T. V.

di nainai
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo.The ghost of you ***
Capitolo 2: *** 1.Thank you for the venom ***
Capitolo 3: *** 2.Thank you for the venom ***
Capitolo 4: *** 3.Thank you for the venom ***
Capitolo 5: *** 4.Thank you for the venom ***
Capitolo 6: *** 5.Thank you for the venom ***
Capitolo 7: *** 6.Thank you for the venom ***
Capitolo 8: *** Cemetery Drive ***



Capitolo 1
*** Prologo.The ghost of you ***


Attenzione: il presente scritto ha come protagonisti persone realmente esistenti e personaggi di fantasia. Si tratta di opera di pura immaginazione, senza alcuna pretesa di veridicità o verisimiglianza. Nessuno scopo di lucro. Nessun diritto legalmente tutelato s'intende leso.

The Ghost of you


xx Novembre xx08
 
Sembra che verrà a piovere.
Se questo vento gelido dovesse decidersi a scemare, verrà a piovere di sicuro.
Le stesse nuvole scure che si ammassano appena al di sopra della striscia rossa dell’orizzonte ricadranno a terra in gocce grasse, di quelle che battono sempre il suolo freddo dei cimiteri d’inizio inverno.
Ma il vento non scema. Tira su foglie bruciate dall’autunno, le ultime foglie sopravvissute alla stagione. Le solleva e le fa correre lungo i viottoli disassati di questo stesso cimitero, a pochi centimetri da terra.
Allo stesso modo solleva la tua gonna.
 
Mi stai seduta davanti. Sul bordo liscio di una lapide bianca. Hai un vestito chiaro…forse appena più ingiallito di quella stessa lapide. Quando il vento solleva l’orlo della tua gonna, da sotto sbucano le caviglie appaiate, i piedi scalzi; stanno proprio sopra al nome, inciso a fondo nella pietra, ed alla data. Sei nata nel ’79 e morta quest’anno.
Sei morta e mi sorridi. Hai gli stessi capelli biondi con quei ricci da diva che non si usano più da mezzo secolo; lo stesso naso piccolo, all’insù su una bocca morbida e piena ma piccina come fosse disegnata, che a quella diva ti ci fanno assomigliare davvero, così come la fronte alta, le guance pronunciate ed il viso rotondo. Hai anche gli stessi occhi, chiari e brillanti, vivi esattamente come li ricordavo. Mi sorridono anche loro e come sempre sono incapaci di mentire.
Non dici niente. Del resto, non lo faccio nemmeno io. Sono arrivato con il sole, ho messo le mani nelle tasche del giaccone e sono rimasto qui a guardarti senza dire niente. Intanto il sole è sceso dietro le tue spalle, l’orizzonte è diventato rosso, la terra ed il cielo, sopra e sotto quella linea, sono nere.
E tu bianca.
 
Sai a cosa sto pensando, Helena?
Sto pensando che non è quello il vestito con cui sei stata sepolta.
G.
 
Nota di fine capitolo della Nai:

Ho scritto questa storia per lo Spring Party del "fu" Fidelity, sito del quale rimpiango la prematura scomparsa. Avventura breve e, purtroppo, non intensa come avrei voluto.
La storia ha - immeritatamente - vinto il contest. Io ringrazio tutte le ragazze che hanno partecipato con storie decisamente più degne di questa. E ringrazio Stregatta, perchè tra tutte ha scelto questa come vincitrice.

"Thank you for the venom" parla esattamente di quello di cui parla la canzone. Per una volta nella vita, il plot non è affatto opera mia - ed infatti questa storia a differenza delle solite ha una trama XD - ma del più degno autore della canzone. Ringrazio, quindi, Gerard Way per l'impegno messo nel scrivermi il mio "fumetto di Frank Miller". Spero di aver fatto una cosa che sia anche solo vagamente accostabile al suo bellissimo testo ed alle meravigliose opere di uno dei miei fumettisti preferiti.
Ci rivediamo in fondo ^_^
MEM


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Capitolo 2
*** 1.Thank you for the venom ***


THANK YOU FOR THE VENOM
 
Era nato il 9 Aprile del ’77. Segno zodiacale ariete, ascendente cancro.
Già dalle sue stelle si sarebbe potuta leggere la sua vita futura: di come i sogni ad occhi aperti lo avrebbero segnato irrimediabilmente. D’altronde neppure ci aveva provato davvero a rimanere sveglio in mezzo a quel frastuono borioso che era il suo mondo.
Il mondo di G. aveva solo due tinte: il nero della china violenta con cui Dio aveva tagliato i contorni della realtà di quella Città, per poi dimenticarsene subito dopo; ed il rosso della trivialità bestiale che insozzava ogni cosa sopra quella violenza, il rosso che macchiava ugualmente la sensualità a basso costo di un bordello, la miseria senza nome di un barbone in strada o la tavola senza amore di una casa celebrata nel sacro vincolo del matrimonio.
In quel rosso che sporcava di sé anche le parole false degli amanti di turno, G. sognava di un sonno a mille colori dal quale nemmeno provava a staccare gli occhi, spalancati su una realtà che non vedevano ed in cui non riuscivano a confondersi.
Perché gli occhi di G. erano verdi. E se non fossero bastati i suoi occhi, sarebbero state le sue mani che, tenendo ferma la punta del carboncino su un foglio, avrebbero finito per disegnare i suoi colori. I colori erano la condanna di G. segnata nelle stelle, in quell’ascendente troppo debole e sognatore che lo faceva deragliare dalle linee dritte e nette e nere di Dio e che trasmutava il rosso in viola, il viola in blu. Il blu in verde. Il verde in giallo, il giallo in arancio, l’arancio in rosa…
Il rosa mai in oro. Mai niente in oro. Un’alchimia inutile, di una magia che in Città valeva poco. Anzi nulla.
 
Era nato il 9 Aprile del’77. Suo padre lavorava in fabbrica, sua madre neppure quello; aveva anche un fratello. A dover scegliere, nella vita di G. ci sarebbe stato un impiego alla buona in qualche ufficio, grazie a quel poco che i suoi gli avevano fatto studiare; o al più un lavoro giù al porto, di quelli pesanti ma che rendono bene, grazie alle braccia ed alle spalle di cui Madre Natura lo aveva fornito. Ma di alchimie senza mercato, la vita di G. non aveva bisogno. Né i suoi colori cambiavano davvero il segno nero sulla tela di Dio.
Quando suo padre se n’era andato, quando sua madre si era consumata nel silenzio del cancro per morire nel rosso dell’indifferenza, quando suo fratello aveva visto la Città e la Città lo aveva fagocitato reclamando un tributo in sangue, ossa e nervi, tutti i colori di G. non erano bastati a cambiare la sola alchimia che valesse qualcosa. Quella che dal nero e dal rosso tirava fuori l’oro.
E l’oro in Città nasceva dalle pistole – il nero ce lo metteva la polvere da sparo, il rosso i fori tondi lasciati dai proiettili – dai doppiopetti e dai gessati su scarpe lucide in vernice. Era l’oro degli assassini, delle puttane, dei ladri e degli usurai. L’oro che li teneva tutti a paga sullo stesso libro.
All’inizio il nome di G. su quel libro non c’era.
All’inizio la magia senza valore dei suoi sogni era servita quantomeno a preservarne il nome.
All’inizio.
 
Helena era nata il 27 Gennaio del’79.
Nelle sue stelle c’era scritto che lei era diversa. Lo era il suo colore: il bianco della pelle, il biondo dei capelli, l’azzurro degli occhi, il rosa della bocca. Tutto il colore della Città, Dio lo aveva rubato al quadro di nero e rosso per darlo a lei, che non era tagliata sulla tela ma dipinta: tonda e morbida, curva come i seni alti, i fianchi larghi, il ventre piatto. Curva della curva magra delle braccia flessuose, della vita piccola, delle dita nervose, delle gambe lunghe.
Helena era diversa. Come può esserlo un oggetto alieno precipitato nel mondo da uno spazio incalcolabile. Helena era precipitata nel mondo che era la Città disegnata da Dio e si era conficcata come un asteroide impazzito: nessuno sapeva chi fosse, nessuno sapeva da dove venisse. Nessuno capiva i suoi occhi chiari e tondi, enormi, che di lei non nascondevano nulla, perché Helena si rifletteva tutta intera in quei due occhi. Ma proprio per questo la Città non li capiva.
 
Helena era nata il 27 Gennaio del’79. A paga sul libro nero della Città ci era finita subito, appena i suoi occhi di ragazzina si erano sollevati in faccia al mondo ed il mondo si era accorto di lei.
Perché era bella come lo sono sempre le cose sbagliate in una realtà che va nella direzione opposta. Ed era diversa di una diversità troppo evidente per poter essere risparmiata.
Così non lo era stata. E dai bordelli a basso costo del centro era salita lungo la scala del libro nero, su su fino alla cima fatta di diamanti e pellicce e circondata dal gessato in scarpe di vernice delle pistole.
Helena apparteneva all’oro della Città quando G. la vide la prima volta.
Philip
  ***
La Città. Quando ci entri ne resti impressionato: sbalordito, affascinato o schiacciato, mai indifferente. Eppure la Città non è niente; per me che arrivavo dalle periferie fumose addossate alla zona industriale si era trattato di sostituire i cieli grigi e malati della mia infanzia con le sagome nette e spigolose dei palazzi del Centro, sollevati contro quegli stessi cieli per chiudere ogni spazio e respiro. Ero arrivato carico di aspettative, questo sì. E quelle aspettative portavano con sé un po’ troppo del male sordo che mi aveva lasciato la morte di nostra madre.
A quell’epoca mio fratello non faceva già più parte della mia realtà quotidiana. Quando nostro padre se n’era andato di casa, non era passato molto tempo prima che G., in qualche modo, lo seguisse. Credo che avesse bisogno di allontanarsi per rimanere vivo, restare se stesso. Ha sempre continuato ad aiutare me e nostra madre per come poteva, a volte facendo anche più di ciò che sarebbe stato giusto aspettarsi.
Io lo sapevo. Mi ero abituato alla sua assenza tanto quanto lo ero alla sua presenza a distanza. Mi ero abituato ad avere le spalle coperte comunque, giustificato dalla mia età e dalla solitudine per qualunque cosa facessi. Il mio egoismo cresceva di pari passo con la paura e fu con entrambi quei sentimenti addosso che bussai alla porta di mio fratello un mese dopo la morte di nostra madre.
E fu sempre allo stesso modo che uscii da quell’appartamento sei settimane più tardi.
 
La notte in cui tutto è cominciato pioveva.
Mio fratello dice che in Città la pioggia è fatta da gocce di china, nere e sottili come fili di rasoi. Dice che si piantano al suolo, sui mattoni, sull’asfalto o sulle persone con la stessa rabbia violenta, e che rimangono conficcate lì.
Io quella notte me le sentivo tutte addosso. Conficcate ovunque tra i muscoli doloranti. Mio fratello rispose al quinto squillo; erano quasi le quattro del mattino, non mi stupì sentire la sua voce impastata dal sonno.
-…pronto?- mormorò distratto.
Fu quando aprii la bocca per rispondergli che cominciai a piangere.
-Mikey?! – realizzò lui. Ed il suo tono tornò chiaro e deciso, mentre in sottofondo distinguevo i rumori che faceva nel tirarsi dritto nel letto.- Michael, dove sei?- mi chiese con urgenza, ma non mi diede il tempo di rispondere- Stai bene?- insistette.- Cosa succede? Mikey, parla!
Trattenni il fiato finché le lacrime ed i singhiozzi non rimasero incastrati in gola. Per tutto quel tempo anche mio fratello trattenne il fiato allo stesso modo.
-Posso…posso venire lì da te?- lo implorai.
È stato così che ho fatto iniziare tutto.
Mikey
***
Mio fratello ha tre anni meno di me. Da quando entrambi siamo al mondo, ho sempre pensato che Michael mi fosse stato affidato, che fosse mio dovere proteggerlo in tutte quelle situazioni in cui non potevano essere i nostri genitori a farlo.
Non ce n’erano state molte fino a quando nostra madre non aveva cominciato a stare male, giusto qualche scazzottata giù a scuola: Mikey era troppo magro, troppo mingherlino e silenzioso per non richiamare l’attenzione dei bulli del quartiere. Per la verità la mia adolescenza era stata segnata dalle botte tanto quanto quella di mio fratello, almeno finché non ero diventato troppo grosso per rappresentare un divertimento a basso rischio. Ma Mikey grosso non ci è mai diventato, è sempre stato sottile e nervoso come nostro padre, dal sangue di nostra madre non ha preso quasi nulla se non forse la tendenza malsana all’abbandono.
La verità, però, è che sono sempre stato un vigliacco, perfino più di Mikey, e quando mio padre se n’è andato ho fatto la scelta più facile imboccando la stessa porta. Sapevo di non poter chiedere a mio fratello di prendere il posto di nostro padre, che spettava a me di diritto, e non l’ho fatto. Mikey, del resto, non ha avuto così tanto coraggio in più e non se l’è preso, preferendo restare ancora un bambino all’ombra di nostra madre. Un equilibrio che ha vacillato nell’attimo stesso in cui la diagnosi è piovuta sulla testa di mio fratello come una condanna. La condanna che gli imponeva di prendere atto della vita vera.
Per quanto io possa essere stato presente nell’esistenza di mio fratello dalla distanza di comodo che avevo adottato all’indomani della mia fuga, di fatto ho mancato a quegli stessi doveri di cui mi ero fatto carico nel vederlo nascere. Non l’ho protetto. Non l’ho protetto affatto. E qualsiasi colpa, di cui mi sono macchiato dopo, è stata solo la conseguenza di quel primo peccato. Qualsiasi dolore, la mia espiazione.
 
Quella notte pioveva. Aprii la porta anche se non ero neppure certo di aver davvero sentito bussare; sui vetri dell’appartamento la pioggia batteva talmente furiosa da coprire qualsiasi altro suono e non c’erano altri suoni se non il rumore del mio respiro: Mikey era stato attento a non disturbare la pioggia. Sapevo che, in realtà, stava solo cercando di rimandare il momento in cui ci saremmo ritrovati faccia a faccia di nuovo. Per più di quattro mesi mio fratello era sparito senza lasciare traccia. All’inizio, dopo aver lasciato casa mia, per un po’ si era limitato a gironzolare come un cane randagio: non lo vedevo per due…tre giorni, a volte anche una settimana. Poi tornava, sporco, sfatto e depresso. Non mi ci voleva molto a leggere la sua inquietudine nervosa, quella con cui misurava il mio pavimento mentre io gli davo le spalle e, seduto al tavolo da disegno, lavoravo in un silenzio che entrambi sapevamo carico di domande e di risposte non formulate. Immagino sia stato il peso di tutte quelle parole a far nascere in Mikey il desiderio di non guardarsi più indietro. Non so, invece, dove abbia trovato la forza di realizzarlo, ma so che erano quattro mesi che non lo vedevo quando aprii la porta quella notte.
Mikey non piangeva più. Stava perfettamente immobile, esattamente al centro del rettangolo dell’ingresso. Aveva lo sguardo basso nascosto dietro un groviglio impiastrato di capelli bagnati, le mani affondate nelle tasche di una giacca troppo grande, le spalle cadenti e le labbra arricciate sui denti. Mi accorsi che li digrignava, come se si stesse sforzando per rimanere zitto e fermo. Era talmente bagnato che l’acqua, cadendo dai vestiti, aveva formato una pozza scura ai suoi piedi. Mi domandai da quanto stesse lì fuori.
-Mikey…- lo chiamai in tono basso e stupito.
Avevo paura. Non di lui, è chiaro: avevo paura dei suoi occhi lucidi di febbre, che intravedevo sotto il biondo sporco dei capelli, e del suono raschiante, anche se bassissimo, dei suoi denti che sfregavano con violenza.
Non mi rispose. Credo non ne fosse in grado, era raggelato in una realtà diversa dalla mia e non sembrava capace di fare quell’unico passo che ci separava.
Allungai io la mano per lui, sporsi il braccio fuori la porta e, quando lo toccai, mi sentii meglio nel rendermi conto che era vero. Presi forza da quella sensazione, strinsi di più le dita e lo tirai dentro.
-Vieni al caldo.- aggiunsi in modo più fermo.
Incespicò ma attraversò la soglia, rigido come una bambola, ed io gli richiusi alle spalle il battente.
-Per prima cosa troviamo qualcosa di asciutto.- annunciai mentre lo lasciavo lì da solo a riprendere confidenza con il buio che occupava l’appartamento.
Nel rendermi conto che gli abiti di Mikey rimasti in casa erano totalmente inutili contro il freddo di quella notte, mi ritrovai ad avvertire un fastidioso senso di oppressione all’altezza della bocca dello stomaco; e più mi ci concentravo per decifrarlo, più quello si trasformava in una nausea latente e sorda. Tentai di scacciarla sfogandomi sull’anta dell’armadio, si chiuse con uno schianto sofferente quando le tirai una manata sbrigativa e volutamente violenta. Presi una delle magliette di mio fratello, una mia felpa ed un paio di pantaloni della tuta e ritornai veloce sui miei passi. Mikey si era accoccolato sul divano. Stava seduto ad una delle due estremità, schiacciato contro il bracciolo consunto, le braccia strette attorno al corpo ed ancora tutti gli abiti fradici addosso. perfino il giaccone.
-Mikey, cambiati.- lo pregai allungandogli i vestiti asciutti.
Lo lasciai fare e raggiunsi il cucinino per mettere su del caffè. Quando gli portai la tazza fumante, mi guardò con riconoscenza.
-Cos’è successo?- mi decisi a chiedergli dopo essermi sistemato a terra, davanti a lui, ed aver aspettato che mandasse giù uno o due sorsi e smettesse di tremare.
Fece un ghigno sghembo che mi impressionò molto poco: qualunque potesse essere il problema lui era lì, davanti a me, e questo mi dava la possibilità di vedere che era vivo e stava bene.
-Perché pensi che sia successo qualcosa?- mi ritorse a voce bassissima.
-Non saresti tornato.- ammisi senza accusa.
Mikey ricominciò a tremare immediatamente, non appena io ebbi finito di formulare quella frase; sembrava sul punto di scoppiare nuovamente a piangere ed io mi preparai a quell’eventualità. Non successe, lui posò la tazza a terra tra noi due, con tutta l’accortezza che gli permettevano le sue mani impacciate, poi affondò il viso tra le dita, piegato in avanti sulle ginocchia, ed io potevo scorgere solo i suoi capelli arruffati e sporchi. Aspettai, e quando fui sicuro che non avrebbe parlato di sua volontà, allungai una mano e la intrecciai delicatamente alle ciocche disordinate.
-Mikey.- lo chiamai dolcemente, avvertendo che si rilassava sotto quella carezza.- Devi dirmi cosa è successo.- chiesi. Rabbrividì e soffocò un singhiozzo.- Non posso aiutarti se non mi parli.- insistetti piano, continuando ad accarezzargli la nuca e le spalle nella speranza che si calmasse. – Qualunque cosa sia,- gli promisi- non ti lascerò solo ad affrontarla.
Avrei voluto aggiungere che ci avrei pensato io per lui, che avrei affrontato qualunque cosa potesse averlo ridotto in quello stato. Nel mio essere ingenuamente ottimista non avevo certo previsto che i fantasmi di mio fratello potessero essere reali.
Mikey rialzò il viso, mi guardò con quegli occhi accesi e spaventati ed io mi obbligai a ricambiare il suo sguardo in silenzio, mentre lui stabiliva se fossi davvero la persona in grado di aiutarlo. Poi mi disse tutto.
G.
***
Mio fratello non lo sapeva, lui non aveva idea di quanto in fretta si può crescere quando all’improvviso ti ritrovi per strada e non c’è nessuno accanto a te per dirti di stare attento. Per certi versi lui è riuscito a scendere su quella strada senza esserne toccato affatto: a distanza di anni nel guardarlo negli occhi ritrovavo lo stesso ragazzo che aveva chiuso la porta di casa davanti a me e mia madre. Io, invece, non ero lo stesso che quattro mesi prima aveva chiuso la porta di casa sua.
Ed ancor meno ero lo stesso che lui aveva lasciato indietro anni prima.
Non ero lo stesso da così tanto tempo da avere di me solo un ricordo sbiadito. Non sapevo cosa cercavano gli occhi di mio fratello nel guardarmi, sapevo solo quello che avrebbero trovato. Presi coraggio dalla consapevolezza di quella verità: per quanto lui si fosse ostinato a voler vedere in me il ragazzino allampanato e timido che aveva abbandonato a casa, quel ragazzino non c’era più.
Ed era anche un po’ sua, la responsabilità.
-Droga.- dissi come se stessi confessando il mio peccato davanti a Dio.
In realtà era proprio così che mi sentivo – giudicato – e questo faceva di me un peccatore, ma anche un ribelle. Quella parola la stavo sputando sull’altare di mio fratello, del giudizio dei suoi occhi davanti a me. Lui la incassò come un boccone amaro e, siccome non disse nulla, io mi sentii in dovere di infierire.
-È il motivo per cui vogliono ammazzarmi. Perché vogliono ammazzarmi, sai.
Il suo silenzio non era così difficile da sopportare come avevo creduto. Lui sembrava solo incapace di capire, mi guardava ancora e la sua mano, che prima mi aveva sfiorato i capelli rassicurante, restava immobile sulla mia spalla. Fredda. Ferma. Distante. La distanza era la percezione più esatta che avevo di mio fratello, eppure il prenderne coscienza mi ridava lucidità e forza per spiegarmi.
-Per un po’ ho lavorato per loro: se la vendevo in giro, potevo tenermene una parte per me. Poi, però, si sono accorti che avevo iniziato a rubarne un po’ di più. Loro hanno detto “un po’ troppa in più”. Io non ci facevo caso, in fondo non è che ti rendi conto benissimo di quanta roba mandi giù quando stai lì e ne senti il bisogno. Fatto sta che a loro non andava tanto bene così. Una volta me le hanno suonate e mi hanno avvisato di stare attento, mi hanno detto che se gli ridavo i soldi di quella che avevo rubato andava bene ed era tutto a posto. Io ho promesso che glieli avrei ridati, ma ovviamente non l’ho fatto. In compenso ne ho rubata altra.
Ed ora vogliono ammazzarmi.
Non avevo bisogno di ripeterlo, negli occhi di mio fratello era scolpito come in una roccia.
 
