La teoria dei limiti (da applicarsi all'amore)

di aniasolary
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Parte seconda ***
Capitolo 3: *** Parte terza ***



Capitolo 1
*** Parte prima ***


Dedicato a Francesca R.
 
Se mai decidessi di andare davvero in terapia da uno psichiatra,
non ti accetto se torni diversa
e non mi ricordi, ogni tanto, che you should have come to Shiratorizawa.
Ti voglio bene.
 
La teoria dei limiti
(Da applicarsi all’amore)

 
Parte prima
 
Pronunzio il tuo nome
nelle notti scure,
quando sorgono gli astri
per bere dalla luna
e dormono le frasche
delle macchie occulte.
E mi sento vuoto
di musica e passione.
Orologio pazzo che suona
antiche ore morte.
            
Mia madre mi ha cresciuto com’è cresciuta anche lei: duro come il legno degli alberi della foresta amazzonica, leggero per restare a galla sull’acqua se mi fossi trovato in una tempesta. Quando divenni abbastanza grande da capire, lei era già nelle grazie della sacerdotessa del Macumba, culto mistico che abbraccia la pietà della religione cristiana, del tempo in cui gli schiavi africani venivano deportati nelle terre feconde che oggi sono le nostre case. Era la Yabassé, unica responsabile degli alimenti sacri ed esperta guaritrice.
Non mi ha mai costretto a recarmi in chiesa, a credere in qualcosa in cui non riuscissi a trovare fede spontaneamente; d’altronde lei in chiesa non ci andava, ma partecipava alle sedute della sacerdotessa per parlare ai santi e agli spiriti.
Cercava di parlare con mio padre: era morto inghiottito dal mare.
Lo cercava: il suo amore era un’eco infinita che s’acquietava solo quando amava me. Raquel, Raquì, madre mia: piccolina, con due spalle larghe da chi è abituato a portare un grande peso di vita e lavoro, gli occhi grandi, neri e i capelli ricciuti, le braccia scure e forti. Sono proprio come lei, ma ho preso l’altezza dal padre che non ho mai veduto. Prima di sposarsi, colui che conosco col nome di Noè Maior Araùjo aveva comprato una piccola casa di legno da riempire di gioia e di figli. Erano rimasti una moglie e un figlio con una casa di legno benedetta: il fatto di possederla permise a mia madre di garantirmi di proseguire almeno fino alla terza elementare. Ed in Brasile, in cui tanti miei coetanei sono rimasti analfabeti fino alla morte, era un lusso.
La maestra che mi chiamò genio per la prima volta era inglese, bionda e delicata. Parlò a mia madre con parole semplici, piano, perché il suo aspetto sporco e terreno faceva credere a quegli stranieri là che non potesse capire parole come quoziente intellettivo notevole e media altissima.
Mia madre, però, queste cose le capiva, anche se solo in astratto, e annuì forte quasi a voler conficcare il mento in una certa parte d’aria, perché forti erano tutti i suoi movimenti.
Vinsi, ogni anno, borse di studio che mi sarebbero bastate anche per proseguire all’università. Nel mio quartiere povero ero un re; tutti avevano riguardo di non farmi finire troppo spesso tra il fango quando giocavamo a calcio, quasi avessi avuto il potere di punirli e decidere la loro sorte. Tra i re ero lo schiavo africano di duecento anni prima e che doveva essergli sempre sottomesso. Loro scambiarono il mio timore taciturno per un permesso a farsi spazio nella mia vita, per coltivare un’amicizia fatta di serate di cui non ricordavo mai la fine, compiti passati e una persona in più da salutare per strada. Erano contenti di venirmi a trovare nel mio quartiere: le ragazze che fino a quel momento morivano per me morivano per loro.
Ed io ne ero sollevato.
Alla fine dell’ultimo anno, mentre loro fumavano l’oppio e parlavano delle donne che avevano avuto nel letto, finirono per guardarmi tutti nello stesso istante. Dovevano farmi un regalo, dicevano. Dovevano rendermi finalmente un uomo.
Ero timido, e d’accordo, ci sono donne che impazziscono per i tipi così e con gli occhiali piccolini sulla punta del naso come li porti tu. Ma devi sapere com’è che si fa.
Lo devi vivere.

