbe la sensazione di essere in pericolo. Riuscì a bloccare l’attacco della lupa un attimo prima che lo colpisse sulla schiena, in un minuscolo punto in fondo alla spina dorsale. Non si spiegò perchè si fosse sentito in pericolo. Ma si era fidato.
Alla fine, Lupa si allontanò da lui.
-Non me lo spiego- mugugnò. -Nessuno era mai riuscito a starmi dietro in questo modo, senza riportare un graffio, come hai fatto tu. E il tuo modo di combattere non è normale. Non è Romano. Ma hai seguito i miei insegnamenti, cucciolo. Molto bene. Anche se c’è qualcosa di strano in te.
-Beh, di nuovo, cercherò di non offendermi.
-Ho incontrato tanti mezzosangue nel corso dei secoli- continuò la dea. -Ma tu sei diverso.
-Spererei diverso in meglio- Percy alzò gli occhi al cielo. -Comunque, sono vivo. Addestramento finito, no? Posso andarmene? Partire per questo viaggio? Cioè, tra l’altro non ho neanche idea di dove devo andare. Tu lo sai?
-Sì, abbiamo finito. Non so come, ma sei sopravvissuto sul serio- Lupa sembrava parecchio sorpresa rispetto a quell’ultima parte. -Ma la strada la devi trovare tu, da solo.
Il semidio la maledisse in silenzio. Voleva i suoi ricordi, e li voleva subito. Era tanto difficile dirgli almeno in che direzione andare?
-E come dovrei fare?- chiese, spazientito.
-Segui il tuo istinto, lupacchiotto. In questa lotta l’hai fatto bene. Continua così, e troverai il posto.
-Ma che posto starei cercando, di preciso?
-Lo capirai. Buona fortuna, Percy- la dea iniziò a ritirarsi. -Vedi di riuscire ad arrivare in fondo, tutto intero. Mi spiacerebbe perdere subito il miglior allievo che mi sia mai capitato.
Lupa scomparve, in una nuvola nera. Tutti gli dei potevano teletrasportarsi così? Al semidio sarebbe stato comodo. Tornò verso la casa diroccata. Non c’era più traccia neanche del branco della lupa, come se si fosse portata via tutti i suoi compagni, con la sparizione di poco prima. Era solo. Non sapeva bene dove si trovava. Non ricordava niente di sè. Aveva anche un po’ fame. Ma la domanda più grande era: da che parte andare?
 

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Capitolo 2
*** Percy: dalla Casa del Lupo al Campo Giove pt. 2 ***


Prima di cercare di comprendere dove lo spingesse il suo istinto -impresa non da poco-, Percy decise che era il caso di capire dove si trovasse. Ok, Lupa gli aveva spiegato che quella era la Casa del Lupo… ma dov’era? Il semidio aveva la sensazione di non brillare neanche in geografia. Convenne che fosse il caso di ricongiungersi con il mondo mortale. Tornò all’ingresso della villa, quello dove si era svegliato. In fondo ai gradoni, c’era una strada asfaltata. Si vedeva che non era propriamente nuova e che non veniva percorsa da un po’, ma da qualche parte doveva pur portare. Fece spallucce e cominciò a camminare. Aveva con sè solo la sua spada, ma quanto poteva metterci? In un paio d’ore al massimo sarebbe arrivato in qualunque posto la via conducesse. O almeno, era quello che credeva. Ovviamente non fu così. Percy camminò molto più a lungo di quanto si aspettasse. Il paesaggio rimase invariato per un bel po’, ma perlomeno il clima migliorò. Le nuvole che avevano occupato il cielo fin dal momento del suo risveglio si diradarono, e il sole cominciò a splendere, dando al luogo un aspetto più piacevole. Che ore potevano essere? Mezzogiorno? Aveva un sacco di tempo per trovare un centro abitato, o qualcuno disposto a dargli un passaggio. Tra l’altro, non poteva impiegare tanto a trovare il misterioso posto indicatogli dalla dea.... non doveva essere troppo lontano. Sarebbe stata questione di un paio di giorni. Poi avrebbe potuto recuperare i suoi ricordi. Con questi pesieri felici, Percy affrettò