Blind Love||Jortini||

di lauretta02
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1.Primo capitolo ***
Capitolo 2: *** 2.Secondo capitolo ***
Capitolo 3: *** 3.Terzo capitolo ***



Capitolo 1
*** 1.Primo capitolo ***


Martina non ricorda molto dell'incidente che le ha cambiato la vita per sempre. Ricorda solo che voleva andare via dalla festa per il diciassettesimo compleanno della sua migliore amica. Ricorda di essere salita in auto con i suoi amici. Ricorda che Damien era ubriaco, ma aveva voluto guidare lo stesso. Ricorda le risate, la bottiglia di birra che girava nell'auto di Damien. Ricorda che andavano veloci, per tornare a casa prima.
Ricorda l'autostrada. Ricorda che Damien perse il controllo dell'auto.
Ricorda le urla e lo schianto.
Poi più nulla, solo il nero.
Gli ultimi colori che ha visto sono stati il verde degli occhi di Damien, il rosso della propria camicetta e il blu del cielo notturno. Nient'altro, nessun'altro colore. Mai più, da tre anni a questa parte.
Quella notte Martina ha battuto la testa. Il suo airbag si è aperto troppo tardi, e lei ha subito un trauma cranico, entrando in coma. Ha dormito tre mesi, perdendo ogni contatto con il mondo esterno... tranne i genitori, suo cugino Xabiani, e Facundo, il suo migliore amico e vicino di casa, di tre anni più grande.
Si è svegliata dopo tre mesi, come se fosse rinata, come fosse risorta dalle ceneri. Si è svegliata. Ma senza poter rivedere il verde prato degli occhi di Damien, o il color cielo di quelli di Facundo, o il biondo quasi platino dei capelli di Mercedes.
Si è svegliata, ma rimanendo al buio. Senza più vedere niente.
Mai più, stando a quello che dicevano i medici.


MARTINA'S POINT OF VIEW.
Sento la mano di Mechi stringere leggermente il mio braccio, segno che siamo arrivate al gradino. Sento i mormorii della gente intorno a noi, ma ormai dopo tre anni non ci faccio nemmeno più caso. Sento la mia migliore amica borbottare tra sé che odia prendere la metropolitana. Dal canto mio, mi limito a scuotere la testa con un mezzo sorriso e a salire lo scalino.
«Dove vado?», chiedo a Mercedes a bassa voce, ignorando i commenti di chi mi sta intorno.
«A destra, meno di una decina di passi», mi dice calma. Apparentemente calma. In realtà io so che dentro di sé sta scoppiando di rabbia. E so perfettamente che vorrebbe prendere a sberle chiunque si sia permesso di borbottare.
Uno, due, tre.
«Ancora dritta, Mechi?».
«Sì, un secondo tesoro...»
.
La sento allontanarsi, segno che sta andando ad occupare il posto con la sua borsa. Stupidamente, mi azzardo a fare un paio di passi avanti. Quattro, cinque. E al sesto passo mi accorgo a malapena di quello che succede, perché mi sento spingere, e in un attimo mi ritrovo spalmata sul pavimento del vagone.
Sospiro, è un classico. Come è un classico che nessuno si sia mosso dal proprio posto per soccorrere la ragazza cieca. Faccio per rialzarmi, trattenendo le lacrime, ma una voce maschile mi ributta a terra, con le lacrime pronte ad uscire dal loro nascondiglio.
«Attenta a dove vai, ragazzina!».
Ha una bella voce, lo stronzo che mi è venuto addosso. È una voce calda, avvolgente, anche se trasfigurata dalla rabbia, in quel momento. Faccio per ribattere, ma la voce incazzata della mia migliore amica mi anticipa. «Brutto stronzo, non ci vede!», gli urla quasi, avvicinandosi a me e abbassandosi al mio livello. «Stai bene, piccina?», mi sussurra poi in un orecchio.
Scuoto impercettibilmente la testa, lasciando che mi aiuti ad alzarmi.
«Se non la smette di guardarti, giuro che lo rapo a zero», mi dice Mechi in un orecchio facendomi sedere sulle sue ginocchia. Evidentemente c'è un solo posto libero, e ovviamente nessuno che si degni di cedere il posto ad una disabile. Perché in fondo è quello che sono, una disabile.
«Calmati, Mechi», mormoro di rimando stringendole una mano.
Ma è davvero troppo carina quando tira fuori il suo lato vendicativo, così scoppio a ridere passandomi una mano tra i capelli, che la mia migliore amica ha avuto il coraggio di lisciarmi quella mattina. Si aggiunge alla mia risata, per poi sbuffarmi nei capelli.
Riesce persino a farmi passare la rabbia per il deficiente che mi ha buttata a terra.
È miracolosa quella ragazza.
«Se mi rendessi partecipe non sarebbe male» le dico posando una mano sulla sua, che si è appena chiusa a pugno sul mio stomaco. Da quando ci conosciamo, Merchi è diventata i miei occhi. Mi descrive tutto ciò che io per ovvie ragioni non posso vedere, quando siamo insieme. «Andiamo, Mercedes... È carino almeno?».
Lei ride. Non vedo un ragazzo da tre anni, ma le sue descrizioni di solito sono molto fedeli, è quasi come se vedessi. Quasi, certo. Ma è pur sempre qualcosa.
«Capelli castani, tirati su in un ciuffo stratosferico e rasati ai lati. Occhi verdi, mi sembra», mi spiega, incrociando le caviglie ad una frenata piuttosto brusca del treno. Sbatto le palpebre più volte, aggrappandomi a lei per non finire di nuovo per terra. «Camicia a quadri rossa con le maniche tirate su e una canotta bianca sotto, braccia tatuate e una sigaretta tra indice e medio...».
Come volevasi dimostrare, Mercedes è molto brava quando si tratta di descrivere un ragazzo nei minimi dettagli. Sono sicura che se glielo chiedessi mi elencherebbe i tatuaggi, ma penso che sia meglio evitare.
Lei intanto si è fermata, come se avesse finito la descrizione. Ma io sbuffo, facendola ridere.
«Elastico dei boxer dello stesso colore della camicia, jeans strappati a vita bassa, le Supra rosse e bianche e... un gran bel culo», finisce spostandomi i capelli su una spalla. La sento sorridere, e sorrido di rimando.
«Sembra carino», ammetto mordicchiandomi un labbro.
«Carino?» sbotta Mechi quasi strozzandosi con la saliva. E a voce alta, oltretutto, tanto che sento il ragazzo ridacchiare tra sé. Mi sento arrossire, e do una botta sulla coscia alla bionda, facendole capire che l'ha sentita. «È molto più che carino, credimi... Quel ragazzo è da stupro, tesoro», mi sussurra in un orecchio.
La mia migliore amica, non fa altro che pensare al sesso, penso che sia il suo argomento preferito.
«Sarà anche da stupro, Mechi... Ma ammettiamolo, non mi vorrà mai nessuno».
Sento che sta per farmi una delle sue solite ramanzine, ma vengo salvata dalla nostra fermata, che fa sospirare Mechi e costringe a scendere dal treno. Ma non da sole. Non ci vedo, è vero. Ma il mio naso funziona benissimo. E così mi ritrovo a sorridere, quando sento l'odore di tabacco del ragazzo perforarmi le narici.
«È sceso con noi, lo stronzo».
«Lo so», le dico con un sorriso, mentre il suo odore svanisce nell'aria, portato via da una folata di vento. È un odore caratteristico, solo suo. Che sono sicura il mio naso non dimenticherà tanto facilmente.


