All of my memories keep you near

di acchiappanuvole
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Charlotte ***
Capitolo 2: *** Lacie ***
Capitolo 3: *** Alice ***
Capitolo 4: *** Alice attraverso lo specchio ***
Capitolo 5: *** Alyss ***
Capitolo 6: *** Levi ***
Capitolo 7: *** Glen & Alice: Kaleidoscope ***
Capitolo 8: *** Jack ***
Capitolo 9: *** Shelly ***
Capitolo 10: *** Sharon ***
Capitolo 11: *** Elliot ***
Capitolo 12: *** Istantanea: Leo ***
Capitolo 13: *** Gilbert & Vincent ***
Capitolo 14: *** Reim ***
Capitolo 15: *** Ada ***
Capitolo 16: *** Zai Vessalius ***
Capitolo 17: *** Noise ***
Capitolo 18: *** Oz ***
Capitolo 19: *** Cheshire ***



Capitolo 1
*** Charlotte ***


Note: Mi avvicino in punta di piedi a scrivere su questo bellissimo manga che ho adorato dall'inizio alla fine. Ho sempre pensato che se mai avessi scritto su Pandora il mio esordio sarebbe stato con Vincent, ed invece la parte femminile del manga ha preso il sopravvento ispirandomi questi piccoli capitoli dove tento di esplorare alcuni frammenti della vita di alcuni personaggi.


Guida creata da il blog di Lisa.



Charlotte




Sono le undici e al piano terreno i lampadari risplendono. Il salone dei Baskerville scintilla; Charlotte suona il piano. All’inizio ha suonato dei pezzi prevedibili: un paio di valzer, una mazurca garbata, il tipo di musica adatto a una gentildonna, la musica che Charlotte disprezza.  E all’inizio tutti l’hanno ascoltata; si sono raccolti in cerchio, forse pensando che avrebbe anche cantato come fa spesso. Charlotte ha una voce sensuale e un repertorio che tocca le corde del cuore. Ma stasera ha rifiutato gentilmente di farlo. Alza gli occhi dalla tastiera, la mazurca termina, il cerchio intorno al piano si disperde. Da questo momento la musica di Charlotte sarà solo un rumore di sottofondo; posa le dita sui tasti godendo di quella specie di intimità. Per un po’ osserva gli altri invitati, maschere gioviali in un tripudio di gioielli ed abiti eleganti, l’annoiano in fretta. Poi finalmente lo scorge. In disparte come sempre, profilato contro il nero del cielo, indica qualcosa catturando l’attenzione del terzogenito dei Vessalius. Charlotte si riscopre spesso a pensare a lui, pensa ai suoi capelli scuri, ai lineamenti che per lei hanno un fascino infinito. Oswald ha una carnagione chiara che rivela le sue emozioni come una cartina di tornasole le sostanze chimiche. Quando si incollerisce diventa pallido; quando è felice o eccitato o divertito, il ché è raro, arrossisce lievemente.  Il futuro Glen Baskerville ha la mente svelta, la lingua pronta, dà giudizi spesso precipitosi. Deve sempre rincorrere un altro luogo, un’altra idea, un altro progetto. In sua compagnia Charlotte ha spesso paura. Intuisce che Oswald potrebbe essere distruttivo : è splendido, ma non curante.  Charlotte ha la sensazione che una lotta perenne si svolga dentro di lui, come se un’entità si battesse per liberarsi. Ora quell’incubo è tornato, Charlotte lo sente.  Canta di un mondo folle, di una voluta ma impossibile ribellione, lontana dai parametri entro cui  vive. Là, forse un Oswald diverso potrebbe dimenticare concetti come dovere, discrezione, obbedienza e potrebbe essere libero. Esita, poi chiude i fogli da musica, comincia a suonare a memoria. E’ un brano che ama e rispetta perché non ha cadenze rassicuranti, non è un pezzo da salotto. Libera. Libera. Libera. E’ un pezzo difficile. Quando sta per concluderlo, si accorge che qualcuno le sta accanto. Un uomo. Finché durerà la musica è convinta che sia Oswald. Ma l’illusione finisce presto. E’ Doug. Attende che lei termini e applaude educatamente.
-Ti va di respirare un po’ d’aria fresca?- chiede mentre Charlotte chiude il piano –potremmo andare nel giardino d’inverno-
Charlotte si alza e và con lui. Sa cosa accadrà nel giardino d’inverno, e non vuole pensarci. Pensa alla musica e alla cometa e all’immagine di Oswald che addita non già la cometa, ma una via, una via diversa. Le camelie le sfiorano il braccio, Doug s’inginocchia, si mette una mano sul cuore con un gesto incerto.
-Lottie…-
Charlotte pensa alla cometa, a un’aureola di capelli neri, a un silenzio assoluto ed echeggiante.
-…la tua mano-
Doug tace. Charlotte attende. C’è un lungo silenzio. Poi l’audacia di pochi istanti prima l’abbandona, proprio come temeva. Lei e Doug si conoscono da sempre, sono due Baskerville consci dei rispettivi ruoli, delle convenzioni  che quel nome così pesante comporta sulle loro vite. Nessun Baskerville può essere libero di percorrere un’altra strada. E’ esattamente per questo che ora Doug, con quella sua espressione priva di emozioni, le sta inginocchiato d’innanzi, pronto al suo dovere di membro di quella gabbia dorata.  E lei d’altronde vuole diventare una vecchia zitella? Quale sarà il suo futuro quando rimarrà sola con il suo nome? Si volta verso di lui e accetta… ma subito gli chiede un lungo fidanzamento, qualcosa di più tollerabile e meno spaventoso. Doug si oscura ma comprende. E’ così assurdo che Charlotte vorrebbe ridere. Invece, piena di commiserazione per entrambi, gli tende la mano e sorride

 

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Capitolo 2
*** Lacie ***


Lacie




Guida creata da il blog di Lisa. Il buffet è sistemato davanti alla vetrata che da sul giardino; Lacie osserva ogni portata ma niente stuzzica il suo appetito. Fissa la grande finestra, la terrazza oltre ad essa è illuminata. Riempie il bicchiere di vino ed esce, isolandosi dal chiacchierio. L’aria è fredda ma Lacie se ne sente rigenerata, finalmente il silenzio, in certi momenti adora rimanere sola. Poi si rende conto di non esserlo completamente. A qualche metro da lei, nell’ombra, appoggiato alla balaustra di marmo, scorge qualcuno.
-La festa ti annoia?- una voce chiara rompe il silenzio
-Avevo bisogno di un po’ d’aria- Lacie mantiene un tono incolore, la figura si muove nel buio, pochi passi e diventa visibile. L’abito grigio perla mette in risalto il volto chiaro e gli occhi simili a due schegge di cristallo azzurro. Lacie lo guarda con malcelata curiosità, sebbene conosca tutto di lui, dal modo in cui parla alla rapidità con cui varie le sue espressioni canzonatorie, Glen resta un curioso mistero, un piacevole enigma di cui non è chiaro se esista o meno qualcosa da capirci.
-Curioso, abbiamo avuto la stessa necessità- sorride e alza il bicchiere nella direzione di lei- I tuoi fedeli cavalieri potrebbero sentirsi trascurati-
Lacie sorride divertita – E’ nobile da parte tua preoccuparti dei loro sentimenti-
Glen l’affianca, l’aria della sera soffia in viso con dispettosa insistenza – Sono solamente un buon osservatore, mia cara.  Stasera hai tutti gli occhi puntati su di te: grazie, bellezza, eleganza e la catastrofica ombra della sventura. Una miscela pericolosa che può attirare il desiderio di donne e uomini-
-A tutti piace desiderare quello che non conoscono- Lacie scosta un pesante ciocca di capelli dalla spalla, scivola sulla schiena come un sinistro drappo nero, un sipario pronto a calare sulla notte. Glen bozza un ghigno, un ghigno per schernire se stesso e la pericolosità di quanto osserva. Se tutto il resto del mondo vortica nel valzer della noia, Lacie è il tango della vita, più affascinante e incomprensibile dello stesso abisso. L’afferra per un braccio, esercita una lieve pressione intorno al  suo polso sottile, Lacie si trova sbilanciata e d’un tratto i suoi occhi osservano attraverso il sottile cristallo del bicchiere di Glen. Un mondo color rosso intenso, il rosso più pregiato, simile alla linfa che scorre nelle vene umane, simile agli occhi di un figlio del diavolo. –Guarda- le mormora Glen all’orecchio – Guarda e dimmi cosa vedi- e tutti gli ospiti ora si riflettono nel liquido scarlatto, volteggiano la loro danza gentile nello spazio di un bicchiere e Lacie non è attratta dalla suggestione romantica di quell’immagine, poggia la schiena contro il petto di Levi, non Glen, è l’unica a non chiamarlo con il suo titolo, abbandona le braccia lungo i fianchi e sul viso si alternano rapidi riflessi di una strana e improvvisa consapevolezza.
- Sono addormentate- dice – la maggior parte di quelle persone sono nate dormendo, vivono dormendo, si sposano dormendo, allevano i figli dormendo, muoiono dormendo senza mai svegliarsi. Non arrivano mai a comprendere la bellezza e lo splendore di quella cosa che chiamiamo esistenza- è fredda e melodiosa la voce di Lacie, come se provenisse dal fuori campo della scena, da una dimensione diversa, una dimensione nella quale tutto è già stato compreso, conosciuto, ascoltato –ma questo non è poi un problema nostro, giusto Levi? O, quantomeno, non è un problema mio- si allontana Lacie, il gesto repentino lascia cadere qualche goccia di vino dal bicchiere di Glen;dentro, oltre la vetrata del salone, il mondo ha ripreso le calde tinte della luce dei grandi lampadari. Il vestito scuro di Lacie piroetta in una ruota di velluto e raso, danza davanti agli occhi di Levi che, rimpadronitosi  del proverbiale controllo, sorseggia ciò che resta e lancia una fugace occhiata ai suoi ospiti. Ad uno in particolare. “ Il sonno della ragione produce impossibili mostri*” è   questo che pensa quando gli ospiti, al richiamo dei valletti che annunciano lo straordinario evento, abbandonano la protezione della sala per raggiungere la terrazza. – D’altronde è vero, questo non è più un nostro problema- Levi alza gli occhi al cielo –nemmeno una nuvola, la cometa sarà ben visibile. Sai mia cara,  passa ogni settantasei anni e molti la giudicano portatrice di sventure. Oserei dire che avete molto in comune…-
-Staremo a vedere- anche gli occhi di Lacie si spostano sulla volta stellata.
-Già, staremo a vedere- la voce di Glen Barskerville è un sussurro impercettibile. Le vetrate si aprono di colpo, gli ospiti cominciano ad uscire.


C’è tanta gente che scruta l’orizzonte sulla terrazza dei Baskerville. C’è brezza, la notte è calma, l’attesa. Lacie scorge per prima la cometa, e l’indica. Intorno a lei tutti si affollano, allungano il collo, cercano di identificare le costellazioni. Il cielo è privo di nubi, le stelle sono fulgide, sembrano semi luminosi sparsi nell’universo dalla mano d’un dio generoso, la loro quantità è abbagliante. Si allontana dagli altri perché il brusio non la disturbi, preferisce essere sola. Nemmeno Oswald o Jack questa volta. Sola. Guarda la volta celeste ed esulta, in una notte simile tutto è possibile, tutte le cose squallide degli uomini, i sotterfugi, i compromessi, le menzogne sono banditi. Per un momento prova una grande euforia, come se avesse vinto la forza gravitazionale della terra, come se l’abisso salisse insieme a lei ad incontrare il firmamento. La sensazione non dura. Sta già svanendo quando i suoi occhi incontrano di nuovo la scia di luce. Si aspettava fosse una delusione. Particelle, gas e polvere…era sicura che fosse men che spettacolare. Ma capisce di aver sbagliato. La cometa ispira soggezione a lei e a tutti i presenti, mentre Jack esclama e l’indica, la conversazione si spegne, tutti ammutoliscono.
Una lunga curva di luce; la cometa s’inarca, le stelle impallidiscono, l’oscurità divampa, la grande traiettoria è silenziosa. E’ questo, pensa Lacie, che rende quell’apparizione così ultraterrena e temibile. Si aspetta un fragore, il crepitio delle fiamme, il rombo di un’esplosione… ma la cometa è muta. E, per un istante, la percezione del futuro. Settantasei anni, Lacie guarda e calcola come forse fanno tutti, ma le date le sono inimmaginabili, bizzarre. La segue con gli occhi, guarda la luce incurvarsi maggiormente.  Lo sa, una sola volta nella vita. Non la rivedrà mai più.  Lacie concede una smorfia al proprio destino, questo la rattrista e l’incollerisce; solo  pochi giorni prima che tutto finisca, ma vorrebbe fare qualcosa di audace, di splendido. Si volta spazientita. Deve tornare da Levi, subito!E non le importa se la vedranno allontanarsi.  Allunga il passo, nessuna la nota, tranne Jack, che l’osserva sempre. L’aria è dolce nei polmoni di Lacie, l’esultanza è tornata. “Stanotte potrei fare qualunque cosa” si dice. Comincia a correre e si guarda indietro, una sola volta. No, nessuno la chiama, nessuno grida il suo nome; e più tardi nessuno le chiederà dove sia andata.

