Neirin.

di Rynarf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cin-cin. ***
Capitolo 2: *** Ho ucciso mia sorella. ***
Capitolo 3: *** Benvenuto a Dannemora. ***
Capitolo 4: *** SpinOff: George (pt1). ***



Capitolo 1
*** Cin-cin. ***


10 Giugno 2015 – Greenwich Village (NY) – 11:42 a.m.




Ho gli occhi gonfi come reminiscenti da un pianto, le gambe molli sostengono pigramente un accumulo di scorie denominate “Neirin”. Nel capo riecheggia il vago frastuono cittadino, giunge sino alla bocca dello stomaco, scombussola le viscere, percuote le membra. La presa delle dita sinistra si allenta, permettendo alla sottile busta della spesa di riversarsi in terra.
Devo chinarmi
non ce la faccio.
Devo chinarmi.
Il mondo è al rovescio quando abbasso il capo, si capovolge ripetutamente su se stesso una volta piegate le ginocchia per raccogliere le cibarie dal marciapiede. Socchiuse son le palpebre e l’equilibrio pare venir meno! Non accenno ad alcuno scatto repentino. Così com’è iniziata, la giostra cessa una volta riacquistata una corretta posizione eretta. Durante l’immane atto ho saldato la presa sulla lattina di Pals Strong fresca, comperata qualche minuto in precedenza al discount, e solo dopo averla riportata per l’ennesima volta alle labbra mi son reso conto di averla ammaccata! Poco importa, in fin dei conti, spero solo che con i suoi 8,5% di volume riesca ad alleviare un minimo il post-sbronza.
Un’ora prima avevo realizzato di essere a corto di tutto ciò che di primario per me era: cibo ed alcool. Il datato frigo dalla luce intermittente m’intimava severamente di scendere da casa per fare un minimo di compere, anche perché se fossi rimasto a fissarlo per qualche altro secondo mi sarebbe venuto un attacco epilettico. L’odore di vino rancido era intriso nell’alito, nel vestiario, nella pelle, pareva essersi appropriato addirittura del mio animo. Dunque mi apprestai, con la mole di un bradipo, a gettarmi sotto la doccia nella speranza di attutire quel malessere mattutino! Sortì il suo effetto per una quindicina di minuti, poi nuovamente ricaduta.
Non appena proferivo parola, avevo come l’impressione d’impestare tutto l’ambiente circostante; gli estranei presenti incollavano lo sguardo sulla mia figura con inaudito disgusto, eppure non riuscivo mai a coglierli in flagrante. Voltavo il viso verso l’aura negativa e scorgevo figure indaffarate, pensierose, indifferenti. Perfetto, adesso sono anche paranoico.
Lo scontrino stropicciato tra i pochi articoli nel sacchetto riportava come totale 16$. Crocchette di pollo surgelate, cartone da sei lattine di birra, latte, ovvero pranzo, cena e colazione, quanta varietà.
Sono le undici ed un quarto del mattino, mi sembra di aspettare da giorni davanti questo dannato semaforo! Quand’è che scatta il verde per i pedoni? E se mi gettassi sotto un’auto? Mal che vada finisco in coma, no?
Le iridi verdi-azzurre scivolano sugli anonimi volti dei pedoni che attendono anch’essi di poter attraversare al lato opposto della strada; d’un tratto incrocio le stesse, velate da un alone fumogeno quasi certamente proveniente da una sigaretta. La cortina sottile le rende opache e livide, ma io quegli occhi li conosco già. Privi di luce se non quando incarnano l’ira, o inghiottiti da bagliori alcolici. Una volta carezzavano i nostri visi con amorevole benevolenza, adesso trafiggono il petto erigendo un muro invalicabile.
Cinque anni e due mesi di assenza azzerati da una casualità ignobile, io e mia madre ci scrutiamo in lontananza come vecchi conoscenti dei quali non si è certi dell’identità.  Oramai il tempo è riuscito a raggrinzire il volto esageratamente vizzo a causa del troppo fumo, dell’alcool, dello stress, abbondanti appaiono i segni di un’esistenza più che esasperata. Le labbra sottili son serrate e sembra tendano al cinereo, una ricrescita imperlata d’argenteo incornicia quel viso spento assieme alla chioma sfatta, maltrattata. 
Resto pietrificato sul posto anche quando il resto della folla si scrosta dalle proprie postazioni apprestandosi nel percorrere le strisce pedonali a passo svelto. Anch’ella avanza, priva di vacilli. Le espressioni sui nostri grugni non mutano, tuttavia i tumulti all’interno del mio animo risultan implacabili e privi di nome. Rancore, attesa, ira, speranza, disgusto, commozione, rifiuto, rimembranze, ognuna di esse diviene indistinguibile e sfuggente assieme alla nausea che ancora attanaglia lo stomaco, contorcendolo. Un tremito giunge sordo alle membra facendo sussultare il braccio destro, lo stesso che sorregge la bevanda con ancora due o tre dita di liquido andante verso la temperatura ambiente, sfiatata. Allucinazione? Sono già ubriaco?
No, impossibile. Fiacco il grado alcolico e la vista troppo nitida, non la mia
la sua.
Macina l’asfalto liscio con flemma, persiste nel corrodermi la faccia con quelle pupille dannatamente simili alle mie, specchio dell’anima in frantumi che si sgretola come la fiacca fiducia, nata qualche istante prima, quando ormai la sagoma malandata supera il sangue del proprio sangue e prosegue indisturbatamente; indugio zero.
Neppur’io mi volto, limitandomi a battere ripetutamente le palpebre, successivamente abbassando lo sguardo sulla deformata Pals. Termino la sgasata bibita in modalità quasi vorace, sa di catrame, detesto gli ultimi sorsi di birra. Son finalmente riuscito a sbloccarmi, attraversando la strada mi sento quasi fluttuare, il vuoto totale nel cranio. Casca rovinosamente in terra il contenitore in latta e nel contempo estraggo dalla busta l’ennesima lattina.
Quella donna mi ha visto,
ci siamo riconosciuti.
Passatami accanto come un sussurro vago e sinistro, nonché vano.
Brindo a te, o madre! A noi e alla nostra imminente sbronza da ricordi.
“Cin – cin “.