Gerard si è sempre preso cura di me.
Io sono stato ingiusto nel fargli quello che ho fatto.
Gerard non si è mai lavato le mani con me.
Ne aveva il diritto. Non era mio padre. Non era mia madre.
È solo mio fratello.
Ed io quella notte l’ho distrutto per sempre. Mi sono detto che andava bene, che era colpa sua l’inferno violento in cui ero caduto: lui mi aveva lasciato, lui aveva lasciato che io me ne andassi, lui non mi aveva cercato dopo. Quando era troppo tardi. È stato troppo tardi dal giorno stesso in cui, scendendo da casa sua, ho alzato gli occhi in faccia alla Città e lei aveva lo sguardo rapido e cattivo di uno spacciatore sedicenne, il sorriso malato di un’età bruciata in fretta. Io ho guardato tutto questo e non ne ho avuto paura. Io che avevo paura di tutto, io che avevo cercato per tutta la vita di cancellare quella paura. Della Città non ne avevo.
Ma Gerard di tutto questo non ha mai avuto colpa.
Mikey
***
Non conoscevo Mikey se non di vista quando quella mattina lui e suo fratello bussarono alla porta della canonica. Gerard lo conoscevo bene, invece. Sia perché non si tirava mai indietro quando c’era da dare una mano, sia perché amava stare in Chiesa quando poteva. Non so se ha mai creduto in Dio o se semplicemente preferisse la compagnia silenziosa degli angeli di pietra della cappella, gli stessi angeli che poi ritraeva nei suoi schizzi. A me non interessava fargli domande sulla sua Fede, apprezzavo la sua compagnia per quello che era e non avevo bisogno di alcun giuramento per confidare nella sincerità del suo sguardo. Quella mattina, però, quando aprii loro la porta non mi sfuggirono né la presenza goffa ed intimidita alle spalle di Gerard – quel ragazzino alto che pareva cresciuto troppo in fretta e troppo male – né il terrore irrazionale nello sguardo del mio amico. Mi spostai per farli entrare ed ottenni in cambio un “grazie” soffocato e partecipe da parte del più grande dei due ragazzi. Mikey rimase zitto.
Il suo silenzio pesò sulla canonica per tutto il tempo che Gerard ci mise a dirmi quello che voleva da me. Mikey fingeva di non essere l’oggetto di quel dialogo, voltava la testa in giro come un ospite in visita ed io lo studiavo. Alla fine Gerard tacque. Mi voltai ad incrociare i suoi occhi mentre mi pregavano silenziosamente.
-…vuoi che lo tenga qui nel frattempo.- riassunsi lento.
Annuì. Mikey aveva deciso di averne abbastanza di noi, si alzò dalla sedia che gli avevo offerto al suo arrivo ed io lo guardai uscire nel cortile interno dietro la canonica. Da qualche parte c’era il sole, più alto nel cielo, uno o due raggi strappavano riflessi di un biondo lavato dalla testa arruffata del più piccolo dei due fratelli. Mi sembrò un ragazzino smarrito e provai un moto di tenerezza.
-Riuscirai a proteggerlo, Phil?- mi sentii chiedere dalla voce angosciata di Gerard.
Dal Diavolo, pensai. Di sicuro.
Dagli uomini, per il rispetto che portano a questo posto ed al mio abito, se ne portano.
Ma dai suoi demoni deve proteggersi da solo.
Non glielo dissi, a Gerard. Forse fu perché intuivo il vero significato di quel suo “metterò tutto a posto io”, sapevamo entrambi che non aveva mezzi per mettere a posto nulla, si stava solo offrendo in pasto al mostro, per non avere sulla coscienza la vita di suo fratello senza aver prima lasciato divorare la propria. Era un suicidio. Nel rispondergli che avrei protetto Mikey, lo benedissi.
 
Dal giorno in cui Gerard lasciò la canonica, abbracciando suo fratello davanti la porta e tenendolo stretto come se non dovesse rivederlo mai più, a quello in cui per l’ultima volta vi ha messo piede, il mio unico pensiero è stato per Mikey. Anche quando Gerard venne da me a chiedermi aiuto ed io capii quanto fosse vero quello che mi diceva piangendo – di aver perso se stesso, per sempre e senza speranza – io guardai Mikey, tornai con la mente al suo viso smarrito mentre il sole lo sbeffeggiava con quel biondo lavato.
Sapevamo entrambi, io e Gerard, che Mikey era l’unica cosa che potesse essere salvata in quella storia; ed avevamo un accordo, che non era scritto e non era perfetto ma era un accordo per noi vincolante.
Una vita per una vita, ci eravamo detti. Gerard aveva pagato quel prezzo, io tenevo i conti.
Helena…lei non era prevista.
Philip
 

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Capitolo 3
*** 2.Thank you for the venom ***


Parlano tutti di me.
Parlano tutti di me.
…parlano tutti, ed io rimbombo. Come fossi la cassa di risonanza delle loro parole, come uno strumento di pelle e corda. Parlano di me perché non possono stringermi. E non possono avermi. E piangono sulla mia tomba ed io rimbombo, perché sono vuota e sono l’eco delle lacrime di Gerard, della sua rabbia e del suo rancore.
Vorrei farlo smettere di piangere, allungare la mano e toccargli il viso, asciugare con le mie dita e la mia pelle le guance rigate.
Ma tutto attorno a me è rumore. Ed io sono sospesa e cado, il vento mi trascina e soffia il mio spirito.
Ho freddo, e mi fa paura restare sospesa in mezzo al vento. Vorrei toccare le guance di Gerard, ed asciugare le lacrime che segnano il suo petto. Il cuore del mio amore è rosso, il sangue è esploso come un fiore e macchia il suo petto.
Ed io cado.
Cado e rimbombo.
Tutti parlano di me ma le sue sono le sole parole che conosco.
 
Ero nata il 27 Gennaio del ’79. Della mia infanzia non ricordavo quasi nulla: c’erano un uomo ed una donna, una stanza scura…o forse più di una, una macchia di sangue sulla mia faccia e poi dottori. Ricordavo un pezzo di cielo sopra un giardino, di aver chiuso gli occhi perché avevo sonno e di averli riaperti in un bordello, giù al Centro, tra i night ed i ristoranti alla moda.
Sapevo di avere un segreto, perché a volte mi succedeva – solo per sbaglio – che mentre ero in un posto all’improvviso non c’ero più ed il mio corpo restava lì, solo ed inerme, mentre io ero altrove e potevo sentire cose diverse, e vederle, ed ero me stessa ma distinguevo la vita degli altri, lontano da me eppure come se io fossi lì…
Non ho mai potuto controllare questa cosa. Andava e veniva come voleva, io sapevo solo di averla – da sempre, credevo, non riuscivo a ricordare un tempo in cui ne ero priva – e che non mi dava niente. Né gioia, né dispiacere, né alcuna utilità. A volte me ne dimenticavo, perché per moltissimo tempo non accadeva nulla, ma poi mentre mi trovavo con un cliente succedeva, ed io non ero più lì – in una stanza di hotel, nel bagno di una discoteca – ma stavo guardando il mare da una torre altissima e giù le persone erano piccole come spilli o formiche.
Se fosse accaduto anche quel giorno non sarei morta.
Lo pensavo anche mentre mi muovevo, vedevo il proiettile e più su la canna della pistola, il braccio che la tendeva, l’occhio che prendeva la mira. E dentro di me pensavo che se fossi volata via, un’altra volta, quella volta, sarebbe andato tutto bene, non sarebbe successo nulla. Ma non è accaduto e non è che io non lo sapessi che non sarebbe accaduto, lo avevo messo da conto, ma di alternative proprio non me n’erano venute in mente.
Ad andare a ritroso in quella che è stata la mia vita, avevo altri due ricordi.
Il risvolto rigato dell’abito di Ricky, il giorno in cui per la prima volta entrò nel locale dove lavoravo e chiese me. Il risvolto del vestito di Ricky era lucido, grigio e non nero, come se una parte del colore fosse stata lavata via, e stonava moltissimo con le scarpe in vernice. Lui si accorse che io stavo guardando il suo abito e pensò che fossi stupita che potesse permettersi qualcosa di così costoso. Mi sorrise, e Ricky aveva un bel sorriso, di quelli grandi e bianchi in cui ti ci puoi perdere, ed aveva dei denti dritti e lunghi come quelli di un cane. Mi disse che era un abito italiano, “roba di lusso” disse. E mi promise di comprarmi una pelliccia. Quando mantenne la promessa, io seppi che ci saremmo rivisti sempre più spesso e che non avrei avuto altri clienti a parte lui.
L’altro ricordo era come lo specchio di Ricky: non potevo fare a meno di confrontarli. Ricordavo la piega del cappuccio della felpa di Gerard. La prima volta che ci eravamo visti lui ne indossava una che era rimasta per sempre la mia preferita; in realtà non aveva nulla di speciale, era scolorita ed il disegno bianco sulla parte frontale era tanto rovinato da non riuscire neppure a capire cosa fosse. Avrei voluto chiederglielo quando lo vidi, ma ci eravamo incrociati su una scala ed io ero con altra gente – altre “ragazze”di Ricky – e, quando lo guardai, vidi che aveva gli occhi verdi ed erano enormi e spalancati su di me e questo divenne molto più importante. Io sorrisi e lui rimase fermo.
-Se non ti sposti, non possiamo passare.- dissi.
Le ragazze ridevano. Lui arrossì.
-Gerard Way.- si presentò impacciato.
Risi anche io.
-Helena.- gli risposi. Lui si schiacciò al muro per farci passare.
-Helena come?- mi domandò mentre scendevamo.
Lo guardai e strinsi le spalle.
-Helena e basta.
Uscendo chiusi i lembi della pelliccia intorno al collo. “Helena” era sempre stato sufficiente per tutti. Alle nostre spalle, Oscar disse a Gerard che Ricky lo aspettava.
***
Forse è stato peccare di arroganza e vanagloria. Forse è stata ingenuità di ragazzino. Ho creduto davvero, per un periodo di tempo, che bastasse conoscere se stessi, i propri limiti ed i propri sogni, per non deviare mai dalla “retta via”. Del resto, i miei sogni ed i miei limiti li avevo forgiati nel modo giusto per mantenere quei propositi, non volevo nulla che non fosse alla mia portata, mi accontentavo di respirare l’aria rarefatta del mio mondo di disegni per sopportare senza sforzo la più concreta pochezza della realtà. Mi ero detto che andava bene, mi ero convinto di essere felice e di non avere bisogno di altro…la verità era che sopravvivevo. Staccato dal mondo, relegato ai suoi margini, ero l’esiliato volontario dalla vita, rifiutavo di aprire gli occhi per scoprire di cosa fosse fatto il mondo e quello – come scoprii comunque – mi risparmiava in attesa di inghiottirmi tutto intero. Mio fratello era tornato per questo: mentre Mikey parlava e mi raccontava di sé, io misuravo la distanza enorme che ci separava e la distinguevo, come una lunga scia rossa contornata dai palazzi neri della Città, dalle loro sagome piantate tra suolo e cielo come sbarre.
Non sono mai stato ingenuo fino al punto di non sapere in che mondo vivessimo, Mikey non mi stava dicendo nulla che per me potesse essere “nuovo” nel senso pieno del termine. Solo che avevo pensato che una cosa bastasse ignorarla perché non succedesse. Invece era successa e Mikey era tornato per dirmi che no, non ero intoccabile.
Helena ne fu, poi, la conferma. Nel vederla sui gradini più alti della scala, circondata da altre ragazze di cui distinsi appena solo il vociare confuso sullo sfondo, avvolta nel rosso acceso della pelliccia di volpe e risplendente di quei boccoli corti e fuori moda e dei due occhi di topazio azzurro, io ebbi la conferma che al mondo bastava allungare le dita e stringere per avermi. E poi distruggermi. Sapevo di lei abbastanza senza bisogno neppure di chiedere: i gioielli – orecchini e bracciali di pietre preziose – gli abiti, i tacchi alti di scarpe costose, dicevano chiaramente che lei non era per me; era troppo bella, troppo sorridente, troppo vera per me. Ed io la volevo: il mondo aveva trovato qualcosa con cui allettarmi e farmi capire che non mi sarebbe più bastata la carta ed il colore.
 
Fu la voce del bestione alla porta a riportarmi indietro. Helena era una macchia fatta di tinte pastello che camminava incontro ad una limousine nera, dietro di me una voce pesante e cattiva mi disse che il capo mi stava aspettando. La limousine divorò tutto il gruppo, sparì nello svolazzare confuso della pelliccia rossa, io mi voltai e salii gli ultimi gradini sotto lo sguardo impietoso di quel nuovo carceriere. Mi guidò attraverso le stanze della villa. Non ne ricordo nulla, nonostante quella non sia stata l’unica volta che vi entrai. Ricordo però che c’era il sole, la villa era costruita in alto, su una collina sopra la Città, e questo le permetteva di prendere luce come non era possibile per le strade ingombre di palazzi più in basso. Il senso di inquietudine, che non mi aveva abbandonato dal racconto di mio fratello, si fece più forte man mano che le porte si aprivano per condurmi dentro casa e si chiudevano alle mie spalle per impedirmi di uscirne. Davanti all’ultimo battente, mentre l’uomo che mi stava di fronte lo apriva, mi accorsi che la presenza di Helena aleggiava ancora intorno a me, mi sembrò quasi di poterla vedere – voltarsi e sorridermi e sussurrarmi il suo nome – poi sparì ed io attraversai da solo la soglia.
La persona che mi aspettava non era sola, invece, e non era neppure molto più vecchia di me. Mi alzò in faccia uno sguardo divertito, scrutandomi a lungo nel silenzio rotto solo dal sogghignare ironico degli altri presenti nella stanza. Lui sorrideva. Come si sorride ad una bestia mandata al macello.
-Gerard!- esclamò con una confidenzialità sarcastica che mi fece stringere i pugni.
Li affondai nelle tasche della felpa perché non se ne accorgesse e non lo interpretasse come un gesto di ribellione.
-Sig. Rivera.- borbottai chinando la testa in un cenno di rispettoso saluto.
Lo apprezzò. Le labbra sottili si tesero con maggiore sincerità sui denti chiari – così bianchi nel viso dalla pelle olivastra – girò attorno alla scrivania e mi venne incontro. Mentre il suo braccio mi stringeva alle spalle fui investito dall’odore gradevole del dopobarba di marca, aveva una presa salda e sentii il profilo della pistola, nella fondina sotto l’ascella, affondarmi dolorosamente nel fianco, ma mi guardai dal protestare.
-Chiamami pure Ricky.- mi concesse senza nessuna magnanimità. Lui era “Ricky” per tutti e tutti ugualmente morivano ammazzati come mosche sotto il tacco della sua scarpa. Mi spinse avanti, verso la portafinestra in fondo alla stanza, che dava direttamente sul giardino.- Allora, - esordì amichevole – i miei ragazzi mi hanno accennato che c’è qualche problema con il tuo fratellino…- mi incitò.
Dovetti farmi violenza per non gridare. Strinsi di più pugni e sentii le unghie scavare la carne dei palmi. Lui si sedette sulla terrazza che apriva il giardino, ad un tavolo di bambù dipinto di bianco; io rimasi in piedi di fronte al tavolo.
-Sono cose che possono succedere, Gerard,- riprese mentre mi scrutava continuando a sorridere, famelico.- Mikey è un bravo ragazzo, io lo so, ma è pur sempre un ragazzino. I ragazzini possono sbagliare.- mi disse.
“L’errore di mio fratello si chiama droga. Sei tu ad avergliela venduta, no?”
-Ho saputo che lo hai affidato a padre Philip.- affermò pacato. Ad un cenno della mano, il bestione si materializzò al suo fianco, gli porse una busta bianca. Io pensai solo che mi stava avvisando che poteva raggiungere Mikey quando voleva.- È stata una buona scelta, padre Philip è un uomo saggio ed avveduto, conosce il mondo e sa come gestire un ragazzino come lui.
Abbassai il capo in un assenso perché lui si aspettava che lo facessi.
-Bene.- commentò soddisfatto. Il bestione era sparito di nuovo, lui mi porse la busta attraverso il tavolo ed io avanzai di un passo per prenderla.- Vedo che noi due ci intendiamo, Gerard.- insistette affabile – Questo è positivo, sono convinto che sarà possibile sistemare tutto.
Ubbidii di nuovo al suo comando implicito ed aprii la busta: dentro, su un foglietto, c’era segnata una cifra. Contai i numeri e sorrisi biecamente.
-Mi rendo conto che è una somma considerevole, – stava dicendo lui intanto – ma immagino che la vita di Mikey valga tutti quei soldi ed anche di più.
Sapevamo entrambi che questo non avrebbe cambiato il fatto che io non avessi il denaro. Buttai la busta sul tavolo e lo guardai.
-Voglio venirvi incontro!- affermò Rivera congiungendo le mani di fronte al viso ed accavallando le gambe in un gesto morbido, da felino.- Tu mi stai simpatico, Gerard, e, come detto, credo che tutti possano fare dei piccoli errori, proprio come Mikey.
Non avrebbe regalato nulla. Né a me né a mio fratello. Non mi illusi del contrario e tornai ad infilare i pugni in tasca. Rivera continuava a guardarmi con l’aria sicura del cacciatore.
-Avevo un fratello più giovane anche io, sai Gerard?- mi raccontò.- Una gran testa di cazzo! Nostro padre, morendo, mi raccomandò di badare a lui ed onestamente penso di aver fatto tutto il possibile. Alla fine me lo hanno ammazzato comunque.- fece una pausa, scrutandomi da sopra le dita incrociate, per lasciare che il concetto ed i suoi sottintesi mi arrivassero bene.- Nonostante sapessi di aver cercato in ogni modo di impedirlo, mi sono sentito responsabile della sua morte per un sacco di tempo.
Respirai a fondo. Abbassai gli occhi a fissare il suolo davanti la punta delle scarpe, in testa avevo una tale confusione di paura e pensieri che, appena mi ci concentrai, dovetti fare uno sforzo serio per riuscire a restare lucido.
-Sig. Rivera…Ricky, - mi corressi da solo, parlando lentamente per avere il tempo di scegliere con cura cosa dire- io sono sinceramente grato della benevolenza che ci dimostri…ma quei soldi non saprei proprio dove andarli a prendere.- ammisi.
-Sì, lo immaginavo.- ribatté lui senza scomporsi.
Ad un nuovo cenno della mano, il bestione tornò. Sentii lo scatto del cane della pistola, la sicura che veniva abbassata, ed aspettai il colpo. In quel momento pensai che morire non faceva così paura.
Il bestione posò la pistola sul tavolo davanti a Rivera e tornò a sparire.
-Gerard,-mi chiamò lui per essere sicuro di avere la mia attenzione. Scostai gli occhi dalla canna lucida dell’arma e glieli alzai in faccia.- i bravi ragazzi come te sanno che la famiglia è l’unica cosa che valga la pena di preservare.- Avrei potuto essere d’accordo non mi fossero venute in mente mille altre cose che credevo fosse giusto tentare almeno di proteggere.- E proprio perché confido che tu sia un bravo ragazzo voglio offrirti la possibilità di tirare Mikey fuori da questa storia. Sono certo che farai in modo che non ci caschi più.
-Cosa dovrei fare?- sussurrai.
E nonostante tutto, mi accorsi di essermi aggrappato ad una speranza illusoria.
A quel punto finse di pensarci.
Come se quella storia non fosse già decisa, come se non avesse saputo chi fossi e cosa volessi ancor prima che mettessi piede sulla sua soglia. Prese tempo, mi osservò portando la mia esasperazione fino al limite e giocando con me.
-Io risolvo un problema a te,- mi disse – e tu ne risolvi uno a me.
Non capii.
Rivera si piegò in avanti, spinse la pistola attraverso il tavolo, nella mia direzione, e si riappoggiò lentamente allo schienale della poltroncina.
-Sarebbe una sciocchezza, Gerard. Un colpo rapido, un “bum” di cui non vedresti neppure gli effetti. Un tizio che cade a terra e tu e tuo fratello siete liberi.- elencò. E poi sorrise.- Nessuno che tu conosci, nessuno di cui debba interessarti nulla: la vita di un estraneo in cambio di quella di Mikey.
Ci misi del tempo a capire comunque. Avrei voluto tornare ad abbassare lo sguardo sull’arma cercando lì la risposta, ma ero risucchiato dagli occhi di Rivera, inchiodato dalla sua indifferenza serena.
-…non ho mai ammazzato nessuno.- sentii rispondere alla mia voce. Mi chiesi di cosa stessi parlando, e mi rifiutai di rispondermi.
Rivera si strinse nelle spalle, come non fosse importante.
-C’è sempre una prima volta.- mi rispose. Il bestione era di nuovo con noi, me ne accorsi perché si mise dietro il proprio capo. Ghignò quando alzai gli occhi su di lui.- Oscar ti insegnerà.- mi rassicurò Rivera.- Credimi,- aggiunse poi scherzando.- mi ringrazierai dopo!
Si aspettavano che dicessi qualcosa. Lo realizzai come uno schiaffo. Provai ad articolare un suono, ma era dannatamente difficile, soprattutto perché non sapevo quale volessi articolare.
-Non…non è una questione di non saper sparare…- mormorai a fatica.
Rivera si spazientì.
-Infatti, Gerard.- disse brusco, mettendo da parte ogni tentativo di mostrarsi gentile o simpatico.- È una questione molto più semplice: tuo fratello mi deve del denaro che non ha lui e non hai tu, io ti sto offrendo il modo per ripagare il suo debito.
-Ammazzando una persona!- sputai fuori mentre sentivo il senso di nausea salire ad oscurarmi la vista.
Rivera diventò una  macchia indistinta di rabbia, denti affilati e bianchi come zanne. Feci lo sforzo di non portarmi la mano alla bocca, ma sentii chiaramente le gambe molli e la testa che mi pulsava così forte da stordirmi. Non sapevo nemmeno io come riuscissi a stare in piedi, così che fui grato quando qualcuno mi afferrò per le braccia, mi fece male ma almeno potei lasciarmi andare.
-Se non te la senti,- scandì Rivera secco ed inespressivo.- vorrà dire che sarà tuo fratello il bersaglio di questa pistola. Oscar, portalo fuori da qui.- ordinò senza darmi il tempo nemmeno di capire di cosa stesse parlando. Le sue parole furono l’ultima cosa che mi accompagnò - Hai due giorni di tempo, Gerard.- mi disse.- Dopo, o il debito di Mikey sarà stato pagato o padre Philip avrà un paio di funzioni funebri in più da celebrare.
G.
***
Gerard ha gli occhi verdi. Dentro ci sono incastonate delle stelle, così piccole da sembrare pagliuzze d’oro su uno sfondo scuro di velluto. Io li avevo visti una volta sola, i suoi occhi, nell’incrociarli ancora quella sera pensai che nemmeno l’alcool riusciva a renderli meno splendenti.
Attraverso il rumore del locale, la confusione dei corpi premuti tra loro, la volgarità delle risa sconce degli uomini e delle scollature ammiccanti delle donne, io e Gerard ci riconoscemmo. Ed io gli sorrisi.
-Ciao.- lo salutai arrampicandomi sullo sgabello che gli stava di fianco.
Mi guardò come si guarda un’apparizione, il suo sguardo era acceso di paura. Finsi di non vederla.
-Non sembri il tipo di persona che frequenta casa di Ricky.- commentai.
Lui fece un sorriso storto e tornò al bicchiere di whiskey.
-Credevo di non esserlo.
-Allora non capisco cosa ci facessi lì.- dissi io. Ma quando lui sospirò senza alzare gli occhi, tornai a sorridere. Feci un cenno a Dan oltre il bancone perché mi servisse.- Parlami di te.- chiesi intanto a Gerard.
Lui mi fissò senza capire.
Dan posò il cocktail sul ripiano lucido.
-Sono curiosa. E tu hai bisogno di parlare.- gli spiegai.
-Come fai a dirlo?- sfiatò lui.
Risi appena. Avrei voluto rispondergli che ero brava a capire le persone, invece gli dissi la verità.
-È il mio lavoro: sapere cosa gli uomini vogliono.
Lui si lasciò sfuggire un altro sorriso sghembo, appena più sincero del primo. Annuì e sollevò il bicchiere.
-E tu cosa ci facevi da Rivera?- mi ritorse prima di bere.
-Sono la sua donna.- ammisi senza problemi e poi mi corressi.- Quella non ufficiale, s’intende. Hai visto la moglie di Ricky?- Lui scosse la testa.- È una donna talmente bella che mi chiedo perché lui venga a letto con me.
-Mi riesce difficile credere che possa essere più bella di te.- mormorò lui di getto.
Io lo guardai. Un sorriso triste ad incresparmi le labbra. Lui si rese conto di quello che aveva detto: distolse gli occhi, arrossendo.
-Scusami.- mi pregò.- È decisamente una cosa stupida.
-E fuori luogo.- fu la mia volta di pregarlo.
Mi guardò ferito, ma annuì.
-E fuori luogo.- ripeté.
Sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma non lo fece. Finì, invece, il whiskey, allungando poi una mano perché Dan gliene versasse un altro. Non avevo idea di quanti “giri” si fosse già concesso, mandò giù anche quello e quando si voltò sembrava stupidamente sereno.
“Anche se regge bene”, pensai, “è ubriaco”
-Helena è un bel nome!- esclamò innocentemente. Sorrisi al suo complimento e lui proseguì soddisfatto.- Nostra nonna si chiamava Elena.- mi raccontò- Per metà era italiana, anche se non aveva mai lasciato la Città. Diceva che ce l’avremmo accompagnata noi dai suoi nipoti in Italia.
-È morta prima?- gli domandai mentre lui osservava Dan riempirgli il bicchiere.
-Sì.- mi rispose con semplicità, continuando a guardare dritto davanti a sé come in fondo ad un ricordo.- Gli unici a piangere al suo funerale siamo stati noi…
-Parli al plurale.- notai prima di imitarlo e sollevare il cocktail come lui sollevava il suo whiskey.
-Io e mio fratello.- mi spiegò lui.- Michael. È mio fratello minore.
Quella cosa gli faceva male in un modo che non capii, tornò a rabbuiarsi e riprese a bere in un silenzio carico che sapeva di alcool a buon mercato. Lo guardai, lui non mi ricambiò neppure una volta. Aveva il viso di un bambino, era molto bello ma quelle guance piene, arrossate dal caldo e dal whiskey, ed i capelli spettinati che gli cadevano disfatti sul viso e sugli occhi brillanti lo facevano sembrare piccolo.
-Quanti anni hai?- domandai di impulso.
-Trenta.- mi rispose allo stesso modo.
Quando provò a chiamare di nuovo Dan, afferrai la sua mano e lo obbligai a posarla sul piano del bancone. La sua pelle scottava, mi fissò smarrito ma io lo ignorai.
-E tuo fratello?- continuai con calma, ancora sorridendogli.
-Tre meno di me.- rispose meccanicamente, non smise di guardarmi.- Ventisette.
-Io ventotto.- gli dissi.- Dev’essere bello avere un fratello…
Strinse gli occhi come se lo avessi colpito. Deglutì a vuoto.                                      
-È tutto ciò che è rimasto della mia famiglia.- mi disse a fatica.
-Sarete molto legati.- insistetti.- Io non ricordo se avevo fratelli o sorelle.
-Non lo ricordi?- ripeté.
-No. Non ricordo nulla di me.- mi guardai attorno. Era tardi ed il locale si stava svuotando, a parte me e lui, erano rimaste altre due coppie ed un gruppo di perdigiorno intorno al tavolo da biliardo. Li conoscevo, erano bassa manovalanza al soldo di Ricky.- Da quando ho memoria, il mio primo ricordo è questo posto.- ammisi.- Come se non avessi mai fatto altro che battere qui dentro.
-Lo dici come se non t’importasse…
Mi voltai a scrutarlo e strinsi le spalle-
-Non conosco qualcosa di diverso, quindi non posso volerlo.- spiegai semplicemente.
-È comunque una cosa triste.- obiettò lui, studiandomi con un’intensità che mi faceva credere che semplicemente non fosse in grado di distogliere gli occhi.
Mi domandai se, dopo essersi ubriacato di whiskey, ora stesse cercando di ubriacarsi di me. Sospirai e fui io ad interrompere quel contatto visivo.
-Sono pur sempre la donna di Ricky.- dissi come se bastasse a spiegare i privilegi di cui godevo.
-E lui ti lascia lavorare?
-Oh, non vado più con i clienti!- specificai- Qui lo sanno tutti e nessuno è così stupido da chiedermi una cosa simile.
-…io lo sarei.
Lo guardai ancora.
Era serio.
Sopra ogni cosa, era disperato.
-Gerard,- mormorai piano- questa cosa tu non me l’hai mai detta.
 
