A Song for a Broken Heart

di Neferikare
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dall'Abisso con furore ***
Capitolo 2: *** Come una scacchiera ***
Capitolo 3: *** Say "Hello" to Her Majesty ***
Capitolo 4: *** Babylon's Ruins ***
Capitolo 5: *** Pain-eater's whisper ***
Capitolo 6: *** BOOM! Friendzoned! ***
Capitolo 7: *** Una volta una falena mi disse ***
Capitolo 8: *** Di cracker, kraken e teste rotolanti ***
Capitolo 9: *** Shattered mind ***
Capitolo 10: *** Unmei no akai ito ***
Capitolo 11: *** Cwtch ***
Capitolo 12: *** A carte scoperte ***
Capitolo 13: *** Dance into the fire ***
Capitolo 14: *** Exulansis ***
Capitolo 15: *** Il tunnel per El Dorado (più o meno) ***
Capitolo 16: *** Rebirth ***
Capitolo 17: *** Olympus has fallen - parte I ***
Capitolo 18: *** Olympus has fallen - parte II ***
Capitolo 19: *** Olympus has fallen - parte III ***



Capitolo 1
*** Dall'Abisso con furore ***


Niente wi-fi.

Niente-wi-fi.

Nulla.

Nada de nada.

Segnale morto.

Defunto.

Ancora.

Di questo passo si sarebbe procurato un criceto e lo avrebbe collegato al computer, chissà che in quel modo così ingegnoso e tecnologicamente poco avanzato sarebbe finalmente riuscito a vedere l'ultimo episodio di America's Next Top Model senza che quell'aggeggio diabolico perdesse la diretta streaming.

Accidenti a Manny ed il canone mensile che si era dimenticato di pagare, accidenti a lui ed a quei dannatissimi operatori del modem: oh avanti, nessuno capiva quanto potesse essere tremendamente noioso starsene in un abisso dimenticato da dio senza nessuno intorno e con la sola compagnia degli occasionali topi e dell'oscurità perenne?

E del computer, della tv al plasma da cinquanta pollici, della playstation 4, della Wii, del condizionatore, della friggitrice, dell'alcool e di una serie non meglio definita di programmi spazzatura che riuscivano ad allietarlo da tipo settecento anni.

Niente male certo, soprattutto quando seguiva le sfilate di Victoria's Secret  appiccicato allo schermo con tanto di bavetta alla bocca, ma sarebbe stato disposto a tutto per riavere un po' di libertà e di luce, la stessa che gli aveva tolto quella sottospecie di alleanza che gli altri guardiani avevano fatto tra loro quando si erano resi conto che lui era solamente uno spirito libero: a chi importava delle loro regole e dei loro doveri, se non volevano accettare che ci fosse qualcuno che non era disposto ad inchinarsi di fronte ai mocciosi umani allora potevano anche andare a farsi fottere allegramente.

O almeno provarci dato che alla fine era stato solo lui a prenderlo in posti dove non batte il sole.

Ah già, laggiù il sole non c’era nemmeno.

Comunque fossero messe le cose in superficie a Phobos poco importava, a lui bastava avere un bicchiere di vodka liscia in mano e poteva anche trascorrere giornate ad ubriacarsi da far schifo persino a sé stesso, poi il suo cervello faceva il resto: fantasticava su come avrebbe distrutti i regni dei guardiani uno per uno, di come si sarebbe preso la felicità dei bambini che Nord amava tanto, del suono delle urla dell’amabile Dentolina mentre le strappava le ali, di quanto sarebbe stato divertente cucinare uno stufato a base di Calmoniglio, del favoloso modo in cui i suoi capelli avrebbero fatto swish mentre si allontanava dalle città in fiamme stile film americani.

E soprattutto di come avrebbe avuto vendetta sul regno di Phantasia, soprattutto quello: era stata la regina di quell’agglomerato di pezzi di terra volanti e cascate fiabesche a gettarlo nell’Abisso, aveva marciato con il suo esercito di animali antropomorfi sulla sua terra riducendo in polvere le foreste con i suoi zoccoli d’oro, aveva sventolato trionfante la bandiera ridotta a brandelli del suo castello mentre squillavano le trombe della vittoria e poi, giusto per dare oltre al danno anche la beffa, lo aveva umiliato farfugliando qualcosa sul fatto che si conoscessero, che lui “non fosse più lo stesso”.

Le avrebbe tolto quella corona dalla testa e l’avrebbe usata come cavalcatura personale, l’avrebbe umiliata pubblicamente e le avrebbe fatto passare l’inferno pur di riprendersi la dignità che aveva lasciato sotto i suoi zoccoli: sarebbe stato lungo, difficile e magari anche pericoloso ma Phobos, che ormai non aveva più nulla da perdere, lo avrebbe fatto.

Proprio mentre era placidamente nei suoi ormai quotidiani pensieri di vendetta notò con amarezza gli effetti dell'alcool iniziavano a farsi sentire, e forse era per quello che quando notò la bottiglia ormai vuota stretta nella sua mano fu preso da un sussulto di rabbia che gliela fece stringere fino a romperla, con tanto di schegge di vetro piantate saldamente nel proprio palmo: restò fermo a guardare il sangue scorrere sulle schegge, a contemplare le gocce che cadevano a terra dissolvendosi nel terreno arido, il tutto lasciando che la propria mente lo trasportasse aldilà di quel muro alto migliaia di metri che lo divideva dalla superficie.

Poi, quasi preso da un'illuminazione, si alzò di scatto stringendo i pugni e non curandosi delle fitte di dolore procurate dai numerosi tagli come se nemmeno li sentisse: si diresse a grandi falcate verso la parte più profonda di quella che ora era la sua casa, una sorta di grossa voragine scavata in un'altra ancora più profonda che era l'Abisso chiusa superiormente da una sorta di intricato labirinto di viticci fioriti resi viscidi dal muschio, infine si inginocchiò davanti all'enorme buco e passò una mano su quelle grate assaporando l'odore pungente dell'umidità: quanto tempo era passato dall'ultima volta che erano state spezzate?

Quattrocento, cinquecento anni? No, probabilmente di più.

Molti di più.

 

Non appena la sua pelle sfiorò quelle fronde il silenzio di tomba che era solito vivere là dentro venne immediatamente riempito da un ruggito così forte da smuovere qualche piccolo sasso dalle ripide pareti, e per Phobos nessun suono fu più lieto: poteva chiaramente distinguere il rumore degli artigli neri come l'ossidiana che cercavano freneticamente di trovare un appiglio al quale appoggiarsi per fuoriuscire dalla gabbia in cui erano stati rinchiusi, lo schioccare dei denti d'avorio che non aspettavano altro che divorare ogni briciolo di speranza rimasto nel mondo, una miriade di occhi di rubino che lo scrutavano fedeli quasi a supplicarlo di tirarli fuori da quel buco infernale.

Riavrete la libertà tra poco tesori miei, pazientate come avete fatto fino ad ora ancora qualche tempo perché l’ora è ormai vicina, pensò mentre si inginocchiava a raccogliere uno dei fiori nati in quel luogo così oscuro: era del tutto simile ad una rosa tranne che per i petali dello stesso colore dell’arcobaleno, una gamma così vasta ed impensabile di colori che, nonostante potessero sembrare decisamente in contrasto fra loro, avevano un’insospettabile quanto raffinata armonia floreale che non si trovava in nessun luogo terreno.

Armonia… quanto odiava quella parola: forse perché nel suo inconscio c’era sempre qualcosa che gli ricordava come l’armonia non fosse mai stata parte della sua vita immortale, forse perché non capiva il motivo per cui gli altri guardiani fossero considerati così armonici con loro stessi e con la natura che li circondava, o forse perché quel nome richiamava fin troppo quello di Harmonia.

Harmonia, regina di Phantasia e guardiana della fantasia, la stessa che si era crogiolata sul suo trono ancora in tenuta da guerra mentre con uno zoccolo lo teneva inchiodato al suolo salutando continuamente il suo popolo che la ringraziava di aver scongiurato ancora una volta la fine del loro mondo, il tutto mentre al suo fianco c’erano schierati Nord e compagnia bella che tenevano a bada i poveri leoni di Phobos che si contorcevano inutilmente nelle reti di sabbia dei sogni create da quella palla rotolante di Sandy.