 

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Capitolo 3
*** Alice ***


Alice


Guida creata da il blog di Lisa.


La  balia, con i capelli grigi raccolti a treccia, infagottata in una vestaglia di flanella blu, le sta accanto. Intima affinché   beva il suo bicchiere di latte e si allontani dalla finestra aperta e vada a dormire. Alice non è avvezza all’ubbidienza, solitamente pesta i piedi e s’impunta con aria imbronciata sebbene Oswald le abbia più volte ripetuto che non è un comportamento da signorina. La finestra viene chiusa, la tenda tirata. Con sollievo della balia, Alice ha deciso d’essere magnanima, per una volta. In realtà ha fatto una promessa e non può esimersi dal mantenerla.
-Ora viene l’omino dei sogni- annuncia la balia.
Alice sa che non dormirà ma si lascia condurre a letto.
-Oggi ho sepolto un coniglio- racconta alla balia che le rimbocca le coperte.
-Certo, cara- le risponde e spegne la lampada. La balia non ha simpatia per Alice così come non ne aveva per la madre. E’ abituata alle sue bugie, alle sue fughe nel bosco e ai suoi cambiamenti repentini ed ha deciso che la miglior soluzione è quella di ignorarla.
-Era un coniglietto nero- continua Alice – come Oz ma senza il panciotto rosso-
-Ora dormi- conclude la balia, e chiude la porta.
Alice giace rigida nel buio. Flette le dita. Pensa. Canticchia un motivetto che le risuona sempre in testa. Attende e dopo un po’ lei giunge, come tutte le sere. Alice la guarda volteggiare, ascolta il lento battere del suo cuore, tutto è così delicato in lei. E’ la sua migliore amica, il suo riflesso, il suo angelo custode. Ed è bellissima. Ogni giorno vola ai confini di quello strano mondo sotterraneo per poi tornare da lei, implorarla di lasciarle il posto, solo per poco, solo il tempo di vedere quella persona. Ad Alice quella persona non piace, sorride troppo e bisogna diffidare di coloro che sorridono troppo, lo ha letto in un  libro e le è sembrato una constatazione ragionevole. Ma Alice ha promesso e intanto osserva e attende. Con pazienza.

 

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Capitolo 4
*** Alice attraverso lo specchio ***


Of all the strange things that Alice saw in her journey Through The Looking-Glass, this was the one that she always remembered most clearly. Years afterwards she could bring the whole scene back again, as if it had been only yesterday—the mild blue eyes and kindly smile of the Knight—the setting sun gleaming through his hair, and shining on his armour in a blaze of light that quite dazzled her—the horse quietly moving about, with the reins hanging loose on his neck, cropping the grass at her feet—and the black shadows of the forest behind—all this she took in like a picture, as, with one hand shading her eyes, she leant against a tree, watching the strange pair, and listening, in a half dream, to the melancholy music of the song.

 

Alyss/Alice


Guida creata da il blog di Lisa.

Alice le aveva detto di fare attenzione poiché il tempo non era molto. La stanza nell’ala ponente, quella che guarda verso la torre, così aveva detto. “Me lo sono fatta dire da Glen ma non ti devono scoprire oppure ci rinchiuderanno per sempre e non usciremo mai più. Non portare con te Cheshire, potrebbe fare rumore”.
Alice trattiene il respiro, stringe Cheshire al petto decisa a portarlo con sé, quel cattivo di Vincent potrebbe  approfittarsi della sua assenza e fargli del male con quella forbici orribili che nasconde sempre nella blusa. Alice odia Vincent, lo odia!Lo odia! Lo odia! Forse è stato sempre lui ad uccidere il coniglio. Vorrebbe piangere ma non ci riesce. Fra un minuto verrà il mattino, vede la luce che delinea le tende, fuori nel giardino gli uccelli già cantano. Verrà mattino e Alice ritornerà e lei resterà di nuovo sola. Quando la luce grigia penetra nella stanza, si veste e si avvicina furtiva alla porta. La sua carceriera, la balia dalla veste blu, starà dormendo sicuramente. A piedi scalzi attraversa il bosco, l’erba è umida e l’odore  è piacevole nelle narici; la porta delle cucine, i lunghi corridoi che portano alle scalinate, giunge sul ballatoio. Silenzio. Si fa coraggio. Non riusciranno a tenerla lontana i Baskerville che la disprezzano. Oswald che si affanna a portarglielo via, come Vincent e quel suo fratello dagli occhi d’oro. Non passa per la scala di servizio, una cameriera potrebbe essersi alzata e magari vederla. La scala principale è più sicura. Poi il corridoio laterale e un altro, un altro ancora. Passa davanti alla stanza dell’argenteria e a quella della porcellana, alla camera delle governanti, alla dispensa. Alice conosce bene quel labirinto poiché lui glielo ha descritto un sacco di volte. Quando si avvicina ad uno dei saloni sente delle voci…ma poi supera un angolo ed è al sicuro. Spinge una porta rivestita di feltro verde e, con il cuore in gola, si ferma. Sulla destra c’’è una stanzetta spoglia con un letto di ferro e un lavamano. La stanza, dove anni prima dormiva il valletto di turno, non è più usata. Di fronte c’è la scala che conduce allo spogliatoio. Alice sa che le è vietato salire, ma non importa. Non hanno il diritto di tenerla lontana da lui.
Sale furtivamente. La porta in alto è chiusa e Alice origlia. Sente dei passi, un fruscio di gonne… forse una cameriera? Un tintinnio di vetro sul metallo, un mormorio, poi silenzio. Ma Jack è vicino. Alice lo sa e, sebbene non osi andare oltre, quella certezza la rasserena. Si lascia cadere sul pavimento e si raggomitola come un animale. Immagina se stessa nella mente di Jack perché lui comprenda che è lì, che è lei, la sua piccola Alice, Alice che lo ama. Chiude gli occhi. Dopo un po’, Alice si addormenta.

Quando apre gli occhi la testa le fa un po’ male, spaventata da quel luogo sconosciuto si alza di colpo, volge lo sguardo ad una delle finestre, è l’alba e lei non si trova dove dovrebbe. Spinge la porta , guarda il letto. Le tende ondeggiano e la spaventano. Si avvicina cautamente , tende una mano e scosta la sovraccoperta, i cuscini la rassicurano, sono puliti e non recano l’impronta di una testa.  Rimette a posto la sovraccoperta, si allontana dal letto, si aggira toccando i mobili. Lo schienale di una sedia, un’altra sedia… va nello spogliatoio e poi nel bagno, accende le luci. Guarda la vasca in rame, le leve e i rubinetti, le meraviglie dell’impianto idraulico che lui si vanta di aver inventato. Prende dal lavabo una saponetta al giglio, la mette in tasca e torna in camera da letto. Sul cassettone ci sono gli oggetti personali di quell’uomo tolti dall’abito della sera probabilmente. Qualche moneta, una scatolina di quarzo bianco vuota; l’orologio da taschino con la catena; un fazzoletto candido di lino.
Alice prende il fazzoletto ma è fresco di bucato, non ha l’odore di quell’uomo, ma forse a lei farà piacere ugualmente. Afferra l’orologio per la catena. Ne apre la cassa lucida, ha la stessa melodia che Oswald suona al piano, guarda il quadrante notando che nessuno lo carica da giorni e quindi è fermo. Le lancette puntano in direzioni opposte. Alice chiude la cassa e stringe l’orologio prima di riporlo sul cassettone. Guarda di nuovo il letto e il letto è sempre deserto. Quell’uomo non vi ha dormito e lei deve avere pianto per questo.  Poi si muove di sbieco e si avvicina allo scrittoio tra le finestre.  I cassetti non sono chiusi a chiave. In quello in basso a destra, sotto fogli e bozze di stampa, c’è un nécessaire di legno per scrivere. Chiuso ma la chiave è appesa alla catena dell’orologio. Alice stringe la lingua fra i denti, si china e si concentra. Inserisce la chiave, la gira. Dentro c’è un fascio di lettere bianche; Alice non le esamina. C’è un quaderno con la copertina nera, Alice ha timore di toccarlo, tende le mani, le ritrae. Finalmente prende il quaderno, non ha la copertina rigida, si può arrotolare come un giornale. Qualcuno potrebbe sospettare di lei? Forse no ma è certa che una persona in particolare non la perdonerebbe. Richiude il cofanetto, il cassetto, rimette l’orologio sul comò. Non guarda lo specchio: ne ha paura. Sarebbe terribile; forse la chiamerebbe con un cenno.  Iniziano i rumori, la grande casa dei Baskerville si sta svegliando, Alice deve fare presto. E’ tardi!  E’ tardi!E’ tardi! Presto!

 

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Capitolo 5
*** Alyss ***


Abyss


Guida creata da il blog di Lisa.


Fu il coniglio a far decidere Alice. Se il coniglio non fosse morto così, lei non l’avrebbe mai fatto. Lei non aveva visto morire sua madre ma il coniglio morì sussultando. Gli occhi gli divennero opachi. Morire è doloroso, pensò Alice…sì, lo so. Morire è un liberazione…si, lo so.  Alice era cattiva, cattiva perché non si accorgeva di quanto lei soffrisse, di come lei fosse morta proprio come il coniglio. E le forbici. Erano state le forbici, non Vincent , ma le sue forbici. Le forbici avevano una voce metallica, come ruggine mista a sciroppo, o forse era la voce di Jack. Era stata la voce di Jack a far del male ad Alice! Doveva guardare? No, non poteva. O si poteva. Ma anche se urlava, se supplicava, Alice non si era fermata. La sua mano non si era fermata, le aveva tolto tutto, ogni cosa. Una cattiveria così enorme! Alice si sentiva morta, più morta del coniglio. Non poteva muovere i piedi, le mani, la lingua e gli occhi. Vedeva Jack e provava pena. Vedeva Alice e provava dolore. Vedeva se stessa e… “lo ucciderò!” C’era tutto il tempo per fare i piani… “è colpa sua!” dichiararono il guardaroba e il letto. E la porta ribadì: “lo merita!”
Ma Jack aveva quel viso terribile, quegli occhi pieni di rabbia e  disperazione…era disperato per lei? Stringeva l’orologio e piangeva.  “Non devo farlo. No” Alice non poteva, tutto quell’amore e tutto quell’odio le facevano dolere la testa,  avrebbe distrutto tutto in mille pezzi per non ricordare, per non sentire più quel dolore. Inghiotti, inghiotti, inghiotti; nero, nero, nero.  Ballò, come fa quando è arrabbiata. Tutto si spezzò. Abyss ha tanti nemici, tutto vogliono qualcosa da lei… tutti chiedono e chiedono e chiedono… sprofondano in quel mondo con la pretesa di poter tornare indietro.
Non sei stata tu. Stai tranquilla. E’ stato Jack.” così diceva la voce, così diceva Alice.
“Guarda nei suoi occhi” suggeriva. E lei vi guardò, vide subito quell’odio nero e puro, profondo come l’acqua più profonda. Ma lei lo aveva amato subito e Jack doveva averla ricambiata immediatamente. Non poteva essersi illusa. Non lo ricordava. “Sei il mio gemello” gli diceva “ se scruti nei miei occhi, Jack, puoi annegarvi”. Allora entrarono nello specchio e furono vicini. Un giorno lo sarebbero stati ancora di più. Alice cercava di dirglielo. Diceva: Guarda, Jack, noi giaceremo fino alla fine del mondo. Le nostre bocche si uniranno. Ci sarà una simmetria. Non vedi noi due insanguinati dalla testa ai piedi, l’unione più perfetta…? Un uomo e una donna, io e te, amanti e assassini.  Ma poi Alice gridò che no! Era sbagliato! Disse che era un luogo di tenebra e non voleva andarci. Perciò lei vi andò da sola. Sola. Sempre sola. All’inizio aveva paura; poi scese sempre più in fondo. Divenne coraggiosa. Scavò con le mani, sempre più in fretta, tutto il giorno, tutto ieri, tutto oggi. Alice credeva che, se si scavava nel buio, per quanto fosse possibile, se ne usciva, si giungeva al di là, dove la luce purificava.
Sei qui Alice, diceva. Posa i tuoi fardelli. Guarda la bellezza del mondo. Vedi? Le foglie sono inevitabili. L’erba cresce. Il giorno segue la notte. I pianeti seguono il loro percorso. Un uomo muore e nasce un bambino. Questo è il mondo. Questo diceva la luce al di là della tenebra. Non piangere più, diceva. Ora puoi riposare, Alice.