il passo. Un bel po’ di tempo dopo, finalmente il semidio intravide un edificio. Essendo un po’ distante, non capiva bene di cosa si trattasse. Gli parve di vedere delle luci accese, e una strada. Una strada vera, con auto e persone reali, mica come quella su cui stava camminando da ore. Era notte fonda, ed era stato tentato più volte di fermarsi a riposare, anche se alla fine si era fatto forza e aveva proseguito, nella speranza di trovare un posto migliore per sostare. Forse le sue preghiere erano state ascoltate. Raggiunse l’edificio da dietro. Una recinzione parecchio alta lo divideva da un grande parcheggio. Percy la scavalcò senza problemi. No, ok, siamo onesti: la scavalcò dopo diversi tentativi e cadute dolorose. Il punto è che alla fine ci riuscì. Avanzò, massaggiandosi il didietro dolorante, fino a trovarsi davanti alla porta sprangata di una stazione di servizio. Dietro di lui, una Toyota aveva appena fatto il pieno da un distributore di benzina e stava tornando in autostrada. Uff. Avrebbe potuto fare a pezzi la recinzione con la spada; a quel punto avrebbe avuto modo di chiedere al gentile autista un passaggio. In effetti avrebbe anche dovuto inventare una scusa plausibile su come fosse arrivato lì e sul perché fosse tutto solo in mezzo al nulla. Forse non era stato un male aver perso l’occasione, dato che non aveva idee. Controllò il luogo in cerca di qualcosa che potesse essergli utile. Non sapeva quand’era stata l’ultima volta che aveva mangiato, ma evidentemente non di recente: stava morendo di fame. Per il parcheggio trovò solo copertoni di ruote, carte e spazzatura di ogni genere, qualche monetina che non esitò a raccogliere. Appena svoltò l’angolo sella struttura, invece, trovò il paradiso. Un distributore automatico. Beh, in quel momento, dopo tutte quelle ore di cammino e lo stomaco vuoto, era un piccolo paradiso. Si attaccò al vetro, mentre ne esaminava l’interno. Una lattina di pepsi si era bloccata durante la sua caduta, ma con un paio di calci ben assestati, Percy era sicuro che sarebbe riuscito a farla finire abbastanza in basso da riuscire a prenderla. Contò le monetine che aveva trovato: purtroppo, gli bastavano solo per un pacchetto di orsetti gommosi, ma era pur sempre cibo. Non era nella situazione di fare lo schizzinoso. Inserì un nichelino. L’aggeggio infernale, però, non lo prese, e lo risputò fuori dall’altra apertura. Il semidio sbuffò, e provò una seconda volta. Di nuovo, non ebbe successo. -Dai- si lamentò, consapevole di star parlando a una macchina. -Sto morendo di fame… Puoi prendere questa bellissima monetina, per favore? Puoi farlo per me? Perchè mi vuoi bene? Quando la macchinetta gli rimandò indietro il nichelino per la terza volta, Percy imprecò, e insultò l’aggeggio pesantemente. Gli diede un calcio, con il solo risultato di farsi un male cane al piede. Non indossava le scarpe… com’è che se accorgeva solo allora? Dietro al vetro, neanche la pepsi si era mossa di un centimetro. Il ragazzo si immaginò quella stupida macchina ridere delle sue disgrazie, e quella fu l’ultima goccia. Poi successe qualcosa di strano. Il semidio era lì, a fissare il distributore immaginando quale fosse il modo più veloce per farlo a pezzi, anche a costo di distruggere per sbaglio il cibo al suo interno. Come in sintonia con la sua rabbia, alcune lattine e bottiglie iniziarono a tremare. Solo loro. Non le merendine che avevano intorno. Percy si allontanò, con l’intento di osservare meglio e di capirci qualcosa, e così facendo, probabilmente si salvò la vita. Le bottigliette esplosero in un tutt’uno, frantumando il vetro. Il semidio finì a terra. Un enorme coccio della vetrina gli passò accanto, sfregandogli