Gli bastava sentirmi pronunciare il suo nome. Me lo disse anche, una volta, che gli era bastato sapere che lo ricordavo ancora. Io pensai che era tenero. E pensai anche che era pazzo.
Mi sbagliavo. Lo sarebbe diventato con il tempo, ma allora era ancora abbastanza lucido da guardarmi negli occhi e capire di amarmi.
Un amore come il suo non poteva esistere. Gerard non è mai stato capace, nella propria vita, di capire quanto a fondo le persone gli entrassero dentro e quanto assurdo fosse quel suo lasciare completamente aperto il cuore, esposto e nudo sotto i colpi altrui.
Quando mi guardava, quando mi parlava, quando cercava le mie mani senza avere il coraggio di sfiorarle, io rabbrividivo. Avrei voluto tenerlo a distanza: era così fragile da farmi sentire il bisogno di proteggerlo da se stesso.
 
 

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Capitolo 4
*** 3.Thank you for the venom ***


Avevo la testa che rimbombava. La pioggia mi cadeva contro ed era violenta, mi faceva male ma, più di ogni altra cosa, faceva rumore. La mia testa era piena di quel rumore, e di ogni altro rumore nel raggio di miglia, come se anche uno spillo, cadendo, potesse produrre un’onda violenta e scagliarmela addosso.
In tutto questo, galleggiavo. Sbattuto da quelle stesse onde ma mai completamente sommerso. Sconnesso dalla realtà, che era fatta di buio, di freddo, di pioggia e di paura.
Ad aprirmi venne una donna. Era bella, come Helena aveva detto ed in modo diverso da Helena. Era scura, magra e fragile, con il viso serio di una donna sola e poco amata che dell’amore ha imparato a fare a meno. Mi chiese chi fossi, le diedi il mio nome e le dissi che Ricky mi aspettava. A lei bastò. Mi precedette lungo i saloni come aveva fatto il bestione due giorni prima, da sopra una scala un bambino dalla faccia rotonda e pulita ci spiò attraverso la balaustra. Gli sorrisi senza entusiasmo, sua madre gli disse in spagnolo di togliersi da lì e lui scappò via.
Io pensai a Mikey.
Ricardo Rivera mi stava aspettando davvero. Come mi aveva aspettato la prima volta: con il sorriso sicuro del predatore ed un abbraccio amichevole pronto per stritolarmi. La pistola nella fondina tornò a premere sulle mie costole, la paura stavolta fece il resto e mi mozzò il respiro. Sulla scrivania davanti a cui ci fermammo c’era l’arma che mi aveva già offerto; la donna era uscita e noi eravamo in compagnia soltanto del bestione, Oscar. Rivera prese la pistola dal ripiano e me la mostrò.
-Sapevo che avresti fatto la cosa giusta, Gerard.- mi disse tranquillo e sorridente.
Annuii soltanto e sollevai la mano. L’arma era pesante e fredda, mi dava i brividi solo a tenerla. Mi venne da chiedermi se fosse carica e, se sì, cosa sarebbe potuto succedere: non sapevo neppure maneggiarla. Rivera mi lesse tutto questo sulla faccia. Mi batté una pacca di rassicurazione sul braccio e mi abbassò le mani perché la pistola puntasse il suolo ed i miei occhi i suoi.
-Oscar ti insegnerà quello che c’è da sapere.- mi disse bonario, come a volermi far credere ad una ordinarietà da apprendere in fretta.- A suo tempo, ti darà anche l’obiettivo e tutte le informazioni che ti serviranno.
Guardai il bestione e lui ghignò ed assentì nella mia direzione.
 
La cosa che impari più in fretta è che alle armi da fuoco ti abitui subito. Smetti di averne paura ed anche il freddo del metallo diventa qualcosa di familiare che non ti dà più alcuna sensazione spiacevole: alla fine scopri che il metallo si scalda facilmente tra le tue mani, è come se ti rubasse il calore ma questo non te lo fa odiare; il calore che ti prende è il modo in cui vi legate, sancite il vostro vincolo e diventate una cosa sola. Alla fine, prendi tanta confidenza da avere difficoltà a farne a meno.
Sospetto che Oscar fosse bravo nel proprio lavoro – il macellaio di uomini – perché quei concetti furono la prima cosa che mi obbligò ad apprendere. Non era in grado di renderli a parole, a nessuno era mai interessato sentirlo esternare i propri pensieri, ma la prima cosa che mi impose fu di tenere con me la pistola. Sempre. Nascosta sotto i vestiti o sotto il cuscino quando dormivo, finché la paura fottuta che avevo smise di essere un problema e la sensazione del metallo contro il corpo entrò in una routine percettiva che mi lasciava indifferente.
Nel frattempo avevo imparato anche a sparare. Prima ai barattoli sul resto dei negozi in Città – come in un western di dubbio gusto – poi ai conigli nei campi di periferia. In un’alba grigia ed umida ci muovevamo come bestie, facendo scappare quei disgraziati davanti a noi. Loro correvano, noi li ammazzavamo ed Oscar rideva e mi batteva sulla schiena dicendomi che quella sera avremmo mangiato selvaggina.
Vomitai una sola volta, la notte che uscimmo a caccia di cani. Non eravamo soli perché Oscar mi aveva trascinato con sé in un pub e lì c’erano altri uomini di Rivera ed erano tutti ubriachi. Capii che anche quella cosa faceva parte del mio addestramento perché Oscar non bevve nemmeno una goccia. E poi perché i cani loro li fecero fuori a bastonate, il permettermi di sparargli in testa fu un gesto di misericordia nei miei confronti. L’ultimo. Sapevo che, se avessi esitato, Oscar avrebbe ammazzato anche me quella notte.
Per cui vomitai, sì, ma lo feci comodamente a casa mia e da solo.
La sera dopo, quando Oscar entrò nel mio appartamento, io gli chiesi perché Rivera avesse scelto me.
-È stato un caso, Gee.- mi disse lui fumando una delle mie sigarette e guardandomi bonario tra uno sbuffo e l’altro- Tu eri disperato; hai qualcosa che proteggeresti a qualunque costo; sei pulito tanto che nessuno sospetterebbe di te e Ricky ha da ammazzare un uomo a cui nessuno di noi può avvicinarsi.
-Chi?- chiesi.
Lui rise, schiacciò il mozzicone nel posacenere e mi guardò.
-Stasera parliamo di questo, tranquillo.
Fine dell’addestramento.
L’altra cosa che impari in fretta delle armi da fuoco è che non ti lasciano davvero il tempo di pensare. Sono fottutamente veloci.
                                                                                  G.
***
La scala che portava fino al suo appartamento era buia e sapeva di polvere. Erano sensazioni così concrete che mi sembrava di poter stringere tanto la tenebra quanto l’odore. La luce era fulminata su tutte le rampe, l’unica lampadina che funzionava ancora pulsava ad intervalli irregolari all’ultimo piano e lanciava sulla tromba delle scale un riflesso debole. Mi sostenevo al corrimano, instabile sotto le mie dita; in alcuni punti il rivestimento di legno era saltato scoprendo una fascia arrugginita di metallo. Lessi i numeri sulle porte fino a trovarmi davanti a quella che mi interessava, tenendo a mente le targhette che mancavano per non lasciarmi ingannare. Allungai la mano e battei due colpi.
Nel silenzio che seguì sentii la musica. Feci fatica sia a distinguerla che a capire da dove provenisse: era una specie di marcetta stupida, una cosa che sarebbe stata bene come sigla di un cartone animato degli anni ’20, suonava altrettanto stonata, il suono rovinato come se uscisse da un grammofono. Metteva istintivamente allegria, ma le parole che il cantante scandiva come ad una recita non avevano nulla di piacevole e descrivevano con crudezza disillusa un mondo di “vampiri” intenti a prosciugare la vita di un protagonista irretito dai loro inganni.
Poi la porta si aprì e Gerard era di nuovo davanti a me.
 
La prima cosa che aveva fatto era stata spegnere lo stereo. Nel tempo che a lui era servito per tirare via il cd e metterlo a posto su uno scaffale, io mi ero guardata attorno. Il disordine violento che mi circondava era in perfetto accordo con la faccia di Gerard: lui sfoggiava il proprio pallore sofferto, le occhiaie pronunciate e le labbra spaccate con la stessa ostentazione con cui il suo appartamento mi mostrava le bottiglie vuote, i vestiti sporchi accatastati in giro, i mozziconi di sigaretta, la puzza di chiuso, di fumo e di immondizia…
…i quadri…
…le macchie di colore sulla tappezzeria e sulla braccia di Gerard, sul suo viso…
…i pennelli infilati di forza nei bicchieri in cui l’acquaragia era scura e quasi solida…
…l’odore del solvente.
-Così è questo che fai per vivere.- commentai.
Si lasciò cadere sul divano. Una delle tele che erano appoggiate lì sopra cadde a terra, lui non la guardò neppure.
-Più o meno.- borbottò. Dalla fatica con cui tirò fuori quelle parole intuii che era un po’ che non parlava con qualcuno.- Disegno.- aggiunse poi.
Si guardò attorno con l’aria di chi abbia difficoltà a riconoscere il posto dove si trova. Accennò ad una specie di tavolo inclinato in un angolo ed io capii che voleva che guardassi. Mi avvicinai in quella direzione. Sopra il ripiano, bloccate dal nastro adesivo, erano sistemate tre tavole, tutte ugualmente incomplete. Una ritraeva una bambina bionda impegnata in una conversazione con un coniglio azzurro; la seconda sembrava un’immagine pubblicitaria per qualcosa, ma non m’interessò più di tanto. La terza aveva un modello, una vecchia foto che ritraeva due ragazzini sorridenti; uno dei due lo riconobbi, staccai la foto e mi voltai.
-Questo è Michael?- domandai indicando il secondo ragazzo.
Gerard mi guardò. Spalancò gli occhi e mi fissò come se non potesse credere a ciò che avevo detto.
Mi spaventai, misi giù la foto di scatto e feci un passo verso di lui. Si alzò immediatamente, distogliendo gli occhi e voltandosi rapidamente verso una delle porte.
-…scusami.- soffocò fuggendo da quella parte e sbattendosi il battente alle spalle.
Sospirai, girando ancora una volta gli occhi attorno: c’era qualcosa di violento nelle tele nere che spuntavano con noncuranza in quel caos, non erano dipinti veri e propri, erano macchie, sagome sbozzate, chiaroscuri su cui si infrangevano improvvise chiazze di luce rossa. E quel colore buttato senza scopo sulla scena indicava il momento in cui il pittore era stato sopraffatto dal proprio sentire: gli erano mancati i mezzi per esprimersi, ma tutto quel premere delle emozioni aveva dovuto trovare sfogo in qualche modo, ed era esploso nel sangue che sporcava di sé ogni immagine.
I quadri apparivano come il contraltare rabbioso dello squallore della casa, la trascuratezza autolesionista ed incattivita – ma silenziosa – di quell’appartamento acquistava senso mentre guardavo le tele. I dipinti erano il grido a voce alta di uno spirito che si stava lentamente spegnendo.
Mi fece male avvertirlo con tanta chiarezza. Non conoscevo nulla di Gerard, ci eravamo incontrati due volte nella nostra vita e niente ci aveva indicato la possibilità che succedesse ancora. Eppure ero venuta a cercarlo, spinta dalla voglia inconfessata di rivedere i suoi occhi di bambino, e ciò che avevo trovato era stato un adulto incastrato in un incubo.
Posai la foto dove l’avevo presa. Scavalcai la tela che Gerard aveva fatto cadere dal divano ed entrai nel cucinino che intravedevo sulla mia destra. Lì dentro lo sfacelo era meno evidente; anzi, sembrava che nessuno entrasse in quella cucina da giorni. Sul tavolo erano ammucchiati dei giornali, tutti con la stessa data e tutti con la stessa notizia in prima pagina: la settimana prima qualcuno aveva sparato al procuratore distrettuale mentre tornava da un processo; era successo nel parcheggio sotterraneo di un albergo, in un momento in cui l’intera scorta sembrava essersi volatilizzata. Tutti sapevano che il mandante dell’omicidio era Ricky – il procuratore lavorava per una famiglia rivale, che si stava facendo strada in fretta in Città – ma ormai a nessuno sarebbe interessato, il sostituto era un uomo di Ricky e, quindi, la cosa si chiudeva lì.
Raccolsi tutti i giornali e li buttai via. Aprii la finestra per far passare aria e poi, giusto per scrupolo, guardai nel frigo desolatamente vuoto. Risi, quella era una cosa con cui sapevo fare i conti.
Non dissi a Gerard dove andavo, uscendo lasciai il battente accostato e, quando tornai, lo trovai ancora così. Lui non era in giro, posai la spesa che avevo fatto sul tavolo in cucina, chiusi la finestra, mi tolsi il cappotto e tornai in salotto, avvicinandomi alla porta dietro cui era sparito ormai da quasi venti minuti. Bussai piano ed appoggiai l’orecchio, ma da dentro non arrivò nessun rumore. Così aprii ed entrai.
Come mi aspettavo, Gerard era ancora lì, seduto a terra contro il muro, di fianco al water. Non fece nulla quando mi avvicinai, non si voltò neppure per guardarmi e continuò, invece, a fissare dritto davanti a sé. Sedetti sul bordo della vasca, posando le mani sulle ginocchia e ricambiando il suo sguardo vuoto solo stando sulla sua traiettoria.
-È Michael?- chiesi riferendomi alla foto. Intuivo che il problema fosse quello, stavolta non ottenni nessuna reazione e lo reputai un segno comunque incoraggiante. – Era un bel bambino!- sorrisi.- E sembravate molto legati.
-Lo eravamo…- mormorò lui.
-Dov’è ora?
Mi guardò. Appariva calmo anche se distante, ci mise un po’ a mettermi a fuoco e decidere se rispondermi.
-Non qui.- disse alla fine.- Come hai fatto a sapere dove vivo?- mi chiese senza soluzione di continuità.
-L’ho chiesto a Dan. Ti ha visto spesso al locale con quelli di Ricky. Credevo che avessi detto che non frequenti quella gente.
-No, ho detto che pensavo di non doverlo fare.- mi ritorse lui incolore.
Annuii. Sbattei le mani sulle ginocchia a palmi aperti, ne venne fuori un suono attutito, mi guardai attorno sfregandomi le cosce sotto i jeans attillati.
-Hai bisogno di mangiare e, quindi, ora preparerò la cena!- annunciai.
Gli strappai un sorriso e mi ritenni molto soddisfatta.
-Vuoi cucinare?- mi chiese scettico e divertito.
-So farlo, cosa credi?!- ribattei io.- Saper cucinare, lavare via una macchia di sangue da una camicia o ricucire una ferita fa parte del mio lavoro.- Gerard mi guardò senza capire se fossi seria, alla fine decise di venirmi dietro quando risi leggera e questo mi rese ancora più felice. Addolcii la voce nel riprendere a parlargli.- E ti dico che con tutto l’alcool che hai buttato giù e vomitato qui dentro, mettere qualcosa nello stomaco ti farà solo bene.
Lui non mi fece domande. Evidentemente era consapevole non ci volesse molto ad intuire a cosa si fosse ridotta la sua vita negli ultimi giorni. Gli tesi una mano.
-Vieni. Renditi utile.- lo incitai brevemente.
Lui strinse le mie dita. Entrambi sapevamo che non sarei mai riuscita a tirarlo su davvero, ma lui strinse lo stesso. Poi posò l’altra mano di fianco a sé, sul pavimento, e si rimise in piedi.
***
La droga ti toglie la voglia di vivere.
Non lo dico perché è un luogo comune, lo dico perché l’ho provato sulla mia pelle. E con “voglia di vivere” non intendo semplicemente il desiderio di trascinare il proprio respiro attraverso lo spazio che separa un passo dall’altro – nel nostro caso un “buco” dall’altro. Con vita io qui indico la percezione stessa del mondo, il riuscire ad aprire gli occhi per vedere, vedere davvero, cosa ci sia intorno a noi.
La realtà alternativa che la droga offre per lo più è accomodante: un posto dove restare costa poca fatica e rende tutto più semplice. Una volta che ci si abitua la difficoltà che si trova a venirne fuori non è un effetto solo della dipendenza fisica; nel mio caso, la falsa sensazione di sicurezza che la droga mi dava mi aveva stregato. Non ero più il bambino spaventato che doveva correre all’ombra del fratello maggiore, ero Michael Way ed ero capace di guardare in faccia gli altri quando loro guardavano in faccia me.
Ma la verità era diversa ed era fatta di cecità ottusa – quella che pian piano ti avvelena, partendo dal tuo sangue per arrivare al cervello – tanto che non riesci a vedere, a pensare, a parlare e tutto attorno a te assume i contorni sfocati di un brutto sogno, fatto di fame e di sete che non trovano mai sollievo.
Uscirne non è stato facile. Ancora adesso ci sono volte in cui il peso della nostra solitudine a due - mia e di mio fratello – è tanto da far tornare la voglia di perdersi. Un altro po’…solo un altro po’. Quando ho detto “basta” l’ho fatto con la consapevolezza di dover pagare a Gerard un debito molto alto: tutta la mia intera esistenza non sarebbe valsa a ripagarlo, quindi offrirgliela per ciò che era ed impegnarmi perché l’offerta valesse qualcosa era il minimo che gli dovessi. Nonostante questo non è stato facile e so che la mia forza di volontà ha vacillato così tanto e così spesso da aver comunque bisogno del suo sostegno. Credo che anche questo abbia fatto parte del prezzo che andavo a restituire; l’impegno di mio fratello nella mia lotta personale era il modo in cui lui sfuggiva i propri ricordi. Ogni volta che lo obbligavo a restarmi di fianco la notte mentre piangevo e gridavo, impedivo ad Helena di fermarsi con lui una volta ancora: invisibile, irraggiungibile, eppure così presente da devastare la mente di mio fratello più di quanto non facessero la paura e la pena che provava per me e per se stesso.
Adesso sono passati quasi sei mesi dal giorno in cui Helena è morta, Gerard non ha più fantasmi altrui contro cui combattere e visita con regolarità i propri. Che non hanno armi e non hanno artigli, ma lo feriscono lo stesso con il proprio sorriso. Il mio sangue è pulito, vedo di nuovo e mi sembra di non averlo mai fatto con tanta lucidità e chiarezza. Davanti a me c’è il mondo intero a ricambiarmi lo sguardo, provo l’impulso di scappare ancora ma so di non poterlo fare.
Perché ora sono io a dover difendere Gerard da se stesso.
 