Ma quello era stato il meno, il peggio era venuto quando lo avevano portato davanti all'Abisso: l'Abisso, una vera e propria crepa creata appositamente per lui dalla magia congiunta dei guardiani che divorava migliaia e migliaia di metri di roccia e terra fino a perdersi in un'oscurità alquanto inquietante nel fondo più buio del mondo, un luogo ben poco ospitale dove aveva passato secoli a lagnarsi del fatto che lo avessero abbandonato lì senza poteri e senza dignità a marcire per il resto della propria esistenza nella noia e nella solitudine.

Solitudine che con il tempo era diventata rimorso, poi rabbia, infine un profondo senso di vendetta sanguinolenta che lo aveva consumato da dentro portandogli via anche l'ultimo briciolo di ricordo che aveva della superficie.

E la sua vendetta l’avrebbe avuta, oh se l’avrebbe avuta.

 

Non capì il perché del suo gesto immediatamente dopo che lo fece, percepì solo che la sua mano si era contratta intorno ad uno di quei viticci verde smeraldo quasi istintivamente e lo aveva stretto, lo aveva stretto con tutte le forze che aveva in corpo: c’era voluto poco perché dal suo palmo si sviluppassero dei sottili filamenti violacei simili a fiammelle brillanti che avevano risalito le dita fino a quando non avevano incontrato il quasi impercettibile bagliore azzurrino proveniente da quelle maledette piante così rigogliose.

Questa volta ne era certo, questa volta le avrebbe spezzate, ormai ce la stava facendo: finalmente, pensò fra sé e sé, finalmente avrò indietro ciò che mi hai tolto!

Ma non fu così, non proprio: c’era stato un rombo assordante come un tuono prima di una tempesta, un lampo così accecante da costringerlo a proteggersi gli occhi per il dolore, una malsana danza di fiamme celesti ed altre viola intenso che si contorcevano come serpi sopra di lui fino a circondarlo, gli sembrava quasi di essere intrappolato nuovamente nella gabbia che Harmonia aveva utilizzato secoli e secoli prima per sconfiggerlo una volta per tutte.

E dinanzi a lui, proprio come allora, si stagliava ancora una volta un immenso cavallo con un corno dorato in fronte che oscurava la poca luce che il lampo gli aveva donato con quelle enormi ali diafane che sembravano dissolversi nell’etere come anche la criniera e la coda, che erano invece di uno strano arcobaleno che andava dal verde acqua, all’azzurro fino al rosa; e poi quel nitrito, quel suono così orribile del tutto simile ad un ruggito, lo stesso che anche in quel momento lo aveva terrorizzato al punto da costringerlo a rannicchiarsi dondolandosi in un angolino buio con la testa fra le ginocchia e le mani sulle orecchie come ad isolarsi da quell’inferno equino.

Non sta succedendo niente, non sta succedendo niente, continuava a ripetersi nel tentativo di calmarsi, lei non è qui, non può essere qui: sei da solo, respira, respira… non sta accadendo nulla, è tutto nella tua testa, tutto nella tua dannatissima testa!

Durò una manciata di secondi, secondi durante i quali Phobos aveva assaggiato nuovamente il terrore della sconfitta nel profondo della propria anima dopo i quali, non senza un certo fragore che risuonava nell’aria, l’immenso cavallo di poco prima si era dissolto esattamente come era arrivato, nell’anonimato più assoluto e senza lasciare tracce di sé.

Senza lasciare tracce, certo, ma alcune c’erano eccome, ed era l’inquietante silenzio proveniente dalla voragine dove si trovavano i leoni dell’altro: erano insolitamente taciturni, anche troppo per i suoi gusti.

Quando Phobos trovò finalmente il coraggio di lasciare la sicurezza della posizione fetale che aveva tenuto fino ad ora e si era avvicinato all’orlo del baratro rimase, nonostante in realtà si aspettasse una cosa simile, leggermente sconvolto: se ne stavano tutti accucciati sul fondo con gli occhi pietrificati, nessuno di loro sembrava dell’umore di smuoversi dal luogo in cui si trovava, figurarsi se avevano voglia di ruggire dopo il colpo che si erano presi.

La verità era che quei felini, per quanto fossero imponenti, erano spaventati a morte dai cavalli in generale, o almeno lo erano da quando si erano imbattuti negli immensi branchi di equini selvaggi della regina durante la leggendaria Guerra che, da ciò che aveva sentito dire da Nord e gli altri, lo aveva “reso  irriconoscibile rispetto a come era sempre stato”.

Ma Phobos non ricordava nulla di ciò che fosse accaduto prima, né tantomeno ricordava di essere stato diverso da come era ora.

E nulla voleva ricordare, soprattutto perché ogni volta che ci provava sentiva delle fitte lancinanti alla testa, era come se una moltitudine di pugnali gli trapassassero la mente da una parte all’altra, come se ci fosse qualcosa o qualcuno che non volesse che lui ricordasse: e forse era proprio per questo che le poche volte che ci aveva provato ci aveva anche direttamente rinunciato dopo aver visto gli scarsi risultati ottenuti, specie quando si trovava piegato in due a rigettare l’anima.

 

Quel suo momento di ritorno ad una condizione di terrore ancestrale era durata fin troppo per i suoi gusti, forse resa ancora più vivida dalla rinnovata potenza con la quale quel dannatissimo unicorno gli si era parato davanti inibendo ogni sua emozione, ma proprio quando era convinto di averla scampata per l’ennesima volta quella sua calma piatta era stata bruscamente interrotta da un tonfo sordo seguito da un’intensa luce che aveva illuminato l’intero Abisso costringendolo a coprirsi gli occhi nuovamente: qualcuno voleva accecarlo quel giorno, ormai aveva l’assoluta certezza sulla cosa.

Tutto quel trambusto lo aveva istintivamente spinto a rimettersi velocemente in piedi e tendere una mano davanti a sé, la quale si era ricoperta dopo pochi secondi di fiammelle nerastre che avvolgevano il braccio come vipere desiderose di stringere qualsiasi cosa, ed ormai era pronto ad ogni evenienza possibile immaginabile.

Tranne un eventuale arrivo di Harmonia, a quello non sarebbe mai stato pronto a sufficienza.

E invece no, tanto rumore per nulla: appena la nube di polvere si era diradata Phobos era riuscito a scorgere una figura che si dimenava freneticamente al ritmo di “Waka waka” con tanto di ritornello eseguito abbastanza a caso con una vocina stridula impregnata di tequila e white russian, figura che era andata delineandosi a suon di curve niente male ed una folta chioma di un intenso color magenta che andava confondendosi con le alte fiamme lì intorno dello stesso colore.

Comet,quell’adorabile creatura che era Comet E. Halley, chi altri poteva essere?

Pericolo centauressa scampato, almeno ora poteva tranquillizzarsi e godersi la solita entrata trionfale da parte di quell’esibizionista di Comet che, come suo solito, era ancora impegnata a dimenarsi in preda a delle convulsioni che dovevano essere un ballo, o qualcosa di molto simile:

«Tsamina mina eh eh, waka waka eh eh! Tsamina mina zangalewa, this time for Africa!» ripeteva ad alta voce uscendo con nonchalance da quella sfera di fiamme cremisi stile Daenerys Targaryen senza far caso a quel povero disgraziato che la guardava ancora tremante:

«Ehm ehm» si schiarì la voce «Non vorrei interrompere questa tua danz-­»

«People are raising their expectations, go on and feel it! This is your moment, no hesitation!» gli parlò sopra come se lui nemmeno esistesse, e allora Phobos aveva capito che avrebbe dovuto aspettare che la canzone finisse per ragionare con lei.

Ok, avrebbe aspettato.

E aspettato.

E ancora aspettato.

 

Finalmente, dopo una serie non meglio definita di “waka waka, eh eh!” la donna si era tolta le cuffie dell’mp4 dalle orecchie, aveva tirato fuori da chissà dove un grosso borsone talmente gonfio da sembrare che contenesse contenere un cadavere e lo aveva trascinato fin da lui buttandoglielo addosso, ovviamente senza far caso agli insulti di dolore che erano partiti:

«Ehilà amicone! Come va la vita nell’umido e freddo Abisso eh? Hai scaricato le ultime puntate di America’s Next Top Model? Le hai scaricate? Eh? Le hai scaricate, Phobos? Eh? Eh, Phob-­»

«No no no! Non ho il wi fi, Comet! Non ho il wi fi cazzo!» le urlò contro mettendosi le mano sulle orecchie per non sentire la sua voce un’altra volta cercando di alzarsi, se non fosse che un piede gli era rimasto incastrato nelle cinghie del borsone ed era caduto rovinosamente a terra mangiando terra con un vago sapore di tequila.