            Mi portarono in un edificio pieno di divani e ragazze svestite; una bella ragazza, che non doveva raggiungere ancora i trent’anni, mi condusse in una stanza lontana da tutte le altre, senza porta, che non mostrava l’interno solo perché l’entrata era coperta da una tenda filata. Mi fece segno d’accomodarmi, ed io mi sedetti sull’orlo del letto a baldacchino. Lei sorrise d’un qualcosa che assomigliava alla tenerezza.
«Prima volta?» chiese.
Feci un colpo di tosse. «Sì. Non sono mai stato qui.»
«Non era quello che intendevo.» E mentre mi porgeva una sorta di album fotografico, il suo sorriso s’allargò.
L’aprii e subito lo richiusi, con il fiatone, pieno di vergogna.
Mi alzai dal letto e la donna mi posò una mano sul petto.
«Dove vai?» fece, con voce dolce. «Non temere. Non ti accadrà niente di brutto. I tuoi amici hanno pagato abbastanza perché tu possa avere tutto quello che desideri, senza eccezioni.»
La sua mano mi scese in vita. «Desidero andarmene, signora.»
«Signora? Io non mi sposerò mai. Il mio destino è segnato, mio caro studentello che non sa niente del mondo, ma non il tuo.» Non scese più giù, ma con l’altra mano mi accarezzò il viso e fece in modo che la guardassi nei suoi occhi scuri, ornati di ciglia troppo lunghe per essere vere. «Andrà tutto bene.»
Mi lasciò solo e, dall’esterno, separato solo da quella tenda sottile, sussurrò qualcosa come: portami il più giovane.
Subito dopo entrò un ragazzo. Era nudo, se non per il tessuto che gli copriva le parti intime, ed era bianco. Biondissimo e con due occhi di ghiaccio, mi fissò con uno sguardo incuriosito che si trasformò in consapevole. «Ciao, Sebastião. È questo il tuo nome, giusto?»
Deglutii. «Sì. Questo è il mio nome. Sebastião Maior Horta.»
«Shhhh…» Si avvicinò e mi posò un dito sulle labbra, un sorriso a increspare le sue. M si sedette accanto e la sua mano restò ancorata al mio viso. «Non dovresti mai dire il tuo nome completo in posti come questi. Potrebbero ricattarti.» Restai in silenzio. Il cuore mi batteva troppo forte, come se fossi sul punto di andare all’altro mondo. «Ma tu sei una brava persona, non puoi saperlo,» aggiunse.
Presi fiato. «Tu come ti chiami?»
«Se avessi continuato a sfogliare il menu, avresti visto che mi chiamano desejo de gelo.» Desiderio di ghiaccio. «Ormai, qui, mi chiamano tutti a quel modo, Desejo.» Sospirò sul mio volto e chiusi gli occhi. «Clara aveva ragione. Tu desideri questo.» La sua mano scese laddove la donna, Clara, aveva avuto giudizio di fermarsi. Non avrebbe trovato niente di quello che in quel momento trovò il ragazzo di ghiaccio, il desiderio di ghiaccio.
Gemetti.
«Ma certo, lei capisce sempre tutto… le basta guardarvi, le basta guardarci… sei bello, Sebastião. Vuoi toglierti gli occhiali o vuoi guardarmi mentre lo faccio?»
«Io… io non lo so…» Era terribile: ero lì tra le braccia di un uomo, pronto a fare qualcosa che avevo idea accadesse solo tra uomo e donna, e non sapevo cosa dire, cosa fare. Sapevo solo che avevo paura. «Non dirlo a nessuno… i ragazzi non devono saperlo…»
«Quando uscirai di qui potrai raccontare ciò che vuoi,» mormorò, caldo il suo respiro. Cominciò ad aprirmi le braghe. «E potrai dimenticarti di me.»
***
Com’è con una donna, non l’ho mai saputo e non lo saprò mai. Chi altri uomini amarono il desiderio di ghiaccio, non l’ho mai saputo e non lo saprò mai. L’avrei dimenticato, mi dissi. Si era venduto: il primo ragazzo che baciai, il primo ragazzo che mi baciò; il primo ragazzo che mi prese, il primo ragazzo che presi. Seppi solo che quando tornai lì, qualche anno dopo, non c’erano più quegli amici a pagare per me. Andarono a studiare lontano ed ora non so più quali siano i loro nomi. Nel menu il desiderio di ghiaccio non c’era più, ma grazie a lui avevo capito che sì, i miei istinti rispondevano agli uomini, ma soprattutto alla pelle nivea degli europei, di chi viene da luoghi freddi, di chi non era schiavo come me. Grazie a lui avevo capito che ero destinato a un’esistenza fatta di dolori nascosti, di cui non avrei potuto parlare a nessuno se non a me stesso, nella mente. Siamo dei vermi: chiunque sia il ragazzo di questa notte mi striscia addosso e anch’io striscio, schiena contro petto, e non nasce niente…
Così continuò la mia giovinezza: tra gli odori mordenti delle erbe che mia madre cucinava e calcoli che si svelavano all’inchiostro della mia penna stilografica. Mi laureai in Matematica e trovai un buon posto in un liceo della città, a cui insegnavo a figli di papà poco dotati.
Da un certo punto in poi della mia vita, mia madre guardava oltre le mie spalle ogni volta che tornavo a casa dal lavoro. Si aspettava sempre che ci fosse qualcuno con me.
Si aspettava una donna.
Lo so, anche se non l’ha mai detto; mi costringeva ad abbassare la testa in modo che potesse darmi un bacio sulla fronte. C’era sempre della tristezza, nel sorriso che faceva. Io mi aspettavo, invece, che un giorno avrebbe smesso di chiamare lo spirito di mio padre, per ricongiungersi a lui quando l’avrebbe voluto il suo Dio.
Un Dio in cui credevo, ma che non ho mai trovato da nessuna parte.
Così io e mia madre passavamo la vita ad attenderci qualcosa l’uno dall’altra senza mai trovare un punto d’arrivo. Mi nutriva ed io lasciavo che lei mi nutrisse, lavoravo e lei lasciava che io lavorassi ed i nostri letti restavano vuoti.
Dopo il lavoro mi piaceva passeggiare vicino al mare, prima di tornare a casa. Quel giorno, mentre passeggiavo sulla litoranea dell’Arpoador, un'estensione della spiaggia di Ipanema in cui si poteva accedere, chissà se ancora oggi è così, da una passerella. Da lì il tramonto è straordinario ed io lo osservavo, la sabbia chiarissima mi carezzava le scarpe mentre il mare turchino si preparava all’alta marea, ad abbracciare le rocce rosse ghermite d’erba, se non ché mi accorsi che qualcosa mi bloccava il passaggio.
C’era un ragazzino avvolto in un lenzuolo.
Sembrava morto.
Lo schiaffeggiai e la pelle pallida si arrossò sulle gote. Gli occhi gli si aprirono e mi si rivelarono in tutta la loro luce: erano Rio in ottobre, cielo che comincia azzurro e finisce nel grigio. Erano una città lontana e il mare che bagnava il mercato del pesce.
Erano gli occhi di un ragazzino spaventato.
Svenne di nuovo tra le mie braccia ed io lo portai a casa, dove mia madre lo curò con i suoi impacchi d’erba e le sue preghiere agli Orixas[1]. Dopo qualche giorno, il ragazzino si svegliò. La spiegazione scientifica a quel che gli era accaduto era la disidratazione: si svegliò ché io ero affacciato alla finestra, ad aspettare che mia madre tornasse a casa da una seduta d’invocazione.
«Lei è il mio salvatore?» fu la prima cosa che disse.
Mi voltai a guardarlo. I capelli erano d’un castano chiarissimo, del colore del segale. I lineamenti regali distorti dallo smarrimento avevano un qualcosa d’infantile che mi fece rendere conto, a pieno, che sì, non poteva avere più di diciott’anni.
«Ti ho trovato sulla spiaggia, mia madre ti ha curato. Ti ha salvato lei,» precisai.
Lui fece per alzarsi.
Era ancora nudo.
«Aspetta, menino[2]!» lo fermai. «Aspetta, ragazzino! Dio, cosa mi tocca vedere, ti porto qualcosa da mettere.»
Entrai nella mia stanza con le mani vuote e ne uscii con le mani piene di miei vestiti che mettevo da ragazzo, smussati dall’usura e dal tempo.
Glieli portai. «Ecco qui. Vestiti e potrai tornare a casa. Mia madre è la Yabassé del Macumba, potrai passare dal terreiro – è il loro tempio, nel caso non lo sapessi – e ringraziarla personalmente.»
Come poco prima sollevò le coperte e, prima che potessi replicare, si alzò a prendere i vestiti che gli porgevo.
Mi guardò negli occhi. «Grazie,» sussurrò, e sorrise e il cuore mi si aprì in una voragine da cui traboccò uno stordimento doloroso, che mi fece sentire leggerissimo. Mi diede le spalle, i raggi del sole trafiggevano innocui la sua schiena bianchissima, tela perfetta di un pittore in una casa senz’arte. Uscii dalla stanza prima che potesse scorgere il mio imbarazzo e, appena ebbe finito, mi raggiunse.
«Come ti chiami?» mi chiese.
«Sono un professore,» gli dissi. «Perciò è bene, vista la differenza d’età e di ruolo, che tu ti rivolga a me nel modo che ne conviene. Il professor Sebastião Maior Horta.»
Adesso posso dire il mio nome. Nessuno lo userà contro di me.
«Professore, io non voglio tornare a casa mia.»
Scossi la testa. «Be’, allora attento a non farti ritrovare in fin di vita da un altro estraneo!»
«Da un altro estraneo?» mi fece eco, la voce piena di stupore. «Non mi troverà nessun altro che non sia lei, professore.» Fece per avvicinarsi.
«Ragazzino...»
«Anders,» precisò. «Mi chiamo Anders Damgaard e sicuramente saprà, professore, che genere di famiglia è la mia.»
Per un attimo rimasi attonito. «I Damgaard… sei il figlio di Ludvig Damgaard, l’imprenditore. Lo so chi sei.» Lo fissai coi miei vestiti addosso: un principe dell’economia, viziato e ribelle – chissà quale bravata aveva fatto, per ritrovarsi nudo e privo di sensi sulla spiaggia – che indossava gli stracci di un povero innamorato dei numeri.
«Mio padre distrugge case per costruirne altre, abbatte gli alberi per dare spazio a residenze su residenze e violenta, brucia la tua terra. Capisco, quindi, se ti sei pentito d’avermi salvato.»
Mi rabbuiai. «Non sono pentito, ragazzino. Quel che fa tuo padre non dipende da te. Ma non starò ai tuoi capricci quindi tornatene dalla mamma.»
«Allora ci conosci solo per il nome. Mia madre è morta. A volte vorrei che fosse morto mio padre al suo posto.»
Scossi la testa per la vergogna del mio errore, ma mai avrebbe dovuto capire il disagio che mi attraversava. «Mi dispiace, ma non posso farci nulla.»
«Che cosa insegnate, professore? Posso essere suo allievo?»
«Pensi che faccia beneficienza? »
Sollevò un sopracciglio, perplesso dalle mie parole. «La beneficienza è una bella cosa.»
«È un peccato che tu non capisca la differenza tra le vere domande e quelle retoriche. Dovresti imparare molte cose prima di arrivare a quello che insegno io.»
«Le chiedo scusa,» abbassò il capo. «Non sono abituato agli scherzi.»
«Non ti scusare, ragazzino. Fai l’unica cosa che ti chiedo: vai a casa e non farti più vedere. Ah, un’altra cosa: vai a casa e studia, qualunque cosa va bene. Ma non sprecare la tua giovane vita così,» dissi, con fastidio, e sospirai con un rumore di fiato che parve un mare di chicchi di riso che scivolavano sul pavimento. «Ne morrei.»
I suoi occhi si spalancarono alle mie ultime parole. Nel mio cuore si propagò una risata: no, ragazzino, no che non muoio per te! Da dove vieni tu non esistono i modi di dire o tutto quel che si dice è Santa Verità? Sei un estraneo… e così giovane… così distante…
Mi venne davanti. «Non morite, professore,» mormorò.
Si sollevò in punta di piedi e posò la bocca sulla mia, con gli occhi chiusi. Passarono dei secondi in cui il tempo mi parve non scorrere più o, al contrario, scorrere veloce come le pulsazioni dei mio cuore, in preda alla pazzia.
Quando si staccò da me fu come se non mi avesse mai toccato: desiderai che tornasse di nuovo col il viso proteso verso il mio. L’avrei assaggiato con la lingua, l’avrei stretto tra le braccia, avrei mangiato con le labbra quella pelle bianca di stelle.
Ma l’unica cosa che feci fu dirgli: «Non morirò».
***
Un mese dopo lo rividi all’università, dove facevo le mie ricerche per il dottorato. Si era iscritto alla facoltà di Filosofia – era appena cominciato l’anno accademico 1966/1967 – e, ben vestito, se ne andava da un aula all’altra con una cartella di pelle e un cappello da signore.
Tutti lo guardavano da sotto il naso.
In pausa pranzo qualcuno bussò alla porta della stanza dei dottorandi; ero solo perché tutti gli altri – di almeno dieci anni più giovani di me – pranzavano fuori.
Ancora prima che dicessi avanti, la porta si aprì: era il ragazzino.
«Godmorgen[3],» disse, con quel suo sorriso maledetto. «Possiamo mangiare insieme,» propose.
Rimasi a bocca aperta, lui lo ignorò, si sedette di fronte a me e tirò fuori il suo cestino per il pranzo.
«Mi avevate detto di non farmi più vedere, lo so. Ma io volevo vedervi, professore. Il soggetto della frase è cambiato,» sorrise ancora. «E sto facendo quello che volevate. Sto studiando. Se studio, posso continuare a vedervi, professore?»
Mi alzai in piedi. «Ragazzino, non so che cosa vuoi da me.»
«Non lo so nemmeno io. So che penso sempre a voi. E se la filosofia cerca il senso delle cose e dell’universo, io l’ho trovato in un solo momento della mia vita: quando le ho dato il mio primo bacio.» Anche lui si alzò. «Ma chiedetemi, un’altra volta, di non cercarvi più ed io obbedirò.»
Mi mancava il respiro, non sapevo come comportarmi. «Obbedirai, ragazzino?»
«Sì,» chinò il capo. «Ma solo se mi chiamate Anders e non ragazzino.»
Deglutii e feci il giro del tavolo per raggiungerlo. «Va bene, Anders.» E lui sollevò quei suoi occhi dolci e in attesa per me. «Ora ascolta.» Faticavo a respirare. «Non raccontare niente di tutto questo a nessun altro che non sia te stesso. E non permettermi mai di fare qualcosa che non desideri dal più profondo del cuore,» dissi. «O da qualcosa che si trova un po’ più sotto. Devi volerlo davvero
Tremava. Era alto quasi quanto me. «Sì, professore.»
«Non sono il tuo professore,» mormorai, gli presi il viso tra le mani e trovai le sue labbra. Subito si dischiusero e la sua lingua toccò la mia, era di una delicatezza che mi sconvolse. Anders fece scorrere le mani tra i miei capelli nodosi e li tirò con forza, gemetti.
«Sei solo un ragazzino…»
«E lei un professore,» fece lui, con la voce tirata verso l’interno, dove era appesantito da tutti i suoi sogni, le sue speranze. «Eppure non mi sta insegnando nulla ed io non mi sto comportando da ragazzino.»
Si teneva aggrappato a me, con i pugni stretti.
«E dopo ti dimenticherai di me, Anders?»
«Non mi dimenticherò mai di te.»
Lo guardai, attento. Memorizzai il piano: le linee rette dell’arco di cupido, perfetto, su quelle sue labbra sottili; il fascio di parabole – curve morbide – delle sue ciglia dorate: azzurri, gli occhi, come il cielo pallido che vela il mondo dopo l’aurora; l’ellisse che abbracciava entrambi i suoi zigomi, di cui due nei occupavano i fuochi; il volto chiaro, senza un filo di barba, ancora infantile e dalle forme d’un imperfetta circonferenza.
Nemmeno io l’avrei mai dimenticato.
«Un caffè, domani. Va bene? O un goccio di liquore. Io prenderò il liquore.»
***
Mia madre si chiamava Adelaide. Lo so, professore, che mi ha detto semplicemente un “parlami di te”. Ma parlare di lei mi piace di più. Parlare di lei mi ricorda che c’era, perché non credi che ti stia raccontando bugie, nevvero? Oh, spero che il mio portoghese non sia così pessimo da non rendere al meglio quanto… quanto mi manca la sua colazione in cucina, il profumo della pancetta fritta e dei fagioli in terra cotta, il fumo che emergeva dai piatti – quelle nuvole calde su cui soffiavo – dovevano andar via, non era quello il loro posto. Bisogna stare dove si sente di stare a casa, per avere il cuore leggero. Lo diceva sempre, mia madre. E quanto mi mancano i giochi al parco in cui mi lanciavo sullo scivolo e mi sentivo un uccello e poi, improvvisamente a terra, mi trovavo bambino; e i compiti di matematica che facevamo insieme, ed io che volevo le sue carezze anche d’inverno, quando le sue mani erano fredde fredde, ed io piccolo facevo brrr e lei rideva, mi toccava tutta la faccia… brrrr… anche sua madre lo faceva?
Mia madre ha le mani calde, ragazzino.
Un colpo di tosse. Ah, strano. Io non so proprio che vuol dire… ed è in vita? Deve essere straordinaria, per avervi reso così…
Occhi spalancati. Voce sussurrata. Anders. Per l’amor del cielo. Non puoi toccarmi in pubblico. Siamo in un bar in mezzo a tantissima gente.
Professore, nessuno bada a noi… e quei tipi, laggiù, si stanno anche baciando.
Sono un maschio e una femmina, ragazzino. Resta al posto tuo e continua a parlare. Stai calmo, forza. Mi piace sentirti dire queste cose, io… non ho mai sentito nessuno che parlasse d’amore.
***
Uscimmo dal locale. Rio de Janeiro si addormentava al profumo della notte e dell’oceano, mentre io mi accendevo un sigaro ed Anders, inquieto, mi camminava accanto. Non avevo mai vissuto la mia città e la vita che ci fluiva,  forse per questo avevo fissato l’appuntamento in serata. Le sue bellezze mi erano precluse perché io ero un suo abominio, col privilegio di restare purché non dessi spettacolo del mio orrore. Da lì, nei pressi del Copacabana, si vedeva tutto il meraviglioso di cui Rio era capace: in lontananza il Cristo Redentore, l’enorme masso verdone che è il monte Pan di Zucchero, il mare nero su cui luccicavano le varie luminarie…
Anders si guardava intorno.
«Che cosa c’è?» gli chiesi.
Lui non rispose subito. Restò in allerta, con lo sguardo lontano. «Mi assicuro che nessuno ci guardi,» sospirò.
Anders mi prese la mano, e la strinse, e così camminammo per un paio di metri in cui trattenni il respiro in gola. Preso da un moto di terrore, gliela lasciai.
«Forse dovresti stare con un ragazzino come te. Non mi piacciono queste cose.»
«Hai paura,» concluse Anders. «Come li trattano, qui, gli omosessuali?»
Quella parola fu uno schiaffo in pieno viso. «Abbassa la voce,» mormorai, raggelato.
«Perché non possiamo baciarci come quella coppia al bar?»
«Sono un matematico, non conosco le risposte a queste domande,» sospirai. «Devi prendertela con il mondo intero e con chi lo comanda, ragazzino.»
«Solo io sono arrabbiato per questo?»
«Io sono rassegnato. Non ho mai voluto mostrare al mondo che cosa mi piace fare in camera da letto. Sono sempre andato a puttane, anche se si tratta di puttane uomini. E sì, sono affari miei.»
«Non sei mai stato innamorato?»
«Ah, lo dite ancora così, voi giovani?»
«Si dice così dalla notte dei tempi, professore.» Abbassò il capo e un’ombra oscurò il suo viso. «È quella cosa che mi fa pensare a te quando mi sveglio e quando mi addormento. Che mi fa venir voglia di scrivere il tuo nome dappertutto. E di baciarti in mezzo alla strada, davanti a tutti.»
«Ma se nemmeno mi conosci…»
«Mi hai parlato di te, ieri. Sei un fedele e un praticante: la Matematica è il tuo Dio. Ami tua madre. Non hai mai conosciuto tuo padre. Hai faticato per arrivare dove sei ora e sei comunque indietro rispetto a chi ha avuto la strada spianata, ma non demordi. Studi. Credi. Vivi. Ogni tanto fai l’amore,» disse, tutto d’un fiato. «Stai cercando di risolvere quell’ipotesi di quel tedesco… ah, non ricordo il nome! Ma ne hai parlato con una rabbia… una passione… un tale coinvolgimento…» Rise al cielo. Il suono somigliava ai battiti d’ali delle fate nelle fiabe, proprio come l’ avevo immaginato. «Sicuro di non essere mai stato innamorato?»
Scossi la testa, preso da uno stordimento che non riuscivo a definire. Fui io a prendergli la mano, a guidarlo all’interno della strada buia.
Non potevo fare altrimenti. «Non davanti a tutti, ma possiamo baciarci lo stesso. Accontentati, ragazzino.»
***
All’inizio fu difficile. Far entrare Anders in casa, dopo due mesi di caffè e liquori, e affrontare la sorpresa di mia madre.
«Mamma, ti ricordi di lui? È il ragazzino che abbiamo salvato dalla strada.»
Lui mi sfiorò il braccio con il gomito, sorrise.
Era vestito a festa e si tolse il cappello con una riverenza.
Mia madre, piccola di statura, sollevò la testa dal tavolo in un modo austero che la fece sembrare una gigante.
«Certo che mi ricordo, Sebé, non sono ancora una demente,» fece lei, con le sopracciglia aggrottate. Mi chiamò col nome dei nostri istanti di tenerezza e severità, perché Sebé ricorda sebes: siepe o recinto nella nostra lingua modulata e briosa, perché sapessi sempre che dovevo bastare a me stesso. «Di certo non sembra più un mendicante,» aggiunse.
Anders tornò con la schiena diritta. «Signora, vi sono riconoscente per avermi ospitato in quei giorni bui. Sarei dovuto passare dal terreiro, ma non so dove si trovi, io…»
«Ha fatto tutto mio figlio,» rispose lei, con un’alzata di spalle; lasciò il panno che stava usando per pulire  e gli si mise davanti. Ebbi paura che lo uccidesse, ma poi gli fece la più grande delle dichiarazioni d’amore:
«Ed ora, mio caro, dimmi: hai fame?»
***
Anders era andato via – suo padre l’aveva riaccolto in casa, a patto che lui si comportasse bene, ma non era a conoscenza di noi. Io e mia madre eravamo insieme in veranda, i nostri piedi si sfioravano mentre lei si lasciava dondolare sull’amaca.
«Un ragazzo, eh? Anzi, un ragazzino…» E sospirò. «In fondo l’ho sempre saputo. Sono tua madre. Queste cose, le madri, le sentono dentro… non ti sei innamorato nemmeno di Nalda, la più bella della strada. Chissà chi sposerà alla fine… è ancora una ragazzina anche lei.»
Sospirai anch’io e mi coprii il viso con le mani. «Provi disgusto per me?»
«Disgusto? Oh, no! Cuore mio, no… Sono la Yabassé del Macumba, non hai ancora imparato che cosa vuol dire?» Alzai il volto a guardarla, incerto; scosse la testa, sbuffò e continuò a parlare, agitata. «Ah! Che cosa devo fare con te, Sebé… e quante volte dovrò ancora spiegartelo, perché tu capisca che non parlo di sciocchezze… La continuità e l'equilibrio con l'universo e la natura si possono raggiungere solo così: l’axé, questa forza sacra che va posizionata e riposizionata, fluisce in tutte le cose… piante, animali, uomini. L'axé può diminuire, aumentare ed essere distribuito attraverso i nostri riti. Tu hai tanta axé dentro di te, figlio mio… ed anche Anders ne ha tanta, così tanta che l’ho sentita appena l’ho toccato, anche se era addormentato, e l’ho sentita anche stasera, quando mi ha stretto la mano. Che seguace del Macumba sarei, se ti impedissi di amarlo? La sacerdotessa dice questo, Sebé.» Sospirò e mi guardò coi suoi grandi occhi neri. «L’amore è il disquilibrio più equilibrato con il cosmo, la natura e gli uomini, poiché senza di esso non avremmo né cosmo né natura né uomini.»
Mi accarezzò il viso con la sua mano dalla pelle sottile, di chi lavora tanto sotto il sole, a scorticarsi i palmi mentre raccoglie erbe e grani. Gliela baciai, con trasporto, e poi baciai lei come mi venne – guance, fronte, braccia.
Mia madre rise – non emise suono. «È bello, Sebé. È molto, molto bello. Gli vuoi bene?» mi chiese, con gli occhi lucidi a guardare la notte. Sapevo che pensava a mio padre.
«Lui…» Il silenzio mi riempì la bocca. Non ho mai saputo parlare di certe cose.
«Non importa se il cuore non parla. Il cuore fa. Ci porterà dolori?» mi chiese, con la voce flebile.
«No. Nessuno lo saprà.»
Mia madre tornò a sdraiarsi sull’amaca con lo sguardo fisso verso le stelle. «Io sono contenta di saperlo. Sono contenta di sapere chi sei.»
*
*
*
*
Ciao a tutti, lettori carissimi. Questo racconto è nato come un continuum – copre un arco di tantissimi anni – ma per ragioni di comodità di lettura ho deciso di dividerlo in tre parti. Ieri, in Italia, seppur con i suoi limiti, è stata approvata la legge delle unioni civili ed io volevo festeggiare in qualche modo, così ho pensato di pubblicare questa mia prima storia slash *.*
Ogni cosa che scrivo è una sfida. Ho cercato di entrate nell’ottica di una persona devota alla Matematica, appropriandomi come possibile delle conoscenze che già possedevo e studiando ciò che non conoscevo. Se sbaglio qualcosa, qualunque cosa, correggetemi assolutamente.
Devo ringraziare Joe Grimaldi Oliveira per le nostre conversazioni sulla sua terra d’origine, è stato gentilissimo e tanto disponibile; e grazie a Francesca, a cui ho dedicato la storia, per tante cose che sa; e grazie a Stefania, che mi aiuta sempre laddove mi serva una conoscenza in più in una lingua che non conosco, ma questo si vedrà nelle parti successive; e grazie a te, lettore, chiunque tu sia, per essere arrivato fin qui e avermi dato una possibilità.
 
