Miss me?

di Marilia__88
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The game is on ***
Capitolo 2: *** My pain ***
Capitolo 3: *** The threat ***
Capitolo 4: *** The abduction ***
Capitolo 5: *** Snow White ***
Capitolo 6: *** Clash of brothers ***
Capitolo 7: *** My best friend ***
Capitolo 8: *** You're my family ***
Capitolo 9: *** Mycroft's mind palace ***
Capitolo 10: *** All the truth ***
Capitolo 11: *** My brother ***
Capitolo 12: *** Your failings ***
Capitolo 13: *** Waterloo Gardens ***
Capitolo 14: *** A sad goodbye ***
Capitolo 15: *** In my heart ***
Capitolo 16: *** I'm scared ***
Capitolo 17: *** Brotherly love ***
Capitolo 18: *** Dark abyss ***
Capitolo 19: *** Friends remain ***
Capitolo 20: *** Stradivarius violin ***
Capitolo 21: *** Eastern Europe ***
Capitolo 22: *** Don't leave me ***
Capitolo 23: *** For you ***
Capitolo 24: *** The promise ***
Capitolo 25: *** Happy ending ***



Capitolo 1
*** The game is on ***


                Miss me?





                                 The game is on





Appena scesi dall’aereo Sherlock, Mary e John si diressero verso l’auto nera che li avrebbe condotti a Baker Street.
“Sherlock, aspetta, spiegami… Moriarty è vivo allora?” chiese John, mentre cercava di tenere il passo dell’amico.
“Non ho detto che è vivo, ho detto che è tornato” rispose Sherlock, fermandosi e voltandosi verso di lui.
“Quindi è morto?” intervenne Mary nel tentativo di capirci qualcosa.
“Certo che è morto! Gli è esploso il cervello, nessuno sopravvivrebbe!” esclamò Sherlock con il suo solito tono di chi deve spiegare qualcosa di ovvio “…Mi sono quasi sparato un’overdose per dimostrarlo!” aggiunse leggermente imbarazzato, abbassando lo sguardo con la scusa di mettersi i guanti. Era troppo difficile guardare John mentre diceva quella frase. Era troppo difficile leggere la delusione nei suoi occhi. “Moriarty si è suicidato, non ci sono dubbi… ma l’importante è che so esattamente che cosa farà dopo” concluse, riprendendo il controllo di sé e mostrando il suo solito sorriso compiaciuto ed eccitato.

 
Durante il tragitto Sherlock rimase zitto, intento a massaggiarsi le tempie con insistenza, mantenendo gli occhi chiusi. John e Mary, invece, lo guardavano con aria preoccupata, senza però interrompere quel silenzio.
Arrivati al 221B, il detective salì velocemente di sopra e si andò a sedere sulla sua poltrona, sospirando pesantemente ed assumendo la sua classica posizione meditativa. Mary, invece, si fermò di sotto dalla signora Hudson per dare a suo marito la possibilità di parlare da solo con il suo migliore amico.
John salì di sopra con un’espressione seria e tirata sul volto. Era così deluso e arrabbiato con Sherlock, da riuscire a stento a controllare i propri respiri. Appena entrò nel soggiorno, sbatté la porta con violenza, attirando l’attenzione del consulente investigativo, che aprì gli occhi e lo guardò intensamente.
“Si può sapere cosa ti è saltato in mente?” urlò il medico furioso “…Sbaglio o avevi smesso con queste schifezze?... Mesi fa quando ti ho trovato in quel covo di drogati, mi hai rifilato la cazzata che lo stavi facendo per il caso di Magnussen ed io ho fatto finta di crederti…ma adesso che scusa hai? Sono proprio curioso di sapere cos’altro ti inventerai stavolta!” aggiunse, continuando ad urlare.
Sherlock si passò stancamente una mano sugli occhi “John…” disse soltanto, sospirando pesantemente.
“Cosa, Sherlock?” incalzò prontamente John, mantenendo lo stesso tono di voce.
Il detective non rispose. Si passò le mani sul viso, prendendo lunghi e profondi respiri. Solo in quel momento il medico si accorse che, oltre al suo evidente pallore, aveva le mani che gli tremavano e il respiro decisamente affannato.
“Ti senti di nuovo male?” chiese, avvicinandosi a lui preoccupato.
“No, sto bene…” rispose Sherlock.
John si inginocchiò al suo fianco, gli prese il polso tra le mani ed iniziò a controllare i battiti cardiaci, scrutandolo, intanto, con uno sguardo attento “Certo, si vede!” esclamò, con sarcasmo.
“Ti ho detto che sto bene!” urlò all’improvviso il detective, liberando sgarbatamente il braccio dalla presa del medico.
“No, Sherlock! Non stai bene! Sei andato in overdose neanche un’ora fa, razza di idiota! Dovresti essere in ospedale!” rispose duramente John.
“Ho cose più importanti a cui pensare adesso!” disse il detective, sbuffando irritato. Poi si alzò con un po' di fatica dalla poltrona e si diresse verso il bagno.
“Si può sapere dove stai andando adesso?” domandò il medico disperato.
Sherlock, però, non rispose. Entrò nel bagno e sbatté la porta alle sue spalle. Dopo alcuni istanti John lo sentì vomitare e tossire convulsamente. Preso dallo sconforto si passò nervosamente le mani nei capelli, aspettando che l’amico uscisse.

Il detective uscì qualche minuto dopo ed era ancora più pallido di quando era entrato, aveva la fronte bagnata a causa dello sforzo ed ansimava leggermente, mentre con una mano si reggeva allo stipite della porta.
“Vieni a sdraiarti sul divano, prima di svenire sul pavimento!” esclamò il medico con dolcezza e preoccupazione al tempo stesso. Poi si avvicinò a lui e gli mise un braccio intorno alla vita per aiutarlo a camminare. Appena l’amico si mise sdraiato, si sedette al suo fianco ed iniziò a guardarlo intensamente “Come va?” chiese poi con un sospiro.
“Meglio…” rispose Sherlock, accennando un mezzo sorriso.
“Sherlock…voglio che tu sia sincero con me… per favore…da quando hai ricominciato?” chiese con un leggero tremore di voce.
Il detective lo fissò per qualche istante, ma poi voltò la testa di lato, rompendo bruscamente il contatto visivo “Non ho ricominciato…te l’ho detto anche sull’aereo, John…ne faccio uso di tanto in tanto per alleviare la noia e, occasionalmente, per migliorare i miei processi mentali…” rispose, continuando a guardare altrove.
“E credi che io me la beva? Smettila di trattarmi come uno stupido, Sherlock!” urlò John irritato “…Per tutto il tempo in cui ho vissuto qui, sei riuscito benissimo a farne a meno!” aggiunse convinto.
“Ne sei davvero sicuro? In fondo non te n’eri accorto quando ci stavamo salutando sulla pista!” sputò acido il detective.
“Si ne sono sicuro!” rispose il medico a tono, evitando volutamente di parlare del loro saluto “…Ora smettila di fare l’idiota e dimmi quando hai ricominciato e perché…” aggiunse con dolcezza.
Sherlock sospirò pesantemente, cercando in tutti i modi di non incrociare gli occhi di John. Aveva paura che leggesse nel suo sguardo tutta la sofferenza che lo stava tormentando ormai da mesi. La verità, in fondo, era questa: l’unico motivo che lo spingeva a fare uso di droghe, era una delle sue più grandi paure, il dolore. Aveva iniziato proprio così, lo ricordava bene. Era ancora vivido nella sua mente quel periodo particolare della sua vita, che al solo pensiero si sentiva mancare l’aria. Da allora, infatti, aveva capito che, nonostante tutti i suoi sforzi, l’unico sentimento di cui non sarebbe mai riuscito a liberarsi, era proprio quello che lo spaventava di più: soffrire. Solo la droga riusciva a dargli quel distacco e quella freddezza, che gli permettevano di sciogliersi dalla morsa del dolore e di continuare a vivere. A causa di quei pensieri, iniziò a sentire un opprimente peso sul petto, che lo costrinse a chiudere gli occhi. Fu allora che, come il giorno in cui Mary lo aveva sparato, sentì, nella sua testa, la voce di Moriarty pronunciare di nuovo quelle parole: “Il dolore si sente sempre, Sherlock…ma non ti deve fare paura!... Perdita…sofferenza…dolore…morte…!”. Aprì gli occhi di scatto e si mise a sedere, iniziando ad ansimare leggermente.
“Che succede?” chiese John, allarmato da quel comportamento.
“Niente! Devo mettermi al lavoro!” rispose secco Sherlock, alzandosi dal divano e mettendosi alla scrivania. Con le mani tremanti e il respiro ancora affannato, aprì il portatile e si mise a controllare tutti i file che aveva raccolto su Moriarty e sulla sua rete criminale.
“Non hai ancora risposto alla mia domanda…” sottolineò il medico, leggermente turbato dal cambio repentino di umore del suo amico.
“Ora non ho tempo…lasciami in pace!” sputò acido il detective. Sentiva ancora la voce di Jim rimbombare prepotentemente nella sua testa. Doveva distrarsi in qualche modo. Doveva riuscire a pensare ad altro.
“Santo cielo, Sherlock! Si può sapere che ti prende?” urlò John irritato da quel tono di sufficienza “…Sherlock!” aggiunse poco dopo, vedendo che il detective non si decideva a rispondere.
“Dannazione, John! Ti ho detto di lasciarmi in pace!” gridò Sherlock, sbattendo con rabbia un pugno sulla scrivania.
Il medico rimase sorpreso da quella reazione. Ferito e ancora più arrabbiato, si alzò di scatto dal divano “…Io mi preoccupo per te e tu che fai? Mi tratti in questo modo! Ora basta, Sherlock! Fai come ti pare e vai pure al diavolo!” urlò, dando un calcio al tavolino. Poi prese nervosamente la giacca ed uscì dall’appartamento, sbattendo la porta alle sue spalle.
Appena John uscì, Sherlock si poggiò con i gomiti sulla scrivania e si prese il volto tra le mani, sospirando disperato. Si sentiva la testa scoppiare. Per fare quel salto mentale nel passato e scoprire la verità su Moriarty, aveva dovuto scavare a fondo in sé stesso. Solo in quel momento, però, si accorse che forse aveva scavato un po' troppo. Ricordi, sensazioni e paure, che era riuscito a nascondere in una parte profonda della sua mente, stavano lentamente riemergendo, sconvolgendolo e facendogli rivivere tutto il dolore che aveva provato in passato. Non voleva trattare John in quel modo. In fondo lui cercava di aiutarlo e in cambio era riuscito soltanto a deluderlo. Si passò nervosamente le mani sul volto, cercando di riprendere il controllo di sé, fece dei profondi respiri e si rimise al lavoro.
 

John tornò a casa con Mary. Per tutto il tragitto aveva mantenuto un rigoroso silenzio, ostentando un’espressione seria e tirata sul volto. Dopo aver varcato la soglia d’ingresso, la moglie si voltò verso di lui e lo afferrò per le braccia, iniziando a guardarlo negli occhi.
“Mi spieghi cos’è successo tra te e Sherlock?” chiese preoccupata.
“Lascia perdere, Mary…non mi va di parlarne…” rispose il medico, sospirando pesantemente.
“John…qualsiasi cosa ti abbia detto o in qualunque modo ti abbia trattato, ricordati che è il tuo migliore amico…ed ha chiaramente bisogno di te!” esclamò Mary con dolcezza.
John abbassò lo sguardo e si passò una mano sugli occhi “Non credo che voglia il mio aiuto…” disse tristemente.
“Certo che vuole il tuo aiuto, John!... Possibile che non ti rendi conto delle sue condizioni?... Ha ripreso a drogarsi e su quell’aereo ha rischiato di morire per overdose!... Non sta bene e non ci vuole un genio per capirlo! Devi stargli vicino…” rispose la moglie, accarezzandogli il viso e sorridendogli teneramente.
Il medico parve riflettere su quelle parole. Nello stesso istante gli venne in mente la frase di Mycroft su quell’aereo “Dottor Watson…lo tenga d’occhio…per favore…”. Non lo aveva mai visto in quelle condizioni. Non aveva mai visto tanta preoccupazione e tanto dolore nei suoi occhi. Mary aveva ragione, Sherlock aveva bisogno di lui. Avrebbe messo da parte la rabbia e la delusione e lo avrebbe aiutato, che lui lo volesse o meno.
“Vai da lui…” disse improvvisamente Mary, interpretando i pensieri del marito.
“Non voglio lasciarti sola!” esclamò John, prendendo dolcemente le mani tra le sue.
“Oh, John…un po' di solitudine non mi ucciderà mica! E poi ne approfitto per riposarmi…” rispose la moglie “…Vai…sbrigati!” aggiunse, indicandogli la porta.
Il medico si diresse verso l’uscita, aprì la porta e si fermò un attimo con la maniglia in mano. Poi si voltò a guardare sua moglie, si avvicinò lentamente a lei e la baciò con dolcezza. La guardò per qualche secondo negli occhi, sorridendole ed uscendo velocemente dall’appartamento, diretto a Baker Street.
 

Dopo aver riletto tutti i file su Moriarty, Sherlock si alzò stancamente dalla scrivania e si distese sul divano, sdraiandosi ed assumendo la sua posizione meditativa. Aveva bisogno di riordinare tutte informazioni e cercare di capire chi potesse esserci dietro quel video. Mentre vagava tra le stanze del suo palazzo mentale, una porta in fondo al corridoio attirò la sua attenzione. Era diversa dalle altre: era decisamente più vecchia e presentava graffi e striature, che evidenziavano l’evidente passaggio del tempo. Non ricordava cosa contenesse. A pensarci bene, non ricordava che ci fosse mai stata prima di allora. Man mano che si avvicinava, però, una strana sensazione di disagio, iniziò ad invadere il suo corpo. Cercò di non pensarci, fece un profondo respiro e mise la mano, leggermente tremante, sulla maniglia, abbassandola ed aprendo la porta. La stanza che trovò era completamente avvolta nel buio. Provò, così, ad addentrarsi più a fondo, per cercare di capire cosa ci fosse al suo interno. Tastando le pareti, dopo qualche istante, trovò un piccolo interruttore, lo premette e la stanza si illuminò all’improvviso. Ciò che vide, però, fu terrificante. Le pareti erano completamente ricoperte da schizzi di sangue; a terra, in un angolo, c’era una pistola; dalla parte opposta, invece, giaceva il cadavere di Barbarossa brutalmente sgozzato; poco più distante, infine, c’era lui. Si fermò per un attimo a guardarlo, poi si avvicinò al suo corpo senza vita e si abbassò leggermente, inginocchiandosi al suo fianco. Si accorse poco dopo del biglietto che stringeva ancora nella mano destra, lo prese con delicatezza e lo lesse attentamente. Ricordava quelle parole, le aveva impresse dolorosamente nel suo cuore. Dopo aver riletto più volte quel maledetto biglietto, si voltò verso il corpo di Barbarossa e alcune lacrime iniziarono a rigargli il viso. Cominciò a sentirsi male: sudava freddo, le mani gli tremavano violentemente ed ansimava, come se gli mancasse l’aria. Si alzò di scatto e si diresse dove prima c’era la porta, ma il terrore lo paralizzò, quando si accorse che era sparita. Doveva uscire da lì e doveva farlo il prima possibile. All’improvviso, in lontananza, sentì una voce familiare che lo chiamava con insistenza: era John. Cercò di concentrarsi sulla sua voce, pregando con tutto sé stesso che riuscisse a portarlo fuori di lì. Si mise le mani sul volto con disperazione, mentre altre lacrime gli uscivano senza controllo. “John…” urlò con voce rotta, pronunciando il suo nome quasi come una supplica. “John…ti prego…aiutami…” aggiunse, chiudendo gli occhi e continuando a piangere.





Angolo dell'autrice:
Salve! Eccomi ritornata..."Vi sono mancata?" (non ho potuto resistere!). Comunque in questi giorni di pausa ho riguardato lo speciale di Natale e mi sono venute in mente altre teorie e congetture, completamente diverse da quelle di "Ti brucerò il cuore" (prima o poi dovrò azzeccare le teorie giuste! Ahahhaha...). In primo luogo, come si nota nel primo capitolo, sarà diverso il rapporto con la droga di Sherlock. Verrà trattato in modo più approfondinto, mostrando un'altra versione secondo cui Sherlock non ha fatto più uso di droga, almeno fino al suo ritorno a Londra dopo la sua finta morte. Secondo questa nuova visione, il nostro detective fa uso di droga solo nelle situazioni che gli provocano sofferenze (per esempio, quando morì la Adler, Mycroft chiese a John si tenerlo d'occhio, indicando quella sera come "serata a rischio"). Quindi si può immaginare che Sherlock abbia ripreso a drogarsi o quando si è ritrovato a vivere da solo a Baker Street o dopo il matrimonio di John. 
In questa storia, inoltre, il nostro Sherlock dovrà affrontare un nemico reale che apparirà più avanti e, così come nello speciale, un nemico mentale...il Moriarty che ha nella sua testa. 
Il fatto che abbia scavato a fondo dentro sè stesso, inoltre, gli ha permesso di rivangare vecchi e dolorosi ricordi che fanno parte del suo passato e che lo hanno fatto diventare il sociopatico senza cuore. La morte di Barbarossa, naturalmente e qualcos'altro che, secondo la mia nuova teoria, si nasconde dietro la semplice morte del suo cane...qualcosa di molto più oscuro e tragico...che scoprirete nel corso della storia!
Spero che questa nuova versione vi piaccia...grazie a chi vorrà leggerla e a chi vorrà lasciare un commento. Alla prossima ;)

 

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Capitolo 2
*** My pain ***


                      Miss me?





                                                   My pain





All’improvviso, in lontananza, sentì una voce familiare che lo chiamava con insistenza: era John. Cercò di concentrarsi sulla sua voce, pregando con tutto sé stesso che riuscisse a portarlo fuori di lì. Si mise le mani sul volto con disperazione, mentre altre lacrime gli uscivano senza controllo. “John…” urlò con voce rotta, pronunciando il suo nome quasi come una supplica. “John…ti prego…aiutami…” aggiunse, chiudendo gli occhi e continuando a piangere.
 




 
Dopo aver lasciato Mary a casa, John arrivò in taxi a Baker Street. Arrivato davanti al 221B bussò energeticamente, salutò la signora Hudson e salì di corsa le scale. Era davvero preoccupato per Sherlock e, durante tutto il tragitto, non aveva fatto altro che pensare a come avesse potuto lasciarlo da solo in quelle condizioni. Era ancora arrabbiato con lui, ma dopo le parole di Mary, la preoccupazione aveva preso momentaneamente il posto della rabbia. Entrò nel soggiorno con il respiro ancora affannato dalla corsa e trovò il detective sdraiato sul divano. Apparentemente sembrava immerso nei suoi pensieri come al solito, ma dopo uno guardo più attento, si accorse che aveva un’espressione sofferente sul volto. Stava sudando freddo e si lamentava sommessamente, quasi come se stesse avendo un terribile incubo.
“Sherlock!” esclamò allarmato, avvicinandosi a lui ed iniziando a scuoterlo per farlo svegliare “…Sherlock, mi senti?... Apri gli occhi!” aggiunse, vedendo che non smetteva di lamentarsi “…Sherlock…per favore, svegliati!” continuò con voce tremante.
Dopo alcuni minuti il consulente investigativo aprì di scatto gli occhi. Si mise seduto e cominciò a guardarsi intorno confuso, ansimando pesantemente.
“Ehi…va tutto bene…” disse John, nel tentativo di farlo calmare.
Sherlock, però, si prese la testa tra le mani tremanti e cercò di regolarizzare il proprio respiro, ma senza riuscirci.
“Cos’è successo?” chiese il medico apprensivo.
“Io…io ero nel mio palazzo mentale e…c’era una porta…e non sapevo che…” provò a dire il detective, ma non riusciva a formulare una frase di senso compiuto.
John gli mise una mano sulla spalla, stringendola leggermente “Fai dei profondi respiri e cerca di spiegarmi parlando con calma…” disse con dolcezza.
“Non capisco…non dovevano trovarsi lì!” esclamò il detective confuso.
“Di chi stai parlando?” domandò il medico.
“Di…Barbarossa…e…di…mio fratello…” rispose Sherlock, con voce tremante.
“Sherlock…non riesco a seguirti…chi è Barbarossa? E cosa centra Mycroft?” chiese John turbato.
“Non Mycroft…Sherrinford…” rispose il consulente investigativo, riprendendo a passarsi nervosamente le mani nei capelli.
“Sherrinford?” domandò il medico, ancora più confuso.
“No…non dovevo parlarne…non dobbiamo più parlarne!” esclamò Sherlock, alzandosi di scatto dal divano “…È una storia vecchia e dimenticata e tale deve rimanere!” aggiunse convinto. Poi si mise a camminare per il soggiorno, passandosi le dita sulle tempie nel tentativo di riprendere il controllo di sé.
John rimase a fissarlo, turbato da quelle parole e dal suo atteggiamento. A guardarlo attentamente, sembrava sconvolto e non riusciva a capire cosa lo avesse ridotto in quelle condizioni. Chi era Barbarossa? E chi era Sherrinford? Nonostante conoscesse Sherlock da anni ormai, sapeva ben poco del suo passato. Era un argomento che non avevano mai affrontato ed aveva sempre rispettato la sua scelta e la sua privacy. Ma doveva essere accaduto qualcosa di terribile, poteva leggerlo nei suoi occhi, qualcosa che lo aveva stravolto e che adesso, per qualche oscura ragione, stava ritornando a tormentarlo. Si alzò lentamente dal divano e si avvicinò a lui, poi lo afferrò dalle braccia e lo fece voltare verso di sé.
“Sherlock, per favore…calmati! Se non vuoi parlarne non fa niente, ma devi riprendere il controllo di te stesso…va bene?” disse lentamente, guardandolo dritto negli occhi.
Sherlock annuì soltanto e, dopo qualche istante, parve ritornare in sé.
“Va meglio?” chiese John con un mezzo sorriso “…Se volessi parlarmene…lo sai che puoi dirmi qualsiasi cosa, vero?” aggiunse dolcemente.
“Si, lo so…ma non posso…io non…” provò a rispondere il detective, ma la voce gli si incrinò all’improvviso e abbassò subito lo sguardo.
“Va bene…non fa niente…ora pensiamo a Moriarty…cosa hai scoperto?” chiese il medico, cambiando completamente argomento.
“Non molto a dire il vero!” rispose Sherlock, riprendendo di nuovo il suo autocontrollo “…Quello di cui sono certo, è che dietro il video di Moriarty c’è sicuramente qualcuno che lavorava per lui e che ha fatto tutto questo per farmi rimanere a Londra e continuare il nostro gioco” aggiunse serio.
“Ma avevi smantellato tutta la sua rete criminale!” esclamò John confuso.
“Per quanto mi costi ammetterlo…deve essermi sfuggito qualcosa…o meglio qualcuno…e devo capire di chi si tratta, prima cha faccia la sua prossima mossa” rispose il detective, voltandosi a guardare pensieroso verso la finestra.
“E quale pensi possa essere la sua prossima mossa?” chiese il medico preoccupato.
Sherlock sospirò pesantemente. Poi si voltò con una strana espressione sul viso “Verrà a cercarmi…è ovvio! E io devo farmi trovare pronto!” disse con tono deciso.
John non disse niente. Tutta quella situazione lo rendeva nervoso. L’idea che qualcuno volesse continuare il gioco di Moriarty, naturalmente lo spaventava, ma ciò che lo preoccupava di più era lo stato di Sherlock. Nonostante cercasse di apparire il solito sé stesso, c’era qualcosa di strano in lui, qualcosa che lo stava lentamente distruggendo dall’interno.

 
Passarono le ore successive ad esaminare le carte e i documenti che Mycroft aveva mandato a Sherlock, riguardanti il video di Moriarty e altre informazioni raccolte dall’MI6. Nonostante il loro impegno, però, non erano riusciti a scoprire molto di più rispetto a quello che già sapevano. Mentre il detective stava analizzando l’ennesimo fascicolo, John si poggiò esausto allo schienale della sua poltrona e sospirò scoraggiato.
Sherlock alzò gli occhi su di lui, poi spostò lo sguardo sull’orologio. “John, è tardi…dovresti andare a casa!” disse, riprendendo ad osservare il fascicolo.
“Non sono stanco…possiamo continuare!” rispose prontamente il medico.
“Si, certo!” esclamò Sherlock con sarcasmo “…Ma fra poco Mary ti darà per disperso!” aggiunse con un mezzo sorriso “Vai a casa…” continuò, ritornando serio.
John guardò l’ora e, soltanto in quel momento, si rese conto di quanto fosse tardi. Si alzò dalla poltrona, mise la giacca e si voltò a guardare Sherlock, che era ancora intento a leggere.
“Torno domani…dovresti riposare anche tu…anche se so che non lo farai!” disse con un mezzo sorriso.
Il detective alzò lo sguardo per un momento, ricambiando il sorriso e poi riprese a fissare i fogli.
John si avvicinò alla porta, abbassò la maniglia e si fermò titubante. Dopo alcuni istanti, si voltò di nuovo verso il suo amico con uno sguardo preoccupato.
“Sherlock…” lo chiamò, attirando di nuovo la sua attenzione “…mi raccomando…niente cavolate…e sai a cosa mi riferisco…me lo prometti?” aggiunse, guardandolo dritto negli occhi.
“Santo cielo, John! Stai diventando assillante quasi come mio fratello!” esclamò Sherlock, sbuffando spazientito.
“…Me lo prometti?” ripeté il medico serio.
“Si, si…come vedi ho da lavorare e non ho bisogno di nient’altro!” rispose il detective a tono.
John lo guardò per qualche istante e annuì poco convinto, poi uscì dall’appartamento e prese un taxi per tornare a casa.
Sherlock, intanto, si era alzato dalla sua poltrona e lo osservava andarsene da un angolo della finestra. Appena la vettura sparì oltre l’orizzonte, sospirò e si rimise al lavoro.

 
Dopo qualche altra ora passata su quei documenti, Sherlock si poggiò afflitto con le spalle alla poltrona, chiuse gli occhi e mise le mani congiunte sotto il mento, per riflettere su tutta quella situazione. Doveva assolutamente arrivare alla soluzione e doveva farlo il prima possibile. Mentre era immerso nei suoi pensieri, sentì il rumore della porta che si apriva e i passi di qualcuno che entrava lentamente nel soggiorno.
“Deve essere così frustante per te, sapere di aver tralasciato qualcosa... ma non riuscire a capire cosa…” disse l’uomo con tono di scherno.
Sherlock rimase immobile, pietrificato da quella voce. Non poteva essere lui. Cercando di mantenere la calma, aprì gli occhi e si mise ad osservare chi aveva di fronte.
“Tu…tu non puoi essere qui…” rispose Sherlock con voce tremante.
“No, non posso…eppure eccomi qui! È tutto così eccitante, non trovi?” esclamò Moriarty iniziando a ridere “…Ma in fondo…tu hai bisogno di me, Sherlock…o non sei niente!” aggiunse, avvicinandosi e sedendosi sulla poltrona di John.
Il detective osservò Jim per qualche istante, poi chiuse gli occhi ed iniziò a massaggiarsi le tempie. “Tutto questo non ha senso…” disse frustrato.
Moriarty si mise a ridere, attirando l’attenzione del consulente investigativo, che riprese a guardarlo. Rimasero qualche istante a fissarsi, senza dire una parola, poi Jim interruppe quel silenzio.
“Certo che non ha senso, Sherlock!... Perché non è reale!” esclamò divertito “…Nulla di tutto questo è reale…è solo nella tua testa…” aggiunse, riprendendo a ridere.
Sherlock si svegliò di soprassalto. Si ritrovò seduto sulla sua poltrona, madido di sudore e con il cuore che gli batteva all’impazzata. Era di nuovo da solo nel soggiorno di Baker Street e aveva ancora in mano i fascicoli che stava leggendo poco prima. Doveva essersi addormentato senza rendersene conto. Si alzò dalla poltrona e posò, con le mani tremanti, i documenti sulla scrivania. Era stato un sogno, soltanto un terribile sogno. Eppure sembrava così reale. Cercando di riprendere il controllo, si diresse in cucina per preparare del tè. Versò l’acqua nel bollitore, lo mise sul fornello e lo accese. Poi si voltò a prendere la sua tazza, ma a causa delle mani che ancora gli tremavano, gli scivolò, frantumandosi a terra in mille pezzi. Preso dallo sconforto, si poggiò con le mani alla cucina, abbassò leggermente la testa e chiuse gli occhi, in un gesto disperato. Doveva assolutamente calmarsi, ma non sapeva come fare. In quel momento, come colto da un’improvvisa scarica elettrica, aprì gli occhi e un’idea gli balenò in testa. “Non posso farlo…l’ho promesso a John…” disse a sé stesso.
Dopo alcuni istanti di indecisione, però, chiuse il fornello e si diresse verso la scrivania. Per quanto tentasse di resistere, la tentazione era troppo forte. Aprì il secondo cassetto, dove c’era il doppio fondo e tirò fuori la scatolina. Prese tra le mani la siringa già riempita della sua soluzione al 7% e il laccio emostatico. “No, non posso farlo!” urlò, buttando di nuovo tutto nel cassetto di malo modo. Nonostante lo volesse più di ogni altra cosa, aveva ancora davanti l’espressione preoccupata di John che lo guardava e che gli diceva con voce tremante “Me lo prometti?”. Decisamente frustrato, fece un profondo respirò e si diresse verso la camera da letto, con il pensiero che forse una bella dormita lo avrebbe aiutato. Si tolse la vestaglia e si buttò sul letto ancora vestito. Nonostante l’agitazione, comunque, non ci mise molto a prendere sonno, cullato dal suo confortante letto e dalle morbide lenzuola.
 
Si ritrovò a casa dei suoi genitori. Non capiva come fosse arrivato lì, in fondo si trovava a Baker Street fino a pochi minuti prima. Passò davanti ad uno specchio e vide che il suo aspetto non era quello attuale: era sé stesso, ma all’età di 11 anni. Non ebbe il tempo di interrogarsi su cosa stesse succedendo, che sentì delle urla provenire dal piano di sopra. Ad urlare era una donna: sua madre. Salì le scale di corsa e trovò i suoi genitori abbracciati che piangevano disperati.
“Che succede?” chiese spaventato.
Poco più in là, un giovane Mycroft guardava dentro la stanza in fondo, tenendosi una mano sulla bocca e cercando di trattenere le lacrime.
“Mycroft cos’è successo?” chiese, avvicinandosi a suo fratello.
La stanza in questione era quella del secondogenito di casa Holmes, Sherrinford.
“Sherlock, vai di sotto! Non devi stare qui!” urlò Mycroft preoccupato, chiudendo subito la porta.
“Non trovo Barbarossa…di solito mi aspetta nel vialetto…” disse il minore decisamente confuso.
Il maggiore chiuse un attimo gli occhi nel tentativo di mantenere la sua espressione distaccata, ma senza riuscirci.
“Mycroft, dimmi la verità…che gli è successo? È lì dentro, vero?” chiese Sherlock con voce tremante, cercando di aprire la porta.
“No, Sherlock…non puoi entrare! Vai di sotto!” gridò Mycroft, afferrandolo subito da un braccio.
Il minore, però, con un gesto repentino, si liberò dalla stretta del fratello e riuscì ad entrare nella stanza. Ciò che vide gli spezzò il cuore. Barbarossa giaceva a terra sgozzato in una pozza di sangue.
“No…no…Barbarossa!” urlò, correndo verso di lui e inginocchiandosi al suo fianco “…No…ti prego…svegliati!” aggiunse tra le lacrime, mentre scuoteva il suo corpo nel vano tentativo di farlo svegliare “…Non lasciarmi…per favore…” continuò, iniziando a singhiozzare.
Mycroft si avventò su di lui, afferrandolo dalle spalle. “Sherlock, vieni via da qui!” esclamò disperato.
“Lasciami andare, Mycroft…devo fare qualcosa…è mio amico!” urlò il minore, cercando di liberarsi dalle braccia del fratello. Solo in quel momento si accorse di cos’altro c’era nella stanza. Qualcun altro giaceva a terra poco più in là ed anche lui in una pozza di sangue.
“Sherrinford!” gridò Sherlock, con voce rotta. Poi si liberò dalla stretta del maggiore e corse verso il corpo a terra. “No…no…Sherrinford, rispondimi!” disse, mentre altre lacrime gli uscivano senza controllo.
“Santo cielo, Sherlock! Non puoi più fare niente…vieni con me di sotto!” urlò il maggiore, nel tentativo di portarlo fuori da quella stanza.
Mentre Mycroft cercava di farlo alzare, Sherlock si accorse che Sherrinford, nella mano destra, stringeva un pezzo di carta. Lo prese e lo lesse attentamente, ignorando le grida del fratello maggiore. In quel momento capì tutto. Vide il coltello vicino al corpo di Barbarossa e la pistola a terra, accanto al corpo del secondogenito. Tentò di mettersi in piedi e seguire Mycroft fuori dalla stanza, ma appena si alzò, la vista gli si annebbiò e crollò a terra privo di sensi.

 
Sherlock si svegliò di soprassalto per la seconda volta. Aveva di nuovo il battito accelerato e ansimava pesantemente. Per anni era riuscito a seppellire quei ricordi nella parte più profonda della sua mente. Perché avevano ripreso a tormentarlo? Cercò di mettersi seduto, ma si accorse di avere la vista leggermente annebbiata. Si mise una mano sugli occhi e capì che alcune lacrime gli stavano rigando il viso senza controllo. Tutto il dolore che aveva provato allora, tutta la disperazione e l’angoscia che lo avevano perseguitato da quel momento, stavano iniziando, di nuovo, ad impadronirsi di lui. Non poteva sopportare tutto quello. Si asciugò le lacrime, si alzò dal letto e si diresse in soggiorno. Per un istante ebbe anche la tentazione di chiamare John; se solo ci fosse stato lui avrebbe saputo come farlo calmare, in fondo, c’era sempre riuscito in ogni occasione. Poi, però, guardò l’orologio e si accorse che erano le tre di notte. Non poteva chiamarlo a quell’ora, non poteva sconvolgergli la vita più di quanto avesse già fatto fino a quel momento. Se la sarebbe cavata da solo, come sempre, anche se questo voleva dire infrangere la sua promessa. Si avvicinò stancamente al cassetto, riprese tutto l’occorrente e si sedette sulla sua poltrona. Alzò la manica della camicia, si legò il laccio emostatico al braccio e, dopo un attimo di indecisione, affondò l’ago e premette lo stantuffo. “Mi dispiace, John…” disse, mentre una lacrima gli rigava il viso. Poi buttò a terra tutto l’occorrente, si poggiò allo schienale della poltrona e si rilassò, inebriato da quell’improvvisa sensazione di benessere. 






Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il secondo capitolo...! Ho anticipato leggermente rispetto alle previsioni, perchè era già pronto. Per l'altro credo che vi farò attendere un pò in più. Comunque qui si comincia a capire cosa intendevo, quando ho detto che Sherlock avrà un rapporto diverso con la droga, rispetto alla mia precedente storia. Alla base di tutto c'è sempre il dolore. Per quanto si sia sforzato di resistere alla tentazione per la promessa fatta a John, alla fine ha ceduto... scusandosi comunque per la sua debolezza. La storia di Barbarossa e di Sherrinford inizia a delinearsi, anche se ci saranno altre spiegazioni e altri chiarimenti più avanti nei prossimi capitoli. Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Grazie come sempre a chi segue la storia, a chi l'ha già messa nelle preferite/seguite/ricordate e chi vuole lasciare un commento. Alla prossima ;)

 

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Capitolo 3
*** The threat ***


                     Miss me?






                                               The threat






… Alzò la manica della camicia, si legò il laccio emostatico al braccio e, dopo un attimo di indecisione, affondò l’ago e premette lo stantuffo. “Mi dispiace, John…” disse, mentre una lacrima gli rigava il viso. Poi buttò a terra tutto l’occorrente, si poggiò allo schienale della poltrona e si rilassò, inebriato da quell’improvvisa sensazione di benessere.
 
 



 
La mattina dopo John si recò insieme a Mary a Baker Street. Era ansioso di sapere come stesse Sherlock e se avesse scoperto qualcosa in più sul video di Moriarty. Appena entrò del soggiorno, trovò il detective appisolato sulla sua poltrona e, intorno a lui, tutti i fascicoli a cui avevano lavorato insieme la sera prima. Si addentrò nella stanza e si avvicinò lentamente per svegliarlo. “Sherlock…” disse, scuotendolo leggermente. Solo in quel momento, però, si accorse della manica alzata e della piccola puntura rossa che risaltava sul suo braccio. Guardandosi meglio intorno, vide che a terra c’era la scatolina, la siringa e il laccio emostatico. Si voltò verso sua moglie e si scambiarono uno sguardo preoccupato. Poi si girò di nuovo a guardare il suo migliore amico ed una prepotente rabbia iniziò ad impadronirsi di lui.
“Sherlock!” lo chiamò di nuovo, alzando il tono di voce.
Dopo alcuni istanti il detective aprì gli occhi e incrociò lo sguardo di John. “John…” disse con la voce ancora impastata di sonno, raddrizzandosi sulla poltrona e passandosi una mano sugli occhi.
Il medico prese la siringa da terra e la sventolò davanti agli occhi di Sherlock. “Si può sapere cosa diavolo è questa?” urlò furioso.
Sul viso del consulente investigativo apparve un’espressione dispiaciuta. “John…io…” provò a dire, ma non riuscì a continuare la frase e abbassò lo sguardo.
“Cosa, Sherlock?” gridò John “...Si può sapere che intenzioni hai?... Stai cercando di ucciderti per caso?” aggiunse, alzando ulteriormente il tono di voce.
“John…” lo chiamò Mary alle sue spalle, nel tentativo di attirare la sua attenzione.
Il medico si voltò e guardò intensamente sua moglie, capendo all’istante cosa volesse dirgli. “No, Mary…non provare a difenderlo!” esclamò ancora più irritato.
La donna, però, ignorò le parole del marito e si avvicinò a Sherlock, poi prese la sedia della scrivania e si sedette di fianco a lui.
“Cos’è successo?” gli chiese, guardandolo negli occhi.
Il detective interruppe il contatto visivo e voltò la testa dall’altra parte, iniziando a fissare un punto indefinito nel camino.
“Sherlock…” lo chiamò dolcemente Mary, mentre John continuava a sbuffare spazientito.
Il consulente investigativo stava per parlare, quando la porta del soggiorno si aprì all’improvviso ed un affannato Greg fece il suo ingresso.
“Scusate l’improvvisata!” esclamò con il fiato corto “…Ho interrotto qualcosa?” chiese poi, vedendo le strane espressioni che avevano tutti e tre. Non diede a nessuno il tempo di rispondere, però, che i suoi occhi iniziarono a fissare la siringa che John aveva ancora in mano e il segno sul braccio del detective.
“Cristo Santo, Sherlock!” esclamò, guardandolo con aria di rimprovero “…Me lo avevi promesso!” aggiunse deluso.
“Benvenuto nel club, allora!” rispose John con sarcasmo, continuando a stringere quella siringa con rabbia.
“Lestrade, dovresti dirmi perché sei qui, piuttosto…” disse Sherlock con il suo solito tono di non curanza.
Greg guardò un attimo verso il medico e poi riprese a fissare il detective. Sospirò pesantemente e si passò una mano sugli occhi, scoraggiato.
“Dovresti venire con me su una scena del crimine…abbiamo trovato un cadavere con una lettera indirizzata a te…” rispose serio “…sempre se ne sei in grado…” aggiunse leggermente irritato.
“Certo, Gavin! Sono perfettamente in grado di venire!” esclamò Sherlock, alzandosi di scatto dalla poltrona. Dopo qualche passo, però, una forte fitta alla testa lo colpì all’improvviso. Si piegò leggermente in avanti, prendendosi il capo tra le mani e lasciandosi sfuggire un gemito di dolore.
“Sherlock!” urlò John, avvicinandosi a lui ed afferrandolo da un braccio.
“Sto bene…sto bene!” gridò il detective, liberandosi sgarbatamente dalla presa del medico “…devo andare a cambiarmi…” aggiunse, recandosi in camera da letto a prendere dei vestiti e chiudendosi poco dopo in bagno.
Lestrade sospirò pesantemente, poi si mise a guardare John.
“I miei uomini stanno lavorando con gli agenti dell’MI6 per scoprire altre informazioni sul video di Moriarty…e Mycroft mi ha raccontato ciò che è successo sull’aereo…pensavo comunque che si trattasse di un caso isolato…non immaginavo che la situazione fosse così grave…” disse all’improvviso con aria preoccupata.
“Sinceramente, neanche io immaginavo che arrivasse a tanto…quando, un mese dopo il mio matrimonio, l’ho trovato in quel covo di drogati, ho voluto credere che lo avesse fatto davvero per il caso di Magnussen…ma credo che abbia ricominciato proprio allora!... Sono stato così cieco a non accorgermene…avrei dovuto capirlo dal fatto che avesse tolto la mia poltrona! …Forse lo ha fatto perché si è ritrovato di nuovo da solo…forse sentiva la mia mancanza…non lo so...ma avrei dovuto tenerlo d’occhio prima che arrivasse a questo punto…” rispose il medico con voce leggermente tremante e mantenendo lo sguardo basso.
Greg si avvicinò a lui e gli mise una mano sulla spalla. “Non devi fartene una colpa, John…” iniziò a dire, ma venne interrotto dal detective che uscì vestito di tutto punto dal bagno.
“Possiamo andare, Gavin!” disse Sherlock, mentre indossava sciarpa e cappotto.
“Vengo anche io!” esclamò John. Poi si voltò verso sua moglie per dirle di rimanere lì a Baker Street.
Mary, però, parve interpretare i pensieri di suo marito. “Non pensarci nemmeno, John! Non ho intenzione di rimanere qui…andiamo!” rispose con un mezzo sorriso.
 
Tutti e quattro uscirono velocemente dall’appartamento e salirono nell’auto di Greg: Sherlock avanti e John e Mary dietro. Durante il tragitto, il detective si massaggiava con due dita la radice del naso, mantenendo gli occhi chiusi.
“Ehi…tutto bene?” gli chiese Lestrade apprensivo.
“Si, sto bene…” rispose Sherlock, aprendo gli occhi ed iniziando a guardare fuori dal finestrino.

 
“Mycroft, vuoi giocare con me e Barbarossa ai pirati?” chiese il piccolo Sherlock entusiasta.
“Sherlock, per favore…non vedi che sto studiando?” rispose il maggiore, sbuffando irritato.
“Santo cielo, Mycroft…come sei noioso!... Potresti perdere qualche minuto del tuo tempo e farlo contento una buona volta!” esclamò Sherrinford, entrando in quel momento nel soggiorno.
“Si dà il caso che stia facendo qualcosa di notevolmente importante e non posso permettermi di perdere del tempo prezioso! Perché non vai tu piuttosto?” disse Mycroft con tono di sfida.
“Come ben sai fratellone, io sono sempre disponibile per lui…a prescindere dai miei impegni!... Sei tu che ti ostini ad isolarti da tutto e da tutti!... Potresti dirgli di sì, di tanto in tanto ed evitare di farlo rimanere male ogni volta!” rispose il secondogenito irritato.
Sherlock, intanto, se ne stava in silenzio. Osservava i suoi due fratelli discutere tra loro, mentre con una mano accarezzava Barbarossa con un gesto ripetitivo ed automatico.
Il maggiore non rispose. Riprese a guardare il libro che stava leggendo, ignorando le parole dell’altro.
“Andiamo, Sherlock…vengo io a giocare con te!” disse Sherrinford con un sorriso “…Stavo per uscire, ma per te faccio sempre un’eccezione!” aggiunse, alzando il tono di voce per farsi sentire da Mycroft.
Sherlock e Sherrinford si avviarono fuori, seguiti da un saltellante Barbarossa. Dopo alcuni minuti, mentre erano intenti a giocare, però, l’espressione del minore si rabbuiò all’improvviso.
“Che succede?” chiese il secondogenito apprensivo.
Sherlock si sedette a terra e sospirò pesantemente.
“Credi che Mycroft mi voglia bene?” chiese, abbassando lo sguardo.
Sherrinford sorrise con dolcezza, intenerito da quella domanda. Poi si sedette accanto a lui e gli mise un braccio intorno alle spalle, attirandolo a sé.
“Certo che ti vuole bene e non immagini quanto, Sherlock!... Ma lo sai com’è fatto…nonostante si ostini ad affermare di non provare sentimenti, li prova eccome…è solo che non sa come gestirli e preferisce nascondersi dietro la sua maschera di freddezza…” rispose il secondogenito serio “…in fondo è un’idiota, ma non possiamo fargliene una colpa!” aggiunse mettendosi a ridere.
Sherlock scoppiò a ridere a sua volta, lasciandosi cullare dall’abbraccio di suo fratello.

 
“Sherlock mi stai ascoltando?” chiese Greg, interrompendo il ricordo del detective.
“Si, certo!” rispose Sherlock in automatico “…Cosa stavi dicendo?” domandò poi confuso.
Lestrade rimase sorpreso da quel comportamento. Alzò gli occhi verso lo specchietto retrovisore e si scambiò uno sguardo preoccupato con John. Poi si voltò di nuovo verso il detective.
“Ti stavo parlando della scena del crimine…” rispose titubante “…sei sicuro di stare bene? Sembra che tu abbia la testa da un’altra parte!” continuò apprensivo.
“Si, si…sto bene! Stavo solo pensando…” disse Sherlock, voltandosi di nuovo a guardare fuori dal finestrino “…continua pure…” aggiunse, rimanendo nella stessa posizione.
“Come ti dicevo la scena del crimine si presenta strana, perché apparentemente sembra si tratti di un suicidio…ma la lettera indirizzata a te fa pensare che ci sia qualcos’altro dietro…” disse Greg pensieroso.
Il detective si voltò verso di lui con un sorriso compiaciuto “Stai migliorando…” disse divertito “…ma la lettera l’avete aperta?” chiese poi curioso.
“No, non abbiamo toccato niente…” rispose prontamente Lestrade, sorridendo a sua volta, sorpreso dal complimento di Sherlock.
“Bene…” disse soltanto il consulente investigativo, sospirando e ritornando ai suoi pensieri.

 
Appena arrivati sulla scena del crimine, Sherlock si diresse immediatamente ad esaminare il cadavere. Come accennato dall’ispettore, tutto indicava chiaramente che si trattava di suicidio. La vittima, un giovane uomo, si era ucciso sparandosi un colpo d’arma da fuoco in bocca con la mano sinistra. Da un’attenta analisi non emergeva niente di strano, considerando anche il fatto che la vittima era sicuramente mancina. Nella mano destra, però, stringeva la lettera di cui aveva parlato Greg.
In un primo momento quella scena provocò un leggero brivido lungo la schiena del consulente investigativo. Cercando in tutti i modi di non farsi distrarre da quella strana sensazione, prese la lettera con delicatezza e la osservò con cura. Non c’erano tracce all’esterno, ma c’era solo il suo nome scritto in bella calligrafia. La aprì con attenzione e guardò al suo interno decisamente incuriosito. La busta conteneva un solo foglio su cui c’erano scritte poche righe: Abbiamo ancora un problema da risolvere, il nostro problema: il problema finale. Ricordati che ti devo una caduta, Sherlock… I O U.
Il consulente investigativo lesse quelle parole con attenzione e poi passò il foglio a John, che intanto si era avvicinato insieme a Greg e a Mary. Si passò le mani sul volto e prese a camminare nervosamente per la stanza.
“È astuto… è davvero molto astuto…” disse con un mezzo sorriso.
“Che vuoi dire?” chiese John confuso.
“Queste esatte parole me le ha dette Moriarty quando anni fa è venuto a Baker Street a minacciarmi, subito dopo il suo processo!... Chiunque stia conducendo il gioco, sta facendo davvero un ottimo lavoro…” rispose Sherlock compiaciuto.
Il medico, dopo aver letto il biglietto, si mise ad osservare il cadavere pensieroso. Tutta la situazione lo preoccupava: non solo il misterioso nemico che voleva continuare il gioco di Moriarty, ma anche le condizioni del suo migliore amico, che non sembravano delle migliori. Tutto stava prendendo una brutta piega e sicuramente non avrebbe portato a niente di buono.

 
Sherlock, John e Mary presero un taxi per tornare a Baker Street, lasciando Greg a controllare i suoi uomini sulla scena del crimine. Durante il tragitto il medico mandò silenziosamente un messaggio a Mycroft, per avvisarlo di ciò che era successo.
 
-Sherlock c’è ricaduto di nuovo. Potrebbe essere utile un tuo intervento. Stiamo tornando adesso a Baker Street. JW
 
Dopo qualche istante arrivò la risposta da parte del politico.
 
-Sto arrivando. Ci troviamo lì. MH

 
Arrivati al 221B, i tre scesero dalla vettura e si diressero velocemente di sopra. Appena il detective entrò nel soggiorno, trovò suo fratello seduto sulla sua poltrona con in mano la scatolina e tutto ciò che conteneva.
“Che ci fai qui?” sputò acidamente Sherlock.
“L’ho avvisato io…” rispose prontamente John, guardando il detective con aria di sfida.
“L’hai avvisato tu?” chiese il consulente investigativo irritato.
“Certo che mi ha avvisato lui!” esclamò Mycroft, alzando il tono di voce “…Ma andiamo subito al sodo…sbaglio o su quell’aereo avevi detto che avendo un lavoro da finire, non ne avresti avuto bisogno?... Mi vuoi spiegare cosa ti sta succedendo?” aggiunse, urlando l’ultima frase.
“Niente, Mycroft…non mi sta succedendo niente!” gridò Sherlock a sua volta “…E adesso che ho risposto alla tua domanda, puoi anche andartene fuori dai piedi!” continuò, sbuffando e sedendosi nervoso sul divano.
“Basta, Sherlock! Smettila di comportarti così!” urlò il politico, alzandosi dalla poltrona “…Te lo chiederò un’altra volta soltanto…cos’è successo questa volta?” aggiunse, scrutandolo con attenzione.
Il detective guardò suo fratello con aria di sfida per qualche istante. Poi interruppe improvvisamente il contatto visivo ed abbassò lo sguardo, ma senza rispondere. Rimasero tutti fermi e immobili per alcuni minuti, mantenendo quel rigoroso silenzio che si era creato. Dopo un po', però, Sherlock si alzò dal divano.
“Dove pensi di andare?” chiese John irritato.
“Fuori di qui…non ho intenzione di continuare ad ascoltarvi mentre sbraitate!” rispose il consulente investigativo, avviandosi verso la porta.
“No! Tu non andrai da nessuna parte!” urlò il medico, mettendosi davanti a lui.
“Lasciami passare, John…” disse Sherlock, sospirando nervoso.
“No, Sherlock! Ti sei ridotto così, perché tutti ti lasciano fare sempre quello che vuoi! Adesso basta, mi sono stancato!... Ora torna a sederti su quel maledetto divano!” gridò John furioso.
“John…ti prego…” rispose il detective spazientito.
“Torna a sederti su quel divano…” ripeté il medico ancora più arrabbiato “…non costringermi ad obbligarti…” aggiunse, iniziando a stringere i pugni.
“Vorrei vederti provare!” esclamò Sherlock con tono di sfida.
John non se lo fece ripetere una seconda volta. Alzò velocemente il braccio e gli tirò un pugno in pieno volto, con una tale violenza da rompergli in naso e farlo finire a terra.
Mary corse subito verso suo marito e lo afferrò dalle spalle per evitare che si avventasse nuovamente sull’amico.
“Non mi provocare, Sherlock!” urlò il medico furioso, mentre cercava di liberarsi dalla presa della moglie.
“John…calmati…” disse Mary nel disperato tentativo di farlo tranquillizzare.
Mycroft, intanto, si avvicinò al fratello per aiutarlo a rimettersi in piedi.
“Lasciami! Ce la faccio da solo!” sputò acido Sherlock, alzandosi lentamente, mentre con una mano cercava di tamponare il sangue che gli fuoriusciva dalle narici. Appena fu in piedi si diresse in cucina, prese uno straccio e se lo mise sul naso. Subito dopo si andò a sedere sul divano, poggiò la testa allo schienale e chiuse gli occhi, trattenendo una smorfia di dolore.
John si liberò dalle braccia di sua moglie, decisamente più calmo. In silenzio andò in bagno e tornò con la cassetta del pronto soccorso. Poi si sedette vicino al detective e lo guardò, sospirando pesantemente.
“Fammi dare un’occhiata…” disse dolcemente.
Sherlock non si oppose. Si tolse lo straccio dal naso e permise a John di medicarlo, senza dire una parola e mantenendo gli occhi chiusi.
“A questo punto posso anche andarmene…” disse all’improvviso Mycroft, incrociando gli occhi del medico.
“Si, non preoccuparti! Io e Mary ne abbiamo parlato e rimarremo qui a Baker Street per qualche giorno a tenerlo d’occhio…” rispose John serio.
Il politico annuì con un mezzo sorriso, poi si fermò qualche secondo a guardare suo fratello ed uscì dall’appartamento.






Angolo dell'autrice: 
Salve! Eccovi un terzo capitolo! Beh, che dire...si aggiunge un altro piccolo ricordo di Sherrinford e si comincia a delineare il rapporto che avevano allora i tre fratelli Holmes. 
Colui che si nasconde dietro il video di Moriarty ha lasciato un messaggio a Sherlock...o meglio una minaccia, quindi potrebbe colpire da un momento all'altro. 
Per quanto riguarda John, ha reagito come doveva. A volte Sherlock se li chiama proprio i pugni! 
Spero che il capitolo vi sia piaciuto...Grazie come sempre a chi segue la storia e a chi vuole lasciare un commento. 
Alla prossima ;)

 

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Capitolo 4
*** The abduction ***


                     Miss me?






                                           The abduction





… “A questo punto posso anche andarmene…” disse all’improvviso Mycroft, incrociando gli occhi del medico.
“Si, non preoccuparti! Io e Mary ne abbiamo parlato e rimarremo qui a Baker Street per qualche giorno a tenerlo d’occhio…” rispose John serio.
Il politico annuì con un mezzo sorriso, poi si fermò qualche secondo a guardare suo fratello ed uscì dall’appartamento.



 
 
John medicò il naso di Sherlock con molta attenzione, continuando a rimanere in silenzio. Appena finì, mise tutto l’occorrente nella cassetta del pronto soccorso e si alzò dal divano. Il detective, però, lo bloccò sul posto, afferrandolo improvvisamente da un braccio. Il medico, allora, si voltò verso di lui, decisamente sorpreso da quel gesto.
“Mi dispiace, John…” disse il consulente investigativo con uno sguardo triste.
John fece un mezzo sorriso e si sedette di nuovo accanto a lui.
“Sherlock Holmes che chiede scusa è davvero un evento raro…dovrei prenderti a pugni più spesso se questi sono i risultati!” rispose poi con sarcasmo, mettendosi a ridere.
Sherlock sorrise a sua volta, trattenendo però una smorfia di dolore.
“Ora mi spieghi che ti sta succedendo?” chiese il medico, ritornando serio.
Il detective non rispose. Abbassò lo sguardo e sospirò pesantemente.
“Sherlock…per favore…voglio solo aiutarti…” disse John con voce tremante.
Il consulente investigativo, però, continuò a rimanere in silenzio. Spostò semplicemente lo sguardo verso la finestra, iniziando a guardare fuori pensieroso.
Il medico sospirò scoraggiato e si alzò dal divano. Andò a conservare la cassetta del pronto soccorso e si recò in cucina per preparare del tè. Mary, intanto, che non aveva detto una parola fino a quel momento, raggiunse il marito nell’altra stanza e gli mise una mano sulla spalla.
“John…non prendertela…” disse sottovoce.
“Si sta chiudendo in sé stesso…e così non posso aiutarlo…non so cosa fare!” esclamò John, passandosi una mano sugli occhi con sconforto.
“Qualunque sia il problema, vedrai che te ne parlerà appena sarà pronto…devi dargli tempo…” rispose dolcemente la moglie.
Il medico annuì non molto convinto. Sperava tanto che Mary avesse ragione. Voleva solo che tutto ritornasse come prima e, soprattutto, che Sherlock ritornasse ad essere di nuovo sé stesso.
Appena il tè fu pronto, cercò la tazza del detective nella credenza, ma vide che non era al solito posto. Ben presto si accorse che giaceva a terra, al lato del tavolo, in mille pezzi. Era una cosa alquanto strana, considerando quanto il suo migliore amico tenesse a quella tazza. Decisamente confuso ritornò in soggiorno per chiedergli spiegazioni, ma lo trovò sdraiato sul divano, profondamente addormentato.

 
Sherlock era appena tornato da scuola e stava camminando tristemente verso la sua camera, seguito dal suo inseparabile Barbarossa. Mentre passava davanti alla porta della stanza di Mycroft, sentì delle voci provenire dal suo interno. Si avvicinò curioso, aprendo leggermente la porta, giusto quel poco che serviva a capire cosa stesse succedendo. All’interno c’era Mycroft, seduto alla scrivania e dall’altra parte, di fronte a lui, c’era Sherrinford, che stava in piedi e lo guardava con una strana espressione.
“Cosa vuoi? Sei venuto a farmi una delle tue solite prediche?” chiese il maggiore spazientito.
“Dobbiamo parlare di Sherlock…” rispose il secondogenito serio.
“Sentiamo…cos’è successo questa volta?” domandò Mycroft, sospirando e poggiandosi con la schiena alla spalliera della sedia.
Sherrinford mise le mani sulla scrivania, sporgendosi leggermente verso il fratello. “Ascoltami, Mycroft…” disse sospirando pesantemente “…Non mi importa se continui a trattarmi con sufficienza e non mi importa se per te non conto niente…” aggiunse con voce tremante “…ma ti prego…non farlo anche con Sherlock…è un bambino così fragile e sensibile!... Non posso vederlo soffrire ogni volta che cerca le tue attenzioni…lui ti vuole bene, Mycroft…ti ammira più di quanto pensi…non fa altro che cercare di attirare la tua attenzione e in cambio non riceve niente da te, se non la tua indifferenza!... So che a modo tuo gli vuoi bene, ma ha bisogno che tu glielo dimostri in qualche modo!” continuò, abbassando lo sguardo e asciugandosi una lacrima con la manica della maglia. Poi alzò di nuovo gli occhi e li posò su suo fratello, fece un profondo respiro e si voltò verso la porta.
Mycroft rimase sorpreso da quelle parole. Dalla sua espressione si vedeva chiaramente che non si aspettava niente del genere.
“Sherrinford…” lo chiamò all’improvviso, facendolo fermare “…non è vero che tu non conti niente per me…” aggiunse con un filo di voce.
Il secondogenito si voltò verso di lui con un sorriso triste. “Oh, Mycroft…quanto vorrei crederti…ma non importa…grazie comunque per averlo detto…” disse, mentre alcune lacrime iniziavano a rigargli il viso. Poi si girò di nuovo e si recò verso l’uscita.
“Sherrinford!” provò a chiamarlo nuovamente il maggiore, ma lui non rispose ed uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Appena Sherrinford si trovò fuori, si accorse che c’era Sherlock che lo scrutava con attenzione.
“Non perdi mai il vizio di origliare da dietro le porte, vero?” chiese dolcemente.
“Stai piangendo…” rispose prontamente Sherlock.
“Sempre a precisare l’ovvio!” esclamò il secondogenito, asciugandosi le lacrime. “…Non preoccuparti…va tutto bene…” aggiunse, sforzandosi di sorridere “…Tu, piuttosto…cosa hai fatto all’occhio?” continuò, cambiando espressione.
Il minore abbassò subito lo sguardo. “Niente…sono caduto…” rispose, provando ad essere convincente.
“Oh, Sherlock…sono stati di nuovo i tuoi compagni di scuola, vero?” chiese Sherrinford preoccupato.
“Sono degli idioti…” disse semplicemente Sherlock.
“Dovresti dirlo a mamma e a papà…questa storia non può andare avanti!” esclamò il secondogenito serio.
“E quando?... Come vedi non sono mai a casa!... E poi comunque cosa cambierebbe?... Tutti pensano che io sia uno strambo…e…comincio a pensare che abbiano ragione…” disse il minore con le lacrime agli occhi.
Sherrinford si abbassò leggermente verso di lui. “Non voglio sentirti dire più una cosa del genere, sono stato chiaro?... Tu non sei uno strambo…tu sei speciale, Sherlock!” disse, accarezzandogli i capelli.
“E se io non volessi essere speciale?... Se volessi essere normale?” chiese Sherlock, alzando lo sguardo su di lui.
“Normale?... Ma essere normale è così noioso!” rispose il secondogenito con sarcasmo, per farlo ridere.
Il minore, infatti, si mise a ridere, poi ritornò di nuovo serio. “Forse dovrei fare come Mycroft…lui in fondo ha ragione…provare sentimenti è davvero uno svantaggio…non si fa altro che soffrire…” disse pensieroso.
“No, per favore! Di Mycroft ne basta già uno!” ironizzò Sherrinford “…E comunque decidere di non provare sentimenti è da codardi! È vero, a volte fa male, ma non devi mai rinunciare a provare qualcosa per paura di soffrire, perché alla fine, ti sarai protetto, ma ti ritroverai da solo! …Non fare mai questo errore, Sherlock!” aggiunse con convinzione.
Sherlock rifletté qualche minuto su quelle parole, poi sorrise.
“Vieni qui!” esclamò il secondogenito, abbracciandolo con forza.
Il minore ricambiò l’abbraccio e si tranquillizzò tra le braccia del fratello.
 