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Capitolo 2
*** Ho ucciso mia sorella. ***


21 Febbraio 2010 – New York – 05:38 a.m.



 
 È stato un attimo, un battito di ciglia,
sulla mia destra non vi è altro che un accartoccio di rottami dai quali spuntano ciocche maltrattate, zuppe di cremisi. 
“ Eirlys? Eirlys sei lì? “
Muovo le labbra tremule, ma filo spinato sostituisce l’aria nella trachea per irradiarsi poi nell’ambiente angusto sotto forma di rochi e velati lamenti. 
Trascino il dolente braccio destro verso il presunto luogo ove doveva essere situato il mio più caro famigliare. Il capo rimbomba, rotea in fiamme d’agonia miste all’ancor vivo inebriarsi dell’alcool in corpo. Tasto questa fredda ed umidiccia ferraglia, scruto le estremità delle dita imbrattate da sangue in fase di coagulazione. La mia vista è di un rosso acceso, sfocata e confusa come la realizzazione di ciò ch’era avvenuto prima. Un vociare estraneo aumenta di tono, lì all’esterno del veicolo ci sono delle persone. Per me non hanno volto, farfugliano semplicemente ai telefoni, gesticolano come stessero danzando all’inferno.
Le membra sono un continuo strazio, muovendo il volto pare che le carni dal collo al bacino si dilanino, impossibile spostare le gambe, incastrate al di sotto dell’irregolare abitacolo, maciullate in una pressa anomala. 
“ Eirlys, vieni a darmi una mano … sto soffrendo “, scruto fuori nonostante le palpebre mi si chiudano, senza scorgerla. 
Sono in macchina, questo l’ho afferrato. Perché sono qui dentro? 
È tutto ammassato nella testa come se qualcuno ce l’avesse ficcato di forza, tramite calci o spintoni durante un concerto metal. 
Il respiro fievole mi sa di pesante nella bocca, ha il sapore di cocktail rugginoso. Ho individuato per casualità lo specchietto retrovisore, fracassato e distorto come la sagoma faticosamente messa a fuoco al suo interno: è la mia. Il viso in una maschera di sangue, tumefatto, mostruosamente irreale quanto la situazione attuale. Poi la coscienza vien illuminata da bagliori distanti, blu e rossi, l’udito appannato è straziato da grida acute e meccaniche. Soltanto qualche istante prima di ricadere nell’oblio più totale, riconobbi quelle urla,

