The incredibly true story of two friends on a quest

di GirlWithChakram
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 28 Aprile 1942 ***
Capitolo 2: *** 29 Aprile 1942 ***
Capitolo 3: *** 30 Aprile 1942 ***
Capitolo 4: *** 1 Maggio 1942 ***
Capitolo 5: *** 2 Maggio 1942 ***
Capitolo 6: *** 12 Maggio 1942 ***
Capitolo 7: *** 13 Maggio 1942 ***
Capitolo 8: *** 14 Maggio 1942 ***
Capitolo 9: *** 15 Maggio 1942 ***



Capitolo 1
*** 28 Aprile 1942 ***


JANICE COVINGTON & MELINDA PAPPAS
in:
The incredibly true story of two friends on a quest



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Diario di Melinda P. Pappas
28 Aprile 1942, pressi di Kavadarci, Macedonia.
Sono passate due settimane da quando ho incontrato la Dr.ssa Covington e da quando abbiamo scoperto la tomba contenente il più grande tesoro dell’antichità: le pergamene di Xena. Dopo lo scontro con Ares, l’esplosione del sito e la partenza di Jack Kleinman, che si è accidentalmente impossessato degli scritti, la Dottoressa ed io abbiamo continuato a tradurre alcuni testi posseduti dal defunto Harry Covington, scoprendo che quelle rinvenute non sono che una parte del lascito del bardo. La nostra missione ora è quella di muoverci fino alle rovine di Potidaea attraverso questa terra, divisa dal conflitto mondiale, alla ricerca dei testi perduti.

«Muoviti!» gridò la figura davanti a me, che mi stava a poco a poco distaccando «Più veloce!»
Avrei voluto farle presente che non avevo le calzature adatte per quel tipo di attività, né tantomeno l’abito più consono. Avrebbe dovuto avvisarmi che ci sarebbe stato da correre.
La vidi balzare agilmente a bordo del mezzo che stava riprendendo la corsa. «Mel!» mi chiamò, sbucando dal portellone aperto del treno.
Io diedi fondo a tutta la mia riserva di energia.
«Afferra la mia mano» disse, offrendomi aiuto.
«Posso farcela da sola» rantolai.
«Non fare la testarda, forza!»
Mi aggrappai a lei e mi lasciai issare dentro il puzzolente vagone merci. La travolsi completamente, facendo precipitare entrambe su un cumulo di quella che un tempo doveva essere stata paglia.
«La prossima volta compriamo i biglietti» commentai stizzita, recuperando gli occhiali e ripulendo la preziosa gonna, ormai irrecuperabilmente sgualcita per via di quell’imprevista dose di attività fisica «E saliamo ad una stazione, come le persone civili.»
«Come le persone noiose, vorrai dire» mi rispose Janice, spolverando il proprio cappello «Dov’è il tuo senso dell’avventura?»
«Credo che mi sia caduto mentre costeggiavamo i binari ad una velocità folle» replicai.
«Peccato che non ti sia caduto di tasca il sarcasmo.»
Ridussi gli occhi a due fessure e la fulminai. «Non hai il diritto di fare dello spirito. Sono atterrata su un indefinito strato di sudiciume che, per colpa tua, mi farà compagnia molto a lungo.»
«Senti, principessa» ringhiò col suo tono da dura «Se vuoi, fai ancora in tempo a scendere e continuare questa impresa per conto tuo. Nessuno ci obbliga a cercare le pergamene insieme.»
«Allora è quello che farò! Arriverò a Potidaea da sola, viaggiando come si confà ad una signorina beneducata.»
La Covington scosse la testa. «Non dureresti mezza giornata.»
«Invece sì. Anzi! Arriverei addirittura prima al sito, se non ti avessi come zavorra.»
Mi scoccò un’occhiata di fuoco. «Devo buttarti giù al treno a calci o scendi da sola?»
«Prova a sfiorarmi e userò le abilità di Xena contro di te» dissi minacciosamente.
In tutta risposta, Jan scoppiò a ridere.
«Sono seria» sbuffai, sistemando gli occhiali, che mi erano scivolati sulla punta del naso.
«Certo, come no» sghignazzò, riprendendo fiato tra le risa «Melinda “Imbranatissima” Pappas ora mi assalirà con le mosse della Principessa Guerriera! Fa ridere solo a pensarlo!»
«Il mio secondo nome non è quello! È Panphila!»
Lei riprese a ridere più forte, facendomi irritare oltre ogni misura.
Serrai i pugni e li portai davanti al viso con fare intimidatorio.
«Fatti sotto, Panphila» mi sfidò, assumendo la stessa posa.
Iniziai a fare qualche passo incerto, molleggiando un po’, per convincerla che ero seria. A mano a mano che mi avvicinavo, mi spostavo leggermente di lato, con l’intento di aggirare la mia avversaria.
«Hai intenzione di colpirmi o aspetterai che il treno arrivi fino in Grecia?» mi canzonò, saltellando sul posto, sollevando una leggera nube di polvere «La gattina miagola soltanto o ha anche gli artigli?» continuò, lanciandomi occhiate di sfida con un ghigno sbeffeggiatore.
L’urgenza di cancellare quell’espressione dal suo viso mi fece fare uno scatto di cui non pensavo di essere capace. Per un istante mi sembrò di essere nuovamente posseduta da Xena, ero certa di poter affrontare l’irriverente biondina ed avere la meglio.
Purtroppo il tacco della mia scarpa sinistra non la pensò allo stesso modo, tradendomi. Si incastrò nello spazio tra due assi del pavimento e si spezzò.
Imprecai contro tutti gli dei dell’Olimpo, mentre perdevo l’equilibrio, precipitando verso un doloroso incontro ravvicinato tra il mio corpo e il legno sudicio.
Ancora una volta, la presa salda di Janice giunse in mio soccorso. Le sue dita si strinsero attorno alle mie braccia e mi tennero in piedi.
Mi rimisi in equilibrio, senza poggiare il piede sinistro a terra, continuando a tenermi alla Covington. Avrei dovuto ringraziarla, ma la rabbia e l’imbarazzo mi avevano serrato la gola.
«Non c’è di che» sbuffò, chinandosi per liberare la mia calzatura fellona. «Mi sa che non te ne farai più molto» commentò poi, porgendomela «Il tacco si è staccato. Te ne serve un nuovo paio.»
Senza rompere il mio mutismo, presi la scarpa e me la rimisi. Mi era difficile camminare, ma non avrei mai e poi mai poggiato il piede nudo su quel lerciume.
Jan si tolse lo zaino dalle spalle ed iniziò a frugarci dentro.
Allungai il collo, tentando di vedere cosa stesse combinando.
«Prendi» ordinò, piazzandomi tra le mani un paio di sandali malconci.
Emisi un verso di disapprovazione, osservando la pelle sgualcita che teneva insieme la suola.
«O questi, o puoi zoppicare fino a Potidaea.»
Sospirai, indossando le nuove calzature e abbandonando le mie vecchie scarpe in un angolo.
«Grazie» sussurrai a denti stretti, quasi sperando che non mi sentisse.
«Come ho già detto, non c’è di che» replicò, continuando ad estrarre cose dal bagaglio, disponendole di fronte a sé. Un sacchetto di carta conteneva tutte le nostre provviste, gli facevano compagnia due borracce d’acqua, una spessa coperta di lana, una malconcia lanterna in ottone e una scatola di fiammiferi.
Non avevamo molto da fare, se non aspettare che il treno proseguisse nella sua corsa. Avevamo calcolato che, bene o male, ci sarebbe voluta una giornata fino a Salonicco. Non mi attirava l’idea di fare tappa in una città sotto il totale controllo tedesco, ma non avevamo altra scelta. Da là avremmo cercato mezzi di fortuna per arrivare fino alle rovine della città di Gabrielle.
Frugai all’interno della mia valigetta per recuperare la sgualcita mappa del defunto Dr. Covington, così da ricontrollare il percorso. Non che ne avessi veramente bisogno, ma era l’unica attività che non prevedesse dialogare con Janice. Avevamo cominciato a tollerarci l’un l’altra durante le settimane precedenti, ma da lì a voler passare il mio tempo a chiacchierare con lei del più e del meno, il passo era lungo. La mia compagna di viaggio era cocciuta, arrogante e non perdeva occasione per sottolineare la mia goffaggine, caratteristiche che la rendevano ai miei occhi una persona piuttosto detestabile. Ma non potevo dimenticare di quanto sapesse anche essere coraggiosa, determinata ed affidabile.
Queste qualità deve averle ereditate da Gabrielle, pensai. Mi sorpresi di quella mia stessa riflessione. Non era la prima da quando lo spirito di Xena aveva preso possesso del mio corpo, ogni tanto mi ritrovavo a credere che lei fosse ancora con me e potesse in qualche modo influenzare la mia mente.
«Sempre con la testa tre le nuvole…» borbottò la figura al mio fianco.
«Eh?»
«Non volevo distrarti dalle tue profonde elucubrazioni, ma ti ho chiesto, per ben due volte, se volessi un po’ d’acqua. Stavo quasi per darmi per vinta.»
Notai la borraccia tesa verso di me e la afferrai. «Grazie» replicai prima di prendere un lungo sorso. Avevo la gola un po’ secca per via della corsa e della polvere che avevo inalato negli ultimi giorni, quell’improvvisa frescura sembrò per un momento alleviare la mia stanchezza.
«Piano, cammello!» mi rimproverò all’improvviso Janice, strappandomi il contenitore di mano «Te ne sei fatta fuori quasi metà! Doveva bastarci per almeno due giorni.»
«Potevi avvisarmi» tossicchiai, cercando ignorare l’ultimo sorso che mi era andato di traverso «Adesso, quindi, come facciamo?»
«Approfittiamo di una sosta del treno per cercare se in giro c’è un punto dove fare rifornimento» mormorò pensierosa «Oppure, se si mette a piovere, potresti tenere il braccio fuori dal portellone e lasciare che la natura ci venga in aiuto» concluse con un sorriso divertito.
«Spero tu stia scherzando!»
«Potrei…» replicò, facendomi l’occhiolino.
Scossi la testa, tornando a concentrarmi sulla mappa. Le rovine di Potidaea distavano una settantina di chilometri da Salonicco. Avevamo due alternative: seguire la strada costiera, più frequentata e a maggior rischio per via delle pattuglie naziste, o prendere i sentieri delle montagne, muovendoci lungo piste poco battute note solamente agli abitanti del luogo. Ovviamente la prima soluzione si sarebbe rivelata molto più rapida, soprattutto se fossimo riuscite a procurarci una macchina. Dovevamo decidere come agire.
Illustrai la situazione a Jan. «Lascio decidere a te come muoverci, dopotutto sei tu l’esperta di lavoro sul campo.»
Lei mi tolse la cartina dalle mani e la osservò. Calcolò grossolanamente le distanze, seguendo il reticolo di percorsi che vi erano segnalati, poi elencò i nomi dei paesi in cui ci saremmo potute procurare del cibo.
La ascoltai senza prestare reale attenzione, il mio interesse era stato calamitato dal paesaggio che potevo intravedere dal portellone mal chiuso. Il sole cominciava a compiere il suo arco discendente ad Occidente, inondando le macchie di vegetazione e i campi coltivati con la sua aura color arancio.
«Ed ancora una volta, è come se parlassi da sola…» si lamentò la Covington.
«Guarda che ho sentito tutto» mentii, continuando a fissare fuori.
«Certo, come no…»
«E va bene» capitolai senza troppe storie «Non ti stavo ascoltando. Potrai mai perdonarmi?»
La bionda si voltò dall’altra parte, ignorandomi.
«Per piacere» dissi con voce mielosa.
Lei, in risposta, sbuffò.
Decisa a farmi dare retta, agii nel modo più sconsiderato possibile. Con una mossa felina, le agguantai il copricapo e mi alzai, portando in alto il braccio con il mio trofeo.
Con la furia omicida negli occhi e una mano sul calcio della pistola, Janice scattò in piedi ed iniziò ad emettere versi del tutto simili al ringhio di un animale feroce. «Giù le zampe dal mio cappello.» Le sue parole sembravano provenire dai più oscuri recessi della sua gola, la sua voce si era abbassata di almeno un’ottava, divenendo inquietante.
Ubbidii senza opporre resistenza, riconsegnandole il maltolto.
Lei, digrignando i denti e palesemente trattenendosi dal riempirmi di insulti, si calcò il cappello in testa e poi si risedette con un tonfo.
«Non devi toccarlo, mai. Da quando ti conosco lo hai già messo in pericolo più volte di quante voglia ricordare» disse dopo aver riportato il proprio tono alla normalità «Era di mio padre, è l’ultimo regalo che gli ha fatto sua madre.»
Rimasi in silenzio, sedendomi accanto a lei.
«Un giorno, se non ti ucciderò prima, potrei decidere di raccontarti la storia che c’è dietro. Fino ad allora, però, non azzardarti neppure a sfiorarlo.»
Trascorremmo il tempo dal calar del sole fino all’alba senza scambiarci un’altra parola. Quando iniziò ad essere buio, ci sdraiammo dandoci le spalle e ci tirammo la coperta fin sopra la testa.
Non si addormentò subito, come me, d’altronde. Ascoltavo il suo respiro controllato, ma non ancora abbastanza lieve da essere sinonimo di riposo.
La temperatura era calata di molto e, benché l’ambiente fosse chiuso, il freddo si era insinuato a poco a poco nel nostro rifugio. Non mi sorpresi, dopo un’ora ormai che ci eravamo coricate, di sentire Janice tremare debolmente, stringersi ancor di più nella giacca e tirare su il bordo della trapunta. Avrei voluto avere almeno un altro straccio da buttarci addosso per scacciare quel gelo, ma tutto ciò che potevo fare era indietreggiare quel tanto che bastava per portare i nostri corpi a combaciare, per condividere un po’ più di calore.
I suoi muscoli dorsali, separati dai miei da tutti gli strati di abiti possibili, presero a contrarsi meno convulsamente mentre la temperatura saliva leggermente per via delle nostre schiene a contatto, poi, passata un’altra mezz’ora, finalmente si limitarono ai lievi movimenti che accompagnavano il sonno. Poco dopo, crollai a mia volta.



NdA: Salve, forse vi ricorderete di me come "la donna che ha lasciato in sospeso l'ultimo capitolo di Second Chance", ebbene sì, sono io, sono tornata. Ma ho una valida (più o meno) scusa per il mostruoso ritardo: mi sono dedicata a questo altro progetto che ora può finalmente essere rivelato al mondo. Nata come One-Shot, questa storia mi ha un po' preso la mano ed ha preteso il proprio spazio nel mondo, quindi eccola qui. Sebbene non sia solita darmi scadenze, questa volta posso farlo avendo pronti i capitoli seguenti, quindi, per lasciarvi un po' di suspense, aggiornerò ogni due settimane, disastri permettendo. Qualche nota sulla trama: ho cercato di rispettare il più possibile gli avvenimenti storici, ma la documentazione arriva fino a un certo punto, quindi ipotizziamo pure che questo sia un Alternative Universe e che la Guerra M0ndiale descritta sia molto simile, ma non identica, a quella vissuta dai nostri avi, in ogni caso, sono ben accette critiche, correzioni e cose simili. Ringraziamento flash a wislava per il suo lavoro di correzione e il solito, doveroso, grazie a chi ha avuto la pazienza di arrivare al fondo di questa spatafiata. A presto.
P.S. La copertina è stata gentilmente realizzata da GingerPhoenix, che all'anagrafe risulta essere mia sorella, ma stiamo ancora aspettando i dovuti accertamenti a riguardo. Se cliccate sul nome verrete rimandati alla sua pagina di DeviantArt, perchè così mi è stato ordinato di fare.

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Capitolo 2
*** 29 Aprile 1942 ***


The incredibly true story of two friends on a quest


 
Diario di Melinda P. Pappas
29 Aprile 1942, tratta ferroviaria Kavadarci - Salonicco, pressi di Gevgelija, Macedonia
I rapporti con la Dr.ssa Covington continuano ad essere tesi, ma la nostra collaborazione forzata è l’unica possibilità che abbiamo per recuperare le restanti pergamene di Xena. Il mezzo su cui stiamo viaggiando sembra aver subito un guasto e ciò potrebbe ritardare ulteriormente il termine della nostra impresa. Fortunatamente, per il momento, questo è il più grande impedimento che abbiamo incontrato. Si spera che, avendo scelto di seguire la via attraverso le montagne, ciò ci eviterà incontri ravvicinati con le truppe naziste, che non vedrebbero di buon grado due donne americane in viaggio da sole.
 