Ania <3
 

Arpoador, Rio de Janeiro
 
[1] Gli Orixas, nel sincretismo del culto afro-cristiano del Macumba, corrispondono ai santi della religione cattolica
[2] Menino: ragazzino in portoghese
[3] Buongiorno in Danese

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Capitolo 2
*** Parte seconda ***


Parte seconda
 
Era piena notte, dormivo; di sasso, perché mi svegliai nel bel mezzo d’un sogno: mia madre era la regina del mare, vestita d’azzurro e con le perle tra i capelli; all’orizzonte una nave da corsaro e un uomo a prua, in carne ed ossa, in colori e sottotoni, il padre che ho sempre e solo visto in una fotografia in seppia.  Noè! Lo chiamava mia madre, agitava le braccia. Noè! Sei tornato da me… sei tornato da noi…
Ma mi misi addosso una vestaglia e andai ad aprire, ancora assonnato. Sulla soglia c’era Anders.
Mia madre si chiamava Adelaide. Quando ero piccolo dicevo sempre mi sposerò, mamma, e quando avrò una figlia avrà il tuo nome nobile. A mio padre non pensavo. Lui non mi ha mai capito. Tornava a casa da lavoro e mi lanciava uno sguardo distratto, nulla più. Non mi ha mai capito nemmeno stanotte. Mio fratello ha tre anni, e piangeva mentre papà mi lanciava addosso le stoviglie appena comprate dalla sua nuova fidanzata.
Non ce l’ho fatta. Davvero non ce l’ho fatta a non parlargli di te, professore. A dire che ti amo tanto, tanto… così tanto… e che è per questo che sono felice.
«Stupido, perché gliel’hai detto?»
«Perché tu a tua madre sì? Perché non posso essere come te?»
Lo abbracciai. Il dolore ci cambia. Il dolore ci fa accettare cose che respingeremmo se fossimo come tutti gli altri.
«Vieni a riposarti,» gli dissi, una carezza al suo volto liscio e chiaro. «Dormirai qui, stanotte.»
«Dormirà qui sempre.» La voce ferma e sicura di mia madre, alle mie spalle. Apparsa all’improvviso, con quella camicia da notte bianca, leggera e lunga fino alle caviglie, sembrava la versione bruna e buona dell’Alemoa[1]. Aprì le braccia per accoglierlo e ancora una volta si trasformò, perché lei era tutte le creature che esistevano in terra e in cielo: quella volta fu un angelo. «Non restare qui fuori, ragazzo, o ti ammalerai. È sempre brutto quando un figlio si ammala.» Lo fece entrare in casa e lo condusse nella mia camera, gli fece indossare un mio vecchio pigiama e gli rimboccò le coperte.
Mia madre lasciò la stanza. «Fate le vostre cose quando io non ci sono,» fu l’unica cosa che disse. Sbadigliò e se ne tornò a letto.

