La musica delle tue parole

di Lala96
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Preludio ***
Capitolo 2: *** Ouverture ***
Capitolo 3: *** Il ragazzo con la chitarra a tracolla ***
Capitolo 4: *** "Panta rei": ogni cosa scorre via ***
Capitolo 5: *** Minuetto quotidiano ***
Capitolo 6: *** L'equilibrio precario dei ricordi ***
Capitolo 7: *** Fine atto primo: la sofferenza dietro quelle note. ***
Capitolo 8: *** Primo intermezzo ***
Capitolo 9: *** Una lettera per Max ***
Capitolo 10: *** Inizio atto secondo: l'errore e l'orgoglio ***
Capitolo 11: *** L'errore e l'orgoglio, parte due ***
Capitolo 12: *** L'errore e l'orgoglio parte tre ***
Capitolo 13: *** Oltre l'errore e l'orgoglio ***
Capitolo 14: *** Le altrui memorie ***
Capitolo 15: *** Audizioni del disagio ***
Capitolo 16: *** Ritorno di un seduttore ***
Capitolo 17: *** Fine atto secondo: qualcuno da proteggere ***



Capitolo 1
*** Preludio ***


Allora?” “”Disturbo psicosomatico” hanno detto” “È grave?” “Se non la forziamo forse smetterà da sé”. La mamma mi guarda. Tutto è come sospeso, in una bolla di nulla. “Dopo tutti questi anni…” “Non è questo che conta. Ora dobbiamo solo preoccuparci di lei” “Sì…”.
Di nuovo. Di nuovo, quel sogno. Ormai lo conosco a memoria. Si vede che sono agitata…
 Poi, una stanza, nella penombra. E quella voce, rauca,  furioso, che urla. “Sei un fallimento! Sì questo sei, un fallimento! Come è possibile che tu non riesca a capire?! Sei solo stupida, una piccola stupida fallita!!”. La voce di qualcuno che piange. Cosa sono queste? Lacrime?

La sveglia la svegliò trillando, e dovette socchiudere gli occhi. Doveva esserci dimenticata di abbassare la persiana, perché tutta la stanza era inondata di luce. Si guardò attorno. Il pavimento era invaso dagli scatoloni, alcuni ancora chiusi. I vestiti erano dove li aveva lasciati la sera prima. Fuori poteva vedere il cielo azzurro, di quel bell’azzurro che è il colore della Provenza, e un bel venticello gonfiava le tende lillà. Qualcuno entrò in camera e lei si rintanò sotto le coperte, bofonchiando. “Guarda che è inutile che fai finta di dormire, signorinella, ti ho visto benissimo”. Nessuna risposta. La zia posò il vassoio con la colazione sul comodino e gorgheggiò “Laaaalagee, ho portato la colazioooone!”. Lalage. Nome maledetto. Chi diamine chiama sua figlia Lalage?? Tutti chiamano i propri figli con dei bei nomi normali: Maria, Luisa, Beatrice…. Ma suo padre aveva tanto insistito, lui che avrebbe voluto tanto fare Lettere Antiche ma si era trovato bene solo a Lettere Moderne, per affibbiarle quel nome latino. Lalage…da un’ode di Orazio, “Lalage dulce ridentem” “Lalage che ride dolcemente”. In più il nome in sé vuole dire “cinguettare come la rondine”. Ma Lalage non credeva che al mondo ci fosse un solo essere vivente che, dovendo svegliarsi alle sette per confermare l’iscrizione in un liceo sconosciuto in una città dove si vive da meno di quarantottore, e con quella zia per di più, avrebbe cinguettato. Tuttalpiù, ci si potrebbe  aspettare un ringhio. “Dai che fai tardi. Sorgi e fai colazione cocca” “Mpf” fu la risposta poco convinta di Lalage mentre riemergeva da sotto le lenzuola. “Allora, contenta di riprendere a studiare?” “ ’Na gioia, proprio” “Ti ho portato la colazione a letto, non sono meravigliosa?”. Lalage la scrutò attraverso gli occhi socchiusi. “Zia, si può sapere perché diavolo sei sempre vestita così?”. La zia indossava un completo da fata, pieno di tulle rosa, cuoricini scintillanti, il tutto coronato da un diadema dorato. Come se non bastasse, portava tre, dico tre paia di ali di libellula in- cos'è, celofan?- sulla schiena, e i capelli raccolti in un’enorme treccia morbida. “Così come cara? Non ti piace la tua fatina custode?” “Vabbè lasciamo stare”. Portò la tazza alle labbra. “Cioccolata?” “Per renderti dolce il risveglio, tesoro!” “Zia, io bevo caffelatte. Senza non riesco…” “Su su, mangia in fretta che tra poco devi andare!” e danzando sulle punte la zia uscì. Lalage sospirò e strappò un pezzo di baguette tuffandolo nella cioccolata. Zia Agata. La zia strana. La sorella di mamma che abitava dall’altra parte del paese, in Provenza. Con quello strano accento meridionale, e le sue abitudini decisamente bizzarre- la mania del cosplay, tanto per dirne una. Che lavorava all’ospedale di Aix, reparto pediatria, e che giustificava quell’abbigliamento dicendo che ai bambini piaceva tanto, e nascondeva nella valigetta di pelle diadema e bacchetta magica.  Non riusciva ancora a convincersi che essersi trasferiti vicino a lei fosse una buona idea. La mamma le aveva detto che la zia la avrebbe tenuta d’occhio- ma chi avrebbe tenuto d’occhio la zia? Però, tanto valeva provare. Dopotutto…”Dopotutto” bisbigliò a sé stessa “lassù non c’è più niente, per me”. Posò la tazza e si vestì con calma. Non è che scalpitasse proprio per andare a scuola. Ma la prospettiva di passare la giornata in compagnia della zia la inquietava ancora di più. Quando scese al piano di sotto, la zia la stava aspettando con le chiavi in mano. “Ti accompagno in auto” “NO” “Su non fare storie, ormai ho deciso” “Ti prego, no” “Ti devo ricordare che non sei maggiorenne e che devi fare quello che ti dico?”. Ecco. Il giuridichese. Non c’era più speranza. Prima di cambiare idea ed entrare a Medicina, la zia aveva seguito, poco e con scarso interesse, i corsi di Giurisprudenza. Col risultato di ricordare quel –poco- diritto che le veniva comodo. Bofonchiando salì a bordo, mentre sua zia chiudeva l’appartamento e salita metteva in moto. “Allora, agitata?” “Mm” “Il primo giorno di scuola in un nuova città. Com’è elettrizzante!” “Mm” “ E scommetto che magari ci sarà anche qualche ragazzo carino”. La zia la guardò e ammiccò. “Mm” “Ma sai dire solo “Mm” oggi?” “Quanto manca?” “Pochi isolati cara. Che cocca, non hai proprio voglia di lasciare la zia, vero?” “Proprio!”. Mentre aspettavano al semaforo, la zia vide un ragazzo che attraversava. “Che carino quello, no?” “Un modello proprio” “Oh che brontolona, quei capelli rossi non mi dispiacciono per niente”. Lalage gettò uno sguardo sul ragazzo in questione. Era vestito con una giacca di pelle nera rimboccata fino ai gomiti, i capelli rossi erano legati in un coda e stava aspettando che scattasse il verde per i pedoni, dall’altra parte della strada. D’improvviso si voltò, e per un secondo, prima che lei abbassasse lo sguardo, i loro occhi si incontrarono. Scattò il verde, e la zia mise la prima e partì. “Hai visto?” “Carino” “Oh non avevo ragione?”. Guardava nello specchietto retrovisore. “Zia ti prego, guarda la strada. Stavi per mettere sotto una vecchia” “Ma si è spostata, no? Oh, ma ha una custodia con sé! Cos’è, una tromba?” “Credo sia una chitarra zi… zia ti prego, almeno rispetta le precedenze. Non voglio morire giovane”. La zia aveva completamente invaso la corsia opposta, decisa inconsciamente a ridurre all’unità la popolazione del quartiere. Lalage in preda al terrore afferrò la maniglia sopra il finestrino, piantandovi disperatamente le unghie. “Zia, la stra…ZIA GUARDA LA STRADA!” “Sai secondo me è più un contrabbasso” “TI GIURO CHE E’ UNA CHITARRA, ORA IN NOME DELLA SANITA’ MENTALE…”. Lalage vide un tir che faceva retromarcia dal parcheggio di un supermercato, dritto davanti a sua zia che solo ora si decideva a guardare la strada. Non si contenne più e urlò a piena voce facendo tremare l’abitacolo. “STAI A DESTRA, STAI A DESTRA IDIOTA!!”. La Zia allora si voltò, la guardò con gli occhioni sgranati e poi- oltre ogni immaginazione della nipote-esclamò con la voce più candida del mondo “Ma cara, se non apri il finestrino, non ti sentono!”. Nell’auto piombò, fino al semaforo successivo, un silenzio esterrefatto.
Sua zia al semaforo verde successivo riattaccò a parlare del ragazzo misterioso. Anche se la nipote trovava leggermente eccessivo parlare di vacanze estive di coppia, matrimonio, maternità con uno dalla tinta ignobile che aveva attraversato la strada. Nemmeno davanti a loro. E venti minuti buoni prima. “Sempre più intrigante, un bel ragazzo che suona la chitarra! Sembra il personaggio di una sitcom per adolescenti” “Ma anche no zia” “Magari se suona la chitarra classica potreste…”. Lalage sentì una morsa fermargli il fiato e le orecchie ronzargli; rispose secca “No”. La zia la guardò preoccupata. La nipote teneva strette nei pugni chiusi le maniche del maglioncino di cotone, e il suo sguardo era freddo e perso. “Ma Lalage, dopo tutti questi anni…sarebbe bello riprovare a suonare, no? Un violino non è una chitarra, ma con un bel gruppo di amici…”. Questa volta urlò, e la zia ebbe un sussulto “HO DETTO DI NO!!”. Nell’abitacolo piombò un silenzio tombale. Senza dire una parola la zia guidò fino alla scuola, un bell’edificio circondato da un muro di mattoni con un palazzetto che doveva essere la palestra e un’area verde con la serra. Posteggiò lì vicino. “Ti vengo a prendere quando hai finito?” “No, prendo l’autobus” “Hai i soldi per il biglietto?” e la zia le mise in mano una banconota. “Zia…” “Su su che fai tardi, quando arrivi a casa dimmelo che vengo a farti da mangiare, ok?” “Non serve, posso farmene da sola” “Beh, chiamami comunque, ok?” “Sì” “Allora ciao” “Buon lavoro”. E Lalage le voltò le spalle dirigendosi risoluta verso il cancello. Aspettò che la macchina della zia fosse filata via prima di rallentare il passo. Non entrò subito. Guardò la folla di studenti che si riunivano in gruppetti nel cortile interno, attraverso le inferiate. Il ragazzo con la chitarra ripassò, la guardò di sottecchi ed entrò. La campanella suonò, e gli alunni iniziarono ad entrare. Lei no. Lei rimase lì, immobile. Era tutto così surreale! Il vento che frusciava le foglie, le risate dei ragazzi che entravano… . Ebbe voglia di non entrare mai. Di rimanere così, in quel mondo sospeso. Che era lo stesso che riusciva a percepire quando, dal balcone dell’appartamento, guardava il sole tramontare sui tetti, e pareva che il cielo prendesse fuoco. E sentiva un sentimento fortissimo prenderla, mentre i suoi occhi seguivano il delicato nascere delle stelle. Poi era la notte. La notte del sonno, dei sogni. La notte degli incubi. Inspirò profondamente ed entrò nel cortile. Non c’era più nessuno. Ma ormai, comunque, si era in ballo, e allora…”Balliamo” si disse, procedendo spedita verso il portone. In quel momento una voce famigliare la lasciò di sasso, lì nel sole. Una voce infantile che se non era un incubo, sicuramente non prometteva nulla di buono. “Vuoi ballare qui? Tutto per te principessa!”.  Sudando freddo, Lalage si voltò. Un ragazzino mingherlino, occhialuto, con un taglio di capelli semplicemente improponibile. In un lampo cento ricordi le tornavano alla mente. Cominciò mentalmente a pregare. “Ciao Lalage!”. Niente da fare.  Quello non era un sogno. Purtroppo. “TUUU??” “Sei felice?”. Lalage voleva mettersi a piangere. “Hai voglia!”. “Sai appena ho saputo che ti saresti trasferita ho mosso mari e monti per venire nel tuo stesso liceo”. Lalage impallidì. “Cioè studi qui anche tu??” “Che bello vero? Ma Lala, non devi sentirti troppo bene stamattina, sei così pallida… ah ecco infatti siediti un attimo magari è un calo di zuccheri, guarda se vuoi ho dei bisco…Lalage, come mai la testa fra le mani? Perché la scuoti così? Hai l’emicrania?”
 

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Capitolo 2
*** Ouverture ***


“Hai capito??” “Oh poverina, Lalage mi dispiace tanto! Sai quanto è cocciuto…” “Vado dall’altra parte del paese per lasciarmi indietro il mio passato, non per trascinarmelo nella sua componente più zuccherosa e appiccicaticcia!”. Le tubature gorgogliarono e si udì il rumore di uno sciacquone. “Ma da dove stai chiamando?” “Dai bagni delle donne. Mi ci sono barricata dentro” “Ma allora sei nel nuovo liceo!! Com’è? Conosciuto qualcuno di carino??” “Laety, sono entrata e mi sono chiusa in un gabinetto per sole donne, secondo te come faccio ad aver incontrato ragazzi carini??”. Lalage sospirò. “E visto che Ken mi sta appiccicato, dubito che mi si avvicinerà qualcuno” “Capisco. Hanno la saponetta o il dispenser?” “Eh??” "I bagni” “Hanno il disp…ma che c’entra ora?!?” “L’arredamento di un liceo è sintomo della sua qualità. Così come la presenza di bei ragazzi. Qui da noi non ce n’è nemmeno uno decente…” “Terra chiama Laety, yuhuuu! Possiamo restare sulle priorità? Priorità, Laety” “Non riesci a scollartelo di torno? Magari l’hai seminato e non te ne sei nemmeno accorta! Dai, è impossibile che sia rimasto fuori dal bagno delle donne ad aspettarti!” “ Provo a vedere”. Sgattaiolando fuori dal gabinetto Lalage si avvicinò alla porta d’ingresso dei bagni, girò lentamente la maniglia e ne aprì un minuscolo spiraglio. “Sembra se ne sia andato…” “Oh vedi? Tutto nella tua testa” “Sarà, ma ora dovrò farmi in quattro per non trascinarmelo dietro per il liceo” “Però Lala…come dire…in fondo” “Laety?”  “…in fondo è un po’ colpa tua, ecco” “No, ora spiegami  CHE COSA sarebbe colpa mia” “Tutta questa storia di Ken. Cioè quando ti ho conosciuta era un tuo amico d’infanzia no? E a lui dicevi tutto, ti confidavi. A lui i tuoi problemi li raccontavi ecco”. Lalage notò una sfumatura … come un’accusa, in queste ultime parole. “E allora? Ci conosciamo dall’asilo, cavolo! Eravamo pure vicini di casa!!” “E allora io? Anch’io ero tua amica, no? Ma a me non dicevi mai niente” “Arriva al punto, Laety” “Il punto è che adesso lui è convinto che tu gli sia affezionata nello stesso modo in cui lui è affezionato a te”. Lalage decise che era tempo di chiudere la telefonata. “Scusa Laety arriva qualcuno. Ci riaggiorniamo dopo” “Oh ok, ciao”. Si alzò e si guardò allo specchio.  Tutto a posto. Guardò l’ora sul telefono. Le nove e un quarto. Si era persa sicuramente la prima ora, e ormai anche la seconda era andata. “Devo andare dalla preside” bisbigliò a sé stessa, e preso lo zaino uscì. “Allora va meglio?”. Lalage alzò gli occhi al cielo. “Da quanto sei qui, Ken?” “Non ti vedevo uscire, così sono andata alle macchinette  a prendere qualcosa da mangiare. Biscotto?” “No grazie. Senti Ken, io ora devo andare a parlare alla preside”. Ken sorrideva senza dire niente. Sembrava un Golden Retriever che aspetti che il padrone lo porti fuori per la passeggiata. “Ti accompagno!” “No Ken, è…personale” “Ah capisco. Vuoi che ti aspetti fuori dal suo ufficio?” “Ken, ho bisogno che…tu mi lasci sola per un po’”. Ken sussultò. Lalage ne aveva un po’ pena. Forse Laety aveva ragione: lei era debitrice verso Ken di un po’ di attenzione.

“Lalage non mangia mai con nessuno?” “Com’è magra!” “Non è neanche così carina” “Sta sempre per i fatti suoi. Si crede di essere chissacchi” “Michel della D le ha chiesto di essere la sua fidanzata” “Cosa? Ma non piaceva anche a Colette?” “Infatti. Ha passato tutto il pomeriggio a piangere” “Poverina!” “Comunque è colpa di Lalage. È minuta, pallidina e magrolina e così tutti sono premurosi con lei!”.
Chi crede che la vita di uno studente delle medie sia una passeggiata, provi a sopportare tutto questo. Ogni giorno. Lalage non voleva ferire Colette, né nessun’altra compagna di classe. Aveva molto da fare, per questo aveva sempre la testa fra le nuvole. A casa passava i pomeriggi a suonare. Si esercitava. Riusciva a tenere il passo con gli studi solo perché i suoi genitori avevano spiegato agli insegnanti che Lalage era una professionista, un portento, e quindi era molto impegnata con i concorsi e le competizioni. Che erano massacranti, perché il mondo della musica è come quello della danza: non ammette secondi posti. Per questo le maestre la trattavano con un occhio di riguardo.
“E poi si da tante arie solo perché suona già in Conservatorio!”

Non era vero. Lalage non si dava delle arie. Era dura frequentare due scuole. Era entrata in Conservatorio quando ancora faceva le elementari, ma spesso sua nonna la costringeva a saltare le lezioni e la faceva esercitare in casa, seguendola personalmente. Quelli del conservatorio lasciavano correre. Anche se in canto singolo e corale era appena sufficiente. Anche se si arrabattava ogni anno per un “Ammessa alla classe successiva” al corso di pianoforte complementare. Anche se a volte portava a lezione brani diversi da quelli assegnati. Perché la nonna di Lalage, ai tempi, era stata una leggenda del violino, una dea. Riempiva i teatri ogni sera che dava un concerto. E la nipote aveva un talento naturale straordinario. Le altre bambine però non giocavano con lei. Quando gli serviva una mano per le materie in cui era meno brava-matematica ad esempio- trovavano cento scuse per non andare a casa sua, o in biblioteca.
“Non ci fare caso, sono solo delle ochette invidiose”. Alzava gli occhi, e Ken era lì. I maschi lo chiamavano Mosca per via degli occhiali, ma nonostante tutto trovava il tempo per preoccuparsi di lei. La conosceva dall’asilo, ed era il suo unico amico. La aiutava con Matematica e Scienze, in cui era piuttosto bravo. La veniva a vedere ai concerti. A volte era difficile supportarsi l’un l’altra. “Guardali, i fidanzatini!” “Non è un po’ troppo per te Mosca?” “La Tomba e la Mosca, ma lo sai che tanto non ti rivolge parola?” “Guarda che è muta come una tomba Mosca!” .Ma poi un giorno… “Ciao, posso sedermi qui?”. Era una loro compagna di classe. Quando le altre parlavano male di lei, non si pronunciava. La chiamavano Laety. “Io sono Laetitia, piacere” “Piacere…” mormorò titubante Lalage. “Posso mangiare con voi? Certo che potrebbero evitare di darci la pasta al pomodoro no? Secondo me è tossica, guarda che aspetto ha!”. Aveva mangiato con loro quel giorno. E quello dopo. Tutti i giorni dopo. Lalage aveva un’amica, e si divertivano tantissimo ogni giorno. Laety era decisa e coraggiosa. Si difendevano, a vicenda, tutti e tre; facevano i compiti insieme- Laety era molto brava negli sport ma appena sufficiente nelle altre materie; i giorni festivi uscivano tutt’e tre insieme.

Era bello avere degli amici. “Sapete” disse loro una volta Laety mentre aspettavano la metro “la mia allenatrice, l’ultima volta che sono andata ad atletica, mi ha detto che per me  avere due amici come voi è proprio l’ideale”. Ken sbocconcellava biscotti, mentre Lalage dondolava le gambe a tempo: un due tre, un due tre…”E perché?” “Perché” rispose Laety rubando un biscotto a Ken “ avere un buon amico, ha detto, nella vita, è avere qualcuno con cui correre” “Ma io sono scarsissimo, non faccio nemmeno dieci metri!” protestò poco convinto Ken, guardando con rammarico il biscotto perduto. “No, tu fai sollevamento pesi!” sogghignò Laety guardando di sottecchi le braccia graciline del ragazzino. “Con i tuoi compiti dei corsi di recupero?” “Touchè”. Risero. Tutti e tre insieme. E Lalage sentì che nessun problema, nessuna difficoltà, era insuperabile. Poi…

Poi, tutto il resto. Poi, i problemi del passato. Poi, il trasferimento necessario. Ma Laety aveva ragione-odiava ammetterlo: in ogni caso, era debitrice verso Ken. “Ehi, che faccia lunga! Non ho detto che dopo non possiamo parlare!” si sforzò di dire sorridendo. Ken si illuminò. ”Davvero?” “Sì, davvero. Però ora vai in classe. Mi devi raccontare come sono le lezioni!” “Roger! Allora ciao!” “Ciao!” lo salutò sorridendo Lalage mentre Ken salterellava verso l’aula. “Ciao…” e mentre continuava a salutare, era sempre meno convinta. Smise di agitare la mano. Guardò in fondo al corridoio e tirò un respiro profondo. “Qualcuno con cui correre…” rimuginò a bassa voce, avviandosi con passo misurato verso l’ufficio della preside.
 

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Capitolo 3
*** Il ragazzo con la chitarra a tracolla ***


“Allora, come ben saprà il nostro liceo è un istituto a indirizzo classico. Qui studierà sostanzialmente le materie umanistiche, comprese anche le lingue antiche latino e greco. Come scritto nell’offerta formativa, è previsto anche l’insegnamento della seconda lingua, cioè inglese. Spero che capisca che la mole di materia di studio è certo più ingente rispetto a quella di un altro tipo di liceo. Il corso che lei ha scelto è specialistico: non troverà un’altra scuola che… ma mi sta ascoltando??”. Lalage guardò la preside con aria sconsolata. “Sì signora” “Bene, che stavo dicendo?...ah sì. Sono anche previsti dei moduli di matematica e scienze. Vedo che ha deciso di non avvalersi del servizio di mensa, ma tenga conto che le lezioni si protraggono fino alle quattro almeno del pomeriggio” “Abito vicino, non ho bisogno della mensa”. La preside le ricordava una meringa. Una gigantesca, spumeggiante meringa isterica. “Capisco. Beh, direi che per ulteriori informazioni può rivolgersi al delegato rappresentante degli studenti”. Lalage sorrise. Libera, finalmente libera…  “…a meno che lei non voglia che glielo spieghi io adesso” “NONONONO ci mancherebbe!!!” “Bene, arrivederci signorina, e benvenuta al Dolce Amoris!!”. Lalage fece per uscire. “Ah signorina”. Lalage ormai era si era seriamente convinta che Dio, il karma o qualsiasi altra entità onnipotente quel giorno la stessero perseguitando con particolare tenacia. Si girò stirando le labbra in un sorriso che voleva essere cordiale, ma la faceva assomigliare al Joker. “Studiare qui da noi, detto schiettamente, è molto dura. Pretendiamo puntualità e disciplina. Il corso che ha scelto inoltre prevede lo studio di materie molto più complesse di quelle di altri corsi, o studiate più approfonditamente. Cerchiamo di tendere sempre una mano a voi del corso B, perché sappiamo che questo programma di studi può costituire una bella montagna da scalare, nella vostra vita di studenti. Tuttavia, non diamo la mano per farci prendere anche il braccio. Mi sono spiegata??” “Sì signora”. Click, fece la maniglia, e la porta si chiuse. Lalage improvvisò una danza tribale inca di ringraziamento agli dei. “Pensavo non sarei più uscita di lì!!! E ora, cerchiamo ‘sto delegato!” sospirò guardando l’orologio. Le undici. Il primo giorno di scuola ormai era andato. E lei non aveva assistito a una sola ora di lezione. “Tanto vale tornare a casa e portare una giustificazione” borbottò allontanandosi. Alzò gli occhi e incontrò quelli grigi e fermi di un ragazzo. Coi capelli rossi. Che la guardava con un’espressione di perplessità e sconcerto. Le danze inca non sono esattamente l’ideale per non dare nell’occhio. Lalage avrebbe voluto scomparire. “Ciao” “Ciao…”. Silenzio. Notò che aveva i capelli sciolti stavolta. E niente chitarra. Improvvisò. “Sono la nuova alunna” “E quindi?”. La giornata era stata fin troppo esasperante perché non le uscisse dal cuore quella rispostaccia. “Oh, simpatia portami via, eh?!”. Immediatamente sentì la pressione sotto i calcagni, mentre un brivido la faceva sbiancare. Aveva risposto male a quel tipo lì. Che sarebbe stato altrettanto bene in un sobborgo malfamato o nel Brox. Che avrebbe potuto trucidarla con lo sguardo se avesse voluto. Deglutì a fatica. Con suo enorme sollievo, il ragazzo rise. “Solo con quelle nuove. Io sono Castiel, scricciolo”. Lalage non osò lamentarsi dell’appellativo “scricciolo”. “Io sono Lalage, felice di conoscerti”. Poi si ricordò che era tardi. “Oh no, il delegato! Devo finire le procedure di iscrizione!”. Castiel mise le mani in tasca e si allontanò. “Allora buona fortuna, ne avrai bisogno!” “Perché?” “Quello è un perfettino. Finché non avrai tutto non mollerà la presa” rispose voltandosi appena. La sua voce rimbombò nel corridoio. “Ah capisco. Beh, ci vediamo” “Sì”. Lo guardò allontanarsi, poi tirò un sospiro di sollievo. Ora doveva trovare il delegato. Mentre si voltava, una voce femminile, seccata- e decisamente insopportabile-la apostrofò “Non ci provare carina, capito?”. Una biondina sottolineò l’apostrofe facendo cenno di no con l’indice, mentre due ragazze annuivano dietro di lei. Una delle due continuava a passarsi il burrocacao sulle labbra, l’altra si guardava intorno come se tutto le venisse a noia. “E scusa, tu chi saresti?” si risolse a chiedere per far tacere quella Barbie che davanti a lei dava sfogo a tutto il suo repertorio di frasi derisorie. “Io sono Ambra, la ragazza di Castiel. Non ci provare a soffiarmelo, capito? È mio” “Ah, gli hai scritto il tuo nome sulle mutande per caso? Così non lo perdi?” “Spiritosa. Guarda che non mi devi nemmeno avvicinare capito? Una matricola come te attira gli sfigati!”. Il termometro della Diplomazia di Lalage segnò una temperatura record ed esplose. Come lei. “Ma chi ti conosce!! Ma chi ti parla!! Ma tornatene a giocare nel Castello degli Unicorni col tuo Ken dalla tinta ignobile e non mi rompere l’anima, Barbie ossigenata che non sei altro!”. Ambra assunse una colorazione molto simile alla sopracitata tinta di Castiel. “Carina, tu è meglio che ti guardi le spalle d’ora in poi. E comunque sei solo una povera sciocca senza amici, levati da davanti a me che mi contagi…” “Io non sono una sfigata senza…” “Ciao Lalage!”. Rimase raggelata e si voltò meccanicamente, mentre un prisma d’immagini delittuose le attraversava l’anticamera del cervello. Ken. Eh no, eh no. Questo è giocare sporco, Universo infame. Non ci pensò due volte, gli disse “L’Iscrizione!” come se spiegasse ogni cosa e sfidando il regolamento di istituto, i record di Usain Bolt e le leggi della fisica sparì in un lampo.