non erano null’altro che sirene. 
– 03:36 a.m.

“ - Guidare tu? Pazzoide! Già sei una frana da sobria, figuriamoci ora da ubriaca.
- Sono lucida!
Ma poi ti sei visto allo specchio? Rey, devo guidare io. Non sei di certo messo meglio di me. Rey, ce la faccio ti ho detto.
- Ci farai ammazzare, barcolli come una scimmia funambola. 
- Io sono la maggiore, ho certe responsabilità.
- Gnegnegné! Per una volta scrollati di queste fantomatiche responsabilità! Ho diciannove anni e reggo sicuramente meglio di te l’alcool. Sono solo un po’ brillo, dai! Me la vedo io. 
- … Va bene, unicamente per questa volta. Perché hai ragione, sto davvero male. “ 

Sebbene il tasso alcolico sia superiore alla media e le palpebre le si chiudano placidamente, Eirlys sforza se stessa pur di restare cosciente, lì seduta al lato passeggero. Il capo segue l’ondeggiare della vettura e lo sguardo, fisso dinanzi a sé oltre lo spesso parabrezza, risulta del tutto assente. 
Io ho le mani rigide sul volante e la testa andante verso il relax, nonostante ciò non posso perdere la concentrazione. In precedenza avevo guidato parecchie altre volte, perfino ubriaco, di norma cavandomela anche meglio rispetto allo stato da lucido! Eppure il fatto ch’ella non voglia darmi fiducia, riesce a distrarmi. 
“ - Se devi vomitare ci fermiamo. 
- No, non devo. 
- Okay. 
Perché non provi a dormire durante il tragitto? Sei stanca.
- Sto bene così, Rey. 
Accendi lo stereo, dai. 
- A quest’ora dovrebbero trasmettere roba decente. 
- Mhmh. 
- Lys? 
- Cosa? 
- Rilassati. Stiamo tornando a casa. “
Si lascia convincere, in fine. Coccolata gradualmente da morfeo e cullata da chissà quali sensazioni distorte date dall’alcool. 
È domenica, l’orologio analogico situato al centro del quadro strumenti del cruscotto segna le 04:11 del mattino. La radio ritiene opportuno trasmettere “Sunday Morning “ dei Velvet Underground, tanto per renderci partecipi –o rimembrarci– in quale giorno ed orario stiamo vivendo. Il brano con il suo cullante ritmo ha successo nell’intento di catturarmi la mente, tendo a ridestarmi ogni due o tre secondi per non prender sonno al volante! Carezzo l’idea di accostarci per scongiurare spiacevoli inconvenienti. Il pensiero stava per essere attuato, dunque calai un momento la vista per inserire le quattro frecce; rialzandolo due occhi gialli sbucarono al centro di strada, immobili nello scrutare l’avvicinarsi dell’auto in corsa.
Non distinsi la bestia suicida, ma quelle orbite oculari erano luminose ed accecanti, malevole nella loro innocenza. 
Freno e sterzo non furono un’ottima idea! 
In una frazione di caos intercetto lo sguardo verde di mia sorella, sgranato,
poi buio.
Bellevue Hospital Center (NY) – 19:22 p.m.

Luce. 
Odore di ammoniaca invade le narici aggredendo i polmoni e confondendo i pensieri. Barlumi bianchi ma soffusi, colori tenui ed al contempo glaciali.
Una figura a me ben nota siede cupa di fianco al letto ospedaliero, mantenendo lo sguardo fisso sulla sagoma del proprio figliolo con espressione di resa, senza osservarlo realmente. Batte le palpebre flemmaticamente incrociando poi le nostre iridi, tanto simili quanto diverse, distanti. Corrode l’animo tramite quell’occhiata assente, lustra dal dolore. Prima che potessi proferir parola, terminò di distruggermi usufruendo d'una singola frase: 
“ Hai ucciso mia figlia “.