Allora no. Allora erano passate meno di tre settimane da quando Gerard aveva chiesto a padre Philip di prendersi cura di me. Era presto perché sentissi nuovamente l’esigenza di farmi, ma era trascorso abbastanza tempo perché smaltissi gli effetti di ritorno delle ultime dosi. La parrocchia era un posto in cui si recuperava facilmente, non c’era nulla per distrarsi se non il lavoro ed il lavoro implicava il contatto con gli altri, un’umanità pulita e disinteressata con la quale legare in fretta.
Il giorno in cui Gerard tornò a trovarmi io ero felice.
Era una sensazione che non provavo da tempo e che – anche se destinata a scomparire, ma allora non potevo saperlo – in quel momento si traduceva nella voglia di rivedere mio fratello, di ringraziarlo per avermi portato lì e dirgli che aveva fatto bene perché adesso era tutto a posto. La serenità della canonica mi faceva sembrare ogni cosa lontanissima: le minacce di morte degli uomini di Rivera, la strada, la droga…era come svegliarsi da un incubo e non accorgersi di essersi solo infilati in un sogno. Il giorno in cui Gerard venne da me, quel sogno era forte più che mai.
Vidi subito la ragazza bionda al suo fianco e mi dissi che era bellissima, così come, nel vederli parlare con padre Philip sotto il pergolato del chiostro, intuii nello sguardo di mio fratello il sentimento che lo legava a lei. Per un momento pensai che avrei dovuto esserne geloso, ma poi lei si voltò nella mia direzione e sorrise ed io non riuscii proprio ad odiarla.
-Gerard!-chiamai per far girare anche lui. Lo fece subito, accorgendosi di me appena in tempo per ricambiare goffamente l’abbraccio con cui lo investii, saltandogli letteralmente addosso.
-Mikey!- mi strinse con affetto.
-Dove diavolo sei stato?!- mi lamentai io, scrollandomelo di dosso con la stessa foga e tirandogli un pugno scherzoso, che lui incassò divertito. - Dio, sei un coglione, Gerard, ero in pensiero da morire!
Rise, scompigliandomi i capelli nonostante le mie proteste.
-Ti lascio con un prete per tre settimane e tu continui ugualmente a bestemmiare!- notò soltanto.
Non feci caso al fatto che non mi avesse risposto.
Sbuffai, infilando le dita nelle tasche dei jeans e dondolandomi svogliatamente sulle punte dei piedi mentre padre Philip confessava a mio fratello che ero un caso senza speranza. Gerard rise ancora, ed anche se stavolta notai comunque che in lui c’era qualcosa di diverso dal solito, non cercai di spiegarmi il suo viso stanco o la piega amara del suo sorriso. Preferii lasciarmi distrarre da lei – Helena – che pallida e bionda sembrava un’attrice di un film muto: era talmente vivida e brillante da risplendere nel sole del cortile, diventando come fatta di cristallo o di porcellana.
Si accorse del mio sguardo e si voltò a ricambiarlo con il suo sorriso. Mi allungò una mano piccolissima e dalle dita lunghe, mentre mio fratello e padre Philip lo notavano e studiavano la scena in silenzio. Strinsi la sua mano.
-Io sono Helena.- si presentò- Tu devi essere Michael.
-Credo che mi abbia chiamato così solo il prete che mi ha battezzato.- ridacchiai.- Sei la ragazza di Gerard?- chiesi innocentemente.
Lei scoppiò a ridere di gusto, mentre mio fratello arrossiva e padre Philip insisteva per una risposta che Gerard si affrettò a darci.
-No no.- rispose pacato, scuotendo la testa.- Helena ed io siamo solo…
Non seppe terminare. Lei continuava a sorridermi.
-Amici.- disse con leggerezza.
Sorrisi anche io.
-Peccato. Gerard se la merita proprio una donna bella come te.
-Grazie.- soffiò lei compita.
Mio fratello non sembrò felice. Solo che io lo pensavo davvero, lo penso ancora adesso: Gerard si meritava Helena, a vederli assieme, uno di fianco all’altro, l’unica cosa che si poteva pensare era che fossero stati creati apposta per stare così.
…non è strano credere che sia stato il Disegno Divino a volere la morte di Helena?
Mikey
***
La terza volta che mi presentai da Rivera, Oscar venne a prendermi a casa. Non era da solo; aprii la porta per trovarmelo davanti, enorme, armato e sorridente come ci eravamo lasciati un mese prima, ma dietro di lui vidi almeno altri due tizi, altrettanto grandi ed altrettanto pronti. Oscar allargò braccia e sorriso davanti al mio stupore muto e poi mi salutò prima di entrare senza essere stato invitato.
Rivera mi aspettava di nuovo. I due segugi che ci avevano accompagnato rimasero fuori dallo studio, quando entrammo, Oscar, invece, mi precedette, disarmò la pistola che loro mi avevano dato per poi non riprendersi più indietro e la posò sulla scrivania di fronte a Rivera. Lui non la degnò di uno sguardo, io sperai che fosse la fine dell’incubo e sostenni i suoi occhi.
-Gerard!- esordì in un saluto che stava diventando odiosamente familiare.
Così come familiare stava diventando il mio accennare rispettosamente con la testa e ricambiare con un “Ricky” che avrei più volentieri sputato che pronunciato. E già nell’ascoltarmi mentre lo dicevo mi accorsi della rabbia gelida che mi strisciava sotto pelle.
-Sei stato in gamba!- si complimentò Rivera, ignorando, o fingendo di ignorare, il mio tono.- Un lavoro rapido e pulito! Chi lo avrebbe mai detto che avremmo scoperto un talento!- rise poi scambiandosi un cenno d’intesa con Oscar.
Il bestione gli andò dietro concordando e ridendo con eguale gusto. Serrai i pugni nelle tasche avvertendo il dolore sordo ai palmi delle mani come qualcosa di confortante.
-Cosa ci faccio qui, Ricky?- mi ritrovai a domandare freddamente. Non me ne accorsi nemmeno finché non lo dissi, non riuscivo a tollerare che parlassero di me e dell’uomo che avevo ammazzato senza dare nessun valore ad entrambi. Rivera mi guardò, io mi sforzai di essere più condiscendente- Hai ottenuto quello che volevi, il mio debito è stato pagato…
-Sono io che decido quando i debiti che hai con me sono stati pagati.- scandì lento Rivera, interrompendomi.
Fu allora che iniziai ad avere paura.
-Avevi detto che se avessi ucciso quell’uomo, avresti lasciato in pace Mikey!- affermai sentendo il mio tono alzarsi bruscamente.
Lui rimase impassibile, forte della presenza, ora silenziosa ed attenta, di Oscar alle sue spalle.
-Ed infatti tuo fratello è ancora vivo. O sbaglio?- ritorse.
Mi spiazzava. Intuivo la trappola che era pronta a scattare, sapevo di starmi muovendo in un campo che era stato minato apposta per me. Ma Mikey era un motivo più che valido per andare avanti.
Mi obbligai a rilassare i muscoli, distendendo braccia e schiena in una posizione che non le forzasse dolorosamente. Mi tirai dritto inspirando a fondo ed imponendomi di svuotare la mente insieme con i polmoni.
-Sì.- assentii quietamente.- È vero.
Lui si ammorbidì allo stesso modo, accomodandosi meglio nella poltrona di pelle. Non smise di studiarmi, i suoi occhi erano continuamente incollati ai miei ed io sapevo che avrebbero intuito qualunque pensiero, qualunque esitazione.
-Quindi sai che io mantengo le mie promesse.- affermò lentamente. Non dissi nulla ma non era richiesto che lo facessi.- Bene. Visto che ci siamo dimostrati entrambi uomini di parola, direi che il nostro rapporto può continuare proficuamente sulle stesse basi.
Continuare.
Tutto ciò che volevo era fuggire da lì, infilarmi in un bar e bere fino a dimenticarmi di me stesso per potermi illudere che fosse stato solo un brutto sogno. E lui parlava di continuarlo, prolungare il tempo in cui il mio corpo e la mia mente percepivano la realtà intorno solo attraverso una claustrofobica apnea.
Mentre lo pensavo, stordito, Oscar si mosse.
Immaginai avesse obbedito ad un qualche ordine, perché Oscar non faceva mai nulla che non gli fosse ordinato quando Rivera era presente. Sparì alla mia visuale, passandomi di fianco e riapparendo poco dopo. Sul piano della scrivania, di fianco alla pistola, posò un fascicolo di carta, così ordinato da sembrare la cartellina di un contabile.
-Aprilo.- mi invitò Rivera.
Feci un passo avanti in automatico, allungando una mano verso il fascicolo ed aprendone la copertina senza realizzare davvero cosa stessi facendo. Dentro c’erano foto, confuse, di più persone, la gran parte delle quali orientale, “cinese” pensai. Di queste un uomo in particolare era presente in ogni foto. Erano prese da lontano, sulla scena c’era sempre un sacco di gente, sullo sfondo lessi più volte l’insegna di un ristorante nella China Town – un posto troppo lussuoso perché lo conoscessi, se non di fama. C’erano anche degli appunti scritti al computer e stampati, ma mi accorsi che facevo fatica a concentrarmi abbastanza da poterli leggere. Mi venne da ridere. Quella roba sembrava in tutto e per tutto un dossier di quelli che si vedono in mano ai poliziotti nei film o nelle serie televisive. Lasciai cadere la copertina per richiudere il fascicolo ed alzai lo sguardo in quello di Rivera.
-È il tizio che dovrai fare fuori.- mi informò brevemente, come se la cosa fosse priva d’importanza.
Del resto la mia vita, quella di Mikey o quella del cinese della foto dovevano avere lo stesso valore: nessuna importanza.
-…non si era mai parlato del fatto che dovessi uccidere qualcun altro.- obiettai senza forza.
Rivera si strinse nelle spalle magre.
-Lo stiamo facendo adesso.
 
Sì, è vero. Tecnicamente la seconda volta è più facile. Sai già come muoverti, sai già cosa ti troverai davanti dopo. Alle altre difficoltà – quelle organizzative – non fai troppo caso, specie se ti trovi il piano già confezionato da qualcun altro: quando avvicinare l’obiettivo, come farlo, come entrare e come uscire. Al cadavere non pensi tu…in realtà non ci pensa nessuno: che la polizia o i suoi lo trovino pure, tanto tu per loro non esisti, sei uno di quegli otto milioni e duecentosettantamila individui che abitano questa Città. Come tutti i tuoi “coinquilini” non sei nessuno, non hai motivo per interessarti alla guerra clandestina tra clan rivali e, quindi, i clan rivali non hanno motivo per interessarsi a te.
Sei un numero anche per la polizia quando, arrivando dopo una soffiata anonima, ti trova a mangiare seduto al tavolo di un ristorante che non puoi permetterti. Hai notato qualcosa, ti chiede il poliziotto inespressivo. Niente. Sentito qualcosa, insiste. No, agente, mi spiace. Ti domandi se sia il caso di fingersi colpito, magari spaventato, ma ti rendi conto che ormai hai già mancato di farlo e, comunque, la tua indifferenza apatica passa inosservata all’indifferenza annoiata di chi ti sta ponendo le domande.
Dopo esci. Con calma perché non hai più nulla da perdere, ché tutto quello che avevi adesso sta dentro un sacco diretto all’obitorio: erano la tua voglia di vivere, i tuoi principi nel farlo, l’amore che portavi a te stesso. Ora non ci sono più e, se il dolore sordo che avverti diventa intollerabile, sai come zittirlo. Ed un po’ speri, fermandoti al solito bar, che lei sia lì ad aspettarti.
Un po’ no, invece. Perché se ci fosse dovresti trovare la forza di parlarle e quella l’alcool non riesce a restituirtela.
G.
***
Gerard non mi ha mai raccontato del primo omicidio, sono stato io dopo – quando ho saputo degli altri – a ricostruire l’intero percorso della sua dannazione. Nella mente di Gerard nessuna di quelle morti – né singolarmente né valutata nel complesso degli eventi – poteva essere espiata, ma la prima era stata un prezzo valido, per quanto alto, e Gerard lo aveva pagato con la consapevolezza di stare riscattando la vita di Mikey con quella di due innocenti: sé e la propria vittima. Non penso che per lui facesse differenza sapere che la persona che aveva assassinato fosse tutto meno che innocente. Non fece differenza nemmeno le volte successive. L’unico che Gerard non assolveva dai propri peccati era se stesso.
Io fui il confessore del suo secondo sbaglio. In una notte priva di luci lo trovai rannicchiato come un feto sulle scale della canonica, la pioggia gli batteva addosso ed io lo guardavo sgomento oltre la soglia che lui non aveva avuto la forza di varcare.
-Gerard…
Lessi nelle sue lacrime, mischiate all’acqua ed alla terra, la verità delle parole che mormorava a fior di labbra e che io non riuscivo a sentire. Erano una preghiera che il suo dolore riportava a galla dall’infanzia attraverso la follia; quando mi piegai per aiutarlo ad alzarsi le sentii, pronunciate rocamente al mio orecchio e rotte da singhiozzi violenti.
-Perdonatemi, padre, perché ho molto peccato
E per quante volte quella formula insulsa fosse già stata recitata sotto il cielo, per la prima ebbi davvero la percezione di quanto fosse sterile.
 
Gerard era ubriaco quella notte. Il suo racconto non aveva senso, per metà si perse nelle pieghe del divano su cui stava raggomitolato come un bambino; l’altra metà la sputò fuori insieme con la bile che l’alcool gli aveva messo in corpo. Rifiutò qualsiasi cosa: di farsi aiutare, di farsi toccare – dopo esserci trascinati lì dentro non mi aveva più permesso di sfiorarlo – perfino di guardarmi, se non quando all’improvviso il fiato gli si spezzava, le parole gli morivano in gola e lui mi guardava ad occhi sgranati, terrorizzato. Per quanto intuissi dalle sue parole, altrettanto mi sfuggiva; non riusciva a mettere i pensieri in fila l’uno all’altro perché inevitabilmente ricordi, sensazioni e paura si mescolavano nel suo cervello annebbiato ed io facevo fatica anche a capire quanto in lui fosse frutto del whiskey e quanto dell’esperienza vissuta. Lo lasciai stare. Non provai a fargli domande perché sapevo che non avrei avuto risposte. Le estrapolai da solo, cercando tra le sue parole i concetti che non aveva il coraggio di pronunciare.
Fu così che seppi del secondo omicidio, così capii quale fosse stato il prezzo che Gerard si era impegnato a pagare per Mikey: un prezzo in sangue ed anima che – lo vedevo - lo avrebbe distrutto.
In quel momento, mentre lui parlava e piangeva ed io lo ascoltavo in un silenzio fatto del sonno e del buio attorno a noi, ebbi l’ultima occasione per salvarlo. La vidi nitidamente nell’invocazione di aiuto che Gerard formulava in quel momento, mostrandomi il suo cuore ferito a morte perché io fermassi quel sanguinare senza senso. Potevo salvarlo, tendergli la mano che lui implorava disperatamente.
Ma non lo feci.
Aspettai che i singhiozzi di Gerard si calmassero da soli, che fossero l’alcool e la stanchezza a stordirlo e sfiancarlo fino a soffocare ogni suono in un respiro pesante e mozzato. Lo guardai appoggiare la testa sul bracciolo, lentamente come fosse solo troppo pesante per continuare a tenerla su. Chiuse gli occhi ed io mi alzai per andare a prendere una coperta in camera da letto, gliela stesi addosso senza che lui reagisse se non per aprire gli occhi e seguirmi con uno sguardo appannato e confuso.
-Vuoi che chiami tuo fratello, Gerard?- gli chiesi tornando a sedermi.
Scosse la testa.
-Sto bene. Sono solo ubriaco.- mentì ad entrambi chiudendo di nuovo gli occhi.
Philip

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Capitolo 5
*** 4.Thank you for the venom ***


Gerard scomparve di nuovo. Anche se non avevo motivo per stare seduta di fronte al bancone di Dan continuando a fissare la porta nella speranza di vederlo entrare, non riuscivo ad impedirmi di farlo. Sorridevo ai clienti come sempre, lasciavo che mi pagassero da bere e chiacchieravo con loro e con Dan come al solito. A volte Ricky mi chiedeva di cambiare locale, mi mandava in qualche night o in qualche discoteca dove aveva clienti importanti; altre volte, semplicemente, passavamo insieme la serata ed io lo seguivo in giro tra ristoranti e club privati. A parte quelle occasioni, però, tutte le sere, immancabilmente, tornavo a sedermi davanti a Dan, guardando la porta ed aspettando.
Quando capii che non sarebbe bastato a rivederlo, mi presentai a casa sua.
 
Stavolta rimasi sul pianerottolo per un buon quarto d’ora, assordata dalla musica altissima che veniva da dietro la porta. Dovetti suonare ancora e ancora prima che Gerard mi aprisse: lo stereo si zittì violentemente, dei passi scoordinati raggiunsero l’ingresso e poi sentii la serratura scattare. La faccia di Gerard era così pallida e sfatta che allungai istintivamente le mani, come se mi aspettassi che mi cadesse in braccio. Lui mi fissò stupito, evidentemente in difficoltà non tanto nel riconoscermi, quanto nel mettere a fuoco il motivo della mia presenza. Non sembrava intenzionato a farmi entrare. Mi rilassai progressivamente e decisi per entrambi.
-Puzzi di alcool.- dissi ridendo.
-…immagino di sì.- borbottò lui arrossendo un po’.
-Non è un modo carino di farsi trovare da una signora.- finsi di protestare.
Lui aprì la bocca. Voleva dirmi “non ti aspettavo”, ma alla fine preferì chiuderla lì. Io non mi scoraggiai, gli posai una mano sul petto e lo spinsi dentro, mentre lui mi assecondava docilmente.
La casa era ridotta peggio di come l’avevo lasciata; in realtà, sembrava che da allora non fosse cambiato proprio nulla e si fosse solo accumulato altro sporco ed altra aria viziata.
Ed altre tele. Una per la precisione, il cui soggetto era così raccapricciante che rimasi di sasso appena la distinsi, entrando.
Gerard seguì il mio sguardo ed interpretò l’espressione scioccata con cui guardavo il quadro. Si allontanò con decisione, afferrando un lenzuolo macchiato di colore da sopra il divano e spiegandolo in un unico gesto mentre raggiungeva il dipinto, che coprì completamente.
-Scusami.- si affrettò a dirmi, abbassando lo sguardo vergognandosi.
Lo fissai. Non mi ci era voluto molto per capire che quello di Gerard con l’alcool era un problema, però non ero davvero in grado di capire quello che lui cercava di dire con quei suoi segni rossi sul nero, io non lo comprendevo affatto e di quei disegni avevo paura. Spostai anch’io lo sguardo, girandolo attorno per riconoscere i segni ben più concreti di un malessere che sapevo affrontare. Per quanto strano potesse essere, lo sporco, le cicche di sigaretta, le bottiglie vuote ed il letto disfatto erano qualcosa di rassicurante in quella situazione. Annuii a me stessa, risoluta sfilai la borsa e la giacca lasciandole lì all’ingresso ed andai incontro a Gerard. Lui se ne accorse e mi alzò in viso due occhi smarriti a cui non risposi affatto, lo afferrai per un polso e me lo tirai dietro verso il bagno.
-Quanti giorni sono che non esci da qua dentro?- lo interrogai mentre lui mi seguiva, incespicando goffamente.
-Helena…- iniziò a lamentarsi.
-Beh, non importa davvero.- mi risposi da sola, interrompendolo. Tappai la vasca, aprii l’acqua e mi voltai, afferrando l’orlo della sua maglietta e facendo per sfilargliela. Gerard si ritrasse bruscamente, arrossendo e tentando di difendersi, ed io lo fissai stupita – Guarda che non c’è nulla da imbarazzarsi, non sei di sicuro il primo maschio che vedo nudo!- ridacchiai.
-Sì! Ma tu sei la prima donna che mi spoglia!- sbottò lui.
-…oh.- fu il mio commento incredulo, al quale Gerard arrossì ancora più violentemente, rendendosi conto di quanto aveva appena detto.
-Non intendevo in quel senso!- biascicò.- Sei la prima donna che mi spoglia senza avere un interesse di quel tipo.- corresse.- A parte mia madre.- continuò e, mentre io ridevo, lui sospirò e realizzò.- E l’aver pensato a mia madre con questa consequenzialità logica ha appena ucciso ciò che restava del mio amor proprio.
Mi asciugai una lacrima solitaria all’angolo dell’occhio e ripresi fiato. Quando lo guardai, Gerard mi sembrò più rilassato e la considerai comunque una vittoria.
-Ora sai perché bere fa male.- lo rimproverai quietamente. Mi voltai, la vasca era piena ed io chiusi l’acqua.- Visto che sei così pudico,- lo presi in giro.- spogliati e lavati da solo, io sono di là.
Come mi ero aspettata frigo e dispensa erano vuoti, niente di diverso rispetto a quello che avevo già visto. Scossi la testa, afferrai un sacco per l’immondizia, la scopa, uno strofinaccio, annodai il grembiule in vita e mi armai di coraggio. Quando Gerard riemerse dal bagno, il grosso era fatto. Avevo accuratamente evitato anche solo di sfiorare il dipinto coperto, ma gli altri erano stati ordinati di fianco ad un muro, le lattine e le bottiglie erano sparite, così come le macchie di colore sul pavimento ed i mobili, e pennelli e tubetti erano ammonticchiati su un tavolino; avevo aperto le finestre, così che da fuori entrava un’aria umida e frizzante.
-Sono stata brava, eh?!- ironizzai davanti all’occhiata sorpresa che Gerard mi rivolse dalla soglia del bagno.
-Grazie.- mormorò imbarazzato, ma si rilassò quando gli risposi ridendo.- Vado a vestirmi.- annunciò attraversando il salotto.
-Così scendiamo a fare la spesa.- aggiunsi io mettendo via scope e ramazze.
Ci reincontrammo davanti alla porta d’ingresso, io stavo tirando fuori dalla borsa un vecchio libro polveroso che attirò la sua attenzione quando glielo porsi.
-Cos’è?- mi chiese curioso.
-Me lo ha dato padre Phil.- spiegai io, stringendomi nelle spalle.- Credo sia un Vangelo…
Gerard assentì, sfogliò le pagine con sguardo cupo e poi gettò il libro tra i colori, dove atterrò con un tonfo sgraziato e disinteressato.
-Chissà cosa pensa che dovrei farci…- lo sentii sussurrare caustico mentre si sfregava le mani come se volesse pulirle dall’invisibile polvere che era sul libro.-  Andiamo?- mi incitò infilando il cappotto.
Io lo imitai, misi la giacca e presi la borsa, rendendomi conto che la fretta di Gerard sembrava tutta tesa a liquidare quell’episodio; sul pianerottolo mi chiese quando avessi visto padre Philip ed io gli risposi che ero stata alla canonica il giorno prima.
-Mikey mi aveva chiesto di passare a trovarlo, qualche volta.- aggiunsi.
Non dissi che stavo cercando lui e che era stato il non trovarlo nemmeno lì a portarmi fino a casa sua.
Gerard, comunque, non mi stava ascoltando. Per quanto si sforzasse di mantenere una conversazione normale, la sua mente era altrove e lui mi aveva chiesto di padre Philip solo per ridimensionare il significato di quel libro.
-Mikey sta bene?- chiese ora allo stesso modo.
Pensai che la sua domanda fosse stata una reazione automatica al nome del fratello e, mentre ricambiavo lo sguardo vuoto nei suoi occhi, mi chiesi se Michael sarebbe stato una ragione sufficiente perché Gerard decidesse di tornare indietro. Qualunque fosse il luogo in cui era fuggito.
-Voleva sapere di te.- provai- Dovresti andare a trovarlo più spesso.
Forse lo era. Quantomeno faceva ancora male, ed il dolore era vero e concreto e questo faceva anche di Gerard qualcosa di reale e di vivo.
-Se vuoi ti accompagno.- mi ritrovai a promettergli.
***
Avrei voluto Helena accanto a me in ogni istante. Avrei voluto che fosse presente quando mi svegliavo da un incubo nel mezzo della notte, sudato e spaventato, con il cuore che premeva in  gola per uscire. Avrei voluto Helena alla sera, quando, solo in casa, sentivo il bisogno di affogare le voci nella mia testa e di cancellare le immagini sui muri e così bevevo e bevevo, finché le immagini non si trasferivano sulla tela o sui fogli ed i suoni venivano coperti dalle chitarre e dalla batteria nello stereo. Avrei voluto Helena in quei momenti in cui rimanevo in piedi dall’altro lato della strada, fissando la canonica di fronte ed immaginandomi mentre bussavo alla porta ed era Mikey ad aprirmi e salutarmi. Avrei voluto Helena, perché Helena cancellava tutti i bisogni e metteva a tacere tutte le domande.
Quando lei era con me, io respiravo, dormivo, mangiavo. Quando era con me, io vivevo e farlo non era così difficile perché ogni mancanza ed ogni dolore potevano essere messi da parte per un po’.
Avrei voluto Helena con me per vivere una vita che non sembrasse solo il fantasma di sé stessa…
La cosa migliore di tutte, però, era che Helena ci fosse davvero quando la volevo.
 
