q nymphets

di quirke
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I- Junko&Koyo ***
Capitolo 3: *** II- Suki&Makoto ***
Capitolo 4: *** III-Malcolm&Amèlie ***
Capitolo 5: *** IV- Daria&Damian ***
Capitolo 6: *** V-Kenya&Yosai ***
Capitolo 7: *** VI-Daisy&Milo ***
Capitolo 8: *** VII-Tristan&Kaori ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



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q nymphets

 

Prologo
 

 

Leggiadri, come i fiori di ciliegio, il vento che accarezza le gote rossastre e le fioriture primaverili.
La tshirt lattea, le scapole stressate le guance scarlatte, le iridi oceani immensi estivi e cristallini.
Un passo, danze dell'antico Oriente e imperi britannici impiantati con furore come distese di cotone. Il suo tocco, le sue poesie, la pelle.
Sussurri e promesse dell'Asia tra le mani e i baci, ardenti e possessive colonie, sulle spalle. Bisbigli sui templi thaïlandesi e le distese da ricoprire insieme.
Illusioni, ma gli inganni.
Gli addii, una mano intrepida, cauta. Gli occhi furbi.
Tra le braccia possenti, sorretta dall'orgoglio e dalla gravità. Impugnata, assillanti ricordi, affanno. Nonostante tutto, anneghiamo.
Mi lasci ansimante.

Come guarda, osserva, delinea.
Ruggisce. Platonico.
Arte cosmica tra le mie dita, singoli respiri accaniti che amalgamano lussuria, delle lattee nicchie profonde.
Oceano immenso, calore tra le sillabe, i mormorii.
Ansimo stonante, e la sinfonia sulla mia pelle. 
Insidie e residui tra le rovine prossime del tuo passo preciso.

 


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ciao!!
vi presento una raccolta di storie che possono essere lette insieme e rilegate come un'unico racconto, o rilette da sole.
ci saranno diversi punti in comune, differenze, riprese che sembreranno ripetitive e profonde.
ho deciso di presentare innumerevoli personaggi, delineati ciascuno da proprie caratteristiche e particolarità, ma che comunque rimarranno misteriosi. ad ogni capitolo scopriremo o approfondiremo qualche personaggio, originario di culture e nazioni differenti perché il mondo é grande e la vita diversa.
mi scuso per eventuali errori, orrori, confusioni e mi scuso per questa logorroica mania di associare la delicatezza a paesi tanto belli quanto il giappone. mi scuso in anticipo per quest'insana ossessione per gli anime, in pratica.
il titolo é favoloso, lo so. ma anche confuso, immagino.
"q nymphets" significa nove ninfette. 
potete leggere la lettera "q" come un nove un po' basso rispetto alle altre lettere, inoltre in giappone la lettera "q" si pronuncia all'inglese,"kju" ma anche il nove si pronuncia "kyu", é un gioco di suoni.
"nymphets" significa ninfetta in inglese, a voi l'interpretazione!
non voglio dilungarmi, perché poi sarò super noiosa. quindi buona lettura e spero che il prologo vi abbia interessato

 

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Capitolo 2
*** I- Junko&Koyo ***


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q nymphets

 

I- Junko&Koyo

 

"Cinque centimetri al secondo" sospirò Junko. 
I capelli spettinati, l'aria dell'abitacolo consunta da pensieri frustranti. Le sue parole fluttuarono fuori come acqua, attanagliando il silenzio.
"Cosa?" Koyo smise di focalizzarsi sulla palla da basket tra le mani, poggiandola dolcemente sulle coscie. Alzò lentamente il capo, sfiorò il manubrio con gli occhi, discretamente, per poi sfociare sullo spettacolo presente oltre il suo riflesso sbiadito, sul parabrezza del veicolo.
"La velocità a cui cadono i fiori di ciliegio" Le labbra di Junko articolarono ogni sillaba, combaciando, e poi schiudendosi delicatamente.
"Certo che ne sai di cose, piccolo germoglio" Kyoto spostò lo sguardo, cauto, incrociando il riflesso d'un paio d'occhi attenti, impegnati a meditare la bellezza che si proiettava dall'altra parte. Si leccò le labbra, cosciente del fatto che, nonostante tutto, lei non avrebbe potuto percepire quell'intensa occhiata.
"Sembra quasi neve"
Koyo incastrò la palla tra le gambe, allungò una mano ed afferrò una scatolina. La aprì, prudentemente, per poi estrarne un onigiri.
"Sì, forse" esclamò allora, prima di mordere il suo pranzo. E protese la scatolina verso Junko, offrendole il pasto.
Lei non rifiutò.
"Pronto per la partita di giovedì?"
"Sì" mormorò Koyo, ritornando ad osservare la palla ed alludendo ad un'inefficace sicurezza.


“Per oggi non è prevista nessuna sorpresa” annunciò Kai, vagamente perplesso.
Koyo annuì, anche lui titubante. 
Lo stanzino usato come spogliatoio era povero di dettagli, buio. La poca luce proveniva dalla lampadina al neon sopra le loro teste, che sibilava un rumoroso ronzio. 
Le panchine di ferro danneggiato scricchiolanti erano addossate con violenza alle pareti, da cui frammenti di vernice si scollavano ogni minuto. 
Un tanfo insopportabile attanagliava lo stanzino, tanto da portare Kai a smettere d'inspirare con il naso ed obbligarsi a farlo, a tratti, con la bocca.
Quando Koyo gli aveva timidamente domandato qualche altro dettaglio dell’avversario, Kai lo aveva guardato del tutto interdetto. 
Glielo aveva ripetuto almeno un migliaio di volte quella mattina: nessuno del loro piccolo club ne sapeva qualcosa, e se mai ne fossero stati al corrente, perché mai glielo avrebbero dovuto tenere nascosto?
Poi, placido come al solito, gli aveva dato quella risposta che aveva allarmato ancora di più Koyo.
I suoi capelli erano di nuovo tornati del loro colore naturale, nero pece. Gli occhi erano gonfi a causa delle troppe notti accumulate passate in bianco.
Un taglio rivestiva lo zigomo destro ed i muscoli della schiena, ora nudo e di spalle alla ricerca di un deodorante, erano tesi come corde di violino.
“Sarà una passeggiata” lo incoraggiò Kai, cercando di allentare tutta quella tensione.
Le sue parole rimbombarono nello stanzino colpendo le orecchie di Koyo. Quest’ultimo si girò lentamente, con un ghigno, che se prima appariva tremolante e nervoso, ora traspariva una totale indifferenza e calma.
“Tu dici?” 
Kai sbuffò, lasciandosi scappare un sorrisino. Se Koyo era preoccupato, era capace di distruggere ogni prova che potesse incastrarlo, e pure bene.
Circondati da un'intensa quiete, le loro orecchie riuscirono a percepire dei chiacchiericci che provenivano dalla palestra. Stavano dando gli ultimi ritocchi ai preparativi, immaginò Koyo, e i loro compagni stavano sicuramente iniziando a scaldarsi. 
I due ragazzi udirono diversi canestri mancati dai nuovi pivelli che volevano entrare nella squadra. 
Tra quella sinfonia, dove le note erano rappresentate da singhiozzi irregolari e l’organizzazione caotica dell’incontro sempre più vicino, una porta cigolante li obbligò a lasciar perdere quella musica quotidiana e tranquilla, risvegliandoli e destando soprattutto la paura che avvolgeva Koyo. 
Una figura minuta ed abbronzata sgusciò fuori, scivolando dinnanzi a loro, o quasi.
“Non mi convince” sussurrò Kai abbattuto.
Il ragazzo gli scoccò un’occhiata gelida, poi ritornò a ricercare l’equilibrio perso da tutta quell'accozzaglia di scarpe e giacche abbandonata davanti alla porticina. Gli occhi particolarmente rossi saettavano per tutto l’ambiente, le mani scorrevano per le pareti sudice alla ricerca di un approccio.
“Non-non ci crederete mai” balbettò furioso Yoori, poi d’un tratto sembrò trattenere a stento una grassa risata.
Si portò il dorso della mano in bocca, il corpo fu travolto da leggere scosse. Le gambe magroline erano scoperte, un pantaloncino da basket ed un cerchietto, che avrebbe dovuto placare le ciocche ribelli, gli davano un’aria abbattuta.
“Cosa?" lo stuzzicò Kai.
Questo, apparentemente rilassato, si diresse verso quello che restava di uno specchio. Si spettinò ancor di più i capelli, si leccò le labbra maliziosamente e rimase a guardare a lungo il suo stesso riflesso, sotto lo sguardo avvilito di Koyo.
“Che il famoso nemico, è in realtà ...” Yoori si concesse una veemente risata trattenuta da troppo tempo.
Un’imprecazione rimbombò tra le deboli mura, demolendole. 
Come un uragano, Kai devastò tutti i pensieri di Koyo e di Yoori, che sussultarono presi alla sprovvista da tanta fantasia ed oscenità: un'insolente imprecazione che sollecitava Yoori a terminare la frase.
"L-la Seijoh!"
Kai e Koyo sbiancarono all'improvviso. E se Koyo perse tutta la sua energia, prosciugato da un'improvvisa perdita di sicurezza, scivolando giù e sedendosi, Kai s'infuocò all'improvviso, scagliandosi verso la porta.
In quel breve e furioso tragitto, ignorò totalmente la figura di Yoori, la quale travolse euforicamente.
"Finalmente la rivincita!" gridò a pieni polmoni.
Yoori lo seguì a ruota, trattenendolo e cercando di calmarlo.
Al tonfo assordante della porticina, che si chiuse alle sue spalle, seguì un terrificante silenzio.
Koyo si abbandonò a sé stesso, ricurvo e le braccia pesanti, le gambe distese s'irrigidirono. Le piegò un po', arrivando così a poggiare il gomito sulle ginocchia spigolose e posando il mento sul dorso della mano.
Sbuffò.
Allungò una mano nella tasca della felpa.
Tanto valeva provarci, come faceva sempre. Ogni volta, ripeteva le stesse azioni prima di un evento importante, destinando così le sue sorti a una forza sconosciuta che avrebbe influenzato il suo comportamento nel mentre.
Fatalista? Probabilmente.
Codardo? Sì.
Incontrò qualcosa dentro la tasca, le sue dita lo sfiorarono, ritirandosi improvvisamente quando incontrò una sensazione gelida. Ma protese comunque la sua decisione.
Testa, o croce? Se era testa, allora sarebbe tutto finito nel migliore dei casi. Croce, e le conseguenze non gli avrebbero fatto piacere.
Osservò la monetina assorbere i riflessi della debole luce, riflettendoli dopo. Deglutì.
Lanciò la monetina, ripiegò il ginocchio, aprì le gambe permettendo così alla monetina di abbattersi contro il pavimento, sprofondare ogni sua remota paura.
Mordicchiò il labbro inferiore. Rifinì il contorno delle labbra con la punta della lingua, indebolì la ferrea stretta sotto le sue mani, permettendo così alla panchina di riprendere fiato.
Testa.
L'avrebbe fatto subito dopo.

