Girasoli nella tempesta

di piccolo_uragano_
(/viewuser.php?uid=815364)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Con dentro il cielo e l'inferno ***
Capitolo 2: *** bomba a orologeria ***
Capitolo 3: *** hai gli occhi felici ***
Capitolo 4: *** devi guardarti allo specchio ***
Capitolo 5: *** forse non volevo crescere ***
Capitolo 6: *** come e quanto ***
Capitolo 7: *** fino alla fine ***
Capitolo 8: *** il signor Destino ***
Capitolo 9: *** domanda da un milione di dollari ***



Capitolo 1
*** Con dentro il cielo e l'inferno ***


.
A mia madre,
che mi ha insegnato tutto ciò per cui devo essere grata.

Ad Alessandro e Giorgio,
il mio porto sicuro. 
A Claudia,
la mia persona, la mia Padfoot,
e non c'è bisogno di spiegare perchè o per cosa.





 
Girasoli nella tempesta – Capitolo uno: con dentro il cielo e l’inferno.
“Mamma?”
“Sì, tesoro?”
“Come lo hai conosciuto papà?”

“Sei … sei sicura di quello che stai facendo?”
Le parole di mia sorella mi risuonano in testo ogni volta che metto piede fuori casa.
“Insomma” aveva detto “a Seattle fa freddo!”
Il punto è che mia sorella non aveva mai capito che a me il freddo piaceva molto più del caldo.
Ecco perché amo il piccolo angolo di Seattle in cui sono capitata. Piove, fa freddo, la gente si fa i fatti suoi. Io sono solo la ragazza mezza italiana e mezza francese che vive in una casa mobile nel campeggio sul mare, a mezzo chilometro dall’ospedale. Niente di più. E va bene così.
Esco dal portone e mi metto il cappuccio. Non mi stancherò mai dell’odore della pioggia di prima mattina. Seattle accoglie questo lunedì con il suo solito colorito grigiastro e io sorrido. È bello essere dove nessuno si aspetta nulla da me.
“Non capisco perché tu te ne voglia andare.” Aveva aggiunto mia sorella.
Io avevo scosso la testa. “Non mi aspetto che tu capisca.”

Entro in ospedale, trovando già tutti indaffarati. L’ospedale è come una grande macchina, ognuno di noi è un pezzettino piccolo che fa funzionare tutto. Io, nel mio piccolo, cerco di fare il chirurgo. “Buongiorno!” mi saluta una delle infermiere.
Perché non riesco mai a ricordarmi i nomi della gente?
“Buongiorno a te.” Rispondo, sorridendo e levandomi l’impermeabile.
“Il primario ti ha chiesto di occuparti del pronto soccorso, oggi.” Mi annuncia.
Ah, ecco perché mi ha salutata.
“Nessuno problema, ehm …” mi infilo il camice bianco e guardo l’infermiera.
“Olivia.” Mi dice. “Mi chiamo Olivia.”
“Olivia!” ripeto. “Certo, lo sapevo. Volevo sapere solo se … se c’è già qualcuno di grave in pronto soccorso.”
Lei scuote la testa, muovendo i riccioli scuri. “Non sono nemmeno le otto del mattino.”
“Che specializzandi ho?”
“Grey e Stevens.”
“La Stevens?” chiedo. “Credevo fosse di Burke.”
“La Bailey chiede-“ prima che Olivia l’infermiera possa finire la frase, Miranda Bailey compare al bancone dell’ingresso dell’ospedale.
“La Bailey cosa?”
La guardo e sorrido. Mi diverte questa donna. Ha grinta. “Domandavo perché mi hai dato la Stevens, visto che credevo fosse fissa di cardio.”
Miranda fa segno all’infermiera di passarle le cartelle. “Credo che alla Stevens il paziente del trapianto di cardio piaccia troppo.” Mi dice, passandomi la cartella.
Io sorrido maliziosamente. “Quanto mi divertono questi specializzandi.” Leggo la cartella di Danny Duquette, notando che, dall’ultima volta, le cose sono peggiorate. “Poveretto.” Dico, leggendo che è in attesa di un trapianto cardiaco da quasi tre anni. “Perché Burke si ostina su quest’uomo?”
“Perché Burke crede troppo in sé stesso.” Risponde Miranda, mentre gli specializzandi ci raggiungono.  Io li guardo, uno ad uno. Non lo conosco bene, ma tutto sommato mi sembra di vedere dentro di loro dei futuri grandi medici e delle brave persone.
“Bene.” Dico. “Grey e Stevens, con me in pronto soccorso, grazie.”
La bionda Isobel Stevens mi guarda combattuta. “No, dottoressa, io sono su cardio.”
Meredith Grey, senza dire nulla, si avvicina a me. Mi assicuro che la Bailey si sia allontanata con gli altri tre e poi guardo la ragazza davanti a me. “Se corri veloce arrivi da Duquette prima del giro.” Le sussurro. Lei inizia a correre, e io mi meraviglio di quanto sia disposta a rischiare per un condannato a morte. “Stevens!” dico, girandomi e facendo la voce grossa. Lei si gira. “Ti voglio operativa in pronto soccorso tra dieci minuti.”
Lei sorride, sorride d’amore, annuisce e corre su per le scale.
La sua amica Meredith mi guarda e sorride. “Perché glielo ha lasciato fare?”
Io rispondo al sorriso. “Perché se lo meritano.”

“Dottoressa Martin?”
“Dottoressa Grey?” rispondo, girandomi verso di lei.
“In base a cosa crede che Izzie e il paziente di cardio se lo meritino?”
Io sorrido di nuovo, seduta dietro al bancone del pronto soccorso, con i piedi sulla scrivania e una biro a sfera che sto continuando a far scattare. “Perché tutti meritano una possibilità.”
“Izzie è il suo medico.”
“Io me ne sono sempre sbattuta delle regole, dottoressa Grey, soprattutto se mi impedivano di amare.” Rispondo nuovamente, sicura.
“E sulle seconde possibilità, che mi dice?” chiede di nuovo la ragazza.
L’hanno sentita tutti la storia della Grey mollata da Sheperd per tornare con la moglie adultera.
“Dico che Addison non se la meritava.” Scherzo. Lei sorride tristemente. “Indubbiamente è una brava persona, non sto dicendo questo. E non so molto sull’amore, ma so che tradire non è ammesso.”
Meredith scuote la testa. “Se le ha dato una seconda possibilità, forse significa che la ama.”
“O che è troppo orgoglioso per ammettere che il suo matrimonio è al capolinea.” Suona il telefono, e io alzo la cornetta senza smettere di cercare di decifrare l’espressione della Grey. “Sì?”
“Ambulanza in arrivo, dottoressa.”
“Okay, grazie.” Abbasso la cornetta. “Chiama la Stevens!”
Quanto mi diverto a fare la voce grossa.

Apro lo sportello dell’ambulanza, notando un uomo dai capelli scuri contorcersi sulla barella.
“Jack Barnes, ventisette anni, caduto dal tetto della casa. Contuso lungo tutto il lato destro del corpo con tagli e ustioni.” Comunica il paramedico.
“Ustioni?!” chiedo, stupita.
Mi risponde una voce calda e sensuale, accanto al mio nuovo paziente. “È caduto sulla griglia.” Alzo gli occhi verso di lui. Ha dei folti capelli neri che arrivano alle spalle, due giganteschi occhi scuri profondi e spaventati, labbra sottili e due larghe spalle possenti. È evidentemente preoccupato, ma riesce ad apparire calmo e freddo, mentre mi scruta. Io ho la netta impressione di averlo già visto da qualche parte.
“Sulla griglia!” rispondo, a mo’ di rimprovero, facendo del mio meglio per distogliere gli occhi da quell’uomo accanto a Jack Barnes. “Portatelo in trauma uno. Grey, dove è la Stevens?” chiedo, con aria furiosa.
“Non lo so.” Mi risponde lei.
“Dille che se non si presenta qui entro trenta secondo Danny Duquette lo ammazzo a mani nude. E vammi anche a prendere il kit di sutura e quello delle ustioni, per favore.” Poi guardo i paramedici, mentre mi metto i guanti sterili. Devono spostare Jack dalla barella al lettino. “Al mio tre.” Mi avvicino e prendo un lembo del lenzuolo. “Uno, due, tre!”
Mi avvicino al viso del paziente. “Oh, ma allora lei è sveglio, signor Barnes.” L’uomo mi guarda impaurito. “Come si sente?” domando di nuovo.
“Come se fossi caduto sulla griglia.” Mi risponde lui, cercando di sorridere.
L’uomo che mi aveva risposto prima si avvicina. “Sei un cretino, Jack.”
Jack ride ancora. “Sono tutto intero, almeno?”
“Così pare.” Rispondo, compilando i primi dati della cartella. “Si è solo un po’ ammaccato.” Aggiungo, decidendo di stare al gioco.
“Oh, le donne amano le cicatrici!”ironizza di nuovo lui.
Io scuoto la testa, sorridendo. “Molte di noi si.”  Inizio a guardare le varie ‘ammaccature’, individuando almeno due ustioni non troppo gravi e una serie di ferite profonde e contusioni. “Allora, signor Barnes …”
“Il signor Barnes è nostro padre, dottoressa.” Mi corregge lui. “Mi chiami tranquillamente Jack.”
Io sorrido di nuovo, mentre la Grey fa il suo ingresso con la Stevens. Guardo la bionda con rimprovero. “Bene, Stevens, non avrai il mio permesso di andare da Danny fino alla fine del turno.” La rimprovero. “E non dire alla Bailey che ti ci avevo mandato, o mi farà passare un brutto quarto d’ora che non merito, visto che non sai nemmeno rispettare gli orari!”
Lei abbassa la testa. “Mi scusi, dottoressa.”
Io annuisco. Non riesco ad essere cattiva per troppo tempo. “Okay, ora Jack, vorrei il tuo permesso per usarti come materia di studio per le mie specializzande. Non ti faranno del male.”
“Peggio di così?”
“Lei mi piace, Jack, ha la capacità di riderci sopra.” Sorrido, poi mi rivolgo di nuovo alle due ragazze. “Allora, quest’uomo non solo è caduto dal tetto, ma è pure caduto sulla griglia accesa.” I due uomini annuiscono. “Che cosa vedi, Stevens?”
“Contusioni, graffi, ustioni di secondo grado sul braccio e sul fianco destro.”
“E come procederesti?”
“Farei una tac, suturerei le ferite e tratterei le ustioni.”
“Perché una tac, Grey?”
“Per conoscere i danni interni.”
“Perfetto.” Rispondo. “Stevens, prenota la tac. Grey, aiutami con le ustioni.”
Girandomi, incrocio di nuovo lo sguardo impaurito di quell’uomo. “Starà bene, vero?” mi chiede.
“Oh, mi scusi. Io sono la dottoressa Martin. Lei è il fratello?”
Lui annuisce. “Ben.” Mi comunica. Ben Barnes. Perché non mi è nuovo? “Starà bene?” mi ripete.
“Come nuovo.” Lo rassicuro. “Intanto, se deve avvertire qualcuno, lo …”
“Oh, insomma, lo ha visto? È un donnaiolo, non abbiamo nessuno da avvertire!” Ben cerca di scherzare, ma non è abile quanto il fratello.
“Non gli dia retta, dottoressa. È colpa sua se sono un donnaiolo.” Risponde l’altro, mentre mi siedo e apro il kit delle ustioni. “Scusi, mi sfugge il suo nome.”
Sorrido. Il mio nome lo sanno in pochi, qui dentro. Forse perché nessuno me lo aveva mai chiesto. “Julie Martin.” Rispondo, certa che ogni persona in quella stanza stesse registrando l’informazione.
“Julie? Che nome è?” chiede di nuovo Jack.
“È francese, ignorante.” Replica l’altro, che sembra meno abile a ridere delle disgrazie.
“Oh, lei è francese?” chiede, interessato, e io sono sicura che lo faccia per ignorare il dolore della medicatura delle ustioni.
“I miei genitori lo sono. Io e le mie sorelle siamo nate e cresciute in Italia.”
“Oh, l’Italia! Io e Ben siamo stati lo scorso anno.” Cerca di girarsi verso suo fratello. “Non è vero, Ben?”
“Oh, si. Meravigliosa.” Ben non sembra molto interessato all’argomento. Se ne sta con le braccia muscolosa sul petto, mentre con una mano si copre il viso.
“Lei cosa ci fa qui, dottoressa Julie Martin?”
Lo guardo, sorridendo sotto i baffi. “Ci lavoro, no?”
“In Italia non hanno ospedali?”
In Italia ho perduto tutto, in Italia non avevo più carte da giocare, in Italia ho perso l’unico uomo che mi sia stato concesso di amare veramente, vorrei rispondere. “Jack, lei è mai stato innamorato?” chiedo, in risposta.
“Un paio di volte, e non mi  piaciuto.” Questa volta non riesce a nascondere una smorfia di dolore.
“Ecco, quindi sa che intendo quando dico che quando una storia finisce dopo tanto tempo per una cosa più grande di noi si ha il bisogno di ricominciare da zero?”
“Ricominciare da zero dall’altra parte del pianeta? Lei ha grinta, Julie.”
Io allargo il mio sorriso. “Può essere.”

Guardando nella tac di Jack Barnes, vedo una macchia che conosco troppo bene e che questo uomo non si merita. Scuoto la testa, indicando il punto sullo schermo con la biro. “Stevens, lo vedi questo?”
“Santa pace.” Mi dice lei, sconvolta.
“È un tumore?” mi chiede la Grey.
“È un tumore.” Confermo. “Ecco cosa odio di questo lavoro. Dare cattive notizie a chi non lo merita.”
“Quest’uomo è un donnaiolo, vive sui guadagni del fratello famoso. Sicura che non se lo meriti?”
Guardo la Stevens con aria di rimprovero. “Che importa come vivono?! Sono persone felici.” Alzo gli occhi al cielo. “Non importa se vivono sui guadagni del fratello.  Hanno meno di trent’anni, la possibilità di viaggiare e di essere felici. Il fatto che non si spacchino la schiena dovrebbe renderli meno felici?”
Izzie annuisce. “Chiedo scusa. Non ci avevo pensato.”
Io annuisco.
“Che tristezza.” Sussurra Meredith.
“Martin!” sento urlare dal corridoio.  Mi spingo più in là con la sedia e noto i capelli rossi di Addison Sheperd che si muovono fluenti verso di me. “Martin, è vero che hai Ben Barnes?!”
Io aggrotto la fronte. “Anche a te sembra di averlo già sentito, vero?”
Lei allarga le braccia, come se fosse ovvio. “Santo cielo! Ben Barnes!” Io continuo a guardarla senza capire. “Il principe Caspian di ‘Le cronache di Narnia’!”
“Oh!” esclamo, poggiandomi la mano sulla fronte. “Ecco dove lo avevo già visto! Le mie sorelle mi hanno fatto guardare quel film mille volte, tanto ne erano innamorate!”
“E avevano ragione!” esclama Addison. “Tu … non hai nessuno, vero?”
“Addison!” la richiamo.
“Facci un pensierino!” mi sprona lei.
“Oh, lo faccia!” la sostiene la Stevens.
Addison e Izzie mi guardano con due sorrisetti maliziosi. “Pensate alle vostre, di vite. Io sono sola per scelta.”
“Ma questo non vuol dir che tu non possa fare un pensierino su quell’uomo!” ripete Addison.
Alzo gli occhi al cielo. “Vado a dire a quell’uomo che suo fratello ha un tumore al pancreas.”
“E quindi dovranno rimanere qui ancora un bel po’!” replica Addison con lo stesso sorrisetto.
In piedi, sono alta quanto lei con i suoi tacchi a spillo. “Pensa a salvare il tuo matrimonio, piuttosto.” Esco, trionfante, e lei mi segue furiosa.
“Il mio matrimonio-“
“Sta andando a fare in culo, Addison. Ora scusa, vado a parlare con Ben e Jack.”

“Un … un tumore?”  Non avrei mai voluto vedere nei loro occhi tutto questo dolore.
“Mi dispiace davvero moltissimo. Ma lo posso operare, lo posso togliere quasi del tutto, e poi si tratterà solo di qualche seduta di chemio. Sarai come nuovo, Jack.” Gli poso una mano sulla spalla. “Hai la mia parola.”
Lui alza gli occhi, rivelandoli pieni di lacrime. “La tua parole, Julie?”
Lo fisso intensamente. Un chirurgo non dovrebbe mai promettere niente, ma so che quest’uomo starà bene.
E oggi mi sento di promettere anche se io nelle promesse non ci credo più.
 “La mia parola, Jack.” Lui afferra la mia mano, la stringe e si permette di scoppiare a piangere.
Prima che possa farlo io, Ben scatta in piedi e gli posa la fronte sulla sua. “Non fare brutti scherzi, fratello.”
Jack, arrivato ai singhiozzi, si appoggia alla spalla del fratello, e io rimango a guardare quei due fratelli abbracciarsi e fondersi. Per un attimo, sento pesare sullo stomaco la distanza di mezzo pianeta con la mia famiglia. Volto la testa, e mi guardo riflessa nella vetrata della porta principale dell’ospedale. Il camice bianco mi fa sembrare ancora più stanca, con la carnagione pallida e questi capelli biondi. La sola cosa che ho ereditato da mio padre sono due occhi azzurri, che, ora come ora, sono sottolineati da due pesanti occhiaie. Il naso sottile e le labbra carnose, le spalle sottili e quel metro e settantasei per cui mi hanno sempre consigliato di giocare a pallavolo. No, io ho sempre voluto salvare delle vite.
Ora anche Ben sta per piangere, e io rimango impietrita da come una maschera da duro possa essere tolta con così poco.
Scuoto la testa e mi avvio verso il bancone degli infermieri. Prendo la cartella e chiedo che Jack abbia una stanza molto luminosa.

“Gin tonic.” Dico a Joe.
“Chi devi dimenticare?” mi domanda lui, divertito.
“Una vita!”
Mi porge il mio bicchierino serale e io rimango a fissarlo.
 Bella vita, Julie, davvero bella la tua vita.
Con la coda dell’occhio, noto un’ombra occupare lo sgabello accanto al mio, sentendo odore di menta, di ospedale e shampoo. Incontro di nuovo quei due grandi occhi scuri gonfi e stanchi. “Buonasera dottoressa.” Mi dice, con lo stesso tono dolce e sensuale che mi ha colpita questa mattina. “Beve per dimenticare?”
“Bevo per brindare.” Rispondo, alzando il bicchierino.
Ben, lentamente, fa segno a Joe. “Un altro giro per me e Julie, per favore.” Prima che io possa protestare, lui sfoggia uno sguardo troppo sexy per permettermi di formulare una frase di senso compiuto. “Brindiamo, allora.”
Davanti a noi, tre gin tonic.
Davanti a me, l’uomo più bello che io abbia mai visto.
Alzo il mio bicchiere. “A Jack, direi.” Sorrido.
“A Jack.” Ripete. Senza prendere fiato, trangugia il gin tonic. “Posso ricordarti, dottoressa” esordisce poi “che un medico non dovrebbe mai fare promesse?”
“Non ho mai promesso nulla a nessuno, Ben Barnes.” Rispondo a testa alta. “Mai, nulla. Oggi ho dato la mia parola a tuo fratello perché è stato il primo paziente in tutta la mia carriera che meritasse veramente una mia promessa.”
Lui mi scruta. “Quanti anni hai, bionda?”
“Secondo te quanti anni ho?”
Lui mi squadra, e un brivido mi attraversa la schiena. “Ventotto.”
Io sorrido. “Acqua.”
“Di più o di meno?”
“Di più, di più.”
Lui sogghigna. “Trenta. Mi rifiuto di pensare che tu sia più vecchia di me.”
Sorrido, di nuovo. “Temo di non poter accettare il tuo rifiuto, Ben Barnes.”
“Dimmi quanti anni hai, Julie Martin.”
Io sospiro. “Trentatré.” Ammetto.
“Giuro che ne dimostri ventotto.”
“Anche tu, se ti consola.”
Lui sfiora il mio gin tonic per avvicinarmelo. “Devi ancora fare il tuo secondo giro.”
“Non farmi bere da sola!” protesto. “Joe, offro un altro gin tonic al mio amico Ben.” Joe annuisce e Ben sorride.
“Perché offri tu?”
“Perché tu non sei di Seattle.”
“Nemmeno tu, se è per questo.”
Scuoto la testa. “In effetti è vero, ma mi diverto a fare la padrona di casa.” Joe gli allunga il suo secondo gin tonic.
“A Seattle!” esclama Ben, alzando il bicchiere. Io alzo il mio e ripeto, bevendone il contenuto, certa che a farmi girare la testa non sia l’alcol, ma gli occhi di Ben.

“Ma davvero?”
Seduta fuori dalla mia casetta mobile, mia sorella, dall’altra parte del telefono, scoppia a ridere. La voce di mia sorella riesce ad essere dolce anche attraverso un telefono quasi scarico. “Non dirlo alla mamma, però. E nemmeno a Isabelle.” La rimprovero.
“Oh, io devo dirlo al mondo intero!” esclama lei, mentre io sento dei movimenti dietro di me. “Che ore sono lì?”
“Quasi mezzanotte.” Rispondo, alzandomi e andando a controllare la siepe, senza trovare nulla. “Ci sono dei rumori, qui.”
“Magari è un topo.” Ipotizza lei.
“No, santo cielo!” esclamo. “Oddio, no, che schifo!”
Mia sorella Nicole non riesce a smettere di ridere. “Salvi vite umane e hai paura di un topo?!”
“Gli umani che salvo io non hanno la coda, cazzo.”
“Però hanno fratelli sexy.” Contesta lei.
“Senti, non ti racconto più nulla, se fai così!”
“Oddio, no, ti prego. Voglio arrivare al punto in cui tu e il principe Caspian scappate insieme su un cavallo bianco!”
“Ecco, lo vedi? Sei una cretina!” rientro nella casetta, terrorizzata dall’idea del topo. “Che schifo, che schifo, che schifo!” esclamo.
“Devo andare a scuola, Julie.”
“Odio quel topo. Ciao, piccola, fai la brava.”
“Ciao, Julie. Ti voglio bene.” E attacca. Io guardo la foto sullo sfondo del telefono. Noi tre, abbracciate. Io sono la più grande, quella che è scappata in America. Sei anni più giovane di me c’è Isabelle, fotografa di successo, sposata con Marco, bancario pieno di ambizioni. Quando avevo quattordici anni è arrivata il miracolo: Nicole. Io e lei siamo sempre stata molto legate, e questo dava davvero fastidio a Isabelle. Frequenta l’ultimo anno del liceo scientifico, ed è la sola persona che mi manca tremendamente. Lancio il telefono sul tavolino, mentre mi sfilo la maglietta che ho tenuto sotto al camice e mi metto una vecchia maglia degli U2 che uso brutalmente come pigiama. Sfilo i pantaloni, rimanendo in mutande.
“Tanto non devo fare colpo su nessuno.” Borbotto. Tanto la maglia copre tutto. Tanto sono sola come un cane. E l’ho scelto io.
Fuori ricomincia a piovere, e io ormai non mi stupisco nemmeno più. Qui piove sempre, e non mi aspetto che sia diverso. Le stelle non si vedranno mai, il sole sarà sempre un miraggio e non potrò mai aspettarmi di andare in giro senza felpa.
Si soffre di meno se non ci si aspetta nulla.
Mi butto nel letto e crollo addormentata.

“Buongiorno Jack!” esclamo, entrando nella stanza del mio nuovo paziente. Jack è pallido, e ha attaccato al braccio una flebo, ma sorride.
“Buongiorno Julie!” risponde. “Dormito bene?”
Io gli faccio segno di aspettare, e mi giro verso i cinque specializzandi che mi stanno seguendo. “Chi espone il caso, dottori?”
Izzie si fa avanti. “Jack Barnes, ventisette anni, ricoverato ieri per ustioni e contusioni, sarà operato domani per la rimozione di un tumore al pancreas.”
Prima che io possa controbattere, sento due occhi che mi trapassano la nuca e dei brividi lungo la schiena. Lentamente, mi giro,trovando gli occhi di Ben già pronti a tuffarsi nei miei. “Buongiorno, dottoressa.” Sogghigna.
“Buongiorno, Ben.” Rispondo, inclinando leggermente la testa. È pallido e ha due occhiaie gigantesche, ma è ugualmente bellissimo.
Gli specializzandi seguono la Bailey verso la prossima, stanza, verso il prossimo caso. Io rimango a fissare Ben. “Posso chiederti dove hai dormito, Ben Barnes?” domando.
“Non chiedere e io non ti dirò bugie, Julie Martin.”
“Secondo me hai dormito in auto.” Ipotizza Jack. “O no hai dormito affatto.”
Io lo guardo con aria di rimprovero. “Hai dormito in auto?”
“Sai che bella, l’alba sul mare, Martin?”
Io lo incenerisco con lo sguardo. “Non voglio credere che tu non abbia i soldi per un albergo, Ben.”
“Forse non voglio che la gente sappia che sono qui?” replica saccente.
“Forse sei solo troppo orgoglioso per mostrarti vulnerabile.” Rispondo. Poi guardo Jack. “Di dove siete?”
“Di Londra.” Risponde lui. “Siamo a Seattle perché amiamo lo stato di Washington.”
“E quando avreste intenzione di tornare in patria?” domando, di nuovo.
“Mai.” Risponde Jack.
“Tra un’ora chiamo la mamma, sappilo.” Minaccia Ben, mentre io controllo la cartella. “Deve sapere di questa cosa.”
“Salterebbe sul primo aereo, non puoi farlo!” protesta Jack.
“Con tutto il rispetto, Jack, tuo fratello non potrà farti da badante in eterno, e vorrei che le chemio le facessi qui, così che io ti possa tenere d’occhio.” Mi intrometto. “E per quanto riguarda te” E picchietto la biro sul petto di Ben. “Devi trovare un posto dove stare. Il tetto dal quale sei caduto, Jack, che casa era?”
“Casa in affitto di nostra cugina Amy, che è ripartita per New York. Volevamo fare un barbecue ed invitare le due vicine prima di chiudere la casa e restituire le chiavi.”
Prima che io possa rispondere, Ben mi attacca nuovamente.
“Dove dovrei stare, scusa? Non posso andare in albergo.”
Scuoto la testa. “Non sei così famoso, Ben.” Contesto.
Lui sembra offeso. “E allora, dove dovrei stare, sentiamo: in una casetta mobile parcheggiata in un campeggio, forse?” è quasi come se sputasse, mentre parla, e il suo ego mi soffoca, mentre il suo atteggiamento mi da sui nervi, il suo bell’aspetto mi fa girare la testa e mi accorgo di tenere a lui già troppo.
“Come sai della mia casetta mobile?” chiedo in un sussurro.
Lui alza le spalle. “Non sono così famoso.” Incrocia le braccia sul petto. “Con chi parlavi al telefono ieri sera?”
Io gli sbatto istintivamente la cartella clinica sul braccio. “Tu mi hai seguita!” strillo. Jack scoppia a ridere.
“Non sei molto astuta, per essere un medico.”
“E che hai fatto? Mi hai guardata dormire attraverso la finestra?”
Sul suo viso appare un sorriso quasi divino, e io capisco di avere fatto centro. Esco dalla stanza con aria infuriata, sentendo i due scoppiare a ridere, e trovando Addison fuori dalla porta con gli occhiali sul naso che mi guarda cercando di non ridere.
“Non dire niente.” Le dico, probabilmente con Satana negli occhi.
Lei scuote la testa. “Non lo trovi estremamente sexy, però?”
Io decido di rispondere attaccando. “Pensavo prediligessi gli amici di tuo marito!”

Ben se ne sta in piedi, con le mani in tasca. I capelli corvini gli accarezzano il collo e sfiorano le spalle con delicatezza, mentre lui muove automaticamente i capo per non permettere ad un ciuffo ribelle di coprirli gli occhi. Sono così magici, quegli occhi. Scuri, profondi, come l’abisso dell’oceano. Portamento perfetto, spalle larghe e muscolose, t-shirt che mette in mostra i bicipiti, camminata regale. Fa avanti e indietro, lentamente, da dieci minuti, e non c’è infermiera che non si sia girata per guardarlo meglio, ma tutti i loro sguardi gli scivolano addosso, come se non esistessero.
Tutti, tranne uno. “Perché mi guardi?” domanda.
Io sorrido. “Perché mi va di guardarti.” Rispondo. E per precisare, io non lo stavo guardando. Io lo stavo ammirando.
Lui si avvicina a me, ma io sono ancora furiosa con lui. “Chi è il dottor Stranamore?” chiede, sorridendo.
Stamattina si rivolgeva a me come se fossi a malapena degna di vivere, e ora mi sorride. Quanto può essere lunatico?
“Perché me lo chiedi?” domando, socchiudendo gli occhi. “Pensavo mi odiassi.”
“Mi sono ricreduto. Alla fine, potresti quasi piacermi.”
Piego gli angoli della bocca e alzo le sopracciglia, in attesa che aggiunga altro.
“Quindi, chi è il dottor Stranamore?”
La sua voce è calda, dolce e sexy. Come lui. “Chi ti ha parlato del dottor Stranamore?”
“Le tue specializzande sono state dieci minuti al bancone degli infermieri a parlare di chi avrebbe fatto la craniotomia con Stranamore.”
Io scoppio a ridere. “Perché ti ostini a spiare la gente, Ben?”
Lui continua a sorridere. “Per capirla.” Risponde, serio.
Io sorrido sinceramente “Alla fine, potresti quasi piacermi.” Dico, ripetendo la sua frase.
Faccio per allontanarmi, ma lui mi richiama. “Julie!”  Io mi volto. “Trovo davvero dolce l’idea della casetta mobile.” Dice, abbassando il tono.
Io scuoto la testa. Non amo la parola ‘dolce’, soprattutto se abbinata a ‘davvero’, ma amo il modo in cui l’ha detta lui. Il modo in cui ha piegato le labbra in un sorriso seducente mi fa parlare ancora prima di pensare. “La casetta mobile ha due piccole stanze da letto, se non vuoi che la gente sappia dove sei, e io non ci sono quasi mai.”