Il nostro rapporto è nato sui silenzi: sulle cose non dette dietro mille parole inutili. Io non ho mai chiesto ad Helena di tornare per assicurarsi che la casa fosse in ordine, che io mangiassi regolarmente, che il livello di alcool nel mio corpo non superasse il limite di guardia. Helena non mi ha mai chiesto il permesso di tornare per prendersi cura di me; o quello di stringere con mio fratello un’amicizia sincera fatta di affetto comune per la stessa persona. Eppure ognuno di noi due ha fatto ciò che sentiva e si è preso ciò che voleva; ed alla fine abituarsi agli altri è facile, farsi addomesticare da una presenza è fin troppo semplice. Noi due ci siamo addomesticati l’un l’altro pian piano, finché, senza accorgercene, non abbiamo imparato a riconoscere la presenza dell’altro e ad aspettarla quando mancava.
Io, in particolare, so che Helena ha rappresentato ogni volta il mio ritorno alla normalità dopo l’incubo che l’assassinio generava. Uccidere per me significava fare un passo o due oltre i confini del mondo, immergermi in una realtà alternativa di pensieri ossessivi: mi calavo dentro me stesso, mi arrotolavo e fagocitavo in una spirale in cui divoravo il mio corpo e diventavo pura mente, un mondo tentacolare di emozioni cupe e violente. Mentre quel mostro prendeva possesso dei miei spazi, vomitando all’esterno – con oli, su tela – le proprie manifestazioni nel mondo reale, Helena veniva immancabilmente a cercarmi. Erano passate una, due settimane dall’ultima volta in cui ci eravamo visti e lei bussava alla mia porta ed aspettava pazientemente che il mostro si ritirasse e ciò che restava di me la facesse entrare nella propria vita. In realtà era lei a permettermi di stazionare più o meno stabilmente nella sua. Io avevo smesso da tempo di averne una, dalla prima volta in cui avevo premuto il grilletto di una pistola per ammazzare un altro uomo. Lei mi permetteva di accomodarmi nella sua esistenza, ricavando un posto che fosse mio soltanto, ed io la ricambiavo nell’unico modo che riuscissi ad immaginare, con una devozione cieca ed un progressivo bisogno di lei. Arrivai al punto di sognare ad occhi aperti la sua presenza, quando mi chiudevo la porta alle spalle ed iniziavo il mio personale calvario di rimorso, alcool ed incubi, pensavo già al momento in cui sarebbe tornata a bussare a quella stessa porta per trascinarmi fuori da me stesso e salvarmi, una volta di più. In quelle occasioni avevamo un copione prestabilito su cui aggiungevamo solo particolari: lei entrava, si assicurava che mi lavassi, che mi vestissi, mi rimettessi in condizioni da stare in piedi da solo; poi puliva la casa, cucinava o mi portava a mangiare fuori, faceva sparire i quadri neri di cui aveva paura ed il giorno dopo era di nuovo lì, con me. Ripeteva questa sequenza fino a che non ero in grado da solo di prendermi cura di me stesso; a quel punto si rilassava, ci incontravamo direttamente fuori e passavamo assieme la giornata o andavamo da Mikey e padre Philip.
…però l’ho detto, i particolari cambiavano di volta in volta. Erano lo sguardo sempre più cupo e preoccupato che Helena mi piantava addosso quando entrava nell’appartamento; oppure il numero sempre crescente di giorni in cui si ripresentava a casa; o lo stato sempre più disastroso in cui mi trovava. Lo ammetto, facevo fatica anche a ricordarmi come si aprisse quella porta.
-Chiavi di casa.- annunciai posando il mazzo sul tavolo del fast food, ancora prima di sedermi dall’altro lato.
Helena sollevò un sopracciglio in un’espressione scettica che le dava un’aria tutta sofisticata. Mi strappò un sorriso. Sfilai il cappotto e lo arrotolai di fianco a me, osservandola con la coda dell’occhio mentre giocava con le chiavi, scostandole in punta di dita come se si aspettasse che reagissero in qualche modo.
-Che vuol dire “chiavi di casa”?- si decise a chiedermi quando mi voltai. Le lasciò lì, ritirando le mani sotto il tavolo e guardandomi.
Mi strinsi nelle spalle.
-A parte Mikey non ho nessuno, - spiegai – potrebbe esserci un’emergenza e preferisco che tu le abbia.
Era abbastanza logica come richiesta, io non avevo davvero nessuno a parte mio fratello e padre Philip e, se sul primo non si poteva proprio fare affidamento, il secondo aveva già abbastanza cose a cui pensare per aggiungermi alla propria lista di babysitteraggio. Solo che, teoricamente, Helena non era tenuta a farlo al posto di padre Philip e tutti e due eravamo consapevoli di come accettare quelle chiavi avrebbe significato molto di più di quello che dicevo.
-Gee…- iniziò lei ed io mi distrassi praticamente da subito. Era da un po’ ormai che quel nomignolo era diventato confidenziale tra noi. A casa mi chiamavano tutti così e lei e padre Phil avevano imparato da Mikey, era un po’ come essere di nuovo in famiglia.
Il silenzio di Helena mi riportò indietro, mi guardava ed io mi ritrovai senza volere a ricambiare il suo sguardo. Ci stava pensando, ci stava pensando sul serio e voleva dire che tutte quelle implicazioni che avevo cercato goffamente di nascondere erano invece lì, chiare come il sole. Per un momento provai l’impulso di mettere via le chiavi ed essere sincero con lei fino in fondo, chiederle per quale motivo tornasse ogni volta.
Ma poi Helena allungò timidamente la mano e prese il portachiavi per farlo cadere in borsa. Nessuno di noi due disse un’altra parola su quella cosa.
Non fu l’unica libertà che ci prendemmo l’uno con l’altra. In cambio delle chiavi Helena pretese che io le raccontassi di Mikey ed io scoprii che tra lei e mio fratello il rapporto era più stretto di quanto pensassi. Michael le aveva accennato il motivo della sua presenza da padre Philip e lei mi chiese di raccontarle tutto: della nostra vita di ragazzini di periferia, della mia fuga in Città, della fuga di Mikey dal mondo. Le diedi la mia versione, chiedendomi di tanto in tanto quanto mio fratello le avesse già raccontato ed in cosa le nostre storie si discostassero. Ovviamente Helena non me lo disse, lei ascoltò parola per parola come se fosse comunque la prima volta che qualcuno le parlava di quella storia. Io, però, di lei avevo capito una cosa: Helena era mutevole, lei si adattava agli altri come una coperta, avvolgeva il suo interlocutore nella propria presenza morbida ed ovattata e per farlo diventava ogni volta diversa. Non dubitavo che il silenzio attento che dedicava a me, con Mikey fosse stato invece una partecipazione entusiasta. Mio fratello, del resto, aveva bisogno di riscoprirsi vivo e l’entusiasmo sorridente di Helena si trasmetteva con facilità.
Da parte mia feci in modo che quelle chiavi fosse usate. Con una scusa o con l’altra abituai Helena ad entrare ed uscire dall’appartamento indipendentemente dalla mia presenza ed alla fine divenne per entrambi un luogo comune a cui avere libero accesso.
A quel punto fu la volta di Helena di mostrarmi casa propria, ma lo fece svogliatamente e quasi di soppiatto, un’unica volta che mascherò dietro una scusa blanda. Eravamo tutti e due consapevoli che quel posto era tabù per un’amicizia come la nostra, in fondo non è che non capissimo di essere due clandestini.
Eppure continuavamo a mentirci: io mantenevo le distanze che lei mi aveva imposto all’inizio e lei mi sorrideva ed accudiva con una gentilezza di cui fingevamo di non capire la natura.
Io avrei voluto averla con me per sempre.
G.
***
Faccio il mio lavoro da quasi trent’anni ormai. E lo so che sembra una frase fatta da poliziotto di film hollywoodiano, ma è così.
E posso dire con sicurezza anche che dopo trent’anni si comincia a capire la testa della gente. Credetemi quando vi dico che in quella storia due note stonate erano così evidenti che mi stupivo che non se ne accorgesse anche un cieco.
La prima era il fatto che ci trovassimo in una guerra di mafia. La famiglia Rivera controllava la Città da quasi dieci anni ed aveva eliminato con sistematicità tutti coloro che potevano opporlesi; era chiaro che l’improvviso moltiplicarsi di omicidi tra le “personalità” di una nuova famiglia rivale non poteva che essere ricondotto ai Rivera. Loro erano stati furbi, glielo riconosco, perché avevano fatto in modo da nascondere la cosa dietro un’ondata generalizzata di violenza diffusa: gli omicidi di cui dovevamo occuparci al Dipartimento erano talmente tanti da aver cominciato a chiamarli solo con numeri progressivi e ad affidare, ad ognuno di noi, gruppi di dieci “casi” accomunati da particolari insignificanti.
Fu per questo che mi accorsi della seconda nota stonata. Ad interpretarla ci pensarono i miei trent’anni di carriera, ma a notarla furono il fiuto e l’istinto. Quante probabilità ci sono che in una Città come questa la stessa persona sia testimone di ben due omicidi ricollegabili allo stesso mandante?
-Stoner.- Il ragazzetto seduto dietro la scrivania mi alzò in viso due occhi interrogativi. Gli risposi lasciando cadere sul suo tavolo un mucchio disordinato di carte e fascicoli.- Leggi un po’ qui e dimmi cosa ci trovi di strano.- lo incitai.
Ovviamente gliel’avevo fatta facile, le cose che volevo che notasse erano in bella mostra ed a lui bastò sfogliare le carte davanti a me per sollevare di nuovo la testa. Stessa espressione interrogativa ma domanda diversa. Annuii con un cenno d’intesa, quel ragazzo mi piaceva e me lo stavo allevando proprio per questo.
-Cercami tutto quello che trovi su questo Gerard Way.- ordinai.- E poi ne parliamo, carte alla mano.
Quello che i miei trent’anni di esperienza mi dicevano era che nemmeno un dilettante, per quanto inesperto, fa errori così grossolani. E se li fa c’è un solo motivo, lui vuole essere trovato.
 
Usher Stoner aveva ventitre anni quando insieme cominciammo ad indagare sugli omicidi del procuratore Thomson, di Cho Yun Lee e di Frank Testa. Apparentemente i tre casi non avevano nessun legame, ma nella realtà dei fatti tutti sapevamo che le vittime erano ugualmente legate alla famiglia dei Ventimiglia. E tutti sapevamo che quello era il movente.
Solo che Rivera ed i suoi erano puliti. Talmente puliti che perfino gli Italiani avevano evitato ritorsioni senza nessun elemento per le mani.
Io ed Usher fummo gli unici ad accorgerci di quell’elemento. Ed io non pensai che fossimo stati più bravi o più furbi degli altri, perché, come ho detto, le due note stonate di quella storia erano troppo evidenti perché a qualcuno sfuggissero davvero. Quindi, tutto ciò che distingueva me ed Usher dal resto dei nostri colleghi era che noi volessimo vederle quelle note stonate.
Gerard Way aveva trent’anni quando cominciammo ad indagare su di lui. Ne avrebbe fatti trentuno la settimana dopo il nostro primo incontro. Stoner mi accompagnò, ovviamente, e ci trovammo assieme davanti a questo ragazzo bruno, dal volto di ragazzino mai cresciuto, ed io so che il primo pensiero di Stoner fu “non può essere lui”. Il mio primo pensiero fu esattamente l’opposto.
-Il Sig. Way?- domandai per pura formalità.
-Cosa volete?- ritorse lui in un assenso implicito.
Mostrai il distintivo: “Percival Bishop, ispettore capo”.
-Solo farle alcune domande, se non le spiace.- frase di rito, tono preimpostato.
Lui si scostò dalla soglia per farci entrare. Sapevamo già che per guadagnarsi da vivere disegnava, nell’occhiata circolare con cui abbracciammo il salone sia io che Usher prendemmo nota distratta dei dipinti incomprensibili addossati al muro, della tela più grande coperta da un lenzuolo e del tavolo da lavoro vicino alla finestra. Lasciai che fosse Usher ad approfondire il sopralluogo, Way non tentò neppure di impedirglielo.
-È per gli omicidi di Cho Yun Lee e Frank Testa. – spiegai mentre ci studiavamo, in piedi al centro della stanza. – Lei è stato testimone di entrambi…
-Ho già detto tutto quello che sapevo ai suoi colleghi.
Stavolta frase e tono da manuale toccarono a lui, ma entrambi sapevamo esattamente quale fosse lo scopo di quell’incontro.
-E non trova strano il fatto di essersi trovato per ben due volte nel posto sbagliato al momento sbagliato?- ironizzai.
Mi rispose con un sorrisetto storto e cattivo, i suoi occhi brillavano di una luce malata.
-Non crederà che io porti sfortuna, Ispettore?!- mi tenne il gioco a mezza voce.
E quei trent’anni di carriera arrivarono tutti assieme a farsi sentire con prepotenza: se Gerard Way si fosse attaccato al collo un cartello con su scritto “sono io, mi arresti” lo avrebbe detto meno esplicitamente.
I suoi occhi brillavano, la luce malata che li illuminava era veleno e disperazione. Scossi la testa, sbuffando il mio di sorriso. Amaro.
-No.- risposi.- Alla sfortuna decisamente non credo, Sig. Way.
Perry Bishop
***
Bang. Bang. Bang.
Diventi piuttosto bravo con un po’ di esercizio. Mi cerchi, Ispettore? Ma non è difficile trovarmi! Lascio più sassolini di Pollicino sulla mia strada di sangue. Il rosso si segue bene, sia sul nero che sul bianco, sono un film a colori in una Città bidimensionale. Cosa ti ci vuole per prendermi? Forse non t’impegni abbastanza, forse non lo faccio io!
…sai che comincia a piacermi. Il sangue ha un odore inebriante e se poi lo mescoli al whiskey…! Va via e si confonde. Si confonde tutto…Magari l’ho solo sognato e Mikey no, non si è mai fatto. Rivera non esiste, Helena non esiste, il morto non esiste…
Lui davvero. Nemmeno ricordo che faccia abbia. Credo sia perché ho bevuto troppo, però. Dovresti muoverti, Ispettore, non ho davvero idea di quanti ne voglia morti il nostro Rircky. Magari ci sta prendendo gusto anche lui. E la parola di Dio di padre Philip? A che mi serve pregare per i miei peccati se domani ne commetterò un altro? E se Dio non può fermarmi, Ispettore, allora che sia bravo! ci pensi lei. Io aspetto.
…e magari è davvero un sogno. In fondo ho bevuto troppo. Lo diceva anche mamma che ho la tendenza ad esagerare; avrei dovuto darle ascolto.
È un sogno, Ispettore? Rivera è un sogno? Ed Helena?
…dov’è Helena?
 
-…Helena
Mani fresche sul viso bollente. Le ricordo ancora. La sensazione di gelo contro la pelle, inebriante e stordente come l’alcool che mi circolava in vena. E poi il suo respiro, caldo e soffuso contro il volto e la bocca. Mi sentivo la lingua impastata; avevo vomitato fino a perdere i sensi, il dolore alla faccia mi diceva che ero caduto a terra ed avevo sbattuto contro qualcosa…
-Sei tutto sporco, Gerard.- mi rimproverava lei quietamente.
Mi misi dritto quando mi fece capire che era quello che voleva facessi. Seduto contro il muro la guardai alzarsi e raggiungere il lavandino; bagnò l’asciugamano per pulirmi la bocca, gli occhi ed il naso ed io la lasciai fare. Lasciarmi maneggiare da lei era rassicurante, ma non era solo questo: non riuscivo a pensare lucidamente se c’era lei, mi era più facile…quasi naturale, ubbidirle ciecamente, seguirla e fare tutto ciò che mi chiedeva. Purché restasse. Purché mi stesse vicino. Purché non mi lasciasse.
-Gee!- la sentii esclamare sommessamente. Mi teneva il viso con entrambe le mani, guardandomi con un’espressione rassegnata e preoccupata. Passò nuovamente l’asciugamano sotto i miei occhi, cancellando dalle guance il segno di lacrime che non mi ero accorto di stare versando.- È tutto a posto.- mi disse piano, accarezzandomi il viso con le dita e poi con i palmi.- Va tutto bene, Gerard. Ora sei qui, sei al sicuro, io sono con te.- ripeteva come un mantra.
Chiusi gli occhi cullandomi in quelle parole. Helena continuò a ripeterle finché non smisi di piangere; continuò ad accarezzarmi finché non mi calmai e poi mi aiutò a cambiarmi e mi fece stendere a letto. E rimase con me finché mi addormentai.
G.
***
Quando capitava che il mio corpo ed io ci staccassimo ed io volassi via, di solito non riconoscevo né il luogo né le persone o gli eventi a cui assistevo. Ero la spettatrice muta ed invisibile di un mondo altrui, distante, che si svolgeva davanti a me senza toccarmi mai. Io non esistevo: smettevo di farlo nel momento in cui venivo strappata all’involucro di carne che la gente chiamava Helena; diventavo niente e come niente camminavo verso la mia meta sconosciuta. Tornavo ad essere solo con il mio respiro: quando ricominciavo ad avvertire il peso dell’aria nei polmoni sapevo di esserci di nuovo e ne prendevo atto.
Era sempre stato così. Sempre fino all’arrivo di Gerard. Nei mesi che passammo assieme lo vidi cambiare, quel ragazzino fragile che mi aveva guardata la prima volta, sulla scala, stava lentamente andando in pezzi davanti ai miei occhi. La luce folle nello sguardo di Gerard era diventata un’ossessione tra noi, mi impediva di ricambiare il suo sguardo, mi spaventava…no…mi atterriva. E non perché avessi paura di lui, erano il male metodico e l’odio fanatico che Gerard rivolgeva a sé stesso a terrorizzarmi. In pezzi. Come un vaso di vetro o uno dei suoi quadri: pezzi di colore, pezzi di vita, pezzi di pensieri contorti, di emozioni violente. Avrei voluto prendere le mani di Gerard tra le mie, stringerle forte ed impedirgli di usarle, di dipingere ancora, di farsi ancora del male.
Non sapevo se fossero stati questi miei pensieri a cambiare la mia capacità. All’improvviso il luogo in cui arrivavo era sempre lo stesso appartamento buio; la persona di cui spiavo la vita era sempre lo stesso ragazzo e la scena che vivevo sempre la stessa.
Una bottiglia, un divano, una tela; l’odore di alcool e la puzza di vomito e sudore. Un nome sussurrato a labbra socchiuse.
Un nome come una preghiera.
Un nome a cui rispondevo sempre.
-…Helena
 
Ricky mi guardava distrattamente; stava sdraiato sul letto, seguendo svogliato il baseball alla TV mentre io mi vestivo dall’altro lato della stanza, sorridendogli quando i nostri sguardi si incrociavano.
-Esci?- mi chiese alla fine, vedendomi preparare la borsa.
Annuii, infilai le chiavi di casa di Gerard nella tasca del cappotto e mi voltai.
-Oggi è il compleanno di un mio amico.- spiegai.
-Way?- chiese ancora Ricky.
Sbuffai stupita.
-Come lo sai?
-È anche mio amico.- sorrise lui riprendendo a guardare la partita.- Oscar mi ha detto che passi con lui un sacco di tempo…- disse incolore.
-…mi fai controllare da Oscar?
-Non te.- rispose soltanto.
Sollevò il telecomando cambiando canale: una giornalista chiedeva ad un ispettore della polizia se ci fossero progressi nell’ambito dell’inchiesta sulla morte di Alex Ventimiglia.
Io posai nuovamente la borsa a terra.
-Ricky…- iniziai a mezza voce. Non mi guardò ma mi fece segno di continuare; io presi fiato.- Cosa…cosa fa esattamente per te Gerard?
La giornalista si spense bruscamente proprio mentre incalzava l’ispettore Percival Bishop a dire di più. Ricky mi guardò.
-Helena.- mi richiamò lento e pacato. Lo avevo visto arrabbiato molto di rado e, solitamente, non perdeva quel suo modo controllato di scandire i concetti.- Tu sei una ragazza molto intelligente, caratteristica di te che apprezzo…
-Grazie, Ricky.- mormorai a disagio, conscia che il suo era un rimprovero e nient’altro.
Ed infatti continuò come se non avessi detto nulla.
-…proprio per questo mi aspetto che ti comporti con intelligenza. E sai- disse fissandomi negli occhi.- che interessarsi al mio lavoro è molto, molto stupido.
-…hai ragione Ricky.- sussurrai ancora, forzando un sorriso.
Lui sospirò, sollevandosi dal letto con gesti pesanti. Sfilò la giacca che aveva appeso alla poltroncina davanti la toilette e la indossò, sistemandosi la camicia nel riflesso allo specchio. Io rimasi ferma, aspettando che lui mi desse il permesso di ricominciare a parlare. Mi venne vicino, alzandomi il viso con due dita e baciandomi delicatamente gli angoli della bocca.
-Saluta Way e fagli gli auguri da parte mia.- mi disse.
-Certo, Ricky.- annuii io.- Ci vediamo domani?
Lui rispose con un cenno mentre usciva ed accennò anche un saluto con la mano. Io recepii il messaggio e me lo impressi bene a fondo nella mente: ti do il permesso di vederlo, ma sgarra solo mezza volta e tu e lui siete morti. Non avevo alcun problema a credergli.
Sospirai anch’io, più che altro avevo bisogno di ricominciare a respirare normalmente e rimasi qualche minuto ferma dov’ero, guardandomi attorno e cercando di svuotare la mente fino a riconoscere ciò che mi circondava. Alla fine afferrai la borsa di scatto, presi le chiavi da casa mia dall’ingresso ed uscii in strada quasi di corsa.
Avevo appuntamento con Mikey vicino la Chiesa, passai prima dal pasticciere a ritirare la torta che avevo ordinato, poi lo raggiunsi e lo salutai con il braccio riconoscendolo da lontano. Mikey mi venne incontro a metà strada.
-Ciao!- esclamò girando curioso attorno alla scatola rosa che reggevo tra le mani. Risposi ridendo al suo saluto.- Vuoi che la porti io?
-Solo se mi giuri che arriverà fino a casa!- lo presi in giro.
-Dipende. È al caffè?
-Se te lo dico, a casa non arriva sicuro!- ghignai ben consapevole dell’insana passione per il caffè che accomunava i fratelli Way. La scatola gliela lasciai comunque, avviandomi di fianco a lui verso il palazzo dove viveva Gerard.
L’idea della “festa” di compleanno risaliva alla settimana prima. Il mio dono si era manifestato di nuovo, portandomi da lui quando mi aveva chiamata. Ed io ero andata, correndo a casa sua nell’attimo stesso in cui ero tornata padrona dei miei muscoli e del mio corpo; avevo corso fin lì per trovarlo sdraiato sul pavimento del bagno, quasi incosciente, incapace anche di riconoscermi. Mentre lo guardavo dalla soglia mi sono detta che non “sarebbe stato per sempre”. La sensazione di perdita era così forte e concreta da spaventarmi. Era stato per questo che, più tardi, sola in cucina mentre Gerard dormiva, avevo guardato il calendario ed avevo notato il giorno cerchiato di nero e quella scritta – Happy Birthday – tracciata come uno scherzo di cattivo gusto, con un sarcasmo così vero da bucare la carta. Io avevo pensato che no, non ero disposta a far fuggire via la vita così.
Gerard ci aprì la porta, io gli gettai le braccia al collo e gli gridai “happy birthday” con quella stessa voglia di vivere che lui sembrava rifiutare.
Dovevo ammettere che il suo viso stupito ed il suo sorriso impacciato furono per me un premio più che sufficiente.
Almeno fino all’arrivo di Oscar.
Gerard stava finendo di aprire il regalo che Mikey gli aveva comprato quando la porta suonò. Fu proprio suo fratello ad alzarsi velocemente, ammonendo Gerard di non fare nulla finché non fosse tornato.
-Sarà padre Philip!- suggerì lasciandoci in cucina.
Gerard sorrise entusiasta ed io ricambiai il suo sorriso, perché non gli vedevo quell’espressione felice sul viso da troppo tempo. Ma poi Mikey tornò, e dietro di lui entrò Oscar con l’aria soddisfatta ed un ghigno sulla faccia larga e cattiva. Vidi Gerard sbiancare; Mikey era già ammutolito, scuro e silenzioso si sedette al proprio posto in modo meccanico, rigido.
-…cosa…?- biascicò Gerard sollevandosi in piedi.
Mi accorsi della paura nei suoi occhi mentre girava rapidamente lo sguardo da Oscar al fratello e poi di nuovo su Oscar.
-Gerard!- esclamò quest’ultimo amichevole. Si voltò a salutare me con un cenno educato.- Helena, che piacere vederti.- mentì sghignazzando.
-Ciao, Oscar.- ricambiai altrettanto falsa.
-Beh?!- riprese lui rivolto a Gerard.- Fai una festa e non inviti gli amici?- lo rimproverò con una risata sguaiata. Gerard non fiatò, era pallido, spaventato e teso, continuava a guardare Oscar come se si aspettasse di trovarselo addosso da un momento all’altro.- Ah, pazienza!- sbottò lui invece, battendogli una pacca affettuosa sulla spalla. Dal taschino della giacca tirò fuori una busta bianca che lanciò sul tavolo con noncuranza, direttamente davanti a Gerard, lui non la toccò.- Ricky ti manda i suoi auguri.- spiegò Oscar accennando alla busta.- E dice che vuole vederti. Domani sera.- aggiunse.
Gerard continuava a non parlare e a non muoversi; Mikey non alzava gli occhi dal tavolo. Oscar guardò prima un fratello e poi l’altro, ghignando ancora; salutò Mikey con la stessa pacca sulla spalla che aveva rivolto all’altro, poi mi fece di nuovo cenno ed io risposi chinando la testa. Con Gerard non si dissero altro. Appena sentì la porta d’ingresso chiudersi, Gee afferrò la busta,diede un’occhiata al contenuto e poi strappò tutto e lo buttò via.
-Cosa c’era lì dentro?- mi azzardai a chiedere mentre, più tardi, sparecchiavamo la tavola in un clima pesante e nervoso.
Mikey era in salotto, la televisione era accesa ma, quando ero passata di là poco prima, mi ero accorta che lui non la stava davvero guardando. Con suo fratello non si erano detti una parola.
-Soldi.- mi rispose lui adesso.
Lo guardai. Lui non si voltò neppure.
 