 

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Capitolo 6
*** Levi ***



Guida creata da il blog di Lisa.

"Mia cara, tu sei intelligente. Non fingere di essere stupida. Guarda tutta quella gente là fuori, guarda me. Sono tutto ciò che detestano, ne dubiti? Mi ossequiano, a volte mi cercano, spesso mi temono. La mia abilità e il mio nome sono a loro disposizione, perché così ho deciso. Se vogliono credere che lo faccio per un qualche obbligo, che importa? Le opinioni del mondo mi sono indifferenti. Tu probabilmente stai giungendo alla mia stessa conclusione anche se, c’è da dirlo, i legami sono le tue vere catene.”
Lacie tace, le parole di Levi la fanno sentire piccola, come forse lui vuole. Si volta a guardare oltre la finestra, giù sulla terrazza, i nasi delle persone ancora puntati alla volta stellata.
“Quelli?” Lacie li indica “Quelli? Non tutti sicuramente. Non puoi certo includere mio fratello.”
Si alza. Sa che l’allusione al futuro Glen Baskerville è audace e scortese perché implica un rimprovero. Lacie si sente più forte e in grado di sostenerne lo sguardo. Ne esamina la carnagione pallida, i capelli che hanno il colore del manto della volpe argentata, gli occhi impenetrabili. Approvava quel volto, le piaceva il lusso vistoso dell’abbigliamento, più gradevole di quello convenzionale degli altri uomini. L’intelligenza, la  diversità, quell’innocenza crudele che tanto è stata in grado di ferirla. Le piacciono la ricchezza della voce e la collera che si manifesta priva di impeti, come la superficie immobile di uno stagno che poi t’inghiotte a tradimento. Le piace che, come lei, non appartenga a quel mondo dalla mentalità ristretta in cui entrambi sono costretti a muoversi. E soprattutto le piace il fatto che quell’uomo non cerchi di nascondere l’interesse per lei. Il suo sguardo sembra diventato un’aperta valutazione sessuale e sembra che si diverta perché sorride.  Così è giusto, si dice Lacie, i momenti più riusciti devono essere temperati dall’humour. Lacie ricambia l’occhiata e pensa che la rotta intrapresa, quella che l’ha fatta correre fin lì senza voltarsi indietro un solo istante, non sia più soltanto una sfida, un mezzo per raggiungere uno scopo, ma un gioco gradevole e attraente.
“Non credo tu mi piaccia, Levi”, annuncia d’improvviso piroettando su se stessa.
“L’immaginavo. Comincio a capire di averti sottovalutata, mia cara.”
“Oh non mi hai mai sottovalutata, questo lo so bene. Non mi guardavi, ecco. Adesso invece mi guardi con più attenzione.”
“Sei venuta qui per questo? Perché ti guardassi?” Levi si rilassa contro lo schienale.
“Soprattutto.”
“ E perché vuoi che ti guardi?”
“Perché ho preso in considerazione la tua richiesta. Colpa della cometa, credo.”
Levi sorride.
“Davvero? Interessante. Ma io potrei aver cambiato idea.”
“Non lo credo, non ora che mi hai davanti.”
“Bene, bene, bene.” Levi si alza, le si avvicina di un passo, le scruta il viso “ sei molto franca, cosa insolita per una donna. E molto precisa, “soprattutto”, hai detto. Ci sarebbe qualche altra ragione per indurmi a guardarti?”
“Certo. E non credo dovremmo prolungare ancora per molto questo nostro tempo. Lo chiamano fare l’amore, giusto? Ma è davvero troppo buffo chiamarlo così. “Fare l’amore”. Non trovi divertente questa frase?!”
“Ora?”
“Potremmo cominciare.”
Levi ride e provoca, “ e la mia posizione in questa casa…gli invitati.”
“Sarebbe commovente se davvero ti importasse, Levi. Adesso però mi sto annoiando a giocare.”
“Cosa ne penserebbe Oswald? E quel tuo particolare amico? Vuoi dirmi che non ci hai pensato?”
“Mi era parso di capire che tutto questo riguarda solo me e te. Dopotutto tu sei un gentiluomo.” Il dolce immancabile sarcasmo di Lacie.
“Un gentiluomo ti rifiuterebbe. Ti allontanerebbe con un’educata ramanzina nel migliore dei casi…o qualche sculaccione”
“Sei uno strano tipo di gentiluomo. Se avessi pensato che mi avresti trattata come una bambina non sarei venuta qui.”
“Naturalmente.”
Silenzio. Si scrutano con una certa diffidenza, in lontananza si possono distinguere le voci degli ospiti che passeggiano nei giardini.  Ma Levi e Lacie non se ne accorgono, continuano a fissarsi, sebbene nei loro sguardi vi sia una strana cecità.
Dopo un poco Levi  si accosta di un altro passo, le solleva il mento con una mano, le gira il volto da una parte e dall’altra come un ritrattista con una modella. A quel contatto, per la prima volta, Lacie lascia trasparire un po’ di agitazione. Gli prende le mani.
“Dimmi che cosa vedi”
“Vedo…” Levi risponde lentamente “una donna. Una bella donna. Un viso interessante, il viso di chi vuole cambiare le leggi. Vedo una bambina e questo mi spaventa perché si dovrebbe diffidare delle giovani donne ed io non sono un seduttore di bambine. Una donna intelligente, però, forse una predatrice.”
“Dimmi cosa vedi!” gli occhi del diavolo si dilatano appena, un cremisi intenso eppure vacuo come luce del tramonto su uno specchio d’acqua.
“Vedo te, Lacie.”
E Levi vorrebbe aggiungere che, probabilmente, entrambi non hanno scrupoli, che lei è  provocante in un modo tutto suo. Ma è certo che questo Lacie lo sappia già, che non le importi. E tutto somamto…sì…quello che stanno per fare…quello che stanno per fare ha uno scopo.
Levi china la testa e la bacia sulle labbra. Forse doveva essere un bacio rapido, quasi casto, ma l’intenzione non si realizza. Diviene un bacio protratto, intimo, che sorprende entrambi.
Si staccano, si guardano. Lacie gli si addossa contro, Levi la stringe, la sente emettere un sospiro che potrebbe essere di piacere o di angoscia. Gli prende la mano e se la preme sul seno, una strana estasi rabbiosa. Quando Lacie si ritrae, nessuno dei due è composto. Si guardano con cauto rispetto, come due combattenti. Gli occhi di Lacie brillano. Sorride, poi ride.
“Dimmi che non te l’aspettavi.”
“No, non me l’aspettavo.” Levi ha negli occhi un’espressione divertita, “perché tu te l’aspettavi?”
“Sospettavo…avrebbe potuto essere dimenticabile.”
“E non lo è stato?”
Lacie sorride enigmatica senza rispondere, Levi sta per prenderla fra le braccia un’altra volta, ma deve attendere. Lacie spalanca le braccia, come un uccello ferito, o in procinto di spiccare il volo, un suicida che si butta nel vuoto, si abbandona sul letto con un tonfo. Fuori la notte ha divorato ogni stella.

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Capitolo 7
*** Glen & Alice: Kaleidoscope ***


Glen & Alice: Kaleidoscope


Guida creata da il blog di Lisa.

Glen si ferma appena oltre il gazebo. Tra gli alberi si scorge una macchia blu. Esita, poi avanza di qualche passo. Nel boschetto di betulle, con la schiena appoggiata ad un tronco argenteo, c’è Alice . Ha un’espressione concentrata, la testa china. Glen si avvicina di un altro passo. Alice scrive piano piano, come se ultimasse un compito. Scrive su un quaderno dalla copertina nera . Sembra assorta. Anche quando Glen calpesta un rametto ed un cardellino si alza in volo spaventato, non alza la testa.
Glen ne è in qualche modo affascinato, e a volte se ne risente. Gli piace studiarla soprattutto se lei non sa d’essere osservata; gli piace guardarla come a un bambino piace guardare in un caleidoscopio. Lo incanta vedere i disegni che mutano, si riformano e splendono, sono fulgidi e complessi e non si ripetono mai. Deve esisterne un numero finito, ma la rapidità abbagliante con cui si alternano lo lascia sempre stupito. Preferisce credere che siano infiniti e infinitamente casuali.
Glen conosce i caleidoscopi, da bambino il suo predecessore gliene aveva regalato uno. Una volta, per cercare di risolvere il mistero, l’aveva fatto a pezzi e s’era ritrovato in mano un tubo di cartone e una manciata di frammenti luccicanti. Mescolati nel palmo della mano, i colori si offuscavano, e la varietà e i contrasti sparivano. Aveva imparato la lezione: Alice lo affascinava perché la osservava da una distanza di sicurezza. Non intendeva guardarla più da vicino. In pochi mesi era molto cambiata, stava inventando se stessa. Più tardi, quando fosse arrivata alla perfezione di un’opera d’arte, Glen avrebbe continuato ad ammirarla per l’energia del suo capolavoro; ma in un certo senso l’ammirava di più all’inizio, ancora un po’ rozza, indomabile. L’energia sempre formidabile di Alice era allora tangibile come un campo di forza. La irradiava a tal punto che a volte aveva l’impressione che, se avesse teso la mano sopra la sua testa, avrebbe percepito il fremito dell’elettricità statica.  Alice era piccola, scattante, imprevedibile. Il viso aveva la plasticità naturale di quello di un’attrice, poteva apparire mesta come un clown e un attimo dopo diventare imperiosa come una regina. I capelli, che la sua risentita balia spazzolava religiosamente cercando di domarli, avevano una volontà propria. Alice era ancora troppo giovane per portarli rialzati, e quindi le ricadevano sulle spalle, neri, folti, ruvidi e abbondanti come la criniera di un cavallo. La domestica non sapeva più che fare: anche quando Alice si comportava nel migliore dei modi, quei capelli le conferivano l’aria di una zingara.
Alice non aveva mai imparato a fare la signora; se poteva, accavallava le gambe, sedeva sul pavimento, correva. E muoveva di continuo le mani. Mani piccole, parlanti. Mentre la osserva, Glen ricorda  di aver visto raramente Alice vestirsi di tinte smorzate o pastello. I suoi abiti sono sgargianti come il piumaggio del pavone: scarlatto, viola elettrico, giallo calendula, azzurro iridescente così intenso da ferire gli occhi…erano i colori che preferiva. Li indossava e si pavoneggiava. Cose strane, talvolta eccessive e le usava per far emergere sé stessa. Una creatura ricca di contrasti. “Guardatemi,” diceva, “Io diverto!Non potete addomesticarmi! Guardatemi, guardate come scintillo quando danzo!”
Quel giorno, nel boschetto di betulle, Alice portava un abito blu acceso come i cristalli dell’acido prussico. All’inizio era semplicissimo, ma adesso era ornato da uno zigzag di passamaneria scarlatta a picot che le avvolgeva la vita e saliva intorno ai seni.
Plum-pudding era un regalo di Levi, uno spaniel con l’aria sfacciata e la coda a pennacchio. Era assetato d’affetto e chiedeva carezze a Alice senza il minimo ritegno. Glen si sentiva stranamente commosso dallo spettacolo. Chi non sapeva d’essere osservato era indifeso. Di solito le difese di Alice erano impenetrabili persino per lui. Ora, poiché non lo vedeva e non cercava di provocarlo o di sfidarlo come faceva spesso, Glen poteva abbandonarsi alla tenerezza che nutriva per lei, senza remore. Sembra una bambina, ha l’aria mesta, assorta e solitaria, con il suo cane, il quaderno e la matita. Che cosa scrive?
Glen sta per avvicinarsi quando Alice chiude il quaderno e alza la testa.
“Oh, Oswald”, esclama. “Mi hai fatto paura.”