Ancora a pancia all’aria aveva riaperto gli occhi a fatica trovandosi sopra Halley con lo sguardo alquanto divertito dalla situazione, soprattutto quando aveva tirato fuori una tessera magnetica che aveva preso a sventolargli davanti:

«Sapevo che Manny non ti aveva pagato il wi-fi questo mese, quindi ho provveduto a farlo io al suo posto, non devi ringraziarmi: sono o no la migliore compagna di trombaris che puoi trovarti?» chiese ammiccando ma, proprio quando Phobos stava allungando la mano speranzoso di afferrare la preziosa reliquia, lei l’aveva allontanata ridacchiando:

«Chissà cosa vuole questo povero disgraziato… vuoi questa? Ma davvero? Nah, non credo.»

«Avanti Comet, sono in astinenza da serie tv!» la pregò con le lacrime agli occhi, ma la donna sembrava impassibile ed anzi compiaciuta da quel teatrino pietoso:

«Trovati un lavoro e pagatelo da solo il canone mensile, alza il tuo regale culetto e vai a domare leoni, chissà che fai qualche spicciolo.»

«Comet… ti prego, ti scongiuro.»

«Non ho voglia di essere buona oggi, mi sono anche trovata davanti quella sottospecie di piccione nero e fumoso che si lagnava di quanto facesse pen-­» stava per dire quando l’altro l’aveva afferrata per la nuca e l’aveva tirata verso sé strappandole un bacio a tradimento che, ovviamente, gli aveva dato il tempo di prendersi la tessera senza problemi:

«Tuttavia, posso fare un’eccezione: muoviti e sistema il divano, abbiamo l’alcool e lo streaming, possiamo andare avanti fino all’eternità così.»

«Alcool, streaming e trombaris, non dimentichiamoci del nostro vecchio amico di post-bevute selvagge da qualche secolo» aveva detto buttandosi sul divano di pelle afferrando una bottiglia che Comet le aveva allungato, raggiunto poco dopo dalla stessa che si era invece occupata della parte burocratica del leggendario abbonamento mensile degli streaming.

E allora il mondo aveva ripreso a girare dalla parte giusta.

O almeno, lo aveva fatto fino a quando non era stato interrotto da un rumore alquanto inquietante simile allo stridio del metallo che sembrava scarnificare la fredda roccia dell’Abisso nel buffo quanto efficace tentativo di raggiungere il fondo dove si trovavano i due compagni di bevute: non era Harmonia, non poteva essere davvero lei, a meno che non si fosse fatta spuntare improvvisamente degli artigli d’acciaio con i suoi miracolosi poteri.

Quasi d’istinto Phobos si era alzato di scatto ed aveva gettato la bottiglia mezza piena a terra sostituendola con un lampo violaceo-nerastro che si era materializzato sulla sua mano, il tutto nella totale indifferenza della ragazza, che invece continuava a starsene sdraiata comodamente sul divano come se nulla fosse; e la cosa non gli andava giù a giudicare dalla netta sensazione che quella cosa si stesse avvicinando, fatto confermato dal continuo tremolio dei sassi e dei pezzi di pietra sparsi a terra:

«Comet dammi una mano, abbiamo visite nell’Abisso» asserì serio assumendo un’espressione degna di un condottiero, ma lei non se lo filò nemmeno di striscio:

«Eh? Oh Phobos, datti una calmata, ho tutto sotto controllo.» rispose lei con nonchalance, ma lui non era proprio convinto:

«Comet cazzo! Muovi il culo da quel fottuto divano!» la incitò nuovamente alzando la voce, ovviamente senza nessun effetto.

E allora aveva perso la pazienza: si era girato, aveva afferrato i lembi della coperta sulla quale era sdraiata la donna e niente, l’aveva tirata con forza facendola cadere rovinosamente a terra con l’aspetto di un fusillo rigato a strisce azzurre e gialle; quando lei si era rialzata non si era affatto lamentata, ma la forchetta con la quale stava mangiando la cheesecake che si stava sciogliendo male aveva parlato al posto suo, ed anche quel sorrisetto compiaciuto aveva fatto lo stesso.

Pessima mossa.

Non aveva ancora realizzato ciò che stava accadendo quando si era sentito schiacciare a terra da qualcosa di tremendamente grande, una figura nera che lo aveva sovrastato per poi artigliargli il collo e scaraventarlo rovinosamente contro la parete dell’Abisso; Phobos non aveva avuto il tempo di reagire che quella figura, grande su per giù una decina di metri abbondanti a vederla da quella posizione, si era girata di scatto ed aveva spalancato quelle che dovevano essere grosse ali membranose lanciandosi in una furiosa corsa verso il poveretto.

Che si sarebbe anche spostato, se la tunica non si fosse impigliata in un ramo.

Era colpa di Harmonia anche quello, ovviamente.

Per quanto di solito Phobos non temesse nulla tranne quella giumenta troppo cresciuta, per quanto di solito ostentasse un’amara sicurezza e fiducia nelle proprie capacità, quella volta proprio non ce l’aveva fatta a guardare la scena in prima persona, esattamente come non aveva trovato il coraggio di alzare lo sguardo mentre Harmonia innalzava la propria bandiera sulla sua fortezza ormai decaduta: si era rassegnato, aveva ceduto allo spettro dell’insicurezza che sentiva aleggiare nella propria anima dal primo istante in cui era stato gettato a peso morto nell’Abisso come si getta via un giocattolo del quale ci si è stancati.

Ad un certo punto, ad occhi chiusi e con il fiato mozzato in gola, aveva avvertito una pressione insopportabile premergli il petto contro la roccia nuda mentre una lama fredda come l’acciaio disegnava percorsi sanguinolenti sulla propria fragile pelle, un rantolio sordo accompagnato da un sinistro quanto pungente odore di zolfo misto a carne bruciata ad appena qualche centimetro dal suo volto che andava sommandosi al violento suono dell’aria frustata con violenza.

Phobos era ormai pallido per il terrore più puro, uno di quelli sui quali Pitch Black un tempo ci avrebbe banchettato volentieri, nulla a che vedere con l’ombra dell’uomo che era stato che andava trascinandosi  a quel tempo.

Aveva atteso qualsiasi cosa in quegli istanti di paura cieca, morte o vita che lo attendesse, ma i rassicuranti passi di Comet, impossibili da non riconoscere per via dello scricchiolare delle foglie bruciate che li accompagnavano, avevano fatto sì che un barlume di speranza si accendesse nella mente di quel povero disgraziato; anche se non poteva vederla aveva chiaramente avvertito il suo lento avvicinarsi ed il successivo fermarsi poco lontano dalla gabbia nella quale si era trovato costretto, poi aveva sentito una specie di grottesco gorgoglio fin troppo simile alle fusa di un gatto di qualche misteriosa dimensione a lui sconosciuta:

«Mi ero dimenticata di avvisarti prima del mio arrivo, Phobosuccio mio» disse fra una risatina di scherno e l’altra mentre gli afferrava il mento con una certa sensualità

«Fidati di mamma Comet e apri quegli occhioni da cerbiatto omicida, voglio presentarti il mio nuovo animaletto fresco fresco di giornata.» gli disse incitandolo ad aprire gli occhi dato che la sua morte, almeno sperava, era appena stata rimandata.

Ma avrebbe preferito averli tenuti saldamente chiusi, quegli occhi: all’inizio aveva sperato si trattasse di qualche drago trovato abbastanza a caso nei meandri della galassia, poi il pensiero si era spostato sul basilisco che viveva nei laghi poco lontano dall’Abisso, ma l’ultima cosa che avrebbe pensato di trovarsi davanti, e della cui esistenza sapeva poco o niente, ora s ela trovava davanti con le zanne sporche di brandelli di carne snudate.

 

Il ciciarampa.

Il fottuto ciciarampa di Alice Castle Wonderwood.

La principessa guerriera di Fairy Oak.

L’amichetta di Harmonia.

E quel coso si trovava davanti a lui.

Nell’Abisso.

Era fottuto.