sul braccio senza però lasciare segni visibili. Percy guardò sconcertato la scena. Cos’era appena successo? Fu distratto da un rumore, quello della lattina di pepsi che prima era rimasta bloccata, l’unica sopravvissuta, che rotolava per terra fino a fermarsi poco distante da lui. Si alzò, zuppo di acqua e bibite di ogni tipo. Non si spiegava la causa dell’esplosione, ma almeno avrebbe potuto procurarsi del cibo senza spendere un centesimo. Il problema era che la maggior parte era andato distrutto o era diventato immangiabile. Riuscì a salvare il pacchetto di orsetti gommosi a cui puntava prima, un Bounty, e un paio di sacchetti di patatine piccanti alla paprica. Da bere, era rimasta solo quell’unica lattina di pepsi, che non gli sarebbe durata neanche una serata. Doveva trovare una fonte d’acqua il prima possibile. La raccolse da terra. Dietro di lui, improvvisamente brillò una luce. Percy si voltò e si accorse che erano i fari di una macchina, puntati su di lui. L’autista aprì la portiera e inizio a scendere. -Che stai combinando?!- urlò. Il semidio realizzò che l’eslplosione di un distributore automatico non lo avrebbe fatto vedere troppo di buon occhio dai mortali. Sorrise nervosamente, facendo l’impossibile per nascondere il bottino nelle varie tasche. Poi scavalcò di nuovo la recinzione, salendo su un cassonetto e usandolo come appoggio per raggiungere la cima nel minor tempo possibile. Scomparve tra la boscaglia, lasciandosi dietro l’uomo a minacciarlo di chiamare la polizia. Fece in modo di prendere una direzione che seguisse in modo più o meno parallelo l’autostrada. Ora che finalmente aveva trovato un accenno di civiltà, era deciso a non lasciarselo scappare. Quando fu stanco di correre, convenendo che si era allontanato abbastanza dalla stazione di servizio, si fermò a riprendere fiato. Come aveva fatto il distributore ad esplodere? Capiva che non c’entrava una qualche misteriosa reazione chimica, che il tutto aveva avuto a che fare con qualcosa di magico, ma cosa? Che qualcuno lo stesse seguendo, o provando ad ucciderlo? Aprì un sacchetto di patatine e iniziò a mangiarle. La logica gli diceva che avrebbe fatto meglio a razionare il cibo, dato che non sapeva quanto tempo sarebbe passato prima che avesse di nuovo la possibilità di procurarsene. Lo stomaco, invece, gli intimava di darci dentro o sarebbe morto di fame. Vinse il secondo. In fondo, Percy si sentiva come se non avesse messo nulla sotto ai denti per mesi. Non ne capiva il motivo. In cinque minuti scarsi esaurì le scorte. Poi, si raggomitolò ai piedi di un albero e finalmente si concesse di dormire, per quanto l’aria fredda glielo permettesse. Si svegliò alla luce del sole la mattina seguente, e si accorse di quanta fortuna avesse avuto a non essere stato trovato da nessuno, quella notte. La fatica della giornata doveva aver preso il sopravvento, e lui non aveva minimamente riflettuto prima di stendersi a terra ed addormentarsi. Cioè, dormire così, in un luogo sconosciuto, senza avergli prima dato un’occhiata? Senza aver fatto nulla per cancellare le proprie tracce? Voleva davvero farsi uccidere, allora. Si alzò e raccattò da terra la sua spazzatura. Si spazzolò via le foglie e la terra dai vestiti, o almeno ci provò. Doveva sembrare un barbone in quel momento. Controllò che la penna ci fosse ancora, anche se sapeva che c’era, poi ricominciò a mettersi in cammino. La notte prima, quando era arrivata la seconda auto alla stazione di servizio, la luce dei fari aveva permesso a Percy di intravedere un cartello stradale, alla sua destra. Con la luce puntata negli occhi non aveva saputo distinguere il nome della città che indicava, ma ricordava il resto di