L’ambientazione cambiò all’improvviso. Sherlock si ritrovò in giardino, seduto sull’erba, intento ad accarezzare Barbarossa. Dopo alcuni minuti sentì qualcuno piangere. Si alzò di scatto e si mise a camminare, cercando di capire da dove provenissero quei singhiozzi. Appena svoltò l’angolo della casa, vide Sherrinford a terra, con la schiena poggiata al muro, le gambe strette al petto e la testa poggiata sulle ginocchia.
“Sherrinford!” urlò, correndo verso di lui.
Il secondogenito, sentendo la voce di suo fratello, cercò di asciugarsi le lacrime con la manica della maglia.
Sherlock si inginocchiò di fianco a lui. “Che succede?” chiese preoccupato.
Sherrinford si alzò di scatto e si sforzò di sorridere. “Niente…va tutto bene…” rispose, cercando di apparire convincente.
Anche il minore si mise in piedi e lo guardò dritto negli occhi. “No, non va tutto bene!” esclamò convinto.
Il secondogenito abbassò lo sguardo e sospirò pesantemente, mettendosi nervosamente le mani in tasca, mentre altre lacrime gli uscivano senza controllo. “Scusami, Sherlock…io non…” provò a dire, ma la voce gli si incrinò e dovette interrompere la frase. Poi si voltò all’improvviso e si diresse velocemente dentro casa.
“Sherrinford, aspetta!” urlò Sherlock, correndo dietro di lui.
Sherrinford, però, non si fermò, arrivò alla porta della sua camera, la aprì e si chiuse dentro a chiave.
Il minore si avvicinò alla porta e si mise a bussare con insistenza. “Sherrinford…apri per favore…” gridò disperato, ma non ricevette risposta “Sherrinford!” continuò ad urlare.
 
 
“Sherlock, svegliati!” disse John, scuotendo il detective con insistenza “…Sherlock!” esclamò, alzando ulteriormente il tono di voce.
Il consulente investigativo aprì di scatto gli occhi e guardò il medico con aria confusa. “Che succede?” chiese, mettendosi lentamente seduto.
“Ti stavi lamentando nel sonno!” rispose John preoccupato “…Stai bene?” aggiunse, scrutandolo con attenzione.
Sherlock si passò le mani sul viso e sospirò. “Si, si…sto bene…” disse. Poi si alzò dal divano e si avvicinò lentamente alla finestra, iniziando a guardare fuori pensieroso.
“Cos’è successo alla tua tazza?” chiese il medico all’improvviso.
“Mi è caduta…ieri sera quando…” provò a rispondere il detective, ma si fermò a metà frase. “Dov’è Mary?” chiese poi, voltandosi curioso e cambiando discorso.
“È andata a casa a prendere alcune cose che le servivano. Volevo accompagnarla, ma è voluta andare da sola e sai com’è testarda quando si mette in testa qualcosa!... A volte capisco perché andate d’accordo!” esclamò John con sarcasmo.
Sherlock sorrise, divertito dalle parole del medico. Poi, però, ritornò di nuovo serio. “Quanto tempo fa è andata?” chiese preoccupato.
“Effettivamente…ora che ci penso…circa due ore fa…dovrebbe tornare a momenti, credo…” rispose John titubante “…perché?” aggiunse poi, vedendo la strana espressione del suo amico.
“Non lo so…ho un brutto presentimento…prova a chiamarla!” esclamò il detective.
“E da quando hai dei presentimenti?” ironizzò il medico. Vedendo, però, l’espressione tirata di Sherlock, iniziò a preoccuparsi anche lui e corse a prendere il cellulare per chiamarla.
Il presentimento del consulente investigativo era sicuramente giusto. Il telefono di Mary, infatti, squillava a vuoto. Presi entrambi dal panico, si prepararono in fretta e corsero fuori dall’appartamento.

Arrivati davanti a casa Watson, scesero velocemente dal taxi e si avvicinarono all’ingresso. Si accorsero subito che la porta era socchiusa e, dai segni presenti, era stata evidentemente forzata dall’esterno.
“Mary!” urlò John, entrando dentro.
“Mary!” chiamò a sua volta Sherlock, ma entrambi non ricevettero risposta.
La casa, infatti, era vuota e della donna non c’era nessuna traccia.
L’attenzione del detective venne attirata da una busta beige che giaceva sul tavolo. Era stata chiusa con un particolare sigillo, stranamente familiare. La aprì e dentro trovò il libro delle fiabe dei fratelli Grimm. In quel momento capì dove l’aveva già visto: erano la stessa busta e lo stesso libro che aveva trovato in quel collegio, anni prima, quando stava investigando sul rapimento dei figli dell’ambasciatore americano. Era evidente, quindi, che la persona che aveva preso Mary, era la stessa che si nascondeva dietro il video di Moriarty. All’improvviso, mentre aveva ancora il libro in mano, sentì di nuovo la voce di Jim rimbombare nella sua testa: “In tutte le fiabe c’è bisogno di un vero cattivo…e tu hai bisogno di me, Sherlock!”.
Nel sentire quelle parole, il detective sbiancò visibilmente e lasciò cadere il libro a terra. Chiuse gli occhi, si mise le dita sulle tempie ed iniziò a fare dei respiri profondi, per cercare di mantenere il controllo della sua mente.
“Sherlock, stai bene?” chiese John, avvicinandosi a lui preoccupato.
“Si…sto bene…” rispose Sherlock con voce tremante.
“Santo cielo, sei bianco come un cencio…siediti, ti prendo un po' d’acqua!” esclamò il medico, cercando di mantenere la calma e di non pensare a Mary.
Il consulente investigativo si sedette e si passò nervosamente le mani sul viso, ansimando leggermente. Poi prese il bicchiere che gli diede John e bevette un sorso d’acqua. Dopo alcuni istanti iniziò a riprendere colorito e a sentirsi meglio.
“Cos’è successo?” domandò John apprensivo.
“Niente…ora dobbiamo pensare a Mary!” esclamò il detective, alzandosi decisamente ripreso e prendendo il libro che era a terra “…questo è un indizio, John! Ricordi il rapimento dei figli dell’ambasciatore americano anni fa? Nel collegio trovai lo stesso libro…e alla fine la soluzione era in una fiaba, quella di Hansel e Gretel!... Chiunque ci sia dietro, vorrà fare lo stesso gioco…dobbiamo solo capire quale fiaba userà questa volta e quali indizi ci ha lasciato” aggiunse, parlando tutto d’un fiato.
Il medico annuì, ancora preoccupato per quello che era successo poco prima. Ma in fondo Sherlock aveva ragione: dovevano pensare a Mary.
Il detective, intanto, si mise ad osservare la casa con attenzione alla ricerca di qualche indizio, ma senza ottenere risultati. Preso dallo sconforto, si fermò un attimo a riflettere sul da farsi. Fu in quel momento che un’idea gli attraversò la mente.
“Dobbiamo andare subito a Baker Street!” esclamò all’improvviso.
“Hai trovato qualcosa?” chiese John confuso.
“No…ma pensaci, John…nel rapimento dei due bambini, Moriarty ci aveva mandato le buste con gli indizi direttamente al 221B!... Sono sicuro che chiunque ci sia dietro, stia seguendo lo stesso schema!... Dobbiamo sbrigarci…tu intanto avvisa Lestrade e digli di raggiungerci lì!” rispose il consulente investigativo, precipitandosi fuori dalla villetta.
Il medico lo seguì fuori, salì con lui su un taxi e chiamò Greg per raccontargli cos’era successo. Sperava solo che Sherlock avesse ragione. E soprattutto, sperava che riuscissero a trovare Mary sana e salva. 






Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il quarto capitolo! Altri due piccoli ricordi si aggiungono alla storia di Sherrinford e danno altri utili dettagli. Mary è stata rapita e tocca a Sherlock trovare gli indizi e capire dove si trova per poterla salvare in tempo. 
Per quanto riguarda la situazione mentale di Sherlock voglio chiarire che non sta diventando pazzo, anche se così sembra. Facendo delle ricerche su internet, ho scoperto che l'astinenza da cocaina (quando se ne fa un uso frequente, come quello del nostro detective ultimamente) non ha gli effetti delle altre droghe, che di solito sono, come per l'eroina: forte dolore muscolare delle gambe e delle articolazioni, nausea e vomito, dissenteria, brividi, sudorazione, estrema irrequietezza, insonnia ecc.... Nel caso della cocaina, infatti, i sintomi di astinenza non sono fisicamente visibili, ma sono più di natura mentale a psicologica; si hanno quindi: agitazione, depressione, affaticamento, incubi, allucinazioni, pensieri suicidali (con tendenza all'autolesionismo e al suicidio). Se teniamo conto dell'uso che in questa storia Sherlock fa della cocaina, si possono chiaramente spiegare tutti i sintomi e i malesseri che sta avendo. Spero di essere riuscita a chiarirvi la situazione, perchè ci tengo che riusciate a capire al meglio tutte le sfumature e le vicende della storia. 
Spero che il capitolo vi sia piaciuto...grazie a chi sta seguendo la storia, a chi l'ha gia messa nelle preferite/seguite/ricordate e a chi vuole lasciare un commento. Alla prossima ;)

 

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Capitolo 5
*** Snow White ***


                    Miss me?






                                          Snow White






… Il medico lo seguì fuori, salì con lui su un taxi e chiamò Greg per raccontargli cos’era successo. Sperava solo che Sherlock avesse ragione. E soprattutto, sperava che riuscissero a trovare Mary sana e salva.



 
 
 
Arrivati al 221B, Sherlock e John scesero di corsa dal taxi. Appena si avvicinarono all’ingresso, però, si accorsero che anche quella porta era stata forzata dall’esterno. Entrarono velocemente e trovarono la signora Hudson a terra, priva di sensi.
“Santo cielo!” esclamò il medico, correndo verso di lei.
“Come sta?” chiese il detective preoccupato.
“È stata colpita in testa con qualcosa…la ferita sembra superficiale, ma dobbiamo chiamare un’ambulanza!” rispose John con fare professionale.
Mentre il medico chiamava i soccorsi, Sherlock salì di corsa le scale e si addentrò nell’appartamento. Trovò il soggiorno completamente distrutto. Era evidente che non stavano cercando qualcosa, ma si trattava semplicemente di un gesto intimidatorio. Il tavolino era stato rovesciato, lasciando cadere a terra il piccolo porta frutta. Le mele rosse che vi erano contenute, giacevano a terra, ma non erano sparse a caso, erano state sistemate per formare qualcosa. Guardandole con più attenzione, si accorse che formavano il numero 7. Si abbassò per afferrarne una e notò che su ogni mela c’erano incise le lettere IOU, nello stesso modo in cui le aveva incise Moriarty quel giorno di tanti anni prima.
Dopo alcuni minuti l’ambulanza arrivò, caricando la signora Hudson e John, seguito da Lestrade, che era appena arrivato, salì di sopra. Rimasero entrambi di sasso nel vedere la stanza ridotta in quel modo, ma ciò che li soprese di più, fu vedere Sherlock seduto a terra, intento a guardare le mele che giacevano sul pavimento.
“Sherlock…” provò a chiamarlo il medico, avvicinandosi a lui.
“Guarda, John…formano il numero 7!” disse semplicemente il detective.
“E cosa significa?” chiese prontamente Greg alle sue spalle.
“Non ne ho idea…ma intendo scoprirlo!” esclamò Sherlock, alzandosi di scatto ed iniziando a guardarsi intorno “…Deve aver lasciato qualche altro indizio…” aggiunse, parlando più con sé stesso che con i suoi amici “…la signora Hudson?” domandò all’improvviso, voltandosi verso il dottore.
“Starà bene…aveva anche ripreso conoscenza, ma ha detto che non è riuscita a vedere chi l’ha colpita” rispose John.
Il detective annuì pensieroso. Poi si fermò di scatto e qualcosa, nel camino, attirò la sua attenzione. Si trattava di una busta, uguale a quella dov’era contenuto il libro. La aprì e rimase sorpreso da quello che trovò al suo interno: c’erano, infatti alcuni pezzi di organi umani, più precisamente un pezzo di fegato ed uno di polmone.
“Ma che razza di indizio è?” chiese Lestrade disgustato.
Sherlock non rispose. Buttò sgraziatamente la busta a terra e si mise a camminare freneticamente per la stanza, iniziando a blaterare tra sé e sé. “Il numero 7…un pezzo di fegato…uno di polmone…le mele…cos’hanno in comune?” disse pensieroso “…Ci sono!” urlò poi, sbattendo le mani e facendo sobbalzare il medico e l’ispettore “…Sono tutti elementi della fiaba di Biancaneve! I 7 nani, il fegato e i polmoni che la regina voleva della figliastra e la mela avvelenata!” aggiunse divertito.
“Si…ma questo come può aiutarci a trovare Mary?” chiese John confuso.
Il detective ignorò la domanda del dottore e riprese a blaterare. “Biancaneve…Biancaneve…pensa…Biancaneve…” disse, mettendosi le dita sulle tempie nel tentativo di trovare un collegamento logico “…Oh!” esclamò dopo alcuni minuti, mostrando un sorriso compiaciuto.
“Cosa?” chiese subito Greg, riconoscendo quell’espressione.
“Geniale…davvero geniale…” disse continuando a sorridere.
“Santo cielo, Sherlock! Ti decidi a dirci cos’hai scoperto?” domandò John spazientito.
“Mary si trova al 55 di Ennismore Gardens!” esclamò convinto.
“…55 di Ennismore Gardens…” ripeté il medico pensieroso, cercando di capire il collegamento.
“Le proprietà Snow White, John!... Dove puoi tranquillamente affittare un appartamento e magari tenerci qualcuno rinchiuso, senza attirare troppo l’attenzione!” spiegò Sherlock, con il suo solito tono di chi deve spiegare qualcosa di ovvio.
Dopo quella frase, i volti di John e Greg si illuminarono all’improvviso.
“Andiamo!... Non abbiamo tempo da perdere!” esclamò il detective, precipitandosi fuori dall’appartamento con il medico e l’ispettore al seguito.

 
Arrivarono davanti all’elegante edificio bianco, scesero velocemente dall’auto dell’ispettore ed entrarono subito dentro. Greg, intanto, aveva avvisato anche i suoi uomini, che sarebbero arrivati sul posto entro alcuni minuti.
Si fermarono alla reception e Lestrade, mostrando il distintivo, si fece dare l’elenco di tutti quelli che avevano preso un appartamento in affitto, sperando di trovare qualche nome sospetto. La ricerca non durò molto, perché tra i nominativi ne risaltò uno, che fece gelare il sangue a tutti e tre: Jim Moriarty. L’appartamento in questione era al secondo piano. Senza aspettare i rinforzi, salirono subito di sopra. Greg tirò un calcio alla porta e la aprì, entrando con la pistola puntata, pronto a far fuoco. Dietro c’erano John, anche lui armato e Sherlock, che si guardava intorno con fare sospettoso. Nel soggiorno, al centro della stanza, trovarono Mary legata e imbavagliata. John si precipitò da lei ed iniziò a slegare le corde. Appena le tolse il bavaglio, però, la donna parlò all’improvviso.
“John, è una trappola!” urlò al marito, indicando la porta del bagno.
I tre non fecero in tempo a voltarsi, che un uomo era già uscito da quella porta, puntando un fucile contro Sherlock.
“Signori, ben arrivati!... Buttate le armi a terra!” esclamò l’uomo, posizionando il puntino rosso del mirino sul petto del detective.
Il medico e l’ispettore non si opposero e lanciarono a terra le pistole, alzando le mani in alto.
“Molto bene!... Ora passiamo a noi…” disse il cecchino, rivolgendosi al consulente investigativo “…che onore avere qui il grande Sherlock Holmes!... Sai, sono rimasto piacevolmente sorpreso...sei riuscito a trovare la soluzione prima di quanto credessi…” aggiunse con un sorriso compiaciuto.
“Sebastian Moran…dovevo immaginarlo…” rispose Sherlock, sorridendo anche lui.
“Non negarlo…ti è piaciuto tutto questo…il video, gli indizi, la ricerca!” esclamò Moran divertito.
“Si, ma purtroppo per te, il gioco è finito!... L’edificio sarà già circondato dagli agenti di Scotland Yard…come pensi di uscirne?” disse il detective con il suo solito tono di superiorità.
“Ti sbagli, il gioco non è finito…ora inizia la parte migliore!” rispose Sebastian, iniziando a ridere “…Ora voglio che prendi una pistola che è a terra e uccidi la signora Watson…” aggiunse, ritornando serio.
“E se io mi rifiutassi?” chiese Sherlock con aria di sfida.
“Beh, in quel caso vedrai morire il tuo caro amico!” esclamò Moran, spostando il mirino sul petto di John.
Il consulente investigativo voltò subito lo sguardo sul medico, poi prese la pistola e tornò a guardare il cecchino.
“Molto bene…ora fai quello che ti ho detto…” disse Sebastian soddisfatto.
A Sherlock bastarono pochi secondi per ideare un piano che, in quel momento, salvasse la vita a tutti i suoi amici. Sapeva di esporsi in prima persona, ma non aveva scelta. Fece un profondo respiro e con uno scatto repentino sparò un colpo verso il cecchino, colpendolo alla spalla, poi si precipitò subito su John, riparandolo dal proiettile che era destinato a lui. Greg, approfittando della distrazione del nemico, causata dalla ferita, prese la sua pistola e la puntò verso di lui.
“Butta a terra quel fucile!” urlò deciso.
Moran fece un sadico sorriso e lanciò velocemente l’arma sull’ispettore, sorprendendolo e chiudendosi con rapidità nel bagno alle sue spalle. Aveva previsto un piano di riserva nel caso le cose fossero andate male, perciò prese l’altro fucile, che teneva nascosto nella vasca ed uscì dalla finestra utilizzando la scala anti-incendio. Si sentirono molti spari degli agenti di Scotland Yard che erano fuori dall’edificio, ma il cecchino, sparando a raffica a sua volta, riuscì a scappare e a sparire nel nulla.

 
John si ritrovò a terra stordito. Non aveva capito granché di quello che era appena successo. In quell’istante, però, si accorse che il corpo di Sherlock giaceva immobile su di lui.
“Sherlock!” urlò terrorizzato.
Greg e Mary, che intanto si erano avvicinati, presero il detective per le spalle con l’intenzione di adagiarlo delicatamente a terra e liberare John.
“Fate piano…mettetelo di nuovo a pancia in giù, dobbiamo fermare l’emorragia…” disse il medico con fare professionale, alzandosi ed aiutando gli altri due “…Greg, chiama un’ambulanza, presto!” aggiunse in preda al panico. Poi si inginocchiò vicino al corpo dell’amico e cominciò a valutare l’entità della ferita, cercando di tamponare l’emorragia. Stava perdendo troppo sangue e non riusciva a capire con esattezza quanto fosse grave. “Sherlock…mi senti?... Sherlock!” provò a chiamarlo, nel tentativo di farlo rinvenire.
Dopo alcuni secondi, il detective aprì gli occhi e provò a muoversi.
“No, fermo…non devi muoverti…l’ambulanza sarà qui a minuti!” esclamò John, tenendolo a terra.
“John…” disse Sherlock, trattenendo una smorfia di dolore.
“Sono qui…sto bene!” rispose prontamente il medico, capendo cosa volesse chiedere l’amico “…Stiamo tutti bene…grazie a te…” aggiunse con voce tremante.
Il detective sentendo quelle parole, sorrise debolmente. “Moran?” chiese all’improvviso.
“È scappato…ma lo prenderemo stai tranquillo!” esclamò Greg determinato.
“John…” disse Sherlock con un filo di voce “…mi dispiace tanto…per tutto…” aggiunse, trattenendo un’altra smorfia di dolore.
“Si, me l’hai già detto…va tutto bene!... Ora devi pensare solo a rimanere sveglio, ok?” rispose John, continuando a premere sulla ferita con le mani tremanti.
Il consulente investigativo, però, dopo alcuni secondi chiuse gli occhi e perse conoscenza.
“No…no…Sherlock, svegliati!... Sherlock!” urlò il medico in preda al panico.
In quel momento i paramedici fecero il loro ingresso nell’appartamento, allontanarono John e caricarono il detective sulla barella, diretti d’urgenza in ospedale.  
 

 
Sherlock era appena tornato a casa. All’uscita da scuola lo avevano picchiato di nuovo e stavolta c’erano andati davvero pesanti. I genitori, come al solito, non erano in casa. Dai rumori che provenivano dalla cucina, Sherriford stava sicuramente preparando il pranzo, o almeno ci stava provando. Senza farsi sentire, si diresse, seguito da Barbarossa, di sopra in camera sua. Non aveva nessuna voglia di dare spiegazioni su quello che era successo, voleva solo sdraiarsi sul suo letto ed essere lasciato in pace. Era quasi arrivato alla porta, quando una voce alle sue spalle lo fece fermare.
“Sherlock!” lo chiamò Mycroft.
“Dimmi...” rispose Sherlock, senza però voltarsi. Aveva un grosso livido in fronte, per non parlare del profondo taglio al labbro che ancora sanguinava. Se si fosse girato non sarebbe riuscito a nascondere il suo stato.
Nonostante tutto, però, al maggiore non sfuggiva mai niente. “Cosa ti è successo?” chiese serio.
“Niente…” disse il minore, con voce tremante.
Mycroft si avvicinò a lui e si abbassò leggermente. Poi lo prese dalle braccia, lo fece voltare ed iniziò ad osservarlo con attenzione.
“Sono stati di nuovo i tuoi compagni di scuola…” disse. Come al solito non era una domanda, ma una semplice costatazione. “…La situazione sta degenerando…non può andare avanti così…” aggiunse, sospirando pesantemente.
“Non preoccuparti…è tutto sotto controllo…” rispose Sherlock, cercando di trattenere le lacrime. Non voleva piangere davanti a suo fratello maggiore, non voleva mostrarsi debole. Dopo alcuni istanti, però, una forte fitta allo stomaco lo colpì all’improvviso. Si piegò leggermente in avanti e si lasciò sfuggire un gemito di dolore.
Mycroft lo sorresse prontamente e gli alzò subito la maglia per capire cosa avesse. Fu allora che vide i lividi che aveva addosso. Iniziò a tastargli il busto e si accorse che, oltre alle contusioni, aveva sicuramente qualche costola rotta. “Dobbiamo andare in ospedale!” esclamò preoccupato.
“No…sto bene…” provò a dire il minore, liberandosi dalla presa di suo fratello. Poi si voltò, con l’intenzione di andare in camera sua, ma le gambe gli cedettero e crollò a terra privo di sensi.
 
Sherlock si risvegliò in ospedale. Aveva il busto completamente avvolto in una fasciatura che gli impediva di piegarsi in avanti. Si guardò intorno e si accorse che ai due lati del letto c’erano Mycroft e Sherrinford, che lo guardavano preoccupati.
“Come ti senti?” chiese il secondogenito apprensivo, prendendogli la mano con dolcezza.
“Bene…” rispose Sherlock con un mezzo sorriso.
Il maggiore inizialmente rimase in silenzio. Lo osservò per alcuni istanti con una strana espressione sul viso, poi si alzò di scatto dalla sedia. “Vado ad avvisare mamma e papà che sei sveglio!” disse soltanto, uscendo velocemente dalla stanza.

 
L’ambientazione cambiò improvvisamente. Sherlock era davanti alla porta della stanza di Mycroft, indeciso se entrare o meno. Quella mattina era ritornato a scuola dopo il ricovero e la convalescenza ed erano accadute alcune cose strane. Fece un profondo respiro, abbassò la maniglia ed entrò. Come al solito suo fratello era seduto alla scrivania e, appena lo vide entrare, iniziò ad osservarlo con uno sguardo indagatore.
“Sherlock!” esclamò il maggiore sorpreso di vederlo lì.
Il minore, però, non disse niente, ma si lasciò sfuggire solo un dolce sorriso.
Anche Mycroft rimase in silenzio e continuò a guardarlo, stupito da quello strano comportamento.
“Grazie…” disse Sherlock all’improvviso, continuando a sorridere.
“Di cosa?” chiese il maggiore confuso.
“Oggi a scuola nessuno mi ha picchiato o preso in giro…quegli idioti, stranamente, non mi hanno neanche guardato…avevano paura di qualcosa…o di qualcuno, gliel’ho letto in faccia!... Da come si comportavano, sono stati sicuramente minacciati…” rispose il minore divertito.
“E credi davvero che sia stato io?... Oh, Sherlock! Ho cose più importanti a cui pensare…non perderei mai il mio prezioso tempo per queste sciocchezze!” esclamò Mycroft, mostrando la sua finta espressione di freddezza.
Sherlock lo osservò attentamente per qualche istante. Poi gli regalò un altro dolce sorriso ed uscì soddisfatto dalla stanza di suo fratello. Per la prima volta dopo mesi, quel giorno, si sentì stranamente felice. Sapere che Mycroft avesse fatto quel gesto per lui, lo metteva davvero di buon umore.


 

Sherlock si risvegliò in ospedale. Per un momento si sentì confuso e fece un po' di fatica a ricordare cos’era successo. Guardò alla sua destra e vide John, seduto su una sedia, poggiato con le mani e la testa sul letto, profondamente addormentato. Provò a muoversi, ma una forte fitta alla schiena lo colpì e gli sfuggì un gemito di dolore, che svegliò il suo migliore amico.
“Sherlock!” esclamò il medico entusiasta, con la voce ancora impastata di sonno “…Sei un completo idiota!” aggiunse poi con rimprovero. Vedendo, però, che il detective rimaneva in silenzio, mise la mano sulla sua e sorrise “…Grazie!” disse semplicemente.
Sherlock non rispose, ma ricambiò il sorriso.
“Vado ad avvisare gli altri che sei sveglio!” esclamò il medico, alzandosi di scatto dalla sedia. Era quasi arrivato alla porta, quando la voce del consulente investigativo lo fece fermare.
“John…Mycroft è qui?” chiese titubante.
Il medico si voltò sorpreso da quella domanda. “Si…è qui fuori…vuoi che lo faccia entrare?” domandò incerto.
“No!... Volevo solo saperlo…” rispose Sherlock, spostando lo sguardo verso la finestra.
John rimase ad osservare il detective per qualche secondo, confuso da quello strano comportamento. Poi si voltò ed uscì dalla stanza.
Il consulente investigativo, appena il medico chiuse la porta, si poggiò con la testa al cuscino e sospirò pesantemente, immergendosi di nuovo nei suoi pensieri.






Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il quinto capitolo! Beh, il nemico alla fine era Moran (abbastanza prevedibile!), che aveva organizzato una bella trappola per i nostri personaggi. Sherlock, come al solito, non ci pensa due volte a sacrificarsi per i suoi amici e soprattutto per John *.*
Devo ammetterlo, trovare una favola dei fratelli Grimm che potesse corrispondere a qualche luogo presente realmente a Londra è stato davvero difficile, ma spero che i collegamenti vi siano piaciuti!
Si aggiungono altri piccoli tasselli dell'infanzia di Sherlock e qui vediamo cosa, alla fine, si nasconde dietro la corazza del giovane Mycroft, che nonostante il suo carattere freddo, non ci pensa due volte a difendere il suo fratellino, anche se per orgoglio non lo ammetterà mai! Nella parte finale Sherlock, ricordandosi di quel bel momento con il fratello, è quasi tentato di farlo chiamare da John, per averlo lì con lui, ma poi ci ripensa. In fondo ancora deve arrivare il momento in cui si ricorderà dell'episodio che li ha profondamente allontanati. In ogni caso scrivere di Mycroft e Sherlock è sempre favoloso...sono così carini! Soprattutto immaginarli da ragazzi. *.*
Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Grazie a chi sta seguendo la storia e a chi vuole lasciare un commento. Alla prossima ;)

 

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Capitolo 6
*** Clash of brothers ***


                    Miss me?






                                      Clash of brothers






… John rimase ad osservare il detective per qualche secondo, confuso da quello strano comportamento. Poi si voltò ed uscì dalla stanza.
Il consulente investigativo, appena il medico chiuse la porta, si poggiò con la testa al cuscino e sospirò pesantemente, immergendosi di nuovo nei suoi pensieri.
 





 
Sherlock venne dimesso due giorni dopo contro il parere dei medici. Come accadeva sempre, ormai, John si prese la responsabilità di tenerlo d’occhio, ben sapendo che il suo amico non sarebbe rimasto in ospedale un minuto di più. Anche la signora Hudson era stata dimessa il giorno prima e se l’era cavata con un semplice bernoccolo e alcuni punti di sutura.
Arrivati al 221B il detective, seguito da John e Mary, salì di sopra nell’appartamento, che era stato prontamente rimesso in ordine dalla padrona di casa. Appena entrò nel soggiorno, si tolse lentamente sciarpa e cappotto e si andò a sedere sul divano. La ferita gli faceva ancora molto male, ma cercava in tutti i modi di non pensarci. L’unica cosa positiva dei due giorni di ricovero era stata la morfina, che non solo gli aveva alleviato il dolore, ma aveva messo a tacere, momentaneamente, la voglia di cocaina, insieme a tutti gli effetti collaterali che gli stava procurando l’astinenza. Ora, infatti, iniziava a sentirsi di nuovo come nei giorni precedenti alla trappola di Moran.
“Fa male?” chiese il medico, avvicinandosi a lui apprensivo.
“Un po'…” rispose semplicemente il detective.
“Hai sentito cos’hanno detto i medici in ospedale? Non devi sforzarti…quindi adesso ti sdrai e ti riposi un po'…” disse John con tono categorico.
“Devo trovare Moran, non ho tempo di riposarmi!” rispose Sherlock, cercando di alzarsi dal divano.
Il medico, però, lo fermò e lo minacciò con lo sguardo. “Ho detto sdraiati su questo divano!” ordinò serio.
“Se fossi in te, farei come dice…hai visto cos’è successo l’ultima volta!” intervenne Mary con sarcasmo, mettendosi a ridere.
Il detective guardò entrambi con aria sconfitta, poi sbuffò pesantemente. “Due contro uno però non vale!” disse con un broncio da bambino offeso, mentre si sdraiava sul divano.
John sorrise, divertito da quell’espressione. Subito dopo andò a prendere una coperta e la adagiò dolcemente sul suo amico.
Con grande sorpresa del medico, dopo qualche minuto, sarà stato anche a causa degli antidolorifici, il consulente investigativo si addormentò.


 
Sherlock era seduto sulla poltrona davanti al camino. Ai suoi piedi c’era Barbarossa, che se ne stava sdraiato a godersi il dolce calore delle fiamme. Dopo alcuni istanti, sentì degli strani rumori provenire dalla cucina. Andò subito a vedere e trovò Sherrinford con le mani poggiate al tavolo e la testa bassa, che piangeva sommessamente. A terra c’era la sua tazza frantumata in mille pezzi.
“Cos’è successo?” chiese il minore preoccupato.
“Stavo preparando del tè e mi è scivolata a terra…sono un completo idiota!” rispose il secondogenito tra le lacrime.
“Sherrinford…è solo una tazza…non c’è bisogno di prendersela tanto…” disse Sherlock, turbato da quella reazione.
Sherrinford, però, non rispose. Uscì velocemente dalla cucina e corse di sopra in camera sua, sotto gli occhi confusi del suo fratellino.
 
L’ambientazione cambiò e Sherlock si ritrovò nella stanza di Mycroft.
“Sono preoccupato per Sherrinford…” disse il minore serio.
“Non ne capisco il motivo” rispose prontamente il maggiore.
“L’hai visto anche tu…si comporta in modo strano! Ci sono giorni in cui non dice una parola, altri in cui se la prende per ogni cosa e altri ancora in cui ritorna sé stesso, ma decisamente più euforico! Ha qualcosa che non va…” spiegò Sherlock pensieroso.
“Sherlock, parli come se non lo conoscessi!... Siamo quasi alla fine dell’anno scolastico e sai anche tu che lo stress gli porta spesso sbalzi d’umore…non è la prima volta che accade!” disse Mycroft con tono di superiorità.
“So che è già successo…ma stavolta è diverso!... Non lo so, c’è qualcosa che non mi convince…” insistette il minore.
“Oh, Sherlock! Possibile che devi sempre vedere misteri anche quando non ci sono?... Passerà come l’ultima volta e ti sarai preoccupato per niente!” rispose il maggiore convinto.
Sherlock non provò nemmeno al ribattere. Conosceva quel tono e sapeva che indicava chiaramente che la conversazione era finita e che non avrebbe potuto dire nient’altro per smuoverlo dalle sue convinzioni. Alquanto demoralizzato, sospirò ed uscì dalla stanza. Dopo alcuni minuti, però, decise di andare nella camera di Sherrinford: se Mycroft non voleva aiutarlo, avrebbe scoperto da solo cosa c’era dietro agli strani sbalzi d’umore del fratello. Arrivato davanti alla porta, bussò con forza ed aspettò qualche istante, ma non ricevette risposta. All’interno della stanza c’era uno strano silenzio, che non prometteva niente di buono. Provò ad abbassare la maniglia e si accorse che la porta non era chiusa a chiave come al solito. Lentamente la aprì ed entrò titubante.
“Sherrinford?” provò a chiamarlo, ma nessuno rispose. Iniziò guardarsi intorno con fare sospettoso, quando ad un tratto lo vide: giaceva immobile a terra, al lato del suo letto.
“Sherrinford!” urlò spaventato, precipitandosi su di lui. Ben presto si accorse del sangue sul pavimento e del coltello che aveva accanto: si era tagliato i polsi. Cercando di non farsi prendere dal panico, mise due dita sul collo, per controllare il battito e si rese conto che, per fortuna, era ancora vivo. Gli accarezzò dolcemente il viso, cercando di trattenere le lacrime. “Andrà tutto bene!” disse, più a sé stesso che a suo fratello. Poi si alzò velocemente e corse a chiamare un’ambulanza.  
 

 
Sherlock si svegliò di soprassalto. Si ritrovò a sudare freddo, con il respiro corto e il cuore che gli batteva all’impazzata. Si guardò intorno confuso e vide John, di fianco a lui, che lo osservava con aria preoccupata.
“Ehi, calmati…va tutto bene!” disse dolcemente il medico.
“Cos’è successo?” chiese Mary, avvicinandosi anche lei al divano.
“Niente…” rispose secco il detective, passandosi nervosamente le mani sul viso.
“Che vuol dire niente? Ti stavi lamentando nel sonno e non è la prima volta ultimamente!” esclamò John, alzando il tono di voce.
“John, non è niente…lascia perdere!” ribatté Sherlock, alzandosi dal divano e dirigendosi verso la sua poltrona.
“Chi è Sherrinford?” chiese il medico all’improvviso.
Il consulente investigativo si pietrificò nel sentire quel nome. Rimase fermo e immobile al centro del soggiorno, senza dire una parola. Dopo qualche istante fece un profondo respiro e si voltò con aria interrogativa verso il suo migliore amico. “Cosa hai detto?” domandò serio.
“Mi hai capito bene…voglio sapere chi è Sherrinford!... Lo hai nominato quel giorno, quando hai avuto il primo incubo e lo gridavi anche adesso nel sonno, prima di svegliarti di soprassalto” rispose prontamente John.
“John…te l’ho detto, è una storia vecchia e dimenticata…e non ho intenzione di parlarne!” disse Sherlock leggermente irritato.
“Non mi sembra una storia dimenticata, visto che per qualche strana ragione, non fa altro che tormentarti!” urlò il medico, decisamente nervoso.
“John…” lo chiamò Mary, attirando la sua attenzione “…stai esagerando!” aggiunse, nel tentativo di farlo calmare.
Il detective, intanto, dopo le grida di John era rimasto in silenzio e aveva semplicemente abbassato lo sguardo.
John si voltò subito verso sua moglie ed iniziò a guardarla con un’espressione infastidita sul volto. “Ah, io starei esagerando?” urlò furioso, iniziando a camminare nervosamente per la stanza “Vorrei solo aiutarlo…se solo lui me lo permettesse!” aggiunse, continuando ad urlare.
Mary si avvicinò al marito con aria di sfida. “E credi di convincerlo urlandogli contro?” gridò a sua volta spazientita.
“E dimmi…cosa dovrei fare allora?” domandò John con acidità.
“Intanto dovresti calmarti!” rispose la donna a tono.
“Basta così!” urlò all’improvviso Sherlock, attirando l’attenzione dei due coniugi. “…Non ho intenzione di ascoltare più neanche una parola sull’argomento, sono stato chiaro?” aggiunse continuando a gridare “…Ho del lavoro da sbrigare…quindi se avete intenzione di continuare a sbraitare potete anche farlo, ma fuori di qui!” continuò furioso.
Il medico e sua moglie si zittirono all’istante e fissarono il detective, sorpresi da quella reazione.
Sherlock, intanto, senza aggiungere altro, si andò a sedere alla scrivania, accese il portatile e si mise al lavoro. Doveva assolutamente trovare Moran e voleva farlo il prima possibile.
Dopo alcuni istanti, Greg entrò nell’appartamento con aria confusa. “Si può sapere che sta succedendo? Le vostre urla si sentivano anche da fuori!” esclamò curioso.
Inizialmente nessuno rispose. Poi il detective alzò gli occhi dal computer ed iniziò a guardare l’ispettore con attenzione. “È successo qualcosa…c’è un messaggio di Moran per me, vero?” chiese con convinzione.
“E tu come…?” provò a dire Lestrade, ma si fermò e sospirò rassegnato “…Si, te la senti di venire con me?” chiese titubante.
“Certo…andiamo subito!” rispose Sherlock, alzandosi e indossando sciarpa e cappotto.
“Sherlock, non dovresti sforzare la ferita…” disse John preoccupato.
Il detective, però, non rispose. Finì di abbottonarsi il cappotto e si avviò fuori dall’appartamento.
Il medico sospirò pesantemente. “Vengo anche io!” aggiunse, rivolgendosi a Lestrade. Prima di uscire dalla porta, però, si fermò un attimo e si voltò verso sua moglie. “Tu vuoi venire?” chiese incerto.
“No, sono un po' stanca…vi aspetto qui!” rispose prontamente Mary, sedendosi sul divano.
John annuì poco convinto, poi si precipitò anche lui fuori.
 
Salirono velocemente nell’auto di Greg: Donovan sedeva davanti e John e Sherlock dietro.
Durante il tragitto il medico si mise ad osservare il suo migliore amico con aria preoccupata. Non gli aveva più rivolto la parola, dopo quella sfuriata a Baker Street e se ne stava in silenzio a fissare pensieroso fuori dal finestrino. Mentre lo guardava con attenzione, però, si accorse che era decisamente più pallido del solito e che, in alcuni momenti, tratteneva delle smorfie di dolore.
“Stai bene?” chiese apprensivo.
“Benissimo…” rispose prontamente il detective, continuando a guardare fuori.
John sospirò e mise la mano sul suo braccio. “Sherlock…mi dispiace per prima…non avrei dovuto urlarti contro…” disse dolcemente.
Sherlock si voltò finalmente verso di lui, lo guardò intensamente per qualche istante e fece un mezzo sorriso.
“Siamo arrivati” disse all’improvviso Greg, fermando l’auto.
 
Scesero di corsa dalla vettura ed entrarono in una piccola villetta abbandonata. Appena furono dentro, Sherlock e John rimasero colpiti dalla scena che si trovarono davanti. C’era un manichino che penzolava, impiccato con una corda al soffitto. La cosa inquietante era che, non solo somigliava a Sherlock, ma era vestito esattamente come lui. Di fianco, inoltre, sul muro, si trovava una strana scritta insanguinata: The Older Brother Will Fall…Tic Tac, Tic Tac.
“Il fratello maggiore cadrà…tic tac, tic tac…” lesse John pensieroso.
“Mycroft!” esclamò all’improvviso il detective.
“Cosa?” chiese il medico, avvicinandosi ulteriormente a lui.
“Il prossimo obiettivo di Moran…è Mycroft!” rispose Sherlock nervoso.
“Dobbiamo avvisarlo subito!” esclamò Greg preoccupato.
Il consulente investigativo, però, non rispose. Continuava a guardare la scritta con una strana espressione sul viso. “C’è dell’altro…altrimenti non avrebbe senso…” disse serio.
“Che vuoi dire?” domandò John.
“Tic tac, tic tac…non si riferisce alla frase precedente! Deve significare qualcos’altro…” rispose Sherlock, iniziando a camminare freneticamente per la stanza.
“Magari è un modo per dirti che hai poco tempo per salvare tuo fratello!” azzardò Lestrade.
Il detective si mise le mani congiunte sotto il mento. “No…è troppo scontato!... Lui segue la linea di gioco di Moriarty ed ogni dettaglio, se pur insignificante, può essere fondamentale!” disse pensieroso. Dopo alcuni istanti, passati a blaterare tra sé e sé, la sua espressione cambiò. Si fermò all’improvviso e si avvicinò al manichino con fare sospettoso. Fu allora che sentì uno strano rumore provenire proprio da lì e finalmente tutto gli fu chiaro.
“Tutti fuori! C’è una bomba!” urlò allarmato.
Si misero tutti a correre velocemente verso l’uscita. Fecero giusto in tempo ad uscire, che la villetta alle loro spalle esplose con un terribile boato. Nonostante fossero già fuori dall’edificio, però, Sherlock, John e Greg, che erano gli ultimi del gruppo, furono investiti dalla forte onda d’urto dell’esplosione, vennero sbalzati violentemente ad alcuni metri di distanza e persero i sensi.
 

Sherlock era in ospedale, con la mano sulla maniglia della stanza di suo fratello. Dopo un momento di indecisione, decise di entrare. Sherrinford era sveglio e, appena lo vide, abbassò lo sguardo con aria dispiaciuta.
“Come ti senti?” chiese il minore, avvicinandosi al letto.
“Meglio…” rispose tristemente il secondogenito.
“Perché l’hai fatto?” domandò Sherlock a bruciapelo.
Sherrinford non rispose. Continuò a tenere lo sguardo basso, mentre con le mani giocherellava nervosamente con il lenzuolo.
“Sherrinford…per favore…parlami…” insistette il minore con le lacrime agli occhi.
Il secondogenito lo guardò e sopirò pesantemente. “Non lo so, Sherlock…Mi sono sentito sotto stress ultimamente… e sono crollato!... Ho fatto un gesto da idiota, lo so…e mi dispiace…” rispose mortificato “Vieni qui…ti prego…” aggiunse con voce tremante.
Sherlock si avvicinò e si lasciò abbracciare da suo fratello, ricambiando la stretta. Poi si staccò leggermente e lo guardò dritto negli occhi. “Avresti potuto parlarmene…” disse serio.
“Hai ragione…è solo che pensavo di potercela fare da solo, ma mi sbagliavo!... Mi dispiace davvero tanto di averti spaventato!... Non accadrà più, Sherlock…te lo prometto!” rispose, dandogli un dolce bacio sulla fronte.
Sherlock annuì poco convinto e strinse, di nuovo, suo fratello con forza.
 
L’ambientazione cambiò e Sherlock si ritrovò a casa, in cucina con Mycroft e i suoi genitori. Quella mattina Sherrinford era stato dimesso dall’ospedale e stava riposando sul divano in soggiorno.
“Non potete farlo!” urlò il minore furioso.
“Sherlock, caro…per lui è la cosa migliore…” rispose dolcemente la madre.
“No, è la cosa migliore per voi…così non lo avrete più tra i piedi!” esclamò Sherlock, continuando ad urlare.
“Non rivolgerti così a tua madre…” disse il padre irritato.
“E tu non dici niente?” gridò il minore, rivolgendosi al fratello.
“Sherlock, mamma ha ragione…è la cosa migliore che possiamo fare per aiutarlo…” rispose Mycroft serio.
Sherlock rimase sorpreso da quelle parole. Prima di parlare, si fermò qualche istante ad osservare suo fratello con attenzione. “Ho capito!” esclamò all’improvviso “È colpa tua…è una tua idea!” aggiunse deluso.
“Si, Sherlock…Mycroft ha avuto l’idea, ma ciò non toglie che la decisione è stata mia e di tuo padre!... Vedrai che lì, nel centro, lo aiuteranno e ritornerà ad essere quello di prima!” disse la madre con convinzione.
“No, lui non ha bisogno di essere rinchiuso lì dentro!... Andare lì non lo aiuterà…ma non farà altro che distruggerlo!” ribatté il minore, alzando di nuovo il tono di voce.
“Non essere melodrammatico, Sherlock! Non verrà rinchiuso da nessuna parte!... Seguirà una terapia di sei mesi, seguito da psicologi specializzati!... Ti rendi conto che ha tentato il suicidio? È di questo che ha bisogno adesso!” esclamò Mycroft a tono.
“No, non ha bisogno di questo, Mycroft! Ha bisogno di rimanere qui a casa…ha bisogno di noi, della sua famiglia!” urlò Sherlock furioso.
“Ora calmati, Sherlock! La decisione è stata già presa. Sherrinford verrà portato lì già oggi pomeriggio!” esclamò la madre con tono categorico.
Il minore ignorò le parole della donna e si avvicinò a Mycroft con fare minaccioso, guardandolo dritto negli occhi. “Le cose andranno come ho detto io…e sarà tutta colpa tua!” disse con disprezzo.
“Sherlock, non usare quel tono con tuo fratello!” esclamò subito il padre.
Sherlock, però, non ascoltò nemmeno lui e continuò a fissare intensamente il maggiore.
Mycroft era come pietrificato dallo sguardo del suo fratellino. Non lo aveva mai guardato con così tanto disprezzo e, in quel momento, si sentì stranamente in colpa.
Dopo alcuni istanti, il minore si voltò di scatto ed uscì dalla cucina, sbattendo violentemente la porta. Appena si trovò fuori dalla stanza si diresse in soggiorno dov’era Sherrinford. Lo trovò sveglio, seduto sul divano con lo sguardo perso nel vuoto.
“Sherrinford…” lo chiamò preoccupato.
Il secondogenito si voltò con uno sguardo triste e spaventato al tempo stesso. “Non voglio andare lì…” disse con voce tremante, mentre alcune lacrime gli rigavano il viso.
“Lo so…” rispose Sherlock con le lacrime agli occhi.
In quel momento i suoi genitori entrarono nel soggiorno. “Sherrinford, dobbiamo andare!” dissero decisi.
“No, vi prego…non mi portate lì…non accadrà più, ve lo prometto!” urlò il secondogenito disperato.
“Non potete costringerlo se non vuole!” gridò il minore furioso.
“Ora basta, Sherlock!” disse Mycroft, afferrandolo dalle spalle.
I genitori presero Sherrinford di peso e lo portarono fuori di casa non curanti delle sue suppliche.
“Sherrinford!” urlò Sherlock, mentre cercava di liberarsi dalla presa del fratello. Appena vide la porta d’ingresso chiudersi, si lasciò cadere a terra in ginocchio, dando sfogo a tutta la sua frustrazione. “Lasciami!” gridò poi verso Mycroft. Subito dopo, quando fu libero, si alzò, lanciò al maggiore uno sguardo di puro disprezzo e andò silenziosamente in camera sua, seguito da Barbarossa.








Angolo dell'autrice:

Salve! Eccovi il sesto capitolo! Ci sono più ricordi rispetto ai capitoli precedenti e la storia dei fratelli Holmes inizia a prendere forma. Si comincia a vedere una prima frattura nel rapporto tra Mycroft e Sherlock e, purtroppo, non sarà l'unica!
John a volte perde la pazienza, ma poi riesce sempre ad essere dolce e premuroso con il nostro caro detective. 
Il messaggio di Moran era chiaro...il prossimo obiettivo sarà Mycroft, ma bisogna ancora vedere quali danni ha fatto l'esplosione e se John, Sherlock e Greg stanno bene! Questo lo scoprirete nel prossimo capitolo. 
Spero che il capitolo vi sia piaciuto...grazie a chi continua a seguire la storia e a chi vuole lasciare un commento. Alla prossima ;)

 

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Capitolo 7
*** My best friend ***


                    Miss me?







                                         My best friend






... “Sherrinford!” urlò Sherlock, mentre cercava di liberarsi dalla presa del fratello. Appena vide la porta d’ingresso chiudersi, si lasciò cadere a terra in ginocchio, dando sfogo a tutta la sua frustrazione. “Lasciami!” gridò poi verso Mycroft. Subito dopo, quando fu libero, si alzò, lanciò al maggiore uno sguardo di puro disprezzo e andò silenziosamente in camera sua, seguito da Barbarossa.
 





 
Sherlock aprì gli occhi e si ritrovò a terra, sul marciapiede, davanti alla villetta esplosa. Aveva un forte dolore alla schiena, sicuramente erano saltati i punti della ferita. Provò a muoversi, ma una lancinante fitta alla testa, seguita da un capogiro, lo obbligarono a rimanere a terra. Si portò una mano alla nuca e, quando la guardò, si accorse che stava perdendo sangue. Aveva sbattuto la testa contro il muretto che circondava la siepe ed aveva sicuramente un trauma cranico. Girò comunque lo sguardo alla ricerca di John e lo vide a terra privo di sensi, poco distante da lui. “John!” disse con un filo di voce, ma il medico non accennava a muoversi. Ignorando il forte dolore e i capogiri, si girò a fatica a pancia in giù e si trascinò lentamente verso il suo migliore amico. Appena fu vicino a lui, iniziò a scuoterlo con le poche forze che aveva, nel tentativo di fargli riprendere conoscenza. “John…” lo chiamò di nuovo.
Dopo alcuni istanti il medico aprì gli occhi e incontrò quelli del detective.
“Sherlock…” disse debolmente. Provò a muoversi, ma un’improvvisa fitta al petto lo fece ansimare.
“Che succede?” chiese Sherlock allarmato.
“Non riesco a muovermi…devo avere qualche costola rotta…” rispose John con difficoltà.
“Stai fermo…chiamo subito un’ambulanza!” esclamò il detective, cercando di afferrare il cellulare dalla tasca. Quel brusco movimento, però, gli provocò un’altra fitta alla schiena e alla testa, seguita dall’ennesimo capogiro. Sapeva che con un trauma cranico non avrebbe dovuto muoversi per non peggiorare la situazione, ma la salute di John era più importante della sua.
Il medico si accorse subito delle sue condizioni. Posò lo sguardo sulla pozza di sangue dove sicuramente giaceva prima il suo migliore amico e vide la scia rossa che aveva lasciato nel trascinarsi al suo fianco. Guardò Sherlock con attenzione e vide alcuni rivoli di sangue colargli dalla testa al collo della sua camicia bianca e poi a terra. “Santo cielo, Sherlock!” Stai sanguinando!” esclamò terrorizzato, provando a sporgersi verso di lui. Il tentativo, però, fallì a causa dell’ennesimo dolore lancinante al petto.
“Stai fermo!” ripeté il consulente investigativo “…Non devi muoverti o rischi di perforare qualche organo interno!” aggiunse, visibilmente impallidito. Iniziava a sentirsi debole, ma doveva resistere, doveva farlo per John.
“Sherlock…John!” gridò Lestrade, correndo verso di loro. Aveva un braccio fratturato che si stringeva al petto ed una piccola ferita alla fronte. “Ho chiamato un’ambulanza, sarà qui a minuti” continuò, osservando attentamente i due amici “…Come state?” chiese preoccupato.
“Bene…non si vede?” rispose Sherlock con sarcasmo, accennando un mezzo sorriso. Poi si portò a fatica una mano alla fronte e chiuse gli occhi, trattenendo una smorfia di dolore.
In quel momento, l’ispettore si accorse della scia di sangue che aveva lasciato il detective e della piccola pozza che si stava creando sotto di lui. “Cristo Santo, Sherlock!” esclamò nel panico. “John, tu riesci ad alzarti?” chiese, porgendogli la mano.
“No…ho sicuramente due o tre costole rotte…” rispose John, iniziando ad ansimare. Non riusciva a respirare bene e cominciava sentirsi decisamente debole.
“Abbiamo bisogno di due ambulanze allora!” disse, afferrando velocemente il telefono e facendo partire la seconda chiamata.
 
Dopo alcuni minuti, la prima ambulanza arrivò sul posto. I paramedici, vedendo tutto il sangue perso dal detective, si precipitarono subito su di lui.
“Lasciate stare me…pensate prima a lui!” esclamò Sherlock, indicando John.
“Signore, lei sta perdendo troppo sangue…il prossimo mezzo di soccorso sarà qui fra pochi minuti e si occuperà del suo amico!” rispose gentilmente un paramedico.
“Ho detto, lasciatemi stare!” urlò il detective, raccogliendo le sue ultime forze ed usandole per spingere il paramedico verso John. “Aspetterò io la prossima ambulanza, ora occupatevi di lui!” aggiunse deciso.
I soccorritori si guardarono tra di loro per un attimo, poi si spostarono su John, iniziando a caricarlo sulla barella.
“Intanto tenga premuto sulle due ferite…!” disse un paramedico a Greg, porgendo due piccoli asciugamani e mettendoli sulla testa e sulla schiena del detective.
Lestrade si inginocchiò vicino a Sherlock e fece come gli era stato detto, ignorando il dolore al braccio fratturato.
“Sherlock, che stai facendo?” chiese debolmente John, guardandolo con preoccupazione. Si sentiva troppo debole e non aveva la forza di opporsi. Dopo alcuni istanti, infatti, mentre lo caricavano sull’ambulanza, perse i sensi. 
“Sei sempre il solito idiota!” esclamò Greg agitato.
Il detective fece un mezzo sorriso, trattenendo un’altra smorfia di dolore.
“Dannazione, c’è troppo sangue!” esclamò in preda al panico “…Sherlock, devi rimanere sveglio, va bene? …L’ambulanza arriverà a breve!” aggiunse, mentre continuava a premere sulle ferite con le mani tremanti.
“John è…” provò a dire Sherlock, ma un altro capogiro gli impedì di continuare la frase.
“Si, stai tranquillo…l’hanno già portato via!” rispose prontamente Lestrade, capendo al volo la domanda.
Il consulente investigativo annuì e sorrise debolmente, poi dopo alcuni istanti, perse conoscenza.
“Sherlock, svegliati!... Sherlock!” gridò l’ispettore terrorizzato, ma il detective con dava alcun segno di ripresa.
Dopo circa due minuti, arrivò la seconda ambulanza. I paramedici caricarono velocemente Sherlock sul mezzo di soccorso, facendo salire anche Greg e corsero sfrecciando verso l’ospedale.
 
 

Sherlock era in soggiorno seduto sul divano. Era in fremente attesa e non riusciva a distogliere lo sguardo dalla porta d’ingresso. Appena la vide aprirsi, scattò subito in piedi. Entrarono prima i suoi genitori e, qualche istante dopo, Sherrinford. Erano finalmente passati quei terribili sei mesi ed era di nuovo libero di tornare a casa.
“Sherrinford!” urlò, correndo verso di lui ad abbracciarlo.
“Sherlock!” esclamò il secondogenito, ricambiando la stretta.
Anche Barbarossa corse verso di loro, iniziando a fargli le feste, saltellando e scodinzolando.
“Ehi Barbarossa!” esclamò Sherrinford divertito, accarezzandolo dolcemente “…che ne dici di andare a giocare un po' fuori?” aggiunse, rivolgendosi al fratellino.
“Certo!... Non vedevo l’ora!” esclamò Sherlock entusiasta.
 
Dopo una mezz’ora circa, mentre erano intenti a giocare, Jason, il figlio dei vicini, passò davanti al cancelletto di casa Holmes, iniziando a prendere in giro Sherlock, così come faceva di solito. Sherrinford si fermò ad osservarlo con una strana espressione sul viso.
“Sherrinford…che c’è?” chiese il minore.
“Qualcuno dovrebbe far passare a quell’idiota la voglia di prenderti in giro!” rispose il secondogenito rabbioso.
“L’hai detto anche tu che è un’idiota…ignoralo!” esclamò Sherlock disinvolto.
Sherrinford, però, non lo ascoltò. Corse velocemente verso il cancelletto, lo scavalcò con agilità e si avventò sul ragazzo con violenza, iniziando a prenderlo ferocemente a pugni.
Il minore, sorpreso da quella reazione, corse verso di loro per cercare di far calmare suo fratello. “Sherrinford, smettila!... Lascialo!” urlò spaventato. Vedendo che il secondogenito non gli dava ascolto, si avventò su di lui e provò ad afferrarlo dalle spalle. Sherrinford, però, si voltò di scatto e con uno sguardo da pazzo, tirò istintivamente un pugno anche a Sherlock, che cadde a terra e sbatté con violenza la schiena al cancelletto.
“Oh, mio Dio…Sherlock!” urlò il secondogenito, appena si accorse di ciò che aveva fatto. Lasciò la presa su Jason, che scappò terrorizzato e cominciò ad avvicinarsi al fratellino.
Il minore, intanto, si era messo in piedi a fatica e si massaggiava la guancia dove gli era arrivato il colpo.
“Sherlock, mi dispiace…non volevo!” esclamò Sherrinford mortificato. Appena Sherlock vide suo fratello avvicinarsi, quasi d’istinto, indietreggiò timoroso.
“…Hai paura di me?” chiese il secondogenito, notando il suo gesto.
“No…è solo che non ti riconosco!” rispose prontamente il minore, osservandolo con fare sospettoso. “…Non hai mai reagito così…neanche per cose peggiori di questa…” aggiunse con diffidenza.
“Hai ragione, Sherlock…non so cosa mi sia preso!... Volevo solo difenderti…” rispose Sherrinford, abbassando lo sguardo.
“Si, ma non è questo il modo…l’hai sempre detto tu, che la violenza non è la soluzione!” esclamò Sherlock con tono duro.
“È vero…perdonami, ti prego…” disse il secondogenito con le lacrime agli occhi. Poi si avvicinò lentamente verso il fratellino per abbracciarlo.
Il minore annuì non molto convinto, si lasciò abbracciare e, ancora titubante, ricambiò la stretta.
 

 
L’ambientazione cambiò e Sherlock si ritrovò a parlare con Mycroft nel giardino sul retro. I genitori erano fuori casa e Sherrinford stava studiando in camera sua.
“Cosa dovevi dirmi?” chiese il maggiore curioso. Nei sei mesi in cui Sherrinford era stato lontano da casa, Sherlock gli aveva rivolto la parola in poche e rare occasioni.
“Cos’hanno detto i medici che hanno dimesso Sherrinford?” chiese il minore a bruciapelo.
“Niente di particolare…” rispose Mycroft, abbassando lo sguardo.
Sherlock guardò suo fratello per qualche secondo, turbato da quell’espressione. “Ma erano d’accordo a dimetterlo, vero?” aggiunse sospettoso.
“No.…!” disse il maggiore titubante.
“Mycroft, che vuol dire no?” domandò il minore incredulo.
“I medici consigliavano di tenerlo lì per un altro po' di tempo…ma io ho insistito, perché tornasse a casa…e mamma e papà hanno acconsentito” rispose Mycroft.
“Tu hai insistito? Ma che ti è saltato in mente!” esclamò Sherlock, sbuffando nervoso.
Il maggiore abbassò lo sguardo di nuovo e sospirò. “L’ho fatto per te…” disse semplicemente con voce tremante.
Il minore rimase colpito da quella frase e, soprattutto, dallo strano comportamento di suo fratello. Non lo aveva mai visto così insicuro e in imbarazzo prima di allora. “L’hai fatto per me?” ripeté stranito.
“Si…da quando Sherrinford è stato portato nel centro, ogni giorno eri sempre giù di morale…in questi mesi non hai fatto altro che isolarti da tutto e da tutti…” rispose Mycroft titubante.
Sherlock rimase ancora più sorpreso da ciò che aveva appena sentito. Nonostante ce l’avesse con suo fratello, non poté fare a meno di pensare al fatto che, nonostante tutto, l’avesse tenuto d’occhio e si fosse preoccupato per lui a tal punto. Restò in silenzio per qualche minuto poi, prima di parlare, fece un profondo respiro “Deve ritornare di nuovo lì!” disse all’improvviso. Era stato difficile pronunciare quella frase, ma sapeva che era la cosa giusta da fare.
“Cosa?” chiese il maggiore allibito.
“Non è più lui…l’altra mattina ha persino aggredito Jason, soltanto per una stupida frase!... Non so cosa gli abbiano fatto lì dentro, ma avevo ragione io…non lo hanno aiutato…è peggiorato e credo sia pericoloso, Mycroft! Sia per sé stesso che per gli altri…” rispose Sherlock, guardando suo fratello con un velo di rancore negli occhi.
“Pericoloso?... Ora stai esagerando, Sherlock!” esclamò Mycroft, con il suo tono di superiorità.
“Ma perché non prendi mai sul serio quello che dico?... Pensi di essere più intelligente e mi tratti sempre come uno stupido!” urlò il minore irritato. “…Se non fai come ti dico, vedrai per la seconda volta, che io avevo ragione e tu torto! Hai distrutto Sherrinford con la tua brillante idea sei mesi fa…cerca almeno di rimediare, finché sei in tempo!” aggiunse, minacciandolo con lo sguardo.
Il maggiore non rispose. Rimase a guardare il suo fratellino, riflettendo attentamente sulle sue parole. Dopo quello scambio di sguardi, Sherlock si voltò di scatto e rientrò in casa, sbattendo la porta.
 