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Capitolo 3
*** Benvenuto a Dannemora. ***


18 Marzo 2010 – Clinton Correctional Facility (NY) – 11:13 a.m.



Mi trovo all’ingresso della mia meritata sorte con i polsi cinti da gelide e luccicanti manette d'acciaio, collegate tramite una catena all’individuo posto dinanzi a me, anch’egli marciante. Le avrò tenute indosso per chissà quante ore durante il viaggio verso la struttura, eppure continuano a risultare fredde, come in possesso di vita propria.
La cupidigia e l’apatia iniziale lasciano spazio al terrore, il quale s’impiastriccia nelle pupille nel momento in cui queste prendono a scrutare l’ambiente celato oltre un mastodontico cancello automatico.
“ Questa sarà la mia dimora per otto anni “ è il primo pensiero che mi coglie dopo aver varcato la soglia del lugubre edificio. Il tempo non è particolarmente livido, occasionalmente qualche candida nuvola nega ai raggi solari di rassicurarci carezzandoci le membra, eppure l’animo coglie un clima di tempesta! Fitte piogge oscurano il paesaggio, trafiggono ogni certezza facendole disciogliere sotto forma di pozze salmastre.
Percepisco i battiti accelerati, il cuore in gola, e senza neppure essermene reso conto ho chinato capo per puntare lo sguardo sui piedi.
Sto tremando, sì?
Mi pare, già. Lo camuffo come meglio posso, ma ho paura. Sono atterrito da quel che mi attende in queste otto lunghe annate da scontare. Anche il respiro è irregolare, traballa come se tentasse di trattenere un pianto. Non posso assolutamente mostrarmi debole, non devo essere un bersaglio, così facendo se ne accorgeranno … no, lo sanno già! Monta a dismisura la paranoia, però poi il pensiero ricade su di lei, mia sorella, ed allora il panico cede il passo al rimorso.
Io merito questa condanna.
Merito di essere qui.
Rialzo il volto con un’aura diversa, ingloba malessere e pentimento.
Un corridoio reticolato attraversa il cortile principale nel quale, nostro malgrado, i detenuti erano intenti a godersi l’ora d’aria. È come fossimo allo zoo, circondati da spettatori urlanti dallo stupore, scalmanati infanti in attesa di nuove bestiole da maltrattare! Le grida mi giungono ovattate, credo di aver trovato lo stato d’animo per sopravvivere all’interno di quest’incubo, sempre che ci riesca.
Fisso la schiena del neo-carcerato che mi precede senza mai distogliere lo sguardo da essa per evitare d’incrociare quelli altrui; per un istante cedo, voltandomi verso sinistra: il popolo carcerario scuote le reti in preda al caos più totale, l’anarchia regna su tutti tranne che per un individuo. Immobile e composto tra la folla, segue la mia sagoma con occhi di ghiaccio, un sereno riso gli si allarga sul volto quando capisce di esser riuscito a catturare la mia attenzione. A quel punto, con uno scatto repentino, torno a scrutare cupo le calzature consumate, deglutendo pur di scacciare i brividi che m’avevano pervaso grazie all’avvistamento di quell’agghiacciante figuro.
Veniamo inghiottiti dalla costruzione interna ed un’apparente, quanto sinistra, pace regna sovrana all’interno della suddetta.
 
– 12:40 a.m.