Chiusi il libricino e ne accarezzai la copertura in pelle. All’inizio, quando mio padre me lo aveva regalato, diversi anni prima, il tessuto era stato brillante ed immacolato, ma il tempo non era stato clemente e sotto le mie dita la copertina era scolorita e sgualcita in diversi punti. Incastrai la matita nella costa, per poi riporre il tutto nella tasca interna della mia giacca, dove sarebbe stato al sicuro.
Annotare i miei movimenti su quel quadernetto era un’abitudine che avevo assunto da poco, ma lo avevo fatto con consapevolezza: se un giorno avessi dovuto raccontare le mie avventure, avere un diario a tenere traccia del mio percorso avrebbe semplificato di molto le cose.
Sbirciai fuori dal portellone, tentando di fare il minor rumore possibile per non svegliare la Covington. Eravamo ancora fermi alla stazione di Gevgelija, un piccolo paese al confine tra Macedonia e Grecia. Avevo origliato i discorsi dei macchinisti e, da quanto ero riuscita a capire dalla loro lingua a me poco familiare, il mezzo non sarebbe ripartito prima di diverse ore. Fortunatamente nessuno aveva avuto l’idea di ispezionare il carico, lasciando a me e alla mia compagna di viaggio la possibilità di proseguire in tranquillità fino a Salonicco.
Eccezion fatta per un paio di individui sudati e impolverati appoggiati alla fiancata del treno qualche vagone più avanti, non c’era anima viva.
Riaccostai delicatamente il portellone, attenta a non farlo cigolare e mi voltai a fissare Janice, ancora immersa nel sonno. A causa, probabilmente, del ricordo del freddo della notte passata, da quando avevo lasciato il suo fianco si era avvolta nella coperta come in un bozzolo, lasciandone sbucare solamente la testa, poggiata sullo zaino che aveva usato come cuscino. Così tranquilla mi parve una persona decisamente più tollerabile. Mi venne l’impulso di paragonarla ad una tigre dormiente, così maestosa nel riposo, quanto letale nella veglia.
La studiai in silenzio, seguendo attentamente con gli occhi ogni suo più piccolo movimento. Avrei pagato oro per poter dare anche solo una sbirciata ai suoi sogni, così da comprenderla meglio, per imparare a decifrare gli enigmi che si celavano dietro il suo torvo sguardo color smeraldo.
Non dovetti attendere molto prima che si svegliasse e mi augurasse il buongiorno con la sua consueta delicatezza: «Ho visto che mi fissavi, pervertita. Ti piace spiare la gente che dorme?»
Stabilii che non fosse il caso di cominciare la giornata con una litigata, quindi lasciai che le sue parole mi scivolassero addosso. Le passai la borraccia, quasi vuota, per farle bere qualche sorso e lei accettò di buon grado, poi dividemmo un po’ di pane e marmellata. Il vasetto era agli sgoccioli e la forma di pane secca, ma era l’unica colazione che potevamo permetterci.
«Perché non ci stiamo muovendo?» mi chiese la bionda, concluso il breve pasto.
«Deve esserci stato un guasto o qualcosa di simile» spiegai «Siamo praticamente al confine, a Gevgelija.»
«Il treno ha sostato in una città e tu non hai pensato di andare a fare provviste?» domandò in tono polemico, scoccandomi un’occhiata di rimprovero.
Tentai di balbettare una spiegazione plausibile, ma non riuscii a trovarne una.
«Hai sentito quanto ancora resteremo fermi?»
Annuii per poi aggiungere: «Almeno qualche altra ora.»
«Allora io vado» disse, senza lasciarmi possibilità di ribattere. Agguantò il proprio zaino, si calcò in testa il cappello, estrasse con un movimento fluido il revolver per verificare che non fosse bloccata nella fondina, poi, socchiudendo il portellone quel tanto che bastava, sgusciò fuori, scomparendo alla mia vista.
Attesi, perché non potevo fare altro. Provai a sonnecchiare, senza risultato. Rilessi qualche mio appunto sul diario, scarabocchiai una mappa il più verosimile possibile e delineai il nostro ipotetico percorso e quando mi stancai iniziai a lasciare che la mano agisse da sola, trasponendo sulla carta quello che mi frullava in testa.
Quando fissai la pagina adibita al mio sfogo notai innanzitutto lo schizzo del Chakram che avevo riprodotto a memoria, accompagnato da quelli che ad un primo sguardo sembravano ghirigori, ma erano in realtà parole della lingua antica. Seguii con i polpastrelli i lievi solchi lasciati dalla mina, decifrando quanto io stessa avevo inconsapevolmente scritto. La maggior parte dei simboli componeva nomi di persone e luoghi, ma c’erano anche termini del quotidiano, che proprio non riuscivo a giustificare. Ero certa ci fosse lo zampino di Xena. Dovevo assolutamente trovare le altre pergamene per dare un senso a tutto ciò.
Riposi il libricino al sicuro dopo aver ripercorso decine di volte quei sentieri di grafite, sicura che Janice fosse ormai sulla via del ritorno.
Dopo una manciata di minuti, infatti, il portellone venne fatto scorrere. Non vidi, però, il familiare e prezioso cappello della Covington a salutarmi, bensì tre soldati in divisa.
Mi congelai sul posto e loro spalancarono gli occhi, sorpresi.
Abbaiarono subito qualche frase in tedesco che, naturalmente, non compresi.
La mia situazione non poteva essere fraintesa: c’era ancora la coperta appostata a mo’ di giaciglio, la valigetta abbandonata poco distante e gli avanzi della colazione in bella vista. Ero chiaramente una passeggera abusiva.
Il più grosso di loro si fece avanti con aria feroce e mi afferrò malamente un braccio, trascinandomi giù dal treno. Non gli ci volle alcuno sforzo per bloccarmi, nonostante facessi del mio meglio per opporre resistenza.
Immobilizzata, non potei impedire ad un altro di cacciarmi le mani addosso alla ricerca di armi. Quando la perquisizione non gli portò frutti, mi afferrò il viso e sorrise, ghignando qualcosa ai compari. Disegnò il contorno delle mie labbra con un dito e assecondai il mio istinto tentando di morderlo.
L’uomo rise, di me e dei miei patetici tentativi di non lasciarmi sopraffare dalla paura.
Fui spinta fin dentro la stazione, sotto lo sguardo stupito di diversi addetti e passeggeri in attesa. L’edificio non era molto grande, quindi la mia cattura aveva subito calamitato l’attenzione generale, originando un brusio di sottofondo accompagnato da occhiate dei più vari generi.
Mi ritrovai in una stanza secondaria, con una scrivania dietro cui stava un altro individuo in divisa. L’uomo mi si rivolse prima in tedesco, poi in macedone e per finire in greco. Le ultime due lingue le capivo grossolanamente ed ero in grado di esprimermi con qualche frase, così gli dissi che parlavo inglese.
A quel punto lui, che era, chiaramente, il capo, spedì uno dei sottoposti da qualche parte e dopo un po’ egli fece ritorno con un interprete.
«Dunque, signorina» mi apostrofò l’ultimo arrivato, pronunciando quelle parole con un marcato accento germanico «Lei stava viaggiando clandestinamente sul mezzo in transito da Kavadarci. Vuole negarlo?»
Naturalmente quella sarebbe stata la cosa peggiore da fare, c’erano troppe prove contro di me, non mi restava che dire la verità. «No, non negherò.»
I tedeschi si guardarono l’un altro e il mio interlocutore spiegò loro quanto avessi detto.
Compreso che mi ero arresa all’evidenza dei fatti, gli uomini sorrisero in modo inquietante.
«In questo caso mi vedo costretto a farla scortare al presidio militare che ha sostituito la centrale di polizia. Là verrà valutato il suo reato e lei sarà punita di conseguenza.»
Ascoltai quelle parole come si trattasse di una condanna a morte. Quei manigoldi non mi avrebbero mai fatta arrivare al campo, mi avrebbero uccisa molto prima… Ma solo dopo essersi divertiti a dovere. Una donna, per di più americana, quindi nemica, non aveva possibilità di uscire indenne da quella situazione.
Ripresi la marcia come prigioniera, costeggiando i binari. Era chiaro che non stessimo andando al presidio, ma in qualche luogo più isolato. Ci fermammo dopo quella che mi parve un’eternità, ma non eravamo troppo lontani dal tracciato ferroviario perché potevo ancora sentire il rumore di treni in corsa.
I miei rapitori, a cui si era aggiunto l’uomo della scrivania, iniziarono a discutere animatamente davanti a me. Non ci voleva molta fantasia per immaginare quale fosse il fulcro della questione.
Un malconcio gabbiotto di manutenzione si trovava a pochi passi da noi. Pensai di gridare per chiedere aiuto, ma dallo stato in cui verteva, probabilmente era abbandonato da tempo. Avrebbero utilizzato quell’angusto spazio per fare i propri comodi.
Iniziai a tentare di far rallentare il battito del mio cuore, che sembrava un tamburo impazzito nel petto, per poter riportare un po’ di calma dentro di me. Il mio cervello era lanciato in contorti ragionamenti ed elaborava i peggiori scenari, che prevedevano comunque una mia triste fine nel giro di qualche ora al massimo.
Il sole si nascose all’improvviso dietro una nube, come se non volesse essere testimone di quanto mi sarebbe accaduto, lasciando che sulla landa attorno a noi calasse un’aura tetra.
Il bruto, che ancora mi teneva immobilizzate le braccia, iniziò a strattonarmi non appena la discussione scemò. Il capo avrebbe avuto l’onore di aprire le danze, come avevo intuito dal fatto che si stesse avvicinando al gabbiotto con aria soddisfatta.
In quel momento più che mai desiderai che lo spirito di Xena tornasse in mio aiuto e, in un certo senso, lo fece. Solo grazie al mistico legame con la mia antenata, infatti, una provvidenziale biondina venne richiamata nel luogo dell’imminente disastro e comparve in tutta la sua furia, con la pistola già puntata.
«Non è così che si tratta una signora» ringhiò, ripetendo la frase che aveva segnato il nostro incontro e, come in quell’occasione, notai che aveva il cappello ben calato in testa e la frusta che penzolava, pronta all’uso; le mancava però il sigaro. Sulle spalle aveva il suo zaino, a cui era appesa anche la mia valigetta. Doveva aver avuto il tempo di recuperare i nostri averi dal treno prima di venire in mio soccorso.
Con gesti fulminei, i soldati imbracciarono i fucili ed iniziarono a fare fuoco.
Janice si liberò dei pesi e si lasciò cadere, pancia a terra, per poi rotolare dietro un masso.
Il capo, ricongiunto ai commilitoni, prese a sbraitare ordini, ma si interruppe presto, quando un proiettile lo centrò in pieno petto. Il corpo cadde all’indietro con un tonfo sordo, sollevando uno sbuffo di polvere.
Gli altri si bloccarono per un istante, ma decisero di non demordere. Quello che mi teneva ancora a sé pensò di approfittarne, lasciando i due ad occuparsi della Covington per allontanarsi dal luogo dello scontro con me ancora prigioniera.
«Oh, no, non ci pensare!» gridò la mia compagna di viaggio, balzando fuori dal nascondiglio e sparando nella nostra direzione. Temetti, per un secondo, che una delle pallottole avrebbe finito per centrarmi, invece i due colpi si conficcarono nella testa del bruto, facendo schizzare sangue dappertutto.
Non riuscii a trattenere un urlo.
La coppia di superstiti, avendo intuito come si sarebbe conclusa la vicenda, mollò la presa sulle armi e corse a perdifiato nella direzione da cui eravamo venuti.
Nonostante sentissi le ginocchia farsi di gelatina, avanzai verso la mia salvatrice che, dal canto suo, aveva già ricaricato l’arma e si stava osservando il cappello.
«Maledizione» sbuffò rigirandoselo tra le mani «Un altro dannatissimo buco! Dovrei smetterla di salvarti la vita o finirò per ridurlo ad un colabrodo.»
La abbracciai, incapace di ringraziarla in altro modo.
«E staccati!» sbottò tentando di allontanarmi «Mi imbratterai la giacca!»
Ubbidii, notando solo allora che fossi coperta di schizzi rossastri.
Jan lanciò uno sguardo ai cadaveri abbandonati poco lontano e commentò scuotendo la testa: «Non mi piace ricorrere a tanto, togliere una vita dovrebbe sempre essere l’ultima delle opzioni.»
Il mio silenzio le bastò come assenso.
«Adesso dobbiamo trovare un nuovo passaggio fino a Salonicco» osservò, tendendo l’orecchio in direzione del fischio di un treno «Ma prima sarà meglio darti una pulita… Speriamo che in periferia ci sia qualcuno disposto a farti fare una doccia senza troppe domande.»
Senza parlare, ci avventurammo alla ricerca di un edificio abitato. Dopo un’oretta di vagabondaggio, trovammo una grande casa, circondata da un cortile in cui scorrazzavano un po’ di animali.
«Lascia fare a me.» La frase suonò come un incontestabile ordine e come tale lo presi.
La Covington entrò e uscì poco dopo dicendomi che potevo seguirla. Mi guidò fino ad un bagno in cui era stato sistemato un bacile di rame con accanto un secchio.
«Riempilo quanto ti pare, lavati, poi dai una sciacquata ai vestiti» mi spiegò «Lì c’è un pezzo di sapone.»
Eseguii gli ordini il più in fretta possibile e, quando ebbi terminato, mi rimirai in uno specchio, constatando che avevo un aspetto decisamente migliore.
Dopo essermi ripulita, feci la conoscenza dei padroni di casa, una coppia di anziani che viveva dei propri risparmi accumulati in anni di lavoro, prendendosi cura del proprio pezzetto di terra e delle proprie bestie.
Ci offrirono il pranzo e noi accettammo volentieri, mangiando un paio di uova sode, accompagnate da una specie di zuppa di cereali e verdure lesse. Jan mandava avanti la conversazione, fermandosi ogni tanto per tradurmi quello che veniva detto dai nostri ospiti.
Ce ne andammo quando ormai era pomeriggio inoltrato, con le borse un po’ più piene e il cuore più leggero.
«Dobbiamo tornare alla stazione e sperare di trovare un altro passaggio per Salonicco» disse Janice quando ci fummo incamminate «Ormai dovremmo impiegare solo un altro giorno, c’è da augurarsi che i tedeschi non ci diano ulteriori problemi…»
Avvistammo un treno merci che sembrava fare proprio il caso nostro. Dopo esserci accertate della sua destinazione, ci intrufolammo in uno degli ultimi vagoni, prendendo posto accanto a pile di casse piene di vestiti ed oggetti vari di uso quotidiano.
Quando calò il buio, decidemmo di accendere la nostra malconcia lanterna, assicurandoci che la luce non fosse individuabile dall’esterno, per poter pasteggiare non nella più totale oscurità.
Sbocconcellai controvoglia il mio panino. La tensione della mattinata era tornata, chiudendomi lo stomaco e riempiendomi la mente di inquietanti fantasmi.
Il silenzio proseguiva a farla da padrone. Non sapevo cosa dire e la Covington non doveva avere grandi discorsi da fare a propria volta.
La serata sarebbe trascorsa nel più totale mutismo se non fosse stato per la mia goffaggine. Alzandomi per andare a verificare la fonte di un rumore che avevo sentito provenire dalla parte opposta dello spazio, persi l’equilibrio, cadendo rovinosamente sul cappello che la bionda aveva, incautamente, appoggiato per terra vicino a sé.
«No! No! No!» strillò, tirando via con forza il copricapo da sotto il mio fondoschiena «Non di nuovo…»
«Scusami» pigolai «È stato un incidente…»
«Certo, come no? Questo è cappellicidio volontario!» ribatté «E dire che ti ho già spiegato quanto sia prezioso per me.»
Inclinai lievemente il capo, assumendo un’espressione confusa. «Non mi hai spiegato proprio un bel niente.»
Con un sospiro, mi fece cenno di sedermi accanto a lei, poi iniziò a raccontare. «Tutto ha avuto inizio a Boston, la mia città. Mio padre non era di buona famiglia ed i suoi genitori avevano dovuto fare molti sacrifici per poterlo mandare al college, dove aveva studiato storia e si era diplomato con il massimo dei voti. Appena terminati gli studi, non avendo trovato un ruolo da ricoprire nell’università, si era deciso a fare il cameriere in tre diversi locali per ripagare il debito scolastico e aiutare a mantenere i miei nonni dopo tutto quello che avevano fatto per lui. Una sera, mentre era di turno, vide entrare un gruppo di ragazze dall’aria sofisticata, non aveva idea di cosa ci facessero delle così giovani esponenti dell’alta società in quella bettola. Scoprì in seguito che una di loro aveva organizzato un incontro romantico e si era trascinata dietro le amiche. Una di queste fanciulle di “supporto” era mia madre. Sai quando si dice amore a prima vista, no?»
Fissò su di me i suoi luminosi occhi verdi e notai le sue labbra incurvarsi in un sorriso nostalgico.
«Erano molto innamorati, ma i genitori di mia madre, naturalmente, non volevano che perdesse tempo con qualcuno di una classe sociale tanto bassa, lei, però, si rifiutò di lasciare papà. Le tagliarono i fondi. Allora mia madre fu costretta a fare una cosa che non aveva mai fatto: lavorare per guadagnarsi da vivere. Non molto tempo dopo, nacqui io e le cose si fecero ancora più complicate perché i soldi erano sempre gli stessi, ma c’era una bocca in più da sfamare. Quando avevo quattro anni, mio nonno paterno si ferì gravemente in fabbrica e non poté più continuare col lavoro. Eravamo sempre in bolletta. Fu allora che mia madre se ne andò. Chiese perdono ai genitori e si fece riammettere tra le alte sfere. Non l’ho più vista da allora. Pochi mesi dopo, il nonno morì, lasciando che fossero papà e la nonna ad occuparsi di me.»
Non avevo il coraggio di interromperla, avevo paura che se lo avessi fatto quella strana aura incantata che ci stava avvolgendo si sarebbe spezzata, lei sarebbe tornata a chiudersi a riccio ed io non avrei mai potuto vedere cosa si celava dietro l’atteggiamento da dura.
«Era una mattina di gennaio, insolitamente calda per essere pieno inverno nel Massachusetts. La nonna era appena tornata dopo aver finito il turno notturno, glielo si leggeva in faccia che fosse a pezzi, lavorava troppo per la sua età. Mi portò con sé a fare compere. Entrammo in un negozio dall’aria costosa e io mi chiesi per quale motivo, dato che la sentivo sempre lamentarsi per la mancanza di soldi. Sorrise al commesso che le allungò una grossa scatola con un fiocco. Me la affidò, dicendo di fare la brava e di aspettarla lì, sarebbe andata a ritirare un'altra cosa qualche bottega più in là. Annuii, annoiata di dover rimanere lì, volevo andare con lei. Sapevo essere piuttosto seccante per una bambina di sei anni, ma non volle sentire ragioni. Era il 15 gennaio 1919, il giorno del “disastro della melassa”, solo più tardi notai che fosse anche il compleanno di mio padre. Un serbatoio della Purity Distilling Company esplose, riversando quasi nove milioni di litri di melassa in Commercial Street. Ci fu un’onda altissima, mi dissero, che sbriciolò gli edifici vicini, uccidendo circa venti persone. Mia nonna era tra loro. Io vidi solo un’ombra scura e sentii un forte odore dolce, poi venni sballottata all’interno del negozio a causa dell’impatto della melassa contro i palazzi. Ne uscii incolume. Ci vollero mesi per ripulire il quartiere e ancora oggi odora di melassa, dicono sia il prezzo da pagare per quell’incidente, ma la mia famiglia ha pagato un prezzo ancora più alto.»
Si fermò per un attimo, portandosi il copricapo in grembo e accarezzandolo come fosse un cucciolo.
«Quando papà mi venne a recuperare, era sconvolto. La prima cosa che feci fu consegnargli il pacco, era l’unica azione che lo shock mi permetteva di compiere. In un surreale contesto di persone urlanti e macerie rese appiccicose dalla salsa, lui tirò fuori questo cappello, se lo piazzò in testa e mi prese in braccio. Il resto è un ricordo confuso, so solo che una settimana dopo lasciammo Boston ed iniziammo a muoverci in giro per tutti gli Stati Uniti. Mio padre iniziò ad offrirsi come consulente presso diverse università e mi portava con sé, fu così che imparai ad amare la storia. Poi, quando si fu fatto un nome di tutto rispetto, decise di passare a lavorare sul campo, qui in Europa e, naturalmente, lo seguii. Avevo circa quindici anni quando iniziarono i guai, i soldi continuavano a non essere molti e il modo più efficace per farne tanti e in fretta era rivendere qualche oggetto rinvenuto nei siti… Ai suoi colleghi, però, questo non andò a genio e così cominciarono a parlar male di lui. Quelle malelingue gli avvelenarono il sangue, lo vidi farsi sempre più l’ombra di se stesso, l’unica cosa che teneva acceso il fuoco nei suoi occhi era trovare le pergamene di Xena. Si spense poco dopo aver finalmente identificato il sito che tanto aveva bramato esplorare. Durante tutti quegli anni non l’ho mai visto levarsi il cappello, l’ha tenuto con sé fino all’ultimo, un estremo gesto di affetto nei confronti di sua madre.»
Rimasi attonita. Che cosa le era preso per mostrarsi così vulnerabile?
Dopo appena un istante, come se si fosse all’improvviso resa conto del momento condiviso, Janice si rannicchiò su se stessa e nascose il viso tra le ginocchia, stringendosi la testa. «Che diavolo mi ha preso?» mugugnò contro la stoffa dei propri consunti pantaloni.
Mi preparai a rispondere, ma lei bloccò le mie parole sul nascere.
«Insomma, non sono cose che vado in giro a rivelare al primo tizio che passa per strada e, certo, tu non sei proprio una sconosciuta, ma non siamo neppure così in confidenza! Allora perché mi sono sentita così a mio agio da raccontarti tutto? Sai cosa? Deve essere stato perché quando ti vedo mi ricordo del modo gentile con cui mi ha tratta Xena mentre era nel tuo corpo. Sì, deve essere per quello. Tu non mi piaci affatto, ma il mio giudizio è offuscato dall’aura della Principessa Guerriera.»
Tutta la compassione e la tenerezza che avevo provato fino ad un attimo prima vennero eclissate da un nuovo senso di dispetto, quasi di gelosia, nei confronti della mia antenata, unito, naturalmente, ad un rinnovato disprezzo per la mia compagna di viaggio.
«Beh, anche io stavo meglio senza di te» sbottai in risposta.
«Saresti morta.»
Rimasi spiazzata da quella replica e tentai così di riportare il discorso su un terreno a me più favorevole. «E comunque nessuno ti ha minacciata e costretta a raccontarmi la storia della tua vita.»
Per qualche minuto l’unico rumore che rimbombò tra le pareti di legno del vagone fu il ritmico stridere e cigolare delle ruote del mezzo sui binari. Eravamo all’ennesimo stallo. Due personalità forti ed opposte, costrette a trovare una via di dialogo.
Per quanto il mio orgoglio ferito mi imponesse di continuare a fare il muso duro, mi resi conto di una cosa e immediatamente i sentimenti negativi tornarono a rifugiarsi in un angolo nascosto del mio essere.
«Mi dispiace molto per quello che è successo a tua nonna» dissi «E anche per ciò che poi è capitato a tuo padre. E grazie per avermi salvata oggi.»
Era decisamente l’ultima frase che si aspettava di sentirmi pronunciare, come mi fu chiaro dall’espressione sorpresa che assunse.
Era il mio turno di rivelare qualcosa di me. Pensavo che, forse, così si sarebbe sentita più a suo agio per essersi lasciata andare a quell’attimo di fragilità.
«Io sono nata a Summerville, in South Carolina. È una città piuttosto tranquilla e mi piaceva viverci, ma quando mio padre divenne direttore della University of South Carolina di Columbia, mia madre, i miei fratelli ed io ci trasferimmo per stargli vicino. Ho passato anni sereni, annidandomi dietro la cattedra di papà ad ascoltare le sue lezioni. Non ci ho messo molto ad innamorarmi delle lingue antiche e, grazie sia alla mia propensione sia al supporto dei miei genitori, ho deciso di assecondare questa passione, seguendo le orme di mio padre. Dopo la vittoria del Nobel, in molti hanno iniziato a cercare di accaparrarsi i favori dell’ormai celebre professor Pappas, ma lui non si è mai lasciato abbindolare, ha dato il suo aiuto a chi davvero ne avesse bisogno, lasciandosi coinvolgere in questioni che potesse trovare, a suo dire, “interessanti”. Sono certa che, se non si fosse ammalato, ti avrebbe certamente contattato in merito alla questione delle pergamene. Le sue lontane origini greche lo hanno sempre molto affascinato, scoprire di discendere dalla leggendaria Xena lo avrebbe esaltato all’inverosimile.»
Tacqui, notando che Janice aveva una faccia strana.
«Che cosa ti prende?» domandai.
I suoi occhi erano lucidi al bagliore della lanterna, il suo colorito si era fatto stranamente pallido. Scattò in piedi portandosi una mano davanti alla bocca. Con un balzo si trovò davanti al portellone, lo aprì quel tanto che bastava per cacciarci fuori la testa e iniziò a dare sfogo ai conati.
Mi avvicinai piano, andandole a tirare indietro le lunghe ciocche bionde che, sfuggite alla coda, tentavano di scivolarle sul volto.
Il corpo esile della Covington venne scosso sempre meno, fino a placarsi del tutto. A quel punto le porsi un po’ d’acqua per sciacquarsi la bocca, poi mi fece recuperare una fiaschetta che teneva nello zaino e ne prese un breve sorso.
Portai due dita a sfiorarle la fronte e sentii che era calda.
«Ma tu hai la febbre!» esclamai apprensiva.
«Non è niente» replicò, facendo per scansarmi.
Le bloccai le braccia e la costrinsi a guardarmi negli occhi. «Non stai bene» scandii «Devi riposare e stare al caldo.»
«Sarà solo un piccolo sfogo del mio corpo in risposta a tutto lo stress di questa mattina» spiegò con noncuranza, mentre tentava di sfuggirmi «E comunque non ho bisogno della balia.»
«Poche storie» sentenziai, trascinandola verso il giaciglio mezzo approntato. Dovetti ricorrere a tutta la mia dose residua di forza fisica perché la biondina, nonostante fosse minuta, si era improvvisamente trasformata in un blocco di granito inamovibile. Fortunatamente, forse grazie all’influsso di Xena, riuscii a sollevarla leggermente da terra e la convinsi a sdraiarsi sopra la sottile pila di panni che avevamo recuperato dalle casse.
La costrinsi a bere ancora una volta e le rimboccai la nostra preziosa coperta quasi fin sopra la testa.
«E tu dove dormirai?» chiese, stropicciando il bordo della trapunta, una volta che si fu del tutto arresa.
«Mi arrangerò.»
«Non dire cretinate, hai bisogno di riposare anche tu. Ci aspettano giorni difficili e forse non potremo più passare un’intera notte di sonno» replicò.
In effetti, non aveva tutti i torti. Avevo sonno e desideravo abbandonarmi all’invitante abbraccio di Morfeo, ma ogni volta che chiudevo gli occhi sentivo di nuovo le risate dei tedeschi e nel buio mi pareva che si celassero decine di mani pronte ad afferrarmi ferocemente come aveva fatto il soldato.
Come in un flash, gli schizzi di sangue del bruto sembrarono ricomparirmi addosso e venni scossa da un brivido.
«Prendi la lanterna» mi ordinò Jan, puntando su di me le sue iridi smeraldine.
Afferrai la nostra tremula lucina e gliela porsi.
«Lasciala qua vicino.»
La poggiai come mi veniva richiesto.
«Vuoi tenerla accesa? Capirò se mi dirai di sì, so che la mente inizia a giocare brutti scherzi quando calano le tenebre.»
Non le risposi, sottintendendo un assenso.
«Allora, sdraiati» continuò con tono vagamente imperioso, indicando la parte di materasso improvvisato rimasta vuota «Se davvero vuoi assicurarti che stia meglio, devi starmi vicina per tenermi al caldo o la febbre non calerà.»
Ancora una volta, non potei contestare. Sfilai le braccia dalle maniche della giacca, ma non me la tolsi, lasciando che fungesse da ulteriore coperta. Mi abbandonai su un fianco, trovandomi faccia a faccia con la Covington.
«Dunque…» trovai il modo di mormorare «Buonanotte?»
«Era una domanda?» ridacchiò l’archeologa, permettendomi di notare che un po’ di colore stava tornando a farsi vivo sulle sue gote.
«In un certo senso…» balbettai incerta «Ma non ha importanza» sentenziai «Dormi bene.»
Chiusi gli occhi con forza e mi ordinai di tenerli serrati fino a che non avessi sentito il respiro della mia vicina farsi più pacato.
Dopo una decina di minuti, la sentii voltarsi, dandomi quindi la schiena. Ero abbastanza vicina da poter percepire il calore irradiato dal suo corpo febbricitante. Avrei voluto fare ancora qualcosa per essere d’aiuto.
Socchiusi una palpebra e avanzai di qualche centimetro, portando la schiena di Janice a contatto con il mio petto. Spostai piano la mia giacca fino a coprire anche lei, poi lasciai che il mio braccio, come animato da volontà propria, scivolasse a cingere il suo fianco.
Non ci fu alcuna replica verbale, ma la Covington, quasi facendo finta di niente, indietreggiò un po’, aderendo ancora di più a me.
Sorrisi, anche se non seppi spiegarne il motivo, e mi addormentai al sicuro dalle inquietudini.


NdA: e rieccomi qui. Sono grata di aver iniziato a pubblicare anche questa storia, così il trauma della fine di Second Chance non è riuscito ad avere su di me l'impatto negativo che temevo. Ma cianco alle bande, avrete notato, forse, che i capitoli hanno lunghezze piuttosto diverse, per il semplice fatto che durante alcune giornate accadono più eventi e durante altre meno, quindi non sorprendetevi se alcuni sono lunghi il doppio di altri. Detto ciò, un grazie a tutti coloro che hanno letto, aggiunto la storia tra le preferite/ricordate/seguite e un grazie a Stranger in Paradise per essere sempre pronta a farmi sapere cosa ne pensa, un grazie sempre speciale a wislava per il suo aiuto nella revisione e un altro grazie a Petricor75. Se tutto va bene, signore e signori, ci ritroveremo venerdì 20, vi aspetto, nel frattempo buona lettura e buone cose. Alla prossima.

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Capitolo 3
*** 30 Aprile 1942 ***


The incredibly true story of two friends on a quest

 
Riaprii gli occhi dopo un tempo indefinito. Avevo la testa poggiata sul lato sinistro, nella stessa posizione in cui mi ricordavo di essermi addormentata. Una luce fioca proveniva dalla periferia del mio campo visivo, principalmente occupato da una testa bionda.
Un odore di fresco mi investì le narici, seguito da un vago sentore di fumo. Mi sembrava di trovarmi in una pineta, accanto ad un falò. Provai a tirarmi su, ma una spessa coltre di pelli mi ricopriva e mi limitava nei movimenti, mentre un altrettanto morbido strato mi separava dal terreno. Allungai una mano, avvicinandola a poco a poco alla donna lì accanto. Seguii le sue forme, indovinandole come a memoria, percorrendo ad occhi chiusi i lacci del corsetto e l’orlo della gonna.
Sbattei le palpebre e tutto parve oscillare.
Il verde sullo sfondo venne sostituito da un colore più scuro, il profumo silvestre scomparve, le braci scoppiettanti si tramutarono nella fioca luce di una lanterna e la misteriosa figura al mio fianco tornò ad essere la scontrosa biondina con cui mi ero coricata.
Fortunatamente sembrava non essersi accorta della mia mano, ancora intenta a percorrere la sua schiena, perché ero perfettamente conscia del fatto che, se mi avesse sorpresa ad accarezzarla in quel modo, me l’avrebbe fatta pagare cara.
Con cautela, ritirai l’arto e poi sgusciai fuori dallo spartano giaciglio.
Mi stiracchiai, allungando le braccia dietro la testa per distendermi il più possibile. Le membra intorpidite mi diedero noia in un primo momento, intenzionate a non abbandonare quello stato di intirizzimento. Molleggiai un po’ e sgranchii bene le gambe.
Terminata quella breve sessione di ginnastica continuai con il mio rituale mattutino, tuffandomi fino al gomito dentro la mia valigetta ed estraendone uno specchietto, con cui verificai di non avere una faccia troppo malconcia. Raccolsi una delle borracce e mi spruzzai un po’ d’acqua in viso, nella speranza che contribuisse a svegliarmi.
Nella mia testa frullavano diverse domande, la prima tra tutte era: per quale ragione avevo avuto quella bizzarra allucinazione?
Dopo una decina di minuti di elucubrazioni infruttuose, recuperai con cautela il mio diario dalla giacca, ancora poggiata sulle spalle di Janice, e mi misi a scrivere per sgombrare la mente.
 
Diario di Melinda P. Pappas
30 Aprile 1942, tratta ferroviaria Kavadarci - Salonicco, posizione non definita
Dopo una imprevista e poco piacevole sosta prolungata a Gevgelija, abbiamo ripreso a viaggiare in direzione di Salonicco, in ritardo di mezza giornata rispetto al piano originale. Sarebbe stato preferibile arrivare in città di notte, ma faremo a meno del favore delle tenebre per allontanarci il prima possibile in direzione delle vicine montagne. Prevedo che trascorreremo la giornata a recuperare l’occorrente per il seguito della nostra avventura.
 
Fissai il breve paragrafo ed inspirai profondamente, prima di riappoggiare la matita sulla carta.
 
Nota personale: ho avuto uno strano flash, su cui vorrei indagare. Credo che, come per altre sensazioni provate nelle ultime settimane, dietro di esso ci sia Xena e la sua intrusione nel mio corpo avvenuta durante lo scontro con Ares. Forse, sarebbe saggio parlarne con la Dr.ssa Covington.
 
Rilessi quelle poche righe un paio di volte, poi, con foga, le nascosi sotto un fitto intreccio di linee. Quello doveva essere un resoconto delle nostre imprese, non c’era spazio per simili insensate esperienze personali.
«Cosa ti ha fatto di male quel foglio?»
La domanda, posta con voce impastata e ancora assonnata, risuonò sovrastando il rumore del convoglio lanciato in corsa.
«Ha osato prendersi gioco della tua acconciatura?» continuò scherzosa Jan, avviluppandosi ulteriormente nella coperta, quasi volesse assorbirne ogni traccia di calore residuo.
Recuperai ancora il piccolo specchio e notai come un grosso nodo fosse sfuggito alla mia prima, superficiale, occhiata. Sembrava che un qualche uccellino avesse deciso di nidificare sulla sommità della mia testa, preparandosi una comoda dimora raspando con le piccole zampe unghiate tra la mia chioma.
Troppo intenta a valutare i danni di quel groviglio, non mi accorsi della Covington, che, furtiva come la tigre a cui l’avevo paragonata il giorno precedente, mi aveva raggiunta.
«Potrà sembrarti strano, ma ho un pettine nello zaino. Vuoi una mano?» propose con tono improvvisamente gentile e innocente.
La guardai sottecchi con scetticismo, aspettandomi che scoppiasse a ridere o se ne uscisse con una battuta, ma non lo fece.
«Dici sul serio?» chiesi, incredula.
«Puoi trovarlo difficile da credere» replicò «Ma sono anche io un essere umano dotato di compassione… E poi diciamo che sono in debito con te, dopo ieri sera.»
Tutto d’un tratto mi ricordai della febbre ed esclamai: «Che idiota che sono! Stai meglio?»
Senza aspettare che aprisse bocca, portai le labbra sulla sua fronte per rilevarne la temperatura.
Sembrò volersi sottrarre a quel mio attacco improvviso, ma alla fine non si mosse, si limitò a mormorare: «Sto bene.»
Quando me ne fui accertata, mi scostai da lei, con non poco imbarazzo, che aumentò non appena notai il rossore sulle sue guance. Con qualche colpetto di finta tosse decretai concluso il momento. «Allora, questo pettine?»
Trascorsi un quarto d’ora seduta con le gambe incrociate sopra quello che era stato il nostro materasso, mentre, alle mie spalle, l’archeologa armeggiava con le mie ciocche. A lavoro finito tornai a specchiarmi e notai con piacere che la matassa di capelli era stata districata, ridonandomi un aspetto più curato.
«Grazie, è stato molto carino da parte tua» dissi con un sorriso.
Un lampo di soddisfazione attraversò gli occhi verdi di Janice, ma non appena lei aprì bocca, scomparve. «Non osare mai più dire che ho fatto qualcosa di “carino”. Ho una reputazione da difendere, io.»
Ridemmo entrambe di gusto, poi ci concedemmo un paio di biscotti per colazione con una fetta di pane e marmellata.
Sbirciando fuori dal portellone scoprimmo che l’alba era passata da poco, quindi, stando alle nostre approssimazioni, ci sarebbero volute ancora alcune ore prima di fermarci a Salonicco.
«Cosa vogliamo fare, nell’attesa?» domandò la Covington, posizionandosi l’immancabile cappello in testa, che fino ad allora era rimasto riposto accanto al suo zaino.
«A meno che tu non mi abbia tenuto nascosto anche un mazzo di carte e voglia fare una partita, potremmo decidere come agire una volta scese dal treno.»
Stesi la mappa e iniziammo a discutere animatamente, fino a che non stabilimmo che la nostra prima tappa sarebbe stata il monte Chortiatis, che ci avrebbe portato lontane dalla costa, ma ci avrebbe permesso di percorrere una serie di passi sulla catena montuosa, così da avvicinarci alla nostra meta ultima.
Dopo un paio d’ore raggiungemmo la periferia nord della città. Non eravamo certe di quale fosse la stazione in cui il nostro mezzo di trasporto si sarebbe fermato, ma a prescindere da ciò, il luogo sarebbe stato probabilmente tenuto d’occhio dai tedeschi. Così, a Jan venne un’idea.
«Saltiamo!»
Sbarrai gli occhi, convinta di aver capito male.
«Aspettiamo che il treno rallenti e, prima che entri in città, balziamo giù e aggiriamo Salonicco, evitando di finire tra le grinfie dei nazisti.»
Sbattei le palpebre senza emettere suono. Era un piano sensato, ma decisamente non privo di rischi, degno del suo spirito di avventuriera.
Attendemmo il momento propizio con trepidazione, dopo aver preparato in tutta fretta i bagagli ed esserci imbottite i vestiti con qualche straccio, per creare una rudimentale protezione onde evitare troppi danni da caduta.
Quando udimmo il fischio di un’altra locomotiva in avvicinamento, capimmo che la nostra occasione si sarebbe presentata a breve. Dopo qualche minuto, infatti, iniziammo a rallentare, probabilmente in attesa che venisse attivato uno scambio ferroviario per far sì che i convogli non si scontrassero.
«Andiamo!» gridò la Covington, afferrandomi il polso.
Ci stavamo ancora muovendo, ma non ci sarebbe stato istante più adatto, la velocità non era sostenuta e il terreno che costeggiava i binari era un verde prato erboso, non avremmo potuto trovare atterraggio più morbido.
I miei piedi si staccarono dal pavimento del vagone e il terrore mi paralizzò, ma le dita di Janice, ancora serrate attorno al mio avambraccio, sembrarono infondermi calma e coraggio. Mi parve, solo per qualche secondo, di aver già provato quella sensazione decine, forse centinaia di volte, come se in passato fosse già capitato.
Impattati contro il terreno con violenza, sbattendo la spalla sinistra. La bionda aveva, ovviamente, lasciato la presa su di me poco prima di schiantarsi e la sentii lamentarsi debolmente, mentre ancora ero intenta a contare di avere tutte ossa a posto.
«Niente di rotto?» domandai quando fui certa di non aver riportato ferite gravi.
«Ho preso una brutta botta alla gamba destra, ma sopravvivrò» fu la risposta dell’archeologa.
Barcollai verso di lei, trascinando dietro di me il mio esiguo bagaglio.
«Riesci a camminare? Devo aiutarti? Vuoi che vada a cercare un medico?» iniziai a tempestarla di domande, vedendo che si massaggiava insistentemente la caviglia.
«Tranquilla» ridacchiò, mettendosi in piedi con un guizzo che non mi sarei aspettata «Sto bene. Mi pare di averti già detto che non ho bisogno della balia.»
Viaggiammo affiancate alla via ferrata per diversi chilometri, avanzando sotto un sole pallido, attraversando diversi campi, fino a che non incontrammo un casolare. Jan entrò per chiedere indicazioni, mentre io ne approfittai per sgattaiolare ad usare il bagno.
Le due donne che trovammo in casa confermarono che ci trovavamo poco a nord di Salonicco e se avessimo proseguito abbastanza ad est saremmo arrivate sulle vicine colline entro la fine della giornata.
Ringraziammo e ci rimettemmo in marcia.
Il giorno trascorse tranquillo, passo dopo passo su strade sterrate e polverose. Quando preparammo il campo per la sera, desiderai ardentemente di avere una doccia a disposizione, ma dovetti accontentarmi di qualche sorso per placare l’arsura della mia gola, senza la possibilità di lavarmi.
«Domani troveremo una fontana per rinfrescarci, principessa» disse la mia compagna di viaggio, scuotendo via la polvere dal cappello e dagli stivali «Saremo costrette a fare tappa in un qualche paese per acquistare attrezzatura da montagna. Non posso farti iniziare una scalata con quei sandali» proseguì indicando col capo le mie calzature.
Li slacciai e li poggiai al fondo del giaciglio che, ancora una volta, consisteva in una stuoia ottenuta con gli stracci rubati e veniva completato dalla nostra inseparabile coperta.
Mi accomodai sul fianco destro, osservando così il boschetto che ci circondava. Fuori dal cerchio di luce proiettato dalla lanterna, potevo udire muoversi le più svariate creature, che si lanciavano richiami lugubri tra i tronchi scuri.
Sentii Janice darsi un’ultima sistemata prima di sdraiarsi al mio fianco.
«Buonanotte, Mel» bofonchiò e percepii il suo respiro lieve contro il mio collo, facendomi capire che era posizionata come avevo fatto io la sera precedente.
«Buonanotte» replicai, stringendo il bordo della coperta e avvicinando i pugni al viso per intrappolare un po’ di calore.
Dopo un minuto, la testa bionda si poggiò contro il mio dorso e le gambe della Covington si appiccicarono alle mie. Non credevo si trattasse solo di una questione di freddo, anche se la temperatura era effettivamente bassa, ero convinta che lo avesse fatto perché, non lo avrebbe mai ammesso, le piaceva starmi vicino. O, forse, era ciò di cui volevo convincermi.



NdA: salve, signore e signori. Come promesso, in aggiornamento regolare (ancora mi pare incredibile di aver trovato il modo di mantenere le scadenze), ecco il capitolo tre. Avevo già accennato che i vari aggiornamenti avrebbero avuto lunghezze diverse, per cui mi spiace che quello di questa volta sia la metà dello scorso, ma è andata così. Ringraziamenti lampo a wislava, a chi ha aggiunto la storia tra le preferite/ricordate/seguite e un super grazie a Stranger in Paradise per le sue immancabili recensioni. Vi saluto, sperando di ritorvarvi tra due settimane. A presto.