JORGE'S POINT OF VIEW.
Sto aspettando la metropolitana tormentando la sigaretta che tengo tra le dita. Sono totalmente scazzato, più del solito si intende. Sono andato via dal gruppo senza dire una parola, dopo la scenata di quella troia di Stephie.
Ti amo. Era tutta una stronzata.
Ho bisogno di te. Stronzate.
E idiota io che non ho esitato nemmeno per un momento. Ci ho creduto e basta, mi sono fidato ciecamente di qualcuno che ovviamente non meritava la mia fiducia.
Ho detto a Ruggero di lasciarmi stare per un paio di giorni, di darmi il tempo per assimilare la situazione. Ci è rimasto male. È il mio migliore amico, sa che sono la persona più impulsiva del mondo. Semplicemente, io non penso prima di agire. Agisco direttamente, senza dare peso alle conseguenze.
E così, ancora incazzato per la presa per il culo subita, salgo sul treno, attraversando un paio di vagoni alla ricerca di un posto libero e accorgendomi appena di aver investito una ragazza mora, facendola cadere a terra.
La prima cosa sarebbe aiutarla a tirarsi su, ma sono troppo incazzato. «Attenta a dove vai, ragazzina!», sbotto andandomi a sedere poco più avanti.
Qualche secondo e la mora viene raggiunta da una ragazza bionda, incazzata nera. Mi lancia un'occhiata omicida. «Brutto stronzo, non ci vede!», mi urla contro, per poi abbassarsi al livello della mora, sussurrare qualcosa e aiutarla a tirarsi su.
Se possibile, divento di pietra.
Non sembra cieca, a prima vista. È una bella ragazza, mora con un colore biondo dorato sulle punte e occhi marroni, e sembra normale a vederla ridere con quella che credo sia la migliore amica. Ridono, scherzano. Credo che la mora mi stia descrivendo, dalle occhiate che mi lancia.
«Sembra carino», sento dire dalla mora.
Vedo la bionda granare gli occhi e quasi strozzarsi con la saliva. «Carino?», la sento dire, a voce alta. Ridacchio, passandomi una mano tra i capelli, e vedo la mora arrossire, per poi far notare all'amica che l'ho sentita. Allora riprendono a parlare, ma a voce più bassa, in modo che non le senta.
Ma preparandomi per scendere dal treno riesco a cogliere uno stralcio del loro discorso.
«Sarà anche da stupro, Mechi... Ma ammettiamolo, non mi vorrà mai nessuno».
Non mi vorrà mai nessuno.
Guardo le due ragazze scendere, e mi affretto a scendere anche io, superandole e quasi correndo verso casa. Mi serve un oculista. O anche un computer, in mancanza d'altro. Devo fare qualche ricerca. Perché anche se in fondo l'ho guardata a malapena devo ammettere che quella ragazza mi intriga.
Anche se probabilmente non avrà mai la possibilità di vedermi.
Beh, o forse proprio per quello.
 


Spero che questa storia vi piaccia,la sto pubblicando anche su Wattpad. Credo che aggiornerò una volta a settimana quindi commentate e fatemi sapere se vi piace.