“Buongiorno, è questa l’aula del consiglio studentesco?”. Un ragazzo biondo dallo sguardo gentile posò la biro e la guardò con interesse. “Possiamo aiutarti?” “Sì…devo controllare se è tutto a posto con la domanda di iscrizione”. Una studentessa che riordinava le cartelle in uno scaffale ne estrasse una e la porse con un sorriso al ragazzo “Ecco Nathaniel, le ultime iscrizioni” “Grazie Melody”. Lalage studiò con attenzione il ragazzo. Era snello, impeccabile nella divisa scolastica, e gli occhi castano dorati seguivano quanto scritto sul modulo con attenzione. Anche se non riusciva a vederla-stava sistemando dei fascicoli in un altro scaffale-Lalage si accorse che Melody non le staccava gli occhi di dosso. Inquietante. “ Bene, direi che mancano solo le due fototessere, 25 euro per le spese d’iscrizione e…aspetta, non hai portato il modulo firmato dai genitori!” “No ti giuro, sono sicura di averlo portato”. Si avvicinò per controllare, e qualcuno tossicchiò alle sue spalle. Si allontanò per sicurezza. Melody si avvicinò solerte a Nathaniel senza smettere di guardarla. “Mi spiace, controllerò di nuovo. Intanto potresti procurarti il resto?” “Ma dovrei uscire dall’istituto…” “Non c’è problema, finché non hai tutto è come se tu non fossi ancora iscritta”. Poi vedendo la sua espressione corrucciata Nathaniel la rassicurò “Vedrai, magari l’abbiamo davvero noi da qualche parte” “Allora, corro subito a prendere le fototessere” “Sì è meglio. Ah, e…”  e improvvisamente la sua fronte preoccupata si rasserenò e le rivolse un sorriso sincero e amichevole “sorridi, se no che Lalage sei?”. Lalage avrebbe voluto sorridere in risposta, sebbene non avesse capito il complimento, ma continuava a sentire la minacciosa presenza di Melody, pronta a sbranarla. “Beh, allora ciao” e uscì dall’aula. “Magnifico, devo fare la fototessera… e dove la faccio?? La conosco appena questa città!!”. In quel momento vide una chioma rossa in lontananza, la custodia di una chitarra…e le venne un’idea. Terribile. Di cui non era per niente sicura della riuscita. “Vabbè, mal che vada mi uccide, mi mette in un sacco e si sbarazza del mio cadavere…forse non avrei dovuto pensarlo”. Castiel si sentì afferrare per la giacca e si voltò. “Pensi che ti divorerò, che mi guardi con quegli occhi? Potrebbe anche darsi…” “Vieni con me?”. Ridacchiò “Dipende dov…” “Senti cretino, io devo fare queste caspita di fototessere, perché se rimango ancora un giorno a casa con mia zia ci sarà un omicidio, e non sarò io la vittima” “Sì ma scu…” “ quindi ora mi accompagnerai a fare le fototessere e tutto il resto, siamo intesi?”. Silenzio tombale. Oddio l’ho detto! pensò Lalage senza osare guardarlo negli occhi. “Questo tono di minaccia non mi piace proprio per niente… ma sei abbastanza disperata da terrorizzarmi…se ti lascio in queste condizioni uccidi davvero qualcuno” “Allora?...” “Allora vengo. Faccio strada. Stammi alle calcagna scricciolo” e si incamminò. “Grazie mille!” “Sì sì, ora smettila con quegli occhi da cucciolo. Fai venire il diabete”

“Ecco, contenta?” “Quindi è qui?” “No, questa è Disneyland…ma sì cretina, è qui!”. Erano arrivati a una specie di emporio. Il proprietario salutò Castiel che rispose con un cenno del capo, quindi si avvicinarono alla cabina per le fotografie. Lalage mise i soldi nella fessura dei gettoni, entrò e fece per tirare la tenda. Castiel la fermò. “Voglio vederti mentre la fai. Deve essere uno spettacolo esilarante” “Scemo, basta che non mi fai ridere”. Si sedette e guardò nell’obiettivo. “Sai, puoi anche sorridere eh” “Ma stai zitto!” “Su, scatta tra tre, due uno”. Flash abbagliante. Quando prese le foto, Lalage si vide con un’espressione tra l’arcigno e il deficiente. “Devo rifarla, accidenti a te!” “Colpa tua che ti ritrovi questo muso. Forza, riprova”. Lalage si sedette di nuovo. Con la coda dell’occhio vide Castiel che storceva il viso in mille smorfie. “Ma la vuoi piantare??” “Non ti fa ridere?” “Cosa  mi dovrebbe rappresentare scusa?”. Castiel scosse i capelli vezzosamente, si mise una mano sul fianco e rispose il falsetto “Ma sono Ambra, non è chiaro forse??”. Lalage non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere, sbellicandosi. Quando la macchina scattò la foto stava ancora sorridendo, sogghignando tra sé e sé. “Questa è venuta bene!” “Ci credo, ti sei levata quella faccia da funerale!”. Lalage stava per alzarsi, ma Castiel la prese per la vita e tirando la tenda la chiuse con sé nella cabina. “Eh no cara, ora mi devi ricompensare!” “Ti prego ho dei soldi nella borsa, ci sono anche le chiavi dell’appartamento, ma non farmi del male!” “La vuoi smettere?! Non sono mica un maniaco!”. Premette il bottone al centro e l’obiettivo fece click, pronto per una nuova foto: “Ma che ca…” “Dai, così almeno ho fatto le foto anch’io” “Ma tu sei già iscritto!!” “La pianti di lagnarti? E sorridi, se no ti molesto sul serio”. Fecero le foto, e Lalage uscì dalla cabina col volto in fiamme. “Hai le guance rosse come Heidi” “O come i tuoi capelli” “Smettila di borbottare. Ora ci sarebbe mensa, prendiamoci un kebab e mangiamo”. Presero lui un kebab e lei un’insalata. Sentiva lo stomaco in subbuglio. “Sei a dieta?” “Ma mangia e taci. Comunque hai un certo spirito tu, che prendi in giro la tua tipa!”. La guardò interrogativo. “Ma Ambra no??” “Ambra?? Ma sentitela” e scoppiò a ridere. “Non toccherei quella Barbie nemmeno se fosse l’ultima donna sulla Terra: è la sorella del perfettino” “Noo!” “Libera di non credermi, ma è così. E a parte questo, non mi piacciono le maggiorate di plastica. Anche se” e si permise di squadrarla da capo a piedi “c’è chi soffre del problema opposto: potrebbero usarti per stirare le camicie”. Lalage sentì di nuovo il viso bruciarle e quasi strillò “Guarda che neanche tu sei un fotomodello!” “Calmati scricciolo, dopotutto ho fatto una semplice constatazione”. Tornando indietro quasi non si rivolsero parola. Castiel non era un chiacchierone, e lei era immersa nei suoi pensieri. Entrati nell’istituto si voltò. “Grazie ancora” “Figurati scricciolo. Facevi pena. E ricordati di sorridere”. Lalage lo guardò andare via. Era un ragazzo gentile…forse. “Ora, alla sala delegati”
 

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Capitolo 4
*** "Panta rei": ogni cosa scorre via ***


 Le foglie degli alberi sono color dell’ottone, e staccatesi dai rami adunchi degli alberi  danzano per adagiarsi sulla terra scura. Lalage guarda fuori dalla finestra, assorta. Qualcuno la chiama dalla porta della classe.  Ma lei non ci fa caso. “LALAAAA!”. Lalage trassale e si guarda alle spalle. Kim ha ancora le mani chiuse intorno alla bocca, per amplificare la potenza dell’urlo. “Vedi Violet, COSI’ bisogna chiamarla quando ha il cervello altrove”. Violet guarda verso di lei e nei suoi occhi si può leggere in sovraimpressione “Non sai quanto mi dispiace”. “Che dici Lala, andiamo a mangiare in giardino, almeno oggi che c’è il sole ?”. Lalage sorride “Ma sì, perché no”. Mentre scendono le scale Violet l’affianca sorridendo timidamente e le chiede con un filo di voce “A cosa stavi pensando in classe?”. Lalage sorride “Che sono passati già tre mesi da quando sono arrivata”. Kim, che fischietta facendo strada, le braccia incrociate dietro la testa, si interrompe e si gira verso di loro. “Eh già, e non è stato facile abituarsi, eh?” “Hai ragione” ride Lalage. Oh no! Non era stato per niente semplice…

Era tornata da Nathaniel in tempo per iniziare le lezioni del pomeriggio. Le aveva sorriso cordialmente e quando gli aveva porto le foto le loro mani si erano sfiorate, avvenimento che la spinse a guardarsi le spalle terrorizzata aspettando di vedere Melody armata di katana. Ma Melody non c’era. “Ecco fatto, tutto a posto, bravissima, e scusami, avevamo noi l’iscrizione e non l’abbiamo trovata alla prima” “Non ti preoccupare, devi gestire questo e altro, dev’essere un lavoraccio”. Nathaniel rise. Era davvero bello, pensò Lalage. Sembra il ritratto del ragazzo ideale: bello e slanciato, intelligente, responsabile, gentile. Nathaniel corrugò la fronte. “Mi spiace, ma non possiamo accettare la tua iscrizione”. Fine del momento magico. Lalage si sentì morire. “Eh?” “Sono desolato” “No ti prego, non puoi dirmi così…” e sportasi in avanti cercò nell’iscrizione quello che non andava. No no no no, non sarebbe rimasta in quell’appartamento con quella svitata cosplayer di sua zia, non potevano farle questo…poi si accorse che Nathaniel sorrideva sotto i baffi. Lo guardò perplessa. “Ci sei cascata!” e scoppiò a ridere “dovresti vedere la tua faccia”. Lalage lo guardava allibita. No, non era il ragazzo ideale. Non dopo questo assaggio del suo contorto senso dell’umorismo. “Divertente, no?” finì di ridere lui. “Devo anche risponderti?”. Calò il gelo. Poi Nathaniel arrossì come una ragazza. E Lalage si sentì una creatura malvagia, ignobile, manco avesse picchiato un uggiolante cagnolino. “Beh, non che io sia più portata per l’umorismo eh” “No, hai ragione, in effetti era una pessima battuta. Per farmi perdonare ti faccio vedere una cosa. Hai già fatto il giro della scuola?” “No” “Allora vieni”. La portò in biblioteca. Era davvero una bella biblioteca. I volumi erano ordinati sugli scaffali scuri,  i tavoli avevano una luce ciascuno e una libreria circondava la stanza coprendo tutte le pareti. Al centro troneggiava un enorme mappamondo. “Questa scuola è antica?” “Solo quest’ala. La libreria e la serra sono dell’Ottocento, quando questa scuola era una enorme casa di un ricco banchiere, solo dopo alcuni lavori è stata ristrutturata e trasformata in un edificio scolastico”. In realtà Lalage non ascoltava granché. Era impegnata a guardargli il viso dolce, i capelli biondi, gli occhi color miele gentili….non si rese nemmeno conto che lui aveva smesso di parlare e la guardava. “Ora devo tornare a lezione” ripeté lui “vieni in classe con me?” “Siamo nella stessa classe??” “Sì, ho letto la tua preiscrizione”. “Ok allora…”. Arrivarono insieme e si sedettero. La classe era già messa piena. Entrarono alcuni studenti, e Lalage riconobbe Castiel. Desiderò sprofondare sotto terra. Lui fortunatamente non se ne accorse, o forse fece finta di non vederla. Finalmente entrò l’insegnate. Dopo le formalità annunciò “Oggi abbiamo tra noi una nuova studentessa, che si è trasferita da poco niente meno che dalla capitale…Germont, può venire alla cattedra per favore, e presentarti alla classe?”. Lalage si alzò. Sii sicura di te, si diceva, fino a che non raggiunse la cattedra. Da lì, una rapida occhiata alla classe. E intercettò uno sguardo che non avrebbe mai voluto intercettare. Barbie e le sue amiche sghignazzano in fondo all’aula. E Ambra le lanciò uno sguardo di sfida. “Prego, comincia pure”. “Mi chiamo Lalage Germont, sono arrivata da Parigi circa due giorni fa. Non conosco molto bene la città, ma spero di potermi integrare molto presto”. Non male, pensò congratulandosi con se stessa. “Hai qualche predilezione particolare? Un hobby o un’abilità speciale?”. Troppo facile. Si era allenata per domande di questo tipo. “No, nessuna”. Una voce risuonò in fondo alla classe. E le venne voglia di abbandonarsi al turpiloquio. “Ma Lala, non è vero!”. Tutti si voltarono verso Ken, che stupito la guardava dietro ai suoi fondi di bottiglia. Iniziarono tutti a ridacchiare, mentre un chiacchiericcio si diffondeva nell’aria. Castiel sorrideva. Ambra la guardava trionfante, e sussurrò qualcosa al suo “braccio destro”, la cinesina con terrore di screpolarsi le labbra. “Mi scusi lei, ma la signorina ha detto…” “Lala è bravissima col violino! È una professionista, di quelle che riempiono i teatri. Suona pezzi difficili, ed è bellissima quando suona!” “Solo quando suona?”. Lalage strafulminò Castiel. Pensò che sarebbe stato meraviglioso fare qualcosa a quei capelli…raparli a zero per esempio. Ken balbettò e arrossì. E Ambra colse la palla al balzo. “Uuuuuh, Occhi di Bottiglia e la psicopatica bugiarda, che cosa carina!”. Iniziarono tutti a ridere. Lalage abbassò lo sguardo. Perché, perché…”Scommetto che sei la sua dea, non è così? Ma che fa questa ora, piange?”. Lalage era tesa. Il cuore le pompava sangue nelle orecchie. Sentì Nathaniel  che si rivolgeva duramente ad Ambra “Sei veramente una serpe, piantala subito”. Ambra sbuffò “Sempre a prendere sotto la tua ala gli sfigati…ehi sfigato, se tu e la tua mogliettina avete bisogno di aiuto, rivolgiti pure al delegato. Magari coi suoi poteri può anche sposarvi”. Qualcosa di sepolto nella memoria, in Lalage, riemerse prepotentemente, con il suo  carico di disperazione, di rabbia, di dolore, di rivincita. “Sei solo stupida, una piccola stupida fallita!”. ORA BASTA. “Ti credi furba, vero?”. Ambra la guardò. C’era qualcosa di smarrito nei suoi occhi. Il gioco non lo conduceva più lei. “Come scusa?” “Ti credi furba, vero? Solo perché te la sai prendere con quelli che non possono risponderti?”. Lalage alzò la testa. Maledisse le sue lacrime. Ma non smise di reagire. “Fai pena. Sei solo una squallidissima Barbie che non trova niente di meglio che prendersela con quelli che sono più intelligenti o più in gamba di te. Fai pena. Forse credi che tutti staranno sempre al tuo gioco, ma ti sbagli. Se pensi di mettermi i piedi in testa, hai proprio sbagliato tutto, cara. Io non mi faccio umiliare da nessuno” “Signorina” cercò di dire la professoressa per riprendere il controllo della situazione “si calmi per piacere…”. Lalage la ignorò. “Non sai cosa ho passato per arrivare fin qui, ma ti permetti di giudicarmi, vero? Sei semplicemente stupida. Ho lottato per arrivare fin qui. Anche contro le persone che pensano di aiutarmi e invece incasinano solo le cose (Ken abbassò lo sguardo, contrito). E non importa quanto tu ti creda superiore. Io questo posto me lo sono guadagnato. E non mi arrendo solo perché una biondina mediocre mi vuole sbarrare la strada”. Concluse. La classe la guardava con gli occhi sbarrati. Nathaniel era stupito, Ambra gorgogliava la sua rabbia. Castiel solo la guardava immobile, le braccia conserte. Lalage si voltò verso l’insegnate “Mi dispiace di aver disturbato la lezione. Col suo permesso, uscirei un attimo dalla classe” “Sì, certo…”. Uscì. Corse lungo tutto il corridoio e si scapicollò nei bagni. E lì si lasciò scivolare lungo la parete, e pianse. Disperatamente. Qualcuno bussò. “Lalage” “Ken, vai via” “Stai bene? Mi dispiace per quello…” “KEN, VATTENE VIA!!”urlò isterica “non ne posso più di averti tra i piedi, non lo capisci?? Ho sopportato tutto questo, ma ora basta Ken, BASTA. Sono scappata da Parigi proprio per sfuggire al mio passato, e ora tu mi perseguiti, me lo riporti continuamente davanti agli occhi!! Sai come mi fa sentire almeno??”. Tacque. Ken stava piangendo, dietro la porta. Lalage lasciò ricadere la testa fra le braccia. “Scusa Ken, mi dispiace”. Solo singhiozzi. Ripeté “Mi dispiace” “Perché non me l’hai detto subito? Siamo amici, no? Perché ti sei voluta tenere tutto dentro?” Lalage singhiozzò “Perché ho paura”. Nessuno rispose, e il tempo passo interminabile, e non erano che pochi minuti. Qualcuno le scostò i capelli, e lei sollevò lo sguardo. Una ragazza gentile le sorrideva. I capelli viola le incorniciavano il volto dolce e premuroso. “Tieni, soffiati il naso”. Le porse un pacchetto di fazzoletti. Lalage lo prese. “Grazie” “Non essere giù, fa così con tutti. Ma tu l’hai messa al suo posto, hai fatto bene” “Benissimo!” disse un’altra voce. Una ragazza dalla pelle scura sorrideva dalla porta. “Quella della biondina mediocre se non ti dispiace me la segno”. Lalage sorrise “Forse ho esagerato” “Nono zia, ci hai preso in pieno! Erano anni che volevo dirle una cosa del genere!”. La ragazza dai capelli viola sorrise arrossendo. “Io…io sono Violet…piacere di conoscerti”. Si strinsero la mano sorridendo. “Ehi ci sono anch’io! Io invece sono Kim, sembro una dura ma giuro che non mordo”. Lalage sorrise “Vi sarò sembrata psicopatica, ma giuro che di solito non sono così isterica” “Ma va, stai scialla! Dico, li hai visti bene in faccia gli altri? Ti sembrano normali?” rise Kim “Dai, che inizia la prossima lezione”. L’aiutarono ad alzarsi e la accompagnarono in classe. Ambra stava ancora ribollendo di stizza, ma Lalage la ignorò. Violet si sedette accanto a lei. “Ti dispiace se mi siedo qui?” “No anzi!”. Violet dispose con ordine astuccio e quaderni sul banco. A Lalage cadde l’occhio sull’agenda bianca, dove con una stilografica la sua nuova amica aveva scritto una frase in una lingua antica, che lei aveva imparato a riconoscere dagli studi di suo padre: “πάντα ῥεῖ”. “E’ greco” le disse Violet notando il suo interesse “significa…” “ “tutto scorre” “. Violet sorrise “Non so perché, ma è una frase che mi mette tranquillità, anche se parla delle cose che cambiano” “Forse perché cambiare vuol dire vivere cose nuove” “Chi lo sa?”. Lalage chiuse un secondo gli occhi e si sentì improvvisamente in pace. “Forse qualcosa inizia a scorrere” sussurrò. “Come dici?” “No, niente…”.

Era a casa. Il telefono squillò a vuoto per qualche secondo…tuuuu,tuuuu,tuuuu….poi qualcuno dall’altra parte rispose. “Pronto?” “Pronto, sono Lalage” “Ah”. Silenzio. “Senti Ken…mia zia ha comprato una torta enorme per festeggiare il primo giorno di scuola, ma non riusciremo mai a mangiarla tutta. Ti va di venire a casa mia a festeggiare con noi?”. Qualche istante di attesa. “Davvero posso?” “Ma certo” “Che bello!”. La voce di Ken risuonò entusiasta “allora vengo subito!” “Bene, ti aspettiamo!”. Lalage mise giù il telefono e tuffò la testa nei cuscini. Sì, le cose iniziavano a cambiare. Ma per cambiare in meglio, voleva avere vicino a sé, accanto a lei, un amico con cui correre…

“Guardate che spettacolo ragazze! Lo direste mai che siamo già a ottobre?” urla Kim correndo a prendere posto sulla panchina baciata dal sole, buttandosi a sedere sullo schienale. Violet la segue trotterellando con il blocco da disegno in mano, canticchiando il jingle di una pubblicità. Lalage osserva il cielo ottobrino respirando a pieni polmoni l’aria impregnata dell’odore della terra, feconda di pioggia, dei fiori che appassivano, delle nuvole che correvano veloci sopra di loro, del mare distante che sospingeva contro i moli le barche. Le cose stanno già iniziando a cambiare…
 

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Capitolo 5
*** Minuetto quotidiano ***


Quando era tornata in classe, quel pomeriggio, la sua vita scolastica aveva iniziato a girare, che il verso fosse quello giusto o meno. Certo, era stata richiamata dalla preside che l’aveva duramente ripresa per il suo comportamento. Ed era ancora perseguitata da quella specie di caricatura di Barbie. Ma aveva trovato dei nuovi amici, e aveva fatto pace con Ken, quindi non andava tutto così male.
Ovviamente, rimaneva una sola persona da sistemare, nell’economia della sua nuova vita.
“Quanto pensi di tenermi il muso, scricciolo?” “Perché non te ne torni a lavorare? All’incrocio si staranno chiedendo dove diammine si sia cacciato il semaforo”. Castiel accigliato la soffocò con una mefistofelica vampata di fumo di sigaretta. “Ma ti sei reso conto che sei in una serra, scemo patentato?” “E da quando ti preoccupi della coltivazione personale della preside tu?”. Lalage lo fulminò. “Sei il personaggio di una fan fiction per adolescenti, cretinetti: smettila di fare allusioni” “Uao questa sì che è Rottura della Quarta Parete!”. Una bellissima ragazza dai capelli candidi si affacciò alla porta della serra. “Lala, hai finito di occuparti delle piante?” “Quasi, dammi un minuto che travaso questa e ho finito”. Castiel la sogguardò “E ora sei anche culo e cami ….” “Parafrasi, idiota, parafrasi. Usa questo fantastico elemento retorico che questo liceo ti insegnerebbe se non fossi troppo ottuso”. Castiel gonfiò i muscoli, strinse i pugni e sollevò le braccia come se stesse per assalirla. Poi diede un sospirone e sibilò “Non ti darò la soddisfazione di farmi menar le mani su una donna”. Lalage senza dargli retta posò il vaso che aveva in mano, si tolse i guanti, li scosse per eliminare la terra rimasta attaccata e raccolse gli altri strumenti. “Che fai mi ignori???” “Non puoi stare nei locali del club. Esci”. “Dicevo da quando sei così…affiatata con Rosalya?”. Rosalya si affacciò dalla porta a vetri mentre stavano uscendo. “Perché ci siamo incontrate per caso, viaggiamo sulla stessa lunghezza d’onda e quindi siamo migliori amiche”. Castiel alzò gli occhi al cielo. “Prevedo cataclismi da questa strana coppia”. Quando cercò con lo sguardo Lalage, si era volatilizzata. Rosalya lo guardò. “Cass, Cass…quando ti deciderai a non strapazzare le fanciulle?” “Fanciulle?? Quale? È una iena quella lì!”. Rosalya sorrise sorniona. “ E come mai ci sprechi tanto tempo dietro, se la trovi così insopportabile?”. Castiel non rispose, ma questo non impedì a Rosalya di allontanarsi canticchiando un motivetto spensierato, sorridendo sotto i baffi.
Sì, si erano conosciute così, in modo semplice- beh a pensarci bene mica tanto. Un giorno, mentre aspettava Kim e Violet davanti alla scuola, Lalage aveva visto una bella ragazza aggirarsi smarrita nel cortile. Dopo venti minuti buoni che le due ritardatarie non arrivavano e quella bizzarra creatura girava intorno a sé stessa, Lalage decise che per lo meno poteva aiutare quell’anima in pena e si avvicinò. “Tutto bene?”. Lei alzò gli occhi e la guardò. Era proprio bella, e i capelli candidi le conferivano un fascino particolare. Sorrise. “Oh sì, sì sì tranquilla. E’ solo che non voglio che quella lì mi veda, quindi controllavo se c’era e cercavo un nascondiglio”. In quel momento la macchina della preside parcheggiò davanti all’ingresso e Lalage vide attraverso il parabrezza la sua figura rosea di meringa isterica allungarsi verso il sedile posteriore cercando la borsetta. Lalage all’improvviso sentì che qualcuno la afferrava per un braccio e un attimo dopo si trovò catapultata dietro alle begonie del  cortile. Senza peraltro capire come potesse essere successo. La ragazza di prima era accovacciata accanto a lei ed era completamente intenta ad osservare la preside, che scesa dall’auto entrava coi suoi rapidi passettini affannati a scuola. “Ma che…” “Shhhhh…ok, è entrata” “Sarebbe lei quella che non vuoi che ti veda?? La preside??” “La volta scorsa mi ha beccato mentre baciavo il mio ragazzo, nel cortile” “Beh, non credo possa impedirtelo” “…durante la lezione. E lui in teoria è un estraneo e al liceo non dovrebbe nemmeno entrare” “Ah ok, un altro paio di maniche”. Senza ascoltarla la bislacca ragazza traguardò l’entrata del liceo. Lalage sospirò “D’altra parte, immagino che il primo passo per presentarci potrebbe essere uscire da dietro le begonie, che dici?” “Uh sì, hai proprio ragione!”. Si alzarono e la ragazza le tese una mano sorridendo. “Piacere, sono Rosalya” “Lalage” “Che corso frequenti?” “Curriculum umanistico” “Ma dai, anche io! Allora ci vedremo in classe!” “Però se non ti dispiace ora entro da un’altra parte. Lasciano sempre la finestra aperta nel  laboratorio di chimica e lì la preside non pasa mai” E così dicendo Rosalya sgattaiolò furtivamente dietro la serra del club di giardinaggio. In quel momento Violet e Kim entrarono nel cortile e si avvicinarono. “Lala, come mai sei…” “Lascia perdere Kim. Nemmeno io ne ho idea”

I giorni passarono. Ad metà novembre, il cielo si fece meno limpido, e grosse nuvole provenienti dalla Manica riversarono sulle regioni del sud il loro carico di pioggia. “Che strazio, piove anche oggi!” sbottò Kim prima di strappare un altro morso considerevole dal suo panino alla cotoletta. Violet guardò fuori dalla finestra, dove la pioggia disegnava dei rivoli tortuosi lungo l’intera superficie del vetro. “Beh, in fondo è arrivato tardi l’autunno quest’anno” “Lala, visto che non possiamo andare a mangiare fuori e tu stai ancora all’insalata, ti spiace se nel frattempo mi copio la versia di oggi?” “No Kim, fa pure” “Cos’è?” “Cicerone”. Kim sollevò gli occhi al cielo ululando la sua pena. “Noooo, ti prego, tutto ma non l’Arpinate!!” “Dai, è un pezzo breve questa volta…” “La fai facile te, non sei abbonata al quattro di scritto e orale dall’inizio dell’anno!”. In quel momento Ken entrò in classe e sentì le ultime parole di Kim. “Lala è sempre stata bravissima nelle materie umanistiche!” “Ciao bro! Stai tra, me ne sono già resa conto, è la ottordicesima volta che mi salva il…” “Però anche tu non sei male, Kentin. Se non fosse per te, non saprei sopravvissuta alla matematica!” intervenne Lalage tempestivamente. E fu così che si accorse che Kentin era letteralmente fradicio. “Ti sembra la stagione per andare a fare il bagno vestito Ken?” “Come?” le rispose agitato lui. Kim alzò un istante gli occhi dal quaderno e lo fissò. Prima di inarcare un sopracciglio e dichiarare “Senti, io sono per la libertà assoluta, se sei un patito degli sport estremi tipo Cimento, gestiscitela. Ma se mi sgoccioli sull’ablativo assoluto ti uccido. Male”. Lalage si alzò. “Kentin, vieni un secondo”. Uscirono dall’aula in silenzio. Ken si strizzava un lembo della camicia. “Si può sapere che cosa è successo?”. Silenzio. Lalage addolcì la sua espressione. “Ken, quando ho toccato il fondo, tu eri lì per me. Permettimi di fare lo stesso”. Dopo un’esitazione, Kentin cominciò a parlare “Ecco…”.

Castiel non la sentì arrivare. Sentì solo l’aria fischiare vicino al suo orecchio, e un dolore sordo all’altezza della nuca. Si voltò inferocito. “Ma che dia…” “La vuoi finire o no??” “Ma che co…” “Lasciaci in pace, capito? Ne ho abbastanza di essere nel tuo mirino. Ti sto sull’anima? Non ti vado a genio? Ma sei in grado di affrontarmi a muso duro o no, cretinetti? Invece di fare il virile dimostra anche di esserlo!!” “Ti vuoi calmare donna?? Mi spieghi cosa ho fatto stavolta per farti salire la sindrome premestruale??” “Mi fai schifo”. Castiel la guardò incerto “E dove starebbe la novità?” “Che ora hai messo in mezzo anche Kentin. Perché il fegato di dirmi le cose in faccia non ce l’hai”. Castiel l’afferrò per il bavero della camicia e la sollevò a un palmo da terra. E Lalage si ricordò di un particolare fondamentale: che lei non era ancora sicura che lui non avesse istinti da serial killer. Solo in quel momento cominciò a sudare freddo e sbiancò. “Datti una calmata bimba. Non mi vuoi vedere arrabbiato. Te lo posso assicurare” “Ne-nemmeno tu vuoi vedermi arrabbiata” si sforzò di darsi un contegno Lalage, ma sentiva il sangue pulsargli nella giugulare, contro le nocche odorose di nicotina di quella specie di pericolo ambulante dalla tinta appariscente. Lui la guardò…quanto, una ventina di secondi?-che le parvero secoli. Poi scoppiò a ridere. “Ma guarda questa, trema come un coniglietto e gioca a fare il leone. Mi fai troppo morire con quella faccia”. E lasciatala a terra continuò a ridacchiare. Lalage lo guardò storto. “Se ti riferisci al motivo per cui Kentin è arrivato in classe zuppo oggi a pranzo, credo che ci sia un malinteso. Che d'altronde quel coniglio del tuo amico non mi ha dato il tempo di spiegare” “E sarebbe?”. Castiel  mise le mani in tasca. “Quando sono tornato dalla pausa pranzo ho visto che Miss Barbie California e la sua combriccola del Club della Mastoplastica giocavano con uno zaino, cacciandolo nelle pozzanghere. Le ho chiesto di darmelo, lei ha obbedito. Ma mentre mi voltavo per vedere se trovavo il proprietario, mi sono trovato davanti quel mingherlino. Non ho fatto in tempo a consegnargli la cartella che quello era scomparso dalla mia vista”. Si voltò. “Credo abbia un istintivo timore di me. Terrore, anzi”. Lei gli afferrò la giacca, e alzando gli occhi al cielo commentò esasperato “Questa abitudine però te la devi levare…” “Mi stai dicendo la verità?” “Avrei motivo di non farlo?”. Lalage scosse la testa. “Bene, con permesso, Signorina Isteria, vado a distendere i nervi altrove”. Lei lasciò la persa e tornò indietro. Sentiva le guance in fiamme. Cercando le sigarette, Castiel si rese conto di avere in tasca qualcosa. Improvvisamente si ricordò e voltandosi urlò con la sua voce scura “Ehi scricciolo, aspetta”. Ma se n’era già andata. Sbuffando, estrasse dalla tasca l’oggetto che apparteneva a Ken e che si era scordato di restituire. La scritta a pennarello indelebile su una faccia del cd prometteva bene. “Lala, concerto 21/06/2013”

“Quindi niente Ken, ho recuperato tutto e te lo porto domani a scuola. Così mi restituisci l’ombrello” “Grazie…” “Ti sei preso la broncopolmonite o tutto ok?” “Tutto ok, solo un po’ di raffreddore”. Lalage sorrise e si distese sul piumone socchiudendo gli occhi. Il telefono fisso scivolò pochi centimetri dal comodino verso di lei, seguendo la tensione del filo e minacciando di precipitarle in testa. Lo fermò con le nocche della mano destra. “Sai, manca solo Laety, e poi sembra di essere tornati ai vecchi tempi. Sai, quando ci spalleggiavamo l’un l’altro, tutti e tre. Che ricordi!”. Silenzio. “Ken, hai il mal di gola?” “No, non è questo, è che…” “Sì?”. Dall’altra parte del telefono, si udì distintamente un sospiro.