 
Sherlock si svegliò confuso e con un grande mal di testa. Appena aprì gli occhi, capì di essere in ospedale. Fece un breve sforzo mentale per riuscire a ricordare ciò che era successo: il messaggio di Moran, l’esplosione, John ferito. Arrivato a quell’ultimo ricordo, venne assalito dal panico: doveva sapere come stava John. I suoi pensieri vennero interrotti da una mano che con dolcezza, si posò all’improvviso sulla sua. Voltò subito il capo verso la sua destra ed incontrò uno sguardo familiare.
“Ehi…” disse il medico con un sorriso stanco.
“John!” esclamò debolmente il detective “…Come stai?” aggiunse poi scrutandolo con attenzione.
“Sto bene, stai tranquillo! Mi hanno fasciato il busto per bene e va molto meglio…e comunque sei tu che hai rischiato di morire dissanguato, non io…” rispose John con un velo di rimprovero.
Sherlock stava per ribattere, quando la porta della stanza si aprì lentamente ed una figura fece il suo ingresso.
“Oh, che bel quadretto! Siete davvero teneri!” esclamò l’uomo divertito.
“T-tu? …Come hai fatto ad entrare qui?” chiese il consulente investigativo allarmato.
“Non devi chiederti come, Sherlock…ma perché!” rispose prontamente Moran. Vedendo che il detective rimaneva immobile a fissarlo, decise di continuare. “Sono qui, perché in fondo sono come Bach…non mi piacciono le melodie incompiute!” aggiunse, puntando la pistola verso John.
“Queste parole non sono tue…” disse Sherlock con voce tremante.
“Oh, le hai riconosciute! Jim ne sarebbe molto contento ed onorato…” rispose il cecchino, caricando la pistola “…ora mi dispiace doverlo fare, ma puoi dire addio al tuo caro amico!” aggiunse con un sadico sorriso. Poi premette il grilletto e sparò al medico, colpendolo in testa.
John non ebbe il tempo di reagire. Il proiettile gli trapassò il capo da parte a parte e il suo corpo senza vita cadde sul letto del detective, imbrattando di sangue le bianche lenzuola.
“No…John!” urlò il consulente investigativo terrorizzato, mentre afferrava tra le sue braccia il suo migliore amico. “John…ti prego, no…John…” continuò tra le lacrime.
“Ma che peccato!... Mi dispiace, non volevo ucciderlo!... No, sto scherzando, era proprio il mio obiettivo!” canzonò Moran, iniziando a ridere.
“Sei un lurido bastardo!” gridò Sherlock furioso. Poi spostò lo sguardo di nuovo su John, che giaceva immobile tra le sue braccia ed altre lacrime gli rigarono in viso senza controllo. “…John…” aggiunse disperato.
“Non preoccuparti, lo raggiungerai molto presto!” esclamò Moran continuando a ridere. All’improvviso, però, la sua risata cambiò stranamente intonazione. “È bello vedere le tue paure, Sherlock!” disse poi con un altro tono di voce.
Sherlock, nel sentire quella voce familiare, si pietrificò all’istante. Alzò gli occhi su Moran, ma si accorse che non era più lui: era Moriarty.
“Ma cosa diavolo…!?” provò a dire confuso.
“Quindi è di questo che hai paura, Sherlock?... Di perdere le persone che ami!” esclamò Jim, ridendo di gusto.
 




 
Sherlock si svegliò di soprassalto per la seconda volta. Era stato tutto un sogno, anche se sembrava così reale. Si guardò intorno in preda al panico, aveva il battito accelerato e il respiro corto. “John!” esclamò spaventato.
“Ehi, Sherlock…calmati!” disse Greg con dolcezza.
Il detective si voltò verso di lui, guardandolo con un’espressione confusa. “Dov’è John?” chiese, ansimando pesantemente.
“Stai tranquillo, sta bene…è nell’altra stanza! Adesso sta riposando…” rispose Lestrade.
“No, lui era…c’era Moran e Moriarty…” cercò di dire Sherlock, ma non riusciva a formare una frase di senso compiuto “…devo andare da lui!” aggiunse, staccandosi la flebo e tutti i macchinari e provando a mettersi in piedi.
“Ma sei impazzito? Non puoi alzarti!” urlò l’ispettore spaventato.
Il detective, però, non lo ascoltò. Riuscì ad alzarsi a fatica e si diresse traballante verso la porta.
In quel momento, Mycroft entrò nella stanza e rimase sorpreso nel trovarsi davanti suo fratello. “Ma che stai facendo?” chiese preoccupato.
“Devo andare da John…io…devo…” provò a spiegare, ma dovette interrompersi. Iniziava a sentirsi debole e la vista gli si stava lentamente annebbiando. “…io…devo…” aggiunse, continuando ad ansimare. Poi si portò una mano alla fronte e crollò svenuto tra le braccia di suo fratello.
Greg si precipitò su di loro ed aiutò Mycroft a riportarlo a letto, correndo, subito dopo, a chiamare aiuto.







Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il settimo capitolo! Beh, che dire di Sherlock che pensa sempre prima a John che a sè stesso? Solo che è davvero tanto tenero e carino...! *.*
Nel ricordo sulla sua infanzia si cominciano a capire un pò di cose su Sherrinford e su come i sei mesi in quel centro di cura lo abbiano cambiato. Mycroft naturalmente non vuole ascoltare Sherlock e alla fine si pentirà di non averlo fatto.
La parte in cui John viene ucciso e poi si scopre essere un sogno di Sherlock è un pò cattivella, lo so... ma in fondo non potevo far morire il nostro caro dottore, almeno non sul serio! Mi auguro di non avervi fatto spaventare troppo! ;)
Spero che il capitolo vi sia piaciuto...grazie a chi continua a seguire la storia e a chi vuole lasciare un commento. 
Alla prossima ;)

 

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Capitolo 8
*** You're my family ***


                    Miss me?





      
                                          You're my family








… In quel momento, Mycroft entrò nella stanza e rimase sorpreso nel trovarsi davanti suo fratello. “Ma che stai facendo?” chiese preoccupato.
“Devo andare da John…io…devo…” provò a spiegare, ma dovette interrompersi. Iniziava a sentirsi debole e la vista gli si stava lentamente annebbiando. “…io…devo…” aggiunse, continuando ad ansimare. Poi si portò una mano alla fronte e crollò svenuto tra le braccia di suo fratello.
Greg si precipitò su di loro ed aiutò Mycroft a riportarlo a letto, correndo, subito dopo, a chiamare aiuto.
 






 
Sherlock stava cercando Sherrinford per casa. Doveva assolutamente parlare con lui, voleva sapere cosa era successo in quel centro e cosa lo avesse cambiato così tanto. Lo trovò in giardino, seduto sull’erba con le gambe strette al petto e l’espressione pensierosa.
“Sherrinford…” lo chiamò, attirando la sua attenzione e sedendosi vicino a lui.
“Ehi…” rispose il secondogenito.
“So che non vuoi parlarne…ma ho bisogno di saperlo…cosa è successo nei sei mesi che hai passato in quel centro?” chiese il minore.
Sherrinford negò con il capo, trattenendo a stento le lacrime.
“Sherrinford…per favore!” lo supplicò Sherlock.
“Niente!... Non è successo niente!” sbottò all’improvviso il secondogenito, urlando furioso.
Il minore rimase sorpreso da quel repentino cambio d’umore e restò in silenzio per qualche istante a fissarlo. “Ti rendi conto di come sei cambiato? Lo vedi cosa sei diventato?” domandò poi con tristezza. “…Non sei più tu…e vorrei solo capire cosa ti è successo per poterti aiutare…!” aggiunse con le lacrime agli occhi.
“Sto bene…” rispose secco Sherrinford.
“No, non stai bene!” esclamò Sherlock, alzando il tono di voce.
Il secondogenito si alzò di scatto con un’espressione irritata sul volto. Poi, senza aggiungere altro, entrò dentro casa sbattendo la porta alle sue spalle.
 
 
L'ambientazione cambiò e Sherlock si ritrovò in soggiorno. Così come gli era già capitato, all’improvviso, sentì delle urla provenire dal piano di sopra. Ad urlare era una donna: sua madre. Salì le scale di corsa e trovò i suoi genitori abbracciati che piangevano disperati.
“Che succede?” chiese spaventato.
Poco più in là, Mycroft guardava dentro la stanza in fondo, tenendosi una mano sulla bocca e cercando di trattenere le lacrime.
“Mycroft cos’è successo?” chiese, avvicinandosi a suo fratello.
La stanza in questione era quella di Sherrinford.
“Sherlock, vai di sotto! Non devi stare qui!” urlò Mycroft preoccupato, chiudendo subito la porta.
“Non trovo Barbarossa…di solito mi aspetta nel vialetto…” disse il minore decisamente confuso.
Il maggiore chiuse un attimo gli occhi, nel tentativo di mantenere la sua espressione distaccata, ma senza riuscirci.
“Mycroft, dimmi la verità…che gli è successo? È lì dentro, vero?” chiese Sherlock con voce tremante, cercando di aprire la porta.
“No, Sherlock…non puoi entrare! Vai di sotto!” gridò Mycroft, afferrandolo subito da un braccio.
Il minore, però, con un gesto repentino, si liberò dalla stretta del fratello e riuscì ad entrare nella stanza. Ciò che vide gli spezzò il cuore. Barbarossa giaceva a terra sgozzato in una pozza di sangue.
“No…no…Barbarossa!” urlò, correndo verso di lui e inginocchiandosi al suo fianco “…No…ti prego…svegliati!” aggiunse tra le lacrime, mentre scuoteva il suo corpo nel vano tentativo di farlo svegliare “…Non lasciarmi…per favore…” continuò, iniziando a singhiozzare.
Mycroft si avventò su di lui, afferrandolo dalle spalle. “Sherlock, vieni via da qui!” esclamò disperato.
“Lasciami andare, Mycroft…devo fare qualcosa…è mio amico!” urlò il minore, cercando di liberarsi dalle braccia del fratello. Solo in quel momento si accorse di cos’altro c’era nella stanza. Qualcun altro giaceva a terra poco più in là ed anche lui in una pozza di sangue.
“Sherrinford!” gridò Sherlock, con voce rotta. Poi si liberò dalla stretta del maggiore e corse verso il corpo a terra. “No…no…Sherrinford, rispondimi!” disse, mentre altre lacrime gli uscivano senza controllo.
“Santo cielo, Sherlock! Non puoi più fare niente…vieni con me di sotto!” urlò il maggiore, nel tentativo di portarlo fuori da quella stanza.
Mentre Mycroft cercava di farlo alzare, Sherlock si accorse che Sherrinford, nella mano destra, stringeva un pezzo di carta. Lo prese e lo lesse attentamente, ignorando le grida del fratello maggiore.


 
Caro Sherlock,
avevi ragione tu: io non sto bene. Avrei dovuto darti ascolto. Solo adesso, dopo essermi macchiato del sangue del tuo migliore amico, mi sono reso conto che c’è qualcosa che non va in me. Non avrei mai voluto farti una cosa del genere. Non avrei mai voluto farti soffrire. Purtroppo non so come sia accaduto: so solo che troppo spesso non sono me stesso e questa mia parte oscura mi fa paura. Mi dispiace che tu, caro fratellino, ne abbia dovuto pagare le conseguenze. Anche se adesso sarà difficile per te crederlo, io ti ho sempre voluto bene. Ho sempre voluto solo la tua felicità, ho sempre voluto solo proteggerti…ma mentre cercavo di proteggerti dagli altri, non avevo capito che, in fondo, avrei dovuto proteggerti soltanto da me stesso. Spero che tu un giorno possa perdonarmi. Spero che, nonostante tutto, un giorno tu possa ricordarti di me con un briciolo di affetto. Per il bene tuo e di tutta la famiglia, c’è solo una cosa che posso fare…è il solo modo che ho di proteggervi da quello che sono diventato. Mi mancherai davvero tanto, Sherlock.
Ti prego, perdonami fratellino. Ti voglio bene…Sherrinford.


 
In quel momento, dopo aver letto quelle parole, capì tutto. Vide il coltello vicino al corpo di Barbarossa e la pistola a terra, accanto al corpo del secondogenito. Tentò di mettersi in piedi e seguire Mycroft fuori dalla stanza, ma appena si alzò, la vista gli si annebbiò e crollò a terra privo di sensi.
 




 
Sherlock si svegliò nuovamente di soprassalto. Era stanco di tutti quei dolorosi ricordi, che continuavano ad affollarsi nella sua mente. Era stanco di tutti gli incubi, che non gli permettevano più di riposare come si deve. Aprì gli occhi in preda al panico e subito una mano si poggiò con dolcezza sul suo braccio. Guardò quella mano e con lo sguardo salì fino al volto della persona che aveva accanto.
“John…” disse, ansimando.
“Va tutto bene…cerca di fare respiri profondi…” rispose il medico con un sorriso.
Il detective chiuse gli occhi e cercò di regolarizzare i propri respiri. Appena si sentì più calmo, li riaprì e puntò di nuovo lo sguardo sul suo migliore amico.
“Stai bene?” chiese all’improvviso Sherlock, leggermente ripreso.
“Si, sto bene…mi hanno appena dimesso!... Devo solo portare questa fasciatura al busto per una settimana e devo evitare i movimenti bruschi…” rispose John “…tu, piuttosto…davvero un’idea geniale quella di lasciarti quasi morire dissanguato…per me…!” aggiunse, ritornando serio.
Il consulente investigativo non rispose. Accennò un mezzo sorriso ed abbassò leggermente lo sguardo.
“Comunque…grazie…” disse il medico, stringendo leggermente la presa sul suo braccio “…anche se ultimamente hai troppe manie suicide per i miei gusti!” aggiunse con sarcasmo.
Sherlock continuò a rimanere in uno strano silenzio. Si sentiva esausto e non tanto per le ferite, quanto per gli ultimi incubi che aveva avuto. Sospirò e si passò stancamente una mano sugli occhi.
“Sherlock…” lo chiamò John, attirando la sua attenzione “…ora vuoi dirmi che ti sta succedendo?” continuò, guardandolo dritto negli occhi “…Mi ha detto Greg che stamattina quando hai ripreso conoscenza, hai avuto un attacco di panico e hai dato di matto, finendo per collassare sul pavimento…” aggiunse preoccupato.
Il detective fece un profondo respiro prima di rispondere. “Ho avuto un incubo…” disse con un lieve imbarazzo.
“Sempre quella famosa storia dimenticata?” ironizzò il medico.
“No, stamattina era diverso…Moran ti uccideva ed io non riuscivo a fare niente per salvarti…” confessò il detective, abbassando di nuovo lo sguardo.
John sorrise, colpito da quelle parole. Era sempre una sorpresa vedere quanto Sherlock tenesse a lui, spesso anche più di sé stesso. “Come vedi sono qui e sto bene...quindi non hai di che preoccuparti!” rispose prontamente.
“Si, questa volta è andata bene…ma non posso rischiare tanto!... Devo affrontare Moran da solo, non posso mettere di nuovo a repentaglio la tua vita e quella di tutte le persone che mi stanno vicine!” esclamò all’improvviso il consulente investigativo.
Il medico, dopo quella frase, gli lanciò uno sguardo minaccioso. “Devi aver sbattuto la testa davvero forte, per arrivare a dire certe cavolate, Sherlock!” disse con rimprovero. “…Tu prova solo a fare una cosa del genere e ti giuro, ti provoco un altro trauma cranico, ma questa volta a suon di pugni!” aggiunse serio.
I due si guardarono per qualche istante, poi, come accadeva sempre tra loro, scoppiarono a ridere.
 
 

Sherlock venne dimesso qualche giorno dopo. Dopo il messaggio di Moran, erano state prese tutte le precauzioni necessarie per garantire l’incolumità di Mycroft. Agenti di Scotland Yard e dell’MI6 se ne stavano di guardia alla villa del politico e al Diogenes Club, seguendo attentamente tutti i suoi movimenti.
Una mattina, di buon’ora, il detective si presentò nell’ufficio di suo fratello.
“Sherlock!” esclamò Mycroft, sorpreso di vederlo lì.
Sherlock aveva una strana espressione sul viso e non accennava a parlare. Continuava a guardare il politico dritto negli occhi. “Vedo dagli agenti che sono qui fuori, che hai preso tutte le precauzioni necessarie!” disse all’improvviso.
“Si, ovviamente…ma quello che non capisco…è cosa ci faccia tu qui…” rispose Mycroft confuso.
Il detective fece spallucce e non rispose, iniziando a guardarsi nervosamente intorno.
“No…non ci credo…!” esclamò il politico sorpreso “…sei preoccupato per me!” aggiunse con un sorriso compiaciuto.
“Oh, Mycroft…non essere ridicolo!” rispose prontamente Sherlock.
“E invece è proprio così…sono davvero commosso!” ironizzò Mycroft con il suo tono di superiorità.
Il detective sbuffò pesantemente. “Ho sbagliato a venire qui!” sbottò irritato. Poi si voltò di scatto e si avviò verso la porta. Abbassò la maniglia, ma si bloccò all’improvviso. “È solo che…” provò a dire titubante “…ho già perso un fratello una volta e…non vorrei ripetere l’esperienza!” aggiunse con voce tremante.
Il politico rimase sorpreso da quelle parole. Erano anni che Sherlock non accennava alla storia di Sherrinford, l’aveva prontamente cancellata dalla sua memoria, facendo finta che non fosse mai accaduto. Perché accennarlo proprio adesso, dopo tutto questo tempo? Era forse questo che lo stava tormentando negli ultimi giorni, inducendolo a riprendere a drogarsi con frequenza? Per la prima volta non seppe cosa dire. Osservò semplicemente suo fratello uscire dal suo ufficio e rimase a fissare la porta che si era appena chiusa, perso nei suoi pensieri.  


 
Il consulente investigativo varcò la porta d’ingresso di Baker Street con un’espressione scura in volto. Si tolse sciarpa e cappotto e li buttò sgraziatamente sul divano.
“Tutto bene?” chiese John, guardandolo con attenzione.
“Si…” rispose semplicemente Sherlock.
“Sei uscito presto stamattina…dove sei stato?” chiese il medico curioso.
“Avevo bisogno di prendere un po' d’aria…” disse il detective con lo sguardo basso.
“Sherlock…” lo rimproverò John, capendo che c’era dell’altro dietro quella frase.
Sherlock, pero, non rispose. Si avvicinò al suo amato violino e, come faceva sempre quando voleva porre fine ad una conversazione scomoda, si mise a suonare, dando le spalle al medico e guardando verso la finestra.
John sospirò rassegnato, poi si sedette sulla poltrona e restò lì, a bearsi di quella meravigliosa melodia.
Appena il detective finì di suonare, si voltò pensieroso verso il medico. “Dov’è Mary?” chiese, guardandosi intorno.
“È di sotto dalla signora Hudson…” rispose John.
In quel momento, però, la padrona di casa aprì all’improvviso la porta. Aveva il fiato corto dopo la corsa per le scale ed era visibilmente preoccupata. “John, caro…devi venire di sotto! Mary non sta bene!” esclamò ansimando leggermente.
Il medico e Sherlock corsero velocemente di sotto e trovarono la donna che si sosteneva ad una sedia della cucina e con una mano si massaggiava la pancia, trattenendo alcune smorfie di dolore.
“Mary!” urlò John allarmato. “Che succede?” aggiunse, scrutandola con attenzione.
“Ho dei forti dolori al ventre…” rispose la moglie con difficoltà.
Il detective afferrò immediatamente il telefono. “Chiamo subito un’ambulanza!” esclamò preoccupato.

 
Mary venne portata d’urgenza in ospedale. Dopo un’ora circa di attesa, un dottore uscì e si avvicinò a John, che aspettava nervosamente notizie sulla moglie.
“Dottor Watson…sua moglie ha avuto delle contrazioni. Non potendo rischiare con un parto naturale di otto mesi, abbiamo dovuto fare un cesareo d’urgenza. È andato tutto alla perfezione e stanno entrambe bene…le faccio le mie congratulazioni!” disse il dottore, porgendogli la mano con un sorriso.
John rimase spiazzato da quella notizia. Ci mise alcuni istanti per capire il significato di quelle parole. Appena riuscì a metabolizzare tutte le informazioni, sorrise entusiasta e strinse con forza la mano del dottore. Poi si voltò verso Sherlock e vide che anche lui stava sorridendo. “Posso vederle?” chiese impaziente.
“Certo…mi segua…” rispose il dottore, conducendolo nella stanza della moglie.
Il detective si sedette di nuovo su quella scomoda sedia, sospirando pesantemente. Avrebbe aspettato lì. John aveva bisogno di godersi la sua intimità con la sua famiglia. Non voleva intromettersi in quel momento. In fondo lui non centrava niente in tutta quella situazione. Chiuse gli occhi e poggiò stancamente la testa al muro, immergendosi nei suoi pensieri. Dopo qualche istante si sentì scuotere da qualcuno. Aprì gli occhi e vide il suo migliore amico che lo guardava con aria interrogativa.
“Si può sapere che stai facendo qui seduto?” chiese il medico.
“Niente…ti aspetto…” rispose Sherlock confuso. “Devi goderti questo momento con la tua famiglia…” aggiunse con ovvietà.
“Appunto!” disse John. Poi si mise a ridere, scuotendo la testa rassegnato “…Sarai anche un genio, ma a volte ti sfuggono le cose più elementari!... Tu sei il mio migliore amico, Sherlock…e…anche tu fai parte della mia famiglia…!” aggiunse con dolcezza, guardandolo dritto negli occhi.
Il consulente investigativo non seppe cosa rispondere. Rimase immobile come il giorno in cui John gli disse per la prima volta di considerarlo il suo migliore amico. Sapere che lo considerasse addirittura parte della sua famiglia e che volesse condividere un momento così importante con lui, lo lasciò piacevolmente spiazzato.
“Vederti senza parole è sempre una cosa inquietante!” esclamò il medico con sarcasmo “…Dai, andiamo…” aggiunse con un sorriso.
Sherlock sorrise a sua volta e si alzò, dirigendosi con John nella stanza di Mary.









Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi l'ottavo capitolo! Beh, ci sono un pò di eventi.

Partiamo con il passato di Sherlock che evidenzia maggiori dettagli sullo stato mentale di Sherrinford (anche se ancora non è stato svelato cosa è successo nel centro e la diagnosi che avevano fatto) e soprattutto sul suo suicidio, a seguito dell'omicidio di Barbarossa. Si è ormai capito che Sherrinford spesso non ragionava più e, preso da uno dei suoi momenti di follia, ha ucciso il povero Barbarossa senza neanche rendersene conto...quando poi è ritornato in sè e si è reso conto di cosa aveva fatto, ha optato per l'unica via d'uscita che riusciva a vedere. 

La parte di Sherlock che va da Mycroft, perchè nonostante tutto è preoccupato per lui, la trovo davvero tenera e voi?

E' nata anche la baby Watson, il cui nome verrà svelato nel prossimo capitolo. E c'è alla fine un tenero dialogo tra John e Sherlock, in cui il medico fa capire al nostro detective che anche lui è importante nella sua vita, tanto da considerarlo parte della sua famiglia. *.*

Spero che il capitolo vi sia piaciuto...Grazie a chi continua a seguire la storia e a chi vuole lasciare un commento. 
Alla prossima ;)



 

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Capitolo 9
*** Mycroft's mind palace ***


                      Miss me?








                                       Mycroft's mind palace








… Il consulente investigativo non seppe cosa rispondere. Rimase immobile come il giorno in cui John gli disse per la prima volta di considerarlo il suo migliore amico. Sapere che lo considerasse addirittura parte della sua famiglia e che volesse condividere un momento così importante con lui, lo lasciò piacevolmente spiazzato.
“Vederti senza parole è sempre una cosa inquietante!” esclamò il medico con sarcasmo “…Dai, andiamo…” aggiunse con un sorriso.
Sherlock sorrise a sua volta e si alzò, dirigendosi con John nella stanza di Mary.
 






 
John e Sherlock entrarono nella stanza e trovarono Mary sorridente, che cullava un piccolo fagottino. Il medico si avvicinò a sua moglie entusiasta, guardò la bambina e la prese delicatamente in braccio, mostrandola anche al detective.
“Sherlock…ti presento Victoria…” disse John contento.
“Molto piacere, Victoria…” rispose il consulente investigativo con un sorriso.
Poi il medico si voltò di nuovo verso sua moglie e si avvicinò a lei, dandole un tenero bacio.
Dopo alcuni minuti, però, Sherlock iniziò a non sentirsi bene. Non assumeva droghe da giorni ormai e i sintomi dell’astinenza cominciavano a pesare ogni giorno di più. Si rese conto che stava sudando freddo ed aveva il battito leggermente accelerato. Non disse niente a John, non voleva rovinare quel bel momento. Si sforzò di continuare a sorridere, sperando che il suo migliore amico non se ne accorgesse. Fu allora che la sentì di nuovo, la voce di Moriarty nella sua testa: “Io sono la tua debolezza, Sherlock…ogni volta che cadi, ogni volta che ti senti debole…io sono qui…nella tua testa!”. Chiuse gli occhi, cercando regolarizzare i propri respiri, ma senza riuscirci.
“Sherlock, va tutto bene?” chiese all’improvviso Mary, accorgendosi del suo stato.
John si voltò di scatto dopo la domanda della moglie e scrutò il suo amico con attenzione. “Che succede?” domandò, avvicinandosi a lui preoccupato.
“Niente…scusatemi!” esclamò il detective, uscendo velocemente dalla stanza e correndo fuori dall’edificio.
Il medico diede Victoria a Mary e corse dietro di lui. Lo trovò fuori dall’ospedale, poggiato con la schiena e la testa al muro. Aveva gli occhi chiusi ed ansimava leggermente.
“Sherlock!” lo chiamò allarmato.
Sherlock aprì gli occhi e lo guardò con sufficienza. “John, torna dentro…sto bene…” disse, sforzandosi di apparire tranquillo.
“Ma non prendermi in giro!... Non dimenticarti che sono un medico…credi che non sappia riconoscere i sintomi dell’astinenza da cocaina? …Gli incubi, l’agitazione, gli sbalzi d’umore…” rispose John a tono.
“Te l’ho già detto, John…non sono un drogato…ne faccio uso di tanto in tanto…” ribatté il detective irritato.
“Si, è vero l’hai già detto…in effetti, è una frase che dici spesso ultimamente! Ma fammi capire, la dici per cercare di convincere gli altri o per convincere te stesso?” domandò il medico, alzando il tono di voce.
Sherlock sbuffò spazientito. “John, ti prego…smettila!”.
“No, Sherlock…sei tu che devi smetterla!” urlò John “…Continui a negare di avere un problema, ma ce l’hai!... Ed hai bisogno di curarti!” aggiunse, continuando a gridare.
“Non capisco perché continuo ad ascoltarti…!” esclamò il detective, voltandosi per andarsene.
“Ed ora dove pensi di andare?” gridò il medico.
Il consulente investigativo si voltò di scatto. “A casa!” urlò spazientito. “…Saluta Mary da parte mia!” aggiunse, abbassando leggermente il tono di voce.
“E credi che ti lasci tornare a casa da solo, per permetterti di fare una delle tue sessioni?” gridò John, sottolineando l’ultima parola con acidità.
“Di certo non puoi lasciare tua moglie e tua figlia appena nata!... Quindi non vedo come tu possa impedirmelo!” rispose Sherlock con arroganza. Poi si voltò con il suo solito atteggiamento di superiorità, alzò il bavero del cappotto e se ne andò a passo spedito, ignorando il suo migliore amico che continuava a chiamarlo.
Appena il detective sparì dalla sua vista, il medico tirò un calcio al muro con rabbia. “Dannazione!” urlò furioso. Subito dopo rientrò in ospedale e contattò l’unica persona che avrebbe potuto controllare Sherlock al suo posto.


 
-Sherlock è in crisi di astinenza. Sta tornando a casa e credo possa rifarlo. Mi serve il tuo aiuto…è nata mia figlia e sono in ospedale…e non posso tenerlo d’occhio. JW


 
Mycroft lesse il messaggio mentre era seduto sulla sua poltrona al Diogenes Club. Sospirò, passandosi nervosamente una mano sugli occhi e rispose.


 
-Ci penso io. MH


 
John, dopo aver visto la risposta del politico, fece un profondo respiro nel tentativo di calmarsi e rientrò nella stanza di Mary.
 



 
Sherlock stava camminando verso Baker Street. Aveva deciso di non prendere un taxi, pensando che, in fondo, una passeggiata avrebbe potuto aiutarlo a schiarirsi le idee. “Ma chi voglio prendere in giro?” si disse tra sé e sé. Non era di certo quello il motivo e, in cuor suo, lo sapeva bene. La verità, infatti, era un’altra. Non aveva preso un taxi, perché una parte di lui sperava egoisticamente, che John lo inseguisse, che mollasse tutto e corresse, come sempre, a salvarlo. Ma, in fondo, le cose erano cambiate dopo il suo matrimonio. Ora John doveva pensare alla sua famiglia e non poteva perdere tutto il suo tempo ad occuparsi di lui. In quel momento gli vennero in mente le parole della signora Hudson “Il matrimonio cambia certe persone come lei non può neanche immaginare!”. Le aveva pronunciate la mattina del matrimonio di John e Mary e, allora, le aveva trovate così ridicole. Ma ora cominciava a capire che in realtà la sua padrona di casa aveva ragione. Da quando John si era sposato, infatti, le cose non erano più le stesse e per quanto si fosse illuso del contrario e nonostante il suo amico lo negasse, loro due non erano più John e Sherlock da soli contro il resto del mondo. Ora c’era John con la sua famiglia dal un lato e Sherlock da solo dall’altra. Quell’ultimo pensiero gli mise addosso un’angoscia indescrivibile. Iniziò, addirittura, a rimpiangere la vita che aveva prima di conoscere John: quando riusciva a stare da solo senza essere assalito da quell’asfissiante sensazione di vuoto; quando aveva convinto sé stesso e gli altri di essere un sociopatico senza cuore; quando riusciva a tenere i sentimenti rilegati in una parte profonda del suo palazzo mentale, illudendosi di non averne; quando aveva trovato quel finto equilibrio e tutta la sua vita sembrava decisamente più facile. Avvilito come la sera in cui se ne andò dal ricevimento del matrimonio di John, pensò a l’unica cosa che, come allora, poteva dargli un breve momento di sollievo: la cocaina. Si ricordò di non averne più a casa, nella sua preziosa scatolina e si recò nel solito vicolo dove riusciva sempre a trovarla.
Dopo aver fatto i suoi acquisti, si avviò di nuovo verso il 221B. Mentre camminava, però, un dubbio si insinuò nella sua mente. Prese il cellulare e con un sorriso compiaciuto, inoltrò un messaggio.


 
Mycroft stava aspettando suo fratello nel soggiorno di Baker Street, seduto sulla poltrona di pelle nera. Da quando Sherlock, quella mattina, gli aveva fatto quella strana improvvisata, non aveva fatto altro che pensare a Sherrinford. Se chiudeva gli occhi, riusciva a ricordare tutto con precisione: poteva sentire ancora le urla disperate di Sherlock; poteva vedere le sue lacrime, mentre scuoteva Barbarossa, imbrattandosi del suo sangue; poteva vedere la sua disperazione, mentre leggeva il biglietto di addio, che Sherrinford gli aveva lasciato e poteva vederlo mentre si alzava a fatica e crollava svenuto tra le sue braccia. Fece un profondo respiro, mise le mani congiunte sotto il mento e si immerse nel suo palazzo mentale, abbandonandosi completamente a quei dolorosi ricordi.

 
Mycroft si trovava in ginocchio a terra, davanti al cadavere di Sherrinford. Teneva Sherlock svenuto tra le sue braccia, incapace di muoversi. L’unica cosa che riusciva a fare, era guardare il viso del suo fratellino, che era ancora bagnato dalle lacrime. Dopo alcuni istanti, prese un fazzoletto che aveva in tasca e, con dolcezza, iniziò ad asciugargli le guance, mentre con l’altro braccio lo stringeva maggiormente a sé. Fu allora che il senso di colpa iniziò ad assalirlo, impedendogli quasi di respirare: era tutta colpa sua. Aveva provato ad aiutare Sherrinford, nel modo che riteneva più giusto ed aveva finito per distruggerlo. Aveva provato ad aiutare Sherlock, ridandogli suo fratello ed aveva finito per togliergli tutto ciò che di bello c’era nella sua vita. Perché ogni volta che cercava di fare qualcosa di buono, finiva sempre per rovinare tutto? Perché ogni volta che cercava di proteggere le persone che amava, finiva sempre per farle soffrire? Quelle domande, a cui non riusciva a dare una risposta, gli pesavano sul cuore come dei grossi macigni. In quel momento sentì una mano posarsi sulla sua spalla. Si voltò e vide sua madre che lo guardava con tristezza.
“Lo porto di sotto…” disse la donna, abbassandosi per prendere Sherlock in braccio.
“No, lo faccio io!” esclamò Mycroft. Poi strinse a sé, con forza, il suo fratellino, si alzò e si diresse silenziosamente di sotto. Arrivato nel soggiorno, lo adagiò con delicatezza sul divano, lo coprì con una coperta, si sedette al suo fianco e rimase lì a guardarlo, mentre con una mano accarezzava dolcemente i suoi morbidi ricci.
Dopo alcuni minuti, Sherlock riaprì lentamente gli occhi. Fissò intensamente suo fratello, cercando di metterlo bene a fuoco. Appena il maggiore si accorse della cosa, ritrasse velocemente la mano dai suoi capelli e ricambiò lo sguardo, rimanendo però in silenzio. Non sapeva cosa dire in quel momento ed aspettò che fosse il suo fratellino a parlare per primo.
Il minore, però, non disse niente. Si mise lentamente seduto e si passò una mano sugli occhi. Subito dopo si alzò dal divano, ignorando completamente suo fratello e si diresse verso la porta d’ingresso.
“Sherlock…” lo chiamò Mycroft con voce tremante.
Sherlock si fermò e sospirò pesantemente. Poi si voltò verso il maggiore, mostrando uno sguardo di puro disprezzo. “Sai, Mycroft…avevi ragione…” disse, sorridendo con amarezza.
Mycroft rimase sorpreso da quella frase. “Che vuoi dire?” chiese confuso.
“Provare sentimenti non è mai un vantaggio…ed io non farò mai più questo errore…” rispose il minore con un’espressione glaciale.
Il maggiore lo guardò con attenzione e notò nel suo sguardo qualcosa di inquietante. I suoi occhi, infatti, non brillavano più di luce propria e non emanavano più la dolcezza e la tenerezza che lo avevano sempre caratterizzato. C’era solo un immenso e incolmabile vuoto, che indicava chiaramente, che si era rotto qualcosa dentro di lui, qualcosa che non poteva più essere riparato in alcun modo.
“Sherlock…mi dispiace…” disse Mycroft, alzandosi dal divano.
Sherlock, però, non lo ascoltò e non rispose. Aprì la porta di casa ed uscì, sbattendosela dietro di sé con forza.
Il maggiore non lo seguì, ma lo osservò preoccupato dalla finestra. Lo vide prendere il guinzaglio di Barbarossa e recarsi vicino all’albero dove si rilassava sempre con il suo migliore amico. Poi si sedette con la schiena poggiata al tronco, si portò le gambe al petto e strinse il guinzaglio tra le sue braccia, iniziando a singhiozzare senza controllo.

 
Mycroft lasciò quel doloroso ricordo ed iniziò a vagare nuovamente nel suo palazzo mentale. Mentre camminava nel lungo corridoio, una porta nera attirò la sua attenzione. La aprì lentamente, ben sapendo cosa contenesse: al suo interno c’erano tanti piccoli frammenti di ricordi, che mostravano il cambiamento di Sherlock dopo la morte di Sherrinford e di Barbarossa. In alcuni ricordi lo vedeva starsene ore ed ore chiuso in camera sua ad analizzare strani documenti; in altri vedeva le suppliche di sua madre per convincerlo a mangiare; in altri ancora vedeva sé stesso, di notte, seduto con la schiena contro la porta della camera del suo fratellino, che si teneva la testa tra le mani disperato, mentre lo sentiva piangere e lamentarsi nel sonno. Tutti quei frammenti non facevano altro che mostrargli la lenta autodistruzione di Sherlock, che lo aveva portato a diventare, con il passare degli anni, un sociopatico senza cuore. La cosa più dolorosa, però, era che, quelle immagini, non facevano altro che ricordargli che, in fondo, era tutta colpa sua.
I pensieri di Mycroft vennero interrotti dal suono del suo cellulare. Uscì velocemente dal suo palazzo mentale, riaprendo di scatto gli occhi e prese subito il telefono: era arrivato un messaggio. Prima ancora di vedere chi fosse, si accorse di avere le mani leggermente tremanti. Nonostante fossero passati anni, ormai, quei ricordi riuscivano comunque a sconvolgerlo sempre nel profondo. Aprì il messaggio con uno strano presentimento. Era di Sherlock.


 
-Spero che tu non mi creda così stupido. So, che John ti ha avvisato. Quindi, visto che non ho alcuna intenzione di tornare a casa, puoi tranquillamente alzarti dalla mia poltrona e andartene. SH


 
Il politico lesse quelle parole ed un sorriso amaro spuntò sul suo viso. Fece un profondo respiro e rispose.


 
-Sono qui per te e sarò sempre qui per te. Ti aspetterò…come ho sempre fatto. MH
 
 



Sherlock aprì il messaggio di suo fratello e rimase a fissare quelle parole con attenzione. Dopo qualche istante lo chiuse e, con un gesto nervoso, mise il cellulare nella tasca del suo cappotto. Aveva la cocaina e aveva tutto l’occorrente. Gli restava da fare solo una cosa: scegliere il posto. Si mise ad ispezionare i vicoli vicini a quello dove aveva acquistato la droga e, appena trovò il posto giusto si sedette a terra, poggiando stancamente la schiena contro il muro. Con lo sguardo perso e le mani tremanti, compì le azioni quasi in automatico: si tolse il cappotto e la giacca; sbottonò il polsino della camicia, arrotolando con cura la manica; si legò il laccio emostatico; riempì la siringa, prendendo il liquido dalla piccola boccetta, che aveva comprato poco prima ed avvicinò l’ago alla pelle. Stava per affondarlo nel suo braccio, quando si fermò all’improvviso, preso da uno strano senso di colpa. Si guardò intorno, scrutando con attenzione quel vicolo disgustoso e, in quel momento, si sentì patetico. Come aveva potuto ridursi di nuovo in quel modo? Come aveva fatto a cadere di nuovo in quel baratro oscuro, apparentemente senza via d’uscita? Lo assalì una sensazione di disgusto per sé stesso e per tutto ciò che era diventato, talmente forte, che dovette sforzarsi di reprimere un conato di vomito. Iniziò a sudare freddo e sentì il suo cuore battere sempre più velocemente. Provò a chiudere gli occhi nel vano tentativo di riprendere il controllo del suo corpo, ma senza riuscirci. Fu allora che, con gli occhi chiusi, gli passarono per la mente, di nuovo, una serie di immagini: Barbarossa e Sherrinford a terra, le sue mani imbrattate di sangue e le risate di Moriarty che echeggiavano con forza nella sua testa. Stava per aprire gli occhi per porre fine a tutto quell’orrore, quando vide John. Dapprima gli sorrideva, trasmettendogli un’improvvisa sensazione di calma, ma poi la sua immagine iniziò ad allontanarsi e a sparire man mano dalla sua vista. Appena la figura John sparì completamente, vide la sua poltrona vuota, l’appartamento altrettanto vuoto e la sua vita pateticamente vuota. Poi apparve di nuovo Jim, che lo guardava intensamente, mostrando sul viso un sadico sorriso: “Povero Sherlock…stai soffrendo, vero?... E tu che volevi convincermi di non avere un cuore! Sei così noioso…” disse, mettendosi a ridere.
Sherlock aprì di scatto gli occhi e, con un gesto repentino, affondò l’ago nella pelle. Poi fece un profondo respiro e premette lo stantuffo con decisione, mentre una lacrima gli rigava il viso. Negli istanti che seguirono il suo gesto, si vergognò profondamente di sé stesso e di ciò che aveva fatto. Quella sensazione di disagio, però, svanì subito dopo, quando la cocaina iniziò ad entrare in circolo nel suo corpo. All’improvviso tutto nella sua mente si placò e si abbandonò finalmente a quella inebriante sensazione di pace.
 


John entrò nella stanza di Mary con una falsa espressione tranquilla. Non voleva che sua moglie si preoccupasse per ciò che era successo poco prima con Sherlock.
La donna, però, a cui non sfuggiva mai niente, si accorse subito, dallo sguardo di suo marito, che qualcosa non andava. “Cos’è successo? Dov’è Sherlock?” chiese preoccupata.
“Niente…è tornato a casa…” rispose il medico, abbassando lo sguardo.
“John non sei capace di mentire…dimmi cos’è successo!” ribatté Mary seria.
John, allora, raccontò quello che era accaduto e ciò che si erano detti, fuori dall’ospedale, con il suo migliore amico. Appena finì di parlare si accorse che la moglie lo stava guardando con un’espressione di rimprovero.
“A volte sei così cieco, John!” esclamò la donna, scuotendo la testa con rassegnazione.
“Che vuoi dire?” chiese John confuso.
“Ti rendi conto che la provocazione che ti ha fatto, nascondeva in realtà una richiesta d’aiuto? Possibile che tu non l’abbia capito? Dovevi corrergli dietro…dovevi fargli capire concretamente che non deve affrontare tutto questo da solo, perché tu sei al suo fianco!” rispose Mary, alzando il tono di voce.
“Ma tu e Victoria…avete bisogno di me…” disse il medico titubante.
“A me e a Victoria non cambia niente se rimaniamo sole per qualche ora…ma per Sherlock anche un minuto può fare la differenza!... Ti rendi conto che solo pochi giorni fa ha rischiato di morire per overdose? Sai bene che potrebbe rifarlo! Vai da lui a Baker Street, muoviti…!” esclamò la donna con convinzione.
John annuì pensieroso. Poi diede un bacio a sua moglie e a sua figlia ed uscì di corsa dall’ospedale. Fermò subito un taxi e salì velocemente, dirigendosi a Baker Street. Durante il tragitto non faceva altro che pensare alle parole di Mary. Era stato davvero uno stupido a non capire quanto Sherlock stesse soffrendo e quanto avesse bisogno di lui. Gli venne in mente la conversazione avuta con il detective poco prima del suo matrimonio. Erano seduti su una panchina, in attesa che il soldato, che aveva chiesto il loro aiuto finisse il suo turno. Ricordava benissimo le parole che aveva rivolto al suo migliore amico: “Sai che non cambierà niente vero, quando io e Mary ci sposeremo? Noi continueremo come sempre…se fossi preoccupato!”. Sherlock dopo quelle parole era rimasto impassibile, o almeno era ciò che voleva far credere. John, però, aveva notato benissimo come muoveva nervosamente le sue mani intrecciate e percepì un leggero tremore di voce, mentre affermava di non essere preoccupato. In quel momento non aveva dato peso al suo comportamento, ma pensandoci ora, avrebbe dovuto capire quanto tutta quella situazione potesse essere difficile per lui. Quel giorno, su quella panchina, gli aveva promesso che non sarebbe cambiato niente, ma alla fine aveva permesso che tutto cambiasse, senza neanche muovere un dito. Avrebbe dovuto correre da lui la sera del ricevimento del suo matrimonio, quando se n’era scappato all’improvviso; avrebbe dovuto preoccuparsi e correre a cercarlo quando, nel mese dopo il matrimonio, aveva perso le sue tracce, invece di concentrarsi solo sul viaggio e sulla sua nuova vita; avrebbe dovuto stargli più vicino ed impedire che si ritrovasse a combattere da solo contro sé stesso. Se Sherlock si era ridotto in quel modo, in buona parte la colpa era sua. Preso da quell’improvvisa consapevolezza, sospirò pesantemente, passandosi le mani sul volto con disperazione.
 
Arrivato al 221B, John scese velocemente dal taxi e corse di sopra. Appena aprì la porta del soggiorno, però, rimase sorpreso nel trovare Mycroft seduto sulla poltrona di Sherlock.
“Lui dov’è?” chiese allarmato.
Il politico senza dire una parola, allungò la mano con il cellulare, per permettergli di leggere il messaggio che aveva ricevuto da suo fratello.
“Dobbiamo andare a cercarlo!” esclamò John, dopo averlo letto.
“No…” rispose Mycroft con un tono stanco “…è inutile, John…lo conosco, avrà fatto perdere le sue tracce…tornerà, ne sono sicuro…e mi troverà qui…” aggiunse, sospirando pesantemente.
Il medico non seppe cosa rispondere. Il tono di Mycroft era così sicuro e convincente, da scoraggiarlo completamente. Sospirò anche lui e si sedette rassegnato sulla sua poltrona, con la speranza che il suo migliore amico tornasse presto a casa, sano e salvo.  







Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il nono capitolo! Qui abbiamo una discussione tra Sherlock e John e l'ennesimo crollo del nostro detective che non riesce a sopportare il peso dell'astinenza da solo. 
Entriamo per la prima volta nel palazzo mentale di Mycroft e vediamo cosa si cela dentro la testa dell'uomo di ghiaccio e quanta sofferenza ci sia nel suo cuore. Scrivere di lui mi emoziona sempre tantissimo *.*
Qui abbiamo Mary che da una vera svolta e fa capire a John che ha sbagliato a lasciare andare Sherlock da solo. In fondo, riguardando la terza stagione, do realmente un pò di colpe anche a John. Io credo che quando Sherlock se n'è scappato dal matrimonio, lui avrebbe dovuto seguirlo...e quando per un mese non l'ha sentito, avrebbe dovuto cercarlo in modo più attivo e non trovarlo per caso in quel covo di drogati. Nella terza stagione John sembra leggermente più distante in alcuni momenti, anche un pò più freddo.. e sinceramente la cosa (per quanto lo adori come personaggio) non mi è piaciuta molto. Anche quando sono a Baker Street e Sherlock deve chiamarsi da solo un'ambulanza!... mi ha dato un pò fastidio che John, preso da tutta quella situazione di Mary, non si sia accorto delle condizioni di salute del suo amico. Quindi è pure giusto che si senta un pò in colpa...voi che ne pensate?
Nel prossimo capitolo assisteremo allo scontro Mycroft/John/Sherlock e chissà cosa succederà. 
Grazie a chi continua a seguire la storia e a chi vuole lasciare un commento. Spero che il capitolo vi sia piaciuto...Alla prossima ;)

 

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Capitolo 10
*** All the truth ***


                    Miss Me?







                                           All the truth







… “No…” rispose Mycroft con un tono stanco “…è inutile, John…lo conosco, avrà fatto perdere le sue tracce…tornerà, ne sono sicuro…e mi troverà qui…” aggiunse, sospirando pesantemente.
Il medico non seppe cosa rispondere. Il tono di Mycroft era così sicuro e convincente, da scoraggiarlo completamente. Sospirò anche lui e si sedette rassegnato sulla sua poltrona, con la speranza che il suo migliore amico tornasse presto a casa, sano e salvo.



 
 
 
Greg stava inseguendo uno spacciatore insieme a due agenti di Scotland Yard. Una telefonata anonima, poche ore prima, lo aveva avvisato che c’era stata una colluttazione tra due uomini e che, il più giovane dei due, aveva ricevuto una coltellata in pieno stomaco. Il ferito era stato portato in ospedale, mentre il colpevole era scappato appena aveva sentito le sirene delle volanti della polizia.
Dopo un folle inseguimento, durato circa mezz’ora, Lestrade riuscì a catturare lo spacciatore e, con il fiato ancora corto dalla corsa, lo bloccò sull’asfalto, ammanettandolo velocemente. Poi si alzò da terra e consegnò l’uomo ai due agenti che erano con lui. Mentre se ne stava andando da quel vicolo disgustoso, qualcosa attirò la sua attenzione, o meglio qualcuno. Vide un uomo seduto a terra poco distante da lui. Considerando il posto dove si trovava, doveva trattarsi di un drogato, sicuramente strafatto. La cosa strana, però, era che aveva qualcosa di familiare.
“Scott, Stevenson…portate quest’uomo in centrale! Io devo controllare una cosa…” disse all’improvviso Greg, rivolgendosi ai due agenti.
“Cosa succede, signore?” chiese Scott curioso.
L’ispettore non rispose. Voltò lo sguardo verso l’uomo a terra, mantenendo un’espressione tirata.
“Ah, capisco…uno dei soliti drogati che frequentano questi posti!” esclamò Stevenson “…È sicuro che non le serve il nostro aiuto?” aggiunse serio.
“No…andate pure…” rispose distrattamente Greg, mantenendo lo sguardo fisso su quell’uomo.
Appena i due agenti si allontanarono, Lestrade si avvicinò lentamente all’individuo che giaceva a terra. Quei ricci, quel cappotto e quella camicia bianca erano così familiari da provocargli un brivido lungo la schiena. “Ma non può essere lui!” si disse confuso tra sé e sé. Il dubbio, però, si tramutò in puro terrore, quando fu abbastanza vicino da riuscire a vedere il suo viso. “Sherlock!” urlò, inginocchiandosi al suo fianco.
Il detective aveva gli occhi chiusi, la testa poggiata al muro e le braccia abbandonate lungo i fianchi. Da una prima occhiata, sembrava svenuto.
“Sherlock…mi senti?” gridò l’ispettore, iniziando a scuoterlo con forza. Preso dal panico, afferrò il cellulare per chiamare un’ambulanza, ma una mano lo fermò all’improvviso. Alzò lo sguardo dal telefono e si accorse che Sherlock aveva aperto gli occhi e, con la mano, gli stringeva debolmente il braccio.
“Cristo Santo, Sherlock...mi hai fatto prendere un colpo!” esclamò Greg leggermente sollevato nel vederlo cosciente. Poi guardò il puntino rosso sulla sua pelle e tutto l’occorrente sparso a terra. “…Ma cosa diavolo hai combinato?” chiese disperato.
Il consulente investigativo non rispose. Sospirò pesantemente ed abbassò lo sguardo.
“Sherlock…per favore…vuoi dirmi che ti sta succedendo?” domandò Lestrade con voce tremante.
“Niente…non mi sta succedendo niente…” rispose Sherlock con un filo di voce. Poi piegò il busto di lato e poggiò una mano a terra ed una al muro, nel tentativo di mettersi in piedi.
Vedendo la sua difficoltà, Greg si alzò di scatto e lo afferrò dalla vita, aiutandolo a rimanere dritto. “Ce la fai a camminare?” chiese apprensivo.
Il detective, ignorando i forti capogiri, annuì cercando di essere convincente. Subito dopo, però, dovette poggiarsi con forza alle spalle dell’ispettore, che lo afferrò con maggior decisione e lo strascinò quasi di peso verso la sua macchina. Poi lo fece salire lentamente a bordo della volante ed andò a recuperare la giacca e il cappotto che erano rimasti a terra. Appena ritornò, salì nell’auto e si diresse di corsa verso Baker Street.
Durante il tragitto Sherlock restò con gli occhi chiusi e la testa poggiata al sedile. Greg, invece, inoltrò velocemente un messaggio per chiedere aiuto.
 

 
-John, torna subito a Baker Street. Si tratta di Sherlock. È urgente. GL
 


 
John e Mycroft erano ancora seduti sulle due poltrone nel soggiorno del 221B. Avevano entrambi lo sguardo perso nel vuoto e rimanevano in silenzio, persi nel loro pensieri. Dopo alcuni minuti, però, il medico si decise a parlare.
“Chi è Sherrinford?” chiese a bruciapelo.
Nel sentire quella domanda improvvisa, il cuore del politico perse un battito. Mantenne comunque la sua espressione, riuscendo come sempre a mascherare le proprie emozioni. “Dove hai sentito questo nome?” domandò a sua volta con freddezza.
“Sherlock ha avuto molti incubi ultimamente…ed ogni volta, mentre si lamentava nel sonno, non ha fatto altro che ripeterlo!” rispose John.
Mycroft sospirò pesantemente. Finalmente, l’improvvisata di suo fratello di quella mattina, aveva un senso.
“Ho provato a chiederlo a Sherlock, ma non ne vuole parlare…non posso aiutarlo se non capisco cosa lo sta tormentando…” aggiunse il medico.
Il politico pensò qualche istante sul da farsi. In fondo John aveva ragione. Non poteva aiutare Sherlock se non sapeva tutta la verità. Fece un profondo respiro e decise di raccontare tutto. “Sherrinford era il secondogenito della nostra famiglia…era nostro fratello…” disse serio.
“Era?” chiese subito il medico.
“Si...” rispose Mycroft, abbassando lo sguardo “…si è suicidato…aveva solo 16 anni…” aggiunse, pronunciando quelle parole con fatica.
John si portò una mano alla bocca dallo stupore. “Santo cielo!” esclamò sconvolto. “…Sherlock non mi ha mai parlato di lui…effettivamente non ha mai accennato a niente del suo passato…” aggiunse con tristezza. “…ma cos’è successo?” chiese poi curioso.  
“Per capire cos’è successo…devo partire dall’inizio…” disse Mycroft serio. “…Sherrinford è sempre stato un ragazzo particolare. Nonostante tra di noi ci fossero soltanto due anni di differenza, non siamo mai riusciti ad andare pienamente d’accordo. Lui era tipo sensibile, premuroso e sempre pronto ad aiutare gli altri. Io, invece, ero l’esatto opposto. Quando avevamo rispettivamente 7 e 5 anni, nacque Sherlock… Con il passare del tempo, mi resi conto che Sherlock iniziava ad assomigliare sempre di più a Sherrinford… Loro due, infatti, riuscirono ad instaurare un rapporto davvero speciale…un rapporto che quasi invidiavo…” aggiunse, sospirando pesantemente “…Comunque…ciò che li rendeva così simili era proprio il loro carattere: anche Sherlock, infatti, era un bambino sensibile e gentile, ma al contrario di Sherrinford aveva un problema…non riusciva a socializzare con i suoi coetanei. Il fatto che fosse dotato di un’intelligenza superiore alla media, lo faceva apparire strano agli occhi dei suoi compagni. Iniziarono, infatti, a prenderlo di mira…a schernirlo…e troppo spesso a picchiarlo. Per anni Sherlock non fece altro che andare avanti e indietro dall’ospedale a causa loro…. Provato da quella situazione, iniziò a chiudersi sempre di più in sé stesso, senza che noi riuscissimo ad impedirlo… Un giorno, però, Sherrinford ebbe un’idea: convinse i nostri genitori a regalargli un cane, convinto che avrebbe potuto aiutarlo ad aprirsi di più con gli altri. Il giorno del suo compleanno, quindi, ricevette un setter irlandese che, per la sua sfrenata passione per i pirati, decise di chiamare Barbarossa…” continuò, ma venne interrotto.
“Barbarossa…” ripeté John all’improvviso. “…ha nominato anche lui…” continuò pensieroso. “…scusami, continua pure…” aggiunse mortificato.
“L’idea di Sherrinford si rivelò essere risolutiva. Nonostante continuassero i problemi a scuola, infatti, Sherlock iniziò ad aprirsi sempre di più e a ritornare il solito e allegro bambino di una volta. Iniziò, inoltre, ad attaccarsi a Barbarossa in modo quasi morboso: insieme facevano qualsiasi cosa e passavano gran parte delle giornate a giocare alle loro avventure. I problemi, però, nella nostra famiglia arrivarono alcuni anni dopo….  Sherrinford, nel corso degli anni, soffrì spesso di lievi forme di depressione, accompagnate da repentini sbalzi d’umore, causati soprattutto, dai periodi di maggiore stress. Erano episodi facilmente gestibili, che di solito passavano da soli nell’arco di alcuni giorni. All’età di 15 anni, però, ebbe una crisi depressiva decisamente più accentuata….  Sherlock fu l’unico ad accorgersi della gravità della cosa e provò più volte a parlare con me di quella strana situazione…io, però, non gli diedi ascolto…” disse sospirando con tristezza “…i nostri genitori erano sempre fuori casa…nostro padre per lavoro e nostra madre per motivi di studio, per cui spesso dovevamo badare a noi stessi anche per tutta la giornata…è naturale il fatto che neanche loro se ne fossero accorti!... In quel periodo, Sherrinford tentò il suicidio, tagliandosi i polsi con un coltello da cucina, in camera sua…fu Sherlock a trovarlo…e fu uno shock enorme per lui…!” aggiunse, abbassando lo sguardo. “…Pensando ad un modo per aiutare Sherrinford, convinsi i nostri genitori a mandarlo in un centro psichiatrico, per seguire una terapia di sei mesi. Anche allora Sherlock provò ad opporsi, affermando che questa soluzione avrebbe peggiorato lo stato mentale di nostro fratello…ma, ancora una volta, decisi di non ascoltarlo…! ...Sherlock ebbe ragione…di nuovo…dopo sei mesi, infatti, Sherrinford non solo non era guarito, ma era addirittura peggiorato. La sua depressione, infatti, si era aggravata e si era trasformata in una psicosi manico-depressiva…e tutto questo anche a causa di ciò che subì lì dentro…” aggiunse con voce tremante.
“…Che subì lì dentro?... Cosa gli hanno fatto?” chiese prontamente il medico.
“Subì maltrattamenti fisici e psicologici…. e molto spesso anche…abusi di natura sessuale da parte degli infermieri della struttura…” rispose con un filo di voce.
“Santo cielo!” esclamò John sconvolto.
“In ogni caso, vedendo la reazione di Sherlock alla sua mancanza, convinsi i nostri genitori a farlo ritornare a casa, anche contro il parere dei medici. In quel momento pensavo di fare la scelta più giusta per Sherlock e invece…ho sbagliato per l’ennesima volta. Sherrinford, infatti, iniziò a manifestare comportamenti strani e spesso aggressivi a cui, però, non diedi molto peso. Sherlock, accorgendosi della pericolosità dei suoi atteggiamenti, provò nuovamente a parlare con me, cercando di convincermi a farlo ritornare nel centro…per la terza volta, però, non lo ascoltai…” disse stringendo un pugno con rabbia “…un giorno Sherrinford, preso da uno scatto d’ira improvvisa…uccise Barbarossa, sgozzandolo brutalmente con un coltello…poi, resosi conto di ciò che aveva fatto, scrisse un biglietto di addio indirizzato a Sherlock, in cui gli spiegava cos’era successo e gli chiedeva scusa…subito dopo, si tolse la vita, sparandosi un colpo di pistola alla tempia…. È inutile raccontarti la reazione di Sherlock, quando ritornò da scuola e vide ciò che era successo…” aggiunse, sospirando pesantemente.
John era senza parole. Aveva capito che c’era qualcosa di doloroso nel passato di Sherlock, ma non immaginava niente del genere. Mentre era immerso nei suoi pensieri, Mycroft riprese a parlare.
“Da quel giorno Sherlock cambiò radicalmente. Iniziò a chiudersi sempre di più in sé stesso e ad allontanare tutto e tutti dalla sua vita. Nostra madre, presa dal senso di colpa, decise di abbandonare gli studi e di dedicarsi soltanto alla famiglia…e a lui in modo particolare. Nonostante i suoi sforzi, però, Sherlock non migliorò, anzi peggiorò sempre di più: non parlava, spesso non mangiava, se ne stava sempre da solo e tutte le notti lo sentivo piangere e lamentarsi nel sonno, senza poter fare niente per aiutarlo…. Decisamente preoccupati, i nostri genitori lo portarono da numerosi psicologi e tutti si trovarono d’accordo nell’affermare una precisa diagnosi: Sherlock era affetto da una grave forma di sociopatia. Io, però, non ci ho mai creduto…lo conoscevo troppo bene e sapevo che, in realtà, quel comportamento non era altro che un modo per proteggersi da ciò che avrebbe potuto nuovamente ferirlo…!” disse con tristezza “…Dopo due anni dalla morte di Sherrinford e di Barbarossa, un giorno Sherlock scappò di casa. Dai documenti sparsi nella sua stanza, capii che per tutto quel tempo, aveva fatto delle ricerche sul centro psichiatrico dov’era stato ricoverato Sherrinford e, leggendo i suoi appunti, mi resi conto che aveva scoperto tutto…aveva scoperto ciò che subì nostro fratello lì dentro…!... Quel giorno lo cercammo ovunque…alla fine, dopo ore ed ore di ricerche, lo trovai in una piccola casetta abbandonata…. Era sdraiato a terra e si lamentava sommessamente…solo quando mi avvicinai, mi resi conto che aveva preso sicuramente qualcosa, ma il problema è che non sapevo cosa. Chiamai subito un’ambulanza e venne ricoverato d’urgenza in ospedale…. I medici ci informarono che era andato in overdose a causa di un cocktail di droghe e solo grazie all’immediato pronto intervento, erano riusciti ad identificare le sostanze in tempo per poterlo salvare…. Fu allora che gli feci promettere che, se mai gli fosse venuto in mente di rifare una cosa del genere, avrebbe dovuto fare una lista, indicando chiaramente cosa avesse preso…in cuor mio, però, speravo che quello fosse un caso isolato…non immaginavo che la sua potesse diventare realmente un’abitudine…!... Man mano iniziò ad aumentare sempre di più dosi e frequenza, fino a sviluppare una vera a propria dipendenza…non hai idea di quante volte l’ho ritrovato in vicoli o covi per drogati, completamente strafatto...!” aggiunse con rammarico “…Ciò che lo salvò da quella sua mania autodistruttiva, fu la passione che sviluppò per i crimini. Dapprima iniziò ad interessarsi ai casi di omicidio irrisolti, ricavando informazioni dai giornali e conducendo piccoli indagini per conto suo. Provò spesso a portare le sue teorie alla polizia, ma nessuno volle mai dargli ascolto. Anni dopo però, convinsi l’ispettore di Scotland Yard a dargli una possibilità. Quella, forse, fu l’unica cosa giusta che feci per mio fratello. Per Sherlock, infatti, conoscere l’ispettore Lestrade fu una vera e propria manna dal cielo e lentamente non solo si convinse a disintossicarsi, ma in breve tempo abbandonò quasi completamente quelle cattive abitudini…le scene del crimine e gli omicidi divennero la sua nuova droga e, per quanto trovassi sprecata la mente di mio fratello in quel campo, decisi di non oppormi…preferii vederlo sprecare la sua intelligenza nel fare il detective, pur di non dover assistere alla sua completa autodistruzione…” concluse, decisamente provato da tutto quel racconto.
John ci mise un po' a metabolizzare tutte quelle informazioni e, appena ci riuscì, sentì di nuovo il senso di colpa attanagliargli lo stomaco. Sherlock, dunque, sotto la sua corazza, aveva sempre avuto un animo fragile e sofferente e lui, non solo lo aveva nuovamente distrutto, ma lo aveva anche lasciato da solo ad affrontare i demoni spaventosi del suo passato. Stava per parlare, quando venne distratto dal suono del suo cellulare. Era un messaggio di Greg. Appena lo lesse il suo cuore perse un battito. Da quelle parole, infatti, capì che doveva essere successo qualcosa a Sherlock e, di qualsiasi cosa si trattasse, era di nuovo colpa sua.
“È successo qualcosa a Sherlock?” domandò Mycroft, decifrando la sua espressione.
Il medico non rispose. Si alzò nervosamente dalla poltrona e gli mostrò il messaggio dell’ispettore. Poi si mise a camminare freneticamente per la stanza, sperando con tutto il cuore che Sherlock stesse bene.

