Another Shakespearean Ranma

di InuAra
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Una persona... che un'altra uguale proprio non la trovi ***
Capitolo 3: *** T'ho corteggiata con la spada... ***
Capitolo 4: *** Uno slancio sconfinato come il mare ***
Capitolo 5: *** Se ti senti di amare uno di dura scorza come me ***
Capitolo 6: *** Non ammetterò impedimenti al matrimonio di due menti sincere ***
Capitolo 7: *** Io, partendo, resto qui con te ***
Capitolo 8: *** Quegli amici, aggrappali alla tua anima con uncini d'acciaio ***
Capitolo 9: *** Se posso seminargli degli intralci sulla sua strada, proverò piacere ***
Capitolo 10: *** È mai possibile che la modestia seduca i nostri sensi più che la leggerezza della donna? ***
Capitolo 11: *** I sospetti, quando cominciano ad agire sul sangue, bruciano come zolfo ***
Capitolo 12: *** Sangue e rivalsa mi martellano nella testa ***
Capitolo 13: *** Una facciata spacconesca e marziale, come fan tanti che bleffano con le apparenze ***
Capitolo 14: *** La morte arriverà quando deve arrivare – PARTE I: Piacere e vendetta ***
Capitolo 15: *** La morte arriverà quando deve arrivare – PARTE II: Il tuo volto come ultimo orizzonte ***
Capitolo 16: *** Lo spazio e il tempo di un sogno ***
Capitolo 17: *** Il soffio della guerra ***
Capitolo 18: *** Oltre il confine dei miei pensieri ***
Capitolo 19: *** La più saggia delle follie ***
Capitolo 20: *** Cosa significa amare ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



Ciao a tutti! Come molti “amanti di storie” ho sempre oscillato tra la voglia di scriverle e il desiderio di leggerle. Ho poi optato per una terza possibilità: quella di interpretarle sul palco. E ora? Voglio raccontarne una, rubata al teatro…

***

 
But pardon, and gentles all,
The flat unraised spirits that have dared
On this unworthy scaffold to bring forth
So great an object.
(…)
Piece out our imperfections with your thoughts.
(…)
For the which supply,
Admit me Chorus to this history;
Who prologue-like your humble patience pray,
Gently to hear, kindly to judge, our play.
 
 
Perdonate, cortesi spettatori,
le nostre disadorne e anguste menti
se abbiamo osato presentarvi qui,
su questo nostro indegno palcoscenico,
sì grandioso argomento.
(…)
Sopperite alle nostre deficienze
con le risorse della vostra mente
(…)
E a questo fine vogliate permettere
a me, Coro, d’entrare in questa storia,
e di pregarvi qui, in veste di Prologo,
di ascoltar con benevola pazienza
il dramma che vi andiamo a presentare,
e con molta indulgenza giudicarlo.
 
Henry V – William Shakespeare





“Finalmente vedo ridere nuovamente la piccola Akane”, sorrise la vecchia Obaba non togliendo lo sguardo da una bambina di appena quattro anni che sgambettava al seguito di un rumoroso coetaneo tra i vialetti del bel giardino curato.

“Sono passati già tre anni, tre lunghi anni senza né ridere né versare una lacrima, povera piccola”, rispose il vecchio a cui Obaba si era rivolta, dopo aver dato una boccata di pipa, “E la stessa sorte è toccata a tutti noi”.

L’anziana donna sospirò profondamente mentre guardava disegnarsi sull’erba del cortile le ombre delle nuvole che correvano veloci in quel cielo azzurro di maggio.
 
Lei e Happosai erano a servizio di Soun-sama, sommo principe delle terre dell’ovest, come consiglieri e indovini; vivevano in quell’antico palazzo dai tempi del primo venerabile sovrano di quelle terre, nonno dell’attuale loro signore, ed erano sempre stati fedeli alla casata dei Tendo, una casata giusta e onorevole.
 
Eppure negli ultimi anni avevano visto e sofferto ciò che non si sarebbero mai augurati di vivere a quella veneranda età. La moglie del principe era morta di un male improvviso quando Akane, la più piccola delle tre figlie di Soun Tendo, aveva solo un anno.

“E’ stato un ordine del nostro signore, come dimenticarlo. Nessuno a corte deve mostrare troppa felicità o troppa tristezza… Che decisione assurda”, sussurrò il vecchio Happosai dopo aver appurato che nessuno potesse sentirlo.

“Eppure te lo ricordi quanto pianse all’inizio per la morte di quella donna magnifica che era sua moglie? Pianse tutte le sue lacrime per tre interi mesi su quella tomba. E quando tornò a mostrarsi in pubblico era un uomo cambiato, il suo volto si era indurito, i suoi occhi erano freddi e severi, non più una lacrima, non più una parola dolce”

“Povero folle… Scaricò la sua rabbia in una guerra senza senso contro i territori confinanti, causando paura e miseria”, continuò Happosai, amaramente.

Non riuscivano a dimenticare la ferocia di quella guerra, una guerra che gli era alla fine costata davvero molto. Soun aveva raso al suolo interi villaggi, dimentico degli amici e dei nemici che vi abitavano.
 
In quel momento Akane, dimenticandosi di avere uno yukata che non le permetteva di fare i movimenti ampi che avrebbe voluto, ruzzolò sul prato dall’erba corta, e rialzandosi senza un solo lamento, si guardò imbronciata il ginocchio sbucciato.
 
Il bambino che le correva avanti si voltò di scatto, e le corse incontro.

Aveva i capelli neri legati in un buffo codino e due occhi grandi e blu, con cui scrutò il viso della bambina.

“Puoi piangere se vuoi! Non lo dirò a nessuno”, le disse picchiettandole la piccola mano sul caschetto corvino, a mo’ di consolazione.

Akane fissò per qualche secondo i suoi occhioni castani in quelli di lui, come a cercare una risposta a chissà quale muta domanda.

Evidentemente la trovò perché dentro di lei un nodo troppo a lungo stretto, improvvisamente si sciolse e cominciò a piangere, mentre con i pugnetti si stropicciava le guance rigate da calde lacrime finalmente copiose.

“Dai, adesso non esagerare”, tentava di smorzare il bambino, sorridendo un po’ imbarazzato, “Sei proprio imbranata, eh? Guarda, ora ti fa vedere Ranma come si fa in questi casi”, e strappò un pezzetto di stoffa dalla propria casacca azzurra.

Il gesto improvviso e inusuale fermò immediatamente le lacrime alla piccola, che seguì con lo sguardo curioso il bambino col codino correre verso il ruscelletto che scrosciava nel giardino, bagnare la pezza e saltellando tornarle di fronte e mettersi in ginocchio.

“Adesso ferma, eh! Farà un po’ male, ma fidati di me, poi passa tutto”

Le premette la stoffa strizzata sul ginocchio, e aspettò un urlo, che non arrivò.

Sollevò timidamente lo sguardo e vide Akane sorridergli.

“Sono felice che sei qui”

Da lontano anche Obaba sorrideva.

“Trovare questo orfanello è stata una benedizione. Per Akane, ma anche per Soun-sama”

“E’ stato lui a trovarlo. Ero con lui quando, fuori dalle mura, l’abbiamo incontrato. Un bambino di quattro anni -ti rendi conto Obaba?- che incrocia lo sguardo del principe e con una dignità da adulto si inginocchia in segno di rispetto! Puoi immaginare come ne sia rimasto colpito, e come me Soun-sama… ‘Come ti chiami, bambino’, gli ha chiesto, serio. E lui: ‘Sono desolato ma non conosco il mio nome per intero, così come non ricordo nulla del padre che me lo ha dato, ma una donna che ho incontrato un giorno per strada mi ha detto che le ricordavo un cavallino scalpitante e da allora mi faccio chiamare Ranma, signore’”

“Ah ah!”, rise di gusto la vecchia, “Non si può dire che il ragazzino non conosca il fatto suo!”

“Già, cara mia, un bambino sveglio e forte. Scampato alle guerre chissà come e che deve averne passate tante… Probabilmente sotto certi aspetti è cresciuto prima del tempo… Eppure quella luce così pura e determinata che ha negli occhi… Quella luce deve aver colpito anche il nostro signore, che gli ha chiesto, se voleva, di seguirlo”

“Se voleva?!”

“Già! ‘Se vuoi’, gli ha detto, ‘sei libero di seguirmi a palazzo’. Ero esterrefatto. Dopo tutto questo tempo, mi sono detto, forse qualcosa sta cambiando nell’animo del nostro signore… Ranma, come sai, non se lo è fatto ripetere una seconda volta ed eccolo qui! E’ diventato il paggetto del principe e gioca con la nostra principessa!”

“Un po’ di baccano finalmente, come è giusto che sia quando ci sono dei bambini in giro!... Chissà che fine hanno fatto le mie due piccole”, sospirò poi Obaba, rabbuiandosi improvvisamente.

Ricordava bene la sua dolce Kasumi, la maggiore delle figlie di Soun Tendo, e Nabiki, la mezzana, che lei chiamava la sua ‘piccola furbetta’…

E ricordava troppo bene quella notte senza luna di tre anni prima, quando erano state rapite dalla culla. Nessuno udì un rumore, non un’ombra.

Sparite nel nulla, senza lasciare traccia.

Soun crollò del tutto, ma era un cedimento diverso: gli mancarono le forze anche per fare la guerra. Si chiuse nel silenzio più assordante.

Gli erano state portate via, senza una ragione apparente le sue due bambine all’età di due e tre anni.

Ma Akane… Akane gli era stata risparmiata! Si trovava con la balia durante il rapimento ed era ancora attaccata al suo seno quando Obaba gridò scoprendo le culle vuote.

Soun corse da lei, la strappò alle braccia della donna e, ancora col fiatone, la strinse con tutta l’urgenza disperata di un padre che ha perso tutto e ha un solo appiglio a cui aggrapparsi.

Soun si aggrappò ad Akane come alla sua unica salvezza.

“Ti proteggerò, bambina mia, non permetterò a niente e a nessuno di farti del male”


Happosai, assorto, continuava a guardare Akane che, dopo tanto tempo, era tornata a giocare allegra grazie a quel bambino. Quel bambino che il padre aveva deciso di metterle accanto, per non farla sentire sola, chiusa tra le mura sorvegliate giorno e notte di quel grande palazzo.

“Chissà…”, disse tra sé e sé.


***


Dodici anni dopo.

“Akane-san!... Akane-san, dove siete?”

Con voce trafelata e volgendo lo sguardo preoccupato sul tetto, una ragazza irruppe nel cortile. I lunghi capelli castani, tenuti fermi da una fascetta di stoffa bianca, le ondeggiavano lungo la schiena a ogni movimento. Era vestita con uno yukata bianco e celeste, la tenuta delle ancelle di palazzo Tendo.

“Principessa!”

Una voce maschile si affiancò alla sua e voltandosi vide avvicinarsi a lei un ragazzo dallo sguardo accigliato e adombrato dai capelli corvini che gli ricadevano sulla fronte, cinta da una fascia di stoffa ocra. Portava una semplice casacca di cotone dello stesso colore incrociata sul petto, degli stretti pantaloni scuri lunghi fino a metà polpaccio e dei sandali di corda.

“Ancora niente?”, gli chiese la ragazza con aria apprensiva.

“Niente, Ukyo, non li trovo da nessuna parte…”

“Hai guardato nell’arena dietro le stalle? Sai che la principessa ama galoppare lì col suo cavallo”

“S-sì, ci sono stato e non c’era…”

“Sei sicuro”, alzò lei un sopracciglio guardandolo fisso negli occhi grigioverdi, “Tu ti perdi in continuazione in questo palazzo!”

“Ma è così grande!”, si schermì lui strappandole un sorriso, “Comunque sì, ci sono passato e non c’erano… A meno che…”, volse lo sguardo verso il tetto, coprendosi dal sole con una mano.

“Sì, ci ho pensato anch’io, ma non posso mica salire fin lassù, ti pare, Ryoga?”

“Lascia fare a me”

Il giovane stava per fare un balzo sulle tegole più basse quando si bloccò, vedendo con la coda dell’occhio che poco lontano stavano passando due guardie. Perciò si limitò a chiamare con voce ferma e tonante, verso l’alto: “Padrone! Padrone vi stiamo cercando!”

Non appena le guardie voltarono l’angolo più lontano del cortile e sparirono dalla loro vista, il ragazzo cambiò tono, esaperato.
 
“Insomma Ranma, dove diavolo sei finito?!”

“Ora ti riconosco, vecchio mio!”

A parlare era stato un ragazzo alto e sorridente, dal fisico asciutto, i capelli neri legati in un codino, che con un balzo leggerissimo gli si era messo accanto.

“Mi stai cercando da un po’, eh?”, gli fece un sorrisino sghembo.

“Ti abbiamo cercato dappertutto, dove ti eri cacciato…?!”

“Scusami Ryoga, abbiamo perso la cognizione del tempo!”, il volto luminoso di una ragazza aveva fatto capolino dalle tegole spioventi.

“A-Akane-san, principessa!”, come la vide Ryoga le si inchinò, improvvisamente imbarazzato.

“Dai, smettila con tutta questa reverenza, abbiamo la stessa età e ci conosciamo da una vita”

“Sì, ma io non dimentico il mio posto, sono un servo di questa casa e voi siete la mia principessa”

“Come vuoi”, sorrise Akane saltando giù dal tetto e facendolo alzare con una carezza sulla spalla, mentre con l’altra mano smuoveva il caschetto corvino e si asciugava un po’ del sudore che le imperlava la fronte.

“Nè io dimentico il mio, Ryoga”, gli diede una gomitata Ranma, “Quando la smetterai di chiamarmi ‘padrone’? Lo capisci che sono un ragazzo come te, senza titolo né averi?!”

“Questo lo so bene… E sai benissimo”, aggiunse sottovoce, con un pizzico di orgoglio, “quanto anch’io detesti chiamarti così, ma Soun-sama mi ha affidato il compito di farti da servo, pertanto in pubblico devo chiamarti ‘padrone’”

“Basta con tutte queste chiacchiere”, sospirò Ukyo, avvicinandosi ad Akane e squadrando il modo in cui era vestita: una tutina da combattimento e una camicia leggera, fermata sul busto da una mezza corazza rigida. “Signorina, non dovete correre sui tetti con questo scapestrato!”

“Scapestrato a chi?!”

“Vostro padre vi cerca!”, continuò lei senza neanche guardare Ranma.

“Ma noi ci stavamo solo allenando un po’”, si lamentò fintamente la principessa cingendo con un braccio le spalle della sua ancella preferita.

“Già già! Tutta colpa di quei vecchietti arzilli, che da bravi maestri centenari vi hanno insegnato tutto quello che sapevano sulle arti marziali e voi non fate altro che combattere sui tetti! Akane-san, insomma, siete una principessa!”

“Ma quale principessa! Tu sei un maschiaccio”, la canzonò Ranma.

“E anche fosse?”, gli fece una linguaccia  Akane, a cui lui rispose con un occhiolino. “Io mi annoio da morire…”, continuò lei alla confidente, “Lo sai che non mi è permesso uscire da palazzo… Lasciami almeno fare quello che più mi piace: allenarmi!”

Ukyo sorrise.

La sua padrona scoppiava di vita ed era davvero ingiusto tenerla segregata in quella maniera.
 
Per fortuna che c’era Ranma con lei! Quel ragazzo, che Soun trattava come un figlio adottivo e che si era fatto ben volere da tutti lì a corte, sapeva bene qual era il suo posto nella gerarchia dei ruoli. Era rispettoso delle regole e semplice. Si accontentava di poco e indossava gli indumenti che non andavano più bene agli altri, come adesso che aveva addosso dei pantaloni verde scuro di cotone leggero e una casacca rossa senza maniche di taglio cinese uscita da chissà quale vecchia cesta dimenticata.  
 
Eppure con Akane era diverso. Con lei usciva fuori un lato del suo carattere fiero e focoso, determinato e intraprendente. Era cresciuto con lei e, pur rispettandone il grado, aveva con lei quella confidenza e quella complicità che si riservano solo alle persone più intime.  
 
E Akane? Akane si fidava di tutti loro, ma con Ranma… Con Ranma era davvero se stessa. Con Ranma rideva, combatteva, si arrabbiava e poi faceva di nuovo pace.  
 
Un po’ come lei con Ryoga, in fondo.  
 
Ryoga era il figlio di un’ancella di palazzo, venuta a mancare durante uun’epidemia di febbre anni prima; si era ritrovato solo ed era cresciuto tra la cucina e le stalle.

Una sorte non troppo dissimile era toccata a lei, che nella stessa epidemia aveva perso il padre, uno dei cuochi di palazzo.

Unici bambini in mezzo alla servitù di corte, avevano stretto un fortissimo legame e si erano rimboccati le maniche, rendendosi utili in mille modi.

E poi era arrivato Ranma, che era come loro ma poteva avvicinare la principessina e stare accanto al principe.
 
Qualche anno dopo il suo arrivo Soun decise che Ranma doveva avere un servitore, e gli aveva affidato Ryoga.

Ranma era scoppiato a ridere, ma nella sua posizione non poteva certo rifiutare! In realtà i due erano grandi amici. Si erano conosciuti da subito, quando ancora bambini, nelle fredde sere d’inverno ascoltavano le stesse storie che Obaba raccontava davanti al fuoco della grande cucina.
 
E poi, nei momenti in cui non aveva nient’altro da fare, Ryoga si aggregava alle lezioni che il maestro Happosai impartiva a Ranma e alla principessa.  
 
Era anche piuttosto bravo e teneva testa al codinato, sfidandolo spesso, giusto per il gusto del divertimento. Era un ragazzo tutto d’un pezzo Ryoga, affidabile, gentile… 
 
D’un tratto Ukyo, arrossendo leggermente, si rese conto che non era il momento di stare con la testa tra le nuvole e prendendo la padrona per un braccio la strattonò via. 
 
“Vostro padre vuole che vi facciate immediatamente un bagno e che indossiate il vostro kimono più bello, per poi raggiungerlo nella Sala Grande”  
 
“Per quale motivo, Ucchan?”  
 
“Questo non lo so, ma dovete ubbidire. E la stessa cosa vale anche per te!”, urlò in direzione di Ranma un attimo prima di entrare in casa da una delle porte scorrevoli che davano sul cortile.  
 
“Per me?”, si stupì Ranma, parlando ormai più che altro a se stesso.  
 
“Già”, intervenne Ryoga, risoluto, “Soun-sama ti vuole al più presto al suo cospetto in qualità di paggio. Non so perché ma gli piace averti accanto. Perciò, amico, ora andiamo a farci decisamente un bel bagno. E poi cercherò di darti una sistemata, ne hai davvero bisogno!”, disse chiudendogli il braccio intorno al collo come in una morsa e trascinandolo senza troppi riguardi in casa.  
 
“Ehi ehi! Senti chi parla! Mica profumi di rose tu!”, lo provocava l’altro dandogli dei colpetti sulla casacca color ocra, giusto per dargli fastidio.  
 
“No, ma io non sono richiesto nella Sala Grande tra meno di un’ora”, concluse Ryoga con una fermezza nella voce da non lasciare possibilità di replica alcuna. 


***



Ed eccoci arrivati alla fine del prologo!

Mi sono avvicinata a questo fandom da lettrice dichiarando a me stessa: “Non mi interessano le AU e non mi piacciono gli OOC!”. Poi, leggendo leggendo, ho scovato storie talmente belle che non mi importava più nulla delle note che avevano. E ora mi ritrovo con questa voglia di scrivere una ‘long’… e si tratta proprio di una AU! Non è un caso. C’è un mondo che amo tanto quanto quello di Ranma, ed è il mondo shakespeareano.

 
Devo ringraziare Faith84, con la sua stupenda “Molto rumore per Ranma”, perché mi ha messo un tarlo che ha lavorato nella mia testa, fino a quando un bel giorno me ne stavo lì ripensando alla trama meravigliosa dell’opera di Shakespeare su cui ho lavorato negli ultimi due anni e mi è arrivata l’illuminazione di far “recitare” i suoi personaggi a Ranma & co!  Mi sono sembrati tutti così tremendamente in parte che il mio ‘occhio registico’ ha cominciato a pensare a dovere all’ambientazione!
Ovviamente, per motivi di trama, alcuni personaggi purtroppo sono necessariamente un po’ OOC o comunque calati in una situazione che potrebbe vederli reagire in modo un po’ inusuale per i canoni di Nerima. Per cui qualche spasimante non spasimerà affatto, qualche ‘buono’ sarà inaspettatamente un po’ più ‘cattivo’ e  qualche maniaco non ruberà biancheria. D’altra parte se siete arrivati fin qui avete per esempio già visto che Soun-fontana-Tendo è qui Soun-siccità-Tendo.
 
La storia originale è ambientata in un passato lontano rispetto ai tempi dello stesso Shakespeare, per cui, trattandosi dei nostri cari personaggi, ho deciso di trasporre il tutto in un immaginario antico Giappone, sperando di non prendere troppe cantonate a riguardo.
 
Al momento –spero che sia la scelta giusta-  preferirei non citare l’opera shakespeareana in questione, per un semplice motivo: mi piacerebbe che, non conoscendo la storia originale,  nei limiti del possibile vi godiate la lettura di questa mia trasposizione senza già sapere come andrà avanti. L’originale è un’opera davvero poco conosciuta e io stessa quando l’ho letta mi sono goduta l’effetto sorpresa della prima volta! Ma magari a qualcuno potrebbe far piacere confrontare la mia storia con quella –ommioddio- di Shakespeare. Ovviamente facendo un confronto con le dovute distanze perchè mi sembra chiaro che la mia storia non può che uscirne distrutta, eheh!  E se qualcuno indovinasse di che opera si tratta mi scriva in privato, please! ;-)
 
Ma adesso basta chiacchiere, direi che la mia introduzione l’ho abbondantemente fatta!
 
Ci terrei solo a ringraziare tantissimo Faith84, senza la quale questa storia non starebbe nascendo, Pchan05 che è stata la prima a spronarmi e a consigliarmi nonché la prima a recensirmi, e poi VioletLumos, Gretel85, Spirit99, Aron_oele, VioletArmstrong2013, Biba89 a Maymell che mi hanno esortato a continuare a scrivere dopo la mia prima one-shot, infondendomi coraggio a cimentarmi in una long e dandomi preziosi consigli.
Ne desidero ancora tanti, così da migliorare volta per volta!
Grazie grazie grazie a voi tutte!

 
 
 
 
 

 
 
 

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Capitolo 2
*** Una persona... che un'altra uguale proprio non la trovi ***


 (… ) a creature such
As, to seek through the regions of the earth
For one his like, there would be something failing
In that should compare.
 
 
(…) una persona
che se ne vuoi trovare un’altra uguale,
tu puoi cercarla anche in tutto il mondo,
tu puoi girare in largo, in lungo, in tondo,
un’altra uguale proprio non la trovi.
 
Cymbeline, king of Britain - William Shakespeare
 


“Padre, eccomi!”

La voce squillante della principessa risuonò nella Sala Grande ancora prima del suo arrivo.

Ranma, lavato e ripulito, si trovava lì già da qualche minuto, in una casacca celeste senza maniche; inginocchiato secondo il suo ruolo ai piedi del suo signore, non potè fare a meno di sorridere pensando a quanto poco femminile e incurante dell’etichetta fosse quel maschiaccio di Akane.

Vide Soun, alto ed austero nel suo abito da cerimonia, lo sguardo perso verso il laghetto, voltarsi di scatto.

I suoi occhi, sempre aridi e lontani da quando lui lo conosceva, si illanguidirono in un cenno di sorriso.

“Akane, figlia mia”

Anche Ranma si voltò, e ciò che vide gli fece mancare un battito: la principessa aveva fatto il suo ingresso.

Era avvolta in un kimono di seta bianca con un disegno di fiori e rami scarlatti intrecciati in un elegante arabesco. Un fiore dello stesso colore, appuntato tra i capelli color della notte, esaltava il suo incarnato luminoso.

Semplice e perfetta.

“Vieni accanto a me, bambina”

“Padre, cosa succede? Perchè mi avete fatta preparare con questa fretta?”

Sorrideva mentre gli faceva quella domanda, sorrideva senza riserve a quel padre con cui parlava così di rado, taciturno e triste, ma a cui voleva tanto bene.

“Ora lo vedrai da te”

“Signore, sono arrivati! Come mi avete chiesto li ho scortati io personalmente dal loro avvistamento. La portantina e il seguito si sono fermati or ora nel cortile antistante il palazzo”

“Bene, falli entrare”

La guardia uscì velocemente.

Come in tutte le situazioni ufficiali Akane doveva rimanere accanto a suo padre, ma da dove si trovava, allungando appena il collo poteva osservare un lembo del giardino al di là della porta scorrevole, e sforzandosi un po’ avrebbe potuto vedere l’ospite che suo padre aspettava con tanta impazienza.

Chi poteva essere? Un vecchio amico? Un legato? Un mercante che portava notizie dal mondo?

Cercò lo sguardo complice di Ranma e lo incrociò mentre anche lui tentava di sporgersi, inginocchiato com’era.

Di rimando le fece l’occhiolino.

Solo in quel momento Akane si rese conto di essere davanti al suo compagno di zuffe vestita come la principessa che era, e arrossì senza motivo.

Soun non si accorse di nulla. I suoi occhi erano chiusi, in attesa, come se stesse recitando un mantra silenzioso.

Un rumore ricondusse lo sguardo dei due giovani verso l’esterno, dove Akane intravide posarsi sulla ghiaia del cortile un piccolo piede avvolto in un tabi bianchissimo che calzava un sandalo riccamente intarsiato.

Poi la sua visuale fu interrotta dal passaggio indistinto di guardie e servitori.

Pochi istanti dopo dalla porta principale della Sala Grande fecero il loro ingresso i due ospiti attesi: un ragazzo e una ragazza entrambi bellissimi.
 
Di una bellezza glaciale, pensò Ranma, che li osservava di sottecchi, il capo chino.

Akane sorrise a colei a cui evidentemente apparteneva il piede intravisto e, ancora prima che suo padre parlasse, con un lieve cenno del capo le volle tacitamente dare il benvenuto. Lei sembrò non notare il gesto di accoglienza, dal momento che non ricambiò.

Era una giovane donna alta e dagli occhi chiari e alteri. I capelli color della pece erano intrecciati in una elaborata acconciatura, le labbra vermiglie non lasciavano trapelare emozioni, il personale, stretto in un kimono verde scuro dai ricchi dettagli, era elegante e compito.

Accanto a lei si ergeva con fierezza un giovane uomo la cui nobiltà trapelava senza modestia dagli abiti e dai modi. I capelli erano folti e castani e il taglio degli occhi, celesti e leggermente arcuati verso l’alto, era molto simile a quello della donna al suo fianco.
 
Quegli occhi, notò con un guizzo di disappunto il paggio del principe, stavano indugiando un po’ troppo sulla figura di Akane.

“Siate i benvenuti nella mia dimora.”

A rompere il silenzio era stato Soun.
 
Il giovane ospite fece un passo avanti.

“Il nobile Kuno Tatewaki è onorato di trovarsi infine alla vostra augusta presenza, Soun-sama.”

Akane trattenne un risolino e si voltò verso Ranma per trovare un complice nella tacita derisione di quell’individuo che parlava di sè in terza persona con parole tanto pompose.

 “E credo di non sbagliare nell’interpretare il silenzio di mia sorella Kodachi come muta espressione di giubilo immenso.”

La giovane fece un lieve inchino.
 
Sollevando il capo lanciò un sorrisino quasi impercettibile in direzione di Ranma che sentì un rapido brivido corrergli lungo la spina dorsale.
 
Nel petto di Akane sorse un subitaneo moto di stizza. Per quale motivo poi, non riuscì proprio a capirlo. Ma non ebbe nemmeno il tempo di domandarselo, dato che il giovane Kuno le si era avvicinato e le aveva preso la mano.

Ranma spalancò gli occhi a quella vista, il suo battito accelerato.

*Cos…?!*

“Mia radiosa Akane Tendo!! Alfine ecco la vostra ingenua bellezza mostrarsi al mio ardimentoso cospetto!
‘Divino è apprezzare
la rarità del fiore
che sboccia nel nulla,
tra la polvere immonda di questa terra’ ”

Nel pronunciare l’ultimo verso, di fronte all’enfasi del quale a stento la principessa tratteneva una sconveniente risata, il suo sguardo cadde sprezzante e poi indifferente su Ranma, che si sentì chiamato in causa e tentò di ingoiare il fastidio crescente.

*Questo tizio comincia a darmi sui nervi… E soprattutto perché non molla la mano di Akane?!*

“Figlia”, la voce di Soun era calma e ferma, “Accogli a braccia aperte la tua nuova madre e il tuo promesso sposo”.

Il sorriso morì sulla labbra di Akane.
 
Nella Sala Grande calò il silenzio.
 
Un silenzio che Akane non riuscì a percepire , tanto assordante era il battito nelle sue orecchie.
 
Come a sancire le parole del principe, Kuno Tatewaki portò la mano della giovane alle labbra.
 
La principessa la sentì poi scivolare via, improvvisamente senza forze.
 
Anche Ranma non si sentiva meno scosso.
 
Il suo signore aveva pronunciato quelle poche parole, e in una frazione di secondo lo sguardo gli si era pietrificato, il respiro gli si era bloccato in gola.

*P-promesso sposo?!*

“P-padre, cosa state dicendo”, si voltò Akane attonita verso il padre.

“Quello che ho appena detto, figlia. Domani stesso prenderò in sposa la nobile Kodachi e tra non molto convolerai a nozze con suo fratello Tatewaki”

Aprì le braccia, in un sorriso ignaro, come aspettando che la ragazza vi si gettasse e piangesse di gioia e gratitudine.

“Sp-sposarmi?! Ma cosa dite padre?!”

Il tono di Akane da sbigottito si stava facendo a poco a poco più duro e battagliero.

“Akane, figlia mia, ringrazia come si conviene. La famiglia Kuno è di antica e nobile origine e Tatewaki è un ottimo partito”

“Ma come posso sposarlo, neanche lo conosco! E poi… ‘Nuova madre’! Ma avrà poco più della mia età, non potrà mai essere una madre per me…”

Il principe stava cominciando ad alterarsi.
 
“Akane! Non osare mai più avere questo tono nei confronti della mia sposa! E’ una mia scelta, ponderata e sentita! Ognuno di noi sa bene qual è il suo posto nel mondo, e anche tu, figlia ingrata, devi stare al tuo!”

Le ultime parole furono una sferzata. Akane era visibilmente sconvolta, in pochi secondi la percezione del mondo intorno a lei si era del tutto rovesciata.

“Mai!”, urlò tra le lacrime, scappando via come una furia.

Ranma sentì l’impulso di scattare in piedi e correrle dietro, ma trattenne l’istinto, con la stessa violenza di chi trattiene a forza il proprio cane pronto ad azzannare un suo simile. Doveva restare lì, in attesa, fino a nuovo ordine.

“Perdonatela. E’ giovane e inesperta ed è cresciuta senza una madre. Ma la colpa è mia, l’ho sempre lasciata fin troppo libera di esprimersi”

“Mio buon signore, non datevi colpe che non avete”, era stata Kodachi a parlare, la sua voce era aggraziata, “Vedrete che la bambina ha solo bisogno di abituarsi all’idea. Troppe notizie tutte insieme, la sua reazione è stata naturale. Saprò farmi conoscere da lei e imparerà a volermi bene come a una madre”

“Mia cara…”, le prese la mano con stanca dolcezza.

“E mio fratello, lo sapete, è un gentiluomo. Non forzerebbe mai il cuore di una dama”
 
Uno sguardo di cortesia venne scambiato tra i due nobili.
 
“Sono sicura che saprà trovare il modo di entrare nelle grazie di vostra figlia, giorno dopo giorno”, il suo tono era rassicurante, ma Ranma non potè non cogliervi una nota sinistra.

I suoi nervi tremavano furiosi. Dannazione, era lì a terra senza poter dire o fare niente, costretto ad ascoltare le congetture di quella gente di cui lui non faceva parte, che tramava per il futuro di Akane, della sua Akane!
 
Chissà dov’era adesso, chissà se stava ancora piangendo…

“Ranma!”

“Mio signore?”

“Va’ a cercare mia figlia! Ragazzo mio,  a te dà ascolto: vedi di riportarla alla ragione”

Non se lo fece ripetere due volte. Balzò in piedi e dopo un rapido inchino scattò via in direzione di Akane.

“Un servitore molto solerte”, commentò Kuno.

“Non un servitore, no. Ma un buon ragazzo, un buon ragazzo davvero. Anche se non è nessuno per me, ammetto di provare per lui un certo affetto”

“Capisco”

“Vedrete che cambierà idea”, riprese Soun, “Mia figlia… Datele solo un po’ di tempo”

Queste ultime parole arrivarono come un brusìo ormai lontano alle orecchie di Ranma che si affannava a cercare la principessa, lungo i corridoi del palazzo.

Non sapeva spiegarsi perché il suo animo ribollisse tanto.

Forse aveva a che fare col fatto che non aveva mai tollerato che qualcuno facesse soffrire Akane.
 
Nessuno tranne lui, beninteso. Cioè, non che volesse farla soffrire, ma le volte in cui avevano litigato furiosamente non si contavano. Poi però avevano fatto sempre pace.
 
In ogni caso non era la stessa cosa. Lui non aveva mai voluto farle del male… E’ solo che erano entrambi testardi e orgogliosi e finivano spesso per scontrarsi. Ma era normale, no? Si conoscevano da una vita, pregi e difetti.  Sì, erano cresciuti insieme e in qualche modo avevano imparato a contare l’uno sull’altra.

Ma allora cos’era che l’aveva fatto infuriare tanto quella sera?

Ecco, sì, il fatto di non potersi alzare e dire la sua, di non poter ringhiare in faccia a quel damerino: “Giù le mani dalla mia Ak…”
 
Si bloccò di colpo.
 
La ‘sua’ Akane.
 
Come poteva pensare che Akane fosse ‘sua’?!
 
Che pensiero assurdo.
 
Akane era la principessa e lui... lui cos’era?
 
Il paggio del principe.
 
Un compagno di giochi e di allenamento.
 
Un amico… fraterno?
 
Senza cercarle, vennero a galla nella sua mente immagini a caso del loro rapporto, negli anni.
 
Akane a sei anni durante un inverno rigido che lo portava in spalla, lo adagiava sul futon e gli cambiava la pezza bagnata in fronte perchè a lui era venuta la febbre alta.
 
Akane, circa un anno prima, sotto di lui che durante il terremoto le si era parato davanti, proteggendola con le sue forti braccia da una trave in caduta libera.
 
Akane che poggiava una mano sulla sua, senza remore, come fosse la cosa più normale del mondo.
 
Akane e le gocce di sudore che sprizzavano via durante i loro combattimenti.
 
Akane e i loro giochi e le confidenze che si facevano da bambini, in giardino.
 
Akane a dieci anni che una volta si era intrufolata nella sua stanza, perché aveva sognato la madre e non riusciva più a dormire. E lui l’aveva abbracciata e lei si era accoccolata lì, fra le sue braccia. E lui aveva capito per la prima volta che l’odore di lei gli faceva girare la testa, tanto era buono. A pensarci bene quell’odore l’aveva cercato ogni giorno da quel momento. E l’aveva sempre ritrovato lì, accanto a lui.
 
E poi Akane e quel suo sorriso, declinato in mille modi, sempre caldo, sempre luminoso.
 
Ecco. Ecco cos’era che l’aveva fatto infuriare quella sera.
 
Il fatto che lui non poteva fare a meno di lei, che non avrebbe per nulla al mondo potuto starle lontano, che doveva proteggerla, sempre, a ogni costo.
 
Perché lui…

Trattenne il respiro davanti al pensiero che si stava facendo strada nella sua mente, ma che era sempre stato lì, inascoltato.
 
Le guance divennero bollenti e il cuore cominciò a battere all’impazzata.

Doveva trovarla!

Ricominciò a correre.


***
 
 
Akane correva a perdifiato, tirandosi su il kimono, con poca grazia, per non essere intralciata nei movimenti.
 
Correva e piangeva di rabbia.
 
Come aveva potuto suo padre prometterla in matrimonio senza dirle niente!
 
E a quel pallone gonfiato poi!!
 
E come aveva potuto presentarle quella donna come la sua ‘nuova madre’!
 
Non riusciva a perdonargli di avere usato quelle parole, lei che la madre se la ricordava appena, ma di cui conservava un ricordo dolce e avvolgente.
 
Rallentò il passo a quel pensiero e un singhiozzo più forte le scosse il petto.
 
Si guardò intorno. Si trovava dall’altra parte del palazzo, nel suo giardino preferito, disegnato da canali d’acqua e ponticelli.
 
Era sola.
 
Le era sempre piaciuto  andare a rifugiarsi sul tetto che dava su quel giardino, per guardare le stelle, spesso insieme a Ranma.
 
Non ci pensò due volte. Spiccò un balzo, frutto dei suoi allenamenti, e si ritrovò lì sopra, dove si accovacciò stremata sulle tegole umide.
 
La notte era appena calata, ma questa volta lei non alzò lo sguardo al cielo: aveva il volto basso, chiuso dalle ginocchia strette al petto, triste e indifesa.
 
Il suo cuore era ancora a mille. Si sentiva tradita da suo padre, ma c’era dell’altro…
 
Perchè era tanto furiosa?
 
Ripensò al momento in cui suo padre aveva pronunciato le parole “promesso sposo” e nel ricordo ricostruì sulla sua pelle lo sguardo bruciante di Ranma in quel momento.
 
Che vergogna!
 
Come aveva potuto suo padre parlare di matrimonio davanti a Ranma?
 
Non capiva perchè ma questo pensiero la torturava…
 
Eppure Ranma era sempre stato presente in tutti i momenti importanti della sua vita, condividendo con lei gioia e tristezza.
 
Perchè doveva essere diverso proprio ‘quel’ momento?
 
Si fermò a pensare a Ranma.
 
Ranma e le sue scenate di gelosia perchè lei a qualche festa aveva conversato con un ospite di bell’aspetto.
 
Ranma che si prestava ad andare di nascosto nelle stalle, prendere un paio di cavalli per trottare con lei ai margini della tenuta quando il padre era fuori dal palazzo.
 
Ranma a undici anni che le portava un mandarino dalle cucine e che poi la sfidava in combattimento per far sì che lei se lo conquistasse, per finire a mangiarselo assieme, spicchio dopo spicchio.
 
Ranma che le diceva ‘imbranata, maschiaccio, per niente carina’, e lei che gli rispondeva ‘baka che non sei altro’, e poi Ranma che rideva con lei e facevano pace, tra un pugno e un sorriso.
 
Ranma che la prendeva velocemente in braccio e saltava sul tetto per condurla in salvo da un bastone impazzito sfuggito di mano a Ryoga durante un allenamento. Pensandoci bene, in quel momento si era resa conto per la prima volta di quanto familiare  fosse l’odore di Ranma, di quanto caldo fosse il suo petto, e forti le sue braccia.
 
E poi Ranma che non l’aveva mai guardata come una principessa ma sempre e solo come Akane.
 
“Ran…ma”
 
Si rese conto con stupore di aver sussurrato il suo nome tra le lacrime che le rigavano silenziose il volto.

 
***
 
 
I piedi di Ranma si fermarono su un sentiero del giardino, il loro giardino.
 
Ansimando ancora per la corsa, con passo felpato cercò intorno con lo sguardo, quando il suo occhio fu catturato da una macchia rosso sangue a terra.
 
Sorrise e si inginocchiò a raccogliere quel fiore sciupato che poco prima era accuratamente sistemato dietro l’orecchio destro della principessa.
 
Lo avvicinò al viso e inspirò, non tanto il suo profumo, quanto per cogliere quello ormai sbiadito di lei.
 
Alzò lo sguardo.
 
“Akane. Lo so che sei lì”
 
Un piccolo sussulto ruppe il silenzio, e poi si fece largo una vocina che nonostante volesse mostrarsi forte tremava sul punto di rompersi in un singhiozzo.
 
“Tu sai sempre tutto, eh?”
 
A Ranma si strinse il cuore.
 
Ora che era lì, ora che l’aveva trovata, non sapeva cosa dirle. Soprattutto, non poteva dirle nulla di ciò che avrebbe voluto.
 
“Beh, so come ti senti in questo momento”
 
“No che non lo sai”
 
“Si può sapere perchè non sei mai un po’carina?”
 
“…”
 
“…”
 
“Ranma?”
 
“Mmm…”
 
“Sei ancora lì?”
 
“Ma certo che sono qui, testona, dove pensi che vada?”
 
“…”
 
“Akane, mi sento un’idiota a starmene qui, naso in su a parlare al vuoto! Ora salgo…”
 
“No!”, ci fu come un fruscio di stoffe sfregate grossolanamente contro la pelle bagnata del viso, “Sono un disastro in questo momento, non voglio che mi vedi!”
 
“Ma dai, lo sai che ho un debole per le donne prive di fascino!”
 
Fece un balzo e le fu accanto, sul tetto.
 
Lei se ne stava lì, immobile, illuminata dalla luna, occhi sgranati e lucidi, come un animaletto colto di sorpresa, un fagotto arruffato e bagnato.
 
Eppure la trovò bellissima.
 
Avrebbe voluto stringersela forte al petto, consolarla, come quella notte di sei anni prima, ma qualcosa glielo impedì.
 
Non avevano più dieci anni.
 
Deglutì sedendosi accanto a lei, nella speranza che lei non notasse che gli tremavano le gambe. Appena un po’. Ma gli tremavano.
 
Akane tirò su col naso.
 
“Sei uno stupido. So benissimo che sei qui perchè te l’ha chiesto mio padre”
 
“E invece la stupida sei tu”, si era voltato a guardarla, risentito e rosso in viso, “E’ vero, me l’ha chiesto, ma sono qui perchè lo voglio io! Volevo… vedere come stai…ecco…”
 
Akane lo guardò con un certo stupore, ma poi gli sorrise flebilmente, tornando a dare libera uscita alle lacrime intrappolate tra le ciglia.
 
“Beh, lo vedi come sto… non troppo bene a quanto pare…”
 
“Dai, non piangere”
 
Con una mano le prese il viso e cercò di asciugarle le guance con un polpastrello.
 
Lei scoppiò a ridere per quel gesto un po’ rude e maldestro.
 
“Ma se sei tu che mi hai insegnato a farlo?!”
 
I loro volti erano pericolosamente vicini, tanto che potevano sentire sulle labbra il respiro caldo dell’altro.
 
“A proposito, non ti ho mai ringraziato per questo”
 
Lui le fissava gli occhi profondi, col timore di non riuscire a risalire da quel pozzo in cui si stava specchiando la luna.
 
“Beh, sai com’è…”, sussurrò, con un tono a dire il vero molto lontano da quello dello scherzo, “far piangere una donna è un mio preciso dovere”
 
Akane scoppiò a ridere, smorzando quella specie di strana tensione che si era creata tra loro, e gli strattonò il codino in un gesto abituale e affettuoso.
 
“Sei proprio un baka!”
 
“Sì, il baka che finalmente è riuscito a farti smettere di piangere!”, gongolò, facendole una linguaccia.
 
Lo guardò ammirata.
 
Era vero, quel baka aveva un potere straordinario su di lei.
 
Il cuore cominciò a pomparle forte in petto.
 
Già, un potere davvero straordinario…
 
Lo osservò: nel chiaroscuro lunare i muscoli delle sue braccia erano ancora più disegnati e il collo aveva una linea tesa perfetta. Il viso era in parte adombrato dai capelli corvini, mentre un riflesso di luce bagnava le labbra leggermente socchiuse.
 
Senza che se ne rendesse conto il fiato le si accorciò.
 
Abbassò immediatamente lo sguardo.
 
Ma poi non resistette e lo rialzò subito.
 
Lui continuava a guardarla con un sorriso di sbieco, mentre se ne stava con un gomito sul ginocchio in una posizione sicura e al contempo un po’ sguaiata.
 
Questo era Ranma, quello vero, lontano dal contegno tenuto davanti al principe suo padre.
 
Il suo Ranma.
 
“E comunque io quello non lo sposo”, ci tenne a precisare.
 
“Guai a te, eh?”, le diede corda lui, contento di sentirla più serena. “Ma l’hai visto? Sembrava la maschera… Ti ricordi quando a palazzo sono venuti quegli attori per la festa dei ciliegi in fiore?”
 
“S-sì…”
 
“Quello con la ‘maschera del vanaglorioso’, te lo ricordi?”
 
“Ah ah, sì, hai proprio ragione, gli assomiglia davvero!”
 
“Era tutto un ‘Oh mia principessa venerabilissima…”, Ranma si impettì e deformando il volto in un ghigno superbo tentò di imitare la voce di Kuno.
 
“Ah ah, sì!... E non dimenticare la mano!”, gli ricordò lei porgendogliela.
 
“Ah, già!”, come lui afferrò quelle dita sottili, sentirono entrambi una piccola scossa, molto diversa da quelle che ci si passa senza volerlo al solo contatto nei giorni di vento.
 
Ma nessuno dei due diede segno di badarvi.
 
Si schiarì la voce, come per scacciare chissà quale pensiero scomodo e continuò la divertente manfrina, sollevando in aria con ampi gesti la mano della ragazza.
 
“ ‘Oh padrona del mio cuore!’ ”
 
“Sì, faceva proprio così!”, lo incitava lei.
 
“ ‘Eccomi qua, tutto profumato e sbarbato per voi!’ ”
 
“Ah ah, da spaccargli il muso!”
 
“Puoi giurarci, maschiaccio! ‘Sono ricco e bello, cos’altro di più può desiderare una donna? Altro che questa feccia che vi tenete accanto!’ ”, si bloccò di colpo improvvisamente imbarazzato, proprio nel momento in cui stava per simulare il baciamano.
 
Akane si fece improvvisamente seria.
 
“Ranma… Tu non sei feccia”
 
“Eh eh, no, lo so, ma voglio dire… è quello che intende lui… Cioè, lo avrà pensato di certo… è quello che pensa la gente del tuo… di quel rango…”
 
“Mio papà è di rango ancora maggiore e... Sì, lo so, stasera ha dato prova di non conoscermi affatto… Ma non lo pensa! No! Non lo penserà mai!”
 
“E tu?”, la guardò col viso abbassato, come a difendersi, gli occhi rivolti timidamente in alto verso di lei.
 
“Io cosa?”
 
“Non pensi che io sia un poveraccio buono a nulla?”
 
“Ma lo vedi allora che sei proprio un baka?! Ma dov’è finito lo strafottente Ranma-spacco-tutto-io?! Io non penso affatto che tu sia un poveraccio nè che tu sia feccia”
 
“Ah, grazie tante”
 
“Scemo, lasciami finire!... Penso che tu… che tu…”
 
“Che io?... Che io? Oh, insomma, non ti viene proprio, eh?! Avrò pure qualche qualità!”
 
“Guarda che non è mica facile dirlo!...”
 
“Dirmi cosa?”
 
“Che tu… tu… tu sei la persona che voglio vicino a me”
 
L’ultima frase fu buttata fuori in un soffio che aveva perso di colpo tutta la temerarietà di poco prima, lasciando entrambi, chi quella frase l’aveva pronunciata e chi l’aveva ascoltata, completamente di stucco.
 
Rossa in volto, per sfuggire allo sguardo di lui, fece la prima cosa che le venne in mente: poggiò un po’ goffamente il capo sul suo petto forte, nascondendosi, mentre con le mani saliva sulle scapole di lui – oh kami, ma cosa stavano facendo quelle mani?!- e si stringeva forte in quell’abbraccio improvvisato.
 
Ma nel sentire il calore del suo corpo, nel percepire l’odore di cui la sua casacca era pregna, pur avendo ancora il cuore che tamburellava imperterrito, qualcosa dentro di lei, nel profondo, si acquietò.
 
E le sembrò la cosa più naturale del mondo sussurargli: “Grazie di essere qui”
 
Ranma era come di pietra.
 
Una bellissima e imbarazzata statua di pietra.
 
Il suo corpo era immobile e teso, il fiato trattenuto, la testa non riusciva a pensare più a niente.
 
In quelle condizioni, le sue braccia si mossero di vita propria, e con uno scatto sgraziato la cinsero dietro la schiena, abbracciandola.
 
Akane si accoccolò meglio.
 
“Posso stare ancora un po’ così?”
 
“Beh, sì…”
 
Decisamente non avevano più dieci anni.


__

Ciao a tutti!
Ora si entra finalmente un po' nel vivo... Fatemi sapere cosa ne pensate! Ogni commento o consiglio è preziosissimo per me! Pertanto ringrazio infinitamente chi segue, ricorda e preferisce, e soprattutto chi scrive!
Un abbraccio!
InuAra

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Capitolo 3
*** T'ho corteggiata con la spada... ***


Hippolyta, I woo'd thee with my sword,
And won thy love, doing thee injuries;
But I will wed thee in another key,
With pomp, with triumph and with revelling.
 
Ippolita, t'ho corteggiata con la spada,
e con la forza ho vinto l'amor tuo.
Ma ora mi unirò a te in chiave diversa,
con cortei, svaghi e trionfi.
 
A midsummer night’s dream – William Shakespeare
 
 
 
 “Ah ah ah ah!!”
 
La risata acuta di Kodachi Kuno stridette nelle orecchie dei presenti, costringendo chi a fermarsi per pochi istanti, chi a reprimere una smorfia di fastidio.
 
“Akane Tendo, mia cara! Capisco che non hai gradito che io mi sia unita in matrimonio a tuo padre, ma da qui ad addurre queste scuse infantili…”
 
Il via-vai riprese.
 
Da quando era stato celebrato il matrimonio, una settimana prima, erano arrivati a palazzo Tendo una serie di arredi e suppellettili della casata dei Kuno. Soun-sama aveva acconsentito alle richieste della giovane moglie e le aveva affidato un’intera ala della casa.
 
Quella mattina ogni servo, ancella o domestico che non avesse altre mansioni era stato messo a disposizione della sposina per trasportare all’interno della grande camera che dava su quel cortile scatole e bauli contenenti strani oggetti: boccette, polveri, strumenti.
 
“Dico solo che mio padre non può pensare che io vi consideri una madre: voi siete più grande di me di poco più di un anno…”, cercò di giustificarsi Akane, tentando di mantenersi calma ed educata.
 
“Ed è per questo che ti permetto di parlarmi in questo modo, mia cara”, la freddò la matrigna, con la massima grazia.
 
Ma Akane non si fece certo intimidire.
 
“In ogni caso non capisco perchè vogliate dedicarvi a questo genere di cose… C’è già il dottor Tofu che si occupa di arte medica, è un dottore molto esperto-”
 
“Oh oh oh! Ma che sciocchina! Il dottor Tofu non può pensare sempre e solo a noi, suoi signori e sovrani! Pover’uomo, si divide tra i quattro villaggi del circondario e non è mai fermo per più di qualche giorno a palazzo. E poi i kami mi hanno dato questo dono e io devo poterlo coltivare, per il bene di tutti!”
 
Akane storse il naso.
 
Avrebbe voluto decisamente evitare quell’incontro, ma non era stato possibile.
 
Doveva per forza passare di lì per raggiungere il grande portone di ingresso della tenuta.
 
Quel giorno a Ranma era stata affidata una qualche commissione da suo padre, e il ragazzo era uscito dalle mura del palazzo per andare nel villaggio vicino.
 
Tutte le volte che accadeva Akane lo aspettava trepidante, a volte anche per qualche ora, appena al di qua della grande porta in quercia e ferro battuto, in attesa di braccarlo al suo arrivo e di bere le parole con cui il codinato le descriveva la gente, i colori, le strade.
 
E invece era rimasta bloccata lì, in quella scomoda conversazione.
 
Avrebbe dovuto mordersi la lingua ma davvero non capiva cosa potesse esserci di utile nell’assecondare il capriccio della matrigna di avere un suo personale laboratorio dove sperimentare rimedi e erbe medicinali.
 
“Chissà cosa vuole fare quella strega con tutti questi intrugli”
 
“Zitta, vuoi forse farti sentire?”

L’attenzione della principessa fu attirata all’interno della casa, dove un preoccupato Ryoga stava evidentemente cercando di zittire una alquanto seccata Ukyo, che tossiva per la polvere sollevata dagli enormi imballi.
 
Akane sorrise.
 
Neanche quei due erano riusciti a evitare di essere cooptati dalla nuova padrona, che amministrava i servitori con tono perentorio.
 
“Non capisco perchè devo ritrovarmi a spolverare questa roba qui, dico, con tutto il lavoro che ho da fare in casa… E poi hai mai visto il dottore usare qualcosa del genere?”, sussurrò l’ancella tirando fuori da una cassa un assurdo contenitore in vetro dalla forma allungata.
 
“Lo so, questa donna piace poco anche a me, soprattutto per come guarda dall’alto in basso tutti noi, persino…”, i suoi occhi grigioverdi indicarono in direzione di Akane, che era ancora in giardino, sotto il tiro della matrigna, “…persino la nostra principessa. Ma ora è la moglie di Soun-sama e sarà meglio per noi obbedire e stare zitti, intesi?”
 
Le lanciò un’occhiata interrogativa complice e luminosa, alla quale lei non potè proprio dire di no.
 
“Intesi…”
 
“Brava! Ora torniamo al lavoro! Oh oh, guarda un po’ chi arriva…”
 
Con passo spavaldo Ranma si stava avvicinando ai due che aveva visto trafficare da lontano, attraverso la porta scorrevole aperta.
 
Non fece in tempo ad aprire bocca che Ukyo spalancò gli occhi per comunicargli di non fiatare e Ryoga fece cenno con la testa in direzione di qualcuno fuori in giardino.
 
Senza capire, Ranma guardò da quella parte e incrociò immediatamente lo sguardo di Akane che lo vide solo in quel momento, illuminandosi.
 
Nell’andarle incontro, un sorriso stampato in volto, cominciò con lei una conversazione di mimica facciale:
 
  • Beh?! Dov’eri finita? Ti aspettavo lì, come al solito! –
  • Non mi sono potuta liberare, dannazione! –
  • Cos…? –
 
Ma la risposta a quella tacita domanda arrivò immediatamente.
 
Kodachi, a cui non era sfuggita la distrazione della figliastra, entrò nel suo campo visivo.  Ranma immediatamente si inchinò.
 
“Chiedo perdono, mia signora”
 
In tutta risposta la giovane donna, senza togliergli gli occhi di dosso, fece un lento movimento del ventaglio chiuso per ordinare al ragazzo di alzarsi.
 
Una volta in piedi Ranma fece per voltarsi e dileguarsi il prima possibile: quella donna aveva il potere di inquietarlo come nessun altro.
 
“Giovanotto”, lo bloccò Kodachi, “C’è bisogno del tuo aiuto. Porta dentro questo baule”, gli intimò, scostando con un gesto svogliato del ventaglio i due domestici che stavano per sollevarlo.
 
Akane sgranò gli occhi. Quella donna voleva evidentemente metterlo alla prova.
 
Le mani cominciarono a pruderle: davvero sarebbe stato meglio non passare di lì quel giorno.
 
 
 
“Ma guardala la ‘gran dama’!”
 
“Ukyo, per favore, smettila…”
 
“Povera la mia padroncina, costretta ad assistere a questo basso spettacolino… Faceva meglio a starsene nelle sue stanze come i giorni scorsi… Meno si fa vedere in giro meglio è!”
 
“Non mi piace, non mi piace per niente…”, commentò Ryoga notando da lontano come la moglie di Soun-sama accarezzava col suo sguardo i bicipiti sotto sforzo di Ranma.
 
 
 
“Sei molto forte, giovanotto”
 
“Sì, mia signora”
 
Ranma evitava volutamente lo sguardo della donna, mentre portava in casa senza troppa fatica il mastodontico baule.
 
Con la coda dell’occhio, invece, cercava continuamente Akane.
 
La principessa fremeva in maniera evidente e pareva non vedere l’ora di schiodarsi da lì.
 
Sicuramente avrebbe voluto ascoltare qualcuno dei suoi racconti… e allora perchè gli sembrava di vedere un leggero alone blu di aura combattiva intorno a lei?
 
“Bene, bravo. Ora puoi spostare quella”
 
Ranma non potè esimersi dal caricarsi sulle spalle un’enorme pelliccia di panda.
 
Chi poteva essere così orribile da cacciare una bestia tanto pacifica?
 
Quand’era bambino Happosai gli aveva raccontato tutto quello che c’era da sapere su quegli animali, e a lui sarebbe tanto piaciuto incontrarne uno, prima o poi. L’avrebbe rimpinzato di bambù e l’avrebbe trattato solo a suon di carezze e paroline dolci, ne era sicuro!
 
Non si sarebbe mai immaginato che il suo primo incontro con un panda gigante sarebbe stato di quel tipo.
 
Akane cominciava a spazientirsi.
 
Era ovvio che quella donna non avrebbe mollato Ranma tanto presto, anzi, seguiva accuratamente ogni suo movimento impartendogli continui nuovi ordini.
 
Sbuffando stava per andarsene quando si ritrovò a un palmo di naso Tatewaki Kuno.
 
“Sublime visione del mattino!”
 
Gli oggetti che stava trasportando Ranma in quel momento traballarono per un attimo tra sue le mani.
 
Akane accennò senza accorgersene un leggero passo indietro, come in assetto di difesa.
 
“Gioisco nel contemplare con quale grazia voi, mia dolce, abbiate combinato questo nostro incontro”
 
“Vaneggiate, Kuno-san”, lui non colse la sottile ironia con cui lei gli faceva il verso, “Non è mai stata mia intenzione”
 
“La vostra ritrosìa è pari solo alla vostra bellezza. Non potrei desiderare una moglie migliore”
 
Le sfiorò la guancia.
 
Un tocco leggero, col dorso della mano.
 
Un gesto che forse poteva apparire l’innocente omaggio di un cuore innamorato, ma che aveva dannatamente il sapore del possesso.
 
Ci fu un tonfo improvviso.
 
Tatewaki ritrasse la mano, distratto dal rumore.
 
Ranma aveva lasciato cadere di colpo il baule che stava trasportando.
 
Tutti gli occhi erano puntati su di lui.
 
E i suoi in quelli di Kuno.
 
 
 
“Oh kami! Qui si mette male”
 
Ryoga poteva giurare di vedere una potente aura combattiva rossastra accendersi sempre più intorno a Ranma.
 
 
 
“Perdonatemi, ma ora devo proprio andare”
 
Con un sorriso e un inchino Akane era riuscita sia a defilarsi sia a spostare l’attenzione lontano da quel gesto – provocatorio? – di Ranma. Chissà perchè, poi, l’aveva presa così.
 
Lei era perfettamente in grado di tenergli testa!
 
***
 
“Tranquillo, Happi, lei è perfettamente in grado di tenergli testa!”
 
Non troppo lontano, ma abbastanza da non essere visti, seduti sotto un gazebo di legno rosso, i due anziani avevano osservato tutta la scena.
 
“Non dico questo, la nostra ragazza saprebbe tenere testa a chiunque, è che prima o poi suo padre le imporrà questo matrimonio e lei non potrà che cedere”
 
“Questo è tutto da vedere”           
 
Una luce sfavillò negli occhi di Obaba, che aveva nelle vene sangue e orgoglio amazzone.
 
“Avanti, vecchia mia, sai bene che qui siamo in Giappone e non nel tuo villaggio di provenienza, e qui le donne devono sottostare al volere degli uomini, le figlie a quello dei padri, le mogli a quello dei mariti, le principesse alle scelte dinastiche”
 
Obaba socchiuse gli occhi, accendendosi la pipa.
 
“Tu non noti proprio niente?”, lo stuzzicò.
 
“Oh, certo che ho notato mia cara…”, sorrise malizioso, “Ma Soun-sama non acconsentirà mai… E non credo che noi potremmo mai fargli cambiare idea”
 
Obaba annuì, mesta.
 
“Soprattutto ora che non ci chiede neanche più consiglio… Neanche ci ha convocati all’arrivo dei Kuno…”
 
“Lo sai, vuole solo Ranma al suo fianco”
 
“E questo è un bene, caro Happosai, ma negli ultimi giorni mi sembra che voglia vedere anche lui più di rado, per non parlare della figlia… Quasi non le rivolge più lo sguardo”
 
“E Akane, testarda com’è, non lo cerca nemmeno. Lui rimane appartato con… quella nuova moglie, sembra fidarsi solo di lei e del fratello”
 
“Ora capisco cosa faceva tutte quelle volte che si assentava da palazzo. Andava a corteggiare quella… quella donna”
 
“Credo che la sua scelta sia stata ponderata, Obaba. Questa Kodachi sembra sapere esattamente qual è il suo posto nel mondo. Devi ricordare che, pur così giovane, è già stata sposata e si è dimostrata moglie saggia e buona amministratrice delle sue terre. Ma è rimasta vedova così presto… Deve esserne stato molto colpito il nostro signore e deve aver visto nella loro unione un buon accordo che giovasse a entrambi”
 
La vecchia donna alzò pensierosa lo sguardo a un cielo appena screziato di nuvole.
 
“Ma questi accordi gioveranno ad Akane?”
 
***
 
 
“Akane! Akane!”
 
La ragazza aprì gli occhi, doveva essersi appisolata.
 
Era ormai pomeriggio inoltrato e si era rifugiata nelle sue stanze, per non dover incontrare la matrigna nè il promesso sposo. E sì, anche incontrare suo padre sarebbe stato troppo doloroso.
 
Un tamburellare insistente contro la finestra della sua stanza la distolse da quei pensieri e le fece alzare il capo ancora un po’ intontito.
 
“Akane, insomma, vuoi venire ad aprirmi?”
 
“Ce ne hai messo di tempo”
 
“Mica potevo liberarmi tanto facilmente!”, si difese Ranma, intrufolandosi furtivamente dalla finestra all’interno della stanza, “Chiedilo a Ryoga! La tua matrigna ci ha impartito ordini finora. Ed è solo grazie alla vecchia che sono riuscito a defilarmi!”
 
“Ranma! Abbi un po’ di rispetto!”
 
“Ma sì sì, tutto il rispetto e la gratitudine! Mi ha fatto pure l’occhiolino, quella vecchia volpe, quando è venuta a mostrarle non so quale stoffa preziosa fatta spuntare da chissà dove con cui confezionare un nuovo kimono”
 
“Poverino! Non mi sembravi tanto dispiaciuto di fare i lavoretti per la tua bella signora! ‘Sì certo, padrona! Perdonatemi! Sono a vostra disposizione Kodachi-sama!’”,  lo scimmiottava lei con il volto imbronciato.
 
“Non sei per niente carina! Cosa dovrei fare, dirle apertamente che la trovo dispotica e arrogante e rifiutarmi di fare il mio lavoro?!”
 
Anche se lui le stava praticamente urlando in faccia lei sentì sciogliersi qualcosa dentro e sorrise.
 
Di fronte a quel sorriso inaspettato Ranma si bloccò subito e arrossì violentemente.
 
“Che ti prende adesso? Sei tutto rosso!”
 
“Io… io non… E poi sei tu, sei tu ‘tutta cortesie’ per quel bell’imbusto!”
 
“Ma cosa stai dicendo, baka?!”
 
Era bastato poco per farla scaldare di nuovo.
 
“Non hai visto che l’ho elegantemente rifiutato?”
 
“E guarda che lui non l’ha capito per niente! Certe persone non vanno rifiutate ‘elegantemente’, cara la mia principessa!”
 
“Oh, insomma Ranma, so quello che faccio! E poi non l’ho proprio capita la tua reazione di prima! Cosa volevi? Sfidarlo? Lo sai che non sarebbe certo una furbata e anch’io non posso mettermi troppo apertamente contro di lui…”
 
“Ma ti senti?! Quello è solo un pallone gonfiato, un idiota che ti ha messo le mani addosso, un… un…! Aaargh! E io sono solo preoccupato per te, dannazione!!”
 
Gliel’aveva gridato a pieni polmoni, accecato dall’ira.
 
Akane, gli occhi sgranati, non riuscì a dire nulla per un tempo che sembrò lunghissimo.
 
Poi sospirò e gli sorrise di nuovo, oh se gli sorrise...
 
“Grazie, baka!”
 
Appena un sussurro, ed era pace fatta.
 
“E poi lo vedi che quando sorridi sei molto più carina”, borbottò lui.
 
“Come dici scusa?”
 
“Niente, maschiaccio! Piuttosto non volevi sapere com’è andata al villaggio?!”
 
“Sì, ti prego, raccontami!”
 
La tensione era svanita del tutto e Akane gli si fece accanto, in attesa. Lo sguardo acceso e curioso, pendeva dalle sue labbra.
 
*Sì, Akane è… veramente…carina…*
 
“Ehm… dunque… allora intanto la strada per arrivare al villaggio: la pioggia di stanotte, hai presente?”
 
“Sì, sì! Quindi?”
 
“Quindi, ha bagnato ogni cosa, e quando sono uscito, all’alba, dagli alberi ai margini del sentiero gocciolava ancora molta acqua e i primi raggi del sole la attraversavano… Insomma, un’esplosione di arcobaleni!”
 
“Chissà che meraviglia…”
 
“Sì Akane, avresti dovuto vederli! Come ti giravi… un arcobaleno! E poi al villaggio… Oggi era giorno di mercato e tra la bancarella del pesce, che puzza!, e quella delle spezie ecco che ti vedo spuntare… due giocolieri! Avresti dovuto esserci mentre…”
 
Ranma si faceva prendere come un bambino nel rivivere il racconto di quelle piccole cose che sapeva rendere per lei così preziose e speciali.
 
Akane lo guardava rapita mentre parlava, ma a poco a poco le parole si fecero più lontane, ovattate. In primo piano c’erano i suoi occhi blu… che brillavano, e indugiavano un attimo su di lei, e che poi di nuovo si accendevano distogliendosi in cerca di un ricordo.
 
Obaba le aveva descritto più e più volte il mare che separava il Giappone dalla Cina. Il mare calmo e appena increspato, il mare in tempesta, il mare metallico dei giorni d’inverno, il mare e il suo movimento perpetuo, il mare e il suo orizzonte infinito.
 
Lei non l’aveva mai visto, ma avrebbe giurato che gli occhi di Ranma erano della stessa qualità del mare.
 
“Mmm… E poi?”, lo incalzò.
 
“Poi, avresti dovuto vedere quando…”
 
Ma in realtà già di nuovo non lo ascoltava più e ricominciò a osservarlo, a guardare le sue labbra muoversi veloci, articolando suoni così dolci e caldi.
 
Avrebbe volto toccargliele quelle labbra, per sentire se erano vere, tangibili e non frutto di un’allucinazione.
 
Stava così bene con lui in quel momento…
 
Erano solo loro due: Ranma e Akane.
 
Il resto del mondo: fuori.
 
Avrebbe voluto avvicinarsi ancora un po’ ed eliminare anche quella breve distanza che ancora li separava.
 
E dalle labbra immaginò di scendere col dito lungo il mento, e poi giù per i tendini del collo, e ritrovarsi ad accarezzare i pettorali, e poi…
 
“Akane, ma mi stai ascoltando?”
 
“S-sì!”
 
*Oh Kami! Ma a cosa stavo pensando?*
 
“A cosa stavi pensando, si può sapere?!”
 
“A niente!”
 
Cercava di nascondere il suo imbarazzo, ma più si schermiva più lui la stuzzicava.
 
“E dai, a me puoi dirlo!”
 
“N-No…!”
 
“Sì, invece!”
 
“No, ti dico!”
 
“E allora ti costringo!”
 
Le acchiappò il polso simulando la presa di un combattimento.
 
Ma si bloccò subito, vedendo che lei non cercava di opporre alcuna resistenza, ma lo guardava e basta, lo guardava senza difese.
 
“Pensavo… sì, che mi sei mancato oggi, baka”, lo sfidò a fil di voce.
 
Il grande artista marziale perse un battito.
 
“Anche tu mi sei mancata, maschiaccio”
 
Stesso fil di voce, ma con un tono un po’ più roco e basso.
 
Così vicino al viso di Akane, il resto del corpo immobile e sospeso, il suo sguardo non riusciva a mettere a fuoco una cosa sola e rimbalzava dagli occhi ardenti di lei alle labbra appena dischiuse.
 
E umide.
 
E invitanti come un frutto da mordere.
 
 
 
“Akane Tendo, mia promessa!”
 
La voce di Kuno proveniente dal giardino li scosse come un tuono improvviso.
 
Il cuore a mille, si staccarono di colpo.
 
“Presto Ranma nasconditi!”
 
Akane corse alla finestra mentre Ranma si acquattò dietro un mobiletto basso di ebano, tutti i sensi all’erta, mentre cercava di trattenere il respiro ancora corto e affannato.
 
“Sì? Chi mi chiama?”
 
“O mia dea, alfine vi siete affacciata! Il vostro sposo vi reclama. Volevo vedervi e ribadirvi il mio amore, come si conviene a un gentiluomo. Ora salgo da voi…”
 
“No! No… Aspettate solo un momento, scendo io, ho bisogno di un po’ d’aria…”
 
Ironia della sorte, ne aveva bisogno davvero.
 
Lanciò uno sguardo a Ranma, sperando che trovasse il momento opportuno per sgattaiolare fuori dalla sua stanza, dalla porta questa volta, e poi scese in giardino.
 
Ma Ranma non si mosse, e rimase lì, ad ascoltare il loro dialogo, la finestra ancora aperta.
 
“Eccomi!”
 
“Ho mandato uno di quei bifolchi di cui a quanto pare amate circondarvi a prendere i fiori più belli che potessero trovarsi nel raggio di miglia. Ecco, sono poca cosa di fronte alla vostra leggiadria”
 
Akane sembrava un po’ agitata, chissà se Ranma era già uscito dalla sua stanza?
 
Fece il gesto meccanico di prendere quei fiori, ma si bloccò in tempo.
 
“Sono molto belli, ma non posso accettarli”
 
“Lo so, non sono degni di voi nè del nostro amore-”
 
“Non posso accettarli perchè non posso accettare la vostra corte. Non ‘voglio’ accettarla”, dentro si sentiva spaventata a sfidare quell’uomo e suo padre stesso, ma la sua voce era calma e ferma.
 
Si sentiva inspiegabilmente insicura e al contempo tanto forte.
 
Lo sguardo di Kuno cominciò ad accigliarsi.
 
“Akane Tendo, io non capisco”
 
“Questo fidanzamento l’ha deciso mio padre, ma io non vi ho mai acconsentito”
 
“Come se contasse qualcosa”, il suo tono la dileggiava.
 
Ranma, nel suo nascondiglio, si morse il labbro inferiore, che tremava visibilmente.
 
“Se volete al fianco una donna che vi ami e non solo una moglie che vi obbedisca, dovrebbe contare per voi”
 
“Ma io ho tutto ciò che serve per essere amato, e ve lo dò tutto, senza esitazione”
 
“Ma voi non siete la persona che amo-”
 
“Perchè?! Esiste forse sulla terra uno stolto che osa mettersi contro Tatewaki Kuno per amor vostro?!”
 
Il volume della sua voce si era pericolosamente alzato.
 
E Ranma aveva spalancato gli occhi.
 
*Voi. Non Siete. La persona. Che amo*
 
Akane amava dunque qualcun’altro?!... E forse quel qualcuno era…?!
 
“Dico solo”, tentò lei di riportare la conversazione su un piano razionale, “che non mi interessano nè la ricchezza nè la nobiltà e che non voglio il vostro amore, perdonatemi”
 
Ci fu un lungo silenzio.
 
Il pugno chiuso di Kuno cominciò a vibrare in maniera evidente.
 
Uno scatto improvviso, e lo stesso pugno serrava con violenza il braccio della principessa.
 
“Nessuno, dico nessuno in vita mia ha mai osato anche solo immaginare di rivolgersi al sottoscritto con questo tono. Ho fatto decapitare persone per molto meno”
 
La sua voce era bassa e minacciosa.
 
“Lasciatemi immediatamente!”
 
Ranma sentì il cuore in gola. Cosa doveva fare?! Uscire dal suo nascondiglio? Correre in suo soccorso?
 
“Non costringetemi a usare la forza!”
 
Ranma si stupì fortemente nel sentire queste parole pronunciate da Akane e non da Kuno.
 
Lo stesso Kuno aveva sgranato gli occhi, ma lo stupore si trasformò presto in un sorrisetto che non prometteva nulla di buono.
 
“Mmm… Ma davvero? Mi dicono che amiate le arti marziali”
 
“Siete stato ben informato, allora”
 
Non sapeva dove voleva andare a parare, ma non aveva nessuna intenzione di farsi intimidire da quell’uomo, anche se era l’uomo che suo padre le aveva promesso!
 
“Bene. Allora vi concedo una possibilità. Il giorno che verrò sconfitto in combattimento, lascerò casa vostra e rinuncerò a sposarvi. Ma-”, un lampo di sfida saettò nel suo sguardo, “Non riponete in questo troppa speranza. Sono un maestro di kendo, nelle mie terre sono già considerato una leggenda”
 
“Battetevi con me, allora”
 
Ranma sussultò. No, non avrebbe permesso a nessuno di farle del male.
 
“Ah ah ah! Battermi con un essere debole e inferiore come una donna? Sarebbe indegno per Kuno Tatewaki”
 
“Mettetemi alla prova”
 
“Lo sto già facendo mia cara, ma non vi aspettate che mi sporchi le mani in un combattimento impari. No! Dovrete accontentarvi di veri tornei tra uomini. E solo i nobili potranno partecipare”
 
Ranma serrò la mandibola, un sapore amaro in bocca.
 
Akane, gli occhi alti, fissi in quelli di lui, fece finalmente per scostarsi, ma lui rinserrò la presa, avvicinando il viso a quello di lei, in un ringhio.
 
“Voi sarete presto mia moglie, che lo vogliate o no”
 
Non avrebbe sopportato oltre… Al diavolo il suo ruolo nel mondo! Al diavolo l’etichetta!
 
Ranma stava balzando fuori dal proprio nascondiglio, pronto a menare le mani, quando…
 
“Akane-san! P-presto, vostro padre ha richiesto immediatamente la vostra presenza! Signorina, presto, da questa parte!”
 
Finalmente la morsa si allentò intorno al braccio della principessa, che corse verso Ukyo, la quale era sbucata da un cespuglio del giardino e le faceva segno di seguirla velocemente.
 
“Akane Tendo, mia cara”, la fermò con voce tonante, “Verrà indetto un bando e a una settimana da oggi, ogni sette giorni mi scontrerò con i combattenti che oseranno affrontarmi. Nel frattempo mi ritengo libero di continuare a corteggiarvi a mio piacimento, in quella che ritengo la più dolce delle sfide. E’ una promessa”, concluse con un galante inchino.
 
Akane non rispose.
 
Affannata e agitata, Ukyo la trascinò via per un braccio attraverso i corridoi, senza una meta precisa ma il più lontano possibile da lì.
 
“Signorina, mi sono spaventata tantissimo! Ero venuta a cercarvi e vi ho visto in quella situazione. Non sapevo cosa fare e poi ho urlato il vostro nome e ho detto la prima cosa che mi è venuta in mente!”
 
“…”
 
Akane stava tentando di reprimere la rabbia che ora le stava salendo senza freni.
 
“Signorina, state bene?!”
 
Si fermarono per qualche istante.
 
“Sì, grazie, Ucchan”
 
Akane le prese il volto tra le mani. La guardò. La sua ancella era davvero molto scossa.
 
“Grazie”, sorrise, tentando a sua volta di calmare il proprio respiro.
 
“Quell’uomo è davvero pericoloso”
 
“No. E’ solo un ragazzo viziato”

 
***
 
 
Ancora nella camera della principessa Ranma si accasciò contro il muro, riprendendo fiato a poco a poco.
 
I suoi occhi si posarono sul grande letto, che aveva il privilegio di accogliere la principessa nelle ore notturne, sull’armadio a muro, su cui era incollato un piccolo disegno a china che gli aveva portato da uno dei suoi giri al villaggio e sulle sete gialle – il giallo era il colore del sole, il preferito di Akane -appese alle pareti.
 
Era stato in quella stanza milioni di volte – se solo Soun-sama avesse saputo…-, in quella stanza che aveva il profumo di lei, e che lui conosceva come le sue tasche, come…
 
“Aka…ne”
 
Tirò fuori dalla casacca un fiore rosso scuro, ormai secco e sbiadito e lo osservò a lungo.
 
Per quanto ancora avrebbe sopportato tutto questo?
 
Sentì montargli la rabbia e decise che era arrivato il momento di sfogarla.
 
Si alzò risoluto.
 
“Devo trovare Ryoga immediatamente!”

 
-----------------
 
 
Ed eccoci qui!
Forse potrebbe essere considerato un capitolo di passaggio, ma serve ad alzare un po’ la temperatura emotiva e a dare una “scrollatina” al delicato equilibrio di rapporti tra i vari personaggi…
La citazione iniziale è tratta da “Sogno di una notte di mezza estate”. Come avete visto vorrei cercare di iniziare sempre con qualche riga tratta da uno dei capolavori shakespeareani, che in qualche modo rimanda al capitolo in corso.
Ho sempre pensato che l’inizio di questa commedia fosse agghiacciante, anche se raramente viene letto in questo modo: Teseo ha fatto la guerra al popolo delle amazzoni (!!), e ha sconfitto personalmente la loro regina, Ippolita. L’ha presa con la forza e ora lei diventerà sua moglie. Al di là del fatto che la cosa ci ricorda tremendamente Shan-Pu e le assurde regole del suo villaggio ;-) mi piaceva condividere con voi questi versi spesso erroneamente associati più all’amore che alla guerra e alla violenza.
 
Un abbraccio a tutti coloro che mi leggono, siete più di quanto potessi immaginare!
Se avete tempo scrivetemi qualche riga e fatemi sapere che ne pensate!
 
InuAra
 
 
 

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Capitolo 4
*** Uno slancio sconfinato come il mare ***


Image and video hosting by TinyPic  Fan Art di Spirit99 – Capitolo 2
 

 
My bounty is as boundless as the sea,
My love as deep; the more I give to thee,
The more I have, for both are infinite.
 
Uno slancio sconfinato come il mare,
così è il mio amore; più te ne riesco a dare
più ne possiedo, perchè entrambi sono infiniti.
 
 
Romeo and Juliet – William Shakespeare


 
 
Era dura ammetterlo, ma Ryoga se la stava vedendo davvero brutta.
 
Nella luce del tramonto a malapena riusciva a schivare i pugni e i calci di Ranma, il cui sguardo cupo e il volto inespressivo sembravano quelli di un demone assetato di vendetta.
 
Gli si era avvicinato pochi minuti prima, mentre stava accudendo i cavalli nelle stalle e vedendoselo arrivare così insolitamente terreo, l’aveva apostrofato: “Amico mio, hai davvero una pessima cera!”
 
Il codinato non se l’era fatto ripetere due volte.
 
“Ho bisogno di sfogarmi, Ryoga… Fatti sotto!”
 
Una richiesta d’aiuto, questo gli era sembrata, anche piuttosto urgente.
 
E al contempo un tono di sfida, come era tipico di quel maledetto strafottente del suo ‘padrone’.
 
Come tirarsi indietro?
 
Si era fatto sotto, appunto, contento di potersi concedere alla fine di quella giornata un bell’allenamento di arti marziali, che erano la sua vita, al di là delle sue mansioni di servitore.
 
Ma aveva capito ben presto che quello non era un allenamento qualunque, e che l’energia che sprigionava il suo compagno era tinta di una rabbia incontenibile e pericolosa.
 
 
***
 
 
Rabbia, rabbia, rabbia!
 
Ecco cosa provava ogni cellula del suo corpo, in procinto di scoppiare.
 
“Akane-san, non credo che questo sia il momento di…”
 
“E invece è arrivato proprio il momento di sfogarsi, Ukyo, non ce la faccio più”
 
La giovane ancella sorrise mesta, mentre si guardava intorno per appurare che non ci fosse nessuno, convinta che una principessa non avrebbe mai dovuto trovarsi da sola in quell’enorme salone adibito ai rari allenamenti di Soun-sama, ma ben sapendo che era il solo modo che avrebbe restituito la calma alla sua padrona.
 
La vide prendere il fantoccio di paglia che era solita colpire nei momenti di rabbia, ma poi fermarsi di colpo.
 
Le mani bianche e sottili della principessa indugiarono qualche secondo sul codino posticcio che era stato applicato con degli spilloni al fantoccio.
 
Ah, già, quel buffo pupazzo fungeva da sostituto di quell’altro scalmanato, e la principessa lo colpiva a profusione quando era arrabbiata con lui e non ce l’aveva tra le mani.
 
Ordinaria follia in quel rapporto fatto di baruffe e complicità.
 
Akane, sovrapensiero, accarezzò quel codino e in un unico gesto fluido lo staccò, lo portò alle labbra e lo baciò, per poi lasciarlo scivolare accanto allo yukata che si era tolta per combattere meglio.
 
Ukyo sospirò bonaria, intuendo da quei gesti molto più di quello che la stessa Akane non sospettasse.
 
Al contrario, si era già messa a tempestare di calci - uno più violento dell’altro - quello che era ora il perfetto simulacro di quel borioso di Kuno Tatewaki.
 
 
***
 
 
La velocità con cui lo attaccava era pari solo alla precisione con cui gli assestava i colpi, che prontamente riusciva a parare.
 
Ma ce l’avrebbe fatta ancora per molto?
 
La lotta si era dipanata tra i vialetti che circondavano il palazzo, per poi passare repentinamente ai tetti delle stalle, e vederli quindi atterrare come felini nell’arena dei cavalli e di nuovo balzare su un albero o una palizzata.
 
Tra un colpo e l’altro Ranma si era sfilato la casacca, in un gesto sgraziato, come per liberarsi dalle spire di un serpente in atto di soffocarlo.
 
Ed ora era a petto nudo.
 
Il sudore cominciava a imperlare i tendini e i muscoli, che si tiravano e si contraevano come in una danza ferina e implacabile. 
 
Ryoga non ci mise molto a capire che, istintivo che fosse, quello era un gesto molto chiaro, che Ranma aveva fatto come a voler tornare a uno stato di natura primordiale, spoglio di ogni legame con la società e le sue regole, a partire dagli indumenti che gli attribuivano un ruolo ben preciso.
 
“Ti sei distratto!”, lo fulminò Ranma assestandogli una cascata di pugni sul petto.
 
“Dannazione Ranma! Che diavolo stai facendo?!”
 
Ryoga tentava di riprendere fiato, asciugandosi il mento col dorso della mano.
 
“Non ce la faccio più! Maledetto Kuno…”
 
I colpi non accennavano a diminuire, anzi, si facevano più rabbiosi e disordinati.
 
“Kuno?! Ma che stai dicendo? Ranma, vuoi farti sentire?!”
 
“E chi cavolo potrebbe sentirmi?! Siamo lontani dall’ala nobile del palazzo, l’unica che quel bellimbusto e gli altri si degnano di frequentare…”
 
“Ho capito, ma…”
 
“Basta!”, il pugno arrivò più sonoro del previsto, ma il ragazzo con la bandana non gli diede la soddisfazione di soccombere.
 
“Sono stufo di stare attento a come parlo, a come mi muovo, a non farmi notare, a non… reagire!!”
 
“Ranma, capisco che le cose stiano cambiando qui a palazzo, e la situazione non è facile… Ma stanno cambiando per tutti…”
 
Intanto schivava un calcio abbassandosi e facendo perno sul terreno con una mano, tentando di ricambiare il favore, ma con scarso successo. Era forte quasi quanto lui eppure non riusciva a stargli dietro.
 
“Già, stanno proprio cambiando, non me n’ero accorto! Stanno cambiando così tanto che non riesco a sopportare come… sì, insomma… Non riesco più a sopportarlo!... Dannazione, la guarda con certi occhi!... E poi suo padre… Io vorrei dirgli che… Ma non posso! Come potrei?! Dopo tutto quello che ha fatto per me! E quel maledetto le ha messo le mani addosso, capisci?! E io che dovevo fare? Te lo dico io… Spaccargli il muso!”
 
“Ma di che diavolo stai parlando, Ranma?!”
 
Lo stupore gli doveva aver restituito un po’ di forza, o forse era stato quello sproloquio sconnesso ad aver indebolito il rivale, sta di fatto che Ryoga riuscì a bloccare Ranma serrandogli con mani ferme le spalle e fissandolo negli occhi senza dargli scampo.
 
“Di che diavolo. Stai. Parlando”
 
Il gesto dell’amico l’aveva di colpo riportato alla ragione, ma la sua testa era vuota.
 
Un solo nome rimbombava martellante.
 
“Akane…”
 
Solo un sussurro, venato di un sommesso tono colpevole.
 
 
***
 
 
“Ranma!...”
 
Era seduta a terra, lo yukata un po’sgualcito di nuovo addosso, la schiena contro la parete di legno e le gambe lunghe e rilassate in una posizione che di composto aveva ben poco, mentre ancora col fiatone si rivolgeva all’amica.
 
Le sue mani si muovevano da sole risistemando al suo posto il buffo codino di paglia.
 
“Ranma era lì, capisci? Speriamo che non abbia sentito quell’inutile conversazione con quel… quel…”
 
“Col vostro fidanzato, Akane-san…”
 
“Aargh! Non chiamarlo così, ti prego! Mi prudono le mani solo a pensarci! E se Ranma avesse sentito? Mi sento così… così… confusa…”
 
“E invece a me pare tutto molto chiaro…”
 
“Che cosa? Che cosa ti sembra chiaro, Ucchan?!”
 
Il tono era quasi implorante, e Ukyo non potè fare a meno di provare tanta tenerezza e una grande empatia per la sua signora.
 
Lei che aveva faticato ogni giorno della sua vita, lei che aveva dovuto rimboccarsi le maniche da quando era bambina, sì, lei, si sentì improvvisamente tanto più forte della sua padroncina i cui occhi da cerbiatta la scrutavano smarriti.
 
Sorrise confidente.
 
“Beh, secondo me, ragazza mia… Oh, no, scusate principessa, non so come mi sia uscito!...”
 
Ma l’effetto che ottenne fu che l’espressione tesa di Akane si sciolse in una risatina inaspettata.
 
“Ah ah! Ma no Ukyo! ‘Ragazza mia’ va benissimo! Continua, ti prego…”
 
“Sì, cioè… dicevo… secondo me si tratta di… amore…”
 
Fu un attimo e la principessa divenne del colore del suo nome: rosso scuro profondo.
 
“A-amore, dici?... Ma in che senso?... Cioè, non penserai che quell’odioso di Kuno…”
 
Ma non riusciva a darla a bere nemmeno a se stessa.
 
“Akane-san, sapete benissimo a chi mi riferisco…”
 
Ukyo la stava inesorabilmente mettendo alle strette.  Tanto era imbarazzata la principessa quanto era calma l’ancella.
 
“A-ah s-sì?!”
 
“Ma certo. Di quello sconsiderato che vi trascina sui tetti. Di quel fannullone che vi riempie la testa di storie. Di quell’irrispettoso che vi parla come a una sua pari e che vi fa infuriare un giorno sì e un giorno no. E che per voi darebbe la vita anche ora. Del vostro Ranma, insomma”
 
Già, era vero. Quello era proprio il ‘suo’ Ranma.
 
Si arrese del tutto.
 
“Sì, proprio lui”, confessò più a se stessa che alla ragazza.
 
 
***
 
A Ryoga era andata via la parola.
 
Semplicemente non capiva.
 
Non riusciva a capire.
 
Dopo un tempo che parve a entrambi interminabile riuscì solo a biascicare: “C-che intendi dire?...”
 
“Lo so, lo so Ryoga! So che io non sono nessuno… e poi non ho alcun diritto di… Ma… Maledizione! Io non posso fare a meno di lei! L’unica cosa che desidero è starle accanto!… E saperla felice e… Quando ho sentito suo padre prometterla a Kuno, e lei si è messa a piangere… io… è diventato tutto così chiaro! E… e maledettamente doloroso”
 
“Ranma, vuoi dire che tu la… la ami?!...”
 
Aveva una tremenda paura della risposta, anche se ormai aveva capito, oh se aveva capito…
 
“Sì”
 
Era riuscito a dirlo.
 
Quanto gli era costato riuscire a parlare, a tirare fuori tutte quelle parole che aveva inghiottito per giorni, a quanto pare per anni…
 
Ma poi rispondere a quella domanda si era rivelato improvvisamente così giusto e naturale, che quel ‘sì’ era stato calmo e diretto, sicuro, forte.
 
Sì. L’amava. Niente di più semplice.
 
“M-ma… ma lei è la tua principessa!”
 
Ranma strinse i denti.
 
“Lo so, dannazione lo so! Non ho bisogno che me lo ricordi!”
 
“Tu… non puoi… non devi…”
 
Quelle parole affiorarono alle labbra di Ryoga in un automatico moto di senso del dovere, ma quando si fecero suono assunsero un tono che non avrebbe convinto nemmeno chi le stava pronunciando.
 
E come avrebbero potuto?
 
In tutta la sua vita non avrebbe mai pensato di vedere quel suo  amico, quel suo compagno, quel suo ‘padrone’… quel Ranma-pieno-di-sé-dalle-mille-risorse che aveva sempre conosciuto, sconfitto dalla dura realtà.
 
Proprio non lo sopportava.
 
“Lo so bene, amico…”
 
Si era arreso, ormai ridotto a un involucro completamente svuotato.
 
 
***
 
 
Era ormai buio fuori.
 
Il tempo passato a confrontarsi con un’amica scorre a una velocità del tutto arbitraria, e ad Akane era parso fossero trascorsi solo pochi minuti da quando aveva cominciato a raccontare a Ukyo di ogni sfumatura del suo cuore in subbuglio, inondandola di supposizioni, lacrime, sorrisi, abbracci.
 
“Ma tu…”, si fermò di colpo, “tu come sai che questo è ‘amore’?”
 
Era una domanda innocente e realmente curiosa, ma Ukyo arrossì di colpo.
 
Reazione immediata e più che naturale dal momento che il pensiero era subito corso a delineare nella sua mente un paio di occhi grigioverdi, un sorriso accattivante, braccia forti e rassicuranti e una fascia giallo ocra immersa in folti capelli neri…
 
“Ehm… credo di saperlo, tutto qui”
 
“Credo di saperlo anch’io adesso… Sì, so cosa devo fare!”
 
Vedendo la sua signora alzarsi di scatto improvvisamente più sicura, la giovane ancella si riscosse.
 
“Akane-san, cosa…?”
 
“Grazie Ukyo, grazie davvero”
 
Un abbraccio forte e sentito, anche da parte di Ukyo, che pure, a parole, timidamente cercava di rimanere l’ancella di buon senso che era.
 
“Mia signora… non dovete… voi siete una principessa… vi caccerete nei guai…”
 
“Lo so”
 
La guardò negli occhi con un sorriso di sfida.
 
“Lo so, Ukyo, e non credere che non abbia paura anch’io. Ma se non lotto non posso vincere, no?”
 
E senza che la ragazza potesse ribattere lasciò la stanza.
 
 
***


Era sera inoltrata ormai, e lui amava a quell’ora aprire quasi di nascosto la porta scorrevole che dalla sala grande dava sul giardino, sedere su alcuni semplici cuscini e guardare le stelle farsi via via più luminose e il cielo via via più nero.
 
Era l’unico momento che rubava alle sue giornate, le candele spente, la pipa accesa, i ricordi liberi e la mente silenziosa.
 
Soun Tendo.
 
Non un principe dalle mille responsabilità. Non un padre. Non un vedovo. Non un uomo sposato con una donna forse troppo più giovane di lui.
 
Se ne stava lì, in attesa di farsi trovare dalle risposte delle domande che non osava farsi.
 
E una risposta quella sera arrivò.
 
Sotto il nome di Ranma.
 
 
***
 
 
Al ritmo dei suoi pensieri, anche i passi si erano fatti più spediti e ora Akane stava correndo, desiderosa di raggiungere il padre, parlargli col cuore in mano, quel cuore che aveva avuto finalmente il coraggio di guardare dritto negli occhi, se mai un cuore ne avesse avuti.
 
Suo padre stava sempre lì a quell’ora, non poteva sbagliarsi. Stava quasi per raggiungerlo sbucando alle sue spalle da un corridoio, quando qualcosa la fece arrestare di colpo.
 
Un nome.
 
Ranma.
 
 
***
 
 
Soun lo intravvide appena, mentre si trascinava, lo sguardo perso nel vuoto, tra i cespugli scuri del giardino.
 
“Ranma, ragazzo mio!”
 
“M-mio signore!”
 
Come aveva fatto a non accorgersi della presenza di Soun-sama? Come era arrivato fin lì? Ma soprattutto, ce l’avrebbe fatta a mascherare il suo turbamento?
 
“Che piacere averti qui, figliolo. Vieni, siediti. Che ci fai in giro a quest’ora?”
 
“Riflettevo, mio signore”
 
“E su cosa, se è lecito?”
 
“Sulla vita e sul suo tempismo crudele”
 
“Hai proprio ragione, ragazzo, la vita sembra davvero aspettare il momento giusto per colpire... Ne so qualcosa…”
 
Ranma lo guardò. I suoi occhi lontani erano come eternamente in procinto di riempirsi di lacrime, eppure restavano asciutti. Il volto era segnato dal tempo e il sorriso appena accennato era di una dolcezza disarmante.
 
Quell’uomo era stato un padre per lui. Un padre giusto, che andava rispettato.
 
Sospirò.
 
“Però, ricorda anche che quella stessa vita può stupirti quando meno te lo aspetti, regalandoti la felicità che cerchi. Devi saperla cogliere”
 
“…”
 
“Akane”
 
Il respiro gli si mozzò in gola.
 
“Akane”, continuò Soun, “sarà sempre la mia bambina, anche se ora non capisce le mie decisioni”
 
Lo sguardo si era fatto più grigio e la voce più triste.
 
“Mio signore…”
 
Perché era tanto dura trovare quelle parole?
 
“Vostra… vostra figlia è molto intelligente, lei sa bene cosa muove le vostre decisioni, ma vuole essere lei a decidere…”
 
“Ragazzo, pensi che non conosca mia figlia?”, la voce gli si era intenerita, eppure Ranma rabbrividì.
 
“Lo so bene. Ma lei è la mia unica erede… e io non vivrò per sempre”
 
Quanto dolore racchiudevano quelle parole.
 
“Vostra figlia sarà una principessa giusta e capace”
 
“Ma non può farcela da sola. Nella vita abbiamo tutti bisogno di avere qualcuno accanto…”
 
*Ma ha me, dannazione!*
 
“… e io voglio assicurarmi di lasciarla in buone mani. Ti sembra chiedere troppo per un padre?”
 
Il suo sguardo implorava una tacita assoluzione.
 
E a Ranma mancò il coraggio e si odiò per questo.
 
“No, mio signore”
 
“Ragazzo mio”, sorrise Soun, “siete cresciuti insieme, so bene che per te la piccola Akane è come una sorella, ma non devi difendere ogni suo capriccio”
 
“Sì, come dite voi…”
 
La sua voce era calma, ma chi avesse avuto un orecchio attento avrebbe potuto definirla ‘assente’.
 
“Vostra figlia è come una… sorella per me, e io voglio solo il suo bene. Se il suo bene significa sposare Kuno-san o chiunque riteniate opportuno per lei, non posso che esserne felice”
 
Fu appena un lampo. Un brillìo giallo ai margini del suo campo visivo.
 
Era un gioco di luce, o era stoffa gialla, quella che aveva appena visto sparire nel il corridoio, la stoffa gialla dello yukata di Akane?!
 
“Perdonate, mio signore, mi sono appena ricordato di una cosa importante che devo fare”
 
Soun accennò un vago sorriso e scosse appena il capo, per tornare come nulla fosse alla sua pipa e alle stelle.
 
Ranma si fiondò in direzione di quelli che gli sembravano sempre più dei singhiozzi strozzati.
 
*Akane… Akane ha sentito tutto?!*
 
Aveva il cuore a mille e non riusciva a pensare a nulla se non che doveva raggiungerla, doveva guardarla negli occhi, capire!
 
Ormai riusciva a scorgerla, mentre correva furtiva tra i corridoi.  Era proprio lei!
 
“Akane!”
 
Con un balzo le fu alle spalle e le afferrò un polso, costringendola a voltarsi.
 
“Perché stai scappando?!”
 
“Stupido, stupido Ranma!”
 
Era buio, ma le lacrime di lei brillavano di una luce accecante, che gli attanagliava il cuore.
 
“Vai! Vai da mio padre! Digli quanto sei preoccupato per la tua ‘sorellina’! Ho sentito tutto, che credi?… E io che ero venuta per… argh! Sono proprio una scema!!”
 
“Ma si può sapere cosa diavolo stai dicendo?!...”
 
“Io volevo dirlo a mio padre: non mi sposerò mai con Kuno, perché non è lui che amo… io amo…amo…”
 
Lo spintonò.
 
“Ma tu hai rovinato tutto! Chissà cosa mi credevo… Sei uno stupidoooo!”
 
“E invece la stupida sei tu! Tu sei una principessa…!”
 
“E pensi che me ne importi qualcosa?! Tu sei molto più nobile di un principe se è per questo e sei ricco, Ranma, lo vuoi capire?, hai più ricchezze tu dell’imperatore di Cina!”
 
Cosa voleva dire Akane con quelle parole? Possibile che gli stesse dicendo che lei lo... lei lo...?
 
“Ma sono pur sempre il paggio di Soun-sama, non scordartelo, sono un poveraccio raccolto dalla strada, che deve tutto al suo signore… Io non sono nessuno!”
 
“Sei tutto invece, stupido di un Ranma! E sei solo un codardo, che non riesce ad ammetterlo, ecco quello che sei!”
 
“Che cosa?! La stupida sei tu, Akane! Credi che anche se voglio urlarlo al mondo, anche se sto morendo dal dolore, potrei uccidere tuo padre dicendogli che no, che non sei una sorella, non lo sei mai stata e che io voglio solo averti accanto e proteggerti e litigare con te e prendere a pugni chiunque ti fa soffrire e non perché devo molto a lui, ma PERCHE’ E’ DA SEMPRE CHE TI AMO?!”
 
Si erano bloccati di colpo, col fiatone, febbricitanti, gli occhi sgranati, storditi entrambi da quelle ultime parole.
 
“Ranma, io…”
 
“Sasuke! Stupido servo, dove ti sei cacciato?!”
 
La voce imperiosa di Kuno sgorgò come dal nulla, e i passi marziali che si facevano rapidamente più vicini li ridestarono prontamente.
 
“Presto Akane, di qua!”
 
La prese per lo stesso polso con cui l’aveva afferrata poco prima e stava per tirarsela dietro quando sentì il servitore di Kuno giungere dalla direzione che avevano appena imboccato.
 
In trappola! Di lì a breve da entrambi gli angoli del corridoio sarebbero sbucati quei due sgraditi ospiti, pronti a braccarli.
 
Fu questione di un attimo. A Ranma cadde l’occhio sulla porta scorrevole di un armadio a muro, uno dei tanti di quel grande palazzo, dove veniva tenuta biancheria sempre fresca.
 
Con uno scatto fulmineo lo aprì e vi spinse dentro Akane senza troppe cerimonie per poi entrare e richiudere subito la porta dietro di sé.
 
“Ranma, attento, così mi fai ma…”
 
“Sshh!”
 
Con una mano le aveva tappato la bocca, mentre con l’altra continuava a stringerle il polso, tutti i sensi all’erta.
 
Appena in tempo.
 
“Padroncino Kuno, perdonatemi, sono al vostro servizio!”
 
“Sasuke, scansafatiche che non sei altro, renditi utile e vai immediatamente dal banditore”
 
“Ma è notte ormai, starà già dormendo…”
 
“E tu digli che il suo futuro sovrano pretende la sua presenza ora”, scandì con tono minaccioso.
 
“Domani stesso desidero che sia indetto un bando che mi sta molto a cuore. Ho una promessa da mantenere…”
 
Le voci si fecero più flebili e i passi si allontanarono.
 
Erano di nuovo soli, ma non osavano uscire.
 
Caldo. C’era un gran caldo in quell’armadio.
 
E buio. Filtrava appena una strisciolina di luce dalle fessure della porta a cui a poco a poco i loro occhi si abituarono.
 
Ranma teneva ancora il suo palmo pigiato contro le labbra di Akane che d’un tratto gli parvero troppo morbide e troppo bollenti.
 
Ritrasse di colpo la mano e allentò la presa intorno al polso.
 
“Scusa, non volevo farti male”
 
“… Niente”
 
Erano stretti in quello spazio angusto, sommersi da teli e lenzuola, senz’aria, eppure era il luogo perfetto, lontano da tutti, isolati dal mondo che conoscevano.
 
Non c’erano principesse né orfani. Non c’erano padri né doveri.
 
Solo Ranma e Akane.
 
E non c’erano più parole, o liti, o chiarimenti.
 
Erano così vicini, la rabbia scemata, la testa che girava a entrambi…
 
Ranma poteva sentire il respiro di Akane farsi sempre più corto e lei vide nella penombra il pomo d’adamo di lui oscillare mentre deglutiva.
 
Le mancava l’aria e, ipnotizzata da quel piccolo movimento, avvicinò il viso al collo di lui, poggiò il naso sulla sua pelle, e inspirò.
 
Fu scosso da brividi.
 
Cosa… cosa stava facendo? E lui cosa diavolo aveva detto poco prima? Che l’amava?!
 
*Oh kami…*
 
Sì. L’amava. E non l’avrebbe più negato. Non l’avrebbe persa, non l’avrebbe lasciata andare.
 
Niente valeva quel respiro sul collo, niente quel profumo.
 
Si sentì colmare da una nuova consapevolezza, da un nuovo coraggio. Un coraggio che lo spingeva verso di lei, lei che era lì e lo attirava a sé come fa la dolce terra con un frutto maturo che, appeso ancora per miracolo al ramo, vuole raggiungerla e rotolarvisi.
 
A malicuore però la fece staccare da sé. La allontanò appena, quel tanto per guardarla negli occhi, in quegli occhi così lucenti nel buio dello sgabuzzino, così intensi.
 
E avvicinò una mano tremante al suo viso.
 
Ma come sfiorò la guancia di Akane gli parve di scottarsi e si ritrasse.
 
Lei sentì una piccola scossa - Ranma aveva detto di... amarla?! -, ma non era doloroso - Ranma aveva detto di amarla!!-, ne voleva ancora di scosse così.
 
Se il volto era troppo rovente per essere avvicinato, avrebbe aggirato l’ostacolo! Era o non era un artista marziale?
 
La attirò a sé e le stampò bacio sul capo.
 
Ad Akane mancò un battito.
 
Perfetto, non si era ustionato, poteva continuare.
 
Lentamente avvicinò il viso a quello di lei...
 
Era vicino, era tremendamente vicino!... Akane chiuse gli occhi. E sentì le labbra brucianti di lui sulla sua palpebra.
 
Sussultò.
 
Aveva mai provato una sensazione tanto dolce?
 
Non riusciva a credere di averlo fatto, di averle dato un bacio su quell’occhio splendido anche quando era chiuso… e lei non aveva detto niente, lo stava lasciando fare!
 
E lui si stava lasciando un po’ troppo trasportare, dannazione…
 
Quel tenero bacio era stato un assaggio, e ora non riusciva a fermarsi, ne voleva ancora un boccone, solo un altro…
 
Vide quella linea deliziosa tra il lobo dell’orecchio e la mandibola e vi abbandonò un altro bacio, indugiandovi appena più del dovuto.
 
La sentì vibrare, o forse erano le sue labbra che tremavano?
 
Non capiva più nulla. Sapeva solo che lì, a pochi millimetri c’erano le labbra di lei, rosse, invitanti…
 
Ma non osava immaginare quale castigo toccasse al temerario che tentasse di conquistarle.
 
Perciò si accontentò di assaggiarne timidamente un angolo.
 
Fu un attimo.
 
Le mani di Akane si strinsero alla sua casacca all’altezza del petto, lo strattonarono, “Ranma…anch’io ti amo…”, e lui smise di farsi domande e si ritrovò ad assaporare finalmente quelle labbra.
 
Gli si fermò il cuore.
 
E a lei mancò definitivamente l’aria.
 
Ma a chi importava?
 
Fu un’esplosione di suoni e colori, una scossa che da quelle labbra si propagò vibrante fin nelle profondità dei loro corpi.
 
Ogni bacio dato raddoppiava immediatamente, aumentando in urgenza, dolcezza, desiderio.
 
Presto persero il conto.
 
Akane sentiva le mani di lui stringerle la nuca e tirarla a sé, il proprio petto pigiato contro quello muscoloso di lui, che si alzava e abbassava come un mantice.
 
Ancora una volta le venne in mente il mare.
 
Il mare che non conosceva, che le aveva descritto Obaba nei suoi racconti.
 
Così ci si doveva sentire cullati dal mare.
 
Ogni bacio di Ranma era come un’onda che le lambiva le carni, un’onda sempre più lunga e avvolgente, sempre più frizzante eppure calda, perché la sua pelle si stava abituando all’acqua.
 
Si lasciò travolgere da quel movimento inarrestabile.
 
Infilò le dita tra i capelli di lui e godette di quel momento di cedimento che percepì sotto il suo tocco.
 
E d’un tratto si rese conto che le labbra non le bastavano più, mentre il collo di lui se ne stava lì, così indifeso, così invitante… Glielo baciò languidamente e notò con soddisfazione di aver provocato un brivido al suo codinato.
 
Ma poi tornò come una calamita alle  sue labbra carnose, per sfiorarle, e morderle di nuovo.
 
Non riusciva a resistere a tutto quel trasporto. Ranma era lì, con lei… ancora non poteva crederci…
 
Nessuno le aveva mai spiegato che nome avessero le sensazioni che stava provando, né come andassero compiuti tutti quei gesti… Eppure sentiva una forza primigenia guidarla, muoverla con dolcezza e puntualità in quella danza di piacere e di scoperta.
 
E Ranma?
 
Ranma stava perdendo il suo stesso confine in quell’abbraccio inebriante.
 
Akane… era lì! Tra le sue braccia! I loro corpi erano roventi, la pelle inspiegabilmente sensibile, anche il più leggero spostamento d’aria la faceva fremere.
 
*Akane mi ama… mi ama!*
 
Era la prima volta che teneva così stretto un corpo di donna, ed era quello – oh kami!- era proprio quello della donna che amava da sempre, della donna che aveva visto crescere e che desiderava avere accanto, proteggere, annusare, toccare, possedere.
 
La strinse forte a sé, con disperata urgenza.
 
E lei si aggrappò a lui in quell’abbraccio senza parole, ma che aveva tanti significati.
 
In quell’abbraccio tra la biancheria ormai stropicciata di quello stretto sgabuzzino, nel cuore della casa, inaccessibile e buio, e allo stesso tempo al centro dell’universo, in uno spazio infinito in cui tutto diventava possibile anche per loro.
 
Per Ranma e Akane.
 
 
 
 
--
 
Ed eccoci finalmente alla fine di questo sofferto capitolo!
Chiedo perdono per il terribile ritardo con cui aggiorno, ma come ho accennato a qualcuna di voi, sono –per fortuna- molto impegnata in questo periodo, lavorativamente parlando, e sono stata in giro, lontano dal computer per diversi giorni.
Ma spero di essermi fatta perdonare, almeno un po’… Per non parlare della meravigliosa sorpresa che mi ha fatto Spirit99 e che aggiunge lustro a questo aggiornamento! Davvero non ho parole… Antonella ha saputo cogliere quel momento così dolce e impacciato tra i nostri due testoni del  capitolo 2, dandogli vita e colore… Mi sono emozionata moltissimo…
 
Un abbraccio a tutti voi che mi state continuando a leggere, nonostante i ritardi!
 
InuAra

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Capitolo 5
*** Se ti senti di amare uno di dura scorza come me ***


Vedi, io non conosco smancerie d’amore,
Ketty, so dir soltanto, chiaro e netto:
“Io t’amo”
(…)
Dimmi perciò, qual è la tua risposta,
Ketty, sinceramente e senza ambagi.
(…)
Per la Vergine, Kate,
se pretendessi ch’io per amor tuo
cominciassi a ballare e a poetare,
mi metteresti veramente a terra!
(…)
Se, per guadagnarmi il tuo favore,
dovessi fare una partita a pugni
allora sì, saprei menar le mani
(…)
So fare solo schietti giuramenti
quando siano davvero necessari,
e tali che, una volta pronunciati,
niente potrebbe farmi rinnegare.
Se ti senti di amare, Caterina,
uno di dura scorza come me,
(…)
prendimi per marito.
 
Henry V – William Shakespeare
 


 
 
“In uno sgabuzzino?!”
 
“Sshh!!! Ryoga! Cosa diavolo urli?!”
 
Gli occhi stralunati del ragazzo con la bandana erano fissi su Ukyo, rossa in volto.
 