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Capitolo 2
*** 2.Secondo capitolo ***


MARTINA'S POINT OF VIEW.

Mi rigiro nel letto per l'ennesima volta. È quasi l'alba, ma io non ho dormito quasi per niente, la mente troppo occupata per riuscire a chiudere occhio. Occupata a rivivere l'incidente di tre anni fa. Occupata a pensare ad un modo per tranquillizzare mia madre. Occupata a ripensare all'incontro non proprio fortunato con il ragazzo della metropolitana.
Scendo dal letto e cammino tranquillamente fino al bagno, stando rasente alla parete, sfiorando il muro familiare con la punta delle dita. Vivo con Mercedes da quasi due anni, ho avuto tempo di abituarmi a quella casa. Di abituarmi al parquet, ai quindici scalini ricoperti di moquette, al cassettone in salotto - al quale all'inizio andavo sempre a sbattere.
Ci si abitua a tutto, prima o poi.
Tiro un sospiro e regolo la temperatura dell'acqua della doccia, per poi buttarmi sotto il getto d'acqua tiepida. Cerco il mio shampoo all'albicocca e il bagnoschiuma alla vaniglia portandomi davanti al naso un flacone alla volta, sorridendo fiera quando finalmente li trovo.
Ci vuole pazienza, ad essere ciechi. Davvero molta ma molta pazienza.
Non so quanto tempo passo sotto la doccia, ma tornando in camera mia avvolta in un asciugamano, sento una voce canticchiare dalla cucina, segno che Mercedes si è svegliata. Sorrido, alzando lo sguardo al cielo, anche se ovviamente non posso vedere.
Ho continuato a farlo anche dopo l'incidente. Era una delle mie espressioni più carine a dire il vero, mi sarebbe dispiaciuto disfarmene solo perché non posso più vedere.
Recupero a tentoni l'intimo dal cassetto del comò. Ne saggio la consistenza tra pollice e indice. È l'unico modo che ho per riconoscere i miei vestiti. Ho tra le mani un completino di pizzo... passo a sfiorare l'etichetta. Mia madre ci ha ricamato sopra l'iniziale del colore. Su ogni mio capo di abbigliamento. È stata adorabile, bisogna ammetterlo.
«Pizzo nero», borbotto tra me e me, indossandolo.
Passo all'armadio. Riesco a recuperare senza troppa fatica un paio di jeans scuri, aderenti, un paio di converse bianche e due camice. Le sfioro, ancora attaccate alle stampelle, senza però riuscire a capire che camice siano.
«Hai intenzione di aiutarmi?», chiedo con un sorriso appena accennato, sentendo la presenza della mia migliore amica sulla soglia della mia camera da letto. La sento ridere e avvicinarsi. La sento frugare nel mio armadio, alla ricerca di qualcosa. «Mechi, andiamo...», le dico ridendo.
«Mettiti questi», mi dice lasciandomi un bacio su una guancia e mettendomi tra le mani una canottiera bianca e un cardigan celeste, di flanella. Adoro la mia migliore amica. Il celeste è il mio colore preferito - o almeno lo era - e in più adoro quel cardigan, è un regalo del mio migliore amico, Facundo.
Facundo Gambadé soprannominato Facu. Castano con alcuni riccioli, occhi castani. Da quel che mi ricordo, ovviamente. Alto più o meno quanto me, muscoloso il giusto e - sempre da quello che mi ricordo - un gran bel culo.
E se devo fidarmi di Mercedes , ha davvero un bel culo, ancora adesso.
È il nostro vicino di casa, era il mio vicino quando abitavo ancora con i miei ed è sempre stato il mio migliore amico, da quello che mi ricordo, nonostante sia più grande di me di tre anni. È una specie di fratello maggiore che non ho mai avuto, mettiamola così.
Mi infilo con calma i vestiti che mi ha recuperato Mechi, e scendo le scale tranquillamente. Ormai non è più un problema fare le scale e muovermi in quella casa. Mi sono abituata. Certo, all'inizio era un trauma, penso di essere caduta da quelle scale un centinaio di volte, forse di più. Ero frustrata, piangevo in continuazione dal nervoso. E ovviamente ero piena di lividi, anche se non li posso vedere.
Mechi è stata la mia ancora di salvezza, anche in questo senso.
Mi tira su da ogni caduta, cucina per me, mi aiuta a vestirmi se non trovo qualcosa. All'inizio mi aiutava a fare la doccia, o almeno a trovare shampoo e bagnoschiuma. Mi aiutava a fare le scale, usciva con me quando volevo uscire, mi accompagnava dappertutto. Non voleva che venissi presa in giro, intimoriva chiunque mi rivolgesse uno sguardo compassionevole... è la migliore amica ideale, quella che tutti vorrebbero come propria.
«Mechi, io esco», dico aprendo il secondo cassetto del mobile all'ingresso e recuperandone il mio bastone bianco. Quello apposta per i ciechi, per capirci. Un attimo, e sento il rumore dei tacchi della mia migliore amica muoversi veloce verso di me, come se mi stesse correndo incontro. Sospiro, quando sento le sue mani sulle spalle. «Non puoi impedirmi di andare a fare un giro», le dico con un sorriso.
«Posso, e lo sai».
Sbuffo, smettendo di sorridere. «Vado solo a prendere un po' d'aria, Mercedes», le dico ruotando gli occhi. Altra espressione facciale che mi è rimasta da quando vedevo. Sento la mia migliore amica sorridere, e la sento avvicinarsi per darmi un bacio su una guancia. Sento il suo odore riempire l'aria intorno a me, e so di aver vinto.
Posso uscire un paio d'ore senza che mi stia col fiato sul collo.
«Grazie, mamma», le dico con un sorriso uscendo di casa, seguita dalla sua risata.
Due passi. Tre scalini. Quindici passi lungo il vialetto.
Sento il rumore di uno skateboard. Un rumore a cui ormai mi sono abituata. Il figlio dei vicini. Penso che ci viva su quello skateboard. E so per certo che è caduto anche oggi. Lo sento dall'odore di sangue che mi fa storcere il naso. «Ciao, Tini!», mi saluta superandomi sulle quattro ruote di quell'aggeggio che tanto ama. Gli sorrido e lo saluto con la mano, continuando poi per la mia strada.
Giro a destra. Quindici passi e c'è una buca.
So la strada a memoria ormai.
So come arrivare alla fermata della metro, solo seguendo i rumori e gli odori. So che i gradini da scendere per arrivare alla metropolitana sono ventisei. E so che gli ultimi due sono rovinati sulla destra. E una volta scesa sottoterra, sempre sulla destra si posiziona Carlos, un ragazzo che suonas il violino.
«Buongiorno, mora», mi saluta quando poco meno di un'ora dopo gli passo davanti. Senza intoppi. Sorrido, prendendo qualche moneta dalla tasca del cappotto. Due sterline, le sento sotto le dita, ormai allenate. Allungo la mano e le lascio cadere nella custodia del violino. «Grazie piccola, cosa ti suono?».
Scoppio a ridere. Mora. Piccola. Adoro quel ragazzo, sul serio.
Anche se non l'ho mai visto.
«Radioactive, ti va?», gli chiedo inclinando la testa da un lato. Lo sento scrocchiare le dita, per poi iniziare a suonare quello che gli ho chiesto, mentre ricomincio a camminare, ridendo spensierata.
Amo quella canzone.
La musica mi ha salvata. Quando ho smesso di vedere, e praticamente anche di vivere per un periodo, lei c'era. Pensavo di aver perso tutto, ogni possibilità. Poi ho imparato ad ascoltare. È stato quello che mi ha salvata, ascoltare.
I'm waking up, i feel it in my bones
Love to make my systems go
Welcome to the new age, to the new age
Welcome to the new age, to the new age
Whoa, whoa, I'm radioactive, radioactive...