Note: Scrivere sul periodo Sabrié è un “vizio” che fatico a togliere. Questa one-shot è stata parecchio travagliata poiché era nata per Oswald e  Jack, poi l’avevo convertita in una Levi e Lacie ma alla fine è saltata fuori questa visione di Oswald e Alice ed ha battuto le opzioni precedenti.  Mi piace tratteggiare Alice, darle delle caratteristiche riconducibili a Lacie. Sul fatto che Oswald ha visto molto poco Alice vestita di colori tenui qualcuno potrebbe storcere il naso pensando allo scambio con Alyss, ma ritengo che Alyss non avendo particolare simpatia per Oswald fosse molto restia a mostrarsi quando lui era nei paraggi ed è risaputo invece che Alice voleva bene al caro Glen ^^”. Il fatto che Oswald osservi Alice da una distanza di sicurezza e che poi la paragoni all’inganno del caleidoscopio è nella mia ottica un modo di Oswald di proteggersi dal suo dolore per Lacie. Mi è sembrato abbastanza plausibile nonostante i dubbi non manchino @_@
So che Plum-Pudding non è presente nel manga ma, un po’ perché mi occorre per un altro capitolo, un po’ per contrasto con Cheshire di Alyss, mi piaceva l’idea di introdurlo. Il nome mi sembrava sufficientemente inglese e vittoriano direi  ed inoltre il corpo di Snap- Dragonfly  che è presente in Alice in Wonderland è fatto di plum pudding.

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Capitolo 8
*** Jack ***


Jack


Guida creata da il blog di Lisa.



Guarda l’oscurità e  il tempo che inizia a danzare. C’è un cavallo a dondolo che aveva avuto da bambino, con la criniera folta e le chiazze bianche  e nere sui fianchi. C’è il panico della folla che si disperde intorno a lui, e gli applausi e il ronzio di un milione di mosche, il suono del mare in una conchiglia. C’è suo padre, e le porte di Villa Vessalius sono chiuse; Jack le scuote e il suono si mescola al tintinnio dei braccialetti di Miranda. C’è sua madre, profumata di lavanda, che si china sul letto e gli nega il bacio della buona notte. E c’è Lacie che lo tiene fra le braccia e dietro di lei ogni cosa brucia e rotea, all’inizio lentamente, poi più in fretta, così in fretta che Jack spalanca ancora di più gli occhi. Ciò che vede è così bello da farlo gridare di meraviglia. Colori così nitidi nell’aria che può sentirne l’odore; forme così fluide e composte da poter essere udite; una musica così rossa che può percepirne il sapore sulla lingua. Un universo di luce; una stanza in paradiso. Alza la mano, lentamente, davanti al viso. Vede le sue dita, il palmo della mano, le nocche e il polso. Vede oltre la pelle, i muscoli, le vene, il fiume delle arterie e il dolce,sicuro, battito del suo cuore. C’è la struttura dei tessuti, vede e capisce il meccanismo dei muscoli e dei nervi. China la testa, guarda meglio, ora può vederla.
Così vicina. Dentro di lui. Non lontana e priva di sostanza, ma lì, sotto pelle, nelle ossa. In ogni particella, ogni gene, anche solo nella flessione del dito. Jack alza gli occhi dalla mano. Nella stanza sfolgorante le stelle si muovono e danzano i pianeti; sente cadere il sale delle lacrime, può vedere le parole che pronuncia librarsi dalle sue labbra e salire dolcemente, una voluta di parole delicate come farfalle che guizzano contro il bianco e il rosso, lo zaffiro e il verde. Fioriscono sul nero dei capelli di Lacie, e sulle mezzelune delle palpebre chiuse. Svolazzano sul collo bianco, sulla lunga curva della spina dorsale. Ombre e valli; l’aria color malva come il fumo di legna. Il cuore muto.
“Lacie.”
Tocca quel nome, lo sente vibrare.
“Lacie” ripete “Lacie, Lacie.”
Ogni cosa si frantuma. Jack guarda l’universo gonfiarsi e distorcersi, spezzarsi in un milione di frammenti. L’aria è ingrigita dalle macerie.
Voi non capite. Non potete vedere.” dice a coloro che non possono più parlare, non possono più sentire, nonostante quelle parole siano state gridate nelle macerie.
Sogna la scala e la porta della torre, sogna di poter chiudere la porta per tenere fuori le macerie, sogna il suono delle macerie che, fuori, bussano. Immobile, al centro della stanza, in attesa che lei torni, che faccia risplendere il buio. Oltre la finestra le stelle si possono toccare, la luna si può cogliere come un’arancia. Sa di poter volare. Ha già volato una volta, in occhi cremisi, lo avevano scosso da una montagna all’altra senza pietà. Gli sembra importante ricordare quando e dove… e mentre sale sul davanzale, il ricordo giunge come una visione. Era in cima alla scala e guardava una sala da ballo. Fuori il mondo brillava di neve, gli alberi erano argentati dalla brina. Ma dentro il palazzo era caldo e fragrante. Donne e uomini volteggiavano in un turbine di abiti. Nell’aria fresca della notte,un suono, dapprima fioco e poi più forte. Musica, dolce musica rinchiusa nella cassa di un orologio, il suono delle stelle e dei pianeti che ballano il valzer. Un ritmo perfetto, l’amore perfetto. Lei non lo guardava ma lui sapeva che lo stava chiamando con una voce  fredda e luminosa come la cometa. Pallida come il chiaro di luna, scura come la notte, con gli occhi di diamanti,  lo chiama.
“Eccomi,” grida Jack “porto il mondo da te.”
Quando si tuffa nell’oscurità volando verso il basso, l’aria canta.

 

Note: questa parte, per il suo aspetto “folle”, ricorda il capitoletto dedicato ad Alyss, ma onestamente non mi venivano frame razionali e lucidi da attribuire a Jack durante la tragedia di Sablier^^”

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Capitolo 9
*** Shelly ***


 

Shelly


Fa un cenno al cameriere e suggerisce a Break di provare quel che chiama “il budino”.
“Devi assolutamente. Qui hanno molti dolci. Sono sicura che ti piaceranno”, adocchia il carrello “ possiamo assaggiarne di diversi.”
Break mangia le paste, poi accende la pipa. Anche Shelly ogni tanto fuma…ma come una novellina, a piccoli sbuffi. Guarda il lago oltre la terrazza della pasticceria, come se fantasticasse. Sembra serena. Break è affezionato a Shelly fin da quando l’ha conosciuta, pensa che sia buona o che si sforzi di esserlo. Non molti si danno tanto disturbo. Shelly si è  tolta il cappello di paglia e l’usa per sventolarsi il viso. Si volta verso la promenade. Una striscia di luce le investe i capelli, ramati come gli aceri d’autunno. Il pallore della carnagione, nel contrasto, è straordinario. Sugli zigomi e sul naso ha una lieve spolverata di lentiggini. Attirano l’attenzione sugli occhi, che devono la loro bellezza non tanto alla forma quanto all’espressione tranquilla.  Ha una qualità che Break  trova difficile da definire, ma che è evidente in ogni gesto. Le basta un sorriso, posare anche solo la mano sul braccio di una persona, e Break può vedere compiersi un processo misterioso, una sorta di transfert da Shelly alle persone con cui entra in contatto, un flusso intenso di energia. Un’energia che da pace… ma “energia” sembra un termine sbagliato per qualcosa di tanto sereno. In mancanza di una parola più adatta, Break dirà in seguito che Shelly possedeva la grazia.
Al termine del pomeriggio si incamminano verso la stazione. Il sole è tiepido, la strada polverosa. Break fischietta. Shelly si ferma, toglie il cappello e alza il viso verso il sole.
“Forse non è giusto”, Break la guarda serio “ma mi sento sereno. In pace.”
“Hai fatto pace con i tuoi fantasmi, Break?”
“No. Ma li sento. Come speravo. Come fossero vicini. So che quelle persone sono morte, ma le sento. Credi sia la mia immaginazione?”
“No” Shelly ha un’espressione comprensiva “ il bello di questo strano mondo è che ci sono tante cose che non si possono spiegare. E il tuo forse è un sesto senso. O l’ottavo o il decimo. Ma esiste.”
Shelly gli prende il braccio “ tu esisti, sei qui. Non è meraviglioso!”
“Non lo definirei meraviglioso ma… voglio vivere, voglio davvero vivere, Shelly, ed il merito è tuo.”
Break guarda la strada bianca, i fiori, il trenino che entra sbuffando nella stazione. Shelly gli stringe dolcemente il braccio. Break sente l’energia irradiarsi da quel calore, sente lo splendore della giornata e la serenità della valle che lo avvolgono. Il cielo è  azzurro con qualche nuvoletta bianca. Il momento ha  una sorprendente perfezione, non cambierebbe nulla, neppure un filo d’erba. La consapevolezza fa parte integrante di quella giornata. Lo addolora ma, la sofferenza rende più acuta la bellezza che lo circonda. Una poesia che rimane sospesa ai margini della coscienza.
“Va tutto bene” dice alla fine. Aspira l’aria, “credo nel domani…oggi. Ieri non ci credevo. Oggi sì. Non mi aspettavo che succedesse. Forse è il sole o l’aria. Tutto l’insieme. Ci sei tu e la piccola Sharon. Ed io non merito tanto. Ma non importa”, sorride malinconicamente, “non badare a quel che dico. Parlami Shelly. Parlami delle parole, le tue parole.”
“Vuoi ascoltare una poesia?”
“Sì. Dimmi una poesia.”
Shelly sorride “D’accordo.”
Incomincia a recitare un sonetto che sa a memoria e che s’intona a quel giorno, alla passeggiata, alla strada bianca, alla stazione e al vapore sbuffante del treno.

 

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Capitolo 10
*** Sharon ***


 

Sharon


“Volevo che tu lo sapessi, che lo sapesse mamma. Continuerò io. Tutto.  Oh, so che ho tanto da imparare, ma imparerò se m’insegnerai” esita  “so quanto hai fatto, so quanto bene volevi a mia madre e quanto ne vuoi a me…” s’interrompe di nuovo e china la testa. Break è commosso dalla sua impetuosità, la guarda teneramente. Dopo un momento le prende la mano e Sharon risponde alla stretta, alza il viso con occhi splendenti, accesi dall’incertezza e da una supplica. “Posso? Credi che ne sarò in grado? A volte sono così sicura che ce la farò. Lo so. Altre volte ho paura. Penso che è difficile, enorme, e allora sento che è una vanteria stupida. Una fantasia.”
“Cara Sharon, quando avevo la tua età sai cosa credevo?”
“Dimmi.”
“Credevo che tutto fosse possibile. Tutto. Se lo desideravi abbastanza. Se eri abbastanza deciso. Ne ero certo, allora.”
Sharon abbassa lo sguardo “lo pensavi allora? Non avevi ragione?Io sono sicura che l’avessi. Lo sento anch’io, adesso, è proprio ciò che sento io.”
“Forse avevo ragione” Break sorride ma distoglie lo sguardo, “credo che quella certezza , quella decisione, possano condurre molto lontano. Ci saranno sempre alcune cose che non puoi controllare…”
Non termina la frase, pensa a Shelly, che nessuna forza di volontà  al mondo potrà riportare in vita. Ma Sharon è una bambina, pervasa dalla certezza della gioventù, forse non segue i suoi pensieri, forse ha smesso di ascoltare. Ci sono due chiazze di colore sulle sue guance, e le labbra sono atteggiate ad un’espressione che a Break ricorda Shelly. “Io non voglio credere nei limiti. Mamma non ci credeva. Ci riuscirò, vedrai. Te lo giuro. Lo giuro…” Sharon stringe la mano di Break più forte e lui comprende che la ragazzina ha bisogno di quella fede, di quella solennità, di un giuramento. Non risponde nulla ma seguita a guardarla.
Sharon rimane così, con la mano tesa in un gesto rigido, il viso sollevato verso le finestre e i giardini. Poi d’improvviso, come se si vergognasse, lascia la presa.
“Che silenzio stasera.”
Si volta; e quando Break si allontana di un passo, Sharon l’abbraccia impulsivamente.
“Voglio uscire. Per un po’. Da sola. Voglio riflettere, non ti dispiace?”
“No, vai. Verrò a chiamarti per la cena.”
Quando giunge alla porta, Sharon si volta, aggrotta leggermente la fronte. “Quando avevi la mia età… non ci avevo mai pensato. Una volta avevi la mia età.”
Esita e Break sorride con divertita dolcezza. Sharon sorride di rimando e corre in giardino.

