La tela bianca

di BlackStone
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La piccola Hudson ***
Capitolo 2: *** Indagini ***
Capitolo 3: *** Victoria gambe di forbice ***
Capitolo 4: *** Natura morta con Bibbia ***
Capitolo 5: *** il vortice dell'oblio ***
Capitolo 6: *** Dall'alto di Londra ***
Capitolo 7: *** Fattori ereditari e verità scomode ***
Capitolo 8: *** "Gogh's Alive" ***
Capitolo 9: *** Amsterdam ***
Capitolo 10: *** In scena (sangue caldo) ***
Capitolo 11: *** In scena (ricordi) ***
Capitolo 12: *** Sangue del tuo sangue ***
Capitolo 13: *** Un giorno tranquillo ***
Capitolo 14: *** Obbligo o verità? ***
Capitolo 15: *** Le debolezze dell'amore pt.1 ***
Capitolo 16: *** Le debolezze dell'amore pt.2 ***
Capitolo 17: *** Solitudine e dolore pt.1 ***
Capitolo 18: *** Solitudine e dolore pt.2 ***
Capitolo 19: *** Il piano di Rose ***
Capitolo 20: *** Vatican Cameos pt.1 ***
Capitolo 21: *** Vatican Cameos pt.2 ***
Capitolo 22: *** Happy Ending ***



Capitolo 1
*** La piccola Hudson ***


Correva un freddo inverno, quell’anno a Londra. Chi l’avrebbe detto che la neve avrebbe raggiunto i 60 cm? Eppure la vita londinese si svolgeva come di solito: persone che si svegliavano presto per accompagnare i figli a scuola e per andare a lavoro, corridori sui marciapiedi con le cuffie e i pantaloncini nonostante il freddo pungente, il profumo forte dei dolci appena sfornati....
-Oh cielo! Il parquet è pieno di neve sciolta! Ormai è da buttare!-
.... e la signora Hudson che gridava a squarciagola.
221b, Baker Street. Sherlock Holmes, detective, insieme al suo coinquilino nonché amico John Watson, ex medico militare, beveva un tè caldo osservando un punto morto nello spazio. 
John osservava la neve cadere a grandi fiocchi sulla capitale, sorridendo. La neve lo aveva sempre affascinato sin da quando era un bambino che ancora credeva a Babbo Natale. Sherlock, al contrario, sin dal primo fiocco di neve caduto quell’inverno si lamentava del freddo umido, delle scarpe costantemente sporche e del cappello che John gli aveva costretto a indossare.
-Cosa c'è di divertente, John?- chiese il detective osservandolo con i suoi occhi vitrei. Non si lasciava sfuggire nulla, nonostante stesse pensando a tutt'altro in quel momento. Il biondo sembrò cadere dalle nuvole.
-Oh-, disse, scegliendo mentalmente le parole da dire per non farsi prendere in giro per la sua infantilità, -è rilassante guardare la neve cadere-.
Sherlock si voltò verso la finestra e per un’istante guardò anche lui.
-Noioso-, commentò freddo, tornando a sorseggiare il suo tè.
John si alzò, non sorpreso affatto dal commento dell’amico, che abitualmente rivolgeva a chiunque i propri pensieri nel modo più arrogante possibile, poggiò la tazza vuota nel lavandino e afferrò il computer. Sherlock non gli tolse lo sguardo da dosso finché non si sedette nuovamente.
-Ah, l’altro giorno ho dato una mezza occhiata alla tua cronologia internet. Fossi in te la pulirei, ogni tanto, dato che è zeppa di roba ripugnante-
-Tu hai guardato la mia cronologia? Quante volte ti ho detto di non toccare il mio pc? E poi la roba ripugnante di cui parli non è altro che sana letteratura inglese-.
John era un appassionato di libri di letteratura e, per evitare di spendere denaro e per non far sì che Sherlock li facesse sparire nel mucchio di roba sparpagliata in soggiorno, li scaricava in pdf.
-Bla bla bla. Tutta roba noiosa-. 
Sherlock si alzò e strappò improvvisamente il computer di mano all’amico.
-Ehi!-
John si alzò a sua volta e di punto in bianco iniziò una lotta furibonda tra i due per la conquista del computer.
-Ne avevamo già parlato, é questione di privacy!-
-La tua privacy è come un libro aperto per me, John, so tutto di te solo guardandoti!-
John venne catapultato dall’altra parte della stanza con uno spintone di Sherlock, urtando una pila di scartoffie che presero il volo nelle mura dell’appartamento.
-Ah sì? E cosa leggi adesso nel mio volto, mister “genio indiscusso del ventunesimo secolo”?- chiese John con aria scherzosa, dato che non era una vera lotta, bensì un gioco per passare quelle ore di noia.
-Il sorriso sul tuo volto indica un chiaro divertimento, gli occhi brillano di maliziosità e i tuoi palmi chiusi hanno una voglia incontrollabile di prendermi a pugni! Mi trema l’ombelico, dottore, sono stupefatto!-
Anche Sherlock sorrideva. Ripresero la lotta, facendo cadere un tavolino e quasi urtando il violino di Sherlock, elegantemente appoggiato alla parete.
Fecero talmente tanto baccano che non sentirono arrivare la signora Hudson.
-Cosa state combinando voi due piccioncini? State facendo una baraonda incredibile!-
-Signora Hudson!-, esordì il detective vedendola sull’uscio accigliata, -questa non è l’ora del suo calmante quotidiano? La vedo un po' agitata, sa?-
Sherlock si sistemò i capelli alla meglio e chiuse poco garbatamente la porta in faccia all’anziana signora. Mancò poco tempo che bussò di nuovo. John si rialzò dal pavimento e sistemò il disordine creato, guardando l’amico roteare lo sguardo al cielo e aprire nuovamente la porta.
-Quale parte di “vada via” non ha ben compreso?- urlò.
-Si dia una calmata, signor Holmes! Volevo solo darle dei biglietti per una galleria d'arte che ho ricevuto stamattina in omaggio!- non riuscì neanche a finire di parlare che il legno della porta le finì di nuovo sul naso.
John sospirò e frettolosamente riaprì la porta per parlare lui stesso con la vicina di casa.
-Mi dica, signora Hudson-
-Caro, credo che il suo fidanzato sia molto nervoso oggi-
-È annoiato, e poi non sono gay-
-Certo-, disse lei spiccia, -comunque questi sono i biglietti, nel caso le interessi-.

Quella sera cenarono ordinando una cena cinese a domicilio, dato che faceva fin troppo freddo per uscire, e si sistemarono sul divano facendo zapping con il telecomando.
-Noioso, stupido, scontato!- urlava ogni qualvolta gli capitava sotto tiro un programma non adatto al suo quoziente intellettivo, per di più con la bocca piena. 
-Per l’amor di Dio, Sherlock! Possiamo vedere qualcosa che piaccia a me di tanto in tanto?-
-Ma ciò che vedi tu è maledettamente troglodita- sospirò il detective guardandolo di sbieco.
John ricambiò l’occhiataccia.
-Intanto.. Che ne pensi di andare alla galleria d’arte domani? Sarebbe una giornata diversa dopotutto- propose John, cercando di cogliere nello sguardo di Sherlock qualcosa che significasse un si.
-Non ne capisco molto di Van Gogh. Tuttavia se proprio insisti, accetto di venire all’appuntamento-
-Non è un appuntamento!-
-Magari potrebbe accadere qualcosa di interessante, un omicidio per esempio- continuò Sherlock ignorando la specificazione dell’amico.

Il giorno successivo si recarono, come previsto, alla National Gallery, ma la fila era piuttosto lunga e quindi dovettero aspettare un po' prima di mettere piede nella vera e propria galleria d’arte.
-Mi sta iniziando a infastidire il fatto di prendere il taxi come mezzo di trasporto- borbottò John scrollandosi la giacca, -c’era talmente tanta polvere che la mia giacca è diventata grigio topo-
-Ma insomma, tu sei stato un militare e hai combattuto nella fanghiglia e nello sterco e ti lamenti di un po' di polvere?- commentò con un risolino Sherlock.
-È pur sempre un mezzo pubblico, dovrebbe essere pulito- 
-Su questo hai ragione-
Incamminandosi tra i quadri, videro che le persone presenti alla mostra erano per la maggiore persone ricche, abbigliate alla meglio, a soppesare il valore dei quadri solo guardandoli.
-Che gente frequenta la signora Hudson? Guarda quello: indossa una collana di filigrana a forma di giglio, probabilmente un regalo di nozze, ma non della moglie, poiché lo tiene nascosto sotto il soprabito, e quindi potrebbe essere il regalo dell’amante, un regalo di addio. Ma lui lo porta ancora, dunque a lei ci tiene ancora. Nonostante abbia vestiti di seta molto costosa, non ha cura del proprio aspetto. Guarda quei capelli, sono sporchi, ci mette molto gel per nascondere la melma lucida di quella massa di spaghetti. Indossa molti anelli, tranne la fede, ulteriore prova della cura che ha per il proprio matrimonio. Lei però è frivola e non sembra badare ai segnali d’allarme che le lancia suo marito. Matrimonio a scopo di lucro-
-Come sempre ne sai una più del diavolo-
Ma Sherlock non udì l’amico, poiché stava guardando qualcos’altro. John se ne accorse e guardò nella stessa direzione e fu allora che capì perché il detective si era immobilizzato: davanti a sé, in un gruppo di uomini d’affari facoltosi, c'era Mycroft Holmes, fratello e acerrimo nemico del moro.
Sherlock fece per girare i tacchi e scomparire, ma il fratello lo aveva già visto e si avvicinò a lui a passo svelto.
-Caro fratello! Qual buon vento ti porta alla National Gallery? Non credevo che foste così agiati da permettervi il biglietto. Buonasera, dottor Watson-
-Buonasera, Mycroft-,rispose secco Sherlock, -ce ne stavamo giusto andando-
-oh proprio no, credo che dovrete prolungare la vostra permanenza qui, devo presentarvi una persona- 
Mycroft fece loro cenno di seguirlo, e i due non poterono fare altro che ubbidire.
Sherlock era visibilmente seccato dalla presenza del fratello e John ne era dispiaciuto. Il suo intento era quello di far divertire l’amico trascorrendo magari il pomeriggio in modo più interessante, invece gli aveva solo reso una giornata nera. Non sarebbe stato contento una volta tornati a casa, probabilmente non si sarebbero nemmeno parlati.

Si fermarono davanti “la notte stellata”, famoso quadro di Van Gogh del 1889, portato lì per l’occasione dal Museum of Modern Art.
Al di sotto del quadro c’erano due figure, una donna di mezza età, ben vestita e con lunghi capelli neri tagliati simmetricamente che le cadevano lungo i fianchi, che indossava un lungo abito color tortora e delle scarpe col tacco basso abbastanza inadatte per una cinquantenne. All’altezza del suo fianco, che cingeva con il braccio sinistro, c’era una bambina con i capelli color platino che indossava un vestito rosso tramonto non adatto alla stagione in corso, date le maniche a giro.
Entrambe si girarono, e la bimba (sui 10 anni di età) rivelò il paio di occhi più neri che John avesse mai visto.
-Sherlock, John, vi presento le mie clienti: Irina Johnson e sua figlia...-
La piccola su avvicinò tendendo la mano con aria stranamente cupa.
-Mi chiamo Evangeline Victoria Hudson e abito al 221a di Baker Street-

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Capitolo 2
*** Indagini ***


John si accorse, con estrema sorpresa, che Victoria era albina: i capelli erano sì color platino, ma le ciocche che le cadevano ai lati del viso erano bianche, così come la sua frangetta, le ciglia e le sopracciglia; la sua pelle aveva il color del marmo e solo le labbra rosee tradivano la presenza di vita in quel corpo, altrimenti sarebbe potuta passare facilmente per una statua. I suoi occhi erano due pozzi neri, un iride molto ampio che copriva la maggior parte della cornea, che si fondeva quasi totalmente con la pupilla. Sherlock notò che davanti ai suoi occhi c’era un velo spesso, una nebbia scura. Era cieca. -Piacere- disse, stringendo la mano di Victoria. Il dottore fece lo stesso. -221a di Baker Street? Non sapevo che quel posto fosse abitato, dopo la strage della coppia Polland nel ’99- commentò John, guardando Irina. -Ci siamo trasferiti da poco, il signor Mycroft ci ha fornito tutto il necessario per proteggerci dall’esterno- rispose la bambina, tornando al suo posto accanto alla madre. John si chiese perché la donna non aprisse bocca. Eppure dimostrava calma e pacatezza. Guardò l’amico, che aveva l'aria di uno che stesse partecipando alla decapitazione di Moriarty: era interessato e divertito. Entrati nel taxi per il ritorno a casa, John stava aspettando impazientemente la sentenza di Sherlock su quell’incontro a dir poco singolare, ma dovette aspettare il rientro per udire le prime parole del detective. -Oh grazie al cielo! Qualcosa di interessante! Un caso, finalmente! Questo è il più bel regalo di Natale che io abbia mai ricevuto, John- esclamò buttando la sua tipica giacca lunga sulla poltrona nera e afferrando John per le spalle roteandolo a destra e a manca canticchiando “Jingle Bells” con un sorrisone sul viso. Il dottore non poteva che essere contento della gioia di Sherlock e lo assecondò, arrangiando una specie di valzer, ma non seguiva il suo ragionamento: di che caso stava parlando? -Sherlock, mi dispiace interromperti, ma di cosa parli?- Il detective si fermò e lo guardò dritto negli occhi, nella stanza semibuia, senza togliere dalle sue spalle le mani. -John!- sussurrò, come se ci fosse qualcuno che dormisse nell’altra stanza, -tu non ti rendi conto della portata di ciò che abbiamo davanti. Hai visto la bambina? È cieca, eppure è venuta a vedere la mostra di Van Gogh; ha le mani disinfettate accuratamente, ma non per igiene, ma perché è a contatto spesso con i cadaveri, dati i resti di sangue rappreso sotto le unghie; gambe robuste, ciò indica un costante allenamento che può essere corsa, ma non lo è, poiché la sua condizione non permette di correre liberamente. Quella bambina è un’arma dei servizi segreti inglesi, si allena quotidianamente nel combattimento corpo a corpo e usa prevalentemente le gambe in ciò, maneggia morti e sa come farlo, è spesso a contatto con le persone e sa come parlarci, dato che è riuscita a giungere a noi tramite l’interesse di Mycroft e la signora Hudson, sua parente. John, incontri del genere non accadono per caso, dietro a ogni movimento c'è una manovra-. Il dottore rimase stupefatto per la risposta, ma le sue domande si moltiplicarono a dismisura. -E Irina?- Sherlock mollò l’amico e si sedette sul divano ponendo le mani unite sotto al mento come faceva di solito. -È la sua vera madre, ma è una donna uscita sofferente dalla relazione che ha avuto per avere Victoria, non indossa la fede e se il marito fosse morto la indosserebbe ancora, quindi non è mai stata sposata, anche perché il suo dito anulare non mostra segni di anelli. È sempre zitta perché ha un quoziente intellettivo minore a quello della figlia e si mantiene distante dalle persone che essa incontra, perché sa di non poter far nulla. Sono ricchi eppure vestono in modo umile, quindi non sono persone materialiste e ciò significa che hanno solidi principi morali, qualunque essi siano-. John annuì, sedendosi accanto all’amico. -E come fai a sapere che è parente alla signora Hudson?- chiese tranquillo, togliendosi la giacca. -Lei disse di aver ricevuto i biglietti in omaggio, ma nessuno regalerebbe due biglietti da mille sterline alla prima che capita. La nostra cara vicina vuole nasconderci il mittente del regalo, evidentemente non si sopportano, ma noi la interrogheremo ugualmente. John, prepara del tè verde e mettici affianco qualcuno di quei biscotti che ti piacciono tanto- John si alzò e preparò il bollitore. -I....biscotti che mi piacciono tanto? Come fai a saperlo?- chiese lui all’improvviso, ricordandosi di non aver mai detto a Sherlock di aver comprato quella marca di biscotti perché la sua preferita. -John, io ti osservo sempre. Non mi sono sfuggite le briciole agli angoli della bocca-. La signora Hudson era molto felice di essere stata invitata per il tè. Per lei era un evento così raro che in cuor suo pensò che John e Sherlock si fossero fidanzati per organizzare un tè assieme a lei. -Miei cari! Buonasera!- esordì entrando nell’appartamento. Sherlock notò che si era anche vestita per l’occasione. -A quando la festa del fidanzamento?- chiese lei, prendendo una tazza di tè. -Non siamo fidanz...- John venne interrotto dall’amico. -Non si preoccupi di questo, nel caso accada glielo faremmo sapere- Sherlock guardò John farsi rosso fino alla punta delle orecchie e guardarlo truce. -Oh e allora perché mi avete invitato? Non vi diminuirò l’affitto, sappiatelo- La signora Hudson afferrò una tazza di tè e si mise a sorseggiarla rumorosamente. Sherlock era uno che andava dritto al dunque. -Parliamo della sua parentela, signora Hudson. Irina Johnson e Victoria Hudson sono suoi parenti, giusto?- All’anziana per poco non andò di traverso il tè. Sbiancò e rovesciò un po' della bevanda sul pavimento. John notò che il suo sguardo era triste. -Mi dispiace per il pavimento...pulirò personalmente...- -Risponda, signora Hudson- incalzò il detective, volenteroso di raggiungere i suoi obiettivi. -Io...avevo un fratello. Si sposò ed ebbe un figlio, Edgar. Edgar Hudson. Egli si fidanzò con una dolce ragazza di Newcastle, Irina Johnson, e la loro relazione durò un tempo considerevole, finché lui le chiese di sposarlo. La loro felicità finì quando, un mese dopo dalla proposta, a Edgar venne diagnosticato un tumore all’intestino in stadio terminale. Morì nel giro di pochi mesi, lasciando Irina sola, e incinta di Victoria. Non ci diedero più notizie di lei e della bambina, e ora eccole qui, alla porta accanto-. John si chiese quante sofferenze avesse passato Irina nel perdere l’unica persona che amasse. In quel momento gli fu molto più chiaro il perché la donna fosse di poche parole. Quando la signora Hudson andò via, nell’appartamento calò il silenzio. Evidentemente entrambi erano persi nei loro pensieri. John stava lavando i piatti quando Sherlock ruppe il ghiaccio. -Perché sei turbato, John?- Si guardarono. -Mi chiedo come ci si possa sentire a gestire un figlio da soli senza la persona con il quale si ha fatto il figlio- Sherlock sorrise. -Se mi diagnosticassero un tumore, John, cosa faresti?- Il dottore si fermò per un momento, incupito, ma poi rise. -Direi che è una cosa alla portata di Sherlock Holmes- Entrambi scoppiarono a ridere.

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Capitolo 3
*** Victoria gambe di forbice ***


Il giorno dopo John si dedicò a qualche ricerca su internet, mentre Sherlock era disteso sul divano con un cerotto alla nicotina appiccicato sull’avambraccio. -Allora? Cosa hai trovato?- chiese, a occhi chiusi. -Qui dice “Victoria gambe di forbice, famosa per la sua collezione di arresti di pedofili in tutta Londra e per i suoi omicidi a sangue freddo nonostante la tenera età”. In seconda elementare superò per puro caso un test universitario di quelli più difficili e degli scienziati la prelevarono per somministrare le sue abilità in laboratorio: Victoria ha dimostrato un così alto quoziente intellettivo che quasi non credevano fosse cieca. Venne aggredita da un pedofilo circa un anno fa, grazie alla sua astuzia in qualche modo riuscì a mettere KO il malvivente e lo uccise col taglierino che lui portava in tasca. 30 coltellate. Il caso arrivò ai servizi segreti, che le proposero un contratto e lei accettò. Dissero che una così mente astuta non poteva essere lasciata al mondo normale. Tuttora lavora ai casi più difficili riguardanti omicidi infantili e stupri. Sherlock, qui dice che soffre di una patologia mentale...- A John corse un brivido lungo la schiena. -Quale patologia mentale?- chiese il detective, che era rimasto indifferente dall’inizio alla fine del racconto, archiviando tutto nel suo mind palace. -...ha la mania di collezionismo dei campioni di sangue delle sue vittime. Infatti qui dice che non cattura solo i pedofili o gli assassini...ma li picchia a sangue finché non perdono conoscenza.- Sherlock si alzò, camminando avanti e dietro per la stanza. -Dunque cosa sappiamo adesso di Victoria?- -Lavora nei servizi segreti da un anno, è albina...- -Sbagliato, John. Non è albinismo totale, i suoi occhi non sono albini, dato il forte colore nero e il colore chiazzato dei suoi capelli. Ha la sindrome di Waardenburg. Albine sono alcune zone della sua cute e la sua pelle, oltre ai peli. Continua-. John appuntò tutto ciò che disse Sherlock su un taccuino. -È cieca, ma ha tutti gli altri sensi molto acuiti, ha dieci anni, ha disturbi mentali omicidi e colleziona provette piene di sangue-. Sherlock afferrò il telefono. -Chi chiami?- chiese il dottore, ma non ebbe risposta. -Pronto? Irina Johnson? Sono Sherlock Holmes...-. Quando Victoria entrò nell’appartamento al secondo piano del 221b di Baker Street, John aveva i brividi che gli perseguitavano la schiena. Nella sua vita aveva visto molte cose, ma una bambina con gli occhi così neri, che picchiava a sangue le sue vittime, la vedeva come un demone imprigionato nel corpo di una bambina innocente. -Buongiorno- disse lei con un tono cordiale e chiudendo posatamente la porta. Indossava un vestito dorato con la gonna a balze, lungo fino al ginocchio, anch'esso con le maniche a giro. Evidentemente il freddo non era una parola che esisteva nel suo vocabolario. -Una tazza di tè?- chiese Sherlock, versando la bevanda in grosse tazze rotonde. -Mi spiace, ma non mi piace il tè nero- rispose lei, sedendosi sulla poltrona rossa di John senza alcuna esitazione. Il dottore si chiese a bassa voce come facesse a orientarsi nella cecità. -Oh, dopo un po' ci si fa l’abitudine, signor Watson. Infondo tutti gli occhi prima o poi si abituano al buio-. John si vergognò e decise di tacere finché non fosse stato interpellato. -Abituarsi? Significa che la tua cecità non è dalla nascita?- -Magari, signor Holmes. Un tempo vedevo sagome sbiadite, poi tutto divenne nero. In un certo senso, però, forse è meglio così, non vedo questo mondo orrendo- disse sorridendo e spostandosi una ciocca di capelli da davanti al viso. -Mi sono informato sul tuo conto. Trenta coltellate? Una bambina di dieci anni?- chiese Sherlock, accavallando le gambe. -Ha mai provato un’ irrefrenabile voglia di uccidere? Un rancore represso nella profondità del suo animo, signor Holmes? Magari per noia, o per amore, o per delusione?- Al detective venne in mente Moriarty e suo fratello Mycroft, ma non disse nulla a voce alta. -Io non posso espormi al sole per via del mio albinismo. Mi chiamavano “bella statuina” a scuola, non mi lasciavano giocare con gli altri bambini, né tantomeno io volevo giocare con loro, stupidi esseri dalla mentalità deforme. Come posso aver conosciuto il caldo, secondo lei? Il sangue. Il sangue caldo delle persone. Quel giorno quell’uomo mi seguì, era tardi ed era buio, lo percepivo dall’aria fredda e dall’assenza di persone in giro. Quei passi, così pesanti, trascinati, di un uomo grasso e sudaticcio, li sentivo dietro le calcagna. Sentì l’aprirsi di un garage e vi entrai, lui entrò e io capii in che situazione fossi. Chiamai la polizia grazie al suono dei tasti del mio portatile, ma non arrivarono mai, non seppi dirgli dove fossi. Lo presero per uno scherzo e riattaccarono la linea. Ero sola con quel verme, in un posto buio e isolato-. Sherlock guardò John e vide che il suo pugno stretto nel bracciolo del divano significava profonda rabbia e risentimento. -I miei sensi sono i miei occhi, non mi hanno mai tradito, e non mi tradirono quella sera. Sapevo dove fosse in quel momento, quei passi e quel fiato nel freddo. Ero dietro una colonna. “Piccola, vieni qui, non voglio farti del male”. Cacciò l’etere, ne sentii l’odore e il versarsi del liquido sul fazzoletto. Fortunatamente sbirciò dietro la colonna sbagliata e io sbucai da dietro e gli versai l’etere in faccia. Cadde rovinosamente e frugai nella sua giacca quei pochi istanti in cui era riverso sul pavimento e trovai il taglierino, piantandoglielo in qualche dove. Lo feci urlare come lui voleva far urlare me: lo stesso dolore che voleva infliggermi io glielo devi provare in prima persona. Il sangue che mi schizzava sulle mani, caldo. Non c'è sensazione migliore al mondo, gliel’assicuro. Volevo altro sangue e lo ottenni tagliandolo e versando il suo sangue in quel garage pubblico. Il caldo lo scoprii in quell’occasione, signor Holmes-. Calò il silenzio, Sherlock era pensieroso e divertito, John senza parole. -Immagino di non essere normale, ma se la normalità è questo mondo preferisco non farne parte. Essere intelligenti è un grande fardello da portare, la mente non tace un momento e tutto il resto non sembra sufficiente, la realtà non basta mai, si mira all’impossibile-. Si alzò dalla poltrona, sventolando i lunghi capelli bianco-platinati che odoravano di rosa. -Devo risolvere una faccenda, se volete venire...- -Che faccenda?- chiese Sherlock, curioso. -Oh beh devo sistemare una persona.- fece l’occhiolino. John non poteva credere al fatto che Sherlock avesse accettato di seguirla nella sua caccia ai pedofili. Stavano sottobraccio aggrappati a un ombrello, dato che nevicava forte, e si stavano dirigendo al luogo prestabilito;; Victoria aveva preso una limousine privata senza degnar loro uno straccio di invito. -Mi spieghi perché l’assecondi? Perché pensi che stiamo seguendo un caso?- gli chiese il dottore. -Secondo te perché una cacciatrice di pedofili ci ha cercato e raccontato la sua storia? John, ci sta nascondendo qualcosa, e questa cosa potrebbe essere pane per i nostri denti. È solo l'inizio, tu fidati di me.- John ebbe l’impulso di stringere il braccio con il suo. Sherlock fece un sorrisetto di sbieco. Arrivarono all’Hyde Park, dove c’erano solo tre anziane che leggevano il Times sulle panchine. Era poco popolato per via della neve. La limousine arrivò appena cinque minuti dopo e si parcheggiò abbastanza lontano. Quando scese Victoria indossava abiti differenti e più comuni: una felpa sotto a un cappotto lungo e rosa, due trecce che le scendevano lungo il collo e una sciarpa bianca. Tutti l’avrebbero scambiata per una bambina molto carina che voleva solamente giocare con la neve appena caduta nel parco. Si avvicinò a John e Sherlock e li sfiorò. -Vi ho riconosciuti dal vostro profumo.- disse, -Il verme dovrebbe essere qui tra esattamente trenta secondi. Le vecchiette che vedete qui intorno sono attori della polizia londinese pronti a intervenire in qualsiasi momento. Voi fate finta di essere una coppia gay che vuole un po' di romanticismo sotto la neve- John sospirò mentre la bambina si allontanava. -Ma perché dicono tutti che siamo una coppia, perfino i non vedenti?- sussurrò amareggiato. - Love is in the air...- canticchiò Sherlock divertito. Trenta secondi esatti dopo (Sherlock li contò), un uomo basso, dalla carnagione olivastra e un grosso naso a patata, massiccio, che indossava un lungo cappotto fino alle ginocchia, arrivò, guardando in continuazione l’orologio. Si rigirava tra le mani una caramella. Victoria era lì, in un mucchio di neve, buttandola in aria e giocandoci. -L’uomo guarda nella nostra direzione, John. Sediamoci su una panchina e abbracciami come faresti con una di quelle frivole che conosci tu-. Il dottore non poté far altro che assecondarlo, data la situazione; gli cinse un braccio intorno al fianco e Sherlock con il suo cinse le sue spalle. John era imbarazzato ed era rosso fino alla punta delle orecchie, l’amico aveva un’aria così naturale che sembrava che non facesse altro da una vita. Gli baciò perfino la guancia. -Cosa fai?!- sussurrò il dottore, non distaccandosi però dalla posizione in cui stava. -Faccio il fidanzato credibile a differenza tua- lo rimproverò Sherlock. L’uomo li lasciò perdere e si avvicinò a Victoria con un gran sorriso malizioso. Poche parole, e la piccola gli strinse la mano allegramente. Abbassò la guardia e lei agì: gli torse il braccio con una potenza tale che John credette che gli avesse spezzato tutte le dita. Lui barcollò quel poco che bastò a Victoria per tirargli un calcio in pieno viso, roteare e tirargliene un altro con l’altra gamba. Mentre lui cadeva, lei unì le mani e lo colpì con tutta la forza dei suoi avambracci. L’uomo già perdeva sangue, e la cosa esaltò Victoria, che lo picchiò più volte per fargli uscire più sangue e bagnarsene. Rideva a gran voce. Un agente vide che la situazione stava degenerando e uscì dal suo travestimento: i due amici si accorsero con grande sorpresa che era Greg, l’ispettore di polizia che si rivolgeva sempre a loro per risolvere i casi. Non fece in tempo a intervenire per fermare la bambina: lei avvolse le gambe intorno al collo dell’uomo e glielo spezzò. Fu allora che conobbero il vero significato di “Victoria gambe di forbice”.

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Capitolo 4
*** Natura morta con Bibbia ***


Nel dipartimento di polizia, dove John e Sherlock erano soliti andare, sembrava essere passato un tornado. Persone correvano a destra e a manca con strane pile di fogli, c’erano nuovi poliziotti e agenti, che sapendo il fatto loro non rispettavano le regole dell’ambiente in cui erano e frugavano dappertutto, creando disordine. -Ecco, da quando è venuta quella bambina qui non si capisce più nulla. Ce l’hanno affibbiata una settimana fa eppure ha già ucciso tre dei pedofili assassini che miravamo da tempo, e anche se è riuscita a prenderli, morti non ci servono granché, vi pare?- disse Lestrade, guardando di sbieco un ispettore che stava ficcanasando nei raccoglitori dove erano stati registrati tutti gli ultimi arresti del mese. -Aria! Queste sono cose nostre! Sciò!- urlò, facendo arretrare l’altro solo di qualche passo. –Ahimè qui dentro è un manicomio adesso! Pensa che la povera Molly non è riuscita neanche a sfiorare gli ultimi due cadaveri per via della nuova patologa che pretende di analizzarli lei stessa: si chiama Lily Whitnam, viene dai servizi segreti-. Sherlock e John si separarono da Lestrade e videro che nel suo studio era seduta Irina Johnson; entrarono nell’obitorio e videro Molly litigare furiosamente con una donna dai capelli castano chiaro e gli occhiali, davanti a un cadavere che riconobbero essere quello del pedofilo ucciso da Victoria. -Maledizione, è il mio lavoro! Io lavoro qui! Non può di punto in bianco occuparsi dei miei cadaveri!- gridò Molly, puntandole il dito contro. -Ma questo cadavere è stato ucciso dalla mia datrice di lavoro e ha chiesto a me personalmente di occuparmi dell’autopsia!- ribatté l’altra. Poco prima che si prendessero a capelli Sherlock interruppe il litigio con un sonoro “buonasera”. Le due si girarono verso di lui, visibilmente vergognate. Molly arrossì e abbassò lo sguardo: si sentì una stupida per aver urlato come una pazza appena uscita dal manicomio difronte all’uomo che da anni le faceva venire la tachicardia. -Ciao...Sherlock- disse lei, giocherellando con un braccialetto. L’altra, che doveva essere Lily, era rimasta immobile guardando il detective, con l’aria di chi avesse già visto quel viso ma che non si ricordava dove. Sherlock fece un cenno a Molly, che ci rimase non male, di più, e si avvicinò a Lily con interesse. -Tinta appena fatta, ma non da un parrucchiere, da te stessa, eppure hai saputo ben nascondere il colore rimasto alla radice. Sei molto ben curata e hai un ciondolo di tua nonna, che lucidi ogni giorno. Gli occhiali sono nuovi, lenti ben pulite. Solo il suo profumo non mi piace: dolciastro-. Molly non capì il perché fosse tanto interessato alla donna al punto da darle del “tu” e a sentire il suo profumo e i capelli, mentre invece a lei l’aveva a stento salutata e aveva praticamente ignorato il suo nuovo taglio di capelli, a caschetto. -Salve signor Holmes, il mio nome è Lily Whitnam, patologa dei servizi segreti- lo riconobbe lei, -e lei è il dottor Watson- disse a John stringendogli la mano. Il biondo vide subito che era una bella donna: occhi verdi, viso ovale, labbra carnose e rosee. -Piacere mio- rispose. -Dunque, dato che sei una patologa abbastanza importante, che mi sai dire di questo cadavere?- chiese Sherlock, scansando Molly. Lily fu più che contenta di esporre le sue deduzioni al detective e di sovrastare l’avversaria, che intanto li guardava sempre più sbigottita. -Era una guardia notturna del National Gallery, di nome Trevor Coffin, di origine indiana, 47 anni, una moglie e due figlie. Fratture alle falangi e all’atlante, emorragia celebrale. Ha due tatuaggi in due parti discutibili: due iniziali su entrambi i testicoli, “DG”, e una bambola di porcellana sotto l’ascella destra-. -Si drogava. Buchi di siringhe su entrambi i bracci e residui di sostanza bianca nelle narici, dubito sia borotalco. Cornee arrossate. Fumava più di cinque pacchetti al giorno, guarda lo stato dei suoi denti. Non rientra a casa da circa due giorni a giudicare dalla sua barba. Eccessiva masturbazione, il suo pene ha la pelle scorticata. Sai dirmi altro di questo individuo?-. Lily gli passò delle chiavi semi-arrugginite di un appartamento. -Scoprilo tu stesso-. Si fermarono davanti a un edificio nella Charles II Street, non molto lontano da Trafalgar Square, alto tre piani. John non capì perché l’amico avesse portato con sé Lily, forse perché aveva l’aria professionale, o forse perché nutriva qualche interesse verso di lei? Una cosa era certa: il dottore non la voleva lì, perché non c’entrava niente con il loro caso; era un po’ come avere Mycroft tra i piedi. Perso nei suoi pensieri, quasi non si accorse che erano arrivati al secondo piano, dove Sherlock girò la chiave argentata nella serratura, che fece un rumore rugginoso e fischiante. -Qualcuno è entrato prima di noi- disse il detective, sfiorando il pomello, che uscì dalla sua collocazione rotolando ai loro piedi. La porta non si aprì. John cacciò la pistola, ma l’amico scosse la testa. -Non c’è bisogno di rovinare una porta così ben lavorata, di legno di quercia...-. Diede una spallata poderosa all’uscio, che cadde, staccandosi dai cardini, con un gran tonfo sul parquet dell’appartamento. Sherlock si scrollò la polvere d’intonaco che gli cadde sulla spalla. Lily sorrise meravigliata. Quando entrarono notarono subito che l’ordine non era un obbligo, ma proprio una bestemmia: spazzatura accumulata in un angolo del salone, polvere su polvere ovunque, puzza di morte e putrefazione. John a stento resistette al vomito, mentre Lily portò un fazzoletto davanti al naso. Sherlock sussurro un verso di disgusto. La cucina sembrava inaccessibile, per tutto il caos che la regnava: pentole accumulate nel lavello, buste sull’entrata, alcune blatte che scorrazzavano tra le mattonelle. -Sembra abbandonata da settimane-, commentò John, prendendo con i guanti un calzino che penzolava dal tavolo, dal quale uscì una cimice. -No...era un uomo che viveva qui solo perché necessitava un posto dove vivere, ma non amava questa casa. Era qui solo per la vicinanza al suo lavoro alla National Gallery, dove suppongo arrivasse a piedi.-. -Guardate qui!- urlò Lily, entrando nella camera da letto dell’uomo. I due amici la seguirono, e lo spettacolo che si presentò ai loro occhi fu raccapricciante: una bambina, stesa sul letto, in avanzato stato di putrefazione, nuda, squartata sul ventre; teste di bambole sparse sul pavimento, ricoperte di sangue; foto pedo-pornografiche appese alle pareti, con disegni osceni scritti su di esse; la cosa che però saltò subito agli occhi di Sherlock fu una, appesa sull’armadio, storta, attaccata in modo arrangiato: una tela. Dipinta col sangue. Un’imitazione sanguinolenta de “Natura morta con Bibbia”, di Van Gogh.

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Capitolo 5
*** il vortice dell'oblio ***


Quando tornarono a casa era ormai tarda notte. Si erano intrattenuti così tanto nella scena del crimine che, quando arrivarono Lestrade e Anderson con le volanti, li trovarono seduti su degli sgabelli di fortuna a discutere, con tanto di risate. John si chiese spesso il perché ci fosse così tanto feeling tra Lily e Sherlock, al punto da ridere sopra un infanticidio con tanto di battute; lo guardò di sottecchi mentre preparava una camomilla, dato che si sentiva troppo attivo per poter dormire. Sherlock si era cambiato, e aveva messo a mollo i vestiti, che puzzavano di morte, e si era messo un pigiama di ciniglia che aveva comprato John: per se stesso però.
-Sherlock, quello è mio- gli disse, con disappunto, pensando alle 20 sterline che aveva speso, credendo di poterlo indossare e stare al caldo sotto le coperte.
-Ah?-, ribatté lui facendo finta di non saperlo, -mettiti qualcos’altro, allora-.
-Per la miseria, ho messo tutti i miei pigiami a lavare, sapendo di mettermi quello!-
-Dormi nudo-
-A dicembre?!-
-Puoi sempre entrare anche tu qui dentro, è di almeno tre taglie più grande della tua-.
John sospirò, sconfortato, versando nervosamente l’infuso in una tazza. Sherlock sorrise, sedendosi sul divano.
-In quanto al caso...cosa ne deduci, dottor Watson?- gli chiese, con aria divertita.
-Un padre che stupra sua figlia, la squarta e la lascia nel suo letto per sette mesi e dipinge col suo sangue un’imitazione macabra de “Natura morta con Bibbia” di Van Gogh.-
-Sbagliato. Ha dipinto quella tela per un motivo, John: credeva in Dio ma poi ha lasciato la moglie, ha perso il suo precedente lavoro, cioè fare il poliziotto, e si è chiuso in se stesso, diventando ateo-
-Come lo sai?-
-Una foto con gli ex colleghi, dalla cornice lucida e ben curata, forse l’unica cosa pulita in quella casa, però una foto vecchia e scolorita, quindi appartenente al passato, gelosamente custodita perché con un valore sentimentale, malinconico. C’è un’altra foto, la moglie è stata tagliata via, una figlia, quella morta, contrassegnata con una “X” scritta col sangue, e l’altra circondata da un cuore rosa scritto da un pennarello. Significa che vuole l’altra figlia, che però custodisce la madre, e odia quella morta, custodita da lui, che non è biologicamente sua; l’ha uccisa otto mesi fa, infliggendole le più atroci sofferenze. Il quadro di Van Gogh simboleggia due cose: la precedente fede del nostro uomo (La Bibbia, aperta al capitolo 53 del libro di Isaia) e l’abbandono della fede (la candela). Ora ti dico come si è svolto tutto questo. Trevor Coffin, uomo speranzoso, con una moglie bella e il lavoro che ha sempre desiderato. La coniuge rimane gravida, ma la figlia esce più bianca del latte, cosa impossibile data la carnagione di Trevor, e la moglie ammette di averlo tradito. Lui la perdona, lei rimane incinta della seconda figlia, stavolta sua, e tutto sembra tornare alla normalità; passano gli anni e lui scopre che la moglie non ha mai dimenticato l’altro uomo, e che continua a vederlo. Per riuscire a scoprire la sua donna in flagrante si assenta spesso dal lavoro e viene licenziato. Chiede il divorzio poco tempo dopo. Si dividono la custodia delle figlie, e lei gli lascia la figlia “bastarda”, scatenando in lui un moto di pazzia che lo conduce a concepire pensieri orrendi su quella bambina. Inizia a vedere video pedo-pornografici, inizia a masturbarsi su di essi, inizia a molestare i bambini. La moglie gli nega totalmente la visita della sua vera figlia, e lui si scatena, riversando la sua violenza su quell’altra. Era un uomo anche acculturato, dato che conosceva alla perfezione tutti i quadri di Van Gogh-.
John rimase senza parole. La camomilla si era raffreddata, per quanto il dottore fosse stato rapito dal racconto, dimenticando anche il pigiama.
-Davvero sorprendente- commentò, con un sorriso. Sherlock ricambiò il sorriso.
-Ma questo è solo l’inizio, John. Victoria ci ha fatto assistere all’uccisione di Trevor per coinvolgerci nel suo caso, e so che tutta questa ossessione per Van Gogh non è solo una coincidenza-.
-Già, lo penso anch’io-.
Sherlock guardò attentamente John, che si girò verso di lui. L’oscurità era fitta, ma il dottore riusciva a vedere benissimo gli occhi azzurri dell’amico, che lo stava leggendo, nel profondo del suo animo. John lo sentiva.
-Cosa ti turba, John?- gli chiese, con aria tremendamente seria.
Il dottore rimase muto, a guardarlo. La tazza piena di camomilla gli sfuggì di mano e si rovesciò sui pantaloni di John e sul tappeto.
-Oh cavolo, pulisco io… a domani, Sherlock-.
Il detective lo osservò mentre l’altro andava a prendere lo straccio e lo scopettone, si alzò e andò a coricarsi.
 
Il giorno dopo i due amici non ebbero un momento libero. Di prima mattina si recarono in laboratorio per controllare tutti i campioni di sostanze trovate sul luogo del crimine, poi andarono alla camera ardente a interrogare la moglie, che era in compagnia del suo fidanzato e della figlia mulatta, e tutto confermò la teoria di Sherlock della sera prima. Victoria per qualche strano motivo era andata ad Amsterdam, e non avevano ricevuto notizie di lei.
Sherlock aveva invitato Lily a prendere un caffè con loro, prima di rimettersi al lavoro andando alla National Gallery a documentarsi sull’impiego di Trevor Coffin. La donna aveva indossato un jeans abbastanza attillato, una camicia con sopra un cardigan e un cappotto lungo fino alle ginocchia che, pensò John, le donava molto.
-Buonasera ragazzi!- salutò lei con aria amichevole, sorridendo al dottore.
-Ciao!- dissero all’unisono i due amici.
Quando si sedettero al tavolino del bar, John iniziò a percepire un disagio crescente, dato che Sherlock e Lily erano seduti da una parte del tavolo e lui da quella opposta, escluso dalla conversazione, dato che conosceva già la versione di Sherlock sui fatti accaduti sulla scena del crimine. Si sorprese che la patologa ancora non lo sapesse.
-Davvero sorprendente, signor Holmes, e dire che al vostro dipartimento ti definiscono uno psicopatico- disse lei ridacchiando.
-Io sono un sociopatico iperattivo, Lily, il sociopatico iperattivo che salva loro le chiappe ogni volta che si mettono nei guai. Non è vero, John?-.
L’amico sembrò cadere dalle nuvole.
-Oh…sì! Ora vado a prendere un cornetto al bancone…torno subito!- rispose lui, alzandosi e dirigendosi verso un barista che distribuiva cornetti.
Sherlock non gli tolse gli occhi di dosso un solo momento. Lily se ne accorse.
-Qualcosa non va tra voi?- chiese, con discrezione.
-Non lo so- rispose lui.
-Dovresti parlargli, se tieni davvero a lui, come amico o come altro, Sherlock.-
-Adesso direbbe che non siamo una coppia- sorrise.
 
I due amici stavano camminando a Trafalgar Square, appena usciti dalla National Gallery, dove avevano scoperto che Trevor faceva spesso visita, saltando il lavoro, pare per trovare sua sorella, al Bethlem Royal Hospital, un ospedale psichiatrico situato alla Monch Orchard Road. Decisero di andarci il giorno dopo, poiché erano stanchi.
-Ti piacerebbe un giro sul London Eye, John?- chiese improvvisamente Sherlock, facendo sbiancare il dottore.
-S…sul London Eye? Perché?-
-Potrebbe essere un’esperienza interessante- rispose semplicemente lui, guardandolo con occhi giocosi. John si limitò ad annuire, confuso.

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Capitolo 6
*** Dall'alto di Londra ***


Quando entrarono in una delle cabine del London Eye, John si accorse che il commesso non aveva fatto pagare i biglietti.
-Lo tirai fuori da una causa riguardo un affitto non pagato- spiegò Sherlock, prima che John potesse chiedergli qualcosa.
-Ah-.
Quando la ruota partì, il dottore percepì un lieve senso di vuoto sotto i piedi e per riflesso allargò le braccia e si piegò in avanti, ma poi si abituò e ridacchiò tra sé e sé per il suo comportamento goffo. Sherlock lo guardava divertito. La cabina si alzava lentamente, e gli edifici più belli e importanti di Londra iniziarono a svelarsi, sotto un manto spesso di neve, creando un’atmosfera magica. Le luci serali, poi, toglievano il fiato.
-La vista è magnifica- commentò John, mettendo una mano sul vetro, come quei bambini che si esaltano per le giostre. Non aveva mai avuto tempo di salire sul London Eye, e invece era lì, a godersi il panorama. Un grande sorriso gli illuminò il volto. Rimasero in silenzio per un po’, osservando quello spettacolo, poi il dottore si accorse che il detective lo stava fissando da più di dieci minuti.
-Sherlock? Cosa c’è?- gli chiese.
-Ti ho portato qui per toglierti quell’aria triste. E per sapere cosa te l’ha fatta venire-.
John non capiva. Perché l’amico si stava preoccupando per lui?
-Nulla di importante. Mi sono solo accorto di aver bisogno di una donna, vedendo te e Lily così affiatati- ammise.
-Affiatati? Di cosa parli?-
-Sembrate una bella coppia-
-Sembrare ed essere sono due cose diverse. Lily è una donna come tante altre, frivola e poco accorta. Potrebbe essere la fotocopia di Molly, solo che è dotata di un QI più alto. Sai che le persone poco intelligenti non le frequento, è fisicamente doloroso per me anche solo ascoltare un loro ragionamento. Lily però ha un buon occhio e non si lascia sfuggire i dettagli che cerco, ed è questo il mio unico interesse verso di lei. Ciò che tu invidi non è amore-
-Come fai a dire che non è amore? Hai mai visto una persona al di là dell’interesse lavorativo?-
-Si. So cos’è l’amore. Non è quello che ho provato con le donne che ho conosciuto, me ne sono reso conto dopo-
-E…quando te ne sei reso conto?- chiese John esitando, dato che i due non avevano mai affrontato un discorso sulle proprie relazioni. Sherlock si girò a guardarlo. Rimasero a fissarsi per lunghi istanti. Il detective aprì la bocca per rispondere, quando il London Eye si fermò improvvisamente, sul punto più alto di Londra.
Sherlock capì subito che non si era fermato per far scendere qualche anziano con le vertigini, perché anche le luci della ruota si erano spente.
-Che succede?- domandò John, vedendo che l’amico stava guardando giù.
-Qualcosa non va. Vedo delle volanti della polizia-.
Anche John vide numerose sirene scintillanti nel Jubilee Gardens, che avevano bloccato il traffico e fatto evacuare tutte le coppie che passavano una serata tranquilla nei pressi. Altre avanzavano a gran velocità dal Westminster Bridge.
Il telefono di Sherlock squillò: numero sconosciuto.
-Sherlock Holmes-
-Signor Holmes- trillò una voce acuta dall’altro capo, -sono Victoria Hudson. Vi prego di non essere spaventati, tu e il tuo fidanzato, poiché fa tutto parte della procedura-
-Procedura?-
-Oh si. Nella capsula sotto di voi uno dei pedofili più famosi di Londra, da tempo ricercato, si sta intrattenendo con un minore. Finirà prima di quanto pensiate-.
Victoria abbassò la cornetta.
-Le piace fare le cose in  grande- commentò Sherlock, guardando un elicottero Eurocopter Mercedez-Benz, uno dei più costosi in commercio, avanzare rumorosamente sulla vetta della ruota. John riconobbe Victoria dietro lo spesso vetro del veicolo, e capì tutto.
Il detective si affacciò e vide il volto del pedofilo, che aveva imprigionato con un possente braccio muscoloso il corpo di una bambina tra i sei e i sette anni, che piangeva disperatamente. L’uomo era armato di pistola calibro 9, puntata sulla tempia della sfortunata.
Victoria impugnò un megafono.
-Andy Hughes, le consiglio una resa immediata, o questa potrebbe essere la sua ultima visione di Londra- disse in modo freddo, con gli occhi neri puntati nel vuoto. Al dottore era ancora sconosciuto il come riuscisse a sapere i fatti che le accadevano intorno, senza vedere.
L’uomo, dai folti baffi a manubrio pregni di sudore, strinse ancora di più la piccola, grugnendo un “no”. Victoria aprì il portello dell’elicottero e l’aria le scompigliò i capelli. Sherlock notò che indossava un completo scozzese nero, anch’esso con le maniche a giro, che le arrivava al ginocchio. Gettò il megafono nel vuoto e sorrise.
Sherlock la osservava in tutta la sua freddezza, ponendosi mille domande, a cui non poteva trovare risposta in quel momento: John lo distraeva, poiché aveva impugnato la sua pistola.
-Che stai facendo?- gli chiese, guardandolo.
-Spacco il vetro- spiegò lui.
Victoria intanto aveva compiuto un salto poderoso dal suo elicottero, atterrando sulla capsula dell’uomo, crepandone il soffitto. Nonostante ci fosse del ghiaccio sulla superficie, lei non scivolò neanche per un millimetro.
-Signor Hughes, molli la ragazzina, o sarò costretta a ucciderla-.
Lo sparo, che frantumò il vetro come previsto, attirò l’attenzione di Victoria. Alzò la testa verso di loro.
-Non si intrometta, signor Holmes-
-Mi dispiace, ma questo è anche il nostro caso- rispose lui.
Il rumore distrasse Andy Hughes: lasciò la ragazzina, che corse dall’altro capo della vettura,  e Victoria ebbe il tempo di spaccare il vetro ed entrare all’interno della cabina.
-Detective!- urlò, -portate in salvo la bambina!-.
Dopodiché Andy Hughes si rialzò e, infuriato, si avventò sulla bionda.
-Portare in salvo la bambina? Come?- chiese John guardando Sherlock.
-Ti piacciono le mie gambe, John?-
-Cosa? Che stai dicendo?-
-Che ti piacciano o meno, dovrai prenderle-.
 