Ogni singola nota. Ogni fruscio, ogni minimo rumore. Il vento tra le foglie, la distinzione tra una camminata sul prato, sulla sabbia o sull'asfalto. Riesco a sentire i treni arrivare da un paio di chilometri di distanza. Riesco a riconoscere i passi di Mercedes, Facundo, Xabiani o Lodovica.
Riconosco centinaia di rumori, suoni e odori.
A volte, è come se ancora vedessi.
Sento ancora Carlos suonare il violino, e accompagnarsi con la sua splendida voce, mentre il mio treno si avvicina. Un chilometro. Settecento metri. Duecento metri. E la gente che si avvicina al binario, che quasi mi schiaccia.
Finché non sento un profumo familiare arrivare alle narici, e una mano mi prende il gomito. «Buongiorno, tesoro... Mechi?», mi chiede Lodovica prendendomi direttamente a braccetto. Sento l'aria spostata dal treno in arrivo scompigliarle i capelli, e mandarmi addosso il suo caratteristico odore di ciliegia e cannella.
«Mi ha lasciata uscire da sola, un miracolo», scherzo sorridendo appena.
Lodovica scoppia a ridere, mentre il treno si ferma proprio davanti a noi. Lasciamo che la gente intorno a noi salga sul treno, poi Lodo mi tira leggermente per il gomito, spingendomi a camminare. Quattro passi, come al solito. E poi... «Gradino», mi sussurra Lodo, come da programma.
Sorrido, annuendo appena e salendo sul treno.
Mi lascio condurre lungo la carrozza. E per la prima volta da quando sono diventata cieca, sento qualcuno alzarsi e cedermi il posto. «Grazie», mormoro stupita. Ma non faccio nemmeno in tempo a sedermi che sento un odore poco conosciuto arrivarmi alle narici. Poco conosciuto, ma allo stesso tempo familiare.
Odore di tabacco. Odore di uomo. Odore di spinello, mascherato dalla gomma da masticare alla liquirizia e dal dopobarba alla menta. Sorrido, riconoscendo quell'odore, nonostante il giorno prima il proprietario di quell'odore mi abbia trattata di merda.
Il ragazzo della metro.
Quello con le mutande dello stesso colore della camicia, per intenderci.
È lui, ne sono più che convinta. Soprattutto quando lo sento prendermi la mano e aiutarmi a sedermi. Sorrido, e sento anche Lodovica sorridere, mentre scuote la testa e probabilmente alza anche gli occhi al cielo. Io dal canto mio sto cercando di immaginarmi l'espressione del ragazzo che mi sta davanti e che mi tiene ancora la mano, senza aver l'intenzione di lasciarmela, tra l'altro.