 

Lo sgomento iniziale si era presto trasformato in panico totale, un’ansia crescente che lo aveva portato a dimenarsi gridando come un cretino ricavandoci solo una costellazione di graffi e squarci sui vestiti che ci mancava poco lo lasciassero nudo come un verme, il tutto fra un’imprecazione di Comet ed un ringhio innervosito della bestia; ora che lo guardava bene in effetti non c’erano dubbi che si trattasse del mostro che Alice aveva messo a guardia delle porte della città, anche s elo aveva visto ben poco era ben difficile dimenticarselo: il corpo era fondamentalmente quello di un drago come tanti ne aveva visti di un malsano color grigio-verdastro, solcato qua e là da profonde cicatrici rosee di antichi scontri contro chissà cosa, la testa piuttosto appiattita era un misto fra quelle di un serpente e di un pesce di altri tempi, incassata in una sorta di corona membranosa formata da barbigli simili a quelli dei pesci gatto e dalla pelle sottile piena di venature, gli arti sottili che si addicevano al corpo snello dal quale si diramavano due grossi ali da pipistrello consumate da buchi grandi quanto il palmo di una mano e da tagli sottili come foglie, decisamente sproporzionate rispetto al corpo esile, che andavano a terminare verso la coda, una frusta coperta da quelle che non si capivano essere squame, scaglie o un’ispida peluria nerastra.

E poi gli occhi, due rubini intrisi di sangue piantati sulla sommità del lungo collo dal quale pendeva ciò che rimaneva delle catene con le quali Alice si assicurava che quell’animale non scappasse da Fairy Oak o che, molto peggio, non uccidesse nessuno dei suoi abitanti.

Solo che ora era libero, e Phobos lo aveva a mezzo metro di distanza.

Tuttavia, se lui aveva iniziato a tremare come un ramoscello durante una tempesta, allora l’altra continuava ad accarezzare la testa di quello scherzo della natura con tutta l’indifferenza che il mondo potesse offrirle, e la cosa aveva iniziato a preoccuparlo più del mostro stesso:

«Hai rubato il ciciarampa di Alice! Hai rubato il ciciarampa cazzo! Il ciciarampa!» le sbraitò contro liberandosi dalla presa di quegli artigli, che si erano dischiusi con molto probabilità solo perché che si erano dischiusi solo perché avevano iniziato a grattarsi l’orecchio, o qualunque cosa fosse, nemmeno si trattasse di un coniglio godurioso, ma la donna aveva solo fatto spallucce:

«Non l’ho proprio rubato nel senso stretto del termine: lui era lì incatenato, mi faceva anche un po’ pena quindi niente, ho pensato che ad Alice non sarebbe dispiaciuto se avessi preso il suo animale da compagnia, o comunque ne avrebbe trovato uno simil-»

«Simile? Simile? Il ciciarampa è uno solo Comet, uno solo!» insistette con la rabbia a livelli spaventosi, abbastanza perché Comet avesse un sussulto di sorpresa:

«Oh avanti, non essere così sever-»

«Quel coso è stato creato all’alba dei tempi con chissà quali sortilegi per custodire Fairy Oak, secondo te ne trova un altro, eh? Rispondim… smettila di volteggiare a testa in giù cazzo! Non mi sto divertendo, cretina che non sei altr-­­» non fece in tempo a finire che sentì la guancia sinistra bruciargli in modo a dir poco insopportabile per l’improvviso schiaffo che aveva ricevuto:

«Nessuno mi dice cosa devo e cosa non devo fare, se volevo un capo che mi pagasse la pensione di vecchiaia iniziavo a lavorare come Guardiana per Manny, cosa credi?» gli disse non con un’espressione arrabbiata, ma con una alquanto inquietante:

«Un tempo i nostri incontri erano più trombaris e meno parlaris, erano più le serate dove eravamo sbronzi da far schifo che quelle dove eravamo anche minimamente sobri: pensi troppo Phobos, pensi troppo a quella giumenta vogliosa e poco al vivere la tua misera quanto eterna esistenza in questo buco di fogna in modo non dico decente, ma almeno presentabile.» lo rimproverò sistemandosi il vestito e scostando i capelli dal volto scoprendo un’aria severa:

«Non mi serve un moralizzatore Phobos, ne abbiamo già parlato abbastanza l’ultima volta che hai avuto una crisi nervosa: io me ne vado, e non intendo tornare se devo trovarmi davanti il Sandy della situazione o, ancora peggio, un Pitchone che vuole farsi compatire nella sua miseria; richiamami quando ti sarà passata la voglia di morale e ti sarà tornata quella di trombaris, fino ad allora ciaone proprio.» asserì sorridendo e facendo per svolazzarsene via come solito.

Phobos era sconvolto, abbastanza perché le afferrasse una caviglia trattenendola:

«Ed io cosa me ne faccio di quello? Dove lo nascondo un mostro di quindici metri! Dimmi dove lo nascondo se arriva Alice!» le urlò contro ricevendo di rimando una risata di scherno:

«Non è un mostro, si chiama Necrohunger, per chiarirci.» puntualizzò severa:

«Te lo regalo, magari ti fa compagnia e ti passa questa voglia di zoccolate regali sul culo da parte di Harmonia che probabilmente trovi anche eccitanti dal punto di vista sessuale, amante del sadomaso come sei: ti lascio anche l’alcool, male che vada troverò il tempo di fare una visita alle cantine di Fairy Oak, ho scoperto che hanno una vasta scelta di birre là dentro, un salto veloce non può che farmi del bene… e lo farebbe anche a te.» concluse sparendo in un lampo color magenta prima che l’altro potesse controbattere.

 

Era andata via.

Anche lei.

Non poteva permettersi di perdere anche Comet, non ora che lo avevano sbattuto nell’Abisso: forse nella parte della sua vita che non ricordava aveva anche avuto degli alleati, forse addirittura degli amici dei quali si fidava, ma ora come ora Comet D. Halley era l’unica che andasse a trovarlo qualche volta, l’unica che gli faceva sentire un po’ meno gli artigli brucianti della solitudine che aveva preso a consumarlo con una ferocia inaudita negli ultimi secoli, per non parlare del fatto che fosse una delle poche creature in grado di introdursi nell’Abisso senza che le armate di Harmonia si muovessero per una violazione simile.

E poi gli pagava il wi-fi, soprattutto quello.

Eppure niente, aveva perso anche lei.

Come sempre, del resto.

 

Ecco in cos’era davvero bravo, a perdere le persone che aveva intorno, ad allontanarle fino a quando non erano loro a scappare a gambe levate: prima il suo passato del quale ricordava poco o nulla, poi i Guardiani che dicevano quanto lui fosse cambiato e diventato quello che era adesso, poi ancora Harmonia che lo aveva pregato in ginocchio di tornare ad essere il Phobos che lei aveva amato, ed ora Comet che gli dava buca a causa dei suoi disagi mentali e di tutte quelle questioni morali snervanti che portavano solo ad un amaro senso di inutilità e delusione.

Faceva male perdere qualcuno, ma Phobos non avrebbe mai ammesso a se stesso una cosa simile, non si sarebbe mai ritirato in un angolino a piangere per sfogare tutta la rabbia che si portava dentro da secoli.

Sarebbe scoppiata, quella rabbia, lo avrebbe fatto da un giorno all’altro, lui lo sapeva: c’era una sensazione che lo tormentava da qualche settimana, una sorta di istinto che gli ruggiva dentro per farsi sentire come se stesse dicendo “Lasciamo andare, lasciami uscire da questo angolo buio della tua mente e lascia fare a me quello che tu non hai nemmeno il coraggio di immaginare perché sei troppo codardo per ricordare.”

In secoli e secoli aveva aspettato il momento buono per andarsene dall’Abisso, ma la verità era che non aveva mai trovato la spinta giusta per decidersi a farlo, e in realtà non aveva nemmeno la forza per una cosa simile: erano serviti gli sforzi congiunti dei Guardiani, di Alice, di Harmonia e di tutti i suoi generali per scavare l’Abisso, una ferita profonda chilometri e chilometri sul volto del pianeta, ma era stata Harmonia da sola a rinchiuderci dentro lui ed i suoi leoni perché non potessero più nuocere a nessuno come avevano fatto fino a quel momento.

Senza contare che gli erano stati tolti quasi completamente i propri poteri, quelli con i quali aveva raso al suolo il regno di Nord quando questo era stato scelto come il campo di battaglia fra le forze dei guardiani e le sue: con il tempo aveva acquistato nuovamente una minima percentuale della magia che possedeva inizialmente, ma era davvero troppo esigua per pensare di poterla sfruttare per scappare dall’Abisso una volta per tutte.