Rimasto solo, Break resta seduto per un po’ nella frescura della stanza. Da altre parti della casa giungono suoni lontani, forse una delle domestiche sta canticchiando mentre prepara la cena. Dall’esterno il tubare dei colombi e il canto degli uccelli. Una sera tranquilla. Break ripensa alle parole di Sharon, all’intensità appassionata con cui le aveva pronunciate. Gli ricordano il passato: Shelly com’era il primo giorno che i suoi occhi stanchi si erano posati su di lei. Pensa a sé stesso, abbandonato nell’umidità di un bosco ad odiare il cielo notturno e le stelle, ai tempi in cui niente aveva più importanza.
“Io non voglio credere nei limiti.”
Forse era importante incoraggiare Sharon sulle possibilità, anche se quel pensiero lo spaventa e lo irrita. Ma dopotutto se non lo credi quando hai undici anni, quando puoi farlo?
Ma teme per Sharon, lo fa soffrire il pensiero che quel fulgore di spirito possa offuscarsi con il tempo e l’esperienza. Lascia il riparo della poltrona, la nostalgia di Shelly lo assale. Rimane immobile, come ha imparato, e attende che la sofferenza si smussi. Si aggira inquieto. La sedia preferita di Shelly, il piano del tavolo dove a volte scriveva le lettere, i dorsi logori dei suoi libri. Alcuni dovevano risalire all’infanzia. Tocca ognuno di quegli oggetti. Prende un libro a caso, tenendolo nella mano per scoprire se si apriva ad una data pagina. Un foglio ripiegato cade sul pavimento, una grafia giovanile. Legge attentamente, e le parole di quella poesia echeggiano nelle orecchie con la voce di Shelly. Ascolta la musica della certezza e la promessa. Tutto questo non ha ieri e non ha domani. Perché Shelly l’aveva copiata? Non lo avrebbe mai saputo ma era sicuro di volerlo scoprire. La sofferenza si attenua, il cuore è calmo, come se la donna fosse nella stanza insieme a lui. Break raggiunge la finestra e guarda la figura lontana di Sharon. Siede al piano posto sotto le grandi vetrate spalancate, inizia a suonare. La musica aleggia nell’aria della sera, si mescola alle ombre e all’odore dell’erba bagnata. Sharon nel prato resta immobile, una forma chiara contro le scure siepi del bosco. Alza il viso per ascoltare la musica che Break sta suonando per lei. Sorride, alza le braccia nude e lentamente inizia a danzare. Gira su se stessa , muovendosi con lenta grazia nell’aria grigia e malva della sera, compiaciuta dalla freschezza dell’erba sotto i piedi scalzi, dalla luce sulla pelle.  Sola nel giardino, sola nella sera, sola nella musica. Smette di danzare, lascia ricadere le braccia lungo i fianchi, leva il viso verso il cielo dove le stelle sono ancora invisibili. Sta sorgendo una luna pallida e nebbiosa , dai contorni sfumati, è liberata nel cielo  e irradia solo una luce velata. In lontananza si sente chiurlare un gufo. Un lungo grido tremulo. Sharon guarda verso il bosco aguzzando gli occhi e lo scorge, una forma scura, il battito misurato delle ali. Vola basso sul prato , senza far rumore, si dirige verso i campi lontani per poi scomparire.
Sharon attende sperando ritorni, ma così non è.  Il colore si dilegua dall’aria, la musica proveniente dalla casa diventa lamentosa, poi di nuovo vivace. Comincia ad aver freddo ma non vuole andarsene. Abbraccia quella sensazione, la culla. Mormora tra sé il nome di sua madre, una volta, due, tre, come un incantesimo. Per un istante può sentirla presente, reale come se le toccasse la mano, e con immensa sorpresa scopre che le lacrime  le rigano le guance, ma non si sente triste. Adesso la musica è piena di gaiezza. Sharon leva in alto le braccia  e ricomincia a danzare. Danza per sua madre e per Break; per il fresco della sera, per la bellezza della musica e per se stessa. E mentre danza pensa: “farò questo e questo…”, una sensazione inebriante e euforica, la fa sentire leggera, felice. Il giardino è silenzioso e buio; il cielo splende. E Break la chiama dalla casa.
Smette di danzare e rimane immobile. Poi, con un lieve brivido che può essere d’eccitazione o di paura al pensiero di tutto ciò che sta incominciando, si volta, lascia il giardino e torna correndo in casa.

 

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Capitolo 11
*** Elliot ***


Elliot



Vanessa e Mary Ann Liddell, la sua migliore amica, figlia di un proprietario d’una tenuta confinante, Mary Ann con cui aveva in comune l’istitutrice, Mary Ann con un carattere dolce, un cervello di gallina, i riccioli biondi e gli occhi azzurri come giacinti…ecco sono tutte e due alla tenuta estiva dei Nightray, con  il fratello di Mary Ann, Hector, Ernest, Claude e Elliot. E’ primavera. I ragazzi si sono arrampicati su una quercia, e lei e Mary Ann sono rimaste a guardare. Naturalmente chi doveva salire più in alto di tutti? Elliot. Sei metri. Nove. Hector e i fratelli Nightray avevano desistito, Elliot aveva continuato. Vanessa lo guarda in silenzio. Accanto a lei, Mary Ann si stringe le mani, sospira, grida rimproveri con un tono che Vanessa non le ha mai sentito usare, fino a che, all’improvviso, un pensiero amaro le scaturisce nella mente: Mary Ann sta incoraggiando Elliot.
“No, basta! Per favore, Elliot, cadrai e io non lo sopporterò.”
E Elliot sale ancora e sul volto di Mary Ann appare uno strano sorriso compiaciuto.
L’impresa di Elliot, quindi, è tutta per Mary Ann? Vanessa se ne è convinta e si ritrova improvvisamente gelosa. Per un momento odia l’amica, la odia per i suoi riccioli  e gli occhi di giacinto e odia anche Elliot che fa l’eroe per lei.  Ad Elliot non importa, presumibilmente, che Mary Ann sia stupida.
Vanessa vorrebbe gridare: “sciocco! Se devi impressionare qualcuno, quel qualcuno sono io!Guardami! Guarda me, so parlare tre lingue, conosco la matematica, m’interesso di politica, leggo poesie e opere filosofiche che fanno sbadigliare Mary Ann.” E tuttavia cosa conta quel che sa fare quando è l’ultima ad essere presa in considerazione da quella famiglia così terribilmente maschilista.  Vanessa si allontana dall’albero contrariata, perché quello sciocco di suo fratello dovrebbe dare retta a lei quando può contemplare due guance rosa e due occhi color giacinto?
Proprio in quel momento Elliot scende dall’albero. Ha spiccato un balzo a tre metri da terra, rotolandosi sull’erba per poi alzarsi illeso. Mary Ann accorre a spolverargli la blusa, assicurarsi che sia sano e salvo. Insospettatamente, con grande gioia di Vanessa, Elliot la scosta.
“Non starmi aggrappata, Mary Ann, mi da fastidio.”
Non ha cercato di addolcire il suo rifiuto. Mary Ann sgrana gli occhi sgomenta. Elliot si allontana.  A differenza degli altri fratelli, sempre avvezzi ai complimenti svenevoli e al lustro del loro nome, Elliot spicca per una genuinità che Vanessa ama profondamente. Che nichilista! Lo canzona di tanto in tanto sapendo di pungerlo sul vivo. Elliot trova quasi una gioia dispettosa a rinnegare tutte quelle convinzioni sacre alla sua famiglia e alla sua classe sociale. La ricchezza,l’influenza civilizzatrice dell’aristocrazia? Elliot le respinge. Elliot è un libero pensatore, e in parte Vanessa lo stima per questo.  In una certa misura è il suo surrogato; esplora eresie di cui Vanessa conosce l’esistenza, ma che rifugge. E’ leale, ostinato nel rifiuto dell’ipocrisia, premuroso verso chi ama e rispetta. Ha un animo nobile, si dice Vanessa. Ha difetti grandi, non meschini. E’ impaziente, impetuoso, arrogante… ma è anche molto intelligente, quindi c’è da aspettarsi una certa presunzione. Non ha nulla che non si possa correggere. Vede Elliot come potrebbe essere in futuro: più calmo, equilibrato, adatto a portare avanti il nome dei Nightray ormai reso opaco dalle scelte paterne che, per Vanessa, sono inappropriate e controproducenti.  Sa di poterlo plasmare, togliendogli di torno influenze che lei reputa altamente negative, Elliot diventerebbe tutto ciò che Vanessa, in quanto donna, non potrò diventare.  Quando si appresta a tornare verso l’albero, Elliot si  è allontanato in direzione del lago. Vanessa prova l’impeto di corrergli incontro ma i suoi passi si fermano a breve quando, stagliati nella luce di un sole prossimo al tramonto, distingue il fratello con quel ragazzino dai capelli scuri intento a porgergli la giacca, dire qualcosa che suona come un rimprovero data l’improvvisa reazione di Elliot e, dopo un breve scambio di battute, allontanarsi insieme dimentichi di tutti gli altri.
Vanessa si rende conto di essere stata sciocca a credere che fosse Mary Ann a costituire un problema.


Note: di questo capitolo non sono particolarmente convinta. Volevo inserire un po’ di brother complex mischiato alle ambizioni di Vanessa, ma temo di essere finita un po’ OOC.

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Capitolo 12
*** Istantanea: Leo ***


Istantanea: Leo



Nella foto scattata da Vincent, Leo è un po’ in disparte e, diversamente da Elliot che fissa l’obbiettivo, tiene la testa un po’ girata, come se non gradisse che la sua immagine venga fissata in una foto. Piccolo e magro in confronto ad Elliot, è vestito con eleganza e la sua posa, con la mazza da croquet in mano, è studiata e volutamente negligente. Ma Vince è un abile fotografo e ha colto qualcosa nel suo atteggiamento. Non solo Leo ha vinto la partita contro Elliot, ma ne è compiaciuto in maniera divertita, e non riesce a nasconderlo. Nella foto, la luce colpisce di sbieco il suo viso e il vento gli scosta i pesanti capelli dalla fronte. Sono capelli neri, talmente scuri da richiamare alcune sfumature bluastre; sotto le lenti degli occhiali si nascondono occhi sensazionali, presentano una lieve diversità nel colore, quello sinistro richiama l’indaco, quello destro il violetto di cobalto.  Fa oscillare la mazza, l’appoggia e sta immobile, sebbene detesti stare in posa.
“Fermi” ordina Vincent, e la macchina fotografica ronza.
“Che giornata” esclama Leo quando la posa è finita e può lasciarsi cadere sull’erba. Tiene il viso levato al cielo, le braccia spalancate, un lieve sorriso gli colora le labbra. Giace riverso e guarda il sole, una ferita di luce contro il vetro spesso delle lenti, ma la sua espressione muta, e la sua faccia pallida e scolpita come quella di una statua, è seria.


Note: A Leo mi ci voglio avvicinare a piccoli passi perché mettere il piede in fallo con lui è molto facile. Ho immaginato un semplice pomeriggio, un Vincent armato di macchina fotografica, un Elliot contrariato per aver perso la partita a croquet e Leo compiaciuto. Una fotografia. Il sorriso oscurato da uno strano presagio nell'aria.