John solo allora si rese conto di quanto pesasse Sherlock. Lo stava sorreggendo pericolosamente, tenendolo per le caviglie, mentre l’amico tentava di afferrare i bracci di metallo della capsula. Se li avesse raggiunti, sarebbe potuto atterrare sul cerchio della ruota e aiutare John a scendere, in modo da raggiungere la bambina aggrappandosi ai sostegni sottostanti.
-A mio parere- disse John a fatica, -questa è un’autentica pazzia!-
-Risparmia il fiato e fammi scendere ancora un po’- rispose Sherlock con aria seccata.
Il detective si aggrappò finalmente alle barre di metallo, e riuscì agilmente a fare una capriola e a trovarsi faccia a faccia con John, mentre i suoi piedi poggiavano a un sostegno più in basso.
-Bene!- disse il detective, sorridendo, con il vento freddo che gli scompigliava i capelli, -Prendi la mia mano, aggrappati a me e scendi-.
John non si fece prendere dal panico, nonostante la mano di Sherlock potesse essere l’unico suo appoggio per non precipitare in un vuoto di 145 metri, non solo perché da militare aveva affrontato ben altro, ma anche perché sapeva che se Sherlock gli diceva di fidarsi, doveva fidarsi.
Prese la mano dell’amico, fredda e umida, e iniziò a scendere lentamente col corpo verso di lui, con l’altra mano aggrappata al pavimento della capsula (senza vetro poiché, dopo lo sparo, un calcio poderoso di John ne aveva fatto sparire gran parte), in modo precario e assolutamente folle. L’adrenalina iniziò a impossessarsi di entrambi.
-Vieni! Puoi lasciarla adesso!- urlò al dottore.
John lasciò la capsula e la gravità lo fece urtare contro i sostegni, ma grazie a Sherlock non precipitò ed ebbe il tempo di aggrapparsi ai bracci meccanici della ruota, senza farsi particolarmente male.
-La prossima volta che dici di voler andare sul London Eye, giuro che ti ci spedisco a calci- disse il dottore, esasperato, col battito accelerato per la tensione. Sherlock sorrise.
Iniziarono a scendere aggrappandosi a tutto ciò che trovarono, e lentamente sembravano avvicinarsi alla cabina, dove Victoria stava fronteggiando l’uomo muscoloso infuriato, tirandogli poderosi calci sul torace che lo facevano arretrare di qualche metro. Era evidente che non ci stava mettendo tutta la forza che desiderava perché stava prendendo tempo.
Sherlock e John, però, erano arrivati miracolosamente in corrispondenza della capsula, infreddoliti e sudati, e stavano elaborando un modo per raggiungere la bambina, che si era rannicchiata in un angolo e piangeva. Victoria si accorse di dover dare una mano, e con un calcio riuscì a far uscire la panca dalla sua postazione: la utilizzò per dare uno schiaffo di legno ad Andy Hughes, per poi lanciarla verso il vetro dove si trovavano i due amici, frantumandolo.
-Bambina! Vai verso i due signori fuori. Forza!- le urlò, e lei, presa dall’euforia, obbedì impaurita, aggrappandosi alle barre di ferro e raggiungendo John.
-Brava piccola. Va tutto bene.- le sussurrò lui, cingendola con un braccio.
L’elicottero si avvicinò a loro e un uomo gettò loro una scala di sicurezza, portandoli in salvo.

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Capitolo 7
*** Fattori ereditari e verità scomode ***


Tornarono a casa che era ormai mezzanotte passata, dato che i media li avevano sopraffatti di domande e il pronto soccorso li aveva ricoperti di coperte, credendo fossero sotto shock. Un’ora se la prese solo Lestrade chiedendo loro cosa fosse accaduto. La signora Hudson, poi, vedendo tornare i due amici in ambulanza, insistette per preparare loro qualcosa da mangiare e da bere, interrogandoli per l’ennesima volta.
La prima cosa che fece Sherlock fu quella di prendere il suo violino e suonarlo, nonostante l’ora tarda. John si era lavato molto velocemente e aveva i nervi a fior di pelle, per via di tutte le domande stupide e interrogatori che avevano chiesto i giornalisti. Il suono del violino lo rilassò quel poco da impedirgli di lamentarsi.
Oramai dormire era difficile, dato che era l’una e ancora avevano entrambi gli occhi svegli. Sherlock non gli aveva parlato per niente e, lasciato il proprio violino, preso da vari pensieri, iniziò a scrutare i possibili nascondigli delle sue sigarette: non poter fumare in quel momento lo rese facilmente irascibile.
Si sedette sul divano, poi si stese, unì le mani in un triangolo sotto al mento e chiuse gli occhi.
John lo guardò.
-Cos’è, dormi sul divano?- gli chiese.
-Ti sembro in vena di riposare?- gli rispose lui, con tono abbastanza brusco, non mutando la sua posizione. Il dottore sospirò, seccato.
-Beh no, ma…-
-Allora taci, non farmi domande di cui la risposta è ovvia, mi disturbi le orecchie-.
Quel tono avrebbe potuto offendere chiunque, ma John ne era abituato e si limitò a lasciarlo perdere.
Ad un tratto il telefono di John squillò: un nuovo messaggio, da un numero non registrato in rubrica.
“Dottor Watson, presumo che lei sia ancora sveglio, dopo gli avvenimenti di questa notte. Volevo chiederle gentilmente di incontrarci alla mezzanotte di domani alla National Gallery. La porta sul retro sarà aperta. Il signor Holmes non deve assolutamente presentarsi. Le auguro una felice giornata. EVH”.
John rilesse più volte il messaggio. Non riusciva a credere che Victoria, la stessa ragazzina che poco prima fronteggiava un uomo alto il triplo di lei in una capsula del London Eye, gli avesse scritto un messaggio intimandogli di presentarsi la prossima notte alla National Gallery, senza far sapere nulla al suo amico. Ovviamente si sarebbe presentato, ma non rispose.
-Chi era?-
-E’ il mio telefono, Sherlock.-
-Chi era?- ripeté.
John scosse la testa e non gli rispose, sospirando.
-Ti ho fatto una domanda, John-.
Il dottore lo ignorò. Fu allora che Sherlock si alzò furiosamente dal divano, con la fronte corrucciata e gli occhi che lanciavano fiamme,  si avvicinò a John e lo afferrò, facendolo alzare dalla poltrona.
-Chi era?!- urlò.
John non perse la calma neanche un secondo. Sapeva che il detective non gli avrebbe torto un capello.
-Perché vuoi sapere chi mi scrive? Non siamo una coppia di fidanzati che si controllano per le gelosie. Piantala di trattarmi come una specie di servo che ti lascia fare ciò che vuoi-.
Erano a cinque centimetri l’uno dall’altro, eppure nessuno, neanche la signora Hudson, entrando in quel momento, avrebbe percepito un’atmosfera romantica.
-Siamo una coppia di colleghi, John, e se fosse stato un messaggio di una di quelle donnacce che frequenti tu, non l’avresti riletto più volte, neanche se ti avessero invitato a un’intera notte di sesso estremo. Inoltre nessuna donna ti scriverebbe all’una e mezza di notte. Sappi che, se non mi dirai il contenuto di quel messaggio, ti rinchiuderò in questa casa per tutto il tempo che riterrò necessario-
-Mi stai minacciando? Maledizione Sherlock, siamo cresciuti e vaccinati, ognuno ha i suoi spazi! E cosa vorresti insinuare col termine “donnacce”? Che esco con donne di malaffare? Beh,- disse, staccando le mani di Sherlock dalle sue spalle, -chiedo scusa al geniaccio qui presente se mi faccio una vita sociale frequentando le persone che mi va di frequentare.-
Se ne andò, sbattendo la porta.
Sherlock diede un violento calcio al divano, rendendosi conto improvvisamente di aver detto troppo. Era ciò che pensava, certo, ma dirlo non era stata la scelta adatta. Come sempre del resto.
 
Quando John scese le scale, la signora Hudson lo informò, senza che lui avesse chiesto nulla, che Sherlock si era recato al Bethlem Royal Hospital. Chiuse la porta alle spalle e non le rispose.
Quando arrivò anche lui, Sherlock non lo degnò neanche di uno sguardo: era seduto su una sedia in sala d’attesa ed era intento a smanettare col cellulare. John si sedette a due sedie di distanza da lui.
-Dieci bambini scomparsi, tutti stanotte, tutti di Oxford Street.- disse il detective, non distogliendo gli occhi dal suo telefono. John annuì. Quando un’infermiera, dall’aria stanca e trascurata, annunciò loro che potevano entrare nell’ufficio del direttore, i due si alzarono all’unisono e attraversarono l’uscio della porta.
-Oh, buongiorno, suppongo voi siate il detective Sherlock Holmes e il suo collega John Watson- disse un uomo grassoccio, con la testa insaccata nel collo, stretto come un salsicciotto nel suo completo troppo piccolo per accoglierlo; un paio di occhiali rotondi ingigantivano esageratamente due occhi porcini color marrone chiaro, e i capelli brizzolati erano esageratamente pettinati verso sinistra. Sherlock lo trovo molto ben curato.
-Si, buongiorno anche a lei, signor…- disse John, stringendogli la mano, una mano che ospitava una fede nuziale che stava letteralmente strozzando l’anulare.
-Cox, Otello Cox- rispose lui sorridendo, aspettando la stretta di mano anche di Sherlock, che però non arrivò.
-Dunque, signor Cox, suppongo lei sappia del perché siamo qui- disse il detective.
-Oh beh, di certo non per farvi rinchiudere!- disse Otello ridacchiando da solo, mentre John gli sorrise per farlo sentire di più a proprio agio, dato che l’aria torva di Sherlock era tutt’altro che rassicurante.
-Seguitemi! Questo posto è pieno di corridoi, se non lo conoscete rischiate seriamente di perdervi!-.
Si incamminarono in una serie di corridoi dall’aria ospedaliera, dove ai lati c’erano molte porte di ferro, con una cartellina attaccata sul fianco. Da alcune si sentivano diversi rumori, come urla e graffi, ma anche risate sguaiate e chiacchiericci confusi. Infermiere scorrazzavano da ogni dove, con carrelli carichi di medicine, zuppe e quant’altro.
-Penso che abbiate sentito parlare del Bethlem Royal Hospital, almeno una volta nella vostra vita- cominciò Otello Cox, -ma comunque girano tante chiacchiere inutili su questo posto, ed è meglio se vi racconto la verità in ogni caso. Dunque, questo è un ospedale psichiatrico, fondato nel 15° secolo, famoso per i suoi orrori avvenuti nel 18°, tra i quali sperimentazione umana e creazione di un circo, dove lo spettacolo consisteva nell’osservare i comportamenti dei matti, con tanto di biglietto a pagamento. Allora, più che i matti, venivano portati qui gli esclusi dalla società, come i senzatetto, gli ignoranti e i poveri. Le cure erano molto precarie e superstiziose, dato che secondo loro un uomo doveva essere purgato per guarire dalla pazzia-.
-E come li…ehm, purgavano?- chiese John, incuriosito dalla faccenda.
-Attaccavano una sedia al soffitto e facevano roteare il paziente come una trottola, finché non vomitava!- disse il direttore, abbastanza divertito, poi continuò.
-Tutt’ora qui vengono curate numerose patologie mentali, soprattutto le più comuni, come la malinconia, le manie, i deliri, le fobie e le violenze-.
Si fermarono davanti a una porta come le altre, solo che, invece di essere completamente grigia, aveva, attaccati qui e lì, dei fiori adesivi rosa.
-Eccoci arrivati. Sappiate che, per qualunque cosa, un campanello è disponibile all’interno della stanza- disse Cox, dopodiché si allontanò, lasciandoli soli.
John e Sherlock si guardarono un momento. Fecero pace soltanto fissandosi, ma solo perché sapevano che, sul lavoro, non potevano avere rancori l’uno per l’altro, altrimenti non sarebbero mai arrivati sul fondo del caso.
Sherlock lesse la cartellina di fianco alla porta: “Rose Johnson, anni 38, allucinazioni e manie omicide, ricoverata dopo aver crocifisso suo marito, dettagli omessi. Cure: disegno-terapia”.
-Johnson?- sussurrò John, leggendola. –La madre di Victoria non ha lo stesso cognome?-
-Si, John-.
Il dottore intuì che l’amico sapesse già chi si nascondesse dietro quell’uscio, ma non osò chiedergli niente, per essere più sorpreso. C’era un bottone vicino alla porta, Sherlock lo premette e aspettarono il permesso dal centralino, in modo che potessero accedere alla cella.
La stanza era pressoché buia, se non per lo spiraglio di luce che filtrava dalla finestra; il soffitto era alto almeno 5 metri, la larghezza era almeno un venti per trenta metri quadri, c’era un letto sulla parete destra, una libreria su quella opposta, un enorme tappeto, e le pareti erano imbrattate di dipinti macabri, scritte scure e paesaggi solitari. La prima cosa che John notò fu un gatto persiano bianco come il latte sbucare da sotto il letto e miagolare sonoramente.
Apparentemente poteva sembrare che non ci fosse nessuno nella stanza, ma poi, dopo il miagolio del gatto, una sagoma scura sbucò anch’essa da sotto il letto. Era una donna normopeso, con lunghi capelli neri lisci che le arrivavano fino alle caviglie, e con gli occhi nero pece. Aveva un volto molto delicato, naso piccolo e labbra carnose, il taglio degli occhi da cerbiatto.
-Sto ricevendo molte visite ultimamente- disse lei, con una voce molto sottile e la “r” moscia.
Il gatto miagolò nuovamente, sedendosi davanti ai piedi di John e Sherlock.
-Possiamo accomodarci?- chiese il detective sorridendo, con l’aria più cordiale possibile.
-Si, prego! Non badate al signor Snow, non gli piacciono gli sconosciuti- disse la donna, mettendosi in ginocchio al centro del tappeto, avvolgendosi i capelli intorno al corpo come un’enorme sciarpa.
-Signor Snow?- sussurrò John tra sé e sé, guardando il persiano che lo fissava cupo.
Sherlock guardò il dottore e per un momento, mentre si avvicinavano al tappeto, gli sussurrò: “siediti come faccio io e lascia parlare me”.
Dopodiché si sedette a gambe incrociate sul tappeto di fronte alla donna. John  lo imitò.
-Lei ha una faccia che ho già visto- disse lei, guardando il detective, -forse un po’ più grasso, capelli più chiari e occhi più freddi-
-Avrà visto mio fratello Mycroft. Il mio nome è Sherlock Holmes-.
Quell’affermazione scatenò in lei un ciclo di comportamenti strani. Prese il gatto e gli sussurrò all’orecchio, più volte, il cognome, con gli occhi spalancati e l’aria impaurita. John guardò Sherlock, preoccupato, ma lui non ricambiò lo sguardo, poiché aveva unito le mani a triangolo e stava riflettendo attentamente.
-Il suo nome è Rose, giusto?- chiese.
-Era, si, il mio nome- rispose, abbracciando il gatto, -io non esisto più, Violinista-.
Sherlock rimase piacevolmente scosso dal fatto che lei lo avesse chiamato “violinista”, dato che non credeva esistessero altre persone capaci di osservare.
-Come ha fatto a capire che suono il violino?-
-Ha i polpastrelli callosi, ciò significa che suona uno strumento, e il suo mento anche sembra duro come il cuoio, l’unico strumento che può suonare è il violino-.
John notò che l’amico stava iniziando a divertirsi.
-Elementare- commentò, -dimmi cosa vedi di più-
-Le infermiere dicono che non devo farlo- rispose lei, -non devo giudicare chi incontro. Anche il signor Snow non approva-.
Sherlock si protese in avanti, penetrandola con lo sguardo dei suoi occhi vitrei, ma lei lo fronteggiò, pronta.
-Violinista, so che lei e Bisessuale non siete qui per farvi osservare da me-.
-Bisessuale?- chiese John, sperando di non aver capito bene.
-Ovviamente no, ma sono curioso delle sue capacità-
-Bisessuale?-
-Voi siete qui per chiedere del Cornuto- disse Rose.
-Bisessuale?-
-Oh John, taci. Parla di Trevor Coffin?-
-Lui-.
Sherlock sorrise.
-Lei è molto intelligente per essere rinchiusa qui dentro. Mi dica qualcosa di lei. Infondo Trevor è morto, e noi abbiamo tutto il tempo per scambiare quattro chiacchiere-.
Rose si girò di spalle e spostò i capelli, mostrando la schiena.
Sulla schiena c’era un tatuaggio che la ricopriva per intero, ma non era un tatuaggio in verità: era una cicatrice rossa e gonfia, come un marchio, che raffigurava un altro quadro di Van Gogh: “Alle porte dell’eternità”, detto anche “Vecchio che soffre”.
John rimase stupito da come fosse così macabramente preciso, in ogni suo taglio, in quella carne bianca perfetta.
-Alle porte dell’eternità, Vincent Van Gogh, maggio del 1890, mentre era ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy de Provence per diversi disturbi, due mesi prima della sua morte-.
Sherlock lo fissò attentamente, prima che lei si girasse di nuovo.
-Come mai siete molto affezionati a Van Gogh?-
-Ci sono molte cose che ci dicono di fare, molto spesso non condivise, ma che devono essere fatte, Violinista. Questo quadro rappresenta la mia attuale condizione-.
Sherlock non chiese altro, John intuì che avesse già capito abbastanza.
-Sono la sorella minore di quella che chiamate Irina e la zia di quella che chiamate Victoria. La pecora nera della famiglia sono io. Sapete, sono qui da molto tempo, da ancora prima che Victoria iniziasse a camminare, e guardatela adesso. Ha delle gambe che potrebbero decapitare un uomo adulto con un calcio. Non vi sembra strano che una bambina cieca sappia orientarsi in modo così preciso e sappia esattamente cosa accade attorno a lei? Non vi sembra strano che abbia così tanta forza nelle gambe, che sappia saltare in piedi da altezze spropositate e che sia un’esperta di arti marziali? Non è un caso, Violinista. Neanche un adulto che non teme la morte sarebbe capace di fare cose simili, figuriamoci un cieco. Cos’è che vi ha raccontato? La storia del pedofilo che la seguiva quella sera? No, Violinista, la cosa non è partita da lì, è partita da me. Io le ho trasmesso la pazzia risiedente nella sua testa, io le ho trasmesso l’arguzia, io le ho trasmesso la muscolatura che si ritrova. Credete che mia sorella sia intelligente? O forse il suo defunto marito? Baggianate.
Un bambino normale percepisce le cose secondo gli occhi di un ottimista, un bambino intelligente percepisce il mondo secondo gli occhi di un realista e agisce di conseguenza. Victoria ha percepito il mondo secondo i suoi sensi amplificati, e ha capito che, per sopravvivere, o uccidi, o vieni ucciso. Aveva una sorella minore, lo sapevate? Grace Hudson, uccisa per stupro, dallo stesso uomo che lei ha sezionato con un taglierino. Non è un caso che lei l’abbia ucciso: fu lei a seguirlo, intrappolarlo nel garage ed eseguire l’esecuzione. Uccidere era diventato divertente. I servizi segreti l’assunsero solo perché aveva fatto loro un grande favore, levando loro dai piedi quell’individuo. Da lì ha iniziato a cacciare pedofili, dandoli tra le braccia della morte. Ma, caro Violinista, non tutte le cose buone sono passate a lei geneticamente, ricordiamoci che ha la sindrome di Wardeenburg, e che la sua pelle è più esposta ai tumori. Durerà poco il suo esordio. Nel frattempo, Violinista, le consiglio di non farsi nemica Victoria. Sarebbe un grosso errore. E’ molto determinata a vendicarsi-.

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Capitolo 8
*** "Gogh's Alive" ***


Nel manicomio scoprirono anche che Trevor Coffin aveva fatto visita a Rose poco prima di incontrare Victoria nell’Hyde Park, e che la andava a trovare spesso per chiedere informazioni sulla ragazzina. Rose gli aveva riempito la testa di sciocchezze, secondo cui Victoria fosse una fragile bambina afflitta dalla morte del padre che spesso e volentieri andasse a fare lunghe passeggiate nei parchi, tutta sola, alla ricerca di conforto, buttandolo nella tela del ragno. Sherlock dovette riconoscere che la complicità tra zia e nipote fosse molto forte, oltre che alla somiglianza: molti tratti facciali coincidevano, e la capacità mentale ancora di più. Inoltre scoprirono che Mycroft aveva fatto un patto con lei per nascondere la storia della vendetta di Victoria in modo da non infangare il suo nome, inventando il racconto della povera ragazzina inseguita dal pedofilo, e per fare in modo che lei si allenasse, migliorando le sue qualità: tutto questo permettendogli di svuotare il suo conto in banca. “Tanto, Avaro, io morirò dentro questo manicomio, quindi non avrò modo di fare shopping”.
John aveva preso tutti gli appunti necessari e, quando tornarono nel loro appartamento, il dottore non perse tempo e iniziò a sfogliarli. Sherlock scriveva, smanettava col cellulare, poi attaccava i fogli al muro e sulla mappa londinese, per poi rimanere minuti interi fermo a guardarli.
-C’è qualcosa che mi sfugge. Trevor chiede            a Rose notizie su Victoria, e guarda caso entrambi hanno una specie di passione per Van Gogh. Andy Hughes è sempre stato nascosto nei vicoli bui, e di colpo esce allo scoperto mettendosi sul punto più in vista di Londra. Non ti sembra strano, John?- disse, continuando a fissare le scartoffie.
-Si, è molto strano. Per non parlare dei nomi dei bambini scomparsi, hai visto che assurdità? Sono uguali o compresi nei loro cognomi, tranne per una bambina!- esclamò John, accendendo il portatile.
-Come fai a sapere dei nomi? Non te li ho detti, stamattina-.
John sfoggiò il Times, prima appoggiato accanto al computer.
-Leggere non è una bestemmia, Sherlock. Comunque li ho elencati tutti qui, in ordine alfabetico-
-Peccato che l’ordine alfabetico ci è completamente inutile, a meno che non siamo all’asilo-, disse il detective, poi fece spallucce, guardandosi intorno, -contesto in cui non siamo, a quanto pare. Peccato! Il tuo ordine alfabetico sarebbe risultato eccezionale!-
-Risparmiati l’ironia…- disse John, scrivendo qualcosa in un documento word.
-Dimmi i nomi, allora-.
Sherlock si avvicinò allo specchio posto sul camino e lo appannò col suo fiato.
-Alan Allen, Ellie Ellis, Gordon Gordon, Greg Gregory, Harry Harris, Ines Stuart, Lee Lee, Vincent Vincent, Owen Owens e Scott Scott-.
Sherlock aveva scritto le iniziali sullo specchio, ottenendo una cosa simile a “AEGGHILVOS”.
-Sembra che solamente Ines non abbia un nome bizzarro- commentò John, -e pensare che abitano tutti più o meno nello stesso luogo! Quei genitori devono essere dei pazzi per…-
-Dimmi le date di nascita- lo interruppe Sherlock.
John, un po’ infastidito, sfogliò un paio di file sul computer.
-Sono tutti nati nello stesso anno- lo informò il dottore.
-Cerca di dirmeli in ordine di nascita, allora-.
L’amico ci mise qualche minuto per ordinarli a dovere. Intanto, il vetro dello specchio si era schiarito e Sherlock fu costretto a prendere una piccola lavagnetta e un pennarello nero, sedendosi sulla sua poltrona.
-Greg Gregory, nato il 23 gennaio. Oliver Oliver, nato il 5 febbraio. Gordon Gordon, nato il 10 marzo. Harry Harris, nato il 30 aprile. Scott Scott, 16 giugno. Alan Allen, 27 agosto. Lee Lee, 23 settembre. Ines Stuart, 7 ottobre. Vincent Vincent, 24 novembre e infine Ellie Ellis, 28 dicembre-.
Sherlock spalancò gli occhi.
-John, ci troviamo davanti a un uomo che sa il fatto suo. Mancano i mesi di maggio e di luglio, perché rappresentano gli spazi tra le parole. Il nostro uomo sta manovrando una rete di pedofili londinesi per arrivare a Victoria, infatti Trevor ha fatto di tutto per farsi notare da lei, e così ha fatto anche Andy Hughes. La cosa che li accomuna? Van Gogh. Il capo dell’organizzazione. Ora ha attratto la nostra attenzione su di lui attraverso questo codice, prendendo dei bambini dai nomi strani in modo che uscissero sul giornale e che potessimo vederli. E’ molto intelligente-.
Sherlock girò la lavagna. La frase che John lesse gli fece gelare il sangue.
“GOGH-S-ALIVE”: Gogh è vivo.
 
John si sentì improvvisamente in dovere di comunicare a Sherlock l’appuntamento con Victoria alla galleria d’arte, dato che l’amico ci stava mettendo anima e corpo in quel caso e, se fosse venuto a sapere che il dottore gli nascondeva una cosa simile, probabilmente si sarebbe molto arrabbiato e poi Sherlock poteva cogliere dettagli i quali sarebbero sfuggiti a John. Inoltre il dottore non si fidava molto della piccola, per cui preferiva sapere i pareri di Sherlock affinché potesse o meno abbassare la guardia. Decise, quindi, di aprir bocca.
-Sherlock- lo chiamò. L’amico si girò verso di lui guardandolo in modo intrigante. Era evidente che fosse in ascolto.
-Devo dirti una cosa, riguardo il messaggio di ieri sera-
-John, quella sera la mia non era una manifestazione di gelosia, volevo solo sapere chi, tra Mycroft, Victoria e Lestrade ti avesse contattato in un ora così tarda, e cosa ti avesse detto. Ma non fa nulla! Se non vuoi dirmelo è per una buona causa, e lo capisco-.
John era stupefatto. Appena la sera prima era pronto a picchiarlo pur di leggere una parola di quel testo, e ora se ne lavava completamente le mani. Si, Sherlock era strano, ma non fino a quel punto.
-Tu sai già di cosa si tratta- disse John, sospirando.
-Esatto, e non pensare che non mi presenterò. Lo sai che non potrei restare chiuso in casa mentre tu sei lì fuori a ricevere informazioni, molto probabilmente finirei per annoiarmi-.
John si sentì messo alle strette: non poteva portare Sherlock con sé, perché sapeva che Victoria non avrebbe gradito, ma allo stesso tempo uno Sherlock annoiato è una delle cose più imprevedibili e pericolose con la quale John avesse avuto a che fare.
-Non puoi venire- intimò il dottore, -mi è stato proibito di dirti alcunché sulla faccenda-.
-Ah, quindi è effettivamente un appuntamento con qualcuno di importante!- esclamò Sherlock, entusiasta, -a volte sembra che non mi conosci, John-
-Cosa?! Hai fatto finta di sapere tutto solo per farmi sputare il rospo?!- urlò il dottore, alzandosi in piedi.
-Vecchio trucco banale che uso da decenni-.
John sospirò e tirò un pugno sul tavolo, maledicendosi per la sua ingenuità.
-E va bene! Vieni. Ma se Victoria avrà da ridire, sarai tu a fornire spiegazioni-.
 
Era mezzanotte meno un quarto quando uscirono dalla porta del 221b di Baker Street. Non capivano il motivo per cui dovessero arrivare fino a Trafalgar Square, dato che la porta del 221a era di fronte a loro, ma evidentemente nessuno era in casa, dato che le luci erano spente e le serrande aperte. John pensò per un momento a Irina, provando compassione per lei, chiedendosi dove fosse. Una madre sola, con una figlia strana, vedova e con una sorella al manicomio. Pensò che sarebbe stato meglio se la fosse andata a trovare l’indomani mattina, magari portandole qualche prodotto tipico londinese da poter mangiare insieme, e scambiare due chiacchiere.
-John? Faremo tardi- intimò Sherlock, guardandolo fermo sul marciapiede.
-Oh, sì, arrivo-.
Camminarono fianco a fianco, nel silenzio della Londra dormiente, nel vento freddo di quell’inverno gelido e nevoso, e i loro passi affondavano nel sottile strato di neve, creando un rumore soffocato. Il fiato di Sherlock era ben visibile, bianco, sotto la luce fioca dei lampioni. John aveva molto freddo, dato che aveva dimenticato la sciarpa.
-Hai freddo?- chiese Sherlock, vedendo l’amico trattenersi dal battere i denti.
-Un po’, una macchina sarebbe proprio l’ideale adesso, magari con il riscaldamento acceso sulla faccia e sui piedi- commentò John, quasi sorridendo, -ma va bene così! Camminare fa bene!-.
Sherlock lo guardò, dopodiché si sfilò la sciarpa e gliela tese.
-Indossala- gli ordinò, -il battere dei tuoi denti è fastidioso-.

Come previsto, la porta sul retro della National Gallery era aperta, e i due amici entrarono, chiudendosela alle spalle. Il posto era buio e quasi inquietante, con solo qualche luce da allestimento accesa, sopra alcuni quadri. I loro passi echeggiavano nelle gallerie vuote, man mano che avanzavano nell’edificio. Alcune opere di Van Gogh erano ancora lì, in attesa del giorno dopo, per essere riportate nei loro musei. Infatti, quel giorno, si era conclusa la mostra.
-Immagino che nessuna circostanza vi tenga separati- disse di colpo una voce, provenire da davanti a loro, che riconobbero essere quella di Victoria.
-Mi dispiace, ma lui ha…- cercò di giustificarsi John, ma venne interrotto.
-Volevo soltanto risparmiarle l’imbarazzo di essere chiamato nuovamente gay, ma evidentemente la cosa non la disturba-.
La figura della bambina uscì dal buio, e i suoi occhi sembravano ancora più neri di quanto lo fossero già di giorno. John era confuso e stava per sbottare, come suo solito.
Sherlock prese le redini della situazione.
-Sono venuto qui per informarti che ti stando dando la caccia. Io e John abbiamo trovato delle informazioni sulla rete di pedofili che si estende su Londra, capeggiati da un qualcuno che impersona Van Gogh, affidando a ognuno dei suoi sicari un messaggio per noi attraverso i quadri, rispecchiando la loro personalità. I dieci bambini scomparsi portano un codice…- venne interrotto anche Sherlock.
-I bambini sono tutti morti. Circa due ore fa- disse Victoria, facendo calare il silenzio. John mormorò un “santo cielo” e guardò in alto.
-Affogati nel Tamigi, uno dopo l’altro, da uno di quelli che lei chiama “sicari”, ma che in realtà agiscono autonomamente, eseguendo gli ordini di chi li comanda, in cambio di protezione, soldi e qualche schiavo minorenne su cui sfogarsi nei momenti di astinenza. Perché obbedire? Per non essere seviziati e uccisi torturati. Andy Hughes ha confessato, dopo qualche dose di buone maniere…- disse, mostrando loro le scarpe col tacco basso, un tempo bianche, ricoperte da scure macchie di sangue.
-Ho scoperto una cosa davvero interessante, quando sono andata ad Amsterdam. Come penso che sappiate, lì c’è il Van Gogh Museum, che dovrebbe essere privo di un’opera in particolare, ossia “I mangiatori di patate”, dato che dovrebbe essere qui per la mostra. Invece, signor Holmes, l’opera è lì, in bella mostra, quando il quadro è chiaramente inserito nel registro della National Gallery, tra quelli che devono essere restituiti. Chiaramente il quadro situato ad Amsterdam è un falso. L’opera autentica è nelle mani di un gay olandese, Peter Bakker, di origini londinesi, fuggito in Olanda dopo una causa di stupro di due gemelli minorenni; cambiò il suo cognome in Bakker e si trasferì ad Amsterdam. I servizi segreti archiviarono il caso, fino a questo momento-.
John e Sherlock si guardarono, senza capire l’esatto perché fossero lì in quella notte.
-E quindi?- chiese John.
-Dottor Watson, avevo chiamato lei affinché partisse insieme a mia madre, sotto copertura, ad Amsterdam, in un locale gay frequentato spesso dal signor Bakker, fingendo finta di essere una coppia in cerca di intimità, per raccogliere informazioni su di lui e arrestarlo. Ma ahimè, il signor Holmes si è intromesso, quindi sarete voi due la coppia in intimità in partenza per Amsterdam.-
John  assunse un colorito tra il rosso e il viola, che però non si riusciva a vedere nel buio della stanza.
-Cosa?! Come sarebbe a dire che saremo noi la coppia che andrà ad Amsterdam?! E’ completamente fuori questione! Ecco cosa intendevi per “le volevo evitare l’imbarazzo di essere chiamato gay”! Ebbene, signorina, noi…-
-….accettiamo- lo interruppe Sherlock. John non poteva crederci. Sentendosi preso in giro, umiliato, rabbiosamente girò i tacchi e se ne andò, sbattendo la porta. Per quanto fosse intimorito da Victoria, nulla gli avrebbe fatto rinunciare alla sua dignità personale.
Rimasero Sherlock e la biondina, uno di fronte all’altro, a fissarsi.
-Signor Holmes, io dispongo di somme di denaro esorbitanti, che un comune essere umano non accumulerebbe neanche in quattro vite. Le sto chiedendo protezione, perché so che lei è uno degli uomini più intelligenti di Londra, e rappresenta gli occhi che non ho. Se riuscirà a risolvere questo caso, non solo tutta l’Inghilterra le sarà debitrice, ma soprattutto io: la ricoprirò d’oro-.
Il detective la guardò attentamente.
-Perché ti stai dannando per salvare le vite di qualche centinaio di bambini?- chiese, -infondo tu sai difenderti benissimo da sola-
-Non voglio che qualcun altro diventi come me per colpa della morte di un suo familiare. Nessun altro farà la fine che ha fatto mia sorella Grace. Io ho poco tempo in questo mondo, signor Holmes, e sto solo cercando di renderle memoria liberandomi della feccia umana che l’ha distrutta. Confido in lei e nelle sue capacità-.
-Quanto tempo ti rimane?-
-Un mese-.
Sherlock si accorse che una lacrima scendeva dall’occhio sinistro della bambina. In quel momento una consapevolezza si fece strada nella sua mente: solo una cosa poteva fermare la forza di Victoria, e solo quella cosa poteva provocare in lei una paura tale da chiedere aiuto agli altri.
La morte.

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Capitolo 9
*** Amsterdam ***


Sherlock trovò John seduto sulle scale, illuminato solo dalla luce del suo cellulare. Era furibondo, non ci voleva certo un genio a capirlo; accanto a lui c’era un piattino con delle briciole e un fazzoletto accartocciato: probabilmente la signora Hudson si era svegliata apposta per preparargli qualcosa da mangiare, infondo per lei non era una novità che tornassero tardi. Il dottore si era anche soffermato a scambiare due chiacchiere con lei, parlando del più e del meno.
Sherlock se l’era presa un po’ troppo comoda: aveva preferito farsi un giro un po’ più lungo e schiarirsi le idee, guardando la luna riflettersi nel Tamigi. Nel mentre, lo teneva compagnia una Camel con il filtro al mentolo, che aveva chiesto ad un barista notturno, dicendogli in modo secco che, se gliene avesse data una, avrebbe tenuto la bocca chiusa sull’orgia che ogni sera lo intratteneva nel retro bottega.
Il suo pensiero, mentre il vento gli scompigliava i capelli, era rivolto a John e alla reazione che aveva avuto nella National Gallery: non capiva perché se la prendesse così tanto, solo per una copertura da assumere in un caso. Gli aveva sempre dato fastidio essere chiamato gay, senza ragione alcuna: non discriminava i gay, non aveva mai avuto una relazione con un gay e né tantomeno un gay aveva fatto qualcosa di male a lui. Tranne sua sorella, forse. Ma questo non era un motivo per tirarsi indietro in un caso così importante, che probabilmente aveva rilevanza nazionale, e in più John non rifiutava mai un compenso in denaro, qualunque cifra fosse, perché sapeva che la noia di Sherlock provocava piccoli incidenti domestici che aumentavano l’affitto di qualche centinaio di sterline.
Il detective ci aveva riflettuto un po’, poi aveva notato l’ora ed era rientrato.
-John-, disse, per spezzare la tensione che aleggiava nell’aria, -saliamo, è tardi, e un lungo viaggio ci attende-.
John si accigliò, e si alzò di scatto.
-Ascolta, mio caro genio indiscusso, io non ho nessuna, e dico nessuna, intenzione di fingermi il tuo fidanzato in mezzo a centinaia di persone per uno stupido olandese che ritiene sia divertente rubare quadri. Ho una reputazione, io. Ci sono centinaia di attori gay in giro, prendesse un paio di quelli e se ne andasse a quel paese, lei e tutta questa situazione schifosa- disse John, puntando il suo indice sul petto dell’amico. Sherlock lo guardò con aria severa, dal profondo dei suoi occhi azzurri.
-La tua reputazione se ne va a farsi benedire nel momento in cui mandi a quel paese l’Inghilterra, ciò che stai ovviamente facendo. Ti voglio ricordare che, dato che sei così voglioso di sistemarti con una donna, fare una famiglia e guardare i tuoi figli crescere, quei figli saranno dei bambini, e non ti sentirai tranquillo nel lasciarli giocare al parco, di far fare loro un giro in bici, di lasciarli tornare a casa a piedi, perché sarai tormentato dal pensiero di aver lasciato a piede libero una così lercia categoria di gente. Il futuro di ogni singolo bambino dipende da ciò che noi decidiamo di fare oggi, e a quel punto cosa dirai? “Mi dispiace ma l’idea di essere gay mi dava il voltastomaco”-.
John rimase impietrito da quelle parole, ed era proprio dove Sherlock voleva arrivare. Sapeva che era un tipo sensibile e che non avrebbe dormito se avesse rifiutato il caso. Si guardarono negli occhi per un tempo che sembrò interminabile, e fu lì che John si sentì davvero in colpa per aver fatto il bambino ed essersi ridicolizzato davanti a Victoria per un suo stupido capriccio.
-Hai ragione. Sono un maledetto idiota. Cosa mi è preso? Saliamo sopra, e prepariamo le valigie. Chiamerò al lavoro e mi prenderò un altro po’ di ferie. Ti chiedo scusa-
-Ogni uomo ha i suoi momenti di debolezza-.
 
Chiusero occhio solo per qualche ora, uno sul divano e l’altro sulla sua poltrona rossa, con la casa ancora più in disordine di quanto lo fosse già normalmente. Fu la signora Hudson a svegliarli, facendo cigolare la porta.
-Oh cari, non volevo svegliarvi! Ho solo portato il tè- disse la familiare sagoma femminile sbiadita che John vide con un occhio, mentre versava il latte nelle tazze insieme alla bevanda calda, -cielo! Cos’è successo qui? Sembra che ci sia passato un ciclone!-. Sherlock spalancò gli occhi, ricordandosi in quel momento tutto quello che dovevano fare quel giorno. Si alzò di scatto, causando un leggero giramento di testa, per poi barcollare in direzione di John. Il sonno lo rallentava nei movimenti e le palpebre faticavano a rimanere aperte.
-Signora Hudson, che ore sono?- chiese, strofinandosi la faccia.
-Le nove, caro Sherlock, le nove e quindici per la precisione-.
Sherlock ritrovò le forze solo con quelle poche parole dell’anziana signora. Scosse violentemente l’amico, che aprì prima una palpebra e poi l’altra, per poi inciampare nelle scartoffie sparse per terra.
-John! Maledizione, abbiamo solo un’ora per prepararci!- urlò, prendendo il violino e mettendolo brutalmente nella custodia. Il dottore si alzò incespicando e appoggiandosi su ogni dove per rimanere in piedi.
 
Parcheggiata davanti alla porta del 221b di Baker Street c’era una Rolls Royce Ghost II, color sangue, con un autista anziano che fece aprire bagagliaio e portiere automaticamente. Molta gente si girò a guardarla.
L’iPhone di Sherlock suonò, un messaggio.
“Buon soggiorno, fratello. Che Amsterdam ti riservi divertimento e neve! –MH”.
Lo ignorò e si avvicinò alla vettura.
-Non sapevo che questo tipo di Rolls Royce avesse le portiere automatiche- commentò, esaminando l’autista e classificandolo come uomo pensionato fedele alla propria nazione che aveva una moglie molto anziana e due figli gemelli.
-Alla signorina Hudson piace apportare modifiche ai veicoli- rispose l’anziano, sorridendo, svelando una ragnatela di rughe.
John mise le valigie nel portabagagli e lo chiuse con delicatezza, dato che quella era la macchina più costosa che avesse mai visto, e aveva paura anche solo di sfiorarla.
Montarono nell’auto che, con un rombo potente, lasciò il parcheggio e si diresse all’aeroporto. Sherlock notò che la macchina aveva modifiche utili: un piccolo frigobar era stato istallato nel retro, i sedili erano stati modificati in modo da risultare più morbidi e aderivano perfettamente al corpo dei passeggeri, i vetri erano scuri ma la vista era limpida come se fosse su uno specchio d’acqua, c’erano diversi cassetti dove erano riposti diversi oggetti, tra i quali mascara, rossetto e cipria di diverse tonalità; riviste di gossip e quotidiani; cravatte che differivano di colore e fantasia e…
-…preservativi?- sfuggì a John, aprendo un piccolo cassettino infondo a destra.
-Non si sa mai- disse l’autista con voce rauca, guardandolo dallo specchietto frontale.
 
Fu un jet privato a portarli in mezzo ai cieli, e si sistemarono vicini,  mentre un’hostess li tormentava su cosa gradissero da mangiare o da bere. A Sherlock bastarono poche semplici parole riguardo un ex fidanzato e un bambino per farla tacere una volta per tutte.
-Victoria ti ha detto dove dormiremo?- chiese John, alzando gli occhi dal giornale e guardando l’amico.
-Hotel Orfeo o qualcosa del genere.-
-Va bene. Qual è il piano?-
-Verso le dieci andremo nella discoteca Exit, a Regulierdswarsstraat 42, mostrandoci come una coppia omosessuale che vuole divertirsi, e dobbiamo farlo in modo convincente- disse, sottolineando la parola “convincente”, guardando John, -dopodiché dobbiamo farci amico un uomo coi capelli biondi e ricci, apparente conoscente di Peter, e scoprire qualcosa su di lui, come ad esempio il suo indirizzo. A mezzanotte circa arriverà Peter, e noi invieremo un messaggio in codice a Victoria, che verrà ad arrestarlo-.
John annuì, un po’ in ansia, mentre il jet effettuava l’atterraggio. Amsterdam era proprio sotto di loro.
 
L’insegna marrone dell’Hotel era accogliente, e gli interni erano multicolori, con molte piante e tavolini. Dietro al bancone c’erano due uomini di mezza età, che li accolsero con un gran sorriso.
-Buongiorno! Voi dovreste essere il signor Christian Black e il signor Robert Jonas, giusto?-.
John stava per rispondere negativamente, quando Sherlock prese la parola sorridendo.
-Oh si! Buongiorno! Davvero carino questo posto!- esclamò, stringendo loro la mano. Il dottore capì subito che doveva reggere il gioco.
-Oggi festeggiamo cinque anni, vorremmo sapere qualche bel posto dove poterci divertire- disse il detective, circondando con un braccio John, che sorrideva imbarazzato.
-Ma certo! Noi siamo esperti della vita notturna gay- disse l’altro, facendo l’occhiolino al suo compagno, -vi consiglio l’Exit, è una discoteca fantastica e ci si può anche appartare-
-Ah davvero? Proprio quello che ci voleva! Intanto siamo molto stanchi, potreste dirci qual è la nostra stanza?-
-Ma certo! Camera 221, secondo piano-.
Si allontanarono, salendo le scale.
-Da adesso il mio nome è Christian e il tuo Robert. Se venissero a sapere i nostri veri nomi potrebbero sospettare qualcosa, dato che siamo quasi su tutti i giornali per quella sera sul London Eye. E’ già una gran fortuna che loro il giornale non lo leggano, altrimenti le nostre facce sarebbero state sufficienti a farci scoprire-
-Si, va bene, ma adesso toglimi questo braccio da sopra le spalle-.
 
La stanza dove entrarono aveva un unico grande letto matrimoniale al centro, un armadio appoggiato alla parete destra e uno specchio sulla sinistra, con una finestra che affacciava sul panorama innevato delle strade di Amsterdam. La parete dietro al letto era stata dipinta in modo da raffigurare un bosco in estate. Un piccolo bagno si affacciava da dietro una colonna. Non era il massimo, ma era vivibile.
John era un po’ sconvolto per via del letto matrimoniale, ma poco alla volta si rassegnò.
 
Erano le otto e mezza quando bussarono alla porta, Sherlock stava suonando il violino e John leggeva un libro, comodamente steso sul letto. Si alzò, aprì e, con gran  sorpresa, si ritrovò davanti Lily, coi capelli appena fatti e ben truccata.
-Ehilà! Da quanto tempo!- salutò, baciando sulle guance John. Sherlock smise di suonare e la guardò di sbieco.
-Cosa ci fai qui?- le chiese.
-Sono sotto copertura. Farò il barista all’Exit e somministrerò a Peter una soluzione di coniina in dosi non mortali, in modo da facilitare il suo arresto-
-Coniina? Non ci sono antidoti- commentò Sherlock, appoggiando il violino.
-Uno ci sarebbe: la lavanda gastrica- disse lei, sorridendo in modo malizioso, -mi congratulo sempre con Victoria per tutti questi trucchi mancini che escogita. Sono davvero affascinanti-.
John era alquanto confuso.
-Scusate, potreste rendermi partecipe? La coniina è una specie di veleno?-.
Sherlock roteò gli occhi e si stese sul letto, con le braccia dietro la nuca.
-La coniina è un veleno capace di provocare la paralisi muscolare e soprattutto dell’apparato respiratorio. Se somministrata in dosi superiori alla norma può provocare la morte per asfissia- spiegò semplicemente, guardando Lily, che sembrava inebriata nel sapere gli effetti del veleno.
-E perché dobbiamo avvelenarlo?- chiese nuovamente John, stavolta rivolgendosi a Lily.
-Ordini dall’alto!- disse lei facendo spallucce, -ma comunque, sono qui per altri motivi. Siete troppo formali con questo abbigliamento, mi è stato detto di vestirvi come due persone normali, per non dare nell’occhio insomma-.
John e Sherlock si guardarono, interdetti.
-Ho portato qui qualche chicca, appena uscita dalla lavanderia. Spogliatevi!-.
 