“Allora ti accompagno, non c’è problema”
Più che a un invito, assomigliava a un’assoluta certezza.
La pioggia era diventata flebile fino a sparire del tutto. L’asfalto era leggermente impregnato della pioggerellina precedente, il terreno dei campi da gioco ed il cortile erano intinti di fango. L’aria celava un odore acido e pesante che costrinse Junko a stringersi la sciarpa intorno al naso.
Annuì.
I capelli sciolti erano per metà incastrati dentro la sciarpa di lana grigia, le ciocche più irriverenti volteggiavano libere con la brezza gelida. Il viso corrucciato era stanco, le sopracciglia ancora aggrottate, come sempre.
Rimase a fissare Koyo mentre liberava la bici e la posizionava davanti a loro.
Quell’accozzaglia di ferro, pneumatici e molto altro ancora sembrava possedere più anni di Koyo, il blu era rigato e il manubrio leggermente storto.
“Dietro, okay?” le sorrise Koyo, “Però aspetta un attimo, voglio vedere se tutto è sicuro”
I capelli insudiciati ricadevano davanti agli occhi, intracciando uno sguardo diretto, il vento lasciava che ogni ciocca oscillasse insieme al giaccone sbottonato.
Numerosi studenti si accalcavano verso il recinto prima di terminare la giornata, si scambiavano saluti o battutine divertenti, si congedavano gli uni dagli altri o si dirigevano verso la stessa meta. Perfino i suoi compagni di squadra non vedevano l'ora di abbandonare la scuola e rintanarsi da qualsiasi altra parte.
Le gonne delle ragazze danzavano con la corrente, ogni chioma si spettinava più del dovuto infastidendo la visuale, sollecitando Koyo ad agire. Si era servito di qualche forcina rubata per non aumentare rischi di incidenti, bloccando così le ciocche un po' dietro la testa.
Posò una suola consunta su un pedale e, con un veloce gesto del capo, le fece cenno di imitarlo e sedersi dietro di lui.
“Tieniti, eh”
Junko legò le braccia intorno alla sua vita, spiaccicò inconsapevolmente naso, bocca e l’intero viso contro la sua giacca, come se già sapesse le sue intenzioni.
Koyo accelerò, accelerò nonostante l’accumulo di corpi davanti a lui. Cominciò a suonare il campanellino ed urlare di fare spazio.
Chiunque obbedì, più per paura di essere preso sotto che per rispetto, allegando pesanti insulti. Junko sentì del calore scagliarsi contro il suo stesso viso, quando cominciò ad urlare per la paura contro il tessuto pesante di Koyo. Il suo stesso alito le si ribatteva contro.
Sorpassato il cancello e svoltato un angolo, Koyo rallentò, cominciando a pedalare lentamente lungo il corso del fiume. Il sole spariva dietro le tettoie della città, mentre loro rigavano il sentiero tracciato su un’altura.
“Junko?”
Koyo le rivolse diverse occhiate veloci, curioso dal fatto che non avesse ancora allentato la presa intorno al suo bacino e rimosso il viso dalla sua schiena.
“Mh?”
Il cielo malinconico e tetro ospitava frastornanti stormi gracchianti, nuvole vaporose venivano sputate fuori da fabbriche in lontananza, l’acqua del fiume di sotto scorreva dolcemente.
“Perché io e te … non usciamo insieme?”
Dopo quelle parole, nonostante la tensione instaurata tra i due amici, il ritmo con cui pedalava non si alterò.
La faccia spremutagli contro di Junko si scansò di soppiatto, regalandogli solo un ultimo caldo sospiro:
“Fermati”
Kayo disobbedì. Sentì l’aria fredda solcarlo, graffiargli e bruciargli le guance spoglie e pallide. Le labbra secche erano strette in una rigida linea, per niente pentite da quello che avevano lasciato fuoriuscire.
“Ti ho detto di fermarti” 
La voce di Junko gli era risuonata fredda, distante e comunque capace di bruciargli quel pensiero sfacciato che gli aveva attraversato la mente, così veloce da non permettergli di rifletterci su.
“Ripeti” mormorò Junko, “Che cos’è che hai detto?”
Le mani di Koyo si serrarono intorno al manubrio, inalò quanto più ossigeno poté e si perse con lo sguardo stanco dietro l’orizzonte rigato da alti palazzi, vecchi e logori, che a malapena riflettevano la bellezza della natura che li circondava.
Riuscì a scorgere dei chiacchiericci, molto probabilmente provenivano dalle rive del fiume.
“Se esci con me” confermò.
Spostò le iridi ai rispettivi angoli degli occhi, riuscendo a scorgere un gruppetto di persone radunato sotto di loro. Riprese a respirare, calmando prima le sue paure e poi il ritmo del suo petto.
“Come ti è venuta un’idea simile?”
Le braccia di Junko abbandonarono una volta per tutte i suoi fianchi.
“Guardando Oni e quella ragazza” replicò sicuro di sé, “Insomma, anche io e te ci potremmo provare"
“Ma scherzi?”
“Non sto scherzando”
Gli occhi di Junko brillarono contro la fioca luce dei lampioni che affiancavano il sentiero tortuoso, le sue guance si gonfiarono fino ad arrossire. Strinse la borsa al suo corpo, se delusa o furibonda non si capiva.
Koyo riprese finalmente a respirare, alleggerì la presa intorno al manubrio e, sicuro di riprendere a pedalare, si girò per assicurarsi che lei fosse pronta.
Era sparita.
Se almeno piovesse. Anche dentro non ci si sentiva meglio.


 

 

 





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holaaa!!! 
ecco qui junko e kayo, i miei due primi bambini bellissimi. che ve ne pare??
junko é la prima ninfetta, un'essere tanto sublime quanto incontrollabile. ditemi un po' cosa ne pensate.
in pratica, sembrano essere molto intimi nella prima scena, poi assistiamo a un pre-partita dove un kayo molto insicuro sembra trattenere a fatica le sue paure.
e lancia una monetina, lasciandosi condizionare dal destino. per cosa avrà lanciato la monetina per voi? per quale evento?
infine, i due personaggi se ne vanno via, e se kayo apre il suo cuoricino, junko scompare.
tengo a dirvi che mi sono inspirata a diversi manga, dove scene deliziose sono rimaste intatte nella mia testa, e dovevo scriverci assolutamente su qualcosa.
Il primo estratto proviene da "5cm al secondo", un anime bellissimo!!!!!! In pratica, inizia proprio con questa spiegazione, che qui Junko riprende sapientemente.
Poi, c'é un accenno a "Haikyuu!!", anime con la pallavolo come tema principale. E vi parla una giocatrice di pallavolo qui! In pratica, la Seijoh, nell'anime Aoba Seijoh, é una squadra di pallavolo, che qui riprendo come squadra di basket.
Infine, l'ultima scena della bici, proviene dall'anime "La ragazza che saltava nel tempo", uno dei miei preferiti. E ve lo consiglio profondamente!! 
vi auguro una buona serata ed aspetto i vostri pareri

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Capitolo 3
*** II- Suki&Makoto ***


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II- Suki&Makoto

 

Suki credeva di impazzire da un momento all'altro. 
Si accasciò a terra, reprimendo un rumoroso singhiozzo. Si premurò del fatto di non destare alcun sospetto, di appiattirsi contro le mattonelle rosa del bagno e quasi quasi amalgamarsi, fondersi una volta per tutte. Voleva sparire, soltanto sparire.
Sentì le tempie accartocciarsi, farle male. E le orecchie dolerle, la gola bruciare. Gli occhi parevano infiammati. Singhiozzò.
E d'un tratto, sentì gli occhi riempirsi, bruciare ancora, più di prima. 
Traditrice, una lacrima si catapultò oltre gli ultimi barlumi di dignità che le rimanevano addosso. Sfiorò le ciglia, scivolando giù, rigandole la guancia candida e rosea, macchiandola di vergogna e di un'attutita macchia 
sfumata di mascara. 
Si strinse a sé, torturò le caviglie e, ormai stanca, indebolì la tenacia con la quale si manteneva dritta lungo la colonna vertebrale, fiondandosi sulle ginocchia spigolose ed incastrandoci il viso umido. 
Innumerevoli ciocche le si addossarono intorno alla faccia umida, appiccicandosi sulla fronte, appenna sotto gli occhi. Sfiorandole il naso.
Respirò profondamente, contò fino a dieci mentalmente e si sciolse prontamente da quella debole morsa, da quel rifiugo che si era creata per sfuggire  da Eiji. 
Non avrebbe dovuto dirle quelle cose, davanti a tutti poi. Manipolarla, esporla così apertamente e distruggerla con quella sua lingua affilata. Quelle parole inspide, amare.
Lo odiava? Certo, assolutamente.
Allentò il dolore, o meglio, respirò profondamente e riuscì a tranquillizzarsi un pochino. Si sollevò a malapena, issandosi sulle gambe nude e lunghe. Spolverò la gonna dell'uniforme scolastica, ignorando i bordi che le solleticavano le cosce. Si piegò, tirando su i calzini e tirando su anche con il naso. Barcollò, un pochino, ma dopo aver incastrato qualche ciocca dietro le orecchie, ritornò forte come prima. Forse.
Si sistemò anche la polo bianca, gonfiandosi il petto e rizzando le spalle. Puntò le mani umide sui fianchi spigolosi, respirò ancora una volta e cercò di raccogliere quel che rimaneva del vecchio orgoglio.
Dopotutto, era Suki. Quella Suki. E gliel'avrebbe fatta pagare a quello schifoso di Eiji. 
Allungò una mano, la appoggiò alla maniglia e uscì fuori dalla cabina.
Oscillò lievemente alla vista della sua figura spiegazzata, non riusciva a credere che la ragazza riflessa allo specchio fosse proprio lei. Ma non si lasciò abbattere.
Aggiustò velocemente il pasticcio creatosi sulla sua faccia, si sistemò nuovamente la gonna.
I capelli arrivavano a malapena a sfiorarle le spalle, le dita affusolate si accertavano del fatto che tutto fosse in ordine, e che potesse uscire da quel bagno senza destare alcun sospetto.
E si catapultò fuori quando se lo sentì, evitando chiunque conoscesse e correndo per i corridoi del liceo. Teneva stretta la borsa in una mano, scombussolando ed urtando chiunque le fosse vicino.
Arrivò presto a uscire fuori dall'edificio, e non si fermò comunque. Corse velocemente, allungando le gambe così rapidamente da credere di volare. Sfiorava l'asfalto a malapena con l'intera pianta del piede. 
Il cielo azzurro le accarezzò la pelle tesa, alleggerendole l'angoscia e il turbamento che la stavano caraterizzando negli ultimi giorni. E solo per un istante, il suo viso riuscì a godersi il calore dei raggi solari che svoltò a sinistra e si ritrovò dentro una minuscola stradina costernata da fiori di ciliegio, oscurata.
Solo a quella vista si arrestò all'istante, non accorgendosi di essersi scagliata contro qualcuno, involontariamente.
Quel piccolo sprazzo di paradiso roseo, un cunicolo che fungeva da parco giochi per i bambini del quartiere, era uno dei luoghi preferiti di Suki. Semplicemente lo adorava, e quel giorno sembrava ancora più bello di prima. L'arrivo della primavera vi aveva soffiato migliaia di petali rosa, l'asfalto ormai era diventato un'immensa distesa di zucchero filato, costellato di tanto in tanto da qualche animaletto.
"Scusi, scusi" si affrettò a sbuffare Suki.
"Suki"
Suki impuntò i piedi a terra, sollevò la testa verso l'alto e schiuse la bocca, totalmente sorpresa, sbigottita.
Arretrò di qualche passo, lasciando cadere la sua borsa a terra, cercando inutilmente un appiglio stabile perché le sue gambe sembravano proprio averla abbandonata. Tremavano insieme al resto del suo corpo.
Com'era possibile?
Le lacrime avidamente scacciate durante l'intera corsa, durante tutto quel tragitto, balzarono di nuovo fuori. 
Non ci credeva.
Il leggero riverbero della brezza smosse il fogliame, i rami scrosciarono tra di essi ripulendo appena la chioma possente dai fiori più deboli, costringendoli a cadere a terra, inermi. La luce si addensò, infiltrandosi spacciatamente tra i rami ed illumindando gli occhi del ragazzo. Makoto brillava, letteralmente, in tutti i sensi possibili.
"Quanto mi sei mancata" sospirò appena, una volta che lo scroscio si annullò definitivamente.
Suki strinse i pugni lungo i suoi fianchi, non accennado nemmeno a un semplice movimento. Era immobile.
Era capace di farla sentire così piccola, ed era davvero raro che qualcuno fosse capace di riuscirci. Ed inoltre, non rispettava nemmeno l'altezza media delle ragazze del suo liceo.
E quanto tempo era passato dall'ultima volta che lo aveva visto, si ritrovò a pensare Suki.
Makoto, quanto tempo era passato?
Solo in quel momento, Suki si accorse di non aver spiccicato parola, ma comunque non riuscì a richiudere la bocca. 
Era così sorpresa.
L'eco del treno che strideva contro le rotaie rieccheggiò tra di loro, risvegliandoli forse dal tepore che li aveva circondati all'improvviso, rinforzando quel gioco di sguardi che non fremeva da qualche decina di secondi.
Suki sentì qualche paio di petali posarsi sopra i capelli, incastrandosi appena. Le guance ormai umide.
"Scusami se non ho avuto la possibilità di dirtelo" mormorò Makoto teneramente, avvicinandosi furtivo, agile. Dolce. "Te ne stavi andando ed avrei voluto così tanto fartelo sapere. Come, come" un singhiozzò lo tradì spudoratamente, "Come hai avuto il coraggio di far finta di niente, Suki? Io ..."
Annullò qualsiasi cosa avesse voluto dire con un bacio. Un semplice ed innocuo primo bacio. Si allungò furtivo, indebolì la sua attenzione e si gettò pacato su una bocca che non aveva mai assaggiato. Ed a pensarci bene, quante volte aveva sognato di farlo?
Si padroneggiò avidamente delle sue labbra per una frazione di secondo, le gustò, ci plasmò la sua amara delusione, sfiorò la sua lingua ed indietreggiò con la stessa velocità, lasciando Suki confusa, persa.
Sapeva, o perlomeno sperava con tutto il cuore che le sue idee fossero giuste, che Suki non si fosse mai azzardata a baciare qualcuno dopo la sua partenza. Perché in quel caso, le aveva appena plasmato addosso un ricordo incancellabile. 
Non sapeva più come sentirsi, se detestarla per quello che aveva fatto, seppur non potesse darle colpe data la sua precedente giovane età, o appesantirla di ogni minuto doloroso che lui stesso aveva dovuto sopportare dopo la sua partenza. Ma come poteva biasimarla? Chi mai avrebbe avuto il coraggio di instaurare una relazione a distanza a quindici anni? 
La vide tremare, raccogliersi e reggersi a malapena in piedi. Leccarsi spesso le labbra, alla ricerca del suo sapore?
Makoto si lasciò scappare un sorriso, stridulo ed antipatico.
E Suki, semplicemente, si piegò a raccogliere la borsa e, ricurva, muoversi. Superarlo indifferentemente come se non fosse successo nulla. Come se fosse uno sconosciuto incontrato per caso.
E per la seconda volta, lo lasciò vuoto.
Makoto si volse appena, guardando la sua figura insicura camminare traballante, estinguersi di ogni forma di entusiasmo possibile. Amalgamarsi ai pochi passanti e dissolversi, sparire per l'ennesima volta.