Così Anders si trasferì da me. Mia madre lo trattava come il secondo figlio che non aveva avuto, lei che sognava di avere tanti figli maschi da nutrire e tante figlie femmine a cui intrecciare i capelli; poche volte in sua presenza manifestavo quello che provavo per lui, anche se più niente era proibito e il quotidiano ci apparteneva.
Fuori da quella casa, però, dovevamo starci lontani. Anders usciva dalla porta sul retro e faceva il giro più lungo per raggiungere l’università, e se per caso c’incontravamo nei corridoi lo salutavo in modo formale e rapido, come se fosse un qualunque studente a cui avessi fatto lezione in sostituzione a un docente di cattedra. In quegli istanti il fuoco mi ghermiva la gola e – lo sentivo – i suoi occhi mi seguivano finché non svoltavo l’angolo: al diavolo ogni tentativo di discrezione. Arrivai ad evitarlo di proposito, memorizzando gli orari delle sue lezioni meglio delle mie.
Lo proteggevo.
A costo che pensasse che lo amassi di meno.
«E così noi siamo superiori, perché si amano i nostri spiriti…»
Mi sedetti sul letto. «Che cosa dici?»
«Non lo dico io, ma Platone,» mi rispose Anders. Studiava con una matita in mano ed una poggiata sull’orecchio sinistro, seduto al tavolino che avevo montato da quando c’era lui. «I tre gradi dell’amore. Noi siamo collocati più vicini alla perfezione, perché in quanto omosessuali siamo attratti dalla mente e non dal corpo.» Chiuse il libro e mi lanciò uno sguardo divertito. «Che ne pensi?»
Bah! «Che questo Platone sicuramente non era omosessuale.»
Rise. «Il mio corpo non ti è indifferente?»
«Non è facile dormirti accanto, ragazzino.»
«Russo?»
«No. Ma mi tieni sveglio comunque,» grugnii. Fece cadere la matita che teneva tra le dita sul tavolo e si alzò, mi venne di fronte. Il suo sguardo m’indagava, tenace.
Si aprì la cinta.
«Che cosa stai…?»
«Mi spoglio per te.» La voce gli si incrinò leggermente. «Non vuoi?»
«Vuoi cambiarti d’abito?»
«Ti dico che cosa voglio, tu mi chiedi che cosa voglio… tu che cosa vuoi?» Fece cadere i pantaloni. «Perché non mi svegli, di notte, se vuoi fare l’amore con me?» Fece scivolare anche la camicia.
A quelle parole, il mondo si trasformò nel buco nero che mi rubò tutta l’aria dai polmoni.
Deglutii.
In quei mesi di vicinanza avevo imparato tante cose di Anders. Se all’inizio l’attrazione per la sua bellezza mi aveva fatto accettare quel che stava accadendo, adesso c’era qualcosa che incrementava quell’aspetto: non vedevo solo un giovane nel fiore degli anni, avvenente ed energico, ma quella mente sempre meravigliata, attiva, che si sforzava di comprendere cose che io avevo già dato come indefinibili.
Per questo, ancor più che all’inizio dei nostri baci fugaci, desideravo di più.
La sua giovinezza, però, mi faceva fermare un passo prima della caduta: temevo di violare la sacralità di quel corpo, di quella verginità portata con inconsapevolezza, della sua anima.
«Non ti farei mai fare qualcosa che non vuoi anche tu,» dissi.
Rimase nudo.
«È una delle prime cose che mi hai detto: non raccontare niente di tutto questo a nessun altro che non sia te stesso. E non permettermi mai di fare qualcosa che non desideri dal più profondo del cuore,» recitò a memoria. «O da qualcosa che si trova un po’ più sotto.»
Mi aveva raggiunto: mi passò le dita tra i capelli, piano – neri nodi da marinaio, i miei, stretti e indomabili. Amava toccarli, affondarci la mano come in un rovo – mentre la pelle della mia guancia incontrava quella del suo petto. Feci un profondo respiro che venne fuori raschiato: era il rumore del desiderio che si scontrava con la mia coscienza. Sotto le sue mani, la misi a tacere.
Prendimi, Besta-fera, Satana, comunque ti chiami, e dilaniami l’anima se è il prezzo per questo peccato, atto amoroso, malsano. Lo assaggiai con la lingua, lo strinsi tra le braccia, mangiai con le labbra quella sua pelle bianca di stelle mentre lui m’invocava in preda al dolore, alle spinte, alla condanna dell’iniziazione.
« Jeg…» Ancora ansimi. «Elsker dig.»
La sua schiena si tese, e con le mani si aggrappò al legno della spalliera; feci congiungere i nostri corpi come le radici degli alberi s’intrecciano tra loro, e la pioggia affonda nella terra, e il sole si erge nel cielo tra le nuvole, perché così deve essere.
Seppi solo che dopo non riuscii a guardarlo in faccia, perché dopo lui era sempre un ragazzino, ed io ero sempre un professore.
«Che cosa hai detto?» gli chiesi.
Respirava con fatica. «Lo sai già.»
E non mi giustificai quando mormorai contro la sua spalla ti amo, Dedé. Senza sconti e definizioni, quelle parole si assumevano come fondamento di noi due.
Erano un postulato[2] perfetto.
«Dedé sono io?»
Mi grattai la testa. «Sì… qui in Brasile nessun nome resta mai tale.»
Si rigirò sotto le coperte. «D’accordo, professore.»
Sbuffai. «Non mi chiamare più così.»
Rise – e che cos’aveva, quella risata, che mi faceva vibrare lo stomaco –, mi allontanò il volto con la mano e fece inarcare il collo. «Allora ti chiamerò come se fossi nato nella mia terra, visto che tu mi chiami come se fossi nato nella tua.» Si avvicinò di nuovo e mi diede un bacio leggero sulle labbra. «Sebastian.»
***
Lui studiava sempre con la matita posata sull’orecchio, con i pensieri all’universo.
Io tentavo di risolvere quell’ipotesi maledetta, l’ipotesi di Riemann, facendo passi in avanti e tanti altri indietro; nei momenti di maggiore lavoro Dedé mi faceva trovare una tazza di tè sul tavolo della cucina. Era bello averlo accanto. Era bello averlo sempre. Era bello che lui avesse scelto me, mentre imparava a conoscersi e a crescere, perché io ero un uomo e lui nient’altro che un ragazzino invaghito delle cose che non si possono toccare: l’anima, lo spirito del mondo, l’intelletto… Eppure adesso che mi aveva avuto non smetteva di mostrarmi il suo desiderio, la sua gratitudine, la sua consapevole accettazione.
Provavo le stesse cose, con un trasporto che mi feriva e m’innalzava, sicuramente in quantità maggiori rispetto a qualcuno che non si curava affatto delle quantità. Avevo il cubo di un trinomio, perché sapesse che cosa sentivo dovevo triplicare il desiderio, sommarlo alla gratitudine sempre triplicata, sommare ancora al triplo della consapevole accettazione, più il triplo del prodotto del quadrato del desiderio per la gratitudine, più il triplo prodotto del quadrato del desiderio per la consapevole accettazione, più il triplo del prodotto del desiderio per il quadrato della gratitudine, più… ma a quel punto già da tempo non mi ascoltava più, perché gli veniva il mal di testa, diceva, come veniva a me quando lui parlava di astruserie inventate da uomini d’altri tempi.
Quando decidevamo di vederci in un locale doveva sembrare sempre un incontro casuale, ma potevo aspettarmi qualunque cosa da lui. Per esempio che chiedesse al barista di poter andar in bagno proprio quando entravo io; allora dovevo pagare la mia consumazione e, per vederlo, raggiungerlo dove si era rintanato.
E si avventava alle mie spalle.
Ma sei pazzo, Anders.
Sei tu che mi fai diventare paz…
Non cedo così, non sono mica una femminuccia in gonnella.
Se lo fossi non mi piaceresti così tanto. Le sue labbra sulle mie e le mani audaci. Un gemito trattenuto in gola.
Dedé, se ci scoprono…
Se non perdiamo tempo, non ci scoprono.
E allora era il suo fiato caldo sulla mia pelle, nello spazio scoperto tra l’orlo dei pantaloni e la camicia di lino.
Dopo, un dopo che doveva arrivare sempre velocemente per non essere scoperti –  uscivamo con cinque minuti di differenza. Io non avevo più i vestiti spiegazzati ma il collo arrossato e le memorie della bellezza oscena con cui Anders amava scoprire il mio corpo. Metteva curiosità e gaiezza nelle cose che reputava migliori, così studiava la Filosofia come faceva l’amore e faceva l’amore come studiava la Filosofia.
Avevo condotto un’esistenza troppo normale, fin troppo privilegiata, per meritare tanto bene. Litigavamo, sì: lui era troppo disordinato ed il suo disordine rallentava il mio lavoro; io mi dimenticavo delle ricorrenze, mentre lui si preparava ad esse con anticipi spaventosi. Mia madre arrivò a preferirlo a me – ne sono convinto – perché era giovane e aveva bisogno di lei, e questo la inorgogliva. A volte passavano giorni senza che ci parlassimo e – lo faceva sembrare un caso – si addormentava sul divano con Nietzsche o Fichte sul petto. Questo mi offendeva più di tutto e Anders lo sapeva, e alla fine cedevo sempre io.
Eppure, quando tornava tra le mie braccia, sussurrava contro la mia pelle un amato se ti perdessi, mi perderei.