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Capitolo 6
*** 5.Thank you for the venom ***


Oscar mi aveva avvisato: stai attento, si sono fatti furbi; pur di mettercela a quel posto fanno comunella con quegli stronzi degli sbirri.
“Quindi ci saranno gli sbirri” avevo recepito quietamente. La sicura della pistola era scattata, il colpo in canna, Oscar aveva risposto qualcosa che equivaleva ad un “sì” ma io non lo stavo già più ascoltando.
Sì, ero stato avvisato. Per cui non ero particolarmente sorpreso di ritrovarmi un bel buco in pancia ed un po’ di piombo da smaltire. Di tutti i posti in cui potevo andare a crepare, comunque, il mio cervello scelse inevitabilmente il peggiore, ed invece di strisciare fino alla porta di padre Philip per l’estrema unzione, mi ritrovai a macchiare di sangue il muro di Helena, appendendomi al campanello di casa sua con la disperazione e l’incoscienza di un moribondo. Mentre cadevo lentamente a terra, osservavo la striscia rossa che le mie dita avevano disegnato attorno al nome: Helena era solo Helena anche sul campanello di ottone. Mi aprì in camicia da notte. Era bellissima, bianca ed irreale proprio come devono essere i sogni.
 
Fu il dolore al fianco a farmi rinvenire. Soffocai un urlo che mi strozzò la gola e tossii, mentre il sudore e la febbre tornavano prepotentemente stordendomi i sensi. Helena mi posò delicatamente una mano sulla fronte, spingendo per obbligarmi a stendermi di nuovo ed io affondai nel suo profumo e nella morbidezza delle lenzuola di seta del suo letto.
-…Helena?- la chiamai vedendola impegnata sul mio corpo.
Il dolore tornò a bruciarmi la carne, mi morsi le labbra per non gridare e lei sollevò gli occhi, rivolgendomi un sorriso stanco che non cancellava la preoccupazione dal suo viso.
-Sei stato fortunato,- la sentii dire- la pallottola è entrata ed è uscita senza toccare niente…
-Davvero?- domandai sarcastico.- Sai che non mi ero accorto che fosse anche uscita!- scherzai strappandole una risata smorzata.- Allora…dicevi sul serio quanto al saper ricucire la gente.
Non mi rispose. La vidi posare la pezza con cui aveva pulito la ferita dentro una bacinella già rossa di sangue; accanto a sé, sul comodino, teneva aperta una cassetta del pronto soccorso da cui tirò fuori ago e filo.
-Gerard, - mi avvisò- questo farà un po’ male.
Annuii, deciso a non farle pesare quella cosa più di quanto già non avessi fatto. Serrai le labbra e voltai la testa dall’altro lato, finché alla fine il dolore e la febbre presero il sopravvento ed io svenni di nuovo. Ripresi conoscenza quasi subito, credo, perché Helena stava finendo di bendare la ferita ed io avvertivo il tocco delicato delle sue dita sul fianco e sul costato. Mi voltai lentamente, lo stordimento si faceva più forte man mano che il dolore diventava sordo, affievolendosi, ma costante, come un sottofondo pieno premuto addosso. Respiravo male e faticavo a mettere a fuoco i contorni della stanza; l’unica cosa intorno a me che risaltava su uno sfondo nero ed uniforme era Helena, il suo viso tirato e la piega affaticata della sue labbra. Non avevo mai visto il viso di Helena senza il suo sorriso radioso ad illuminarlo. Allungai una mano, sfiorandole la bocca nel tentativo infantile di piegarne gli angoli all’insù; lei mi guardò.
-Mi spiace…- mormorai a quello sguardo che mi studiava apprensivo.
Helena respirò a fondo, tornando a concentrarsi sul proprio lavoro.
-Non pensarci.- mi ammonì, ma senza forza.- Dormi.
-Ti ho messo nei guai, vero?- insistetti io. Non riuscivo a togliere la mano dalla sua guancia, era fresca e morbida…- Non sarei dovuto venire…
-Gerard!- rimproverò con un suono aspro e gutturale. Fu la sua volta di poggiarmi le dita contro la bocca, lo fece per intimarmi il silenzio che non volevo rispettare.- Ci penseremo domattina.- si sforzò di essere più dolce.- Ora devi riposare.
Sospirò, mettendosi dritta e tirando in grembo le braccia come pesassero. La ferita mandava fitte intermittenti, quasi pulsasse di vita propria e respirasse. Helena si guardò attorno ed, imitandola, lo feci anche io, cercando di riconoscere le forme dei mobili. Quando lei tornò a muoversi, io la seguii con lo sguardo pregando silenziosamente che non mi lasciasse.
Helena mi sentì… girò attorno al letto ed il suo peso piegò l’altro lato del materasso, al mio fianco. Voltai la testa sul cuscino finché i nostri visi furono uno di fronte all’altro: aveva già chiuso gli occhi ed il suo respiro regolare mi accarezzava la fronte ed il naso.
Mentre la guardavo dormire, pensavo che no…non volevo davvero morire.
G.
***
Non ero una sciocca. Avevo imparato da tempo l’unica regola fondamentale in Città: non ficcare il naso negli affari degli altri se non sei costretta a farlo. Una regola che, nei fatti, avevo infranto la stessa sera in cui ero andata a casa sua per la prima volta. Gerard era uno degli uomini di Ricky. Io ero la donna di Ricky. L’unica relazione possibile tra noi era quella che ci aveva fatti conoscere: un incontro casuale sulle scale di casa di chi tirava i fili delle nostre vite.
Ed invece no. io non mi ero accontentata; non mi ero accontentata nemmeno dell’unica sera al bar di Dan, quando mi ero offerta, più o meno consapevolmente, per ascoltare le parole di Gerard. Non sapevo niente di lui allora, ed, in realtà, nemmeno a distanza di quei mesi in cui eravamo diventati amici - … ma stavo mentendo a me stessa chiamandoci “amici” – ero riuscita a capire chi fosse e cosa nascondesse.
Trovarlo quasi morto davanti la porta di casa, per assurdo, era il più grosso indizio che Gerard mi avesse mai dato fino a quel momento. Ne sapevo abbastanza, a quel punto, per capire quanto grande potesse essere il guaio in cui mi ero cacciata. Il fatto che questo non fosse stato sufficiente a lasciare chiusa la porta ed a chiamare un’ambulanza perché se lo portasse via e fosse qualcun altro ad occuparsi di lui, mi dava il senso di quanto stavo mentendo a me stessa nel chiamarci “amici”.
Non avevo voluto dare un nome ai miei sospetti neanche allora: avevo raccolto Gerard fuori la porta e lo avevo curato senza farmi domande che andassero oltre l’evidenza dei fatti. Questo me lo aveva insegnato Ricky. Tolsi la pistola dalle dita intorpidite di Gerard, la chiusi in un cassetto in camera da letto, medicai le sue ferite e mi assicurai che dormisse e riprendesse le forze. Non dovevo farepensare altro.
 
Almeno fino al mattino dopo.
Il campanello suonò di seguito un paio di volte nell’arco di tempo, breve, che ci misi a lasciare la cucina e raggiungere la porta. Chiusi la vestaglia stringendo in vita la cinta e feci scattare la serratura, lasciando il chiavistello e socchiudendo il battente per vedere i due uomini fuori la porta. Il più anziano mi rivolse un “buongiorno” educato e mostrò il distintivo, quello più giovane portò le dita al cappello quando aprii la porta per farli entrare.
-Sono l’ispettore Percival Bishop, signorina.- si presentò il primo.- Lui è il mio collega Usher Stoner.- indicò poi il ragazzo.
Mi misi tra loro ed il corridoio che portava alla camera da letto. L’ispettore Bishop interpretò quel gesto ma non parlò, vide la porta della cucina e puntò da quella parte.
-Ha qualche minuto di tempo per noi, signorina?- mi domandò mentre si muoveva, seguito dall’altro.
Se pure non lo avessi avuto avrei dovuto trovarlo, quindi andai loro dietro chiudendo la fila.
-Certo, ispettore.- mentii cordialmente.- Caffè?- offrii, avvicinandomi al bricco sul ripiano della cucina.
Non riuscivo davvero ad essere gentile come avrei voluto. Ero fredda, distaccata e per certi versi scostante, lo ero perché il mio unico pensiero era per Gerard, steso sul mio letto e pallido come un fantasma per tutto il sangue che aveva perso la notte prima. Servendo il caffè sul tavolo, mi complimentai con me stessa per la prontezza con cui mi ero alzata all’alba per pulire il pianerottolo ed il muro fuori la porta.
-Grazie.- mi sorrise l’ispettore Bishop.
Ricambiai incolore e mi sedetti nella sedia libera all’altro capo del tavolo.
-Signorina Helena,- esordì l’ispettore in tono professionale. La nota amichevole, complice che gli dava era il suo tocco personale, quello con cui recitava la parte del poliziotto buono. Ma io ero una puttana, i poliziotti, buoni o cattivi, li conoscevo.- si tratta di questo. Abbiamo motivo di credere che stanotte un individuo sospettato di omicidio si sia introdotto in casa sua…o abbia cercato di farlo – corresse.- per sfuggire alla cattura dopo uno scontro a fuoco con i miei uomini.
Aspettai che finisse bevendo il mio caffè, poi alzai un sopracciglio con aria scettica.
-Davvero?- domandai posando la tazza sul piano.- E di chi stiamo parlando?
Sospirò, sfilando da dentro l’impermeabile beige da sbirro fuori moda un plico di fogli piegati frettolosamente. Li aprì davanti a me e tra un mucchio di foto di “scene del delitto” ne riconobbi una sola: il portone del palazzo dove Gerard viveva e lui, Gerard, che usciva quasi di corsa, occhiali scuri ed aria cattiva.
Bishop dispose una ad una le foto, in una rosa di sangue e cadaveri al cui centro mise Gerard, battendoci su con un dito.
-Lei conosce quest’uomo, signorina?
Loro sapevano che lo conoscevo.
-Sì.- risposi senza esitare.
-Il Sig. Way- mi spiegò l’ispettore studiando con attenzione le mie reazioni- è sospettato dell’omicidio di cinque persone, l’ultima delle quali è stata ammazzata stanotte, sotto gli occhi dei miei agenti.
-Che hanno problemi di vista, a quanto pare.- commentai incolore.
Bishop trasalì leggermente, io continuai a guardarlo dritto negli occhi senza fare una piega.
-…prego?- borbottò lui rudemente.
-Devono averli se dicono di aver visto Gerard sparare a qualcuno stanotte.- Prima che mi interrompesse lo precedetti, dandogli ciò che cercava.- Ispettore, Gerard non può avere ammazzato nessuno stanotte: ieri sera abbiamo cenato assieme qui da me e lui…ha passato la notte con me.- dissi in modo che il concetto fosse ben chiaro- Quindi, di sicuro non può aver commesso l’omicidio di cui lo accusa,- proseguii con la stessa calma e sicurezza. Raccolsi dal piano la foto di Gerard soppesandola tra le dita, quanto poteva essere pesante la sua anima?- ed io, a questo punto, mi porrei dei dubbi anche sugli altri quattro.- conclusi aspra, rigettandogli di malagrazia la foto davanti. Quando sollevai di nuovo il viso su di lui, sorridevo.- C’è altro?- mi informai tranquillamente.
-No, chiaramente.- rispose l’ispettore.
-In questo caso, vi accompagnerei alla porta. E prima che lei me lo chieda, no, non la farò parlare con Gerard. Sta dormendo ed io non intendo svegliarlo.
Bishop annuì ed io gli ricambiai il gesto: ognuno di noi rimaneva sulle proprie posizioni.
-Mi procurerò un mandato, signorina, e lei rischia di essere accusata di complicità in omicidio.- mi avvisò cortesemente mentre si alzava.
-Bene. Allora la aspetto.- risposi io allo stesso modo, accompagnandoli alla porta.
Tornai in camera da letto quasi di corsa. Gerard era in piedi, sentì i miei passi nel corridoio e si voltò nel momento in cui mi fermai sulla soglia, spostando lo sguardo da lui – era pallido e si reggeva in piedi a stento, appoggiato con il fianco contro la cassettiera – alla pistola che teneva in mano, tra l’indice ed il pollice, quasi in bilico, come fosse qualcosa che lo disgustasse dover toccare. Respirai e presi atto del fatto che si fosse rivestito ed infilato le scarpe. Lui sospirò, togliendo uno sguardo colpevole  dalla mia faccia.
-Devo andare, Helena.- mormorò cupamente fissando con insistenza il pavimento.- Anzi, non dovrei proprio essere qui…
-Dov’è che vorresti andare?- sbottai, muovendomi all’interno della camera.- Ti reggi in piedi per miracolo, Gerard.- gli rinfacciai asciutta.
Lui si spostò. Forse pensava di smentirmi ostentando una certa sicurezza, finì solo per metterci troppa foga, inciampando su se stesso e quasi cadendo nel tempo che mi servì per raggiungerlo e sostituirmi al mobile, offrendogli il mio sostegno. Gerard represse un lamento, soffocandolo in un suono strozzato, chiuse forte gli occhi e quasi si appese alla mia spalla, senza pensare che non sarei riuscita a reggerlo nemmeno volendo. Ma non mi lasciai atterrare.
-Visto?- sbuffai con un sorriso che cercò di essere tenero.
Lui si voltò a guardarmi, riaprendomi in faccia due occhi sofferenti e spaventati.
-Ti sto mettendo in pericolo, Helena!- esclamò disperatamente, e per un momento provai l’impulso di abbracciarlo e cullarlo come avevo fatto per mesi.- Non volevo che tu fossi coinvolta in questa storia!- continuò lui sciogliendosi dalla mia stretta ed allontanandomi di forza. Incespicò, cadde all’indietro a sedere sul letto prima che potessi afferrarlo di nuovo. A quel punto rimasi ferma, guardandolo mentre girava attorno lo sguardo come se non capisse dove si trovasse.- La polizia mi cerca e sa che sono qui,- iniziò in tono basso ed affrettato.- anche Ricky saprà che sono qui. Tu sei in pericolo e la colpa è solo mia, non sarei dovuto venire! Non sarei mai dovuto venire da te! Non volevo coinvolgerti in questa storia!
Fu più forte di me. Lui le ultime parole le aveva ripetute quasi gridando, fissando non me ma un punto alle mie spalle. Io avevo pensato che era molto ingiusto da parte sua parlarmi a quel modo e che, vista tutta la situazione, non ne aveva proprio il diritto. Un attimo dopo gli avevo dato uno schiaffo. Gerard mi guardò spalancando gli occhi e schiudendo la bocca. Come i bambini non era arrabbiato per essere stato punito senza motivo, solo sorpreso che fosse successo così, senza neppure un rimprovero.
Io, invece, ero furiosa.
-Sei un ipocrita ed un bugiardo.- sibilai cattiva.- Come pensi di poter dire che non volevi coinvolgermi in questa storia?!- gridai- Se non avessi voluto coinvolgermi non mi avresti presentato tuo fratello!- iniziai ad elencare spietata.- Se non avessi voluto coinvolgermi non mi avresti dato le chiavi del tuo dannato appartamento! Se non avessi voluto coinvolgermi non avresti accettato il mio aiuto, non mi avresti aperto la porta ogni volta che tornavo da te, non saresti venuto a…crepare! sul mio pianerottolo! Quindi no, non ti credo quando dici che non volevi coinvolgermi, perché invece hai fatto di tutto perché ci cascassi dentro fino a non poterne più uscire!
Mi fermai. Perché mi mancava il fiato, perché Gerard non mi rispondeva e mi guardava ferito, perché la rabbia che provavo non era contro di lui. Era stato un gioco in due, avevo esagerato nel dibattermi attaccata al suo amo, alla fine ero presa. Respirai ancora, serrando forte gli occhi fino a sentirli pulsare.
-Li hai ammazzati davvero quei cinque?- chiesi freddamente.
-Sì.
-Con quella pistola? – non avevo bisogno di indicarla.
-Sì.
-Te l’ha data Ricky?
-Sì.
Mi lasciai scappare una risatina nervosa. Aprii gli occhi.
-Lo ha fatto per incastrarti. Ci si sbarazza sempre dell’arma del delitto.- dissi voltandomi a cercare la mia borsa.- Su una cosa hai ragione,- continuai mentre, trovata la borsa, scavavo alla ricerca del cellulare.- qui non puoi restare. Non è sicuro, quell’ispettore tornerà con un mandato.
-Allora fammi…!- iniziò lui precipitosamente, tirandosi in piedi. La ferita fece il resto e lo punì immediatamente, costringendolo a sedersi di nuovo.
-Ora mi credi se ti dico che non sei in condizioni da andartene da solo?- domandai soltanto.
Gerard non rispose. Io cercai un numero in rubrica e chiamai.
-Oscar.- salutai spiccia. Dall’altro capo mi arrivò un divertito “ehi, dolcezza!” che ignorai.- Ho bisogno che tu mi tolga di torno gli sbirri che sono rimasti sotto il palazzo.
Oscar ridacchiò ma non fece domande.
-Way è con te?- chiese, ma nemmeno quella era una vera domanda ed infatti proseguì.- Si è fatto pizzicare il bamboccio, eh?!
-Se lui finisce in mano alla polizia, dirà tutto quello che sa.- lasciai cadere fingendo indifferenza.
-Bah!- commentò Oscar, lo sentii tirare da una sigaretta.- Ricky lo avrà sicuramente previsto. E non credo che gli farà piacere sapere che Way è rimasto lì con te, stanotte.
-Mi assicuro solo che la “roba” di Ricky non vada in malora per niente.
-Dolcezza,- mi avvisò lui- Way non è roba di Ricky. Tu lo sei. Attenta a non mandarti in malora da sola.
Mi morsi le labbra. Oscar aveva ragione. Oscar aveva ragione. Oscar…
-Me li togli da lì, sì o no?- lo pressai con un’urgenza completamente nuova.
Espirò. Il tacco della scarpa sbatté a terra spegnendo la cicca.
-Aspetta quindici minuti e poi uscite.
Feci alla lettera ciò che aveva detto Oscar: dopo quindici minuti esatti lasciammo la casa; in un borsone nero avevo caricato cibo, vestiti puliti – Ricky ogni tanto lasciava dei vestiti da me, li avrei riportati indietro appena possibile – lenzuola e medicine; trovammo un auto ad aspettarci di sotto, chiavi nel quadro e portiere aperte. Mi assicurai che Gerard fosse a posto quando si abbandonò pesantemente sul sedile e poggiò il capo contro la testiera, chiudendo gli occhi; dopo essermi seduta anch’io rimasi qualche momento a studiare il suo viso stanco e l’abbassarsi ritmico del  petto ai respiri affaticati. Sospirai, girando la chiave nel quadro ed uscendo dal parcheggio. Mentre guidavo piano nel traffico della Città, Gerard si prese il tempo per tirare il fiato e rilassare i muscoli; io ne approfittai per concentrarmi sulla strada, fino a ricordarmela con esattezza e ad allontanare quasi completamente l’ansia impotente che avevo cominciato ad avvertire la notte prima.
-Gerard…- chiamai quando fui certa di potergli parlare in modo “normale”. Lo dissi a bassa voce perché non volevo che si svegliasse nel caso si fosse addormentato; ma non stava dormendo e mugolò un assenso sofferente senza aprire gli occhi- Tu…- iniziai sentendo la voce incrinarsi e spezzarsi subito. Me la schiarii- tu non sei un…assassino.- affermai.
Io per prima mi rendevo conto che, in realtà, era solo una domanda che non avevo il coraggio di fare. La nascondevo dietro una certezza che non era affatto tale e la mia sicurezza fasulla si infranse nell’attimo stesso in cui gli occhi febbricitanti di Gerard si aprirono nei miei, rassegnati e sfiniti come non li avevo mai visti.
-Mio fratello…Mikey spacciava per conto di Rivera- mi raccontò in un sussurro spento che faceva da amplificatore a ciò che leggevo nel suo sguardo.- Ha provato a fregarlo e Rivera se n’è accorto. Ha minacciato di ammazzarlo se non gli davamo i soldi che Mikey gli aveva rubato. Solo che non li avevamo. Così Rivera mi ha offerto di cancellare il debito di Mikey se avessi fatto fuori il procuratore distrettuale.
Non dissi nulla. Mi ero voltata per controllare la strada ed ora rimasi concentrata sulla guida. Lo sentii sbuffare ed immaginai il sorriso cattivo che gli tirava le labbra; si mosse sul sedile, in modo goffo ed impacciato, lasciandosi sfuggire gemiti soffocati quando il dolore era troppo. Mi domandai se fosse tutto lì, ed il silenzio tornò tra noi, rotto nuovamente dal suo respiro profondo.
-È chiaro che dopo il primo omicidio- ricominciò Gerard con voce arrochita dal dolore e dallo sfinimento.- mi aveva in pugno. Ha minacciato di ammazzare comunque Mikey e me ed  io sono stato costretto ad assecondarlo.- …bene. Ora sapevo tutto, no?- Quindi, come vedi Helena, ti sbagli io sono un assassino.
No.
Non ci dicemmo altro fino a che non arrivammo. Parcheggiai sotto un vecchio palazzo in periferia, Gerard sollevò in su lungo i muri crepati un’occhiata interrogativa a cui non risposi. Uscii dall’auto scaricando il borsone e voltandomi verso la facciata dell’edificio; la gran parte delle finestre erano sbarrate, le serrande abbassate, intorno a noi il quartiere era silenzioso e spoglio ed erano solo le dodici del mattino. Ricordai il motivo per cui ero stata felice di lasciare quel posto.
Gerard fu forte un’altra volta, arrancando silenzioso per la scala buia e lasciandosi andare solo quando fummo nell’appartamento e lo aiutai a sedersi su uno dei due divani all’ingresso. Gli lasciai riprendere fiato, alzando le serrande ed aprendo le finestre.
-Dove siamo?- mi domandò fiocamente quando mi vide passare per recuperare il borsone al fianco della porta.
Ne approfittai per far scattare la serratura e tirare il paletto.
-Era il mio vecchio appartamento.- spiegai breve- Vado a rifare il letto.- annunciai poi con le lenzuola in una mano ed il borsone nell’altra.
Quando tornai da lui, Gerard sonnecchiava, sdraiato di traverso sul divano si teneva la pancia con un braccio, proteggendo debolmente il fianco ferito con la mano. Attraverso la fasciatura mi accorsi del sangue fresco, la ferita doveva essersi riaperta. Allungai le dita, sollevando il braccio di Gerard e scostando la maglietta per vedere meglio, lui si svegliò e mormorò qualcosa, calmandosi non appena mi vide. Dovevo cambiare la fasciatura.
-Gee, vieni di là in camera. Ci diamo una pulita e ti cambi.- lo incitai, aiutandolo a sollevarsi.
Mi seguì, sempre senza fiatare, sedendosi sul letto fresco di bucato ed ubbidendo quando gli chiesi di togliersi la maglietta. Disfeci la medicazione e ripulii la ferita, aiutandolo poi a sciacquarsi viso e spalle prima di infilare la camicia che gli porsi. Gli feci cenno di non abbottonarla, accatastando bende e disinfettante sul materasso di fianco a noi. Gerard  ubbidiva. C’era una tale rassegnazione  nei suoi movimenti e nel modo in cui lasciava che io lo gestissi da farmi percepire con chiarezza quello che non diceva. Mentre lavoravo nello stesso silenzio che lui aveva imposto ad entrambi, mi resi conto che per la prima volta ogni suo sguardo, ogni suo gesto, ogni parola non detta tra noi due mi erano chiari ed io ne coglievo il senso completamente. Avrei dovuto esserne spaventata, Gerard non era solo un assassino – le mani di Ricky grondavano del sangue di tante di quelle persone…- in lui avevo visto dall’inizio la follia disperata di chi ha perso tutto e può tutto proprio per questo. La sua pazzia avrebbe dovuto spaventarmi, la disperazione…
Posai le mani contro le sue costole, sotto il palmo sentivo il calore della carne, le mie dita erano fredde e gli provocavano brividi sottili che non strappavano alcuna protesta; il cuore batteva costante, anche lui rassegnato, da qualche parte tra le mie mani ed i suoi muscoli.
-Gerard,- lo chiamai con lo stesso tono incerto che avevo usato in macchina e quella che dissi fu esattamente la stessa frase, ma senza pause- tu non sei un assassino.
Provò a contraddirmi di nuovo, immaginavo che per lui quelle cinque vite fossero una verità incontestabile. Lo fermai prima che potesse farlo lui, spingendogli piano contro l’addome per richiamare la sua attenzione, sollevai la testa e gli occhi fino a ritrovare i suoi e ribadii piano.
-Nessun assassino prova quello che provi tu in questo momento, Gerard. Nessuno soffre come stai soffrendo tu o grida di dolore come fanno i tuoi…quadri…- mormorai piano, evitando il suo sguardo mentre esprimevo quell’ultimo concetto: avevo la sensazione di aver appena superato una linea invisibile che segnava un confine ben preciso. Nelle ultime ore ne avevo cancellati così tanti, di confini tra noi, da sapere perfettamente quanto fosse pericoloso quello che stavamo facendo. Gerard, lui non lo sapeva, nei suoi occhi spaventati io vedevo chiaramente l’impossibilità di capire per quale motivo fossi così lontana che allungare la mano non era sufficiente a prendermi. Proprio come dipingere non era sufficiente a cancellare.- Non sei un assassino, gli assassini io li conosco e dormono bene la notte. Non hanno sogni e non hanno incubi…A volte mi chiedo se abbiano un’anima. Quindi non posso crederti quando mi dici di essere un assassino.
Sentii il tocco delle sue mani sul viso. Delicato, ma non per gentilezza, la sua era paura. Paura che io mi allontanassi come avevo fatto ogni volta che lui tentava di cancellare la distanza tra noi due. Peccato per tutti quei confini che erano spariti, gli stessi che avrebbero dovuto rendere il suo gesto nuovamente inutile, facendomi scivolare via ancora. Distante di una distanza di sicurezza…di comodo, che sapevo non esserci proprio più. Sollevai gli occhi a cercare il suo sguardo carico di identica aspettativa.
-…ti stai sbagliando.- mormorò disperato mentre avvicinava il volto al mio.
Le nostre labbra erano così vicine che non dovevo fare nulla, sentivo il suo respiro caldo e lui il mio. Il segno tangibile del nostro essere vivi.
-No.- risposi prima di baciarlo.
***
Non avevo mentito. Si stava sbagliando e neppure lei sapeva quanto.
Non lo sapeva la sua bocca quando si chiuse sulla mia, non lo sapeva il suo corpo quando si aprì tra le mie mani.
Ed amare Helena era esattamente come avevo sempre creduto: era aria e acqua insieme, perché lei era fredda, liquida, trasparente, e scivolava sulla pelle e nelle vene. Sarei voluto morire con la sensazione di lei contro i muscoli, con la sua presenza su di me ed intorno a me, custodito dal suo corpo come le sue braccia cullavano la mia anima. Perché per un momento – mentre la baciavo, la toccavo, venivo dentro di lei – il resto perdeva davvero importanza.
…e poi tornava ad averne.
Si riavvolgeva a spirale nel tempo. Nell’immagine di Helena che si sollevava dal mio fianco – il letto che diventava freddo in fretta – e sulle labbra mi sussurrava un “ti amo” accompagnato da una promessa a cui non credeva. “Torno presto” sa già di abbandono.
Allora ero troppo stanco. Stordito, dolorante, incapace di accettare la sua lontananza e così ferito da non riuscire a fermarla. Da qualche parte dentro casa la porta d’ingresso si chiuse a chiave, imprigionandomi in un sonno che aveva come unica droga il profumo di lei.
Finì in fretta: il suo odore ed il mio sonno. Mi svegliai di nuovo vivo, percependo il mio corpo come se mi fosse stato restituito dopo anni: la ferita pulsava e tirava; i muscoli delle braccia e delle gambe erano pesanti, intorpiditi; la testa era come schiacciata da una morsa ed io avevo freddo. E nausea. Ripensai a quello che era successo negli ultimi giorni; le dita della mano destra prudevano ed erano appiccicose, come se qualcosa di vischioso si fosse attaccato ai polpastrelli ed al palmo;  sollevai la mano davanti al viso e sentii odore di sangue, netto e deciso. La pelle era bianca, pulita, girai la mano da un lato e dall’altro e l’odore di sangue restava.
…avevo bisogno di bere.
Mi alzai, la stanza cominciò a ruotare su se stessa ma io avevo freddo e non ci badai. Mi vestii perché ero nudo e non ne ricordavo il motivo. Non conoscevo quel posto, urtai contro i mobili e le pareti nell’uscire per raggiungere la cucina. La casa era vuota, fuori era buio e non c’era alcool da nessuna parte. Quando andai alla porta scoprii che era chiusa a chiave dall’esterno. In cucina, sul tavolo, c’era un biglietto: “Torno presto. Non muoverti, per favore”. La porta era chiusa e fuori dalla finestra c’erano cinque piani di oscurità a separarmi dalla strada: dove sarei potuto andare? Cercai il bagno; quando aprii la porta uno scarafaggio si rifugiò velocemente dentro la doccia, io lo imitai, accucciandomi tra il lavandino ed il gabinetto e chiudendo gli occhi contro le ginocchia, strette al petto. Helena non tornò presto. Quella sera una ragazza bionda, piccola e spaventata, aprì la porta di casa e poi quella del bagno al posto suo. Io ricambiai il suo sguardo di ragazzina prudente e sorpresa e lei aspettò che dicessi qualcosa. Poi, siccome non parlavo e non mi muovevo, mi parlò per prima, mi disse il proprio nome e che Helena le aveva chiesto di passare a vedere come stessi. Mi aveva portato qualcosa da mangiare.
La scena si ripeté uguale il giorno dopo. E quello dopo ancora. Io restavo nel mio angolo, allo scarafaggio del bagno non facevo nemmeno più paura e neanche alla ragazzina bionda, che aveva sostituito uno sguardo preoccupato a quello prudente. Era strano, anche se la vedevo tutti i giorni, ogni volta non ricordavo chi fosse né quello che avrebbe detto: “Gerard”, il mio nome, “non puoi continuare a non mangiare! Dovresti sforzarti!”. Ma se ne andava quando capiva che non l’avrei ascoltata. Alla fine fu la sete – di acqua stavolta – a muovermi da lì. Il freddo non mi aveva mai abbandonato in quei giorni ed io ci avevo fatto l’abitudine. Barcollai per i brividi appena mi tirai in piedi, e poi perché la casa continuava a girare. Stavolta, muovendomi nel buio, mi accorsi che era anche popolata: di spettri e di folletti. I primi si muovevano sempre ai confini del mio campo visivo, scappando via appena mi voltavo a cercarli. Gli altri si mettevano in mezzo ai piedi, facendomi inciampare. In cucina aprii l’acqua e la feci scorrere finché divenne chiara, le tubature erano vecchie e sapeva di ruggine lo stesso. La mandai giù.
In salotto trovai il borsone di Helena – glielo avevo visto in mano quando eravamo arrivati – e dentro c’erano i miei vestiti sporchi di sangue, ci aveva avvolto la pistola. Era tutto nascosto sotto il divano e lo trovai perché inseguivo uno di quei folletti. Non era l’unica cosa nascosta sotto il divano, comunque. Quando mi abbassai lo gnometto storto e cattivo che stavo inseguendo non c’era più, ma c’era un uomo morto, disteso per lungo nonostante fosse molto più alto di quanto il divano avrebbe potuto nascondere, provai a tirarlo fuori ma anche se mi allungavo non riuscivo mai a toccarlo…
Quando si voltò a guardarmi e mi disse di smetterla, urlai.
Di come sia arrivato in bagno non mi ricordo affatto. So che mi sono svegliato e che c’era odore di vomito. Lo scarafaggio stava ancora nel box doccia ed io avevo la faccia premuta contro il muro ed un braccio aggrappato al lavandino. Lo usai per fare forza e tirarmi su dal pavimento, l’odore era disgustoso ed io volevo uscire. Arrancai verso la porta di ingresso, girai la serratura interna ed uscii.
Avevo preso la pistola. Oscar diceva che dovevo tenerla sempre con me.
Fuori era notte fonda e l’aria era gelida. Camminai senza sapere dove stavo andando finché non trovai un punto di riferimento di qualche tipo, da lì mi mossi inconsapevole, spostandomi lungo le strade con lo sguardo in alto. Incontrai due barboni che pensavano fossi pazzo e mi evitarono, li guardai cambiare strada e camminare veloci in senso opposto al mio fino a sparire dietro l’angolo di un palazzo. Poi riconobbi il palazzo.
Helena aprì la porta. Mi guardò ad occhi sgranati come se non ci credesse nemmeno lei che ero lì. Io le caddi addosso pensando solo che aveva un profumo proprio buono.
 