“Se sapevo che avresti reagito così non ti avrei detto nulla! Ma la vuoi smettere di fare quella faccia? E mi raccomando acqua in bocca!”
 
“M-mi sembra il minimo…”
 
Ryoga stava tornando a respirare e si guardò intorno. Si trovava nel cortiletto davanti alle cucine, lontano da orecchie indiscrete, per fortuna, e la giovane ancella l’aveva appena messo al corrente sugli ultimi sviluppi.
 
La sua principessa e quell’idiota di Ranma.
 
Non potè fare a meno di sorridere. E così ci era riuscito!
 
Ma subito il buon senso tornò a fare capolino.
 
“Ma è una cosa assurda… Lei… lei è la sua principessa!”
 
“E allora?”, era evidente che Ukyo aveva già combattuto quella battaglia, e si era arresa, “Akane-san lo ama… e lui ama lei…”
 
“Ma non si può! E’… è sbagliato!”
 
“Perché?! In fondo tutti la amano! Anche tu… ami la principessa”
 
Le ultime parole furono un soffio, il viso basso, gli occhi che sbirciavano una sua qualche reazione.
 
E la reazione di lui arrivò. Inaspettata.
 
Una mano calda si avvicinò al viso si lei e l’accarezzò.
 
Ma come? Era mosso da tanto fervore e ora era improvvisamente così calmo e dolce?…
 
“Ti sbagli, Ucchan. Io ‘venero’ la principessa, ma non la amo di certo! Non potrei mai amarla. C’è una bella differenza”
 
La sua voce era così ferma e gli occhi fissi nei suoi così limpidi e… appena un po’ illanguiditi, almeno così le sembrava.
 
Lei non riusciva a muoversi, il cuore impazzito.
 
Lui continuò, la voce un po’ meno ferma.
 
“L-l’amore è un’altra cosa, credo”
 
“Cosa?”
 
Ebbe appena il coraggio di sussurrare.
 
“Non so… Poter stare anche solo accanto a una persona e sentirsi appagati così. Desiderare vederla sorridere, non avere segreti con lei, mostrarsi forti o deboli senza alcun timore, e… pensare a lei come alla propria casa… S-sì… questo, credo”
 
Stranamente anche il suo volume si era abbassato gradualmente. E la mano era ancora lì, sulla guancia di Ukyo.
 
“G-già… Ecco, appunto! Lo capisci che questo è esattamente quello che provano quei due?!”
 
Aveva riportato il discorso lì dove era cominciato, tanta era la paura di… Di cosa poi? Era meglio non pensarci…
 
Quelle parole… quelle parole l’avevano stordita, e non poco.
 
Stordito sembrava anche Ryoga, che ritrasse la mano dal volto caldissimo e rosso di Ukyo.
 
Possibile che la sua pelle fosse così calda? Si accorse che era venuto un gran caldo anche a lui, eppure l’aria era fresca…
 
Ma poi perché si faceva domande così stupide? Meglio tornare a concentrarsi sul problema principale…
 
“S-sì, lo capisco, ma rimane il fatto che lei sia una principessa e lui un ragazzo che non conosce neppure il nome di suo padre!”
 
“Ma in fondo cosa importa?”
 
Gli occhi dell’ancella brillavano.
 
“In fin dei conti sono solo due persone che si cercavano e finalmente si sono trovate. Quand’è così temo non ci siano barriere o differenze che tengano. Non so… lui potrebbe anche essere… boh… dimmi la prima cosa assurda che ti viene in mente…”
 
“Non so… Una ragazza dai capelli rossi?!”
 
“Per esempio! Lui potrebbe anche essere ‘una ragazza dai capelli rossi’e Akane comunque si innamorerebbe di lui, ne sono certa! Ma che hai da ridere?”
 
“Ahahah!! Ranma, una ragazza dai capelli rossi! Oh kami, me lo immagino perfettamente, col suo ridicolo codino rosso!”
 
Non riusciva a smettere di spanciarsi dalle risate figurandosi quell’immagine improbabile.
 
“E piantala! Guarda che pure tu, se anche fossi… non so… un porcellino nero… io…”
 
Ryoga si bloccò di colpo e  la guardò.
 
“Tu…?”
 
Gli parve di vederla improvvisamente in difficoltà.
 
“Beh, io… io… continuerei a prenderti comunque a calcioni!... Vai a prendere l’acqua che ti avevo chiesto!”
 
Non riuscirono a trattenere uno scoppio di risa, dal sapore strano, misto a un pizzico di agitazione, e, a malincuore, si allontanarono l’uno dall’altra.
 
Poi lui si voltò di scatto.
 
“Comunque mi hai convinto, credo che tu abbia ragione!”
 
“Ma certo che ho ragione! E lo sai, vero, che ora contano su di noi…”
 
“E c’è da chiederlo? A dopo!”
 
“A dopo... Ah, e non perderti, questa volta!”, si raccomandò prima che lui sparisse completamente dalla sua vista.
 
 

Quello non era che l’inizio.
 
Nei giorni che seguirono, il patto tra Ukyo e Ryoga fu onorato ben più di una volta.
 
Ci furono altri sgabuzzini.
 
E tetti.
 
E angoli nascosti.
 
L’ancella e il servo di palazzo Tendo si ritrovarono a coprire Ranma e Akane che continuavano a cercarsi e a rubare qualunque momento capitasse loro a tiro per un incontro furtivo.
 
Non era una cosa facile: il palazzo pullulava di servi e guardie, Kuno era spesso tra i piedi, Kodachi aveva occhi dappertutto, senza contare che Soun-sama richiamava spesso a sé il proprio paggio.
 
E pure i due diretti interessati sapevano che non tutto era come prima, che era impossibile pensare di incontrarsi con la stessa naturalezza di una volta, che gli si leggeva in faccia che qualcosa era cambiato.
 
Si sentivano nelle vene una strana e confusa euforia, che li muoveva e li lasciava scombussolati a temere e contemporaneamente ad assaporare il gusto del proibito del loro nuovo legame.
 
Erano allo stesso tempo felici come mai nella vita e terrorizzati che quella felicità fosse loro rubata da un momento all’altro.
 
Temevano di essere scoperti ma sfidavano il mondo, si consumavano nel senso di colpa nei confronti di Soun ma contemporaneamente si facevano beffe dell’intero palazzo, divertendosi tremendamente.
 
 
***
 
 
Il settimo giorno, il giorno del primo torneo di sfida, raggiunse un Kuno Tatewaki totalmente ignaro di quella situazione.
 
In attesa di quel primo grande giorno, il nobile signorotto non aveva fatto altro che pavoneggiarsi con la fidanzata divorandola con uno sguardo vorace ogni qualvolta la incrociava in un corridoio e lucidando teatralmente la propria katana.
 
Diversi ‘sfidanti’ furono accolti nel giardino antistante la Sala Grande, bardato con cura per l’occasione.
 
Sembravano essere stati scelti accuratamente: appartenenti all’alta nobiltà, poca presenza di spirito, sguardo insignificante, maniere ossequiose. Sembravano lì per ingraziarsi il loro futuro signore, altro che sfidarlo!
 
Questo almeno parve a Ranma che osservava non visto, appiattito contro il tetto, mordendosi il labbro inferiore.
 
Accanto a lui, stessa posizione, Akane.
 
“Cosa darei per essere lì a sfidarlo! Lo batterei, questo è certo, e ti libererei da questa sciocca promessa!”
 
Akane sorrise tristemente. Sì, sarebbe stato bellissimo. Bellissimo il risultato, bellissimo vederlo combattere, bellissimo vedergli guardare gli altri a testa alta!
 
Gli strinse la mano e il sorriso si scaldò, contagiando anche il codinato per una frazione di secondo, il tempo di rendersi conto che il combattimento era iniziato.
 
“Guarda, cominciano!”
 
Ma qualunque aspettativa avessero, venne presto disattesa: si resero conto che quello era tutto tranne che un vero torneo. Gli sfidanti – che razza di nome poi, per quei rammolliti! - venivano battuti facilmente, uno dopo l’altro, forse perché ben istruiti o, peggio ancora, per accattivarsi i consensi del loro avversario.
 
Kuno si beava dei suoi trionfi cercando con lo sguardo la principessa che non si era presentata, e accontentandosi di omaggiare un compiaciuto seppur distante Soun-sama, accanto al quale sedeva una Kodachi agghindata per l’occasione ufficiale, che accarezzava avidamente la mano del marito.
 
Incrociò lo sguardo del fratello, uno sfavillìo negli occhi.
 
Nel ricambiarla, Kuno sentì crescere in lui il desiderio di rivalsa su quell’ostinata della sua promessa sposa.
 
Ranma, pur da lontano, colse una nota insana in quegli occhi che si rimpicciolivano di stizza, vittoria dopo vittoria, e senza rendersene conto si ritrovò a stringere sempre più forte la mano della sua principessa.
 
 
 
***
 
 
 
“Akane Tendo! Akane Tendo!”
 
Era ormai il tramonto e la voce di Tatewaki tuonava boriosa.
 
In tutta risposta lei si affacciò dalla sua stanza, lo sguardo fiero, incurante di una Ukyo che, all’interno, si sbracciava tentando di dissuaderla dalla sfida aperta.
 
“Avete visto, mia cara?”
 
La voce di lui, rabbiosa, era tenuta malamente a bada da un tono elegante e mellifluo.
 
“Stoltezza dimora nell’animo di colui che osa piegare il divino. Nessuno può sconfiggere il grande Kuno Tatewaki, mettetevelo in testa”
 
“E’ solo il primo giorno e non significa nulla”
 
La voce di Akane era calma e sicura.
 
“Il primo vittorioso giorno di una serie di trionfi”
 
“Può darsi, ma non sarò mai vostra moglie”
 
“Questo lo dite voi. Vi prometto che presto lo diventerete. E’ la mia parola contro la vostra”
 
“Se solo faceste combattere chiunque e non solo quelli che selezionate voi!...”
 
Il tono della principessa si stava pericolosamente scaldando e l’ancella le fece segno invano di non continuare.
 
“Ah ah ah! E chi? Qualcuno dei vostri cari servi, forse? Andiamo, Akane Tendo, non lo permetterei mai! Niente donne, vecchi o straccioni”
 
E detto questo, ritrovato non si sa come il buonumore, si dileguò.
 
“Che vigliacco astuto demonio!”, si lasciò sfuggire tra i denti Ukyo. Con quella mossa Kuno aveva tagliato fuori anche Obaba e Happosai, che avrebbero potuto batterlo anche a occhi chiusi.
 
Akane tremava di rabbia.
 
Avrebbe trovato il modo di calmarla.
 
E Ryoga avrebbe calmato Ranma, che certamente se ne stava furioso come un animale in gabbia da qualche altra parte del palazzo.
 
Ma per quanto ancora avrebbero potuto sostenere quella situazione?
 
 
 
***
 
 
 
“Quattro settimane!”
 
Kuno Tatewaki, armatura da samurai ancora indosso, fronteggiava Soun-sama nella Sala Grande.
 
“Sono passate quattro settimane da quando ho indetto questi tornei e oggi per la quarta volta ho incontrato e battuto i più valorosi guerrieri di tutto il Giappone! Cosa ancora devo fare per meritarmi la mano di vostra figlia?!”
 
“Caro ragazzo, non capisco… Per quanto mi riguarda la mano di mia figlia è sempre stata vostra. Vi avevo chiesto pazienza, la notizia è dura per lei da assimilare…”
 
“La mia pazienza finisce qui. Vostra figlia sarà mia moglie quanto prima. Ho voluto darle prova del mio valore e assecondare il suo capriccio, ma questo ha solo acuito la sua superbia, non sarò più così magnanimo”
 
Soun sospirò grave.
 
“E sia. La mia decisione l’ho presa tempo fa e vi resto fedele. Vi chiedo solo un mese ancora. Un mese per preparare un degno matrimonio alla mia bambina”
 
Kuno lo fissò truce, riflettendo.
 
“Un mese. E poi Akane Tendo diventerà mia moglie”, acconsentì, uscendo dalla stanza.
 
Nel silenzio che si lasciò alle spalle, improvvisamente rimbombò la voce del principe Soun.
 
“Mandate a chiamare immediatamente Obaba e Happosai!”
 
 
 
***
 
 
 
Era notte ormai e si era sollevata una brezza pungente.
 
Akane si strinse nel kimono.
 
Stava aspettando Ranma, seduta sul loro tetto, sulle stesse tegole su cui aveva capito di… amarlo.
Possibile che il solo pensiero di quella nuova realtà ancora la facesse tanto arrossire?
 
Da allora c’erano stati baci e parole, e sorrisi e incontri segreti e sussurri e le loro solite complicità e… litigate, ovviamente.
 
Poco più di un mese, e nonostante la precarietà di quel mese, le sembrava ogni giorno di essere avvolta dalle braccia di una divinità benevola, che la sollevava da terra, facendola volteggiare leggera e libera.
 
Ma libera non era, e se ne ricordò immediatamente quando incrociò quello sguardo.
 
Non era di Ranma, ma di qualcuno che non si aspettava di vedere lì, sul tetto, a quell’ora.
 
 
***
 
 
“Ranma, dannazione, qui fai più danni che altro! Vai, ci penso io!”
 
Ryoga scostò il ragazzo che sovrapensiero stava tentando di preparare i cavalli di casa Tendo per la notte, col risultato di annodare briglie e cospargere il terreno di avena di ottima qualità.
 
Il quarto torneo di Kuno era finito nel pomeriggio e a lui – quanto avrebbe voluto combattere al posto di quegli inetti! - era toccato riportare i destrieri a ogni membro della nobiltà in partenza, accorsa a palazzo per l’evento. Un grande onore, a detta di Soun-sama. Una perdita di tempo per lui che solo adesso stava finendo di risistemare la stalla e che fremeva sapendo che Akane lo stava aspettando.
 
“Hai detto qualcosa?”
 
“Vai, idiota! Pensare ai cavalli è sempre stato compito mio. Va’ da lei”, concluse con una pacca sulla spalla.
 
In tutta risposta Ranma sorrise grato all’amico e si apprestò a balzare sul tetto.
 
“Aspetta ragazzo”
 
Chi aveva parlato?
 
“C’è una cosa molto importante che è bene che tu conosca al più presto”
 
 
 
***
 
 
 
“O-Obaba… Che ci fai qui?”
 
“Bambina mia… cercavo te”
 
I suoi occhi grandi erano tristi e la voce spezzata.
 
“C-cosa…?”
 
In tutta risposta la vecchia prese tra le sue manine rugose quella tremante e bianchissima di Akane.
 
“Perdonami, bambina. Sono stata incaricata di avvisarti che… a un mese da oggi diventerai la moglie di Kuno Tatewaki”
 
Il tempo si fermò.
 
Gli occhi di Akane si dilatarono di orrore.
 
Magari il tempo si fosse davvero fermato: quel momento che lei aveva tanto temuto e che ora era stato ufficialmete fissato non sarebbe mai arrivato.
 
“No… no Obaba! Questo non può accadere!... Io… Ranma…”
 
“Lo so, bambina, non hai bisogno di dirmi nulla”
 
“Tu… tu sapevi…tu sai..?”
 
Obaba sorrise mestamente.
 
Bastò a far scoppiare Akane in lacrime.
 
 
 
***
 
 
Happosai si mostrò alla luce delle torce.
 
Né Ranma né Ryoga l’avevano mai visto così serio.
 
“Parla, vecchio! Che vuoi dire?”
 
Era stato Ranma a rompere il silenzio, ma se non l’avesse fatto, Ryoga era già pronto a pronunciare le stesse parole.
 
“Soun-sama ha chiesto a me e a Obaba di avvisare la principessa che la data del matrimonio è stata ufficialmente fissata a un mese da oggi”
 
Niente giri di parole, secco, diretto, impietoso.
 
“Perché lo stai dicendo a me, vecchio, che c’entro io?”
 
“Andiamo, Ranma, il tuo maestro sa vedere ben oltre le apparenze, non credi?”
 
A Ranma bastò incrociare appena il suo sguardo per sentire un nodo in gola e ogni suo tendine cominciare a tremare.
 
Gli occhi del vecchio dicevano la verità.
 
 
 
***
 
 
 
“Oh, Obaba, cosa posso fare? Dimmelo, cosa?”
 
“C’è sempre una soluzione, piccola mia”
 
Le accarezzava i capelli, materna.
 
“E quale?”
 
Le diede un tenero bacio sulla fronte.
 
“Combatti per non perdere quello che hai, a qualunque costo!”
 
Le lacrime si fermarono.
 
A qualunque costo.
 
Si voltò verso Obaba, ma la vecchia era già sparita.
 
 
 
***
 
 
 
“Non voglio perderla”, mormorò.
 
“R-Ranma…”
 
A parlare era stato Ryoga che stava lottando per non far fuoriscire le lacrime da quegli occhi sbarrati. Lacrime di rabbia, lacrime da uomo, beninteso. Che non si dicesse che Ryoga era uno dall’animo sensibile!
 
“Non la perderai, se lotterai per lei”, continuò Happosai per lui.
 
“In che modo?”
 
Stava cercando una soluzione, ma dannazione vedeva solo divieti!
 
“Ci sono molti modi, ragazzo mio. Impara a guardare al mondo coi tuoi occhi, Ranma, e non con quelli di un orfano adottato come paggio”
 
Alzò lo sguardo.
 
Sì. Lui era Ranma. E nessuno avrebbe mai e poi mai allontanato Ranma da Akane. Questo era quanto.
 
“Grazie, vecchio, ora so cosa devo fare!”
 
E iniziò a correre.
 
 
 
Si fermò solo quando sentì le braccia di lei cingergli la schiena.
 
L’aveva trovata lì dove si aspettava, il viso bagnato, ma lo sguardo combattivo.
 
Si era praticamente avventato sulla sua Akane, l’aveva attirata a sé ed ora era lì a tentare di riprendere fiato col viso affondato tra quei capelli color della notte.
 
“Ranma…”
 
“Lo so, lo so già! E non mi lascerò sconfiggere da una cosa del genere!”
 
Il suo tono era infervorato e continuava a stringerla, come se così facendo nessuno gliel’avrebbe portata via.
 
Lei si scostò da quell’abbraccio soffocante.
 
“Se è per questo neanch’io!”
 
Stringeva il pugno con orgoglio, tastandosi il bicipite di quel braccio forte eppure così affusolato.
 
“Sei proprio un maschiaccio!”
 
Non potè fare a meno di sorridere.
 
“Il ‘mio’ maschiaccio!”, continuò zittendola.
 
“Che intendi fare, sapientone?”
 
Scherzava, col viso di lui tra le mani, occhi negli occhi, ma sapeva che si trovavano in equilibrio sul ciglio di un burrone.
 
In risposta la baciò.
 
Se doveva stare su quel dannato ciglio di quel maledetto burrone, almeno voleva starci baciandola.
 
Quel bacio era urgenza, era desiderio, era fatto di parole non dette.
 
“Non voglio… perderti…”
 
E lei rispose con altrettanta passione.
 
“Neanche… io”
 
E poi, qualcosa arrivò a bruciapelo, tradendo il naturale strascico di quel bacio.
 
“Sposami”
 
Si staccarono guardandosi negli occhi increduli ed eccitati.
 
Spo-sa-mi.
 
Avevano pronunciato quelle stesse sillabe entrambi nel medesimo istante.
 
Sì, il loro legame avrebbe sfidato la società, il padre, la tradizione.
 
Ma che diavolo! Sarebbero stati l’una dell’altro, davanti al mondo degli uomini e al mondo dei kami.
 
“Lo sai che non ce lo faranno mai fare, vero?”, sorrideva, il fiato sospeso, la sua fronte contro quella di lei.
 
“E noi lo faremo di nascosto, ovviamente”, lo canzonò.
 
Di colpo si fece serio.
 
“Sei davvero disposta a rinunciare a tutto pur di stare con me?”
 
“Baka! Non rinuncerò a nulla, se avrò te”
 
“Ma io non ho neanche un nome da darti…”
 
“Che cos’è, poi, un ‘nome’? Io voglio te, mica il tuo nome!”
 
Gli diede un pugno sul petto e lui la sollevò senza lasciarla un momento, per riabbracciarla più forte di prima.
 
“E allora avrai me: un baka in piena regola!”
 
 
 
Mai dichiarazione era stata più strampalata.
 
Eppure non c’era bisogno di tante parole.
 
Né lui né lei erano fatti per le parole.
 
Per i pugni, piuttosto.
 
Per i fatti, a voler essere più seri.
 
E nei fatti, quei due testoni si appartenevano, a dispetto di tutto e di tutti, a dispetto anche di loro stessi.
 
E avevano appena deciso di appartenersi per sempre.
 

 
---
 

Ciao a tutti!!
 
Un grazie speciale a tutti coloro che nonostante i miei ritardi stanno continuando a seguirmi!
Se poi lasciate un commento non potete che riempirmi di gioia!
 
Prometto inoltre solennemente che continuerò a scrivere regolarmente, anche se temo non riuscirò a pubblicare con una cadenza settimanale. Diciamo ogni quindici giorni, giusto per mettere le mani avanti! ;-))
 
Riguardo alla storia, mi sembra di continuare a scrivere capitoli che non portano realmente avanti l’azione e di questo mi scuso terribilmente, ma confido che presto qualcosa si sbloccherà. Soprattutto, da trama, avevo bisogno di far passare un po’di tempo e io, amante ossessiva del dettaglio, mi sono ritrovata un po’ spiazzata. Chiedo venia. Ogni consiglio è più che gradito!!!
Intanto qualcosa qui, almeno alla fine, finalmente succede!
 
Un abbraccio grande e grazie delle bellissime parole che continuate a lasciarmi!
 
InuAra
 
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** Non ammetterò impedimenti al matrimonio di due menti sincere ***


 
Non ammetterò impedimenti al matrimonio di due menti sincere.
L'amore non è amore se si altera di fronte a degli ostacoli.
 Oh no, è un punto fissato per sempre che osserva le tempeste e non ne è mai scosso.
È la stella cui si riferisce ogni barca alla deriva.
 
Sonnet 116 – William Shakespeare
 
 
 
 
 
Avete presente uno di quei bizzarri magici momenti in cui provate una tale felicità - mista ad una insana euforia – che non riuscite a trattenerla e vi sfugge di mano, andando a illuminare, volenti o nolenti, il vostro sguardo e regalando alla gola un fastidioso pizzicore, per eliminare il quale vorreste solo urlare a squarciagola la vostra gioia?
 
Avete presente proprio uno di quei momenti, in cui, pur provando tutto questo, sarebbe meglio nasconderlo accuratamente, ma temete che il corpo vibrante, i movimenti affrettati, i sospiri, le risatine improvvise vi tradiscano irreparabilmente?
 
Ecco, a palazzo Tendo due ragazzi stavano vivendo esattamente uno di questi momenti.
 
C’è da chiederlo?
 
Proprio loro: Ranma e Akane.
 
E la cosa andò avanti per un po'.
 
Almeno fino a quel giorno.
 
Ancora un tramonto, uno soltanto, e anche quel pomeriggio sarebbe scivolato via.
 
E poi…
 
Ranma fu richiamato al presente.
 
“Come dite, mia signora?”
 
“Dico che siete distratto, oggi, Ranma-kun… Non volete raccontare alla vostra padrona cosa vi impensierisce?”
 
Ah già, si trovava in una delle tante stanze di passaggio della ricca dimora, dove era stato incaricato da Soun-sama di recapitare alla giovane moglie un ricco ventaglio dipinto, come dono per il viaggio che avrebbero dovuto intraprendere quella sera stessa.
 
Niente di impegnativo, giusto una quindicina di miglia, il tempo di raggiungere uno dei loro vassalli e discutere di alcune questioni amministrative.
 
Un giorno o due lontani dal palazzo.
 
Quanto bastava per…
 
“Perdonatemi, Kodachi-sama”
 
Che idiota, non doveva farsi beccare con lo sguardo perso nel vuoto, a contare i minuti che lo separavano da…
 
Si affrettò a raccogliere il ventaglio che era sfuggito lascivo dalla bianca mano di una Kodachi che, circondata da numerose ancelle, non lo perdeva di vista un momento.
 
“Devo andare, Soun-sama ha bisogno di me”, e con elegante rapidità riuscì a congedarsi prima che la donna potesse dire qualcosa.
 
Non era il padre ma la figlia che avrebbe voluto vedere, in quel preciso momento.
 
Desiderio mosso principalmente dalla necessità di trovare nello sguardo di lei la certezza che stava accadendo tutto realmente.
 
E non solo da quella necessità, ovviamente.
 
Ma doveva aspettare, e tenersi impegnato. Era possibile che quel dannato pomeriggio il tempo si fosse dilatato, per non decidersi a scorrere?
 
 
 
***
 
 
 
E così quel giorno era arrivato, alla fine, il primo giorno utile tra tanti, quello giusto.
 
Oh, non erano poi passati tanti giorni, in fondo, si disse Akane mentre camminava su e giù davanti alla porta del solaio, dove una trafelata Obaba stava frugando tra involti vecchi e polverosi.
 
Eppure le era sembrata un’eternità.
 
Non riusciva a stare ferma, non riusciva a stare nel presente.
 
La sua mente vagava tra le imminenti ore future e le immagini del recente passato che le balenavano improvvise.
 
Un turbinìo di emozioni indomabili.  E al centro, lei, sballottata irrimediabilmente, eppure così lucida.
 
Tutto era stato ponderato, nulla era stato lasciato al caso, nonostante si sentisse in quel momento impulsiva come mai nella vita. 
 
A stento trattenne una risata, ricostruendo l’espressione di Ucchan, che solo nove giorni prima, accogliendola in camera a tarda notte, si era lasciata sfuggire più di una lacrima al racconto sconnesso ed infervorato di quella pazza dichiarazione di matrimonio. Non aveva potuto non ridere, di nervoso e felicità, contagiata dalla sua principessa, e questa volta non si era impedita di abbracciarla con trasporto, al diavolo l’etichetta!
 
E poi era arrivato il momento dei ‘nonnini’, che tanta parte avevano avuto nell’indirizzare i loro cuori…
 
‘Quei due saggi vecchiacci!’
 
Accidenti a Ranma e a quella sua faccia impenitente! Quanto erano in debito con loro! E lui continuava ad apostrofarli con così poco rispetto…
 
Sorrise, scuotendo la testa. La verità era che era molto legato a loro e gli voleva un gran bene, anche se non l’avrebbe mai ammesso… E loro ne volevano a lui. E a lei, in maniera incondizionata.
 
Altrimenti non avrebbero trovato per loro quella inaspettata benefica soluzione. Se di ‘benefica soluzione’ si può parlare quando si architettano un matrimonio segreto e una fuga d’amore.
 
 
“Ascoltatemi bene, ragazzi miei… Akane-chan, tra nove giorni tuo padre e la sua sposa”, Obaba represse a stento una smorfia, “partiranno per un paio di giorni, un viaggio stabilito da tempo, che non può essere rimandato. E Kuno andrà con loro”
 
“Io stesso persuaderò Soun-sama a portarselo appresso…”, aggiunse Happosai, “…in quanto futuro erede delle sue terre”
 
Questa volta fu Akane a reprimere a stento una smorfia.
 
“La sera della loro partenza”, continuò l’anziana donna, “sarà il momento giusto. Poche guardie e maggiore libertà di movimento”
 
“Sì, ma come faremo a uscire dal palazzo non visti?!”
 
“Pazienta, ragazzo, pazienta!”, lo ammonì il vecchio.
 
Akane semplicemente assisteva, incredula, a quello scambio.
 
Come era possibile anche solo immaginarlo? Uscire da… palazzo?! Lei…?!
 
“La mattina dopo, come ogni decimo giorno del mese, ci farà visita il mercante dalle coste orientali. Hachiro, un mio vecchio amico. Non farà domande se io gli darò in custodia due grandi barili, chiedendogli di frustare senza tregua i cavalli fino ai boschi intorno a Hakata, per poi scaricarli nella macchia e andarsene senza voltarsi. Una volta che sentirete il carro allontanarsi uscirete dai vostri due nascondigli. Lì non sarete troppo lontano dal porto. E, vestiti come sarete in maniera dimessa, nessuno vi farà troppe domande quando salirete su una delle barche che ogni giorno salpano per la Cina”
 
Come se questa parola le spettasse di diritto, Obaba si intromise nel discorso: “E una volta approdati a Yangzhou, nella mia Cina, cercate la locanda ‘Ko-Lun’. Lì vi accoglierà una mia vecchia conoscenza. Le ho già scritto spiegandole ogni cosa. Chiedete della signora Nodoka (1) e sarete come a casa vostra”
 
“Nodoka? Sicura che non stai perdendo colpi, vecchia? Ci mandi in Cina a casa di una donna giapponese?”
 
Una gomitata di Akane ben assestata impedì al ragazzo di continuare a dare sfogo alla sua strafottenza.
 
“Curiosi, eh, i casi della vita, caro ragazzo? Lei nata in suolo nipponico si è ritrovata a gestire una locanda nella mia terra, e io, amazzone cinese, eccomi qui da decenni al servizio della venerabile famiglia Tendo”
 
Akane le lanciò uno sguardo carico di riconoscenza e questo bastò a lenire il breve cedimento nostalgico di Obaba.
 
“Comunque, è una brava donna: sarà per voi una madre finchè sarete lì”
 
Una madre. Per lei e per Ranma, che non ne avevano avuta una… E poi il mare, la Cina, una nuova vita…
 
 
 
“Akane? L’ho trovato”
 
Si riscosse da quei pensieri, troppi tutti insieme, e guardò la vecchia donna uscire dalla soffitta con i bianchi capelli scompigliati e lo sguardo fiero.
 
“L’ho trovato finalmente, l’avevo nascosto davvero bene, ma sapevo che si trovava qui”
 
Akane la guardò interrogativamente. Ancora non capiva.
 
Si era imbattuta in Obaba circa una mezzora prima, mentre schivava quattro portantine cariche di regali per il suo matrimonio.
 
Quello con Kuno ovviamente, i cui preparativi erano cominciati da nove giorni e che si sarebbero fermati soltanto la sera precedente la celebrazione.
 
Se tutto andava secondo i piani, lei sarebbe stata molto lontano, quel giorno.
 
“Akane, vieni con me, c’è una cosa che devo darti”
 
Non aveva aggiunto altro e lei l’aveva seguita, tanto per non pensare al resto.
 
E così si era ritrovata davanti a quella soffitta, ad aspettare di capirci qualcosa.
 
Tra le mani piccole e nodose della vecchia spuntava ora una scatolina di ebano intarsiato.
 
Nel posarvi gli occhi Akane fu scossa da un impercettibile sussulto, non sapeva neanche lei perché.
 
“Aprila”
 
Un movimento lento e la principessa scoprì ciò che la scatolina custodiva: un piccolo anello di oro grezzo.
 
“Era di tua madre, bambina. Mi ha chiesto di conservarlo per lei: voleva che tu l’avessi in dono il giorno delle tue nozze”
 
“Era…della… mamma?”, ancora non poteva crederci, mentre la voce le si assottigliava e le si rompeva appena.
 
Obaba annuì compiaciuta.
 
“E’… è bellissimo!”
 
“Le piaceva molto questo anellino, così, senza pietre preziose, diverso da tutti gli altri”
 
Akane riuscì solo ad annuire.
 
“La tua mamma ti assomigliava molto, sai? La sua bellezza era lo specchio del suo spirito. Semplice e forte, incantava chiunque incrociasse il suo sguardo”
 
La sua bambina cominciò a piangere sommessamente e Obaba comprese.
 
“Non temere, piccola mia. La vita ci regala sorprese inaspettate. Non smettere mai di avere fiducia nell’animo degli altri. Arriverà il momento in cui tuo padre capirà perché stai facendo tutto questo. Ti ama profondamente, sai? E’ solo che non sa più leggere nel cuore delle persone, perché ha smesso da tempo di leggere nel suo. Sii forte, bambina, e ricorda che non sei sola”
 
“Lo so”
 
Semplicemente le sorrise.
 
“Grazie, davvero”
 
E semplicemente l’abbracciò, mentre con una mano si infilava all’anulare sinistro quel piccolo anello.
 
 
 
***
 
 
 
“Ryoga, ma la vuoi piantare di stringere a quel modo il mio kimono? Va benissimo così!”
 
Si trovavano nell’angusta stanzetta del ragazzo con la bandana. Quest’ultimo stava armeggiando da qualche minuto con la cinta del codinato, cercando di dargli un’aria sobria ed elegante, senza successo.
 
“Non va affatto bene, Ranma, accidenti a te! Devi essere perfetto! Come diavolo vuoi presentarti al tuo matrimonio?”
 
“Splendido come sempre, mi pare ovvio!”, si mostrava incurante e scherzoso come al solito, ma stava tentando di smorzare la tensione che gli attanagliava lo stomaco dal momento in cui aveva visto la luna sorgere mollemente fuori dalla finestrella dell’amico.
 
E ogni volta che veniva pronunciata la parola ‘matrimonio’, ovviamente.
 
“Splendido un corno, con questo corto kimono improvvisato… E’ l’unico di colore scuro che sono riuscito a recuperare, quello che si avvicina di più a un kimono da cerimonia, ma è vecchio e rovinato e ti sta pure un po’ largo…”
 
“Andiamo! Non darai importanza a queste cose?! E poi lo sai che dobbiamo essere vestiti non troppo diversamente dal solito. Se mai qualcuno dovesse irrompere nella mia stanza, non avremmo alcuna scusa se fossimo realmente vestiti da… da sposi!”
 
A quella parola una scarica di adrenalina lo attraversò irrefrenabile.
 
“Che idea balzana poi, questa di celebrare il matrimonio nella tua stanza…”
 
“P-perché mai? La mia stanza va benissimo e poi lo sai che sono stati i due vecchi a consigliarlo: per loro è il posto più sicuro e riservato. E’ una stanza dimenticata in egual misura dalla servitù e dalla nobiltà. Chi avrebbe interesse a entrarci?”
 
“Ah ah! Su questo ti dò perfettamente ragione! Su, fatti guardare…”
 
Ranma fece un giro su se stesso, di nuovo canzonatorio.
 
“Piantala di fare l’idiota… Mmm, accettabile, ma manca qualcosa… Ah, ci sono!”
 
 
 
***
 
 
“Ci sei, mia cara? Manchi solo tu e siamo pronti a partire, tuo fratello ci aspetta già in carrozza”
 
Nella penombra della grande camera gli occhi della moglie quasi lo abbagliarono. Eppure la voce di lei era così flebile che gli si strinse il cuore.
 
“Sto poco bene, mio caro, una terribile emicrania… Sarà colpa della luna piena… Non me la sento proprio di mettermi in viaggio”
 
Diverse ancelle le ronzavano intorno, chi le poggiava una pezza fresca in fronte, chi chiudeva accuratamente la finestra per impedire alla luce lunare di filtrare.
 
“Allora posso restare con te, Kodachi, cara…”
 
“No! Non è necessario, Soun, marito mio… Sono stanca è ho solo bisogno di dormire. Tu parti pure. Domattina sarai a destinazione e non avrai perso tempo prezioso”
 
Le posò un leggero bacio sul dorso della mano.
 
“Sarò presto di ritorno, riposati”
 
Al buio, in un silenzio innaturale, le labbra della giovane donna si piegarono in una smorfia di soddisfazione.
 
*Deve amare molto il nostro signore*, riflettè l’ultima ancella nell’atto di chiudere la porta dietro di sè, *per sorridergli anche dopo che lui ha lasciato la stanza da un pezzo…*
 
 
 
***
 
 
“Ecco qua!”
 
In un unico gesto, Ryoga si era sfilato un magatama (2) di osso e pietra, lucidato e ben tenuto, e l’aveva legato al collo di Ranma.
 
“Tutto un altro aspetto!”
 
“Ma… ma Ryoga… questo è il tuo magatama, ce l’hai da sempre, è il tuo portafortuna… Io non…”
 
“Sciocchezze! Ryoga Hibiki può certo farne a meno! Tu, piuttosto! Ne avrai bisogno molto più di me! Tienilo e non fare tante storie…”
 
Era vero, quella specie di monile, nella sua semplicità, gli conferiva un’aria più elegante, adatta alle circostanze.
 
E poi era l’unico ‘tesoro’, se così si poteva chiamare, che possedeva quel suo bizzarro compare. E se ne stava privando per lui! Era un gesto che valeva mille parole.
 
“Grazie… amico!”
 
Ma l’accenno di imbarazzo maschile che cominciava ad aleggiare nella stanza fu presto spezzato dal sordo rumore di zoccoli e ruote che si insinuò dalla piccola finestra e a cui si sommò il cigolìo lontano e il tonfo del grande portone di ingresso.
 
“Partiti. Sono… sono partiti”
 
Ancora Ranma non riusciva a crederci.
 
“E così è proprio vero… tra pochi minuti mi sposo…”
 
Un sorriso ebete si fece largo sul suo volto e il cuore in tumulto avrebbe voluto esprimere in un unico grido l’euforia, la paura, il desiderio, l’incoscienza di quella decisione segreta, della notte che li avrebbe sorpresi insieme e del mattino che li avrebbe portati lontani da lì in un’avventura eccitante e pericolosa. Il ragazzo deglutì rumorosamente.
 
“Accidenti a te, Ranma! Perché ti metti a fare discorsi seri, ora!”
 
Per il povero Ryoga tutto quello era davvero troppo. Ci aveva provato a evitarlo, oh se ci aveva provato! Ma quell’idiota si metteva a usare certe parole e lui… lui non era riuscito più a trattenersi ed era scoppiato in un pianto disordinato. Tentava di nascondere sgraziatamente gli occhi nella manica destra e contemporaneamente assestava un pugno a quella sottospecie di deficiente, stando attento a non sgualcirlo troppo però, mentre con la bocca impastata dalle lacrime si raccomandava: “Vedi di non farla soffrire!”
 
“Lo farò, stanne certo!”
 
A suon di pacche sulle spalle abbracciò con foga il proprio testimone e lo trascinò in corridoio, verso la propria stanza, dove Obaba e Happosai stavano preparando le ultime cose.
 
 
***
 
 
“Ucchan! Ucchan… Sto facendo la cosa giusta, vero?”
 
“Certo che sì, Akane-san! Respirate…”, una stretta alle spalle e la sposa si era rassicurata, confortata dallo sguardo limpido della sua confidente.
 
“Non c’è tempo da perdere, Ranma è già dentro che vi aspetta, con Ryoga e gli altri… ma prima…”, Ukyo arrossì, “Ho un regalo per voi. So che non potete vestirvi da sposa, come vorrebbe la tradizione e come voi meritereste… Sarebbe rischioso e per me sarebbe stato impossibile portare fin qui inosservata anche solo un kimono bianco, ma…”
 
Tirò fuori da sotto il proprio yukata un involto di candida stoffa, avvolgendone con uno svolazzo il capo della principessa.
 
“Questo è quanto di meglio sono riuscia a fare…”
 
Akane non riusciva a credere ai propri occhi.
 
Quando la sua ancella poteva aver confezionato quel velo improvvisato, se non di notte?
 
Se la immaginò, alla luce di una candela solitaria, quando nessuna delle compagne poteva sorprenderla, intenta a cucire assieme pezzi ricavati da lenzuola e biancheria.
 
La abbracciò di slancio, piena di una gratitudine senza parole.
 
“Andiamo, andiamo adesso!...”, si schermì Ukyo, “Aspettano solo voi”
 
 
 
Come lei varcò la soglia, lui si voltò e i loro occhi si incatenarono.
 
Immobili.
 
Lui lì, in piedi, ad aspettarla.
 
Lei lì, sospesa tra il passato e il futuro.
 
Tutto assunse un senso.
 
Le paure si dileguarono, l’ansia si vaporizzò, lasciando posto a una calma liquida e calda.
 
In quegli occhi blu come quella notte di luna lei trovò tutte le risposte che cercava.
 
In quegli occhi profondi come i segreti del mondo lui scovò il significato della sua stessa esistenza.
 
Avanzò lentamente, senza smettere di guardarlo un secondo e come gli fu accanto le bastò sfiorargli una mano per dare sfogo a tante parole, senza neanche un suono.
 
Happosai e Obaba ricacciarono indietro le lacrime. Dovevano rimanere lucidi.
 
Distogliendo volontariamente lo sguardo dalla coppia, cominciarono a mormorare formule e a dare inizio al rito.
 
Appena dietro di loro, Ukyo e Ryoga aspiravano a stringersi l’uno all’altra, senza ardire però neanche sfiorarsi.
 
Avevano tremendamente bisogno di calore in quel momento in cui, alla luce tremolante di un paio di ceri, in quella piccola stanza spartana, osservavano da dietro per l’ultima volta quel velo raffazzonato e quel’assurdo codino.
 
Non avrebbero dimenticato per molto tempo quella prospettiva privilegiata.
 
In loro, il contrasto tipico di chi ama davvero: felici per la felicità altrui, preoccupati per i rischi che correvano, addolorati per la separazione inevitabile…
 
Chissà quando li avrebbero rivisti…
 
Sospirarono contemporaneamente e nell’accorgersi della singolare coincidenza, si scrutarono con la coda dell’occhio.
 
Non sarebbero rimasti soli...
 
No, non era solo questo.
 
Avrebbero continuato ad avere accanto la persona giusta. Già, la persona giusta.
 
In silenzio, Ukyo sentì le guance bagnarsi copiosamente.
 
Ryoga doveva essersene accorto ancora prima di lei, perché già le stava porgendo un fazzoletto.
 
Gli occhi ancora fissi sulla sua signora, che stava prendendo in quel momento un sorso del sakè sacro, la ragazza prese il fazzoletto e facendosi coraggio fermò con un gesto fulmineo la mano di Ryoga prima che trovasse la strada del ritorno.
 
Un sussulto di entrambi, e con una naturalezza inaspettata dieci dita si intrecciarono tra loro, in un muto consenso all’unione che veniva celebrata poco più avanti.
 
Poco più avanti dove si celebrava un matrimonio in un silenzio ovattato, non solo per evitare ogni minimo rumore che potesse rivelare la loro presenza, ma perché non c’era bisogno di parole.
 
Gli occhi di Ranma e Akane parlavano da soli.
 
 
 
***
 
 
 
Chiuse gli occhi, in attesa, mentre la sabbia nella clessidra scorreva al buio per la seconda volta.
 
I predatori non hanno clessidre da girare, ma sanno aspettare il momento opportuno.
 
Conoscono le regole della foresta e le assecondano per uscirne vittoriosi. Ogni volta.
 
Lei sapeva che la grande casa aveva i suoi tempi.
 
Ma a un certo punto della notte anche una grande casa come quella dorme di un sonno profondo e ignaro.
 
Ancora cinque clessidre, e sarebbe arrivato il momento giusto anche per lei di uscire dal suo nascondiglio e agguantare la preda.
 
 
 
***
 
 
 
Come tutti furono usciti, furtivi e sorridenti, lui si voltò di scatto verso di lei, rosso in volto, il corto kimono leggermente di sbieco.
 
Rossa lo era anche lei, in modo ancora più evidente a paragone di quel velo bianco che le pendeva un po’ storto sulla fronte.
 
Osservarono la loro improbabilità e scoppiarono a ridere di gusto.
 
A rompere il silenzio fu Akane.
 
“Siamo…siamo sposati!”
 
“Oh kami, sì!”
 
Le sussurrò lui –ma avrebbe voluto urlarglielo-, correndole incontro e sollevandola da terra.
 
“E domani saremo lontani da tutto questo!”
 
Tornando a terra, lei sentì che i suoi piedi poggiavano su qualcosa di morbido e il loro sguardo cadde simultaneamente sul futon che era stato steso e benedetto da Obaba.
 
“Hai… hai paura?”
 
Akane lo guardò con un sorriso talmente luminoso che almeno a lui la paura passò di colpo.
 
“Potrei risponderti: ‘Ho una paura matta di tutto quello che ci aspetta’; e allo stesso tempo: ‘Neanche per sogno!’, che non ti mentirei!”
 
“Lo so, è così anche per me! E sai che ti dico? Che non mi importa! L’unica cosa che mi importa è stare con te-”, non riuscì a concludere la frase che già la stava baciando, stringendola a sé, come per paura che fosse un sogno e potesse dissolversi tra le sue dita. Ma se era un sogno voleva continuare a sognare.
 
“Mia moglie! Questo maschiaccio è mia moglie… ancora non ci credo…”
 
Lei non reagì alla provocazione, ma reagì al bacio con altri baci, desiderosa di zittire il proprio cuore in tumulto, a suon di quei baci.
 
Senza riuscirci, ovviamente.
 
Una raffica di baci che alla famigerata tecnica delle castagne che padroneggiava suo… -oh kami!- suo marito, avrebbe fatto concorrenza per precisione e velocità.
 
E per stordimento dell’avversario, ovviamente.
 
“Mio… ma-marito…”, si dava appena il tempo di ansimare, tra un bacio e l’altro.
 
Si ritrovarono non si sa come sdraiati sul quel futon, scarmigliati e senza fiato, il velo tutto da una parte, il kimono di lui per metà fuori dalla cinta.
 
In questi momenti può un ‘Sei bellissima’ disarmare anche la più crudele delle guerriere?
 
Oh, sì che può.
 
E in questi momenti può un ‘Ti amo’ far divampare un incendio improvviso in terra e al contempo entrare in risonanza con la purezza del divino?
 
Oh, sì che può.
 
E può la luce della luna delineare ciò che poco prima era appannaggio unicamente del buio, mostrando paesaggi inesplorati: vallate e colline, cascate improvvise, boschi notturni e piane innevate?
 
Oh, sì che può.
 
In momenti come questo, si può percepire il segreto del cosmo vibrare nel proprio ventre e svelarlo all’altro, per ritrovarsi insieme non più ‘uno’, non solo ‘due’, ma parte del ‘tutto’.
 
Questo scoprirono Ranma e Akane quella notte.
 
Scoprirono che una notte può avere un tempo infinito e infinite morti e resurrezioni, e durare un soffio. 
 
Scoprirono che una notte può liquefarsi in lava bollente e sudore e può essere scossa da brividi poco dopo.
 
Scoprirono che si può fermare un momento per una parola, uno sguardo, una lacrima, un bacio all’anello della madre.
 
E che ci si può far trasportare dalla corrente di un fiume immaginario senza fiatare, o urlare silenziosi la gioia irrefrenabile, sciogliendosi poi in abbracci, discorsi sconnessi, carezze e perdendosi in suoni, odori, ricordi frastagliati.
 
Quello che scoprì Akane fu che anche se non era mai uscita dalle mura di quel palazzo, aveva conosciuto il mondo intero, quella notte.
 
E quello che scoprì Ranma fu che quella stanza era solo un luogo, un luogo come tanti, ma che la donna che dormiva nuda tra le sue braccia era la sua donna, era il suo rifugio.
 
 
 
***
 
 
 
Un uomo, nella notte, scoprì di aver dimenticato a casa delle carte importanti, indispensabili per le trattative.
 
Sorrise mestamente al proprio compagno di viaggio, mentre la carrozza invertiva la direzione di marcia e scivolava sulla strada come sull’olio.
 
“Vostra sorella è una moglie eccellente. Ma a quanto pare avere una moglie troppo giovane obnubila la mente dei mariti”
 
 
***
 
 
Il serpente attende le tenebre per sguisciare via dalla propria tana e insinuarsi negli anfratti, taciturno e letale, in cerca della preda.
 
Lei sgattaiolò fuori dalla propria stanza, senza fare alcun rumore. Sinuosa nei movimenti, si addentrò al buio in anticamere e corridoi.
 
Il serpente si acquatta, striscia, scivola freddo calcolando la distanza che lo separa dalla preda.
 
Lei si appiattiva contro i muri. E avanzava, inesorabile, verso quella porta.
 
Il serpente, quando individua la preda, si raggomitola qualche istante prima di sferrare l’attacco, il tempo di far vibrare un’ultima volta la lingua contro i denti pregni di veleno, per saggiarne l’affilatura.
 
Lei osservò quella porta chiusa, strinse gli occhi e sorrise, affondando i denti nel labbro inferiore.
 
Nel momento in cui guizza contro la preda, il serpente è mosso da una sola ossessione: desidera più di ogni cosa avvinghiarsi a quella preda e sentirla dimenarsi e soccombere inerme tra le sue spire.
 
Nel momento in cui il fremito crebbe nel suo corpo fino a materializzarsi nell’ossessione che la divorava da settimane, lei vi si abbandonò e irruppe in quella stanza, con il solo scopo di sfogare il proprio istinto sulla carne fresca di quel ragazzo.
 
 
Quello che incrociarono gli occhi smarriti di Ranma, svegliato di soprassalto da un rumore improvviso, furono gli occhi rossi e spalancati di Kodachi.
 
La sovrana ebbe appena il tempo di notare la pelle nuda della sua figliastra tra le braccia di quell’uomo, immobile e stranito davanti a lei, ricacciare indietro un conato di vomito, sentire il disprezzo e l’umiliazione annebbiarle la vista, che d’istinto squarciò l’aria con un urlo disumano e inorridito.
 
Se avesse saputo mantenere la lucidità che di norma le era solita, avrebbe piegato quella situazione ai suoi più fidi servitori: il ricatto e la vendetta.
 
Ma ormai aveva urlato e nell’eco di quel grido, mentre Akane, improvvisamente sveglia, si copriva terrorizzata con un lenzuolo, rimbombarono dei passi sempre più vicini, e accadde l’inaspettato.
 
Prima di potersi domandare chi stesse accorrendo con tanta solerzia, Kodachi si ritrovò davanti nientemeno che Soun Tendo. Dietro di lui, Kuno Tatewaki e diverse guardie.
 
“Che sta succedendo?! Sono appena rientrato per prendere dei documenti e ripartire immediatamente che sento questo…”
 
Ma le parole gli morirono in gola.
 
Vide la figlia nuda e in lacrime.
 
Vide quel ragazzo che aveva amato come un figlio mezzo svestito guardarlo pietrificato.
 
Sentì l’odore forte della stanza e dell’amplesso, e non capì più nulla.
 
Si avventò su Ranma e strattonandolo per il codino lo sollevò da terra e lo scaraventò un paio di metri più in là, mentre nelle orecchie gli rimbombavano i singulti che Kodachi, di nuovo padrona di sé, stava manovrando con astuzia, apparentemente giustificandosi col fratello: “Io ho sentito delle urla… Ho avuto paura e sono corsa in direzione di queste urla… Akane, figliola, stai bene? Ti ha fatto del male?... Oh, temo di non essere arrivata in tempo… Non me lo perdonerò mai!”
 
“Cosa le hai fatto? Tu… schifoso traditore!”
 
Ranma non riusciva a reagire contro quelle mani che lo avevano salvato, nutrito, accarezzato, anche se ora lo stavano pestando di rabbia.
 
“Soun-sama… mio signore… vi prego… Non vi ho tradito… Io… amo… vostra figlia!”
 
Si difendeva come poteva, cercando un appiglio in quegli occhi iniettati di sangue.
 
“Padre! No! Fermatevi!! Vi prego!”
 
Akane si aggrappò al braccio di Soun, coperta a malapena dal lenzuolo, tentando di placare i colpi diretti a Ranma.
 
“Non è come pensate!! Non c’è stata nessuna aggressione… Io e lui ci siamo sposati in segreto! Io… io lo amo, padre! Lui è mio marito ora, è il marito che ho scelto!”
 
“Che cosa?!”
 
Soun, attonito e sconvolto si scrollò di dosso la figlia, che rovinò contro due guardie, le quali, prontamente, su cenno di Kodachi le bloccarono gambe e braccia, immobilizzandola.
 
“Giù le mani da Akane! Maledetti! Non toccatela!!”
 
Ma quella distrazione gli fu fatale.
 
Nel trambusto della dinamica Ranma non si era accorto che Kuno gli era arrivato alle spalle e aveva alzato la spada sopra di lui, per sferrare un colpo violento con l’elsa di ferro contro la sua nuca.
 
“Insolente spregevole villano! Come osi rivolgerti alla tua principessa con tanta confidenza?!”
 
L’ultima cosa che vide furono gli occhi di Akane che si dilatavano in un’espressione di orrore.
 
L’ultima cosa che udì fu l’urlo di lei.
 
“Nooooo!!! Ranma!!!!”
 
Poi fu l’oblio.
 
 
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Ciao a tutti!!!
 
Direi che finalmente stiamo entrando nel vivo! Capitolo davvero sofferto… che ne pensate?
 
Ringrazio con tutta me stessa coloro che trovano il tempo di leggermi e soprattutto coloro che mi commentano.
Per chi non lo fa, sappiate che anche poche parole sono per me fonte inesauribile di gioia! ;-)
 
Un abbraccio,
 
InuAra
 
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Note
 
(1)
Mi spiace deludere i fan delle signora Nodoka, ma devo precisare che in questa storia lei NON è la madre di Ranma, è semplicemente un personaggio che ha un’altra funzione. Ma è pur sempre un personaggio con il volto e l’indole della signora Nodoka che tutti conosciamo.
 
(2)
I Magatama sono monili in forma ricurva utilizzati in epoca antica come ornamenti.
Il minerale più pregiato era la giada. Molto apprezzato nell'antichità si ricavava solitamente da denti di animali, ripuliti e lucidati. Questi gioielli sono legati alla divina Amaterasu, la dea del sole. Si ritiene che questi gioielli abbiano il potere di allontanare gli influssi maligni e, al tempo stesso, che siano di buon auspicio e portatori di un destino luminoso.
 
 
 
 

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Capitolo 7
*** Io, partendo, resto qui con te ***


 
Andiamo; il separarci, tra noi due
è un partire ed un rimanere insieme;
ché tu, restando qui, vieni con me,
ed io, partendo, resto qui con te.
 
Let us go. Come;
Our separation so abides, and flies,
That thou, residing here, go'st yet with me,
And I, hence fleeting, here remain with thee. Away!
 
Antony and Cleopatra – William Shakespeare
 
 
 
Nel silenzio immobile di quell’alba che prendeva mollemente il posto degli ultimi lembi della notte, si potevano avvertire appena alcuni singhiozzi isolati di quello che era, a ben vedere, il pianto soffocato di una delle ancelle di palazzo Tendo.
 
Il pianto soffocato e stravolto di Ukyo contro il petto di Ryoga, che non aveva parole per risponderle se non quel timido abbraccio in quel cantuccio riparato del giardino.
 
“Finito! E’ tutto finito!”
 
“Cerca di calmarti Ucchan…”
 
“E come posso?! L’hai visto anche tu: Ranma… privo di sensi… portato via dalle guardie… Akane… trascinata a forza nelle sue stanze e rinchiusa e sorvegliata da Kodachi!… Oh kami, non posso pensarci! Tutto quel baccano improvviso… Siamo accorsi… ma non siamo arrivati in tempo!”
 
Il dolore si faceva rabbia e la rabbia lacrime, senza soluzione di continuità.
 
“Maledizione!”
 
Un paio di crepe si diramarono dal pugno di Ryoga, ancora piantato nel muro contro cui l’aveva sferrato.
 
“Che cosa possiamo fare, adesso, Ryoga?”
 
“Assolutamete niente”
 
Una voce roca aveva pronunciato le ultime parole. E due paia d’occhi smarriti si posarono su Happosai.
 
“Finalmente vi ho trovati… Non dovete disperare, ragazzi miei, non ora che Ranma e Akane hanno più bisogno di voi..”
 
“Ma come…?!”
 
“Calma, Ryoga, non è con l’impulsività che potremo fare qualcosa…!”
 
Ogni fibra del ragazzo con la bandana pareva non vedere l’ora di lanciarsi in soccorso degli amici... dei padroni... sì, insomma, di Ranma e Akane!
 
Ukyo continuava a piangere sommessamente, ma non si lasciava sfuggire una sola parola.
 
“Non dovete esporvi per nessuna ragione. Qualora foste interrogati, dovete dire che voi non sapevate nulla del matrimonio, intesi?”
 
“Ma come puoi chiederci una cosa del genere!”
 
La voce di Ukyo questa volta aveva preceduto quella di Ryoga, bloccandolo nell'atto di opporsi.
 
“Non tradirò mai Akane! Se lei sarà punita io lo sarò con lei!”
 
“Ma non capisci che così non potrai esserle di nessun aiuto? E’ di fondamentale importanza che tu le resti accanto e per farlo devi sembrare 'innocua' agli occhi di tutti. E lo stesso vale per te, Ryoga! Lo capisci, benedetto ragazzo, che Akane avrà bisogno di te?! Non ci pensi? Chi la proteggerà da Kuno e da Kodachi se noi ci facciamo imprigionare o peggio uccidere?! Anche nel migliore dei casi Ranma sarà esiliato e lei sarà qui sola. Hanno bisogno di amici, non di eroi!”
 
L’aria intorno a loro rimase sospesa per qualche istante.
 
Poi Ukyo osò rompere il silenzio.
 
“E… e nel peggiore dei casi?”
 
“… Nel peggiore dei casi Ranma verrà giustiziato”
 
Fu come uno schiaffo.
 
“Dicci cosa dobbiamo fare”
 
La voce di Ryoga era ora priva di corpo.
 
“Salutarmi, ragazzi miei, perché per un po’, temo, non ci vedremo”
 
“Obaba!”
 
L’anziana amazzone si era fatta avanti, aggrappata al suo nodoso bastone, con un’insolita nota di malinconia nell’espressione.
 
“Che-che significa?”
 
“Significa che io e Happosai abbiamo pensato a tutto e voi non dovrete opporvi in alcun modo”
 
“E' necessario che io convinca Soun-sama a mandare Ranma in esilio", continuò il vecchio, "Come vi ho detto, è la nostra unica speranza. Ma per avere ancora credito ai suoi occhi…”
 
 
“Dev’essere qualcun altro ad addossarsi tutta la colpa”, concluse Obaba.
 
“Un momento!”
 
Ryoga era riuscito a intromettersi in quel fitto scambio di battute.
 
“Vuoi dire che…”
 
“Sì figliolo, io sola mi prenderò la responsabilità del matrimonio. Fingerò di averlo officiato io e solo mia sarà la colpa di tutto”
 
“Ma che dici, vecchia, così per te sarà finita!…”
 
“Ah ah ah! Pensi che non venderò cara la mia pellaccia?! E poi, cosa credi, eravamo ben d’accordo con Ranma e Akane... Certo non è stato facile convincerli, ma li ho fatti giurare che se fosse mai successo qualcosa avrebbero dovuto dire che solo io ero dentro l’inganno”
 
“E’ l’unica soluzione, lo capirete anche voi”
 
“Beh, Happy, per un po’ dopo pranzo dovrai rassegnarti a fumare la pipa solo soletto come si conviene a quelli della tua età”
 
“Parla l’ottantenne! Eh eh, vecchia mia, riguardati!”
 
“Obaba!”
 
Ukyo si piegò ad abbracciare di slancio quella nonnina così piccola ma dalla tempra così forte, che ricambiò materna, per poi voltarsi verso Ryoga e colpirgli la testa col bastone in un gesto bonario.
 
“E tu vedi di non farla piangere, eh!”
 
Il ragazzo diventò paonazzo, arrendendosi al fatto che alla vecchia non si era mai potuto nascondere niente.
 
“T-te lo prometto, Obaba!”
 
“Bene, è questione di pochi secondi, immagino, prima che…”
 
 
“OBABA!!”
 
Come non detto.
 
La voce del padrone riempì l’aria grigia del primo mattino, precedendo di un bel po’ Soun stesso. Al suo passaggio la casa pareva svegliarsi in un vociare indistinto e allarmato, sempre più vicino, fino al suo arrivo in giardino.
 
Quel breve lasso di tempo fu sufficiente ad Happosai e ai due ragazzi per trovare un nascondiglio sicuro.
 
“Obaba, dove ti sei cacciata?!”
 
“Al tuo comando, Soun!”
 
“Non prendermi in giro, vecchia! Mi dicono che sei stata tu a officiare il matrimonio! Come hai osato?!”
 
“Ti dicono bene, mio signore. E forse ti avranno anche informato che se vuoi annullare un patto di questo tipo l’unica soluzione è uccidere chi l’ha stipulato”
 
A questo voleva arrivare quella vecchia pazza?! Ukyo e Ryoga trattennero il respiro da dove si trovavano e restarono in ascolto, l’una stretta tra le braccia dell’altro, mentre quella vecchia temeraria sfidava l'uomo con un sorrisetto beffardo.
 
“Non scherzare col fuoco, vecchia! Guardie, catturatela!”
 
L’amazzone non aspettava altro.
 
Sfoderò tutto il suo orgoglio cinese, saltando da una parte all’altra, velocissima. Impossibile tenerle testa: cascavano tutti come birilli sotto i colpi millenari del suo bastone.
 
“Oppure pensi di ammazzare tua figlia?", continuava, nel mezzo della lotta, "O il ragazzo, magari? Macchiandoti del sangue di due innocenti… E come potrai poi lavarti via quelle macchie dalle mani, ci hai pensato?”
 
In qualche modo quelle parole, Obaba lo sapeva, stavano colpendo nel segno.
 
Conosceva troppo bene l'animo di Soun Tendo.
 
Fu sufficiente.
 
Un momento di tentennamento da parte del principe e Obaba scomparve dalla sua vista senza che se ne accorgesse, come fosse fatta di vento, lasciando a terra anche l'ultima guardia.
 
"Molto bene", sibilò tra i denti, impercettibilmente risentito, "Una traditrice in meno di cui preoccuparmi. Happosai! Trovatemi Happosai immediatamente!"
 
Un pallido sole cominciava a illuminare il cortile ormai deserto, quando i ragazzi e il vecchio uscirono dal loro nascondiglio, tornando a respirare.
 
"Ukyo, Ryoga, io devo andare. Restate a disposizione e badate bene..."
 
Ryoga lo guardò sconfitto, ma con una luce nuova negli occhi finì la frase per lui.
 
"Sì, vecchio, 'amici, non eroi'"
 
 
***
 
 
Prima di capire dove fosse, prima di ricordarsi chi diavolo fosse, prima ancora di realizzare se fosse vivo o morto, fu investito da un dolore schiacciante e dalla sensazione che si stesse lentamente sciogliendo.
 
Aprì a fatica le palpebre e la penombra umida di quel luogo chiuso e maleodorante lo avvolse nelle sue spire.
 
Le prigioni di palazzo Tendo. Ecco dove si trovava.
 
E lui era il ragazzo che aveva sfidato il suo signore, il ragazzo che aveva osato sposarne la figlia in segreto.
 
Ranma.
 
"Akane..."
 
Ancora intontito, capì che non era lui che si stava sciogliendo, ma era un rivolo di sangue bruciante quello che gli scorreva sul volto.
 
 
Spalancò gli occhi.
 
"Akane! Akane, dove sei?"
 
Nessuna risposta. Solo l'eco della sua colpa.
 
"Dannazione..."
 
Era di nuovo perfettamente lucido.
 
E incatenato. Immobilizzato. Inerme.
 
"Dannazione!"
 
Sentì dei passi avvicinarsi e capì subito di chi fossero.
 
Alzò il capo per quanto poteva da quella posizione, non perchè ne avesse bisogno per riconoscere chi stesse entrando, ma perchè voleva che il suo sguardo fosse alto e fiero.
 
"Vedo che ti sei ripreso, ridicolo scarto umano"
 
Non disse nulla.
 
Semplicemente Ranma lo guardò.
 
Quello che Kuno Tatewaki vide nei suoi occhi non aveva un nome preciso, ma ebbe lo strano potere di tramutare l'arroganza del nobile in fastidio e il fastidio in furia.
 
Un pugno violento alla bocca dello stomaco, e Ranma sputò altro sangue.
 
E ancora non disse nulla.
 
"Non pensare di farla franca, vigliacco", ansimava Kuno, "nessuno può portare via una cosa a Tatewaki Kuno e sperare di non incorrere nella più cruda vendetta!"
 
"Akane non è una cosa!"
 
Come un ringhio incontrollato quelle parole gli erano salite dalle viscere.
 
E nelle viscere un calcio gli fu sferrato, in tutta risposta.
 
"Non azzardarti a chiamarla per nome... Tu sei solo una piccola pulce da schiacciare sotto lo stivale, e quando avrò finito con te, la tua principessa neanche si ricorderà che sei esisti-"
 
"Kuno-san, mio signore! Siete richiesto immediatamente al cospetto di Soun-sama"
 
 
Uno sguardo gelido si posò su colui che l'aveva interrotto.
 
"Deve trattarsi di una cosa seria, se il nostro signore manda nientemeno che il suo vecchio consigliere a cercarmi..."
 
Happosai non disse nulla. Nè lasciò che il suo sguardo cadesse su Ranma. I suoi occhi erano fermi e decisi. La fronte leggermente imperlata di sudore.
 
Kuno fece per seguirlo, ma in uno scatto inaspettato ..ebbe il tempo di agguantare  la mascella di Ranma: "Non è finita, pulce, non è finita", per poi proseguire come se nulla fosse accaduto.
 
 
 
Ormai solo, Ranma non sentiva più dolore, non sentiva nè l'odore nè il sapore del sangue, non sentiva le catene che gli stringevano i polsi. Non sentiva forse neanche più la rabbia che lo aveva accecato pochi istanti prima.
 
Sentiva solo la paura crescere in lui come una voragine, la paura di non rivederla, la paura che le fosse fatto del male, la paura di aver perso per sempre la sua Akane.
 
 
***
 
 
Stretta in catene, se ne stava lì, seduta sul suo letto a fissare il vuoto, tremante come uno stupido cerbiatto senza madre.
 
Un fagotto informe di paure.
 
Come aveva fatto a perdere contro quella ragazzina?
 
Lei che era una donna intelligente e attenta, lei che sapeva calcolare ogni mossa degli avversari con largo anticipo?
 
La guardò ancora, lì, su quel letto...
 
Al pensiero che quello fosse il letto verginale di colei che aveva osato portarle via l'oggetto dei suoi desideri, la vista le si annebbiò.
 
Calma, Kodachi, calma.
 
Doveva ritrovare la lucidità e la freddezza, ecco dove aveva sbagliato.
 
Si era lasciata guidare dai sensi e aveva peccato in leggerezza, non pensando neanche per un attimo di non poter ottenere ciò che voleva.
 
Ma ciò che si vuole va fatto rotolare lentamente nella ragnatela bene intessuta, non può essere agguantato con l'istinto di una notte.
 
Possibile che avesse dimenticato le regole più basilari?
 
 
Ma non aveva ancora perso. Aveva la figliastra in consegna. Il potere era ancora nelle sue mani.
 
Avrebbe potuto essere la sua aguzzina, oppure...
 
Le labbra scarlatte si piegarono in un ghigno.
 
Sarebbe stata dura, ma il disegno che Kodachi Kuno aveva era decisamente più grande di un capriccio.
 
"Mia cara, vorresti incontrarlo?"
 
Il silenzio rotto da quella domanda non lasciò lo spazio di un pensiero.
 
"Sì!"
 
E di colpo Akane Tendo aveva smesso di tremare.
 
 
***
 
 
Erano dentro la sala grande da più di mezz'ora e davvero lui non aveva idea di che piega avrebbe preso quella accesa discussione.
 
Sapeva solo che al di là della porta davanti alla quale stava camminando senza tregua, tormentandosi le mani, lo sguardo fisso di fronte a sè, sentiva indistintamente le urla di indignazione di Kuno, la voce convincente di Happosai e il silenzio di Soun.
 
In quanto 'servitore' del giovane Ranma, era stato convocato in attesa di nuovi ordini.
 
Sarebbe stato compito suo portare all'amico il responso della decisione.
 
E prepararlo alla morte o all'esilio.
 
"Che sia l'esilio, che sia l'esilio, che sia l'esilio..."
 
La porta si spalancò brutalmente e ne uscì un furente Tatewaki. Ryoga si affrettò a inchinarsi.  Ma il nobile si era già dileguato.
 
Cosa poteva significare?
 
La morte o l'esilio? La morte o l'esilio?!
 
Non osava alzare lo sguardo e ingoiò amaro quando sentì la voce Soun.
 
"Ryoga!"
 
"Ai vostri ordini, mio signore"
 
La morte o l'esilio??...
 
"Il tuo padrone... ha tempo un'ora per lasciare il palazzo. Se tra un'ora sarà ancora qui, lo ucciderò con le mie stesse mani. Entro domani dovrà aver lasciato il Giappone e non dovrà mai più farvi ritorno, o non godrà della stessa pietà che gli sto riservando adesso. Sul mio onore"
 
L'esilio...
 
Tornò a respirare.
 
L'esilio!
 
Gli parve la notizia più bella della terra.
 
"Col vostro permesso..."
 
Nel correre via in direzione delle prigioni intravide un Happosai invecchiato di dieci anni.
 
Doveva essere stata davvero dura convincerlo, ma dannazione se ne era valsa la pena!
 
 
 
***
 
 
 
Quanto può essere lungo un minuto quando stai facendo un incubo?
 
Quante volte puoi chiederti in un minuto se stai sognando, e pregare di svegliarti?
 
Quante volte in un minuto puoi domandarti se chi ami sia ancora vivo?
 
E quanto può essere lunga un'ora, quando sai che è l'ultima della tua vita?
 
Di una vita accanto alla persona che è causa dei tuoi sorrisi, che stuzzica il tuo orgoglio, che risponde alle tue domande?
 
"Sei salvo, Ranma, maledizione! Devi essere grato di questo!"
 
Dopo averlo liberato dalle catene, Ryoga l'aveva medicato alla meno peggio, e l'aveva spinto da un corridoio all'altro per fiondarsi in camera del ragazzo e raccogliere le poche cose che gli sarebbero state utili nel viaggio.
 
"Sono grato ai kami di saperla ancora in vita... Sei sicuro che stia bene? L'hai vista? Le hanno fatto qualcosa?"
 
Ryoga scosse la testa mestamente.
 
"Non lo so, Ranma... So solo che è in consegna di Kodachi Kuno... Nemmeno Ukyo l'ha vista, ma sono certo che suo padre non le farebbe mai del male..."
 
Non riusciva a pensare.
 
Si sentiva come una bestia in gabbia.
 
Sapeva solo che il tempo stava passando e lui non aveva altro da fare lì.
 
L'avrebbe mai rivista?
 
Afferrò l'amico per le spalle, occhi negli occhi.
 
"Proteggila. Proteggila per me. Sii la sua ombra"
 
La voce gli si stava pericolosamente incrinando.
 
Ryoga gli strinse fermamente una mano, sorridendo.
 
"Non hai bisogno di chiedermelo. Lo farei comunque"
 
"Grazie, amico"
 
"Accidenti a te, Ranma", Ryoga si stava sforzando di trattenere le lacrime, "vedi di non far passare un solo giorno senza scriverle! Spedirai le lettere a me e io gliele recapiterò... Hai capito?! Non dobbiamo disperare...!"
 
"Ranma!!"
 
La voce affannata di Ukyo interruppe quel momento.
 
"Ranma!! Oh kami, sei salvo!"
 
Piangeva e lo abbracciava, rideva e singhiozzava.
 
"Sta... sta arrivando la signora Kodachi... e con lei... con lei c'è Akane!"
 
"Akane?! Ma... sta bene? Ucchan, ti prego, dimmi che..."
 
"Sta bene, sta bene! Ma non ho idea di cosa voglia quella strega... Stai attento Ranma... Stai attento per tutto! Non fare pazzie... E scrivici!"
 
"Siete proprio fatti l'uno per l'altra, eh?"
 
Il momento non era dei migliori, ma arrossirono violentemente.
 
E ora che la sapeva sana e salva poteva anche osare fare una battuta.
 
"Andate adesso! Non dovete farvi trovare qui... Arrivederci, amici"
 
Un ultimo abbraccio e furono fuori dalla stanza....
 
Brandelli in meno nell'economia di un'ora.
 
Per qualche attimo non seppe cosa dire nè cosa fare.
 
Restò in attesa. E l’attesa non durò poi molto.
 
Ne percepì la presenza ancora prima di sentirla o vederla arrivare.
 
Gli si aprirono i polmoni, come quando sospiri di sollievo e ti rendi conto solo in quel momento che stavi trattenendo il fiato da un po'.
 
Alzò lo sguardo e quello che incrociò furono due occhi spauriti che lo scrutavano voracemente.
 
"Stai bene? Ranma... Dimmi che stai bene? Che ti hanno fatto?!"
 
Si scaraventò su di lui e cominciò a baciargli il volto sporco di sangue, a bagnarlo con le sue lacrime, a sorridergli a fior di labbra.
 
"Sei vivo...vivo...vivo!"
 
Solo in quel momento si accorse che il suo maschiaccio aveva le braccia legate.
 
E nonostante questo cercava goffamente di abbracciarlo.
 
Volle facilitarle il compito e la strinse a sè con quanto impeto avesse in corpo.
 
Quanto può essere lunga un'ora, quando per nulla al mondo  vuoi sciogliere un abbraccio?
 
Quando sei consapevole che stai inspirando per l'ultima volta un profumo che non vuoi dimenticare?
 
Lentamente fece capolino nella stanza il volto muto di Kodachi.
 
Erano così tante le cose che voleva dalla vita, che avrebbe potuto rinunciare a lui.
 
Almeno per il momento.
 
Osservò quella scena patetica e incrociò lo sguardo incerto di Ranma.
 
"Mia cara! Aspetta che ti sleghi... Vedi, ho la chiave e voglio farne buon uso", disse avvicinandosi con fare solerte.
 
Akane non disse nulla. Odiava quella donna con tutta l'anima. Ma aveva quella chiave tra le mani... e a malincuore si avvicinò supplice, desiderosa di farsi liberare.
 
La matrigna sembrava prendere tempo.
 
"L'amore merita sempre una seconda possibilità, figlioli miei, e io sono una donna e in quanto tale sarò sempre dalla parte dell'amore...  Ma sono anche la moglie di tuo padre, Akane, cara, e non posso espormi troppo apertamente... Ecco qui, sei libera! Quello che posso fare per voi ora è lasciarvi a un altro abbraccio... Guardo e piango... Ma fate presto, avete poco tempo!"
 
Uscì con passo felpato, come scivolando sull'olio e non vista prese la direzione della sala grande.
 
 
Soli.
 
Akane lo strinse a sè.
 
"Quella maledetta arpia! Fa tanto la santa donna, e invece..."
 
La zittì con un bacio.
 
"Non c'è tempo! Akane... devo lasciarti..."
 
Ma non la lasciava andare affatto.

"Lo so..."
 
"Non avrei mai dovuto spingerti a tanto..."
 
"Ma stai scherzando?! Tu mi avresti spinto a cosa?! Stupido! Vuoi dire che ti rimangeresti tutto?!"
 
"Non mi rimangerei proprio niente! Lo rifarei mille volte, se è per questo!"
 
Lo strinse più forte, le braccia intorno al collo, il seno pigiato contro il petto di lui.
 
Se avesse potuto l'avrebbe inglobato seduta stante.
 
"Lo vedi allora che sei solo un baka che dice scemenze?! La cosa più bella della mia vita è stata incontrarti, e anche se saremo lontani, ora siamo marito e moglie e nessuno può dividere questo legame. Ringrazio i kami per questo miracolo!"
 
Quanto può essere lunga un'ora quando la dividi in infiniti baci, lacrime, abbracci e sospiri?
 
"Akane, devo andare ora, il tempo è scaduto..."
 
"No, non ancora! Resta un altro po'..."
 
Nel disperato gesto di trattenerlo vide baluginare l'anello all'anulare.
 
E d'istinto se lo sfilò.
 
"Ecco, prendi! Questo era di mia madre... Voglio che lo tenga tu, per ricordarti di me"
 
Emozionato Ranma lasciò che le mani tremanti di Akane gli incastrassero l'anellino al mignolo.
 
"Come potrei scordarmi del mio maschiaccio?!"
 
Lei sorrise.
 
"Non farlo, mi raccomando... Dicono che le cinesi siano molto belle, eh?"
 
Lo guardò leggermente imbronciata e lui rise di gusto.
 
"Ma possibile che non sai essere carina neanche nel momento dell'addio?"
 
La risata si fece amara. Sentiva che anche gli ultimi granelli di tempo concessi stavano esaurendo.
 
Voleva ricambiare, lasciarle qualcosa di suo.
 
Abbassò lo sguardo imbarazzato e vide il magatama di Ryoga.
 
Senza neanche pensarci se lo strappò dal collo e lo legò intorno al polso di Akane, a mo' di bracciale.
 
"Per avere sempre con te questo baka"
 
Lei lo guardò per un attimo stupita e gli gettò le braccia al collo.
 
"Oh kami, scrivimi Ranma! Promettimi che mi scriverai anche se non è da te...!"
 
Ranma rise tra sè e sè.
 
Se per la terza volta in pochi minuti gli veniva chiesto di non scordarsi di scrivere, significava che davvero non era una cosa da lui.
 
"Lo sai che per te mi sforzerò di farlo! Ma anche tu non farmi mancare le tue parole…vedrò di farmele bastare…""
 
La baciava famelico.
 
La accarezzava, mai sazio.
 
Si stava perdendo in quell'abbraccio. Che venissero le guardie, che gli tagliassero la testa!
 
Non riusciva a lasciarla andare!
 
Ci pensò lei, un po’ brusca, a spingerlo via.
 
"Vai adesso, è tardi..."
 
"Akane..."
 
Lo osservò per qualche secondo e ricacciò un singhiozzo con un sorriso.
 
"Cos'è questo? Sale?", disse ironica tracciando col polpastrello la palpebra inferiore di quell'occhio blu tempesta.
 
Anche lui la osservò per qualche secondo, anche lui un filo di ironia nello sguardo, e anche lui finì per ricacciare un singhiozzo con un sorriso.
 
"Al diavolo, Akane! Se resto ancora finirò per assomigliare a quel frignone di Ryoga!"
 
 
Gli occhi offuscati di lacrime anche lei si sforzò di ridere.
 
E lo baciò. Lo baciò con l'estremo bisogno di gioire e disperarsi in quel bacio, di registrarne il sapore, la morbidezza, la veemenza e imprimerli nella mente e nel corpo.
 
La braccò in un abbraccio definitivo e per un attimo, solo per un attimo, decise che l'avrebbe portata via con sé.
 
“Oh Ranma, ci rivedremo presto, vero?”
 
Ma la risposta non arrivò mai.
 
Infuriato e imponente Soun Tendo aveva varcato la soglia della misera stanza e guardava con gli occhi di un dio il ragazzo che l’aveva tradito. Poco dietro di lui, in disparte, una afflitta Kodachi Kuno si godeva la scena.
 
“Sei ancora qui che appesti il mio palazzo?! Vattene ho detto! L’ora a tua disposizione è terminata… Tu osi sfidare la sorte!”
 
Stava per scagliarsi contro di lui, mano alla spada, ogni fibra tesa all’onore e alla vendetta.
 
Ma se pesante era il suo cuore, leggeri erano i movimenti di Ranma, che con uno scatto fu oltre la porta e senza dare tempo a Soun Tendo di voltarsi e almeno tentare di ribattere, lo salutò nell’unico modo che nonostante tutto sentiva fosse il più giusto: “Che i kami vi proteggano, mi signore!”
 
E l'ultimo sguardo rubato fu per lei.
 


Andato.
 
Andato via. Per sempre.
 
Il silenzio grave calato nella stanza venne disturbato dal pianto sommesso della principessa. Ma chi vantasse un orecchio davvero acuto, avrebbe forse potuto udire distintamente lo stridìo lungo le guance e il tonfo di ogni singola lacrima di Akane.
Una Akane improvvisamente distrutta, che non riusciva a darsi pace che un secondo prima lui fosse lì con lei e un secondo dopo fosse uscito dalla sua esistenza, dalle sue giornate, dalle sue notti. Una Akane sola come non mai, che guardava, senza vederla realmente, quella stanza così piccola e spoglia che era stata in grado di contenere emozioni tanto grandi.
 
 
Quella era la stanza dove poche ore prima era diventata donna e sposa… e adesso piangeva come una bambina.
 
“Sei un’ingrata”, sibilò Soun ingoiando una rabbia livida.
 
“Padre…”
 
“Smettila di piangere!"
 
"Padre mio, vi prego, mi avete tolto lui... non toglietemi le lacrime"
 
 "Dovevi andare in sposa al fratello della mia signora...!”
 
Le lacrime in effetti si arrestarono, ma solo per lasciare spazio a un incosciente tono temerario.
 
“Che bell’affare che avrei fatto, padre! Io ho scelto un uomo che mi ama, che mi rispetta, che mi ha sempre protetta! Quello è un idiota, un borioso arrogante…”
 
“Hai scelto un poveraccio! Un ragazzino che non è degno di te… hai preso la tua posizione e l’hai abbassata al suo livello!”
 
“Semmai l’ho innalzata! Lui è nobile, oh se è nobile, padre, voi lo conoscete, è la persona più ricca che abbia mai conosciuto…”
 
“Stai delirando!”
 
“Padre mio! La colpa è vostra se amo Ranma… L’avete messo accanto a me da sempre! Così, crescendo, a poco a poco ho visto quanto lui fosse meraviglioso… e giusto per me!”
 
"Questa è follia!"
 
Scosso dall'affanno e dalla sofferenza, aveva qualcosa di grottesco nella sua rabbia, quasi fosse un 'oni' gigantesco. Ma nessuno ebbe il tempo di fare quella considerazione.
 
"Si sono visti ancora?"
 
La domanda era per Kodachi. Un silenzio imbarazzato fu la risposta.
 
"Avete trasgredito al mio comando!"
 
Una mano d'acciaio stava calando violentemente sul volto candido e rassegnato della principessa, quando qualcosa bloccò il principe. Non fu il flebile gesto forzatamente intenerito della moglie, non furono gli occhi stretti, in attesa del colpo, della figlia. Fu qualcosa dentro di lui, che semplicemente lo fermò. Il braccio si era fatto molle, la voglia di combattere dispersa.
 
Solo dolore e stanchezza.
 
Inconsapevole della tensione tra loro, Ryoga irruppe nella stanzetta, inginocchiandosi davanti a Soun, ma dividendo lo sguardo tra lui,  Akane e Kodachi...
 
"Vostro cognato, mio signore! Vostro cognato ha sguainato la spada contro il mio padrone!"
 
"Oh kami!"
 
Un unico urlo femminile risuonò in simultanea. Akane terrorizzata per Ranma. Kodachi per chi?
 
La moglie di Soun Tendo si affrettò a indirizzare la sua preoccupazione: "Come sta mio fratello? E' ferito?"
 
"A una spalla, mia signora"
 
"Presto mia cara, avrà bisogno delle tue cure. Quel maledetto ragazzo è molto forte"
 
Sospingendo Kodachi, il principe si rivolse nuovamente a Ryoga: "Guidaci dove si sta svolgendo lo scontro"
 
"Certo mio signore", il ragazzo con la bandana cercò fulmineo gli occhi di Akane, scandendo bene le sue parole, mentre usciva al seguito degli altri due,"Stanno combattendo nel cortile principale, quello tra il palazzo e il portone di ingresso"
 
L'eco dei passi del padre ancora risuonava nelle sue orecchie. Insperatamente sola e libera, il cuore in gola, cominciò a correre. Non attraverso i corridoi che l'avrebbero portata al cortile incriminato, ma verso l'esterno, dove Akane raccolse le ultime forze residue per atterrare con un balzo sul tetto.
 
Di lì, la corsa di tegola in tegola fu breve, e si ritrovò appiattita nello stesso punto in cui poco tempo prima -  sembravano essere passati almeno dieci anni! - lei e Ranma spiavano gli assurdi duelli del torneo Kuno. Questo pensiero la fece sentire completamente e inesorabilmente sola.
 
Ora a combattere contro di lui era Ranma. Esattamente come avrebbe voluto.
 
Poteva vederlo perfettamente da dove si trovava. Riusciva a leggere in ogni suo calcio la disperazione, in ogni suo pugno la sete di vendetta.
 
Il fiato sospeso, guardava quella danza di colpi e schivate.
 
Kuno, rabbioso e urlante, sferzava l'aria con la katana affilata. Non certo quella spuntata che usava durante i duelli...
 
Ranma, preciso e leggero, saltava, colpiva a mani nude, direzionava la propria energia in colpi che andavano sempre a segno, fiaccando l'avversario senza finirlo.
 
Dimentica della sua condizione, dell'addio e del dolore, semplicemente si ritrovò a pensare che fosse bellissimo.
 
Accarezzò con lo sguardo il suo corpo in movimento e sorrise orgogliosa pensando che quel ragazzo agile, forte e capace fosse suo marito. Per un attimo scordò davvero tutto e si cullò nel solo piacere di sentirsi quella che era: una ragazza piena di vita e desiderio, appagata dall'amore del ragazzo che aveva sposato.
 
Ma nel vedere la katana di Kuno avvicinarsi pericolosamente al petto di lui,  ritornò in sè e la paura la investì con tutto il peso della realtà.
 
Sapeva bene cosa aveva in mente quel borioso: finirlo ora che era indebolito dalle ferite. Ranma non l'avrebbe mai sfidato se non sotto provocazione...
 
Ma non ebbe il tempo di domandarsi che piega avrebbe preso il combattimento, che a stento trattenne un urlo nel momento in cui Ranma, con una serie di colpi ben assestati, atterrò il nobilastro.
 
Sconfitto.
 
L'aveva sconfitto, anche se per le regole stabilite in precedenza non aveva alcun valore, dato che a vincere era stato un uomo di rango inferiore.
 
Ma poco importava.
 
"Ho vinto", sussurrò Ranma.
 
E alzò lo sguardo, sapendo che avrebbe incrociato quello di lei.
 
E lì dove se l'era immaginata, la trovò, ansante quasi quanto lui.
 
Quanto può essere lungo un attimo?
 
Mai abbastanza.
 
Le voci del principe e della sua signora si stavano facendo troppo vicine e prima che le due auguste figure si gettassero vicino a un intontito Kuno Tatewaki, lui si era dileguato.
 
Akane lo cercò con lo sguardo... come aveva potuto farselo sfuggire così?!
 
Ma poi lo vide, ormai al di là del portone di ferro.
 
*Voltati, ti prego... Voltati ancora...*
 
Lo vide incontrare un vecchio che evidentemente lo stava aspettando e capì che doveva trattarsi di Hachiro, il mercante amico di Happosai.
 
*Voltati... solo un attimo...voltati a guardarmi..."
 
Lo vide salire sul suo carro e prima che le lacrime le raggiungessero gli occhi lo vide alzarsi in piedi sul mezzo in movimento.
 
E voltarsi senza esitazione verso di lei.
 
E attraverso quegli sguardi che si intrecciavano nella distanza crescente si dissero tutte quelle cose a cui le sole parole non avrebbero saputo dare forma.
 
'Mi mancherai', 'Sii forte', 'Ti penserò'... sarebbero state frasi troppo banali e melense.
 
No, a loro due bastava uno sguardo. E un tetto, ovviamente, quello non poteva mancare.
 
E in quello sguardo Akane si sarebbe consumata se non si fosse resa conto di avere ancora le mani sporche del sangue di lui. E nel sentire l'odore improvviso di quel sangue, nel carezzarne le macchie scure, cominciò a piangere, a non vedere più nulla oltre al sale delle sue lacrime che si mescolava con quel rosso, annacquandolo.
 
E mentre Ukyo si arrampicava a fatica nel punto in cui era certa avrebbe trovato la sua padroncina, Akane, alzando lo sguardo, rubò a quel momento un'ultima immagine: Ranma che stava sorridendo. E poi lo vide sparire per sempre dietro la collina.
 
Fu in quel momento che sentì qualcosa morire dentro di lei.
 
E allora le braccia di Ukyo furono una salvezza per lei che finalmente si arrese a un pianto disperato, sapendo che la forza sarebbe tornata, certo, ma non prima di aver dato sfogo a tutto il suo dolore.
 
***
 
Era stato previsto, in fondo.
 
Quella mattinata era giunta al termine,  e lui si stava in effetti allontanando da palazzo su quel carro.
 
Ma non dentro un barile.
 
Non con Akane.
 
Non da fuggitivo verso una nuova vita, ma da esule in terra straniera.
 
In piedi su quel carro, mentre vedeva assottigliarsi la bella figura di lei, mentre la vedeva tentare di mostrarsi forte e di non cedere alle regole dell'addio, giurò a se stesso che avrebbe trovato un modo.
 
E anche se lei certamente non avrebbe potuto vederlo, le sorrise.
 
"Tornerò. Te lo giuro".
 
 
----


 
Ciao a tutti!
 
Sono tornata! Chiedo scusa per il ritardo atroce… Non sono sparita… Le mie amate ‘ladies’ sanno che sto vivendo un periodo parecchio pieno che ruba il mio tempo e le mie energie. Ma troverò sempre uno spazio per portare avanti questa storia (messa così sembra una minaccia)!
 
Capitolo lungo un’eternità e probabilmente un po’ sconclusionato, chiedo venia… A mia parziale giustificazione posso dire che è figlio di frammentarie ore strappate al sonno! ;-))
 
Ringrazio infinitamente tutti coloro che continuano a leggere, seguire, preferire e soprattutto commentare!
 
E ringrazio davvero TANTO le meravigliose persone che sono entrate nella mia vita attraverso questo splendido fandom e che si confrontano con me sulla storia ma anche su questioni quotidiane semiserie ed esistenziali! ;-) 
 
Un abbraccio enorme!
 
InuAra
 
(Lady Shakespeare è tornata!)
 
 

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Capitolo 8
*** Quegli amici, aggrappali alla tua anima con uncini d'acciaio ***


 

Un piccolo riassunto per riportarvi nel vivo della storia:
Medioevo giapponese - Akane, figlia di Soun-sama, signore delle terre dell'ovest, non è mai uscita dal palazzo, dove è cresciuta accanto a Ranma, un giovane orfano che lavora come paggio al servizio di Soun Tendo.  A vegliare su di loro ci sono i due anziani consiglieri, Obaba e Happosai, e gli immancabili confidenti, Ryoga, amico, nonchè servo, di Ranma, e Ukyo, ancella di Akane. Soun si risposa con una giovane nobildonna, Kodachi, e al fratello di lei, Kuno Tatewaki, promette in sposa la principessa Akane, che rifiuta categoricamente i suoi corteggiamenti. A poco a poco Ranma e Akane si accorgono di essere innamorati e, sfidando i problemi di classe, si dichiarano. Decidono quindi di sposarsi di nascosto e scappare in Cina, in attesa di tempi migliori, ma immediatamente dopo il matrimonio e la prima notte di nozze vengono scoperti e divisi. Ranma viene prima imprigionato e poi esiliato e Akane è tenuta sotto stretta sorveglianza, pur con un discreto raggio di azione. Obaba fugge a sua volta dopo essersi presa l'intera responsabilità del matrimonio segreto. Partendo per la Cina, Ranma promette ad Akane che le scriverà spesso e che farà di tutto per ricongiungersi a lei.
 

---


Quegli amici che hai e la cui amicizia hai messo alla prova,
aggrappali alla tua anima con uncini d'acciaio.

"Those friends thou hast, and their adoption tried,
Grapple them to thy soul with hoops of steel"

Hamlet – William Shakespeare
 




“Gliel’hai consegnata?!”

“Ma sì, ma sì! Ce l’ho fatta e senza problemi, smettila di preoccuparti per niente!”

Alla luce tremolante dell’unica candela rimasta accesa nella grande cucina di Palazzo Tendo, Ryoga vide distendersi appena, per quanto fosse ancora visibilmente scossa, l’epressione della sua Ucchan di ritorno dalle stanze di Akane.

“Come 'per niente'?! Ukyo, ma che stai dicendo?”, anche lui era sollevato, per quanto l’adrenalina in corpo continuasse a vorticare, “Ranma ha lasciato Palazzo Tendo solo ieri mattina, e Akane… la principessa... già stava disperando… L’hai vista? Non ha smesso di piangere un solo momento!”

“E a me lo dici? Non l’ho mai vista così, povera la mia padroncina… Non sapevo più cosa fare… E come darle torto? Era distrutta dal dolore e continuamente mi chiedeva: ‘Lo rivedrò? Ucchan… Lo abbraccerò ancora?...’ Guardavo le lacrime rigarle il viso e qualcosa mi si spezzava dentro…”

Ryoga la osservò per qualche istante, improvvisamente calmo.

O… no?

In un attimo, la fretta, la tensione, le emozioni dure e sferzanti dei giorni precedenti si erano sciolte.

Si erano portati tutto dentro, unici responsabili della sopravvivenza di Ranma e Akane.

Per loro si erano mossi di soppiatto, avevano sussurrato, confortato, sudato freddo, calcolato, taciuto, represso.

E ora, in quella cucina, affannati nell’atto di sfogarsi, erano rimasti solo loro due, il servo e l'ancella, due personaggi secondari appena ai margini dell'azione principale, eppure così tremendamente fondamentali.

Loro due. Ukyo e Ryoga.

Fu un gesto fulmineo.

La testolina castana della ragazza aveva cominciato a scuotersi da una parte all’altra ripetutamente nel tentativo di negare quell’emozione e ricacciare indietro il pianto, invano. E già lui si era mosso. Senza averci neanche pensato si era ritrovato ad asciugarle una guancia col dorso della mano un po’ ruvido.

“P-per fortuna verso questa sera è arrivato quel ragazzo, Hiroshi, il garzone di Hachiro, portando una lettera da Ranma per Akane”

“G-già…”

Perché quella mano ancora indugiava temeraria sul volto caldo e bagnato di lei, arrivando addirittura a sfiorarne la pelle coi polpastrelli?

E perché poi mentre le parlava si stava pericolosamente avvicinando, non riuscendo, nonostante gli sforzi, a distogliere gli occhi da quelli azzurro denso di lei?

“D-deve essere molto dura separarsi dal proprio amore…”

Davvero - imbranato che non era altro! – aveva pronunciato una cosa tanto melensa?!

“M-molto, sì…”

Immobili nel silenzio della cucina, fissavano le lingue di luce fioca che la fiammella proiettava sui loro volti, pallidi e senza respiro.

Non per la corsa…

E nemmeno per l’ansia di aver commesso qualcosa di proibito nel servire fedelmente la loro principessa, portandole di nascosto quella lettera...

“Dev’essere dura separarsi dall’uomo che si ama… con la paura di non rivederlo mai più…”, la voce sottile di Ukyo aveva rotto la calma apparente di quel momento.

La sua piccola mano, come guidata da una forza superiore, si avvicinava lentamente a quel ragazzo con la bandana timido e imbranato che intanto sgranava gli occhi.
 
Si posava sulla sua mascella.
 
Il ragazzo con la bandana deglutiva.
 
E poi, con le dita, disegnava i confini di quel viso, ne tratteggiava il mento, il naso, gli angoli della bocca…

“… con la paura di non poterlo mai più toccare…”

I polpastrelli di lei sfioravano ora le labbra di lui, in una impalpabile carezza che, inconsapevole, generava un brivido crescente.

“…con la paura di non poterlo mai più-”

Dire che il discorso si bloccò sarebbe sbagliato.

Semplicemente continuò, riversandosi nell’abbraccio improvviso con cui Ukyo strinse a sè Ryoga.

Lo strattonò e si aggrappò a lui con forza disperata e tenace.

Non lo avrebbe mai lasciato.

E lui, d’altra parte, si sarebbe ucciso piuttosto.

Affondò il volto nell’incavo del collo di lei e inspirò il profumo dei suoi capelli, cingendole la schiena.

“U-kyo…”

Come risposta, il silenzio.

O, ascoltando meglio, un rullo lontano e ovattato che via via si fece uno scalpitare irrequito all’altezza dei petti, rimbombando all’unisono e perdendo l’origine e l’eco in un unico corpo intrecciato.

Immobilizzati tra le braccia l’uno dell’altra, non osando spostarsi di un millimetro, restarono ad ascoltare, e presto al ritmo percussivo del cuore si sovrappose una flebile melodia di fiati, declinata dall’allontanarsi e dall’avvicinarsi in crescendo dei loro respiri. Le mani, che impercettibili stropicciavano la stoffa spessa dei loro abiti da lavoro, lasciavano cadere nella stanza suoni bassi, in sordina.

Frastornati da tanto rumore, proprio non si accorsero che in un perfetto accordo i loro volti si sollevarono appena, così da strofinarsi l’uno contro l’altro.

E proprio mentre, divorato dalla cera, si spense l’ultimo rantolo di luce, trovarono la strada verso le reciproche labbra.

Nessuno dei due avrebbe mai neanche supposto che un tocco tanto delicato potesse scatenare una sinfonia tanto assordante e variegata di sensazioni, tremiti, sussulti, boati.

E rimasero ad ascoltarla, a godere di quella musica che tacita suonava da troppo tempo, senza trovare espressione.

Restarono così, soltanto loro due, soli, senza colpe, lasciando ogni altro pensiero fuori da quell’incontro, lontano da tutto e da tutti.

Lontano si fece anche per qualche momento, pur restando nitido, il ricordo di Ranma e Akane, e per un po’ dimenticarono il loro stesso dolore lancinante per quell’altrui amore negato.


***


Neanche una candela fioca e riluttante era stata lasciata a illuminare le sue mani tremanti e pallide che fremevano strappando via l’involto che conteneva la lettera.

La spianò nervosamente e alla sola luce della luna, l’aria pungente che irrompeva segretamente nella sua stanza muta, Akane si affrettò a bere quelle parole scritte con mano poco ferma eppure sicura.


Akane,
hai visto che il tuo baka non è poi così stupido come può sembrare? Anche lui sa mettere in fila qualche parola scritta. E lo fa solo per te…


Trattenne un singulto. E si stropicciò il viso umido e gonfio per scacciare ogni traccia di torpore e malinconia e disporre gli occhi ad accogliere con prontezza e per intero ogni singola frase.


Ho poco tempo e breve sarà la mia lettera… ma voglio dirti alcune cose prima di salpare e lasciarmi il Giappone alle spalle.
Tornerò. Tornerò da mia moglie… (Che strano scrivere questa parola! Lascia che ne usi una un po’ più familiare…) Tornerò dal mio maschiaccio. Questa è una promessa!
Sì, ho disegnato in volto il mio solito sorrisetto beffardo, quello che ti manda su tutte le furie e ti piace allo stesso tempo, e voglo una cosa: che sorrida anche tu. Io sono vivo, tu sei viva. E ci amiamo. Questo basta, no? Non farmi dire queste cose inutilmente, lo sai che in questo momento sono rosso di vergogna… Ma è la pura verità. In qualche modo faremo.


Sollevò lo sguardo e si rese conto che già stava sorridendo. Non aveva dovuto cercare quel sorriso, era arrivato e basta. Come se lui fosse lì con lei, rosso e imbarazzato, e non tanto lontano. Come se lei fosse libera e leggera, e non prigioniera della sua stessa casa.


Mi trovo nel porto di Hakata e tra poco più di un’ora la mia nave partirà.


“Ti trovi in viaggio, ora? Sei partito? In questo momento, dove sei?”

Un sussurro e una preghiera.

E intanto guardava quella luna gelida e perfetta, scongiurandola di incrociare proprio in quel momento anche lo sguardo di lui, affinchè, usandola come tramite, potessero stare lassù entrambi, in quello stesso momento.


Hachiro, il vecchio amico di Happosai con cui sono arrivato qua, ha due garzoni a lui molto fedeli, Hiroshi e Daisuke. Sono fratelli di latte, legati tra loro da anni di lavoro e scorribande. Due bravi ragazzi: ho avuto modo di conoscerli, sono stati loro a darmi cibo e vestiti e a mostrarmi il molo da cui partirà la mia imbarcazione. Devono avermi preso in simpatia perché hanno giurato sul loro onore che ogni giorno uno dei due verrà in porto e chiederà a ogni nave in arrivo dalla Cina se ci sono lettere ‘per Ryoga Hibiki’. E ogni giorno uno di loro a turno farà in modo di recapitarle a quel frignone con la bandana! Sono per te, Akane. A tua volta fa’ avere loro le lettere per me e in qualche modo riusciremo a parlarci anche se a distanza.


Riprese fiato e a poco a poco il suo respiro si fece più regolare.

Sì… Sapeva già tutto da Ukyo. Solo alcuni minuti prima era entrata nella sua stanza come una furia dal passo felpato e le aveva consegnato la lettera dicendole che l’aveva portata un simpatico ragazzo di Hakata di nome Hiroshi, mandato da Ranma. Lui e il fratello di latte si sarebbero alternati come staffetta dalla città portuale per recapitare giornalmente le missive del loro nuovo amico a quella sconosciuta principessa a cui già erano affezionati solo dai racconti del ragazzo col codino.

Quanto già doveva a quei due alleati mai incontrati!


Durante il viaggio in carro sono stato silenzioso e ho pensato a te senza sosta; avrei voluto mettere da parte tutto e semplicemente dirti: “Guarda che natura meravigliosa!”
Sai, vorrei essere i tuoi occhi in questo viaggio, poterti descrivere le meraviglie che, volente o nolente, attraverserò, descrivendoti il mondo, come ho sempre fatto…
Ho attraversato boschi e villaggi e in alcuni luoghi mi sembrava di esserci già stato, magari in sogno… Chissà, magari nel mio lontano passato li ho percorsi o vi abitavo… Poco ricordo della mia infanzia, prima di conoscere te…


“Ranma…”


Ne assaporavo l’aria frizzante e qualcosa mi diceva che quei posti mi conoscevano. Tu li avresti amati, illuminati dal sole com’erano, l’erba verde scuro che scricchiolava ai margini della strada, il cielo fermo. E poi il mare.


Il mare…

Il suo cuore cominciò a battere forte.


Non basterebbe una vita per raccontarlo, né basta il mio sguardo per contenerlo o la mia immaginazione per comprenderlo.
Quanto ci raccontava Obaba è tutto vero!
Obaba… Chissà dove si trova ora quella buona vecchiaccia.


Sorrise, e il sorriso scacciò una lacrima sul punto di spuntare.


Ecco, sono riuscito a farti sorridere e dentro di te mi stai rimproverando per averle mancato di rispetto…


“Ah ah! Ranma! Sono davvero così prevedibile?”


Continua così, Akane, continua a lottare! Non smettere!


“Forse semplicemente mi conosci davvero molto bene…”


La donna che conosco è forte e saprà aspettare il mio ritorno. Questo baka ce la metterà tutta perché ciò avvenga quanto prima!
A presto, maschiaccio!
Tuo Ranma


“A presto, baka”

Rimase la luna a guardare i gesti misurati di quella ragazza che infilava la missiva in uno scrigno di legno semplice intagliato nascosto sotto il tatami del letto, per poi accoccolarsi tra le coperte e, dopo ore di veglia e di dolore, finalmente, addormentarsi.


***


Quella fu solo la prima di molte lettere.

Passarono i giorni e non passò sera senza che Hiroshi o Daisuke non facessero ingresso in uno dei cortili secondari del palazzo.

Presto li incontrò di persona la stessa Akane, e loro rimasero abbagliati dalla grazia e dalla semplicità con cui li accolse.

"Io e mio fratello vi giuriamo eterna fedeltà, signora!", questo mi hanno detto oggi i tuoi amici di Hakata, Ranma! Sono venuti in coppia, dato che è il loro giorno di riposo dal lavoro e hanno fatto doppia strada per te, per noi! Non so cosa abbiano visto in me, ma sono due amici buoni e fedeli. Sorridevo col cuore colmo di gratitudine mentre aggiungevano: "Siamo rimasti colpiti dalla storia di vostro marito ed era un atto di amicizia nei suoi confronti quello che ci muoveva. Ma ora che conosciamo voi, siamo vostri servi, per la vita". Si inchinavano un po' goffamente mentre parlavano... Non posso fare a meno di volere loro già un gran bene.

Le risposte raggiunsero in Cina il giovane esiliato il cui viaggio proseguì senza intoppi. E si moltiplicarono in nuovi dialoghi a distanza, seppur con lo spostamento temporale che il viaggio postale comporta. Ma questo poco importa a due testoni desiderosi di comunicare.

Dimmi dove sei, amore mio... Cosa vedi in questo momento?

Tra poco più di un'ora attraccherò al porto. Già vedo la costa: ora capisco quando Obaba parlava della bellezza della Terra di Cina.

Ranma, non farmi stare in pensiero, parlami anche delle cose pratiche delle tue giornate. Mangi? C'è da mangiare su una nave?! Non oso immaginare le condizioni in cui ti trovi...

Ancora non sono arrivato a terra e già ho fame. Tranquilla, Akane, ho mangiato come un re in questi giorni. Qui sulla nave già tutti mi vogliono bene, non so perchè. Ho mangiato pesce a volontà, non ho mai mangiato così tanto pesce... eppure ho fame! Voglio provare la cucina cinese! Mi dicono che I ravioli al vapore sono la fine del mondo… Non ridere, Akane! In fondo sono sempre lo stesso zotico che hai conosciuto...

Però qualcosa mi dice di stare tranquilla. Per come sei fatto ti sarai già fatto tutti amici... Tu ti dai da fare, aiuti tutti e impari in fretta. Mi fa ridere immaginarti su e giù per una nave tra mozzi e marinai, come in una di quelle incisioni che a volte guardavamo a bocca aperta con  mio padre, quando ancora non era il mio carceriere...

La vita di mare mi si addice, sai? Anche a te piacerebbe molto. Un giorno viaggeremo, Akane, ti porterò in Cina e anch'io potrò tornare nel mio Giappone. Non passerà molto tempo, te lo prometto. Non essere triste...


Ukyo osservava la sua padrona, il cui tempo era scandito dalle lettere che arrivavano, dalle lettere che scriveva in risposta e da quelle che attendeva.

Nel frattempo le giornate della giovane ancella erano a loro volta scandite dai mille piccoli doveri e da quei brevi agognati momenti di piacere accanto a Ryoga.

"Tu e Ryoga?! Io l'ho sempre saputo!"

"Sshhh! Ma cosa volete sapere, Akane-san!..."

Era arrossita come mai nella vita quando aveva confidato alla sua principessa quanto si era ritrovata felice, sicura, 'a casa' tra le braccia dell'amico di sempre. Ma solo Akane poteva capirla e trascorsero ore spensierate a parlare d'amore mangiando le famose focacce alla piastra di Ukyo.

Brevi parentesi di allegria nel torpore sospeso di quelle giornate.

Quando non era con la sua padrona, Ukyo era impiegata in molte diverse mansioni e questo le consentiva di osservare da vicino quella strega della signora Kodachi.
Qualcosa le diceva di stare in guardia, eppure la giovane moglie di Soun-sama era incredibilmente gentile, premurosa, attenta. Accudiva il marito, lenendone malumori e malesseri fisici e coi servitori era fredda ma pacata.



Ryoga dal canto suo cercava di non perdere mai di vista la sua principessa e la sua Ucchan.

'Sua'...

Accanto al nome di Ukyo quell'aggettivo assumeva tutta un'altra importanza.
Presto forse sarebbe davvero diventata sua moglie, chissà... Al solo pensiero arrossiva e cominciava a balbettare…! Quanto l'avrebbe desiderato…

Dopo quella prima sera, si meravigliava ogni giorno di come il loro amore fosse germogliato senza quasi che se ne accorgessero; come una pianta rampicante timida ma radicata, li aveva avvolti silenzioso e saldo, e loro si erano ritrovati così, sorpresi di essere innamorati l'uno dell'altra in un sentimento tanto grande quanto solido.
Quanto avrebbe voluto parlarne con Ranma! Ah, quel dannato gli mancava tremendamente! Ogni tanto gli capitava a tiro Happosai, ma non era la stessa cosa...


Chi non si era lasciata sfuggire quanto quel servitore ubbidisse fedelmente al suo padrone anche a distanza, non perdendo di vista neanche per un istante quella sciocca principessina innamorata, era, neanche a dirlo, la signora indiscussa del palazzo, Kodachi Kuno.

E tuttavia un'idea le girava in testa da qualche tempo: la giovane sposa di Soun-sama sapeva bene che l'animo umano si fa presto sedurre dal potere e dalla ricchezza, mostrando il fianco della corruttibilità a chiunque voglia approffittarne.

E lei era più che mai desiderosa di approfittarne.

"Signora, è arrivato il dottor Tofu, che avevate mandato a chiamare"

Attraverso la porta che dalle proprie stanze dava sul cortile, indugiando con lo sguardo ancora un poco su Ryoga, intento a trasportare legna e altri arnesi per fare andare avanti la grande casa, con un gesto fluido e perentorio Kodachi Kuno fece segno all'ancella di uscire e al dottore di entrare.

Spostò su di lui i freddi occhi adamantini.

Un bell'uomo, indubbiamente, alto e muscoloso, oltre che estremamente colto e preparato nelle arti e nelle scienze... Eppure così stupido da trascorrere i suoi giorni in giro per i villaggi a guarire poveracci, vestito da poveraccio lui stesso, senza amor proprio nè ambizioni.
Un caso perso, insomma.