 
Dopo alcuni minuti di attesa, qualcuno bussò al 221B. Si sentì un’esclamazione preoccupata della signora Hudson, seguita da alcuni passi lungo le scale. Alcuni secondi dopo la porta si aprì ed entrò Greg, che con un po' di fatica, sosteneva Sherlock dalla vita.
“Santo cielo, Sherlock!” gridò il medico, avvicinandosi a lui per aiutarlo.
“Ce la faccio anche da solo!” esclamò il detective, liberandosi dalla presa dei due. Poi un po' barcollante, si andò a sedere stancamente sul divano.
Lestrade lo guardò e sospirò rassegnato. “Vado a prendere le tue cose in macchina…” disse, precipitandosi di sotto.
Dopo alcuni istanti tornò con la giacca e il cappotto del detective e li appese al gancio dietro la porta. “Io purtroppo devo andare in centrale…” disse titubante.
“Vai tranquillo, Greg…ci pensiamo noi a lui…” rispose John “…grazie di averlo riportato a casa…” aggiunse, mettendogli una mano sulla spalla.
Lestrade annuì, accennando un lieve sorriso. Poi, dopo aver dato un’ultima occhiata a Sherlock, uscì dall’appartamento.
“Pensavo di averti detto di andartene da casa mia...” sputò il detective con acidità, rivolgendosi a suo fratello.
“Ed io pensavo di averti informato che ti avrei aspettato qui…” rispose Mycroft a tono.
Il medico rimase in silenzio. Si avvicinò lentamente a Sherlock ed iniziò ad osservarlo con attenzione, focalizzando il suo sguardo sul braccio con la manica alzata e sul segno lasciato dall’ago. “So perché ti stai facendo questo…” disse all’improvviso “…Mycroft mi ha raccontato di Sherrinford e di Barbarossa…” aggiunse, sorprendendo il detective.
Il consulente investigativo provò a rispondere, ma le parole sembravano non voler uscire. Aprì la bocca più volte, senza però riuscire ad emettere alcun suono. Poi respirò profondamente e guardò suo fratello con disprezzo. “Ti diverti sempre a spiattellare informazioni sulla mia vita, vero?” chiese, alzando il tono di voce.
Mycroft non rispose. Continuò a sostenere lo sguardo di Sherlock, mostrando un’espressione glaciale.
“Sherlock…” lo chiamò John, attirando la sua attenzione “…voglio solo aiutarti…ma non posso farlo se non ammetti di avere un problema…” aggiunse dolcemente.
Il detective si alzò di scatto dal divano, decisamente ripreso e sbuffò spazientito. “Ma non avete di meglio da fare, invece di angosciare la mia esistenza?” urlò irritato.
“Al momento sei la nostra priorità…” rispose il politico a tono.
“Oh, sono onorato…!” esclamò Sherlock, fingendo un’espressione commossa.
“Sherlock, tuo fratello ha ragione…siamo qui per te…per aiutarti ad uscirne…” incalzò prontamente il medico.
“Non ho bisogno di nessun aiuto…quindi potete tranquillamente ritornare alle vostre solite priorità…” rispose il detective con arroganza, sottolineando le ultime due parole.
John sospirò pesantemente. Vedendo di nuovo quell’espressione strafottente sul suo viso, gli venne un’irrefrenabile voglia di prenderlo a pugni. Cercò di mantenere il suo autocontrollo, convincendosi che buona parte di quell’acidità era dovuta anche alla droga che aveva assunto. “Sherlock…per favore…lasciati aiutare…” lo pregò disperato.
Sherlock si avvicinò al suo migliore amico, scrutandolo con attenzione. “Ah, ho capito…cerchi di aiutarmi per lenire il tuo senso di colpa!” esclamò compiaciuto “…Ti do un consiglio…fai finta di niente e ritorna da tua moglie e da tua figlia!” aggiunse con disprezzo.
In quel momento il medico non riuscì più a controllarsi. Alzò velocemente il braccio e, con tutta la forza che aveva, gli sferrò un pungo in pieno viso. Nonostante la rabbia, comunque, questa volta fece molta attenzione ad evitare di colpire il naso. Il colpo, in ogni caso, fu così violento da mandare il detective al tappeto. “Mi dispiace, Sherlock…” disse subito dopo.
“Prima mi prendi a pugni e poi ti scusi…molto coerente da parte tua!” esclamò Sherlock con sarcasmo, alzandosi e massaggiandosi la guancia.
John lo guardò intensamente per qualche istante, poi con le lacrime agli occhi, si fiondò su di lui e lo abbracciò con forza.
Il consulente investigativo rimase sorpreso da quel gesto. “John…” riuscì a dire soltanto con un filo di voce.
“Mi dispiace, Sherlock...” ripeté il medico con voce tremante, continuando a stringere il suo migliore amico.
“Si…lo hai già detto…” rispose Sherlock confuso.
John si staccò da lui e lo guardò dritto negli occhi. “Mi dispiace…per tutto…mi dispiace di non averti capito…e, soprattutto, mi dispiace di non essere stato qui, tutte le volte che avevi bisogno di me…” disse serio “…ma ora sono qui…e non ho intenzione di andare da nessuna parte…” aggiunse con un mezzo sorriso.
Il detective stava per rispondere, ma venne bloccato da qualcosa. Iniziò a sentire di nuovo la voce di Jim rimbombare nella sua testa. “Ma che scena patetica…!... Credi davvero alle loro parole, Sherlock?... Rimarrai da solo…come sempre…”. Dopo quelle frasi, si mise le dita sulle tempie e chiuse gli occhi. Aveva di nuovo il battito accelerato e il respiro corto. “Stai zitto…” sibilò a denti stretti.
“Sherlock…che succede?” chiese prontamente John, notando il suo pallore improvviso. Poi lo afferrò dolcemente da un braccio per attirare la sua attenzione.
“Lasciami!” urlò all’improvviso Sherlock, liberandosi dalla presa.
Mycroft, che fino a quel momento era stato in silenzio, si alzò di scatto dalla poltrona e si avvicinò a lui. “Devi calmarti!” esclamò preoccupato.
“No…io devo pensare…devo riflettere…” rispose il detective, ansimando sempre più pesantemente.
“Sherlock, stai avendo un attacco di panico…devi fare respiri lenti e profondi…” disse John, con fare professionale.
“No…non riesco a toglierla dalla mia testa!” esclamò Sherlock, continuando a massaggiarsi le tempie ed iniziando a sudare freddo.
“Cosa?” chiese il politico confuso.
“La sua voce…” rispose il detective sofferente.
“Sherlock, non riusciamo a capirti…la voce di chi?” domandò John anche lui confuso.
“Di…Moriarty…” riuscì a dire soltanto Sherlock. Poi la vista gli si offuscò all’improvviso e crollò svenuto tra le loro braccia.







Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il decimo capitolo! Come dice anche il titolo, è il capitolo in cui si svela tutta la verità sul passato di Sherlock. Tutti i ricordi dei capitoli scorsi sono stati messi insieme e grazie a Mycroft sono diventati una vera e propria storia. So che parte del capitolo è prettamente discorsivo con questo racconto, ma John aveva bisogno di sapere e in più volevo fornire un racconto più preciso e logico, rispetto ai soli pezzetti di ricordi che vi avevo dato.
Alla fine del capitolo troviamo il confronto Sherlock/John/Mycroft... e vediamo come il nostro medico sia pentito di ciò che ha fatto a Sherlock, tanto da far rimanere anche lui sorpreso con il suo comportamento. 

Che dire di Greg? E' sempre presente al momento giusto e soprattutto è sempre disposto ad aiutare il nostro caro detective. 

Moran naturalmente non è sparito, ma sta architettando un bel piano..che vedrete già nel prossimo capitolo!

Spero che il capitolo vi sia piaciuto...Grazie a chi continua a seguire la storia e a chi vuole lasciare un commento. Alla prossima ;)

 

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Capitolo 11
*** My brother ***


                     Miss Me?







                                              My brother






… “No…non riesco a toglierla dalla mia testa!” esclamò Sherlock, continuando a massaggiarsi le tempie ed iniziando a sudare freddo.
“Cosa?” chiese il politico confuso.
“La sua voce…” rispose il detective sofferente.
“Sherlock, non riusciamo a capirti…la voce di chi?” domandò John anche lui confuso.
“Di…Moriarty…” riuscì a dire soltanto Sherlock. Poi la vista gli si offuscò all’improvviso e crollò svenuto tra le loro braccia.
 
 
 





Sherlock si risvegliò confuso e si ritrovò sdraiato sul pavimento. Aveva dei cuscini sotto i piedi, che gli mantenevano le gambe sollevate e sentiva qualcosa di fresco sul viso. Appena riuscì a mettere bene a fuoco, vide John inginocchiato al suo fianco, che gli passava con dolcezza un panno bagnato sulla fronte. “John…” disse con un filo di voce.
“Ehi…!” esclamò il medico con un mezzo sorriso. “…Come ti senti?” domandò serio.
Il detective sospirò pesantemente. “…Stanco…” rispose con sincerità.
“Stanco?” chiese John perplesso.
“Si, John…” disse Sherlock, mettendosi lentamente seduto e passandosi le mani sul viso. “…sono stanco di tutto questo…e sono stanco di essere così debole e vulnerabile…” aggiunse demoralizzato.
Il medico rimase sorpreso da quelle parole. Era la prima volta, dopo tanto tempo, che Sherlock riusciva ad aprirsi con lui. Lo guardò intensamente, accennando un lieve sorriso, contento di quel cambio di atteggiamento nei suoi confronti. “Non credo alle mie orecchie…Sherlock Holmes sta finalmente ammettendo di avere un problema!” esclamò con sarcasmo.
Il detective accennò un sorriso. “Non la smetti mai di precisare l’ovvio!” disse con aria divertita. In quel momento si sentì stranamente bene. Sentire John finalmente così vicino, gli mise addosso un’inconsueta calma. Per un attimo ebbe la sensazione che non fosse cambiato nulla, tra loro, che fossero nuovamente Sherlock e John, soli contro il resto del mondo.
“Ora mi spieghi cosa centra Moriarty?” chiese all’improvviso il medico, interrompendo i suoi pensieri. “Hai detto di sentire la sua voce nella tua testa…” aggiunse confuso.
“Si…mi capita spesso ultimamente…prima succedeva quando mi addormentavo…ora succede anche da sveglio…” rispose Sherlock, abbassando lo sguardo.
John sospirò con aria consapevole. “È un effetto collaterale dell’astinenza da cocaina…non capita spesso, ma a volte i soggetti possono avere allucinazioni sia visive che uditive…” disse con fare professionale.
Il detective annuì semplicemente, continuando a mantenere lo sguardo basso.
“Sherlock…so che non è facile…ma affronteremo questa cosa insieme, va bene?... Non sei solo...ci sono io qui con te!” continuò, poggiando con delicatezza la mano sulla sua.
Sherlock osservò per un attimo le loro mani vicine, poi alzò lo sguardo su di lui e fece un lieve sorriso. Dopo alcuni istanti, però, iniziò a guardarsi freneticamente intorno, come se stesse cercando qualcosa. “Dov’è mio fratello?” chiese confuso.
“È rimasto fino ad un attimo prima che riprendessi conoscenza…poi ha ricevuto una telefonata ed è dovuto andare di corsa in ufficio. Non so cosa sia successo, ma dalla sua espressione, sembrava qualcosa di importante…” rispose John.
“C’è qualcosa di strano…” esclamò all’improvviso il consulente investigativo, scattando in piedi.
“Che vuoi dire?” domandò il medico.
“Conosco mio fratello…non sarebbe andato via, privandosi del gusto di farmi l’ennesima predica!... No, non si sarebbe scomodato…avrebbe mandato qualcun altro…!” rispose Sherlock, camminando nervosamente per la stanza. Poi afferrò velocemente il suo cellulare ed inoltrò un messaggio.
 

 
-Mi sorprende che ti sia lasciato sfuggire l’occasione di farmi una delle tue noiose prediche…stai perdendo colpi. SH
 

 
Dopo alcuni minuti di fremente attesa, finalmente arrivò la risposta.

 
 
-Mi dispiace, Sherlock…ma tuo fratello al momento non può rispondere! Se vuoi…puoi comunque venire qui a parlargli di persona. SM



“Dannazione!” esclamò Sherlock, lanciando il telefono in malo modo sul divano.
“Che succede?” domandò John preoccupato.
“Moran…ha preso Mycroft…” rispose il detective nervoso. Poi si sistemò la camicia, indossò velocemente la giacca e il cappotto, riprese il cellulare e corse fuori dall’appartamento.
“Sherlock, aspetta! Dove stai andando?” chiese il medico, correndo dietro di lui.
“Al Diogenes Club, ovviamente!... Avvisa Lestrade e digli di raggiungerci lì, prima possibile!” esclamò Sherlock. Poi si mise in mezzo alla strada e fermò sgarbatamente un taxi, rischiando quasi di farsi investire.
John inoltrò subito il messaggio a Greg e salì con lui sulla vettura senza fare altre domande.

 
Arrivati al Diogenes Club, scesero velocemente dal taxi e si diressero verso l’ufficio di Mycroft. All’interno dell’edificio non sembravano esserci movimenti sospetti, perciò cercarono di non dare troppo nell’occhio, per evitare di creare il panico tra la gente.
Appena si trovò davanti alla porta dell’ufficio di suo fratello, Sherlock aprì la porta con cautela ed entrò lentamente, con John al seguito.
Nella stanza, apparentemente, non c’era nessuna traccia di Moran. C’era soltanto Mycroft seduto sulla sua poltrona.
Il detective si rese conto dall’espressione tirata di suo fratello, che doveva comunque trattarsi di una trappola. Non fece neanche in tempo a guardarsi intorno, che sentì John chiamarlo con voce tremante.
“Sherlock…” disse il medico spaventato.
Sherlock si voltò di scatto e vide Sebastian alle spalle del suo migliore amico, che gli puntava una pistola alla testa. Nel vedere quella scena si ricordò del sogno che aveva fatto giorni prima: poteva ancora sentire lo sparo e vedere il corpo senza vita di John, accasciarsi tra le sue braccia. Iniziò ad ansimare leggermente, cercando con tutte le sue forze di non perdere il controllo.
“Ci rivediamo, Sherlock…” disse Moran con un sadico sorriso.
“È una questione tra me e te…lascia andare John…” rispose il detective con il fiato corto.
Sebastian scoppiò a ridere. “Non posso, mi dispiace…lui fa parte del gioco…del nostro gioco!” esclamò compiaciuto. “Questa volta ho organizzato tutto con attenzione…e sono davvero curioso di sapere come ne uscirai…senza subire perdite importanti…” aggiunse, continuando a ridere.
“Cosa vuoi dire?” chiese Sherlock.
“Vedrai…il gioco è semplice…nel cassetto della libreria alla tua sinistra, c’è una pistola…voglio che tu la prenda…” disse Moran, caricando l’arma che teneva puntata sulla testa di John.
Il detective seguì le istruzioni alla lettera e, dopo aver preso la pistola, ritornò di nuovo al centro della stanza.
“Molto bene…ora tocca a lei, signor Holmes!” esclamò Sebastian, rivolgendosi a Mycroft.
Il politico si alzò dalla poltrona e si avvicinò a suo fratello, fermandosi poco distante da lui.
“Ed ora, Sherlock…il gioco può cominciare!... Voglio che tu faccia una scelta. Se decidi di uccidere tuo fratello, lascerò il dott. Watson libero…se invece ti rifiuti di sparare, salverai la vita di tuo fratello, ma il dott. Watson morirà…!... Hai dieci minuti di tempo per decidere…” spiegò Moran con aria soddisfatta.
“Aspetta!” esclamò Sherlock all’improvviso “Se decidessi di fare il tuo gioco e di sparare a mio fratello…come faccio ad avere la certezza che tu non uccida comunque John?” chiese, cercando di guadagnare tempo.
“Devi fidarti della mia parola…non hai alternative…” rispose Sebastian.
“Perché stai facendo tutto questo?” domandò il detective, incrociando per un attimo lo sguardo del medico.
“Per la stessa ragione di Jim…perché mi annoio!” esclamò Moran. “Ma ora basta perdere tempo…i dieci minuti partono da adesso…” aggiunse con un sadico sorriso.
Sherlock guardò John con aria preoccupata. Poi fece un profondo respiro e si voltò verso Mycroft. Dopo averlo fissato negli occhi per qualche istante, alzò il braccio e, con la mano tremante, puntò la pistola contro suo fratello.
“Sherlock…no, non farlo!” urlò il medico. “Non puoi ucciderlo…è tuo fratello!” aggiunse con voce tremante.
Il detective prese ad ansimare leggermente e chiuse gli occhi, mantenendo comunque l’arma sul bersaglio.
“Avanti, Sherlock…fallo!” esclamò all’improvviso Mycroft, attirando la sua attenzione “Devi fare una scelta…e devi salvare la persona che per te è più importante…e di certo non sono io…” aggiunse sicuro.
Sherlock alzò di nuovo lo sguardo su di lui, sorpreso da quelle parole.
“Oh, ma che bel quadretto!” disse Moran divertito. “…Ti avviso, Sherlock…il tempo scorre…hai solo 5 minuti…”.
Il consulente investigativo non riusciva a togliere gli occhi di dosso da suo fratello. Quelle parole, così cariche di tristezza, lo avevano colpito profondamente. Non poteva uccidere suo fratello, ma non poteva neanche lasciare che John morisse. Perché Lestrade ci metteva così tanto ad arrivare? Si chiese tra sé e sé con disperazione. Doveva prendere una decisione e doveva farlo velocemente, ma per la prima volta in vita sua, non sapeva cosa fare. Il gioco di Moran era ben architettato, doveva dargliene atto: qualsiasi scelta avesse preso, ne sarebbe uscito comunque distrutto e ne avrebbe portato il rimorso per tutta la sua vita. 
“Restano soltanto due minuti…” canzonò Sebastian divertito, interrompendo i suoi pensieri.
In quel momento, Sherlock si sentì impazzire. Stava cercando di controllare i propri respiri, ma non riusciva più a ragionare con lucidità. Era di nuovo sull’orlo di un attacco di panico, lo sentiva in ogni fibra del suo corpo tremante.
“Sherlock…” lo chiamò Mycroft con un’inconsueta dolcezza.
Il detective alzò gli occhi e parve calmarsi leggermente nel sentire la voce di suo fratello.
“Avanti…fallo…è la scelta giusta e lo sai anche tu…” disse il politico, parlando lentamente.
“Non posso…non posso farlo!” esclamò Sherlock con le lacrime agli occhi.
“Per favore, Sherlock…ti sto chiedendo io di farlo!” disse Mycroft abbassando lo sguardo “…Per colpa mia hai perso Sherrinford e Barbarossa…non voglio che tu perda anche John…non di nuovo per colpa mia…non potrei sopportarlo…” aggiunse con la voce leggermente tremante. Poi alzò di nuovo lo sguardo su di lui e fece qualcosa che lasciò Sherlock ancora più sorpreso: sorrise con dolcezza, come mai gli aveva visto fare. “…Avanti…colpisci qui…” continuò, indicandosi il petto con una mano.
Il detective parve riflettere su quelle parole. Poi fece un profondo respiro e caricò la pistola. “Mi dispiace, Mycroft…davvero…” disse, mentre una lacrima gli rigava il viso. Dopo qualche istante sparò tre colpi verso suo fratello, colpendolo ripetutamente al petto.
Il corpo di Mycroft si accasciò a terra e rimase immobile sul pavimento.   
“No!” urlò John sconvolto. “Cristo santo Sherlock…cos’hai fatto!” aggiunse disperato.
Sherlock, però non rispose. Era rimasto pietrificato in quella posizione e continuava a guardare il corpo di Mycroft con uno sguardo vuoto.
“Sono davvero colpito, Sherlock…allora Jim aveva ragione!... Tieni così tanto al dott. Watson, da scegliere di vivere una vita con il terribile rimorso di aver ucciso tuo fratello, pur di non vederlo morire!” esclamò Sebastian con aria sorpresa.
John, nonostante fosse ancora sconvolto per ciò che era appena successo, rimase colpito da quelle parole. Moran aveva ragione. Sherlock aveva sempre fatto così tanto per lui, senza pensaci due volte: aveva sacrificato la sua vita, il suo lavoro, la sua libertà, la sua felicità e adesso anche la sua stessa famiglia, pur di salvargli la vita per l’ennesima volta. E lui invece cosa aveva fatto in cambio? Alla prima occasione, gli aveva voltato le spalle. Iniziò a sentirsi nuovamente un idiota: lui non meritava tutto questo, non meritava di essere il migliore amico di un uomo tanto straordinario.
In quel momento la porta si aprì all’improvviso, interrompendo i pensieri del medico.
“Fermo, polizia!... Butta subito la pistola e metti le mani dietro la testa!” urlò Greg, entrando con alcuni agenti al seguito.
Moran stranamente non si oppose. Gettò a terra l’arma e si lasciò ammanettare, mantenendo un inquietante sorriso sul volto. “Mi arresti pure, ispettore!... Il mio intento era quello di distruggere Sherlock Holmes…e come vede ci sono riuscito!... Ho vinto io…!” esclamò, scoppiando a ridere.
Dopo le parole del cecchino, Lestrade guardò nella direzione di Sherlock e solo allora si accorse del corpo di Mycroft a terra. Poi alzò gli occhi sulla mano del detective e vide la pistola che teneva ancora ben salda nella mano. “Cristo Santo...” disse sconvolto. “Portatelo via e sbattetelo in cella!” aggiunse, consegnando il criminale ai suoi agenti.
John, intanto, si era avvicinato a Sherlock, che in tutto questo frattempo non si era mosso di un millimetro. “Ehi…” disse con voce tremante e con le lacrime agli occhi, mettendo delicatamente la mano sulla sua spalla.
“Cosa diavolo è successo?” chiese Greg sconvolto, avvicinandosi a loro. “Sherlock…” provò a chiamarlo titubante.
Il detective non rispose. Continuò a mantenere quella posizione e a guardare suo fratello. Appena si accorse che Moran era stato portato via, si voltò di scatto verso la porta e corse velocemente a chiuderla, lasciando insieme a lui, nella stanza, solo John, Greg e il corpo di Mycroft.
“Che stai facendo?” chiese il medico confuso e preoccupato al tempo stesso.
Sherlock lo zittì con un gesto della mano. “Shhh…” disse con uno strano sguardo. Poi corse verso la finestra e rimase lì, fino a quando non vide le volanti della polizia, sfrecciare via con Moran a bordo. Appena le auto sparirono dalla sua vista, si voltò con un’espressione compiaciuta sul volto e si avvicinò al corpo di suo fratello. “Davvero un’interpretazione da Oscar…sono colpito!” esclamò, porgendo la mano verso Mycroft.
Il politico aprì di scatto gli occhi e afferrò la mano del detective, mettendosi lentamente in piedi. Poi si sistemò per bene la giacca e lo guardò intensamente. “Anche la tua non era male…!” rispose con tono divertito.
“Ma cosa diavolo…?” provò a chiedere Greg confuso, senza riuscire a finire la frase.
“Era tutta una finta?” urlò John sconvolto. “Io credevo che…voi due siete…” provò a continuare, ma era troppo arrabbiato per mettere insieme parole sensate.
“Calmati, John!... Non è come stai pensando…non era un piano programmato…! Io non sapevo niente fino a quando Mycroft, poco prima che gli sparassi, non mi chiedesse di colpirlo al petto. Con quel gesto mi ha fatto capire che, com’è sua abitudine quando teme per la sua vita, indossava un giubbotto antiproiettile…un tipo speciale che danno in dotazione all’MI6, che è impossibile da intravedere da sotto i vestiti!... Ovviamente, dovevo continuare a fingere o Moran se ne sarebbe accorto!” spiegò Sherlock con il suo solito tono di superiorità.
Lestrade osservava la scena ancora più confuso e completamente senza parole.
John, invece, si calmò nel sentire la spiegazione del detective e si mise a guardare i due fratelli, colpito da quella complicità. Si ritrovò a pensare che, in fondo, il loro rapporto era davvero strano. A dividerli c’erano anni di rimpianti e di risentimenti, ma nonostante tutto, quando si trovavano costretti a collaborare, riuscivano a capirsi con un semplice sguardo, riuscivano ad avere un’intesa sorprendentemente perfetta.
“Possiamo andare, John…” disse all’improvviso Sherlock, avviandosi verso la porta.
“Sherlock…” lo chiamò Mycroft, facendolo fermare con la maniglia in mano. “…Grazie…” disse semplicemente. In quel momento, avrebbe voluto dirgli che, per un attimo, aveva dubitato del fatto che corresse a salvarlo e che era stato contento, nel vederlo arrivare nel suo ufficio con quell’espressione spaventata; avrebbe voluto dirgli che era commosso dalle lacrime che aveva visto nei suoi occhi, quando non sapeva cosa fare e, soprattutto, avrebbe voluto dirgli che quelle parole non erano finte e che era davvero dispiaciuto per tutto il male che aveva subìto a causa sua. Avrebbe voluto dirgli tante cose, ma decise di non aggiungere altro. In fondo, considerando il suo carattere, quella semplice parola di sei lettere, gli era già costata un’enorme fatica.
Il detective, comunque, parve afferrare tutto ciò che si nascondeva dietro quel banale ‘Grazie’. Conosceva bene suo fratello e sapeva quanto gli fosse costato dirlo. Rimase fermo per alcuni istanti senza voltarsi, poi fece un mezzo sorriso, uscendo dalla stanza con un’inconsueta espressione contenta sul volto. 






Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi l'undicesimo capitolo! Il piano di Moran era davvero sadico, ma non aveva considerato quanto potessero essere geniali i due fratelli Holmes insieme. Chissà come reagirà quando verrà a sapere di aver perso clamorosamente! Per fortuna Mycroft aveva preso precauzioni e per fortuna Sherlock è riuscito a capire suo fratello semplicemente con uno sguardo. 
Se vi è preso un colpo pensando che Sherlock avesse davvero ucciso Mycroft...beh, l'intenzione era proprio quella! ;)

Tutta questa situazione ha comunque fatto riflettere John, ancora una volta, ricordandogli quanto effettivamente Sherlock abbia fatto per lui nel corso degli anni, senza pensarci due volte e senza pretendere niente in cambio.

Sherlock comunque è riuscito ad aprirsi finalmente con John e il dottore a sua volta si è avvicinato di nuovo a lui...!
La parte finale è piena di parole non dette, ma che in fondo sono chiare a Sherlock, che se ne torna a casa con una strana felicità nel cuore. 

Spero che il capitolo vi sia piaciuto...Grazie come sempre a chi segue la storia e a chi vuole lasciare un commento. 
Alla prossima ;)

 

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Capitolo 12
*** Your failings ***


                     Miss Me?






                                           Your failings






… Il detective, comunque, parve afferrare tutto ciò che si nascondeva dietro quel banale ‘Grazie’. Conosceva bene suo fratello e sapeva quanto gli fosse costato dirlo. Rimase fermo per alcuni istanti senza voltarsi, poi fece un mezzo sorriso, uscendo dalla stanza con un’inconsueta espressione contenta sul volto.
 




 
 
Usciti dal Diogenes Club, Sherlock e John ritornarono a Baker Street. Appena varcarono la soglia di casa, si tolsero i cappotti e si sedettero esausti sulle rispettive poltrone. La tensione e l’adrenalina stavano abbandonando i loro corpi, lasciando il posto solo a tanta stanchezza.
“Quindi è finita?” chiese John all’improvviso.
“Non ne sarei così sicuro, John…non appena Moran scoprirà che lo abbiamo preso in giro, cercherà di scappare...è ovvio!” rispose Sherlock serio. Poi sospirò e si passò stancamente le mani sul viso.
“Lo avresti fatto davvero?... Se Mycroft non ti avesse fatto capire del giubbotto, lo avresti sparato comunque…per…salvare me?” chiese il medico titubante.
Il detective rimase sorpreso da quella domanda. “Ho bisogno di rilassarmi…ti va un po' di tè?” domandò, alzandosi di scatto dalla poltrona e sparendo in cucina.
“Sherlock…non hai risposto alla mia domanda…” disse John, scoraggiato da quel comportamento. Poi, vedendo che il suo amico non si degnava di rispondere, si alzò e lo seguì in cucina. Lo trovò che si sosteneva a fatica con le mani sul tavolo, mentre ansimava leggermente. “Sherlock!” esclamò allarmato.
“Sto bene…sto bene…” rispose prontamente Sherlock.
“Ma non prendermi in giro!... Sono giorni che non mangi e non dormi come si deve…poi considerando ciò che hai preso solo poche ore fa, è normale che il corpo ceda!” disse il medico con fare professionale “…Vieni, siediti qui…” aggiunse, afferrandolo dalla vita ed aiutandolo a sedersi su una sedia “…resta seduto, io ti preparo un po' di tè e mangerai almeno dei biscotti…” continuò con tono categorico.
Rimasero in silenzio per qualche istante, poi il detective parlò all’improvviso. “Cosa ci fai tu qui?” chiese confuso.
“Che vuoi dire?” domandò a sua volta John.
“Ti ricordo che oggi è nata tua figlia…dovresti essere in ospedale!” disse Sherlock con ovvietà.
“Come ha detto tuo fratello…è una questione di priorità…e la tua salute adesso è più importante…” rispose il medico.
Il consulente investigativo sospirò e negò con il capo. Poi si alzò lentamente dalla sedia, sostenendosi con una mano al tavolo “John, non devi sentirti obbligato a restare…sto bene…non ho bisogno di una balia, posso cavarmela anche da solo!” esclamò leggermente irritato, mentre usciva dalla cucina e si dirigeva in soggiorno.
John si voltò di scatto e lo seguì nell’altra stanza “Si può sapere cosa ti prende, adesso?” chiese incredulo.
“Niente…è solo che dovresti rivedere le tue priorità!” rispose il detective, fermandosi a guardare fuori dalla finestra.
“È il tuo modo di dirmi che non mi vuoi tra i piedi, per caso?” domandò il medico.
Sherlock si passò una mano sugli occhi e sospirò di nuovo. “Si…hai afferrato il concetto!” esclamò con un velo di acidità.
John si mise a ridere nervosamente, attirando l’attenzione del detective.
“Che hai da ridere?” chiese il consulente investigativo, voltandosi ancora più irritato.
“Credi che non ti conosca, Sherlock?... So cosa stai cercando di fare…” rispose il medico con uno sguardo convinto “…cerchi di allontanarmi da te per proteggermi…ma anche per proteggere te stesso…” aggiunse, guardandolo dritto negli occhi.
“Me stesso?... Di che stai parlando?” domandò Sherlock.
“So che non ti fidi più completamente di me e delle mie parole…ed hai tutte le ragioni per farlo!... Prima di sposarmi ti avevo promesso che non sarebbe cambiato niente tra di noi…e invece ho permesso che cambiasse tutto!... Ti ho fatto soffrire e ti ho lasciato da solo, quando avevi bisogno di me…e ti ripeto che mi dispiace…devi credermi!... Ma non farò di nuovo lo stesso errore, te lo prometto…!” disse John con le lacrime agli occhi.
Il detective rimase sorpreso da quelle parole, ma come aveva detto anche John, non riusciva a crederci pienamente. Per quanto il suo migliore amico si fosse impegnato a mantenere quella promessa, alla fine non ci sarebbe riuscito. Adesso non aveva solo una moglie a cui pensare, ma anche una figlia e non avrebbe potuto metterla sempre in secondo piano per lui. Sarebbe rimasto di nuovo da solo, lo sapeva bene e ne avrebbe sofferto per l’ennesima volta. Avrebbe dovuto mandare via John e farlo uscire completamente dalla sua vita per risparmiarsi di nuovo quel dolore, ma non ebbe il coraggio di farlo. “Hai sempre avuto ragione, Mycroft…non avrei dovuto farmi coinvolgere…” pensò tra sé e sé. Poi, come se niente fosse, fece un falso sorriso ed annuì, dando al suo migliore amico, l’arma per poterlo distruggere ancora una volta.
 
 
Mary e Victoria vennero dimesse dall’ospedale alcuni giorni dopo. Sherlock provò a convincere John a ritornare a casa, ma il medico non volle sentire ragioni e, dopo aver preso tutto ciò che gli serviva, portò sua moglie e sua figlia a Baker Street.   
Moran, intanto, era venuto a sapere della messa in scena dei fratelli Holmes e, da dietro le sbarre, iniziò a progettare la sua vendetta. Per precauzione, comunque, venne rinchiuso in un carcere di massima sicurezza. Il detective, però, aveva imparato a conoscerlo ed era convinto che, appena ne avesse avuto l’occasione, non avrebbe esitato a scappare e ad andare a cercarlo. Per questo non voleva che Mary e Victoria vivessero al 221B, perché sarebbero potute essere i prossimi bersagli di quel criminale.

 
Con Moran dietro le sbarre, Sherlock riprese il suo lavoro. Seguiva, non solo i casi proposti da alcuni clienti, ma spesso veniva anche convocato da Lestrade, che, come sempre, richiedeva il suo aiuto.
Le crisi di astinenza, comunque, iniziarono a farsi sentire ogni giorno di più, creandogli non pochi problemi, sia fisici che psicologici, che cercò di placare, in qualche modo, immergendosi a capofitto nei casi.

 
Prima delle dimissioni di Mary e Victoria, le cose tra Sherlock e John andarono magnificamente. Non solo seguivano tutti i casi insieme, ma sembravano aver ritrovato quell’intesa perfetta, che avevano una volta. Come aveva previsto il detective, però, l’arrivo di Mary e della bambina a Baker Street, iniziò a stravolgere nuovamente quel rilassante equilibrio che si era ricreato tra loro.
John provò in tutti i modi a conciliare i suoi doveri di padre e marito e la routine con Sherlock, ma senza riuscirci. Victoria, come ogni bimba di quell’età, aveva bisogno di molte attenzioni e spesso il medico si ritrovò a dover abbandonare il detective sulla scena di un crimine o a lasciare che seguisse la maggior parte dei casi da solo. 
 


Una mattina come tante, Sherlock ricevette una telefonata da Lestrade, che lo mise davvero di buon umore. C’era stato un secondo omicidio, identico ad un altro avvenuto qualche giorno prima, il che confermava l’ipotesi che un serial-killer si aggirasse per la città.
Il detective si preparò velocemente e andò, tutto contento, in soggiorno ad avvisare John. “John, preparati…c’è stato un secondo omicidio uguale a quello della scorsa settimana…finalmente un serial-killer!” esclamò eccitato.
Il medico era già pronto per uscire e, appena sentì la voce di Sherlock, si fermò con la maniglia della porta in mano.
“Sei già pronto?” chiese il consulente investigativo incredulo. “Sorprendente!”
“Si, sto uscendo…dobbiamo portare Victoria dal pediatra per le vaccinazioni…pensavo di avertelo detto” rispose John titubante.
Sherlock non riuscì a nascondere la sua espressione delusa. “Oh…sì, certo…era oggi!”
“Ma stavi parlando di un serial-killer, o sbaglio?” chiese il medico curioso.
“Si, c’è stato un altro omicidio…uguale a quello della scorsa settimana…” rispose il detective con lo sguardo leggermente basso. Poi si voltò di scatto ed afferrò il cappotto, iniziando ad indossarlo con una certa lentezza. Non voleva che John leggesse la delusione nei suoi occhi, non voleva mostrarsi debole. “…Non voglio rubarti altro tempo…Mary e Victoria ti stanno aspettando sicuramente in macchina…” aggiunse, continuando a dare le spalle all’amico.
Nonostante Sherlock avesse provato a nasconderlo, John aveva notato il velo di tristezza che, per un attimo, aveva attraversato i suoi occhi. “Sherlock…mi dispiace, davvero…” disse mortificato.
Il detective si voltò, sfoggiando uno dei suoi più falsi sorrisi. “Non preoccuparti!... Ora vai o farai tardi!” rispose, mentre finiva di aggiustarsi la sciarpa e il bavero del cappotto.
Prima di avviarsi fuori, John gli lanciò uno sguardo dispiaciuto. “Magari ti avviso quando ho finito…così se sei ancora lì, ti raggiungo…”
Sherlock annuì soltanto e mantenne la sua finta espressione contenta fino a quando il suo migliore amico non si avviò fuori dall’appartamento. Appena vide la porta chiudersi, sospirò pesantemente e si passò le mani sul viso. Da quando era diventato così difficile fingere? Una volta riusciva a mascherare i suoi sentimenti con un’incredibile facilità, ma perché adesso gli costava così tanta fatica? Era cambiato e non poteva negarlo. Odiava provare sentimenti, odiava soffrire, odiava sentirsi vulnerabile, odiava tutto ciò che era diventato. Un’improvvisa rabbia iniziò ad impadronirsi di lui, provocandogli un’irrefrenabile voglia di distruggere ogni oggetto presente nell’appartamento. Non poteva uscire in quelle condizioni, non poteva mostrarsi così sconvolto. Corse velocemente nella sua stanza e frugò freneticamente nel cassetto del comodino. Dopo alcuni istanti di ricerca, tirò fuori un piccolo sacchettino con delle pillole. Non poteva iniettarsi la sua solita soluzione al 7% o John se ne sarebbe accorto: era diventato scrupoloso nell’ultimo periodo e non perdeva occasione per controllargli le braccia alla ricerca di segni sospetti. Per questo motivo si era procurato le compresse. Contenevano una dose di cocaina decisamente più leggera delle fiale, ma erano comunque utili a risollevargli il morale per qualche ora. Prese due pillole in mano e le ingoiò, poi senza neanche rendersene conto, mise il sacchettino nella tasca del cappotto ed uscì velocemente dall’appartamento.
 
 
Sherlock arrivò sulla scena del crimine con il morale alle stelle. Le pillole avevano fatto effetto e si sentiva davvero carico e pieno di energia.
“Allora, Gavin…dimmi tutto!” esclamò, entrando euforico nella stanza dove c’era il cadavere.
“Ehi…” esclamò Lestrade “…sei solo?... John non c’è?” chiese guardandosi intorno.
“Mi sembra ovvio!” rispose Sherlock con acidità.
“Come mai?” insistette Greg curioso.
Il detective sbuffò, infastidito da quell’insistenza. “Credevo di essere venuto qui per aiutarti con un omicidio e non per parlare degli insulsi impegni di John!” esclamò irritato.
L’ispettore rimase sorpreso da quel tono. Lo guardò con attenzione e si accorse che si comportava in modo strano: aveva il respiro leggermente accelerato, sembrava nervoso e più agitato del solito. “Stai bene?” chiese, continuando a scrutarlo con fare sospettoso.
“Che domanda idiota! …Certo che sto bene!” rispose Sherlock con il suo tono di superiorità. “Ora vogliamo concentrarci sul cadavere o preferisci parlare del tempo?” aggiunse con arroganza.
Greg, ancora confuso da quell’atteggiamento, iniziò a dare al detective tutte le informazioni sul caso.
Sherlock, intanto, si era inginocchiato a terra e stava ispezionando il cadavere con la sua solita minuziosità. Attratto da alcuni segni sulla mano della vittima, infilò la mano in tasca ed estrasse la sua piccola e inseparabile lente d’ingrandimento. Nel tirarla fuori, però, non si accorse del sacchetto di pillole che gli cadde a terra.
Quel movimento non sfuggì all’ispettore, che si avvicinò al consulente investigativo e prese tra le mani la bustina, cominciando ad osservarla attentamente. Non ci mise molto a riconoscerne il contenuto. “E queste cosa sono?” urlò furioso.
Il detective si voltò di scatto nel sentire quel tono. “Di che stai parlando?” chiese confuso. Appena vide la bustina nelle mani dell’amico, però, il suo cuore perse un battito. Perché diamine le aveva portate con sé, invece di lasciarle a casa? Provò più volte a parlare, ma non aveva idea di cosa dire per discolparsi. “Sono antidolorifici…per il mal di testa…” rispose all’improvviso. Aveva detto la prima cosa che gli era passata per la mente e, dopo aver pronunciato quelle parole, si rese conto che quella era una delle scuse più idiote e patetiche che avesse mai pensato.
“Davvero mi credi così stupido?” gridò Lestrade “Sei un fottuto genio, Sherlock…se vuoi posso darti qualche altro minuto di tempo, per inventarti una scusa migliore di questa!... Che ne pensi?” aggiunse continuando ad urlare. 
“Non capisco perché te la stai prendendo tanto, Lestrade!” rispose Sherlock, mettendosi in piedi ed alzando anche lui il tono di voce.
Greg si avvicinò al detective, fronteggiandolo con aria di sfida “Perché sono tuo amico, razza di idiota…e non posso restare a guardare mentre ti fai del male in questo modo!”
“Quello che decido di fare con la mia vita, sono affari miei!” ribatté il detective a tono.
“Ma ti senti quando parli? …Senti le cazzate che stai dicendo?” gridò l’ispettore disperato.
“Dammi quelle pillole, Lestrade!” ordinò Sherlock, porgendogli la mano con un’espressione spazientita.
Greg fece una risata nervosa e scosse la testa incredulo. “Non ci penso neanche!”
“Ti ho detto, dammi quelle dannate pillole!” ripeté il detective “…Non costringermi a prenderle con la forza…” aggiunse con tono minaccioso.
“Non arriveresti a tanto…” rispose Lestrade convinto.
Sherlock sospirò pesantemente e si passò una mano sugli occhi con sconforto. “Lestrade, ti prego…”
“Sherlock…” disse dolcemente l’ispettore, mettendogli una mano sulla spalla “…mi dici qual è il problema?... Stavi cercando di smettere e ci stavi riuscendo…perché ora stai mandando tutto a puttane?” aggiunse con le lacrime agli occhi.
Il detective abbassò lo sguardo e nego con il capo. L’effetto delle pillole stava lentamente scemando, lasciandolo di nuovo con quella sensazione di disagio e con un gran mal di testa. “Devo andare!” esclamò all’improvviso, scostandosi dall’amico e avviandosi verso l’uscita.
“Sherlock, aspetta…” disse Greg, afferrandolo da un braccio e bloccandolo sul posto. “…Voglio solo aiutarti…”
“Non ho bisogno di aiuto…ho bisogno solo di tornare a casa…” rispose Sherlock con voce tremante. Poi si liberò dalla presa dell’ispettore ed uscì velocemente dall’edificio, diretto verso Baker Street.

 
Non appena il detective uscì dalla stanza, Greg prese il cellulare ed avviò una telefonata.
“Greg…dimmi tutto” rispose John dall’altro lato.
“Dove sei?... Devo parlarti di Sherlock…” disse Lestrade
“Sto uscendo adesso dallo studio del pediatra…abbiamo portato Victoria a fare le vaccinazioni…” rispose il medico “…ma cos’è successo? Sherlock non è lì con te?” chiese allarmato.
“È appena andato via…sembrava sconvolto” disse l’ispettore preoccupato “…gli ho trovato addosso una bustina piena di compresse di cocaina…da come si comportava, ne aveva sicuramente presa qualcuna prima di venire…”
John sospirò con sconforto. “Santo cielo!... Ma adesso dov’è andato?” chiese preoccupato.
“Ha detto che sarebbe tornato a casa…non sono riuscito a fermarlo…” rispose Greg.
“Va bene…sto tornando subito a Baker Street…ci penso io…” disse il medico.
“John…” lo chiamò Lestrade prima che riagganciasse “…so che sei impegnato con tua figlia e con tutti gli impegni che comporta…ma cerca di stargli più vicino possibile!... Sei l’unico a cui dà ascolto…” aggiunse disperato.
“Ci sto provando, Greg…credimi, ci sto provando…” rispose John. Poi sospirò di nuovo e chiuse la telefonata. 







Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il dodicesimo capitolo! Beh, per ora Moran è dietro le sbarre, ma fino a quando ci rimarrà?

John, come sempre ultimamente, non ha realmente capito cosa prova Sherlock e soprattutto non capisce il fatto che spesso è proprio lui la causa di tutta la sua sofferenza. 

Sherlock sapeva che John non avrebbe potuto mantenere nuovamente la promessa che gli aveva fatto...non con l'impegno di una moglie e di una figlia appena nata! Nonostante tutto, però, non riesce ad allontanarlo dalla sua vita e preferisce soffrire nel vederlo spesso distante, pur di non rinunciare completamente a lui...!

Di Greg, che dire? E' un amico d'oro...vuole davvero bene a Sherlock e farebbe di tutto per lui! ...Peccato che il nostro detective non riesca a confidarsi con il caro ispettore...

Spero che il capitolo vi sia piaciuto...grazie a chi continua a seguire la storia e a chi vuole lasciare un commento. Alla prossima ;)



 

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Capitolo 13
*** Waterloo Gardens ***


                    Miss me?








                                       Waterloo Gardens







… “John…” lo chiamò Lestrade prima che riagganciasse “…so che sei impegnato con tua figlia e con tutti gli impegni che comporta…ma cerca di stargli più vicino possibile!... Sei l’unico a cui dà ascolto…” aggiunse con sconforto.
“Ci sto provando, Greg…credimi, ci sto provando…” rispose John. Poi sospirò di nuovo e chiuse la telefonata.
 
 






 
Sherlock rientrò a Baker Street con il morale completamente a terra. L’effetto delle pillole era ormai scomparso del tutto e si sentiva ancora peggio di quando, poco prima, era stato costretto a prenderle. Se solo Greg si fosse fatto gli affari suoi. Preso dallo sconforto, si tolse il cappotto e la sciarpa e li lanciò in malo modo sul pavimento. Aveva bisogno di calmarsi, ma non aveva niente in casa che potesse aiutarlo. Per un attimo pensò di uscire per procurarsi delle altre compresse, ma si sentiva così esausto da non averne nemmeno la forza. “Dannazione!” urlò, all’improvviso, prendendo a calci il tavolino con rabbia. Poi si voltò verso il camino e poggiò le mani sulla mensola, abbassando leggermente il capo con sconforto. Stava ansimando pesantemente e sentiva la testa pulsare in modo ingestibile.
Dopo alcuni istanti la porta dell’appartamento si aprì e qualcuno entrò nel soggiorno. Il detective si voltò di scatto, pronto ad aggredire chiunque provasse a parlargli. Appena si rese conto di chi aveva di fronte, però, sbiancò all’improvviso. “No…non di nuovo…” disse in preda alla disperazione.
“Non sei mai contento di vedermi ultimamente!... Sai, potrei offendermi…!” esclamò Moriarty con un finto broncio.
Sherlock si mise le dita sulle tempie e chiuse gli occhi. “Sei una maledetta allucinazione…non sei reale…non sei reale…” ripeté con insistenza, continuando ad ansimare.
“Come sei noioso, Sherlock!... Te l’ho detto che non sono reale, ma tu non mi ascolti!” rispose Jim, mettendosi a ridere.
“Lasciami in pace!” urlò il detective, continuando a mantenere gli occhi chiusi.
“Mi siedo?” chiese Moriarty con tono divertito.
Sherlock aprì di scatto gli occhi ed iniziò ad afferrare gli oggetti presenti sulla mensola del camino e a lanciarli con rabbia verso Jim. “Ti ho detto di lasciarmi in pace!” gridò furioso.
Moriarty intanto rideva, mentre gli oggetti andavano a frantumarsi sul muro e sulla porta dell’appartamento.
Dopo aver lanciato tutto ciò che aveva a portata di mano, il detective crollò a terra in ginocchio, esausto da tutto quello sforzo. Si poggiò con le mani sul pavimento, nel vano tentativo di regolarizzare i propri respiri. Iniziava a sentirsi debole e la vista gli si era leggermente annebbiata, ma non doveva crollare, o almeno doveva provarci. Mentre cercava di riprendere il controllo della sua mente, sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla.
“Sherlock…” disse John titubante, inginocchiandosi a terra davanti a lui.
Sherlock alzò lo sguardo e ci mise un po', a mettere a fuoco chi aveva di fronte. Sentiva ancora le risate di Jim e non riusciva a distinguere cosa fosse reale o immaginario.
“Sherlock…sono John…” continuò il medico, accorgendosi dello stato confusionale del detective.  
Il consulente investigativo si rimise in ginocchio e si passò le mani sul viso. Poi si guardò intorno e si accorse che Moriarty era scomparso. Si sentiva confuso e non riusciva a pensare in modo lucido.
“Sono John…mi riconosci?” provò di nuovo il medico preoccupato.
“Ho lasciato Victoria dalla signora Hudson…che succede?” domandò Mary, entrando di corsa nell’appartamento.
John voltò la testa verso sua moglie, rimanendo comunque in ginocchio. “Sembra in stato confusionale…credo sia il caso di chiamare un’ambulanza…”.
“John…” disse all’improvviso Mary, indicando il detective con gli occhi.
Il medico si voltò verso Sherlock e si accorse che lo stava guardando. Dallo sguardo sembrava leggermente più lucido, ma continuava a rimanere in silenzio. “Sherlock…” provò a chiamarlo di nuovo.
Il detective non rispose e rimase fermo a guardare John dritto negli occhi.
“Sono John…mi riconosci?” tentò ancora il medico. Quella situazione lo stava mettendo decisamente a disagio. Il viso di Sherlock così vicino al suo e quei penetranti occhi chiari che lo scrutavano attentamente, gli provocarono uno strano brivido lungo tutto il corpo. Aveva il battito leggermente accelerato e si sentiva mancare l’aria, ma allo stesso tempo non riusciva ad interrompere quel magnetico contatto visivo.
Rimasero a guardarsi intensamente per alcuni istanti, sotto gli occhi confusi di Mary. Poi il consulente investigativo fece qualcosa che lasciò John completamente senza parole: si sporse verso di lui e lo abbracciò con forza.
“Ehi…” disse soltanto il medico. Era rimasto talmente sorpreso da quel gesto, che non riuscì a dire nient’altro. Sherlock era sempre stato riluttante verso qualsiasi contatto fisico e non era da lui un comportamento del genere. Poi lo abbracciò a sua volta, accarezzandogli le spalle con dolcezza. “Va tutto bene…” aggiunse, stringendolo con più forza.

 
Dopo alcuni minuti Sherlock e John si separarono da quell’abbraccio.
“Va meglio?” chiese il medico con un sorriso.
Il detective annuì, abbassando lo sguardo con un leggero imbarazzo.
“Non hai niente da dire?” domandò John con un velo di rimprovero.
“Lestrade ti ha già detto tutto…cos’altro vuoi che ti dica?” rispose Sherlock, decisamente ripreso.
“Tanto per cominciare, il motivo per cui ti stai comportando così!” esclamò il medico serio.
Il consulente investigativo stava per rispondere, ma venne interrotto dal suono del suo cellulare. Si alzò di scatto da terra e lo afferrò velocemente. Dopo aver letto il nome su display, alzò gli occhi al cielo e sbuffò irritato.
“Dovevo immaginare che Lestrade ti avrebbe avvisato!” esclamò spazientito.
“Si, in effetti mi ha informato dei tuoi recenti sbalzi d’umore!... Ma non ti ho chiamato per questo…abbiamo una questione più importante da risolvere!” rispose secco Mycroft.
“Cos’è successo?” chiese Sherlock preoccupato.
“Quello che temevi di più…” disse il politico, sospirando pesantemente “…Abbiamo già avviato le ricerche…ma…devi fare attenzione, Sherlock…sai, che verrà a cercarti…” aggiunse con un leggero tremore di voce.
“Si…è mi troverà pronto!” rispose con decisione il detective. Poi riagganciò la telefonata e si voltò verso John e Mary. “…Moran è scappato!” disse semplicemente, leggendo la domanda nei loro occhi.
“Santo cielo!” esclamò John.
“E adesso cosa facciamo?” domandò Mary.
“Niente…aspettiamo la sua prossima mossa…” rispose Sherlock, voltandosi a guardare fuori dalla finestra.
 
 
La telefonata di Mycroft aveva lasciato i tre completamente senza parole. Se ne stavano immobili e in silenzio, persi nei loro pensieri. All’improvviso, si sentirono degli strani rumori provenire dal piano di sotto, seguiti dalle urla della signora Hudson. Sherlock, John e Mary si scambiarono uno sguardo allarmato e corsero velocemente giù per le scale. Trovarono la padrona di casa svenuta a terra, con un rivolo di sangue che le scendeva dalla tempia destra. Il medico si fermò subito a controllare la ferita, mentre il detective si precipitò nell’appartamento della donna per cercare Victoria.
“Non c’è?” chiese Mary, entrando terrorizzata.
Sherlock si passò le mani nei capelli con disperazione e negò con il capo. Poi si precipitò fuori dal 221B e cominciò a guardarsi intorno, ma chiunque fosse stato il colpevole, si era già volatilizzato nel nulla. Preso da un’idea improvvisa, rientrò di corsa e salì di sopra alla ricerca del suo cellulare. Se era opera di Moran, lo avrebbe presto contattato. Dopo pochi istanti, infatti, arrivò un messaggio da un numero anonimo: Stavolta ho pensato di usare un’altra pedina…giusto per rendere il gioco più interessante. Mezzanotte, Waterloo Gardens. SM
In quel momento entrarono in soggiorno anche John e Mary. L’ambulanza era appena arrivata ed aveva portato la signora Hudson in ospedale. Per fortuna non sembrava niente di grave, ma vista la sua età, era meglio tenerla sotto osservazione.
“È stato Moran, vero?... Si è fatto sentire?” chiese il medico preoccupato.
Sherlock non rispose. Passò semplicemente il telefono al suo amico per permettergli di leggere il messaggio. Poi si mise le mani congiunte sotto il mento e cominciò a camminare nervosamente per la stanza, nel tentativo di mettere in atto un piano. Doveva essere pronto a qualsiasi evenienza: c’era in gioco la vita di Victoria e non poteva fallire.
“Dobbiamo avvisare Lestrade!” esclamò John.
“Si, chiamalo…e questa volta ci servirà anche l’aiuto di mio fratello…” rispose il detective pensieroso “…se mi ha dato un appuntamento porterà sicuramente anche Victoria con sé…e forse ho in mente un piano per coglierlo di sorpresa…” aggiunse con uno sguardo deciso.
 

 
Era quasi mezzanotte e Sherlock era già pronto in Waterloo Gardens. Mycroft, Greg, John e Mary erano nascosti nei posti stabiliti dal consulente investigativo, in attesa di un suo segnale.
Dopo alcuni istanti di attesa, Moran uscì da dietro un albero, puntando il fucile contro il detective. “Dove sono i tuoi amici?” chiese sospettoso.
“Sono qui da solo…e, come vedi sono disarmato…” rispose Sherlock con calma. “…dov’è Victoria?”.
Sebastian scoppiò a ridere. “Davvero mi credi così stupido, Sherlock?... So che hai messo in atto uno dei tuoi piani geniali, ma non ti servirà contro di me…non questa volta!”
“Ti ripeto la domanda…dov’è Victoria?” chiese il detective leggermente irritato.
“È proprio questo il bello!... È qui, in questo parco… e tocca a te trovarla!” rispose Moran, continuando a tenere Sherlock sotto tiro.
Il consulente investigativo cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di qualche segnale o indizio che indicasse la presenza della bambina.
“Così non la troverai mai, Sherlock…ti servirà questa!” esclamò Sebastian, prendendo una pala da dietro l’albero e lanciandola verso il detective.
Nel vedere la pala, il cuore di Sherlock perse un battito. Il suo piano aveva messo in conto qualsiasi evenienza, ma non una cosa del genere. “Se le hai fatto del male, giuro che ti ucciderò con le mie mani!” disse furioso.
“Calmati…sta bene…almeno per adesso!... Però ti conviene cominciare a scavare!... Sai, non vorrei che finisse la riserva d’aria…perché a quel punto si, che sarebbe un problema!” canzonò Moran divertito.
“Sei uno schifoso bastardo!” urlò John, uscendo dal posto stabilito e puntandogli la pistola contro.
“John, no!” esclamò il detective allarmato.
“Sapevo che c’era anche lei, dottor Watson e speravo proprio di attirare la sua attenzione…!” esclamò Sebastian con un sadico sorriso. “…Cosa vuole farmi?... Vuole spararmi?... Avanti ci provi e vedrà morire anche il suo caro amico…”
Il medico rimase immobile. Aveva le mani tremanti, mentre teneva la pistola puntata verso il nemico.
In quel momento Sherlock ebbe un’idea. Il suo piano era ormai saltato, ma le parole del cecchino erano esatte: c’era ancora un modo per poter sconfiggere Moran, anche se voleva dire sacrificare la sua vita.
“John…” disse serio “…sparagli…uccidilo, avanti…” aggiunse con voce tremante.
John si voltò di scatto verso di lui incredulo. “Ma ti è dato di volta il cervello?... Se lo faccio, lui ucciderà anche te!”
“È l’unico modo che abbiamo per porre fine a questa storia una volta per tutte!” rispose il detective, mostrandogli un sorriso incoraggiante.
“Non puoi chiedermi una cosa del genere…” disse il medico.
Sherlock sbuffò irritato. “Lo capisci che è l’unica occasione che abbiamo?... Fallo e potrai cercare Victoria prima che sia troppo tardi!” urlò con rabbia.
Il medico negò con il capo, mentre i suoi occhi iniziarono a riempirsi di lacrime. “Non posso, Sherlock…non posso perderti di nuovo…” disse abbassando lo sguardo.
Moran, che fino a quell’istante era stato in silenzio e godersi la scena, scoppiò a ridere. “Ma come siete carini!” canzonò divertito. “…Visto che il dottor Watson ha preso la sua decisione, io tolgo il disturbo!... Avete del lavoro da sbrigare e non voglio rubarvi altro tempo!” aggiunse, iniziando ad indietreggiare, ma continuando a tenere il detective sotto tiro.
Mary, Lestrade e Mycroft non si mossero dai loro posti. Non potevano rischiare che Sherlock venisse colpito e dovettero rimanere immobili e guardare Moran sparire nell’oscurità. Appena il cecchino sparì dalla loro vista, uscirono allo scoperto e corsero verso Sherlock e John.
“Non preoccuparti, Sherlock…ci sono alcuni agenti di polizia e degli uomini dell’MI6 che circondano l’intero perimetro del parco, non riuscirà a scappare!” esclamò Mycroft.
Il detective però non rispose. Prese la pala tra le mani ed iniziò ad ispezionare il terreno, alla ricerca di un punto in cui la terra sembrava smossa di recente. Doveva sbrigarsi, la vita di Victoria dipendeva da lui.
John si avvicinò a Sherlock per aiutarlo, ma lui gli lanciò un’occhiata glaciale, che lo lasciò di stucco. “Sherlock…” disse titubante.
“Sei un completo idiota!” urlò all’improvviso, il consulente investigativo. “…Avevi Moran a portata di mano e te lo sei lasciato scappare!” aggiunse con disprezzo.
“Ma dici sul serio?... Santo cielo, c’era la tua vita in gioco e non potevo rischiare che ti uccidesse!” rispose il medico a tono.
Sherlock intanto aveva trovato il punto giusto e si mise a scavare con foga. “Tu e i tuoi stupidi sentimentalismi!” esclamò ancora più irritato.
“Stupidi sentimentalismi?... Sei il mio migliore amico e non vorrei mai che tu…che tu venissi ucciso…ti ho già perso una volta e non voglio perderti di nuovo…” disse John con voce tremante.
Il detective non rispose, ma si limitò ad alzare gli occhi al cielo. Poi rise nervosamente e negò con il capo.  
“E questa espressione che vorrebbe dire?” urlò il medico irritato.
“Niente, John…lascia perdere!” lo liquidò Sherlock.
“No, non lascio perdere!... Pensi che non mi importi niente di te? È questo che pensi?” rispose John, continuando ad urlare.
Il consulente investigativo sospirò pesantemente prima di rispondere. “Penso solo che saresti andato avanti comunque…anche senza di me…in fondo lo hai già fatto una volta…!” rispose con acidità.
Il medico venne colpito da quelle parole come una coltellata dritta al cuore. “Quello che hai detto è ingiusto, Sherlock…” disse tristemente.
“Ci siamo!” gridò il detective, ignorando la frase di John. Davanti ai suoi occhi aveva una cassa marrone. La aprì velocemente e la vide: Victoria giaceva al suo interno e per fortuna stava bene. “Ehi, piccola…va tutto bene!” disse, prendendola dolcemente in braccio. Poi si arrampicò con cautela ed uscì dalla buca, tenendola stretta contro il suo petto.
Subito dopo si avviò verso Mary per consegnarle sua figlia, ma a metà strada si voltò a guardare John con aria dispiaciuta. Fu allora che vide il puntino rosso sul suo petto.
“John!” urlò all’improvviso.
Poi il colpo partì e, senza che se ne rendesse conto, il medico si ritrovò a terra, disteso sull’erba fredda. 









Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il tredicesimo capitolo. Beh, all'inizio abbiamo Sherlock che lotta con il suo Moriarty immaginario e, subito dopo, una scena molto dolce tra lui e John. 

Moran, però, è riuscito a scappare e la baby Watson è quella che ne ha subìto le conseguenze. Per fortuna è stata salvata dal nostro detective.

Assistiamo ad uno scontro tra Sherlock e John in cui emergono finalmente i rancori che il consulente investigativo prova nel suo cuore verso il medico, riguardo al fatto che lui, nonostante tutto ciò che è successo, ha scelto Mary. 

Alla fine Moran non era andato via e l'obiettivo finale non era Victoria, ma John...cosa succederà al medico? Lo scoprirete nel prossimo capitolo. 

Grazie come sempre a chi segue la storia, a chi l'ha messa nelle preferite/seguite/ricordate e a chi vuole lasciare un commento! Alla prossima ;)

 

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Capitolo 14
*** A sad goodbye ***


                  Miss me?






                                      A sad goodbye






… Subito dopo si avviò verso Mary per consegnarle sua figlia, ma a metà strada si voltò a guardare John con aria dispiaciuta. Fu allora che vide il puntino rosso sul suo petto.
“John!” urlò all’improvviso.
Poi il colpo partì e, senza che se ne rendesse conto, il medico si ritrovò a terra, disteso sull’erba fredda.





 
 
John si ritrovò a terra intontito. L’ultima cosa che ricordava era la voce di Sherlock, che urlava il suo nome. Aveva sbattuto la testa in modo violento, come se qualcuno l’avesse spinto con forza. Aprì gli occhi per mettere bene a fuoco l’ambiente circostante e si accorse che c’era qualcun altro vicino a lui che giaceva a terra. Si tastò il petto e si accorse di non avere ferite, chiaro segnale che dovevano avergli fatto da scudo contro il proiettile di Moran. Il suo primo pensiero fu Sherlock. Lo aveva già fatto una volta e avrebbe potuto tranquillamente rifarlo. “Sherlock!” urlò spaventato, mettendosi subito seduto. Quel brusco movimento, però, gli provocò un capogiro e dovette chiude gli occhi per un istante e reprimere un conato di vomito. A giudicare dai sintomi e dal dolore alla testa, aveva sicuramente un lieve trauma cranico. Quando riaprì gli occhi, cercò di mettersi in ginocchio e si avvicinò al corpo a terra: non era Sherlock, era Mary. “Mary?” esclamò sorpreso.
Sherlock, intanto, aveva consegnato Victoria a Greg ed era corso verso il punto in cui giaceva il medico. “John…!” gridò terrorizzato.
“Sto bene…” rispose John a fatica, trattenendo una smorfia di dolore. Poi cercò di girare il corpo della moglie per controllare le sue condizioni e fu allora che vide la macchia rossa che si espandeva all’altezza del petto. “…Santo cielo!” esclamò, iniziando a tamponare la ferita.
Il detective afferrò il cellulare e chiamò immediatamente un’ambulanza. Subito dopo cominciò a dare lievi colpetti al viso della donna per farle riprendere conoscenza. “Mary…mi senti?... Mary!”
In lontananza si sentirono degli spari. Moran stava sicuramente cercando di scappare e gli agenti di Scotland Yard e dell’MI6 avevano aperto il fuoco.
 
Dopo alcuni istanti Mary aprì gli occhi ed incontrò quelli di Sherlock. “Victoria?” chiese flebilmente.
“È con Lestrade…sta bene!” rispose prontamente il consulente investigativo.
“John…” disse la donna, voltando il capo verso suo marito.
“Sono qui…sto bene…devi resistere, l’ambulanza sta arrivando!” esclamò il medico con gli occhi lucidi.
Mary trattenne una smorfia di dolore. “Prenditi cura di Victoria…e dille che le voglio bene…” disse con voce tremante.
“Lo faremo insieme e glielo dirai tu stessa!... Guarirai…ne sono sicuro…” rispose John tra le lacrime.
“John, sei un medico...” disse la donna con un tono ovvio “…sei stato un marito fantastico…e so che saprai prenderti cura di Victoria...” aggiunse con un sorriso. Poi si voltò verso Sherlock, prima che il marito potesse rispondere. “Sherlock…mi dispiace, davvero…”.
Il detective abbassò leggermente lo sguardo e negò con il capo. “…Non fa niente…non ce l’ho mai avuta con te…ma solo con me stesso…”.
“Quando ho accettato il lavoro…non pensavo che potesse accadere…non pensavo di potermi davvero innamorare di lui…devi credermi!” disse Mary, trattenendo un’altra smorfia di dolore.
“Lo so…Mycroft mi ha confermato tutto ciò che avevo scoperto…la sera dopo quella in cui mi hai sparato…” rispose Sherlock con un sorriso amaro.
“…Sei un uomo straordinario, Sherlock!... Hai sempre saputo tutto sul mio conto…ma hai deciso di tenerlo per te...sapevi che se John lo avesse scoperto, non mi avrebbe mai perdonato!... Quella sera a Baker Street…quando hai rivelato la verità su cosa era successo nell’ufficio di Magnussen…avresti potuto dirgli tutto…ma non l’hai fatto... e non finirò mai di ringraziarti per questo…anche se so che…in fondo…non l’hai fatto per me…” disse la donna, mettendo una mano su quella di Sherlock e stringendola debolmente. “…So che ti prenderai cura di lui…so che lo farai meglio di me…” aggiunse, prima di chiudere gli occhi e perdere conoscenza.
John era rimasto sconvolto dalla conversazione che aveva appena sentito. Non riusciva a capire di cosa stessero parlando. Cosa sapeva Sherlock di Mary? Cosa gli aveva tenuto nascosto del suo passato? E, soprattutto, cosa centrava Mycroft? La sua testa era completamente invasa da una marea di domande senza risposta. Ci mise un po', infatti, ad accorgersi che Mary non respirava più. “Mary!” esclamò, prendendole il polso per controllare il battito. “…Non c’è battito!” aggiunse, mentre iniziava a praticare il massaggio cardiaco.
In quel momento arrivò l’ambulanza. I paramedici fecero allontanare John e Sherlock e si precipitarono sulla donna con tutta l’attrezzatura per la rianimazione.
Mentre provavano a rianimare sua moglie, il medico si sedette a terra esausto e si mise le mani tra i capelli con disperazione. Aveva la testa che gli pulsava e la vista leggermente annebbiata.
“John!” esclamò il detective, inginocchiandosi al suo fianco. Solo allora si accorse della ferita che il suo amico aveva alla testa. “Sei ferito!... Devi sdraiarti!” aggiunse preoccupato.
John, però, non gli diede ascolto. Rimase nella stessa posizione intento a fissare i paramedici, che tentavano di rianimare Mary con delle potenti scariche di defibrillatore, mentre alcune lacrime gli rigavano il viso.
“John…” provò a chiamarlo di nuovo Sherlock, posandogli una mano sulla spalla con dolcezza.

Dopo alcuni minuti, che sembrarono interminabili, i paramedici si arresero. Purtroppo per Mary non c’era più niente da fare e non poterono fare altro che costatarne il decesso.
Il medico si passò le mani sul viso e, con le poche forze che aveva, scattò in piedi e si allontanò.
“John…non dovresti alzarti” disse Sherlock “…dove stai andando?” aggiunse, alzandosi e correndogli dietro. Appena fu abbastanza vicino, lo afferrò da un braccio per farlo voltare.
“Lasciami!” urlò John tra le lacrime.
Il detective, però, strinse maggiormente la presa e lo attirò a sé, abbracciandolo con forza, lasciando che il suo migliore amico si sfogasse contro il suo petto.
“Sherlock…” disse il medico con un filo di voce. Sentiva le gambe molli e la testa continuava a pulsare in modo ingestibile. Cercò di aggrapparsi al cappotto dell’amico per non cadere a terra, ma crollò svenuto tra le sue braccia.
“John!... John…” lo chiamò Sherlock in preda al panico “…mi serve aiuto…presto!” urlò verso i paramedici.
John venne caricato d’urgenza nell’ambulanza, che sfrecciò verso l’ospedale. Un altro mezzo di soccorso era stato chiamato per occuparsi del corpo, ormai senza vita, di Mary.
Appena vide l’ambulanza allontanarsi, Sherlock si diresse verso Greg e prese Victoria in braccio.
“Stai bene?” chiese Lestrade, notando il pallore del detective.
Il consulente investigativo annuì semplicemente. “Devo andare da John, ma non so a chi lasciare Victoria…la signora Hudson è ancora in ospedale” disse in preda allo sconforto.
“Puoi chiedere a Molly...” rispose l’ispettore “…però credo che dovresti sederti un attimo…non hai una bella cera!” aggiunse preoccupato.
“Sto bene!” esclamò Sherlock infastidito. In effetti Greg aveva ragione: non si sentiva per niente bene. Aveva il respiro corto, il battito accelerato e la testa che gli girava leggermente, ma non poteva permettersi di crollare, non in quel momento. “La chiamo subito!” aggiunse.
“La mia auto è già qui, ti accompagno io!” esclamò Mycroft.
“Io invece mi occupo di Mary…” disse tristemente Lestrade.
Il detective annuì ad entrambi e si diresse con suo fratello verso la sua auto nera.
 
 
Dopo essere passato da Baker Street per prendere alcune cose di Victoria e aver portato la bimba a casa di Molly, Sherlock arrivò stremato in ospedale. Si sentiva peggio ogni minuto che passava e la crisi d’astinenza non gli rendeva di certo le cose facili.
“Sto cercando John Watson...è stato portato qui in ambulanza, circa una mezz’ora fa…” chiese il detective alla reception dell’ospedale, ansimando leggermente.
“È nella stanza 227, secondo piano” rispose l’infermiera.
Sherlock si precipitò verso l’ascensore barcollando leggermente.
“Stai bene?” domandò Mycroft preoccupato, trattenendolo da un braccio.
“Volete smetterla di farmi tutti la stessa domanda?... Si, sto bene!” rispose il detective irritato, alzando il tono di voce. 
“A guardarti non sembrerebbe!” esclamò il politico a tono.
Sherlock sbuffò spazientito e si liberò sgarbatamente dalla presa di suo fratello. Poi entrò nell’ascensore e si diresse al secondo piano. Arrivato davanti alla porta della stanza di John, fece un profondo respiro ed entrò velocemente. Il medico era sveglio e sembrava stare bene. Aveva una fasciatura alla testa e una flebo al braccio destro. “John!... Stai bene?” chiese, avvicinandosi al letto preoccupato.
“Sherlock!” esclamò John sorpreso. “…Sì…i-io credo di sì…” aggiunse abbassando lo sguardo. Aveva gli occhi ancora pieni di lacrime, ma cercava in tutti i modi di apparire forte. “Dov’è Victoria?” chiese allarmato.
Il detective sospirò sollevato. “È con Molly a casa sua…e con una scorta dell’MI6…” rispose prontamente.
“Quindi Moran è scappato di nuovo?” domandò il medico.
Sherlock annuì con sconforto. Era davvero frustrato all’idea che quel criminale fosse ancora a piede libero. “…John…mi dispiace per…per quello che è successo…” aggiunse con un’espressione mortificata.
John annuì semplicemente ed abbassò di nuovo lo sguardo. “Lo so…” rispose con voce rotta.
Dopo alcuni istanti un improvviso capogiro costrinse il detective a chiudere gli occhi e a poggiarsi con le mani sul letto del medico. Iniziò ad ansimare pesantemente, incapace di riprendere il controllo dei propri respiri.
“Sherlock!... Cos’hai?” chiese il medico, sporgendosi verso di lui.
“Niente…sto bene…” rispose Sherlock a fatica.
“Stai iperventilando…non stai bene!... Siediti e cerca di fare respiri profondi!” esclamò John preoccupato.
Il detective si sedette sulla sedia di fianco al letto. Stava sudando freddo e, nonostante gli sforzi, non riusciva a prendere aria.
Il medico si sporse leggermente ed afferrò il campanello per chiamare un’infermiera. Vedendo, però, che nessuno arrivava iniziò a chiamare aiuto. “Ho bisogno di aiuto…infermiera!” urlò con tutto il fiato che aveva.
Mycroft, intanto, che stava aspettando suo fratello fuori dalla stanza, appena sentì le urla di John, si alzò dalla seduta della sala d’attesa e si precipitò dentro. “Che succede?” chiese allarmato. Poi voltò lo sguardo verso Sherlock e si accorse del suo stato. “Sherlock!” esclamò avvicinandosi a lui.
“Mycroft chiama qualcuno…credo che abbia una crisi respiratoria…sbrigati!” ordinò il medico con urgenza.
Il politico non se lo fece ripetere due volte e corse fuori.
John, invece, si staccò la flebo, si mise in piedi con un po' di fatica e scosse il suo migliore amico, nel tentativo di farlo rimanere cosciente. “Sherlock, sono qui…andrà tutto bene”.
“John…” disse Sherlock, continuando ad annaspare alla ricerca di aria. Poi la vista gli si annebbiò e crollò svenuto tra le braccia del medico.
Dopo alcuni istanti, il politico ritornò con due dottori al seguito.
“Ha avuto una crisi respiratoria ed ha perso conoscenza…ha assunto dosi di cocaina nelle ultime 24 ore, ma non so dirvi in che quantità…” spiegò John con fare professionale.
“Non si preoccupi, ce ne occupiamo noi, dottor Watson…ora lei deve ritornare a letto!... Le manderemo un’infermiera per rimettere la flebo…” disse uno dei due dottori. Poi misero il detective su una barella e lo portarono via velocemente.
 

 
John passò tutta la notte sveglio. Non era solo preoccupato per Sherlock, ma era anche turbato da alcuni pensieri che lo stavano tormentando da quando Moran aveva provato ad ucciderlo. Mentre le prime luci dell’alba iniziavano ad illuminare la stanza, qualcuno aprì lentamente la porta ed entrò, interrompendo i suoi pensieri.
“John…sei già sveglio…come stai?” chiese Greg, avvicinandosi al letto.
“Bene…” rispose il medico pensieroso.
Lestrade si sedette sulla sedia di fianco a lui. “Mi dispiace per Mary…” disse con uno sguardo triste “…mi sono occupato io di tutte le questioni legali…per evitarti di venire in centrale”.
“Grazie, Greg…” rispose John con un mezzo sorriso. Poi voltò lo sguardo verso la finestra e sospirò.
“Sono passato anche da Sherlock…mi è preso un colpo quando ho saputo cos’era successo!” esclamò l’ispettore.
Il medico si voltò di scatto. “L’hai visto? Come sta? È tutta la notte che cerco di sapere qualcosa, ma nessuno si è degnato di darmi notizie!”
“È fuori pericolo...anche se ancora non ha ripreso conoscenza... dobbiamo fare qualcosa, John…non può continuare ad autodistruggersi in questo modo…” rispose Greg.
“Ci ho provato, Greg…ma non riesco a capire cosa gli passi per la testa ultimamente…” disse tristemente John.
Rimasero in silenzio per qualche istante, poi Lestrade iniziò a scrutare il medico con attenzione. “Dalla tua faccia, vedo che non hai chiuso occhio questa notte!” esclamò con rimprovero.
“Già…un po' di pensieri mi hanno tenuto sveglio…” rispose John, abbassando lo sguardo.
L’ispettore si sporse leggermente e gli mise una mano sulla spalla. “Dopo ciò che è successo è normale, John…hai bisogno di tempo…”
“No, non è per questo…o meglio, non è solo per questo!” rispose il medico.
“Sai che puoi dirmi qualsiasi cosa…” aggiunse prontamente Greg con dolcezza.
John sospirò pesantemente prima di parlare. “Io…io sono un uomo orribile, Greg…”
“Ma che diavolo stai dicendo!” esclamò Lestrade sorpreso da quelle parole “…Tu sei uno degli uomini migliori che abbia mai conosciuto!”
“No…non è vero…” rispose prontamente il medico con un sorriso amaro. “Mary era mia moglie…” aggiunse, alzando lo sguardo e fissando l’amico negli occhi.
Greg annuì, credendo di afferrare il senso di quelle parole. “Non devi sentirti in colpa per quello che è successo…non potevi fare niente per salvarla”
“Non è questo…” rispose John, negando con il capo.
“Allora non riesco a seguirti, John…cosa stai cercando di dirmi?” chiese l’ispettore confuso.
Il medico parve riflettere un attimo su quello che stava per dire. “Quando mi sono ritrovato a terra…ed ho capito che qualcuno mi aveva salvato…il mio primo pensiero è stato Sherlock…” disse, abbassando lo sguardo “…pensavo fosse stato lui…in fondo lo aveva già fatto una volta…poi quando mi sono reso conto che si trattava di Mary…io…” aggiunse, ma dovette fermarsi e fare un respiro profondo “…io… mi sono sentito…mi sono sentito sollevato…” continuò, pronunciando le ultime parole con molta fatica.
Greg non rispose. Non sapeva cosa dire in quel momento e preferì restare in silenzio.
“…Mia moglie giaceva morente a terra davanti ai miei occhi…ed io…io mi sentivo sollevato all’idea che non ci fosse Sherlock al suo posto…” continuò John, mettendosi le mani sul viso “…che razza di persona farebbe questi pensieri? …Sono davvero un uomo orribile, Greg…”
“No, John…non lo sei…” rispose prontamente l’ispettore.  
Il medico lo guardò con aria interrogativa. “E allora come mi definiresti?... Come spieghi un comportamento del genere?”
Lestrade fece un mezzo sorriso con aria consapevole. Poi guardò John per qualche istante dritto negli occhi. “Credo che in cuor tuo, tu abbia già la risposta a queste domande, John…”
John rimase colpito da quelle parole. Greg aveva ragione. In fondo c’era solo una spiegazione al suo comportamento. In quel momento si sentì un completo idiota: era sempre stato tutto così chiaro e così evidente, che avrebbe dovuto capirlo prima. O forse l’aveva capito, ma aveva sempre deciso di ignorarlo. 








Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il quattordicesimo capitolo. Beh, per chi avesse temuto per la vita di John, può tirare un sospiro di sollievo. Per chi non ha mai sopportato Mary, invece, può organizzare un party (e so che qualcuno di voi lo farà). 

Parlando seriamente ci sono delle domande che sono rimaste in sospeso e che verranno spiegate più avanti e riguardano la conversazione tra Sherlock e Mary. 

Sherlock, come sempre, è il solito testardo che deve pensare prima a John che alla sua salute. 

John, invece, finalmente sembra stia aprendo gli occhi...almeno per quello che riguarda i suoi sentimenti. Beh, caro dottore era ora! 

Moran purtroppo è scappato di nuovo...cosa organizzerà per la prossima volta?... Quello che posso dirvi è che il peggio deve ancora arrivare e sarà una sfida davvero dura per il nostro Sherlock. 

Grazie come sempre a chi segue la storia e chi vuole lasciare un commento. Spero che il capitolo vi sia piaciuto...alla prossima ;)










 

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Capitolo 15
*** In my heart ***


                    Miss me?







                                             In my heart







… Lestrade fece un mezzo sorriso con aria consapevole. Poi guardò John per qualche istante dritto negli occhi. “Credo che in cuor tuo, tu abbia già la risposta a queste domande, John…”
John rimase colpito da quelle parole. Greg aveva ragione. In fondo c’era solo una spiegazione al suo comportamento. In quel momento si sentì un completo idiota: era sempre stato tutto così chiaro e così evidente, che avrebbe dovuto capirlo prima. O forse l’aveva capito, ma aveva sempre deciso di ignorarlo.
 
 






John venne dimesso nel pomeriggio. Si sentiva molto meglio, a parte un leggero mal di testa. Anche la signora Hudson era stata dimessa e ciò diede al medico l’opportunità di lasciarle Victoria, considerando che Molly aveva il turno in ospedale.
Dopo essersi occupato di sua figlia, John andò in obitorio a dare un ultimo saluto a Mary. Appena entrò nella stanza dove giaceva sua moglie, venne assalito da una strana sensazione di disagio. Vedere il suo corpo senza vita disteso su quel tavolo, gli mise addosso una dolorosa tristezza. Iniziò a pensare a sua figlia. Come avrebbe fatto ad occuparsi di Victoria da solo? Come avrebbe fatto a compensare la mancanza di sua madre? Non voleva che le cose andassero in quel modo, non voleva che morisse, ma in quel momento riprovò di nuovo quell’inconsueta sensazione di sollievo. La sola idea di immaginare il corpo di Sherlock disteso su quello stesso tavolo, gli faceva mancare l’aria. Come aveva fatto ad essere così cieco per tutto quel tempo? Come aveva fatto a non accorgersi di ciò che provava? Fece un profondo respiro, avvolto da quella nuova consapevolezza. Si avvicinò al viso di sua moglie e gli regalò un dolce bacio sulla fronte. Poi si voltò con la sua solita compostezza da soldato ed uscì, diretto nella stanza di Sherlock.

 
John arrivò davanti alla porta della stanza del detective e rimase per qualche istante con la mano sulla maniglia. Gli strani pensieri delle ultime ore lo avevano decisamente sconvolto. Come avrebbe fatto a guardare Sherlock con questa nuova consapevolezza? Non sapeva come comportarsi, non sapeva cosa dire. Da una parte avrebbe voluto essere sincero e rivelare tutto al suo migliore amico, ma dall’altra si sentiva terrorizzato. Non voleva rovinare la loro amicizia e non voleva che Sherlock si sentisse spaventato da una tale rivelazione. In fondo lui non era mai stato propenso a questo genere di “relazioni” e aveva una paura tremenda di risultare ridicolo. In effetti, a pensarci bene, è proprio così che si sentiva in quel momento: ridicolo. Lui, John Hamish Watson, un medico, un soldato, che aveva sempre ostentato la sua eterosessualità, ora si ritrovava a fare strani pensieri sul suo migliore amico. Ma cosa diavolo gli stava succedendo? Sherlock non era solo riuscito a sconvolgergli la vita, ma lo aveva cambiato in un modo che non immaginava possibile e solo in quel momento se ne stava rendendo conto. Stava per abbassare la maniglia, quando si accorse di avere le mani leggermente tremanti. L’idea di vederlo gli faceva battere il cuore all’impazzata. Si sentiva tremendamente nervoso e doveva trovare il modo di calmarsi, doveva riprendere il controllo. Fece un profondo respiro e, appena si sentì pronto, entrò. Trovò Mycroft seduto sulla sedia di fianco al letto con un’espressione stanca sul viso: aveva sicuramente passato la notte lì, al fianco di suo fratello. Così come aveva detto Greg, Sherlock era ancora incosciente. A guardarlo, sembrava che stesse semplicemente dormendo. Si soffermò sul suo viso per qualche istante, concentrandosi su dettagli che non aveva mai osservato attentamente, o meglio, che non aveva mai guardato con quegli occhi. Il suo viso pallido, segnato da giorni di digiuno e da notti insonni, ma comunque bello come sempre. I suoi riccioli ribelli che ricadevano sulla fronte leggermente bagnata. Le sue mani perfette e slanciate che giacevano sul lenzuolo bianco. Solo dopo alcuni minuti si rese conto di essersi soffermato un po' troppo a guardarlo. Mycroft, infatti, si era voltato verso di lui e lo stava osservando con uno strano sguardo indagatore.
“Come sta?” chiese John con un leggero imbarazzo.
“Ora è stabile. Ha avuto altre due crisi respiratorie questa notte, ma per fortuna adesso sembra stare meglio” rispose il politico, passandosi una mano sugli occhi.
“Sarai sicuramente stanco…vai, rimango io con lui…” disse il medico.
Mycroft annuì semplicemente. Aveva bisogno di prendere un po' d’aria e sapeva di lasciare suo fratello in buone mani. Poi si alzò, lo guardò per qualche istante ed uscì fuori dalla stanza.
John si sedette sulla sedia e mise la sua mano su quella di Sherlock. Non si era mai reso conto di quanto fossero fredde le sue mani. Senza neanche accorgersene, in un gesto che gli venne istintivo, iniziò ad accarezzare le sue dita, con un movimento dolce e ripetitivo. Dopo alcuni istanti si fermò ed intrecciò la sua mano con quella del suo migliore amico. La strinse con forza e sentì, in quel semplice contatto, un intenso brivido che gli attraversava tutto il corpo.

 
Sherlock si risvegliò con un lieve dolore al petto. Non riusciva a respirare ancora molto bene, ma si sentiva decisamente meglio, rispetto a quando era stato male nella stanza di John. Non ricordava cosa fosse successo. Aprì gli occhi lentamente e ci mise un po' per mettere bene a fuoco l’ambiente circostante. Si trovava in un letto d’ospedale, era ovvio, ma non ne capiva il motivo. Doveva aver perso i sensi, su questo non c’erano dubbi, ma non sapeva per quanto tempo fosse stato incosciente. Voltò lo sguardo alla sua destra e vide John. Aveva ancora una medicazione alla testa e giaceva addormentato con il capo sul suo braccio. Solo dopo alcuni istanti si rese conto che la mano dell’amico era intrecciata alla sua. Ne rimase piacevolmente sorpreso e sul suo volto apparve un mezzo sorriso. Quel contatto gli provocò una strana sensazione di benessere e provò a non muoversi, per evitare che John si svegliasse. Poggiò di nuovo il capo sul cuscino e rimase in silenzio, godendosi quel momento di pace.
Dopo alcuni minuti, però, John aprì gli occhi. “Sherlock!” esclamò sorpreso nel vederlo sveglio.
Il detective si voltò verso di lui e gli regalò un sorriso. “John…” disse con un filo di voce.
Rimasero a guardarsi per alcuni istanti, poi Sherlock abbassò istintivamente lo sguardo sulle loro mani che erano ancora intrecciate.
Appena il medico se ne accorse, ritrasse subito la mano con un gesto brusco. “Oh, scusami…devo averlo fatto nel sonno senza volerlo…” si giustificò, arrossendo lievemente per l’imbarazzo.
“Non preoccuparti…” rispose semplicemente il detective, tossicchiando per nascondere il suo disagio.
“Come ti senti?” chiese John, cercando di cambiare discorso.
Sherlock si passò una mano sul petto. “Meglio, ma è come se avessi un peso qui…cosa mi è successo?”
“È normale che ti dia fastidio! …Hai avuto una crisi respiratoria nella mia stanza ed hai perso conoscenza e Mycroft mi ha detto che ne hai avute altre due questa notte…” spiegò il medico con fare professionale.
“Mio fratello è stato qui?” domandò il detective sorpreso.
“Si, ha passato qui tutta la notte. Gli ho dato il cambio poco fa…era distrutto…!” rispose John.
Sherlock non riuscì a nascondere un mezzo sorriso, nel sapere che suo fratello fosse stato al suo fianco per tutto quel tempo. “E tu come stai?” chiese poi, scrutando il suo amico con attenzione.
“Bene…devo solo portare questa medicazione per qualche giorno…” rispose dolcemente il medico. Poi cambiò espressione e divenne improvvisamente serio. “…Sherlock, devi farti aiutare…non puoi continuare ad autodistruggerti in questo modo…questa volta ti è andata bene, ma se continui a prendere quella roba, potresti non essere sempre così fortunato…” aggiunse, abbassando lo sguardo “…ed io non voglio che tu…” continuò, ma non riuscì a terminare la frase.
“John…ti ripeto che ho la situazione sotto controllo…” rispose prontamente Sherlock, spostando lo sguardo altrove.
John si sporse verso di lui leggermente irritato. “Stanotte hai rischiato di morire …questo non mi sembra ‘avere la situazione sotto controllo’, Sherlock!” esclamò, puntandogli un dito contro “…ho già perso mia moglie…non voglio perdere anche il mio migliore amico!” aggiunse, con voce tremante.
Il detective venne colpito da quella frase come una coltellata in pieno stomaco. Per un attimo aveva dimenticato gli avvenimenti della notte scorsa: il rapimento di Victoria, Moran, la morte di Mary. Si sentiva tremendamente in colpa per ciò che era successo. In fondo era stato lui ad organizzare il piano e a mettere tutti in pericolo, facendoli esporre in prima linea contro quel pericoloso criminale. Avrebbe dovuto affrontare Moran da solo, non avrebbe dovuto coinvolgere nessuno. Se Mary era morta, era solo colpa sua e non avrebbe potuto fare niente per rimediare. Abbassò lo sguardo e rimase in silenzio.
Il medico si accorse della sua espressione mortificata. “Sherlock…non è stata colpa tua…” disse, interpretando i suoi pensieri.
“No?... E di chi è stata, allora?” chiese Sherlock leggermente irritato.
“Di Moran e di nessun’altro!” rispose John a tono.
Il consulente investigativo stava per ribattere, ma venne interrotto dal suono del suo cellulare. Si voltò verso il comodino alla sua sinistra e prese velocemente il telefono. Era un messaggio anonimo.


 
- Anche stavolta hai mandato all’aria i miei piani. Preparati per la soluzione definitiva del nostro problema, del problema finale. Questa volta saremo solo tu ed io. SM.


 
Appena lesse il messaggio, sul suo volto apparve un’espressione tirata. “Gliela farò pagare per tutto questo!” esclamò furioso. Era così arrabbiato in quel momento, che avrebbe scaraventato il cellulare sulla parete di fronte. Prese ad ansimare, facendo così aumentare il dolore che già aveva al petto.
John, intanto, aveva preso il telefono dalle mani del detective ed aveva letto il messaggio. “Sherlock…devi calmarti…sei ancora convalescente e non devi agitarti troppo…” disse preoccupato. Le parole di Moran lo spaventavano terribilmente. Cosa intendeva con ‘solo tu ed io’? Avrebbe voluto parlare con Sherlock dei dubbi che aveva sul passato di Mary, avrebbe voluto parlargli dei suoi strani e riscoperti sentimenti, ma decise di non affrontare nessuno di questi argomenti. Lo avrebbe fatto in un altro momento, avrebbe aspettato che il suo migliore amico stesse meglio.


 
Sherlock venne dimesso qualche giorno dopo. John e Mycroft si erano alternati a tenergli compagnia in ospedale e, quando il lavoro glielo permetteva, anche Greg era stato presente.
Il funerale di Mary si era svolto il giorno dopo la sua morte. Nonostante le insistenze di John, preoccupato per il suo stato di salute, il detective volle comunque partecipare e stare vicino al suo amico. Il medico alla fine dovette cedere e gli fece dare un permesso dall’ospedale, a patto di ritornare nella struttura subito dopo la funzione.
Moran, dopo il messaggio, era sparito di nuovo e ciò non faceva augurare niente di buono.

 
Nei giorni dopo il rientro a casa del detective, il medico era particolarmente inquieto, sia per quello che avrebbe potuto organizzare quel pazzo criminale e sia per alcuni dubbi che gli affollavano la mente. Adesso che Sherlock era di nuovo a casa, infatti, non sapeva cosa fare. Era giusto continuare a restare a Baker Street? In fondo prima c’era Mary ad occuparsi di Victoria, ora invece spettava a lui e non sapeva neanche da dove cominciare. Era giusto portare quel caos nella vita del suo migliore amico? D’altronde, però, non poteva neanche lasciare Sherlock da solo. Aveva troppa paura che la tentazione lo avrebbe portato a drogarsi di nuovo. Mentre era seduto sulla sua poltrona a porsi tutte queste domande nella sua testa, Sherlock si sedette di fronte a lui ed iniziò ad osservarlo con il suo solito sguardo indagatore.
“C’è qualcosa che ti turba” disse il detective. Come al solito non era una domanda, ma un’affermazione.
Nel sentire la voce del consulente investigativo, John si ridestò improvvisamente dai suoi pensieri. “Cosa hai detto?” chiese confuso.
Sherlock sbuffò spazientito. “Sai che odio ripetermi…ho detto che c’è qualcosa che ti turba…te lo si legge in faccia!” esclamò con fare teatrale.
“Si…in effetti c’è qualcosa…” rispose il medico, sospirando pesantemente. “…stavo pensando che… non so se sia il caso di continuare a stare qui a Baker Street…” aggiunse titubante.
Sul viso del detective apparve un’espressione confusa e leggermente delusa.
“Non che non voglia restare!” si affrettò ad aggiungere John, notando la reazione dell’amico. “…È solo che adesso che non c’è Mary, devo occuparmi da solo di Victoria…e non voglio portare questo caos nella tua vita…” continuò, tenendo lo sguardo basso. Non riusciva più a guardare Sherlock dritto negli occhi, se non per pochi istanti. Aveva paura che potesse leggere nel suo sguardo ciò che provava ogni volta che stavano insieme, aveva paura che potesse leggere il suo cuore.
“Ma non essere ridicolo, John!” esclamò il detective “…Come puoi notare la mia vita è già un caos anche senza di voi!” aggiunse con sarcasmo, indicando il disordine nel soggiorno. “…E poi lo sai che questa resterà sempre casa tua…” continuò, ritornando serio.
Il medico sorrise ed annuì, contento di aver risolto almeno uno dei tanti problemi.
 
Dopo alcuni istanti passati in silenzio, John si fece coraggio ed affrontò uno dei due argomenti delicati, che gli giravano in testa. “Sherlock…voglio che adesso tu sia completamente sincero con me…cosa sapevi di Mary, che mi hai tenuto nascosto?... Cosa volevano dire le parole che vi siete detti quella sera a Waterloo Gardens?” chiese a bruciapelo.
Sherlock sospirò. “Ormai non credo che serva parlarne…”
“E invece dobbiamo farlo!... Era mia moglie ed ho il diritto di sapere la verità!” esclamò John.
Il detective ci mise un po' a rispondere. Non era sicuro se dirgli tutto fosse la cosa giusta da fare, ma ora che Mary era morta forse poteva anche farlo. “Quando ho finto la mia morte ho chiesto a Mycroft di tenerti d’occhio…e lui l’ha fatto nell’unico modo che conosceva…ha assunto qualcuno che gli desse costanti informazioni sul tuo conto…” disse titubante “…quel qualcuno era Mary…” aggiunse, fermandosi a guardare il suo migliore amico, per capirne la reazione.
Il medico rimase sconcertato da quella frase. Quindi era tutto finto? Il fatto che Mary fosse entrata nella sua vita era stata tutta una manovra di Mycroft?
“So cosa stai pensando e ti sbagli” continuò prontamente Sherlock, leggendo i suoi pensieri. “…Mary è stata assunta da Mycroft per controllarti, ma ciò che è successo dopo non era finto e non era stato programmato…” aggiunse, abbassando lo sguardo “…lei si era innamorata realmente di te, per questo dopo il mio ritorno non ha lasciato il lavoro, così come da accordi, ma è restata al tuo fianco…”
“E tu sapevi tutto fin dall’inizio?” chiese John irritato.
“No…ho iniziato a sospettare qualcosa dopo che Mary mi ha sparato nell’ufficio di Magnussen” rispose il detective “…pensaci, John…non c’è niente di strano che hai notato quella sera?”
Il medico rifletté qualche istante, ripercorrendo tutti i momenti da quando avevano fatto irruzione in quell’ufficio. “Come ha fatto ad entrare?” domandò all’improvviso.
Sul volto di Sherlock apparve un sorriso compiaciuto. “Ottima domanda!” esclamò soddisfatto. “…È stato questo che mi ha fatto pensare…noi siamo entrati dall’unica via di accesso all’attico di Magnussen…se Mary fosse entrata di lì avremmo dovuto vederla o se fosse entrata prima di noi, Janine me lo avrebbe detto, ne sono sicuro…quindi da dove è entrata? E soprattutto, da dove è uscita considerando che tu ti trovavi di sotto davanti all’unica via di fuga?”
John rifletté qualche istante. “Dal tetto!” esclamò.
“Ma come faceva Mary a ritrovarsi con un elicottero a disposizione? Chi ha la possibilità di requisirne uno con tanta facilità?” chiese il detective, aspettando che fosse il suo migliore amico a rispondere.
“Mycroft…” rispose il medico, scuotendo il capo incredulo.
“È per questo che mio fratello non voleva che mi immischiassi nel caso di Magnussen…perché stava già organizzando un modo per incriminarlo con l’aiuto di Mary!... Lei naturalmente in cambio avrebbe avuto la distruzione dei documenti in suo possesso e la cancellazione definitiva delle prove sul suo passato” spiegò Sherlock serio.
“Quindi quando eravamo qui a Baker Street e mi hai detto che potevo fidarmi di Mary, era per questo motivo?... Perché sapevi che lavorava per tuo fratello?” domandò John.
Il detective annuì semplicemente, spostando lo sguardo altrove.
“Perché quella sera non me lo hai detto?” chiese il medico confuso.
“Perché ti conosco, John!... Se avessi saputo anche questo, non l’avresti mai perdonata…” rispose Sherlock, continuando a tenere gli occhi sul pavimento.
Dopo quella risposta, John rimase ancora più confuso. In fondo Mary lo aveva quasi ucciso. Si, era d’accordo con suo fratello e sapeva le ragioni che l’avevano portata a tale gesto, ma perché si era sempre ostinato a difenderla? “Non capisco…” disse, dando voce ai suoi pensieri “…perché volevi così tanto che io la perdonassi?... Anche se era d’accordo con Mycroft, ciò non toglie il fatto che ti abbia sparato a sangue freddo…”
Il consulente investigativo ci mise un po' per rispondere a quella domanda. Possibile che John non ci arrivasse? Possibile che non avesse ancora capito che lo aveva fatto per lui? Ogni gesto e ogni azione che aveva compiuto negli ultimi mesi, li aveva fatti per lui. Sospirò pesantemente prima di parlare. “Perché lei ti rendeva felice…” riuscì a dire soltanto.
Il medico rimase di stucco. Quindi alla base di tutto c’era la sua felicità? Lui aveva sacrificato tutto, pur di assicurarsi che fosse felice? Per l’ennesima volta, si diede dell’idiota. Lo faceva spesso ultimamente, ma era l’unica parola che potesse descriverlo a pieno. “Quindi hai fatto tutto per me?” chiese ingenuamente “…Anche Magnussen…tu non l’hai ucciso per proteggere Mary…ma per proteggere me?” continuò incredulo. Solo dopo averle dette, si accorse di quanto fossero stupide quelle domande. Era ovvio che Sherlock avesse fatto tutto per lui, lo avrebbe capito anche un imbecille…tranne lui, naturalmente.
Quelle domande misero il detective a disagio. L’argomento stava prendendo una brutta piega e non voleva che John capisse che alla base di ogni suo gesto non c’era un sentimento di sola amicizia, ma c’era molto di più. Non voleva che capisse ciò che provava, non voleva che riuscisse a leggere nel suo cuore. In fondo John non era gay e la cosa gli sarebbe risultata sicuramente ridicola. In effetti è così che si sentiva in quel momento: ridicolo. Lui, il grande Sherlock Holmes, che aveva ingannato tutti facendosi credere una ‘macchina senza cuore’, ora si ritrovava a provare questo genere di sentimenti nei confronti del suo migliore amico. Ma che gli stava succedendo? Come aveva fatto a cambiare così tanto? Si accorse che John lo stava guardando. Aveva lo sguardo impaziente e pretendeva una risposta. “È ovvio, John…tutto ciò che ho fatto...l’ho fatto sempre e solo per te…” riuscì a dire soltanto, cercando di nascondere un leggero tremore di voce.
Il medico, dopo quelle parole, rimase a fissarlo intensamente per qualche istante. Poi si alzò e si avvicinò a Sherlock, inginocchiandosi al lato della sua poltrona, continuando a guardarlo dritto negli occhi. Un forte e inconsueto desiderio si era impadronito di lui. Non gli importava di come avrebbe reagito il suo amico, era una cosa che doveva fare o sarebbe impazzito.
Il detective era come pietrificato. Nel vedere il viso di John avvicinarsi sempre di più, non riusciva a respirare. Sentiva il cuore battergli all’impazzata, come se stesse per uscirgli dal petto da un momento all’altro. Erano così vicini che riusciva a sentire il respiro dell’altro, solleticargli il viso. “John…” disse con un filo di voce. Riuscì a dire solo il suo nome, nient’altro.
Le loro labbra riuscirono a sfiorarsi impercettibilmente, provocando ad entrambi un brivido lungo tutto il corpo. Proprio mentre stavano per baciarsi con più decisione, qualcuno entrò all’improvviso nel soggiorno.
“Sherlock, devo parlarti!” esclamò Greg, entrando di corsa.
Il medico si alzò di scatto da terra e tossicchiò, grattandosi la testa in un gesto imbarazzato.
Anche Sherlock scattò in piedi e si mise a giocherellare nervosamente con le mani.
All’ispettore non sfuggirono quegli strani comportamenti e rimase a guardarli per qualche istante, decisamente confuso.
“Lestrade vuoi deciderti a dirmi perché sei qui? O hai intenzione di rimanere lì impalato per tutto il giorno?” esclamò il detective con il suo solito tono di superiorità, cercando di mascherare il suo imbarazzo.
Greg parve ridestarsi dal tono di Sherlock “Oh, sì…devi venire con me!... Moran ti ha lasciato un messaggio…”.








Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il quindicesimo capitolo. Per quanto riguarda Sherlock e John si è capito che sono due idioti...provano le stesse cose, ma si creano quasi gli stessi problemi sulla reazione dell'altro! Greg che è sempre nel posto giusto al momento giusto, questa volta ha avuto un pessimo tempismo...ma poverino per una volta lo possiamo perdonare. XD

Per quanto riguarda Mary, la teoria spero sia chiara. In "the abominable bride" si vede Mary lavorare per Mycroft e considerato il fatto che ci troviamo nella mente di Sherlock, possiamo anche dedurre che, quello che vediamo, è ciò che in realtà pensa il detective su di loro...quindi potrebbe sapere qualcosa che non ha svelato a John quella sera a Baker Street. Secondo la mia teoria quindi Mycroft ha assunto Mary per controllare John (quando Sherlock era "morto") e aveva anche provato a dirlo a suo fratello quando gli ha mostrato quella cartellina al suo ritorno...cartellina che il detective ha quasi ignorato del tutto. Poi Mary si è innamorata realmente di John e se l'è sposato. Per quanto riguarda la sera in cui Sherlock e John hanno fatto irruzione nell'ufficio di Magnussen, ho sempre avuto dei dubbi su come Mary possa essere entrata e, in particolare, su come sia potuta uscire visto che John si trovava vicino all'uscita con Janine svenuta. Sherlock nel suo racconto infatti non fa cenno a come abbia fatto, quindi potrebbe esserci qualcosa nascosto dietro. Il racconto del detective e le motivazioni sul perchè John possa fidarsi di Mary mi sembrano un pò tirate (soprattutto il fatto su chi abbia chiamato prima l'ambulanza), quindi ho pensato che ci fosse qualcos'altro. Inoltre Mycroft, considerato quanto sia legato a suo fratello, possibile che non si sia dato da fare per capire chi, quella sera, lo aveva sparato? E soprattutto se l'avesse scoperto, possibile che non abbia del risentimento verso la donna cha l'ha quasi ucciso? Se Mary lavorasse per lui avrebbe più senso (credo..). Infine alla cena di natale in casa Holmes... è un caso che Mycroft abbia portato quel computer tanto importante e che faccia allusioni sul punch (drogato da Sherlock)? Non credo...penso che i due fratelli fossero d'accordo e che abbiano avuto modo di parlare in un momento non mostrato nella serie, chiarendo magari anche il ruolo di Mary e tutta la situazione che c'era intorno. (Spero di essere stata chiara)

Quale sarà la prossima mossa di Moran?Lo scoprirete nel prossimo capitolo e vi anticipo che non sarà niente di buono...anzi! 

Grazie a chi continua a seguire la storia e le mie folli teorie. Grazie a chi vuole lasciare un commento...alla prossima ;)

 

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Capitolo 16
*** I'm scared ***


                      Miss me?






                                                  I'm scared 





… “Lestrade vuoi deciderti a dirmi perché sei qui? O hai intenzione di rimanere lì impalato per tutto il giorno?” esclamò il detective con il suo solito tono di superiorità, cercando di mascherare il suo imbarazzo.
Greg parve ridestarsi dal tono di Sherlock “Oh, sì…devi venire con me!... Moran ti ha lasciato un messaggio…”.
 



 
Dopo aver lasciato Victoria dalla signora Hudson, Sherlock e John andarono con Lestrade nel luogo in cui si trovava il presunto messaggio di Moran.
L’auto dell’ispettore si fermò in Davies Street, davanti ad un cantiere edile. Al suo interno, quella mattina, gli addetti ai lavori avevano trovato il cadavere di un uomo, probabilmente ucciso durante la notte.
Il detective e il medico vennero condotti nel punto dove giaceva il corpo. Poco più a destra, su un muro in costruzione, c’era un messaggio scritto con una bomboletta spray: Get Sherlock!
 
“Tutto qui?” chiese John confuso.
“Si…pensavo che dal cadavere avreste ottenuto qualche indizio” rispose Greg “…che ne pensi?” domandò rivolgendosi a Sherlock.
Il consulente investigativo non rispose. Dopo aver osservato la scritta attentamente per qualche istante, si avvicinò al corpo ed iniziò a ispezionarlo alla ricerca di un indizio lasciato da Moran. “Deve esserci qualcos’altro…non può aver lasciato solo questo…” borbottò tra sé e sé. Appena mise la mano nella tasca interna della giacca dell’uomo, toccò un pezzo di carta. Lo tirò fuori e lo aprì con cautela. Era un altro messaggio indirizzato a lui.

Sali sul taxi che ti sta aspettando, ti condurrà da me. Vieni da solo. Se provi ad avvisare i tuoi amici, il dottor Watson morirà. SM

Dopo aver letto il biglietto, il suo cuore perse un battito. Si voltò verso John e si accorse della canna di un fucile che fuoriusciva da una finestra del palazzo alle sue spalle.
“Hai trovato qualcosa?” chiese il medico.
Sherlock appallottolò il biglietto e lo mise in tasca. “Niente…solo uno scontrino di un fast-food!” esclamò prontamente. Poi spostò di nuovo lo sguardo sul corpo a terra e la vide. Moran era molto astuto, doveva ammetterlo. C’era una cimice sul bordo della giacca del cadavere. L’uomo appostato alla finestra stava sicuramente ascoltando la loro conversazione, per poter fare fuoco nel caso in cui avesse rivelato qualcosa sull’appuntamento.
“Sherlock stai bene?” chiese Lestrade, preoccupato dal suo improvviso pallore.
“Certo, sto bene!” rispose il detective, cercando di mascherare il tremore di voce.
John lo scrutò con attenzione. “Sei sicuro? Hai una faccia…!”
“Si…devo andare!” esclamò Sherlock, mentre riprendeva a fissare la canna del fucile con la coda dell’occhio. “…Devo controllare una cosa…”
“Bene, andiamo…” disse il medico.
“No…devo andare da solo…ci troviamo più tardi a Baker Street…” rispose prontamente il detective, avviandosi di corsa verso l’uscita del cantiere e lasciando i due senza parole.
“Sherlock!” lo chiamò John, mentre gli correva dietro.
Sherlock però non rispose e non si voltò. Prima che il medico potesse raggiungerlo, era già sparito dentro ad un taxi.

Lestrade raggiunse John qualche istante dopo. “Se n’è andato?” chiese confuso.
“Si…non capisco cosa gli sia preso!” rispose il medico pensieroso. In quel momento gli venne in mente ciò che era successo a Baker Street. Forse Sherlock era rimasto sconvolto dal suo gesto. In effetti lo aveva preso alla sprovvista e sapeva che avrebbe potuto avere una reazione del genere, ma non credeva che potesse arrivare a turbarlo tanto. Eppure durante il tragitto nell’auto di Greg sembrava tranquillo. Ripercorse gli ultimi avvenimenti nella sua testa e si rese conto che la sua espressione era cambiata da quando aveva trovato quel fantomatico scontrino. E se fosse stato qualcos’altro? Se fosse stato un messaggio di Moran? Fu allora che il panico lo travolse. Forse Sherlock era andato ad un appuntamento con quell’assassino con l’intenzione di affrontarlo da solo. “Santo cielo!” esclamò, passandosi nervosamente le mani nei capelli.
“Che succede?” domandò Greg allarmato.
“Ho paura che Sherlock sia andato da solo ad affrontare Moran!” rispose John con voce tremante.
Lestrade si voltò terrorizzato “Cosa?”
“Hai visto quel pezzo di carta che Sherlock ha messo in tasca?” chiese il medico pensieroso.
“Lo scontrino?” domandò a sua volta Greg.
John annuì. “Si… dopo averlo trovato, Sherlock ha cambiato espressione…non credo che si trattasse di uno scontrino…qualcosa mi dice che in realtà era di un messaggio di Moran…”
“Cristo Santo!” esclamò Lestrade “…Se è così dobbiamo capire dov’è andato…e c’è solo una persona che può aiutarci…”

 
Sherlock entrò velocemente nel taxi. Sentiva John alle sue spalle, poco distante da lui, che lo chiamava con insistenza, ma non poteva voltarsi, non poteva metterlo in pericolo. Appena salì sulla vettura, prese il cellulare con l’intenzione di mandare un messaggio al suo amico e fargli capire la situazione. Non fece in tempo a toglierlo dal cappotto, però, che l’autista parlò. “Dammi il cellulare…non crederai che sia così stupido da permetterti di avvisare i tuoi amici!” esclamò, porgendogli la mano.
Sherlock rimase sorpreso nel sentire quella voce e restò immobile con il telefono in mano. Cosa ci faceva lui lì?
“Avanti, Sherlock…non costringermi a minacciarti di nuovo…sai che il mio uomo è ancora lì a tenere il tuo caro dottore sotto tiro!” continuò Moran.
“Tu…cosa…” provò a dire il detective, ma era rimasto così spiazzato, da non riuscire a terminare la frase.
“Noto con piacere che non te lo aspettavi!... Pensavi davvero che ti stessi aspettando da qualche parte, mentre tu avresti avuto il tempo di mandare un messaggio per chiedere aiuto, vero?” canzonò il cecchino. “…Ora dammi il telefono” ripeté serio.
Sherlock non poté fare altro che consegnare il cellulare al suo nemico. Non poteva rischiare che il cecchino su quel palazzo uccidesse John, in fondo non sapeva se il suo migliore amico si trovasse ancora lì sotto tiro.
Moran prese il telefono, lo spense, tolse la batteria e gettò tutti i pezzi fuori dal finestrino. Non voleva rischiare che la polizia riuscisse a rintracciarlo tramite GPS. “Bene…visto che una questione è stata risolta, possiamo anche andare!”
“Dove mi stai portando?” chiese il detective, cercando di apparire freddo e distaccato. In realtà non riusciva a capire quali fossero le sue intenzioni e il non sapere lo spaventava.
“In un bel posticino…vedrai…ti piacerà…stavolta ho organizzato un piccolo giochetto soltanto per noi due, così nessuno potrà disturbarci…” rispose il cecchino con un sadico sorriso.
Dopo un po' di cammino, arrivarono davanti alla Battersea Power Station, una centrale idroelettrica abbandonata. Moran fermò il taxi davanti all’ingresso, scese ed aprì lo sportello del detective, minacciandolo con una pistola. “Scendi, sbrigati…”
Sherlock, però, rimase fermo. “E se io non volessi seguirti?... Puoi anche uccidermi non mi importa!” disse con aria di sfida. Sapeva che il suo nemico non lo avrebbe mai ucciso, per non privarsi del gusto di continuare il suo gioco.
Moran scoppiò a ridere. “Ma come siamo coraggiosi!” esclamò divertito “…Io vorrei solo ricordarti che non ho ancora dato ordine al mio uomo in Davies Street di andarsene!”
“Sicuramente John se ne sarà già andato da lì…” disse il detective, cercando di apparire convinto. In effetti era quasi sicuro che il suo migliore amico se ne fosse ormai andato da quel cantiere, ma comunque non poteva averne la certezza.
“Ne sei così sicuro?” domandò il cecchino divertito “…Te la senti di giocare con la vita del dottor Watson? …Te la senti di rischiare tanto?” aggiunse, prendendo il cellulare dalla tasca ed iniziando a scrivere un sms. “…Basta che io invii questo messaggio…” continuò subito dopo.
Sherlock venne assalito dal panico. Se in gioco ci fosse stata la vita di uno sconosciuto, probabilmente avrebbe rischiato. Ma si trattava di John e se anche la più alta percentuale di probabilità indicava chiaramente che non si trovasse più lì, non poteva comunque accettare quella scommessa. Si ritrovò a pensare nuovamente alle parole di Mycroft: “…Provare sentimenti non è un vantaggio, Sherlock…”. Ancora una volta doveva dargli ragione. In quel momento, infatti, si trovava in netto svantaggio proprio a causa di ciò che provava per John. “No, aspetta!” esclamò all’improvviso.
Sul viso di Moran apparve un sorriso soddisfatto. “Ne ero sicuro…andiamo…”.
 
 
John e Greg si recarono di corsa al Diogenes Club. Il cellulare di Sherlock risultava spento e ciò avvalorava maggiormente l’ipotesi del medico. Per riuscire a capire dove fosse andato, avevano bisogno dell’aiuto di Mycroft. Solo attraverso le registrazioni delle telecamere di sorveglianza della città potevano riuscire a capire il percorso del taxi.
“Che succede?” chiese il politico, appena vide i due entrare nel suo ufficio.
John raccontò ciò che era successo. “Penso che Sherlock sia andato ad affrontare Moran da solo…dobbiamo capire dove sia andato e ci serve il tuo aiuto…” disse con urgenza.
Mycroft parve riflettere sulle parole del medico. “Da quello che mi hai raccontato, penso che tu abbia ragione…” rispose pensieroso. “Faccio un paio di telefonate…”.
Il medico, intanto, aveva iniziato a camminare nervosamente per la stanza, passandosi le mani nei capelli ed ansimando leggermente.
“John…” lo chiamò Greg, afferrandolo da un braccio. “…calmati…” aggiunse, guardandolo dritto negli occhi.   
“Ho paura, Greg…” confessò John con voce tremante.
Lestrade gli mise entrambe le mani sulle spalle. “Lo so…vedrai che lo troveremo…” disse, sforzandosi di sorridere nel tentativo di tranquillizzarlo.
Il medico annuì non molto convinto. Nonostante le parole di Greg, non riusciva a calmarsi. Se fosse successo qualcosa a Sherlock, non lo avrebbe sopportato.

 
Sherlock venne condotto da Moran in una stanza all’interno della centrale abbandonata. Appena entrò, un brivido di paura gli attraversò tutto il corpo. Lì dentro, infatti, il cecchino aveva allestito una vera e propria sala delle torture, con armi e attrezzi sparsi ovunque. In fondo alla stanza, inoltre, c’erano delle catene appese al soffitto.
Moran spinse il detective verso le catene e, continuando a puntargli l’arma contro, lo costrinse a legarsi un polso ad una di esse. Poi con cautela fece la stessa cosa con l’altro.
“Quindi è questo che vuoi farmi?... Vuoi torturarmi?... Mi aspettavo qualcosa di meglio da te…” lo provocò Sherlock, cercando di mascherare la paura che provava in quel momento. In realtà era davvero terrorizzato da ciò che il suo nemico potesse fargli. Quella stanza, quelle catene e quegli attrezzi gli portarono alla mente i giorni di prigionia e di torture che aveva subito in Serbia. Dovette fare uno sforzo enorme per contenere un attacco di panico. Non poteva mostrarsi debole e spaventato. Non poteva dargli questa soddisfazione.  
“Credi che il gioco sia così semplice, Sherlock?... Così mi deludi” rispose Sebastian, mostrando un finto broncio “…i tuoi amici non sono così stupidi, lo so…soprattutto il dottor Watson…troveranno il modo di rintracciarci e quando lo faranno…io sarò qui ad aspettarli!” aggiunse con aria divertita.
“Sei un lurido bastardo!” urlò il detective, strattonando le catene. “Avevi detto che non avresti coinvolto nessuno!”
Moran scoppiò a ridere “Si…l’ho detto…ma ho mentito!... Comunque… intanto che aspettiamo…dobbiamo passare il tempo in qualche modo…sai, è da quando sono stato in Corea del Nord, che non mi diverto a torturare qualcuno…” disse con uno sguardo da pazzo.
Sherlock deglutì a vuoto. Non aveva idea di cosa avesse in mente il suo nemico, ma quello sguardo non prometteva niente di buono.
Il cecchino si voltò di scatto e si mise a frugare tra gli attrezzi che erano a terra in un angolo. “Oh, eccoti qui!” esclamò, tirando fuori una frusta. Poi afferrò anche una grossa forbice con l’altra mano e si avvicinò al detective. “Per cominciare voglio metterti comodo…” disse, mentre iniziava a tagliare il cappotto, riducendolo in mille pezzi. Subito dopo toccò alla sciarpa, alla giacca e alla camicia. “…Che peccato, credo di averteli rovinati…spero non ti dispiaccia!” aggiunse, cominciando a ridere.
Il consulente investigativo non rispose. Si limitò a lanciargli uno sguardo furioso.
Moran si fece serio all’improvviso. Avvicinò la punta della forbice al petto ormai nudo di Sherlock ed iniziò a muoverla minacciosamente sulla sua pelle pallida. Poi la gettò a terra sgraziatamente, si allontanò di qualche passo e assestò il primo colpo di frusta. Dopo qualche istante assestò il secondo, subito dopo il terzo e continuò così a colpirlo ripetutamente senza sosta.
Il detective si aggrappò a tutto il suo auto controllo per non gemere dal dolore. Non voleva dargli questa soddisfazione. In quel momento, però, non poté fare a meno di ricordarsi della Serbia e dei giorni passati a subire lo stesso doloroso trattamento. Chiuse gli occhi, nel tentativo di non perdere il controllo dei propri respiri e rimase a sopportare in silenzio, mentre alcune lacrime iniziarono a rigargli il viso.

 
Dopo qualche telefonata e quasi una mezz’ora di attesa, Mycroft riuscì ad ottenere le informazioni che stava cercando. “Il taxi su cui è salito Sherlock si è fermato alla Battersea Power Station…”.
“La centrale abbandonata?” domandò John preoccupato.
Il politico annuì. “Andiamo…alcuni uomini dell’MI6 ci stanno aspettando già lì!” esclamò precipitandosi fuori dall’ufficio, con il medico e l’ispettore al seguito.
“Avviso le due volanti che sono di pattuglia in quella zona, così potranno raggiungerci…” disse Greg, mentre saliva in macchina.
Durante il tragitto John rimase in silenzio ad osservare fuori dal finestrino. Pregava con tutto sé stesso che Sherlock stesse bene e che riuscissero ad arrivare in tempo per salvarlo. E se Moran lo avesse ucciso? Il solo pensiero di perderlo gli faceva mancare l’aria. Era una cosa che non poteva accettare, non dopo aver finalmente chiarito nel suo cuore ciò che provava per lui.
 