***
JORGE'S POINT OF VIEW.

Avevo fatto le mie ricerche, da bravo ragazzo che non aveva mai aperto un libro in vita sua. Mi ero attaccato alla connessione Internet dei vicini per cercare di capire qualcosa in più della condizione della ragazza della metro.
Poteva essere cieca dalla nascita. O essere diventata cieca a causa di una malattia, o un incidente. Wikipedia era stata molto utile, lo ammetto. Ma, riguardo la bionda...
Qualcosa mi diceva che fosse diventata cieca.
Nonostante l'avessi vista una volta sola, quella ragazza di cui nemmeno sapevo il nome, si comportava in modo normale. Come una persona vedente, per intenderci. Sbatteva le palpebre, ruotava gli occhi e alzava gli occhi al cielo.
E beh, io non sono mai stato una di quelle persone che ascoltano la gente. Ma sono sempre stato bravo ad osservare le persone. Da quei dieci minuti in metropolitana ero riuscito a capire un mondo, di quella ragazza.
I suoi capelli, erano di un moro naturale con un biondo dorato sulle punte, ed era probabile che li avesse lisciati, visto che sulle punte erano leggermente ondulati, verso l'interno. Il suo colore preferito doveva essere il celeste, visto il bracciale che indossava, e il cappotto color carta da zucchero. Doveva avere un rapporto speciale con quella che pensavo fosse la migliore amica, quella che senza tante cerimonie mi aveva mandato a quel paese il giorno prima.
La mora rideva come ridono tutti. Rideva per le piccole cose, compresa la descrizione che le aveva fatto la mora di come ero vestito. Sapeva ridere, nonostante quello che passava, non vedendo...
E stranamente quando quella mattina scendo le scale della metro sulle note di Radioactive, spero vivamente che sia uscita, spero di poterla incontrare, di farmi perdonare per il mio comportamento da stronzo.
Solo che non so perché voglio che quella bellissima ragazza mi perdoni.
Tantomeno riesco a capacitarmi del mio stesso gesto, quando, una volta trovato un posto a sedere, la vedo arrivare con un'altra ragazza che la tiene sottobraccio. E mi alzo, cedendole il posto.
Non l'ho mai fatto per nessuno, mai in tutta la mia vita.
Mai, in ventidue anni, mi sono sacrificato per qualcuno, se escludiamo mia sorella Cielo e mia madre. Le prendo una mano e la aiuto a sedersi, senza che il magnifico sorriso che ha sulle labbra scompaia nemmeno per un istante.
Sorride, ma proprio non riesco a capirne il motivo.
Quella ragazza mi confonde.
E le sto per lasciare la mano, quando la sento stringere appena, come a trattenermi accanto a sé. Come se il fatto che l'abbia fatta cadere a terra il giorno prima non fosse mai accaduto. È incredibile.
«Sei il ragazzo di ieri, giusto?», mi chiede mentre la sua amica si allontana di qualche metro, per andarsi a sedere. Annuisco, ma poi mi ricordo che non può vedermi, e mi viene da ridere, non riesco a trattenermi. «Hai annuito, vero?», mi chiede unendosi alla mia risata. È ancora più bella quando ride, non riesco a smettere di guardarla.
«Sì, scusami... non sono abituato», le dico passandomi una mano tra i capelli, e lasciando l'altra mano tra le sue. Sento le sue dita, scorrere sulla pelle della mia mano, e arrivare fino alla base del pollice. «Che stai facendo?», le chiedo mentre il treno si ferma.
Lei lo ignora, come se sapesse che non deve scendere a quella fermata.
«Hai un tatuaggio, qui?», mi chiede, mentre miracolosamente il posto accanto a lei si libera, così posso sedermi. Senza lasciare che le sue mani smettano di stringere la mia. Sento le sue dita fresche passare diverse volte sul contorno del mio tatuaggio, come se stesse cercando di capire cosa rappresenta.
«Sì, è una colomba», aggiungo con un mezzo sorriso. Altra fermata, e la vedo incrociare le caviglie, per poi lasciarmi la mano. «Mi dispiace per ieri», provo a dirle, imbarazzato. Io, in imbarazzo? Oddio, che sta succedendo? «Ero incazzato e...».
«Tranquillo, ci sono abituata», mormora lei passandosi una mano tra i capelli mossi.
«Posso fare qualcosa per farmi perdonare?», scherzo, osservando la sua reazione. Scoppia a ridere, scuotendo poi la testa con un sospiro. La ragazza con cui è salita si avvicina, per poi posarle una mano sulla spalla e abbassarsi per sussurrarle qualcosa in un orecchio. Qualcosa che non riesco a sentire, dato lo stridio dei freni del treno, che si sta fermando di nuovo.
«Okay, Lodo... io scendo alla prossima», dice all'amica mentre il treno inchioda, facendola quasi cadere dal sedile. Metto velocemente un braccio intorno alla sua vita, tirandola a me per non farla cadere. «Ti sei già fatto perdonare, quando prima mi hai lasciato il posto», mi dice posando una mano sulla mia, mentre la sua amica scende alzando gli occhi al cielo.
Sorrido, ma non so che dire, così rimango in silenzio finché il treno non fa per fermarsi e lei si alza in piedi, tirando fuori il bastone per non vedenti. La guardo avvicinarsi alle porte e scendere, con un altro paio di persone.
Allora mi accorgo di non averle nemmeno chiesto come si chiama.
«Ehi!», le urlo prima che le porte si richiudano, prima che il treno riparta. È anche possibile che io non la riveda più. Anzi, in realtà è più che probabile. La sento ridere e la vedo scuotere la testa, mentre si gira velocemente verso di m
e facendo svolazzare i boccoli mori e biondi.
«Mi chiamo Martina», la sento dire, un secondo prima che le porte si chiudano.