Ma aveva un'estrema necessità di lui e delle sue conoscenze.

"Dottore, è un onore per me avervi qui"

"Mi hanno detto che avevate un urgente bisogno di me, ma..."

"Quelle erbe... me le avete portate?"

"Vostra grazia, io..."

"Me le avete portate?!"

Ci fu un attimo di silenzio in cui gli occhi attenti di Ono Tofu scrutarono cupi attraverso gli occhiali tondi lo sguardo famelico di Kodachi.

"... Sì"

"Molto bene. Consegnatemele e..."

"Ma perdonatemi se oso... Lo devo chiedere... Perchè voi volete proprio quel composto di erbe? Mescolate assieme creano un veleno di quelli che bloccano tutti i sensi e portano addirittura alla morte! Il suo impiego non conosce campi in cui poter-"

"Dottore... E io mi son ridotta ad ascoltare un tale attestato di disistima nei miei confronti?"

Sulle sue labbra, appena un sorriso.

La sua voce, calda, dolce. Con una vaga nota stonata quasi indistinguibile in sottofondo

"Ho studiato anch'io le arti dell'erboristica e della medicina e mi diletto da anni in piccoli esperimenti che mi hanno reso abile nella cura e nella guarigione, al punto che Soun-sama in persona si vanta in ogni dove delle mie doti. Ora, a meno che voi non dubitiate di me e della mia buona fede, non è giusto provare cause ed effetti di un farmaco per poterne scoprire il rimedio? Sperimenterei la forza di ciò che lei mi dà non certo su esseri umani, ma su creature inutili: gatti, topi, conigli..."

"Signora, non può esserci del buono in tutto questo, sareste voi per prima esposta al male e alla crudeltà del farmaco stesso..."

"Sciocchezze, mio buon dottore, sciocchezze! Non sarebbe la prima volta e poi la conoscenza viene prima di ogni remora, mio caro"

E con mano delicata e ferma si insinuò tra quelle tremanti di Tofu che tentennavano nel porgere la piccola boccetta rossastra, strappandogliela con grazia.

"Ecco fatto, non ci voleva poi molto. E ora andate pure, vi chiamerò io quando avrò bisogno"

"Mia signora, state attenta"

E senza alcun timore ma con tanta mestizia in petto, il dottor Tofu diede le spalle a Kodachi Kuno e si dileguò.

In tutta risposta la donna sorrise e tornò a guardare il ragazzo con la bandana, sudato e sorridente che aiutava alcune serve con i pesanti cesti della biancheria.

"Ma certo. Molto attenta"



***



"Mio buon signore, vi dico che la mia padrona è in stanza e sta poco bene... Proprio non si sente di uscire!..."

"E io insisto che tu mi faccia entrare"

Da un tempo che le pareva interminabile Ukyo si trovava in quella posizione semi-inginocchiata, gli occhi rivolti al pavimento in atto di sottomissione, eppure affrontando al contempo la boria di Kuno, che voleva irrompere nelle stanze di Akane.

E lei non poteva permetterglielo.

"Perdonatemi ma non posso prendermi questa libertà o perderei il lavoro. La mia padrona vi prega di passare in un altro momento"

Da quando quell'insetto era stato esiliato, Kuno aveva deciso di rivedere la strategia del suo corteggiamento. Aveva il tempo dalla sua parte, ora, e con quel miserabile fuori combattimento presto si sarebbe insinuato tra i favori della giovane principessa, con o senza matrimonio.

"E sia. Ma fatele avere questi", disse con tono imperioso mentre, andandosene, gettava un mazzo di crisantemi bianchi lucenti ai piedi di Ukyo.

E l'ancella tornò finalmente a respirare.

"E' andato via?", sbucò fuori Akane.

"Sì sì", la spinse dentro Ucchan, "Ma non potete continuare a evitarlo... Per quanto ancora lo terremo a bada?"



***



Il tempo, in fondo, ha una misura tutta sua quando a dilatarlo o a restringerlo di colpo sono le parole...

E in cerca di parole era Akane, in quel preciso momento, parole che potessero darle l'illusione di vivere giornate reali e normali, lontane da pensieri e preoccupazioni...

Sono finalmente approdato in Cina, a Yangzhou!

Caro Ranma, i giorni sono tutti uguali qui.

Si respira un'aria strana, Akane! Fatta di libertà ma anche di miseria, di colori e di racconti.

Mi barcameno tra Kodachi che mi spia e mi controlla da lontano, Kuno che si apposta per corteggiarmi e mio padre che mi parla solo coi suoi occhi severi pieni di rimprovero.

Ho appena messo piede a terra e ancora non ho visto nulla ma ti scrivo le ultime righe così che la nave possa portare la mia lettera non appena ripartirà, dopo aver fatto rifornimenti.

Ma tengo testa a tutti e tre, non temere. E poi non sono sola. Non so cosa farei senza Ryoga e Ucchan. Sono le mie guardie del corpo e i miei confidenti, i miei fratelli, i miei amici più veri.

La città dicono che non sia troppo vasta, ma è molto caotica ed è enorme paragonata ad Hakata o al villaggio che ero solito bazzicare.

Mi fido di loro senza riserve. Così come del vecchietto. Happosai sta cercando di convincere mio padre, lavorandolo ai fianchi... e sono certa che se non fosse per quella sua sciocca moglie ci sarebbe già riuscito...

Mi ci vorrà un po' per trovare la locanda 'Ko-Lun' gestita dalla signora Nodoka.

Tengo duro per te e aspetto il tuo ritorno con crescente fiducia, giorno dopo giorno!

Sarà il luogo da cui ripartirò, l'inizio di qualcosa, ne sono certo, del mio ritorno da te... Tieni duro!

E anche oggi vedo tramontare il sole e guardando verso ovest immagino di superare monti e mare e di giungere a te per darti la buonanotte!

Buonanotte maschiaccio mio, mille volte buonanotte!


***



Era pomeriggio inoltrato e Ryoga era inquieto.

Si era dovuto allontanare, anche se per poco, dalla ‘zona di sicurezza’, quella zona in cui riusciva a tenere sotto controllo Akane Tendo, seppur da lontano, e a buttare un occhio anche sui movimenti di Ukyo.

Era stato incaricato di spostare dei pesanti tomi dalla Sala Grande alle stanze di Soun Tendo.
Ancora pochi minuti e una corsa poco elegante ma necessaria l'avrebbe riportato alle sue mansioni di sempre, lontano dall'ala ufficiale e vicino a ciò che aveva più a cuore...

*Ancora  pochi minuti... Ancoa pochi minuti... Dannaz-*

"Mia signora"

Nell'ultimo passaggio, con le pesanti pergamene ammonticchiate disordinatamente tra le sue braccia, si era imbattuto nell'altera regina della casa e si era inginocchiato velocemente.

"Oh, guarda chi c'è... 'Ryoga... Hibiki', mi pare che ti chiami, vero?"

"Sì signora, è il mio nome"

"Oh, non meravigliarti, caro, è preciso dovere di ogni padrona conoscere il nome di ogni suo singolo servo. Tu sei stato assegnato alla piccola Akane, non è così?"

"S-sì, mia signora..."

"Non titubare, caro, nelle tue risposte. So bene che non è propriamente così... Ma che importa! Dopo il triste esilio del tuo padrone è naturale che tu segua la sua sposa..."

"..."

"Piuttosto dimmi... Ancora piange? Oh, povera bambina! Non finisce mai il dolore di un cuore innamorato! Ma per il suo bene, caro, non permetterle di fare nulla di folle... Si sa, a quell'età, con quel temperamento, si segue troppo spesso l'impulso! Che errore... Va consolata, la principessina... Ne va calmato l'animo... Dimmi, come possiamo fare? Tu hai qualche idea, caro? Suo padre è testardo quasi quanto lei e per il momento, purtroppo, non c'è speranza che il giovane Ranma possa essere richiamato dall'esilio... Povero ragazzo... Mio fratello in fondo vuole solo il bene della ragazza... Ha sbagliato a forzarla, questo sì... Ma ora è così sola... E chissà quando tornerà il suo Ranma... Forse mai... E lei, poverina... E anche tu, in attesa di un padrone che non torna... Vi compiango, povere creature... Ecco, potresti parlarle e farle capire che mio fratello vorrebbe solo consolarla un po', lenire il suo dolore..."

Ryoga non osava incrociare il proprio sguardo con quello di lei e Kodachi interpretò il gesto come un accenno di infedeltà che si apriva alla vergogna.

E volle rassicurare quel timido moto di alleanza.

"Fa in modo che Tatewaki le si insinui dentro il cuore... E io ti dò quanto ti basta... Anzi, no! Ti faccio ricco più del tuo padrone... Potrai condurre una vita libera, lontano da qui, senza bisogno di lavorare per il resto dei tuoi giorni. Potresti usare quei soldi per sposarti e garantire una vita agiata alla tua sposa e ai tuoi figli... Parlo io a Soun-sama, ci penso io a te, mio caro. Parla con la principessa... Siamo persone di buon senso, no, Ryoga Hibiki? Spiegale quanti vantaggi in più può avere, solo volendolo. Dille che lo pensi tu"

Andava avanti a parlare ma intanto lo scrutava, non più tanto sicura.

Il ragazzo si ostinava in un silenzio snervante e criptico.

Possibile che rifiutasse la sua offerta? Forse aveva bisogna di un'altra piccola spinta...

"Pensa alla proposta che ti faccio... In fondo se vuoi puoi restare il servo della mia figliastra e al contempo ricevere onori da me, da mio fratello, e dal mio amato marito. Lo meriti. E solo per un'opera di bontà... Mio saggio ragazzo... P-pensaci un po' su"

Si fingeva sicura ma avrebbe volentieri schiaffeggiato rabbiosa quel faccino che con tenacia restava abbassato in segno di obbedienza.

*Osi sfidarmi, eh? Bene, avrai quello che davvero ti meriti...*

"Non c'è bisogno che tu mi risponda ora. Pensaci con calma"

Un buffetto sul capo con fare magnanimo, quasi materno e si voltò in un volteggiare di maniche di kimono.

Il tempo di rialzarsi per andarsene il prima possibile e Ryoga vide una boccetta cremisi rotolare ai suoi piedi.

*E ora... Raccoglilo...!*

Istintivamente la raccolse e fece un cenno goffo verso Kodachi.

Gli occhi più ingenui del mondo si piantarono su di lui.

"Cosa...? Ho sentito cadere... Oh, l'hai raccolto! L'avevo qui con me, dev'essermi scivolato nel movimento! Grazie, caro. Ma sai cos'è? E' un rimedio portentoso! Lo uso ogni volta che ho anche il più piccolo malessere. Mi ridà colore alle guance e forza in corpo! E lo sai anche chi ha salvato da morte certa? Soun-sama! Oh sì, mio caro! Di questi tempi anche un sovrano rischia la morte per un raffreddamento trascurato. E queste erbe l'hanno soccorso più di una volta! No no, tienilo pure. Ho deciso che te lo regalo. Ne ho altri… Un piccolo anticipo per quel bene che ti verrà da me. Ma te lo meriti comunque, per la tua fedeltà di sempre. Che tu cresca in salute servendo il tuo signore, se questo è il tuo volere *Amen* E ora vai caro, torna alle tue incombenze! Ti ho trattenuto anche troppo"

"Mia signora, grazie"

Riconoscenza asciutta e doverosa. Non più di un inchino. Impeccabile e sfuggente.

Ma poco importava.

Era riuscita comunque nel suo intento.

Lo guardò allontanarsi.

*Piccolo insolente... Quando si è onesti in questo modo qui lo si rimane per sempre, eh?... Non ti fai corrompere? Maledetta nullità! Ci spia per conto del suo 'amico' e ricorda a lei di essergli fedele... Ma ti ho dato quel che basta per... Eh eh… Un piccolo sorso e la priverai del suo servo. E dopo, toccherà anche a lei, perchè se non si calma, una soluzione la troviamo anche per la piccola Akane*

E dentro di sé rise, di una risata lugubre e acuta, a fare da sfondo ai suoi macabri progetti di vendetta.


***


"Ucchan! Ucchan!"

"Ryoga! Ma che hai? Sei tutto pallido e sudato..."

"Stai bene? State bene??"

"S-sì... Ma così mi fai preoccupare, hai due occhi..."

"Akane-san dov'è?"

"In stanza... Si sta allenando lontano da occhi indiscreti, in tal modo si tiene impegnata e di buon umore e scarica un po' del suo spirito combattivo!"

"E tu??"

"Io?? Ma si può sapere cos'hai, Ryoga?! Io sono sempre stata qui dove mi hai trovato! Sto aiutando i cuochi a portarsi avanti con i preparativi, come puoi vedere! C'è molto lavoro da fare in vista del banchetto di domani... Pare che Soun-sama abbia indetto un'assemblea straordinaria con tutti i generali delle terre dell'ovest"

La vide, munita di un coltellino, che stava mondando con mani abili una montagna di foglie di cavolo, lì, seduta sul ballatoio esterno alla casa, per godersi un po' di sole, coi piedi penzoloni e un grande secchio di legno accanto a lei a raccogliere i rifiuti.

Finalmente si calmò.

"Ho avuto paura che Kodachi avesse combinato di incontrarmi per trattenermi lontano da voi..."

"Hai... hai visto quella strega?! Che è successo??"

"Ah ah! Calmati tu, ora, ti prego! Non è successo nulla!"

Le prese il mento tra le dita,  e glielo scrollò giocoso.

"Lo deciderò io se non è successo nulla! Racconta!"

"Beh, no... cioè sì, in effetti... Ha provato in modo piuttosto evidente a comprarsi la mia fedeltà"

"Come?!"

Le raccontò ogni gesto, ogni intonazione, ogni parola di quel tentativo e le espressioni di Ukyo attraversarono senza filtro ogni passaggio della storia.

"Devi stare attento, tesoro mio... Ti ha preso di mira e non ti mollerà facilmente..."

Si sentiva un po' svuotata, ma in fondo tranquillizzata dalla condotta di Ryoga.

“ ‘Tesoro mio’…?”, arrossì il ragazzo con la bandana.
 
“Oh, smettila, non è il momento…!”, arrossì lei. Ma cosa diamine si era lasciata sfuggire?!
 
Per fortuna Ryoga tornò immediatamente serio.
 
"Comunque… lo so. Ma penso di non averle mancato di rispetto e per un po' credo che pazienterà... Soltanto una cosa mi dà da pensare. Andandosene le è caduta questa boccetta... Mi ha detto che si tratta di un rimedio benefico che ha salvato anche Soun-sama più di una volta da malesseri di vario tipo. Me l'ha regalata, ‘come anticipo’, ma anche ‘come ringraziamento dei miei favori di sempre’, così ha detto... Non potevo rifiutare..."

"No, certo, hai fatto bene..."

"Solo che..."

"Cosa?"

"Mi è sembrato strano... Non pensi che abbia fatto in modo che io prendessi questa boccetta?... Ci sarà qualcosa dietro questo suo gesto?"

"Io credo molte cose di Kodachi Kuno, cose che non possono uscire dalla mia bocca, se voglio restare la ragazza rispettabile che sono... Ma questa volta credo che tu ti sbagli e che quella boccetta le sia caduta davvero. Proprio l'altro giorno, mentre servivo il tè nella Sala Grande, ho visto io coi miei occhi il nostro signore accasciarsi per un malore, e quella strega ha tirato immediatamente fuori dalla manica questa stessa boccetta, ne ha versato qualche goccia in bocca a Soun-sama e lui si è subito ripreso, le guance gli sono tornate rosee e ha sorriso per il ritrovato benessere. No, credo si tratti proprio di quel rimedio e tutto sommato per questa volta qualcosa di utile ci ha fruttato pure quell'arpia. Vedrai ci tornerà comodo quest'inverno, quando avremo bisogno di energia per non soccombere alle fatiche di questo benedetto palazzo!"

Completamente rassicurato dalle parole di Ukyo, Ryoga lasciò scivolare via dalla mente anche l'ultimo brandello di dubbio, e cominciò ad aiutarla, sempre con un occhio alle finestre di Akane.

Senza che lui potesse saperlo, altri occhi, in quel momento, da lontano accarezzavano silenziosi le silhouettes di lui e di lei intenti al lavoro.

E si compiacevano di aver visto bene nel constatare quanto i meccanismi del mondo siano sempre gli stessi e le relazioni umane abbiano bisogno di alleati per dare un senso alle proprie paure.

Mostrare a quella servetta il potere miracoloso di un rimedio benefico contenuto in una boccetta identica a quella col veleno si era rivelata un'intuizione geniale nonché, potenzialmente, molto, molto divertente.

Era solo questione di tempo.










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Ciao a tutti!


Per prima cosa, scusatemi.

Sono mancata per troppo tempo da questo fandom e da questa storia e questo ritardo è imperdonabile.

In particolare mi scuso con le mie meravigliose Ladies, che hanno continuato a scrivermi, a sostenermi e a pensare a me, nonostante fossi sparita!

Non sto a raccontarvi che il lavoro mi ha tenuta impegnata coi suoi orari assassini, che la vita si condisce sempre di continui piccoli grandi inconvenienti e che il tempo non basta mai... Tutte cose che sappiamo e che riguardano tutti.

Perciò, ancora una volta, scusate.

Eccomi qui!

Ho cercato di riprendere le fila del racconto, anche se in modo un po' faticoso.

E presto mi rimetterò in pari con le vostre storie e con le recensioni, spero con un po' più di regolarità!

Ringrazio infinitamente tutti coloro che, nonostante i ritardi, continuano a leggere, seguire, preferire e soprattutto commentare!

E un abbraccio enorme alle mie Ladies, le cui parole e i cui consigli, anche a distanza, continuano a commuovermi e divertirmi!

InuAra
 
(Lady Shakespeare, eheh!)
 
 

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Capitolo 9
*** Se posso seminargli degli intralci sulla sua strada, proverò piacere ***


 
Un piccolo riassunto per riportarvi nel vivo della storia:
Medioevo giapponese - Akane, figlia di Soun-sama, signore delle terre dell'ovest, non è mai uscita dal palazzo, dove è cresciuta accanto a Ranma, un giovane orfano che lavora come paggio al servizio di Soun Tendo.  A vegliare su di loro ci sono i due anziani consiglieri, Obaba e Happosai, e gli immancabili confidenti, Ryoga, amico, nonchè servo, di Ranma, e Ukyo, ancella di Akane. Soun si risposa con una giovane nobildonna, Kodachi, e al fratello di lei, Kuno Tatewaki, promette in sposa la principessa Akane, che rifiuta categoricamente i suoi corteggiamenti. A poco a poco Ranma e Akane si accorgono di essere innamorati e, sfidando i problemi di classe, si dichiarano. Decidono quindi di sposarsi di nascosto e scappare in Cina, in attesa di tempi migliori, ma immediatamente dopo il matrimonio e la prima notte di nozze vengono scoperti e divisi. Ranma viene prima imprigionato e poi esiliato e Akane è tenuta sotto stretta sorveglianza, pur con un discreto raggio di azione. Obaba fugge a sua volta dopo essersi presa l'intera responsabilità del matrimonio segreto. Partendo per la Cina, Ranma promette ad Akane che le scriverà spesso e che farà di tutto per ricongiungersi a lei. Tra una lettera e l’altra, passano i giorni e Kodachi sembra tramare nell’ombra alle spalle della principessa e degli ignari compagni. Nel frattempo Ranma approda in Cina.
 
 


 
CORRADO
Che vantaggio vi potrà mai venire
da questa vostra grande scontentezza?
 
GIOVANNI
Il massimo vantaggio,
perché è la sola cosa che ho di mio.
(...)
Questo può rivelarsi un nutrimento
per la mia scontentezza; quel pivello,
(...)
se posso seminargli degli intralci
sulla sua strada, proverò piacere.
 
Much ado about nothing – William Shakespeare
 
 


 
 
Scovare la locanda Ko-Lun non fu un'impresa facile, tra la folla di commercianti e marinai che pulsava negli stretti vicoli del porto, gli affari più o meno leciti, i carri, il via vai dei facchini. Ma quando Ranma finalmente la trovò, scoprì che anche in quell'angolo sperduto del mondo c'era qualcuno pronto ad accoglierlo a braccia aperte.
 
La locanda, semplice e sobria, a confronto di molte bettole in cui si era imbattuto nel tragitto dal porto, sorgeva su una piccola collina, ed era raggiungibile da una stradina in salita che si apriva leggermente in un piccolo spiazzo, lontano dalle caotiche  vie principali quel tanto da poter godere di una certa quiete.
 
Non c'era anima viva.
 
Dopo tutto quel brulicare di gente, quello scambiare parole incerte di una lingua non sua, che pure stava imparando in fretta, gli sguardi curiosi, quelli altrui che indugiavano sui suoi lineamenti stranieri e quelli suoi, che divoravano ogni colore, ogni odore, ogni straordinaria differenza della vita che qui lo attendeva, quella piazzetta deserta lo fece di colpo piombare in un senso di vuoto e di smarrimento.
 
Era forse il primo momento da quando era cominciato il viaggio del suo esilio che si fermava davvero.
 
E nell'immobilità di quell'istante si sentì solo.
 
Ogni attimo libero che aveva avuto fino ad allora si era messo a scrivere ad Akane.
 
Era stata sempre con lui.
 
Akane  sulle sartìe.
 
Akane nelle notti di luna.
 
Akane tra una chiacchiera e l'altra dei marinai a bordo di quella nave.
 
E, col pensiero di lei, non aveva mai smesso di parlare, di aiutare sul ponte, di pescare, di affaccendarsi ovunque fossero richieste due braccia giovani e forti.
 
Ora, col suo misero fagotto sulle spalle, guardando oltre i tetti disordinati di quella città straniera, tutto gli sembrò ostile e gli parve impossibile ripercorrere la via del ritorno che si era fatta in un batter di ciglia impervia e lontana.
 
I suoi piedi improvvisamente stanchi non avrebbero mai trovato la forza di muoversi da lì.
 
Era come se il suo cuore nuotasse nello sconforto.
 
La paura e la tristezza gli caddero di colpo sulle spalle.
 
*Ma a chi voglio darla a bere? Al mio solito ho guardato avanti a me e non ho pensato a cosa avrei fatto una volta qui. Non ho pensato a nulla, ho persino riso... Che idiota! Il solito spavaldo incosciente... Così avrebbe detto Ukyo. Ukyo... Ryoga... Cosa state facendo? State vegliando su di lei? E lei... mi aspetterà? Akane, ce la farò a tornare da te?...*
 
"Ranma?"
 
Una voce calda e dolce lo riportò alla realtà.
 
"Tu sei... Ranma, vero?"
 
Qualcuno che conosceva la sua lingua lo stava chiamando per nome.
 
Si voltò di scatto.
 
Dietro di lui una donna non più giovane ma ancora molto bella, gli occhi grandi e rassicuranti, ferma nell'atto di entrare nella locanda con un cesto di biancheria tra le braccia, gli sorrideva, il capo voltato verso di lui.
 
"Sì, tu devi essere Ranma, la descrizione di Obaba non lascia spazio a dubbio alcuno"
 
Posò il grande cesto con grazia e si avvicinò al ragazzo che la guardava senza sapere cosa dire.
 
Lo raggiunse e quando fu distante da lui poco più di un metro, si inchinò.
 
"Benvenuto"
 
"Ehm...grazie...", si inchinò a sua volta, "e... sì, Ranma è il mio nome"
 
Vergogna, amarezza, imbarazzo in quella risposta appena sussurrata, che si tingeva di tutto il senso di colpa che per la prima volta lo metteva di fronte alla sua immagine: un esule, un traditore, un poveraccio.
 
La signora, che  aveva visto tanto durante la propria vita, e, cosa più importante, sapeva osservare davvero, colse il tono del vinto nelle parole di quel ragazzo, e fece qualcosa di inaspettato. Sciolse l'inchino e con naturalezza lo abbracciò.
 
Qualcosa si squagliò dentro di lui.
 
Non si sentì più così sbagliato.
 
Si abbandonò a quell'abbraccio di madre, così avvolgente e protettivo, e lacrime silenziose bagnarono lo yukata della signora, le prime lacrime versate da un uomo non più bambino che aveva perso tutto, lontano da casa e dalla sua donna.
 
La signora Nodoka aveva il potere di cancellare ogni stanchezza e di ristorare anima e corpo con pochi gesti premurosi.  Ranma se ne accorse da quel primo incontro.
 
Non fu mai menzionato lo sfogo del ragazzo tra le braccia di quella sconosciuta. Anzi, dopo aver trovato quella nicchia di muta confidenza, Ranma ritrovò dignità e sicurezza.
 
Tutto gli sembrò più facile e riacquistò un po' di speranza.
 
Entrando per la prima volta in quella che sarebbe stata per un po' la sua nuova casa, non senza essersi caricato il cesto pieno di lenzuola e strofinacci freschi di bucato, Ranma si voltò a guardare il tramonto su quello che gli parve di nuovo un panorama bellissimo.
 
Al suo ingresso i pochi avventori seduti chi a un tavolo chi al bancone lo squadrarono curiosi.
 
"Signori, questo è Ranma! Consideratelo come se fosse il mio figlioccio. Viene dal mio Giappone e voglio che lo accogliate con gli onori che merita!"
 
La dolcezza della signora Nodoka era sempre contagiosa, e un suo ordine era accettato di buon grado da ognuno dei suoi ospiti abituali, che semplicemente la adoravano.
 
Due sole persone, un po' in disparte, guardarono l'uno con sospetto l'altra con superiorità la scena patetica di quel ragazzotto venuto da fuori che, ansioso di farsi benvolere, stringeva mani e dispensava saluti.
 
Ben presto Ranma avrebbe fatto la loro conoscenza.
 

***
 

Notte fonda.
 
Una luna malata illuminava appena le finestre della principessa, sbiadendone i contorni.
 
Il palazzo dormiva e lui si prendeva l'impudenza di violarne l’immobilità, fissando insistentemente quelle finestre.
 
Cosa avrebbe dato per possedere quelle finestre, quel palazzo, tutte quelle ricchezze... E cosa avrebbe dato per mettere le mani su quella pelle così bianca, lasciarle scorrere lentamente lungo le forme, per poi afferrarne le carni e prendere quello che era suo di diritto. In quanto uomo e in quanto nobile.
Ma aveva deciso di giocare d’astuzia e sapeva aspettare. Però voleva vincere e per riuscirci doveva liberare la sua strada da ogni ostacolo, anche il più insignificante.
 
"Kuno, mio buon signore. Sono qui, come mi avete chiesto"
 
Si scosse dalla lascivia di quei pensieri. Per quanto il suo servo personale fosse il capro espiatorio prediletto della sua ira, doveva ammettere che avesse abilità eccezionali: non lo aveva in alcun modo percepito avvicinarsi.
 
Ed ora era lì, in ginocchio, capo chino.
 
"Sasuke", sussurrò a sua volta, "Se già sei di ritorno, suppongo che tu abbia trovato chi stavamo cercando..."
 
"Sono qui, mio buon signore, appena fuori da Palazzo Tendo. Attendono vostri ordini"
 
Un'ondata di eccitazione gli accelerò il battito.
 
"Molto bene"
 
E con un ghigno malcelato volse un ultimo sguardo tagliente verso le finestre di Akane, prima di aumentare il passo in direzione del grande cancello.
 
Quella sciocca avrebbe avuto tutto il tempo per capire che una donna quando è sola non va da nessuna parte. L'avrebbe sicuramente capito esaurendo da vedova l'ultima lacrima per la morte di quel verme, Ranma, o come diavolo si chiamava.
 
Questo pensava Tatewaki Kuno mentre si affrettava a raggiungere i due migliori sicari delle Terre dell'Ovest per dar loro  l'ordine di portargli su un vassoio una ben precisa testa col codino.
 
 

***

 
 
Si scostò distrattamente i capelli dal volto, in un gesto misurato ed elegante.
 
Voleva guardarlo meglio.
 
Non capiva cosa avesse di straordinario.
 
La signora Nodoka parlava di lui ormai da giorni, come di un ragazzo 'virtuoso, ricco dentro e fuori'.
 
"Ma se non lo conoscete...!", aveva ribadito lui.
 
"Ma è come se lo conoscessi, mio caro Mousse! La vecchia Obaba - tu sai quanto sono legata a lei - mi ha scritto di lui, descrivendomi nel dettaglio il suo buon carattere a palazzo e il carisma con gli amici, la sincerità d'animo e l'onestà, la bravura nelle arti marziali e la voglia di darsi sempre da fare... Un giovane così solerte e al contempo così sfortunato non si può non amarlo!"
 
Gli aveva regalato uno di quei suoi sorrisi caldi e disarmanti a cui lui non sapeva rispondere e, portandogli via il bicchiere ormai vuoto, si era allontanata considerando la questione conclusa.
 
Ma la questione non era affatto conclusa.
 
Dall'angolo un po' nascosto in cui era seduto scrutava quel ragazzo per carpirne il segreto.
 
Poteva avere all'incirca la sua stessa età, forse un anno in meno.
 
Ma a parte questo erano diversi come il solleone e la tenebra.
 
Quel ragazzo si muoveva in modo rozzo e spontaneo, scusandosi e sorridendo agli sconosciuti intorno a lui.  Al contrario i propri gesti erano sempre ponderati e fluidi e il suo volto il più delle volte imperscrutabile.
 
La voce di quel forestiero era squillante, chiassosa, disordinata. Lui parlava poco, a voce bassa.
 
Quel Ranma era vestito con una giacca rossa sdrucita dal taglio cinese, come se amasse travestirsi da straniero pur essendo giapponese, con un risultato piuttosto ridicolo e grottesco. Che cattivo gusto... Lui dal canto suo era avvolto da un completo casacca e pantaloni sobrio ma raffinato, nelle tinte dell'oro e del celeste. I paraspalle e i parabracci argentati davano al tutto un'aura di prestigio e forza, rivelando che chi li indossava era di fatto un guerriero.
 
Occhi verde smeraldo, carnagione fredda e lunare, lunghi capelli setosi color noce, Mousse era un guerriero dell'esercito cinese in congedo fino a nuovo ordine, ma pur sempre un guerriero, pronto al combattimento e alla strategia, uno dei migliori.
 
E non capiva come un ragazzo che non aveva sudato per meritarselo fosse considerato anch'egli 'uno dei migliori', forse anche migliore di lui: era considerato bello, bravo nelle arti marziali, ed era sposato nientemeno che con una principessa...
 
Si voltò non visto a guardarla.
 
Lei era lì, non troppo distante da lui, con un sorriso indecifrabile, gli occhi a sua volta puntati sul nuovo ospite, mentre con una mano giocherellava con una ciocca dei suoi morbidi capelli purpurei.
 
Sospirò di una rabbia rassegnata e ormai stanca.  Abitava in quella locanda ormai da un anno, non solo perchè non aveva una casa di proprietà, ma perchè lì c'era lei: Shan-Pu, la cameriera a servizio della signora Nodoka.
 
Un anno prima avrebbe detto di essere innamorato di lei.
 
Ora non sapeva nemmeno se si fosse trattato di amore. 
 
La piccola Shan-Pu ci sapeva fare col cuore degli uomini, come una gatta con un topino ignaro. Ci giocava e poi se li divorava. Una notte di passione e via. Pronta per un nuovo passatempo, una nuova preda.
 
Non era cattiva in sè, e non riusciva a odiarla. Anzi, standole vicino aveva imparato a conoscerla bene per quello che era: un'astuta ragazzina, divertente e senza morale. Bella da stordire, per nulla ingenua e con quell'accento un po' vezzoso, tipico del suo villaggio di origine.
 
Eppure, fosse stata diversa, chissà, forse l'avrebbe amata davvero... Ma forse sarebbe stato un altro a sua volta.
 
"Che ne pensi?"
 
La voce di lei l'aveva colto a bruciapelo, appena udibile, mentre continuava a tenere gli occhi puntati su Ranma.
 
"Cosa vuoi che ne pensi? Non è che ha appeso in faccia un foglio con l'elenco di tutte le sue doti... L'aspetto è piuttosto insulso..."
 
"Pale che ha sposato di nascosto la figlia di un plincipe. Tanto insulso non deve essele..."
 
Lo stava provocando, ma la lasciò fare. E lasciò che continuasse il discorso, fatto di sussurri e intriso di quella schietta complicità senza mezzi termini.
 
"Quello che sai di lui lo sai dalle parole di una vecchia che adora la sua principessina. Il fatto che lui l'abbia sposata significa solo che sa come entrare nelle grazie dei potenti e come accrescere la propria fama facendosi bello col nome di lei"
 
"Ma poi l'hanno bandito, povelino!...", proseguì Shan-Pu con un tono che poco aveva dell'empatia se non il suono.
 
"Shan-Pu, cara?"
 
Era arrivata la voce argentina della signora Nodoka a interrompere quel dialogo.
 
"Sì signola?"
 
"Vieni cara, accompagna Ranma nella sua stanza e preparagli un bagno caldo!"
 
Non se lo fece ripetere due volte.
 
"Subito signola!"
 
"Shan-Pu!...", la trattenne senza neanche sapere bene perchè.
 
Lei lo guardò sardonica.
 
"Che hai Mousse? Non licoldi? Padlona ci ha chiesto di accogliello con coltesia e di fale amicizia con lui, dato che è solo qui, e non ha nessuno. 'Se e quanto vale non lo dico io, ma sono sicula che lo dimostlelà!'", continuò, facendo il verso alla signora, "Beh, dico io, scopliamolo!"
 
Non gli lasciò risposta e corse via con un risolino infantile.
 
Sorrise anche lui, tristemente, per poi guardare con occhi cupi quel Ranma salire le scale.
 
Dietro di lui, Shan-Pu.
 

 
***

 
 
"Ni-hao!"
 
Gli avevano parlato della bellezza delle cinesi, e quella che gli si era parata innanzi dava invero credito alle dicerie.
 
"Piacere... ehm... il mio nome è Ranma e vengo dal Giappone..."
 
"So bene chi sei. Puoi chiamalmi Shan-Pu. Sono cameliela di locanda"
 
"Beh... piacere di conoscervi, Shan-Pu"
 
"Ah ah! Come siete educati voi Giapponesi! Dobbiamo salile ola, stanza è al piano di sopla..."
 
"Ah, sì, certo!"
 
Lo condusse nella camera, che profumava di pulito.
 
E chiuse la porta dietro di sè.
 
La ragazza sapeva bene che di solito a quell'ora la signora Nodoka  era impegnata a preparare la cena. Per un po' non avrebbe chiesto di lei...
 
"Ti piace qui?"
 
"Molto..."
 
"Ho... ho saputo di tua stolia... mi spiace molto...", chinò il capo, senza staccare gli occhi abbattuti da quelli di lui.
 
"Oh... grazie signorina, siete molto gentile...", era un po' in imbarazzo, ma in qualche modo si sentiva accolto da quei modi compassionevoli. E ricambiò l'attenzione con un sorriso, posando poi il proprio fagotto sul letto.
 
 
"Ti devi sentile solo, velo?"
 
La voce, inaspettatamente più calda e carezzevole, gli era arrivata dopo qualche secondo alle spalle mentre cominciava a disfare le proprie cose.
 
"..."
 
"Tanto, tanto solo, velo?"
 
 Allungò  una mano verso la spalla di lui.
 
Ranma bloccò quel movimento sul nascere.
 
"No. A dire il vero lei è sempre con me"
 
Vedendo gli occhi smarriti della servetta, si spiegò meglio: "Mia... moglie, intendo"
 
"Capisco...", rispose in modo atono. Una impercettibile fiammella violacea stava cominciando a brillare nello sguardo di lei.
 
"Ma salai stanco! Ti plepalo subito un bagno!", rilanciò con entusiamo.
 
"Grazie, perchè no?"
 
Calò un silenzio placido nella stanza, rotto solo dai passi della ragazza, dalla brace smossa per scaldare il recipiente e dallo scroscio tenue dell'acqua versata nella tinozza; cominciò distrattamente a slacciarsi uno dopo l'altro gli alamari della giacca, fermandosi di tanto in tanto perso in qualche immagine lontana.
 
Ancora una volta lei veniva a visitarlo nei meandri della sua mente.
 
*Akane... Chissà se in questo momento anche tu stai per fare un bagno... Ukyo starà controllando la temperatura dell'acqua con una mano e tu le starai dicendo: 'Non ce n'è affatto bisogno, Ucchan!' e ti butterai nella tinozza con la tua solita grazia, per buona pace della tua ancella...*
 
Sorrideva segretamente a quel pensiero, illanguidendosi nel figurarsela senza kimono, tra i vapori della vasca...
 
Si voltò con ancora quel sorrisetto ebete stampato in volto e quel che successe lo riportò di colpo alla realtà.
 
Shan-Pu, vicinissima a lui - possibile che non l'avesse sentita avvicinarsi?! - si era fatta scivolare ai piedi la casacchina che le copriva il busto ed era lì, col seno esposto senza pudore.
 
"Wo ai ni, Lanma"
 
"Ma cos-"
 
Semplicemente gli tappò la bocca. Gli si gettò al collo con un gesto ipnotico quanto fulmineo e afferrò le calde labbra di lui tra le sue.
 
Altrettanto fulminea fu, nonostante lo stupore, la reazione del ragazzo, che con fermezza la respinse, staccandola dal proprio corpo.
 
"Io non..."
 
Lei lo guardava interrogativa, ansimando appena.
 
Occhi sgranati, era rosso di vergogna.
 
"Temo... ci sia stato un fraintendimento... Non conosco ancora le vostre usanze... Ma... vi prego di non farlo più..."
 
"Pelchè no? Tu solo, io qui: che male c'è?"
 
"C'è che non provo nulla per voi, Shan-Pu... Sono sposato con una donna che... amo... e che io non trad-"
 
"Magali anche lei sola e-"
 
"No! Non potrebbe mai. Nè io potrei tradirla. Mai"
 
Qualcosa di pericoloso colse la cinesina nello sguardo di lui, qualcosa che la ammutolì, il brillìo lontano di una fiamma sopita, e tanta crudele fermezza.
 
Ranma sospirò profondamente. Per un attimo, solo per un attimo, si era sentito salire il sangue al cervello, neanche lui sapeva bene perchè.
 
Ritrovò immediatamente la calma.
 
Alzò lo sguardo. Era davvero bellissima. Non sembrava neanche di questo mondo. Aveva i capelli più lunghi del normale, di un colore insolito e intrigante, gli occhi un po' troppo scintillanti, il corpo perfettamente proporzionato, i lineamenti del volto dolcissimi, persino stucchevoli. La trovò perfetta.
 
Ma non era Akane.
 
Come spiegare a quella ragazza che quei dati oggettivi di perfezione estetica semplicemente non avevano valore per lui?
 
Provò a darle del tu, come si fa con una bambina, per spiegarle meglio.
 
"Cerca... di capire, Shan-Pu. Tu sei molto bella, e... ti ringrazio, ma io non sono l'uomo per te, ecco"
 
Shan-Pu capiva fin troppo bene.
 
Non c'era stato uomo che le avesse resistito per più di pochi minuti. Chiunque capitolava di fronte alla sua candida sfrontatezza. La fedeltà crollava miseramente di fronte alla bellezza e al bisogno fisico, questo aveva imparato negli anni. E lei, da ragazzina volubile e capricciosa quale era, otteneva sempre quello che voleva; e alla svelta le piaceva desiderare, agire, consumare. Aspettare? Assurdità. Combattere per qualcuno? Non si sarebbe abbassata a tanto, mai. Ma nessuno l'aveva umiliata tanto come in quel momento e fatta sentire così inutile, così impotente.
 
"Lo... lo comprendi?"
 
Lo guardò per un istante e poi schermendosi con un paio di sorrisi imbarazzati, raccolse la casacca e cominciò frettolosamente a rivestirsi.
 
"Ma sì, celto, chiedo scusa pel mio compoltamento. Shan-Pu stata tloppo impulsiva, cledeva di fale piacele a lagazzo solo, tutto qui..."
 
"E non c'è niente di male in questo, ma... spero che tu non ti sia offesa, non riguarda te..."
 
"Basta, non palliamone più!"
 
Condì il proprio sorriso con la dolcezza più zuccherosa che riuscì a trovare.
 
"Tla poco c'è cena di signola Nodoka! Lei molto blava anche in nostla cucina cinese! Non peldelti maiale in aglodolce, mi laccomando!"
 
"Non mancherò di certo!... Allora, come se non fosse successo nulla, eh?"
 
"Successo cosa?"
 
Risero assieme stemperando definitivamente l'imbarazzo.
 
"Grazie, davvero"
 
Era contento di aver messo a posto una situazione così scottante in così poco tempo. Forse addirittura aveva guadagnato un'amica.
 
"Pel così poco!..."
 
Chiudendo dietro di sè la porta della stanza di Ranma l'ultimo radioso sorriso si smorzò di colpo sulle labbra della cameriera.
 
*La paghelai cala pel avele lespinto Shan-Pu* 
 


***


 
"Ah ah ah!!!!"
 
"Che avete da ridere, Akane-san?!"
 
Stupita dallo scoppio cristallino della risata della sua padroncina, Ukyo non poteva però fare a meno di ridere a sua volta, nonostante si sforzasse. Era sempre un piacere vederla di buonuomore, il caschetto di capelli all'indietro, gli occhi socchiusi a godere della brezza leggera.
 
Si trovavano perse tra le tegole del vasto tetto di Palazzo Tendo, in una mattina di ozio e di sole, in fuga da tutto.
 
Da dove erano accoccolate potevano vedere chiaramente l'arrivo di Daisuke. Toccava a lui quel giorno recapitare la tanto attesa lettera di Ranma.
 
"Allora? Cosa vi ha fatto ridere tanto?"
 
"Questo rotolo che sto leggendo è davvero spassoso..."
 
"E' la pergamena che vi ha dato Ryoga?"
 
"Sì, proprio quella!"
 
"Spero non vi sia niente di sconveniente!", arrossì preoccupata l'ancella.
 
"Tutt'altro! E' anzi molto istruttiva!"
 
"Lo spero bene! Dice che l'ha avuta dal dottore che aveva bisogno di fare spazio nella sua libreria... Di che si tratta?"
 
"E' la storia di un viandante e di alcune avventure che lo portano a viaggiare per terre conosciute e luoghi mai raggiunti dall'uomo..."
 
"Beh, deve essere molto divertente"
 
Annuì, con gli occhi lucidi dal riso.
 
"Qui dice che le donne cinesi non solo sono incredibilmente belle, sono paragonabili alle dee"
 
Calò il silenzio.
 
" 'Hanno lunghi capelli di seta’ ", lesse senza battere le ciglia, troppo eccitata, " ‘e occhi profondi e umidi, corpi sinuosi, lunghi, sodi. Belle come delle dee' "
 
"..."
 
" 'Delle dee', Ucchan"
 
"Oh, andiamo! Sono solo assurdità! E anche se questa storia fosse vera, Ranma non potrebbe mai dimenticarsi di voi!"
 
Era esplosa di fronte all'entusiasmo sempre meno vero e sempre più stonato della sua amica e principessa.
 
La scosse per le spalle.
 
"Finitela adesso! Non avete niente di cui preoccuparvi!"
 
La maschera di tranquilla ironia scivolò via dal viso di Akane, che la guardò bisognosa di conferme.
 
"Lo... lo pensi davvero?"
 
"Come è vero che mi chiamo Ucchan e faccio le migliori focacce del Palazzo!"
 
Il volto della ragazza si distese, questa volta per davvero.
 
"Che sciocca che sono... Cosa vado a pensare..."
 
"E' normale, non siate troppo dura con voi stessa"
 
La stringeva a sè, intanto che le parlava come a una sorella.
 
"Lui è lontano e queste sono paure legittime, anche se inutili"
 
"Hai ragione, Ukyo... Per fortuna che ci sei tu qui con me. E... Ryoga!"
 
L'occhio le era caduto su due figurine in movimento all'altezza del loro orizzonte. Una di queste era Ryoga che le aveva viste e si stava sbracciando verso di loro.
 
Anche Ukyo si voltò nella sua direzione.
 
"Guardalo com'è contento di averci scovate", bofonchiò, cominciando timidamente a ricambiare il saluto.
 
"Guarda Ukyo! Con lui c'è Daisuke... La lettera di Ranma è arrivata! Le prime notizie dalla Cina!"
 
E senza pensarci oltre si scapicollò giù dal tetto, alleggerita del tutto e senza più il residuo di un brutto pensiero.
 
 

***

 
 
Rientrando nella sua stanza, dopo quella prima cena alla locanda Ko-Lun, Ranma si lasciò andare sul letto, stanco ma appagato.
 
La signora Nodoka l'aveva rimpinzato di numerosi manicaretti e l'aveva rassicurato sul futuro. Tra un boccone e l'altro, una carezza e una parola buona, si era a poco a poco sentito sempre di più a casa. Una casa materna e confortevole.
 
Shan-Pu era stata sorridente e riservata e aveva servito in silenzio lui e altri due ospiti seduti poco lontano, che chiacchieravano sommessamente alla luce calda e fioca di alcune candele.
 
A poco a poco la stanchezza era scesa sulle spalle del ragazzo, che aveva deciso di ritirarsi. La giornata era stata molto lunga anche per lui e aveva ancora una cosa da fare prima di abbandonare le palpebre al sonno.
 
Per questo non si era domandato, salendo la rampa di legno scricchiolante, dove fosse sparito prima di cena l'unico ospite a cui non si era ancora presentato, e non si era accorto che in quel momento, riparato dalla pesante tenda del sottoscala, qualcuno lo stava spiando con lo sguardo più torbido del buio che Ranma si stava lasciando alle spalle.
 
Si alzò dal letto e prese carta e inchiostro. Doveva scriverle, raccontarle quel suo primo giorno in Cina...
 
Solo una cosa avrebbe omesso: l'imbarazzante episodio di Shan-Pu.
 
Perchè farne menzione, in fondo? L'avrebbe solo preoccupata inutilmente e messa in allarme.
 
No, era molto meglio evitare tutta quella storia e fare finta che non fosse successo nulla.
 
Si rincuorò soddisfatto, e cominciò a scrivere.
 
 

***

 
 
 
Aprì gli occhi e per un attimo non ricordò di trovarsi in Cina, lontano da lei, in un letto a lui estraneo.
 
Inspirò l'aria del mattino e ritrovò la memoria, il fardello della distanza, e su tutto la voglia di mettersi in moto.
 
Si alzò di scatto e dopo essersi velocemente preparato scese nella sala comune, dove trovò una sfuggente Shan-Pu impegnata a rassettare, uscire, rientrare, portare biancheria e spostare cose.
 
"Buongiorno, Ranma, mio caro ragazzo!"
 
"Buongiorno a voi, signora!"
 
"Dormito bene?"
 
"Molto. Posso esservi utile?"
 
"Mangia qualcosa, caro, e poi, se proprio ci tieni, potrai darmi una mano a portare dentro le cassette di frutta. Tutti i giorni a quest'ora passa un contadino mio amico e me le lascia qua davanti"
 
Provò una forte simpatia per quella donna che da sola portava avanti quella grande casa, in un Paese non suo, sempre sorridendo e senza fare mai menzione alla fatica che certamente faceva per far quadrare conti, accogliere persone, coccolarle con piccole attenzioni e una cucina prelibata.
 
"Ma certo, consideratele già dentro!"
 
La prima giornata da ospite nella locanda Ko-Lun passò più veloce del previsto tra tante piccole mansioni, qualche parola e un senso di familiarità.
 
Ranma amava rendersi utile. Gli dava la sensazione di avere un posto nel mondo. A Palazzo Tendo come presso la signora Nodoka.
 
 

 
La sera non tardò ad arrivare e senza che si fosse accorto di nulla, il ragazzo col codino si ritrovò all'interno di una specie di festa di benvenuto.
 
Guardò alcuni festoni un po' sciupati ma allegri, una tavola coperta di vassoi carichi di vivande e più di uno sguardo amichevole su di lui.
 
Non si era accorto di nulla... doveva essere stato molto impegnato, o quantomeno con la testa davvero tra le nuvole, per non aver capito che si stava cucinando e addobbando la sala per una serata speciale.
 
"Spero non ti dispiaccia, mio caro. Ho invitato qualche amico per celebrare il tuo arrivo, anche se con un giorno di ritardo. Ieri sei piombato qui prima rispetto a quello che mi aspettavo e ci tenevo ad accoglierti come si deve"
 
Si inchinò sorridente e senza parole, tranne un 'grazie' un po' strozzato che trovò timidamente strada fuori dalla sua gola.
 
"Allora che la festa abbia inizio!"
 
La padrona di casa diede il via al piccolo gruppo di musici che aveva chiamato per l'occasione e una musica frizzante riempì ogni angolo della stanza, scandendo risate e brindisi, e facendosi largo tra il rumore delle ciotole e delle bacchette.
 
Il profumo aromatico di alcol e liquori impregnò a poco a poco il pianterreno, dove il caldo cominciò a salire e il frastuono a stordire i sensi rimasti.
 
Fu in questo stato che Ranma trovò la strada verso il piccolo tavolo un po' in disparte a cui era seduto quel ragazzo cinese così taciturno a cui ancora non si era presentato.
 
Gli porse un bicchierino di terracotta.
 
"Da quando è cominciata questa festa non avete detto una sola parola, amico!... Rispetto il vostro silenzio, ma almeno bevete un po' con me... Ecco qui... Un po' di saké della mia gente- non so come la signora Nodoka l'abbia recuperato- alla mia e alla vostra salute! Ah, Ranma... Il mio nome è Ranma"
 
Il ragazzo dai lunghi capelli continuava a guardarlo, il volto inespressivo, senza dire una parola.
 
Poi di colpo gli tese la mano.
 
"Perdonate il mio silenzio. Mi chiamo Mousse e abito in questa locanda da oltre un anno"
 
Rincuorato Ranma gli strinse la mano con foga infantile.
 
"E' un vero piacere, Mousse! Siete un soldato, vero? Avete tutta la mia ammirazione!"
 
Mousse annuì senza aggiungere una parola.
 
"Beh", fece Ranma, "Allora... Alla mia e alla vostra salute!"
 
Alzando il bicchiere, con voce pacata Mousse aggiunse: "Con tutto il rispetto mi piacerebbe brindare a qualcosa di più nobile di me o di voi..."
 
Rosso in viso per il caldo e il vino Ranma non capì bene le parole del giovane.
 
"Qualcosa di più nobile dite?", biascicò sorridendo un po' intontito, "Ma certo...! Qualcosa di più nobile... Ah, mi sembra ovvio... 'Un brindisi alla mia donna!'"
 
Stava per scolarsi il bicchiere quando ancora una volta Mousse lo interruppe, sarcastico.
 
"Ma che dite? Può una donna essere più nobile di un uomo?"
 
"Oh, ragazzi! Vedo che avete fatto conoscenza!", irruppe la signora Nodoka, allegra e chiassosa, "Di cosa state parlando miei cari?"
 
"Signora Nodoka", nel rivolgerle la parola Mousse le offrì a sua volta un bicchiere, che Shan-Pu, poco distante, attenta a ogni singola parola dall'inizio della conversazione, prontamente riempì con la caraffa che teneva in mano, avvicinandosi, "Il vostro ospite stava cercando di spiegarmi quanto è nobile la sua donna"
 
"Oh, sì, Ranma caro, parlaci della tua Akane, la giovane principessa Tendo!", si illuminò la padrona.
 
Ranma un po' confuso, cercò di mettere insieme una qualche risposta.
 
"Oh, beh, sì, mia moglie... Mia moglie è, a dirla tutta, la donna più bella, la più forte, la più onesta e la più fedele di tutte... sì, di tutte le donne giapponesi e cinesi messe assieme", concluse fieramente.
 
"Ah ah, Ranma, caro! Hai davvero un'alta considerazione della tua sposa", sorrise la signora Nodoka, noncurante della gaffe in buona fede del suo giovane amico, e si diresse verso un gruppo di invitati che stava entrando solo in quel momento.
 
Dopo un attimo di silenzio fu la volta di Shan-Pu.
 
"Ma una donna così non esiste!"
 
"Oh sì che esiste, eccome!", le si oppose Ranma
 
Lo sguardo di Mousse si perse un attimo di troppo sulla cameriera che si stava divertendo a provocare Ranma. E Ranma, osservò poi, si stava ingenuamente cominciando ad innervosire.
 
"Non la vorrete certo paragonare alle donne qui in Cina!", continuò Mousse.
 
"N-no, certo che no", si stava perdendo in quei discorsi e aveva paura di offendere gli astanti, ma come poteva qualcuno mettere in dubbio la sua Akane?, "D-dico solo che mia moglie è una donna senza pari  e il mio non è solo il giudizio di chi… ehm… ama"
 
Mousse rise di gusto. E la cameriera gli fece eco.
 
"Tanto bella e tanto brava?! Ma da come ne parlate sembra troppo bella e troppo brava per essere una donna", uno sguardo fugace e orgoglioso fu lanciato a Shan-Pu, "Ne ho conosciute tante, io, di donne, e se anche fosse migliore di quelle che ho... omaggiato, certo non potrebbe superare tutte le donne del mondo. Per quanto un diamante possa brillare, al mondo ce n'è sempre uno che brillerà di più"
 
"Anche quell'anello, pel esempio, quello che tieni al mignolo", aggiunse maliziosa Shan-Pu, spalleggiando il compatriota, "è molto bello e lucente, ma non è il più bello del mondo nè il più lucente, palola mia!"
 
Ranma strinse senza pensarci l'anellino donatole da Akane, come a voler proteggere lei stessa, tapparle le orecchie da tutte quelle fesserie.
 
"E quell'anello, quanto vale allora?", lo incalzò Mousse, sornione.
 
"Quest'anello? Più di ogni altra cosa al mondo!", si accalorò Ranma, difendendo il gioiello al dito.
 
"Ah ah ah! Anche l'anello? Perciò, o più di lei vale un oggetto, o... la vostra donna è morta!"
 
Fu un attimo.
 
Ranma gli balzò al collo, tenendolo per il bavero della casacca dorata.
 
"Non osate dirlo mai più!”, gli urlò a denti stretti, “E non vi azzardate a parlare di lei in questo modo... Lei... niente e nessuno può comprarla, perché è un dono dei kami. Punto e basta!"
 
"Che sta succedendo qui", intervenne allarmata dall'altro capo del salone la padrona di casa.
 
"Ma nulla, cara signora!", gli rispose Mousse pacatamente dalla sua posizione, per poi rivolgersi al ragazzo che lo teneva saldo, "Ah ah, Ranma, come vi scaldate! Si faceva solo un po' di retorica, così,  per divertirsi! In fondo questo ‘dono’, i kami l'hanno dato a voi, no?", gli sorrise complice e rassicurante.
 
"Beh... sì", Ranma mollò lentamente la presa, disorientato.
 
"E allora voi ve lo tenete! Alla salute!", e si scolò finalmente il bicchiere, seguito da un imbarazzato Ranma.
 
La brava signora tirò un sospiro di sollievo vedendo le guance del suo protetto riprendere colore.
 
Shan-Pu si affrettò a non lasciare vuoti i loro bicchieri.
 
"Però", si bloccò Mousse leccandosi le labbra bagnate di alcol, "a pensarci bene, non tutto ciò che è nostro resta per sempre nelle nostre mani... Amico mio", si girò corrucciato verso Ranma, prendendolo  per un braccio "l'anello vi può essere rubato e la vostra donna può donarsi ad altri!... La natura umana è così fragile... Bastano un ladro e un seduttore… ed eccovi senza anello e senza sposa!"
 
"No, no, amico, non capite", lo tranquillizzò il ragazzo, apparentemente calmo, "Io vi dico che su questa terra non esiste un seduttore in grado di far perdere l'onore alla mia Akane. E Non ho dubbi che la Cina pulluli di ladri, ma io ho l'anello stretto al dito e qui rimane"
 
 
"Vedo che avete legato...", si mise timidamente in mezzo la signora, "Forse è il caso di fermarsi qui"
 
"Ma certo", sorrise Ranma, "Ringrazio questo gentiluomo, che mi tratta con familiarità, da amico"
 
Si strinsero platealmente la mano e la discussione sembrò finita lì.
 
Ranma fece per andarsene quando la voce di Mousse lo fermò.
 
"Però… da amico vi devo mettere in guardia... Sappiate che col tempo di un incontro, di una conversazione, si può guadagnar terreno su qualunque donna, anche la più fedele, che prima o poi tentenna e cede"
 
"E da amico”, scandì Ranma, rivolto al suo troppo loquace interlocutore, “io non posso che provare pena per voi, che avete conosciuto solo donne bugiarde e corrotte"
Fiero della sua risposta, Ranma bevve d'un fiato l'ennesima sorsata. Ormai aveva perso il conto.
 
Il cinese lo osservò porgere il bicchiere con mano malferma a una servizievole Shan-Pu, la quale, occhi fissi in quelli di Mousse, glielo riempì nuovamente. Il soldato comprese subito cosa lei gli voleva comunicare e, divertito, proseguì.
 
"Mi giocherei i miei averi contro il vostro anello, che ovviamente non vale tanto quanto. E non lo farei contro l'onore della vostra donna, ma contro questa vostra sicurezza.  Anzi: per togliere ogni offesa contro la sua reputazione, vi dico che otterrei le stesse cose con qualunque donna al mondo"
 
"Mi pare siate voi ad avere troppa sicurezza", lo fronteggiò Ranma, i cui muscoli vibravano tesi.
 
"Insomma, basta, ragazzi", intervenne la donna, "Come vi siete scaldati, cercate di calmarvi. Raffredate gli animi"
 
"Ma è vero che mi giocherei tutti i miei averi, per dimostrare che non parlo a vanvera", si giustificò Mousse, come di fronte a una madre che non voleva capire.
 
"Lo so, ma-"
 
"Attento a scegliere la donna giusta, allora!", lo derise ad alta voce Ranma, "Bisogna trovarla, una donna sensibile al vostro aspetto!"
 
Mousse serrò la mandibola. Quello stupido ragazzo osava scimmiottarlo imitando i suoi modi austeri e misurati. E Shan-Pu stava ridendo sguaiatamente a quella battuta...
 
"Sceglierei la vostra, allora, che voi credete tanto fedele e pura!", lo freddò in uno scoppio d'ira, "Metto in gioco tutti i miei denari. Diecimila contro il vostro anello. Se posso entrare nel palazzo e parlarle a tu per tu, mi porto via l'onore che credete tanto saldo e vi dimostro come vanno le cose della vita. Diecimila contro il vostro anello!"
 
I suoi occhi bruciavano, le labbra gli tremavano impercettibilmente.
 
Ranma, impietrito, non sapeva cosa dire. Gli girava la testa. Le budella gli stavano andando a fuoco.

Shan-Pu aveva smesso di ridere, ma un ghigno furbetto sostava sul suo volto, in attesa.
 
"Ah, ecco un po' di saggia paura fare capolino!..”, si placò immediatamente il cinese, “Lo capite da voi, mio caro amico, che  non vale la pena giocarsi il vostro anellino. Avrà pure un valore, no? E la carne, la si può comprare anche a un milione al grammo, ma andrà comunque a male, prima o poi, che sia di donna o di tacchino. Voi tentennate, e fate bene! Io rinuncio alla scommessa. E siamo pari!"
 
" ‘C-carne’?!", Ranma sgranò gli occhi. Il sangue gli pulsava nelle tempie.
 
"Ah ah ah! Sì, 'carne'! Non vi piacciono proprio le mie metafore, eh?"
 
"Ma quest'abitudine di parlare tanto per parlare l'abbandonate mai? Io spero che ogni tanto parliate seriamente"
 
"Io sono molto serio quando giuro”, lo affrontò improvvisamente grave Mousse, “e quel che ho detto sulla vostra donna, posso farlo. E qui lo giuro"
 
Ormai la sfida era aperta. Stava ribollendo di rabbia: sarebbe stato un uomo senza onore se non l'avesse accettata.
 
"Ah sì?! Basta! Accetto!"
 
La signora Nodoka si accasciò su una sedia.
 
"E sia! Ci giochiamo questo anello! La mia donna è così pulita che la vostra bassezza di pensiero non la tocca. Volete perdere tutti i vostri averi? Benissimo: vi sfido. E sarete voi a vedere come vanno le cose del mondo quando è… l'amore, quello vero, quello che voi non conoscete, a muoverle!"
 
Lo guardava folle e spavaldo, e sicuro di sé come mai nella vita.
 
"Per favore, non la fate, questa scommessa!", gemette la buona signora.
 
"Ma è già fatta, cara Nodoka, è già fatta!", le rivelò Mousse, guardandola con un volto rassegnato ma raggiante. Poi si volse di scatto verso Ranma, "Allora: se non porto alcuna prova che me la sono… goduta con la vostra donna", Ranma deglutì, ipnotizzato da quelle parole, "vi tenete i miei denari e anche l'anello. Basta che voi mi presentiate come vostro amico, e che io possa stare un po' con lei"
 
"Accetto i termini, ma aggiungo altre condizioni", lo inchiodò con uno sguardo tagliente, voce bassa,  "se lei non si farà sedurre - e di questo sono certo - allora l'avete insultata col pensiero, e per questo la vostra seduzione merita una punizione", si scrocchiò  rumorosamente le dita, "Ci batteremo e io vi farò pentire di avermi sfidato"
 
"Qua la mano: affare fatto!"
 
Mentre si allontanavano per mettere l'accordo nero su bianco, si lasciarono alle spalle la padrona della locanda che scuoteva la testa amareggiata e impotente.
 
"Parto subito! Non voglio che la cosa si raffreddi e a me piace mangiar caldo", furono le ultime insinuanti parole di Mousse che Shan-Pu riuscì a cogliere; un brivido caldo le corse lungo la schiena nell'osservare da lontano la reazione smarrita di Ranma.
 
E mentre i rumori della festa tornavano a delinearsi intorno a lei, non più attutiti nè distanti, la cinesina dagli occhi languidi ridacchiò tra sé e sé: "Quella 'Akane'… non resisterà un secondo al fascino di Mousse!"
 
 
 
--
 
Ciao a tutte e a tutti!!
 
Dopo un silenzio di oltre quasi tre mesi, sono tornata! E come purtroppo ormai di consueto vi chiedo… perdono!!
 
Lo so, non ci sono scuse per questo silenzio protratto nel tempo e in particolare mi scuso con le Ladies a cui sono sempre vicina col pensiero e col cuore! Vi avevo promesso che non sarei sparita e invece l’ho fatto. Davvero scusatemi…
 
Molte cose stanno cambiando nella mia vita e vorrei che le giornate fossero lunghe il doppio per fare tutto quello he devo e anche quello che vorrei!
 
Per quanti mi stanno odiando e che hanno aspettato in un mio segno e in un aggiornamento, se può minimamente giustificarmi sappiate che non tornare qua regolarmente è stata una terribile rinuncia e che scrivere mi è mancato moltissimo! Avevo sempre con me in testa questa storia ma non riuscivo a trovare mai il tempo.
 
Beh, basta con le scuse… Eccomi qui finalmente con questo benedetto nuovo capitolo! Mi sono sentita un po’ arrugginita ma alla fine sono riuscita ad andare avanti!
 
Se avrete ancora voglia di leggermi e soprattutto di dirmi cosa ne pensate, io sarò la più felice del mondo!
Ringrazio infinitamente tutti coloro che hanno avuto la pazienza di aspettarmi…
 
E un abbraccio infinito alle mie Ladies!...
A breve mi metto in pari sulle recensioni. Promesso!
 
InuAra - Lady Shakespeare ;-)

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Capitolo 10
*** È mai possibile che la modestia seduca i nostri sensi più che la leggerezza della donna? ***


 
 
E' bella e quindi puo' esser corteggiata; E' donna e quindi puo' essere conquistata.
Richard III – William Shakespeare

 
È mai possibile che la modestia seduca i nostri sensi più che la leggerezza della donna?
Measure for Measure – William Shakespeare
 



 
La cupa luce rossastra proveniente dalle braci di un fuoco ormai esangue, lambiva il ghigno di un uomo incappucciato che stava contando ormai per la terza volta i denari luccicanti di un piccolo scrigno.
 
"Più di qualunque cifra abbiamo mai ricevuto, ti dico", gongolò in direzione di un cespuglio i cui contorni si perdevano nella notte e nella boscaglia, "Il giovane cognato di Soun-sama non ha lesinato nel pagarci la giusta ricompensa per far fuori quel ragazzo, il marito della principessa! Quanti soldi, dico io, mai visti tutti questi soldi insieme!.."
 
"Allora vediamo di meritarceli", grugnì l'uomo tarchiato che uscì dal cespuglio, mentre si tirava su i calzoni e si grattava con malagrazia le parti basse.
 
Il primo uomo, forse più giovane, ma decisamente di umore migliore, sfilò dal suo fodero un pugnale affilato.
 
"Mi chiedo se sarà più veloce la mia lama avvelenata o la morsa della tua mano intorno al suo collo..."
 
"Nè l'una nè l'altra, te lo garantisco"
 
Una voce bassa e gracchiante aveva risposto, ma non era di nessuno dei due.
 
Si misero in guardia.
 
"Chi ha parlato?", sibilò il secondo uomo, allarmato.
 
"Io! E saranno anche le ultime parole che udirai!"
 
Un bastone nodoso e pesante apparve dal nulla, colpendolo in testa. Ma il grosso bestione era avvezzo alle percosse e non batté ciglio.
 
"Vieni fuori spirito maledetto!"
 
L'incappucciato scoccò rapido un paio di frecce nella boscaglia.
 
Ci fu un attimo di silenzio irreale e poi una figura fulminea e inafferrabile venne allo scoperto.
Durante il breve susseguirsi di assalti, a malapena i due sicari capirono chi davvero avevano davanti.
 
"E'-è una vecchia!... Colpiscila idiota! E' solo una vecchia! Non deve essere difficile atterrarla!"
 
"Questo lo dici tu!", ridacchiò la vecchia in questione.
 
Obaba, più in forma che mai assestava bastonate e attacchi energetici, schivando frecce, coltellate, calci.
 
I due delinquenti erano molto abili, ma erano abituati a uccidere nell'ombra con poche implacabili mosse, mentre lei era una Maestra del combattimento e li stava fiaccando lentamente e inesorabilmente.
 
La attaccarono singolarmente e in coppia, tentando di farla fuori.
 
"Ci vuoi forse fermare, vecchiaccia?!", ansimò il tarchiato, "Non puoi, vecchia strega! Siamo i migliori sicari delle Terre dell'Ovest! I sovrani ci pagano oro per far scorrere sangue ed è quello che faremo!... Che sia il tuo, marcio e puzzolente, o magari quello profumato e invitante della principessa, chissà..."
 
Ma le parole gli morirono in gola.
 
Obaba aveva allungato una invisibile mano rugosa, per spezzargli il fiato e la vita in un batter di ciglia.
 
Non le importava. Era una combattente e aveva promesso che li avrebbe difesi: sarebbe stata spietata con chiunque avesse voluto uccidere Akane. O Ranma.
 
L'uomo col cappuccio urlò di rabbia e terrore e immediatamente tentò di affondare due pugnali avvelenati nel torace dell'amazzone. Il gesto gli risultò fatale, perchè fu il bastone della donna a conficcarsi nelle budella dell'aggressore sorpreso ancora con entrambe le braccia alzate.
 
Il tonfo del corpo dell'assassino, morto sul colpo, fu l'unico suono che segnalò la fine della battaglia.
 
*Devo stare con gli occhi aperti*, sospirò Obaba, guardando i due uomini a terra, ricomponendosi dopo la lotta. *Ci saranno certo altri sicari a cui Kuno chiederà la testa di Ranma. Devo impedire a ognuno di loro di raggiungerlo in Cina*
 
Ma, ridandosi alla macchia, Obaba non poteva immaginare che il vero pericolo per Ranma non gli stava andando incontro, ma si stava anzi allontanando fisicamente da lui proprio in quel momento nel tentativo di andarlo a colpire dove davvero aveva il cuore.
 
Lì in Giappone.
 
Più precisamente, a Palazzo Tendo.
 


***


 
L'alba lo colse a cavallo, scintillante nelle sue vesti dorate, fresco come un bambino il giorno del suo compleanno, che poco si cura delle scarse ore di sonno tanto è il desiderio di scartare i regali.
 
Lasciatosi alle spalle il viaggio in mare, Mousse precedeva di qualche miglio il calesse noleggiato al porto giapponese di Hakata e guidato da un servitore pagato per badare al suo bagaglio: alcuni bauli riccamente intarsiati e rivestiti di stoffa pregiata.
 
E a un tratto, dalla collina in cui si trovava, gli apparve in tutto il suo splendore il palazzo di Soun Tendo.
 
Non si era sentito così vivo dai tempi delle battaglie, non troppo lontani dal presente, eppure estranei a quella che era diventata la sua vita, molle e senza direzione.
 
Anche quella scommessa era in fondo null'altro che un diversivo... Ma aveva tutte le potenzialità per rivelarsi un interessante diversivo.
 
Quale tesoro doveva celarsi in un palazzo il cui portone era tanto imponente e sorvegliato?
 
Qualunque fosse il suo valore, quel tesoro sarebbe stato suo.
 
Ormai prossimo all'enorme entrata principale, inspirò a pieni polmoni l'aria di quel mattino, giurando a se stesso che sarebbe uscito da quelle mura non più tardi del mattino successivo e con la vittoria in pugno.
 
Alzò il capo e si palesò a coloro che stavano di guardia.
 
 
***
 
 
"Tesoro caro, ma guarda che occhi che hai... Non dirmi che anche stanotte non hai dormito... sono già due notti di seguito...", la signora Nodoka carezzò gentilmente la testa di Ranma, seduto sul pozzo di pietra nel retro della locanda.
 
Distolto dalla nebbia dei suoi pensieri alzò appena uno sguardo triste sulla donna, tentando di ricambiarne le attenzioni con un sorriso affaticato.
 
I suoi occhi erano color del piombo, cerchiati da occhiaie bluastre.
 
"Sono stato uno stupido... uno stupido! Come ho potuto perdere la testa a quel modo? Ora lei è là e non sa che deve difendersi da quell'individuo... non lo sa perchè...indovinate un po'? Quest'idiota le ha persino scritto una lettera dicendole di accogliere quel Mousse come il più fidato degli amici!... Certo lei è... lei. E si sa difendere e... io mi fido di lei, sempre... Ma lui era così sicuro che... Aahhrgh! Dannazione! Come mio solito ho sfidato la sorte! Ma perchè, perchè per quanto mi sforzi non riesco a restare umile!? Voglio vincere, voglio sfidare tutto e tutti! Sono sempre così sicuro di vincere!...  Ma... e se questa volta perdo tutto? Tutto, intendo! Tutto quello che ho! Perchè io non ho niente! Ho solo lei, che è tutto..."
 
Il povero ragazzo era in balìa delle sue emozioni in un corpo a corpo con se stesso.
 
E non ne stava uscendo troppo bene.
 
A tratti voleva prendersi a schiaffi e scaricare così la propria frustrazione, poi di colpo si spegneva fino a disperarsi in una richiesta smarrita di aiuto...
 
Si immaginava Akane, lì, in Giappone, preda delle mire di quel superbo cinese dai capelli lunghi e dagli occhi colmi di cupidigia...
 
L'avrebbe fermato a cazzotti se avesse potuto, ma ormai lui era partito e si maledisse per aver lasciato che a decidere fosse la sua testa irrorata dal vino e fomentata dagli impulsi più rovinosi.
 
"Ranma, caro... Non farti del male... Quel che è fatto è fatto... Ma tu, ti fidi di lei, non è così? E allora abbi fede e non lasciare che i cattivi pensieri avvelenino il tuo animo"
 
Poche parole che in qualche modo gli attutirono almeno per un po' il dolore lancinante che stava provando. 
 
Ma la mattina era ancora molto lunga e la signora Nodoka si alzò per continuare le sue faccende. L'occhio le cadde su una docile Shan-Pu che da lontano aveva assistito a quella scena, troppo rispettosa del dolore del ragazzo per avvicinarsi al pozzo e riempire il secchio che teneva tra le mani.
 
Quanto a volte una persona troppo buona può agire scioccamente, perchè non può vedere il male nell'animo altrui...
 
"Oh, Shan-Pu cara, capiti a proposito! Pensaci tu, di' qualche parola di conforto a Ranma... Ranma, caro, ti lascio in buone mani... cerca di tirarti su, mi raccomando", e li lasciò serena e fiduciosa.
 
La cinesina si avvicinò timidamente.
 
"Lanma stale poco bene?"
 
"Poco bene dici? Perchè, perchè non l'hai fermato?!", si stava rivolgendo a lei ma ce l'aveva soprattutto con se stesso.
 
"Se stai pallando di Mousse, non è tipo che può essele felmato", gli confidò rassegnata, sedendogli accanto, "ma tu non devi temele. Tua moglie è celto donna speciale, salà plima al mondo a non cedele alle sue lusinghe, Shan-Pu ne è sicula!"
 
"C-come la prima?... Che intendi?"
 
"Come tu non sai? Mousse è famoso in tutte le telle che ha attlavelsato con suo eselcito pel avele fatto innamolale qualunque donna che ha posato occhi su di lui. Dicono che pule figlia di impelatole ha pianto inintellottamente tlenta giolni e tlenta notti pelchè non poteva essele suo. Non sembla intelessato a cuole delle donne. Piuttosto a qualcos'altlo...", concluse allusiva.
 
Occhi sgranati, Ranma non si perdeva una sola sillaba.
 
Eppure non riusciva a capacitarsi.
 
"Ma... davvero è così bello quel cretino?"
 
"Ma l'hai gualdato? Ha fascino, siculezza, eleganza, sa combattele... Lui è uomo, no lagazzo"
 
Quest'ultima allusione lo gettò nell'insicurezza più totale. Ma cercò di non darlo a vedere.
 
"M-ma... tu... voglio dire, tu non sei innamorata di lui..."
 
"Oh, Shan-Pu non lacconta tloppo di suo cuole", gli rispose laconica, "Shan-Pu giovane e sa che la vita non deve essele fatta solo di tlistezza. Cosa pensa Shan-Pu non ha impoltanza. Quello che impolta è cosa pensa sposa Akane, velo Lanma?"
 
Ranma deglutì.
 
"V-vero"
 
Ma nemmeno lui riuscì a credere a se stesso.
 
Senza dire una parola, ma regalandogli il più rassicurante - e falso - dei sorrisi, Shan-Pu si alzò per tornare serena alle sue mansioni giornaliere.
 
Avrebbe dovuto sentirsi sollevato e invece qualcosa stava iniziando lentamente e inesorabilmente a divorarlo dall'interno.
 

***

 
Akane era inquieta.
 
Era un paio di notti che dormiva male. "I primi caldi", diceva Ukyo. "Mah", rispondeva lei.
 
Mai come quando il padre e la matrigna erano lontani dal palazzo si sentiva così tremendamente in gabbia.
 
Quel giorno nemmeno Kuno era nei paraggi, dal momento che l'odioso pretendente aveva intrapreso con Happosai un viaggio di tre giorni fuori dai confini delle loro terre per questioni che le erano estranee e che, a dirla tutta, poco le importavano.
 
Libera dunque, libera di andare dove volesse.
 
Ma pur sempre all'interno delle vaste mura della tenuta.
 
Quella effimera libertà le dava ancora di più la misura della sua prigionìa.
 
Come avrebbe voluto fuggire alla volta della Cina!
 
Quanto avrebbe resistito ancora?
 
Erano in quei momenti che si sentiva realmente persa, desiderosa di prendere in mano la propria vita e spaventata a morte dalle conseguenze.
 
Quella mattina si era alzata ancora prima di Ucchan e di Ryoga. Si era gettata sulle spalle uno yukata bianco e azzurro di cotone leggero, e ancora scalza era scesa nel "cortiletto della carpa". Così amava chiamare fin da bambina quel piccolo paradiso, lontano dalle stanze ufficiali e poco frequentato anche dai domestici. Obaba era solita raccontarle che era stato in quel cortile che sua mamma aveva trascorso placidamente gran parte della gravidanza.
 
Era un angolino ombroso e curato.
 
Al centro di un gruppo di alberi, circondato da alcune pietre lisce e da un tappeto di muschio, si apriva un piccolo specchio d'acqua, da cui, di tanto in tanto una carpa saltellava giocosa.
 
Quando Ukyo la scovò, portando un piccolo vassoio con un bicchiere di tè caldo, Akane era lì, seduta ai piedi del salice piangente, sovrapensiero, a mordersi il lembo di una manica.
 
"Maledizione, Akane-san, ecco dove eravate finita! Potevate svegliarmi..."
 
"Sono arrivate notizie dalla Cina?", le chiese febbrilmente, saltando in piedi.
 
"N-no... non ancora"
 
Un pugno improvviso si accanì contro il tronco del povero albero.
 
"Ukyo sono due giorni che non mi arrivano lettere... Gli sarà successo qualcosa?", cominciò rabbiosa e poi sempre più smarrita, fino ad accasciarsi lentamente a terra.
 
Un pianto nervoso e sommesso le bruciò gli occhi e le scosse il petto in una serie di singhiozzi soffocati.
 
"Ma no! Ma cosa state dicendo?", la consolò la confidente, posando il vassoio sull'erba, "Su! Ora vi sciacquate un po' il viso e vi calmate, eh?", la confortò lavandole le lacrime con un po' di quell'acqua cristallina.
 


Fu così che la trovò Mousse.
 
Accovacciata, scalza, sotto i giochi di luce dei rami pendenti, in un timido sorriso, col pugno arrossato e col candido volto bagnato di lacrime e rugiada.
 
Il suo cuore sempre freddo e arroccato perse un battito a quella vista.
 
Poteva esistere una creatura più dolce e indifesa? Una bellezza luminosa, pura... indescrivibile.
 
Se quella fanciulla fosse stata onesta la metà di quanto era bella, avrebbe perso tutto, scommessa e reputazione.
 
"Akane-san, mia signora!", si fece avanti Ryoga, "Questo nobiluomo ha chiesto di voi. E' arrivato direttamente dalla Cina"
 
"Dalla Cina?!", lo interruppe Akane, impaziente.
 
Mousse deglutì e si ricompose, scacciando lo stupore e armandosi di malizia.
 
*Se devo cadere, cadrò combattendo*
 
"Mia signora", si inchinò ai suoi piedi con lo sguardo basso, "Vi porto i saluti di vostro marito Ranma", il cuore di lei le salì in gola, "e la lettera che mi ha pregato di consegnarvi"
 
"Oh! Grazie!...", si avventò con trasporto verso il piccolo foglio ripiegato e lo aprì trepidante, divorandone al volo ogni parola.
 
Mentre Akane leggeva in silenzio, Ukyo e Ryoga, in un misto di preoccupazione e sospetto, non sapevano cosa dire: guardavano lui, ancora inginocchiato, in attesa, e guardavano lei. Fu solo quando la videro tirare un profondo sospiro di sollievo che anche loro si rilassarono un po'.
 
Akane sollevò il capo dalla lettera, e si rese conto che Mousse, quel nobile soldato di cui le aveva scritto Ranma, era ancora in quella posa di referenza e sottomissione.
 
Si diresse risoluta e sorridente verso di lui e, contro ogni etichetta, gli prese la mano per tirarlo su.
 
A quel tocco lui liberò lo sguardo su di lei.
 
"Vi prego, alzatevi! Non state a terra... Sono così maleducata!... Ma dovete capire la mia apprensione... e voi non solo mi portate belle notizie ma... Oh grazie! Grazie per tutto quello che state facendo per mio marito. Mi parla di voi nella lettera, sapete? Della vostra gentilezza e di quanto siate l'amico più fidato! Non potevo sperare in una situazione migliore per lui laggiù in Cina!..."
 
Parlava sorridendo, come una bambina felice che non riesce a trattenere il suo entusiasmo - Ranma stava bene e aveva degli amici! - e non riusciva a lasciare la mano di lui - gli era grata, tanto grata! - se avesse potuto l'avrebbe abbracciato!...
 
Gli occhi di lui si addolcirono.
 
"Grazie mia signora. Siete molto buona. Dovete essere molto innamorata di lui..."
 
"Oh, sì, moltissimo!..."
 
"Ehm... Mmh...", era stata Ukyo a schiarirsi rumorosamente la gola e a riportare Akane alla realtà e a discorsi più convenienti.
 
"Oh ma scusate! Sarete stanco per il viaggio e vorrete riposare! Vi faccio subito prepare-"
 
"Non ce n'è bisogno, davvero", la bloccò il cinese, "Non per il momento, almeno. Sono abituato alla fatica e alle lunghe traversate, e poi questo vostro giardino mi ristora l'animo e i sensi. Starei ancora un po' qui con voi, se non vi dispiace..."
 
"Ma certo che no! Tutto quello che volete! Anzi, ci sono molte cose che vorrei chiedervi, di mio marito là in Cina", lo rassicurò, "Ucchan, tu comunque vai a preparare la stanza più bella e anche un bel bagno caldo, per quando... vorrete riposarvi", terminò rivolgendosi a Mousse. 
 
"Come volete Akane-san", ubbidì l'ancella non senza una certa reticenza.
 
Andandosene, Ukyo lanciò a Ryoga una breve occhiata, che non passò inosservata all'ospite.
 
"Avrei inoltre bisogno, perdonatemi per la richiesta, che un vostro servo fidato aiutasse il mio uomo a scaricare i miei bauli dal carro. Ho saputo che Soun-sama non si trova a palazzo quest'oggi, ma vorrei comunque fargli trovare, al suo ritorno, i doni che ho portato per lui, come omaggio alla sua grandezza da parte di un umile figlio della Cina"
 
"Ma non ce n'era affatto bisogno!", gli sorrise scrollando il capo, per poi aggiungere, "Mio padre ne sarà felice... sempre che non gli diciate che siete amico di Ranma..."
 
"Ah ah, no, questo mai!", risero allentando un po' di tensione.
 
"Ryoga, puoi occupartene tu?"
 
"M-ma certo, Akane-san", e a malincuore anche il ragazzo con la bandana fu costretto a congedarsi.
 
"Vi prego", sorrise Akane indicando un po' imbarazzata il praticello tra il salice e il laghetto, "Mettetevi comodo"
 
Si sedettero a terra in modo composto e Akane vide il bicchiere di tè ancora fumante sul vassoio e lo porse al suo ospite: "Prego! Bevete almeno un po' di tè... Era per me, ma non ho sete!"
 
"Grazie", le rispose con un sorriso che a lei parve... triste.
 
No, si stava certamente sbagliando... Magari provava solo un po' di disagio per quella situazione così poco formale... Doveva essere abituato a ben altre accoglienze... In fondo era un nobile, Akane ne era sicura.
 
Finalmente la ragazza lo guardò con calma.
 
Il suo volto era pallido e assottigliato e i lunghi capelli scuri ne marcavano i lineamenti. Il corpo era slanciato, ma sembrava forte e definito anche sotto la lunga casacca dorata e i pezzi dell'armatura.
 
Mentre sorseggiava il tè, non potè non scorgere una certa malinconia nel suo sguardo perso davanti a sé. Chissà, forse anche lui si era dovuto allontanare dalla donna che amava...
 
"State bene?", gli domandò premurosa.
 
"Oh, sì, mia buona signora. Non avrei potuto sperare in un'accoglienza migliore. Non mi aveva detto vostro marito che foste tanto gentile e tanto bella..."
 
"Oh", arrossì Akane, "lui non ama parlare di queste cose"
 
"No. Decisamente non ama parlare di voi", rispose secco.
 
"Ma... che avete? Sembrate come risentito..."
 
"Non è nulla, perdonatemi... Sono solo stupito, davvero"
 
"Stupito? Eppure a me sembrate così triste..."
 
"Triste dite? Può darsi... Mi rattrista sempre molto non capire l'animo umano..."
 
"H-ho forse fatto o detto qualcosa di sconveniente?..", si allarmò la principessa.
 
"Voi?! Ma per nulla al mondo! Voi siete così bella e così dolce... E' che non capisco come si possa impazzire tutto d'un tratto... Eppure anche chi è pazzo, tra una cosa bella e una cosa brutta, sceglie quella bella..."
 
"Io non..."
 
"O forse è l'astinenza! Ma no... Chi ha conosciuto la perfezione poi non riesce a cedere a ciò che è più accessibile ma tanto più imperfetto..."
 
Akane non riusciva ad afferrare il senso di quei discorsi incomprensibili e che pure le stavano mettendo addosso una grande inquietudine. Mousse sembrava parlare più a se stesso che a lei, rispondendo da solo alle sue stesse domande, infervorandosi sempre più, con un tono sempre più duro, probabilmente nel tentativo di trovare ad alta voce una soluzione a delle questioni filosofiche o di principio che attanagliavano il suo animo.
 
Niente che la riguardasse, a quanto pareva, eppure...
 
"State bene?..."
 
"Benissimo, mia signora. Scusate, stavo pensando a voce alta"
 
"Ma, vive bene, no, lì, Ranma?", tentò timidamente Akane di riportare il discorso a qualcosa che fosse più ragionevole.
 
"Ah ah! Eccome se vive bene! Eccome...", scoppiò a ridere Mousse, malcelando una certa amarezza.
 
"Beh, spero sia di buonumore... Sapete, tutta questa storia è dura per noi da-"
 
"Di buonumore?! Ma quello è sempre lì a sganasciarsi e a ridere, a far battute! 'Signora Nodoka! Svelta, altro vino!'....", cominciò ridacchiando, intanto che riportava evidentemente alla mente immagini di vita goliardica accanto a Ranma, arrivando persino a imitarne la voce.
 
"Cosa? Dice così?!", sgranò gli occhi Akane, "Beh, cosa volete, lui sa fare amicizia con tutti..."
 
"Eh, mia buona signora, con tutti! Proprio con tutti! E' proprio vero che gli uomini sono tutti uguali!", sospirò sorridente ancora sovrapensiero.
 
"Come tutti uguali!?", il volume di Akane si era fatto più alto, incredulo, "Volete dire che lui....?!"
 
"No no, perdonatemi", si ricompose Mousse, facendosi serio, forse anche leggermente preoccupato, "Non volevo dire questo. No, certo no..."
 
Nello scrutare lo sguardo del suo ospite in cerca, chissà perchè, di qualcosa che le chiarisse quella strana sensazione che provava alla bocca dello stomaco, Akane si rese conto che aveva il fiato corto. Lo guardava, con le pupille dilatate e un inconsapevole sguardo implorante.
 
Mousse la guardò, stava per dire qualcosa ma si trattenne.
 
Sembrava in conflitto con se stesso.
 
Voleva parlare ma non poteva? Perchè poi?
 
"Mio signore, ditemi, avete qualcosa che vi assilla?..."
 
Il ragazzo non rispose.
 
"Vi prego, io vi sono amica. Confidatevi pure con me"
 
"Certo che...", azzardò lui, come vinto, "di fronte a occhi così... Come si fa a mentire? Io davvero mi stupisco... e anche un poco... compatisco...", calcò l'ultima parola.
 
"Cos'è che compatite?!", si alzò di scatto Akane, andando verso di lui.
 
"Perdonatemi, ho osato...", sembrava affranto, e si stava scusando.
 
Ma di che diavolo si stava scusando?!
 
"Cos'è che compatite?!!", lo incalzò la ragazza, sovrastandolo.
 
In tutta risposta lui sollevò lentamente uno sguardo lucido su di lei.
 
"E' me che compatite??", indietreggiò appena, "St-state guardando me... Cosa trovate in me da compatire?", chiese. E sembrava sinceramente stupita.
 
"Io... Oh che pena!", scattò in piedi anche lui, allontanandosi da quella scomoda situazione, e dirigendosi verso il laghetto.
 
Akane gli corse dietro: "Insomma!", strattonandolo per un braccio lo fece voltare, "Desidero risposte trasparenti! Cosa trovate in me da compatire?"
 
"Che altre donne...!", fu quasi un urlo e immediatamente Mousse si tappò la bocca per impedirsi di andare avanti, "No! Stavo... stavo per dirlo... No! Che siano i kami a punirlo, ma io non parlerò"
 
Una stilettata in fondo al cuore, ecco cosa era stato quell'urlo per Akane, una stilettata il cui veleno le aveva seccato di colpo l'aria in gola e svuotato il sangue dalle vene.
 
Il volto pietrificato,  con una lentezza snervante si accasciò su un enorme masso.
 
"Ma ormai lo so", la sua voce si era fatta debole e sottile, quasi uno squittìo senza corpo, "ho capito... cosa volete dire... Vi prego, parlate! Il dubbio è il peggiore dei nemici... Voglio sentirlo dalla vostra voce..."
 
Iniziò, totalmente disarmato, a camminare tristemente verso di lei.
 
"Io so solo...", indugiò appena e poi le si sedette accanto, "che se io avessi i vostri baci", le guardò la bocca rossa e tremante, "se ricevessi da mani come le vostre...", l'occhio di lui accarezzò le mani di lei abbandonate in grembo, "quel tocco che sfiora appena e che forzerebbe qualunque peccatore ad essere fedele, se ci fosse un volto così dolce a imprigionarmi a sé...", alzò il capo e si ritrovò a pochi centimetri da quello di lei, "Non mi darei a labbra di passaggio, non vorrei farmi toccare da mani che hanno toccato tanti uomini, e non mi perderei in occhi spenti e smaliziati", le sussurrò vicino all'orecchio in un crescendo di rabbia e disprezzo.
 
Ad Akane mancò l'aria.
 
"Allora non pensa più a me?..."
 
"Ma neanche a se stesso, mia dolce signora! Neanche a se stesso! E' completamente allo sbando! E se io vi ho detto tutto questo è perchè il vostro sguardo me l'ha domandato!...", sembrava disperato, combattuto.
 
"Oh, kami! Tacete!...", Akane si allontanò improvvisamente da lui, senza sapere bene dove andare, pentita di essere andata in fondo a quella storia.
 
Non poteva credere davvero a quelle parole, eppure Mousse stava soffrendo nel dirgliele... Come poteva mentire?
 
Ma come poteva Ranma tradirla?
 
Copiose lacrime cominciarono a rigarle il viso.
 
Voleva solo stare sola, scappare da lui.
 
"Tacere?", si indignò il cinese, seguendola per tutto il giardino, "E come potrei restare a osservare in silenzio una simile bassezza...! Ora che vi ho conosciuta non potrei più... Lui non la merita una donna come voi, fedele, pura, coraggiosa!... Io non concepisco che lui vi spartisca con quella... Shan-Pu!"
 
"Sh-shan-Pu...?", Akane si bloccò.
 
"Sì... Una gatta morta della peggior specie”, spiegò lui, “occhi languidi, chioma leonina, pelle di seta... Un ammasso di calcolo e lussuria! E non ha perso tempo lui! Appena messo piede alla locanda si è lasciato sedurre... Quando avrebbe voi..."
 
"Oh, no, no! Ranma...", scuoteva il capo, incredula.
 
Lui la prese per le braccia, cercando di scuoterla. Akane si trovò con la schiena contro una grande quercia e gli occhi fissi nei suoi.
 
"Sì! Sì, vi dico! Ha perso la testa! Dice che lui sta bene tra quelli del suo rango, voi l'avete sempre fatto sentire inferiore e andare via da voi è stata la più grande benedizione! E' pazzo! E' pazzo!", le andò ancora più vicino, occhi negli occhi: "Vendetta...!", la esortò a bruciapelo, stringendola più forte.
 
"Vendetta?", lo sguardo di Akane era perso.
 
Aveva capito bene?
 
Lui le stava proponendo di vendicarsi?
 
"Ma cosa state dicendo? Io... io non potrei mai vendicarmi contro Ranma... Però se è vero... No! Non posso credere alle vostre parole! Io so che non è così... Lui... non può... tradirmi... Però se è vero? Oh kami, non posso! Non posso!"
 
Era tormentata, tremante.
 
Distrutta e svuotata come una bambola di pezza.
 
Cercò consolazione dalla sola persona che in quel momento poteva dargliela: fissò Mousse con occhi imploranti.
 
E Mousse non se lo fece ripetere.
 
"Se fossi io al vostro posto", le confidò il ragazzo, allentando la presa, "una moglie fedele e devota, tutta sola nel mio letto, mentre lui laggiù se la spassa deridendomi... io mi vendicherei!"
 
L'alito di Mousse che soffiava caldo sul suo viso, Akane sentì il cuore fermarsi.
 
Vendicarsi...?
 
"Ci sono molti modi per vendicarsi... oh, io sarei il vostro strumento, mia signora", quasi senza che Akane se ne rendesse conto, premette lentamente il proprio corpo contro quello di lei, facendo salire una mano lungo il suo collo per arrivare al viso, dove asciugò qualche lacrima con il pollice, "e intanto medicherei la vostra sofferenza e farei soffrire chi ha rinnegato il vostro letto. Sarà un segreto"
 
L'aveva in pugno. Coprendo gli ultimi millimetri che lo separavano da lei, si avventò sulle sue labbra umide di pianto.
 
A quel punto accadde qualcosa che nemmeno lui non aveva previsto.
 
Una frazione di secondo prima che riuscisse a impadronirsi di quella piccola bocca vermiglia, venne scaraventato via da una forza erculea - possibile che fosse quella della principessa? - e in men che non si dica si ritrovò col posteriore a bagno.
 
"Ma cos-"
 
"Andate via! Statemi lontano!", Akane aveva occhi di fuoco, e tremava, ma questa volta di una rabbia azzurrina.
 
"Ryoga!!! Ukyo!!!", gridò a gran voce, per poi rivolgersi a lui, "Come avete osato?"
 
Gli andò incontro minacciosa.
 
Per un attimo Mousse ebbe paura.
 
Akane non poteva credere di averlo fatto avvicinare a sè, di avere anche solo pensato che le sue parole fossero vere.
 
"E come ho potuto anche solo ascoltarvi?! Foste stato onesto e sincero, mi avreste informato per amor di giustizia e non per fare i vostri comodi osceni...", gli ringhiò contro furiosa.
 
"E Ranma! Oh Ranma, perdonami se per un attimo ho dubitato di te... Avete cercato di infangare il suo nome, lui che è tanto estraneo alle cose che mi avete raccontato quanto voi all'onore! Ryoga!!!", Mousse stava frettolosamente per alzarsi ma lei lo freddò, "Mio padre sarà messo a conoscenza di questo incontro, sapete? E se ha ancora a cuore sua figlia e la sua corte, questo gli basterà a sentirsi oltraggiato! Insomma Ryoga!!!"
 
"Akane-san!", Ryoga che dall'altra parte del palazzo aveva sentito l'urlo della principessa,si era precipitato in suo soccorso, saltando sul tetto e cominciando a correre. Fu dal tetto che vide Akane, vide Mousse a terra e capì cosa era successo. Balzò giù scagliandosi sul cinese e gli bloccò le braccia da dietro, nel momento stesso in cui Ukyo, trafelata, sbucò dalla porta scorrevole che dava sul cortiletto.
 
Aveva fallito.
 
Lui, Mousse, aveva fallito.
 
Possibile che quel loro 'amore' fosse tanto grande da resistere alla paura e persino al suo fascino seduttivo?
 
Eppure c'era quasi...
 
No, non sarebbe tornato a casa da perdente.
 
Avrebbe fatto carte false per vincere la scommessa.
 
Era solo questione di cambiare strategia...
 
"Ranma! Quanto sei fortunato, amico mio!", gridò Mousse al cielo, come se parlasse in prima persona con Ranma, o col suo fantasma, in un sorriso sereno e senza voglia di combattere.
 
Ryoga continuò a tenerlo, un po' meno convinto e parecchio impacciato.
 
Akane non riusciva a capire quel cambiamento improvviso.
 
*E' uscito di senno*, pensò Ucchan.
 
"La tua sposa è degna della tua stima e tu della sua. Fedeli e onesti: siate felici!", concluse rivolgendosi ad Akane, con una franchezza tale che era impossibile anche solo immaginare che fino a pochi minuti prima su quello stesso volto albergassero malizia e seduzione.
 
"Perdonatemi, signora. Ranma è l'uomo più esemplare che ci sia al mondo. Ho mentito sul suo conto, e vi chiedo perdono"
 
Si inginocchiò, facendo ammenda.
 
"Ma... perchè?", chiese Akane che continuava a non capire.
 
"E' dunque questo l'amore? Non riuscivo a credere che le parole del vostro Ranma fossero vere e ho deciso di mettere alla prova questo sentimento che egli chiamava tanto grande. Perdonatemi. Ho peccato di superbia. Ma l'ho fatto anche per lui, per assicurarmi che la sua fiducia fosse ben riposta. Perdonate il sospetto di un uomo che ha avuto solo tristi esperienze in fatto di donne. Ma davvero io dubitavo che esistessero sulla terra due persone in grado di amarsi così? Avevo torto, lo scopro adesso e ne sono felice", concluse abbassando il capo.
 
Akane provò un moto di pietà.
 
Ancora un po' titubante, con lo sguardo severo e la voce appena un po' dura, gli chiese: "Vi state dunque scusando?"
 
"Scusarmi non sarebbe abbastanza, mia signora. Per quello che vi ho fatto passare meriterei la morte. Consentitemi almeno di diventare il vostro schiavo e servirvi finchè vorrete"
 
"Ma no, che dite. Avete sbagliato, questo è vero, ma avete agito a fin di bene. E per questo non avete perso la vostra libertà ma avete guadagnato... l'amore. Ora sapete che esiste"
 
"Sì", rispose Mousse trattenendo un singhiozzo.
 
"Io vi perdono", concesse lei.
 
Ryoga mollò la presa e Ukyo sospirò: possibile che ce ne fosse sempre una in quel benedetto palazzo!...
 
"Potete restare quanto volete!"
 
Benissimo, era riuscito a ottenere di restare.
 
Ora non c'era altro da fare che prendere ancora un po' di tempo.
 
Alzandosi da terra e strizzando via l'acqua dalla tunica, Mousse continuò: "Posso chiedervi un favore? Scusatemi se oso... ma... riguarda anche vostro marito..."
 
"Ranma?", si illuminò lei.
 
"Sì, vedete... Lui è molto premuroso con la signora Nodoka, la padrona di casa. E  sa che a lei manca il suo Paese, quasi quanto manca a lui. Allora ha pensato che in questo mio viaggio avrei potuto recuperare tutti quei piccoli oggetti di uso quotidiano che la farebbero sentire a casa. Kimono, obi, sandali, deliziosi minuscoli monili, tazzine e quant'altro... Nulla di troppo prezioso, ma 'carico di valore e di ricordi per una signora così', come direbbe vostro marito. Mi spiacerebbe che il baule contenente il raccolto di questa nostra piccola impresa, fosse confuso con quelli per vostro padre. E non mi fido del mio servo così tanto da affidarlo a lui. Potreste tenerlo voi in custodia?"
 
"Ma certo! Non c'è nemmeno da chiederlo! E dato che è stata un'idea anche di Ranma, sarò felice di tenerlo nella mia personale stanza"
 
"Grazie, principessa. Approfitto della vostra gentilezza, ma solo per stanotte. Riparto domattina"
 
"Ma come, di già?"
 
"Eh sì, purtroppo, ma non voglio tardare il mio ritorno. Vostro marito sarà in pensiero. Anzi, affrettatevi a scrivergli se volete che gli recapiti vostre notizie"
 
"Ma certo... Corro a scrivergli! Mandatemi il baule, mi raccomando! E... grazie!", urlò da lontano mentre spariva in casa, inseguita da Ryoga e Ukyo.
 
Rimasto solo, Mousse volse lo sguardo a occidente e sorrise di gusto.
 
*E ora, Ranma, stai a guardare...*
 
 
 
***
 
 
 
"E' mezzanotte, Akane-san... Che ne dite di andare a letto?", sussurrò Ukyo alquanto assonnata, seduta sul grande e ricco baule che Mousse aveva fatto recapitare nella stanza della principessa.
 
"Tutto il palazzo dorme ormai. Anche il vostro ospite è chiuso nella sua stanza da questo tardo pomeriggio... E domani sarà una giornata piena per tutti: lui tornerà in Cina e rincaseranno vostro padre, Kuno e Kodachi... Andate a dormire, su..."
 
"Ancora un attimo, Ucchan, ho quasi finito..."
 
Illuminata dalla luce fioca di una candela, Akane terminava a fatica le ultime righe di una lettera molto fitta.
 
"Ma non avete già consegnato la vostra lettera per Ranma oggi pomeriggio a quel Mousse?"
 
"Sì, Ucchan. Ma perchè non approfittarne e scrivere ancora e ancora? Volevo raccontargli così tante cose... Non di oggi però, questo no. Penso che si preoccuperebbe per niente. In fondo è già tutto risolto, no?"
 
"Ma sì, ma sì!... Un problema fatto e disfatto. Ecco", concluse l'ancella che non vedeva l'ora andare a riposare.
 
"La darò personalmente domattina al suo servitore quando verrà a ritirare il baule"
 
"Tra poche ore, allora", fece Ukyo con un filo di sarcasmo.
 
"Dai, vai a dormire, Ucchan. Sei stanca morta"
 
"Anche voi, però", le rispose addolcendosi la ragazza dandole un bacio materno sul capo, per poi uscire.
 
 
 
Rimasta sola, Akane sigillò la lettera, chiuse gli occhi e ascoltò per un attimo il silenzio sospeso di quella notte senza luna.
 
"Che sempre il vostro sguardo, oh kami, protegga me e... Ranma", mormorò quella breve preghiera a fior di labbra, come faceva ogni sera, da che era bambina, con le dovute modifiche. Da quando Ranma poi era stato esiliato, le dava un nuovo conforto.
 
Di colpo, una pesante stanchezza si impossessò delle sue membra.
 
Ebbe appena il tempo di trascinarsi sull'enorme futòn e slacciarsi leggermente lo yukata, che cadde in un sonno profondo.
 
La piccola candela ancora accesa delineava flebilmente i contorni di ogni cosa, allungando ombre sottili e tremolanti lungo le pareti.
 
Le membra immobili e abbandonate, i corti capelli scomposti sul piccolo cuscino, le labbra appena socchiuse, Akane sembrava finalmente calma e rilassata.
 
Soltanto il regolare sollevarsi e abbassarsi del suo petto scandiva il tempo della notte e di quel luogo.
 
Ad un tratto un rumore secco e sinistro ruppe il silenzio della stanza.
 
Akane non si accorse di nulla.
 
Nell'inquietante gioco di luci, un improvviso guizzo bianco saettò nella tenebra, rivelandosi a poco a poco il braccio di un uomo che scivolava fuori dal grosso baule.
 
Un secondo braccio si insinuò tra il pesante coperchio e le pareti del forziere e, facendo leva su di esse, in un gesto misurato e silente, lo spalancò.
 
Quello che a poco a poco si svelò all'oscurità era il corpo nudo e madido di sudore di un uomo che si issava lentamente e pericolosamente fuori dal baule.
 
Un uomo dai lunghi capelli scuri e occhi color di giada.
 
Mousse.
 
Respirando a fatica, mentre si guardava intorno riprendendo il controllo dei propri arti, il cinese si rallegrò di aver pensato fosse più saggio spogliarsi completamente prima di chiudersi raggomitolato in quel baule per così tante ore, in attesa della notte.
 
Era dove aveva programmato di essere.
 
La camera di Akane.
 
E lì la vide.
 
Inerme e bellissima.
 
Le si avvicinò con passo felpato e si bloccò ad ammirarla.
 
Era supina, abbandonata.
 
Le gambe appena dischiuse, il capo reclinato da un lato.
 
Un lembo dello yukata era sceso, scoprendo una spalla.
 
La sua pelle sembrava emettere una leggera luce, tanto era bianca e perfetta.
 
A Mousse mancò il fiato.
 
*Oh dei, quanto siete sfrontati a forgiare la bellezza*, maledisse tra i denti.
 
E dagli dei venne immediatamente punito.
 
Si sentì bruciare dall'inaspettato desiderio di toccarla, di toccare quella pelle.
 
*Soltanto un tocco*, si concesse mentalmente, mentre il respiro gli si accorciava e qualche gocciolina di sudore gli scivolava lungo i muscoli del collo.
 
Senza fare il minimo rumore, annullando completamente la propria aura, si abbassò e appoggiandosi all'avambraccio, sinuosamente le si mise accanto, sovrastandola con quel corpo allenato, carico di forza trattenuta.
 
Iniziò a divorarne le forme con gli occhi...
 
Ma poi gli occhi non riuscirono più ad appagare la sua voglia crescente e avvicinò le mani e il volto al corpo di lei, delineandone i contorni in una distanza impercettibile, quasi nulla, alitando ansante sulle sue carni.
 
Ma doveva far silenzio. Anche un solo gemito l'avrebbe potuto tradire.
 
Eppure ciò non bastò a fermarlo.
 
Non riusciva a smettere di inspirare quel profumo inebriante.
 
Aprì gli occhi e si ritrovò col viso di Akane appena sotto il suo, le scure ciglia serrate su quegli occhi brillanti, le labbra calde, invitanti, indifese.
 
Con una delicatezza maniacale, che nascondeva la violenza del gesto, calò su quelle labbra, assaporandone la dolcezza.
 
Un mugolìo della ragazza lo strappò da quel piacere proibito.
 
"Ran...ma..."
 
Cosa diavolo stava facendo? Rischiava di mandare tutto all'aria? Per cosa, poi? Un bacio?
 
Si guardò intorno, nuovamente lucido.
 
Impresse nella sua mente ogni angolo, ogni dettaglio di quella stanza, per garantire  all'altrui curiosità prove autentiche di esserci stato davvero.
 
Poi l'occhio gli cadde su un bracciale al polso della principessa.
 
Era il magatama (*) che Ranma le aveva lasciato in pegno il giorno della loro separazione. E da allora Akane non se l'era mai tolto.
 
Un ghigno si disegnò sul volto affilato di Mousse: quale prova migliore?
 
Insinuò le sue lunghe dita tra il bracciale e quel polso sottile e in un gesto lento e chirurgico lo sfilò con facilità.
 
Aveva quanto gli serviva per convincere gli occhi di chi avrebbe certo dato ascolto al cuore, conducendolo alla inesorabile sconfitta.
 
Si voltò un'ultima volta a guardare la principessa prima di alzarsi definitivamente, ma gli fu fatale.
 
La ragazza si era mossa appena, e in quel movimento il seno le si era leggermente scoperto.
 
Mousse sentì il sangue andargli al cervello e annebbiargli la vista.
 
Prima che potesse deciderlo, si ritrovò col corpo nudo e febbricitante sopra quello di Akane, in un silenzio irreale e malato, mentre la sua eccitazione premeva contro di lei, inconsapevole e pura.
 
Desiderò addentare quei seni bianchi e perfetti, strapparle le vesti e dare sfogo al proprio istinto animale, incurante della morale, della scommessa, persino della vita.
 
Per un attimo eterno fu sul punto di farlo.
 
Ma non lo fece.
 
Ricacciò il demone dentro di sè, che pulsava per uscire, e si disse che quel vuoto che gli si era aperto nell'istante in cui i suoi occhi si erano posati su Akane Tendo l'avrebbe colmato con la vendetta.
 
Fu in quel momento che l'occhio gli cadde su tre minuscole macchioline appena sotto il seno sinistro di lei, come tre gocce cremisi in fondo a un candido giglio.
 
Di colpo ritrovò il senno e afferrò la mano che la fortuna gli stava tendendo.
 
Annotò nella mente di nuovo fredda quell'immagine: sarebbe stata la prova definitiva e incontestabile della sua riuscita!
 
Mentre una timida aurora cominciava a tingere la stanza di un pallido grigio chiaro, Mousse si alzò dal giaciglio della principessa e, senza ripensamenti, stringendo il magatama in una mano, si calò nel baule, facendo scattare la serratura, in attesa di essere prelevato di lì a poco e di trovarsi fuori dalle mura all'alba del nuovo giorno e, come aveva giurato a se stesso, con la vittoria in pugno!
 
 
 
 
--
 
(*) Per chi mi segue da un po’, sa che mi sto riferendo al capitolo 6, e che il magatama in questione è quello che Ryoga ha regalato a Ranma in occasione del suo matrimonio con Akane e che a sua volta Ranma ha lasciato alla moglie prima dell’esilio in Cina.
I Magatama sono monili utilizzati in epoca antica come ornamenti.
Si ritiene che questi gioielli abbiano il potere di allontanare gli influssi maligni e, al tempo stesso, che siano di buon auspicio e portatori di un destino luminoso.
 
 NOTA AL CAPITOLO 9 
Mi scuso per aver fatto nominare a un certo punto da Mousse la carne di 'tacchino', quando è evidente che nella Cina del tempo che sto raccontando non ci fossero tacchini! ^_^'  Chiedo venia!
--
 
Ciao a tutti!
 
Sono finalmente riuscita a partorire questo sofferto, lunghissimo capitolo!
 