Arrivati davanti alla centrale John, Greg e Mycroft trovarono le forze armate dell’MI6 e di Scotland Yard già pronti ad intervenire. I tre entrarono velocemente con tutti gli uomini al seguito. Dopo aver ispezionato buona parte della centrale arrivarono ad un lungo corridoio, che conduceva ad una porta. Si avvicinarono con cautela, cercando di fare meno rumore possibile e la aprirono lentamente. Al suo interno trovarono Sherlock, ma di Moran sembrava non esserci alcuna traccia.
“Cristo Santo!” esclamò Greg, vedendo le condizioni del detective. Era legato con i polsi a delle catene collegate al soffitto. Aveva il busto completamente ricoperto di tagli e il sangue, che fuoriusciva copiosamente, aveva creato una piccola pozza ai suoi piedi. La testa era bassa e sembrava privo di sensi.
“Sherlock!” urlò John, precipitandosi verso di lui. “Aiutatemi, presto…” aggiunse, provando a slegarlo dalle catene. In quel momento, però, capì che il suo migliore amico non era svenuto. Manteneva la testa bassa, gli occhi chiusi e si lamentava sommessamente. “Sherlock…” lo chiamò di nuovo. Fu allora che si accorse che stava piangendo. Da quando lo conosceva, solo in un’occasione lo aveva visto piangere: prima di lanciarsi nel vuoto dal tetto del Bart’s. Cosa gli aveva fatto Moran per ridurlo in quello stato?
 
Non appena riuscirono a slegarlo, il medico lo sorresse e lo aiutò a sedersi a terra, facendolo poggiare con la schiena al muro. “Ehi…sono qui…è tutto finito…” disse con dolcezza, accarezzandogli i capelli.
Sherlock aprì gli occhi ancora pieni di lacrime ed incontrò quelli di John. “Moran si è nascosto…da qualche parte…” rispose con voce rotta. Non riusciva a smettere di piangere. Nonostante provasse a riprendere il controllo, non riusciva a fermare le lacrime che continuavano a rigargli il viso. Era riuscito a seppellire il ricordo di quell’orribile prigionia in Serbia, in una parte profonda del suo palazzo mentale, ma adesso, dopo ciò che gli aveva fatto Moran, tutte le immagini, tutta la paura e tutto il dolore che aveva provato allora, lo stavano travolgendo senza che riuscisse ad impedirlo.
“Ispezionate tutto l’edificio!” ordinò Mycroft, rivolgendosi ai suoi uomini.
Il medico, intanto, stava cercando di tamponare le ferite con alcuni brandelli di vestiti, che aveva trovato a terra. “Santo cielo…cosa ti ha fatto?” chiese con voce tremante.
Il detective non rispose. Si limitò a negare con il capo, mentre altre lacrime gli uscivano senza controllo. “Dobbiamo trovare Moran…” disse poi, provando a mettersi in piedi.
“Stai sanguinando…devi rimanere seduto!” esclamò John preoccupato.
Sherlock si alzò e poggiò una mano al muro per reggersi meglio. “Ce la faccio…” disse, iniziando a guardarsi intorno alla ricerca di qualche indizio, che indicasse la presenza del cecchino.
 
Dopo alcuni minuti gli uomini dell’MI6 ritornarono nella stanza. “L’edificio è completamente vuoto…”
“Bene…allora possiamo andare fuori di qui…” disse Greg, facendo segno agli agenti di precederli con le armi puntate per precauzione.
 
Uscirono tutti dalla fabbrica con molta cautela. John aiutò Sherlock a camminare, tenendolo saldamente dalla vita.
“Non ha senso…” disse il detective, trattenendo una smorfia di dolore.
“Cosa?” chiese il medico.
“Moran ha detto che vi avrebbe aspettato e si sarebbe divertito con voi…non può essersene andato…” rispose Sherlock confuso.
 
Si trovavano da qualche minuto davanti all’ingresso della fabbrica, quando all'improvviso iniziarono gli spari. L’unico posto che non era stato controllato era il tetto. Moran si trova lì con alcuni dei suoi uomini ed aveva iniziato a sparare all’impazzata.
“Dobbiamo metterci al riparo!” esclamò Sherlock, correndo con John verso un’auto della polizia.
Solo dopo essere arrivato dietro la vettura, il medico si accorse che il suo migliore amico non era più dietro di lui. “Sherlock!” urlò, sporgendosi leggermente per capire dove fosse.
Il detective era caduto a terra in ginocchio. A causa di tutto il sangue perso, iniziava a sentirsi debole e le gambe gli avevano ceduto all’improvviso. In quel momento qualcuno si avventò su di lui, facendogli da scudo contro i proiettili che arrivavano dall’altro.
Dopo alcuni istanti arrivò un elicottero che si fermò sopra l’edificio. Con l’aiuto di una scaletta alcuni uomini dell’MI6 si calarono sul tetto, riuscendo a circondare Moran e i suoi complici, che dovettero arrendersi. Vennero, così ammanettati e condotti di sotto verso le auto della polizia.
 
Sherlock si ritrovò sdraiato a terra. Chiunque si fosse avventato su di lui, gli aveva salvato sicuramente la vita, impedendo che venisse colpito dai proiettili del cecchino. Con molta fatica provò a girarsi e a capire chi fosse. Il suo cuore perse un battito quando riuscì a vedere il suo volto. “Mycroft!” urlò spaventato. 








Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il sedicesimo capitolo! Beh, Moran aveva organizzato un giochetto con i fiocchi stavolta! Finalmente è stato arrestato...e speriamo che stavolta sia la volta buona....mah...! 

Sherlock è stato attirato in una bella trappola, ma per fortuna il nostro caro dottore non è poi così stupido ed è riuscito a capire che qualcosa non andava! 

Il finale ve l'ho lasciato un pò in sospeso (sono un pò cattivella, lo so...)... Mycroft non ci ha pensato due volte a fare da scudo al suo fratellino... *.* Per sapere le sue sorti, però, dovrete aspettare il prossimo capitolo! 

Grazie come sempre a chi segue la storia e chi vuole lasciare un commento...alla prossima ;)

 

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Capitolo 17
*** Brotherly love ***


                   Miss me?







                                        Brotherly love





… Sherlock si ritrovò sdraiato a terra. Chiunque si fosse avventato su di lui, gli aveva salvato sicuramente la vita, impedendo che venisse colpito dai proiettili del cecchino. Con molta fatica provò a girarsi e a capire chi fosse. Il suo cuore perse un battito quando riuscì a vedere il suo volto. “Mycroft!” urlò spaventato.
 
 
 




“Sherlock!” gridò John, correndo verso di lui. “Santo cielo…Mycroft…” aggiunse, mentre spostava il corpo del politico, in modo da liberare il suo migliore amico.
“Mycroft!” esclamò di nuovo Sherlock, scuotendo suo fratello con forza.
Il medico voltò Mycroft a pancia in giù per valutare l’entità delle ferite. Era stato colpito da tre proiettili e stava sanguinando copiosamente.
“Cos’è successo?” chiese Greg, avvicinandosi a loro spaventato.
“Greg, chiama subito un’ambulanza…presto!” urlò John, mentre teneva premuto sulle ferite per limitare la perdita di sangue.
Il detective osservava la scena in silenzio. Era pietrificato dalla paura e non riusciva a muoversi.
“Sherlock…” disse flebilmente il politico, aprendo gli occhi.
Sherlock parve ridestarsi all’improvviso nel sentire la voce di suo fratello. “Sono qui…” disse, prendendogli la mano. Fece quel gesto in modo automatico e solo dopo averlo fatto se ne rese conto. Non erano mai stati così vicini, non avevano mai avuto un contatto così intimo.
Mycroft osservò le loro mani intrecciate e non riuscì a non sorridere, mentre cercava di trattenere una smorfia di dolore. “Mi dispiace, Sherlock…per tutto…” disse, ritornando serio.
“Non metterti a fare il sentimentale, adesso!” ironizzò il detective, nel tentativo di reprimere le lacrime che avevano iniziato ad inumidirgli gli occhi.
“Davvero…” continuò, mostrando un’espressione mortificata “…mi dispiace per Sherrinford…io non volevo…che le cose andassero in quel modo…pensavo di fare le scelte giuste…per te e per lui…ma alla fine…in un modo o nell’altro…vi ho perso entrambi…”
“Ora, basta…smettila!” disse Sherlock, con voce tremante.
Mycroft, però, continuò a parlare non curante delle parole di suo fratello. “Mi dispiace anche per Barbarossa…se solo ti avessi dato ascolto…non sarebbe successo niente!... So che non mi hai mai perdonato…e spero che un giorno…tu riesca a farlo…” disse, iniziando a tossire e ad ansimare pesantemente.
“L’ho già fatto…ti ho già perdonato…” rispose il detective, abbassando il viso per nascondere una lacrima che gli rigava la guancia.
“So che non…te l’ho mai detto…ma…ti voglio bene…e te ne ho sempre voluto…” confessò il politico, intensificando la stretta sulla mano del fratello.  
Sherlock, dopo quelle parole, alzò di scatto il volto ed iniziò a guardarlo intensamente. Da bambino aveva desiderato così tanto che Mycroft gli dicesse quelle tre semplici parole, che nel sentirle, non riuscì più a reprimere le lacrime ed iniziò a piangere e a singhiozzare senza controllo. “Anche io…” riuscì a dire soltanto.
Mycroft gli fece un altro dolce sorriso, prima di chiudere gli occhi e perdere conoscenza.
“Mycroft!” urlò il detective in preda al panico. “…Ti prego, svegliati…non lasciarmi…per favore…” aggiunse, scuotendolo con forza.
In quel momento arrivò l’ambulanza. I paramedici caricarono il politico e fecero salire anche Sherlock, per poi correre verso l’ospedale.
John era rimasto in ginocchio sull’asfalto. Aveva lo sguardo perso e continuava a guardare le proprie mani ricoperte di sangue. Non aveva mai visto il suo migliore amico in quelle condizioni, non aveva mai visto tanto dolore nei suoi occhi. Le sue lacrime, le sue suppliche lo avevano distrutto.
“John…” lo chiamò Greg titubante. “Vieni…andiamo in ospedale…” aggiunse, porgendogli la mano.
Il medico la afferrò, mettendosi in piedi. Poi seguì l’ispettore verso la sua auto.
 
 
John e Greg arrivarono in ospedale una mezz’ora dopo l’arrivo dei fratelli Holmes. Il medico era voluto passare prima da Baker Street per prendere qualche vestito per Sherlock, considerando la fine che Moran aveva fatto fare a quelli che indossava.
Vennero informati dall’infermiera alla reception che Mycroft era stato portato d’urgenza in sala operatoria e che Sherlock era stato medicato e stava aspettando nell’apposita saletta d’attesa.
Lo trovarono lì, seduto a terra con le mani sul viso. Era ancora a petto nudo ed aveva il busto quasi completamente ricoperto di bende.
“Sherlock!” lo chiamò John, avvicinandosi a lui. “…Novità?”
Sherlock alzò il viso ancora bagnato dalle lacrime e negò con il capo.
“Tieni…ti ho portato qualcosa da metterti…” disse il medico, porgendogli una camicia ed una giacca.
“Grazie…” rispose il detective con un filo di voce. Poi si alzò con un po' di fatica ed indossò gli indumenti portati da John.
 

Dopo un paio d’ore di attesa senza ricevere notizie, qualcuno uscì finalmente dalla sala operatoria. John e Greg si alzarono di scatto dalle sedute e Sherlock si voltò verso il dottore, iniziando a scrutarlo con attenzione.
“Signor Holmes…” iniziò il chirurgo con uno sguardo serio.
Il detective, però, parve leggere sul suo volto tutto ciò che c’era da sapere. “No…stia zitto!” esclamò con voce tremante, mettendosi le mani nei capelli in un gesto disperato.
Greg e John rimasero sorpresi da quella reazione improvvisa e incrociarono lo sguardo con il chirurgo con aria perplessa. Nel momento in cui l’uomo abbassò lo sguardo e negò con il capo, capirono cos’era successo.
Il medico si passò le mani sul volto. “Santo cielo!”
L’ispettore, invece, non disse niente. Rimase immobile con lo sguardo perso nel vuoto.
“Signor Holmes…mi dispiace…abbiamo fatto il possibile…” provò di nuovo il chirurgo.
“Le ho detto di stare zitto!” urlò Sherlock furioso. Poi si poggiò con le mani al muro ed iniziò ad ansimare pesantemente. “No…no…non di nuovo…” ripeté come una cantilena.
John si avvicinò a lui con le lacrime agli occhi. “Sherlock…” disse titubante. “…Vieni con me fuori…hai bisogno di prendere un po' d’aria…” aggiunse, poggiando delicatamente la mano sul suo braccio.
“Lasciami!” esclamò il detective, rimanendo fermo nella stessa posizione.
Il medico, però, non gli diede ascolto. Intensificò la stretta per fargli sentire la sua vicinanza.
“Ti ho detto lasciami!” gridò Sherlock, liberandosi bruscamente dalla presa dell’amico. Aveva la testa che gli girava e sentiva le gambe tremargli pericolosamente. Stava ansimando e non riusciva a prendere aria. Provò a sostenersi maggiormente al muro, ma la vista gli si appannò all’improvviso e cadde a terra privo di sensi.

 
Sherlock si risvegliò un paio d’ore dopo. Si sentiva confuso e ci mise un po' per capire cosa fosse successo. Fu allora che si ricordò di Mycroft e sentì una dolorosa fitta al petto. Non poteva essere successo davvero, non poteva averlo perso. Appena aprì gli occhi, la prima cosa che vide fu il volto di John che lo guardava preoccupato. Si trovava su un lettino del pronto soccorso ed aveva una flebo attaccata al braccio sinistro. Solo dopo alcuni istanti si accorse che il suo migliore amico aveva la mano intrecciata alla sua.
“Ehi…come ti senti?” chiese il medico, accarezzandogli dolcemente le dita.
Il detective non rispose. Ritrasse improvvisamente la mano in modo brusco, si tolse la flebo e cercò di mettersi in piedi.
John rimase sorpreso da quel comportamento. “Dove stai andando?... Non dovresti alzarti!”
Sherlock si voltò verso di lui e gli lanciò uno sguardo gelido. “Da mio fratello…” disse con voce atona. Poi si voltò e se ne andò, lasciando il medico completamente senza parole.

 
Mentre il detective si dirigeva verso l’obitorio incontrò Greg, che reggeva due caffè tra le mani. Si era allontanato per andare al distributore automatico e stava ritornando verso il pronto soccorso.
“Sherlock!” esclamò l’ispettore sorpreso. “…Come stai?”
Sherlock, però, non rispose. Continuò a camminare con una strana espressione sul viso, oltrepassando Greg senza degnarlo neanche di uno sguardo.
“Sherlock…” provò a chiamarlo Lestrade.
Il detective non si voltò, arrivò in fondo al corridoio e sparì nell’ascensore.
Greg rimase immobile con i due bicchieri ancora tra le mani. Era davvero confuso da quel comportamento, ma ciò che lo aveva turbato maggiormente era stata la sua espressione: sembrava spenta, fredda e priva di emozioni.
“Greg!” disse John alle sue spalle, interrompendo i suoi pensieri. “…Hai visto Sherlock?” chiese con il respiro corto a causa della corsa.
“Si…è passato di qui…ha preso l’ascensore…” rispose l’ispettore con aria perplessa.
“Come ti è sembrato?” domandò il medico.
Lestrade rifletté qualche istante prima di rispondere. “Non mi ha degnato di uno sguardo né di una parola…sembrava…freddo…”
John si passò le mani sul viso con sconforto. Poi sospirò pesantemente e abbassò lo sguardo. “Finalmente stava cominciando ad aprirsi con me…ho paura che ciò che è successo lo porti a chiudersi di nuovo in sé stesso…”
“È sconvolto, John…vedrai che con un po' di tempo ritornerà il solito Sherlock!... Dobbiamo stargli vicino…ha bisogno di noi, ora più che mai…” disse Greg con tono rassicurante.
Il medico annuì soltanto e si avviò con l’ispettore verso l’obitorio.

 
Arrivati davanti alla porta della stanza dove giaceva il corpo di Mycroft, trovarono Sherlock immobile con la maniglia in mano e lo sguardo perso nel vuoto.
John si avvicinò titubante. “Vuoi che entriamo con te?”
“No!” rispose secco il detective, aprendo la porta con un gesto improvviso e chiudendola alle proprie spalle.
 
Sherlock entrò nella stanza con il cuore che gli batteva all’impazzata. Aveva paura di vedere il corpo di suo fratello. In cuor suo sperava che si trattasse soltanto di un brutto sogno, voleva solo svegliarsi e vedere Mycroft ancora vivo. Voleva potergli dire che era di nuovo ingrassato e divertirsi con la sua espressione infastidita. Voleva vedere il suo sguardo soddisfatto mentre gli rispondeva a tono, affermando di essere dimagrito. Voleva punzecchiarlo come faceva sempre durante i loro giochi sulle deduzioni. Cercando di mantenere il controllo, fece un profondo respiro e si avvicinò al corpo.
In quel momento entrò Molly. Inizialmente non disse niente, ma si limitò ad osservarlo con aria dispiaciuta. Dopo alcuni istanti si fece coraggio e si avvicinò a lui. “Sherlock…mi dispiace…”.
“Vai fuori!” rispose prontamente il detective.
“Sherlock…” provò di nuovo la donna, ma venne interrotta.
“Fuori di qui!” urlò Sherlock furioso.
Molly scappò dalla stanza con le lacrime agli occhi, spaventata da quel tono aggressivo.

Appena sentì la porta richiudersi, il consulente investigativo spostò il lenzuolo dal viso di suo fratello. Fu allora che nella sua mente iniziarono a sovrapporsi le immagini di Barbarossa, di Sherrinford e di Mycroft. Riusciva a vedere soltanto sangue, riusciva a sentire soltanto dolore. Alcune lacrime iniziarono a rigargli il viso e, senza che se ne rendesse conto, si ritrovò a singhiozzare. Poggiò le mani sul tavolo e strinse con forza i lembi di quel lenzuolo bianco. “Mycroft…” disse con voce rotta. Riuscì a dire solo il suo nome, quasi come una supplica, come se lo supplicasse di tornare da lui. Chiuse gli occhi e ritornò con la memoria ai suoi ultimi istanti: “…ti voglio bene…” gli aveva detto prima di chiudere gli occhi. Era rimasto così sorpreso da quelle parole, che in quel momento era riuscito soltanto a rispondere “anche io…”. Se solo avesse saputo che quella era l’ultima occasione che aveva per parlare con lui, gli avrebbe detto molto di più. Gli avrebbe detto che era profondamente dispiaciuto per tutto ciò che aveva fatto: per averlo allontanato, per averlo rinnegato, per tutte le volte in cui l’aveva fatto preoccupare, per avergli riservato solo il suo odio e il suo rancore, per essere stato un pessimo fratello. Ora era troppo tardi. Non poteva più dirgli ciò che provava e questo rimorso lo avrebbe accompagnato per il resto della sua vita.
Mentre era intento a guardare il volto di suo fratello, si ricordò delle parole che anni prima aveva rivolto ad Irene Adler, dopo averla sconfitta: “…I sentimenti sono un difetto chimico della parte che perde…”. Moran era stato arrestato, ma lui aveva perso. Aveva perso la partita, aveva perso suo fratello e non avrebbe potuto più fare niente per cambiare le cose. Se Mycroft era morto era soltanto colpa sua e della sua stupida mania di provare sentimenti. In fondo suo fratello aveva ragione, non avrebbe dovuto farsi coinvolgere. Se non avesse amato John, se non avesse provato niente, tutto questo non sarebbe successo. Un’improvvisa rabbia lo travolse facendolo rabbrividire. Iniziò a maledire il giorno in cui Mike Stamford aveva portato John al Bart’s. Ripercorse velocemente gli ultimi anni e si accorse di essersi comportato da idiota. Dopo la morte di Barbarossa e di Sherrinford era riuscito ad eliminare i sentimenti dalla sua vita, rilegandoli in una parte profonda del suo palazzo mentale. Si era creato una maschera da sociopatico, che era riuscito a proteggerlo dal dolore e dalla sofferenza. John, però, era riuscito a distruggere tutto. Non avrebbe dovuto permettergli di entrare nella sua vita, non avrebbe dovuto permettergli di cambiarlo così tanto. In fondo cosa aveva ottenuto? A cosa lo aveva portato la decisione di ritornare a provare sentimenti? Lo aveva portato a buttarsi da quel maledetto tetto e a rinunciare alla sua vita per due anni, a nascondersi, a scappare e a subire torture di ogni genere; lo aveva portato a soffrire la solitudine dopo il suo “ritorno dai morti”, facendolo ricadere nel tunnel della droga da cui era riuscito ad uscire con molta fatica; lo aveva portato ad uccidere un uomo a sangue freddo, rischiando di finire in prigione per il resto della sua vita o di morire in una missione suicida; lo aveva portato a tentare il suicidio su quell’aereo, pur di non rivivere il terrore e la paura che aveva provato in Serbia; lo aveva portato a rinunciare a tutto, pur di vedere John felice.
Fece un profondo respiro nel tentativo di calmarsi, ma senza riuscirci. Con le mani tremanti ricoprì il volto di suo fratello e, in quel momento, non riuscì più a contenersi. Tutta la rabbia, tutto il dolore e tutta la frustrazione lo travolsero all’improvviso. Lanciò un urlo disperato ed iniziò a prendersela con tutto ciò che si trovava all’interno di quella stanza. Non avrebbe mai più provato sentimenti, non avrebbe permesso più a nessuno di fargli del male.
 

John e Greg stavano aspettando fuori. Sentirono le urla di Sherlock e videro Molly uscire di corsa piangendo.
“Cos’è successo?” chiese il medico preoccupato.
“Mi ha cacciato fuori…i suoi occhi erano così carichi d’odio…non sembrava lui…” disse la donna tra le lacrime.
John la abbracciò con affetto per farla calmare. Poi la invitò a sedersi vicino a loro e ad aspettare che il detective uscisse.
Dopo alcuni minuti lo sentirono piangere e singhiozzare. Nessuno ebbe il coraggio di entrare. In fondo aveva bisogno di sfogarsi e aveva il diritto di rimanere da solo nel suo dolore. Subito dopo, però, non si sentì più niente, solo uno strano ed inquietante silenzio. I tre si scambiarono uno sguardo perplesso e preoccupato e fu allora che lo sentirono. Un urlo disperato, così carico di rabbia da raggelare il sangue.
Il medico non riuscì a resistere. Si alzò di scatto dalla seduta e si precipitò nella stanza, seguito da Greg e Molly. Vedendo la furia distruttiva del suo migliore amico, si avventò su di lui nel tentativo di farlo calmare. Subito dopo anche l’ispettore corse ad aiutarlo e insieme riuscirono a bloccare Sherlock, facendolo inginocchiare a terra.
“Va tutto bene…non sei solo, ci siamo noi qui con te…” disse John, accarezzandogli i capelli con dolcezza.
Il detective, però, si sottrasse a quella carezza e si liberò sgarbatamente dalla presa dei suoi due amici. Poi si alzò e si diresse in silenzio verso la porta.
“Sherlock…” lo chiamò il medico, facendolo fermare. “So che adesso fa male…e so che non c’è niente che io possa dire per cancellare ciò che stai provando…” aggiunse con voce tremante “…ma io sono qui…e se c’è qualcosa che posso fare per farti stare meglio, in qualche modo…basta che tu me lo dica…farò qualsiasi cosa…ma ti prego, non escludermi di nuovo dalla tua vita...permettimi di aiutarti…” continuò, mentre una lacrima gli rigava la guancia destra. 
Sherlock si asciugò il viso, si voltò e lo guardò intensamente per qualche istante. “In effetti c’è una cosa che potresti fare…e che mi aiuterebbe a stare meglio…” rispose con una strana espressione.
John rimase sorpreso da quella risposta. Era contento che il suo migliore amico gli stesse rivolgendo di nuovo la parola, ma nel suo sguardo c’era qualcosa di strano, qualcosa di inquietante. “Dimmi…” disse titubante.
“Voglio che adesso tu vada a casa mia…” rispose il detective, sottolineando le ultime due parole e fermandosi un attimo per fare un profondo respiro “…voglio che tu raccolga tutte le tue cose e te ne vada fuori dalla mia vita!” aggiunse tutto d’un fiato.
Il medico venne colpito da quelle parole come un pugno in pieno stomaco. “Non puoi dire sul serio…stamattina mi hai detto che Baker Street rimarrà sempre anche casa mia…”.
“Si…l’ho detto…ma ho cambiato idea!” esclamò Sherlock.
“Sherlock…so che sei sconvolto…ma non capisco perché tu mi stia trattando così…” ribatté John con le lacrime agli occhi “…s-stai forse insinuando che ciò che è successo sia colpa mia?”
Il detective abbassò lo sguardo e negò con il capo. “No, John…non è colpa tua…la colpa è soltanto mia…” rispose, sospirando pesantemente. Poi alzò gli occhi e fissò intensamente il suo migliore amico “…non avrei mai dovuto permettere che tu entrassi nella mia vita…non avrei mai dovuto permettere che tu mi cambiassi…mi sono lasciato coinvolgere dalla tua mania di provare sentimenti e questo mi ha reso debole e vulnerabile…”
“Ma ti ha reso anche una persona migliore!” ribatté prontamente il medico.
“No, mi ha rovinato la vita!” urlò Sherlock furioso.
John non seppe cosa rispondere. Si limitò ad osservarlo con gli occhi lucidi, tentando in tutti i modi di non piangere.
Vedendo che il suo amico rimaneva in silenzio, il detective riprese. “Prova a pensarci, John…cosa ho ottenuto nel provare sentimenti? A cosa mi ha portato?” chiese, continuando a gridare “…Mi ha portato a buttarmi da un tetto e a rinunciare alla mia vita…non hai fatto altro che ripetermi quanto quei due anni siano stati difficili per te, ma ti sei mai chiesto cosa abbia dovuto passare io? Sono stato costretto a nascondermi, a scappare, a rifugiarmi in luoghi che non puoi neanche immaginare. In Serbia sono stato fatto prigioniero…sono stato torturato…sono stato chiuso per giorni in una cella al buio, senza né acqua e né cibo, mentre cercavo di convincermi che tutto sarebbe andato per il meglio…per la prima volta in vita mia ho pregato, John…ho pregato che mi uccidessero pur di non dover più subire tutto quello…” disse, ma la voce gli si incrinò all’improvviso e dovette fermarsi per reprimere le lacrime. Poi dopo aver ripreso il controllo continuò. “…I sentimenti mi hanno portato ad uccidere un uomo a sangue freddo, rinunciando alla mia libertà, costringendomi ad accettare di partire per una missione suicida, pur di non dover passare tutto il resto della mia vita in prigione!” aggiunse, ma venne interrotto.
“Missione suicida?... Hai detto che sarebbe durata sei mesi!” esclamò John sconvolto.
“Si…sarebbe durata sei mesi, perché era la massima aspettativa di vita che potevo augurarmi!” rispose prontamente Sherlock.
Il medico sgranò gli occhi. “È per questo che ti sei indotto un'overdose?... V-volevi ucciderti su quell’aereo?” chiese con voce tremante.
Il detective abbassò lo sguardo. “Non potevo accettare di subire di nuovo ciò che ho passato in Serbia…” rispose con un filo di voce.
“P-perché non me lo hai mai detto?” domandò John.
“E quando, John?... Eri sempre così impegnato con la tua nuova vita!” rispose Sherlock con la voce carica di risentimento.
“Ma adesso sono qui…e voglio solo restare al tuo fianco…” disse il medico con dolcezza.
Il detective rise nervosamente. “Ma non è quello che voglio io!” esclamò con tono duro “…Mio fratello è morto a causa di ciò che provavo per te…Moran ha fatto leva sui miei sentimenti per farmi fare il suo gioco…se io non fossi diventato così debole, se io non avessi provato niente…tutto questo non sarebbe successo…”
“Sherlock…ti prego…” lo supplicò John. Non riusciva più a sopportare quelle parole, non riusciva più a sopportare quello sguardo gelido.
Sherlock fece un profondo respiro. “Hai tempo fino a stasera per fare le valigie…quando torno a casa, non voglio trovarti…” disse, voltandosi di nuovo verso la porta per andarsene.
“Sherlock…” provò di nuovo il medico, ma il detective non si voltò ed uscì sbattendo la porta alle sue spalle.
Fu allora che John non riuscì più a contenersi. Tutto il dolore che stava provando in quel momento lo travolse, facendogli vacillare le gambe. Cadde a terra in ginocchio, si portò le mani sul viso e scoppiò a piangere, dando sfogo alla sua frustrazione.
Greg e Molly che avevano assistito a quello scontro senza dire una parola, si avvicinarono a lui e rimasero lì, al suo fianco, nel vano tentativo di consolarlo. 







Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il diciassettesimo capitolo! Pubblico in anticipo rispetto al solito, perchè era già pronto e andava semplicemente revisionato. 
E' stato un capitolo davvero difficile, considerando quanto io ami Mycroft. In "Ti brucerò il cuore" non sono riuscita a farlo morire, ma visto che questa storia deve seguire un'altra strada, non ho potuto evitarlo stavolta...! 

Per quanto riguarda il nostro Sherlock, è chiaramente distrutto. Se alla morte di Barbarossa e di Sherrinford aveva reagito trasformandosi in un sociopatico, dopo la morte di Mycroft non può che reagire allo stesso modo. Non da la colpa a John, ma da la colpa ai sentimenti che prova per lui. 

John naturalmente non l'ha presa bene, considerando i sentimenti che aveva appena scoperto di provare nei confronti del detective. Riuscirà ad impedire a Sherlock di isolarsi dal mondo? Riuscirà a scalfire di nuovo la corazza che si è creato per proteggersi? Questo lo scoprirete nei prossimi capitoli. 

Per quanto riguarda Moran...non mi esprimo...ma la questione non è ancora del tutto risolta...! 

Grazie come sempre a chi segue la storia e a chi lascia un commento o un pensiero...Alla prossima ;)

 

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Capitolo 18
*** Dark abyss ***


                      Miss me?






                                         
                                               Dark abyss






… Fu allora che John non riuscì più a contenersi. Tutto il dolore che stava provando in quel momento lo travolse, facendogli vacillare le gambe. Cadde a terra in ginocchio, si portò le mani sul viso e scoppiò a piangere, dando sfogo alla sua frustrazione.
Greg e Molly che avevano assistito a quello scontro senza dire una parola, si avvicinarono a lui e rimasero lì, al suo fianco, nel vano tentativo di consolarlo.
 





 
Sherlock sbatté la porta alle sue spalle e si passò nervosamente le mani nei capelli. Dovette reggersi con una mano al muro per evitare di cadere di nuovo a terra. Aveva la testa che gli pulsava in modo ingestibile, il respiro corto e le mani tremanti. Era stato così difficile dire quelle parole a John, ma aveva dovuto farlo, doveva riprendere il controllo sulla sua vita. Stava per andarsene quando sentì le ginocchia del medico cozzare a terra e lo sentì piangere disperato. Da quando lo conosceva, non aveva mai sentito una reazione del genere da parte sua. Neanche davanti alla sua tomba, neanche davanti alla tomba di Mary.
Si voltò di scatto e poggiò la sua mano sulla porta chiusa. Era così tentato di entrare, era così tentato di correre da lui, che alcune lacrime ripresero a scendere senza controllo. Ma non poteva cedere, non poteva permettere che i sentimenti continuassero a dominare la sua vita. L’unico modo che aveva per smettere di soffrire, era quello di ritornare ad essere la persona che era prima di conoscere John. Doveva smettere di usare il cuore e riprendere ad affidarsi soltanto alla sua mente. Fece un profondo respiro per darsi coraggio e si allontanò velocemente verso l’uscita dell’edificio.


 
Dopo essersi sfogato per alcuni minuti John si alzò da terra e si asciugò le lacrime. Non poteva credere che Sherlock gli avesse detto realmente quelle cose e che gli avesse intimato di andarsene da Baker Street. Ma d’altra parte era rimasto anche sconvolto dalle sue rivelazioni. Aveva sempre evitato di parlare di quei due anni in cui l’aveva creduto morto e non aveva idea di cosa gli fosse successo in tutto quel tempo. Quali atroci torture aveva dovuto subire, tanto da tentare il suicidio pur di non ritornare nell’Europa dell’Est?
“John…” disse Greg alle sue spalle, interrompendo i suoi pensieri “…vuoi che ti accompagno a Baker Street?” chiese titubante.
“Si, grazie Greg…ho intenzione di aspettare Sherlock lì” rispose il medico deciso.
Lestrade si scambiò uno sguardo perplesso con Molly. “Hai sentito cosa ti ha detto…non vuole trovarti lì quando torna…”
John si voltò con un’espressione determinata. “So cosa sta cercando di fare…ma non glielo permetterò…non rinuncerò a lui così facilmente!” esclamò convinto. Poi si voltò con la sua rigida postura da soldato ed uscì fuori dalla stanza sotto lo sguardo preoccupato dei suoi due amici.
 

 
Sherlock stava vagando da ore per la città. Da quando era uscito dall’ospedale aveva camminato senza sosta nel tentativo di calmarsi, ma senza riuscirci. In quel momento gli venne in mente che avrebbe dovuto avvisare i suoi genitori, avrebbe dovuto pensare al funerale e a tutti i convenevoli dell’occasione. Ma non aveva la forza di fare niente, non aveva la forza di pensare a niente. Avrebbe chiamato Anthea e le avrebbe chiesto di occuparsi di tutto lei, per Mycroft l’avrebbe fatto senza problemi.
 
Si fece sera ed il detective era completamente esausto. Per tutto il tempo non aveva fatto altro che pensare a suo fratello e a John. Perché era così difficile reprimere i suoi sentimenti? Come aveva fatto a farlo molti anni prima? C’era solo una risposta a quelle domande, c’era solo una cosa che poteva aiutarlo. Prima di tornare a casa, perciò, si fermò nel solito vicolo.
“Ce l’hai?” chiese allo spacciatore.
“Si, la solita quantità?” domandò a sua volta l’uomo.
“No…tutta quella che hai dietro” rispose Sherlock deciso.
“Siamo male intenzionati stasera!” ironizzò lo spacciatore.
“Non ti pago per farti gli affari miei!” sputò acido il detective, porgendogli i soldi.
L’uomo non replicò. Contò il denaro e consegnò al consulente investigativo tutta la merce in suo possesso.
Sherlock prese il sacchetto con dentro le fiale e le pillole di cocaina, si guardò intorno per controllare che nessuno l’avesse visto e si diresse velocemente verso Baker Street.
Verso metà strada guardò l’orologio: erano le 22:00. Considerata l’ora, John doveva aver finito di fare le valigie e doveva essere già tornato con Victoria alla villetta che aveva condiviso con Mary.
 
Arrivato al 221B aprì la porta e salì velocemente le scale. Appena entrò nel soggiorno, però, il suo cuore perse un battito. John era lì, seduto sulla sua poltrona, intento a sorseggiare del tè. Le valigie erano pronte ed erano posizionate vicino all’ingresso, mentre Victoria dormiva tranquilla nel passeggino.
“Mi sembrava di averti detto che non volevo trovarti più qui al mio ritorno!” esclamò il detective irritato.
“Si, l’hai detto…ma ho bisogno di parlarti…” rispose John, poggiando la tazza sul tavolino e voltandosi a guardarlo.
Sherlock sbuffò e si andò a sedere sulla sua poltrona, continuando a reggere il sacchetto tra le mani. Accavallò le gambe ed iniziò ad osservarlo con aria di sufficienza.
“Cosa c’è in quel sacchetto?” chiese il medico sospettoso.
“Non sono affari che ti riguardano!” rispose il detective a tono.
John sospirò, demoralizzato da quel comportamento. “Sherlock…so cosa stai cercando di fare. Quando Mycroft mi ha raccontato di Barbarossa e di Sherrinford, mi ha anche detto che da quando sono morti hai reagito chiudendoti in te stesso e creandoti quella ridicola maschera da sociopatico…ma non devi fare di nuovo la stessa cosa…non devi allontanare le persone che ti amano…non hai bisogno di rimanere solo…”
Sherlock rimase colpito da quelle parole, ma continuò a mantenere la sua espressione gelida. Perché John doveva rendergli tutto così difficile? Pensava di averlo convinto con le parole dette all’obitorio e invece era ancora lì, ancora nella sua vita. Doveva mandarlo via o non sarebbe riuscito a mettere in atto il suo piano. Sapeva che sarebbe stato difficile, ma c’era solo un modo per farlo allontanare da lui: avrebbe dovuto ferirlo, avrebbe dovuto fargli del male. “Te l’ho già detto anni fa, John…restare solo è l’unico modo che ho per proteggermi…”.
“No, Sherlock…ti ripeto che sono gli amici a proteggerti!” ribatté il medico a tono.
“Comunque…se adesso hai finito la tua lezione di psicologia, puoi anche andartene!... Ho delle cose la sbrigare!” esclamò acidamente il detective.
John rimase in silenzio per qualche istante, poi riprese a guardare il sacchetto. “Credi che non abbia capito cosa ci sia lì dentro?... Credi che ti lasci da solo per darti la possibilità di continuare a farti del male?”.
Sherlock dovette affidarsi a tutto il suo autocontrollo per cercare di apparire impassibile. “Pensi che rimanendo qui tu riesca ad impedirmelo?” sputò con arroganza. “Ti prego, John…va via…non costringermi a farti ancora del male…” si ripeteva nella sua testa.
Il medico parve turbato da quella frase. “N-non arriveresti a tanto…non lo faresti davanti a me…” rispose titubante.
“Ne sei davvero così sicuro?” domandò il detective. “John per favore non costringermi a farlo…” supplicava tra sé e sé.
“Si…perché ti conosco!” rispose John, riacquistando sicurezza.
Sherlock fece un profondo respiro, aprì il sacchetto e tirò fuori una fiala. Poi si alzò, poggiò le altre sulla scrivania e recuperò la sua scatolina con tutto l’occorrente. Aveva le mani che gli tremavano, ma cercò di nasconderlo. Dopo aver preso tutto, si tolse la giacca e tornò a sedersi sulla poltrona. “Sei sicuro di voler rimanere lì a guardare?” chiese con aria di sfida. “John ti prego, va via…riesci a capire quanto mi faccia soffrire tutto questo?” continuava a pregarlo nella sua testa.
Il medico non seppe cosa rispondere. Non poteva credere che Sherlock arrivasse a fare una cosa del genere davanti a lui. Non poteva restare a guardare, ma non poteva neanche lasciarlo da solo.
Il detective fece un altro profondo respiro per farsi coraggio ed iniziò a riempire la siringa con il contenuto della fiala. Poi si arrotolò la manica della camicia e si legò il laccio emostatico. Non voleva arrivare a tanto, ma era l’unico modo per ferirlo a tal punto da farlo andare via. Avvicinò la siringa al braccio ed alzò lo sguardo per incontrare gli occhi increduli di John.
“Sherlock…” disse il medico con un filo di voce. “…smettila!” aggiunse con le lacrime agli occhi.
Sherlock continuò a guardarlo con arroganza. “Che c’è, John…puoi sempre andartene se non vuoi guardare!”
John si alzò di scatto dalla poltrona. Era così arrabbiato e ferito in quel momento, che lo avrebbe preso a pugni. Si avvicinò a lui e con un gesto repentino gli strappò la siringa dalla mano, lanciandola sgarbatamente verso il divano. “Ti ho detto smettila!”
Il detective si alzò a sua volta, fronteggiandolo con aria di sfida. “Si può sapere cosa vuoi ancora, John?” urlò all’improvviso “…Ti ho detto di andartene…ti ho detto che non ti voglio più nella mia vita…perché sei ancora qui?” aggiunse, non riuscendo a nascondere un velo di disperazione nella voce.
“Perché ti amo!” gridò il medico. Solo dopo aver urlato quelle parole si rese conto di ciò che aveva detto. Stava ansimando leggermente a causa della rabbia, dell’imbarazzo e di tutte le emozioni che lo stavano travolgendo in quel momento.
Sherlock era come pietrificato. Per anni aveva desiderato che John pronunciasse quelle parole, che provasse ciò che provava lui. Ma non poteva cedere adesso. Non poteva continuare a farsi coinvolgere. “Vai via, John!” esclamò con acidità.
John avvicinò il viso a quello del suo migliore amico. “No…perché so che anche tu provi la stessa cosa…”.
“Ti sbagli…” rispose il detective impassibile. “Ed ora vattene…”.
Il medico lo guardò incredulo. “Me ne vado solo ad una condizione…voglio che tu adesso mi guardi negli occhi e mi dica che non mi ami…”
Sherlock lo guardò dritto negli occhi, mostrando la sua espressione più gelida. “Non ti amo, John…non provo niente per te…” rispose con voce atona. “Perdonami, John…” disse nella sua mente.
“Ma quello che ci siamo detti questa mattina…quello che è successo tra noi prima che arrivasse Greg…che cos’era?” ribatté John.
“Non era niente…è stato solo un momento di debolezza…niente di più…!” rispose il detective con freddezza.
Il medico non riuscì a credere alle sue orecchie. “Va bene…come vuoi tu, allora…” disse deluso. Poi si voltò, prese le valige e le portò di sotto. Subito dopo salì di nuovo per prendere il passeggino con Victoria. Prima di andarsene, però, si voltò verso il suo migliore amico. “Ah, quasi dimenticavo…sei proprio uno stronzo!” esclamò furioso, uscendo e sbattendo la porta alle sue spalle.
Appena sentì la porta chiudersi, Sherlock si abbandonò sulla sua poltrona. Si passò le mani sul viso, cercando di reprimere le lacrime che avevano iniziato ad inumidirgli gli occhi. Spostò lo sguardo verso la siringa che John aveva lanciato sul divano e si alzò per prenderla. Si sedette a terra esausto, affondò l’ago e premette lo stantuffo, godendosi finalmente un breve momento di sollievo.
 


Nel momento in cui si trovò fuori da Baker Street, John venne assalito da un senso di angoscia. Non aveva voglia di ritornare nella villetta che aveva condiviso con Mary, ma soprattutto non aveva voglia passare la notte da solo con Victoria. Prese un taxi e si recò a casa di Greg.
L’ispettore aprì la porta leggermente assonnato. Era quasi l’una di notte e stava sicuramente dormendo. “John…!” esclamò sorpreso.
“Greg, scusami…sono mortificato per l’ora…ma non sapevo dove altro andare…” disse il medico, abbassando lo sguardo “…e non volevo rimanere da solo…”.
“Con Sherlock non è andata bene, allora…” rispose Lestrade “…vieni, entra…lo sai che sei sempre il benvenuto…” aggiunse, afferrando le valigie ed invitandolo ad entrare.




 
Il giorno seguente, nel pomeriggio, si svolse il funerale di Mycroft. Nonostante la discussione avuta la sera prima, John decise di seguire Greg e di partecipare comunque. C’erano anche Molly, la signora Hudson, Billy e Anthea, oltre ad altri uomini e donne che come lui erano impegnati in politica e nel governo.
Sherlock rimase impassibile e freddo per tutto il tempo. Al suo fianco c’erano i suoi genitori a cui, però, non rivolse né uno sguardo e né una parola. Continuò a guardare un punto indefinito davanti a sé, senza salutare nessuno dei presenti.
Al termine della funzione, mamma Holmes si avvicinò a lui e lo afferrò dolcemente da un braccio.
“Sherlock…” provò a dire, ma venne subito interrotta.
“Lasciami!” urlò il detective, liberandosi sgarbatamente dalla presa della donna.
“Ti prego, Sherlock…so che volevi bene a tuo fratello…ma non farlo di nuovo…non escluderci dalla tua vita…” lo supplicò mamma Holmes tra le lacrime.
Sherlock si voltò verso di lei, rivolgendole uno sguardo ostile. “Ti ho detto di lasciarmi in pace!”.
“Santo cielo, Sherlock!... Smettila di trattare così tua madre!... Non vedi che le stai facendo del male?” intervenne papà Holmes.
Il detective si fermò qualche istante ad osservare i genitori, poi mostrò una finta espressione dispiaciuta. “Oh…sono davvero mortificato…” disse con disprezzo e senza aggiungere altro si allontanò, lasciandoli lì nel loro dolore.
Papà Holmes rimase in silenzio. Si limitò a guardare suo figlio con aria dispiaciuta ed abbracciò sua moglie, nel tentativo di consolarla.
Tutti i presenti erano sconvolti da quel comportamento. Non lo avevano mai visto così freddo e privo di emozioni.
John lo osservava da lontano e non riusciva a credere che quello fosse il suo migliore amico.
“John, avevi ragione…è irriconoscibile…” disse Lestrade incredulo alle sue spalle.
 
Inaspettatamente, dopo alcuni istanti, Sherlock si diresse verso John e Greg. Il medico, per un istante, sperò che volesse scusarsi per ciò che era successo e per le cose terribili che gli aveva detto la sera prima. Quando si avvicinò, però, capì che non era lì per lui.
“Lestrade…ho bisogno di un’informazione…” disse il detective.
“Ehi, Sherlock…come stai?... Ti faccio le mie condoglianze…” rispose l’ispettore, porgendogli la mano.
Sherlock osservò la mano di Greg con aria schifata. “Per caso ti ho dato l’impressione che fossi venuto qui per conversare?” sputò con arroganza. “Ti ripeto che ho bisogno di un’informazione…intendi aiutarmi o no?”
Lestrade rimase spiazzato da quella risposta. “I-io…s-si certo…che vuoi sapere?” domandò, balbettando leggermente.
“Moran si trova ancora a Scotland Yard in attesa del trasferimento?” chiese il detective con una strana espressione.
“Si…verrà trasferito domani mattina…” rispose Greg confuso “…perché lo vuoi sapere?”
“Ho bisogno di vederlo…devo parlare con lui prima che venga trasferito…” disse secco Sherlock.
“Sherlock…non credo sia il caso…penso che sia meglio che tu non abbia nessun contatto con lui…” ribatté l’ispettore preoccupato.
Il consulente investigativo sbuffò irritato. “Non mi servono i tuoi inutili pensieri, Lestrade!” esclamò, alzando il tono di voce “…Devo parlare con lui…intendi aiutarmi o no?”
“Va bene…vedrò che posso fare…ti avviso io appena mi danno il via libera…” rispose Greg rassegnato.
“Forse non mi sono spiegato…devo vederlo ora!” disse Sherlock, urlando l’ultima parola.
Lestrade sospirò pesantemente. “Dammi almeno il tempo di accompagnare John e Victoria a casa mia!”
“Greg, non importa…possiamo venire anche noi!” esclamò John all’improvviso, cercando di incontrare lo sguardo del suo migliore amico.
Sherlock, però, continuò ad ignorarlo e dopo il cenno dell’ispettore, si diresse con loro verso la volante parcheggiata fuori dal cimitero.
 
Durante il tragitto, nella vettura, regnava un inquietante silenzio. Il detective sedeva avanti e John e Victoria dietro.
“Sherlock…” provò Greg titubante “…puoi dirmi almeno perché vuoi vedere Moran?”
“Devo risolvere una questione lasciata in sospeso…” rispose Sherlock, mentre guardava pensieroso fuori dal finestrino.
L’ispettore si scambiò uno sguardo preoccupato con il medico attraverso lo specchietto retrovisore.
Dopo altri minuti passati in silenzio, il detective si passò una mano sulla fronte, lasciandosi sfuggire un piccolo gemito.
“Stai bene?” chiese Lestrade apprensivo.
“Si…” rispose secco Sherlock.
“Certo che sta bene!” esclamò John all’improvviso “…Basta guardarlo in faccia…pupille dilatate, respiro affannoso, tremore alle mani, emicrania…sta solo passando l’effetto della cocaina o sbaglio?” aggiunse con la voce carica di risentimento.
Il detective rise nervosamente. “Avevo quasi dimenticato che ci fossi anche tu!” rispose acidamente. “…E sentiamo, dottore…quale cura mi consiglia?”
“La disintossicazione sarebbe un passo avanti…anche se non guarirebbe il tuo essere stronzo!” ribatté John nervoso.
“Adesso calmatevi…non è il momento di discutere…” disse Greg, nel tentativo di placare le acque.
“Io invece avrei un’altra alternativa!” rispose Sherlock, ignorando le parole dell’ispettore. Poi prese dalla tasca una piccola boccetta con delle pillole, ne mise tre sulla mano e le ingoiò soddisfatto.
“Cristo Santo, Sherlock!” esclamò Lestrade, strappandogli la boccetta dalle mani. “…Una volta almeno avevi la decenza di farlo di nascosto!... Vista la quantità che c’è qui dentro, dovrei arrestarti!” aggiunse furioso.
Il consulente investigativo fece spallucce. “Non ho bisogno di farlo di nascosto, ormai…ora giochiamo a carte scoperte, vero John?” rispose con arroganza.
John non rispose. Si limitò a stringere i pugni, reprimendo l’impulso di picchiarlo.
“Comunque queste le tengo io!” disse Greg, mettendo la boccetta in tasca.
“Fai pure Lestrade…tanto ne ho l’appartamento pieno!” esclamò Sherlock.
In quel momento l’ispettore fermò la macchina. Erano arrivati a Scotland Yard.
“Per fortuna siamo arrivati!” sputò John, scendendo nervosamente dalla vettura.
Anche gli altri due scesero, seguendo il medico all’interno della centrale.
 


 
Sherlock si trovava davanti alla porta con la maniglia in mano. In quella stanza c’era Moran che lo stava aspettando. Per un momento ebbe un attimo di ripensamento. Era davvero sicuro di arrivare a tanto pur di risolvere la questione? Poi mise la mano nella tasca del pantalone e tirò fuori altre due pillole, che aveva prontamente tolto dalla boccetta e nascosto a Lestrade. Dopo averle ingoiate, aspettò che l’effetto della cocaina gli desse il coraggio necessario. Voleva mettere fine a quella storia una volta per tutte. Il rischio era enorme. Avrebbe sacrificato tutto: la sua vita, la sua libertà, la sua integrità, ma non aveva altra scelta. Ormai la sua vita non aveva più un senso, non aveva più una direzione e, nel baratro in cui stava affondando, si sarebbe portato anche Moran, gli avrebbe fatto pagare l’errore di aver ucciso suo fratello. 








Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il il diciottesimo capitolo! Sherlock ha preso davvero male la morte di Mycroft e sta portando avanti il suo piano di ritornare ad essere un sociopatico...abbastanza stronzo direi!

John ha provato a convincerlo, riuscendo perfino a rivelargli i suoi sentimenti, ma neanche quello è servito. 

Il nostro detective sta allontanando tutti: gli amici, i genitori, John e chiunque provi ad aiutarlo. Cosa avrà in mente? Perchè ha così necessità di parlare con Moran? E cosa sta per fare tanto da doversi drogare per poter averne il coraggio? Le risposte a queste domande le avrete nel prossimo capitolo. 

Grazie a chi sta seguendo la storia e a chi vuole lasciare un commento...alla prossima ;)

 

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Capitolo 19
*** Friends remain ***


                      Miss me?







                                             Friends remain






… Voleva mettere fine a quella storia una volta per tutte. Il rischio era enorme. Avrebbe sacrificato tutto: la sua vita, la sua libertà, la sua integrità, ma non aveva altra scelta. Ormai la sua vita non aveva più un senso, non aveva più una direzione e, nel baratro in cui stava affondando, si sarebbe portato anche Moran, gli avrebbe fatto pagare l’errore di aver ucciso suo fratello.
 
 





 
John e Greg erano dietro lo specchio a vetro della saletta degli interrogatori. Osservavano Moran, che se ne stava seduto con aria compiaciuta, mostrando un sorriso strafottente. Nella stanza con lui c’era un agente di polizia armato, pronto ad intervenire in caso di problemi. Sherlock, però, non era ancora entrato nella stanza e ciò fece insospettire il medico.
“Ma che diamine sta facendo lì fuori?... Perché non entra?” chiese John.
L’ispettore stava per rispondere, quando la porta si aprì e il detective entrò deciso. Aveva una strana espressione sul viso: seria, arrabbiata e allo stesso tempo combattuta.
“Sherlock…che piacere rivederti!... Questa sì che è una sorpresa!” esclamò il cecchino divertito.
Sherlock non rispose. Rimase in piedi, immobile, con le mani nelle tasche del cappotto e lo sguardo fisso sul suo nemico.
“Ma che faccia da funerale che hai oggi!” canzonò Moran, scoppiando a ridere. “...Per caso è morto qualcuno?” aggiunse, cercando di provocarlo.
Il detective, però, restò impassibile di fronte a quelle provocazioni. Continuò a mantenere la stessa posizione e la stessa espressione.
Il cecchino, che non si aspettava un comportamento del genere, iniziò a guardarlo con aria confusa. “Che c’è?... Hai perso l’uso della parola?” chiese, cercando di nascondere il suo improvviso disagio. Quegli occhi gelidi fissi su di lui erano così inquietanti, che per la prima volta si sentì in difficoltà.
Sul volto di Sherlock apparve un sorriso compiaciuto. “Hai paura…” affermò con sicurezza.
“Paura?... E di cosa?” domandò Moran con un leggero tremore di voce.
“Di me…” rispose il detective.
“Questa sì che è bella!” esclamò il cecchino, scoppiando a ridere nervosamente.
Sherlock ritornò serio e si avvicinò al tavolo, fissandolo con uno sguardo da pazzo. Poi poggiò le mani e si sporse leggermente verso di lui. “Battito accelerato, sudorazione eccessiva, respiro corto, improvviso aumento della temperatura corporea…potrei anche continuare, ma credo che questi possano bastare…” disse con un sadico sorriso “…e sai perché hai paura?... Perché anche tu come me riesci a leggere le persone…ciò che pensano, ciò che provano e ciò che hanno intenzione di fare…” aggiunse, ritornando serio “…tu sai perché sono qui, vero?”
Moran era completamente spiazzato da quelle parole, ma cercò di nasconderlo. “Certo che lo so, Sherlock!... Ma guardati intorno…siamo in una centrale di polizia…come pensi di cavartela? Come pensi di uscirne?”
“È proprio questo il bello, Sebastian…” rispose il detective, scandendo lentamente il suo nome. “…Non ho più niente da perdere, ormai…ho già perso tutto a causa tua…non mi è rimasto più niente!” urlò furioso. “…Sai come mi sento adesso?... Come se stessi cadendo in un baratro…in un profondo baratro senza via d’uscita…” aggiunse, guardandolo con un’espressione da psicopatico “…ma non cadrò da solo…no, tu verrai con me!”

 
John dall’altra parte del vetro era senza parole. Quello sguardo e quell’atteggiamento gli fecero venire i brividi. “Greg fallo smettere, ti prego…” disse preoccupato.
Lestrade annuì e si precipitò di corsa verso l’entrata della stanzetta. Aprì la porta ed entrò. “Sherlock, credo che possa bastare…”.
Il detective, però, non gli diede ascolto. Continuò a guardare Moran con rabbia e odio, godendosi la sua espressione spaventata.
“Sherlock…ti prego, vieni via…” lo supplicò Greg con voce tremante.
L’agente che era nella stanza, vedendo quel comportamento, si portò la mano alla pistola, pronto a reagire.
Spaventato da quel gesto e da ciò che sarebbe potuto succedere, l’ispettore fece cenno al suo uomo di uscire. “Ci penso io…” disse convinto. Poi si avvicinò lentamente al consulente investigativo. “Sherlock…vieni, andiamo fuori…”.
Sherlock si voltò verso di lui ed annuì soltanto. Mentre si dirigeva con Greg verso la porta, però, si voltò di nuovo verso il cecchino. “Non avresti mai dovuto uccidere mio fratello…” sputò con astio. Avvenne tutto in una frazione di secondo. Mise velocemente la mano nella tasca destra del cappotto, estrasse una pistola e sparò tre colpi al suo nemico dritti in fronte.
Il corpo di Moran si accasciò sul tavolo, mentre una pozza di sangue si espandeva sotto la sua testa.
“Cristo Santo, Sherlock!” urlò Lestrade sconvolto, prendendo d’istinto la pistola e puntandola contro il detective. “Metti giù la pistola…” gli intimò con le mani tremanti.
Dopo lo sparo, altri agenti si precipitarono lì armati.
Sherlock buttò a terra l’arma e si inginocchiò sul pavimento, mettendo le mani dietro la testa e lasciandosi ammanettare. Venne portato fuori dalla stanzetta da due agenti. Lì c’era John, che reggeva in braccio Victoria e lo guardava sconcertato. Non poteva credere a ciò che aveva appena visto.
Il detective, per la prima volta dopo il loro litigio, lo guardò intensamente negli occhi per qualche istante. Poi abbassò lo sguardo.
Il medico poté giurare, in quel momento, di aver visto due lacrime che gli rigavano il viso.

 
Sherlock si trovava in cella da un paio d’ore. Da quando era stato chiuso lì dentro, non aveva visto né John e né Greg. Se ne stava seduto a terra con le gambe strette al petto. Le mani avevano ripreso a tremargli, chiaro segnale che l’effetto della cocaina stava iniziando a scemare. Nonostante avesse ucciso Moran, nonostante avesse vendicato suo fratello, non si sentiva meglio, anzi si sentiva ancora peggio. Le parole che aveva rivolto al cecchino erano vere: si sentiva come se stesse precipitando in un baratro profondo senza che riuscisse ad impedirlo. Pensava davvero che provando ad eliminare di nuovo i sentimenti dalla sua vita le cose sarebbero migliorate, che avrebbe smesso di soffrire. Questa volta, però, si era sbagliato. Il dolore era rimasto ed era sempre più intenso e soffocante. Nel suo disperato tentativo di ritornare ad essere un sociopatico senza cuore, aveva allontanato tutti i suoi amici, tutte le persone che gli volevano bene. Aveva fatto tutto questo per rimanere solo, ma adesso, mentre provava l’angosciante peso della solitudine, avrebbe dato qualsiasi cosa pur di avere qualcuno al suo fianco, qualcuno che lo consolasse e lo rassicurasse, che gli dicesse che tutto sarebbe andato bene. Se solo avesse avuto qualcosa dietro, sarebbe riuscito ad alleviare almeno per qualche istante quella tremenda angoscia che lo stava assalendo. Preso dallo sconforto, si mise le mani sul viso, mentre alcune lacrime scendevano senza controllo.
Dopo alcuni istanti sentì dei passi e qualcuno aprì la porta della cella ed entrò. Si avvicinò lentamente a lui e si sedette a terra al suo fianco.
“Hai fatto proprio un bel casino!” esclamò Greg, sospirando pesantemente.
Il detective si asciugò il viso e ed annuì, mantenendo lo sguardo basso.
“Resterai in prigione per qualche giorno, fino al processo…ma non verrai condannato...” disse Lestrade serio.
Sherlock lo guardò incredulo. “Ho ucciso un uomo…” precisò con ovvietà.
“Sì, ma ho convinto i miei superiori che lo hai fatto per legittima difesa. Moran si è avventato su di me, mi ha rubato la pistola e stava per spararti, ma tu prontamente lo hai fermato. Gli agenti che erano presenti confermeranno questa versione, perché mi devono un favore…e le registrazioni della saletta degli interrogatori di quel momento sono misteriosamente scomparse…quindi dovranno fidarsi della mia parola, di quella degli agenti e di quella di John. Con le nostre testimonianze al processo non ti condanneranno. Ovviamente dovrai pagare una multa per il possesso di quella pistola, chiaramente di contrabbando e dovrai scontare tre mesi agli arresti domiciliari...ma credo di riuscire a farteli ridurre ad uno al massimo” spiegò Greg.
Il detective era senza parole. Restò a fissarlo per qualche istante prima di riuscire a parlare. “Perché hai fatto tutto questo?”
L’ispettore rise e negò con il capo. “Perché sei mio amico, razza di idiota!... Anche se ultimamente sembra che tu ti sia dimenticato cosa significhi!” rispose con un velo di rimprovero.
Sherlock abbassò lo sguardo. Non sapeva cosa dire e non sapeva come scusarsi per tutto quello che aveva fatto.
“Ora mi spieghi cosa ti è saltato in mente?... Questa cazzata di voler allontanare tutti e di rimanere solo…la droga…e perfino questo!” chiese Greg serio.
Il consulente investigativo si passò le mani sul viso e sospirò pesantemente. “Non lo so, Greg…credimi…non lo so!... Non so più niente…non so cosa pensare…non so cosa fare!” esclamò, mentre una lacrima gli rigava la guancia.
“La questione è davvero grave se mi hai chiamato Greg!” ironizzò l’ispettore, nel tentativo di sdrammatizzare la situazione.
Sherlock accennò un mezzo sorriso. Poi si strinse maggiormente le gambe al petto, mettendovi sopra le braccia incrociate e poggiandovi il mento. Forse non c’era bisogno di rimanere da solo per stare meglio, forse come aveva detto anche John, erano gli amici a proteggerti e ad aiutarti ad andare avanti.
In quel momento qualcuno si schiarì la voce, attirando l’attenzione dei due. John era sulla soglia della porta con un’espressione scura in volto. “Greg, ho lasciato Victoria dalla signora Hudson…possiamo andare di sopra per la mia deposizione…” disse, cercando di non incrociare lo sguardo con il detective.
Lestrade annuì e si alzò da terra. Poi guardò Sherlock per un istante ed uscì velocemente.
Il medico stava per chiudere la porta della cella quando sentì pronunciare il suo nome.
“John…” disse il consulente investigativo con un filo di voce.
John si bloccò all’istante e si mise a fissare il suo migliore amico.
“I-io…” provò a dire il detective titubante “…Greg mi ha detto tutto…e ti ringrazio per…” aggiunse, ma venne interrotto.
“Lo faccio perché me lo ha chiesto Greg…non lo faccio per te!” mentì il medico. “…Dovresti ringraziare lui…” continuò, abbassando lo sguardo e chiudendo la porta con un gesto secco.
Sherlock poggiò la testa al muro con sconforto. Poi chiuse gli occhi e sospirò. Nel suo disperato tentativo di non provare più sentimenti, aveva rovinato tutto con John. Lo aveva ferito, lo aveva rifiutato e adesso doveva pagarne le conseguenze.
 