Domani torno a Parigi, Lala

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Capitolo 6
*** L'equilibrio precario dei ricordi ***


Il sole faceva capolino a fatica attraverso le tende azzurre del bagno, contro le quali il vento furioso di dicembre si schiantava con inaudita ferocia. In quei giorni, Aix en Provence sembrava un luminosa e animata galleria del vento, un Maestrale insolente che si abbatteva  nelle strade e negli androni, che si insinuava, serpente ghiacciato, sotto i cappotti. Lalage alzò il viso umido di acqua tiepida, e si guardò nello specchio sopra il lavandino. Si era sempre stupita di essere considerata una bella bambina e poi una bella ragazza. Quando andavano alle medie, reputava  Laety infinitamente più carina di lei. Guardandosi allo specchio quella mattina le tornò tutto in mente. Studiò a lungo il suo profilo. Aveva il viso magro, così come tutto il suo corpo, il mento tondo, le guance leggermente incavate. Il petto era appena pronunciato, e in generale la sua magrezza le conferiva un’aria stanca. Solo ultimamente aveva ricominciato a prendere peso. Il naso era sottile e dritto sul setto, ma alla base era cicciottello, a patata, e non le piaceva. Lo avrebbe preferito come quello di suo padre, un po’ “alla greca”. Gli occhi erano belli, azzurro cielo, ma li trovava troppo vicini tra loro. Le sopracciglia erano sempre state un dono del cielo, perché diversamente da altre ragazze non aveva mai dovuto ricorrere alle pinzette. Aveva le labbra grandi, ma non disegnate. I capelli costituivano per lei oggetto di orgoglio, anche se non era mai stata vanitosa: color mogano, morbidi e lucenti. Ma il taglio che portava, così a metà tra le spalle e il collo, le dava l’aspetto di una vecchietta. Infine, si guardò le mani. Affusolate, magre, “da violinista”, come diceva sempre la mamma- anche se Mozart, che pure era stato anche violinista,  aveva invece mani paffute e grandi. Quasi le facevano impressione.  Nel complesso dava l’impressione di poter essere una ragazza carina, se solo non avesse avuto quell’espressione selvaggia e allo stesso tempo tristemente ironica, e se avesse avuto qualche chilo in più. Il vento corse a bussare ancora alla sua finestra, impetuoso, e lei, lasciando perdere ogni cosa si asciugò la faccia nell’asciugamano. La zia stava versando in quel momento qualcosa nella tazza da colazione. Cioccolata. Ancora. Lalage alzò gli occhi al cielo. “Zia, mi serve CAFFE’” “Alla tua età non fa bene. Dai retta alla zia tua”. Sospirando, Lalage si sedette e iniziò a sorbire la sua colazione. “Se non ti sbrighi arriverai in ritardo” “Sì zia” e posò la tazza vuota sul tavolo. “C’è qualche lettera…?”. La zia la guardò e sorrise dolcemente. “Ancora niente tesoro”. Lalage abbassò lo sguardo ma cercò di sorridere. “Fa niente, arriverà. Ora però devo correre” e preso il cappotto salutò sua zia dalla porta, tenendo lo zaino tra le cosce mentre si sistemava la sciarpa. Scesa sul marciapiede una sferzata di maestrale rischiò di portarle via la cartella. Iniziò a correre giù dalla discesa accanto ai Jardins d’Albertas, percorrendo tutto il quartiere di Mule fino a incontrare quello di Saint Anne. Il vento soffiava ora alle sue spalle e la sollevava quasi, tanto che quando saltò i tre gradini davanti alla latteria per poco non perdette l’equilibrio a causa di una folata. Finalmente vide una piccola macchia verde poco distante: il retro della serra. Aggirando il muro di cinta di mattoni rossi si ritrovò finalmente davanti all’entrata, racchiusa tra le inferiate verdi. Prese un secondo fiato, vedendo che davanti al portone c’era ancora la solita folla di studenti che aspettavano che si aprissero le porte. Il cielo spazzato dal vento a tratti rivelava un cuore azzurro splendente. Ken starà guardando lo stesso cielo? si chiese, per poi pentirsene subito quando una stretta di malinconia le soffocò il cuore.

Ken era venuto a salutarla, quella sera, e la zia aveva preparato dei waffles. Come al solito non aveva smesso un picosecondo di ciarlare, allegra e spensierata, e aveva rischiato di mandare due volte a fuoco la cucina perché chiacchierando si era dimenticata tutto sul fuoco. Ma Ken e la nipote non avevano voglia di festeggiare. “Quando parti?”chiese lei finalmente, dopo che erano stati in silenzio senza nemmeno guardarsi per mezz’ora buona. “Domani alle dieci ho il treno”. Lalage alzò appena gli occhi. “Posso venire a salutarti”.Ken si soffiò il naso e scosse la testa. “Sarebbe ancora più triste. Sono venuto stasera proprio per questo”. Lalage trattenne le lacrime mentre il silenzio rimpiombava su di loro. “Ken, guardami”. Lui aveva alzato la testa. Aveva le lenti appannate e umide. “Voglio che tu mi scriva, ok? Per piacere. Scrivimi almeno una volta alla settimana. Sarebbe meraviglioso, e poi io farei lo stesso. E scrivimi quando arrivi”. Ken sorrise e annuì “Contaci”. Si sorrisero sollevati. Quella sera avevano cercato di divertirsi. Avevano guardato un film comico e mangiato waffles fatti in casa, sforzandosi di ridere. Ma quando Ken la salutò dalla strada e lei chiuse la finestra da dove si era sbracciata per l’ultima volta, si rese conto di essere incredibilmente triste. Quella notte pianse come se le stessero portando via una parte della sua infanzia.
E poi, Ken non le aveva mai scritto. Anche se lei aveva rintracciato l’accademia militare, vicino a Les Invalides, dove il padre l’aveva spedito,  e aveva mandato un paio di lettere, lui non aveva mai risposto. Si era risolta ad aspettare, ma ormai era passato un mese. Si sentiva completamente dimenticata, come un oggetto smarrito in una caotica stazione ferroviaria.

Nathaniel doveva aver captato qualcosa, o forse era semplicemente gentile, fatto sta che sempre più spesso cercava di farla sorridere, di coinvolgerla nella classe. A volte le posava addirittura una mano sulla spalla, un gesto spontaneo raro ma affettuoso. Lalage si sentiva bene, ma allo stesso tempo confusa, quando era con lui. Amava molto i suoi modi delicati, ma c’era qualcosa di artificiale nei suoi gesti, che le dava un brivido di interesse ma anche una sorta di ansia, come se si trovasse davanti a qualcosa di effimero. Amava la sua gentilezza, e passava sopra al suo scarso senso del comico. Era discreto. Castiel era tutta un’altra cosa. Con lui poteva sfogare la sua ironia e il suo sarcasmo. Le dava sui nervi, ma sapeva di poter dire qualsiasi cosa a lui, o fare battute che con Nath non si sarebbe mai sognata di fare. Le era più famigliare, ma al tempo stesso era turbolento, tempestoso. A volte decisamente un rompiballe di prima categoria. Non era difficile da capire, perché era molto più istintivo del delegato, ma a volte era veramente intrattabile. In quel caso, la mandava spesso a spigolare. E lei non gli rivolgeva la parola, fino a che, in modo totalmente naturale, lui non si fermava di nuovo a mangiare con lei, Kim e Violet, come se nulla fosse successo. Ogni tanto li metteva a confronto. Paragonava Natnaniel a un corso d’acqua tranquillo, immobile sulla superficie e quasi sinistro nella sua placida bellezza, e Castiel a una tempesta, a una burrasca minacciosa che però quando si quieta lascia spazio a meravigliosi paesaggi, sconvolti ma proprio per questo suggestivi, come liberati dalle catene della monotonia e della quotidianità. Due mondi diversi, in cui lei si muoveva naturalmente, come la creatura marina che fluttua ora verso le acque più calde ora verso gli abissi. Anzi no: era una rondine, LA rondine Lalage, sospesa tra questi due mondi, mai arrivata, in perpetuo turbamento, in perpetuo equilibrio.

Ogni tanto dava una mano a Nath e Melody, se non aveva niente da fare. Niente di che, sistemava solo le scartoffie, ma era un modo affascinante di conoscere la vita del liceo…e un’occasione in più per conoscere Nath. Melody la guardava ancora di sottecchi, e se riusciva cercava di mettersi in mezzo tra lei e Nathaniel. Era una presenza in sordina, a volte fastidiosa, ma a cui Lalage si stava abituando. E poi, spesso pensava ad altro. Alle cose che cambiavano, e a quelle che non sapeva come cambiare. Quel pomeriggio di dicembre era particolarmente assorta, e non sentì subito la richiesta di Melody. “Lalage, ci sei?”. La guardò stranita. “Come scusa?”. Melody sorrise. Forse anche lei, nonostante la gelosia, un po’ le voleva bene. Stavano lentamente imparando a conoscersi. “Potresti andare a fare il giro delle aule? Dobbiamo controllare che sia tutto chiuso prima di andare”. Lalage aggrottò la fronte. “Non possiamo farlo insieme?” “Devo andare a fare delle fotocopie per un evento di questa primavera e contattare l’assicurazione per la copertura. Non farei in tempo. Ti prego….”. Lalage annuì. “Nessun problema”. Dopotutto non ci voleva molto. Le aveva già controllate prima. Solo, sapeva che Nathaniel da lì a poco sarebbe tornato a casa, e questo le dispiaceva, ma poi lui alzò gli occhi e le sorrise, e così quando uscì per controllare la scuola si sentì in pace, quasi allegra. Nel primo piano le porte erano tutte chiuse. Nel secondo idem. Guardo nel corridoio del terzo… e le venne voglia di tirar giù dal trono qualche divinità, pagana o meno: c’era una porta aperta in fondo al corridoio.

La porta dell’aula video era ancora aperta. Lalage sbuffando si affacciò dall’uscio per controllare se c’era qualcuno. L’aula sembrava apparentemente deserta, ma il proiettore era ancora acceso, anche se quale che fosse la registrazione doveva essere ormai terminata. In fondo alla sala, dove si trovava la pedana con i microfoni e la lunga cattedra per le lezioni e le conferenze, vide il telecomando. Ovvio, pensò. Doveva per forza essere là, dopo ventordici file di poltrone, mica sul vassoio mobile delle apparecchiature, che sarebbe stato il suo posto. Sospirò scocciata e si diresse verso la pedana. In quel momento qualcuno, vicino a lei, sospirò. Le si accapponò la pelle, mentre si voltava lentamente per vedere se c’era qualcuno alle sue spalle. Nessuno. “Me lo devo essere sognato” si disse proseguendo per altre due file di poltrone, ma alla terza il sospiro si ripeté, più vicino a lei questa volta, per l’esattezza all’altezza della sua coscia. Fece un balzo indietro e si appiattì contro la parete. Un fantasma? In aula video? Ora i fantasmi guardavano anche i video? Sapeva di documentari SUI fantasmi, non PER fantasmi. Quando il cinema è vuoto e si dice “non un’anima viva”…che battuta orrenda si rimproverò. E guardando meglio, vide qualcosa che le fece corrugare la fronte in un’espressione scocciata ed esasperata insieme. Una giacca di pelle. Che respirava. O meglio, probabilmente a respirare era il tipo che ci stava dormendo sotto, il solito imbecille rocker che con tutti i posti che aveva per bigiare doveva occupare un’aula intera di un edificio pubblico. Della serie “Pessimi cittadini crescono”. La sollevò e, come volevasi dimostrare, scoprì il volto di Castiel che dormiva. E sospirava nel sonno. Forse disturbato dalla luce, aprì un occhio solo e la guardò sorridendo beffardo. “Sai scricciolo, non sono la Bella Addormentata ma se vuoi svegliarmi con un bacio non c’è problema” “Ti preferivo quando dormivi. Almeno stavi zitto” “Sì sì, di’ pure quello che vuoi, lo so che mi muori dietro”. Lei intanto era passata avanti e aveva preso il telecomando. “Lascia, guardo ancora una cosa e poi chiudo” “Devo chiudere l’aula, se devi guardarti i filmetti erotici di bassa lega usa la banda larga e il computer di casa tua” “Che fine umorista. Non sono film erotici, chetati. E comunque” soggiunse facendo balenare tra le dita un mazzo di chiavi “posso chiudere io quando ho finito” “Come fai ad avere le chiavi??” “Le ho rubate una volta al delegato, ho fatto fare la copia e le ho rimesse al loro posto” “Ingegnoso. I miei complimenti. CRIMINALE, ma ingegnoso”. Castiel si stiracchiò e appoggiò ambe due le braccia alla spalliera delle poltrone. “Comunque se vuoi un filmetto erotico lo possiamo girare qui io e te, tra le pol…” “Nossignore, caro il mio maiale con la permanente. Guarda quello che devi guardare, io me ne vado a casa”. E decisa si diresse verso l’uscita, non prima di avergli lanciato il telecomando, che Castiel ebbe la prontezza di afferrare al volo prima che impattasse contro la sua fronte. “Preso” “Peccato” rispose lei con un sorriso infastidito, senza smettere di camminare. Poi, Castiel fece ripartire la registrazione…

“Benvenuti al settantottesima edizione della Festa della Musica!”. Si fermò. Il respiro le si arrestò bruscamente nei polmoni, tanto da provocarle una fitta sotto il costato, mentre la testa iniziava a macinare ricordi. Ricordi di una vita passata, che si confondevano in un vortice caleidoscopico. Il cuore iniziò a batterle furiosamente. La voce del presentatore continuò. Non aveva neanche bisogno di voltarsi. Lo ricordava. Un uomo giovane nel volto ma già brizzolato, con un forte profumo di acqua di colonia. Era sceso nelle quinte per profondersi in complimenti, dopo… “Per la serata dedicata a “I giovani e la musica”, è il momento di ascoltare la stella della Giovane Orchestra dell’Operà di Parigi!”. La folla applaudì. Smettetela, avrebbe voluto urlare Lalage, ma sapeva che non l’avrebbero ascoltata, da immagini su un supporto elettronico, così come non l’avrebbero mai ascoltata prima, in carne e ossa. Si appoggiò, svuotata di ogni energia, ad una poltrona. Non lo sapeva, ma Castiel la stava guardando intensamente. “Un bell’applauso per la meravigliosa, giovanissima, graziosa nuova promessa della musica sinfonica: Lalage Germont!”. Il pubblico questa volta non solo applaudì, ma esplose in un boato entusiasta. Ora come allora, il cuore di Lalage si fermò un istante, rallentando. Con uno sforzo immane, si voltò. E vide una ragazza, un filo più magra di lei, con i suoi stessi capelli raccolti semplicemente indietro, gli stessi occhi azzurri sgranati, che sorrideva intimidita. Il paradosso, era che quella estranea non era un’altra: era lei. “Lalage suonerà per noi “Capriccio n° 24” di Niccolò Paganini”. Castiel fischiò ammirato. “Che io sappia, è un pezzo difficile". Lei non rispose. Lui fermò un secondo la registrazione. “Eri famosa” “Cosa vuoi che valga…”. Castiel non smetteva di guardarla. Le tremavano le mani. “Prima di svenire, siediti”. Meccanicamente lei obbedì, lasciandosi sprofondare in una poltrona. Inspiegabilmente questo la calmò. Era come trovarsi in una culla, nella penombra, prima che arrivino i sogni ad animare la notte. Castiel guardò il fermo immagine. “Eccolo lì, come si chiama, lo sfigato con i due parabrezza sugli occhi…” “Ken”. Lalage sorrise. “Ken veniva sempre. Non si è mai perso un concerto, almeno non quelli in Francia” “Facevi anche tournée all’estero?”. Altro fischio ammirato. “Ogni tanto, ma erano rari. Mia nonna si occupava di queste cose, e di farmi esercitare. Voleva avere tutto sotto controllo”. Il video ripartì. Dopo un brusio, che andava scemando, quella ragazza timida e spaurita posò l’archetto, e i crini candidi baciarono le corde, leggeri. E iniziò a suonare.
Castiel  non riusciva a staccare gli occhi da quella figura, che come trasfigurata, seguiva mimicamente i movimenti del violino, alzando orgogliosamente il petto durante gli acuti, chinandosi a cercare i suoni più gravi. Più di ogni altra cosa, non riusciva a capacitarsi che quella ragazza, che da spaurita agnella si era trasformata in passionaria leonessa attraverso la musica, fosse la stessa persona che tremava in fondo alla sala, immobile e paralizzata, senza nemmeno la forza di piangere.  Quando terminò, fu come se un incantesimo avesse rapito gli spettatori, quello in carne ed ossa compreso, come se aspettassero ancora un’altra nota. Poi, la platea esplose in un boato, un’ovazione.  Castiel si trattenne, e invece si voltò esclamando. “Beh scricciolo, c’è da esserne orgogliosi”. Poi tacque. Non era più in quello stato catatonico, lei. Guardava lo schermo. E lacrime silenziose le rigavano il volto. Quando parlò, quasi si spaventò, quel rocker duro e ironico, di quella voce roca e spenta. “Vedi quella donna che se ne sta andando mentre gli altri applaudono, al centro?”. Lui dovette riportare indietro il video, prima di vederla. “Una cafona, allora?”. Lalage sorrise. Un sorriso amaro. Un sorriso affranto.

“Quella è mia nonna”
 

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Capitolo 7
*** Fine atto primo: la sofferenza dietro quelle note. ***


Castiel rimase in silenzio, per qualche minuto, poi aprì bocca e riuscì solo a dire “Ah” “Già”. Rimasero in silenzio, poi lui si voltò ancora. “Beh, è scema, scusami il termine. Eri perfetta…”. Lalage disse una cosa, allora. Una cosa che gli fece gelare il sangue nelle vene.
“Dieci bacchettate” “Come?”. Lalage smise di sorridere. “Mi dava dieci bacchettate, sulle dita. Aveva un righello di legno, e per ogni errore mi faceva mettere avanti le mani, un colpo ogni sbaglio. A volte erano errori infinitesimali, che il pubblico non coglieva. Se suonavo “come una qualsiasi esecutrice”, dieci bacchettate. Quel giorno, non ero stata abbastanza brava per lei, non l’avevo convinta. Sfuggii alla punizione perché aveva lasciato il righello a Parigi. E una volta tornate se ne dimenticò”. Castiel sbiancò, mentre un moto di rabbia stupita gli sgorgava dal cuore. Ringhiò. “E’ folle” “Poteva andare peggio. Quando i giudici non mi davano il massimo, diventava impietosa. Non aveva bisogno nemmeno di sfiorarmi. Semplicemente, non mi rivolgeva la parola, e io sapevo, sapevo di aver sbagliato qualcosa. Che era arrabbiata con me. Il giorno dopo, intensificava le esercitazioni. Se era necessario, mi teneva a casa. Una volta passai un mese intero a perfezionarmi. Non era mai abbastanza. Una volta non ce la feci più e mi sedetti per terra, distrutta. Si arrabbiò moltissimo, fece quasi cenno di tirarmi uno schiaffo. Disse che se avevo tempo per starmene seduta, avevo anche tempo per diventare perfetta”. Aveva chinato il capo, sconfitta. “A volte urlava, e mi lanciava addosso leggio e spartiti, o mi afferrava per i capelli per costringermi a stare più dritta. Ma non esagerava mai, e comunque era raro: odiava le scenate, e aveva paura di guastare “ la sua preziosa creatura”, così mi chiamava. Se esplodeva così, era per un errore molto grave. A volte mi guardava gelida e con voce ferma ma implacabile mi umiliava. Io la ascoltavo, anche un’ora intera, mentre mi vomitava addosso, con tono basso e velenoso, il suo disprezzo. Non so dire quale modalità fosse peggio. Il repertorio era sempre lo stesso. “Sei una piccola fallita, una stupida piccola fallita!!” “Pensi che al mondo importerà, se una nullità come te se ne andrà dalle scene? Non gliene importerebbe nemmeno se tu non esistessi” “Sei una delusione, non meriti nemmeno di mettere le mani su un oggetto così sacro”. Cose così. Una volta mi disse che, per come pasticciavo su quello strumento, tanto valeva che fossi nata senza mani”. Le sue spalle tremavano. Castiel avrebbe voluto andare lì e stringerla, istintivamente. Ma era come se avesse paura di romperla, solo guardandola. “E tu non le hai mai risposto?”. Lei alzò gli occhi e lo guardò, stupita “E come potevo? Mio papà era spesso all’estero per lavoro. La mamma…anche lei era spesso via. E comunque era molto succube della nonna” “Sì, ma lasciare che ti trattasse così...” “Non credere che esagerasse troppo con le botte. Una volta mi diede un colpo sulle mani così forte che il mignolo si gonfiò un poco. Non l’ho mai vista così terrorizzata come quel giorno. Mi fece portare di corsa all’ospedale, e si occupò personalmente della mia guarigione- due giorni, nulla di che. Aveva una paura esagerata, che la attanagliava fin nelle viscere. Non di aver colpito troppo forte la sua unica nipote, no: di avermi compromesso irrimediabilmente la mano. Non riusciva a non impazzire al pensiero di aver forse compromesso la mia carriera”. Lalage alzò gli occhi al cielo. Odiava piangere. Se vuoi piangere, piangi per la tua incapacità, diceva la nonna. “Più di tutto, si divertiva a tormentarmi a parole. O con i gesti. Te l’ho detto, non allungava quasi mai le mani, se non per fatti estremamente gravi. Ma se una mia esibizione non le piaceva, non importava quanto entusiasta fosse il pubblico, lei si alzava e se ne andava. Era orribile, vederla allontanarsi e uscire dalla sala. Era la prova inconfutabile che avevo fallito. Di nuovo”. Rise amaramente. Anche si sforzava, sentiva che le lacrime sarebbe emerse presto, insieme a tutto quel dolore nascosto. “Eppure amavo il violino. Amavo la musica. Anche se era lo strumento del mio supplizio, non potevo fare a meno di accarezzarlo con gli occhi. Lo trovavo semplicemente meraviglioso. E la sensazione che mi dava tenerlo fra mento e clavicola, adagiato sulla mia spalla…è indescrivibile”. Ormai piangeva a dirotto. Castiel si decise. Si alzò si avvicinò a lei e la abbracciò da dietro, curvandosi sulla poltrona, senza dire una parola. Fu come se non se ne fosse accorta.  “Poi, iniziò a stare male, un tumore. Peggiorò molto rapidamente. Forse, se guardi meglio, noterai che ha una maschera sulla bocca. Sotto i vestiti ha anche delle flebo. A volte, in casa, doveva respirare con l’ossigeno. Non usciva più molto spesso. Prendeva tonnellate di farmaci. Io ero quasi contenta. Potevo suonare senza di lei. Non mi faceva più lezione. Mi sentivo libera, e non riuscivo a crederci. Morì ad aprile dell’anno scorso. Quasi non me ne accorsi. Ricordo solo che pioveva, quando la accompagnammo al cimitero. Era tutto sospeso nel nulla. Poi, qualcosa si spezzò. Mi resi conto che nel bene o nel male, contavo su di lei. Mi identificavo in lei. Io ero Lalage, la nipote promettente della virtuosista Camille Chevalier, violinista di fama internazionale, vera e propria dea della musica. Ora che era morta, io chi ero? Cos’ero? Nulla”

“Inizio ad andare tutto storto. Non riuscivo quasi a prendere in mano il violino, dovevo forzarmi. Ogni volta che mi esercitavo, dopo andavo in bagno a vomitare. Era come se suonare mi desse la nausea, e un istintivo senso di smarrimento e paura. Era frustrante. Persi molto peso, ed ero già magra. I miei compagni di classe mi odiavano, perché per darmi la possibilità di sostenere tutti i miei impegni musicali gli insegnanti chiudevano un occhio su quelli scolastici. Mi lasciarono sola. Solo Laety e Kentin mi sostennero, ma non bastava più, mi sentivo comunque sola, completamente sola”
“Dovevo presentarmi a un concerto, un concorso prestigioso per giovani virtuosi. Ero l’ospite più attesa. Non chiusi occhio tutta la notte, mi buttai sullo strumento, anche se stavo male come un cane. Quando salii sul palco, anche i giudici si accorsero che qualcosa non andava. Suonai mezza pagina, poi svenni. Ricordo che Laety cacciò un urlo spaventato e corse verso il palco, mentre mio padre insieme a un direttore di sala mi portava dietro le quinte. Poi, più nulla”

“Mi risvegliai all’ospedale. I medici dissero ai miei genitori che ero pericolosamente sottopeso, e chiaramente sotto shock. Dissero che il diffuso malessere di quei mesi era un disturbo psicosomatico grave. Consigliarono di farmi cambiare aria”

“Non c’era più nulla a Parigi, per me. La notizia finì sui giornali. Le mie compagne erano esultanti, perché avevo dimostrato di poter fallire anch’io. Al Conservatorio erano imbarazzati. Non per me, DI me. Non mi ammisero nemmeno all’esame di passaggio. Sapevo che mi giudicavano. Per loro, era tutta colpa MIA”

“I miei allora decisero di mandarmi al Sud, da mia zia. Presero un appartamento, ma non potevano restare con me per il lavoro. Ci vivo con Zia Agatha, che si è temporaneamente trasferita. Che io sappia, torneranno tra sei mesi. Ma dopo anni che non ci sono mai, a casa, ho smesso di sperare e me ne faccio una ragione”.

Poi scoppiò. Castiel la strinse più forte, Lalage urlava, con tutto il fiato che aveva in corpo, afferrando con le mani i braccioli della poltrona.
“BRAVA? BRAVA?? BRAVA COSA?! NON SAPEVATE CHE FARE QUESTO, BATTERE LE MANI ALLA FINE, MA L’INFERNO CHE PASSAVO, QUELLO NON VI INTERESSAVA, VERO?? NON VE N’E' MAI IMPORTATO NIENTE, DI COME FOSSI ARRIVATA AD ESSERE COSI’. TUTTI VEDONO LA VIOLINISTA. MA LO SANNO COSA VUOL DIRE DOVER ESSERE LA MIGLIORE?? PERFETTA, PERFETTA, PERFETTA!! SONO STUFA DI DOVER ESSERE PERFETTA!! SONO STUFA, IPOCRITI SCHIFOSI!! SONO UNA NULLITA’, E ALLORA? PERCHE’ NON AVETE FATTO NIENTE, QUANDO ERO AL LIMITE?? PERCHE’ ?!?”. E scoppiò in singhiozzi, soffocandosi nelle lacrime. Castiel si chinò fino a che le loro guance si sfiorarono. Sentiva in quei singhiozzi i battiti di un cuore sfinito dal dolore. “Shhhhh” le disse, piano “piangi quanto vuoi. Va tutto bene ora. Nessuno vuole che tu sia perfetta”. Lei scosse la testa, ma Castiel la sentì adagiarsi più pesantemente a lui, cercando conforto. Avrebbe voluto fare qualcosa. Ma com’era lontano il mondo delle sue lacrime…

Fuori dalla finestra, le nuvole, sferzate dal Mistral, si erano nel frattempo sciolte in pianto.