Suki si risvegliò quella notte, per l'ennesima volta. 
Le cinque di mattina esplodevano in caratteri digitali e rossi nella sveglia, le coperte erano come al solito resti abbandonati ai suoi piedi gelidi e tremanti. 
Perché quel bacio si era rivelato così piacevole? Affondò il suo viso contro un morbido cuscino, inabissò nel buio più totale, reprimendo un terrificante urlo e la voglia di scappare e spaccare, tutto.


 

 

 





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buon giorno!!!
vi presento la mia seconda ninfetta bellissima, é una principessina!
allora, che ne dite?
suki piange disperatamente a causa di eiji, cosa credete che gli abbia fatto? per poi correre, correre e scontrarsi con makoto :(
e fuggire!!! ma makoto sembra conoscerla! cosa ne ipotizzate?
mh, vi pongo così tante domande haha, e sono proprio curiosa delle vostre risposte!!
vi lascio, bye

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Capitolo 4
*** III-Malcolm&Amèlie ***


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III- Malcolm&Amèlie

 

"Tesoro?"
"Malcolm"
"Pistacchietto!, dolcezza", ribadì Malcolm, "Dovresti chiamarmi Pistacchietto!"
"Malcolm"
Malcolm tradì un sorriso derisorio, rude. Provocava?
"Non mi stavi spiando, vero?" mormorò Amélie.
Malcolm sbuffò. Tentennò. Inspirò profondamente, silenzioso. Mordicchiò il labbro inferiore, cauto.
Fremitava?
"Cosa vai pensando?"
Amélie, leccandosi le labbra, traballando leggermente, sorrise appena. Quasi uno sbuffo, incosciente. 
"Nulla!" rispose Amélie, accentuando l'esclamazione con l'aggrottare delle sopracciglia folte, "Nulla"
Il mom jeans chiaro le fascia la piccola vita, calcando sui fianchi accesi e tonici. Rincorre, attraversa la coscia, ricopre il linguine con delicatezza, si sofferma sulle ginocchia spigolose, scende pacato fino alle caviglie, dove, arrotolato più volte in sé stesso, accarezza la pelle nuda.
Solo i fianchi sembravano solleticare lo sguardo languido di Malcolm.
Riposò la sigaretta sulle labbra carnose, allungò una mano sulla nuca ruvida, accarezzando, distratto, con le dita affusolate, la pelle olivastra. Fermo, lo sguardo.
"Come stai, gattina?"
"Bene" Amélie, tutto a un tratto sembrava seria. Annoiata.
"Come mi fa piacere"
"Tu?"
Malcolm soffiò fuori il fumo, rinfrescando i polmoni e dissolvendo gli occhi furbi.
"Io, cosa?" domandò innocentemente.
"Come stai" Amélie, semplicemente, incalcò il fastidio rimuovendo ogni sorta di possibile interesse. Così facendo, le sue parole sembravano più propense a mostrare una buona educazione, che dell'interesse.
"Questa mattina ho fatto un salto in chiesa" socchiuse le palpebre, posando nuovamente la sigaretta sulle labbra carnose, "Avresti dovuto ascoltare che bel Gospel, sublime. In effetti, Prince é arrivato a ... Sai, dovrebbe fare il cantante. R&b, soul, credo"
Malcolm, pacatamente, allungò una mano sul colletto della camicia, alleggerendola. Accarezzò il tessuto militare del bomber, le dita affusolate si diramarono, avvinghiarono la pelle scura della nuca. 
Amélie schivò prontamente il suo sguardo malizioso.
"Questo pomeriggio ho vinto qualche partitina, quattro meravigliosi canestri. In quel campetto alla sinistra del vincolo, se ti interessasse. Qualche volta, non mi dispiacerebbe una tua visitina"  Malcolm ammiccò teneramente, "Ed ora, ti ho davanti. Come potrei mai lamentarmi?"
Amélie ansimò, tradendo un sorriso divertito. Sembrava lusingata.
Non passò ignorata.
"E questo fresco taglio di capelli, mi sta a meraviglia. Non credi?"
"Niente di speciale"  lo schernì prontamente.
"Invidiosa"

Amélie, era sempre stata invidiosa, prepotente, testarda e possessiva. Entrambi lo sapevano, nonostante tutto quel nasconderlo. Futile, eccessivo.
Quel weekend, e nessuno lo sapeva, nemmeno loro lo avevano programmato a dirla tutta, Amélie aveva proposto un passatempo qualunque nel suo monolocale, nonostante tutto quel imbarazzo superficiale.
Malcolm, senza parole inutili, l'aveva condotta direttamente al locale più vicino. Un pub. Della chicha, particolarmente.
L'aveva presentata come un trofeo al barista, per poi presentarsi a lei schiettamente il minuto successivo. Prima tutte le qualità, cadendo sul banale. Poi sottolineando i suoi difetti, leggendole il suo manuale d'uso.
Bisognava andarci lentamente con lui, i primi giorni.
Ma un'ora dopo, stanco ed annoiato, le aveva rivelato un paio di segreti intimi, scelti con cautela e precedentemente. Naturalmente.
Tre ore dopo, Malcolm aveva finalmente compreso che con Amélie non funzionava così. Scelse bene, anche in quel momento, le parole più adatte per ammettere a sé stesso che stava perdendo. Tempo, e lei.
E più che un paio di dettagli glielo stavano sottolineando.
Le sue sopracciglia delineate, delicatamente allentate.
Gli occhi grandi, le palpebre illuminate da un ombretto rosa antico e le ciglia decorate dal mascara corposo, le iridi scure e profonde, seguivano disattente le luci offuscate del locale.
Amélie, seccata, distratta, giocherellava con la bottiglietta d'acqua frizzante.
Malcolm, davvero frustrato e deluso, non era riuscito a non immaginare le sue curve danzare sinuose tra la nebbiolina che avvolgeva la stanza. Sognava ad occhi aperti, intrepido, il piccolo seno illuminato da quella luce rossastra, le labbra umide baciarsi, tranquillamente, la solitudine che avvinghiava entrambi.
Ma, semplicemente, non sembrava funzionare tra loro due.
Riproviamoci.
Tra mille parole, quattro giri di chicha, due sigarette, una corsa in bagno, la gola secca e i primi sintomi di stanchezza,  Amélie gli aveva rivelato solo quattro tatuaggi, davvero magnifici, e tre intrepide avventure amorose. 
E gli occhi immensi.
Avrebbe incoronato ogni suo capriccio, anche il più propenso. Dio ...
Aveva ancora in testa quel sabato.

Le luci presero a ronzare tutto ad un tratto. Lampeggiavano debolmente ed a scatti, per poi spegnersi il secondo dopo, e riaccendersi ancora una volta.
Il cielo scuro, quel pomeriggio, non rifletteva luce e i corridoi del locale, colorate di un bianco flebile, erano quasi deserti e sopratutti ostili. Il pavimento specchiava lo stesso candore gracchiante delle luci, la superficie del bancone in ferro luccicava sommessamente in alcuni precisi punti colpiti dalla fonte e le finestre erano velate da un leggero strato di appannamento.
Non poteva essere un guasto tecnico dato che mai si era verificato prima. Da come aveva sottolineato più volte il proprietario, quello era un posto sicuro ed il materiale era soprattutto nuovo di zecca.
Le ombre della sua figura si allungavano goffamente e il minuto dopo sparivano, amalgamandosi completamente con il buio che avvolgeva l’intero locale. Questione di poche manciate di secondi che non si vedeva più nulla, se non lo scarso barlume di luce naturale proveniente da fuori, un orizzonte offuscato dalle stesse vetrate.
Malcolm, tremante, allungò un piede e posò le dita sulla superficie ruvida e rossa della poltroncina in cui si era accomodato. Trattenendo il respiro e stringendo gli occhi a due deboli fessure, per provare a vedere qualcosa nei veloci frammenti di buio totale, fece pressione sulla sua mano.
Il tessuto cigolante si stropicciò, si portò in avanti sotto il tocco debole di Malcolm. Leggeri sprazzi pomeridiani flirtavano leggermente dalle finestre, così che guizzi giallognoli potessero ricoprire brandelli di polvere sui davanzali e bruciare qualche centimetro del pavimento poco di fronte.
Il ragazzo, abbandonando il suo progetto, scorse che tutto era tranquillo. I divani rossi e di ecopelle pullulavano la stanza.
Le slot machine ronzavano come al solito, nascondendo dietro una spessa vetrata illusioni energetiche di tutti i colori. I distributori erano attaccati ad una parete tutto in fondo, alla loro sinistra vi si celava un tavolino pulito e ordinato, dove l'occorrente era posizionato accuratamente.
La poca luce, nel locale, non sembrava avere problemi e chiariva l’enorme stanza con una flebile luce soffusa, giallognola e tenue. Diversi cartelli gialli segnalavano il pavimento bagnato, in un angolo c’era ancora qualcuno del personale, e lì Malcolm sussultò e quasi non cacciò un urlo terrificato.
L’oggetto alle sue spalle ancora rumoreggiava, uno strano sibilo inquietante, sinistro, sembrava accompagnarlo.
Le sue mani umide e sporche di inchiostro blu presero a pizzicargli. Abbandonò la presa sul tessuto della poltroncina e indietreggiò, alzando lo sguardo verso quello strano e spiacevole gioco di luci.
La porta tornò al proprio posto non prima di cigolare tetramente e di essersi dondolata più volte, rigando un poco il pavimento.
Udì uno flebile starnuto provenire da quella figura raccapricciante. Era una ragazza.
Barcollò, perse l'equilibrio, scivolò per terra e del vetro si frantumò. Un acuto e stridulo boato rimbombò per la sala, seguito a ruota da un grido spaventato.
Qualcuno sembrava proprio terrificato dal rimbombo dei tuoni, e quel qualcuno non doveva essere Amèlie che, d'un passo elegante e sensuale, ignorando completamente il guasto tecnico, ritornava dai bagni. 
Ridicolo, Malcolm si rese conto di essersi appena ridicolizzato, totalmente. 
Un sorriso furbo e derisorio sfumò la rigidità d'Amèlie. Si era appena ridicolizzato davanti a lei: nemmeno una bottiglia, ed era già incapace di distinguere la realtà dall'illusione.