Ognuno di noi è stato smistato nella propria cella, alcuni avendo la tremenda fortuna di non possedere alcun compagno presso quest’ultima. Tuttavia risaputa è la problematica del sovraffollamento circa i penitenziari, dunque fui stupito quando –nonostante i due letti– mi ritrovai solo all’interno dell’angusto ambiente.  
“ L’altro detenuto presta servizio alla mensa dopo l’ora d’aria, ti raggiungerà a momenti” comunica la guardia senza troppi giri di parole, riuscendo a sgretolare ogni speranza in me nascente.
Eravamo stati privati di ogni nostro bene materiale, così come per il vestiario. Venimmo ispezionati a fondo, anche tramite controlli medici, poi in seguito lavati medianti modalità non troppo accurate ed in fine muniti di divisa, coperte, numero seriale e scarpe. Potevamo scegliere se recarci al refettorio oppure essere scortati direttamente “dietro le sbarre”, ovviamente io scelsi di restare solo, così come quasi tutti i neo-arrivi.
La peculiare tonalità d’arancio delle tenute sintetiche pare donarmi particolarmente, purtroppo ciò non riesce affatto a rincuorarmi.
Prendo posto sul giaciglio inferiore della costruzione a castello, essendo questa l’unica priva di lenzuola. Mi ci distendo sul fianco, col volto rivolto al muro. Vorrei sfogare questa tensione tramite un pianto senza fine, ma non posso permettermelo! Da un momento all’altro chissà con quale pazzo psicopatico mi ritroverò a condividere buona parte della mia vita.
Raccolgo le ginocchia vicino al petto, sistemandomi in posizione fetale. Inevitabilmente la vista diviene tremula di lacrime, le asciugo con fare frettoloso per poi chiudere le palpebre e distogliere la mente dalle rimembranze, la sensazione che questo luogo inghiottirà le mie membra è vivida, palpabile. Già sento di consumarmi in un mucchietto d’ossa e vaghi pensieri travagliati.
Come ho potuto essere così stupido?
Avevo la responsabilità di una vita. Un’esistenza fondamentale, ed ora? L’ho distrutta con le mie stesse mani, artefice del male verso il prossimo. Non dovrà più accadere una cosa simile, io non posso esser fatto per gestire certi obblighi! Potevo ritrovarmici io sotto terra, eppure l’avrei lasciata sola. Malgrado ciò tutto sarebbe stato meglio rispetto a questo corrosivo senso di colpevolezza.
Il flusso dei miei pensieri viene interrotto bruscamente da un rumore di ferraglia, l’ingresso alla cella è stato spalancato, tuttavia non mi volto. Resto immobile come un sasso tentando anche di non respirare, nella vana speranza di divenire invisibile sotto lo sguardo estraneo! Poi vi è nuovamente quella sensazione, quest’ultima mi raggela il sangue e fa rizzare la peluria sulle braccia.

“ E dunque sei tu il mio compagno di cella.
Rannicchiato sul fianco, mh? Oh, quanti ricordi hai fatto riaffiorare alla mia mente!
Suvvia, metti da parte i tuoi arrovellamenti mentali e sii educato, dovremo pur presentarci. “

Con infinito disappunto, seppur celato e sovrastato da resa, privo il muro del mio sguardo per mettermi a sedere sul cigolante materasso ed incontrare la figura fino a pochi istanti prima a me sconosciuta. Le iridi verdi, per la frazione d’un attimo, furono inghiottite da quelle cristalline dell’uomo, il quale tese composto la mano verso la mia persona.
Io ricambio la stretta solo dopo aver esitato parecchi istanti, schivo come troppi –forse– il primo giorno di galera. La gioia plastica impiastricciata alla sua faccia si espande! Io nella sua smorfia, riesco solo a scorgere una bocca dilaniata e liquefatta dal fuoco di un inferno a molti completamente ignoto; le fiamme divampano prepotentemente sulla pelle curata, allargando lo squarcio che, tuttavia, gli altri riescono a scorgere come un semplice sorriso.