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Capitolo 4
*** 1 Maggio 1942 ***


The incredibly true story of two friends on a quest


 
Diario di Melinda P. Pappas
1 Maggio 1942, periferia di Salonicco, Grecia
La Dr.ssa Covington ed io proseguiamo nel nostro viaggio verso Potidaea, decise a seguire la via montana. Al momento ci stiamo dirigendo verso la cima del Chortiatis, scalandolo dal versante nord-occidentale.
 
Chiusi il quadernetto, rendendomi conto di non sapere cosa aggiungere.
«Hai finito con il tuo diario segreto? Hai scritto di volere un pony?» mi punzecchiò la bionda, scuotendo la coperta prima di ripiegarla e legarla al proprio zaino.
«È una cronaca dei nostri spostamenti» la informai «Così, quando dovremo trasmettere la nostra impresa ai posteri avremo questo documento a fornirci con precisione le tappe seguite.»
«Allora fammelo leggere.»
Nonostante non ci fosse effettivamente nulla di che, l’idea di darle tra le mani il mio piccolo tesoro mi turbò e ciò mi portò a replicare con un secco e deciso: «No.»
Lei sembrò rabbuiarsi per la mia risposta tanto dura ed ogni mio successivo tentativo di alleggerire l’atmosfera si rivelò inutile.
Marciammo di buon passo sulla strada che cominciava a farsi via via più ripida, incontrando solo qualche artigiano o improvvisato mercante che scendeva da un villaggio in quota diretto in città per vendere parte dei propri prodotti. La maggior parte di loro si tirava dietro un carretto pericolante o una bicicletta malconcia, ma uno di loro camminava tranquillamente a fianco di ciuco carico di pacchi mal assicurati con diverse corde.
Quando il duo ci venne incontro, l’archeologa ed io ci spostammo di lato, per lasciarli passare, dato che il sentiero non era particolarmente ampio.
L’uomo ci fece un cenno di ringraziamento con la testa, poi, tirando leggermente la briglia che aveva in mano, invitò la bestia ad avanzare, ma quella, senza alcuna ragione, impuntò gli zoccoli, facendo ruzzare per terra il padrone e sbilanciando, con il contraccolpo, parte della merce, che cadde ai miei piedi.
Janice si precipitò a soccorrere lo sventurato, mentre io mi chinai per recuperare il pacco. Rialzandomi, mi colpì un breve giramento di testa e, dopo che ebbi sbattuto le palpebre, non trovai davanti a me l’asinello, ma un cavallo dal pelo chiaro. Le redini, robuste ma consumate, pendevano come in attesa di essere impugnate e la sella, chiaramente molto utilizzata, non aspettava altro che io vi balzassi con un salto.
Chiusi gli occhi per qualche secondo ed inspirai profondamente. Iniziai a recitare un mantra, nel tentativo di convincermi che quelle visioni fossero frutto della stanchezza e del mio nuovo e frenetico ritmo di vita.
Socchiusi solo l’occhio destro, per verificare che la realtà fosse tornata al proprio posto.
Il ciuchino scosse il muso, infastidito da un paio di mosche, e ragliò verso il proprietario.
Restai imbambolata mentre la mia compare veniva ampiamente ringraziata dall’uomo, che, dopo aver perdonato il riottoso compagno, poté riprendere il proprio viaggio verso Salonicco.
«Tutto bene, principessa?» udii domandarmi, mentre ero ancora con lo sguardo fisso, perso nel vuoto.
«Non proprio» ammisi «È già la seconda volta…»
«Cosa?»
Mi ripresi ed osservai il viso preoccupato della Covington. «Non è niente di grave» la tranquillizzai «Solo qualche momento di blackout ogni tanto.»
Jan assunse un’espressione interrogativa, che faceva chiaramente trasparire il suo desiderio di approfondire l’argomento.
«Riguardano Xena, credo. La sua intrusione nel mio corpo deve avermi lasciato qualche danno al cervello…»
«Oh, io non penso proprio» ridacchiò la bionda «Sono convinta che quelli ci fossero ben da prima.»
«Hai mangiato pane, marmellata e simpatia per colazione?» ribattei, con lo stesso tono.
«Tu no a quanto pare» rispose tornando improvvisamente seria «Ti sei alzata col piede sbagliato?»
«No.» Ero sincera, non era una semplice questione di luna storta, però era vero che qualcosa in me non stava funzionando a dovere.
«Senti» tentò di contrattare la Covington «Archiviamo tutta questa storia e ricominciamo da capo la giornata. Niente litigate fino a sera e niente prese in giro.»
Mi tese la mano ed io la strinsi con forza.
«Quando avrai voglia di parlarmi di questa cosa dei blackout, io sarò qui» concluse, prima di ripartire lungo la salita, saltellando come un gioioso stambecco.
Scossi leggermente il capo e la seguii in silenzio.
Verso mezzogiorno raggiungemmo la cittadina di Filyro. Era un centro piuttosto grande, adagiato in una verde vallata, circondata dai folti alberi che crescevano tra i colli. Ci infiltrammo nelle vie, sotto lo sguardo severo degli abitanti che, però, nonostante sembrassero non gradire stranieri, non ci diedero alcun fastidio.
Come avevamo sospettato, non c’era traccia di tedeschi in zona, il che ci tranquillizzò e ci concesse di girovagare con più calma. Trovammo una fontana pubblica assiepata di massaie intente a pulire i propri panni e noi ci aggiungemmo a loro, sciacquando al meglio le giacche impolverate e i pochi indumenti di cambio che portavamo come bagaglio.
Janice, quando ci fummo ben rinfrescate, domandò gentilmente dove potessimo trovare un emporio, così fummo indirizzate verso un anonimo edificio scrostato che dava direttamente sulla strada diretta a sud, verso il monte. Fu difficile individuare la scritta “κατάστημα”, pitturato in modo grossolano sullo stipite della porta, ma compreso che ci trovavamo nel posto giusto, dato che la parola significava appunto “negozio”, bussammo ed entrammo.
Ci accolse un uomo tarchiato, con una foltissima barba scura che gli nascondeva, insieme ai capelli crespi, una buona porzione del volto, nella cui parte sgombra dalla peluria erano incastonati due piccoli occhi neri che presero immediatamente a studiarci con attenzione.
La Covington, senza badare troppo allo sguardo torvo del proprietario, gli si rivolse in greco, indicando di volta in volta ciò che poteva tornarci utile per proseguire il viaggio. L’uomo, senza fare storie, muovendosi con calma con il supporto di un bastone, recuperò tutta la merce di cui avevamo bisogno e lasciò che la mia amica la ispezionasse.
«Provati queste» mi disse, porgendomi un paio di scarpe da montagna, con la suola spessa e le stringhe assicurate da piccoli gancetti in metallo.
Le indossai in silenzio. Erano decisamente più comode dei sandali, anche se leggermente strette, ma erano l’unico paio disponibile, per cui dovetti accontentarmi.
Dopodiché mi vennero consegnate due paia di pantaloni che si sarebbero rivelate decisamente più consone al viaggio che stavamo compiendo rispetto alla gonna rovinata con cui mi ostinavo a marciare. Acquistammo inoltre diversi metri di corda, per qualsiasi evenienza, una terza borraccia, qualche provvista, uno zaino per me, dato che la valigetta stava iniziando a dare segni di cedimento e sarebbe stato meglio non avere perennemente una mano occupata per trasportarla.
Stavamo per uscire dall’emporio, quando adocchiai un altro potenziale acquisto.
«Quanto viene quella?» domandai, puntano una coperta decorata, appesa a mo’ di drappo dietro il bancone.
Il proprietario gesticolò, tentando di farmi capire che l’oggetto non era in vendita.
«Ma ci farebbe tanto comodo una coperta di più» contestai, incurante del fatto che non mi capisse «Anzi, sarebbe ancora meglio se potessimo avere anche una tenda.»
Lui sbuffò e continuò ad agitare le mani, nervosamente.
«Così non risolveremo niente» intervenne Jan «Lascia che gli spieghi quello che hai detto.»
Dopo che i due si furono scambiati qualche frase, l’archeologa tornò a rivolgersi a me: «Dice che non può darci quella trapunta, perché l’ha decorata sua moglie, ma potrebbe avere ancora in casa una vecchia tenda che ha usato per le escursioni in gioventù e sarà disposto a contrattare anche per un’altra coperta.»
«Allora cosa aspettiamo?» chiesi impaziente.
«Che torni la famosa moglie» mi rispose «È lei che sa dove potrebbero essere le cose che cerchiamo, dato che si occupa di tenere ordinato il retro del negozio, che, da quanto ho capito, è il loro enorme ripostiglio di casa.»
Nell’attesa, ascoltai la bionda e il greco dialogare in quella lingua di cui riuscivo ad afferrare solo i concetti principali. Capii che il proprietario di chiamava Rhesus, era sposato con Ecterine da quindici anni e avevano due figli maschi, entrambi impegnati nel lavoro dei campi. Per loro fortuna erano troppo giovani per essere reclutati e spediti a combattere. L’uomo era riuscito a non essere chiamato alle armi per via della gamba destra, che non era mai guarita del tutto dopo una brutta caduta in montagna e ciò lo costringeva a zoppicare appoggiandosi perennemente al bastone che già avevo  notato.
Mi sorpresi di quanto in fretta stessi abituando l’orecchio ad un idioma che non avevo mai avuto l’occasione di ascoltare, se non qualche settimana prima. Forse la mia attitudine alle lingue, quella greca in particolare, era un ulteriore retaggio dell’eredità di Xena.
Dopo circa una mezz’ora, una delle donne della fontana entrò dalla porta, portando con sé una cesta di panni umidi. Intesi all’istante che si trattava di Ecterine. Era un figura molto minuta, o almeno tale mi parve al confronto con il consorte, dall’aria pudica e sottomessa, anche se poi si rivelò di ottima compagnia e molto incline a conversare.
Invitò noi due vagabonde in casa e ci offrì un lauto pasto a base di pasticcio di carne di capra accompagnato da un contorno di insalata fresca con cetrioli e pomodori freschi del loro orticello.
Dopo che ci ebbe imbottito come tacchini per il Ringraziamento, la donna ci chiese di seguirla e la aiutammo a rovistare tra cumuli di oggetti accatastati, fino a che non trovammo la tenda che stavamo cercando. Consisteva in due teli teoricamente impermeabili e qualche ferro vecchio per tenerli in piedi. In mezzo a quel disordine recuperammo inoltre una trapunta, non troppo morbida e un po’ consunta, ma decisamente calda.
Nonostante Janice insistesse per pagare sia il pasto sia gli oggetti, Ecterine, ignorando le opposizioni del marito, non accettò che poche monete, insufficienti per rimborsare una qualsiasi delle due cose.
Ci rimettemmo per strada che era primo pomeriggio. Il sole, che ci aveva tenuto compagnia per la prima parte della giornata, iniziò a giocare a nascondino dietro qualche raminga nube, alternando luci e ombre nella nostra camminata.
Se avessimo tenuto un buon ritmo, saremmo potute arrivare sulla cima del Chortiatis nelle prime ore della sera, ma entrambe eravamo già provate dai giorni passati, quindi ci fu chiaro fin da subito che ci saremmo arrestate prima.
Il sole era sceso quasi alle nostre spalle, quando stabilimmo di piantare la tenda. Trovammo un fazzoletto di terra in piano, circondato da un gruppetto di alberi, non troppo distante dal sentiero che stavamo seguendo e che dalla città di Chortiatis portava alla sommità dell’omonimo monte. Avevamo attraversato il borgo senza sostarvi, se non per riempire ancora una volta le borracce e rinfrescarci eliminando parte del sudore della giornata, poi ci eravamo immediatamente rimesse in marcia. Ciononostante, la vetta, se tale si poteva chiamare dati i suoi mille e duecento metri scarsi, sembrava ancora piuttosto lontana.
Rimasi a contemplare il profilo della montagna, mentre gli ultimi raggi dell’astro si facevano via via più fiochi e le ombre si allungavano come dita di un dio spettrale.
Janice, molto più pratica ed abile di me, aveva, nel frattempo, montato il campo ed iniziato a preparare la nicchia per il fuoco.
«Invece di contemplare il panorama» mi richiamò «Vai a prendere un po’ di legna e guarda in giro se vedi tracce di animale, vorrei mangiare un pasto caldo e sostanzioso per cena.»
«Ti metterai a cacciare? Non sapevo ne fossi capace» commentai sorpresa.
«Ci sono tante cose che non sai di me» rispose prontamente, sollevando gli occhi dal terreno e portandoli a fissare i miei «Ho molti talenti» proseguì, scrutandomi con sguardo indecifrabile.
Mi voltai, meditando su quelle parole e ripetendole nella mia testa fui scossa da un brivido. Avevano un che di familiare.
«Non è niente, Mel» sussurrai a me stessa «Sei solo stanca.»
«Non parlare o spaventerai la selvaggina!» urlò la Covington, facendo sì che nel raggio di mezzo chilometro ci sentissero tutti.
«E tu perché gridi, allora?» replicai ad alta voce, con una nota di scherno.
La udii ridere e poi iniziare a fischiettare un motivetto mentre avviava la fiamma con i fiammiferi e una piccola catasta di legnetti.
Mi avventurai poco distante per recuperare qualche ramo caduto abbastanza grande da garantirci fuoco per la notte, non tanto per la luce, quanto per tenere alla larga indesiderati animali, feroci o meno. Nel frattempo, come mi era stato richiesto, osservai attentamente ogni eventuale segno di passaggio di qualche possibile preda, ma non ne trovai.
Tornai al campo, ormai illuminato da un piccolo falò scoppiettante, con una consistente fascina di legna tra le braccia.
«E credi che quella sia sufficiente?» ridacchiò Jan, iniziando a spezzare un paio di rami per poi darli in pasto alle fiamme.
«Sì…» risposi, un po’ titubante «Le altre volte non ne avevo raccolta più di così.»
«Questo perché io mi sono alzata ogni tanto a recuperare altra legna, ma non lo farò più adesso che stiamo in tenda, quindi vai e porta almeno il triplo di quella che c’è.»
Mormorai svariati insulti, mentre tornavo sui miei passi per radunare altro combustibile. Andai avanti e indietro per altre quattro volte prima che la mia compagna fosse soddisfatta.
«Molto bene» borbottò alla fine delle mie fatiche «Adesso prendi il mio coltello e ingegnati per tagliare un ramo bello robusto. Deve essere fresco, ma non troppo spesso. Privalo della corteccia e delle foglie, io tornerò tra poco» mi istruì, poi sganciò la frusta dalla cinta e si addentrò nel fitto del bosco.
Rimasi attonita a fissare il punto in cui era sparita, dopodiché, senza pormi troppi quesiti, eseguii quell’ennesimo ordine. Una volta recuperato e pulito il bastone, mi sedetti in attesa, stuzzicando ogni tanto le lingue di fuoco con qualche pezzo di corteccia.
«Tesoro, sono a casa!» tuonò all’improvviso Janice, facendomi balzare in piedi «Prepara la cena, donna!» proseguì in tono imperioso, scimmiottando un timbro maschile.
Nella mano destra la frusta pendeva placida, muovendosi come una coda, mentre nella sinistra teneva per la collottola una lepre. Le zampe dell’animale penzolavano inerti, segno che era ormai senza vita.
Giunta a pochi passi da me, mi gettò in mano il corpo ancora caldo della bestiola. Ne accarezzai il pelo soffice ed ebbi un moto di tristezza all’idea di doverla mangiare, ma la fame ebbe la meglio su quei sentimenti. La preda era piuttosto grossa, sui sei chili avevo giudicato ad occhio e croce, e doveva essere lunga almeno mezzo metro, senza contare i quindici centimetri di morbide orecchie che non riuscivo a smettere di toccare.
«Allora, Mel, vuoi o no preparare la cena alla grande e possente cacciatrice?» riprese la bionda, battendosi il petto con orgoglio.
Smisi di fissare gli occhi vuoti della lepre e osservai il viso perplesso di Janice.
«Non hai mai cucinato la selvaggina all’aperto?» domandò.
Scossi la testa.
«Almeno sai come si pulisce la carne?»
Ancora una volta feci segno di no.
«Passami il coltello, ti faccio vedere» disse.
Ci allontanammo un po’ dal fuoco, quel tanto che bastava per avere ancora luce, ma non lasciare che il sangue attirasse troppo vicino un predatore.
«Tanto per iniziare» cominciò con tono gentile «Sai dirmi come ho ucciso la lepre?»
«Le hai spezzato il collo» risposi.
«Esatto» mormorò sorridendomi «E sai perché l’ho fatto?»
«Perché non avevi arco e frecce?» tentai, lasciando trasparire un po’ di ironia.
«Molto spiritosa» mi riprese bonariamente «Ma no, perché così sarei stata sicura di non rovinare la carne. Se avessi usato le frecce, come dici tu, nel caso, raro, in cui fossi stata tanto abile da colpirla, avrei potuto perforarle lo stomaco o l’intestino e i succhi digestivi avrebbero guastato la carne, lasciandoci senza cena.»
Annuii, molto interessata a quella spiegazione.
«Quindi» continuò «La cosa migliore è mirare alle vie aeree o al cuore, così si è certi di uccidere senza creare troppi danni e senza far soffrire troppo la preda.»
«Ho capito» dissi.
«E ora, la parte più tosta» annunciò «Dobbiamo sviscerarla e farla in pezzi.»
A quelle parole rabbrividii, turbata al pensiero di quello che sarebbe accaduto a breve.
«Se non vuoi guardare capirò, ti spiegherò solamente i passaggi, così se dovesse mai capitarti di fare una cosa del genere saprai da dove partire.»
Accettai quel compromesso e lei continuò a parlare.
«Per prima cosa bisogna spelare il ventre, in questo modo.» Iniziò a far scorrere la lama perpendicolare al manto della bestiola e quello venne via a ciuffi. «Una volta che la zona è ben visibile bisogna inciderla, ma con attenzione, o si finirà per intaccare gli organi e il lavoro andrà in fumo. Poi, con cautela, si estraggono le parti da scartare, si decapita e si scuoia l’animale, si taglia in pezzi, che si infilzano su un bastone verde, e si cuoce. Semplice semplice.»
Si diresse di nuovo verso gli alberi, dove compì le azioni che mi aveva descritto, liberandosi degli scarti.
Tornò con le mani impiastrate di sangue e dei bei pezzi di succulenta carne pronta per essere cotta.
«Non abbiamo gran che da mangiarci assieme, starebbe bene in uno stufato con verdure, ma ci accontenteremo di quello che abbiamo» farfugliò l’archeologa, iniziando a preparare la cena «Sollevami il cappello.»
Strabuzzai gli occhi a quella strana richiesta. «Cosa?»
«Non te lo lascerei mai toccare in circostanze normali» ghignò «Ma ho le mani occupate e sporche, quindi dovrò fidarmi di te, per una volta. Fa’ che non me ne penta.»
Afferrai delicatamente il copricapo e lo alzai. Sotto, rimasto pigiato tra la chioma bionda e il tessuto, c’era un mazzo di erbe.
«Le ho raccolte prima, le useremo per insaporire un po’ il nostro pasto.»
Cucinammo la lepre e mangiammo di gusto. Ero molto contenta che avessimo deciso di preparare qualcosa di caldo. Il pasticcio di Ecterine aveva risvegliato in me la voglia di buon cibo e non avrei avuto la forza di sopportare un'altra razione di pane e formaggio.
«Allora, soddisfatta?» mi domandò Janice, finendo di spolpare una coscia.
Scagliai nell’oscurità l’osso che stavo rosicchiando e sorrisi, leccandomi i baffi. «È stata una cena stupenda» dissi, felice di notare che anche la mia amica aveva un’aria appagata e contenta.
Chiacchierammo a lungo, scaldandoci davanti al falò. Discutemmo del più e del meno, condividendo esperienze della nostra gioventù, raccontandoci trame di libri letti, di testi antichi tradotti. Mi resi conto che passare del tempo con lei era più piacevole di quanto mi fosse mai sembrato. Avrei quasi potuto farci l’abitudine.
La notte avanzò velocemente e quando l’aria iniziò a farsi sempre più fredda e il cielo sempre più punteggiato di stelle, decidemmo di coricarci.
Avvolte ognuna nella propria coperta, occupando il poco spazio disponibile della tenda, ci augurammo la buonanotte.
Passati pochi minuti, però, il silenzio fu interrotto dalla Covington: «Sei sveglia?»
«Sì» bisbigliai, voltandomi verso di lei.
«Stare avviluppata così è comodo, ma non mi scalda abbastanza…»
Avevo capito esattamente cosa intendesse. Forse non era vero che fosse una questione di temperatura, ma io volevo la stessa cosa.
Ci mettemmo a sedere, rischiando di far crollare il nostro traballante rifugio, cosa che scatenò uno scoppio di risa, poi stendemmo la nuova trapunta, che stavo usando io, come materasso e ci sdraiammo abbracciate, imbacuccandoci con l’altra coperta.
«Non farti strane idee» commentò Jan, con gli occhi chiusi e voce serena, poggiando la testa sul mio petto.
«Non oserei mai» replicai, ma temetti di stare mentendo ad entrambe. Ascoltai il mio cuore accelerare i battiti e mi augurai che la biondina, ormai mezza addormenta, non se ne rendesse conto. Inspirai profondamente, chiusi le palpebre ed infine, stanca per la giornata trascorsa, finalmente crollai tra le braccia di Morfeo.



NdA: Ed eccomi qui, un nuovo venerdì, un nuovo capitolo. Non ho gran che da annunciare, se non che, salvo disastri, gli aggiormaneti proseguiranno regolari. I consueti e dovuti ringraziamenti a chi legge, a wislava e a Stranger in Paradise. Mi spiace congedarmi tanto in fretta, ma oggi sono di poche parole. Alla prossima, signore e signori.
 

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Capitolo 5
*** 2 Maggio 1942 ***


The incredibly true story of two friends on a quest

Diario di Melinda P. Pappas
2 Maggio 1942, monte Chortiatis, Grecia
Abbiamo ormai percorso due terzi della strada che ci separava, al momento della scoperta dell’esistenza delle altre pergamene, da Potidaea. Riteniamo che in non più di tre giorni giungeremo al sito, individuato grazie ai testi di Harry Covington, che dovrebbe distare pochi chilometri dal centro di Nea Poteidaia.
 