Sorrido senza accorgermene, guardando la Volvo di Ben entrare nel parcheggio del campeggio, stonando accanto al mio vecchio pick-up scolorito. Avrei voluto sistemarmi in modo decente per accoglierlo, ma ho avuto a malapena il tempo di fare una doccia, e mi sono resa conto che non ho nulla di ‘carino’ nel mio piccolo armadio da sfoggiare. Così, mi sono infilata una vecchia maglia della nazionale italiana con i pantaloni di una tuta grigia, pensando che, in ogni caso, a quest’uomo non piacerò mai quanto lui piace a me.
Lui scende dalla macchina. Con una borsa da calcio in spalla e una felpa rossa, e io mi dimentico del freddo, del temporale in arrivo e anche dei capelli umidi nel momento in cui lui mi sorride. “Ciao, bionda.” Io sorrido e alzo la mano in segno di saluto. “Mi sa che ti devo ringraziare.” Dice, mentre ci avviamo verso la casetta. “Non eri tenuta ad ospitarmi.”
Mi fermo in veranda, sulla porta di vetro, con la mano sulla maniglia. “La parolina magica?”
Grazie, Julie.”
Sorrido e apro la porta. “Benvenuto nel mio mondo, Ben.”
Prima che lui possa replicare, lui osserva il portatile acceso sul tavolo. “Ti stanno chiamando in Skype, Martin.” Mi informa, appoggiando la borsa.
“Oh, ma tu i fatti tuoi non te li fai mai, vero?”
“No, mai.” Risponde ridendo. “Hai intenzione di rispondere a ‘Nikki’ o la lascerai ad attenderti in eterno?”
Io rido. “ ‘Nikki’ è mia sorella.” Mi siedo sul divanetto, e gli faccio segno di sedersi accanto a me. “E mi ha costretta a vedere ogni scena del principe Caspian almeno venti volte!” sussurro, come se fosse un crimine. È la prima volta che gli nomino un suo film – che è anche il solo che io abbia mai visto. “Quindi, ti va di farle uno scherzo e di risponderle tu?”
Lui sorride, si siede e preme con il mouse sul tasto verde.  Appena la webcam si apre, e mia sorella lo mette a fuoco, strilla.
Lui continua a sorridere. “Che piacere vederti, Nikki.” Esordisce. “Tua sorella è una vera rompiscatole.”
Lei pare sotto shock. “S-si, si, lo è. Ma … che ci fai nel suo computer?”
Il suo inglese impacciato e goffo mi fa ridere. Lui sfoggia uno sguardo da serial killer. “L’ho rapita!” sussurra.
Nicole non smette di ridere. “Oh, sweetheart, te la puoi anche tenere!” esclama lei. “Isabelle!” urla, poi. “Isabelle, vieni a vedere!”
Lui approfitta della sua temporanea distrazione per guardarmi. “Chi è Isabelle?”
“La sorella numero due.” Rispondo, alzando due dita come in segno di pace.
“Isabelle, c’è il principe Caspian in videochat!” Nicole sa quanto me che Isabelle correrà in camera della terzogenita come se fosse una questione di vita o di morte.
“Che cosa?!” sento dire da Isabelle, e poi la sento strillare quando guarda nel computer. “C’è scritto il nome di Julie!” esclama, poi.
Ben ruota leggermente il computer in modo da inquadrare anche me. Io, con il mal di pancia per le risate, la saluto con la mano.
“JULIE!” strilla lei. “Sei lì con Ben Barnes e la maglietta dei mondiali?!”
Ben scoppia a ridere. “Ne ho una simile pure io, Isabelle.” La tranquillizza. Poi, si gira di nuovo verso di me e mi guarda.
E il mondo si ferma, perché sta tutto nel suo sorriso.

“Perché non ti compri un appartamento?”
Ben sorseggia la sua birra, arrivandomi alle spalle, mentre rimango seduta in veranda ad ascoltare il rumore della pioggia. “Perché vorrebbe dire che vivo qui davvero.” Rispondo, rendendomi conto di non essere mai stata così sincera. Non lo guardo, sento che si sta sedendo accanto a me, e so che nota la sigaretta che si sta consumando tra le mie dita.
“I medici fumano?”
“Solo quelli che sono state anche ragazzine ribelli.” Di nuovo, più sincera che mai. Mi allunga la sua birra e io ne bevo un sorso.
“Gli attori bevono?” io gli allungo la sigaretta, e lui, noncurante, fa un tiro.
“Solo quelli che hanno appena passato un provino.” Risponde, sorridendo.
Io mi giro a guardarlo. “Stai scherzando?”
Lui prova a parlare per due volte. “Chiedimi per che ruolo mi hanno preso.” Sento che ha quasi paura nel pronunciare quelle parole.
“Per che ruolo ti hanno preso?” sussurro, dopo aver lasciato passare qualche secondo.
Dorian Gray.” Sussurra, come se non ci credesse.
Sono io a non crederci. “Dorian Gray? Il ritratto di Dorian Gray? Il mio libro preferito?”
Lui scoppia a ridere. “No, sweetheart. Il mio libro preferito.”
Scuoto la testa. Il ritratto di Dorian Gray mi ha accompagnata per tutta la mia adolescenza.
Ognuno di noi porta in sé stesso il cielo e l’Inferno.” Cito.
Viviamo in un’epoca in cui le cose superflue sono la nostra unica necessità.” Mi fa il verso lui. “Io preferivo questa.”
Faccio l’ultimo tiro con la sigaretta. “Si vede che non sai cosa significa vivere con dentro il cielo e l’inferno.” Spengo la cicca e la abbandono nel posacenere.
Per te, io rappresento-“
Tutti i peccati che non hai mai avuto il coraggio di commettere.” Concludo io.
Lui, lentamente, posa le sue mani pallide sul mio viso. Mi perdo nei suoi occhi, e mentre lentamente si avvicina, serro i miei per sentire il suo respiro sulla pelle. Posa, con fare incerto, le sue labbra sulle mie, fregandosene del sapore di sigaretta. Io schiudo le labbra, per lasciare che giochi con la mia lingua, mentre gli stringo i fianchi e cerco di ricordare ogni dettaglio. L’odore della pioggia, i suoi capelli tra le dita, i respiri che si affannano ed il mio cuore in gola, maledicendo il momento in cui, due anni fa, avevo giurato che non mi sarei mai più innamorata di nessuno.
Si stacca da me tanto velocemente che credo sia stato tutto un sogno, ma lo vedo entrare dentro casa e porgermi la mano, per aiutarmi ad alzarmi. Più che certa di essermi immaginata tutto, afferro la sua mano, ma prima ancora che io possa parlare, lui mi sta di nuovo baciando, con più foga e più passione. Io sorrido, mentre mi mette entrambe le mani sul sedere per sollevarmi come se non pesassi nulla. Allaccio le mie gambe e le mie braccia dietro la sua schiena, come un koala si attacca all’albero, mentre lui procede verso la mia stanza senza smettere di far roteare la lingua nella mia bocca.
Si siede ai piedi del letto, e prima di sdraiarsi e farmi stendere su di lui, tiro indietro il collo e lui lo riempie di piccoli baci quasi innocenti, prima di tornare alla bocca e … esitare.
“Non posso.” Sussurra.
Io non capisco. “Che cosa?”
“Non posso fare l’amore con te.”
Sbam. Mi alzo e lo guardo da lontano. Non baciavo una persona da così tanto tempo, che mi sembra di essere appena scesa dalle montagne russe. “Perché?”
“Perché mi piaci troppo.”

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** bomba a orologeria ***


 
Girasoli nella tempesta – Capitolo due: bomba a orologeria.
“Papà?”
“Sì, principessa?”
“Come hai fatto a conquistare la mamma?”

“No, ti prego!” esclama Jack. “Non ci credo che hai detto una cosa del genere!”
Io lo osservo.  Da bambino, mi divertiva il volto di mio fratello, perché era tremendamente simile al mio. Solo che i suoi capelli sono più chiari, i suoi occhi leggermente più piccoli e lui è più basso. Ora, lo guardo ridere del mio errore.  Seduto sul suo letto d’ospedale, guarda dolo mentre entrambi fingiamo di non essere preoccupati. Non sono nemmeno le cinque del mattino, e io sono corso qui per svegliarlo, perché lui, alla fine, è mio fratello ed il mio migliore amico.
“Non ti racconterò più nulla, Jack, se devi ridere di me.” Lo richiamo.
Lui alza le mani, come in segno di resa. “Chiedo perdono.” Cerca di non ridere, ma poi non riesce a trattenersi. Io lo mando a quel paese con una mano, mentre lo osservo ridere come se tutto questo fosse davvero divertente. “Perdonami, Ben, ti prego. Ma tu avevi tra le braccia la dottoressa sexy e lei hai detto ‘non posso fare l’amore con te perché mi piaci troppo’?! Ma cosa ti dice la testa, Benjamin?!”  Io rimango indispettito dal mio nome completo, ma lui ormai è un lavandino stappato. “Eri tu quello che avevi scritto ‘carpe diem’ sopra al letto, o sbaglio? No, perché forse mi confondo con qualcun altro. Non sei tu quello che predica giorno e notte a me e a chiunque ti capiti a tiro, che la vita è un dono, che è breve, che in un battito di ciglia sarà già finito tutto, che un giorno ti sei svegliato e avevi trent’anni ed eri solo?”
“Io non sono solo, Jack!”
“Oh, scusa.  Di quale storia di letto stiamo parlando?”
Alzo gli occhi al cielo. “Non hai capito, Jack.” Mi alzo e mi passo la mano nei capelli.
“L’ho capito, Ben, l’ho capito. Me lo ricordo, sai, me lo ricordo come stavi quando ti sei concesso di amare una donna. Ma sono passati quasi dieci anni. Tu sei cresciuto, si spera, e nulla dovrebbe impedirti di concederti di amare Julie.”
Tiro un pugno alla finestra, appena Jack pronuncia la parola ‘amare’. Mi accorgo che il vetro è doppio, antiproiettile, e che la mano mi fa male. ‘Amare Julie’. Amare una donna che conosco a malapena. ‘Amare’. Amare Julie. Eppure, sento che è una cosa che in qualche modo potrei fare.
“Lo sai perché lo hai fatto?”
“Perché sono un cretino?” dico, muovendo la mano nervosamente, mentre sento come un fuoco sotto la pelle.
“Si, e perché hai paura.” Mi risponde Jack, poi lo vedo fare un cenno. Immediatamente, la specializzanda bionda, Izzie, entra nella stanza. “Mi scusi, dottoressa, ma io ho un fratello cretino.” Esordisce mio fratello.
“Non ti preoccupare, Izzie.” Dico io. “Non sono io il fratello cretino, qui.”
La bionda sorride. “Posso vedere la tua mano, Ben?” mi chiede, indicando con la sua mano da chirurgo la mia mano livida. Io incenerisco Jack con lo sguardo, e poso la mia mano su quella della bionda.
Lei scuote la testa. “Cosa ti ha fatto scattare in questo modo?”
“La parola ‘amare’.” Risponde subito Jack.
Stronzo. “Questa me la paghi, Jack Barnes.” Dico.
Izzie ci fa segno di fermarci. “Calmi.” Si allontana dalla mia mano e mi fissa intensamente con due grandi occhi castani. “Immagino che Julie non dovrà saperlo, vero?” mi domanda.
“Non m’importa di ciò che pensa Julie.” Replico, secco.
Lei annuisce. “Vado a prendere le garze.” Dice, uscendo.
Quando svolta l’angolo, io mi giro verso Jack. “Era necessario?”
“Julie penserà che hai fatto a botte, se non la trova medicata.”
“E che ti frega di Julie?!”
Julie è la donna che fra poche ore metterà le mani nelle mie budella.”
Io allargo le braccia. “Ecco, ecco perché mi sono dovuto fermare.”
“Oh, perché averla portata in camera da letto e poi essersi tirato indietro, non aggraverà la mia situazione?”
Jack fissa un punto dietro di me. La specializzanda bionda, sulla porta, sogghigna.
“Dottoressa Stevens!” esclama Jack. “Che sa dirci della dottoressa Martin?”
Io porgo la mano dolorante e alzo gli occhi al cielo. La bionda sembra pensarci su.
“È un ottimo medico, e anche una bravissima persona. Tenace, comprensiva, astuta. Vive qui da un paio di anni. Si è trasferita dopo aver lasciato suo marito, in Italia.”
Ci sono dettagli di Julie Martin che il mondo non nota. Il segno di un anello portato troppo a lungo sull’anulare sinistro, il neo dietro l’orecchio, un tatuaggio sul polso. Il suo modo di piegare gli angoli della bocca quando si imbarazza, e come con l’indice si gratti il pollice quando sta pensando.
Jack spalanca la bocca. “Marito?”
La bionda annuisce. “Marito.” Mi mette sulla mano (che sta diventando viola) una crema trasparente. “Di tutti gli strutturati, è quella che a noi specializzandi piace di più. Ci capisce e ci aiuta, senza smettere di essere l’insegnante che deve essere.” Applica una fascia attorno alla mano, senza stringere troppo. “Quindi, se dovesse arrivare di cattivo umore, ti verremo a cercare, Ben Barnes.” Fissa la garza e mi fissa con odio. “Devi cambiarla tra dodici ore.” Comunica, e poi se ne va.  Io sorrido e scuoto la testa, guardando Jack.
“Secondo me, la rossa è più informata. Mi sembrano molto amiche.”
“Mi hanno preso per Dorian Gray.” Comunico, come se non avesse importanza.

Julie entra in camera di Jack, seguita dai soliti cinque ragazzi e dalla donna bassa e di colore, che, da quel che ho capito, è il capo dei cinque ragazzi. Noto che Julie è la sola ad indossare la tuta blu sotto al camice, mentre gli altri ne usano una azzurrina. Julie sembra stanca, come se non avesse dormito.
Quando sono uscito dalla camera da letto, sono andato in bagno e mi sono fatto una doccia ghiacciata. Quando sono uscito dal piccolo bagno, deciso a scusarmi, lei era stesa sotto le coperte del suo letto. Ho notato dal suo respiro irregolare che non stava dormendo, ma mi dava le spalle e io non riuscivo a mettere insieme una frase di senso compiuto. Allora ho preso una felpa, il telefono, e sono uscito dalla casetta mobile. Ho trovato il bar di ‘Joe’, come lo aveva chiamato lei, aperto ma quasi deserto, e mi sono seduto dove era seduta lei due giorni fa. Ho chiesto a ‘Joe’ una birra, mentre lui mi ha chiesto perché non fossi a casa a dormire alle tre di notte. Io ho preso la scusa del get lag e lui ha sorriso. Ho preso la mia birra, e sono venuto qui, pensando a quando Julie mi ha detto che a Seattle piove sempre.
Stamattina, a Seattle c’è il sole. È Julie ad essere spenta.
“Jack Barnes, ventisette anni, verrà operato oggi per un …” le parole della specializzanda con i capelli scuri sono vane. Io sono concentrato sullo sguardo perso di Julie.
“Come stai, Jack?” gli domanda, avvicinandosi.
“Benissimo, bella. Ho solo voglia di togliermi questo tumore!” esclama lui.
Lei sorride tristemente, abbassando lo sguardo. “Bene. Ti verrò a prendere alle dieci.”
“Julie, non è che potrei mangiare, vero?” chiede, come un bambino che chiede le caramelle.
“Ti hanno già detto di no in tre, Jack.” Lo rimprovero io.
Per la prima volta, Julie mi guarda. Non sembra arrabbiata, rancorosa o triste. È solo spenta. Poi si gira di nuovo verso Jack. “No.” dice, annotando qualcosa su quella che deve essere la sua cartella clinica. “E con questo fanno quattro no. Dai retta a tuo fratello, qualche volta qualcosa di giusto lo dice.” Chiude la cartella, rivolge a me e Jack un sorriso finto, forzato e schifoso, e se ne va prima che io possa dire qualcosa.
Guardo mio fratello ridere di nuovo. “Difendi il tuo onore, Benjamin!” dice.
“Come?”
“Segui l’istinto.” Mi sussurra lui.
Io, facendo la prima cosa che mi capita per la testa, esco di corsa dalla stanza. Guardo a destra e a sinistra, e la trovo a parlare con il capo dei camici azzurri e un paio di altri camici blu, tutti la ascoltano e lei annota qualcosa.
Qualche volta qualcosa di giusto lo dice?” chiedo, scoprendomi più furioso di quanto volessi.
Lei nemmeno mi guarda. “Sto lavorando, Ben.” Dice, fredda.
“Io sono il solo familiare del tuo paziente. Sei moralmente obbligata ad ascoltarmi.”
“Non ho nessun obbligo verso di te.” Alza lo sguardo verso le persone con cui stava parlando. “Allora io prendo la Stevens?”
“Sì.” Conferma un uomo alto, muscoloso e di colore. “Domani però mi serve in cardio.”
“Tu lo sai che quella ragazza si sta innamorando di quella bomba a orologeria, vero, Burke?” chiede Julie.
Bomba a orologeria?” risponde l’uomo, incrociando le braccia sul petto. “Rinominiamo così i pazienti, ora?”
“Era per farti capire, diamine. Conosco quell’uomo.” Replica Julie, spazientita.
“Bomba a orologeria!” esclama lui, di nuovo.
“No, no, calmatevi.” Li ferma la rossa. “Julie, stai sfogando su Danny Duquette e la Stevens una cosa che non c’entra niente.”
“Io non sto sfogando proprio nulla.” Le risponde Julie secca.
“Meglio avere pazienti che sono bombe ad orologeria che farsela con i familiari dei pazienti, Martin.”
Ma questo come si permette? Perché parla di me come se io non ci fossi?
“Io almeno non metto incinta nessuna specializzanda, Burke.”
“Non avresti con che farlo, tu.”
“Il fatto che io non abbia un pene per te significa che io non abbia le palle, vero?” allarga le braccia e alza gli occhi al cielo. “Quanto sei indietro, Burke, cazzo.” E si allontana con passo deciso, mentre Burke e la rossa mi fissano.
“Farai meglio a rimediare, Ben Barnes.” Mi dice la rossa, prima di puntare l’indice sul petto di Burke. “Che bisogno avevi di rispondere all’attacco, tu? Non lo hai visto il vuoto che ha negli occhi, oggi?”

Ritrovo Julie pochi minuti dopo, mentre studia una lavagna gigantesca, accanto alle scale, piena di colonne e righe con parole come ‘craniotomia’ , ‘laparoscopia’ e ‘trapianto’.
“Mi dispiace che tu abbia sentito me e Burke.” Dice subito lei, senza voltarsi a guardarmi.
“Quale specializzanda aveva messo incinta?” domando, fingendomi interessato.
“Quella con gli occhi a mandorla e i riccioli scuri.” Poi scuote la testa. “Posso sapere che ti sei fatto alla mano?”
Io sorrido. Mi ha guardato negli occhi solo una volta, oggi, venti minuti fa, eppure è riuscita a notare la mano fasciata. “Ha importanza?”
“Voglio solo sapere se le hai anche prese.”
Tocca a me scuotere la testa. “La finestra non ha contrattaccato.”  Comunico.
E lei, finalmente, mi guarda. “Benjamin Barnes.” Mi richiama.
“Te lo ha detto Jack, il nome completo?” chiedo, fingendomi offeso.
Lei accenna un sorriso. “Sei inglese. Gli inglesi hanno questa passione per i nomi lunghi e noiosi.”
“Non ti piacciono gli inglesi?”
“No, no, amo l’Inghilterra.”
“Allora perché a Seattle?”
“Perché l’Inghilterra era troppo vicina.” Risponde, e mi sembra sincera.
“Da cosa sei scappata?”
Lei perde il sorriso. “Dalle aspettative della gente.”
“Riguardo al tuo matrimonio?”
Lei mi scruta. “Come …?”
“Hai il segno bianco dell’anello.” Rispondo subito.
Lei sospira. “Beh, è una storia lunga.”
Osservo il suo profilo, stupendomi come la prima volta della su bellezza semplice. “Io ho tempo.”
“Io no.” risponde, ridendo. Per la prima volta, oggi, ride davvero. “Devo mettere il bisturi magico nella pancia di Jack.”
Io non smetto di guardarla. “Julie, ti devo delle scuse.” Esordisco.
“Non le voglio le tue scuse, Benjamin Barnes.”
“Thomas.” Aggiungo.
“Come?”
“Benjamin Thomas Barnes, se vuoi chiamarmi come mi chiama mia madre quando sono nei guai.”
“Benjamin Thomas Barnes.” Ripete lei. “Non voglio le tue scuse.”
“Quindi non sei arrabbiata con me, Julie?”
“Certo che sono arrabbiata con te, Ben.”
“E allora perché non vuoi le mie scuse?”
“Perché chi si scusa senza essere accusato, fa palese il suo peccato.”
Io scuoto la testa. “Questa dove l’hai presa?”
Julie alza le sopracciglia. “Mia nonna. Questa è un citazione di mia nonna Julie.”
“Porti il nome di tua nonna?”
Lei mi guarda scettica. “Scommetto cinque dollari che Benjamin era il nome di tuo nonno, e che Thomas è il nome di tuo padre.” Prima che io possa chiederle come fa a saperlo, lei fa spallucce. “Sei inglese.” Si giustifica. “Sei prevedibile.”  Poi si allontana dalla lavagna piena di righe e colonne, e io la seguo con le mani in tasca.
“Dove andiamo?” chiedo.
“Dalla Stevens.”
“Perché dalla Stevens?”
“Per la tua mano.”
“Come sai che me l’ha medicata lei?”
“Lei era di turno, stanotte.” Fa capolino in una stanza con le pareti di vetro, trovando la bionda seduta sul letto, che si alza di scatto.  “No, Izzie, non preoccuparti.” Dice, con aria cordiale. Poi entra, mentre la Stevens si risiede sul letto. “Ciao Danny, come stai oggi?”
L’uomo muscoloso seduto sul letto le sorride. “Se mi lasci Izzie, Julie, starò sempre meglio.” Poi lui pare accorgersi di me. “Tu sei il principe Caspian, vero?”
Io sorrido. “Lontano da Narnia sono solo Ben.” Rispondo.
Lui mi sorride, poi guarda Julie. “Il tuo amico è simpatico. Perché non me lo porti più spesso?”
“Appunto, Danny. Oggi devo chiederti un favore, ma prima, vorrei che Izzie” e indicò la bionda “confermasse che questo cretino ha preso a pugni una finestra.”
Izzie sorride. “Confermo, dottoressa. Ma che vuole da Danny?”
“Un po’ di sangue? Pipì? Esame sotto sforzo?” scherza lui.
Julie scuote la testa, e mi fa segno di avvicinarmi a lei. Io la guardo incerto. “Oggi io e Izzie dobbiamo operare il fratellino di Caspian.” Scherza. “Vorrei che tu lo tenessi qui con te, per la durata dell’operazione, e che ti assicurassi che telefoni a sua madre.”
Io mi porto la mano alla fronte. “Non ho detto a mia madre che operano Jack!” esclamo.
Lei mi indica. “Te l’ho già detto tre volte, Ben. Sei inglese, sei prevedibile.”
Io, istintivamente, le bacio una tempia, stringendole i fianchi. Lei risponde all’abbraccio mentre Izzie e l’uomo parlano del fatto che io sia inglese.
Julie lo guarda. “Danny, pensi di poter badare al mio inglese prevedibile per qualche ora?”
Lui finge di cercare qualcosa. “Oh, aspetta, aspetta Julie, devo controllare quanti impegni ho oggi!”
Io e Julie ridiamo, ma abbasso lo sguardo quando mi rendo conto che era lui la bomba a orologeria di cui parlavano lei e ‘Burke’ poco fa.

Jack non fa più niente per nascondere di essere agitato. Si guarda attorno e non riesce a tenere le gambe ferme.
“Calmati, cazzo.” Gli dico.
“Ti stanno per aprire in due, Ben?”
“No.”
“Allora non dirmi di stare calmo!”
“Non accadrà nulla.”
Prima che lui possa ribattere, Julie, il capo dei camici azzurri e Izzie Stevens entrano nella stanza. “Allora, Jack, siamo pronti?” domanda Julie.
“Ci sono possibilità che vada male, dottoressa Martin?” domanda Jack.
“Alcune.” Ammette lei.
“E se muoio?”
“Non nella mia sala operatoria, Barnes.” Replica lei, con un tono freddo.
“Jack” gli dico io. “se muori ti ammazzo.” Scherzo, riuscendo a strappare un sorriso a tutti quanti. “Quando sarai là dentro, chiamerò la mamma.”
“Così se muoio ti ammazza a te.”
Julie alza le protezioni del letto, mentre lo incenerisce con lo sguardo. “Non so se hai capito, Jackson.”
Lui arriccia il naso e mi guarda. Io alzo le spalle. “Non gliel’ho detto io. Siamo inglesi, siamo prevedibili.”
La sento sorridere mentre inizia a muovere il letto di Jack verso la porta. “Non morirai sotto al mio bisturi, idiota. Non te lo permetterò.”
“Ah, ti avverto, la mamma vorrà che chiami anche Iris.” Lo allarmo.
“Iris non deve sapere del tumore!”
“Le donne amano i tumori.” Replico, mentre attraversiamo il corridoio.
“Non voglio che lo sappia.” Replica lui in modo categorico.
“Potrebbe ricredersi.”  Azzardo.
Julie mi guarda, sorride, e probabilmente non si rende conto di essere così bella. Io scuoto la testa, mentre con lo sguardo mi chiede di Iris. Abbiamo tempo, penso, abbiamo tempo. In qualche modo, troveremo il tempo per raccontarci chi siamo.

Scopro due carte del memory, mentre Danny alza gli occhi al cielo e ride. Le ho azzeccate di nuovo.
“Ma come fai?” domanda.
“La memoria è il mio lavoro, Danny.”
“Facile, troppo facile così.” Sbuffa lui. “Scommetto che a Scarabeo ti batto, però.”
“Scommetto di no.” replico, riordinando le carte del memory. “Tu e Izzie vi conoscevate anche prima che tu fossi bloccato qui?”
Lui scuote la testa. “No, no. Prima venivo qui per dei controlli, due volte a settimana. Burke mi segue da anni. Poi questo stupido cuore ci è indebolito ancora di più, e sono stato portato qua subito. Sono arrivato qui, e la mattina dopo è apparsa lei. Come … come un angelo.” Io accenno un sorriso. “Tu non credi nell’amore, vero, Ben?”
“No, non ci credo.” Rispondo, alzandomi e prendendo la scatola di Scarabeo.
“Sei stato ferito?”
“Possiamo dire di sì.” Tengo il tono basso. Ma per la prima volta, dopo più di nove anni, parlare di lei non mi fa così male. È un ricordo caldo, è un ricordo dolce. Alzo gli occhi e incontro quelli castani e comprensivi di Danny. “Stavamo insieme dal secondo anno di liceo, circa. Sai, quando … quando hai sedici anni e hai il mondo in tasca? Ecco, in quel periodo della mia vita, mi sono innamorato come un coglione. Passavo il mio tempo con lei, ogni minuto, e poi la riaccompagnavo a casa prima di cena, perché i suoi ci tenevano. Andavo al corso di teatro e poi passavo sotto casa sua, sotto casa di Anne, di proposito, per controllare che la  luce della sua stanza fosse spenta. Siamo andati avanti così fino al diploma, crescendo insieme, mano nella mano. Io ho iniziato a studiare Letteratura Inglese e Arte Drammatica, lei studiava Storia, lei amava la storia.” Sistemo il tabellone e le lettere. “Un giorno, nove anni e otto mesi fa, era il ventesimo compleanno di Iris, la sua più cara amica, e lei aveva appena preso la macchina. Mi disse che sarebbe passata a prendermi, lei, era così entusiasta di quella macchina. Mi siedo in salotto, con mio padre, davanti alla televisione, e aspetto. Quando Anne ormai era in ritardo di un quarto d’ora, il telefono di casa mia squilla. Io rispondo, senza pensarci, e la voce di un uomo dall’altra parte mi dice che Anne ha fatto un incidente con la macchina, a trecento metri da casa mia. Un coglione le ha tagliato la strada, e lei … lei è morta sul colpo.”
Guardo Danny, trovando un ottimo ascoltatore. Guardo Danny, sommerso dalle mie parole, e mi rendo conto che Anne non fa più male. Anne è solo un gran bel ricordo.
“E poi?” domanda lui.
“Poi cosa?”
“Lei è morta. Ma tu no.”
“Ho avuto altre donne, ovviamente. Parecchie altre donne. Alcune di loro hanno anche avuto la pretesa di essere importanti, di essere qualcosa di più, ma mai nessuna lo è stata davvero. Mai nessuna mi ha toccato l’anima … come Julie.”
Danny sorride. “Tu e Julie siete come due pezzi dello stesso puzzle, alla fine.”
“Perché dici questo?”
“Beh …” inizia a giocare con le letterine di legno. “Non sta a me raccontarti la sua storia, temo. Ma le vostre vite sono molto simili, perché l’amore – si, io ci credo – è stato bastardo con voi. Ed è per questo che vi appartenente, ed è per questo che ti ha toccato l’anima.” Danny sistema le lettere sul tabellone, mentre io osservo la parola che ha formato. Destino.

