I discepoli d’Orfeo

di ISI
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I discepoli d’Orfeo ***
Capitolo 2: *** Silvio - Graffi di fedeltà ***
Capitolo 3: *** Dante - Trascendenza ***



Capitolo 1
*** I discepoli d’Orfeo ***


I discepoli d’Orfeo

 

 

[Prima che vi arrischiate a leggere queste mie righe di scribacchina sfaticata, nelle quali, tuttavia, ho voluto mettere tutto il mio impegno e tutta la mia passione, dovete sapere che io non suono alcuno strumento, ergo, spero d’aver fatto tutto al meglio, per non ritrovarmi nell’odio eterno di chi di note, accordi, scale e solfeggi, se ne intende sicuramente molto più di me.

Ho voluto scrivere queste minuscole storie (cinque o sei, non di più) per togliermi uno sfizio, per tentare di ringraziare a modo mio tutte le persone che allietano le mie giornate con le loro melodie: ho cercato di immaginare le sensazioni che si possono provare nel suonare partendo dalle sensazioni che io personalmente provo il più delle volte scrivendo, ho rielaborato il tutto ed ecco qua la gioia, il dolore, il senso d’evasione da una realtà forse troppo stretta, l’amore, l’odio, la malinconia, la fedeltà ed un sacco di altri sentimenti e sensazioni che la musica, come la scrittura la pittura e tutte le altre arti sanno farci sentire.

So che ci sarebbero centinaia e centinaia di altre cose da dire, ma ora come ora il mio cervello è più vuoto del solito e non mi viene in mente niente altro se non che spero di poter venire a sapere il vostro parere su questo mio disadorno lavoretto, tanto per capire se il mio ringraziamento a tutti coloro che suonano, strimpellano e simili è degno di considerarsi tale.

Spero che vi piaccia e buona lettura.

ISI.]

 

Luigi - Il suono della libertà

 

“Luigi, mi raccomando...” la sua voce suonò più disinteressata del solito, mentre fissava attenta il proprio riflesso, restituitole dal grande specchio che c’era all’ingresso per un’ultima volta, sistemandosi il tailleur di Gucci fresco di vetrina e prendendo in braccio quella semi-specie di topo di fogna ululante che soleva spacciare per un ciwawa con tanto di pedigree.

Chissà dove sarebbe andata oggi sua madre.

Forse a casa delle sue carissime amiche, le stesse di cui, alle spalle, diceva peste e corna, o forse al suo adorato e coltissimo circolo letterario, in cui il mantovano Virgilio doveva evidentemente esser passato di moda già da diverso tempo e a tener lo grido al posto suo non poteva esserci che quel gran genio, come lo definiva sua madre, di Moccia, o magari avrebbe fatto una capatina dal suo amante ventenne, per tradire un uomo che poi tanto diverso da lei non era.

O forse se ne sarebbe andata finalmente all’inferno con quel suo odioso cagnaccio ossuto e le sue fottute ossessioni.

La scrutò intenta a passarsi un ultimo velo scarlatto di rossetto sulla labbra gonfie di botulino e sospirò rassegnato scuotendo il capo: neanche Lucifero in persona, molto probabilmente, se la sarebbe tenuta volentieri una piaga simile, soprattutto se in compagnia di quell’organismo geneticamente modificato che un tempo doveva aver fatto parte dei canidi.

“Luigi, mi raccomando, ti ho detto!” il suo tono questa volta fu più deciso e non ammise repliche di sorta “Non tollererò oltre queste dimostrazioni di mediocrità da parte tua. Per quanto possano incoraggiarti i tuoi professori, sappi che l’otto non è un voto alto, almeno in questa famiglia e no, non ho idea di quanto siano difficili il greco ed il latino, ma sappi che non m’importa: sei un ragazzo intelligente e so per certo che non mi deluderai, specialmente ora che la maturità è alle porte...” concluse secca per poi girare sui tacchi ed andarsene con quella feccia tra le mani che gli ringhiava contro mostrandogli i dentini minuscoli ma ben affilati e aguzzi come puntine.

La porta si richiuse dietro di lei sbattendo e lui rimase solo.

Bè, in fondo meglio così, tanto ormai c’era abituato.