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Capitolo 3
*** 3.Terzo capitolo ***


MARTINA'S POINT OF VIEW.

La cosa più probabile è che io e il ragazzo della metropolitana non ci vediamo più, ammettiamolo. Ma bisogna anche ammettere che quel ragazzo mi intriga, più di quanto sia lecito. Mi intriga la sua voce, così calda e accogliente - quando non è arrabbiato. Mi intriga lui, tutto quanto, anche senza vederlo.
Mi intriga il suo odore, soprattutto. Odora di sigaretta e di dopobarba alla menta.
Odora di mistero, sinceramente non lo so spiegare. È un odore particolare, che non ho mai sentito in nessun ragazzo. In nessuno e basta, a dire il vero. È un odore solo suo, suo e basta. Solo di quel ragazzo al quale ho detto il mio nome, ma di cui non so assolutamente niente.
È... frustrante. Non sapere niente, intendo.
Se almeno riuscissi a vederlo, potrei in un certo senso giudicare. Potrei dire se sia un bel ragazzo o meno, se il suo sorriso sia vero o meno. Potrei capire un mondo solo guardandolo negli occhi, sono sempre stata brava a farlo.
La cosa positiva è che anche se non posso vederlo, il mio udito è più sviluppato di quello degli altri. Posso capire dall'inflessione della voce se sta sorridendo, se è arrabbiato, se è felice. Ho come un potere speciale, se così si può dire. E devo ammettere che mi piace, mi fa sentire più normale.
Torno a casa dalla mia passeggiata dopo pranzo, e senza aver mangiato.
Sono sicura che stavolta Mechi mi vorrà gettare nell'acido. Sarà preoccupata da morire, forse magari me lo merito anche, che mi frigga nell'acido. È la mia migliore amica. E anche se è una delle poche persone rimaste a trattarmi da persona normale, si preoccupa. Anche se non lo da a vedere.
Ed è adorabile quando si preoccupa, devo ammetterlo.
«Brutta incosciente!». Okay, pensavo peggio, sinceramente. Solo che non è Mercedes quella che mi sta praticamente urlando contro. Ma mio cugino Xabiani che, chissà come e chissà perché, se ne sta seduto sui gradini davanti a casa nostra. Come faccio a sapere che è seduto? La voce viene dal basso, rispetto a dove mi trovo io. Cos'altro? Ha appena finito di fumarsi una sigaretta, a giudicare dall'odore di fumo che aleggia nell'aria.
«Ciao anche a te, cugino», scherzo tirando fuori le chiavi dal cappotto. Lo sento alzarsi e mettersi davanti a me, bloccandomi, in modo che non possa entrare in casa. Mi fa sorridere, non riesco a trattenermi dal farlo. «Qual buon vento?», chiedo, ignorando completamente i suoi sospiri. So per certo che si sta passando una mano tra i capelli, sta torturando le unghie dell'altra mano con i denti.
«Sono venuto a trovare Mercedes, ma non è questo il punto».
Inarco un sopracciglio, divertita. Se ve lo state chiedendo, sì. Mio cugino esce con la mia migliore amica. Lui è cotto di lei, abbrustolito per bene. E Mechi si imbarazza ogni volta che parliamo di lui, cercando disperatamente di cambiare argomento. Sono cotti a puntino. E sono adorabili.
«Ho solo fatto un giro, Xabi, calmati», gli dico quando finalmente si sposta in modo che possa aprire la porta di casa. Sospiro. Odio quando si preoccupano per niente. Ho solo fatto un giro, mi serviva prendere un po' d'aria.
Perché anche se sono cieca non significa che io debba starmene dentro casa ventiquattr'ore su ventiquattro, no? Posso uscire, prendere aria. Lavorare part time come babysitter, non me l'ha mai impedito nessuno, in fondo. Anche se né Mercedes né Xabiani né mia madre sono mai stati d'accordo.
Facundo invece è sempre stato d'accordo. Lavora con me, del resto, ma a tempo pieno.
L'agenzia di babysitting è la sua del resto, ha sempre adorato i bambini.
Comunque, ho solo fatto un giro, preso un po' d'aria. E pensato e ripensato al suono della voce dello sconosciuto della metro. Ho ripensato a quando ha annuito, non ricordandosi che non lo potevo vedere. Ho ripensato a quando mi ha preso la mano per aiutare a sedermi. Non riuscivo a smettere di pensare alla sua risata, era una droga.
Una droga. E ne volevo ancora, disperatamente.
Sentivo il bisogno di sentire ancora quella voce, quella risata. Il bisogno di sentire ancora la morbidezza delle sue dita contro le mie. E proprio non capivo il perché. Non mi era mai successo di desiderare così ardentemente il contatto con qualcuno. Mai, in vent'anni.
E ho ripensato alla sua mano prontamente posata sul mio fianco quando stavo per cadere alla frenata del treno. La sua presa calda sul mio fianco mi ha fatto pensare che magari ci poteva essere qualcuno che avrebbe potuto tenere a me all'infuori dei soliti. Qualcuno che potesse volermi bene, nonostante fossi cieca.
«Ci hai fatti preoccupare, scusa se ho reagito male», mi sussurra Xabiani abbracciandomi, una volta entrati in casa. Sorrido, ricambiando l'abbraccio e lasciandogli un bacio su una guancia.
«Tranquillo, Xaa», mormoro posando la borsa sul tavolino all'ingresso.
Cammino tranquillamente fino al divano, come se mi trovassi su una nuvola, e la risata di mio cugino mi fa capire che, come era prevedibile, si è appena accorto di tutto. Tutto, a partire dalla mia camminata tranquilla col sorriso da ebete sulle labbra.
Non ho mai sorriso così tanto in vita mia.
Soprattutto da dopo l'incidente. Da quando ho perso la mia migliore amica. Persa non nel senso che sia morta, si è semplicemente allontanata, e io non ho potuto fare niente. Da quando ho perso Damien, il ragazzo di cui ero cotta da anni.
Sarei voluta morire io al suo posto.
Lui è morto sul colpo. Non ha sentito niente.
Io sono stata in coma per tre mesi - periodo di cui non ricordo un accidente, per inciso - e quando mi sono svegliata e mi sono accorta di non vedere, la prima persona di cui ho chiesto è stata lui, Damien.
È stata la prima persona per cui ho pianto, quando mi sono svegliata.
La persona per cui ho sofferto, tanto.
Ma anche la persona grazie alla quale ho capito che buttarsi giù in quel modo non sarebbe servito a niente. È stato il pensiero di Damien a farmi andare avanti, a non permettere che mi arrendessi. Perché anche se probabilmente lui non provava assolutamente niente per me - oltre all'amicizia - non avrebbe voluto che soffrissi in quel modo. Avrebbe voluto che continuassi a sorridere. E così avevo fatto.
Gli altri in macchina con noi si sono salvati tutti, la più grave si è rotta un polso, ma è viva, sta bene. Ci vede. E non ha perso la persona di cui era innamorata dalle scuole medie, soprattutto.
Torno in me sentendo una lacrima bollente scorrere lungo la mia guancia, un attimo prima che Xabiani mi stringa a sé per un altro abbraccio. Provo a sorridere, ma dentro sto crollando. Soprattutto se penso al fatto che potrei non incontrare più quel ragazzo, l'unico nella mia nuova vita, che mi abbia trattata da persona, e non da animale.
***
JORGE'S POINT OF VIEW.
 