“Dì alla mamma che la chiamo appena so qualcosa, papà.”
“Sì, Benjamin, ma tua madre è arrabbiata perché non …”
“Perché non le ho detto subito cosa era successo, sì.”
“Te lo avevo già detto, vero?”
“Sì, papà, mezz’ora fa. E io ti ho detto che è giusto così.”
“Ma i medici che lo stanno operando, sono bravi?”
Sorrido. Oh, papà se solo tu potessi conoscerla, le metteresti in mano il mondo intero. “Sì, persone molto brave.”
“E non sai niente, niente di niente?”
“Te l’ho detto. La dottoressa arriva ogni ora a dirci come sta andando.”
“E come sta andando?”
“Bene, papà, bene.” Alzo gli occhi al cielo, e senza troppi complimenti lo saluto. Poi guardo Danny. “Ricordami di non diventare mai un padre così.”
“Io sono scappato, dal mio ‘padre così’.”
Mi siedo ai piedi del letto e lo guardo. “Tocca a te.” Dico. E lui capisce che non parlo solo dello Scarabeo, ma anche che tocca a lui raccontarmi la sua storia.
“Ho scoperto di essere malato più o meno dieci anni fa. Per i primi anni ho deciso di curarmi in Irlanda, a casa, perché i miei non si preoccupassero troppo, mentre i medici mi parlavano di fantastici ospedali americani in cui mi avrebbero salvato. Dopo tre anni di ricoveri, flebo, notti bianche e pianti di mia madre, ho chiesto al mio medici di darmi il nome del miglior cardiochirurgo americano.”
“E lui ti ha dato il nome di Burke.” Concludo, componendo la parola viaggiare.
“Lui mi ha dato il nome di Burke. Ho lasciato una lettera ai miei, e ho detto che sarebbe stato meglio se non mi avessero guardato morire. Sono venuto qui, ho trovato un monolocale in affitto per fare avanti e indietro dall’ospedale, portandomi tutti i risparmi dell’irlandese benestante che ero stato. Poi mi sono aggravato, ed ora … eccomi qui. Attaccato ad una pompa in attesa che qualcuno muoia e mi doni il suo cuore.”
“Sei in attesa di un cuore?” domando. “Julie non me lo aveva detto.”
“Sono in attesa che qualcuno muoia. Dimmi, Ben, credi che questo sia vivere?” 
Guardo le lettere che ho davanti. Ne prendo due, e scrivo no sul tabellone. “Però hai Izzie.”
“Però ho Izzie.” Lui usa la o del mio no per scrivere amore. “E se dovessi uscire vivo di qui, mi basterà lei per essere felice.”
“Perché non le chiedi di sposarti?” azzardo.
“Come?”
“Tu credi nell’amore, Danny. Credi in tutte queste cose belle, l’amore, il destino, e cose così. Vivi in attesa che qualcuno muoia, e siccome potrebbe volerci del tempo, perché non cogli la palla al balzo e non le chiedi di sposarti?”
“Perché poi l’infarto verrebbe a lei.” Ride lui, in risposta.
“Hai una donna che ti ama, Danny.”
“Sono un uomo fortunato.” Conclude lui.
Qualcuno picchia sulla porta, e Julie, che indossa una cuffia con delle nuvolette e sembra esausta, mi guarda e sorride.
“Sono passate solo quattro ore.” Sussurro.
Lei alza le spalle. “Mi sono bastate.” Si leva la cuffia e libera i capelli biondi. “L’ho tolto tutto, Ben. Non so come ho fatto, non mi era mai successo.”
Io vengo invaso da una ondata di felicità e la prendo per i fianchi, la sollevo da terra e giriamo insieme per la stanza, mentre lei si aggrappa a me.  La poso a terra mentre lei ancora ride, e le passo un braccio dietro il collo, trovandolo sudato e probabilmente stanco. Le bacio nuovamente la tempia, più volte.
“Sei un angelo, Julie.” Sussurro.
Lei alza le sopracciglia. “Come no.” ironizza. “Ad ogni modo, vorrei lo stesso che facesse le sedute di chemio che sono richieste, qui, sotto la mia supervisione.”
“Certo.” le dico. “Non accetterebbe di farsi curare da qualcuno di diverso da te.”
Lei sorride e mi posa una mano sul braccio. “Si sveglierà tra meno di un’ora.” Poi si rivolge a Danny. “Ho dato a Izzie il permesso di richiudere, Danny. Arriverà presto.”
Lui le sorride. “Grazie, sweetheart.”
Julie entra nella stanza di Jack, che dorme ancora beato. Mi sorride, con aria dolce, mentre controlla il flusso della flebo. “Hai chiamato tua madre?” mi domanda. Si sfila lo stetoscopio che tiene al collo, per infilarlo come deve e auscultare il cuore di mio fratello.
“Sì.” Rispondo. Seduto su questa poltrona, con le gambe incrociate sul petto, la ammiro, illuminata dalla luce del sole che a Seattle non c’è mai.
“E che ti ha detto?” chiede ancora, mentre sposta quell’aggeggio.
“Che avrei dovuto dirglielo prima.” Ammetto.
“E io, io che ti avevo detto?”
“Siamo inglesi, Julie. Siamo prevedibili.”
Lei sorride, rimettendosi lo stetoscopio al collo, infilando le mani nella tasca del camice, e guardandomi con quegli occhi che hanno il colore del cielo che solo oggi c’è su Seattle.
“Julie, Danny … è Danny, la ‘bomba a orologeria’, vero?”
Lei si morde un labbro, e annuisce con aria amareggiata.
“Quindi Danny morirà presto?” domando, triste.
“Dipende.” Incrocia le braccia sul petto.
“Da cosa?”
“Dalla valvola, dall’aorta, dal suo cuore, e dal cuore che deve arrivare.”
“Danny non si merita di morire.”
Lei fissa un punto, dietro di me, lontano dal mondo. “Non se lo meritano mai.”
“Perché me lo hai fatto conoscere, se sai che morirà?”
“Perché dovresti rinunciare alla vita, se questa comporta la morte?”
Rimango qualche secondo a cercare una buona risposta, e mi rendo conto che non esiste una risposta. Forse è una di quelle domande che si pone ogni medico, o forse è solo una domanda che mi ha appena posto lei, o magari questa domanda lei se la pone da tutta la vita, ed è per questo che è diventata un medico. Forse, magari. Le cose che non so di lei improvvisamente mi pesano.
“Julie Martin?”
Lei sorride. “Dimmi.”
“Usciresti con me?”
Inclina leggermente la testa, mentre studia la mia espressione. “Perché dovrei farlo?”
Faccio spallucce. “Perché io ho finito le ragioni per non farlo.”

 
Ciao, persone :3 
Ho pubblicato entrambi i capitoli oggi, mentre lavoro sul terzo, perchè tenevo molto al fatto che capiste subito i caratteri dei nostri personaggi. 
Ben tende ad essere più riflessivo, a notare i dettagli, mentre Julie è impulsiva, e spesso non pensa prima di parlare. 
Ringrazio Nadie e vivis_ per avermi spronata a scrivere questa storia, ancora prima di conoscermi. 
Ah, si. L'ultima battuta, non è farina del mio sacco. L'ho liberamente rubata a 'The Holiday', che sarebbe, per inciso, il mio film preferito. Spero che Jude Law sarà in grado di perdonarmi, ma trovo che quelle parole stessero benissimo anche sulle labbra di Ben. 
Spero che la storia vi piaccia, gente. 


 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** hai gli occhi felici ***


Girasoli nella tempesta – capitolo tre: hai gli occhi felici.
“Papà?”
“Si, campione?”
“Tu ci credi nel destino?”

“No.” mi risponde lei. “E non ci ho mai creduto.”
Il porto, attorno a noi, conduce la sua vita notturna. Seduti su questo molo traballante, con due birre e  quattro occhi che si cercano. Davanti a noi, l’Oceano.
“Mai? Nemmeno quando ti sei sposata?” azzardo.
Lei si gira, lentamente, per osservarmi. “Come sai di lui?” non mi accusa, non sembra arrabbiata. È curiosa, e nel suo sguardo c’è solo rancore.
Io indico l’anulare della mia mano sinistra. “Hai il segno dell’anello.”
“Magari ho portato uno stupido anello di plastica per trent’anni.” Ironizza.
“Ne dubito. Hai appena chiesto come sapessi di ‘lui’.” Ricordo.
Lei scuote la testa. “No, non ci credevo nemmeno quando mi sono sposata.”
“E nell’amore?”
“A modo mio ci credevo.” Estrae dalla borsa il solito pacchetto di sigarette. “Ti da fastidio?”
“No.” ammetto.
Lei la accende e manda giù il fumo, subito. Io guardo di nuovo il tatuaggio, sotto alla giacca di pelle rovinata. È una M, con accanto una stellina. “Che significa il tuo tatuaggio?”
Lei sembra pensarci su. “Che ho partorito un bambino morto.” Dice, in un sospiro.
Io sento i muscoli del collo tendersi di nervosismo. “Che significa?”
Lei scuote la testa. “Non lo so, quanti significati conosci di questa frase?” butta fuori il fumo, come a volersene liberare. “Ecco, ecco perché il mio matrimonio è finito. Lui non c’era, era via. Io davo alla luce suo figlio, morto, e lui non c’era. Sai, una donna diventa mamma nel momento in cui si rende conto di essere incinta, ma un uomo diventa papà solo quando prende in braccio il suo bambino. Lui non lo ha mai visto, quel bambino, quel bambino morto, e quindi non si è reso conto di non essere diventato papà, non si è reso conto che io ero stata una mamma, e ora non lo ero più.”
La guardo, mentre si porta di nuovo la sigaretta alla bocca, con lo sguardo fisso in un punto lontano. “Una volta che diventi mamma, non smetti di esserlo.”
Sorride, malinconica. “Grazie.” Mi dice, tornando a guardarmi.
“Di cosa?”
“La gente di solito dice cose come ‘mi dispiace’, o ‘posso capire’, anche se non capiscono un cazzo. Tu hai detto che io sono ancora la mamma di quel bambino.” Torna a fissare il mare. “Comunque, la M sta per Manuel. Era il nome del mio bambino, ed era anche il nome del mio migliore amico.”
“E lui dov’è, oggi?”
Lei cerca le stelle, perché oggi a Seattle c’era il sole e perché si vedono anche un po’ le stelle. “Cerca la stella più luminosa. In Italia lo facevo sempre. Lui è la stella più luminosa.”
Sei tu la stella più luminosa, vorrei dire, ma capisco che non è il caso.”Che gli è successo?”
“Si è sfondato di eroina.” Ammette, come se fosse anche colpa sua. “Lo abbiamo trovato in bagno, la mattina dopo, con gli occhi sbarrati e la siringa nella vena.”
“E hai deciso di diventare un medico?”
“Oh, no, no, Manuel non c’entra. Ero già al terzo anno di università.” La sigaretta la illumina, e lei non lo sa. “Non credevo che ci si potesse sentire così. In un certo senso, una parte di me è morta con lui.”
“Beh” ammetto. “la morte si diverte a fare la stronza.”
Julie si volta a guardarmi. “Tocca a te.” Mi dice.
Io, senza pensarci, le racconto tutto. Anne, Anne e i suoi capelli biondi, come quelli di Julie, è per quello che la fissavo, quando l’ho incontrata, perché ha i capelli molto simili a quelli di Anne. Ma Anne ci teneva come l’oro, ai suoi capelli biondi, lei e Iris passavano le ore a decidere come pettinarsi. Iris era la sua migliore amica, Iris ha i capelli neri, non biondi. Iris e Anne erano il giorno e la notte, e non sono come hanno fatto a scovare me e Jack. Un giorno io mi sono invaghito della bionda, dico, di Anne, avevo meno di sedici anni e tutto era troppo semplice. Iris iniziò a stringere con Jack un pomeriggio dopo scuola, e Jack non lo ammetterà mai, ma lui l’ha amata da lì, io lo so perché glielo leggo negli occhi. Racconto a Julie di ogni particolare, il corso di teatro, la scuola, i sogni, i pomeriggi passati a fare l’amore e ad ascoltare la musica, a rivestirci in fretta perché i miei stavano tornando. Le dico che io e Anne siamo cresciuti insieme, parte di una cosa sola, perché noi eravamo noi, e il mondo poteva andare al diavolo. Io e Anne che improvvisamente era ora di scegliere l’università, Anne amava la Storia e io amavo l’Arte e la Letteratura, ed erano cose diverse ma cose simili. Anne che ‘amore, arrivo alle otto’. Anne che, alle otto e trenta era fredda, sotto ad un lenzuolo bianco. Anne che mi è stata portata via, perché Anne era un po’ un angelo, e gli angeli non devono stare sulla terra.
Vomito addosso a Julie questo mare di parole, senza che lei si stanchi o mi interrompa o cambi espressione. Ascoltare è parte del suo lavoro, e io, inevitabilmente, sono parte della sua vita.

Seduto qui, sulla stessa veranda di ieri sera, mentre sento l’acqua della doccia scorrere e Julie canta i Green Day. Appena ci siamo allontanati dal molo, le è suonato il telefono, e lei mi ha chiesto scusa, dicendo che doveva rispondere. Le ho baciato la guancia e le ho detto che l’avrei aspettata alla casetta. Non avevo ancora finito la mia birra, e avevo molte cose a cui pensare. Pensavo anche che al telefono fosse l’ospedale, poi l’ho sentita parlare in francese stretto. Mezz’ora dopo è corsa verso la casetta, spiegandomi che Adam, che era stato il vero amore di Manuel, Manuel che si era ammazzato di eroina, si era lasciato con il suo ragazzo ventenne, di nuovo, e che fra un paio di settimane verrà a Seattle. Senza che io potessi dire niente, mi ha baciato dolcemente le labbra ed è corsa in bagno. È nella doccia da venti minuti, e io ho finito la birra.
Penso a Anne, a Manuel, al marito di Julie, al loro bambino. Alla vita, alla morte. Alla luce e al buio. A tutto e a niente.
Julie, con i capelli umidi, si siede qui e si appoggia alla mia spalla. “Non sei obbligato a rimanermi accanto, sai?”
Io sbuffo. “Forse è l’unica cosa che mi va davvero di fare.”
“E se fosse la cosa sbagliata?”
“Allora la aggiungerò alle mille cose sbagliate che ho fatto nella vita.”
“Il mio nome è al primo posto, in quella lista.”
Mi giro verso di lei. “No.” sussurro. “No, Julie, tu sei una delle cose più belle che mi sia mai capitata.”
E questa volta non abbiamo paura. Non esitiamo. Non ci fermiamo. La bacio, che ho già fatto, ma ha un sapore nuovo, ha un sapore di speranza. Non ho paura nemmeno di alzarmi e avviarmi lentamente verso quel letto in cui da soli si sta larghi ma in due si sta stretti. Noi non ci stiamo stretti, noi ci stiamo perfetti. Come se questa camera fosse stata creata per noi, come se questa città fosse solo nostra, come se in questo mondo esistessimo solo noi.
Noi.

Ascolto il respiro regolare di Julie, mentre su Seattle ha ricominciato a piovere, e io ho appena fatto l’amore, ma l’amore sul serio, come non pensavo, come nei film, con noi due in una cosa sola, più in alto delle stelle. Appoggio il gomito al cuscino e la testa sulla mano, per chinarmi ad annusarle i capelli, mentre ascolto il mondo fuori da quella finestra.
Lei, lentamente, si gira e mi guarda. “Che ci fai sveglio?”
Io le bacio le labbra. “Ascolto.”  Rispondo, a pochi millimetri da lei.
“Che cosa ascolti?”
“Il mondo che passa qui fuori.”
“E perché?”
“Perché la gente di notte, quando piove, ha dialoghi interessanti.”
“E perché a te, Ben, piace spiare la gente.”
Io sorrido. “Anche. Prima sono passati due donne che parlavano di un film che hanno visto al cinema, ma il finale a una non era piaciuto.”
“Ah, i dialoghi interessanti della gente di notte!” mi prende in giro. Ma io ho voglia di raccontarle.
“Prima ancora, una mamma furiosa con sua figlia che era tornata tardissimo, la rimproverava perché domani hanno l’aereo presto e avevano tutti bisogno di dormire.”
Lei sorride, ma prima che possa rispondere, sento dei passi e delle voci. Le faccio segno di ascoltare, ma mi butto sul letto con aria scoraggiata quando mi accorgo che parlano tedesco. Sono un uomo e una donna, e lei sembra davvero furiosa. Julie si appoggia al mio petto.
“Fanculo.” Dico. “Io non lo so, il tedesco.”
Lei mi fa segno di stare zitto. Poi sorride.”Lui le ha detto che non sopporta di avere sua sorella tra i piedi anche in vacanza, e lei ha risposto che lui dovrebbe mostrare un po’ più di affetto e riconoscenza verso la loro famiglia.”
“Tu parli tedesco?” domando, stupito.
“Più o meno.”
“Quindi quante lingue parli?”
“Inglese, francese, italiano e spagnolo.”
“E quante vite hai vissuto?”
“Meno di quelle che avrei desiderato.”

“Ciao, fratello.” L’umore di Jack pare essere sotto le scarpe. “Indovina chi mi ha telefonato?”
Io fingo di stupirmi. “Chi?” è più che sottinteso che la mamma abbia chiamato Iris.
“Iris! La mia migliore amica.”
“Mettiti il cuore in pace, Jack.” Dico. “Sei un lupo solitario.”
“O forse un cane randagio.” Risponde lui, sorridendo. “La tua super serata?” domanda.
Io guardo un po’ dovunque e poi mi avvicino al letto. Racconto di Manuel, il migliore amico morto di overdose, di Manuel, il bambino nato morto, di Adam, che arriverà a Seattle e che ha lasciato il suo ragazzo, ma perché questo attraversa il pianeta per Julie? Del marito che non l’ha mai capita, delle vite che non ha vissuto, dell’amore più ‘amore’ e meno ‘sesso’ che io abbiamo mai fatto, del suo sorriso stamattina, di quando abbiamo fatto la doccia e del caffè che abbiamo preso ridendo perché il mondo è bello quando hai qualcuno accanto.
Lui sorride. “Gesù, Ben. Ce l’hai fatta.”
“A fare cosa?”
“Hai trovato una donna che ti sopporta.”
Io sorrido. “Credo che sia stata lei a trovare me, Jack.” Poi alzo le sopracciglia. “Ma è ancora presto.”
“Benjamin.”
“Jackson?”
Usiamo i nostri nomi completi solo quando l’argomento è più che serio.
“Immagino che ‘Dorian Gray’ non verrà girato a Seattle.” Butta lì.
Ecco. Ecco, ecco mio fratello che sa sempre tutto. Io stavo riuscendo a non pensarci, alla voce di Oliver Parker, il regista, che mi chiede di essere a casa prima dell’inizio dell’inverno, perchè volevo pensare solo a Julie e noi, giorno dopo giorno.
Mi mordo le labbra. “C’è ancora un mese, prima che io debba presentarmi a Londra.”
Gliel’ho detto, vorrei dire, gliel’ho spiegato a Parker come stanno le cose qui, ma la sua risposta è stata che mi avrebbe mandato il copione e ‘buona giornata’.
“E Julie che ha detto?”
“Julie non lo sa.”
“E un giorno la lascerai a svegliarsi da sola, come fai con tutte le donne che ti stanno aspettando a braccia aperte a Londra?”
“Che stai cercando di dirmi, Jack?” domando, irritato.
“Che sono felice che tu e Julie siate felici. Ma dovresti scendere dalla tua nuvoletta.”
Io lo scruto. Mi allontano leggermente. Dov’è Jackson-la-vita-è-bella-Barnes?” “Jack?”
“Sì?”
“Che ti ha detto, esattamente, Iris?”
Colpito e affondato. Jack socchiude leggermente un occhio nervosamente e stringe i pugni. “Ha importanza?”
“Sei di un pessimismo cronico.” Contesto.
“Iris verrà qui perché dice che non ci vede da troppo tempo.”
Il motivo per cui Jack ama viaggiare, provare donne di ogni etnia diversa, vedere ogni stagione posti nuovi e vivere su un aereo, è che a Londra ha una vita così normale da fare schifo. Si occupa di beneficienza, vive in un appartamento vicino alla fermata della metro, scende tutte le mattina al bar a prendere il caffè ed è innamorato della sua migliore amica.
“Oh, beh, si deve essere accorta che scappi da anni.”
Jack fa una smorfia. “Io non scappo. Io non riesco a divertirmi se c’è lei nei paraggi.”
“Londra è molto grande, Jack.”
“Londra a volte mi soffoca, Ben.” Ammette lui.
Sento la stanza inondata di un odore di lavanda, shampoo, miele e caffè. Prima che possa riconoscerla, lei esordisce dicendo “Scusa, Jack, gli specializzandi ne hanno combinata una delle loro.” Io mi volto e le sorrido, e lei mi fissa con quei suoi occhi azzurri. È passata per il giro mezz’ora fa.
“Che hanno combinato quelle povere creature?”domanda Jack, abile quanto me a nascondere le preoccupazioni.
“Hanno rubato un paziente a psichiatria.” Ringhia lei. “Rubare un paziente!” controlla il flusso della flebo di Jack.
“Come hanno fatto?” chiede, stupito.
“Lui è convinto di non essere pazzo, allora gli hanno detto che in chirurgia lo avrebbero curato. Lo hanno fatto camminare e lo hanno messo in una stanza qui del piano.”
“Perché è convinto di non essere pazzo?” domando io, mentre lei ausculta il cuore di mio fratello.
“Ha una gravidanza isterica, ma è convinto di essere incinta.”
Jack scoppia a ridere, mentre io fingo di trattenermi. Ma non ci riesco. “Come … perché ….” Rido, rumorosamente. “Perché crede di avere un utero?”
Lei mi sorride. “Perché viene da psichiatria.”
“Ma che significa, cioè, che … che vuol dire gravidanza isterica?” domanda Jack.
Lei  si riposiziona lo stetoscopio al collo e mette le mani in tasca, pronta ad assumere il tono da insegnante. “Le donne che hanno una gravidanza isterica, nella maggior parte dei casi, sono donne che hanno un forte istinto materno ma hanno una relazione instabile. La paziente è nervosa, il ciclo è in ritardo, e il suo corpo si convince di aspettare un bambino.”
“Poi viene qui e tu le dici che ha torto?”
Lei sorride. “Più o meno è così.”
“E quest’uomo ha un forte istinto materno?”
“No, no. Può essere dato anche da un fattore psicologico, una cosa importante che succede nella tua vita. Nel suo caso, sua moglie è incinta.”
Jack ride, di nuovo. “Jaaack!” lo richiamo io.
Il cercapersone di Julie suona, e lei si allarma. “Danny.” Dice solo. Io faccio per alzarmi, ma lei mi fa segno che non posso. La guardo allontanarsi con aria preoccupata, e vorrei poter salvare la vita a quell’uomo.
“Chi è Danny?” mi chiede Jack.
“Una bomba a orologeria.” Rispondo io. Gli racconto che, mentre lui era sotto i ferri, io ero con Danny, trovando un amico dove non mi sarei mai aspettato.
“Quindi lui sta qui con una pompa che fa il lavoro che dovrebbe fare il suo cuore, mentre aspetta che qualcuno muoia?” Io annuisco. “Che cosa triste.”  Poi mi guarda. “Che ci fai ancora qui? Vai fuori dalla sua stanza a fare l’amico.”

La stanza di Danny ha le pareti di vetro. Cioè, sembrano di vetro, perché le finestre sono talmente grandi che sembrano dei muri interi. Da fuori, si vede tutto. Vedo medici  muoversi, strillare, vedo Julie urlare ‘non adesso, Danny, non adesso, dacci tempo’, mentre prende in mano un defibrillatore e Danny sobbalza a causa delle scariche elettrice. Io stringo i pugni, sperando solo che ce la possa fare. Mi avvicino, e noto appostata davanti all’altra parete del vetro la bionda Izzie, con le lacrime agli occhi e la mano sul cuore, che a volerlo stringere per donarlo al suo uomo.
Anche lei mi nota, e mi fa segno di avvicinarmi. A me sembra di invadere un dolore troppo grande perché io possa comprenderlo. Le poso una mano sulla spalla, mentre lei si lascia andare al pianto, appoggiando la testa, come se si aggrappasse a me per non cadere, mentre mi concentro sulla tenacia di Julie per non vedere Danny contorcersi ancora.
“Chiamate Burke, dannazione, io non lo posso toccare un paziente di cardio!” strilla.
Leggo nel labiale dell’infermiera ‘non risponde’.
Julie sembra furiosa, con le gote arrossate e gli occhi fuori dalle orbite. “Non mi interessa. Andate ad aprire tutte le stanze del medico di guardia, non mi interessa, ma portatemi Preston Burke!”
Credo che le ultime tre parole le abbia sentite anche mia madre in Inghilterra.
L’infermiera annuisce spaventata, mentre Julie torna a concentrarsi su Danny e su quella pompa che ha smesso di fare ciò che doveva. Prende di nuovo in mano le piastre del defibrillatore. “Carica a duecento!” Ordina. Poi guarda Danny negli occhi. “Ti prego, ti prego, sii forte.” Leggo sulle sue labbra la paura di perdere un amico.
“Ben, mi crederesti se ti dicessi che ora vorrei strapparmi il cuore dal petto a mani nude per permettergli di vivere?” mi chiede Izzie tra i singhiozzi.
“Lui non vorrebbe vivere senza averti accanto.” la rassicuro, stringendola, sentendo di nuovo la sensazione di aver trovato un’amica, ma una di quelle vere.
Sono stato a Seattle moltissime volte, perché Jack ama lo Space Needle e io amo la pioggia. E non avrei mai immaginato che dentro questo ospedale ci fosse un mondo intero, degli amici, e una donna da amare. Stai a vedere che mi toccherà ringraziare Jack e quel maledetto tumore.
“E come pretende che io possa vivere senza di lui, allora?” mi chiede lei.
“L’amore è molto strano.” È l’unica risposta che so darle.
“Danny, Danny, cazzo, resta con me!” Julie schiaffeggia la guancia di Danny, che apre gli occhi e le afferra la mano. Non so se la bionda accanto a me sia sto in grado di percepirlo, ma io sono più che sicuro che lui abbia detto ‘Izzie’.
Julie si volta di scatto, probabilmente inondando la stanza dell’odore di lavanda che hanno i suoi capelli, e prima di poter ordinare qualcosa a qualcuno, nota me e Izzie, dietro di lei. E nel momento in cui Julie mi guarda, io mi rendo conto delle due lacrime che, lentamente, hanno rigato il mio viso. Julie non ha tempo per consolarmi, né per piangere con me, meccanicamente, mi fa segno di entrare. Non riesco a mollare la presa sulle spalle di Izzie, perché ho idea che se la lasciassi, cadrebbe a terra e si spezzerebbe in mille pezzi di vetro fragilissimo. Così, tenendola stretta a me, la accompagno da lui.
Danny, la bomba a orologeria che ha capito più di me in un pomeriggio che  tanta gente in trent’anni, mi guarda con riconoscenza. Io sorrido e abbasso la testa, mentre Julie continua ad ordinare alle infermiere diverse dosi di sostanze chimiche che io nemmeno sapevo esistessero, chiedendo sempre ‘dove diamine è Burke’, mentre Izzie piange su Danny e Danny piange su Izzie.
Burke entra di corsa nella stanza, chiedendo cosa sia successo, e Julie strilla come non credevo fosse possibile. Lo accusa di averla lasciata da sola con un ‘LVAD’ non più funzionante, di non aver scritto cosa avesse preso, e gli ordina di chiamare per comunicare che le condizioni del paziente si sono aggravate.
“Danny è in lista d’attesa da anni, e …”
“DANNY NON ARRIVERA’ A DOMANI SENZA QUEL CUORE, BURKE!”
Non so come faccia, Julie, ad  essere tanto dolce e tanto dura allo stesso tempo. Io giro lentamente la testa verso il letto di Danny, che ha già la morte negli occhi.
“Questo è il tuo problema, Martin! Ti fai coinvolgere troppo, dannazione!”
“E tu troppo poco, Burke, perché io sono arrivata e lui era praticamente morto, la Stevens era stata cacciata dalla stanza da delle infermiere impiccione, e …”
“E tu hai messo il tuo fidanzato a farle da badante!”
Julie porta avanti la mascella e guarda Burke con odio. “Io ti ho salvato il culo, Burke, e non ti devi permettere di criticare come l’ho fatto. Cerca di essere minimante riconoscente.”
Lancia la cartella clinica sul tavolino ai piedi del letto, mentre impreca in francese contro ‘dannati americani egoisti’, ed esce dalla stanza. Io la guardo camminare furiosa, rimanendo come incollato qui.  La guardo girare l’angolo e spero solo riesca a contenere la rabbia prima che io riesca a raggiungerla.
Lentamente, mi giro verso Danny e gli poggio una mano sulla spalla. “Ascoltami, amico.” Gli dico. Mi chino, arrivando quasi a sedermi per terra. “Tu sei forte.”
“No, Ben, non …”
“Zitto. Tu hai capito tutto di me in un pomeriggio, e ti giuro che c’è gente che mi conosce da sempre e non ci è ancora riuscita.” Parlo con il cuore, e la cosa mi è nuova. “Tu sei forte. Tu starai bene. E quando starai bene andremo a Londra, a fare il giro della città come due cretini.” Lui annuisce e sorride, o almeno ci prova. “Però devi promettermi che rimarrai tra noi fino a quando Burke e Julie non ti troveranno quel cuore.”
Non mi va di piangere, ma la mia voce trema e Danny sembra distrutto. “Te lo prometto.” Mi dice. Io gli batto una mano sulla spalla, carezzo la testa di Izzie, mi alzo e scruto Burke, mentre lui mi guarda cercando di capire cosa passi per la mia testa.
La verità è che non lo so nemmeno io.

Trovo Julie dopo aver sorriso ad un infermiera che mi ha indicato i bagni delle donne. Julie sta davanti allo specchio, con le mani posate sui lavandini, mentre osserva le lacrime salate che le hanno accarezzato il viso. Mi vede nello specchio, e nota quanto stia male anche io.
“Mi dispiace. Non avrei voluto che assistessi a tutto questo. Non avrei voluto metterti dentro in questa cosa. Non ti meriteresti una come me. Mi dispiace.” Mi dice, attraverso lo specchio.
“Ho visto una cosa, in quella stanza.” Rispondo. “Ho visto una donna piena di grinta, tenacia, che si accanisce su un uomo praticamente morto e lo riporta in vita come se fosse Dio.” Mi avvicino. “Ho visto la donna che ho accarezzato per tutta la notte combattere contro la morte e vincere, ho visto la ragazzina vulnerabile che era sul molo con me ieri sera discutere con un uomo venti centimetri più alto e più largo che era partito accusandola, e l’ho vista uscirne limpida. Di tutto questo, non c’è nulla di cui tu ti debba dispiacere.”
“Avevi ragione tu, Benjamin.” Mi dice, girandosi verso di me. “La morte si diverte a fare la stronza.”
Io cerco di sorridere. Prima che possa rispondere, il dannatissimo cercapersone che tiene attaccato al camice blu suona. Lei lo guarda, e dice “Forse ci siamo.” Fa per correre via, ma poi si volta verso di me. Torna indietro e mi bacia dolcemente le labbra, sfiorandomi il viso con una mano. Sa di lacrime e caffè.  “Non so perché tu sia rimasto con me anche oggi, Ben. Ma ti ringrazio.”
“Perché sono rimasto?”
“Per avermi trovata.”

“Pronto?” rispondo al telefono come se non avessi letto il nome di Iris sul display.
“Ciao, sfigato!” esclama la sua vocina dall’altra parte. Io scuoto la testa e mi siedo, qui, dove ero ieri sera con Julie.
“Ciao, Iris.” Rispondo.
“Quel deficiente di tuo fratello è stato operato.”
“Oh, davvero? Non me ne ero accorto.”
Il rapporto tra me e Iris è strano, strano davvero. Lei all’inizio non approvava il fatto che io stessi con Anne, diceva che ero un poco di buono, che l’avrei fatta soffrire. La risposta di Anne fu ‘ma ci hai mai parlato, con Ben?’ Iris fu costretta ad ammettere di aver  basato quella litigata su dei pregiudizi, e io, lei ed Anne iniziammo a passare la pausa pranzo insieme. Iris mi piaceva, era dinamica, intelligente, e non si dava mai per scontata.
“Sei un cretino.” Mi dice.
Molti, vedendoci, ci giudicano male. Le persone non sanno che, in realtà, insultarci è il solo modo che abbiamo per volerci bene.
“È sempre un piacere avere a che fare con te, emerita testa di cazzo.”
La sento scoppiare a ridere dall’altra parte. “Dove sei?”
“Su un molo.”
“A fare cosa?”
“A pensare.”
“Hai qualcuna a cui pensare?”
“Può essere.”
Lei rimane in silenzio.
“Iris?”
“Sei davvero uscito dal buco e ti sei trovato una donna seria?” domanda lei, improvvisamente seria.
“Può essere.” Ripeto io.
“Ah, ecco, cretino, perché ho preso il biglietto per il primo volo per Seattle. Perché la devo conoscere.”
“Non c’entra il fatto che Jack stia male?” ironizzo.
“Si, si, certo. Ma voglio assicurarmi che questa qui sia a posto.”
“Te lo dico io, Iris. È a posto.”
“Tu sei un attore, Ben Barnes.”
“Oh, grazie! Non ricordavo nemmeno questo.”
Lei ride di nuovo, e io sorrido di rimando.
“Senti, sfigato. Mi verresti a prendere in aeroporto?”
Io sorrido. “Senza di me, come faresti a vivere?”