La terza volta mi svegliai in un letto che non conoscevo affatto ed era scomodo. Gli occhi erano pesanti ed impastati ed avevo addosso una coperta di lana così calda da soffocarmi. Eppure i brividi non passavano. Non riuscivo a muovermi; sulla spalliera del letto lo stesso gnomo cattivo di sotto il divano mi fissava ghignando, mi ricordai di certe leggende del nord Europa – forse me l’aveva raccontate mio padre – in cui uno spirito maligno siede sul letto dell’ammalato e pian piano gli ruba la salute. Davanti la porta un uomo ed una donna parlavano a voce bassissima, lei sembrava spaventata e lui cercava di calmarla.
-In ogni caso ora non possiamo muoverlo, Helena.- stava dicendo. “Helena” era un nome che mi ricordava qualcosa. La nonna. La nonna si chiamava “Elena”.- Se anche la polizia vi ha visto, dobbiamo aspettare. Hai sentito il dottore, Helena, sta male, dovrebbe addirittura andare in ospedale.
Era per metà italiana, ma non è mai stata fuori dalla Città”.
-È stata colpa mia,- mormorava lei strozzata.- non avrei mai dovuto lasciarlo lì da solo!
“Gli unici a piangere al suo funerale eravamo noi”.
-Non essere sciocca! Se non lo avessi fatto, sarebbe stato Ricky a venire a prendervi.
“È un po’ che non vado ad un funerale. Il mio potrebbe essere un’idea”.
-Sì, ma resta il fatto che l’ho quasi ammazzato!
-Smettila!- Lo disse una voce nuova. Più giovane, maschile. Questa la conoscevo…
-…M…Mikey.- Sentii qualcuno fare rumore, nella porta comparve una terza figura, si fece strada tra le altre due e sedette sul letto. Così aveva lo gnomo alle proprie spalle.- Devi stare attento…- gli spiegai indicandoglielo.
Rise, prendendomi la mano tra le sue.
-Ora come ora sei tu quello che deve stare attento, fratellone!- mi riprese piano, fissandomi in un modo intenso e partecipe di cui non capivo la ragione.
-Ho sognato la nonna.- gli raccontai. Avevo le labbra secche, se parlavo si spaccavano  facevano male.- Era dispiaciuta perché papà e mamma non erano al funerale…C’erano, Mikey?
-Sì.
Mi guardai attorno. Lui continuava a stringermi la mano e sulla porta le altre due figure stavano zitte e mi guardavano.
-Helena?- chiamai sorpreso quando misi a fuoco la sua immagine.
La vidi scattare in avanti. Mikey mi lasciò per farle spazio e fu lei a sedermisi accanto prendendo le mie dita tra le proprie. Piangeva senza fare rumore; con l’altra mano le asciugai la guancia.
-Scusami, Gerard.- mormorò piano.- Non volevo lasciarti da solo.
-…quindi ora resti?- le chiesi io.
Lei sbuffò un sorriso tra le lacrime e Mikey, in piedi al suo fianco, ci scherzò su.
-Hai visto che alla fine sei diventata la sua ragazza?!
Helena non gli rispose, mi baciò a stampo le labbra, facevano già meno male. Si avvicinò anche padre Philip, provai a salutarlo ma parlare era un po’ faticoso e finì che rimasi zitto. Nemmeno lui disse nulla, comunque, sembrava commosso.
-Devi riposare, Gerard.- mi consigliò.- Hai una brutta infezione; devi dormire, mangiare e recuperare le forze.
-Ed Helena resta con me?- tornai a chiedere stringendo attorno alle sue dita.
Lei ricambiò la mia stretta, che era in realtà debole e fiacca.
-Tutto il tempo che potrò, Gerard.- mi promise pazientemente.- Ma ti cercano e, se io sparisco, finiranno per cercare anche me e trovarci entrambi.
Sembrava una cosa molto importante da capire. Invece non ci riuscivo; continuavo a pensare che lei avrebbe dovuto stare con me sempre. Volevo addormentarmi solo con la consapevolezza di trovarla al mio risveglio.
Però ero stanco.
Chiusi gli occhi, la mano di Helena era ancora nella mia.
G.

 

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Capitolo 7
*** 6.Thank you for the venom ***


Gerard rimase in uno stato di torpore confuso per giorni. Io gettai la prudenza alle ortiche quando mi resi conto che non riuscivo a stargli lontana; ero certa che se fossi rimasta con lui la prima volta – o fossi almeno tornata, come gli avevo promesso – Gerard non si sarebbe mai ridotto in fin di vita. Quando mi costringevo a lasciare il suo letto per tornare a casa, vivevo aspettandomi che lui suonasse alla mia porta ancora una volta e che mi crollasse tra le braccia, stavolta per sempre. Non successe; tutto ciò che dovetti affrontare in quei giorni furono i tranelli che dovevo architettare per uscire di casa senza essere seguita dalla polizia. Di Ricky non mi preoccupavo: ero consapevole che lui sapeva esattamente dove fossi e con chi, inutile tentare di nascondermi. Il fatto, poi, che non mi avesse più cercata dal giorno in cui Oscar aveva aiutato me e Gerard a fuggire, era solo la conferma di quello che pensavo. Questi pensieri erano il tarlo con cui convivevo la notte, stesa al fianco di Gerard ascoltando il suo respiro ogni giorno più leggero e sicuro. Non riuscivo a dormire, vivevo in uno stato di veglia sempre più stanca e drogata, in cui studiavo quel respiro per accertarmi che fosse tutto a posto e, poi, quando ero sicura, ricominciavo a sentirmi addosso il peso delle fughe dalla polizia e del controllo di Ricky.
Non mi ci voleva molto per dare un nome a ciò che provavo. Poteva essere la prima volta per me – ma mi ricordavo di un ragazzino, in Ospedale, per cui una volta era successo che volassi via dal mio corpo, solo per poterlo guardare dormire proprio come stavo facendo ora con Gerard – ma, davvero, non era difficile dirmi che lo amavo. Ed era rincuorante, qualcosa a cui aggrapparsi quando la paura era troppa e di notte ero sola a combattere i fantasmi di entrambi. Qualcosa a cui aggrapparsi, come la mano di Gerard che cercavo nel buio e stringevo forte tra le mie.
Però  lo sapevo che non sarebbe bastato.
 
A quasi una settimana di distanza dal giorno in cui avevo portato Gerard da padre Philip, lui si riprese abbastanza da lasciare il letto e vagare per la Chiesa e la canonica come un’anima in pena. Io lo osservavo da lontano, quando era suo fratello a prendere il mio posto al suo fianco e a passare ore parlandogli, sorridendogli o semplicemente rimanendo con lui. In quei momenti Gerard era diventato completamente assente a sé stesso ed al mondo che lo circondava, spostava gli occhi spenti da Mikey alle mura spoglie del cortiletto dietro la canonica e viveva come imprigionato tra la vita e la morte a cui lo avevamo strappato per sbaglio. C’era un solo modo per ridare colore al suo viso ed era che fossi io a sedermi accanto a lui; battevo una pacca leggera sulla spalla di Mikey, a cui lui rispondeva rivolgendo a me lo stesso sorriso che aveva solo per suo fratello, forse appena più stanco e triste, poi si alzava in silenzio ed io lo sostituivo. Era un incantesimo, un rito magico a cui Gerard reagiva voltandosi e guardandomi, guardandomi davvero, per poi illuminarsi tutto di una luce calda che riempiva il suo viso sorridente.
Ero l’unica cosa che lo teneva in vita. Lo ancoravo al terreno con la mia presenza. Lui non me lo diceva, mi parlava poco in generale e preferiva ascoltarmi in silenzio, come se di cose importanti da dire non ne avesse proprio e basta. Io però gli leggevo in faccia con una facilità che mi terrorizzava sempre di più. Nell’apatia colpevole di Gerard c’era il segno evidente della sua sconfitta, si era arreso ed ora aspettava: che qualcuno lo salvasse – io – o meglio ancora che qualcuno lo finisse. Per quel che lo riguardava, lui non era disposto neppure a concedersi il lusso di scegliere da sé.
Ancora una volta avevo la vita di tutti e due tra le mani e, nel pesarla, mi resi conto di non potercela fare.
Successe quando tornando a casa trovai un cesto enorme di rose rosse ad aspettarmi ed il biglietto che le accompagnava era appoggiato su una scatola di gioielleria. Il regalo non lo aprii; come era già successo a Gerard, anche io sapevo che Ricky voleva dirmi soltanto che ero sua, mi aveva comprata perché mi ero messa in vendita, lui aveva il diritto di fare di me ciò che voleva. Il biglietto diceva “stasera passo a prenderti, fai in modo da farti trovare”, ed era un avvertimento molto preciso.
Mi feci una doccia, mi misi il mio vestito più bello, mi truccai e mi sedetti ad aspettare. Quella notte non tornai da Gerard; Ricky mi portò a cena fuori con sé, doveva aggiustare alcuni affari ed io assistetti al suo incontro con i Ventimiglia. Anche se non lo fece in quella occasione – gli accordi andavano perfezionati – sapevo che il passo successivo sarebbe stato consegnargli Gerard. Passai la notte con Ricky, feci sesso con lui, gli sorrisi, parlai con lui di qualsiasi argomento volesse, anche dei Ventimiglia. Non mi lasciai scappare una sillaba su Gerard e su quello che era successo ed ancora stava succedendo in quei giorni. Lui finse di non accorgersi che non indossavo il suo regalo.
Il mattino dopo gli preparai la colazione, e lo salutai con un bacio sulla porta. Poi corsi a vestirmi e scappai da Gerard ignorando i due poliziotti di guardia sotto il portone.
Mikey non c’era. Fu l’ultima cosa che pensai quando lo vidi, perché l’istante successivo ero tra le sue braccia e ci stavamo baciando, e quel bacio lo aspettavamo da tanto di quel tempo – dall’unica volta in cui avevamo fatto l’amore – ed era così importante che non c’era altro a cui pensare. E non ci fu neppure dopo, quando le nostre bocche si separarono ma solo per permetterci di restare appiccicati, fronte contro fronte, le mie mani sulle sue guance arrossate, le sue braccia attorno ai miei fianchi. Non pensammo proprio, quindi, lo dicemmo e basta ma sapevamo che era tutto ciò che ci restava.
-Sposami.
-Sì.
Perché il tempo…quello non ce lo avevano proprio lasciato.
***
Non sono più tornato indietro. Non c’era nulla indietro per cui valesse la pena di tornare. Sulla sponda del letto lo gnomo che ruba la vita agli ammalati si mangiò la mia in bocconi lenti; il mio corpo diventò un peso sempre più leggero, non avvertivo il fastidio della febbre, il dolore della ferita, la spossatezza per la perdita di sangue. Gli incubi diventarono cronici, familiari nel buio, così come cronico diventò respirare. Ero morto e sepolto; lo era la mai coscienza e lo era la mia ragione, lo era tutto ciò che ero stato fino al primo sparo, fino alla prima pallottola che, invece di conficcarsi nel cervello della mia vittima, si era piantata nel mio e lo aveva spappolato. Andava bene così. Il corpo di quel morto che portava il mio nome poteva muoversi, avevo scoperto, conservava tutte le funzioni biologiche idonee a farne uno zombie privo di volontà, si alzava dal letto ogni mattina e svolgeva qualsiasi attività che gli fosse indicata come “necessaria” o anche solo “utile”. Una parte di quelle cose gli veniva naturale, come se gli fosse rimasto attaccato alla carne un ricordo di coscienza che faceva affiorare abitudini. L’altra parte gli veniva amorevolmente indicata da mio fratello. Il mio Michael, che sembrava incapace di staccarsi da quel corpo senza vita che mi somigliava e lo accudiva con l’attenzione che da sempre si da alle cose rotte e reincollate, quelle che sono cadute per terra e si sono spaccate per colpa nostra.
Avrei voluto ringraziarlo, in qualche modo ero ferito da suo senso di colpa; ed allo stesso tempo avrei voluto dirgli che quel corpo con cui condividevo il nome gli era riconoscente per la sua gentilezza. Il problema era che non riuscivo proprio a trovare in me un motivo concreto per tornare indietro.
Era allora che Helena compariva. Un attimo prima il mio corpo sedeva accanto a Mikey, avvertiva sulla mano il calore confortante delle sue dita. L’attimo dopo la freschezza liquida di Helena prendeva il suo posto ed era come se il vento mi schiaffeggiasse il viso, io mi voltavo e trovavo i suoi occhi ed il suo sorriso pronti ad accogliere il mio ritorno a casa. Così tornavo. Helena non mi chiedeva nulla in cambio. Mi regalava se stessa, parlandomi fino a che entrambi eravamo ubriachi del suono della sua voce, e poi parlandomi ancora perché ovunque io fossi non rischiassi di perdermi nel niente ed avessi qualcosa a guidarmi. Tutti e due rimanevamo storditi allo stesso modo da quelle parole, confusi ci guardavamo senza fare nulla, dialogando in silenzio al di sopra ed al di là di quei suoi monologhi. Io non avevo nulla da opporre loro.
Avrei voluto dirle che mi sarebbe piaciuto ricominciare a dipingere, ma ricordavo la sua paura quando a casa aveva visto i miei quadri. E poi davvero, ogni volta che chiudevo gli occhi e cercavo l’immagine da fissare sulla tela, trovavo solo un vuoto nero e rosso che faceva orrore a me per primo. Pensai anche di dirle di Mikey, così che mi aiutasse lei a dirgli “grazie” visto che io non ricordavo come si facesse. Ma c’erano troppe cose tra me e mio fratello ed io mi rendevo conto che ad Helena le avevo solo accennate e spiegarle mi sembrava impossibile. Tutto era talmente lontano da essere irrecuperabile, e l’unica cosa davvero vicina era Helena.
Respira…per Helena.
 