“ Ci siamo già visti lì fuori e la tua espressione non è cambiata affatto. Se vorrai, tenteremo di mandar via quest’aria così triste, sì?
È un immenso piacere fare la tua conoscenza,
il mio nome è George. “

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Capitolo 4
*** SpinOff: George (pt1). ***


02 Maggio 2006 – New York – 17:09 p.m.



Le mani imbrattate di fuliggine riescono a donare una non lieve seccatura, tuttavia lo spettacolo che mi si para dinanzi mozza il fiato regalando un torpore privo di nome il quale imprigiona il petto. Nelle pupille lucide si diramano lingue di fuoco incontrastate; un’abitazione vien inghiottita e vezzeggiata dalle loro adenti carezze, così avvolgenti e sinuose, tentatrici, il male purificatore.
Semmai potessi scegliere in che modo morire, desidererei essere avvolto dal vivido rogo come fosse un abbraccio materno.
Madre, debole stolta, starai tu subendo la fine da me ambita?
Lo spero vivamente.
Non giunge alcun grido straziato alle mie orecchie, eppure di incendi ne ho appiccati! Da ciò evinco che probabilmente la donna è illesa. Oh, come riescono i falliti a farla sempre franca?
Adagiandomi sul prato vengo progressivamente investito dalla brezza infernale, placiti lapilli si dissolvono nell’ambiente. Imprimo indelebilmente nella memoria la scena apocalittica, anche il cielo di tinge d’arancio sotto la volontà del falò, l’antica casa in legno perisce alle fiamme sgretolandosi gradualmente e muta come ad assumere una smorfia rattristita. Son stato qui fuori per abbastanza tempo a godermi lo spettacolo. Dopo l’abbandono di Jeffrey tutto è divenuto noioso, decisamente più livido ed inglobato definitivamente da un clima di finto perbenismo, sorrisi plastici alimentati dal terrore. Sono il gene malato di papà, suo degno erede.
A quanto ammonterebbe la mia pena con una confessione dettagliata?
Suppongo massimo cinque anni, non essendo schedato.
Luci intermittenti distruggono la quiete formatasi durante l’incendio! Eccovi giungere i miei acerrimi nemici:
salve vigili del fuco, quanto dovrò attendere per i vostri colleghi?
 
26 Marzo 2010 – Clinton Correctional Facility (NY) – 02:44 a.m.

“ - Non potrai chiuderti per sempre in questo silenzio, avrai bisogno di conoscenze qui dentro.
- … perché dovrei?
- “Perché dovresti”, mi chiedi.
Dimmi, che pena ti hanno affibbiato?
- Otto anni.
- Sei stato davvero un così cattivo ragazzo?
Caro Neirin, povera vittima della società, come credi di poter andare avanti durante la tua permanenza? Necessiterai di contatti, amici, se non addirittura di protezione. La civiltà nei confronti dei novellini non è contemplata, ma anche in forma generale è rara riscontrarla.
- La vittima non sono di certo io. So di dovermi adattare a questo nuovo mondo, devo ancora metabolizzare il tutto. Io-
semplicemente non mi va, per ora.
- Che reato hai commesso?
- Non ho voglia di parlartene.
- Dovrai, caro. Avremo tutto il tempo. Ma deduco che sei uno de reali pentiti.
Preterintenzione?
- No.
- Dunque colposo.
- Perché lo vuoi sapere?
- Perché intanto me lo rileverai comunque. Tanto vale accelerare la nostra conoscenza!
- Tu cos’hai fatto?
- Io? Oh, speravo me lo chiedessi.
Adoro smisuratamente i falò! Il fuoco mi affascina. Così un giorno decisi d’incendiare la mia vecchia catapecchia. Fu straordinario.
- …
- Non era la mia prima volta, ma tu non dirlo in giro! Mi fido.
Sei fortunato ad esser giunto sotto la mia ala, giovane Neirin.
- Spiegami come potrei mai fidarmi di te!
- Lo farai, col tempo. Sono l’unica persona su cui tu possa fare affidamento. T’insegnerò come vivere, e non sopravvivere, in questa piccola porzione di purgatorio. Sarò il tuo mentore.

Me l’hai ricordato non appena ti ho visto! Ed eccoti qui: era destino.
- Di chi cazzo stai parlando?
- Suvvia, moderiamo le parole.
Il mio fratellino, l’adorato Jeffrey.
- Immagino venga spesso a farti visita.
- Ahimè no, caro Neirin. Jeffrey è morto da cinque anni. “

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