Devo dire che un po’ mi spiace descrivere questo Mousse così OOC, ma in un certo senso mi affascina anche… E devo ringraziare in particolare tre meravigliose Ladies per avermi consigliato a riguardo in tempi non sospetti! ;-*
Grazie grazie grazie Aron_oele, Gretel85 e Spirit99!! Senza i vostri preziosi consigli gli ultimi due capitoli sarebbero stati molto diversi…
 
Un ringraziamento speciale va anche a tutte le splendide Ladies che continuano a seguirmi, a credere in me e su cui posso contare sempre, nella mia quotidianità!
 
Un grazie infinito a coloro che non si sono stancati di questa storia ma continuano a leggermi e a scrivermi. Per chi non l’ha ancora fatto… che mi lasci un commento, una critica, un saluto! Sarò felice di rispondere e di crescere grazie a voi.
 
A presto!
 
Inuara

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Capitolo 11
*** I sospetti, quando cominciano ad agire sul sangue, bruciano come zolfo ***



Un piccolo riassunto per riportarvi nel vivo della storia:
Medioevo giapponese - Akane, figlia di Soun-sama, signore delle terre dell'ovest, non è mai uscita dal palazzo, dove è cresciuta accanto a Ranma, un giovane orfano che lavora come paggio al servizio di Soun Tendo.  A vegliare su di loro ci sono i due anziani consiglieri, Obaba e Happosai, e gli immancabili confidenti, Ryoga, amico, nonchè servo, di Ranma, e Ukyo, ancella di Akane. Soun si risposa con una giovane nobildonna, Kodachi, e al fratello di lei, Kuno Tatewaki, promette in sposa la principessa Akane, che rifiuta categoricamente i suoi corteggiamenti. A poco a poco Ranma e Akane si accorgono di essere innamorati e, sfidando i problemi di classe, si dichiarano. Decidono quindi di sposarsi di nascosto e scappare in Cina, in attesa di tempi migliori, ma immediatamente dopo il matrimonio e la prima notte di nozze vengono scoperti e divisi. Ranma viene prima imprigionato e poi esiliato e Akane è tenuta sotto stretta sorveglianza, pur con un discreto raggio di azione. Partendo per la Cina, Ranma promette ad Akane che le scriverà spesso e che farà di tutto per ricongiungersi a lei. Tra una lettera e l’altra, passano i giorni. In Cina, Ranma viene accolto dalla signora Nodoka, una donna Giapponese che gestisce una locanda, dove lavora come cameriera Shan Pu, che tenta invano di sedurre Ranma. Durante una festa, uno degli ospiti, un giovane guerriero di nome Mousse, provoca Ranma e lo istiga a scommettere sull’onore di Akane. Sarà Mousse stesso a provare l’infedeltà della giovane principessa recandosi in Giappone e tentando di sedurla. Una volta a Palazzo Tendo, Mousse fallisce ogni tentativo di fronte alla fedeltà di Akane. Nottetempo si intrufola quindi, nascosto in un baule, nella sua stanza e le ruba un bracciale che Ranma le aveva donato prima dell’esilio. Ranma, in Cina, divorato dalla paura e dalla gelosia, si pente di aver scommesso con tanta leggerezza.
 
 
Dangerous conceits are in their natures poisons,

Which at the first are scarce found to distaste,

But which a little act upon the blood,

Burn like the mines of sulphur.
 

I sospetti sono per loro stessa natura come veleni:
in un primo momento si prova appena un senso di disgusto,
ma, quando cominciano ad agire sul sangue,
bruciano come zolfo.
 
Othello – William Shakespeare
 
 

L'alba di quel giorno a lungo atteso spandeva i primi raggi a illuminare di taglio la figura di un uomo che galoppava a tutta velocità in direzione del porto di Hakata.
 
Un uomo che aveva aspettato paziente che il suo servo venisse a prelevare dalle stanze della principessa il baule in cui era nascosto, lo caricasse sul calesse e prendesse una ragionevole distanza da Palazzo Tendo. Un uomo che, uscito dal baule e pagato il servo per il suo silenzio, era balzato a cavallo per divorare nel minor tempo possibile la strada che lo separava dalla Cina e vincere la sua scommessa.
 
Mentre Mousse si allontanava verso sud, da nord si stavano avvicinando alla parte opposta del palazzo altre due figure.
 
A ben guardare, i contorni appena delineati dalla prima luce del mattino, si trattava di due carrozze che, arrivando da diverse direzioni, si incontravano in una radura poco distante dall'ingresso settentrionale della grande tenuta.
 
Dalla prima carrozza scese un uomo stanco, segnato dal tempo e dalla mancanza di sonno; dietro di lui una giovane donna, dallo sguardo scaltro e l'acconciatura impeccabile.
 
Dalla seconda carrozza balzò giù un uomo aitante e fiero, seguito da un vecchio silenzioso ma dall'occhio vivo, pronto a tutto.
 
Nel silenzio rotto dai primi timidi cinguettii, i quattro, che evidentemente si erano dati appuntamento in quel luogo a quell'ora, si vennero incontro, fino a fronteggiarsi.
 
"Avevate ragione, Soun-sama", il primo a parlare fu Kuno, con un guizzo impaziente di euforia nella voce, "I vostri cinque vassalli dell'estremo ovest non accettano questo affronto. 'Guerra o disonore', questa è la loro risposta"
 
"E con questo siamo in netta minoranza, caro", intervenne Kodachi con un sorriso nello sguardo, a dispetto del dispiacere nella voce, "Anche se siete il principe di queste terre non potete opporvi al voto dei vostri vassalli"
 
"Con ciò volete dirmi", la interruppe senza troppe cerimonie Happosai, "che pure il vostro viaggio presso i signori che amministrano le terre più a est si è rivelato vano? Non siete dunque riusciti a convincerli dell'assurdità di una guerra contro la Cina in questo momento?"
 
"No, Happosai", rispose finalmente Soun in un soffio, "Sono praticamente unanimi nella volontà di dichiarare guerra all'impero cinese per l'affronto subito"
 
"Si faranno ammazzare tutti"
 
"Non vogliono pagare un tributo per qualcosa che reputano loro di diritto..."
 
"Ma non pensano alle perdite che avranno in seguito all'inutile spargimento di sangue? Perchè non tentare per vie diplomatiche?"
 
"Il Giappone è perfettamente in grado di fronteggiare l'esercito cinese", ringhiò Kuno contro Happosai.
 
"Ho già cercato di spiegarvi che il loro esercito ci supera per numero e organizzazione..."
 
"Ad ogni modo... questa è la decisione del clan. Quindi c'è poco da discutere", lo freddò il giovane.
 
Dopo un pesante silenzio fu Soun a parlare nuovamente.
 
"Purtroppo hanno ragione mia moglie e mio cognato... Ho le mani legate di fronte alla maggioranza. La Cina pretende che torniamo a pagarle un vecchio tributo risalente a due secoli fa, ma che era caduto in prescrizione col tacito accordo di entrambi i Paesi. Ora il continente vuole tornare a soggiogare le nostre genti e questa è vissuta come la peggiore delle provocazioni..."
 
"Sì, ma le nostre genti verranno sterminate..."
 
"Basta Happosai, stai stancando il tuo signore", lo fulminò Kodachi, "e il giorno per noi è ancora lungo"
 
"Dobbiamo avvisare l'ultimo dei miei vassalli, quello che ci darà le milizie più nutrite. Devo parlargli personalmente e... vecchio mio, ho bisogno del tuo sostegno", concluse Soun, dirigendosi con la consorte verso la carrozza, mentre Happosai mestamente li seguiva.
 
"Un'ultima cosa", aggiunse, voltandosi verso il cognato, "Tatewaki, ti prego, torna immediatamente a palazzo. Sta succedendo tutto così in fretta... Una guerra alle porte... Non mi sento sicuro a sapere sola la mia bambina. Ha fatto molti sbagli ed è testarda, ma...  Va' da lei e stalle accanto. Noi saremo di ritorno prima di sera"
 
 Kuno non se lo fece ripetere una seconda volta e mentre la carrozza del principe si allontanava nuovamente, lui galoppava verso la reggia.
 
Un solo pensiero martellante in testa: Akane Tendo.
 
 
***
 
 
Ancora abbandonata sul letto, Akane aprì faticosamente gli occhi, e mosse appena le membra intorpidite da quella notte senza sogni.
 
Ricordava vagamente di aver aperto la stanza a Ukyo e a Ryoga alle prime luci dell'alba, di averli visti entrare - ancora sentiva il ragazzo con la bandana scusarsi più e più volte per questo - e prelevare il baule di Mousse per consegnarlo al servo di lui.
 
Ributtandosi stancamente a dormire aveva poi sentito allontanarsi sempre più il rumore di un calesse fino a cedere nuovamente al sonno.
 
Ora era sveglia e si sentiva stranamente inquieta.
 
Si mise a sedere e inspirò a pieni polmoni l'aria fresca del mattino.
 
Probabilmente a quell'ora Mousse non era troppo distante dal porto di Hakata, e con un po' di fortuna entro poche ore sarebbe stato a bordo di una nave in direzione della Cina.
 
Cercò di trovare conforto formulando quel pensiero.
 
*Ranma, presto avrai la mia lettera!*, sorrise tra sé e sé, dandosi della sciocca per quella sensazione di angoscia assolutamente priva di fondamento.
 
"Quello che ci vuole è un po' di movimento! Basta piangersi addosso, Akane! E' ora di allenarsi un po'"
 
Si scrollò di dosso gli ultimi rimasugli di sonno e iniziò a prepararsi con una ritrovata energia.
 
Mentre però si allacciava l'ultimo alamaro della camicetta della tenuta di allenamento, l'occhio le cadde sul polso destro.
 
Si bloccò di colpo.
 
"Ma dove...?"
 
Spostò immediatamente lo sguardo a terra e poi dietro di sè.
 
Niente.
 
Ma dov'era finito? Dove si era cacciato il magatama che le aveva regalato Ranma e che lei teneva saldamente al polso, senza levarselo mai?
 
"Ranma...", sussurrò come una bimba colpevole, quasi lui la potesse sentire.
 
Si gettò sul letto e lo cercò nervosamente tra le lenzuola, tra le pieghe dello yukata del giorno prima per poi alzarsi di scatto e frugare tra le carte sparse sul tavolino basso.
 
Niente!
 
Il bracciale era sparito.
 
Come era possibile? Eppure si ricordava di averlo baciato la sera prima, durante le sue preghiere, come faceva ogni sera, prima di andare a dormire.
 
"Dev'essere qui, da qualche parte", cercò di calmarsi, con scarso risultato.
 
Ukyo! Forse l'aveva preso lei per lucidarlo, pensò speranzosa.
 
Si fiondò fuori dalla stanza.
 
"Ucchan!"
 
Ma il fiato le morì in gola.
 
Non fu la sua ancella che trovò ad aspettarla.
 
Davanti alla porta della sua camera, pronto a farle la posta come alla preda che prima o poi dovrà uscire dalla propria tana, le si parò davanti Kuno Tatewaki.
 
"Grigio mattino.
L'oro dell'orizzonte
lo sfida il cielo.
 
Con le parole del poeta vi dò il buongiorno, mia sposa... ‘dorata’", le si avvicinò arrogante, calcando l'ultimo pretenzioso aggettivo.
 
"Buongiorno a voi", gli rispose secca. Non aveva tempo da perdere in discussioni. Doveva trovare il bracciale al più presto. "Scusate ma sono un po' di corsa", sperò di affrancarsi.
 
Ma lui non glielo permise.
 
"Quanta fretta. Ma come? Il vostro promesso galoppa nottetempo per miglia e miglia così da venirvi a omaggiare di primo mattino e voi non lo ringraziate come si conviene?", le si avvicinò ulteriormente, "Vostro padre, mia sorella e il vecchio non saranno qui prima di sera... Non vorrete lasciarmi tutto solo...", le sussurrò con dolcezza, ma a lei suonò come un avvertimento.
 
"Mi dispiace per la vostra... dedizione, ma è inutile. Voi mettete a dura prova la mia pazienza: sono sposata e non vi amo", gli disse ferma, sperando di metterlo a tacere e andare oltre.
 
Illusa...
 
"Quello che è inutile", rise lui tentando di mascherare l'ira crescente, "è questo vostro incaponirvi in queste assurde convinzioni! 'Sposata'?! Con quel villico?! Ahaha! Voi vaneggiate!... E parlate di 'amore'... ma l''amore' non è una cosa che deve riguardare voi... Io vi dico che vi amo, e ciò deve bastarvi. Siete chiaramente in preda alla pazzia e io non posso lasciarvi in questo stato"
 
La afferrò per il polso, lo stesso polso alleggerito dal bracciale.
 
Akane sentì la frustrazione diventare rabbia e scaldarle il sangue.
 
"Chi è pazzo e chi è cretino!", si divincolò dalla presa, "Così cretino da credere ancora che l'amore possa essere imposto. Non mi farò mai dominare da voi, dovreste averlo capito!"
 
Punto nell'orgoglio di uomo e di maschio, Kuno non ci vide più e la spinse aggressivo contro la parete.
 
"Come osate rivolgervi a Kuno Tatewaki con questo tono? Vi farò rimangiare i vostri insulti", la minacciò, tentando di baciarla a forza.
 
Akane reagì d'istinto e gli assestò un calcio sul petto, allontanandolo da sè.
 
Furioso, Kuno sguainò la katana di legno che teneva al fianco.
 
"Benissimo... Volete sfidarmi dunque?", la derise.
 
"Non chiedo di meglio", gli rispose mettendosi in assetto di difesa, con un sorriso sghembo stampato sulle labbra, lo stesso che aveva Ranma tutte le volte che iniziava un combattimento.
 
"Akane Tendo! Quando ti avrò sconfitta non potrai più opporti!", tuonò a gran voce in un grido di battaglia, andandole contro con la katana sollevata.
 
Akane schivò prontamente l'affondo, ritrovandosi nuovamente all'interno della propria stanza, incalzata da quell'idiota di Kuno.
 
Gli avrebbe finalmente dato pane per i suoi denti.
 
Non c'era stato giorno in cui non si era allenata e ormai metteva a dura prova anche Ryoga, che pure era sempre stato un avversario di tutto rispetto per Ranma.
 
Kuno stava faticando a starle dietro. Come credeva di averla raggiunta, lei spariva fulminea dalla sua traiettoria. Quella ragazzina insolente gli stava facendo sprecare i suoi colpi migliori. Le avrebbe fatto pagare anche questo!
 
Aumentò la foga dei propri assalti, spingendola contro la parete opposta alla porta e per un attimo pensò di averla raggiunta.
 
Prontamente lei balzò fuori dalla finestra aperta e lo attese in giardino, in uno spazio più adatto alla sfida.
 
Livido di rabbia il giovane la raggiunse e decise di cambiare strategia: le avrebbe fatto abbassare la guardia colpendola nel suo punto debole.
 
"Quel verme che dite di amare è cresciuto di elemosine ed avanzi", la provocò sprezzante, "Il legame che credete di aver stipulato con lui,  non è un contratto: è nullo!"
 
Il risultato fu molto diverso da quello sperato: Akane con un balzo gli fu alle spalle e in tutta risposta, prima che lui potesse accorgersene, gli assestò un calcio alla schiena, facendolo caracollare in avanti.
 
"Maledetto! Se anche voi foste figlio di una dea dovreste essere grato di fargli da servo! E anche così sareste troppo in alto, per quel che valete in confronto a Ranma!", gli urlò inferocita.
 
"Spero che muoia, ovunque si trovi in questo momento!", proseguì lui, lo sguardo torbido d'ira, infierendo con la spada e con la parola, colpo dopo colpo, "Che lo consumino le febbri di un morbo sconosciuto... che venga sventrato dai briganti...  che crepi come è nato, senza nome e senza onore!"
 
Akane si sentì mordere dal dolore e per qualche istante le ingiurie del suo avversario la tramortirono, tanto che un paio di colpi andarono a segno, fiaccandola leggermente.
 
Ma per fortuna era temprata da ore e ore di allenamento e non sarebbero state due percosse a metterla in ginocchio. Anzi, non appena si riebbe dalla morsa di quelle immagini terribili provò un tale rancore che la forza le si raddoppiò, desiderosa di vendetta.
 
Contrattaccò  con una velocità tale che Kuno non riuscì quasi a scorgerne i movimenti, figuriamoci prevederli o addirittura pararli.
 
"La più grande disgrazia che potrà mai capitargli è che voi pronunciate il suo nome, insozzandolo! Il peggior straccio che gli abbia mai sfiorato il corpo mi è caro più di voi... delle vostre parole o dei vostri... regali!", concluse atterrandolo con una cascata di pugni e facendogli schizzare via la spada.
 
Proprio in quel momento sbucò Ukyo, che, attirata dalle urla era accorsa seguita da Ryoga.
 
Compresa immediatamente la situazione, si portò le mani alla bocca, trattenendo il fiato sgomenta.
 
Ryoga era altrettanto pietrificato, ma pronto a intervenire.
 
"Ho vinto", gli ricordò Akane, ansimando appena, e per  Kuno fu un ulteriore schiaffo in pieno viso.
"Come vedete non sono la debole donna che credevate. Siete stato sconfitto. Battuto in combattimento da me,  come meritate. E, secondo le vostre disposizioni, mi ritengo del tutto libera dall'obbligo di sposarvi"
 
Kuno la guardava furente.
 
"Me la pagherete per questo", sibilò tra i denti, ancora a terra.
 
Andandosene, lei non diede peso a quelle parole, trovandole ripetitive e banali.
 
 Sapeva che Kuno non avrebbe smesso di assillarla, ma aveva dimostrato a quel pallone gonfiato e soprattutto a se stessa che era perfettamente in grado di difendersi dagli attacchi indesiderati.
 
Vittoriosa, rientrò in casa, prontamente seguita da Ukyo e Ryoga, che premevano per allontanarsi il prima possibile dalla vista del nobile, che si stava rialzando lentamente.
 
Ma non era la fatica a rallentare i suoi movimenti... Il livore, piuttosto, che lo permeava fino ad accecarlo.
 
"Il p-peggior straccio...", balbettava ancora incredulo, "b-battuto da quella sgualdrinella... Me la pagherà per questo... Eccome se troverò il modo di vendicarmi... Basta con la comprensione e con la gentilezza. Aspetterò il momento giusto... Saprò aspettare. E poi mi prenderò ciò che è già mio, con la violenza, se necessario. E con la katana affilata, questa volta", aggiunse dando un calcio di frustrazione repressa alla propria spada di legno che rotolò nella polvere.
 
 
***
 
 
Il sole era sul punto di tramontare.
 
Un altro giorno senza avere notizie di Akane. Un altro giorno con Mousse lontano dalla Cina, libero di corteggiare lei, laggiù, in Giappone, lontano anni luce da lui.
 
Un altro giorno in cui Ranma aveva sentito scivolare via dall'anima gli ultimi brandelli di certezza.
 
Aveva cercato di tenersi impegnato, di fare lavori di fatica, di non pensare, ma nella sua mente, minuto dopo minuto, gli si erano conficcati sottili aghi di angoscia.
 
Erano giorni che non mangiava, che non dormiva. Era in bilico su quel filo sottile che divide lo strazio dalla tristezza, la pazzia dalla coscienza.
 
Era sul limitare dell'uscio della locanda, con gli occhi pesti, mentre si asciugava sovrapensiero alcune gocce di sudore dal mento, quando sentì un rumore crescente e regolare farsi sempre più vicino. Si voltò proprio nel momento in cui spuntarono sulla grande strada antistante le prime fila in marcia di una divisione dell'esercito cinese.
 
Ranma rimase sbalordito a guardare quegli uomini in tenuta da combattimento, per un attimo dimentico dei propri guai.
 
"Ma cos...?"
 
"La guerra... La guerra è davvero alle porte?", la voce preoccupata della signora Nodoka lo raggiunse alle spalle. Non si era accorto che, quatta quatta, era sgusciata fuori, attirata anche lei dal frastuono.
 
"La guerra?"
 
Quale guerra?
 
"Avevo sentito parlare del fatto che correva una certa tensione politica tra la Cina e il nostro Paese", lo guardò tristemente materna avvicinandosi a lui, "ma non credevo che la situazione sarebbe precipitata tanto presto...!"
 
"Allora volete dire che in Giappone in questo momento...?"
 
"Sì. Temo che anche oltremare stiano organizzando i loro eserciti per la battaglia"
 
"Ma perchè...", riuscì soltanto a formulare Ranma, schiacciato da quella notizia ma non riuscendosi a togliere di dosso l'immagine di Akane aggrappata a Mousse, il solo che potesse salvarla durante un eventuale attacco nemico.
 
"Pare che molti anni fa la Cina riscuotesse un tributo in segno di sottomissione dal Giappone. Poi questa legge venne abolita, se non giuridicamente, almeno di fatto. Il nostro Paese è cresciuto e si è affrancato... E tuttavia ora l'imperatore, vuole far valere stupidamente questo antico diritto. Sapevo che molti nobili nipponici si erano rifiutati di pagare... Suppongo che la decisione sia stata unanime e che questa ne sia la conseguenza", concluse amaramente indicando stancamente i giovani militari in marcia.
 
Prima che Ranma potesse chiedere ulteriori spiegazioni, la sua attenzione e quella della signora vennero catturate dal passaggio di un generale a cavallo.
 
Lo videro arrivare dalla cima della collinetta da cui scendeva lo stradone.
 
La prima cosa che Ranma vide di lui furono gli occhi fieri, celesti e luminosi, accompagnati da un portamento modesto, ma che allo stesso tempo emanava nobiltà d'animo e forza fisica.
 
"Shinnosuke...", mormorò la signora Nodoka, senza riuscire a trattenere una luce di ammirazione nello sguardo.
 
"'Shinnosuke'? Volete dire che quel generale è in realtà giapponese? Lo conoscete?", le chiese Ranma, guardando quel ragazzo a cavallo, mentre un misto di inquietudine e sospetto si impadronivano impercettibilmente di lui.
 
"Non di persona, no. Ma so chi è. Giapponese di nascita, cinese di adozione... Qualche anno fa ci fu una scaramuccia tra mercanti. Così la chiamarono loro ma comportò seppur per breve tempo un campo di battaglia non troppo lontano da questa città e la perdita di molte vite, figlie del Giappone e della Cina. Shinnosuke, con ancora addosso la divisa giapponese da soldato semplice, fu trovato in fin di vita da un vecchio soldato cinese. L'uomo avrebbe potuto finirlo, ma non lo fece, perchè quel ragazzo aveva appena evitato il massacro delle truppe cinesi manomettendo la polvere da sparo così da impedire all'esplosione programmata di raggiungere l'esercito nemico. Si era opposto in prima persona a un inutile spargimento di sangue, finendo per essere coinvolto. Il vecchio ne curò le ferite. Quando il ragazzo riprese conoscenza, aveva perso la memoria, e non ricordava nulla del suo passato. Gli fu raccontato l'accaduto, e decise di rimanere fedele al suo salvatore e di servire da quel momento l'esercito cinese. Via via si è distinto per onestà e accortezza ed è diventato un onorato generale. Ha avuto un ruolo fondamentale nel gestire i rapporti diplomatici col Giappone... E adesso... Adesso è crollato tutto ciò che aveva costruito in mesi di accordi e trattative... Dovrà soffrire molto, anche se non lo dà a vedere...  Guidare i suoi uomini in una guerra in cui non crede..."
 
"Una guerra...", disse Ranma tra sé e sé sempre più cupo.
 
"Ora capisco il significato della lettera che ci è stata recapitata ieri per Mousse..."
 
"Sarà richiamato alle armi?", chiese Ranma con un filo colpevole di speranza.
 
"E' probabile... Ma non lasciamoci abbattere dai cattivi pensieri! Ogni ragazzo che vive qui è come fosse figlio mio e farò il possibile per aiutarlo!", si risollevò la buona donna, con un sorriso combattivo, rientrando in casa. "E anche tu, Ranma caro, tirati un po' su... Ti ho preparato un infuso corroborante alle erbe! Vedrai che ti torna l'appetito! L'ho lasciato riposare, come vuole la ricetta, ormai sarà pronto. Te la faccio portare da Shan-Pu"
 
"Ma no, posso tranquillamente..."
 
"Non si discute!", lo zittì lei amabilmente, "Finisci di spostare quelle casse e poi prenditi un po' di fresco qui sulla veranda. Oggi è una giornata molto calda, un po' d'aria non potrà farti che bene", concluse rientrando, mentre le ultime fila della milizia di passaggio sparivano al loro sguardo.
 
 
Ranma portò a termine le proprie mansioni e crollò sulla panca in pietra davanti alla locanda.
 
Lo sguardo fisso nel vuoto, per lui era impossibile sentire il venticello leggero scompigliare i suoi capelli o scuotere i rami degli alberi che incorniciavano la piazzetta.
 
Avrebbe solo voluto svegliarsi e scoprire che si trattava tutto di un sogno...
 
Perchè Mousse tardava tanto?
 
Erano passati diversi giorni e ancora di lui nessuna traccia.
 
Il tempo scorre troppo lento e troppo crudele quando attendiamo una risposta che temiamo...
 
"Akane...", sospirò.
 
Ci fu un fruscìo alle sue spalle.
 
Per un attimo scaraventato in un altro dove e un altro quando, interpretò quel fruscìo come una risposta allucinata alle sue preghiere: Akane era lì con lui e quello non era stato che un orribile incubo!
 
Si voltò scioccamente speranzoso e quel che vide fu una nuvola color lavanda ondeggiare verso di lui.
 
Shan Pu.
 
Era solo Shan Pu, che portava un vassoietto su cui era posato un bicchiere di terracotta.
 
Ma certo, le erbe della signora Nodoka, che altro?
 
"Piccola pausa pel Lanma!", ammiccò gioiosamente la cinesina.
 
"Grazie, Shan Pu", tentò di ricambiare il ragazzo mentre afferrava svogliatamente il bicchiere. "Certo che… puzza parecchio questa roba, eh?"
 
"Bele tutto d'un fiato, così si è laccomandata signola!"
 
Troppo stanco per ribattere, Ranma obbedì.
 
Tutto d'un fiato.
 
Una strana luce balenò nella sguardo di Shan Pu.
 
Non perdeva d'occhio la figura di lui, impegnato ad asciugarsi meccanicamente le labbra con un lembo della camicia.
 
Chi avrebbe potuto accorgersi della piccola mano di lei che si insinuava nella taschina del grembiule e stringeva grata una boccetta di vetro scuro ormai vuota?
 
*Ancola qualche istante, e andlà in cilcolo…*
 
Lo teneva d'occhio, lui completamente ignaro di quello a cui stava andando incontro.
 
*Finalmente ho tlovato occasione giusta pel plopinalgli  più potente dei filtli di mia tella: quello che fa peldele se stessi e fa acclescele ogni più piccola emozione...*
 
Era un piano perfetto. L'avrebbe sedotto nuovamente, e questa volta, con l'aiuto del filtro, la mente di lui avrebbe capitolato e il suo corpo… Beh, in fondo era pur sempre un uomo, certo sensibile agli stimoli che una donna sapiente può eccitare… E sì, si sarebbe arreso a lei, almeno nel corpo e nell'istinto, in barba a quella principessa d'oltremare e a tutte quelle fandonie di morale e fedeltà.
 
Era necessaria una sola piccola spinta.
 
L'occasione non si fece attendere.
 
"Grazie", le si rivolse lui, accennando un sorriso amaro eppure sincero, "grazie per tutto quello che state facendo, tu e la signora Nodoka"
 
Continuando a guardarlo, con languidi occhi innocenti, lentamente la ragazzina si chinò verso di lui e sporgendosi un poco, le labbra molto vicine a quelle di lui, sussurrò: "Dovele"
 
E condì il tutto con una carezza che scivolò dal volto al collo, al petto inerme di lui, che deglutì a fatica.
 
Cos'era quell'improvviso sapore amaro che dalla bocca dello stomaco si propagava in lui, annebbiandogli per un istante anche la vista? E perché la testa gli girava tanto?
 
"Cosa mi sta…?"
 
Ma la domanda gli morì in gola, così come il sorriso di vittoria morì sulle labbra di lei, che dovette interrompere la strategia appena iniziata.
 
"Lieto di trovarvi in ozio e in buona salute"
 
Tinta di un lieve sarcasmo, la voce di Mousse annunciò che il cinese aveva appena fatto ritorno.
 
Ranma sollevò a fatica lo sguardo su di lui, alto e sicuro, le braccia conserte mentre era appoggiato a una colonna.
 
Mousse?
 
Mousse!
 
E portava buone notizie…?
 
"Voi… qui?"
 
Non riusciva a formulare un pensiero, una domanda.
 
Solo quegli occhi verdi indecifrabili davanti a lui. L'immagine di Akane troppo lontana per essere afferrata.
 
"M-Mousse… Già di litolno?", balbettò Shan Pu, vedendo andare in fumo i suoi progetti e sprecata la pozione.
 
"Purtroppo, mia cara, purtroppo. Sarei rimasto volentieri qualche altro giorno laggiù, dove la principessa ha tentato poverina di trattenermi, ma mi premeva tornare per onorare la scommessa"
 
"Fuggire piuttosto… fuggire dall'umiliazione della sconfitta", ridacchiò Ranma, tentando di esorcizzare il dubbio dell'ignoto che stava iniziando a divorarlo attimo dopo attimo.
 
Mousse lo guardò divertito. E poi sospirò.
 
Che significato poteva avere quel sospiro?
 
Rassegnazione?
 
Tristezza?
 
Allora forse…?
 
"Fuggire, sì, mio caro Ranma, fuggire dalla bellezza per non esserne intrappolato oltre… Decisamente avevate ragione. La principessa Akane è la più bella donna che io abbia mai incontrato"
 
Al sentir pronunciare il suo nome un brivido caldo gli corse su per la schiena, mordendogli la carne tenera del collo, come un serpente velenoso.
 
"…e la più onesta, ovviamente", tentò di aggiungere Ranma, in una domanda non confessata.
 
Ancora quello sguardo fisso su di lui.
 
Cosa c'era in quello sguardo?
 
Forse una sottile pena per lui…?!
 
Ranma sentì la propria mano tremare impercettibilmente e l'aria farsi spessa.
 
Sbattè alcune volte le palpebre. I contorni delle cose stavano sbiadendo. Desiderava rimetterli a fuoco.
 
Diavolo, faceva davvero molto caldo.
 
In tutta risposta Mousse gli porse una lettera.
 
"Per voi. Da parte di lei"
 
Una lettera? Da Akane?
 
La afferrò con una zampata e la lesse febbrile.
 
Amore… Lontani… Giorni tutti uguali… Dolore…Sto bene…
 
Parole già lette mille volte, che non gli dicevano nulla dell'incontro tra lei e Mousse…
 
Ah, ecco…
 
Questo tuo amico, Mousse… Onesto, nobile…
 
Correva veloce con lo sguardo, in cerca di una prova, un segno.
 
Felice di saperlo accanto a te laggiù in Cina…. Scrivimi… Tua… Akane…
 
Tua…
 
Tua.
 
Era tutto a posto. Stava bene. Pensava a lui.
 
E allora perché qualcosa non gli quadrava? Perché quelle parole per la prima volta gli sembravano vuote? Aveva a che fare con quello sguardo che ancora quel dannato cinese si ostinava a tenere inchiodato su di lui?
 
"Se avete qualcosa da dire ditelo e basta!", gli ringhiò contro Ranma, incapace di trattenersi oltre.
 
Un sorriso triste si dipinse sul volto rilassato di Mousse.
 
"Che cosa, che già non conoscete, nel vostro intimo?", gli lasciò intendere.
 
Shan Pu, appena in disparte, cominciò a intuire il gioco del compatriota. Lo conosceva troppo bene e ne ammirava le mosse, quando si divertiva a giocare al gatto col topo. Benissimo allora, si sarebbe unita al divertimento… In fondo cosa c'era di meglio se non assistere alle emozioni lancinanti di uomo portarlo alla rovina? E - c'era da aggiungerlo? - soprattutto se quell'uomo si era rifiutato di cedere ai suoi begli occhi.
 
Ranma sentì il sangue defluire di colpo dal volto e dalla mente, per andare a infuocare una rabbia crescente.
 
Era come se il cuore pulsasse a una velocità tripla e lui non era in grado di placarlo.
 
"Osate dire che la mia donna mi avrebbe tradito?!"
 
Ormai non riusciva neanche più a simulare di essere calmo.
 
"Voi usate questa crudezza di linguaggio… Ma temo di dovervi dare ragione"
 
Ranma sentì bruciargli le budella.
 
Nella frazione di secondo in cui Shan Pu allargò un leggero sorriso di soddisfazione, il ragazzo si era già scagliato contro il cinese, che con rapida maestrìa bloccò l'attacco capovolgendo immediatamente la situazione.
 
Ranma si trovò a terra, umiliato, sovrastato da un placido Mousse.
 
"Perché questa reazione? Se non ricordo male i termini della scommessa imponevano uno scontro solo nel caso in cui ci fosse stata la calunnia. Ma io vi porto prove certe di quel che vi dico, pertanto un duello non è paradossalmente previsto"
 
"P-prove certe?", Ranma si sentì venir meno.
 
Nello stato confusionale in cui si trovava, la rabbia fece spazio alla paura. Non più al dubbio, ma a una paura lacerante.
 
Shan Pu riusciva a immaginare perfettamente la lotta impari che Ranma stava combattendo dentro di sé in quel momento, per non cedere all'ira e perdere se stesso. E la cosa la deliziava oltre misura.
 
Le parole di Mousse gli cascarono addosso come sassi.
 
Ancora a terra, inerme, Ranma lo ascoltò snocciolare una descrizione minuta della stanza di Akane, che solo chi vi fosse entrato e vi fosse rimasto a lungo, avrebbe potuto fare.
 
Ansimante, con la gola stretta in una invisibile morsa, rimase a terra alcuni secondi, lunghi più del tempo stesso.
 
Ma un barlume di lucidità gli venne in soccorso.
 
“Forse…", tentò di alzarsi, "Avrete di certo sentito qualche serva parlare con ammirazione della sua stanza, perdendosi in dettagli… Le donne lo fanno, a volte senza sapere che sarebbe meglio stare zitte… Sarà stato solo a causa di qualche pettegolezzo, tutto qui! O-oppure Akane vi ha invitato a prendere un tè, lontano da orecchie indiscrete. Non ci sarebbe nulla di male. E sono certo che Ukyo o Ryoga, o entrambi, erano lì con voi"
 
In tutta risposta il cinese gli srotolò di fronte al volto il bracciale rubato alla principessa.
 
Lo stesso che lui le aveva lasciato in pegno.
 
Ranma perse l'equilibrio, crollando nuovamente nella polvere.
 
"I-il magatama di Akane?"
 
"E' stata lei a darmelo", si giustificò Mousse.
 
Ranma deglutì.
 
"Che eleganza nello sfilarselo, il ricordo di quel gesto è impresso nella mia memoria…"
 
Ranma si sentì avvampare.
 
"L'ha sfilato per regalarmelo, dicendomi che un tempo le era caro… Perché? Vi dice qualcosa?", lo pungolò Mousse.
 
"Avrete capito male… L'avrà tolto per darlo a me…", tentò Ranma in extremis.
 
"E ve l'ha scritto nella lettera?"
 
"Oh kami… N-no!…"
 
Si sollevò da terra come una furia, senza riuscire a stare fermo, gli occhi fuori dalla testa, sbuffando come un bufalo stretto in un recinto troppo angusto.
 
"Deve averglielo dato… per forza…", delirava, "Ma… può averlo perso!… E qualche ancella può averlo dato a voi… Certo, è l'unica spiegazione!… No… No! Le ancelle sono tutte oneste, nessuna tradirebbe Akane… Ma… Akane… tradirebbe… me?", con una mano nervosa cominciò a tormentarsi l'anello al dito, "Ma no… no! Questo bracciale non è una prova sufficiente!"
 
Quanta inutile resistenza si ostinava a opporre al potere del filtro, pensò Shan Pu. A quell'ora la sua mente sarebbe già dovuta essere completamente obnubilata da un rancore senza eguali. Soprattutto dopo l'abile intervento del cinese. Sbuffò appena e Mousse fece l'ultima e la più decisiva delle sue mosse.
 
"Siete in cerca di prove ancor più nette? Benissimo. Siete voi che mi costringete ad essere diretto"
 
Ranma si fece nuovamente attento, il respiro fermo in gola.
 
"All'altezza del cuore", iniziò Mousse, "appena sotto il suo seno - che bello è stato stringerlo tra le mani! - ci sono tre minuscole macchioline, orgogliose di trovarsi su quel petto… Le ho baciate e mi saziavano e m'affamavano… Ve le ricordate voi? Come tre gocce di sangue schizzate sul petalo bianco di una rosa"
 
Scandì ogni parola, tingendola di significato e l'effetto fu quello desiderato.
 
Sotto quelle stilettate fu il cuore di lui che scoppiò, impregnando di sangue quel che era rimasto della propria anima. Il filtro di Shan Pu si mescolò alle menzogne di Mousse, gonfiate da dubbio, paura, rabbia e gelosia in una miscela bruciante che si riversò nelle sue vene, avvelenando ogni sua cellula e lasciando che nel suo corpo prendesse forma al suo posto un demone mostruoso assetato di vendetta. 
 
"Lei…! Lei si è concessa a voi!… Tenete! L’anello è vostro! Avete vinto la scommessa…. Prendetelo! Gettatelo alle ortiche se vi fa piacere! Come ha potuto?!… Se l'avessi qui…”
 
Il demone cresceva dentro di lui.
 
“Se l'avessi qui… Io… Io…”
 
Non c’era quasi più traccia di Ranma. Ormai dentro di lui lo spazio era occupato interamente dalla cieca passione.
 
 “Grrr!!! Se l’avessi qui per farla a pezzi!!… "
 
Gridava e piangeva.
 
Si prendeva a pugni da solo e si faceva sanguinare le labbra mordendole folle.
 
"Oh, povero Lanma…! Ma in fondo lei è sola… Tu lontano… Donna può facilmente dimenticale malito quando altlo uomo entra in suo letto… Lanma, calo, pelché non chiedi confelma a qualche amico, lì con lei?", suggerì Shan Pu, porgendogli carta e inchiostro che aveva tirato fuori da chissà dove chissà quando.
 
"Di meglio…! Farò di meglio!!"
 
E accecato dall'ira, con l'ultima parvenza di logica, strappò la carta di mano da Shan Pu e scrisse ad Akane parole che pur nel delirio avevano qualche significato…
 
Prese poi un secondo foglio e senza pensarci vi fissò il proprio dolore, urlando al contempo quelle parole, che se fossero state delle pugnalate avrebbero fatto meno male:
 
Ryoga!
Ho bisogno di te, amico. E della tua fedeltà, visto che quella di mia moglie mi è stata negata per l'eternità.
Adulterio!
Tradito da chi più amavo e che ora più odio! E il tradimento va lavato con la morte.
Agisci tu per me. Per l'amicizia che mi hai giurato.
Il suo sangue sarà la prova della tua lealtà.
Il suo sangue su un fazzoletto come prova.
Non chiedo altro.
Il suo sangue.
Fallo. Fallo per me.
Le ho appena scritto una lettera. Lei non sospetterà nulla. Vedrai che sarà lei stessa a darti l'occasione per compiere la giusta vendetta!
 
Ranma ebbe appena il tempo di sigillare i due fogli, che l'uragano che gli vorticava nella mente e nel corpo, divorandone la coscienza, fu troppo anche per lui.
 
La mente gli franò del tutto, i muscoli si tesero in una convulsione che gli contorse le budella, le vene si irrigidirono, gli occhi gli diventarono bianchi.
 
"AKANEEEEE!!"
 
Un urlo disumano gli squarciò il petto prima di perdere del tutto i sensi.
 
Si sentì precipitare nel vuoto di un burrone senza fondo. Vide allontanarsi ogni suono o immagine di senso compiuto.
 
Finchè non fu solo buio e orrore.
 
 
 
 
Incuranti di quel corpo che rovinava nella polvere, come privo di vita, i due si scambiarono un rapido sguardo.
 
Mousse strinse i denti, si infilò l’anello in tasca ed entrò nella locanda.
 
Da parte sua Shan Pu afferrò le due lettere e senza dire nulla si diresse leggera verso il porto. Avrebbe pensato lei a verificare che partissero con l’ultima nave della sera, per raggiungere il Giappone il prima possibile.
 
Il filtro non aveva sortito l'effetto desiderato, ma aveva comunque fatto alla perfezione il suo dovere.
 
 
 
 
 
--


Ciao a tutti!
 
Dopo tempo immemore sono tornata ad aggiornare!
So che quando passa così tanto tempo da un aggiornamento all’altro si perde l’entusiasmo di seguire una storia… Vi capisco perfettamente… Motivo di più per dare una medaglia – immaginaria purtroppo - a chi ancora mi sta dando fiducia e continua a leggerla e a commentarla!

Spero che i discorsi di guerra non vi abbiano annoiato troppo… Purtroppo erano necessari per introdurre ciò che sta per accadere nei prossimi capitoli! Consigli a riguardo sono sempre ben accetti. ;-)
Intanto abbiamo fatto entrare in scena anche Shinnosuke… spero che la cosa risulti gradita, eheh!
Spero di non aver esagerato con questo Ranma indemoniato… Come sapete la mia penna tende alla gravità e all’esagerazione teatrale…XD Ma volevo in qualche modo giustificare la scelta finale, se di scelta si può parlare… Mi rendo conto che qui più che mai l’OOC è definitivo, ma ho tentato il tutto per tutto, giuro! La storia mi porta purtroppo in direzioni estreme…

Basta chiacchiere!

Un grazie infinito a voi tutti, se passando di qui volete lasciare due parole ve ne sarò grata.

Un abbraccio enorme alle mie Ladies, sempre presenti, nonostante le mie assenze, sempre con me, anche oltreoceano! ;-*
 
Inuara

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Capitolo 12
*** Sangue e rivalsa mi martellano nella testa ***



Vengeance is in my heart, death in my hand,
Blood and revenge are hammering in my head.
(…)
Seest thou this letter? Take it up, I pray thee.
 
La vendetta è nel mio cuore, la morte nella mia mano,
Sangue e rivalsa mi martellano nella testa.
(…)
Vedi questa lettera? Prendila, ti prego.
 
Titus Andronicus - William Shakespeare
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Osate dire che la mia donna mi avrebbe tradito?!
 
Il tradimento va lavato con la morte.
Morteee… orteee… rtee… e…
 
Un vuoto silenzio.
Qualcuno aveva detto qualcosa?
Il silenzio rimbombava nelle sue tempie.
Gli sfuggiva il punto.
Ma dov'era?
Una nebbia fitta avvolgeva quel mondo.
E d'un tratto la nebbia era evaporata.
Si voltò.
Era tutto chiaro. Come poteva non evaporare sotto quello sguardo?
 
Lei lo guardava - ma era sempre stata lì?- con gli occhi carichi di fiamme.
"Baka! Possibile che non capisci?", sentì uscire le parole dalla propria bocca, "Non voglio morire giovane!"
"Il baka sei tu!  Sei tu che non capisci che ogni tanto bisognerebbe mettere da parte il proprio orgoglio per qualcuno a cui… ehm…"
"A cui…?"
"Ma lascia perdere! Sei ridicolo! E' già un'ora che te ne stai lì con quel sakura mochi(1) in mano… Se non lo vuoi mangiare non mangiarlo!"
"Che cos…? S-stai piangendo?!"
"No che non piango! Dammelo, vado a darlo a Ryoga, sono sicura che lui lo mangerà!"
"Ma stai scherzando??"
Vide Akane sgranare gli occhi mentre lui ingurgitava il dolcetto che lei aveva preparato tanto premurosamente. Lui tossiva e lei sorrideva.
Era vero, lo sapevano entrambi, faceva schifo… Ma l'aveva fatto per lui.
 
 
Adulterio...
 
 
Tutto sparito.
Chi aveva parlato?
 
Vendetta… ettaaa… taaa…aa..a…
 
Per un attimo disorientato, si ritrovò con una sacca carica di oggettini tra le braccia.
Ma sì, certo. Come quella volta.
 
Fu lui a rompere il silenzio, dato che lei lo guardava curiosa e attenta.
"Ecco qui"
"Ma tu hai…?"
"Sì. Mi avevi chiesto tu di portarti qualcosa dalle mie incursioni fuori dal palazzo, no?"
La vide annuire trattenendo l'eccitazione. "Beh, ho qui con me alcuni… come potrei chiamarli?… Alcuni 'pezzi di mondo', il mondo che non puoi vedere… Ma poco importa, te l'ho portato, ecco qui! In questa boccetta, per esempio, c'è… il mare"
"Ma non è che acqua salata…"
"Scema, è molto di più. L'ho chiesta espressamente ad Happosai quando il mese scorso ha fatto quel viaggio verso le isole del nord. Dice che l'ha prelevata dalle onde durante la traversata notturna. Questa bottiglia contiene il mare e la notte"
"Ahaha! Non esagerare adesso!"
"E allora che mi dici di questa?"
"E' un profumo!…"
"Sì. Il profumo di una casa di malaffare"
"Che cosa??!!"
"Ma stupida, che hai capito?? N-non ho mai frequentato uno di quei posti, devi credermi…! Ma ti assicuro che come ti muovi ti muovi, nei villaggi c'è sempre un posto come quello! E questo è il profumo nauseante e dozzinale che esce fuori dai quei luoghi. Naturalmente devi immaginartelo nel tentativo di sovrastare l'odore del letame in strada e del cavolo bollito della bottega accanto! Ma quelli non sono riuscito a trovarli, eheh!"
"Insomma mi stai regalando una finestra sui profumi del mondo, eh? Che odore terribile, ahah! Ma quanto mi piacerebbe essere lì per tapparmi disgustata il naso dal vivo!"
"Puoi accontentarti, per ora?"
"Ma sì, direi che per ora mi accontenterò di…  ascoltare  te!"
"Ah beh, grazie tante…"
"Cos'altro hai?"
"Allora, poi ti ho portato anche…"
 
 
 
Buio.
E nel buio, l'eco di una voce.
 
Il magatama di Akane?
 
“E' stata lei a darmelo”
 
Non riusciva a capire.
 
“E poi, il suo seno. Che bello è stato stringerlo tra le mani!”
 
Stringerlo tra le mani.
Tra le mani...
 
Vide un uomo, muoversi silenzioso alla luce di una candela.
La camera di Akane.
Un senso di oppressione gli attanagliò la gola.
Quell'uomo si avvicinava a una ragazza ignara e dormiente.
Guardò meglio. Akane!
L'uomo la guardava, si avvicinò al corpo di lei, come ipnotizzato da tanta bellezza.
Lui avrebbe voluto urlare, avrebbe voluto correre. Ma non poteva.
I lunghi capelli dell'uomo smisero di oscurarne il volto per pochi istanti.
Mousse…
Vide un braccio di lui sfilare il magatama dal polso di lei. Vide il seno scoprirsi, la voglia maschile crescere, trattenersi, coniugarsi in strategia.
 
 
Vide la sua sconfitta e tutto vorticò intorno a lui.
 
 
Se l'avessi qui per farla a pezzi!
 
Ranma?
Lo guardava incredula, il sorriso che moriva sulle labbra.
 
Il suo sangue su un fazzoletto come prova.
 
A-Akane?!
Lo guardava addirittura terrorizzata, le lacrime agli occhi.
 
Il suo sangue.
 
Ranma…
Smise di guardarlo e, rassegnata, sorrise appena. Poi, chiuse gli occhi.
Akane!!!!
 
 
 
Il suo stesso urlo lo svegliò.
 
 
 
 
 
 
Si guardò ansimante attorno a sè.
 
Gli sembrava che solo in quel momento il suo cuore avesse ricominciato a battere dopo anni di torpore. Aveva la bocca impastata e le membra deboli come mai nella vita.
 
Ma uno strano peso gli si era tolto dalla mente. Si sentiva leggero  e libero. Ma da cosa?
 
Si trovava a letto. Doveva essere stato febbricitante: le lenzuola erano bagnate del suo sudore.
Una luce tiepida entrava dalla finestra. Sembrava giorno inoltrato.
 
Ma di che mese, di che epoca?
 
A poco a poco si riappropriò del suo corpo e della sua identità.
 
E guardandosi attorno, si ricordò.
 
La locanda della signora Nodoka. La scommessa… Shan-Pu… Mousse…
 
I suoi ultimi ricordi lo schiaffeggiarono di colpo con la forza della realtà. 
 
Maledizione!
 
Come aveva potuto dubitare di lei?
 
Ora che era sveglio tutto gli sembrava così assurdo! Le parole di Mousse vuote e prive di significato… La gelosia, il sospetto, la rabbia, il desiderio di vendetta… erano scivolati dalla sua mente come pioggia sui tetti.
 
Quei sentimenti violenti erano appartenuti a un altro Ranma, che lui faticava a riconoscere, a ricomporre nella sua memoria.
 
Gli girava la testa.
 
Era inammissibile anche solo ipotizzare di aver pensato al tradimento. Conosceva Akane da sempre e tra loro c'era… un legame ben più profondo di quello che di solito lega un uomo a una donna.
 
Non avrebbe mai permesso a nessuno di dire il contrario. Non avrebbe mai permesso a nessuno di farle del mal…
 
I suoi occhi si dilatarono mentre il suo cuore si fermava nel mettere insieme l'ultimo pezzo di ciò che era accaduto.
 
Le due lettere!
 
"Co-cosa ho fatto?!", mormorò paralizzato.
 
Aveva scritto ad Akane una lettera piena di menzogne che l'avrebbe attirata in un tranello e… e aveva scritto a Ryoga di sfruttare quel tranello per uccidere Akane.
 
Qualcosa morì dentro di lui.
 
Era stato davvero lui a scrivere quelle lettere? Le sue mani avevano inciso sul foglio quelle crudeltà….? Come era stato possibile?
 
"Non c'è tempo da perdere!"
 
Scostò con disperazione le lenzuola e si gettò fuori dal letto. Chiunque stesse recando al porto quelle lettere andava fermato, e al più presto!
 
Si bloccò.
 
Accanto ai vestiti su cui si era avventato, c'era una busta gonfia del suo contenuto.
 
Sbiancò.
 
Possibile che…?
 
Con mani tremanti prese la busta e lentamente ne tirò fuori il contenuto: un piccolo pezzo di stoffa giallino con dei fiorellini bianchi.
Macchiato di sangue.
Una macchia rosso scuro sfregiava quel pezzo di stoffa.
Macchiato. Di. Sangue. 
Non poteva essere…
 
Akane aveva uno yukata della stessa identica foggia.
 
No, non era vero. Un incubo, ecco cos'era.
 
Oppure...
 
Q-quanto tempo era passato?
 
Come in trance tirò fuori un pezzo di carta su cui erano scritte poche parole:
 
Ranma,
amico mio… Mi hai chiesto la più difficile delle scelte. Ma per l'amicizia e la lealtà che ci lega, ho scelto. Perdonami se ho vacillato, ma, in fede, non sono riuscito a crederla colpevole, fino alla fine. Ecco la prova che mi hai chiesto.
Con dolore,
Ryoga
 
"Ryoga…"
 
Le lacrime avevano iniziato a scorrere a sua insaputa, e gli rigavano il viso, acide.
 
Tremava.
 
"Akane… No… No… Akane…"
 
Ricacciò il conato di vomito che gli stava salendo.
 
No! Non era accaduto! Non poteva essere accaduto! Doveva essere un brutto scherzo…
Avrebbe verificato di persona, ecco cos’avrebe fatto.
Akane non poteva essere…!
Ryoga non avrebbe mai…!
Non riusciva neanche a pensarlo.
Al diavolo l'esilio! Sarebbe salito sulla prima nave diretta in Giappone! Sarebbe morto ma avrebbe visto Akane. Avrebbe visto che lei era lì. La sua Akane. Ancora viva. Viva!
 
Con questi pensieri che gli divoravano il cuore e l'intelletto si gettò giù dalle scale, dove una voce sorpresa lo fermò nella sua furia.
 
"Ranma! Caro, ti sei ripreso!"
 
Ora era la signora Nodoka che piangeva e non lo lasciava parlare.
 
Lui avrebbe avuto così tante domande… Ma un solo nome gli veniva alle labbra: Akane.
 
"Oh, Ranma, tu eri come morto!… Respiravi appena… Shan Pu… Quella ragazza, dopo il suo momento di vittoria si è spaventata… ha avuto davvero paura di averti ucciso… Respiravi appena… Ti ha dato un filtro del suo villaggio, una pozione venefica per oscurare la volontà con l'istinto… Voleva averti tutto per sè… Oh, quella Shan Pu… Perdonala se puoi… La cosa le è sfuggita di mano, non aveva idea delle conseguenze. Ha fatto una cosa che… Oh kami… E pure Mousse… Come ha potuto… per orgoglio… ma l'orgoglio può essere perdonato… Sei rimasto in fin di vita per dieci giorni, Ranma. Dieci giorni. Credevo di averti perso... E in questi dieci giorni… quante cosa sono cambiate Ranma, caro. La guerra, è iniziata davvero. Mousse… benedetto ragazzo... è stato richiamato dall'esercito. E… pure Shan Pu è partita, offrendosi come amazzone… Credo… credo fosse un modo per non pensare… Non è cattiva, Ranma… però ha... ha fatto una cosa che… me l'ha detto lei… ha portato le lettere al porto… ha fatto in modo che partissero… dopo qualche giorno era già pentita… ma ormai… Perdonala Ranma… Se puoi… Vedrai che non è accaduto niente di male..."
 
Ranma non riusciva a proferire parola.
 
Il pezzo di stoffa gli tremava tra le dita.
 
La guardava con occhi strabuzzati. I pensieri nella sua testa vorticavano rincorrendosi senza una logica.
 
Dieci giorni… Shan Pu. Bele tutto d'un fiato! La guerra. Akane… Adulterio! Dieci giorni… Come poteva perdonare quella gatta morta? Se l'avessi qui per farla a pezzi! Akane… Perché la sua anima aveva ceduto? E ora non poteva nemmeno sfidare quei due dannati. Partiti! Akane… No, era stato lui. Era solo colpa sua. Dieci giorni. In dieci giorni… Allora quel pezzo di stoffa era davvero…? Ryoga, tu non puoi averlo fatto davvero. No, non l'avrebbe perdonata, maledetta Shan Pu. Stupido, stupido Ranma! Akane… Ti prego, non essere morta... nonesseremorta nonesseremorta nonesseremorta!…
 
"Akane", questa l'unica parola che come un filo provvidenziale lo tirò fuori dal labirinto malsano in cui la sua mente si stava perdendo, e la pronunciò  con una fermezza tale da congelare i singhiozzi della signora, "Akane non può essere morta. E io devo scoprirlo. Non cercate di fermarmi. Partirò con la prima nave"
 
"Ranma", sospirò la donna, "è iniziata una guerra: le rotte sono ormai chiuse"
 
Dopo un attimo di silenzio Ranma ritrovò del tutto la sua lucidità e anche una parvenza di ottimismo, mettendo un punto alla questione: "Ma non lo sono per l'esercito cinese. Mi arruolerò e in poche ore sarò in Giappone. E là…", deglutì per ritrovare la calma, senza concludere la frase.
Di fronte allo sguardo mesto della signora, aggiunse: "Il tempo di raccogliere le mie cose e…"
 
"Abbi cura di te, figliolo", lo interruppe lei rassegnata, tirandolo a sè, "e mi raccomando, non fare pazzie"
 
Stretto nell'abbraccio dell'addio, Ranma non rispose.
 
 
 
***
 
 
 
Palazzo Tendo - Sette giorni prima.
 
 
 
Due lettere.
 
Era rimasto interdetto di fronte a quelle due lettere che il giovane Hiroshi gli aveva messo in mano.
 
"Sono arrivate al porto insieme, con la precisa richiesta che fossero entrambe consegnate a te e a te soltanto, Ryoga! Come se non fosse sempre così. Sono sempre intestate a te, no?, col chiaro intento di non lasciar capire la vera destinataria", concluse, facendogli l'occhiolino.
Insieme a suo fratello si divertiva da matti a fare da messaggero a quei due innamorati.
 
Eppure a Ryoga quelle due lettere sembravano diverse.
Era vero, su entrambe era scritto il suo nome, ma non in quel solito tentativo di bella grafia  con cui Ranma scriveva un "Per Ryoga" che significava "Per Akane".
Questa volta il suo nome era scritto frettolosamente, quasi raschiato a forza sulla pergamena.
 
"Io andrei", lo riportò alla realtà Hiroshi, "Con la guerra alle porte è meglio che torni al villaggio prima di sera… Anche qui c'è un gran viavai, vedo. Meglio che non mi faccia beccare. Alla prossima, amico! Porta i miei omaggi alla principessa"
 
Ryoga gli fece un cenno di saluto e il ragazzo si dileguò.
 
Due lettere.
 
Inutile stare ad arrovellarsi.
 
Scartò la prima:
 
Cara Akane,
poche parole per dirti quanto io desideri…
 
 
La richiuse subito, il cuore in gola. Quella lettera era per Akane. Non era suo diritto leggerla.
 
Buttò fuori l'aria compressa in petto, e passò alla seconda:
 
Ryoga!
 
Gli fu subito chiaro che quella almeno era per lui.
Sorrise sollevato.
Mentre però i suoi occhi srotolavano il seguito, il sorriso si spense lentamente, fino a gelarsi in una smorfia priva di vita.
 
 
Ho bisogno di te, amico.
 
Ranma, che ti è successo?
 
E della tua fedeltà, visto che quella di mia moglie mi è stata negata per l'eternità.
 
S-stai parlando di Akane?!
 
Adulterio! Tradito da chi più amavo e che ora più odio! E il tradimento va lavato con la morte.
 
La… la morte?
 
Agisci tu per me. Per l'amicizia che mi hai giurato. Il suo sangue sarà la prova della tua lealtà. Il suo sangue su un fazzoletto come prova. Non chiedo altro.
 
Sangue?!
 
Il suo sangue. Fallo. Fallo per me. Le ho appena scritto una lettera.
 
Questa lettera? Ma allora…
 
Lei non sospetterà nulla. Vedrai che sarà lei stessa a darti l'occasione per compiere la giusta vendetta!
 
 
 
Rimase a guardare quel foglio come se fosse bianco, privo di parole e di significato, uno scherzo inutile e senza senso.
 
Ma quel foglio nero d'inchiostro era lì che guardava lui, a mo' di sfida.
 
Per l'amicizia che mi hai giurato.
 
Fallo.
 
Rilesse più volte quelle righe.
 
Non stava scherzando… Ranma era dannatamente serio!
Akane l'avrebbe tradito?! Quando? E con chi? Kuno forse?
Ma figuriamoci!
Quel Mousse, allora?! Ma se anche fosse stato…
 
Stava impazzendo a sua volta.
 
"Ranma, che diavolo…?"
 
"Ryoga!"
 
"A-Akane-san!"
 
Il ragazzo con la bandana, colto sul fatto, sussultò e si affrettò a nascondere la lettera, quella diretta a lui.
 
"Eccolo, Ucchan! E' qui, l'ho trovato!", la giovane principessa sorrise radiosa oltre la porta, da cui fece capolino l'ancella.
 
"Eccoti qui! Allora, vuoi tenertela tutta per te quella lettera?", ammiccò gioiosa quest'ultima al ragazzo.
 
"L-lettera?"
 
"Ma sì, non fare il finto tonto! Ho visto Hiroshi sgattaiolare fuori dalla zona delle dispense e ho subito immaginato che ti trovassi qui con una lettera da parte di Ranma! Ho chiamato Akane-san... ed eccoci qua"
 
"La lettera…", doveva sbrigarsi a riprendersi e mostrare una parvenza di tranquillità. Ukyo lo stava già squadrando poco convinta.
 
"Ma sì, certo, scusate mia signora, ecco a voi", e con un sorriso titubante le consegnò la prima lettera, quella per lei, che Akane gli strappò dalle mani.
 
"Ucchan, Ryoga… Speriamo che qui dentro ci siano solo buone notizie… Che ne sarà di Ranma laggiù in Cina con questa sciocca guerra alle porte?", era preoccupata, ma al contempo non riusciva a contenere la sua emozione.
 
Una lettera di Ranma!
 
"State tranquilla, mia signora", rispose Ukyo per entrambi, "Se tutto va bene la guerra non arriverà dove si trova lui e anche noi dovremmo rimanerne fuori. Non credo che vostro padre voglia mettervi in pericolo"
 
Ma già la giovane Tendo non la ascoltava più e si beveva una dopo l'altra le parole che Ranma le aveva scritto, dissetandosi famelica.
 
Ryoga la scrutava.
 
Possibile che la loro Akane…?
No, era impensabile anche solo figurarsi un'eventualità simile.
Ne osservò gli occhi frementi, la vitalità che le scorreva nelle vene, il volto limpido, la voce pulita.
 
La scrutava, tentando a sua volta di non farsi leggere dentro da Ukyo, che lo osservava di sottecchi. Le era sembrato un po' agitato e lei non si sentiva serena.
 
"Ucchan!", il gridolino eccitato della principessa la distolse dal formulare qualunque pensiero.
 
"Oh kami! Si trova in Giappone! Ranma… Ranma è in Giappone!"
 
"Cosa?!", all'unisono Ukyo e Ryoga soffocarono un grido di sorpresa, sincero per entrambi, anche se in modo diverso.
 
"Sì, mi scrive così…:
 
Cara Akane,
poche parole per dirti quanto io desideri rivederti. Non resistevo più. Sfido le leggi di tuo padre e in incognito sono tornato in Giappone. Mi trovo nei boschi che circondano il porto di Hakata. Nessuno sa che sono qui. Incontriamoci domani alle pendici del monte Inunaki. Ciò che il tuo istinto ti suggerisce, fallo. Una volta insieme potremo lasciarci tutto alle spalle.
Ranma.
 
Ranma è qui…", sussurrò incredula.
 
"Il monte Inunaki? Dice proprio così?"
 
"Sì Ucchan, guarda!", si riebbe subito mostrando la lettera all'ancella.
 
"Ma… ma…", Ryoga balbettava strozzato.
 
"Ma questo significa che non è affatto lontano!", finì per lui Ukyo.
 
"E posso raggiungerlo con facilità! E' l'unica cosa da fare… Io qui non posso più stare. La mia vita non ha più senso qui. E ora col fermento dei preparativi… E' il momento giusto per fuggire… Mi aiuterete, vero? E tu, Ryoga, mi accompagnerai fin laggiù? Dimmi di sì..."
 
"I-io…"
 
Vedrai che sarà lei stessa a darti l'occasione per compiere la giusta vendetta!
 
Quindi era questo che intendeva Ranma nella sua lettera. Questo era il suo piano…
 
"Akane, pensateci bene", si frappose l'ancella tra lei e il ragazzo, "E' un viaggio pericoloso e voi non siete mai uscita di qui, e…"
 
"Ma non sarò sola, verrà Ryoga con me… E poi, Ucchan, non mi dici sempre che le soluzioni arrivano per vie misteriose…? Non mi dici sempre: 'Un modo lo troverete, Ranma non è nato ieri, si farà venire in mente qualcosa'?", la incalzò con due occhioni carichi di speranza.
 
"Sì", capitolò Ukyo con un sorriso.
 
"E non pensi sia questo il momento giusto?"
 
"In effetti… C'è un tale trambusto… Il palazzo pullula di soldati e ognuno si sta preparando. Siamo proprio in quel momento di passaggio in cui tutte le regole si rompono e se ne creano altre…  Se ci pensate è proprio il momento giusto! Non sarà difficile sgattaiolare fuori, con tutta questa confusione. E se io resto qui potrò facilmente coprire per un po' anche l'assenza di Ryoga, così che nessuno colleghi la vostra fuga a lui!", a poco a poco si era autofomentata durante il suo stesso discorso, ormai contagiata dall'entusiasmo di Akane.
 
"M-ma… ma non sarebbe meglio aspettare che torni Happosai per dirlo a lui?"
 
"Oh, Ryoga, andiamo! Happosai è dalla parte opposta dei dominii Tendo e non sappiamo quando tornerà. Potrebbero volergli settimane, forse mesi, e la guerra allora sarà iniziata… e a Ranma e Akane non ci pensi?"
 
Chinò il capo, sconfitto. Non sapeva come argomentare.
 
Akane si avvicinò fiduciosa e intercettando il suo sguardo, gli chiese: "Mi scorterai, Ryoga? In nome dell'amicizia che ci lega, lo farai?"
 
La guardò con occhi smarriti e, in un gesto inconscio, andò a posare il palmo della mano sul petto, dove teneva nascosta la lettera di Ranma: "Lo farò"
 
 
 
***
 
 
 
Ogni minuto prima del tramonto era prezioso come oro, perché nulla andava lasciato al caso: le riunioni per stabilire la strategia, i preparativi di armi e approvvigionamenti, gli addestramenti delle ultime reclute.
 
Soun Tendo era stato perentorio a riguardo. E lui per primo incarnava senza mezzi termini il suo ruolo di guida e condottiero.
 
Ci fossero stati Happosai e Obaba a osservarlo non visti, avrebbero scosso la testa tra il fumo aspro della pipa, chiedendosi, sul filo tra il sarcasmo e l'affetto, cosa ne fosse stato dell'equilibrio precario lontano dalle emozioni che quell'uomo aveva faticosamente costruito. Ancora una volta una guerra. Ma se quelle della sua gioventù erano state mosse dal furore e dalla rabbia, questa era stata stancamente accettata da un uomo svuotato dalla sofferenza e dai silenzi, il cui mondo si era ancora una volta sgretolato.
 
Ma nè Happosai nè Obaba erano lì, l'uno impegnato verso i confini delle loro terre come ambasciatore, cercando al contempo di salvare il salvabile nel convincere i vassalli di Soun-sama ad evitare la carneficina; l'altra, persa nella macchia a combattere una battaglia più sotterranea, in difesa delle vittime di tutta quella storia.
 
Ogni minuto prima del tramonto era prezioso come oro, perché nulla andava lasciato al caso: quella notte lei avrebbe abbandonato il palazzo di suo padre, sì, l'avrebbe abbandonato, si sarebbe tenuta alle spalle Kuno e una vita di dolore e muti consensi, avrebbe ritrovato Ranma e, finalmente, avrebbe visto il mondo di cui tanto aveva sentito parlare.
 
A dirla tutta non c'era un minuto da perdere.
 
Akane si aggirava tra l'andirivieni di servitori, soldati e guardie, sapendo che in quel momento in pochi badavano a lei, se non come a una figura sullo sfondo di problemi più imminenti. La principessa era libera di muoversi per organizzare i preparativi segreti della fuga che avrebbe avuto luogo di lì a poche ore.
 
Già ebbra per la libertà che avrebbe conquistato, cercava di contenere la gioia e l'angoscia di quella scelta che, neanche a dirlo, aveva fatto con l'impulsività che da sempre accompagnava il suo nome.
 
Un ultimo sguardo al suo palazzo, ecco la vera ragione dei suoi movimenti.
 
Ukyo e Ryoga si stavano occupando delle questioni pratiche proprio in quel momento, la prima recuperando indumenti e cibi utili per il viaggio, il secondo portando fuori i due cavalli che, nascosti nel fogliame a poca distanza dalle mura, li avrebbero attesi nottetempo per la corsa verso Hakata.
 
Lei si stava concedendo un ultimo addio a ogni angolo di quel luogo in cui era nata e che per sedici anni era stato la sua casa, il suo orizzonte, la sua vita. Una vita da reclusa, fuori dal mondo, ma comunque molto intensa. Sedici anni di pianti, di risate, di sogni, di speranze.
 
Riportò alla mente la sensazione delle carezze di Obaba sul capo, il sapore caramellato delle confidenze con Ukyo, il sudore degli addestramenti di Happosai, i balbettii di Ryoga, sempre pronto a prendere le sue parti, i cavalli spronati fino allo sfinimento entro le mura, e, su tutto, Ranma.
 
Quel nome bastava a riassumere ogni cosa.
 
Ogni punto della grande casa parlava di lui, era pregno della sua gentilezza tanto quanto della sua strafottenza. Quante volte e in quanti luoghi si erano accapigliati, prima prendendosi a male parole, e in un secondo momento - Akane arrossì appena - riversando la stessa energia in approcci… beh… meno aggressivi. E poi tutto era capitato così in fretta: il matrimonio segreto, l'esilio, la solitudine. E ora aveva la possibilità di uscire, di lasciare ogni cosa dietro di sé, e andare avanti, lontano da quel luogo e dalle sue costrizioni.
 
Il suo sguardo cadde in quel momento sul padre, intento a consultare alcune pergamene che gli stava porgendo Kuno.
 
"Papà…", come il gorgoglìo finale di un dolore che ribolliva lancinante nelle viscere, questa parola le salì alle labbra, amara.
 
Perdonami, avrebbe voluto dire, perdonami perché…
 
La sua testa si svuotò, soccombendo a un cuore incapace di formulare la rabbia e l'affetto nei confronti dell'uomo che l'aveva amata, cresciuta, protetta con tutto se stesso, e che nel farlo aveva compiuto molti errori, che lei gli aveva sempre perdonato.
 
Ma ora…
 
Quella era la sua vita e lei voleva riprendersela.
 
Avvertì più che mai a quale distanza fossero arrivati, da quanto non lo guardava dritto negli occhi senza sentore di sfida, da quanto non  abbracciava il padre, che aveva sempre avuto con lei un rapporto schietto e dolce, fuori da ogni etichetta.
 
Il padre che si era sposato con Kodachi e che aveva scelto per lei Kuno non avrebbe capito e non l'avrebbe perdonata.
 
Akane sapeva che scappando dal palazzo, quella notte, l'avrebbe perso per sempre.
 
Avrebbe perso suo padre.
 
Ingoiò un singhiozzo, stordita per un attimo dal pizzicare delle lacrime che altrettanto prontamente ricacciò indietro.
 
Avrebbe voluto corrergli incontro, affondare il viso sgomento tra i lunghi capelli di lui ancora morbidi e neri e dirgli: Ti voglio bene, papà. Ti prego, dammi la tua benedizione.
 
Ma nulla di tutto quello sarebbe mai successo, e lei aveva scelto.
 
Lo guardò ancora per qualche istante e poi gli diede il suo addio voltandosi e allontanandosi velocemente da ogni rimpianto e pentimento.
 
 
 
 
 
Chissà perché sentì una morsa al cuore. Cos'era stato? Soun alzò lo sguardo dalle carte… e vide sua figlia voltarsi.
 
"Akane…"
 
Non si chiese neanche cosa ci facesse lì in mezzo a tutti quei soldati, perché forte fu il desiderio di chiamarla ad alta voce e urlarle: Bambina mia! Resta! Vieni dal tuo vecchio padre e scaldalo col tuo sorriso come facevi un tempo…
 
Ma si trattenne. Il bisogno di conciliazione cozzava con la rabbia che aveva ingoiato in tutta quella storia e ancora fresca e bruciante era la delusione del tradimento e della ribellione.
 
Il suo sguardo si spense di mestizia. Quante vite aveva reso infelici? Quante altre avrebbe reso tali con quella guerra? Perché non gli era permesso perdersi nel torpore di giornate tutte uguali e tutte serene, ma doveva impugnare ancora una volta la katana? Aveva davvero la forza per lottare?
 
Guardò sua figlia ormai lontana e sospirò. L'avrebbe trovata.
 
 
 
 
 
Altri due occhi erano piantati sulla schiena di Akane.
 
Kodachi, poco lontano, osservava ogni cosa perché fosse organizzata nella maniera migliore e non le era sfuggita la piccola impudente incursione della principessina in quell'ala del palazzo.
 
Poco importava, le avrebbe fatto pagare anche quella leggera mancanza di rispetto nei suoi confronti, lei che era la regina indiscussa del castello.
I tempi erano maturi.
Presto la guerra sarebbe divampata, Soun sarebbe arrivato a combatterla in prima persona, troppo legato ai princìpi dell'onore e del dovere per architettare qualcosa di più conveniente, povero stupido, e lei si sarebbe appropriata poco a poco di quel potere che tanto bramava. 
Ahimè, suo fratello Tatewaki non avrebbe potuto darle l'aiuto che sperava. Al momento troppo intento a ricoprire il suo ruolo per entrare sempre di più nei favori del futuro suocero, era divorato da un inutile e insano livore che, associato a una certa buona dose di vigliaccheria, poco poteva fare al caso suo.
Con Soun Tendo lontano e la confusione dei tempi, ci avrebbe pensato lei, Kodachi Kuno, a  rendere innocua una volta per tutte quella sua figliastra.
E prima o poi avrebbe messo le unghie anche su quell'intrigante ragazzo col codino, con le buone o con le cattive.
La scalata al potere era solo all'inizio: la guerra le avrebbe portato fortuna.
 
 
 
***
 
 
Ukyo si muoveva veloce con la sensazione che qualcuno la inseguisse.
 
Sapeva che non doveva darvi peso, perché non possiamo farci niente quando a inseguirci sono il tempo o la paura.
 
Aveva preparato febbrilmente ogni cosa. Un piccolo fagotto con acqua e qualche pietanza per il viaggio, un pesante mantello di scura lana grezza per la sua padroncina e uno per Ryoga, oltre all'impasto per le focacce che avrebbe farcito all'ultimo momento di un potente sonnifero.
 
Quello era il piano, no? E allora perché dentro di sé tremava tanto violentemente?
 
Perché ad attuarlo sarebbe stata lei.
Lei aveva chiesto tempo prima delle erbe soporifere al dottor Tofu, per permettere alla piccola Akane di addormentarsi serena nonostante le sofferenze dell'animo.
Lei stessa le aveva provate sulla sua pelle quando era stata troppo preoccupata per addormentarsi la sera e, complice gli insegnamenti del dottore, aveva imparato a regolarsi con le dosi per ottenere un sonno profondo di appena un'ora o una notte placida dal sonno più leggero.
Lei avrebbe preparato, come spesso accadeva, la cena per le sentinelle di guardia sul lato ovest del palazzo.
E l'idea era sorta spontanea a tutti.
Lei avrebbe dotato di un nuovo micidiale ingrediente quella cena, e le guardie sarebbero praticamente svenute per il tempo necessario ad Akane e Ryoga a oltrepassare le mura, raggiungere i cavalli e fuggire alla volta di Ranma.
 
No, non era quello, non solo… C'era qualcosa che le sfuggiva e le annodava lo stomaco, ma non riusciva ad afferrare cosa.
 
In quel momento Ryoga fece capolino da fuori le mura.
 
Nessuno si era curato di lui mentre usciva dal palazzo con due destrieri. Per quanto gli altri ne sapessero gli poteva essere stato dato l'ordine di andare al villaggio a recuperare della merce. Altrettanto in sordina rientrò, lo sguardo cinereo.
 
L'ancella lo intercettò immediatamente, accogliendolo con un sorriso, seppur trafelata.
 
"Ryoga! Sei già di ritorno! T-tutto a posto…?"
 
Il sorriso le era morto sul nascere. Qualcosa non andava. Il ragazzo sembrava molto turbato. Sul volto aveva dipinta una strana ombra di morte.
 
La guardò assente.
 
"Ryoga… tesoro mio… così mi fai preoccupare…"
 
In tutta risposta le accarezzò una guancia con una dolcezza estrema, indugiando a lungo prima di ritrarsi. Risucchiato da pensieri inenarrabili, aveva tentato di ancorarsi alla realtà, toccando il viso fresco e ignaro della sua Ucchan.
 
La ragazza gli fermò la mano tra le sue. Si guardò attorno. Erano soli.
Pensò di aver capito cosa struggeva il compagno.
 
"Lo so… Anch'io ho paura che qualcosa vada storto… Sai… una scelta così immediata… un cambiamento così grande… Mi mancherà la nostra principessa… Ma in fondo se non ci provano nemmeno, come potranno essere felici? Con tutti i miei dubbi, anch'io farei lo stesso. Stiamo facendo la cosa giusta. Sono nostri amici no? E noi dobbiamo aiutarli senza riserve", concluse portandosi la grande mano di lui alle labbra.
 
A quel contatto Ryoga quasi si commosse e la tirò a sè, per fuggire dalle lacrime.
 
"Sì…"
 
Lei lo strinse in un abbraccio tenero, caldo, rassicurante.
 
"Scusa ma devo scappare a controllare che la cucina sia libera"
 
Allentò l'abbraccio, gli stampò un bacio frettoloso e scappò via, lasciandolo nella pericolosa voragine della sua coscienza.
 
 
***
 
 
Tutto si svolse come previsto.
 
E come in un sogno che dilata e restringe i tempi senza una logica precisa, già si era fatta notte fonda e, ombre scure nell'oscurità dell'ora, Akane, Ukyo e Ryoga si trovavano dove dovevano essere: le mura davanti a loro, le guardie addormentate dalle focacce che un'ora prima la giovane ancella aveva portato loro. Le due sentinelle russavano della grossa da almeno dieci minuti. Altri dieci minuti e si sarebbero svegliati pensando colpevoli di aver ceduto a un sonnellino a stomaco pieno. Nessuno dei due ne avrebbe fatta parola e la cosa sarebbe finita lì.
 
E come in un sogno Akane non provava paura nè dolore, ma già era proiettata oltre quelle mura.
 
Ryoga, silenzioso e cupo, restava in attesa.
 
Ci pensò Ukyo a riportare quei due a contatto col mondo.
 
Sollevò il cappuccio del mantello sul capo di Akane, calcandolo bene, e ne accostò meglio i lembi sul collo, coprendo lo yukata di cotone pesante che aveva scelto per il viaggio. Era vecchio e un po' sbiadito, con dei piccoli fiorellini bianchi su uno sfondo giallino. La principessa lo indossava quando voleva essere comoda. E quale situazione migliore di una fuga?
 
"L'umidità della notte può entrare nelle ossa. Copritevi, mi raccomando. E non date confidenza alla gente tanto facilmente… Non tutti sono disposti ad aiutare. E non badate alle persone che… a volte sanno essere volgari e inopportune, ma voi ricordatevi sempre chi siete. E…"
 
"Ucchan…", Akane posò le mani sulle spalle tremanti dell'amica, guardandola con occhi gonfi che brillavano ai primi timidi raggi della luna.
 
"…E siate felice con Ranma"
 
In tutta risposta le due si strinsero forte, confortandosi con parole mute, in un addio semplice e carico di ricordi, di raccomandazioni e promesse.
 
"Dobbiamo andare", fu Ryoga a interrompere quel momento.
 
Ukyo si ricompose e, asciugandosi una lacrima sfuggita alle ciglia, non perse tempo a sussurrargli pratica: "Non puoi sbagliare. Ascoltami ancora una volta. Uscito dalle mura, ti trovi direttamente sulla strada in direzione di Hakata. Proseguendo di qualche centinaio di metri tu stesso mi hai detto di aver nascosto i cavalli nella boscaglia. Da lì dovrai andare sempre dritto e ti troverai alle pendici del monte Inunaki alle prime luci dell'alba. Non puoi sbagliare, Ryoga, non puoi", gli sorrise rassicurante.
 
Akane trattenne un risolino nervoso. Sarà stata anche nuova al mondo ma aveva più senso dell'orientamento di Ryoga e nel caso avrebbe saputo aiutarlo lei.
 
Il ragazzo annuì.
 
Era arrivato il momento.
 
Con un paio di balzi felpati si trovò sul crinale delle mura, a pochi passi dalle guardie assopite.
 
Akane non aveva nulla da invidiargli in fatto di tecnica e agilità. Negli anni, tante corse sui tetti, tanti allenamenti da una tegola all'altra erano valsi a qualcosa. In un attimo gli fu accanto.
 
E mentre la ragazza, fremente di mettere piede su un suolo sconosciuto, spiccava il balzo per atterrare oltre il palazzo, Ryoga si voltò di scatto e fulmineo si trovò nuovamente a terra, di fronte a Ukyo.
 
La ragazza, che palpitava nell'attesa che tutto si concludesse per il meglio, sgranò gli occhi davanti allo sguardo indecifrabile di Ryoga, che la baciò con disperazione, come in una estrema richiesta di aiuto.
 
Ma Ukyo non riuscì a formulare ipotesi né risposte, che già Ryoga le aveva dato le spalle tornando da dove era venuto.
 
Mentre spariva definitivamente inghiottito dal buio, Ukyo fece in tempo a notare il baluginìo di un pugnale appeso alla cintura del ragazzo.
 
Era certa che quando fosse uscito dal palazzo non lo avesse con sè.
 
 
 
***
 
 
 
Il vento gelido le schiaffeggiava il viso, e a lei pareva la carezza di un amico, mentre correva più leggera della sabbia che scende giù in clessidra.
 
Akane non riusciva a respirare tanto incontenibile era la gioia che la pervadeva sempre più, metro dopo metro, nell'allontanarsi dal suo passato, dal grigiore di un futuro già scritto, dal palazzo di suo padre. E allo stesso tempo si riempiva i polmoni di quell'aria che era la stessa che conosceva da sempre, ma che aveva il sapore della libertà e della fuga.
 
Era notte fonda, ma una sfacciata luna piena rischiarava il sentiero illuminando i contorni di un mondo sconosciuto e allettante che la principessa carpiva curiosa e attenta pur nella foga della galoppata. C'erano alberi, e sassi, e fiori, sagome di uccelli notturni, suoni e fruscii sinistri. Akane gustava indistintamente ogni sfumatura di quel nuovo mondo, senza paura, senza rimpianti.
 
Accanto a lei Ryoga non giovava dello stesso stato di grazia.
 
Era al contrario schiacciato da un peso invisibile, che ne faceva tremare i tendini e le vene. A ogni falcata che lo avvicinava alla meta, sentiva il senno scivolargli dalle tempie, che ronzavano di urla strozzate.
 
Non era riuscito a parlare a Ukyo della lettera di Ranma, quella lettera che ora gli bruciava sul petto come un ferro incandescente.
 
Non era riuscito, perché non avrebbe mai potuto mentirle.
 
Strinse i denti e incitò il cavallo a correre ancora più veloce.
 
 
Akane guardava avanti, non dietro né dentro di sé, non alle conseguenze.
 
*Ranma, sto arrivando*
 
Una nebbia avvolgeva tutto il resto. La sola strada era quella che l'avrebbe portata a lui.
 
Serrò i polpacci contro il ventre dell'animale e sperò di essere già a destinazione.
 
 
 
 
 
Come previsto, l'alba li colse all'arrivo presso le pendici del monte Inunaki. Il fogliame umido e rossiccio attutiva ogni passo, in un silenzio ovattato e surreale. Una leggera nebbiolina saliva dalla terra, sfumando i profili degli alberi che si infittivano per poi aprirsi in sporadiche piccole radure.
 
Non era stato il rallentare graduale dell'andatura di Ryoga, nè le caratteristiche del posto a suggerirle l'ovvio. Akane già sapeva che erano arrivati. Se lo sentiva nelle viscere.
 
Saltò giù da cavallo, per nulla fiaccata dalla traversata, e cominciò ad aggirarsi sicura tra alberi e cespugli.
 
"Ranma…", aveva il cuore in gola, "Ranma! Sei qui, vero? E' qui di sicuro, qui da qualche parte. Ranma? Magari non lo incontreremo subito, sarà questione di qualche ora… In effetti è stato un po' vago, ma le pendici del monte non saranno infinite, no? Cos'è qualche ora in fondo, a fronte di tanti giorni lontani? Misurerò ogni metro di questo bosco, se necessario. Prima o poi ci incontreremo…"
 
Parlava veloce, mentre zampettava qua e là, un po' a se stessa un po' al suo accompagnatore, che si ostinava ad arroccarsi in un silenzio immotivato.
Sicuramente pure lui condivideva gli stessi pensieri, solo era più ponderato e paziente di lei. Come dargli torto?
 
Si voltò per cercare una tacita complicità nello sguardo di Ryoga, ma si bloccò sconcertata.
 
Ryoga era sceso da cavallo, e senza un rumore le era arrivato lentamente alle spalle.
 
Non solo non trovò complicità nel suo sguardo, ma vi trovò al contrario lacrime brucianti che scendevano rassegnate solcandone il volto.
 
La guardava e taceva, taceva e le allungava un foglio ripiegato.
 
"R-Ryoga? Cos'è quel foglio che mi allunghi?"
 
Ryoga taceva. La sua mano tremava impercettibilmente.
 
Akane afferrò goffamente quel foglio, lo stropicciò tra le mani, mentre scrutava gli occhi del ragazzo, improvvisamente stretta in una morsa di angoscia.
 
Lasciò cadere per un attimo lo sguardo su quel foglio e subito lo distolse, come bruciata.
 
"E' la sua scrittura! Ranma… Una lettera di Ranma? Qualcuno lo ha bloccato, vero? Non è potuto venire all'appuntamento…?"
 
Nessuna risposta.
 
"Gli è successo qualche cosa?! Ti prego Ryoga, non stare zitto… Dimmelo! Io non riesco… non posso leggerla… Potrei morirne…"
 
"No, leggetela. E sarà chiaro anche a voi, così, il peso che mi porto"
 
La sua voce era disperata ma ferma.
 
Akane non poté ribattere.
 
Aprì la lettera e la lesse ad alta voce, agitata fin nel midollo.
 
"Ryoga! Ho bisogno di te, amico. E della tua fedeltà, visto che quella di mia moglie mi è stata negata per l'eternità", la voce le si dilatò appena, interrogativa. "Adulterio! Tradito da chi più amavo e che ora più odio! E il tradimento va lavato con la morte", un sussulto le si strozzò in gola, ma continuò. "Agisci tu per me", sollevò lo sguardo su di lui che la guardava senza dire niente, in un'espressione statica di pietà. Tornò al foglio: "Per l'amicizia che mi hai giurato. Il suo sangue sarà la prova della tua lealtà. Il suo sangue…", la voce le si incrinò, "… su un fazzoletto come prova. Non chiedo altro. Il suo sangue. Fallo. Fallo per me. Le ho appena scritto una lettera. Lei non sospetterà nulla”, si sentì morire, “Vedrai che sarà lei stessa a darti l'occasione per compiere la giusta vendetta…"
 
Ci fu un silenzio assordante.
 
Il foglio le scivolò dalle mani immobili.
 
L'aria stessa si era fermata.
 
Gli occhi fissi davanti a sè, Akane non riusciva a dare un senso alle parole che aveva appena letto.
 
Boccheggiò.
 
E dopo un tempo che parve infinito, frantumò il silenzio con una voce flebile e appena udibile, strappata alla più innocente delle anime.
 
"Io… falsa? Infedele? Io…? Le notti passate a pensare a lui?… False? Falso l'amore, il dolore, le lacrime? Io… io non so… non capisco… Dev'essere un errore… Forse uno scherzo…"
 
Ryoga si ostinava a tacere.
 
Un'idea improvvisa le squarciò la mente, scuotendola.
 
"Mousse!", si portò una mano alla bocca, "Allora aveva ragione lui!… Non l'aveva accusato di andare a donne… Dev'essere così! Qualche donna avrà sedotto Ranma… E Ranma… No! Non posso neanche pensarlo!", sentiva la rabbia salire, il volto arrossarsi di sdegno. "Stupido! Stupido bugiardo!”, prese a calci un povero albero che si trovava lì accanto, “Oppure davvero tu credi…? Davvero pensi che io potrei tradirti?!", delirava, in preda all'ira, camminando avanti e indietro, scossa dalle convulsioni. "Una trappola, sono caduta nella tua trappola!… Ma perché Ranma…? Tu sei… eri… tutto per me… Tu così mi togli tutto… Mio padre aveva ragione… Disonesto… Di chi… di chi potrei mai più fidarmi?!"
 
Voltò lo sguardo folle su Ryoga, folgorata da un'intuizione, additandolo.
 
"E allora 'tu' sii onesto. Fa' ciò che lui ti scrive, e dopo digli se sono stata o no ubbidiente! Guarda", in un movimento repentino gli fu di fronte, si gettò sulle ginocchia e dal basso verso l'altro, con sguardo di sfida, afferrò il pugnale che il ragazzo teneva alla cintura, "Lo sfilo io per te. Prendi. Colpisci!"
 
Ryoga si ritrovò la lama tra le mani.
 
Akane si diede un paio di rozzi pugni sul petto: "Tranquillo! Non c'è più niente qui! Non vedi? E' vuoto! Il tuo caro amico non è più qui!"
 
Il ragazzo la guardava, titubando tra le lacrime incessanti, come in un incubo in cui le forze vengono meno e le membra pesanti non rispondono ai nostri comandi.
 
"Forza, esegui. Affondaaaa! Avrai coraggio per migliori cause, ma adesso fai il codardo", gli sibilò rabbiosa tra i denti.
 
Ma meno di un attimo dopo lo stava pregando.
 
"Perché? Ryoga, amico mio, te lo sto chiedendo… Uccidimi, ti prego. Io non posso vivere sapendo che Ranma mi vuole morta. Semplicemente non posso. E voglio dargli quello che vuole, a quello stupido!…  Io non ci posso riuscire. Non vedi? La mia mano trema troppo forte. Farei un disastro. Lui l'ha sempre detto che io sono imbranata… Anzi guarda, ti semplifico le cose…"
 
Strattonò via il mantello, si portò le pallide mani al petto e aprì lo yukata quel tanto per togliere ogni impedimento tra la sua pelle e la lama.
 
Ma qualcosa la ostacolò.
 
"Aspetta, che c'è qui?"
 
Infilò con stizza una mano tra i lembi della stoffa e tirò fuori un involto di carte ripiegate tra loro con cura.
 
"Le lettere d-di… R-Ranma…"
 
Semplicemente le aveva dimenticate.
 
Un moto di tenerezza la scosse.
 
Le guardò con amore e d'un tratto le lacrime le schizzarono via dagli occhi: "Piene… piene di bugie…! Via! Via! Via! Via!", lanciò quelle lettere lontano da sè, dove caddero sparpagliate sul terreno bagnato.
 
"Per voi non c'è più posto nel mio cuore! Stupide lettere… Stupido Ranma… stupido… stupido"
 
Gattonò sgraziata verso quei fogli sciupati, desiderando accartocciarli e al contempo impossibilitata ad allontanarsene davvero.
 
Raccolse una lettera, poi un'altra, e un'altra ancora, se le strinse al cuore, ginocchioni si trascinò verso una quarta.
 
"Stupido, stupido Ranma…", continuava a masticare tra i singhiozzi.
 
E mentre avrebbe voluto solo sciogliersi in un pianto esausto e disperato, si rese conto che Ryoga era in piedi sopra di lei.
 
Alzò lo sguardo e ciò che vide le gelò ogni vena in corpo.
 
Ebbe appena il tempo di notare il suo sguardo assente mentre brandiva il pugnale, il braccio sollevato su di lei.
 
Durò un attimo.
 
Il luccichìo della lama, un singulto soffocato sul nascere.
 
E poi fu solo rosso e odore di sangue.
 
 
 
 
--
(1) Sakura mochi: è una varietà di mochi (dolce di riso glutinoso) colorato di rosa e avvolto con una foglie salata di ciliegio giapponese (sakura).
 
--
 
 
Ciao a tutti!
 
Eccomi di ritorno in questi lidi!!!  Spero non mi ammazzerete dopo aver letto un capitolo infinito e per di più infinitamente drammatico per quello che è un momento piuttosto delicato per questa storia…
 
Temo che il capitolo possa risultare un po’ frammentario, ma il materiale della narrazione assumeva qui alte temperature emotive e tra sogni, incubi, visioni e ‘flussi di coscienza’ ho preferito optare per una frammentarietà che potesse anche solo minimamente evocare gli sconquassi interiori dei nostri personaggi.  Fatemi sapere se secondo voi ci sono almeno in parte riuscita o se ho fatto un pastrocchio! Io ormai leggo e rileggo e non so più ciò che è giusto da ciò che non lo è! ;-)
 
Scherzi a parte, grazie per quanti di voi ancora leggono e mi seguono e soprattutto grazie a coloro che trovano il tempo di scrivere qualche riga, il loro commento, un consiglio. Non fatevi pregare! Anche solo due parole possono essermi molto utili! Siete preziosi!
 
Un bacione a distanza alle mie care Ladies, lontane nello spazio e negli impegni ma sempre sempre presenti.
 
Un abbraccio grande!
 
InuAra

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Capitolo 13
*** Una facciata spacconesca e marziale, come fan tanti che bleffano con le apparenze ***


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Were it not better,
(…) That I did suit me all points like a man?
A gallant curtle-axe upon my thigh,
A boar-spear in my hand; and--in my heart
Lie there what hidden woman's fear there will--
We'll have a swashing and a martial outside,
As many other mannish cowards have
That do outface it with their semblances.
 
 
Ma non sarebbe meglio
(…) vestirsi in tutto e per tutto come un uomo?
Con il bravo coltellaccio al fianco,
la lancia da cinghiale in pugno, e in cuore
serrata ogni paura da donna,
così da avere una facciata spacconesca e marziale,
come fan tanti maschioni codardi
che bleffano con le apparenze.
 
As you like it – W. Shakespeare




 
 
 
 
 
"Stupido, stupido Ranma…"
 
La litanìa era conosciuta, ma risultava stranamente venata da un dolore inusuale e straziante.
 
Stupido, stupido Ranma…
 
Uno scenario triste avvolgeva la piccola figura singhiozzante accartocciata su se stessa.
 
Soltanto il bosco, umido e sospeso, era a testimone di quel crimine innominabile, i rami ritorti ne erano i taciti complici, l'alba grigio cenere l'omertosa compagna.
 
Il ragazzo le era scivolato alle spalle.
 
Akane si voltò di scatto e lo guardò un'ultima volta, senza capire realmente che in quelli dell'amico fidato si nascondevano gli occhi del suo assassino.
 
Ryoga piangeva come un vitello prima di essere scannato.
 
Al contrario, ad Akane si erano freddate le lacrime agli occhi.
 
Il pugnale, vibrante di luce sinistra, non indugiò oltre e andò ad affondare preciso nel petto bianco della fanciulla, imbrattandolo per sempre.
 
Il grido le morì in gola, strappandola alla vita, mentre il terreno si impregnava di sangue, avido.
 
 

 
"Ryogaaaa!! No… No! Noooooo!!"
 
Si tirò su a sedere, madida di sudore e di lacrime, con un taglio in gola per l'urlo lancinante che l'aveva appena svegliata, imponendole di uscire a forza dall'incubo che la stava divorando.
 
"Ukyo calmati… calmati Ukyo… un sogno, era solo un sogno…", sussurrava a se stessa.
 
Ma perchè questo non la rassicurava? Perché continuava a sembrarle tutto dannatamente reale, il bosco, le lacrime, la lama, e tutto quel sangue…, anche se era sveglia e seduta sul suo futon?
 
Con dita tremanti trovò la candela e riuscì ad accenderla.
 
Non un rumore attorno a lei. Nessuno ancora sospettava della fuga della principessa. Nessuno sospettava di Ryoga.
 
"Ryoga…"
 
Si passò una mano sul volto.
 
La realtà era lì attorno a lei, ferma, immobile.
 
Lo sguardo di Ryoga, in quel maledetto sogno, era assente. Non riusciva a strapparselo dalla mente. Assente come solo un altro paio di volte gli aveva visto… come poco prima di sferrare quell'attacco… come diavolo si chiamava?… Sì, lo Shishi Hokodan, una pericolosa tecnica energetica che Obaba e Happosai avevano insegnato al ragazzo anni prima. In quelle occasioni Ryoga aveva dipinta sul volto un'espressione vacua, priva di emozioni, che le dava i brividi.
 
Non riusciva a dimenticare quegli occhi vuoti, nella visione notturna. Più di ogni altra cosa la terrorizzavano.
 
Aveva un brutto presentimento. Possibile che…?
 
"No Ukyo, no! Era solo un sogno, solo un bruttissimo sogno", si ripeteva ossessiva.
 
Ma d'improvviso dettagli a cui non aveva dato importanza franarono nella sua memoria col peso di una valanga: l'esitazione, lo sguardo distante e turbato, parole mai pronunciate, un bacio disperato, un pugnale appeso alla cintola.
 
Desiderò che il sole fosse alto e lui accanto a lei, a ridere della sua ingenuità, a sciogliere le sue paure con quella sua risata calda e sincera.
 
E attese. 
 
Attese il sole e il suo ritorno, pregando i kami di aver fatto davvero solo un brutto sogno.
 
 
 
***
 
 
Riaprì cautamente gli occhi, temendo di scoprire che il sangue che le stava scivolando lento lungo la pelle sgorgasse da una ferita mortale di cui non riusciva a percepire alcun dolore, in un misero tentativo di restare ancorata alla vita.
 
Quello che però vide la spiazzò e le ridiede colore alle guance ancora bagnate, un colore misto a paura, disappunto, smarrimento.
 
"Ryoga! Co-cos'hai fatto?!"
 
Sopra di lei, ancora immobile nell'atto conclusivo di quel gesto incomprensibile, il pugnale gocciolante nella mano destra e il braccio sinistro ferito, sollevato davanti a sè, Ryoga la guardava con un sorriso dolce, tentando di infonderle sicurezza.
 
E intanto un rivolo di sangue continuava a fuoriuscire copioso da quella ferita. Ma non sentiva dolore. Non gli importava. L'aveva fatto per lei, e si sarebbe ucciso, se ce ne fosse stato bisogno.
 
Le mani di Akane furono più lucide di lei, in quel momento, e si mossero rapide verso il proprio yukata, ne strapparono un lembo su cui erano già impresse alcune gocce schizzate dall'impatto della lama contro la cane viva e si gettarono a tamponare il taglio sul braccio di Ryoga.
 
E intanto lo guardava con occhi brucianti, esigendo una spiegazione, ma non osando pretenderla a parole.
 
"Io… Io non potrei mai uccidervi", si giustificò lui.
 
La sua voce era calma, onesta.
 
"Sì, ma allora… perché venire qui? La fuga? Il rischio? Il furto dei cavalli? Dopo aver letto", deglutì amaramente, "…le sue parole… Se lui non è qui… se tu non volevi…?", iniziò quasi aggredendolo, ma non riusciva proprio a comprendere il tutto e nel tentativo di farlo le parole finirono per morirle in gola.
 
"Per prendere tempo", iniziò a spiegarle, asciugandosi con una manica le ultime lacrime che brillavano feroci intorno agli occhi segnati.
 
"Io a palazzo non ci torno!", gli ringhiò contro. Ma non fece in tempo a vedere che lui scuoteva la testa, in risposta, che venne presa a tradimento da una raffica di singhiozzi.
 
Ryoga si strinse nelle spalle. Non riusciva a guardarla così. Non riusciva a starsene con le mani in mano e vederla soffrire, così piccola, così vulnerabile. Non sentiva dolore al braccio, il dolore fisico era nulla rispetto alla fitta al cuore che provava nel vederla così.
 
"Akane", osò, chinandosi a carezzarle il capo per calmarla.
 
Era la prima volta che la chiamava per nome. Forse fu proprio sentirglielo pronunciare senza suffissi nè onorifici, forse fu il calore della mano di lui. Akane a poco a poco si calmò e cercò rifugio sul petto di Ryoga che, protettivo, la strinse a sè.
 
"Perché… perché ti sei ferito a un braccio?"
 
"Ho un piano", mormorò.
 
 Sorpresa, lei gli rivolse fulminea uno sguardo attento.
 
"Voglio dare a Ranma ciò che vuole: la prova che gli ho ubbidito", le spiegò non senza fatica, "la prova di avervi ucciso…", aggiunse abbassando appena il tono, vergognandosi. Strinse con la destra il fazzoletto avvolto intorno alla ferita. "Il pezzo di stoffa strappato al vostro yukata e… tutto questo sangue, lo convinceranno, e lo terranno buono per un po'…"
Si rese conto di aver parlato troppo, e troppo crudamente, che i ragionamenti che lui aveva fatto ed elaborato, lei stava a malapena cercando di digerirli in quel terribile istante.
 
Bastò sentirlo nominare ancora una volta.
 
"Ra-Ranma…"
 
Stupore nella sua voce, incredulità, disperazione, rabbia. E un insopprimibile desiderio di pianto, che Ryoga si decise a stroncare sul nascere.
 
"Quell'idiota si sarà fatto ingannare! Gli avranno fatto credere che voi l'avete tradito…"
 
"Io? Ma come…??"
 
Lei non si dava pace.
 
"Non so in che modo, ma tutta questa storia mi puzza", la zittì il ragazzo. E continuò, in risposta agli occhi sgranati di lei, "La scrittura è la sua, è vero, ma… Io lo conosco e lo conoscete anche voi… E' geloso, irascibile e stupido. Ma non crederebbe mai a delle calunnie… E non vi farebbe mai del male. Dev'esserci qualcosa che ci sfugge… E…", scrollò la testa sicuro, "sinceramente non penso che sia stato sedotto da una qualche donna e convinto a uccidervi…"
 
Gli occhi di Akane parlavano da soli, fissi nel vuoto. Ryoga non poteva ascoltarne le parole trattenute, in cui rieccheggiavano frammenti di pensiero.
 
*Mousse… me l'aveva detto… una donna cinese… una certa Shan-Pu… Non mentiva…*
 
Ma ne colse comunque il senso malato.
 
"No, non può essere!", quasi le urlò contro, riscuotendola. Si rese immediatamente conto dello scatto inopportuno e aggiunse, meno sicuro, "Ma…  A-Akane-san… La verità è che non ho una risposta. Non mi resta che un briciolo di speranza a cui vi chiedo di attaccarvi con me"
 
"Dimmi il tuo piano", lo esortò risoluta, una nuova luce negli occhi.
 
"Niente più palazzo, su questo siamo d'accordo "
 
"Sì!"
 
"La libertà che avete conquistato oggi è un tesoro che dovrete tenervi stretta: vi permetterà di agire senza il controllo di nessuno"
 
"E senza nessuno da sposare", aggiunse lei, con un senso di ripicca nei confronti di Kuno, e del mondo che imponeva alle figlie di maritarsi con gli uomini decisi dai padri.
 
"O da cui guardarsi alle spalle", concluse Ryoga, pensando a Kodachi.
 
Sospirarono all'unisono, poi il ragazzo continuò: "Ma… dovete essere disposta a tutto…"
 
"Lo sono. Dopo tutto questo... nulla mi spaventa più"
 
"La libertà ha un prezzo e… voi siete una fanciulla, oltre che una principessa…"
 
"Che c'entra? Sono forte e perfettamente in grado di difendermi… Piuttosto…Dove andrò? Dove vivrò? Cosa… mangerò?"
 
"Prima ancora di questo, io direi… 'come' andrete… cioè…"
 
Si stava agitando, tutta la sua sicurezza stava scemando pericolosamente e un fastidioso rossore, dannazione, non gli abbandonava il viso.  Ma possibile che in un momento così grave lui cominciasse a vergognarsi come un dodicenne?! Lei continuava a guardarlo, innocente, senza capire proprio dove volesse andare a parare.
 
"Che intendi dire, Ryoga?"
 
"Intendo…"
 
Alzò gli occhi su di lei. Li riabbassò. Li chiuse, per raccogliere un po' di lucidità. E decise di mettere mano alla sacca che si portava dietro. Meglio passare direttamente ai fatti.
 
Riuscì per qualche secondo ad affrancarsi da quella scomoda posizione, giusto il tempo di raggiungere i cavalli, tirare verso di sé l'involto appeso alla sella e raggiungere nuovamente la principessa.
 
Cercò di ritrovare una certa fermezza nella voce.
 
"Ecco", disse semplicemente, tirando fuori dal bagaglio alcuni indumenti.
 
Akane non capiva. Guardò meglio e riconobbe delle brache, di quelle strette al polpaccio, una casacca larga e imbottita, spesse polsiere e robusti parastinchi , un paio di stivali bassi e un copricapo scuro: una strana ed eterogenea tenuta che ricordava quelle dei viandanti montani.
 
In altre parole, abiti da uomo.
 
"Dovrei… indossarli?"
 
Ryoga annuì con decisione.
 
Forse Akane cominciava a capire.
 
"Dovete… scordarvi d'esser donna, ecco. Dimenticare che siete una principessa. Nessuno vi disturberà se vi crederanno un ragazzo in viaggio verso un qualche parente"
 
Akane lo ascoltava, senza perdersi una parola.
 
"Dovrete cercare in ogni modo di… di mettere da parte la vostra grazia… di muovervi... di atteggiarvi… come un uomo, ecco"
 
Le parlava e intanto perdeva sicurezza. Come potevano quegli occhi da cerbiatta che non si erano mai posati sulle cose del mondo sembrare quelli di un giovanotto perfettamente in grado di viaggiare in quello stesso mondo da solo?
 
"M-ma temo proprio di aver fatto male i miei calcoli… Voi non assomiglierete mai a un uomo…", sbuffò affranto.
 
"Questo è tutto da vedere", sbottò Akane, combattiva, strappandogli il cappello di stoffa che lui stava stropicciando tra le dita nervose e raccogliendo a piene mani il resto del vestiario.
 
Senza aggiungere altro girò intorno all'albero più vicino, pretendendo di ripararsi coi suoi rami semispogli mentre iniziava a cambiarsi, piuttosto incurante di essere a mezzo metro dal ragazzo.
Ryoga si voltò di scatto, paonazzo ormai oltre ogni dire, tentando di mostrarsi calmo e riuscendo invece a malapena a rilasciare l'aria compressa nei polmoni.
Che assurda situazione! Per distrarsi continuò a parlare, fingendo tranquillità.
 
"Come un uomo…insomma… le gambe larghe… e magari dovreste molleggiare un po' sui talloni, in una camminata… sicura… da spaccone, potremmo dire. Le braccia mai troppo attaccate al corpo… Dovete immaginarle muscolose… E magari ogni tanto ricordatevi di… beh sì, di sputare e di… grattarvi… oh kami, mia signora, perdonate davvero la mia impertinenza, non vorrei parlarvi di queste cose, ma è necessario… Grattarvi da uomo… lo so che è da maleducati… ma gli uomini non se ne vergognano troppo, in fondo… E poi… la voce. Un uomo non parla mai troppo. Rispondete con frasi asciutte. Come se ogni volta la vostra risposta… fosse un pugno in pieno viso! Sì… E dovrete tentare di ingrossarla, la vostra voce, abbassarla un po'…  E… ah, certo!…Niente sorrisi… Cioè… evitateli, se potete… E poi…"
 
Si interruppe. Dietro di lui sentì i passi di lei calpestare le foglie a terra e farsi sempre più vicini.
 
Si voltò. … e ciò che vide lo sorprese non poco.
 
Completamente bardata come un uomo, la principessa avanzava tentando di mettere in pratica i consigli appena ricevuti dal ragazzo. Seria in volto, andatura pesante e sgraziata, Akane lo guardava a mo' di sfida, alternando allo sguardo ora una grattata al fianco, ora uno sputo rumoroso, che aveva il solo risultato di farla arrossire fino alla radice dei capelli. Eppure non demordeva, ostentando sicurezza e virilità.
"Che hai da dire?", lo esortò con una voce marcatamente più bassa e insolente.
 
Nonostante la situazione, a lui si disegnò un sorrisetto sulle labbra.
 
La trovò bellissima anche così.
 
Guardandola attentamente, si rese conto che così conciata la principessa cominciava davvero a somigliare a un ragazzo, un ragazzo molto giovane magari, appena più che un bambino imbronciato, di circa dodici anni, ancora imberbe e poco formato, ma desideroso di diventare presto uomo. Ne osservò accuratamente l'aspetto. Grazie all'imbottitura degli indumenti, le forme femminili erano completamente camuffate e tutta la figura ne usciva informe e vagamente tarchiata.
 
Lei era sulle spine, in attesa di un verdetto.
 
"Siete… siete piuttosto convincente!", esclamò ancora incredulo.
 
"Non per niente… 'lui' lo diceva sempre, che sono un maschiaccio…", rispose triste, "Imbranata e per niente carina…", aggiunse più per sé che per essere udita,  ingoiando il dolore, "Alla fine mi sta tornando utile", concluse con un sorriso mesto, a fil di voce.
 
"M-ma non è sufficiente", riprese lui energico, cercando di deviare il discorso, "I lineamenti del vostro viso vi tradirebbero… Ecco qui, vi ho portato questo…"
 
Cavò fuori di tasca una scatolina.
 
Akane la osservò curiosa.
 
"Si tratta di una specie di unguento… spalmandolo sul volto scurirà la vostra pelle… sì, insomma, la vostra pelle così bianca, da principessa, e vi darà un aspetto più duro"
 
La ragazza non se lo fece ripetere due volte. Gli strappò di mano la scatolina e cominciò a impiastricciarsi le guance.
 
Ryoga la osservò ammirato: la sua sfortunata padrona si mascherava, nel tentativo testardo di rinascere a nuova vita, senza lasciarsi abbattere dalla situazione.
 
"Ecco fatto"
 
Il candore si era perso e così il vermiglio delle labbra; i tratti dell'intero viso parevano uniformati tra loro: lo stacco tra il collo delicato e la linea della mandibola era meno marcato, gli zigomi apparivano meno scolpiti e persino le ciglia lunghe quasi non si distinguevano più.
 