Non avrei creduto che il tempo l’avrebbe adorato tanto. Vent’anni, vent’uno, ventidue, ventitré, ventiquattro, venticinque, ventisei, ventisette, ventotto, ventinove… il mio ragazzino era un giovane uomo, ed era bellissimo. Stavamo insieme da dieci anni. Dopo il dottorato avevo ottenuto il posto all’università, dove insegnavo e mi occupavo delle mie ricerche; feci grandi passi avanti nonostante le difficoltà e il disordine, per questo mi invitarono all’incontro che si tenne nel 1976 a Liverpool. Anders si offrì di accompagnarmi ed io non glielo negai. Ai colleghi parlai di un giovane pronipote di mia madre, la cui numerosissima famiglia s’era sparsa un po’ in tutto il globo. Anders era contento di tornare in Europa dopo tanto, avrebbe passato il tempo a fare il turista e a scrivere il suo libro ambizioso; io, grazie a quell’esperienza, imparai a parlare in Inglese.
Fu straordinario: grandi matematici che si scambiavano idee, schemi e bozze, ipotesi e supposizioni per avvicinarci a qualcosa di ancora lontano. Eppure… «Capisco quello a cui ha pensato, ma il fatto che ci siano infiniti zeri che soddisfano la congettura di Riemann non impedisce che ve ne siano altrettanti infiniti che non la soddisfano – così come il fatto che vi siano infiniti numeri naturali pari non impedisce che ve ne siano infiniti dispari.»
«Lei, professor Maior Horta, ci sa fare,» mi disse una volta John Nash[3]. Un tipo strano, ma intelligentissimo. Bisogna essere un po’ particolari per diventare il soggetto di un film da Oscar.
Quando tornai in Hotel, fu Kurt Gödel[4] a riferirmi che Anders era uscito a fare compere. «Gli serve un vestito nuovo, ha detto,» fece Kurt, nel suo inglese forzato quasi quanto il mio. Con Anders parlava in francese, quei due se la intendevano fin troppo a parlare di Dio e qualcos’altro seguito dall’aggettivo ontologico. «Aiuti suo nipote, professore, lo aiuuuti! Si veste come un tedesco in vacanza!» E rise, perché lui era tedesco ma viaggiava solo per lavoro, a detta sua.
Lo trovai in un negozio nelle vicinanze. Da lontano, attraverso la vetrina trasparente, colsi la sua immagine sfuggente mentre entrava in un camerino. Aprii la porta e suonò un campanello, così una ragazza che il cartellino registrava col nome di Tracy mi si avvicinò. Non poteva avere più di diciassette anni. «Buonasera, signore,» mi accolse così, con un sorriso che fece illuminare i suoi occhi castani e allungati verso l’esterno. «Se desidera qualcosa, chieda pure. Ora il camerino è occupato ma…»
«Sono qui per mio nipote, signorina. È un ragazzin… ragazzo alto, ed è pallido cioè… bianco, sulla trentina.»
«Sebastian.» La voce chiara e dirompente di Anders. Mi voltai a guardarlo e lui sostenne per un lunghissimo, dolce istante il mio sguardo, con quei suoi occhi azzurri da cielo piovoso. Col suo portamento da chi è abituato a passar la vita a passeggiare mentre viene ammirato, si mise davanti al grande specchio. Smisi di guardarlo. La ragazzina, Tracy, arrossì. «Sta molto bene, signore,» commentò, e seguì un leggero colpetto di tosse.
Anders indossava un completo elegante, d’un blu speciale. Non mi sono mai interessato a queste cose, ma non occorreva essere un genio – anche se alcuni mi chiamavano così – per capirlo.
Era il blu della notte fonda, con le stelle in lontananza.
«Sto bene, zio?» E mi fece un sorrisino. Quella recita all’inizio l’aveva divertito e, a lungo andare, irritato; sapevo che sarebbe andata così, Anders non era paziente. Era tollerante solo coi suoi autori antichi, ma non con la stupidità del mondo. Quella lo rendeva furioso e lui cercava di nasconderlo con l’irrisione, lo sbeffeggiamento. «Sì, nipote.»
«Lo prendo,» decise.
«Cosa?» M’intromisi. «Anders, non spendere soldi così. Un abito elegante non ti serve, ne abbiamo un paio in valigia tra cui puoi scegliere per la cena di gala.»
«Allora quando i signori hanno finito,» disse la ragazzina, con una voce piccola piccola. «Mi trovano al banco.» E si dileguò.
Aspettai che si fosse allontanata e mi avvicinai ad Anders a grandi falcate. «Che cos’è questo capriccio?» gli chiesi, a bassa voce.
«Mia madre ha sempre voluto vedermi sposato,» mormorò. «Diceva che non si è mai tanto belli come quando ci si sposa. E questo completo…»
«Vuoi una donna da sposare? Ti piace la ragazzina?»
Fece segno di no, un sorriso divertito sul volto. «La ragazzina è carina… ma io amo un uomo, amo te.»
Scossi la testa. «Non esiste posto, in questo mondo, in cui io e te potremmo sposarci.»
«Ma voglio un abito da mettere, se mai un giorno dovesse essere possibile. Voglio un completo da guardare quando apro l’armadio…» Sospirò. «Per pensare “ecco cosa mi sarei messo, se avessi potuto sposarmi”.»
Repressi la voglia sfiancante di baciarlo e tenerlo stretto per ore e ore. «Ti sposerei, se potessi. Ti ho già sposato anni fa.»
Un tremolio attraversò le sue ciglia. «Scegli un abito.»
***
Dopo la spesa tornammo in hotel e cominciai a frugare nelle sue buste. Oltre al completo blu aveva comprato una camicia e un paio di scarpe.
«Queste scarpe così… verdi… verde semaforo?»
«Verde acido,» mi corresse lui. «Ti piace la camicia? È color malva.»
«La camicia può anche andare, mette in risalto i tuoi occhi,» notai. «Ma le scarpe, Dedé… sono un pugno nell’occhio.»
«Dai, Sebastian!» Rise. «Sono belle, invece. Così mi sembrerà sempre di camminare sul prato di un parco di Liverpool. Bella la città, no? La città dei Beatles.»
«Non mi hanno mai fatto impazzire, a dir la verità,» ammisi io. «Ma ognuno ama la musica della propria giovinezza.»
«Com’era la musica della tua giovinezza?»
«Ah… ragazzino, erano gli anni ’50. Oltre alla musica tradizionale che suonano sempre a Copacabana e Ipanema, c’era Elvis che cantava e muoveva il bacino… tutte le ragazze gli morivano dietro.»
«E anche tu.»
Feci spallucce. «Anch’io, già. È un peccato vedere come si è ridotto oggi…»
«E i Beatles si sono sciolti. C’è qualcosa che dura per sempre?»
Noi, pensai, ma non lo dissi. Anders aveva indossato quei suoi nuovi acquisti, la camicia sui pantaloni cachi e quelle scandalose scarpe verdi.
«I tuoi gusti stravaganti, ragazzino.» Risi tra me. «Vieni qui.»
***
Mia madre si chiamava Adelaide e ha sempre voluto visitare Parigi. Con mio padre è andata in Luna di Miele in Italia, ma poi non ha più viaggiato. È rimasta stretta a Copenaghen mentre mio padre faceva tanti, tanti viaggi di lavoro. Quando le chiedevo quale fosse il suo desiderio, lei mi diceva… prima di morire… Anders, prima di morire vorrei tanto vedere Parigi. È così banale, nevvero, bambino mio? Tutte le donne sognano d’andarci… Poi è nato mio fratello Vilhelm, io avevo già diciassette anni. Un figlio inatteso, quel piccoletto, ma una gioia per me. E dopo qualche mese si è ammalata. Non ci sono più stati i compiti di matematica da fare insieme – era l’unica cosa in cui mi aiutava ancora; nemmeno la colazione e i pranzi e i balli mentre ascoltavamo Lennon cantare alla radio; nemmeno le coperte rimboccate e le mani fresche d’acqua sulla mia faccia da lattante ormai grande. Sai, era ancora incinta quando mi parlò dell’idea del matrimonio ed io le dissi che non mi ero mai innamorato di nessuna ragazza. E lei… lei mi disse che non dovevo aver fretta. Perché la fretta brucia la bellezza. Lei era così bella, Sebastian… mio fratello ha i suoi occhi.
È morta senza vedere Parigi. Mi ci porti per lei?
Lo faresti per me?
Succo d’arancia che scende nella gola. Sì. Ma sì, prima di tornare a Rio… che cosa ci costa?
Occhi pieni di lacrime. Grazie, amore mio. Grazie.
Ti piacciono le uova, nipote? Voce alta, un cameriere in vicinanza.
Sì. È tutto perfetto.
***
Parigi. Dannato l’amore, dannate le strade; pittori innamorati e innamorati tra loro a sfiorare la Senna. Mi guardai allo specchio un’ultima volta. Anders mi aveva chiesto di indossare l’abito che avevo comprato con lui, a Liverpool.
Era bianco, ma non proprio. Insomma, coi vestiti sono sempre in difficoltà. Bianco come… il latte col miele. A righe color miele scuro, ambra, sottilissime. Anders diceva che erano di una tonalità più chiara della mia pelle, e che il biancore della stoffa mi dava luce. Ero magro, anche se un po’ più robusto di Anders. Mi vidi bello, quel giorno, anche se era finito il mio tempo per le vanità. Forse non c’era mai stato. Forse avevo sempre e solo fatto in modo che nessuno si accorgesse di me e di quello che ero.
«E andiamo!» Rise Anders, mi trascinò fuori e comprò due rose rosse da un venditore ambulante.
«Neveu!» Ormai avevo imparato come si dice nipote in tutte le lingue. «Che te ne fai?»
«Mettila nel taschino, oncle.» E prima di fare la stessa cosa con la sua rosa, fece l’occhiolino a una ragazza che passava per caso, bella come una bambola. Avevo già diverse idee per punirlo.
Eravamo in fila per farci fare una foto sotto la Tour Effeil.
«Sebastian,» sussurrò. «Siamo belli, non trovi?»
Rimasi perplesso. «Sì… tu di certo.»
«Anche tu. Saresti piaciuto a mia madre. Penso che avrebbe fatto come Raquì, ti avrebbe riempito di cibo e poi avrebbe acceso la radio… ti avrebbe chiesto di ballare. Saresti stato gentile con lei, anche se non aveva il samba nel sangue, come le donne del tuo paese?»
«Certo che sarei stato gentile. Ti ha messo al mondo. Sarò sempre debitore ad Adelaide Damgaard per questo.»
Era crudele, il mondo, perché in mezzo alla gente non potevo tenergli la mano per più di qualche secondo.
«Sebastian…» mi chiamò ancora. «Non chiedermi spiegazioni. Ascoltami e basta.»
Sospirai nell’incertezza. «Va bene, Dedé…»
«Qui, a Parigi, il sogno di mia madre. Qui, davanti alla Tour Effeil, nella tua lingua, io…  Io, Anders Damgaard, accolgo te, Sebastião Maior Horta, come mio sposo. Con la grazia di un Dio che ci ama, prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.» Non mi sentivo più le gambe. «Ecco, ti ho sposato.»
«Messieurs, veuillez vous vous approcher![5]» disse il fotografo. E tremando mi lasciai trascinare da Anders, e lottai con tutti i miei demoni per non stringerlo tra le braccia davanti a tutti e baciarlo per lasciarlo senza fiato. Ma come avevo vinto le volte precedenti vinsi anche allora, e poggiai semplicemente una mano sulla sua spalla. Il flash mi accecò.
«Caspita, non vedo più niente!»
«Nemmeno io, oncle!» La voce ridente di Anders. Risate francesi attorno a noi. Il suo abbraccio.
E allora, contro la sua spalla, in un sussurro: Io, Sebastião Maior Horta, accolgo te, Anders Damgaard, come mio sposo. Con la grazia di un Dio che ci ama, prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.
***
Era novembre ed ero solo in casa. Scrivevo una lettera a John Nash, per informarlo dei miei progressi nell’ipotesi di Riemann.
Anders entrò all’improvviso; per la prima volta dopo anni insieme, non accedeva dalla porta sul retro. Non ebbi tempo di rimproverarlo: aveva le lacrime agli occhi, l’espressione sconvolta, le labbra che vibravano in una rabbia che sfogò rubandomi un bacio.
«Dedé,» esclamai, nella sorpresa.
«Spogliami.»
Scossi la testa, ancora stordito. «Che cosa è successo…»
«Spogliati. Spogliami. Sebastian, ti prego,» mi disse, con una voce grave che non gli avevo mai sentito. Da quando era cresciuto così tanto?
«Va bene. Va bene, ragazzino, stai calmo.»
Ragazzino.
Non era più un ragazzino.
E si lasciò andare tra le mie braccia, tanto che dovetti tenerlo stretto per non farlo cadere e così entrambi fummo a terra.
«Baciami.»
Gli carezzai i capelli, piano. Quei suoi capelli folti e d’un chiaro castano. «Mi dai solo ordini, oggi.»
«So che vuoi accontentarmi. Non mi ami abbastanza?»
«Ti amo così tanto che non ti nego niente. Non ti ho mai negato niente, Dedé.»
Avvenne, e fu disperato. Fu lui che mi stringeva la testa tra quelle mani bianche e mi chiamava come se fossi lontano; e fui io che mi diedi a lui, quella volta, perché aveva bisogno di essere come me, ed io avevo bisogno di essere come lui, anche se restavamo solo noi stessi.
«Io ti amo,» mormorava, dopo ogni ansito. «Jeg elsker dig, Sebastian. Ti amo. Ti amo. Ti amo.»
***
Attesi, dopo che ebbe pianto sulla mia spalla, che mi raccontasse tutto.
«Sono andato a casa mia.»
Gli carezzai la spalla. «Che cosa cercavi?»
«Niente che desiderassi davvero.» Si morse le labbra. «Ma volevo mostrare a mio padre il manoscritto del libro, prima di farlo andare in stampa. L’ho dedicato a mia madre.»
Il libro. Se fosse stato considerato in ambito accademico, avrebbe potuto aspirare ad un dottorato di ricerca in filosofia teoretica. Ci lavorava da quando si era laureato.
«Credevo che, leggendo quella dedica, si sarebbe ricordato di quello che eravamo un tempo. Di quello che eravamo insieme a mio fratello. Ma era con degli uomini, pezzi grossi. I capi delle Borboletas
Un brivido mi percorse tutta la schiena. «Come facevi a conoscerli?»
«Tu li conosci?»
«Ho conosciuto uomo per la prima volta in una delle loro case chiuse,» mormorai, e distolsi lo sguardo da lui. Che vita miserabile era stata la mia.
«Io li conosco perché volevo lavorare per loro, quando mio padre mi ha cacciato di casa.»
Deglutii.
«Ma poi non l’hai più fatto.»
«Ho dato la mia disponibilità e, quando ho visto l’estraneo che aveva pagato per possedermi, sono scappato.» Fece una risata isterica. «Capisci? Scappato letteralmente. Mentre quello mi chiamava Desejo! Desejo!» Rideva e piangeva. «Mi avevano chiamato Desiderio di ghiaccio
Rabbrividii. Il pensiero mi tornò al ragazzo biondo di quella notte lontana: probabilmente era morto.
«Ovviamente mi hanno preso. Poi mi hanno rinchiuso senza acqua e senza cibo. Dopo una settimana, ero quasi morto. Mi hanno abbandonato sulla spiaggia…» continuò, lo sguardo perso nei ricordi. «Lì mi hai trovato tu.»
Gli accarezzai il volto non più liscio. Adesso il mio ragazzino aveva la barba, curata, che gli contornava le labbra morbide. Ed era un uomo. «Anders…»
«Quando mi sono svegliato ed ho voltato la testa, ti ho visto. In questa stessa stanza, in piedi di fronte alla finestra, con la luce che ti travolgeva nel sole alto di mezzogiorno. Ho creduto che fossi Dio. O Cristo. O un angelo. Una creatura divina.» Mi abbracciò forte ed io lo tenni stretto, gli diedi piccoli baci sulla spalla, sulla clavicola, sul petto.
«Non so perché quelle persone stavano parlando con mio padre. Appena mi ha visto non mi ha lasciato nemmeno parlare. Ha urlato “io non ho figli! Mi fulminino se io avessi dei figli, dei figli così… un frocio che si vede da lontano, che lo prende in…”» Le sue lacrime calde mi scesero sulla pelle. «Sono un mostro.»
«Se sei un mostro, lo sono anch’io con te.» E lo strinsi ancora più forte, anche se non valeva nulla. Anders voleva essere accettato dall’unico genitore che era in vita, ed io non potevo dargli quello che chiedeva. Potevo solo tentare di consolare quella mancanza eterna con l’assicurazione della mia presenza costante.
«Non tu. Nessuno ti ha mai detto una cosa del genere. Nessuno sospetta che tu…»
«Pensi che non l’abbiano capito, dopo tutti questi anni e nemmeno una donna?»
«Non lo so. Ma di me molti lo intuiscono. E mi tollerano solo perché tutti i filosofi sono strani…»
«Ah, i filosofi, tanti filosofi di questo tempo amano gli uomini, tante filosofe amano le donne e s’amano tra loro… loro sanno cos’è l’amore.» Sospirai. «Non tornare più in quella casa, Dedé. Casa tua è questa adesso.»
«Sei tu la mia casa, Sebastian.» Sfregò la testa nell’incavo del mio collo. «Sarò debitore per sempre a Raquel per averti messo al mondo.»
Lo allontanai, di poco, e lo guardai negli occhi. «Domani andrai all’università e continuerai il tuo lavoro. Poi andrai alla stamperia e darai il via per far stampare il tuo libro. E tutto avrà un senso, amor mio.»
 