quello che c’era scritto: ‘a 3 km’. Almeno avrebbe impiegato pochissimo tempo, considerando che la metà del percorso l’aveva fatta mentre scappava. Riprese la direzione della sera prima. Venti minuti dopo si ricongiunse all’autostrada. Un cartello dava ai viaggiatori un caloroso benvenuto a Sonoma. Grandioso. Finalmente. Un attimo… ma dove accidenti si trovava Sonoma? Percy decise che si sarebbe procurato al più presto una cartina. Insomma, non poteva certo sapere dove si trovassero tutte le città dell’America -sempre che ci fosse, in America-. Sapeva a malapena dov’era New York. Il nome ‘Sonoma’ non gli diceva niente. Beh, perlomeno era riuscito ad arrivare da qualche parte. Cercò di essere ottimista. Si affrettò e raggiunse in poco tempo il centro abitato. Ignorò gli sguardi che la gente gli lanciava. Ok, doveva sembrare più che un barbone, a quel punto. Era sporco, scalzo, i vestiti pieni della terra che non era riuscito a levare, non immaginava in che stato si trovassero i suoi capelli… non ricordava neanche com’erano, i suoi capelli. Superò l’entrata affollatissima di un ipermercato, per poi tornare sui propri passi. Quel posto doveva essere pieno di cose che gli sarebbero tornate utili. Tipo del cibo, dell’acqua. Delle scarpe, possibilmente della Nike. Chissà per quanto tempo poi non avrebbe più avuto la possibilità di entrare in un negozio come quello. Non poteva sprecare l’occasione. Con quali soldi avrebbe pagato, se ne sarebbe occupato dopo. Varcò la soglia, e si ritrovò nel cuore dell’ipermercato. Si perse tra le corsie, in cerca di qualcosa di utile. Per prima cosa, recuperò uno zaino. Poi, si infilò un paio di scarpe facendo attenzione a non farsi vedere dai commessi. In seguito, fece incetta di tutto ciò di cui pensava avrebbe avuto bisogno: un gps portatile, date le sue scarse conoscenze in geografia, un nastro adesivo e della colla, anche se non sapeva bene perché li avesse presi, un coltellino svizzero e un accendino. Raccattò una stuoia -aveva passato una notte infernale, per la scomodità- e si diresse al reparto alimentari, dove raccolse cibi preconfezionati di ogni tipo e un paio di bottiglie d’acqua. Si voltò, iniziando a porsi il problema soldi, e si ritrovò di fronte una commessa con in mano un vassoio di salsicciotti al formaggio. -Vuoi un assaggio gratuito?- gli chiese. Indossava il grembiule verde della divisa sopra a un vestito a fiori, e aveva i capelli verdi. Che avesse sbagliato tinta? In circostanze normali, Percy avrebbe accettato. Si sarebbe divorato tutto, vassoio compreso. In quel momento, però, aveva altro a cui pensare. -Uhm, no grazie, signorina…- si sporse per leggere la targhetta della commessa: ‘Salve! Mi chiamo...’ -Stanlio. -Steno- lo corresse la donna. Entrambi i nomi erano ridicoli. Tornò ad offrirgli i suoi salsicciotti. -Dai, prendine uno. Sono deliziosi. Li ho fatti con le mie mani. Percy non voleva mangiare stuzzichini preparati dalle magiche manine di Stanlio. Fece mente locale di tutte le scuse che gli venivano, e scelse quella più intelligente. -Mi piacerebbe tantissimo, ma ho una strana e rarissima allergia al cibo toccato da tipe con i capelli verdi. è una cosa davvero frustrante. Già, era l’idea più sensata che aveva. Credeteci. Miracolosamente, Stanlio si bevve la scusa. -è un vero peccato- disse, sinceramente dispiaciuta. -Ma se aspetti qui, posso passare dal retro e prenderne altri… -Certo- rispose il semidio, pronto a filarsela a gambe levate non appena quella si fosse girata. -Fai pure con comodo. La donna fece per andarsene, ma per sfortuna di Percy venne interrotta all’ultimo. -Ma che stai facendo, Steno?! Apparve un’altra commessa. Il ragazzo fu sorpreso dalla somiglianza tra le due donne: erano identiche, con gli stessi occhi, lo stesso naso, perfino gli stessi vestiti. Le uniche differenze erano che la seconda, la gemella cattiva di Stanlio, aveva i capelli rosso corallo, ed era ricoperta da capo a piedi di bollettini che annunciavano il 50% di sconto. Sulla targhetta c’era scritto: ‘Salve! Mi chiamo Muori Feccia di un Semidio!’