Chiuse il vocabolario di greco lasciando la lunga versione di Platone a metà e raggiunta a passi svelti la camera da letto perfettamente ordinata s’inginocchiò di fronte al comodino semplice e spoglio, sul quale si trovavano solo una radiosveglia ed un bicchiere d’acqua mezzo.

Aprì il primo cassetto del suddetto, piccolo mobile e si scoprì, ancora una volta, a trattenere il respiro per l’emozione, mentre con mano tremante, ma con la massima attenzione, lo estraeva dal suo nascondiglio, accarezzandone il velluto blu scuro della custodia come fosse stato il volto della persona amata, la carne profusa di brividi di desiderio più pungenti di centinaia di spilli.

Se avesse avuto fiato, probabilmente, avrebbe cominciato a gemere.

Sfiorò il metallo freddo con i polpastrelli sensibili, prendendone in mano ogni pezzo ed incastrandolo l’uno con l’altro con calma, senza fretta alcuna, con quella stessa lentezza che avrebbe usato per denudare il corpo caldo del suo eros: doveva fare le cose con calma, doveva godere anche del più piccolo attimo, avvertire anche la più insignificante vibrazione.

Doveva, voleva vivere, non esistere e basta, e quello, lo sapeva benissimo, era l’unico modo.

I suoi occhi d’un gelido celeste slavato si piantarono sul lucente flauto traverso e per un lungo, interminabile attimo si ritrovò come in uno stato di trans, insensibile dentro e fuori, inerte come morto.

Poi il raptus.

Una scarica d’adrenalina, uno shock, il divampare delle fiamme di un’ispirazione che per troppo tempo aveva tenuto il capo chino e che ora si dibatte, si libera e si dimena come una menade impazzita, invasata dal suo Bacco, dal suo vino acetoso, dal fiele disgustoso delle sue frustrazioni.

Il respiro soffocato che sarebbe diventato urlo fu musica attraverso il metallo, nelle dita veloci e sicure che seguirono docili lo spartito invisibile della sua sofferenza, del suo dolore, delle sue aspirazioni e Luigi, finalmente, non fu più Luigi, ma solo un banale pifferaio, il giullare d’una corte gentile; fu un elfo irlandese a piedi nudi sulle immense distese erbose battezzate dalla rugiada d’argento; fu un barbone innamorato della luna, vestito di stracci e di cartoni, che alla sua amata canta ogni notte una serenata diversa, ribadendole sempre la stessa promessa.

Volò nudo in se stesso; danzò leggero tra le righe labili del pentagramma dell’improvvisazione; attraversò mari immensi e infiniti oceani camminando veloce sulle acque scure, con un paio d’ali neonate che s’incarnivano senza dolore tra i muscoli della sua schiena, ramificando e crescendo come germogli dalla terra che abbandonò volando via incorporeo, disfacendosi in miliardi e miliardi di piume bianche, fino a diventare una cosa sola con il vento e a condividerne l’eterno respiro, fino a dubitare addirittura di essere, fino a decidere di non essere che musica, note disperse nel seno sconfinato del tempo, tessendo le lodi del suono di quella libertà che non aveva.

 

 

[Ed ecco terminata la prima mini-storia di questa mia modesta raccolta.

Sinceramente spero che vi sia piaciuta e spero di aver reso bene i sentimenti e le emozioni di questo “mio” Luigi, un ragazzo che non possiede altra libertà se non quella che sa donargli la musica.

So che ben poche persone leggeranno una cosa tanto strana, so che ancor meno persone si prenderan la briga di commentarla, so pure che riceverò delle critiche, in quanto io amo la musica ma parlando in termini strettamente tecnici non me ne intendo quasi per niente.

Tuttavia, se questa mia sorta di ringraziamento vi interessa perché in quanto musicisti vi sentite chiamati in causa o per qualsiasi altro motivo, allora sappiate che ho intenzione di aggiornare ogni domenica, ergo settimanalmente, senza però precludermi la possibilità di ritardare di qualche giorno a causa delle scuola od altro, dato che aspettarsi la puntualità da una come me e specialmente in questi tempi è davvero una follia.

Alla prossima domenica, speriamo, con qualcosa di più allegro .

ISI].