Ryoga annuì.
 
"Ma non dimenticate di sporcarvi anche le mani", in un unico gesto non calcolato, raccolse una manciata di terra, e la strofinò contro le mani di lei, impastandola all'unguento residuo.
 
Sentendo quanto piccole e lisce fossero quelle mani tra le sue, sussultò.
 
"Grazie, Ryoga", lo rincuorò Akane, "Grazie"
 
Non doveva commuoversi, non ancora.
 
"Vi chiederete, mia signora", si ritrasse rigettando con forza indietro le lacrime, "perché tutto questo. La risposta è semplice. Vi recherete ad Hakata. Camminerete attraverso i boschi, lontana dalla strada, aggirando il monte… Vestita così non dovreste essere importunata e non dico che sarà facile, ma… se siete fortunata incontrerete solo qualche capriolo. Ad Hakata, Hiroshi e Daisuke non ci penseranno due volte a nascondervi. Voi sarete tra amici e io saprò dove trovarvi, in futuro. Anche… Ranma… se scriverà ancora… le sue lettere passeranno da loro…"
 
Lei seguiva il discorso, seria e attenta, non permettendo a quel nome di indugiare troppo dentro di lei, facendole male.
 
"Dimenticavo! Prendete, questa vi guiderà"
 
Ryoga le mise in mano un piccola bussola di legno rovinata dall'uso.
 
"No Ryoga! Tu… come farai?"
 
"I cavalli conoscono la strada del ritorno", ammise con un sorriso imbarazzato, "Voi, invece, ne avete bisogno. Basta andare verso sud. Dal monte stesso, così mi ha ripetuto Ukyo fino allo sfinimento, a un certo punto riuscirete a intravedere il porto della città. Non potrete sbagliare"
 
Akane gli sorrise, grata. Ryoga aveva pensato proprio a tutto. Persino al senso dell'orientamento. Di entrambi.
 
Tirando fuori il fagotto del cibo che la principessa avrebbe portato con sè, e premurandosi lui stesso di legarle il pugnale in vita, lo stesso bagnato del proprio sangue, il ragazzo aggiunse, con un tono più disteso, prendendo tempo: "Mi è giunta voce che ad Hakata sia appena approdata la divisione dell'esercito cinese guidata dal generale Shinnosuke"
 
"Il generale Shinnosuke?"
 
"Sì, proprio lui. Lo conoscete? E' un generale cinese, ma è nato…"
 
"…qui in Giappone. Conosco la sua storia. Mio padre mi ha parlato di lui, tempo addietro, del suo onore e delle sue vicende. Devo averlo anche intravisto un giorno a palazzo, mentre trattava di questioni politiche con lui…"
 
"Motivo di più per essere schiva e prudente e non farvi vedere da nessuno che potrebbe riconoscervi. Dicono che sia una persona giusta e onesta, ma voi, in questo momento, siete pur sempre la figlia del suo nemico…"
 
Ancora una volta Akane annuì, ubbidiente.
 
Ci fu qualche secondo di silenzio.
 
"Temo proprio sia arrivato il momento di lasciarci, vero?", gli fece lei, con una voce piccola e tenera.
 
Davvero era già arrivato quel momento? Il momento di staccarsi da lei, lasciandola al bosco e al suo destino? Il magone gli salì di colpo in gola. Le aveva detto tutto? Le raccomandazioni, gli ammonimenti, il conforto? Ce l'avrebbe fatta davvero? E lui, stava facendo la cosa giusta?
 
La scrutò un'ultima volta, come per sincerarsi che fosse tutto a posto, che non mancasse un solo dettaglio, e si rese conto che lei lo guardava con occhi forti e al contempo tanto spauriti. Mille emozioni si esprimevano su quel viso, rincorrendosi tra loro.
 
Maledizione.
 
La principessa era da sempre stata incapace di nascondere il proprio stato d'animo.
 
Questo era un problema.
 
Come porvi rimedio?
 
Si portò una mano alle tempie, arrovellandosi, mentre lei lo guardava interrogativa. E l'idea gli venne improvvisa.
 
"Ecco cosa manca!"
 
Si sfilò brusco la fascia giallognola che era solito tenere in fronte, le tirò via il cappello che si era calcata sulle orecchie e, un po' goffamente, gliela fece aderire appena sopra gli occhi, legandola alla nuca nel modo più gentile che poteva.
 
Akane la sfiorò con due dita. La fascia era ancora tiepida, impregnata del calore di lui.
 
"Ma… ma questa è tua! Io non..."
 
"Ne ho altre a palazzo, non vorrete preoccuparvi per una sciocchezza simile?… In questo modo le vostre sopracciglia resteranno coperte e i vostri pensieri saranno un po' meno leggibili…"
 
"Sono davvero ingenua, eh?"
 
"Non è questo…", si schermì lui coprendole nuovamente il caschetto bruno col copricapo maschile, "Ma così… insomma, adesso il vostro volto è davvero irriconoscibile: gli occhi sembrano un po' meno… accesi e i capelli non denunciano il fatto che siete… una fanciulla, ecco"
 
Gli sorrise grata. Cosa avrebbe fatto senza di lui?
 
La principessa stava per dire qualcosa di solenne, se lo sentiva, e lui… Lui stava per mettersi irrimediabilmente a piangere. Preferì alzarsi di colpo, impedendole di parlare, e si avviò verso il cavallo, risoluto.
 
Akane comprese, commossa.
 
In fondo non c'erano parole adatte a quell'addio.
 
Ryoga era sul punto di salire in sella quando, per fortuna, si ricordò.
 
Stava per passargli di mente e se ne sarebbe dispiaciuto.
 
"Principessa! Un'ultima cosa…"
 
La raggiunse trafelato.
 
"Questo, tenetelo con voi, potrà tornarvi utile"
 
Akane, interrogativa, tese verso di lui la piccola mano.
 
Lui le lasciò cadere sul palmo una boccetta rosso scuro.
 
La boccetta di Kodachi.
 
"Di che si tratta?"
 
"E' un rimedio portentoso, vi sarà utile contro qualunque tipo di malessere. Sperando che non vi serva mai…"
 
Si sentiva più sicuro a sapere che qualora si fosse sentita male per qualsiasi motivo, avrebbe avuto una valida medicina a portata di mano.
 
Ahimè, ignorava il vero contenuto di quella boccetta.
 
"Ne terrò conto…", ancora una volta lui la stava salvando e si stava preoccupando per lei, e ancora una volta gli chiese 'grazie' con lo sguardo.
 
E improvvisamente quello stesso sguardo si incupì. La mano di Akane corse al petto, come a calmare un guizzo di dolore.
 
"Anche se non credo che servirà contro il male che sento qui"
 
La guardò. La guardò davvero, per quello che era: una forte giovane donna che soffriva. Chissà per quanto tempo non l'avrebbe rivista.
 
E fu allora che le parole, inaspettatamente, arrivarono.
 
"Ranma ha commesso l'errore più grande della sua vita. Presto lo capirà e tutto si sistemerà, ve lo giuro", le regalò un sorrisetto spavaldo, che la riscaldò più di tante consolazioni, "Ma vi giuro anche che gli farò ingoiare fino all'ultimo briciolo tutta la sua stupidità"
 
Lei annuiva e sorrideva e si asciugava le lacrime calde.
 
"Ora andate… Akane"
 
Ma prima che lui potesse allontanarsi da lei, lasciandole l'eco del suo nome pronunciato con tanta dolcezza, si protese goffa verso di lui, e lo abbracciò.
 
"Ryoga, prenditi cura della mia Ukyo. E… grazie"
 
Accidenti, ora sì che le lacrime sarebbero sgusciate via dal suo controllo, beffarde.
 
Akane si staccò dalla stretta e gli prese il viso ormai bagnato tra le mani, mentre lui tirava su col naso, millantando un contegno eroico.
 
"Sei l'amico più prezioso che potessi avere. E sei l'amico più prezioso che 'lui' potesse avere", aggiunse con un sorriso.
 
Cos'era quel sorriso?
 
Tutto. Gratitudine, tristezza, determinazione, speranza.
 
E alla fine fu lei a voltarsi e ad allontanarsi da lui.
 
La vide raccogliere la sacca col cibo e mettersela in spalla, la guardò allontanarsi con un passo ostentatamente maschile lungo il terreno sconnesso che saliva impercettibilmente, e regalargli un ultimo sguardo di addio, prima di consultare la bussola e addentrarsi nella boscaglia.
 
Sentì di non volerla lasciare andare. Sentì che più si sommavano i passi che li distanziavano, più il sangue gli defluiva dalle vene e un'improvvisa umidità gli entrava nelle ossa. La seguì a vista finchè poté, pregando i kami che non le succedesse nulla in quella foresta e che arrivasse alla città di Hakata sana e salva.
 
'Una donna dalla forza erculea', così la definiva Ranma.
 
"Che stupido che sei… Davvero stupido", si lasciò sfuggire a fior di labbra.
 
Sì, lei era forte. Sapeva il fatto suo, era testarda e conosceva le arti marziali, era vero. Ma era pur sempre una principessa che non era mai uscita dalle mura del suo palazzo. Non sapeva nulla di quel mondo in cui si stava inoltrando.
 
Il respiro gli si strozzò in gola.
 
Ma non c'era tempo per i ripensamenti. Doveva sbrigarsi a tornare alla tenuta Tendo, sperando che nessuno avesse ancora notato la sua assenza.
 
Rilasciò l'aria che gli schiacciava i polmoni, saltò in sella e spronò il cavallo in direzione contraria a quella di Akane.
 
 
 
***
 
 
 
"Zio Genma, vi siete appisolato di nuovo? Possibile che stare seduto qui davanti vi piaccia tanto? Io lo detesto"
 
L'uomo per un attimo si guardò attorno disorientato. 
 
Poi  alzò il capo e la vide, con le mani sui fianchi e l'aria contrariata.
 
Ma certo, si era lasciato cullare dai raggi tiepidi del mattino e si era addormentato. Si stiracchiò indolente. "Non dovresti parlare così, Misaki, questo è il posto migliore del mondo. E poi è casa", tagliò corto l'uomo.
 
In tutta risposta lei sbuffò.
 
Era una ragazza sulla ventina o forse anche meno. Continuava a guardarlo con due occhi castani, vivi e acuti. Tutto in lei trasudava praticità: i fianchi erano fasciati da comodi pantaloni di cotone che arrivavano sotto il ginocchio, sui quali si chiudeva la casacca di uno yukata senza fronzoli di alcun tipo; ai piedi portava calzari imbottiti, utili quando il sentiero si faceva pietroso sotto i passi. Anche i capelli, di un impalpabile castano chiaro, non avevano nulla di femminile. Da anni ormai era lo stesso rito: anche quella primavera, quando si erano fatti troppo lunghi dopo l'inverno, la ragazza aveva preso la spada dello zio, li aveva raccolti in un pugno, liberando completamente il collo e senza troppe cerimonie aveva dato un taglio netto. A testimonianza di quel gesto incurante erano rimasti un po' più lunghi attorno al viso, dove sfioravano la mandibola a ogni movimento. E nonostante tutto nessuno avrebbe potuto scambiarla per un ragazzo: anzi, l'abbigliamento sobrio e mascolino creava un contrasto intrigante che ne rendeva più interessanti i lineamenti.
 
"Zio, siete sempre così tranquillo! Ma davvero a voi piace questa vitaccia?"
 
Genma sospirò, sapeva dove la ragazza voleva andare a parare: "Intendi doversi procacciare il cibo quasi ogni giorno?… Il freddo dell'inverno…?"
 
"Ma più che altro la monotonia, zio! Tutti i giorni uguali! Ci si alza, si mangia, si dorme… Ma davvero prendere un po' di sole davanti a questa capanna basta ad accontentare le vostre esigenze di essere umano? Io vorrei fare qualcosa di più della mia vita"
 
"Andiamo, Misaki. Cosa puoi chiedere di più?", a interromperla era stata una voce femminile, pacata e docile.
 
"Ah, Hitomi, scusa, ora ti porto dentro l'acqua", brontolò la ragazza, affrettandosi a calare il secchio nel pozzo accanto alla capanna.
 
La sorella rimase a guardarla, e con lo sguardo abbracciò la piccola radura antistante, le fronde degli alberi che custodivano la loro semplice casupola di legno, il pendìo che saliva lieve su un lato e lo zio, vestito nel suo solito completo chiaro, il capo fasciato da un fazzoletto dello stesso colore, che se ne stava abbandonato a un tronco guardandola serio, dietro i suoi occhiali tondi.
Inspirò, grata al mattino e alla vita, che a differenza della sorella minore la allietava con le piccole cose di sempre.
 
Erano così diverse… Per quanto le separassero giusto un paio d'anni, la maggiore era avvolta da un'energia matura e calma. I lunghi capelli castani erano raccolti in una coda adagiata sulla spalla destra, mentre il corpo era coperto da uno yukata color prugna di cotone spesso, lungo fino alle caviglie.
 
"Qui si sta davvero bene"
 
"Sorellina, lo dici solo perché non hai visto altro che questo…", brontolò la minore, mentre trafficava con la carrucola, "…e la montagna, o poco più. Giusto qualche pastore o qualche contadino quando eravamo piccole… Ma il mondo, le persone che lo abitano… chi li ha mai visti? Questo è vivere? Io voglio conoscere altri esseri umani e... le leggi della società, non quelle del bosco! Insomma, là fuori il mondo va avanti a oro e monete, dico io, e noi qui stiamo a barattare una capretta per un fiasco di vino da qualche pecoraio che si esprime praticamente solo a gesti e monosillabi"
 
"Misaki!", la rimproverò appena la sorella.
 
"Te l'ho già spiegato, Misaki", le interruppe perentorio Genma, "La società ha portato solo alle guerre, e le guerre portano con sè nient'altro che morte. Questo è quanto"
 
"Sì, lo so, ma io vorrei…
 
"Tra poco sarà pronto il pranzo, zio"
 
"Grazie Hitomi, cara. Cosa faremmo senza di te", disse Genma riappoggiandosi al tronco. "Su Misaki. Entra a dare una mano a tua sorella"
 
"Preferisco andare a vedere se le trappole hanno catturato qualcosa", borbottò la ragazza, ingoiando frustrazione, dopo aver lasciato in casa il secchio d'acqua, "Ce ne sono un paio qui vicino. Non ci metterò molto. Arriverò in tempo per il pranzo"
 
L'uomo si arrese e, dopo averle fatto un cenno di assenso, vide le due ragazze allontanarsi, una nel bosco, l'altra dentro casa.
 
Sospirò amaro.
 
"Nabiki…. Kasumi… Temo di aver sbagliato ogni cosa", mormorò tra sé e sé.
 
Riempiendosi i polmoni d'aria, nel tentativo di calmare la propria agitazione, sentì l'odore della pioggia riempire le sue narici. Seguì una nuvola stanca ondeggiare davanti al sole.
 
Presto avrebbe piovuto.
 
Gli anni erano passati in un batter di ciglia in quel luogo senza tempo, e quelle due bambine erano cresciute davanti ai suoi occhi colpevoli, ignorando il loro vero nome.
 
Tendo.
 
Nabiki Tendo e Kasumi Tendo.
 
Assaporò nella mente i loro nomi. Ogni volta che le chiamava Misaki e Hitomi si sentiva stringere le budella.
 
Era mai riuscito a perdonarsi di averle strappate al padre, quindici anni prima?
 
"Soun…"
 
Vecchio mio.
 
Si morse la lingua prima di formulare quell'epiteto un tempo usuale accanto al nome dell’amico.
 
L'uomo serrò la mandibola.
 
Il suo più caro amico e compagno d'armi quindici anni prima si era trasformato nel primo tra i suoi nemici, colui che gli aveva strappato la felicità dalle mani.
 
E allora Genma Saotome aveva giurato vendetta contro Soun Tendo.
 
Genma abitava in un villaggio appartenente alle terre adiacenti i dominii Tendo.
Era da poco morta la moglie dell'amico, e solo i kami sapevano quanto avrebbe voluto stargli vicino in quel frangente, ma Soun si era rifiutato di incontrare chiunque, lui compreso, chiudendosi nel proprio ostinato dolore.
Genma aveva compreso, e aspettando il momento buono per riavvicinarglisi, cresceva il suo unico figlio, di poco più di un anno.
 
Il suo piccolo Saotome.
 
"Ranma…"
 
A decidere di chiamarlo così era stata la moglie, ahimè morta di parto, e lui aveva voluto onorare quel bizzarro nome legando i capelli del bimbo, sottili ma presto già abbastanza lunghi da consentirglielo, in una treccina sulla nuca.
 
Inaspettatamente, come una fiera improvvisa sulla preda, la guerra si era abbattuta sul villaggio.
 
Una guerra feroce e senza senso, mossa dal principe Tendo contro i territori confinanti.
Una guerra in cui Soun-sama aveva raso al suolo interi villaggi, dimentico degli amici e dei nemici che vi abitavano.
 
Genma non era mai riuscito a dimenticare quel livido mattino di lame e di sangue che l'aveva colto di sorpresa, facendogli perdere di vista il figlio.
 
Il trambusto della battaglia gliel'aveva portato via.
 
Dopo che i soldati se ne erano andati, l'aveva cercato tra le macerie fumanti per giorni, per settimane, fino a che non si era rassegnato alla morte del bambino.
 
Tra le lacrime che gli appannavano gli occhiali, aveva giurato vendetta.
 
Tutto quello che era accaduto poi, nella sua memoria sfumava nell'allucinazione.
Una notte senza luna, l'adrenalina trattenuta nel tentativo di annullare la propria aura, due bambine che dormivano (e la terza dov'era?), l'orgoglio che ribolliva nelle tempie, il pianto lacerante, la fuga, la paura, l'amarezza della riuscita…
 
Soun gli aveva portato via il suo unico figlio e lui l'aveva ripagato con la stessa moneta, strappando le figlie al padre.
 
Ma quell'odio non trovò terreno oltre la vendetta. Genma amò quelle bambine come fossero sue e le crebbe come delle figlie, raccontando loro di esserne lo zio, l'unico parente rimasto dopo le guerre.
 
Avevano vissuto in quel luogo sperduto, lontano dal mondo civile, lontano dalla corte e dalle sue regole di potere e di dominio, ignare di essere principesse, ignare di avere un padre e una sorella.
 
Ma il sangue brucia nelle vene rammentando la propria origine e Nabiki mostrava da tempo una certa insofferenza per la propria condizione.
 
Kasumi era di indole più tranquilla. Aveva sempre preferito la cura della casa, il lavoro della lana e del filato alle altre attività.
 
Lui aveva voluto insegnare alle due ragazze a difendersi. Con Kasumi… beh, non poteva dirci di esserci riuscito… Ma almeno Nabiki sapeva tenere in mano una spada, anche se preferiva di gran lunga l'uso dell'arco, dimostrando di contro delle abilità tattiche non indifferenti: sapeva architettare le trappole più ingegnose per la cattura della selvaggina, prediligendo la caccia mentale a quella corpo a corpo.
 
Aveva cercato di essere un buon punto di riferimento per loro, ma qualcosa era andato storto.
 
Lui avrebbe voluto relegare a un angolo remoto dei propri ricordi cosa aveva compiuto e chi erano davvero quelle due ragazze. Avrebbe voluto vivere di quella vita divisa tra il duro lavoro e un ozio indolente.
 
Ma la realtà lo schiaffeggiava ogni giorno, sempre più esigente e amara. Aveva sofferto molto, ma aveva rapito due innocenti alla loro vita.
 
"Nabiki… Kasumi… Non posso più tornare indietro"
 
La confusione si agitava sempre più forte in lui.
 
"Ranma… Non posso più tornare indietro"
 
Il dolore lo schiacciava, il dubbio scemava e si riaccendeva.
 
"O no?…"
 
Il perdono premeva per essere accolto.
 
"Soun… Vecchio mio..."
 
 
 
***
 
 
 
 
Uscì dalla propria tenda.
 
Il Giappone.
 
Si trovava di nuovo lì: la terra che poco tempo prima l'aveva accolto a braccia aperte nei suoi palazzi, nei suo giardini, nelle sue camere da letto.
 
Non era poi così importante il fatto che aveva dovuto mentire e ingannare per intrufolarvisi.
 
Mousse spaziò con lo sguardo sulla piana su cui era accampato l'esercito cinese, in attesa. In attesa lo era anche lui, senza un perché. L'accampamento subiva la tesa elettricità che precede una battaglia non ancora dichiarata. Lui si sentiva inquieto e nervoso.
 
Inspirò profondamente l'aria del mattino e si chiese se ogni cosa fosse rimasta immobile e uguale a se stessa dall'ultima volta che era passato da quelle parti.
 
Senza che potesse farci nulla il sorriso della principessa Akane Tendo gli si illuminò nella mente.
 
Lo scacciò in malo modo.
 
Sul suolo natìo della ragazza si sentiva come se fosse senza armatura, più solo, e inspiegabilmente più vicino a lei.
 
Si chiese cosa ne fosse stato di lei, dicendosi anche che poco gliene importava.
 
Si rigirò distrattamente l’anellino di oro grezzo che aveva al mignolo, in un gesto nervoso ormai automatico.
 
Era stato tutto troppo veloce.
 
Aveva vinto. La scommessa, l’anello, l’onore. Aveva vinto.  Ma la soddisfazione era durata poco. Quell'impiastro giapponese, quel ragazzo così insulso e impulsivo era crollato sotto un filtro di Shan Pu. Niente di più prevedibile. E poi non si era più svegliato.
 
E Shan Pu… Shan Pu non solo non era riuscita a godere delle conseguenze della pozione, come avrebbe desiderato, ma dopo qualche giorno di appagato silenzio, la sua frivola sicurezza aveva cominciato a vacillare, e si era addirittura messa a temere per la vita di quel cretino. Gliel’aveva letto negli occhi. Quegli occhi freddi e acquosi come un bicchierino di liquore che ti taglia le gambe e ti fa salire un brivido lungo la schiena.
 
Glial’aveva letta, in quegli occhi, la paura.
 
Valeva la pena avere la vita di una persona sulla coscienza per una piccola ripicca?
 
Non si accorse che stava serrando i denti. Cercò di volgere quella smorfia in un sorriso stanco. 
 
Aveva davvero senso fare tutto quello per un rifiuto? Abbassarsi a tanto e con tanta tenacia?
 
Di certo non era lui ad avere la risposta.
 
Nè aveva avuto il tempo di trovarla, dato che, tempestiva, la lettera di chiamata alle armi era arrivata a toglierlo d'impaccio.
 
Un luccichìo traditore, giunto da chissà dove gli ferì gli occhi e Mousse abbassò lo sguardo, infastidito.
 
Non poteva immaginare che qualcun altro, come lui, si era alzato prima del tempo quella mattina e che quel riflesso partiva in effetti da un pezzo di armatura appartenente a una fiera cinesina di sua conoscenza.
 
 
 
 
A non troppa distanza, Shan Pu si stava preparando per la battaglia.
 
In un'ala separata dell'accampamento, destinata alla divisione amazzone, si spazzolava i lunghi capelli con la stessa maniacale serietà con cui lucidava le armi prima dell'attacco.
 
Era imbronciata e bellissima.
 
Il corpetto di metallo risplendeva ai primi raggi del sole, irradiandosi in riflessi birichini, e le stoffe vaporose che le avvolgevano fianchi e braccia, si gonfiavano leggere alla brezza del mattino.
 
Fissò cupa il vuoto.
 
Ancora la voce della signora Nodoka le rimbombava nelle tempie.
 
Devi andartene, Shan Pu! Tesoro mio, perché l'hai fatto?
 
Per divertimento.
 
Non potrà perdonarti…
 
Ingoiò bile. Non gliene importava.
 
Prega che non sia accaduto nulla alla sua Akane…
 
Questa poi.
 
Perché, piccola mia? Perché gli hai fatto questo? Potrebbe non risvegliarsi più…
 
No. No. No… Sentì vacillare il suo animo. Per un attimo, solo per un attimo, ebbe paura. Aveva avuto paura anche in quel momento. La signora gliel'aveva letta, quella paura, negli occhi. E Mousse… anche lui doveva essersene accorto, prima di partire per il Giappone. Si sentì una sciocca. Allontanò risoluta il ricordo del suo sguardo indagatore.
 
E se, benedetti kami, riaprisse gli occhi? Non temi la sua vendetta?
 
No, non la temeva. Si strattonò con la spazzola l’ultima ciocca di capelli.
 
Ma più di ogni altro rimprovero erano state quelle ultime parole soffocate dalla dolcezza delle lacrime ad alimentare in lei sdegno e risentimento.
 
Shan Pu, pensi davvero che il dolore si allontanerà da te se lo rigetti sugli altri facendo loro del male?
 
Non aveva risposto nulla.
 
Ingoiando ferita lacrime di stizza l'aveva guardata, si era alzata, aveva raccolto le poche cose con cui era arrivata, i bonbori e alcuni gioielli che ornano i capelli delle amazzoni prima del combattimento, e se ne era andata.
 
La signora Nodoka doveva aver capito. Shan Pu Era partita alla volta della guerra. Era andata lontano da lui e dalla propria colpa, a lottare contro il Paese da cui lui era fuggito.
 
Ma lei non aveva colpa. Non era stata una fuga.
 
La gatta non fugge: scatta in avanti. La gatta non commette errori: è una gatta, e pensa e agisce da gatta.
 
E lei, nella vita, era sempre andata avanti, senza fermarsi a riflettere su ciò che faceva, né sul perché. Lo faceva e basta.
 
Non avrebbe certo fatto eccezione in quel frangente.
 
 
 
***
 
 
 
Andava avanti.
 
Un passo e poi un altro, e un altro ancora. Da quanto ormai? Dieci? No, due. Due giorni soltanto, ma a lei sembravano un'eternità. Due giorni, e due notti buie.
 
Akane non credeva che il mondo potesse essere tanto duro. Non credeva di non riuscire più a percepire i muscoli intorno alle ossa. Di poter sentire in quelle ossa un freddo così pesante e appiccicoso. Le si era insinuato nel midollo durante la prima notte, quando si era raggomitolata sul ramo muschioso di un albero, tremando per quel freddo e la paura e cedendo a un breve sonno frammentato da incubi.
 
Ma quanto era lunga la strada che la separava da Hakata? Quanto diamine era largo il monte Inunaki da aggirare? Si era forse persa?
 
"No, non credo", sussurrò con una vocina sottile arrochita dalla fatica, nel tentativo di tenersi compagnia da sola e non impazzire del tutto.
 
Dal giorno prima aveva cominciato a intravedere di tanto in tanto all'orizzonte oltre la boscaglia, il profilo della città portuale e una strisciolina di mare.
 
Il mare.
 
Il cuore le si era fermato per un istante.
 
Aveva messo da parte la stanchezza, le vesciche ai piedi, il dolore, la rabbia. Aveva visto il mare per la prima volta.
 
E non solo.
 
Non credeva che il mondo potesse essere tanto duro, eppure non riusciva a non provare una scossa di piacere ogni volta che scopriva un nuovo suono, un nuovo colore, una nuova pianta.
 
Il mondo era vasto e terribile. E meraviglioso.
 
Il vento affilato la frustava, ma i raggi del tramonto, un tramonto visto da nuovi occhi, le avvolgevano caldi il cuore.
 
E quella linea di mare ancora troppo lontano, che lambiva un villaggio di forma inalterata (possibile che il giorno prima, studiandone la distanza con un occhio chiuso, le sembrasse grande come un'unghia e ora superasse di poco più la falange?), quella linea di mare aveva davvero il colore degli occhi di Ranma.
 
Represse una contrazione alla bocca dello stomaco.
 
Ranma…
 
No, aveva fame. Era solo fame quella che sentiva. Non il dolore sordo che le divorava le viscere, ormai da due giorni.
 
Scacciò il dolore e si concentrò sulla fame.
 
Non mangiava da due giorni. Beh sì, ma non quanto avrebbe dovuto. Non era abituata a fare la fame. Dapprima si era avventata sulle pietanze preparate da Ukyo per il viaggio e poi aveva cercato di nutrirsi con bacche e piccoli funghi. Ma alla fine quelli che sapeva con certezza essere commestibili non erano poi molti e aveva preferito sopperire all'inesperienza con un salutare brontolìo prolungato. Le era pure capitata una lepre praticamente tra le gambe, ma non aveva avuto cuore di mettere mano al pugnale. Per fortuna non si era imbattuta in animali più pericolosi che non avrebbero usato con lei la stessa cortesia. Né esseri umani. Era sola da due giorni. Sola coi propri pensieri e la propria stanchezza. Meglio così. Nessuno l'avrebbe vista spossata e sporca di terra. Forse l'avrebbero davvero presa per un uomo in quel momento, un uomo rozzo e puzzolente, senza la minima idea del decoro.
 
La scomoda verità era che Akane aveva dovuto fare i conti con una giovane principessa e non con un'esperta di arti marziali pronta a ogni evenienza.
 
Sì, era forte e probabilmente sarebbe stata in grado di difendersi, ma l'asprezza di quel mondo era nuova e difficile da digerire, senza contare che era infreddolita, affamata, schiacciata dalla sorte e sola, tanto sola.
 
Tanto da potersi permettere di piangere silenziosamente per ore senza asciugarsi le lacrime e lasciare che fosse il vento contro il viso a seccargliele.
 
Ma anche se poco prima era sul punto di svenire per la fame, lei era forte e stringeva i denti, incurante dell'anima che le gridava spiegazioni, e che lei zittiva prontamente, perché semplicemente non le aveva.
 
E fu a quel punto che cominciò a piovere. Una pioggia improvvisa che bramava sciogliere il mondo e lavarne via ogni intralcio.
 
Akane fece appena in tempo a calarsi il cappuccio sulla fronte, evitando al pastone scuro spalmato sul volto di liquefarsi, che già sentì la schiena inzupparsi e le gambe farsi molli.
 
Non vi era l'ombra di un riparo, davanti a lei. Anche i rami più fitti erano violati da quella pioggia violenta e incessante.
 
Non un lamento le uscì dalle labbra violacee. Continuò a guadare il muro d'acqua che la separava del mondo, al ritmico ticchettìo dei denti che battevano tra loro.
 
Si trascinò coi piedi fradici e le vesti gonfie e pesanti per ore.
 
Quando la pioggia cessò continuò a camminare, scaldandosi come poteva al sole del pomeriggio. La legna bagnata non si sarebbe accesa. Tanto valeva continuare a camminare nella speranza di trovare un riparo per la notte.
 
Fu allora che le parve di intravedere da lontano tra gli alberi un filo di fumo. In quel momento un fuoco caldo era l'unico balsamo che chiedeva per il suo corpo provato.
 
Arrancò tremante verso la fonte di quel fumo e le si parò davanti una casupola di legno.
 
Sembrava disabitata, se non fosse stato per quel fumo che sgattaiolava leggero dal comignolo.
 
Di colpo le riaffiorarono alla mente i racconti di Obaba che tanto la spaventavano da bambina: storie di demoni mangiauomini e di spiriti maligni che attirano i viandanti nelle loro tane per poi divorarli o peggio maledirli.
 
Fu lei a maledire la fame e il bisogno di comodità che reclamava in quel momento ogni sua molecola, corrompendo il buon senso.
 
Si avvicinò cautamente. Forse era il caso di annunciarsi? No, meglio di no, non ancora.
 
Un profumo di funghi e legumi la accolse invitante, rendendola temeraria.
 
Si guardò intorno.
 
Nessuno.
 
"E'… è permesso?", osò.
 
Nessuna risposta.
 
Mise mano al pugnale, sperando di non doverlo usare.
 
"Sto-sto entrando", continuò ingrossando la voce, "Non ho cattive intenzioni", aggiunse con una specie di buffo squittìo più che con l'audacia che avrebbe voluto ostentare.
 
*Sperando che non ne abbia chiunque viva qui*
 
Ancora nessuna risposta.
 
Pregò che nessuno fosse pronto a braccarla, che se proprio avesse dovuto incontrare qualche essere del bosco, almeno fosse uno spirito benigno che nulla avesse a pretendere da lei, che in fondo stava entrando senza permesso solo perché era affamata, infreddolita, stanca.
 
E tremando e pregando, varcò la soglia, lasciandosi alle spalle il bosco, il viaggio e il mare lontano.
 
***
 
 
Akane lo stava guardando con occhi infiammati e i lunghi capelli scompigliati dall'ira.
 
L'aveva fatta grossa. Le aveva appena detto che lei non si doveva immischiare in un combattimento tra uomini, che si sarebbe fatta male, imbranata com'era. Si vergognò subito di quelle parole, già mentre stava finendo di pronunciarle, e la guardò colpevole, torturandosi il codino. Ma ormai era troppo tardi.
 
Lei, infuriata, gli diede le spalle: "Lascia stare, non importa!"
 
Ryoga, a cui invece importava dell'umore e della fiducia della sua principessa, si sentì chiamato in causa. Anche se sembrava nè più nè meno che uno dei soliti battibecchi tra Ranma e Akane, un po' era anche colpa sua: era lui che si stava allenando con Ranma e insieme stavano cercando di affinare una nuova tecnica basata su calma e precisione.
 
Al diavolo la calma.
 
Ryoga si fece prendere dall’agitazione e la sottile fascia di pelle, tagliente come una lama, che stava facendo roteare sopra la propria testa, gli sfuggì rapida dalle mani.
 
Saettò contro il collo di lei e… Zac!
 
 
 
 
Si svegliò, scosso da un leggero tremito.
 
Un sogno.
 
Si era appisolato cullato dal mare. E ora aveva la fronte sudata, il capo bollente.
 
Un ricordo, a dirla tutta. Eppure venato da una nuova angoscia.
 
La testa gli era caduta per pochi istanti appena, ma era bastato per rivederla.
 
Ne accarezzò l'immagine, ancora vivida nella mente, cercando di scacciare qualsiasi pensiero che potesse turbarla.
 
Si trovava in coperta, lontano dagli occhi sospettosi dei suoi commilitoni. Non potevano avere nulla da ridire apertamente: anche Shinnosuke, il loro stesso generale era di origine nipponica. Ma lui la loro stima se l'era conquistata poco a poco. Questo ragazzo dagli occhi foschi e dalle poche parole si era arruolato in pochi minuti solo perché l'esercito aveva bisogno urgentemente di braccia.
Chi era? Cosa ci faceva nell'esercito cinese? Andava tenuto d'occhio.
 
Ranma sbuffò, incurante di quanto fosse provvisoria la sua condizione, e ficcò una mano nel fagotto delle proprie cose, le stesse che si era portato appresso nel suo addio al Giappone, e che ora sembravano le uniche a ricordargli di avere avuto un'identità, un passato.
 
Fu facile per lui riconoscere tra le dita il piccolo involto di seta.
 
Lo tirò fuori, lo aprì con cura e si ritrovò sul palmo della mano una ciocca scura di capelli tenuti insieme da un nastro giallino, che ne marcava i riflessi bluastri.
 
Non possedeva poi molto. E nulla di valore. Ciò che stava stringendo in quel momento rappresentava decisamente un'eccezione.
 
Avvicinò la ciocca al viso e lasciò che fosse la morbidezza prima ancora del profumo a solleticargli le narici, ritrovando una sensazione familiare.
 
Un piccolo rituale che faceva da quella volta. Un rituale più frequente da quando era stato allontanato da lei.
 
Quella volta…
 
Dovevano essere passati due anni o poco più… Lei portava ancora i capelli a quel modo, legati da quel nastro giallo...
 
"Akane…"
 
Ukyo, poco distante, aveva visto la scena. I suoi occhi erano fuori dalle orbite. La ricordava mentre guardava la padroncina e guardava la ciocca di capelli a terra, (la stessa che pochi minuti dopo, gonfio in viso e dolorante, lui avrebbe raccolto di nascosto), e che era schizzata via nel momento in cui, benedetti Kami, la principessa si era accorta del pericolo e si era abbassata per schivare l'arma affilata.
 
L’ancella li aveva poi freddati entrambi con uno sguardo omicida.
 
Lui aveva abbassato il suo di sguardo, per poi spiare di sottecchi Akane, che se ne stava immobile.
 
Solo il vento le smuoveva quell'insolito taglio di capelli, leggero e disordinato.
 
Era bellissima.
 
"Sembra… sembra sotto shock…", aveva osato dire, a fil di voce, ignorando le proprie considerazioni.
 
"E' logico", l'aveva rimbrottato Ukyo, "Le sono stati tagliati i suoi bellissimi capelli! Capelli così belli sono invidiati da tutte! Non riesci a capire cosa può significare tutto questo?"
 
Non sapeva che dire di fronte a tanta aggressività. Si era ritrovato a rispondere, un po' titubante:"Certo… certo che capisco! I… i capelli sono importanti!"
 
 
*Come sanno essere melodrammatiche per certe cose, a volte, le donne…*, sorrise tra sé e sé.
 
Rivivendo quel momento si rivide interdetto.
 
Dunque anche Akane aveva a cuore a una cosa frivola e femminile come quella? Anche il suo… ehm.. "maschiaccio"?
 
"Sì, ma per fortuna non è ferita", si era intromesso Ryoga sospirando tra il sollievo e la colpa. Per una frazione di secondo aveva davvero temuto il peggio.
 
"Non è ferita, ma per colpa tua ha perso i suoi capelli!", era intervenuto lui, precedendo Ukyo. Anche se non aveva colto appieno il senso della questione, la cosa gli era sembrata piuttosto grave: ancora Akane non aveva detto nulla e fissava il vuoto.
E si era sentito in dovere di prendere le sue parti contro la mancanza di tatto di Ryoga, rimasto paralizzato da quella verità.
 
Era stato per questo motivo che lui, Ranma, aveva detto: "Mi dispiace, è tutta colpa mia, Akane! Colpiscimi pure"
 
Il ragazzo con la bandana, subito, si era schierato dalla parte della colpa, pregandola per una punizione.
 
"Colpite anche me!"
 
"Cerca di sfogarti, se ti può far star bene", aveva rilanciato lui, in una sfida alla redenzione, "Picchiami dieci volte. Picchiami  anche venti volte, se vuoi"
 
"Colpitemi con tutta la vostra forza, Akane-san, non abbiate timore. Avete tutte le ragioni"
 
Il fatto che poi lei avesse ascoltato quei consigli e si fosse sfogata su di loro senza remore, non era altro che un epilogo divertito del ricordo.
 
 
 
Il sorriso gli si spense sulle labbra, in un'espressione seria e concentrata.
 
Quella volta, insieme, avevano temuto per lei, si erano scusati, si erano presi le proprie responsabilità.
 
Insieme e senza fiatare si erano fatti picchiare dalla forza erculea di Akane.
 
No, Ryoga non le avrebbe mai fatto del male.
 
Eppure…
 
Si ritrovò tra le mani la sua lettera.
 
E, senza averlo davvero deciso, la rilesse per l'ennesima volta.
 
…Amico mio… Mi hai chiesto la più difficile delle scelte...
…Ma per l'amicizia e la lealtà che ci lega, ho scelto…
…non sono riuscito a crederla colpevole, fino alla fine...
…Con dolore…
 
No, Ryoga. Non l'hai fatto.
 
Stropicciò il foglio tra le dita, stringendo i denti.
 
Dimmi che non l'hai fatto.
 
Allontanò da sé ogni dubbio o paura con la veemenza di un pugno ottuso e ben assestato.
 
Basta!
 
Doveva arrivare al più presto. Doveva sapere.
 
Quella nave sembrava immobile e pigra.
 
Per un attimo valutò seriamente l'idea di buttarsi in mare e colmare a nuoto la distanza che lo separava dal Giappone e dalla verità.
 
Fu in quel momento che, alzando lo sguardo, si accorse che all'orizzonte si intravedeva la costa.
 
Una scarica di adrenalina lo attraversò violenta, rimpolpando ciò che bastava di quella sana arroganza che, nonostante tutto, gli usciva sempre nel momento del bisogno, tirandolo fuori dai dubbi e dai guai.
 
"Sto arrivando, Akane. Sto arrivando"
 
 
 
 
--
 
Ciao a tutti!
 
Innanzitutto grazie grazie e ancora grazie alla toccante fanart al capitolo 12 della splendida Spirit99 che mi ha fatto una sorpesa pochi minuti fa!!!! Non la trovate semplicemente meravigliosa? Davvero non ho parole…
 
Per quanto mi riguarda sono riuscita incredibilmente ad aggiornare in tempi record, considerando i miei standard! XD
D’altronde non potevo lasciarvi troppo a lungo con l’eventualità di una morte imminente..! Per quanto… ognuna delle splendide persone che mi ha lasciato una recensione al capitolo precedente e ha fatto le proprie supposizioni, ha pressocchè indovinato come sarebbe andata a finire… Ahahah!!!  Un premio a LadyChiara, Xingchan, Gretel85… Lallywhite, ci sei andata vicinissimo!  Mi avete fatto morire! Nessuna, dico nessuna che ha temuto per il peggio: la vostra fiducia in Ryoga non ha mai vacillato!... ;-)  (Ma in generale vi avverto, non abbassate la guardia, eheh!...)
 
Scherzi a parte, grazie per essere arrivati fin qui.
Il capitolo è lunghetto, in particolare la prima parte, ma per come si era fermata la narrazione ho sentito la necessità di indugiare un po’ più del dovuto nell’addio tra Akane e Ryoga e nelle emozioni che questo porta con sé.
 
Più che mai questo capitolo è un capitolo di passaggio, in cui tiro vari fili.
 
Non posso non dedicarlo a Faith, la quale dall’inizio della storia attende fedele l’entrata in scena delle sorelle! Eccoci finalmente, e con loro…Genma! (Altra carne al fuoco, tanto per annodare sempre più la vicenda).
 
Ma basta chiacchiere!
 
Ringrazio moltissimo quanti stanno leggendo, preferendo, seguendo, ricordando e soprattutto recensendo.
Col capitolo precedente siete arrivati sopra al centinaio e per me è stata un’emozione indescrivibile!
 
Un abbraccio a voi tutti!
 
E un saluto speciale alle mie Ladies!
 
Inuara
 
 

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Capitolo 14
*** La morte arriverà quando deve arrivare – PARTE I: Piacere e vendetta ***



 
Cowards die many times before their deaths;
The valiant never taste of death but once.
(…) Death (…)
Will come when it will come.
 
I vigliacchi muoiono molte volte prima della loro morte;
L’uomo coraggioso non ha l’esperienza della morte che una volta sola.
(…) La morte (…)
Arriverà quando deve arrivare.
 
Julius Caesar - W. Shakespeare
 
 
Pleasure and revenge
Have ears more deaf than adders to the voice
Of any true decision.
 
Piacere e vendetta
sono più sordi delle bisce alla voce
di una decisione giusta.

 
Troilus and Cressida - W. Shakespeare
 
 
 
 
 
Nella luce del pomeriggio filtrata dagli abeti, tre figure si stavano incamminando verso casa.
 
L'uomo sulla cinquantina era tarchiato e portava un paio di occhiali tondi, da cui guardava il sentiero, distratto. Le due ragazze al suo fianco, Kasumi e Nabiki (1), l'una docile, l'altra fiera, portavano rispettivamente una cesta carica di bucato fresco di ruscello e della selvaggina appena catturata.
Entrambe ignoravano il loro vero nome, entrambe ignoravano di essere le figlie perdute di Soun Tendo.
Ed entrambe ignoravano che, avvicinandosi verso casa, in quel momento, si stavano in effetti avvicinando alla sorella minore che, sotto mentite spoglie maschili, si stava rifocillando con la loro cena dopo aver intrapreso da ormai due giorni la strada della libertà, patendo le intemperie e soffrendo le pene del cuore e dello stomaco.
 
"Hitomi, Misaki… non muovete un muscolo", Genma si era bloccato, tutti i sensi all'erta, "C'è qualcuno in casa"
 
Lo zio era un esperto di arti marziali e se aveva percepito la presenza di qualcuno, di certo non si sbagliava.
 
Mentre senza un rumore si avvicinava cautamente alla porta di casa, a dispetto dell'avvertimento Nabiki inforcò rapida il proprio arco, pronta all'assalto.
 
Kasumi li guardò leggermente preoccupata. Non sapeva dire se in casa ci fosse davvero qualcuno, ma se qualcuno ci fosse stato, non avrebbe avuto scampo.
 
Genma spalancò la porta, contando sul fattore sorpresa. Ma immediatamente trattenne l'impulso di avventarsi contro l'impostore. Davanti a lui c'era un ragazzo, poco più che un bambino, che lo guardava spaurito con enormi occhi scuri da cerbiatto, braccato. Stupito, quasi paralizzato, lo guardava come se non sapesse cosa fare o cosa dire.
 
Lo vide deglutire e rendersi improvvisamente conto della situazione, per scattare in una posizione di difesa, che a suo modo accennava allo stesso tempo l'assetto che precede l'attacco. Possibile?
 
Lo stomaco scaldato da una cena inaspettata, Akane aveva abbassato la guardia.
 
In quella frazione di secondo in cui si era trovata a fronteggiare quell'uomo, la mente azzerata dalla paura, la ragazza ripercorse rapida gli ultimi istanti: la casa le era sembrata vuota e priva di pericoli. Chiunque l'avesse abitata non doveva essere troppo lontano, era vero, ma si era anche detta che la fame era tale che in pochi minuti si sarebbe saziata, avrebbe voltato le spalle a quel focolare e se ne sarebbe andata per la sua strada, non prima di aver lasciato qualche moneta per ripagare quel pasto benedetto dagli dei. Così -stupida, stupida!- aveva smesso di stare all'erta e si era lasciata ammaliare dal profumino della zuppa che sobbolliva sulle braci. Si era rilassata e non aveva percepito quell'uomo avvicinarsi.
 
Forte.
 
Doveva mostrarsi forte! Ma la sorpresa e la paura la stavano facendo da padrone.
 
Con uno scatto nervoso timidamente si fece schermo con gli avambracci, come per difendersi.
 
O attaccare, se necessario.
 
Pregò che non ce ne fosse bisogno. Avrebbe voluto spiegarsi ma le sembrava di non avere fiato a sufficienza. Dannazione, quella situazione era così nuova… Beccata a rubare in casa d'altri!
 
L'uomo non accennava a muoversi, preferendo guardarla perplesso.
 
Gli occhi di lei sgranati e fissi intercettarono due figure sullo sfondo dietro di lui: una ragazza ferma a guardarla e un'altra pronta a scoccare una freccia.
 
Avrebbe saputo difendersi, ma davvero sarebbero arrivati a quello? E ce l'avrebbe fatta?
 
I nervi tesi come fasci, si chiese se realmente avrebbe avuto abbastanza energia per combattere.
 
Ritrovò, non si sa come, il fiato.
 
"Vi prego, le armi no!"
 
La voce! Andava camuffata, resa simile a quella di un uomo…!
 
"Le armi no…", continuò con la voce ingrossata, un po' roca, "Chiedo perdono per la mia intrusione… Ma non c'era offesa, ve lo giuro!"
 
Tremava ma non doveva darlo a vedere. Cosa le avrebbero fatto?
 
"La fame… la fame mi ha spinto a entrare… ma vi avrei ripagati per la vostra ospitalità…  Non rubo mai, lo giuro! Ho dei soldi qui con me! Li avrei lasciati qui, per la cena…"
 
Si affrettò a tirare fuori dalla bisaccia alcune monete che Ryoga si era premurato di lasciarle insieme al cibo e le posò con un gesto goffo sul tavolaccio di legno accanto a lei.
 
"Soldi?", Nabiki alzò un sopracciglio. Quel ragazzo beccato di soppiatto non solo non sembrava rappresentare per loro il minimo pericolo, ma si preannunciava anche un diversivo curioso e molto divertente.
 
"Che l'oro e i soldi vadano all'inferno... Non danno alcun conforto", decretò Genma brusco, ma con ben poca convinzione, più per intimorire il ragazzo che altro. Mentre si intascava distrattamente le monetine, aggiunse, per cambiare discorso: "Dove stavi andando, ragazzo?"
 
"A… A Hakata, signore! Ho lì dei parenti che mi aspettano… Ma non conosco bene la strada e temo di essermi perso…"
 
"Come ti chiami?", intervenne Nabiki, facendo capolino da sopra la spalla dello zio, l'arco ormai abbassato.
 
"Ak… Akira…! Il mio nome è Akira! (2)", presa alla sprovvista, Akane si meravigliò di come in certe circostanze la paura sia in grado di allargare la mente in pochi istanti, così da correggere gli errori e indirizzare verso risposte celeri.
 
"E' un bellissimo nome", a parlare era stata la ragazza più grande, che si stava avvicinando rivolgendole un sorriso. Un sorriso! A lei che aveva depredato la loro cena! "Lasciatelo stare", continuò in un tono dolce e materno ma che non ammetteva repliche, "Non vedete che è stremato e ha paura? Non temere, non ti faremo del male"
 
"M-ma certo ragazzo", aggiunse Genma, intenerito, rendendosi conto che non se l'era presa davvero a male. Erano i tanti anni trascorsi nel bosco che l'avevano invero indurito, almeno apparentemente. "Sei il benvenuto! Puoi passare qui la notte"
 
"Ti preparo subito un futon con un po' di paglia!", si intromise Nabiki, euforica, "Se… se non ti dispiace… Sembri un tipo delicato", cinguettò mentre armeggiava con delle lenzuola, facendo l'occhiolino.
 
Akane arrossì d'imbarazzo, ma non riuscì a trattenere un sorrisetto di gratitudine: "No, la paglia va benissimo"
 
Si sentì inspiegabilmente a suo agio in mezzo a quelle persone.
 
Avvertì i muscoli rilassarsi e l'aria calda della capanna entrarle nelle narici. Aveva bisogno di cibo, di calore, di un posto sicuro dove dormire. E li aveva trovati. Ma aveva trovato anche qualcosa di più.
 
Mentre la stanchezza le calava lungo la spina dorsale e le gambe cominciavano a tremarle ribelli, si volse, forse un po' rallentata, a osservare "la ragazza dell'arco" che ammiccava complice mentre preparava il suo giaciglio e "quella dal bel sorriso" che si inchinava appena, le metteva in mano un bicchiere di tè bollente e le diceva qualcosa, qualcosa che non riusciva a decifrare in quel momento, ma che doveva essere dolce, tanto dolce. Forse avrebbe dovuto inchinarsi anche lei…
 
L'uomo aggiunse un paio di parole e le chiuse con una pacca sulla spalla un po' rude, seguita da una fragorosa risata.
 
Mentre lo stomaco si distendeva satollo e la testa cominciava a girarle, Akane si convinse che nessuno al mondo era più felice di quelle persone e che avrebbe volentieri voluto essere davvero il ragazzo che si fingeva e vivere per sempre lì con loro.
 
Mentre le palpebre le si abbassavano traditrici e le forze la abbandonavano, ebbe appena il tempo di formulare: *Tanto per Ranma non esisto più*, che si lasciò cadere tra le braccia del sonno, dell'oblio e di un Genma allarmato che la prese al volo, poco prima che toccasse terra. Avrebbe giurato di aver visto per un attimo un'ombra di tristezza sul bel volto di quello strano ragazzo.
 
 
 ***
 
 
 
Due giorni prima.
 
 
 
L'aria era ancora frizzante sulla sua pelle sudata e il sole non ancora alto in cielo.
 
Era arrivato in tempo.
 
Se la fortuna lo aiutava ancora un po', nessuno si sarebbe accorto della sua escursione notturna.
 
Era passata da poco l'alba e Ryoga ansimava per la corsa. Aveva lasciato i cavalli poco lontani dalle mura, li avrebbe recuperati nel viavai di mezzogiorno.
 
Era arrivato che la grande casa ancora si stava svegliando.
 
Ce l'aveva fatta.
 
Fu allora che la vide, mentre si stringeva nelle spalle, sulle mura, in attesa di lui, sola grazie a un espediente simile a quello che la sera prima aveva permesso la fuga.
 
Gli parve più piccola e più scarna la sua Ukyo, quella mattina.
 
Ma anche lui era diventato un po' più maturo quella notte, e stanco e infreddolito, di un freddo di quelli che ti si appiccicano alle ossa e nemmeno il caldo estivo riesce a estirpare del tutto.
 
Lei lo aspettava da ore, gli occhi segnati di viola fermi a scrutare prima il buio, poi il chiarore dell'alba e infine ogni indizio che all'orizzonte parlasse di lui e del suo ritorno.
Paziente, aveva lasciato che lo scorrere del tempo la sfinisse, come una sanguisuga di cui si ignora la presenza, che prosciuga le vene goccia a goccia, lentamente, meticolosamente.
 
Era rimasta ferma, ma la certezza era venuta sempre meno in quel corpo che tentava di reggersi in piedi, la testa alta sul collo sicuro. Gli occhi gonfi, i denti stretti e una piccola ruga tra le sopracciglia tradivano un nervosismo ormai al limite.
 
Con pochi balzi studiati le fu accanto e la guardò colpevole, senza dire niente.
 
Ukyo, dapprima sorpresa nel vederselo comparire lì davanti, scattò contro di lui assalendolo con una forza che non credeva di aver accumulato, in quelle ore.
 
"Dimmi la verità!", gli sibilò tra i denti, tirandolo per la camicia, "La verità!"
 
Fu un tutt'uno l'abbraccio che la bloccò e con cui se la tirò dietro in un balzo giù dalle mura dove di lì a poco sarebbero tornate le sentinelle, in una corsa silenziosa e rapida verso un angolo remoto del palazzo, in uno dei giardini più interni e meno battuti.
 
Si ritrovò lì, Ukyo, all'ombra di una grande magnolia che cresceva a ridosso della casa, schiacciata tra il muro freddo e il petto di lui, che la stringeva forte. "Ucchan, scusami… scusami se puoi", le sussurrava in un orecchio.
 
Perché si stava scusando?
 
Perse il conto di quanti battiti le partirono in quell'istante.
 
Si stavano forse realizzando le sue paure della notte precedente? L'incubo che aveva fatto corrispondeva forse a realtà?
 
Perché, perché non riusciva a decifrare nulla che le fosse di risposta in quel tono così stanco e così triste?
 
Erano passati solo pochi secondi dal loro incontro, ma lei non poteva aspettare.
 
Si divincolò dall'abbraccio per guardarlo negli occhi nella speranza di leggervi ciò che non riusciva a carpire dalle parole, e lo allontanò da sé con due mani pigiate contro il suo petto, nel tentativo di mantenere la lucidità e trovare a tutto ciò un senso di cui aveva disperatamente bisogno.
 
Ma ciò che trovò furono invece delle piccole macchie e degli schizzi di sangue sulla camicia di lui, lì, davanti al suo sguardo spalancato, di un bel rosso ancora vivo.
 
Immobile, solo la voce le tremava visibilmente.
 
"La verità… voglio la verità… Che diamine è successo là fuori, nel bosco?"
 
Fu solo allora che lui si rese conto della gravità del malinteso e che la sua Ukyo stava fraintendendo le scuse per averle omesso un piano tanto difficile, con la crudezza di quell'atto che aveva lottato per evitare.
 
"Che idiota che sono! Non è come credi, Ucchan!", si affrettò a spiegarsi. Possibile che fosse stato tanto ottuso, e lei così sveglia? "Akane-san sta bene, è salva e… e io non le torcerei mai un capello! Perdonami per non averti detto niente…! La verità è che…"
 
E mentre le parole di Ryoga si rincorrevano veloci per raggiungerla in qualunque posto si trovasse in quel momento la ragazza, per tirarla fuori dal terrore in cui era caduta, Ukyo sentì l'aria farsi nuovamente spazio nel polmoni e, a poco a poco, ritrovò la calma, la verità e il significato di ogni azione, paura e macchia di sangue.
 
 
 
Ancora scossa, Ukyo tirò su col naso, appoggiandosi a Ryoga.
 
"Hai capito, Ucchan? Ora bisogna stare attenti"
 
La ragazza annuì debolmente, con gli occhi gonfi che tentavano di farsi fieri. Il magone si era sciolto in singhiozzi quando aveva scoperto non solo che Ranma non si era presentato all'incontro ma che anzi fosse del tutto impazzito e avesse preteso di ordire una trappola mortale attirando Akane fuori dal palazzo.
Insieme al dolore era saettata la rabbia e Ryoga aveva pregato che non urlasse, attirando così orecchie indiscrete. Si era morsa il labbro, facendolo sanguinare e inghiottendo l'amarezza dell'impotenza.
 
"Un demone si è impossessato di lui, non c'è altra spiegazione!"
 
Ryoga sembrava soprappensiero. "Tutta questa storia è strana e giuro… giuro che vi andrò fino in fondo in un modo o nell'altro"
 
Lo guardò in un misto di amore e risentimento. Le aveva taciuto ogni cosa. Lui solo aveva voluto portarsi il fardello dell'intera faccenda.
 
In qualche modo lo capì.
 
"Cosa dobbiamo fare adesso?", si risolse di chiedere, pratica.
 
"Comportarci come se la principessa fosse ancora qui. Col vecchio Happosai lontano e la vecchia chissà dove… dobbiamo temporeggiare. Soun-sama non le ha rivolto la parola ormai da giorni e questo giocherà a nostro favore. Non sarà difficile far credere che se ne stia barricata in camera. Inoltre tutto questo trambusto terrà impegnati i fratelli Kuno ancora per un po'"
 
Ci fu un timido silenzio.
 
"Sta per cominciare una guerra, Ryoga"
 
"Sì", sospirò lui, "E dobbiamo credere che vedremo la sua fine, anche perché la nostra… è già cominciata"
 
"Vuoi dire che…?"
 
"E' solo questione di tempo… ma scopriranno che Akane-san non è più al palazzo e non oso immaginare cosa…"
 
Gli tappò la bocca con un bacio.
 
Non c'era bisogno di aggiungere altro.
 
Sapeva a cosa stavano andando incontro. Lo sapeva dalla notte in cui aveva sistemato sul capo della principessa quel velo da sposa improvvisato che aveva confezionato di nascosto solo per lei. Lo sapeva e non aveva avuto paura. E, senza rinnegare in ogni caso una buona dose di prudenza, non ne avrebbe avuta neanche adesso.
 
 
 
***
 
 
 
Nessuno in effetti si accorse dell'assenza di Akane Tendo.
Ryoga e Ukyo furono abili a mostrarsi sempre impegnati, a farsi vedere in giro, disponibili ogni volta che c'era bisogno di braccia, e al contempo a non allontanarsi mai troppo dall'ala dove si presumeva si chiudesse la principessa in un ostentato silenzio. Soun-sama non chiese mai di lei, limitandosi a domandare se qualcuno le portasse un vassoio con due pasti al giorno, cosa che furbamente l'ancella non tentò di nascondere. Da parte sua Kuno era febbrilmente impegnato con le reclute, riversando su di loro la rabbia della sconfitta e l'odio della vendetta.
 
Il primo giorno scivolò via veloce senza che nessuno parve notare nulla di strano, e poi quello dopo, e quello dopo ancora. Passarono così alcuni giorni. Ogni sera Ukyo si chiedeva se la sua padrona fosse salva, ovunque si trovasse, ogni mattina Ryoga ringraziava i kami di non essere ancora stato scoperto.
 
Un altro giorno era passato. Mentre si affrettava a sellare i cavalli di un importante vassallo in partenza, Ryoga si ritrovò a pensare che forse stavano davvero riuscendo a farla franca.
Era passata un'ora dal tramonto. Una strana agitazione serpeggiava da quel pomeriggio nella guarnigione e neppure l'ultimo tra i servi della grande casa era estraneo alle voci che volevano la battaglia ormai imminente, praticamente dietro l'angolo.
 
Kuno si aggirava inquieto nell'aria della sera.
 
Si ritrovò a fissare feroce le finestre buie della camera della fidanzata. Akane Tendo doveva essersi coricata già da un pezzo.
 
"Che c'è fratellino? Aspetti che la tua bella esca dalla stanza?"
 
Melliflue, le parole di Kodachi avevano tagliato il silenzio, insinuandosi come olio bollente nelle orecchie di Tatewaki.
 
Lui si voltò di scatto verso di lei, come una bestia che tenti di scacciare un tafano, ma senza riuscirci.
 
"Va' a divertirti con altri trastulli, sorella. Tempo non è per me di ascoltare le tue perfide ciarle", tagliò corto, infastidito per essersi lasciato cogliere di sorpresa.
 
Immobile, nell'ombra, Kodachi non si fece intimidire. Le sue labbra scure ripresero a muoversi, ipnotiche.
 
"Non trovi strano che non si sia fatta vedere da giorni?"
 
Lui rimase in silenzio, guardando la finestra di lei e di nuovo fisso davanti a sé.
 
"Non lo pensi anche tu? Va bene essere testarde, ma così, mio caro, è troppo"
 
Kuno cominciò ad annuire lentamente.
 
"Suo padre è troppo tenero con lei", continuò la giovane donna, "Io dico che è giunto il momento di farle capire chi comanda. Sei un uomo, fratello. O mi sbaglio? E futuro padrone di questo palazzo e queste terre. E' nel tuo pieno diritto entrarle in stanza e…"
 
"Fa' silenzio", la fermò tentando di mantenere il suo contegno ma bruciando di desiderio. E le parole che vennero dopo lo confermarono: "Non ho ulteriore bisogno che tu prosegua. Riscontro una saggezza nelle tue parole che ho in animo di cogliere. Convengo, sorella, convengo. Avrei dovuto entrare in quella stanza da tempo"
 
E lasciandola a gongolare per la riuscita, si diresse a passi pesanti verso la camera della principessa, soffiando tra i denti: "Al diavolo…! Akane Tendo, preparati!"
 
Fu questione di pochi secondi.
 
La porta fu spalancata con folle determinazione.
 
La stessa determinazione vacillò quando Kuno si rese conto che la stanza era vuota.
 
E allora venne rimpiazzata da un insano presentimento.
 
Un solo urlo: "Sasuke!", e dopo poco il viscido ninja si materializzò col capo chino davanti a Kuno.
"Mio signore, al vostro servizio"
"Cercala. Cercala in ogni angolo della casa. E vieni a informarmi immediatamente"
Non c'era bisogna di nominarla. Il servo comprese e sparì così com'era comparso.
 
Kuno non pensò a nulla, gli occhi chiusi, in attesa, concentrandosi unicamente sulla rabbia che gli friggeva le viscere e che si sforzò di trattenere minuto dopo minuto.
 
Non passò troppo tempo che Sasuke riapparve. Bastarono quattro parole: "Di lei nessuna traccia"
 
E una furia omicida si impossessò di lui.
 
La buona sorte volle che né Ryoga né Ukyo si trovassero in quel momento a incappare in Kuno Tatewaki. E nessuno per fortuna parve fare collegamenti di sorta e pensare a loro, che, ignari, erano stati trattenuti altrove.
 
Come un tornado piombò nelle stanze di Soun Tendo e fu nuovamente una fortuna che nel percorso ritrovò quanto bastava della sua lucidità per gettare in faccia al sovrano tutta la sua inettitudine, certo, ma almeno non una violenza cieca e distruttrice.
 
"Fuggita! Fuggita da sotto il nostro naso", tuonava Kuno incombendo sul principe che lo guardava atterrito, incapace di mandare giù la notizia appena ricevuta.
 
"A-Akane", balbettava tra sé e sé, "Perché..? Figlia mia… Cos'ho fatto?!…", si chiese con orrore.
 
La giovane moglie gli stava accanto, accarezzandogli una spalla, segretamente compiaciuta che il tarlo che aveva messo nella mente del fratello coincidesse davvero con la realtà.
 
Il destino le era benevolo: con la figliastra fuori dai giochi la sua ascesa al potere era sempre più vicina. E poco importava dove fosse finita. Se si fosse ripresentata l'avrebbe uccisa con le sue mani.
 
Soun continuava a scrollare la testa e a sussurrare: "Fuggita…"
 
A trarlo d'impaccio venne un problema maggiore.
 
Senza essere stato annunciato irruppe nella stanza un messaggero, affannato, bagnato di sudore e col volto stravolto.
 
"Mio signore…! Le… le truppe cinesi stanno… stanno avanzando… La guerra! La guerra è cominciata…!"
 
Kodachi si coprì la bocca con una mano leggiadra, soddisfatta fin nel midollo.
 
Il ragazzo, stremato, fu per accasciarsi, ma Kuno glielo impedì, afferrandolo per le spalle e scuotendolo come un burattino, più per sfogare la propria ira che per una genuina reazione alla terribile notizia.
 
"I dettagli! Dacci tutti i dettagli!"
 
E mentre coscienziosamente il messo si sforzava di fornire le informazioni richieste nonostante la sete e la stanchezza, Soun si fece da parte e, suo malgrado, si riebbe.
 
Inspirò profondamente e sollevò il capo.
 
"La guerra. Moglie mia, ciò che più temevamo è infine avvenuto"
 
Kodachi inclinò il capo affranta, con un guizzo mal celato nello sguardo.
 
"Le truppe che sono già partite hanno bisogno di me", continuò grave il principe. "Parto subito, con la mia guarnigione. Mia figlia…", la voce gli tremò sensibilmente, "Spero per lei che sia già ben lontana da tutto questo. Devo confessarti che la rabbia che provo per il suo atto di ribellione è nulla in confronto al terrore di saperla non più al sicuro. Non posso immaginarmela là fuori, in mezzo a tutti quei pericoli… alla mercè del nemico. E perciò ecco cosa ho deciso", proseguì facendosi forza, "Verrà annunciata pubblicamente la sua morte"
 
Kodachi trattenne in ghigno.
 
"… una morte per malattia improvvisa. Se dovesse trapelare che è fuggita, i Cinesi potrebbero trovarla e tenerla in ostaggio per trattare la nostra resa… o peggio. Non posso permettermelo"
 
Congedato il ragazzo, Kuno si era avvicinato e aveva ascoltato con interesse le ultime parole.
 
"E' col cuore gonfio che vi chiedo di non fare parola con nessuno della realtà dei fatti. Kuno, ragazzo mio, lascio a te il compito di diffondere questa falsa notizia. Infine mi raggiungerai in battaglia con le ultime truppe. Kodachi, ti occuperai della gestione della casa e delle mie terre. So che saprai amministrare con parsimonia e saggezza durante la mia assenza e voglio sperare che la battaglia non arrivi fino a qui. E spero di vedere giorni migliori, riunito a voi... e ad Akane"
 
Li guardò con un sorriso mesto: entrambi i fratelli annuirono solenni.
 
"Vi chiedo solo di non abbandonarmi al mio destino. Non ancora. La notte non è poi così lunga e bisogna organizzare la partenza e… avvisare il palazzo che la guerra è cominciata"
 
Uscendo dalla stanza ognuno di loro pigiò in fondo al proprio cuore ciò che realmente stava provando in nome delle contingenze che avevano la priorità, rimandando al giorno dopo chi il dolore, chi la vendetta, chi le macchinazioni.
 
Fu per questo che anche quella notte, almeno nella prima parte di essa, Ryoga e Ukyo dormirono sonni tranquilli. E quando  vennero svegliati di soprassalto con la notizia di essere in guerra e si tuffarono nella frenesia della casa come tutti gli altri, neanche potevano immaginare cosa realmente stava incombendo su di loro.
 
 
 
***
 
 
 
Kasumi provava un segreto piacere ad alzarsi prima degli altri, quando ancora il sole non osava affacciarsi al mondo, ma i primi cinguettii già lo salutavano. Senza fare alcun rumore anche quella mattina si mise uno scialle sulle spalle infreddolite e sorrise al giorno che stava per arrivare, cominciando con grazia a preparare l'acqua calda per il tè.
 
La capanna era molto piccola e dormivano tutti nello stesso spazio. Da dove si trovava riusciva a scorgere quel ragazzo, Akira, mentre dormiva rannicchiato. La inteneriva guardare quell'espressione rilasciata e serena. Sembrava ancora più un bambino, il viso liscio e imberbe, le lunghe ciglia nere.
 
Non aveva conosciuto molte persone in vita sua e non sapeva cosa lo teneva sveglio la notte e gli incupiva lo sguardo di giorno.
 
Quello che sapeva era che le piaceva vedere come si sforzasse di essere forte, di sostituire la tristezza coi sorrisi, di prodigarsi in mille modi per ringraziare dell'ospitalità.
 
Da quando era arrivato nelle loro vite i giorni erano volati. Ogni mattino si alzava deciso a congedarsi, ma le rimostranze di lei, della sorella e sì, anche di zio Genma, lo trattenevano. E puntualmente ogni sera Nabiki gli preparava il futon.
 
Aveva intuito che anche lui fosse orfano di madre.
 
Sapeva bene, lei, cosa significasse crescere senza una mamma che ti conforti e ti abbracci quando avresti solo voglia di piangere. Non che fosse mai stata sola. O davvero triste. Ma comprendeva con una saggezza innata la sua condizione.
Ci avrebbe pensato volentieri lei ad abbracciarlo, e si era permessa una carezza sul capo ogni tanto. Il ragazzino sorrideva, scosso dalla timidezza e dalla sorpresa.
 
Guardandolo, le sembrava di avere davanti un pentolone su fiamma viva, un pentolone di emozioni che bolliva impazzito, facendone di tanto in tanto schizzare via qualcuna in tutta la sua interezza.
Nessuno, da dove veniva, doveva avergli insegnato a celarle.
 
Di contro, era di poche parole. Non gli avevano fatto domande, non ancora, e lui li guardava con gratitudine per questo.
Era evidente che si portasse un macigno dentro e che non avesse voglia di parlarne.
 
La sorella fremeva, voleva chiedergli tante cose, ma era stato poco bene, fiaccato dal freddo e dalla fame e aveva avuto bisogno di riprendersi. Lei gli aveva preparato i suoi piatti migliori, per rimetterlo in salute; Genma l'aveva portato nel bosco a prendere aria e sole e persino la sorella non gli toglieva gli occhi avidi di dosso.
 
Quella Misaki… Aveva patito più duramente di lei l'imposizione a restare lontano dalla società e ora ambiva carpirne qualche informazione, ma aspettava il momento più opportuno.
 
Forse quello sarebbe stato il giorno giusto, chissà?
 
Guardò fuori dalla finestrella.
 
La bruma stava salendo placida dalla terra, rendendo lattiginosa la visuale.
 
Kasumi non si fece intimorire. Si sistemò meglio lo scialle e con un sussurro che poteva essere accolto o allontanato nell'eco di un sogno, sentenziò: "La colazione è pronta!"
 
 
***
 
 
 Un'insana nebbiolina copriva la radura dove erano schierate le truppe di Soun-sama.
 
Il loro sovrano si stagliava davanti a quei volti giovani che lo guardavano in attesa di una parola, una mossa, un comando, mentre dalle loro bocche piccole nuvole di vapore ricordavano quanto fosse freddo il giorno che doveva iniziare.
 
Li scrutò a sua volta, bardato nella sua armatura, e realizzò che quella radura presto sarebbe diventata campo di battaglia. Che molti di quegli sguardi si sarebbero spenti di colpo, tra schizzi di sangue, e vedove, e orfani.
 
Come era arrivato a quel punto?
 
Non osò neanche cercare una risposta o le forze l'avrebbero abbandonato e la sconfitta sarebbe stata una certezza.
 
Aveva ancora qualcosa per cui lottare. Una vana speranza, a cui tentò di uncinare i propri pensieri, scacciando il resto. E in nome di quella speranza doveva millantare una realtà ben più cupa, pur restando fedele a se stesso.
 
"Amici. Non vi chiederò di lottare per qualcosa che non conoscete. Vi chiedo anzi di lottare per le vostre terre, le vostre madri, le vostre mogli, le vostre figlie. Io oggi ho perso la mia"
Un mormorio stupito si impadronì delle fila, ma svanì subito in un rispettoso e angosciato silenzio.
"Una malattia sconosciuta me l'ha strappata. Con la morte nel cuore… non smetterò di lottare. Lotterò per la terra che l'ha vista nascere. Lotterò per il mio e il suo popolo"
 
Uno strano silenzio gonfio di compassione seguì quelle parole.
 
Poche asciutte parole di un condottiero segnato dalla sofferenza.
 
Girava voce che ci fossero dei dissapori tra Soun Tendo e la sua unica erede.
 
Ma quella era senza ombra di dubbio la voce di un padre distrutto dalla morte della propria bambina.
 
Nell'urlo di guerra che divampò urgente vi era un misto di fratellanza, orgoglio, onore, ma soprattutto una sincera reverenza nei confronti del principe e un omaggio sentito alla bellissima e dolcissima principessa Akane, morta troppo presto e in circostanze troppo tristi.
 
 
 
***
 
 
Il palazzo era circondato dallo spettro del silenzio.
 
Seduto immobile sul masso di un cortile ormai deserto, Kuno masticava livido la propria bile.
 
L'alba era ancora lontana e sapeva che avrebbe dovuto inviare verso le quattro direzioni il messaggio della morte della Akane Tendo. Avrebbe dovuto anche fare un annuncio ufficiale nel palazzo, a ben pensarci.  Ma non riusciva a muovere un muscolo.
 
Paralizzato dal rancore.
 
A dispetto di ogni apparenza, strategia o etichetta, lei era là fuori che se ne scorrazzava libera.
 
Sentì il sangue schiumare nelle vene.
 
Da quanto tempo era sgattaiolata fuori dal castello? Si era forse già riunita a quel suo amante? Quel vile scarto umano?
 
Scacciò l'ipotesi con stizza.
 
Se l'avesse avuta tra le mani non si sarebbe fatto remore a torcerle finalmente quel collo bianco e sfacciato. Non prima di essersi preso con la forza ciò che aveva bramato sin dal primo istante.
 
Ma lei era chissadove, lontana, inagguantabile.
 
"Cosa credi, mica se ne è uscita dal palazzo da sola… E' stata chiaramente aiutata"
 
Ancora una volta in quella lunga notte la voce della sorella lo colse di sorpresa. Ma questa volta non se ne meravigliò troppo. Si voltò anzi a guardarla accigliato, in attesa che lei andasse avanti.
 
"Non riesci a immaginarlo?"
 
Una mezza idea cominciò a farsi strada nella sua testa. Lei gliela confermò.
 
"Quei due bastardelli. L'ancella che si prende cura della tua sciocca fidanzata e il servo con la bandana che le fa da cagnolino"
 
Si sentì uno stupito a non averlo realizzato prima. Al diavolo anche loro.
 
Kuno si alzò di scatto e fece per andarsene.
 
"Pare che…", si sentì artigliare da Kodachi, ma a ben guardare, la sorella non lo stava nemmeno toccando, "… pare che ci sia del tenero tra i due"
 
Registrò l'informazione e, senza dire nulla, si dileguò.
 
 
 
 
C'era una strana tensione nell'aria.
 
Persino gli uccelli del mattino non stavano cinguettando come di consueto. Che sentissero l'odore della guerra?
 
Ryoga scosse il capo. Non si sentiva tranquillo.
 
Ukyo aveva preparato il vassoio della colazione e si era diretta risoluta verso le stanze delle principessa. Come sempre.
 
Eppure qualcosa non gli tornava.
 
Non era strano che Soun-sama non avesse chiesto della figlia prima di abbandonare il palazzo forse per sempre? Era in rotta con lei, certamente, ma una guerra è sempre una guerra…
 
Lì per lì non aveva avuto il tempo di pensarci, sconvolto dalla notizia e impegnato dai preparativi.
 
In quel momento realizzò che il palazzo era in mano ai fratelli Kuno.
 
Sentì un brivido scorrergli lungo la schiena.
 
C'era troppo silenzio e Ukyo non era con lui.
 
Strinse i pugni e cominciò a correre.
 
 
 
 
"E' commovente come vi ostinate a coprire il suo egoismo"
 
Ukyo sussultò e il vassoio quasi le cadde dalle mani.
 
Nell'ombra del corridoio antistante la camera di Akane, non riuscì a distinguere i contorni dell'uomo che le aveva fatto la posta, ma ne riconobbe con orrore la voce.
 
"Mio signore, non vi avevo visto"
 
"Di questo sono certo"
 
Giurò che ci fosse un sorrisetto dipinto sul volto di Kuno.
 
Lei era lì, col fiato sospeso, gli occhi dilatati. Il leggero tintinnio provocato dalla piccola teiera di ceramica al centro del vassoio contro il bicchiere da tè, ne tradiva un tremito crescente.
 
Osservò compiaciuto la sua preda. Ma non indugiò oltre. Era lì per arrivare al punto.
 
"Stavo dicendo che siete testarda almeno quanto lei nel promuovere questa sua reclusione"
 
Ukyo non sapeva cosa dire. Non riusciva a pensare.
 
Kuno volle facilitarla. Indicò con mano elegante la porta chiusa tra di loro.
 
"Sto parlando di Akane Tendo"
 
La ragazza annuì debolmente.
 
"Il padre è partito e nemmeno una lacrima, un saluto?"
 
Come Ukyo aprì la bocca lui le fu addosso, la mandibola sottile di lei stretta tra le dita rudi.
 
"Mi sembra un po' strano, non credete?", le alitò sul volto pallido.
 
L'eco del vassoio schiantatosi a terra fu l'unica risposta a quella domanda.
 
La lasciò di scatto e per un attimo le diede le spalle, come per raccogliere le idee di fronte a tanta passività.
 
"Fo…forse", azzardò Ukyo, "Forse la signorina è in un'altra parte del palazzo… io non…"
 
Si voltò furente e il gesto fu un tutt'uno con la voltata. Lei non lo vide nemmeno arrivare, ma sentì il volto girarsi e le sembrò che l'occhio schizzasse via per l'impatto.
 
Si ritrovò a terra, scaraventata violentemente dallo schiaffo di Kuno, mentre lui se ne stava ancora con la mano alzata.
 
"Mi si crede così stupido da credere a simili sciocchezze?", tuonò.
 
Lacrime di rabbia e frustrazione le bruciarono sul volto che si stava gonfiando. Avrebbe voluto reagire, ma non poteva in quel momento, o tutto sarebbe stato perduto.
 
Ma non era ancora finita.
 
La afferrò per il colletto della veste e la tirò su con una facilità disarmante. Lei si sentì soffocare. Iniziò a salirle in gola la paura di non uscirne viva e si dibattè come una trota fuori dall'acqua, boccheggiando.
 
"Ora! Voglio sapere ora dove è andata quella sgualdrina di Akane Tendo!"
 
Fece per scaraventarla contro la parete di carta di riso, che sicuramente sarebbe crollata per l'urto, ma fu qualcos'altro che urtò violento contro di lui, facendogli perdere la presa su Ukyo, che cadde a terra tossendo, sgomenta di fronte alla scena che le si presentò.
 
Ryoga era spuntato dal nulla e si era gettato brutale contro Kuno, placcandolo alla vita e spingendolo via con una forza disperata e un grido inumano: "Lasciala stareeee!!"
 
Stordito dalla situazione inaspettata, Kuno non ebbe il tempo di riprendersi che fu atterrato da un pugno e si ritrovò Ryoga cavalcioni. Il ragazzo lo teneva per la stoffa del kimono ed era pronto a concedersi una raffica di buone ragioni sul viso di quello psicopatico, ma lottava allo stesso tempo con il buon senso che lo aveva trattenuto fino a quel giorno, fino a quel momento, il momento in cui aveva visto la sua Ucchan tra le mani del nemico.
 
Kuno seppe cogliere la crepa nel comportamento del suo assalitore e vi si insinuò immediatamente nel modo più vigliacco che poté. Con un urlo furibondo: "Guardieeee!!!"
 
Ryoga si gelò, turbato, senza capire davvero ma senza mollare la presa.
 
"Ukyo, scappa…", fece appena in tempo a dire, che Kuno lo freddò trionfante: "Non farà in tempo. Verrà acciuffata e uccisa sotto i tuoi occhi. Ma non preoccuparti. La seguirai subito dopo. A meno che…"
 
Ryoga tremava di rabbia.
 
"A meno che non mi diciate dove se ne è andata la vostra principessina"
 
"Questo mai!", ringhiò Ukyo, che non aveva ormai più nulla da perdere.
 
Ryoga sentì un tafferuglio scomposto in cortile. Delle sentinelle stavano cercando di capire da che parte fosse venuto il grido del loro padrone.
 
"A te la scelta", lo incalzò Kuno, "Vuoi forse farti trovare così?"
 
Il ragazzo con la bandana guardò Ukyo, rannicchiata a terra, scomposta e furente. E cominciò ad allentare la presa.
 
"Chi mi garantisce che non saremo comunque perduti?"
 
Ukyo sussultò. Cosa aveva in mente Ryoga?
 
"Kuno Tatewaki mantiene le sue promesse", rispose lui sprezzante.
 
Con uno scatto si scrollò di dosso il ragazzo con tutto il suo peso. Sfilò la katana.
 
In una frazione di secondo a Ryoga si azzerò la salivazione.
 
Ma gli occhi folli di Kuno non mentivano.
 
La katana fu lanciata lontano.
 
Erano altre le motivazioni che lo muovevano, al di sopra di loro due e della misera vendetta consolatoria che avrebbe avuto sfogandosi su di loro.
 
"Guardie!", Kuno attirò la loro attenzione sporgendosi personalmente dalla finestra dopo essere entrato nella camera vuota di Akane.
 
"Perdonatemi, uomini solerti! Il buio dell'ora accompagnato alla stanchezza degli ultimi eventi ha invero ingannato la mia persona. Mi parve di vedere ombre nella casa, ma non di Cinesi si trattava. Soltanto di ombre. Andate con calma ritrovata. Nulla qui è fuori posto"
 
Un po' confusi ma incapaci di controbattere alle stramberie che non di rado si alternavano alla violenza del loro padrone, gli uomini si dispersero volentieri dopo aver fatto il saluto militare.
 
Kuno si voltò.
 
Aveva fatto la propria mossa.
 
Ora toccava allo straccione e a quella sua insulsa concubina, che lo guardavano incapaci di comprendere davvero la loro fortuna, come se ancora si stessero chiedendo come agire.
 
Sciocchi.
 
Conficcò lo sguardo in quello di Ryoga.
 
Le farò del male, diceva quello sguardo. La sentirai urlare e piangere, e a cosa sarà valsa tanta sofferenza? Lo sai bene: non la mollerò finchè non parlerai.
 
Ukyo non capiva, si sentiva venir meno la terra sotto i piedi. Qualcosa stava accadendo e lei non avrebbe saputo dire cosa.
 
Kuno conficcò lo sguardo in quello di Ryoga. E lui non riuscì a sostenerlo oltre.
 
"E sia", concesse, e non diede alla ragazza il tempo di fermarlo, "Akane Tendo è scappata da oltre una settimana in direzione di Hakata, nella speranza di trovare una nave che la portasse in Cina dal… dal marito"
 
A quell'odiata parola Kuno reagì dandosi un pugno di stizza contro la coscia e lo sguardo perso nel vuoto.
 
"Questo è tutto da vedersi", gli sentirono mordere tra i denti prima che li lasciasse come nulla fosse stato, dimentico di loro e del loro ridicolo destino.
 
Erano solo mosche sul suo cammino, e non avrebbe sprecato tempo a liberarsene.
 
Altri progetti l'immediato futuro riservava a Kuno Tatewaki.
 
Doveva fare presto. Raggiungerla, scovarla, e…
 
 
 
Lo vide sparire nel buio del corridoio, ne udì i passi lontani e non gli parve vero.
 
Erano salvi.
 
LEI era salva.
 
Subito le fu accanto.
 
Una mano le strinse dolce la schiena, l'altra le trovò il viso tumefatto e ne carezzò appena le guance bagnate.
 
"Ryoga", singhiozzò lei, "Ryoga… Cosa… cos'hai fatto?"
 
Ma a dispetto delle parole che riuscirono a farsi strada e del rimprovero e della paura, voleva solo dirgli grazie.
 
Lui capì.
 
"Ucchan…"
 
Furono le sue guance allora a bagnarsi.
 
E sperò solo che Akane fosse già in salvo da tempo, che ci fossero Hiroshi e Daisuke a proteggerla, che con un po' di fortuna la mezza bugia che aveva detto a Kuno l'avrebbe portato fuori strada. E che se davvero era ormai impazzata, ci avrebbe pensato la guerra a impedire a Kuno di procedere, bloccandolo tra i due fronti.
 
Così almeno sperava, stretto a Ukyo, mentre pregava in silenzio.
 
 
 
***
 
 
 
Akane, le maniche rimboccate fin sopra i gomiti, cercava di dare una mano come poteva. Mentre Kasumi pelava delle carote per il pranzo seduta davanti all'uscio e Nabiki ne rosicchiava indolente una già pronta, Akane spaccava la legna da una buona mezz'ora a mani nude, sfruttando le proprie capacità di esperta nelle arti marziali così da impegnare allo stesso tempo il corpo e lo spirito e allontanarli dai pensieri cupi che la scovavano non appena si fermava.
 
"Akira, ma dove hai imparato?", chiese Nabiki che non gli toglieva gli occhi di dosso.
 
"Mi ha… mi ha insegnato un Maestro delle mie parti"
 
"Anche zio Genma è capace", aggiunse Kasumi per smorzare con un sorriso il tono indagatorio della sorella.
 
"Mmm… terrei questo ragazzo qui, per sempre", si stiracchiò Nabiki in tutta risposta, senza neanche tentare di abbassare il volume della voce. Anche se Akira era di poche parole, rappresentava un succulento diversivo a quella vita monotona che conduceva. E non se lo sarebbe fatto scappare.
 
"Misaki, smettila! Non vedi che Akira è a disagio? Non essere impudente"
 
"Ma dai, Hitomi, sto scherzando! lo sai anche tu che sto scherzando, vero, fratellino?"
 
Akane sussultò di piacere di fronte a quell'appellativo carico di affetto e confidenza. Certo quella Misaki l'avrebbe fatta impazzire, ma la verità era che avrebbe dato tutto per avere due sorelle come loro.
 
"E' che qui ci annoiamo a morte e tu invece sei stato in giro... nel mondo… Dai, basta coi musi lunghi… Dimmi, com'è là fuori? E il palazzo? L'hai visto? I nobili che lo abitano?"
 
Akane volle ricambiare quella ragazza che si mostrava così amichevole e sfacciata. Volle darle ciò che voleva, in fondo a lei cosa costava? E per un attimo si dimenticò anche della sua condizione.
 
"Sono stato per un po' a servizio in casa Tendo, e ho avuto modo di frequentare il palazzo"
 
Si era creata una piccola storia, ispirandosi a Ryoga e a Ukyo e… sì, un po' anche a Ranma, e facendo del suo Akira un miscuglio di tutti e tre.
 
"Davvero?!", Nabiki le si avvicinò senza pudore. E nell'attesa della risposta si beò della vicinanza con quel ragazzino. Poteva scorgerne il rossore e annusarne l'imbarazzo. Non era in sé interessata al giovane Akira, ma non aveva mai visto altri uomini all'infuori dello zio e di qualche vecchio pastore. Non che fosse attratta in particolare dagli uomini… Dal loro potere, più che altro, e dalla posizione che avevano nel mondo.
 
"S-sì…", le sorrise Akane, sperando che la ragazza non fosse abbastanza scaltra da smascherarla in quattro e quattr'otto.
 
"Allora hai conosciuto Soun-sama?"
 
"L'ho visto solo da lontano", puntualizzò subito Akane, mettendo a tacere la piccola fitta al cuore.
 
*Papà…*
 
"Avevo una posizione davvero molto bassa e non mi sono mai avvicinato a lui"
 
"E la principessa l'hai vista?", si intromise timidamente Kasumi, "Dicono che sia una fanciulla molto bella"
 
"Sì, l'ho vista", sospirò Akane.
 
"E allora? E' bella e svenevole? O fredda e distaccata con tutti?", chiese Nabiki, avida di qualunque tipo di informazione.
 
"No!", si scaldò un po' troppo Akane, per poi ricomporsi, "Non è nè svenevole nè fredda. Bella… non saprei, dicono che lo sia, ma lei non se e cura poi troppo. Avventata, direi, è una principessa un po' avventata, sì"
 
"E da cosa l'hai dedotto?", la incalzò subito Nabiki.
 
Ma questa volta Akane non si fece sorprendere.
 
"Oh, ma non cerca di nasconderlo in nessun modo. E' testarda e ne va fiera. E' insofferente a ogni tipo di etichetta, si allena e va a cavallo. E tiene testa a chiunque non le porti rispetto"
 
"Sembra una tipa piuttosto in gamba", ridacchiò Nabiki, sentendosi non troppo diversa da una donna di rango.
 
"Dev'essere molto simpatica", decise Kasumi.
 
"Sì, lo è", accordò Akane di buon umore.
 
E le due sorelle si compiacquero, ognuna a modo suo, di aver strappato un sorriso genuino a quel ragazzo che, tra un ciocco di legno e una carota, si era aperto un po' di più.
 
 
 
***
 
 
 
L'alba era in procinto di fare capolino sul mondo e sulla grande sala di Palazzo Tendo. Presto la luce si sarebbe impadronita di quel luogo, illuminandone il silenzio in tutta la sua vastità. Ma ancora per qualche istante sarebbe stata solo lei a troneggiare nel vuoto della stanza. Un stanza che rappresentava il potere di Soun-sama.
 
Kodachi si guardò intorno calma ed eccitata allo stesso tempo.
 
Il marito era partito da meno di un'ora.
 
Tagliò il buio con gli occhi.
 
*Addio maritino, a mai più rivederci*
 
Sfiorò le pareti con la punta delle dita.
 
Suo.
 
Tutto quello ora era suo.
 
Aveva fatto bene ad aspettare, a ingoiare, a sopportare. Fu grata alla propria capacità di osservare e di muovere le persone come pedine di una scacchiera. Partita dopo partita era arrivata fin lì, ma il gioco vero e proprio cominciava in quel momento.
 
Un suono sinistro tra il gutturale e il nasale cominciò a nascerle in gola. Stava per concedersi alla risata della vittoria, a una di quelle risate che tanto aveva represso in quei mesi e che ora poteva liberare, sguaiata e raffinata.
 
Ma anche allora non le fu possibile.
 
Fu il fratello a sorprendere lei, per una volta.
 
Kuno entrò in malo modo, lei nè registrò la presenza, un po' seccata e vagamente curiosa. Aspettò che iniziasse a parlare, e lo ascoltò con attenzione.
 
"Sei qui, finalmente. Avevi ragione, sagace di una sorella. Su tutto. E questa volta non mi fermerò. Lascio a te il compito di informare i bifolchi del palazzo e delle terre tutte della morte di quella piccola meretrice. E davvero, ovunque sia, farebbe bene a invocare subito la morte…"
 
Kodachi sussultò.
 
Non per la minaccia nelle parole del fratello, ma perché il primo raggio di sole entrato nella stanza ne aveva rivelato di colpo gli abiti. Alla giovane donna parve per un attimo di vedere Ranma sotto quella luce.
 
Si avvicinò a lui e mise una mano sul suo petto, giocando con i risvolti della casacca rossa smanicata e sdrucita che era appartenuta al ragazzo esiliato.
 
"Hai in mente un qualche piano, suppongo"
 
Come darle torto?
 
Con un gesto schifato indicò la giacca e i pantaloni che si era messo.
 
"Ho racimolato questa roba nella stanza pulciosa di quello scarto umano che ha avuto l'ardire di sfidarmi sposandola"
 
"Ranma!", precisò Kodachi senza che ce ne fosse affatto bisogno, ma per il piacere di pronunciarne il nome mentre si inebriava del suo odore che ancora impregnava i vestiti.
 
Il fratello annuì grave.
 
"Quella svergognata ha osato dire una volta che 'il peggior straccio' che ha indossato quel villico le è più caro della mia illustre persona"
 
Ingoiò il ricordo di quell'umiliazione.
 
"Benissimo. Con questi stracci addosso io la prenderò"
 
Accarezzò la katana da battaglia, che teneva al fianco.
 
"La scoverò e le farò ingoiare tutto il rispetto che mi ha mancato in questi mesi. E se anche lui si trovasse già con lei, glielo sgozzo davanti agli occhi. Giuro, sorella, che sazierò ogni mio istinto, e lo farò con questi stracci addosso, che lei tanto apprezza. E poi la riporto a palazzo per i capelli. E me la sposo. Che non si dica che non sono un gentiluomo. Si divertiva a disprezzarmi. Io mi divertirò così"
 
 Kodachi in tutta risposta gli diede un buffetto di approvazione. Peccato solo per Ranma, ma in fondo era solo una delle pedine che aveva perso, e delle meno importanti nell'economia del tutto.
 
"Va' pure fratello, e non voltarti indietro. Qui penso a tutto io, non temere"
 
"Tatewaki Kuno mantiene le sue promesse. Ho detto che l'avrei avuta e l'avrò. E avrò la mia vendetta. Akane Tendo, preparati. Sto arrivando", e senza aggiungere altro si dileguò, con la mente già a Hakata, al sole ormai alto e alla pelle immacolata che avrebbe violato.
 
Rimasta sola, a Kodachi non restò che abbandonarsi finalmente e più fortemente che mai alla propria risata, che risuonò folle e acuta nell'alba di quel nuovo giorno.
 
 
 
***
 
 
 
Impaziente, Ranma balzò giù dalla barca, percorrendo con l'acqua fino alle ginocchia gli ultimi metri che lo separavano dalla riva e inspirando a pieni polmoni l'aria della sua terra.
 
Un solo pensiero lo muoveva.
 
*Sto arrivando, Akane. Sto arrivando*
 
Era pomeriggio inoltrato.
 
L'esercito cinese non aveva ufficialmente conquistato la piccola città portuale ma si era comunque riversato copioso nelle sue stradine, in attesa del trasferimento.
 
Avrebbe trovato il modo, in quel trambusto, di disertare la guarnigione e allontanarsi a tutta velocità da Hakata in direzione di Palazzo Tendo. Forse Hiroshi e Daisuke avrebbero potuto aiutarlo procurandogli un cavallo. Ma prima avrebbe dovuto trovarli. Chissà se erano ancora lì o avevano preferito allontanarsi da una situazione decisamente critica.
 
Fu mentre rimuginava su queste cose che lo vide per la seconda volta.
 
Un gruppo di soldati si aprì davanti a lui, e nella luce del pomeriggio apparve il generale Shinnosuke, alto e pallido. I suoi occhi chiari erano rassicuranti e al contempo segnati dalla gravità di una guerra da combattere.
 
 
*A chi vuoi darla a bere, amico? Guardatelo, lì, tutto moine…*
 
Mentre Shinnosuke dispensava umili sorrisi ai suoi sottoposti, Ranma lo scrutava con astio. Non sapeva perché gli stesse così poco simpatico. In fondo non gli aveva fatto nulla… 
 
*Ecco cos'è… Mi ricorda quel tale… quel damerino da strapazzo che faceva il cascamorto con Akane… Come diavolo si chiamava? Sanzenin-qualcosa-Mikado… Lei se ne stava lì, tutta sorridente, mentre lui se la divorava con quegli occhi da pesce bollito e le diceva tutte quelle smancerie…*
 
I ricordi ti acchiappano alle spalle quando meno te lo aspetti. Quando non li stai cercando, arrivano di soppiatto e si insinuano nella mente intenta a fare altro.
 
E quando te ne rendi conto, ti ritrovi ormai stretto nell'abbraccio delle loro spire.
 
E ti lasci andare ad essi.
 
 
Il sangue aveva cominciato a sfrigolargli nelle vene e le palpebre gli si erano strette di fronte a quella scena patetica in cui la principessina era tutta compiacente nei confronti dell'ospite di suo padre.
 
"Cosa c'è? Sei geloso forse?", l'aveva sfidato lei poco dopo, di fronte al suo broncio indifferente.
 
"Io geloso? E di chi, scusa?"
 
"Di quel damerino da strapazzo, e di chi sennò?"
 
Aveva sorriso segretamente: anche lei lo considerava un 'damerino da strapazzo', allora!...
 
"Ma figurati! E' solo che io odio quelli che credono di avere tutte le donne ai loro piedi"
 
"Scemo! Cosa credi? Se non ci fosse stato mio padre nella stanza accanto gli avrei dato un pugno in faccia e rotto la mascella!"
 
"Sei davvero romantica tu, accidenti! Però davanti a lui cos'erano tutte quelle faccette?"
 
"Ma ti senti? E allora tu, con Ucchan?"
 
"'Con Ucchan', cosa?"
 
"Sei sempre tutto gentile con lei…"
 
"Ma piantala, Ukyo è una sorella… E poi che vuoi farci? Lei è così carina… al contrario di te, che non hai un briciolo di fascino, e…"
 
Era davvero uno stupido. Lo era sempre stato.
 
Non ricordava come ma la lite era degenerata e si era ritrovato scaraventato contro i ciottoli del cortile.
 
La ricordò poi sotto la pioggia, quella sera…
 
*Akane…*
 
…che lo cercava perché non l'aveva trovato nella sua stanzetta né in palestra.
 
Lui l'aveva apostrofata scorbutico, dal tetto.
 
"Cosa vuoi? Fare la pace?"
 
"No. Dirti quanto sei stupido"
 
"La stupida sei tu che te ne stai sotto la pioggia e poi finisce che ti ammali"
 
"Sei tu lo stupido che non si fa trovare da nessuna parte…"
 
Lo guardava, lì, ostinato a stare sotto la pioggia sottile e grigia.
 
"Mai più pensavo di trovarti qui con 'sto tempo… Tu odi l'acqua fredda"
 
"E' vero, la odio, ma mi ci sono anche dovuto abituare. Uno come me non può mica avere l'acqua calda quando vuole…"
 
"Basta chiedere", aveva sorriso lei.
 
E a lui era bastato quel sorriso per sciogliersi.
 
"Vieni, scemo, che ora ti fai un bel bagno caldo"
 
Lui era arrossito e lei si era resa conto della troppa confidenza, ai limiti del pudore; era arrossita pure lei, l'aveva vista, ma aveva fatto finta di niente.
 
Quella sera aveva pensato a lei mentre era a mollo nella tinozza bollente che Akane gli aveva fatto preparare nella sua stanzetta.
 
Versandogli sgarbatamente in testa l'acqua calda di una grossa teiera di metallo, Ryoga aveva borbottato qualcosa sulla sua ingratitudine e su quanto fosse fortunato, e poi l'aveva lasciato a cuocere nella sua brodaglia.
 
Quella 'brodaglia' era un regalo di Akane e lui, pensando a quel caschetto bagnato, a quegli occhi spalancati e brillanti, si era arreso alla verità che da quel momento in poi, volente o nolente, sarebbe sempre stato geloso di lei. Infinite altre volte.
 
 
Distolse lo sguardo dal generale Shinnosuke.
 
*Posso davvero incolpare solo Mousse e Shan-Pu?*
 
Il filtro doveva essere stato molto potente se gli aveva fatto fare una cosa così folle e terribile. Ma così potente da scatenare una gelosia sconsiderata?
 
*La gelosia… Quella era mia*
 
Perché aveva voluto credere a tutte quelle fandonie?
 
Fece per darsi un pugno sul mento, ma qualcuno gli mise una mano sulla spalla e lo voltò.
 
"Ranma?"
 
"Hi-Hiroshi! Daisuke!"
 
Ma la sorpresa gli si smorzò sul volto.
 
Non gli piacque quello che vide negli occhi dei due amici.



 
FINE PARTE I

 
---
(1)
Spero di non aver creato confusione con i nomi delle due sorelle. Mi permetto un breve riassunto. Si tratta di Nabiki e Kasumi, ma non conoscono i loro veri nomi (l’unico a conoscerli è Genma). Pensano di chiamarsi rispettivamente Misaki e Hitomi. Durante la storia mi riferisco prevalentemente a loro con i loro veri nomi. Talvolta però nella narrazione viene considerato il punto di vista di qualche personaggio che li conosce col loro falso nome, pertanto uso anche quelli. Ma non è una regola che ho seguito sempre. Insomma sono stata forse un po’ arbitraria, non me ne vogliate, ma sono certa che mi seguirete senza problemi!
 
(2)
Cercavo un nome da uomo che calzasse bene per Akane e cercando su internet ho trovato “Akira”, che oltre alla consonanza (almeno in italiano), si accorda bene alla nostra eroina e al suo animo retto e fedele, dal momento che significa “luminoso, pulito”. Senza farlo apposta Akane si dà un nome amaramente carico di significato.
 
 
---
 
 
Ciao a tutti!
 
Sono riuscita finalmente a pubblicare! Eccomi qua con il capitolo più lungo (e controverso) di tutta questa storia, talmente lungo (e controverso) che ho deciso di dividerlo in due parti (e anche così risulta ancora lunghissimo!).
Vi chiedo scusa per l’attesa, ma avevo bisogno di portare avanti un’arcata un po’ più ampia per capire dove diavolo stavo andando a parare.
Questa prima parte è un po’ taaaanto lunga ma era necessaria per creare un buon trampolino per la seconda.
La buona notizia è che anche se vi ho lasciato un po’ in medias res, pubblicherò la seconda parte molto prima di sempre, dato che è già scritta e necessita giusto di qualche correzione qua e là.
 
Perciò… state connessi! ;-)
 
E soprattutto fatemi sapere cosa ne pensate! Sapete bene quanto è importante per me.
 
Un abbraccio a chi continua imperterrito a leggere questo polpettone e un monumento a chi mi fa il regalo di recensirlo!
 
Un bacione a voi tutti e un saluto particolare alle mie amiche Ladies!
 
InuAra
 

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Capitolo 15
*** La morte arriverà quando deve arrivare – PARTE II: Il tuo volto come ultimo orizzonte ***



 
Cowards die many times before their deaths;
The valiant never taste of death but once.
(…) Death (…)
Will come when it will come.
 
I vigliacchi muoiono molte volte prima della loro morte;
L’uomo coraggioso non ha l’esperienza della morte che una volta sola.
(…) La morte (…)
Arriverà quando deve arrivare.
 
Julius Caesar - W. Shakespeare
 
 
 
 
 
 
"Ranma?"
 
Aveva sentito una voce chiamarlo, una voce amica, e si era voltato fiducioso.
 
"Hi-Hiroshi…! Daisuke!"
 
La luce di taglio di un sole sulla via del tramonto gli ferì gli occhi. Una fitta agli occhi e una al cuore, piccola, quasi impercettibile. Una breve precisa stafilettata che, chissà come chissà perché, per un attimo gli spezzò il fiato.
 
Avrebbe voluto scacciare quella sensazione, ma vide lo sguardo di Hiroshi, grave, e quello abbassato di Daisuke.
Non gli piacque. Non gli piacque per niente.
 
 
***
 
 
"Akane, sei proprio un'imbranata! Non sai fare neanche le cose più elementari… Non sai neppure bollire l'acqua senza fare un disastro!… Figuriamoci cucinare…"
 
 
 
"Akira…Akira?…"
 
"S-sì?"
 
"Akira, caro, se continui così le spappolerai tutte quelle polpettine di riso", ammiccò placida Kasumi.
 
"Oh, Hitomi, scusami! Mi ero distratto… Sono un vero disastro!", si giustificò Akane gonfiando un po’ la voce perché sembrasse quella di un ragazzo, almeno un po’.
 
Si era messa ai fornelli per cercare di non pensare: era così che ci riusciva?
 
"Non c'è bisogno che ti scaldi tanto. Sei un uomo”, tentò di rincuorarlo Kasumi.
 
“Un maschio mancato!”, e il ricordo di come Ranma a volte la chiamava irruppe nella sua mente senza che Akane potesse fare nulla per fermarlo.
 
“…non c'è bisogno che tu sappia cucinare", concluse sorridendo da parte sua Kasumi.
 
"Ma non è questo…", ribattè Akane tornando alla realtà e stringendosi meglio la bandana in fronte con le mani impastate, "Vorrei… poterti dare una mano, ecco, esserti utile in qualche modo…"
 
"Ma lo sei in molti modi, Akira, tesoro. E' che oggi mi sembri un po' pallido. Forse è meglio che ti riposi un po' mentre io vado a raccogliere qualche funghetto fresco fresco"
 
"Ma è il caso che tu vada da sola?"
 
"Che dolce che sei a preoccuparti! Il boschetto dove crescono non è molto lontano, sarò di ritorno in meno di un'ora, prima dell'arrivo dello zio e di Misaki", sorrise rassicurante.
 
 
 
Un paio d'ore prima i due erano andati a caccia.
 
Genma era apparso inquieto e più brontolone del solito: "Non mi piace quel fumo che sale al di là degli alberi. Non promette niente di buono"
 
"Una battaglia, forse? Eh, zio? Che dici?"
 
"Forse. Lontana da qui, ma non così tanto. Affila bene la spada Misaki, affilala ancora una volta. Non si sa mai"
 
"Saremo in pericolo?", aveva chiesto Akane, ma avrebbe voluto chiedere: "Saranno in pericolo?", preoccupata non per sé, ma per i suoi, per suo padre.
 
"No davvero! In questo posto non accade mai nulla di interessante", era intervenuta Nabiki facendo spallucce.
 
"Tranquillo", aveva aggiunto Kasumi, "Il bosco del monte Inunaki è un luogo praticamente inviolato"
 
Inviolato…
 
 
 
 
"Prenditi una bella sorsata d'acqua e riposati un po' mentre io sono via", si congedò Kasumi.
 
Akane la vide andare via e sospirò.
 
L'occhio le cadde sull'impiastro di riso che aveva creato con le sue mani maldestre.
 
Sospirò ancora.
 
Non si sforzò nemmeno un po’ di trattenere la mente che si affannava per portare a galla un ricordo lontano…
 
"Ma figurati se a me interessa cucinare o fare qualunque altra cosa legata alla casa! Mica voglio essere una brava mogliettina, io!"
 
"E chi ti sposerebbe, scusa?", l'aveva pungolata lui sapendo dove andare a colpire, mentre giocherellava con un grumo di chicchi di riso appiccicoso sfuggito a un disastroso esperimento culinario.
 
In tutta risposta lei gli aveva fatto una linguaccia, fingendo noncuranza.
 
"E a me che importa? Tanto io sarò una combattente"
 
"Ahahah! Una ‘combattente’! Questa sì che è buona! E alla prima spedizione ti ritrovi a guadare un fiume e muori annegata! Non sai manco nuotare, cara la mia combattente! Non sai cucinare, non sai cucire… e non sai neanche nuotare… Sei solo una bambina viziata, ecco quello che sei!"
 
Lo scherzo si era fatto pesante, e lei se n'era andata, ferita e furibonda.
 
La rabbia aveva portato i suoi passi lontano, ai margini della grande tenuta. Le mura circondavano un territorio piuttosto vasto intorno al palazzo, fatto di brevi boscaglie e qualche radura; c'era anche un piccolo lago, attraversato da un ruscelletto di montagna, che era per lo più una riserva di pesce fresco sempre a disposizione.
 
Si era ritrovata lì, davanti a quel lago deserto, lontana da tutti, e lo considerò un segno.
 
Benissimo. L'imbranata avrebbe almeno imparato a nuotare. Che ci voleva? Il laghetto se lo ricordava bene, era lo stesso delle figuracce della sua infanzia, quando si era arresa alle prime annaspate umilianti. Se lo ricordava più grande, però. In effetti non sembrava troppo profondo. E adesso era cresciuta e ben più motivata.
 
Si era guardata intorno.
 
Nessuno.
 
Si era levata con soddisfazione gli zoccoli e lo yukata e, coperta appena da una veste corta e sottile, aveva infilato il primo piede tra alcuni massi, nell'acqua gelida.
 
Akane non poteva ricordarselo, ma dopo aver riso ancora un po' tra sé e sé, Ranma aveva valutato di essersi divertito abbastanza e l'aveva osservata andare via, sornione. Le aveva dato il tempo necessario per allontanarsi un po' e sbollire, e poi aveva cominciato a seguirla pigramente.
Si era presto reso conto che lei era veloce e inferocita e si era ritrovato a cercarla con lo sguardo e ad accelerare il passo. In fondo, forse, aveva un po' esagerato. Non che volesse fare pace, ma voleva vederla, tutto qui, gli dava fastidio averla persa di vista tanto facilmente, ecco.
 
Un passo malfermo dietro l'altro, Akane aveva acquistato sicurezza e distanza dalla riva. L'acqua le era arrivata velocemente al ginocchio. Non sapeva dire quanti passi le mancassero per andare dove poter provare a nuotare. Vedeva solo un'indistinta macchia che si scuriva al centro del lago.
Ormai sicura, aveva allungato il piede senza prestare troppa attenzione, e il muschio viscido del sasso su cui aveva premuto il peso l'aveva tradita repentinamente.
Era slittata all'indietro senza neanche accorgersene e nella caduta aveva sbattuto la nuca contro una pietra. Non aveva visto più nulla.
 
"Sono sicuro di averla vista venire da questa parte", si ripeteva Ranma procedendo a passo svelto, "Dove diavolo?…"
Davanti a lui si era aperto il pianoro che ospitava in lontananza il laghetto. Aveva dato un rapido sguardo.
 