Martina. Wow. Uno di quei nomi che non si dimenticano tanto facilmente. Se poi associato a quegli occhi tanto azzurri da non sembrare veri, allora diventa davvero indimenticabile. Come se me lo avessero appena inciso addosso, e non potessi scrollarmelo, nemmeno se volessi.
Un nome che mi ricorda il cielo, il vento, il sole.
Oltre che il suo meraviglioso sorriso, ovviamente. Solo che in questo caso purtroppo non lo potrebbe vedere, Tini non lo vedrebbe. Paragone inutile, mi rendo conto. Ma è anche vero che è la prima cosa a cui si associa, guardando il suo sorriso,no?
Da questo momento non lo assocerò più al sole,al cielo o al vento promesso.
Assocerò quel nome ad una della ragazze più belle che abbia mai visto. Una delle poche persone che conosco in grado di sorridere nonostante la propria situazione. Lei non ci vede, ma sorride, si comporta come fosse "normale", come se fosse una ragazza qualunque.
Solo che i suoi capelli sembrano raggi di sole di color marrone con ciocche dorate. I suoi occhi pezzetti del colore della terra.
E il suo sorriso sarebbe in grado di far concorrenza alle stelle, è incredibile.
Scendo dalla metro ancora soprappensiero, con un sorriso da idiota a incresparmi le labbra. Davvero, non riesco a smettere di sorridere, come non sorridevo da parecchio. Da quando ho conosciuto Stephie, molto probabilmente.
Solo che la stronza mi ha solo usato. Ogni suo sorriso verso di me è stato finzione. Ogni bacio, ogni abbraccio, ogni carezza. Finzione. Ogni volta che per me facevamo l'amore, per lei era solo una valvola di sfogo. Tutta una fottuta finzione.
Uno schifo, insomma.
Torno in me quando vedo il mio migliore amico a un centinaio di metri da me, spaparanzato su una panchina, che sbuffa fuori una nuvola di fumo, tenendo la mano libera dalla sigaretta in tasca.
Io e Ruggero siamo cresciuti insieme, dall'asilo, nonostante lui fosse più piccolo di me di un anno. Abbiamo avuto anche noi in nostro periodo no, al liceo, quando io ero finito nel giro sbagliato. Ero diventato un bullo. E me l'ero presa proprio con lui, con l'unica persona che dal canto suo non mi aveva mai preso in giro per le mie origini.
Poi ero stato bocciato ed eravamo tornati amici come prima.
Mi aveva tirato fuori dalla merda, ed ora avevamo la nostra banda, sempre che si possa chiamare così. Gli amici più stretti, le persone più fidate per entrambi. Anche se forse a questo punto potevamo anche mandare Stephie a farsi fottere, almeno per quanto mi riguardava.
Avevo altro a cui pensare.
Martina, per esempio.
O come portare un po' di soldi a casa per garantire una vita decente alla mia famiglia. O quel poco che ne rimaneva. Mia madre. E mia sorella Cielo. L'unica famiglia che non mi avesse abbandonato, nonostante tutto. C'erano state sempre, e ci sarebbero state, fino alla fine.
«Ehi, Blanco», mi saluta Ruggero buttando a terra la sigaretta ormai finita e alzandosi in piedi, controvoglia come al solito, per poi far scontrare i nostri pugni e darmi una pacca sulla spalla. Sorrido. Ci salutiamo in quel modo da una vita, da sempre forse.
«Ehi, Paquarelli», ricambio per poi passarmi una mano tra i capelli, tirandone le punte.
Il mio migliore amico sa perfettamente che lo faccio spesso. Specialmente quando sono soprappensiero, agitato, o nervoso. Soprappensiero, in questo caso. Non riesco a togliermi il sorriso di Martina dalla testa, e non mi è mai successa una cosa del genere, mai.
Ruggero ride, passandosi una mano tra il suo ciuffo. «Non posso dirti quello che devo dirti se prima non mi dici che hai», mi dice voltandosi completamente verso di me, un sorriso furbo sulle labbra e uno scintillio negli occhi color smeraldo.
Fa paura, quando mi guarda in quel modo.
È come se mi leggesse dentro.