Ok, in realtà l’Abisso se ne stava bellamente aperto, ma la magia della regina della fantasia era abbastanza potente da impedire a chiunque di penetrare all’interno di quella gigantesca fenditura, a chiunque tranne a quelli come Comet, quelli che trascendevano le regole di Manny.

A meno che Manny non fosse stato distratto, allora in quel caso avrebbe potuto farsi gli affari suoi in santa pace senza che lui non si accorgesse di nulla.

Un’eclissi lunare, una di quelle che coprivano il satellite per mostrarne l’Altro Lato della Luna, ecco cosa gli avrebbe fatto davvero comodo: durante le eclissi l’influenza di Manny sui guardiani si indeboliva di parecchio rispetto alla norma, quasi scompariva per quei pochi istanti, e se avesse potuto approfittarne per… no, non c’erano eclissi, non ne aveva mai viste in secoli di attesa.

A meno che non l’avesse provocata.

Comet non era ancora arrivata fuori dall’Abisso, ormai conosceva bene il tempo che impiegava per arrivare da lui e successivamente andarsene, e da quelle considerazioni scaturì la voglia malata di azzardare anche quell’idea che gli frullava in testa da tempo immemore:

«Comet! Comet aspetta un attimo! Aspetta!» aveva urlato con l’intima speranza che l’altra avesse sentito quel gridolino disperato, e in effetti la speranza l’aveva persa quando si era trovato da solo con il silenzio, interrotto qua e là dai rantoli del ciciarampa visibilmente irritata dalla mancanza della nuova padroncina; ma fortunatamente la donna l’aveva sentito, ed era tornata indietro in una cascata di fiamme cremisi in uno spettacolo alquanto egocentrico:

­«Sì, cosa vuoi ancora? Ti avviso che se non si tratta di trombaris non ne voglio sapere nul-»

«Io e te. Divano. Ora. Ma voglio qualcosa in cambio, qualcosa che puoi fare solo tu.» rispose con una vaga aria di sfida negli occhi, un’espressione di riscatto che anche Comet, in tutti quei secoli di conoscenza, aveva faticato a vedergli addosso.

Phobos sperava che il tirare in ballo il trombaris potesse avere un qualche effetto sull’innata curiosità sessualmente ambigua di quella creatura sociale fatta d’altofuoco e menefreghismo e, come aveva previsto, la ragazza si era avvicinata toccando terra con una leggerezza innaturale:

«Di cosa si tratta?» domandò incuriosita piegando la testa su un lato con fare sospettoso, atteggiamento che poco dopo era andato svanendo quando l’altro le aveva accarezzato amorevolmente la guancia: l’aveva in pugno, mancava così poco.

A quel punto aveva cercato di tirare fuori tutto il suo charme, tutta l’esperienza che il passato gli aveva concesso di mantenere con le donne: tranne con centauresse e simili, ma quella era un’altra storia che sarebbe stato meglio tenere fuori da quella situazione; Phobos prese a scostarle i capelli incurante delle fiammelle scarlatte che vagavano sulla sua mano, se quel che aveva in mente fosse andato in porto un paio di ustioni sarebbero state decisamente trascurabili:

«Devi oscurare la Luna, mi bastano pochi minuti ma devi farlo, Manny non deve vedere.» asserì con uno sguardo cupo, tanto che Comet lo squadrò da capo a piedi:

«Sei sicuro di non essere ubriaco? Cosa accidenti vai blaterando?» domandò confusa, ma se c’era una cosa che Phobos sapeva fare era convincere le persone:

«Avanti tesoro, si tratta di una cosuccia da nulla paragonata alle tue capacità: tu eviti che Manny mi veda per una manciata di minuti, ed io ti faccio fare tutto il trombaris che vuoi, possiamo continuare fino all’eternità se ti aggrada la cosa.»

E Phobos sapeva che l’aggradava, oh se lo faceva.

Eppure a Comet il dubbio era rimasto, tanto che aveva allontanato la mano dell’uomo:

«Non per farmi gli affari tuoi, Phobosuccio, ma che cosa Manny non dovrebbe vedere, esattamente? Abbiamo sempre fatto trombaris senza tutti questi problemi, per caso l’andropausa ti ha fatto salire la vergogna di mostrare il tuo amichetto all’Uomo della Luna?» chiese ridendo ed indicando un punto fin troppo definito verso l’inguine dell’altro:

«Abbiamo già appurato che la regola della elle non è valida, non penso che tu possa aver sviluppato una crisi esistenziale su quanto il tuo pene sia più grande rispetto a quel-­

«Ci stai o no?­» domandò a bruciapelo cogliendola abbastanza di sorpresa.

 

Non seppe quale divinità lo assistette in quegli istanti di tensione in cui gli occhi color magenta di Comet si incontrarono con i suoi che parevano oro liquido, non seppe nemmeno come Harmonia non lo avesse ancora fulminato per quel complotto attraverso i suoi mistici poteri da big queen, stava di fatto che ad un certo punto si trovo la mano stretta in una presa decisamente convinta da parte della donna, che lo osservava con un sorriso compiaciuto:

«Ci sto Phobosuccio, per il trombaris questo ed altro» confermò iniziando a volteggiare visibilmente eccitata dall’idea che avrebbe avuto la serata ubriaca che tanto agognava:

«Dammi una decina di minuti e intanto preparati per l’ennesima delle nostre avventure sessualmente perverse, prendi anche il ghiaccio che la tequila mi piace fredda: già arrivare fino a Manny è complicato, farlo senza che le guardie della tua amica e di tutti i suoi compagni guardianosi ci scoprano e tutt’altro lavoro, ed è decisamente più difficile.» spiegò assumendo quello che doveva sembrare un atteggiamento serio ma che era risultato essere l’ultimo di tanti atteggiamenti ambigui tipici di Comet, per poi subito sparire lasciando dietro di sé una striscia di fiamme che sembravano poter ghermire anche la nuda roccia fredda, le quali erano andate diradandosi poco dopo in una soffice nebbiolina rosata.

Era fatta.

L’aveva convinta.

Non poteva nemmeno crederci.

L’attesa era stata qualcosa di incredibilmente snervante, soprattutto perché era incredibilmente complicato vedere fuori dall’Abisso dal fondo dove lui si trovava, e la tensione non era palpabile solo per lui: nonostante il Ciciarampa di Comet lo avesse preso ben poco in simpatia fin dal primo istante ora se ne stava accucciato in un angolo con le zanne snudate in un costante ringhio di paura ed intimidazione allo stesso tempo mentre i suoi leoni, fino a pochi minuti prima terrorizzati dall’improvvisa apparizione del sigillo imposto dalla magia di Harmonia secoli addietro, ruggivano come non facevano da tempo immemore, il rumore degli artigli che raschiavano la pietra come se volessero squarciare la terra per tornare dal loro padrone dopo chissà quanto tempo di prigionia.

Sarebbero tornati, lo avrebbero fatto presto, Phobos ne aveva l’assoluta certezza.

Ad un certo punto, così preso e concentrato su se stesso ed i propri progetti, quasi non aveva fatto caso al bagliore rosato nel cielo blu note appena percettibile da dove si trovava: dunque Comet era arrivata dove doveva, ed evidentemente era pronta ad iniziare quel piano che, se mai fosse riuscito ad andare a buon fine, lo avrebbe tirato fuori da quel buco; forse quel lampo era stato il suo modo per dirgli “ed ora stai a guardare, bellezza, mentre ti mostro di cosa sono capace pur di avere il trombaris”, o più probabilmente era solo l’inizio di uno dei suoi soliti spettacoli decisamente ed immensamente egocentrici.

Poco male, gli bastava che funzionasse.

O almeno lo sperava, dato che Manny non era l’unico occhio presente in quel cielo notturno: c’era l’Altro, c’era quella donna sulla costellazione di Orione e c’erano i Pilastri della Creazione.

Manny era ben circondato di alleati come di nemici, su quello non poteva avere dubbi, ma ora anche lui avrebbe avuto la fetta di quella torta, quella che gli avevano rubato secoli prima.

Se tutto fosse andato a buon fine, ovviamente.

Comunque sarebbero andate le cose, per ora Phobos si limitava ad osservare la scena dal fondo dell’Abisso con tutta la calma che poteva concedergli il Ciciarampa che aveva poggiato il proprio fondoschiena squamoso-peloso-pescioso sul divano:

«Penso sia inutile chiederti di spostart-» gli fece notare ricavandone solo un ringhio annoiato di disapprovazione, così fece spallucce ed afferrò i popcorn che Comet aveva portato per la serata a tema Game of Thrones, ma proprio mentre lo faceva l’altro aveva infilato il proprio muso nella ciotola coprendo di bava i pochi chicchi rimasti dentro:

«Mi prendi per il culo? Non mi faccio sottomettere da un pollo gigant-­» disse senza finire la frase che si trovò coperto di saliva alquanto viscida fino alle punte dei lunghi capelli rosso rubino.