Persa conoscenza per qualche istante, Akane era scivolata verso il centro del lago.
 
Non c'era anima viva.
"Aspetta…", si era detto. Era tornato indietro con occhi fulminei e aveva visto una chiazza di colore azzurro acceso che non aveva nulla a che fare col resto del paesaggio.
"Lo yukata di Akane… cosa ci fa lì?"
Ma prima di aver compreso la risposta aveva già cominciato a correre.
 
Aprendo gli occhi si era ritrovata schiacciata dall'acqua gelata, aveva cercato il fondale con i piedi, e non l'aveva trovato. Presa dal terrore, aveva cominciato ad agitare le braccia, col risultato di andare sempre più a fondo, tentando disperatamente di non cedere all'acqua scura e pesante.
 
Scapicollando angosciato verso il lago, aveva scorto per primo il braccio bianchissimo di Akane agitarsi fuori dalle acque - *E' ancora viva…!!* - per poi intravederla mentre si affannava a restare a galla.  *Akane resisti, resisti, sto arrivando…!!*
 
L'acqua le entrava nella bocca ansante, impedendole di gridare.
 
*Ancora pochi istanti e sono da te…*
 
Tossiva e sputava e rantolava.
Che stupida!
La testa aveva cominciato a farsi di piombo…
Non era così che doveva finire.
Aveva sentito il sangue freddarsi di colpo, le forze abbandonarla.
Non sarebbe nemmeno dovuta cominciare…
*Akane sei una stupida…*
Non riusciva più neanche a respirare, i polmoni ripiegati su se stessi.
*Ha ragione lui…quando…dice che…*
Si era inesorabilmente sentita tirare verso il basso, perduta.
 
 
"Akaneeee! Resisti!"
 
*Ran…ma…?*
 
Quando aveva riaperto gli occhi era stretta al petto di lui e rigettava tutta l'acqua che aveva ingoiato.
 
Si era tuffato un attimo prima che la morte se la prendesse in quel modo tanto stupido.
 
Aveva alzato gli occhi su di lui, che doveva aver pianto e sussurrato il suo nome fino a quel momento, senza ritegno.
 
Era scoppiata a piangere a sua volta e lui l'aveva premuta a sé.
 
"Cosa… Cosa credevi di fare?", aveva mormorato, disarmato e sollevato.
 
"Ranma… scusa… scusa… io…"
 
"No, Akane… scusami tu… sono davvero uno stupido…"
 
Si erano dati degli stupidi per un po', scaricando la tensione tra lacrime e sorrisi, ma lui non aveva smesso un attimo di stringerla, con la scusa di scaldarla col proprio corpo e con la gioia di sentirla viva contro la propria pelle.
Non aveva osato baciarla, ancora non era tempo, ma le aveva detto cose che si possono dire solo in momenti estremi e di cui ci si vergogna spesso e volentieri se ci si ripensa poco più tardi, ma che lì per lì hanno il valore serio della promessa.
"Stupida, finchè ci sarò io con te, non correrai mai nessun pericolo"
 
 
 
Appoggiata allo stipite della porta, Akane alzò il capo per guardare le foglie mosse da vento.
 
Perché proprio quel ricordo?
 
L'acqua nel pozzo poco lontano gocciolava a intervalli regolari nel secchio.
 
Una civetta strillò da qualche parte nel bosco.
 
Si sentì improvvisamente tanto stanca, le braccia pesanti lungo il corpo.
 
Sorrise al ricordo di come lui si fosse in seguito prodigato a insegnarle a nuotare giorno dopo giorno, tentando di farle prendere confidenza con l'acqua, in quello stesso laghetto, sempre con scarsi risultati.
 
Ora lui non era più con lei.
 
Non ci sarebbe stato più nessun laghetto entro le mura dove imparare a nuotare insieme a lui.
 
Avrebbe visto il mare, sì, prima o poi l'avrebbe visto da vicino.
 
Il mare vasto e terribile.
 
Anche una cosa così bella poteva uccidere.
 
Pianse in silenzio.
 
"Devo trovarti, capire che diavolo di demone ti ha rosicchiato il cervello"
 
Si ritrovò col pugno sollevato e minaccioso e le lacrime agli angoli degli occhi ormai quasi asciutti.
 
Si mise a ridere piano.
 
"…Avrà ragione Ryoga. Ranma non avrebbe mai fatto una cosa del genere… Che ti è capitato?? Te lo tirerò fuori con la forza se necessario, ma intanto…", si strinse nelle spalle, tentando di darsi conforto, "… sono proprio stanca e ho male dappertutto…"
 
Aveva bisogno di qualcosa che lenisse il dolore, se non altro quello del corpo…
Si ricordò della boccetta che le aveva dato Ryoga. 'Un rimedio portentoso per ogni tipo di malessere', le aveva detto.
 
Entrò in casa decisa a farne buon uso: era arrivato il momento di sentirsi un po' meglio.
 
 
***
 
 
"Maledetta bestiaccia! Più veloce!"
 
Il cavallo, stremato oltre ogni suo limite, schiumava e sbuffava, mentre Kuno lo frustava a sangue.
 
Era inaudito che non si trovasse già a Hakata, sul corpo di lei.
 
Aveva dovuto deviare dalla strada principale, che attraversava il campo di battaglia di quella dannata guerra scoppiata nel momento meno opportuno. Aveva preso furioso la via dei monti: gli avevano assicurato che era l'unica via rimasta percorribile.
 
Sbuffava a sua volta, imprecando ad alta voce mentre schivava i rami fitti del bosco.
 
Stava solo perdendo del tempo prezioso, che lo separava dai gemiti di Akane Tendo.
 
Si era figurato così bene tutta la scena: l'avrebbe ghermita come una bestiolina in trappola, lei avrebbe lottato, questo era certo - era fiera e caparbia - avrebbe urlato, graffiato, morso. Ma alla fine lui l'avrebbe domata.
 
"Maledetta bestiaccia, muoviti! O non arriveremo prima di sera!"
 
Quello che non sapeva Kuno era che, al contrario, si stava avvicinando a lei molto velocemente.
 
 
 
***
 
 
 
Lentamente e senza far rumore si avvicinò alla tana della lepre che stava braccando.
 
Si erano separati da un bel po', e mentre lo zio Genma si era allontanato all'inseguimento di un cervo, Nabiki era rimasta nei dintorni. Ed eccola lì, in attesa da una buona mezz'ora, schiacciata tra una parete di roccia e il tronco di un enorme larice.
Il sole era ancora alto, ma conosceva la sua montagna, Nabiki, e sapeva che non ci voleva poi molto perché tramontasse.
Decise che valeva la pena aspettare ancora un po'.
A pochi metri iniziava lo strapiombo del torrente, che le teneva compagnia col suo scrosciare assordante.
 
Fu per questo che non lo sentì arrivare.
 
 
***
 
 
"Trovata!"
 
Akane prese la boccetta vermiglia tra le dita e senza pensarci troppo la mandò giù tutta d'un fiato.
 
 
 
***
 
 
Dannazione, doveva essersi perso! Da che parte doveva andare? Sentì il rumore di un corso d'acqua e smontò da cavallo, risoluto.
Aveva sete e doveva placare il proprio bisogno, o non si chiamava più Tatewaki Kuno.
 
Attraverso il fogliame la sua attenzione venne però catturata da una figura femminile, accovacciata, coi capelli corti.
 
Per un attimo gli sembrò Akane e una fitta di piacere lo attraversò.
 
Si avvicinò lentamente, e lei ancora non lo sentì.
 
A guardare bene non era Akane, ma una contadinotta senza il senso del pudore, malvestita con quelli che dovevano essere stati gli abiti di un uomo. Sembrava sapere il fatto suo.
 
Ghignò.
 
A ognuno la sua preda.
 
"Ehi tu, donna!", la apostrofò e Nabiki si voltò sorpresa.
 
"Dimmi sei hai visto una ragazza passare di qui"
 
 
***
 
 
Il liquido contenuto nella fialetta era dolce…
 
Akane si pulì le labbra calde con la manica.
 
Le parve subito di sentirsi meglio.
 
"Grazie Ryoga", mormorò al silenzio della stanza.
 
Chissà cosa stava facendo Ryoga in quel momento. E Ukyo? Pensavano a lei? Una volta rimessa in forze si sarebbe decisa a raggiungere Hiroshi e Daisuke a Hakata, come l'amico le aveva suggerito, in attesa di tempi migliori. Forse… forse avrebbe anche avuto la faccia tosta di imbarcarsi e andare a cercare Ranma in Cina, per chiarire con lui tutta la faccenda.
 
Le sembrò improvvisamente tutto più facile.
 
Sentì il cuore battere forte, per l'emozione.
 
Le cose potevano essere risolte, sì, lei avrebbe trovato una soluzione.
 
Si sentì accaldata e felice. Sentì che poteva perdonarlo, sentì che anche dopo tutto quel dolore poteva andare avanti.
 
Poteva tornare a vivere.
 
La testa le girò violentemente.
 
"Ohi, che mi succede?", ridacchiò colta di sorpresa, tenendosi al tavolaccio della cucina.
 
Un brivido le formicolò lungo il collo. "Forse mi sta venendo la febbre, accidenti!"
 
Le venne in mente la mano rugosa di Obaba che le cambiava la pezza bagnata in fronte quando era una bambina.
 
Si sentì di colpo tanto sola.
 
Perché Kasumi non tornava? E Nabiki? E il signor Genma? Avrebbe voluto vederli in quel momento.
 
Provò tanta tenerezza per se stessa, per la bambina che in fondo era ancora.
 
 
***
 
 
Un giovane uomo alto e sudato che emanava alterigia e brutalità, incombeva a pochi metri da lei.  Nabiki lo vide asciugarsi col dorso della mano un rivolo di saliva dalla bocca riarsa.
 
Come era arrivato fin lì?
 
"Ti ho rivolto la parola, donna! Rispondi prima ch'io perda la pazienza!"
 
Una ragazza? Nabiki non capiva. Stava forse parlando di Kasumi? Quello era forse un soldato disertore in cerca di divertimento?
Dal tono che aveva usato sembrava avvezzo al comando. Ma era vestito con abiti troppo semplici.
Era Kasumi la ragazza che stava cercando? La stava inseguendo, forse? Dov' era Kasumi in quel momento? A casa o in giro per il bosco, tutta sola e senza un'arma?
 
"Una ragazza?", prese tempo, guardandolo negli occhi di ghiaccio.
 
Bastò perché lui perdesse la pazienza.
 
E la testa.
 
Le fu addosso in uno scatto improvviso.
 
"Ti ho detto di rispondermi, non di alzare lo sguardo all'altezza del mio", le ringhiò in un orecchio tenendola per i capelli.
Poteva sentire il suo fiato sulla pelle del viso e represse un conato.
Abbassò gli occhi, ubbidiente, mentre con una mano furtiva cercava il pugnale che teneva sempre al fianco.
 
"Nessuna ragazza, mio signore", pronunciò sottomessa.
 
"Sono sicuro che è passata di qui. Non mi pare che il bosco pulluli di persone. Devi averla incontrata per forza, come io ho incontrato te", la voce gli rallentò, "E stai pur certa che non me ne andrò di qui senza aver avuto ciò che bramo"
 
"Io non posso darvelo, mio signore, non conosco nessuna ragazza"
 
"Ah sì?", un pensiero birichino cominciò a stuzzicarlo, "Questo sarò io a deciderlo"
 
 
***
 
 
Akane volle raggiungere l'esterno, per distrarsi un po' e prendere una boccata d'aria, ma come fece per muoversi, la stanza le vorticò intorno e le gambe le cedettero.
 
*Cosa… cosa mi sta succedendo?*
 
 
 
***
 
 
 
Con la mano libera le scostò lascivo i capelli dal volto e Nabiki approfittò di quel momento per sfilare il pugnale e difendersi dal suo assalitore. Kuno fu però veloce a schivarlo, col risultato che lei riuscì solo a colpirlo sul volto, infierendogli un taglio sul viso perfetto.
 
Si imbestialì. La sua furia non aspettava altro che un pretesto per esplodere.
 
Le fece schizzare via il pugnale dalla mano con un manrovescio e lei non fu abbastanza rapida da impugnare la spada.
La strattonò con violenza e la spada le volò via di mano, andandosi a conficcare nel legno morbido del larice poco dietro di lui.
 
In quel momento la lepre guizzò via dal suo nascondiglio, in preda al terrore.
 
Nabiki provò a imitarla, ma lui con un salto la raggiunse, la acchiappò sulla schiena per la stoffa del vestito e la scaraventò indietro, da dove era venuta.
 
"Nessuno si deve mettere sulla mia strada!"
 
Nabiki, ancora in piedi, opponeva resistenza con tutto il peso del proprio corpo contro di lui, che cercava di sbatterla contro la parete nuda alle sue spalle.
 
Per quanto ce l'avrebbe fatta? Non era abile nel corpo a corpo, non lo era mai stata.
 
"Che non mi si osi ostacolare!”
 
Era dieci volte più forte di lei e riuscì a spingerla contro la roccia. Nabiki sbattè la testa e si ritrovò a terra, sanguinante e ansimante di fatica, alla mercè di quell'animale dagli occhi stravolti di follia omicida.
 
"Quello che voglio sono abituato a prendermelo"
 
Fece un primo tentativo di aprirle le ginocchia.
 
"La…scia…mi…"
Nabiki avrebbe voluto gridare, ma le sue forze erano tutte impiegate a dimenarsi e a scacciarlo. La voce non aveva davvero la forza di uscire. Avrebbe venduta cara la pelle. Ma sentiva che stava per soccombere. Lo prese a calci, disperatamente, e a pugni.
 
Kuno le sputò in faccia.
 
"Quella ragazza…"
 
Lei si immaginò Kasumi…
 
"…La troverò…"
 
Kasumi, arrendevole e spaventata…
 
"…E la prenderò…"
 
…Kasumi, inerme sotto il peso schifoso di quell'uomo.
Trattenne un singhiozzo di orrore.
 
"Come adesso…", le afferrò il seno sinistro con una mano, "…mi prendo…", mentre con l'altra le strappò via un lembo dello yukata, "…te!", insinuandosi a forza con le ginocchia tra quelle di lei.
 
Nabiki non ci vide più.
 
Fu l'immagine della sorella, buttata lì, nella luce pallida del sole, che le diede quella forza insperata.
 
Non seppe dire come, ma le sue gambe riuscirono a sgusciare via dalla presa di lui e con uno scatto di reni gli diede uno spintone con entrambi i piedi, proprio in quel breve momento in cui lui, in un equilibrio precario, si era sollevato leggermente per abbassarsi i pantaloni.
 
Kuno non se l'aspettava e cadde all'indietro con un'espressione ebete.
 
La sua caduta sarebbe stata frenata dall'albero, se nel suo tronco non si fosse trovata conficcata la spada affilata di Nabiki.
 
La ragazza non ebbe neanche il tempo di realizzare cosa stava accadendo, che si parò istintivamente gli occhi.
 
Quello che sentì fu solo un rantolo strozzato, seguito da un tonfo.
 
Poi, più nulla.
 
Quando ebbe il coraggio di aprire gli occhi, si rese conto di essere ricoperta di sangue. Era suo o…?
 
La prima cosa che vide, alzando il capo, fu il corpo del suo aggressore accartocciato su se stesso accanto a lei.
 
Immobile. Le sembrava non respirasse…
 
Si avvicinò circospetta e tremante.
 
Ma lo spettacolo che le si presentò davanti era raccapricciante, oltre ogni immaginazione.
 
Il fato aveva voluto che Kuno, spinto all'indietro, andasse a cadere sulla lama proprio all'altezza del collo.
 
L'affilatura e il peso di lui fecero il resto.
 
Ma dove…?
 
Avanzando a carponi nella luce rossastra, Nabiki si sporse appena sul ciglio del burrone, in cerca della…
 
La vide.
 
L'acqua del torrente, rossastra a sua volta, aveva già trasportato la testa lontano, ma non così tanto da non poterne distinguere un'ultima volta gli occhi sbarrati ed arroganti, di un celeste spento, quasi trasparente.
 
Arcuò il torace in uno spasmo e, appoggiata a un albero, vomitò con tutta se stessa.
 
 
 
 
***
 
 
 
Akane era a terra. Si guardò intorno con grandi occhi, senza capire. Tentò di far leva sulle braccia, per alzarsi, ma una violenta convulsione la fece crollare nuovamente.
*Ma che…?*
 
Vide lo sguardo triste del padre, mentre scuoteva la testa. Desiderò corrergli incontro e stringerlo a sé.  
 
Perché era così affannata?
 
“Puoi piangere se vuoi! Non lo dirò a nessuno” Ranma la guardava complice. Si sentì piccola, piccola come lui, che era alto poco più di un metro.
 
Le tempie pulsavano martellanti. Si sentì cadere, ma era già a terra. Si sentì cadere ed ebbe paura. Era tutto troppo veloce, non riusciva a fermarsi.
 
Socchiuse gli occhi infastidita. "Non mi stai ascoltando, zuccherino!" Il sole la stava accecando mentre Happosai cercava di insegnarle una nuova tecnica.
 
Si sentì cadere sempre più giù.
 
“Giù le mani da Akane! Maledetti! Non toccatela!!”
 
Sussultò e tentò di aggrapparsi...
 
Di aggrapparsi a Ukyo che le parlava concitata mentre sbatteva il futon…"Ascoltate la vostra Ucchan, una buona volta…"
 
… A quel carro che si allontanava con lui sopra…
 
Si sentì andare a fuoco le viscere.
 
Le parve di sentire la treccia di lui scivolarle tra le dita…
 
“Siamo…siamo sposati!” “Oh kami, sì!”
 
Lampi di luce le ferivano gli occhi.
 
"Non aver paura", le fece l'occhiolino Nabiki, mentre Kasumi le posò una mano sul capo, "Ci siamo qui noi"
 
Per un attimo volle credere a quella bugia. Si sentiva sempre più venir meno. Un gelido umore si stava diffondendo velocemente nelle sue vene.
 
"Ranma, posso stare ancora un po' così?" "Beh sì…"
 
Il corpo non le rispondeva…
Seppe che stava per andarsene e realizzò che non l'avrebbe rivisto mai più.
*Ranma io lo so che tu… Io… Io voglio vederti un'ultima volta!*
Lacrime brucianti cominciarono a rigarle il volto paralizzato dal veleno.
 
“Anche tu mi sei mancata, maschiaccio”
 
I ricordi si mescolavano tra loro, lontani e vicini, senza una logica, vertiginosi, insistenti, sovrapponendosi alla realtà.
Si sentì schiacciare contro il pavimento.
 
"Akane-san!", Ryoga le sorrideva, coi canini in bella mostra.
 
Il corpo non le rispondeva più. Non riusciva a parlare, a gridare. Sentì che le forze la abbandonavano. Desiderò lasciarsi andare al buio che la stava inghiottendo.
Qualcosa la rianimò.
 
L'odore della sua pelle...
 
*Ranma… Dove…?*
 
Era tra le sue braccia, nudo, tra le lenzuola stropicciate della loro prima notte. La sua schiena era così liscia…
 
Il polso stava rallentando.
 
“Sei davvero disposta a rinunciare a tutto pur di stare con me?”
 
*Sì… Ran…ma… Mille volte… sì*
 
"Scusami Akane"
 
*Ran…ma?*
 
"Sono stato uno stupido…"
 
*Tu sei sempre stupido…*
 
"Puoi perdonarmi?"
 
Sentì la gola serrarsi, l'aria affievolirsi in petto.
Tentò di sorridergli.
Si sentì fluttuare, al centro di un vortice. 
 
Il cortile, il laghetto, lo sgabuzzino della biancheria.
 
Il polso rallentò ancora e la testa si fece sempre più pesante. Ma forse era solo tanto leggera.
 
Il sudore degli allenamenti, l'acqua fresca sul viso, il cielo dalla sua finestra.
Il tetto.
Sentì le labbra bollenti di lui schiudersi sulle sue.
 
Se ne stava andando.
*Ba…ka*
 
"Ma possibile che non sai essere carina neanche nel momento dell'addio?"
 
E poi il cuore smise di battere.
 
 
 
 
"Ma possibile… che non… sai essere… carina… neanche nel momento… dell'addio?"
 
 
 
 
 
 
E mentre il capo le si inclinava dolcemente sul pavimento freddo, un debole sorriso sulle labbra pallide, Akane fece in tempo a vedere l'ultimo raggio del sole morente morire con lei.
 
 
 
 
***
 
 
 
Ranma sussultò, sgomento.
Qualcosa si spense, dentro di lui, in quel momento. Sentì un freddo improvviso.
 
"E' morta…"
 
Non capì.
 
Come se non avesse sentito.
 
Il freddo invase ogni angolo del corpo.
 
Hiroshi si coprì il volto con una mano, trattenendo i singhiozzi. Pronunciare ad alta voce quelle parole era stato troppo per lui.
 
Daisuke gli mise una mano sulla spalla. "Ranma… Akane Tendo è morta", confermò.
Gli occhi erano segnati e bagnati, i capelli spettinati.
Diceva la verità.
 
"Stai mentendo", Ranma lo prese per il colletto.
 
Hiroshi alzò nuovamente il capo.
 
Vide Ranma confuso dall'ira tenere fermamente il compare e chiedergli una risposta che non aveva. Provò pietà per lui.
 
"Ranma", sussurrò a sua volta con tanta pena nella voce, e Ranma provò disgusto, paura, "Ranma… Tutto il Paese lo sa…Hanno dato l'annuncio ufficiale alcuni giorni fa…", la sua voce era spezzata, il tono affranto.
Se avesse potuto avrebbe risparmiato all'amico quel momento.
 
"Che cosa…? Come?…"
 
La presa si allentò e Daisuke mise una mano su quelle di Ranma, comprensivo: "Un male improvviso…"
 
"Una malattia rapida se l'è portata via…", continuò Hiroshi. Cercavano disperatamente di darsi man forte l’un l’altro nel raccontare come stavano le cose.
 
"Non ci eravamo accorti di niente…"
 
"Sì, è stato tutto così improvviso…"
 
Una malattia.
 
"No…"
 
E allora capì.
 
"Ranma…"
 
Vide Soun-sama prendere quella decisione pur di non dichiarare pubblicamente la più atroce verità.
 
"No"
 
Vide il sangue di lei, strappata alla vita.
 
"Ranma…"
 
Vide Ryoga ubbidire mesto alla sua lettera.
 
"Nooo!!"
 
Ma non riuscì a odiarlo. Non più di quanto non odiasse se stesso.
 
"Ranma, amico, non fare così…"
 
Loro non capivano… Non sapevano!
 
"Lasciatemi stare", si divincolò dal loro abbraccio, e scappò via, lasciandoseli alle spalle, persi nella folla.
 
Correva, senza guardare dove andava.
 
L'aveva uccisa… L’aveva uccisa davvero. Ora ne aveva la prova.
 
Correva, e desiderò uccidersi all'istante, con le sue stesse mani… Ma le sue mani erano pesanti, come cristallizzate in una paralisi di dolore.
 
Nella spietata impotenza di quell'istante, dannate lacrime gli rigarono il volto.
 
Si fermò.
 
Guardò i soldati intorno a lui e ritrovò dentro di sé un po' di determinazione:  si sarebbe fatto ammazzare.
Era così semplice!
Aveva bisogno non di piangere ma di menare le mani, e soprattutto di attutire il proprio dolore con del dolore fisico. E poi la morte.
Sì, si sarebbe fatto ammazzare.
 
Prese la via del campo di battaglia dietro ai suoi provvisori compagni cinesi. Era desideroso di raggiungere la guerra e, lì, di incontrare i suoi compatrioti. Li  avrebbe incontrati faccia a faccia, da nemico, e non si sarebbe dato scampo: avrebbe accolto volentieri la morte per mano loro.
 
Quanto era beffarda la vita.
Morire per mano di chi più ami…
L'avrebbe trovata davvero beffarda e crudele se solo avesse saputo che non troppo lontano da lì pochi secondi prima non solo stava morendo Akane, uccisa dalla sorella di Kuno, ma moriva Kuno, ucciso dalla sorella di Akane.
 
La mente vuota, il cuore vuoto, non pensava a nulla, mentre camminava nei ranghi, risalendo la costa, agognando solo di arrivare il prima possibile a destinazione.
 
Ma qualcosa lo bloccò di colpo.
 
Il suo cuore, per un attimo, cessò di battere.
 
Alzò lo sguardo appannato verso il cielo color del sangue, e la vide. La vide mentre si voltava a guardarlo e gli sorrideva, i corti capelli smossi dal vento.
Un'immagine sbiadita, lontana.
Di tante che potevano portarlo alla pazzia fu quel sorriso che vide.
 
E allora lo realizzò davvero.
 
"E' morta"
 
La verità lo colpì in pieno petto.
 
L'ultimo brandello di sole si tuffò nel mare. Insieme al cuore di Akane e a quello di Kuno, in quello stesso istante si fermò anche il suo.
Per un attimo soltanto, ma che bastò.
 
E una parte di lui morì davvero in quel tramonto.
 
 
 
 Più dolce sarebbe la morte se il mio sguardo
avesse come ultimo orizzonte il tuo volto,
e se così fosse... mille volte vorrei nascere,
per mille volte ancora morire.


Hamlet - W. Shakespeare

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Capitolo 16
*** Lo spazio e il tempo di un sogno ***


 
 
 
 
Nello spazio e nel tempo d’un sogno
è racchiusa la nostra breve vita.
 
The tempest - W. Shakespeare

 
Scuotetevi di dosso codesto molle sonno,
che altro non è se non la contraffazione della morte.
 
Macbeth - W. Shakespeare
 
 
 
 
Si voltò di scatto, come se qualcuno l’avesse chiamata.
 
Ma il bosco era silente. Anche l’aria della sera sembrava aver smesso di muoversi.
 
Obaba inspirò inquieta. Era raro che qualcosa la cogliesse di sorpesa, ma di qualcosa si doveva trattare, seppur dell’ombra di un presentimento: i suoi sensi dal sapere centenario non mentivano.
 
Il vento si mise di nuovo a soffiare, indolente, e lei riprese controvoglia il cammino. Erano giorni che si muoveva nella macchia, furtiva e rapida, avvicinandosi alla battaglia.
 
Si arrestò di colpo e una mano rugosa scattò come una molla, afferrando fulminea alcuni aghi di larice, sospesi nella brezza. Se li portò al volto, soppesando grave quel gesto.
 
“C’è odore di morte nell’aria”, sussurrò roca.
 
Da quanti giorni non parlava?
 
“Morte e sangue. E non soltanto quello dei soldati”
 
Ranma aveva messo piede in Giappone. Ne era certa. L’aveva sentito nell’istante in cui era sceso dalla nave.
 
“Vecchia fattucchiera!”,  era solito apostrofarla affettuosamente Happosai.
 
Ma poi le sensazioni si erano fatte più confuse, e nuove e più forti energie l’avevano colpita in pieno petto, chissà da dove.
 
Vecchia fattucchiera…
 
Per una volta desiderò non avere quel dono.
 
“Akane, bambina…”
 
O forse ormai era solo troppo vecchia e la sua capacità veniva meno. Lo sperò con tutta l’anima.
Se solo non avesse avuto quel peso sullo stomaco...
 
“Dimmi che non ti è accaduto niente…”
 
Tentò di scacciare quell’impalbabile sgradevole presentimento.
 
“Non me lo perdonerei”
 
Senza riuscirci.
 
Riprese a correre giù per la collina. Il campo dove Soun stava combattendo i suoi nemici non era lontano. Era questione di qualche giorno. Lì avrebbe trovato le risposte che la sua ragione non riusciva ad ascoltare.
 
 
 
***
 
 
 
Si stava facendo buio e in quella luce precaria che non appartiene più al sole e non è ancora appannaggio della luna, a malapena Genma riusciva a distinguere la presenza degli alberi. Imprecò rassegnato contro la natura che gli aveva presto indebolito la vista. Ma non mancava molto, era sulla via di casa e poteva percorrere quei luoghi anche a occhi chiusi.
Qualcuno gli si parò davanti e per un attimo ebbe paura di trovarsi al cospetto di una visione spettrale.
Si trattava invece di Nabiki.
 
“Mi-Misaki…”, si sistemò meglio gli occhiali sul naso nel constatare che era solo la ragazza. “Ma cosa…?”
 
No, non era la solita Misaki.
Si trascinava pallida e priva di quella luce birichina che le brillava costantemente negli occhi.
Guardò meglio.
Era sporca di terra. E puzzava.
 
“Ragazza…”
 
Puzzava di sangue e di vomito.
 
“E’… è sangue quello?”, si stava preoccupando, “Sei ferita?!”
 
Lei scosse la testa. No, non era ferita.
 
Poi mosse le labbra sottili: “Ho ucciso un uomo”
 
Non una lacrima scendeva dagli occhi.
 
Lui le prese una spalla in un gesto fermo che voleva dare conforto, soprattutto a se stesso. Era lì ed era viva. Quel sangue non era suo.
Tanto bastava.
 
“Ragazza, respira e raccontami quello che è successo”
 
 
 
 
 
“Maledetto animale”
 
Il racconto risuonava ancora nelle sue orecchie e Genma tremava di rabbia e di orrore.
Si avvicinò a lei e la strinse come un padre stringe una figlia.
 
“Grazie ai kami sei salva. Quella bestia ha ricevuto la morte che si meritava. E tuttavia”, si staccò da lei e la guardò negli occhi, “… tuttavia se da bestia è morto, da uomo va seppellito. Domani mattina mi porterai al corpo. Da quello che mi hai detto non è troppo distante da qui, e gli daremo giusta sepoltura”
 
Nabiki deglutì in un cenno di assenso. Le premeva scendere verso casa e assicurarsi che Kasumi stesse bene. E anche il ragazzo.
Nient’altro.
 
Senza dire una parola presero la strada di casa, entrambi accelerando il passo.
Ma si bloccarono, a una trenina di piedi dalla meta. Proprio davanti all’uscio giacevano alcuni piccoli funghi rovinati fuori dal cestino di Kasumi.
 
Iniziarono a correre e a gridare a una sola voce: “Hitomi… Hitomi! Akira! State bene?!”
 
Quello che vide Nabiki, seguita da Genma, nel catapultarsi all’interno della capanna la gelò all’istante.
 
Kasumi era in piedi in mezzo alla stanza, le mani strette sulle labbra, gli occhi fissi sul volto del ragazzo, steso sul pavimento.
 
Un volto troppo dolce e troppo fermo.
 
Immobile anche lei, piangeva chissà da quanto, senza un rumore.
 
“Pensavo che dormisse…”, mormorò a fil di voce, “e allora sono entrata in punta di piedi, per non svegliarlo…”
 
Genma si avvicinò al corpo di Akane.
 
Un sorriso leggero era posato sulle sue labbra sbiadite.
Le tastò il polso. Per la prima volta si rese conto di quanto fosse sottile.
 
“Ma non stava dormendo…”, continuò Kasumi.
 
Genma chiuse gli occhi e scosse la testa.
 
“Non stava dormendo…”, Kasumi si voltò a guardare Nabiki, per la prima volta da quando era entrata, “E allora…”
Il dolore le impedì di continuare.
 
Nabiki si gettò tra le braccia della sorella, senza riuscire a dire niente, schiacciata dall’incredulità. Solo allora si sciolse in singhiozzi. E piansero insieme, stringendosi forte, per non sentirsi piccole.
Anche Genma si lasciò sfuggire un sussulto. Quel giorno, andando a caccia, non avrebbe mai immaginato di trovare quello spettacolo al suo ritorno.
Si asciugò le lacrime dietro gli occhiali.
Aveva perso un altro figlio…
 
 
 
***
 
 
 
Il primo giorno di guerra era giunto al termine, annoverando un consistente numero di vite regalate alla causa.
 
Mentre in campo avversario Mousse asciugava il sangue dalla spada e Shan Pu stringeva i denti fiera di fronte alla branda vuota di una compagna, Soun Tendo guardò cupo il soffitto grigio della tenda che lo ospitava. Tentava di cancellare dalla mente e dagli occhi la carneficina cui aveva assistito, senza riuscirci.
Si può essere allenati alla morte e alla guerra, ma abituarsi è un’altra faccenda.
 
Un unico pensiero sembrava avere senso quella notte: andare avanti, senza fermarsi, senza pensare.
Solo così, forse, salvarsi.
 
A favore di chi si sarebbe volta la guerra, dopo quel primo giorno di battaglia era difficile dirlo.
 
Nuove truppe stavano arrivando a rimpolpare l’esercito cinese, riflettè Mousse.
 
Forse sarebbe stato il caso di chiamare più rinforzi possibili, valutò Soun.
A breve sarebbe arrivato Kuno a dargli manforte al comando di quella follia, e forse a portargli buone notizie su sua figlia Akane.
Con questo pensierò il signore delle Terre dell’Ovest si arrese a un sonno senza sogni.
 
 
 
 
***
 
 
 
Vegliarono tutta la notte Nabiki e Kasumi, mentre Genma si appisolava di tanto in tanto, nel ridicolo tentativo di sfuggire per brevi tratti al dolore.
Vegliarono sul corpo di Akane, senza sapere che era Akane, senza sapere che era la sorella minore. Tennero gli occhi gonfi su quello che credevano essere un ragazzino dalla storia triste, un ragazzino che aveva portato dolcezza e calore nelle loro vite. Come un fratello.
 
Nabiki si era sciacquata via il sangue e la lotta e mentre si era cambiata, sfibrata nel profondo, aveva detto a Kasumi ogni cosa. Kasumi aveva annuito in silenzio, senza fermare le mani gentili dal sistemare alcune margherite gialle di montagna tra le dita del ragazzo.
 
Nabiki lo guardò. Era bello, Akira, anche nella morte. La pelle di alabastro, le ciglia nere, le unghie trasparenti. Non c’era stato neanche il bisogno di ricomporlo: era semplice e perfetto.
Riuscì per un po’ a dimenticare l’altro corpo, quello fuori da qualche parte, al freddo, dell’uomo che aveva cercato di violarla e per cui non aveva versato una lacrima.
 
Il freddo Akira non l’ avrebbe più patito, né la fame o la morsa di quel dolore sottile che non era riuscito a confidare.
Tentò di consolarsi così, Nabiki.
 
“Non ti mancheranno mai i fiori”, sussurrò Kasumi risoluta, asciugandosi una lacrima, “Ogni giorno poserò sulla tua tomba i fiori più belli”
Fiori bianchi e azzurri, come lui. E caldo muschio come coperta per l’inverno.
 
Il pianto continuò a intrecciarsi alle preghiere ancora molte volte quella notte. E molte volte parve tutto perduto, e altrettante il dolore si acquietò in un senso di pace ineluttabile.
 
 
*
 
 
Un giorno senza sole prese a poco a poco il posto della notte e una radura dolce di terra morbida e campanule accolse il corpo di Akane e quello di Kuno, composti su due semplici stuoie una accanto all’altra.
 
Mentre Genma scavava due fosse similmente profonde, Nabiki, con le labbra strette e gli occhi fermi, osservava la banalità della morte che rende tutti uguali.
 
Andare a caccia, raccogliere erbe, lavare, tagliare la legna, filare, cucinare… ogni abitudine si era arrestata, quella notte, e comunque nulla sarebbe stato lo stesso.
 
Sarebbero rimaste accanto all’amico e al nemico per un giorno intero, e questa pausa dalla vita quotidiana era il loro modo di fermare il tempo e rispondere alla morte.
 
Nel giro di un’ora Kasumi circondò minuziosamente Akane di fiori freschi che crescevano copiosi nelle vicinanze.
Squallido e solitario apparve il giaciglio di quel disgraziato che aveva avuto l’ardire di avventurarsi in quella foresta.
Nabiki coprì il cadavere con un telo e gli diede le spalle e Kasumi non gli regalò neanche un fiore.
 
Genma scavava e non era tranquillo. Forse erano i calli a parlargli: forse a dispetto degli ultimi tragici avvenimenti si sarebbe soltanto messo a piovere.
Eppure non era tranquillo.
Qualcosa gli diceva che doveva sbrigarsi, che doveva tenersi pronto. Una strana elettricità scorreva nell’aria fredda del mattino. Gli uccelli erano silenziosi. Gli alberi sembravano volerlo avvisare.
Ma di cosa?
La capanna era lontana una mezz’ora di cammino e mai come in quel momento desiderò trovarsi tra quelle quattro solide mura che erano state la sua casa negli ultimi quindici anni.
 
Guardò Nabiki e Kasumi raccolte in silenzio intorno al piccolo Akira. Aveva promesso loro di celebrare un funerale e di restare in preghiera tutto il giorno, e le ragazze avevano preso il necessario per una giornata fuori: qualche coperta, del pane raffermo e un po’ d’acqua.
 
Uscì dalla terra asciugandosi il sudore e si unì a loro, in silenzio.
 
Passarono le ore e venne il momento di dire addio.
Genma officiò una breve rustica cerimonia.
A Nabiki non sfuggì che l’uomo continuava a guardare nervoso oltre gli alberi, come se si aspettasse qualcosa da un momento all’altro.
 
Fu quando si piegarono entrambi per sollevare il corpo di Akane e calarlo nella tomba che sentirono quel boato.
Kasumi trattenne il fiato e loro si alzarono di scatto.
 
“Cosa è stato?”
 
“Non lo so”, grugnì Genma, “ma viene da… da casa nostra!”
 
In tutta risposta una lingua di fuoco lambì fulminea una colonna di fumo che proveniva proprio da quella direzione.
 
“Oh cielo!”
 
Kasumi era terrorizzata.
 
“Cosa può essere succ…”
 
“Soldati!”, tagliò corto Genma, stringendo i denti, “Devono essere soldati cinesi. Distruggono col fuoco tutto quello che trovano sul loro cammino. Devono essersi spinti sui monti per trovare una strada più sicura verso il campo di battaglia”
 
“E allora è una fortuna che non fossimo in casa, oggi”, aggiunse Nabiki con una ritrovata luce negli occhi, regalando ad Akane un’ultimo breve sguardo, profondamente grato.
 
“Andiamo via di qui”, prese il comando Genma, risoluto. “Andiamo via il più velocemente possibile e senza fare rumore! Abbiamo mezz’ora di vantaggio. Quegli uomini non sanno che siamo qui e conosco una via che ci porterà oltre la montagna prima di notte. Lì sapremo trovare riparo”
 
E mentre Nabiki afferrò con una mano l’arco e le frecce e con l’altra il polso della sorella per tirarsela dietro, Genma si voltò giusto un momento per dire addio alla vita che conosceva e per chiedere scusa a quel ragazzo che con la sua morte li aveva salvati e che lui non aveva avuto il tempo di seppellire come meritava.
 
 
*
 
Non un alito di vento si muoveva nella radura. Una pioggia fine bagnava l’aria. Ogni filo d’erba era lucido sotto i primi raggi di luna.
 
Il corpo di Akane giaceva freddo lì dove Genma, Kasumi e Nabiki lo avevano lasciato, accanto a quello di Kuno. Un silenzio irreale li avvolgeva.
 
Gli uomini dell’esercito cinese che avevano appiccato il fuoco alla capanna per fortuna avevano preso un’altra strada e avevano mancato di poco la radura dove fino a poche ore prima si era svolto il piccolo funerale, lasciando che i corpi restassero incustoditi, abbandonati alle stelle.
 
L’umidità del bosco e della sera aveva appesantito ogni cosa e l’incendio si era  miracolosamente estinto prima di raggiungere le chiome degli alberi.
 
Immobile, il volto di Akane pareva riflettere quello della luna, fatta dea e scesa in terra per dormire.
Le piccole mani sulla stuoia erano ferme e pesanti.
 
D’un tratto un fremito lontano nacque dal nulla.
 
Difficile a dirsi da dove arrivasse.
Cominciò a farsi largo nel silenzio, con regolarità e insistenza.
Il suono non cessò, ma aumentò ancora, impercettibilmente e fortemente.
 
Si sarebbe detto il battito di un cuore.
 
Il bosco sembrava in attesa.
 
E poi qualcosa accadde davvero.
 
Il dito indice della mano destra di Akane si mosse appena, ma tanto basta per definire la distanza che sta tra la vita e la morte.
 
L’aria fredda della notte fu risucchiata improvvisamente dai suoi stessi polmoni che si aprirono come mantici, sollevando il giovane petto della ragazza.
 
Ogni cellula si rianimò, sotto chissà quale incantesimo, e l’essenza si riappropriò della materia.
 
Gli occhi si spalancarono e di colpo Akane si mise seduta, respirando affannosamente e tossendo e tenendosi la testa e le viscere.
 
Sola, nel bosco e nella notte… era viva!
 
 
***
 
 
 
*In una perfetta sembianza di morte rimarrà chiunque abbia ingoiato quel veleno… finche si sveglierà, come se avesse solo dormito*, continuava a ripetersi nella mente il dr. Tofu, nella speranza di placare i propri sensi di colpa.
 
La notte era ancora giovane per lui, intento a curare e a fasciare ferite nell’accampamento. Aveva seguito Soun-sama in battaglia, pur non approvandola, e si era messo al servizio di chiunque avesse bisogno di lui, prodigandosi in mille modi per alleviare le sofferenze altrui.
 
Da oltre un giorno non riusciva a non pensare a quella boccetta di veleno che tempo addietro Kodachi gli aveva commissionato e che lui aveva scambiato con una potente mistura di erbe in grado di paralizzare finanche a un passo dalla morte il corpo di chi l’avesse bevuta. Ma senza ucciderlo, come lei avrebbe voluto. Un cuore lontano sull’orlo dell’abisso e un respiro apparentemente immobile avrebbero ingannato anche l’occhio più attento, almeno per ventiquattr’ore. Così aveva sperato di raggirare le mire malefiche della regina e salvare quanti malacapitati avesse preso di mira.
 
*Per fortuna quella pazza non ha un veleno mortale tra le mani, eppure…*
 
Eppure non era tranquillo.
 
Come tutti gli altri aveva saputo della morte della piccola Akane quando era ormai lontano dal palazzo.
 
Una morte in circostanze troppo strane, che non presagiva niente di buono.
 
Sfiancato dai lamenti dei feriti, si asciugò la fronte e continuò a lavorare, pregando perché le sue paure fossero soltanto dovute a una profonda stanchezza.
 
 
 
***
 
 
Cos’era successo?
 
Il sangue nelle vene pompava nuovamente, rapido, caldo, fluido.
 
Di una cosa era certa: era viva. Il dolore alle ossa ne era la prova, come la pioggerellina che le sferzava il volto.
 
Si guardò le mani pallide, non ricordando come fossero fatte.
Non ricordava nulla.
Un sogno, forse. In cui tagliava la legna e aveva un padre e delle sorelle. Un fulmine di nulla, verso il nulla creato dalla mente. Ma a poco a poco quel nulla si riempì di significato e il sogno lasciò lo spazio a una realtà che la sua mente ricostruì.
La capanna.
E quelle brave persone che la avevano accolta nella loro famiglia.
 
Sorrise e i muscoli delle guance tirarono indolenziti.
 
Dov’erano adesso?
 
Si voltò per cercare il volto sorridente delle ragazze o quello corrucciato e benevolo dell’uomo e non vide altro che uno strano involto accanto a lei, un ammasso di qualcosa coperto con un lenzuolo.
 
Perché si trovava lì da sola, di notte? Cosa le era successo?
 
Ricordò di essere caduta a terra e di essersi sentita strana…
 
La boccetta… forse era stato il suo contenuto a farle perdere conoscenza?
 
Il cuore batteva ormai alla velocità che gli era consona e l’energia che era solita scorrere in Akane Tendo vibrava di forza rinnovata.
Desiderava risposte e non voleva aspettare.
Senza un perché sollevò il lenzuolo per sapere accanto a cosa si fosse svegliata.
 
Mollò la presa e fece un balzo indietro. L’urlo le morì in gola.
 
Un cadavere! Si trovava accanto a un cadavere!
 
Non poteva essere… Desiderò che si trattasse solo di un incubo. 
Tremando si avvicinò nuovamente: doveva vedere.
 
Sollevò ancora il lenzuolo: sì... non si era sbagliata…
 
“Ma…”, tentò di mettere a fuoco alla luce della luna ciò a cui i suoi occhi non riuscivano a credere. “E’… è senza testa!”
 
Distolse lo sguardo da quello spettacolo raccappricciante, ma nel farlo la sua attenzione fu catturata dalla casacca che vestiva il busto del morto.
 
Una casacca rossa di taglio cinese.
 
Senza più remore gli mise una mano sul suo petto e tastò la consistenza della stoffa, con movimenti increduli, agitati.
 
“Ma… Ma questa…”
 
Una mano scese sulla gamba, e frenetica tornò al tronco.
 
“…Questi… questi sono i vestiti di Ranma!”
 
L’odore che portavano era ancora il suo, misto a una nota più acre, sgradevole. Ma non è acre e sgradevole l’odore della morte e del sangue?
 
Di lì il passo fu breve.
 
“Ma… ma questa gamba è...e questa mano...”, era alla ricerca di indizi e la paura folle e la luce fioca glieli facevano trovare. “…sì, la coscia... le braccia sono quelle, ma la faccia… Oh Ranma!...”
 
Le lacrime le uscirono senza che se ne accorgesse, intenta a dare retta agli occhi troppo sciocchi per vedere la verità.
 
“Me l'han…no ucci…so”, singhiozzava, “Al cuore… avrebbero potuto attaccarlo al cuore… ma così...la testa...no!”
 
Tastava e abbracciava quel corpo, sporcandosi con ciò che era rimasto del sangue, tastando e abbracciando senza sosta, senza pace.
 
“Ma come?... Chi?”
Una rivelazione: “Ko-Kodachi! Kodachi e… Kuno! L'avete ucciso voi… il mio Ranma! Dov'è la testa? Dove? Dove?!”
 
E mentre piangeva e malediceva e baciava quel corpo senza vita, tutto le divenne chiaro.
 
“Oh Ranma…”
 
Erano stati ingannati entrambi.
 
“Ranma…” 
 
Con chissà quali sotterfugi Kodachi doveva averlo attirato in una trappola, magari in cerca di lei, Akane. E la katana del fratello aveva fatto il resto…
Lei e Kuno, astio e sete di potere avevano portato a quello.
E il rimedio non le aveva forse appannato e ucciso tutti i sensi? Doveva essere stata Kodachi a rifilarlo a Ryoga.
Adesso era chiaro: la mente era lei, il braccio Kuno. Aveva cercato di ucciderla e Kuno era riuscito a uccidere Ranma…
E forse in quel momento stavano attentando alla vita di Ryoga e di Ukyo.
 
Scosse la testa, scacciando quel pensiero, cercando disperatamente di estirparlo dalla mente e chissà, forse anche dalla stessa possibilità di essere concepito.
 
Quando il nostro cuore batte per qualcuno, ci sembra di vederlo sempre sul volto dei passanti; così in quel bosco di silenzio e di morte l’amore, illuso dalla paura, disegnò sotto quei vestiti il corpo del ragazzo che aveva amato e perduto.
 
E Akane pianse su quel corpo, pianse ancora e ancora fino a sfinirsi.
 
 
 
***
 
 
 
Era quasi l’alba e la foresta si svegliava timidamente, zittendosi subito al passaggio dei cinque uomini.
 
Il generale Shinnosuke si volse a guardare se il piccolo manipolo di soldati che si era portato con sé lo stesse ancora seguendo. Silenziosi ed efficienti gli stavano dietro, lasciando che il rispetto nei confronti del loro capo si misurasse con una certa distanza.
 
Si scostò i capelli dalla fronte e tornò ad affondare gli stivali nella terra bagnata.
Non aveva memoria della sua vita in Giappone prima dell’esplosione. Vi era tornato molte volte come diplomatico cinese, ma nulla gli aveva riportato alla mente il benchè minimo ricordo.
In quel momento, perso in un mondo distante dal frastuono e dalla guerra, si sentì a casa. Una sensazione, più che un ricordo, una breve commozione, a cui non diede importanza.
 
Erano in ricognizione. Stavano cercando una strada favorevole a cogliere di sorpresa l’esercito nemico.
 
Le macerie ancora fumanti di quella che sembrava essere stata la capanna di un cacciatore  testimoniarono il passaggio di una precedente divisione alleata.
 
Shinnosuke scosse la testa. E proseguì.
 
Cercò di allontanare il pensiero da quello spettacolo di distruzione, rifugiando la mente nei piccoli rumori del bosco e scaldando lo spirito alla luce lieve che i rami cominciavano a filtrare. Si rammaricava anche solo di sentir scricchiolare il suo passo, in quella pace.
 
Ma nella pace a poco a poco si insinuò un sottile mugolìo, come il lamento lontano di una cascatella.
 
Tese l’orecchio e continuò ad avanzare.
 
Si trattava forse del vento che soffiava in una canna appesa per scacciare gli spettri? O era uno spettro stesso a cantare? O forse quello che sentiva era il verso di un animale mitologico irritato dal passaggio di essere umani?
Shinnosuke credeva a quelle leggende, ma non ne aveva paura. Si disse che anche avesse incrociato il suo cammino con quello di un mostro, lo avrebbe allontanato, colpendolo se necessario, ma senza ucciderlo.
 
Il sentiero si aprì in una ridente piccola piana, coperta di campanule violette.
 
Quasi al centro era buttato un fagotto di stracci. Il suono proveniva da lì.
 
Fece cenno ai suoi uomini di arrestarsi e lui lentamente si avvicinò.
Fu assai sorpreso da quel che vide.
Non un animale, non un mostro né uno spettro, ma solo un ragazzo di circa dodici anni, che gemeva di un pianto tenero e straziante, abbracciato al corpo decapitato di un giovane uomo, come un bambino abbracciato al suo pupazzo, che non vuole gli sia portato via.
 
Shinnosuke provò immediatamente pietà per quella scena cruda e commomente.
 
 “Ragazzo…”
 
Akane sollevò la testa, rendendosi conto solo in quel momento di non essere più sola. Ma non aveva paura. Era pronta a tutto. Niente più poteva sorprenderla.
 
Lo guardò senza asciugarsi le lacrime. Quell’uomo aveva occhi buoni e la guardava con tristezza.
 
“Ragazzo, dimmi”, la sua voce era dolce, ma non le importò, “dimmi… cosa è successo? Chi sei? E chi è costui che piangi con tanta devozione?”
 
Akane diede un’occhiata a quello che credeva essere il corpo di Ranma, e gli occhi le si strinsero di dolore.
 
“Io non sono nessuno… solo un servo… Lui… lui era l’uomo più dolce che sia mai esistito… e il più forte… e il più testardo, e onesto… era… era il mio padrone, ed è stato ucciso a tradimento, da un vile assassino”, deglutì la rabbia, “E adesso è morto… e non tornerà più”
 
Si accasciò nuovamente sul corpo desiderando non esser più nulla, per non provare nulla.
 
Shinnosuke si sentì mosso da quel lamento più che dal corpo coperto di sangue.
 
“Dimmi il tuo nome”
 
“Akira”
 
Il giovane uomo soppesò quel nome. Comprendeva il dolore del ragazzo e avrebbe voluto compiere una magia e alleviarlo all’istante.
 
“Akira… Riprovaci con me. Non ti prometto che io varrò altrettanto, ma ti assicuro che non avrò meno riguardi del padrone che hai tanto amato. Non c’è un’anima per chilometri e tu sei solo e senza protezione”
 
“Vi sbagliate! So per certo che ci sono dei montanari… mi hanno accolto nella loro casa… Non credo siano distanti da qui”
 
Shinnosuke scosse la testa, dispiacendosi per quello che stava per dire.
 
“Non c’è più nessuno. La casa di cui parli è stata incendiata e le persone che la abitavano o sono morte o sono fuggite”
 
Akane ricevette un altro duro colpo.
 
“Inoltre… Vedo che sono state scavate due tombe. Forse tu eri privo di sensi, ragazzo, e hanno pensato fossi morto…”
 
Akane annuì debolmente.
 
“Sta di fatto che non hanno avuto il tempo di finire il lavoro”, sospirò, “Ma questo è stato un bene”, le rivolse un sorriso stanco.
 
Akane lo guardò a lungo, e guardò quei pochi uomini ai margini della radura che avevano ascoltato il suo dolore, e tenevano il capo chino, in segno di rispetto. Sembravano cinesi. Eppure il loro capo non lo era.
 
“Posso sapere il vostro nome?”
 
“Shinnosuke”
 
Akane sussultò.
 
Il generale Shinnosuke, lo sfortunato Shinnosuke finito a comandare un esercito non suo, il buon Shinnosuke, che era stato sempre tanto cortese e onesto con suo padre e che voleva solo il bene della gente. E che ora era il suo nemico.
 
Ma, ancora una volta, non provò paura.
 
Lui non l’aveva riconoscita come la figlia di Soun Tendo, e questo la tranquillizzò.
 
“Seguimi”, incalzò lui, ma con dolcezza.
 
Non aveva più nulla. Non più Ranma, non più amici né una casa.
 
“Vi seguo. Ma prima lasciate che…”, ingoiò le lacrime, “…gli dica addio. Quando avrò coperto la sua tomba con le mie mani, allora vi seguirò”
 
“Ragazzo… tu oggi insegni a noi tutti a essere uomini. Aiutiamolo anche noi”
 
E mentre a un cenno del loro generale i soldati si avvicinarono timidamente, Akane abbracciò un’ultima volta il corpo ormai rigido e freddo che era appartenuto non all’uomo che aveva amato ma a quello che più aveva odiato, e ci volle la fermezza gentile di Shinnosuke perché lei si staccasse da lui.
 
Durante la sepoltura Akane pianse sommessamente e parole d’amore furono le sue preghiere.
 
E quando gettò l’ultima manciata di terra fresca e fiori sul tumulo che ormai ricopriva il corpo allora fu veramente il momento di andare.
 
“Ranma…”, sussurrò soltanto.
 
E mentre iniziò a seguire Shinnosuke e i suoi uomini, il vento si portò via quell’unica parola, che racchiudeva tutto.
 
 
---


Ciao a tutti!
 
E grazie a quanti di voi sono arrivati fin qui!
 
Ovviamente avevate ragione voi: nulla può più ingannarvi e come avete appurato, la morte della nostra eroina era solo apparente, in pieno clima shakespeareano…
 
Il capitolo non è lunghissimo (soprattutto rispetto al precedente) e non accade poi molto. Direi che è  un capitolo più che di passaggio “di sospensione”. Un capitolo notturno, di silenzi, tra la morte e la vita, in cui tutti sono tesi per un motivo o per l’altro, il capitolo dell’illusione, di quella svelata e di quella incompresa. Spero di essere riuscita a rendere questo tipo di atmosfera.
 
Purtroppo è anche il primo capitolo di questa storia senza Ranma, e mi rendo conto di trovarmi di fronte a un paradosso. So che molte di voi non gradiranno e non posso darvi torto. Ma la storia voleva questa breve parentesi e a dire il vero anch’io non ho voluto infierire sul suo personaggio: cosa avrebbe potuto fare qui se non ancora disperarsi? E diciamocelo, un Ranma troppo disperato non è poi così interessante e neanche troppo IC così ho preferito lasciargli maturare il suo dolore in questa parentesi per poterlo ritrovare al prossimo nel pieno della guerra e di tutte le conseguenze che ne verranno.
 
La buona notizia è che nonostante ci siano ancora molte questioni in sospeso, non siamo poi così lontano dal finale.
Perciò non demordete e continuate a leggere, che ci stiamo avvicinando! Entriamo a pieno titolo nel quinto e ultimo atto di questa storia!
 
Dedico questo capitolo in particolare a Xingchan, autrice di grande talento, che mi segue con costanza e mi regala sempre le prime recensioni, le più belle.
E’ un piacere scrivere sapendo che mi leggerai…!
E un abbraccio speciale a voi tutti che leggete e lasciate un commento, un parere, un consiglio.
 
Grazie a tutti!
 
InuAra


 
 
 
 
 

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Capitolo 17
*** Il soffio della guerra ***


Un piccolo riassunto per riportarvi nel vivo della storia:

Medioevo giapponese - Akane, figlia di Soun-sama, signore delle terre dell'ovest, non è mai uscita dal palazzo, dove è cresciuta accanto a Ranma, un giovane orfano che lavora come paggio al servizio di Soun Tendo. A vegliare su di loro ci sono i due anziani consiglieri, Obaba e Happosai, e gli immancabili confidenti, Ryoga, amico, nonchè servo, di Ranma, e Ukyo, ancella di Akane. Soun si risposa con una giovane nobildonna, Kodachi, e al fratello di lei, Kuno Tatewaki, promette in sposa la principessa Akane, che rifiuta categoricamente i suoi corteggiamenti. A poco a poco Ranma e Akane si accorgono di essere innamorati e, sfidando i problemi di classe, si dichiarano. Decidono quindi di sposarsi di nascosto e scappare in Cina, in attesa di tempi migliori, ma immediatamente dopo il matrimonio e la prima notte di nozze vengono scoperti e divisi. Ranma viene prima imprigionato e poi esiliato e Akane è tenuta sotto stretta sorveglianza, pur con un discreto raggio di azione. Partendo per la Cina, Ranma promette ad Akane che le scriverà spesso e che farà di tutto per ricongiungersi a lei. Tra una lettera e l’altra, passano i giorni. In Cina, Ranma viene accolto dalla signora Nodoka, una donna Giapponese che gestisce una locanda, dove lavora come cameriera Shan Pu, che tenta invano di sedurre Ranma. Durante una festa, uno degli ospiti, un giovane guerriero di nome Mousse, provoca Ranma e lo istiga a scommettere sull’onore di Akane: sarà Mousse stesso a provare l’infedeltà della giovane principessa recandosi in Giappone e tentando di sedurla. Una volta a Palazzo Tendo, Mousse fallisce ogni tentativo di fronte alla fedeltà di Akane. Nottetempo si intrufola quindi, nascosto in un baule, nella sua stanza e le ruba un bracciale che Ranma le aveva donato prima dell’esilio, portandolo come prova dell'infedeltà della ragazza. Al ritorno di Mousse, complice un filtro di Shan Pu che ha il potere di farlo letteralmente "impazzire" di gelosia, Ranma crede alle bugie sulla fedeltà di Akane e scrive a Ryoga chiedendogli di ucciderla. Ranma poi sviene e rimane privo di sensi per circa una settimana. Nel frattempo scoppia la guerra tra Cina e Giappone. Prima Mousse e poi Shan Pu si arruolano e partono per il Giappone. Ryoga riceve la lettera di Ranma in cui gli viene chiesto di portare Akane fuori dal palazzo e ucciderla. Una volta fuori, Ryoga risparmia la ragazza, a cui non aveva pensato neanche per un istante di fare del male, e si ferisce a un braccio per macchiare un pezzo di stoffa dello yukata di Akane da mandare a Ranma come prova dell'uccisione. Akane si traveste da uomo con lo scopo di raggiungere gli amici Hiroshi e Daisuke presso il villaggio di Hakata e lì attendere tempi migliori. Non arriverà mai a destinazione, incappando nell'abitazione di un montanaro e delle due nipoti, che la accolgono con affetto, credendola un ragazzo. Si tratta però di Genma, vecchio amico del padre di Akane, il quale circa dodici anni prima, in seguito alla presunta perdita del figlio Ranma durante una delle guerre dichiarate da Soun, ha deciso di vendicarsi rapendo le sue due figlie maggiori ancora in fasce: Kasumi e Nabiki. Nel frattempo Ranma si sveglia e alla notizia della morte di Akane, affranto e pentito, prende la prima nave per il Giappone, dove spera di trovare la ragazza ancora viva. A palazzo Soun scopre che la figlia è fuggita e decide di dare la falsa notizia della sua morte. Kuno capisce che dietro la sua fuga ci sono Ryoga e Ukyo. Dopo averli minacciati si lancia all'inseguimento della ragazza, deciso a prenderla con le cattive e ad abusare di lei con indosso gli abiti di Ranma, per offenderla più crudelmente. Nei boschi troverà invece Nabiki e dopo una colluttazione rimane ucciso in un  incidente in cui viene decapitato. Nel frattempo Akane ingoia quella che crede essere una medicina e che altro non è che un veleno di Kodachi, per fortuna non mortale. Akane perde i sensi e appare, tuttavia, priva di vita. Genma, Nabiki e Kasumi piangono la sua morte e nel momento in cui stanno per seppellire il suo corpo e quello di Kuno sono costretti a fuggire per l'arrivo dei soldati. Nottetempo Akane si sveglia sul corpo senza testa di Kuno, e nel buio e nell'angoscia del momento pensa di trovarsi di fronte al corpo senza vita di Ranma, caduto in una terribile e ingegnosa trappola. Ormai sola, ancora in abiti maschili decide di seguire Shinnosuke, un giusto e onesto generale dell'esercito cinese. Arrivato in Giappone Ranma riceve la notizia ufficiale della morte di Akane e decide di gettarsi nella battaglia per trovare la morte che si merita.



 
In peace there's nothing so becomes a man
As modest stillness and humility:
But when the blast of war blows in our ears,
Then imitate the action of the tiger;
Stiffen the sinews, summon up the blood,
Disguise fair nature with hard-favour'd rage;
Then lend the eye a terrible aspect.
 
Nella pace nulla di meglio per diventare un uomo
che la tranquillità e l'umiltà;
 ma se tu senti il soffio della guerra, allora imita la tigre,
 indurisci i tuoi muscoli, eccita il tuo sangue,
nascondi la tua lealtà sotto la fredda rabbia
e infine dà al tuo sguardo l'orribile splendore.
 
Henry V- W. Shakespeare
 
 
 
To be worst,
The lowest and most dejected thing of fortune,
Stands still in esperance, lives not in fear.
 
Chi si trova ridotto al peggio,
ed è la cosa più meschina e più avvilita dalla fortuna,
sta sempre nella speranza, e non vive nella paura.
 
King Lear - W. Shakespeare
 
 


 
 
“Nooooo! Aiko, Ryuji…Kei..!! I miei bambini..! I miei bambini sono là dentro!”
 
Era necessaria la forza di due uomini adulti per frenare la furia della donna che straziava l’aria con le sue urla. Non c’erano parole né lacrime per consolarla, mentre si dimenava per gettarsi tra le fiamme di quella che doveva essere stata una delle case di un piccolo villaggio. Intorno a loro c’era un movimento inarrestabile, si udivano richiami, e centinaia di  braccia si passavano secchi colmi d’acqua, nel tentativo di spegnere gli incendi. Una pioggia di fuoco aveva colto quella gente nel sonno, a poche ore dal tramonto, e una serie di esplosioni l’aveva gettata nel panico.
Dove non arrivava l’esercito cinese arrivava la polvere da sparo. I villaggi venivano rasi al suolo e la guerra entrava in luoghi in cui non era attesa, dove non c’erano i mezzi per combatterla.
 
“Si sarà fatto ammazzare”, sibilò tra i denti uno dei due uomini, il più vecchio, mentre sorreggeva la donna che stava piangendo esausta.
 
“Di chi stai parlando?”, chiese il più giovane.
 
“Di quel ragazzo, non l’hai visto? Il ragazzo che si è buttato tra le fiamme”
 
“Non ho visto niente, c’è un tale fumo”, tossì l’altro, senza allentare la presa sulla donna, una mano ferma sulla schiena di lei.
 
“E’ comparso dal nulla e come un forsennato si è messo a correre verso casa di tua cognata”, con un cenno indicò la donna che continuava a singhiozzare, tesa, a cui il dolore spezzava il respiro. “Avresti dovuto guardarlo negli occhi. Gli bruciavano più di tutto questo fuoco! Si sarà di certo fatto ammazzare, povero disgraziato”
 
Ma non fece in tempo a terminare la frase.
 
La sua espressione parlò per lui. Gli occhi splancati, la bocca aperta e senza fiato, non riusciva a credere a quello che vedeva.
 
La sagoma di quello stesso ragazzo si stagliava nella polvere dell’incendio, mentre si faceva largo tra le persone per allontanarsi rapidamente dal calore soffocante.
 
“Ce… ce l’ha fatta! E ha qualcosa… Ha qualcosa in braccio…!”, fece l’uomo più giovane. “Sì… Non è solo!”
 
La donna sollevò il capo, improvvisamente attenta.  “Aiko! Ryuji! Kei!!!!”
 
Distante non più di una manciata di passi, le vesti logore e bruciacchiate, la pelle annerita dalla cenere e due occhi di uno spaventoso blu cupo, il ragazzo teneva stretti a sé con uno e con l’altro braccio due bambini avvolti in stracci, mentre sulla schiena, aggrappata a lui con tutte le sue forze, c’era una ragazzina che non aveva ancora sette anni, le palpebre strette per la paura e naso e bocca riparati da un pezzo di stoffa bagnato, legato alla veloce. Lui stesso ne aveva uno simile.
 
“Aiko!”
 
La bambina aprì gli occhi. “Mamma!”
 
Saltò giù dalla schiena di lui e corse incontro alla donna che correva a sua volta e inciampava, frastornata dalla gioia che aveva rubato il posto al dolore in così breve tempo.
 
“Mamma, mamma! Ho avuto tanta paura”, piangeva e si stringeva a lei, “… e credevo che non ti avrei mai più rivista”, e la donna si accucciava e la prendeva tra le braccia tremanti, “Ero lì con Ryuji e Kei e tutto crollava intorno a noi”, ansimava la bambina, e la madre la abbracciava più forte, “E questo signore è arrivato e mi ha dato questo e me l’ha messo sulla bocca, e ci ha presi e ci ha portati via da lì, più veloce del vento. Mammina, mammina!”
 
La donna alzò lo sguardo interrogativo sul giovane uomo che le si era fermato davanti, e si fece aiutare dalla figlia ad alzarsi.
Lui non la fece aspettare oltre e le mise tra le braccia i due bambini, uno appena neonato, l’altro che ancora non aveva l’età per camminare. Piangevano entrambi e la mamma non fu mai così felice di sentire quel baccano. Erano vivi!
I due uomini nel frattempo si erano avvicinati, increduli, grati.
 
Il ragazzo si abbassò il fazzoletto. Stava sorridendo. “Stanno bene, signora. Per fortuna stanno bene”, soffiò fuori sollevato.
 
Lei non disse niente. Lo abbracciò.
 
Lasciò che fossero le lacrime a dirgli grazie, e una risata felice, disordinata, fuori di sé.
 
“Ragazzo”, intervenne il cognato della donna, “Ma da dove…?”
 
“Sapevo che l’esercito cinese avrebbe attaccato questo villaggio”, lo interruppe risoluto, stringendo i pugni, “Ma non sono arrivato in tempo per avvertirvi” Si guardò intorno, con sguardo colpevole. “Non verranno qui, non ne hanno nessuna intenzione, ma si fanno terra bruciata attorno…”
 
L’uomo gli mise una mano sulla spalla: “Se non fosse stato per te, ragazzo, oggi avrei perso non solo la mia casa ma anche i miei nipoti”
 
Il ragazzo non lo contraddisse. Si limitò a sorridere nuovamente, ma un po’ più stanco e svuotato.
 
“Resta, ti prego. Il fuoco sembra domato. Resta”
 
“Devo andare”, si divincolò l’altro, allarmato, “Non posso fermarmi”
 
L’uomo parve capire. Colse una certa inquietudine in quello sguardo. Gli fu subito chiaro che il giovane si portava dentro un qualche terribile tormento.
 
“Non ti tratterremo allora. Ma dicci almeno il tuo nome”
 
“Il mio nome ha poca importanza…”
 
“Vorrei sapere il nome dell’uomo a cui devo la vita dei miei figli” La voce ferma e cristallina della donna catturò tutta la sua attenzione.
 
Lui la guardò e guardò la bambina che a sua volta lo scrutava con grandi occhi svegli. Li guardò tutti, e per un attimo, un attimo soltanto, si sentì in pace.
 
“Ranma. Il mio nome è Ranma”
 
Poi diede loro le spalle e, come era arrivato, lo videro andarsene.
 
 
 
***
 
 
 
“Aaaaah!”, l’urlo gutturale di Akane squarciò l’aria fredda dell’alba e fu seguito da un rumore sordo di mattoni rotti.
 
Il generale Shinnosuke era tornato all’accampamento da diversi giorni e ogni mattino il ragazzo che aveva trovato nei boschi e che aveva preso con sé cominciava ad allenarsi senza risparmiare fiato né energia.
Uscendo dalla propria tenda lo spiò per qualche istante. Guardarlo bastò a scaldargli l’anima, e a torgliergli dal petto il peso che si portava da due giorni, quando aveva saputo che… Inspirò per ritrovare la calma. Era giovane, Akira, molto giovane, e per quanto inesperti i suoi movimenti erano aggraziati, sia che spaccasse un cumulo di mattoni con tutta la sua forza, sia che gli allacciasse l’armatura. Ogni mattino lo lasciava nella propria tenda, raccomandandogli di non seguirlo, e ogni sera, di ritorno dalla battaglia, sudato, stanco e sporco lo ritrovava ad aspettarlo.
Non gli era sfuggita la frustrazione negli occhi del ragazzo che non sopportava di starsene da solo, tormentato dai suoi fantasmi, ma non avrebbe osato portarlo con sé sul campo. Si sarebbe fatto ammazzare piuttosto che esporlo ai pericoli.
Sentiva il bisogno di proteggerlo, di impedire a quegli occhi tanto giovani e tanto ingenui di vedere tanta crudeltà. Ne avevano vista già troppa.
Gli si strinse il cuore al ricordo delle circostanze in cui l’aveva trovato. La simpatia che aveva provato per lui era stata immediata, quasi istintiva. Da giorni si chiedeva quale fosse la vera origine di quella simpatia. E quella mattina, a poco più di un’ora da un nuovo giorno di battaglia e di sangue, capì.
Sorrise mestamente. Ma certo, era così semplice. La risposta era sempre stata lì, davanti ai suoi occhi.
Si avvicinò e con gentilezza mise una mano sulla spalla di colei che credeva essere un ragazzo, la quale sussultò.
 
“M-mio signore! Perdonatemi, non vi avevo sentito arrivare”
 
“Sei sempre così mattiniero, Akira”
 
Tra di loro parlavano in giapponese e la cosa non sembrava poi così strana alla divisione di un esercito che prendeva ordini da un generale che di cinese aveva solo la patria adottiva.
 
“Scusate, mio signore, è che non riesco a… stare fermo. Sento che altrimenti potrei impazzire”
 
Shinnosuke ridacchiò e non disse niente. Dopo qualche istante ruppe il silenzio. “Credo di essermi appena ricordato un particolare curioso. Tu sai che in passato ho visitato il palazzo di Soun-sama”
 
Il ragazzo parve sbiancare, ma Shinnosuke non se ne accorse.
 
“E una volta intravidi la principessa”, indugiò qualche istante, per poi ricominciare, “Fu un breve momento, di cui ricordo ancora meno… Dopo l’incidente che ho avuto non sono molte le cose che rimangono nella mia memoria… Quelle che ho vissuto prima dell’esplosione sono state cancellate completamente, quelle che vivo da allora si rincorrono nella mia mente, a volte tornano, a volte mi sfuggono e ogni tanto capita ch’io riesca ad afferrarle”
 
Akira annuì lentamente, corrucciato.
 
“Non ricordo nulla del palazzo di Soun-sama, non ricordo di che foggia fosse il kimono della principessa quel giorno nè che acconciatura portasse… Ma ricordo il suo nome. Akane. E’ un nome molto bello, non trovi?”
 
Il ragazzo non disse niente.
 
Shinnosuke proseguì. “E i suoi occhi. Quelli sì, me li ricordo. Per mesi quegli occhi si sono stampati nella mia memoria. Brillanti, fieri. Non ho mai visto occhi così. E’ la prima volta che ne parlo con qualcuno… Quelli erano gli occhi più belli che io abbia mai visto, Akira. Non so come ho fatto a non realizzare fino a oggi quanto i tuoi vi assomiglino. Mi ricordano quelli della principessa”
 
Il ragazzo parve agitarsi.
 
“Oh no, non fraintendermi”, si affrettò ad aggiungere il giovane generale, imbarazzato, “Non voglio certo dire che tu hai degli occhi da donna! Solo… tu hai uno sguardo così diretto, così pulito e sincero… Non mi meraviglio, ecco, che qui ti vogliano già tutti un gran bene”, concluse con un sospiro.
 
Anche Akane sospirò. Rimasero in silenzio per un tempo incalcolabile. 
 
Shinnosuke non sapeva come continuare. “Hai conosciuto la principessa?”, osò poi, e il suo tono parve incupirsi.
 
“Non abitavo lontano da lì”, rispose un po’ forzatamente il ragazzo, che probabilmente non sapeva cosa dire a fronte di quel discorso sconclusionato, “E ne ho spesso sentito parlare. Un paio di volte l’ho vista, da lontano”
 
Distratto dai preparativi di un gruppo di soldati, poco distante, Shinnosuke sbuffò: “Un nuovo giorno… Tra poco sarà ora di lasciare l’accampamento. Vuoi parlarmi di lei ancora per un po’? Ne sarei felice…”, chiese quindi con dolcezza.
 
Impossibile negarglielo. “Beh, mio signore, si dice che avesse un certo temperamento…”
 
“Sì, pare di sì”, sorrise lui.
 
“E si raccontava che avesse sposato un uomo di nascosto dal padre”
 
Shinnosuke trasalì. Quella voce non gli era arrivata. Ma in fondo non fu così sorpreso. Quegli occhi, gli occhi che lui ricordava, parlavano chiaro. “Probabilmente era l’uomo che amava”, la voce gli uscì un po’ più triste di quello che avrebbe voluto.
 
“Sì…”, e il sussurro di Akane fu appena udibile. “Lui comunque pare che sia stato esiliato…”
 
“Chissà che scandalo…”, non c’era giudizio nel tono di lui.
 
“Se ne è parlato parecchio, sì. Ma la principessa gli è stata sempre fedele, non può essere altrimenti. E anche lui, di certo… Solo che… troppe persone non volevano che fossero felici…” Sollevò lo sguardo su Shinnosuke che ascoltava attento. “Che fine abbiano fatto adesso, non so dirlo”, tagliò corto Akane.
 
“Pare che la principessa sia morta”, sospirò il generale chiudendo per un attimo i grandi occhi che si erano fatti improvvisamente lucidi, “L’ho saputo due giorni fa. Mi spiace darti questa notizia. Sembravi molto interessato alle vicende della giovane Tendo…”, aggiunse lieve, “E mi spiace sapere che il mio nemico soffra un dolore tanto grande. Ma più di ogni altra cosa… Non riesco a concepire che occhi come quelli si siano spenti” 
 
Un freddo pungente entrò loro nelle ossa.
 
“Come… come è…?”, Akane boccheggiava, impreparata a sentire con le sue orecchie una notizia simile.
 
“Un male improvviso. Così sembra”, rispose Shinnosuke e parve sforzarsi di mantenere ferma la voce.
 
Quelle parole rimasero per un po’ sospese tra loro.
 
“Signore”, irruppe una giovane recluta, rompendo il silenzio, “E’ tempo di andare”
 
Shinnosuke annuì. E come ogni mattina, si congedò posandole una mano sul capo: “Se non dovessi tornare vivo… Stammi bene, Akira”
 
 
 
Ancora piegata nel suo inchino, Akane lo guardò andare via. Guardò l’accampamento fremere sotto di lei, due nuvole rincorrersi, i mattoni inerti poco lontano.
Sola, di nuovo sola.
Rientrò nella tenda del generale, indecisa se mettersi a sedere sulla branda. Rimase lì in piedi a ripensare a quello che aveva appena sentito.
Akane Tendo era morta. A quanto pareva così credevano tutti, anche se il motivo le era oscuro. Un proclama ufficiale, forse?
Akane Tendo era morta. E con lei la vita che conosceva, la sicurezza di una casa, l’amore.
Si chiese cosa credesse davvero suo padre, se aveva imbastito lui quell’assurda notizia, o se la credeva morta davvero; si chiese cosa stesse soffrendo in quel momento. E Ryoga e Ukyo cosa credevano? Dove si trovavano? Si sentì infinitamente lontana da tutto e da tutti.
Si sedette di peso sulla branda. Pochi minuti prima aveva ripercorso mentalmente la sua vita, nel tentativo di riassumerla all’osso e raccontarla in terza persona. E pur con tutte le lacune e le omissioni del caso, Akane aveva sentito il dolore farsi più dolce, l’amore più lancinante, il perdono imprescindibile.
Ora era di nuovo sola.
Odiava quei tempi morti. Tornava ad essere Akane, quando al contrario voleva dimenticarsi di essersi chiamata così, di essere stata donna e principessa in un passato troppo lontano. 
Un passato in cui c’era Ranma.
Voleva solo essere Akira, il ragazzotto di poche parole, dalla voce roca, che spaccava mattoni e aiutava il generale Shinnosuke.
Sospirò.
“A chi voglio darla a bere…”
 
 
 
****
 
 
 
“A chi voglio darla  a bere…”, mormorò Ranma a se stesso, mentre con un ramoscello spingeva sotto la cenere l’ultimo tizzone di un fuoco ormai spento.
 
Sollevò gli occhi stanchi sulla boscaglia grigia che gli aveva dato riparo per una notte senza stelle e senza sogni, mentre una nebbiolina sottile si alzava dalla terra calda sotto il primo bagliore del mattino.
 
Si era diretto là dove impazzava la guerra con l’obiettivo preciso di farsi ammazzare.
 
Ma ancora non ci era riuscito. Non che non ci avesse provato. Così, almeno, gli pareva.
 
Come era giunto faccia a faccia con l’esercito nemico si era gettato a capofitto nella mischia.
Non seppe dire se fosse la totale incapacità dei soldati che si era trovato tra i piedi o la rabbia che lui stesso doveva innanzitutto sfogare, per andarsene all’inferno almeno un po’ più leggero, ma aveva finito ogni volta con l’avere la meglio su quegli avversari, che poi, a ben guardarli, erano dei poveri diavoli come lui, finiti lì a combattere chissà come, spesso e volentieri spaventati a morte e su cui lui non aveva cuore di infierire. Anzi, il più delle volte si ritrovò a difendere di propria mano qualche giovane recluta inesperta che si stava facendo ammazzare da attacchi cinesi ben più organizzati.
 
Questo lo costrinse ben presto a disertare un esercito che non era il suo e di cui si era servito soltanto per arrivare fin lì. Nel disordine di un campo di battaglia in cui si attaccava a vista, tra il fumo e il sangue a coprire la visuale e a mettere a dura prova la lucidità, fu facile per lui prendere la propria strada. Nessuno dei suoi commilitoni se ne accorse, nessuno si era preso la briga di stamparsi in mente quella faccia cupa e taciturna… anzi probabilmente l’avevano dato per morto. Meglio così. I metodi cinesi non gli andavano a genio. Appena potevano scatenavano i loro “draghi di fuoco” o come diavolo li chiamavano, col solo risultato di distruggere villaggi e mutilare gente innocente, che non aveva nulla da guadagnare da quella stupida guerra.
Strinse i pugni. Scene come quella della notte precedente erano all’ordine del giorno, e non sempre avevano un lieto fine.
Ne aveva viste parecchie negli ultimi giorni. Da quanto tempo era lì? Non seppe dirlo. Si aggirava come un reietto ai margini della comunità e della battaglia, senza far parte né dell’una né dell’altra. E ogni volta che sperava di trovare la morte era costretto ad agire per aiutare qualcuno che la morte non la stava cercando, trovandosi ora a disarcionare un soldato con la bava alla bocca all’inseguimento di una donna sfuggita a una carneficina – maledetto bastardo-, ora a fermare a mezz’aria una freccia – benedetti riflessi - nella sua traiettoria verso il cuore di uno sbarbatello entrato nell’esercito da meno di un mese; che fosse cinese o giapponese poco importava.
Qualcuno l’aveva ringraziato dicendo che i kami l’avevano mandato lì al momento giusto. La verità era che i kami avevano altro a cui pensare e che in una guerra è sempre il momento giusto per morire o essere salvati.
 
Si guardò le mani.
 
Non aveva mai il tempo di pensare, ed era un bene. I pochi momenti lontano dall’azione erano riservati a un breve riposo stremato.
 
Si guardò le mani e non le riconobbe, così diverse da quelle del ragazzo che aveva preso il viso di lei nel bacio dell’addio, mille anni prima.
 
Akane.
 
Si rese conto che ogni volta che con quelle mani salvava qualcuno, era lei che tentava di salvare. Ogni volta che le brandiva come armi per proteggere, era lei che tentava di proteggere. In ogni volto di bambino, di vecchio contadino o di fanciulla era quello di lei che vedeva.
 
Stupido.
 
Sollevò lo sguardo all’orizzonte verso le colonne di fumo che tremolavano laddove di lì a poco sarebbe ricominciata la strage giornaliera.
 
E fu allora che scattò qualcosa dentro di lui. E Ranma prese la sua decisione.
 
Decise che avrebbe continuato a combattere, sì, ma con la consapevolezza di farlo non per se stesso, non più per la morte, per cercare la propria, ma per la vita, per far sì che altri non la perdessero.
 
Si alzò con un nuovo bagliore nello sguardo, che rivolse al cielo.
 
Ranma non sapeva che piega stesse prendendo la guerra, né quanto fosse estesa, se ci fossero vittorie o sconfitte imminenti o che altro…
Sapeva solo che lui sarebbe stato lì con quelle sue mani e si sarebbe gettato nella mischia o dove fosse necessario, fino alla fine.
 
Con gli occhi fermi e senza dire una parola pronunciò il suo voto e fu a lei che si consacrò ancora una volta.
 
L’avrebbe rivista nei volti del popolo che le era appartenuto, e sarebbe morto per salvarlo.
 
 
 
***
 
 
 
“Ukyo, le tue focacce resuscitano i morti!”
 
La ragazza fece a malapena un cenno in risposta al soldato dalla risata contagiosa che si stava rimpinzando di gusto. In altre circostanze, complimenti tanto sinceri l’avrebbero lusingata e messa di buonumore.
Si guardò intorno distrattamente, leggermente affannata, mentre alcuni garzoni servivano al suo posto zuppa e altre pietanze agli uomini delle truppe di Soun-sama che avevano appena fatto ritorno all’accampamento.
Si trovava lì non da molto e già le pareva un’infinità: era stata una decisione repentina, dettata certamente dal fatto che l’esercito non era nella posizione di sprecare le sue risorse nelle cucine o in altri compiti ausiliari e ogni paio di braccia in più era quantomeno auspicabile. Ma sopra ogni altra cosa lei era andata lì per seguire lui…
 
“Se stai cercando Ryoga-san”, la apostrofò un secondo soldato sulla trentina dallo sguardo vispo, mentre con la manica si asciugava un po’ di salsa dalla bocca, “Non devi preoccuparti, ragazza, sta arrivando: la sua divisione era dietro di noi”
 
Finalmente Ukyo respirò di nuovo, e si voltò verso di lui con interesse. “L’hai visto? Sta bene?”
 
“Fai così tutte le sere”, ghignò l’altro, “E tutte le sere lui fa ritorno. Se lo vedessi combattere in battaglia non ti preoccuperesti più così tanto. Sembra di vederlo danzare”
 
Ukyo si congedò da lui stringendogli un braccio con entrambe le mani. Lui la vide sgattaiolare nel rumore delle stoviglie e nel vociare dei sopravvissuti, schivando una fiumana di uomini, spade e armature sudate.
Quei due erano molto discreti, ma nella penuria di svaghi non era sfuggita a lui come ad altri soldati la storia d’amore tra il servo e l’ancella che prima lavoravano a Palazzo Tendo. Dormire ogni notte tra le braccia della propria donna era un privilegio riservato a pochi. Non che qualcuno avesse da ridire. Il soldato Hibiki era degno del rispetto dei compagni. In battaglia tutti potevano farvi affidamento. Aveva salvato la vita anche a lui una volta, Ryoga, quando si era trovato davanti quattro cinesi armati fino ai denti. Come ci fosse riuscito poi, ancora se lo stava chiedendo. Era stato dannatamente veloce. Tracannò un bicchiere d’acqua torbida e intravide in lontananza la piccola Ukyo scovare finalmente il ragazzo. “Buon per lui!”, ridacchiò.
 
 
“Ryoga! Finalmente…”
 
Si sentì stringere due braccia al collo prima di capire che era Ucchan, la sua Ucchan che lo aveva aspettato.
 
Arrossì. Ogni giorno scampava alla morte e ogni sera non poteva fare a meno di imbarazzarsi come un bambino quando lei lo accoglieva in quel modo.
 
“Oh, non dire niente!”, lo redarguì subito lei, prevenendolo. “Ti aspettavo con una tale ansia che non ti conviene davvero sgridarmi perché ti abbraccio davanti a tutti! Ecco, è già finito! E poi “tutti” chi? Non ci sta guardando nessuno!”
 
Non era davvero arrabbiata, anzi. Dava voce  a tutte quelle chiacchiere per smorzare la tensione - Ryoga conosceva bene la sua Ucchan – e per ricacciare lacrime inutili, tagliando corto con uno di quei suoi sorrisi freschi e diretti.
 
“Stai bene? Hai male da qualche parte?”, chiese lei tastando e verificando arti e petto con attenzione.
 
“Tutto bene”, la rassicurò lui, prendendole una mano tra le sue.
 
Lei lo guardò con riconoscenza. Non era mai sporco di sangue, né suo né altrui. Non sapeva come combattesse sul campo, non aveva mai fatto domande, ma gli era grata per quell’attenzione.
 
“Guarda che se ti fanno del male mi procuro una spatola gigante e gli faccio vedere io, eh?!”
 
“Non ne dubito!”, rise Ryoga di fronte all’assurdità di quella proposta. “E comunque devi ringraziare Obaba e il vecchio Happosai se me la cavo senza ammaccarmi troppo”, aggiunse mentre continuava a stringerle la mano e la seguiva verso i tavoli del rancio, “Devo molto ai loro insegnamenti”
Si morse il labbro in tempo, omettendo quanto gli fossero tornati utili anche tutti gli allenamenti con Ranma.
E quanto gli mancassero. Dov’era Ranma in quel momento?
Ogni volta che fronteggiava l’esercito cinese non poteva fare a meno di scrutare gli occhi del nemico alla ricerca di uno sguardo conosciuto, aspettandosi di veder spuntare improvvisamente un codino.
Non sapeva più dire quali fossero i piani di colui che era stato il suo più caro amico. Non lo conosceva più.
Ma di una cosa era certo: gli avrebbe fatto ingoiare dal primo all’ultimo tutti i suoi sbagli.
Eppure allo stesso tempo desiderava fortemente incontrarlo di nuovo e scoprire che si era trattato solo di un enorme malinteso.
 
“Ecco qui!”, cinguettò Ukyo mettendogli sotto il naso una delle sue focacce fumanti.
 
Senza pensarci due volte Ryoga la addentò famelico. “Da quando sei arrivata tu qui a cucinare”, disse con la bocca piena, “tutti mi dicono di essere più in forze!”
 
“Beh, non è che abbia avuto tutta questa scelta… Soun-sama ti ha voluto qui nell’esercito e io sono venuta con te”, concluse come fosse la cosa più naturale del mondo.
 
Ryoga ingoiò il suo boccone, annuendo: “Lo sai… Kuno è sparito e la sua parte dell’esercito è rimasta senza comando. In attesa che Happosai faccia ritorno dai confini a nord del Paese – e chissà quanto ancora ci vorrà -, Soun-sama ha ripartito le truppe e ha avuto bisogno di uomini fidati, giovani… pronti a morire per lui”
 
Per un po’ rimasero in silenzio.
 
“Non lo si vede quasi mai”, fece Ukyo, sbocconcellando un pezzo di okonomiyaki, “…e sempre da lontano. Sembra così triste…”
 
“In battaglia non si risparmia. E quando viene qui si chiude nella sua tenda. Mi chiedo che fine abbia fatto Kuno”
 
Rabbrividirono entrambi. La sera stava calando velocemente. Si alzarono e si allontanarono senza fretta.
 
“Che il diavolo se lo porti…! Non l’ha trovata, te lo dico io! La mia Akane sa come difendersi”, si scaldò Ukyo.
 
“Speriamo”, sorrise debolmente Ryoga mentre gli schiamazzi dei soldati si facevano sempre più distanti, “… speriamo. E se Akane non fosse mai arrivata? Non riesco a togliermelo dalla testa… Non ho ricevuto nessuna lettera da Hiroshi e Daisuke… Non sappiamo se sia riuscita a trovarli…”
 
“Forse invece è arrivata, ti hanno scritto, ma in tutto questo guazzabuglio la lettera è andata perduta! Non pensi?”
 
“Mmm… forse. Comunque questa dannata guerra mi ha impedito di scoprirlo di persona…”
 
Si strinse a lui, come per impedirgli di aggiungere qualcosa, di pensare, per non pensare lei stessa. Troppe domande. Troppi dubbi. Troppe paure a cui non osavano dare forma.
Ryoga serrò gli occhi e scosse la testa, attirando Ukyo più forte a sè. Era così calda…
 
Erano arrivati in prossimità della tenda che lei divideva con le altre poche donne che servivano nell’accampamento, e nessuna di loro era lì, in quel momento.
 
Riaprì gli occhi e se la guardò, se la guardò tutta, la sua Ucchan, senza esitazione.
 
Neanche lei abbassò lo sguardo, un lieve rossore a tradirne l’emozione.
 
Lei era tra le sue braccia, erano vivi, e questo bastava.
 
La baciò con una dolcezza struggente. Lei gli accarezzò il viso e i capelli con le mani che sapevano di cavolo.
Tenendola stretta a sé si allontanò appena per guardarla negli occhi, il fiato corto.
 
“Quando tutto questo sarà finito…”
 
“Non dirlo. Ti prego, non dirlo… “, lo guardò allarmata, “Porta male. Se è qualcosa di bello, comincerò a desiderarlo anch’io e a crederlo possibile. E allora… se poi dovesse succederci qualcosa, io…”
 
“Non ci succederà niente…”, tentò di calmarla lui.
 
“Sssh… ti prego” Lacrime. Piccole lacrime le si stavano formando agli angoli degli occhi. Aveva paura. Lui non disse più niente. In fondo non ce n’era bisogno.
 
‘Scusami’, avrebbe voluto dire, ma lei capì comunque e il suo sorriso significò ‘Va tutto bene’.
 
La prese tra le braccia e si spinse con lei dentro la tenda, sulla stuoia stesa a terra. La baciò ancora e ancora, e le mani di lei gli sfilarono l’armatura e gli indumenti che lo proteggevano fino a sfiorarne la pelle bollente. Poteva percepire il proprio cuore pulsare irrefrenabile sotto quelle mani. Si sentì felice, al sicuro.
 
Tennero gli occhi chiusi e continuarono a baciarsi in quell’attimo strappato al riposo e alla guerra, continuarono a mordersi, a cercarsi sulla stuoia fredda, a perdersi nel calore dell’altro. Si amarono.
 
Non fu la prima volta, e non fu l’ultima. Ma fu la più dolce, la più intensa.
 
 
 
 
***
 
 
Genma alzò gli occhi sulle due ragazze, nella luce del primo pomeriggio.
 
Nabiki si asciugò con una manica il sudore della fronte mentre affilava la punta di una freccia contro la corteccia di un castagno.
Kasumi stava pulendo accuratamente alcune bacche scure con un lembo dello yukata. La ragazza aveva il viso stanco e le mani graffiate, ma i suoi capelli erano tenuti in ordine nella solita coda bassa; si sforzava di farla ogni giorno, dimostrando di non voler dare a vedere quanto fosse dura per lei quella nuova vita. Continuava a sorridere e a seguirli senza controbattere.
 
Da giorni si spostavano nella boscaglia, senza mai sostare troppo a lungo in un posto e senza mai uscire allo scoperto.
Le alture su cui si muovevano erano circondate dagli eserciti accampati, da uomini a cavallo, in lotta, in esplorazione.
Più di una volta sfruttarono la capacità di prevedere l’arrivo dei soldati e gli tornò utile quella di leggere le tracce lasciate sul terreno. Riuscirono per giorni a fuggire non visti.
 
In quel momento si trovavano in un boschetto sulle pendici di una gola. Presto si sarebbero spostati anche da lì. Il territorio non sembrava battuto, ma avrebbe potuto interessare uno o l’altro esercito: quel posto era perfetto per organizzare un’imboscata in grande stile.
 
Genma guardò Nabiki che nel frattempo si era arrampicata e se ne stava aggrappata a un ramo a scrutare l’orizzonte, come faceva ogni volta prima che si rimettessero in marcia.
 
Si chiese se non stesse domandando troppo a quelle ragazze. Ma che altra soluzione aveva? Fermarsi e lasciare che finissero tra le grinfie di uno o dell’altro esercito?
 
“Zio Genma!”
 
La voce di Nabiki lo riportò alla realtà. La vide fissare attenta qualcosa oltre le chiome degli alberi, giù verso la gola.
 
“Mmm, che c’è?”
 
“C’è qualcosa di strano. Ci sono due uomini, sembrano vestiti come dei samurai, ma non ne sono sicura… e sono accerchiati da cinque, no, sei uomini… Zio, cosa dobbiamo fare? Sembra un agguato!” Nabiki era sul punto di incoccare una freccia, ma le tremavano le mani. Era giusto intromettersi?
 
Genma in un balzo le fu accanto. “Fammi vedere” Come mise a fuoco la visuale, si gelò sul posto e le parole gli uscirono di bocca senza che potesse fare niente per trattenerle. “Ma quello è Soun Tendo…”
 
“Soun Tendo? Il nostro principe? In questo caso è meglio sbrigarsi ad aiutarlo…” Sfilò due frecce dalla faretra e trattenne il respiro, pronta a colpire chi teneva in scacco il suo signore.
 
Genma la bloccò.
 
Lei lo guardò senza capire e lui si sentì colpevole più che mai.
 
Nello stesso istante i due uomini giù nella gola tentarono di ribellarsi e rotearono le rispettive spade. Uno dei due era ferito e fu facile per i nemici atterrarlo. Nel tentativo di salvarlo, Soun-sama gli si parò davanti e bloccò parte dei colpi. Ma sei uomini erano troppi.
 
Genma non ci pensò oltre. “E sia!”, afferrò a sua volta un paio di frecce e fece un cenno a Nabiki che non se lo fece ripetere due volte. Nel giro di pochi secondi quattro uomini, seguiti da altri due, erano stramazzati al suolo.
 
Soun-sama si affrettò ad aiutare il suo sottoposto a rialzarsi e poi si volse rapido verso la direzione da cui erano arrivate le frecce.
Nabiki e Genma si acquattarono immediatamente tra le fronde, sfuggendo il suo sguardo.
 
“Vi prego, non nascondetevi”, disse con voce tonante, “Chiunque voi siate, io, SounTendo, vi devo la vita. Lasciate che vi ringrazi come è giusto”
 
Nessuno rispose. Genma rimase immobile. Dal suo nascondiglio Nabiki si voltò a guardarlo.
 
E adesso?
 
Sapeva che quel giorno sarebbe arrivato. Solo che non si immaginava sarebbe stato tutto così dannatamente veloce. Neanche aveva avuto il tempo di prendere una qualunque decisione, che la sua strada si era trovata nuovamente a incontrare quella del suo amico di un tempo, nonché padre delle sue ragazze, le ragazze che aveva rapito una lontana notte di quindici anni prima.
Soun era a poche decine di metri da lui. E da Nabiki e Kasumi.
Capì che il destino l’aveva trovato e gli stava dando una possibilità.
 
“Dovreste farvi vedere, tu e Hitomi”
 
La ragazza sgranò gli occhi.
 
“E tu, zio?! Noi non andiamo da nessuna parte senza di te!”
 
“Non essere irragionevole. Tua sorella è stremata, non durerà ancora a lungo così. E anche per te… Ascoltami. Anche per te è una vita ben oltre le tue abitudini. Soun-sama vi prenderà sotto la sua ala e con lui sarete al sicuro”
 
Genma scese dall’albero e Nabiki lo seguì: “Ma…”
 
“Non vi lascerò, di questo potete stare sicure”, si rivolse a entrambe, mentre l’una lo guardava poco convinta e l’altra interrogativa, “Rimarrò fuori dall’accampamento, ma vi seguirò, vi osserverò da lontano”
 
“Ma perché non…”
 
“Lo sapete, sono allergico alla società e agli uomini e sto bene qui nel mio ambiente. Ma è giusto che voi conosciate quel mondo da cui vi ho allontanato, e che ora vi reclama. Sarete in buone mani”
 
Tenendo le mani sulle loro spalle, se le guardò qualche istante. Kasumi fu la prima a piangere e le guance di lui si bagnarono subito dopo. Per non farsi vedere nel momento della commozione, le attirò a sé, nascondendo il volto tra i capelli dell’una e dell’altra, in un abbraccio brusco quanto sentito.
 
“Zio, io…” Nabiki si morse un labbro, indecisa sul da farsi.
 
“Andate ora! Non vorrete far aspettare Soun-sama?!”
 
Avrebbe voluto dire tante cose, Nabiki, ma non ce n’era il tempo. “Ci rivedremo”, disse soltanto, e non era una domanda.
 
Genma rise tra sé e sé. Quella ragazza era in grado di trovare più di un’alternativa alle lacrime e ai sorrisi.
 
E mentre Kasumi salutava con una mano lo zio, incapace di dire nulla di più, la sorella le prese l’altra e insieme scesero dal lieve pendìo, a passo svelto.
 
 
Soun Tendo stava aspettando una mossa dai suoi salvatori. Avrebbe atteso ancora, se necessario, nella speranza che si palesassero, così da poterli ringraziare di persona.
 
Nella calma dell’attesa si era allontanato dal luogo dello scontro e dai corpi dei suoi assalitori, preoccupato di dare le prime cure al compagno, felice di non trovarlo ferito a morte. E nel momento in cui stava riacchiappando i cavalli da cui erano stati disarcionati, un fruscìo di cespugli non troppo lontano attirò la sua attenzione.
Chiunque avesse scoccato quelle frecce si era deciso a venire allo scoperto. Doveva trattarsi senz’altro di qualche impavido montanaro… Forse un gruppo di uomini che… 
Due figure sbucarono dalla macchia, muovendosi quasi di corsa giù dal pendìo.
Soun Tendo sgranò gli occhi. Poche cose erano in grado di stupirlo e di scalfirne il contegno.
Quella fu una di queste.
Davanti a lui c’era non un clan di uomini, ma un paio di fanciulle che avanzavano verso di lui. Una era vestita con abiti maschili, lo sguardo fiero e vispo, l’altra procedeva con grazia, lo sguardo più dolce che avesse mai visto. Entrambi gli sguardi, chissà perché, per un attimo gli sembrarono familiari.
 
Come gli furono davanti si inchinarono e lui, forse per la prima volta in vita sua, non seppe cosa dire. Si affrettò a farle sollevare, poggiando le mani incerte sulle loro spalle.
 
“Io vi… vi devo la vita” E fu lui a chinare il capo.
 
L’altro uomo, poco distante, sdraiato e dolorante, regalò loro un sorriso e un piccolo cenno di ringraziamento.
 
Le due ragazze alzarono la testa, curiose. Mai avrebbero pensato di poter guardare Soun-sama così da vicino. Provarono simpatia per quegli occhi stanchi e caldi e quei baffi neri, così paterni.
 
Fu Nabiki a rompere il silenzio. “E’ stato nostro dovere! Vi ho visto dalla cima di un albero e ho pensato fosse il caso di intervenire”
 
“Hai pensato bene, mia cara. Sai usare l’arco?”
 
“Quello e la spada, mio signore, anche se non benissimo. Nei boschi bisogna essere pronti a tutto”
 
“E’ da lì che venite?”
 
Kasumi annuì: “Ed è da lì che siamo scappate quando i soldati nemici hanno incendiato la nostra casa”, concluse mestamente.
 
“Capisco”, sospirò Soun. “Questa guerra non sta portando che guai… Poco fa ci avete salvato da morte certa. Ero venuto personalmente in avanscoperta perché sembra che questo sia il luogo perfetto dove spingere l’esercito nemico e poterlo finalmente fermare. Ma a quanto pare siamo stati seguiti da questi uomini. Ci hanno colti di sorpresa e… Grazie ancora. Non so cosa sarebbe stato di noi se non foste intervenute”
 
Il suo sguardo si fermò su Kasumi. “Anche tu tiri con l’arco?”
 
“Oh, no, mio signore, assolutamente no. E’ mia sorella quella brava con questo genere di cose. Ma è ancora più brava quando deve preparare delle trappole. In quello non la batte nessuno”
 
Soun le esaminò attentamente. “Eravate sole, lassù, nel bosco? Sei uomini sono tanti da atterrare in meno di un minuto”
 
Le due sorelle si guardarono.
 
Fu Kasumi a rispondere. “Ma certo che no. Eravamo con nostro zio Genma”
 
L’uomo trasalì. “Genma, hai detto? E’ un nome molto particolare…”
 
“Lo zio vi manda le sue scuse”, si premurò di proseguire Nabiki, “ma la sua natura gli impone di stare nel bosco, lontano dalle persone”
 
Soun annuì distrattamente. “Ma sì, certo, ognuno è libero di agire secondo il suo desiderio…” Tornò a guardarle. “Posso sapere i vostri nomi?”
 
“Oh cielo, non ci siamo presentate! Il mio nome è Hitomi”, disse Kasumi, “e questa è mia sorella Misaki”, concluse indicando Nabiki.
 
“Purtroppo i nostri cognomi ci sono ignoti”, lo prevenne quest’ultima, “siamo orfane di entrambi i genitori”
 
“Perdonatemi. Non volevo mettervi a disagio”
 
Nabiki scosse la testa. Non l’aveva messa a disagio, si sentiva anzi tranquilla a parlare con quell’uomo. E la cosa assurda era che aleggiava al contempo una certa tensione nell’aria, a cui non sapeva dare un significato, una sottile carica elettrica.
 
“Dunque avete sempre vissuto nel bosco?”
 
“Sì, da sempre”, continuò Nabiki, “Senza mai vedere nessuno, a parte qualche rara eccezione”, il suo sguardo si incupì al ricordo non lontano del piccolo Akira. Tentò di scacciare il dolore e di ritrovare il coraggio. “Siamo qua… per chiedere la vostra protezione”
 
Soun ebbe un moto di tenerezza.
 
Stava per rispondere, quando Nabiki riprese: “Oh, non faremo pesare in nessun modo la nostra presenza! Io mi offro di servirvi in qualunque modo consideriate opportuno, quanto a mia sorella, vi prego di avere per lei un’attenzione in più: non è abituata a camminare né a fare lavori pesanti, ma la sua cucina incanta e saprà deliziarvi con i suoi manicaretti, se lo vorrete”
 
Il discorso pieno di buoni propositi della ragazza ebbe il pregio di suscitare in lui una fragorosa risata. Da quanto non rideva così di gusto?
 
“Bambine mie, non c’è bisogno che me lo chiediate”, disse asciugandosi gli occhi dalle lacrime, “Desidero io per primo prendervi sotto la mia protezione. La considero una ben misera ricompensa per quello che mi avete regalato oggi. Se con la vostra presenza vorrete allietare le mie ore all’accampamento ne sarò felice, ma non sentitevi in nessun modo in obbligo di farlo”
 
Nabiki inspirò soddisfatta e Kasumi si accese di un sorriso grato.
 
Soun issò il compagno in sella, poi si voltò verso Kasumi e le prese la mano; era così piccola e bianca nella sua, che avrebbe voluto tenerla lì per sempre.
 
L’aiutò per prima a salire in sella. “Prendete il mio cavallo: è vostro. Io posso camminare”
 
“Anch’io posso camminare, mio signore. Vi ringraziamo entrambe per questa premura, ma lasciate che sia mia sorella a goderne” Così dicendo Nabiki si mise al fianco di lui e strattonando le redini che aveva appena afferrato iniziò a camminare.
 
Soun la guardò divertito.
 
Di colpo la ragazza si rese conto della situazione. “Oh kami! Sempre che non sia sconveniente per me, voglio dire, per una donna, una donna più giovane, e non nobile… cioè, forse è inopportuno… vi offende se cammino come una vostra pari!… Ma certo dev’essere così! Scusate, io non conosco le regole del mondo”, si chinò quasi a toccare il terreno con la fronte per la vergogna. Nabiki odiava perdere il controllo, ma non aveva idea di come ci si dovesse comportare fuori dal bosco.
 
In tutta risposta Soun rise ancora. Quelle ragazze lo mettevano di buonumore. “Una col tuo piglio imparerà in fretta, ne sono sicuro! Non mi disturba in nessun modo, bambina mia, averti al mio fianco. Anzi, lo considero un onore”
 
 
E poco lontano da lì, dalla cima del suo albero, Genma Saotome vide le sue ragazze conoscere il padre perduto, sorridergli, parlargli con una calma invidiabile e una dignità regale. E anche con un affetto innato, spontaneo. Vide Soun turbarsi per qualcosa, ma risollevarsi subito dopo. Non poteva sentire cosa si stessero dicendo, ma si sentì tranquillo.
E dopo tanto tempo si sentì anche completamente solo.
Osservò quel quadretto lontano e si sentì sprofondare. Come aveva potuto dividerle dal padre? Tenergliele lontane per tutti quegli anni?
Soun non era cambiato poi molto. Lo spiò con cura. I capelli erano ancora neri e lunghi, la tempra forte e severa.
Si poteva dire lo stesso di lui? Qualche capello in meno, qualche chilo in più. Ma in fondo era rimasto lo stesso.
O forse no… Il rancore era scemato negli anni, lasciando spazio a una rassegnata amarezza.
Decise di non farsi altre domande per il momento o i rimorsi l’avrebbero roso senza pietà e non sarebbe riuscito a superare la notte, la prima notte senza di loro da anni.
Vide il vecchio amico aiutare Kasumi a montare in sella, vide Nabiki avere la faccia tosta di camminargli fianco a fianco.
E poi li vide allontanarsi pian piano, finchè divennero sempre più piccoli e sempre più appannati. Ma quelle, forse, erano le sue lacrime. Se le asciugò malamente, tirando su col naso, e cominciò a seguirli.
 
 
 
***
 
 
Aveva ancora il sapore di Ukyo sulle labbra.
 
Nella puzza di bruciato e di morte, Ryoga si teneva aggrappato all’immagine di lei sorridente sull’uscio della tenda che era stata adibita a cucina.
 
Faceva caldo, quel giorno, troppo caldo, e si muoveva a tentoni nel fumo che oscurava la visuale e che si apriva a sprazzi di fronte a scene raccapriccianti.
 
Gli attacchi nemici erano stati particolarmente violenti quella mattina e gli schemi di attacco e difesa erano presto stati sbaragliati, lasciando che i soldati si disperdessero e lottassero per la soppravvivenza come cani sciolti, disperati e rabbiosi.
 
Erano ore ormai che quella situazione andava avanti.
Ed erano dannatamente vicini a un villaggio. Sperò che la gente fosse scappata sulle montagne. 
 
Nel cozzare di spade e armi di ogni genere, distingueva a malapena le voci dei suoi compagni dalle grida del nemico.
Lasciò che a muoverlo fosse l’istinto. Colpiva chi gli si parava dinanzi, schivando all’ultimo gli amici e spezzando ossa ai nemici.
 
A un certo punto inciampò in quello che scoprì essere un ragazzetto cinese rannicchiato su se stesso, che lo fissò come chi stava guardando in faccia la propria morte.
Ryoga si raggelò a quella vista e provò orrore per se stesso. Poteva davvero fare tanta paura?
Lo afferrò per la casacca e lo sollevò da terra. Sembrava quasi non avere peso, tanto era secco ed emaciato.
 
“Va’ via da qui, presto!”
 
Quello, tremante, si divincolò e sgusciò via come un leprotto impaurito.
 
Ryoga ne seguì la fuga, pregando che trovasse il modo di farsi largo nella mischia e uscirne sano e salvo.
 
Ma quell’attenzione gli fu fatale.
Un cinese di ben altra stazza gli spuntò alle spalle, approfittando della sua distrazione, e si avventò su di lui con violenza.
Ryoga sentì improvvisamente un braccio robusto serrargli la gola e per un attimo vide tutto nero, mentre cadeva all’indietro.
 
*No, non posso morire!*, urlò una voce dentro di lui subito dopo.
 
Non poteva morire.
 
*Non ora, non così…!*
 
Ruotò su se stesso, trovando uno spiraglio nella morsa che lo strozzava e forzandolo con successo. Con un balzo fu di nuovo in piedi e mentre tossiva e sputava vide quell’uomo ringhiare famelico e prepararsi a un nuovo attacco.
 
A ben guardarlo era una bestia, non un uomo. Basso e massiccio, con un occhio guercio e senza denti, era sporco di sangue dalla testa ai piedi e puzzava di marcio. Si sentì squadrare da quell’unico occhietto truce, gongolante, prima di vederlo caricare a testa bassa.
 