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Capitolo 2
*** Silvio - Graffi di fedeltà ***


Silvio - Graffi di fedeltà

I discepoli d’Orfeo

 

 

Silvio - Graffi di fedeltà

 

Quando per la duecentunesima volta se lo ritrovò con la faccia praticamente spiaccicata contro la vetrina del negozio di musica del loro paesino, la donna non potè far altro che prenderlo per mano e portarlo in quel meraviglioso luogo che lui, da fuori, aveva tanto contemplato.

“Oh, ma che bel bambino!” fece il proprietario di quell’Eden, un tisico vecchietto canuto che in pochi, zoppicanti passi fu innanzi ai due “Quanti anni ha?” chiese poi curioso alla donna, mentre con le dita semi-scheletrice pizzicava e stiracchiava le guance al piccolo.

“Cinque...” rispose lei, ma il diretto interessato, liberate le proprie gote dalle grinfie malefiche del nonnetto, parve non essere affatto d’accordo.

Cinque e mezzo!” la rimbeccò fiero, come se quei sei mesi in più che s’era vantato d’avere potessero, in qualche modo, attribuirgli un qualche titolo onorifico “E poi non sono un bambino!” chiarì ai presenti con voce ferma e decisa, senza tentennamenti di sorta, gli occhietti neri puntati, quasi con aria di sfida, in quelli celeste sbiadito del più vecchio.

Decisamente, aveva carisma.

“Allora dimmi, uomo...” disse ironico facendogli gonfiare il petto d’orgoglio “Hai accompagnato qui la tua bella donna a comprare un trentatrè giri dei Beatles?” lei rise, mentre l’espressione del bambino si faceva minacciosa: come osava quello zoticone farle dei complimenti in modo così spudorato?

La sua mamma era solo sua e nessuno le avrebbe mai torto un capello!

“Veramente non sono io la persona cui interessata quello che c’è qui dentro... affermò lei con una vaga nota di preoccupazione nella voce, indicando con un mezzo sorriso il moretto che, possessivo le stringeva la mano “Credo che voglia uno strumento, ma sinceramente non so quale... sa com’è, è un uomo di poche parole e le mie interpretazioni non sempre sono esatte.”

“Capisco.” il vecchietto sorrise guardandosi intorno “Che ne dici di un bel flauto traverso? O forse un violino...” il suo interlocutore scosse il capo con aria contrariata “Un sassofono, allora? Una tromba? Una chitarra?” la risposta fu ancora negativa “Un clarinetto, un oboe, un corno inglese, un... un... un triangolo!?” a quell’ennesimo, inutile, elenco il bambino sbuffò spazientito, dicendosi che quel vecchietto non aveva il benché minimo senso deduttivo e tirata la mamma verso la vetrina, scostò la tenda di velluto rosso che ad essa faceva da sfondo.

“Io voglio questo!” asserì deciso indicando con il piccolo indice l’enorme contrabbasso esposto, alto all’incirca due, forse tre, volte più di lui.

“Un contrabbasso?” il vecchietto scoppiò a ridere, mentre il bambino, umiliato, arrossiva fino alla punta dei capelli “Mi dispiace, ma credo che adesso tu sia un po’ troppo piccolo!”

Ma io ho cinque anni e mezzo! Cinque e mezzo!” fece disperato abbracciando lo strumento e la donna si passò una mano sulla faccia per poi tentare di staccarlo a forza dal contrabbasso tanto platonicamente amato “Tornerò!” fece infine, quando si ritrovò ad un metro e più da terra, tra le braccia della madre imbarazzatissima, diretta di filato verso l’uscita del negozio “Tornerò, te lo prometto, tornerò e allora staremo insieme per sempre, te lo prometto! Aspettami, ti prego, io tornerò!”

Piccoli segni lasciò sul legno con le unghiette corte, segni che riscoprì qualche anno dopo, quando fu grande abbastanza da poter mantenere la sua promessa, da poter tornare dal suo amato, che sempre lì, ad aspettarlo, era rimasto: eran quelli i graffi della fedeltà.

 

 

Ecco il secondo capitolo, che, come il primo, nessuno leggerà.

Ma va bene uguale, l’importante è che sia un degno ringraziamento a tutti coloro che suonano e/o strimpellano rallegrando la mia vita.