. Ok. Non era un buon segno. -Vado a prendere altri assaggini- disse Stanlio, in risposta alla domanda. -Sfortunatamente a questi è allergico… ci tengo a soddisfare i miei clienti, io. L’altra si passò una mano sulla fronte, in segno di esasperazione. -Quella della commessa è una copertura, genio! Dovevi attaccarlo alle spalle e ucciderlo, non offrirgli quegli stupidi formaggini! -Sono salsicciotti- protestò Steno, con il broncio. -Mi sembra una discussione alquanto personale- commentò Percy. -Se non vi spiace, io leverei il disturbo. -Oh, non ti preoccupare- rispose la cosiddetta ‘Muori Feccia di un Semidio!’. -Mia sorella è un’incapace. Ma adesso mi occupo io di te. Percy aveva intenzione di ribattere, di dire che non c’era alcun bisogno di prestargli tutta quell’attenzione. Se ne sarebbe andato volentieri. Ma la commessa non gliene diede la possibilità. Iniziò a cambiare davanti a lui, a trasformarsi. Le gambe si restrinsero fino a diventare zampe di gallina, dai lati della bocca fuoriuscirono due zanne, simili a quelle dei cinghiali, ma di bronzo, gli occhi si illuminarono di una sinistra luce rossa, le unghie si allungarono fino a diventare artigli. Ma la cosa peggiore erano i capelli: un groviglio di serpenti vivi color corallo, che gli sibilavano contro. Anche Stanlio era cambiata, ed ora era uguale alla sorella, se non fosse per i suoi serpenti che invece erano verdi. -Ehm…- fece Percy con aria imbarazzata, mettendosi lo zaino in spalla e cercando la penna nelle tasche. -Cosa sareste di preciso, voi due? -Ma come?- disse la commessa dai capelli rossi. -Non ti ricordiamo qualcuno? -Siamo gorgoni- rispose pacatamente Stanlio, che reggeva ancora in mano il vassoio. -Io sono Steno, lei è Euriale. -Chi? -Le sorelle di Medusa- sospirò il mostro che, Percy aveva appena scoperto, si chiamava Euriale. -Quelle di cui non importa niente a nessuno. Ricordi Medusa, vero? Le hai tagliato la testa. -In verità no- ammise il semidio. -Beh, è così- intervenne Stanlio. -Per questo ora siamo qui per vendicarci. Sicuro di non volere un assaggio? Tanto, anche se sei allergico, stai per morire… -Steno- la rimproverò la sorella. -Non è vera, la storia dell’allergia, idiota. -Ma… Percy serrò la presa sulla penna, e la tirò fuori dalla tasca. Poi la stappò. In pochi secondi quella che reggeva in mano divenne una spada di bronzo celeste. Per la prima volta, il semidio ci notò sopra una scritta. Anaklusmos. Vortice. Non sapeva come mai avesse tanta confidenza con il greco antico, ma riconobbe la parola a prima vista. Non ebbe troppo tempo per rifletterci, però, perché le gorgoni smisero di discutere e partirono all’attacco. Com’era successo durante lo scontro con Lupa, gli artigli acuminati dei mostri, se riuscivano a colpirlo, non lo ferivano. Non gli perforavano la pelle. Non era una cosa naturale, certo, ma Percy non se ne lamentò in quel momento. Si impegnò solo a non farsi ammazzare, e, quando riuscì a respingere entrambi i mostri di circa mezzo metro, allungò il braccio libero e fece cadere dallo scaffale accanto a lui tutte le bottiglie di vino che riusciva a raggiungere, che si infransero a terra. Poi colpì Euriale con un potente fendente, senza riuscire però ad ucciderla del tutto. Schivò un attacco di Stanlio, che non aveva la minima intenzione di mettere giù il vassoio, poi