Passarono un’ora buona a vestirsi e acconciarsi, dato che Sherlock faceva il capriccioso perché non gli piacevano i suoi vestiti e il modo con il quale Lily lo pettinava. Alla fine, però, avevano trovato un accordo ed erano finalmente pronti.
John aveva una maglia a maniche lunghe grigia attillata, con sopra un gilet di lana color mirtillo, un jeans comune comodo e un paio di scarpe da passeggio della Nike. Coi capelli Lily non aveva potuto fare granché, dato che erano corti, ma si era divertita a lavarli e pettinarli all’indietro, rendendoli morbidi e profumati.
Sherlock aveva una camicia bianca con i primi tre bottoni slacciati, una giacca nera sopra, un pantalone nero attillato e dei mocassini. Per i capelli non c’era stato verso: dopo averli lavati a dovere e pettinati (con grande disappunto del detective), ogni riccio prendeva una strada diversa, e fare un codino, per Sherlock, era fuori questione.
-Siete carinissimi! Forza, che è ora. Ci vediamo all’Exit!-.
John e Sherlock scesero le scale, prendendosi per mano all’ultimo, essendosi dimenticati la loro parte da gay. Salutarono i proprietari e uscirono, con nuovi cappotti, nelle strade fredde di Amsterdam.
L’unico calore che John percepiva era quello proveniente dalla mano di Sherlock.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        

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Capitolo 10
*** In scena (sangue caldo) ***


La neve cadeva lenta, non si attaccava, volteggiava nel vento debole e gelido, creando un’atmosfera stranamente piacevole. Si tenevano ancora per mano, nonostante non ce ne fosse più bisogno, ma nessuno dei due sembrava accorgersene, perché sembrava che lo avessero fatto da sempre. Sherlock, per la prima volta, non stava rifiutando il contatto umano, a cui era stato avverso fino a quel momento: era come un appoggio, un caldo appoggio, che gli passava calore, morbido e confortante, come se dicesse “io sono qui”.
John non capiva perché tenere per mano Sherlock fosse così piacevole, tiepida e asciutta, e non riusciva a lasciarla, per quanto non ne fosse abituato, confuso su tutti i pensieri che gli passavano per la testa.
Non si scambiarono una parola, fino all’entrata della discoteca. Un edificio scuro, con grandi portoni, dalle finestre piccole e quasi sinistre, dal quale giungeva una baraonda assordante composta di rumori, urla, musica ritmata e remixata. La porta centrale era aperta, e ognuna delle sue ante era rossa, con la scritta “Exit” in bianco.
-Che il gioco abbia inizio- sussurrarono all’unisono, ed entrarono.
Era pieno di gente omosessuale, coppie, single, orge di gente ammucchiate in posti, ballerini in vestiti succinti, lesbiche spogliarelliste, amici che facevano gare di bevute sui tavoli, persone che amoreggiavano nei posti meno visibili. Un buttafuori dello staff chiese loro i cappotti in olandese, e Sherlock gli rispose, anch’egli in olandese, che preferivano portarli loro stessi nella cabina armadio del locale, per sicurezza. L’uomo annuì e li accompagnò.
-Da quando parli l’olandese?- sussurrò John a Sherlock, sbottonandosi il piumino.
-Me lo chiedo anche io-.
Una volta toltisi i cappotti, John notò che quel tipo di abbigliamento donava proprio a Sherlock. Lo slanciava, rendendolo aitante, e quasi sexy.
-Cosa c’è, John?- chiese l’amico, notando che il dottore lo stava letteralmente “frugando” con lo sguardo.
-Niente, penso solo che dovresti vestirti di più così, ti sta a pennello-
-Oh. Grazie. Tu invece sei vestito come al solito-.
 
Entrarono nella confusione, prendendosi nuovamente per mano, cercando di non dare nell’occhio, anche se già il 40% delle persone (uomini soprattutto) li guardava, anzi, guardava Sherlock.
-Sono attratti da me. Quello laggiù mi sta guardando in mezzo alle gambe da circa dieci secondi e sta continuando a guardare, nonostante l’abbia già capito. Se solo sapesse che nel frattempo alla sua compagna le si sono rotte le acque! Come reagirà lei sapendo che il suo fidanzato, invece di assumersi le sue responsabilità, preferisce prenderlo nel didie…-
-Sher…ehm…Christian!-
-E quelle ragazze lì sono sposate,  non tra di loro, bensì con due uomini il doppio più grandi di loro, che si aspettano da loro il classico comportamento da mogliettina curata e amorevole. Quando voleranno in cielo capiranno perché li hanno davvero sposati! Prossime vedove nere in combutta-
-Hai finito di analizzare tutte le persone?-
-Quello beve per solitudine, il fidanzato lo ha appena lasciato. Sta tramando di fargli passare orribili pene, sarebbe meglio avvertire la polizia. Ah no, si impiccherà-
-Oh Dio, piantala, ti prego, siamo qui per altri motivi-
-Siamo qui per divertirci, no? Io mi sto divertendo-
-Su, muoviti, cerchiamo quest’uomo biondo di cui mi hai parlato-.
Si guardarono intorno, ma era quasi impossibile orientarsi. C’era troppa gente per poter selezionare i biondi coi capelli ricci.
Ma il problema era un altro: non sembravano per niente una coppia di fidanzati. Molti li guardavano bisbigliando, chiedendosi chi fossero e cosa ci facessero in una discoteca senza fare nulla. Sherlock lo notò.
-Robert-, disse nell’orecchio di John, -è arrivato il momento di entrare un po’ nella parte-.
Lo agguantò per i fianchi e lo appoggiò delicatamente alla parete, avvicinandosi a lui in modo pericoloso e intimo.
-Che accidenti stai…-
-Ci stanno guardando tutti, non credono che siamo fidanzati. Dobbiamo cercare di fargliela credere un po’ di più-
-E che… dovremo fare? Io… io…-.
“E’ agitato” pensò Sherlock, guardandolo negli occhi. “Se solo sapesse cosa voglio f…”
Il telefono squillò. Un messaggio.
“Lobelia Sakeville Baggins”. Era di Victoria. Il bersaglio biondo era al bar.
-Che significa?- disse John, allontanandosi un po’ dalla portata di Sherlock.
-Significa che il nostro amico è in posizione, sta parlando con Lily-.
Si mossero lentamente, bevendo di tanto in tanto un cocktail rubato da qualche tavolino. John si sentiva a disagio a guardare coppie omosessuali che si baciavano, soprattutto gli uomini. Il suo sguardo passava da Sherlock a ragazzi che ci davano dentro, e per un momento ebbe un bisogno irrefrenabile di andarsene. Sherlock percepì la tensione dell’amico attraverso la sua mano, che era diventata sudaticcia. La musica pompava nelle loro orecchie, spalle li spingevano, mani li toccavano, fiati si intrecciavano, l’eccitazione era tagliabile con un coltello.
Il battito cardiaco di John accelerò all’improvviso, perché la sua mente galoppava.
“Concentrati sul caso” pensò, cercando di zittire la musica e di trovare la pace.
 
Lily era irriconoscibile. Se non avessero saputo che era lei, probabilmente l’avrebbero scambiata per un uomo o, almeno, così avrebbero pensato due persone normali, incapaci di osservare. Anche in vesti di uomo Sherlock e John avrebbero capito subito che era una copertura.
Aveva la barba rada, rossiccia, capelli raccolti in un codino molto maschile, sopracciglia folte, pizzetto; era vestita in modo da appiattire il seno e le forme, per darle una forma più cilindrica che a clessidra. Da dietro gli occhiali spessi, Sherlock intravide un occhiolino.
Davanti a lei un giovincello di appena vent’anni, con i capelli biondo paglia ricci e un paio di occhi blu cobalto, dal volto pulito e spigoloso, rideva sguaiatamente bevendo di tanto in tanto un sorso di birra, rivolto a Lily.
-Ma dai! Davvero quel babbeo è andato a letto con la moglie di Rick?- urlava, con perfetto accento inglese.
-Si- disse lei.
Sherlock doveva tentare un approccio, per conoscere il tipo.
-Rick era sposato con cinque figli, casomai il babbeo era lui, che si è sposato una donna frivola a cui non importa niente del resto, giusto?- disse, sorridendo al ragazzo, che si girò incuriosito.
-Conosceva Rick? Proprio quel Rick? Non sapevo che avesse amici-
-Oh non darmi del lei, il mio nome è Christian e non sapevo neanche io che avesse amici-
-Manuel-, disse l’altro, stringendogli la mano, -e questo bell’uomo chi è?-
-Robert, il mio fidanzato- rispose Sherlock, dando un bacio sulla guancia a John, che avvampò.
-M…molto piacere- disse il dottore.
-Timido e impacciato, te lo sei scelto proprio bene-
-Oh sì, però in certi casi la timidezza non lo ferma- disse Sherlock, ridacchiando. John stava sopprimendo a fatica il desiderio di urlare.
-E tu? Con chi sei in compagnia?- chiese il detective. “Ha la parlantina facile, non ci vorrà nulla a fargli uscire dalla bocca quello che ci serve”.
-Aspetto un mio amico, si chiama Peter-
“Più di un amico”.
-Oh, un amico. In una discoteca gay?-
-Beh, lui dice che siamo amici, anche se ci sta provando-.
Manuel fece un sorriso teso, come se la cosa non gli piacesse.
-Come mai quell’espressione?-
-E’ un tipo strano, sai. Ossessionato dai bambini, dai quadri, dal sesso. L’altro giorno è andato a Londra ed è tornato con una grossa tela, dicendomi che me l’avrebbe regalata come segno di “amicizia”. Ho rifiutato, cosa ci dovrei mai fare con un quadro! E poi ha dieci anni in più a me, non credo che tra noi potrebbe funzionare. Cerco un mio coetaneo come fidanzato. L’altro giorno, per esempio, mi ha invitato a casa sua, vicino al Van Gogh Museum. Voleva parlarmi, mi disse, e io accettai, ma voleva solo andare a letto con me! Che scempio-.
John vide Sherlock che elaborava concetti poco carini su di lui e che stava archiviando tutto nel suo mind palace. Avevano ottenuto le informazioni, ed erano giustappunto mezzanotte meno cinque.
Lily fece loro segno di andarsene, dato che ora si sarebbe occupata lei del resto. C’erano altri agenti sotto copertura nel locale, pronti ad agire, in prossimità dei bagni.
-Scusami, ma vorremmo ballare un po’, ci vediamo dopo!- salutò Sherlock, nel modo più cordiale che conoscesse. Manuel annuì e li lasciò andare.
-Sherlock, cosa facciamo adesso?- chiese John, capendo che il vero piano iniziava in quel momento.
-Balliamo, John-.
Si buttarono in pista, e bevvero un altro po’ di cocktail, birra e liquori vari, in quantità abbastanza moderata per non perdere il controllo. Sherlock, però, fece in modo che John bevesse di più, per scioglierlo un po’.
Dalla porta entrò un uomo castano, con gli occhi languidi e verdi. Il telefono di Sherlock vibrò (dato che la suoneria non si sentiva nella confusione) e un nuovo messaggio era visibile tra i ricevuti.
Icarus”, messaggio in codice di Victoria che voleva indicare l’entrata di Peter.
Le note di “In the Night” dei Weeknd echeggiavano nelle pareti del locale, confondendo tutto il chiacchiericcio.
Ma nella mente di Sherlock tutto taceva. Una volta adocchiato l’uomo, lo ispezionò, analizzando ogni piccola parte del suo essere. Era effettivamente gay, in sovrappeso, più intelligente di quanto sembrasse, con un passato da pediatra, pittore esordiente, suonatore di piano, con un gatto nero. Occhi velati di tristezza, di malizia, di vergogna. Segnato dalla morte del figlio più piccolo.
Icarus on”, rispose Sherlock.   
Peter si girò verso di loro, e li guardo con la fronte corrucciata. Aveva paura, il detective poteva percepirlo. Paura di essere scoperto.
 
Fecero finta di ballare e di divertirsi per un’altra ora. Peter e Manuel erano andati in bagno, e vi erano usciti con aria strana. Manuel aveva il volto assente, un po’ preoccupato, mentre Peter sembrava arrabbiato.
Si avvicinò al barista (Lily) e chiese un cocktail, mentre il compagno esitava, e sembrava volesse volatilizzarsi. Lo bevve tutto.
Iniziò a sentirsi male dopo mezz’ora, arrancò e si trascinò fuori. Manuel ne approfittò per andarsene. Evidentemente Peter gli aveva confidato tutto sul suo passato, e il ragazzo aveva capito che il prezzo superava di gran lunga la qualità.
John e Sherlock lo seguirono, prendendo frettolosamente i cappotti.
Peter stava appoggiato a un palo e cercava di vomitare, invano. Tossiva, ma non sputava neanche un goccio di saliva.
Li vide, e iniziò a sgranare gli occhi , ma si sentiva troppo male per scappare.
-John, dobbiamo fare in modo che pensi che vogliamo un po’ di intimità. Sta sospettando di noi da quando ha messo piede nell’Exit-.
John era troppo preso dall’osservare Peter per poter rispondere, ma aveva sentito.
-Come intendi…farlo?- chiese, a scoppio ritardato.
-Lascia fare a me-.
Peter si girò ancora una volta.
Sherlock agguantò la faccia di John, mettendosi di fronte a lui.
-Ne vale l’intero caso. Pensa che sono una delle tue ragazze, al secondo appuntamento. Rilassati-.
John aprì la bocca per replicare, ma fu zittito…
Dalle labbra del detective.
Si poggiarono sulle sue, calde, umide, che sapevano di alcol.
Era impietrito, sotto il suo controllo.
Vedeva gli occhi chiusi di Sherlock. Stava respirando il suo respiro, poteva sentirlo.
Le mani calde sul suo viso, lo tenevano incollato a lui.
La sua mente divenne nera.
Non sentiva più il freddo, il tempo che passava, né le responsabilità del caso.
Sentiva solo il bacio di Sherlock.
Solo quel bacio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
[Nota dell’autore: Buon pomeriggio lettori! Finalmente faccio la mia comparsa in un capitolo! Innanzitutto grazie a tutti, per tutto ciò che fate, per le recensioni e per i messaggi. Grazie di cuore! Beh, siamo arrivati al decimo capitolo, il più emozionante a livello romantico, ed è anche il prologo di tutto ciò che deve ancora accadere.
Sappiate che potete mandare consigli , idee, pareri, per messaggio privato, sarò ben lieta di ascoltare e prendere in considerazione tutto ciò che mi direte!
Se lascerete una recensione, poi, mi farete davvero tanto felice! Per me sono una specie di toccasana.
Ebbene, che dire, grazie di nuovo! Al prossimo capitolo!]

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Capitolo 11
*** In scena (ricordi) ***


Scendo le scale, con l’aria di chi non ha voglia di affrontare la giornata. Harriet è sul divano e sta sfogliando riviste di gossip, che parlano principalmente di attrici prosperose e delle loro vite amorose. Mamma la guarda, si acciglia e le strappa la rivista di mano.
-Harriet, per l’amor del cielo, quando ti comporterai come è dovuto a una donna della tua età?! Ancora con queste riviste?! Perché non fai come tuo fratello, che si prende le sue responsabilità e cresce?- le urla, strappando in piccoli foglietti ciò che resta del giornale.
Harriet odia quando la mamma la paragona a me, perché lei sa che non sono l’esempio della famiglia, ma che cerco di comportarmi così come mi è stato insegnato. Harriet lo sa meglio di tutti, ma non osa parlare, perché sa che spezzerebbe il cuore ai nostri genitori, oppure che non sarebbe creduta. Mi guarda, con un moto di rabbia che le pompa nelle vene.
Harriet, perché non cerchi di essere donna? Perché hai riviste pornografiche sotto al letto che parlano di lesbiche? Perché vuoi deludere mamma e papà?
-Piantala di urlarmi nel cervello! Sono grande abbastanza da sapere ciò che voglio, e non voglio un accidenti di uomo! In che lingua te lo devo dire, madre? Mi fa schifo essere donna!-.
La mamma le tira uno schiaffo, a palmo aperto, in pieno viso. Vorrei fermarla, ma non posso.
-Oltraggioso- le dice, sparendo in cucina.
Harriet mi guarda, e io continuo a scendere le scale, superandola.
-Hamish! Dove stai andando?- mi grida mamma, sporgendo la testa dall’uscio.
Quanto odio quando mi chiama così. Che nome schifoso è Hamish? Mi chiamo John, accidenti, John!
-Esco- dico semplicemente. Dove vado sono affari miei.
-Va bene, torna prima di cena!-.
Harriet viene verso di me.
-Ancora ti vedi con lui, vero? Avevi detto che non l’avresti più visto- mi sussurra, massaggiandosi la guancia.
-Vado a dirgli addio, Harriet. Non voglio essere una delusione per la famiglia. Domani parto per l’Accademia Militare-.
Non riesce a crederci.
-Quando ti renderai conto che è la tua natura? Non è una scelta, amare. Non riuscirai mai a sistemarti con una donna, perché lo sai che il tuo cuore non dice questo-
-Taci. Ne basta una, di pecora nera, in famiglia. E’ stata una sbandata adolescenziale e basta-.
Ci credo davvero alle parole che dico. O forse no? E’ stata davvero una sbandata? In ogni caso, devo dimenticarlo, sono stato chiamato “checca”, “ricchione”, “frocio” per troppi anni. Sono un maledetto maschio, e devo stare con una donna. Devo dare dei nipoti ai miei genitori, che mi hanno cresciuto e amato, e glielo devo, dato che Harriet non vuole farlo.
-Sei un vigliacco, John- mi dice sull’uscio, e le sue parole suonano come uno schiocco di frusta, -vuoi rinunciare a ciò a cui tieni per delle stupide tradizioni venute da menti chiuse e stereotipate. Io me ne andrò, sappilo, mi sistemerò con la mia fidanzata e me ne fregherò di tutte le parole che diranno gli altri-.
La sua voce suona coraggiosa, determinata. Davvero non gliene importa nulla dei nostri parenti? Di come spezzerà loro il cuore, sposando una donna? Cambierà stato, si, non si farà più vedere. Ma probabilmente è meglio così, più lontano stanno i problemi e prima si risolvono.
-Allora và. Tu fai le tue scelte, io le mie-.
Mi chiudo la porta alle spalle, senza ricevere risposta.
Ogni passo sembra pesare tonnellate, eppure sto andando.
Capirà, continuo a ripetermi, pensando a lui. Capirà i miei dubbi, le mie incertezze. Capirà la mia partenza, il mio addio. Il mio posto è con una donna, una donna lì fuori, che avrà i miei figli, e i miei genitori saranno felici.
Andrà tutto bene.

 
-John! Sta scappando!- urlò una voce familiare.
Il dottore cadde dalle nuvole. Sherlock era poco più in là, che lo chiamava a squarciagola, e lui era impalato lì, con lo sguardo perso nel vuoto.
Aveva ricordato un pezzo della sua vita che credeva avesse rimosso. Quel giorno davanti alla porta, il discorso che aveva fatto con Harriet il giorno prima di partire per l’Accademia Militare. Quante guerre c’erano volute per dimenticarlo? Quanti morti aveva dovuto vedere per eliminare quell’immagine dalla sua mente?
E ora un singolo bacio, un attimo, gli aveva fatto ricordare tutto.
-John! Maledizione!-.
Non stava capendo più nulla, come se si fosse appena svegliato. I sensi lo avevano abbandonato, i muscoli si erano rilassati e la mente si era offuscata, così come ogni tentativo di stabilire una connessione logica con la ragione.
Corse, meccanicamente, verso l’amico, ricordando poco a poco tutto ciò che stava accadendo. Sherlock lo osservò, e notò la sua aria assente, poi, lentamente, tornò ad essere il John che conosceva.
-Tu…mi hai baciato?!- sbraitò.
-Se è così che baci, John, le tue ragazze devono trovarti alquanto passivo e noioso-
-Sherlock! Perché accidenti mi hai baciato?!-
-Ciò che tu chiami bacio io lo definisco “poggiare le labbra su altre labbra per dieci secondi”, oppure “far stare zitto qualcuno nel modo più fisico possibile”, siete voialtri che affibbiate al bacio un significato simbolico a me sconosciuto-
-Resta il fatto che mi hai baciato! E per me il bacio ha un significato amoroso! Potevamo abbracciarci o fare finta di baciarci, ma non darci un bacio vero accidenti!-
-John, piantala di piagnucolare come un bimbo imbecille. E’stata una cosa puramente materiale-.
Il dottore scosse la testa e decise di non replicare, accorgendosi di non riuscire a guardare in faccia Sherlock.
 
Arrivarono davanti a un edificio, parallelo al Van Gogh Museum. Sembrava più un ufficio in realtà, stretto e con poche piccole finestre, le scale di emergenza su un lato, in ferro, cupe. A prima vista sembrava che solo qualche vecchietto occupasse i tre piani del palazzo.
-Saliamo per le scale di sicurezza. Victoria dovrebbe arrivare a momenti-.
Cautamente scavalcarono un cancello e salirono le scale di ferro, badando a non fare troppo rumore.
-E’ nell’appartamento, sta bevendo un bicchiere d’acqua. Terzo piano, un bagno, due camere da letto, attico, un salotto. Un frigorifero accanto a una finestra. Due divani, una televisione accesa, telegiornale…-.
Continuò a costruire oralmente una pianta della casa, finché non si ritrovarono in corrispondenza del terzo piano. Fu facile forzarla ed entrare, la maniglia era congelata e difettosa.
-Ha la possibilità di sentirci pari al 55%, dato che il volume è abbastanza alto. Sta facendo zapping, è preoccupato dalla sua condizione respiratoria-
-Allora non aumentiamo queste possibilità, tu che dici?- ammonì John, sussurrando.
Si fermarono davanti alla porta, origliarono. Stava chiamando il pronto soccorso, dato che la sua condizione stava peggiorando. La coniina stava facendo il suo percorso, ottenendo proprio l’effetto desiderato. Secondo i piani, la chiamata era stata intercettata da Victoria, che, invece dell’ambulanza, avrebbe fatto arrivare una decina di cecchini e lei stessa, a bordo dell’elicottero.
Sherlock e John avevano il compito di assicurarsi che lui non scappasse.
Si appoggiarono ai lati della porta, aspettando.
-C’è odore di putrefazione, lieve, ma c’è- disse Sherlock, annusando l’aria.
John non lo sentì, e appoggiò il mento sulle ginocchia circondate dalle sue braccia, sedendosi. Il detective lo imitò.
-Toglimi una curiosità- iniziò John, tanto per perdere tempo, -come fai a sapere che le donne le bacio al secondo appuntamento?-
-Elementare: quando torni a casa, dopo un secondo appuntamento, hai sempre le labbra colorate di qualche sfumatura di rosso-.
John ridacchiò, mentre la parola “labbra” gli aveva provocato un sussulto. Si rilassò, appoggiando la testa sulla parete, e chiuse gli occhi.
 
Apre la porta, felice di vedermi. Per me è come una piaga nel cuore, quel sorriso. Gli occhi vivaci, quel corpo magro e asciutto, le mani grandi e venose.
Mi dovrò dimenticare di tutto questo.
-John!- esclama, sgranando leggermente gli occhi, mentre i suoi occhi azzurri incontrano i miei.
-Ehi, Martin…- dico, pronunciando il suo nome non nel modo in cui vorrei. Capisce subito che qualcosa non va, il suo volto assume un’espressione preoccupata. Tenta di cingermi con un braccio, ma mi scanso. E’ a maniche corte, nonostante questa brezza primaverile sia tutt’altro che calda.
-John, che succede?-.
Le parole mi muoiono in gola. Mi sento uno schifo a lasciarlo così ma…devo.
-Domani parto per l’Accademia Militare e…volevo dirti addio-.
L’ho davvero detto? Mi guarda, incredulo, triste. L’ho ferito, ma fa male anche a me.
-Cosa?..Come sarebbe a dire, John? Pensavo che ci tenessi alla nostra amicizia-.
Amicizia? Per me sei qualcosa di più…anzi, eri.
-Ci tengo, Martin, ma i doveri mi chiamano…e sono lontani da qui-.
Lui abbassa la testa, e io guardo altrove. Non pensavo fosse così difficile.
-Pensavo che avremo condiviso più tempo, io e te. Mi sbagliavo- dice.
Inutile dichiararsi ora, non avrebbe senso, perché è stata una sbandata, una cotta stupida! E se lui provasse la stessa cosa, poi, mi sentirei anche peggio.
Guardo i suoi occhi e i suoi capelli neri, disordinati, come sempre.
Ripenso al sorriso di prima, cercando di cancellarlo.
-M…Mi dispiace-, dico, balbettando come un idiota, -sono certo che un giorno potrai capirmi-.
Si avvicina, e mi stringe la mano, dandomi con l’altra una pacca sulla spalla.
-Allora addio, John Watson, amico mio. Che il futuro ti dia ciò che vuoi davvero! Anzi, forse sarebbe meglio chiamarti Tenente?- ride, tristemente, facendomi venire le lacrime agli occhi. Metto una mano sulla sua, per l’ultima volta.
 

Il rombo di un elicottero lo destò dai suoi pensieri, e si accorse di avere gli occhi umidi. Sherlock si alzò e sorrise leggermente.
-Finalmente sono arrivati. Nascondiamoci!-.
John lo seguì a ruota, pensando ancora a quel ricordo, che aveva accuratamente archiviato negli antri più profondi della sua mente, e che ora era tornato alla luce, più doloroso che mai. Erano le due passate, il freddo era palpabile, e loro si nascosero dietro una pianta decorativa del corridoio.
-John, la pistola- ordinò il detective.
-Pistola? Quale pistola?-
-Non hai una pistola?- chiese Sherlock con aria burbera.
-No, sai, ci ha abbigliati Lily!-.
Il detective sospirò.
-Non sai baciare, non porti la pistola quando serve…cosa ti tengo a fare, eh?-.
John rimase interdetto, ma non replicò, perché sapeva che il suo urlo avrebbe potuto allarmare Peter e anche tutti i vecchietti dei piani inferiori.
Sherlock sentì l’uomo aprire il terrazzo ed uscire, per vedere cosa stesse succedendo.
-Il rumore dell’elicottero aumenta la possibilità del 93%. Andiamo, John-.
I due si avvicinarono alla porta e si guardarono un momento, poi Sherlock si sfilò una forcina dai capelli ricci.
-Una…forcina?- chiese John.
-Oh beh, Lily si è presa la pistola, noi abbiamo le sue forcine! Dovremo farci pettinare da lei più spesso!-.
Smanettò con la serratura un paio di secondi, poi essa scattò ed entrarono nell’appartamento. Una veloce occhiata, e Sherlock aveva un’immagine precisa della personalità dell’individuo.
- L’odore di putrefazione viene dal bagno. Prendi quella pistola laggiù, io improvviso- disse il detective, dirigendosi in cucina. John prese la pistola e, poco dopo, l’amico gli si affiancò, con in mano una padella.
-Una padella?!-
-Il colpo di una padella può tramortire una persona, se è a doppio fondo può farle perdere conoscenza-.
John sospirò e aprirono la porta del terrazzo, dove un gran vento lì investì. L’elicottero era proprio sopra di loro, e si abbassava lentamente in corrispondenza del terrazzo.
Peter era lì, brancolava nel vento, e cercava di raggiungere la porta, quando si ritrovò davanti John che gli puntava la pistola alla testa.
-Tu non vai da nessuna parte, amico-.
Sherlock vide Victoria scendere sul terrazzo con un paio di soldati, armati di Walther WA 2000.
Lei sorseggiava del tè , calma e tranquilla, mentre i suoi occhi neri scrutavano i dintorni.
L’elicottero si era allontanato, e i cecchini si erano posizionati in cerchio, circondando Peter.
-Chi si rivede. Vuoi un po’ di tè?- disse Victoria, rivolta verso l’uomo, che tossiva disperatamente.
-Tu…non puoi essere ancora una bambina…non puoi!- disse Peter, con occhi pieni di terrore.
John era confuso.
-Bakker, anzi…Wood, così come ci siamo conosciuti-
-Sei un demonio! Un maledetto demonio!-
-Ti ricordi? Avevi cucito insieme quelle due gemelle, dopo averle seviziate e uccise, io ero lì a osservarti, così come ti ho fissato per tutte le notti a venire, mentre dormivi. Sono sempre stata lì, Peter Wood, a tormentarti-.
Sherlock stava elaborando la conversazione, e guardava Victoria. Dove aveva già visto quello sguardo? Freddo, gelido, più degli inverni londinesi.
 
 
 
[Nota dell’autore (nonostante sia un’autrice): Ben ritrovati, cari lettori! Dunque, avrete notato che ci sono delle cose in più in questo capitolo, per schiarirvi un po’ le idee e per farvi partecipare al cambiamento psicologico di John e, in futuro, anche di Sherlock, che farà ragionamenti in prima persona nel suo palazzo mentale.
Però, prima di spiegarvi un paio di cose, voglio dirvi grazie per il supporto! Grazie delle recensioni e dei messaggi, li apprezzo molto!
Ora, passiamo a noi.
Ci saranno delle parti di capitolo in cui entreremo nella testa di John e Sherlock, e vi mostrerò i loro pensieri, emozioni, ragionamenti e ricordi, come in questo caso, in cui John ricorda l’addio che ha dato alla sua vecchia fiamma, Martin (personaggio puramente inventato), e di come abbia mano a mano costituito l’idea di voler essere unicamente eterosessuale per accontentare i genitori, delusi dalla sorella Harriet. Tutto questo in seguito al loro bacio, che ha cambiato radicalmente le cose.
Ora, che dirvi? Al prossimo capitolo!
Recensioni e messaggi sono sempre ben accetti, anche per dirmi cosa ne pensiate di questa nuova strutturazione dei capitoli; come nello scorso capitolo, se avete idee o consigli, scrivetemi e aiutatemi! Sarò molto contenta di ascoltarvi! A presto!]  

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Capitolo 12
*** Sangue del tuo sangue ***


Il tempo si ferma e tutto tace, finalmente sono nel mio palazzo mentale. Nessuno può disturbarmi qui.
-Sherlock, caro! Vuoi una tazza di tè?-.
Questa voce fastidiosa, sembra essere quasi quella della signora Hudson. E lo è: mi giro ed è lì, a gironzolare sul terrazzo, ridendo e schiamazzando. Cosa accidenti ci fa nel mio palazzo mentale?!
-Io te l’avevo detto che il tuo palazzo è troppo facilmente accessibile, è entrata perfino lei- commenta Mycroft, accanto a me. Lo ignoro e mi avvicino alla signora Hudson, contenta e giuliva come una bambinetta che corre nei prati.
Perché è qui? Già è tanto sopportarla nella realtà, poi se entra anche nel mio palazzo mentale…
-Caro, questo posto è così interessante! Dà una versione celestiale del mondo, come se fossi un Dio! E’ così eccitante! Pensi che quando ero giovane…-.
Non di nuovo le sue chiacchiere. La metto in modalità muta e le mie orecchie finalmente godono il suono del suo silenzio.
-Non ascoltarla è stato uno dei tuoi grandi errori, Sherlock. Se solo non avessi rimosso le sue parole dal tuo cervello, ora ti sarebbe tutto più chiaro.-
-Cosa stai dicendo, Mycroft?- gli dico, con tono autoritario, che però non sortisce l’effetto desiderato: per troppi anni ho cercato di prevalere su mio fratello, ma oramai lui non si fa intimidire da me, così come io non mi faccio intimidire da lui.
-Dimmi ciò che sai sulla signora Hudson-
-Cosa c’entra ora?-
-Fa come ti dico-.
A cosa serve descrivere la signora Hudson? Le solite stupide trovate perditempo di mio fratello.
-Vorrei ricordarti che sono capacissimo di sentirti, dato che le tue parole rimbombano nelle stanze del tuo palazzo-.
Allora posso anche non parlare.
-Già-.
Mrs Hudson, donna frivola e sciocca, con una gran parlantina, solare e relativamente bella, con un passato da spogliarellista e spacciatrice di droga. Sposata con il signor Hudson, soppresso con iniezione letale nel…
-Ti sta sfuggendo qualcosa, fratellino-.
Mycroft, non capisco dove vuoi arrivare.
-Victoria, cos’ha in comune con la signora Hudson?-.
La parentela, insomma, il cognome.
-Il cognome?-.
Aspetta. La signora Hudson ha acquisito il cognome del marito dopo il matrimonio, di conseguenza non può avere un fratello con il cognome “Hudson”, e, quindi, Victoria non ha il cognome Hudson!
-Esatto. Mi considero in vantaggio-.
Taci.
-Ti converrebbe ascoltarla più spesso-.
E quindi qual è l’identità di Victoria? Quegli occhi li ho già visti, occhi furbi e attivi, freddi, come gli squali quando attraversano le acque degli abissi …
Gli squali…

 
-Sherlock?- sussurrò John, vedendo l’amico pensieroso e strano. Il detective non rispose. Peter vide John distratto e ne approfittò per cercare di sottrargli la pistola, ma il suo tentativo fu vano: le forze gli vennero meno e cadde a terra, dopo aver compiuto una specie di piroetta verso la mano del dottore. Bestemmiò per la sua condizione, e Victoria, seccata, gli chiuse la bocca: un cecchino le lanciò un taser che lei, facendolo roteare abilmente nella mano destra, lanciò a sua volta su Peter, come se stesse tirando una freccetta a un bersaglio. Pochi attimi, tra urla soffocate e convulsioni,  l’uomo perse conoscenza.
 -Caricatelo sull’elicottero, legatelo, e provvedete alla sua salute. Se la coniina supererà lo stato di gonfiore massimo della trachea, questo verme morirà di asfissia, e non dobbiamo permetterlo-.
I cecchini fecero, all’unisono, un cenno di assenso, e sollevarono di peso l’uomo, mentre Victoria si avvicinava ai due amici, gettando a terra la tazza di porcellana che aveva poco prima tra le mani.
-Entriamo-, ordinò, superando la porta-finestra ed entrando nell’appartamento.
Sherlock esitò.
-Che hai, Sherlock?- chiese John, continuando a cercare di decifrare l’espressione del detective.
-Fa attenzione, John. Non tutto ciò che è davanti a noi è verità-
-Che stai dicendo? Parli di Vic…-.
Sherlock lo interruppe. Non avevano tempo per discutere, Victoria stava aspettando. John rimase con la sua confusione, ponendosi mille domandi alle quali non trovò risposta: poco tempo per ragionare e troppi pensieri da elaborare. Il bacio con Sherlock, i ricordi, il caso, e ora questa “sorpresa” di Victoria, si intrecciavano come rovi nella mente del dottore.
-Putrefazione. Lieve, ma percepibile. Ovunque. Non servirebbe neanche una lanterna a led per capire che questo posto è ricoperto di sangue da cima a fondo- commentò Victoria, annusando l’aria. Sherlock anche sembrò badarci, e notò diverse cose: il posto era stato pulito da cima a fondo, con diversi detersivi forti, in quasi ogni angolo; deodoranti erano stati spruzzati senza badare alla quantità spruzzata, deodoranti ideali per persone con sudorazione abbondante. Eppure, dall’odore di morte, il cadavere doveva essere abbastanza fresco: forse l’omicida si sentiva talmente sotto pressione da rendere la casa uno specchio, pur di non dare nell’occhio e non ricordare l’atto compiuto. Ma il cadavere era ancora lì, nel bagno, dove i deodoranti e i profumi erano stati spruzzati senza pietà, mescolandosi in un’unica, grande, nuvola nauseabonda.
Victoria si piazzò davanti alla porta, aspettando che i due la raggiungessero.
-E’ chiusa- disse John, tentando di abbassare la maniglia. Impugnò la pistola mirando alla serratura, ma la bambina lo fermò.
-Non c’è bisogno di rovinare così bella manifattura in metallo, dottor Watson. Lasci fare a me-.
Arretrò un paio di centimetri, caricò il braccio da dietro la spalla e tirò un pugno al lato della chiusura, trapassando il legno con la mano, e aprì la porta dall’interno.
-Però c’era bisogno di rovinare uno splendido lavoro in legno, eh?- commentò John, alzando un sopracciglio.
Una volta entrati, il profumo sparso in tutto il resto della casa sparì, lasciando il posto all’odore dolciastro del sangue e alla puzza di carne marcia.
Più che un bagno, sembrava un enorme corridoio: largo smisuratamente, con pochi sanitari, mattonelle che un tempo erano bianche, e che erano diventate di diverse colorazioni di rosso a seconda di quando sangue vi si fosse accumulato sopra; una credenza solitaria appoggiata su una larga parete, piena di cianfrusaglie insolite, quali strumenti chirurgici, boccette con strani intrugli, medicine e anche strumenti da cucina; sanitari dal gusto minimalista, squadrati e sporchi.
Dulcis in fundo, una vasca in stile antico, coperta dalla spessa tenda della doccia, opaca e alta quasi due metri.
Quella stanza aveva le sembianze di una scenografia horror, data anche la luce fioca e l’assenza di finestre.
I tre avanzarono, lasciandosi alle spalle passi appiccicosi.
-Penso che sappiate cosa ci sia dietro quella tenda- disse Victoria.
-Come fai a sapere che c’è una tenda?- chiese John.
-Ogni suono che produco rimbalza sulle pareti circostanti finché non torna su di me. E’ un ottimo metodo per orientarsi-.
Il dottore non osò controbattere.
-Vuole avere lei l’onore, signor Holmes?-
-Volentieri-.
Sherlock afferrò lo spesso lembo della tenda con la mano sinistra, poi, con un gesto rapido e deciso, la scostò.
Lo spettacolo fu davvero raccapricciante.
John arretrò di qualche passo, tenendosi la bocca in caso avesse dato di stomaco da un momento all’altro, mentre Sherlock rimase impassibile, e Victoria muoveva velocemente le pupille, schioccando la lingua.
Un cadavere di una ragazza era steso lungo il fondo della vasca, con i vestiti strappati, i polsi legati che avevano assunto un colorito violaceo, i piedi amputati e il cranio sfondato: al posto del volto c’era un grosso spazio vuoto, riempito da una considerevole quantità di sangue, dove galleggiava un pennello da pittore numero 16, piatto.
-S…Sherlock…non penso che non dovresti guardare il cadavere…- disse John, con aria spaventata.
Aveva visto tante violenze durante il suo addestramento, nelle guerre in Afganistan, e i cadaveri oramai non lo impressionavano più: era spaventato da ben altro, in quella stanza.
Mentre il detective alzava lo sguardo, mano a mano ciò che c’era sul muro iniziava a rivelarsi: il dipinto autentico de “I mangiatori di patate” di Van Gogh era inchiodato alle piastrelle, accanto ad esso c’era la sua macabra riproduzione col sangue, solo che, al posto delle facce del dipinto originale, c’erano i volti di alcune vittime o potenziali vittime. All’estrema sinistra c’era la figlia di Coffin, senza vestiti, ricoperta di sangue; al suo fianco c’era la ragazza nella vasca, senza volto; all’estrema sinistra, le gemelle di Bakker, cucite insieme, che tentavano di staccarsi rabbiosamente; al loro fianco c’era Victoria, sorridente e con gli occhi sanguinanti, con una tazza di tè in mano e infine, di spalle, la sagoma di un uomo, con i capelli corti e le spalle larghe. Sullo sfondo, carni appese su degli uncini: un mattatoio.
Tuttavia la cosa più inquietante di tutta quella scena era una scritta col sangue, poco più sotto, in un corsivo elegante e liscio:
“You’re next, Hamish”.
Sherlock lesse più volte la scritta, sperando di star sbagliando i calcoli, sperando che le sue supposizioni si sbagliassero, per una volta.
La figura maschile nel dipinto…
…sembrava proprio essere il suo amico, John Watson.
 
Sono sul mio letto nella mia stanza dell’Accademia, pensando a quali mansioni devo svolgere quest’oggi. Dovrei studiare, innanzitutto. Mi sento in piena forma, come se avessi bevuto qualche sorta di bevanda energetica.
Il mio compagno di stanza, Steven, è immerso nei libri da qualche ora e mi chiede di tanto in tanto un bicchiere d’acqua. Sulla scrivania ha due foto: una della sua fidanzata Amy e una della sua famiglia. 
-Non ci capisco niente di tutta questa roba di medicina- dichiara Steven, sbattendo un pugno sul muro.
-Devo aiutarti?- gli chiedo.
-Oh, no John, davvero. Devo arrangiarmi da solo, altrimenti non supererò l’esame-.
Annuisco e lo lascio perdere, mentre continuo a pensare.
Di colpo si apre la porta ed entra un ragazzo che conosco solo di vista, forse si chiama Alex, o forse Alexander. E’ agitato, e mi guarda.
-John- dice, -c’è una lettera per te. Mi sono incaricato di consegnartela, pare importante…-.
Mi inizio ad agitare anche io. Non ho mai ricevuto lettere fino ad ora, e non so proprio chi possa inviarmene una, dato che ho un telefono appositamente. La prendo con fare curioso.
La rigiro più volte tra le mani, ma niente indirizzo, solo il mio nome completo. Cosa che, ahimè, non mi rincuora, perché pochi conoscono il mio secondo nome.
Strappo la busta ed estraggo questa serie di fogli, tutti scritti da margine a margine.
“John Hamish Watson,
siamo amareggiati nel comunicarvi questa spiacevole notizia. Il ventitreenne Martin Young è deceduto due giorni fa a causa di un incidente stradale. Siamo stati informati che lei era il migliore amico di Martin, e ci siamo sentiti in dovere di informarla.
Queste qui allegate sono delle lettere che Martin scrisse per lei qualche tempo dopo la sua partenza.
Le diamo le nostre più sentite condoglianze.
Mrs. Young e famiglia”.
…deceduto? Come…come sarebbe?
-E’ uno scherzo, vero?!- urlo contro il ragazzo che mi ha dato la lettera, che mi guarda con aria interrogativa. Steven si gira e ci fissa.
-Ehi John! Calmati! Non so neanche di cosa si tratta….!- .
Steven si mette tra noi.
-Che sta succedendo? Alexis, spero che non sia un’altra delle bravate di Brandon, perché stavolta non glielo perdono- dice, alzando la voce.
-Te lo giuro su Dio, Steven, non so di cosa parli! Se fosse stato uno scherzo di Brandon non gliel’avrei mai data la lettera!-.
Mi lascio andare sul letto, sentendomi mancare le forze che, poco prima, sprizzavo da ogni poro. Come una marionetta al quale hanno tagliato i fili.
-Uscite, vi prego. Devo rimanere da solo…- dico.
Annuiscono ed escono.
Stringo la risma di fogli, incredulo. Forse hanno sbagliato persona, forse non è quel Martin Young che conoscevo.
Prendo una delle sue lettere, e, senza rendermene conto, vedo le mani bagnarsi delle mie stesse lacrime, mentre, a malincuore, riconosco la sua calligrafia.
“Caro John,
te ne sei andato da quasi una settimana, e non mi hai scritto neanche una lettera. Il tuo addio era vero, eh? Non so neanche perché sia io a scriverti. Forse perché la tua assenza non è positiva, per me. Ogni sera andavamo per i bar a fare baldoria… spero che non ti sia scordato i festeggiamenti dopo il diploma! Ti ricordi? Tutte quelle belle ragazze formose che volevano venire a letto con te! E tu che le hai rifiutate tutte! Una dopo l’altra!
Dio quante ne abbiamo passate, io e te. Le notti erano infinite, andavamo a dormire sempre tardi, per poi arrivare in ritardo a scuola il giorno dopo, correndo. Ora che ci ripenso, mi mancano quei momenti. Penso che questa lettera non te la invierò mai, ma, se ti capitasse di leggerla, sappi che ti voglio bene, amico mio, e spero che tu possa tornare, un giorno. Vorrei rivederti, almeno un’altra volta. Per qualsiasi cosa, mi trovi sempre qui. Tuo, Martin”.

 
Victoria si prese il disturbo di accompagnarli a casa con una ruggente Maserati, anch’essa modificata. Quando aprirono la porta della stanza, trovarono una piacevole (o spiacevole?) sorpresa: petali di rosa sulle coperte e candele profumate accese sui comodini, nonché due o tre dvd gay porno poggiati su un portatile.
John roteò gli occhi, mentre Sherlock sembrò neanche badarci. Si limitò a “spolverare” i petali dal letto, poggiare il computer su un tavolo e soffiare sulle deboli fiammelle, spegnendo non solo le candele, ma anche tutta l’atmosfera creatasi.
Si tolse frettolosamente i vestiti, alla ricerca del pigiama nel borsone. John si andò a sciacquare la faccia, sconvolto da quella giornata.
Quando si stesero sotto le coperte, senza aver proferito parola l’uno con l’altro, John era teso, poiché, da tempo ormai remoto, non metteva piede in un letto matrimoniale, senza contare il fatto che dentro ci fosse una persona.
Sherlock era preso da molti pensieri e dubbi. Non gli era ancora passata dalla mente l’immagine del dipinto col sangue.
Ciò che stava provando era davvero paura? Paura per John?
-Sherlock, posso chiederti una cosa?- disse John, affondando con la testa nel cuscino.
-Parla-
-Vorrei capire: era rivolto a me il messaggio sul muro? E cosa stavi dicendo su Victoria?-.
Sherlock, per la prima volta, si domandò se fosse davvero giusto rispondergli sinceramente. Avrebbe potuto farlo preoccupare, e non sarebbe stata una cosa positiva. Decise, dunque, di agire di testa propria, tenendo John all’oscuro. L’avrebbe salvato.
-Teorie infondate, John. Sfortunatamente ci sono ancora delle famiglie che chiamano i loro figli “Hamish”, e quindi questo tipo di pazzia ancora non è stata aggiunta tra le malattie mentali. Sarà un bambino o qualche minorenne. In quanto a Victoria…-.
Sherlock gli illustrò tutto il ragionamento dei cognomi, e a John fu tutto più chiaro.
-E allora chi si nasconde dietro quell’apparenza innocente?-
-Un qualcosa o un qualcuno da cui sarebbe meglio tenersi alla larga, John-.
Si stiracchiò con un rumoroso sbadiglio, e si girò su un fianco, dando le spalle all’amico.
-Ah! Se domattina mi trovi steso sui tre quarti del tuo corpo, è perché sono iperattivo anche nel sonno, quindi non pensare che abbia provato a stuprarti, mister Sottomessoduranteibaci-.
John sbuffò e si mise a fissare il soffitto.
“Martin…”
 
 
 
[Nota dell’autore/autrice: Salve lettori, ben ritrovati! Scusatemi se sono sparita per un’intera settimana, ma, tra blocco dello scrittore, interrogazioni, Professor Layton vs Phoenix Wright e depressioni varie, non sono riuscita a combinare niente.
Tranquilli, sono ancora qui ad ammorbarvi con la mia storia!
Comunque grazie a tutti per il sostegno, per i messaggi e le recensioni. Lo ripeto e lo ripeterò sempre: se avete qualche idea per la storia o consiglio o commento, non esitate a scriverli! Non posso esserne altro che felice!
Riguardo il capitolo: i ricordi di John sono molto sconnessi, e possono essere in ordine non cronologico, però penso che per voi sia abbastanza semplice riordinarli cronologicamente.
Riguardo John e Martin, vi dico dei piccoli chiarimenti: Martin è il ragazzo che piaceva a John nel periodo liceale, ma non hanno mai avuto una storia, e nessuno dei due si è mai dichiarato all’altro, nonostante l’amore fosse corrisposto.
Riguardo Victoria, oramai penso che avete iniziato a nutrire dei sospetti nei suoi confronti. Pensateci bene!
Grazie di cuore di nuovo! A presto e cercherò di essere più sbrigativa la prossima volta.]

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Capitolo 13
*** Un giorno tranquillo ***


Il rientro a Londra fu un sollievo per i due amici: rivedere il polveroso appartamento di Baker Street rincuorò John, che si sedette quasi immediatamente sulla sua poltrona rossa.
Sherlock lo vide sorridere, ed ebbe un improvviso magone.
Misero a posto quei pochi bagagli portatisi, e decisero di rilassarsi per tutta la giornata. Il sonno arretrato aveva arrestato qualsiasi voglia di avventura, o almeno, questo era quello che pensava John: Sherlock, al contrario, aveva troppi pensieri che gli frullavano nella mente, e non riusciva assolutamente a prendere sonno, né tantomeno a fare altre cose, dagli esperimenti al vedere tutorial random su Youtube.
Una passeggiata con una Camel in bocca, ecco ciò che gli serviva.
-Esco-
-Dove v…?-.
Sbatté la porta.
Si scontrò con la signora Hudson a metà della tromba delle scale, e non si premurò di chiederle scusa.
-Oh cielo! Quando imparerà a guardare avanti?-.
Fu allora che gli venne un lampo, e roteò su se stesso, afferrando il braccio dell’anziana signora e inchiodandola al muro, mentre la fissava dal profondo dei suoi occhi azzurri.
-Ma che…?- balbettò la signora Hudson, diventando rossa in viso.
-Mi dica, signora Hudson, cosa le ha dato per inventarsi la fandonia della parentela?-
-Cosa? Ma di che accidenti sta parlando?-.
La voce acuta e agitata della signora Hudson fu come un graffio sulla lavagna, per il detective, che si sforzò a rimanere calmo. Lo sguardo dell’anziana cadde involontariamente sulla porta d’ingresso.
-Il fornaio…- sussurrò Sherlock, con un sorrisetto malizioso, -l’ha minacciata della morte del fornaio, vero?-
-Non scherzi sulla morte delle persone, Sherlock! Quale idiozie stai dicendo?!-
-L’ho sempre detto che l’amore è uno svantaggio pericoloso. Basta uno sguardo per farsi mettere nel sacco da qualcuno più potente di te-.
La signora Hudson era ormai viola e si divincolò dalla presa di Sherlock, affrettandosi a scendere al piano di sotto. Dopodiché entrò nel suo alloggio e si chiuse la porta alle spalle, con un gran rumore di cigolii e di vetri che tremarono.
Aveva centrato il punto dolente della situazione, e ne fu soddisfatto. Ora aveva la prova definitiva delle sue teorie. Victoria era davvero un’impostora.
Una volta uscito, si accorse che Irina era alla finestra e ne stava pulendo i vetri con maniacale precisione. Si era tagliata i capelli a caschetto, con tanto di frangetta che, oggettivamente, le donavano sempre più di quei lunghi capelli a tenda che portava prima.
-A te penserò poi- sussurrò tra sé e sé il detective, sparendo dietro l’angolo in fondo alla strada.
 