Ryoga schivò facilmente l’attacco, ma l’altro, con entrambe le mani, sguainò due corte spade e le roteò come fossero mulinelli.
Schivò anche quelli, ma lo scatto, fulmineo e inaspettato, sorprese Ryoga quel tanto che bastò per procurargli un piccolo graffio superficiale.
La mano andò subito a stringersi alla spalla, in una smorfia di dolore. Perché quel taglio gli faceva tanto male?
 
“Veleno”, ghignò il bestione, “Non abbastanza da ucciderti… Almeno non ancoraaaaa!”
 
Prese la rincorsa e gli si scagliò nuovamente contro, le armi a fendere l’aria dove solo un attimo prima si trovava Ryoga.
 
“Sei veloce”, muggì, “…ma non per molto!”
 
Lo attaccò ancora e ancora, bramando imprimere nuovo veleno in quelle carni, e Ryoga riuscì a evitare tutti i suoi attacchi. Di norma un simile avversario poteva dargli del filo da torcere per qualche minuto, ma poi la sua forza e la sua prontezza avevano sempre la meglio.
Tuttavia cominciò a rendersi conto non solo che non riusciva ad avvicinarglisi per attaccarlo, ma che in generale i suoi movimenti stavano rallentando. Di poco, ma abbastanza perché l’altro lo incalzasse sempre di più.
 
Il sangue gli pulsava nelle tempie e la vista cominciò ad offuscarsi. Che fosse il veleno che faceva il suo lavoro?
Sapeva prevedere i colpi, ma non riusciva quasi più a muoversi e più di una volta usò il suo stesso peso in modo da sbilanciarsi giusto in tempo per togliersi dalla traiettoria e salvarsi la vita per poi ritrovare subito l’equilibrio, a fatica.
 
Quanto poteva andare avanti?
 
Il terreno accidentato non aiutò e nella concitazione Ryoga mise un piede in fallo, ruzzolando all’indietro.
 
Il bruto gli fu subito sopra. Schiacciato a terra da quell’ammasso di budella, Ryoga ebbe paura. A malapena riuscì a vederne il volto soddisfatto, mentre brandiva entrambe le spade per trafiggerlo a morte.
 
E quando fu certo che ormai la sua ora era arrivata, accadde l’insperato.
 
Qualcuno dietro di lui spiccò un balzo e si catapultò con entrambi i piedi sul petto del bestione, disarcionandolo da Ryoga.
 
Il ragazzo si mise in piedi a fatica. Si sfregò gli occhi. Dietro la cortina di polvere e fumo scorgeva solo delle sagome dalle voci strozzate.
 
Poi, un tonfo.
 
E di colpo non sentì più nulla.
 
Avanzò di qualche passo e intravide il corpo del suo nemico al suolo.
 
Poco distante, un uomo di spalle si stava alzando da terra.
 
“Grazie, amico”, ansimò Ryoga, “mi hai salvato la vit…”
 
Come l’uomo si voltò, il sangue gli si gelò nelle vene.
 
Due occhi blu e un codino color pece.
 
La vista gli stava giocando brutti scherzi, e lui doveva essere ancora sotto l’effetto del veleno.
 
Si stropicciò il viso.
 
Ma no, l’uomo era ancora lì.
 
La misura che qualcosa non quadrasse davvero gliela diede il fatto che anche lui era sbiancato e lo stava fissando come si fissa uno spettro.
 
“Ryoga…”
 
“Tu qui??”
 
Il sangue gli andò alla testa, e non ci vide più.
 
“Ranma, maledetto, io ti ammazzo!!!”
 
Si avventò su di lui, incurante del fatto che ancora gli arti non gli rispondevano appieno. Tale era la rabbia che si mosse con la sola forza di volontà.
 
Ranma non si aspettava di trovarsi davanti proprio lui.
Era andato dove la battaglia sembrava più dura e si era trovato di fronte il suo passato.
Non ebbe quasi il tempo di realizzarlo che caracollò per l’impatto ed entrambi rotolarono nella polvere.
 
Masticando terra e cercando di divincolarsi da Ryoga che gli aveva afferrato il collo, Ranma sentì crescere una frustrazione bruciante.
 
“Tu l’hai uccisa!”, esplose, scrollandoselo di dosso con una spinta feroce.
 
“No, tu l’hai uccisa!”, gli fu nuovamente addosso Ryoga, gli occhi iniettati di sangue, sentendosi pervadere da una nuova forza, mentre aveva la meglio sul poco veleno rimasto in circolo.
 
Ranma accusò il colpo e il pugno ben assestato dell’altro andò a segno, facendogli sanguinare un labbro.
 
Ryoga lo guardò, mentre si tamponava il mento dal sudore.
 
Capì che erano alle resa dei conti, che aveva dovuto sopportare le angherie di Kuno, soffrire per la sorte di Akane, temere per Ukyo, tradire il suo signore, conoscere la guerra, per poter arrivare fin lì.
 
Per quel momento.
 
Per riempire Ranma di botte.
 
“Ti farò pentire…”, con un primo calcio Ryoga lo colpì alla bocca dello stomaco, “…di essere natooo!”
 
Ranma si piegò sulle ginocchia, ma fu veloce a riprendersi e a scansare un nuovo affondo e un altro, e un altro ancora. “Io ti ho chiesto di… E’ vero… Ma perché… perché diavolo tu l’hai fatto?!”, gli vomitò addosso tutta la sua disperazione, prendendolo per le spalle con uno strattone.
 
In tutta risposta Ryoga lo spinse con brutalità e gli riversò addosso una cascata di pugni, gonfiandolo a sangue.
 
“Pezzo d’idiota, tu non sai nulla…”
 
Ranma si difendeva colpo su colpo, e dovette ringraziare più di una volta la propria agilità se non fu spedito immediatamente all’altro mondo.
 
“… Nulla… Nulla! Tutto quello che abbiamo passato per colpa tua… e lei… lei… Aaargh, Ranma! Osi pure farmi la morale?! Tu la volevi morta!!!!”
 
“NOOO!”, l’urlo di Ranma squarciò il cielo e per qualche istante anche la battaglia che si continuava a combattere intorno a loro parve essersi zittita.
 
Ryoga indietreggiò di qualche passo, confuso.
 
“Non l’ho mai voluta morta… Io… Dannazione, Ryoga! Sono stato uno stupido e non ho scusanti… Ho scritto quella lettera sotto l’effetto di un filtro, quello non ero io…”
 
“Era tua la mano che l’ha condannata a morte…”, tornò alla carica Ryoga.
 
“Ma quella che l’ha uccisa è stata la tua!!”, si sgolò Ranma, disperato.
 
Per un attimo Ryoga non capì, non capì davvero. Lo guardò frastornato, mentre Ranma, incurante di ogni brandello d’orgoglio rimasto, lasciava che le lacrime gli graffiassero il viso.
 
Ma poi capì. E si imbestialì ancor più.
 
“Ma ti va di scherzare?!” Lo afferrò per la casacca e lo scaraventò nella polvere. “Secondo te io avrei mai fatto del male ad Akane?!”
 
Da terra Ranma lo guardò, impallidendo.
 
Ryoga lo riportò alla sua altezza, serrandogli la mandibola in una presa ferrea e facendogli tornare il colore alle guance. “Non ho potuto obbedire”, gli sussurrò a pochi centimetri dal viso, “Non l’avrei fatto neanche se lei ti avesse tradito davvero…”
 
Non aveva sentito bene. Non… non l’aveva uccisa? Akane era viva?!  No, non poteva essere.
 
Ma poi vide gli occhi di Ryoga davanti ai suoi, intensi, sinceri, brucianti.
 
Si divincolò dalla stretta e… lo abbracciò.
 
Ryoga tutto si aspettava meno di essere abbracciato dal suo nemico. Amico... Quello che era. Si irrigidì, spiazzato.
 
“A-allora è viva?”, disse Ranma allontanandosi, una nuova luce negli occhi.
 
“Non lo so, Ranma”, la voce gli si era svuotata improvvisamente, insieme all’energia combattiva. Lo guardò a lungo, lo guardò per davvero da quando si erano incontrati. “Potrebbe essere morta”
 
“Che vuoi dire? E’ viva o no?! Ma allora è vero che è malata…?”
 
“Non dire idiozie! No, che non è malata! Quella è una montatura messa in piedi da suo padre per evitare che il nemico la cerchi per farla prigioniera…”
 
“Allora si trova da qualche parte, adesso… Qui intorno? Dove?”
 
A Ryoga salì il nervoso di fronte a quel Ranma tutto ringalluzzito e sicuro di sé. Lo spinse via per non doverlo picchiare ancora.
 
“E’ fuggita da palazzo per venire a cercare te, pezzo di cretino! E quando l’ha fatto ancora non sapeva della tua lettera… Io e Ukyo l’abbiamo coperta e sono stato io a portarla nel bosco… E lì le ho detto la verità…”, sospirò amaramente, “Doveva raggiungere Hiroshi e Daisuke, e aspettare da loro tempi migliori… Avevo pensato fosse la cosa più giusta… Ma non ho mai ricevuto notizie del suo arrivo… Temo che non sia mai giunta a destinazione…”
 
“Hiroshi e Daisuke non l’hanno vista”, lo interruppe Ranma, “Anzi, credono che sia morta… Ma nessuno l’ha vista… quindi è sicuramente vi-”
 
“Kuno… Kuno!... Maledetto bastardo, non capisci che potrebbe averla trovata Kuno e uccisa?!”, i suoi occhi erano gonfi di rabbia e di pianto mentre parlava, “Le è corso dietro furioso, e lei aveva qualche giorno di vantaggio, è vero… Ma lo sai, non si era mai trovata lì fuori, tutta sola… Potrebbe esserle successo di tutto…”
 
“Kuno?” Un fuoco si accese negli occhi di Ranma. “Se l’ha toccata anche solo con un dito…”
 
“E hai anche il coraggio di dirla una cosa del genere?!”, lo zittì Ryoga.
 
Si guardarono per un lungo momento, finchè Ranma abbassò gli occhi.
 
“Neanche lui ha fatto ritorno”, aggiunse quindi Ryoga, mestamente, “Sparito nel nulla…”
 
Ranma alzò nuovamente il suo sguardo. “No. No. Kuno non l’ha trovata, te lo dico io. E se anche fosse, Akane sa come difendersi”
 
“Era distrutta!”, gli sputò in faccia Ryoga, “… Dopo aver saputo che la volevi morta!”
 
Il balzo che Ranma fece verso di lui fu così improvviso che Ryoga temette di non riuscire a difendersi in tempo. Stava già per parare quello che credeva essere un pugno di inimmaginabile violenza, quando invece si sentì afferrare le spalle e si trovò davanti gli occhi di Ranma, carichi di speranza.
“E’ viva… Viva!”
Non poteva fare a meno di ripeterlo. E mentre credeva fino in fondo alle sue stesse parole, scuoteva energicamente Ryoga. “Lo capisci? E’ viva! Non può essere altrimenti! E io adesso la troverò…”
Lo lasciò andare con la stessa rapidità con cui l’aveva preso, e Ryoga barcollò appena, guardandolo poco convinto, addirittura in pena per lui, per la sua totale assenza di aderenza alla realtà.
 
“Aspetta, Ranma, come puoi dire…”
 
“Soldato Hibiki!”
 
Istintivamente Ryoga si girò verso quella voce. Qualcuno dei suoi lo stava richiamando ai ranghi. Forse era tempo di ritirarsi. Li avrebbe presto raggiunti. Si sarebbe palesato appena possibile, ma prima…
 
Come si voltò, Ranma era scomparso.
 
Guardò allibito per qualche istante il fumo immobile che lo separava dal ragazzo col codino e dal resto del mondo e si sentì frustrato come quando in un incubo si è tornati al punto di partenza.
 
Poi sentì crescere in lui una rabbia potente, liberatoria. E inizò a gridare al vento.
 
“Stupido! Stupido che non sei altro!!... Come fai a sapere che è viva!!”, avrebbe almeno potuto salutarlo, e lui gli avrebbe augurato buona fortuna, “Potrebbe non esserlo!! Tienilo presente in quella tua testa bacata…! Potresti non trovarla!!! Ma se la trovi… se la trovi, pezzo d’idiota, riportala indietro sana e salvaaaa!!!...”
 
“Soldato Hibiki, presto! Stiamo lasciando il campo!”, nell’eco del suo urlo fu solo quella voce a rispondergli.
 
Ryoga tirò su col naso. “Se la trovi…”, mormorò ormai a se stesso, asciugandosi le lacrime, “Riportala indietro sana e salva…”
Tenne ancora per qualche istante lo sguardo alto davanti a sé. Quindi iniziò a incamminarsi verso il suo plotone.
 
 
 
 
 
Ranma correva. Correva e non riusciva a pensare a nulla.
 
Sentiva solo l’aria vibrare fresca al suo passaggio. Sentiva il corpo leggero, veloce.
I suoi occhi non vedevano in quel momento, erano le sue gambe a spingerlo in avanti, senza sapere dove.
Non sapeva cosa le avrebbe detto, se lei l’avrebbe perdonato, se l’avrebbe voluto ancora, ma non importava...
Non sapeva nulla del mondo e non poteva importagli di meno, in quel momento.
Non sapeva che non troppo lontano da lui c’erano il padre che aveva perduto e quello che lo aveva rinnegato; non sapeva che Shan Pu e Mousse, precisi e crudeli, i capelli smossi dal vento, continuavano a combattere fieri, inconsapevoli di essere a loro volta molto vicini tra loro, senza mai sfiorarsi; non sapeva che Kodachi aveva lasciato il palazzo con chiare intenzioni; né che Ukyo sfornasse focacce per l’esercito.
 
E soprattutto non sapeva quanto fosse vicina a lui Akane.
 
Travestita da ragazzo, al servizio del generale Shinnosuke. Akane che lo credeva morto.
 
Mentre ognuno di loro ignorava quanto fossero vicini gli uni agli altri, Ranma continuava a correre.
L’avrebbe perdonato?  L’avrebbe voluto ancora?
Non aveva alcuna importanza: era viva! E l’avrebbe ritrovata.
 
E senza altro pensiero a gridargli in testa, diede voce all’unica parola che gli rombava in petto.
 
“Akaneeeeee!!!”
 
 


 
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Ciao a tutti!
 
E’ sempre un piacere per me dedicarmi a questa storia: con tutti i suoi problemi, le incongruenze che cerco di risolvere, la miriade di personaggi con le loro vicende principali e secondarie e quant’altro… rende il tempo che riesco a dedicarvi (non quanto vorrei, purtroppo) un tempo sempre intenso e divertente!
Perciò è sempre un piacere sapere che c’è qualcuno che legge questa storia e la aspetta con impazienza. Grazie! Ci tengo a dirvelo per benino, questa volta. Non è scontato.
Per quanti purtroppo, come è inevitabile, ho perso per strada, ci siete voi che continuate a leggermi e a farmi sapere la vostra opinione. Grazie davvero.
Beh, sappiate che siete costantemente nei miei pensieri e che le vostre parole rendono splendide le mie giornate!
Se non riesco a scrivere spesso quanto vorrei e ad aggiornare velocemente è perché purtroppo ho poco tempo e sono lunga a scrivere, ma questa storia rientra nelle mie priorità, quindi non abbiate paura, non la mollo!
 
Detto questo, eccoci al primo capitolo della guerra. Ranma è tornato e l’incontro con Ryoga diciamo che gli cambia prospettiva. Ora staremo a vedere.
Ho avuto i miei guai con questo capitolo. In generale da ora in poi ho parecchia carne al fuoco che non devo fare bruciare. XD Il quinto e ultimo atto dell’opera shakespeareana di riferimento è, a dirla tutta, un gran caos e io sto cercando di mettere ordine, di dare un senso e di entrare nelle storie di tutti quei personaggi di cui magari non parlo da un po’ ma che non ho dimenticato.
 
Fatemi sapere cosa ne pensate, è sempre un vero piacere per me!
 
Un abbraccio a voi tutti!!!!
 
InuAra
 
 
 
 
 

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Capitolo 18
*** Oltre il confine dei miei pensieri ***


(Per non appesantire troppo la lettura della pagina rimando il riassunto dei capitoli precedenti alla fine del capitolo ;-))
 ---

 
 
 
So, either by thy picture or my love, 
Thyself away art resent still with me; 
For thou not farther than my thoughts canst move,
And I am still with them and they with thee. 
 
Con la tua immagine o con il mio amore,
tu, benché assente, mi sei ogni ora presente.
Perchè non puoi allontanarti oltre il confine dei miei pensieri;
ed io sono ogni ora con essi, ed essi con te.
 
Sonnet 47 - W. Shakespeare
 
 

 
 
I to the world am like a drop of water
That in the ocean seeks another drop,
Who, falling there to find his fellow forth,
Unseen, inquisitive, confounds himself.

 
Nel mondo io sono come una goccia d’acqua
che cerca un’altra goccia nell’oceano
e che vi si lascia cadere per trovar la sua compagna
e inavvertita e curiosa vi si perde.
 
The Comedy of Errors - W. Shakespeare
 
 

 
 
“Mi stai dicendo che l’hai incontrato?!”, Ukyo si staccò dall’abbraccio di Ryoga, strattonandolo leggermente verso di sé e sforzandosi di non urlare. “Hai… hai incontrato Ranma?!”
 
Era stato tutto troppo veloce.
 
Aveva visto tornare i soldati - erano tutti parecchio malmessi -, aveva cercato febbrilmente Ryoga tra gli altri – dove diavolo era finito?-, e poi l’aveva visto spuntare – oh grazie kami che me l’avete riportato - e arrancare da lontano verso di lei, una mano pigiata contro la spalla e un sorriso mesto. Era sangue quello?
“Niente di grave, piccola Ukyo”, una voce poco distante, un po’ affaticata, l’aveva raggiunta; aveva capito subito a chi apparteneva, anche senza voltarsi: un giovane secco secco, dall’occhio furbo e la barbetta ispida, che non mancava mai di chiederle una doppia razione, che lei gli dava sempre di buon grado. “Si riprenderà presto. E’ stata una giornata lunga per tutti, ma la pellaccia del nostro Hibiki è parecchio dura e il poco veleno di quel taglietto è già storia passata”
Ukyo aveva sussultato con orrore alla parola “veleno”. L’aveva guardato per un istante, grata, e non le era salita alle labbra altra risposta che un debole sorriso. Era passata oltre e aveva continuato a farsi strada verso di lui.
“Ryoga!”
Finalmente.
Gli si era fiondata al collo. Aveva affondato le dita tra i suoi capelli sudati. Le guance accaldate avevano preso a bagnarsi. Lui l’aveva stretta forte. E poi le aveva sussurrato all’orecchio quella notizia inaspettatta.
Le lacrime le si erano fermate negli occhi e il respiro in gola.
 
“…Hai… hai incontrato Ranma?!”
 
Scostandosi appena da lei, Ryoga la guardò colpevole, annuendo.
 
Poco lontano, il dottor Tofu stava cominciando a curare i feriti più gravi. La giornata doveva davvero essere stata lunga, sul campo.
 
Lei non riuscì a far altro che fissare Ryoga negli occhi, e lui ne approfittò per trascinarla lontano dalle urla dei compagni e dal sangue, per poterle raccontare ogni dettaglio del suo incontro con Ranma, in quel giorno di battaglia.
 
Quando Ryoga ebbe finito e sospirò, svuotato, Ukyo gli strinse una mano, senza smettere di scuotere la testa: “Ah, Ranma… Lo sapevo… lo sapevo che non potevi volerla morta! Brutto stupido, ma ti rendi conto di quante ce ne hai fatte passare?!”
Sospirava, e rideva, e ringhiava, sbuffando fuori tutte le tensioni aggrovigliate per troppo tempo dentro di lei. E tutte le lacrime.
Gliele avrebbe suonate di santa ragione quando fosse tornato da loro, ben intesi. Ma era felice di sapere che non era cambiato, di saperlo lo stesso Ranma di una volta, di saperlo alla ricerca di Akane.
Sentiva che tutto si sarebbe risolto, in un modo o nell’altro.
 
Ryoga sospirò ancora e a Ukyo la cosa non sfuggì.
 
“Non ho fatto in tempo a dirgli che Akane – se fosse… se fosse ancora viva…”
 
“Lo è”, lo bloccò Ukyo, ricacciando un singhiozzo e affrettandosi a correggerlo, “E’ viva. Te lo dico io…”
 
“Non ho fatto in tempo a dirgli”, continuò stancamente lui, “che è travestita da ragazzo… che… se vuole trovarla… deve cercare un ragazzo! …Non la nostra solita Akane”, la testa gli crollò sul petto, “Quell’idiota se ne è andato prima che potessi dirglielo”
 
Ukyo si asciugò bruscamente le lacrime. Gli si avvicinò e gli accarezzò una guancia.
 
“Credi davvero che questo basterebbe a fermarlo? Non credi che…”, osò un sorriso, “che riconoscerebbe ‘il suo maschiaccio’ in ogni modo?”
 
“Dici?”, Ryoga sollevò lo sguardo, speranzoso.
 
“Io ne sono sicura”, annuì lei, riuscendo infine a calmare il proprio respiro.
 
Senza dire niente lui le baciò le labbra ancora arrossate e bagnate di sale.
Quando si staccarono, si scoprirono un po’ più accaldati in viso e un po’ più leggeri in petto.
 
“E comunque…”, tossicchiò Ukyo, cambiando discorso e indicando la ferita sulla spalla di Ryoga, “è meglio che ti ci fai dare uno sguardo dal dottore...”
 
“Qualcuno mi cerca?”
 
“Dottor Tofu! Proprio lei… Non le sembra brutto questo taglio?”
 
Il dottore sorrise e Ryoga fece un cenno col capo, un po’ imbarazzato. “Caro ragazzo, è raro doverti medicare. Cos’è successo? Veleno, forse?”, aggiunse, esaminando meglio la ferita.
 
“Così pare”, rispose Ukyo per lui, la voce un po’ più apprensiva.
 
“Vediamo cosa possiamo fare…”
 
Il dottor Tofu non fece in tempo a rimuovere completamente il pezzo di stoffa di fortuna usato da Ryoga per fermare il sangue, che due mani bianche e sottili gli tesero una bacinella d’acqua fresca e alcune bende pulite.
Né Ryoga né Ukyo si erano accorti della fanciulla al seguito del dottore.
Il dottore stesso trasalì, inspiegabilmente colto di sorpresa.
 
“Grazie, signorina Hi-Hi-Hitomi…”
 
A Ukyo parve che lo sguardo del dottore si irrigidisse dietro gli occhiali tondi, e che la garza tremasse mentre le sue dita, nel prenderla, sfioravano quelle di lei.
 
Incuriosita, Ukyo spostò lo sguardo sulla nuova ragazza, i cui lunghi capelli ricadevano morbidamene su una spalla e il cui sorriso premuroso era la cosa più dolce che avesse mai visto. Aggrottò le sopracciglia. Per un attimo giurò di conoscere quel volto, le parve di ritrovare in quegli occhi grandi e liquidi un segreto nascosto.
Ma come il ricordo di un sogno che alla luce del risveglio cancella i contorni di un volto e li rende inafferrabili, anche per Ukyo quella sensazione scomparve al trillo del risolino della fanciulla che redarguiva con modestia il dottor Tofu: “Dottore, state attento o farete cadere la benda a terra”
 
Come fosse finita lì quella creatura benefica - così le sembrò, nell’aura del crepuscolo-, Ukyo non sapeva dirlo. Né sapeva che una volta all’accampamento al seguito di Soun Tendo, Kasumi si era subito proposta di aiutare i feriti e gli invalidi ed era così che i suoi occhi avevano incrociato per la prima volta quelli del dottor Tofu. Un uomo, il dottore, che Ukyo stessa conosceva da una vita e che era sempre stato pacato, affidabile, imperturbabile…
 
“Ahia, dottore! Così mi fate male… Non stringete troppo…”
 
“Oh, chiedo scusa, Ryoga, forse ho un po’ esagerato…”
 
Il dottore fece un piccolo inchino col capo, visibilmente in imbarazzo, e si affrettò ad allentare la fasciatura.
 
Ukyo espirò compiaciuta e lanciò un’occhiata a Ryoga, che non sembrò cogliere l’ironia della situazione. La ragazza ridacchiò tra sé e sé. Non aveva importanza.
 
Se ancora, nonostante tutto, con una guerra in corso poteva nascere un amore, allora c’era davvero speranza per tutti loro.
 
 
 
***
 
 
 
 
In una zona decisamente più appartata dell’accampamento, appoggiata a una staccionata, Nabiki inspirò la brezza del tardo pomeriggio.
Il cielo si era fatto terso e l’aria meno soffocante. Spinse il suo sguardo oltre le tende, oltre le sentinelle e i fuochi, fermandolo sui boschi verde cupo in lontananza.
Lo zio Genma era là, da qualche parte. Forse anche più vicino. Ne percepiva la presenza.
Sulle sue labbra si dipinse un sorrisetto fiero.
 
*Tranquillo, zio. Noi stiamo bene*
 
Erano lì da non più di qualche giorno.
Si strinse nelle spalle al ricordo di come Kasumi avesse avvicinato il dottore, un uomo tanto esperto nell’arte della vita quanto inesperto in quella del cuore.
Non che lei e la sorella partissero in grande vantaggio a quel proposito, ma se lei poteva contare su un certo buon grado di intuizione, Kasumi aveva la forza del proprio candore.
 
*Anche mia sorella sta bene, zio*, trattenne una risatina, *Aiuta il dottore e il dottore arrossisce. E io…* 
 
Si voltò a guardare la tenda di Soun-sama, senza saper spiegare né a se stessa né all’aria del tardo pomeriggio perché stare lì la facesse sentire così sicura.
Si era abituata all’accampamento e alla presenza di tanti uomini.
E si era abituata alla presenza rassicurante di Soun Tendo, al calore che quella tenda emanava. Un calore stranamente familiare.
 
Fu in quel momento che il principe mise piede in quella specie di piccolo cortile. Aveva gli occhi segnati e le labbra lievi sotto i baffi.
 
“Siete tornato”, gli andò incontro Nabiki a passo spedito, i boschi ormai lontani nella sua mente.
 
“E sono felice di rivederti, bambina”, annuì lui, guardandosi poi intorno con aria interrogativa.
 
Nabiki si affrettò a raggiungerlo: “E’ al campo a curare chi ne ha bisogno, ma prima di andare ha lasciato per voi una tazza di tè. Dovrebbe essere ancora caldo”
 
Da tempo Soun non era abituato a quelle premure e sentì qualcosa sciogliersi in petto.
Fece cenno a Nabiki di entrare con lui. Quella tenda spartana era come una nuova casa, per lei e Kasumi. Soun-sama aveva dato loro il permesso di entrare quando volessero, ed entrambe lo facevano ormai senza abbassare lo sguardo.
Nabiki si diresse subito verso il tavolino su cui erano stese diverse mappe.
 
L’uomo prese la tazza di tè. Era ancora caldo. “Dimmi cosa ne pensi, Misaki, mia cara”
 
Pochi giorni e si era abituato a dipendere da quegli occhietti vispi, da quello che sapevano vedere sulla carta.
 
Nabiki prese distrattamente un paio di biscotti di riso dal piattino accanto alla teiera e Soun sorrise di fronte a quell’innocente impertinenza.
Pochi giorni e si era abituato anche a quella.
Mentre li sbocconcellava, Nabiki scrutò una cartina, pensosa.
 
“Mmm… è proprio necessario che queste truppe stiano qui?”
 
Soun si sporse a vedere dove stava indicando il dito sottile della ragazza.
 
No, non lo era. Aveva pensato che fosse il modo migliore di impiegarle, ma…
 
“Perché se fosse per me”, continuò lei, “io le sposterei qui. E queste altre… qui. Vedete? Così i Cinesi si sentiranno il nostro fiato sul collo, senza contare che la loro visuale qui non sarebbe abbastanza ampia e si accorgerebbero solo all’ultimo dei nostri movimenti”
 
Soun la guardò stupito e lei mandò giù l’ultimo boccone.
 
“Hai proprio ragione, mia cara. Convoco immediatamente i generali per stabilire il cambio di strategia”
 
Si diresse verso l’uscita, più leggero di come era entrato.
 
Nabiki era tornata a osservare altre mappe, che raffiguravano i territori circostanti.
Conosceva bene quei torrenti, quelle piane, quelle montagne. Soprattutto quelle montagne... Le dita che scorrevano sulla carta si fermarono di colpo. Si sentì solleticare da un’idea, ancora informe nella sua testolina per essere afferrata, e tuttavia assai intrigante. Girò il capo sperando che lui fosse ancora lì, e i corti capelli le frustarono il viso, nel movimento. Soun era già uscito, probabilmente da qualche minuto, e lei tornò alla mappa con più calma, fermandola contro il tavolino con entrambe le mani, le braccia tese, e piegando il busto per avvicinarsi e studiarla meglio, con avidità.
E mentre lasciava che quell’idea prendesse forma nella sua mente, un ghigno scaltro le si scolpì sulle labbra.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
Accovacciato sul ramo di un alto faggio, Ranma riuscì a non muovere un muscolo, mentre col viso accaldato e le nocche bianche contro la corteccia tratteneva il respiro al passaggio di una truppa di soldati cinesi.
Dannazione, non volevano spostare quelle chiappe pesanti!
Gli parve di rivedere su quei volti i tratti di qualche vecchio compagno di traversata, quando l’esercito nemico era il solo mezzo per attraversare le acque che lo dividevano dalla terra di Akane, per andare in cerca di lei e riparare alle proprie colpe.
Si acquattò meglio tra le fronde, sforzandosi di non sbuffare.
I giorni in cui aveva creduto che Akane fosse morta erano sbiaditi nella sua mente, lontani e confusi nel dolore che aveva accompagnato allora ogni sua azione.
Ora sapeva che era viva.
Quel pessimista di Ryoga lo sperava… Lui ne era certo, e un solo pensiero lo muoveva: trovarla!
Vide quei soldati oltrepassare pigramente il tronco robusto del faggio, calpestandone le radici. Sembravano avvezzi ai quei luoghi, che erano caduti in loro potere ormai da giorni.
Ranma si morse il labbro. Il loro arrivo l’aveva costretto a fermarsi. Era sporco, sudato. Sonnecchiava una manciata di minuti alla volta e trovava a malapena il tempo per cibarsi, figurarsi trovare quello per lavarsi. Aveva perso il conto di quanti giorni erano passati dall’ultima volta che si era fatto un bagno. Non aveva sprecato un solo istante utile: aveva setacciato l’intero monte Inunaki, saltando di ramo in ramo senza sosta e aggirando le pattuglie sempre più numerose che incrociava sul suo cammino. Era incappato in qualche rudere, ma niente di più. Il grande monte era disabitato e così le boscaglie limitrofe. Aveva battuto i sentieri e aveva bussato a ogni porta delle case sulla via per Hakata, chiedendo di una ragazza dai capelli corti, ostinata e incosciente.
Per un attimo se la immaginò, nel mondo, a stupirsi di ogni cosa e a prodigarsi per chiunque. E le labbra gli si piegarono verso l’alto, divertite.
Poi si ricordò che Akane era lì fuori, sola e spaventata per colpa sua, credendo che lui non la amasse più, che la volesse morta.
Strinse il pugno e chiuse gli occhi, tentando di ritrovare una parvenza di calma.
Hakata, sì, la strada per Hakata…
Tutti i contadini che lungo la strada per Hakata gli avevano aperto le loro porte avevano finito ogni volta per scuotere la testa, e lui era passato oltre.
Su quel ramo, Ranma fremeva. Il sole avrebbe fatto presto a calare, e lui voleva ricominciare la corsa, perché lei era lì da qualche parte, se lo sentiva, e lui aveva fretta di raggiungerla.
Per passare il tempo nell’attesa che venissero inghiottiti dal fogliame, Ranma si chiese dove fosse il generale di quei soldati, il giovane dagli occhi chiari e il sorriso sincero, quel generale Shinnosuke che tutti ammiravano tanto. Forse non troppo lontano da lì, si rispose, forse nella sua tenda in procinto di pianificare la battaglia. Ma in fondo poco importava: nell’istante in cui i soldati scomparvero finalmente dalla sua vista, sparì anche quel pensiero dalla sua mente.
Tenne ancora per un po’ lo sguardo ancorato verso il sentiero che avevano preso e saltò giù dall’albero senza spostare un granello di polvere, per poi voltarsi nella direzione opposta.
*Pensa, Ranma, pensa*
Era chiaro che Akane non era riuscita a raggiungere Hakata… Forse era stata incalzata dall’avanzare dell’esercito cinese? Con molta probabilità aveva dovuto lasciare quei boschi.
Che le fosse successo qualcosa di peggio, Ranma non potè neanche permettersi di immaginarlo. Lo escluse a priori. Perché Akane era un maschiaccio forte e robusto. Perché Akane sapeva come difendersi. Perché lui non se lo sarebbe mai perdonato.
Spostò il peso da un piede all’altro, interrogandosi sul da farsi, irrequieto.  Non restava altro che prendere in considerazione i diversi piccoli villaggi schiacciati tra la montagna e la battaglia, gli stessi a cui non troppo tempo prima si era ritrovato a prestare soccorso un po’ alla rinfusa. Sì, Akane doveva essere lì, nascosta da qualche parte.
Voltò il capo di scatto e i suoi occhi blu cupo scrutarono la strada che avrebbe dovuto percorrere, oltre gli alberi, le rocce, i torrenti.
Con un gesto un po’ rozzo, Ranma si scostò i capelli corvini dalla fronte.
“Allora è deciso”, mormorò con un tono basso, quasi un sussurro.
Un ringhio.
Un soffio.
Ogni fibra del suo corpo e del suo spirito sembrò proiettarsi verso quella strada, i muscoli tesi, il respiro quieto, e per un attimo il tempo parve sospendersi.
 
Poi ricominciò a scorrere e così il sangue nelle sue vene.
Ranma iniziò a spingersi in avanti, un passo dopo l’altro, finendo per sfiorare appena il terreno, quasi volando, tanto correva veloce.
 
 
 
***
 
 
 
Assecondando la spinta dell’aria che gli lasciava i polmoni, Genma saltò giù dall’albero con un tonfo.
Le braccia gli pendevano pesanti ai lati del corpo, la testa troppo pigra per sollevarsi e guardare davanti a sé.
 
Cosa stava facendo?
 
Erano già passati due giorni - o forse più? - da quando era lì.
 
A dispetto dell’età e degli occhiali appesi al naso, la sua vista era ancora buona. Aveva passato parecchio tempo stretto ai rami più alti di quell’albero che troneggiava sugli altri del bosco, e aveva osservato ogni movimento a valle: i soldati giapponesi che avevano cambiato di colpo la loro strategia di attacco, quelli cinesi che si erano ritrovati ad arretrare quasi fino a cozzare contro il loro accampamento… E lontano, oltre i margini della battaglia, i suoi occhi avevano afferrato le sagome delle tende dell’esercito di Soun-sama e forse anche – chi poteva dire se fosse solo frutto della sua immaginazione?- le figure lontane, sottili e dritte delle sue bambine. Delle bambine di Soun... Delle bambine che lui, Genma Saotome, aveva cresciuto. E sì, amato.
 
Quanti giorni erano passati da quando era lì?
 
Vagava come un animale selvaggio sul limitare di un insediamento umano, incuriosito e inferocito, timoroso e sconsiderato. E non si risolveva a varcare il confine che lui stesso si era dato.
Era stato di parola. Le aveva seguite da lontano e aveva vegliato su di loro.
Era certo che si fossero fatte onore in quell’accampamento che apparteneva loro di diritto. Così come quelle terre che l’esercito stava difendendo. Che… loro padre stava difendendo… rischiando la vita ogni giorno.
 
E loro non lo sapevano.
 
“Non sapete neanche il vostro nome”, mormorò con voce rugginosa.
Si schiarì la gola tesa. Non parlava da giorni.
“Non ho avuto neanche il coraggio di dirvelo”
 
Non sapevano chi erano, eppure questo non aveva mai avuto importanza: erano sempre state fedeli a loro stesse.
 
Se fosse stato meno vigliacco si sarebbe ucciso in quell’istante.
Sorrise amaramente. Ma lui era vigliacco, lo era sempre stato. Nella vita cos’altro aveva fatto a parte mentire, rubare e darsela a gambe? Continuava a farlo, a dirla tutta. 
Si strappò gli occhiali, con un gesto rabbioso e con la mano libera si stropicciò il volto arrossato, grugnendo di esasperazione.
Sembrava lottare contro se stesso, contro un desiderio di riscatto che chissà quando gli si era acceso dentro. E come un fuoco, quel desiderio cresceva e lui tentava di soffocarlo, finendo per gonfiarlo sempre più.
 
Si rimise gli occhiali e misurò lo spazio intorno a lui a larghi passi, spostandosi da un piede all’altro con un nervosismo crescente.
Frenò di colpo.
Cosa diamine stava facendo? Lui era lì a tergiversare quando una guerra infuriava e rischiava di portare via un padre alle sue figlie ignare, una guerra come quella che gli aveva portato via il suo Ranma, tanti anni prima.
Deglutì e finalmente ebbe l’ardire di sollevare lo sguardo. La luna stava sorgendo timidamente nella luce del giorno che ormai scemava e i suoi occhi ardevano.
 
Avrebbe posto rimedio agli anni, alla codardìa, agli errori. C’era ancora tempo e breve era la distanza che lo separava dal suo intento.
 
“E’ deciso”, pronunciò mentre si avviava fuori dal bosco.
 
Avrebbe restituito le figlie al padre, fosse l’ultima cosa che avrebbe fatto.
 
E se Soun non lo avesse perdonato, beh, avrebbe sempre potuto darsi alla fuga.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
La luna illuminava a sprazzi l’interno della carrozza che scivolava rapida nella notte.
 
Kodachi Kuno non riusciva a impedire alle piccole labbra dipinte di piegarsi in un ghigno, gli occhi fissi sulla strada che scorreva sotto di lei e che la avvicinava al suo scopo.
Una giovane moglie atterrita e bisognosa di protezione non avrebbe destato sospetto. Non aveva certo bisogno di pretesti per introdursi all’accampamento.
 
Era arrivato per lei tempo di agire. In fondo se ne era rimasta buona buona a palazzo per tutto quel tempo.
Non che nel frattempo non avesse provveduto a intrattenersi. Il fatto era che si era annoiata a morte.
E così aveva messo mano a tutto ciò che aveva potuto: le carte, i beni, le terre e le genti che le abitavano. Come un contagio si era insinuata in ogni anfratto che aveva anche solo l’odore del potere, amministrando a suo piacimento e sfruttando fino allo stremo chi lavorava per Soun-sama.
Ma non le bastava più.
Era rimasta fredda e ragionevole troppo a lungo e ora si meritava di ottenere ciò per cui aveva aspettato tanto.
 
L’elsa di un pugnale brillò per un breve istante alla sua cintura.
 
Kodachi socchiuse gli occhi languidi e inspirò profondamente: doveva placare il proprio animo eccitato.
Nella precarietà dei tempi era normale che una donna andasse in giro armata, si ripetè.
Le avevano riferito che quel suo insulso sentimentale marito stava avendo la meglio sul campo. Non si era ancora fatto ammazzare, ma la notizia giocava comunque a suo favore. Con i Giapponesi in vantaggio, lei avrebbe avuto la strada spianata, e facile sarebbe stato per una povera vedova assumersi il comando di un popolo vincitore…
 
Ormai mancava meno di un’ora. Immaginò quell’uomo adorabile quanto stupido trotterellarle incontro al suo arrivo. Ma in attesa di quel momento aveva bisogno di liberare la mente.
Chiuse completamente gli occhi, reclinando il capo all’indietro, e col pollice delineò con cura i bordi dell’anello che portava all’anulare della stessa mano, stuzzicando col polpastrello il piccolo gancio nascosto, ma facendo attenzione a non forzarlo, o ne sarebbe uscita la polverina che conteneva. E allora… fine del divertimento!
 
Sentì la carrozza rallentare, poi delle voci lontane. Strinse il pugno e aprì di scatto gli occhi, ornandoli con sapienza di una immediata compostezza, per fare quindi capolino, mostrando la sua persona.
 
“K-Kodachi-sama!?”, bastò quello sguardo a convincere la sentinella di guardia. “Soldati! Fate passare la nostra signora!”
 
 
 
Quando il suo piedino toccò terra, Soun Tendo era già stato avvisato ed era lì ad aspettarla, insieme a uno stuolo di uomini e servitori che erano stati buttati giù dalle brande per ricevere con tutti gli onori la moglie del loro principe.
Tra loro, col capo chino in segno di rispetto, si trovavano casualmente anche Kasumi e Nabiki.
 
Kodachi represse il desiderio di un’entrata trionfale. Sarebbe arrivato il tempo anche per soddisfare tutti quei piccoli piaceri. Bastava aspettare ancora un po’. Zampettò invece come una cerbiatta impaurita tra le braccia del marito, coprendosi metà del viso con la manica del kimono.
 
“Mio adorato consorte! Finalmente ti ritrovo… Credevo di morire, tutta sola, con questa guerra a separarci!”
 
“Kodachi, mia cara, non ti aspettavo…”, la guardava incredulo, confuso.
 
Povero caro, davvero non si aspettava una sua visita…
 
“Hai… hai corso un grave pericolo… E’ stato ardito attraversare le terre per arrivare fin qui… Dovresti essere a palazzo, adesso, al sicuro, e non qui a rischiare la vita”
 
“Tesoro mio…”, sospirò lei appoggiandosi al braccio di lui e quasi collassando per la stanchezza, “…hai ragione, come sempre, ma avevo uno sciocco presentimento e mi premeva vederti. Sii buono, congeda tutte queste persone. Desidero soltanto stare con mio marito e sapere che è sano e salvo. Io e te, e nessun altro”, aggiunse con un rossore pudico.
 
La fronte di Soun si spianò e l’occhio gli si addolcì.
Con un cenno la piccola folla fu dispersa.
 
Ma con la coda dell’occhio a Kodachi non sfuggì l’esitazione di due piccole figure, prontamente rassicurate da uno sguardo eloquente del marito, carico di una inspiegabile confidenza.
 
Si fermò sul posto. “Caro, chi sono quelle due donne?”
 
Soun spostò lo sguardo nuovamente su di lei. “Due fanciulle che mi hanno salvato nei boschi”, spiegò non nascondendo un certo orgoglio, “e che io ho preso con me. Ti stupirai della loro bontà e della loro intelligenza, quando domani le conoscerai. Mi sono state di conforto in questi giorni di sofferenza”
 
Kodachi alzò un sopracciglio. Sbagliava o quelle impertinenti si erano fermate e la stavano fissando?! Qualcosa in loro le fece ribollire il sangue. Non si preoccupò di capire se fosse la loro sola presenza o la sfacciataggine con cui continuavano a sostenere il suo sguardo, a infastidirla tanto, se l’ironia degli occhi dell’una o la purezza di quelli dell’altra. La facevano sentire insicura e questo le era accaduto solo di fronte ad Akane Tendo, che non abbassava mai il mento quando la incrociava per i corridoi della grande casa.
Espirò lentamente.
Quella sciocca non poteva più nuocerle. E quelle due non erano certo Akane Tendo.
Rafforzò la presa sul braccio di Soun.
In fondo lei aveva un piano da portare a termine.
Con un gesto rapido e preciso del polso fece segno alle due pastorelle - perché di questo si trattava, di due inutili pastorelle senza alcun potere sul suo consorte – di sparire dalla sua vista.
E la frustrazione che lesse nei loro occhi mentre si allontanavano dal loro benefattore non fece altro che rimpolpare il piacere di trovarsi finalmente da sola con lui.
 
 
 
***
 
 
 
Tanti anni di allenamento in gioventù e di caccia nei boschi in età più matura avevano chiaramente dato i loro frutti, e Genma riuscì facilmente a intrufolarsi all’interno dell’accampamento evitando con cura una dopo l’altra tutte le sentinelle di guardia.
Scosse la testa, contrariato.
Era un bene che non lavorasse per l’esercito nemico. Possibile che il suo vecchio compagno di bevute fosse stato così poco previdente?
 
L’immagine inaspettata di lui e Soun, vent’anni più giovani, abbracciati nel tentativo di reggersi vicendevolmente in piedi dopo essersi scolati più di qualche bicchierino di sakè, gli annodò le budella e gli fece tremare le ginocchia mentre ancora se ne stava accovacciato in bilico su una palizzata.
Inspirò con decisione.
Era arrivato fin lì. Aveva cominciato camminando, un passo dopo l’altro, e senza accorgersene si era ritrovato a correre, per fermarsi solo davanti alla cinta di difesa del campo.
Non si sarebbe fatto fermare tanto facilmente. Sarebbe andato fino in fondo.
Serrò quell’immagine dentro di sè, silenziando il ricordo delle loro risa e il sapore dell’alcol, e balzò a terra come se fosse fatto d’aria. E come aria, si mosse felpato tra le tende disposte in fila, insinuandosi nel buio dell’accampamento, deciso a ogni costo a trovare l’uomo a cui aveva strappato le figlie.
 
 
*
 
 
“Rilasciati, tesoro mio”
 
La voce di Kodachi colò su di lui come olio profumato, mentre con una mano fredda e sottile gli accarezzava la fronte e le tempie.
Forse era una moglie troppo giovane per lui, che impegni più grandi avevano trattenuto impedendogli di dedicarle il tempo che si sarebbe meritata. Forse non poteva dividere con lei il fardello di quella guerra né il peso delle proprie preoccupazioni.
Certo non era la sua adorata prima moglie…
Eppure non potè non commuoversi quando l’occhio gli cadde sugli stivali accanto alla branda che lei gli aveva appena slacciato e sfilato. E non seppe ringraziarla se non assecondandone ogni premura.
 
“Riposa qui sulla branda, accanto a me”, la invitò esausto, mentre deglutiva il tè dalla tazza che lei gli stava portando alle labbra.
 
“Arrenditi, marito mio”
 
Una luce guizzò nelle pupille della moglie, in piedi accanto a lui. Ma forse era solo la fiamma della candela nel silenzio di quella notte.
 
“Arrenditi a me. Voglio solo che tu non senta più alcuna stanchezza né dolore. Come posso fartelo capire?”
 
Si chinò verso di lui e a contatto con quelle di lei l’uomo si accorse che le proprie labbra erano fredde e secche.
 
Riaprendo gli occhi, Soun la vide ancora abbassata su di lui, il viso poco distante dal suo. I lunghi capelli pendevano da un lato come una scia d’inchiostro e ricadevano sul suo petto, solleticandogli il collo. Gli occhi acquosi erano inchiodati ai suoi.
 
“Sembri senza forze…”
 
Era vero, si sentiva senza forze. Aveva combattuto tanto…
Annuì.
 
La testa si mosse appena, troppo pesante sul cuscino. Un sapore dolciastro gli impastò la bocca.
 
“Devi mangiare, marito mio. Se non ti sazi, come farai a lottare?”
 
Si staccò da lui per piegarsi sul tavolino ai piedi della branda; vi si trovava un vassoio con qualche boccone di carne speziata.
Soun la vide prenderne un pezzo con le mani e fece per mettersi a sedere per facilitarle quello che aveva interpretato come un gesto di grande intimità. Ma il corpo non seguì la sua volontà, come intorpidito.
La vide portare la carne alla bocca –dunque non era per lui?-, vide i dentini bianchi di lei affondarvi e succhiare.
 
“Gloria, potere… Per te sono solo parole, non è così, marito mio?”
 
La vide tamponarsi col dorso della mano il grasso della salsa agli angoli della bocca.
 
“Ma per me no. Gloria, potere: li desidero come desidero il sapore della carne sulla lingua. E non è certo stando ferma ad aspettare che posso… saziarmi”
 
Scandì quell’ultima parola.
 
“Koda-…”
 
La voce gli si bloccò in gola. Soun sentì i muscoli del collo serrarsi intorno alla laringe.
Non capiva.
Sapeva solo che il suo corpo era di colpo schiacciato contro la branda da un peso invisibile.
 
“Lasciati andare, tesoro mio. Abbandonati al veleno che scorre ormai nel tuo sangue”
 
Un brivido schizzò lungo la sua spina dorsale. Possibile che…?
 
“No, è inutile che sgrani gli occhi. Non è così che ho deciso di ucciderti, sciocchino! Sono una vera maestra delle pozioni, dovresti saperlo…”
 
La rivide, amorevole, nei giardini del palazzo, mentre sorrideva nel sole del tardo pomeriggio.
 
“La polverina che ti ho versato nel tè serve solo a sedare le tue membra… non sarà per questo che morirai…”
 
Rivide Akane, i suoi occhi feriti. Akane che aveva cercato di metterlo in guardia.
 
“Perciò non temere, resterai vigile e potrai ascoltare tutto quello che ho da dirti. Non c’è nessuna fretta. Sei solo, qui. Io e te, e nessun altro. Pensavi davvero che me ne sarei stata buona a guardare?”
 
Quella non era la donna che aveva creduto di sposare.
La realtà gli si sgretolò addosso col peso delle parole che Kodachi stava pronunciando.
 
“Ci siamo sposati per interesse, se non ricordo male. Beh, mio adorato, io ho il mio. E non importa se ho dovuto aspettare per trarne profitto”
 
Gli sembrò che il suo corpo si infuocasse e fosse trascinato sempre più giù, fino al centro della terra.
 
“Pare che il tuo esercito stia vincendo. E ho deciso che voglio giovarne”
 
*Akane, perdonami. Figlia mia, perdona questo tuo stolto padre*
 
“Purtroppo domani il sole sorgerà su un accampamento senza più il suo generale…”
 
*Ranma… Ragazzo mio, come ho potuto cacciarti via così?...*
 
“Disgraziatamente si scoprirà che durante la notte una spia cinese avrà trovato il modo di pugnalare Soun Tendo nel sonno… Un vero peccato, non trovi, tesoro?”
 
Avrebbe voluto piangere. Ma se anche il veleno non avesse bloccato i suoi occhi, aveva dimenticato da tempo come si faceva.
 
“Soun Tendo… Un signore così giusto, così accorto… Tanto accorto che non ha saputo distinguere chi fosse migliore per quella sciocca di sua figlia, se un ragazzo che era disposto per lei a gettarsi sotto le ruote di un carro o… mio fratello”
 
Si maledisse.
 
“Ahahaha! Mio fratello…! Tu ignori, vero, nella tua magnifica bontà, che Tatewaki a quest’ora avrà trovato la cara piccola Akane e le avrà torto il collo?”
 
Non seppe trovare la forza di sfuggire all’orrore di quelle parole, di divincolarsi dalla stretta di quello sguardo per rotolarsi giù dalla branda, fosse anche per ritrovarsi col volto nella polvere. Ma ci provò. Ci provò con tutto se stesso.
 
“Sì, maritino mio, sì, e non senza prima essersi divertito con lei”
 
La vide gongolare per i suoi sforzi vani.
 
“Lasciati dire che sei veramente una frana a comprendere le persone”
 
Si maledisse, si maledisse ancora. Pregò che Akane, la sua piccola Akane, sola, fuori nel mondo, avesse raggiunto Ranma prima di incontrare quel traditore di Kuno, su cui lui aveva riposto tanta fiducia. Pregò davvero, e per un istante volle credere che desiderandolo intensamente fosse finache possibile cambiare il corso degli eventi.
 
“Mio fratello è come me. Brama il potere. Ma poi che importa anche di lui…”
 
La vide innervosirsi.
 
“Quell’idiota di Tatewaki perde facilmente la testa e si sarebbe pure accontentato di conquistarsi lo spazio tra le gambe di quella sgualdrina. Se dovesse tornare, tanto peggio per lui… Ma adesso…”
 
La vide ricomporsi.
 
“… adesso, ci sei tu qui, non lui. E nemmeno quel traffichino di Happosai...”
 
Sentì lo sguardo di lei affilarsi sul suo corpo inerme.
 
“Nè quel… quel Ranma a cui ho dovuto a malincuore rinunciare…”
 
La vide leccarsi le labbra, gli occhi vacui per un istante. Capì di non essere stato per lei mai nulla più di un fantoccio di carta, di quelli che i bambini ritagliano con cura per poi accartocciare tra le dita per dispetto.
 
“…Io e te”
 
La vide mettere mano alla cintura.
 
“E questo pugnale”
 
Tentò di urlare, di gridare aiuto, ma non un suono uscì dalla sua gola.
 
“Lasciati andare, tesoro mio”
 
La testa gli girava al suono vellutato di quella voce.
 
“Voglio che tu veda la tua morte negli occhi e ascolti dalle sue labbra quanto sei stato stupido”
 
Gli era sembrata perfetta. La vide per quella che era.
 
“Un bel pugnale impregnato per bene di un veleno - questa volta sì - mortale”
 
Una strega.
 
“Anche se non riuscissi a spingerlo a fondo come vorrei, sarebbe sufficiente un piccolo taglio, sai? Come vedi, ho pensato proprio a tutto. E sarà veloce, non temere, non sono poi così sadica…”
 
La vide mentre sollevava lo stiletto con entrambe le mani.
 
Lui solo, in silenzio, sarebbe stato testimone della propria morte.
Non sarebbero state dette tutte quelle cose che si dicono in punto di morte. Non avrebbe combattuto e neppure tremato. Semplicemente, di lì a poco il suo cuore avrebbe smesso di battere.
 
Fu in quel momento che nel suo campo visivo entrò un braccio robusto.
Si serrò intorno al collo di Kodachi.
La strattonò.
Una seconda mano si strinse sui polsi che reggevano il pugnale.
 
Il volto di lei si sfigurò per la rabbia di non essersi accorta dell’intruso. Fece resistenza con la forza della frustrazione.
 
Fu tutto troppo veloce perché gli occhi di Soun potessero cogliere i movimenti di quella colluttazione strozzata, ma qualcosa doveva essere andato storto per la sua aguzzina, perché Kodachi si bloccò improvvisamente davanti a lui.
Con la bocca aperta in un urlo muto e gli occhi fuori dalle orbite la vide avvicinarsi al volto con una lentezza esasperante la mano sinistra, da cui scorreva un sottile rivolo di sangue.
 
Soun sentì il pugnale stramazzare a terra.
Vide la luce della candela tremolare cupa sul volto pallido di lei.
Poi non vide più niente. Gli occhi gli si chiusero, risparmiandogli lo spettacolo di quel corpo dilaniato da brevi istanti di rantoli e convulsioni.
 
Poi, il silenzio.
 
Quando riuscì a riaprirli, vide il corpo senza vita di Kodachi ripiegato su di lui. Provò pena per lei. Sembrava non avere peso. Ma forse era lui che non lo sentiva.
 
Le due forti braccia che l’avevano salvato rimossero il cadavere - si immaginò che dovesse essere ancora caldo-, e fu a quel punto che Soun vide l’uomo a cui doveva la vita.
 
Genma Saotome.
 
Avrebbe voluto pronunciare il suo nome, dare un colore, un suono alla sorpresa che gli aveva stretto le viscere nel giro di un istante.
 
Ma non riuscì a dire niente.
 
Potè soltanto riconoscere in quegli occhi induriti dagli anni una commozione a lui familiare, nel tremito del labbro inferiore la fragilità dell’amico di un tempo.
 
Poi Genma parlò, e quella voce lo riportò violentemente al passato. A quando non c’erano pensieri, ma solo grasse risate e sogni e progetti.
 
“Tendo… Soun… A-amico mio”
 
Una voce rude, rotta, calda.
 
“Perdonami”
 
L’amico di un tempo, di cui non aveva più notizie da anni, che aveva infine creduto morto, era lì, vivo, davanti a lui.
Perdonami… Perché quella parola dalle labbra dell’uomo che l’aveva appena salvato?
 
“Le tue figlie…”
 
Genma abbassò lo sguardo, incapace di continuare, e Soun avrebbe voluto afferrarlo per le spalle, domandargli cosa intendesse dire, intimarlo di andare avanti, ma non potè fare altro che aspettare, immobilizzato sulla branda.
 
“Le tue figlie, Kasumi e Nabiki… sono stato io… io a rapirle quella notte, quindici anni fa”
 
Il cuore gli urlò in petto.
 
Genma cominciò a piangere come un vitello scannato.
 
“Volevo vendetta… Il mio bambino… il mio unico figlio scomparve durante una di quelle dannate guerre… Fosti tu a dichiararla e io… io giurai che mi sarei vendicato. Non ne vado fiero, Soun. Per anni ho ingoiato ogni giorno la mia colpa. Per tutti questi anni in cui… in cui ho visto crescere le tue figlie, forti e belle”
 
Soun si sentì mancare, ma tenne gli occhi incollati su di lui.
 
“Un vigliacco, ecco quello che sono. Loro non sanno nulla. Ignorano di essere le tue figlie, non ho mai avuto il coraggio di dirglielo”
 
Ci fu un silenzio assordante nella tenda. E non perché Soun non riuscisse a parlare.
 
“Non potrò mai riavere mio figlio indietro. Ma tu sì. Sono cresciute bene, sai? Hanno preso da te. Sono oneste e forti. Ma tu questo lo sai già”
 
Il ronzìo nella sua testa aumentò. Si sforzò di ascoltare le parole che vennero dopo.
 
“Loro, sai, credono di chiamarsi… Hitomi e Misaki”
 
Se non lo fosse già stato, Soun si sarebbe paralizzato al suono di quella rivelazione, troppo grande per essere contenuta dalla sua mente, troppo assurda per essere compresa.
 
Paralizzate, lo erano anche Nabiki e Kasumi, appiattite dietro la tenda, mentre la prima con una mano copriva la bocca all’altra.
 
Stranite dall’arrivo della moglie del loro benefattore, non erano riuscite a prendere sonno. A Nabiki lo sguardo di quella donna non era piaciuto per niente e aveva convinto la sorella ad avvicinarsi al padiglione di Soun, per verificare che stesse bene. Ancora a diversi passi di distanza, avevano sentito le ultime parole di lei e nella smania della corsa verso l’entrata avevano intravisto precederle lo zio Genma. Pur disorientate, si erano accorte del breve tafferuglio e avevano presto compreso che quella donna, Kodachi, era rimasta uccisa e che per fortuna sia l’uno che l’altro erano sani e salvi. Ma poi lo zio aveva parlato e Nabiki aveva tirato a sé Kasumi, preferendo origliare quella che aveva intuito essere l’inizio di una ben strana conversazione.
 
Tutto. Avevano sentito tutto e la verità rombava nelle loro orecchie vorticosamente. Le… figlie di Soun Tendo?
 
“Non merito il tuo perdono, a dirla tutta”
 
La voce di Genma, grave, le raggiunse come un’eco lontana dopo quelli che sembravano essere stati cento anni di silenzio.
 
Al di là della tenda, Soun era appeso a quella voce.
Fu allora che Genma fece comparire davanti a lui una corta spada. Risoluto, gli tese l’elsa. “Uccidimi. E lava l’onta che pende sul mio capo”
In un impeto di orgoglio, l’amico gli stava chiedendo redenzione.
 
Forse fu la paura che Genma ci ripensasse e decidesse di volgere verso di sé la lama in un estremo tentativo di harakiri… Forse fu solo l’effetto del veleno che stava scemando…
Nell’istante in cui le due ragazze si gettarono dentro per fermare quello che fino a pochi attimi prima avevano creduto loro zio, Soun trovò l’insperata forza di buttarsi giù dalla branda e spazzare via con una manata pesante la spada che Genma stringeva in pugno.
 
Bloccate nell’ombra dell’uscio, senza più respiro in gola, Kasumi e Nabiki videro Soun aggrapparsi alle gambe dell’amico, appendersi all’orlo della casacca e stattonarlo in basso, verso di lui. Videro Genma cedere a quella richiesta, le sue ginocchia piegarsi molli, e lo videro crollare tra le braccia dell’altro in un pianto violento.
 
“Perdonami…!”, invocavano entrambi, soffocando quella parola l’uno tra le spalle dell’altro.
 
“Le… le mie figlie… le mie figlie…!”, continuava Soun con un sibilo spezzato e grato e sopraffatto da tanta improvvisa emozione. “Amico mio, tu… tu mi hai salvato la vita… e… e mi hai restituito quella delle mie figlie…!”
 
“Perdonami…”, lo interrompeva Genma, tra i singhiozzi, “Sono stato uno sciocco. Tutto quel dolore… fu troppo grande per me, e decisi… quanto fui stupido!... Decisi di addossarne a te la colpa, amico mio”
 
Soun scosse la testa nella stretta di quell’abbraccio: “La colpa fu mia se tante vite vennero spente in quelle guerre insensate di quindici anni fa. Fui io quello incapace di contenere tutta quella rabbia… la rabbia per la morte… la morte della mia amata moglie. E a pagarne le conseguenze furono tanti innocenti. Come il tuo bambino… Come… te. Lo capii troppo tardi e da allora vivo anch’io ogni giorno col peso di questa responsabilità”
 
Si compresero, in quell’abbraccio, si chiesero scusa, si ringraziarono e si perdonarono molte volte. Fino a che, senza più parole né lacrime, si sciolsero, e solo allora si accorsero di loro, che erano rimaste lì in piedi, a piangere anch’esse, in silenzio.
 
Genma si alzò di scatto. A dispetto dell’aria seria che tentò di assumere, tirò malamente su col naso.
Bastò il modo in cui lo guardarono perché lui capisse che avevano sentito ogni parola.
 
“Kasumi, Nabiki…”, soppesò quei nomi e loro trasalirono nel sentirsi chiamare così. “Vi presento vostro padre”
 
Kasumi tremava visibilmente e Nabiki si mordeva l’interno della guancia senza dire niente. Troppe erano le cose a cui le due sorelle non riuscivano a dare voce, ma nel vedere Soun Tendo ancora incredulo e felice tirarsi in piedi e fare qualche passo instabile verso di loro, non poterono non gettarglisi tra le braccia. Tutto sembrò improvvisamente avere un senso.
Piansero, tra quelle braccia, gli inondarono il petto di lacrime.
 
“Bambine… bambine mie…! Le mie figlie…!”
Non riusciva a dire altro e poco importava se semplici e scarne erano le sole parole capaci di descrivere tutta quella gioia.
 
Genma si allontanò senza fare rumore, il capo chino, il cuore pesante. Fuori dalla tenda, avvolto nel buio di quella notte, si voltò per guardare il padre stringere a sé le figlie. Le loro figure si stagliavano nella luce dell’interno, abbagliante in quel momento. Non volle intromettersi nell’intimità di quel ritrovo, né volle disturbare Soun mentre baciava la fronte di Kasumi, o Nabiki che pronunciava timidamente il suo primo “papà…”. Li vide sussurrarsi parole e ridere e abbracciarsi. Gli bruciarono gli occhi a quella vista e decise che era tempo di andarsene.
 
“Zio…!”
 
Fu lo strillo di Kasumi, così penoso, che lo bloccò sui suoi passi.
Entrambe le ragazze lo stavano guardando, con gli occhi stravolti.
 
“Io non sono mai stato…”
 
“Ha importanza?”, tagliò corto Nabiki, e la sua voce parve più fredda di un coltello.
 
Si avvicinò a lui, lentamente, e gli posò una mano sul volto abbassato. Genma alzò su di lei uno sguardo attonito e vide che la sua espressione si era ammorbidita.
 
“Sei stato quello che ci ha cresciute e che ci ha… ci ha voluto bene come un padre. Il passato…”
Si torturò un labbro. Non sapeva andare avanti.
 
Fu Kasumi a venire in suo soccorso, sfiorandole una spalla con tale leggerezza che Nabiki si sorprese di come fosse possibile allo stesso tempo trasmettere tanta forza.
 
“Il passato fa male, ma è passato”, proseguì la maggiore con semplicità, “e oggi…”, guardò con aria complice la sorella, e poi Soun dietro di loro, “…oggi ce lo hai restituito”
 
L’aria nei polmoni era troppa e la testa gli girava, la vista si appannava e lui si sentì un verme, perché le ragazze che aveva cresciuto avevano compreso e lo avevano perdonato, perché erano mille volte migliori di lui.
 
Si sentì un verme, ma seppe anche di aver fatto, almeno una volta nella sua vita, una cosa giusta e capì che tra quelle braccia sincere che lo stavano accogliendo e stringendo, avrebbe trovato il modo, un giorno, di perdonare se stesso.
 
 
 
 
***
***
 
 
 
 
Mi sta guardando?!
C’è la luna, e i suoi occhi brillano.
E lui se ne sta lì accovacciato come un corvo sul bordo della mia finestra e mi guarda.
Che impudente!
Mi guarda con quell’espressione da furbetto che si ritrova…
Un brivido mi ricorda che non la do a bere a nessuno, che mi fa piacere che se ne stia qui accovacciato come un corvo sul bordo della mia finestra a guardarmi.
Gli faccio segno di entrare, prima che lo scoprano!
E’ paonazzo. Fa tanto il gradasso ma è più imbarazzato di me.
Balbetta qualcosa. Sto per chiedergli di ripetere, quando un po’ goffamente annulla la distanza che ci separa. Quasi mi morde le labbra, nel buio e nell’impeto. E io infiammo – le sue labbra sono bollenti - e lui prende sicurezza e con quella sua voce un po’ ruvida mi dice parole che domani negherà di aver detto, ma intanto me le sussurra calde contro l’orecchio, e le parole si confondono con sospiri sempre più corti e strozzati.
 
Sempre più strozzati.
 
Mi accorgo che ha smesso di parlarmi e anche di baciarmi.
Apro gli occhi e lo vedo boccheggiare sconvolto, mentre si tiene la gola e barcolla all’indietro.
Ranma… No! Ranma!
 
 
“Akira!... Akira…”
 
La mano tiepida del generale Shinnosuke sulla sua fronte la riportò alla realtà, e Akane si puntellò con un gomito sulla branda rigida, mentre la testa le pulsava.
Gli ultimi istanti dell’incubo erano ancora impressi a fuoco nella sua mente.
 
 
Ranma!
La voce mi rimane bloccata in gola. Allungo un braccio per afferrarlo, ci separa solo un passo, ma quel passo sembra incolmabile.
(Svegliati, Akane, è solo un incubo! Un incubo!)
 
 
“Va tutto bene, ragazzo, va tutto bene… Respira…”
 
 
Sento una risata lontana, non so se di uomo o di donna, e tremo, e il brivido di poco fa è solo un lontano ricordo.
 
 
Si rese conto di avere le guance bagnate, il fiato corto.
 
 
Mi volto per capire da dove venga questa risata agghiacciante e subito sento un tonfo, mi rigiro, e Ranma non c’è più.
(Akane, svegliati! Non è reale…!)
 
 
Si prese la testa e strinse gli occhi, nel tentativo di scacciare quell’immagine.
 
 
Al suo posto una macchia di sangue rappreso.
 
 
Era reale, invece.
Ranma non c’era più.
Non l’avrebbe più guardata dal bordo della sua finestra, né stretta a sé in quel modo. Le era sembrato così vera la prima parte di quel sogno, che si era concessa di credere alla sua illusione.
 
“Che cosa…?”
 
“Urlavi, ragazzo… Urlavi con quanta voce avevi in corpo”
 
Si concentrò sugli occhi preoccupati del generale Shinnosuke, sulla linea tesa della sua mandibola.
Una debole luce filtrava nella tenda. L’alba non doveva essere lontana.
Era al sicuro, lì, in quella tenda.
Ricordò di essere Akira, il ragazzotto un po’ imbranato al servizio di quel giovane uomo, e non Akane.
 
 
Akane…
 
 
“Scusate, mio buon signore”, ridacchiò nervosamente, sistemandosi meglio la fascia che portava in fronte giorno e notte. “Solo un incubo…”
 
“Sono i nostri peggiori nemici, gli incubi, i più difficili da sconfiggere”
 
Quanto era rassicurante quella voce…
 
“Passerà… Il tempo è un grande alleato”
 
Shinnosuke. L’uomo in grado di prendersi a cuore il sonno tormentato dell’ultimo dei sottoposti con la stessa serietà di quanto non facesse con le sorti della battaglia.
 
La battaglia…
 
Un’idea malsana balenò nella mente di Akane, tendendole la mano, improvvisa e perfetta.
 
“Fatemi… Fatemi combattere al vostro fianco”
 
Il cuore cominciò a pomparle nuovamente calore nelle vene. E un’euforia infantile, pura.
 
“Cos…?”, il generale impallidì e parve perdere tutta la sua compostezza. “Mai!”
 
“Sono bravo a combattere! Vi prego…”, Akane sentì la propria voce stridere tra l’implorazione e il risentimento. “Ho bisogno di dare un volto al mio nemico o… o impazzirò!”
 
Furono le braccia di lui intorno alla sua schiena a tagliare il discorso di netto.
 
“Non lo permetterò”, la voce dell’uomo era appena un soffio contro i capelli di lei. “Sei solo un ragazzo, sei così giovane… Non permetterò che i tuoi occhi vedano tanto orrore. E…” Akane giurò di sentire quella voce incrinarsi appena. “Non… non perderò anche te, Akira”
 
Il cuore le affondò in petto a quella dichiarazione. Si aggrappò con una mano alla camicia di lui, all’altezza della schiena, e si arrese a quell’abbraccio.
 
Akane non disse più niente e lui parve calmarsi.
 
E tuttavia quell’idea le si era ormai insinuata nella mente come una plausibile via d’uscita alla miseria della sua condizione.
 
Non valutò l’impulsività né l’assurdità di quell’idea. Zittì ogni altra voce che aveva in testa.
 
Si disse solo che avrebbe trovato il modo, prima o poi, di andarsene da lì, dal proprio dolore, dai propri incubi.
 
E se ciò avesse implicato gettarsi nella mischia, tanto peggio.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Come la ragazza si voltò a guardarlo con gli occhietti pieni di paura, Ranma ritirò la mano.
 
Non era lei.
 
“Scusate”, mormorò colpevole con un breve inchino.
 
La giovane contadina dai capelli corti non fece in tempo a formulare una risposta che lui le aveva dato le spalle e aveva ricominciato a correre.
 
Maledizione! Maledizione! Questa volta le era sembrato di riconoscere Akane in quello yukata giallino. Vi aveva voluto vedere il portamento di lei, fiera anche mentre si allungava per cogliere un frutto. Che sciocco… Quella ragazza non aveva nulla di Akane, se non un taglio di capelli vagamente simile.
Possibile che la sua immaginazione facesse tali scherzi?
Non era la prima volta che fermava una donna che da lontano gli era sembrata Akane. Ormai aveva l’impressione di vederla ovunque, anche su quei volti dove era evidente che non ci fosse niente di lei.
Aveva perso il numero di quante l’avevano guardato dicendogli che no, non erano la ragazza che lui stava cercando; aveva perso il numero delle volte in cui lui aveva alzato le spalle, sicuro che di lì a poco avrebbe incrociato lo sguardo dell’unica che sì, sarebbe stata lei.
Ma quella sicurezza cominciava ad abbandonarlo.
 
In quel momento si aggirava a passo svelto all’interno di un villaggio semi-deserto, guardandosi attorno impaziente, indeciso se fermare qualcuno a cui fare la solita sfilza di domande.
Nell’aria afosa di mezzogiorno, pesanti nuvole si stavano raggruppando sopra la sua testa.
L’odore della battaglia era vicino, e i pochi passanti sfuggivano il suo sguardo.
 
Possibile che Akane non si trovasse in nessuno di quei villaggi? Era certo di trovarla nascosta nella povera casa di una qualche famiglia di contadini, e solo in quel momento l’eventualità che si trovasse invece prigioniera, che fosse caduta in mano al nemico lo colpì in pieno muso.
 
Ma poi un’altra assurda ipotesi sostituì prepotentemente la prima.
 
E se al contrario si fosse messa lei, in prima persona, a…?
 
“…A combattere! Ti dico che l’ha vista mio fratello! Una fanciulla bellissima che se ne stava tutta sola a combattere contro cento dei nostri uomini!”
 
“Cento dei nostri?!”
 
Ranma si bloccò sul posto e senza dare nell’occhio si avvicinò meglio per ascoltare la conversazione dei due uomini, che parlavano concitati contro il muro di una casupola appena scostata dalla strada principale.
 
“E che ci faceva lì tuo fratello?”, continuò il secondo uomo, un tipo dalla pelle giallastra e le guance infossate.
 
“Aveva smarrito alcuni capi di bestiame”, rispose l’altro, più basso e massiccio, “… e senza neanche accorgersene si è ritrovato circondato dalla battaglia”
 
“Che ne sia uscito illeso è un vero un miracolo…”
 
“Già... E’ riuscito a fuggire, per fortuna. Ma la grazia e la forza di quella donna… se le sogna ancora la notte”
 
I due uomini scoppiarono a ridere e considerarono chiuso il discorso.
Ranma si allontanò. Aveva sentito quanto bastava.
 
Il suo cuore batteva come un tamburo sul punto di spezzarsi.
 
Possible che la donna di cui parlavano fosse il suo maschiaccio? La sola idea lo infervorò e lo freddò in un sol colpo.
Si strofinò il volto e si stropicciò gli occhi segnati.
Possibile?!
Sì. Gli sembrò dannatamente possibile. E anche l’ultimo, estremo, disperato appiglio a cui aggrapparsi.
Come aveva fatto a immaginarsi Akane chiusa in una casa ad aspettare? Akane era fatta per stare all’aria aperta e combattere.
Rabbrividì al pensiero delle freccie, delle spade, della polvere da sparo.
E tuttavia non riuscì a impedirsi un sorrisetto fiducioso.
Akane che combatteva contro cento uomini. Riusciva a immaginarsela alla perfezione.
 
Non valutò l’incoerenza né l’assurdità di quello scenario. Zittì ogni altra voce che aveva in testa.
 
Si disse solo che avrebbe trovato il modo di raggiungerla e di riportarla in salvo, tra le sue braccia.
 
E se ciò avesse implicato gettarsi nella mischia, tanto meglio.
 
Senza altro pensiero da aggiungere, lasciandosi il villaggio alle spalle, ricominciò a correre, questa volta verso la battaglia.
 
“Ovunque tu sia, Akane. Ovunque tu sia: sto arrivando”
 
 
 
 
 
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Ciao a tutti!
 
Chiedo scusa per il ritardo epico con cui torno a questa storia… A mia discolpa posso dire che ultimamente ho purtroppo avuto qualche acciacco alla schiena che mi ha pressocchè impedito di stare seduta al computer, per cui scrivere è stato praticamente impossibile… La stesura risulta pertanto un po’ a singhiozzo, e me ne scuso.
E poi non scrivevo da tanto di quel tempo che mi è sembrato di aver dimenticato come si fa. ^_^’ Pertanto mi scuso in anticipo se il capitolo dovesse risultare un po’ frammentato e sconclusionato.
Nella mia testa l’arcata doveva coprire una fetta più ampia della trama, ma poi mi sono resa conto che c’erano diversi filoni che meritavano la giusta attenzione e il capitolo è diventato molto più lungo del previsto. Ho deciso pertanto di dividerlo e di pubblicare intanto questa parte, anche perché a giugno sarò fuori dall’Italia e sarà impossibile per me scrivere e tantomeno pubblicare. Mi rimetterò in moto a luglio (schiena permettendo) e spero, entro l’estate, di porre la parola FINE a questa splendida avventura. Perciò siate fiduciosi!
E grazie grazie grazie a quanti di voi mi stanno ancora seguendo! Le vostre recensioni sono fonte di grande gioia per me! E mi spronano sempre più a migliorare. Perciò, non siate timidi, fatemi sapere cosa ne pensate!
 
Un abbraccio,
 
InuAra
 
 
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Riassunto dei capitoli precedenti:
Medioevo giapponese - Akane, figlia di Soun-sama, signore delle terre dell'ovest, non è mai uscita dal palazzo, dove è cresciuta accanto a Ranma, un giovane orfano che lavora come paggio al servizio di Soun Tendo. A vegliare su di loro ci sono i due anziani consiglieri, Obaba e Happosai, e gli immancabili confidenti, Ryoga, amico, di Ranma, e Ukyo, ancella di Akane. Soun si risposa con una giovane nobildonna, Kodachi, e al fratello di lei, Kuno Tatewaki, promette in sposa la principessa Akane, che rifiuta categoricamente i suoi corteggiamenti. A poco a poco Ranma e Akane si accorgono di essere innamorati e, sfidando i problemi di classe, si dichiarano. Decidono quindi di sposarsi di nascosto e scappare in Cina, in attesa di tempi migliori, ma immediatamente dopo il matrimonio e la prima notte di nozze vengono scoperti e divisi. Ranma viene prima imprigionato e poi esiliato e Akane è tenuta sotto stretta sorveglianza, pur con un discreto raggio di azione. Partendo per la Cina, Ranma promette ad Akane che le scriverà spesso e che farà di tutto per ricongiungersi a lei. Tra una lettera e l’altra, passano i giorni. In Cina, Ranma viene accolto dalla signora Nodoka, una donna giapponese che gestisce una locanda, dove lavora come cameriera Shan Pu, che tenta invano di sedurre Ranma. Durante una festa, uno degli ospiti, un giovane guerriero di nome Mousse, provoca Ranma e lo istiga a scommettere sull’onore di Akane: sarà Mousse stesso a provare l’infedeltà della giovane principessa recandosi in Giappone e tentando di sedurla. Una volta a Palazzo Tendo, Mousse fallisce ogni tentativo di fronte alla fedeltà di Akane. Nottetempo si intrufola quindi, nascosto in un baule, nella sua stanza e le ruba un bracciale che Ranma le aveva donato prima dell’esilio, portandolo come prova dell'infedeltà della ragazza. Al ritorno di Mousse, complice un filtro di Shan Pu che ha il potere di farlo letteralmente "impazzire" di gelosia, Ranma crede alle bugie sulla fedeltà di Akane e scrive a Ryoga chiedendogli di ucciderla. Ranma poi sviene e rimane privo di sensi per circa una settimana. Nel frattempo scoppia la guerra tra Cina e Giappone. Prima Mousse e poi Shan Pu si arruolano e partono per il Giappone. Ryoga riceve la lettera di Ranma in cui gli viene chiesto di portare Akane fuori dal palazzo e ucciderla. Una volta fuori, Ryoga risparmia la ragazza, a cui non aveva pensato neanche per un istante di fare del male, e si ferisce a un braccio per macchiare un pezzo di stoffa dello yukata di Akane da mandare a Ranma come prova dell'uccisione. Akane si traveste da uomo con lo scopo di raggiungere gli amici Hiroshi e Daisuke presso il villaggio di Hakata e lì attendere tempi migliori. Non arriverà mai a destinazione, incappando nell'abitazione di un montanaro e delle due nipoti, che la accolgono con affetto, credendola un ragazzo. Si tratta però di Genma, vecchio amico del padre di Akane, il quale circa dodici anni prima, in seguito alla presunta perdita del figlio Ranma durante una delle guerre dichiarate da Soun, ha deciso di vendicarsi rapendo le sue due figlie maggiori ancora in fasce: Kasumi e Nabiki. Nel frattempo Ranma si sveglia e alla notizia della morte di Akane, affranto e pentito, prende la prima nave per il Giappone, dove spera di trovare la ragazza ancora viva. A palazzo Soun scopre che la figlia è fuggita e decide di dare la falsa notizia della sua morte. Kuno capisce che dietro la sua fuga ci sono Ryoga e Ukyo. Dopo averli minacciati si lancia all'inseguimento della ragazza, deciso a prenderla con le cattive e ad abusare di lei con indosso gli abiti di Ranma, per offenderla più crudelmente. Nei boschi troverà invece Nabiki e dopo una colluttazione rimane ucciso in un  incidente in cui viene decapitato. Nel frattempo Akane ingoia quella che crede essere una medicina e che altro non è che un veleno di Kodachi, per fortuna non mortale. Akane perde i sensi e appare, tuttavia, priva di vita. Genma, Nabiki e Kasumi piangono la sua morte e nel momento in cui stanno per seppellire il suo corpo e quello di Kuno sono costretti a fuggire per l'arrivo dei soldati. Nottetempo Akane si sveglia sul corpo senza testa di Kuno, e nel buio e nell'angoscia del momento pensa di trovarsi di fronte al corpo senza vita di Ranma, caduto in una terribile e ingegnosa trappola. Ormai sola, ancora in abiti maschili decide di seguire Shinnosuke, un giusto e onesto generale dell'esercito cinese. Arrivato in Giappone Ranma riceve la notizia ufficiale della morte di Akane e decide di gettarsi nella battaglia per trovare la morte che si merita. Incontra però casualmente Ryoga e viene a scoprire che Akane è viva. Decide quindi di iniziare la sua ricerca. Nel frattempo Genma, Nabiki e Kasumi salvano Soun da un agguato. Genma spinge quindi le due ragazze a chiedere protezione al nobile signore, e decide di seguirle da lontano.
 
 

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Capitolo 19
*** La più saggia delle follie ***


 
Per non appesantire troppo la lettura della pagina rimando il riassunto dei capitoli precedenti alla fine del capitolo ;-))
Inoltre lascio di seguito un piccolo schema dei personaggi e delle due fazioni in battaglia, sperando sia utile per meglio orientarsi nella lettura del capitolo.
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ESERCITO GIAPPONESE
Soun Tendo, al comando in posizione strategica insieme ad alcuni uomini e alla figlia
Nabiki Tendo
Kasumi Tendo, non distante dal campo di battaglia a prestare soccorso insieme al
Dottor Tofu
Genma Saotome, a comando di un gruppo di soldati a nord-ovest
Ryoga Hibiki, tra le fila dell'esercito
Ukyo Kuonji, all'accampamento
Obaba e Happosai, con una divisione dell'esercito in arrivo a nord-est, oltre la montagna
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ESERCITO CINESE
Shinnosuke, in fuga verso nord, nord-ovest con
Akane Tendo, travestita da Akira
Mousse, in solitaria, diretto a ovest
Shan Pu, in solitaria, a ovest
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Ranma, in cerca di Akane, si dirige prima a ovest, poi a nord, nord-ovest
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What is it else? A madness most discreet,
a chocking gall, an a preserving sweet.
 
Cos'è l'amore? La più saggia delle follie,
un'amarezza capace di soffocare, una dolcezza capace di guarire.
 
Romeo and Juliet - W. Shakespeare
 
 
 
 
 
The private wound is deepest.
La ferita nell’intimo è quella ch’è di tutte più profonda.
 
Two gentlemen of Verona - W. Shakespeare
 
 
 
 
 
 
 
La strategia dell’esercito nemico era cambiata.
Mousse lo avvertiva nell’aria vibrante che divideva i suoi uomini da quelli di Soun Tendo. Da giorni i Giapponesi li incalzavano con più facilità e poco importava se a decine continuavano a cadere sotto la sua spada.
 
Calpestando con uno stivale la lancia del soldato che aveva appena sconfitto, andò oltre con fare annoiato e guardò giù dalla collinetta che sovrastava il campo.
Inspirò la brezza che sapeva di bruciato e umidità. Non riuscì a mettere a fuoco nulla in particolare. Era stanco. Non di combattere, ma dell’assenza di uno scopo.
La vittoria della Cina aveva bene poca importanza per lui.
Era lì perché doveva. Era lì per non dover pensare. Ma da qualche giorno questo gli riusciva sempre meno.
Akane Tendo era morta.
La voce si era sparsa veloce tra le truppe. Di malattia, si diceva.
Serrò i denti e sferrò un pugno contro la coscia. Odiava doversi chiamare in causa.
Si chiese se non fosse stato il dolore a ucciderla, a spegnere quella vitalità, quella purezza. A uccidere l’amore stesso, che Akane Tendo incarnava.
L’amore che lui non aveva mai avuto.
 
L’immagine di Shan Pu gli inondò la mente con la stessa irruenza della luce che acceca chi esce da una luogo buio.
Shan Pu dallo sguardo tagliente.
Shan Pu dalle labbra imbronciate.
 
Mousse si arrese a quell’immagine e chiuse gli occhi. Ne accarezzò le linee, ne sfiorò i capelli. Ne percepì l’amaro in bocca.
 
Un’esplosione non troppo lontana lo riportò al presente, ma non aprì gli occhi. Non ancora. Risucchiò quanta più aria i suoi polmoni riuscirono a contenere.
Presto il suo esercito sarebbe stato sconfitto, era solo questione di tempo.
Anche per lui sarebbe arrivata la fine. E ad aspettarlo ci sarebbe stato solo l’inferno.
 
Di colpo desiderò vedere Shan Pu, vederla davvero, un’ultima volta.
 
Fu allora che aprì gli occhi. Il cuore gli martellava in petto e la testa gli pulsava. Aveva sentito che a ovest la divisione delle amazzoni si faceva onore. Lì per lì non vi aveva dato peso. Le amazzoni erano da sempre state sì fedeli al loro Paese ma indomabili, mosse unicamente dal bisogno di soggiogare altri esseri di sesso maschile. Di comune accordo venivano lasciate agire indisturbate.
Aveva sentito parlare di una guerriera indomita, un'amazzone agguerrita, fiera. Per un attimo il polso gli si era fermato, ma aveva immediatamente scacciato quello stupido sentore di speranza. Speranza di rivedere chi? Shan Pu?
 
Eppure in quel momento non gli parve più così assurdo che Shan Pu fosse quella guerriera e stesse combattendo lì, in Giappone. Se la immaginò alla perfezione, mentre strappava le viscere al malcapitato che finiva sulla sua strada.
 
E sì, sperò di rivederla. Lo sperò con tutto se stesso.
 
Improvvisamente ebbe fretta di ritrovarla.
Nient’altro gli sembrò avere lo stesso valore.
 
Gettò un ultimo sguardo sui suoi uomini che combattevano a valle, si aggiustò meglio i paraspalle di metallo sulla tunica bianca e oro che si gonfiava per il vento, e senza più voltarsi, cominciò a correre.
 
 
***
 
 
“Non serve che te lo ricordi ancora una volta, vero?”
 
Sotto una pioggerellina insistente, le mani di Ukyo si muovevano veloci nel legare l’amatura intorno al torso di Ryoga. Nel legarla più stretta che poteva.
 
“Farò attenzione”, ridacchiò imbarazzato per le premure che lui solo tra i suoi compagni stava ricevendo.
 
Lo strattonò a sé per il colletto.
 
“Vedi di tornare tutto intero, o te la vedrai con me”
 
Nell’istante in cui anche lui si fece serio, Ukyo sentì che il labbro inferiore le stava tremando. Sentì le mani di lui chiudersi sulle sue e portarsele al petto. E solo allora si rese conto di quanto erano gelate, tra quelle calde di lui.
 
“Te lo prometto”, le disse piano.
 
Ukyo ricacciò con forza le lacrime che le premevano sotto le palpebre.
 
“Non mi piace, non mi piace per niente tutto questo”
 
“Intendi gli ordini per la nuova missione?”
 
Ukyo non rispose. L’occhio le cadde poco lontano sul dottor Tofu che si stava affrettando a predisporre tutti i suoi medicamenti e a strappare bende con metodo e precisione. Anche lui si preparava per la battaglia imminente, la battaglia che forse sarebbe stata decisiva e avrebbe posto fine a quel massacro. Lo vide bloccarsi e arrossire e capì che lei era lì.
 
“Non dovete disturbarvi signorina Ka-Ka-Kasumi…”
 
Sì, lei era lì. Kasumi Tendo, e non più “Hitomi, la ragazza dei boschi”.
Ukyo la vide spuntare con diverse bacinelle tra le braccia.
 
“Non dite sciocchezze, dottore”, sorrise lei come se fosse la cosa più naturale del mondo, poggiando il carico su una panca, “sono qui per aiutarvi e non mi tirerò indietro proprio ora!”
 
“Incredibile…”, sussurrò a Ryoga, “E’ così diversa dalla sorella… E in qualche modo anche da Akane… la nostra Akane… E’ davvero incredibile che siano le principesse perdute. Tutta questa storia ha dell’incredibile! Eppure ha perfettamente senso che siano tutte e tre sorelle… Hanno un nonsochè… che le accomuna!”
 
“Non saprei”, Ryoga scrutò Kasumi mentre il dottore la ringraziava con un breve inchino carico di devozione.
 
“Comunque l’altra è un’arpia! Nabiki Tendo, voglio dire. Non è che sia cattiva, non credo, anzi… E’ intelligente e furba… però… Mi mette paura e sono contenta che sia dalla nostra parte! Bah, tu non puoi capire! Non eri presente quando ha tirato fuori tutta questa idea della trappola. Io c’ero e ho visto come le brillavano gli occhi. ‘Santi kami, questa ragazza è un genio!’, mi sono detta. ‘Però mi fa venire i brividi!’”
 
 
 
 
A ripensarci, i brividi le correvano ancora lungo la schiena.
Si morse il labbro al ricordo del momento in cui aveva messo piede nella tenda di Soun-sama per portargli la cena e assicurarsi personalmente che non saltasse neanche un pasto, e di come all’istante Nabiki si fosse zittita.
 
“Vai avanti, cara”, l’aveva incoraggiata il padre.
 
“Ci possiamo fidare di lei?”, l’aveva raggiunta la voce affilata di Nabiki.
 
“Sorellina, non essere scortese”, l’aveva ripresa la maggiore, senza però riuscire ad allentare l’atmosfera.
 
Nel posare il vassoio aveva sentito tutti gli occhi fermarsi su di lei: quelli di Genma, della dolce Kasumi, del dottore, e per un attimo aveva temuto di rovesciare il tè.
Con la coda dell’occhio aveva poi visto Soun-sama annuire senza esitazione e lei aveva ripreso a respirare.
Mentre aveva cominciato a sistemare le pietanze sul tavolino, attenta a non sollevare lo sguardo, Nabiki aveva ricominciato a parlare.
 
“Come vi dicevo, non dobbiamo più fare resistenza a nord-est”
 
“Ma in questo modo…”
 
“Padre…”
 
Nell’interromperlo, Nabiki gli aveva sorriso, trattenendo a stento l’emozione.
 
“…dobbiamo solo farglielo credere”
 
Il silenzio si era fatto più attento, e lei si era guardata attorno divertita.
Si spiegò meglio: “… Regalargli l’illusione di avere via libera, che i nostri stiano andando in ritirata. Ma…”, lo sguardo le si fece più acuminato, “noi non dovremo cedere di un passo sugli altri fronti, anzi”
 
Cercò tacitamente la complicità del padre e dello zio.
 
“Continueremo ad incalzare. Il campo di battaglia non è poi così vasto e potremo facilmente chiuderli su ogni lato, facendo pressione. Ed è qui che i nemici troveranno un’allettante via di fuga”, aggiunse indicando un punto preciso della mappa stesa davanti a lei.
 
Tutti le si fecero intorno, e Genma capì dove la ragazza voleva arrivare.
 
“Davanti ai loro occhi si aprirà quest’unica strada tra le montagne. E ringrazieranno i loro dei, perché diversamente da molti altri valichi questo non sarà troppo stretto, né troppo scosceso. Quello che non sanno loro né chi non conosce questi luoghi, è che in questo periodo, a seguito delle piogge frequenti, il lato meno scosceso - quello che saranno loro a scegliere – diventa velocemente un acquitrinio. O, se vogliamo dargli un immagine più adatta a stuzzicare l’inventiva, un imbuto.  A quel punto tenteranno disperatamente di liberarsi dal pantano e dall’altro lato troveranno i nostri ad attenderli. In trappola”, scandì con una calma che nulla aveva a che fare né con la sua età né con l’esperienza.
 
Il silenzio fu rotto da Soun che a grandi passi le si avvicinò e prese la cartina tra le mani.
 
“Figlia, se quello che dici è vero e se i Cinesi sapranno arrendersi di fronte alla sconfitta, presto questa guerra finirà senza ulteriori spargimeni di sangue”
 
 
 
 
 
Un grido marziale riportò Ukyo alla realtà.
 
“Cos’è stato?”
 
“E’ ora”, la guardò Ryoga con un sorriso triste, “Hanno dato l’ordine di metterci in marcia”
 
Non era pronta per quel momento. Non lo sarebbe mai stata.
Decise che l’avrebbe ritardato per quanto fosse in suo potere, e senza dire una parola si fece accanto al ragazzo, appendendosi con determinazione al suo braccio, gli occhi fissi di fronte a sé. Strinse forte, disperatamente, e cominciò a camminare così che lui la seguisse, quando invece era lei a seguire lui.
Come se fosse naturale, come se quello fosse un giorno come tanti.
E più l’uscita dell’accampamento si avvicinava, più l’aria si gelava in gola e la pioggia entrava nelle ossa.
Solo quando le lacrime cominciarono ad annebbiare la vista e a impedire loro ulteriori passi, il braccio di Ryoga si sfilò dalla presa di Ukyo per afferrarne una spalla e farla voltare verso di sé, stringerla, baciarla, guardarla, baciarla ancora. Fermi sul posto, fermo il tempo con loro, non si curarono dei soldati che continuavano a passare superandoli.
 
“Stammi bene”, le sussurrò sulle labbra.
 
“Anche tu”, lo attirò a sé, le dita intrecciate sulla nuca, perse tra i capelli di lui.
 
“Aspettami”, fronte contro fronte, non voleva lasciarla andare.
 
“Tu pensa a tornare”
 
Il cuore di entrambi si fermò in quell’ultimo bacio che non aveva bisogno di altre parole.
E quando ricominciò a battere erano ormai lontani, lui verso la battaglia, lei con le mani all’altezza del viso, giunte in preghiera.
 
 
 
***
 
 
 
L’uomo vide scappare via il suo cavallo.
Solo allora si rese conto di essere appena stato disarcionato. Da dove si trovava, tentò malamente di indietreggiare nella terra umida, guardando dal basso il viso della morte che avanzava su di lui.
Una morte dolce - pensò già rassegnato - dai capelli adorni e le vesti violette.
Una morte del colore del crepuscolo e dei fiori di montagna.
Non una morte pietosa, ma nemmeno crudele, come dimostrarono la precisione e la rapidità con cui Shan Pu terminò il suo lavoro.
 
Nell’allontanarsi senza girarsi dal luogo di quel breve scontro, l’amazzone si maledisse per aver sovrapposto per un istante gli occhi di Mousse a quelli del suo nemico.
 
Era lì da qualche parte, Mousse, lo sapeva con certezza, con quei suoi occhi penetranti che l’avevano sempre infastidita. Quelli e il suo silenzio.
Non riuscì a ricordare neanche un giorno in Cina che lui non le fosse accanto, una presenza silenziosa, snervante; divertente, di tanto in tanto, gli concesse mentalmente, eppure soffocante.
Il suo solo essere lì era un monito insopportabile. Le ricordava che esiste chi prova dolore e deliberatamente non lo esprime. Stupido orgoglio… Che esiste un ‘non detto’ ogni qualvolta si tace.
 
Gridò, Shan Pu, di un grido gutturale che volle sfidare il vento e la quiete, e alle sue stesse orecchie quel suono le ricordò una delle tante urla di piacere con cui provocava la decenza durante i suoi amplessi occasionali.
Shan Pu diceva se qualcosa le piaceva. Lo urlava. Shan Pu prendeva quello che voleva. Uccideva, se necessario.
 
La mente la tradì ancora una volta. E ancora se lo immaginò.
Mousse.
Gli occhi verde cupo, la mandibola contratta.
Lì accanto a lei a ricordarle che non era sola, che anche per una come lei c’era qualcuno, in fondo.
 
Ma lei, sola, voleva esserlo.
Non voleva legami, non voleva volti da ricordare, né inutili zavorre ad appesantire il cuore.
 
Amore significa perdere. Amore significa essere deboli.
 
Anche lì, in quel momento, era sola. Vincolata da una sorellanza più antica di lei e della sua volontà, non aveva rapporti con le altre amazzoni. La battaglia non la intimoriva e gli uomini preferiva scovarseli per conto proprio.
Da sola.
Combatteva senza rimorsi sulla terra di Akane Tendo, della fanciulla da cui tutto era cominciato e che, a quanto si diceva, era morta prima di poterla incontrare.
 
Si piegò a raccogliere seccata il proprio bonbori e quando sollevò il capo, ogni fibra del suo corpo si bloccò.
 
Non l’aveva sentito arrivare.
 
Si sentì braccata sotto quello sguardo.
Di tutte le persone che si aspettava di trovarsi di fronte, l’ultima era lui.
 
Immobile, anche lui la guardava incredulo. Non stupito né sconvolto. Non c’era rabbia in quegli occhi grandi, e questo la umiliò come nient’altro al mondo.
L’aveva riconosciuta e la guardava dall’alto in basso come lei aveva appena fatto con l’uomo a cui aveva tolto la vita. Ma quella di lei lui la risparmiò.
Anzi, non parve neanche contemplare che fosse di fronte a una vita o meno da risparmiare.
 
Senza dire niente e senza aspettarsi nulla da lei, semplicemente Ranma se ne andò.
 
Si voltò e cominciò a correre. Non per fuggire lontano, non per dare sfogo all’orgoglio, ma perché aveva fretta di raggiungere altri da lei.
 
Shan Pu si alzò lentamente, avvertendo sulla lingua il sapore della salvezza mescolarsi a quello della sua più grande sconfitta.
 
Senza più Ranma, lei seppe di essere davvero, inesorabilemente sola.
 
 
 
***
 
 
Akane agguantò la spada che aveva nascosto sotto la branda e velocemente se la legò alla cintura accanto al coltello, lo stesso che le aveva dato Ryoga quella che le sembrava una vita prima.
Si guardò intorno un’ultima volta. Quella tenda era stata la sua casa e la sua prigione.
Non volle immaginarsi l’espressione di Shinnosuke quando non l’avrebbe trovata.
 
*Perdonatemi, se potete*
 
Era partito da qualche ora e, ormai sola, era pronta ad attuare la sua evasione dall’accampamento cinese. Nessuno si sarebbe curato di lei, o meglio, del ragazzo al seguito del generale.
Non poteva restare oltre, davvero non poteva. Preferiva la morte a quella ‘non vita’.
 
Nel silenzio irreale di quella mattina in cui la pioggia divorava ogni altro rumore, Akane si gettò fuori dalla tenda.
 
E cozzò contro qualcosa.
 
“Cos…?”
 
Si ritrovò nientemeno che sorretta tra le braccia di Shinnosuke.
 
Maledizione, a quanto pareva la sua fuga era stata bloccata sul nascere!
Alzò occhi frustrati su di lui e lo vide guardarla sconvolto, ciocche di capelli fuori posto incollate al volto dalla pioggia e dal sudore.
 
“Akira…”
 
Quel nome uscì affannoso dalla bocca di Shinnosuke, e lei riuscì solo a pensare che era appena stata scoperta.
 
“Akira…! Presto… Dobbiamo andare via di qui…! L’esercito… L’esercito nemico è a ridosso dell’accampamento!”
 
Che stupida.
 
“Ci spazzeranno via…! Non avevamo previsto che fossero così numerosi e… I nostri si stanno ritirando…”
 
Era tornato per lei. Lei che stava scappando senza dire una parola.
 
“Su per le montagne… Una via di fuga… Stanno scappando tutti…”
 
Un baccano crescente si alzò dove fino a pochi istanti prima c’era il nulla: la notizia doveva essere deflagrata velocemente tra quelli rimasti all’accampamento.
 
Può il mondo stravolgersi nel giro di un batter di ciglia? 
 
“Presto! Non c’è tempo da perdere!...”, la prese per un polso e la trascinò attraverso il caos di braccia e imprecazioni, riuscendo ad afferrare al volo i finimenti di un cavallo senza padrone, issarsi in groppa e tirarsi dietro Akane.
Mentre si faceva strada verso l’uscita a nord, tentò disperatamente di dare ordini a quella massa impazzita di soldati e ausiliari.
 
Schiacciata dal senso di colpa e dal terrore, aggrappata a lui nella corsa, lo sentì pregare che i sottoposti a cui aveva lasciato il comando a sud stessero avendo più successo di lui.
 
E immediatamente si ritrovò circondata dalla battaglia che tanto aveva cercato.
 
 
 
***
 
 
 
“Amico mio, pare che sia arrivato il momento”, la mano di Soun si strinse intorno alla spalla di Genma. “Avrei voluto combattere fianco a fianco come ai vecchi tempi, ma…”
 
“Il tuo posto è qui, vecchio mio, al comando”, lo interruppe l’altro tirando su col naso e aprendosi in un sorrisetto pieno di sè. “Lascia a me il lavoro sporco! Coprirò la zona a nord-ovest. Spero solo di esserne all’altezza…”
 
“Non posso immaginare i miei uomini in mani migliori”
 
Stretto nell’abbraccio, Genma alzò lo sguardo su Nabiki, poco lontana, pallida e fiera.
 
“Lo stesso vale per te…”, ridacchiò assestando una pacca sulla schiena di Soun, “Questa ragazza sta salvando tutti noi con la sua astuzia e il suo sangue freddo”
 
“L’hai cresciuta bene”
 
“Buon sangue non mente”
 
“Padre! Zio Genma!”, la voce allarmata di Nabiki irruppe in quello scambio commosso.
Verso di loro stava arrancando un ragazzo fradicio di fango e sudore, prossimo al collasso.
 
“Soun… Soun-sama…!”, chiamò con voce roca, “Ho… ho un messaggio per voi!”
 
Nabiki accorse a sostenerlo tra le braccia e subito i due uomini gli furono accanto.
 
“Dalle terre a nord-est stanno… stanno arrivando gli uomini capitanati dal venerabile Happosai!... E insieme a lui si è unita la vecchia Obaba!…”
 
Obaba. Quel nome vibrò sulle labbra di Soun come un’implorazione, una richiesta di perdono.
 
“… la vecchia Obaba che pare non abbia smesso di lottare nei boschi contro ogni nemico o spia…”
 
Obaba. Vergogna, gratitudine.
 
“… pare che sia stata trattenuta a lungo, ma ora… ora finalmente lei e Happosai sono sulla via del ritorno, non più distanti di mezza giornata! Io… io stesso li ho visti precedere l’esercito… volando!… Sì! Volando di ramo in ramo! L’occhio umano fatica a stargli dietro! Ma stanno… stanno arrivando!”, urlò aggrappandosi a Nabiki, con la voce impastata di entusiasmo e fatica, persa tra le esclamazioni dei soldati che gli si erano fatti intorno.
 
“Non potevano avere un tempismo migliore!”, sibilò la ragazza con occhi che brillavano.
 
Tanto bastò a contagiare il padre: “Giuro a me stesso”, pronunciò grave, “che non sarà resa vana l’audacia della venerabile Obaba e del saggio Happosai. Troveranno ad attenderli i nostri appostati dietro il passo, nondimeno… Presto! Mandate loro il segnale di non procedere oltre e unirsi a loro! Con questo, la vittoria è in pugno…!”
 
Con l’esercito nemico che minuto dopo minuto stava cadendo in trappola e l’arrivo inaspettato di alleati tanto preziosi, la pioggia impalpabile che li bagnava si caricò di euforia. Nessuno osò esultare prima del tempo, ma un concitato fermento si impadronì degli astanti.
Soun avrebbe presto pagato il suo debito con la sua vecchia consigliera. Genma avrebbe potuto riscattare i suoi errori facendo la sua parte in campo.
 
Il messaggero si avventò sulla bacinella d’acqua che Nabiki gli aveva messo davanti al naso e quando rialzò gli occhi vide che la ragazza aveva le braccia intorno al collo dell’uomo tarchiato alla destra di Soun-sama.
Da dove si trovava era impossibile afferrare cosa stesse dicendo, né sentir vacillare un brusco: “Non fate pazzie, zio”
Ma le lacrime di lui, quelle le vide, e l’orgoglio e gli sguardi d’intesa.
Testimone dell’ultimo saluto tra il suo signore, la ragazza e l’uomo tarchiato che si allontanava a passo sostenuto, si convinse che la fine di quella guerra non poteva essere lontana.
 
 
***
 
 
Correva senza accennare a fermarsi.
Si era voltato e se l’era lasciata alle spalle.
 
Ranma si stupì di come non provasse rancore per la donna che tanto aveva contribuito alle sue disgrazie.
Si stupì di come l’istinto l’avesse portato a lei e di come, trovandosela improvvisamente di fronte, non avesse provato nulla più di quello che si può provare per un animale selvatico ormai innocuo, che ti guarda con l’occhio vacuo.
Shan Pu non era chi stava cercando.
Nulla di più semplice.
E il suo corpo si era mosso da solo.
In cerca di Akane. Ancora e ancora.
 
Correva senza tregua, Ranma.
Una serie di esplosioni a nord-ovest aveva mosso i suoi passi.
L’aria era carica di energia combattiva, se lo sentiva a fior di pelle, e sapeva che a nord-ovest c’erano molti villaggi. Non aveva indizi a guidare la sua ricerca. Tanto valeva affidarsi alle viscere, che lo incitavano a trovarsi lì dove si stava dirigendo.
Sperò che il suo istinto non lo tradisse proprio in quel momento. Sperò anche che non lo portasse da lei troppo tardi.
Qualcosa era cambiato nella battaglia, era chiaro anche a lui. Aveva visto sacche dell’esercito cinese arretrare, tra i fumi e i corpi dei compagni. Aveva visto il cielo farsi livido e la pioggia bagnare la terra e diluire il sangue.
 
Correva, e la sua corsa si arrestò solo quando vide le rovine del primo villaggio.
 
“Papà… papà, dove sei?”
 
Il pianto di una bambina addossata a un muretto arrivò al suo orecchio anche attraverso le strilla e la distruzione.
Le si accucciò accanto, riparandola col proprio corpo mentre si guardava intorno. Nessuno pareva essersi accorto di loro. Per un po’ sarebbero stati al sicuro.
 
“Bambina, dove hai visto il tuo papà l’ultima volta?”
 
“Papà… papà… dove sei?”, singhiozzava la piccola, senza ascoltarlo, con due treccine ai lati del visetto sporco.
 
“Ascoltami…”
 
“Papààà…”
 
Quello che fece Ranma, in preda all’impotenza del momento, dovette stupire anche la bambina, perché questa si zittì di colpo e sollevò due occhioni curiosi.
 
“Dormi dormi pupazzino
che nessuno si fa vicino”
 
Aveva cominciato a… canticchiare.
 
“Ora andiamo di soppiatto
sei al sicuro non c’è il gatto”
 
Parve funzionare, perché vide che la bambina, anche se aveva ancora troppa paura, sembrava desiderosa di avvicinarsi.
Continuò, e la sua voce ruvida per l’umidità e la corsa risuonò dolce nel frastuono di grida scomposte.
 
“il gatto grigio o quello nero,
Puoi star certo: sei tutto intero;
non c’è più un miagolìo
qui ci son…”
 
“… S o l t a n t o   i o”
 
Ranma non si era accorto della presenza di quell’uomo alle sue spalle.
Si voltò fulmineo, ergendosi a difesa della bambina che si aggrappò subito alla sua gamba sinistra.
Ma dall’uomo non arrivava nessuna aura combattiva. Era vestito da soldato alto in grado, era ben piazzato e con due occhiali tondi sul naso.
Era stato lui a completare la filastrocca. E ora lo guardava con un volto indecifrabile.
 
“Ragazzo, dove hai imparato questa nenia?”
 
Che non fosse un nemico, Ranma lo capì al di là dell’appartenenza. Il volto era stravolto e le mani sporche di terra. Il fatto che non fosse nelle retrovie e non avesse una spada in pugno significava che era lì per aiutare le persone del villaggio a fuggire.
 
“E’… uno scaccia pensieri, niente di più”
Perché quella domanda?
“L'avrò imparata da qualche donna per strada… O forse me la sono inventata io, per quel che ne so”
 
“Inventata? E perché mai? Hai paura dei gatti, forse?”
 
Colto in castagna.
 
“Io non ho paura! Li detesto, ecco tutto. Non sono animali affidabili”, bofonchiò arrossendo.
 
“Anche il mio Ranma li odiava”
 
“R… Ranma…?”
 
“Un genitore fa i suoi errori… Avevo tentato di insegnargli una sciocca tecnica marziale… ma perché entrare nei dettagli?”, ridacchiò l’uomo. “Era ancora così piccolo… Beh, mi inventai questa canzoncina per calmarlo quando piangeva… Era l’unica cosa che funzionava. Non capisco come sia arrivata a te…”
 
Il sangue gli pompava assordante in testa.
“Ranma… Ranma è anche il mio nome”
 
L’uomo fece un passo in avanti e la bambina si nascose meglio.
 
“E chi… chi te l'ha dato? Tuo padre, tua madre?”
 
Ranma le mise una mano sul capo. Non l’avrebbe lasciata.
“Mio padre e mia madre non me li ricordo e ho questo nome da che ho memoria. Come questo codino... Ho sempre saputo di chiamarmi così”
 
Gli occhi dell’uomo si distesero.
“E' mai possibile… ?”
 
“Chi sei, vecchio?”, gli chiese Ranma bruscamente.
 