 

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Capitolo 13
*** Gilbert & Vincent ***


Premessa: questo sarà l’unico “what if” dell’intera raccolta, questo perché volevo un Gilbert un attimino decontaminato da Oz ( giusto 10 minuti) e intento ad affrontare una situazione che ho rispolverato da una mia vecchia fan fiction ma che mi sembrava adatta a lui e Vincent. Sempre senza pretese.

 

Gilbert & Vincent


Guida creata da il blog di Lisa.

Forse Vincent dorme, o forse è immerso nel rifugio di Dormouse, il tempo passa a sua insaputa, le persone entrano in quella stanza a sua insaputa. Così è anche per Gilbert che ora entra e siede accanto a lui. Quando Vincent aprirà gli occhi passerà del tempo prima che riesca a realizzare la sua presenza. Ora guarda in direzione della finestra, i suoni sono distanti, smorzati, e anche la luce è differente. Non è fulgida, la finestra sembra più lontana, le tende indistinte. Deve concentrarsi per distinguere il contorno delle cose, forse ieri o forse l’altro ieri aveva pensato di stare diventando cieco e aveva cercato di concentrarsi sul quel pensiero: diventare cieco era senza dubbio importante. Poco a poco i suoi occhi si sarebbero slavati in una pellicola bianca, la differenza di colore non si sarebbe più notata. Poteva essere un sollievo ma quel pensiero non è rimasto fisso abbastanza a lungo per poter essere pienamente valutato. Ondeggiava e svaniva. Forse sto morendo, aveva pensato un’ora dopo o un giorno dopo.  E questo pensiero era luminoso e abbagliante come il sole. Glen non aveva cambiato il passato e lui stava morendo nel presente. Non quello che desiderava, certo. Gil si sarebbe sentito in colpa ed il pensiero di far soffrire Gil è lancinante tanto quanto  il pensiero di essere ancora vivo. Esistere ancora.
Torna la tenebra. Vincent la preferisce. La tenebra è riposante.
Quando la sera i suoi occhi si aprono ancora  la finestra è meno distante, sul davanzale può distinguere…viole? Non la forma dei fiori, ma il loro colore. Tutte le sfumature possibili, dal grigio più opalescente fino a un color uva carico.
“Le vedi?”
Quando Gil parla, e Vincent comprende subito che si tratta di lui, la sua voce è così alta da dargli la certezza di stare ancora sognando. Ma poi la sente ancora, quindi forse non è un sogno. Lentamente, Vincent gira la testa sul cuscino e lo vede: ora più vicino, ora più lontano, magro e intento. Ha in mano qualcosa e glielo porge. Gli passa il braccio dietro le spalle e lo solleva. E’ il mazzolino di viole. Gil le ha portate via dal riparo del davanzale ed ora le sta offrendo a lui. Come quando era bambino, il grigiore di un vicolo annientato da un mazzo di fiori offerto dalle mani graffiate di Gil.
E’ sorpreso di vederle, di non essere cieco. Vorrebbe toccarle ma la mano è troppo pesante per poterla alzare.
“Aspira il profumo. Guarda.”
Gil gli accosta il mazzo al viso, i petali lo sfiorano. Vincent nota che ogni fiore ha un occhio, e gli occhi lo fissano. Le foglie sono venate. L’odore della terra è fortissimo. Si sente annegare nelle viole. Gil gli stringe il polso.
“E’ ora di cambiare la medicazione e di prendere la medicina.”
Vincent scuote il capo. Non vuole medicazioni, sapere che la lama di Glen non l’ha ucciso è una beffa che non necessita di garze e pillole per il dolore.
“Almeno bevi questa. E’ solo acqua. Piano.”
Gli accosta il bicchiere alle labbra e, dato che le labbra non reagiscono, un po’ di acqua gli si rovescia addosso. Gil posa il bicchiere e lo guarda. Forse per l’effetto dell’acqua o il freddo sulla pelle, ma Vincent si accorge di poter vedere Gilbert perfettamente. Distingue le ciocche corvine sulla fronte, il naso affilato, il pallore e la concentrazione del volto. Si accorge che lo sta osservando con un’espressione severa negli occhi.
“Riesci a vedermi?”
Vincent annuisce.
“Di che colore è la mia giacca?”
E Vincent vorrebbe sorridere perché non servirebbe certo la capacità visiva per poterlo indovinare.
“Nera.”
La parola impiega molto tempo per giungere alla superficie. Gil si alza, avanza nel vortice dei colori, riappare. Tiene in mano uno specchio.
“Mettiti a sedere.”
Lo sistema contro i cuscini, poi gli accosta lo specchio al viso.
“Guarda. Ti vedi? Guardati, Vincent.”
Vincent guarda. All’inizio lo specchio è grigio e appannato, madreperlaceo come l’interno di una conchiglia; ma vuole obbedire a Gil e quindi vi scruta dentro. Batte le palpebre, dopo un po’ scorge un viso.
Conosce quel viso ma ha in sé qualcosa di sconvolgente. Cinereo e con le ossa che spiccano aguzze; ci sono delle piaghe intorno alla bocca, gli occhi infossati e cerchiati d’ombra. Ora è ancora più facile cogliere la loro differenza. Fissa incerto quel volto, e le sue mani cominciano a muoversi spontaneamente, con piccoli gesti sul fresco delle lenzuola.
Gilbert  posa lo specchio, prende una mano di Vincent, la solleva, cingendogli il polso con le dita.
“Vedi come sei magro? Hai i polsi come fiammiferi. Potrei spezzarli senza fatica.”
Gilbert sembra in collera. Quella collera che Vincent conosce e lo seppellisce ancora e ancora nella colpa.
“Voglio che ti alzi”
Gilbert scosta le coperte.
“D’accordo. Se non vuoi camminare non dovrei farlo. Ti aiuterò io.”
Lo cinge con la forza di quel solo arto e Vincent vorrebbe aiutarlo ma le forze sono introvabili. Quell’improvviso movimento gli da le vertigini, la camera oscilla, le sue mani cercano invano di afferrarsi al bavero della giacca di Gil. Lo porta alla finestra. La spalanca e lo conduce sul balcone. L’aria li investe, l’odore di pioggia,  le sagome scure degli alberi…
“Piove” mormora Vincent.
“Sì, piove. Piove forte e ci sarà un temporale.  E’ già nell’aria. Senti la pioggia? La senti sul viso?”
“Si.”
Abbandona la testa sulla spalla di Gilbert, lascia che la pioggia lavi quel che non si può lavare. Chiude gli occhi e la sente battere sulle palpebre, le guance, la bocca. All’inizio è piacevole. Poi l’acqua si fa più intensa, più fredda, Gilbert si ammalerà se rimarranno ancora lì.
“Riportami dentro.” La voce lo sorprende, è la sua voce di un tempo, solo più incrinata. Gilbert non si muove e lui ripete la richiesta.
“Riportami dentro.”
“No.” replica Gilbert, e in quel momento Vincent comprende che suo fratello è in collera come non lo è mai stato.
“Senti quello che dico, Vincent? Capisci?”
“Si” ma prima che Vincent possa aggiungere qualcosa Gilbert gli da uno scrollone rabbioso.
“Allora ascolta e ricorda quel che dico. Ti stai uccidendo e pretendi che io te lo consenta. Non ti importa di tutto quello che ti ho detto, di quello che sarà se tu dovessi lasciarmi. Giusto? Che ti sia chiaro che non lo consentirò mai! D’accordo? Quindi scegli e subito. O torni dentro e cominci a vivere o ci lascerò andare entrambi. Ci farò cadere dal balcone, è piuttosto alto e sarà abbastanza rapido e meno doloroso che continuare a coltivare il tuo desiderio malsano di sapermi più felice se privato della tua esistenza. Finirà in un istante. Sono diciotto metri, non sopravviveremo alla caduta. Decidi? Che cosa vuoi?”
Gilbert si muove, Vincent può sentire il freddo della balaustra sfiorargli le ginocchia. Guarda giù, il buio sottostante.
“Non lo farai.”
“ Eccome se lo farò!Guarda la ringhiera è bassa, non devo fare altro che sporgermi un poco e sarà finita.”
Vincent barcolla, cerca di afferrare la ringhiera, di stringerla nonostante gli risulti difficile. Gilbert è lì accanto o si è allontanato?
“Decidi”
No, è lì, al suo fianco. Testardo come un mulo. Sono entrambi lì inghiottiti dalla pioggia, dal vento e dal cielo. Vincent potrebbe gettarsi nel vuoto, liberarsi nel vuoto, è ciò che desidera. Non deve fare altro che sporgersi e poi tutto sarà finito, i sogni neri, quel mare di sangue pieno di occhi che lo colpevolizzavano, il viso di Gilbert che gli rode il cuore. Ogni cosa. E’ facile! Gilbert non lo seguirà, non farebbe mai una cosa simile alla memoria di Oz…oppure sì? Per lui lo farebbe?
China la testa, guarda il buio con estrema concentrazione, quel buio che lo chiama ma che al contempo gli restituisce l’immagine del corpo inerme di suo fratello. L’indomani gli avrebbero trovati sul lastricato, sfracellati come uova. Tutto finito, tutto. Pensare alla propria morte è un conto ma contemplare quella di Gil è inaccettabile.
Alza il volto verso la pioggia, aspira l’aria umida. C’è futuro? Un futuro possibile? Se puoi lasciarti morire puoi anche lasciarti vivere. Per anni e anni ancora in attesa. Sarebbe tollerabile?
Leo ha detto che non può immaginare più nulla di altrettanto intollerabile che essere sopravvissuto a Elliot. Quel dolore lo porterò addosso fino alla fine,come un odore, sarà sempre lì implacabile, giorno dopo giorno. Il dolore e la colpa, la colpa e il dolore.
Ma a che può servire morire se ciò che ami morirà insieme a te? Vincent  urla, urla di disperazione per l’impossibilità di far trovare sollievo a sé stesso e a Gilbert prima di tutto.
Gilbert.
Sempre.
Prima di tutto.
Prima di ogni altra cosa.
Le mani scivolano dalla ringhiera, il buio pare avventarsi su di loro con una velocità da far girare la testa. Ha gridato forse?
Gilbert lo cinge ancora, era molto più vicino di quanto gli fosse sembrato.
Rimangono immobili. I lampi balenano in distanza, il cielo brontola. Un temporale estivo. Gilbert si volta e lo fissa in viso. Sembra sconcertato, come se gli stesse accadendo qualcosa di sgradito e incomprensibile. Un’espressione stordita gli attraversa lo sguardo, come  fosse stato raggiunto da un colpo invisibile.
“Rientriamo in casa” mormora Vincent con voce bassa e stanca.
 

“Di che cosa devo parlarti?”
Gilbert sembra diffidente; esita, quindi siede nuovamente accanto al letto.
“Quello che vuoi. Non importa. Voglio sentire la tue voce. Dimmi, dove sono gli altri?”
“Un po’ qui un po’ lì. Sharon è all’opera insieme a Reim. Leo è chiuso nella sua stanza, un buon motivo per riprenderti e accertarti che stia bene. Ci sono le infermiere, se hai bisogno di loro.”
“No. L’infermiera è così arcigna. Hai fatto quanto ti avevo chiesto?”
“Il telegramma le sarà recapitato domani. Sei certo sia la cosa giusta?”
“Si.”
“Riposa ora Vince, pensa solo a rimetterti.” La mano di Gil gli sfiora la fronte. “Temo tu abbia un po’ di febbre.”
“Apri le tende, Gil.”
“Ora devi riposare…”
“Fra un po’, ma non subito. Rimani ancora per cinque minuti. Mi pare che abbia ripreso a piovere. Lo sento. Apri le tende voglio vedere.”
Gilbert esita, poi, soprattutto per calmarlo obbedisce. Torna accanto al letto.
“Spegni la lampada. Guarda.” Il viso magro di Vincent si tende verso la finestra. “C’è la luna”.
Gilbert si volta, la luna è quasi piena, le nubi corrono nel cielo. La luce si oscura per un momento, poi torna a splendere. Gilbert si accorge di non vedere soltanto la luna e le nuvole ma anche pensieri,possibilità e immagini. Turbinano informi nella sua mente, schiudono uno spazio luminoso e poi l’oscurano. Una luna appena intravista, suo fratello che aveva  desiderato morire.
Trattiene il respiro, la mano di Vincent è a pochi centimetri dalla sua come se la toccasse; la mano, la pelle, i capelli, gli occhi. Si voltano a guardarsi nello stesso momento.
“Gil ti prego abbracciami, solo per un momento.”
Vincent tende le braccia e Gilbert incurva la schiena. Uno strano abbraccio, Gilbert può sentire tutte le costole, il nodo rigido di ogni vertebra.
“Più tardi dirai a te stesso che parlavo sotto l’effetto della malattia, del dolore. Andrà bene così. Ma ora non ti permetto di crederlo. Non ho la febbre. Non sono mai stato tanto calmo. Puoi andare fra un minuto ma non subito. Prima devi promettermi una cosa.”
“Quale?”
“Promettimi che non morirai. Io potrò vivere se tu mi farai questa promessa.”
“E’ un po’ difficile fare una promessa simile.”
“Non sorridere. Dico sul serio. Devi giurare. Prendimi la mano. Così. Prometti.”
“Perché?”
“Perché voglio avere la certezza che vivrai. Anche se non ci dovessimo più vedere. Anche se passerà il tempo e noi cambieremo, voglio sapere che tu esisti. E’ tutto per me, capisci. Prometti.”
“Prometto se tu farai altrettanto.”
“Gil…”
“E se non manterrai la promessa non lo farò nemmeno io.”
“Va bene. Prometto. Per te io prometto.”