Non so perché mi sto agitando tanto. Forse perché è il compleanno di Martin e non sono sicuro che il regalo che gli ho preso potrà piacergli. Ci sarà così tanta gente che sarà difficile anche solo trovare il festeggiato, figuriamoci dargli un regalo! Spero solo che Martin non abbia invitato quella bigotta di Robin, altrimenti mi perseguiterà per tutta la festa e potrò sognarmi un momento da solo con Martin.
Ad ogni modo, non posso certo rimanere qui impalato davanti alla porta per tutta la vita, già alcune persone hanno notato la mia titubanza davanti a questo campanello e stanno ridendo di me. Quindi picchio. Guardo per l’ultima volta il pacchetto nella busta che stringo con la mano destra, sperando che abbia fatto la scelta giusta.
Apre proprio lui, ha in testa un cappellino di carta, come quelli dei bambini, e mi illumina col suo sorriso. Sorrido anche io, senza rendermene conto.
-Oh, John! Che bella sorpresa! Entra, dai!-.
Appena varco la soglia dell’uscio, un gran fracasso mi investe: l’intera casa di Martin è piena di gente, da cima a fondo, che balla. Alcuni sono già ubriachi e si buttano dalle scale: ma sono davvero così in ritardo? Ho solo perso un taxi…
Mi soffermo qualche secondo a scrutare tra i volti delle persone, alla ricerca di qualcuno di conosciuto, ma è meglio che non perda di vista Martin, altrimenti si che avrò una ragione per andarmene.
La serata trascorre così, senza che me ne accorga. Guardo l’orologio ed è già l’una del mattino: la casa si è un po’ sfollata, siamo circa una quindicina di persone.
-Ehi ragazzi, che ne dite di fare un gioco?- chiede Martin, con il fiatone per gli avvenimenti della festa. Annuisco, sono curioso, e così fanno gli altri, a modo loro.
Ci fa sedere a terra, in cerchio, e va in cucina a prendere un qualche cosa. Non conosco nessuno di questi ragazzi rimasti, né tantomeno le ragazze. Ma non mi interessa, con sincerità.
Mi interessa solo di Martin.
Torna con in mano una bottiglia di vetro, mostrandocela, trionfante.
No, ho capito che gioco è.
-Ma…è davvero necessario?- gli balbetto, e mi risponde uno tra quelli seduti di fronte a me.
-Cosa c’è? Mai fatto il gioco della bottiglia?-
-No ecco, è che…-.
Che accidenti dico adesso? Non ho mai dato un bacio in vita mia, come glielo spiego adesso che, ai miei 17 anni, non sono stato ancora capace di baciare la bocca di qualcuno?
-Dai John, ti divertirai!- mi prega Martin, con quegli occhi azzurri scintillanti.
E cosa posso fare? Non posso levare le tende proprio adesso, rovinerei il compleanno di Martin! Devo restare, per il suo bene. Infondo un bacio cosa sarà mai?
-Ok…-.
Si siede anche lui e gira la bottiglia. Essa fa un giro completo e punta nuovamente lui. Un brivido mi corre lungo la schiena e inizio a tirarmi le pellicine delle unghie per l’agitazione.
Per guardarmi le dita non mi sono neanche reso conto che il collo della bottiglia si è fermato e….
Punta proprio me.

 
Sherlock era riuscito a ottenere alcune informazioni sull’omicidio del primo pervertito, ucciso da Victoria col taglierino, da Internet. Scoprì che l’uomo, poco prima di morire, aveva gridato “io ti avevo uccisa! Non puoi essere viva!”, secondo un testimone che aveva udito la vicenda. Ovviamente tutto il caso era stato archiviato come “autodifesa del minore” e nessuno aveva obiettato, o per noncuranza, o per convenienza.
Ma perché coprire Victoria? Una bambina di dieci anni?
Un altro fattore, che aveva sorpreso Sherlock già da un po’, era che lei fosse schifosamente ricca: le sue ricchezze erano equiparabili a quelle della Regina, ed era, per l’appunto, la seconda persona più ricca d’Inghilterra dopo di lei. Come poteva una bambina di così tenera età possedere un patrimonio così considerevole?
E le sue conoscenze? Come potevano risiedere in un cervello così giovane?
Il problema dell’identità era l’ultimo pensiero, perché era quasi ovvio che una persona così potente ricorresse a falsi nomi. E allora perché chiedere il loro aiuto, se poteva ingaggiare killer e qualsivoglia investigatore del mondo?
Solo una persona poteva chiarire quei dubbi: Rose Johnson, la sorella pazza di Irina.
E così era tornato al manicomio, e ora era seduto davanti a lei.
-Parlami di Grace.-, ordinò.
-Grace… la gemella morta?- disse Rose, accarezzando il gatto dormiente sulle ginocchia.
Sherlock inarcò le sopracciglia.
-Gemella? Io sapevo di una sorella minore-
-Gemella. Sono pazza, non bugiarda-.
Sherlock dovette constatare che Victoria aveva mentito un’altra volta.
-Dimmi, allora-
-Prima, Violinista, voglio chiederle perché non risolve semplicemente il caso, lasciando perdere Victoria-.
Il detective osservò attentamente Rose, che resse il suo sguardo con aria di sfida.
-Il mio compito è svelare la verità, non fare il cagnolino e risolvere i casi a bacchetta. Mi trovo di fronte alla bambina più potente del Regno Unito e lavarmene le mani significherebbe voltare le spalle a un possibile nemico-.
Rose fece un piccolo inchino da seduta, coprendo il gatto con i suoi lunghissimi capelli neri, svegliandolo.
-I miei complimenti, messer Violinista. Ora posso essere sicura di rispondere a un uomo dotato di razionalità- disse Rose, ignorando il gatto che le miagolava con disappunto, cercando di sfuggire alla capigliatura, -ora, è giunto il momento che lei conosca la verità, che lei può usufruire come desidera-.
Sherlock si mise in ascolto.
-Io ho trentotto anni suonati, Violinista. E sono qui da ventidue di essi. Tuttavia non ho mentito, dicendole che sono qui da ancora prima che Victoria iniziasse a camminare, che la vidi neonata, né quando le ho raccontato del patto con Mycroft. Ho ucciso mio marito ventidue anni fa. Perché l’ho fatto? Perché era un’idiota, parlava a vanvera, mi criticava, affogava i suoi problemi nell’alcol. Ho fatto solo un piacere all’umanità, togliendolo da dentro di essa.
Ma passiamo a mia sorella. Irina…un’altra idiota patentata. Aveva venticinque anni quando si innamorò di quell’uomo subdolo e calcolatore, che aveva già una fama discutibile a quei tempi, ancora prima che i potenti iniziassero a tenerlo sotto torchio. Si fece strada tramite la sua arguzia sorprendente, che stupì anche me. Una volta mi venne vicino e mi sussurrò che avrei ucciso mio marito, prima o poi, nonostante fossimo a pochi mesi di matrimonio.
Nonostante manipolasse qualsivoglia londinese, Irina era ancora infatuata di lui, e non ci volle molto affinché lui se ne accorgesse e iniziasse ad andare dietro a lei. Con qualche stratagemma riuscì a metterla incinta, ma qualcosa non quadrava: Irina probabilmente aveva aperto gli occhi troppo tardi, e non era più attratta da lui, ma oramai aveva quel pancione. Due gemelle, Victoria e Grace. Lui le riconobbe e prese in custodia una di esse, per l’appunto Victoria. Finii in manicomio, e ricevetti solo notizie via lettera tramite Mycroft, a cui avevo dato tutti i miei averi affinché tenesse d’occhio Victoria e la separasse, a tempo debito, da quell’uomo, crescendola con sani principi. Gli anni passarono, ma non accadde nulla, e al decimo compleanno delle gemelle, Grace venne stuprata e uccisa.
Pochi anni dopo l’uomo morì, sparato alla testa, e Victoria ereditò il patrimonio.
Promise di vendicare la sorella…ed eccola qui-.
Sherlock aveva immagazzinato il tutto nel suo palazzo mentale, ed era arrivato a una conclusione che gli sembrava alquanto singolare.
-Mi stai dicendo che quella che io vedo come una bambina non è Victoria?-
-Oh…no. Victoria scomparve molto tempo fa, nessuno sa dove sia in questo momento-.
Il gatto si accoccolò sulle gambe del detective, guardandolo.
Victoria, quindi, non era quella bambina. Non aveva neanche dieci anni, ma circa ventidue e mezzo. Quanto poteva, dunque, fidarsi di quell’essere che si presentava a loro come un mostro assetato di sangue? E come poteva possedere il patrimonio di Victoria, se non aveva niente a che fare con lei?
Era come se, allo stesso tempo, ci fossero due Victoria, una di dieci anni e l’altra di ventuno dietro le quinte.
-Cosa sai dirmi del corpo di Grace?-
-Era senza occhi quando fu ritrovata. Cinque anni dopo, la sua tomba fu trafugata e il cadavere sparì. Non indagarono nemmeno, era un morto, dopotutto!-.
Per il moro era giunto il momento di andarsene, aveva scoperto abbastanza.
 
John si svegliò, sudato e con la tachicardia. Il fiato si vedeva nell’aria, e l’impatto col freddo fu terribile, poiché i brividi presero possesso di lui in modo incontrollabile, e le gocce di sudore divennero gelide, mentre gocciolavano da ogni dove.
Non ricordava quando si era addormentato sul divano, e neanche il perché. Forse la noia, o il sonno arretrato, o la stanchezza, in ogni caso si era assopito per ben due ore, e Sherlock ancora non rincasava.
“Forse dovrei tornare nel mio appartamento e lasciar perdere” pensò, sistemandosi il maglione e accendendo un piccolo scaldino elettrico “però questa stanza è fredda, ed è meglio che aspetti Sherlock…magari ne approfitto per combinare qualcosa qui dentro”.
Quando pensò a Sherlock, gli tornò a mente il loro bacio, e quindi il sogno del ricordo con Martin. Non l’aveva mai scordato, quel primo bacio, però l’aveva archiviato, e non ci pensava più; quel sonnellino innocente gli aveva spolverato quel ricordo, però, al posto del contatto di allora con le labbra di Martin, egli percepiva le labbra di Sherlock.
Non capì l’esatto perché, ma si toccò il labbro inferiore, sentendo uno strano caldo che lo risanò dal freddo dell’ambiente circostante. Davvero una strana sensazione.
Tornò coi piedi per terra. “Vado a fare la spesa, magari cucino qualcosa, e più tardi forse darò una pulita”.
 
Sherlock stava tornando a casa, e decise di farlo a piedi. La giornata era piacevole, c’era un sole tiepido e rassicurante, e in cielo c’erano poche nuvole smarrite, bianche come il latte.
Ma il detective mica guardava il cielo o il clima, no, era occupato a divertirsi, guardando le coppie in procinto di festeggiare il prossimo San Valentino, a sciuparle, dicendo tra sé e sé quando e come si sarebbero lasciate.
Per esempio, c’erano due ragazzi su una panchina, abbracciati, che ridacchiavano.
“Lei sta diventando una specie di cervo, per come lui la cornifica, e lei sta già chattando con un altro. Lei presto scoprirà il suo tradimento, e lo lascerà. Una settimana, forse? Ed entrambi saranno single”.
Passò una coppia di sposi, lei bionda come il sole e lui serio in volto, che le stringeva la mano.
Mi sta fissando, anche quando oramai l’ho superata. Matrimonio infelice, alla disperata di un uomo all’altezza e che si assume le sue responsabilità. E’ intelligente la signora, e presto lascerà quel suo marito da quattro soldi che si ritrova. Ma guardalo, cinquantacinque anni e porta i jeans strappati”.
Continuò così per un buon tratto di strada, finché gli capitò agli occhi una coppia, diversa dalle altre. Erano presi sottobraccio, lui le aveva appena baciato la fronte, e lei era arrossita leggermente.
Sherlock, per quanto li scrutasse, svelando origini e personalità, non riuscì a trovare nessun difetto tra loro. Si trovava davanti all’amore? Quello vero?
Distolse lo sguardo. Per la prima volta, tacque bocca e mente fino alla porta del 221b di Baker Street. Stranamente, pensando a John.
Incrociò la signora Hudson, che lo bloccò.
-Caro…volevo dirle che sono davvero desolata di aver mentito…-.
Sherlock la interruppe.
-No, signora Hudson, non si scusi. Tutto passato, davvero. Ora, sparisca-
-Aspetti! Ho un giochetto che potrebbe fare insieme al signor John!- disse lei, tornando al suo solito sorriso e dirigendosi a piccoli passetti eccitati verso le sue stanze. Tornò pochi secondi dopo, con una scatola seminuova: “La ruota”.
-Sa com’è, tra poco è San Valentino, magari per passare il tempo potreste giocare a questo!-.
Sherlock annuì, sospirò, roteò gli occhi e la congedò.
 
John era in procinto di apparecchiare la tavola al meglio, quando Sherlock aprì la porta.
-Che hai combinato? Cos’è questo odore?-
-“Grazie John, per aver pulito la casa e aver cucinato”!- lo canzonò il biondo, scherzosamente.
Sherlock buttò la scatola sul divano e andò ad analizzare il contenuto del pentolame.
-Roasbeef all’inglese, spaghetti al ragù…e un pudding? Oh John, se ti annoiavi potevi pensare a cercare informazioni, andare a Scotland Yard, o renderti, insomma, utile, ma hai deciso di fare la casalinga mestruata ed eseguire faccende!- commentò, sprezzante, togliendosi il cappotto con foga e gettandolo sul pavimento.
-Vorrei ricordarti che sono tuo amico e soprattutto dottore, e che il tuo stomaco non riceve cibo da giorni. Sai, un detective svenuto per fame serve a ben poco, oggigiorno- ribatté John, scolando la pasta.
-E va bene, mia cara badante! Mangerò! Vuoi anche cambiarmi il pannolino, dato che ci sei?-.
John non rispose e pensò a impiattare il tutto e a servirlo. Sherlock, nel frattempo che si lavava le mani, dovette ammettere che il profumo che veniva dalla cucina era delizioso e gli faceva venire l’acquolina in bocca.
Si sedettero a tavola, uno di fronte all’altro, e iniziarono a gustarsi le pietanze. La carne, il sugo e la pasta erano cotti a puntino e avevano un sapore davvero sublime. Sherlock si trattenne dal sbranare il tutto senza contegno.
-Non sapevo sapessi cucinare, John- disse, cercando di contenere i complimenti.
-Oh. Beh, diciamo che la signora Hudson mi ha dato una mano- ammise John, addentando una spaghettata, -beh? Dimmi cosa hai scoperto!- aggiunse.
Sherlock riferì precisamente tutte le parole di Rose e le sue supposizioni.
-Però, Sherlock…quanto credito possiamo dare a questa donna? Voglio dire, ha problemi mentali, può essere anche una bugiarda patologica-
-Non lo metto in dubbio, ma ahimè, non è così, e ha tutto il diritto di essere ascoltata. Che motivo avrebbe per mentirci? E’ chiusa lì da anni ormai, non credo che raccontare storie inventate sia un bel passatempo per lei, non le cambierebbe certo la vita. E poi, quel suo tatuaggio dietro la schiena…è un’opera di Van Gogh, e sono convinto che c’entri qualcosa con tutto questo-
-Si ma non abbiamo prove della sua veridicità. Dovremmo avere una conferma di qualche tipo, insomma-.
Sherlock aveva vuotato il piatto, e si diresse alla finestra. Guardò fuori, e casualmente vide Irina affacciata all’appartamento di fronte.
-Ma certo, Irina-.
John aveva la bocca piena e non aveva capito bene, poiché pensava a come fosse stato bravo a cucinare, tanto che l’amico aveva leccato anche il piatto, per modo di dire.
-Cosa?- farfugliò.
-Irina Johnson. Da lei avremo le risposte-
-E come?-
-Ho visto dei volantini su una gara di tango il giorno di San Valentino, sono sicuro che lei ne prenderà parte-
-E come fai a saperlo? E poi come speri di estorcerle ciò che ci serve?-
-Me lo ha detto Lily con un messaggio, poco fa. Inoltre non sottovalutare le mie doti seduttive, John. Potrei far innamorare di me perfino i sassi-
-Si, certo…- sussurrò John tra sé e sé con ironia.
 
Sparecchiata la tavola e puliti i piatti, Sherlock fece per stendersi sul divano e riposare, ma la scatola della signora Hudson gli ostruì l’appoggio dei piedi. La prese, le diede una rapida occhiata.
-John? Vieni qua- ordinò, e John venne. –Guarda questo gioco, me l’ha dato la signora Hudson-.
Il dottore non aveva mai visto una scatola simile, e non si prese neanche il disturbo di analizzarla, perché comunque non ne conosceva il contenuto.
-Pare sia un gioco di ruolo a condizione- azzardò.
Sherlock lo aprì, e una gran ruota di legno e decine di carte sparpagliate si presentò ai loro occhi. Sherlock lesse ad alta voce le istruzioni.
-“Mischiare le carte, porne due dei personaggi (color giallo), due del comportamento (color verde), due delle azioni (color rosso) e due dei rapporti (color blu) e porle a faccia coperta negli scomparti della ruota, colorati dello stesso colore delle carte. Non guardarle prima della pesca. Ogni giocatore deve pescare una coppia di carte dello stesso colore dopo aver fatto un giro di ruota, il gancetto a sinistra di essa vi dirà quale colore pescare. I giocatori dovranno interpretare ciò che starà scritto sulla carta con l’altro giocatore: se non lo farà, il giocatore avversario avrà diritto a fare qualunque richiesta a colui che rinuncia”-.
Rigirò il foglio e alzò un sopracciglio.
-Sembra divertente- commentò John, alquanto intrigato.
Sherlock mischiò le carte e mise la ruota sul pavimento, mettendo le carte in posizione.
 
 
 
[Nota dell’autore/autrice: Salve lettori! Ecco un nuovo capitolo! Un po’ più pacifico, un po’ più informativo, dove volevo chiarire dei punti interrogativi della faccenda, anche se, secondo me, ne ho solo creati degli altri!
Riassunto: Victoria non è quella che dice di essere né di nome né di corpo, poiché Rose è dentro il manicomio da più di vent’anni e, avendola vista nascere, lei dovrebbe avere la stessa età, e non dieci anni. Inoltre il suo cognome non può essere Hudson perché la signora Hudson ha preso questo cognome da suo marito, e quindi è impossibile che possa avere un fratello con lo stesso cognome, quindi tutta la testimonianza della signora Hudson è falsa. Victoria l’ha minacciata della morte del fornaio per raccontare tutto ciò.
Il padre di Victoria, dunque, non è mai esistito, né mai morto di tumore. Irina è la madre biologica di Victoria e la sua sorella gemella Grace, ma il padre non si sa chi sia. Riguardo Grace, il suo cadavere è stato trafugato cinque anni dopo la sua scomparsa.
Quindi il mistero è: quale verità si cela dietro la figura della piccola bambina cieca e semi-albina? Oltre a, ovviamente, quello di chi sia il capo dell’organizzazione pedofila londinese che cerca Victoria.
Ah, secondo lei, ha tempo un mese per trovarlo, perché è questa la durata della sua vita terrena, e ha ingaggiato Sherlock, affidandogli questo compito, sapendo di non riuscire a farcela da sola, a salvare tutti i bambini di Londra.
Dunque, questi sono i punti salienti della storia!
Comunque grazie di cuore per tutte le recensioni e i messaggi, come già avrete capito li apprezzo molto!  Ve lo dirò sempre: se avete consigli, opinioni, commenti, recensioni, non esitate a scrivere! Mi fate davvero felice! A presto!]

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Capitolo 14
*** Obbligo o verità? ***


La ruota di legno fece un cigolio, quando Sherlock le diede una lieve spinta per farla girare. Le carte erano state disposte, come nel libro d’istruzioni, una di fronte all’altra, negli spazi dello stesso colore di esse. Il gancetto, che faceva attrito con i denti della ruota affinché si fermasse, faceva un rumore legnoso e stridulo.
Sherlock era seduto a gambe incrociate sul parquet polveroso, mentre John cercava disperatamente di trovare una posizione comoda da assumere su quel pavimento rigido e poco confortevole. Non avevano grandi aspettative del gioco, infatti erano alquanto distratti: una qualunque altra cosa avrebbe potuto porre fine a quel gioco, perfino una cliente subdola, alla ricerca del portachiavi perduto, sarebbe potuta risultare più interessante. Tuttavia la cliente non venne, e la ruota continuava a girare.
-Secondo me è qualche boiata per ragazzini- disse John, tanto per parlare. Sherlock non rispose, e aspettò che il gioco finisse di girare.
-Tu o io?- chiese a John.
-Tu-.
Sherlock prese una carta gialla e la lesse ad alta voce.
-“Siete un’infermiera dai bollenti spiriti alla ricerca di un po’ di divertimento. Munitevi di una bottiglia di alcol e sbottonatevi un vestito”…Non credo che sia una boiata per ragazzini, John. In ogni caso, c’è ancora il vino che comprasti la settimana scorsa?-
-Cosa? Vuoi davvero giocare a questa roba?- chiese stupito il dottore, guardando Sherlock alzarsi e frugare in frigo.
-Beh non abbiamo nulla di meglio da fare, dopotutto. Victoria starà interrogando Bakker e per il momento per noi è impossibile intervenire in alcun modo. Quindi o guardiamo il soffitto, o giochiamo a questo gioco. Tu che ne pensi, John?-
-Va bene, giochiamo, basta che non sia un qualche gioco erotico degli anni della gioventù della signora Hudson…-.
Sherlock tornò alla posizione iniziale e stappò il vino, bevendone due lunghi sorsi. Fatto ciò, slacciò due bottoni della sua camicia. John ancora non riusciva a credere ai propri occhi, nonostante Sherlock Holmes commettesse ogni giorno qualcosa di stupefacente, sia in negativo che in positivo. Dove avrebbe collocato l’azione del giorno? Nella lista delle cose buone o delle cattive?
-John, non vorrei interrompere i tuoi pensieri, ma dovresti pescare-.
Il dottore prese la restante carta gialla.
-“Siete un single che ozia costantemente sul divano tutti i giorni dell’anno. Stendetevi e mettete i piedi sulla cosa a voi più vicina, invocando la venuta di una bella donna” oh beh, questo sembra fattibile! Non ci vedo nulla di strano- disse John rincuorato, stendendosi e improvvisando una sceneggiata di disperazione. Ridacchiarono.
Fu il turno delle carte verdi, e toccò al detective.
-“Amate ballare e cantare. Cantate una canzone battendo le mani a tempo, dedicandola al giocatore avversario”, beh, non sono un portento in questo, ma vediamo cosa posso ricavare…-.
Sherlock si costrinse a pensare una canzone esistente che rispecchiasse la personalità di John. Si scoprì a sfogliare varie canzoni con testi profondi, senza un perché.
John aspettava pazientemente, sorpreso da quanto l’amico si sforzasse a trovare una canzone per lui. Detto così, però, nella sua testa, gli suonava strano…quasi come se gli dovesse fare una serenata.
-Oh, Dr. John/ What am I doing/ What am I doing wrong?/‘Cause I keep on trying/ Something ain’t goin/Someting ain’t going on…- cantò arrangiato Sherlock, abbassando la voce di Mika di qualche buona decina di ottave. Tamburellò la melodia sul parquet con l’indice, e tentò di ricordare le altre strofe. Per ora gli veniva in mente solo il ritornello.
-She says that my life is over/ But boy, you don’t know what you got/ till it’s gone/ Come put your head on my shoulder/ She gave me her hand, but I ignored her…- cantò nuovamente il ritornello, più lentamente, forse un po’ restio.
-You say I’m a big heartbreaker…- sussurrò, -But Doctor, I never hurt you isn’t obvious?-.
John rimase senza dire nulla. Aveva cantato quella canzone tanto per dire o quelle parole erano rivolte a lui? Alla fine, per spezzare l’atmosfera strana, ridacchiò.
-Mika ti sparerebbe- commentò, e anche Sherlock si mise a ridere di riflesso.
-E’ una delle poche canzoni che ho sentito per la prima volta, ha questo tono allegro che va a braccetto col tuo carattere- disse il detective.
Cercava giustificazioni?
John pescò.
-“Siete completamente folle. Versate una bevanda alcolica in un recipiente e bevete come se foste un gatto. Il recipiente lo reggerà il giocatore avversario. Se verserete una sola goccia leccherete ciò che è caduto ovunque si trovi”- lesse sorridendo, alzando un sopracciglio -ma che roba è questa? La signora Hudson deve avere davvero dei gusti strani in fatto di giochi-.
John si alzò e prese un sottobicchiere delle tazzine da caffè, lo riempì del vino preso in precedenza dall’amico e, imbarazzato, iniziò a dare lievi leccate alla superficie. Sherlock cercava di trattenersi dal ridere. Finì il piattino, e la voglia di alcol iniziò a manifestarsi. Afferrò la bottiglia e ne scolò la metà di ciò che Sherlock aveva lasciato.
Se finisce la bottiglia sarà sulla buona strada per l’ubriacarsi. Ne ho lasciato un bel po’” pensò il detective, guardando l’amico deglutire millilitri e millilitri di vino. La finì, e ne prese un’altra: la scorta di bevande non scarseggiava, per via dei molteplici regali dei clienti, che preferivano donare vini, champagne, birre e chi più ne ha più ne metta. Pensavano che non li avrebbero mai consumati, fino a quel momento.
John rimaneva cauto nel sorseggiare, ma lo desiderava sempre di più, mandando giù piccoli sorsi.
Fu la volta delle carte rosse.
-“Chiedete al giocatore avversario una domanda segreta: se non risponderà siete liberi di esercitare qualunque punizione fisica riteniate giusta”. Interessante-.
John iniziò ad accusare una specie di tachicardia. Forse l’alcol…o forse l’ansia di sapere quale domanda lo attendesse? Sherlock, pur di sapere un qualcosa di qualunque genere, avrebbe potuto ribaltare il mondo. Era persino arrivato a spulciare il suo certificato di nascita, per scoprire il suo secondo nome. E se non avesse potuto rispondergli? L’ansia lo assalì.
-Perché sei voluto rimanere qui, nonostante sia la persona più insopportabile esistente?-.
John si aspettava tutto tranne quello. A bocca semiaperta, lì, sembrava un baccalà, ma Sherlock non ci fece caso.
-C…Cosa?- gli scappò, ma si rese conto che l’espressione dell’amico era tutt’altro che scherzosa: i suoi occhi erano due fessure.
-Perché questa domanda?- aggiunse.
-Rispondimi e basta- comandò il detective, cupo, cercando di non trasparire l’interesse che provava per la risposta.
John esitò, ci pensò un po’.
 
-Il nome è Sherlock Holmes e l’indirizzo è il 221b di Baker Street. Buon pomeriggio!-.
Cos’era quello? Un occhiolino?
Si chiude la porta alle spalle, l’uomo che, in appena 5 minuti di dialogo, è stato capace di sconvolgermi la testa. Iraq o Afganistan? Il mio zoppicamento? Un uomo che frusta cadaveri?
Ha capito che sono, anzi ero, un soldato, solo guardandomi per brevi secondi. Sembra quasi uno scherzo e non me ne capacito. E’ come quando vedi un gioco di magia e sei in costante ricerca del trucco, più ci pensi e meno lo trovi. E così è quel…Sherlock? Sherlock Holmes? Non mi suona nuovo questo cognome…
Sembra intelligente, sveglio, responsabile, penso che non sarà difficile poterci convivere. Ma, in ogni caso, non ho scelta, devo mandare aventi la carretta e finché non trovo un lavoro sono disperato, devo aggrapparmi a qualunque occasione offerta. Baker Street è anche un quartiere di lusso…vale la pena tentare.
Eppure non riesco a togliermi dalla mente il volto di quell’uomo, soprattutto gli occhi. Guizzanti, vivaci, un po’ freddi, dalle mille sfumature di azzurro. Belli, davvero, le donne dovrebbero uscirne pazze. Fisico asciutto, alto abbastanza, pulito e curato; capelli spettinati ma con stile, così come il modo di vestire. Sembra una brava persona?
Inusuale, questo “Sherlock”. Sembra guardare molto più in là di tutti gli altri.
Anche…anche…anche lui aveva lo stesso sguardo.
No John. Basta, è passato.
Basta…

 
-Perché sin da subito mi sei sembrato una persona lungimirante- disse John, reprimendo istantaneamente quel ricordo.
-Ah. Non perché posso offrirti dosi di adrenalina ogni giorno?-
-Anche-
-E non perché scopri qualcosa di interessante quasi sempre?-
-Anche-
-E non perché la mia presenza ti fa sentire al sicuro?-
-Anch…No aspetta, cosa?-
-Lo prendo come un si- disse, abbastanza arrogantemente.
John provò a contestare, ma qualunque tentativo fu vano, dunque tornarono al gioco.
Sherlock prese una carta blu.
-“Avete, con il giocatore avversario, un rapporto di amore e odio. Fate una lotta e il vincitore avrà il diritto di controllo sul perdente, implicandogli qualsiasi ordine. Unica condizione: Il giocatore che sta leggendo questa carta avrà il vantaggio di bendare la controparte”- lesse, con tono straordinariamente esaltato, con un sorrisetto. La competizione gli dava sempre una sensazione di orgasmo celebrale.
-Bendare? Come sarebbe?-
-Lotteremo con te cieco, John. Magari potrai orientarti tramite la localizzazione sonar come Victoria-
-Vincerò comunque-
-Ti piacerebbe-.
Sherlock bendò John con una cravatta vecchia buttata nell’armadio del detective, e sgombrarono l’area quel tanto che bastava per poter lottare come si deve. John era abbastanza orientato, sapeva la pianta del salotto come le sue tasche, ma non riusciva a localizzare Sherlock, che si muoveva silenziosamente tra il divano e il caminetto, togliendosi la giacca del completo.
-Pronto?-.
Fu Sherlock a iniziare la piccola battaglia: si fiondò sul dottore buttandolo a terra, rotolarono sul parquet per poi tirarsi due sonori pugni. Non cercavano di trattenere la forza, forse per l’alcol o per l’eccitazione, e se ne davano di santa ragione. John era in difficoltà, poiché la mancanza di vista non era d’aiuto: non riusciva a schivare gli attacchi e non riusciva a visualizzare nella sua mente la posizione del detective, dove fosse la sua gamba, la sua testa, il suo braccio, e questo lo bloccava anche negli attacchi.
Riuscì a ribaltarlo e a trovarsi sopra di lui solo dopo dieci minuti buoni, e prese a fortuna entrambe le braccia, impedendogli di colpirlo. Entrambi avevano soltanto la testa come parte mobile, e nessuno dei due l’avrebbe usata per una testata: l’uno, per il rinculo, avrebbe colpito con la nuca il pavimento, e l’altro non avrebbe mai fatto così male all’amico da tirargli una testata da inerme, immobilizzato sotto il suo peso.
La benda gli cadde, e i due rimasero a fissarsi. Sherlock aveva un livido sulla guancia sinistra, John un graffio sulla fronte.
-E ora? Ti arrendi?- provocò il dottore, orgoglioso della sua vittoria.
-Sei migliorato nei combattimenti corpo a corpo. La tua massa muscolare dev’essere aumentata del 3%, mentre il tuo peso è aumentato del 7%. Interessante questo modo di immobilizzare i nemici, ne prenderò nota. Ah, no, non mi arrendo-.
Tentò di svincolarsi da John, ma quello lo strinse ancora più forte.
-E no, caro amico, da qui non scappi finché non ti arrendi-.
Il dottore lesse nell’espressione di Sherlock un momento di smarrimento, ma poi un lampo di furbizia passò svelta da un occhio all’altro e il detective sorrise.
Dopodiché alzò la testa quel tanto che bastava per raggiungere John…
e lo baciò sulle labbra.
Un attimo, tiepido e rassicurante.
John saltò, si scostò dall’amico e mollò la presa, e Sherlock li liberò, alzandosi e mettendo un piede sul petto del dottore, buttandolo a terra.
-John, nonostante la tua forza sia aumentata, il tuo punto debole resteranno sempre i sentimenti. L’emozione è determinante a qualunque scelta del corpo. Tu sei un maledetto sentimentale, ed è capace uno stupido contatto tra labbra per abbattere ogni tua difesa. Quindi indovina chi è il vincitore…?- disse Sherlock, con un tono così ironico da poter innervosire anche le pietre.
Un tiro mancino e sleale, tipico del detective.
John si alzò, mentre il moro si sistemava.
C’era ancora un’altra carta sulla ruota, ma nessuno sembrava farci caso. Il dottore era livido di rabbia e di strane sensazioni contrastanti, mentre Sherlock aveva appena impugnato il suo iPhone e composto un numero.
-Gabriel Lestrade….Vabbé è uguale… dimmi dov’è Victoria. Ah? Lì?...Arrivo-.
Sherlock infilò il suo cappotto in modo frettoloso e si precipitò giù per le scale.
-Che succede?- chiese John quasi urlando, seguendolo a ruota.
-Sta interrogando Bakker. Devo arrivare lì prima che lo uccida. John, chiama Lily, invitala a prendere un caffè e sparisci-.
Il dottore quasi non poteva crederci.
-Cosa?!-
-Mi hai sentito benissimo, esci con Lily. Non ti voglio tra i piedi-.
 
Caro John,
come previsto, non sono riuscito a inviarti la prima lettera. Non per orgoglio, né per vergogna: semplicemente penso che queste parole non possano interessarti, dato che è passato un altro mese e ancora non mi scrivi. Forse rileggerò queste lettere quando sarò grande e mi tornerà in mente il mio migliore amico.
Comunque sia, John, ti ricordi quando mi misi con la mia prima ragazza? Penny, si. Non so perché, ma non mi trasmetteva nulla quando mi baciava. Baci intensi, si, bel corpo, mente brillante, ma per me era come se fosse completamente vuota, invisibile. Mi misi con lei forse solo perché ero eccitato all’idea di avere una ragazza, ero così solo, abbandonato a me stesso, buttato nei videogiochi, e lei probabilmente mi ha aiutato a crescere, ma non l’amavo.
Cos’è l’amore, John? Un insieme di sensazioni contorte senza senso? Una malattia? Un cambiamento?
Io penso che accade quando baci una persona e senti una calma eterna, un benessere interiore, forse perfino la vera felicità.
L’hai mai provata…

 
-….John?- chiamò Lily per l’ennesima volta, sperando che quella volta gli rispondesse.
Il dottore cadde dalle nuvole. Per quanto tempo aveva tenuto in mano quel biscotto? Lily era almeno da un quarto d’ora che tentava di attirare la sua attenzione, senza successo.
-Oh scusami! Sono solo un po’…stanco. Sai, il pranzo, le faccende di casa…-
-Sei uno dei pochi uomini che fa le faccende domestiche, a quanto pare! Spero che Sherlock ti abbia aiutato almeno un minimo-.
Il nome di Sherlock gli fece uno strano effetto.
-No, non è tipo da queste cose da “femminucce”, lui è quello che risolve i crimini, non che conta i granelli di polvere-
-Bella seccatura-
-Non credo…E’ utile in molti altri modi-.
Lily annuì.
 
Erano dietro lo spesso vetro insonorizzato, a guardare Victoria in procinto di fare delle domande a Bakker. Sherlock cercava di osservare ogni dettaglio, ogni mutamento dell’espressione del suo viso, i muscoli che si tendevano e che si rilassavano,  perfino calcolando la quantità di aria che entrava nei suoi polmoni ogni secondo.
Ne respirava pochissima.
Quegli occhi velati e freddi sembravano fatti di nebbia condensata nel cielo notturno. Era come guardare uno spettro impassibile.
Greg stava mangiando un donut, cercando di concentrarsi su Bakker, mentre Molly preparava un eventuale kit di pronto soccorso e Anderson elaborava tesi strampalate.
-Per chi lavori?- domandò Victoria, e la sua voce metallica uscì dalle casse, echeggiando nella camera.
-Lui verrà a prenderti, e ti ucciderà una volta per tutte. Brutta lurida puttanella!-.
Lo schiaffo di Victoria arrivò come un fulmine a ciel sereno. Rapido, micidiale, s’infranse sulla guancia di Peter, piegandogli pericolosamente la testa di lato.
Una forza formidabile in due piccole mani.
-Per chi lavori?- ripeté lei, scandendo più marcatamente le parole.
Lui rise, forte e in modo inquietante, sgranando gli occhi.
-MORIRAI COME QUEL TUO PADRE SCHIFOSO!-.
Victoria fece un piccolo sorriso da un lato della bocca. Greg disse a Molly di alzarsi e prendere il kit, preoccupato.
-Deve rimanere vivo, altrimenti non ci sarà più utile!-
-Sta calmo- li interruppe Sherlock, -Non lo ucciderà finché non otterrà risposta alla sua domanda-.
Sul corpo di Bakker arrivarono pugni, un calcio nel fegato e un piede sulla faccia. Gli si ruppe il setto nasale. Lo afferrò per i capelli e alzò la testa in corrispondenza della sua.
-PER. CHI. LAVORI-.
Lui rise di nuovo, mentre un rivolo di sangue gli colava dalla faccia.
-Vincent Van Gogh! Mai sentito? Quello che dipinge!- disse con voce impastata, sputando un dente.
-Vincent Van Gogh è morto-
-E’ quello che pensano tutti-
-La morte lo ha preso tra le sue braccia tanto tempo fa-
-Avrebbe dovuto prendersi anche te-.
Sherlock aguzzò le orecchie e gli occhi. Morte? Victoria doveva essere già morta un po’ di tempo fa?
-E prenderà te adesso, se non rispondi alle mie domande-
-Ti ho già risposto-.
Victoria gli girò il braccio all’indietro e l’osso fece un rumore sordo, mentre usciva dalla sua postazione. Bakker urlò in modo acuto e straziante.
-Lussazione del gomito- sentenziò Molly, professionalmente.
-Te lo ripeto di nuovo: stai cercando Van Gogh, il nuovo Van Gogh, colui che dipinge di sangue puro le bianche tele-.
-Dove si trova?-
-Verrà lui da te prima di quanto credi. Si prenderà una persona…e la userà per la sua prossima opera. E quella persona non è qui-.
-Dimmi il nome-
-Ma come? Il mio dipinto non vi ha già fornito il necessario? E’ quel dottore di due soldi…quel John Hamish Watson-.
Tutti coloro che erano dietro il vetro trasalirono.
-Al ballo, Victoria. Lo prenderà lì-.
Per la prima volta in vita sua, Sherlock non seppe cosa pensare. La sua mente era divenuta nera da quando aveva sentito pronunciare il nome di John.
Era come se, nel suo palazzo mentale, un mare di inchiostro si fosse riversato in ogni angolo, affogando pensieri e ricordi.
 
[Nota dell’autrice: Salve lettori, sono tornata! Si, sono stata via per ben due settimane, mio malgrado. Ora per i compiti, ora per San Valentino (e quindi tutte le cose allegate: viaggio per andare dal mio ragazzo, comprare i regali, fare i biscotti…) e quindi ho avuto pochissimo tempo, se non nulla, per scrivere, leggere e pensare un po’ a me stessa.
Comunque sia, i capitoli usciranno in media uno a settimana, se tutto va bene, quindi abbiate pazienza!
Ma ora passiamo al capitolo: Il gioco della signora Hudson è finito, o quasi, ed è il secondo bacio che John e Sherlock si danno. Ovviamente il detective deve sempre essere un bastardo e giustificare questi suoi atti di affetto. Un bastardo che noi amiamo, però.
Vi siete fatti una linea generale di Victoria? Vi fidate? Pensateci bene!
Nel prossimo capitolo ci troveremo al famoso ballo. Preparatevi!
Intanto grazie di cuore per le recensioni e i messaggi! Inutile che lo dico: più ne fate e più sono felice! Apprezzo ogni vostro suggerimento!
Alla prossima!]

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Capitolo 15
*** Le debolezze dell'amore pt.1 ***


Lily accompagnò John a Baker Street, parlando di medicina. Il vento si era alzato, gelido e forte, e mordeva il collo e il viso del dottore, facendolo nascondere sempre di più nel suo cappotto; la notte era ormai alle porte e la luna troneggiava nel cielo, imponente.
Giunti al 221b, Lily si posizionò davanti John, toccandogli dolcemente il braccio.
-Grazie per la serata, sono stata molto bene con te-.
Il biondo sentì uno strano senso di benessere e, per un momento, non pensò al freddo che si insinuava fino alle sue ossa.
-Anch’io…vuoi salire, ti offro un tè? Non credo che Sherlock sia in casa, la luce è spenta- disse John, indicandole la porta.
-Oh, no, tranquillo. È tardi, e devo assolutamente andare a casa, domani ho un turno lavorativo difficile. Posso solo farti una domanda, John?-
-Certo-.
Lily abbassò lo sguardo, gli occhiali le scivolarono leggermente sul naso, e un lieve sorriso le illuminò le labbra.
-Ti piacerebbe se andassimo alla gara di tango insieme? Ho sentito che Sherlock aveva intenzione di andarci con la signorina Johnson, quindi ho pensato che a te avrebbe fatto piacere andarci con qualcuno…poi se non ti piace ballare non fa niente, voglio dire, non…-
-Ci vengo volentieri, Lily. Sono felice che tu me l’abbia chiesto. Ci vediamo a Scotland Yard allora, poi ci mettiamo d’accordo. Ti do il mio numero allora-.
Lily assunse un’espressione tra il sollevato e il contento, e respirò profondamente, nonostante l’aria fredda le pizzicò spiacevolmente gola e polmoni.
Prese il cellulare e segnò il numero.
 
Sherlock tornò alle tre e mezza del mattino, con i capelli più in disordine del solito e una lieve puzza di fumo addosso. Aveva preferito farsi a piedi tutta la strada dal dipartimento, per godersi la solitudine della notte, riflettere e fumarsi qualcosa.
Bakker se l’era cavata con sei costole rotte, lussazione del gomito, setto nasale fratturato e diversi ematomi, e neanche le cure di Molly avevano favorito la sua condizione: l’ambulanza era arrivata appena tre minuti dopo l’ultimo colpo di Victoria.
Lei era svanita quasi subito, dentro la Rolls Royce color sangue, senza dire una parola. Lestrade le aveva mandato così tante maledizioni che Sherlock, nonostante avesse avuto a che fare con gente dei livelli più bassi di tutta Londra, sentì più parolacce quella sera dalla bocca di Lestrade che in tutto l’arco della sua vita.
L’appartamento era freddo e buio, e Sherlock non aveva sonno, per cui poteva o fare esperimenti scientifici sulle ghiandole sudoripare di un corpo morto o poteva sforzarsi a dormire a tutti i costi, oppure studiare il tango tramite tutorial su YouTube, o ancora cercare di fare un calcolo approssimativo della data di morte di Mycroft.
Tuttavia non aveva voglia di fare nessuna di queste cose.
Infilò il pigiama di John, e all’improvviso gli tornò in mente ciò che Bakker aveva detto durante l’interrogatorio.
Davvero il suo amico stava rischiando la vita sotto i suoi occhi?
Necessitava un’altra sigaretta, ma le aveva finite.
No, Sherlock”, riusciva quasi a sentirlo, nella sua testa, John rimproverargli di aver fumato.
I tuoi polmoni saranno ricoperti di catrame, è davvero questo quello che vuoi? Il respiro di un vecchietto e la tosse grassa per tutta la vita?”.
Sherlock sorrise, immaginando la faccia arrabbiata del dottore.
 
Si stese sul letto, dove rimase per una mezz’ora buona, senza riuscire in nessun modo ad assopirsi. Elaborava calcoli matematici, univa sostanze chimiche per osservarne le risultanti, e tutto ciò nella sua mente, delineando con gli occhi, come se avesse una matita luminosa, tutto ciò che pensava, a mezz’aria.
John”. La parola compariva diverse volte tra un numero e l’altro, tra le sostanze liquide, tra i composti. Una parola in grado da distrarre tutto il mondo del detective.
Poi sentì un suono. Come un tonfo.
Calcio dato a qualcosa, piano di sopra, probabilmente dato da John” pensò Sherlock, aguzzando le orecchie e cancellando con un cancellino astratto tutti i suoi pensieri.
Un altro tonfo, un gemito. Il cigolio del letto.
Che sta facendo?”.
Si alzò, infilandosi le pantofole, e uscì dalla camera, e così pure dall’appartamento.
Le scale erano buie e deserte, e dal piano inferiore il moro sentì i respiri pesanti della signora Hudson, mentre dal superiore cigolii e tonfi.
Salì cautamente ogni gradino, calcolando automaticamente tutte le possibilità di poterlo svegliare o di poter essere scoperto. Ma soprattutto, perché stava salendo da John?
Perché mi annoio” ripeté a se stesso.
Sapeva dove John nascondesse la chiave di riserva, lo aveva sempre saputo.
Girò la toppa ed entrò, cercando di non far rumore.
Era tutto in ordine, pulito. Il letto di John era appoggiato al muro, con lui che vi si contorceva.
Gli occhi si abituarono al buio e vide che il dottore dormiva, ma si stava agitando in maniera disperata: era in preda ad un incubo, e stava sul punto di piangere.
John…” pensò Sherlock, avvicinandosi a lui.
Il lenzuolo si era aggrovigliato tra le sue gambe e non gli permetteva di muoversi, né di dormire comodamente.
Sherlock lo toccò sulla fronte lievemente, e John si acquietò per qualche istante: fermò i brividi convulsi, i sudori freddi, l’espressione spaventata. Una sensazione di calma interiore attraversò il corpo dei due, come una magia.
Tolta la mano dalla fronte dell’amico, Sherlock si premurò di liberargli le gambe dalle coperte, lentamente e con cura, mentre gli toccava dolcemente i polpacci, come per confortarlo, come se stesse cercando di comunicargli la sua presenza.
Gli asciugò la fronte, il collo, le clavicole, con un piccolo asciugamano che trovò piegato su una sedia.
Sistemato il letto, Sherlock si rese conto che John era caduto in un sonno profondo e tranquillo, e così stava facendo anche lui, mentre lo guardava riposare. Lo avrebbe fissato per ore, se le palpebre non gli si fossero chiuse pochi minuti dopo.
Si addormentò lì, con la testa poggiata sull’angolo del letto e i ricci che sfioravano le guance rilassate del biondo.
 
Caro John,
oggi è esattamente un anno che sei andato via. Sembrano passati anni luce da quel saluto davanti alla mia vecchia casa, anni luce da quel tuo ultimo sorriso forzato.
Ti sei mai pentito di essere andato via da me, John? Via da questa vita, via dalla nostra Londra? Non ti mancano le nostre gite nel Galles? Le nostre notti al pub sotto casa di Matthew?
Perché sei voluto partire?
Non so perché sto sentendo così tanto la tua mancanza…non ho più amici, John. Avevo solo te. Tu risanavi le mie giornate, i miei brutti voti, le mie lacune con le ragazze, la mia solitudine.
La mia invisibile solitudine.
John. Torna. Cambia idea, stai con me.
Passiamo di nuovo tramonti, albe, pomeriggi interi insieme, a guardare le nuvole e le stelle.
Ti ricordi quando facemmo i gavettoni e tu ti arrabbiasti perché ti bagnai la maglia nuova che pagasti ben trenta sterline. Mi perdonasti subito però, perché mi volevi bene.
E allora perché mi hai lasciato solo, se mi volevi davvero bene?
John…”

 
… “I have no friends anymore, John. I had you”.
 
… “I don’t have friends. I’ve just got one”.
 