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Capitolo 8
*** Primo intermezzo ***


"CIBOOOO STO ARRIVANDO!!”. Con questo urlo barbarico Kim aprì la porta del locale e, mentre gli altri avventori la guardavano allibiti, si fiondò ad un tavolo libero scaraventando la sua borsa in un angolo. Dimostrando notevole disciplina, la cameriera in kimono all’ingresso non smise di sorridere. “Forza ragazzi, c’è posto qui!!” “Kim, ho capito che hai appetito ma CONTIENITI!” esclamò Lalage trascinandosi dietro Violet, che dopo l’entrata plateale della sua migliore amica era diventata di una bella tonalità rosso pompeiano e continuava a sussurrare “…non la conosco, non la conosco, non la conosco…” “Castiel, poi ci devi spiegare come funziona!!” esclamò Kim, dimostrando che la necessità di nutrirsi le impediva di concentrarsi su qualsiasi altra cosa che non fosse il cibo. Castiel appoggiò la sua chitarra vicino alla sua sedia e si tolse la giacca. Lalage lo guardò un secondo. Aveva il busto muscoloso ma non troppo, tonico. Si accorse che la stava guardando e accigliandosi sistemò lo zaino sulla sedia. “Non so, vuoi anche toccare, pervertita?” la canzonò lui sedendosi. “Mi stupivo solo che nonostante la tua dipendenza dalle sigarette tu possa avere un fisico sano” “Vado a correre” “Devo vederlo per crederti” “Di’ la verità, vuoi solo vedermi sudato e ansiman”. Lo scappellotto lo centrò senza esitazione. Castiel si piegò e ringhiò “Queste donne moderne che menano le mani…”. Kim non stava più nella pelle e guardava fischiettando entusiasta il menù. “Ma davvero posso mangiare fino a che non sono piena a quel prezzo lì??” “Si chiama All you can eat per un motivo, sai” le rispose Castiel “quando arriva il cameriere gli dici il numero del piatto e basta. Le bevande non sono incluse” “Dobbiamo venirci sempre Lala!!”. Lalage la guardò “Non credo che mangiare cinese e giapponese tutti i giorni sia particolarmente salutare” ma il cameriere era già arrivato al tavolo e chiese cortesemente se volevano già ordinare. “Solo un secondo, stiamo aspettando ancora quattro perso…” “Yuhuuuu, eccoci!”. Facendo capolino nella sala Rosa li salutò con la mano, mentre Peggy prendeva gli ultimi appunti sul suo block notes e lo riponeva nella borsa. “E Iris?” “Non è potuta venire, suo fratello è a casa con la febbre e ha chiesto ai delegati di uscire prima con giustificazione per andare a casa a occuparsene” “Capito”. Finalmente erano tutti al tavolo. Rasalya le stampò un bacio sulla guancia e la abbracciò. “Che belle queste uscite di gruppo!!”   “Quanto entusiasmo, è solo una pausa pranzo” “Sì ma dovremmo mangiare sempre insieme!!”. Castiel alzò gli occhi da menù. “Non credo che potrei mangiare sempre con Signorina Isteria. Rovina la digestione” “Se non la finisci di parlare a sproposito” gli rispose Lalage sorridendo sardonica “Signorina Isteria ti pugnalerà con le bacchette, chiaro?”.  Il cameriere era in attesa. Castiel gli disse “Il mio amico è in ritardo, ordinerà dopo. Forza ragazze, prima le donne”. Kim si proiettò verso il cameriere con gli occhi luccicanti. “Allora, io prendo il 23, poi il 35, 44, 3, 6, 12, 18….” “Tombola! Kim, non dovresti iniziare con calma?? Mangi come una tribù di Vandali!” esclamò a mezza voce Rosalya. “Beh così fa un viaggio solo. Poi 22, 5, 9, 1… di 1 facciamo due porzioni” e continuò per altri dieci minuti buoni a dare i numeri finché terminò dicendo “ E poi semmai riordino dopo”. Il sorriso del cameriere era scomparso e la guardava annichilito, spalancando gli occhi asiatici al limite. Dopo che tutti ebbero ordinato qualcosa, si ritirò verso la cucina e lo videro riapparire pochi secondi dopo sulla porta insieme al cuoco. Indicava Kim gesticolando. L’intero personale della cucina si fermò per guardare la strana ragazza senza fondo che gongolava. In quel momento un ragazzo particolare fece il suo ingresso nel locale, guardandosi intorno come se stesse cercando qualcuno. “Lys, siamo qui!!” lo chiamarono all’unisono Rosa e Castiel, lei sbracciandosi in ogni direzione. Sorridendo Lysandro si avvicinò. “Buongiorno, signorine” “Ragazze, lui è Lysandruccio”. Lysandro arrossì fino alla punta delle orecchie e si guardò i piedi smarrito. Castiel interruppe Rosalya prima che combinasse un macello. “…ma potete chiamarlo Lys o Lysandro che è meglio. Scrive i testi delle canzoni che cantiamo”, Lys allora si riprese e sorridendo salutò tutte con “Piacere di conoscervi”. Le ragazze si presentarono, e per ultima Lalage si alzò per stringergli la mano. “Io sono Lalage, piacere di conoscerti”. Poi si sedette e commentò “Sapevo che non poteva essere questo analfabeta a scrivere i testi delle canzoni…” “E’ soprattutto simpatica, nel caso non te ne fossi accorto” rispose sarcastico Castiel lanciandole un’occhiataccia. Per un po', lei si limitò a guardare il nuovo arrivato di sottecchi, la incuriosiva. Lysandro era…particolare. Lalage rimase incantata a guardare i sui occhi etero cromatici, al punto che lui se ne accorse e la guardò interrogativo. “Scusa, guardavo i tuoi occhi. Sono veramente particolari”. Lysandro sorrise “Me lo dicono in molti. Diciamo che non passo inosservato”.  Aveva un’espressione gentile e docile, e un viso armonioso, che ispirava fiducia  e che quando sorrideva lasciava una sensazione piacevole nel cuore. Ogni tanto, mentre parlava con Castiel, appoggiava il capo su un palmo della mano, e sorrideva affabilmente, o rispondeva con voce morbida e non eccessivamente scura, a bassa voce. I capelli, di un candore quasi abbagliante escluse le due ciocche tinte, incorniciavano gli occhi nascondendoli a tratti. Dopo averlo osservato un po’ Lalage decise di pensare ad altro, per evitare battute sarcastiche di Testadipomodoro. E comunque nel frattempo un esercito di camerieri stava portando le portate al tavolo. L’ottanta per cento delle quali erano destinate a Kim. Rosalya non ebbe nemmeno il tempo di augurare “Buon appetit” che Kim si era già gettata sul primo piatto e lo aveva praticamente svuotato, davanti agli occhi esterrefatti dei commensali. Castiel per primo la guardava scandalizzato “Scusa, non vorrei farti una domanda che possa suonare razzista, ma te ne danno da mangiare al tuo villa…” poi incrociò uno sguardo di fuoco di Lalage e cambiò “…a casa tua?” “Fi, ma ho il matobolifmo felofe” rispose con la bocca piena Kim aggredendo con crudeltà il suo terzo piatto di Uramaki. Nel frattempo anche gli altri incominciavano a mangiare. “Sembra buono, vero?” disse gentilmente Lysandro sorridendo, rivolgendosi a Lalage. Lei sorrise. “Non lo avevo mai provato, ma devo dire che non mi dispiace”. Lui la guardò con uno sguardo indecifrabile, lasciandola un secondo sorpresa. “Ho detto qualcosa di male?” Si riscosse “No no…perdonami, ero assorto. E’ che il tuo nome….mi ricorda qualcosa”. Poi si illuminò e sorridendo iniziò a recitare. In una lingua remota che Lalage amava. Gli altri smisero un secondo di mangiare per ascoltare quella voce armoniosa, calda e dolce, che modulando diceva

Pone me pigris ubi nulla campis
arbor aestiva recreatur aura,
quod latus mundi nebulae malusque
Iuppiter urget;
pone sub curru nimium propinqui
solis in terra domibus negata:
dulce ridentem Lalagem amabo,
dulce loquentem.


Gli altri applaudirono, e Lys abbassò lo sguardo arrossendo. Quando ricominciarono a mangiare, le chiese in un soffio “Ti hanno chiamato così per questo?”. Lalage era senza parole. Non le era mai capitato di sentirsi contenta per il suo nome, lo aveva sempre trovato una scocciatura. Ma Lys aveva recitato con così tanta passione quella poesia…“Sì…a mio padre piaceva molto l’antichità, ma alla fine non riusciva a passare gli esami di greco e glottologia e quindi è passato a Lettere Moderne. Ma visto che amava il latino, quando sono nata mi hanno chiamato Lalage” “…che dolcemente ride, che dolcemente parla” Lysandro sorrise. “E’ un bellissimo nome” “Non ti ho mai visto in classe da noi. Come mai sai il latino?” “Sono del curriculum artistico in effetti, ma da cinque mesi a questa parte ho studiato da solo il latino, per cambiare sezione a inizio dell’anno prossimo. E mi sono innamorato della poesia latina. Credo che sia stupendamente leggera, impalpabile” “Quindi il prossimo anno sarai dei nostri!”. Castiel non si perdeva una battuta della conversazione. Lysandro sorrise. “Spero di sì”. Peggy finì la sua porzione di Takemaki ed esclamò “Caspita gente, tra mezz’ora dobbiamo essere a scuola! Non so se riuscirò a rimanere sveglia dopo tutto questo cibo”. Peggy. Si era inserita silenziosamente nel loro gruppo, una presenza in sordina all’inizio. Lalage non si fidava ancora completamente di lei. Un giorno andando a scuola aveva trovato una pagina intera a lei dedicata sul giornale della scuola. E aveva dato di matto. “ “Quali segreti nasconde la nostra musicista?”?? Ma farti gli affari tuoi no?”. Peggy aveva alzato gli occhi osservandola perplessa. “Io sono una giornalista. Sono NATA per non farmi gli affari miei”. Beh, questo era un ragionamento inattaccabile. No, Lalage non si fidava completamente di lei. Ma le piaceva la sua intraprendenza, e la grinta con cui mandava avanti da sola il giornale della scuola. In fondo al cuore ne era ammirata. “Beh” le rispose “la scuola è a dieci minuti da qui e abbiamo praticamente finito. Direi che facciamo in tempo”. Peggy annuì distratta. “Sei sovrappensiero oggi. Qualche notizia?”. Sul volto della giornalista si disegnò un enorme sorriso: “Ebbene sì, ma non te lo dico: addio scoop se no” “Dai…” “E va bene, ma solo perché mi fai gli occhi da cucciolo e gli altri possono intuire qualcosa” e avvicinandosi le sussurrò all’orecchio la notizia.

“La scuola organizza una corsa di orientamento fuori città”

Una volta che Kim ebbe spazzolato anche gli avanzi degli altri, i ragazzi pagarono e uscirono. L'aria era fredda e pungente, ma quel giorno il Mistral si era calmato, e il cielo era netto e ceruleo, come una cupola di vetro smerigliato. Le ragazze si tenevano a braccetto parlottando, mentre Lys e Castiel discutevano di testi di canzoni da musicare. Ogni cosa era tranquilla, quotidiana. E Lalage amava tutto proprio per questo. A un certo punto Lysandro iniziò a parlare con Rosalya di chi sa cosa, e Castiel, vedendo Lalage sola, accelerò il passo. "Di cosa avete parlato tu e Lys?". Lalage si voltò verso Castiel e sorrise. "Io parlo dolcemente?" "Proprio! Non farmi rispondere va, scricciolo, che non ho voglia di discutere". Lalage rise e gli saltellò vicino, spintonandolo da un lato con gentilezza. "Io non sono uno scricciolo, sono una rondine".Castiel alzò gli occhi al cielo sorridendo "Si si, ora vai, ci congeleremo se non entriamo in classe"
 

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Capitolo 9
*** Una lettera per Max ***



“Ziaaaa, siamo a casa!!”. Zia Agatha si affacciò dalla porta della cucina. In testa aveva legioni di bigodini e la sua faccia era non coperta, letteralmente cementata da una sorta di poltiglia verde, mentre tra le dita dei piedi batuffoli di cotone testimoniavano una pedicure in corso d’opera. “Siete?? Hai portato un’amica??”. “Diciamo che avrei preferito non portarla, se avessi saputo che mi avrebbe accolto il Mostro delle Paludi” sospirò Lalage buttando la borsa nell’ingresso “Comunque lei è Rosalya…” “La tua bestina??? Oddio che onore!! Fatti abbracciare cara!” trillò estasiata la zia trotterellando in vestaglia verso Rosa che, all’ingresso, posava la borsa e si toglieva gli stivali. Lalage salvò la situazione in corner. “Zia, abbiamo una gran fame, non è che ci cucineresti qualcosina? Ti prego!”. La zia si arrestò repentinamente. “Ah sì, che splendida idea! Vado subito!” “Si’ zia, ma prima…levati le alghe di palude dalla faccia…per piacere” “Oh certo cara, ma perché non lo provate anche voi? E’ un impiastro di alghe marine giapponesi che….” . No. Tutto, ma non i consigli estetici. “Mamma mia che fame, Rosa! E se nel frattempo ti facessi vedere camera mia??” e afferrando con una mano le due borse e con l’altra Rosalya che incespicava ancora nelle pattine Lalage la trascinò velocemente in camera sua e chiuse la porta. “Ma tua zia…” iniziò Rosalya riprendendo l’equilibrio, mentre lei tirava un sospiro di sollievo. “Si’, lo so, è parecchi strana…” “…lo sai che usa la stessa maschera per il viso che uso io??”. Lalage si accasciò addossandosi alla porta, sospirando.

“E’ bella la tua camera! Anche se è un po’ semplice…” “Voglio dipingere quella parete sai? Con gli stencil”. Si erano buttate sul letto, a chiacchierare del più e del meno. Lalage indicò il soffito e un angolo della stanza con la mano. Rosalya seguiva ogni suo gesto. “E cosa ci farai?” “Farfalle, pensavo. Tante farfalle colorate” “Che bello!” “E ho visto al brico che vendono la vernice fosforescente. Magari ci dipingo anche qualche stellina”. Rosalya si rigirò nel letto dove si era tuffata e guardò Lalage sorridendo “ “La tua bestina” eh?” “Ti dispiace?” “ Sei matta?? Ovvio che non mi dispiace!!” gongolò prima di gettarsi con un gridolino addosso a Lalage, che rideva. Quando smisero di farsi il solletico a vicenda Rosalya continuò. “E’ che mi è sempre sembrato che tu fossi molto più legata a Kim e Violet...”. Lalage alzò gli occhi e la guardò. Rosalya pensò che erano molto belli, azzurri come il cielo. In generale, la sua migliore amica era molto bella. Finalmente aveva messo su qualche curva, e il suo sguardo era più disteso, sorridente, anche se manteneva, in sordina, una nota di ironia, che lo rendeva  interessante. Lala era bella, in realtà, perché non cercava di assomigliare a tutte le altre. Proprio come lei. Non passava le sue giornate a curarsi la pelle, o pomeriggi interi dall’estetista. Aveva, certo, i suoi piccoli difetti- il taglio dei capelli “da nonnetta”, la costituzione ancora esile, le mani eccessivamente affusolate. Ma questi, e tutta una gamma di piccole imperfezioni- una voglia sulla pancia, alcuni nei - rendevano la sua bellezza naturale e semplice, non guastata dall’asettica artificiosità che caratterizzava, ad esempio, Ambra e le sue adepte. E la nuova vitalità di quei mesi la rendeva veramente unica, e per questo, più bella. “Beh è vero che sono le prime persone con cui ho socializzato, a scuola” rispose Lala sorridendole con gli occhi “e voglio loro un mondo di bene, ma tu…tu sei speciale” Rosa affondò la testa in un cuscino “Dai” “No, dico sul serio. Sei pazza il giusto per farmi diventare allegra, saggia quanto basta per evitare che faccia cazzate, e il tutto condito da una dose di semplicità e immediatezza che adoro” “Ora arrossisco. Nemmeno Leigh mi ha mai detto cose così carine”. Lalage si ritrovò a fissare il soffitto. Voleva chiedere una cosa …ma era tremendamente imbarazzante. E soprattutto, con Rosalya, era come aprire un Vaso di Pandora. Decise che valeva la pena rischiare. “Tu…come ti senti…ad avere Leigh?” “Intendi ad avere un ragazzo?” e così dicendo Rosalya le allungò una gomitata ammiccando “sei interessata per caso?” “N-no cosa te l-lo fa pensare??” “Ma non saprei, il fatto che sei più rossa della tinta di Castiel e che ti stai sgranchendo le dita compulsivamente, direi che potrebbero  essere OTTIMI indizi”. Zia Agatha aprì la porta in quel momento. “Ho fatto i biscotti al doppio cioccolatoooo!” trillò danzando in mezzo alla stanza e posando un vassoio sulla scrivania. Rosa squittì estasiata e ci si avventò sopra “Ma sono buonissimi, complimentoni!!” “Grazie cara! Di che si parlava?”. Lalage lanciò un’occhiata agghiacciata a Rosa. Nei suoi occhi si leggeva Rosa no, non ci provare, non lo fare, non la finiremo più se le dai corda, ti prego, abbi pietà di me, abbi pie… “Si parlava di ragazzi. Secondo me Lalage ha delle ottime chance, non trova?” E te pareva  pensò Lalage prima di seppellirsi sotto il cuscino. Sua zia lanciò un gridolino estasiato. “Ah sì?? E chi sono??” poi si rivolse alla riporte “Uno è quello con il sassofono, vero?” “Zia, una CHITARRA…era una CHITARRA” bofonchiò Lala attraversò la federa. Poi si alzò. “Io vado a prendermi da bere in cucina” “Oh va bene, intanto Rosa” rispose Agatha sedendosi vicino a Rosa “dimmi un po’ di questi pretendenti…”.

Finalmente in cucina Lalage tirò un sospiro di sollievo. In quel momento probabilmente Rosalya stava sviscerando le sue impressioni e le sue intuizioni sentimentali a sua Zia Agatha, che probabilmente avrebbe trovato un modo per citare l’aneddoto di lei che tirava una secchiata di sabbia addosso a un bambino del parco giochi, a quattro anni…perché nessuno dimenticava quella dannata storia?? Mentre si riempiva un bicchiere di latte, vide diversi scatoloni disseminati in cucina. Lanciò un urlo a sua zia, piegandosi verso il corridoio. “Agathaaaaa, cosa sono questi??”. Sua zia echeggiò in risposta “Roba della casa in Toscana di nonna”. Lalage tornò in camera sua in tempo per ascoltare il resto. “Sai, era una bella casa, ricordo il tempo da bambina che ci ho passato” raccontava zia Agatha a Rosalya, che ascoltava azzannando un biscotto “ e anche la nostra piccina!! Ma era veramente tanto tempo che non la usavamo, così mia sorella ha pensato che potremmo se non venderla affittarla, e così hanno iniziato a fare le perizie per la ristrutturazione…” “Parli della casa fuori Borgo San Lorenzo?” la interruppe Lalage sorseggiando il latte “la volete vendere?” “Lala, ma non ci avevi detto che avevi delle case fuori Francia!! Ma allora sei ricca!!” “Erano della nonna. Quella in Toscana era la casa di famiglia del nonno, ci vivevano subito dopo la guerra, quando erano giovani. Poi c'è la casa in Bretagna, che era della famiglia della nonna prima che si trasferissero a Parigi….e basta direi” “Uao, ma allora siete degli ereditieri!”. Lalage si sentiva a disagio a parlare di queste cose. Dei soldi non gliene era mai importato granché, anche se le permettevano di vivere comodamente, e lo sapeva. E quelle case le aveva viste di rado. “Non mi ci vedo nei panni di Lord Fauntleroy” “Ad ogni modo” continuò zia Agatha, alzandosi per  andarsene “mentre inventariavano i mobili hanno trovato degli effetti personali della nonna, e visto che non potevano metterli in inventario, li hanno spediti qui”. Agatha sciabattò fino all’ingresso della camera e sorrise a Rosa. “E’ stato piacevole parlare con te cara. Vado a preparare la cena e torno a chiamarvi. Oh e, amore” sorrise mefistofelica alla nipote, o forse era un sorriso che voleva essere complice, ma che a lei suggeriva solo guai “io tifo per il tipo con il mandolino” “E’ UNA CHITARRA ZIA!!” esclamò esasperata Lalage, ma ormai la zia aveva chiuso la porta e se n’era andata in cucina. Rosalya si gettò addosso a Lalage squittendo. “Ma che hai??” “Tua zia mi ha dato il permesso!” “Per cosa??” “Aspetta, ho bisogno del mio braccio destro”. Gettandosi sul letto Rosalya si portò il cellulare all’orecchio. “Alex? Ma ciao! Sei a casa? Ah già, tuo fratello…beh, ho un bel lavoretto qui” e condivise l’indirizzo di casa di Lalage con lo sconosciuto al telefono “riesci a venire? Ma perfetto! Oh e…” e abbassò la voce mettendo la mano sul microfono “porta quella dell’altra volta…esatto bravo, senza additivi. A tra poco”. Quando mise giù Lalage alzò una mano per fermare qualsiasi impeto di entusiasmo. “Se stai cercando di farmi provare le droghe, la risposta è NO” “Non stai parlando con Numero 1, cocca” “Numero 1?!”. Qualcuno suonò al campanello e Rosalya aprendo la porta si precipitò in ingresso urlando a squarciagola “E’ PER ME AGATHA!”. Lalage la guardò interdetta, affacciandosi dalla camera. Quando le avevo detto, prima di entrare mi raccomando, sentiti come a casa tua non intendevo in modo così letterale si disse. Sentì Rosa che esclamava “Però, hai fatto in fretta!” e qualcuno che le rispondeva qualcosa. La sua migliore amica tornò ridacchiando, portandosi sotto braccio un ragazzo…indescrivibile. “Ecco cocca, ti presento il mio braccio destro, direttamente dalla Sezione A come artistica del Dolce Amoris, Alexy!”.

Prima che Lala potesse aprire bocca per dire cose del tipo chi sei cosa ci fai qui perché conosciamo tutti e due questa folle e soprattutto chi ce lo fa fare , la presero e la trascinarono in bagno. “Ma che…” “Ora tranquilla cara” le disse sorridendo Alexy “Io e Rosa siamo professionisti, quindi rilassati e lascia fare a noi”. La sua voce era allegra, e fatti salvi i suoi capelli celesti, gli occhi color malva e un vestiario che sembrava l’incrocio tra il carnevale di Rio e un Gay Pride, sembrava più o meno normale. Però era carino, a modo suo. E visto che stava già iniziando ad applicarle una mistura con un pennello sui capelli, e quindi…mistura sui capelli?!? “Ehi ehi ehi, che pensate di combinare?” “Aggiornarti il look, bimba” rise il bel giovane pluricromatico continuando la sua opera con una cura, che Michelangelo sulla Cappella Sistina aveva fatto tanto per fare al confronto. “Vedi Lala, ho un piano” annunciò Rosalya unendo i polpastrelli delle due mani. Lalage la guardò terrorizzata. “Oh Signore” “Prima, ti rinnoviamo completamente. Poi” “Ho paura di saperlo” “Domani, alla corsa, tu chiederai a un ragazzo di fare coppia con te”. Lalage rimase inebetita qualche secondo, poi protestò “Ma io la corsa la dovevo fare con te!”. Rosalya la guardò con gli occhi sgranati, come se non stesse capendo il motivo di quel malcontento.  “Ma questo è un pianoAiutalalageatrovarel’uomodellasuavitaeviverepersemprefeliceecontenta”. Alexy la guardò con le forbici in mano “E’ un po’ lungo, no?” “Piano AcchiappaRagazzo?” “Meglio” “Ehi voi, frena un momento. Perché il tipo multicolor ha un paio di forbici in mano??” strillò terrorizzata Lalage. “Oh cara, chiamami Alexy. E ora, tagliamo questo ciuffo!” disse avvicinando le forbici ai suoi capelli. Lala guardò con orrore la prima ciocca cadere, poi girò gli occhi allucinanti verso Rosa, che sorrideva beata “ROSA” “Non dirlo, lo so che mi ami”. Anche se non riusciva ancora a credere che quel tipo stesse tagliando i capelli- i SUOI capelli- in ogni caso la cosa non era troppo spiacevole, anzi lo trovò quasi rilassante. Si riscosse quando Rosa terminò “…e a quel punto lo bacerai” “Come scusa?”. Alexy riassunse fischiettando allegro “Castiel, cocca” “Eh?” “Domani alla corsa” “Ma nemmeno pagata!!” Rosalya incrociò le bracci sul petto sbuffando. Si era arrampicata a sedere sulla cesta della roba sporca, e osservava Alexy mentre forgiava la “Loro Creazione” cioè Lalage. “Allora, in linea di massima tu puoi conquistare a colpo sicuro tre ragazzi, nel senso che manca poco che cadano da soli ai tuoi piedi, quindi lo sforzo è minimo. Sono” e tirando su una mano iniziò a contare con l’indice, all’americana “Numero 1, cioè Castiel, Numero 2 cioè Nathaniel, e Numero 3 cioè Lysandruccio” Alexy spalancò gli occhi entusiasta e iniziò a saltellare sul posto “Io tifo per Lys! E’ così carino e dolce!” “Secondo me invece Lala starebbe bene con Cass. Si battibeccano come una vecchia coppia di sposini”. La guardano sorridendo. Lei li guardò. Ma non sorrideva per niente “Voi due siete completamente matti” “Perché, preferisci Nath?”. Le guance di Lala si imporporarono repentinamente. Alexy spostò una ciocca col pollice, continuando a lavorare, ed esclamò “Aha, beccata!”. Lalage guardò verso Alexy, che sorrise. Era così tenero e cordiale, che lei  agì d’istinto e disse “Non potrei correre con te? Sei così carino…”.

Rosalya smise di sorride e sobbalzò letteralmente sulla cesta, dopo di che iniziò a tossicchiare e occhieggiare verso Lalage. Lei la guardò, inarcando un sopracciglio, mentre Rosa gesticolava: uno…no, due dita dietro l’orecchio…due parole, no, ma cosa stava cercando di …e quello cos’era? E ora? Stava pescando?? Rosa alzò le braccia come lanciando un’esca…ma cos’era, l’imitazione di un documentario sulla pesca alla trota? Poi, un’illuminazione. E Lalage spalancò gli occhi. “AH” “Ti ho fatto male?” chiese preoccupato Alexy “N-no, tranquillo. Pensiero istantaneo” “Bello?” “Beh, diciamo particolare”. Alexy sorrise. “Rosa ti ha detto che…mi piacciono i muscoli, bambolina?” “No, evidentemente si era dimenticata di questo dettaglio” rise istericamente Lalage. “Beh, e poi sudare non fa per me, quindi domani non corro. Ma che tenera che sei stata a chiedermelo!! Sei proprio dolce cara” e le diede un buffetto. “Ahahah, hai ragione” sorrise meccanicamente lei. Alexy le sciacquò la testa e la asciugò col phon. “E voilà, finito!”. Rosalya le chiuse gli occhi con le mani. “Vuoi vedere?” “Visto che tanto mi dovrò tenere questo macello, tanto vale che lo veda” “Ok allora” e Rosa le scoprì gli occhi. Una ragazza, identica a come lei si era sempre vista, ma con i capelli tagliati appena sopra le orecchie, alla maschietta, e di un bel  blu notte, la guardava attonita. Ci mise un po’ a rendersi conto che era lei.

“Allora, faccio per quattro” “Sì zia. Ti dispiace che abbia chiesto ad Alexy di fermarsi a cena?” “No affatto cucciolotta, è così bello vederti portare degli amici a casa!” gongolò estasiata la zia infornando un bel pollo attorniato da una corte di patate e carote. Lalage lanciò un’occhiata in cucina, dove stavano ancora accatastati ovunque gli scatoloni di prima. “Bisognerà che faccia spazio” disse alla zia, ma lei la ignorò. Rimboccandosi le maniche del pigiama lei iniziò a prenderli uno ad uno e ad impilarli nel salotto. In una ventina di minuti aveva finito. Sentì un rumore di piatti e un allegro chiacchiericcio e capì che Rosa e Alexy avevano finito di curare il suo abbigliamento- con la selezione dei SUOI vestiti nel SUO armadio- e stavano aiutando ad apparecchiare. Mentre si allontanava uno scatolone pericolante decise di mettere fine all’indecisione della forza di gravità e si buttò dalla pila su cui l’aveva riposto. Sbuffando, iniziò a riporre di nuovo gli oggetti all’interno. Alcune foto del nonno, una vecchia spazzola di crine, alcune scartoffie- forse spartiti- e…e poi Lalage vide qualcosa che la incuriosì. Si chinò a raccoglierla. Era una vecchia scatola di biscotti, arrugginita. Cadendo si era aperta, disseminando vecchie buste ovunque. Le raccolse alla meglio e le ripose nella scatola. Un fogliò però sgusciò via e svolazzò per terra, accanto alle sue ginocchia. Lo prese in mano e gli diede un’occhiata di sfuggita. Ma bastarono le prime parole a catturare sua curiosità.
“Mio amato Max”

 

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Capitolo 10
*** Inizio atto secondo: l'errore e l'orgoglio ***



Il microfono dette un lungo fischio, decisamente fastidioso, che calamitò l’attenzione degli alunni. Finalmente, visto che erano almeno venti minuti buoni che il nuovo professore, impacciato e con scarso ascendente sugli studenti delle due classi, stava cercando di dire qualcosa. “Bene ragazzi, allora, le ultime raccomandazioni…vi verrà data una mappa dei sentieri  con indicato  il percorso che dovrete seguire per raggiungere la prova finale…mi raccomando vedete di non perderla…” ma gli studenti, dopo le prime cinque parole, erano tornati a pensare ai fatti loro. Qualcuna, anzi, a non pensare ai fatti suoi. “Caaaaaaaass, sei sveglio?” mormorò imbronciata Rosalya, accovacciata vicino al sedile del suo compagno di classe. Castiel aprì un occhio solo. “Direi che sarebbe impossibile dormire, con te appollaiata qui vicino. Si può sapere cosa caspita vuoi?”. Rosalya si imbronciò. “Ma insomma, pensi di startene lì a guardare?”. “Rosa, non vieni a sederti con noi?” le urlò Lalage dal fondo del pullman. Rosa fece cenno che sarebbe arrivata, poi tornò a Castiel. “Non so se ti rendi conto che sei stato messo da parte, Mister Buon’umore, SCARTATO. E per quanto io sia affezionata a Lysandruccio, non posso ancora credere che Lala abbia deciso di  chiedere a LUI di correre insieme”. Castiel si girò finalmente a guardarla. “Ero rimasto ieri che doveva correre con te”. Rosalya lo guardò allibita. “Con me?? Ma io sono una donna!” “Devi correre, non cercare di…”. Poi Castiel capì. “E tu mi stai dicendo che vorrebbe cercare di…?” “Eh!” “Però, non la facevo così intraprendente la fata Turchina!”. Rosalya lo degnò di un lungo sguardo da capo a piedi. “E scusa come dovremmo chiamarti allora, Principe Pomodoro?”. Non gli lasciò il tempo di replicare e continuò “Comunque, se quei due correranno insieme c’è anche il rischio che…” “Guarda che Lys non è così cretino, se pensava di fare certe cose si portava dietro un preservativo”. Rosalya lo guardò disgustata, un’espressione che confuse Principe Pomodoro. “Scusa, non sei stata tu a dire che avrebbe cercato di…” “Baciarla, razza di maiale pervertito. Tu lavori troppo di immaginazione”. Castiel sospirò. Voleva dormire. Perché ogni volta che cercava un po’ di tranquillità il Duetto delle Catastrofi-così aveva ribattezzato la coppia Rosalya e Lalage-doveva venirgli a rompere l’anima?. “E allora? Falle fare come vuole!” “Eh no carino!!” saltò su lei inviperita “io ho scommesso parecchio che tu saresti stato il fortunato, quindi ora alza il tuo fondoschiena e vedi di combinare qualcosa!!”. Castiel si voltò dall’altra parte sorridendo sarcasticamente e preparandosi all’ultima mezz’oretta di sonno. “E quanto ci avresti scommesso scusa?” “Cinquanta sacchi”. Castiel si girò di scatto spalancando gli occhi. “QUANTO??” Rosalya piagnucolò “Ero sicura di vincere!!” “Ma sei cretina??Cinquan…”. Lalage spazientita dall’attesa lasciò il sedile e si diresse verso di loro. “Allora Rosa, vieni o no?” “Sì scusa Lala, arrivo subito”. Intanto Castiel guardava stralunato Lalage, che se ne accorse e lo squadrò un secondo. “Cosa vuoi, una mia foto?”. Per tutta risposta lui si mise le mani nei capelli. “ E per te si farebbero questi sacrifici?”. Lei arrossì di stizza e ringhiò  “Perché tu invece ti sei visto??” e afferrando Rosalya che mugugnava per un braccio Lalage la condusse in fondo al pullman, mentre Castiel continuava a scuotere la testa e mormorare con uno sguardo allucinato. “Non ci posso credere…non ci posso credere”

I ragazzi spintonandosi e chiamandosi gli uni gli altri  scesero giù dal pullman ridendo, mentre il povero professore invano li pregava di scendere ordinatamente.  Lysandro si avvicinò a Lalage e sorrise, con quel  suo sorriso affabile e gentile. “Quindi alla fine corriamo insieme”. Lei lo guardò. Anche con la tuta era un bel ragazzo, dolce, i cui occhi eterocromatici la incantavano e ipnotizzavano. Arrossì e chinò i suoi. “Ti dispiace?” “Affatto! Sarà una magnifica occasione per conoscersi meglio!” rispose dolcemente lui posandole una mano sulla spalla. In quel momento una voce fin troppo conosciuta parlò a pochi centimetri dall’orecchio di Lalage, che sobbalzò. “Aspetta di sopportartela tutto il giorno!”. Castiel le dedicò uno sguardo divertito, mentre lei si allontanava istintivamente. “Scusa Lysandro, vado un attimo a parlare con Rosalya”. Vagabondò vicino al pullman, ma di Rosa non c’era nessuna traccia. Intanto, poco lontano, erano stati aperti degli stand per cambiarsi d’abito, uno per gli uomini e una per le donne. “Forse è andata a vedere se Violet e Kim si stanno cambiando” rimuginò  tra sé e sé entrando. La tenda era deserta, e al tavolo dove si potevano posare zainetti e cambi d’abito non c‘era nessuno. “Ma dove si sarà cacciata??”. In realtà non è che stesse proprio cercando  Rosa…stava cercando di prendere  tempo. Si fermò. Per COSA stava prendendo tempo? Perché doveva nascondersi? Non aveva mica fatto niente di sbagliato. Non aveva nessun impegno nei confronti di Castiel, voleva correre con Lysandro per conoscerlo meglio perché le sembrava una persona interessante, solo que…ma perché stava cercando delle giustificazioni? Anche se avesse voluto correre con Lysandro perché le piaceva, non ci sarebbe stato niente di male . Perché faccio così? Improvvisamente, qualcosa la afferrò per le braccia e si ritrovò a guardare il soffitto della tenda. Fino a che una figura, indistinta nella semi oscurità, non la sovrastò.