Un fischiettare familiare mi spinse a tagliare corto. Janice, in piedi di fronte a me, aveva finito di godersi il panorama dalla cima della montagna e mi invitava a darmi una mossa, battendo il piede a ritmo con l’improvvisato motivetto.
Anche se ciò ci aveva allungato il percorso di un paio d’ore, avevamo deciso di scalare la cima, per poter osservare il golfo Termaico. Ai fini della nostra impresa quella deviazione era stata inutile, ma la possibilità di godere del vento fresco, dell’aria pura e della vista mozzafiato ripagava ampiamente lo sforzo.
«Se ti piace tanto, possiamo sempre piantare la tenda» disse la bionda guardandomi storto, dato che non accennavo a volermi alzare «Anzi, perché non ci trasferiamo qui? Costruiamo una bella casa, con un giardino, uno steccato perennemente da ridipingere e una cassetta della posta con i nostri nomi intagliati sul fianco.»
Per quanto fosse chiaramente un’ironica provocazione, non potei fare a meno di sorridere di cuore a quell’idea, al pensiero di vivere in un luogo tranquillo, in una dimora confortevole, in compagnia di una persona tanto speciale.
«Sveglia!» mi riportò coi piedi per terra l’archeologa, iniziando a schioccare le dita davanti al mio naso «Mel? Sei ancora tra noi?»
Le sorrisi e annuii, lasciando che tendesse una mano per issarmi.
Vasilika era la nostra tappa successiva e, sperando non scoppiasse improvvisamente a piovere, vi ci saremmo giunte nel tardo pomeriggio, dopo aver affrontato il lato sud della montagna.
Percorrendo i poco frequentati sentieri, iniziammo la discesa, intrattenendoci coi discorsi più vari.
«Stavo pensando di darmi un soprannome, sai?» mi comunicò la Covington, mentre eravamo intente a sciacquarci mani e viso in un torrente che attraversava il nostro percorso.
Rimasi in silenzio, in attesa di scoprire dove volesse arrivare con quel ragionamento.
«Qualcosa di altisonante» riprese, cercando l’approvazione nei miei occhi «Così che le generazioni future si ricordino di me e delle scoperte che ho portato alla luce. Dopotutto, Xena si faceva chiamare Principessa Guerriera, perché io non posso emularla?»
«Perché lei è la mia antenata» feci presente.
«Sottigliezze…» commentò con noncuranza «Che te ne pare di Tomb Raider, razziatrice di tombe? Suona bene.»
«Non ricorda molto quello che faceva tuo padre?» sottolineai.
La bionda sbuffò, sollevando leggermente una ciocca di capelli che le era finita sugli occhi. «Allora cambierò il mio nome con qualcosa di più memorabile…» meditò «Montana Smith! No, no, anzi, Dakota Williams» stabilì, sebbene non del tutto convinta. Non feci in tempo ad aprire bocca che esclamò: «Oh, Virginia Sanders, questo mi piace!»
«Indiana Jones?» proposi.
Mi scoccò un’occhiata scettica. «Indiana Jones? Sul serio? Che razza di nome sarebbe? Nessun archeologo con un briciolo d’orgoglio si farebbe mai chiamare così.»
Non mi rimase che tacere, mentre lei proseguiva nel suo sproloquio su come le mie idee fossero sempre meno brillanti delle sue.
Era talmente presa dal proprio monologo, che fui io la prima ad accorgermi dell’uomo che ci stava aspettando, imbracciando il fucile, sull’attenti, a distanza di qualche tornante. Mano a mano che accorciammo il divario potei notare diversi particolari: era giovane; indossava una divisa tedesca, piuttosto ben tenuta, nonostante dovesse, ipotizzavo, aver affrontato un’ardua salita per giungere fin lì; aveva i capelli corti, come ci si sarebbe aspettato da un milite qualsiasi, di colore chiaro e non aveva neppure un accenno di barba; i suoi occhi celesti ci scrutavano con finta indifferenza, stava valutando se fossimo un potenziale pericolo. Ciò che mi sorprese di più fu il trovarlo solo. Sospettai che i suoi compagni di pattuglia fossero appostati fuori dal sentiero, ma non c’erano molti nascondigli dato il tratto privo di alta vegetazione.
Quando ci arrestammo di fronte a lui, che non si era mosso di un solo passo, notai Jan portare la mano alla pistola, mentre da sotto la tesa del cappello il suo sguardo guizzava da me allo straniero.
Fissandoci con le iridi glaciali, serrando le dita attorno all’impugnatura dell’arma, il soldato pronunciò una frase in tedesco, che sembrò rimbombare minacciosamente fino a valle.
«Parlagli in greco e digli che non lo capiamo» sussurrai alla mia compagna, nel timore che lui, non vedendoci reagire, decidesse di freddarci senza troppe cerimonie.
«Vuole che gli consegniamo tutti i soldi e gli oggetti di valore che abbiamo con noi» mi rispose l’archeologa senza scomporsi.
«Tu parli tedesco?» domandai incredula «Da quando?»
«Da un po’, lo comprendo e so articolare qualche frase. Imparare gli idiomi locali è importante quando si lavora sul campo, mio padre ed io abbiamo passato quasi un anno in uno scavo in Germania…»
Il militare si schiarì la gola per richiamare la nostra attenzione. «Eseguite l’ordine» ringhiò.
Mi sorpresi di sentirlo parlare inglese. Il suo accento straniero non era molto marcato ed inoltre sembrava capire bene la nostra lingua.
«Non abbiamo niente che ti possa interessare» replicò la bionda, tornando a concentrarsi sul potenziale nemico «Lasciaci passare.»
Vidi il giovanotto vacillare, come se fosse indeciso sul da farsi, ma, con voce stentorea, ribadì: «Non posso. Consegnatemi il denaro.»
«Dov’è il resto del tuo plotone?» tentai di distrarlo, mentre sbirciavo la Covington armeggiare con la fondina.
«Non è affar tuo» fu la risposta secca.
«Io dico che sei un disertore» proseguii «Troppo codardo per appoggiare la causa del tuo Paese. Sei scappato piangendo come un poppante e adesso ti tocca sopravvivere derubando gli sventurati passanti?»
La sua sicurezza si dileguò in un lampo, udendo le mie parole. Decisi allora di dargli il colpo di grazia: «Levati di torno, brigante.»
Il soldato abbassò il capo e il fucile, scostandosi. Quando gli passai accanto, mi afferrò un braccio e mi costrinse a voltarmi verso di lui.
«Vi prego» mormorò «Aiutateci.»
Janice scattò come una molla. Estrasse la pistola e gliela puntò alla testa. «Lasciala andare» ordinò «O ti faccio saltare le cervella.»
Feci scivolare lo sguardo su di lei. Mi sembrava di vedere scintille crepitare nell’aria. Era pronta a lasciare che la sua rabbia si scatenasse. Era pronta ad uccidere. Era pronta a quel gesto solo per proteggermi.
Sentii la presa su di me svanire immediatamente. «Ti supplico, non farmi del male» piagnucolò il giovane, portando le mani a coprire il volto, lasciando che la propria arma cadesse con un lieve tonfo.
«Chi è che dovremmo aiutare?» sbuffò Jan, senza abbassare il revolver.
Il tedesco sollevò la testa, spalancando gli occhi chiari, colmi di stupore.
«Hai parlato al plurale» continuò la mia amica «Chi altro è coinvolto?»
«State viaggiando da sole?» bisbigliò con un filo di voce.
«Non mi hai risposto» sottolineò la Covington, avvicinando la canna di metallo al volto di lui «Le domande le faccio io.»
«Va bene, va bene» cedette lui, alzando le braccia in segno di resa.
«Parla allora!» intimai io.
«C’è un mio amico» cominciò a spiegare «Ci siamo stabiliti in un rifugio non molto lontano da qui, ma qualche giorno fa è stato ferito da una pattuglia in ricognizione, gli hanno sparato ad una spalla e abbiamo bisogno di soldi per permetterci l’intervento di un medico.» Pronunciò quella frase quasi senza prendere fiato, travolgendoci con il fiume di parole.
«Portaci da lui» disse l’archeologa, abbassando un po’ la pistola «Se quello che dici è vero, gli darò una mano. Se dovessi scoprire che ci hai mentito, ti aprirò un’altra bocca in faccia e potrai provare a dirci la verità con quella.»
Lui deglutì rumorosamente ed annuì.
«Facci strada.»
Raccolsi il fucile e li seguii.
Abbandonammo il sentiero principale, iniziando a muoverci nell’erba alta che cresceva rigogliosa su quel lato della montagna.
Dovemmo risalire un po’ la china, inoltrandoci in una macchia boscosa, seguendo il soldato che avanzava rigido, incalzato dal revolver, ancora puntato contro di lui.
Percorrendo quella che poteva essere una pista di cinghiali, giungemmo in vista di una piccola cabina di caccia. Un sottile filo di fumo si levava dal rudimentale camino, disperdendosi poi tra la vegetazione. Se non fosse stato per quel particolare, la capanna si sarebbe mimetizzata alla perfezione.
«Mel» mi chiamò la bionda «Prendi la pistola e dammi quell’affare.»
Le consegnai il fucile e la osservai spalancare la porta con un calcio, pronta a fare fuoco nel caso di una reazione dall’interno.
«Herb, sei tu?»
«Sì, Jason» si fece sentire il tedesco «Ho portato aiuto.»
Allungai il collo per osservare l’interno del rifugio. Oltre al piccolo fuoco scoppiettante nel caminetto, non c’era gran che. Oggetti di uso quotidiano e attrezzi per la caccia erano accatastati da un lato, dall’altra parte, invece, c’era un letto sfatto, con diverse coperte ammucchiate. Seduto sopra quella pila stava un uomo, circa dell’età del soldato, con una ben visibile fasciatura insanguinata alla spalla sinistra. Aveva il volto pallido e scavato, reso ancora più spettrale dalla scura barba incolta.
«Abbiamo ospiti? Se lo avessi saputo avrei tirato fuori il servizio buono!» esclamò, mettendosi in piedi a fatica «Non ci sarà bisogno di quello» proseguì indicando il fucile «Non siamo pericolosi.»
«Non si è mai troppo prudenti» replicò Janice, ciononostante, abbassò effettivamente l’arma e poco dopo la appoggiò alla parete.
Vedendo quel gesto, lasciai che i due amici potessero riunirsi.
«Stai bene?» domandò Herb, cingendo l’altro con un braccio.
«Peggio di ieri, meglio di domani» rispose Jason «Temo che la ferita si stia infettando.»
Con estrema delicatezza, il biondo sciolse il bendaggio, esponendo una porzione di pelle gonfia e sanguinolenta. La Covington osservava attentamente a pochi passi di distanza.
«La zona è molto calda e mi fa male ogni volta che faccio anche movimenti minimi» si lamentò il ferito.
«Avete estratto il proiettile?» chiese Jan.
I due si voltarono verso di lei e scossero la testa simultaneamente.
«Era la prima cosa da fare» disse, colmando lo spazio che la separava da loro «Dobbiamo rimediare immediatamente.»
Ubbidienti, noi altri ascoltammo le sue istruzioni.
«Non ho nulla con me per sedarti, quindi ti anestetizzeremo la spalla con acqua fredda, dato che non ho visto neve o ghiaccio nelle vicinanze. Arroventerò il coltello per sterilizzarlo e lo userò per levarti la pallottola e poi cicatrizzare più tessuto possibile, per impedire che l’infezione si diffonda. Alla fine vedrò se sarà il caso di ricucirti, ma ti auguro di no perché dovrei fare tutto con strumenti di fortuna.»
All’udire quel discorso, Jason si fece ancora più terreo e crollò seduto sul letto, seguito a ruota da Herb, che aveva paura di vederlo svenire.
«Non sarà un’esperienza piacevole, ma potrebbe salvarti la vita» concluse l’archeologa, incrociando le braccia.
Iniziammo a predisporre il tutto. L’operazione avrebbe avuto luogo dentro la capanna, nella speranza che le pareti attutissero le urla che sarebbero certamente state lanciate. Io fui incaricata di riempire una serie di secchi con la gelida acqua di un laghetto poco distante che solitamente i due usavano per lavarsi e fare scorta di liquidi.
Jason fu fatto sdraiare su una coperta accanto al focolare, Jan era china su di lui.
«Ti disinfetterò con un po’ d’alcol» disse, estraendo la fiaschetta  dalla giacca «Te lo darei da bere per stordirti, ma così sarà più utile.»
Herb, dopo aver sterilizzato il coltello, come gli era stato chiesto, si sedette accanto all’amico prendendogli la mano. «Andrà tutto bene, vedrai» sussurrò per rassicurarlo.
Gli occhi del ferito, lucidi per le lacrime di dolore, brillarono di una luce diversa e le sue labbra si incurvarono in un lieve sorriso, carico di significato.
Fu allora che compresi il profondo, sincero affetto che li legava. Avrei voluto indagare più a fondo, ma la situazione stava per farsi delicata e non era il momento adatto per discutere la natura del loro rapporto.
«Mordi questo» ordinò la Covington, passando una striscia di cuoio al paziente «Dovrebbe aiutare a smorzare le urla.»
Lui annuì e strinse i denti.
Nel silenzio più totale, presi a passare pezze imbevute di acqua fredda attorno alla ferita. Sentivo guizzare i muscoli sotto le mie dita, tormentati da quel semplice contatto.
Quando ebbi concluso di preparare la zona, fissai Janice, tesa e concentrata, pronta ad eseguire l’operazione. Si voltò un istante nella mia direzione, come se cercasse conforto. Mi venne naturale sorridere. Sapevo che nei miei occhi stava brillando la stessa scintilla che avevo scorto in Jason e il mio sorriso si allargò vedendo una reazione simile guizzare nelle iridi color smeraldo.
Senza indugiare oltre, la punta del coltello penetrò la carne arrossata.
L’uomo sdraiato si contrasse come se fosse stato gettato tra le fiamme degli Inferi. In un primo momento tentò di divincolarsi, ma io gli tenevo immobilizzato il braccio sinistro, mentre quello destro era trattenuto da Herb, che gli teneva a bada anche le gambe, serrate in una morsa ferrea con le proprie.
Jason addentò con sempre maggior forza il pezzo di cuoio, ma ciò non bastò a fermare i suoi gemiti che trovarono comunque il modo di proruppero con forza, facendomi a tratti gelare il sangue.
La Covington non parlava, troppo assorta nel delicato compito che si era accollata. Aveva inciso la pelle per allargare leggermente la lesione, per potersi muovere in modo da arrivare alla pallottola.
Dopo una decina di minuti i tentativi di ribellione iniziarono a fiaccarsi, ma ripresero con più tenacia non appena l’improvvisato chirurgo torse lievemente il coltello.
Intuii che dovesse aver trovato il proiettile.
I minuti che seguirono furono interminabili. Jason ringhiava, gemeva e piangeva, ad istanti alterni, ed Herb soffriva con lui nel vederlo in quello stato. Io cominciavo ad essere stanca, ma dovevo resistere per infondere coraggio a Jan che, decisamente più provata di me, era intenta a concludere l’operazione.
Un tintinnio mi fece tirare un sospiro di sollievo, mentre un pezzetto di metallo rotolava lontano da noi.
Sempre senza proferire parola, l’archeologa afferrò una pezza ed iniziò a ripulire la zona dello squarcio, poi vi versò sopra tutto il contenuto della fiaschetta.
Il paziente tentò un’ultima volta di liberarsi, ma infine, devastato da quegli sforzi, si abbandonò sulla coperta senza più opporre resistenza.
Durante quella insperata calma, Janice estrasse da un borsellino un piccolo ago e lo scaldò velocemente sulle fiamme, poi, preso un filo, con precisione ricucì i bordi del taglio. Concluse risciacquando ancora una volta la lesione, prima di abbandonarsi, con uno sbuffo, all’indietro finendo con la schiena a terra.
Scattai per soccorrerla, ma vidi che stava sogghignando.
«Alla faccia di Nancy Green!» gridò prima di scoppiare a ridere.
La studiai con aria interrogativa, prestando molta attenzione alle lacrime di sollievo che avevano iniziato a scorrerle lungo le gote. «Chi sarebbe questa Nancy?» chiesi.
«Quella boriosa insegnante di cucito che diceva che non ero buona a rammendare neppure un calzino» spiegò d’un sol fiato «Dovrebbe vedere che splendido lavoro ho fatto, vecchia megera!»
Lasciando la mia amica rotolarsi ancora tra risate e pianto, portai la mia attenzione sui due giovanotti. Jason era distrutto, forte appena da respirare e non precipitare nell’incoscienza. Al suo fianco, il tedesco lacrimava copiosamente, alternando sussurri di frasi di conforto a delicati baci sulle mani dell’altro.
«Grazie» mormorò quando mi avvicinai «Io vi ho minacciato, ho cercato di derubarvi e voi gli avete salvato la vita.» Le parole erano incerte, biascicate, ma molto sincere. «Non so neppure i vostri nomi.»
Mi resi conto che era vero, era accaduto tutto talmente in fretta che non avevamo avuto modo di introdurci in modo appropriato. «Sono Melinda Pappas» posi immediatamente rimedio «E la coraggiosa donna con me è Janice Covington.»
Il biondo sorrise. «Io sono Herbert Schwarz» disse «E l’uomo che avete salvato è Jason Davies.»
«Io non ho salvato proprio nessuno» sottolineai bonariamente «È Jan che ha fatto tutto il lavoro.»
«Proprio così» si fece sentire l’archeologa, con un rantolo.
«Ad ogni modo» riprese il soldato «Vi saremo eternamente grati.»
Non appena quella frase venne pronunciata, un poderoso tuono rimbombò nell’aria, scuotendo le pareti della cabina. Le nuvole nere che si erano addensate in mattinata avevano deciso di scatenare la furia di un temporale.
«Non potete rimettervi in marcia dopo tutta questa fatica e con questo tempaccio» ci fece notare Herb «Siete più che cordialmente invitate a restare con noi almeno fino a che le condizioni non saranno migliorate.»
«Rimarremo fino a che il tuo amico non si sarà ripreso e gli avrò potuto togliere i punti» intervenne nuovamente Janice, prima che io potessi prendere parola «Non abbiamo fretta di arrivare a Nea Poteidaia.»
«Nea Poteidaia?» mormorò Davies, schiudendo appena le labbra.
«Noi la conosciamo bene» disse il tedesco, stringendo ancora una volta la mano del compagno «Se le circostanze fossero differenti, vi accompagneremmo volentieri.»
Avevo un milione di domande che mi frullavano nella testa, ma la Covington ancora una volta mi zittì. «Prima di metterci a chiacchierare, che ne dite di sistemare un po’? Bisogna mettere fuori tutti questi panni imbrattati di sangue, così la pioggia li laverà per noi. In più, se ci permetterete di restare, dovremo pur ricavarci un buco in cui stare, quindi ci sarà da sistemare quella roba. E qualcuno dovrebbe preparare qualcosa di caldo da mangiare.»
Aveva ragione, così ci industriammo immediatamente per eseguire le sue direttive. Tutti insieme sollevammo Jason e lo coricammo sul letto, coprendolo per bene dopo avergli fasciato nuovamente la spalla. Lo convinsi a bere un po’ d’acqua e gli rimasi accanto mentre le due teste bionde si muovevano come impazzite per rimettere in ordine.
Quando il caos fu in parte marginato, Schwarz sistemò a scaldare un pentolino e vi mise in infusione una piccola garza contenente un pizzico di erbe secche. «Stupido Jay e la sua maledetta ora del the» si lamentò scherzosamente «Quanto odio gli inglesi.»
Una volta che la bevanda ebbe bollito abbastanza, il milite la suddivise in quattro improvvisate tazze. Bevemmo tutti avidamente per allontanare il freddo che il maltempo aveva portato con sé. La maggior parte delle coperte era sul letto per tenere al caldo il convalescente, quindi noi altri dovevamo accontentarci del fuoco e delle trapunte rimaste.
Dopo una mezz’ora, Jason crollò addormentato e con lui l’archeologa, la cui testa ciondolava pigramente da svariati minuti. Herb si occupò di verificare che il compare stesse comodo ed io, analogamente, feci coricare la mia amica, poggiandole il prezioso cappello accanto, di modo che potesse riposare meglio, poi entrambi tornammo a sedere davanti al camino scoppiettante.
«Allora» iniziai, curiosa «Posso sapere come vi siete conosciuti?» Non avevo bisogno di spiegare a parole che avevo capito la loro situazione e dal sorriso che il mio interlocutore mi rivolse fu chiaro che avesse inteso.
«Parliamo di molti anni fa» cominciò «Circa una ventina. Dopo la Grande Guerra, il governo decise di fondare Nea Poteidaia nei pressi di dove un tempo era sorta la famosa città antica, così, con la collaborazione inglese, fu dato il via ai lavori. Il padre di Jay, furbo imprenditore, decise di investire un’ingente somma nel progetto e, per assicurarsi che tutto filasse liscio, decise di far venire da Vienna un noto architetto per orchestrare il tutto. Fu così che, quindi, mio padre, mia madre, le mie sorelle ed io ci trasferimmo qui in Grecia. Stiamo parlando del 1922, all’epoca avevo cinque anni e rimasi molto sconvolto dal dover lasciare la mia bella casa in città per venire a vivere in una catapecchia a ridosso del mare, in una terra di cui non conoscevo niente. Iniziai ad imparare il greco e l’inglese, dato che la maggior parte delle persone che mi circondavano parlavano quelle due lingue.»
«Quindi sei austriaco» osservai ad alta voce, interrompendolo «Scusa se fino ad adesso ti ho arbitrariamente immaginato tedesco.»
«Ti ringrazio per queste parole» replicò «Non vorrei mai essere accomunato a quella manica di esaltati che ha dato il via a questa sanguinosa ed insensata guerra.»
Osservai la sua divisa e gli feci un cenno, indicando i simboli del Reich, che, sebbene consumati, erano ancora visibili.
«Arriverò a spiegare anche questo» mi assicurò «Ma torniamo al principio… Dunque, ero ancora piccolo, ma mia madre insistette affinché iniziassi ad essere istruito, così venni inserito in una classe privata in cui un istitutore si premurava di fare da insegnante ai figli dei dignitari stranieri. Tra gli altri allievi c’era anche Jason. Lui era il maggiore dei ragazzi presenti, aveva nove o dieci anni e ormai parlava correntemente sia l’inglese sia il greco dato che viveva là da quasi un anno. Lui e suo fratello minore avevano dato il via a quel programma scolastico e capitava spesso che si prendessero cura degli studenti nuovi e un po’ più incapaci, tra cui naturalmente svettava il sottoscritto.»
Ridacchiai al pensiero di un giovane Herb, intestardito perché non riusciva a comprendere tutte le nuove nozioni.
«Così iniziammo dapprima ad essere compagni di scuola, poi, col passare del tempo, divenimmo compagni di giochi» proseguì nel racconto «Non c’erano molti altri austriaci o tedeschi, quindi, per necessità, fui inglobato dalla cricca inglese e ciò mi permise di trascorrere molto più tempo con i fratelli Davies. Data la costante espansione del piccolo centro, mio padre decise di non fare ritorno in patria e si stabilì permanentemente a Nea Poteidaia e lo stesso fecero i signori Davies, permettendo a me e a Jay di legare ancora di più. Trascorremmo l’adolescenza sempre insieme, forgiando e rinsaldando quel legame speciale che ancora condividiamo.» Pronunciò quell’ultima frase come un bisbiglio, quasi avesse paura che qualche orecchio indiscreto potesse coglierla.
Gli portai una mano sulla spalla e gli sorrisi, pregandolo silenziosamente di continuare.
«Poi, però, giunsero notizie da lontano dei piani della Germania e di ciò che sarebbe potuto succedere a breve. Per nostra fortuna, Jason non fu costretto al sevizio di leva, perché il padre fu abbastanza influente per far sì che proseguisse con gli studi e nessuno gli desse fastidio, ma quando venne il mio momento, dovetti partire, perché l’Austria, soggiogata dai nazisti, pretese che la mia famiglia facesse ritorno e che io mi unissi all’esercito. Concluso il mio anno di addestramento, la guerra era ormai alle porte, così feci pressioni per essere mandato in servizio in Grecia. Giunto qui venni assegnato ad uno squadrone con il compito di esercitare il controllo sulla penisola di Kassandra, quella collegata alla terraferma dall’istmo di Potidaea, appunto. Dunque tornai a casa, dopo quasi due anni che mancavo e scoprii che la maggior parte degli inglesi ormai viveva in un quartiere isolato e cercava di tenersi alla larga dalla vita cittadina per paura di rappresaglie. Il signor Davies era stato arrestato con false accuse ed era tenuto prigioniero dal presidio di Salonicco e Thomas, il fratello di Jason, aveva cercato di ribellarsi a quell’ingiustizia con il risultato di finire in manette a propria volta.»
Mi voltai ad osservare il cumulo di coperte che si sollevava ed abbassava a ritmo del lieve respiro dell’inglese. Anche lui aveva avuto una vita molto travagliata e così sarebbe stata ancora a lungo.
«Jay e la madre passavano le giornate rintanati in casa e quando l’Inghilterra entrò ufficialmente in guerra con il Reich, lui fuggì qui sulle montagne. Appena ebbi la possibilità, scappai anche io, raggiungendolo e marchiandomi a vita come disertore. Siamo rintanati qui da più di un anno e viviamo con poco, lo stretto indispensabile nell’attesa che questo assurdo conflitto finisca. Ogni due settimane circa, vado a fare provviste a Chortiatis o a Peristera, lasciando che Jason nel frattempo piazzi qualche trappola o svolga le faccende qui, perché in città se una pattuglia dovesse catturarlo lo ucciderebbe senza esitare, mentre io posso ancora spacciarmi per un soldato. È stato durante uno dei suoi giri che è stato colpito. Ero andato a comprare un po’ di cibo in scatola» e così dicendo indicò una pila di lattine «E quando sono tornato lui era seduto lì, sorridente, con un braccio imbrattato di sangue. Mi ha spiegato che un piccolo gruppo lo ha sorpreso a piazzare un laccio vicino al sentiero e quando gli hanno fatto una domanda in tedesco, lui, senza pensarci, abituato a dialogare con me, ha risposto in inglese. A quel punto hanno tentato di fermarlo, ma lui si è messo a correre e quando si è voltato per vedere se li avesse seminati, si è beccato la pallottola. Fortunatamente, conosce questi boschi e queste vallate meglio di chiunque altro ed è riuscito a filarsela. Non so cosa avrei fatto se, una volta rientrato a casa, non lo avessi trovato.»
Herbert aveva gli occhi lucidi, sull’orlo delle lacrime. Immaginavo quanto potesse fargli male quel pensiero, anche io avrei sofferto se, per esempio, tornando alla mia ideale casa sulla cima del monte, non avessi trovato Janice.
Vedendomi assorta nei miei pensieri, il biondo sorrise, lanciando una fugace occhiata all’archeologa, e mormorò: «Sono certo che tu capisca quello che intendo.»
«Oh, sì, cioè, no, insomma, più o meno» balbettai, confusa «La situazione è diversa» mi affrettai a spiegare «Ma ho compreso ciò che vuoi dire.»
Lui inclinò lievemente la testa, poi rispose: «Scusa, mi era sembrato che… Insomma, mi sono sbagliato, chiedo perdono.»
Agitai la mano come per allontanare quell’ultimo scambio di battute.
«Allora, cosa porta due giovani donne coraggiose da queste parti, dirette a Nea Poteidaia?» mi chiese.
Gli narrai brevemente come la nostra avventura avesse avuto inizio in Macedonia e come poi avessimo deciso di proseguire insieme per continuare la ricerca delle pergamene di Xena.
«Quando eravamo piccoli, ogni tanto giocavamo tra le vecchie rovine» mi rispose «Sono qualche chilometro a sud rispetto alla città moderna, ma la gente si tiene alla larga, si raccontano le solite storie di templi e maledizioni. Solo i ragazzini testardi si ostinano a gironzolare là attorno, persino i soldati si tengono a debita distanza.»
«Grazie per queste preziose informazioni» sbadigliai, stropicciandomi gli occhi.
Una mano si posò gentile sulla mia spalla. «Si vede che sei stanca anche tu» mormorò il soldato «Vieni, stenditi accanto a Janice.»
Mi aiutò ad alzarmi e mi accompagnò per quei pochi passi che ci separavano dalla biondina dormiente.
«Farò la guardia e metterò su qualcosa per cena, vi sveglierò tra qualche ora.»
I suoi occhi azzurri e il suo sorriso gentile mi rassicurarono e in pochi minuti mi addormentai.
Un profumo invitante arrivò a solleticarmi le narici, riportandomi nel mondo sensibile. Strabuzzai gli occhi notando le mani di Jan, ancora preda del sonno, artigliate al bordo della mia giacca. La sua testa, con i capelli un po’ scompigliati per le vicende appena passate, era appoggiata al mio petto e il resto della sua figura, rannicchiata, le faceva compagnia, incollata ai miei arti intorpiditi.
Herb, notando i segni del mio risveglio, si avvicinò, sussurrando: «Anche Jay dorme sempre così con me.»
«Ti serve una mano?» domandai, iniziando a muovere un braccio nel tentativo di liberarmi.
«No, stai pure comoda» mi tranquillizzò lui, prima di sogghignare.
«Non è divertente» borbottai «Sono prigioniera!»
Disturbata dal tono più elevato della mia ultima frase, la Covington emise un brontolio e si strinse ancor più a me.
L’austriaco scoppiò a ridere, poi mi fece l’occhiolino e tornò ad occuparsi della pentola sul fuoco.
Decisa ad aiutarlo e a sfuggire dalla presa dell’archeologa, facendo estrema attenzione, le schiusi le dita e scivolai qualche centimetro indietro. A quel punto, portai un braccio dietro di me per darmi la spinta necessaria ad alzarmi. Il mio arto funzionò come una molla ed in un lampo fui in piedi. Fu solo allora che mi resi conto del disastro: la mano che mi aveva dato la spinta non si era poggiata su un lembo di coperta, come avevo creduto, ma sul prezioso copricapo della mia amica.
Come svegliata dall’improvviso malessere del sacro cappello, Janice spalancò gli occhi e si trovò davanti il corpo del reato.
«Mel!» tuonò, fiondandosi con tutte le proprie forze contro di me «Questa è la volta che ti ammazzo!»
Arrivò a mettermi le mani al collo, poi si gelò, rendendosi conto di dove si trovava e soprattutto notando che il giovane Schwarz la stava fissando terrorizzato.
«Maledizione» ringhiò, lasciandomi andare e chinandosi a recuperare il suo tesoro «Guarda come lo hai ridotto…» si lagnò, risistemandolo.
«So che non sarà sufficiente» mugolai «Ma ti chiedo scusa ancora una volta…»
Lei mi lanciò un’occhiata obliqua, accompagnata da una smorfia severa.
Spalancai gli occhi e sbattei le ciglia, supplicandola in silenzio di perdonarmi.
Le labbra, incurvate verso il basso, si strinsero un momento, prima di schiudersi in un’ombra di sorriso. Le iridi verdi, brucianti d’ira, tornarono calme.
«Prepariamo la cena» sbuffò, superandomi in direzione del cuoco.
Herbert la lasciò passare e le affidò il cucchiaio con cui stava rimestando nel tegame. Ceduto il posto come chef, si avvicinò a me e mi diede un pizzicotto sul braccio, dato che mi ero incantata a fissare Jan che, persistendo in una finta arrabbiatura, si giostrava tra la pentola e la tovaglia che aveva steso per terra.
«Voi potete non esserne consapevoli, ma io so riconoscere una lite tra innamorati quando la vedo» mormorò, andando poi a svegliare dolcemente Jason.
«Tieni questa» mi ordinò la Covington, consegnandomi una padella «Vedi di non far del male anche a lei.»
Annuii, perdendomi nel riflesso argentato che brillava tra le mie mani.
Dai recessi più oscuri della mia memoria, emerse un ricordo legato ad un oggetto simile, qualcosa che aveva anche a vedere con una frusta. Parole ed immagini presero a mescolarsi, confondendomi. C’era anche Janice o qualcuno a lei molto somigliante in quella bizzarra danza senza senso. Mi domandai se, potendo essere ricordi di Xena, la biondina presente fosse Gabrielle, l’amica e compagna di avventure della Principessa Guerriera, nonché antenata della mia amica.
«Hai scambiato la mia frusta con una padella per friggere?» mormorai.
«Mel, hai detto qualcosa?» disse una voce, che giunse come un’eco distante alle mie orecchie.
Sbattei le palpebre, per trovarmi davanti una fanciulla dai lunghi capelli biondi, armata di bastone, con un luccichio divertito nei grandi occhi verdi.
Uno scappellotto mi fece ripiombare coi piedi per terra.
«Ouch» mi lamentai, massaggiandomi la nuca.
«Finalmente sei tornata tra noi» sbuffò Jan, strappandomi di mano la padella e poggiandoci dentro quattro spesse fette di un tocco di carne acquistato il giorno addietro «La prossima volta il colpo te lo darò più forte, sei avvisata.»
Rimasi imbambolata qualche attimo ancora, fino a che non fui affiancata da Herb, che mi sorrise con complicità.
«Non dire niente» sibilai, andando a disporre le posate per la cena e poi accomodandomi.
«Sono proprio carine» lo udii bisbigliare a Jason.
«Quasi più di noi» gli rispose lui.
«E voi due, signorine!» li chiamò all’ordine l’archeologa «Prendete posto e fate le brave.»
«A qualcuno piacciono le donne autoritarie» ridacchiò l’inglese, sedendosi accanto a me.
Alzai gli occhi al cielo, comprendendo che quella battaglia non avrei potuto vincerla.
Dopo una decina di minuti, tutti e quattro ci trovammo attorno alla tovaglia, con la bocca piena. Herbert aveva preparato una zuppa di verdure che, con il suo calore, ben si addiceva a quella serata gelida. La Covington aveva aggiunto ad ognuno un pezzo di affettato scaldato così da farne sciogliere il grasso per renderlo croccante.
«Una vera prelibatezza» commentai, pulendo il piatto con un pezzo di pane. Era un po’ secco, ma immerso nel fondo della minestra, acquistava una nuova e deliziosa vita.
Quando ebbi spazzolato la mia razione fino all’ultima briciola, diedi una mano a Davies che, con enorme fatica, stava tentando di spezzare la propria pagnotta sforzando anche il braccio ferito.
Concludemmo il pasto con una tazza di infuso, sempre ad opera dell’austriaco.
Una volta che le stoviglie furono lavate in un catino e riposte in attesa del giorno seguente, i due uomini uscirono per qualche minuto, con la scusa di dover svuotare la vescica e liberarsi dell’acqua insaponata.
Rimasta sola con Janice, ancora turbata da tutte le frecciatine lanciatemi dai nostri nuovi amici, cercai di evitare qualsiasi tipo di interazione, ma non potei sfuggire a lungo al suo sguardo indagatore, da cui traspariva che avesse intuito che qualcosa mi impensieriva.
Nel momento in cui vidi le sue labbra muoversi, pensai che avesse intenzione di mettermi alle corde, invece mi sorprese: «Sono davvero simpatici, due gran bravi ragazzi.»
Sgranai gli occhi, incredula. Non l’avevo mai sentita dire qualcosa di positivo su un altro essere umano, esclusa la sua famiglia e Xena.
«E si vede che si amano tanto» aggiunse, accennando un sorriso.
Cercai di celare quanto fossi sconvolta, annuendo.
«Ma noi due insieme siamo molto più carine di loro.»
All’udire quelle parole sentii le ginocchia cedere. Non c’era stata nessuna risata, nessun tono scherzoso, nessun indizio di sarcasmo. Sembrava un’affermazione e pure molto convinta.
«Non lo pensi anche tu?» domandò con aria apparentemente innocente, ma potevo immaginare gli ingranaggi del suo cervello girare come impazziti sotto il cappello ingegnandosi per farmi credere che quel quesito venisse posto con leggerezza.
Mi trovai confusa, disorientata. Non capivo se si aspettasse da me una risposta.
«Oh, andiamo!» esclamò, rompendo il mio persistente silenzio. Scattò in avanti, raggiungendomi ed agguantandomi le mani.
Sbiancai e spalancai la bocca nel tentativo di articolare un qualche pensiero coerente. Era accaduto tutto in una frazione di pochi secondi, non avevo idea di come comportarmi.
Il suo viso, così vicino, non aiutava i miei tentativi di concentrazione. Le sue splendide iridi verdi potevano leggere nel fondo della mia anima senza che riuscissi ad opporre resistenza ed ancora una volta provai quella sensazione familiare, come se tutto ciò fosse già accaduto in passato.
Non riuscivo a conciliare la furia che mi aveva assalito appena un’ora prima per averle pestato il cappello con quella figura quasi angelica che mi stava facendo perdere la testa.
«Te l’avevo detto io che dovevamo lasciarle sole un po’ di più.»
Mi voltai per vedere sulla soglia Herb e Jay che ci osservavano ridacchiando. Il biondo, che aveva parlato, mi fece nuovamente l’occhiolino.
Janice, con molta calma, si staccò da me e si concesse una risata lieve, come se le avessero appena raccontato un fatto spiritoso.
Tutto ciò non aveva senso, esigevo delle spiegazioni, ma fu subito chiaro che non le avrei ottenute. Lasciammo che il fuoco nel caminetto si andasse estinguendo e ci preparammo per la notte.
Uscii per prendere qualche boccata d’aria fresca, benché satura di umidità. Speravo che il gelo mi avrebbe aiutato a fare chiarezza, ma rimasi delusa e con la mente tanto ingarbugliata quanto prima. La Covington era tornata ad essere un enigma ambulante. Non potevo capire cosa volesse, perché si comportasse in quel modo o cosa avesse scatenato quel suo comportamento.
«Alle volte rifletti troppo.»
La voce alle mie spalle aveva ragione e ancora una volta mi chiesi se quella donna potesse leggermi nel pensiero.
«Forza, vieni a letto» mi disse la bionda, tirandomi gentilmente una manica.
«Chiamalo letto» brontolai «È una coperta stesa sul pavimento.»
Rientrammo ed augurammo la buonanotte ai nostri ospiti, dopodiché io mi sfilai la giacca, come al solito, e mi sdraiai rivolta verso l’archeologa.
La osservai levarsi gli stivali ed il cappello, secondo un rituale che ormai avevo imparato a memoria e che non potevo fare a meno di osservare incantata.
«Allora» sussurrò prendendo posto di fronte a me «Buonanotte, Mel.»
Deglutii, cercando di allontanare l’improvviso nodo alla gola nel trovarla di nuovo così vicina. Non potevo fare a meno di immaginare cosa sarebbe potuto succedere se non fossimo state interrotte.
«Basta rimuginare» ridacchiò la bionda «Ci saranno altre occasioni.»
Il mio cervello subì l’ennesimo blocco, che si sciolse non appena Jan scivolò tra le mie braccia e mi poggiò un delicato bacio sulla guancia, prima di lasciarsi dolcemente cullare nel sonno dal mio respiro.
«Questa è pazza» stabilii tra me e me, ma inspirando la fragranza dei suoi capelli e sentendo la mia pelle solleticata dal calore del suo fiato non potei fare a meno di pensare che quella sua imprevedibilità, forse, era il tratto di lei che più mi piaceva.
Mi addormentai tormentata da un’altra domanda: mi stavo forse innamorando della mia compagna di viaggio?