Malcolm si accorse di essere ridotto agli spiccioli la sera dopo, fuori dalla festa organizzata da qualche amico di Amanda. 
La relazione che da qualche anno aveva con lei che era stata definita da lui stesso conveniente, lentamente lo marciva. Passeggiava senza godersi il viaggio, tutto trascorreva tra le sue dita velocemente, senza che se ne potesse effettivamente rendere conto. 
Da quella serata al Poe's Papa, quando oltre la porta aveva intravisto la figura fragile di Amélie, non era riuscito a cancellarla dalla sua mente. 
Come un uragano gli aveva spazzato la speranza di meritarsi qualcosa di buono. 
Magari buona, per lui, era proprio Amélie, senza alcuna rassicurazione, difficile da gestire. 
Ne valeva comunque la pena.
Invidioso di non poterla sfiorare a dovere, era lui.

 


 

 

 





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buon giorno!!!
la terza ninfetta é quella dannata di amèlie, che ne pensate? 
sicura di sè? tranquilla? o rumorosa???
e quel poveraccio di malcolm che non sa più dove mettere la testa?
mi dispiace di non aver aggiornata prima ma la scuola mi tormenta
spero che vi sia piaciuto e spero in un parere, vi aspettooo

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Capitolo 5
*** IV- Daria&Damian ***


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IV- Daria&Damian

 

Non importa.
Ma che ne sai tu? Importa.
Ma lo senti?
Damian, le vacanze del duemiladieci, se le ricordava perfettamente, anche a distanza di quattro anni.
Quattro anni erano tanti, tanto tempo per dimenticarsi i lividi estivi e sorpassare qualsiasi ostacolo che vi si potesse presentare al ricordo, e comunque sembravano non bastargli.
A quel tempo, Damian, era mingherlino, fiacco e soprattutto silenzioso. Avrebbe preferito passare dodici pomeriggi a casa: poltrendo e mangiando schifezze incastrate tra le scatole di cereali e le confezioni di biscotti al cioccolato.
“Smettila”
La stanza era avvolta nell’oscurità, una lucina fioca e sommessa rabbrividiva sul comodino affianco al grande materasso steso a terra. Le pareti sporche sollevavano minuscoli dipinti, mensole in legno su cui vi erano posati piante curate e verdeggianti e un attaccapanni che pendeva affaticato. Quest’ultimo ospitava accozzaglie di impermeabili, maglioncini e calzini di tutti i colori.
“Nike o Adidas?”
La stanza era di forma rettangolare, stretta e pullulava di menti disordinate e voci squillanti che andavano aggravandosi lentamente. Alle due pareti opposte erano inchiodati due letti a castello, sciatti e dalle lenzuola di un verde pistacchio, morto, come lo definiva Andrea. I cuscini erano soffici e nascondigli perfetti per le prime sigarette, per i cellulari proibiti durante quei giorni al campus che si accendevano disobbedienti.
Damian era stato costretto, o lì o niente, a dormire sul materasso sotto la finestra, scomodo e puzzolente dato il pavimento sudicio. Le coperte e le lenzuola erano ai piedi del letto, i numerosi cuscini erano posizionati senza armonia contro il muro umido. Poi era naturale che il biondo fosse costantemente raffreddato.
Lui, sicuro, le aveva reputate le peggiori vacanze estive al mondo.
Il tempo sembrava avercela con lui, pioveva a dirotto il mattino e il pomeriggio pure, il bosco dove erano state organizzate diverse escursioni e giochi era un campo di concentramento tanto erano faticose le attività per le sue scheletriche gambe e sembrava che solo la compagnia della sua camera fosse un tantino accettabile.
Zachary era un ragazzo di origine libanesi, i capelli corti e neri gli coprivano gli occhi, la pelle abbronzata si scontrava con i suoi occhi verde palude e la schiera di denti bianchi, ma storti. Lo aveva assillato con le donne, e le preghiere alle cinque di mattina per farsi perdonare dal suo Dio per tutti quei pensieri perversi e notturni.
Ezra era il più grande, ventuno anni freschi e il corpo ben robusto. Aveva soffiato l’intero genere femminile del campus agli altri, ottenendo enormi e imperdonabili scherzi. Aveva i capelli lunghi fino alle spalle, biondi, le labbra carnose e anche lui la pelle abbronzata, dovuta alla vacanza trascorsa in Italia.
Andrea era gay. Non lo aveva mai ammesso ma Damian poteva giurarci qualsiasi cosa: era gay.
Ed era un enorme bugiardo, sapeva solo mentire e contaminare la stanza di colossali menzogne, ma era simpatico, divertente.
Infine, l’ultimo letto, lo aveva preso in modo ostile Cameron. Un colosso tutto muscoli e sigarette bruciacchiate sui suoi palmi rossicci. Era sincero e tagliente, comunque.
Erano diversi in quei pochi metri quadrati, e Damian poteva scambiarci più di un paio di parole senza essere giudicato, o interrotto, cosa che non sopportava. E seppur avesse quest’occasione, il biondo, non aveva avuto le palle di pronunciare una frase, sicuro di sé, per i primi cinque giorni.
Si era limitato ad osservarli, annuire pazientemente, accettare di dormire in quel materasso scomodo e cercare di sopravvivere ai quei dodici giorni spietati, pesanti e interminabili.
Il mare, a pochi metri da loro, graffiava gli alti scogli, solleticava la sabbia, sfregava l’indifferenza che Damian acquisiva qualvolta chiamavano i ragazzi alla spiaggia per organizzare qualche attività.
“Noiosa” ribadiva mentalmente.
Curry per cena, Damian avrebbe voluto mangiare del curry in camera sua mentre si riguardava qualche stagione della sua serie preferita. Sotto alle coperte, o con i piedi gelidi e i calzini troppo lontani, la prestazione comoda e il letto, il suo letto. Magari con la luce spenta, la salsa piccante sul comodino, aperta, e una lattina di gassosa.
Invece aveva dovuto sopportare un piovoso pomeriggio, incastrato sotto all’impermeabile giallo a cercare un tesoro con i compagni della sua classe. Nemmeno loro sembravano divertirsi, li aveva analizzati e sapeva decifrare ogni loro più piccola smorfia, ma s’impegnavano a far finta di svagarsi. Lui no.
Andrea correva a piedi nudi sulla sabbia bagnata, urlando contro Tash per i granelli di sabbia che gli spruzzava addosso –La mia felpa nuova, maledizione!-, ridacchiava con chiunque e alleggeriva l’atmosfera pesante che sapeva di pioggia acida.
“Non importa”
Non importava, davvero. A Damian, e sinceramente, non gli importava nulla se avessero perso, se quell’estate si fosse rivelata la più disgustosa e se la figura seduta sullo scoglio alla sua sinistra lo stava fissando ripugnata, fumando. Spostava lo sguardo da lui alla bassa collina.
La struttura sull’altopiano lì vicino era fatta di pietra, i resti di una presumibile costruzione di un hotel che il proprietario aveva poi abbandonato. Delle colonne grigiastre s’innalzavano dal cemento colmo di pozzanghere e buche fangose.
L’acqua del mare arrivava tempestosa e sporca, sfiorava le radici dell’altopiano per poi indietreggiare furiosamente, spaventata dai baci nascosti dei ragazzi.
Inutile parlare di quanto volte Ezra si fosse pavoneggiato, sussurrando loro tutti i dettagli. Era riuscito a portare Marina, Sharna e Tash, con la quale poi aveva instaurato una relazione seria. Loro due sembravano essersi trasferiti direttamente lì.
“Le Adidas, Andrea”
Ogni sera, dalla quarta per essere precisi, Ezra rubacchiava un asciugamano e scappava espertamente sotto la pioggerellina flebile notturna per incontrare la sua amata tra quei vecchi resti. E più volte Andrea gli aveva fatto passare numerosi guai.
“No, guardi!, cercavo il bagno” si giustificava Ezra davanti ai responsabili, “Mi sono solo perso. E l’asciugamano … Ho freddo. Piove, guardi”
Damiandoveva spiaccicarsi il volto contro il cuscino per non scoppiare a ridergli in faccia. Ecco, lo aveva detto che quei ragazzi erano simpatici.
Ezra ritornava con la coda tra le gambe in camera, se la prendeva inviperito contro Andrea che singhiozzava dalla paura, dovuta ai bicipiti di Ezra, e riscappava di nuovo, non prima di aver minacciato a morte sempre lui, Andrea.
Cameron si faceva i cazzi suoi, a dirla tutta.
Durante le escursioni spingeva le ragazze, se la tirava perché sapeva oltrepassare il ruscello con un solo salto ma era un tipo okay, non aveva dato fastidio mai a nessuno. 
“No, le Nike. Assolutamente”
Alla sesta colazione in quell’inferno, Damian era riuscito a riconoscere la tipa antipatica che lo aveva guardato male: Daria Rutt, la sorellastra di Cameron.
Al primo falò notturno sulla spiaggia, organizzato a fatica l’ottava giornata al campus, era riuscito a osservarla e accorgersi di quanto fosse bella. Alle cinque di mattina, nonostante avesse spiaccicato gli occhi, il naso e la bocca contro il cuscino, con le guance super rosse, aveva ammesso a sé stesso di avere una cotta per quell’essere.
“Stai zitto Zachary, nessuno ti ha interpellato”
Quattro ore dopo, durante un’attività banale nella spiaggia, Daria Rutt era riuscita a convincere Matteo, uno dei responsabili, a lasciarli approfittare della bella giornata passandola a nuotare.
Daria Rutt aveva vent’anni, Damian sfiorava i diciassette. Daria Rutt era riuscita a convincere Matteo, un grandissimo bastardo. Pervertito, sottolineava Zachary.
Damian aveva capito, se n’era accorto ma aveva preferito illudersi silenziosamente, che era il traguardo più lontano, che non sarebbe mai riuscito a strapparle un sorriso –un gemito- e che era impossibile, impensabile, ricevere la sua attenzione. Doveva dimenticarla al più presto, doveva dimenticare Daria Rutt perché sarebbe solo impazzito.
Okay le sue gambe, okay le sue labbra carnose, okay gli occhi limpidi –e costantemente maliziosi verso Matteo-, okay il tatuaggio sulla coscia destra, al seno scarso, alle dita che saprebbe dove posare, alla lingua sulla bocca, al sedere da urlo e alle urla prima di tuffarsi contro le onde alte, ai capelli bagnati e appiccicati agli zigomi ben marcati e okay pure alle sigarette e alle occhiatacce che gli rivolgeva ancora, seduta sullo scoglio insieme a un paio di amiche.
Okay, mormorava Damian agitato, non importa.
Per tutto il tempo aveva pensato di affogare e stoppare quell’agonia insopportabile, quelle vacanze distruggenti e Daria, Daria Rutt.
E se invece importasse?
“Avete prestato attenzione al culo di Daria Rutt?”
Zachary avrebbe fatto concorrenza a Matteo, sul serio.
Damian si limitava a tapparsi le orecchie con gli innumerevoli cuscini e ignorare bellamente i discorsi disgustosi, e notturni per la miseria, di Zachary, dove parlava del seno di Tash, della silhouette impeccabile di Shama e di tutte le ragazze del campus.
Ma quel “Daria Rutt” aveva fatto deglutire spaventosamente Damian. Quando mai Zachary aveva preso a parlare di quella Daria Rutt?
“Chiudi il becco, maniaco” Cameron era protettivo nei suoi riguardi e Damian felice.
Però … Felice di cosa? Felice di non udire qualcun altro parlare in quel modo della sua Daria Rutt irraggiungibile? Felice di credere di essere l’unico a pensarla in quel modo? Di immaginare di toccarla, di sfiorarla, di baciarla. Ma era l’unico, o si richiudeva nel suo mondo ripetendosi di esserlo, l’unico?
“Okay, okay Cam! Ma non ti scaldare” Aveva borbottato il moro, “Non importa”
Cazzo, importa. Importa tantissimo. Chi cazzo va dietro a Daria Rutt, oltre lui? Matteo? Daria si lascia toccare da Matteo?
E quando Matteo si era tuffato -anche lui- e l’aveva afferrata per le caviglie facendola urlare dallo spavento, lei lo aveva visto nel modo in cui ora la vede Damian? Quanto sono andati oltre, quei due?
Le tre di mattina, del decimo giorno, gli altri che chiacchieravano di qualcosa di estraneo al suo cervello e le sue mani che gli prudevano. Doveva spaccare la faccia a Matteo? E pure a Zachary? O direttamente urlarle in faccia che l’amava?
Ma l’amava?
L’avrebbe portata su quell’altopiano, l’avrebbe incastrata tra una colonna e le sue costole ripiegate dai numerosi dubbi e l’avrebbe baciata.
Gli ultimi giorni erano stati più caldi, il sole era rimasto incollato all’orizzonte dedicando chiunque dei suoi raggi caldi, finalmente estivi. La piccola foresta si era prosciugata di tutte quelle goccioline, brillando e germogliando orgogliosa.
La camera dei ragazzi era ricoperta di cibo spazzatura e altre schifezze comprate dal chiosco, la voce acuta di Andrea borbottava sapientemente, elencando poi le nuove hit estive più vendute e Damian, Damian si sgranchiva le gambe, schioccava le dita, interamente sudato, e Daria Rutt –e le gambe, i ghigni a chiunque e le smorfie dedicategli con tutto il cuore, e le labbra, maledizione- lo aveva fatto impazzire.
“Posso parlare con Daria Rutt? Mi piace”
Erano le quattro di mattina –e ventisei minuti-, Damian lo aveva quasi urlato. Ci aveva sprecato tutte le energie accumulate durante quegli anni passivi, tutte le forze acquisite rimanendo in silenzio e non muovendo un dito.
La stanza era buia e i ragazzi parlottavano ognuno nella propria prestazione, rannicchiati e leggermente assonnati. Cameron russava. Damian non osava ripeterlo.
Andrea, Zachary e Ezra sobbalzarono stupefatti. Era una cosa seria, dato che Damian era una persona seria lì non c’era niente da chiarire, o domandare. Era tutto: Damian aveva chiesto a Cameron il permesso, non l’avrebbe comunque ripetuto.
Per questo i suoi compagni di stanza erano balzati giù dai propri letti lanciandosi contro il fratellastro di quella stronza di Daria Rutt, lo avevano svegliato a forza di schiaffetti e grida contro i timpani.
“Damian ti ha chiesto se può provarci con Daria.”
“Non m’importa. Okay, come vuoi.”
Damian era una persona serissima e Cameron, soprattutto, lo sapeva.
Le giornate diventavano sempre più calde e tutte le attività erano state mollate per dedicarsi totalmente a quell’immensa distesa d’acqua salata. Le nuvole lattee costellavano il cielo limpido, ben presto le camere cominciarono a svuotarsi di robaccia e calzini di tutti i colori, la spiaggia diventava sempre più affollata e Zachary più maniaco.
Ezra e Tash si erano promessi di rincontrarsi in un futuro prossimo, Cameron si era aperto un po’ di più accogliendo i quotidiani e prolungati silenzi di Damian affettuosamente e Andrea gridava ogni qualvolta qualcuno osasse bagnarlo mentre era impegnato ad abbronzare la sua candida pelle.
“Le New Balance battono tutte le scarpe del mondo, ora muti”
Damian, seppur i pugni serrati, le unghia conficcate nei palmi, il viso rosso e il petto colmo d’emozioni, si era lasciato andare ai soliti mutismi, dimenticando ben presto le promesse silenziose che si era fatto. Non aveva pronunciato parola con Daria Rutt, non aveva dato delle spiegazioni ai suoi compagni di camera né tantomeno a lui stesso. Il rimorso si sarebbe allentato, un giorno, almeno così sperava.
Ma non le sue mani, le sue gambe sexy, i capelli fradici incollati sulle sue guance rosee, agli occhi chiari, il suo modo di tenere la sigaretta e le sue dita, avrebbe sempre saputo dove metterle. Cazzo se gli importava.