“Non capisco, perché ne parlate anche con me?” mi chiede Julie, appoggiata ai piedi del letto.
“Perché sei il suo medico, perché vivo con te, perché sembra che io e te stiamo quasi insieme.” Rispondo, subito. Lei non obbietta.
“Dovevi dirle che non ho bisogno di lei, Ben!” mi attacca Jack.
“Perché mentirle?”
“Perché fare stare male me?” contrattacca lui.
“Perché devi smetterla di annullarti per colpa sua.”
“Che mi dovrebbe importare di lei, Ben?”
“Te lo vedo negli occhi da metà della nostra vita, Jack, che la ami.”
“E anche se fosse?”
“O la smetti, o glielo dici. Sicuramente non continueremo a scappare in giro per il mondo.” Lui sembra toccato da quelle parole, ma io ho imparato di più oggi che in tutta la mia vita. “La andrò a prendere in aeroporto tra un’ora e mezza, Jack, poi verremo qui, le farò conoscere Julie, perché se lo meritano entrambe, dannazione, e Iris è tutto ciò che mi rimane di Anne, è la mia più cara amica, e non sopporto il fatto che dopo quindici anni tu stia ancora male per lei!”
“Ben, calmati.” Mi sussurra Julie.
“Okay, stronzo!” esclama mio fratello. “Farò in modo di non recarti più fastidio.”
“Cioè?”
“Fingerò di non esserne innamorato.”
“Come se potesse bastare.”
Lui incrocia le braccia sul petto. “Me lo farò bastare.”

Iris si è tagliata i capelli, penso, mentre mi corre incontro. Sono cortissimi, sparati in aria. Sembra un po’ un folletto. Mi stringe, mentre io rido, e lei mi dice che sull’aereo accanto a lei c’era un tipo che russava e non ha potuto dormire. Iris ha sempre avuto questo fare dinamico, questa capacità di ridere delle disgrazie, che la lega a mio fratello da anni. Ero io quello riflessivo, quello dubbioso, mentre Anne ci guardava e rideva.
Guardo il suo zaino, domandandomi per quanti giorni abbia pensato di rimanere, ma Iris odia i programmi e ama viaggiare.
“Ho una cosa da darti.” Mi dice, facendomi segno di andare al ritiro bagagli.
“Ah, sapevo che non avevi tutto nello zaino!” esclamo.
“No, no, il bagaglio da ritirare è per te.”
“Per me?”
“Per te, idiota. L’ho trovata quando sei partito l’ultima volta.” Mentre il nastro dei bagagli scorre, la gente indica me e la strana donna-folletto che sta accanto a me a sorridere a tutti, io mi chiedo di cosa stia parlando. “Sono stata un po’ di tempo a Chicago, comunque.” Mi annuncia. “Manco da casa da tre mesi, almeno.”
“Noi sei.” Le dico. “Ti ho battuta.”
“Sei sempre stato più avanti di me.” Scherza. “Allora, parliamo di questa donna.”
Io la guardo. “Sei venuta qui per accertarti che lei non sia un’allucinazione o per il tumore di Jack?” ironizzo.
“Oh, non è un’allucinazione, ho chiesto anche a Jack, ma mi ha detto che sono robe tue.”
“Esatto. Robe mie.”
Iris si catapulta verso il nastro dei bagagli, e io vedo una custodia rossa a forma di chitarra. Prima che possa sgridarla, dirle di no, lei l’ha afferrata e sta correndo verso di me con la stessa espressione di una bambina a Disneyland.
“Aspetta, a dire di no, a insultarmi, a …”
“Non suono più, Iris.” Le ricordo.
“Ecco! Io non sapevo se fosse giusto dartela, ma … ma tu hai una donna, ora, Ben, ed è giusto che tu torni a suonare!”
Ho un flash dell’ultimo falò, con tutti i nostri amici che ora hanno una casa, una famiglia, un lavoro, e forse di quel falò con la chitarra, le canzoni e la birra si sono dimenticati.
“Il fatto che io abbia una donna è-“
“Vuol dire che l’hai lasciata andare, Ben, e quindi hai diritto alla sua chitarra.”
L’hai lasciata andare. Il fatto che lì dentro ci sia la chitarra di Anne mi stringe lo stomaco, perché lei è stata il mio tutto, e anche se la sua mancanza non mi fa più male, ci sarà sempre un pezzo di me che si è portata via. Con l’indice, picchietto sul naso della mia amica. “Tu, piccola stronza.”
“Si, si, come ti pare.” Mi risponde. “Non vedo l’ora che tu possa tornare a suonarla!”
“Che ci facevi, a Chicago?”
Ecco il trucco per sviare ogni argomento con lei. Chiederle di un viaggio. Perché si perderà nei dettagli, nel suo entusiasmo, nel racconto di quella gita, di quella piazza meravigliosa o di quel cameriere scortese. Non sempre la ascolto, non sempre le do retta: Iris è un vulcano, e il motivo per cui lei e Jack si rincorrono in giro per il mondo è che nessuno dei due sopporta l’altro troppo a lungo. Perché alla fine, anche lei, a suo modo, ama mio fratello.
Mi racconta che starà da una sua vecchia amica, qui a Seattle, perché non vuole pesare a me. Le racconto che sto da Julie, e lei dice “Ecco, ecco, vedi, mi sarei ritrovata a fare il terzo incomodo.”
Io sorrido,  chiudendo il bagagliaio. “Come fai ad avere una macchina?”
“Oh, è di Jack, l’ha comprata l’ultima volta per lasciarla da questa parte del pianeta.” Ironizzo.
“Hai intenzione di trasferirti da questa parte del pianeta, allora?”
Mi sistemo sul sedile e metto in moto. “Non lo so.”
“Prima o poi dovrai tornare dai tuoi.”
“Prima o poi.” Faccio manovra mentre lei mi guarda e ride. Nel riprendere in mano il volante, la guardo e lei non smette di sorridere. “Che c’è?”
“Hai gli occhi felici, Ben. Erano dieci anni che non vedevo i tuoi occhi pieni e felici.”
Prima che io possa chiedermi cosa possa voler dire vedere gli occhi di un tuo amico pieni, il mio telefono suona e leggo sul display il nome di Julie Martin.
“Pronto, bionda?” scherzo.
“Oh ti è andata male, amico!” esclama la voce calda di Danny.
Io scoppio a ridere. Quando sono passato dalla sua stanza, prima di uscire, era stordito dai farmaci e dalla mattinata in cui l’odore di morte aveva avvolto la sua stanza. Salto sul sedile. “Gesù, Danny, stai meglio?”
“Abbastanza. Senti, ho il dovere di informarti che io, Julie, Izzie e Jack siamo qui a ridere di te.”
Scuoto la testa. “Dì a mio fratello che ha le ore contate, se vi sta raccontando cose false.” Lo sento sorridere, e poi mi viene in mente una cosa. “Ehi, ma Jack si è alzato?”
“Si, ha smesso di fare la femminuccia e si è alzato.”
“Allora gli lascerò qualche ora in più di vita.”
“Oh, ne sarà felice. Comunque, pare che la tua donna mi abbia trovato un cuore.”
Freno, di scatto. Iris mi guarda senza capire. “Che cosa?!”
“Non è sicuro, amico. Ci sono altri pazienti, altri casi. Ma c’è un donatore.”
Appoggio la testa sul volante. C’è un cuore. “Ripetilo, amico.”
“C’è un donatore, Ben.”
C’è un donatore. Un cuore, un cuore nuovo, che funzioni, e che dia a Danny la vita che si merita. Danny vivrà. Danny starà bene. Scoppio a ridere, sentendo odore di vita e di cose belle in questa macchina nuova, perché Danny vivrà, perché andrà tutto bene, perché non sarà più la ‘bomba a orologeria’.
“Arrivo, amico. Dobbiamo festeggiare.”

Il momento in cui gli occhi di Iris ritrovano gli occhi di Jack, ecco, quella è pura magia. Jack se ne sta seduto ai piedi del suo letto, in pigiama, pallido e stanco, ma sorride, sorride guardandola, come se non fosse passato un solo giorno. Lei si fionda tra le sue braccia, stringendolo alla vita, perché Iris è un folletto e Jack arriva al metro e novanta senza problemi.
Julie, appoggiata alla porta, li guarda e sorride, mentre io le passo un braccio attorno alle spalle e le bacio i capelli.  Lei mi stringe i fianchi, e io mi sento al sicuro. Capisco al volo cosa intendesse Iris: lei mi riempie.
“Ciao, honey.” Saluta Jack con tono dolce. “Ti sei proprio presa un bello spavento, eh?”
“Sei un cretino, Jack Barnes. Sei stato operato e me lo ha dovuto dire tua madre!”
Jack alza le spalle. “Non sapevo in quale emisfero ti trovassi, Iris.”
“Nemmeno io sapevo dove foste voi due cretini.” Si gira verso di me, e nota Julie. Per un istante, pare scrutarla, ma poi sorride. “Perdonami, tesoro, non mi sono presentata.”  Si avvicina a lei e porge la mano destra. “Sono Iris, Iris Morgan, in teoria migliore amica di questi due cretini.”
Julie sorride e le porge la mano. “Julie Martin, tanto piacere.”
“Julie? Oh, che bel nome!” esclama lei.
“È francese.” Ricorda Jack.
“Oh, dai? Non ci ero arrivata!” esclama Iris. Poi torna a guardare Julie. “Lo hai operato tu?”
“Si.” Conferma lei, osservando la chitarra che Iris tiene a tracolla. “Suoni la chitarra?”
“Non io, cara. Ben!” Iris mi indica e mi porge la chitarra, con la sua solita espressione di bambina che ha appena combinato un guaio.
Julie, lentamente, si volta a guardarmi. “Ben?” domanda, spostando la mascella come se la dovesse trattenere.
“No, no. Non più.”
“Oh, Ben, è arrivato il momento!”
“Non so cantare.”
“Certo che lo sai fare.” Interviene mio fratello, facendomi segno di passargli la chitarra. “Sei solo un po’ arrugginito.”

“Ciao, campione.” Dico, entrando in camera di Danny, con la chitarra a tracolla. Iris non ha voluto che la accompagnassi a casa della sua amica, così io e Julie l’abbiamo guardata allontanarsi su un taxi giallo con quel suo sorriso gigante.
Danny mi sorride, e io ho ragione di credere che non fosse così felice da anni. Indica la chitarra. “Tua?”
Io seguo il suo sguardo. “Me l’ha portata Iris. È … è quella di Anne.”
“Scommetto che te l’ha data quando ha saputo di Julie.”
“Hai vinto.” Sorrido. Lui mi fa segno di aprire il suo armadio, con sguardo gentile. Appena apro le ante, noto una chitarra. “Una folk?” domando, stupito.
“Passamela, per favore.” Risponde lui. La sola differenza con la mia, classica, è la cassa più grande che consente di dare al suono una forza maggiore. Io eseguo e lo guardo, aspettando che faccia qualcosa.
“Quant’è che non suoni?” mi chiede.
“Nove anni e otto mesi.” Rispondo, sicuro. Perché Iris farà presto i trenta, e saranno dieci anni che Anne non c’è più. L’ultima volta che ho suonato, è stato il giorno prima della festa di Iris che non sapremo mai come sarebbe andata.
“Dieci anni e quattro mesi.” Fa verso lui. “Da quando ho scoperto di essere malato di cuore.” Posa le dita sugli accordi. “Direi che è ora di ricominciare per entrambi.” Aggiunge, guardandomi.
Ed è per il mio nuovo amico, per il mio amico che starà bene, è per lui che mi siedo sul letto e impugno la chitarra. Non ci metto un secondo per trovare la canzone, e le note scorrono nella mia mente come se non avessi mai smesso.  Suono le prime note, e la chitarra riprende vita, per la prima volta.
Julie entra nella stanza, mentre sento Jack lamentarsi per essersi dovuto di nuovo sedere sulla sedia a rotelle, rimangono increduli di vedermi con la chitarra in mano.
“Today is gonna be the day that they’re gonna throw it back to you.”
Danny riconosce subito la canzone e inizia ad accordarla anche lui.
By now you should ‘ve have somehow realized what you gotta do.”
Julie sorride. Io la guardo, rendendomi conto che queste parole sono per lei.
I don’t belive that anybody feels the way I do about you now.”
Julie sorride e l’altra bionda entra in scena. È come a teatro, le comparse si susseguono, la musica non cessa, e io so che questo è il turno di Danny. Per Izzie.
Backbeat the word was on the street that the fire in your heart is out.”
A sorpresa, è Izzie che si diverte a prendere la parola e a cantare con lui.
“I’m sure you’ve heard it all before but you never really had a doubt.
Julie ride e mi posa una mano sulla spalla, guardandomi come se fossi una medaglia. E tocca di nuovo a me.
“I don’t believe that anybody feels the way I do about you now.”
Vedo Julie e Jack muovere le labbra, mentre mio fratello mi guarda commosso, mentre io, Danny e Izzie intoniamo il ritornello.
And all the roads we have to walk along are winding, and all the lights that lead us there are blinding. There are many things that I would Like to say to you I don’t know how.”
E sento, chiaramente, la voce di Julie aggiungersi, dolce e delicata.
Because maybe  you’re gonna be the one who saves me? And after all, you’re my wonderwall!”
Picchio la mano sulla chitarra, mentre sorrido come non mai, contento di questo piccolo e assurdo angolo di mondo.
 
Siii, so che il testo in grassetto così in mezzo ad un caitolo sta malissimo. Ma solo così il testo degli Oasis risalta. 
E non abituatevi ad aggiornamenti così recenti, ma sono in un periodo di Ben-Barnes-Mania e non riesco a smettere di scrivere.
Spero che il capitolo piaccia, e ringrazio vivis_ il suo entusiasmo e la sua anzzzzia. :3
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** devi guardarti allo specchio ***


Girasoli nella tempesta – capitolo quattro: devi guardarti allo specchio.
“Mamma?”
“Sì, campione?”
“Come era la tua vita, prima di papà?”

Canticchio Wonderwall con la sigaretta in bocca, ricordando quando la sola persona che me la dedicasse era Nicole. Sono passati tre giorni, eppure ho ancora i brividi all’idea di Ben con la chitarra in mano, che mi rivolge quel sorriso. Tre giorni e ancora non ci hanno dato quel dannato cuore per Danny. Tre giorni con Iris che tira su il morale a tutti, ha persino fatto una torta per le infermiere che si occupano di Jack, e ha voluto conoscere Danny non appena Jack le ha parlato di lui. Mi piace, Iris, è una forte. Me ne sto seduta sul divano, che poi è anche il tavolo, della casetta mobile. Indosso una maglia rubata a Ben, perché porta il suo odore, e io ho scoperto di stare bene con il suo odore addosso. La finestra è aperta, è mattina presto, oggi non lavoro e Ben si sta preparando per andare a correre. Lo sento trafficare di là, e il nostro silenzio non ci pesa. Guardo il resto del campeggio fuori dalla finestra, quasi deserto, e poi guardo qui, guardo dentro, guardo il posto in cui vivo da due anni, e forse per la prima volta lo vedo davvero. I libri di medicina sono ovunque, così come foto, regali e vestiti.
La decisione di trasferirmi a Seattle la presi talmente in fretta che non ebbi il tempo nemmeno di cercare un appartamento in affitto. Un giorno sono saltata su un aereo, con i miei libri, la mia fede ancora al dito e Nicole, che è rimasta qui con me per due settimane. Con i soldi che avevo ho comprato questa casetta, in mezzo al verde, giurando a mia sorella che in meno di sei mesi l’avrei rivenduta e mi sarei comprata una casa vera.
Forse è arrivato il momento.
Poi, ho un flash, le porte dell’ambulanza che si aprono, il corpo di Jack ustionato, e gli occhi di Ben. Sento un clic dietro di me e vedo Ben con il telefono in mano, e la macchina fotografica puntata verso di me.
“Perché mi hai fotografata?” domando.
Lui allontana l’obbiettivo dal suo viso. “Perché a volte non mi sembri vera.”
Io sorrido e scuoto la testa, appoggiando la sigaretta sulle labbra. “Ben?” Lui mi guarda e si siede davanti a me, come in attesa.
“Ma che ci faceva Jack sul tetto?”
Lui sorride, con la maglietta da corsa nera quasi quanto i suoi occhi. “E io che immaginavo che ti stessi interrogando su un qualche principio della vita umana.”
Io scuoto la testa. “Stavo pensando che sarebbe ora di comprarmi un vero appartamento, in realtà.”
“Bene!” esclama lui. “Quando torno, chiamo Parker e gli chiedo di cercarmi qualche buona offerta.”
“Parker?” chiedo, confusa.
“Parker. Il mio agente inglese e prevedibile.”
Quasi mi ingozzo con il fumo. “Ah, scusa, tesoro. Io al massimo la casa me la cerco su internet. Non ho chi si sporca le mani al mio posto.”
Lui ride e scuote la testa. “Ma ci pensavi per te o per noi?”
Stranamente, la prospettiva di un ‘noi’ mi fa meno paura di quanto immaginassi. Faccio spallucce. “Per te e per noi.” Tronco il suo sorriso sul nascere. “Ma non torni da tua madre, qualche volta?”
“C’è tempo, c’è tempo.” Taglia lui. Mi bacio velocemente le labbra, e afferra l’iPod. “Tra un’ora sono a casa.”
Io annuisco. “Io cerco una casa come tutti i comuni mortali che non hanno un’agente che lo faccia per loro.”
Lui mi strizza l’occhio, e io lo guardo iniziare a correre. Assaporo l’ultimo tiro, spengo la sigaretta, e accendo il computer.
Subito, noto tre messaggi di Nikki su Skype.
‘Oddio, Julie, ma è vero che Ben farà Dorian Gray?’
‘Terra chiama sorella. Ho bisogno di parlarti.’
‘Chiamami appena ti connetti, per favore.’

Schiaccio il pulsante di videochiamata immediata mentre storco il naso e mi mangio un biscotto. E dire che dovevo cercare una casa.
“Julie!” esclama subito mia sorella. La vedo seduta sul letto, in mezzo a fogli pieni di scritte evidenziate.
“Buongiorno.” Saluto. “Si può sapere che è successo?”
Nicole è identica a me da giovane. Stessi lineamenti, stessi occhi azzurri, stessi colori sgargianti addosso, ma i suoi capelli sono castani, più corti ed è molto più bassa di me. Si allunga per cercare qualcosa dietro al suo computer, e pochi secondi dopo torna con un giornalino. “Ben Barnes …”
“È andato a correre.” Taglio corto, addentando un altro biscotto.
Lei alza gli occhi dal giornale per guardarmi male. “Stavo leggendo.”
“Senti, hai iniziato a fare da ufficio stampa?”
“No, no, sto solo dicendo che …”
“Si, Dorian Gray, me lo ha detto la prima sera che è stato qui.” Scuoto la testa, pensando a quel primo timido bacio sulla veranda.
“Oh, e quindi che farete?”
“Riguardo a cosa?”
Lei porta di nuovo gli occhi sul giornale, cercando una riga. “Le riprese avverranno a Londra tra il mese di dicembre ed il mese di febbraio.”
Mi sbagliavo. La storia della casa non era stata uno schiaffo. Questo, questo è uno schiaffo. In pieno viso, appena sveglia. E fa male. Rimango basita davanti allo schermo, sentendo il chiaro impulso di chiudere la porta, il computer, tutto, e non far entrare più nessuno. Appoggio il gomito sul tavolo, per tenermi la testa con la mano, mentre una vocina fastidiosa nella mia testa mi ricorda che era esattamente per questo che avevo giurato che non avrei più avuto una storia seria.
“Non … non me ne ha parlato.” Rispondo, in un fiato. Guardo la data sullo schermo del computer. Sedici novembre. Magari aveva intenzione di sparire nel giro di due settimane.
“Oh.” Mi risponde lei. “Io ... te ne ho parlato perché pensavo che saresti andata a Londra con lui, e immaginavo che se tu fossi partita con lui, avrei potuto passare qualche giorno a Londra con te e con voi.”
Per te o per noi? Per me e per noi. “Certo.” dico. “Sarebbe fantastico, Ben e Jack muoiono dalla voglia di conoscerti. Ma io non credo tornerò in Europa molto presto.”
“Non ci vuoi nemmeno pensare, Julie?”
Wonderwall.” Sussurro. “Tre giorni fa mi ha cantato wonderwall’. E tra due settimane se ne andrà dall’altra parte del mondo.”
“Calmati, Julie, calmati.”
“Sono calmissima.” Mento. Nicole non vede le gambe nude tremare sotto al tavolo. “Calmissima.”
“Non mi sembra.”
“Sto pensando … sto pensando che era esattamente per questo motivo che avevo detto che non avrei più avuto una storia, ricordi? Per le bugie.”
“So perché lo avevi promesso. Me lo ricordo. Ma lui è diverso.”
“Esatto.” Ringhio. “Lui è diverso perché mentire è il suo mestiere.”

Di solito, cerco di fumare una sigaretta al giorno. Seduta in veranda, dopo una doccia che mi aveva ordinato Nicole, mi accorgo di essere già alla terza. Ho freddo, ha iniziato a piovere e non m’importa, tremo di rabbia e anche di paura. Ben è il più bel regalo che la vita mi abbia fatto dopo Manuel. Oh, Manuel. Se solo tu potessi vedermi adesso.
Sento i passi eleganti di Ben sull’erba bagnata, mentre lo guardo tornare fradicio e sorridente. “Ciao, bionda.” Mi dice.
Mi basta guardarlo perché lui possa capire che sono furiosa. “Julie?” chiede ancora.
“Benjamin Thomas Barnes. Quando avevi intenzione di dirmi che devi tornare a Londra tra meno di due settimane?”
Lui perde il sorriso. I suoi occhi si svuotano, e sembra soffrire il freddo della pioggia solo ora. Si porta le mani ai fianchi e guarda a destra e a sinistra, incapace di sostenere il mio sguardo ferito, deluso e furioso.
‘Hai gli occhi che tagliano, a volte’. Me lo disse Addison, la rossa responsabile di chirurgia neonatale, e Ben sembra proprio spezzettato dal mio sguardo.
“Te lo ha detto Jack?”
“No. Ma a quanto pare sono l’ultima a saperlo.” Rispondo.
Lui getta un’occhiata alla sigaretta, mentre io mi tengo il fumo dentro. Lo sento scivolare nei polmoni e morire, mentre gli occhi di Ben sono pieni di parole.
“Due al giorno ti fanno male.”
E io perdo le staffe. “Non dirmi cosa è bene e cosa è male per me, Benjamin!” mi alzo e mi avvicino, gettando la sigaretta, incurante del diluvio. “Mi hai mentito, cazzo, Ben, mi hai mentito!”
“Tu non mi hai mai chiesto dove dovessi andare a girare!”
“Oh, quindi adesso è colpa mia?!” Nicole dice che faccio paura quando ringhio così. E non si rende conto di quanto a me faccia paura non sapere la verità. “Scusami, Benjamin, scusami tanto se non ti ho chiesto dove dovessi girare Dorian Gray, è colpa mia!!”
“Non ho detto questo!”
“Si che lo hai detto!”
“No, questo è …”
“Se Nicole non mi avesse chiamata.” Lo interrompo. “Se Nicole non mi avesse chiamata, dicendo che aveva letto su un giornale che ti saresti trovato a Londra per lavoro tra dicembre e febbraio, come avresti fatto? Saresti partito mentre dormivo? O mentre operavo?”
“No, Julie, te ne avrei parlato prima.”
“Prima quando?! Prima di salire sull’aereo? ‘Ehi, tesoro, mi daresti un strappo in aeroporto? Sai com’è, torno in Inghilterra’! Ma certo, come no?”
“Hai parlato di vivere con me solo un’ora fa, Julie, non-“
Tu  hai parlato di vivere insieme!” punto il dito. “Tu ne hai parlato, dannazione, ed è questo che io non riesco a capire! Sono stata un’ora seduta lì a chiedermi perché mi avessi mentito, perché mi avessi parlato della casa e di tutto il resto, perché mi avessi cantato ‘Wonderwall’ se hai intenzione di lasciarmi subito!”
NON HO NESSUNA INTENZIONE DI LASCIARTI!
“Certo, allora avremmo continuato a stare insieme con un Oceano di distanza! L’hai mai avuta una relazione a distanza, Ben? È come stare con un fantasma!
“Ti avrei portata con me, Julie.” Risponde calmo.
“Dopo avermi fatto comprare una casa, certo.”
“No, no. La tua vita è qui, e io amo questa cosa. Ti avrei chiesto di passare Natale, Capodanno e una parte di gennaio a Londra con me, nel mio mondo, e poi tu saresti tornata qui e io ti avrei raggiunta nel giro di un paio di mesi.”
“Non posso prendere le ferie tra Natale e metà gennaio, Benjamin, non posso perdere così tanti soldi.”
“I soldi non sono un problema.”
“Io non ti permetterei mai di mantenermi. Sono un fottutissimo medico, ed è questo che voglio fare nella vita. Non la compagna mantenuta di un grande attore!”
“Vedi, è per queste cose che mi piaci da impazzire, è per questo! Perché sei indipendente, sei diversa, ti sei costruita questa vita mattone dopo mattone, giorno dopo giorno e la difendi come merita.”
La pioggia mi entra anche nelle ossa, mentre le parole di Ben rimangono nell’aria. “Quando … prima che arrivassi tu, prima che tu entrassi a fare parte di questa vita, Benjamin, io avevo giurato a me stessa che non avrei più avuto nessun uomo. L’ho fatto perché ero stanca, perché ho passato trent’anni con accanto persone bugiarde, e false. Ho toccato il fondo quando ho partorito, e ho scoperto che mio marito aveva un’altra donna, per questo sono partita, per le bugie della gente, per …”
“Io non ti tradirei mai.”
“Non si parla di tradimenti solo fisici, Ben. Mi hai mentito. Quando sei uscito ti ho chiesto se avessi intenzione di tornare in Inghilterra.”
“E io ho detto che c’era tempo. E non stavo mentendo. Abbiamo ancora due settimane.”
“Il fatto è che io pensavo di avere davanti giorni infiniti con te, Ben. Non di dover contare i giorni che mi mancano prima di vederti salire su un aereo.”
Il mio telefono, posato sul tavolo dentro la casetta, suona con insistenza.  Lentamente, entro in casa e afferro il piccolo Samsung. “Stevens?” dico, rispondendo.
“Ho tagliato la pompa di Danny.”

Ben corre dietro di me, precipitandosi nella camera di Danny. “Che diamine è successo?!” domando, ancora fradicia e senza essermi messa il camice. Trovo Danny pallido, sudato, quasi stanco di vivere, Izzie al suo capezzale e gli altri quattro specializzandi dietro di lei, mentre la Bailey li fissa con aria furiosa.
“Stevens, dì alla dottoressa Martin che diamine è successo.”
Ben afferra la mano libera di Danny e si siede accanto a lui.
“Stamattina Burke e Alex sono andati a prendere il cuore, ma il donatore è morto prima che arrivassero. C’era un altro cuore, destinato ad un altro paziente, che era stato inserito nella lista diciassette secondi prima di Danny.”
Di conseguenza aveva la precedenza.” Ringhia la Bailey.
“Era più grave lui, era più grave l’altro di Danny, ma Danny non sarebbe ugualmente resistito a lungo.” Continua la Grey. “Burke stava tornando qui, ma c’è stata una sparatoria e lui è rimasto coinvolto.”
“Che cosa?!”  domando, basita.
Oh, gli sta bene.
“Si, è stato appena operato da Sheperd.” Conferma la Yang.
“E tu che ci fai qui? Perché non sei dal tuo uomo?”
“Perché noi abbiamo tagliato il LVAD per aggravare la situazione di Danny e dargli la precedenza.”
La freddezza di Cristina Yang mi porta a spalancare la bocca.
“Che cosa?” domanda Ben, incredulo quanto me.
“Avete praticamente ucciso quest’uomo, dannazione, avete compromesso la sua situazione, avete mentito!”
“Si, ma-“
“Zitta!” strillo alla Stevens. “Zitta, Isobel, stai zitta, perché hai preso il tuo uomo malato di cuore e hai permesso che per ore stesse in balia del destino!”
Prima che possa aggiungere altro, un’infermiera mi informa che il trapianto verrà effettuato immediatamente. Tutto ricomincia a muoversi, mentre Izzie bacia Danny sulla fronte e lo implora di rimanere vivo. Io lo guardo e mi azzardo ad avvicinarmi. “Mi fido di te, Danny Duquette.” Sussurro. Lui annuisce. Ben gli accarezza il viso mentre io distolgo lo sguardo e chiedo all’infermiera informazioni, e maledico la vita, la pioggia, Seattle e le bugie.

“Ben?” lo trovo seduto sul letto di Jack, con i pugni serrati.
“Si?” mi chiede, girandosi verso di me.
Entro nella stanza. “Io vado a vedere il trapianto.”
“Okay.”
“Vieni con me?”
Per la prima volta, Ben mi sembra davvero distrutto. Jack mi scruta, Iris tiene le braccia incrociate sul petto e la faccia di Ben è un libro aperto. “Non … non so se ce la faccio.” Mi rendo conto che Ben si è affezionato a Danny più in fretta di quanto pensassi. Lo ha visto praticamente morto per due volte in una settimana, ed è abbastanza intelligente per capire quanto male possa andare un trapianto cardiaco.
“E io non ce la faccio senza di te.”
“Ti ho mentito.” Mi ricorda lui. “Tu odi le bugie.”
“Appunto. Tu mi hai mentito. E abbiamo solo quattordici giorni.”
Ben si alza e mi guarda. Lentamente, si china e mi bacia con delicatezza. “Quattordici giorni e una vita.”

Odio la gente che mi fissa dalla galleria quando opero. Odio gli occhi di chi è pronto a giudicare, e odio chi si siede qui con aria preoccupata. Ho dato un camice da specializzando a Ben e l’ho fatto sedere accanto a me, mentre guardo un medico che non conosco mettere le mani nel petto di un mio amico, mentre penso che Ben tra due settimane tornerà in Inghilterra e io passerò il Natale da sola – insomma, perché mi illudevo che sarebbe stato diverso?
“Julie?”
Mi volto verso Ben.
“Non si può fare, vero? Questa cosa del camice e dell’intervento.”
“Se Izzie ha tagliato la pompa, nessuno dirà niente per un camice in prestito o un esterno in galleria.” Replico scettica.
“Julie?” domanda di nuovo.
“Sì?”
“Dorian Gray verrà girato a Londra.”
Io sto per strillare. Perché me lo deve ricordare? Mi concedo di pensare per qualche secondo, prima di capire che gli dispiace davvero tanto. Quattordici giorni e una vita.
“Dovrò partire il primo dicembre. So che tu avrai da fare, qui, so che se dovessi tornare in Europa andresti dalla tua famiglia, ma vorrei chiederti di far passare le vacanze di Natale e poi passare gennaio con me, perché Londra con la neve è meravigliosa e perché io ti vorrei accanto.”
“Un giorno ti stancherai di me, Benjamin.”
“Ah sì?” domanda lui.
“E ti pentirai di avermi fatta entrare nella tua vita da inglese strafottente e prevedibile.”
“Ne sembri molto sicura.”
Inglese strafottente.
“Ne sono più che certa.”
“Quindi non verrai con me a Londra?”
“Non so se verrò con te a Londra. Non so se Danny vivrà, non so se comprerò una casa, non so se voglio lasciare Seattle. Mi sembra di avere di nuovo sedici anni quando non sapevo cosa fare della mia vita.”
“Sicuramente, a sedici anni avresti seguito a Londra un inglese strafottente e prevedibile innamorato di te.”
Io mi passo la mano nei capelli e mi lascio andare sulla sedia, mentre assaporo le sue parole. No, dice una vocina nella mia testa. No, questo è troppo.
“Stammi bene, Julie.”
Ben si alza e se ne va, gettando una veloce occhiata al corpo di Danny aperto in due.