NdA: salve, cari lettori e lettrici, ben ritrovati. Spero che la storia fino ad ora vi sia piacuta e mi auguro che questo capitolo si sia dimostrato all'altezza del resto. Personalmente mi sono emozionata molto nello scriverlo, creare i personaggi di Jason ed Herbert è stato un vero spasso, mi auguro siano riusciti bene come spero. Ora, i miei soliti ringraziamenti: a chiunque stia continuando a seguire la storia, leggendo di volta in volta nonostante l'attesa delle due settimane, a wislava per tutto ciò che lei sa e a Stranger in Paradise, per essere sempre pronta a commentare imperterrita. Questo è tutto, gente, al prossimo aggiornamento, nel frattempo buona lettura e buone cose.

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Capitolo 6
*** 12 Maggio 1942 ***


The incredibly true story of two friends on a quest

 
Trascorremmo dieci giorni in quella cabina. In brevissimo tempo ci adattammo ai ritmi della montagna, integrandoci alla perfezione con i nostri nuovi amici, aiutandoli nello svolgere le faccende quotidiane ed assistendo alla rapida ripresa di Jason. Indubbiamente l’aria salubre e la tranquillità dei boschi contribuirono, ma la premura e le cure di Herbert furono ciò che lo aiutò a rimettersi tanto in fretta.
Quella situazione sarebbe potuta andare avanti per sempre. Janice si occupava di sistemare le trappole per la selvaggina, alle volte accompagnata dal convalescente che conosceva i punti migliori in cui piazzarle; l’austriaco svolgeva le necessarie commissioni e, con il mio aiuto, si preoccupava dei pasti, sempre ammesso che la Covington non si intromettesse pretendendo di occuparsi personalmente di qualche piatto. Dal canto mio, non riuscivo quasi più a ricordare di avere una missione da compiere lontano da lì, vivevo il susseguirsi dei giorni guadagnando serenità, dimentica del resto del mondo, avevo persino smesso di registrare gli eventi sul diario.
Fu Xena a richiamarmi al mio dovere.
Stavo trascorrendo la mattinata al lago, ad aiutare Jay a sbarbarsi e a darsi una lavata, in attesa che Jan tornasse a rivestire i suoi panni di chirurgo per rimuovergli i punti. Ero seduta sulla sponda, intenta a risistemarmi gli occhiali che sembravano intenzionati a tuffarsi nello specchio cristallino, mentre il mio amico inglese faceva qualche bracciata di prova dove la pozza era più profonda.
«Fai attenzione!» lo ammonii «Se dovessi scombinarti quella spalla, Jan ed Herb me la farebbero pagare cara.»
«Dai, Mel!» ridacchiò «Vieni anche tu!»
Scossi la testa, pronta a dirgli che non ero propensa a prendermi un malanno immergendomi nell’acqua gelida, ma così facendo le mie lenti ebbero la loro occasione per sgusciare via, inabissandosi verso la libertà.
Imprecando, mi sporsi nel disperato tentativo di afferrarle prima che svanissero tra i flutti, ma naturalmente non ci riuscii, perdendo l’equilibrio e piombando nel lago con un tonfo.
Mentre lo shock termico mi paralizzava, la mia mente corse ad un altro ricordo. Fui trasportata su una scogliera con una cascata, dove un litigio mi portò a precipitare, impattando con l’acqua. Non avevo più bisogno di domandarmi da dove provenisse tutto ciò, episodi del genere avevano continuato a capitarmi, soprattutto in presenza di Janice, lei sembrava essere l’elemento di maggior innesco di quegli episodi.
Nelle mie orecchie i rumori ovattati dall’acqua vibrarono di suoni in rima, di canti in una lingua antica che parlava direttamente al cuore.
Aprii gli occhi.
I polmoni, svuotati di tutta l’aria, iniziavano a bruciare, dovevo tornare in superficie. Scalciai, riuscendo a darmi la spinta necessaria per riemergere. Inspirai con violenza, godendo di quella sensazione di rinascita.
Ed allora compresi che se volevo dare una spiegazione a ciò che Xena mi faceva provare, dovevo recuperare al più presto le pergamene. Avevo perso il mio focus e perlopiù dovevo incolpare me stessa, per essermi lasciata assorbire da quella placida routine. Amavo trascorrere le giornate in pace, scherzando e chiacchierando coi ragazzi e portando avanti quel nuovo, strano, rapporto con la Covington. Sembrava che la pausa dalla missione avesse cambiato anche lei, mostrandomi così un lato più sereno, a tratti civettuolo, decisamente inaspettato. Schwarz sosteneva che flirtasse con me in modo più che palese, ma io ero convinta che non fosse solamente quello, mi stava facendo capire come sarebbe potuta essere una vita tranquilla, senza corse lungo i binari, scontri coi nazisti o emergenze mediche impreviste.
Quando avremo quelle pergamene, promisi a me stessa, farò tutto quanto in mio potere per vivere così per sempre.
«Mel, stai bene?» domandò Davies, accorrendo trafelato ed inondandomi di schizzi «Che è successo?»
Mi ricordai all’improvviso del perché fossi caduta in acqua e iniziai a sbraitare: «Gli occhiali! Quei maledetti cosi! Sono cieca!»
«Va tutto bene» cercò di calmarmi l’inglese, poggiandomi le mani sulle spalle «Rimani ferma, o rischierai di dar loro un calcio o calpestarli. Provo ad immergermi, magari c’è ancora speranza.»
Incrociai le braccia sul petto e brontolai, lamentandomi della mia solita sfortuna.
Restai immersa fino alla vita per dieci minuti buoni, mentre il sommozzatore improvvisato tentava di recuperare le preziose lenti. Iniziavo ad avere i brividi, nonostante i caldi raggi del sole fossero riusciti ad oltrepassare le cime degli alberi, arrivando ad asciugarmi almeno in parte.
Ci misi qualche momento, non vedendo, a capire che due figure stavano venendo a controllare la situazione.
«Cominciavo a pensare che foste annegati!» esclamò apprensiva l’archeologa, che riconobbi dall’inconfondibile macchia sulla testa, che doveva essere il cappello.
«Cominciavi a sperare, piuttosto» le fece eco l’austriaco.
«Cos’hai da sbattere tanto le palpebre e strizzare gli occhi?» mi chiese Jan, avvicinandosi «Mi fai quasi paura.»
«Ho perso gli occhiali» spiegai «Jay sta provando a salvarli.»
«Solo tu puoi essere tanto scema da fare il bagno con gli occhiali» mi criticò la bionda «Perché non rifletti mai prima di fare le cose?»
«Trovati!» gridò trionfante Jason, riemergendo all’improvviso, inondandomi nuovamente. Nella mano sinistra reggeva le mie lenti traditrici, incredibilmente intatte. Non fece in tempo a finire di esultare, che una fitta alla spalla in guarigione, causata da quel gesto, gli fece perdere la presa.
Con uno scatto, la Covington si gettò in acqua con noi, scansandomi e riuscendo abilmente a riacciuffare gli occhiali. Me li consegnò senza tante cerimonie, poi si occupò di verificare che i punti non fossero saltati e la ferita non si fosse riaperta.
«Una coppia di impulsivi, goffi, tonti» mugugnò, mentre uscivamo dal lago «Non so chi di voi due sia messo peggio…»
Herbert, che era rimasto l’unico asciutto della compagnia, iniziò a ridere di noi, ma ciò non fece che attirare su di lui una giusta vendetta.
«Prendiamolo!» ordinò l’inglese.
Janice ed io lo immobilizzammo e lo sollevammo, gettandolo poi di peso nella pozza, mentre Jay si sbellicava dalle risate.
Ancora zuppi, camminammo fino ad una piccola radura poco lontana dalla cabina, e là ci sdraiammo a prendere il sole, ancora immersi nel buon umore generato da quella bizzarra disavventura.
Schwarz era allungato, con le braccia portate dietro la testa, mentre il compagno, messo di traverso, aveva il capo poggiato sul suo addome. L’archeologa ed io eravamo affiancate, con le braccia distese di modo che le nostre mani che ogni tanto si intrecciassero, senza alcuna vera ragione.
«Ho preso una decisione» annunciai dopo un po’ «Dobbiamo tornare sui nostri passi e proseguire fino a Potidaea.»
Nessuno fiatò.
Jason, passato un minuto, alzò il capo e mi fissò con amara consapevolezza.
«Sapevate che questo momento sarebbe arrivato» proseguii, non celando una nota di tristezza.
«Sì» mormorò Herb «Temevo che dicessi qualcosa del genere…»
Mi misi a sedere, seguita subito dopo da Janice che, restando in silenzio, mi strinse con decisione la mano, come per comunicarmi il suo supporto. «Abbiamo ancora tanta strada da fare e gli imprevisti sono sempre dietro l’angolo. Credetemi, non vorrei dovervi lasciare, ma abbiamo un’impresa da portare a termine.»
Un silenzioso assenso fu tutto ciò che ottenni. Temetti di aver irrimediabilmente rovinato l'atmosfera di leggerezza che aveva segnato quelle ore, ma d’altra parte non potevo dolermene più di tanto, perché prima o poi sarebbe dovuto accadere.
Poco dopo, anche i due giovanotti si misero a sedere.
Trascorremmo lunghi attimi fissandoci in viso, lasciando che i suoni della montagna lenissero la dolorosa quiete. Una coppia di uccelli dialogava con melodiosi cinguettii da un ramo vicino, mentre il vento solleticava le foglie e l’erba, fischiando motivetti sconosciuti negli anfratti della vallata. Allontanarsi da quel luogo significava non solo lasciare indietro i nostri amici, ma anche quella paradisiaca tranquillità.
«Forza, rientriamo» stabilì la bionda «C’è un’operazione da portare a termine.»
Ancora una volta mi occupai di pulire e desensibilizzare, per quanto possibile, la zona da sottoporre all’intervento, utilizzando le solite pezze gelate. Herbert rimase tranquillo a tenere la mano del compagno, mentre l’archeologa, con estrema cautela, tagliava le gugliate di filo con la punta del coltello.
«Fatto, tutto risolto» gongolò osservando la cicatrice rossastra «Ho fatto davvero un ottimo lavoro.»
In effetti la zona non era più gonfia, segno che l’infiammazione era stata vinta, e la ferita si era ormai rimarginata del tutto, non rappresentava dunque più alcun pericolo per la salute di Jason.
«Grazie, Doc» disse il paziente, sollevato, stringendo la biondina con un vigoroso abbraccio «Mi hai salvato la vita, non lo dimenticherò mai.»
Janice sorrise soddisfatta e gli occhi le diventarono lucidi, ma, con noncuranza, si passò la manica della giacca sul volto, per fermare le lacrime sul nascere. «Adesso, preparatemi da mangiare, femminucce!» sbottò quando ebbe riassunto la solita espressione da dura «Tutto questo salvare vite mi ha messo fame.»
L’austriaco uscì a controllare se le trappole avessero accalappiato con successo qualcosa da buttare in pentola e, con nostra somma gioia, tornò con una lepre bella grossa, che Jay si occupò di pulire e preparare, mentre io iniziavo a cucinare il fondo per lo stufato.
Per far scorrere più rapidamente il tempo, mi misi a chiacchierare con i giovanotti delle loro esperienze in cucina, perdendomi nel sentire i racconti di come avevano fatto impazzire le rispettive madri le prime volte che si erano cimentati ai fornelli.
«Sento un po’ troppe ciance e troppo poco spadellare» si lamentò l’archeologa, picchiettando con il piede per terra.
In tutta risposta, le lanciai in testa una pagnotta che avevo a portata di mano. «Mangia, così almeno sarai costretta a tenere la bocca chiusa e ci risparmierai queste stupidate.»
«Avresti potuto tapparle la bocca con un bacio» mi sussurrò Herb con fare cospiratorio, così, per distrarlo dal rossore che aveva invaso le mie guance, stampai in faccia anche a lui un pezzo di pane.
Il pranzo mi sembrò volare in un lampo, sia perché eravamo tutti affamati, sia perché sarebbe stato l’ultimo che avremmo vissuto insieme. Avevamo stabilito che avremmo passato ancora una notte alla capanna, poi, l’indomani, poco dopo l’alba, ci saremmo messe in marcia.
Mentre gli altri tre si occupavano di raschiare la pentola fino al fondo per non sprecare neanche una cucchiaiata di stufato, io mi ritirai da parte con il mio fido quadernetto.
 
Diario di Melinda P. Pappas
12 Maggio 1942, monte Chortiatis, Grecia
Dopo una sosta prolungata non prevista, la Dr.ssa Covington ed io, rinvigorite e riposate, siamo pronte a riprendere quanto precedentemente interrotto. Solo una sessantina di chilometri ci separa da Nea Poteidaia e dalle preziose pergamene di Xena, la missione è ormai quasi conclusa.
 
Pensai che forse quelle ultime parole erano un po’ un azzardo, ma, se tutto fosse andato per il verso giusto, in meno di una settimana avrei stretto tra le mani una nuova parte del più prezioso tesoro dell’antichità.
Richiusi il diario e lo riposi nella giacca, poi tornai a fare compagnia agli altri, che avevano già tirato fuori il mazzo di carte che ci aveva intrattenuti per molti dei pomeriggi precedenti. L’austriaco aveva recuperato quelle carte da un avventuriero poco fortunato, a cui aveva svuotato le tasche poco prima di imbattersi in noi.
Il mazzo era quasi nuovo, di cartoncino piuttosto resistente, ottimo per permetterci di fare numerosissime partite a poker. Non avendo la possibilità di scommettere denaro, ci eravamo arrangiati a puntare sassolini e bastoncini raccolti nei dintorni della piccola dimora, per mia fortuna dato che mi sarei ritrovata senza il becco di un quattrino dopo appena la prima mano. Ero sfortunatissima, non mi capitava mai una buona mano e i miei patetici tentativi di bluff venivano smascherati subito.
«Sfortunata al gioco, fortunata in amore» era solito cantilenare Jason, ben sapendo di mettermi a disagio quasi quanto i sorrisi maliziosi che mi rivolgeva la bionda.
Quella volta la mia malasorte non fece eccezione, riducendomi più ad una spettatrice che ad una vera e propria giocatrice. Janice, inutile dirlo, era sempre la più abile, con la sua faccia di bronzo, a riuscire a sfruttare le carte al meglio, mettendo in piedi i più efficaci bluff e sbaragliando noi avversari con incontestabili colpi di fortuna.
«Basta» decretai quando notai che fuori l’oscurità avanzava, segno che la sera era alle porte «Un altro turno e sarò costretta a puntare la camicetta per restare in pari e la perderei di certo!»
«Nessuno di noi avrebbe da lamentarsi di ciò» commentò Herbert, beccandosi due scappellotti in contemporanea, né l’archeologa né l’inglese, infatti, sembravano aver gradito molto quell’insinuazione.
Sorrisi malinconica, sapendo che non ci sarebbero stati più momenti del genere.
Ci dividemmo i compiti per la cena e a me toccò andare a recuperare la legna per il fuoco, dunque uscii, un po’ controvoglia, a svolgere il mio dovere. Ormai avevamo bruciato qualsiasi cosa combustibile nelle vicinanze della cabina e le scorte di ciocchi erano terminate da un paio di giorni, quindi mi sarei dovuta spingere all’interno del bosco.
Mi inoltrai seguendo il sentiero segnato dalle nostre solite escursioni, dirigendomi verso il laghetto, dove sapevo ci fosse un piccolo cumulo da cui avrei potuto attingere una discreta fascina.
Di notte la boscaglia si trasformava completamente, diventando dominio indiscusso della natura. Mi sentivo quasi un’intrusa ad avanzare lentamente a tentoni, disturbando quella quiete.
Quando giunsi in prossimità della pozza, notai un’ombra vicina alla riva, feci qualche passo, restando al riparo tra i tronchi per osservare il cerbiatto che si abbeverava. La luna, quasi piena e non oscurata da nuvole, filtrando tra le fronde, inondava col suo argenteo pallore quello scorcio. Era uno spettacolo magico.
Il cucciolo alzò la testa di scatto, udendo uno schiocco proveniente dalla mia direzione, ed immediatamente scomparve, senza un rumore, come se non sfiorasse neppure il terreno con gli zoccoli.
«Cavolo, l’ho fatto scappare?» domandò Jan, sbucando al mio fianco.
«Già, piedi di fata» replicai, uscendo dal folto degli alberi e avvicinandomi allo specchio d’acqua, chinandomi là dove, fino a pochi istanti prima, aveva sostato l’animale selvatico.
«Era molto bello, credo che non ci ricapiterà presto di vederne uno» dissi, sfiorando le lievi orme lasciate.
«Beh, se decidessimo di stabilirci qui, una volta recuperate le pergamene, potremmo rivederlo… Certo, magari sarà cresciuto un po’» osservò l’archeologa.
Mi raddrizzai e la fissai negli occhi. «Vorresti tornare qui?» chiesi, indecisa se prenderla sul serio.
«Tu non vorresti?» mi rispose.
«Non hai risposto alla mia domanda» le feci notare.
Lei sorrise, ma ancora una volta non ottenni di sapere quello che volevo, in compenso mi afferrò la mano e portò le nostre dita ad intrecciarsi, mentre sollevava lo sguardo verso il cielo.
«Le stelle questa sera sono bellissime» commentò.
«Perché ti stai comportando così?»
Mi resi conto delle parole che avevo pronunciato solo dopo che ebbero lasciato la mia bocca, ma ormai era tardi per ritirarle, anche perché mi premeva davvero avere una risposta.
Tornando a fissarmi con quegli smeraldi velati di mistero, mormorò: «Sicura di volerlo sapere?»
Certo! urlai nella mia testa, ma volevo mantenere una parvenza di distacco, quindi borbottai: «Direi di sì…»
Piccole rughe di espressione accentuarono il suo sorriso. «Come vuoi.»
Il mio cuore iniziò a battere più velocemente, ansioso come me di ricevere delle spiegazioni.
«Ti ricordi del primo giorno passato qui?»
Annuii, incapace di rispondere, ipnotizzata da lei e dai lievi movimenti delle sue labbra.
«Dopo l’operazione, mi sono stesa e tu hai chiacchierato con Herb.»
Incantata, la lasciai proseguire senza neppure muovere la testa in segno di assenso.
«Non ho dormito… Cioè, in un primo momento sì, ma ho sentito tutto quello che gli hai raccontato e il modo in cui parlavi di me, dei nostri momenti insieme… Mi ha fatto capire…»
Quelle frasi così sospese mi uccidevano. Se avessi avuto un qualche minimo controllo sul mio corpo le avrei messo le mani al collo e le avrei cavato le parole con la forza.
«Dal primo istante in cui ti ho vista ho capito che mi avresti procurato un mucchio di guai» riprese «Ma sembravi determinata quanto me ad arrivare fino in fondo con la storia di Xena e delle pergamene, così ho deciso che ti avrei tollerata, fino a che avessimo avuto un obiettivo comune. Poi ci sono state quelle due settimane, dopo l’esplosione del sito, durante le quali non mi aspettavo altro che vederti scomparire e, invece, hai scoperto dell’esistenza degli altri scritti. Forse non l’ho dato molto a vedere, ma sono stata contenta di avere un’altra avventura da affrontare insieme…»
Le ultime sillabe si sciolsero nell’aria che si faceva sempre più fredda, mentre l’oscurità, sempre più fitta, contrastava con la luce lattiginosa della luna.
«La maggior parte del tempo avrei voluto calciarti giù dal treno o strangolarti con la frusta» ammise «Ma c’era qualcosa, una sorta di legame che non potevo ignorare… E poi avevi bisogno di me, della mia protezione. Dovevo tenerti lontana dai guai.»
Sbattei le palpebre una frazione di secondo e quando le riaprii, tornando a focalizzare il mondo al di là delle lenti degli occhiali, mi parve che il suo viso fosse più vicino al mio.
«All’inizio non era certo questo quello che avevo pianificato… Ma ogni volta che ti vedevo in pericolo qualcosa si risvegliava in me, che mi faceva comprendere quanto tu significassi per me… Deve sembrare molto stupido detto così, ma nella mia testa ha un senso.»
Non me l’ero immaginato, si stava accostando ogni secondo di più. Le sue labbra erano ad un soffio dalle mie.
«Così ho deciso che durante questi ultimi giorni avrei potuto agire d’istinto, comportandomi come il mio cuore mi suggeriva di fare… Mantenendo un certo stile, naturalmente» sogghignò.
Avrei voluto tirarle un calcio, per farla tornare seria, ma ero paralizzata dalla testa ai piedi. Anche i miei capelli erano immobili, nonostante spirasse un alito di vento.
Sciolse la mano destra, rimasta fino ad allora legata alla mia sinistra, per andare a sollevare leggermente la tesa del cappello, così che potessi osservarla meglio in volto. Era agitata, in trepidante attesta di qualcosa, ogni frammento di lei sembrava trasmettermi quella sensazione.
«Col senno di poi, mi rendo conto di poter essere sembrata, o forse essere stata, scostante… Ma puoi criticarmi? Non è che qualcuno abbia mai scritto un manuale su come comportarsi in questi casi…»
Ripensai ai nostri amici, che probabilmente iniziavano a pensare che fossimo state sbranate da qualche predatore. Come avevano capito di essere destinati a stare insieme? Si erano innamorati giorno dopo giorno, maturando insieme, o qualcosa c’era sempre stato? Una forza, cresciuta fino a diventare inarrestabile, in grado di infrangere le barriere dell’odio e del pregiudizio?
Avrei dato qualsiasi cosa per una risposta a quei quesiti.
«Mel?»
Mi ripresi dalle mie elucubrazioni, tentando di tornare a concentrarmi sul momento presente.
«Tu non mi sei sembrata rifiutare questo diverso tipo di… Approcci, se così posso chiamarli» sussurrò a pochi millimetri da me.
Era vero, perché non era stata assolutamente mia intenzione rifiutarli.
«Mel, di’ qualcosa…»
All’improvviso compresi cosa avesse inteso Herbert all’ora di pranzo. Quella donna parlava davvero troppo ed era mio preciso dovere farla tacere.
Colmai la distanza tra noi e la baciai.
Non riuscii a distinguere con razionalità tutto ciò che provai. Mi parve che la terra sotto i miei piedi fosse scomparsa ed io stessi per precipitare in un abisso, al contempo, però, era come se una forza sconosciuta mi sospingesse, verso un nuovo cielo ricolmo di costellazioni ancora da scoprire e battezzare.
Ero felice, euforica, straordinariamente esaltata, ma anche terrorizzata, spaventata da quella inaspettata, eppure così favolosa, novità.
Frammenti della mia mente vorticavano, mescolandosi, ricombinandosi, fondendosi con qualcosa di noto, preesistente, generando scenari infiniti.
Sentii ricordi di Xena che fluivano, travolgendomi, quasi facendomi dimenticare dove fossi e cosa stesse accadendo. Ma non mi sarei potuta perdere. Janice era la mia ancora, mi teneva a sé impedendomi di finire in balia delle mie stesse emozioni.
Il ponte gettato tra le nostre anime venne saldato definitivamente dall’unione delle nostre labbra.
Agli occhi del mondo esterno quello poteva apparire come un semplice bacio, ma per me era molto, indicibilmente di più.
Non mi resi neppure conto di aver chiuso le palpebre e di aver istintivamente abbracciato la figura minuta di fronte a me, per assicurarmi a lei.
Non sapevo quanto tempo fosse trascorso, secondi, minuti od ore, quando ci separammo.
Inspirai profondamente l’aria frizzante della notte e mi parve fresca e rigenerante come non mai. Ogni cosa percepita mi sembrò acquistare una qualche novità. Mi ritrovai a pensare di aver vissuto un eterno inverno, osservando il mondo sepolto sotto una spessa coltre bianca, impenetrabile, e che solo in quel momento fosse giunta la primavera, svegliandomi, presentandomi le gioie della rinascita.
Un suono insistente mi trascinò lontano dalle mie elucubrazioni.
Le dita dell’archeologa schioccavano con forza davanti al mio naso. «Bentornata» sogghignò «Fatto un bel viaggio?»
Il sangue mi gelò nelle vene. Pietrificata, mi domandai se mi fossi immaginata tutto. Poteva il potere della suggestione essere tanto grande?
Vedendo che stavo ripiombando nei miei schemi mentali, Jan si sporse in punta di piedi e mi diede un secondo, fugace, bacio.
«Dovremmo rientrare» osservò.
Annuii e, mossa da istinto meccanico, feci per incamminarmi verso la capanna.
«Mel? Non stai dimenticando qualcosa?» cantilenò la bionda alle mie spalle.
Improvvisamente mi ricordai della ragione che mi aveva spinta fino al lago. Mi caricai le braccia di legna e, sfoggiando un sorriso forse un po’ ebete, affiancata dalla mia compagna, tornai alla casetta.
Socchiusi la porta spingendola lievemente con il piede destro, dato che avevo entrambe le mani impegnate. Jason ed Herbert erano in piedi davanti al camino scoppiettante e si voltarono non appena udirono il cigolare dei cardini.
«Stavamo per chiamare una squadra per il soccorso» scherzò l’inglese, facendo un passo verso la mia direzione, per prendere su di sé il carico di rami.
«Fermo!» lo arrestò Schwarz «Non noti che c’è qualcosa di diverso?» domandò, iniziando a fissare Janice e me con il suo glaciale sguardo indagatore.
Ebbi l’impulso di spalancare la bocca per la sorpresa. Era davvero così palese quanto successo poco prima?
In risposta, sentii un braccio dell’archeologa cingermi il fianco, mentre l’altro veniva levato con un verso di vittoria.
Jay crollò sul pavimento e io mollai la fascina per balzare in avanti a soccorrerlo, ma scoprii presto di aver reagito per niente.
«No, no, no… Perché?» gemeva, lagnandosi.
«Io te lo avevo detto» gongolò Herb, raggiungendoci «Non avresti dovuto scommettere contro di me.»
«Vi odio così tanto» mormorò l’altro, lasciandosi cullare leggermente tra le braccia dell’austriaco «Ora mi toccherà lavare panni e piatti per un mese intero, oltre alle solite faccende…»
«Avete scommesso su di noi!?» sbottò Jan, afferrando entrambi per il colletto della camicia e sollevandoli da terra.
«Era un innocuo giochetto» tentò di difendersi Herbert «Vi assicuro che lo abbiamo fatto con buone intenzioni.»
Mi alzai a mia volta, lanciando un’occhiata curiosa alla biondina, rossa in viso, non sapevo se per la rabbia o per l’imbarazzo, ed ebbi l’impulso di scoppiare a ridere per quella situazione esilarante.
«E tu da che parte stai?» mi criticò lei all’istante «Questi due non hanno niente di meglio da fare che farsi sparare ogni tanto e scommettere sulla vita sentimentale delle loro salvatrici!»
Continuai a ridere, talmente forte da farmi scivolare le lenti fin sulla punta del naso.
«Sono circondata di un branco di idioti» borbottò, tirandomi uno scappellotto.
«Però ci vuoi bene lo stesso» replicammo noi altri all’unisono.
«Sì, sì…» sbuffò la Covington, andando a ravvivare la fiamma, per poi mettersi a cucinare.
A quel punto, venni stretta in un abbraccio dai miei amici che mi fecero i loro sentiti complimenti per aver finalmente compreso ciò che a loro era stato chiaro fin dal principio.
«Scommessa o meno» disse Jason «Siamo molto felici per voi. Non è una strada facile quella che avete deciso di intraprendere, ma, visto quanto siete testarde, sono convinto che niente e nessuno potrà mai frapporsi tra voi.»
Sorrisi di cuore. Il loro supporto era quanto di più prezioso avessero da offrirci.
«E quindi… Adesso volete che vi lasciamo sole?» chiese ammiccante Herb.
«Dopo mangiato, però» aggiunse il moro.
Arrossii, lasciando che la domanda restasse senza risposta.
«Volete restare a digiuno?» si impose l’archeologa, stroncando il silenzio ed il mio imbarazzo sul nascere «Questi fagioli non si cucineranno da soli.»
Ci mettemmo a scoperchiare scatolette, dopodiché ne versammo il contenuto nella pentola, insieme a qualche cubetto di carne affumicata, lasciando poi il tutto a sobbollire, fino a che non ottenemmo un bel composto caldo e fumante, che divorammo con il pane avanzato dal pranzo.
Sembrava una delle solite cene che avevano caratterizzato il nostro soggiorno là, quasi non mi resi conto che sarebbe stata effettivamente l’ultima.
Chiacchierammo e scherzammo, lasciando che la notte avanzasse, ma presto ci rendemmo conto che se non ci fossimo coricati, Janice ed io non saremmo state in grado di ripartire la mattina seguente.
Augurammo la buonanotte ai nostri amici, che si offrirono più volte di lasciarci, almeno per quell’ultima notte, dormire nel loro letto, ma Jan rifiutò con un deciso: «Mai e poi mai. Chissà che cosa avete combinato tra quelle lenzuola!»
Con un’ultima risata generale, spegnemmo i tizzoni ancora ardenti nel caminetto, lasciando che l’ultima fonte di luce fosse la nostra fidata lanterna, poggiata sul pavimento in mezzo alla stanza.
Approntammo il nostro materasso e ci preparammo per riposare. Mi sdraiai sul fianco destro, per sbirciare, come al solito, il rituale che la Covington compiva per levarsi gli stivali e il cappello. Appena ebbe finito, si accoccolò con la schiena incollata al mio petto, mormorando: «Non mi dispiacerebbe se mi abbracciassi.»
Senza farmelo ripetere, feci scorrere il braccio sinistro sulla sua vita e la strinsi a me. Non potevo vederlo, ma sapevo che quel gesto l’aveva fatta sorridere.
Le baciai la cima della testa, inalando la sua fragranza unica, dopodiché scivolai in un dolcissimo sonno.