Almeno non avrebbe dovuto metterci il gel, se doveva vedere il lato positivo della cosa.

Fu questione di secondi prima che avvertisse un boato provenire dall’esterno, e allora aveva capito che lo spettacolo era iniziato, il suo spettacolo.

Ora doveva solo aspettare che venisse calato il sipario.

 

Arrivata nel vuoto dello spazio, ad appena qualche chilometro dalla Luna, Comet si era fermata qualche istante a contemplare quello che gli umani consideravano un semplice satellite del loro pianeta ma che, allo sguardo di un Guardiano o di una creatura come lei, altro non era che la base di quel big boss che era Manny, noto anche come l’Uomo della Luna, lo Stronzone Astemio o il Caino di turno a seconda dell’interlocutore.

E del suo gemello sociopatico con manie di protagonismo, ma quella era una questione ben più spinosa che a lei certo non poteva interessare, menefreghista com’era.

Era bella, la Luna, quella specie di sfera bianca che sembrava immobile nell’oscurità dell’Universo quasi a sorvegliare dalla sua postazione ciò che la circondava, e da alcuni punti di vista era proprio così: Manny non interveniva mai, quando non aveva interessi particolari, lui si limitava ad osservare, osservare ed ancora osservare, ritanato com’era nella sua base con fiumi d’aranciata e caramelle mou, ma allo stesso tempo non si lasciava sfuggire nulla in nessun luogo.

Ma per sorvegliare bisogna vedere l’oggetto della propria sorveglianza, ed era proprio per quello che Comet si trovava lì: l’influenza dell’Uomo della Luna sui guardiani, la sua opera di osservazione continua, la mancanza di poteri di Phobos, tutto dipendeva dalla costane presenza di Manny che si manifestava nel cielo ogni notte, in qualsiasi condizione atmosferica.

Tranne durante un’eclissi totale lunare: se un’eclissi oscurava la vista della Luna da ogni luogo conosciuto ai Guardiani e viceversa, Manny non poteva vedere, e quindi non poteva nemmeno intervenire.

E lo scopo era proprio quello.

Comet non ci aveva messo molto a richiamare a sé tutta la forza che si portava dentro, una sorta di potere che si portava dentro da quando ne aveva memoria: qualche secondo ed il suo corpo era stato avvolto dalle stesse fiamme rosate mostrate poco prima a Phobos, talmente intense e luminose da farla sembrare del tutto simile ad un piccolo Sole in miniatura che nulla aveva da invidiare alle stelle più brillanti del firmamento, le sottili strisce color magenta che andavano a confondersi con i folti capelli dello stesso colore in quella che ricordava vagamente la danza che l’altofuoco faceva quando veniva scatenato contro chi si trovava sul proprio cammino.

E adesso sul cammino di Comet E. Halley c’era la Luna.

Non voleva distruggerla, ovviamente, ma sarebbe ugualmente bastato, oltre a dare una mano a Phobos, anche a dimostrare a Manny fin dove riusciva a spingersi quando aveva qualcosa per cui impegnarsi, il che era decisamente raro data la sua natura incredibilmente dedita al fottesega generale che l’accompagnava fin dal primo giorno in cui si era trovata in quel misterioso luogo chiamato Universo, fra i complotti dei Guardiani e quelli della Costellazione di Orione con annessi e connessi.

Ancora assopita nel suo dolce naufragare nel mare stellato del firmamento non si era nemmeno accorta delle sue fiamme che si erano sparse qua e là iniziando a donare alla Luna un malsano color magenta, a dir poco accecante agli occhi di chi non fosse abituato alla luminosità della distruzione come lei: la superficie biancastra del satellite che andava pian piano sparendo in un sottile velo pietoso steso da una forza della natura come Comet E. Halley, i crateri ormai ridotti a chiazze rossastre dove decine di serpenti fiammeggianti combattevano fra loro innalzando colonne d’altofuoco che avrebbero continuato ad ardere fino alla fine delle stelle, la Luna che sembrava sempre di più simile al Sole non troppo lontano per intensità e luce con la differenza che, se l’astro si sarebbe spento arrivato alla sua fine, le fiamme che bruciavano l’aria del satellite terrestre lo avrebbero fatto solo quando Comet lo avrebbe comandato.

E cioè appena vide un lampo violaceo ruggire dalle profondità del cosmo con una violenza tale da scatenare un’onda d’urto che aveva investito le sue fiamme dissolvendole in qualche istante ancora prima che fosse lei a comandarglielo: aveva percepito qualcosa, una sorta di immensa forza liberarsi dai meandri dell’Universo, un qualcosa che le sembrava tremendamente sbagliato ma che allo stesso tempo, a conti fatti, non avrebbe nemmeno dovuto interessarle.

I poteri di Phobos, ecco cosa doveva essere ciò che aveva percepito: nessuno sapeva dove Harmonia avesse seppellito l’oscurità che aveva corrotto la sua anima dopo la guerra nella quale, sempre a suo dire, l’aveva perso, nemmeno Comet nei suoi secoli di vagabondare era riuscita a scoprirlo con certezza, ma qualsiasi posto fosse ora non importava più, dal momento che era appena stato violato malissimo nemmeno fosse la linea Maginot.

E probabilmente lei non era stata l’unica ad avvertirlo.

 

 

Il potere.

Il suo potere.

Lo poteva sentire chiaramente adesso, ogni singola cellula del suo corpo stava gridando come mai aveva fatto negli ultimi secoli per riprendersi il nutrimento della quale erano state private, ogni atomo della sua coscienza sembrava essersi appena risvegliato da un letargo durato quella che gli era sembrata un’eternità: Phobos non si aspettava una reazione così violenta da parte del proprio corpo, era qualcosa di totalmente inaspettato e stranamente piacevole, una fitta lancinante, esattamente come quella che aveva provato mentre Harmonia gli strappava dal petti propri poteri.

Ma questa volta avrebbe sopportato, avrebbe patito anche le pene inflitte dai Chandrasekhar ai traditori pur di riavere indietro gli stessi poteri che gli avevano tolto per puro egoismo ed invidia verso l’immensità delle cose che avrebbe potuto fare se li avesse avuti.

Buone o cattive non aveva importanze, ora le avrebbe fatte, dalla prima all’ultima: la prima era di evadere dall’Abisso dopo qualche secolo, l’ultima era di avere la corona di Harmonia, l’approvazione di Manny e, chissà, forse riusciva anche a farci scappare dentro un’improbabile alleanza con gente del calibro di Idhunn Orionis Chandrasekhar.

Ma forse per ora era meglio limitare i progetti ai regni vicini, il resto delle Costellazioni poteva anche aspettare.

Ancora con la mente offuscata dalla temporanea perdita di orientamento, Phobos aveva dovuto combattere con tutta la volontà che aveva in corpo per restare cosciente quando aveva iniziato a bruciargli in modo insopportabile il braccio destro che ricordava di aver già provato, e allora aveva abbassato lo sguardo: un marchio violaceo, il suo marchio, una sorta di segno in rilievo sul dorso della mano destra dalla vaga forma a stella dalla quale si diramava quello che sembrava un vero e proprio labirinto di linee viola che andavano dal gomito fino alla punta delle dita.

Se lo portava dietro da quando ne aveva memoria, e cioè da qualche secolo a quanto la sua mente gli permettesse di ricordare, e con il tempo aveva imparato che non era nulla di buono agli occhi dei Guardiani: loro lo consideravano una sorta di segno indelebile di chissà quale maledizione ad opera di un certo individuo contro il quale anche Manny aveva combattuto, a lui dannatamente estraneo, Phobos invece lo vedeva come la fonte inesauribile di forza dalla quale traeva la maggioranza dei propri poteri da quando aveva preso parte “alla guerra che lo aveva reso il mostro che era ora”.

Ed ora quel marchio pulsava come non aveva mai fatto, molto più intensamente di quanto facesse quando usava quel briciolo di potere che gli era rimasto: non sapeva come ma a quanto pareva Halley c’era riuscita, a distrarre quella palla di ciccia lunare di Manny, c’era riuscita ed ora non c’erano più le catene dell’Abisso a fermarlo.