“Sono vivo, Julie.”
Controllo la cartella di Danny. “Sì.”
Il trapianto è andato bene.
Il suo cuore batte.
Il suo sangue circola.
Ben ne sarebbe felice.
“Ho le mani calde.”
“È normale.”
“Ben è passato a salutarmi.”
“Credo che Ben se ne sia andato.”
Mi concedo di guardare Danny, e so che vede nei miei occhi ciò che è successo mentre lui era sotto ai ferri. “Perché?”
“Ha detto che mi ama.”
“E se n’è andato?”
Sono passata in camera di Jack. Ed era vuota. Ho ordinato alle infermiere di dirmi cosa fosse successo, e loro mi hanno detto che Jack Barnes, su insistenza del fratello, ha chiesto di essere cambiato di medico, e che la Bailey ha acconsentito al fatto che venisse dimesso, messo su un aereo e portato in Inghilterra.
“Ha portato via Jack e se ne sono andati. Sono tornati in Inghilterra.”
Danny mi guarda come se avessi parlato un’altra lingua. “E perché non sei a cercare di fermare il loro aereo?”
“Hai dormito sei ore dopo l’intervento, Danny, e loro sono partiti da almeno dieci.”
“Vai da lui.”
“Non mi muoverò da qui fino a quando non ti vedrò prendere le tue cose e andartene da questo ospedale, Danny.” Mi siedo sul suo letto. “Non so se hai capito, che sono una persona sola.”

La casetta mobile mi è sempre piaciuta moltissimo. Mi piaceva da bambina, quando le vedevo in tv, e mi piaceva anche quando ne ho comprata una. La prima cosa che ho fatto in  questa casetta è stata mettere le tende, sistemato le lenzuola e messo i miei vestiti nell’armadio, mentre ripetevo a Nicole che si, ci sarei stata solo qualche settimana, qui dentro.
Non avrei mai immaginato di trovarla vuota. Di sentirla vuota. Una casetta mobile come questa nasce vuota e rimane vuota fino a quando non verrà demolita.
Non avrei pensato che Ben Barnes avrebbe riempito la mia meravigliosa casa mobile. Maledetto Ben Barnes. Prendo a calci la porta del bagno, ripensando al sesso fatto nella doccia o un po’ dove capitava, come capitava, semplicemente perché ci andava di fare l’amore come se nell’amore ci credessimo davvero.
Mi raggomitolo sotto al lavandino. Non c’è un solo angolo qui dentro che non mi ricordi Ben Barnes. Maledetto ragazzo.
Ho passato trentatré anni senza di lui, due settimane con lui e la mia vita senza di lui mi sembra vuota. Come diamine è possibile? Io lo odio, stupido inglese strafottente. Lo odio. Non ho nemmeno salutato Jack, o Iris, non ho detto a Jack che se avessi avuto un fratello, avrei voluto che fosse un fratello come lui. Non ho detto a Iris che non deve dubitare dell’amore di Jack, o dell’amicizia di Ben, perché loro sono Ben e Jack, e sono stati procreati per amare le persone.
Io invece sono Julie Martin e non sono capace di dire a Ben che credo di amarlo anche io.
Mi rendo conto di stare piangendo, piangendo per un uomo, piangendo seriamente, fino ai singhiozzi, fino a volermi strappare il cuore dal petto. Mi alzo. Non voglio stare qui, non voglio vivere su un pavimento, piegata dal dolore per una persona che ha deciso di andarsene.

“Gin tonic. Forte.”
Joe mi scruta. “Caspian dov’è?”
“Se n’è andato.”
“Mi sembrava vi piaceste.”
“Julie?”  La voce di Addison, la rossa di chirurgia neonatale, una delle poche persone che hanno cercato di avvicinarsi a me, mi guarda come se fossi un relitto umano. “Che è successo?”
“Ben se n’è andato.” Confesso.
“Mio marito è innamorato della tua specializzanda.” Mi dice lei di rimando. “Posso sedermi?”  Io annuisco. “Per me, della vodka.” Dice a Joe. “Perché Ben se n’è andato?”
“Lavoro.” Sussurro.
“E perché non sei con lui?”
“Perché lui mi ama.”
“E perché non sei con lui a Londra?!”
“Perché tutti mi chiedete questa cosa?! Perché nessuno pensa che io possa aver avuto paura, che possa essermi paralizzata, che la paura di amarlo anche io possa avermi bloccata? Perché nessuno pensa che è proprio perché credo di amarlo anche io che non riesco a prendere l’aereo, e andare a Londra a prenderlo a calci?!” afferro il bicchierino e trangugio il gin tonic, lasciando che mi bruci nella gola, che faccia male, desiderando che mi riempia, perché non mi sono mai sentita così vuota.
“Ehi, vacci piano!” esclama Joe.
“Perché non avresti nessuno da chiamare se fossi ubriaca al punto di non stare in piedi?” domando, scettica.
“Perché non mi va di vederti perdere la tua dignità.” Risponde prontamente lui.
Lo fisso intensamente. Ha gli occhi azzurri, come me. E forse immagina quanto faccia male il vuoto che ho dentro. “Un altro, per favore.”
“Domani ci sarà un ballo.” Butta lì Addison.
“Si, un ballo in ospedale. Pare assurdo.”
“Hai un vestito?”
“Non ci verrò.”
“E perché no?”
“Perché il principe Caspian è tornato a Narnia.” Joe sta per puntualizzare che il principe Caspian non era di Narnia, ma io lo zittisco con un gesto.
“E questo dovrebbe impedirti di venire al ballo?”
“Addison, è già tanto che io mi sia alzata dal pavimento di casa mia.”
“Oh.” Risponde lei. “Allora un altro giro anche per me.”

“Ciao, Danny.” Dico, entrando.
Lui mi sorride. “Che ci fai ancora qui?”
Io mi guardo attorno. “Sono anche in anticipo. Il mio turno inizia dopo pranzo.”
“No, no. Che ci fai ancora entro i confini dello stato di Washington?”
“Stavo bene prima di Ben, starò bene anche dopo Ben.”
“Quanti bicchieri hai trangugiato prima di partorire questa frase?”
“Un paio, forse. Non importa. Vino veritas.”
Lui sorride e scuote la testa. “Ti devo dire una cosa.” Io mi siedo sul letto. “Ben e Jack mi hanno telefonato.”
Non riesco a fingere che non m’importi. Non posso. Non con l’uomo più sincero della terra. Mi passo una mano nei capelli e cerco di non piangere. Ho già pianto abbastanza per lui. “E come stanno?”
“Bene. Jack ha già ripreso le chemio a Londra, vicino a casa, e sta bene. Ben sta studiando il copione. E mi ha chiesto di te.”
“Carino da parte sua.” Ironizzo. “Che gli hai risposto?”
“Che sembri la vecchia comparsa di un film in bianco e nero che sa dire solo ‘sto bene’. Non temere, l’ho pure insultato. Ma lui ha paura quanto te.”
“Allora è un codardo. Strafottente inglese codardo sexy e prevedibile.”
Lui sorride. “C’è un’altra cosa che vorrei dirti, e una cosa che vorrei chiederti. E vorrei che  tu fingessi di essere felice per me.”
“Ci provo.” Tiro su col naso e rimango in attesa.
“Izzie ha accettato di sposarmi.”
Nonostante tutto, il mezzo sorriso che mi compare sul viso cerca di essere un sorriso sincero. “Mi fa davvero piacere. Mi dispiace di averle urlato contro, ieri, glielo dirò appena la vedo.”
“Può venire qui solo in orario di visita.”
“Sì, ho incrociato la Bailey, prima.”
Ho incrociato Miranda Bailey che mi informava che Izzie Stevens non ha confessato di aver tagliato il cuore artificiale. Lo hanno confessato tutti, in gruppo, davanti al primario, ma singolarmente nessuno ha confessato. Questo vuol dire essere un gruppo. E io sono fiera di loro anche se non lo posso mostrare.
Loro non hanno paura di stare accanto alle persone che amano.
“La cosa che vorrei chiederti, invece …”
“Non andrò a Londra.”
“… è di farmi da testimone.”
Ci provo, ci provo a sorridere sul serio, ma mi ritrovo un smorfia che probabilmente fa pure paura, ma lui è un vero amico e non si spaventa. “Ne sarei onorata.”
“Ti voglio bene, Julie.”

Tu tu tu. Può dirmelo solo lui se devo salire sul primo aereo per Londra. Può dirmelo solo lui se ho avuto paura o se non ho risposto perché non lo amo. Solo Adam, solo tutto ciò che mi resta di Manuel. Il telefono suona, mentre io me ne sto seduta per terra nella stanza del medico di guardia.
“Julie?”
“Adam, ti ricordi quando studiavamo biologia a scuola?” replico.
“Si, si, mi ricordo.” Replica nostalgico.
“No, non devo parlare di Manuel. Dovevo parlare di atomi e dei loro legami.”
“Sei laureata in Medicina, Julie, e non ricordi …”
“Stai zitto, ricordi che protoni e neutrono si attraggono e poi rimangono uniti?”
“Sì.” Risponde dubbioso lui.
“Ho trovato il mio neutrone.”
“Ti chiamerò elettrone Martin!” scherza lui.
“Ho conosciuto un uomo, Adam.”
“Spero che sia uno che ti abbia dato del filo da torcere.”
“Oh, eccome!” Racconto di ogni particolare di Ben. Dal primo sguardo, appena sceso dall’ambulanza, alla sua arroganza, la preoccupazione per Jack, i rumori nella siepe. Il bacio in veranda, Danny, l’operazione, i racconti sul molo, come la chimica tra noi sia cresciuta ora dopo ora, senza che ce ne rendessimo conto, senza che potessimo controllarlo. Iris, Jack, la chitarra, la canzone. La casa da comprare, la pioggia, Londra, i giorni contati, la litigata, Danny di nuovo, l’operazione dalla galleria. Stammi bene, Julie. La mia casa che improvvisamente sembra vuota, la mezza sbronza, essere tornata a non sapere chi sono, cosa voglio. Quando ho finito di vomitargli tutto il mio dolore addosso, quando ho pianto di nuovo, quando non riesco più a respirare, quando gli ho confessato “Non so cosa fare, Adam, non so cosa voglio, non so più nulla. Tu sei la sola persona che mi conosce davvero.”
Lui aspetta qualche secondo e poi sospira. “Devi guardarti allo specchio, Julie. Devi essere egoista e guardarti allo specchio. Il fatto che tu stessi bene prima di lui, non significa che starai bene anche dopo. Quindi vatti a guardare allo specchio, asciugati le lacrime, assicurati che Danny stia bene, affida i tuoi pazienti a qualcuno, saluta la gente del ballo, poi prenditi un’aspettativa fino a febbraio e vola a Londra. Vola da lui.”
“Perché?” chiedo.
“Perché non mi hai mai parlato così bene di qualcuno, come se ti avesse salvata. Mai. Nemmeno prima di sposarti.”
“E quindi?”
“Quindi vai da lui, piccola, perché te lo meriti. E non voglio più sentirti ridotta così.”

Mi precipito verso la camera di Danny, e l’odore che sento è un odore che conosco troppo bene. È l’odore della morte. Guardo allarmata l’infermiera dai capelli rossi, e lei mi porge la cartella. Quando leggo l’ultimo appunto, sento il terreno mancare sotto i piedi.
Il paziente è deceduto alle 19:42 del giorno successivo all’intervento.
“Non può essere vero.” Sussurro. “Olivia, dimmi che non è vero.” Lei scuote la teste visibilmente dispiaciuta. “Non lui.” Olivia mi batte una mano sulla spalla e si allontana.
Io entro nella stanza, aggrappandomi ad una forza che non pensavo di avere, e vedo Danny pallido, fermo, freddo. Immobile. Morto.
Non so come il mondo possa andare avanti senza il suo ottimismo. Non so come potrò andare avanti io senza Danny che mi dice che andrà tutto bene. Che devo parlare con Ben.
Ben. Ben dovrebbe essere qui. Ben dovrebbe saperlo.
Mi appoggio alla parete e mi lascio scivolare per terra, facendo del mio meglio per non evocare le immagini del corpo di Manuel, della siringa, dei suoi occhi sbarrati, della sensazione che era tremendamente simile a questa. L’infermiera si china su di me e mi porge un bicchiere di acqua, con occhi tristi.
Non riesco a ringraziarla, non riesco a dire una parola. Afferro il bicchiere, ma lo stringo troppo.
Il tempo è immobile. La mia mano è piena di pezzi di vetro, di sangue caldo.
Il tempo è immobile. Olivia mi medica, mentre io non sento niente. Non sento dolore, non sento la sua voce. Vedo. Vedo Izzie entrare nella stanza, con un abito da sera, la vedo bloccarsi alla vista di Danny. E poi, lentamente si avvicina e gli accarezza il viso. Lo sposta leggermente, si fa spazio e si stende accanto a lui. Ha gli occhi spenti, e non so con quale forza non pianga, non so con quale forza riesca ad accarezzare il viso freddo di Danny.
Il tempo è immobile, e non so quante ore siano passate, forse giorni, forse anni, ma adesso la stanza di Danny è vuota, e Olivia mi dice che deve cambiarmi la medicazione alla mano. Non riesco nemmeno a pensare, riesco solo a guardare questa ragazza dai capelli rossi, senza vederla.
Il tempo è immobile. L’ufficio del primario è luminoso, lui è seduto dietro la scrivania e mi scruta con occhi sinceri. “Ho bisogno di prendermi un po’ di tempo.” Dico. E lui sa quanto me che sono sincera. “Ero amica di Danny Duquette. E non so se voglio più fare il medico. Ho bisogno che tu mi lasci un po’ di tempo, Richard.” Lui annuisce lentamente, mentre cerca di sorridere.
Il tempo è immobile. Guardo la ragazza negli occhi, aspettandomi quasi che cerchi di fermarmi. “Il prossimo volo per Londra, per favore.”
Il tempo è immobile.



 
Da notare che la storia del legame tra gli atomi non mi sembra da averla capita bene, ma il mio prof di biologia l'ha spiegata con un tale entusiasmo che mi sembrava doveroso paragonare il legame covalente a Ben e Julie.
Spero davvero di aver reso giustizia a Danny, e ringrazio di nuovo la sistah vivis_ compagna di anzzzzzia.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** forse non volevo crescere ***


Girasoli nella tempesta – capitolo cinque: forse non volevo crescere.
“Papà?”
“Sì, tesoro?”
“Che intendi quando dici che la mamma ‘ha del carattere’?”

“Cosa guardi, Jack?”
“Mi stavo solo chiedendo perché stai lasciando il paese senza dare una spiegazione alla tua donna.”
Guardo l’aeroporto Seattle sparire sotto al finestrino dell’aereo. Il cielo è dello stesso colore della maglia di Julie che sta posata in bagno da settimane. Jack finge di non sentire il dolore alla pancia, mentre Iris mi tiene il broncio. Sono loro la mia famiglia. Come ho fatto a pensare che potesse essere diverso?
“Perché ha voglia di commettere il più grande errore della sua vita.” Grugnisce Iris.
“Pensavo che non mi rivolgessi la parola.” Rispondo io.
“Infatti non sto parlando con te, dannato egocentrico.”
Jack mi guarda, come se stesse guardando un vecchio quadro sbiadito per cui è dispiaciuto. “Smettila.” Gli dico. “Sto bene.”
“Le hai detto che la ami tre ore fa e ora stai lasciando il Paese, cazzo, non stai bene.”
“Allora perché mi stai seguendo?!”
“Perché sono tuo fratello. Sono biologicamente obbligato a rimanerti accanto anche quando fai stronzate come questa, per ricordarti che sei un cretino di dimensioni abissali, e ...”
“Credo possano bastare gli insulti, Jack.”
“Oh, ti ringrazio, Iris.”
“No, no, intendevo che poi ti devo insultare io.”
“Ah.” Rispondo. “Quando arriva ‘poi’, fammi un fischio.”
“Quando ne avrò trovati di adatti.”
“Sei una vera amica, Iris.”
Lei sorride a trentadue denti e io la riconosco. “Lo so.”

Londra è sempre uguale. Ecco perché la adoro. Perché non cambia mai. Ci saranno sempre le stesse panchine, le stesse persone, le stesse insegne luminose, gli stessi libri nella libreria, e fuori da casa mia ci sarà sempre quel lampione che funziona a scatti, il primo gradino sarà sempre più alto degli altri due e la maniglia cigolerà sempre. La mia valigia non pesa mai troppo e Jack abita poco lontano. Tre numeri più in là, in effetti.
Apro la porta, trovando tutto esattamente come era, e forse un po’ mi dispiace. Forse un po’ speravo di aprire la porta e ritrovarmi in quella casetta mobile.
Butto il borsone sul divano, lo apro e tiro fuori la foto che ho fatto sviluppare. Julie che fuma con addosso la mia maglietta, mentre guarda fuori dalla finestra con i capelli raccolti a metà, al centro della casetta mobile, in mezzo a quel disordine che la rappresentava tanto. In mezzo a tutto ciò da cui sono scappato.
Bellissima idea dire di amare una ragazza con cui stai da due settimane, e con cui hai appena litigato, che ha giurato di non avere mai più storie. Oh, si Ben, idea meravigliosa.
Mi getto sull’altro divano, senza avere il coraggio di salire al piano di sopra e trovare il mio lettone vuoto. “Sei un cretino, Benjamin Barnes.” Mi dico.
“Ben?” sento, dopo un po’.
“Cinque minuti.” Brontolo.
“Oh, andiamo, non fare la femminuccia!”
Apro un occhio e mi rendo conto di essere ancora sul divano. “Jack?” chiedo, incerto.
“Oh, no, sono la fata turchina!” strilla Iris, aprendo le finestre. “Cazzo, Ben, c’è odore di chiuso, tu sembravi morto e hai dormito ventiquattro ore!”
“Sto affrontando il get lag.” Improvviso, mentre lui si accorge della foto di Julie che tengo nella mano.
“Insomma, Ben, che ti prende? L’hai lasciata tu!”
“Sai che ti dico? Jack non sarebbe dovuto cadere da quel dannato tetto.” Rispondo alzandomi.
“Certo, ora è colpa di Jack. Tu hai trovato la donna della tua vita, avete giocato a fare la coppia felice per dieci giorni, poi si è accorta che vivete ai poli opposti, avete litigato, lei ti ha chiesto di starle vicino, tu le hai detto che la ami e poi sei scappato. Ma certo, è colpa di Jack che è caduto dal tetto!” posa due pesanti borse sul tavolo della cucina. “Ti ho portato da mangiare, idiota.”
“Grazie.” Dico, mentre afferro il borsone.
“Vatti a fare una doccia e poi vai a trovare i tuoi.”
“Sì, mamma.” Rispondo, salendo la scala dietro la cucina.
“BEEEEEN!” strilla lei.
Io torno di sotto. “Sì, Iris?”
“Hai di nuovo gli occhi vuoti.”

Mia madre ha i capelli grigi, lunghi, e ci tiene moltissimo. I capelli di mia madre sono la seconda cosa che vedo, dopo il suo sorriso, quando mi apre la porta di casa. La abbraccio, mentre lei si lamenta che la mia barba incolta sul viso le pizzica, io guardo dietro di lei il salotto in cui sono cresciuto, e mi vengono in mente tutti i giochi con Jack, ogni momento passato qui prima di Julie. La mia vita prima di Julie Martin era tutta qui.
“Ciao, mamma.” Le dico. “Mi sei mancata.”
“Oh, Benjamin! Bentornato a casa!”
E chissà perché, ma alla parola ‘casa’ io collego gli occhi azzurri di Julie.

Da bambino amavo sdraiarmi per terra, a pancia in giù, per giocare con le macchinine. Andavo ovunque, negli angoli più remoti della casa, pur di non permettere alla macchinina di mio fratello di vincere. Non avevo mai provato a stendermi a terra ed ammirare il soffitto di vecchie travi.
Forse questo significa crescere. Smettere di guardare la linea del pavimento, e stendersi dall’altra parte per guardare le cose che stanno più in alto di te.
Forse non volevo crescere. Forse sarebbe stato meglio fermarsi a quando la cosa più triste, fosse che Jack mi battesse con le macchinine.
Forse sarebbe stato meglio rimanere bambini. Forse ho sbagliato a voler crescere. Forse era meglio non conoscere certi dolori.
Il campanello suona. “Vai al diavolo, Iris.” Dico, alzandomi. Stavo così bene quando giocavo con le macchinine. “Iris, ci siamo visti ieri, e non …”
Davanti a me non c’è Iris, la donna folletto con i capelli sparati in aria. Iris ha le chiavi.
I capelli che ho davanti sono biondo miele, ma sono legati in una coda. È bella, quando si fa la coda, si vede di più il viso a forma di cuore. Ha gli occhi gonfi e arrossati, indossa un vecchio giubbotto, e sembra davvero triste, ma non importa. Ciò che importa è chi è. Ed è Julie.
Prima che io possa dire qualcosa, lei dice tre parole che non mi sarei mai voluto sentire dire. Forse mi aspettavo ‘ti amo anche io’, ‘mi dispiace’, ‘perdonami’. Ma le parole che è venuta a dirmi solo altre. E fanno male.
“Danny è morto.”
Istintivamente, irrigidisco il braccio e con la mano ancora dolorante per il pungo alla finestra, tiro un pugno al muro. Non dico niente, anche se vorrei urlare, bestemmiare, sedermi per terra e smettere di esistere.
Danny è morto.
Lei continua a guardarmi, e interpreto le sue occhiaie e la sua coda fatta male. Vorrei rispondere. Male. Vorrei dirle di tornare a Seattle, vorrei dirle che per noi non c’è futuro, vorrei dirle che mi dispiace per Danny, ma solo per lui e non per noi, vorrei dirle che la amo e che la odio, vorrei dirle che era meglio quando giocavo con le macchinine, che il mondo fa schifo di nuovo ed è anche colpa sua, ma lei mi batte sul tempo.
“E ti sei scordato la maglia per correre nelle cose da lavare.”
“E hai attraversato il pianeta per restituirmela?” chiedo, scettico.
Lei fa per dire qualcosa, ma richiude subito la bocca. Scuote la testa, e fa per andarsene, ma io mi rendo conto che no, così non vale, e le afferro il braccio.
“Okay, okay, ritiro l’ultima frase.” Ammetto.
“Hai detto che mi ami.” Mi ricorda lei.
“Sì, e …”
“E non mi hai lasciata parlare. So che sei rimasto lì parecchi secondi in attesa che ti dicessi qualcosa, ma sono dannatamente lenta in certe cose, quindi sono qui per rispondere.”
“Per rispondere?” domando, senza capire. “Che c’è da rispondere?”
“Una persona normale direbbe ‘anche io’, ma sfortunatamente non rientro nella categoria.”
Inizio a sentire male alla mano. Danny è morto. “Non devi dirlo perché l’ho detto io.”
“Tu non lo pensi?”
“Io dico sempre ciò che penso.”
“Bene.” Si osserva velocemente i piedi. “Posso rispondere, ora?”
“Ti sei preparata un discorso?”
“No.” mi risponde. “No, immagino che dovrò improvvisare.”
Allargo leggermente le braccia come per farle segno di parlare.
“Non lo so dire, io, quello che mi hai detto tu. Non l’ho mai detto a nessuno, a mio marito dicevo ‘anche io’, che di per sé non è un ‘ti amo’. Non te lo saprò mai dire, che credo sia di sentire la stessa cosa anche io, e vorrei che tu cercassi di capirlo.”
“Julie, non …”
“Zitto.” Mi dice subito lei. “Sono un rubinetto stappato, ora, e non hai il diritto di dire niente.” Respira profondamente. “C’era un ballo, in ospedale, organizzato per una ragazza malata di cancro alle ovaie che non era potuta andare al ballo della sua scuola. Il primario ha ordinato che ci fossimo tutti, nessuno escluso. Io ero … ero a guardare la gente ballare, dalla passerella, e ti giuro che solo un mese fa non mi sarebbe affatto pesata l’idea di non avere un cavaliere, non mi sarebbe pesata per niente. Ma tu … tu mi mancavi, Ben. Ti avrei voluto accanto a me. Ho chiamato Adam, e lui mi ha detto … che dovevo correre da te, perché era la cosa giusta da fare. Sono corsa da Danny, e … Olivia mi ha detto che era morto da dieci minuti.”
Poso il braccio sulla porta e ci appoggio la testa. Danny è morto.
“Però, vedi, io e lui avevamo fatto un patto, giusto un paio di ore prima. Lui mi aveva chiesto per quale motivo non fossi su un aereo per Londra, e io gli ho detto che non mi sarei mossa da Seattle fino a quando non lo avrei visto lasciare l’ospedale camminando sulle sue gambe.”
Chiudo gli occhi. Danny è morto.
“Però … ero seduta sul pavimento della stanza, con Izzie che abbracciava Danny, urlando che non potevano portarlo in obitorio, e … mi sono resa conto che la sola persona che voglio avere accanto, da qui fino a quando non sarò un corpo freddo da portare in obitorio … quella persona sei tu, Benjamin Thomas Barnes.”
Non ci penso, non più di un attimo. Corro verso di lei, in tuta, la abbraccio, la stringo, mi riempio del suo odore, mentre la sollevo da terra con la solita facilità e lei ride, stringendomi con le sue braccia. La bacio, con passione, lei gioca con la mia lingua e mentre sento il suo sapore sulle labbra mi rendo conto che non desidero altro che lei, lei e noi.

“Oh, Benjamin!” esclama Julie. “A Londra non mangiate mai?”
Io la raggiungo in salotto, notando che ha aperto il frigo. E lo ha trovato vuoto.
“No.” rispondo, sinceramente. A pranzo ieri sono andato da mia madre, quindi non ho fatto la spesa.”
“E la cena di ieri?”
“Sono stato con Jack in un pub.” Non riesco nemmeno a fingere di non essere al settimo cielo per averla di nuovo. Non riesco a non sorridere come un cretino guardandola cercare da mangiare in casa mia, non riesco a non rimanere impressionato dal suo essere così perfetta. Il mio telefono suona, e io sogghigno quando vedo sul display il nome di Jack. “Ehi, fratello.”
“Hai finito la maratona del sesso? O non avete risolto?” domanda.
Io rimango perplesso. “Che dici, Jack?” Julie si volta verso di me e sorride. “Oh, parli di Julie. Come sai che è qui?”
“Secondo te se l’è sognato di notte l’indirizzo di casa tua?” Scoppio a ridere e Julie, con passi silenziosi, si avvicina a me e mi bacia la guancia. “Non ringraziarmi, eh.”
“Grazie, Jack.” Sbuffo.
“In realtà, non ti ho chiamato per essere ringraziato. Mi ha appena telefonato il portavoce di Emergency.” Io mi lascio cadere sul divano. Ecco che Jack ricomincia con gli eventi di beneficenza. Ecco che torna tutto come prima. “C’è una cena, con annessa conferenza, servizio fotografico, strette di mano, interviste, e …”
“Sono con Julie.” Rispondo.
“E perché questo dovrebbe essere un vincolo? Sai quanto ci mangia la gente, sul gossip?”
Chiudo gli occhi, mentre ascolto Jack che veste di nuovo i panni del manager e bla bla bla. E io che pensavo che avrei passeggiato mano nella mano con Julie per Londra.
“Julie non si metterà mai l’abito lungo.” Lo dico più a me che a lui, rendendomi conto di quanto ami la comodità e odi chi vuole solo apparire.
“Oh, beh, Julie mi ha salvato la vita e non può mettersi un vestito?”
“Non credo nemmeno ne abbia. Scusa, poi non ho mai portato nessuna con me … al massimo Iris.”
“Iris ha ripreso a lavorare, altrimenti avrebbe accompagnato me. Ad ogni modo, ho già parlato con il tuo agente. Ha detto che se ti presentassi con una donna faresti un figurone, saresti al centro dell’attenzione, facendo una perfetta pubblicità a te, al film e all’associazione.”
Io sbuffo. “Va bene, dottor Barnes. Vedrò che posso fare.” Lo saluto e chiudo la telefonata, seguendo il rumore della voce di Julie, respirando l’odore di questa casa che ora è piena di noi. È seduta sulla poltrona dello studio, dietro la scrivania, e guarda la vita di Londra sotto la finestra.
“Jack si occupa di eventi benefici.” Esordisco.
Lei si volta a guardarmi. “Si, me lo aveva accennato.” Replica, seria.
“Ha organizzato una cena domani sera, con fotografi, giornalisti, e tutto il resto, e…”
“E tu ci devi andare.” Mi precede.
“Veramente vorrei chiederti di venire con me.” Butto lì.  
“Alla cena di beneficenza cono fotografi giornalisti e tutto il resto?”
Io annuisco.
Lei sembra pensarci su e poi storce il naso. “Non ho un vestito.”
“Ci pensa Iris.”
Iris?” chiede.
Iris, il folletto pazzo che girava per l’ospedale insultando me e Jack, è una stilista.”
Julie sorride, e io non posso che rispondere al sorriso. “Mi piace il rapporto che c’è tra di voi.”
“Stai sviando l’argomento.” Contesto.
Julie abbassa la testa. “Iris mi odierà dopo aver cercato di mettermi un vestito. E Nicole mi odierà perché mi sono fatta vestire da qualcuno che non sia lei.”
Io sogghigno. “Potresti invitare anche lei. Jack vorrebbe conoscerla.”
“Non metterò mia sorella nelle mani di quel donnaiolo di Jack.” Replica lei.
“Oh, certo, Nicole gioca ancora con le bambole, per te, giusto?” ironizzo, avvicinandomi.
“Nicole è solo una ragazzina.”
“Nicole è una piccola donna di diciannove anni molto molto carina.”
“BENJAMIN THOMAS BARNES!” strilla lei.
Io scoppio a ridere. “Scusa, davvero, non ho resistito.”
“A cosa?!” strilla lei, con la faccia da medico cattivo.
Io le poso l’indice sul naso. “A questa faccia.”
Lei sbuffa e poi incrocia le braccia sul petto. “Oh, contaci, che verrò con te alla cena.” Scende la scale verso il salotto. “Contaci, Benjamin!”
Io non riesco a smettere di ridere, la rincorro e la prendo da dietro. “Tanto non sei davvero arrabbiata.” Mormoro, con la testa nei suoi capelli.
“Certo, certo.” borbotta lei. “Mi lasci andare o no?”
“No. Dove dovresti andare, poi?”
“In camera.”
“A fare cosa?”
“A prendere il computer.”
“Ne ho uno anche di sotto.”
“Devo chiamare Nicole.”
Io sorrido ancora. “Chiedile di venire qui.”
“Ha la scuola.”
“Ci sono le vacanze di Natale.”
“Ha degli amici e degli impegni.” Riprova lei.
“E una sorella che non vede da due anni.”  Lei sa che io so che il vero problema è il fatto che ci sia io, che lei stia da me, e che questo renda tutto maledettamente ufficiale. “Dopo la cena lo sapranno tutti comunque, bionda.”
Lei si volta, senza spostare la mia presa dai suoi fianchi, posando le sue mani graziose sul mio collo. Mi bacia dolcemente. “Allora teniamocelo per noi il più possibile.”
“Tua sorella sa già di noi.” Ritento.
Lei mette il broncio. “Okay, Benjamin, chiederò a Nicole se le va di passare le feste da me. Ma ti giuro che se Jack la sfiora anche solo con un dito, ti giuro che la caduta dal tetto sarà stata solo una passeggiata.”