 


 

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buon giorno!!!
la quarta principessina é daria, che ne dite?? 
io li adoro, a sopratutto damian, bellissimo principe del mio cuorrr

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Capitolo 6
*** V-Kenya&Yosai ***


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V- Kenya&Yosai

 

Freschi e deboli barlumi di luce fluttuarono oltre la tenda. Stridenti e innocui, vacillarono tra l'aria, ma ancora intatti riuscirono a illuminare l'entrata dell'albergo.
Sfiorarono la figura dormente di Kenya, un corpo fiducioso e veemente che si era accasciato e arcuato, ora privo di forza.
Kenya si era seduta su una panchina e, ricurva su sé stessa, aveva abbandonato la testa sul tavolo, lasciando che lo sguardo si adagiasse su ciò che la natura proponeva oltre quelle enormi finestre.
Sembrava sciupata.
I capelli castani le costernavano la sua persona, qualche ciocca osava perfino oscurarle il paesaggio.
Il maglioncino si distendeva oltre i fianchi, coprendole a sufficienza ogni curva del suo corpo magrolino.
Le gambe si estendevano sotto il tavolo in legno, rilassate, ricoperte da un jogging scuro, dove, all'altezza delle coscie, aveva intrecciato le dita, stretto le mani con fare frustrato.
Così appariva sotto lo sguardo sorpreso di Yosai, che scese le scale, alludendo a un'estrema fatica che si dissolse in un attimo una volta intravista Kenya. Non avrebbe mai immaginato di poterla vedere così delicata.
Nel mentre, un'abbondante stormo di nuvole lattee sfiorarono le estremità delle chiome, danzanti sotto i sussurri tenui del vento di quella notte, attutendo di tanto in tanto il chiarore della luna.
Yosai, riprendendosi da quello stato di stupore, riprese a scendere le scale, avvicinandosi sempre di più a Kenya, silenziosamente.
"Kenya?"
Nessuna risposta.
"Hai scritto le tue scuse?" Yosai, dicendolo, allungò il foglio contenente la sua punizione.
Non riusciva ancora ad intravedere qualche tratto del suo viso, sembrava soffocare sotto quella chioma voluminosa di capelli. Stava cominciando ad irritarlo, e allora sbuffò.
Si sedette, prendendo posto davanti a lei, ma girando lo sguardo dalla parte opposta, pur di evitare la sua inflessibilità.
Sbuffò di nuovo. Possibile che non lo degnava di una risposta?
"Sei incredibile, Yosai"
Yosai sussultò leggermente, catturato da quelle parole inaspettate e rispettose.
"Come?" non ci credeva proprio. Aveva dovuto aver capito male.
"Ci sei riuscito" mormorò Kenya, non smuovendosi di un centimetro. Continuò a parlare rimanendo nella stessa posizione, "Mi sono impegnata così tanto, non arrivando a nulla. Mi piacerebbe essere come te. È frustrante"
Yosai continuò ad osservarla, schiudendo lievemente la bocca.
"Perché non ci riesco?" sospirò Kenya, stringendo le sue mani con più delusione.
Yosai la imitò, girò il suo corpo verso il tavolo e vi posò la testa, osservando i scaffali pieni di libri.
"Non dovresti sentirti frustrata" le parole risuonarono ovattate, a fatica perforarono le orecchie di Kenya, "Non é facile anche per me, non mi viene naturale. Potrebbe sembrarlo solamente perché non ne sono interessato. L'indifferenza cancella la fatica, credo"
Le nuvole volteggiarono, donando così più spazio ai raggi della luna che sembravano ora molto più potenti e rigorosi. Le ombre di Kenya e Yosai si allungarono ancora di più, arrivando a divulgarsi sulla parete.
"Questa delusione ..." continuò Yosai, un po' meno fiducioso, "Significa che vuoi cambiare, va bene. È un passo in avanti"
Kenya s'irrigidì, si sciolse. Si leccò le labbra, serrandole lentamente, alzò cautamente il petto, scostandosi dalla superficie lucida del tavolo in legno, girandosi verso Yosai.
Il suo sguardò s'imbatté contro la sua chioma folta e chiara. Avvampò. 
Disegnò con lo sguardo, distrattamente, i tratti della sua nuca, scendendo ed incontrando il collo. Scese ancora, scontrandosi contro il colletto del maglioncino. Sollevò gli occhi.
Yosai fece pressione sulle spalle, serrò le labbra e girò il capo.
I sguardi si scontrarono, con furore, sorpresa. Con così tanta foga ed intensità.
E brama.
Kenya spalancò gli occhi assonnati. Yosai schiuse le labbra, umide. E si rigirò, impetuosamente.
Kenya credeva di avere ancora avanti le sue iridi vitree, ravvivate dai barlumi della luna.
Combaciò le palpebre, ansimò delicatamente. Quando riaprì gli occhi, si scontrò nuovamente con i suoi capelli. Soltanto il profumo dolciastro dei suoi soffici capelli.
"Sei migliore di me" constatò Yosai, flebilmente.
Kenya boccheggiò, irrigidì le labbra. Non sapeva come confortarlo.
La presa ferrea sotto il tavolo si sciolse, le mani di Kenya si staccarono, inermi. Sollevò silenziosamente la mano sinistra, tentennò.
Allungò le dita, le ritrasse. Ansimò. Sfiorò una ciocca, giocherellò con le punta dei suoi capelli. Per poi posarsi sopra la sua testa, smuovere le dita affusolate, accarezzarlo. Confortarlo.
Si protese verso di lui, sorridendo gentilmente. Stese le sua mano e riprese poi a lusingarlo e vezzegiarlo. Appoggiò la sua guancia vicino alla sua chioma, adagiandoci prudentemente le sue labbra.
Baciò pigramente i suoi capelli, silenziosa.
"Cosa stai facendo?" le domandò sommessamente.
"È stato un impulso, scusa"
Yosai strinse una mano a pugno, rilassandola poco dopo. La sollevò, sfiorando il dorso della mano di Kenya. La afferrò, stringendola.
Cautamente, si sollevarono entrambi, scontrandosi nuovamente con gli sguardi, senza indebolire la presa delle mani.
"Senti" sospirò Yosai, avvicinando il suo viso, "Tu ..."
Kenya sentiva il suo alito solleticarle le labbra, provocarla. Spingerla.
"Tu mi ami?" domandò prudentemente Yosai.
Interessarsi a qualcuno significava amarlo? Innamorarsene?
Kenya schiuse le labbra nuovamente, iniziando a mordicchiarle.
"Che domande egocentriche!" borbottò Kenya, improvvisamente, "Sei troppo sicuro di te stesso!" sbraitò, alludendo ad una risatina ironica.
Yosai indebolì la stretta, annullendo subito dopo qualsiasi contatto ed abbandonando la sua mano.
"E perché mi accarezzavi i capelli?" bofonchiò, spostando lo sguardo altrove, "Volevo solo accertarmene"
"Non montarti la testa, invece" 