Come per comprovare la ritrovata forza Phobos si era affacciato ancora una volta verso la voragine dove i suoi leoni ruggivano furiosi, questa volta senza il terrore negli occhi di dover fronteggiare il sigillo di Harmonia un’altra volta, motivo per cui aveva poggiato senza paura la mano che recava il marchio sulla fitta rete di rampicanti fioriti che lo separavano dalle sue adorate bestiole:

«Non puoi nemmeno immaginare cosa abbia dovuto passare qui dentro…» disse fra sé e sé mentre si chinava inginocchiandosi con la mano tesa ed aperta, i capelli cremisi che ricadevano sul volto nella parte non legata da una lunga treccia portata penzoloni sulla schiena.

Che tuttavia non riuscivano comunque a nascondere quello sguardo dorato pieno di rabbia:

«Le umiliazioni, il dolore, le notti passate a biasimarmi… tu non lo sai Harmonia, non lo hai mai saputo, anche se pretendevi di sapere cosa stessi passando…» continuò mentre i viticci avevano iniziato a ricoprirsi di sottili fili violacei che lasciavano dietro di sé solo dei tralicci secchi, una sorta di danza dove i fiori iniziavano ad appassire e le rose a sfiorire, quasi fossero inevitabilmente consumate da una forza più grande:

Phobos sentiva chiaramente una forza immane montargli dentro l’anima, nelle profondità più nascoste del suo essere, ed era anche perfettamente consapevole del fatto che ne avrebbe perso il controllo molto presto:

«Mi hai sconfitto due volte, quando hai preso il mio regno e quando mi hai sbattuto qui dentro, ma oggi le cose cambieranno, oh se lo faranno…» asserì digrignando i denti per l’odio che gli stava ribollendo dentro, un odio senza freni, quasi viscerale, lo stesso che qualche istante dopo lo aveva travolto senza che se ne rendesse minimamente conto.

Era stata questione di secondi perchè la rete di filamenti si estendesse tutta intorno trasformandosi improvvisamente in vere e proprie fiamme del tutto simili alle stesse che utilizzava abitualmente, solo decisamente più distruttive, un disegno che richiamava quello che portava sul dorso della mano capace di sprigionare un calore talmente intenso che la rete di rampicanti era andata dissolvendosi in cenere in un rombo di tuono che aveva scosso l’intero Abisso facendo cadere qualche piccolo sasso dalle pareti.

E allora i suoi leoni erano usciti dalla loro gabbia secolare, per non dire millenaria: il loro aspetto, un tempo quello di maestose creature nere come la notte con due occhi color rubino, ora era ridotto a dei veri e propri scheletri con brandelli di pelo che cadevano qua e là, non avevano nulla a che fare con le creature possenti di un tempo, esattamente come lui.

Ma bastò che uno di loro si avvicinasse, uno dei più grandi ed imponenti nel branco, e poggiasse il muso sulla mano del padrone quasi a fargli le fusa perché il cambiamento fosse radicale: le bestie si erano trovate legate a terra da diafane funi viola intenso che brillavano più della luce del Sole, avevano iniziato a ruggire forse spaventati o forse grati, ma alla fine di tutto, alla fine di quella tortura, ciò che ne era uscito era un gruppo di mostri più grandi di un uomo, i suoi mostri: le criniere che fiammeggiavano di un fuoco nero come la pece, gli artigli e di canini bianco avorio snudati della stessa dimensione di un palmo umano, il manto che pareva essere fatto d’oscurità in netto contrasto con i rubini rosso sangue che lampeggiavano minacciosi sotto il voluminoso pelo.

Quanto gli erano mancati, i suoi dolci felini ruggenti, quanto?

Troppo, Phobos lo sapeva fin troppo bene, e sapeva anche che era ora di lasciarsi andare una volta per tutte: non aveva più senso darsi un freno, non c’era più nessun motivo per cui avrebbe dovuto interessarsi alla vita altrui, e forse fu proprio che, inconsciamente o meno, che lo volesse o no, finì per evocare sotto di sé quello che ricordava vagamente un cerchio alchemico d’altri tempi che recava lo stesso disegno sulla sua mano.

Poi i bordi viola acceso di quell’anello si erano sparsi un po’ ovunque nell’Abisso, si erano irradiati fino alle pareti e, quasi mossi da una forza troppo grande anche per Phobos, avevano preso una volontà tutta loro: ogni singola linea di quel tracciato si era illuminato di un’intensa luce nerastra per poi trasformarsi in serpi incandescenti che nel giro di pochi istanti avevano finito per sopraffare Phobos in un vortice di fiamme del quale non aveva nessun controllo, ed era felice di non averlo, per convogliare infine in una colonna di fuoco talmente luminosa da aver accecato anche la povera Comet, decisamente abituata a piccoli Soli tascabili, appena di ritorno dal suo viaggio interstellare di qualche minuto.

 

Un boato.

Un’esplosione.

Poi l’Abisso era crollato.

 

Phobos aveva faticato ad accorgersi dell’arrivo di Comet, che era atterrata dopo qualche istante di indecisione sul luogo dove appoggiare i piedi per non finire arrosto anche lei:

«Phobos? Cosa stai combinando? Io me ne vado dieci minuti e tu distruggi l’Abisso?» chiese cautamente, ma l’altro pareva totalmente assente, non c’era nulla nel suo sguardo che le potesse far intendere che sì, l’aveva sentita, così decise di avvicinarsi ancora:

«Phobos? Phobos ci sei? Mi senti?» fece appena in tempo a dire quando si trovò accerchiata dai leoni del compagno, delle belve fameliche che avevano iniziato a ringhiarle minacciosamente contro costringendola ad indietreggiare ed allontanarsi dal padrone; Comet se lo sentiva dentro, che c’era qualcosa di dannatamente strano e sbagliato in tutto ciò che le si prospettava davanti, quasi la stessa sensazione che aveva avuto quando quel lampo aveva attraversato il suo campo visivo mentre si trovava a cazzeggiare qualche momento prima.

Non seppe perchè sentì l’istinto, poi rivelatosi sbagliato, di toccargli la spalla, stava di fatto che appena la sua mano l’aveva sfiorato si era trovata con il polso bloccato in una morsa dalla quale si sarebbe difficilmente liberata:

«Cosa cazzo stai facendo? Si parlava di trombaris, non di uccidaris!» gli urlò contro cercando di divincolarsi furiosamente, ma l’altro non dava alcun segno di cedimento, anzi sembrava sempre più convinto di ciò che stesse facendo, e allora Comet decise di passare alle maniere forti:

«Non dire che non ti avevo avvisato!» asserì mentre un luccichio rossastro cominciò a brillare sulla sua mano, delle sottili fiammelle rosate che andarono presto a ricoprirle l’avambraccio quasi a proteggerla da quello che doveva essere il suo alleato di vodka preferito.

Non avrebbe mai voluto colpire Phobos con l’intento di fargli del male, sarebbe stato un vero peccato se avesse rovinato anche il suo amichetto di trombaris preferito, ma in quelle circostanze, in quella situazione, attaccarlo con il suo altofuoco era l’unica opzione possibile per tirarsi fuori da quella questione così spiacevole.

 

Se solo avesse sortito un qualsiasi effetto.

Non aveva nemmeno fatto una piega che fosse una.

Non si era mosso di un millimetro.

Niente di niente.

 

Anzi, una cosa l’aveva fatta: il suo marchio aveva iniziato a brillare di un malsano alone viola acceso  mentre dei filamenti dello stesso colore sembravano aver iniziato ad espandersi su tutta la lunghezza del braccio fino al petto, parzialmente visibile sotto i vestiti rimasti quasi carbonizzati durante l’esplosione, per poi prendere posto anche sul polso di Halley spegnendo ogni singola traccia di fuoco che incontravano come se lo consumassero, per non parlare del fatto che lei, quella che si ricopriva d’altofuoco come se nulla fosse, ora provava un’intensa sensazione di bruciore dove quei filamenti arrivavano:

«Phobos! Smettila dannato idiota! Lasciami andare!» gli gridò mentre lo fissava negli occhi ricavandone solo un brivido lungo la schiena: erano vuoti, completamente assenti, lo sguardo di qualcuno che non aveva più nulla da perdere perché nulla aveva mai avuto.

Ed erano pericolosi, tremendamente pericolosi.