“Ehi, ma quello non è Ben Barnes?” le ragazzine impazzite in aeroporto mi fanno sorridere. Julie fa per girarsi a dire qualcosa, ma io approfitto del fatto che ci stessimo tenendo per mano per impedirle di muoversi.
“Lasciale stare.” Le dico.
Ovviamente, Nicole è stata più che entusiasta di accettare l’invito. Ha detto che sarebbe un onore conoscermi e venire con noi alla cena di beneficienza, mentre Julie le raccomandava di ‘stare lontana dal piccolo Barnes’. Ma non è questo che ha incupito Julie. È stata una telefonata con i genitori. Parlava in un francese stretto, misto a qualche parola di italiano, e sono riuscito a capire solo ‘ecco, questo è il motivo per cui me ne sono andata!’, ‘per favore, non stiamo parlando di me, del mio lavoro o della mia vita, ma di Nicole’ e ‘non puoi pretendere di avere ancora il controllo sulla mia vita’. Stavo per sentirmi in colpa per essermi ritrovato ad origliare fuori dallo studio, ma poi mi sono resa conto che Julie non mi ha mai raccontato dei suoi genitori. Sempre e solo Nicole, Nicole, e Nicole. Qualche volta, qualche accenno a Isabelle e a suo marito, ma i rapporti con i due non dovevano essere buoni. Ma mai una sola parola per i loro genitori.
Nell’istante in cui Nicole appare, davanti a noi, io rimango colpito da quanto assomigli a Julie. È più giovane, e si vede, più bassa, ha i capelli neri, ma il viso, gli occhi, il sorriso, la luce nell’espressione. È anche il suo abbraccio con Julie che mi toglie il fiato. Avevo intuito il bene che si volessero, e che la grande differenza d’età era complice di un rapporto strano, unico e meraviglioso. Ma Julie stringe quella ragazza come se ne andasse della sua stessa vita, mentre le due ridono con la stessa risata dolce.
Solo nel momento in cui le due si allontanando, tenendosi comunque la mano, mi guardano con gli occhi pieni di gioia.
Nicole mi guarda come per ringraziarmi, mentre si avvicina con aria imbarazzata. “Ciao, Ben Barnes.” La sua pelle è leggermente più scura rispetto a quella di Julie, e il suo sguardo è puro e giovane.
“Ciao, Nicole Martin.” Rispondo, sorridendo. “Fatto buon viaggio?”
“Perfetto.”
Mi sorride, e mentre penso che potremmo diventare quasi amici, mi suona il telefono. Jack.

“E quindi, Jack che ha detto?” mi domanda Julie.
“Che sarebbe meglio che lei avesse un accompagnatore.” Ammetto, posando l’hamburger sul tavolo.
“E lui ha una dama?” domanda Nicole.
“No.” rispondo, sedendomi sullo sgabello del fast-food.
“Come no?” chiede Julie, con la testa immersa nel panino. “E Iris?”
“Iris ha un altro evento, domani sera.”
Le sorelle si guardano. “Oh, che inglesi impegnati.” Scherza Julie.
“Strafottente inglese prevedibile.” Preciso.
Nicole sorride. “Perché non posso fare da dama al fratello di Ben?” chiede, con naturalezza.
“Perché ti ha definita solo una ragazzina.” Preciso io.
Nicole si finge offesa. “So badare a me stessa, Julie!”
“No, no, Jack no.”
“Non devo per forza innamorarmi anche io di un Barnes.”
“Ho detto di no.”
“Sono grande, vaccinata, responsabile …”
“Piccola, innocente, e vergine.”
“No.” replica lei. “No, non lo sono. Nessuno dei tre.”
A Julie va di traverso il panino. Io le picchietto la mano sulla schiena mentre lei impallidisce e prova a dire qualcosa. “Respira.” Le dico, mentre le passo un bicchiere d’acqua.
“Perché diamine non me ne hai parlato?!” ringhia.
“Sono stata con Mirko per cinque mesi. Pensavo avessi letto tra le righe.” Risponde lei.
“Nicole, ti adoro già.” Annuncio, affondando la faccia nel panino per non far vedere a Julie che sto ridendo.
Lei mi sorride. “Pure io. E giuro che tuo fratello non lo noterò nemmeno, ma sarebbe bellissimo fare prendere un fantastico infarto a Isabelle.”
“Nicole!” la richiama Julie. “Isabelle è tua sorella!”
“Anche la tua, se non  ricordo male.”
Julie fa una smorfia, e a me va di traverso il panino, ma perché sto ridendo troppo.

Maledette sorelle Martin. Mi hanno guardato come se fossi un alieno quando ho detto loro di non sapere pattinare, e poi mi hanno trascinato in questa pista deserta. Sto attaccato alla ringhiera mentre questi maledetti pattini scivolano più di quanto io gradisca. “Julie!” chiamo.
Lei entra in pista e si avvicina a me con grazia, pattinando con le mani dietro la schiena. “Ha bisogno di aiuto, signor Barnes?” chiede, sforzandosi di non ridere.
“Secondo te?” chiedo, alzando leggermente la voce.
“Se ti calmi, ti spiego come fare.” Mi risponde tranquilla.
Io faccio un respiro profondo. “Sono calmo.”
“Le ginocchia vanno piegate leggermente, e i piedi devono rimanere paralleli. Avvicini le punte solo per frenare. Sposti il peso a destra e a sinistra …” piega le ginocchia e pattina all’indietro. Poi, lentamente, si avvicina a me di nuovo. “Per partire, metti i piedi a L, tenendo dietro la sinistra. Metti la forza sul destro e parti.”
“Sembra semplice.” Borbotto. Provo a mettere i piedi a L, mentre lei ride.
“Ehi, Barnes!” esclama la voce di Nicole, che sta sfrecciando sulla pista come se fosse nata sui pattini. “Devi staccarti dalla ringhiera, per partire.” Mi ricorda.
Io le faccio una linguaccia e, lentamente stacco le mani dalla ringhiera, mentre Julie mi mostra i suoi palmi pallidi.
“Sai andare a cavallo, suonare la chitarra, scappare da Seattle, e non sai pattinare?” domanda Julie, ridendo.
Io afferro le sue mani e cerco di non cadere. “Destra e sinistra, destra e sinistra.” Mi ricorda lei, iniziando a pattinare all’indietro.
Io ci provo, giuro che ci provo, ma finisco subito con il sedere sul ghiaccio. Nicole scoppia a ridere, mentre Julie incrocia le braccia e scuote la testa, sorridendo. “Ho trovato qualcosa in cui non riesci, Benjamin. Mi sento realizzata.”
Si sente un telefonino suonare, e Julie avvicina immediatamente il suo Samsung all’orecchio dicendo. “Buonasera, Barnes due.”
“Non dirgli che non so pattinare.” L’avverto.
“Siamo alla pista di pattinaggio e tuo fratello è già col culo per terra.” Sorride, mentre si allontana.
Nicole riesce a smettere di ridere e poi mi tende le mani. “Forza, Barnes uno. È più facile di quanto sembri.”
Afferro la mano di Nicole mentre le sorrido. “Grazie.”
“Tu mi stai simpatico, Ben Barnes, e la rendi felice. Ma falla cadere di nuovo, e ti giuro che ti cambio i connotati.”
Prima che io possa rispondere, o avere paura, mi si accende una lampadina. “Nicole, posso chiederti una cosa?”
Lei annuisce, mentre mi afferra le mani e mi fa segno di piegare le ginocchia e di spostare il peso.
“Stamattina mi sono reso conto che … non l’ho mai sentita parlare dei vostri genitori.”
Nicole alza lo sguardo dai miei piedi per scrutarmi, con una ciocca nera che le ricade sul naso, dolcemente. “I rapporti tra i miei e mia sorella si sono incrinati quando loro hanno scoperto che Manuel era morto di overdose, circa sei mesi dopo la sua effettiva morte. Loro sono molto cattolici, sai. Quindi per loro il fatto che Julie abbia divorziato da Damiano è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Credo che non l’abbiano chiamata nemmeno per il suo compleanno, da quando è partita.”
Prima che io possa riuscire ad assimilare un ennesimo tasto dolente della vita di Julie, la bionda si avvicina a noi con estrema facilità, mentre parla ancora al telefono. “No, Jack, non la tengo sotto una campana di vetro, anzi.” Contesta.
Nicole la guarda allontanarsi di nuovo prima di parlare. “La grande differenza d’età tra di noi, ha fatto in modo che lei potesse farmi anche un po’ da mamma. E io da piccola, potendo scegliere tra lei e Isabelle, sceglievo sempre lei. E Isabelle questo non me lo ha mai perdonato.”
Io faccio del mio meglio per non cadere. “Julie ci tiene davvero a te, Nicole. Parla sempre benissimo di quello che voi due siete.”
Nicole mi sorride, mentre Julie, imprecando, sfreccia verso di noi. “Sta arrivando Jack.”
Io rido. “No, tesoro, non voglio che mi veda così.”
“Ha detto che non sa pattinare nemmeno lui. Così siete pari.”
Io scruto Julie. Maledetto Jack! Mio fratello sa pattinare benissimo, dannazione. Quando ero piccolo, lui e mio padre si divertivano moltissimo ad andare a pattinare, mentre io rimanevo sempre attaccato alla ringhiera. “Oh, davvero?” dico, sorridendo. “E tu gli hai creduto?”
Julie alza le spalle. “Perché non dovrei fidarmi di tuo fratello?”
Perché è un arrogante sciupa femmine, vorrei rispondere, ma mi mordo la lingua. “Niente, bionda, niente.” Le sorrido. “Sarà divertente.”
Nicole, lentamente, le passa le mie mani, come se fossi un bambino che attende di imparare a camminare.
E, alla fine, un po’ è vero. Sono solo un uomo, che stringe le mani di una donna, mentre entrambi imparano ad amarsi.

Jack arriva venti minuti dopo, volteggiando in pista. Io lo vedo, mentre Julie gli dà le spalle. Mi sta raccomandando di spostare il peso, quando Jack le afferra i fianchi. Lei strilla, mentre io e mio fratello ridiamo.
“Ciao, sweetheart.”
Julie gli tira un pugno sul braccio. “Tu sai pattinare, razza di stronzo!”
Jack in un primo momento ride, poi le indica la mano fasciata. “Che ti sei fatta?”
Io guardo Julie con aria allarmata. La benda è color carne, e io non l’avevo notata. “Male.” risponde Julie. “Mi sono fatta male.”
“E come ti sei fatta male, Julie?” domando, scrutandola.
Lei mi trafigge con i suoi occhi azzurri. Ha capito che non me ne ero accorto. “Oh, chi è il medico qui?” ironizza.
“Io!” esclama la voce di Nicole, che sfreccia verso di noi. “Cioè, no, ma potrebbe essere.” Aggiunge. Passa lo sguardo da me a Julie, e poi pare rimanere folgorata da Jack. “Oh, ciao.” Dice. “Io sono Nicole.”
Jack la osserva, sorridendo, e poi guarda me. “Non è la sorellina sacra e intoccabile di Julie, vero?” ringhia.
Io annuisco. “Avevo detto che sarebbe stato meglio non conoscerla.”
“La prossima volta ti mando la sorella stronza, se ti va.” Replica Nicole.
Nicole Elisa Martin!”esclama Julie. “Non parlare così di Isabelle!”
Il suo tono da mamma severa mi fa ridere. Poi la guardo. “Tu hai un secondo nome?”
“Che c’entra?” strilla lei.
Alzo le spalle. “Tu sai il mio.”
Lei allarga le braccia. “Il tuo nome completo sta su Wikipedia!”
Jack ride, alzando il dito indice della mano sinistra e formando un cerchio con indice e pollice della mano destra. Uno a zero.
“Oh, questo è un colpo basso!” esclamo, di rimando, mentre Jack rotea sui pattini per avvicinarsi a Nicole e Julie sfreccia all’indietro.
“Benjamin?” mi chiama lei.
“Sì?”
“Voglio darti un bacio.”
Io allargo le braccia. “Non aspetto altro, baby.”
Lei ride, mentre io faccio del mio meglio per non perdere l’equilibrio. “Vieni a prendertelo.” Risponde, chinandosi in avanti con un piede dietro l’altro come se fosse davanti alla regina.
“Forza, Ben.” Mi incita Nicole dietro di me. “Piedi a L. Ginocchia piegate, peso a destra e poi a sinistra.”
“Stai giocando sporco, Martin!” rispondo, cercando di mettere i piedi nella posizione di partenza.
“E secondo te, da chi ho imparato?”
Io scoppio a ridere mentre Jack urla: “Tu hai del carattere, Julie!”
 
Eeeeeh, salve! Mi scuso con le persone che leggono, perchè, questo capitolo, proprio non mi convince, ma vorrei proprio sapere come la mia sistah vivis_ reagirà a tutto questo. E no, non sarà sempre così semplice per loro, risolvere le cose.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** come e quanto ***


Girasoli nella tempesta – capitolo sei: come e quanto.

“Dammi la mano quando attraversi, tesoro.”
“Mamma, come vivevi, prima di papà?”


Seduta al bancone della cucina, sorrido, incredula davanti alle foto di me e Ben sul giornale.
Parker, l’agente baffuto di Ben, ci ha fatto arrivare tutti i quotidiani, e anche i settimanali, prima dell’alba, freschi di stampa. Ognuno recita un titolo diverso, ma la sostanza, più o meno è quella. La notizia è una. Sono io.
Il principe Caspian ha trovato la sua principessa.
Tra Narnia e Dorian Gray, Ben Barnes ha trovato l’amore.
Ben Barnes e la bionda sconosciuta.
I fratelli Barnes e le ragazze francesi.
Ben Barnes: odore di fiori d’arancio?
Galeotta fu Seattle! E anche Barnes trova una dama.

Non riesco a non ridere, leggendo tutto questo. Perché la gente non sa la vera storia.
Per prima cosa, Iris e Nicole mi hanno tagliato i capelli. Se prima arrivavano al seno, ora arrivano cinque centimetri (o poco più) sotto le spalle. Ben dice che sto bene, che valorizzano il viso, ma io amavo i miei capelli lunghi. Non so come quelle due vipere abbiano fatto, ma hanno pure aggiunto dei riflessi ramati che sembrano davvero naturali. Mi hanno poi infilata in un lungo abito nero, con la schiena ricoperta solo di un leggero pizzo che ricopriva anche le maniche. Era bellissimo, ma io sono goffa per natura, e, per di più, mi hanno messo dei tacchi. Dei tacchi! E non dei tacchi qualsiasi: delle costosissime scarpe con un nome impronunciabile che assomiglia tremendamente al nome di un cane cretino, nere, in velluto, fastidiose come non mai.
Ma questo non bastava, ovviamente. Speravo che Ben, dal lato opposto dell’atelier di Iris, avesse subito le medesime torture medievali, ma no, lui era impeccabile, come sempre, con i capelli all’indietro, senza barba – dio, io amavo la sua barba incolta! – con una camicia su misura, una giacca e dei pantaloni scuri. E io ero stata costretta anche a mettere il rossetto. Rosso!
Ora rido, ma ieri sera, ieri sera è stata una vera tragedia. Prendo un giornale a caso e decido di leggerlo.
Ben Barnes, reso celebre dal ruolo del principe Caspian, ieri sera ha fatto la sua comparsa alla cena di beneficienza di Emergency in tutto il suo splendore, portando fieramente il suo fascino tenebroso. Per una volta, però, gli occhi non erano puntati tutti su di lui, bensì sulla sconosciuta bionda dai tratti dolci che il nostro principe teneva per mano.
Sotto, una foto. Ben sorride con aria esperta, mentre io piego appena gli angoli della bocca. Scuoto la testa e prendo un altro giornale.
Ben vestirà i panni di Dorian Gray, l’uomo che vendette l’anima al diavolo, prossimamente. Ci si aspettava che Barnes si presentasse solo, come ha sempre fatto, ma ieri sera ha stupito tutti, portando con sé una fascinosa bionda …
“Fascinosa, certo.” ironizzo. Ne prendo un terzo.
… chiunque sa che Barnes non ha mai rivelato nulla riguardo la sua vita privata: allora, chi è la bionda che ieri sera lo affiancava con aria solenne? I due hanno raccontato di essersi conosciuti a Seattle, dove lei lavora e dove lui e Jack, suo fratello, spesso passano il tempo.
Ben scende le scale con aria assonnata. “Buongiorno.” Mi saluta.
Io riemergo dai giornali. “Siamo il nuovo gossip dell’Inghilterra, Barnes.” Grugnisco.
“Parker ha detto di non leggerli tutti, Julie.”
“Allora perché li ha mandati?” domando, irritata, mentre lui apre il frigo e si versa un bicchiere di latte freddo. Non capirò mai, mai come fa a berlo.
“Per farci capire la portata delle notizia.”
“Tu non leggi mai le notizie che ti riguardano?” domando, curiosa. Lui scuote la testa. “E ti sei mai cercato su Google?” lui nega, di nuovo. “Beh, io l’ho fatto.” Ammetto.
Lui mi guarda, divertito. “Ah si? E che cosa c’è scritto?”
“Il primo risultato è ‘Ben Barnes nome fidanzata’. Fidanzata, Ben.” Scandisco con schifo la parola.
“Siamo inglesi strafottenti e prevedibili senza vie di mezzo. Non ti preoccupare, non ho intenzione di chiederti di sposarmi, anche se sicuramente quei giornali dicono questo.” Mi accarezza la nuca. “Sei più tranquilla?”
“Dov’è Nikki?” domando, sulla difensiva. Nicole si alza sempre tardissimo, e sono quasi le undici.
Ben sorride. “Non ne ho idea.”
“Tu menti.” Lo accuso.
“No, tesoro.” Risponde lui, sorridendo.
“Non chiamarmi tesoro.” Prendo il primo oggetto che trovo (un cucchiaio di legno) e glielo punto contro. “Dove è mia sorella, Benjamin?”
“Non te lo posso dire, Julie.” Risponde lui, con tono più sincero.
“Ben. Ti metterò questo cucchiaio dove non gradirai.”
“Smettila di essere così protettiva verso di lei, non è più una bambina.”
“Non dirmi come devo comportarmi con mia sorella, piuttosto, dimmi che non è con Jack.”
“Che hai contro mio fratello, si può sapere?!” domanda lui, irritato.
“Nulla, gli voglio bene. Sono solo contraria al modo in cui cambia donna come cambia i calzini.”
Lui prova a rispondere, ma il suono del mio telefono lo precede. Lo afferro e leggo il nome di Izzie Stevens.
“Izzie?” dico, rispondendo. Guardo l’ora sull’orologio da parete che Ben tiene in cucina. Sono le dieci del mattino, a Londra.
“Carino il vestito.” Esordisce lei, con una voce euforica che non le appartiene.
“Izzie, sono le due del mattino, a Seattle.” Le ricordo.
“Si, ma tu e Ben siete su internet! Si parla di matrimonio, qui, Julie!”
“Izzie, vai a dormire.”
“No, non ho sonno!” la sento addentare qualcosa. “Piuttosto, com’è trovarsi davanti a tanti fotografi?”
“Izzie, quanto è che non dormi?”
“I flash ti accecavano? Nelle foto sembri un po’ rigida!”
Sospiro. “Izzie, calmati. Ti ho chiamata mille volte, e non mi hai degnata di una risposta.”
“Sto bene, Julie.” Risponde lei.
“E perché non stai dormendo?”
“Aspettavo la notizia del fidanzamento.”
Non è un fidanzamento. E poi, comunque, non potevi sapere della cena.” Ben mi passa davanti, facendomi una boccaccia. “Vorrei sapere come stai.”
“Sto bene, Julie.” Ribadisce lei.
“Tu non stai bene, Izzie!” strillo. “Cazzo, Danny mi aveva chiesto di essere la vostra testimone, Isobel Stevens, ed è morto. Sto malissimo io, e non voglio immaginare come starai tu!”
Izzie esita, qualche secondo. “Sono rimasta stesa sul pavimento del bagno per qualche giorno, aspettando di morire anche io. Meredith e George mi hanno convinta a rialzarmi. Sono stata cacciata dal lavoro, non riesco a piangere, faccio dolci tutto il giorno aspettando che Meredith e George tornino. Mi manca, mi manca come l’aria, ma non posso farci niente. Le foto su internet … mi hanno aiutata a distrarmi, a ridere, a gioire per voi. Voi vi amate, ed è … bellissimo.”
Sull’ultima parola, sospira. “Sei forte, Izzie.” Le dico, mentre Ben si siede sul divano accanto a me. “E lui ti amava.” Ben mi bacia la spalla, scostando la felpa. “So quanto possa fare male perdere la persona più importante per te, Izzie, davvero. Conosco il vuoto che hai nel petto, ci ho convissuto per anni. L’importante, tesoro, è che tu non permetta che quel vuoto ti oscuri la vita: sarebbe la cosa peggiore da fare.”
“E tu che hai fatto?” mi chiede, dopo un po’.
“Ho sposato l’uomo sbagliato e – Ben, mi fai male! – ho detto al ragazzo del mio amico di fare ciò che non avevo avuto il coraggio di fare io: gli ho detto di scappare.”
“Dovrei scappare, Julie?”
“No!” rispondo, subito. “Non ripetere i miei stessi errori, dannazione. Io avevo lasciato che il vuoto mi riempisse la vita, ed è esattamente ciò che non devi fare tu.”
Izzie sospira. “Siete belli, nella foto.”
“Eh, certo.” prima che io possa aggiungere altro, la serratura scatta. “Scusa, Izzie, devo ammazzare mia sorella. Ci sentiamo più tardi.” Attacco e scatto in piedi. “Nicole Elisa Martin!” sbotto.
Lei alza gli occhi al cielo. “Oh, Ben! Avevi detto che avresti tenuto il segreto!”

La casa di Ben ha questo piccolo, magico terrazino sopra al tetto. Nessuna delle altre case ce l’ha.
Personalmente, lo trovo meraviglioso. Seriamente. Lì vedo tutti e tutto – i camini che fumano, gli autobus che passano, i bar con le insegne dai colori sgargianti – ma nessuno può vedere me, una bionda furiosa che porta il giaccone sopra al pigiama, seduta a gambe incrociate al limite tra terrazzo e tegole, con un sigaretta in bocca e troppi pensieri per la testa.
Sento chiaramente che Ben è in piedi dietro di me. Sento il suo respiro, sento i suoi occhi nella schiena. Non so cosa si faccia lì, ma mi sembra quasi di sentirlo pensare.
Nicole mi ha appena urlato contro che non posso avere il controllo sulla sua vita, che può uscire con chi le pare e poi ha detto una cosa che non avrebbe mai dovuto dire. Ha detto ‘parli proprio come la mamma’. Lo ha detto apposta, perché io e mia madre non potremmo esse più diverse.
“Sai a che sto pensando?” mi dice la voce di Ben.
“No.” rispondo, senza voltarmi.
“Che la gente ha un sacco di paure idiote.” Si siede accanto a me. “Ma io non conosco le tue.”
Scuoto la testa, sorridendo. Ben ha il potere di cambiarmi l’umore.
“Se te lo dicessi, mi prenderesti in giro.” Dico.
Lui si perde a guardare i tetti di Londra. “Ma non è vero.” Mi dice. “Non potrei mai.”
“Okay.” Rispondo, sorridendo. “Allora dimmi la tua paura idiota.”
Lui sembra pensarci su. “I semafori.” Ammette.
“I semafori?”
“Si, i semafori.”
“Ma smettila. Tu guidi da una vita.”
“Faccio strade senza semafori.”
“E nelle città nuove come fai?”
“Faccio guidare Jack prima.”
Sorrido e butto fuori il fumo.
“Tocca a te.” Mi annuncia.
“Promettimi che non riderai.”
“Lo prometto!” esclama.
“Io ho paura degli aghi da prelievo. E del buio.”
Osservo curiosa la reazione di Ben. Si osserva le mani, sorridendo, mordendosi un labbro.
“Su, ridi.” Lo invito. “Lo so che fa ridere.”
“No, non …” ma non riesce a trattenersi e scoppia a ridere. Riempie la noiosa routine del rumore delle macchine che passano con la sua risata che mi riempie il cuore di cose belle. “Dannazione, Julie!”
“Che c’è?”
“Sei un medico! Un medico che ha paura degli aghi!”
“E del buio.”preciso, facendo l’ultimo tiro con la sigaretta. “Tu sei un attore e hai paura dei semafori.”
“E dei clown.” Aggiunge, distogliendo lo sguardo.
“I clown?” chiedo, sorridendo.
“I clown.” Conferma.
“Io li trovo simpatici.”
“Nah, sono terrificanti!”
“Okay.” Dico. “Due a due.” Butto la sigaretta. “Nicole è ancora chiusa in bagno?”
Lui scuote la testa. “Senti, io credo che tra lei e Jack potrebbe esserci una bella amicizia.”
“Lei tornerà in Italia tra poco. Se dovesse dire a sua madre che si è innamorata di un inglese, fratello del mio ragazzo, farebbe la stessa mia fine.”
Mi rendo conto di avere detto una cosa nuova nel momento in cui pronuncio l’ultima parola.
“Ed è per questo che non torni a casa?” si limita a dire lui.
Io guardo Londra. “Ben?”
“Si?”
Londra è grande, quasi quanto il cuore di Ben. Londra è trafficata, come le nostre vite. Londra è rumorosa, come la mia testa. Ma Londra è anche bellissima, come lui e come noi.
“Sarebbe comunque troppo presto per dirti che casa mia sei tu, vero?”