E poi lei sparì di nuovo. Non so quanto sia stata via stavolta, da morti il tempo scorre in modo diverso: sei sospeso per i piedi, guardi giù e vedi il mondo. Il mio corpo non percepiva la sua assenza ma solo la sua presenza, per cui non era in grado di capire quanto tempo fosse passato. Dovetti notarlo per forza io e poi farglielo capire, farglielo sentire come un’urgenza nuova, un bisogno fisiologico non soddisfatto. Si trasformò in un dolore sordo e costante localizzato da qualche parte nello sterno, forse tra i polmoni perché mi mancò il fiato. Soffocai proprio, con un suono aspro e raschiante nella gola, quando provai a tirare su l’aria, strabuzzai gli occhi e tossii. Mikey mi battè sulla schiena, allarmato, credendo che mi sentissi male.
-Gerard?!- mi chiamò.
Mi voltai, vedendolo davvero per la prima volta da giorni.
-Dov’è Helena?- soffiai fuori.
E mi resi conto di essere nuovamente vivo.
…resuscitato…
Helena non era lì. Mikey prima e poi padre Philip mi raccontarono in tono via via più concitato quello che era successo dalla sera della sparatoria a quel giorno. Sembravano stupiti di dovermi riassumere la mia vita. Io non lo ero, non m’importava come non m’importavano le cose che dicevano. Helena era il solo fulcro di tutto il discorso.
Helena che mi amava – “Ti amo”, “torno presto” – Helena che io avevo messo in pericolo e continuavo a farlo; Helena che era mia e non avrebbe dovuto esserlo – “facciamo che questa cosa tu non l’hai mai detta”.
Helena.
-Sto bene.- risposi secco e conciso al termine del racconto, quando Mikey e padre Philip passarono alle domande di rito, quelle a cui lo zombie non aveva potuto rispondere nei giorni precedenti.
Li lasciai lì ed uscii da solo nel cortile interno alla canonica, sedetti sulla solita panca di legno rovinato e guardai lo stesso muro di tutti quei giorni.
Helena se la sarebbero portata via. Nella migliore delle ipotesi con la mia vita – ciò che ne restava – forse anche con la sua. Non c’era futuro e non c’era tempo davanti a noi. Non c’era nulla che non fosse il vuoto nero e rosso dei miei incubi. Tutto l’inchiostro di Dio si sarebbe ingoiato la mia Helena e di noi non sarebbe rimasto niente.
Per questo quando la vidi pensai che no, non glielo avrei permesso. E quando le andai incontro e la baciai, mi dissi che no, non sarebbe successo. E mentre respiravo il suo profumo, occhi chiusi e pelle contro pelle i nostri visi vicini, giurai che no, non gliela avrei lasciata.
-Sposami.
-Sì.
Se era mia lo sarebbe rimasta. A qualunque prezzo.
G.
***
Era follia ed inconsciamente pensavo che fosse anche l’ultima follia che avrei fatto. Padre Philip trovò per me un abito da sposa, era di una delle ragazze che lo aiutavano in Chiesa con le sue attività di beneficienza e volontariato. In cambio lui le salvava una vita che lei aveva speso, tutta assieme e troppo in fretta, in un matrimonio fallito con un uomo violento e nella droga. Era carina lei, si chiamava Alicia e da come guardava Mikey mentre con lui mi aiutava a vestirmi, la voglia di ricominciare le era tornata davvero. A vederli scherzare tra loro, sfiorandosi appena e fingendo che fosse per sbaglio, pensai che erano bellissimi e che avrei voluto esserci quando quelle carezze distratte sarebbero diventate un camminare mano nella mano alla luce del giorno. Alicia strinse in vita i nastri del corpetto ed io deglutii il respiro che mi si mozzò in gola. La sposa si sentiva come il condannato alla propria ultima ora.
Pensarlo dopo è facile ma anche allora c’era qualcosa di così definitivo nei gesti che facevamo da farmi credere che stessimo accelerando lo scorrere del tempo – limitato – che era concesso a me e Gerard.
I fiori erano stati una scelta di Mikey, un mazzo di rose rosse che nella penombra della Chiesa risaltavano come in un quadro. Uno dei quadri in cui Gerard aveva ritratto la Morte.
La navata scandiva i miei passi perché non c’era musica a nasconderli ed io fissavo il viso di Gerard, in fondo contro l’altare, ed i suoi occhi mi risucchiavano a lui. Lo avevano fatto dal primo istante…
Mi sorrideva, io posai il palmo nella sua mano rispondendo a quel sorriso di benvenuto. Non c’era stato il tempo per fare prove – “Vuoi tu, Helena…” – non conoscevamo la formula se non dai film o dai ricordi dei matrimoni di qualcun altro – “nella buona e nella cattiva sorte” – ogni parola che padre Philip pronunciava aveva un senso ben preciso.
“Finché morte non vi separi”
-Lo voglio.
 
-Congratulazioni, Helena, lasciami dire che sei una sposa splendida!
Gerard si voltò di scatto. Uno degli uomini che erano con Oscar puntò la pistola contro la testa di Mikey, un altro contro Alicia, il terzo teneva la mira su di noi.
-Questa è la Casa di Dio!- gridò padre Philip facendosi avanti.
-Proprio per questo, padre, speriamo che tutti si comporteranno bene così da evitarci di aprire la testa a qualcuno.- ritorse Oscar, molto ragionevolmente. Bastò a calmare gli animi .- Ottimo.- riprese lui con un sorriso beato stampato in faccia – Ora che siamo più disponibili al dialogo, posso spiegare il motivo della mia visita.
Gerard fremeva, come una corda tesa al massimo; pregai che stesse zitto, e fermo. “Ascoltando” quella preghiera, l’uomo che teneva sotto tiro Mikey alzò il cane della pistola; Gerard rilasciò il respiro, rilassando i muscoli delle spalle e delle braccia. “Fa che si salvino”, pregai un Dio in cui non ricordavo neppure di credere.
-Ricky ci teneva a fare i suoi auguri ai novelli sposi.- stava dicendo intanto Oscar, canzonatorio.- Ed anche a ricordare alla sposa che lei lavora ancora per lui.
Fece una pausa. Ci si aspettava che dicessi qualcosa, che firmassi la condanna a morte di qualcuno: Mikey sarebbe stato il primo.
Deglutii, un sorriso incerto, voltandomi verso Osar.
-Certo che lavoro per lui.- risposi.
Gerard sussultò. Sentii i suoi occhi puntarsi su di me in un’accusa muta. Oscar, invece, sorrise come me.
-Bene.- continuò.- Perché Ricky ha bisogno di vederti, Helena.
Il secondo sarebbe stato inevitabilmente Gerard, perché a vedere suo fratello a terra non avrebbe aspettato un istante per gettarsi contro di loro a testa bassa.
-…se ha bisogno di me…- Soffocai, il bustino del vestito stringeva forte; andai avanti senza fiato.- andrò da lui.
Alicia e padre Philip avrebbero seguito nell’ordine dettato dalle loro reazioni. Chi dei due avrebbe gridato troppo forte o fatto la mossa più avventata, sarebbe morto per primo.
-Sarò felice di accompagnarti.- ghignò Oscar.
Io sarei stata comunque l’ultima. Il viso ed il vestito macchiati di sangue, una Madonna del peccato vestita da sposa impura nella casa di Dio.
Sciolsi le mani da sotto il bouquet, una afferrò la gonna, l’altra stringeva i fiori. Io continuai a guardare Oscar, senza sorridere stavolta.
-Allora andiamo.- acconsentii con voce ferma.
Gerard allungò la mano a stringermi il braccio. Ricambiai i suoi occhi disperati e scossi piano la testa.
-Lasciami andare, amore mio.- sussurrai per lui, implorante.- Fidati di me, ti giuro che tornerò da te.- mentii ancora.
Gerard non mi credette ma mi lasciò. Camminai incontro ad Oscar e fuori la Chiesa senza voltarmi mai indietro; se lo avessi fatto una sola volta, non sarei stata in grado di proseguire.
***
Helena era come un fantasma fatto di ricordi e di sangue. Aveva un abito bianco la cui coda era gialla per il tempo e sporca della polvere raccolta lungo la navata; Alicia le aveva pettinato i capelli come meglio poteva e loro cadevano comunque sfatti, ricci e pesanti, da sotto il velo; teneva il bouquet di rose reggendolo con entrambe le mani, un po’ lungo sul corpo magro, così che quella macchia rossa – che sembrava una rosa anch’essa – si spalancava poco sotto il suo addome, lì dove il bustino a punta scivolava sulla gonna lunga e stretta. Era un fantasma, fuggito al dipinto di una fiaba dell’orrore, con i suoi occhi troppo vivi e la sua bocca come un fiore rosa, aveva la pelle di porcellana trasparente come una bambola vampira, ed il sorriso che mi rivolse nel posare la mano sulla mia era una perla fredda, come la carne attorno a quelle dita sottili…
Mi svegliai.
Helena dormiva al mio fianco, il suo respiro regolare, il peso delle sue braccia sul mio petto cancellarono lentamente i resti del sogno. Senza che me ne accorgessi il battito del mio cuore si sincronizzò al suo ed i nostri polmoni si sollevarono all’unisono. Era viva. Calda e morbida e colorata come la ricordavo dalla sera prima.
Le poggiai le labbra sulla fronte, rimproverandomi distrattamente tra me e me perché sapevo che l’avrei svegliata. I suoi occhi si aprirono riconoscendomi e lei mi sorrise e si rigirò tra le mie braccia.
-Buongiorno.- mi sussurrò sulla bocca.
-Buongiorno.- risposi prima di baciarla. Helena sbuffò divertita contro le mie labbra ed io la guardai perplesso mentre si sollevava sulle braccia per potermi ricambiare lo sguardo- Cosa c’è? - Scosse la testa, i ricci le si arruffavano scomposti intorno al viso.- Sei nervosa? – insinuai ridacchiando anch’io.
-Figurati! Ho solo deciso ed organizzato il mio matrimonio in mezza giornata!- ironizzò.
-Sei nervosa.- conclusi io venendo ripagato con uno schiaffo delicato sul braccio.
Non le diedi retta e la baciai di nuovo per sentirla calmarsi piano piano nel mio abraccio e restare lì, il seno contro il mio petto, i gomiti rannicchiati premuti sulle costole – “No, non mi fai male, tranquilla”- e la guancia sulle mie labbra. Così non posso vedere quello che pensi, Helena.
-…non credevo che sarebbe successo.- mormorò ad un certo punto.- Quelle come me non si sposano.- mi spiegò.- Al massimo un bambino, ed è un incidente che ti cambia la vita in peggio. Ma il matrimonio proprio no.
Mi chiesi se noi avremmo mai avuto il tempo per un bambino. Non credevo di poter essere un padre, meno ancora un buon padre. Provai una nostalgia fortissima quando mi risposi di no. Nessun bambino.
-Ho sognato che eri morta.- le raccontai.
Porta sfortuna dirlo ad una sposa?
 
Helena mi supplicava con gli occhi, la sua pelle sotto la mano era bollente come lava ed allo stesso modo i suoi occhi bruciavano nell’implorarmi di lasciarla andare. Potevo avvertire la sua paura perché era identica alla mia ed entrambi sapevamo che Oscar, ai piedi dell’altare, non avrebbe aspettato per sempre. Nella mia testa, per l’ultima volta, balenò un pensiero stonato: Mikey sarà il primo.
-Lasciami andare, amore mio. Fidati di me, ti giuro che tornerò da te.
La sua menzogna raggiunse il mio braccio, intorpidendolo e lanciando segnali precisi al cervello. La lasciai ma in realtà lei era solo acqua ed aria e non potevo tenerla con me.
Poi successe che la porta si chiuse. Helena non c’era più ma nella mia mente una sposa fantasma, vestita come lei, camminava a ritroso lungo la navata. Ed il suo sorriso freddo sul volto di bambola vampira era troppo lontano per me. Non potevo raggiungerlo, così come non potevo fermare il cadere incessante del petali dei fiori del bouquet, un profluvio rosso, di sangue, che segnava i passi che la sposa fantasma faceva all’indietro, come un gambero, dall’altare.
“Ho sognato che eri morta, amore mio, ma io non posso permetterti di morire.”
Trovai la pistola dove l’avevo lasciata il giorno prima. Non controllai che fosse carica, perché lo era: Oscar mi aveva insegnato a non lasciarla mai scarica. I movimenti con cui la misi sotto gli abiti, nascondendola nelle pieghe della felpa nera, erano automatici. Chiusi il giaccone, tirai su ul cappuccio. Alla Bibbia logora che aveva fatto da cuscino all’arma per un giorno ed una notte non badai. Fuori pioveva, come la notte in cui ero andato a consegnarmi a Ricky; stavolta tra me e la sua porta non c’erano ostacoli se non la distanza. Pensare che per la prima volta non ero nemmeno atteso.
…non come le altre volte almeno, mi dissi ironicamente quando il primo corpo cadde con uno schizzo di acqua e sangue ai miei piedi.
-Io l’ho detto, Ispettore, che alla fine inizi ad abituarti e diventa divertente!- ghignai soddisfatto, sollevando l’arma.
E quando il secondo uomo mi venne incontro - quasi di corsa, direttamente in braccio! Attraverso la porta spalancata dell’Inferno…fuori o dentro? – sparai soltanto, chiedendomi distrattamente quando fossi diventato così bravo. Il terzo ed il quarto li trovai fuori lo Studio, per cui compiacermi di me stesso non era più rilevante e li ammazzai senza troppe domande. Abbassai la maniglia, spinsi il battente appoggiandomici contro con la schiena e sparai ad Oscar nello stesso momento in cui lui si voltò ad incrociare il mio sguardo.
-…non eri veloce come credevo.- commentai fissando lui ma alzando il cane contro Ricky.
G.
***
-Eppure lo sapevi che vi avrei ammazzati.
“Oh, sì. Lo sapevo. Dunque, Ricky? Che facciamo?”
-Ti ho sempre detto di non mettere il naso nel mio lavoro, Helena.
-E’ una puttana. Non è nemmeno capace di capire quello che le dici.- sibilò velenosa sua moglie.
La guardai. Per la prima volta da quando ero entrata e Ricky mi aveva tirato un ceffone così forte da spaccarmi il labbro – “Prima di me non parla nessuno, Helena. Se vorrò ascolterò le tue cazzate dopo”- rialzai il viso dal pavimento solo per guardare quella donna…Non sapevo neppure come si chiamasse.
-Sta zitta, Maria.- le intimò lui, secco ed aspro.
Provava una rabbia che non capivo, così come non capivo perché fossi ancora viva. Mi ero aspettata che Oscar mi ammazzasse subito dopo avermi portata fuori dalla Chiesa: Gerard serviva vivo perché faceva parte dell’accordo con i Ventimiglia, ma io ero roba da buttare. Mikey e padre Philip non valevano nemmeno il costo della pallottola e la fatica di sbarazzarsi dei cadaveri, probabilmente.
Lo sperai per loro.
Ero rimasta stupita quando mi ero accorta che la strada che stavamo facendo era proprio quella per la villa di Ricky ed ancora più stupita quando, entrando, avevo trovato anche sua moglie con lui.
-Avresti potuto avere da me qualunque cosa, Helena!- scoccò rapido contro di me.
Ma fu sempre lei – Maria – che guardai. Contrasse il viso, una smorfia di dolore così viva e sentita che provai pena. All’anulare sinistro aveva un diamante, io pensai stupidamente che non c’era stato proprio modo – in un solo giorno – di trovare degli anelli per il matrimonio.
“…però sono sua moglie lo stesso.
Sorrisi. Avrei voluto poter spiegare a Maria perché lo facevo e cancellare dal suo viso l’ira muta con cui ricambiò quel sorriso, dirle che no, non la stavo affatto prendendo in giro solo che io avevo già tutto quello che potevo volere.
Ricky sospirò. Mi voltai a guardarlo per vederlo spostarsi lento e stanco dietro la scrivania, massaggiandosi gli occhi. Sulla poltrona si lasciò cadere come se non fosse più in grado di tenersi in piedi.
-Andrai ad Atlanta.- disse piano. Io non capii.- Starai lì, ho già detto ad uno dei nostri di prenderti a lavorare nel suo locale.
Oscar rise.
Maria mi fissò con uno sguardo cattivo e trionfante.
Io mi morsi le labbra.
-…come?- biascicai.
Ricky mi guardò, ma stavolta fu sua moglie a tirarmi un ceffone e le unghie laccate di rosso mi graffiarono la guancia.
-Tornerai a fare quello per cui sei nata, puttana!- mi insultò.
Spostai terrorizzata lo sguardo su Ricky, senza nemmeno badare a quello che lei mi diceva.
-Ricardo…- mormorai strozzata muovendo un passo solo in avanti.
-Non azzardarti a chiamarlo per nome!- ringhiò la donna alle mie spalle.
Potevo sopportare di morire. Lo avevo già messo in conto: la mia vita per la tua, Gerard, anche se la tua, magari, se la sarebbero presi lo stesso. Ma sopravviverti, sopravvivere a noi due solo per continuare un’esistenza che non aveva colore o sapore prima che t’incontrassi…
-Helena, non te lo sto chiedendo.- mi spiegò calmo Ricky.- Tu lavori per me. I due Way lavorano per me. Perfino padre Philip è sotto la mia autorità, ognugno di voi sa di dover fare esattamente ciò che io gli ordino.
-Sì, ma…- singhiozzai.
-Helena.- scandì lui con precisione. Il mio nome mi si piantò in qualche modo dentro il costato, troppo vicino al cuore perché continuasse a battere. Chiusi gli occhi ed ascoltai il resto trattenendo un respiro che non serviva più a darmi ossigeno.- Tu sai che non ci sono altre possibilità. Per nessuno di voi due.
No, non c’erano davvero. In fondo lo avevo sempre saputo.
Così annuii.
-Partirai stanotte stessa.- mi comunicò Ricky.
Fu allora che Oscar morì.
 
Gli altri spari li aveva coperti la pioggia. I tuoni che infuriavano fuori – ed io nemmeno mi ero accorta che stesse piovendo. Dio sembrava d’accordo con Gerard nel bruciare tutto assieme ciò che restava di lui. Fu proprio perché arrivò in silenzio che il colpo che uccise Oscar fece, invece, un gran baccano.
Mi voltai. Gerard guardava il cadavere come se ci fosse qualcosa che gli sfuggisse, ma fu a Ricky che sparò e senza nemmeno guardarlo in faccia. Magari è per questo che mancò di ammazzarlo subito. Oppure mi sbaglio. Il secondo colpo, comunque, fu fatale.
Maria urlava.
Io no. Io ero congelata. Guardavo Gerard e non capivo, perché quello non era lui. Non poteva essere lui.
Al quarto sparo le grida di Maria cessarono di colpo. La porta secondaria dello studio, invece, si aprì.
Dava all’interno della casa – può non sembrare rilevante, ma lo è – alle camere ed alla biblioteca, alla sala da pranzo interna, quella che usava la famiglia. Io me lo ricordavo perché qualche volta c’ero stata: anche la donna del capo, quella non ufficiale, aveva il diritto di dividere gli spazi che erano della moglie, quella ufficiale.
Un po’ Maria la capivo, per lei non doveva essere facile.
Comunque, la porta si aprì. E c’era un bambino, che io sapevo che si chiamava Cosè perché glielo avevo chiesto una volta che avevamo parlato un po’. Lui mi aveva detto che ero  “una signora molto bella”, ma io non pensai né al suo nome e nemmeno a quella volta che mi aveva detto che ero bella. In realtà pensai solo a Gerard, e ai pezzi della sua anima che mi stavano davanti prendendo la mira. Pensai che, in effetti, non avrei mai potuto sopravvivergli: lui aveva appena scelto coscientemente di uccidere se stesso. Tutto quello che ne restava almeno.
Fu per questo che lo feci. Mi mossi e mi misi in mezzo, tra il suo sguardo, la canna della pistola ed il grido disperato di Cosè. E finì che quella parola, “mamita”, sembrò quasi…ironia! rivolta a me invece che al cadavere della donna scura e bellissima che stava per terra proprio lì vicino.
“Non volevo rubarti anche lui, Maria.”
Poi fu il mio turno di morire.
…pensavo che se fossi scappata via un’altra volta…una sola…fossi fuggita a quel corpo che mi teneva troppo stretta ed inchiodata a terra…sarei rimasta viva. Una volta sola…una volta…
                        …l’ultima…
 

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Capitolo 8
*** Cemetery Drive ***


E con questo siamo all’epilogo della storia.
Ringrazio tutti coloro che l’hanno letta, Losegirl per la sua recensione – temo di doverti dare un grosso dispiacere, ma sì, è stato Gerard a sparare. Se può consolarti stava sparando al bambino e lei si è messa in mezzo per salvarlo…Non ti consola, eh? XP – e per averla messa nei preferiti.
Ad Erisachan non dico nulla perché leggerà in fondo tutto quello che ho da dirle :****
Grazie anche a Lily_Luna e NekomatA_17.
Buona lettura ^_^
 
Cemetery Drive
 
xx Maggio xx08
 
Mi seppelliranno con un vestito nero. Avrei voluto che mi lasciassero il mio abito da sposa, ma forse Alicia lo ha rivoluto indietro; ed anche se ho letto negli occhi di Mikey, quando ha guardato Gerard, che non c’è spazio per Alicia nella sua vita adesso, lei avrà altri Mikey con cui essere felice e dimenticare noi tutti.
Noi tre.
Io di me mi sto già dimenticando. Ho smesso di essere e questo basta a fare di me un “non più”. Non c’è nulla in questo momento, solo una processione lenta e scura sotto un cielo carico di pioggia.
Piove. E piove, e piove.
Nello sguardo di Gerard neppure una lacrima, è duro e tagliente e vuoto. La sua rabbia ribolle zitta sotto la sua disperazione.
Padre Philip consola il mondo dalla mia “perdita”, parla a Dio ed agli Uomini ed io penso che non c’è Inferno o Paradiso ma solo la Città, i suoi grattacieli contro le nuvole, sullo sfondo del cimitero.
Ci sono tutti a questa cerimonia. I “buoni” ed i “cattivi” accomunati dal silenzio delle parole di padre Philip. C’è Alicia, c’è Dan, ci sono le “ragazze” del night giù in Centro. Ci sono i due fratelli, i due Way soli contro il mondo intero, in lontananza c’è l’Ispettore Percival Bishop con il suo compagno giovane. C’è la pioggia, ci sono i Ventimiglia e ci sono le loro pistole.
C’è anche quella di Gerard.
Ci sono proprio tutti, a parte me.
Padre Philip smette di parlare, Alicia butta qualcosa sulla bara – una rosa rossa – ed è un segnale. La terra ricopre tutto ciò che di me resta davvero e Gerard neppure mi guarda. Si volta e va via. E tutti lo seguono.
Perry Bishop, l’Ispettore, lo ferma per primo.
-Way.- lo saluta con un sorriso.
-Ispettore.- ricambia lui, senza nessun sorriso- E’ qui per arrestarmi?
-Oh no!- esclama lui divertito.- Potrei, ma non m’interessa farlo.- gli confessa come fosse una gran confidenza.
Gerard ghigna.
-Davvero?- ritorce.
-No. Se io ti arresto,- spiega apatico l’Ispettore Perry Bishop – tu finisci in galera, certo. Ma se ti lascio fuori, Way, i Ventimiglia ti prendono. Prima o poi ti prendono. E credimi, un assassino di meno è sempre un bene per questa Città.
Adesso Gerard ci sta pensando, la crede anche lui una prospettiva “divertente” perché sorride senza malizia.
-Non sa quanto ha ragione, Ispettore!- commenta allegro, per la prima volta dopo giorni.
Ricomincia a camminare.
Io no. Io non esisto. Non ho gambe per seguire i suoi passi, o braccia per stringerlo a me. Non ho bocca per dire il suo nome o un cuore che possa salvarlo…
Nel flusso indefinito degli eventi e degli stati d’animo, gran parte della storia è incisa nei sensi.
Io non ho odore, non ho sapore. Non ho un colore. E non posso più essere toccata, se ti dico che ti amo non mi senti.
Io non sono, amore mio.
Sono stata…
Helena
 
“Thank you for the venom”
MEM 2009
 
 
Nota di fine storia della Nai:
 
Ci sono un sacco di persone che devo ringraziare per questa storia, ma prima mi sento in dovere di dire che mi dissocio dalla stessa XD
Dopo averla scritta ho dovuto anche correggerla…beh…non mi è mica piaciuta tanto a rileggerla.
Ma questi sono i miei soliti problemi con le storie che scrivo: le rinnego sempre ù_ù *figlie diseredate*
 
Partiamo con i ringraziamenti! è_é/
Anzitutto, chiaramente, a Gerard Way, perché la canzone l’ha scritta lui ed è fighissimo – giuro! Provate! *-* - seguire una storia interamente plottata da qualcun altro che si è fatto il ma**o al posto vostro!!! *saltella felice*
Poi a LizLiz, perché ogni volta che leggo una mia storia ho sempre la tragica sensazione di aver preso un po’ troppa ispirazione da lei e dalle sue storie e quindi mi sento in dovere di ringraziarla per l’influenza benefica che ha su questa scrittrice mediocre ç_ç
 
Ma un grazie tutto specialissimo va ad Ery.
Perché Ery a questa storia ha voluto bene più della mammina disgraziata *indica sé stessa* e quindi merita tutti i “grazie” dell’Universo.
Quindi a lei va un grazie proprio specialissimo *annuisce* :*****
 
Infine ringrazio in anticipo tutti coloro che sono passati e passeranno di qua.
See you, space cowboys! ^_-
MEM
 

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