NdA: ben ritrovati, gentili lettori. Credo proprio che questo capitolo fosse, in fondo, quello che stavate aspettando e se così non fosse, beh, vi resta comunque la speranza che il prossimo sia quello tanto atteso. Ringraziamenti flash a wislava e Stranger in Paradise, che sanno di essere tanto importanti per me. Ora mi congedo, con l'augurio di ritrovarvi tra due settimane, col prossimo aggiornamento, nel frattempo buona lettura e buone cose.

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Capitolo 7
*** 13 Maggio 1942 ***


The incredibly true story of two friends on a quest

Al mio risveglio, la prima cosa che notai fu un brillante paio di iridi verdi che mi osservavano nella debole luce dell’alba, che filtrava dalla finestra mal chiusa.
«Ti piace spiare la gente che dorme, pervertita?» sussurrai, facendole il verso.
«Quanto sei scema» ridacchiò, sorridendomi.
Mi puntellai sui gomiti, osservando la stanza ancora avvolta nella penombra. «I nostri due simpatici ospiti dormono ancora?»
Janice annuì.
«Per noi è quasi ora di partire, però» osservai «Il sole deve essere sorto già da un po’.»
«Da più di mezz’ora» mi informò, stropicciandosi gli occhi.
«E tu da quanto sei sveglia?» domandai, vedendola sbadigliare.
«Da un po’» mormorò «Non riuscivo a dormire… L’idea di dovercene andare da qui, onestamente, mi turba» confessò «Ho un brutto presentimento.»
«Ammetti che in realtà non vuoi passare del tempo da sola con me» la stuzzicai, per alleggerire l’atmosfera.
«Oh» sussurrò, mentre un’espressione maliziosa le invadeva il volto «Non potresti essere più in errore…»
Non era esattamente il risultato che avevo intenzione di ottenere, ma fui soddisfatta di averla distratta dal suo precedente turbamento.
Non feci in tempo a registrare quanto stesse accadendo, che mi ritrovai le sue labbra incollate alle mie, mentre sentivo il mio cuore iniziare a galoppare.
«Questa sera avremo modo di approfondire» concluse ammiccando, dopo essersi staccata da me.
Passò una decina di minuti prima che i due dormiglioni si svegliassero, ma nel frattempo noi avevamo già radunato la maggior parte dei nostri averi.
«Fermatevi almeno per un tazza di the» ci supplicarono, ma dovetti puntare i piedi per rifiutare, eravamo già in ritardo sulla nostra tabella di marcia.
I saluti furono, naturalmente, il momento peggiore. Avevamo passato insieme solo una manciata di giorni, ma avevamo legato davvero molto e l’idea che probabilmente non ci saremmo rivisti più metteva tutti di malumore.
I gesti che ci scambiammo non erano sufficienti ad esprimere tutto ciò che stavamo provando e le brevi frasi di commiato celavano dietro di sé più profondi e sentiti messaggi che mai sarebbero stati pronunciati ad alta voce.
«Ti voglio bene, sono così contento di averti conosciuto» mi disse Jason, dandomi un paio di forti pacche sulle spalle «Sei davvero una donna straordinaria.»
Quando passai di fronte ad Herbert, notai che lui aveva gli occhi lucidi. Il suo bel viso, solitamente solare, era come avvolto in una maschera di tristezza da cui a breve sarebbero potute scaturire lacrime. Aprì la bocca e riuscì ad emettere solo un balbettio confuso. Gli sorrisi ed allungai le braccia per abbracciarlo, dato che nessuno dei due era in grado di parlare. In un frazione di secondo venni stritolata dalla sua solida presa. «Ti voglio tanto bene, non ti dimenticherò mai» mugolò, mentre aumentava la stretta, rischiando di spezzarmi qualche costola.
«Anche io, Herb. Anche io» replicai, nascondendo una lacrima che aveva iniziato a danzare dalla mia guancia al fondo degli occhiali.
Mi scostai dai due, lasciando che Janice ricevesse a propria volta i saluti.
Jay le strinse vigorosamente la mano, ringraziandola ancora una volta per avergli salvato la vita. L’austriaco, invece, la attirò a sé e le sussurrò una frase che riuscii a cogliere a fatica: «Abbi cura di Mel. Se la farai soffrire o le capiterà qualcosa, ne risponderai a me e non importa quanti chilometri ci saranno tra noi, io ti troverò e te la farò pagare.»
«La proteggerò come faresti tu» promise la biondina «E la amerò come non potresti mai.»
Entrambi sorrisero e sciolsero quell’ultimo abbraccio.
«Fate buon viaggio» gridarono all’unisono i due uomini quando ormai ci eravamo allontanate dalla soglia della capanna.
«E salutateci Nea Poteidaia!» urlò Schwarz.
Mi voltai un’ultima volta, osservando i nostri amici sventolare le mani come matti. Avrei sentito molto la loro mancanza, ma le pergamene di Xena ci stavano chiamando.
Percorremmo il primo tratto di strada in silenzio, camminando affiancate dove possibile, tornando sulla via principale diretta a sud, verso Vasilika.
Non essendo più abituata a marciare tanto su strade dissestate, soprattutto usando quelle scarpe da montagna un po’ troppo strette, la mattinata non era ancora conclusa quando scoprii che i miei delicati piedi si stavano riempiendo di piccole ferite e vesciche generate dallo sfregamento.
Lamentarmi non sarebbe servito a nulla, quindi strinsi i denti e continuai ad avanzare, tenendo dietro a Jan con fatica, dato che lei andava talmente veloce da sembrare sul punto di mettersi a correre.
«Ho una brutta sensazione, proprio brutta…» andò avanti a borbottare fino a che non ci fermammo per il pranzo «Te l’ho mai detto che sono un po’ sensitiva? So prevedere i disastri.»
Annuii, ascoltandola con spento interesse.
«Per esempio: proprio il giorno prima che tu piombassi in mezzo al mio scavo avevo avuto una terribile serie di brividi, chiaro segno che qualcosa di catastrofico sarebbe avvenuto.»
«Il mio arrivo sarebbe stato una catastrofe, eh?» commentai con finta stizza.
«Certo! Ti sei tirata dietro tutti quegli scagnozzi di Smythe che hanno impallinato di piombo la mia tenda e il mio cappello!» rispose ridacchiando.
Sbocconcellando il mio panino con formaggio ed affettato, scossi la testa. Figuriamoci se non doveva esserci quel maledetto copricapo di mezzo dissi a me stessa, sbirciando con la coda dell’occhio l’oggetto incriminato.
«Ma riguardo questa volta» riprese, cogliendomi alla sprovvista «Sono seria.»
Eravamo sedute vicine e lasciai scivolare la mia mano nella sua per rassicurarla. «Non è il caso di essere così tragica e pessimista, vedrai che si rivelerà solo un erroneo presentimento.»
«Speriamo» sospirò, tornando a mangiare.
La osservai e mi si strinse il cuore a vedere la sua espressione corrucciata, ma potevo fare ben poco, se non starle accanto dimostrandole che tutto sarebbe andato bene.
Finito il pasto, proseguimmo discendendo il pendio lungo i tornanti, evitando una brutta scarpata dove le piogge dei giorni precedenti avevano causato qualche frana. Purtroppo, il mio dolore ai piedi ci costrinse presto a rallentare, fino a che, prima ancora che il sole tramontasse, decretai che non fossi in grado di muovere un solo passo in più.
«Manca ancora un po’ fino a Vasilika» constatò la bionda «E forse non sarebbe bene arrivarci di notte, potremmo trovare qualche pattuglia in ricognizione.»
«Quindi ci fermiamo?»
«Sì» confermò «Troviamo una radura e piantiamo la tenda.»
Poco fuori dal percorso segnato, trovammo ciò che faceva per noi e mentre Janice si occupava di sistemare il nostro riparo, io sfoderai il mio immancabile quadernetto.
 
Diario di Melinda P. Pappas
13 Maggio 1942, monte Chortiatis, Grecia
La Dr.ssa Covington ed io stiamo proseguendo la discesa verso la città di Vasilika per procedere poi verso Nea Poteidaia. La nostra collaborazione sembra non poter andare meglio di così, presto arriveremo alle tanto agognate pergamene.
 
Sollevai un momento la matita, indecisa se aggiungere qualcosa, quando mi sentii sfilare di mano il diario.
«Preso!» gongolò la Covington, sventolandomi il maltolto sotto il naso «Voglio proprio sapere che cosa c’è di tanto segreto tra queste pagine…»
«Non c’è assolutamente niente che ti interessi» replicai, tentando di recuperare il mio quaderno, ma l’archeologa era molto più agile di me, che ero per di più rallentata dalle ferite fresche di giornata.
«Forza, Mel! Vieni a prenderlo!» mi stuzzicò, mettendosi a saltellare in giro per lo spiazzo.
Dopo dieci minuti di inseguimento senza risultato, mi gettai senza fiato sul morbido letto erboso. Sopra di me scorgevo le fronde illuminate dai raggi aranciati del sole che aveva iniziato a sparire oltre l’orizzonte, doveva essere più tardi di quanto pensassi.
«Tregua» rantolai, vedendola allungarsi accanto a me «Non ho più l’età per queste cose.»
In tutta risposta, la biondina iniziò a farmi il solletico, levandomi dai polmoni quella poca aria che mi era rimasta. Cominciai a rotolarmi, nel tentativo di allontanarmi da lei, ma finii solamente con l’offrirle più punti su cui infierire.
«Pietà!» iniziai a strillare, mentre la vista mi si offuscava per via delle lacrime.
«Solo se mi lasci tenere il diario per leggerlo» stabilì Janice, senza smettere di tormentarmi.
«Va bene, va bene» capitolai, sentendo che le sue malefiche dita si allontanavano finalmente da me.
«E adesso ti occuperai di recuperare la cena» ordinò, strizzandomi l’occhio «Alla mia maniera.»
«Come, scusa?» domandai perplessa, risistemandomi la camicetta e i capelli in disordine.
Mi lanciò la frusta, che afferrai al volo per miracolo. «Cattura qualcosa» mormorò malignamente.
I miei tentativi di opposizione vennero stroncati sul nascere.
«Portati dietro lo zaino» mi suggerì «E se trovi qualche erba o radice commestibile cacciala dentro, così vedremo di arricchire la carne.»
Riluttante, mi rimisi il peso sulle spalle, pronta a partire per quella mia impresa in solitaria.
«Quando tornerai, ti preparerò la cena e ti massaggerò i piedi, per ricambiare il favore» proseguì, con tono mellifluo.
Sbuffai, cominciando a mettermi in moto.
«Aspetta» mi fermò, quando ormai le avevo voltato le spalle da un po’ «Prendi questo, come portafortuna.»
Mi baciò sulle labbra, mi calcò il proprio cappello in testa e mi diede una pacca sulle spalle, il tutto in una frazione di tempo talmente breve che a fatica riuscii a distinguere l’ordine degli eventi. Ancora inebetita, mi misi in marcia.
Non ero brava quanto la mia compagna a trovare le tracce, ma durante il periodo passato con Jason ed Herbert aveva passato diverse ore ad istruirmi, quindi quella era l’occasione per dimostrarle che avevo imparato qualcosa.
Mi chinai in un punto in cui la terra mi sembrava smossa da poco ed ebbi fortuna, individuando quella che sembrava la pista di un coniglio.
La seguii per qualche minuto, convinta di avere la creatura in pungo, ma quando mi ritrovai ad inciampare in una radice in cui avevo incespicato poco prima, compresi di aver girato in tondo.
Ricominciai da capo, cercando nuove orme.
Nel mio girovagare trovai qualche erba aromatica, che avevo visto usare in passato dall’archeologa, ma rinunciai a raccogliere una specie di fungo dal pessimo odore, che sarebbe potuto essere perfettamente commestibile, ma che allo stesso modo sarebbe potuto essere letale.
Non avendo un orologio non seppi esattamente quanto tempo trascorsi a vagare in cerca di materie appetibili, ma quando le ombre iniziarono ad allungarsi troppo, sconfitta per non essere riuscita ad ottenere alcunché, mi diressi verso il campo.
Insicura su che strada avessi intrapreso, feci affidamento sul mio senso dell’orientamento, ma anche sui segni che il mio primo passaggio aveva lasciato. C’erano molti rami spezzati, sassolini smossi, punti in cui la mia goffaggine mi aveva fatto sbattere contro i tronchi, portando via porzioni del muschio che cresceva florido.
Lasciando che fosse il mio istinto a guidarmi, tornai nella zona della radura, in cui Janice aveva probabilmente acceso un fuoco del cui fumo percepivo l’odore.
Mi ci volle qualche istante per realizzare che il sentore di fumo che giungeva alle mie narici era sì quello di un falò, ma misto a quello di tabacco.
«Ma non è uno dei sigari di Jan» mormorai tra me e me.
Muovendomi con più cautela, arrivai a trovare il mozzicone di una sigaretta, ancora caldo, gettato in un punto in cui sovrapponevano diverse orme. Impronte di scarponi.
Un brivido mi percorse la schiena, ripensando ai brutti presentimenti a cui io mi ero rifiutata di dare peso. Dovevo affrettarmi, dovevo assicurarmi che la mia amica stesse bene.
Quando intravidi il bagliore delle fiamme ondeggiare nella selva di tronchi, scattai avanti e tirai un sospiro di sollievo, che morì non appena ebbe lasciato la mia bocca. Dalla parte opposta dello spiazzo, quella che l’archeologa stava osservando dandomi le spalle, comparve una decina di uomini, con inequivocabili divise tedesche.
«Ma guarda un po’ chi abbiamo qui» disse uno degli intrusi, gettando lontano da sé quella che immaginavo essere una sigaretta e staccandosi leggermente dal gruppo «Mi riconosci, dottoressa?»
Strizzai gli occhi, sperando che l’aiuto fornito dai miei occhiali fosse sufficiente per identificare l’uomo.
«Sei uno degli scagnozzi di Smythe» ringhiò la bionda, facendo scivolare la mano verso la fondina del revolver.
«L’unico che è sopravvissuto a quello scavo d’inferno» rispose lui.
«Solo perché sei stato abbastanza codardo da dartela a gambe prima di entrare nel tempio» lo provocò lei, facendo per alzarsi, con l’intenzione di estrarre la pistola.
«Fossi in te non lo farei» la immobilizzò «Siamo tutti armati e sappiamo sparare veloce quanto te. Potresti farmi fuori, ma ti beccheresti una pallottola prima ancora di aver mollato il grilletto.»
La Covington sembrò contemplare le proprie possibilità e con rassegnazione levò le mani in segno di resa. «Chi sei e cosa vuoi?»
«Cedric McLane, per servirti» ghignò «E cosa mai potrei volere?»
Le ultime sillabe si persero nel silenzio, mentre io mi piantavo le unghie nei palmi delle mani, incapace di fare anche il più minimo movimento.
«Voglio consegnarti alle autorità di competenza e riscuotere la ricompensa» proseguì «C’è una bella taglia sulla tua testa, sai? Ai capi tedeschi non è piaciuto come hai fatto saltare in aria Smythe e quella tomba su cui avevano messo gli occhi.»
«Come sapevate dove trovarmi?» domandò fredda.
«I nostri informatori a Chortiatis hanno detto di averti vista passare da là, in compagnia di una donna mora, un paio di settimane fa e noi ci siamo appostati aspettandoti a valle» spiegò Cedric, scostandosi indietro un ciuffo di capelli neri.
All’improvviso lo riconobbi. Quando ero entrata nella tenda di Janice per presentarmi a lei, lui mi aveva minacciato, intimandomi di consegnargli la valigetta. Era riuscito a scappare dopo la sparatoria e non avevo idea di che fine avesse fatto.
«Ma non mi avete trovato e così avete iniziato a battere i sentieri risalendo la montagna» concluse l’archeologa, sapendo di avere ragione «Bene, ora mi avete presa. Cos’altro vi interessa?»
«Le pergamene e la tua amichetta» sbottò «Dove sono?»
«Le pergamene sono perdute» mentì «Bruciate con il tempio. Quanto alla mia compagna …»
«Perquisitela!» ordinò ai compagni prima che lei potesse continuare.
Le svuotarono lo zaino, le levarono la pistola ed iniziarono a tastarla in modo rude. Avrei dato qualsiasi cosa per avere un’arma e la forza di intervenire.
Il mio quadernetto finì in fretta tra le mani di McLane.
«Cosa abbiamo qui?» sussurrò, sfogliandolo soddisfatto «Un bel diario di viaggio… Che non porta il tuo nome.»
«Era della mia compagna, appunto» rispose secca Jan «Se mi avessi lasciato finire, sapresti che lei è in fondo ad una scarpata. Questa mattina abbiamo avuto una discussione ed è stato necessario liberarmi di lei.»
L’uomo rise. «Allora è vero che non si dovrebbe mai voltare le spalle ad un Covington! Lo avevo sentito dire anche di tuo padre.»
Lei non replicò, ma si limitò ad annuire.
«Quindi, perché conservare questo bel cimelio? Vediamo…» Si mise a leggere e scoprì subito dell’esistenza delle altre pergamene.
«Legatele ben strette le mani e vediamo di metterci subito in viaggio, dobbiamo andare a Nea Poteidaia» comunicò ai compari.
«Perché?» domandò uno «Non dobbiamo consegnarla al presidio di Salonicco?»
«Lo faremo» sogghignò Cedric «Dopo che ci avrà condotto dalle altre pergamene di Xena. Rivendere quelle anticaglie ci frutterà molto più della stupida ricompensa per questo mucchio d’ossa.»
La banda sembrò essere molto contenta di quella prospettiva e si mise ad esultare, mentre Janice veniva legata ai polsi e spinta a forza verso il confine della radura.
«Che fine ha fatto il cappello?» domandò all’improvviso l’ex scagnozzo di Smythe «Mi avevano detto che era una cosa importante per voi Covington.»
«Quella stronza me l’ha strappato dalle grinfie prima di precipitare» rispose l’interpellata, con una nota di disprezzo inquietantemente realistica «Se volete andarlo a recuperare per me, ve ne sarei grata. E tirate qualche pallottola in più a quella megera, tanto per essere certi che sia morta.»
«Eri arrivata proprio ad odiarla, eh?» ridacchiò.
«Più di quanto immagini.»
Strinsi a me il cappello, inspirando l’odore che lo permeava. Sapevo cosa stava facendo: cercava di proteggermi. Se avessero avuto il sospetto che fossi ancora viva, si sarebbero messi sulle mie tracce e nel frattempo avrebbero potuto trovare anche il nascondiglio della nostra coppia di amici. Jan stava salvando la vita a tutti noi.
«Allora sarà meglio muoversi, prima mettiamo le mani su quelle pergamene, meglio sarà» decretò il soldato «Torniamo a Vasilika e troviamo un mezzo fino alle rovine.»
Il resto del plotone gli ubbidì senza fiatare. Due tizi afferrarono la bionda per le braccia e la spintonarono in mezzo alla colonna.
«E tu vedi di fare la brava bambina o troveremo modi molto meno piacevoli e cordiali per renderti collaborativa» concluse con un ghigno sadico.
Deglutii, terrorizzata da quell’eventualità. Dovevo sbrigarmi e seguirli, a debita distanza per far sì che non mi individuassero.
Avevo fame, ero stanca e indolenzita, ma non avevo tempo per lamentarmi o sostare, Janice aveva bisogno di me, era compito mio salvarla. Dai più inaccessibili recessi della mia mente si fecero largo altri ricordi di Xena e seppi con certezza di essere nel giusto, perché lei per Gabrielle avrebbe fatto esattamente lo stesso.


NdA: eccoci qui ancora una volta, folks, con un nuovo aggiornamento. Come avrete letto, le cose si sono complicate, naturalmente non potevo far sì che le nostre protagoniste arrivassero sane e salve al sito senza intoppi o problemi vari. Putroppo devo annunciarvi che per scoprire come proseguirà la faccenda dovrete attendere un po' più del solito... Anche gli autori vanno in vacanza e si vedono costretti a saltare un aggiornamento, per cui l'appuntamento è tra quattro settimane, non due. Ringraziamenti soliti, dovuti e necessari a wislava e Stranger in Paradise, per il costante aiuto e supporto. E niente, qui mi congedo, gente. Passate una buona estate (anche se ormai è cominciata da un po') e ci si rivede, spero, tra un mese.

 

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Capitolo 8
*** 14 Maggio 1942 ***


The incredibly true story of two friends on a quest

 
Quella notte fu un vero incubo. Dopo aver raccattato la tenda e gli averi della mia amica abbandonati nella radura, mi misi a seguire per diverse ore la colonna in marcia, cercando di tenermi abbastanza vicina per osservare Jan. Ogni tanto avevo l’impressione che si voltasse nella mia direzione e per qualche istante i nostri sguardi si incrociassero, ma più passava il tempo, più mi convincevo che fosse una mia suggestione.
Ad ogni modo, i soldati non si accorsero di nulla. Erano piuttosto stanchi a propria volta, concentrati solamente sull’arrivare in città per potersi riposare. Tre di loro venivano mandati in avanscoperta ad intervalli regolari, ma nessuno si occupava di verificare se fossero seguiti, quindi potei procedere indisturbata con il mio pedinamento.
Concludemmo la discesa dal monte che l’alba era ancora lontana, ma visto che il tratto di strada da percorrere fino a Vasilika si districava in mezzo alle aperte campagne, a malincuore, mi arrestai.
La giacca di pelle della Covington, in contrasto con le casacche verdi dei suoi sorveglianti, si fece sempre più confusa nel mio campo visivo, allontanandosi nell’oscurità.
Fui tentata di ripartire di corsa, ma il mio buonsenso ebbe il sopravvento: senza un piano e senza armi avrei finito solo col farmi catturare a mia volta.
Mi accasciai contro uno degli ultimi tronchi che si ergevano coraggiosi prima del trionfo del pianoro. Faticavo a tenere gli occhi aperti, ma l’urgenza di fare qualcosa per aiutare Janice non mi permetteva di riposare.
Decisi di sfruttare le mie energie residue per organizzare un piano, il che mi avrebbe, forse, calmata almeno in parte.
Frugando nel mio zaino, trovai la mappa di Harry Covington e osservai le strade da Vasilika a Nea Poteidaia. Il notare che non c’erano percorsi stradali che collegassero direttamente le due città mi fece sorridere, poiché significava che Cedric e i suoi infidi compari, nel caso avessero davvero optato per un’automobile, si sarebbero dovuti spingere fino al mare per seguire la strada costiera fino alla meta, allungando forse di un’intera giornata il viaggio. E ciò era per me un grande vantaggio.
Delineai con il polpastrello la vallata che si assottigliava tra il complesso del Chortiatis e la catena montuosa su cui sorgeva il villaggio di Vavdos, oltre le cui cime mi attendeva l’istmo dell’antica Potidaea. Avrei dovuto proseguire ad est per almeno mezza giornata, prima di poter iniziare la nuova scalata, svoltando in direzione sud.
Convinta del tragitto che avevo scelto, mi imposi di dormire qualche ora. Avevo bisogno di recuperare energie se volevo salvare la mia compagna.
Chiusi gli occhi e mi addormentai quasi subito.
Feci un sogno molto agitato, forse generato dagli eventi recenti. Mi ritrovai a cavalcare in mezzo ad una specie di steppa, vestita con una puzzolente pelle di cervo, mentre il vento fischiava, gelandomi fino alle ossa. Stavo cercando qualcuno di importante, ma non si trattava di Jan.
Quando mi destai seppi che avevo fatto l’esperienza dell’ennesimo ricordo di Xena. Mi convinsi che anche lei avesse dovuto affrontare un duro viaggio per salvare una persona cara e la sua esperienza e le sue risorse, probabilmente, avrebbero potuto aiutarmi.
Prima di rimettermi in cammino, presi un momento per mantenere una ormai consolidata abitudine. Utilizzai il retro della mappa, dato che non avevo altro, e scrissi un breve appunto.
 
Diario di Melinda P. Pappas
14 Maggio 1942, piedi del monte Chortiatis
Dopo essere stata separata dalla Dr.ssa Covington, procedo da sola verso Nea Poteidaia, sempre con l’intenzione di recuperare le pergamene. La strada che mi appresto ad intraprendere prevede il passaggio verso est fino a Vavdos, poi verso meridione.
L’obiettivo primario della mia missione ora non è mettere le mani sugli scritti, ma soccorrere la mia compagna.
 