Come se per lui io sia un libro aperto, spalancato sui miei pensieri.
«Chi è lei?», mi chiede ridendo dopo una manciata di secondi. Cerco di trattenere un sorriso, senza troppo successo. Ruggero mi conosce troppo bene, è ufficiale. Mi spinge ridendo, vedendo che sto sorridendo come un'idiota.
Non ho mai sorriso così, nemmeno per Stephie.
«Una ragazza che ho buttato a terra ieri, sulla metro», gli dico, arrendendomi completamente. Gli spiego che ero incazzato per Stephie, e che praticamente le sono andato addosso, quasi volontariamente. Gli spiego che le ho urlato contro. Gli spiego che l'ho rivista proprio pochi minuti prima.Gli spiego anche che non riesco a smettere di sorridere e che non so perché.
«Ha un nome, la morettina?».
Rido, dandogli un pugno su una spalla. «Si chiama Martina è bellissima, e prima che tu me lo chieda, non le ho chiesto di uscire», aggiungo, prima che possa aprire bocca. So perfettamente che è la domanda che tiene sulla punta della lingua dal momento in cui ho iniziato a parlare di lei.
E so anche perfettamente di non aver chiesto ad Heidi di uscire perché... non posso.
«Oh, Blanco... perché?», mi chiede, come previsto.
È sorpreso, il mio migliore amico. E a ragione. Non mi sono mai tirato indietro davanti a niente, in tutti gli anni che lo conosco. Soprattutto, non mi sono mai tirato indietro davanti ad una ragazza. Beh, c'è sempre una prima volta.
Soprattutto se si tratta di quella ragazza, non di una ragazza qualsiasi, con cui magari potrei uscire una sera, farla ubriacare, sbatterla per una sera e poi mandarla via. Non vederla più. Con Martina non posso, non potrei prenderla in giro, non ci riuscirei.
«E' cieca», mormoro semplicemente, alzandomi e iniziando a camminare verso il parco con le mani in tasca e la testa bassa. Un attimo e Jorge mi raggiunge, voltandomi verso di sé, come se non credesse alle sue orecchie. Beh, non ci crederei nemmeno io se lo sentissi. Lo vedo inarcare un sopracciglio, e quasi gli scoppio a ridere in faccia. «Hai sentito bene, Paquarelli... cosa volevi dirmi?».
Cerco di darmi una calmata, stringendo i pugni.
Non ho chiesto alla ragazza più bella che abbia mai visto di uscire... la verità è che non gliel'ho chiesto perché sono un idiota. Perché ho avuto paura. Perché era come se avessi sentito una vocina dentro di me che mi diceva di ignorarla, di lasciarla perdere perché è cieca.
Non ho mai dato ascolto alla mia coscienza.
Quindi la verità è solo una: sono un'idiota.
«Indovina un po' chi ho incontrato ieri sera?», mi dice ironico reprimendo una smorfia. Inclinai la testa da un lato, curioso. La sera prima mi ero immerso nella lettura di Wikipedia, quindi non ero uscito col gruppo. Ma a giudicare dall'espressione di Ruggero, decisamente non è stata una buona uscita.
«Non lo so, tuo padre?».
Era noto a tutti che il rapporto di Ruggero con la sua famiglia non fosse uno dei migliori, soprattutto col padre. I suoi sparivano per mesi e non si facevano sentire, lasciandolo a casa da solo. Da solo, in una villa a dir poco immensa.
Il che la rendeva la location perfetta per migliaia di feste.
Ma restava il fatto che Ruggero si sentisse solo, non potevano comprarlo con una villa per far sì che stesse meno male. Quale genitore avrebbe voluto una vita così per suo figlio? Io, no di certo.
Lo vedo scuotere la testa, divertito dalla mia supposizione sbagliata.
«Peter è tornato in città...», mi dice aggiustandosi perfettamete il ciuffo . Ma io sono impietrito, riesco a malapena ad aprire la bocca. Non riesco a muovere un muscolo. «Ma non è questa la cattiva notizia... era con Stephie, li ho visti baciarsi».
Ecco, ora sì che la mia giornata è andata a rotoli.
 

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