la sbattè contro lo scaffale vuoto, si voltò, e se la diede a gambe, lasciando le gorgoni dietro di lui a cercare di rialzarsi senza scivolare sul vino sparso a terra. Dove andare? Sarebbe volentieri uscito, solo che le guardie di sicurezza gli sarebbero venute dietro, se non avesse pagato. E purtroppo non aveva modo di farlo. Una voce all’altoparlante disse qualcosa in proposito di un incidente nella corsia dei vini, e del bisogno di ripulire il disastro. Purtroppo, Percy sapeva che il suo scherzetto non avrebbe rallentato a lungo i mostri. Alla fine, svoltò in un reparto a caso, e si ritrovò in quello dei giocattoli. Ma cosa poteva combinare, là dentro? Analizzò alla svelta il contenuto di ogni scaffale, ma dubitava che Barbie avrebbe potuto fare a pezzi le gorgoni. Si addentrò di più nella corsia. Un bambino frignava con sua madre dicendole che avrebbe tanto voluto una palla da bowling, mentre lei replicava che essendo delle bocce professionali costavano un occhio ed erano anche troppo pesanti. Bingo. O meglio, strike. Quando l’allegra famigliola lasciò il reparto, Percy cercò in lungo e in largo quelle maledette palle da bowling, trovandole poi in cima a uno scaffale. Ne tastò il legno, cercando di autoconvincersi che l’avrebbe retto. Iniziò ad arrampicarsi proprio quando la voce di Stanlio lo raggiunse dall’inizio del reparto giochi. -Vieni fuori, ragazzo! Assaggini gratis! Il semidio raggiunse la cima in tempo, prima che le due gorgoni svoltassero nella sua corsia. -Vuoi chiudere il becco?!- protestò Euriale. -Dobbiamo cercare di coglierlo di sorpresa. Evita di farci scoprire. Comunque, dovrebbe essere qui da qualche parte. Sento il suo odore. Odore? Lo potevano fiutare? Percy imprecò mentalmente. Quanti altri mostri, anche più grandi e pericolosi di quelle due, potevano trovarlo in quel modo? Aspettò, cercando di non fare rumore, che le amate sorelline passassero sotto di lui. -Ma dov’è quel simpatico semidio?- chiese Stanlio. -Non lo vedo. -Già…- convenne Euriale, pensierosa. Un paio di passi ancora… La gorgone si fermò esattamente sotto di lui, e alzò lo sguardo. -Che fai, figlio del dio del mare?- ridacchiò, vedendolo. -Ti nascondi? Percy non aspettò di accertarsi che anche Steno fosse in linea di fuoco, e con non poca fatica riuscì a rovesciare lo scatolone, creando un grande fracasso. Quando scese, al posto dei mostri, notò una strana polverina, isieme al vassoio di Stanlio su cui, per qualche strano motivo, i salsicciotti al formaggio erano ancora tutti interi. L’impatto tra le bocce e il terreno aveva fatto in modo che molti prodotti cadessero a terra, e la corsia era ormai piena di palloni di ogni genere e altri giocattoli. Dallo scaffale di fronte a lui, quello dei peluche, erano caduti tutti i pupazzi. Tutti tranne uno. Un panda di peluche aveva gli enormi occhi tenerosi puntati su di lui. ‘Cuscinetto Panda Soft’, c’era scritto sull’etichetta. Ma sì, Percy aveva pur bisogno di un cuscino. Se era anche soffice e dolcioso, meglio. Lo raccolse e lo infilò nello zaino, poi scappò dalla corsia prima che arrivasse qualcuno. L’incidente nel reparto giochi aveva destato più scalpore all’interno dell’ipermercato, rispetto al precedente. Le guardie di sicurezza erano per la maggior parte indaffarate nel tentativo di riconoscere il responsabile. Percy sgattaiolò oltre alle casse e uscì, sperando che non avessero ancora controllato i filmati delle telecamere. Appena fuori, fece il possibile per allontanarsi il più possibile dal luogo. Prese il gps portatile che si era procurato e diede un’occhiata alla sua posizione. Non capiva perché, ma sentiva di dover andare a sud.

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