Rilessi con orgoglio quell’ultima frase. Ero stata indecisa sull’aggiungerla, ma alla fine avevo ceduto al mio istinto e avevo calcato con decisione ogni singola lettera. Janice sarebbe venuta prima di qualsiasi altra cosa, persino del motivo che ci aveva spinte ad intraprendere insieme quel viaggio.
«Adesso basta perdere tempo» dissi a me stessa, riponendo nello zaino il mio diario provvisorio e la matita «È ora di partire.»
Non ero in grado di procedere come avevo fatto il giorno precedente, sia perché ero comunque affaticata e turbata, sia perché il peso che portavo era praticamente il doppio di quello a cui ero abituata. Non riuscivo a spiegarmi come fossi riuscita a tenere il passo della colonna in marcia la notte precedente, ma la forza della disperazione doveva aver giocato un ruolo fondamentale.
Seguivo il profilo del bosco, rimanendo per quanto possibile all’ombra, nascondendomi non appena vedevo comparire una figura all’orizzonte. Dovevo ricordare che non avevo più la mia fida interprete al fianco, pronta a tirarmi fuori dai guai, per cui sarebbe stato meglio tenermi alla larga da conversazioni che non avrei potuto gestire.
Verso mezzogiorno, dopo aver percorso il maggior numero di chilometri per me possibili, mi fermai a massaggiarmi i piedi e rinfrescarli in un torrente che si andava poi a snodare tra i vari appezzamenti coltivati.
Mi stavo rinfilando le scarpe, quando un rumore alle spalle mi fece sobbalzare.
La mano corse in automatico alla frusta che avevo assicurato alla cintura, regalatami da Jason, che reggeva i miei pantaloni. Non ebbi, però, la prontezza di farla schioccare, risultando impacciata dal mio stesso tentativo di reazione.
Un coro di urla spaventate risuonò, portandomi automaticamente a sorridere. Avevo davanti un gruppo di bambini.
Erano cinque marmocchi, quattro maschi ed una femmina, sporchi di fango ed erba fino alla punta dei capelli. Dovevo essere capitata nel bel mezzo della loro area di gioco. Ognuno di loro aveva in mano un bastone, tenuto a mo’ di spada, non ci voleva molto intuito per comprendere che stessero inscenando una battaglia.
Notando la loro espressione di puro terrore, mi affrettai ad alzare le mani, per cercare di far capire loro che non avessi cattive intenzioni.
I piccoli rimasero paralizzati, continuando ad osservarmi con gli occhi sgranati.
A quel punto, con movimenti lenti, senza smettere di fissarli a mia volta, sganciai la mia arma, lasciandola cadere a terra. La scostai dandole un lieve colpo col piede, per allontanarla un po’.
«Non voglio farvi del male» mormorai, pur sapendo che non mi avrebbero capita.
I due che stavano più indietro lasciarono cadere i bastoni e fecero qualche passo per allontanarsi, ma vennero subito agguantati dai compari.
Iniziarono a scambiarsi frasi concitate, scoccandosi occhiate l’un l’altro, ma restando sempre all’erta, voltati nella mia direzione. Stavano decidendo sul da farsi. Potevo intuire il senso del discorso, volevano correre a casa, che però era piuttosto distante, non potevano far scoprire ai genitori che si erano allontanati tanto per giocare e non volevano rischiare di attirare un nemico là dove si trovavano le loro case.
Facendo estrema attenzione, sfilai la mappa del dottor Covington dalla tasca.
La bambina, che sembrava la più coraggiosa di loro, balzò in avanti, minacciandomi con il suo ramoscello.
Spiegai la cartina e le indicai il villaggio di Vavdos, poi con l’indice e il medio mimai il movimento di camminare.
Lei annuì, poco convinta.
Nel tentativo di guadagnarmi la sua fiducia, le indicai il manico della frusta e poi indicai la sua mano. Volevo che la raccogliesse per farle comprendere che non aveva motivo di temere che la usassi contro di loro.
La piccola, dopo aver spostato gli occhietti vispi da me all’arma per terra e viceversa, si chinò e strinse le esili dita attorno all’impugnatura.
I suoi amichetti emisero un verso di sorpresa, mentre lei faceva guizzare la punta a destra e a sinistra, producendo qualche schiocco.
Ridacchiai, notando che era molto più brava di me. Sarebbe una discendente di Xena più adatta della sottoscritta riflettei, immaginando che, probabilmente la Principessa Guerriera non doveva essere stata molto differente da quella piccolina.
All’improvviso, dopo che ebbe dato un po’ di spettacolo, la bimba mi tese l’arma, per riconsegnarmela.
«Lalia» disse, portandosi la mano al petto.
«Mel» replicai.
«Petros» proseguì, indicando il suo amico più alto, uno di quelli che aveva pensato di darsela a gambe.
Io gli sorrisi, mentre lui arrossiva di colpo.
A quel punto il fanciullo accanto a Petros, quello che gli aveva impedito di scappare, fece un passo avanti, presentandosi: «Coridan.» Era più basso dell’altro, ma più muscoloso, probabilmente aveva già iniziato a fare qualche lavoro pesante nonostante non potesse avere più di dodici anni.
Gli altri due non aspettarono molto per rivelarmi i nomi a loro volta.
Galyn era piuttosto basso, con una foltissima chioma nera impiastrata di fango che gli copriva quasi interamente il viso, non riuscivo a capire come facesse a vedere dietro quella cortina di capelli e sporco. A chiudere il gruppo era Milo, il più gracile tra tutti, caratterizzato dalla carnagione più scura.
Ero contenta del fatto che avessero deciso di fidarsi di me, ma non avevo tempo da perdere con quei nuovi, inaspettati, amici, così feci capire loro che dovevo sbrigarmi per arrivare alla mia meta.
Mentre mi rimettevo lo zaino in spalla, sentii afferrarmi il polso.
Fissai Lalia che indicava insistentemente il cappello di Janice che portavo in testa.
Me lo levai e lo appoggiai in corrispondenza del cuore, per farle capire il valore che avesse per me.
«Vavdos» affermò lei e poi aggiunse qualche altro termine che, però, non compresi.
Dato che sembrava piuttosto convinta, le domandai cosa intendesse.
La bambina mi ripetè le stesse parole e mi tirò, indicando con il capo le cime basse a cui mi ero avvicinata durante il corso della mattinata.
Pensai che i bambini potessero essere originari della città che stavo cercando, sarebbe stato un clamoroso colpo di fortuna.
Incapace di rifiutare, lasciai che la bimba mi conducesse lungo il sentiero, seguita dagli altri quattro monelli.
Origliai il gruppetto chiacchierare, saltellando tra le pietre e i tronchi caduti. Mi stavano guidando lungo strade secondarie, note probabilmente solo a loro che le percorrevano da sempre.
Arrivati ad una pozza d’acqua, i miei piccoli compari si spogliarono quasi del tutto e si lavarono, pulendosi grossolanamente a vicenda. Non appena mi parve che si fossero tranquillizzati, dopo aver cercato di annegarsi a vicenda, iniziarono di colpo a schizzarsi, costringendomi a fare diversi passi indietro per evitare che mi infradiciassero.
Era divertente osservarli, vedere i loro sorrisi spensierati ed ascoltare le loro risa cristalline, sinonimo di un’età ancora innocente nonostante l’epoca terribile in cui stavano crescendo.
Presto Lalia si rese conto che io ero in attesa di ripartire, così costrinse il resto della combriccola a muoversi.
Doveva essere metà pomeriggio quando giungemmo in vista di un complesso di case, difficile da considerare una vera e propria città. Il piccolo nucleo si disperse mano a mano che avanzavamo verso il centro.
Quando ci arrestammo sulla soglia di una bassa casa dipinta di un bianco sporco, realizzai che ormai eravamo rimaste solo io e la mia giovanissima guida.
Mi fece cenno di aspettare ed ubbidii.
Lei bussò decisa, poi socchiuse la porta, lasciando che una lama di luce penetrasse l’oscurità dell’interno. Provai a sbirciare cosa ci fosse dentro la stanza, ma riuscivo a vedere solo a pochi passi di distanza.
Una voce profonda rimbombò, pronunciando una frase il cui senso mi sfuggì completamente. A quelle parole, però, Lalia scattò in avanti, scomparendo inghiottita dal buio.
Ci fu un breve dialogo a cui non presi parte, poi la bambina tornò verso di me e mi afferrò la mano, invitandomi ad entrare.
«Harry?»
Mi pietrificai.
«Harry Covington?» continuò un’imponente figura, emergendo dalle tenebre.
«No, signore» trovai la forza di rispondere.
«Janice? Sei tu?»
A sentir pronunciare il nome della mia amica mi venne la pelle d’oca, stavo perdendo troppo tempo e ogni secondo che passavo là ferma era un secondo che lei trascorreva tra le mani di McLane e i suoi barbari compari.
Finalmente il mio interlocutore entrò nel mio campo visivo. Era un uomo, piuttosto in là con gli anni, come potevo intuire dalle rughe profonde e dalla barba e i capelli canuti. Non avevo idea di chi fosse e di come potesse conoscere i Covington.
«Chi sei, signorina?» domandò, squadrandomi dall’alto in basso.
Ero piuttosto in soggezione, non mi capitava spesso di trovare persone più alte di me e lui aveva almeno mezza spanna di vantaggio sulla cima della mia testa. Ad incutere ancora più timore erano i suoi occhi chiari, così dissonanti con l’aura tetra che ci circondava. La mia attenzione venne improvvisamente calamitata da un altro dettaglio: il misterioso individuo indossava un cappello, molto simile al mio. Non poteva essere una coincidenza.
«Melinda Pappas» mormorai.
«E cosa ci fai con il cappello di Covington?» ringhiò. La nota di asprezza nella sua voce era inquietante, sembrava quasi il ruggito di un pericoloso predatore. «Lo hai rubato?» proseguì, senza darmi il tempo di rispondere «Come lo hai avuto?»
«Me lo ha affidato Janice» replicai, pregando che mi credesse.
Mi scrutò a lungo, fissandomi direttamente negli occhi. Era vicinissimo, potevo sentire il suo respiro su di me.
Senza preavviso, si rivolse alla bambina, ordinandole qualcosa. Pochi secondi dopo, lei gli consegnò uno spesso paio di occhiali, che lui inforcò deciso, tornando a concentrarsi su di me.
«I tuoi occhi sono sinceri» disse semplicemente, continuando, però, a studiarmi con il suo sguardo inquietante.
Aveva le iridi di un grigio chiaro, freddo come l’acciaio.
«Lo sono anche io» sussurrai, nella speranza di convincerlo sul serio.
«Mia nipote ha detto che dovevi venire qui a Vavdos. Perché?»
Realizzai che ero stata una stupida a non capire prima il legame di parentela tra quel tizio e la bambina, avevano il viso molto simile, ma quello della piccina era naturalmente più delicato. La tonalità delle iridi era praticamente la stessa, avrei dovuto notarlo prima.
«Sto cercando di raggiungere Nea Poteidaia e questa era la via più sicura» spiegai. Mi sentivo sotto inchiesta e avrei dato qualsiasi cosa affinchè si allontanasse di almeno un passo, smettendola di svettare su di me in modo tanto minaccioso.
Parve soppesare le mie parole per un momento, poi cambiò totalmente argomento: «Cosa ne è stato di Harry?»
«Il dottor Covington è venuto a mancare un paio di anni fa» risposi «Mi dispiace» aggiunsi, indovinando che i due dovessero essere stati amici in passato.
«Povero Harry» commentò, afferrandosi la base del naso tra il pollice e l’indice, facendo scivolare gli occhiali fino alla punta.
Notai come le sue labbra si incurvarono verso il basso e come gli occhi gli divennero improvvisamente umidi, segno che la notizia lo aveva scosso.
«E che ne è stato della mia Pulce?»
Aggrottai la fronte, confusa.
«Intendo dire: che è capitato a Janice?»
Era il momento di decidere se fidarmi di lui e feci la mia scelta. «Stavamo viaggiando insieme, ma la scorsa sera è stata catturata da una pattuglia tedesca.»
«Impossibile» tuonò il vecchio «È una ragazza in gamba, piena di risorse, non si sarebbe mai lasciata prendere, piuttosto avrebbe lottato fino alla fine.»
«Non ne ha avuto modo» dissi «Ed inoltre voleva proteggermi, lasciandomi la possibilità di proseguire con la nostra missione.»
«Quale missione?»
Titubai un momento.
«Ancora quelle maledette pergamene, vero?» borbottò «Speravo che si fossero rassegnati, ma no! I Covington sono così maledettamente cocciuti! Ho provato a spiegare loro che quei testi non fossero niente più che un leggenda…»
«Non lo sono» lo interruppi «Jan ed io le abbiamo trovate.»
L’uomo spalancò occhi e bocca, incredulo.
«Le abbiamo rinvenute in un sito in Macedonia» proseguii «Non ho con me le prove, dovete fidarvi della mia parola.»
«Raccontami di questa vostra impresa» ordinò.
«Prima vorrei almeno sapere con chi sto avendo l’onore di conversare» affermai con fermezza.
L’uomo sorrise. «Sei una donna furba» ammise, allontanandosi un po’ per tendermi la mano «Aniketos Stavros.»
Gli strinsi la mano con decisione, volevo mostrargli che da quel momento in avanti saremmo stati sullo stesso piano.
«Prima di rivelarle dettagli piuttosto riservati, signor Stavros» ruppi il breve silenzio «Come posso davvero sapere che lei conoscesse la dottoressa Covington e suo padre? La mia amica non ha mai nominato nessun Aniketos.»
«Ed io, mia cara, sono altrettanto sospettoso nei tuoi confronti» replicò, accarezzandosi la barba «Se sei tanto in confidenza con Janice da farti affidare il suo cappello, dimmi, chi lo ha regalato ad Harry in principio?»
Era una domanda ben pensata, solo qualcuno davvero vicino agli archeologi avrebbe saputo la verità.
«Era stato un regalo di sua madre. L’ultimo» risposi.
«Molto bene» considerò, soddisfatto.
«Ora è il mio turno» affermai «Che cosa indossa sempre Janice che si intona molto ai suoi occhi marroni?»
Il vecchio ridacchiò. «Pulce ha gli occhi verdi. Davvero una bella pensata tentare di farmi cascare in un simile trabocchetto.»
All’improvviso mi parve più aperto e gioviale, mi fece accomodare su una sedia accanto alla poltrona su cui prese posto e mi fece servire un bicchiere d’acqua dalla nipotina.
Gli narrai in breve di come avessi conosciuto Jan e di quanto avessimo scoperto insieme. Quando arrivai a raccontare gli eventi della sera precedente lo vidi farsi più teso, preoccupato come lo ero io.
Senza preavviso, Aniketos si alzò in piedi e iniziò a sbraitare in greco, rivolto a Lalia.
«Sarà meglio mettersi subito in marcia» mi disse «Prima che sia notte fonda riusciremo ad arrivare a Simantra.»
Sbattei le palpebre, pensando di avere un’altra delle mie allucinazioni.
«Da là dovrei poter riscuotere un favore e domattina ci faremo portare fino a Nea Poteidaia in automobile.»
Annuii, perché era l’unica cosa che mi avrebbe permesso di fare.
«Dammi il tempo di preparare un bagaglio leggero, spiegare a mia figlia che starò via qualche giorno, poi potremo partire» concluse, scomparendo in un’altra stanza.
Dopo qualche minuto, mentre io ero rimasta imbambolata sulla sedia, comparve una giovane donna, sulle cui spalle dondolava serafico un bambino di tre o quattro anni, chiaramente fratello della ragazzina che mi aveva condotto là.
«Mio padre parla di cose insensate» commentò, nella mia direzione «È saggio partire adesso?»
«Io mi sarei incamminata in ogni caso» risposi «Ma è stato lui, di propria iniziativa, a decidere di venire con me… Anzi, a questo punto credo quasi di essere io ad andare con lui.»
«Vecchio pazzo» mormorò, poggiando il figlioletto sulla poltrona e lasciando che Lalia arrivasse ad abbracciarle la vita «Non dovrebbe prendere queste decisioni, ma badare alla famiglia.»
«Non dirmi quello che devo fare, Teah» ribattè l’uomo, uscendo dalla camera vestito di tutto punto per un’escursione e con una sacca che gli pendeva pigramente nella mano sinistra, mentre nella destra stringeva un nodoso bastone da passeggio «Sono in grado di prendere le mie decisioni da solo.»
«Dovresti badare ai tuoi nipoti mentre io sono al lavoro, non andare a gironzolare per i boschi» replicò irata la figlia «E non credere che te la farò passare liscia per aver permesso a Lalia di andare fino a valle a giocare con quegli irrequieti dei suoi amici!»
«Potrai farlo quando tornerò. Pulce ha bisogno di me» sentenziò lapidario il signor Stavros, afferrandomi il braccio e trascinandomi fino alla soglia.
«Non sei più un avventuriero! Torna indietro!» tentò di fermarlo la donna.
Lui si fermò, si voltò, lasciò a lei e alla piccola un bacio sulla fronte, poi, dandomi una pacca sulla spalla, mi spinse verso i vicoli immersi nella luce abbagliante del sole.
Era accaduto tutto talmente in fretta da non avermi dato la possibilità di realizzare quanto stava succedendo, avrei dovuto fermarmi, ragionare, riflettere sul fatto che quell’individuo lo conoscevo appena. Eppure qualcosa in me, come il residuo di un ricordo, mi suggeriva di fidarmi di lui.
Purtroppo, nonostante il nostro procedere piuttosto spediti, per via di un tratto di sentiero franato fummo costretti ad allungare la strada, dunque ci arrestammo accanto ad uno slargo del tracciato, prima di giungere a Simantra.
Ormai abituata a montare il campo, avviai il fuoco e mi proposi di procurare qualcosa da mangiare. Aniketos si limitò a farmi un segno d'intesa con la testa.
Facendo attenzione alle tracce e a non fare rumore, dopo appena un quarto d’ora, con l’aiuto della frusta di Jan e il risveglio delle abilità sopite di Xena, riuscii a catturare un leprotto. Lo preparai come la mia amica mi aveva spiegato e lo cucinai sul falò.
«È stata Janice ad insegnartelo?» mi domandò il mio compagno di viaggio.
«Sì» replicai semplicemente.
«Lo sospettavo, faceva questo genere di cose fin da quando era piccola.»
A quel punto mi aspettavo che mi raccontasse un po’ di sé e di come avesse conosciuto i Covington, visto che ancora non ne sapevo niente, ma il vecchio si levò il cappello, si passò una mano tra i capelli e tacque.
Mi alzai per recuperare un altro ciocco di legno da buttare in pasto alle fiamme.
Sbirciai la figura seduta di fronte a me, dall’altro lato del fuoco. Il calore fece tremolare quell’immagine, sovrapponendole un’altra.
Un guerriero, anziano, con un’armatura di fattezze vagamente orientali, stava parlando di qualcosa. Non riuscivo a sentirlo, ma aveva poca importanza. Lo conoscevo. Era importante per Jan.
No, non per lei… mi dissi. Per Gabrielle.
Si chiamava Meleager, era un valoroso combattente che l’aveva aiutata a salvare la sua città natale e con cui anche io avevo poi avuto a che fare.
«Melinda? Tutto a posto?»
Mi ripresi da quella visione e mi avvicinai, sedendomi accanto a Stavros.
«Non è niente, solo strani scherzi della memoria» spiegai.
Ancora una volta lui fece un cenno col capo e lasciò che ripiombasse il silenzio.
A quel punto non riuscii a trattenermi, la curiosità ebbe la meglio. «Come ha conosciuto Jan e suo padre?»
Aniketos alzò lo sguardo dal cappello che si era poggiato in grembo, incurvò le sopracciglia in una strana espressione, mentre arricciava gli angoli della bocca. «Sei una ragazza curiosa» borbottò «Ma comprendo il tuo desiderio di sapere.»
Mi strinsi nella giacca e attesi che iniziasse a raccontare.
«Doveva essere il 1927, se non vado errando» cominciò «All’epoca facevo i lavori pesanti per un gruppo di archeologi inglesi nella zona di Atene ed è stato agli scavi che ho conosciuto i Covington. Harry e Janice giravano in Europa già da un paio d’anni, erano stati in Germania e in Normandia, alla ricerca di qualche strana traccia di non sapevo cosa, poi in un sito a Roma avevano rinvenuto uno stralcio di pergamena che era stato attribuito alla mitica Principessa Guerriera. Inutile dire che, non appena Harry mi confidò di essere venuto fino in Grecia per inseguire quella leggenda, gli scoppiai a ridere in faccia.»
Mi immaginai il dottor Covington che assumeva la stessa espressione scocciata di sua figlia quando la prendevo in giro.
«Ma nonostante ritenessi che la sua ricerca fosse del tutto folle, riconobbi in lui un brav’uomo e in breve tempo diventammo amici. Mentre lui era impegnato a catalogare, spolverare e fare tutte quelle altre cose da studioso che non prevedevano l’uso della mia forza, mi sedevo sotto un albero e insegnavo a Janice il greco, il macedone e le poche nozioni di storia in mio possesso, mentre lei ricambiava insegnandomi l’inglese e qualche parola di tedesco, francese ed italiano.»
Rimasi piacevolmente colpita da quella rivelazione. Non avevo idea che la biondina fosse una simile poliglotta, ma, dato il suo lavoro e i vari viaggi che aveva dovuto compiere, una conoscenza base delle lingue straniere era giustificabile.
«Dopo un anno le cose cambiarono drasticamente» proseguì Aniketos «I fondi per le ricerche di quelle pergamene si prosciugarono e dunque Harry dovette trovare un altro modo per sovvenzionarle. Io già da tempo gestivo un mio piccolo mercato privato, rivendendo artefatti che recuperavo dagli scavi, ma mai nulla di troppo vistoso o di cui si potesse notare la mancanza, agivo con discrezione per non attirare l’attenzione. Ma il caro vecchio Covington aveva bisogno di molto denaro, così iniziò a trafugare oggetti votivi placcati con metalli preziosi o monili incastonati di pietre, che poi mi occupavo di far finire nelle tasche giuste a prezzi piuttosto ragionevoli. Mettemmo da parte una somma favolosa, che io utilizzai per sistemare la mia famiglia e mandare i miei figli a studiare, ma Harry investì quasi ogni cosa per continuare a scavare in cerca di quei testi. Gli rimasi accanto per alcuni anni ancora, vedendolo scomparire a poco a poco, consumato da quella ossessione e dalle maldicenze, non del tutto infondate, sul suo conto. Mi sono occupato di Pulce in quel periodo, lei era arrivata a chiamarmi “zio Nik” perché trovava che il mio nome completo fosse troppo difficile da pronunciare. Era una ragazzina vispa, un vero terremoto.»
Notai che gli occhi gli divennero lucidi, mentre iniziava ad accarezzare il cappello, nella stessa maniera in cui l’avevo visto fare a Jan.
«Mi ero affezionato molto a lei, l’avevo vista crescere, diventare una giovane donna… Mi dispiacque molto quando i Covington decisero di continuare a girovagare per tutti i Balcani inseguendo quella vecchia chimera… I miei figli erano adulti ed io iniziavo ad essere stanco, volevo solo potermi riposare a casa con mia moglie… Così li abbandonai.»
Un’unica lacrima gli scese lungo la guancia, mentre il suo sguardo si perdeva fisso tra le fiamme.
«Ma prima di congedarci, Harry mi donò questo cappello. Lui e Pulce l’avevano fatto fare apposta per me da un sarto molto rinomato di Salonicco.» Sorrise perso in quel ricordo. «Credo sia stata l’unica volta in cui quei due abbiano speso del denaro per qualcosa che non riguardasse Xena.»
Ridacchiai, ma solo per un secondo, per paura che poi non riprendesse a narrare.
«Da quel momento abbiamo preso strade diverse. Mi sono sempre chiesto cosa avessero combinato in questi ultimi anni, all’inizio Harry ed io ci siamo scambiati qualche lettera, ma abbiamo smesso presto.»
C’era rammarico nella sua voce, probabilmente stava immaginando tutto ciò che sarebbe potuto cambiare se fosse rimasto loro accanto.
«Dobbiamo salvare Pulce, lo devo a suo padre e alla piccola casinista bionda che ho visto crescere. Dopo questa impresa andrò definitivamente in pensione.»
Il racconto terminò lì. Restammo a scaldarci davanti al falò fino a che non decidemmo di comune, silente accordo di stendere le coperte per dormire.
Osservai la luna che si intravedeva tra le fronde degli alberi, domandandomi se anche Janice la stesse guardando. Per quanto fossimo distanti, saremmo comunque state sotto lo stesso cielo.
Questo è un pensiero degno di quella poetessa di Gab.
Sorrisi e mi lasciai trascinare nel mondo dei sogni, tranquillizzata dal pensiero che Xena vegliava su di me e mi avrebbe aiutata a salvare la mia amica.

 

NdA: ebbene, rieccomi, anche se ad un'ora lievemente più tarda del solito, fatto dovuto alla mia stupidità nel non aver mandato prima il capitolo alla mia adorata beta che appena rientrata dalla vacanza si è dovuta scapicollare per rimediare alla mia poca lungimiranza. Ma ciancio alle bande, se siete arrivati fin qui vi ringrazio, per aver avuto pazienza e per continuare a seguire questa mia avventura, passando ora ai ringraziamenti mirati: un grazie a wislava per la correzione lampo e per tutto il resto, lei sa a cosa mi riferisco; un grazie ai miei cari recensori Stranger in Paradise, xena97 e whiterose87, grazie di cuore gente, apprezzo sempre moltissimo le vostre opinioni. Ed eccoci alla fine delle note, in cui vi informo di una cosa: non sono certa di riuscire a caricare il prossimo capitolo tra due venerdì. Si aprono dunque tre scenari: 1. va tutto bene e tra due settimane avrete il capitolo; 2. magari lo carico sabato o domenica, ma la cosa a livello psicologico destabilizza la mia parte di OCD; 3. vi faccio aspettare altre quattro intere settimane e voi mi odierete a morte e non ve ne farò una colpa. Chissà cosa accadrà, solo il tempo che lo dirà. Fino ad allora, a prescindere da quando sarà, rinnovo i miei auguri di buone vacanze e buone cose a tutti voi, spero di ritrovarvi prossimamente.

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Capitolo 9
*** 15 Maggio 1942 ***


The incredibly true story of two friends on a quest
 
 
Venni destata da alcuni colpetti alla spalla. Aprii gli occhi, notando che intorno a me era ancora buio, segno che l’alba era lontana.
«Dobbiamo partire» disse Aniketos, allontanandosi da me di qualche passo «Ci sono delle voci, persone in avvicinamento, senza dubbio. Devono aver sentito l’odore del fumo.»
Posai distrattamente lo sguardo su quello che restava del nostro falò.
«Non so se siano amici o nemici, ma poco importa» proseguì, issando la propria sacca sulla spalla «Non resteremo per scoprirlo. Hai due minuti per fare fagotto.»
Senza fiatare eseguii quell’ordine.
Era difficile avanzare al buio sul sentiero accidentato, c’era il rischio di inciampare in sassi o radici, ma questo pericolo non sembrava sfiorare neanche lontanamente il signor Stavros, ormai lanciato verso il proprio obiettivo.
Dopo meno di un’ora, quando il cielo iniziava a schiarire ad est, scorsi le luci della cittadina sotto di noi.
«Non andremo verso il centro» mi informò Aniketos, quando ormai eravamo scesi fino alla periferia «Seguimi, dovremmo essere quasi arrivati.»
Scorsi i primi raggi luminosi sbucare oltre le cime dei monti, mentre ci avvicinavamo ad un grande cancello, isolato rispetto al resto di Simantra. Proteggeva, insieme ad un alto muro di pietra sormontato da grandi spuntoni di ferro, una colossale casa che si intravedeva tra le sbarre.
Naturalmente non avevo idea del motivo che ci avesse spinti lì, ma il mio nuovo amico sembrava sapere il fatto suo. Impugnò saldamente il proprio bastone da passeggio ed iniziò a scuoterlo con forza facendo risuonare il metallo come un rudimentale campanaccio.
Dopo due minuti di quel fracasso, accorse un uomo in completo scuro, imprecando contro di noi e i nostri antenati.
«Sono qui per parlare con Richman» disse Stavros. Il suo tono era deciso e fece rabbrividire sia me sia l’individuo oltre la barriera.
«Il padrone sta riposando» replicò il custode «E non ha programmato alcuna visita per oggi. Vi consiglierei di prendere appuntamento e tornare ad un orario più consono.»
«O muovi quelle chiappe e vai a svegliare quel pelandrone del tuo padrone, oppure io resterò qui a far baccano fino a che Zeus stesso non verrà a fulminarmi.»
Non era gran che come minaccia, ma bastò a far scomparire la figura in nero dentro la villa.
Mi preparai a domandargli cosa si aspettasse di ottenere, ma venni zittita ancor prima di fiatare con un: «Sta’ a guardare.»
Un minuto dopo il guardiano, che aveva tutta l’aria di essere anche un maggiordomo e forse un autista, uscì accompagnato da un ragazzo ed insieme aprirono il cancello, permettendoci di percorrere il vialetto acciottolato che portava alla soglia dell’imponente dimora.
Posai con calma i piedi sui gradini in pietra lavorata, osservando le colonne che decoravano il portico. Mi sembrava di entrare in un tempio.
All’interno, una domestica ci fece accomodare su un divanetto con cuscini di morbido velluto porpora. La donna non era più giovanissima, come si capiva dai capelli castani striati di grigio che le sfuggivano dalla cuffia, chiaramente indossata di fretta, e dalle rughe marcate, accentuate probabilmente dalla sveglia imprevista.
«I signori desiderano qualcosa nell’attesa?» ci chiese, stirando le pieghe del grembiule per tenere occupate le frenetiche mani «Una bevanda calda, magari? Abbiamo dell’ottimo the inglese. Posso farne subito una tazza, se lo desiderate.»
«Siamo a posto, grazie» mormorai, sorridendole.
«Per qualsiasi cosa, sono a vostra completa disposizione» replicò «Il padrone sarà presto da voi.»
«Molto gentile da parte tua…» Lasciai volutamente la frase in sospeso.
«Verna» intese.
«Molto piacere» dissi tendendole la mano «Io sono Melinda.»
Lei mi sorrise. «Il padrone non riceve spesso ospiti così educati.»
Tirai una lieve gomitata all’uomo al mio fianco, che, borbottando, si presentò a propria volta.
A quel punto Verna, con gentilezza, fece avvicinare i suoi due colleghi: Arthur, il portiere e maggiordomo, e Samuel, il giovanotto.
«Il signor Richman ha richiesto personalmente di noi quando è partito per la Grecia ormai più di dieci anni fa» mi spiegò la domestica «Facevamo parte della servitù nella sua tenuta di campagna nello Yorkshire.»
Guardandomi attorno ed ascoltando quelle parole era chiaro che avessimo a che fare con un uomo più che benestante. Ogni angolo che riuscivo a scorgere era occupato da un qualche tipo di opera d’arte, dipinto, scultura o strano manufatto.
Ad un tratto sull’imponente scalinata, che si trovava alla nostra destra e conduceva al piano superiore, comparve una figura avvolta in una vestaglia rossa.
«Chi è tanto folle da venire a disturbarmi a quest’ora?» tuonò, cominciando a scendere i gradini.
«Ronald, vecchio mio» sogghignò Stavros, balzando in piedi «Sono venuto per riscuotere.»
Mi alzai anche io, potendo osservare meglio il padrone di casa. Era basso e robusto, con una rada cerchia di capelli grigi che faceva compagnia ad un paio di baffi. Gli occhi blu ci scrutavano con astio.
«Voi tre, filate» ordinò al personale.
Verna, Arthur e Samuel, con passo leggero e capo chino, lasciarono la stanza.
«Cosa ci fai qui?» ringhiò poi, rivolto ad Aniketos «Credevo fossimo pari.»
«Neanche per sogno» replicò il mio compare «Ma aiutami questa volta e considererò saldato ogni tuo debito.»
Ronald Richman mi scoccò un’occhiata obliqua, prima di riaprire bocca: «Vieni nel mio studio, allora. La tua amichetta può aspettare qui.»
Non era una proposta, ma un’imposizione, così mi risedetti sul divanetto e li osservai sparire dietro una porta di legno scuro.
Quando fui sola, incuriosita da ciò che mi circondava, mi misi a ficcanasare un po’.
«Allora, avete ripensato alla bevanda che vi ho offerto?»
Mi voltai, non mi ero accorta che Verna fosse rientrata.
«Al padrone non piace trattare con le donne, le ritiene di molto inferiori a sé, per questo non vi ha permesso di seguirlo nello studio» mi spiegò «Ma non dovete prenderla come un’offesa personale.»
Sventolai la mano con noncuranza, per farle intendere che la cosa non mi avesse dato poi molto fastidio.
«Dunque, siete affascinata dai tesori del signor Richman? È un grande collezionista» disse, indicandomi diverse maschere dalle provenienze più varie.
Una serie di piccole, lucenti monete d’oro occupava una grossa teca posta sotto l’enorme ritratto di un vecchio baffuto in divisa militare.
«Quello è il nonno del padrone, il defunto Colonnello Rupert Richman, che ha servito in India come ufficiale dell’Impero.»
Osservai lo sguardo torvo e glaciale di quell’uomo, sentendomi come scrutata da un vecchio rapace in attesa di ghermire la preda.
«È stato lui ad accumulare la maggior parte del patrimonio ereditato dal padrone» continuò a raccontare la domestica «Richman, un uomo ricco di nome e di fatto.»
Ridacchiai a quella considerazione, che non poteva essere più vera.
Gli occhi color nocciola della donna si illuminarono nel vedermi partecipe della sua ironia. Immaginai che dovesse sentirsi piuttosto sola, se sentiva così forte il bisogno di relazionarsi con una perfetta sconosciuta.
«So che posso sembrare una chiacchierona» aggiunse, quasi mi avesse letto nella mente «Ma Arthur e Sammy non sono di grande compagnia.»
«Non farti problemi» la rassicurai «Mi fa piacere starti ad ascoltare.»
«Siete proprio gentile, signorina Melinda.»
«Per favore, Mel è sufficiente e non c’è motivo per cui tu non possa trattarmi da pari, dammi pure del “tu”» risposi.
Il suo sorriso si allargò.
«Allora, dicevi di venire dallo Yorkshire, giusto?» proseguii «Io sono originaria degli Stati Uniti, South Carolina più precisamente.»
Gli occhi le divennero improvvisamente lucidi. «Anche il mio Walter veniva dalla South Carolina.»
Attesi, perché sapevo che se mi avesse voluto parlare di lui non avrei avuto bisogno di forzarle la mano.
«Si era trasferito a Londra quando era ancora un bambino, con l’intera famiglia. Lo conobbi quando venne assunto come giardiniere presso i Richman, mentre io già lavoravo come cameriera e lavandaia» raccontò «Era un uomo bellissimo, capelli rossi, occhi verdi, con un viso lentigginoso tanto gentile. Me ne innamorai non appena lo vidi e ci sposammo dopo neppure sei mesi dal nostro primo appuntamento.»
Sentii una lacrima pizzicarmi all’angolo degli occhi, sapendo come sarebbe andata a finire quella storia.
«Eravamo felici. Il lavoro era duro, ma ben pagato, eravamo riusciti a permetterci una piccola proprietà nelle vicinanze della magione dei padroni… Poi arrivò la malattia. I medici non seppero mai dirmi esattamente cosa lo uccise, ma di punto in bianco passai dal trascorrere le nostre pause a rubare qualche bacio fugace a digiunare piangendo la sua scomparsa.»
Non mi aspettavo che proseguisse, ma invece lei sembrava del tutto intenzionata ad andare oltre.
«Walt era molto caro al resto del personale, così, quando sono rimasta sola, Arthur si è preso cura di me, come avrebbe fatto un vecchio zio…» si bloccò all’improvviso abbassando il tono fino ad un sussurro «Non dirgli che gli ho dato del “vecchio”.»
«Non lo farò» la rassicurai, trattenendo una risata.
«Comunque lui fece in modo che potessi rimanere ancora a lungo e mi aiutò ad occuparmi di Samuel. Il poverino è rimasto orfano a soli tre anni, sua madre era una mia collega ed una cara amica, quindi mi sono sentita in dovere di prendere in custodia il bambino. Quando ci siamo trasferiti in Grecia, lui è voluto venire con noi.»
A quel punto avevo un buon quadro della situazione, ma mancava ancora qualche dettaglio. «Avevi mai conosciuto Aniketos prima?»
Verna scosse la testa. «Il padrone aveva già svolto numerosi viaggi in questa terra ed aveva persino già acquistato questa proprietà prima che ci facesse convocare.»
«Quindi non sai dirmi quale questione in sospeso ci possa essere tra lui e Richman?»
Fece nuovamente un cenno di diniego, aggiungendo: «Mi spiace, non ne ho idea.»
«Non fa niente, troverò le informazioni che mi servono a modo mio» replicai «Adesso, posso avere quella famosa tazza di the, per piacere? Ho proprio bisogno di una bevanda calda.»
Le mani irrequiete ebbero un fremito e la domestica, con passetti veloci, si allontanò in direzione di quella che immaginavo fosse la cucina.
Approfittai di quell’attimo di solitudine per tirare fuori la mappa e buttare giù due righe.
 