 
[1] Il fantasma di una donna bionda dai tratti tedeschi, connessa all’isola di Fernando de Noronha. Si dice che seduca gli uomini imprudenti per poi portarli alla morte. Alemoa è un modo non standardizzato di pronunciare la parola alemã, in portoghese donna tedesca.
[2] Postulato: proposizione che, senza essere dimostrata, si assume, o si richiede all’interlocutore di assumere, come fondamento di una dimostrazione o di una teoria (in generale, di un sistema deduttivo). È termine in uso soprattutto nella matematica, mentre in fisica e nelle scienze applicate le proposizioni che hanno carattere di postulati sono più comunemente ricordate con il nome di principi. (Definizione dell’enciclopedia treccani)
[5] Signori, vogliate avvicinarvi! in Francese
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In occasione della giornata mondiale contro l'omofobia(17 maggio), ecco a voi la seconda parte della storia <3
Un grazie speciale a chilometri , Bianca Marconero ed Aven90 per aver recensito la prima parte ed anche a tutti coloro che mi hanno fatto sapere i loro pensieri su facebook e per messaggio privato. Sono onorata che voi ci siate, che mi regaliate un pizzico che vostro tempo che per me è preziosissimo e che veniate a sognare con me. Se voi non ci foste, le mie storie non potrebbero vivere.

Grazie infinite.
Ania <3

 

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Capitolo 3
*** Parte terza ***


Parte terza
Andare, Ludovico Einaudi
 
Arrivò, puntuale e inclemente in un paese in cui ora è sempre un po’ più tardi e un no può trasformarsi in un forse, il giorno dopo.
Alle sette di sera, Anders non era ancora rincasato.
Mi misi addosso una giacca a vento e presi il percorso abituale del suo ritorno. Gli piaceva camminare sulla spiaggia e poi risalire verso la strada, come facevo io quando insegnavo al liceo, per riconoscere casa nostra da lontano al tramonto del sole. In dieci anni non era mai tornato più tardi delle sei di pomeriggio. Il cielo si imbruniva come la mia preoccupazione. È un’agitazione insensata, mi dicevo; sono passati più di dieci anni da quella fuga di Anders e loro gliel’hanno fatta pagare allora. Se ce l’hanno con il signor Damgaard, la faranno pagare a lui.
Eppure più mi rassicuravo, più il respiro mi mancava e dal camminare finii per accelerare il passo e poi correre, correre verso l’immenso col terrore nel cuore. Il vento mi schiaffeggiava il volto o io lanciavo fendenti all’aria, non sapevo. Ma correvo e lo chiamavo nella mente. Anders. Dedé. Mio sposo giovane.
La prima cosa che vidi, da lontano, fu quel colore tremendo. Il verde acido da erba fresca, in un parco di Liverpool agli inizi della primavera del 1976, ai piedi del mio amore, là, sulla spiaggia, dove anni prima l’avevo trovato senza sensi.
«Anders!» gridai a gran voce, e corsi ancora, sperai fino all’ultimo istante che si sollevasse al suono del suo nome pronunciato dalla mia voce. «Anders!» Sempre più vicino. «Dedé…» Del sangue gli sporcava la camicia color malva: una rosa rossa che si confondeva tra gli altri fiori, al centro della schiena, e una pozza di sangue che gli cresceva verso i fianchi. Lo sollevai con una calma glaciale e scoprii i suoi occhi sconvolti. Con la sabbia in bocca, un respiro lievissimo mi fece capire che era vivo. Gli tenni la nuca con la mano mentre lui fissava gli occhi al cielo, incapace di trovarmi.
«Forza,» lo incitai, lo smossi. «Forza, Dedé, resta sveglio. Ti porto all’ospedale.»
«Scende la notte…»
«Resta sveglio, Dedé.» Le sue palpebre calarono a metà dei suoi occhi e la terra tremò sotto le mie ginocchia. «Non ci provare, ragazzino!» ringhiai in preda alla furia, al terrore più puro, a un fuoco nella gola che mi chiedeva di urlare e urlare e urlare ancora per supplicarlo.
Anders!
Un tempo lui mi aveva chiesto di non morire. In quel momento, la certezza spaventosa che non mi aveva mai promesso la stessa cosa; che non gli avevo mai parlato di quanto sarebbe stato meraviglioso e desolante il momento in cui, alla mia vecchiaia, mi avrebbe addolcito la morte attendendola con me; che col peso dei miei diciott’anni in più a separarci, il pensiero che potesse lasciare questo mondo prima di me non mi aveva mai sfiorato se non nell’assurda estasi dei più violenti amplessi… come le frecce che uccisero il santo di cui porto il nome, queste consapevolezze mi si conficcarono nella mente, tranciando la parte in cui risiedeva la razionalità ed iniziava la follia del dolore devastante.
Ero io quello che doveva morire per primo.
Era lui che mi doveva piangere.
«Anders!»
No!
No no no no…
«Non farò niente che non voglia dal profondo del cuore, professore…»
Spalancò gli occhi d’improvviso. Anche la bocca era sporca di sangue, oro di granelli di sabbia e rosso del nostro amore.
Lacrime mi si erano accumulate nello spazio tra la pelle e la cornea. Sbattei le ciglia e quelle caddero, pungenti e copiose.
«Ragazzino…»
Espirò.

 
Pronunzio il tuo nome
in questa notte scura,
e il tuo nome risuona
più lontano che mai.
Più lontano di tutte le stelle
e più dolente della dolce pioggia.
Dedé…
La prima copia del suo libro stampato si era sporcata del suo sangue sulla copertina; gli cadde quando gli spararono a vista. È ancora lì, conservato nella mia libreria ch’era anche sua.
 L’amore applicato ai limiti, saggio filosofico di Anders Damgaard.
Alla seconda pagina:

 
Dedicato a mia madre Adelaide, a cui penso ogni giorno della mia vita. Spero che un giorno qualcuno della nostra famiglia porti il tuo nome, dolce come dolce è il tuo ricordo;
dedicato a Raquel Horta De Mello, mia cara Raquì, guaritrice e benefattrice: dona affetto senza misura, senza fattura;
dedicato all’unico amore della mia esistenza, la scelta migliore che abbia mai fatto, investimento della mia anima e del mio corpo, di quel che non si vede e di quel che si può toccare, dell’essere e del non essere, della metafisica e dell’epistemologia. L’illusione più bella la trovo quando mi stringe tra le braccia: in quel momento, sento che posso vivere anche senza trovare le risposte alle domande mie e del resto del mondo.
Jeg elsker dig, Sebastian.