Appena il medico chiuse la porta e si voltò, incontrò lo sguardo di Lestrade. Era uno sguardo duro e colmo di rimprovero. “Che c’è?” chiese confuso.
“Era quello il modo di trattarlo?” domandò a sua volta l’ispettore.
“Fammi capire…lo stai difendendo?... Dopo come mi ha trattato, prendi le sue difese?” sputò John incredulo.
Greg non rispose. Gli fece cenno di seguirlo per continuare la discussione al piano di sopra. Nel momento in cui entrarono nel suo ufficio si voltò verso il medico con aria di sfida. “Ha perso suo fratello, John!” esclamò spazientito.
“E questo dovrebbe essere una giustificazione valida, per quello che mi ha detto e per come mi ha cacciato di casa?” urlò John irritato.
“No, non voglio giustificare il suo comportamento…non voglio dire che non si sia comportato da stronzo…” ribatté Lestrade “…voglio solo dire che proprio tu non hai il diritto di giudicarlo!”
Il medico si fermò un attimo a riflettere su quelle parole. “Che vuoi dire?” chiese confuso.
“Tu, meglio di tutti dovresti capire il suo comportamento…perché sai cosa si prova a perdere qualcuno di importante!” rispose l’ispettore a tono.
“Non è la stessa cosa!” esclamò John con voce tremante.
“Certo che è la stessa cosa!” ribatté Greg, alzando di nuovo il tono di voce “…Quando credevi che Sherlock fosse morto…cos’hai fatto, John?”
Il medico non rispose, ma si limitò ad abbassare lo sguardo.
Vedendo il silenzio dell’amico Lestrade continuò. “Hai fatto la stessa cosa, ricordi?... Hai cercato di isolarti, hai ferito tutti quelli che ti stavano intorno e che cercavano di aiutarti: me, Molly, la signora Hudson” disse, parlando con più dolcezza “…Ti ricordi quante volte siamo venuti a trovarti e quante volte ci hai cacciato fuori?... Ti ricordi di quella sera quando non volevo andarmene e mi hai preso a pugni?... Eppure, nonostante ci ferissi ogni volta, nonostante ci facessi del male, non ti abbiamo mai abbandonato!... Perché è questo che fanno gli amici, John…restano… sempre e comunque!”
John rimase in silenzio. Quelle parole lo avevano colpito e dovette far ricorso al tutto il suo autocontrollo per trattenere le lacrime. Ripensare a quei due anni, al suo dolore, alla sua sofferenza, gli faceva venire i brividi. Però Greg aveva ragione. Lui si era comportato allo stesso modo. Aveva allontanato tutti, aveva ferito chiunque cercasse di aiutarlo pur di riuscire ad andare avanti senza Sherlock. In particolare si ricordò di quella sera nominata dall’ispettore. Abitava ancora a Baker Street e si sentiva più arrabbiato e frustrato degli altri giorni. Greg era passato per un saluto ed aveva provato a mandarlo via in malo modo. Vedendo che l’amico non voleva lasciarlo solo, gli aveva tirato un pugno e lo aveva buttato letteralmente fuori, sbattendogli la porta in faccia. Ricordava di aver pianto, di aver preso la sua pistola e di essersi recato nella stanza di Sherlock. Se Greg quella sera avesse deciso di abbandonarlo, lo avrebbe fatto sul serio: si sarebbe ucciso. Invece l’ispettore, incurante del naso rotto, aveva buttato giù la porta e lo aveva fermato giusto in tempo. Eppure, dopo come lo aveva trattato e dopo le orribili parole che gli aveva detto, avrebbe potuto andarsene, avrebbe potuto arrendersi…ma non l’aveva fatto e, questo, gli aveva salvato la vita. Ed ora con Sherlock si trovava nella stessa posizione, ma questa volta dal lato opposto. Doveva salvarlo da sé stesso e dal suo dolore, così come anni prima Greg aveva salvato lui. Alzò lo sguardo su Lestrade ed annuì, sorridendo dolcemente. “Hai ragione, Greg…se quella volta non fosse stato per te…se mi avessi voltato le spalle…io…” disse, ma si bloccò a metà frase.
“Non pensiamoci più adesso…ora dobbiamo pensare a Sherlock e a come farlo uscire da questo casino!” esclamò l’ispettore, sorridendo a sua volta e dandogli un’amichevole pacca sulla spalla. 













Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il diciannovesimo capitolo! Sinceramente non so di quanti capitoli sarà composta la storia...avevo pensato sempre a 21, così come le altre... ma dipende da quanto spazio prenderanno i prossimi avvenimenti. Questo capitolo è leggermente più corto rispetto agli altri, perchè non volevo inserire troppi avvenimenti e farlo diventare un pò pesante!

Per quanto riguarda Sherlock...è completamente in panne! La morte di Mycroft non l'ha solo distrutto, ma l'ha confuso e gli ha fatto perdere anche un pò la ragione per un momento! Per fortuna Greg è sempre presente e pronto a toglierlo dai guai quando può. 

Moran è finalmente morto e almeno un problema è stato risolto...anche se Sherlock si ritroverà a dover affrontare qualcosa che lo turberà parecchio e che non sarà molto facile da accettare...poi vedrete...

Per quanto riguarda John, ha reagito come avrebbe fatto chiunque, considerando quanto Sherlock lo abbia ferito. Ma Greg comunque ha ragione...gli amici restano sempre e comunque e a volte nelle difficoltà, si deve anche passare sopra a tante parole e a tanti gesti che fanno male, per poter salvare un amico da sè stesso e dal dolore che lo ha sconvolto. 


Spero che il capitolo vi sia piaciuto...grazie come sempre a chi sta seguendo la storia e a chi vuole lasciare un commento. Alla prossima ;)

 

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Capitolo 20
*** Stradivarius violin ***


                    Miss me?







                                       Stradivarius violin






… Alzò lo sguardo su Lestrade ed annuì, sorridendo dolcemente. “Hai ragione, Greg…se quella volta non fosse stato per te…se mi avessi voltato le spalle…io…” disse, ma si bloccò a metà frase.
“Non pensiamoci più adesso…ora dobbiamo pensare a Sherlock e a come farlo uscire da questo casino!” esclamò l’ispettore, sorridendo a sua volta e dandogli un’amichevole pacca sulla spalla.
 





 
Dopo un’ora circa John finì di rilasciare la sua deposizione su ciò che era successo con Moran nella saletta degli interrogatori.
“È tutto, John...puoi andare!” esclamò Greg esausto.
Il medico stava per uscire dall’ufficio, ma si fermò con la maniglia della porta in mano. Poi si voltò verso l’ispettore. “Posso vederlo?” chiese titubante.
Lestrade sorrise dolcemente. “Non sarebbe possibile…almeno non prima del processo, ma posso fare uno strappo alle regole…ne ho fatti così tanti per oggi!”.
 
Arrivarono davanti alla cella di Sherlock e l’ispettore aprì la porta. “John, posso darti solo dieci minuti…non di più…”.
John annuì. “Grazie, Greg…” rispose con un sorriso. Poi si avviò dentro, chiudendosi la porta alle spalle.
Sherlock era sempre seduto a terra, nella stessa posizione di un’ora prima.
L’unica differenza era che aveva le braccia incrociate sulle ginocchia e la fronte poggiata sugli avambracci. Appena sentì la porta della cella chiudersi, alzò la testa all’improvviso. Sul suo volto apparve un’espressione di stupore, quando si accorse che il suo migliore amico era lì. “John…” disse con un filo di voce.
Il medico si limitò a sorridergli e si andò a sedere a terra di fianco a lui. “Come stai?” chiese dopo qualche istante.
Il detective fece spallucce ed abbassò lo sguardo. “Non lo so…” rispose, sospirando pesantemente.
Rimasero per alcuni minuti in silenzio. Dopo tutto ciò che era successo tra loro non sapevano cosa dire o meglio, non sapevano da dove cominciare. Fu Sherlock a rompere quel silenzio e a parlare. “John…mi dispiace per come ti ho trattato…per quello che ti ho detto…” disse con voce tremante. Poi poggiò la testa al muro e si mise a guardare il soffitto con uno sguardo pensieroso. “…Credevo davvero che se fossi ritornato quello di prima, non avrei più sentito tutto questo dolore, ma…per quanto mi costi ammetterlo…mi sbagliavo…”.
“Lo so…” rispose soltanto John, mettendo dolcemente la mano sulla sua.
Il detective si accorse del gesto e fece un mezzo sorriso. Poi afferrò la mano del suo migliore amico con più decisione e la intrecciò con la sua, stringendola leggermente.
Iniziarono a guardarsi negli occhi con intensità. In quel momento non avevano bisogno di dirsi niente, perché con quello sguardo, l’uno riusciva a leggere i pensieri dell’altro.
Sherlock deglutì a vuoto ed avvicinò lentamente il viso a quello del medico. Aveva il cuore che gli batteva all’impazzata, lo stesso cuore che fino a poco prima aveva cercato di mettere a tacere.
John non si mosse e continuò a fissare il detective negli occhi. Man mano che lo vedeva avvicinarsi, si sentiva mancare l’aria. “Sherlock…non so se…” provò a dire con il respiro corto.
Sherlock, però, lo zittì poggiando le labbra sulle sue in modo dolce e insicuro.
Il medico, allora, mise una mano sulla nuca del suo migliore amico e lo attirò maggiormente a sé, approfondendo il bacio.
Dopo alcuni minuti, erano ancora così coinvolti e presi da quel contatto, che nessuno dei due si accorse che Greg aveva aperto la porta.
L’ispettore si schiarì la voce per attirare la loro attenzione. “John…” disse, cercando di nascondere la sua espressione compiaciuta.
John si staccò da Sherlock e si voltò di scatto. “Greg!” esclamò, grattandosi la testa con imbarazzo.
“Mi dispiace, ma dobbiamo andare…” aggiunse Lestrade. Poi rivolse un sorriso al detective ed uscì dalla cella.
Il medico fece per alzarsi, ma Sherlock lo fermò, trattenendolo da un braccio. “John…io…” provò a dire, ma venne interrotto.
“Ne parleremo quando uscirai da qui, va bene?” intervenne prontamente John. “…Purtroppo mi ha detto Greg che non potrò venire a trovarti, almeno fino al processo…” aggiunse, sospirando pesantemente “…mi raccomando…niente più cazzate, Sherlock!”.
Il detective sorrise ed annuì. Poi, prima di lasciarlo andare, lo afferrò dal maglione con l’altra mano e lo attirò nuovamente a sé, per stampargli un altro bacio sulle labbra.
John uscì dalla cella contento e soddisfatto. Si voltò verso l’ispettore, che gli sorrise e gli fece l’occhiolino, con un’espressione divertita.
“Non una parola, Greg!” esclamò il medico.
Lestrade negò con la testa con aria innocente. Poi si voltò e continuò a ridacchiare.


 
Erano passati tre giorni e Sherlock era sempre più nervoso e frustrato. La data del processo non era stata ancora fissata e ciò contribuiva a renderlo ancora più irascibile. La crisi di astinenza iniziava a diventare ingestibile e stare chiuso lì dentro non faceva che amplificarne i sintomi. Mentre era intento a camminare nervosamente per la cella, qualcuno entrò all’improvviso.
“Ehi, come stai?” chiese Greg preoccupato.
“Guardami…come credi che stia!” urlò il detective furioso.
“Sherlock, cerca di calmarti…” ribatté Lestrade.
Sherlock rise nervosamente. “Calmarmi?... Come faccio a calmarmi stando chiuso qui dentro?... Ma perché ancora non hanno fissato una maledetta data?”
“Ci sono stati un po' di problemi…ma sto facendo del mio meglio per accelerare i tempi…” rispose l’ispettore.
“Allora non stai facendo abbastanza!” gridò Sherlock con acidità.
Greg non rispose. Rimase immobile a fissarlo, tenendo le mani in tasca.
Il detective si poggiò con le spalle al muro e si lasciò scivolare a terra, mettendo le mani nei capelli. “Scusami…non volevo…”
“Lo so…” rispose Lestrade. “Devi avere soltanto un altro po' di pazienza…fidati di me…”.
Sherlock sospirò pesantemente ed annuì, abbassando lo sguardo. Dopo alcuni istanti alzò la testa. “John?”
“Sta bene…è sempre a casa mia…così posso tenerlo d’occhio!” rispose l’ispettore con sarcasmo, facendogli l’occhiolino.
Il detective si lasciò sfuggire un mezzo sorriso. “Grazie…”.
 
Quella sera Lestrade tornò a casa e trovò John che cercava di far addormentare Victoria.
Appena il medico riuscì nel suo intento, entrò spedito nel soggiorno e lo guardò con aria interrogativa. “Allora?”
“Cosa?” chiese a sua volta l’ispettore. 
“Dannazione, Greg…sai bene cosa!... L’hai visto? Come sta? Hanno stabilito la data?” domandò John spazientito.
Greg si lasciò sfuggire un risolino. “Non vedo l’ora che esca di lì…è imbarazzante fare da tramite tra due innamorati!” ironizzò Lestrade divertito.
“Santo cielo…quando la smetterai di prendermi in giro?” chiese il medico con un mezzo sorriso.
“Smetterla?... No, è troppo divertente, John!” esclamò l’ispettore scoppiando a ridere.
John incrociò le braccia e lo guardò con una finta espressione irritata. “Divertiti pure…però sto ancora aspettando le risposte alle mie domande!”
“Va bene…” rispose Greg ritornando serio “…Come credi che stia, John?... Stiamo parlando di Sherlock chiuso in una cella da tre giorni…per giunta in evidente crisi d’astinenza!”
Il medico abbassò lo sguardo ed annuì. “Ma ancora nessuna novità?”
“Mi hanno chiamato mentre tornavo a casa, dicendomi che probabilmente fisseranno il processo fra due giorni…ma ancora non c’è niente di certo…” rispose Lestrade “…domani sapremo qualcosa in più…”.
“Non ci resta che aspettare allora…” disse John, sospirando pesantemente e voltandosi a fissare fuori dalla finestra.
 
 


Due giorni dopo si tenne il processo di Sherlock. Così come aveva previsto Lestrade, il detective non venne condannato per omicidio volontario, ma gli venne fatta una multa e gli diedero un mese di domiciliari da scontare per il possesso di un’arma illegale.
Appena usciti dal tribunale Greg accompagnò John e Sherlock a Baker Street. Victoria si trovava già lì con la signora Hudson.
Arrivati al 221B il consulente investigativo salì di corsa le scale. Aveva un disperato bisogno di respirare finalmente l’aria di casa. Entrò, si tolse velocemente il cappotto e si andò a sedere soddisfatto sulla sua poltrona. Essere di nuovo lì, lo faceva stare decisamente meglio. Non sapeva ancora come avrebbe resistito un mese senza uscire, ma ci avrebbe pensato in un secondo momento. Ora l’importante era di essere di nuovo a casa, nella sua tanto amata Baker Street.
“Io devo tornare in centrale…hai bisogno di altro?” chiese Greg.
“No…” rispose Sherlock con un sorriso “…grazie di tutto…”.
Lestrade si mise a ridere. “Devo ancora abituarmi a questa tua improvvisa gentilezza!” esclamò con sarcasmo.
“Non ti ci abituare troppo, Gavin!” rispose il detective a tono, gesticolando con il suo fare teatrale.
 
Appena Greg uscì dall’appartamento, John si andò a sedere sulla sua poltrona di fronte a Sherlock. Si guardarono per qualche istante negli occhi, ma nessuno dei due disse niente. Avrebbero dovuto parlare di quel bacio che si erano scambiati giorni prima, avrebbero dovuto chiarire la situazione, ma in quel momento nessuno dei due ebbe il coraggio di affrontare l’argomento. Aleggiava uno strano imbarazzo che non c’era mai stato tra loro e quel silenzio non migliorava per niente le cose.
Il detective fu il primo a distogliere lo sguardo e si alzò di scattò, come se fosse stato attraversato da un’improvvisa scarica elettrica. Lui non era mai stato bravo con i sentimenti, non era mai stato bravo a gestire questo genere di situazioni. Quel giorno, in cella, non sapeva nemmeno come avesse fatto a farsi avanti in quel modo, forse tutta la tensione e tutta l’adrenalina del momento avevano contribuito ad abbassare momentaneamente le sue difese e le sue inibizioni. Ma adesso non sapeva cosa fare, non sapeva come comportarsi. Era così agitato che si sentiva uno strano groppo in gola. Tossicchiò nervosamente come per schiarirsi la voce e si avventò sulla prima cosa che aveva a portata di mano: il suo violino. Avrebbe suonato, si sarebbe rifugiato nella musica, aspettando che John facesse o dicesse qualcosa. Prese l’archetto con la mano destra e lo poggiò sulle corde con dolcezza. Dopo aver intonato le prime note, però, una strana fitta al petto e un’imponente angoscia lo assalirono all’improvviso. Era così concentrato a gestire ciò che provava per il suo migliore amico, da essersi dimenticato per un attimo di Mycroft.
 

 
Stava camminando in Hatton Garden. Era un mese che non toccava più droghe e la crisi d’astinenza era davvero difficile da gestire. Ma non poteva mollare, non adesso che aveva finalmente trovato qualcosa che lo intrigava e lo faceva sentire vivo, qualcosa di meno distruttivo: i crimini. Aveva raggiunto un accordo con l’ispettore Lestrade: si sarebbe disintossicato e non avrebbe più fatto uso di droghe e lui, in cambio, gli avrebbe dato l’accesso illimitato a tutti i casi seguiti dal distretto. Era l’occasione che aspettava per dimostrare a quegli insulsi agenti di Scotland Yard quanto valesse. Fino a quel momento nessuno gli aveva mai dato ascolto, nessuno aveva mai valorizzato le sue capacità intellettive e, ora che qualcuno iniziava a credere in lui, non poteva deluderlo.
Si passò le mani sul viso con sconforto. Pensava che una passeggiata lo avrebbe aiutato a lenire quei fastidiosi sintomi, ma si sbagliava. In quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per una dose. Cercò di fare dei respiri profondi per riprendere il controllo, ma tutti i suoi sforzi sembravano vani. Per un attimo ebbe la tentazione di mollare tutto e di mandare all’aria gli sforzi fatti fino ad allora, quando all’improvviso la sentì. Una melodia così bella da lasciarlo senza fiato. C’era un uomo che suonava il violino vicino ad una finestra aperta. Non conosceva quel pezzo, in fondo non si era mai interessato di musica, ma era così coinvolgente che lo lasciò pietrificato sul posto. Era stato rapito da quelle note, dal suono dolce e struggente di quel violino. Appena l’uomo smise di suonare si ridestò all’improvviso. Girò lo sguardo alla sua destra e vide un banco dei pegni e lì, in vetrina, c’era un violino splendido. Si avvicinò incuriosito e lesse l’etichetta: era uno Stradivari. Quello strumento aveva qualcosa di magico, di magnetico. Rimase a fissarlo per un tempo che gli sembrò eterno. Lo osservò con attenzione, concentrandosi sui dettagli e, più lo guardava, più sentiva qualcosa smuoversi dentro di lui. Preso da una forte curiosità entrò nel negozio.
“Salve, vorrei sapere quanto costa il violino che è in vetrina…” chiese Sherlock al negoziante.
“È un modello molto costoso, ma lo vendo ad un prezzo davvero stracciato considerando il suo vero valore…costa 7.000 sterline” rispose l’uomo.
Sherlock ringraziò ed uscì dal negozio. Era una somma che non aveva a disposizione. Avrebbe potuto chiederli ai suoi genitori o a Mycroft, ma entrambe le idee gli facevano venire il voltastomaco. Non si sarebbe mai abbassato a chiedere aiuto. E poi era sicuro che se si fosse presentato da loro, non avrebbero mai creduto alla storia del violino. Avrebbero sicuramente pensato che, quei soldi, gli servissero per drogarsi e non aveva nessuna voglia di vedere i loro sguardi di rimprovero. Avrebbe trovato un modo e lo avrebbe fatto con le sue sole forze.
Tornato a casa, cercò sul suo portatile la melodia che aveva sentito quel giorno. Era un pezzo di Mendelssohn, con esattezza l’opera n°64 dei suoi concerti per violino. Fu allora che capì di amare la musica in un modo che non si poteva spiegare. Quelle note, quelle melodie intonate con il violino riuscivano a toccargli l’anima e, mentre le ascoltava si sentiva bene, come se potessero capire ciò che aveva dentro, ciò che provava.
Da quel giorno, ogni pomeriggio, si recò in quella strada. L’uomo alla finestra suonava puntualmente alla stessa ora e passava da Mendelssohn a Brahms, da Brahms a Paganini, mostrando una strabiliante padronanza dello strumento. Dopo aver ascoltato le sue piccole esibizioni, si fermava sempre davanti a quella vetrina e rimaneva ore a guardare lo Stradivari, che giaceva sempre in bella mostra, in tutto il suo splendore.
Dopo alcune settimane, una sera, rientrò a casa e trovò un pacco. Incuriosito e sorpreso lo aprì con foga. Dentro c’era la custodia di un violino. Non poteva credere ai suoi occhi. Aprì la custodia e lo vide. Lo Stradivari che era in quella vetrina, ora era lì tra le sue mani. In allegato c’era un biglietto.
 

A vent’anni Paganini si presentò ad un concerto senza violino e ne ottenne in prestito uno. Con questo strumento incantò il pubblico, tanto che alla fine dello spettacolo, quando volle restituirlo, il proprietario disse: “Lo tenga. Adesso, nessuno, tranne lei, è degno di toccarlo!”.
 

Sul biglietto non c’era nessuna firma, ma sapeva da chi proveniva. Sapeva che Mycroft lo controllava e sicuramente lo aveva visto stare fermo per ore ad ascoltare l’uomo con il violino e a contemplare lo strumento davanti a quella vetrina. Lo trovò un gesto bellissimo, ma non gli disse mai “Grazie” e suo fratello non accennò mai a quel regalo. Perché, in fondo, era così che andavano le cose tra loro. Non avevano bisogno di stupidi formalismi, di frasi stampate per l’occasione, né tantomeno di comportamenti convenzionali, per dimostrare l’affetto che, nonostante i rancori e i dissapori, nutrivano l’uno nei confronti dell’altro.
Da quel giorno Sherlock si dedicò allo studio del violino da autodidatta e, considerando le sue incredibili abilità intellettive, riuscì ad acquisire in breve tempo una straordinaria padronanza dello strumento. Spesso, quando Mycroft si recava da lui, si divertiva ad accarezzare le corde del violino o a strimpellarlo con dispetto o ad intonare qualche dolce melodia. E, quello, era il suo modo per dirgli “Grazie”.
 



John era seduto sulla poltrona ed osservava Sherlock con un’inconsueta agitazione. Non sapeva cosa dire e aspettava che fosse il detective a parlare. Lo vide alzarsi di scatto e lo seguì con lo sguardo. Anche lui era nervoso e poteva capirlo dai suoi occhi e dal suo muoversi freneticamente. Lo vide avvicinarsi al violino e decise di non dire niente. Un po' di musica era ciò che ci voleva per alleviare la tensione di quel momento. Avrebbe aspettato che Sherlock avesse finito di suonare, gli avrebbe dato il tempo di rilassarsi e, con un po' di coraggio, avrebbe affrontato l’argomento. Dopo le prime note, però, il suo migliore amico si fermò all’improvviso; il suo volto divenne improvvisamente cupo e i suoi occhi vennero attraversati da un velo di tristezza. “Sherlock…” disse titubante.
Il detective non rispose. Era rimasto fermo con lo strumento in posizione per suonare. Aveva lo sguardo vuoto, come se fosse perso nei suoi pensieri.
Il medico si alzò preoccupato e si avvicinò a lui. “Sherlock…” riprovò, poggiandogli delicatamente la mano sulla spalla.
Sherlock parve ridestarsi all’improvviso sotto il tocco del suo migliore amico. Aveva gli occhi lucidi e il volto pallido.
“Stai bene?” chiese John.
“I-io…si sto bene…” rispose il detective con voce tremante. Poi mise velocemente il violino nella custodia e la chiuse con un colpo secco.
“Perché lo metti via?” domandò il medico confuso.
“Scusami, John…non posso suonarlo…non stasera!” esclamò Sherlock, poggiando la custodia sulla scrivania e voltandosi per andare in camera sua.
John lo afferrò da un braccio e lo fermò sul posto. “Mi vuoi spiegare che succede?”
Il detective sospirò pesantemente e abbassò lo sguardo. “Non posso suonarlo, perché…mi ricorda…” provò a dire, ma si fermò a metà frase.
“Mycroft?” incalzò il medico, intuendo il problema.
Sherlock annuì soltanto, continuando a fissare il pavimento.
“Te lo ha regalato lui?” insistette John.
“Si…” rispose il consulente investigativo con voce flebile. Poi si liberò dalla presa del medico e si passò nervosamente le mani sul viso. “Dannazione…è da stupidi lasciarsi condizionare da questi sentimentalismi!”
“Non è da stupidi…” ribatté prontamente il medico “…è normale provare queste cose, Sherlock…non devi vergognartene…”.
“Sarà normale per gli altri, John…ma non per me!” esclamò il detective “…Scusami…” aggiunse soltanto, prima di andare in camera sua e chiudersi la porta alle spalle. 










Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il ventesimo capitolo! Abbiamo un primo contatto tra John e Sherlock e finalmente non li vediamo più litigare. Il detective pare aver capito che non ha bisogno di allontanare le persone che gli vogliono bene per stare meglio. Nello stesso tempo, però, vediamo uno Sherlock un pò combattuto. In fondo, il nostro detective non sa destreggiarsi bene nell'ambito "sentimenti" e, se già ciò che prova per John lo inquieta, i pensieri e il dolore che prova per suo fratello lo sconvolgono del tutto. Ciò è legato al particolare rapporto che Sherlock ha sempre avuto con suo fratello: pensare a lui in questi termini "più sentimentali", infatti, lo spiazza parecchio e lo vediamo un pò confuso e "sperduto" nel cercare di gestire questo nuovo sè stesso. 

Per quanto riguarda la storia del violino di Sherlock, spero vi sia piaciuta. La sinfonia che sente per la prima volta (la n°64 di Mendelssohn) la trovo stupenda e invito chi non la conoscesse a sentirla...! (https://www.youtube.com/watch?v=-P8lQaLgWaA). In ogni caso mi sono rifatta un pò al canone. Facendo delle ricerche, infatti, pare che Sherlock Holmes ammirasse molto Brahms, ma in particolare Mendelssohn e Paganini (ecco perchè il richiamo a quest'ultimo nel biglietto di Mycroft). 

Passiamo al biglietto di Mycroft. Ho trovato questo aneddoto su Paganini e mi è piaciuto tantissimo. E poi non posso immaginare che un uomo come Mycroft metta una dedica sdolcinata per suo fratello, ma mi immagino che metta un aneddoto o qualcosa di criptico che nasconda tra le righe ciò che realmente vuole significare quel gesto e che Sherlock, naturalmente, riesce a leggere e a capire. 

Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Grazie a chi sta seguendo la storia e a chi vuole lasciare un commento. Alla prossima ;)



 

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Capitolo 21
*** Eastern Europe ***


                    Miss me?







                                         Eastern Europe






… “Dannazione…è da stupidi lasciarsi condizionare da questi sentimentalismi!”
“Non è da stupidi…” ribatté prontamente il medico “…è normale provare queste cose, Sherlock…non devi vergognartene…”.
“Sarà normale per gli altri, John…ma non per me!” esclamò il detective “…Scusami…” aggiunse soltanto, prima di andare in camera sua e chiudersi la porta alle spalle.
 
 
 




Quella sera Sherlock non uscì dalla sua camera. Durante il tragitto verso casa, subito dopo il processo, avevano comunque stabilito che John si sarebbe trasferito nuovamente al 221B.
Il medico, allora, scese di sotto dalla signora Hudson e andò a prendere Victoria. La bimba dormiva tranquillamente nel passeggino e, facendo attenzione a non svegliarla, ritornò con lei di sopra in soggiorno. Dopo aver visto Sherlock in quelle condizioni non ebbe il coraggio di andare in camera sua. Avrebbe dormito lì, sul divano. Si sdraiò, mise il cuscino con la bandiera britannica sotto la testa e si coprì con un plaid. Nonostante si sentisse esausto da quella giornata, però, non riuscì a prendere sonno. Sospirò pesantemente e si mise a fissare il soffitto, immergendosi nei suoi pensieri.
 

Sherlock, dopo essersi chiuso in camera sua, si buttò sul letto con sconforto. Tutti quei sentimenti lo stavano confondendo. Si sentiva oppresso da tutto ciò che stava provando per John e per Mycroft, tanto da non riuscire a respirare. Cercò di fare dei respiri profondi e si voltò di lato coprendosi con il lenzuolo. Forse una bella dormita era ciò che ci voleva per farlo stare meglio.
 

John venne svegliato da alcuni strani rumori. Non si era nemmeno accorto di essersi addormentato. Guardò l’orologio: erano le 4.00. Si alzò lentamente e si stropicciò gli occhi ancora assonnati. Si mise in ascolto con attenzione e si accorse che quei rumori provenivano dalla camera di Sherlock. Decisamente preoccupato si precipitò nella stanza, aprendo la porta di scatto. Lo vide a letto, con il lenzuolo aggrovigliato intorno al suo corpo, mentre si lamentava nel sonno. “Sherlock…” lo chiamò, scuotendolo leggermente. Solo in quel momento si accorse di una lacrima che bagnava la sua guancia destra. “Sherlock…svegliati…” provò di nuovo. Aveva la fronte madida di sudore e appena spostò con dolcezza i capelli bagnati, si accorse che scottava. Si alzò di scatto e accese la luce. “Sherlock…devi svegliarti!” esclamò, alzando maggiormente il tono di voce.
Sherlock aprì gli occhi lentamente ed incontrò lo sguardo del suo migliore amico. “John…” disse con un filo di voce.
“Sherlock, guardami…devi essere completamente sincero con me…hai preso qualcosa?” chiese il medico allarmato.
Il detective non rispose, ma si limitò a negare con il capo, continuando a guardare John dritto negli occhi. Fu allora che altre lacrime gli uscirono senza controllo, finendo sul cuscino.
In quel momento John capì cosa stava succedendo. Dopo tutto quello che era successo, la morte di Mycroft, la crisi d’astinenza, i giorni passati in prigione, il processo, Sherlock era semplicemente crollato. Mai come allora, il suo migliore amico gli sembrò debole e indifeso. Mai lo aveva visto cedere mentalmente e fisicamente come stava succedendo quella notte davanti ai suoi occhi increduli. Vederlo in quelle condizioni gli provocò una dolorosa fitta al cuore. Alzò la mano, poggiandola sui suoi riccioli bagnati ed iniziò ad accarezzargli i capelli con dolcezza. “Passerà, Sherlock…passerà…ed io sono qui per aiutarti…” disse con gli occhi lucidi.
Sherlock si mise le mani sul volto nel tentativo di nascondere le lacrime che continuavano a bagnargli il viso. Provò un’improvvisa vergogna di sé stesso; non si era mai mostrato a nessuno così fragile, così umano.
John gli prese le mani e gliele spostò delicatamente dal viso. “Non hai bisogno di nasconderti, Sherlock…non con me…” disse, sorridendogli. Poi si sdraiò sul letto vicino a lui e lo abbracciò con forza, cullandolo tra le sue braccia.
Quella notte il detective si sfogò contro il petto del suo migliore amico e pianse come mai aveva fatto in vita sua. Dopo che i singhiozzi si furono placati si addormentò esausto tra le braccia di John.
Il medico rimase fermò in quella posizione, continuando ad accarezzarlo dolcemente, fino a quando anche lui crollò in un sonno profondo.
 


Dopo quella notte l’umore di Sherlock parve migliorare leggermente. Nonostante tutto, però, non riusciva ancora a suonare il suo amato violino. Era struggente vederlo avvicinarsi allo strumento, metterlo in posizione e non riuscire a produrre nemmeno un suono. Ci provava spesso durante la giornata ed ogni volta che falliva nel suo intento, sospirava demoralizzato e si chiudeva in camera sua. Il fatto che non potesse uscire di casa e non potesse dedicarsi al suo lavoro, non facevano che peggiorare le cose.
John avrebbe voluto tanto mettere in chiaro finalmente la loro situazione, ma non voleva caricarlo di maggiore stress, considerando quanto fosse già abbastanza irritato tra le crisi di astinenza e gli arresti domiciliari.
 



Due settimane dopo, però, accadde qualcosa di sorprendente. John aveva lasciato Victoria dalla signora Hudson ed era uscito per fare un po' di spesa. Al suo rientro a Baker Street sentì un suono familiare. Era il suono di un violino, del violino di Sherlock. Gli era mancato così tanto, che rimase fermo sulle scale con la busta in mano, estasiato da quella meravigliosa melodia. Dopo alcuni istanti si ridestò e salì velocemente di sopra, entrando nel soggiorno con un enorme sorriso. E lo vide. Sherlock suonava rivolto verso la finestra con la sua solita ed incantevole eleganza. Era talmente immerso nella sua musica che non si accorse nemmeno della sua presenza. Appena terminò di suonare, si voltò verso la porta. “John!” esclamò sorpreso.
Il medico non disse niente, ma rimase immobile a fissarlo, mantenendo un’espressione sorridente. Poi lasciò cadere la busta a terra e si avvicinò lentamente a lui senza interrompere il contatto visivo. Appena fu abbastanza vicino lo abbracciò con forza. “Mi sei mancato…” disse.
Sherlock non rispose. Si limitò a fare un mezzo sorriso e, dopo aver poggiato il violino sulla scrivania, ricambiò la stretta.
 



Da quel giorno le cose iniziarono ad andare per il verso giusto. Una mattina, perciò, John, approfittando della ritrovata serenità del suo migliore amico, decise che era il momento di parlare di ciò che stava accadendo tra loro.
Sherlock era seduto sulla sua poltrona nella sua classica posizione meditativa.
Il medico, dopo essersi preparato una tazza di tè, si andò a sedere di fronte a lui ed aspettò con pazienza che uscisse dal suo palazzo mentale.
Dopo un’ora circa, il detective aprì gli occhi. “John…da quanto tempo sei qui?” chiese confuso.
“Da un po'…” rispose John.
Sherlock sospirò pesantemente. Riusciva a leggere dall’espressione di John, che era giunto il momento di affrontare l’argomento che aveva cercato di evitare in quei giorni. “Avanti…spara…”.
“Credo che dovremmo parlare di ciò che è successo…dovremmo parlare di…noi…” disse John titubante. “Cosa siamo io e te?” chiese a bruciapelo.
Il detective cercò di mantenere la sua espressione seria e impassibile. “Considerando il fatto che vivi di nuovo qui, direi coinquilini…ma anche amici, certo!” rispose con sarcasmo.
“Sherlock…” lo ammonì il medico “…Dannazione, sto cercando di fare un discorso serio…”.
“Cosa vuoi che ti dica, John?” sputò Sherlock leggermente irritato “…Sai bene che non sono bravo con…queste cose!” aggiunse, gesticolando ed abbassando lo sguardo.
John si passò una mano sugli occhi con sconforto. Possibile che con Sherlock le cose dovevano essere sempre così complicate? “Ti ho detto che ti amo…” disse con un leggero imbarazzo “…in quella cella tu mi hai baciato…v-vuol dire che stiamo insieme o cosa?” continuò con voce tremante.
“Analizzando questi dati…beh, direi di sì…” rispose il detective.
“Non stai prendendo questa conversazione sul serio, Sherlock!” esclamò il medico infastidito.
“Certo che la sto prendendo sul serio! …Mi hai fornito dei dati, mi hai chiesto di formulare un’ipotesi ed io ti ho esposto il mio punto di vista…” ribatté Sherlock con ovvietà.
In quel momento a John venne un’idea. Avrebbe tolto quell’espressione da saputello dal suo viso. Sapeva che quell’atteggiamento, in realtà, era il modo che aveva per difendersi dalle situazioni che gli creavano disagio ed imbarazzo, ma questa volta lo avrebbe preso in contropiede. Si alzò di scatto dalla poltrona e si avvicinò lentamente a lui. “Se io e te stiamo insieme…allora…non ti dispiacerà quello che sto per fare…” disse con uno sguardo malizioso.
Il consulente investigativo rimase sorpreso da quel comportamento e si pietrificò sulla sua poltrona, mentre fissava il suo migliore amico farsi sempre più vicino.
Appena fu di fronte a lui, John si abbassò, sfiorando con il suo viso quello del detective. “Se io e te stiamo insieme…allora…non ti dispiacerà se mi prendo ciò che mi spetta…” continuò, parlandogli a fior di labbra. Aveva colto nel segno. Chiaramente Sherlock non si aspettava niente del genere e continuava a rimanere immobile. Aprì più volte la bocca con l’intenzione di dire qualcosa, ma era così spiazzato da non riuscire a produrre nemmeno un suono. Lo guardò negli occhi per qualche istante, godendosi quello sguardo disorientato, che raramente aveva visto su di lui. Poi poggiò le labbra sulle sue e lo baciò con dolcezza.
Il detective chiuse d’istinto gli occhi e ricambiò il bacio, socchiudendo la bocca e lasciando che le loro lingue venissero in contatto.
Dopo alcuni istanti John si staccò da lui all’improvviso, soddisfatto di essere riuscito a provocarlo fino a quel punto. Lo guardò, curioso di vedere la sua reazione.  
Sherlock aveva gli occhi chiusi. L’espressione che aveva in volto non era più quella da saputello, ma era rilassata, quasi estasiata. Con un gesto improvviso, che stupì il medico, e senza riaprire gli occhi, lo afferrò dal maglione e lo attirò a sé, continuando a baciarlo con maggiore passione e intensità.
John rimase piacevolmente sorpreso da quel gesto e non riuscì a trattenere un lieve sorriso. Poi si mise a cavalcioni su di lui, gli prese il volto tra le mani e continuò a deliziarsi del sapore delle sue labbra e della sua bocca.
Dopo un tempo che sembrò infinito i due si staccarono e si guardarono dritto negli occhi. Avevano entrambi il respiro affannato, decisamente provati ed eccitati da quel bacio interminabile. Poi, nello stesso istante, si misero a ridere e lì, in quel momento, si sentirono completi, appagati e finalmente felici. Proprio mentre stavano ridendo, ancora in quella posizione, qualcuno entrò nel soggiorno.
“Sherlock devo parlarti…” disse Greg “…Oh, Santo cielo…d’ora in poi devo ricordarmi di bussare!” esclamò, mettendosi una mano sugli occhi imbarazzato. “…Scusate…davvero…io non volevo…” continuò mortificato.
John si alzò dal detective e si aggiustò i vestiti. “Non preoccuparti, Greg…” disse, divertito dall’imbarazzo dell’ispettore.
Sherlock stranamente non proferì parola. Continuò a fissare Lestrade con il suo solito sguardo indagatore. “È successo qualcosa…” affermò convinto.
Greg ritornò serio ed abbassò lo sguardo, annuendo semplicemente.  
“Quella busta è per me…” disse il detective. Non era una domanda ma era nuovamente un’affermazione.
“Si…” rispose Lestrade, porgendogli la busta.
Sherlock la guardò di sfuggita e qualcosa attirò la sua curiosità: c’era il timbro governativo. “Deduco dalla tua espressione che l’hai già letta…potresti risparmiarmi tempo e dirmi direttamente di cosa si tratta!”.
L’ispettore tossicchiò nervosamente. “Dopo gli ultimi avvenimenti che ti hanno visto coinvolto…hanno deciso di riaprire il caso Magnussen…e a quanto pare…vorrebbero riconfermare la tua pena…” disse con voce tremante.
Il detective sbiancò all’improvviso e non riuscì a rispondere. Aprì velocemente la lettera con le mani tremanti ed iniziò a leggerla.
“Vorrebbero rimandarlo in prigione?” sbottò John all’improvviso.
“No, John…” rispose Sherlock con una voce cupa ed un’espressione scura in volto.
Il medico sgranò gli occhi, leggendo tutto dal suo sguardo. “No, non in missione…non nell’Europa dell’Est!” esclamò spaventato.
Il consulente investigativo annuì e si passò nervosamente una mano sugli occhi.
“Ma non possono farlo!” urlò John, voltandosi a guardare Greg per avere una conferma da lui. “Mycroft aveva fatto in modo di fargli revocare la pena, se si fosse dedicato al caso del presunto ritorno di Moriarty!”.
“John non è così semplice!... Mycroft aveva convinto quasi tutti a revocare la pena, ma la questione non era stata ancora confermata. Attendevano che Sherlock risolvesse il caso, prima di metterla agli atti. Ma ora che Mycroft non c’è più, qualcuno deve aver cambiato idea!” rispose Lestrade “…In ogni caso, non c’è ancora niente di stabilito…per quel che so ci sarà una riunione, dove si deciderà tutto con certezza…” aggiunse, cercando di apparire calmo.
“Ma considerando il fatto che mi hanno già avvisato con questa lettera, non ci vuole un genio per capire quale decisione verrà confermata…dico bene?” sputò il detective irritato.
Greg non rispose ed abbassò lo sguardo.
“E se la confermassero…quando dovresti partire?” chiese il medico.
“Tra una settimana…” rispose Sherlock. Poi sospirò pesantemente e si alzò dalla poltrona. Appallottolò la lettera, la buttò a terra e, senza degnare gli altri due di uno sguardo, si diresse in camera sua, chiudendosi la porta alle spalle.
John era spiazzato da tutta quella situazione. Non sapeva cosa dire e rimase immobile a fissare la lettera appallottolata, che giaceva sul pavimento.
L’ispettore si avvicinò a lui e gli mise una mano sulla spalla per attirare la sua attenzione. “John, ti prometto che farò tutto ciò che è in mio potere per trovare una soluzione…abbiamo ancora tempo…”.
Il medico lo guardò negli occhi ed annuì poco convinto. Sapeva che solo qualcuno come Mycroft avrebbe potuto tirare fuori Sherlock da quel problema e, purtroppo, Greg, per quanto impegno potesse metterci, non era uno di quelli.
 



Erano passati 5 giorni da quando avevano ricevuto quella notizia. Era mercoledì e quella mattina si sarebbe tenuta la riunione per confermare o meno la partenza di Sherlock, prevista per venerdì. Stanco di aspettare notizie da parte di Greg, John si recò impaziente a Scotland Yard.
“John!” esclamò l’ispettore, sorpreso di vederlo lì.
“Allora? Novità?” chiese il medico.
“Sto giusto aspettando una telefonata…” rispose Lestrade serio. “Come sta Sherlock?”
“Come vuoi che stia, Greg…è terrorizzato, anche se cerca in tutti i modi di nasconderlo!... Non mangia, non dorme, a malapena parla e passa gran parte delle giornate sulla sua poltrona immerso nel suo palazzo mentale…!... Finalmente avevamo chiarito il nostro rapporto, ma sento che si sta allontanando di nuovo da me…si sta isolando e non so cosa fare…” rispose John con voce tremante. “…ho paura che possa fare qualcosa di avventato…ho paura che possa ripetere il gesto di quel giorno, quando stava per partire prima del video di Moriarty…”.
“E lo hai lasciato solo a casa?” chiese Greg allarmato.
“No, ogni volta che esco chiedo alla signora Hudson di stare con lui e Victoria…” rispose il medico.
In quel momento il cellulare dell’ispettore squillò. Lestrade lo afferrò velocemente e rispose, uscendo a parlare fuori dal suo ufficio. Quando rientrò la sua espressione era scura e triste.
“Allora?” domandò prontamente John.
Greg ci mise un po' a rispondere, come se non riuscisse a trovare le parole giuste. “Hanno confermato la sua partenza e l’hanno anticipata a domani mattina” rispose con sconforto.
John si passò le mani tra i capelli in un gesto disperato. “Ma come hanno potuto?” urlò furioso.
“John, la questione è molto più complicata di come sembra…” ribatté Greg, sospirando pesantemente “…come ben sai, Moran era il ministro dello sviluppo d’oltremare, un vero a proprio pilastro del governo e, come tale, ha sempre avuto molte persone dalla sua parte. Nonostante fosse un assassino e un criminale, ha comunque fatto molti favori ad un vasto gruppo di persone importanti e, naturalmente, con la sua morte, queste persone hanno perso i vantaggi che Moran garantiva loro…!... Si tratta di un vero a proprio complotto, John…un complotto contro Sherlock…”.
Il medico era sconvolto da ciò che aveva appena sentito. “Ma è un’ingiustizia!... Qualcuno dovrebbe fermarli!”.
“E chi, John?... Stiamo parlando degli uomini più potenti del Paese!... Potrebbe fermarli soltanto qualcuno di ugualmente importante!” esclamò l’ispettore.
“Ma come mai prima avevano acconsentito alla revoca della pena?” chiese ingenuamente John.
“Perché c’era Mycroft…e nessuno si sarebbe mai messo contro di lui!” spiegò Greg.
“Mi stai dicendo che…n-non c’è più niente che possiamo fare?” domandò il medico con un velo di disperazione nella voce.
Lestrade sospirò rassegnato. “A meno che tu non conosca qualcuno che faccia parte del governo e che possa prendere le difese di Sherlock…no, non possiamo fare più niente!”.
Dopo quella risposta il volto di John divenne improvvisamente pallido. Alcune lacrime gli inumidirono gli occhi ed iniziò ad ansimare, come se non riuscisse a prendere aria.
L’ispettore, preoccupato dal suo improvviso pallore, si avventò subito su di lui. “John, siediti…vado a prenderti un bicchiere d’acqua” disse, aiutandolo a mettersi seduto. Dopo alcuni istanti tornò con un bicchiere e lo porse al medico.
In quel momento John non riuscì più a trattenersi. Poggiò il bicchiere sulla scrivania e si mise le mani sul volto, mentre alcune lacrime iniziarono a scendere senza controllo. “Non posso perderlo, Greg…non di nuovo…non adesso che noi…” provò a dire con la voce rotta dal pianto.
Greg gli passò una mano sulle spalle per fargli sentire la sua vicinanza. “Lo so, John…vorrei tanto poter fare qualcosa…mi dispiace…davvero…”.










Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il ventunesimo capitolo! Diciamo che ci stiamo avvicinando alla fine della storia, ma come potete notare ancora non sembra intravedersi un lieto fine per i nostri protagonisti. 

Sherlock aveva finalmente superato il suo blocco che gli impediva di suonare ed era riuscito a chiarire il rapporto con John. Purtroppo, però, la notizia di Greg ha scombussolato nuovamente gli equilibri psicologici del nostro detective. 

La decisione è stata presa e Sherlock l'indomani mattina dovrà partire per la missione suicida nell'Europe dell'Est da cui era scampato all'inizio della storia. Cosa succederà appena John andrà a Baker Street a dirglielo? Questo lo scoprirete nel prossimo capitolo. 

Grazie a tutti quelli che stanno seguendo la storia e tutti coloro che vorranno lasciare un commento.
Alla prossima ;)

 

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Capitolo 22
*** Don't leave me ***


                   Miss me?








                                       Don't leave me






… In quel momento John non riuscì più a trattenersi. Poggiò il bicchiere sulla scrivania e si mise le mani sul volto, mentre alcune lacrime iniziarono a scendere senza controllo. “Non posso perderlo, Greg…non di nuovo…non adesso che noi…”.
Greg gli passò una mano sulle spalle per fargli sentire la sua vicinanza. “Lo so, John…mi dispiace…vorrei tanto poter fare qualcosa…”.
 
 





Dopo essersi sfogato, John ritornò a Baker Street. Appena entrò nel soggiorno fece cenno alla signora Hudson di lasciarli soli. Doveva dare la notizia a Sherlock e non sapeva come fare.
Il detective, però, riuscì a leggere nel suo sguardo tutto ciò che c’era da sapere e cercò di mostrare un’espressione fredda e impassibile. “Non c’è bisogno che dici niente, John…hanno confermato la mia partenza per venerdì…”.
Il medico annuì con lo sguardo basso. “L’hanno confermata, ma hanno anticipato la partenza a domani mattina…” rispose con voce rotta.
“Ok…” disse Sherlock, alzandosi e fermandosi a guardare fuori dalla finestra.
“Ok?... Sai dire solo questo?” sbottò John irritato.
“E cosa vuoi che dica, John?” urlò il detective, voltandosi di scatto.
“Non lo so…andrebbe bene qualsiasi reazione, invece di fingere che non ti importi!” ribatté il medico.
“Vuoi una reazione, John?... È questo che vuoi?” gridò Sherlock furioso “…Ti accontento subito, allora…” aggiunse, iniziando a prendere tutti gli oggetti che aveva a portata di mano e lanciandoli ferocemente contro il muro. “Questa reazione ti soddisfa, John?” continuò, urlando sempre più forte e continuando la sua opera distruttiva.
John non sapeva cosa dire. Venne assalito nuovamente dall’angoscia e si mise le mani sul volto, nel tentativo di nascondere alcune lacrime che gli rigavano il viso.
Appena il detective si accorse delle sue lacrime, però, si fermò con un libro ancora in mano e lo fissò per qualche istante. Poi lasciò cadere il libro a terra, si precipitò verso di lui e lo abbracciò con forza. “M-mi dispiace…” disse con voce tremante.
Rimasero stretti in quell’abbraccio per alcuni minuti senza dire niente. Subito dopo fu il medico a rompere quel silenzio. “Vengo anche io con te…” disse, guardandolo dritto negli occhi.
Sherlock rise nervosamente e si staccò da lui. “Non se ne parla, John!”
“Perché no?... Qualsiasi cosa dovrai affrontare in quel posto, la affronteremo insieme come abbiamo sempre fatto!... Ricordi? Noi due da soli contro il resto del mondo…” ribatté prontamente John.
Il detective, abbassò lo sguardo “Non questa volta…”.
“Ma Sherlock…” provò di nuovo il medico, ma venne interrotto.
“Smettila, John!” urlò Sherlock all’improvviso. Poi sospirò pesantemente e si voltò di scatto, recandosi in camera sua.
 


Il consulente investigativo passò il resto della giornata da solo nella sua stanza. Sapeva che John era testardo e sapeva che non si sarebbe mai arreso. Lo avrebbe seguito lo stesso e non ci sarebbe stato niente che avesse potuto dire o fare, per farlo demordere. D’altra parte era anche terrorizzato all’idea di tornare in quei posti e di subire nuovamente quegli orribili trattamenti. Doveva farsi venire un’idea e doveva farlo più velocemente possibile. Dopo ore passate seduto sul letto a pensare, immerso nel suo palazzo mentale, trovò la soluzione che stava cercando: una soluzione rapida e indolore, che avrebbe posto fine alle sue sofferenze e, allo stesso tempo, avrebbe anche salvato John. In quel momento il suo sguardo si spostò verso la finestra e si accorse che era già sera. Quella sarebbe stata l’ultima notte che avrebbe passato a Baker Street, l’ultima notte che avrebbe passato con John. Questi ultimi pensieri lo travolsero all’improvviso, facendogli provare una profonda angoscia. Si sdraiò completamente sul letto e sospirò, passandosi nervosamente le mani nei capelli.
 

Il medico era rimasto per tutta la giornata in soggiorno. Non aveva avuto la forza di occuparsi di Victoria, perciò aveva spiegato la situazione alla signora Hudson, pregandola di tenerla fino all’indomani mattina. Verso il pomeriggio si recò in cucina e si preparò una tazza di tè. Era così tentato di andare da Sherlock, nella sua stanza. In fondo quello era l’ultimo giorno che avrebbero passato insieme, ma se il suo migliore amico non era uscito da lì, voleva dire che non desiderava la sua compagnia e preferiva restare da solo. Appena il tè fu pronto, si andò a sedere con sconforto sulla sua poltrona e rimase lì con la tazza in mano e lo sguardo perso nel vuoto.
Arrivò sera e John iniziò a diventare irrequieto. Il fatto che non si sentissero rumori provenire dalla camera del detective, lo inquietava parecchio. Mentre pensava sul da farsi, però, sentì pronunciare il suo nome. Sherlock lo stava chiamando dalla sua stanza. 
Il medico si alzò di scatto dalla poltrona e si precipitò preoccupato da lui. Lo trovò disteso sul letto, abbracciato alle lenzuola bianche. “Che succede?” chiese allarmato.
“John…i-io…” provò a dire il detective, ma si bloccò ed abbassò lo sguardo. Dopo alcuni secondi, sospirò pesantemente e riprese. “…i-io non voglio restare solo…questa notte…” rispose il detective con le lacrime agli occhi.
John lo guardò e gli sorrise. Poi si sdraiò accanto a lui e continuò a fissarlo.
Sherlock parve riflettere qualche istante, con aria combattuta, su quello che stava per fare. Subito dopo si avvicinò a lui ed iniziò a baciarlo, attirandolo maggiormente a sé, in modo da far aderire i loro corpi.
Il medico non si oppose. Si lasciò andare a quel bacio con trasporto e desiderio.
Il detective con le mani tremanti e i movimenti un po' impacciati, iniziò a spogliarlo e lo stesso fece John con lui.
Quella notte fecero l’amore con tutto il desiderio e tutta la passione che riuscirono a provare. Si concessero l’uno a l’altro come se non ci fosse un domani, dimenticando per qualche istante ciò che sarebbe accaduto la mattina seguente.
Appena tutto finì, si abbandonarono sul letto esausti e soddisfatti.
 
Mentre si trovavano stretti in un dolce abbraccio, Sherlock si schiarì la voce e sospirò “M-mi dispiace di non aver avuto mai il coraggio di dirtelo, John…ma io…io ti amo…e credo di averti sempre amato dal primo istante in cui ti ho visto… da quel giorno in cui sei venuto con Mike al laboratorio del Bart’s…”.  
Il cuore di John perse un battito nel sentire quelle parole. Si voltò a guardarlo con un’espressione sorpresa e sorrise. “Anche io ti amo, Sherlock…”.
“John, voglio che tu mi faccia una promessa…” disse il detective con uno sguardo triste.
“Cosa?” chiese il medico confuso.
“Voglio che tu mi prometta che, qualunque cosa accada, tu sarai forte e andrai avanti con la tua vita…” rispose Sherlock.
“Sembra che tu mi stia dicendo addio, Sherlock…e la cosa non mi piace…sai che non ti lascerò mai partire da solo, vero? Sai bene che qualunque cosa tu possa dire o fare, non riuscirai ad impedirmi di seguirti!” esclamò John deciso.
“Si, lo so…” rispose semplicemente il detective. Poi poggiò il viso sulla spalla del medico e si lasciò cullare da quel tenero abbraccio.
Dopo una ventina di minuti, John crollò in un sonno profondo. Sherlock era rimasto immobile con gli occhi chiusi in attesa che il suo migliore amico si fosse addormentato. Si alzò lentamente dal letto, facendo attenzione a non svegliarlo e si vestì. Prima di uscire dalla stanza, però, si fermò un attimo a guardarlo. Era così bello, mentre dormiva tranquillo nel suo letto. Non avrebbe mai voluto lasciarlo, ma non aveva altra scelta. “Addio, John…” disse. Poi si voltò e si recò velocemente fuori dall’appartamento.
Appena si trovò sul marciapiede davanti al 221B, si fermò qualche istante a riflettere su ciò che stava per fare. Era convinto che fosse la scelta giusta, ma stranamente sentiva un peso sul cuore che lo rendeva insicuro. Fece un profondo respiro per farsi coraggio e si incamminò.
Arrivò nel solito vicolo malfamato, si addentrò fino al punto in cui si trovava lo spacciatore ed acquistò tutto ciò che aveva. Dopo aver comprato tutti i tipi di droghe di cui disponeva l’uomo, iniziò a pensare ad un posto dove andare. Alla fine optò per la villa di suo fratello. Non sapeva perché avesse scelto proprio quel luogo, ma in quel momento era l’unico che gli veniva in mente. Afferrò dalla tasca la copia delle chiavi che portava sempre con sé e prese un taxi.
 
 

John si svegliò di soprassalto. Cercò di mettere bene a fuoco la stanza e guardò l’orologio: erano le 3.00. Si voltò di lato e cercò con la mano il corpo di Sherlock alla sua sinistra, ma ben presto si accorse che non c’era. Si alzò di scatto, accese la luce e si guardò intorno confuso. “Sherlock?” lo chiamò con la voce ancora impastata di sonno. Si vestì velocemente ed andò in soggiorno, convinto di trovarlo lì. “Sherlock?” provò di nuovo. Un’ondata di panico lo travolse quando si accorse che l’appartamento era vuoto. Sherlock era ancora agli arresti domiciliari e non sarebbe potuto uscire. Dov’era andato alle tre di notte? Cercando di mantenere la calma prese il cellulare e provò a chiamarlo. Il telefono, però, risultava spento. Si passò nervosamente una mano sul viso e digitò il numero di Greg.
“John?” rispose Lestrade con la voce assonnata.
“Sherlock è scappato!” esclamò John con il respiro corto.
“Che vuol dire che è scappato?” chiese l’ispettore allarmato.
“Mi sono svegliato e non l’ho trovato in casa…ho provato a chiamarlo, ma ha il cellulare spento!... Greg, i-io…io ho paura che possa fare qualcosa di avventato…” disse il medico disperato.
Greg sospirò pesantemente. “Stai tranquillo, John…vengo subito a prenderti ed andiamo a cercarlo…”.
 



Sherlock scese dal taxi e si avviò velocemente dentro la villa di Mycroft. Voleva fare tutto più in fretta possibile, perché sapeva che se avesse avuto il tempo di pensarci ancora su, non ne avrebbe avuto più il coraggio. Entrò nel soggiorno e una strana angoscia lo travolse. Solo in quel momento si ricordò che da quando suo fratello era morto, non si era ancora mai recato in quella casa. Si fermò ad osservare la sua poltrona davanti al camino. Se chiudeva gli occhi poteva ancora vederlo lì seduto, con un bicchiere in mano, intento a sorseggiare del brandy. Non riusciva a credere che potesse mancargli così tanto. Non riusciva a credere che pensare a lui gli provocasse un dolore così intenso. Per un momento gli parve di sentire la sua voce che lo rimproverava per ciò che stava per fare. Si ricordò di quel giorno sull’aereo, si ricordò le sue parole: “…Sono stato qui per te, sono qui per te e sarò sempre qui per te…”. Eppure adesso che aveva bisogno di lui non c’era. Adesso che aveva bisogno di essere salvato, non era lì con lui. Sospirò pesantemente e si sedette a terra, vicino alla poltrona di Mycroft. Tirò fuori tutte le fiale e le pillole dal sacchetto e con le mani tremanti e le lacrime agli occhi, iniziò a prenderle.
 
 


Dopo venti minuti Lestade arrivò a Baker Street. John lo stava già aspettando fuori davanti alla porta del 221B.
Il medico salì velocemente in macchina e, lui e Greg partirono alla ricerca di Sherlock.
Lo cercarono in tutti i nascondigli preferiti dal detective, ma non ottennero risultati. Avevano passato più di un’ora a setacciare la città ed avevano fallito miseramente nella loro impresa.
“Hai qualche altra idea?” chiese Greg con sconforto.
Il medico si mise le mani sul volto e negò con il capo. Non gli veniva in mente nessun’altro posto dove andare a cercarlo. “Dove diamine sei, Sherlock?” si chiese disperato tra sé e sé. In quel momento, però, un’idea attraversò la sua mente come un lampo improvviso. “Greg, c’è ancora un posto che non abbiamo controllato!”.
“Quale?” domandò l’ispettore.
“Casa di Mycroft!” rispose con certezza “…Una volta Sherlock mi ha detto di avere le chiavi di casa di suo fratello…potrebbe essere lì!”.
Lestrade annuì, anche lui convinto da quella teoria e si diresse velocemente verso la villa del politico.
 