John aprì gli occhi, mentre il calore accumulatosi sul suo corpo stava lentamente tornando a una temperatura normale. Si sentiva umidiccio, con la gola secca, gli occhi gonfi e stanchi, un brivido di freddo gli corse lungo la schiena, constatando che il pigiama gli si era appiccicato addosso come se avesse fatto una doccia da dormiente.
Si accorse di Sherlock girando la testa verso sinistra, affondando il naso tra i suoi ricci capelli.
Balzò seduto, lo osservò, lo guardò. Era proprio lui, senza dubbio, e stava dormendo ai piedi del suo letto, con la testa appoggiata al suo braccio, tranquillo come un pargolo nella sua culla.
Cosa ci fa qui?!” fu la prima domanda che si pose il dottore.
Poi l’occhio gli cadde sull’orologio sulla mensola, che segnava le otto in punto.
-Maledizione! Devo andare in clinica!- gli scappò, sussurrando, scavalcando il detective e correndo a prepararsi.
Quando fu pronto, il problema “Sherlock” si ripresentò davanti ai suoi occhi. Cosa fare? Lasciarlo lì? No, avrebbe frugato ovunque. Svegliarlo? No, aveva l’aria stanca.
Sospirò e se lo caricò sulle braccia, cercando di essere il più delicato possibile, e scese le scale facendo attenzione a dove mettesse i piedi.
Sfortuna volle che la signora Hudson stesse salendo la stessa rampa proprio in quel momento.
-Oh cielo! John, ma cosa..-
-Shh! Stia zitta! Ci sto mettendo l’anima a non svegliarlo, vuole rovinare tutto?-
-Ecco dov’era! Lo cercavo, sa? Per il tè mattutino-
-Si si, capisco, ora può farmi passare?- ammonì lui, tentando di liquidarla.
-Si, certo! Però la prossima volta che dormite insieme mi piacerebbe essere avvisata, così non mi preoccupo inutilmen…-
-Per l’amor del cielo, signora Hudson! Quante volte le ho detto che non siamo una coppia?-
-Ah, di solito dice di non essere gay, ci sono state evoluzioni nel rapporto?-.
John si rese conto che l’anziana aveva ragione. Perché aveva usato una frase diversa questa volta?
-Signora Hudson, uno Sherlock con ore di sonno arretrate è abbastanza pericoloso da spedirla a suon di calci nel deretano fino all’entrata dell’edificio. Le consiglio di dileguarsi-
-Che maleducazione! Ebbene me ne vado!-.
La donna si precipitò al piano inferiore e sbatté la porta. John si sentì un po’ in colpa, ma non aveva tempo per scusarsi.
 
Passò un giorno, e John e Sherlock non si erano scambiati neanche una parola su ciò che era accaduto la notte scorsa. Il detective era stato tutto il giorno fuori casa, e John aveva finito tardi alla clinica, per cui non si erano neanche guardati in faccia per mancanza di tempo.
Il biondo era sul punto di coricarsi nel suo letto, quando Sherlock entrò nell’appartamento senza tanti complimenti.
-È il 13 febbraio, e io so che Lily ti ha invitato al ballo. Io ho già provveduto a invitare Irina. So che le tue nozioni del tango sfiorano il 13%, cifra nonché insufficiente per poter rendere quantomeno soddisfatta un’accompagnatrice. John, scendi di sotto con me, devi prendere lezioni-.
Il dottore sospirò in modo sconfortato, e sbuffò un qualcosa.
A quel punto Sherlock cacciò il suo asso nella manica.
-Se non scenderai, dirò alla signora Hudson che saresti molto entusiasta di ascoltare le sue storie e le scappatelle giovanili-.
La minaccia sortì l’effetto desiderato.
 
Inserito un piccolo cd nel lettore della tv, un suono sordo comunicò ai due l’imminente inizio del primo brano. Sherlock afferrò la mano di John, incastrandola perfettamente con la propria.
-Vuoi mettere la mano sulla mia spalla o utilizziamo questo momento per guardarci in faccia?- disse il detective, roteando gli occhi.
-Sei quello più alto, sei tu che devi mettere la mano sulla mia spalla-.
Sherlock obbedì seccato, mentre la musica partiva.
John era visibilmente imbarazzato, e si muoveva rigido come una mazza di scopa. Non era la prima volta che provavano dei balli, ma in quel caso, dopo quei due baci che si erano dati, il contatto fisico trasmetteva un senso di stranezza. Teneva lo sguardo basso, non seguiva il ritmo, Sherlock andava più veloce di lui e non gli dava modo di recuperare i passi.
-Maledizione, John! Anderson è più capace di ballare di te! Devi muoverti verso destra, non sinistra, i piedi devono, possibilmente, non salire sopra i miei, e il contatto fisico è importante, le nostre pance si dovrebbero toccare-.
John fece per rispondere, ma le parole gli morirono in gola. Si impegnò, ma la vicinanza con l’amico gli metteva soggezione e non riusciva a cogliere tutti i passi necessari.
I loro nasi si sfioravano.
-Nel frattempo…- iniziò, per smorzare la tensione, -cosa ci facevi nella mia camera ieri mattina?-.
Sherlock rimase leggermente interdetto.
-Sono tornato tardi, ho sentito dei rumori e sono salito a controllare-
-Grazie mille Mary Poppins, peccato che abbia un passato da militare e che sappia benissimo cavarmela da solo, dato il mio passato da militare!-
-Intanto negli incubi il tuo caro “passato da militare” serve ben poco- gli fece notare il detective, -ti dimenavi come un maiale mandato al macello-
-Molto carino il complimento del maiale, ti ringrazio, Sherlock- rispose John ironicamente.
Quello scambio di battute aveva un po’ sciolto i muscoli del biondo, che si muoveva con più disinvoltura, ma non aveva placato i suoi dubbi. Perché Sherlock si era preso il disturbo di salire a vedere come stava? Perché si era addormentato ai piedi del suo letto?
 
Il 14 arrivò, e portò con sé tutto l’amore londinese. Le coppie pullulavano per le strade già dalla mattina presto, inondando la città di un’atmosfera calorosa. Donne e ragazze vestite di rosso, con abiti svolazzanti, eleganti, gambe scoperte al freddo, gioielli, abbracciate ai loro accompagnatori, alcuni felici, altri un po’ meno.
John entrò nell’appartamento di Sherlock, prima di andare in clinica, e vide il moro chiudere le tende con violenza.
-Che stai facendo? È una bella giornata, perché…?-
-Tutto questo AMORE! Così raccapricciante! Nessuno muore a San Valentino, neanche una goccia di sangue, né una testa spezzata, né un uomo appeso a un cappio! Ci sono solo stupide lingue che si intrecciano, peluches di animali e schifezze rosse! Se avessi un fucile li mirerei da quassù, tutti-.
Era agitato, non ci voleva un genio per capirlo, e aveva tirato una tenda così forte da staccarla dalla propria asta e farla cadere sul pavimento. Era sempre stato più irascibile del solito quel giorno dell’anno, ma mai come quella volta. John si chiese perché.
Come se non bastasse, entrò proprio in quel momento la signora Hudson, con un vassoio di biscotti a forma di cuore e un tè ai frutti di bosco, che inondò la stanza di profumo di lamponi e ribes.
-Buongiorno e buon San Valentino, miei cari! Cosa fa oggi di bello per John, Sherlock? Lo porta fuori a cena?-
-SIGNORA HUDSON!- tuonò il detective, scavalcando dei libri scaraventati dal moro qualche momento prima, -Perché non va a farsi qualche gita nel letto del fornaio? Oggi è San Valentino, dico bene? E allora sparisca!-.
La povera donna si spaventò così tanto che poggiò frettolosamente il vassoio sulla prima superficie che trovò e si volatilizzò.
-Dovresti essere un po’ più garbato, dannazione. Per poco non le stava venendo un infarto-
-Neanche tu sei stato garbato con lei l’altra mattina, John, devo ricordartelo? Mi hai accusato di maltrattamento agli anziani, minacciandola con i miei “calci nel deretano”-
-Quindi eri sveglio? E ti sei fatto portare in braccio fino a qui?!-
-Usare le proprie gambe è noioso-.
John sospirò. A volte gli sembrava di avere a che fare con un bambino capriccioso.
-Torno stasera- disse, chiudendo la porta e dirigendosi alla clinica.
 
Qualche ora passò, quando qualcuno bussò alla porta.
Sherlock si trovò davanti Lestrade.
-Sherlock- salutò lui, un po’ imbarazzato, -stai passando un buon…?-
-Non ripetere il nome di questa “festa” o giuro che finalmente smetto di sparare al muro e miro te-.
Lestrade deglutì, sedendosi sul divano.
-Sei agitato, che cos’hai?- chiese gentilmente.
-Sono disturbato-
-Perché?-
-Lo sai. John rischia la vita in ogni momento e non sappiamo neanche che razza di uomo abbiamo dietro le quinte-.
Greg si passò una mano nei capelli brizzolati, sconfortato.
-Bakker non ha detto nulla di rilevante al riguardo, e l’ospedale non ne vuole sapere di farci entrare per interrogarlo. È ovvio che non hanno creduto alla storiella della bambina di dieci anni che pesta un pedofilo. Non ci resta che inserire dei poliziotti sotto copertura al ballo e cercare di prendere il colpevole sul fatto. John dovrà munirsi di un’arma per…-
-John non lo sa-
-Come accidenti sarebbe a dire, Sherlock?!-
-Non lo sa! Non voglio allarmarlo per qualcosa che non sappiamo cosa sarà, né come sarà! Non lo deve sapere!-.
Greg si alzò e sbatté il suo paio di guanti sul pavimento.
-Ma ti rendi conto di quello che stai facendo? Stai mandando un John indifeso contro un uomo invisibile! Questo per te è proteggerlo? Tenerlo all’oscuro di tutto?!-.
Sherlock non seppe cosa rispondere, dato che i suoi pensieri erano confusi e non riusciva a ragionare. Era davvero così ingiusto ciò che stava facendo?
-John non lo saprà. Risolveremo la questione prima che se ne accorga-
-Fa un po’ come vuoi, ma sappi che la responsabilità è tutta tua. John è nelle tue mani-.
Lestrade se ne andò sbattendo la porta.
Sherlock si sentì in una condizione che non aveva mai provato in vita sua: si sentì dalla parte del torto.
Sarebbe davvero riuscito a salvare John? Questa domanda gli tormentava la testa, non lasciandolo libero. Il solo pensiero di ritrovarsi senza John per colpa sua gli faceva venire i brividi.
 
 
[Nota dell’autrice: Salve lettori! Questa volta sono riuscita a rispettare la volta a settimana, e sono davvero soddisfatta di questo capitolo. L’ho dovuto suddividere in due, dato che è uscito ben dodici pagine di Word, e quindi questa è diciamo “la parte tranquilla/romantica/divertente”, mentre quella che verrà tra una settimana è la parte drammatica. Ahimè.
Ringrazio innanzitutto tutte le persone che hanno recensito, che hanno aggiunto la mia storia in qualche categoria e che mi hanno mandato messaggi privati con suggerimenti! Lo apprezzo molto!
Ogni volta che vedo una mail con scritto “EFP” entro in fibrillazione, sono davvero contenta. Recensite molto, mi raccomando! ;)
Non c’è molto da dire su questo capitolo, ho voluto mettere a confronto le frasi di Martin e Sherlock per far capire quanto siano importanti loro due, e soprattutto quanto siano simili. Con questo non voglio dire che Sherlock abbia rimpiazzato Martin, mai! Entrambi hanno avuto il potere di cambiare la vita di John e voglio solo far conoscere i sentimenti che John prova per ognuno di loro.
Se non vi è chiaro qualcosa, scrivetemi! Sarò lieta di chiarirvi qualche dubbio! Ora non saprei cosa dire in più sul capitolo…
A presto! Grazie mille per tutto! :D]

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Capitolo 16
*** Le debolezze dell'amore pt.2 ***


John tornò abbastanza tardi, solo un’ora prima dell’inizio della gara di tango. Alcune clienti molto gentili gli avevano regalato un pacchetto di cioccolatini ciascuna, e lui, per cordialità, li aveva accettati uno alla volta, intrattenendosi con ognuna delle clienti, che avevano un estremo bisogno di conversare del più e del meno.
Poggiò le scatole sulla sua scrivania e andò in bagno per farsi la doccia. Si spogliò, girò la manovella…ma dell’acqua neanche l’ombra.
Cosa?!” pensò, mentre i suoi tentativi di far uscire l’acqua (pugni al doccino, imprecazioni, giri e giri delle manovelle) risultavano vani uno dopo l’altro.
Alla fine era arrivato all’amara conclusione che l’acqua non sarebbe mai arrivata e, dopo aver indossato un accappatoio, scese al piano inferiore, bussando alla porta di Sherlock.
Gli aprì, mostrandogli il suo corpo nella più completa nudità.
- John?- disse, con il solito tono calmo.
Il dottore rimase interdetto e gli occhi sfogliarono brevemente l’intero detective, senza che lui li potesse controllare.
-I…Io non avevo intenzione di disturbare- si scusò John, balbettando e sbattendo più volte le palpebre, segno chiaro di nervosismo e imbarazzo.
-Disturbare? Oh, no- lo tranquillizzò Sherlock, camminando a piedi nudi verso la camera da letto, con John alle calcagna, - credo di aver finito le camicie, ne sto cercando giusto una-.
John si ritrovò di fronte al disordine allo stato puro: masse di vestiti accumulati in diversi punti della camera, soprattutto sul letto, perfino un calzino sull’abat-jour.
-Sherlock…!-
-Si?-
-Questa camera…-
-So perfettamente dove si trova ogni abito, John. Non c’è bisogno che tu mi faccia la predica. Piuttosto…perché sei ancora in accappatoio? Che ci fai qui? E perché guardi il soffitto?-.
John si rese conto di star osservando il soffitto da ormai cinque minuti, pur di non posare lo sguardo nuovamente sul corpo di Sherlock, magro ma virile, posto davanti a lui, di spalle.
Quando scostò gli occhi dal soffitto, iniziò a guardarsi i piedi.
-Sopra non funziona l’acqua, non ne esce neanche un goccio-
-Quindi sei qui per lavarti immagino-
-Già-
-Vai allora. Ti dispiace se prendo una delle tue camicie? Ammesso che tu ne abbia una, tra tutti quei maglioni-
-Certo, fai pure. Potresti portare giù anche i miei abiti? Sono sul letto-.
Sherlock fece per andarsene, ma John lo bloccò con una mano sul petto.
-Con qualcosa addosso, possibilmente-.
 
Sherlock entrò nell’appartamento, guardandosi intorno per un attimo. I vestiti erano sul letto come John aveva detto, e le camicie, ordinatamente piegate, erano appoggiate su un tavolo. Sembrava un piccolo magazzino, ma ben organizzato: ogni cosa era al suo posto, ed era lì per uno scopo. Ad esempio, sul comodino, c’erano sveglia, scatola dei fazzoletti, una mini lampada, un bicchiere colmo d’acqua e una foto dell’Accademia Militare; ognuna di quelle cose era posta ordinatamente e allo stesso tempo a portata di mano.
Sherlock diede una rapida occhiata alla foto, soffermandosi sul John ventunenne che sorrideva, in ginocchio in prima fila. Un sorriso triste, però.
Aprì la cassettiera, ma era lo scomparto sbagliato: una fila di mutande bianche gli si parò davanti. Trovato quello con le camicie (dopo aver superato, con disgusto, quello con i maglioni), iniziò a frugare tra di esse, cercando qualcuna di un colore accettabile. Mentre la sua mano affondava tra cotone e lino, il suo indice toccò un qualcosa che era tutt’altro che tessuto.
Carta, ruvida e polverosa.
Fogli legati da un elastico, devono trattarsi di lettere. Vecchie lettere di almeno quindici anni fa, a giudicare dalla consistenza”.
Le tirò fuori.
John le tiene sempre con sé, ciò significa che la persona è importante per lui, tuttavia le nasconde, perché non vuole che siano scoperte. Sentimento amoroso, quindi. Sono vecchie lettere, la persona ha smesso di scrivere improvvisamente, quindi le è successo qualcosa di grave, è morta. O meglio, morto. Ragazzo di circa ventitré anni, calligrafia da gallina, frettoloso e sbadato. Frivolo, ma interessante. Bassa autostima. Dal francobollo sembra che sia vissuto a Londra, compagno di classe di John. C’è scritto il secondo nome di John, vuol dire che erano molto affini, amore mai dichiarato. Reciproco…”.
Sherlock strinse più forte i fogli, con un’innaturale violenza, ma non da stropicciarle. Doveva essere cauto, erano pur sempre delle lettere importantissime.
Un nome e un cognome gli si pararono davanti.
Martin Young”.
 
Scesero dai taxi nello stesso momento, con accanto le due donne, perfettamente vestite. John aveva un po’ la sensazione di star andando alla notte degli oscar, mentre apriva la portiera dalla quale uscì Lily. Lo smoking era d’obbligo, e lui aveva indossato del suo meglio: completo blu scuro, camicia bianca, mocassini neri e cravatta color pece. Lily aveva dei bei capelli ondulati, la montatura trasparente, un bel trucco acqua e sapone e un vestito bianco a balze, ampio e svolazzante, fatto di tanti morbidi veli sovrapposti. Le gambe sottili e lattee terminavano in due scarpe col tacco basso color argento, abbinate ai gioielli.
Si mise sottobraccio al dottore, e varcarono la soglia della grande sala, nonché un teatro sgombro di sedie, dove coppie vestite eleganti chiacchieravano animatamente.
Sherlock aveva un portamento impeccabile, e molte si girarono a guardarlo: camicia rossa, completo nero opaco, papillon corvino, capelli lucidi e ben pettinati. Lo sguardo gelido del detective si posò sulla donna che gli diede la mano: Irina indossava un lungo abito nero con spacco laterale, una collana di brillanti ornava il suo collo magro e dei pendenti le sue orecchie. Era truccata in modo elegante e seducente, il suo corpo snello e formoso aderiva col vestito e i capelli profumavano di lavanda.
Quando entrarono, Sherlock notò subito la presenza di Victoria, seduta su un trono posto sul palcoscenico, tra i giudici della gara. Evidentemente i suoi sicari erano sparsi tra la gente, pronti ad agire in qualsiasi momento. Al loro fianco c’erano gli agenti di Lestrade, travestiti da camerieri, che distribuivano champagne e stuzzichini prima di cominciare la gara.
John intravide Sherlock ed Irina, e rimase incantato dalla bellezza che loro due emanavano: così gelidi, eppure così sensuali, assortiti in maniera perfetta.
Eppure così diversi.
Il dottore si soffermò sull’abbigliamento del suo amico, rimanendone affascinato. Doveva ammettere che al moro donava particolarmente il rosso, gli dava un’aria autorevole ma allo stesso tempo dolce.
Dovrei prestargli più spesso le mie camicie” pensò.
-John, che ne dici se ci andiamo a iscrivere al registro?-
-Oh, si, Lily-.
Scrissero i loro nomi e presero posto tra i partecipanti. Fu allora che John vide Victoria.
-Lily…perché Victoria è qui?-.
Lei esitò.
-Pare ci sia un qualche pedofilo qui in mezzo, la solita routine-
-Ah. Sherlock non mi ha detto nulla…-.
Gli suonava strano, ma non ci fece tanto caso, poiché dovevano iniziare a ballare.
Presi per mano, iniziò la musica, e un passo dopo l’altro, il tango prese forma.
Era incredibile come Irina scivolasse tra le braccia di Sherlock, sembrava fosse ricoperta di sapone, eppure i due erano a così stretto contatto che parevano una cosa sola. La prontezza con la quale il detective afferrava la sua mano dopo che lei roteava; i passi che si incrociavano senza mai urtarsi, il ventre di Irina che toccava costantemente il corpo moderatamente muscoloso del moro, gli occhi negli occhi come due innamorati nel loro momento intimo.
Sembrava che ballassero insieme da sempre. Erano così sintonizzati che molti smettevano di ballare solo per ammirarli, per partecipare alla loro atmosfera.
John non riusciva a concentrarsi sul ballo: stava osservando Sherlock e, senza capire il perché, provava un senso di fastidio nel vederlo cimentarsi in una danza così passionale con una donna. Gli aveva sempre dato un senso di disturbo vederlo con una persona di sesso femminile, ma quella sera più che mai: forse erano quelle mani che accarezzavano accuratamente Irina, o forse gli occhi che non finivano mai di guardarsi, o i casqué dove lei si lasciava dolcemente cadere all’indietro, o ancora i nasi che si sfioravano, ma in ogni caso John provava solo la voglia, quasi il dovere, di separare quella donna da Sherlock e interrogarla come tutti gli altri, senza troppe manovre.
-John, stai bene?- gli chiese Lily, vedendo che lui le stava pestando i piedi più volte.
-Si, credo- rispose, un po’ imbarazzato. Nonostante fosse tornato sui suoi passi, i suoi occhi non riuscivano a staccarsi dai due, visti ormai come due ballerini di un carillon.
Irina fece una spaccata a mezz’aria, rapida e leggiadra, sorretta dal detective, che le teneva le pupille puntate addosso.
Come identificare il sentimento che John provava in quel momento? Invidia? Ma per chi? Per il ballo eseguito perfettamente? Per Sherlock che stringeva a sé una donna tanto affascinante? O per…la stessa Irina?
Tentò invano di guardare fisso Lily e di osservare la sua bellezza provandone piacere, poiché si scoprì a pensare a Sherlock.
 
-Dev’essere brutto, per una donna di 35 anni, rimanere incinta di due gemelle e venire abbandonata dal padre- disse Sherlock con sarcasmo velato, studiando il peso che quelle parole suscitarono in lei.
-Non sono affari in cui può ficcanasare, signor Holmes. Ciò che ho vissuto nel passato è, per l’appunto, passato-
-Non lo metto in dubbio, ma sono sicuro che quel passato si ripercuote su di lei, come una frusta, ancora oggi, dico bene?-.
Irina strinse involontariamente le mani del detective per la rabbia e deglutì a fatica.
-Chi non viene influenzato dal proprio passato? In una storia scritta le pagine successive dipendono dalla prima, così come il suo epilogo, dopotutto-
-Concordo, ma le storie non sono scritte per essere lette? Voglio essere il lettore della sua storia, Irina-.
Lei esitò, mentre le iridi ghiacciate di Sherlock la scrutavano nel profondo del suo animo, abbattendone tutte le difese.
-Lei sa meglio di me che non bisogna fidarsi degli sconosciuti-
-Che intende dire?-
-Lei ha dato troppo peso a parole frivole di gente sconosciuta-
-Sa del mio incontro con Rose, quindi-
-Non mi nomini quella sciagurata. Vuole solo gettare fango sul nome della nostra famiglia, come se non bastasse sopportare la sua esistenza-
-O, semplicemente, ha la lingua troppo lunga- commentò tagliente Sherlock.
Irina strinse i denti e decise di arrendersi. Non poteva resistere alla pressione la quale il moro la sottoponeva, era una forza troppo superiore alla sua. Sospirò.
-Ero solo una ragazza in cerca di un uomo. Lo incontrai in un bar, mentre faceva un brindisi al suo successo. Ricco, aitante, bell’aspetto, tutto ciò che una persona come me potesse desiderare. Già a quei tempi era sotto una cattiva luce, ma oramai ero caduta nella sua trappola-.
Amore” pensò il moro, non riuscendo a nascondere un’espressione di afche fortunatamente Irina non notò. Sherlock voleva chiederle chi fosse l’uomo di cui parla, ma era meglio aspettare il resto della storia in modo che confermasse la sua tesi.
-Lui notò l’infatuazione nei suoi confronti e iniziò a corteggiarmi spietatamente, quasi in maniera persecutoria. Mi rimbambiva con il suo denaro, le sue promesse, la sua bellezza e, se tentavo di chiudere i battenti, tirava in ballo Rose. Sapeva benissimo quali fossero i miei punti deboli-.
Sherlock fece roteare Irina tra le sue braccia, per poi bloccarla durante la giravolta, stringendola a sé. Erano così vicini che potevano respirare l’aria dell’altro.
Tutti aspettavano un bacio che non arrivò, compresa Irina.
-Mi dica di più- disse il detective in modo sensuale, dandole un lieve bacio all’angolo della bocca.
John, che non riusciva a sentire il loro dialogo per via della musica, del ballo e della lontananza, iniziò a credere che tra i due stesse iniziando a manifestarsi un’atmosfera più intima. Irina stava manifestando una pulsione sessuale per Sherlock che, se non fosse riuscito ad ottenere le informazioni necessarie, sarebbe persino arrivato a portarsela a letto.
-Rimasi incinta ancor prima di vederci chiaro su che bestia di uomo fosse. Volevo abortire, ma lui mi minacciò, così portai alla fine la gravidanza e misi al mondo Victoria e Grace. Secondo i patti, lui se ne prese una, Victoria, mentre lasciò a me il compito di occuparmi di Grace. Le due sorelle si volevano molto bene e attraversarono metà Londra per due volte a settimana, pur di vedersi. In uno di quei disgraziati giorni Grace sentiva molto la mancanza di Victoria e si avventurò di notte verso casa sua senza dirmi nulla…E quel criminale la uccise. Victoria non volle più vedermi…e il padre morì appena cinque anni dopo, lasciandomi sola. Il cadavere di Grace sparì…e i suoi occhi mi arrivarono per posta, in un barattolo pieno di liquidi conservanti-.
Sherlock vide, sugli occhi della donna, affiorare piccole, calde lacrime.
-E adesso Victoria mi odia. E mi odierà per sempre-.
La sua voce era fievole, strozzata, quasi un sussurro.
 
Lily cadde, con una storta alla caviglia, addosso a John, che la afferrò prontamente. Le si era rotto il tacco, e non era più capace di proseguire la gara.
Vennero squalificati, e John insistette sul controllare la caviglia della donna, che zoppicava goffamente.
Uscirono dalla sala grande, ritrovandosi in una piccola e buia stanza con dei mobili coperti da teli, vuota, e John fece accomodare Lily su una sedia, togliendone il telo.
-Stavi facendo proprio una brutta caduta- commentò il dottore, con aria scherzosa.
-Si. Sapevo che queste scarpe non fossero il massimo. Grazie di non avermi fatto cadere-
-Di nulla, ci mancherebbe-.
John sollevò il piede aggraziato e nodoso della donna, tastandolo e osservandolo.
-Per fortuna non è nulla, è solo il dolore iniziale. Stai tranquilla-
-Menomale, è solo un’innocente storta-.
Avrebbe potuto anche controllare da sé lo stato della sua caviglia, ma sentire il tocco di John l’aveva messa in uno stato di benessere che le aveva fatto dimenticare tutte le nozioni di medicina.
Lo guardò, con il volto leggermente arrossito, nella penombra. Gli occhi verdi del dottore incontrarono i suoi, e rimasero un po’ a fissarsi. Il cuore di lei iniziò ad accelerare.
-John, c’è qualcosa che devo dirti…-
John, there’s something
-…un cosa che ti avrei sempre dovuto dire, ma che non ho avuto mai il coraggio di fare…-
I should say, I meant to say, always and never have...
-…io provo dei sentimenti nei tuoi confronti-.
John credette di non aver sentito bene. Si alzò dai piedi di Lily, e la guardò.
-Cosa?- fu la prima parola che gli venne in mente.
-Si. Io…ti amo, John Watson. Dal primo momento che hai messo piede nell’obitorio, mentre litigavo con Molly Hooper. Il tuo portamento, il tuo aspetto, il tuo modo di pensare: ogni cosa mi attirava verso di te-.
John sarebbe dovuto essere contento di quella dichiarazione così sincera, spontanea, da parte di una bella ragazza nel fiore degli anni, per di più intelligente e deliziosa, ma qualcosa, nel profondo del suo animo, non era a suo agio.
Non era la persona giusta? Si che lo era, era esattamente la donna che aveva sempre desiderato, la madre che voleva per i suoi figli. Non la conosceva abbastanza? La conosceva tanto da capire che doveva accettare quella dichiarazione e frequentarla. E allora cosa c’era che non andava?
Non era pronto? Non era lei? O non era chi avrebbe voluto? Ma esattamente…chi voleva?
-Lily, io…- disse, ma venne interrotto proprio da lei, che lo baciò sulle labbra, presa da un moto di passione. John rimase impietrito di fronte a quella manifestazione d’amore, mentre la lingua di lei s’insinuava tra le sue labbra, esplorando la sua.
Lui non rispondeva al bacio, non ci riusciva.
Gli sembrava che, dopo quei due baci avuti con Sherlock, qualcosa non andasse. Lily sapeva baciare, e anche bene, ma non sentiva l’impulso di baciarla, voleva solo andare via, scusandosi.
Le sue labbra avevano conservato lo stampo del detective, e non ne accettavano altri.
Prima che potesse scostarla, lei si abbassò la spallina del vestito e, afferrando la mano di John, la appoggiò sul suo seno, invitandolo a toccarla. Nel frattempo lo aveva portato fino al muro davanti a sé, imprigionandolo tra la parete e le sue braccia; gli abbassò la cerniera dei pantaloni, inserendo la mano tra i boxer.
-No, Lily!- riuscì a dire John tra un bacio e l’altro, spingendola con tutte le sue forze lontano da sé, -non voglio fare sesso con te, buon Dio!-.
Lei si allontanò, spaventata dal tono del dottore.
-Perché, John? Perché?-
-Non…non voglio.-
-È perché ami Sherlock, vero?-.
Quella frase suscitò in John un sentimento di rabbia misto a confusione, e i suoi occhi puntarono, d’istinto, verso la sala da ballo.
-Non siamo una…coppia. E non lo saremo mai-
-Non è questo quello che ti ho chiesto! Ami Sherlock?!-.
Lily era furente, ma John aveva affrontato ben altro nella sua vita, e una donna urlante era l’ultima delle sue paure.
-Non dire idiozie! Non voglio fare sesso con te. Sono…desolato, ma io non ti amo-.
La delusione si accese negli occhi della donna, che però, inaspettatamente, sorrise.
-Capisco, John. Mi dispiace.-, iniziò, calma e imbarazzata, -speravo di riuscire a conquistarti, ma mi sbagliavo-.
In quel momento, un cameriere entrò nella piccola sala, con un vassoio di bicchieri di vino rosso.
-Signori, devo invitarvi a lasciare questa stanza, per cortesia-
-Oh, sì! Ma prima, per favore, possiamo fare un brindisi io e John?- chiese Lily, con occhi supplichevoli, al ragazzo col vassoio, afferrando due coppe di vino.
-Va bene, ma sbrigatevi- concesse il cameriere, uscendo.
Lily, dopo aver oscillato la bevanda in modo elegante, porse l’altro bicchiere a John.
-Che ne dici di brindare alla nostra amicizia?-.
John era ancora scosso da ciò che era successo poco prima, ma si avvicinò comunque, afferrando la sua coppa. Glielo doveva, infondo le aveva già spezzato il cuore.
Sollevarono i bicchieri.
-Alla nostra amicizia!- annunciò Lily. John ripeté, mentre i vetri echeggiarono un lieve “cin cin”.
Dopodiché, un lungo sorso di vino scorse nelle gole dei due.
-John…c’è un’altra cosa che devo dirti-
-Si?- chiese il dottore, pulendosi col dorso della mano due gocce della bevanda all’angolo della bocca.
-Mi dispiace, ma vi ho ingannato-.
Il biondo non riusciva a capire, e la guardò con aria interrogativa.
 
-Irina- sussurrò Sherlock, cercando di simulare il tono più dolce possibile, -dimmi il nome di quell’uomo-.
Lei esitò, ma poi decise che oramai non poteva tornare indietro sui suoi passi.
-Charles….-.
Venne interrotta da uno sparo, che la colpì in piena testa. Sangue scintillante schizzò sul volto di Sherlock, mentre il corpo senza vita di Irina si accasciava ai suoi piedi.
Un uomo, con una maschera di Van Gogh, aveva appena usato la sua pistola, dall’alto di un balcone del teatro.
-Signor Holmes! Il suo amico è in buone mani, grazie di avercelo concesso! Ora dovrei andare, alla prossima!-.
Sherlock sentì il cuore saltare un battito, mentre si girava nella stanza e non riusciva a trovare il dottore. Ebbe un moto di adrenalina e preoccupazione, che insieme formarono un cocktail di furore che fecero correre il detective lungo la grande stanza, mentre Victoria si alzava dal suo trono, avanzando lentamente. Gli altri giudici erano scappati, e la maggior parte delle persone correva disordinatamente in ogni angolo della sala, urlando.
-LESTRADE!- urlò Sherlock, e l’ispettore, con decine di agenti, si gettò all’inseguimento dell’uomo.
 
-Cos’era?!- urlò John, cercando di correre verso la sala, ma le gambe lo abbandonarono, e cadde rovinosamente a terra. Provò a rialzarsi, ma cadde di nuovo.
Sentì la forza abbandonargli le membra velocemente, e la mente annebbiarsi.
-Cosa…cosa…mi hai fatto…?- riuscì a sussurrare.
-Sonnifero. Così erano i patti, o saresti diventato mio, oppure ti avrei dato a Van Gogh-.
-Lily…! Perché…?-
-Per arrivare a Victoria bisogna avere in pugno Sherlock, e per avere in pugno Sherlock bisogna avere in pugno te…semplice, no?-.
John non rispose.
I suoi pensieri si offuscarono, i suoi muscoli erano rilassati e disobbedienti, e l’ultima cosa che a John venne in mente furono un paio di occhi ghiaccio e dei riccioli disordinati.
-Sherlock…-.
 
Altri due uomini, che trasportavano un corpo inerme dai capelli biondi, entrarono in una Opel Astra color nero. Sherlock impazzì a quella visione, e rubò la pistola ad un agente vicino, sparando all’impazzata, ma mancando tutti i colpi.
-Sherlock, smettila, e monta in auto!- urlò Lestrade, ma Victoria scivolò tra loro, con calma disarmante.
-No, lei deve mantenere la calma-.
La bambina cacciò da qualche dove una Socom placcata in argento e mirò.
Una pallottola, una, che forò tre teste.
 
[Nota dell’autrice: Salve lettori, ed ecco la seconda parte del capitolo! Lo pubblico in anticipo, dato che l’avevo già scritto e a cui ho dovuto solo apportare qualche modifica.
Ultimamente ho molto più tempo del solito per scrivere, dato che stiamo facendo l’alternanza scuola-lavoro e quindi, facendo il nulla più totale, posso elaborare idee, scrivere di più il pomeriggio e perfino rilassarmi quanto voglio. Il paradiso!
Ad ogni modo, ringrazio tutti quelli che hanno commentato, che hanno inserito la mia storia in qualche categoria e che mi hanno dato suggerimenti, in particolare Giulia96nence, che mi ha dato una marea di idee e di supporto!
Continuate così, siete la mia ispirazione e la mia forza!
Ma ora passiamo al capitolo. Dunque, alla fine la traditrice era Lily! (Eh si, proprio l’ultimo dei personaggi!) e ha sedato il nostro povero John, creando un diversivo con altri uomini, in modo da non attirare l’attenzione.
Tutto questo in pochi ml di vino!
Anche Lily ha una mente a suo modo malvagia, ora che ne pensate della piccola Victoria? Dubitate ancora di lei?
E poi la morte di Irina. E si, aveva finito il suo tempo e la sua utilità (mi sento in colpa a dire ciò, ma per l’amor del cielo ho creato un personaggio che mi stava antipatico ahahahah, sto davvero impazzendo), però ci ha fornito tante ottime informazioni, soprattutto sulle gemelle e sul loro padre.
Cosa ne pensate? Avete altri suggerimenti o supposizioni? Fatemi sapere, se avete qualche perplessità!
Commentate soprattutto, che da punti bonus! XD
A presto, grazie a tutti! <3]

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Capitolo 17
*** Solitudine e dolore pt.1 ***


I tre corpi dei malviventi, con le rispettive maschere di Van Gogh, barcollarono, e l’uomo biondo, inerme, venne lasciato andare.
-Li ho solo feriti, ma se non vi muovete a recuperare il dottor Watson, li ucciderò tutti alla vecchia maniera- disse minacciosamente Victoria, non mostrando nessun dolore per la perdita della madre avvenuta qualche momento prima.
Greg Lestrade annuì, con tono professionale, ringraziando silenziosamente Dio per il facile arresto.
Sherlock fu il primo a correre verso i tre feriti, o meglio, a correre verso il biondo che trasportavano. Tuttavia non fu così semplice come pensavano che fosse.
Colui che aveva sparato a Irina, che probabilmente era quello con la ferita più lieve, si alzò, barcollando e, afferrando la vittima, la caricò con un movimento fulmineo nel retro dell’auto e si mise al volante. Sherlock raggiunse la Opel, insieme ad alcuni agenti e Lestrade, mentre gli altri si occupavano di ammanettare i due ancora senza conoscenza; si aggrappò, con tutto il suo peso, alla portiera davanti, ma un pugno del criminale gli fece perdere la presa.
-JOHN!- urlò il detective, incassando il colpo e gettandosi di nuovo sull’uomo, restituendogli il pugno, con il doppio della forza. L’altro, per tutta risposta, premette l’acceleratore, facendo partire l’auto con Sherlock per metà fuori dalla vettura.
-Sherlock!- urlò Lestrade, dirigendosi verso la propria auto, buttando a terra la sua cravatta, che gli impediva una corretta respirazione.
Una Rolls Royce color sangue si piazzò davanti all’ispettore, aprendogli la portiera del passeggero.
-Salga- disse la voce di un autista anziano sorridente, mentre Victoria era comodamente seduta ai sedili posteriori. Greg non se lo fece ripetere due volte: caricò la pistola e salì.
Altre volanti della polizia si gettarono all’inseguimento.
Il vento, tagliente, dirigeva Sherlock indietro, stendendolo sul fianco dell’auto. I 95 km/h con i quali procedeva l’auto erano sufficienti a esercitare sul detective una pressione che non gli permetteva di potersi difendere dai calci e dai pugni dell’uomo, anzi, a stento riusciva a reggersi, con le braccia, nello spazio tra il sedile e l’acciaio. La portiera sbatteva ferocemente sulla schiena del moro, infierendogli ulteriori ferite.
Ma lui non aveva nessuna intenzione di arrendersi. Non avrebbe mai permesso che gli portassero via John.
Il corpo gli diceva di lasciare, la mente gli diceva che non sarebbe finita bene per lui se non avesse lasciato, e poi c’era il cuore, che lo spingeva a lottare fino alla fine.
L’uomo era sul punto di sferrargli l’ennesimo calcio, quando Sherlock, piazzandosi in una perfetta posizione orizzontale, sfruttando il vento, riuscì a bilanciare tutto il peso sulle gambe, piegandole e strisciando con le suole sul fianco della macchina, mentre lasciò al solo braccio sinistro il compito di non fargli fare un incontro ravvicinato con l’asfalto.
Calcolando l’esatto momento in cui la suola delle Timberland avrebbe scontrato la sua faccia, gli afferrò la caviglia e, con la fortuna dalla sua parte, lasciò andare anche l’altro braccio, afferrando anche con quella mano la caviglia dell’uomo e, sfruttando la forza di gravità, quella del vento e la propria, lo tirò indietro, tenendo ben ancorati i piedi (con, fortunatamente, suole antiscivolo) al fianco della macchina.
L’uomo, che non si aspettava tanta potenza esercitata sul suo piede, e che non era provvisto né di cintura di sicurezza né di appoggio, sentì il suo corpo essere tirato fuori.
Eseguì un angolo di trenta gradi, mentre Sherlock toccò, con la spalla, la fredda strada londinese, causandogli un immediato, lancinante, dolore.
Aveva sbagliato i calcoli in maniera millimetrica, ma quel piccolo errore gli creò non poco svantaggio.
La portiera si stava chiudendo proprio in quel momento, mentre il malvivente veniva scaraventato fuori, e lo colpì sul braccio. Lui, nonostante fosse in una situazione disperata, afferrò il manico della portiera, usandola come appoggio.
Al volante, oramai, non c’era più nessuno, e l’auto procedeva spedita sui suoi 100km/h.
L’acceleratore, evidentemente, si era bloccato.
Per quanto la strada sarebbe stata dritta e soprattutto…vuota?
Un clacson suonò, e Sherlock girò la testa quel tanto che basava per vedere, con la coda dell’occhio, Lestrade urlare verso di lui, con la testa fuori dal finestrino.
-Sherlock! Cerca di entrare nella macchina!-.
La Rolls Royce color sangue accelerò e si avvicinò molto, quasi affiancando, la Opel Astra.
L’uomo cercò di divincolarsi dalla presa di Sherlock, ma lui aveva tutt’altra intenzione.
Si arrampicò sulla gamba di lui.
-Ho bloccato il traffico- annunciò Greg a Victoria, che fece un cenno di assenso.
-Ottimo lavoro, ispettore Lestrade. Se non ci saranno morti in questa storia, farò in modo che lei venga ricompensato a dovere-.
L’ispettore provò un moto di adrenalina e di orgoglio a udire quelle parole, e puntò la sua pistola sull’uomo.
-No, non lo faccia. Il lavoro sporco lo vorrei compiere io, se non le dispiace. E poi non è ancora il momento, se l’uomo cade, Sherlock subirà il suo stesso destino-.
Lestrade riconobbe la ragione della bambina e ritirò l’arma.
Sherlock era oramai arrivato alla vita, e riuscì ad aggrapparsi al sedile, entrando nell’auto.
Premette il pedale del freno, e la macchina ebbe un sussulto, poi sgommò e, in un misto di accelerazione e freno, si ingolfò e si spense sul colpo.
Si sentì il suono di una piccola implosione nel motore, e del fumo nero uscì dal cofano.
Victoria scese, con un salto dal finestrino, e iniziò a correre, in modo scattante, verso la vettura, con la Socom carica pronta all’uso.
L’uomo, per la brusca fermata dell’auto, aveva urtato la portiera con tutto il suo peso, staccandola dalla sua postazione e trovandosi a cinque metri dalla macchina, sanguinante.
Lei gli fu addosso, e lo immobilizzò, spingendogli le lamiere sul petto.
Il primo pensiero di Sherlock fu John.
-John, John!- urlò, e aprì la portiera posteriore, agguantando il corpo, riverso di spalle, per il torace e tirandolo a sé.
Ma c’era qualcosa che non andava.
La corporatura non era quella, le misure non erano giuste. Il torace era troppo ampio, i capelli erano più chiari, la giacca non era quella.
Lo voltò, e i suoi dubbi presero forma, poiché gli si parò davanti un volto completamente sconosciuto di un cadavere qualunque.
Era tutta una messa in scena.
John era stato rapito, sotto al suo naso, e non era riuscito a salvarlo.
 
Erano tornati indietro, avevano esplorato ogni centimetro del grande teatro, perquisito ogni partecipante, ma non avevano trovato nessun collegamento con il rapimento.
Sherlock si era impegnato più di tutti, quasi in maniera ossessiva: pretendeva di avere un dossier di ogni persona presente al ballo, per poi interrogarla singolarmente, pretendeva che partissero elicotteri e volanti in ogni dove, alla ricerca di Lily e John, e sbraitava a chiunque incontrasse, in malo modo.
La goccia che fece traboccare il vaso fu Anderson, che entrò per esaminare il corpo di Irina.
-A quanto pare mister Simpatia ha fatto fiasco da ben due fronti- commentò aspramente, -prima fa uccidere la sua accompagnatrice, e poi fa rapire il suo “caro, carissimo Watson”-.
Un’ira fulminea, un brivido di omicidio, attraversò il corpo del detective.
-Da che pulpito vien la predica, da uno che ha fallito da TUTTI i fronti. Amore, successo…intelligenza…non dev’essere facile andare avanti in un mondo dove chiunque è più intelligente di te, vero?- rispose, col solito tono freddo, guardando la faccia di Philip diventare livida di rabbia, -Lestrade, io vado.-
-Non puoi andartene, devi firmare delle cart….-
-È già abbastanza un cadavere qui dentro, non costringermi ad aggiungerne altri-.
Sbatté la porta del teatro e, infilandosi il cappotto con un movimento fluido, e affrontò il vento di febbraio, come aveva fatto poco prima. Rigettò tutto il dolore che era riuscito a contenere, piangendo silenziosamente, camminando verso casa, da solo.
Tremava, e non per il freddo, ma per le continue emozioni che lo stavano investendo come un fiume in piena.
Sì, Sherlock Holmes provava delle emozioni, emozioni che nessuno era riuscito a scatenare, emozioni che erano sempre state nascoste dentro di lui, emozioni che provava solo per un’unica persona: John.
Piangeva, per la frustrazione, per la tristezza, per l’improvviso senso di solitudine, per il torto, per l’essere stato fregato.
Fruga nel tuo palazzo mentale” gli suggeriva un io interiore, la sua “parte razionale”. “Troverai John con la tua intelligenza, come al solito”.
Tirò un calcio a una pietra, con la faccia contratta in un’espressione di rabbia, mentre piangeva.
Si sedette su una panchina di un parco, guardò l’orologio. Erano solo le quattro del mattino.
“Il telefono!” pensò improvvisamente, cercando in rubrica il contatto di John e telefonando.
Bussò una volta, due, tre.
-Il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile. La invitiamo a riprovare più tardi, grazie!- trillò la voce meccanica della segreteria.
Sherlock si abbandonò alla panchina. La sua mente elaborava concetti, strategie, ma ogni cosa sembrava demoralizzarlo.
Lily deve averlo sedato con un potente ipnoinducente, somministrato tramite il vino, che ha agito tra il momento dello sparo e la fuga dei presenti, quindi in un minuto massimo. Se lo avesse fatto prima, l’agente di Lestrade ci avrebbe riferito ogni cosa, poiché John non è un peso facile da trasportare, e avrebbe attirato l’attenzione. Non è passata dalla sala principale, altrimenti l’avrei vista, quindi è passata dalla porta sul retro, probabilmente aiutata da qualcuno, dato che è una donna fin troppo gracile per portare 85 chili di uomo. Tra il carico del corpo di John e la fuga devono essere passati 5 o 6 minuti. Ora…perché l’ha fatto?” pensò, mentre cercava di ricacciare indietro le lacrime.
Cercò di ricreare la scena nel suo palazzo mentale, come sempre, ma non riusciva a sfocare bene le immagini. Il mare d’inchiostro nero stava ancora invadendo la sua mente.
Decise di tornare a Baker Street, posto che considerava solo “edificio dove abitare”, senza John che la chiamava casa. Il telefono squillò.
Sperò, nella sua piccola illusione impossibile, che fosse John, ma il numero di Mycroft si manifestò ai suoi occhi e, con una smorfia di fastidio, si costrinse a rispondere.
-Sherlock Holmes-
-Inutile che ti annunci, fratellino. Torna a casa e riposati, ma stamattina alle nove pretendo la tua presenza nel mio ufficio. Qui c’è Victoria, che ha chiesto un inizio di indagini autonomo con te, sul caso della scomparsa di John Watson. Ah, un’altra cosa: Peter Bakker si è suicidato la stessa ora dello sparo alla signorina Johnson-.
Sherlock pensò un attimo.
-Non voglio l’aiuto di Victoria, Mycroft. Hai altro da dirmi immagino, fai sempre una pausa di tre secondi alla fine di una frase quando devi dire qualcosa in più-
-Vedo che non ti sfugge niente. Ebbene, pare che Rose Johnson abbia scritto sul muro della sua stanza al manicomio :
“London Bridge is falling down,
Falling down, falling down.
London Bridge is falling down,
My fair lady.”
 
Nel momento in cui il cuore di Irina ha smesso di battere-
-Interessante. Molto interessante. Vorrei che facessi uscire Rose dal manicomio, possibilmente entro oggi, in modo che possa iniziare le indagini con lei-
-Strana scelta, ma sono curioso di sapere come ti comporterai. Ad ogni modo, devi ammettere che i tuoi calcoli erano sbagliati, il tuo orgoglio ha sovrastato la tua mente, e hai perso John-
-Non ho perso John-
-Non ancora-
-Che vorresti dire?-
-Non credo che abbiano preso John per fargli fare una vacanza per sempre. Se non troveremo il dottor Watson entro un certo termine, credo che la sua presenza non sarà più loro utile, in questo mondo-
-E quando sarebbe questo “certo termine”?-
-Ce la comunicheranno presto. Vogliono Victoria, no? Per avere Victoria, devono mettere in difficoltà te. Per mettere in difficoltà te…basta toccare John. Mi sorprende che tu non ci sia arrivato, fratellino. Quindi, prima o poi, chiederanno Victoria in cambio di John-.
Sherlock dovette ammettere con se stesso che Mycroft aveva centrato il punto.
-Si, ci ero arrivato- mentì.
-Bene, allora non devo aggiungere altro. Buonanotte, Sherlock-.
Il detective attaccò.
 