Diario di Melinda P. Pappas
15 Maggio 1942, Simantra, residenza Richman
Con la guida e l’aiuto di Aniketos Stavros, amico di vecchia data dei Covington, sono giunta più vicina che mai a Nea Poteidaia, potrei pesino arrivare in città in giornata. A quel punto il piano è di appostarmi alle rovine nella speranza di cogliere McLane e i suoi uomini di sorpresa con una qualche trappola. Janice deve essere con loro e io devo liberarla, null’altro conta.
 
Mi resi conto di quanto fosse diverso quel pugno di righe rispetto al solito. Avevo calcato di più le parole, avevo infuso nella mina tutta la mia rabbia e la frustrazione che stavo realizzando di avere nel sentirmi impotente.
Ebbi un attimo di lucidità. Stavo agendo guidata dalle emozioni, non avevo neppure uno stralcio di piano, non avevo considerato alcuna variabile, mi ero lanciata a testa bassa in quel salvataggio senza riflettere.
McLane poteva aver cambiato idea e aver portato Jan a Salonicco, quindi la mia folle corsa verso il sito archeologico sarebbe stata solo una perdita di tempo. Oppure poteva già essere sul posto, aver recuperato le pergamene ed essersi liberato dell’archeologa.
Deglutii a vuoto, mentre un brivido freddo mi correva lungo la schiena e lo stomaco si chiudeva con un nodo, concretizzando un pensiero spaventoso.
Janice poteva essere morta.
Lei era una testa calda, ribellandosi o rispondendo male poteva aver fatto arrabbiare l’uomo sbagliato che le aveva piantato una pallottola in testa, oppure poteva essere riuscita a trovare un modo per togliersi la vita, pur di non lasciar cadere l’eredità di Xena nelle mani di quegli sciacalli.
«No» dissi per farmi coraggio «Non posso pensare queste cose. Devo dare comunque tutta me stessa e posso farlo solo se ho la speranza di salvarla.»
«Mel? Stai bene? Sei pallida» constatò la mia nuova amica, porgendomi una tazza fumante «E stavi… Parlando da sola?»
«Sì» ammisi «Mi capita ogni tanto. Serve a schiarirmi la mente.»
«Se ti serve, posso starti a sentire e darti qualche consiglio» replicò dolcemente, come fosse una sorella maggiore intenta a convincere la minore a confidarle un segreto «Dopotutto ho un certo numero di anni sulle spalle, la mia esperienza potrebbe tornarti utile.»
«Apprezzo molto il pensiero, ma non è necessario» declinai cordialmente «Non voglio darti noia con i miei problemi.»
«Non sarebbe di alcun disturbo, ma capisco che probabilmente siano questioni delicate che preferisci tenere per te.» Non c’era alcun tono ferito o scocciato in quelle parole, semplicemente stava dicendo la verità. «Ora bevi, prima che si raffreddi troppo.»
Iniziai a degustare l’infuso a piccoli sorsi, cercando di non ustionarmi la lingua. Naturalmente Verna doveva aver messo a scaldare l’acqua appena aveva intuito che ci fossero ospiti, altrimenti non avrebbe potuto farla bollire tanto in fretta.
Mi godetti il vago retrogusto floreale, mentre lasciavo la mente ancora a briglie sciolte.
La cameriera ogni tanto cercava di riallacciare un qualche discorso, ma ero troppo distratta per prestarle la dovuta attenzione. Riuscivo solamente a pensare al fatto che sarei dovuta essere già sulla via dell’antica Potidaea e non intenta a rilassarmi davanti ad una tazza di the.
Uno schiocco di dita mi riscosse.
«Ho capito!» esclamò la domestica «Riconoscerei quell’espressione ovunque.»
Sbattei le palpebre, sperando di essere resa partecipe di quell’intuizione.
«Si tratta di qualcuno di speciale, vero?» mormorò con fare cospiratorio «Sei preoccupata per un bel giovanotto che si è cacciato nei guai?»
«In un certo senso…» risposi. Non era una vera e propria bugia, dopotutto. Mi spiaceva non poter essere sincera con quella simpatica donna, ma era meglio tenere per me certi dettagli. «Una persona a me molto cara ha bisogno di aiuto e il tempo non è esattamente dalla mia parte» continuai, prima di prendere un sorso dell’infuso «Speravo che il signor Stavros convincesse Richman a darci un passaggio in automobile o qualcosa di simile, ma più passano i minuti, più mi rendo conto che avrei potuto fare un bel pezzo di strada se non avessi fatto tappa qui.»
Verna annuì, comprendendo il mio turbamento.
Si preparò a dirmi qualcosa, ma il suono delle sue parole venne sovrastato dalla porta dello studio che si riapriva, lasciando uscire i due uomini ancora intenti a battibeccare.
«Me lo devi, hai detto che lo avresti fatto. È tardi per tornare indietro» tuonò il mio compagno di viaggio, sovrastando il padrone di casa e agitando un pugno in aria con fare minaccioso «Un patto è un patto!»
«Ma non posso lasciare che tu la tenga!» ribattè Ronald Richman, paonazzo in viso. Sembrava talmente infiammato che non mi sarei sorpresa di vedere i suoi baffi incendiarsi, letteralmente.
«Te la riporterò indietro, prima o poi» replicò Aniketos «Ma adesso mi serve. Non puoi rimangiarti la parola all’ultimo.»
«Ma tu non mi avevi detto che ti sarebbe servita per dare la caccia ad un branco di banditi!» obiettò ancor più furente il padrone di casa.
«Non le succederà niente, vecchio testone» gli assicurò l’altro «Quante volte ti ho chiesto di fidarti di me? Ho sempre fatto tutto ciò che mi ordinavi e ho svolto egregiamente i miei lavori. Hai un debito nei miei confronti, per la miseria! Non ti ho chiesto di darmi in sposa la tua primogenita, ti ho solo chiesto di prestarmi la tua vecchia carcassa su ruote!»
«Guarda che definirla così non aiuterà la tua causa» lo ammonì il collezionista.
«Non sfidare la mia pazienza, Ronald!» ringhiò esasperato l’avventuriero «O ti tolgo di mezzo e la faccenda si chiude male, per te.»
Li studiai fissarsi, entrambi con le braccia incrociate e l’espressione severa.
«E va bene» capitolò il padrone di casa dopo minuti di insopportabile silenzio «Arthur ti accompagnerà fin dove devi andare, poi tornerà indietro e io non dovrò mai più sentir parlare di te o di presunti favori che ti devo.»
«Ci accompagnerà» sbuffò Stavros, indicandomi.
«Certo, come vuoi» borbottò l’altro «Allora, andata?» proseguì tendendogli la mano per siglare l’accordo.
Con un ultimo verso poco convinto, il mio accompagnatore accettò l’accordo.
Non feci in tempo a vuotare la tazza ancora mezza piena, che mi sentii agguantare e sballottare fin fuori dall’abitazione. Verna mi aveva strappato il contenitore dalle mani ed era svanita nel nulla, mentre il ragazzo, Samuel, mi aveva guidato al portico.
Dopo qualche minuto udii lo scoppio di un motore messo in azione e vidi comparire dal lato sinistro una scintillante automobile scura, che ricordava molto quella che mi aveva condotto fino al sito delle prime pergamene.
Alla guida c’era il maggiordomo che, con la sua espressione impassibile, teneva le mani sul voltante, pronto ad eseguire qualsiasi ordine impartito.
«Ecco, questa potrebbe tornarvi utile» mi sorprese la voce della governante. Quando mi voltai verso di lei, mi ritrovai tra le mani una borsa gonfia di viveri. «Ci ho messo un po’ di tutto, per non rischiare. C’è abbastanza cibo per almeno tre giorni, se lo razionerete.»
Le parole di ringraziamento mi morirono in gola, tanto ero emozionata per quel gesto.
«Fai attenzione, Melinda» disse, concedendomi un rapido abbraccio «Spero di rivederti, un giorno. Mi piacerebbe conversare di nuovo con te.»
«Lo spero anch’io, Verna» replicai in un soffio «Grazie.»
Mi spiaceva lasciare quella donna, che sembrava aver istantaneamente legato con me, anche se non riuscivo ad afferrarne la ragione. Forse aveva solamente bisogno di un’amica, una figura a lei simile che le concedesse di aprirsi. Purtroppo non avrei avuto modo di approfondire la questione.
Il giovanotto mi aprì la portiera, mi fece accomodare, la richiuse e poi agitò la mano per dirmi addio.
Aniketos si accomodò nella parte anteriore, dal lato passeggero.
«Tutto bene?» mi domandò, scoccandomi una rapida occhiata.
Io annuii, stringendo i miei bagagli e la nuova borsa affidatami.
«A mai più, vecchio pazzo» grugnì Richman, sporgendosi dentro l’abitacolo.
«Ci ritroveremo agli Inferi, avido bastardo» ribattè l’avventuriero, dando poi una pacca all’autista, affinchè mettesse in moto.
Due ore dopo, quando vidi il blu intenso del mare brillare all’orizzonte, sentii un vago senso di sollievo, ero arrivata alla fine del mio viaggio.
Lungo il tratto di strada polverosa non avevamo incontrato anima viva, le prime persone comparvero alla periferia di Nea Poteidaia, al capo del ponte che passava sopra il canale artificiale che divideva l’istmo. La mia inquietudine tornò più prepotente che mai quando notai i fucili che tenevano imbracciati e le divise scure che li identificavano come soldati nemici.
Erano tre e sorvegliavano l’ingresso in città con sguardo rapace.
Uno fece cenno ad Arthur di arrestare il veicolo, mentre gli altri ciondolavano poco distanti.
Il maggiordomo fece quanto richiesto e spense la vettura.
Stavros scese, tranquillo, calcandosi bene il cappello in testa e si mise a parlare in tedesco con la sentinella.
I minuti sembrarono scorrere dilatati, avevo l’impressione che saremmo rimasti bloccati là per sempre.
Con un cenno del capo, il milite comunicò qualcosa ai colleghi e un attimo dopo il mio compagno tornò alla macchina.
«Scendi» ordinò «Proseguiamo a piedi.»
Senza discutere, accettai.
«Puoi tornare indietro» proseguì rivolto all’autista «Porta ancora i miei saluti a quel pallone gonfiato di Ronald.»
Silenzioso come un’ombra, l’uomo fece manovra e, lasciandosi dietro una nube di polvere, svanì sulla strada da cui eravamo venuti.
L’avventuriero si caricò sulle spalle parte dei miei averi ed insieme varcammo ufficialmente il confine della città, attraversando il ponte senza fiatare.
«Che cosa hai detto per lasciarci passare?» domandai incuriosita, una volta che fummo abbastanza lontani per non essere a portata d’orecchio.
«Più o meno la verità» rispose, accarezzandosi la barba «Che sono un archeologo inviato da Salonicco con il compito di esplorare le rovine e tu sei la mia assistente con il dovere di prendere appunti per fare rapporto ai nostri finanziatori del Reich.»
Era una storia indiscutibilmente brillante e credibile.
«Ho anche chiesto loro se qualche mio collega fosse già giunto sul posto.»
Sbarrai gli occhi e mi arrestai di colpo. «E?» sussurrai, temendo la risposta.
«Nessuno è entrato in città negli ultimi giorni» mi tranquillizzò «Li abbiamo battuti, nonostante tutto.»
Percorremmo il viale centrale che divideva in due l’abitato, separando le coste. L’istmo era tanto sottile da permetterci di vedere, dalla via lievemente sopraelevata, entrambe le spiagge e il mare che le lambiva. Una serie di barche erano tirate in secca, con le reti stese ad asciugare, mentre su un paio di banchi potevo scorgere delle persone affaccendarsi probabilmente a pulire il pesce.
Il mio campo visivo, per il resto, era occupato da due schiere di case molto simili tra loro, intramezzate da qualche negozietto e una piazza.
Quando giungemmo alla periferia dall’altro capo dell’abitato, mi resi conto che definirla “città” era improprio, Nea Poteidaia era poco più che un villaggio di pescatori, subito affiancato poi da distese di colline, boschi e campi coltivati.
Ci addentrammo lungo le mulattiere che portavano verso sud, ma senza alcuna idea di dove, esattamente, si trovassero le rovine, ci perdemmo, continuando a ritrovarci in vicoli ciechi che terminavano a strapiombo sulle onde o in mezzo a terreni di semina.
«Ma un maledetto cartello era troppo scomodo da mettere?» mi lamentai a mezza voce, di fronte all’ennesimo bivio.
«Forse faremmo meglio a tornare indietro e chiedere a qualcuno di accompagnarci» propose  Aniketos, voltandosi indietro in direzione del paese, di cui si scorgeva un campanile in lontananza.
A malincuore, concordai e ci rimettemmo in marcia verso il centro abitato.
Ad un mezzo miglio, circa, dalla città vera e propria, notai una bella dimora in stile inglese, ancora ben tenuta, nonostante tutto. Mi domandai se quella potesse essere la casa in cui era cresciuto Jason. Dopotutto suo padre era ricco, certamente aveva cercato di ricostruire in Grecia un pezzo della sua amata Inghilterra.
Mi arrestai in corrispondenza del vialetto che portava all’abitazione. C’erano cespugli fioriti un po’ incolti e l’erba del prato era più lunga del dovuto, facendo assumere al cortile un’aria selvatica, eppure le pietre che delineavano il percorso erano perfette, incastrate ad arte, e la cassetta delle lettere sembrava verniciata di fresco. Mi meravigliai di quel fatto. Chi mai avrebbe consegnato la posta in quel luogo sperduto?
«Melinda, ci sei?» mi richiamò Stavros, notando che mi ero arrestata.
«Ti spiace se faccio una rapida sosta?» gli domandai, facendo scorrere le dita lungo la scritta della cassetta postale. La D di Davies era molto elaborata, caratterizzata da un intricato ghirigoro, mentre il resto delle lettere, in corsivo, era dipinto con uno stile più semplice.
«Qualcuno che conosci?» chiese, avvicinandosi.
«In un certo senso.»
«Ci vorrà molto?»
«Non credo» lo rassicurai «Devo solo accertarmi di una cosa.»
Percorsi lo spazio che mi separava dalla porta d’ingresso, impugnai il battente in ferro e lo picchiettai per bussare.
Attesi qualche minuto, poi udii un calpestio provenire da dietro lo spesso portone d’ingresso.
Una voce flebile mi pose una domanda in greco, desiderando sapere che cosa volessi.
«È la signora Davies?» replicai, in inglese.
Un silenzio spaventato piombò dall’altra parte dell’uscio. Non era mia intenzione intimorire la donna, ma non avevo avuto tempo di pensare ad un modo più semplice di approcciarla.
«Sono un’amica di Jason» tentai, per farle comprendere che non avevo cattive intenzioni «Voleva assicurarsi che lei stesse bene.»
«Il mio piccolo ometto è al sicuro?» pigolò titubante, sempre senza aprire la pesante porta di legno massiccio.
«Sì, c’è Herbert a vegliare su di lui.»
A sentire quel nome, un cigolio invase lo spazio circostante, mentre mi veniva spalancato di fronte agli occhi il portone della villa.
«Salve» sorrisi alla persona un po’ ingobbita di fronte a me «Sono Melinda Pappas.»
La signora Davies incurvò gli angoli della bocca, apparendomi più rilassata nello scoprire di avere di fronte a sé una figura per nulla intimidente.
«Ho notato il nome sulla cassetta delle lettere e ho pensato di farle un saluto, in vece di suo figlio.»
Il sorriso della padrona di casa si allargò ulteriormente, mentre gli occhi iniziarono ad apparire tremuli di lacrime.
Rimasi imbambolata, fissandola in attesa che smettesse di piangere sommessamente.
«Oh, che sbadata!» esclamò passati un paio di minuti, stirandosi il maglioncino blu scuro e la gonna in tinta, dopo aver catturato con un candido fazzoletto le gocce salate che le rigavano il volto «Non mi sono neppure presentata. Martha Davies.»
«È un vero piacere conoscerla» ribattei.
Il silenziò strisciò nuovamente tra noi, mentre prendevamo tempo per studiarci a vicenda. Non dovevo apparire al meglio, agli occhi di quella madama inglese simbolo di una nobiltà un po’ decaduta: avevo gli abiti impolverati, il cappello di traverso, gli occhiali con una stanghetta incrinata, i capelli in disordine e la faccia di chi non aveva dormito gran che negli ultimi giorni.
La mia interlocutrice, al contrario, sembrava pronta per accogliere in casa Re George in persona. L’acconciatura, seppur semplice, le conferiva un’aura di sofisticatezza, accentuata dai fermagli ornati di perle, in coppia con la collana che le ricadeva fino al petto concludendosi con un medaglione in quello che poteva essere avorio. I segni del tempo, sebbene visibili sul quel viso che doveva aver sofferto molto, le donavano eleganza e saggezza. Nessuno si sarebbe mai potuto azzardare a dire che appariva vecchia. Le spalle, però, erano incurvate in una pronunciata gobba, come se qualcuno avesse posato su di lei un peso troppo pesante da sostenere, e le diafane mani ingioiellate, senza dubbio vanto che le doveva essere valso innumerevoli lodi in passato, erano marchiate da diverse piccole ferite e cicatrici. Immaginai che, visti i tempi, avesse dovuto rinunciare alla servitù e si fosse ritrovata costretta a compiere da sé tutti quei lavori che una volta poteva permettersi di delegare.
Le potevo leggere in faccia quanto fosse desiderosa di invitarmi ad entrare per subissarmi di domande riguardanti il figlio, ma purtroppo non potevo far aspettare troppo Aniketos, che sentivo scalpitare impaziente sul pietrisco della strada come fosse un cavallo indomabile. Avevo soltanto una priorità: Janice, per cui dovevo trovare le rovine alla svelta per poter cominciare un piano degno di tal nome.
«Desidera una tazza di te, signorina Pappas?» mi domandò Martha, cogliendomi non del tutto alla sprovvista.
«No, grazie» declinai garbatamente l’offerta «Ma vorrei approfittare di questo nostro incontro per farle una domanda, visto che lei vive qui da diversi anni.»
«Certamente, qualsiasi cosa per un’amica di Jason.»
«Dove si trovano le rovine dell’antica Potidaea? Ho seguito i sentieri qui intorno, ma non sono riuscita ad imboccare quello giusto.»
La donna riflettè un momento, rigirandosi attorno all’anulare sinistro una spessa fede d’oro. «Da qui dovrebbe prendere la prima svolta a sinistra e proseguire fino ad entrare nel bosco… Le fondamenta delle case antiche si trovano verso la costa, mentre se lei sta parlando di quel misterioso tempio, allora deve rimanere verso l’interno fino ad incontrare un colle.»
Il “misterioso tempio” aveva l’aria di essere esattamente la mia meta.
«Devo avvisarla, però» riprese «Gli abitanti si tengono alla larga da quei luoghi e i pochi stranieri che vi si sono avventurati non hanno fatto ritorno.»
È un classico, dissi tra me e me, memore dei trabocchetti incontrati nella millenaria tomba di Ares.
«Non credo dovrebbe andare fin là» tentò di scoraggiarmi «Jay e i suoi amici ci giocavano da piccoli e ancora non so quale miracolo li abbia tenuti tutti in vita, ma per qualcuno che non conosce il posto è facile correre pericolosi rischi.»
«Non si preoccupi» la rassicurai «So badare a me stessa e sono in compagnia di un avventuriero che in ogni caso vedrà di tenermi lontana dai guai.»
La madre di Jason tentò di allungare il collo per sbirciare Stavros che era rimasto in attesa sulla strada.
«Nik!» lo chiamai «Vieni, per piacere.»
L’uomo sbuffò, grattandosi la barba, poi spostando i piedi come fossero enormi macigni, percorse il vialetto fino all’entrata dell’abitazione.
«Signora Davies, questo è Aniketos Stavros» feci le presentazioni.
«Molto lieta» disse la donna «Sono Martha.»
«Incantato» replicò il greco, spazzando via ogni accenno di riluttanza e tirando fuori un tono amichevole che non avevo idea possedesse.
«Lei è un esperto di questi luoghi?» domandò la donna rivolta alla mia guida.
«Ho avuto a che fare con ogni genere di posto» rimase sul vago «E ho esplorato più di un sito archeologico ritenuto “maledetto”.»
«Preferirei comunque non vedervi andare là… Ma mi pare di capire che non ho modo di dissuadervi» commentò la Davies, sfregandosi le nocche con insistenza.
«Mi dispiace, ma dobbiamo assolutamente andare alle rovine, è una questione di vita o di morte» replicai.
«Allora fate attenzione» mormorò Martha «E una volta compiuta la vostra missione, tornate qui per una tazza di the. Potremo parlare un po’ di Jason…»
«Certamente» le assicurai.
«Buona fortuna» ci augurò, salutandoci dalla soglia di casa, mentre, ripercorrendo la breve via acciottolata tornavamo a camminare sul sentiero polveroso.
«Da questa parte» guidai Aniketos, indicandogli il percorso suggeritomi dalla madre di Jay.
Mantenendo un buon passo ci inoltrammo nella macchia di alberi, tendendo sempre a sinistra, fino a che non iniziai a sentire il rumore del mare. A quel punto, comprendendo che rischiavo di farci avvicinare troppo alla costa, ripiegai verso l’entroterra e tirai dritto, fino a che, da una radura, notai, nello scorcio tra la vegetazione, una parte in cui le cime degli alberi svettavano sopra le altre.
«Guarda là» dissi al mio compare «Potrebbe trattarsi di una collina, secondo te?»
Lui si limitò ad emettere un verso dal dubbio significato, ma che interpretai come un “andiamo a vedere”.
Zigzagando tra bassi cespugli e fitti ciuffi d’erba alti fino alle nostre ginocchia, seguimmo una pista che sembrava essere rimasta inutilizzata per diversi anni. C’era qualche traccia di animale, che riuscivo ad individuare grazie alle lezioni impartitemi da Janice, ma nessun segno che indicasse la presenza di esseri umani almeno nell’ultimo anno.
Tenendo lo sguardo puntato a terra per evitare gli ostacoli, superai un tronco caduto, ma nel farlo la manica della mia giacca rimase impigliata in uno dei rami che sporgeva da quel vecchio legno. Mi voltai e con determinazione tirai per liberare il tessuto, causando un sonoro schiocco, originato dalla legna, e dal rumore di uno strappo.
«Per tutti i numi dell’Olimpo!» imprecai «Mai che me ne vada una giusta!»
«Aspetterei a tirare giù gli dei dal loro monte sacro, fossi in te» intervenne Stavros, raggiungendomi «Girati.»
Lasciando perdere il danno ai miei abiti, tornai a concentrarmi sul mondo circostante e rimasi a bocca aperta.
Una grande arcata di pietra si apriva in mezzo ad un’altura ricoperta di rigogliosa vegetazione, rivelando un oscuro passaggio. Felci, edera e piccoli arbusti si erano insinuati in ogni dove, mascherando quello che un tempo doveva essere stato un colonnato di accesso. Grossi blocchi riversi per terra, segnati da decine di giochi di bambini temerari, erano tutto ciò che restava dei maestosi fusti dei pilastri.
«Direi che ci siamo» decretò il greco, piantando il bastone nel soffice terreno, facendolo affondare nello spesso strato di muschio.
Annuii, rapita dalle sensazioni che quell’antica rovina mi stava trasmettendo. Lo stupore iniziale venne presto sostituito da un misto di ammirazione, curiosità, ma anche inquietudine perché percepivo come quello fosse un luogo di morte.
Poi, all’improvviso, qualcosa di nuovo si insinuò nel mio cuore, un senso di indescrivibile quiete, come se finalmente avessi portato a termine un compito assegnatomi molto tempo addietro. Chiusi gli occhi e un sorriso caldo accompagnato da due luminosi smeraldi pieni di vita si dipinse nel nero pannello oltre le mie palpebre.
Lo percepii. Un ricordo, un tocco familiare, un nodo allo stomaco e alla gola. Il mio cervello si chiuse in se stesso, lasciandomi in balia delle emozioni generate da quella strana presenza.
«Gabrielle…» mormorai, come se una voce lontana mi avesse imposto di parlare. Era stata lei a volermi là, a far sì che ci arrivassi, per potersi ricongiungere con Xena.
Mi portai il cappello al cuore e mi sentii a casa.


NdA: gentili lettori, ben ritrovati. Comincio subito dalle "cattive notizie", perchè come si dice: via il dente, via il dolore. Mi spiace davvero tanto, ma dovrò proseguire con gli aggiornamenti dilatati e non posso neppure assicurare che saranno regolari, causa impiego imprevisto che mi è piombato tra capo e collo e mi toglie la forza di vivere, ma soprattutto quella di scrivere. Comunque, teoricamente, non dovrebbero mancare molti capitoli alla fine, quindi non posso che pregarvi di essere pazienti e non troppo adirati. Ed ecco il momento ringraziamenti: a wislava, per ogni qualsivoglia cosa che se dovessi stare ad elencare finirei settimana prossima; ai recensori dello scorso capitolo Stranger in Paradise, whiterose87, Alessia2690 e cecyvit per il loro apprezzatissimo supporto; naturalmente un enorme grazie anche a tutti gli altri lettori per proseguire imperterriti ad accompagnarmi in questa avventura. A questo punto mi vedo costretta a congedarmi, per non tediarvi ulteriormente con le mie chiacchiere. Prego gli dei di riuscire a ritagliarmi abbastanza tempo ed avere la giusta ispirazione per farvi avere il prossimo capitolo prima o poi, fino ad allora, arrivederci e buone cose.
P.S. Se volete rimanere al passo con i miei aggiornamenti potete tenere d'occhio il mio redivivo account Twitter che trovate qui.

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