 

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Capitolo 14
*** Reim ***


 
Reim

Nella camera c è silenzio. Il fuoco acceso. La culla ai piedi del letto. E’ la stanza con la grande vetrata dove aveva vissuto Break per tutti gli anni che le era rimasto a fianco. Sharon, tornata alla residenza dei Rainsworth come sposa, l’aveva scelta per questa ragione. Sua figlia è  nata in quella stanza. Là dormono lei e Reim; Reim sul lato sinistro del letto. Sharon sul lato destro.  Quando lui è assente, le è difficile addormentarsi senza il calore rassicurante del suo corpo. La loro identità si fonde in quella stanza, in quel letto.
Reim guarda oltre la vetrata. Sharon si chiede se stia guardando il bosco, il lago o  il passato. Sa che vede ancora quest’ultimo, come accade anche a lei. E’ una giornata fredda e luminosa , con la luce che gli investe il volto, Reim sembra ancora molto giovane. A volte Sharon ha l’impressione che il tempo per lei abbia iniziato ad andare troppo in fretta, a vendicarsi di tutti gli anni ai quali lei si è sottratta senza che lo scorrere delle ore alterasse il suo aspetto. Perché lei inizia ad avere dei capelli bianchi e lui no? Il viso di Reim rivela il suo passato, i ricordi, i momenti più difficili. Ma quei segni affiorano solo quando è stanco o depresso. Quando è preso da qualche nuovo progetto per la proprietà o per un orfanotrofio, quasi scompaiono. Si muove con la disciplina di un tempo, parla con lo stesso dolce fervore. Allora sembra giovane e anche avanti con gli anni. A volte Sharon pensa “ è un uomo giovane legato a una moglie che invecchia”. Si abbandona sui cuscini e chiude gli occhi. Cerca di dominare le lacrime, le odia e le disprezza perché l’assalgono nei momenti inaspettati, in una reazione fisica incontrollabile. E’ inutile che i dottori le dicano che quella depressione era prevedibile dopo un parto difficile come il suo.
“Tesoro”, Reim ha visto le lacrime. La prende fra le braccia, “non piangere. E’ per qualcosa che ho detto?”
“No, certo che no.” Sharon si asciuga gli occhi con aria malinconica “sono piena di malinconie e…oh, mi sento vecchia e stizzosa. Insopportabile. Scusami.”
“Vecchia?”
“Reim non mentire, mi vedo allo specchio.”
“Sei bella, e lo sai. I tuoi capelli risplendono, la tua pelle è morbida, gli occhi sono pieni di luce. Ora li bacerò  e non voglio vederti piangere. Ecco, vedi? Sei incantevole come tua figlia.”
Sharon sorride, “Reim, non è incantevole. Lo sappiamo. L’amo con tutto il cuore, ma resta il fatto…”
“Quale fatto?”
“Ha pochi capelli. Ha la faccia rossa, soprattutto quando strilla. Ed è magra. Ammettilo, abbiamo una figlia pelle e ossa.”
“Non è vero” Reim si alza. Va a guardare la culla. “Adesso non strilla, non è rossa in viso. Ha le orecchie che sembrano conchiglie delicate. E le unghiette…e poi…”
“e poi?”
“Avrà le lentiggini. Sul naso. E i capelli come i tuoi”, Reim si riavvicina al letto e prende le mani di Sharon.
“Prometti che non piangerai più.”
“Non posso. Sono sentimentale. Piangerò alla cerimonia.”
“Va bene, potrai versare qualche lacrima. Poi nulla fino a …”
“fino a quando?”
“Alle sue nozze, credo. Allora le madri piangono sempre.”
“Dovranno passare anni.”
“Meglio.”
“Tanto tempo senza lacrime…”
“ Gli anni non sono niente. Pensa a tutto ciò che abbiamo! Sai cosa ho pensato quando è nata?”
“Cosa?”
“Ho pensato a tutte le cose che non ho fatto. Le cose che la mia famiglia si aspettava da me. Ho pensato a Break, a quanto posso averlo deluso.”
“Reim, non lo hai mai deluso.”
“Invece sì e non ha più importanza, capisci? Perché due cose giuste le ho fatte. Ho sposato te e abbiamo avuto lei”, Reim indica la culla, “non è una gran cosa, dopotutto altri uomini hanno figli. Ma per me è importante. Ho realizzato qualcosa insieme a te. Sai, preferisco avere lei piuttosto che costruire una città, governare un regno. Darei tutte le poesie di questo mondo, per quanto siano belle, non sono nulla in confronto a lei. O a noi”, le stringe la mano, “spero che non ti dispiaccia. O forse si? Forse preferiresti un marito più ambizioso.”
“Non preferisco nessun altro marito, lo sai.”
Sharon gli bacia il dorso della mano. Reim scorge sul suo volto una forza che sentiva di non possedere più, china la testa. Sharon gli accarezza i capelli e Reim si sente finalmente in pace. Dopo qualche istante si raddrizza, bacia la moglie a fior di labbra.
“Devo andare, Gilbert mi sta aspettando. Prometti che cercherai di dormire. Vuoi che chieda a Ada di farti compagnia?”
“Sì, mi farebbe piacere. Lavora a maglia ed io ascolto il tintinnio dei ferri.”
“Tu e lei vi siete avvicinate molto” Reim la guarda con un sorriso perplesso.
“E’ un’amica. Sono contenta che ora sia qui; mi dispiaceva quando doveva vivere sola in quella grande casa.”
“Sì. Forse hai ragione” Reim esita , “allora glielo domanderò.”
“Grazie. Ho tanto sonno. Mi si chiudono gli occhi.”
Reim la sfiora ancora, sussurra un “ti amo” che forse, un giorno, verrà ricambiato. 

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Capitolo 15
*** Ada ***


Ada

Ada sa che la sofferenza si annida tra lo stomaco e il cuore; avrebbe potuto posarvi una mano e dire “guardate qui, ecco il mio dolore.”
Il pomeriggio, quando era giunto il telegramma, Ada era da sola nella sua stanza e stava scrivendo una lettera. A Vincent. Nel calamaio era rimasto poco inchiostro, molto denso. La carta era un po’ scadente e il pennino s’impuntava. La stanza, sotto il tetto d’ardesia, era caldissima.  Finì la lettera, chiuse la busta e scrisse con cura le lettere che componevano il nome dell’uomo che amava. Scese la scala, indossò un cappellino, il più bello che possedeva, per dirigersi ad imbucare la lettera. Ma davanti alla porta d’ingresso, un uomo vestito di scuro, le pose un telegramma da parte della famiglia Nightray. Quella sua lettera non sarebbe mai stata imbucata perché quel telegramma la informava della morte del giovane Vincent Nightray.
E’ dovuto passare del tempo prima  che tutto questo diventasse chiaro. Tre settimane durante le quali era stata taciturna e metodica, come mai lo era stata. Si comportava come una bambina convinta che, se avesse imposto un ordine alle piccole cose del mondo, anche le più importanti sarebbero andate a posto. Forse,in cuor suo, si era detta che si poteva porre rimedio anche alla morte di Vincent e all’assenza di Oz e zio Oscar. Forse sperava che se avesse lavorato con impegno, Vincent sarebbe tornato. In un certo senso Ada continuò ad attendere per tutta la vita quel ritorno impossibile.


Ada percorre la navata in abito bianco, il santuario è a sud di un fiume, un’isola neogotica circondata da alberi secolari; è una giornata tiepida preludio di una buona primavera. Gilbert l’accompagna, per la sposa non vi sono molte persone, solo silenti fantasmi. Dalla parte dello sposo c’è molta gente. Facce bonarie, sorrisi sinceri, tutti hanno l’aria emozionata , sugli abiti spiccano mazzolini di fiori appuntati che Ada ha personalmente raccolto per il benvolere della sua nuova famiglia. Due grandi mazzi di fiori regalati dai Rainsworth decorano i lati dell’altare e incorniciano la schiena dello sposo e del testimone. Uomini di aspetto gradevole, senza ombre nello sguardo.  Lo sposo ostenta un paio di baffi ben curati. Ada tiene la testa alta e non si guarda intorno, nella mano stringe un bouquet di viole. Giunge alla balaustra dell’altare, il celebrante dai paramenti ampi accoglie i due sposi. Ada sorride, prende un respiro, tiene la mano all’uomo gentile che le sta accanto, ascolta le parole rassicuranti del celebrante… e per un istante vacilla, per un istante la collera canta dentro di lei, la reprime pur non volendo. Dov’è suo fratello? Dove sono suo padre e l’adorato zio? Dove? Sbatte le palpebre, lo sguardo prende il colore delle grandi vetrate. Manca ancora qualcuno,e quel qualcuno è Vincent. Ada aspetta che si unisca agli altri spettri, che interrompa la cerimonia. Ma non accade. Era venuto una sola volta, per dirle addio, un fantasma fugace dietro il tronco di un grande albero. E se Ada potesse sfogare quella rabbia strapperebbe le lastre del pavimento scagliandole in aria, piangendo e urlando, ammucchiando i banchi in una barricata, alle fiamme la balaustra dell’altare.  Alza gli occhi, oltre le arcate della navata, le finestre del clerestorio e le curve del tetto. Un lungo buio pieno di parole e sussurri turbina nell’aria. Le sfiora la pelle, le tocca gli occhi, scende verso il cuore. Ada piange, finalmente piange.  Del destino ingiusto e dell’inevitabile bellezza del mondo. I contrasti si dibattono in lei in una commozione dolorosa.
Andrà tutto bene Ada, non ti lascerò mai sola.”
Così dice il suo futuro sposo, un uomo che la porterà a vivere in un grazioso cottage, le insegnerà a coltivare un orto e prendersi cura di un giardino. Tutto questo lontano dal passato.
Guarda l’anello che ora le brilla al dito e riprende a respirare.


Note: ammetto che Ada è uno di quei personaggi che non incontrano le mie simpatie, anzi diciamo che passa dallo starmi sulle scatole all’essermi letteralmente indifferente (un po' come Sharon lo confesso) e quindi mi ha fatto strano scrivere di lei. Tuttavia l’immagine finale dove “scorge” Vincent dietro un albero prima di essere richiamata dal marito  ha fatto da miccia a quanto scritto sopra.