“Non lo so più…”, balbettò l’altro, “Un tempo ero il padre di un bambino. Perduto anni fa, portava il nome di Ranma: occhi blu come quelli della madre, un codino come il tuo e una voglia matta di imparare le arti marziali. Genma. Mi chiamo Genma Saotome”
 
Il suono di quel nome gli accese qualcosa dentro, l’eco di un ricordo. Sentì i pezzi ricomporsi nel disegno di un passato che non riuscì tuttavia a vedere.
Ranma Saotome.
Gli parve dannatamente familiare.
L’uomo fece un altro passo verso di lui, gli occhi lucidi.
Senza accorgersene, Ranma strinse più forte a sé la bambina. Poi la sua voce osò quello che il suo pensiero ancora non riusciva a concepire.
 
“Padre…?”
 
“Ranma…?”
 
Un’esplosione troppo vicina coprì la visuale con polvere e detriti.
 
“G-Genma?!...”, la voce di Ranma tentò di squarciare il boato, invano: altre esplosioni seguirono a breve distanza l’una dall’altra. “Genma Saotome?” Non poteva perderlo, non così! “Dove sei?! Padre!!...”
 
La piccola cominciò a tossire, dietro di lui, e senza pensarci oltre, con la disperazione che gli moriva in gola, Ranma la prese in braccio, cercandosi una via di fuga il più lontano possibile da lì.
 
Perduto.
 
Con le mani sulle esili spalle della bambina, mentre si assicurava che questa non avesse ferite, Ranma riprese fiato e realizzò di aver perduto l’uomo che forse era suo padre.
Abbassò il capo e i capelli gli coprirono il volto sudato, scuri come la nuvola di cenere che si era sollevata poco distante.
Non dava segno di rialzarlo e la bambina non cessò di tenere gli occhi incollati su di lui.
Aveva creduto di ritrovare il padre e prima di poter anche solo dire una parola, i due erano stati divisi. Impossibile gettarsi nella mischia in quel momento per andarlo a cercare: sarebbe stato da veri incoscienti.
La guerra stava avvampando indiscriminata e brutale.
Il pensiero tornò violento ad Akane, lì fuori da qualche parte in mezzo a frecce, masse di gente in fuga, granate.
Si sollevò quel che bastava per sfiorare la guancia paffuta della piccola e regalarle un breve sorriso.
 
“Come ti senti adess…?”
 
“Pluuuum!!!”
 
“Papààààà!!!”
 
L’urlo della piccola in risposta al suo nome pronunciato a pieni polmoni, fu un brivido puro sulla pelle.
 
Ranma vide caracollare verso di loro un uomo goffo e pesante, votato unicamente a raggiungere la figlia che gli tendeva le manine, prenderla in braccio e ripetere il suo nome mentre lei gli riempiva il faccione di lacrime e baci.
 
“Papino!... Papino mio…!”
 
Non ci fu bisogno di ringraziamenti né di addii. Il sorriso che sentì stamparsi sul proprio volto fu una ricompensa sufficiente per Ranma.
Diede loro le spalle e proseguì rapido per la sua strada.
 
Se quello che aveva incontrato era davvero il suo vecchio, allora sarebbe stato in grado di badare a se stesso ancora per un po’; e se la sorte avesse voluto, l’avrebbe presto ritrovato sul suo cammino.
 
Ora doveva trovare Akane, nient’altro.
 
 
 
***
 
 
Gridava, Ryoga, gridava con quanto più fiato aveva in gola, nella speranza di spaventare il nemico e farlo arretrare, e non dover usare la forza.
Sul campo di battaglia dovevano essere a migliaia, ma la sua visuale coglieva un uomo alla volta.
I Cinesi scappavano e lui avanzava. Sapeva di avere un esercito con lui, sapeva di avere dei comandanti a guidarne l’offensiva. Eppure gli sembrava di camminare solo in quell’intrico di armi e budella, di spade conficcate in carni tumefatte, di corpi avvinghiati nel disperato tentativo di essere i primi a spezzare all’altro l’osso del collo.
Gridava per non sentire le urla degli altri.
Sperò che quell’orrore non raggiungesse la sua Ukyo. Sperò che Akane, se fosse stata ancora viva -dèi del cielo-, non si trovasse lì in mezzo, nell’occhio di quel dannato ciclone.
 
 
*
 
 
“State attento, mio signore!”
 
Shinnosuke si contorse in groppa al cavallo per sferrare un calcio contro il soldato giapponese che stava tentando di disarcionare lui e Akane.
 
“Akira… Sono troppi!”, le urlò di rimando, spronando l’animale che riprese a galoppare schiumante.
 
Akane sentiva la morte, tutto quel sangue, i lamenti avvicinarsi a lei, inesorabili come la risacca che sta per lambire una caviglia. E tuttavia, finchè il cavallo correva e lei si trovava schiacciata tra la sella e il petto di Shinnosuke, le parve di assistere alle immagini di un sogno che scorreva davanti a lei. Sentì i sensi aguzzarsi come mai nella vita, e il tempo del suo pensiero dilatarsi.
 
Era buono l’odore della pioggia contro la pelle accaldata di Shinnosuke; le sue braccia erano forti, intorno a lei.
Per la prima volta si rese conto di essere nelle mani del suo nemico. Letteralmente.
Se avessero scoperto che Akane Tendo era viva e prigioniera dell’esercito cinese, le sorti della guerra sarebbero certo cambiate.
Se l’avesse scoperto Shinnosuke…
 
Akane alzò lo sguardo su di lui: quegli occhi delicatamente arcuati che di solito la guardavano bonari, saettavano a destra e a manca, stropicciati dalla paura; le mani gentili che le si posavano ogni sera sul capo erano piene di graffi e strattonavano le redini per schivare ostacoli senza fine.
Lo scrutò, Akane, e per un attimo valutò davvero.
Tanto stanca, desiderò solo abbandonarsi alla protezione di quell’abbraccio, e dimenticare tutto il resto.
 
Akane scrutò Shinnosuke, la cui sola colpa era di non essere Ranma.
 
Un sorrisetto le si disegnò amaro sulle labbra.
Ranma.
In quel momento Akane imparò che la morte in fondo mette fine soltanto alla vita.
 
 
 
E poi il mondo si capovolse.
 
Il colpo fu talmente violento che Akane non sentì niente.
Quando i rumori intorno a lei balzarono nuovamente alle sue orecchie, con ferocia, si trovava in mezzo a una sterpaglia fangosa. Doveva essere rotolata giù dal cavallo, che nitriva rovesciato su un fianco e su cui ancora era incastrato Shinnosuke.
 
Akane fu più veloce di lui ad alzarsi, con la spada già in pugno, pronta a brandirla contro l’uomo taurino che li stava attaccando sbraitando come un forsennato.
 
Fu questione di pochi secondi.
Inspira.
Espira.
I colpi che la ragazza seppe parare con rapidità dovettero mandare in confusione l’avversario perché non si accorse dell’elsa che calava sulla sua nuca né del movimento di polso che lo mise fuori uso.
 
Shinnosuke la guardò come si guarda qualcuno resuscitato dal mondo dei morti.
 
Akane gli fu accanto e lo sollevò di peso, mettendolo nuovamente in piedi.
 
“Presto! Dobbiamo andare via di qui!”, lo riscosse, precedendolo.
 
Shinnosuke sguainò la propria spada e la seguì.
 
“Akira… dove… dove hai imparato a combattere così?”
 
Akane si voltò verso di lui, senza arrestarsi, un sorriso di pura luce negli occhi.
 
“Ho avuto un buon maestro… il migliore!”
 
L’esercito cinese era allo sbando. Forse né lei né l’uomo che l’accompagnava avrebbero visto l’alba. Ma fino ad allora avrebbe difeso con le unghie e con i denti la vita che le apparteneva, quella vita che non le era stato permesso vivere con Ranma.
 
 
 
***
 
 
 
Shan Pu.
Lingua calda sulla sua pelle. Fianchi rotondi sfiorati appena dalla luce della fiammella.
 
Shan Pu.
Rumore bagnato di corpi all’unisono l’uno nell’altra. Un bisogno nuovo, crescente, spaventoso, oltre il desiderio fisico di fondersi con lei.
 
Shan Pu.
Nudo, di fronte a lei che lo guardava con quegli occhi e non diceva niente.
“Mousse…”
Il suo nome, tremendo sulle sue labbra. Dolce, sulle proprie, mentre glielo rubava e ritrovava se stesso.
Simili. Spietati entrambi.
 
Mousse si aggirava come un cane affamato nella battaglia. Forse non l’avrebbe vista mai più. Forse, dopotutto, non era nemmeno lì in Giappone, Shan Pu.
Di certo non l’avrebbe mai più avuta.
 
“Vattene, adesso”
L’aveva guardato per quello che era.
“Shan Pu non sa che farsene di amore”
Si era rivestito, lentamente, senza una parola.
Shan Pu.
La prima e ultima volta che l’aveva tenuta tra le braccia. Lui che non era il primo né sarebbe stato l’ultimo.
E poi, finsero di dimenticarsene.
 
La battaglia impazzava, intorno a lui, e la pioggia stava aumentando.
Mousse scansava uomini e colpi, senza neanche prestar loro attenzione. Procedeva su per quella salita franosa con un solo obiettivo, che non si sforzò nemmeno più di nascondere a se stesso: Shan Pu.
Setacciava lo spazio circostante in cerca della sagoma di lei.
Tutto il resto non esisteva.
Chissà se l’avrebbe rivista. Per dirle cosa, poi?
Eppure, passo dopo passo il suo piede accelerava, il suo cuore strideva.
La disfatta era ormai prossima, e lui aveva paura. Non per la Cina, non per se stesso.
Passo dopo passo, scoprì che l’orgoglio può essere facilmente calpestato di fronte a ciò che conta davvero.
 
Strinse gli occhi, scuotendosi in un singhiozzo, e la debolezza gli costò cara: il respiro gli si spezzò nelle reni e si ritrovò a terra con la schiena colpita da un calcio a tradimento e il piede del suo nemico premuto contro il petto, due spade luccicanti pronte a calargli sul collo.
 
Fu infinitesimale l’attimo in cui il pensiero andò a Shan Pu e contemporaneamente il suono della sua voce si materializzò.
Fu il metallo che fendeva l’aria, fu il gorgoglìo dell’uomo prima di piombare a terra.
E poi fu solo Shan Pu, ansante, con il braccio teso e il bonbori in pugno.
 
“Sh-Shan Pu…”, Mousse allungò una mano tremante. Quanto straordinaria doveva essere la mente di un uomo per creare un’illusione tanto bella nella sua ultima ora!
 
La ragazza afferrò quella mano senza troppe cerimonie, forzandolo a tornare alla realtà, ad alzarsi e a seguirla al riparo di una roccia sporgente.
 
“Questa è ultima volta che ti aiuto, Mousse!”
 
Lo spinse in malo modo contro la pietra e si acquattò a sua volta assicurandosi che nessuno li avesse seguiti.
 
“Ma che cosa ti diceva cervello?!”
 
Era accaldata, Shan Pu, e inviperita, come spesso l’aveva vista.
 
E bellissima.
 
Era un caso che si fossero incontrati, o era andata in cerca di lui come lui di lei?
 
Questo le chiedeva con gli occhi.
Lui che aveva fatto della parola la sua arma migliore, la guardava senza sapere cosa dire, felice di averla davanti a sè, come aveva tanto desiderato.
 
Shan Pu parve non sostenere oltre quello sguardo.
 
“Cosa ci fai qui, solo, senza tuoi uomini?”, ruppe il silenzio mordendosi un labbro.
 
“Lo stesso che ci fai tu”
 
“Io non sto cercando di farmi ammazzare!”, protestò risentita.
 
Lei era lì, davanti a lui, viva. E lui non voleva ribattere.
 
Scattò verso di lei e la strinse tra le braccia, come avrebbe dovuto fare tanto tempo prima.
 
Shan Pu si irrigidì al contatto di quel corpo che non chiedeva nulla se non di stare lì, in quell’abbraccio.
 
“Sai”, la voce di lui ruppe il silenzio, facendosi strada su per la gola contratta. “Mi sono reso conto che invidiavo quel ragazzo…”
 
Ranma. ‘Quel ragazzo’ era Ranma. Non ci fu bisogno di dirlo.
 
“… Non perché tu l’avessi preso di mira - non ti importava nulla di lui come degli altri-, ma perché lui aveva Akane Tendo”
 
Shan Pu sollevò il mento stizzita nell’udire quel nome.
 
“Akane Tendo…”, continuò Mousse, cercando la parola, “… lo amava. Di un amore incondizionato, perfetto. E io l’ho odiato per questo”
 
Rimase col volto nascosto dietro la spalla di lei, immobile, pallido.
 
“Non fraintendermi… Io non volevo Akane Tendo. Io volevo solo te, Shan Pu”
 
L’aveva detto.
 
Ad alta voce.
 
A se stesso, a lei.
 
 
***
 
 
Soun Tendo inspirò con convinzione. L’aria era pungente a quell’altezza. Si era allontanato dall’accampamento insieme a Nabiki e a pochi uomini fidati, per appostarsi tra gli alberi di un’altura a ridosso della gola dell’agguato; pronto ad accendere i fuochi e dare il segnale.
Nabiki stava scrutando i tre lati su cui l’esercito giapponese stava ancora combattendo. Abbassò il corto cannocchiale e lo porse al padre.
 
“I nostri arcieri sono pronti, padre, guardate voi stesso”
 
Soun lo prese e se lo portò all’occhio, assorto, mentre uno del suo seguito, un vassallo sulla conquantina, robusto e dall’occhio fedele, si inserì nel discorso di Nabiki.
 
“I nemici stanno fuggendo attraverso il passo, mio signore, come avevamo previsto. Ma pare stiano facendo una certa resistenza su ogni parte del fronte, in particolare a nord e sul lato occidentale, come anche confermano i vostri messaggeri. Penso che sia arrivato il momento di spingerli al di là della montagna, dritti verso i nostri soldati”
 
“E alla resa, finalmente”, sospirò Soun.
 
Nabiki fece scivolare la mano in quella grande di lui, guardandolo con occhi carichi di fiducia.
 
“Alla resa. E alla fine di tutto questo, padre”
 
“Stanno solo aspettando un vostro comando, mio signore”, incalzò il vassallo dopo qualche secondo di attesa.
 
“E sia”
 
Soun Tendo chiuse la sua mano su quella di Nabiki. E accese il fuoco.
 
 
 
***
 
 
 
“…Io volevo solo te, Shan Pu”
 
Quelle parole le affondarono in petto come un sasso nello stagno, il cui movimento si propaga senza fine.
 
“Lasciami!”
 
Shan Pu si divincolò inferocita, prendendo velocemente le distanze da lui, fuori dal riparo.
 
Mousse la seguì sotto la pioggia.
 
L’amazzone si voltò furente verso di lui.
 
“Guerra ti ha rammollito!”
 
Ma Mousse non ebbe il tempo di rispondere.
Ciò che Shan Pu vide fu il volto di lui squarciarsi di orrore, e non capì perché.
Non sentì nulla, se non un rumore lontano di carne trafitta.
Lo vide tirarla via con le sue catene e un attimo dopo stava rotolando tra le sue braccia, sotto una cascata di frecce che oscurava il cielo.
Sentì i gemiti soffocati di lui rimbombarle nei timpani, mentre i dardi acuminati gli entravano nelle spalle, lungo le braccia, sulla schiena con cui lui le stava facendo da scudo, spezzandosi contro la dura terra in un esplosione di schegge e sangue.
 
Realizzò che quel giorno era la seconda volta che Mousse le stava così vicino, la terza in tutta la sua vita.
 
Poi ogni cosa si fermò e il dolore la investì all’istante.
Urlò con quanto fiato aveva in gola, incapace di dominarsi, improvvisamente consapevole della morsa di ogni singola ferita, di ogni singola freccia che l'aveva colpita a tradimento nel momento in cui era uscita dal riparo.
 
“Shan Pu… Shan Pu…”
 
Qualcuno stava sussurrando il suo nome.
 
“Shan Pu, resisti!”
 
O forse lo stava gridando.
 
Quello stupido di Mousse... Chissà dove aveva trovato la forza di mettersi in piedi e di trascinarsi con lei tra le braccia.
 
“Aiuto!! Qualcuno mi aiuti…”
 
Quello non era Mousse. Dov’erano finiti l’occhio freddo e il ghigno scaltro? Dov’era finito l’uomo che conosceva, l’uomo che aveva voluto vedere in lui tutti quegli anni?
 
“Mousse, ti prego…”, mormorò a fatica, e le uscì una voce dolce, che non ricordava di avere.
 
“C’è una donna ferita! Vi prego… Un dottore!!!”
 
“Lasciami qui”
 
“Neanche per sogno…!”
 
Il sangue scorreva copioso dalle ferite di lui, e il fiato gli si accorciava a ogni respiro.
 
“Ho… ho sentito di un dottore tra le fila del nemico… un dottore che salva vite e fa miracoli… non mi importa se dovrò farmi ammazzare per consegnarti a lui…!”
 
“Guerra ti ha davvero rammollito”, sorrise lei, nonostante tutto.
 
“No, Shan Pu…”
 
“Smettila”
 
“No… no, Shan Pu”
 
“Mettimi giù… Ti prego. Solo… stai qui con me. Non lasciarmi…”
 
Mousse continuava a scuotere la testa, ma le ginocchia risposero per lui.
Crollò a terra e Shan Pu non si accorse di niente, perché lui seppe attutire la sua caduta anche con le forze che lo stavano lasciando miseramente.
 
Si ritrovò lì, nel fango, abbandonata su un fianco, occhi negli occhi con lui.
 
Vattene, adesso.
 
Gli stessi occhi in cui si era riconosciuta, mille anni prima, in una notte come tante tra le lenzuola sgualcite del suo letto.
 
Shan Pu non sa che farsene di amore.
 
Aveva visto quegli occhi e si era sentita bruciare anche dove lui non l’aveva toccata.  Nuda. Più di quanto non fosse senza vestiti, più di quanto non le importasse essere di fronte a tutti gli altri.
 
“Sh…an …Pu”, bisbigliò Mousse, sfinito.
 
“Sshh…”, lo zittì lei.
 
Il volto di lui era così bianco, che sembrava traslucido sotto la pioggia, i lunghi capelli scomposti sparsi sul collo e sulle spalle.
 
Quanto aveva desiderato rivedere quel volto…
Sì, aveva iniziato a cercarlo, a cercare Mousse senza ammetterlo neanche a se stessa.
E quando l’aveva trovato, l’istinto aveva agito per lei, e si era frapposta tra lui e la morte, per difendere l'unica persona che l'aveva davvero amata.
Perché chi altri, sennò, avrebbe amato Shan Pu?
 
Mousse tossì violentemente, e una macchia di sangue bagnò il terreno.
 
“Perché? Perché sei stato così stupido…?”, ansimò Shan Pu.
 
“Credevo che non ti avrei più rivista…”, soffiò lui, come se non l’avesse sentita.
 
“Amore significa perdere, Shan Pu”
Il tono severo non lasciava spazio a replica alcuna.
“Amore significa essere deboli. Non dimenticartelo mai”
La bambina annuì seria di fronte all’ennesima regola del suo villaggio.
“Sì, madre”
Senza aver capito.
 
 
Sospirò brevemente Shan Pu, e non rispose.
Anche lei aveva creduto che non l’avrebbe rivisto mai più, che sarebbero morti entrambi con tutta quella rabbia come unica compagna, la rabbia di essere soli al mondo e di non volere…  di non meritare l’amore di nessuno.
 
Rise, Shan Pu, debolmente, senza emettere un suono, ma di gusto.
 
Sorrise anche Mousse.
 
“Perché ridi, Shan pu?”
 
“Perché non mi sento affatto debole”, gli rispose con semplicità, esausta.
 
Sotto la pioggia che lava via ogni cosa, Shan Pu vide sciogliersi l’ultimo brandello di orgoglio nell’uomo che le stava davanti, ormai incurante di mostrarsi fragile e sottomesso.
Perché nulla contava più di lei.
 
“Ti amo”, le disse a fil di voce.
 
Il mondo continuò a muoversi intorno a loro: gambe in corsa che passavano oltre, voci che si sgolavano, frecce che fischiavano.
 
Lui la amava. L’aveva sempre amata.
E anche lei, forse…
 
“Forse in fondo è questo amore”, si arrese Shan Pu.
Perché, sennò, gli occhi di lei come quelli di lui erano pieni di lacrime?
 
Ma forse no. Non lo era, si disse.
 
Dovette non crederci neppure lei, perché nonostante lo sforzo immane che le costò, Shan Pu riuscì a strisciare di qualche centimetro. Annullò la breve distanza che li separava.
 
E posò le labbra bagnate su quelle di lui.
 
E sentendo in bocca il sapore di sangue non suo, capì che Mousse la stava lasciando.
Aprì gli occhi e vide che quelli di lui si stavano velando.
Eppure sorridevano, come mai prima d’allora. Di una felicità pura e disinteressata.
 
Sentì anche lei la vista sfocarsi e un grande calore abbandonarla.
Un calore che mai aveva provato in tutta la sua vita.
 
 
 
***
 
 
Aveva paura, Akane, mentre correva al fianco di Shinnosuke, nel puzzo della polvere da sparo. Ma era una paura genuina a cui sapeva rispondere con l’azione: colpiva, assestava calci, schivava, atterrava e immobilizzava nemici senza mai ucciderli; perché quelli erano gli uomini che combattevano per suo padre, che avrebbero combattuto per lei.
Magari fosse stato tutto semplice come quella paura.
Sentiva il sangue scorrere caldo nelle vene e si chiese per quanto ancora avrebbe resistito.
Non volle pensarci, e ci riuscì.
Sapeva solo che doveva andare avanti.
 
Fu per distrazione o forse per stanchezza che nel farlo mise il piede in fallo su una pietra scivolosa e rovinò a terra.
Fu per una disgraziata beffa del destino che proprio in quel momento stesse schizzando una freccia verso di lei.
 
Non si accorse di niente, se non quando il corpo di Shinnosuke crollò su di lei.
 
Dovette ricostruire nella sua mente anche il suono strozzato di quel nome, “Akira”, con cui lui l’aveva chiamata prima di proteggerla col suo corpo.
 
Shinnosuke cadde su di lei come una marionetta a cui sono stati tagliati i fili.
 
E la realtà le si abbattè addosso più violenta di quel peso.
 
“Oh no…! Non morite!”
 
L’uomo che le aveva salvato la vita le era scivolato in grembo.
 
“Non morite, mio signore…! Vi prego!!”
 
Lo abbracciava e piangeva senza ritegno, imbrattata di fango e del sangue di lui.
 
Fu allora che la raggiunse quella voce.
 
“Va’ via da lì, ragazzo, o ti farai ammazzare!”
 
Una voce che avrebbe riconosciuto tra mille.
 
E alzò lo sguardo.
 
 
*
 
 
Aveva paura, Ranma, mentre correva solo, nel puzzo della polvere da sparo, una paura disperata, infida. Non di morire, ma di non ritrovare la sua Akane, di averla persa per sempre.
Più aumentava l’orrore intorno a lui, più si allontanava la sicurezza di ricongiungersi a lei, quella sicurezza che l’aveva tenuto in piedi fino a quel momento.
Aveva cercato una contadina e aveva trovato solo delle fanciulle spaurite; aveva cercato una combattente e aveva trovato Shan Pu.
In quel momento, in mezzo a tutto quel caos, cercava solo e ostinatamente Akane.
Invece il suo occhio continuava a captare uomini giovani e meno giovani, spaventati, rabbiosi, in fuga; come quel soldato di spalle, alto in grado, ai margini della sua visione periferica, che arrancava in salita al fianco di quello che sembrava il suo scudiero.
 
Un attimo… ma quello era il generale Shinnosuke, l’eroe dell’esercito cinese con cui aveva brevemente incrociato il suo cammino!
E il ragazzo accanto a lui doveva essere poco più che un bambino: la sua schiena era piccola e le sue spalle così strette…
 
I due gli parvero in difficoltà e volle avvicinarsi, per dare loro una mano in attesa di riprendere la sua strada.
 
Ma non arrivò in tempo.
 
L’aria fischiò, il generale si frappose tra la freccia e il suo protetto, e Ranma vide la sagoma di quest’ultimo piegarsi sul corpo ormai esanime del suo padrone.
La piccola schiena si scosse di singhiozzi, e l’umidità si riempì di parole impastate di pianto, che Ranma non riuscì a sentire.
Quello che sentì fu il petto straziarsi a quella vista pietosa.
Presto un nuovo attacco più strutturato li avrebbe colti di sorpresa, e lui questo, non poteva permetterlo. Ranma si gettò in avanti.
 
“Va’ via da lì, ragazzo, o ti farai ammazzare!”
 
Quello alzò lo sguardo.
 
E lui la vide.
 
 
La pioggia si arrestò.
Le urla intorno a loro si zittirono.
Persino il cuore smise di battere.
 
Una sola parola squarciò il silenzio.
 
“Akaneeeee!!!”
 
Ma prima che lei potesse gridare il nome di lui in risposta, il cielo e la terra tremarono, una luce raccapricciante li avvolse.
 
Ranma si scagliò su di lei senza un attimo di esitazione prima che la violenza dell’esplosione si abbattesse su ogni cosa.
 
E il mondo cadde nell’oblìo.
 
 


 
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Ciao a tutti!
 
So che mi starete odiando per essermi fermata proprio all’incontro che tutti noi stavamo aspettando dopo millemila capitoli di separazione…! Non me ne vogliate… ;-)
Questo capitolo è lungo un’eternità e succedono diverse cose. Spero di non essermi persa dei pezzi in questo guazzabuglio della guerra! Sono sicura di aver peccato di ingenuità in più di un'occasione e me ne scuso. Come sapete i personaggi dell’intreccio sono tanti e temo di aver sacrificato un po’ di coerenza storico-geografico-militare (anche se ho provato a non farlo!) a beneficio degli incontri e delle singole vicende.
Comunque! Ci stiamo avviando velocemente al gran finale e se tutto va bene il prossimo dovrebbe essere l’ultimo capitolo!
Spero di potermici mettere tra fine agosto e settembre, quindi… siate fiduciosi!
Ancora una volta, grazie a chi mi ha seguito fin qui, senza farsi demoralizzare dai radi aggiornamenti. So che sarete distrutti dal caldo estivo e divisi tra mille impegni, ma se vi va fatemi sapere cosa ne pensate! ;-) Le vostre recensioni e i vostri consigli significano molto per me.
 
Un abbraccio a voi e a presto!
 
InuAra


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Riassunto dei capitoli precedenti:

Medioevo giapponese - Akane, figlia di Soun-sama, signore delle terre dell'ovest, non è mai uscita dal palazzo, dove è cresciuta accanto a Ranma, un giovane orfano che lavora come paggio al servizio di Soun Tendo. A vegliare su di loro ci sono i due anziani consiglieri, Obaba e Happosai, e gli immancabili confidenti, Ryoga, amico, di Ranma, e Ukyo, ancella di Akane. Soun si risposa con una giovane nobildonna, Kodachi, e al fratello di lei, Kuno Tatewaki, promette in sposa la principessa Akane, che rifiuta categoricamente i suoi corteggiamenti. A poco a poco Ranma e Akane si accorgono di essere innamorati e, sfidando i problemi di classe, si dichiarano. Decidono quindi di sposarsi di nascosto e scappare in Cina, in attesa di tempi migliori, ma immediatamente dopo il matrimonio e la prima notte di nozze vengono scoperti e divisi. Ranma viene prima imprigionato e poi esiliato e Akane è tenuta sotto stretta sorveglianza, pur con un discreto raggio di azione. Partendo per la Cina, Ranma promette ad Akane che le scriverà spesso e che farà di tutto per ricongiungersi a lei. Tra una lettera e l’altra, passano i giorni. In Cina, Ranma viene accolto dalla signora Nodoka, una donna giapponese che gestisce una locanda, dove lavora come cameriera Shan Pu, che tenta invano di sedurre Ranma. Durante una festa, uno degli ospiti, un giovane guerriero di nome Mousse, provoca Ranma e lo istiga a scommettere sull’onore di Akane: sarà Mousse stesso a provare l’infedeltà della giovane principessa recandosi in Giappone e tentando di sedurla. Una volta a Palazzo Tendo, Mousse fallisce ogni tentativo di fronte alla fedeltà di Akane. Nottetempo si intrufola quindi, nascosto in un baule, nella sua stanza e le ruba un bracciale che Ranma le aveva donato prima dell’esilio, portandolo come prova dell'infedeltà della ragazza. Al ritorno di Mousse, complice un filtro di Shan Pu che ha il potere di farlo letteralmente "impazzire" di gelosia, Ranma crede alle bugie sulla fedeltà di Akane e scrive a Ryoga chiedendogli di ucciderla. Ranma poi sviene e rimane privo di sensi per circa una settimana. Nel frattempo scoppia la guerra tra Cina e Giappone. Prima Mousse e poi Shan Pu si arruolano e partono per il Giappone. Ryoga riceve la lettera di Ranma in cui gli viene chiesto di portare Akane fuori dal palazzo e ucciderla. Una volta fuori, Ryoga risparmia la ragazza, a cui non aveva pensato neanche per un istante di fare del male, e si ferisce a un braccio per macchiare un pezzo di stoffa dello yukata di Akane da mandare a Ranma come prova dell'uccisione. Akane si traveste da uomo con lo scopo di raggiungere gli amici Hiroshi e Daisuke presso il villaggio di Hakata e lì attendere tempi migliori. Non arriverà mai a destinazione, incappando nell'abitazione di un montanaro e delle due nipoti, che la accolgono con affetto, credendola un ragazzo. Si tratta però di Genma, vecchio amico del padre di Akane, il quale circa dodici anni prima, in seguito alla presunta perdita del figlio Ranma durante una delle guerre dichiarate da Soun, ha deciso di vendicarsi rapendo le sue due figlie maggiori ancora in fasce: Kasumi e Nabiki. Nel frattempo Ranma si sveglia e alla notizia della morte di Akane, affranto e pentito, prende la prima nave per il Giappone, dove spera di trovare la ragazza ancora viva. A palazzo Soun scopre che la figlia è fuggita e decide di dare la falsa notizia della sua morte. Kuno capisce che dietro la sua fuga ci sono Ryoga e Ukyo. Dopo averli minacciati si lancia all'inseguimento della ragazza, deciso a prenderla con le cattive e ad abusare di lei con indosso gli abiti di Ranma, per offenderla più crudelmente. Nei boschi troverà invece Nabiki e dopo una colluttazione rimane ucciso in un  incidente in cui viene decapitato. Nel frattempo Akane ingoia quella che crede essere una medicina e che altro non è che un veleno di Kodachi, per fortuna non mortale. Akane perde i sensi e appare, tuttavia, priva di vita. Genma, Nabiki e Kasumi piangono la sua morte e nel momento in cui stanno per seppellire il suo corpo e quello di Kuno sono costretti a fuggire per l'arrivo dei soldati. Nottetempo Akane si sveglia sul corpo senza testa di Kuno, e nel buio e nell'angoscia del momento pensa di trovarsi di fronte al corpo senza vita di Ranma, caduto in una terribile e ingegnosa trappola. Ormai sola, ancora in abiti maschili decide di seguire Shinnosuke, un giusto e onesto generale dell'esercito cinese. Arrivato in Giappone Ranma riceve la notizia ufficiale della morte di Akane e decide di gettarsi nella battaglia per trovare la morte che si merita. Incontra però casualmente Ryoga e viene a scoprire che Akane è viva. Decide quindi di iniziare la sua ricerca. Nel frattempo Genma, Nabiki e Kasumi salvano Soun da un agguato. Genma spinge quindi le due ragazze a chiedere protezione al nobile signore, e decide di seguirle da lontano.
Kodachi nel frattempo raggiunge il marito all'accampamento e dopo averlo drogato gli rivela di aver tramato fino a quel momento per poterlo uccidere e prendere il suo posto al potere. Interviene Genma a salvare l'amico e Kodachi rimane uccisa. Genma si mostra a Soun come il rapitore delle sue figlie e chiede di essere punito con la morte. Intervengono sia Soun che le ragazze, che hanno sentito nascoste ogni cosa.  Akane comincia a pensare di voler fuggire dall'esercito cinese per potersi gettare nella battaglia. Ranma, dal canto suo, ha sentito parlare di una donna combattente e, credendo si tratti di Akane, si mette sulle sue tracce.

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Capitolo 20
*** Cosa significa amare ***


N.d.A. Nel capitolo precedente abbiamo lasciato Ranma e Akane a riconoscersi nel caos della battaglia, giusto un attimo prima che lui corresse a farle da scudo col proprio corpo per un’esplosione…

Ed eccoci arrivati finalmente all’ultimo capitolo (è lunghissimo, siete avvisati)!
Alla fine troverete, oltre ai ringraziamenti, alcune curiosità. E una volta per tutte verrà svelata l’opera di William Shakespeare che ha ispirato questa storia!
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A mio papà.
 
 
 
 
 
PHEBE
Good shepherd, tell this youth what 'tis to love.
SILVIUS
It is to be all made of sighs and tears; (…)
It is to be all made of faith and service; (…)
It is to be all made of fantasy,
All made of passion and all made of wishes,
All adoration, duty, and observance,
All humbleness, all patience and impatience,
All purity, all trial, all observance.
 
FEBE
Buon pastore, dì a questi giovani cosa significa amare.
SILVIO
Esso è fatto di sospiri e lacrime; (…)
 è fatto di fede e servizio; (…)
 è fatto di fantasia,
di passioni e brame,
di adorazione, dovere e osservanza,
di umiltà, di pazienza e impazienza,
di purezza, di tribolazione, di reverenza.
 
As you like it - W. Shakespeare
 
 
 
 
Neanche le cornacchie osavano violare il silenzio del campo dopo la battaglia.
Sottili colonne di fumo si alzavano lente dal terreno. Intorno, solo corpi e macerie.
Un rumore di passi ruppe l’immobilità di quel momento.
Passi esitanti, rispettosi di tanto orrore.
 
“Abbiamo aspettato troppo tempo…”
 
Il dottor Tofu si fermò di colpo, si passò una mano sulla fronte bagnata e guardò l’orizzonte. L’alba era di una bellezza crudele.
Al suo fianco, Kasumi aveva il fiatone. Camminavano già da qualche ora, su e giù per il campo, in cerca di uomini ancora vivi.
 
“Abbiamo aspettato troppo…”
 
Sentì la mano di Kasumi premere contro il suo braccio, con una risolutezza che non le riconobbe. Aveva gli occhi segnati, la dolce Kasumi, e le mani fredde.
 
La guerra era terminata. I prigionieri erano stati catturati.
Prima ancora che si facesse giorno, lui e la ragazza erano già sul campo di battaglia, ma ad accoglierli non avevano trovato altro che una distesa desolata di corpi senza vita.
 
“Guardate là...!”, Kasumi lo strattonò appena, puntando il dito verso una massa indistinta a pochi metri da loro.
 
I passi ripresero e si fermarono solo di fronte a due corpi intrecciati tra loro.
Kasumi si portò le mani alla bocca.
 
Un uomo e una donna, bellissimi, la pelle di alabastro e gli abiti scarlatti del loro sangue, erano abbracciati in un modo così intimo e quotidiano che per un attimo il dottore distolse lo sguardo, sentendosi di troppo.
La mano di lei si era fermata nell’atto di accarezzare la guancia di lui, le cui braccia lambivano la schiena della ragazza.
Gli occhi di entrambi erano coperti da palpebre talmente leggere che sembravano essersi appena chiuse.
Fronte contro fronte, i capelli dell’uno si perdevano in quelli dell’altra.
 
Il dottor Tofu si chinò senza una parola. E prese il polso di lui tra le dita. 
 
 
Come se lo spirito stesso avesse abbandonato il suo corpo e vi fosse stato immediatamente risucchiato con violenza: così si sentì il cinese quando riaprì gli occhi. Non vi era altro modo per descrivere il dolore vuoto in cui si sentiva galleggiare. Aveva un sapore metallico in bocca, la testa gli pulsava e si sentiva drenato fin nel midollo. Eppure era vivo. Sollevò le palpebre pesanti e si rese conto di essere fasciato stretto praticamente in ogni parte del suo corpo. Doveva aver perso molto sangue, ma era vivo.
Si chiese dove si trovasse lei ed ebbe paura di scoprirlo.
Poi udì pronunciare il suo nome, debolmente, e lui riconobbe la voce di lei.
Il cuore gli saltò in gola e ogni fitta si amplificò di rimando. Eppure quando si voltò verso di lei, si aprì nel più sincero dei sorrisi.
Lei lo guardò con occhi stanchi, beffardi, felici. “Sì”, sembravano dirgli, “Ce l’ho fatta. E sono qui, con te”
Arrancò zoppicando verso di lui, sostenuta da Kasumi e si lasciò cadere sulle ginocchia. Era coperta di bende anch’essa, pallida, persino le sue labbra erano prive di colore.
Eppure era bellissima. Vibrante. Lui trovò la forza di sollevare una mano per accarezzarle il volto e lei socchiuse gli occhi, beandosi di quel tocco.
Poi furono soltanto lacrime e baci e sorrisi.
Come due bambini felici di essere al mondo, dimentichi di ogni odio, orgoglio, rabbia, dimentichi di essere feriti e di trovarsi nelle mani del nemico.
Felici di essersi ritrovati, grati di essere arrivati a vivere quel momento.
 
 
 
 “Dottor Tofu… Dottore…”
 
La voce di Kasumi gli sembrò lontana e distorta. Cercò di mettere a fuoco lo sguardo, senza riuscirvi, e solo allora si rese conto delle lacrime che gli bagnavano il volto.
 
“Dottor Tofu…”
 
La piccola mano di lei non si arrese e continuò a scrollarlo per una spalla.
 
Il dottore guardò i due amanti senza vita davanti a lui e capì che non ci sarebbe stato nessun cinese a chiedersi al risveglio dove si trovasse la propria donna; non ci sarebbero stati sorrisi né occhi beffardi.
Capì che per quanto fosse desiderabile, perdersi nella proiezione di cosa sarebbe potuto accadere, non avrebbe riportato in vita i due amanti. Immaginarsi addirittura di essere quel ragazzo, evocare quel sapore metallico in bocca e quella sensazione di vuoto, immaginarsi di pensare come lui e perfino di gioire, così da convincersi fino in fondo di quella realtà, non li avrebbe portati indietro né salvati. Avrebbe, piuttosto, condotto lui alla pazzia.
 
Gli scappò un singhiozzo.
 
Se solo fosse arrivato un po’ prima…
 
“Non sareste riuscito a salvarli comunque”, mormorò Kasumi.
 
La mano di Tofu si mosse da sola a prendere quella di lei, che non si era spostata dalla sua spalla. Era un medico, abituato a fare giornalmente i conti con la morte. Eppure non riusciva a non provare un senso di ingiustizia di fronte a quelle due vite spente ai suoi piedi.
Si stupì di come le lacrime non si fermassero e gli rovinassero in grembo e si stupì di ritrovarsi a stringere quella piccola mano tra le dita, di portarsela alle labbra.
La sentì sussultare e per la prima volta guardò Kasumi negli occhi, scoprendo che erano l’esatto specchio dei suoi, bagnati e impotenti.
E ancora più inaspettato fu l’abbraccio di lei, che accolse tremante il suo volto nell’incavo del proprio collo, perché lui piangesse le lacrime che aveva da piangere, perché lei potesse passargli le dita tra i capelli, e confortarlo.
 
Forse fu la debolezza del momento, o forse fu una rivincita contro la morte.
Il dottor Tofu sollevò il capo e tutto l’amore timido e silente che aveva covato dal momento in cui aveva incontrato Kasumi bruciò nel bacio con cui la sorprese.
Ma a sorprendersi fu di nuovo lui, quando sentì la ragazza abbandonarsi a quell’abbraccio, ricambiando la forza di quello stesso amore senza parole.
 
Quando si rialzarono, un’urgenza nuova mosse i loro passi.
Dando il loro ultimo addio ai due sfortunati amanti, si affrettarono alla ricerca di altre vite da strappare al destino.
 
Mano nella mano, proseguirono per ore.
Intorno a loro non c’era altro che morte.
Dopo tanto vagare, mentre si stavano inerpicando su un terreno scosceso, gli occhi di Tofu caddero sul corpo di Shinnosuke.
Ancora lontano, riconobbe dalle insegne uno dei primi generali dell’esercito nemico. Avvicinandosi a lui gli si strinse lo stomaco, riconoscendo in quel volto il giovane uomo che non troppo tempo prima aveva fatto visita a Soun Tendo per rinsaldare i trattati di pace. 
I soldati giapponesi erano già passati di lì, portando via come prigionieri i pochi superstiti. Non Shinnosuke. Lui, l’avevano lasciato lì a terra.
Non c’era più nulla da fare.
 
Sospirando, Tofu si chinò su di lui, con reverenza. Aveva incontrato alcune volte il generale Shinnosuke e aveva avuto modo di scambiarvi qualche parola. Gentile, umile, onesto. La sua perdita rappresentava una sconfitta per entrambi gli eserciti, la vittoria della guerra su ogni cosa.
Kasumi si accovacciò accanto a lui e insieme iniziarono a comporre il suo corpo.
 
Fu quando Tofu premette le mani fredde del generale incrociandole sul petto che il respiro del dottore si fermò.
 
“Gli sento… gli sento battere il cuore…”
 
Kasumi sgranò gli occhi di fronte al dottore che con le guance arrossate dall’emozione si affannò a cercare una vena sul collo che confermasse ciò che temeva di essersi, ancora una volta, immaginato.
 
“E’ molto debole, ma… sì, sento il suo battito!”
 
Salvare quell’uomo divenne di fondamentale importanza.
 
 
 
***
 
 
 
La pioggia si è arrestata.
Le urla intorno a me si sono zittite.
Una sola voce tra le altre.
La tua voce.
Così nitida nel pronunciare il mio nome.
Sento gli occhi sgranarsi, il fiato mozzarsi, il cuore soffocare. Non riesco a metterti a fuoco, troppa è l’emozione.
La tua mano, quella sì la riconosco, la tua mano forte mi protegge la nuca, il tuo corpo è caldo contro il mio, il tuo respiro mi accarezza il collo, mentre col tuo peso sulla schiena mi schiacci a terra.
E non ho più paura, perché ci sei tu a salvarmi.
Poi ogni cosa si sgretola in questa luce immensa che mi esplode negli occhi.
E ti perdo ancora.
E non sono più.
 
 
Fu il suono stesso del gemito che le uscì incontrollato dalla gola a scuoterla e a riportarla nel mondo dei vivi.
Le palpebre le rimasero incollate agli occhi, troppo dolenti per essere sollevate.
Il boato dell’esplosione le vibrava nelle orecchie.
Erano passate ore o settimane? Non seppe dirlo.
Prima ancora di percepire le proprie membra, Akane avvertì sulla pelle il ricordo del calore di Ranma.
Il ricordo di un sogno.
Ranma che si era gettato su di lei.
Un sogno così dolce e spietato.
Ranma che l’aveva protetta col suo corpo.
Le narici le parvero ancora piene del suo odore.
 
Quanto possono essere stupidi, i sogni.
 
Alcune gocce gelate le rovinarono sul capo e un’umidità spessa la investì.
Nel primo respiro con cui gonfiò i polmoni provò di colpo un dolore sordo e lancinante; non c’era parte del suo corpo che non le facesse male.
Definitiva fu l’amarezza di essersi immaginata ogni cosa. Come poteva essere diversamente?
Avrebbe riso di se stessa se non le avessero fatto male anche i muscoli del viso.
 
Il puzzo di sangue, misto a fango e polvere da sparo la nauseò. Fu assordata dai lamenti degli uomini che improvvisamente si accesero intorno a lei.
Aprì gli occhi a fatica. Era giorno o notte? Difficile dirlo. Si trovava in un luogo buio, chiuso, che sapeva di terra, una grotta, forse.
Si rese conto di avere i polsi legati, e che era addossata a una parete di roccia viscida.
Si abituò velocemente alla luce della torcia che illuminava quell’angolo, ma preferì non averlo mai fatto, di fronte alla visione di tutti quei corpi ammassati gli uni agli altri e divisi ognuno dal dolore delle proprie ferite.
Gridavano e piangevano, oppure restavano immobili a fissare il vuoto, in attesa di essere curati, liberati, forse anche ammazzati.
 
Non lo vide subito, confusa dalle ombre che oscuravano ogni cosa, ma lui era lì ai suoi piedi, lo era sempre stato: un corpo sdraiato, fasciato accuratamente sul busto, privo di sensi.
Il generale Shinnosuke.
Di fronte a quel volto pallido, pendente da un lato, Akane sentì una mano di ghiaccio strizzarle il cuore.
Non distolse lo sguardo, e fu felice di non averlo fatto. Respirava, il generale Shinnosuke.
Respirava, seppur debolmente.
Vivo.
Chiuse gli occhi, grata.
Come fossero arrivati fin lì non le importava. Ciò che contava era che il buon generale non fosse morto come aveva temuto prima di perdere lei stessa i sensi.
Lasciò andare il capo in un sospiro e per la prima volta constatò che a dispetto dei dolori diffusi in tutto il corpo, lei non aveva ferite.
Chiunque si fosse preso la briga di salvarla – perché qualcuno, qualcuno che non poteva essere Ranma, l’aveva salvata, di questo era certa - era perfettamente riuscito nel suo intento. Forse quel qualcuno era morto in quell’ultimo atto di altruismo.
Serrò gli occhi. Sperò che si trovasse lì anche lui, sperò di poter ringraziare quell’uomo che probabilmente di simile a Ranma doveva avere solo il codino.
E non lo avrebbe odiato per questo.
Riaprì gli occhi, e lo cercò disperatamente, setacciando fin dove riuscisse ad arrivare il suo sguardo, in basso, davanti a sé, sulla destra.
Poi si contorse tutta verso il lato che le faceva più male.
 
E lo vide.
 
Lo vide subito, non appena i suoi occhi si posarono su di lui, pur nella semi oscurità, in mezzo alla massa indistinta di prigionieri.
 
Lo vide subito, ma la sua mente ci mise un po’ a realizzare che no, quello non era un sogno, né un’allucinazione.
 
Che lui era Ranma.
 
Ranma. Era. Vivo.
 
Lì, a una distanza irrisoria.
 
Ranma.
 
Steso sulla schiena. Incosciente. Ma vivo.
Avrebbe potuto allungarsi appena e toccarlo, se solo non fosse stata legata.
Sentì la gola chiudersi, l’aria fermarsi.
Vivo?
Prima di potersi domandare altro, i suoi occhi si mossero impazziti lungo quel corpo, più veloci della sua mente a capire che il petto di lui si sollevava piano e si abbassava, che aveva gli abiti in brandelli, ma che non c’erano bende né sangue.
 
Eppure lui era “morto”… ne era certa…l’aveva visto!...
 
Sentì le tempie esploderle.
Sì… Aveva pianto sul suo cadavere senza… senza testa!... Si era bagnata del suo sangue.
 
Dunque si era ingannata? L’uomo su cui si era disperata non era Ranma? Quale miracolo era mai quello…?
 
Vivo?! Lui era vivo!
 
La realtà dei fatti la esaltò e la sopraffece.
 
Vivo!
 
Dunque era davvero sua quella voce, sua la mano forte sulla nuca, suo il corpo caldo che l’aveva protetta come sempre aveva fatto. Ranma era vivo!  L’aveva salvata, aveva gridato il suo nome!
 
Lacrime copiose le scivolarono improvvisamente lungo le guance.
Si sentì bruciare, travolta da un groviglio di emozioni.
La stanchezza, il dolore, la rabbia, la paura, e tutta la disperazione che l’avevano accompagnata fino a quel momento… ogni cosa si sciolse di fronte alla vista di Ranma.
Ranma che era lì, a pochi metri da lei, e che doveva sapere che lei era così vicina! Ranma.
Ranma.
Perché non apriva gli occhi?
Ranma.
Non aveva ferite e respirava. E allora, perché?
 
La voce le uscì dalla gola come se non fosse sua: “Ranmaaaaaa!!!”
 
 
 
***
 
 
 
“Pioveva che il cielo la mandava… Noi non vedevamo a un palmo di naso. E doveva essere così anche per loro, maledetti cani”
 
“Ah, poveri diavoli…! Potevamo essere noi… Ti ritrovi nella gola di una montagna che ti frana sotto i piedi, mentre fuggi in avanti e vieni braccato da ogni lato… Che avresti fatto al loro posto, eh?”
 
“Quello che hanno fatto loro davanti a noi che li aspettavamo dall’altra parte con le frecce pronte… cercare di non opporre troppa resistenza ed evitare un massacro…”
 
Le ultime parole che Ukyo riuscì ad afferrare nello scambio tra i due soldati, risuonarono roche e colpevoli.
La ragazza tenne gli occhi fissi davanti a sé. Immobili.
Nell’aria del mattino, un tiepido sole si sporse da dietro le nuvole grigie, ma non bastò a scioglierle il gelo che le era entrato nelle ossa. Dopo aver passato sotto la pioggia un numero di ore che aveva smesso di contare, rimase ancora nell’attesa di un segno, di un ritorno.
E ancora niente.
Intorno a lei continuavano ad arrivare uomini sfiniti, feriti, felici di aver visto la fine di quella battaglia.
Di lui non si sapeva nulla.
Ukyo si morse un labbro. Si trattava di aspettare. Ancora.
 
Poco lontano, al centro della radura presso la quale l’esercito giapponese stava confluendo da più parti, Soun Tendo si sfilò l’elmo fatto di cuoio e di metallo e si asciugò la fronte stanca col dorso della mano.
Tutto era finito. L’esercito cinese si era infine arreso.
La pioggia, il fango, la fuga.
La trappola aveva sortito il suo effetto, così pareva, mietendo molte vite, troppe.
 
“…meno di quelle che avrebbe mietuto la guerra se fosse andata avanti in questo modo barbaro e privo di senso”
 
La voce della principessa Nabiki le parve lontana, provata.
Vide Soun-sama accarezzare il viso alla figlia, chiedendole qualcosa.
 
“E’ tornata, sì”, gli rispose Nabiki, “Ora si trova col dottore a curare i feriti. Che siano dei nostri o che siano prigionieri, poco le importa”, concluse non senza un pizzico di orgoglio.
 
Ukyo riuscì a sorridere per un breve istante. Non che il dottor Tofu non avrebbe fatto lo stesso. Lui e la dolce Kasumi, perché di lei si stava parlando, si erano proprio trovati… Tra migliaia di vite, le loro avevano avuto la fortuna di incrociarsi, e di riconoscersi.
Lo sguardo le si rabbuiò di colpo.
Dov’era Ryoga? Perché non tornava?
Con la coda dell’occhio Ukyo vide balenare una figura non troppo lontano da lei e si voltò speranzosa.
Genma Saotome.
Sospirò, Ukyo, e attese ancora. Nell’attesa si distrasse sbirciando la tenerezza degli abbracci con cui l’uomo fu accolto da Kasumi e Nabiki, e dall’amico fraterno.
E distolse lo sguardo quando sulle labbra serrate di Genma Saotome colse gli orrori non detti della guerra, quando nei suoi occhi vide il riflesso di molti altri che erano morti.
Si allontanò, stanca, quando dalla sua voce uscì un incomprensibile: “Mio figlio, Soun, mio figlio…”, a cui Ukyo non volle prestare attenzione.
 
Attese, Ukyo, e vide passare troppi soldati che non erano Ryoga, troppi minuti che resero la paura più vicina e reale.
 
“Soun Tendo”
 
Quella voce gracchiante arrivò anche alle sue orecchie.
 
“O-Obaba…?”
 
“Di cosa ti stupisci, Soun?”
Era intervenuta un’altra voce.
Era quella di Happosai, che era sbucato sornione accanto alla vecchia compagna, entrambi coperti di fango, “Pensavi davvero che non ti avremmo raggiunto?”
 
Ukyo non potè non assistere a quello scambio di sguardi, finchè il suo signore si gettò in ginocchio, il capo chino alla mercè di Obaba. Sospeso tra il castigo e il perdono, disposto ad accettare l’uno o l’altro, Soun rimase senza dire nulla, finchè il rumore sordo del bastone contro la spalla di lui ancora protetta dall’armatura ruppe il silenzio.
 
“Non temere, Soun”, bofonchiò bonaria la vecchia, “Tua figlia Akane è viva e non è distante”
 
Ukyo sentì il fiato raggrumarsi in gola. Akane… Akane era dunque viva?
A dispetto del sollievo con cui la sua mente accolse le parole di Obaba, le palpebre le si gonfiarono a tradimento e le guance avvamparono.
E Ryoga? Dove diavolo era Ryoga in quel momento?
Forse la stava cercando nel luogo in cui si era trovato l’accampamento fino a quel momento, prima che tutti loro, lei compresa, fossero stati fatti spostare lì, in quella dannata radura vicino a quella dannata cascata. Era così, giusto? Per questo lui ancora non era arrivato, doveva senz’altro essere così!
 
“Akane…?”, la voce del padre nel pronunciare il nome della sua bambina arrivò incredula e rotta alle sue orecchie.
Ma forse era solo lei che stava trattenendo i singhiozzi.
 
“Dài credito, per una volta, a questa vecchia fattucchiera”
 
In risposta a quel rimbrotto, Soun Tendo dovette annuire, carico di speranza e gratitudine per la predizione di Obaba.
Doveva senz’altro essere così, ma Ukyo potè solo immaginarselo: un pianto lacerante e silenzioso le annebbiò la vista e ogni altro senso.
 
Fu per questo che quando fu pronunciato, il suo nome le arrivò ovattato.
 
“Ukyo”
 
Come offuscato da altri rumori.
 
“Ukyo”
 
La sua voce. Era la sua.
Quella voce che avrebbe riconosciuto tra milioni di voci la colpì come una percossa ben assestata e gli occhi le si spalancarono intontiti.
 
Fermo in mezzo ai compagni che continuavano a procedere intorno a lui, Ryoga la guardava.
 
Le gambe di lei scattarono da sole, e quelle di lui cedettero per la stanchezza e per la gioia quando lei gli saltò al collo.
 
Prima ancora di chiedersi se fosse ferito, se in battaglia fosse stato sfiorato dalla morte, Ukyo lo strinse tra le braccia e lui vi si gettò come se quelle braccia fossero la vita stessa.
Si ritrovarono a terra, affamati di baci.
 
“Quanto… quanto mi hai fatto aspettare, brutto idiota?”
 
E si sentirono non in terra, ma in cima all’universo.
 
“Sono il più fortunato tra gli uomini!”, tossì Ryoga, senza fiato, tra le lacrime e i baci.
 
A un tratto parve ricordarsi di qualcosa e le prese il volto tra le mani.
 
“Ukyo… vorresti…?”
 
“E me lo chiedi?”, non lo lasciò neanche finire, “Ma certo che sì!”
 
Continuarono a baciarsi e a stringersi l’uno all’altra, dimentichi del mondo circostante, increduli che la battaglia avesse graziato quel loro amore; un amore che di epico non aveva nulla, ma che, al di là di una domanda e della sua risposta, bastò a farli sentire entrambi benedetti dalla sorte.
 
 
 
***
 
 
 
“Si è calmato, finalmente”, borbottò un giapponese tarchiato dalle ampie tempie brizzolate.
 
“Di chi parli?”, gli si avvicinò con passo stanco un tipo dagli occhi segnati e lo sguardo vispo. Anche lui faceva parte dei soldati affidati alla gestione dei prigionieri.
 
“Di quel ragazzino là…”, bofonchiò il primo indicando con una certa soggezione.
 
“Quello addossato alla parete?”, lo pungolò l’altro, desideroso di trovare un modo di passare il tempo, “E’ ancora uno sbarbatello, sembra avere non più di dodici anni. Che ci fa in questo postaccio?”
 
“E’ quello che dico io…”, continuò il primo soldato grattandosi il sedere, “Sono sempre più giovani… Troppo giovani per l’inferno che c’è stato là fuori, ti dico. Fiumi di sangue. Fratelli che ti crepano davanti. Uomini che non hai mai visto e che speri di ammazzare prima che ammazzino te. E ti guardano sempre con quel terrore negli occhi, prima di decidersi a morire”
 
Il suo sguardo si sfocò, la sua voce si fece inudibile.
 
“E quel ragazzo…?”, l’altro non volle arrendersi e gli puntò un gomito contro le costole.
 
“Quel ragazzo?”, si riebbe l’uomo dall’alta fronte, infervorandosi subito dopo, “Quel ragazzo delirava. Sono cose che ti fanno uscire di senno, ti dico. Delirava con la bava alla bocca. E si dimenava urlando con quanto fiato aveva in gola. L’urlo di una tigre di montagna, ti dico. Una tigre di montagna in gabbia, ecco cosa sembrava. L’ho dovuto legare più stretto che potevo e imbavagliare fin quasi in gola”
 
Si voltarono entrambi, l’uno intimorito, l’altro incuriosito, a guardare quel ragazzo sporco di sangue non suo, per cui era ormai impossibile muoversi o emettere anche solo un suono.
 
“Cosa gridava? Sei riuscito a capire qualcosa?”
 
L’uomo si passò una mano sul viso bruciato dal sole e anche dal vento.
“Parlava a qualche fantasma della sua mente, povero ragazzo… ‘Svegliati! Sono io!’, gridava uno strano nome, ti dico. Forse quello del padre o di un fratello. ‘Slegatemi, devo andare da lui!’ Faceva paura. Così giovane e già pazzo…”
 
L’ultima parola decantò nel silenzio.
Non dissero più niente, i due uomini, freddati dal solo pensiero che poco importava avere dodici anni o averne cento, poco importava aver barattato il senno con la salvezza: nessuno di loro sapeva se Soun-sama avrebbe infine ordinato di giustiziare fino all’ultimo dei prigionieri.
 
 
*
 
 
“Devo essere completamente pazzo…”
 
Con queste parole biascicate a fior di labbra Ranma iniziò a svegliarsi.
 
Come spiegare altrimenti quegli occhi grandi che l’avevano guardato, il calore di quel piccolo corpo sotto il suo, persino il profumo, che avrebbe riconosciuto sotto la pioggia, il fango, il sangue?
 
Doveva essere pazzo, perché chi aveva visto e salvato non era Akane, non poteva esserlo.
Ridacchiò tra sé e sé, senza volersi ancora svegliare del tutto, per paura che le allucinazioni lo abbandonassero completamente.
Le cullò ancora per un po’ nella sua mente, quella mente che si era divertita a ingannarlo.
 
Se anche la sua Akane fosse stata ancora viva, dopo le esplosioni, le frecce, le ferite, le grida, se anche lo fosse stata, davvero sarebbe stato così facile incontrarla?
 
“Ak-A… Ak…”
 
Spalancò gli occhi.
Al di sopra dei lamenti che rieccheggiavano intorno a lui in quella che sembrava essere una caverna, sentì chiaramente una voce sottile pronunciare quella sillaba che per lui significava tutto.
Akane?
Si mise a sedere e per un attimo gli girò la testa; era legato e aveva ben poco margine di movimento.
 
“Ak-A… Ak…ira… Akira…?”
 
Si morse un labbro, Ranma, fino a farlo sanguinare.
Akira.
Che stupido a credere che potesse essere… Che stupido.
 
Riconobbe quella voce. A pronunciare quel nome era stato lo stesso generale Shinnosuke che lui aveva visto cadere in battaglia.
Dunque si era salvato?
Da dove si trovava, Ranma riusciva a vederlo: pallido, debole, fasciato strettamente sul busto. Doveva essersi anche lui appena svegliato, perché si guardava intorno smarrito.
 
“…Akira?”
 
Ancora quel nome.
 
Poi Ranma vide il generale Shinnosuke placarsi, sorridere debolmente, rilassare il capo.
 
“Per fortuna”, gli sentì mormorare, “Per fortuna sei ancora vivo”
 
Ranma si contorse per riuscire a guardare nella stessa direzione, e benchè la visuale fosse per metà coperta da alcuni prigionieri che si trovavano su quella traiettoria capì che il ragazzo legato contro la parete di roccia a cui il generale si era rivolto era lo stesso ragazzo che lui aveva salvato.
 
Lo stesso che aveva scambiato per la sua Akane.
 
Un ragazzo.
 
L’errore gli parve lampante, eppure…
 
“Generale Shinnosuke!”, la voce di Ranma risuonò sulle altre, e Shinnosuke sussultò, sentendosi chiamare. Non aveva la forza per tirarsi su, ma deglutì e restò in ascolto.
 
“Quello è il vostro scudiero?”
 
La domanda gli uscì più imperiosa di quanto avrebbe voluto, aggressiva, forse. Disperata.
 
“Sì… Cosa volete da lui?”, rispose il generale, affannandosi a sollevarsi anche solo sui gomiti per guardare negli occhi chi aveva parlato. “E’… è al mio servizio da anni”, continuò con voce roca, “da quando suo padre me lo lasciò, ancora bambino. E non ha mai commesso un errore. Vi ha… vi ha forse recato offesa?”
 
Nessuna offesa. Ranma chiuse gli occhi senza rispondere, e non vide che il ragazzo in questione stava sgranando i suoi di occhi, che erano bagnati di lacrime, e cercava disperatamente di scuotere la testa e attirare attenzione su di sé.
 
“Un buon ragazzo…”, continuò Shinnosuke, riempiendo il silenzio.
 
“Un ragazzo, dunque…”, disse Ranma, più a se stesso che al suo interlocutore.
 
Cosa diavolo gli aveva detto la testa?
Piegò il collo per riuscire a guardare meglio lo scudiero che aveva odiato per non essere Akane. Tremava. Come aveva fatto a odiarlo? Sembrava solo un ragazzo impaurito e fu felice di averlo strappato alla morte.
 
Passarono molti minuti, minuti durante i quali il generale serrò le palpebre, sfinito, per cadere a poco a poco nuovamente nell’incoscienza.
 
Le ginocchia contro il petto, Ranma iniziò a parlare.
 
“Sai, ragazzo?”
La voce era rivolta allo scudiero del generale.
Che cosa aveva da perdere, in fondo? Forse sarebbe morto prima del calar del sole. Sarebbe morto senza rivederla.
“Sono stato uno stupido”
Si sentì gli occhi di lui addosso, ma Ranma tenne lo sguardo basso sui suoi piedi tutto il tempo.
“Così mi avrebbe chiamato lei, in ogni caso. E non avrebbe avuto torto. Non l’aveva mai. Ho creduto di vederla, per un istante, sai?”
Sapeva che l’altro non gli avrebbe potuto rispondere.
“Ero certo…”, si sforzò di non ridere di se stesso, “… che fossi tu. Tu. Akira” Soppesò quel nome e giurò di sentir trasalire il ragazzo.
“Anche il tuo nome somiglia per metà a quello di lei. Akane…”
Poi per un attimo si accartocciò su se stesso.
“Perdonami, Akane”, sibilò tra i denti.
 
Un gelo impalpabile parve cadere tra di loro, finchè Ranma non parlò di nuovo, con voce nuovamente calma, mesta.
 
“Sai, ho rovinato davvero tutto. Potrei raccontarti la storia di un uomo che è stato ingannato da un cinese di nome Mousse, che è stato spinto a credere all’infedeltà della propria donna. Non solo… un uomo che è stato drogato da un maledetto filtro che l’ha fatto uscire di senno e cedere alla gelosia, alla vendetta. Non sarebbero menzogne. Eppure sarebbe solo la storia di uno stupido che ha rovinato tutto con le sue mani. Akane… Perdonami, Akane!”
 
Aveva smesso da un po’ di parlare al ragazzo di nome Akira: il racconto si era fatto rabbia, la rabbia dolore e il dolore si era spezzato in quell’urlo rivolto a lei e a lei sola.
 
 
 
 
Bloccata contro la fredda roccia, Akane aveva trattenuto il fiato per tutto il tempo. Ma non aveva potuto fare altrimenti, imbavagliata com’era, dannato soldato!
Aveva visto Ranma svegliarsi, parlare col generale, decidere di credere più agli occhi che al cuore.
Avrebbe voluto rispondergli, negare, dirgli che no, non era vero niente, che Shinnosuke aveva detto quelle cose solo per proteggerla! Avrebbe voluto spezzare le catene, correre da lui, lui che ora stava piangendo poco lontano da lei, per la prima volta sconfitto, lei non l’aveva visto mai, come se l’avesse persa per sempre.
E anche lei provò rabbia.
Mousse, un filtro, l’inganno, la gelosia, la vendetta. Dunque così stavano le cose? C’era infine una dannatissima spiegazione dietro a tutto quello che lei aveva passato. E probabilmente anche a quello che aveva passato lui.
Provò rabbia e dolore. E un’immensa frustrazione.
E poi desiderò soltanto stringerlo a sé e sussurrargli in un orecchio tutto il suo amore e sì, regalargli tutto il suo perdono.
Perché Ranma era vivo e la amava, e lei amava lui.
Ma non poteva farci niente. Lei era legata e lui piangeva.
 
Quel maledetto travestimento aveva fatto il suo dovere ingannando tutti, persino Ranma.
 
***
 
 
 
Soun Tendo era immobile. Sembrava quasi non respirasse, anche le pieghe del suo mantello sembravano fisse e immutabili.
Era distante da tutti loro di una buona ventina di metri.
L’amico Genma Saotome, le figlie Kasumi e Nabiki, persino i ritrovati Obaba e Happosai cominciavano a chiedersi a cosa stesse pensando, lì in piedi su quella roccia a guardare davanti a sé.
Un vento leggero gonfiava le lunghe ciocche nere e i chiari riflessi di luce giocavano sul suo volto.
Nessuno di loro sapeva quali fossero le sue intenzioni, nessuno osava avvicinarlo per rompere il silenzio nel quale si era chiuso.
Il peso della guerra sembrava aver lasciato un segno sulle sue spalle, ogni scelta presa una ruga sulla fronte.
Aveva adunato da ogni parte l’esercito in quella radura: era una piana che si apriva in cima a un alto monte, dal cui ciglio si protendeva un enorme sperone di roccia.
 
Lì si ergeva Soun Tendo, gli occhi fissi sulla cascata che sgorgava davanti a lui da un punto più alto della rupe e che veniva poi inghiottita in un profondo burrone. Giù in fondo si scorgeva appena un piccolo specchio d’acqua schiumante; e anche un torrente, quasi invisibile perchè nascosto dal basso fogliame.
L’aria sembrava più calda in quel luogo, il cielo più turchese, la terra sotto i piedi più dolce.
 
A Obaba e Happosai bastò scambiarsi uno sguardo. Quello era un luogo sacro. Non così distante dalla devastazione della battaglia, era rimasto inviolato e calmo.
 
Erano tutti lì da almeno due giorni e le grotte a ridosso della montagna, dall’altro lato della radura rispetto alla cascata, erano state adibite a prigione improvvisata, una prigione in cui erano ammassati i molti reduci dell’esercito cinese, in attesa del loro destino.
 
Soun Tendo restò lì per oltre un’ora. Poi si voltò.
 
“Portatemi il generale Shinnosuke”
 
 
 
***
 
 
Fu tutto troppo veloce.
 
Un attimo prima Akane aveva chiuso gli occhi sperando per un po’ di dimenticare il suo dolore; un attimo dopo la voce del generale Shinnosuke l’aveva svegliata di soprassalto.
 
“Akira…!”
 
L’avevano sollevato da terra e lui aveva trovato la forza di divincolarsi dalla loro presa, arrancare verso di lei e posarle una mano fredda sul viso.
 
“Akira, ragazzo mio… Non aver paura. Farò quanto è in mio potere per…”
 
Due paia di braccia robuste lo allontanarono da lei prima che potesse finire la frase. E lei non potè dirgli nulla, stretta nella morsa di quel bavaglio.
 
“Lasciate stare il nostro generale!”, gridavano inferociti alcuni prigionieri. “Lo ammazzeranno… e poi ci giustizieranno tutti…”, si disperavano altri.
 
Akane fece appena in tempo a sporgersi verso Ranma (lo vide appena, di striscio, silenzioso e ripiegato su se stesso), che il generale Shinnosuke era sparito dalla sua vista, portato fuori chissà dove.
 
Non seppe quanto tempo passò - ma non dovette essere poi molto – che si ritrovò davanti agli occhi lo stesso soldato basso e leggermente stempiato che tempo prima l’aveva legata con tanta cura, ora intento a scioglierla da quelle medesime catene che la bloccavano contro la roccia.
 
Fu tutto troppo veloce.
 
“Dove ci state portando?”
 
Fu un dimenarsi di braccia e gambe nell’oscurità terrigna di quel luogo.
 
“Lasciateci stare!”
 
Fu strattonata, spinta in avanti, costretta a seguire gli uomini di fronte a lei prima ancora che le sue gambe decidessero di farlo.
 
Ma Ranma dov’era?
 
Ancora imbavagliata, i polsi legati tra loro, lo cercò, in mezzo a tutto quel caos, lo cercò tra i volti che la guardavano, tra i corpi che si scontravano, e non lo vide più.
L’aveva perso.
Ranma…
 
Ovunque la stessero conducendo, si ritrovò a sperare in suo padre, che non avesse preparato per lei lo squallore di una morte dove non fosse permesso ritrovarsi, riconoscersi, perdonarsi.
 
E nell’attesa di vivere o morire, nella speranza di rivedere Ranma, Akane varcò la soglia che divideva l’incubo dalla realtà.
E fu abbagliata da una luce così violenta che ci mise un po’ a riconoscere in quella luce il sole.
 
 
***
 
 
Soun Tendo riconobbe subito, nel giovane uomo stremato e  senza colore sulle guance, il generale Shinnosuke.
Riconobbe la fierezza dello sguardo e seppe che non poteva trattarsi di altri che lui.
 
Fece cenno ai due uomini di metterlo a sedere e fu sorpreso dalla determinazione con cui, nonostante le ferite, Shinnosuke si buttasse in ginocchio verso di lui.
 
“Soun Tendo, vi prego. Per l’amicizia che ci legò un tempo, per la stima che diceste di riporre in me, vi chiedo di risparmiare una vita. Non la mia, se così avete deciso, perché ho guidato l’esercito che avete sconfitto; ma quella di un fanciullo, un ragazzo giapponese che ho trovato solo e smarrito nei vostri boschi, un giovane onesto e coraggioso, l’anima più dolce delle vostre terre. Risparmiatelo, vi scongiuro”
 
Soun si avvicinò senza far rumore.
Quando posò una mano tremante sulla sua spalla, Shinnosuke sollevò il capo, tenuto basso fino a quel momento.
 
“Risparmierò lui, e voi, mio buon amico. Mi siete caro più di chiunque e gioisco a sapervi vivo. Ringrazio il dottor Tofu per avervi trovato e curato. Troppo sangue è stato versato”
Si voltò a guardare la cascata.
“Questo è un luogo sacro, un luogo di pace. Ho dato l’ordine di condurre qui tutti i vostri uomini, che vengano slegati per sempre davanti a questo sole. E allora non ci saranno più né vinti né vincitori. Saremo solo degli uomini che si spogliano della guerra e delle offese”
 
Gli occhi di Shinnosuke erano fermi su di lui e Soun lo prese come un invito a proseguire.
 
“E poi… poi sanciremo la fine di questo abominio anche sulla carta, nero su bianco…” Strinse la mano sulla spalla dell’altro. “… e in modo più giusto e oculato di quanto non sia stato fatto prima di tutto questo”, concluse con un soffio, ritrovandosi sulle ginocchia a chiudere in un abbraccio il giovane uomo davanti a lui.
 
“Ho saputo di vostra figlia”, fu la sola cosa che riuscì a dire quest’ultimo, la voce grattata dalla commozione.
 
Soun si staccò da lui quel che bastò per guardarlo e ammettere: “La verità è che non so dove si trovi ora”
 
Shinnosuke sgranò gli occhi bagnati di lacrime, e lui per un attimo non sentì più il cuore battere.
 
“E’ andata via da me all’inizio della guerra e ho lasciato che si diffondesse questa notizia per paura che…”, si schiarì la gola improvvisamente secca, “…che i nemici la trovassero. E non so se sia ancora viva”
 
 
 
“Lasciatemi stareeee!!”
 
Il grido irruppe violento in mezzo alla loro conversazione, un grido maschile che lacerò l’aria.
 
E ogni cosa si fermò di fronte a ciò che i loro occhi videro.
 
 
 
***
 
 
 
“E’… è lei!”, fu più una domanda, quella di Ryoga, la richiesta di una conferma, e quando Ukyo si aggrappò a lui e lo strinse fino a conficcargli le unghie nel braccio, ebbe la sua risposta.
 
Furono i primi a vederla, gli unici a riconoscerla. E neanche la stavano cercando.
 
“Si… si trova tra i prigionieri dell’esercito cinese?!”, sussurrò Ukyo, quando invece avrebbe voluto urlarlo. “Maledetti, ma cosa le hanno fatto? E’ legata e imbavagliata!”
 
Ryoga sentì le sue gambe che si muovevano da sole. E andavano verso di lei.
Le brache strette al polpaccio, la casacca imbottita...
Ukyo gli fu subito dietro.
Il copricapo scuro, la stessa fascia giallognola che era appartenuta a lui...
Riconobbe ogni cosa.
 
Era sbucata fuori da una galleria che portava a quella radura, e ora, in mezzo a tutti quegli uomini, Akane stringeva gli occhi abbagliata dalla luce del sole.
 
I loro passi aumentarono e si ritrovarono accanto a lei, senza fiato.
Non ci fu bisogno di parole perché quando Akane riuscì a metterli a fuoco, lì, davanti a lei, i suoi occhi parlarono da soli.
Ryoga fu svelto a tirare fuori un coltellino con cui tagliarle le corde intorno ai polsi e col batticuore Ukyo riuscì a sfilarle il bavaglio, per poi voltarsi di scatto verso il resto della radura, inebriata dalla concitazione: “Santi kami, ma non capite che lei è…”
 
“Ucchan! Lui…!” La zittì Akane strattonandola verso di sé, lo sguardo elettrizzato piantanto sui volti dell’uno e dell’altra. “Lui è qui!”
 
 
 
“Lasciatemi stareeee!!” Il grido di Ranma arrivò limpido alle loro orecchie.
 
Si voltarono all’unisono e lo videro;  videro Ranma divincolarsi dalle corde e lottare a mani nude contro chiunque gli si parasse davanti.
 
Akane si illuminò in uno di quei sorrisi che Ryoga e Ukyo non vedevano da tempo incalcolabile.
 
“Eccolo!”
 
 
 
***
 
 
 
Giù nella grotta, le mani legate tra loro, Ranma si sentiva ribollire come una pentola di fagioli.
 
Akira, ragazzo mio... Farò quanto è in mio potere per…
 
Una pentola di fagioli pronta a rovesciarsi sul fuoco.
 
A chi voleva darla a bere? Quelle parole erano cadute dentro di lui facendo un gran baccano.
 
Aveva visto i due energumeni portare via lo stesso Shinnosuke che un tempo era stato il generale dell’esercito cinese, e che in quel momento sembrava solo un giovane terrorizzato di morire. Peggio, un giovane terrorizzato che a morire fosse lo stesso ragazzo per cui anche lui, ironia della sorte, aveva rischiato la vita.
 
“Verremo tutti ammazzati!”
 
Le urla intorno a lui risuonavano nelle sue orecchie.
Ranma teneva ostinatamente gli occhi incollati al terreno.
 
Non era servito a niente. Sperare, correre, cercarla. Niente. Schivare, correre, proteggere. Niente. Correre, correre e ancora correre. Per cosa? Per finire tutti in quel modo, come bestie certe di andare al macello?
 
Farò quanto è in mio potere per…
 
Si piegò verso destra: il ragazzo era sparito, forse portato via dalla fiumana di gente che stava defluendo verso l’esterno.
 
Sentì un paio di braccia sollevarlo di peso e spingerlo con gli altri, e sentì le viscere bruciargli, il sangue pompare alle tempie.
Per un po’ credette di non vederci più, e quando riaprì gli occhi si rese conto di essere già fuori, ammassato a molti altri, altri come lui, pronti a morire.
E lui? Lui, dannazione, era davvero pronto a morire?
 
 
La risposta fu facile: “Lasciatemi stareeee!!”
Ranma esplose e non ci fu uomo in grado di contenerlo. Si avventò sul primo soldato che provò a fermarlo. E su tutti gli altri dopo di lui.
 
Posso ancora trovarla…
 
Con una furia inumana si strappò i lacci che lo bloccavano.
 
“Non posso morire!!”
 
Cercò di farsi strada lontano da lì.
 
Non ora, non così.
 
Sentiva le punte delle dita sfrigolare in modo feroce.
 
“Andate viaaaa!”
 
I piedi scalpitavano e in pochi ebbero il coraggio di affrontarlo.
 
Devo andare da lei!
 
Una sola cosa gli restava: lottare. E nonostante tutto il dolore e tutta la frustrazione, avrebbe venduto cara la pelle.
 
“State lontano da me… Ho detto state lontano…”
 
Fu un lampo.
 
“Shishi Hokodaaan!!!”
 
E fu per uno stupido scherzo della sorte che Ranma vide comparire Ryoga nel proprio campo visivo proprio nel momento in cui stava lanciando uno dei suoi stessi colpi energetici.
 
Un lampo, un boato, una voragine nel terreno intorno a lui.
 
E un urlo.
 
Quel dannato ragazzo, Akira, era corso dietro a Ryoga. Perché, poi?
Come se quell’istante si fosse dilatato, Ranma vide Ryoga abbassarsi e schivare appena in tempo lo scarico di energia.
E vide l’altro schizzare via, lanciato in aria.
Vide il suo corpo sottile stagliarsi sulla cascata nel controluce del tardo pomeriggio.
 
Sentì un paio di mani serrarsi improvvisamente intorno alla gola, e la voce di Ryoga, disperata, furente: “Che cosa ti dice la testa?! Quella è Akane! Akane!!!”
 
E a quel punto ogni cosa precipitò.
 
Akane?...
 
Ranma uscì dalla trance in cui era caduto.
 
Akane.
 
Senza neanche pensarci, si gettò nel vortice generato dal suo stesso colpo.
 
Akane.
 
E lo prese in pieno, trovandosi a rovinare nel medesimo burrone in cui stava cadendo… lei: Akane.
 
Vide il copricapo di stoffa volare lontano, la bandana scalzarle via dalla fronte, i capelli sciogliersi al vento, il cerone scuro misto allo sporco colare via nei vapori della cascata. 
 
Intorno a lui si alzarono mille voci. Alcune disperate - “F-figlia mia!” -, altre attonite - “Akira?? Akira è la… la principessa Akane?!” –, altre ancora stupite - “Kasumi, ma quello non è Akira?!”-, persino speranzose -“Akira? Vivo? Ma quell’altro ragazzo con lui… quello è mio figlio…!”
 
Infine Ranma vide il sorriso morirle sulle labbra.
 
E su ogni altra voce fu solo la sua a stagliarsi: “Akaneeeee!”
 
Sospeso nel vuoto, si allungò verso di lei.
Akane era viva, era lì, con lui, era sempre stata lei, in quella prigione, l’aveva trovata!
Si protese con tutto se stesso. Verso di lei. Entrambi in caduta libera lungo la cascata che si rovesciava nel precipizio.
 
Bruciava, Ranma, nell’aria fredda smossa dallo Shishi Hokodan, le dita tese verso di lei, lei che gli schizzi d’acqua bagnavano di riverberi.
Dio, aveva dimenticato quanto fosse candida la sua pelle…
 
Akane, apri gli occhi… Akane, respira… Akane, sto arrivando!
 
Ogni parola gli rimase contratta in gola.
Spinse allo stremo tutte le sue forze.
E la raggiunse.
Un attimo prima che lei impattasse contro l’acqua, lui l’afferrò per un polso e ruotò per farle da scudo col proprio corpo.
 
Per un attimo credette di morire. L’aria gli fu sottratta di colpo dai polmoni e la testa gli scoppiò. Quando si riebbe, ancora era in acqua, sospinto dall’impeto del vortice verso il basso, e lei non era più con lui.
 
Non posso perderti, non ora, non così.
 
La vide alla mercè dei flutti e della schiuma e fu subito da lei, le braccia intorno alla vita sottile, le gambe determinate alla risalita. I pochi vestiti che le erano rimasti si persero nella corrente, lacerati dal peso delle acque. Sembrò così leggera quando Ranma la issò su per la roccia a cui si era aggrappato, dietro la cascata.
 
“Akane… Akane, mi senti?”
 
Non aveva tempo di riprendere fiato. La teneva stretta a sé, gli occhi piantati sulle palpebre chiuse.
 
“Svegliati, Akane… Akane, ti prego… Ti prego, non morire. Sono stato uno stupido, uno stupido… Akane mi senti, non è vero?”
 
La strinse più forte, affondando il viso tra i capelli di lei.
 
“…volevo dirti che ti amo! Akaneee!”
 
Il colpo di tosse fu così feroce contro le proprie costole, che a Ranma parve di esserne stato lui l’artefice.
 
Si staccò appena da lei e il viso gli si disfece dalla gioia alla vista di Akane che tossiva e sputava, fradicia, tremante.
 
Viva.
 
“A… kane”
 
Lui era senza voce. E lei era lì. Lei sola. Non più imbottiture, né cerone o copricapi. Brandelli di vestiti e pelle bagnata, il seno immaturo fasciato da bende che un tempo dovevano essere state strette, i capelli appiccicati al viso.
E quegli occhi grandi che lo guardavano.
 
“Ran…ma”
 
Ci mise un po’ a capire che, camminando sulle ginocchia, Akane gli si era gettata tra le braccia, e piangendo e gridando il suo nome, sembrava indecisa se tirarlo a sé o prenderlo a pugni.
Akane è viva…
“Stupido! Stupido!... Sei uno stupido!”
Non ricordò quando avesse cominciato a piangere anche lui, ma stava piangendo e la abbracciava e rideva.
E’ viva! E mi sta picchiando! Mi sta sorridendo!
 
“Akane… Akane… Perdonami. Io… Sì, sono stato uno stupido. Uno stupido! Oh grazie, grazie! Tu sei… viva!!”
 
 
 
“Stupido… Ma certo, certo che sono viva! Ma tu, piuttosto…! TU sei vivo! Ranma! Sei vivo! Tu… tu eri morto!...”
 
Akane si portò una mano alla bocca, incapace di contenere tutto ciò che la stava travolgendo, e che era più violento dello Shishi Hokodan, e della cascata, e dei flutti vorticosi.
 
“… e io, quando ti ho visto, lì in quella grotta… non ci potevo credere…”
 
“Ero io quello che non poteva credere che fossi davvero tu... Akane… Ti ho cercata così a lungo… non… non potevo credere che tu fossi… quel ragazzo…”
 
“Volevo parlarti… urlarti la verità…!”
 
Eppure in quel momento non trovava le parole, Akane.
Se ne stava gocciolante a guardare Ranma davanti a lei, non più un ragazzo, ma l’uomo che era diventato, e che balbettava tra un bacio e l’altro sulla punta delle sue dita; un uomo che aveva sul viso i segni di quanto avesse sofferto, nella trasparenza degli occhi la forza di quanto avesse amato.
Bastò guardarlo per capire che Ranma aveva attraversato la guerra e la morte in cerca di lei.
 
“Dovevo trovarti…”
 
Aveva toccato il fondo della sua colpa, ed era risalito, perché alla fine Ranma altri non era se non un grandissimo…
 
“Testardo”, rise lei, stringendo gli occhi, “Sei davvero un gran testardo…”, e quando li riaprì vide solo lui. Non l’uomo, non il ragazzo, né ciò che lo aveva segnato.
 
Solo Ranma.
 
“… e quanto sei stato stupido”
 
Ranma la guardava, il volto rigato di lacrime, sulle labbra lo stesso sorriso impunito per cui lei si arrabbiava da sempre, per cui da sempre le batteva il cuore.
 
“Sono stato davvero, davvero il più stupido tra gli stupidi”
 
Gli lasciò annullare la distanza tra loro con un bacio. Le sue labbra tremavano.
 
Non avrebbe voluto che si staccasse così presto da lei.
 
“E non non sei per niente carina a farmelo notare”
 
Risero entrambi, e quella risata si sciolse come un balsamo sulle loro ferite. In quella risata Ranma le stava chiedendo ciò che Akane gli stava dando: un perdono dolce e incommensurabile.
 
“Ma perché? Perché mi volevi morta…?”, la voce sottile le si incrinò appena, negli strascichi della risata.
 
Per un attimo Ranma abbassò lo sguardo.
 
“Quello che ti ho raccontato è tutto vero… Sono stato ingannato e mi è stata data una droga che ha avvelenato la mia mente. Ma la colpa è stata tutta mia”
 
Rialzò lo sguardo.
 
“La verità… è che avevo paura di perderti. Io non… non ti avrei mai…”
 
“…non mi avresti mai voluto morta”
 
“No, Akane. Devi credermi”
 
Un calore profondo le scaldò il petto, un sorriso le si ruppe sulle labbra, a dispetto di tutto.
 
“Ti credo. Così come non ho potuto credere alla tua lettera, allora. E sono andata in cerca di te”
 
Ranma si morse un labbro.
Rimase in silenzio per un po’, a guardarla.
 
“E hai visto il mondo fuori dal palazzo”
 
“Già”, Akane sentì le guance scaldarsi e una risatina uscirle dalla gola, “Ma ancora non ho visto il mare!”
 
“Lo vedremo insieme!”, si lasciò sfuggire Ranma in un impeto di spavalderia, prendendole una mano. “Andremo a trovare Hiroshi e Daisuke e ti farò salire su una barca!”
 
Akane vide una lacrima impigliata nelle ciglia rotolargli giù per la guancia.
 
“E così… te ne sei andata in giro per il mondo tutta sola”, si fece più serio.
 
“Ho incontrato delle brave persone!”
 
“… vestita da uomo”, continuò lui, sollevando un piccolo pezzo di stoffa che ancora le pendeva dal vestito. Un sorriso era tornato a fare capolino sulle sue labbra.
 
“Mi hai sempre detto che sono un maschiaccio”
 
Fu appena un attimo, e Ranma la stava stringendo in un abbraccio.
 
“Ti ho cercata così tanto…”, le sospirò contro l’orecchio.
 
Akane salì con una mano ad accarezzargli il collo bagnato, ad acchiappare il codino tra le dita.
 
“Ryoga. E’ stata un’idea di Ryoga, quella di andare in giro vestita da uomo per non farmi riconoscere”
 
“Quel ragazzo… Gli devo tutto”
 
“Sì” Si staccò da lui quel che bastò per guardarlo negli occhi, grave. “Non mi avrebbe mai fatto del male”
 
La strinse più forte e lei lo strinse a sua volta, ricacciando un singhiozzo.
 
“Sono vivo”
 
“Sì…”
 
“E lo sei anche tu”
 
“Sì…!”
 
“E come? Come sei finita nell'esercito cinese?”
 
Akane si sforzò per non tirare su col naso. “Mi ha trovata il generale Shinnosuke… Ha creduto che fossi il ragazzo che fingevo di essere e mi ha preso con sé e…”
 
 
 
"Stiamo venendo a prendervi!"
 
La voce di Soun Tendo rimbombò giù nella gola, attraverso lo scroscio della cascata, contro le pareti di roccia di quella piccola insenatura.
 
Per un attimo rimasero entrambi col naso rivolto all’insù e l’orecchio teso.
 
Alcuni uomini si stavano adoperando con delle corde per tirarli in salvo.
Sarebbe stata una cosa lunga. E loro avrebbero avuto ancora un po' di tempo.
 
 
 
 
Ranma si voltò a guardare Akane.
Guardò la donna a cui, ancora bambina, aveva insegnato a piangere, mentre si asciugava le lacrime col dorso della mano, coraggiosa, fiera, forte.
 
Anche lei si voltò a guardarlo.
 
Di colpo non gli importò più sapere come lei fosse arrivata fin lì.
 
Le prese il viso tra le mani e la baciò.
 
E Akane baciò lui.
 
Sentì il respiro di lei morirgli sulle labbra e la poca ragione rimasta evaporò all’istante.
Non sentì più il frastuono della cascata, nè il freddo della pietra sotto di lui.
Si abbandonò al tocco delle sue dita tra i capelli. Socchiuse gli occhi e sentì solo il corpo di lei, caldo, dannatamente caldo contro il proprio.
Cercò la sua pelle sotto i vestiti, nella linea del collo, lungo la curva della schiena.
Respiravano a fatica.
Akane lo strattonò per ciò che gli era rimasto della camicia.
Desiderò perdere il proprio confine in lei, per ritrovarsi e perdersi ancora.
Non riusciva a smettere di delineare il contorno della sua figura, di sentire Akane tra le sue mani, accarezzandone le braccia, indugiando sulle scapole, afferrandone i fianchi, per assicurarsi che fosse vera, perché l’aveva sognata così tante volte in quei mesi che aveva il timore che si trattasse di nient’altro che uno di quei sogni, dolci di notte, amari al risveglio.
Le mani di Ranma si fermarono sul viso di lei e da lì furono i suoi baci a tracciarne ogni centimetro, dolci sul mento, avidi sul petto, pigri sulle palpebre.
Akane si aggrappò a lui, una mano sulla schiena, l’altra sulla nuca.
Si sentì tirare verso di lei.
I vestiti gli furono tolti senza grazia. Il suo maschiaccio…
E lui riconobbe in quell’urgenza la sua stessa paura: la paura che lei si dissolvesse tra le sue dita.
Quanto gli erano mancate le labbra di lei tra le sue…
Quanto gli era mancato accarezzarne i seni, il ventre, sentirla contro di lui, viva, vibrante.
I polpastrelli di lei gli sfiorarono le tempie, per poi scivolare come olio giù per il collo, lungo la schiena, e giù, sempre più giù.
Sentì che era sull’orlo della pazzia.
 
Quante volte pronunciò il nome di lei e lei il suo...
Quante volte lui le chiese perdono e lei lo perdonò, in quell'abbraccio senza fine…
 
Si fermò un istante e gettò un’occhiata verso l’alto.
 
A lui sarebbero bastati pochi balzi con lei in braccio per risalire la montagna; i soccorsi non sarebbero arrivati prima di un paio d’ore.
 
Le prese il viso e lo avvicinò al suo, le labbra alla distanza di un respiro da quelle di lei.
Si guardarono per un attimo, senza fiato. Felici.
 
E in quell’intervallo di tempo che stava loro concedendo la sorte, si abbandonarono all’amore che li aveva divisi, e poi uccisi, addirittura resuscitati, e salvati.
E infine… riuniti.
E si amarono ancora e ancora, infinite volte.
 
 
*
 
 
Su, in cima alla rupe, oltre le promesse e i sospiri, oltre la cascata e le rocce, un uomo tornava a piangere dopo quindici anni.
 
“La mia bambina!… La mia bambina! Viva!!”
 
Soun Tendo stava inondando di lacrime la spalla di Genma Saotome, e ora che aveva cominciato non sembrava deciso a fermarsi.
 
“Liberati, amico mio, liberati”
 
“Dopo tanti anni di occhi asciutti, è più che comprensibile”, commentava una Obaba rugosa e soddisfatta rilasciando una boccata di fumo e guadagnandosi un cenno di assenso altrettanto compiaciuto da Happosai.
 
“E la cosa più strana, amico mio”, stava continuando Genma a suon di pacche sulle spalle, “E’ che quel ragazzo, credo proprio che sia il mio Ranma…”
Fu un attimo che gli si ruppe la voce e la commozione già contagiava anche lui, prorompente di fronte a quella presa di coscienza: “Quello… quello è mio figlio!”
 
Intorno a loro non persero tempo a stringersi, ancora incredule, Nabiki: “Akira è vivo…!” E Kasumi: “E ‘lui’ è… è nostra sorella!”
 
“E così stanno le cose”, mormorava il giovane Shinnosuke tra sé, in disparte, “Akira è vivo… La principessa Akane è viva”
E sorrise, intimamente grato agli dei per questo.
 
Ryoga e Ukyo, poco distanti, erano aggrappati l’uno all’altra e semplicemente piangevano entrambi, incapaci di biascicare altre parole se non: “Akaaaneee!! Ranmaaaaa!!”
 
 
Sarebbe arrivato il momento per entrambi di scoprire come diavolo aveva fatto Akane a finire lì; sarebbe arrivato il momento per Soun Tendo di prendere tra le braccia la figlia e, carezzandole il capo con una mano e posandone un’altra sulla spalla di Ranma, chiedere loro perdono; sarebbe arrivato il momento per Genma Saotome di realizzare che il suo ragazzo era stato cresciuto come un figlio nientemeno che dall’uomo a cui lui aveva prima strappato e poi restituito le due bambine; sarebbe arrivato il momento per Kasumi e Nabiki di sapere perché la sorella si era travestita da ragazzo e come era sfuggita alla morte.
 
Sarebbe arrivato il momento dei ricongiungimenti, delle spiegazioni, delle lacrime e degli abbracci.
 
Ma tutte le trame degne di quel finale da fiaba avrebbero dovuto aspettare, perché quegli attimi strappati al tempo, giù in quella grotta dietro una coltre di acqua scrosciante, quelli erano il loro momento, il momento di Ranma e Akane.
 
Per il resto ci sarebbero stati quelli che in altri ‘quando’ e in altri ‘dove’ vengono chiamati tempi supplementari.
 
 
 
E se la guerra a uccidere è capace
è meno forte di chi fa la pace.
 
Cymbeline – William Shakespeare


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L’ANGOLO DELLE CURIOSITA’
Da cosa è tratta questa storia - Similitudini e differenze con l’originale
(se vi annoia, saltate direttamente ai ringraziamenti! XD)
 
Ed eccoci arrivati alla fine di quest’avventura! Innanzitutto grazie di cuore per aver letto fino a qui (per i ringraziamenti ci si vede in fondo!).
Come sapete, l’intera storia non solo è ispirata ma ricalca piuttosto fedelmente la trama di un’opera di William Shakespeare. Durante tutto questo tempo alcuni di voi mi hanno chiesto in privato di quale opera si trattasse, altri hanno preferito non saperlo fino alla fine. Soltanto due persone hanno indovinato, le splendide Gretel85 e Aron_oele, e la mia stima va tutta a loro che, me compresa, credo siano tra le uniche dieci al mondo che l’hanno letta! ^_^’
E va bene, ora sgancio il titolo! Rullo di tamburi……..
“CIMBELINO” !!!
(Immagino che vi dica poco, eh?) Lo so, lo so, si tratta infatti di uno dei testi meno conosciuti di Shakespeare, e a torto, secondo me! Si tratta di una storia intrigantissima (e intricatissima, come avrete capito), piena di colpi di scena, che vi consiglio vivamente di leggere. Per voi forse non sarà più così, per colpa mia, ma io, non conoscendola, ho goduto dell’effetto sorpresa la prima volta che ho letto la scena del baule e quella della decapitazione!
Chi vuole può trovare la trama qui: https://it.wikipedia.org/wiki/Cimbelino
 
 
Ma ecco un po’ di differenze tra l’originale e la mia storia, interesseranno sì e no a due persone, ma mi faceva piacere comunque condividerle con voi. Se saltate ai ringraziamenti non mi offendo! :-*
Cominciamo con l’ambientazione. “Cimbelino” è la storia di un re che governava in Britannia (cioè in Inghilterra) all’anno 0, ovvero quando a Roma c’era Augusto. Perciò la mia Britannia è diventata il Giappone e Roma la Cina. ;-)
Ed eccoci finalmente all’elenco dei personaggi, quelli originali e quelli scelti da me per la mia storia:
 
CIMBELINO, re di Britannia  - SOUN TENDO,  principe delle terre dell’Ovest
 
IMOGENE, figlia di Cimbelino – AKANE TENDO , figlia di Soun
 
POSTUMO LEONATO, gentiluomo di umili origini, sposo di Imogene  - RANMA SAOTOME, ragazzo di umili origini al servizio di Soun, sposo di Akane, figlio perduto di Genma
 
PISANIO, suo servo – RYOGA servo/amico/confidente (come abbiamo visto, eheh!)
 
ELENA, dama di Imogene – UKYO, ancella/amica/confidente di Akane
 
LA REGINA, moglie in seconde nozze di Cimbelino – KODACHI KUNO
 
CLOTENO, figlio della regina da precedente marito – TATEWAKI KUNO (in questo caso ho immaginato che i due fossero fratelli) fratello di Kodachi
 
BELLARIO, signore esiliato – GENMA SAOTOME, amico perduto di Soun
 
GUIDERIO e ARVIRAGO, figli di Cimbelino, celati rispettivamente sotto i nomi di POLIDORO e CADVALO e creduti figli di Bellario – KASUMI  e NABIKI figlie di Soun, celate rispettivamente sotto i nomi di HITOMI e MISAKI e credute nipoti di Genma
 
FILARIO, nobile Romano, amico di Postumo – NODOKA, signora giapponese che gestisce una locanda in Cina,
 
IACHIMO, nobile Italiano – MOUSSE, soldato cinese
 
UN NOBILE FRANCESE, amico di Filario – SHAN PU, amazzone che lavora come cameriera presso la locanda della signora Nodoka
 
CORNELIO, speziale di corte – DOTTOR ONO TOFU – dottore del villaggio
 
CAIO LUCIO, generale dell’esercito romano – SHINNOSUKE, generale dell’esercito cinese, di origine giapponese
 
DUE GENTILUOMINI alla corte di Cimbelino – OBABA e HAPPOSAI, consiglieri di Soun Tendo
        
Come potete vedere già dalla lista dei personaggi, ci sono alcune differenze, scelte che spesso mi hanno complicato non poco la vita ma che ho preso perché mi piaceva dare una storia anche ai personaggi minori e giocare, per quanto possibile, con certe dinamiche e topoi del manga. Il personaggio di Ukyo, per esempio, nell’orginale è un’ancella che pronuncia sì e no una battuta in tutta l’opera, niente più che una comparsa. Qui ha molto più spessore e in qualche modo lei e Ryoga insieme vanno a doppiare il personaggio di Pisanio. Mi piaceva creare una doppia storia di amicizia Ukyo/Akane e Ryoga/Ranma e regalare un amore a Ryoga e Ukyo, coppia bellissima e purtroppo a mio parere sottovalutata dalla Takahashi nelle sue potenzialità. Beh, sappiatelo, non c’è niente di questo in “Cimbelino”! Pisanio è e resta solo, poverino!
 
Altro personaggio praticamente aggiunto di sana pianta è Shan Pu. Nell’originale durante la scena delle scommessa è presente un tizio francese che però assolve a un ruolo comico in quell’unica scena e dice pochissime battute. Mi sono immaginata anche in questo caso una sorta di sdoppiamento del ruolo dello scaltro Iachimo in Mousse e Shan Pu; e soprattutto mi sono inventata una sottotrama di amore rifiutato e passione tra questi due, sperando in qualche modo non solo di creare i presupposti di un rapporto tormentato e oscuro ma anche di spiegare in minima parte l’invidia e la gelosia di Mousse nei confronti di Ranma.
Devo dire che in “Cimbelino” Iachimo alla fine non muore. Mi spiace molto aver deciso qui invece per la morte dei due amanti cinesi, ma la storia alla fine è lì che mi ha portato…
 
Il personaggio di Cornelio, qui  interpretato dal Dr. Tofu, è unicamente in funzione del veleno fornito alla regina. Mi è piaciuto creare invece una sottostoria in cui Kasumi e Tofu si innamorano (che originalità XD). Come potete immaginare non c’è nulla di simile in “Cimbelino” (dove tra l’altro  si parla di due fratelli e non di due sorelle!).
 
Il personaggio di Postumo nell’originale scrive a Pisanio di uccidere la propria sposa, ma lo fa senza aver bevuto nessun filtro. Non un gran personaggio, a mio parere, la gelosia in quel caso lo divora come fosse Otello. Ho preferito aggiungere un po’ di magia nella “pazzia” estemporanea di Ranma, e anche se la sua decisione è stata comunque forte e discutibile, penso di avergli dato una maggior giustificazione.
 
Ho ragionato a lungo se far morire o no Kuno… E’ buffo perché nell’originale Cloteno è molto più simile al Kuno della Takahashi che al mio. E’ una sorta di buffone pomposo che fa anche un sacco di cose comiche senza saperlo e gli altri ridono di lui. E’ per questo che quando ho letto della sua morte sono rimasta basita. Era un personaggio negativo, sì, ma al punto da farlo fuori? Forse è per questo che anche Shakespeare ha infilato all’ultimo il monologo in cui Cloteno programma il vero e proprio stupro della principessa. Terribile. Ed è per questo che ho deciso di rendere il mio Kuno un po’ più cattivo dall’inizio. Spero di non aver offeso nessuno.
 
La regina, qui interpretata da Kodachi, muore in un modo assurdo in “Cimbelino”. Oddio, a dire il vero manco si capisce esattamente come muoia. ^_^’ Viene fatto riportare dal medico che, in termini effettivamente molto disneyani, “la regina è morta di cattiveria”. Letterali parole. Ti sei sprecato, Mr. Shakespeare! Ahaha! Beh, ho provato a farla morire di cattiveria anch’io, ma con qualche spiegazione in più.
 
Inoltre nell’originale non esiste un padre che ritroverà il figlio perduto: Postumo ha perso il padre che gli comparirà in sogno in una scena onirica molto bella che però ho tralasciato, preferendo regalare a Ranma e Genma la loro storia di perdita e ritrovamento. In questo modo ho cercato di dare a Genma un motivo in più per rapire le due ragazze (nell’originale il movente non è chiarissimo, connesso a un qualche intrigo di corte).
 
Ah, tra le altre differenze sostanziali mi viene in mente che alla fine la principessa Imogene non viene colpita da un colpo energetico, ovviamente, ma da un pugno dell’amato! XD
 
Inoltre il finale è fiabesco  e volutamente la parodia del “gran finale”, in cui l’autore sbrodola in una carrambata dietro l’altra. Io non credo di essere riuscita a fare molto di meglio, ma ho cercato di spostare temporalmente un po’ di riconoscimenti (Soun con le figlie, la morte della regina, il riconoscimento di Ranma da parte di Akane ecc.).
 
Comunque se andrete a leggere la storia di “Cimbelino” troverete tante immagini meravigliose a cui io ho tentato malamente di fare eco.
Pare che in quest’opera siano contenuti quelli che la critica ha definito come “i versi più belli e più moderni della produzione Shakespeareana”.
Si tratta infatti di uno degli ultimi lavori di William Shakespeare e nel tempo non sono riusciti bene a dare a quest’opera un’etichetta. Si presenta come un dramma storico, ma poi si cade presto nel tono fiabesco. Muoiono delle persone, ma finisce bene come una commedia. Sembra quasi che l’autore avesse voluto non solo citare e prendere in giro tutto il teatro ma il SUO teatro!
Nel rapporto tra Imogene e Cimbelino c’è un po’ di Re Lear, la gelosia irrompe forte come in Otello (Iachimo e Iago sono praticamente lo stesso personaggio), la morte presunta dei due amanti richiama l’equivoco di Romeo e Giulietta, la ragazza travestita da uomo viene da Come vi piace e La dodicesima notte! E il servo che porta nel bosco la ragazza ignara con l’ordine di ucciderla chi vi ricorda se non Biancaneve? A Shakespeare piaceva copiare e non ne faceva un mistero. Tutta la storia della scommessa viene nientedimeno che da una novella del Decamerone! Insomma un gran poutpourri corale e confusionario in pieno stile ‘600!
 
E in ultimo una curiosità autobiografica, per la quale capirete finalmente come mai tutto quest’entusiasmo: io stessa mi sono ritrovata a recitare nel ruolo di Imogene (Akane), ma anche di uno dei carcerieri e nel tizio francese della scommessa (divertentissimo). Ed è stata una delle esperienze più forti della mia vita.
 
 
 
RINGRAZIAMENTI
Ci siamo. Devo trovare il modo di dire addio a questa storia, e nel farlo non posso non ringraziare infinitamente ognuno di voi.
Avete dato un senso a questa storia e tanta gioia a me che la scrivevo.
Mi scuso infinitamente per i tempi biblici con cui ogni capitolo è stato pubblicato, incluso l’ultimo che speravo di pubblicare a settembre.
 
La vita è andata avanti e molte cose sono successe, in mezzo.
 
Scrivere, continuare a farlo, nonostante tutto, è stato per me importantissimo. Ricevere i vostri commenti, i consigli e la vostra partecipazione è stato un regalo enorme.
 
Ringrazio innanzitutto V., che ha scoperto da poco questo mio mondo e non solo l’ha accolto, ma l’ha sostenuto con forza e mi ha fatto addirittura da “editor” qua e là, leggendo i miei capitoli e dicendomi cosa andava e cosa no con la determinazione, la franchezza e la passione con cui fa ogni cosa.
 
Ringrazio il meraviglioso gruppo delle Ladies, amiche sincere nei momenti belli e in quelli brutti: Spirit 99, persona stupenda e autrice delle due fanart che con la loro bellezza hanno immortalato questa storia, e insieme a lei, Gretel85, speciale sotto più di un aspetto, e Aron_oele, la vitalità fatta persona; tutte e tre si sono subite i miei dubbi e hanno riflettuto insieme a me con pazienza su alcuni punti cruciali di “Cimbelino”; Faith84, che mi è stata vicino nei momenti bui,Lallywhite_LadyNorris, per la grinta con cui mi ha sempre sostenuta, Violet 2013 per la stima che mi ha regalato, Xingxchan per la dedizione con cui mi ha fatto sentire sempre supportata in ogni mia scelta, Antonella84, per la gioia con cui mi trasmette tutto il suo mondo, Matrona per il calore maturo dei suoi consigli.
 
Ringrazio tutti coloro che mi hanno lasciato almeno una recensione: LadyChiara93, grazie per il tuo entusiasmo, Miss Hinako, illuminanti i nostri discorsi su Ranma, e TigerEyes, con cui parlerei all’infinito e che mi è stata di grandissimo aiuto con le sue critiche e i suoi consigli, sempre puntuali; e ancora le splendide Alile, Stardust87, Pchan05, Maymell, Drem_of_love, Zonami84, Biba89, Ran_ko,White Dahlia, Cerbyatta Cullen, Ialeya, Usagi_84 e RyogaHibiki, che se non sbaglio è l’unico ragazzo della compagnia.
 
Ringrazio chi ha seguito, ricordato e preferito questa storia e i moltissimi lettori silenziosi: se mi lascerete anche solo due righe come segno del vostro passaggio per quest’ultimo capitolo, mi ripagherete di tutta la fatica e le ore spese a scrivere questa storia!
 
Spero di aver fatto tirare un sospiro di sollievo a quante tra voi erano pronte a un finale tragico. Sono una romanticona e un finale tragico non faceva per me.
 
Purtroppo ho dovuto sacrificare Mousse e Shan Pu. All’inizio non avrei voluto, ma la loro storia sì che era tragica ed è andata in quella direzione.
Shinnosuke… non me la sono sentita di perderlo. La sua morte avrebbe significato il trionfo della guerra su tutto e, ripeto, non me la sono sentita. Caio Lucio, suo corrispettivo, non muore nell’originale. E anche se in molte odiate lo scopettone, non è di suo un cattivo personaggio neanche nel manga. ;-)
 
Non so se e quando scriverò ancora, ma prometto che nel caso saranno storie molto più brevi! Ho in effetti già qualche piccola idea intanto per degli spin off e magari qualche missing moment di questa storia, perché il respiro è stato troppo ampio per dedicarmi a tante piccole cose, ma forse lo farei solo perché ormai mi sono affezionata troppo a questi personaggi e non ce n’è davvero la necessità. ^_^’ Vedremo!
 
Ho anche un’idea assurda e non so se riuscirò mai a realizzarla. Mi piacerebbe fare una sorta di audio-fanfiction di questa storia, magari caricandola su youtube. Che ne pensate?
 
Va bene ora la smetto e vi saluto una volta per tutte!
 
Un abbraccio a voi!
 
InuAra
 
 
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Se noi ombre vi siamo dispiaciuti,
immaginate come se veduti ci aveste in sogno,
e come una visione di fantasia
la nostra apparizione.
Se vana e insulsa è stata la vicenda,
gentile pubblico, faremo ammenda; c
on la vostra benevola clemenza,
rimedieremo alla nostra insipienza.
(…) A tutti buonanotte dico intanto,
finito è lo spettacolo e l’incanto.
Signori, addio, batteteci le mani,
e Robin v’assicura che domani
migliorerà della sua parte il canto
 
If we shadows have offended,
Think but this, and all is mended,
That you have but slumber'd here
While these visions did appear.
And this weak and idle theme,
No more yielding but a dream,
Gentles, do not reprehend:
if you pardon, we will mend.
(…) So, good night unto you all.
Give me your hands, if we be friends,
And Robin shall restore amends.
 
A midsummer night’s dream – William Shakespeare
 

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