La sua prima reazione, ovviamente, fu cercare disperatamente di divincolarsi, ma la presa sui suoi polsi sottili era dannatamente forte. Sentiva che la stretta si faceva più decisa e dolorosa da sopportare, e lacrime di fastidio e sorpresa le corsero lungo le guance. In quel momento il suo avversario si appoggiò con le ginocchia al tavolo, cercando di salire a cavalcioni di lei. La pressione sulle mani si allentò un istante e Lalage approfittò di quell’errore del suo aggressore per flettere tutti i muscoli a disposizione e sferrare una ginocchiata alla bocca dello stomaco del suo avversario. Che si piegò in due con un mezzo urlo sorpreso e sibilando. “Ma porca puttana…” con una voce che Lalage riconobbe in mezzo secondo e la lasciò interdetta e confusa. Castiel intanto si era piegato tenendosi l’addome e continuando a tirar giù tutto il calendario dei santi. “Si può sapere cosa pensavi di fare, cretino??” “Ma che cazzo sei, Karate Kid?? Che male….”e iniziò a tirarsi di nuovo in piedi le si avvicinò. Lei si sforzò di rimanere calma e lì dov’era. Adesso voleva sapere cosa caspita stesse succedendo. “Si chiama legittima difesa, sporco maniaco sessuale, LEGITTIMA DIFESA”. Intanto lui si era rialzato e la prese per un avanbraccio. “Ora sei mia”. Per quanto lei cercasse di nuovo di divincolarsi, la presa di Castiel era più forte e decisa di prima. “Ma si può sapere cosa ti prende??” “Ammettilo”. E la presa intorno al suo braccio si serrò più forte. “Ammettilo che lo vuoi fare anche tu”. Tenda buia, semideserta…o mamma, ma che si è messo in testa questo sociopatico “Fa-fa-fare cosa??”. La spinse contro il tavolo, premendole addosso con tutto il suo corpo. Il cuore di lei era ormai allo stremo, batteva terrorizzato nonostante lei cercasse di  mantenere un’espressione risoluta, anche se poco convincente. Sentiva il respiro caldo di Castiel sul suo collo. “Alla fine, lo volete tutte. Non sei così diversa dalle altre” sussurrò sicuro di sé, sollevandole il mento con due dita per guardarla negli occhi. Che, con sua grande sorpresa, non trovò né impauriti, né supplichevoli, né qualsiasi altra espressione che si sarebbe aspettato. E il ceffone che gli dipinse il segno delle cinque dita di lei sulla guancia destra gli rettificò l’espressione di gelida collera che aveva letto nel suo iride color cielo.

Rimase lì, toccando la guancia che gli bruciava. Lei era davanti a lui, ma lo aveva spinto con violenza lontano da sé, e lo guardava con un freddo furore che faceva dardeggiare quegli occhi, pieni di una luce di collera. “Come tutte le altre? Cosa credi, che perché ci sei stato una volta ora mi conosci completamente? Che sia una tua proprietà??”. Si allontanò decisa verso l’uscita della tenda, coi pugni chiusi e serrati per la rabbia.  Quando lui cercò di fermarla, si ritrasse con un’espressione di evidente fastidio dipinta sul volto. “Smettila, mi fai ribrezzo. Sei un bambino viziato che pensa di trattare tutti come giocattoli. Ma chi ti credi di essere??” “Aspetta…”provò a dire, ma lei aveva già sollevato un lembo della chiusura del padiglione. “Forse sei stato indotto a pensare chissà cosa perché mi hai ascoltato una volta, ma ti sbagli. Quello che è successo quella sera non mi rende un tuo giocattolo. E comunque” e calcò bene le parole con la voce “IO NON SONO UNA DELLE TUE SOLITE PUTTANE”. Detto questo, uscì senza voltarsi, lasciandolo solo, al buio, a stringere i pugni e i denti, combattuto tra la rabbia e il rimorso.
Lalage si allontanò in direzione del pullman, mentre il cuore cominciava lentamente a battere meno velocemente. Si tranquillizzò vedendo una certa folla poco lontano da lei. Fu allora che sentì qualcosa scorrergli lungo la guancia, verso le labbra. Si fermò un secondo e assaggiò: era una lacrima. Il magone che portava nella gola si sciolse improvvisamente e lei cominciò a piangere, portandosi le mani sul viso. “Ma perché…”singhiozzò con voce fioca, scuotendo appena la testa. Un’altra voce famigliare, morbida e dolce, le accarezzò le orecchie. Lalage scostò appena le mani e vide gli occhi color miele di Nathaniel che la osservavano preoccupati e attenti. Ripeté di nuovo le parole che prima lei non aveva sentito. “Lalage, ma che hai?”. Istintivamente, lei si gettò tra le sue braccia e nascose il viso sul suo petto. Nath arrossì e guardò quelle esili spalle scosse da singhiozzi. Sollevando la mano, cominciò ad accarezzarle dolcemente la testa, mentre aspettava che si sfogasse del tutto. Dopo un po’ i singhiozzi cessarono del tutto. “Va meglio?” “Zì” bofonchiò lei. Si allontanò imbarazzata, ma lui la tenne teneramente vicino a lui e le asciugò una lacrima solitaria con il pollice. Sorrise, il suo viso vicino a quello di lei. “Si può sapere cos’è successo?”. Lei abbassò gli occhi. “Ora, non me la…non me la sento di parlarne…scusa” “No, non fa niente. Vieni, la corsa sta per iniziare, sarà meglio che andiamo a raggiungere i nostri compagni”. La prese per mano e la portò al punto di raduno. La sua mano era tiepida e la stringeva dolcemente. Lalage si sentì rapire da una sensazione di leggerezza, si sentì al sicuro. Quando arrivarono dagli altri, alzò gli occhi verso di lui arrossendo un poco. “Sarebbe meglio se…” e accennò alle loro mani intrecciate. “Ah sì, scusa” mormorò lui arrossendo ancora, ma  lasciandola esitò un istante, fiorandole il palmo con i polpastrelli. Scostando lo sguardo imbarazzata, Lala ne trovò un altro. Un paio di occhi glaciali la stavano letteralmente bruciando viva, e nella sua mente risuonarono i cori di mille Dies Irae quando si accorse che Melody stava evidentemente cercando di sviluppare qualche sorta di potere paranormale per vaporizzarla o farla a tocchetti con lo sguardo. In ogni caso, si augurò che non fosse armata. La vicesegretaria sembrò calmarsi solo quando Nathaniel la raggiunse, e allora tornò a rivolgersi all’oggetto dei suoi sogni con aria adorante. Ma una sensazione di freddo continuò a far rabbrividire Lalage, che per sicurezza si dileguò e raggiunse Rosalya e Lysandro, che aveva scorti tra la folla. “Ma dov’eri finita? Ti ho cercata ovunque!” la accolse Rosalya “ E io cercavo te!”. Lysandro le sorrise. “Alla fine non sono l’unico sbadato. Sono sollevato”. Rosalya e Lalage sorrisero. Lalage appoggiò il mento sulla spalla della sua migliore amica, annusando il suo profumo. “Tutto a posto?”. Rosalya si era appena accorta del rossore intorno agli occhi di lei. “Più o meno…ma tu senza di me con chi corri?”. Rosalya si guardò intorno “In teoria con Castiel, che però non…ah eccolo! Giusto in tempo, hanno detto che possiamo partire!!”. Quando si voltò Lalage si era volatilizzata. Sorpresa si voltò a destra e sinistra, finché non la vide allontanarsi portandosi dietro Lysandro, sorpreso, trascinandolo per la manica della tuta. Aveva un’espressione che nemmeno lei riuscì a decifrare. Castiel arrivò. “Santo cielo!! Come ti sei fatto quello?” “Un vipera” “Da quando le vipere tirano ceffoni?? E soprattutto da quando hanno le braccia?”. Poi le sinapsi di Rosalya cominciarono finalmente a svolgere il loro ingrato mestiere. Si portò una mano sugli occhi sospirando. “Ci risiamo, ne hai fatta un’altra delle tue. Ora raccontami tutto, forse se la conosco bene si può rimediare…”

 Ps dell'autrice: dal momento che non mi bastava perseguitarvi su Efp ho deciso di aprire un profilo su Deviantart dove inserirò le illustrazioni della storia fatte da me. Il nome è Lalage96 ma vi dico già che fino alla fine di luglio circa non troverete nulla perché sono oberata da esami universitari-la seconda sessione non perdona. Nel caso riuscissi a pubblicare qualcosa prima vi avvertirò senza dubbio. Aurevoir

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Capitolo 11
*** L'errore e l'orgoglio, parte due ***


Il sole faceva capolino con difficoltà attraverso un gregge di nuvole candide, che correva nei pascoli infiniti del cielo. Alcuni raggi tiepidi raggiungevano gli escursionisti attraverso il fogliame, nel bosco ricco dei canti delle diverse specie di uccelli che vi vivevano. Rosalya sbuffando si tolse la felpa e se la legò in vita. “Caspiterina, fa caldo per essere marzo!”. Castiel  non rispose. Camminava in silenzio davanti a lei senza dire una parola, da quando erano partiti, salvo raccontarle quanto era successo prima, al punto di partenza, con Lalage. Rolasya alzò gli occhi al cielo e trotterellando si affrettò a raggiungerlo, finché non riuscì a tenere il suo passo e si trovarono a camminare insieme. “Perché devi sempre trattare così le persone, Cass?”. Oltrepassando una radice sporgente, Castiel sibilò a denti stretti in tutta risposta, senza curarsi di lasciarla o meno di nuovo indietro “Così come?” “Come se non ti importasse di niente” replicò lei corrucciata, saltando oltre a piè pari e riguadagnando terreno, fino a camminargli davanti. Si girò improvvisamente e lui fu costretto ad arrestarsi. Si era messa le mani sui fianchi e lo guardava severamente. “Come se non ti importasse nulla delle cose che dici, come se i sentimenti degli altri non contassero”. Castiel la oltrepasso senza degnarla di un’occhiata. “Perché è così. Non mi interessa di cosa provano gli altri. O di quello che pensano. Vivo in modo indipendente, seguendo una massima di vita che è la migliore in assoluto” “Ovvero?”. Scostando un ramo Castiel lo lasciò andare di colpo, e questi colpì in piena fronte Rosalya che cadde a sedere nella polvere con un gridolino stupito. Massaggiandosi dove era stata colpita con la mano si affrettò a raggiungerlo, non senza lanciargli stilettate con gli occhi. “Fatti gli affari tuoi, e che se li facciano anche gli altri” “Se così fosse non staresti in pena per quello che le hai detto, non credi”. Lui si fermò e Rosalya rischiò di sfracellarsi contro la sua schiena, visto che in quel tratto il sentiero era particolarmente ripido. Riuscì a evitarlo e con pochi agili balzi superò il punto impervio e si fermò dove il sentiero tornava pianeggiante. Lo guardò seria “Se non ti importasse di niente, ora non staresti a dannarti l’anima per delle paroline dette a una di cui non ti importa nulla no? E invece eccoci qui, a dover risolvere una situazione dannatamente complicata perché tu non sai relazionarti con gentil sesso”. Castiel alzò gli occhi al cielo con un ringhio che suonava esasperato e irritato e la raggiunse “Sei noiosa” bofonchiò seccato quando fu a tiro delle sue orecchie. Lei proseguì al suo fianco, continuando il suo discorso. “Se ti dispiace e vuoi rimediare, significa che per te Lala è importante, non credi?” “Non ho mai detto di voler rimediare” “ E allora perché mi hai detto tutto quello che è successo?”. Silenzio. Rosalya sospirò. “Cass, pensaci bene un secondo, e lo dico seriamente ‘sta volta. Se Lalage non ti perdonasse e scegliesse un altro…tu saresti così certo di poter lasciar correre?”. Castiel non rispose, ma si fermò e guardò oltre il sentiero, dove questo si allargava in una piccola radura circondata da una mezza collinetta in falso piano. Rosalya sbirciò oltre la sua spalla. “Eccola lì con Lys! Oh, e c’è anche Nathaniel !” poi si morse la lingua, ma troppo tardi. Castiel era sempre impassibile, ma aveva stretto i pugni e si avviò verso la radura, a passo veloce.

“Lalaaaaaaaaaaaaa” urlò allegra Rosa gettandosi tra le braccia della sua migliore amica e facendole volare lei per terra e  il panino per aria, panino che se Nathaniel non avesse avuto i riflessi pronti e un ottima presa sarebbe volato addosso a Kim, che era…letteralmente spiaggiata sull’erba, più simile a una salma che a un corpo vivo. Intanto Rosalya sfregava la guancia contro quella di Lalage, squittendo “Che fate??? Come mai mangiate qui?? Avete avuto problemi??” “Rosa, lasciami respirare!”. Quando Rosalya finì di starle appiccicata come una patella allo scoglio e le permise di alzarsi Lalage le rispose “Siamo TUTTI fermi qui. Guardati intorno!”. Lo fece. “E’ vero!! E come mai??” “Il nuovo professore ha perso il timbro per farci passare alla seconda tappa”. Castiel lo cercò con gli occhi e lo vide, con il capo chino e gli occhi mogi, mentre si assorbiva gli improperi e i rimproveri della preside, che alzando la voce acuta in modo spiacevole continuava a strapazzarlo. Se avesse avuto una coda pelosa da agitare, probabilmente l’avrebbe avuta in mezzo alle gambe. “Che relitto d’uomo” commentò guardando verso di loro. Lalage lo ignorava, osservata da Rosalya che cercava di leggere qualcosa nei suoi occhi, senza riuscire a scorgervi altro che un profondo fastidio. Nathaniel intanto le aveva restituito il panino, e torcendo il busto indietro aveva gettato un urlo a Kim, dicendo “Kim, non sei ancora resuscitata?”. Per tutta risposta una specie di rantolo sottolineo il tentativo di sollevare un braccio, che poi ricadde vinto dalla fatica sull’erba, dove la mulatta era spalmata nella posa della stella marina. “Che l’è successo?” domandò Rosalya tastandola con un dito. Violet si avvicinò a Rosalya scivolando sull’erba e sospirò. “Le avevo detto che stava tenendo rovesciata la cartina, ma lei non mi ha voluto dare retta…quindi abbiamo fatto su e giù per il bosco finché non si è accorta di averla letta completamente al contrario” “E come mai tu non sei stanca?”. Violet si sedette a gambe incrociate tra di loro e sorrise timidamente “Perché io vado spesso a fare escursioni fuori città nel weekend, e sono un po’ allenata. Lei invece” e si voltò a indicare Kim “non è abituata a questi sforzi” “Capisco”. Castiel si sedette accanto a loro. Non gli sfuggì che Lalage si era scostata da lui e si era avvicinata a Lysandro, che lo guardò interrogativo. Kim intanto gorgogliò alzando un secondo la testa. “Il pavimento…punge” “Ha messo la mano su un cardo, cretina” le rispose Castiel prendendole il polso e scostandolo dal punto incriminato. Non giunse risposta. Lalage si voltò verso Kim. “Sai Kim, cantare aiuta in queste circostanze”. Kim con un grugnito si girò su un fianco, ma calcolò male la forza di inerzia e si ritrovò a rotolare giù per il falsopiano finendo addosso ai suoi compagni di classe. Sputando erba dalla bocca gemette “Non credo di essere in grado di cantare”. Rosa si scambiò un’occhiata divertita con Lalage, che capì al volo e annuì ridacchiando. Rosalya intonò con una voce che sarebbe stata bella, se non fosse stata rotta e storpiata dalle risate. “Se cercate un fatto, io ve lo daro’ ”. Lalage continuò a pieni polmoni, con voce decisamente stonata, tanto che Castiel dimenticò per un attimo tutto quello che era accaduto e si tappò le orecchie con le mani esclamando “Oh” e un’imprecazione blasfema lunga ed elaborata che gli guadagnò un’occhiataccia da parte di Nathaniel . “Gli Unni han vita corta, chi vivrà, vedraaa!”. E poi tutti in coro, Lysandro l’unico che svettava con la sua voce melodiosa ma che faceva una ben magra figura tra quelle voci storpie che parevano un incrocio tra un coro degli alpini italiani e un gruppo di ubriachi “e anche se voi  siete deboli lavoreremo ancor di piu’ si vedra’ l’uomo  che non sei tu”. Man mano che quello straziante lamento continuava Kim alzava la testa, con una luce sinistra negli occhi. Fino alla parte dialogata. “davvero non ne posso piu’”( Rosalya, cercando di non strozzarsi dal ridere) “non ci lascerò le penne”(Lysandro sorridendo  e mimando il testo) “Oh ma che schifo la ginnasticaaa” ( un entusiasta Nathaniel straordinariamente partecipe a quello sfoggio di incapacità canora) “Così li distruggerà!!”(Lalage, imperterritamente una mezza nota sotto quella giusta) “spero che non se ne accorga!” (Violet, perfetta nella voce timida di una fanciulla spaurita”) e qui esplose Kim, alzandosi in ginocchio e urlando a pieni polmoni, tanto che anche il nuovo insegnante fece un balzo indietro e tutti si voltarono a guardarla “DI NUOTARE NON SARO’ CAPACE MAIIII!!!” e ripresero a cantare in coro mentre gli altri alunni ridevano, fischiavano e applaudivano, alcuni unendosi a loro. “E sarai veloce come è veloce il vento e sarai un uomo vero senza timore sarai potente come un vulcano attivo, quell’uomo sarai, che adesso non sei tuuuu!”. Rosalya scoppiò a ridere sbellicandosi, generando ilarità anche negli altri. Poi si tirò su e si guardò intorno. “Ma Castiel?” “Già, qui non c’è” gli fece eco Violet guardandosi intorno. Kim, finalmente seduta, azzannava vorace il suo panino, mentre Nathaniel sghignazzando si rivolgeva a Rosalya “Ma come sapevate che l’avrebbe rianimata?” “Al pigiama party di Melody abbiamo improvvisato un karaoke Disney. Ti dico solo che non ho mai riso così tanto” fece l’occhiolino lei. Castiel tornò e gettò addosso al professore qualcosa. “Ecco il suo stupido timbro, ora possiamo muoverci prima che riinizino con quel lamento di morte?? No perché magari attaccano “In fondo al mar” e allora…”. Lalage attaccò “Le alghe del tuo vicino…” “Era solo per dire, donna!!”. Lo sguardo di lei si indurì e improvvisamente gli ricordò come mai non si erano ancora parlati. Prese per mano Lysandro che aveva appena messo in una busta che passava i tovaglioli sporchi e lo trascinò davanti al professore. “Il timbro per piacere” e appena lui tremando un poco impresse un segno sul dorso della mano  un segno a lei e a Lys se lo portò dietro, entrando di nuovo nel bosco.

Solo dopo venti minuti Lalage lasciò la mano di Lysandro e si voltò. “Scusami, sono stata brusca” e si vergognò vedendo che la guardava confuso. Si avvicinò a lei e le posò una mano sulla spalla. “E’ successo qualcosa tra te e Rosa?”. Lalage scosse la testa, e due lacrime fuggirono dai suoi occhi che cercavano di serrarle e scivolarono lungo sulla sua pelle. Le sciugò sibilando “maledizione” con rabbia. Lui le prese entrambe le spalle e la guardò negli occhi. “Con Castiel”. Lalage annuì e iniziò “e ora non so co…”. Poi si interruppe, quando un boato esplose sopra di loro. Pesanti gocce di pioggia iniziarono a cadere. “Oh, accidenti!!”. Lysandro la prese per mano  schermandosi gli occhi contro la pioggia e la trascinò correndo da una parte, fuori dal sentiero “Vieni, dobbiamo cercare un riparo!”. Arrivarono ad una piccola quercia bassa, e si ripararono sotto i suoi rami. “Bene. E’ frondosa e quindi ci proteggerà dalla pioggia, ma è anche bassa rispetto agli altri alberi, e quindi non attirerà i fulmini!”. Lysandro aveva appena finito di dirlo che un diluvio si abbatté su di loro. L’acqua scrosciando colpiva violentemente il terreno, la pioggia era così fitta che non si vedeva a un palmo dal naso. “Mi sa che ne avremo per un po’” sospirò Lysandro lasciandosi scivolare ai piedi dell’albero. Lei rimase in piedi, guardando come ipnotizzata i piccoli ruscelli che scorrevano verso valle. “E’ odioso….Castiel dico. E’ odioso. E’ violento, cattivo. Non è una persona, è una bestia”. Non sapeva nemmeno come le fossero uscite quelle parole. Forse era la rabbia che parlava per lei. Ma continuò con più cattiveria, senza guardarsi dietro le spalle. Avrebbe fatto meglio, avrebbe visto qualcosa che l’avrebbe fatta smettere. “E’ uno schifoso bastardo che gode nel far star male gli altri. Scommetto che se morisse non importerebbe  nessuno. A me no di certo. Perché è solo una bestia”. Una voce profonda  la interruppe urlando rabbiosa. “QUESTO NON E’ VERO”. Si voltò spaventata. Lysandro ancora stringeva i pugni, la mascella contratta per la rabbia: Per alcuni istanti il tempo, accompagnato dal suono dell’acquazzone, sembrò fermarsi.
 

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Capitolo 12
*** L'errore e l'orgoglio parte tre ***


“Non è così” ripeté Lysandro, più dolcemente questa volta, senza guardarla. Lalage stupita continuò a fissarlo incuriosita. La pioggia scrosciante attutiva tutti i suoni, percuotendo così forte la terra da sollevare dal suolo nubi basse composte proprio dalle gocce d’acqua, disgregatesi nell’impatto. Il paesaggio aveva un’aria come sospesa nel vuoto. “Scusa” sospirò Lysandro, socchiudendo gli occhi “ti ho dato una rispostaccia, sono stato veramente sgarbato” “Ma no che dici” disse lei sedendosi vicino a lui e raccogliendo le ginocchia contro il petto, sorridendo “in fondo ho parlato in modo supponente. Tu lo conosci certo da più tempo di me. Dopotutto” soggiunse “sono arrivata qui da meno di un anno, e non ho stretto un rapporto particolare con nessuno, a parte, forse, Rosa. Tu invece sembri essere molto legato a lui”. Alzò gli occhi e incontrò quelli di lui, che la scrutavano stupiti. “Perché mi guardi così?” “Davvero, credi di non aver stretto un rapporto particolare con Castiel?”. La domanda, così a bruciapelo, la lasciò un attimo interdetta, per cui ci mise un po’ a rispondere. “Beh, non credo di avere un rapporto con lui diverso da quello che ho con Alexy, o te, o Nathaniel”. Lysandro la guardò ancora, poi si passò una mano sulla fronte. “Scusa, ho di nuovo esagerato. Sto ficcando il naso in faccende che non mi riguardano, e non è proprio da me. Perdonami”. Lalage rise, lasciando interdetto lui, questa volta. “Lysandro, sei una persona straordinaria. Continui a scusarti anche se non hai fatto nulla di male, ti comporti proprio come un gentiluomo d’altri tempi. Sei davvero strano” “Mi trovi bislacco?” “Interessante, più che altro”. Lalage si rese conto di aver detto qualcosa di inopportuno e guardò da un’altra parte arrossendo. Dopo qualche minuto, con la coda dell’occhio, si voltò ancora a guardarlo. Si accorse che anche lui era arrossito. Passò molto tempo prima che uno dei due parlasse. L’acquazzone non accennava a diminuire. “Ah senti, volevo chiederti scusa”. Si voltò a guardarlo, senza capire. Lui continuò ”L’altra volta, al sushi…ho recitato quella poesia…credo di averti messa in imbarazzo, e volevo chiederti scusa per…” “Invece sono stata davvero lusingata” lo interruppe lei. Si girò stupito. “Sul serio?” “Certo!”. Lei si strinse nella giacca della tuta di lui e continuò. “Ho sempre pensato che il mio nome fosse una bella seccatura. È un nome strano che si fa notare. Mi rendeva un po’ una bestia rara. È stato bello che tu abbia riconosciuto il mio nome”. Lui intanto era arrossito ancora, guardandola appena, come se temesse di sciuparla con gli occhi. “Pensavo…sai…per il tema di quella poesia…” “Perché è una poesia d’amore?”. Lei si guardò un secondo le mani, prima di rispondere con naturalezza. “In fondo l’arte, anche quando è un’arte che parla di odio, è figlia dell’amore”. Lysandro scoppiò a ridere per quella breve affermazione filosofeggiante, ma non con un riso sprezzante o cattivo. Era un riso buono, come il gorgheggiare di un torrente nel suo letto, quando la neve si scioglie in primavera e sospinge l’acqua ghiacciata per il greto. Un suono che riempiva di allegria il cuore. “Ricordi molto la protagonista di quella poesia” “Castiel dice di no” bofonchiò lei gonfiando le gote e assumendo un’espressione corrucciata che lo fece ridere ancora volta.  “Tu dici che non sei in rapporti particolari con lui, ma non dovresti dire cose del genere così alla leggera. Potrebbe non essere dello stesso parere” disse Lysandro tornando improvvisamente serio. L’aria si era notevolmente rinfrescata, e lei tremava un po’, non avendo pensato a portarsi una felpa. Con gesto premuroso lui le posò sulle spalle la sua, avvicinandosi quasi impercettibilmente a lei. “Sono una specie di giocattolo per quello lì. Nulla di più” commentò lei di rimando voltandosi verso di lui e appoggiandosi alla sua spalla “e inizia a essere piuttosto fastidioso, come atteggiamento”. E Lysandro  rispose “Sai, ti dirò una cosa, e devi credermi, perché conosco molto bene Castiel e so di cosa parlo. Lui non si è mai comportato con un’altra persona nel modo in cui si comporta con te. Questo fa di te una persona speciale” “Che vuoi dire?”. Lui si avvicinò ancora un po’, e Lalage sentì lo scambio di calore dei loro corpi, e ammirò una volta di più i contorni morbidi e allo stesso tempo virili del volto di Lys. I suoi lineamenti le davano allo stesso tempo un senso di protezione e di dolcezza. “Castiel ti ha mai parlato che com’era, prima che arrivassi tu?”; lei scosse il capo, e Lysandro continuò. “Quando era piccolo, era un bambino molto indipendente. Forse perché i suoi genitori non erano mai in casa. Suo padre e sua madre lavorano in una compagnia aerea, come pilota e come hostess. Capita che a volte siano in due parti diverse del mondo. Lui ha vissuto sostanzialmente con delle baby sitter, non avendo fratellini. E queste non restavano mai più di tanto, quindi era sempre circondato da persone diverse che scomparivano presto, man mano che lui cresceva e le sue esigenze cambiavano. Per questo l’anno scorso sono andati in tribunale per discutere della sua emancipazione” “Cos’è l’emancipazione?” “E’ un procedimento per cui si permette a un minore di assumere tutti gli oneri e gli onori della piena maturità per quanto riguarda comportamenti ordinari: firmare documenti a suo nome, essere retribuito per un lavoro…ma anche rispondere di eventuali mancanze. Per i casi più gravi, ovviamente, interviene un curatore, cioè un adulto che si occupa delle faccende più complicate, ad esempio se il suo assistito deve comparire in tribunale eccetera. I suoi lo hanno fatto per permettergli di gestirsi lo studio e alcuni lavoretti senza dover aspettare il loro ritorno dal lavoro, visto e considerato che a volte non stanno a casa che un’ora prima di ripartire”. Fece una pausa, come riflettendo se valeva la pena continuare il racconto, e proseguì. “L’hanno scorso…beh è successa una cosa parecchio grave a Castiel…ha avuto dei problemi a scuola, e alla fine della fiera è stato bocciato e ha rischiato di essere espulso. I suoi genitori non erano in un periodo facile, e hanno cominciato a darsi vicendevolmente la colpa dell’accaduto. E’ mancato poco che divorziassero. Per fortuna, il curatore di Castiel, un collega di suo padre che lavora all’aeroporto e quindi non viaggia quasi mai, è riuscito a farli ragionare, e alla fine le cose si sono messe a posto. Ma per un certo periodo, volevano revocargli l’emancipazione” “E’ possibile?” “In alcuni casi sì”* “E cosa ha fatto Castiel per arrivare a questo punto?”.