“JACK!” strillo. “So che sei in casa. C’è il camino acceso!” picchio il pugno sulla porta.
“Jack!” mi aiuta Ben. “Jack, aprici, dannazione!”
“Jack, so che Nicole è lì. Di nuovo!” Aggiungo. “E giuro che vengo in pace.”
In quel momento, la serratura scatta. La porta si apre e mia sorella appare davanti a noi.
“Non urlare.” Mi dice. “Ciao, Ben.”
Io alzo gli occhi al cielo. “Posso entrare?”
“Oh, si.” Mi dice, aprendo di più la porta.
“Chi c’è, cara?” domanda una voce calda.
“Mamma?” chiede Ben, alzandosi sulle punte.
Oh, no.
Prima che possa decidere di scappare, una donna dai capelli grigi e con gli stessi occhi scuri di Ben si affaccia alla porta della cucina e mi osserva. “Oh!” esclama.
“Io scappo.” sussurro, a Ben.
“Troppo tardi.” Mi risponde.
“Tu devi essere Julie!” strilla la donna.
Vorrei dire di no, che in questo momento io sono tutti meno che Julie Martin, non sono io la donna che vive con suo figlio, che ha operato il suo altro figlio e che ha portato sua sorella più piccola a Londra proibendole di avere una relazione con Jack.
Non sono io Julie Martin.
“Tricia, le presento mia sorella Julie!” esclama Nicole.
Piccola bastarda.
La madre dei Barnes si avvicina e mi abbraccia, mentre Ben ride.
“Mamma, ti prego, lasciala andare.” Sento dire da Jack. “E voi due, entrate, o congelerete.”
“Io ero venuta solo a recuperare la piccola fuggitiva.” Annuncio.
“Oh!” esclama la donna, che mi tiene ancora la mano. “Non vi fermate? Sta arrivando Thomas, e …”
“No, signora, davvero non …”
“Tesoro, non darmi del lei! Sono mamma Tricia anche per te!”
Io spalanco gli occhi, mentre Jack si passa preoccupato una mano sul volto, dietro di lei.
Ho smesso di chiamare mia madre ‘mamma’ ancora prima di sposarmi. Per me lei è Valerie, non mamma Valerie.
“Mamma, non stai esagerando?” domanda Ben.
“Nient’affatto!” risponde lei, mettendosi ai fornelli. “Per Anne ero una seconda madre … dovrà essere così anche per lei!”
Tricia è bassa, magrolina, ha un sorriso sincero e ha il tono autoritario della classica mamma inglese che sistema i figli a tavola nella medesima posizione ogni sera, e a cena chiede loro il resoconto della giornata.
Ma no, ci mancava solo questo. Il paragone con la fidanzata morta.
“Mamma.” La richiama Ben. Si avvicina a lei e le posa le mani sulle spalle. “Mamma, ascoltami, ascolta bene perché non lo dirò di nuovo. Julie non è Anne. Magari sembra che le assomigli, per via dei capelli, ma lei non è Anne. Anne se n’è andata. Da tanto, tantissimo tempo. E tu devi lasciarla andare.”
Il sorriso della donna si spegne. La verità, così, cruda, sbattuta in faccia, le fa male. Vorrei dire a Ben di smetterla, ma lui non ha ancora finito.
“Ho amato immensamente Anne, mamma. Davvero. Ed è giusto ricordarla, ma ti prego, non paragonarla a Julie e non farmi una colpa perché sono riuscito ad andare avanti. Non è facile nemmeno per me.”
La donna, tristemente, sposta lo sguardo da Ben a Jack, per poi guardarmi con aria cupa. “Mi … mi dispiace.” Mi dice. “Non era mia intenzione paragonarti a lei, è solo che …”
“Non fa niente.” La rassicuro. “Capisco benissimo.”
Lei mi sorride, e, gentilmente, mi tende la mano. “Rifacciamo, allora. Tricia Barnes, madre di questi due disgraziati.”
“Mamma!” si lamenta Jack.
“Oh, smettila, Jackson! Ogni due mesi sparite e andate a girare il mondo, senza nemmeno telefonarmi se a uno dei due scoprono un tumore!”
Stringo la mano di Tricia. “Julie Martin, colei che ha scoperto il tumore a uno dei due.” Ironizzo. “E l’ho anche tolto.”
“Oh!” esclama di nuovo lei. “Tu sei … voglio dire … tu … lo hai operato tu?!”
Ben sorride. “Sì, mamma: te l’ho detto per telefono.”
“Ma … non l’avevo ricollegata! Voglio dire, lei … non è contro le regole mettersi con un parente del paziente?!”
Ben sta per fermarla, ma io gli faccio segno con una mano che va bene così. “Teoricamente, signora Barnes, è contro le regole avere rapporti non professionali con il paziente, non il familiare. E quando Ben e Jack sono arrivati in ospedale, io non li conoscevo.”
“Disgraziati! Non mi avete detto nemmeno questo!” strilla lei. “Che figura avevate intenzione di farmi fare?”
“Nessuna, mamma.” Risponde Jack.
“Non avresti dovuto conoscerla.” Aggiunge Ben. “Perché è ancora presto.”
“No, no, anzi: tuo padre sarà qui nel giro di pochi minuti, e …”
“No, mamma, intendevo che era presto per parlarti di Julie. Noi eravamo solo venuti a recuperare Nicole.”
Improvvisamente, il sorriso della donna si spegne. E la mia mente è attraversata da un pensiero spaventoso.
Ben non merita di allontanarsi dai suoi genitori a causa mia.
“Quindi … non vi fermate, per pranzo?” domanda Tricia.
“No, mamma.” Rispose lui secco. “Torniamo a casa.”
Io gli poso una mano sul braccio. “Non fa niente, tesoro.” Improvviso. “Possiamo certamente fermarci con la tua famiglia.”
Lui mi guarda con aria stupita, mentre Jack ride e Nicole si porta una mano alla bocca. Nessuno, a quanto pare, se l’aspettava.
Dopo qualche secondo, Ben sorride e mi fa segno di girarmi e, come un vero gentiluomo inglese, mi toglie il giaccone, mentre sua madre inizia a raccontarmi che ‘il tuo Benjamin, da bambino …’

“Spiegami perché diamine lo hai fatto, Julie.”
Ben, seduto sul divano, mi da le spalle. Il suo tono è calmo, ma quasi arrabbiato.
“Fatto che cosa?” domando, sedendomi su uno sgabello del bancone della cucina.
“Perché ti sei voluta fermare a pranzo da Jack? Perché hai dato corda a mia madre?”
Abbasso la testa. “Stavi per deluderla. A causa mia. E non te l’ho voluto permettere.”
“Non la stavo per deludere.” Si alza e si volta, fissandomi con quei grandi occhi scuri.
“Stavi per allontanarti da lei a causa mia. Passa mesi senza vedervi, Ben, aveva bisogno di …”
“E tu?”
“Io cosa?”
“Tu quanto tempo è che non vedi tua madre?”
Io mi irrigidisco. “Non stiamo parlando di me, Benjamin.” Rispondo fredda.
“Ah, giusto, perché i tuoi genitori rientrano nelle mille cose di te che non mi hai mai detto, giusto?” ringhia.
“No, dannazione, Ben, è diverso!”
“Perché? Perché non mi hai mai parlato di loro?!”
“Perché stiamo cambiando argomento? Stavamo parlando della tua, di madre, che vi ama, vi vizia, vi …”
“Non nasconderti dietro un dito, dottoressa: hai passato due ore con i miei genitori, mentre io della tua famiglia non so nulla.”
“Non c’è niente, niente da sapere!” strillo, in risposta, ruotando attorno al bancone. “Cosa vuoi sentirti dire?”
“Perché non parli mai di loro? Perché il tuo unico legame con loro è Nicole? Perché non torni a casa?”
“Casa mia è a Seattle, è qui, è con te, non con loro.” Replico.
Lui si passa una mano sul viso. “Loro sono la tua famiglia.”
“No.” rispondo. “Loro mi hanno voltato le spalle, Ben, e questo una famiglia non lo fa.”
“Oh, e li hai abbandonati per questo? Per un litigio, perché non ti hanno aiutata?”
Io mi faccio seria. Questo è un argomento delicato, dico, di solito. Normalmente volterei lo sguardo e cambierei argomento. Ma come faccio? Lui è Ben, e lui mi ama. Non si merita che io abbassi lo sguardo. La verità, è che le accuse di mia madre, gli sguardi furiosi di mio padre e il pianto di Isabelle mi bruciano ancora dentro. E quando sono agitata, sogno ancora mio padre seduto su quella poltrona di pelle che mi dice che lo avevo profondamente deluso, e che mai si sarebbe ripreso.
“Non parlare di ciò che non sai, Benjamin.” Rispondo, a bassa voce.
“Sono cose che dovrei sapere, invece. Non so nemmeno il tuo secondo nome!”
“Oh, siamo di nuovo sulla storia del secondo nome?! Mi chiamo Julie Bernadette, e personalmente lo odio.”
“Okay, ora dimmi dei tuoi genitori!” urla lui. “Dimmi perché hai rinunciato alla possibilità di avere una famiglia da cui tornare.”
“Sono stati loro, Ben.” Interviene la voce di Nicole. “Sono stati loro a rinunciare a lei.” Scende le scale e si posiziona accanto a me. “Lei non ne parla, e ha i suoi motivi. Sono stati loro, a cacciarla.”
“Cacciarla?” domanda Ben, posando le mani sul bancone.
“Cacciarmi.” Ripeto. “Perché ho detto loro che io e mio marito avevamo deciso di separarci. Sono rimasta il tempo necessario per sistemare un paio di cose e firmare qualche carta, poi ho cercato l’ospedale più lontano che mi prendesse a tempo indeterminato. Ti basta?”
“Tuo marito dov’è, dove vive, come si chiama, lo senti, ogni tanto? Lo amavi? Che ne pensa lui del bambino che avete perso? E tu, ci pensi mai?” Ben sembra un rubinetto stappato, e io mi ritrovo a chiedermi da quanto tempo si tenesse dentro tutte queste domande.
“Si chiama Damiano, ha la mia età, ci siamo conosciuti fuori dall’università, perché io gli sono andata addosso e gli ho fatto cadere tutti i libri. Non so se lui ci pensa, a Manuel, a nostro figlio, ma non passa giorno senza che ci pensi io, senza che io mi chieda come sarebbe la mia vita se adesso avessi un bambino di sei anni. Mi chiedo anche se mi ameresti lo stesso, Ben, se mi avessi trovata con un figlio che rappresentasse un passato concreto. E si, io e Damiano ci sentiamo, a volte: auguri di Natale e del compleanno, oppure mi scrive per dirmi che due nostri amici hanno avuto un bambino o si sono separati, o che il nostro professore universitario è morto. Siamo due persone si sono volute bene, in ogni caso!” Rispondo, secca. “Vive ancora nella nostra vecchia casa, con quella che allora era la sua amante, ed ora è sua moglie.”
“Amante?” chiede, sempre più shockato. “Ti ha tradita?”
“Lo ha sempre fatto. E io l’ho sempre saputo.” Sorrido. “Ma le corna bisogna saperle portare.” Aggiungo, fiera.
“E non hai mai pensato di risolvere tutto, di portare avanti il tuo matrimonio?”
“Con un uomo che non amavo più, una famiglia che mi manipolava e un figlio appena sotterrato? A che pro?”
“Salvare la tua vita.”
“La mia vita non meritava di essere salvata per continuare a stare male, Ben.”
“Allora hai mandato all’aria un matrimonio?”
“Perché sei così fissato con il mio matrimonio?” chiedo, esasperata. “Ero giovane, incosciente, e lui mi faceva sentire una principessa, mi aveva promesso un grande futuro e io ci sono cascata con tutte le scarpe. Non mi amava, non come io ho amato lui, comunque.”
“E mi amerai mai come hai amato lui?”
Io lo osservo, per qualche secondo. “Il punto non è se amerò mai te come ho amato lui, Ben. Il punto è che non ho mai amato nessuno quanto amo te ora.”

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** fino alla fine ***



Girasoli nella tempesta – capitolo sette: fino alla fine.

“Papà, mi racconti ancora di quella foto che c’è appesa in salotto?”

“BEN!”
Spalanco gli occhi di colpo. Julie?
“BENJAMIN!”
No, lei dorme accanto a me. La sento respirare.
“BEEENJAMIIIIN!”
Guardo l’ora proiettata sul soffitto: sono le sette e due minuti.
Chi mi chiama dal bagno alle sette e due minuti?!
“BENJAMIN THOMAS BARNES!”
Nicole.
Scenda dal letto e, di corsa, scendo le scale per arrivare in bagno. “Nicole?” dico, bussando alla porta.
“Dannazione, Benjamin casa tua est rumpu!” strilla, aprendo la porta.
“Casa mia sarà anche rotta, ma tua sorella sta dormendo.” Rispondo, sbirciando all’interno del bagno: è pieno di cosmetici, salviette e vestiti.
Je ne me soucie pas!(1) Siamo in ritardo, e tu non hai una presa per la corrente in bagno!!”
Io la guardo, sbigottito. “Certo che no, Nicole: perché dovrei rischiare di morire fulminato?”
A rispondere è una voce alle mie spalle. “Sono degli stupidi inglesi fifoni, Nikki: non hanno prese in bagno, è poco sicuro.”
Mi giro, trovando Julie, con gli occhi ancora socchiusi e un’espressione imbronciata.
“E la prossima volta che mi svegli alle sette strillando, giuro che je vais te chercher une claque!” (2)
“Smettetela di parlare francese, vi prego.” Borbotto. “Non ci capisco nulla, prima del caffè.”
“Vai a bere il caffè, allora: io non parlo inglese bene come la tua donna!” esclama Nicole. Poi si rivolge a sua sorella, parlando di nuovo in francese stretto, e sento Julie rispondere in inglese ‘usa quello che ho in camera io’. Scendo di nuovo le scale e arrivo in cucina, notando un uomo che riconosco subito come Jack che legge il giornale al bancone.
“AH!” esclamo, saltando l’ultimo gradino. “Mi farai morire.”
Lui sorride. “Buongiorno anche a te.”
“Perché siete tutti già svegli?” domando, prendendo la mia tazza e quella di Julie.
“Oggi portiamo le ragazze in giro per la città, no?”
Accendo la macchina del caffè. “Portiamo le ragazze?” chiedo, alzando un sopracciglio. “Fratello, io ti voglio bene, davvero: ma se Julie sapesse che ti piace sua sorella, non …”
“Non mi piace sua sorella, non può: è una ragazzina!”
“Jack, a te piacciono le ragazzine, lo so io e lo sai tu!”
“Non mi piace Nicole: mi piace vederti felice accanto alla tua donna.”  Si giustifica lui.
Io annuisco, mordendomi un labbro. “Se anche solo guardi Nicole, ti taglio le palle.”
Lui mostra un’espressione schifata.
“Jack, tu non sai quanto può essere cattiva Julie se si arrabbia.”

“Tu sei Ben Barnes?”
Mi giro: sarà la terza ragazzina nel raggio di dieci metri che me lo chiede.
“Sì” rispondo, sorridendo. “così pare.”
“Oh!” risponde lei, mentre Julie mi guarda. “Possiamo fare una foto con te?”
Sorrido e le dico di sì: per la terza volta, Julie prende in mano la macchina fotografica e dice ‘sorridete!’ mentre io poso le braccia sulle spalle di queste due adolescenti. Un po’ invidio la spensieratezza con cui girano per Londra; è una cosa che noi abbiamo perduto, come la voglia di amare il prossimo e di fare progetti.
“Lei è la tua fidanzata?” mi domanda una delle due.
“Più o meno si.” Risponde Julie, restituendole la macchina fotografica.
“Abbiamo visto le foto sul giornale.” Si giustifica l’altra.
“Oh” rispondo io “le hanno viste tutti, sembra.”
“Eravate molto belli!” esclama la prima.
Io la ringrazio e lei poi passa lo sguardo da me a Julie. “Ma è vero che vi sposerete?”
Julie sfoggia un’espressione divertita e perplessa. “Che io sappia, no. Ben, tu ne sai niente?”
Io rispondo allo scherzo. “No, non credo di avere in programma nessun matrimonio, non con me all’altare.”
“Sono scomodi, gli altari.” Risponde lei, ridendo. “Voi non credete? E le navate, poi: troppo lunghe, e strette, alcune.”
“Sei stata a molti matrimoni?” domanda la seconda ragazzina.
“Oh, si: ne ho visti parecchi. E posso anche assicurarti che percorrere la navata non è la cosa più bella della cerimonia.”
“Tu hai percorso la navata?”
Il suo sorriso si fa nostalgico. “Sì, dieci anni fa.”
“E ora sei divorziata?”
“Ancora separata e felicemente impegnata con un tale Benjamin: lo conoscete?”
Le due sorridono. “No, non so chi sia!”
Lei sorride. “E tu” mi dice “lo conosci un tale Benjamin?”
Io la guardo perplesso. “Benjamin?” fingo di riflettere. “Mai sentito nominare!”
Julie mi sorride e poi strizza l’occhio alle ragazze. “Buona passeggiata, ragazze.” Dice loro. Poi mi prende la mano e mi fa segno di raggiungere Jack e Nicole, che procedono a grandi passi per Hyde Park.
“Hai detto che ti chiedi che mamma saresti stata, giusto?” dico, mentre ci avviciniamo ai nostri fratelli.
Lei si ferma e mi guarda con gli occhi pieni di rimpianto. “Che cosa c’entra?”
Scuoto la testa. “Credo sia per come hai trattato quelle due ragazzine: tu non lo fai vedere, ma sei … dolce, e premurosa. Quindi, credo che saresti stata una bravissima mamma.” Lascio che abbassi gli occhi. So che l’argomento non le piace. “E la risposta alla tua domanda dell’altro giorno è si: si, ti amerei anche se ti avessi trovata con un bambino di sei anni con i tuoi stessi occhi. Ti amerei comunque, Julie.”
Lei torna a guardarmi. “Davvero?”
“Davvero.” Le rispondo, mentre lei si avvicina a me e mi bacia dolcemente le labbra.
“Sono felice di averti trovato.” Mi sussurra.
“Sono felice che tu sia qui, Julie: sarà un Natale bellissimo.”
Lei sorride, a pochi centimetri dal mio viso. “Bellissimo.” Ripete.
Le bacio il naso e poi guardo Jack, che con espressione divertita ci ha appena scattato una fotografia.

“Questa la appendo.” Mi dice Julie, mentre guarda la fotografia nel telefono di Jack e scende le scale della metro. “A Seattle comprerò una casa solo per appenderla.”
Seattle. Mi blocco.
“Come hai fatto per il lavoro, Julie?” domando, mettendomi le mani in tasca, mentre Jack e Nicole ci seguono.
“In che senso?” domanda lei, perplessa.
“Con che scusa te ne sei andata?”
Lei mi guarda di sfuggita. “Ho preso un’aspettativa.”
“E di quanto?”
Ora Julie mi pianta gli occhi nell’anima. “Ho detto al primario che avevo bisogno di un po’ di tempo.”
“Quanto tempo?” forse non lo voglio nemmeno sapere. Non voglio contare i giorni che mi separano dal perderla di nuovo, ma ho appena deciso di seguire l’istinto.
“Quanta importanza ha, il tempo?”
Conosco quell’espressione. È dubbiosa, ma il suo è un dubbio cattivo. Corruga la fronte e incurva le sopracciglia, mentre gli occhi esprimono tutta la rabbia che lei non sa buttare fuori. La rabbia contro la vita che ci ha fatti trovare e poi ci costringe a separarci.
“Ehi, ma tu sei il principe Caspian!” dice la voce di una bambina accanto a noi.
Julie non si volta a guardarla, tenendomi intrappolato nei suoi occhi. “Ora è solo un uomo che non sa cosa vuole, vero, Benjamin?”
Non aspetta risposta: si volta, scende le scale di corsa e se ne va.
“Lasciala sola.” Mi dice Nicole. “È la cosa migliore quando fa così.”
Io la guardo, e sono quasi sicuro di avere dipinta in volto la stessa espressione disperata che ha lei. “Perché ha cosi tanta rabbia dentro?”
“Perché le hanno sempre sbattuto la porta in faccia, l’hanno sempre abbandonata. E ha paura che lo faccia anche tu.”
“Io la amo, Nicole.”
“Lei forse ogni tanto se lo dimentica.” Rispose Jack. “Sai meglio di me com’è fatta.”
Forse non lo so nemmeno io.
Sento il giubbotto tirare, abbasso lo sguardo e mi chino verso la bambina. “Il principe Caspian non fa sempre la cosa giusta.” Le do un buffetto sul naso. “Se ami qualcuno, principessa, diglielo, diglielo sempre. Okay?”
Lei annuisce e poi la donna che è con lei le fa segno di seguirla, sorridendomi. E io spero soltanto che quella bambina mi dia ascolto.
Scendo le scale di corsa e mi ritrovo nella famosa metro di Londra, affollata e piena di voci e cose inutili. Trovare Julie qui dentro ormai è impossibile. E, conoscendola, ha preso la prima metro per una destinazione sconosciuta e ora chissà dov’è. Lei e la sua rabbia. Lei e il suo rancore. Lei e quei suoi occhi che si portano dentro tutto.
“Ben!”
Nicole mi afferra un braccio e io mi rendo conto che sto tremando di rabbia.
“Perché deve fare così?”
Lei sorride. “Beh, te lo ha detto, no? Perché non ha mai amato come ama te. E questo la spaventa.”
“Pensi che io non abbia paura?”
“Lei ha paura per te, non per lei: non ha mai pensato a cosa fosse meglio per lei. Lo ha fatto una sola volta, e poi si è trasferita dall’altra parte del mondo per non sentirsi egoista.”
“E che farà, se va male anche con me?”
Lei abbassa lo sguardo. “Oh, se dovesse andare male anche con te … penso che non si riprenderebbe mai.”
Nemmeno io, vorrei dirle. Nemmeno io potrò mai riprendermi, se lei se ne andasse. Non tornerei più me stesso. Lei è la parte migliore di me. Lei è tutti i colori del mondo. Uno ad uno, li ha rimessi ai loro posti. Erano dieci anni che vedevo solo in bianco e nero, ma lei, lei ha rimesso al loro posto i colori. E se lei se ne dovesse andare, io ne morirei.
“Quindi deve andare bene.” Sussurro.
“Deve andare bene.” Ripete lei.
Io avvicino le mani alle tempie e mi guardo attorno. La gente passa. Mi guarda. La gente passa. Passa. Se ne va. La gente è di fretta. Le metro passano, seguendo le loro linee colorate. Le metro. Le metro portano in moltissimi posti diversi, e Julie li conosce tutti. Julie conosce tutti.

Ci sono moltissime persone. Tutti guardano il tramonto sul palazzo di Westmister, ma c’è una ragazza con una chioma bionda che rimane ferma, con un caffè in mano nel suo bicchiere di cartone. Si è legata i capelli in una treccia fatta come capita, come fa sempre lei, lasciandola morbida. Ha le braccia posate come se dovesse cadere, e non si accorge che io sono tra le mille persone che le passano accanto.
Lentamente, mi sistemo accanto a lei. Julie mi guarda, e io noto i suoi occhi arrossati e gonfi. Ha pianto di nuovo. “Quanta importanza ha per te il tempo, Benjamin?”
Non lo so, vorrei dirle. Il tempo che passo con lei, è sicuramente molto più importante rispetto a quello che passo senza di lei. Il tempo che passo con lei è aria pura, il tempo che passeremo lontani mi soffocherà.
“Non è importante quanto te, Julie Bernadette.”
Lei piega gli angoli della bocca al suono del suo secondo nome.
“Sei insopportabile, Ben.”
“Ehi!” mi difendo. “Non …”
“Sei insopportabile perche sei entrato nella mia vita e senza chiedere il permesso a nessuno hai sconvolto tutto quanto.”
“Dovrei chiederti scusa? Hai fatto la stessa cosa tu con me!”
“Hai sconvolto la mia vita e non so come tu abbia fatto, giuro, ma l’hai resa migliore.”
Sorrido e le passo un braccio attorno alle spalle, baciandole i capelli e respirando il suo odore come se fosse il mio ossigeno. “Non so dove andremo a finire, Julie. L’importante è finirci insieme.”

“Nicole! Sbrigati, dannazione!”
Mia madre a Natale organizza sempre grandi pranzi, e, quest’anno, come ospiti d’onore abbiamo Julie e Nicole.
“Sto arrivando, sto arrivando!” esclama la ragazza da sopra le scale.
Julie, seduta accanto a me, ha i capelli sciolti e quando li muove riempie tutto del profumo del suo shampoo alla vaniglia. Io ho iniziato a lavorare e sono sfinito, mentre loro passano le giornata a Londra con Jack. Mercoledì, però, la porterò sul set con me: abbiamo una scena all’aperto con una donna e mi piacerebbe davvero averla accanto. Colin Firth non vede l’ora di conoscerla, dice che si vede che la amo davvero.
“Quanto scommetti che non ha chiamato Isabelle e i suoi?” mi sussurra Julie.
“Nemmeno tu li hai chiamati.” Rispondo io, e l’occhiataccia che mi rivolge è una risposta più che convincente.
Nicole, con dei pantaloni bianchi, stretti e un maglione rosso con le renne scende le scale. I capelli, che di solito sono spettinati come quelli di Julie, ora solo lisci e composti. “Hai chiamato Valerie?” domanda Julie.
“No.” risponde lei, senza nascondere il misfatto. “Magari le scrivo dopo.”
Io cerco di smorzare la tensione. “Che hai fatto ai capelli?”
“Ma quale scrivere! Devi video chiamare Isabelle e salutare tutti!”
“Ma sono qui con te, perché dovrei avere bisogno di loro?”
Julie alza gli occhi al cielo. “Perché sono i tuoi genitori, Nicole.”
“E tu sei nata sotto un cavolo?”
Io ho ricevuto l’ordine di non farmi più vedere!” strilla Julie. “Vedi di non fare la mia stessa fine!” Si infila la giacca e scuote la testa. Borbottando qualcosa in francese di vagamente simile a ‘piccola incosciente’, sbatte la porta dietro di sé.

Mia madre mette in tavola il pollo, pronto per essere mangiato.
“Buon Natale, famiglia!” esclama mio padre, che indossa un imbarazzante maglione rosso con delle renne bianche.
“Buon Natale!” rispondiamo noi.
Guardo Julie seduta accanto a me, mentre chiacchiera con Iris e mentre Jack e Nicole si prendono in giro. Mia madre e mio padre ci guardano, con gli occhi pieni d’amore.
Ecco, mi dico, mio padre ha ragione: buon Natale, famiglia.

“Non voglio partire, Ben.”
Julie sta in piedi al centro del salotto.
“Parti, vai, torna a casa.”
“Sei tu la mia casa.”
La sua risposta mi spiazza.
L’ospedale l’ha appena chiamata: l’aspettativa presa scadrà presto. Gli specializzandi hanno bisogno di lei. La casa mobile è ancora da svuotare. È partita senza pensarci, e le sono grato perché lo ha fatto per me.
“Julie, io ti amo, ma è giusto che tu torni a Seattle.”
“Aspetterò, aspetteranno.”
“No.”
“Non mi vuoi qui?”
Mi passo una mano tra i capelli, scuotendo la testa. Come fa a non capire? “Oh, Julie, averti qui è la cosa pi bella del mondo, davvero, tu sei la cosa migliore che mi sia mai capitata, ma ora è giusto che tu vada. Ti raggiungerò quanto prima a Seattle.”
“Non voglio lasciarti di nuovo, Ben.”
“Noi non ci stiamo lasciando, Julie.”

Non voglio lasciare la mano di Julie. È la sola cosa a cui riesco a pensare, in aeroporto.
So che deve tornare a Seattle, so che è giusto così, so che ci rivedremo presto, so che non è un addio. So che mi ama. Ma non voglio lasciarle la mano, non voglio che salga su quel dannatissimo aereo: non voglio che torni a Seattle, per quanto questo le faccia onore. È il suo lavoro, è la sua vita, è giusto così. Noi siamo due universi che si incontrano qualche volta. Noi siamo come due girasoli nella tempesta, l’uno accanto all’altra ma lontani.
Il check in è troppo vicino. Io, per la prima volta, so di avere paura di lasciarla partire.
“Verrò a Seattle presto, te lo prometto.” Le sussurro.
“Sai che non è così.” Mi risponde. “Devi lavorare.”
“Il mio lavoro non è più importante del tuo, Julie.”
“Skype almeno due volte a settimana. Mail una volta al giorno.” Mi ordina. “E pensami, pensami tanto, okay?”
Sento gli occhi pieni di lacrime che non voglio lasciare scendere. Lei si aspetta che io sia forte, si aspetta che io non mi lasci piegare da questa cosa, ma la verità è che la amo talmente tanto che la sola idea che salga su quell’aereo mi ammazza lentamente, come un coltello che lentamente mi lacera il cuore, lo stomaco e il cervello.
“Ti penserò sempre.” le sussurro, a un centimetro dal suo viso. “Ti amerò sempre. siamo due girasoli nella tempesta, okay?”
Lei mi guarda senza capire, poi lascia stare. “Due girasoli nella tempesta.” Risponee, baciandomi. “E ti amerò sempre anche io, Benjamin Thomas Barnes, fino alla fine del mondo.”
La bacio l’ultima volta. “Vai, ti prego, o non sarò in grado di lasciarti andare.”
Mi arrendo alle lacrime che mi bagnano il viso: l’amore ha vinto anche su quelle.
Lei saluta Jack, dietro di me, con un abbraccio fraterno, e poi mi bacia di nuovo. “Fino alla fine, Ben.”
Lentamente, raccoglie la sua valigia e si allontana. La guardo sparire, e rimango a fissare il punto in cui è sparita.
“Ora mi segno che il giorno quindici gennaio hai pianto in pubblico.” Scherza Jack, ma io non lo sento: è lontano, lontano come Julie.
Annuso il suo profumo ancora sul mio cappotto. Fino alla fine del mondo.


(1) non mi interessa!
(2) ti prendo a sberle!

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** il signor Destino ***


                     


Girasoli nella tempesta – capitolo otto: il signor Destino.
 
“Mamma, che vuol dire ‘mi manchi’?”

Mi manca Ben. Sono partita da tre ore, non sono nemmeno a metà del viaggio, eppure Ben mi manca già. Oh, maledetto inglese. Come fa a mancarmi dopo solo tre ore? Mi perdo a guardare l’immenso oceano sotto l’aereo, pensando a Ben, al viso di Ben, agli occhi di Ben, a quanto amo Ben, a quanto mi manchi più di ogni altra cosa. 
Ma è giusto così: la vita ci porta a prendere strade e a fare scelte radicali prima di poter capire che queste strade e queste scelte ci porteranno a chilometri di distanza dalla persona che amiamo – o che ameremo. 
Ben ha fatto in modo che, una volta arrivata a Seattle, io abbia una casa decente, una casa vera, con la porta le finestre la caldaia e lo scarico autonomo. 
“Avrai anche un bel divano.” Ha detto. “E anche una splendida vista di Seattle, perché le finestre sono enormi.”
Io avevo sorriso. “Sarebbe luminosa, se a Seattle battesse il sole.”
“Sai perché a Seattle non batte il sole?” aveva chiesto.
Io, seduta ai piedi del letto con addosso la sua camicia, lo avevo guardato, nudo e fiero, coperto solo dalla coperta. “No, perché?”
“Perché non ci vivo io.”
A quel punto ero scoppiata a ridere. “Oh, che ragazzo modesto!” 
Il ricordo delle sopracciglia aggrottate di Ben mi fa sorridere. “Ragazzo? Non sei tanto più vecchia di me.”
Io avevo risposto che mentre me ne stavo in riva al mare a festeggiare i miei diciotto anni, lui era un brufoloso ragazzino di quindici. 
“Smettila, bionda: io ero già bellissimo, a quindici anni!” aveva risposto, tirandomi un cuscino. “E non ero affatto pieno di brufoli.”
Io avevo riso di quel suo finto broncio, e poi il discorso era caduto su ciò che lui era davvero stato a quindici anni: uno studente con una media dei voti notevole, appassionato di arte e letteratura, che passeggiava per la scuola in cerca di quella bionda di nome Anne, che poi sarebbe diventata la sua Anne.
Il suo sguardo non è malinconico quando parla di lei: non gli manca, la vede solo come un periodo bellissimo della sua vita. I suoi occhi scuri si perdono a fissare un punto nel vuoto, mentre la sua mente vaga alla ricerca di ricordi che solo lui possiede, di cose che solo lui sa. Mi ha raccontato tutto di Anne: ora so che il suo colore preferito era il verde, il verde chiaro, quello fine ed elegante – “come lo era lei.”
“Lei era fine ed elegante?”
“Oh, si: era quasi regale.”
“E che ci fai ora con me?”
“Beh, in realtà non ne ho idea.”
“E quindi?”
“Quindi, quando vedrò il signor Destino gli farò un paio di domande.” 
Io avevo sorriso, pensando che quando avremmo visto il signor Destino passeggiare per Londra anche io avrei avuto parecchie cose da chiedergli e rinfacciargli. 

Welcome back, Doctor Martin.” 
La prima voce che sento quando entro in ospedale è la sua: Richard Webber, primario di Chirurgia di questo dannato ospedale. Sorrido e riporto la mia mente sulla lingua inglese, dandogli il buongiorno e accettando il caffè che mi sta offrendo.  “Fatto buon viaggio?”
“Ottimo, direi.”
“Quando sei atterrata?”
“Dieci minuti fa, in effetti.” Rispondo, entrando in ascensore e salutando un paio di infermieri. 
“Non vuoi tornare a casa a dormire, magari?” mi chiede Webber.
In quel momento, in ascensore entra Addison, che mi saluta con un abbraccio e mi soffoca con i suoi capelli rossi. “Sembri stanca, tesoro: perché non vai a casa a dormire un po’?” 
“No, ho dormito in aereo.” Rispondo. 
“Hai nostalgia del bisturi?”
“Moltissima: Ben giura che operassi ogni cosa che tentavo di cucinare.”
Lei sorride. “Come sta, Ben?”
“Bene, sta lavorando a un nuovo film.”
“Si, ho visto i giornali.”
“Oh, sono arrivati fino a qui?” sbuffo.
Webber mi sorride. “C’è stata un’intera giornata in cui si è parlato solo di te e Benjamin Barnes.”
“Che noia!” ironizzo. 
Addison mi osserva. “Non hai intenzione di sposarti, vero?”
“Ehm, no.” rispondo.
“Visto, Richard? Io lo avevo detto!”
“Oh!” esclamo, mentre usciamo dall’ascensore. “Avete creduto ai giornali!” 
“Si, in effetti è così.” Ammette Richard. “Devo dire che è stato molto divertente.”
Io mi fermo davanti alla porta dello spogliatoio degli strutturati: “Scusate, signori, ma sarei ansiosa di prendere in mano un bisturi.”
Addison mi sorride. “I tuoi specializzandi ti aspettano.”