 
 

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Capitolo 16
*** Zai Vessalius ***


Zai

Nello spiazzo delle scuderie, Zai attende. Leva il volto verso il cielo notturno e ascolta il brusio di voci che giunge da oltre l’orto. I dipendenti della tenuta, gli abitanti del villaggio, alcuni servitori…sono tutti intenti a festeggiare il solstizio d’estate. Fra un momento Rachel verrà a raggiungerlo.  Cinque minuti, dieci… ogni minuto è troppo. Presto, presto, pensa Zai, e si volta a guardare il grigio della casa. Là, all’ultimo piano, splende una luce. Zai riesce a distinguere la figuretta di Oscar affacciato alla grande finestra, probabilmente imbronciato perché ancora troppo giovane per poter presenziare ai festeggiamenti oltre l’ora di cena. Sorride Zai mettendosi a mente di portare al fratello una bottiglietta di sidro alla mele, vero orgoglio del villaggio, una volta che tutti nella grande tenuta avranno ceduto al richiamo del sonno.  Apre la porta che conduce alla scala del fienile e sale. Un dolce odore di fieno, dal basso il fruscio della paglia quando i cavalli si muovono. Si accosta alla finestra a ovest: la notte è silenziosa, i giardini blu, la luce della luna declina, una certa euforia perdura nella sua mente. Spera che Rachel venga presto. Pensa a lei, lei che sola scaccia l’oscurità che da qualche tempo tormenta l’animo di Zai. Quando sono insieme può dimenticare tutto. Persino suo padre, le aspettative che riversa su di lui in quanto primo erede dei Vessalius, i discendenti dell’eroe. Si butta sul fieno, chiude gli occhi, evoca l’immagine di Rachel, i capelli, gli occhi, la bocca. Quando sente un passo sulla scala balza in piedi. La stringe fra le braccia. E’ tutto molto rapido, Rachel intuisce la sua collera, attende. Quando Zai è più calmo gli prende la mano.
Ancora tuo padre?”
Lui. Mia madre. Tutto.”
Rachel si siede di fronte a lui, Zai non la guarda, fissa la finestra con una smorfia.
Perché tutto?”
Non so. Il tempo mi sfugge e non cambia nulla. Questo posto, questa casa, quell’uomo…mi hanno reso…violento. Talvolta sono sopraffatto dal pensiero di fare qualcosa di estremo. Dar fuoco alla casa e guardarla bruciare con dentro ogni falsità in una conflagrazione grandiosa.” Zai si interrompe, “è una pazzia?”
Si.”
Si. Forse. Ma è ciò che ho provato. Ora è passato o quasi. Non volevo spaventarti. Scusami.”
Rachel gli stringe più forte la mano, il suo sguardo, quel mite sorriso che buca l’oscurità…Zai sa che farebbe qualsiasi cosa per lei, anche accettare il pesante fardello dei Vessalius. D’un tratto la prospettiva del futuro si fa più leggera al pensiero che quegli occhi verdi come le foglie di lauro saranno sempre lì ad acquietargli l’anima come un balsamo guaritore. Zai sarà migliore di suo padre, questa è la promessa che si sente di fare ora davanti a Rachel.  La renderà felice ed insieme avranno una meravigliosa famiglia, può già immaginare la vivacità di un bambino tenuto a cavalcioni sulle spalle, i capelli d’oro come quelli di lei e la tempra fiera come la sua. Sarà fiero di suo figlio e suo figlio sarà fiero di lui.


Note: ho immaginato uno Zai sedicenne ed ho voluto creare un contrasto padre e figlio mitigato dal sentimento per Rachel. Ovviamente non sapendo nulla di lei me la sono immaginata come una figura piuttosto mite che controbilancia l’anima più tormentata del futuro capo dei Vessalius. Poi sappiamo bene come andrà a finire…ironia della sorte.

 

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Capitolo 17
*** Noise ***


 

Noise

Era caduto con un tonfo, un tonfo sordo, attraversando le sbarre si era un po’ aperto e la rilegatura color cobalto aveva finito col rovinarsi.  L’aveva recuperato immediatamente stringendoselo al petto, un regalo, un regalo di Vincent! Aveva volto lo sguardo colmo di euforia verso l’inferriata ma lui già se n’era andato, senza dire una sola parola. Un regalo e un  abbandono. Aprendo il quaderno aveva trovato un secondo regalo, un pennino d’ebanite… erano parole che Vincent voleva? Parole scritte da Noise? Quale prima parola poteva andare bene?

E’ bello far scorrere il pennino sulla carta. Vedi, Vincent, sto facendo quello che tu vuoi! E  tutte queste lettere nere sono uguali alle tue, perché così voglio io. Oggi era di nuovo molto caldo, mi sono addossata con la fronte al muro per trovare sollievo ma non ha funzionato. Allora ho preso il quaderno ed ho scritto la parola “freddo” su ben due pagine. L’ho fatta rimbombare nella mia testa tante di quelle volte che ho iniziato a tremare, tremavo come la coda di un serpente a sonagli.  Freddo. Freddo. Freddo. I rettili hanno il sangue freddo, vero? Oh mi piacerebbe essere un rettile, una lucertola che può starti sempre in tasca e alla quale non importa quante volte le staccherai la coda. La farei ricrescere per darti il piacere di toglierla un’altra volta ancora.  Saresti contento? Ti prego, dimmi che cosa ne pensi. Oggi non sei venuto da me, e nemmeno ieri, mi sono arrampicata fino alle sbarre, ho pensato che tu fossi lì, sdraiato sull’erba umida ma al tuo posto ho visto un nido di magnanina. C’erano sette uova di colore bellissimo. Una era rossa come la pupilla che non riflette mai la mia immagine, ho capito che era un nido abbandonato. “Abbandono” è una bella parola. Ha due significati. Ti piace? Alcune parole ne hanno tre, e pochissime ne hanno quattro. Forse ne farò un elenco… saresti contento? C’è un gran silenzio ora. So che durerà poco. Devo essere prudente, qualcosa vuole prendere il mio posto. L’eco lontano di un presentimento mi mangia il cervello come un roditore affamato. Vincent? Scriverò il tuo nome fino a  ché non verrai da me. Lo scriverò sulla carta, sul muro, anche sulla pelle.
Verrai vero?

Note: onestamente non so da dove sia uscita, non sono molto contenta del risultato, volevo tracciare la differenza tra Zwei ed Echo, ma il rumore ha preso il sopravvento. Ho immaginato che se Noise avesse avuto carta e penna avrebbe riempito ogni cosa di Vincent, o meglio con quello che Noise è convinta farebbe piacere a Vincent. Le uova di magnanina in realtà solitamente sono azzurre, ma in alcuni casi se ne trovano anche di tendenti al porpora. Mi sono documentata.  Ho associato un nido abbandonato ( forse non casualmente nel caso specifico) e lo stato d’animo di Noise. Pastrocchio >_<”

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Capitolo 18
*** Oz ***


Oz

Gli ospiti chiacchierano animatamente. Come al solito chiacchierano degli amici comuni.  Zai sente l’acido scorrergli nelle vene. Passa in rassegna ogni volto, vorrebbe alzarsi e cacciare tutti quanti, via da quel mausoleo di disgrazie, via dal sorriso di Oscar, così affabile, così impeccabile nel farsi promotore di tali eventi.  Addenta rabbiosamente un sandwich al cetriolo, distoglie gli occhi e incontra quelli di Oz. Come al solito lui lo spia accovacciato sull’erba, e mastica una fetta di torta al fianco di Gilbert. Gilbert è immacolato, con i calzoni di vellutino; Oz è lurido. Ha i capelli spettinati dai bassi rami dei cespugli, la blusa è sporca di terra e gli stivaletti sono infangati. Quell’essere che Zai ripugna con tutto se stesso gli ha disobbedito un’altra volta, invece di rimanersene chiuso nelle sue stanze è lì che lo osserva con la sciocca illusione di non essere visto.
Oz” Zai dirige lo sguardo tra le foglie dei cespugli, un brivido scuote il corpo del bambino che conosce quel tono e lo teme, batte le palpebre.
Oz so che ti piace fare lo zingaro ma non pensi di esagerare? Qui non siamo fra gli zingari e sarebbe stato di buon senso da parte tua renderti presentabile o meglio ancora non degnarci della tua presenza.”
Zai ha incominciato il discorsetto fra le chiacchiere, alla fine c’è il silenzio, e le sue parole risuonano con un grande effetto. C’è un lieve brusio tra i presenti, alcuni biasimano Zai Vessalius per il modo in cui tratta il bambino, passa dall’ignorare la sua esistenza al ferirlo con pochi colpi ben assestati. Altri invece provano comprensione per un uomo che si è ritrovato vedovo così presto e con un figlio tanto disubbidiente.
Hai sentito parlare di acqua e sapone, Oz? Sai cos’è una spazzola? Che cosa hai fatto questo pomeriggio? Ti sei arrampicato sugli alberi? Hai scavato gallerie? Sì credo di sì a giudicare dalle tue unghie.”
Oz è rigido come una statua di marmo, tante parole crudeli tutte insieme, sono forse peggio del silenzio costante? Dell’essere ignorati giorno dopo giorno? Suo padre lo sta punendo. La distrazione di una scivolata mentre impediva ad Ada di cadere nel ruscello … l’aver convinto Gil a seguirlo a quel tè pomeridiano nonostante gli fosse stato vietato.
E’ comprensibile che suo padre sia arrabbiato.
Mi dispiace.” Risponde Oz, “davvero mi dispiace.”
E’ colpa mia padrone!” interviene Gilbert , “per impedirmi di cadere lungo il sentiero il padroncino è scivolato e…”
Zai fa cenno di tacere, non sopporta Gilbert, è troppo monopolizzato da Oz per potergli suscitare compassione.
Vai in camera tua e restaci.”
“Lo accompagno io.”
Con sorpresa di tutti, Oscar Vessalius si fa largo tra gonnelloni e baffi impomatati, tende la mano ad Oz e gli sorride.  “Vieni figliolo, tanto rientro in casa anch’io” soggiunge “l’aria che tira qui non mi piace per niente e mi ha fatto venire un gran freddo.” E’ un gesto di disprezzo e Zai lo capisce subito, la rabbia gli offusca il cervello e non gli viene in mente una risposta. Oscar si allontana con il bambino, gli cinge un braccio intorno alle spalle che tremano nel vano tentativo di trattenere il sollievo di un singhiozzo.
Un altro silenzio. La signora Heyward fa un commento sui capricci della primavera; Il barone Denton commenta la pessima caccia del giorno prima, il labrador della giovane Daisy Jarvis si rotola sul dorso.
Tè, signore?” Mrs. Kate tende la mano per farsi consegnare la tazza. Zai beve il tè che gli scotta le labbra, lo sguardo freddo e ostile scorre le finestre dell’ala ponente. Un istante prima che un Conte dall’abbigliamento discutibile domandi con quale piacevole aneddoto il loro ospite colorerà il pomeriggio.





Note: effettivamente non si può dire che la faccenda sia dedicata proprio ad Oz  quanto più al rapporto con papino caro. Zai tende ad ignorare l’esistenza di Oz ma credo che da bambino ci siano state comunque delle circostanze dove per forza di cose abbiano dovuto rimanere insieme nello stesso posto ed ho pensato che in questi casi la crudeltà di Zai si manifestasse nei confronti del bambino, tamponata perlopiù da Oscar.  Devo dire che molto spesso trovo delle similitudini tra Pandora Hearts e God Child che mi fanno un certo effetto. 

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Capitolo 19
*** Cheshire ***


Cheshire

Con quegli occhi vedi troppe cose” sorrideva “sarebbe meglio che tu non le vedessi, soffriresti meno, credi a me. Detto ciò penso proprio di poterti aiutare”.

Cheshire raccoglie il gomitolo, un gomitolo di lana color granata, se lo lascia scivolare per le scale questo rotola e rotola e rotola… è divertente! Quando il bambino malvagio gli aveva strappato gli occhi con le forbici, il mondo di Cheshire era diventato così buio e doloroso, la mente cominciò a graffiare, gli alberi urlavano con lo stridere degli uccelli. Una cattiveria così enorme alla quale solo la sua amata Alice aveva potuto porre rimedio.
Occhi nuovi! Occhi color gomitolo!
Non sanno vedere al buio come i  precedenti , e talvolta faticano a capire Alice. Ma anche così, Cheshire può ancora custodirla. Essere un buon  guardiano. Il mondo che ha costruito è così perfettamente distorto che ogni maledetto topo che tenta di invaderlo finisce divorato. Ma oggi c’è un odore nuovo, qualcuno di molto pericoloso che si aggira per le stanze sottosopra, Cheshire ha i sensi in allerta, ogni muscolo oin allarme. Quell’uomo è tornato.


Note:  vorrei scrivere qualcosa in più su Cheshire , devo dire che una delle cose che non posso perdonare a Vincent è la crudeltà che ha riservato al povero micio. Io adoro i gatti e guai toccarmeli!

 

 

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