 
Mi tolsi gli occhiali e lui, disteso sul nostro letto, mi apparve come una macchia informe e piena di colori. Il malva della camicia, il verde acido delle sue scarpe, il segale dei suoi capelli, il bianco perlato della sua pelle.
Tua madre si chiamava Adelaide, amor mio. Da qualche parte, in un posto che i filosofi hanno chiamato in tanti modi diversi, spero che stia accarezzando i tuoi lisci capelli.
Quando ti dice che non hai più nulla da temere, non mente.
Ti spoglio. Non per far l’amore: eri bravo a spogliarti da solo, sempre così impaziente, il primo a svegliarsi al mattino, a preparare la colazione e a consegnare le relazioni su Kant con l’inchiostro ancora fresco… tante volte ti ho detto di riposarti un po’.
Ora dormi.
Lasciami fare, sta’ calmo, nessuno ci disturberà. Ti metto addosso il vestito che hai scelto per essere mio sposo. Ti pettino i capelli, ti raso ma senza toglierti tutta la barba. Sei bellissimo. Sei perfetto. Un po’ di profumo. Una rosa rossa al tuo fianco. Che cosa vogliamo di più? Oh, quando ti vedranno, le donne anziane penseranno… chissà di chi era innamorato… povero caro… almeno non ha lasciato nessuno… e tu eri mio.
Eri libero, ma eri mio.
Ed io non mi libererò mai di te.
So che la Matematica non era il tuo mondo, Dedé, come il mio mondo non è la Filosofia. Ma abbiamo mischiato le nostre vite ed io non sarò più lo stesso. I limiti dei sentimenti sono punti in cui non è possibile definire i sentimenti stessi. Non si riesce a conoscere il comportamento di questi sentimenti in quei punti, ma il loro comportamento limite sì. Quando ci siamo amati, ci siamo uniti.
Adesso – guardaci – siamo divisi. Ero la tua casa, una volta; oggi posso essere solo la tua tomba. Tuttavia non ti abbandono: il nostro divisore è zero. Ed anche se la divisione per zero è impossibile, sappiamo che essa tende a infinito.
Noi siamo stati quell’incognita del piano che corre verso valori assoluti e così anche i nostri sentimenti hanno raggiunto valori grandissimi, assoluti e tendenti a infinito. Quel che provo per te, quel che hai provato per me, quel che proviamo in un luogo che non ha né tempo né spazio ha per limite l’infinito, per noi che tendiamo a infinito.
Là un giorno ti troverò.
***
Al funerale conobbi il padre di Anders, Ludvig Damgaard, e il piccolo Vilhelm. Indossavo il vestito del mio matrimonio, con una rosa rossa nel taschino.
Ludvig doveva avere una sessantina d’anni; Vilhelm, invece, non doveva avere più di dodici.
«So a cosa sta pensando,» mi disse Ludvig. Fui grato che fosse formale, in questo modo anch’io lo sarei stato con lui. Attraverso il filtro delle convenzioni, potevo nascondere la mia disperazione. «Ma Anders è andato incontro alla morte,» continuò, con voce ferma. Il bambino, accanto a lui, sollevò il volto impaurito. Aveva gli occhi della stessa forma di Anders, ma di un nocciola luminoso, rovinato dall’arrossamento del pianto. Gli occhi di Adelaide Damgaard. «Non ho chiesto io che venisse a casa mia quella sera, in quel momento. Stavo proteggendo i miei figli da quei mostri.»
Scossi la testa. «Capisco poco di quel che dice.»
«Oh, capisci, Sebastião Maior Horta. Non conosci la tua terra? Da sempre i territori di Rio vanno dalle mani delle Borboletas a quelle delle àguias. Avevo già cominciato a costruire in un territorio sotto il controllo delle Borboletas, ignorando gli avvertimenti di tutti i miei colleghi. Non riuscirai a soppiantarli, mi dissero. Non sono solo ricchi e potenti, sono spietati. La prima cosa che hanno fatto è stata minacciare i miei figli. Li stavo convincendo di non avere legami con gli altri due Damgaard registrati all’ufficio che accoglie gli stranieri – Vilhelm era già partito per São Paulo, a trovar rifugio presso un altro mio amico danese. E poi è arrivato lui…» La voce gli si ruppe.
«È stato lei a cacciarlo, dieci anni fa,» dissi, senza trattenere il disgusto. «Si vergognava di lui.»
«È vero. Provavo vergogna verso quel figlio bizzarro che stravedeva per la mia prima moglie e che per me provava solo timore. Quando abbiamo cercato di conoscerci, ci siamo scontrati. Ho perso gli anni più belli della sua vita. Ora mi vergogno di me stesso e mio figlio non c’è più.» Alzò il volto al cielo, non c’erano lacrime nei suoi occhi. Azzurri come quelli di Anders. «Vi amavate?»
Lo stomaco mi si contorse. «Mi chiede se ci amavamo…»
«Sì, le chiedo questo.»
Anch’io alzai il volto al cielo, strinsi i pugni fino a sentire le unghie che mi affondavano nella carne. «Quando morirò voglio essere sepolto accanto a suo figlio.» Sospirai. «Non sono un Damgaard. Non sono un parente. Non sono un danese. Sono un perfetto estraneo, per voi.» Deglutii. «Ma non per lui.»
«Per lui cos’eravate?» chiese, a voce bassa.
Ed io parlai piano per fermare le lacrime. «Un professore…» Indossai il mio cappello. Un professore che non gli ha insegnato proprio niente.
Il signor Damgaard prese per mano suo figlio e fece un passo indietro. «Io e Vilhelm torniamo in Danimarca. In questa vita non la rivedrò mai più. Apporti dei fiori quando può.» Si sistemò il cappello sulla testa. «Farvel. Addio.»
***
Quasi undici anni prima, mia madre mi aveva chiesto se Anders ci avrebbe portato dolori. Adesso era straziata come lo sarebbe stata Adelaide Damgaard se fosse stata in vita, perché Raquel aveva accolto Anders come un altro figlio da amare e accudire, e l’aveva amato e accudito. L’aveva pianto fino a sgolarsi, mormorando preghiere, invocando Dio e gli Orixas e maledicendo l’exù, messaggero tra i mondi. Aveva invocato pietà e giustizia, cadendo poi al suolo.
Mamma…
Mia madre si era aggrappata al mio collo. Avranno quello che si meritano, figlio mio. Abbi fiducia in tua madre. Mi mise una mano in tasca e ne tirò fuori il coltello che portavo con me ovunque, da giorni. Ma non sarà tua la mano che farà scorrere il loro sangue.
L’avevamo pianto insieme, abbracciati, nelle notti in cui l’immagine di Anders insanguinato mi toglieva il sonno.
E dopo l’ennesima notte di lacrime e gelo, ci svegliammo vecchi.
Avevo quarantotto anni.
I capelli neri e ricci, un tempo lucenti, ora li scoprivo d’argento. La pelle di mia madre, rimasta liscia per tutti gli anni della sua maturità, si raggrinzì, e la testa castana scura le divenne bianca di neve. Aveva sessantasei anni.
I miei stimoli sessuali stavano muti: mai più io li sentii, e ne fui grato. Non avrei potuto toccare un corpo caldo che non fosse di Anders; giacché ora Anders marciva nella terra e nel freddo, non avrei toccato più nessuno. Dopo mesi tornai alla spiaggia dell’Arpoador: mi sdraiai sul punto in cui anche Anders aveva giaciuto e il cielo al tramonto mi colse in tutta la sua bellezza. Era l’ultima cosa che il mio amore aveva visto.
Ma io ero lì, steso, respiravo forte e piangevo; l’onda estrema del mare bagnava la sabbia e tornava alla sua origine; le nuvole si diradarono a portar via l’azzurro del giorno e il crepuscolo diventava sempre più scuro; a un certo punto della notte cominciò a piovere ed io rimasi lì, all’aperto, frustato dall’acqua ma vivo.
Era la vita che continuava.
La vita continua e noi dobbiamo continuare con lei.
            Nalda, quella bella ragazza della mia strada, nata nello stesso anno di Anders e con cui mia madre aveva sperato un matrimonio prima che la mia vita cambiasse, si era sposata e aveva avuto una figlia. Chiese a mia madre se poteva tenerla per qualche settimana, il tempo che lei completasse il trasferimento a Brasilia.
Ci furono telefonate e telefonate, ma non tornò mai.
Nalda non era fatta per figli e famiglia e ce l’aveva scaricata come una merce al porto. La disprezzai. Mi chiesi come io, che avevo estinto tutto l’amore che avevo, potessi far crescere bene quella marmocchia di tre anni. Anders l’avrebbe adorata al primo sguardo, invece, e allora avrebbe raggiunto la somma massima della felicità. Senza di lui, però, la sua presenza divenne l’emblema della devastazione: per mesi la piccola pianse giorno e notte col grido di “mamma” sempre pronto sulla lingua, fino a quando la calma della rassegnazione non la indebolì, abbastanza da regalarle e regalarci una notte di pace. Ah, quella streghetta lamentosa finalmente stava zitta! Bello che io ed Anders non eravamo mai incappati in simili incidenti – non sarebbe successo nemmeno se l’avessimo pregato. Lacrime e bava e capricci tutti nello stesso momento. Che mi uccidano piuttosto!
Mi alzai dal letto con l’intenzione di portare la bambina alla chiesa più vicina, perché le suore le offrissero la loro benevolenza.
Ma quel giorno la conobbi per com’era. Una bella bambina, ora che non piangeva: di bronzo e di fango, come tutte le donne incontaminate delle mie foreste. E sì, posso riconoscerlo: le donne della mia terra sono le più belle del mondo.
«Allora, finalmente hai finito di piangere?»
«Sì,» mi rispose, decisa, e spezzò in due uno dei nostri panini al formaggio. Mi sorrise. «Hai una faccia simpatica,» disse, addentò la parte che aveva diviso. E con la bocca piena, come una maleducata – evidentemente Nalda non si era occupata di questa parte dell’essere madre come di tante altre: «Duopo mi accom-pagni al muare per gio-care?»
No, ma che, ho un sacco di roba da fare, devo finire di preparare la lezione per domani e…
«Solo se cominci a comportarti come si deve.»
«Va be-ne.»
«Allora non parlare con la bocca piena, ragazzina.»
«Si chiama Lurdes.» Mia madre mi si sedette accanto e parlò con voce serena. «Ma noi la chiamiamo Lullu.»
Mi sfuggì un sorrisino mentre Lullu si sbrodolava con l’acqua. C’era qualcosa che dovevo fare, ma avevo dimenticato cosa. Probabilmente aveva a che fare con la chiesa e la suore e l’educazione. Mi sfuggivano, però, i nessi che le collegavano tra loro.
E d’accordo, facciamo qui la chiesa e la scuola e il gioco. Se una casa non è fatta per accogliere, alla fine, che casa è?
Mia madre ebbe cura di lei: si faceva chiamare nonna Raquì, le preparava da mangiare e la roba della scuola. Io ero lo zio Sebé che, quando si chiudeva in camera, non doveva mai essere disturbato. Presto, però, le chiesi espressamente di chiamarmi solo per nome, in modo che non dimenticasse mai chi eravamo per lei veramente.
Questo sarebbe stato la sua forza, un giorno, e non la sua debolezza.
Quando cercai di insegnarle qualcosa di Matematica si rifiutò ostinata, e nessun libro dei tanti della mia libreria l’attirava. «Non andrai da nessuna parte così, ragazzina!» le ripetevo. Voleva solo giocare e ballare, come quel primo giorno al mare: al suono del tamborim[1] e della chitarra s’era alzata dalla sabbia e aveva cominciato a muoversi seguendo il ritmo del suo stesso sangue. Coi riccioli neri al vento e la pelle abbronzata, poteva sembrare che appartenesse davvero alla mia famiglia e che io appartenessi a lei. Forse, in un’altra realtà, avevo sposato Nalda e ne era nata una bambina uguale a Lurdes.
Le piacevano anche le parole crociate, e con lei ho passato pomeriggi interi tra una sette verticale e una quindici orizzontale. Anche se vincevo sempre io, mi divertivo. Ed anche se perdeva, si divertiva lo stesso, e vinceva con tutti gli altri che sfidava.
Quando ebbe una figlia anche lei conobbe lo stesso destino della madre: la compagnia mia e di nonna Raquì. La prima volta che la portò a casa nostra mi avvicinai alla piccola, addormentata. Aveva il volto imbronciato come se fosse stata appena partorita, ma con la pelle priva di arrossamenti: era quasi bianca.
Era diversa da noi.
Lo lessi nel suo visino bello e arrabbiato.
Nemmeno quando dormi trovi la pace, bambina?
Un giorno chiamerò anche te come chiamo tua madre.
Ragazzina.
Aveva gli occhi grigi come sassi, ma luccicanti. Lurdes la lasciava a casa nostra solo quando aveva il turno di notte, perché di solito la portava con sé al ristorante in cui lavorava. Solo quando si fece più grandicella le lasciò la libertà di venirci a trovare quando le andava, con la scusa di prendersi cura di nonna Raquì e zio Sebé, anche se in realtà eravamo noi a prenderci cura di lei.
Ma il compito infausto che le imponeva la madre la faceva sentire importante.
La bambina sorrideva davvero solo a Lurdes, sua dea, suo modello, sua fonte di vita. Senza di lei era una bimba seria e sempre col broncio.
No, non era per niente come sua madre. Aveva preso dal padre. La sua pelle più chiara e gli occhi bizzarri me lo ricordavano ogni giorno, e la sua mancanza di manifestazioni d’affetto avrebbero dovuto portarmi a provare solo antipatia verso quella creatura. Mia madre, al contrario, se la coccolava con cibo e carezze ed io osservavo senza la capacità d’esserne partecipe.
Un giorno, però, entrò nel mio ufficio.
Aveva sette anni.
«Che c’è?» le chiesi.
«Nonna Raquì dorme.»
«Ah.» Posai il libro. Mia madre cominciava a stancarsi presto, e l’energia tuonante di quand’era sveglia si traduceva in ore di riposo in cui a volte dormiva, a volte stava solo a letto a pensare. «Non disturbarla. Resta qui. Ma non disturbare me.»
Annuì semplicemente e mi lasciò lavorare. Dopo una decina di minuti mi accorsi che stava fissando una foto mia e di Anders. Era quella che ci era stata scattata a Parigi, quando avevamo recitato i voti.
«Che c’è, ragazzina?»
«Quello chi è?»
«Non sono fatti tuoi. E non mi piace che metti il naso in giro. Non si fa.» Dovevo mettere via quelle foto. Lurdes non aveva mai mostrato interesse per i miei ambienti, ma se lo faceva la sua ragazzina era un problema.
«Mhm… Questi libri qui.» E indicò la libreria. «Sono tutti pieni di numeri?»
Scossi la testa. «No… la maggior parte sono pieni di parole. Parole che non possono essere capite da una bambina piccola come te.»
Si mise a braccia conserte. «Perché? Mamma mi porta in biblioteca per leggere i libri di Geronimo Stilton e della Presença.»
«Non penso che tua madre ti faccia leggere libri di Filosofia.»
«Libri di cosa?»
«Hai già finito i compiti, ragazzina? Forza, prendi il quaderno di Matematica, vediamo che cosa posso fare per te.»
Risolvemmo i problemi che le erano stati assegnati con metodo e calma, aiutati da esempi di mele e penne. Era sveglia, lei, e studiare la appassionava. Per la prima volta mi ricordò me stesso e mi spaventai.
Così le volli bene;  non ci fu giorno triste che non si trasformò in giorno lieto, quando la piccola bussava alla nostra porta. Non sapevo se erano gli anni a far sopportare meglio la mancanza di Anders, la mia età che avanzava o il continuo impegno e la sfida a cui la ragazzina mi sottoponeva. Litigavamo sempre ed io finivo esausto o stancamente divertito. Solo in un caso stavamo tranquilli insieme: quando mangiavamo. Perché così stavamo zitti.
Passammo molti pomeriggi a studiare insieme, io e lei, mentre nonna Raquì dormiva di là. La ragazzina era appassionata di tante cose, ma spesso si perdeva nei suoi pensieri. La matematica la capiva, era sua, ma lei non l’amava.
Era certo che nessuno, dei miei cari più stretti, me l’avrebbe portata via.
Tuttavia era curiosa come Pandora: questo sarebbe stata la causa delle sue più grandi sofferenze e delle nostre.
Prima del disastro il sorriso affiorava spesso sul suo volto, e me ne compiacevo. Aveva da poco cominciato la scuola superiore.
«Quando la porti qui?»
«Chi?»
«La persona che ti fa tanto stare bene.»
Invece dello sguardo ostile che mi aspettavo mi sorrise ancora di più.
La portò il giorno dopo.
«Sebé, questa è la mia migliore amica. L’ho conosciuta il primo giorno di scuola.» La indicò con un gesto morbido della mano. «Viene dalla Danimarca. Copenaghen.»
«Godmorgen, signore.» La ragazzina, coi capelli biondo cenere che parvero aprirsi come ventagli al soffio di vento che venne dalla porta che sbatteva, fece una sorta di inchino. «Mi chiamo Adelaide Damgaard. Ma mi chiamano tutti Laide, qui.»
Adelaide? Laide? Damgaard? Troppe informazioni da ricevere tutte insieme, ed io sono un povero vecchio ormai…
«Damgaard…» mi trovai a sussurrare.
«Sì. È danese,» continuò la nostra piccola, come se non avessi capito.
«È chiaro, ragazzina.» Mi alzai e mi voltai, per nascondere l’agitazione, la gioia, il pianto in cui sarei scoppiato al ricordo di tutte le volte in cui il nome Adelaide Damgaard era scivolata sulla lingua di Anders. Ma certo… i suoi occhi, di un bel nocciola e piccoli, tondi: la stessa forma di quelli di Anders, la stessa forma e lo stesso colore di quelli di Vilhelm. Uguali a quelli della prima Adelaide Damgaard.
Vilhelm era tornato. Aveva avuto una figlia e le aveva dato un nome dolce, dolce come un ricordo.
 «Allora. Vi va di fare merenda? Succo? Latte? Un pezzo di torta? Gelato?» chiesi, veloce.
«Gelato,» decise la nostra ragazzina.
«E tu, Dedé?»
Mi morsi la lingua solo dopo che ebbi parlato. L’emozione e il sangue mi scorrevano in preda a un folle stordimento.
«Dedé?» fece eco Adelaide.
Ah, stupido vecchio che non sono altro… Dedé non c’è più da… da quanto?
«Oh, scusa. Mi capita di dare soprannomi. Non ti piace?» dissi, per riparare al danno.
«Mhm, sì,» fece lei. «Mi piace, professor Maior Horta.»
Le feci rimpinzare per bene e, quando stavano per andarsene, presi la nostra ragazzina in disparte. Aveva il polso sottile ed era più magra di com’era stata sua madre a quell’età.
«Puoi venire qui con la tua amica tutte la volte che vuoi. Non ti dimenticare di me.»
Inclinò la testa nel primo gesto di tenerezza che compì sotto i miei occhi. «Io che mi dimentico di te? Ma scherzi, Sebé?» E mi diede un bacio sulla guancia.
È impazzita!
«Non ti indignare, ragazzina. Hai l’età dell’amore, presto ti dimenticherai di molte cose. Ma ricordati di tornare… Tu ed anche Adelaide.»
***
Quando mia madre morì non erano ancora successe molte cose.
Aveva novantaquattro anni e dalla morte di Dedé aveva smesso di chiamare mio padre alle sedute del terreiro. La sacerdotessa del Macumba le preparò un letto di orchidee, begonie e anturii; spargendo incenso recitò preghiere con le lacrime che le rigavano le guance, le baciò la mano e infine fece il suo appello all’exù, presenza ignota e ambigua tra santi e beati, affinché Raquel Horta De Mello trovasse la sua pace nel regno dei defunti. Quando mi fu permesso d’avvicinarmi al suo capezzale, notai come la pelle un tempo scalfita dalle rughe apparisse liscissima. Lo era anche al tatto, quando le carezzai la guancia fredda.
«Madre mia,» mormorai. Feci incontrare le nostre fronti, febbre di vita e riposo di morte. Mi tornò alla mente quella mattina assurda, in cui mi ero svegliato e per la prima volta nella mia vita non avevo trovato la tavola apparecchiata per la colazione. Ah, nonna Raquì ancora dorme… avevo detto, ridendo un po’, e l’avevo chiamata come in tanti da tempo facevano: nonna Raquì? Dormi o sei sveglia a pensare? In un ultimo sforzo, parlai ancora. «Chissà se ti sei mai resa conto di quanto sei straordinaria.» Mi allontanai solo quando mi accorsi, sconvolto, che le mie lacrime le bagnavano il viso quieto.
Lurdes, accanto a me, si allontanò dalle braccia del marito e venne a piangere sulla mia spalla. Passarono minuti di tremolii e scossoni, poi il silenzio.
«Allora, finalmente hai finito di piangere?» le chiesi, e mi ricordai di quando era una bambina piagnucolona e vivace, che non conosceva le buone maniere e camminava con i pugnetti stretti alla gonna della sua cara nonna Raquì.
Lurdes sciolse di poco l’abbraccio per guardarmi, e questa volta la sua risposta fu diversa.
«No.»
Allora fui io ad abbracciarla forte; le accarezzai i ricci bellissimi, attento a non tirarglieli tra i nodi di quel dono della natura che avevo ricevuto anch’io. Io così bello, però, non ero mai stato, perché sono un uomo e la virilità sa poco dell'armonia delle donne.
«Mamma,» la richiamò la figlia. «Mi aiuti a sistemarle i fiori tra i capelli?»
Lurdes si asciugò gli occhi con la punta delle dita ed io rimasi sorpreso dalla sua ragazzina. Il dolore bruciava nei suoi occhi chiari, ma non piangeva. Era il ritratto della resistenza, e non sapevo se quella forza le nasceva dall’interno o dal ragazzo con gli occhi color ambra che l’aveva accompagnata. «Sì. Sì, tesoro mio.»
Mia madre, Raquel, nella profondità della terra; mio padre, Noè – tremenda ironia della sorte – negli abissi del mare: sperai che le loro anime riuscissero a trapassare gli elementi per incontrarsi una volta e per sempre.
La piansi per giorni.
Da dov’era, avrebbe accarezzato ancora anche i capelli di Anders?
Dopo Dedé e dopo mia madre, Lullu, la sua ragazzina e Adelaide sono state le mie bussole insieme alla mia unica occupazione: continuare a studiare per trovare una soluzione all’ipotesi di Riemann.
E ci sono quasi, lo giuro. Ci sono quasi.
Ma non posso farcela da solo, sono vecchio e il ricordo di Anders non è mai stato così vivido. Sento che presto la terra inghiottirà anche me e so già molto bene quale sarà il mio posto.
Mi serve qualcuno che continui il mio lavoro, in modo che tutti questi anni di studio non vadano perduti. Se sono fortunato potremo anche cominciare a lavorare insieme.
So chi è appena entra nella stanza. Ne ho incontrati tanti e ne incontrerò ancora tanti, ma in lui c’è qualcosa che mi tramortisce: sarà che ha la stessa età di Anders quando morì, la luce bruciante degli occhi che contrasta con la sua compostezza e la motivazione – a me sconosciuta – che l’ha portato qui, palpabile e vibrante, tra me, lui, e l’aria di questa stanza nell’università di Liverpool.
Quando lo scelgo, però, è già tardi.
So che sto per morire.
E lui è qui. Mi aspetto di leggere odio, nel suo sguardo. Per un ragazzo che non ha ancora trent’anni, quella che gli offrivo era l’opportunità della vita e della carriera.
Ma in lui c’è pietà. Una gentilezza ostinata di fronte alle brutture dell’esistenza, e così mi invade una profonda tristezza. Gli stringo la mano, per un attimo, in segno di scuse, e così ho il suo perdono.
Gli lascio tutto il mio sapere: me ne andrò senza un peso sul cuore e morirò volando, non affondando.
Non mi inghiottirà la terrà né il mare, ma mi abbraccerò all’aria e allora sentirò le carezze di Anders ad accogliermi, ovunque sia, ovunque finirò.
Ai limiti dell’infinito.
Anders sarà lì, con quell’abito blu notte, in un luogo che somiglia alla spiaggia del Copacabana nel 1966, mentre ci baciavamo nascosti in una stradina.
E scoprirò che la teoria dei limiti, applicata all’amore, è dimostrata.
               T'amerò come allora
qualche volta? Che colpa
ha mai questo mio cuore?
Se la nebbia svanisce,
quale nuova passione mi attende?
Sarà tranquilla e pura?
Potessero le mie mani
sfogliare la luna!