Lysandro la guardò, incerto. “Non so se dovrei dirtelo. Sono faccende sue, e se non te l’ha detto evidentemente ci sarà un motivo. Forse ha paura che tu possa giudicarlo in qualche modo”. Il volto di lei assunse un’espressione seria, e si alzò restituendogli la felpa. Lui rimase a guardarla con aria interrogativa. “Non devi dirmelo per forza se non ti fa piacere. Mi sembri un tipo piuttosto riservato. In un certo senso ti capisco” e il volto di Lalage si distese in un mezzo sorriso che lo turbò, prima che i suoi occhi color del cielo tornassero a volgersi in direzione della pioggia, assorti “Vedi, non mi piace parlare dei miei problemi. Ho sempre pensato…che non volevo diventare una Mary Sue”. Si voltò a guardarlo, e lui spalancò le braccia scuotendo la testa. “Temo di non capire” “Sai quelle ragazze indifese e spaurite che aspettano che un principe venga a salvarle dal drago?”. Lysandro fece cenno di sì con la testa, e lei continuò “quella è una Mary Sue. Io ho vissuto dei momenti non buoni…ma credo che tutti vivano momenti bui, nella vita. È come vanno naturalmente le cose. Per cui ho sempre cercato di andare avanti, nonostante tutto. Anche l’ambiente che frequentavo mi ha spinto a questo. La musica ti può dare tanto, ma ti chiede molto in cambio. Soprattutto, tenacia. Tanta, tanta tenacia. Sempre. Perché non ammette secondi posti, perché la perfezione si raggiunge solo con dei sacrifici” e così dicendo cominciò a camminare avanti e indietro.“Ma non mi sono mai considerata una benedetta dalla sfiga, o cose del genere. Per cui, ho sempre cercato di risolvere i miei problemi da sola. E non mi piace parlarne.  Capisci, non voglio essere una ragazza fragile, che piagnucola in continuazione. E non voglio nemmeno essere una persona perfetta a tutti i costi”. Scoppiò a ridere e si voltò a guardarlo. Nella sua mente, Lysandro pensò che quella risata, il rossore su quelle guance morbide dovuto al freddo e all’agitazione, e quel luccichio nei suoi occhi, la rendevano molto bella. “Non so cantare, sai? Nemmeno un po’. La mia insegnante di canto corale mi aveva pregato di non frequentare le sue lezioni, perché stonavo terribilmente. “Se devi cantare, canta solo davanti alla televisione per le partite di calcio, quando suonano la Marsigliese. E fallo a voce bassa” mi implorò un giorno”. Scoppiarono a ridere insieme, e quando si furono calmati lei ricominciò sorridendo. “Faccio schifo di matematica e fisica. Sbaglio tutti i calcoli, mi perdo resti e quozienti, e questo solo a parlare di cose semplici, immaginati quelle complicate. Me la cavo nella pallavolo, ma non chiedetemi di giocare a basket. Non so assolutamente cucinare, né cucire, nemmeno i bottoni, non so disegnare o creare oggetti con le mani”. Sporgendosi da sotto le chiome della grande quercia lasciò che l’acqua la percuotesse, fredda e sinuosa, sul palmo della mano, ammirando le perle iridescenti che si formavano sulle sue dita e scorrevano guizzanti fino ai polpastrelli. La scosse per asciugarla e proseguì nel suo discorso. “Sono insopportabile. Sono testarda, a volte acida. Mi perdo spesso nei miei pensieri, e a volte risulto tremendamente saccente e noiosa, come ora, che stiamo parlando di cose importanti e io ti traccio il mio identikit…ma io VOGLIO essere così. Non voglio essere perfetta, né una principessa da salvare. Voglio essere una persona, pregi e difetti inclusi, in grado di afferrare l’ istante al momento giusto. Anche se non so ancora vedere oltre il confine di oggi, il mio futuro, quale sarà”. Tornò a sedersi accanto a lui, e istintivamente fece per appoggiare la testa contro il suo petto, stupendosi lei stessa di questo gesto. Si stupì ancora di più quando Lysandro, sollevato il braccio, la cinse con esso intorno alle spalle facendola accoccolare accanto a sé, contro di lui, senza una parola. Lei poteva sentire i battiti, appena accelerati, del suo cuore. “Una sera, sai, mi sono scoperta un poco, e Castiel ha visto alcune cose del mio passato che mi fanno ancora male. Mi sono arrabbiata molto con me stessa, e con lui, perché crede che conoscere il mio passato sia come mettermi un’etichetta addosso. E io non voglio etichette, voglio essere libera di ridefinire me stessa in qualsiasi momento, e di rimettermi ogni volta in discussione”. Finito finalmente di parlare abbassò gli occhi. “Scusa per questo sproloquio” “No, anzi, mi hai aperto il cuore, e questo vuol dire che ti fidi di me. Sono lusingato” e poi disse con voce morbida, che lei udì echeggiare e vibrare attraverso il suo petto “e credo che sia questo aspetto di te che piace a Castiel. Sei molto diretta, ma non ti scopri mai del tutto. Non so cosa sia successo tra te e lui, ma ha avuto spesso rapporti con persone molto superficiali, e credo che tu possa rappresentare una novità ai suoi occhi. Vedi” spiegò poi abbassando la voce, tanto da essere quasi ammutolito dal frastuono del temporale.“Castiel…quell’anno che ti dicevo prima…ebbe alcuni problemi….problemi che lo hanno portato  a detestare Nathaniel nel modo in cui lo detesta oggi”

“Castiel aveva una ragazza, si chiamava Debrah. Una donna molto bella, ma a me non è mai piaciuta. Aveva qualcosa…una sorta di aura di ipocrisia che sembravo notare solo io. Castiel era completamente cotto, sai. Se gli avesse ordinato di attraversare il mare a piedi, lui sarebbe corso a farlo. Un giorno, lei se ne andò, e seppi che aveva a che fare con Nathaniel. Pare che avesse cercato di portarla via a Castiel…” “Nath non farebbe mai una cosa del genere!! È buono e gentile!!”interruppe lei indignata scostandosi appena e guardandolo severamente negli occhi. Lui la guardò incerto per qualche istante, poi sorrise.“Penso anch’io che non sia andata così. Un po’ perché secondo me di quella lì non ci si può fidare, e poi perché Nathaniel è troppo intelligente per commettere un errore del genere, non credi?”. Poso la guancia sul capo celeste di lei. Questa volta Lalage arrossì violentemente, e si chiese se lui non avrebbe sentito il calore del suo viso contro la sua pelle. “Ad ogni modo, non si parlano da allora, se non per attaccar briga. Castiel smise di venire a scuola, i suoi voti precipitarono, e un giorno aggredì uno di terza, in cortile. Non so il motivo. Fatto sta che rischiò di essere espulso. E il resto ormai lo sai”. Tacquero per diverso tempo, ascoltando entrambi rapiti la pioggia, che ora scorreva più dolcemente, zampillando dalle foglie al terreno dove aveva formato uno strato di fango amalgamandosi con la polvere. I primi uccellini, capinere e cince, annunciarono trillando l’imminente fine del temporale. “Lysandro” “Dimmi” “Voglio dirti…che mi fiderò di quello che tu mi dici ora” e sollevò gli occhi, sentendo l’omero di lui sotto la guancia “perché credo che tu sia una persona in grado di vedere nei cuori degli altri”. Lui arrossì, poi le diede un buffetto sulla guancia. “E tu, sei la ragazza più stravagante che abbia mai conosciuto. Sei un insieme di forze contrarie e contrastanti. E questo, fa di te una persona speciale”. I loro occhi si contemplarono gli uni gli altri. Rapita dalla fiducia istintiva che provava per lui, Lalage non si era resa conto di quanto fossero vicini, ma era come se tutto fosse normale, come se quella vicinanza fosse naturale e ovvia. Forse si sarebbe pentita della poca distanza a cui si trovavano i loro volti, del sentire il respiro tiepido di lui sulla fronte, ma ora, in quel momento, ogni cosa era come ammantata da un alone di leggerezza e innocenza, come quando una favola non viene mai conclusa e rimane sospesa, col suo carico di magia e attesa, attraverso il respiro dei rintocchi dell’orologio.

Improvvisamente si sentì un fruscio, mentre alcune frasche vicino a loro si flettevano sotto il peso di qualcosa. Ignorando se fosse o meno un atteggiamento adeguato Lalage si strinse a Lysandro sbarrando gli occhi terrorizzata. “Oh buon Dio, un orso? Un lupo? Un serial killer?”. Lysandro sentì la vicinanza tra di loro ridotta a zero e arrossendo violentemente si scostò. “N-non so dirti per il serial killer, ma sono abbastanza sicuro che non ci siano orsi o simili in un parco privato”. Il fruscio si fece più intenso, e Lalage trattenne il fiato…fino a che la testa di una snella cerbiatta, con gli occhi languidi incuriositi, non fece capolino attraverso i cespugli. “Ma che bella!” esclamò lei, ma Lysandro le posò delicatamente l’indice sulle labbra, facendole segno di tacere. Le guance di Lalage avvamparono. Decisamente, sono arrossita più questo pomeriggio che nella mia vita intera, si disse. Lui le sussurrò “Non parlare, o scapperà. Aspetta che si avvicini”. Rimasero in silenzio, e lentamente la cerbiatta di avvicinò a loro, brucando qua e la alcuni germogli e osservandoli incuriosita. Poi, si sollevò di scatto ruotando le orecchie, e conpochi, agili balzi riguadagnò il folto del bosco. “Oh, che peccato!” si rammaricò Lalage, adagiandosi di nuovo vicino a lui “Qualcosa deve averla spaventata” le rispose Lysandro. E in effetti, un altro fruscio si fece sentire dalla stessa direzione, sempre più vicino a loro. Finché una chioma rossa non fece capolino tra il fogliame. Castiel si bloccò e rimase immobile e ammutolito qualche secondo, guardando ora uno ora l’altra con uno sguardo indecifrabile. Poi scoppiò. “Si può sapere cosa state facendo??” urlò furioso, avvicinandosi aggressivamente. Lalage si alzò in piedi, ancora eccitata. “Castiel, abbiamo visto un cerbiatto!! Era così carino!!” ma gli occhi scintillanti non bastarono a calmare il rosso, che per tutta risposta le arrivò a un centimetro urlandole in faccia “E questo spiega come mai gli stai così tanto appiccicata??”. Una mano, maschile e vigoroso, afferrò la spalla di Castiel. Lysandro lo guardava severamente. “Non trattarla in questo modo” e soggiunse “non c’è nulla di improprio. Era spaventata perché credeva fosse un orso, per questo eravamo così vicini. Ora vedi di calmarti”. Gli occhi di Castiel si ridussero a due fessure e la contemplarono da capo a piedi freddamente. “Certo, come no”. E Lalage vide rosso. No, non IL rosso. Quello lo aveva davanti agli occhi, e alla mente le tornavano epiteti poco lusinghieri come pezzo di idiota, bulletto perennemente mestruato e così via. I ruoli si ribaltarono, e questa volta fu lei ad arrivare a urlare in faccia a Castiel, che la guardava inarcando un sopracciglio, interdetto. “Ma chi ti credi di essere, eh?? Ora ti devo rendere conto di quello che faccio o non faccio?? No che non devo, isterico di un imbecille, e in ogni caso non sono affari tuoi, quindi vedi di calmarti e chiudi quella fogna invece di usare quel tono con me, hai capito??”. Poi tacque. Con la coda dell’occhio vide Lysandro scuotere la testa, e si sentì uno schifo. Intanto Castiel si voltò senza una parola, tranne un ringhio sordo “Già, non sono affari miei” e si incamminò nella direzione da dove era venuto, lasciandola titubante e pentita.

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Capitolo 13
*** Oltre l'errore e l'orgoglio ***


INFO ILLUSTRAZIONI: sono riuscita a caricare una sola illustrazione finora, spero di riuscirne a caricarne altre nei prossimi giorni. Il nome su Deviantart è Lalage96

La corsa fu un assoluto disastro. La preside dondolava sul posto facendo vacillare i suoi chili in eccesso  da una parte all’altra berciando contro il nuovo assunto e i due ritardatari. Lalage cercava in tutti i modi di pensare ad altro mentre si sorbiva la ramanzina di quella grossa meringa isterica, ma era difficile visto il tono acuto e irritante della sua voce. “…e mi auguro che questo incidente vi insegni come comportarvi per eventi futuri!! Ma vi rendete conto che avete mobilitato alcuni studenti e tutto il corpo insegnanti??” “Mi dispiace” fu l’unica cosa che riuscì a dire lei, prima che la preside sproloquiasse “E ne ha ben donde!! Riceverete una punizione E-S-E-M-P-L-A-R-E per tutto questo” “Se permette, preside, vorrei assumermi la responsabilità dell’accaduto. Il mio compagno è stato involontariamente coinvolto nelle mie decisioni. Perciò” tentò di concludere Lalage, ma Lysandro la interruppe “Signora preside, la mia compagna di corsa è responsabile solo in parte. L’idea di aspettare la fine dell’acquazzone fuori dalla pista tracciata è stata mia. E comunque, non è certo una nostra responsabilità se è scoppiato un temporale nel bel mezzo dell’evento, era un’eventualità che avrebbe dovuto prevedere chi si doveva preoccupare delle previsioni meteo” “Su questo sono assolutamente d’accordo” lo interruppe la preside degnando il professore di una lunga occhiataccia “non è vero, professor Faraize??”. Il professor Faraize sospirò “Sono desolato” “Bene, ora tutti nei pullman, arrivati a scuola deciderò della vostra sorte” concluse- finalmente, a detta dei tre imputati- la preside, indicando i due studenti “ e della sua” tuonò rivolgendosi al povero docente. La maggior parte degli studenti era già seduta nel pullman. Attraverso i finestrini vide Kim e Violet, Rosalya che la aspettava e la salutò agitando la mano, e Castiel, che la degnò solo di un lungo, gelido sguardo prima di girarsi dall’altra parte. Non poté fare a meno di sospirare e si avviò dietro a Lysandro verso il pullman.

 Mentre salivano sul pullman Lalage si fermò accanto alla poltrona dell’autista e si rivolse al professor Faraize. “Professore…mi dispiace per quanto è accaduto oggi, abbiamo ostacolato il suo lavoro”. Faraize sorrise “Non preoccupatevi, è anche colpa mia...avrei dovuto guardare le previsioni del meteo, ma…” “E’ stato troppo occupato, vero? Dopotutto lei è un professore, dovrà preparare le lezioni” lo precedette Lysandro comparendo alle spalle di lei. Il sorriso del professore si assottigliò e si trasformò in una risatina nervosa, mentre in una sorta di tic nervoso continuava ad aggiustarsi gli occhiali sul naso. “Giusto giusto, dopotutto non sono mica andato a divertirmi o che so, a tentare la sorte a uno speed date in centro città in un locale dove servono dell’ottima cucina etnica marocchina, giusto?? Anche perché questo mi renderebbe una figura niente affatto esemplare per voi, sia dal punto di vista comportamentale sia da quello esistenziale, non c’è niente di peggio di un professore che vi insegna a spassarvela invece di pensare al proprio dovere e che è così depresso per il proprio celibato quarantennale da tentare la sorte a questo modo, non è vero? Sarebbe piuttosto patetico un insegnante che tentasse tra un piatto di couscous e l’altro di allacciare rapporti col gentil sesso” e mentre parlava a scatti e nervosamente in questo modo Faraize piegava la schiena e allo stesso tempo un’espressione afflitta si dipingeva sul suo volto. Lysandro sussurrò all’orecchio di Lalage. “Meglio che andiamo, non mi pare che sia troppo in forma” “Sì, e in questo momento non ho intenzione di ascoltare i suoi problemi di cuore” soggiunse lei avviandosi per lo stretto corridoio di sedili, lasciando il professore a parlare da solo e ad abbandonarsi a sospiro di autocompassione. Rosalya la accolse con un “Bel guaio avete combinato!” “Non ne voglio parlare”. Rosa le guidò la testa fino alla sua spalla, e Lalage sorridendo vi si appoggiò socchiudendo gli occhi. “Come fai ad avere un buon odore anche dopo aver sudato?” “Mi porto sempre dietro il deodorante, piccole accortezze da donna di mondo. Piuttosto” sussurrò accennando a Castiel, dall’altra parte dei sedili di fronte a loro “da quando è tornato non ha spiccicato parola”. Lalage girò il volto posando la fronte sulla clavicola della sua migliore amica, per nascondere due lacrime che Rosalya comunque avvertì nella sua voce. “Rosa, ho detto delle cose orribili” “Beh, oggi è stata una brutta giornata per tutti, direi. Quindi su col morale” cercò di sdrammatizzare lei accarezzandole i capelli celesti. Cullata da quelle carezze e sfinita per tutto quanto era successo, Lalage si appisolò mentre il pullman si metteva in moto.

Il giorno dopo guardandosi allo specchio faticò a riconoscersi. Aveva dormito poco, e si vedeva. A partire dal fatto che per sbaglio quella mattina stava per uscire in pantofole e solo un trillo allarmato della zia la salvò dall’umiliazione di arrivare a scuola con le ciabatte a forma di coniglietto rosa. “Tutto bene tesoro??” “Sì zia, sono solo un po’ stanca” rispose lei indossando le più indicate converse e trascinandosi giù per la discesa. Per fortuna Alexy e Rosalya l’ultima volta le avevano ordinato i vestiti nell’armadio già abbinandoli sulle stampelle di legno e contrassegnandoli con grossi post-it con su scritto il giorno della settimana nel quale indossare i vari abbinamenti, altrimenti chissà con cosa sarebbe uscita di casa quella mattina. Appena arrivata a scuola si recò nell’ufficio della preside. Non sapeva cos’era peggio, trovarsi a scuola di giovedì mattina quando in teoria sarebbe dovuta essere a casa a dormire, o scontrarsi con Castiel all’ingresso. La guardò un istante e poi uscì senza proferire parola. “Aspetta!” gli urlò dietro lei, ferma sulla porta. Si fermò. “Mi dispiace. Castiel, mi dispiace per quello che ti ho detto ieri. Davvero”. Dopo qualche istante, senza nemmeno voltarsi, lui rispose “Tanto non sono affari miei giusto?” e si allontanò in direzione della palestra. Con il morale sotto i tacchi Lalage si avviò sospirando nell’aula del comitato studentesco. La preside era già lì, decisamente più rilassata sebbene non più accomodante del giorno prima. Lysandro le rivolse un sorriso incoraggiante. “Bene, ecco la signorina Germont. Lysandro, lei darà una mano al professor Faraize a sistemare alcuni compiti in aula professori. Lei invece, vada con Nathaniel in biblioteca, gli darà una mano a…o perfetto, eccolo qui”. Lalage si voltò di scattò e lo vide sulla porta. Perché mai anche lui era lì? “Bene, le spiegherà tutto lui. Ora andate”. Senza fiatare, lei seguì il delegato degli studenti verso la biblioteca, mentre Lysandro si allontanava in direzione opposta, verso l’aula professori. Arrivati in biblioteca Nathaniel finalmente le rivolse la parola “Certo che sei un uragano te, eh? Ci mancava solo la punizione del giovedì mattina!” le disse serio prima di girarsi a cercare della documentazione su una scrivania. Lalage abbassò gli occhi, a disagio. “Mi dispiace averti costretto a venire qui”. Non osava guardarlo negli occhi. Da una parte era felice di trovarsi lì, con lui. D’altra parte, non poteva fare a meno di chiedersi- e chiedendoselo, si stupiva di sentirsi apparentemente senza motivo in colpa- se ieri anche lui l’aveva vista tornare insieme a Lysandro. Interruppe questi suoi pensieri un tocco delicato di qualcosa, sopra la sua testa. Per avere la sua attenzione, Nathaniel le aveva posato un volume sulla testa, chinandosi verso di lei tanto che i loro volti quasi si sfioravano e sorridendole.  “Vieni, il nostro compito è rimettere a posto i libri che hanno posato nel carrello delle restituzioni e fare il giro degli scaffali per vedere se ce n’è qualcuno fuori posto. Oh, e comunque” continuò prendendo tra le mani alcuni volumi e porgendoleli “non hai costretto nessuno a fare nulla. Sono aiuto bibliotecario dall’inizio dell’anno, e tutti i giovedì mattina vengo qui a sistemare i libri. Al contrario, oggi mi vieni in aiuto, abbiamo avuto un sacco di restituzioni e da solo ci avrei messo molto di più”. Lei li afferrò e inizio a girare tra gli scaffali, riponendo i volumi seguendo le indicazioni che un’etichetta, dove erano annotati autore in ordine alfabetico e sezione, riportava. Alle dieci erano già a buon punto, lavorando in silenzio. Lalage sentiva la sua presenza vicino a lei, e ne era allo stesso tempo attratta e intimorita. A volte dovevano riporre due volumi l’uno vicino all’altro, e in quell’occasione lei sentiva il corpo di lui particolarmente vicino, tanto da poter sentire il calore,  il suo profumo, un dolce profumo di vaniglia-che apparteneva ad Ambra e di cui ella si cospargeva in modo eccessivo e nauseabondo- misto a una nota sottile di muschio, probabilmente il suo shampoo. In un caso le loro mani si sfiorarono, e lei sentì il cuore accelerare le sue pulsazioni nel petto. Ormai mancavano pochi libri da sistemare, e visto che avevano passato quasi due ore in silenzio, Lalage decise di fare uno sforzo per dilatare il tempo che rimaneva, facendo un po’ di conversazione. “Deve essere dura, gestire il liceo e lo studio e occuparsi della biblioteca”. Lui le sorrise, riponendo un volume nello scaffale. “Non sono solo. Anche Melody da’ una mano quando può”. Giusto, anche Melody, pensò lei sorprendendosi di essere triste. E senza ragionare lei gli domandò “Uscite insieme voi due, vero?”. Nathaniel arrossì e le rispose secco “Certo che no!! Come ti viene in mente??”. Non capì perché, ma non poté fare a meno di sentirsi sollevata. Ormai mancavano solo due libri, da disporre nella mensola più alta della libreria. Lalage fece scorrere la scaletta di legno fino al punto giusto, poi iniziò a salire. Nathaniel le passò i due volumi, di cui lei si soffermò a leggere i titoli, facendo scorrere le dita sulle copertine un po’ lise. “Don Chisciotte!” “L’hai mai letto?” “Ne ho letto una riduzione da bambina. Mai l’originale” “E’ carino, anche se si dilunga un po’ in alcune parti. Poi guardò il secondo. “Questo invece l’ho letto!” “ “Alice nel paese delle meraviglie?” “ “Sì, quando ero piccola. Credo anzi che me l’abbia letto qualcuno, ma non ricordo chi”. Il libro non entrava perfettamente nello spazio tra i suoi compagni e quando finalmente lei riuscì a far scorrere le copertine vicine perse l’equilibrio e barcollò, in bilico sul quarto gradino. Nathaniel intervenne posandole le mani sui fianchi e sostenendola. Sentì la testa ronzargli impazzita quando sentì quella presa forte e decisa quasi a contatto della sua pelle, interrotta solo dal tessuto della camicia azzurra. La scala smise di traballare e con un sospiro di sollievo da parte di entrambi Lalage riuscì a scenderne con cautela. Quando ebbe posato i piedi per terra Nathaniel lasciò la presa attorno alla sua vita e la guardò sollecito “Tutto a posto?” “Sì grazie, solo un po’ di paura. Meno male che c’eri tu a prendermi al volo!”. I suoi occhi incontrarono per qualche istante quelli dorati di lui, e sentì come se fosse davvero vicina a lui, in quel momento, come se da un momento all’altro potesse accadere qualcosa. Invece entrambi distolsero lo sguardo. Dopo qualche istante lui ruppe il silenzio. “Senti, Lalage” “Mm”. Lo vide arrossire con la coda dell’occhio. “Tu e Lysandro…uscite insieme, per caso?”. Si girò stupita “No, davvero. E’ una persona interessante e gentile, ma siamo solo amici, nulla di più”. Forse era solo una sua egoistica impressione, ma le parve sollevato. “Capisco”. Respirò profondamente e le disse senza incrociare lo sguardo confuso di quei grandi occhi color cielo. “Bene abbiamo finito”. Lalage non potè trattenere un mezzo sospiro dispiaciuto “Peccato”. E si accorse all’improvviso che lui la fissava, assorto. Si avvicinò a lei, accorciando la distanza tra di loro, lei con le spalle quasi aderenti ai dorsi dei volumi della libreria. I loro volti erano così vicini che riusciva a sentire il respiro di lui sulla pelle, mentre si smarriva in quei grandi occhi color miele, perdendo la cognizione del tempo e di se stessa. Provò una sensazione di pericolo, quasi, insieme a un desiderio che trattenne a stento di accorciare ancora di più quello spazio che li separava. Lui mormorò sulla sua pelle, senza smettere di osservarla “Non dovresti parlare con tanta leggerezza, sai?” poi si ritrasse, lasciandola senza fiato “C’è chi potrebbe avere delle aspettative, per parole a cui tu non dai molto significato”.Lalage non seppe fare altro che balbettare “S-scusa”. Lui le sorrise e tornò al consueto tono affabile, come se niente fosse accaduto. “Beh, io devo controllare ancora una volta i registri del prestito. Tu vai pure” “Sei sicuro?” “Sì sì, vai tranquilla”. Con il cuore che ancora pompava a mille il sangue lei si diresse verso l’uscita, poi rallentò un secondo prima di aprire la porta e con voce insicura gli disse “Allora ci vediamo”. Quando la richiuse si appoggio prendendo fiato. Ripenso a quelle parole, così simili a quelle che le aveva rivolto Lysandro nel bosco. “Non dovresti parlare con tanta leggerezza”. Ha ragione, non dovrei, pensò. E risoluta si diresse verso il cortile. Ora sapeva cosa doveva fare.

Castiel strinse le labbra per trattenere il plettro, mentre con una mano pizzicava le corde e con l’altra aggiustava l’accordatura della chitarra, che vibrava e miagolava contro il suo ventre riverberando il suono nella cassa di risonanza. Aveva raccolto le due ciocche sulle tempie in una coda dietro la nuca, come faceva sempre prima di suonare, e portava le maniche della maglietta rimboccate fino alle spalle. L’aria di primavera, penetrando nella serra e uscendone dalle finestre di vetro aperte per ossigenarla gli imprimeva nel respiro i profumo dei tulipani che stavano sbocciando. Improvvisamente un tocco gentile e tiepido gli sfiorò l’avanbraccio. Voltatosi, socchiuse gli occhi e aggrottò la fronte, contrariato. Lalage, inginocchiata accanto a lui, cominciò a parlare con voce flebile e incerta. “Voglio che ti interessi. Voglio che quello che faccio ti riguardi, perché mi rendo conto di aver passato troppo tempo a chiudere tutto, i momenti belli e i momenti brutti, dentro di me, in un angolo del cuore, e ora voglio gridare a tutti che sono molto, molto felice, e soprattutto voglio dirlo a te. Voglio che ti interessi. Voglio che tu sia vicino a me quando compirò le mie scelte, voglio che tu sappia se starò male o meno e che ci sia anche solo per prendermi in giro, anche solo per fare il tuo solito sarcasmo. E voglio esserci quando sarai tu ad avere bisogno di me, anche se sono una buona a nulla, anche se rovino sempre tutto, anche se sono un po’ imbranata. Questo perché” e si chinò posando la fronte contro la sua spalla e riducendo la propria voce a un mormorio “perché per me sei un amico, una persona importante. Ho sbagliato, ti ho detto delle cose cattive, e ti ho giudicato senza conoscere nemmeno la tua storia, senza sapere chi sei veramente. Ero così piena di me e orgogliosa che non mi sono accorta che anche tu avevi delle ferite, e non ho cercato di comprenderti. Ecco, solo volevo dirti…mi dispiace”. Rimase lì immobile. Per un po’, nessuno dei due parlò. Poi lui si spostò e, sfiorandole le guance nel gesto, fu lui ad adagiare la testa contro la sua spalla, sopra la sua clavicola. “Vorrei essere buono, ma non ci riesco. Vorrei non pensare come penso le donne, ma non ci riesco. Ho imparato a non fidarmi delle persone, e che gli altri si accorgono di te solo quando fai loro del male. Però, voglio che tu lo sappia, che non ti farei mai del male. Perché sei importante, per me. Perché sei la prima che riesco a considerare non una preda da cacciare, un numero in rubrica a cui ricordarsi di scrivere dopo una notte sconcia, ma qualcosa da proteggere. Qualcosa che voglio proteggere”. Due lacrime gli scivolarono sugli zigomi, così si scostò e senza chiedere il permesso impresse le labbra sulla sua guancia morbida. Lei rise. E così fecero pace, con quella risata cui di rimando rispose la sua, più cupa, con quel riso che gli metteva le ali al cuore. Perché lei era

Colei che dolcemente parla, che dolcemente ride.