Era lo stridulo freno di un ubriacone al volante, un'esplosione chimica che contaminava un'intera nazione, fuoco che brulicava, scivolava come una valanga seguendo le scie delle sue vene rimbombanti e delle sue goti rossastre.
Mei, irriconoscibile e impetuosa, vagava tra i corridoi con il suo paio preferito di plateform e il paio d'occhiali dalla montatura fine e argentata, sembrava più un paio d'occhiali da sole anni ottanta.
Dolce.
Gli orrecchini enormi barcollavano ad ogni passo incerto, attenuendo l'acro odore di erba che avvolgeva il suo collo lungo.
Le luci verdognole illuminavano l'albergo lowcost che il loro liceo aveva provveduto per quella notte, dopo le faticose e lunghe ore passate a contemplare i templi e i musei che decoravano le periferie della città. Necessitavano riposarsi alla ben e meglio.
Non Mei.
L'atmosfera intima dei corridoi accendeva il suo spirito dormiente, penetrando nel suo dormiveglia che andava dissolvendosi sempre di più in un'eccitazione sempre più rumorosa.
Giocherelleva con lo smiley, l'anello al naso, invece, tentennava solamente a casa della profonda e pesante respirazione.
Il pigiama era stato costruito lì sul momento, unendo differenti pezzi che a stento ricoprivano la pelle elastica e incolta.
Indulgente.
Il pantalone accarezzava i fianchi morbidi, a quadretti e rosa pastello. Il seno scarso era addolcito da una tshirt che le sfiorava l'ombellico, ad ogni passo s'innalzava leggermente, tentatrice.
I docenti e i responsabili, che cercavano senza alcun pretesto ed efficacia di nascondere i loro divertimenti. Seppur ovattate, le loro risatine acute e sprovvedute arrivavano a penetrare le mura dell'edificio, scavalcando con audacia le lievi sonnolenze degli studenti. Come sbuffi, leggeri soffi. Uragani per le orecchie di Mei.
Mezzanotte e mezza, o l'una di mattina.
Camminava dolcemente, con calma e pacatezza. Risoluta sembrava dove voler andare, o magari vagava senza alcuna meta precisa, alla ricerca di aiuto nella maniera più silenziosa e rispettosa possibile, senza far rumore o mettersi nei guai.
Sembrava dondolare, altalenare. Le braccia sembravano voler staccarsi da un momento all'altro dalle spalle.
Nel palato, l'aroma acido e impetuoso di alcool lowcost. Come quell'albergo, il pantalone largo che fasciava la vita minuta e aguzza, le sue parole, i sentimenti usa e getta. 
Strinse i pugni lungo i fianchi.
Sapeva che era ancora sveglio.
Yosai. Che bello. I lineamenti astratti e le labbra umide, carnose. Il maglioncino bianco panna che scendeva giù, percorreva la colonna vertebrale dritta e possente, scalfiva il bacino immobile, leggermente ricurvo. Gli occhi immersi e intenti a contemplare il cielo stellato. Mais qu'il est beau, merde.
Allungò una mano, sfiorò con le dita la porticina che dava alla terrazza, la aprì senza far alcun rumore e zoppicò, un pochino, vacillando sul suo posto. Confusa e persa, sinceramente.
Si trascinò a fatica, sapendo comunque dove voler recarsi.
I suoi capelli erano gonfi e spettinati, voluminosi e così setosi a vederli.
Si fermò irrimediabilmente dietro di lui, contemplandolo così come
lui lui contemplava il cielo.
I suoi di capelli, invece, quelli di Mei, erano corti e le sfioravano metà collo. Un dolce caschetto liscio che accentuava il suo carattere aspro e selvaggio.
Avanzò, un passo, allargò le braccia.
Il freddò le graffiò le guancie, ogni centimetro della pelle nuda.
Lo abbracciò da dietro.
Il vento soffiò, sbuffando sulle chiome degli alberi possenti e sull'enorme distesa verdeggiante sotto i loro occhi.
Ecco, lui odorava di fresco e confusione.
Si girò, freddo. Apatico.
Mei allungò le dita sul suo viso, accarezzando lentamente le guancie rossastre di Yosai. Si alzò sulle punta.
Yosai alzò un sopracciglio. Veramente confuso.
Mei era testarda. 
Strinse il suo viso tra le sue mani, le unghia laccate graffiarono la sua pelle. Gli faceva male. E la sua frangia sbarazzina le ricopriva la fronte, e gli occhi, e lo sguardo languido.
E Mei lo bacio con foga. Ecco, era stata veramente un'esplosione.
Ed era ubriaca.
Yosai deglutì rumorosamente, incredulo.
Perdeva l'altitudine ogni secondo che passava, non erano giuste quelle labbra incastrate tra le sue.
Ma Kenya?
In effetti, Kenya si era assonnata al piano di sotto, sotto ai piedi di Mei che si reggeva su un corpo freddo e distante, quello di Yosai. Dormiva tranquillamente, con il volto sempre, ancora, rivolto alla vetrata. 
La luce notturna tracciava disegni astratti sul suo volto riposato e candido, riempendo le lacune dei suoi pensieri con la meccanica dei fluidi del suo corpo che si mettevano finalmente in pace, rimuovendo ogni sorta di antipatia che caretterizzasse il suo carattere. Come i fluidi di parole insenstate che spesso riversava su Yosai, senza rendersi effettivamente conto di tutto quel tempo perso. Perché la meccanica dei fluidi aveva già avviato il motore delle azioni incoscienti che il corpo di Yosai effettuava davanti ai suoi occhi, s'irrigideva. Davanti alle sue labbra, inumidiva le proprie. Davanti al suo corpo, osservava e rimodellava a piacere le sue curve, stringendo le mani a pugno ed immaginando la coppa del suo seno dentro i suoi bisogni. 
Ma Kenya, allora? Dormiva ancora, per fortuna.

 

 


 

 

 





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2am e che bella la vita e che fortuna il nostro yosai, la fortuna di avere tra le dita due bellissime ninfette.
ascolto del bellissimo rap francese, e lo condivido con voi, perché se prestate ben attenzione c'é una magnifica icona all'inizio di ogni capitolo, e potete ascoltare la canzone che va con la lettura di ogni capitolo.
mei ch cerca il senso della vita sotto il bicchiere dei suoi innumerevoli cocktail, yosai che cerca di tradurre le costellazioni del suo spirito e la piccolina kenya che va contro il mondo per cercare il suo posticino, e una volta che la luna emerge ecco che si trasforma in un piccolo bambi sperduto e sonnolente.
i miei bambini sono stupendi e li adoro

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Capitolo 7
*** VI-Daisy&Milo ***


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VI- Daisy&Milo

 

"Benvenuta a casa, Daisy. Come'é stata la tua giornata?"
Daisy, sorridendo a fatica, sfiorò le chiavi, rimuovendole dalla serratura e poggiandole sopra il mobile in legno grigio del corridoio.
Balbettò qualcosa di incomprensibile, nefasto, illusorio.
"E tu, mamma?" mormorò cautamente Daisy.
Strinse le spalle, chiudendo definitivamente la porta. Portò le sue dita al naso, inspirò profondamente e si accertò dell'odore acro disperso selvaggiamante tra le cellule della sua epidermide, talmente vago da non dover risaltare all'occhio a prima vista.
Scrollò allora le spalle, rimuovendo la sua borsa e buttandola a terra. Verificò che non vi fosse qualcosa pronto a tradirla da un momento all'altro, legò i capelli in una veloce coda e finalmente decise di recarsi in cucina, dove vi poteva trovare sua madre.
Le scroccò velocemente un bacio sulla guancia, nemmeno il tempo di accorgersene che il suo odore amarognolo doveva di già essersi amalgamato a quello del caffé bollente. E per fortuna.
"Non mi lamento, tutto benone. Grazie" le rispose, sorridendole.
"Vado a lavarmi, allora" preannunciò Daisy, indietreggiando.
Si recò pigramente all'ingresso, afferrò la sua borsa, per poi dirigersi in bagno.


Daisy sbuffò, si accomodò sopra il puff e strinse tra le mani la console. Indietreggiò con la schiena, scontrandosi contro il suo stesso letto.
"Ahi!" sospirò, frustrata.
L'esame era andato male, si era fatta male quello stesso pomeriggio nel fianco sinistro, ancora le bruciava. Tutta colpa dei saldi al Victoria's Secret, del cellulare scarico che aveva assorbito tutta la sua attenzione nel breve lasso di tempo dove si era spostata dal reparto bikini ai camerini. Ed ecco che si era urtata contro un tavolino, mentre rileggeva in fretta e furia l'e-mail, e il telefono al due percento che minacciava la sua incolumità.
Si era sbilanciata un pochino a sinistra, un passo falso, il sapore agrodolce dell'ennesima futura cicatrice sull'epidermide lattea e fragile quanto la sua pazienza.
Ripose la console sul tappetto, davanti alle sue ginocchia spigolose e sbucciate, ne osservò i contorni mal delineati per qualche secondo, e si massaggiò il fianco. Ancora doleva.
Il nuovo videogioco!
Posò le mani a terra, inspirando profondamente. E si issò su, rapidamente e senza sforzo, sbuffando comunque. 
L'asciugamano color lavanda si sciolse lievemente, accarezzando le gambe lunghe.
La luce diurna si proiettò sulla sua pelle, illuminandole il viso e costringendola a strizzare le palpebre. I raggi solari si ramificarono dappertutto, rigando le pareti e il tappeto bianco su cui si era seduta precedentemente.
Si girò verso le lenzuola del suo letto, doveva trovarci la custodia.
Il nodo dell'asciugamano si allentò nuovamente, scivolò. Rigò l'epidermide, la pelle nuda brillò rimandando alla luce dei fari. I capelli ondulati quanto l'oceano nelle fresche giornate estive.
Finalmente l'asciugamano ricongiunse il tappetino, combaciandone i contorni alla perfezione, rammollendosi in lievi e morbidi contorsioni.
Daisy si affrettò a piegarsi sulle ginocchia, raggiungerlo ed afferrarlo, legandoselo nuovamente al petto.
Quanto riserbo.
Si mordicchiò il labbro inferiore, cercando di stringere il nodo quanto più possibile.
Affondò una mano tra le lenzuola verde pistacchio, torturò nuovamente il labbro fino a riscontrare la copertina rigida del suo nuovo acquisto: "Girl gang".
Ci aveva economizzato su da parecchio tempo, e ne valeva ogni goccia di sudore. Ogni minuto passato a ordinare le nuove polo, riorganizzare la nuova merce del negozio e tollerare i diversi clienti.
Lo aprì con foga, ne estrasse il disco e lo inserì nella console, per poi ricordarsi che in effetti era mercoledì.
Allora, lasciando caricare il nuovo videogioco, ignorò totalmente le pantofole dall'altra parte della stanza, dimenticate chissà dove, e si catapultò verso la porta della sua camera. La aprì con veemenza, corse al piano di sotto, visualizzò il mobiletto davanti all'entrata e si gettò contro.
Scese le scale con fretta e furia, rischiando più volte di scivolare sul parquet umido. Accarezzò la ringhiera in legno bianco, si sistemò il paio d'occhiali sulla punta del naso e lanciò una veloce occhiata ai differenti quadri che ornavano la parete del corridoio, poi al suo riflesso proiettato nel piccolo specchio dello stesso mobiletto.
Afferrò la rivista settimanale di Elle, entusiasta.
Le ultime gocce d'acqua le rigavano le scapole, scendendo giù la colonna vertebrale ed accarezzandole i nervi a fior di pelle, stuzzicandole il bacino, incidendo la curva della natica sinistra. Scomparendo.
Daisy rimontò su tranquillamente, euforica dello splendente pomeriggio che le si proiettava davanti.
Senza alcuna presenza inutile, non vedeva l'ora di combaciarsi con la solitudine che attanagliava le sue giornate, finalmente.