Buona Pasqua,

ISI.

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Capitolo 3
*** Dante - Trascendenza ***


I discepoli d’Orfeo

 

 

Dante - Trascendenza

 

E’ qualcosa di trascendentale.

Non solo rumore, come gli strillano sua madre e suo padre giù dabbasso, orinandogli di smetterla; loro, troppo presi dalla porcheria della televisione che fagocita cervelli, non è solo un muoversi in convulso di stupidi legnetti o lo sbattere furioso di due pezzi di metallo l’uno contro l’altro, no, non è nulla di tutto questo.

E’ molto di più e Dante lo sa.

E’ lo scheletro di un mondo visibile e tangibili nei suoi mezzi, ma non nelle sue espressioni più alte, è la colonna portante di una musica che non si spegnerà mai, di un canto che mai si placherà, riecheggiando tra gli spigoli di un infinito troppo stretto.

E’ qualcosa di mutevole che diviene maestoso mischiato ai versi aulici dell’epica di guerra, violento nella disperazione della tragedia, malinconico e delicato nel venir dietro alle parole d’amore dalla lirica.

E’ ritmo.

Che sia lento, normale, veloce, incalzante, travolgente o senza tregua si tratta pur sempre di ritmo, come scosse, impulsi elettrici indomabili, che partono da un indefinito dentro e si diramano per tutto il corpo, inarrestabili, sino ad arrivare alle mani, governandole, muovendole solo quanto è necessario, con precisione e metodicità, ma mai con freddezza.

Perché Dante lo sa, non può esserci freddezza nel suonare un batteria, non può esserci freddezza nel riecheggiare solenne di una grancassa che scandisce i passi di una processione, non può esserci freddezza nell’attesa, nella concitazione di un rullante ben domato, non può esserci freddezza nella danza scatenata delle bacchette sui due tom, il cui ritmo guida balli veri e ancora no, non può esserci freddezza nel clangore dei piatti, simile allo scontrarsi di armi dorate nel mezzo della battaglia benedetta dalla polvere alla quale torneremo e dal sangue dei nemici che ad essa hann già portato i nostri onori.

E’ come tornare indietro nel tempo, come ritrovarsi alle origini, come rinascere a nuova vita dopo così tanto dolore.

E’ il ritmo che si fa senza respiro, serrato come mai è stato, come le spinte di un corpo in un altro, come il sesso, o forse no, no, non come il sesso: è qualcosa di ben più puro, di ben più casto, ma ugualmente coinvolgente, forse anche più forte.

Qualcosa come fare l’amore.

L’amore quello vero, che non ha bisogno di nomi per esistere, né di ragioni per essere, né di null’altro.

Fuorché di una batteria.

E’ pura trascendenza: significa abbandonare il proprio corpo e divenire pura musica, eco di se stessi, specchio invisibile di ogni propria paura, di ogni speranza, di ogni sfrenata bramosia.

E’ la risonanza del battere del cuore, l’emergere delle vibrazioni, delle pulsioni dell’anima, l’espandersi del petto sotto il comando del respiro.

E’ vita.

E’ ritmo.

E in fondo, dov’è la differenza?

 

 

Non avevo voglia di aspettare per posare questo piccolo terzo capitolo e considerando che era già pronto ho voluto pubblicarlo ora, piuttosto che domani.

Lo so, lo so, è ai limiti del nonsense, ma l’altra versione di questo ringraziamento (sì, ce ne un’altra, addirittura!) non mi piaceva affatto, forse perché l’entusiasmo per l’antica idea s’era spento e di conseguenza quello che ne era venuto fuori non mi soddisfaceva per niente.

Probabilmente il capitolo sulla chitarra sarà più lungo, ma per ora questa brevità e concisione è ciò che passa il convento (dice l’autrice rivolgendosi ad un lettore che non esiste!) e, tanto per chiarezza, i “tom” sono quei tamburi che solitamente se non sempre si trovano tipo sopra il rullante (Wikipedia, comunque, saprà spiegarvi meglio dei miei vagheggiamenti). Spero di non aver fatto confusione con i vari pezzi della batteria, qualora così fosse prometto che correggerò immediatamente.

ISI.

 

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