 

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Capitolo 14
*** Le altrui memorie ***


Ormai l’aria primaverile stava lasciando il passo alla più calda aria estiva. Da tempo il Mistral era solo un ricordo, mentre il Libeccio conduceva pigre nuvole verso il nord, sgombrando il cielo e dipingendolo di tenui e fumose tonalità di azzurro. Lalage si sedette fuori dalla serra e si tolse i guanti, battendoli tra loro per eliminare i residui di terriccio. Se fuori dalla serra il caldo cominciava a farsi sentire, all’interno sembrava quasi di stare in un forno. Si appoggiò contro le pareti trasparenti e respirò a pieni polmoni. Ormai stava iniziando ad abituarsi all’aria diversa del Meridione, impregnata di una tenue nota salmastra. Ciò che più di tutto le piaceva era il fatto che i venti, incoraggiati dal mare, soffiavano spesso sulla città impedendo allo smog di trasformarsi in quella specie di nebbia che talvolta nelle giornate di traffico intenso si formava su Parigi. Si riscosse, mise i guanti in un secchiello che richiuse con cura nell’armadietto degli attrezzi e prese la cartella. “Ehi perdente, girati e stammi bene a sentire. Penso che tu sei una perdita di tempo, in realtà, ma questa non te la posso lasciar passare”. Lalage non si voltò nemmeno ma sollevò gli occhi al cielo esasperata. “Ambra, penso che tu sia. Il congiuntivo almeno risparmialo, se devi cominciare una crociata contro di me abbi pietà della tua lingua madre” “Non fare la saccentella carina, dai veramente il voltastomaco ” le rispose Ambra portandosi vezzosamente una mano sul fianco. Quando si alzò Lalage sbatté piuttosto violentemente la porta dell’armadietto, mentre il nervoso la pervadeva fino alla punta dei capelli. “E tu invece hai rotto con i tuoi piccoli atti vandalici. Sei così tronfia e oca da non saperti relazionare con gli altri? Devi ricorrere a dei trucchetti da scuola elementare tipo le cinghie dello zaino tagliate, la bottiglietta d’acqua aperta nell’armadietto eccetera? Mi fai pietà perché evidentemente il tuo sviluppo cognitivo si è fermato all’età di quattro anni, ma MENNE, capito? MENNE! Lasciami quietare e vai a giocare a fare la bulletta con le tue amichette da un’altra parte. Anzi già che ci sei giocate a darvi in testa un dizionario, chissà che così non si trasmetta qualcosa al tuo cervello”. Gli occhi di Ambra si ridussero a due fessure. “Guarda carina, che hai poco da fare la superiore. Prima ti sbatti Castiel, poi ci provi con mio fratello. Sei solo una facile”. Ci fa. A ‘sto punto ci fa. Se ci è poveri noi, pensò Lalage allibita prima di rispondere “Guarda, cara la mia subrette in squilibrio ormonale, che qui quella che si è sbattuta qualcosa sei tu. La testa, e a giudicare dai danni, parecchio forte”. Ambra ridacchiò, poi la spintonò contro i vetri della serra e con fare minaccioso continuò “Senti spiritosona, vedi di non tirartela  solo perché non l’hai ancora data via”, ma con abile mossa Lalage si divincolò e si avviò lungo il marciapiede fino al cortile, dove si voltò per urlare alla biondina furente che la inseguiva pochi passi indietro. “Io almeno non l’ho data via come se fosse in saldo” e sogghignando si avviò verso casa.
Chinandosi sopra al letto le sue dita incontrarono il freddo metallo della scatola di biscotti. Lalage la fece scivolare vicino a sé e la afferrò, soffiò via la polvere che ne ricopriva il coperchio e la aprì. Tutto era rimasto come quando l’aveva scoperto. Le carte lise e ingiallite la attendevano immobili, aspettando di essere lette…o ignorate. Non sapeva cosa farne, in realtà. Da una parte era incuriosita, e quelle parole, “Mio amato Max” le avevano lasciato un febbrile desiderio di saperne di più. D’altra parte…era giusto leggere lettere altrui? Vero era che, dal momento che nessuno le aveva reclamate, probabilmente potevano essere lette. Ne aprì una a caso, e lesse la data a margine. 16 luglio del 1940. Socchiuse gli occhi riflettendo. Nel 1940…si era in piena Guerra Mondiale. Negli anni Quaranta in teoria la Francia era sotto l’occupazione tedesca, anche se da poco. Guardo la carta, vi passò sopra le dita incerta. In teoria, chi le aveva scritte poteva anche essere morto…se non morto, poteva essere da tutt’altra parte, in un altro angolo del mondo. In ogni caso non poteva restituirle se non scopriva almeno un indizio, e per farlo doveva leggerle. Certo, il fatto che fossero state trovate a casa della nonna riduceva il campo…forse. Le passò per la testa che la zia potesse saperne qualcosa. Dopotutto era stata spesso in quella casa, da bambina. Forse si ricordava qualcosa. Chiuse la scatola e andò a cercare la zia. Non era ancora tornata, forse era ancora in ospedale. Qualcuno in compenso suonò il campanello. Immaginando che potesse essere lei, si avviò decisa verso l’ingresso. Quando aprì, però, chi trovò sul pianerottolo non era zia Agatha. Era Nathaniel.

Era Nathaniel. In abiti non formali, una felpa sportiva con cappuccio sopra una t-shirt semplice, un paio di jeans in buono stato e un paio di Adidas. Le sorrise e disse “Ciao”. Le capacità espressive di lei si azzerarono, complici forse gli ormoni più o meno casti che iniziavano a circolare nel suo corpo alla vista di Nathaniel, in abiti informali, a casa sua. Se avesse potuto descrivere la tempesta di emozioni che la scuotevano in quel momento probabilmente l’avrebbe equiparata al Carnevale di Rio, ma dal momento che si era dimenticata come si parla rimase lì a fissarlo con la faccia della trota lessa in mezzo al contorno. “Posso entrare?”. Una vocina simile a quella di Minnie-probabilmente la sua-rispose “Certo!” mentre lo faceva accomodare. “P-posso offriti qualcosa? Thè, caffè…” “No grazie, sono passato solo per chiederti un favore” “Ah” esclamò Lalage piacevolmente sorpresa“A nome della scuola” “AH” fece meno entusiasticamente lei. Lui sorrise, poi vide la porta di camera sua aperta e le lettere sul letto. “Ti ho disturbato?” “No no tranquillo. Piuttosto, come hai saputo dove abito?” “Il tuo modulo di iscrizione”. Lalage inarcò il sopracciglio “Così suona parecchio inquietante, sai?” “Trovi?” rispose lui confuso arrossendo “eppure mi sembrava giusto, per un motivo scolastico” “Ma sì ma sì, non ti agitare. Vieni, ne parliamo in camera mia” e prevenendo un’imbarazzata obbiezione che l’espressione attonita di lui sembrava voler annunciare “in cucina e salotto è pieno di scatole. Ci sono dei lavori in una nostra casa di campagna e ci hanno mandato degli oggetti da tenere. Non mi va di farti accomodare in mezzo agli scatoloni, e in alternativa c’è solo il bagno e la camera, quindi….” “A-ah, sì capisco, certo” e si accomodò, sedendosi sul bordo del letto e guardandosi nervosamente le mani, imbarazzato.

Superata la sorpresa, lei lo guardò con curiosità. “Cosa sei venuto a chiedermi?”. Nathaniel tirò un respiro profondo e sospirò. “La preside è furiosa per l’insuccesso della corsa” “Lo so, ho finito con le ore di punizione solo giovedì scorso”. Nathaniel spiegò “Il problema è che la corsa ci serviva per finanziare alcune attività della scuola. In teoria spetterebbe al dipartimento farlo, ma ovviamente di ‘sti tempi i soldi non arrivano, o arrivano a singhiozzo”. Si appoggiò sulle mani chinando indietro la testa. “Quindi, si è discusso di un nuovo evento da organizzare a questo scopo. E a me è venuto in mente…che si potrebbe organizzare un evento…più culturale diciamo”. Lalage sospirò. Sapeva dove voleva andare a parare. “Un concerto, non è vero?”. Nathaniel giunse le mani e la guardò supplichevole “Non te lo chiederei se non fossimo davvero disperati, ma tutte le altre proposte sono infattibili o troppo costose…” “…e un concerto di Lalage Germont che torna in scena attirerebbe pubblico e soldi, oltre che nuovi iscritti l’anno prossimo, non è così?”. Sospirò di nuovo e si sedette accanto a lui. Le girava un po’ la testa, non sapeva se era per la vicinanza tra loro o per l’ansia e la tensione che la prendevano quando sentiva parlare di queste cose. “Non ti dico che non lo farò, perché mi dispiace, dopotutto il casino della corsa è stata colpa mia….ma non sono sicura di poterlo fare. Capisci, non è che non voglio, più che altro non so se POSSO”. Nathaniel le posò una mano sulla spalla “Non sei costretta, assolutamente, ricordalo. La corsa sarebbe stata un disastro in ogni caso” “Non credo. Ad ogni modo, è stata anche una mia responsabilità”. Incrociò le mani poggiando i gomiti sulle ginocchia e ci poggiò la fronte sopra, cercando di calmarsi. “Fammici riflettere un po’ e ti faccio sapere al più presto, va bene?” “Ok, non c’è problema”. Per un po’ fra loro passò solo il silenzio, poi Nathaniel si ricordò delle lettere e incuriosito si alzò a prendere la scatola. “Lettere?”. Lalage si riscosse e lo guardò, poi annuì. “Sì, erano nella casa in campagna della nonna. Ma non so di chi siano”. Lui si era seduto di nuovo vicino a lei, con la scatola in grembo. Estrasse una lettera a caso e la scorse appena. “Stavi per leggere questa?” “Come fai a saperlo?” si stupì lei. Nathaniel sorrise “Era la prima della serie, ma non sembra una delle più vecchie. Ho pensato che potessi averla messa tu così”. Lalage rise divertita “Sembri proprio un investigatore” poi la prese dalle sue mani. “Vuoi che la legga?” “Se non ti dispiace”. Lei prese fiato, e cominciò a leggere a voce alta

“Mio amato Max,
spero che
questa mia vi trovi entrambi bene. Io ancora non so cosa farò. Qui a Marsiglia è il caos, le notizie che arrivano dalla capitale sono solo voci confuse. Ho paura, sai? Tanta paura. Ma so che devo andarmene di qui. Ho paura che le cose possano peggiorare. Voglio andarmene via dall’Europa, e dopo vi farò venire qui. Troveremo un modo, vedrai, questa guerra non può continuare all’infinito. Oggi suonavo per strada per tirar su qualche soldo, come da un po’ di giorni a questa parte. Sai, quando sono partita non ho avuto il tempo di prendere la tessera, quindi devo per forza andare al Mercato Nero, è rischioso e non costa poco ma è l’unico modo con cui posso trovare qualcosa da mettere sotto i denti. Indovina chi ho incontrato mentre improvvisavo presso il molo, dove vanno le famiglie a passeggio con i bambini la domenica? Il professor Klaus! Non si aspettava di vedermi, mi ha abbracciato stretto stretto e si è anche commosso. E’ stato divertente, commovente e strano allo stesso tempo sentirlo parlare con quell’accento, ti ricordi?, un po’ strampalato, un po’ tedesco. Era insieme a un uomo alto e dalla pelle scura, credo un mulatto, in divisa da ufficiale elegante. Mi ha baciato la mano e si è unito alla conversazione, anche lui parlava in modo strano, così notando il mio stupore Klaus mi ha detto che è delle Antille, e che lo accompagna in giro per una breve passeggiata perché, dice, hanno paura che i tedeschi possano farlo pedinare e magari sequestrare. Ha detto che è venuto solo in visita per fare le condoglianze alla cognata, te la ricordi, la signorina Babette, quella ragazzona tonda che rideva sempre come una chioccia? Pare che suo marito sia morto qualche giorno fa in un incidente d’auto. Mi ha chiesto se non avessi voluto stare da questa signora, intanto che si aspetta di capire come vanno le cose “lassù”, come dice lui per dire Parigi. Io non lo so Max. Ho paura a rimanere in Francia, siamo così vicini alla Germania, e ai suoi alleati! Ho provato a scrivere a quel mio cugino di Londra, quello che era venuto una volta da noi a Natale quando papà si era rotto un braccio scivolando sul ghiaccio, non so se ti ricordi. Magari lui potrebbe trovare un modo per farmi venire da lui. Ma è così rischioso! Dovrei passare attraverso i territori occupati, è un bell’azzardo. Ma qui sai, c’è sempre il sospetto che gli italiani possano tentare qualcosa. Mi prendo ancora due giorni per decidere. Ora vado, l’ufficiale Morzot mi ha invitato sulla nave per stasera, sai quello che ti dicevo oggi, della passeggiata. La vedova Babette mi ha anche fatto prestare un bel vestito da una delle sue figliole. Spero che stiate bene, che siate riusciti a mettervi in salvo. Fatemi avere vostre notizie.

Smise di leggere e lo guardò negli occhi. Nathaniel aveva unito le mani appoggiando i gomiti sulle ginocchia e uno sguardo intenso e concentrato. Provò l’impulso di scostargli le ciocche bionde dal volto per vedere i suoi occhi, ma si convinse che non era il caso e si trattenne. “E tu non sai di chi potrebbero essere?” “No…in realtà è la prima lettera che leggo…non so nemmeno se è eticamente giusto che lo faccia. Dopotutto al suo posto non vorrei che leggessero la mia corrispondenza”. Nathaniel le prese la lettera dalle mani, sfiorando le sue e facendola arrossire. La rilesse, poi gettò un’occhiata alla scatola. “Temo che non avremo scelta. Bisognerà che le leggiamo una ad una, altrimenti non ne verremo mai a capo” “Leggiamo? Vuoi dire che vuoi darmi una mano?” “Beh assomiglia un po’ a un poliziesco, no?” sorrise lui restituendola “però temo che non sia il caso che me le porti a casa. Quella peste di Ambra potrebbe inventarsi chissà quale diavoleria, e non vorrei proprio che ci rimanessero in mezzo le lettere”. Le ripose nella scatola. “Hai uno scanner?” “Sì, alla mamma serve la stampante. Non è mai stata qui, quindi è come nuova” “Puoi scannerizzarle e mandarmele via mail. Potremmo dividercele e analizzarle, magari troviamo qualche indizio. E se me le mandi via mail scannerizzandole non c’è il rischio che Ambra rovini le originali”. Lalage batté le mani entusiasta. “Sembra quasi un caso da investigatori!” “Vero?” e scoppiarono a ridere. “Beh, è così tardi, sarà meglio che vada…” fece lui alzandosi e girandosi verso di lei per salutarla. “Perché non ti fermi a cena? Mia zia è sempre entusiasta quando abbiamo persone in casa!”. Un ombra di amarezza attraversò per un’istante quegli occhi color miele, così rapidamente, prima che distogliesse lo sguardo sorridendo, che Lalage si chiese se per caso se l’era sognata o cosa. “Vorrei, ma i miei non me lo permettono. Grazie, come se avessi accettato”. Sospirando Lalage si lasciò cadere sul materasso. “Sei un tipo così sfuggente e misterioso!” commentò guardando il soffitto di fronte a sé. “Beh, sembra quasi un complimento” “In un certo senso…però è anche una cosa inquietante. Non si capisce mai quello che pensi sul serio”. Sentì un peso sulle sue ginocchia e si tirò su sui gomiti, stupita. Nathaniel, accovacciato davanti a lei, teneva le braccia incrociate sulle sue gambe e il mento appoggiato sopra le braccia, e la scrutava pensieroso. Lei arrossì fino alla punta delle orecchie, e incrociò gli occhi di lui, dove si accese una luce di divertimento. “Tu invece, sei un libro aperto. Dici sempre quello che pensi, e fai sempre capire quello che provi” “E’-è un male?” esitò lei “Non saprei. C’è chi direbbe che sì, è un difetto, ma non dei peggiori. Secondo me invece è un pregio”. Appoggiò le guance dove prima si era adagiato col mento, assumendo un’espressione sofferente e assorta che la turbò “Vorrei non dover sempre essere così evasivo. Vorrei poter dire anch’io quello che penso. Certe cose sono dolorose da nascondere”.Lalage si levò a sedere e gli passò una mano tra i capelli. Non voleva vederlo così abbattuto. Avrebbe voluto caricarsi di un sorso di quella sofferenza che lui voleva nascondere. All’improvviso, mentre lei era così china e intenta verso di lui, Nathanile le afferrò con delicatezza la mano e la strinse leggermente nella sua. Prima che lei potesse capire cosa fosse successo lui tirò su la testa tendendosi verso di lei, i loro volti si sfiorarono, e le labbra di lui incontrarono le sue, baciandola delicatamente. Il cuore si fermò un istante prima di accelerare bruscamente, mentre tratteneva il respiro completamente stupefatta. Socchiuse gli occhi e sentì il profumo di lui come se potesse sentirlo come un suono, il calore di lui come se potesse vederlo con gli occhi. Era una sensazione strana, che le diede l’impressione di stare sognando. Quando lui si separò da lei, i suoi occhi brillavano. Ma senza dare nessuna spiegazione Nathaniel si alzò, e con una certa velocità si diresse in ingresso. L’ultimo suono che lei sentì dopo i suoi passi, mentre ancora era pietrificata nella stessa posizione di prima, con la mano sospesa a mezz’aria, fu la porta di casa che si richiudeva.

 

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Capitolo 15
*** Audizioni del disagio ***


“Un attimo, ricordami un secondo perché sono qui”. Castiel si lasciò ricadere sulla sedia accendendosi una sigaretta mentre Lalage controllava qualcosa su un foglio fresco di stampante. La macchina stava sfornando fotocopie su fotocopie, tiepide e profumate di inchiostro. “Perché a parte me, te e Lysandro non ci sono altri in questo liceo che si intendono di musica e vogliono prendersi la briga di passare un pomeriggio intero al liceo” gli rispose passandoglielo. Con un grugnito Castiel si accigliò. Aveva disteso le gambe poggiando i piedi sul tavolo, disinteressandosi completamente del cartello in plastica lucida affisso alla parete “Vietato fumare”. “Continuo a non capire perché IO devo restare il pomeriggio” replicò soffiando una boccata di fumo contro il soffitto, reclinando la testa. Nella sua testa, Lalage tentò di immaginarsi nei panni del Mahatma Gandhi, di Santa Teresa di Calcutta, di Maria Goretti, prima di rispondere. “La preside ha detto che se collaborerai non solo la tua band potrà esibirsi, ma ti scalerà un po’ di giovedì mattina dalla tua lista delle punizioni, che è più lunga della lista dei debiti di Paperino, demente” bofonchiò in risposta infine, lasciando perdere i tentativi di santità e tolleranza. Lui alzò gli occhi al cielo “Cioè sarei qui per uno sconto di pena?”. Lysandro scriveva. Sempre. All’inizio Lalage, doveva metterlo, era totalmente affascinata da quel ragazzo. All’inizio, appunto. Prima di diventare una sorta di ufficio Oggetti Smarriti e di dover inviare segnali di fumo per mantenere in piedi una conversazione. Perché lui era così. Perdeva in continuazione quel stramaledetto quadernino, quel fascio di paginette che le capitava sempre, e dico SEMPRE, tra capo e collo. Chi doveva cercarlo quando lui lo smarriva?? Lei, ovvio. Perché non c’era nessun’altro al liceo che lo avrebbe fatto, lo conoscevano tutti fin troppo bene. E per impostare una conversazione di qualsiasi tipo, lui DOVEVA avere quel quadernetto, altrimenti dava in smanie. Mentre guardava il dannato oggetto diabolico con sguardo truce arrivò Nathaniel. “C’è un bel po’ di gente fuori!” “Sì sì rompipalle, ora ci mettiamo al lavoro”. Nathaniel fulminò Castiel e lo guardò dall’alto in basso. “Siediti composto e smettila di fumare” “Levati dai coglioni e non rompermi il…” “FINITELA TUTTI E DUE!! NON NE POSSO PIU’ DI SENTIRVI CHIOCCIARE COME DUE MATRONE INACIDITE!QUESTO E’ UN ORDINE!” sbottò lei ponendosi le mani sui fianchi. Lysandro sobbalzò, mentre Nathaniel e Castiel continuavano a guardarsi in cagnesco. La stampante finì di sfornare le ultime fotocopie, Lalage si sedette e si rivolse freddamente al delegato degli studenti. “Comincia a farli entrare. Uno alla volta, e che si registrino con nome e cognome qui” disse passandogli un fascicolo e indicandogli due spazi bianchi. “In questo invece, segnino il brano che portano per prova e se pensano di portare lo stesso brano al saggio. In caso contrario…” “So come funziona la modulistica, grazie” gli rispose lui, guardandola come un cane bastonato. “E allora vai e fai il tuo lavoro” rispose piccata lei. Nathaniel uscì sbattendo leggermente la porta. “Vorrei chiederti come mai ora tu e il delegato vi guardate in cagnesco ma prima” e Castiel spalancò le braccia esasperato “perché sono qui?” “Perché lo dico io!!” ribatté ugualmente esasperata lei sbattendogli davanti al naso una fotocopia da compilare. “Agli ordini, Adolfa!” “Vedi di chiudere quella bocca e di renderti utile con quella carcassa buona solo a consumare il mio ossigeno” ringhiò Lalage, poi si voltò verso Lysandro. “Iniziamo”. Lui annuì e mise via il quaderno. Lei si passò una mano tra i capelli sospirando. Eh sì, sarebbe stato un lungo pomeriggio.

Quella mattina sembrava essere iniziata nel migliore dei modi. Si era svegliata sorridendo, aveva improvvisato un balletto fino alla cucina, aveva controllato gli abbinamenti dei vestiti sistemandoseli bene addosso e controllando di essere in ordine, poi aveva trotterellato fino all’ingresso. Nemmeno l’apparizione di una Zia Agatha selvaggia, con un pappagallo sulla spalla, l’aveva smossa. “Oggi sei raggiante, mia piccola rondinella!” “Sì zia, la vita è meravigliosa” rispose sorridendo lei schioccandole un bacio sulla guancia sinistra. Poi gli occhi di Lalage si posarono su quel grosso uccello dal piumaggio vezzosamente appariscente che la guardava con grandi occhi vitrei. I neuroni aprirono un senatoconsulto e arrivarono a deliberare, dopo qualche secondo di osservazione, che no, sua zia con un pappagallo sulla spalla alle sette del mattino non era esattamente una cosa normale. “Zia, come mai quel pappagallo?” “Oh, ti riferisci a Manolito?” rispose distratta lei servendogli sotto il becco una ciotola di becchime, che Manolito schifò storcendo il collo “una mia collega va in pensione e va a stare in una nuova città. Nel nuovo stabile dove si trasferirà non accettano animali, così me l’ha affidato intanto che cerca un padrone nuovo”. Lalage rimase immobile per qualche secondo, mentre metabolizzava la notizia. “Zia, la mamma è allergica ai pennuti”. Agatha si porto le mani sulle gote in un’espressione di sconcerto che voleva essere kawaii ma a causa della maschera per il viso mattutina sembrava più l’imitazione dell’urlo di Munch “Oh no, mi stai dicendo che non le piacciono gli uccelli??”. Lalage fece dietro front e si avviò verso la porta cercando di non pensare e rispondendole, mentre apriva la porta che dava sul vialetto “Non mi degnerò di rispondere a questo doppio senso, mi ricorda un rosso innaturale di mia conoscenza” “Intendi quel bel rockettaro con la fisarmonica?”. Con un ultimo urlo esasperato “ERA UNA MALEDETTA CHITARRA!!” si sbatté la porta alle spalle. Zia Agata sospirò “A volte ha degli atteggiamenti così strani e adolescenziali” “Se-se-seeeenti chi parla!!” gracchiò Manolito con sussiego.

“Buongiorno!” aveva trillato affacciandosi nell’aula delegati. Nathaniel l’aveva guardata ed era arrossito violentemente, mentre Melody, dall’altra parte del tavolo, aveva una faccia scura. Lalage lanciò un’ occhiata veloce alla vice delegata studentesca, che la ricompenso con un lungo sguardo, glaciale e sanguinario, che prometteva carneficine. AH si dicevano quegli occhi pieni di odio tu morirai presto….E DOLOROSAMENTE. Per sicurezza, Lalage rimase sulla soglia dove chiunque avrebbe potuto fermare, dal corridoio, un tentativo di omicidio, e stava per rivolgersi di nuovo a Nath quando lui stesso comparve vicinissimo a lei e la afferrò per un polso, trascinandola verso il corridoio del secondo piano e intimandole “Seguimi, dobbiamo parlare”. Quando arrivarono in fondo al corridoio deserto, dove stavano le aule delle attività extracurricolari, vuote, solo allora si girò, e lei vide che quegli occhi che avrebbero dovuto esprimere dolce imbarazzo o gioia la guardavano infastiditi. Come sei lei fosse il problema di una vita. “Era proprio necessario quel trambusto?”. Rimase interdetta. Gli occhi di Nathaniel si guardavano nervosamente in giro, si aggiustava continuamente il colletto della camicia. “Scusa, credevo…” poi tacque, mentre un senso di vertigine la pervadeva. Non era proprio così che si era immaginata il loro primo incontro dopo quello. Certo, forse sarebbero stati imbarazzati. Forse non sarebbe andati subito in giro per la scuola mano nella mano scambiandosi sguardi languidi. Ma così…”Lalage, senti”. Alzò gli occhi e guardò quella persona davanti a lei, che credeva di conoscere, ma di cui ormai non riconosceva che il nome. Era chiaramente in imbarazzo, continuava a passarsi le mani tra i capelli dorati ed evitava di guardarla. Lalage si spazientì. “Nathaniel, guardami”. Lui arrossì e si chiuse nel più assoluto mutismo, così lo afferrò per il bavero e lo costrinse ad alzare gli occhi da terra e a fissarli nei suoi, pieni di ansia e rabbia. “Ho detto guardami!!”. Infastidito la prese per i polsi e si guardò nervosamente le spalle. “Smettila, ci scopriranno” “Che vengano! Mi spieghi quale sarebbe il problema??”. Poi trasalì. Aveva capito, ogni cosa. Ogni singolo, nauseante dettaglio della strisciante verità. “Ti sei pentito”. Strinse i pugni vicino al suo collo. Nathaniel la guardava con uno sguardo da cane bastonato. Rimase basita per un attimo, poi concluse, rendendo palese tutto. “…mi hai baciata, ma ti sei pentito. E ora vuoi lasciarmi in un angolo” “Mi dispiace” “Ti dispiace”. Lo guardò, un secondo, con una luce sinistra negli occhi. Una rabbia, cieca e vendicativa, la animava. Poi si girò lentamente, la mano si distese mentre la spalla si piegava verso il basso caricando i muscoli e CIAF, Nathaniel si portò stupito le mani sulla guancia, dove lo aveva colpito. Si voltò ringhiando, ferita nel cuore e nell’orgoglio “Anche a me…per questa grande, disastrosa perdita di tempo”. Poi corse via, lasciandolo lì, in colpa, pieno di dubbi e con la guancia in fiamme. Ma lei non si voltò. In ogni caso, non l’avrebbe visto. I suoi occhi erano uno specchio lucente di lacrime.