“Julie!”
Forse è la parola che ho sentito di più, e sono qui da solo due ore.  Questa volta è Derek Sheperd, affascinante neurochirurgo, questa volta, come le altre, sono persone con cui prima raramente avevo a che fare. 
“Ehilà.” Gli dico, mentre controllo una cartella clinica.
“Come stai?” 
“Bene.”
“Com’è Londra?” 
Io alzo gli occhi e  sorrido. Di tutte le persone con cui ho parlato stamattina, lui è il primo a chiedermi di Londra. “Londra è splendida.”
“Ci sono stato da ragazzo.  Tu ci tornerai?”
“Immagino di sì: Ben verrà qui tra qualche settimana, ma poi l’idea sarebbe di tornare lì.” 
Lui sembra dispiaciuto. “Ci lasci?”
“Forse: dipende dove sarebbe più comodo lui.”
“E per il tuo lavoro?”
“Beh, ospedali ce ne sono ovunque.”
Lui sorride. “Ma non questo ospedale.”
Sorride e se ne va: lui è fatto così, vuole sempre avere l’ultima parola ma è dolce, alla fine. Credo. 
Non questo ospedale.
Oh, al diavolo l’ospedale. Voglio tornare a casa la sera e trovare Ben ancora vestito da Dorian Gray, voglio uscire di casa la mattina con lui ancora addormentato nel letto. Voglio urlare perché non ha comprato il latte, voglio arrabbiarmi perché la tavoletta del gabinetto è sempre alzata e perché Jack, ubriaco, dormirà nella stanza degli ospiti per la milionesima volta. 
Come fa Derek a non capire? 
Non m’importa dove saremo, penso, salutando un paziente del postoperatorio. Non m’importa, m’importa solo che ci sia lui, che ci siamo noi. Mentre cammino per le vie di Seattle, leggendo i messaggi di mia sorella Nicole, mi rendo conto che spesso mi sembra di avere bisogno di lui anche per respirare. 
L’aria di Seattle sa di mare e grattacieli, ma da quando Ben non se ne sta più qui, a camminare con me per queste vie, l’aria di Seattle mi soffoca. Sto soffocando, sto annegando, Ben dov’è? 
Nessun messaggio. Nessuna chiamata. Tre giorni da quando ho sentito la sua voce. Tre giorni che soffoco. 
Perché nessuno lo vede? Rispondo a Nicole che ne parleremo domani al telefono, e mi sento quasi in colpa: darle una mano con la sua vita mi faceva sentire utile, vicina a lei, ma ora non riesco a gestire la mia, di vita. Come faccio? 
Aiuto. 
Sto chiedendo aiuto, qualcuno mi può sentire? 
Aiuto.

Mi rigiro nel letto portando la mano sulla metà fredda. Ben non c’è. Non c’è mai stato, non ha mai dormito qui. Non ha mai visto quella magica finestra che sta in salotto, non ha sentito lo strano rumore che fa il frigorifero aprendosi e non ha visto quanto stanno bene le nostre foto appese in giro per l’appartamento. 
“Ben?” chiedo al buio con voce assonnata. 
So che non ci sei, so che non mi senti, so che sei lontano, ma mi manchi. 
In ogni secondo.

Mi alzo e vado in cucina, senza nemmeno accendere le luci: dalle finestre si vedono le luci di tutti i palazzi di Seattle e illuminano tutto quanto. 
Prendo un bicchiere e lo riempio d’acqua. Che ore sono? Quanto ho dormito? Da quanto sono qui?
È l’una e venti del mattino. Che ore sono a Londra? Come sta Ben? 
Domande, domande, domande. Troppe domande. Dove sono le risposte? 
Osservo il mio salotto buio come se potessi trovarle che passeggiano sul parquet. Voglio risposte
Ad esempio: perchè proprio Ben?
Torno in camera e afferro il telefono: Ben mi ha scritto un messaggio tre ore fa. Schiaccio il tasto verde e strizzo gli occhi. 
Ti prego, Ben, rispondimi. Ho bisogno di te. 
“Ehi, bionda.” 
“Ben?” 
“Sono proprio io. Perché non dormi?”
“Perché mi manchi. Sono due giorni che non ti fai sentire.” 
Lo sento sospirare. La sua voce. Quanto mi mancava la sua voce?
“Ricordi il discorso sul signor Destino, Julie?”
“Sì.” 
“Il signor Destino mi riporterà da te.”
E questo mi riempie di felicità pura.

Odio la domenica. Odio ogni cosa della domenica. No, odio le domeniche in cui non sono di turno. Le domeniche in cui lavoro sono piene di adrenalina: le gente di domenica si sente in grado di fare molte cose, come cucinare con coltelli affilatissimi, mettere insieme barbecue con cui si ustioneranno, fissare antenne sul tetto e cadere. 
Oh, Ben. 
Sono passate tre settimane e l’ho sentito al telefono una volta ogni due giorni, e poi abbiamo passato tre ore al telefono cinque giorni fa, di notte per me e di mattina per lui. L’ho visto in video chat cinque volte, ma era stanco e con i vestiti di scena mi faceva ridere. Sembrava uno di quei galantuomini dei vecchi film: sembrava proprio Dorian Gray. 
Giro per casa con una tazza di camomilla, guardando Seattle avvolta dalla notte: quanti chilometri ci sono tra me e lui? Quante persone, quante case, quante ore mi separano dalla mia felicità?
Il telefonino suona. “Ben?” 
“No, sweetheart, hai sbagliato Barnes.”
Io sorriso. “Ciao, Jack.” 
“Come te la passi?” 
“Alla grande, tu?”
“Sono annoiato.”
“Da cosa?”
“Dal mondo.”
“Che stupido.” 
“Non insultarmi così gratuitamente, bionda.”
Io sorrido. “Sei con Ben?”
“No, Ben sta lavorando.”
“Di domenica?”
“Sta ripassando il copione.”
“Perché non lo aiuti?”
“Non vuole. Lo conosci meglio di me, dai.”
Io scuoto la testa. “Mi manca, lo sai?”
“Non lo avrei mai detto.” Scherza lui. “Quando torni da questa parte del mondo?”
“Presto.” Rispondo, sospirando. “Però devo ammettere che lavorare mi mancava.”
“Questa è la Julie che conosco! Sei al lavoro, ora?”
“No.” rispondo, istintivamente. “Però potrei andarci.”
“Ecco, brava, vai a salvare qualche vita.” Scherza lui.
“Tieni d’occhio Ben.” Gli dico.
“Lui ha detto: tieni d’occhio Julie.”
“Julie dice di tenere d’occhio Ben.”
Lo sento sorridere. “Agli ordini, capo!” 
E attacca. E io sono felice che Ben abbia accanto una persona così. 
Improvvisamente, sento il bisogno di vomitare.

“Scusi, lei è un medico?”
No, ho il camice bianco perché mi piace come mi sta. “Sì, posso aiutarvi?” chiedo, sorridendo. 
Sono due ragazzine che avranno al massimo vent’anni, castane, truccate moltissimo ma nessun tipo di mascara può nascondere quello sguardo d’angoscia mista a paura e vergogna. 
“Io … insomma, si, credo di essere incinta.”
Okay, procedimento base. “Quando hai avuto le ultime mestruazioni?” chiedo, calma.
“Il sei dicembre.” 
“Beh, sono passati più di due mesi.” Le dico, facendole segno di seguirmi verso il laboratorio. “Quanti rapporti non protetti hai avuto?” 
“Ehm … un po’.”
Mi fermo e la guardo. È in imbarazzo. “Non ti preoccupare, non c’è nulla di male. Sai dirmi quando sono stati?”
“Tra Natale e Capodanno.” Risponde. “Lui si chiama Tim, e vive … in Inghilterra, era qui per le feste.”
Io le sorrido. “Anche il mio ragazzo vive in Inghilterra.” 
Inghilterra. 
Tra Natale e Capodanno. 
Sei dicembre. 
Oh, cazzo.

“Grey!” dico, vedendo passare la specializzanda. Lei si ferma e mi guarda. “Grey, ho un’emergenza personale: questo è un tuo caso.” Mi rivolgo alle due ragazze. “Scusatemi.”
Prego un Dio in cui ho smesso di credere che, per una volta, il mio istinto si sbagli. 

“Stevens!” dico, entrando nella cucina di casa Grey. Come mi ha raccontato la stessa Meredith Grey, lei è in cucina a cucinare muffin, e ha l’aria di esserci da molto, molto tempo. Era così anche ieri sera quando sono passata a salutarla, e anche la sera prima e quella prima ancora. 
Si finge entusiasta. “Julie! Gradisci un muffin?” 
“Izzie, tu sei un medico.” 
Lei abbassa lo sguardo. “No, non lo sono.”
“Hai una laurea in medicina, indipendentemente da ciò che hai fatto a Danny.” Prendo un muffin e lo osservo, ignorando l’effetto che il nome del mio amico ha su questa ragazza. “Quali sono i sintomi di una gravidanza?”
“Sei incinta?” mi chiede.
“Stevens, i sintomi.”
“Spossatezza, nausea mattutina, alterazione del seno, sbalzi d’umore, alterazione del senso del gusto, sensibilità agli odori, crampi …”
“Perfetto.” Le dico, riponendo il muffin. “Ora io non sono il tuo superiore, okay? Sono la donna che sarebbe dovuta essere la testimone di nozze del tuo fidanzato.”
Lei abbassa lo sguardo. “Okay.” 
“E in questo caso, questa donna ha nella borsa un test di gravidanza rubato in ospedale che da sola non riesce a fare.”
Lei sorride. “Okay!” ripete, facendomi segno di seguirla su per le scale. 

“Quanto tempo hai detto che deve passare?”
“Tre minuti.” Risponde lei, sbuffando. “Che faresti se fosse positivo?”
Io mi passo una mano tra i capelli. “Tutto questo è già successo, Izzie.”
Lei corruga la fronte. “Che vuol dire?”
Lei non sa. 
Non sa di Manuel, il mio bambino. Non sa quanto ero felice quando otto anni fa mi hanno detto ‘signora, lei è incinta’. Ero felice perché era la cosa più giusta da fare, era quello che tutti si aspettavano da me. Ma poi è andato tutto nel verso sbagliato, e questo Izzie non lo sa. Non sa quanto male possa fare un figlio che non ti ha mai nemmeno guardata negli occhi. Non sa quanto male possa fare immaginare che quel figlio non crescerà mai. Non sa il male che tutto questo ha fatto a me: ero una persona diversa, certo, ma ero comunque una mamma che non aveva avuto la possibilità di sentire il pianto del suo bambino. 
Io, lentamente, decido di mostrarmi. Mostrare le mie debolezze, il mio passato. È una cosa che mi ha insegnato a fare Ben: mi ha insegnato a mostrare ciò che sono e cosa mi ha resa così, senza vergognarmene o nasconderlo. Perché le cose tenute dentro, prima o poi, esplodono. 
Le mostro il polso destro, con tatuata quella M con quella stellina che ho disegnato io. 
“Lo avevo notato.” Mi dice lei. “Ma che vuol dire?”
“Manuel.” Dico, in un sussurro. “Mio figlio, nato morto.” 
Lei si porta una mano alla bocca e mi guarda con occhi pieni di paura. “Oh, Julie, mi … mi dispiace.” 
Odio la gente che dice mi dispiace. Ecco perché di solito evito di raccontarlo. “Sì, anche a me.” Dico. 
“Io … è per questo che hai divorziato?” mi chiede.
Io faccio spallucce. “Anche. Era finita da un pezzo, ma …” mi tornano in mente le parole scambiate con Ben quella prima sera sul molo. “Sai, una donna diventa mamma quando scopre di essere incinta. Un papà diventa papà quando stringe il suo bambino. Lui non ha mai tenuto in braccio Manuel, io sì, l’ho stretto forte e l’ho cullato anche se sapevo che era morto. Lui era lontano, per lavoro. Quando è arrivato era già tutto finito. Io ero la mamma di Manuel e lo sarei sempre stata, ma lui non era mai diventato il suo papà. E … non ha mai capito quanto soffrissi.”
Lei deglutisce. “Tre minuti!” esclama poi. Corre verso il bancone della cucina e afferra quel maledetto test, per poi guardarmi e sorridere. “Sei incinta, Julie.” Mi dice. 
Io sento chiaramente l’impatto della fredda piastrella della cucina sulla mia guancia. 

“Julie, Julie!” 
Qualcuno mi sta schiaffeggiando. 
“Julie Martin!” 
No, cinque minuti.
Apro un occhio e vedo Izzie che mi guarda con aria preoccupata. 
“Oh, grazie al cielo!” esclama. “Temevo di doverti portare in ospedale. Prendi” mi dice, porgendomi un bicchiere d’acqua. “bevi, respira.” 
Io mi metto seduta e la guardo. “Sei … sicura?” dico, afferrando il bicchiere d’acqua. 
“Sicurissima.” Mi dice. “Immagino che non sia una gravidanza programmata.”
“Oh, certo che lo era: avevo proprio in mente di avere un bambino con un uomo con cui sto da tre mesi che vive in un altro continente!” 
“Hai intenzione di abortire?”
NO!” strillo. “Dio, Stevens, passo le giornate a cercare di salvare vite umane, come puoi credere che possa pensare di abortire?!”
“Non urlare. Ehi, ma tu fumi!” esclama.
“Buongiorno, dottoressa Stevens. Hai frugato nella mia borsa o hai notato le macchie tra le dita?”
“No, ti ho vista una volta.” Mi dice. “Devi smettere.”
“Sì, mamma!” rispondo, alzandomi in piedi. Immediatamente, il mio telefono suona. Ben? Di già? Gli fischiavano le orecchie, immagino. “Che ore sono?” chiedo, notando il tramonto. 
“Le sei e trenta. Non rispondi?”
Le sei e trenta. No, allora a Londra sono le tre e trenta della mattina di domani. Non è Ben. Respira, Julie, non è Ben. Allora afferro il telefono, più tranquilla, ma il nome che leggo è comunque quello di quell’inglese maledetto. 

“Ti ripeto che non c’è nulla che non va!” strillo, salendo le scale del condominio. 
“Non mi piace il tono che hai.” Risponde lui. 
 Io alzo gli occhi. E dovrei dirgli che sono incinta? 
Ripenso a queste due parole strane. Sono incinta. Sono incinta, Ben. Avremo un bambino. Aspetto un bambino. Come facciamo? Come faremo?
“Che ci fai sveglio, piuttosto? A Londra saranno le … quattro del mattino!”
Lo sento sorridere. “Ti pensavo, bionda.”
Alzo gli occhi al cielo. “Alle quattro del mattino?” 
Spero solo che questo bambino non sia in grado di mentire, come il padre. E dire che è pure un maledetto attore!
“Dì un po’, Barnes, ma come fai a fare soldi mentendo? Non sei credibile nemmeno un pochino!” strillo, cercando le chiavi di casa. Lui non risponde, e quando apro la porta di casa il telefono mi cade a terra. 
Benjamin Barnes, padre del bambino che porto in grembo e uomo che amo immensamente, è in piedi in casa davanti alla porta, con il telefono ancora sull’orecchio e un sorriso che mi fa quasi perdere l’equilibrio. 
“Non sto mentendo perché non sono a Londra.” Mi dice, sorridendo. 
“Io ti amo.” Sussurro, con le lacrime agli occhi, mentre mi corre incontro e mi stringe, sollevandomi da terra. “Dio, se ti amo.” 
Quando mi bacia non ho dubbi. Non posso vivere senza di lui
E non voglio separarmi da lui mai più.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** domanda da un milione di dollari ***




 
Girasoli nella tempesta – capitolo nove: la domanda da un milione di dollari.
 
“Mamma, cosa è la verità?”
 

Quando realizzo di essere sveglia, la prima cosa che sento è un forte temporale.
Fuori.
Non sono io. Non è la mia testa.
Non è qui, è fuori. Lontano.
Faccio in tempo a sorridere, quando sento dei passi felpati provenire dalla cucina.
Ben.
Mi alzo di scatto, non curandomi della quasi totale nudità, del freddo, o di controllare che ore siano; indosso la maglietta di Ben e corro in cucina, attraversando l’ingresso e intravedendo il salotto.
“Buongiorno.” Gli dico, trovandolo con addosso solo dei boxer a fissare il mio frigo.
“Ma tu vivi d’aria?” mi dice, voltandosi a guardarmi.
Io gli sorrido. “Io vivo in ospedale, è diverso.”
“E in ospedale hai un frigo pieno?” scherza.
Io sorrido, prendendo una tazza dallo scaffale. “Non crederesti mai a quanto cibo abbiamo nella stanza degli strutturati.”
Lui scuote la testa e prepara il caffè per entrambi. “Come sta Izzie?”
“Ecco la domanda da un milione di dollari.” Sospiro. “Non lo so.”
“Fantastico.” Risponde.
Devo chiederglielo.
“Quanto rimani?”
“Ora l’hai fatta tu la domanda da un milione di dollari.”
Scuoto la testa. “Non voglio un ‘stammi bene, Julie’ e un …”
“Non accadrà di nuovo.” Taglia corto con il suo immancabile accento britannico. “Io imparo dai miei errori.”
Mi mordo un labbro e verso il caffè. “Oggi lavoro.” Annuncio. “Posso ridurre il turno a tre, quattro ore, e poi …”
“Io farò la spesa, e poi … beh, ho delle cose da fare.” Mi risponde, sorseggiando il caffè.
“Che tipo di cose?”
“La spesa.” Sorride lui.
Io mi perdo ad ascoltare il temporale e a guardarlo. “Dimmi che i capelli non sono tutti tuoi.”
Lui sorride, accarezzandosi la chioma che sfiora le spalle. “Bingo.”
“Li toglierai?”
“Alla fine del film, si.” Mi dice. “Tu mangi, periodicamente, vero?”
“Periodicamente.” Ripeto.
“Sei magrissima.”
Alzo le spalle.
“Julie.” Mi dice, facendosi serio.
“Ben?”
“Sei preoccupata.”
Oh, cazzo.
 
“E quindi?”
“E quindi cosa? Cosa avrei dovuto fare?” chiedo a Addison, mentre camminiamo per il pronto soccorso compilando moduli.
“Digli la verità!” esclama lei. Poi allarga le braccia e alza la voce di due ottave. “Ben, sono incinta!”
“Io non parlo così.” Specifico, sorridendo.
Lei scuote la testa. “Hai capito cosa intendo.”
“Si, come ti pare.”
Faccio finta di non pensarci, vorrei dirle, ma in realtà ci penso anche troppo.
“Senti, non vuoi fare un primo esame, un prelievo, una visita?” mi chiede, posandosi con i gomiti al bancone delle infermiere.
“Voglio andare a casa e passare qualche giorno con Ben senza pensare a niente.” Rispondo, controllando una cartella clinica.
“Siete due adulti maturi, voglio dire, e …”
La mia specializzanda di oggi si avvicina. “Dottoressa Martin, mi dispiace disturbarla, ma …” Addison la guarda di sottecchi: è la ragazza che adesso sta con il suo ex marito. “C’è … una cosa che dovrebbe vedere, in pronto soccorso.”
“Oggi non opero, Grey.” Specifico. “Stacco dopo mezzogiorno. Chiedi alla Bailey, o …”
“Credo sia una cosa che merita davvero la sua attenzione, dottoressa.” Specifica lei.
Io vedo nel suo sguardo che qualcosa non va.
Il mondo si ferma per un istante e la terra mi trema sotto i piedi.
Ben.

Quando entro in pronto soccorso, sono quasi sicura di non essere lucida.
Oh, Dio, spero solo che il Capo non mi veda così.
Meredith Grey, accanto a me, capisce le mie paure e mi indica una tenda chiusa alla mia destra.
Respira, Julie.
Respira.

Scosto la tenda e Nicole, Ben, Jack e mia madre Valerie mi guardano spaventati.
“Ben Barnes” sussurro, guardando Valerie stesa sul lettino. “Posso cambiare la mia domanda da un milione di dollari?”

Gli occhi di Ben sono colpevoli.
Lui si avvicina. “Lo so, amore, avrei …”
Io scosto di colpo il braccio che lui ha provato ad afferrare. “Non toccarmi, Benjamin, o ti stacco le palle.” Ringhio. “Ti mancavo, eh? Dove li hai tenuti nascosti, stanotte, loro? Li hai dimenticati in aeroporto dodici ore?”
Jack si fa avanti. “Julie ascolta, noi non …”
“Zitto, tu, quando apparirai nel mio appartamento dicendo che mi ami e che ti manco per poi apparire in pronto soccorso con tre persone in più ne riparleremo.” Mi avvicino al lettino, senza dimenticarmi di fulminare mia sorella con lo sguardo. “Allora, Valerie, cosa diamine hai combinato?”
Lei mi guarda con i suoi soliti occhi vuoti di ogni sentimento. “Io non ti avrei voluta chiamare, Julie, insomma, sono state Isabelle e Nicole, poi tuo padre ha …”
“Quale padre?” dico, controllando il monitor. “Quello che mi ha cacciata di casa dicendo che da quel momento aveva solo due figlie?”
“Lui ha sbagliato, e …”
“Chi ti ha visitato, prima?”
“Meredith.” Rispondono Ben e Jack.
Io annuisco. “Certo.” mi allontano dal computer e faccio segno alla stessa di avvicinarsi. “Che sintomi ti sono stati descritti?”
Lei non pare per niente intimidita dalla situazione. “Mal di pancia persistente, rigetto di sangue, e …”
La fermo con una mano. “Ogni quanto vai in bagno?”
“Ogni due giorni.”
“E ci riesci bene?”
“Non mi lamento.”
“Che pastiglie prendi?”
“Quelle per la pressione.”
“Le hai qui?”
Lei annuisce e indica a Nicole la borsetta. Mia sorella ci fruga dentro per pochi secondi prima di passarmi una scatola che ben conosco. “Quante al giorno?”
“Tre.”
“Chi te le ha prescritte?”
“Damiano.”
Sento Ben irrigidirsi al nome del mio ex marito. Beh, gli sta bene. “Quanto tempo fa ti ha visitata?” le domando ancora, facendole segno che devo auscultarle il cuore.
“Due settimane.”
“Respira.” Le suggerisco, posando la parte finale del suo stetoscopio sulla sua schiena.
Mia madre è davvero simile a me e Nicole, fisicamente. Isabelle, invece, è la fotocopia di Jean Paul, nostro padre, sia fisicamente che caratterialmente. Per questo non mi stupisco che loro due non siano qui, ora. Forse è meglio.
Mancava solo questo a rendere le cose complicate più del dovuto.
“Damiano ha fatto una diagnosi?”
“Sì.” Mi risponde Nicole.
“Sai, Nikki, tua madre è in grado di rispondere.”
“Damiano ha detto che ha un tumore allo stomaco, Julie.”
Io mi fermo un attimo a fissarla. “Le cose importanti per ultime, eh?” mi giro e guardo la Grey. “A te lo avevano detto?” lei scuote la testa. “Come si trova un tumore allo stomaco?”
“Gastroscopia e radiografia.”
“Damiano ha …”
“Entrambe.” Risponde Valerie. “Ha detto che era più giusto che te ne occupassi tu.”
Io sorriso, acida. “Ah si? Beh, indovina un po’, Valerie, Damiano è un cretino bugiardo.”
“Julie!” mi richiama lei. “Attention aux mots!” *
“Si, certo.” minimizzo. “Sa che non ti posso toccare, teoricamente sei un mio parente.”
Je suis votre maman!” strilla di nuovo lei.
Io scuoto la testa. “Meredith” dico, rivolgendomi alla specializzanda dai grandi occhi chiari. “potresti portare la signora Martin alla radiografia, mentre io striglio i tre idioti che ho davanti?”

“Che altro avrei dovuto fare?” urla Nicole. “Damiano ha detto che va operata, Isabelle ha subito fatto il tuo nome e lei si fida di te!”
“Nessuno a parte te in quella casa si fida ancora di me, Nicole!” le rispondo, rimanendo calma, seduta sulla poltrona di una delle sale riunioni. Faccio un cenno con la testa ai due Barnes. “Come ti è venuto in mente di coinvolgere loro?”
“Perché, credi abbia fatto male?” domanda Jack.
“Sh, non ti ho interpellato.” Gli dico io, senza nemmeno guardarlo.
“Sono in costante contatto con Ben e Jack.” Mi risponde lei, abbassando lo sguardo e giocando con i pollici ad accarezzarsi i dorsi delle mani.
Gesto di auto consolazione palese.
“Sei in costante contatto con Jack, più che altro.” Sospiro, severa.
“Ehi!” si lamenta lui.
“Stai zitto Jack, ti conviene.” Gli ringhio contro. “Come puoi non vedere che è solo una ragazzina spaventata?”
“Ragazzina spaventata a qualcun altro!” si oppone Nicole. “So benissimo cosa faccio!”
“Infatuarsi di un quasi trentenne inglese dove lo collochiamo? E la scuola? Come fai ad essere qui, dannazione, siamo a metà febbraio, perché non stai preparando gli esami? L’università l’hai scelta?”
“Sì.” Risponde lei, alzando gli occhi al cielo.
“Cosa?”
“Medicina!”
“Oh, e dove?”
“A Londra!”
Lascio cadere la testa indietro.
Non ricordo troppo come fosse avere diciannove anni, però ricordo che ero felice. Ero una ragazza più che corteggiata, con un migliore amico fantastico, una sorella piccola con cui rimanere bambina, e delle idee chiare per il futuro. Cambiavo ragazzo ogni due mesi e nessuno di loro ora è degno di essere ricordato.
Ma per lei? Perché Jack? Perché Londra? Perché è così insicura di sé da scegliere Jack? Perché la mia stessa strada?
 “Jack Barnes.” dico.
“Sono interpellato?”
Io torno a guardarlo, con sguardo stanco. “Giuri di dire tutta la verità, solo la verità, nient’altro che la verità?”
“Tesoro, forse stai esagerando.” Mi dice Ben.
Io mi giro lentamente. “Chi ha parlato con te?” sussurro.
“Nessuno.” Risponde.
“Allora stai nel tuo. Tra poco arrivo anche da te, e non credere che sarà meno doloroso.”  Torno a guardare Jack, alzando un sopracciglio.
“Lo giuro.” Dice lui.
“Quanta influenza hai nella vita di Nicole?”
“In che senso?”
“Quanto dipende da te la sua decisione di studiare a Londra?”
“Nemmeno un po’.” Mi dice, con aria colpevole. “Ha … fatto tutto da sola.”
“Che intenzioni hai?”
“Ottime.”
“Sei sincero, con lei?”
“Sempre.”
“Pronto a darle ciò che merita?”
“In ogni momento.”
“Come la metti con il tuo amore platonico per Iris?”
“Che cosa c’entra?” si irrita lui.
“C’entra, stronzo, da quel che ho capito ti scopi la bambina a cui ho insegnato a camminare.”
“Julie!” strilla Nicole.
“Non l’ho nemmeno toccata!” si irrita Jack. “Dio, non sono così superficiale, Julie!”
Oh, fantastico.
“Dove starai, a Londra?” chiedo a Nicole.
“Non mi sembra la cosa più importante, ora.” Mi risponde lei.
Io mi alzo e me ne vado, senza pensarci e senza voltarmi.
“Julie!” sento urlare alle mie spalle.
Ben, penso, Ben, quella voce che riconoscerei tra mille altre. Ben, l’uomo che amo più della mia stessa vita. Ben, l’uomo che mi ha mentito, Ben, che chissà da quanto progettava tutto questo. Ben, solo Ben.
“Lasciami in pace, Barnes.” Gli dico, senza voltarmi.

Sto seduta sulle scale a mangiarmi le unghie quando mi ritrovo a pensare a come abbia potuto lasciar passare i piccolo segnali. Ogni cosa avrebbe dovuto dirmi quello che sta accadendo.
Il nuovo taglio di capelli di Nicole, il suo modo più adulto di vestire, i libri che legge da qualche mese a questa parte, le chiamate sempre pochi minuti dopo quelle di Jack, il fatto che Iris sia sparita da ogni discorso, i sorrisi di lei in webcam.
Mia sorella si è innamorata, e ancora non lo sa.
Come ho fatto a non accorgermene?
Come faccio a dirle quanto male le farà?
Scuoto la testa e cerco di ignorare le lacrime che mi pungono gli occhi. Non può essere tutto vero.
Non posso essere nemmeno incinta, è tutto uno scherzo, un grande scherzo, un bruttissimo scherzo.
Mi giro e sto per andare a cercare la Grey, per chiederle della radiografia, quando vedo Ben in piedi dietro di me.
“Mi dispiace.” Mi dice. “Ma Nicole mi ha chiamato in lacrime, appena ha saputo, e … Jack aveva già intenzione di andare in Italia da voi, quindi ha solo anticipato il volo di qualche settimana. È rimasto un paio di giorni con i tuoi e Nicole, poi insieme a Isabelle hanno deciso che sarebbe stato davvero meglio che la visitassi tu, e a quel punto, solo a quel punto hanno coinvolto me. D’accordo con tuo marito hanno prenotato il volo, prima per Londra, poi da Stansed a Seattle. Mi dispiace.” Si mette davanti a me e posa le mani sulle mie spalle. “Non credere che io ti ami di meno, non credere che ieri notte io stessi fingendo, è vero che lontano da te non ci so stare, è vero che ti amo da impazzire, è vero tutto quanto, ma lei è tua madre, Julie, e non importa ciò che ha fatto, non importa ora, perché è solo una donna pentita e stanca che ha bisogno di aiuto.”
“Non sai niente della mia famiglia.” Gli dico.
“No, perché tu non me ne hai mai parlato! Non so nemmeno dove sei nata, Julie, non …”
“Non ha importanza!”
“Che tu lo voglia o no, per trent’anni sono stati accanto a te, in un modo o nell’altro, quindi ti riguardano.”
“Ben, tu non sai … Non sai quante volte mi hanno chiuso la porta in faccia perché non ero come mi volevano.”
“Allora raccontamelo.”
“Nicole sta per commettere gli stessi errori. Sta per fare il passo più lungo della gamba, suo padre non gradirà e le farà il male che ha fatto a me.”
“Puoi impedirlo.”
“No.”
“Sì! Dannazione, è tuo padre!”
“Questo cambia le cose?!”
“Questo cambia tutto!” esclama. “Dovrà pur contare qualcosa.
“Cosa è un padre, Ben?”
Ecco, questa è la vera domanda da un milione di dollari.
Questo c’entra? Voglio dire, ha importanza, ora?”
E, senza pensarci, vomito due parole fondamentali.
Sono incinta.”        
 
*Attenzione alle parole 


Grazie infinite a chi, in parte senza saperlo, mi ha spinto a riprendere in mano questa storia. L'ho scritto in due ore, spero di non aver fatto troppi errori. 
Grazie davvero a tutti. 
C xxx 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3277695