John riprese conoscenza a fatica, e percepì subito il freddo pungente su ogni parte del suo corpo. La vista gli si era annebbiata, sentiva il contatto con un pavimento gelido, e aveva le braccia aperte e sollevate in alto, mentre lui era in ginocchio.
Il metallo delle manette gli ricordò in che situazione fosse. Provò a muoversi, ma il tintinnio delle catene, e soprattutto la loro forza, gli fecero rendere conto del limite con il quale poteva muoversi.
Poi si guardò, mettendo a fuoco tutto ciò che gli era attorno: era nudo, completamente, ed era in un’ampia stanza buia, da solo, incatenato.
Faceva così freddo, e aveva così tanta fame e sete.
Si sarebbe ammalato.
Ricordò ogni cosa: Lily, il brindisi, il sonnifero, Sherlock che ballava con Irina, lo sparo.
-Sherlock…!- disse, sentendo una lacrima bruciargli sulla guancia. Perché piangeva? Per la solitudine? Per l’ansia? 
Si riprese, cercando di ragionare. Era un medico, doveva farlo.
-No John, vedrai che riuscirai ad uscire da questa situazione. Dunque…- si diceva, in una specie di auto-conforto.
Il suo pensiero andò a Sherlock, immaginando cosa stesse facendo in quel momento. Stava mettendo a ferro e fuoco la città per trovarlo, o stava affrontando la sua assenza con il suo solito distacco? Ne dubitava, l’ultima volta che era stato in pericolo, quando Magnussen lo voleva arrostire vivo, Sherlock aveva rubato una moto, fatto mezza Londra a velocità indicibile in strade assurde, scavato nel legname ardente e urlato più volte il suo nome in maniera disperata.
Sorrise, ripensando ad alcune situazioni con il detective.
Sorrise pensando alle strillate con la signora Hudson, sorrise pensando alla testa mozzata nel frigorifero, sorrise pensando al tè di Sherlock con dentro l’occhio, sorrise pensando alle melodie del violino in tarda notte, sorrise pensando ai loro battibecchi.
E adesso era solo, chissà dove, chissà in mano di chi, incatenato.
-C’è nessuno?- chiamò, sperando di riuscire ad ottenere risposta. Il suo eco rimbombò, nel buio, e si rese conto che la stanza era ancora più grande di quel che immaginava.
All’improvviso la stanza si illuminò a giorno, grazie a decine di luci a neon che si accesero contemporaneamente, diffondendo rapidamente la loro luce bianca.
-Dottor Watson, vedo che si è svegliato-.
Non conosceva quella voce, appartenente sicuramente a un uomo.
Quando i suoi occhi smisero di proiettare linee fluorescenti davanti alle sue pupille, fattesi oramai come fessure, iniziò a intravedere una sagoma magra e slanciata, con la corporatura molto simile a quella di Sherlock.
-Chi va là?- chiese John, non riuscendo ancora a mettere a fuoco i dettagli.
-Willem Van Gogh-.
Iniziarono a prendere forma una grande testa fulva, parzialmente calva, un volto spigoloso, occhi languidi di un colore tendente all’azzurro-grigiastro, folta barba ramata, orecchio destro mancante, una pipa stretta tra le labbra.
John dovette ammettere che la somiglianza all’autentico Van Gogh era impressionante, e ne conservava anche il nome.
-Finalmente posso conoscerla, dottor John Hamish Watson-
-Come sa il mio nome? E dove sono?-
-Credo che lei sappia più che bene chi sia Martin Young, giusto?-.
A sentir nominare il suo vecchio amico John sobbalzò.
-COME FA A CONOSCERLO?!-
-È grazie a lui che sono riuscito finalmente a realizzare la mia arte. Anche lei sa la favoletta dell’incidente stradale? Crede davvero che Martin Young abbia lasciato questo mondo dentro una macchina? Oh, no. Dica la verità, ha mai pensato che fosse vera quella storia?-.
John rifletté, tra rabbia e tristezza.
-No, non ho mai creduto al fatto che fosse morto così. Era un bravo guidatore, non avrebbe mai guidato un auto in una strada sconosciuta per poi schiantarsi con un tir. In più nelle sue lettere…mi ha quasi preannunciato la sua morte, e non era per mano di un camionista-
-Ora gliela dico io la verità, caro dottore. Io vi ho sempre osservati, a lei e a quel ragazzino, sin da quando metteste piede nel liceo. Abusavo di lui già da molto tempo, lui mi conosceva bene. Era il mio bambino preferito-.
John credette di aver udito male, ma la serietà dell’uomo gli disse che tutto ciò che stava udendo era la verità.
Ebbe un moto d’ira, si alzò e si protese in avanti, tentando di aggredirlo, ma le catene lo bloccarono proprio mentre il suo pugno stava raggiungendo il volto di Willem.
-COME HA POTUTO! COME!-
-Calmi i suoi spiriti, dottor Watson. Non mi ha lasciato finire di parlare. Come dicevo, abusavo di lui. Lui si lasciava fare, perché diceva “finché c’è John, io posso sopportare ogni cosa”, e io ne ero più che contento. Quando lei prese la strada dell’Accademia, lui rimase solo, indifeso, e si ribellava ancora di più di quanto avesse mai fatto, costringendomi, a volte, a picchiarlo. Martin iniziò a maturare il desiderio di rivelare tutto su di me a te, ed era partito verso l’Accademia Militare, scrivendo un’ultima lettera di addio, poiché sapeva che io non ce l’avrei fatta passare liscia. Riuscì a bloccarlo a metà del tragitto, lo uccisi, e feci il mio primo quadro con il suo sangue. Sangue scintillante, puro, di un ragazzo innamorato del compagno che lo ha abbandonato!- disse, ridendo in modo malato e sfregandosi le mani avidamente.
John sentiva le lacrime appannargli gli occhi, il senso di colpa mangiarlo dall’interno, la voglia di non crederci.
-No…- balbettò, lasciandosi cadere.
-È stato facile ricucire il corpo e ributtarlo nella macchina, non si sono curati neanche di fargli un’autopsia. Un incidente stradale, sì, certo-
-LEI MENTE!- urlò John, lasciando le lacrime scendere copiosamente lungo le sue guance.
-Sapevo che l’avrebbe detto. Sappia che non c’ero solo io lì. La signorina Lily si prese il disturbo di filmare l’opera. Sono più che contento di mostrarle il video, dottor Watson-.
John sentì gelarsi il sangue. Un video? Il video dell’uccisione di Martin?
Il nome di Lily, poi, fu come benzina sul fuoco.
-Faccio portare qui il televisore. Lei non si muova, eh!- esclamò Willem, accompagnando la frase con una risata insana.
John pregò Dio di morire lì, su quel pavimento, nudo come un verme, come meritava. Sentiva il mondo cadergli addosso, pezzo dopo pezzo.
Inoltre sapeva che, se fosse rimasto lì e Sherlock l’avesse trovato, avrebbe messo anche la sua vita in pericolo.
 
[Vi consiglio di leggere questa parte ascoltando Olafur Arnalds-Reminescence]
Era tornato molte volte da solo al 221b di Baker Street, ma non si era mai sentito isolato come quella volta. Di solito era il lieve russare di John, i suoi passi al piano di sopra, il suono dell’acqua quando faceva la doccia, o semplicemente i suoi pensieri ad alta voce a tenergli compagnia, ma quella sera non c’era nessuno di quei fattori, e la solitudine lo avvolse come una coperta fredda.
Guardò la poltrona rossa, a malincuore. Quella poltrona che, in un certo senso, gli aveva comunicato da sempre la vicinanza del dottore, e a cui aveva sempre dato un valore quasi sacro, senza mai permettersi di occuparla.
Si era sempre sentito solo, senza John nell’edificio, ma quella volta, in cui non sapeva dove fosse e come stesse, era peggio del solito.
Sentiva il bisogno della presenza di John, come una parte di sé mancante.
Forse perché si rese conto, in quel momento, che era sempre andato a dormire con la sicurezza e la tranquillità che John stesse bene.
Si sedette sulla poltrona nera, guardando la poltrona di John.
You told me once that you weren’t a hero. There were times when I didn’t even think you were human, but let me tell you this.
You were the best man, the most human, human being that I’ve ever known and no one will ever convince me that you told me a lie, so there.
I was so alone and I owe you so much.
But please, there’s just one more thing, one more thing, one more miracle,
Sherlock, for me,
don’t be dead.
Would you do that just for me?
Just stop it. Stop this”.

Quelle parole gli tornarono in mente di colpo, ricordandogli quando era al cimitero, a guardare John fare quel discorso davanti la sua lapide. Probabilmente erano state le parole più belle, più confortanti, più vere che Sherlock avesse mai udito in tutta la sua vita. Ma erano state le parole a toccargli il cuore, o il fatto che le avesse pronunciate John?
Sentì ancora una volta il pianto prendere possesso di lui, e le mani tremare.
Si alzò, togliendosi frettolosamente i vestiti e dirigendosi in bagno. Aprì il rubinetto della vasca e la lasciò riempire.
Andò in camera, e vide che aveva, involontariamente, preso le lettere che aveva trovato la sera prima nel cassetto di John. Se le rigirò tra le mani e sospirò, poi le portò in bagno con sé.
-“Caro John”- lesse, ad alta voce, entrando nell’acqua calda, -“non capisco perché sto continuando a scrivere lettere senza inviartele, come mute preghiere senza risposta. Per quanto tempo proseguirà la mia follia?
No, John, non ce la faccio senza di te. Avevo promesso ai miei di andare al college, ma non ci riesco, se tu non sei qui a darmi consigli. Sono delusi, mi ricordano ogni giorno quale schifo di figlio sono. Ti ricordi quando tentai di scappare di casa e venni a bussare alla tua porta alle tre del mattino? Mi apristi, preoccupato, in vestaglia. Possibile che tu sia capace di non riuscire mai a perdere la pazienza? Dormimmo nella tua stanza, camminando silenziosamente per non svegliare i tuoi, per non svegliare Harriet. Mi cedesti il tuo letto, accontentandoti del pavimento, mi preparasti un tè, mi ascoltasti a lungo, resistendo al sonno, e mi prestasti degli abiti, prendendoti il disturbo di lavare i miei, intimandomi di tornare a casa e parlare con i miei genitori, poiché mi volevano bene. E me ne vogliono tutt’ora, nonostante li abbia delusi.
Probabilmente me ne andrò da qui, non ho motivi per rimanere. Sei sempre stato tu, John Watson, a farmi rigare dritto. Sei sempre stato tu il mio appoggio.
Chissà cosa stai facendo all’Accademia, probabilmente ti sarai fatto dei nuovi amici, nuove persone su cui contare. La cosa non mi sorprende, hai sempre avuto un carattere meraviglioso e altruista.
Forse non ero io ad andare bene. Ti ho fatto andare via, dopotutto.
Se solo potessi leggere queste lettere
…”-.
La scrittura era diventata incomprensibile, grosse macchie di inchiostro avevano sporcato la carta, probabilmente erano state delle lacrime a sbavare tutte le parole.
It’s always you, John Watson, you keep me right.
Sherlock lasciò cadere la lettera e si immerse nell’acqua calda, rimanendo in apnea.
Solo gli spostamenti dell’acqua disturbavano quel silenzio subacqueo, quella calma perfetta.
Entrò nel suo palazzo mentale.
 
Le stanze del suo mind palace si presentarono danneggiate, crepate, gocciolanti di inchiostro nero. Era tutto terribilmente decadente e tetro.
-Cosa…?- balbettò, non comprendendo cosa stesse succedendo.
-Stai perdendo il controllo del tuo palazzo mentale- commentò una voce, che identificò col nome di Mycroft.
-Io comando questo posto, Mycroft. Non posso perdere il controllo su di esso-
-Questo è quello che credi. Il fatto di non poter agire in alcun modo con il rapimento di John ti sta facendo impazzire, e la tua ira viene trasmigrata in inchiostro nero, che si riversa in queste stanze distruggendo tutta la tua ragione. Questa ondata non può essere controllata, poiché l’ira è un sentimento umano che non può essere controllato-
-Io non ho sentimenti umani, li ripudio-
-Li ripudiavi, finché non è entrato John nella tua vita. Ti importerebbe tanto di un’altra persona rapita? Oh no, fratellino. È solo John. John ha il controllo su di te, e di conseguenza sul tuo palazzo mentale-.
Sherlock esitò, guardando il pavimento.
-Che significa? Che John ha comando della mia vita?-
-No, Sherlock. Sto dicendo che voi due, in qualche modo, siete fatti per essere uniti, per stare insieme. “Ciò che è destinato a te troverà sempre il modo di raggiungerti”, e a te è arrivato John. Senza John tu non hai nessuno, non puoi dimostrare la tua intelligenza a chi la apprezza, non hai quegli imput che John ti da, perché nessuna persona è come John-
-Ciò che mi stai descrivendo è amore, cosa che…-
-…provi per John. L’amore non si sceglie, è esso a scegliere te-.
Sherlock, per la prima volta, si sorpresa ad ascoltare le parole del fratello.
Così convincenti, così sensate, così…
vere
 
[Nota dell’autrice: Salve a tutti, lettori e lettrici, e benvenuti in un nuovo capitolo! (Sembra la intro di un video di Youtube, ma vabbé).
Dunque, ho dovuto nuovamente dividere il capitolo in due, poiché queste già sono sette pagine buone di Word, e non so per quanto potrebbe allungarsi, per cui ho trovato “saggio” finirla qui e pubblicare. Sono davvero soddisfatta di questo capitolo, poiché ho saputo ben giostrare le situazioni, incastrare tutti i pezzi, dare le giuste correzioni e motivazioni a ogni evento.
Quindi Martin, che all’inizio poteva sembrare un personaggio secondario, se non addirittura terziario, ha un perché in questa storia, in quanto è stato la prima vittima del nostro serial killer, Willem Van Gogh.
Con questo non voglio assolutamente buttare fango sul Van Gogh autentico (pace all’anima sua!), poiché è uno dei pittori che io amo di più e che influenza anche il mio modo di dipingere, anzi, per me questa storia è anche un tributo alla sua arte.
Willem è semplicemente un malato mentale pedofilo che ha un’ammirazione ossessiva per Van Gogh, e ne imita nome e addirittura sembianze, oltre a riflettere la sua arte in omicidi spietati, e che ne imita i comportamenti e disturbi psichici. Infatti ha un disturbo bipolare, schizofrenia, diverse manie e altre malattie psichiche che vedremo più avanti.
Quindi, altro aspetto che certamente avrete notato, Lily era alleata con il killer già dai tempi in cui andava al liceo, e questo fa di lei una ragazza insicura delle sue scelte, che cerca di essere ribelle nel modo sbagliato.
Non vorrei troppo dilungarmi, per cui termino qui gli approfondimenti sui personaggi xD.
Dunque siamo arrivati al punto in cui John è in un bel pasticcio e Sherlock si è reso conto dei sentimenti che prova per lui (grazie Mycroft per l’illuminazione, insomma) e ha letto una delle lettere di Martin. Ogni lettera ha il suo perché, attenzione!
Come sempre ringrazio tutte le persone che hanno inserito la mia storia in una categoria, tutte quelle che hanno commentato e inviato mp, in particolare Blablia87, che mi supporta (e soprattutto sopporta) da oramai quasi dieci capitoli, e a cui sono eternamente grata per tutta la voglia che mi da di migliorare e di non mollare. Grazie!
Il solito sermone: COMMENTATE, COMMENTATE, COMMENTATE! xD
Grazie di cuore a tutti, alla prossima! <3]

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Capitolo 18
*** Solitudine e dolore pt.2 ***


Sherlock uscì violentemente dall’acqua, schizzandone grandi porzioni sulle mattonelle intorno; le lettere si salvarono miracolosamente dagli abbondanti getti. L’aria era satura di vapore, come una nebbia calda, che impediva la visione della porta al detective. Quanto era rimasto lì dentro? Sufficientemente per prendere l’aria a grandi bocconi. L’acqua gli gocciolava sul corpo nudo, copiosamente, creando lievi gocciolii rilassanti. Uscì dalla vasca, mettendo i piedi sul tappetino umido, infilandosi l’accappatoio che John aveva lasciato la sera prima senza rendersene conto.
Si sentiva sconnesso, inglobato in un sogno, fuori dalla realtà.
In fondo il suo palazzo mentale non era una realtà parallela in cui solo lui poteva accedere? Solo lui e le proiezioni mentali che creava delle persone intorno a sé, quelle rilevanti in quel momento, potevano entrarvi, e le proiezioni stesse stavano prendendo il controllo sulla sua realtà, spiegando a lui, creatore di quell’universo, il perché esso stesse cambiando.
Tutto a partire da quel giorno in laboratorio, con l’entrata di John Watson, soldato appena tornato dall’Afghanistan, con l’abbronzatura fino al polso, taglio militare, zoppicante, telefono regalatogli dalla sorella Harriet, detta Harry.
Quell’uomo era così semplice, una persona perfettamente normale, ma con una complessità d’animo tale da cambiare la sua intera esistenza, reale ed astratta.
L’inchiostro nero era la rabbia, l’ira, l’odio, le crepe la tristezza, la vergogna, la frustrazione.
I sentimenti che iniziavano a prendere parte della sua vita, senza che lui potesse controllarli, così come l’amore.
Erano le sei del mattino.
Si asciugò frettolosamente i capelli con un asciugamano, si infilò i primi abiti che trovò a disposizione e aspettò pazientemente.
Tre, due, uno…” pensò, poi qualcuno bussò con impazienza.
Aprì, e la signora Hudson gli si parò davanti, con affianco Lestrade, che aveva la faccia da chi non aveva chiuso occhio.
Lei, senza dire una parola, abbracciò il detective che, per la prima volta, accolse l’abbraccio senza replicare.
-Oh, Sherlock….mi dispiace così tanto per quello che è successo a John…sono sicura che riuscirai a salvarlo-
-Certamente-.
Lestrade sorrise di tenerezza, poi invitò l’anziana ad andarsene e rimase solo col moro.
-Sherlock…io non so cosa tu abbia in mente adesso. L’auto di Lily è stata trovata abbandonata nei pressi del London Bridge, e non c’era nulla al suo interno, né tantomeno tracce di John. Mi dispiace evidenziarti i fatti compiuti, ma…te l’avevo detto, Sherlock. John doveva sapere del suo rapimento, si sarebbe portato le precauzioni necessarie affinché si difendesse-
-Dato che, per non venire avvelenato, gli sarebbe bastato sparare nel vino, giusto?- disse Sherlock con sarcasmo.
-Sai benissimo cosa intendo. Sarebbe stato più attento a tutto, anche al vino. E tu mi avevi detto che lo avresti protetto, ieri sera-
-Lily aveva pianificato in modo perfetto il piano, già da quando ci si è presentata come patologa, e si è finta nostra compagna per studiare il nostro modo di ragionare, di prendere prove, per vedere dove potessimo arrivare con le indagini, e la sua aria allegra e professionale ci ha sedato il sesto senso e l’abbiamo lasciata infondo alla lista dei sospettati. Ammetto di essere stato un imbecille, a pensare che quella fosse davvero una brava persona, e sono stato fregato.
Provava qualcosa per John già da molto tempo, lo vedevo dagli sguardi che gli rivolgeva, dal tempo che rimaneva ad osservarlo, dal suo interesse improvviso per i rapporti che avessimo io e lui, ma John non era interessato a lei…non ho pensato di intervenire in alcun modo, infondo non erano affari miei. Non mi è chiaro l’esatto perché del rapimento di John, dopotutto-.
Lestrade rimase zitto per qualche secondo, riflettendo.
-Ti risulta che già si conoscessero? Forse?- chiese.
Quelle semplici parole scatenarono nel palazzo mentale una rete di informazioni, ricordi spolverati, calcoli.
-Lestrade- disse, con occhi sbigottiti.
-Sherlock?-.
Il detective si portò le mani unite sotto il mento e iniziò a camminare nervosamente per l’appartamento.
-Hai detto la cosa più stupida e sconnessa che io abbia mai sentito- esclamò, entusiasta.
-Dovrei ringraziarti?-
-Guy, hai detto le ultime parole che avrei pensato, eppure erano quelle esatte!-
-Greg… che vorresti dire?-
-Torna a Scotland Yard, portami i fascicoli su un certo Martin Young, torna entro due ore massime. Cortesemente, cerca di non coinvolgere nessun terzo-
-Potresti spiegarmi cosa succede?!- sbottò l’ispettore, saltando in piedi.
-VAI A SCOTLAND YARD. MARTIN YOUNG, DODICI ANNI FA-.
Lestrade bestemmiò e sbatté la porta, uscendo.
-Oh, aria- disse Sherlock sorridendo, poi tornò in bagno e afferrò le lettere, non curandosi dell’acqua sparsa ovunque, e le strinse.
-Bene, Martin, portami da John-.
 
Era riuscito ad addormentarsi per miracolo, appeso per le braccia. Forse per la stanchezza, per la frustrazione.
I polsi iniziavano a fargli male, sanguinavano, poiché le catene erano troppo corte e non gli permettevano di stare in una posizione comoda senza recargli dolore. Non sapeva che ore fossero, dato il buio intorno a lui, e il freddo lo graffiava in ogni parte del corpo.
Si svegliò per il rumore di una porta che si apriva, e il neon tornò a tormentare le sue pupille, oramai abituate al buio da ore.
John riconobbe Willem, insieme a Lily, portare un televisore a trenta pollici su un tavolo con le rotelle: aveva il lettore dvd incorporato, ed era attaccato a una grossa batteria autonoma.
-Buongiorno, dottor Watson. Passato un buon sonnellino?- disse Willem sorridendo, tra una boccata di pipa e l’altra. John guardava Lily, cercando di decifrare i suoi sentimenti, ma tutto ciò che leggeva era impassibilità, cattiveria, passività. Aveva davvero recitato così bene da fingere delle sensazioni per lui, quell’allegria caratteristica e quella professionalità che la rendevano una donna eccezionale?
Abbassò lo sguardo.
-Lily, abbassa le catene. Facciamo godere al dottor Watson lo spettacolo in tutta comodità-.
Lei obbedì, premendo un pulsante, a John invisibile, sul muro. Le catene si allentarono, e il dottore riuscì a stendere le braccia lungo i fianchi, coprendosi la sua intimità.
Willem accese la televisione e inserì il dvd.
La prima cosa che fu nota a John fu la scarsa qualità audio e video.
Tutto iniziava da una macchina parcheggiata in una strada abbandonata, che riconobbe essere quella del suo amico. Willem era davanti l’obiettivo, e si stava dirigendo verso la portiera dell’autista. Martin sbraitava, ed era uscito dalla vettura, maledicendola di non mettersi in moto, poi vide Willem e iniziò a correre, ma il vantaggio fu poco e inutile.
In un minuto gli fu addosso.
-Martin…- sussurrò John, cercando di auto convincersi che quello fosse tutto un fotomontaggio, una finzione.
-No! Lasciami! È finito il tempo delle mie sofferenze!- urlò il ragazzo, cercando di divincolarsi dalla presa, ma Willem era molto più robusto e lo aveva sopraffatto.
-Gwen…Gwen, aiutami! Ti prego!- disse rivolto al cameraman.
Gwen?” pensò John, guardando Lily. “Questo nome non mi è…”.
Willem prese per i capelli Martin, tirandogli un pugno sulla faccia, così forte da rompergli il setto nasale. Il sangue iniziò a scorrere copiosamente dal viso del giovane, che aveva un’espressione di dolore, di paura.
-MARTIN!- esclamò John, distogliendo lo sguardo.
-GUARDA! Guarda gli effetti dell’abbandono delle persone importanti!- urlò Willem, tirando la testa di John in alto in maniera da costringerlo a guardare.
Willem gettò a terra Martin, tirandogli pugni e calci, per poi rompergli un braccio. Urla strazianti uscirono dalle casse del televisore.
-NO! Ti prego basta…Ti prego…-sussurrò John, mentre iniziava a piangere.
Martin si lasciò andare, non lottò più. Però, per qualche strano motivo, sorrideva, mentre Willem gli calava i pantaloni.
-John…Mi dispiace di non essere stato l’amico che avresti voluto che fossi. Io…- disse il ragazzo, mentre soffocava gli strilli per il dolore della violenza carnale, mentre sangue iniziava ad espandersi, creando una pozza sotto la testa e le gonadi. Willem gliele strava stringendo con una forza tale da rompergliele.
-Io…non ho mai incontrato una persona come te, in tutta la mia vita…Ti sono eternamente grato…per tutto ciò….-.
Willem lo prese per il collo, e gli strinse forte la trachea.
-Il tuo amichetto se la sta spassando altrove, non ti pensa minimamente!-
-…tutto ciò che hai fatto per me….ogni momento….ogni conforto….ogni consiglio. Tu eri…la luce in tutto questo mondo…buio- tossì, sorridendo. Ogni forza lo aveva abbandonato.
Willem gli spezzò l’altro braccio, e il rumore sordo delle ossa rotte rimbombò nella stanza.
-MARTIN! MARTIN!- implorò John, col volto bagnato di lacrime, l’espressione di sofferenza, i lamenti di pianto, i singhiozzi.
-…io…-.
Sorrise, un’ultima volta.
-…ti ho sempre amato….Addio, John…- la luce nei suoi occhi sparì, e le sue iridi azzurre diventarono due specchi opachi.
Goodbye, John.
John era rimasto senza fiato. Lo aveva visto spegnersi davanti a lui. E Willem continuava a infliggergli pugni, calci, incurante dell’ultimo respiro del giovane.
Poi cacciò un coltellino, e iniziò a tagliarlo delicatamente, come se si fosse dimenticato dell’atteggiamento animalesco che aveva assunto poco prima, nello stuprare Martin e poi ucciderlo, sotto l’obiettivo di una videocamera.
Sadico, malvagio, malato.
Sangue si espanse sul terreno, schizzando dalle ferite, tra una risata e l’altra di Van Gogh.
Il video s’interruppe, e John svenne.
 
Sherlock si sdraiò sul suo letto, mettendo le lettere in ordine cronologico, e iniziandole a leggere ad alta voce.
-“Caro John”- iniziò, poi un piccolo foglio scivolò sul suo petto, rivelandosi una foto di Martin e John nel mezzo di una cerchia di amici, che brindavano sorridenti con una Coca Cola. Sherlock si sorprese a guardare molto attentamente John, pensando tra sé e sé che era un bel ragazzo, con quei capelli scompigliati e il sorriso impacciato. Si concentrò poi su Martin, occhi azzurri, sorriso sincero, capelli neri e disordinati, fisico magro e pelle lattea.
Come se fosse un se stesso di dodici anni prima, estroverso e molto più stupido.
-“ieri sera mi sono dedicato alle faccende domestiche, giusto per perdere tempo e non pensare. Ho tolto tutte le mie robe da adolescente dalla mia stanza, e le ho portate in soffitta. Indovina un po’ cosa ho ritrovato! Quel vecchio Game Boy che usavamo in primo, dove ci spaccavamo i pollici nel giocarci, e che ci prestavamo per settimane intere, sparendo completamente dalla circolazione; questa foto che ti ho allegato, nonostante non arriverà mai tra le tue mani, quando brindavamo alla nostra promozione; quel portachiavi che ti si ruppe a casa mia, quello con la piccola pistola giocattolo, che a te piaceva tanto e che io promisi di riparare, senza mai portare il lavoro a termine; e quei gadget che ci regalarono per il benvenuto al liceo, tra i quali quella matita che il mio cane mangiucchiò. E mica solo queste….al momento non mi ricordo gli altri, spero di scriverteli nella prossima lettera. Anche se non la leggerai mai. Nella foto eravamo ancora amici a Gwen Downey e Mike Stratford, quel ragazzo che sparì qualche mese dopo essere arrivato nella nostra scuola…Ancora non capisco il perché Gwen si sia ritirata dopo la sua scomparsa…probabilmente si amavano, e non ne sapevamo niente. Li ho sempre visti molto intimi, quei due. Mi dispiace di essere rimasto l’unico di quella comitiva”-.
Sherlock appuntò il nome su un pezzo di carta, e inviò un messaggio a Lestrade.
Passò alla lettera successiva, sperando di ottenere qualche informazione in più.
-“Caro John”, Dio quanto è disgustante questa introduzione, “qualche giorno fa mio cugino si è sposato, e i miei zii erano così felici…quando siamo tornati dal matrimonio i miei genitori mi hanno rinfacciato per l’ennesima volta il fatto che non trovo una relazione stabile, che non riesco a relazionarmi, e io non faccio altro che ripetere loro che non voglio una moglie, né una fidanzata. Non sono fatte per me le donne, non posso farci nulla. Se ci fossi tu mi diresti: “Martin, va da loro e parlaci, cerca di capire anche il loro punto di vista: stanno invecchiando e vogliono dei nipoti”, ma la vita è la mia e io non voglio assolutamente fidanzarmi con una persona che non amerò. Sarebbe da vigliacchi, non credi? Anche Harriet la pensa così, lei ama chi vuole e come vuole, se ne frega dell’aumento degli alberi genealogici e tutte quelle stronzate che devono necessariamente comporre la famiglia tradizionale.
Io ancora non capisco cosa voglio davvero, voglio solo che tu sia qui, e ci penso ogni giorno, quando dormo, quando mi alzo, quando faccio qualunque cosa. Apro sempre la porta sperando che tu sia lì dietro, ad abbracciarmi, e a dirmi che sei tornato e che non te ne andrai più. Forse sono troppo ossessivo su questo discorso, ma sei l’unica cosa che avevo, e sei andato via
”-.
Prese in mano l’ultima lettera, notando delle differenze. La prima era che la calligrafia era molto sbavata e frettolosa, in alcuni punti illeggibile, e che la carta non era altro che un foglio di carta strappato da un quaderno a righe. Era evidente che aveva poco tempo e tante cose da dire.
-“John, devo sbrigarmi, devo prendere la macchina...(punto illeggibile) sono le tre, ho preso tutti i soldi, tutto ciò che avevo di importante, vado via. Non so quanto tempo richiede questo viaggio, né se arriverò a destinazione, e non è saggio partire di notte e correre ad alta velocità, ma non ho scelta. (punto illeggibile) Gwen non è mai stata Gwen (punto illeggibile) e la cosa peggiore è che ci ha presi in giro, John! Sto arrivando a (punto illeggibile) e devo dirtelo assolutamente. Devo andarmene, e subito. Dubito che ci rivedremo, John, a meno che (punto illeggibile)”-.
Per quanto il detective si sforzasse a decifrare quella scrittura, non riuscì in nessun modo a comprendere ciò che vi era stato scritto.
Stava scappando da qualcuno. Era sicuro che sarebbe morto, ma cercava di auto convincersi che sarebbe riuscito ad arrivare a John. Voleva dirgli qualcosa di importante….riguardante Gwen. Ma chi è questa Gwen?” pensò, riprendendo la foto allegata alla lettera.
Era vecchia, sbiadita, ma i volti erano ben visibili, e si concentrò su quello di Gwen. Era familiare, troppo familiare, come se l’avesse vista da pochissimo tempo.
Ci arrivò solo poco dopo, guardando i capelli castano chiaro e gli occhi chiari, identificandola come…Lily Whitman.
Lily era già presente nel liceo di John, e probabilmente covava la sua cotta sin da quel momento.
Prese velocemente il suo cellulare, digitando poche parole chiavi sul motore di ricerca.
Mike Stratford”, più di diecimila risultati.
Sedicenne scomparso nel centro di Londra in tarda notte, polizia indaga su presunto rapitore. Interrogata Gwen Downey, presente al momento della scomparsa. “Era entrato in un bagno di un bar, l’ho aspettato per mezz’ora, ma non ha fatto mai ritorno.””
Altri file rivelarono che erano state ritrovate tracce di sangue sulla piccola finestrella del bar, e che il corpo non era mai stato rivelato. Solo qualche anno dopo era stata annunciata ufficialmente la morte del ragazzo, dati ritrovamenti ossei dubbi con sopra il DNA del ragazzo, ma la putrefazione era troppo avanzata per essere, effettivamente, lui. Dunque era rimasto un punto interrogativo, e il caso archiviato. Non erano state trovate prove sulla colpevolezza di Gwen o su qualche tipo di complicità, dato l’alibi di ferro fornito dal barista.
Dunque Gwen è Lily, e Martin lo aveva scoperto, voleva comunicarlo a John, ma la morte lo ha colto proprio durante il tragitto. Io non credo che sia una semplice coincidenza, è tutto collegato. Lily collaborava con il killer sin da adolescente, probabilmente aiutava con gli stupri…ma è una supposizione. In ogni caso, nutriva un’infatuazione per John, e si inserì nella sua comitiva. Mike scoprì la sua copertura e provvidero a ucciderlo. Fu poi il turno di Martin, quando anche lui scoprì la verità. Si inserì nella squadra medica dei servizi segreti e collaborò con Victoria, con lo scopo di offrirla poi al suo maestro, ma incontrò John, e ricominciò la sua passione per lui. Capì che doveva rapire John per arrivare a Victoria, e gli diede una scelta: andare via con lei oppure venir rapito, ma ovviamente in maniera tacita. John la rifiutò e lei gli somministrò il sonnifero, così completò anche il suo terzetto. Tutto combacia, ma Lily non è Van Gogh. Lily lavora per Van Gogh. Devo solo scoprire se ho ragione con quelle cartelle che deve portarmi Lestrade”.
Guardò l’orologio, erano le otto e mezzo. Doveva andare da Mycroft, e iniziare le indagini con Rose. Sapeva che lei sapeva, o intuiva, ciò che stava accadendo, e la filastrocca del London Bridge centrasse qualcosa con tutto il caso.
Era vicino alla fine.
 
L’ufficio di Mycroft era straordinariamente ordinato, e si sentiva un lieve odore di detersivi e disinfettanti. Lui era seduto dietro la scrivania, con le gambe accavallate, guardando attentamente la donna davanti a sé, ossia Rose.
Lei si era lasciata i capelli lunghi fino alle caviglie, ma si era lavata e aveva indossato abiti normalissimi, e sembrava quasi una persona comune, mentre accarezzava il grosso persiano bianco, anch’esso rimesso a nuovo, che dormiva beato tra le sue braccia.
-Violinista- disse, accompagnando le parole con un inchino del capo, -è un piacere rivederla. Stavo giusto parlando con suo fratello del rapimento di Bisessuale-
-Buongiorno, Rose, sono contento di vederla. Andiamo-
-No, Sherlock, dobbiamo parlare. Sono sicuro che hai scoperto qualcosa, data la tua inusuale fretta-
-Non ora, Mycroft. Avevi tempo e motivi per poter salvare John ieri sera, eppure te ne sei lavato le mani, ed è quello che farò io adesso. Se cerchi risposte, manda qualcuna delle tue spie o qualcosa del genere. Rose-.
Lei si alzò, svegliando il gatto, e lo lasciò cadere sul pavimento.
Poi si girò verso Mycroft, guardandolo attentamente.
-Un’altra cosa,  Bandiera, questo è per non aver mantenuto il patto che avevamo su Victoria- disse, poi tirò un violento schiaffo all’Holmes, che cadde dalla sedia e iniziò a perdere sangue dal naso. Sherlock rise.
Rose lo raggiunse e, prendendo nuovamente il gatto in braccio, seguì il detective.
 
 
[Nota dell’autrice: Salve lettori! Con un po’ di fatica, ecco il nuovo capitolo! Ultimamente sto sempre a studiare, ora per una materia, ora per un’altra. Finita l’alternanza scuola lavoro, mi aspettano cinque verifiche e altrettante interrogazioni, quindi segno della croce e si va avanti!
Venendo al capitolo, ho deciso di dare un volto ai personaggi, per cui ho fatto un’approfondita ricerca su Google immagini, cercando le persone che più somigliano alle mie descrizioni, ed ecco qua!
Immaginateveli come volete poi, non voglio imporre la mia fantasia agli altri xD
Manca la terza parte di questo capitolo, poiché queste sono altre sette pagine buone di Word e non volevo allungare il brodo, insomma.
Ho incastrato altri pezzi del puzzle, ed ecco delineato anche il passato della comitiva Martin John Gwen e Mike, ed ora tutto ha un perché.
Che dire, vi lascio alle immagini, e ci vediamo al prossimo capitolo!
Grazie ovviamente a tutte le persone che hanno aggiunto la mia storia in qualche categoria, e che hanno commentato e mandato mp! Vi voglio bene, anche se conosco pochissimi xD.
Grazie di cuore a tutti voi! Commentate!
Victoria (immaginatela con i capelli più chiari e gli occhi molto scuri)
Martin Young (Colin Morgan)
Lily Whitman (immaginatela con gli occhiali)
Willem Van Gogh
Rose Johnson
Irina Johnson
 

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Capitolo 19
*** Il piano di Rose ***


John rinvenne, in preda ai sudori freddi e alla debolezza. La mancanza di cibo e di acqua stava creando notevoli disagi al suo corpo, che aveva perso quasi tutte le forze, e il freddo lo stava consumando velocemente.
Aveva la pelle secca, e il cuore andava più lentamente del solito. Ipotermia.
Si sentiva umiliato, solo, e i sensi di colpa gli avevano corroso anche la più piccola forma di razionalità rimastagli. Non aveva più speranze.
Steso sul pavimento come l’essere più inutile della Terra, sperava solo di morire.
Sperava di raggiungere il quarto grado di ipotermia.
Willem accese le luci, accompagnato da Lily.
-Ben ritrovato, dottor Watson. Vuole un po’ d’acqua?- disse, mostrandogli un bicchiere colmo d’acqua con aria canzonatoria, ma John non accennò segno d’interesse. Fu così che Willem gliela buttò in testa, per poi rompere il bicchiere scagliandolo su una parete.
L’acqua era gelida e peggiorò solo lo stato di freddo del povero dottore.
-Cosa c’è?! Non hai sete?!-.
John non rispose.
-Ah, e così non ti è bastato vedere la morte del tuo caro amico frocio in diretta TV?- disse Willem più calmo, avvicinandosi a lui, inginocchiandosi in modo da guardarlo dritto negli occhi.
John sentì un odore di vernici e di tempere penetrargli le narici, e un sorriso malato e malvagio lo derideva, con il bordo delle labbra incrostato di colore asciutto. Come l’autentico Van Gogh, anche lui assaporava l’arte in ogni suo componente.
-Sarai la mia opera più grandiosa, John Hamish Watson- sussurrò, accarezzandogli una guancia, per poi pizzicargliela molto forte. John non riuscì a rattenere un gemito di dolore.
Willem continuò a toccarlo, scompigliandogli i capelli, accarezzandogli il torace, per poi fermarsi con una mano sul cuore.
John non opponeva resistenza, era come una gazzella tra le fauci del leone.
-Fammi morire- supplicò John, con un filo di voce.
-È ancora presto…Morirai davanti agli occhi di tutta Londra, compresi quelli di Sherlock-.
Quel nome scatenò in John uno strano brivido di adrenalina e di malinconia.
-Lily, vai a prendere il gatto a nove code-.
John rimase solo con quell’uomo, che lo fissava nel profondo dei suoi occhi, come se fossero porte aperte.
 
Rose destava non pochi sguardi su di lei, a causa dei lunghi capelli fluttuanti. Camminavano per le strade londinesi verso Baker Street con molti curiosi che scattavano foto.
Nessuno la riconobbe come l’assassina che crocifisse il marito 23 anni prima, fortunatamente.
Sherlock le parlò dettagliatamente di tutti i casi, del rapimento e del ballo, e Rose non aprì bocca per tutto il racconto. Arrivarono a Baker Street senza accorgersene, ed entrarono nell’appartamento: Rose si sedette sulla poltrona di John accavallando le gambe, mentre Mr. Snow annusava ogni angolo, miagolando lievemente.
-Violinista, questa stanza dice più del dovuto sul rapporto che ha con Bisessuale. Innanzitutto, posso darle del tu? Non mi piace dare del lei a chi ritengo del mio stesso livello-
-Si, puoi. Cosa significa quello che hai detto?-
-La poltrona di Bisessuale davanti alla tua poltrona, gesto molto carino e affettuoso, come se volessi sempre tenerlo davanti agli occhi. Una specie di sicurezza, dico bene? La sicurezza di guardarlo negli occhi in ogni momento di bisogno. Per di più è così vicina che i vostri piedi potrebbero toccarsi. Quel contatto che magari accade ogni tanto, di cui voi non vi rendete conto, ma che da conforto a entrambi. Un segno anche di parità, quando viene un cliente e lo potete osservare dalla stessa prospettiva. Il violino, lì, in attesa di essere suonato, ma che suoni solo nelle sere in cui Bisessuale può sentirlo. Altrimenti non ha senso. Lo specchio, ha un suo perché lì, così come tutti gli oggetti in questa stanza. Puoi guardare tutti gli angoli, o meglio…Tutto quello che fa “John”. Le sue reazioni, i suoi pensieri, tutto. Questo la dice lunga su ciò che provi per lui-.



Sherlock ammutolì, facendo caso solo in quel momento di tutti i dettagli che Rose aveva appena elencato e a cui lui non aveva mai prestato attenzione.
Che Rose avesse una capacità osservativa migliore della sua?
-Senza dubbio è l’unico amico che ho e che vorrò sempre avere-
-Amico?- disse lei sorridendo, -Amico?-
-L’amore è…un difetto chimico-
-IL difetto chimico. Che fa parte di ognuno di noi-.
Sherlock sorrise.
-Non ti sfugge niente, Rose Johnson. Dovrebbero esistere più persone con una così alta percezione del mondo-
-Se esistessero più persone come me…probabilmente il mondo sarebbe una landa desolata. Dunque, Violinista, dove sono le lettere?-.
Il detective non le aveva mai parlato delle lettere, eppure provava tanta ammirazione per l’intelligenza di Rose da non sorprendersi: le prese, insieme alla foto, e gliele porse.
Bastarono pochi minuti.
-Questo “Martin” ha baciato per la prima volta “John”, ed erano amici sin dal primo liceo. Probabilmente “Martin” nascondeva la sua omosessualità e quindi la sua attrazione amorosa nei confronti del dottore perché sapeva che tra lui e la sorella non correva buon sangue proprio a causa della sua scelta di vita, dunque ha deciso di tenergli nascosta ogni cosa. Il bacio è stato accidentale.
Questo nella foto è Mike Stratford, scomparso quindici anni fa, assassinato da Gwen Downey, conosciuta attualmente come Lily Whitman, dipendente da droghe allucinogene potenti, principalmente dalla Ketamina, una droga-dance, spacciata come exstasy in associazione con efedrina e caffeina, che fa perdere le percezioni sensoriali e la dimensione della morte. Non è stata protetta dal suo trip e ha perso ogni cognizione della realtà, non riuscendo a bloccare attacchi aggressivi verso le altre persone. Non aveva abbastanza denaro per procurarsi la quantità che le serviva, così quest’uomo, il nostro killer, l’ha invitata ad unirsi a lui nel commettere infanticidi in cambio di dosi notevoli di Ketamina. Chi avrebbe rifiutato? Mike Stratford scoprì questo giro di omicidi e decise di chiamare la polizia nel bagno pubblico, ma venne trovato, rapito e ucciso.
Tolta una bocca, “Martin” scoprì a sua volta il giro di Lily e la sua vera identità e, come vittima diretta degli abusi….-.
Venne interrotta da Sherlock.
-Vittima diretta?-
-Guarda attentamente la foto. Qui il ragazzo ha una barba rada, ma nel mezzo dei baffi c’è un pelo pubico-.
Sherlock sfoderò la sua piccola lente d’ingrandimento, e notò anche lui il corto pelo fulvo tra la barba incolta dell’adolescente, cosa a cui non avrebbe mai fatto caso.
-E chi ti dice che sia stato un abuso?-
-Il labbro spaccato e i lividi sui polsi. Violinista, mi sta deludendo-.
Lui cercò attentamente altri dettagli, e sorprese cose che aveva trascurato, come la mano di John sulla spalla di Martin, stretta in modo affettuoso, e le due lattine, ognuna con due cannucce, una per i due e l’altra per Mike e Lily: anche quello dettaglio abbastanza rilevante su quanto fossero legati; le palpebre cadenti della ragazza indicavano la mancanza di sonno, e le unghie erano incrostate di rosso.
-Sangue-
-Si, esatto-
-E riguardo il bacio?-
-Intuizione…- disse lei, in modo vago, -ad ogni modo, cos’altro vuoi sapere?-
-Dove sia John- disse lui secco, guardandola con i suoi occhi gelidi.
-Per quanto possa essere brava ad osservare non potrò mai darti una risposta in maniera certa. So dove probabilmente potrebbe essere-
-Non mentire. So che quella filastrocca non è casuale, nulla è casuale-
-Ho solamente scritto che il London Bridge cadrà...ed è quello che accadrà- canticchiò, entusiasta della propria rima.
-Il London Bridge non può cadere- sentenziò Sherlock, infastidito.
-Chi può dirlo? Tu? Io?-.
Sherlock decise di lasciar perdere.
-Allora dimmi dove potrebbe essere-
-Cosa? Non lo hai già visto nella foto?-.
Sherlock si sentiva l’Anderson della situazione, a non riuscire a percepire e ad osservare il dovuto.
-Il bracciale di Lily. È molto sbiadito, te lo concedo, ma guarda bene le prime due parole, “Sancte et…-
-….Sapienter. Il motto del King’s College London-
-Bravo, Violinista-.
Ad un tratto il bussare impaziente di qualcuno li interruppe, e il detective aprì, rivelando la signora Hudson.
-Oh cielo! Chi è questa signora?-
-Signorina Johnson, piacere signora Fangirl-
-Fangirl?! Ma cosa significa?- urlò lei, arrossendo.
-Signora Hudson, cosa c’è?- disse Sherlock, prendendo le redini della situazione.
-Oh…è passato qui il signor Lestrade, ha lasciato questi fascicoli-
-Era ora! Bene, vada via-.
Per la prima volta, l’anziana fu contenta di levarsi dai piedi.
Lessero attentamente ogni documento, guardando la foto del cadavere di Martin, al quale non avevano eseguito nessuna autopsia per richiesta della famiglia. Si vedeva chiaramente che c’erano stati tagli netti sul corpo, le gonadi non erano descrivibili perché erano state completamente distrutte, le braccia e alcune costole erano rotte, e il viso tumefatto e aperto. Causa della morte: incidente stradale, corpo compresso in maniera mortale tra le lamiere della macchina e del tir con il quale è avvenuto lo scontro.
-Stupro- dissero i due contemporaneamente.
-Avevi ragione- ammise Sherlock, guardando il corpo senza vita nella foto, -non è morto per incidente stradale, è stato stuprato, tagliato e accuratamente ricomposto per poi essere buttato sulla strada incontro a un tir. È lo stesso killer di adesso-
-Esattamente. Anche Martin aveva scoperto la complicità  di Gwen con il killer e decise di andare da John, così da dirgli in quale pericolo fossero sin dall’inizio, ma lo presero e fecero tacere anche lui. John non ne sa nulla di tutto questo, almeno non fino al suo rapimento: non credo proprio che il killer si sia fatto sfuggire l’occasione di sbattergli in faccia la morte della sua ex fiamma, in modo da renderlo ancora più debole tra le sue mani-.
Sherlock sentì un magone stringergli la gola, nell’immaginare John sconvolto dalla morte del ragazzo che gli piaceva.
-Cosa intendi fare?- chiese il detective, guardandola.
-La via più semplice non va a braccetto con la legge-
-Ottimo-.
 