Arrivati a casa di Mycroft si precipitarono verso l’ingresso e si accorsero che la porta era socchiusa. Qualcuno era entrato lì e, quel qualcuno, poteva essere Sherlock.
John corse dentro e cominciò a guardarsi intorno. “Sherlock!” urlò preoccupato.
Greg, intanto, si recò nel soggiorno e dopo aver ispezionato la stanza con cura, qualcosa sul pavimento, vicino al camino, attirò la sua attenzione. Si avvicinò e lo vide. Sherlock giaceva a terra immobile. Intorno a lui c’erano flaconi di pillole, fiale e tutto l’occorrente per le iniezioni. “Cristo Santo, Sherlock!” esclamò terrorizzato, inginocchiandosi vicino a lui. “John! Corri, l’ho trovato!”.
Il medico sentì la voce di Lestrade che lo chiamava e il suo cuore perse un battito. Quel tono d’urgenza non prometteva niente di buono. Appena entrò nel soggiorno e lo vide, si sentì mancare l’aria. Si precipitò a terra vicino a lui ed iniziò a scuoterlo con forza. “Sherlock, mi senti?” provò a chiamarlo. Il detective, però, non dava nessun segno di ripresa. “Chiama subito un’ambulanza, presto!” gridò verso Greg. Poi gli prese il polso tra le mani per controllare il battito: il battito era irregolare, la temperatura corporea era decisamente alta e respirava con molta fatica. Cercando di non farsi prendere dal panico, provò a tirargli alcuni colpetti sul viso, nel tentativo di fargli riprendere conoscenza. “Ti prego, Sherlock…svegliati” lo pregò disperato e con le lacrime agli occhi.
Dopo alcuni istanti Sherlock aprì lentamente gli occhi ed incontrò lo sguardo del medico. Poi si voltò di lato ed iniziò a contorcersi dal dolore, tossendo convulsivamente.
Greg, dopo aver chiamato i soccorsi, ritornò da loro. “Stanno arrivando…”.
“Sherlock, guardami…devi rimanere sveglio, va bene?... L’ambulanza sarà qui tra poco…” disse il medico.
“Mycroft…” sibilò il detective con un filo di voce.
John rimase di sasso nel sentire quel nome. “No, Sherlock…s-sono John!” rispose titubante.
Sherlock continuò a contorcersi dal dolore ed un gemito sfuggì dalle sue labbra. “Mycroft…mi dispiace…” disse tra le lacrime.
Il medico si scambiò uno sguardo perplesso con l’ispettore. Era sicuramente in stato confusionale e non riusciva a distinguere la realtà dalla finzione. Fu allora che capì, che in quel momento ricordargli la morte di suo fratello, non sarebbe servito a niente. Non rimaneva che assecondarlo in attesa dei soccorsi. “Non fa niente, Sherlock…va tutto bene…”.
“I-io non ho…fatto una lista…” continuò Sherlock con voce rotta.
John gli passò una mano tra i capelli con dolcezza. “Non fa niente, ma devi resistere…non lasciarti andare…”.
Il detective negò con il capo e trattenne una smorfia di dolore. “Ormai non ha più senso…”.
“Certo che ha senso…devi farlo per le persone che ti vogliono bene, per me…e per John…” disse il medico con voce tremante.
“Tanto morirò…lo stesso…tanto vale…anticipare le cose…” rispose Sherlock, ansimando pesantemente. Non riusciva più a respirare ed il dolore diffuso per tutto il corpo era diventato ingestibile. Chiuse gli occhi e si raggomitolò su sé stesso, mentre alcuni gemiti gli sfuggivano dalle labbra.
Fu allora che John non poté più mantenere il suo autocontrollo. Non poté più fingere di essere Mycroft ed iniziò a piangere disperato. “Ti prego, Sherlock…non lasciarmi…” lo supplicò tra le lacrime.
Lestrade, intanto, era ancora immobile vicino a loro. Era pietrificato dalla paura e non riusciva a dire niente.
Nel sentire i singhiozzi di John il detective parve ritornare momentaneamente in sé. Aprì di nuovo gli occhi e voltò lo sguardo stanco verso il suo migliore amico, fissandolo con aria confusa “John…?”.
“Si…sono qui!” esclamò il medico, accennando un lieve sorriso. Poi gli prese la mano tra le sue e la strinse con forza per fargli sentire la sua presenza. “Dannazione, Sherlock…perché l’hai fatto?”.
“N-non potevo…partire, John…ed affrontare…tutto di nuovo…” rispose Sherlock con voce flebile.
“Ma sarei venuto con te! Non ti avrei mai lasciato andare da solo, lo sai!” ribatté John.
Con un po' di fatica il detective alzò una mano ed accarezzò la guancia del medico. “Ed i-io…n-non ti avrei…mai messo…in pericolo…lo sai…” disse, sorridendo appena. Dopo alcuni istanti una forte fitta lo travolse all’improvviso. Un gemito sfuggì dalle sue labbra e strinse i denti nel vano tentativo di non farsi sopraffare dal dolore. Subito dopo, però, non riuscì più a resistere; chiuse gli occhi e smise di respirare. 











Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il ventiduesimo capitolo! Beh, è un pò drammatico ed abbiamo anche un maggiore contatto tra John e Sherlock. Il nostro detective sapendo che era l'ultima notte che avrebbe passato con il suo John, ha preso coraggio e si è fatto avanti sia fisicamente, che nel dichiarare esplicitamente i suoi sentimenti. 

Sherlock non solo non voleva partire e ritornare in quei posti, ma sapeva anche che se fosse partito John lo avrebbe seguito e naturalmente avrebbe rischiato anche lui la vita...e non poteva permetterlo! Per questo l'overdose gli è sembrata di nuovo l'unica soluzione.

Il fatto che scelga proprio la villa di suo fratello e che pensi a lui prima di fare quel gesto mi è sembrata una cosa carina...spero vi sia piaciuta...

La fine di Sherlock comunque la scoprirete nel prossimo capitolo, anche il finale di questo non fa prevedere niente di buono! 

Grazie a chi continua a seguire la storia e a chi vuole lasciare un commento...Alla prossima ;)



 

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Capitolo 23
*** For you ***


                    Miss me?






                                              For you






… “Ma sarei venuto con te! Non ti avrei mai lasciato andare da solo, lo sai!” ribatté John.
Con un po' di fatica il detective alzò una mano ed accarezzò la guancia del medico. “Ed i-io…n-non ti avrei…mai messo…in pericolo…lo sai…” disse, sorridendo appena. Dopo alcuni istanti una forte fitta lo travolse all’improvviso. Un gemito sfuggì dalle sue labbra e strinse i denti nel vano tentativo di non farsi sopraffare dal dolore. Subito dopo, però, non riuscì più a resistere; chiuse gli occhi e smise di respirare.





 
 
Appena John si accorse che Sherlock non respirava più, un’ondata di panico lo travolse. “No…no…Sherlock…” urlò, scuotendolo con forza. Afferrò il polso tra le mani per controllare il battito, ma non sentì niente, soltanto il vuoto. “Sherlock…ti prego…non lasciarmi…” continuò disperato.
Proprio in quell’istante arrivò l’ambulanza e i paramedici si precipitarono con urgenza sul corpo del detective. Il medico provò a spiegare la situazione con fare professionale, ma non riusciva a smettere di tremare e altre lacrime continuavano a bagnargli il viso.
Gli addetti ai soccorsi, dopo aver preso l’attrezzatura, iniziarono la rianimazione di Sherlock.
Il rumore di quelle scariche di defibrillatore, riportarono John con la mente alla sera in cui era morta Mary. Quella sera era sconvolto, ma il dolore che aveva provato allora, non era neanche lontanamente paragonabile a quello che stava provando. Mary era sua moglie, certo, ma Sherlock era tutta la sua vita. Era stato uno stupido. Avrebbe dovuto capire le intenzioni del suo migliore amico, avrebbe dovuto capirlo dalle sue parole e dai suoi gesti. Se solo se ne fosse accorto in tempo, avrebbe potuto salvarlo, avrebbe potuto impedirglielo. Sentì le gambe tremargli pericolosamente e dovette sostenersi con una mano al muro per non cadere. Greg lo guardò e si avvicinò velocemente. Anche lui aveva lo sguardo spaventato e anche lui stava soffrendo.
“John stai bene?” chiese Lestrade preoccupato.
“I-io…non lo so, Greg…” rispose John, mentre fissava il corpo di Sherlock percorso da quelle scariche.
L’ispettore sospirò pesantemente e lo abbracciò con forza. Entrambi scoppiarono a piangere, cercando conforto l’uno nelle braccia dell’altro.



 
 
Sherlock stava vagando nel suo palazzo mentale. Nel momento in cui aveva preso tutte quelle droghe desiderava davvero morire, ma adesso, dopo aver visto la disperazione di John e le sue lacrime, qualcosa dentro di lui si era smosso. Voleva lottare, voleva tornare da lui.
Mentre correva disperatamente tra i corridoi, sentì la voce del medico in lontananza “Sherlock…ti prego…non lasciarmi…” diceva tra le lacrime. Si fermò un attimo ad ascoltare quella voce carica di disperazione e sospirò “Tornerò da te, John…te lo prometto!” esclamò convinto. Poi riprese a correre e, come il giorno in cui Mary l’aveva sparato, cercò tra quelle stanze qualcosa che lo aiutasse a non mollare, qualcosa che lo spingesse a resistere. Preso dall’angoscia, scese velocemente le scale e si trovò di fronte ad una porta. Senza neanche pensarci, la aprì ed entrò. Appena fu dentro, però, si accorse che era capitato nell’unico posto che voleva evitare. Era di nuovo in quell’orribile stanzetta dalle pareti imbottite. E lì c’era sempre lui: Moriarty. Istintivamente si voltò per uscire, ma la porta era bloccata.
“Devo resistere…devo resistere…” si ripeteva Sherlock tra sé e sé con il respiro corto.
“Stai morendo, Sherlock…ma non devi avere paura…” canzonò Jim, strattonando le catene.
Sherlock cadde a terra in ginocchio. Il suo corpo era nuovamente attraversato da dolori lancinanti. “Stai zitto…” sibilò tra i denti.
Moriarty scoppiò a ridere di gusto e si inginocchiò di fronte a lui. Poi cominciò a cantare di nuovo quella fastidiosa canzoncina: “…Tira vento e piove, Sherlock è scontento… sto ridendo e piangendo, Sherlock sta morendo…”.
“Smettila!” urlò il detective, ansimando pesantemente.
“Avanti, Sherlock…lasciati andare…lasciati morire…in fondo è questo ciò che volevi…” canzonò Jim tra le risate.
“No, devo resistere…devo tornare da John…” rispose Sherlock, parlando più con sé stesso che con il suo nemico.
“Oh, il caro John…lui sì che piangerà a secchiate!” esclamò Moriarty, iniziando a camminare per la stanza.
Il detective strinse i denti e, con un po' di fatica, riuscì a mettersi in piedi. Poi si diresse verso la porta e provò in tutti i modi ad aprirla, tirando pugni e calci. Nonostante tutto il suo impegno, però, non voleva saperne di aprirsi. Le forze lo abbandonarono all’improvviso e si lasciò scivolare a terra, tenendo i palmi e la fronte poggiati sulla porta. Alcune lacrime iniziarono a rigargli il viso “John…” disse disperato. Non c’era più niente che potesse fare. Ormai era troppo tardi. Sarebbe morto e lo avrebbe perso per sempre.
In quel momento, però, quando tutte le speranze lo avevano ormai abbandonato, la porta si aprì. Dovette fare un’incredibile sforzo per rimanere in equilibrio in ginocchio. Davanti a lui c’era qualcuno e, proprio quel qualcuno, doveva aver aperto la porta. Alzò lo sguardo, cercando di metterlo bene a fuoco e, appena lo riconobbe, il suo cuore perse un battito. “Mycroft?” esclamò sorpreso.
Il politico gli sorrise e gli porse la mano. “…Te l’ho detto, Sherlock…sarò sempre qui per te…”.
Sherlock afferrò la sua mano, ignorando Jim alle sue spalle che lo chiamava disperato. Appena fu in piedi, guardò suo fratello per qualche istante con le lacrime agli occhi. “M-mi dispiace…ho fatto una cosa stupida…” disse mortificato.
“Non sono arrabbiato con te…ma ora devi andare…” rispose Mycroft, indicandogli le scale.
Il detective lo superò e salì il primo gradino. Poi all’improvviso si fermò e si voltò di nuovo verso di lui, sospirando pesantemente. “So che non sei reale…ma volevo avere l’occasione di dirtelo almeno una volta…ti voglio bene, Mycroft…e te ne ho sempre voluto...”.
Mycroft non rispose. Si limitò a sorridergli con una dolcezza che non gli aveva mai visto negli occhi.
Sherlock ricambiò il sorriso e si aggrappò al corrimano, iniziando con un po' di fatica a salire di sopra. Poteva ancora farcela, poteva ritornare da John.  
 



 
Mentre John e Greg erano stretti in quell’abbraccio disperato, qualcosa attirò la loro attenzione: un piccolo bip, che si ripeteva con irregolarità. Si staccarono all’improvviso e si voltarono verso il corpo del detective. I paramedici erano riusciti a rianimarlo: il cuore aveva ripreso a battere, se pur in modo irregolare. Lo caricarono velocemente sulla barella e lo portarono di corsa in ospedale.
 
I due arrivarono al pronto soccorso qualche minuto dopo l’arrivo di Sherlock. Si accomodarono distrutti nella saletta d’attesa ed aspettarono con ansia di ricevere notizie.
Dopo un’ora circa un dottore uscì dalla porta del reparto. Aveva un’espressione cupa ed il suo sguardo non prometteva niente di buono.
“Allora, come sta?” chiese John, alzandosi di scatto.
L’uomo sospirò. “Per ora abbiamo fatto tutto il possibile. Non vi nego, però, che le sue condizioni sono gravi e non posso ancora garantirvi se ce la farà. Le prossime ore saranno quelle decisive”.
Il medico annuì e si passò le mani sul viso con disperazione. Non riusciva a pensare lucidamente. Desiderava soltanto svegliarsi ed accorgersi che si trattava soltanto di un brutto sogno, voleva svegliarsi e ritrovarsi di nuovo a letto con Sherlock, il suo Sherlock. “P-posso vederlo?” chiese con voce tremante.
Il dottore parve riflettere per qualche istante. “Non sarebbe possibile…ma posso fare un’eccezione” disse, con un mezzo sorriso. Poi fece cenno a John di seguirlo e lo portò nella camera del detective.
Il medico entrò nella stanza di Sherlock con il cuore che gli batteva all’impazzata. Restò fermo qualche istante sulla soglia della porta con la maniglia ancora in mano. Il consulente investigativo era pieno di tubi e di elettrodi in costante monitoraggio e aveva una flebo al braccio. Si avvicinò al letto e si sedette vicino a lui. Gli prese la mano e la strinse con forza, mentre alcune lacrime iniziarono a rigargli il viso. “Non azzardarti a morire, razza di idiota…mi hai capito?” disse con voce rotta. Poi si portò la mano sulla fronte e rimase fermo ad aspettare in quella posizione.
 
Dopo un’ora circa, il medico non si era mosso di un millimetro. Gli occhi iniziavano a chiudersi sotto il peso della stanchezza, ma cercava in tutti i modi di rimanere sveglio. All’improvviso sentì la mano di Sherlock muoversi. Alzò di scatto gli occhi e cominciò ad osservarlo attentamente in attesa di qualche reazione. Rimase a fissarlo con il cuore in gola, trattenendo il respiro. Dopo alcuni istanti, finalmente, le sue palpebre traballarono impercettibilmente e, con molta lentezza, i suoi occhi si aprirono.
Subito dopo il detective si voltò verso di lui e lo guardò intensamente.
John si specchiò nei suoi occhi chiari e, in quel momento, pensò che quello fosse lo sguardo più bello che avesse mai visto. Era così contento, che non riuscì a dire niente. Si alzò semplicemente dalla sedia e lo abbracciò con forza. Poi si staccò da lui e lo guardò con un misto di rimprovero e sollievo. “Sei davvero un idiota, lo sai?”.
Sherlock non rispose. Sospirò pesantemente ed abbassò lo sguardo.
“Potevi parlarne con me…avremmo trovato un’altra soluzione insieme…” continuò il medico “…I-io non so cosa avrei fatto se ti avessi perso di nuovo, Sherlock…” aggiunse con gli occhi lucidi.
“L’ho fatto per te…” disse il detective con voce flebile, alzando lo sguardo e guardandolo dritto negli occhi.
“Cosa?” chiese John confuso.
“M-mi stavo lasciando andare, John…m-mi stavo lasciando morire…” rispose con voce tremante “…poi ti ho sentito piangere…mi hai chiesto di non lasciarti ed io…io ho lottato per…p-per tornare da te…”.
Il medico non sapeva cosa dire. Quelle parole gli erano arrivate dritte al cuore. Una lacrima iniziò a rigargli la guancia destra e, nello stesso istante, sul suo volto apparve un enorme sorriso. Si fiondò su di lui e lo baciò.
 
Si stavano ancora baciando quando qualcuno bussò alla porta. Solo allora John si ricordò che avrebbe dovuto avvisare i medici e soprattutto Greg, che stava aspettando notizie.
“Avanti…” disse il medico.
Un uomo ben vestito entrò nella stanza. “Devo consegnare questa per Sherlock Holmes…” disse. Tra le mani aveva una rosa rossa ben confezionata su cui si intravedeva un piccolo biglietto.
“Può darla a me!” esclamò prontamente John, leggermente infastidito.
L’uomo consegnò la rosa e, senza aggiungere altro, uscì fuori.
Il medico si voltò verso il detective per chiedere spiegazioni e si accorse che, anche se con un po' di fatica, stava ridacchiando. “Si può sapere che hai da ridere? E poi chi diamine ti manderebbe una rosa rossa?”.
“Sarà qualche ammiratore…” scherzò Sherlock divertito.
“Molto simpatico!” esclamò John, staccando il biglietto e aprendolo velocemente. Quel piccolo pezzo di carta aveva un profumo familiare e la calligrafia era senza ombra di dubbio di una donna. All’interno c’era scritta una frase.

 
- Non finirò mai di ringraziarla per la sua disponibilità e per ciò che ha fatto…spero, ben presto, di riuscire a ripagarla come merita.
 
 
Il medico finì di leggere quelle parole ad alta voce e non riuscì a nascondere un’espressione irritata. Girò più volte il biglietto alla ricerca di una firma, ma non trovò nient’altro.
“Potresti darmelo?” chiese Sherlock, porgendogli la mano.
John gli porse il pezzo di carta con un gesto nervoso e poggiò sgraziatamente la rosa sul comodino.
Il detective rilesse il biglietto, lo annusò e lo scrutò con attenzione. Ci mise pochi secondi a capire chi fosse il mittente. Era difficile dimenticarsi di quella donna e di tutta la situazione che la riguardava. E poi quel profumo era inconfondibile e, questa volta, non poteva assolutamente sbagliarsi.
“Allora?” domandò il medico impaziente.
“Rettifico, John…è un’ammiratrice…” rispose Sherlock.
John gli lanciò uno sguardo furioso, infastidito da quelle parole.
“Sei geloso…” affermò il detective divertito.
“Devo andare ad avvisare Greg e dirgli che sei sveglio!” esclamò il medico, voltandosi di scatto.
Sherlock lo afferrò da un braccio e lo fermò. “John…”.
John non fece in tempo a voltarsi che il detective lo attirò a sé e gli stampò un passionale bacio sulle labbra.
“Va meglio?” chiese il consulente investigativo appena si staccò da lui.   
Il medico annuì e sorrise, piacevolmente sorpreso da quel gesto.
Dopo alcuni istanti, però, Sherlock sbiancò all’improvviso e si portò una mano sugli occhi, cominciando ad ansimare.
“Ehi…che succede?” chiese John allarmato.
“Mi gira un po' la testa…” rispose il detective a fatica.
“Non avrei dovuto farti sforzare!” esclamò il medico, iniziando a controllare i parametri vitali dai monitor. “Stai tranquillo, vado a chiamare qualcuno…” aggiunse, precipitandosi fuori dalla stanza. Dopo un po’ ritornò con un dottore ed un’infermiera al seguito.
I due visitarono Sherlock con attenzione e gli somministrarono qualche calmante per permettergli di riposare. Non appena i farmaci fecero effetto, infatti, si addormentò.
“Dormirà per qualche ora…ormai è fuori pericolo, ma ha bisogno di assoluto riposo per riprendersi completamente” spiegò il dottore.
John annuì e sospirò. Poi si avvicinò al detective, gli passò dolcemente una mano tra i capelli e lo baciò sulla fronte. Prima di uscire dalla stanza, però, prese il biglietto che era allegato alla rosa e lo mise in tasca. Era sicuro che Sherlock avesse capito chi fosse quella donna misteriosa ma, per qualche strana ragione, non aveva voluto dirglielo. Ancora pensieroso si recò nella saletta d’attesa per informare Greg. La stanchezza aveva avuto la meglio sul suo corpo, infatti lo trovò addormentato sulla seduta. “Greg…” lo chiamò, scuotendolo leggermente.
Lestrade aprì di scatto gli occhi. “Che succede? Come sta?” chiese allarmato e assonnato al tempo stesso.
“Sta bene, ora sta riposando. Ce l’ha fatta ed è fuori pericolo…” rispose il medico non riuscendo a non sorridere.
“Grazie al cielo!” esclamò Greg sollevato. Poi abbassò lo sguardo e sospirò. “Mentre eri dentro ho ricevuto una telefonata…”.
John lo guardò con aria interrogativa, facendogli cenno di continuare.
“Ciò che è successo non cambierà le cose, John…appena Sherlock verrà dimesso dall’ospedale dovrà partire comunque…” continuò Lestrade.
“Già…” disse semplicemente il medico. Per un attimo si era quasi dimenticato della missione. Era così concentrato a capire di chi fosse quel biglietto, da non rendersi conto che, nonostante tutto, il destino del suo migliore amico era comunque segnato. Ma questa volta, però, lo avrebbe seguito. Se Sherlock doveva andare incontro alla morte nell’Europa dell’Est, sarebbe stato al suo fianco e sarebbe morto con lui. Qualunque cosa avrebbero dovuto affrontare, l’avrebbero fatta insieme. Sarebbero stati, come sempre, loro due da soli contro il resto del mondo.  










Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il penultimo capitolo! Ebbene sì, la storia sta per finire e il prossimo dovrebbe essere l'ultimo capitolo (sempre se riesco a concentrare tutti gli avvenimenti in uno solo...altrimenti lo dividerò in due parti...)! 

Devo ammettere che questo capitolo è uno di quelli che mi è piaciuto di più. La scena di Sherlock e del suo palazzo mentale e di Mycroft che lo salva la trovo davvero tenera. Spero sia piaciuta anche a voi! Sherlock non è mai riuscito a dire esplicitamente a suo fratello "ti voglio bene", perciò ne approfitta in quell'occasione, anche se sa che quello non è realmente Mycroft, ma è solo una proiezione di lui nella sua mente. 


Sherlock non è riuscito a lasciarsi andare e a lasciarsi morire, non dopo aver visto le lacrime di John ed aver sentito le sue suppliche disperate. Non è riuscito a lasciarlo, almeno non in quel modo!

Qualcuno ha regalato una rosa al detective....una rosa rossa...una donna...chi sarà? Questo lo scoprirete nel prossimo capitolo! Comunque immaginare un John geloso, mi fa sempre divertire e poi era un modo per alleggerire un pò il capitolo. 

Il nostro John ha deciso di partire con Sherlock e di affrontare tutto al suo fianco e stavolta nessuno potrà fargli cambiare idea!

Spero che il capitolo vi sia piaciuto...Grazie a chi continua a seguire la storia e a chi vuole lasciare un commento...Alla prossima ;)

 

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Capitolo 24
*** The promise ***


                    Miss me?







                                           The promise






… Per un attimo si era quasi dimenticato della missione. Era così concentrato a capire di chi fosse quel biglietto, da non rendersi conto che, nonostante tutto, il destino del suo migliore amico era comunque segnato. Ma questa volta, però, lo avrebbe seguito. Se Sherlock doveva andare incontro alla morte nell’Europa dell’Est, sarebbe stato al suo fianco e sarebbe morto con lui. Qualunque cosa avrebbero dovuto affrontare, l’avrebbero fatta insieme. Sarebbero stati, come sempre, loro due da soli contro il resto del mondo. 
 
 



 
Sherlock dovette rimanere in ospedale per una settimana. I giorni da scontare agli arresti domiciliari erano dunque conclusi e Lestrade cercò in tutti i modi di mascherare la fuga del detective di quella notte.
Il consulente investigativo venne dimesso il giovedì pomeriggio. La pioggia, quel giorno, continuava a cadere con insistenza, rendendo le strade scure e nebulose.
Greg si propose di accompagnare Sherlock e John a Baker Street. Aveva un’espressione cupa in volto e per tutto il tragitto, mostrò un atteggiamento nervoso, come se avesse qualcosa da dire, ma non trovasse il modo giusto per farlo.
“Avanti, Lestrade! Cosa devi dirmi?” sputò Sherlock con un sospiro.
“La partenza…” iniziò con la gola incredibilmente secca. Tossicchiò per schiarirsi la voce “…la partenza è stata fissata per domani mattina”.
Quelle parole colpirono John come una coltellata dritta allo stomaco. Strinse i pugni e voltò lo sguardo pensieroso verso il finestrino.  
Da quel momento, fino all’arrivo a Baker Street, nessuno disse niente. Non c’era niente da aggiungere e, soprattutto, niente che si potesse dire o fare per cambiare le cose.

 
L’auto di Lestrade si fermò davanti al 221B. Sherlock e John salutarono e, in silenzio, si avviarono dentro.
Il detective salì le scale per primo, arrivando prontamente nel soggiorno e lasciandosi cadere esausto sulla sua amata poltrona. Voltò lo sguardo di fronte a sé e notò qualcosa sul tavolo della cucina. Si alzò di scatto e si avvicinò incuriosito. Era un’altra rosa rossa con allegato un altro biglietto. Prese il pezzo di carta, lo aprì e lo lesse velocemente.
 

 
- Credo di poter risolvere il suo problema, ma ho bisogno del suo aiuto. Vediamoci questa sera, lontano da occhi indiscreti. Ore 22:00, Paddington Street Gardens.
 

 
Dopo aver letto il biglietto, lo annusò nuovamente ed un lieve sorriso apparve sulle sue labbra. Poi lo mise velocemente in tasca e si andò a sedere sulla sua poltrona.
 
 
Il medico, intanto, si era fermato dalla signora Hudson per prendere Victoria. Erano cinque giorni che vedeva sua figlia di sfuggita, in quelle poche occasioni in cui era passato da casa per rinfrescarsi o per prendere qualcosa che potesse servire al suo migliore amico ricoverato. La prese dolcemente in braccio e le stampò un bacio sulla guancia. La bimba gli sorrise e, fu in quel momento, che John sentì una forte fitta allo stomaco. Aveva deciso di seguire Sherlock, di andare con lui incontro alla morte, ma aveva tralasciato un particolare, il più importante: Victoria. Come poteva abbandonarla? Quel piccolo fagottino tra le sue braccia aveva già perso sua madre, era giusto privarla anche di suo padre? E poi chi si sarebbe occupato di lei? Tutte quelle domande lo travolsero all’improvviso. Si sentì mancare l’aria e dovette chiudere gli occhi, nel tentativo di regolarizzare i propri respiri.
“John, caro…stai bene?” chiese la signora Hudson con uno sguardo preoccupato.
“Si, si sto bene!” rispose prontamente il medico, riaprendo gli occhi. Guardò nuovamente sua figlia e, con la mano tremante, le accarezzò il viso. Sospirò pesantemente e, stringendola tra le sue braccia, salì di sopra con questo doloroso peso sul cuore.
 
John aprì lentamente la porta dell’appartamento. Sapeva che Sherlock avrebbe letto dalla sua espressione, tutti i pensieri e tutti i dubbi che avevano iniziato a tormentarlo. Lo trovò seduto sulla sua poltrona, le mani congiunte sotto il mento e gli occhi chiusi. Sul suo volto, pallido e scarno, decisamente provato da quei giorni di ricovero, appariva un’espressione seria e pensierosa. Aprì più volte la bocca per parlare, ma non sapeva cosa dire. Sospirò e si guardò nervosamente intorno, e fu allora che la vide. Sul tavolo della cucina c’era l’ennesima rosa rossa. “E quella com’è arrivata lì?” domandò confuso.
Il detective aprì gli occhi e fece spallucce.
Il medico si avvicinò alla rosa e la scrutò alla ricerca di qualche biglietto. “Che strano, questa volta non c’è nessun messaggio!” esclamò, voltandosi ed osservando con attenzione l’espressione di Sherlock. “Tu non hai idea di chi te l’abbia mandata?”.
“No, John… e saperlo non è tra le mie priorità al momento!” sbottò il consulente investigativo, sbuffando irritato.
John sospirò e si andò a sedere sulla sua poltrona, mantenendo Victoria tra le sue braccia. Era davvero curioso di sapere chi fosse quella donna misteriosa, ma d’altra parte, Sherlock aveva ragione: c’erano altre priorità al momento. Il suo migliore amico sarebbe dovuto partire l’indomani mattina per una missione suicida, e lui ancora non sapeva cosa fare.
 

 
Erano le 21:30 e fuori aveva smesso di piovere.
John era riuscito a far addormentare Victoria nella sua culla. Era così bella mentre dormiva, che sarebbe rimasto lì, a guardarla per ore. Non poteva lasciarla, non poteva farle questo. D’altra parte, però, non poteva neanche lasciare che Sherlock partisse da solo, non poteva perderlo di nuovo. Si passò le mani sul viso in un gesto disperato. “Cosa devo fare?” si chiese tra sé e sé. Decisamente avvilito, si recò in soggiorno e rimase sorpreso nel vedere il detective pronto per uscire.
“Dove stai andando?” chiese confuso.
“Ho bisogno di prendere aria, John…vado a fare due passi fuori” rispose il consulente investigativo, mentre finiva di abbottonare il cappotto.
D’istinto John afferrò la sua giacca. “Vengo con te! Chiederò alla signora Hudson di controllare Victoria…”.
Sherlock si voltò di scatto, lanciandogli uno sguardo seccato. “No, vado da solo!”.
Il medico rise nervosamente e finì di indossare la giacca. “Credi davvero che ti lasci andare da solo?”.
“Santo cielo, John!” esclamò il detective, supplicandolo con gli occhi. “Pensi che sia così stupido da tentare di nuovo il suicidio?”.
John serrò la mascella e distolse lo sguardo. Quella parola, suicidio, gli faceva raggelare il sangue. Poteva ancora vederlo, a terra, morente sotto i suoi occhi.
“Credi davvero che se avessi voluto rifarlo, non ne avrei avuto l’occasione? Pensi che sarei uscito così, tranquillamente davanti ai tuoi occhi?” continuò Sherlock, con un tono più dolce e convincente. “…Ho solo bisogno di schiarirmi le idee…per favore…”.
“Va bene” disse il medico, togliendosi la giacca “Mi raccomando, Sherlock…niente cavolate…me lo prometti?”.
Il detective sorrise “Te lo prometto…”. Poi uscì velocemente fuori dall’appartamento.


 
Erano le 22:00 in punto e Sherlock stava vagando nel parco, in attesa della donna misteriosa.
“Signor Holmes…sono contenta che sia venuto!” esclamò lei alle sue spalle.
Il detective si lasciò sfuggire un mezzo sorriso prima di voltarsi. “Noto con piacere che non ha cambiato la fragranza del suo profumo!”.
“Contavo proprio sul suo infallibile spirito di osservazione! Sapevo che lei è un uomo attento ai dettagli!” rispose la donna con un sorriso.
Sherlock si voltò e sorrise anche lui. “Nel biglietto mi ha scritto che poteva risolvere il mio problema…”.



 
John era seduto sulla sua poltrona, intento a guardare fuori dalla finestra. Stava tentando in tutti i modi di distrarsi, per non pensare all’imminente partenza di Sherlock e, di conseguenza, alla sua decisione. Si alzò di scatto e si recò in cucina con l’intenzione di preparare del tè. La rosa rossa giaceva ancora sul tavolo e si fermò qualche istante a guardarla con aria sospetta. In quel momento si ricordò del biglietto che aveva conservato nella giacca e corse a prenderlo. Quel giorno, in ospedale, qualcosa, in quel pezzo di carta, aveva attirato la sua attenzione. Lo prese tra le mani e lo annusò attentamente. Il profumo che emanava gli risultava stranamente familiare, ma non ne capiva il motivo. Solo dopo una seconda annusata, riuscì a riconoscere la fragranza e a spiegarsi il perché la conoscesse così bene: era il profumo che usava Mary, Claire de la Lune.
 


 
La donna si guardò intorno e si avvicinò al detective. “Si, posso risolvere il suo problema, ma lei deve darmi una mano”.
“Nonostante lei sia una donna molto influente, Lady Smallwood, non credo che da sola riesca ad evitare la mia partenza. La decisione è stata presa all’unanimità…stiamo parlando di un vero e proprio complotto governativo” disse Sherlock, mettendo le mani nelle tasche del cappotto.
“Non sottovaluti le armi che ho a disposizione, signor Homes!” rispose lei con aria compiaciuta. “…Le armi che mi ha fornito suo fratello!”.
Il detective rimase sorpreso da quella frase. “Mio fratello?”.
“Si. Il giorno dopo essere stato minacciato da Moran, suo fratello mi ha chiamato nel suo ufficio e mi ha lasciato dei fascicoli con delle informazioni compromettenti su alcuni membri del governo. Aveva capito che Moran, grazie ai suoi favori, stava cercando dei seguaci nel Parlamento. E soprattutto, sapeva che se gli fosse successo qualcosa, questi uomini avrebbero trovato un modo per prendersela con lei, signor Holmes!” spiegò Lady Smallwood.
“Quello che non capisco…è perché non ha usato prima queste informazioni!” rispose prontamente Sherlock.
“Crede che avrebbero raggiunto l’unanimità se fossi stata presente alla votazione?” domandò lei, sollevando le maniche del cappotto e mostrando dei segni sui polsi.
“Cosa le hanno fatto?” chiese il detective, continuando a guardare quelle ferite.
“Mi hanno attirato fuori città con la scusa di un problema internazionale, che richiedeva la mia attenzione e mi hanno tenuta rinchiusa in un capanno abbandonato per giorni. Sono stata liberata la mattina in cui lei sarebbe dovuto partire, in modo da non avere il tempo di contestare quella decisione. Inoltre hanno minacciato di uccidere mia nipote, che abita con me, se mi fossi rivolta alla polizia per denunciare l’accaduto. È così che hanno convinto il resto dei membri del Parlamento, hanno minacciato di uccidere le loro famiglie, i loro figli, se non avessero votato a favore della sua partenza” raccontò la donna con voce tremante.
Sherlock sospirò e abbassò lo sguardo. “La partenza è stata fissata per domani mattina…non abbiamo più tempo”.
“No, non ne abbiamo…per questo mi serve il suo aiuto!” rispose prontamente Lady Smallwood. “…L’unico modo che abbiamo per incastrare i seguaci di Moran, è quello di metterli alle strette e farli confessare. Sono riuscita ad ottenere una riunione straordinaria per domani mattina alle 9:00. Ho un piano per incastrarli, grazie all’aiuto alle informazioni che mi ha dato suo fratello, ma ho bisogno di tempo. Anche la sua partenza è stata fissata per le 9:00, ma deve fare in modo di ritardarla! Si inventi qualcosa, qualsiasi cosa…mi serve qualche ora e le assicuro che quei bastardi finiranno dietro le sbarre!” aggiunse con uno sguardo deciso.
“Non sarebbe più semplice se partissi e poi, dopo aver risolto tutto, mi rimandasse indietro?” chiese il detective confuso.
La donna sospirò e negò con il capo. “Non hanno intenzione di aspettare che lei muoia in missione, signor Holmes...c’è una bomba su quell’aereo, pronta ad esplodere subito dopo il decollo”.
Il detective deglutì a vuoto ed annuì. “Allora dovrò inventarmi qualcosa” disse pensieroso. Poi si fermò un attimo a guardare la donna che aveva di fronte con attenzione “…Perché sta facendo tutto questo per me?”.
Lei sorrise con dolcezza. “Perché ho sempre stimato suo fratello e, soprattutto, per quello che ha fatto per me…”.
“Ma non sono riuscito ad evitare a suo marito lo scandalo per quelle lettere, non sono riuscito a salvarlo…” rispose Sherlock, abbassando lo sguardo.
“No…” disse la donna con uno sguardo triste “…ma è stato l’unico che ha avuto il coraggio di provarci…l’unico che ha rischiato persino di essere ucciso, nel tentativo di recuperare quelle lettere…” aggiunse, sorridendogli appena “…sa, per me è stato davvero difficile, allora, dover confermare la sua pena per l’omicidio di Magnussen, ma l’ho fatto perché me lo ha chiesto Mycroft, spiegandomi che lei aveva deciso di partire, pur di non dover passare la sua vita in prigione…Se fosse stato per me, non lo avrei mai fatto…Magnussen era un uomo spregevole e disgustoso e, a mio avviso, meritava di morire!”.
Sherlock si lasciò sfuggire un sorriso triste ed annuì. Ricordava quando Mycroft si era presentato nella sua cella, ponendolo di fronte a quella scelta. Ricordava l’espressione spaventata di suo fratello, ben nascosta dietro alla sua maschera di freddezza, quando gli aveva comunicato la sua decisione.
“Ora devo andare…mi raccomando, si nasconda, faccia qualsiasi cosa, ma non salga su quell’aereo” riprese Lady Smallwood seria “…aspetti una mia telefonata, la avviserò non appena sarà tutto risolto…si fidi di me…” aggiunse, prima di sparire nell’oscurità.
 
Sherlock rimase fermo, in quel parco, a pensare. L’unica soluzione era quella di nascondersi ed aspettare che la questione fosse risolta. Non poteva avvisare John, non poteva trascinarlo in quell’assurda fuga, non poteva rischiare di metterlo in pericolo. Doveva trovare un posto al di sopra di ogni sospetto, dove a nessuno sarebbe venuto in mente di cercarlo. Si diresse fuori dal Paddington Street Gardens e fermò un taxi. Per cominciare si sarebbe allontanato da Londra, perché non c’era nessun luogo nella città, completamente sicuro. Salì velocemente sulla vettura ed uno strano senso di colpa lo travolse. “Mi raccomando, Sherlock…niente cavolate…me lo prometti?” gli aveva detto John prima di uscire. Non poteva sparire senza dirgli niente, non poteva farlo preoccupare nuovamente, perché sapeva che, questa volta, non lo avrebbe mai perdonato. Gli aveva fatto una promessa e non aveva intenzione di deluderlo di nuovo. 
“Dove la porto?” chiese il tassista impaziente.
Sherlock non rispose. Rimase immobile, immerso nei suoi ragionamenti, indeciso sul da farsi.
“Signore, dove la porto?” insistette l’uomo.
Il detective sospirò. “221B, Baker Street”.

 
John era ancora intento ad analizzare quel biglietto. Il fatto che il profumo fosse uguale a quello usato da Mary, però, non lo portava a nessuna conclusione. Era ad un punto morto, di nuovo. Tornò in cucina, finì di prepararsi una tazza di tè e si recò verso la sua poltrona. Guardò l’orologio: erano le 22:35. Era passata poco più di una mezz’ora da quando Sherlock era uscito e non vedeva l’ora che rientrasse a casa. Nonostante la promessa che gli aveva fatto, non riusciva comunque a stare tranquillo. Era preoccupato, non poteva negarlo.
Dopo un’altra mezz’ora sentì qualcuno entrare e correre su per le scale.
Sherlock aprì la porta e si precipitò velocemente nel soggiorno.
“Che succede?” chiese il medico, alzandosi di scatto dalla poltrona.
“John, non ho tempo di spiegarti…ho trovato qualcuno che può aiutarmi a revocare la mia partenza, ma devo nascondermi fuori città fino a quando la questione non verrà risolta…mi farò vivo io appena possibile...” disse il detective con urgenza, stampandogli un bacio sulle labbra “…non preoccuparti…andrà tutto bene…” aggiunse, prima di voltarsi verso la porta per uscire.
John, però, con uno scatto repentino, si parò davanti a lui, bloccandogli l’uscita. Era stordito da tutte quelle informazioni improvvise e voleva assolutamente una spiegazione. “Si può sapere che diamine sta succedendo?”.
“John, ti spiegherò tutto appena possibile…ora lasciami andare, il taxi mi aspetta qui sotto!” rispose Sherlock.
“Cristo Santo, Sherlock! Non puoi presentarti qui in questo modo e pretendere che ti lasci andare chissà dove, senza capire che diamine sta succedendo!” esclamò il medico furioso.
Il detective sbuffò spazientito. “John, ti prego…”.
“No, Sherlock! Tu non uscirai da questo dannato appartamento, senza prima avermi spiegato cosa sta succedendo!” urlò John, minacciandolo con lo sguardo.
Sherlock sospirò rassegnato e gli riassunse, brevemente, la conversazione che aveva avuto con Lady Smallwood. “Ora capisci perché devo nascondermi?”.
Il medico era rimasto senza parole. Ciò che lo aveva sconvolto maggiormente, era stata l’idea che su quell’aereo ci fosse una bomba. E se quella donna non lo avesse avvisato? Se Sherlock lo avesse preso? Rabbrividì al solo pensiero. “I-io vengo con te!” disse con voce tremante.
“John, non essere ridicolo! Devi pensare a Victoria…” esclamò il detective.
“Se ne occuperà la signora Hudson…e poi se le cose andranno per il verso giusto, entro la giornata di domani dovrebbe essere tutto risolto…” rispose prontamente John.
“E se qualcosa andasse storto? Lo capisci che se Lady Smallwood dovesse fallire, diventerei un ricercato? Non posso farti correre questo rischio, John…è troppo pericoloso!” ribatté Sherlock, abbassando lo sguardo.
Il medico si mise a ridere, attirando l’attenzione del suo migliore amico. “Tu hai detto pericoloso…ed eccomi ancora qua…”. 









Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il ventiquattresimo capitolo! Non è ancora l'ultimo, perché concentrare tutti gli avvenimenti in uno solo, lo avrebbe reso troppo lungo. 
La donna in questione non era la Adler come tutti avevano pensato (vi avevo messo volutamente sulla strada sbagliata)!. Anche se nel capitolo precedente c'era l'accenno al profumo che a John risultava familiare, che poteva darvi un indizio.

Sherlock forse potrebbe salvarsi dalla partenza.
Comunque non è riuscito a scappare senza dire niente a John, non questa volta, non dopo che gli aveva fatto una promessa. 

Le sorti di Sherlock e John le scoprirete nel prossimo capitolo. Spero che questo vi sia piaciuto a grazie come sempre a chi segue la storia e chi vuole lasciare un commento. Alla prossima ;)

 

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Capitolo 25
*** Happy ending ***


                   Miss me?







                                        Happy ending






… “E se qualcosa andasse storto? Lo capisci che se Lady Smallwood dovesse fallire, diventerei un ricercato? Non posso farti correre questo rischio, John…è troppo pericoloso!” ribatté Sherlock, abbassando lo sguardo.
Il medico si mise a ridere, attirando l’attenzione del suo migliore amico. “Tu hai detto pericoloso…ed eccomi ancora qua…”.
 
 
 
… And I’m thinking ’bout how people fall in love in mysterious ways
Maybe it’s all part of a plan
Or me I fall in love with you every single day
And I just wanna tell you right now…
So honey now
Take me into your loving arms
Kiss me under the light of a thousand stars
Place your head on my beating heart
And I’m thinking out loud
That maybe we found love right where we are …

Thinking out loud – Ed Sheeran
 
 
 
 


Dopo aver affidato Victoria alle cure della signora Hudson, Sherlock e John corsero velocemente fuori dall’appartamento e salirono a bordo del taxi, che li attendeva davanti casa.
“Qual è il piano?” chiese il medico curioso.
“Ho pensato di andare nel Sussex. Lì c’è una villetta che apparteneva a mio nonno, di cui nessuno è a conoscenza…a parte i miei genitori, ovviamente!” spiegò il detective serio. “…Prima, però, dobbiamo andare a casa di Mycroft…lui ha…aveva una copia delle chiavi…” aggiunse, rattristandosi all’improvviso e voltandosi a guardare fuori dal finestrino. Possibile che non riusciva a parlare di lui, senza provare dolore? Senza sentire quell’asfissiante peso sul cuore, che gli faceva mancare il respiro?
John poggiò la mano sulla sua gamba e la strinse leggermente. Non disse niente, in fondo non c’era niente che avesse potuto dire in quel momento, ma, con quel semplice gesto, si limitò a fargli sentire la sua presenza, come a volergli dire “ci sono io qui con te”.
 
Arrivati alla villa del politico, chiesero al tassista di aspettarli fuori e si diressero di corsa all’interno dell’abitazione.
Sherlock si fiondò nello studio di suo fratello alla ricerca delle chiavi.
John, invece, si bloccò nel soggiorno. Provava una strana sensazione di disagio a stare lì. Se guardava a terra, vicino al camino, poteva ancora vedere il corpo senza vita di Sherlock, poteva ancora vedere i paramedici che tentavano di rianimarlo. Quella notte aveva creduto davvero di perderlo, di nuovo. Aveva provato lo stesso dolore e la stessa angoscia di anni prima, quando lo aveva visto buttarsi da quel tetto. Si guardò le mani e si accorse che stava tremando. Stava sudando freddo e non riusciva ad impedire al suo cuore di battere all’impazzata. Improvvisamente sentì una mano poggiarsi delicatamente sulla sua spalla.
“John…” sussurrò il detective “…stai bene?”.
Il medico si voltò di scatto e si passò nervosamente le mani sul viso. “S-si…sto bene…” rispose con voce tremante, avviandosi verso l’uscita.
Sherlock lo afferrò da un braccio, bloccandolo sul posto. “John…”.
“È solo che…” provò a dire John, sospirando pesantemente “…stare qui…mi fa pensare a quella notte…quando tu…i-io credevo davvero di averti perso di nuovo…” aggiunse con gli occhi lucidi. 
Il detective lo attirò a sé e lo abbracciò con forza. “Mi dispiace…”.
 
Dopo alcuni istanti il medico si staccò da quell’abbraccio e gli regalò un sorriso “Hai trovato le chiavi?”.
Sherlock sorrise a sua volta ed annuì, mostrandogli il mazzo, soddisfatto.
 


 
Impiegarono circa due ore e mezza per raggiungere la villetta del nonno di Sherlock. Si trovava tra Seaford e Eastbourne, in una zona isolata vicino alle spettacolari Seven Sisters. Era un luogo da sogno, immerso nel verde e nella tranquillità, con una magnifica vista sul mare.
Il detective pagò il tassista e si avviò verso l’ingresso, seguito da John.
“Questo posto è bellissimo!” esclamò il medico, guardandosi intorno estasiato.
“E ancora non hai visto l’interno…” rispose il consulente investigativo con un mezzo sorriso.
John entrò nella villetta subito dopo il suo migliore amico e, per un istante rimase senza fiato. “Oh, ma è…”.
“Si…” lo interruppe Sherlock “…è spettacolare! Mio nonno aveva decisamente buon gusto…”.
Il medico si guardò intorno. L’ampio salone era arredato in maniera impeccabile. Le vetrate che lo circondavano quasi completamente, offrivano una suggestiva vista sul mare. Si voltò verso il suo migliore amico con l’espressione ancora ammaliata e si accorse che aveva di nuovo quello sguardo triste. “Ehi…” disse, avvicinandosi a lui.
Sherlock si girò e cercò di mostrare un sorriso decisamente sforzato.
“Che succede?” insistette John.
“Era da tanto tempo che non venivo qui…” rispose il detective, voltando lo sguardo verso la vetrata “…sai, John…quando ero piccolo, io e la mia famiglia passavamo qui le vacanze estive…almeno fino a quando Sherrinford…” aggiunse, ma non riuscì a continuare la frase.
Il medico si mise al suo fianco ed iniziò anche lui a guardare fuori. Poi gli cinse un braccio intorno alla vita e si poggiò delicatamente su di lui.
Sherlock parve sorpreso da quel gesto e si voltò a fissarlo. Sorrise e lo abbracciò a sua volta, attirandolo a sé con decisione.

 
“Vieni, andiamo sulla spiaggia” disse all’improvviso il detective, prendendo John per mano e trascinandolo velocemente fuori.
Dopo aver camminato un po' sulla sabbia, alzò gli occhi al cielo e sorrise. “Da qui puoi vedere le stelle che ami tanto…”.
Il medico alzò lo sguardo e si mise a guardare il cielo con attenzione. Poi scoppiò a ridere di gusto.
“Oh, non ricominciare con le battute sul sistema solare!” esclamò Sherlock, capendo al volo i suoi pensieri.
John non rispose, ma continuò a ridere con una finta espressione innocente.
Il detective incrociò le braccia e mostrò il suo classico broncio da bambino offeso. Poco dopo, però, non riuscì più a trattenersi e scoppiò anche lui in una fragorosa risata.

 
Passarono il resto della notte lì, a guardare le stelle, sdraiati sulla sabbia e stretti l’uno nelle braccia dell’altro.
Senza neanche accorgersene arrivò il mattino e le prima luci dell’alba iniziarono ad illuminare il paesaggio intorno a loro, mostrandolo in tutto il suo splendore.
Sherlock si alzò di scatto e si mise seduto. “Fra qualche ora sarò ufficialmente un ricercato, dobbiamo spegnere i cellulari e togliere la batteria per evitare di essere rintracciati…metterò in funzione il mio telefono una volta ogni ora, giusto per pochi secondi, in modo da poter controllare se Lady Smallwood ha provato a contattarmi…” spiegò serio.
Anche John si mise seduto ed annuì. Sperava soltanto che le cose andassero per il verso giusto, sperava di arrivare finalmente alla fine di quel terribile incubo.



 
 
Erano le 8:30 e Greg si recò a Baker Street per accompagnare Sherlock all’aeroporto. Era triste e angosciato quella mattina. Avrebbe voluto poter fare qualcosa per aiutare il suo amico e l’idea che dovesse partire per una missione suicida, senza che lui potesse impedirlo, lo faceva sentire impotente.
Appena si trovò davanti al 221B, sospirò rassegnato e bussò.
Lo aprì un’allegra signora Hudson con in braccio la piccola Victoria.
“Buongiorno signora Hudson!” disse l’ispettore addentrandosi nell’appartamento.
“Buongiorno ispettore! Se cerca John e Sherlock non sono in casa…sono usciti di fretta in piena notte…” rispose la donna.
Lestrade si voltò di scatto sorpreso. “Che vuol dire che sono usciti in piena notte?” chiese preoccupato. “Dove sono andati?”.
La signora Hudson fece spallucce. “Non so dove siano andati, ma aspetti…ho una cosa per lei da parte di Sherlock!” esclamò, precipitandosi nel suo appartamento ed uscendo, poco dopo, con una busta in mano. “Ecco…”.
Greg aprì la lettera e la lesse. Lì dentro Sherlock spiegava tutta la situazione, compreso l’accordo con Lady Smallwood. Non accennava al luogo dove andava a nascondersi, per evitare di doverlo mettere in condizione di mentire, qualora lo avessero interrogato.
Dopo aver finito di leggerla, la strappò e chiese alla signora Hudson di bruciarla, per non lasciare nessuna prova. Poi salutò la donna e si avviò fuori con un ritrovato sorriso. Forse c’era ancora una speranza e forse le cose potevano finalmente andare per il verso giusto.
 



 
Era quasi mezzogiorno e John e Sherlock non avevano ancora avuto notizie.
Il detective camminava freneticamente per casa, sbuffando nervoso. “Possibile che ancora la riunione non sia finita?”.
Il medico lo guardava preoccupato, seduto comodamente sul divano. “È inutile che ti agiti tanto, Sherlock…vedrai che ti avviserà da un momento all’altro”.
“No, ci sta mettendo troppo tempo…c’è qualcosa che non va” rispose Sherlock, passandosi le mani nei capelli.
John si alzò e si avvicinò a lui per tranquillizzarlo. “Cerca di restare calmo…andrà tutto bene, ne sono sicuro…” disse accarezzandogli il viso con dolcezza “…perché intanto non andiamo a fare una passeggiata sulla spiaggia?”.
Il detective sospirò ed annuì poco convinto.
 
Stavano camminando da un po', quando Sherlock si bloccò all’improvviso. Qualcosa aveva attirato il suo sguardo. “Non ci credo…” disse sorpreso.
“Cosa?” chiese il medico.
Il detective non rispose. Lo prese per mano e lo trascinò all’interno di una grotta tra gli scogli. “È esattamente come la ricordavo!” esclamò, guardandosi intorno con uno strano sorriso. Si avvicinò alle pareti della grotta ed iniziò a sfiorarle con una mano.
A guardarlo, sembrava immerso in chissà quali ricordi.
Poi sospirò, continuando a mantenere la mano sulla roccia. “Sai, John…qui è dove io, Sherrinford e Barbarossa giocavamo sempre ai pirati…era la nostra base, il nostro nascondiglio preferito…” disse con la voce carica di tristezza.
John non sapeva cosa dire. Sentire quelle parole pronunciate con tanta malinconia, gli procurava una fitta al cuore. “E Mycroft?” chiese istintivamente.
Sherlock si voltò e sorrise amaramente, mantenendo lo sguardo basso. “A lui non piacevano queste cose…veniva qui soltanto per criticare i nostri metodi di gioco. Amava puntualizzare i nostri errori nel tracciare le rotte e, amava ancora di più, spaventarci con le sue storie sul vento dell’est che un giorno o l’altro, sarebbe venuto a prenderci e ci avrebbe strappato via dalla terra”.
“Simpatico!” ironizzò il medico.
“Si, era un pessimo fratello maggiore…!” rispose prontamente il detective. Poi sospirò, mentre una lacrima gli rigava la guancia “…Ma era anche il fratello migliore che potessi desiderare…”.
John si avvicinò a lui e con una dolce carezza raccolse quella lacrima. Quando i loro sguardi si incrociarono, lo baciò teneramente.
Sherlock si staccò da lui e gli sorrise. Stava per parlare, quando sentì in lontananza il rumore di un elicottero. Si voltò di scatto verso l’uscita della grotta e sentì qualcuno parlare ad un altoparlante. “Sherlock Holmes, sappiamo che è lì…esca fuori con le mani bene in vista!”.
Il medico sgranò gli occhi terrorizzato. “Sherlock, che succede?”.
“È un elicottero dell’MI5…mi hanno trovato…” rispose il detective.
John si passò le mani nei capelli. “Ma come diamine hanno fatto?”.
“Devono aver usato le registrazioni delle telecamere della città e, grazie a quelle, devono aver individuato il taxi che abbiamo preso…non pensavo che facessero così presto…” spiegò Sherlock con un leggero tremore di voce. “…Non mi resta che uscire allo scoperto…” aggiunse voltandosi verso John “…non sanno che sei qui anche tu, John…devi rimanere nascosto…”.
“No, Sherlock…vengo con te!” esclamò il medico, afferrandolo da un braccio.
“Non essere ridicolo! Non puoi farti arrestare! Pensa a Victoria…” rispose prontamente il detective, cercando di divincolarsi dalla presa dell’amico.
John, però, continuò a trattenerlo sul posto, stringendo sempre di più la sua giacca. “Se esci allo scoperto, ti obbligheranno a salire su quell’aereo…” disse con le lacrime agli occhi.
“Non ho altra scelta, John…è finita…” rispose Sherlock, abbassando lo sguardo. Poi sospirò pesantemente e si avvicinò a lui, stampandogli un dolce bacio sulle labbra “Ti amo…”. Aggiunse, sforzandosi di sorridere e liberandosi da quella presa.
Il medico lo lasciò uscire da quella grotta. “Ti amo…” disse con voce rotta. Si affacciò leggermente e lo vide camminare lentamente con le mani alzate, mentre alcuni uomini armati lo raggiungevano e lo ammanettavano. Aveva creduto davvero che le cose potessero finalmente andare per il verso giusto, ma anche stavolta non era stato così. Era evidente che Lady Smallwood avesse fallito, e l’unica speranza di salvezza di Sherlock era svanita per sempre.    
Quegli uomini lo spinsero violentemente verso l’elicottero.
Poco prima di salire, il detective voltò lo sguardo verso il punto in cui era John e si sforzò di sorridere. Era un sorriso amaro che sembrava voler dire “andrà tutto bene, John…”.
Quello che accadde dopo, avvenne nell’arco di una manciata di secondi. Sherlock stava per essere caricato sull’elicottero, quando gli uomini dell’MI5 si fermarono all’improvviso. Un uomo con in mano un cellulare, probabilmente il comandante della squadra, fece cenno ai suoi uomini di lasciare andare il detective.
Appena vide che il suo migliore amico veniva liberato dalle manette, John uscì dal nascondiglio e si precipitò verso di lui. “Sherlock!” lo chiamò a squarciagola. Quando fu abbastanza vicino, sentì quell’uomo parlare.
“Ci hanno appena comunicato che la sua pena è stata revocata, signor Holmes…può andare…”.
 
Sherlock non ebbe il tempo di voltarsi verso il medico, che quest’ultimo gli si fiondò addosso, abbracciandolo con forza. “John…” disse sorpreso.
John si staccò da lui e lo guardò, iniziando a sorridere. “Quindi è tutto finito?”.
Il detective sorrise ed annuì. “Si, John…torniamo a casa…”.
 
 




 
                                                                  UN MESE DOPO


 
John si svegliò e si voltò verso il lato in cui dormiva Sherlock. Non si meravigliò nel trovarlo vuoto. Il suo fidanzato stava lavorando su molti casi di omicidio e, com’era sua abitudine, stava sveglio quasi tutte le notti, intento ad analizzare prove e fascicoli.
Si alzò e si avvicinò alla culla per controllare Victoria, ma si accorse ben presto che non c’era. Confuso e assonnato si recò in soggiorno e sentì qualcuno parlare: era Sherlock.
La scena che gli si presentò di fronte lo lasciò senza parole. Il detective era in piedi davanti al divano e teneva Victoria tra le sue braccia. Era intento a guardare la moltitudine di foto e carte che aveva appeso al muro e ragionava a voce alta.
“Allora Victoria…abbiamo una donna trovata morta in casa sua. Nessun segno di effrazione…quindi deduciamo che la vittima conoscesse il suo assassino. La polizia pensa sia stato il marito, ma sono sulla strada sbagliata come al solito” spiegò Sherlock pensieroso “…tu cosa ne pensi?”.
La bambina sorrise ed iniziò a tirare con la manina un lembo della vestaglia del detective.
“Sono sicuro che abbiamo la soluzione davanti agli occhi…” continuò il consulente investigativo, staccando due foto dalla parete e cominciando ad osservarle attentamente.
Victoria afferrò una delle due foto e continuò a ridacchiare, lanciando un piccolo urlo soddisfatto.
Sherlock la guardò per un secondo e un enorme sorriso si allargò sul suo volto. “Oh…sei davvero geniale…hai ragione…è stato il vicino di casa!” esclamò entusiasta. “Sono stato un idiota a non pensarci! È così ovvio, santo cielo! Erano sicuramente amanti…lei voleva lasciarlo e lui l’ha uccisa!” aggiunse, camminando freneticamente per la stanza.
John era rimasto immobile ad osservare la scena. Era senza parole. Era travolto dalla moltitudine di sentimenti che stava provando in quel momento. Si sentiva sorpreso, estasiato, intenerito e follemente innamorato.
Appena il detective si accorse della sua presenza si bloccò all’improvviso a guardarlo. “John…”.
Il medico non disse niente, ma si limitò semplicemente a sorridere.
“Victoria ha davvero talento, John…promette molto bene…” continuò Sherlock soddisfatto.
John si avvicinò a lui, gli stampò un dolce bacio sulle labbra ed accarezzò sua figlia. In quel momento, in quell’istante e in quell'appartamento, aveva finalmente tutto ciò di cui aveva bisogno, tutto ciò che aveva sempre desiderato. Aveva finalmente trovato la felicità.









Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi l'ultimo capitolo di questa storia! Come ben sapete non sono un'amante delle storie a lieto fine, ma stavolta lo avevo promesso e mi sentivo in dovere di farla finire bene! 
Che dire? Sherlock e John finalmente sono insieme e felici.
Per un attimo il nostro detective ha rischiato di essere catturato, ma per fortuna Lady Smallwood è riuscita ad intervenire in tempo e a far revocare la sua pena!

Sono già all'opera per un'altra storia...un pò diversa! E' una storia che ha iniziato a prendere forma dall'amarezza della terza stagione e che ha assunto una linea ben precisa dopo l'ennesima amarezza del setlock. Non sarà proprio una vera a propria quarta stagione, ma prenderà spunto anche dalle scene del setlock. Il primo capitolo è già in lavorazione, quindi spero di pubblicarlo presto. (Non vi libererete facilmente di me insomma XD). 

Grazie a chi ha seguito questa storia fino alla fine, a chi ha lasciato sempre un commento e a chi l'ha inserita tra le preferite/seguite/ricordate. Grazie a tutti! Alla prossima ;)

 

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