Tre minuti.
Daisy corse a perdifiato, svoltò l'angolo e s'immobilizzò tutto a un tratto. Sistemò le boxer braid, il cardigan scuro e il paio d'occhiali dalle lenti scorbutiche e aguzze, la montatura felina.
Un minuto, ma riuscì a raggiungere la classe in tempo e precedere l'entrata del professore, guadagnando così una profonda riconoscenza personale. 
Solo qualche secondo dopo si rese conto di aver sbagliato classe, spagnolo veniva dopo la lezione di francese.
Afferrò il suo zaino, si leccò le labbra e si precipitò fuori dall'aula. Doveva salire un piano, soltanto qualche paio di gradini e avrebbe raggiunto la classe di francese al terzo piano.
Percorse di corsa il corridoio, svoltò a sinistra e raggiunse la scalinata.
Il fiato corto, il respiro pesante, le lancette che facevano a gara con le sue gambe affusolate, ingoiate da un pantalone blu, marcato da innumerevoli e minuscoli loghi della Champions
"Non m'importa se mi ami, o meno. Io credo di amarti, Milo" mormorò sommessamente, ma doveva averla udita.
Credeva realmente che ne fosse conseguita una fine certa, ovvia. 
"Anche se in effetti, amore é amaro amare ed ogni giorno sento addosso l'acro odore della solitudine. Non con te. Credo" ripeté la poesia studiata la settimana scorsa, attenuando il tono di voce, fino ad azzerrarlo. Non doveva aver dovuto recepire il messaggio, perlomeno lo sperava.
Daisy, audace, strinse la mano di Milo, una mano pallida e ferma, possente. 
Rischiando, di qualche passo incerto e distratto, di cadere dalle scale del liceo e disintegrare la sua povera reputazione, si era aggrappata al suo avambraccio, stringendolo.
Ne aveva susseguito, subito dopo, un lieve soffio mozzato che accennava a una rapida richiesta d'aiuto.
E Milo Tolleroda, agilmente, si era girato verso questa figura goffa ed impaurita alle sue spalle, aveva serrato la sua mano e le aveva salvato il collo, se non la vita. E la faccia.
Poi, che era stato Milo, era tutta un'altra faccenda. Ed una stupida ed inaspettata sorpresa voluta da chissà chi, da qualcuno che sembrava proprio avercela con lei.
"Mi accompagneresti dall'infermiera?" sussurrò lievemente Daisy. Delle macchioline lattee cominciarono a dipingerle le guance di timida vergogna.
Confessione?
Le gote si sfumarono di un lieve rossore.
Come si era permessa di fare una cosa del genere in quel momento, in quel preciso istante, situazione?
Si mordicchiò le labbra, scavando buche profonde sulla pelle per attenuare la tensione scaturatasi dentro di lei.
"Credo di essermi slegata la caviglia"
Bugie.
In quel breve lasso di tempo, la sua vita si era annodata in un indissolubile intreccio di complessità vaghe e comunque prepotenti, che sentiva di esplodere da un momento all'altro.
Poi, non aveva ancora ingerito il fatto che Johnny Depp avesse potuto sfiorare la docilità di Amber Rose. Johnny Depp?
E a cosa avrebbe dovuto aspirare ora?
Povera Daisy.

"Allora, come ti senti?"
Un silenzio prepotente soccombeva la piccola stanza lattiginosa, minuziosamente organizzata nei minimi dettagli. I scaffali emanavano una certa fiducia di sapere che traspariva dalle mani esperte con cui l'infermiera l'aveva precedentemente controllata.
E se quella tensione precedente sembrava essersi alleviata, quelle parole pronunciate rimbombarano euforicamente come lampi e tuoni nella momentanea tranquillità instaurata nella testa di Daisy.
Si era completamente dimenticata che Milo era ancora lì, da ben trentacinque minuti, o qualcosa di più.
Era stata esonerata dalle lezioni dell'intera mattinata, e quei trentacinque minuti l'avevano di già torturata abbastanza.
"Meglio, grazie" borbottò dondolando i piedi, aggredendo il vuoto che separava il lettino dal suolo, "Tu?"
"Bene"
Il polso destro di Milo era ornato da un orologio dal cinturino bianco e blu. Le mani grandi presentavano un paio di anelli incastrati tra l'indice e il medio. La felpa era chiusa, la schiena ricurva in avanti e i gomiti affondavano sulle ginocchia spigolose.
I capelli ondulati erano stati sollevati da un lato, dove lievi riccioli castani scendevano giù, rammollendosi in semplici ciuffi.
"Ripetevo a me stessa la poesia che avrei dovuto recitare"
"Come?" Milo aggrottò le sopracciglia confuso.
"Prima di rischiare di cadere, ripetevo una poesia che avrei dovuto imparare a memoria"
"Il personaggio si chiama Milo?" e si portò indietro, scontrandosi contro lo schienale e sollevando nuovamente lo sguardo verso Daisy.
Tremava, leggermente.
"Non c'é nessuno Milo, é 'Io credo di amarti, o Cielo'" rispose cautamente, serrando tra le mani le lenzuola del lettino.
Pregò che non se ne fosse accorto.
"Capisco" sbuffò allora Milo, deluso.
"Grazie, comunque" mormorò Daisy, allentando il movimento delle sue gambe. Azzerandolo.
"Non preoccuparti"
Daisy si era leggermente slogata la caviglia sinistra, o almeno credeva. Non era certo.
Aveva preso qualche antidolorifico, sperando che annullasse anche il bruciore al fianco. 
"La mia ragazza si starà preoccupando"
Daisy corrucciò le labbra, aggrottò le sopracciglia ed allentò la perseveranza che intimimante si stava espandendo dentro di lei. S'irrigidì.
Aveva una ragazza?
"Non ho avvertito Margiela, meglio che vada" ripeté Milo, alzandosi su, "Mi fa piacere che ti senta meglio, ciao"
E scomparì , senza alcun preavviso. O qualche saluto, o un accenno, o una parola di più.
Sparì dietro la porta, abbandonandola a sé stessa così, all'improvviso.
Se voleva ritornare in classe, ora non desiderava altro che rientrare. Afferrò la sua borsa e balzò giù dal lettino, dimenticandosi di avvisare l'nfermiera, e perfino "Heureux les Heureux", quel romanzo di Reza che aveva dovuto comprare per quella dannata lezione di francese.
Era Milo, niente ambigue referenze a quello stupido cielo nuvoloso.

 

 

 


 

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finalmente l'ennesima ninfetta,daisy la margheretina che fallisce miseramente davanti al bellissimo milo, un vero bastardo

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Capitolo 8
*** VII-Tristan&Kaori ***


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VII- Tristan&Kaori

 