Ogni schiocco equivaleva a un forte bruciore lancinante, sentiva il sangue scorrergli lentamente da ogni segmento aperto nella carne, e sudore e freddo si alternavano in una vorticosa danza con il dolore. Sentiva, in ogni laccio di cuoio, tutto il rancore, l’odio e la forza di quell’uomo disturbato, e per un attimo si ricordò di Sherlock mentre frustava quel cadavere, e sorrise, nonostante la sofferenza che provava in quel momento.
Spesso il gatto a nove code gli graffiava la stessa ferita, e doveva fare uno sforzo immane per non urlare. Sangue scarlatto zampillava ai suoi piedi.
Quando il martirio finì, la schiena gli bruciava a tal punto che a John sembrava che gli avessero passato lentamente, in ogni angolo, un accendino. Come soldato aveva subito molte violenze, e ne aveva altrettante viste, ma mai aveva immaginato di finire fustigato, nudo su un pavimento freddo.
Si abbandonò a se stesso, subendo la forza di gravità.
Poco dopo sentì dell’acqua gelida infrangersi sulle ferite. 
-Che dice, dottor Watson, si sta godendo il soggiorno?- disse Willem, leccandosi le labbra. Il dottore non rispose.
-Lily, porta la bevanda speciale, quest’uomo ha sete!- canticchiò.
Passarono pochi minuti, quando la donna rientrò con una bottiglia dal contenuto verdegiallo, molto diverso dal “Dr.Hyde” che John era solito vedere sugli scaffali di liquori.
Quando Willem stappò la bottiglia e ne bevve un abbondante sorso, John sentì un debole odore di liquirizia ed erbe. Si trovava davanti alla Fée Verte, l’assenzio.
Willem si avvicinò a lui con aria minacciosa e soddisfatta e, dopo avergli tappato il naso, lo costrinse a mandare giù tutto il contenuto.
L’amarezza piacevole dell’artemisia absinthium nel retrogusto, la morbidezza del finocchio, l’aroma di anice verde, l’aspetto erbaceo dell’issopo, la melissa e il coriandolo si susseguirono nella gola del dottore, che cercava di respirare disperatamente e di gettare fuori tutto l’assenzio che poteva. La schiena non gli permetteva di muoversi, sangue continuava a scorrergli sulla colonna vertebrale, la trachea richiamava aria  e gocce di assenzio gli andavano di traverso, procurandogli attacchi di tosse e soffocamento.
Quando il fondo fu libero di qualunque liquido, John crollò sul pavimento, respirando convulsamente, per poi vomitare, lasciando la gola secca, che gli dava bruciore e prurito, mentre lo stomaco era sottosopra, brontolando ancora una volta.
Lily portò altre bottiglie, e il rito si ripeté finché il dottore non fu in grado di tenere tutto nello stomaco.
-Ha ancora sete, dottor Watson?- chiese Willem, derisorio, per poi tirargli un calcio nella pancia, così forte che John non riuscì a trattenersi e vomitò ancora.
Lily andò a prendere altre bottiglie.
 
Calò la sera, ancor prima che Sherlock se ne potesse rendere conto. Avevano organizzato il tutto così perfettamente da non riuscire a tener conto del tempo che passava inesorabilmente.
-Sei sicura che sia al King’s College London?-
-Quasi. Tutti gli stupri collegati dell’epoca sono avvenuti in quel circondario, e non penso che il killer non abbia sfruttato il punto centrale. Se non lo usasse per John, per chi dovrebbe usarlo? E poi ci sono dei sotterranei in quella scuola che nessuno conosce, poiché una porta è stata murata, e sono più di duecento metri quadri di spazi vuoti-.
Il detective fece un cenno di assenso e infilò il cappotto, nascondendo, in una tasca interna, una piccola pistola calibro 9.
Ci avevano messo un po’ a far credere a Lestrade che stessero facendo delle indagini nell’armeria, ma alla fine erano riusciti a sottrarre tutto il necessario senza destare troppi sospetti. L’unico ostacolo fu la signora Hudson che, avendo visto l’M4A1 preso da Rose, era svenuta, pensando che volesse assassinarla.
La scusa che avevano detto all’ispettore, in seguito al “che state facendo con quella cazzo di arma?!”, era stata “c’è un altro pedofilo tra i piedi, lo acchiappiamo”, per poi convincerlo a non mandare alcun tipo di rinforzo, poiché missione top secret. E lui ci aveva creduto.
Sherlock sapeva, nel suo piccolo, che Lestrade sarebbe dovuto essere il primo a sapere tutto quel piano, ma dubitava nella riuscita di quest’ultimo, se le matricole della polizia si fossero messe in mezzo. Neanche gli agenti scelti da Victoria andavano bene.
Arrivarono a piedi al liceo, ed entrambi erano completamente vestiti di nero: sarebbe stato difficile individuarli, nella scura notte invernale. Nonostante avessero portato un paio di  grimaldelli e altre misure per evadere a ogni sistema di allarme, si accorsero, con grande sollievo, che la porta della palestra sul retro era aperta, probabilmente dimenticata da qualche funzionario dell’ATA, convinto che nessuno sarebbe entrato in quella scuola in tarda sera. Non suonò nessun allarme, né videro telecamere.
Silenziosamente sgattaiolarono nei corridoi, seguendo la mappa mentale di Sherlock, fino ad arrivare ai piani più bassi della struttura.
Arrivati nella biblioteca, sentirono un chiaro rumore di passi.
Due uomini. Robusti, sui quarant’anni” elaborò Sherlock. Si nascosero dietro uno scaffale di libri per adulti.
-Quanti te ne hanno offerti questo mese?-
-Soltanto tre delle elementari, candide bambine bianche e lisce come la seta. Sapessi che piacere toccare quelle piccole gambe sottili…-.
Era un uomo di colore a parlare, grasso e con un pizzetto folto.
Sciatto, abbandonato dalla famiglia, uomo disoccupato e fallito, nonché senzatetto”.
-A te invece?-
-Solo un bambino figlio di una ricca famiglia di snob stronzi e menefreghisti. E dire che me lo scopo davanti a loro quasi, e sembra che non se ne accorgano!-.
Rose sorrise in modo derisorio.
-È ottimo questo sistema di protezione. Noi cerchiamo di acchiappare quella bambina, e in cambio riceviamo soldi, tetto e sesso! Potrei anche cercarla tutta la vita, quella piccola bastarda di Willem, tanto l’importante è che sto bene io!-.
Le voci piano piano si allontanarono, lasciando la scuola nel suo silenzio.
I due uscirono dal nascondiglio, e si diressero dalla parte opposta a quella dei due malviventi, arrivando così alla porta murata.
Non aveva per niente l’aria di essere tale, dato che era una semplice porta con sopra della pietra, modellata in maniera che somigliasse a un luogo inaccessibile. Bastò cercare un interruttore per aprirla.
-Da adesso apri bene gli occhi, Violinista. Manca poco alla fine-
-Dunque avevi ragione, era proprio qui il posto. Rifugio per i pedofili di notte, scuola ordinaria di giorno. Willem dev’essere il killer, dato che la bambina è senza dubbio Victoria-
-Victoria? Victoria non è una bambina, Violinista-.
Sherlock non riuscì a trattenere un’espressione sorpresa: possibile che Rose non sapesse che Victoria era una bambina? Allora i suoi calcoli tornavano. Victoria come la conoscevano lui, John, Lestrade e gli altri non era la Victoria reale.
-Dunque quella che si spaccia per lei non è Victoria-
-Di cosa parli, si può sapere?- chiese Rose abbastanza infastidita.
-Victoria che vediamo noi è una bambina di dieci anni con la sindrome di Waardenburg, che si fa chiamare “Victoria gambe di forbice”, ed è stata mirata dal killer, per questo ci sono così tanti infanticidi-
-Victoria ha ventidue anni e, come ho già detto, è scomparsa dalla circolazione ben cinque anni fa, dunque non può né avere dieci anni né avere la sindrome, poiché quella era sua sorella Grace.-
-Ma Grace è morta-
-Esatto-.
Smisero di parlare a causa di altri passi, che si avvicinavano quasi correndo.
-Non possiamo evitarli, questo è un corridoio. Rose, carica l’M4A1-.
Appena gli uomini li videro, Sherlock sparò un colpo che centrò in pieno uno dei due, già intento a prendere la propria arma. Rose sparò al secondo, e lo sparo rimbombò per tutto l’edificio. Era ovvio che da lì a poco un’orda di uomini armati si sarebbe buttata al loro inseguimento.
-Presto! Dobbiamo trovare John!- urlò Sherlock, correndo per altri corridoi stretti.
Incrociò un uomo con la pistola carica, che tentò di sparargli. L’avrebbe preso in pieno, se l’arma non si fosse inceppata. Il detective gli diede un rapido colpo con il manico della calibro nove sulla nuca, per poi farlo roteare e fargli perdere i sensi con una testata.
Rose ne centrò tre alle ginocchia, facendoli riversare a terra tra grida di dolore.
Ad un incrocio lei riuscì a schivare il pugno di un vecchietto che puzzava d’alcol, poi gli tirò a sua volta un calcio in avanti che scagliò l’anziano a parecchi metri di distanza; Sherlock ruppe un paio di denti a un altro, e spararono a molti in arrivo da un ennesimo corridoio.
Corsero rapidamente verso una grande porta di ferro, che dava su una stanza, ma era chiusa a chiave.
-È qui!- urlò lei, e il detective si gettò su essa con tutto il suo peso, senza riuscire a smuoverla di un millimetro dai cardini.
-JOHN!- urlò, -MI SENTI?! JOHN!-, ma nessuna risposta venne.
-Violinista- chiamò Rose, che indicava con il mento una folla di pedofili armati venire verso di loro.
Sparò alcuni, ma altri si riversavano al loro posto.
-È una rete più grande di quanto pensassi. Violinista, devo confessarti una cosa-
-Non credo sia momento di confessioni, non sono un prete- disse Sherlock con calma glaciale.
-Ho con me una bomba artigianale, l’ho preparata mentre mi vestivo, per ogni evenienza. Mi servirebbe un accendino, cortesemente-
-Abbiamo il venti percento di possibilità di scappare. O l’orda, o l’esplosione-
-L’accendino, signor Holmes- disse lei con tono duro, e lui glielo diede, seccato.
-Dieci secondi, e raggiungerà l’esplosivo. Se seguono il mio ragionamento, non faranno un passo di più vedendo la bomba. Dieci…-.
Tolse la sicura all’ordigno, grande quanto una sveglia, tirando un cavo di plastica a un lato. Era rotonda e dall’aria pesante. Accese una sorta di miccia fatta di spago, che prese immediatamente.
Appena videro la miccia accesa, fecero due più due e si fermarono a riflettere sul da farsi.
-Nove…-.
Uno di loro se la diede a gambe lentamente, seguito da un altro e poi un altro.
-Otto…-.
Metà folla abbandonò la sua postazione, correndo disordinatamente nei corridoi, altri urlavano.
-Sette…-.
Tra di essi c’era qualcuno che cercava di infondere coraggio, dicendo loro che era tutta una farsa.
-Sei…-.
Uno cercò di sparare, ma mancò di molto il bersaglio.
-Cinque…-.
I pochi rimasti cercavano di prendere la mira e sparare bene, ma avevano tutta l’aria di non essere pronti a quel tipo di emergenza e gettarono la pistola a terra, raggiungendo quelli già scappati.
-Quattro…-.
Ne era rimasto uno, che non aveva nessuna voglia di morire da vigliacco.
-Tre…Violinista!-.
Sherlock e Rose abbandonarono la bomba e corsero verso l’uomo, sparandolo precisamente nella fronte.
-Due…Uno!-.
L’esplosione si propagò in tutto l’edificio, e un denso fuoco infiammò il corridoio, mentre pezzi di plastica bruciata rimbalzavano sulle pareti. Si erano buttati a terra, e avevano evitato ogni scheggia.
Suonò un allarme antincendio, e un rumore assordante e meccanico si propagò nei dintorni.
Della porta di ferro non era avanzato nulla, era rimasto solo un buco nero.
Sherlock si alzò in tutta fretta e corse nella porta, urlando il nome dell’amico.
C’erano delle catene attaccate ai muri, e una forte puzza di erbe.
Assenzio” pensò il detective, mentre prendeva forma una figura scura davanti a lui.
-John! John!- urlò, toccando la figura, ma poi si rese conto che non era altro che una sedia imbottita di cuscini, sulla quale c’era un biglietto.
La calligrafia era elegante e arrotondata.
“London Bridge is falling down
Falling down, falling down.
In a rainy night with no moon
In the fall he will die soon.”
 
Sherlock imprecò a gran voce, tirando un calcio alla sedia, mentre si udiva il suono delle volanti della polizia fuori dall’edificio.
Sherlock vide, uscendo dalla stanza, nella voragine che l’esplosione aveva creato, una fitta pioggia cadere e Lestrade guardarlo da lontano.
 
 
[Nota dell’autrice: salve lettori! Benvenuti a un nuovo capitolo!
Sono molto in ritardo con la pubblicazione per diversi motivi: ho avuto l’influenza, tra un po’ è il compleanno del mio fidanzato e ho dovuto organizzare svariate cose, compiti e interrogazioni e, dulcis in fundo, word mi aveva cancellato tutto il capitolo e l’ho dovuto riscrivere daccapo per qualche oscura ragione. Riscriverlo è stata dura, anche perché ho avuto mille ripensamenti fino all’ultimo e ho cambiato tutto, rendendolo ancora più lungo di quanto già non fosse. Ad ogni modo, finalmente ce l’ho fatta, e spero davvero che vi piaccia!
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito, che hanno inserito la mia storia in qualche categoria e che mi hanno mandato mp, apprezzo il tutto in maniera smisurata! <3
Oramai mancano due capitoli, dopodiché lavorerò al sequel!
Grazie per tutto a tutti! <3]

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Capitolo 20
*** Vatican Cameos pt.1 ***


 –Io non ci posso credere- esclamò l’ispettore, mettendosi le mani in testa e guardando il cielo, -una bomba artigianale…UNA BOMBA ARTIGIANALE!- sbatté un pugno sul tavolo di fronte a lui, così forte che spaventò anche Molly, abituata a quel genere di arrabbiature.
Rose era seduta in maniera composta su una sedia dall’altra parte della scrivania, con in braccio Mr.Snow, che si era fatta recapitare tramite un poliziotto. Il persiano guardava, con aria persa, Lestrade.
-Ma tu hai una minima idea di quello che hai combinato?!- urlò verso Sherlock, seduto accanto a Rose, come se stesse rimproverando un bambino che aveva scritto sui muri con un pennarello.
-DOVREMO RISARCIRE LA SCUOLA! È saltato per aria una buona parte del piano terra e anche una parte delle fondamenta! POTEVATE RIMANERE SEPPELLITI Lì SOTTO, TU, JOHN E TUTTI QUELLI Lì PRESENTI!-
-Avete arrestato più di novanta pedofili ricercati da anni dalle autorità inglesi, io credo di aver fatto più che un piacere-
-CRISTO, MA TI RENDI CONTO DI COME CAZZO PARLI?- continuò Greg, mentre Anderson rideva sotto i baffi, soddisfatto del trattamento che Sherlock stava subendo, -ti ho lasciato carta bianca, Sherlock, mi sono fidato di te, ti ho lasciato prendere quelle armi…e tu così mi ripaghi? Che cosa ho fatto di male, eh? Potevi chiamarmi, potevi chiedere il mio aiuto, avremo salvato John insieme!-
-Non credo proprio che un’orda di poliziotti sarebbe passata inosservata. Ora Lestrade, mi fai il piacere di finire questa buffonata e di lasciarmi salvare John alla vecchia maniera?-
-TU NON TI MUOVI DA QUI, CHIARO?! Sono arcistufo del tuo comportamento da genio indiscusso. D’ora in poi ci penserò io a John. Tu torni a Baker Street, se non vuoi finire in gattabuia-.
Sherlock saltò in piedi, con la faccia livida di rabbia.
-Ti voglio ricordare che non sei stato capace di risolvere il caso della signora anziana che non trovava suo marito, il quale alla fine si trovava dentro un armadio. Vogliamo far passare John a miglior vita? Io non credo che tu abbia capito QUALCOSA di tutto quello che è successo stasera-
-Io un’idea ce l’avrei- lo interruppe Anderson, mettendosi di fianco a Lestrade con aria saggia –dato che nel biglietto sta scritto che il London Bridge sta per cadere insieme a John, direi che John si trova sul London Bridge-.
Lestrade per un attimo sembrò preso dalla teoria di Anderson, ma Sherlock provvide a smontarla immediatamente.
-Certo, sarebbe semplice se ogni killer scrivesse l’esatta posizione di un ostaggio, no? ASTUTO, DAVVERO. Spero che tu non abbia mai voglia di rapire qualcuno, ti troveresti al commissariato in circa venti minuti.- esclamò il detective.
Molly annuì.
-Beh in effetti, Philip…non credo che tu abbia centrato l’obiettivo- disse lei.
Lestrade si sentì costretto a dargli ragione, ma la rabbia gli oscurava la mente come uno spesso mantello nero.
-Ora basta! Io invio rinforzi al London Bridge e lo terrò sotto stretta sorveglianza per ogni giorno di questa fitta pioggia, e non voglio sentire una parola di disappunto, sono stato chiaro?!-.
Anderson sorrise, mentre Sherlock si costrinse ad andarsene.
-Ci vediamo al funerale di John, allora-.
Rose lo seguì a ruota, guardando di sbieco l’ispettore. Molly lo inseguì, con un’espressione preoccupata dipinta in volto.
-Sherlock!- balbettò, bloccandolo una volta chiusa la porta dell’ufficio di Lestrade.
-Cosa c’è, Molly?- chiese lui, mentre la sua mente elaborava concetti e Rose la scrutava da capo a piedi.
-Vorrei sapere tutto quello che sai sulla faccenda. So che tieni a John, e vorrei aiutarti, nel limite delle mie possibilità- balbettò.
-Apprezzo davvero il tuo aiuto, Molly. Ti dirò ogni cosa. Puoi raggiungermi al King’s College London appena puoi?-
-C…certo!-.
Appena usciti dal dipartimento, Rose si voltò indietro per un momento.
-Tiene così tanto a te che è pronta a lasciarti a John, pur di vederti felice-
-Già. Però è l’unica che sappia cos’è il buonsenso, qui-.
 
John si svegliò nel buio più assoluto. Percepì il pelo sintetico sotto la sua schiena, e ad un tratto tutti i bruciori, le ferite e la gola secca si fecero sentire, riportandolo alla dura realtà. Per quanto avesse freddo, si accorse di avere addosso dei pantaloni e delle scarpe, che però non riconosceva come proprie. Tentò di alzarsi, ma sbatté contro una superficie ferrea.
Era dentro un portabagagli.
Uno spesso bavaglio gli tappava la bocca, e chiedere aiuto gli era pressoché impossibile.
Un forte rumore di mezzi di trasporto in passaggio gli tappava le orecchie. Probabilmente era in qualche strada parecchio trafficata ma, la macchina in cui era, era ferma.
La debolezza lo aveva completamente pervaso, come un involucro sottile, rendendolo vulnerabile a qualsiasi azione, anche la più banale. Da soldato gli era spesso capitato di non poter mangiare per giorni interi, e non era la fame a metterlo in quella condizione: i segni delle frustate non gli permettevano di muoversi, altrimenti si sarebbero aperte; lo stomaco gli faceva male; il freddo gli aveva provocato un mal di testa forte e infine il vomito frequente di poco prima gli bruciava alla gola.
Puzzava di sudore, di marcio e di malato, e la barba iniziava a pungergli le guance.
-Shllgh…- cercò di dire, invocando il nome dell’amico, ma bagnò solamente il bavaglio.
Cercò di liberare le mani, ma una corda robusta gli ricordò la sua posizione da prigioniero.
Poggiò la testa sulla morbidezza sintetica del portabagagli e, rassegnato, chiuse gli occhi.
Pensando a esperimenti svolti su un tavolo della cucina, a un’anziana signora bionda che portava del tè e a suonate di violino in tarda sera.
Piangendo.
Gli tornò alla mente la sera ad Amsterdam, quando inseguivano Bakker, e fuori alla discoteca Sherlock lo baciò.
“La mia vita è cambiata da quel momento a quanto pare, non posso negarlo. Quel bacio mi ha fatto riaffiorare i ricordi di Martin, e mi ha aperto nuove porte di cui prima non sapevo l’esistenza”.
You’re always so passive in kissing?
La voce di Sherlock fu così nitida nella sua mente che gli sembrava quasi di sentirla vicina.
Sorrise, nonostante la situazione e il suo stato.
“So baciare, credimi. Se solo mi avessi dato il tempo di…” si fermò, nella riflessione, ma poi decise di lasciare andare i suoi veri sentimenti.
“…se solo mi avessi dato il tempo di dimostrartelo.” John rimase, in quel frangente, in cui il cuore, tra un battito e l’altro, si fermò un secondo, a ripensare e a rivivere tutti i momenti passati col detective.
Quando Magnussen lo stava stuzzicando e Sherlock lo aveva sparato.
Quando Sherlock aveva fatto quella finta proposta di matrimonio a Janine, e lui aveva provato una profonda fitta al cuore, senza motivo.
Quando Janine lo aveva chiamato Sherly, nome che lui aveva sempre pensato per Sherlock, ma che non aveva mai pensato di usare, per non sembrare ridicolo, e che Janine aveva usato, come una bestemmia, a gran voce nel loro appartamento.
Quando l’aveva baciata sulla porta, con un sorriso, e lui era rimasto, come un terzo incomodo, lì dietro a osservarli, escluso.
Quando, dopo due anni, gli si era presentato come cameriere mentre cercava di cenare tranquillamente, da solo, in un ristorante, rimproverandolo per i suoi baffi.
Quando Sherlock stava ballando con Irina, e sembravano una coppia affiatata, e lui non riusciva a smettere di guardarli.
I’m not his date.
Fantastic! Brilliant! Amazing!
Quante volte aveva ripetuto quelle parole? Quante volte aveva trovato l’intelligenza di Sherlock così acuta al punto da essere affascinante?
Girlfriend? No, not really my area.
“Neanche la mia” pensò John, “da quando ci sei tu, Sherlock”.
 
Il detective era seduto su una panchina, vicino alla scuola, con Mr. Snow che gli si strofinava sulle ginocchia alla ricerca di coccole. Rose si toglieva, in movimenti fluidi, le doppie punte, afferrandosi i capelli come se fossero fili dorati e preziosi.
Molly comparve sotto la luce dei lampioni pochi minuti dopo, si era ben pettinata e aveva rinnovato il trucco, mettendosi un po’ di cipria.
Sherlock e Rose si alzarono, e Mr. Snow si sedette sulla panchina, guardando la patologa.
-Spero che non mi abbiate aspettato molto- si scusò lei, tentando un sorriso, -ad ogni modo io sono Molly Hooper, piacere- disse, tendendo la mano verso Rose.
-Rose Johnson, molto piacere, Innamorata-
-Innamorata? Che significa questo appellativo?-
-Sai, Molly, Rose trova un aggettivo per ogni persona che incontra, più precisamente l’aggettivo dominante in ogni individuo-.
Molly arrossì visibilmente, mentre il detective si incamminava verso la voragine che la bomba artigianale aveva lasciato al posto di una grande porzione di parete. Rose sorrise, forzatamente, verso l’altra, invitandola a seguirli.
Rientrarono nella stanza del biglietto, con la differenza che l’odore dell’assenzio, che prima era ben presente, in quel momento era appena percettibile.
-Molly, dimmi tutto ciò che vedi in questa stanza-
-È buio…ma direi che c’è un lieve odore di assenzio e succhi gastrici, quindi vomito-.
Sherlock accese la torcia del suo iPhone, e ad un tratto gli saltò agli occhi un particolare gigantesco che poco prima era invisibile a causa del buio.
Un’enorme scritta, in rosso, fatta con un pennello spesso, apparve, sulla parete dietro la sedia piena di cuscini.



VATICAN CAMEOS

Sherlock, per la sorpresa, fece un passo indietro. Era ovvio che la scrittura non apparteneva a John, la conosceva fin troppo bene.
Come sapeva del loro codice?
-Sa anche di più di quel che dovrebbe- commentò, per concentrarsi poi su ciò che c’era sotto la scritta: un ritratto ben elaborato di John, che prendeva tutta la parete, fatto con colori ad olio e dettagliato.
Rivedere John dipinto su quella parete riaprì una ferita nascosta nell’animo del detective, poiché l’amico sembrava guardarlo, in tutta la sua grandezza, con un’espressione seria e accusatoria.
Gli sembrò quasi di sentirlo: “ancora sei lì a indagare? Quando ti decidi a salvarmi?”.
-Rose-
-Scritto indubbiamente dal killer, che si è immedesimato nel personaggio di Van Gogh a tal punto da imparare una tecnica pittorica simile alla sua. La differenza è che lui trae piacere nel dipingere le sue vittime. Guarda i tratti di John, così dolci eppure così severi: ci ha messo una passione incondizionata in questo lavoro, per poi “completarlo” col vostro messaggio in codice che vi dite quando qualcuno sta per morire, “cammei vaticani”. Inutile dirti che è rivolto a John, indubbiamente- disse lei, muovendo velocemente le pupille.
Molly ne approfittò per avvicinarsi alla sedia piena di cuscini e alle catene appoggiate su di essa. Accese anche la sua torcia, e analizzò la situazione, molto più lentamente degli altri due.
-Sherlock…- sussurrò, quasi temendo di interrompere qualcosa. Sherlock la affiancò e si chinò, cercando di tenere a freno ogni pensiero e di lasciarla parlare. A differenza di Anderson, infatti, Molly gli avrebbe potuto dare qualche imput utile.
-Su queste catene ci sono lembi di pelle, credo che legassero John. Inoltre ci sono schizzi di sangue: un coltello non può essere stato…-
Perché il sangue sarebbe stato molto di più” concluse Sherlock mentalmente.
-…e dato che gli schizzi sono arrivati fino a qui, direi che l’hanno colpito con una…-
Frusta
-Inoltre l’assenzio gli è stato somministrato con la forza, dato che ce n’è una quantità tale da non poter essere trattenuta dallo stomaco, e l’ha dovuto bere continuamente, finché non l’è riuscito a tenere. Guarda, succhi gastrici e assenzio mischiati perfettamente con acqua, ma l’acqua non è stata ingerita-
-Prendere un campione sarebbe utile, se solo avessimo tempo per analizzarlo. Molly, sei stata molto d’aiuto, ti ringrazio-
-Di nulla. Scusami se te lo chiedo, ma come intendi fare?-.
Sherlock guardò Rose, che stava tastando il vomito con il medio e il pollice.
-Per quanto Rose sappia di tutta questa faccenda, sono più che certa che lei non c’entri nulla. Non avrebbe avuto il tempo materiale per organizzare il piano, né ne avrebbe avuto il motivo. Tuttavia le sue previsioni, la filastrocca, mi fanno riflettere, probabilmente ha una specie di attività sensoriale molto attiva affinché intuisca quasi tutto, e inoltre è molto probabile che riceveva informazioni dall’esterno quando era in manicomio.
Ma ora passiamo alla filastrocca. È ovvio che un killer professionista non ci metterebbe mai sul binario giusto, altrimenti avrebbe grosse difficoltà, anche se fosse esperto.
Il London Bridge è appunto il ponte di Londra, ma secondo alcune leggende si tende ad identificare come tale il Tower Bridge, a destra di esso.
Sono certo che abbiano portato John lì. Questa notte pioverà e la Luna sarà completamente oscura, e quest’oggi sarà l’unico giorno di questo mese in cui capiteranno le medesime condizioni meteorologiche. Dunque questa è la notte-.
Molly ammutolì, tra l’ammirazione e un’improvvisa angoscia.
-Allora, che aspettate?- disse Rose, interrompendoli, -l’oscurità sta calando-.
 
Le strade erano completamente sgombre. Qualcosa era accaduto, dato che ogni via era deserta, anche la più trafficata, in quell’ora di notte.
Una scheggia di Luna faceva capolino tra le nuvole, mentre un’ombra la stava avvolgendo.
-Molly, vai da Lestrade, avvertilo. Fallo per John, fallo…per me- disse il detective alla patologa, un po’ riluttante.
-Sherlock, so che ami John. Non c’è bisogno che tu faccia tutti questi giri di parole. Corro, tu abbi cura di te- rispose Molly sorridendo forzatamente, poi iniziò a correre, dato che i taxi non sembravano liberi di circolare.
-Violinista- lo chiamò Rose, -tieni questa pistola, un piccolo ricordo di Scotland Yard. Io vado a rifornirmi, ci vediamo al Tower Bridge-.
 
Un elicottero passò rapido sulla testa di Sherlock, mentre correva in direzione del distretto di Southwark. Era ovvio che Victoria aveva intuito lo stesso suo pensiero e che si stava dirigendo al ponte.
Sherlock prese una grande boccata di aria gelida nei polmoni, e corse con tutta la velocità che le gambe gli permettevano.
Passo dopo passo, sentiva l’ansia assalirlo sempre di più, la distanza tra lui e il Tower Bridge sembrava infinita, e il tempo così poco.
Doveva correre, poiché ogni singolo minuto che passava poteva segnare la fine di John Hamish Watson.
Il suo John Hamish Watson.
 
Il ponte mobile era avvolto nel silenzio ed era illuminato solo dalle luci delle sue torri, che troneggiavano solenni nell’oscurità. Il semaforo era rosso e la strada sbarrata, ma nessuna macchina era lì ad aspettare che esso diventasse verde.
Era rosso senza un perché, dato che il ponte era ben serrato e nessuna barca in vista.
Alla destra del Tower Bridge, molte volanti della polizia bloccavano le uscite del London Bridge, compresa un’ambulanza.
John Watson, steso sul freddo asfalto, sotto la galleria del ponte dal lato della Torre di Londra, sentiva ogni singola pietruzza tagliargli la carne e una mano stretta sul cuoio capelluto, mentre le ferite sulla schiena gli dolevano, reclamando cure; la corda che faceva attrito con i polsi screpolati.
“Arriverà” si ripeteva, mentre gocce di pioggia iniziavano a infrangersi sulla strada, una dopo l’altra.
Willem, quasi deliziato dall’attesa, diede una pacca su una delle ferite di John, che trattenne un gemito.
-Chissà se è davvero intelligente come dice. Sono proprio curioso di vedere come reagirà vedendo morire il suo blogger- disse, prendendo una boccata dalla pipa.
Arriverà”.
Improvvisamente un rumore di un elicottero infranse il silenzio, mentre al centro del ponte una figura piccola e bionda si calava dall’aerogiro. Willem trascinò John verso di lei, in un vortice di emozioni.
-Che onore- disse, mentre il mezzo si allontanava, -non speravo quasi più in questo incontro-.
Victoria si avvicinò, con un sorriso gelido in volto, ai due, poi buttò a terra la Socom placcata in argento.
-Finiamo questa storia- esordì lei, frantumando la pistola calpestandola.
John non era mai stato così felice di vederla, ma la pistola frantumata non fece che aumentare la sua preoccupazione.
Willem lo lasciò indietro, per nulla preoccupato, data la corda fortemente legata intorno a polsi e caviglie del dottore, e spense la pipa buttandola in una pozzanghera.
-Non così in fretta, mia cara V. Che ne dici di parlare un po’, prima?-.
 
Sherlock era arrivato all’entrata sbarrata del Tower Bridge, scavalcandola con noncuranza. Si fermò e si guardò intorno, mentre intravide delle figure scure molto lontano da lui, a metà del ponte.
Bombe” pensò, mentre vedeva dei piccoli congegni illuminarsi lungo tutta la parte iniziale della strada, “forse è questa la caduta del ponte”.
Passando cautamente oltre, riprese la sua corsa.
John vide qualcuno correre verso di loro, mentre un cappotto ondeggiava nel vento della notte.
Per un momento uno strano senso di gioia gli invase il cuore, mentre i dettagli dell’uomo che si avvicinava correndo prendevano sempre più forma. Non sentì più il freddo pungente, né le ferite, né i ciottoli sotto le ginocchia, né lo stomaco bruciargli…erano solo i suoi occhi, che si godevano l’avvicinarsi dell’amico, e il cuore battere di rinnovata speranza.
Il detective, quando vide John sorridergli in maniera così rassegnata e allo stesso tempo felice, provò un forte senso di rabbia e tristezza, mentre dell’inchiostro nero colava da profonde crepe nel suo palazzo mentale. Aveva visto ogni singola ferita, ogni singolo malessere, prima di vedere l’espressione del dottore, e ciò non fece che peggiorare il suo stato d’animo.
Poi vide Willem, e contemporaneamente Victoria.
“È  stato lui. Ha fatto del male a John. Lui….ha….fatto del male a John….”.
-Sherlock…- sentì, come un sussurro, la voce del dottore chiamarlo, come una preghiera.
-John…- rispose lui, con gli occhi che gli pizzicavano, caldi.
-Ti sono mancato?- disse John, ridendo tristemente, mentre il detective ricambiava il sorriso.
-Che scenetta romantica! Ora il quadretto è al completo. Che ne dici, V, se cominciassimo a parlare? Dì al signor Holmes chi sei davvero, dai. Sono curioso di scoprire la sua reazione-.
Victoria si accigliò, girandosi verso Sherlock, poi sorrise.
-Non ho nulla da dire- disse.
Willem allora afferrò la testa di John con un movimento fluido, cacciò un coltellino svizzero e glielo puntò alla gola.
-A questo punto passiamo direttamente alla parte divertente. LILY, IL PONTE!-.
Sherlock cadde all’indietro, mentre la strada sotto ai suoi piedi si alzava, sbilanciandolo verso il basso. Victoria si aggrappò al bordo, riuscì ad arrampicarsi ad esso e a mantenersi in equilibrio su quei pochi centimetri di asfalto.
Il ponte non si era aperto completamente, ma la strada era diventata abbastanza ripida da non poter essere percorsa in alcun modo.
Ma Sherlock non aveva nessuna intenzione di arrendersi: aggrappandosi al corrimano sul bordo destro della struttura, lentamente iniziò la scalata verso la cima.
Willem, a sua volta, era anche lui in sospeso sui pochi centimetri di spessore del ponte, tenendo John pericolosamente sporto in avanti, davanti alle acque scure e gelide del Tamigi, coltello ancora sulla giugulare. Gli sarebbe bastato lasciare i capelli del dottore per farlo infilzare nella lama affilata, e peggio ancora farlo cadere nel fiume.
Sherlock raggiunse il bordo e afferrò la pistola che aveva con sé, pronto a sparare su Willem.
-Non così in fretta, detective. Voglio ricordarle di essere l’unico punto di appoggio del suo caro dottor Watson. Non credo sia intelligente spararmi proprio in questo momento. Io le suggerisco di sparare alla sua sinistra, affinché comprenda chi è veramente Victoria-.
Sherlock guardò la bambina, che ricambiò lo sguardo con oscure cornee vuote.
-Signor Holmes, lo faccia- disse lei, annuendo.
Il detective esitò un istante, poi diede fuoco.
 
La pallottola prese in pieno Victoria, che cadde sull’asfalto, rotolando in fondo al ponte sollevato.
Gocce di sangue macchiarono una pozzanghera, mentre il corpo immobile giaceva sulla fredda strada.
Sherlock sorrise, guardando che il liquido rosso si mescolava solo in parte con l’acqua, mentre il resto galleggiava.
Olio”.
La mano della bambina si mosse, lentamente, poi la testa, e infine si alzò. Il buco sulla fronte era ben visibile, la pelle penzolante da esso che macabramente ondeggiava nel vento.
Con un salto rapido, Victoria tornò al suo posto.
Willem rideva, divertito.
-Signor William Sherlock Scott Holmes, devo dirle delle cose- disse lei, con il volto tranquillo, - il mio nome completo è Victoria Magnussen, e sono figlia di Charles Augustus Magnussen. Quando i miei genitori decisero di affidarmi a mio padre, lui mi insegnò l’arte della deduzione e dell’intelligenza, mentre mia sorella Grace cresceva come una normalissima ragazzina. Ci volevamo bene, ci vedevamo quasi tutti i giorni di nascosto, poiché mia madre Irina non voleva che Grace frequentasse malati di potere, come me e mio padre.
Poi arrivò quella sera, dove mia sorella non si presentò all’appuntamento che ci eravamo date. Fu solo il giorno dopo che venni a sapere che quel pazzo l’aveva uccisa, stuprata, e privata dei bulbi oculari. “Sembrerai una vera bambolina” aveva detto davanti a quelle telecamere, mentre le infliggeva quelle atrocità.
Distrutta dal dolore, interruppi qualunque contatto con mia madre, che non si era accorta della mancanza di Grace perché era a letto con un altro uomo.
Imparai qualunque nozione di tecnologia e di anatomia, e mio padre mi passò il suo patrimonio più grande, quando morì: Appledoor. Io sono l’erede diretta del palazzo mentale di Charles Augustus Magnussen.
Cosa che spettava a mia sorella.
Decisi così di renderla erede, derubando il suo corpo cinque anni dopo la sua morte, e di ricostruirlo attraverso un processo di riproduzione cellulare accelerata, impiantando, nelle parti irrecuperabili, strumenti tubolari e ad olio, in grado di far muovere il corpo e di riportarlo al suo antico splendore, ma non era possibile impiantargli un’anima, era come un perfetto guscio vuoto.
Nel suo hard disk riportai una versione in codice binario di Appledoor, le impiantai un endoscheletro, lo collegai a un esoscheletro collegato al mio corpo e le diedi il movimento, attraverso le  mie azioni. La resi più forte con il metallo con il quale ricoprii le sue ossa, la resi più agile con perfetti muscoli elastici, le diedi l’opportunità di vedere, con queste piccole camere che voi vedete come occhi ciechi, che trasmettono una versione quadrimensionale del mondo intorno. Queste camere sonno collegate all’Oculus che io ho sugli occhi, e ciò che lei vede, vedo io. Ciò che io faccio, fa lei. Ciò che io dico, lei ripete.
Dunque il corpo che vedete è di Grace Magnussen, perfettamente ricostruito in ogni sua cellula, chiave di Appledoor e arma letale con lo scopo di scovare ogni pedofilo e di ricordargli l’errore che commette a mettersi contro di me.
Tuttavia il progetto non fu perfetto. La rigenerazione delle cellule, dovuta al centro di controllo dell’androide, collassò, e il tempo di autonomia dei globuli rossi, delle cellule e dunque della forza di questo corpo si ridusse a un anno circa, dopodiché si sarebbe putrefatto nuovamente.
Per quanto avessi cercato Willem, non riuscì a scovarlo, nonostante egli stesse cercando a sua volta me. Così chiesi aiuto a lei, signor Holmes, in modo da trovarlo più in fretta. E adesso manca solo una settimana al collasso del corpo. Niente può annientare ciò, dalla pallottola al coltello. La rigenerazione è così veloce da coprire ogni ferita, e l’olio ha anche proprietà riparatrici per gli strumenti meccanici presenti all’interno.
Willem vuole me non per il mio corpo. Vuole Appledoor-.
John, nonostante fosse sul filo del rasoio, aveva ascoltato ogni singola parola, ed era semplicemente esterrefatto per tutto ciò che aveva sentito, come se fosse una barzelletta non capita.
Victoria era Grace e Grace Victoria? Victoria era un androide?
Sherlock anche rimase stupito dal racconto. Non credeva che qualcuno fosse capace di ricostruire perfettamente un corpo umano, o addirittura di migliorarlo. Servivano anni di esperienza per poter quantomeno aspirare a un tale obiettivo, e lei c’era riuscita in soli cinque anni.
E Magnussen aveva pianificato tutto. Sapeva che quella sera sarebbe morto, e aveva preparato Victoria a ereditare Appledoor.
Riuscendoci.
 
 
[Nota dell’autrice: salve lettori! Siamo al terzultimo capitolo, oramai. Sto per lasciar volare via il mio uccellino dal nido! Un po’ mi dispiace, ma che ci posso fare, le cose finiscono prima o poi.
Ad ogni modo mi scuso per aver pubblicato in ritardo, mi sto cimentando in un fumetto per il primo anniversario col mio ragazzo e mi sta occupando l’esistenza, per non parlare dei compiti in classe e delle interrogazioni, TUTTI GLI ACCIDENTI DEI GIORNI. Sono tempi amari, ahimè. Molto probabilmente ritarderò anche la prossima settimana per via della gita scolastica, mio compleanno e visite del mio ragazzo, chiedo venia.
Ma comunque, ringrazio tutti voi che leggete, che aggiungete la mia storia in qualche categoria e che commentate! Apprezzo tutto il vostro sostegno, in fondo è principalmente per voi che scrivo! <3
Alla prossima, e grazie di cuore a tutti!] 

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Capitolo 21
*** Vatican Cameos pt.2 ***


La luna si oscurò. Se non ci fossero stati i lampioni e tutte le altre luci artificiali, molto probabilmente l’oscurità più profonda avrebbe inghiottito tutta la capitale britannica, non lasciando intravedere nulla al di là del proprio naso.
L’atmosfera, però, era comunque sinistra, soprattutto sul famoso ponte londinese, il Tower Bridge, aperto senza alcuna funzione logica, a trenta metri dal Tamigi.
Nelle strade non c’era un’anima, per ordine del Governo Inglese, e ogni persona si riversava su finestre, balconi, terrazze, alla ricerca di qualche indizio su cosa stesse succedendo, ma l’ora era tarda e l’aria gelida, per cui rinunciarono quasi immediatamente. Delle macchine in doppia fila o dei ticket scaduti non se ne curava nessuno: i poliziotti erano bloccati tutti sul London Bridge, e di certo non avevano tempo da spendere a fare multe e sequestrare vetture.
Un gatto bianco e dall’aria annoiata si accinse a varcare la barriera del ponte, miagolando sonoramente. Sgattaiolò tra gli ordigni luminosi e si sedette sotto la galleria coperta della prima torre, leccandosi la zampa destra con zelo, mentre una mano gli accarezzava affettuosamente la testa.
 
-Voglio che però lei sappia una cosa, signor Holmes. Piccoli chiarimenti necessari. Non serbo rancore per lei, dato che ha sparato al mio genitore, poiché lei ha messo fine a un impero basato sul sangue e sulla cupidigia, nonché sul male nella sua forma più pura. Lei ha permesso che l’intelligenza di Magnussen e la sua conoscenza siano passate a me tramite il codice binario lasciatomi in eredità, che utilizzo per giustizia, innovazione e logica. Questo corpo, ricostruito nella perfezione, è nato grazie alle conoscenze di anatomia, di genetica e di chimica che mio padre riservava in Appledoor, le quali sono nelle mie mani solo grazie al suo proiettile. Quindi le sono eternamente grata per aver contribuito al progresso dell’intelletto britannico-
-Che scena patetica. Un’assassina che parla di giustizia! Colei che inseguì e ammazzò brutalmente l’uomo che uccise sua sorella, per vendetta personale- ammonì Willem, ridacchiando.
-Anche quella è giustizia. Giustizia per un uomo che fece solo due mesi di galera, con il pretesto dell’infermità mentale. Quell’uomo era un depravato completamente consapevole delle sue azioni-.
Sherlock sorrise, di fronte all’applicazione più giusta della materia grigia. Il corpo di Grace, reso di nuovo utilizzabile grazie a un sistema generante cellule, era la forma più pura della scienza e dell’anatomia: riusciva quasi a sentirlo, quell’olio scorrere nelle vene di plastica, così come il sangue dei globuli artificiali arrivare agli organi, in modo che non degenerino; le ossa metalliche costruite su quelle ancora utilizzabili, l’endoscheletro posto sulla spina dorsale, i dati dell’hard disk susseguirsi nel cervello.
Era quasi un orgasmo, per lui, come se si stesse drogando.
John, ancora in bilico tra la vita e la morte, guardò i riflessi dell’acqua scomparire, constatando che ora appariva solo come un’acqua scura e senza fondo, pronta a riceverlo tra le pieghe delle sue onde per poi inghiottirlo per sempre. Quei pochi centimetri di spessore dell’asfalto avevano, per lui, un valore quasi sacro, come il filo per il ragno sospeso nel vuoto.
-Dunque la bambina nel quadro di Bakker era Grace, già stata vittima della rete di pedofili- disse il detective, serio.
-Esattamente- rispose Victoria.
-Ora basta con le chiacchiere, la luna è andata via!- ruggì Willem, facendo diminuire la distanza dalla punta del coltello e il collo di John.
-È giunto l’epilogo di tutta la vicenda-.
Van Gogh prese un telecomando a distanza con un pulsante, mentre afferrò, con la mano del coltello, i capelli del dottore, che stava facendo uno sforzo immane per tenersi in equilibrio.
Il cuore di Sherlock mancò un battito. Non avrebbe potuto fare niente, dall’altra parte del ponte con un baratro di trenta metri davanti.
Era davvero l’ultima volta che avrebbe rivisto John?
 
Uno sparo infranse le tenebre, il silenzio, la tensione e il telecomando di Willem.
Così preciso, dall’alto, così calcolato.
Uno sparo che aveva colpito il telecomando, senza azionare le bombe ai confini del ponte.                                                                                                
A Sherlock bastò un’occhiata verso l’alto, per riconoscere, sulle passerelle luminose, Rose Johnson. I suoi lunghissimi capelli ondeggiavano al vento, un fucile di precisione tra le braccia esili.
Willem alzò la testa, alla ricerca del colpevole: era agitato, preso alla sprovvista.
John, in un nano secondo, sentì l’adrenalina pompargli le vene, una scarica di energia strana: la mano col coltello era ben lontana da lui, e l’altra oramai conteneva solo frammenti.
Era la sua occasione.
Si sbilanciò all’indietro, sfruttando la forza di gravità, per poi dare una violenta testata a Willem, che cadde con tutto il suo peso lungo la discesa della strada sollevata. Tuttavia quello gli costò a sua volta la caduta, e non poté ritrovare l’equilibrio a causa di gambe e polsi legati. Però era libero.
Victoria fece un salto poderoso dall’altra parte del ponte, e si gettò su Willem che, imprecando, si alzò agilmente e schivò il primo pugno di Victoria. Non si curò del pugnale che era volato lontano, mentre John lo cercava disperatamente, strisciando sull’asfalto, ignorando il dolore pulsante delle ferite, il sangue che gocciolava da esse.
Sherlock non poteva far altro che guardare, incapace di esercitare qualunque azione.
Victoria tentò nuovamente un attacco con un calcio, ma Willem era pronto: le bloccò il piccolo piede con la mano e la scaraventò a terra. Lei fece leva con le braccia e riuscì a colpirlo con l’altro piede, sfruttando la stessa forza con la quale lui la stava buttando per terra. Willem per un attimo fece per cadere, ma era robusto, e le sue tecniche combattive tenevano testa a quelle di Victoria: saltò sul posto, piegando bene le gambe e sollevando i gomiti, per poi caricare un pugno verso il viso di lei; la bambina lo schivò piegandosi in maniera disumana all’indietro, poi fece una giravolta e colpì nello stomaco il killer, facendolo indietreggiare di qualche passo.
Ebbe quei pochi secondi per prendere il pugnale e, con un lancio perfetto, tagliare in modo netto le corde ai polsi di John.
 