Federico García Lorca

 
 
Ciao a tutti! <3 *cerca di riprendersi*
In quest’ultima e terza parte abbiamo incontrato personaggi che saranno i protagonisti della storia – della long – che sto attualmente scrivendo, La Fenice di Rio, collegata alla serie de La volpe di Liverpool: in questa storia commistiono diversi generi, a partire dalla commedia fino a... non ve lo dico :') o meglio, lo scoprirete se leggerete <3. Certi particolari non sono approfonditi perché li vedrete sviluppati ne La fenice di Rio: la vita di Lurdes (Lurdes è la versione portoghese del nome Lourdes), il nome di sua figlia, chi ha sposato, l’amicizia con la giovane Adelaide Damgaard, il ruolo di queste bande criminali nella giovinezza della figlia di Lurdes e chi è il ragazzo a cui Sebé affida il suo sapere. Spero che questo racconto vi sia piaciuto e che abbia destato curiosità in voi, ma soprattutto spero di aver reso degnamente per questi personaggi la storia del loro amore, in primis quello di Sebé ed Anders e non meno importante quello di Raquel per il figlio e tutti coloro che lei considera figli e nipoti, anche senza legame di sangue, e l’amore che essi nutrono ed hanno nutrito per lei.
Questo racconto era stato pensato come lettura da proporre dopo l’intera pubblicazione de La fenice di Rio, da inserire in una raccolta di racconti sulla serie di long, (La volpe di Liverpool, Preludio alla Fenice e La fenice di Rio), a cui è attribuita: i racconti viaggeranno, come le long hanno in parte già fatto,  da Liverpool a Londra, da Londra a Dublino, da Dublino a Parigi e da Parigi a Rio de Janeiro.
Scrivendo questa storia ho imparato, in modo molto intenso, quanto ogni cosa che impariamo non sia mai inutile. Credevo, dopo la maturità classica, di aver abbandonato definitivamente la Matematica, e invece… :’)
Vi ringrazio di cuore per avermi dato fiducia, per aver letto e per esservi emozionati insieme a me. Per me questa è la cosa più conta.
Per questo ringrazio nuovamente tutti coloro che mi hanno lasciato le loro parole, i lettori che mi hanno mandato messaggi e commenti su facebook, i lettori silenziosi e le belle personcine che hanno inserito la storia tra le seguite, le ricordate e le preferite. Grazie a chi mi ha aiutato con le sue conoscenze. Grazie al maestro Ludovico Einaudi per il supporto musicale. Grazie alla grande amica a cui è dedicata questa storia. Grazie a chiunque sarà qui oggi, domani, tra un anno, tra tanto tempo. Grazie a chi c'è da quando ero piccola e grazie a chi è appena arrivato. Grazie a chi mi permetterà di sentire la sua voce. 
 
Al prossimo viaggio,
Ania <3
 
 
[1] Il Tamborim è uno strumento musicale a percussione della famiglia dei membranofoni.
Di piccole dimensioni e solitamente suonato solitamente con una bacchetta, è usato nel Samba e in altri generi di musica "Afro-brasiliana".
 

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