“A che punto siamo?” Era esasperante; ogni cinque minuti Castiel ripeteva la stessa identica domanda. Lalage si passò una mano sugli occhi e sbadigliò poco elegantemente, disarticolandosi la mascella. Erano ormai le cinque e mezza di pomeriggio. “Devi chiederlo al delegato, non sono l’oracolo di Delfi” “Neanche il ritratto della simpatia” sbuffò nervoso Castiel, poi si sporse dondolando sulla sedia e cacciò un urlo. “DELEGATOOO!!” “Ecchecazzo, se si doveva urlare ero capace anch’io, potevi alzare il culo e andare a chiamarlo!” sbottò fulminandolo lei “Sì, ma darti sui nervi è uno dei pochi piaceri di questo pomeriggio buttato” ridacchiò lui continuando a dondolarsi sulla sedia. Nathaniel fece capolino dal corridoio. “Non sei in mezzo alla tua tribù vichinga, sai?” sibilò gelido rivolgendosi a voce al bulletto rosso ma guardando la ragazza dai capelli celesti che da parte sua lo ignorava spudoratamente “e smettila di dondolarti sulla sedia!” “Quanti poveri disperati mancano?” “Ancora cinque”. Con un’esclamazione di giubilo Castiel alzò le braccia in aria “Grandi le vie del Signore!” ma Lysandro lo guardò dubbioso “Visto che bestemmi come un turco, dubito sia un regalo di Dio” “La prossima” chiamò Lalage, chinandosi senza ascoltarli sui fogli. Castiel la guardava. Erano ORE che la guardava, squadrandola. “Devo essere un animale raro, visto che non smetti di fissarmi” “No, sei solo strana oggi” “Chiudi il becco e fatti i fatti tuoi” ringhiò lei rituffando la testa nelle scartoffie. Improvvisamente un odore famigliare, forte e nauseante, le prese a pugni le narici facendole tremar le vene e i polsi. Alzò gli occhi e “Oh Signore donaci la pace”. Davanti a lei, Ambra si passava una mano fra i capelli ravvivandosi il ciuffo e guardando con fare civettuolo il metallaro che aveva abbassato le braccia, attonito, e la guardava con sgomento rammarico. Lysandro, l’unico che poteva rimanere obbiettivo- o essere troppo nel suo mondo per accorgersi della gravità degli eventi- si rivolse sorridendo ad Ambra. “Buonasera”. Con un cenno da soubrette Ambra si portò una mano sul fianco e sfoderò un sorriso da Miss Italia “Buonasera” “Cosa ci suoni?” “Il flauto”. Prima che lui potesse finire di girarsi rivolgendo alla sua collega, con uno sguardo tra l’ironico e il pervertito, Lalage anticipò Castiel rifilandogli uno scappellotto. “Maiale” “Non ho detto niente!” “Ce lo avevi scritto in faccia”. Poi si rivolse ad Ambra “Che brano ci suoni?”. Ambra la degnò di uno sguardo sprezzante. “ ”Per Elisa” di Beethoven” “Avrei detto “Barbie Girl” degli Aqua “. Secondo scappellotto incassato “Non mi dire che ero l’unico a pensarlo!” “No, ma sei l’unico con così poco tatto da dirlo”. Lalage sospirò e si rivolse di nuovo ad Ambra. “Prego inizia” “Inizio quando voglio perdente”. Questa volta fu Castiel a intervenire, posando le mani sulle spalle di Lala e tenendola incollata alla sedia prima che lei scattasse in piedi “Buona, a cuccia” “Voglio prendere quel bel faccino impomatato e chiuderlo dentro un pianoforte” “Non hai un pianoforte” “Va bene anche il suo flauto. Sui denti.Voglio suonare i suoi incisivi come a un concerto di xilofono”. Lysandro li guardò un po’ preoccupato, poi guardò Ambra. Che portò un flauto dolce alla bocca e inizio a suonare. Stenderemo un pietoso velo sul suono agghiacciante che l’oca della scuola riuscì a produrre da un innocuo flauto di plastica. Dirò solo che Lysandro dopo le prime tre note spezzò la biro che aveva in mano per la sorpresa e atterrito si portò le mani alle orecchie. Lysandro. Riuscire a scuotere Lysandro equivale a far imbestialire un santo. Quando terminò Castiel non li guardò nemmeno, prima di cacciare un gemito strozzato “Ed è riuscita comunque a suonare Barbie Girl degli Aqua”. Scappellotto in duetto, Lalage da una parte e Lysandro dall’altra, ma con poca convinzione entrambi. Castiel perse la pazienza e urlò “Ohhh insomma, ora non mi verrete a dire che sono l’unico scemo che…” “Ti prego, Castiel” lo interruppe Lysandro “credo che mi stiano per sanguinare le orecchie. Non urlare”. Ambra era ancora davanti a loro e li guardava irritata, poi sbottò incrociando le braccia stizzita “Come se voi foste dei geni! Era un’esecuzione perfetta, di gran classe…”. Lalage la guardò inarcando un sopracciglio e passandosi una mano sulle tempie “Au contraire, Ambra. Siamo rispettivamente un compositore (indicò Lysandro) un chitarrista porco ( Castiel la fulminò) e un’ex violinista professionista, perciò…”. Una voce maschile, profonda e avvolgente, la interruppe, facendola sobbalzare. “ “Ex”? No, Lalage Germont, una dea come te non può che stare nel suo tempio, quello della musica”. Nel silenzio, mentre tutti si giravano a vedere chi avesse parlato, si udì solo il rantolare sordo e strozzato di Lalage che gorgogliava “Non è…possibile”

ANGOLO DELL'AUTRICE: Ebbene sì, ho cambiato il capitolo-diciamocelo, quello di prima l'ho scritto in fretta e furia ed era uno strazio. Se qualcuno volesse ascoltare la performance di Ambra, può ascoltarsi questo fantastico parto degli anni '90 (https://www.youtube.com/watch?v=ZyhrYis509A). Dio abbia pietà di voi. A la prochaine.

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Capitolo 16
*** Ritorno di un seduttore ***


Lalage gorgogliò “Non è…possibile”. Un ragazzo, alto, dai capelli corvini e lo sguardo tempestoso e bohemien, da vero seduttore, entrò senza degnare di uno sguardo gli altri tre presenti e avvicinandosi a lei le prese una mano e la baciò. “Non potevo mancare, mia cara Lalage. Non appena ho saputo del tuo ritorno ho voluto venire qui in provincia. Ad ogni costo”. Una ragazza bionda e algida, dalla porta, guardava la scena senza proferire verbo, come se nulla le interessasse. Era vestita con un tubino bianco di pizzo aderente che evidenziava ancora di più la sua magrezza e il chiarore della sua pelle eburnea. Lalage si accorse finalmente di lei. “Anche tu, Irina?”. Irina la guardò gelida e poi aprì bocca. E improvvisamente a tutti parve di essere stati catapultati nella Kiev sovietica di metà Novecento. “Tu sa che lui è povero piccolo idiota pieno di boria” disse lei strascicando le parole con un accento russo ben in evidenza “io ho accompagnato lui così non deve preoccuparmi che prende per culo qualche povera donna in altra città, lui accoppia come cane randagio in calore”. Castiel non riuscì a trattenersi e indicandole una sedia vicino alla cattedra dei tre giudici sghignazzando le disse “Perché tu non siede un secondo, piccolo Putin?”. Irina lo degnò di un lungo, gelido sguardo di ghiaccio prima di rivolgersi di nuovo a Lalage ignorandolo. “Non che tu ti trova messa meglio, matjuska. Pieno anche qui di dolboy'eb”. Castiel si voltò verso la sua collega. “Cosa vuol dire “Dolboy'eb”?” “Non lo so, ma il fatto che lo abbia detto parlando di te dovrebbe darti qualche idea, non credi?”. Intanto il ragazzo sollevandola l’aveva presa in braccio principescamente. “Mia dolcissima Lala, da quando te ne sei andata non riesco a trovare un senso alla mia esistenza. Il mio cuore sanguina lacrime e sospiri in tua assenza” “Il mio è sanissimo. Ma nemmeno un filo di colesterolo, guarda. Se mi metti giù ti consiglio un buon cardiologo” gli rispose lei con un sorriso tirato cercando di divincolarsi. Ma anche dopo averla messa a terra lui la strinse a sé, avvicinando il suo volto a quello di lei e mormorando “Non mi respingere, dolcissima musicista della mia anima” “Ok ora basta” Castiel si alzò in piedi di scatto “senti te, coso…” “Viktor” “Viktor” “Per te, signor Dubois” “Ma puoi anche chiamare golovka pisuna che tanto è stessa cosa” intervenne Irina mentre dopo aver esaminato dalla testa ai piedi Ambra e aver concluso con un sorriso sprezzante. Viktor lasciò perdere Lalage che ne approfittò per barricarsi di nuovo dietro Castiel, afferrò Irina con trasporto e la strinse a sé. “Lo so Irina, la tua passione ti spinge ad essere gelosa. Ma tranquilla, sai che penso continuamente a te” “Intanto, Vask’a, tu pensa a togliere tua mano da mio culo, govn'uk gryazniy moniak” lo allontanò lei gelida. Castiel sussurrò a Lalage “Adoro questi insulti lunghi ed elaborati. Suonano quasi sexy”. Lala gli allungò uno scappellotto “Gryazniy moniak” “Ma che è, venite tutte da Pietroburgo ora??” “Net” intervenne Irina “noi viene da Parigi con treno delle dieci, solo per suo nuovo debutto”. Castiel si voltò verso Lalage che impallidiva “Come sarebbe a dire “nuovo debutto”??”. Lalage deglutì e cercò di cambiare discorso. E di rispedire Casanova e Lenin nella Capitale nel più breve tempo possibile. “Ma siete arrivati un po’ in anticipo” cominciò a balbettare “ Immagino che sarà meglio che vi accompagni alla stazione a prendere il prossimo per la Capitale. Il concerto è tra due settimane” “Lo sappiamo matjuska. Infatti Vikto ha preso camera in ostello”. Lysandro lanciò un’occhiata dubbiosa a Viktor, che intanto flirtava senza ritegno con Ambra che in meno di otto secondi era praticamente ai suoi piedi, adorante. “Due separate spero” “No ma non ti allarma, batjuska; io dormo con coltello per orsi sotto cuscino”.

Due giorni dopo, il caldo afoso della fine di maggio iniziava a farsi sentire. I corridoi ombrosi erano gremiti di studenti accaldati che formavano vere e proprie carovane davanti ai distributori di bibite, mentre i lavori del club di giardinaggio si facevano sempre più faticosi, anche perché la serra si era praticamente trasformata in un forno, con una temperatura all’interno insopportabile. Ma, celato agli occhi dei più, c’era un posto che conservava ancora un po’ di refrigerio nonostante il sole battente. E di quel posto Castiel, sfinito dalle sue lamentele per il caldo, le aveva dato la chiave-che in teoria non doveva avere ma ormai aveva fatto copia delle chiavi di tutto il liceo, lecito o meno che fosse. La mise nella serratura, lasciò che la porta si chiudesse alle sue spalle e chiuse un secondo gli occhi beandosi della sensazione di fresco sulla pelle calda. Lalage prese respiro e si guardò intorno. L’immenso spazio era stato recentemente pulito per il concerto, e le ultime cose da spostare erano ammassate in un angolo. “Nemmeno un posto dove prendere fiato, uh?”. Una voce conosciuta ruppe il silenzio. “Di solito ci sono un po’ di cuscini pouf e due belle poltrone, più un divano; ma per il concerto abbiamo pensato fosse meglio trasferirli”. Lalage sorrise “Da quanto tempo non parliamo, Lysandro?” “Da un po’ in effetti. E chiamami Lys. Mi fa strano che lo facciano Castiel e Rosa e tu no”. Il poeta la aspettava seduto su uno scatolone chiuso, vestito della sua solita aria affabile e comprensiva e provvisto del suo solito dolce sorriso. Lala scese la scaletta a chiocciola e andò a sedersi vicino a lui. Aveva tra le mani l’immancabile block notes. Lei storse il naso. “Ti giuro, a volte avrei voglia di bruciarlo, quel dannato affare”. Lys scoppiò a ridere. La sua risata era morbida come il velluto. “Mi sembra di sentire Castiel. Stesse parole, tali e quali. Ma tu sei diversa” “Perché dici questo?...oh vabbè, sfumature di tinta a parte”. Lysandre sorrise e le scompigliò i capelli celesti. “Beh, tu non hai provato a rendere pratiche le tue minacce”. Risero. “Come mani in questo luogo, mademoiselle?”. Lalage si guardò intorno, come temendo di veder spuntare qualcuno da dietro gli scatoloni. Quando vide che non c’era nessuno, tirò un sospiro esasperato e rispose. “Sto fuggendo da certi personaggi poco raccomandabili”. Lysandro smise di sorridere, guardava davanti a sé, pensoso. “Parli del tuo amico di Parigi?” “Esatto” “Ma lui chi è?”. Lalage reclinò il capo e socchiuse gli occhi. A parte tutto, il seminterrato era veramente un luogo meraviglioso in quella stagione: la frescura leggermente umida contrastava con l’afa dei timidi cenni dell’estate. Lysandro aspettava risposta pazientemente, e finalmente “Un pianista” rispose lei “studia nel mio stesso conservatorio, a Parigi. Suo padre è un pezzo grosso del mercato finanziario, sua madre invece è un’artista un po’ eccentrica e un po’ rivoluzionaria” “Difficile da conciliare in famiglia” “Infatti non si concilia. Sua madre li ha piantati un po’ di anni fa. Ora è a San Paolo, in Brasile. Insegna scenografia all’università, e lavora per un po’ di organizzazioni teatrali. Anche per Hollywood ogni tanto.”. Prese in mano il block notes e si mise a sfogliarlo distrattamente. Stranamente, Lysandro pur scrivendo in continuazione aveva una calligrafia orrenda. Si ricordò di quando, per far fare pace a Rosa e Leigh, le aveva chiesto di aiutarlo copiando una bella poesia d’amore, bella sì, ma che aveva scritto su un foglio a quadretti e con una grafia tale…pareva che qualcuno avesse immerso un ragno nell’inchiostro e poi l’avesse lasciato passeggiare sulla carta. Non le sfuggì che mentre lei aveva in mano il “dannato affare” Lysandre la guardava a disagio. “Sembri conoscerlo molto bene” le disse infine. Lala smise di girare le pagine e sorrise. Un flusso di ricordi le tornò alla mente, confuso. Non ricordi belli come quelli dei giorni che aveva condiviso con Kentin e Laety, ma divertenti a loro modo.“Un po’” “Eravate amici?” “Amici?” Lalage scoppiò a ridere “Difficile che Vik non fosse amico di qualcuno. Hai visto come fa? No, io sono una delle poche persone che lo teneva a una certa distanza” Lui la guardava interrogativo- inconciliabile tutto ciò che aveva detto con quel famigliare Vik- così lei spiegò “E’ un tombeur de femmes. Non se ne lascia scappare una. Ha proprio il modo di fare di una rock star, salvo che non si droga” “In effetti, sembra un po’ narcisista” “Beh, è uno dei pochi che se lo può permettere” “Cioè?”. Lalage gli rimise in mano il block notes. “E’ un virtuoso, diciamo che su di lui la definizione “genio e sregolatezza” è particolarmente calzante. È narcisista, pieno di amor proprio, vanitoso; è convinto di essere un dio della musica, e a volta la sua superbia lo mette contro a quei vecchi balordi dei prof. Ma in fondo, lo è. L’ho visto suonare un pezzo senza nemmeno averlo mai letto, solo dopo un ascolto” “Come Mozart??” “Oddio, lui non è un enfant prodige, capiamoci; ha iniziato piuttosto tardi. Ma c’è una cosa sola che ama più di se stesso: il suo pianoforte a coda. Lo ha chiamato “ La belle dame” e lo fa esaminare solo da un liutaio di fiducia”. Si alzò. “Sarà meglio che vada. Ma non sarebbe meglio scrivere in giardino?” “In realtà di solito mi troveresti lì, ma stamattina fa troppo caldo” “Capisco”. Fece per avviarsi alla scaletta, ma lui la chiamò. “Lalage”. Si voltò “Perché non ti va di incontrarlo?”. Lei ci rifletté un secondo prima di rispondere. “Diversi motivi. Ma soprattutto, mi ricorda una parte della mia vita che non mi piace e che è dolorosa da ricordare. Soprattutto, per questo”. Lysandro si era alzato e avvicinatosi, con sua enorme sorpresa, le diede un buffetto. “Ricorda una cosa però: tutto ciò quello che è successo, tutto quello che hai fatto e che fai, ti rende quella che sei oggi. Anche gli errori. Quindi non rimpiangerli. Se sei la persona meravigliosamente forte che sei oggi, ora, lo devi anche a questi momenti”. Lalage sorrise, ma era un po’ imbarazzata. Anche lui era leggermente arrossito. “Farò tesoro di queste parole, monsieur Poeta” “Ne sono lieto, mademoiselle Violiniste”. Risero. Ciò che amava di Lysandro, era la sensazione di libertà, di disponibilità e di tranquillità che le infondeva. Senza pensarci, per ricambiare il buffetto, gli scoccò un bacio sulla guancia, alzandosi appena in punta di piedi. Lui arrossì e distolse gli occhi. “Grazie davvero” “F-figurati” “Allora ciao”. Clack. La porta anti incendio del seminterrato si chiuse. Passandosi una mano tra i capelli candidi aprì il block notes. Meno male che ha smesso di leggere, pensò sollevato ma allo stesso tempo, chissà perché, deluso. Con la sua solita grafia orribile aveva scritto:

Piccolo cuore di avventuriera

Vorrei prendere le tue mani sottili

Fragili e rosa come quelle dell’alba

E posandole sul petto dirti “Ti amo”

La rosa dei venti si riempie di ricordi

E tu resti imprendibile, fragile fiore

Di sogni e sconfitte, di speranze e perdite

Ma tu, rondine

Negli spazzi del cielo hai gettato i tuoi sogni

Come dentro ad un pozzo celeste

Hai sfidato il vento spalancando le ali

Della tua memoria

Cara rondine che ridi delle altezze

Che piangi con la pioggia, che canti con l’estate

Nei tuoi occhi ho lasciato la mia anima

Sulla tua bocca lascerei il mio cuore.


Tornando a casa, Lalage stringeva tra la mani una risma di fogli dall’aria stropicciata. Era così assorta nella lettura che quasi non si accorse di essere entrata nella stazione gelida di aria condizionata della metropolitana. Non si sarebbe nemmeno accorta se qualcuno la stesse seguendo o meno. Scorreva le lettere di inchiostro ricalcando con la mente le parole ormai perdute nel tempo.

Caro Max Cosa non darei per avere qualche tua lettera! Ma forse è meglio così, la prudenza non è mai troppa. Da un po’ di notti dormire per strada sta diventando sempre più pericoloso. L’altra sera sonnecchiavo nell’androne di un’osteria e due uomini mi hanno svegliato e strattonato, cercando di spingermi in un angolo. Mi sono divincolata, a uno di loro ho anche morso la mano, e sono riuscita a scappare. Non so nemmeno io per quanto ho corso, ma sono praticamente arrivata dall’altra parte del paese e poi in aperta campagna, era l’alba. Forse il mio angelo custode- anche se io sai che non credo a queste cose- ci ha messo lo zampino, perché mentre mi guardavo intorno cercando un posto dove nascondermi una signora che andava a mungere le mucche mi ha visto, a piedi nudi nella neve e con solo la coperta leggera, e si è impietosita e mi ha fatto entrare in casa sua, dove suo marito e i suoi sette bambini dormivano nel grande letto al pian terreno. Sono stati gentili, erano giorni che non mangiavo nulla e avevo freddo, sono svenuta sulla porta di casa e il marito mi ha preso in spalla e mi ha fatto sedere accanto al fuoco. Ti sto scrivendo da qui, ormai è quasi sera. Volevo andarmene non appena mi sono ripresa, ma Madame Durand, la signora che ti dicevo, si è tanto impietosita e mi ha chiesto di rimanere ancora, anzi lei e il marito erano commossi. Hanno mandata Solange, la loro maggiore e Pierre, il loro secondo genito, a cercare il mio violino. Sono tornati poco fa, era miracolosamente integro

Lalage smise di leggere, mentre un turbinio di pensieri l’assaliva. Rilesse l’ultima riga, mentre alcuni pezzi del puzzle cominciavano a incastrarsi, pur lasciando enormi voragini di senso

Hanno mandata Solange, la loro maggiore e Pierre, il loro secondogenito, a cercare il mio violino

“Possibile?? Possibile che… la misteriosa C. ….no, non può essere, la conosco, non è lei” e mentre pensava così sentì una vertigine percorrerle le vertebre e si sedette di colpo sulle scale del metrò, rischiando di far inciampare il passeggero che scendeva dopo di lei che ringhiò “Scricciolo, capisco che sei rintronata, ma ora…” poi Castiel si bloccò. Primo, perché Scricciolo stava seduta, pallida, con una lettera tra le mani tremanti. E secondo, perché lui, attonito, guardava lassù, in cima alle scale, una figura di donna quasi irriconoscibile nel contrasto con la luce del sole ma che lui avrebbe riconosciuto ovunque, e che da lì in cima, muovendo le labbra in quel modo che lui sapeva, lo aveva chiamato per nome.

Angolo dell'Autrice. Sono tornaaaaata!! dopo settimane di esami universitari torno a scrivere in questo momento di pausa. Vi avverto che da ora in poi i capitoli usciranno un po' lunghi perché beh, siamo arrivati al quindici e inizio a pensare che se la tiro troppo per le lunghe vi annoio in basta, quindi meglio pochi altri capitoli ma densi di trama, no? La poesia di Lysandro...non è di Lysandro, ovviamente. E' mia. Prossimamente vi chiederò di votare quale musica dovrà suonare Lalage alla serata musicale, quindi tenetevi pronte, amanti della musica classica. A bientot

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Capitolo 17
*** Fine atto secondo: qualcuno da proteggere ***


Erano ormai le undici passate. Si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore e tenne il viso basso, tra le braccia. Ogni muscolo del suo corpo tremava, tremava sensibilmente, tanto che anche l’archetto, ancora stretto nella mano destra, oscillava come la penna di un sismografo durante un terremoto. Erano ore che ci provava. Ore, ore maledette, ore inutili che la stavano letteralmente uccidendo, rompendo la fibra dei suoi nervi e della sua anima. Tossì, ma quel senso di vertigine non passò, anzi, la nausea come un serpente viscido le percorse l’esofago tra gli spasimi. Incespicando si precipitò in bagno e fece appena in tempo a raggiungere il water, che gli spasmi si trasformarono in conati. La vista era annebbiata, macchi scure gliela offuscarono, la gola strozzata cercava tra le convulsioni di liberarsi del male, lo stomaco le diede delle fitte dolorose. Quando ebbe finito, lacrime di rabbia le scesero lungo le guance. Quasi non ebbe la forza di raggiungere il lavandino, e con enorme sollievo accolse tra i denti e sul palato il getto d’acqua fresca del rubinetto. Quando alzò la testa vide un volto stravolto e lacrimante, i lineamenti tremanti e il respiro affannoso. Tentò di abbozzare un sorriso per incoraggiarsi. “Beh è sempre dura ricominciare, quindi forza e coraggio!”. Si trascinò fino alla camera e si gettò un secondo per terra, cercando di reprimere quella sensazioni di nausea e torpore.

La scuola in quei giorni pareva un enorme alveare in attività. Gente che provava in aule deserte dopo la fine delle lezioni, la squadra di basket che dava una mano a montare il palcoscenico in aula magna, e la segreteria studenti con i due delegati che non correvano, volavano da una parte all’altra a dirigere, chiamare sponsor, affrontare lunghe discussioni con la preside e con i club del liceo. Lalage guardava le cose intorno a sé farsi e disfarsi, un vortice che le soffiava intorno la ma non la sfiorava nemmeno. L’occhio del ciclone non è come molti credono, turbolento e iracondo: ha piuttosto l’inquietante perfezione quieta di una prigione circondata di tempesta da cui è impossibile sfuggire. E quel ciclone lei se lo portava sulle spalle, nell’anima. La guardavano come una guida, come la vera responsabile di tutta quella baraonda, come la prescelta.

Nathaniel non le parlava più. Castiel non si faceva vedere quasi dopo le lezioni, stava sempre con quella…Deborah?...non importava. Gli altri la guardavano senza sapere cosa fare. Non riuscivano a raggiungerla. Anche quando le parlavi, pareva che i suoi occhi cercassero in te un altro posto, e non ascoltava nulla. “Dobbiamo fare qualcosa” ringhiò Kim stringendo i denti. Nessuno era più lo stesso, nemmeno lei riusciva e restare calma. Lysandro le afferrò una spalla e cercò le parole giuste “Vedrai che passerà, dobbiamo solo aspettare che si apra…”. Kim si voltò e tirò un pugno così deciso all’armadietto che la lamiera si piegò su sé stessa. “ E la tua brillante idea coglione qual è, aspettare che si ammazzi?”. Poi si girò e se ne andò rabbiosa inseguita da Violet. Rosalya le guardò allontanarsi e cercò gli occhi di Lysandro. Li trovò fissi sul pavimento. “Sì sistemerà tutto…ne sono sicura, Lys”. Lysandro alzò lo sguardo al soffitto e respirò profondamente “Lo spero davvero, Rosa”. Il caldo di metà giugno era un’intollerabile cappa di calore che si sommava a quella del silenzio e dell’angoscia. A mezza voce lui ripeté “Spero davvero”. Ma sia la sua voce che i pensieri di Rosa erano funamboli sul filo dell’incertezza.

La zia la guardava sempre più preoccupata perdere grammi guadagnati faticosamente. La mattina la guardava dormire e aspettava a svegliarla come se lasciarla dormire potesse preservarla…da cosa? Da sé stessa. Aveva provato a parlarne alla sorella, ma si era rifiutata di fare ciò che lei le aveva suggerito in una telefonata di cinque minuti. Quel flacone arancione era rimasto chiuso nel cassetto della zia. Non poteva credere che sua sorella affidasse sua figlia a un antidepressivo. E vedeva quella creatura fragile alzarsi, tremare, inciampare e rialzarsi. Vedeva il coraggio che riusciva a sprigionare. E non le avrebbe permesso di arrendersi.

La stanza era ormai nel buio da ore, avrebbe dovuto accendere la luce per studiare lo spartito ma non aveva la forza di volontà di andare fino all’interruttore. E poi, il problema non era leggere la musica, la sapeva già a memoria. No, il problema era eseguirla.“Coraggio” sussurrò a sé stessa stringendo i denti e alzandosi lentamente in piedi. Improvvisamente, qualcosa, dentro di lei, vacillò e smise di funzionare.

Cadde per terra ,contro il pavimento freddo, cacciando un urlo terrorizzato. Una sensazione di pericolo, come di catastrofe imminente, la ghermì, tenendo stretta tra i suoi artigli tutta la sua coscienza. Cercò di muovere le gambe ma non rispondevano, erano completamente intorpidite e al tempo stesso tremavano vistosamente, come tutto il suo corpo percorso da tremiti. La testa prese a girare insieme a tutta la stanza attorno a lei, macchie scure le annebbiavano la vista, mentre un peso insopportabile le chiudeva il petto in una morsa soffocante. Le sembrava di annegare, ma le urla di terrore che cercava di tirare fuori si trasformavano in rantoli strozzati. Doveva chiedere aiuto, in qualche modo. La crisi non accennava a calmarsi, anzi il respiro si faceva sempre più affannoso e sempre più difficile, stava letteralmente annaspando. “Lalage, ma perché non vuoi parlare alla tua mamma, eh?” .

No, non di nuovo lui, quel ricordo, quell’incubo, quel sogno figlio dell’angoscia.

Sua madre la guardava coi suoi grandi occhi verdi. Papà si chinò ad accarezzarle la testa, sorridendole ma senza nascondere un’evidente preoccupazione. “Se c’è qualcosa, qualsiasi cosa che desideri, te la portiamo subito”. Nessuna risposta. I due si guardarono in preda all’angoscia. Lei, da parte sua, non mosse un dito, non parlò. Guardava fuori dalla finestra dell’ospedale.

“Basta, basta” rantolò prendendosi tra le mani la testa. Ma la Paura, inflessibile, continuava come un coltello a incidere nella nebbia dei suoi ricordi, riportando alla luce il peggio, il male, il dolore.

“Vuoi che ti portiamo il violino? Vuoi suonare un po’?”. Fu un attimo, e si tirò su seduta nel lettino, urlando a pieni polmoni e urtando violentemente le ribaltine. “NO!!! NON LO VOGLIO,NON VOGLIO SUONARE, NON VOGLIO SUONARE BASTA!!”. E scoppiò in lacrime disperate. “Voglio tornare a casa…”. I bambini quando piangono non hanno una logica, non calcolano se le loro lacrime fanno male a chi sta loro intorno; e lei era solo una bambina che avevano costretto a crescere troppo in fretta, e che ora si trovava in quell’asettico ospedale, con una diagnosi di disturbo psicosomatico che secondo i dottori aveva l’intensità di un disturbo post traumatico, con i denti che battevano e un bisogno disperato di correre mentre le gambe erano come spente, di urlare senza voce in gola, di vomitare, di uscire fuori, fuori da quella stanza, fuori dal mondo, da quel corpo, da tutto. Mentre sua madre cominciava a piangere in silenzio, il medico allarmato dalle urla tornò con un’infermiera. Le sentì con due dita il polso, faticando a tenerlo visto che lei si agitava, poi si rivolse prima all’infermiera “Due unità di Lexotan per piacere” poi si rivolse a lei in tono più mellifluo. “Ora rilassati bambina, riposati”. Era buono, il dottore. Perché non consolava anche mamma e papà? Piangevano tutti e due…e mentre si addormentava lentamente, dopo che l’infermiera le aveva somministrato la medicina, una voce rauca le penetrò i timpani e il cuore. “Sei una fallita, una piccola stupida fallita”.

In quel momento qualcuno suonò il campanello.

“Scricciolo, sono io”. Castiel. Doveva andare, doveva chiedere aiuto. Ma le gambe la dissuasero, rifiutandosi di rispondere. Scoppiò i singhiozzi rotti dai tentativi disperati di riempire i polmoni di ossigeno. “Lalage, sei in casa?”. Doveva fare qualcosa, subito. Non poteva resistere, più di ogni cosa la Paura, la Paura la stava consumando. Avrebbe potuto uccidersi, solo per far finire quel supplizio. Si girò con uno sforzo immane sulla schiena, piangendo per ogni centimetro guadagnato, fino a che non sentì il pavimento freddo contro la sua spina dorsale. Allora prese fiato, come se dipendesse della sua vita, e straziandosi i muscoli della gola contratti urlò in una sorta di rantolo, di ululato disperato. “CASTIEL!”. Nessuno rispose. No, no, ti prego, ti scongiuro no, pensò disperata. Dopo quello sforzo, il fiato le era completamente scomparso, era praticamente in apnea, a parte un leggere respiro che non bastava a farla rimanere vigile. Le orecchie con un fischio sordo iniziarono a attutire tutti i suoni in un ronzio indistinto, sentì solo un colpo sordo. Poi, si sentì sollevare da terra. Un profumo famigliare la avvolse, un odore di nicotina e di bagnoschiuma, mentre una voce gutturale imprecando la stringeva contro il suo petto caldo.

Castiel strinse a sé quella creatura fragile, digrignando i denti per la rabbia e la paura. Tremava così tanto da far tremare anche lui, stringendo convulsamente la sua t-shirt e piangendo tra gemiti e singhiozzi. “Shhhh, calma, calmati, va tutto bene, tutto bene” . Dondolava leggermente, come se stesse cullando una bambina. Pian piano la sua voce la tranquillizzò, smise di tremare. Ma sul suo volto rimaneva un’espressione vuota, distrutta. Dovette passare una mezz’ora buona perché lei potesse gorgogliare qualcosa “Come hai fatto a entrare?” “Beh” e sorrise con espressione buffa “diciamo che domani è meglio se ti fai cambiare la porta”. Poi la prese tra le braccia e uscì. Era così stremata che quando l’ambulanza la portò in pronto soccorso captò solo che il profumo di lui si allontanavo dal suo capo pulsante, e una mano le stringeva le dita nelle sue.

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