Il vento le sussurrava nelle orecchie, mentre la luminosa città londinese brillava sotto i suoi occhi, in tutto il suo splendore. Aveva salvato l’antico Tower Bridge. Finalmente aveva combinato qualcosa di buono, nella sua vita.
L’aria le accarezzava i capelli, come una mamma. In quel momento sentiva una libertà mai provata, come se fosse una rondine che volava nel cielo portando la primavera.
Rose respirò a pieni polmoni quell’aria, sorridendo a trentadue denti.
-Londra, mia amata, finalmente posso vederti come si deve-
-…per l’ultima volta- sentenziò dietro di lei una voce femminile, Lily, che le puntava contro una pistola.
Rose si girò un secondo, respirò ancora e poi tornò a guardare il panorama.
-È scarica, Drogata-.
Lily provò a sparare, e la pistola emise solo un leggero click.
Rose rise, deridendola.
-La ketamina ti ha impedito perfino di comprare una confezione di proiettili? Non sapevo che avesse anche questo tipo di effetti-
-Sta’ zitta, razza di schifosa puttana- urlò Lily, in preda all’agitazione. Rose, dopotutto, aveva un fucile d’assalto, e lei solo una pistola scarica.
-Voglio solo che tu mi dica…perché. Non ho voglia di ucciderti, ricapiterei nel circolo vizioso della morte, e non ho nessuna intenzione di tornare in quella casa di cura. Parlami, “Lily”. Siamo entrambe in una situazione poco piacevole. Io potrei cadere nel vuoto e tu…sparata-.
Lily esitò. Non aveva altra scelta che obbedire.
-Amavo John. Ok? Lo guardavo ogni giorno, a scuola. Ma lui era sempre con quel Martin, quel lurido finocchio da due soldi. Cosa potevo fare, se non distrarmi dalla constatazione che John non mi amava? Mi iniziai a drogare, a frequentare locali malfamati, a fare la spogliarellista. Poi incontrai Willem, che mi offrì la roba buona, come la ketamina, ma solo se lo avessi aiutato a fare alcuni servizi. Prima di fare il primo, mi ero presa una bella dose, e non capivo nulla di quello che facevo, così uccisi quel bambino prima di rendermene conto. E dopo due, tre, quattro omicidi, oramai era routine. A me bastava distrarmi. Poi riuscii a entrare nel gruppo di John grazie a Mike Stratford, e da lì iniziò l’amicizia, anche se John era ancora preso da Martin e non mi calcolava. Così decisi di fare fuori quel terzo incomodo, ma Mike mi scoprì, e dovetti uccidere lui. Poi John partì.
Quando lo incontrai nell’obitorio, per me fu come un fulmine a ciel sereno. Mi innamorai di nuovo di lui all’istante. Ma, morto Martin, ora l’ostacolo era Sherlock, troppo difficile da imbrogliare e da uccidere, così decisi di dare un’occasione a John: se m’avesse voluto, avrei rinnegato tutto il passato e sarei stata felice con lui, ma se non avesse scelto me, ma Sherlock, l’avrei offerto a Willem secondo i patti stabiliti per catturare Victoria-.
Rose rise forte, e la sua risata sguaiata echeggiò nel silenzio della notte, tra i rumori della città.
-In assoluto il metodo più assurdo e deficiente che io abbia mai sentito. C’è chi elabora congetture, dettagli meticolosi, probabilità, trappole e congegni, e poi ci sono gli assassini come te, che non possono essere definiti propriamente “assassini”, dato che è già tanto se fanno una vittima. Vivere sotto l’ombra di un serial killer per un po’ di droga è un’azione tanto vigliacca quanto comprensibile: le persone fanno cose pazze, quando sono innamorate [1]. Tuttavia non puoi prenderti tutta la gloria dell’omicidio di Stratford: dubito che tu l’avresti ucciso, se non avessi avuto l’aiuto di Van Gogh nel nascondere il corpo. Anche io ho ucciso, e con le mie mani. Non c’è stata soddisfazione più grande. Tu che soddisfazione potrai mai avere? Di essere stata la pedina di un uomo? La tua vita è stata svolta nel nulla. Sia nel bene, che nel male-.
Lily lasciò cadere la pistola, e sprofondò in un pianto disperato. Rose pensò alla calata adrenalinica, che magari poteva provocare quell’effetto, oppure, cosa più probabile, Lily aveva appena sentito, nella maniera più brusca, il peso complessivo della dura realtà.
Passarono pochi secondi, dove la donna si stringeva i capelli, accucciata sul tetto della passerella luminosa, per poi scagliarsi, in un improvviso moto di rabbia, verso Rose, che non si mosse di un millimetro dalla sua posizione.
Non le importava più nulla del fucile d’assalto, non le importava di scivolare e cadere nel vuoto di quasi cinquantacinque metri.
Voleva solo stringere le sue dita nodose sul collo di Rose, e premere, premere, premere.
Rose la accolse, buttando l’arma di sotto e bloccandola per i polsi. Per quanto Lily spingesse, la mora la riusciva a far strisciare l’altra all’indietro, e a schivare i suoi tentativi di calci.
Ad un tratto la rossa si lasciò andare, e non oppose più resistenza.
Rose la guardò piangere ancora, poi, molto affettuosamente, l’abbracciò.
-Non c’è più nulla da fare. Né per me, né per te. È finita, Lily. Tu eri Gwen, ora non sei più nulla. Io ero Rose, e adesso non sono più nulla. Liberati del passato, rinnegalo, annullati completamente. Andremo all’inferno insieme. Possiamo solo pentirci di ciò che abbiamo fatto-
-Pentirci? Credi sia facile?-
-Non abbiamo altra scelta- disse Rose, dando un’ultima occhiata a Londra.
Poi, nel vento gelido, tra le tenebre e le nuvole, la luna oscura e poche stelle solitarie in spiragli del cielo, le due donne si lasciarono trasportare dalla forza gravitazionale, abbracciate come vecchie sorelle.
“Mi pento di aver fatto vergognare la mia famiglia di me” pensò Rose, che vedeva Buckingam Palace sparire sempre più tra i palazzi.
“Mi pento di aver rovinato la mia vita” pensò Lily, sentendo gli occhi bruciare.
“Mi pento di aver ucciso l’unica persona che forse si preoccupava per me” pensò Rose, chiudendo le palpebre e lasciandosi cullare dal vento.
“Mi pento di averti reso triste, John, di averti ferito e torturato” pensò Lily, ricordando il sapore di una Coca Cola, seduta in un tavolo da quattro.
“Mi pento di non aver detto addio a mia sorella, Irina. Ti sto raggiungendo, e ti chiederò scusa per tutto” pensò Rose, vedendo il viso di sua sorella.
“Mi pento di aver fatto del male a bambini, famiglie, persone innocenti” pensò Lily, sentendosi libera.
“Mi pento di non essermi presa cura di Victoria e di Grace, come avrei dovuto. Addio, mia cara Londra” pensò Rose, mentre sentì l’improvvisa durezza dell’acqua devastarle il corpo e ucciderla.
“Mi pento della mia esistenza, delle mie colpe. Scusa, John. Spero potrai essere felice con chi ami, per chi sei davvero” pensò Lily, calandosi nelle braccia della morte.
Allo stesso tempo, un gatto bianco si accasciò sul ciglio della strada, dopo aver emesso un ultimo, doloroso, miagolio.
 
Sherlock sentì il tonfo, e capì. Per istinto guardò nelle pieghe del Tamigi, dove era avvenuto l’impatto, ma non riusciva a vedere nulla al di fuori di acque scure e piccoli schizzi.
Tuttavia non poteva cercare i corpi di persone già defunte. John era la preoccupazione principale.
Quest’ultimo tentava di liberarsi le caviglie il più velocemente possibile, ma le forze lo stavano abbandonando e tutte le nozioni che aveva imparato sui nodi erano diventate improvvisamente cenere.
Victoria teneva a bada un Willem furibondo, che stava usando tutta la sua potenza contro la bambina, che riusciva a schivare ogni colpo per il rotto della cuffia. Lui urlava grida di odio, sferrandole pugni velocissimi e carichi di forza, e lei li bloccava per poi scagliare Willem lontano da lei di almeno qualche metro, per guadagnare quei pochi secondi buoni a verificare lo stato di John.
Quando riuscì a liberarsi dall’ultima corda, vide che le sue caviglie erano in pessime condizioni: grosse bolle e piaghe costituivano una macabra cavigliera dolorosa e sanguinante. Ma non aveva tempo per quelle banali ferite, doveva aiutare Victoria.
Preso il pugnale, si buttò su Willem, mentre Victoria lo riempiva di pugni.
John lo bloccò da dietro, cercando di ignorare i lancinanti segnali di dolore che il corpo gli mandava, poi gli diede una testata sulla nuca, per distrarlo.
Ad un tratto uno spostamento d’aria catapultò tutti e tre sull’asfalto: le bombe dal lato di Sherlock erano esplose, demolendo una buona parte della strada e della torre più vicina.
Le volanti della polizia non avevano prestato attenzione agli ordigni luminosi, e molte macchine erano saltate in aria, lasciando, come superstite, solo la prima del gruppo. Tutte quelle salve e rimaste sulla Tower Bridge Street preferirono rimanere nella loro posizione.
Molly era riuscita a convincere Lestrade.
Sherlock, per lo spostamento d’aria, aveva perso l’equilibrio sul bordo del ponte e si era aggrappato, per non precipitare, su di esso, oscillando pericolosamente nel vuoto, lasciando cadere la pistola nel fiume, in modo da avere presa su entrambe le mani. Era per lui impossibile arrampicarsi sul bordo, non gli rimaneva che resistere. Il detective aveva una buona resistenza fisica, ma quanto tempo avrebbe resistito in quella posizione?
John, quando si rialzò barcollando da terra, vide l’amico in pericolo e non poté fare altro che urlare il suo nome, spaventato.
-Sherlock!-.
Il moro girò la testa fino a vederlo con la coda dell’occhio, per poi sorridergli, come a dirgli “posso farcela, John. Resisti”.
Per il dottore non ci fu tempo di organizzare un piano fulmineo per Sherlock: Willem lo aveva afferrato e lo aveva tirato talmente forte che era caduto rovinosamente all’indietro, ribellandosi dalla presa molto stretta del killer.
Poi strisciò nuovamente sull’asfalto, mentre vedeva Willem avanzare verso il bordo, armato di una piccola pistola tascabile, forse la sua ultima risorsa.
Victoria giaceva, immobile, molto lontano da loro, stesa per terra.
-Signor Holmes, sarà un piacere rincontrarla…nella sua bara!- urlò Van Gogh, accompagnando la frase con una risata malata, -Sarà il culmine della mia arte…il più grande genio inglese caduto nel Tamigi con una pallottola nella testa. La recupererò, non abbia timore: diventerà anche lei uno dei miei splendidi quadri-
-Io non credo proprio!- urlò John, aggrappandosi a un piede di Willem e facendogli perdere la mira sull’obiettivo.
-LEVATI!- sbraitò l’altro, tirandogli un calcio sulla testa, ma John non aveva nessuna intenzione di mollare. Stava sopportando tanti dolori e avrebbe sopportato anche quello.
Willem mirò nuovamente, ma ancora una volta John lo fermò, stavolta mordendogli un braccio con tutta la forza delle sue mascelle.
Aveva perso il pugnale, e tutto ciò che gli rimaneva per difendere chi amava erano appunto artigli e denti, nonché la poca energia rimastagli.
Willem, ancora più furibondo, lottò con lui, strattonandolo e tirandogli numerose testate, ma tutto era quasi vano: John non avrebbe mai mollato l’osso.
Non posso perderne un altro” pensò il dottore, sentendo il sapore dolciastro del sangue del killer.
Willem sapeva che lo avrebbe potuto sparare per liberarsi del problema, ma non sapeva che avrebbe dovuto usare quell’ultima, insignificante arma, per cui l’aveva caricata di un unico proiettile, che voleva riservare unicamente a Sherlock.
Dopo un po’ John non resistette più, e lasciò la presa. Willem lo spinse indietro, caricò l’arma verso il detective e si preparò al colpo decisivo.
Aveva oramai il dito sul grilletto, e pochi secondi per compiere l’atto.
John fece appello a tutte le scariche adrenaliniche, a tutto il suo coraggio, a tutta la sua calma e a tutta la sua energia.
Corse.
Non seppe come. Non seppe secondo quale forza divina le gambe reggevano ancora il peso del suo corpo.
Ma forse non era un dio a mandarlo avanti in quella corsa.
Era l’amore.
Aveva perso una persona che amava, e non avrebbe vissuto oltre se avesse perso anche Sherlock.
Dunque, era meglio salvare la vita del detective piuttosto che la propria.
 
Si gettò davanti al mirino, sul bordo del ponte, senza curarsi dell’appoggio per non cadere nelle acque scure.
-J…-.
Uno sparo echeggiò nell’aria, una pallottola squarciò la carne della spalla del dottore, nella stessa traiettoria percorsa da un’altra pallottola, molti anni prima.
Fu l’aria, e solo quella, ad accoglierlo.
John si abbandonò al nulla, precipitando, con il corpo ormai insensibile a qualunque dolore: l’ipotermia, le piaghe, le frustate, la trachea infiammata.
Aspettava solo di morire con la consapevolezza di aver fatto qualcosa.
Qualcosa per Sherlock.
 
Il detective, quando vide il corpo di John cadere nel vuoto, sentì chiaramente tanti vetri andare in frantumi, dentro di sé.
Muri crollare, stanze allagarsi.
Pensieri morire.

-JOHN! JOHN! NO!- riuscì a urlare, senza udirsi.
Tutto il mondo sembrava essere diventato un deserto, la sua mente era diventata improvvisamente ignorante, e il suo corpo non si opponeva più alla forza di gravità.
Cadde, anche lui, con John, nel Tamigi.
Per salvarlo.
 
 
[Nota dell’autrice: Salve, eccomi tornata! Oramai i miei capitoli hanno una pubblicazione irregolare, quindi non riesco più a stabilire una data precisa nella quale farvi leggere le mie opere. Ma tanto siamo al penultimo capitolo, quindi chissene!
È stato un po’ un trauma scriverlo, dato che piangevo e tremavo ad ogni singola parola, soprattutto nella parte della caduta di John. Forse per la musica che ascoltavo (Raein di Olafur Arnalds) o forse per la mia costante depressione che ha favorito le lacrime, non so.
Ma ho sofferto molto, sì sì.
Dovrei essere contenta perché è stata fissata la data della mia partenza a Londra, invece sono giù fisicamente e moralmente xD che bello.
Ad ogni modo, ringrazio tutti coloro che hanno aggiunto la mia storia in qualche categoria e, come sempre, coloro che hanno recensito (siete stati davvero in tanti stavolta, bravi bravi bravi ) e anche tutti quelli che mi hanno sostenuto tramite mp. Vi voglio tanto bene!
Dunque al prossimo, decisivo, capitolo.
Ci vediamo all’epilogo!]

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Capitolo 22
*** Happy Ending ***


Velocità: 19,62 metri al secondo.
Forza d’impatto: 833,85 Newton = 833,85 Joule.
Tempo: 2,03 secondi.

Numeri che vorticavano su uno specchio nero, che sbattevano su pareti di vetro, crepate.
Suoni confusi, immagini riflesse di persone morte e vive.
Una goccia che cadeva nel mare, poi un’altra, e un’altra ancora. Pioggia, senza nuvole, acqua che zampillava su altra acqua. Un cane che tentava di nuotare nel denso oceano nero, un bambino coi capelli ricci corvini che tentava di rimanere a galla e di raggiungerlo.
Un altro vetro che si ruppe, provette e parti anatomiche umane che andavano a fondo per poi riemergere, come una macabra danza.
Un uomo con una camicia di forza che sorrideva, che lo guardava con occhi sgranati.
-È finita, Sherlock, il tuo palazzo mentale sta crollando- disse, sogghignando, per poi sparire nell’abisso.
Aveva quel liquido scuro fino alla vita oramai, e non riusciva ad andare controcorrente, né a nuotare dentro di esso, era così denso che lo aveva imprigionato. Sulla superficie lucida, gli sembrava quasi di vedere tutti i volti importanti che aveva incontrato nella sua vita: Molly, Lestrade, Anderson, la Donovan, Mrs.Hudson, Irina Johnson, Rose, Victoria, Augustus Magnussen, sua madre, suo padre, Mycroft…
E fu allora che lo vide, una pallottola uscire dalla sua spalla, le ferite aperte sulla sua schiena, il volto stravolto e sudato. John.
-John!- chiamò, -John!-.
Il liquido gli arrivò al collo, ma lui continuava a urlare il suo nome.
-Sherlock, riprenditi- sentì, in lontananza, la voce ovattata di suo fratello, ma non riusciva a vederlo, -riprendi il controllo di tutto questo, puoi farlo-.
Ci fu una pausa, dove si udiva solo il rumore del mare nero urtare le pareti del palazzo mentale.
-Fallo per te, Sherlock, fallo per John-.
 
Fu l’acqua a farlo tornare in sé, nel più brutale dei modi. L’impatto gelido con il bagnato gli ricordò quanto fosse dura la realtà.
Entrò a piedi uniti nel Tamigi, e trattenne bene il fiato.
Era buio, non riusciva a trovarlo.
Cercò, tra le acque, la figura di un uomo, ma tutta l’oscurità pareva uniforme e non poteva esserci nulla di più scuro di essa.
Sapeva che ogni secondo in quell’acqua sarebbe potuto essere determinante per John, e doveva sbrigarsi.
Pensa, Sherlock, pensa” si diceva, mentre i suoi polmoni iniziavano ad accusare segni di cedimento man mano che si inoltrava nel profondo, e il freddo gli mordeva ogni lembo di pelle.
Fu allora che la vide: una piccola e sottile scia di bollicine, che venivano dal basso. Si buttò a capofitto, a grandi bracciate, sempre più giù e, nonostante non riusciva a vedere nulla al di là del proprio naso, allungò un braccio, e lo toccò. La sua pelle fredda, robusta e tesa.
Non perse tempo, lo afferrò, constatando, con preoccupazione crescente, che l’amico aveva perso conoscenza.
Risalire fu difficile, per un uomo che stava trasportando su di sé un altro uomo con più o meno il suo stesso peso, ma doveva farlo, mentre la sua mente lottava contro lo scarso ossigeno per rimanere lucida.
Ma poi sentì la riva.
 
Un’ambulanza era già lì, e alcuni addetti con un giubbino catarifrangente accorsero verso Sherlock e John, stesi stremati su una sporgenza di cemento. Li tirarono su e, prima che Sherlock potesse accertarsi delle condizioni del dottore, glielo strapparono dalle braccia, lo riempirono di coperte e lo caricarono su una barella, cercando di stabilire un battito cardiaco.
Insistettero per coprire anche Sherlock, dato che rischiava anche lui l’ipotermia, ma lui non volle sapere ragione, voleva che curassero John.
Sul ponte si sentì una violenta sgommata e l’impatto di una macchina, sicuramente la volante di prima. Poi più nulla.
Il Tower Bridge non aveva subito gravi danni dall’esplosione: solo metà della larghezza della strada non esisteva più, e una parte della facciata della torre più vicina. Le ambulanze erano tante, e altrettanti i feriti caricati su di esse: a volte erano costrette a portarne anche due. Era stata una fortuna che ce ne fosse rimasta una libera per John.
-Signore! Deve salire anche lei!- gli urlò un ragazzo dall’ambulanza, e Sherlock, per la prima volta, obbedì senza obiettare.
John aveva la pelle cerea e molle; il torace gonfio e duro e il battito che sembrava un fruscio d’ali. Perdeva liquidi dal naso e non dava nessun segno di coscienza.
-Versamento pleurico! Dobbiamo assolutamente applicargli un catetere intercostale! Ha troppa acqua nei polmoni!- urlò un’infermiera, mentre gli infilava una flebo nel polso.
Sherlock fu avvolto dalle coperte e l’ambulanza partì, sfrecciando tra le auto e le strade, emettendo il tipico rumore assordante.
Rumori di elicotteri, infermieri urlanti, attrezzi che cozzavano, macchinari che emettevano “bip” a volte frequenti, a volte rari. Questo fu il viaggio dal Tamigi all’ospedale più vicino.
Riempivano Sherlock di domande, gli misuravano i parametri vitali,  lo asciugavano, intimandogli di togliersi immediatamente i vestiti.
-PER L’AMOR DEL CIELO, c’è un uomo critico dietro di voi e avete la faccia tosta di venire in tre a chiedermi scempiaggini! STO BENE, maledizione! Pensate a LUI. LUI-.
Per quanto insistettero, non ci fu verso di fargli cambiare idea.
Appena misero piede nel pronto soccorso, bastò un’occhiata di un medico di passaggio per farli andare nella Sala Rossa. Dopodiché, di quello che fecero di John, Sherlock non lo seppe: fu costretto a cambiarsi e a fare delle analisi. Imprecò, mandò molti di loro a quel paese, li minacciò, ma alla fine l’ago nel braccio glielo piantarono ugualmente.
 
John fu portato prima nel Centro Iperbarico, per poi essere trasferito in Terapia Intensiva. Era caduto in coma, e c’erano sempre cinque infermieri a turno nella sua stanza, poiché la sua temperatura corporea e il suo battito cardiaco dovevano essere costantemente monitorati. Sherlock passò la notte ad attendere fuori dalla stanza.
Sentì spesso la macchina dell’elettro-cardiogramma emettere un lungo e sonoro “biiiip”, e defibrillatori al lavoro; sentì garze venire strappate dai rotoli, sentì flebo venire spostate in ogni dove della stanza: solo ogni tanto usciva un infermiere, ma correva talmente veloce che non ci fu modo di chiedergli qualcosa su come stesse John.
Lestrade arrivò il giorno dopo, con evidenti occhiaie, e l’aria sciatta: aveva infilato distrattamente la camicia, che infatti era abbottonata solo per metà; la giacca grigio perla che stonava con il resto del completo color piombo, le scarpe con i lacci infilati ai lati di essa, come se si fosse messo le scarpe solo per pietà. Sherlock dedusse che era passato a casa solo per darsi una veloce rinfrescata, e che era lui quello sulla volante, quella notte.
-Sherlock…- sussurrò Lestrade, dopo averlo individuato molto tempo dopo da quando era venuto, -stai bene?-
-Sì, se solo questi imbecilli facessero capire qualcosa. È lì dentro da tutta la notte, il cuore ha smesso di battere svariate volte. Gli hanno dovuto applicare un drenaggio toracico e ha alcune ferite infette, per cui è passato anche nel Centro Iperbarico. Non so più nulla-.
Lestrade fece una faccia inorridita, e cerco nella tasca qualche possibile sigaretta sparsa, nonostante sapesse di non averne. Sherlock vide sul suo braccio un numero indecifrabile di cerotti alla nicotina.
-Ne hai uno per me?- aggiunse il detective, sfregandosi nervosamente le mani.
-No…Senti Sherlock, devo dirti due parole.-
-Lo so che hai guidato quella volante, stanotte. So che molti dei tuoi uomini hanno perso, o stanno perdendo, la vita, e che, dalla tua faccia, pare che non ne sia valsa la pena. È fuggito, vero?-
-Non esattamente- disse Greg, passandosi una mano tra i capelli, -è una cosa inspiegabile anche per me, che ne ho viste tante nella mia vita-
-Cioè?-
-Ho saltato il ponte, quando lo stavano chiudendo, e sono sicuro di aver preso quell’assassino in pieno. Ho sentito il rumore delle ossa rompersi, Sherlock. E per la foga ho preso anche Victoria, nonostante abbia provato a schivarla... scendo dalla macchina, e non c’è nemmeno un’anima. Nessuno, né sotto, né davanti alle ruote. Porco mondo, come accidenti è possibile, eh? Li avevo presi entrambi!-.
Sherlock trattenne a stento un risolino.
-Te lo dico io cos’è successo: se l’è preso Victoria. Vedrai come tornerà a te, da qui a qualche giorno-.
L’ispettore aveva l’aria di chi non aveva capito una sola parola, ma non ebbe il tempo per ribattere: due infermieri uscirono, asciugandosi la fronte, dalla stanza, con un’espressione preoccupata dipinta in volto.
-Ehi, voi! Sono l’ispettore Gregory Lestrade, esigo che mi facciate vedere immediatamente il dottor John Watson- disse, mostrando loro il distintivo, ma uno dei due gli fece segno di metterlo via.
-Qui ogni persona è uguale, ispettore. Né lei né la regina Elisabetta può entrare in quella stanza-
-E allora ditemi come sta, cazzo-
-Moderi il linguaggio, cortesemente- aggiunse l’altro medico, un uomo di mezza età con una gran parte della superficie cranica completamente calva, ricoperta di macchie, -è in condizioni davvero critiche, lo confesso. L’ipotermia aveva raggiunto il terzo grado, e i muscoli non rispondono ancora a determinati impulsi, né riescono a riscaldarsi. Le pupille sono immobili, e il respiro gli viene dato artificialmente. Inoltre, le ferite erano quasi tutte infette e piene di detriti, per non parlare della ferita da sparo, che ha aggiunto ulteriore liquido nei polmoni. Fortunatamente ha trapassato la spalla e ci ha permesso di ricucire il buco a dovere. Direi che sarebbe potuto andare peggio ma, anche in queste condizioni, è difficile che ce la possa fare-.
Per Sherlock fu come un pugno nello stomaco. Scattò in piedi e afferrò il medico per il colletto del camice.
Un’altra parete si ruppe, una nuova ondata gli investì la mente.
-Me lo faccia vedere, incapace senza cervello! Lei ha l’Alzheimer, non può permettersi di curare dei pazienti, rischia di ucciderli o di ledere alcuni dei loro organi…-.
Venne bruscamente tirato indietro da Lestrade, che però guardò il medico con aria cupa.
-È la verità, dottor…Moerse?-.
 
I giorni che seguirono furono strazianti, tristi e preoccupanti. Quando il dottore venne arrestato per incapacità nell’esercitare la propria professione, e per molti altri errori commessi, trovarne un altro che si occupasse di John fu un’impresa a dir poco titanica. Dall’arresto, solo infermieri specializzati entravano nella stanza di John a curarlo, e a Sherlock e Lestrade venne offerto sempre il cibo più succulento presente nell’ospedale. Anche la stanza di John cambiò: lo portarono in una ben arredata, piena di comfort, provvista di salottino, bagno accessoriato e televisore con tutti i canali, anche se serviva a ben poco, con John in coma.
Il dottore, infatti, oscillava tra la vita e la morte e, ogni volta che sembrava riprendersi, aveva un crollo poche ore dopo. In più, non c’era verso di fargli riprendere i sensi.
Sherlock passava tutto il giorno, e la notte, accanto a lui, cosa che Lestrade, Mrs.Hudson, Molly e gli altri non potevano fare per via del lavoro e della vita. Al detective venivano affidati piccoli casi, che risolveva all’ospedale.
Non vide un solo parente di John fare capolino in sua visita: solo amici, vicini e lontani, alcune anziane signore che lo avevano come vicino di casa ai tempi in cui lui era adolescente e colleghi commilitoni dei tempi dell’Accademia Militare.
Poco meno di una settimana  dalla caduta, già non fece più visita nessuno di nuovo: solo Molly, Lestrade di tanto in tanto, Anderson, Stramford e la signora Hudson, che portava squisiti manicaretti che Sherlock era costretto a ripulire. John veniva nutrito tramite flebo.
Oramai il detective viveva nell’ospedale, e nulla lo faceva smuovere dalla poltrona bianca reclinabile posta vicino al letto di John, se non una suonata al violino in tarda sera.
Per quanto gli infermieri lo rimproverassero per questo suo vizio, ai pazienti piaceva, e spesso gli chiedevano determinate canzoni: Sherlock si ritrovava a suonare antiche ballate, walzer, serenate, musica classica svariatissima, da “Clarinet Polka” a vere e proprie colonne sonore di film moderni. Questo ogni sera, appena dopo le nove.
 
Una sera, Sherlock prese il violino come suo solito, mentre osservava la neve cadere.
-John, penso che stasera suonerò Schubert, “andante con moto”- disse, consapevole che John era perfettamente in grado di udirlo, ma non di rispondergli. Oramai riusciva a respirare autonomamente e non aveva più crolli, inoltre il suo battito si era stabilizzato e i tremori dovuti alla febbre si erano nettamente dimezzati. I punti erano stati tolti alle ferite, ma grossi lividi giallastri erano rimasti, inoltre non ancora usciva dallo stato comatoso.
Iniziò a suonare: note melodiose e leggere echeggiarono nel silenzioso ospedale.
Una canzone rilassante e allo stesso tempo triste, che però migliorava l’umore di molti pazienti e, Sherlock ne era sicuro, anche quello di John.
Suonò e suonò, avrebbe potuto farlo fino a consumare le corde. Fu allora che avvertì un movimento, debole, provenire dal letto di John. Inizialmente, credé che fosse qualche insetto, dato che ce n’erano non pochi in quell’ospedale, e si affrettò a posare il violino per prendere la sua pantofola, avvicinandosi cautamente al letto.
Sarà una mosca, con tutto quel marciume che cucinano qui e che io ho lasciato, prudentemente, nel piatto” pensò, ma non vide nulla di piccolo e ronzante nelle vicinanze.  
Esplorò piano piano ogni angolo nelle vicinanze del letto di John, dal comodino pieno di regalini e cianfrusaglie alla poltrona bianca, ma non trovò nulla che si muovesse o che facesse rumore, così alla fine si rassegnò e si lasciò andare, sedendosi e sbottonandosi i primi tre bottoni della camicia. Chiuse gli occhi e sospirò.
Avrebbe fatto meglio a dormire, per non pensare a ciò accaduto sul ponte. L’immagine di John che cadeva lo perseguitava nei suoi pensieri, nei suoi incubi, ogni giorno e ogni notte: di lì a poco avrebbe desiderato solo sigarette in grandi quantità, come sempre, per cui dormire sarebbe stata la via più semplice per rimandare il dolore.
Lo sentì di nuovo, più forte, tra le lenzuola.
Stavolta ne era sicuro.
Analizzò ogni piega, cercando segni di movimento. E se fosse…?
-John?- tentò, sentendosi stupido: era impossibile che si fosse già ripreso, con tutte quelle ferite. Si alzò, ricordandosi di dover mettere a posto il violino.
Tuttavia la speranza che un giorno si sarebbe svegliato risiedeva nelle profondità del suo cuore. Avrebbe voluto sentirlo parlare, proprio in quel momento.
-No…- sentì, flebile come un fruscio, -…suona…ti prego…-.
Sherlock sentì il cuore mancargli un battito. Era ancora frutto della sua astinenza da tabacco, o aveva sentito davvero John parlargli?
Si girò, individuando la figura del dottore ricambiargli lo sguardo. Due occhi verdi, un sorriso forzato dietro un volto pallido, pieno di barba incolta, lo accoglievano. Per quanto l’amico fosse davvero devastato dalla febbre, dai continui sbalzi di temperatura, dalla pulizia scarsa e dalla mancata rasatura, Sherlock lo abbracciò con tutto l’affetto che aveva represso negli anni.
Si sentì libero, forte, il cuore che gli martellava come se gli stessero suonando dentro milioni di orchestre. L’odore della sua pelle, le mani deboli poggiate sulle sue spalle. Il detective non avrebbe desiderato nient’altro in quel momento.
-Mi fai male Sherlock…- disse il dottore, riscaldato da quell’abbraccio così inaspettato. Era così felice di vederlo che il dolore sembrava essergli scomparso.
-Sono un idiota!- urlò Sherlock, lasciandolo – potrei riaprirti le ferite, potrei interrompere il deflusso di qualche medicina, potrei causarti qualche frattura, potrei…-
-Sherlock, va tutto bene, calmati...per favore potresti chiamare qualcuno? Non penso di stare molto…- balbettò, tossendo a tratti. Era uscito dal coma da quando il detective aveva iniziato a suonare, e aveva lentamente preso coscienza della situazione in cui era. Era stata una fortuna essere sopravvissuto al salto, alle ferite, all’acqua gelida, e da dottore aveva compreso tutte le sue condizioni fisiche. Tuttavia non sapeva dove fosse e come ci fosse arrivato.
Sherlock, prima di poter replicare, era già corso nel corridoio, mentre lacrime di agitazione e felicità gli pungevano gli occhi. Un gran sorriso spontaneo gli illuminava il volto.
-Infermieri! Medici! Razza di incapaci, John si è svegliato!-.
 
Nei giorni seguenti ci fu come una processione dentro la stanza di John: Molly venne, al settimo cielo, con una bottiglia di champagne, brindando armoniosamente (ruppe persino un bicchiere, in un “cin cin” con Anderson); Philip passò molto tempo a parlare con John di supposizioni su nuovi casi affidatigli, che Sherlock smentiva prontamente; clienti su clienti della clinica di John ad augurargli una buona guarigione; la signora Hudson portò gustosi manicaretti, dolci e tè; infine Greg aveva portato delle notizie.
Era seduto su una sedia di legno trovata in una stanza vicina, di fronte a John, appoggiato sul letto con lo schienale sollevato, e al detective, seduto a gambe incrociate sulla poltrona bianca.
Il dottore era riuscito a radersi, con l’aiuto di Sherlock, e a mangiare qualcosa, per cui aveva assunto un colorito già più roseo.
-Stamani ho trovato, davanti alla porta di casa mia, un pacco senza mittente. L’ho aperto cautamente dentro, accertandomi che non fosse un ordigno o qualche diavoleria di quel genere, e…-
-…e ci hai trovato dentro qualche parte anatomica insanguinata, dato che le tue dita sono sporche di sangue rappreso agli angoli delle unghie. Il problema è capire di chi e quale…ah no aspetta, una testa, in particolare quella di Willem, dal capello rosso che penzola dalla tua manica- Sherlock non perdeva occasione di mettere in mostra la sua intelligenza da quando John si era ripreso, come se avesse avuto una carica di energia improvvisa. Aveva spiegato al dottore per filo e per segno ogni passaggio dalla sua caduta all’ospedale, omettendo i particolari sentimentali e le sensazioni, nonostante fosse come impellente il desiderio di rivelargli tutto ciò che provava.
Eppure era così difficile, per lui, cambiare il proprio rapporto con John.
Per il dottore, da quando era venuto a conoscenza che Sherlock l’aveva salvato, era strano immaginare un uomo tanto freddo e duro cercarlo nelle acque torbide e rischiare la vita per lui.
-Sì- disse semplicemente Greg, sconfortato, -maledetta lei e le sue vendette! L’avrei acchiappato, quel dannato cazzone, torturato e sbattuto in isolamento in qualche manicomio criminale…-
-Lestrade, ciò che è fatto è fatto. Mandarlo in isolamento o ucciderlo non avrebbe mutato la sua convinzione di grandezza artistica. Era un uomo disturbato, e come tale è da comprendere- lo interruppe John, bevendo un sorso dalla bottiglietta d’acqua al suo fianco.
-Comprendere?! Ma ti si è fottuto il cervello?! Sai quello che ti ha fatto, sì?- sbottò Lestrade, battendo un pugno sul ginocchio.
-George, smettila- ammonì Sherlock, alzando il palmo verso di lui.
-Greg! Ma lo ascolti, Sherlock? Lo ha frustato, gli ha fatto ingerire della merda liquida e…-
-Ti prego di non ricordarmi quelle cose, Greg. Sto dicendo che è inutile nutrire rancore per un uomo morto. Basta così- disse John.
L’ispettore si sentì in improvviso imbarazzo, e si alzò nervosamente.
-Io…torno al mio lavoro. Spero che tornerai presto al Bart’s, John- concluse, uscendo dalla stanza.
Sherlock e John si guardarono per un istante, poi distolsero lo sguardo contemporaneamente.
-Toglimi un dubbio- disse il dottore, lasciandosi andare sul materasso, -come hai scoperto che il dottor Moerse ha l’Alzeheimer?-.
Il detective rise, rivolgendogli un occhiata maliziosa.
-Lo conoscevo da tempo, e la firma sul suo cartellino era ogni anno più sbiadita e illeggibile, per non parlare delle diagnosi…dimenticava anche le cose più evidenti, dagli ematomi alle ulcere. In più chiamava i pazienti con nomi di vecchi pazienti da lui uccisi per errore. Semplice come rubare la caramella a un bambino-.
John ridacchiò.
-Sei sempre il solito: sai applicare le tue doti investigative anche quando non ci sono io a darti degli input-
-Beh, la mia intelligenza funzionava anche prima di conoscerti. Tu hai solo dato un motivo per migliorarla- azzardò, parole che uscirono dalla sua bocca come un fiume in piena. Era così preso dall’emozione di poter avere di nuovo John al suo fianco che non rifletteva più prima di parlare.
Ma poi si rese conto della reazione che suscitò in John. Egli arrossì, si scorticò nervosamente le pellicine delle mani e sorrise timidamente.
Entrambi non sapevano come quelle sensazioni stessero invadendo il loro corpo, sapevano solo che, guardandosi l’un l’altro, innescavano antichi tremori alle mani, rossori alle guance e battiti accelerati.
 
Nelle due settimane successive Sherlock riuscì a tornare pian piano a Baker Street, sotto l’attento interrogatorio della signora Hudson, che voleva sapere ogni dettaglio della loro permanenza all’ospedale. Era venuta solo a sapere che John aveva riacquistato le sue funzioni motorie, era tornato a camminare e a curarsi esteticamente, che mangiava abbondantemente e che gli avevano tolto le flebo. Omesse il particolare del dottore che gli faceva le valigie, costringendolo a tornare nell’appartamento a pulire.
Stava armeggiando il computer, quel giorno, facendo delle ricerche su un caso di scomparsa di un animale (trovava interessante perfino quello, dato che si annoiava praticamente tutte le ore del giorno), quando il telefono gli squillò.
Numero sconosciuto.
-Qui Sherlock Holmes- disse, come suo solito, senza domandarsi troppo chi fosse. Voleva avere una certezza della sua iniziale ipotesi.
-Credo che lei già abbia dedotto la mia identità, signor Holmes- gli rispose una voce meccanica dall’altro capo, -e credo che lei già sappia la questione della testa da me inviata-
-Oh, ma certo. Sapevo che era opera tua. La vendetta personale senza interferenze è davvero così piacevole come si dice?-
-Alquanto. Ad ogni modo, lei ha ancora diritto a una ricompensa. Cos’è che vuole, a parte il numero di sterline adeguato?-
-Vorrei poterti rincontrare, un giorno, Victoria-
-Quel giorno è vicino, signor Holmes-.
 
La signora Hudson, fischiettando allegramente, stava asciugando i piatti nella piccola cucina, con la radio accesa su un canale di musica dei vecchi tempi, quando alla porta suonarono.
Non curante, pensò fosse qualche cliente del detective, pronto a chiedere udienza, ma quando aprì la porta e si trovò davanti John Watson quasi le volò di mano la padella e lo strofinaccio con il quale la asciugava. John le sorrideva; la benda che si intravedeva tra i bottoni slacciati della camicia.
Ripresasi dallo spavento, ricambiò il sorriso allargando le braccia e abbracciandolo.
-John! Che bello rivederti! Come sarà contento Sherlock nel vedere che sei tornato! Non ci hai detto nulla, non sapevo che tornassi qui così presto!-
-Ho avuto il consenso di uscire prima, dato che mi ero ormai ripreso. La prego di non urlare così tanto, Sherlock potrebbe sentirla…e per favore non mi stringa così, le ferite non si sono ancora rimarginate del tutto-
-Quindi Sherlock non sa nulla?- disse lei, sorpresa piacevolmente, -Ha voluto fargli una sorpresa, non è così? Oh che belli questi avvenimenti degli innamorati! Pensi che mio marito, nel lontano..-
-Scusi signora Hudson, ma non credo che abbia tempo per ascoltare le sue chiacchiere. Potrebbe prepararmi del tè, gentilmente? Ah, dopo provvederò io a portare la mia piccola valigia al piano di sopra-
-Ma certo! Ma certo!- canticchiò lei, questa volta non ribadendo di non essere una governante. Filò in cucina e cacciò una grossa scatola di tè nero.
John salì il primo scalino, contento di rivedere ciò che oramai chiamava “casa”. Quei vecchi gradini di legno non gli erano mai sembrati così accoglienti, e poggiare la mano su quel corrimano fu come toccare le nuvole.
Salendo, sapeva che Sherlock avrebbe riconosciuto i suoi passi. Lo faceva sempre, calcolando perfino il peso della persona in avvicinamento. Certo, John era dimagrito parecchio, ma credé che il detective l’avrebbe riconosciuto comunque.
Il cuore gli batteva più forte ogni scalino che avanzava, la sua mente studiava un presunto dialogo dopo aver varcato quella porta; studiava il suo aspetto fisico: si era pettinato i capelli all’indietro e si era rasato a dovere, inoltre cercava di camminare nella maniera più sciolta possibile, in modo da non sembrare dolorante per via della spalla. Quel dolore lo aveva già tormentato una volta, ma non ci si era mai abituato.
Sherlock aveva appena poggiato il telefono sul tavolo, quando sentì i passi.
Peso: 85 Newton.
Poggia prima il tallone e poi la punta. Soffre per qualche dolore, distribuisce il peso in maniera iniqua, non nella sua andatura naturale.
Esita su qualche gradino: insicurezza…timidezza.
John.

Piccoli fiori blu spuntavano dalle crepe, a mazzetti, nutrendosi dell’acqua nera non ancora prosciugatasi.
Si alzò, avanzando a gran passi verso la porta. La mano si fermò ancora prima di raggiungere il pomello. Avrebbe fatto bene a corrergli incontro? Sapeva tante cose, Sherlock Holmes, aveva recitato molte volte la parte del fidanzato, da quello più dolce e premuroso a quello menefreghista; sapeva milioni di miliardi di frasi, dolci, amorose, tristi, di conforto; eppure non sapeva come comportarsi in quel momento.
John gli aveva salvato la vita, e non solo quella notte, lo aveva capito, compreso, aiutato.
Lo aveva ammirato nella sua totalità, lo aveva fatto ragionare.
Lo aveva amato.
Mai Sherlock avrebbe pensato di essere amato da un'altra persona, maschio o femmina che fosse e, ancora meno, avrebbe pensato di innamorarsi a sua volta.
Aprì la porta, dopo un profondo respiro.
Si trovò a faccia a faccia col dottore, con la mano tesa dove poco prima era presente il pomello.
-John- disse semplicemente, annullando tutti i discorsi che gli tartassavano la mente.
-Sherlock- rispose John, guardandolo dritto negli occhi.
Ci fu un lungo momento di imbarazzo, in cui i due si guardavano senza dirsi nulla, mille parole che danzavano da una pupilla all’altra.
Poi John si soffermò a guardare l’appartamento: tutto era al suo posto, i mobili risistemati secondo una logica ben precisa.
-Hai pulito, vedo. Per una volta mi hai ascoltato- disse John sorridendo, entrando nel soggiorno.
-Non prenderci l’abitudine- rispose lui, non riuscendo a smettere di guardarlo.
John si sedette sulla sua poltrona rossa, cautamente poggiando il braccio ferito. Sherlock si posizionò sulla sua, resistendo alla tentazione di avvicinarsi a lui e ad abbracciarlo.
-Hai lavorato a molti casi in questo periodo?-
-Noia, noia, noia. Ho fatto quasi tutto qui, non mi va di uscire-
-Uhm- arricciò il naso.
Altra pausa imbarazzante.
John si alzò, dando un’occhiata al computer, ancora acceso, di Sherlock.
-“orgasmo legato alla violenza”. Sherlock, non dirmi che questi sono i tuoi passatempi sessuali-.
Il detective stava per replicare, quando notò che John stava guardando dei fogli di carta ammucchiati ordinatamente sulla scrivania.
Solo poco dopo si accorse della grave dimenticanza.
John afferrò il primo foglio, lesse poche righe, nonostante avesse riconosciuto la scrittura, la carta, la data. Il suo volto divenne lentamente rosso, ma di rabbia.
-Cosa…cosa ci fai con le mie lettere?- balbettò, agitando il foglio.
-Le trovai tra le tue camicie, quella fatidica sera. Non avevo altra scelta che leggerle, sono quelle che mi hanno condotto a te, altrimenti non avrei saputo come fare- disse Sherlock, mantenendo la sua calma glaciale.
-Ah sì?- urlò John, sbattendo la lettera sul pc, spegnendolo, -Il grande detective Sherlock Holmes che non sa come fare! E io ci dovrei anche credere? Come la storia del suicidio? Io dico che tu ti sei divertito a leggere le mie cose personali, come con le e-mail delle mie ex fidanzate-
-Quelle sì che erano divertenti. No John, sto cercando di dirti che sono riuscito a capire tutto il gioco di Lily e di Willem grazie alle poche righe di Martin. Non mi interessa cosa vi univa, nonostante sia ben consapevole che era amore. Per me l’unica priorità in quel momento era trovare te-
-Trovarmi per mostrare all’Inghilterra quanto tu sia bravo con i crimini, per far vedere che razza di specie di detective tu sia?!- urlò John, puntandogli l’indice contro.
-No- disse Sherlock, avvicinandosi a lui, -perché non facevo altro che pensare a come tu stessi, a cosa quel maledetto ti stesse facendo, a cosa rischiavo di perdere, se non ti avessi trovato. Non mi sarei mai perdonato la tua morte-.
John rimase letteralmente folgorato da quelle parole, come se gli avessero regalato milioni di sterline in contanti. Sherlock che gli diceva una cosa così…dolce? In che razza di situazione stava capitando?
-Casomai dovrei capire perché tu abbia salvato un idiota come me- concluse il detective. Gli occhi erano animati da una strana luce, nonostante fossero fermi come sempre, e di quel colore ghiacciato che lo pietrificava ogni volta che lo guardava.
-Perché tu sei il più grande uomo, il più grande amico, la persona a me più cara che ho. Se ti avessi perso come successo a Martin, che razza di uomo sarei stato successivamente? Non avrei avuto motivo di continuare a vivere, con i rimorsi, con la nostalgia dei nostri momenti migliori. L’ho già passato quel periodo, dopo il tuo finto suicidio: ero un uomo morto che camminava- disse John, guardando l’espressione indecifrabile di Sherlock.
Il detective gli sorrise.
-Ti sono mancato?- disse, con occhi calorosi.
-Oh, Dio, sì-.
Sherlock lo abbracciò, in un modo affettuoso e vero che non aveva mai sperimentato. Il calore dei loro corpi si fuse, i loro cuori battevano così vicini. Per John era come stare in un letto caldo e morbido in pieno inverno. Si sentiva così sicuro, colmo di vita, felice.
-Non so cosa tu mi faccia, John Hamish Watson. Il tuo profumo rilassa ogni mio muscolo, come se stessi assumendo morfina. Il tuo calore riesce a scaldarmi, i tuoi occhi spengono ogni mia attività celebrale. Hai preso possesso non solo della mia persona, ma anche del mio palazzo mentale-, disse Sherlock, prendendo il volto di John tra le mani, e guardandolo dritto negli occhi, -le tue labbra mi mettono in una tale agitazione, fanno ribollire il sangue nelle mie vene…-.
Si avvicinò a lui, oramai poteva respirare il suo ossigeno.
-…tu sei riuscito a farmi innamorare di te, John-.
Il dottore rimase stupefatto. Il cuore sembrava picchiare la gabbia toracica, implorando di uscire disperatamente. Quella dichiarazione così inaspettata, così…
Sherlock voleva baciarlo.
Gli prese i polsi, lo spinse a distanza, poi lo lasciò andare.
-No, Sherlock, mi hai baciato troppe volte- disse John, a muso duro.
La delusione negli occhi di Sherlock era palpabile. Lo aveva rifiutato davvero?
Allora era proprio vero che l’amore è sofferenza, che non bisogna mai abbassarsi ad amare qualcuno, chiunque esso sia.
-Ti chiedo scusa per il mio comportamento. Ho lasciato il mio desiderio fisico prendere il sopravvento- disse Sherlock, facendo per andarsene.
John lo fermò prendendolo per un polso, poi con l’altra mano gli afferrò il colletto e lo tirò a sé. Si complimentò per l’ottima recitazione, più volte da soldato aveva mascherato contentezze e dolori con quella maschera da menefreghista insensibile. Sorrise.
-Sherlock Holmes con del desiderio fisico. Questa te la rinfaccerò finché non morirò- sussurrò, poi dischiuse le labbra e baciò Sherlock.
Il detective, appena avvertì il contatto della morbida bocca del dottore, si abbandonò alla più completa forma di sentimento; continuò a baciarlo, a sentire quelle labbra umide e calde, il calore che gli invadeva il basso ventre, il torace, la testa.
Ogni tanto uno schiocco echeggiava nel silenzio della stanza.
Pareti, crepe, persone, erano invase da mazzetti blu di piccoli fiori profumati.
Poteva sentire le rondini, Sherlock Holmes. Poteva vedere la primavera dopo tutto l’inverno rigido che era stata la sua vita.
A John veniva da sorridere, per quanto era felice: la morbidezza dei ricci del detective che sfioravano il suo volto, quelle labbra che mordevano le sue, il suo respiro corto, il calore delle sue mani sulle sue guance, i cui pollici lo accarezzavano.
Tutto quel desiderio represso che si scatenava, come una tempesta, tra le labbra dei due.
Si aprì una porta, ci fu un momento di silenzio.
Ma a loro cosa importava?
Cadde una tazza, poi un’altra.
Si staccarono l’uno dall’altro solo quando sentirono una donna urlare.
L’anziana signora, stava, con la bocca spalancata in un urlo muto, immobile a fissarli, mentre del tè nero si allargava sul pavimento copiosamente.
-Ah, signora Hudson!- disse Sherlock, andandole incontro, -credo che non ci sarà più bisogno della stanza al piano superiore-.


 
 
 
[Nota dell’autrice: Ebbene, miei cari lettori, benvenuti all’ultimo capitolo, l’epilogo. Mi dispiace che sia passato quasi un secolo dall’ultima pubblicazione, ma sapete cos’è maggio per gli studenti, e se vi facessi vedere il mio diario vi prendereste un colpo….inoltre ho un nuovo arrivo in famiglia, una piccola gattina di nome Trilly, che mi ha portato via molto tempo per la scrittura e per la concentrazione.
Ma eccomi qua, alla fine, in tutti i sensi. Ringrazio tutti per aver partecipato al mio percorso con questa storia, da quelli che hanno commentato a quelli che si sono letti un solo capitolo: per me siete stati tutti importanti, dal primo all’ultimo. Vi voglio tanto bene.
All’inizio la mia insicurezza era un ostacolo insormontabile, ma poi ho pubblicato il primo capitolo, e la droga è iniziata. Vi dico che, qualunque cosa vogliate fare nella vostra vita, METTETEVI IN GIOCO! Rischiate! Fregatevene del giudizio degli altri, ci sarà sempre qualcuno pronto a sostenere le vostre idee, a condividerle. Voi mi avete aiutato tanto, e ve ne sarò eternamente grata.
Come avrete già immaginato, ci sarà un sequel a breve, e ci sarà il grande ritorno di Victoria!
Dunque, che dire, vi ringrazio di cuore. Questo non è un addio, ma un arrivederci.
BlackStone, Alessia. ]

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