Kaori inspirò profondamente, strinse la borsa e la incastrò profondamente contro le sue costole fragili.
Scese le scale rapidamente, quasi saltellando. I capelli scuri volteggiavano a ritmo della sua figura, rigando veementemente l'aria leggermente grezza ed inspida. Se l'alba si proiettava dolcemente contro il suo viso docile e le riscaldava le goti di calura per risvegliarla, una volta uscita, questo calore si dissolveva in una brezza un po' più frigida.
Sospirò contro il tessuto della sciarpa blu, si serrò dentro il parka scuro e maledì il Giappone e le sue maledette divise. La gonna nera oscillava con furore, le guance si imporporavano con impeto.
Qualche occhiata furba si scanagliava contro la sua figura attraente, altri sguardi languidi strisciavano contro le sue gambe lunghe ed avvolte da una leggera calza nera.
Esaltazione e desiderio rimbombavano tra le pareti della stazione intorno al suo passaggio.
E li ignorò, cerco di frugare dentro alla sua innocenza ed evitare così quella lussuria fuori posto, invadente. Indiscreti e sfacciati, li malediva tutti quanti quei stupidi maiali in costume e cravatta che fungevano da pilastri contribuenti e vantaggiosi, quando non erano altro che parassiti della società.
Rallentò l'andatura, sistemò la gonna, e passò il ticket. Sorpassò la barra di sicurezza, e si proiettò fuori, attendendo pazientemente il suo treno.
Si addossò a un distributore automatico, osservando il fogliame danzare, scolorire il paesaggio lontano dove sorgevano immensi grattacieli della capitale. Allungò lo sguardo, più in fondo, e si scontrò contro le curve sinuose delle montagne fiere, dove bozze di boschi gonfi e sazi pullulavano la pelle della catena montuosa.
Riusciva perfino a distinguere il suo parco preferito, da quell'altura. 
In quel breve lasso di tempo si calmò profondamente, respirò con premura e si rincuorò con l'intimo abbinato che aveva addosso.
Sotto gli immensi strati di vestiti superflui e fastidiosi per degli occhi più lussuriosi, la pelle candida era ricoperta da un lieve strato di lentiggini che scendevano dal petto fino all'ombellico, disegnando mappe di città inesplorate e meravigliose. Il bacino magro sosteneva uno slip in nylon, color carne. Si confondeva con i glutei, amalgamondosi con le sue curve, ricoprendone teneramente i contorni.
Il seno prosperoso era afflitto da un push up che ne privava la libertà, color rosa antico. L'unico ornamento erano due centimetri di pizzo bianco supplementare, nelle due estremità del tessuto. Le bretelle affogavano nell'epidermide, strozzandone il bagliore.
Erano i suoi preferiti. Tristan li apprezzava, magari anche di più.
Ne ricordava gli occhi luminosi tracciarne i contorni, scalfire con foga e premura l'incolumità.
Un groppo in gola. Il vento soffiò cautamente, invitando le ciocche di capelli a un dolce valzer.
Strinse l'uniforme scolastica tra i pugni, ne serrò il tessuto con furia.
Tristan affogava il desiderio nelle clavicole, le mordeva a suo piacimento e poi districava i loro problemi con tenui baci, dalla clavicola in su, poi accarezzava la pelle del collo con la lingua, mordicchiava il lobo dell'orecchio.
Ne soffiava all'interno il contenuto del suo forte desiderio, "voglio spogliarti".
I suoi occhi affogarono nella sua stessa stupida malinconia.
E poi, Tristan, le mordeva atrociamente il collo, spalmava il suo corpo contro il suo, più tremolante, e con una mano agile iniziava inabissarsi dentro le sue interiora, riscoprire le città selvaggie ed umide.
Scavare, alla ricerca di tresori nascosti, con esaltazione. Riemergere, intenso, riafforare.
Ora, Kaori naufragava, sprofondava nei ricordi eterni di un diciassettenne impetuoso e inestinguibile, duraturo nelle sue memorie.
Faticava a distinguere se stessa dalle porzioni di nuova pelle che aveva creato solo per compiacerlo.
La metamorfosi funzionava a rilento, degradando i futili piaceri a fatica, quasi nauseante.
Il cerotto bianco sulle ginocchia sbucciate e spigolose, s'incastrava confusa nei suoi angoli troppo accesi. Quando, tutto a un tratto, decideva di fiondarsi ed affogarsi dentro il suo corpo, nei bagni pubblici di qualsiasi edificio.
Disegnava la sua amarezza, con baci e tenerezza, sulla sua schiena , quasi all'estasi.
Ma ora, che cenere nel vento. Lo stesso vento che ora respirava con nausea, sfiorava con ingratitudine, ignorando e trascurando l'effimera prestazione del suo treno, che si precitipitava a lasciare la sua fermata, stridando contro il suo sentiero e rimbombando nella sua testa.
Nemmeno oggi, non ci riusciva.
Scese con calma ed apatia, abbandonando la stazione e i suoi assillanti piani, dirigendosi da qualche parte, senza alcuna meta precisa. Vagava, avanzava senza veramente osservare ciò che le stava davanti, gironzolava per i quartieri più remoti della città, nel pensiero solo i docili tratti di Tristan.
Dimenticò il freddo che le attanagliava le ossa, trascurò il parka aperto e si sostò solo una volta arrivata su di un ponte, scese con lo sguardo verso la distesa d'acqua limpida. Distinse varie ninfee, ne osservò la bellezza, poi spostò lo sguardo verso dei pesciolini, sguazzavano liberamente.
E abbandonò anche quest'ultimi, riprendendo a camminare senza tregua. 
S'imbatté contro enormi grattacieli, si scontrò contro balconcini trascurati e rigati dalla muffa, invase stradine trasandate e dimenticò perfino un signale stradale che la invitava a fermarsi, e quella volta rischiò di essere travolta da un'automobile. Ma fortunatamente, quest'ultima riuscì a bloccarsi in tempo.
Kaori non si premurò nemmeno di scusarsi, camminò ancora.
Affondò una mano dentro la tasca del parka, quando il cielo tuonò minacciosamente, preannunziando una vicina pioggerellina.
Estrasse l'ennesimo ticket, lo passò rapidamente ed entrò finalmente nel Shinjuku Gyoen National Park.
Era deserto a quell'ora.
Le guance scarne furono assorbite dentro la sua bocca, ne assaporò il calore e ne mordicchiò l'interno. Marciò con leggerezza, quasi danzava, o quasi rischiava di cadere, inciampare e confondersi con il sentiero tracciato accuratamente.
Attraversò un ruscello, il suo naso fu rigato da una spavalda gocciolina d'acqua.
Frugò dentro il fogliame con lo sguardo, il luogo profumava di primavera. Il fogliame roseo emergeva dal terreno, espandendosi verso il cielo, e tutte le altre direzioni. Le radici sprofondavano nel terreno, per poi riemergere voluminosi e solidi.
Si nascose sotto una piccola tettoia in legno.
Iniziò a piovere, ne osservò il torpore appoggiandosi contro una colonna. E poi s'intensificò, divenne più fitta.
Ne fu travolta, cosparsa di lievi barlumi di sonnolenza improvvisa che la spinsero a guardarsi intorno. Percepì il contorno di una panchina dietro di lei, e con pigrizia ci si diresse.
Quanta fortuna, nonostante tutto. Non era bagnata.
Appoggiò lo zaino alla sua sinistra, avvicinò le gambe al ventre e le incrociò, osservò poi l'umidità travolgere il giardino pubblico. Un dolce strato di nebbiolina sembrò intensificarsi, e coperta, Kaori iniziò a percepire l'afa contornarle il corpo. Addolcì la sciarpa intorno al suo collo.
Si grattò le palpebre premurosamente, e codeste si baciarono con malavoglia, spesso e volentieri. La testa s'inclinò leggermente, le mani s'abbandonarono sul ventre, sfiorando le caviglie intrecciate. Le scarpe da basket bianche erano sudicie, quasi si dispiaceva di sporcare la panchina.
Non seppe se si fosse realmente addormentata o meno, quanto si fosse appisolata perché a rivedere il cielo, le nubi grigiastre erano sempre le stesse e la pioggia della stessa quantità e consistenza delle lacrime che le avevano tradito il coraggio e si erano riversate all'esterno. Perlomeno potevano confondersi con la tristezza del cielo.
Si risvegliò da quel assopimento soltanto a causa di un affannoso respiro pesante lì intorno. Una figura vaccillante e magrolina vibrava davanti ai suoi occhi, dandole le spalle. Della stessa maniera, si era poggiata contro la colonna, aggrappandosi con le dita alle ciocche voluminose e bionde, inclinando leggermente le scapole.
Doveva aver corso. Ed inoltre, era fradicio.
Kaori spostò lo sguardo lentamente, scivolando dalle dita districate tra i capelli, alle spalle, poi giù lungo la schiena, ed infine la mano sinistra. Teneva una piccola busta in plastica trasparente, all'interno l'acqua tremolava a ogni tenue tentennamento muscolare, scombussolando tre meravigliosi pesciolini. Nero, rosso e arancione. Erano così sottili, ed incantevoli.
Prudentemente, sorrise loro.
Non fiatò, Kaori rimase immobile a fissare i pesciolini sguazzare allegramente nel loro piccolo microcosmo.
E continuava ancora a piovere, la nebbiolina abbondava e la brezza si era raggelata, costringendo le labbra di Kaori a traballare di tanto in tanto. Le mordicchiava, rabbrividiva.
"Sono davvero carini, no?"
Kaori sussultò, infossando i denti dentro la carne del labbro inferiore. Alzò rigorosamente lo sguardo, scontrandosi contro un altro scuro, ma addolcito. Non doveva essere biondo di natura.
"Li ho vinti giocando, é la giornata d'apertura dei licei" aggrottò leggermente le soppraciglia folte.
Kaori trasalì lievemente, di già?
"In effetti, sto cominciando a dispiacermi per loro" riprese scherzosamente. Allungò nuovamente una mano nei suoi capelli, sprofondandosi in un momentaneo imbarazzo che si dissolse in una roca risata. Si accarezzò la nuca, impavido.
"Scusami il disturbo, non sapevo dove altro nascondermi per evitare un brutto raffreddore!" Le pupille dilatate scomparvero dietro un enorme sorriso gratificante, "Tomomi, é un enorme piacere poterti incontrare e riuscire a condividere questo breve lasso di tempo"
Kaori si limitò ad annuire, azzitendosi ancora.
"Perlomeno lo spero con tutto il cuore, non mi piacerebbe dover ritornare a casa di tarda sera. Inoltre, intendo proseguire con le mie vittorie, non mi accontento di tre pesciolini che molto presto riporterò a sguazzare in un qualsiasi stagno. Non é tra le mie mani il loro posto. Ma chiamami Tomo"
Kaori distinse un paio di orecchini perforargli i lobi. La camicia della divisa da scuola era sbottonata, alleggerendo il colletto, e la cravatta era allentata, pendente intorno al suo collo.
Aveva addosso una giacca a vento arancione, che lo rendeva ancora più piccolo. Ai piedi, un paio di Dr Martens shoes nere.
"Non sembri avere una bella cera" borbottèo Tomomi, d'un tratto.
Si leccò le labbra, incastrò i pesciolini dentro una tasca interna del giubbetto mentre da un'altra ne estrasse un pacchetto di sigarette Morris. Appiattì vagamente i capelli, ne allungò poi le ciocche all'indietro, intensificando l'asprezza che i tratti del suo viso emanavano, al contrario dei suoi occhi.
Appoggiò il mozzicone sulle labbra carnose e secche, le inumidì nuovamente. 
Kaori, silenziosa.
Tomomi abbassò lo sguardo, ricoprì la sigaretta e la accese agilmente.
"Per nulla" ripeté poco dopo, sorridendo.
Avanzò.
Kaori deglutì.
Tomomi avanzò nuovamente, verso di lei, in avanti, oscillando un pochino.
Una pozzanghera si dilatava a vista d'occhio davanti a lei, doveva aver piovuto molto. Si era dovuta veramente addormentare allora.
E Tomomi s'inginocchiò, incastrò il mozzicone tra le labbra rosee, le goti rossastre.
Protese il braccio scarno, estendendo la mano in avanti, distendendo le dita ossute oltre il suo spazio vitale, sfiorando la sua fronte rugiadosa. Kaori avvampò.
"Sei davvero calda" mugugnò Tomomi, prestando ben attenzione a non far cadere la sigaretta accesa.
Avanzò ancora, affondando entrambi le mani contro le sue guance e verificandone la temperatura.
"Ne sono certo!" bofonchiò.
Kaori si strinse, congiunse le mani, impugnò il tessuto del suo parka, morse intensamente le sue labbra, compresse inconsciamente la sua intimità che sentiva troppo esposta, solo la sua stupida gonna.
Il fogliame danzava tra le melodie della frescura più veemente, la pioggia rigava il sentiero ed incideva il tetuccio sopra la sua testa. Ne sentiva i lamenti.
Ma strinse le palpebre, fino a bruciare, incenerire ed erodersi, corrodersi e cicatrizzarsi. Divvampò
Scoppiò a piangere, lacrime sconnesse ruzzolarono fuori, sradicandosi dalla pelle comme germogli, annaffiandosi di dolore e di un desiderio opprimente di poter ritornare indietro. Singhiozzava rumorosamente.
Tomomi non s'azzardò nemmeno a rimuovere le sue mani, credeva che una volta toltole l'unico appiglio che le teneva il viso, potesse crogiolarsi e frantumarsi davanti a lui.
"Credo proprio che tu abbia la febbre"
Sorpreso, confuso e spaventato, spalancò gli occhi, sconcertato. L'aveva colto alla sprovvista, effettivamente.
Nei suoi più remoti pensieri, Kaori frugava tra i suoi ricordi, alla disperata ricerca, tentava di ritrovare il corpo di Tristan.

 

 

 

 


 

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come adoro questi 3, sono i miei preferiti, davvero, li adoro
allora, se non sbaglio, kaori é la mia ottava ninfetta, la mia meravigliosa principessa che sembra timida e sembra soffrire e chiudersi troppo in sé stessa, senza mai accennare parola, che strazio! e, al contrario, tomomi, parla anche un po' troppo, no? sotto la pioggia, e quel torpore, quell'atmosfera lì, avrei pregato anche per un minuto di silenzio!! siamo nella capitale, in effetti, e qualche secondo di silenzio farebbe bene
poi c'é tristan, che compare solo nei ricordi di kaori, chi può essere? e come mai non c'é lì accanto a lei? come mai lo ricorda così passionalmente? e perché dice di tentare di ritrovare il suo corpo????
ehehe viva i dubbi!!
sembra lecito domandarvi del motivo per il quale abbia scelto nove ninfette, e credo che sia giunto il momento di rivelarvi il mio piccolo segreto.
Il numero nove, che si pronuncia “ku”, ha la stessa pronuncia del termine giapponese che indica l’agonia o la tortura. Cosettina che riconcilio con orgoglio a questo loro periodo adolescenziale.
"Il numero nove è il numero della generazione e della reincarnazione. Numero dispari è dinamico e attivo nella sua natura e nei suoi effetti. Indica il periodo della gestazione, nove mesi per la nascita di una nuova vita. 
Il numero nove seguendo all'Otto, che indica uno stato limite, è il superamento nella creazione. Il nove ha come proprietà la permanenza. Infatti il numero nove torna sempre al suo stato antecedente e non si trasforma mai veramente, conservando uno stato fisso e immutabile. (lo vedremo più tardi questo aspetto!)
Questa caratteristica lo accomuna al numero Uno, diventando una sua manifestazione, nella sua funzione di unicità (per questo é una raccolta, nove personaggi in un'unica storia!). Il simbolo grafico del numero Nove è il cerchio, come per il numero Uno. (ho associato il cerchio a un ciclo, e questo aspetto di ripetizione, di ritorno allo stato iniziale lo rivedremo più in là!) Anche secondo Pitagora il 9 è un numero che si riproduce continuamente, in ogni moltiplicazione, e simboleggia pertanto la materia che si scompone e si ricompone continuamente (ciò che sono gli adolescenti, esseri tanto insicuri e malleabili). Il nove serve da dissolvente per tutti i numeri, senza che mai si associ a qualcuno, né per somma né per moltiplicazione. Il 9 è l'ultimo numero delle cifre essenziali che rappresentano il cammino evolutivo dell'uomo. E' dunque il simbolo della realizzazione (speriamo proprio)."

Inoltre, erché aver scelto ninfette, qualcosa che rinvio personalmente alla primavera?
I fiori di ciliegio sono presenti esteticamente nel racconto, ma anche fin dall'inizio, con junko e koyo. In effetti, se avete ben notate quest'ultimo la chiama piccolo germoglio, il significato del nome di junko!!!
"Il vero senso della tradizione hanami non consiste nel guardare lo spettacolo offerto dalla bellezza dei fiori sull’albero ma nell’osservare con una punta di tristezza e commozione come cadono dall’albero, trasportati dalla brezza primaverile nel breve viaggio che li separa dalla terra ancora fredda. Un modo dolce e allo stesso tempo malinconico per ricordare che ogni vita è destinata a finire."
Dai, che non sono poi così triste io!

ps: per la scena del parco sono stata inspirata da "il giardino delle parole", adoro adoro

 

 

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