Non c’era più tempo per pensare per Comet, adesso era solo il momento di agire, se solo avesse saputo come farlo davanti a quel puttanaio: Phobos aveva dato di matto, quello era abbastanza ovvio e visibile, ed aveva il sospetto che fosse perché il suo corpo, provato da secoli di prigionia estenuante, fosse stato improvvisamente riempito con poteri che nemmeno lui ricordava più come utilizzare per non esserne sopraffatto e ridursi ad essere lui quello controllato dalla sua stessa forza.

Phobos aveva sempre amato il potere, come tutti probabilmente, ma se c’era una cosa che le centinaia d’anni di compagnia a quel povero disgraziato gli aveva insegnato era che c’era qualcosa che amava ancora di più dello sconfiggere Harmonia.

E cioè il trombaris.

Tutti amavano il trombaris… tranne Manny, quale sconsiderata l’avrebbe data a quella palla di lardo rotolante che nemmeno Sandy?

Manny che scopava o meno, Sandy che si faceva le sue bambole gonfiabili tutte sabbiose e sbrilluccicanti o no, alla fine Comet si era decisa a tentare il tutto per tutto, anche se prima c’erano stati altri tentativi di farlo ragionare:

«Non vedi come accidenti ti sei ridotto? Per tutte le stelle di Mother Galaxy, cerca di riprenderti almeno un secondo, provac-­» non finì che venne zittita:

«Non ho più bisogno di te, né degli altri, e nemmeno del tuo pollo che sta correndo via urlando“coccognè coccognè!”: non ho bisogno di nessuno, nessuno!» le disse avvicinandosi a meno di un palmo da lei, i loro sguardi che si erano incontrati un’altra volta, ma Comet non dava alcun segno di cedimento, anzi:

«Ora come ora anche tu sei d’intralcio, lo sei sempre stata: ho dovuto aspettare solo oggi per poter finalmente riprenderm-­»

«Senza di me saresti ancora chiuso nell’Abisso.»

«Non mi servivi tu! Potevo fare da solo!»

«Ah sì, e come? Non mi risulta che tu sia mai riuscito a combinare qualcosa, o mi sbaglio? Eh? Eh Phobos? Mi sbaglio? Eh? Eh?»

«Io non… no! Cioè in realtà sì… no… oh avanti, smettila di confondermi!

Mettiamola così: ci sono cose dove si deve essere in due, ok? E fra queste cose c’è anch-­» questa volta fu lui ad essere zittito.

Con un passionale bacio in cui era stato trascinato dalla ragazza, tra l’altro.

Nessuno dei due capì il perché, né tantomeno Halley riuscì a capacitarsi del motivo per cui le sue labbra avevano toccato quelle dell’altro aveva sentito una stilettata che le era scesa lungo tutto il corpo mozzandole il respiro, stava di fatto che, anche questa volta, era riuscita nel suo intento di calmare la situazione: in modo probabilmente inconscio la telecinesi di Phobos era riuscita a frenare il crollo delle pareti dell’Abisso evitando il disastro per poi riparare ai danni fatti riportandole tutte al loro posto, l’incendio di fiamme nere che stava addirittura liquefacendo il terreno si era improvvisamente spento senza apparente motivo e, cosa più importante, il marchio sulla mano di Phobos aveva smesso di brillare, furtivamente coperto da Vomet con un lembo dle proprio vestito.

 

Ne era seguito un silenzio a dir poco imbarazzante, soprattutto quando Phobos le era crollato fra le braccia stremato con gli occhi, a quanto pare tornati alla loro consueta vitalità, ridotti a due fessure per lo sforzo; per lei, forse per pietà o forse perché per qualche istante si era davvero preoccupata, cosa rara per una menefreghista come lei, era risultato naturale stringerselo al pettoin un abbraccio stranamente materno:

«Fra le cose da far ein due c’è il trombaris, soprattutto quello.» disse sorridendo come suo solito mentre l’altro la guardava stranito.

Phobos aveva impiegato qualche secondo a realizzare l’accaduto, con molta probabilità perché era ancora mezzo intontito da ciò che aveva fatto, ma alla fine aveva fissato la compagna con lo sguardo perso:

«Cosa ho combinato… cosa accidenti ho combinato…» sospirò fra sé e sé:

«Comet? Sei ancora intera? Porca merda pensavo di averti ucciso m-male, io non… non so c-cosa… cosa d-dire… io non… non volev-­»

«Nah, ci vuole di più per mettermi fuori gioco, se non ci sono riusciti i Cavalcadraghi Incestuosi Distruggimondo, piuttosto dimmi un po’, come ti senti? Ancora rincoglionito?» domandò senza ricevere inizialmente risposta.

L’altro si guardò addosso rendendosi conto di essere rimasto praticamente mezzo nudo, ma il problema non era il pudore dal momento che quello lo aveva abbandonato da un pezzo, il problema era il braccio che, forse confuso o magari no, aveva fatto per toccarsi levando il lembo del vestito di Halley; lei però lo fermò prontamente:

«Hai già perso il controllo una volta, fermati e lascia fare a me» lo rimproverò poggiando la sua mano su quella dell’altro per fermarlo, poi si allontanò ed iniziò a frugare nel borsone che si era portata dietro tirandone fuori alcune bende, che iniziò prontamente ad avvolgere intorno alla zona del braccio di Phobos coperta dal marchio.

Lui non si oppose a nulla, rimase solo a guardare indifferente con la testa chinata verso il proprio polso mentre i segni che lo solcavano sparivano ad ogni giro della benda bianco latte:

«Non intendevo dire quello che ho detto, davvero.» cercò di scusarsi mentre l’altra faceva un nodo all’altezza del gomito:

«Mh? Ah sì, non devi preoccuparti: sai meglio di me che l’opinione degli altri non mi fa né caldo né freddo quindi stai tranquillo e pensa a riprenderti, non puoi uscire dall’Abisso in questo stat-­» stava dicendo quando si trovò le mani di Phobos appoggiarsi con una delicatezza innaturale sulle spalle per poi scendere sui fianchi ed infine indugiare qualche istante sul suo ventre, quasi stesse decidendo sul da farsi, i brividi gelati di prima che si trasformano in una calda scarica che le aveva piacevolmente percorso il corpo facendole istintivamente inarcare la schiena.

Quell’improvviso cambiamento d’umore non la disturbava affatto, soprattutto quando aveva chiuso gli occhi per concentrarsi al meglio sulla sensazione delle mani di Phobos che erano andate esplorando ogni centimetro che incontravano nella lenta ma inesorabile discesa verso il basso per trovare le curve che stava cercando, esplorandole come un bambino desideroso di succhiare il latte dal petto della madre e, sperando che quella scena non si ripetesse anche nell’Abisso, Comet si era abbandonata a quel turbine di emozioni lasciandogli fare.

Ad un certo punto sentì il suo respiro contro il suo collo, un suono profondo e regolare che riusciva sempre e comunque a rilassarla, poi si diede al morderle il collo nemmeno fosse un vampiro, prima delicatamente e poi con un ardore sempre crescente: le mani di Phobos che si tuffavano sotto il vestito facendosi strada verso ben altre curve, il movimento felino con il quale era passato dall’accarezzarle delicatamente i lati dei seni per poi concentrarsi all’esplorazione di tutta la loro superficie era stato qualcosa di dannatamente magico, tanto che non era riuscita a trattenere un gemito di piacere che si era promessa di risparmiarsi, il tutto affondando il viso nei morbidi capelli cremisi del suo scopamico.

Per quanto però Halley si stesse divertendo, e per quanto ormai si fosse praticamente accucciata sul petto dell’altro ansimando, c’era stato un momento durante il quale gli aveva afferrato la mano bloccando quel suo viaggio erotico nel quale si stava destreggiando ed era stata lei a cercare le sue labbra per cercare un bacio passionale, quasi famelico: adorava quei momenti, quelli durante i quali nemmeno i ricordi appannati che tormentavano Phobos ogni istante potevano disturbare i loro rapporti, erano qualcosa di assolutamente magico.

Erano andati avanti qualche istanti, poi lui le aveva dato tregua sistemandole i capelli arruffati:

«Sei già stanca, mia piccola stella solitaria?» le domandò accarezzandole il volto intanto che premeva la propria fronte contro quella dell’altra:

«Oh no, abbiamo appena iniziato, ma ho un’idea geniale.» propose lei accennando un sorriso malizioso che aveva inevitabilmente incuriosito l’altro:

«Spiegati meglio, avanti.» le chiese mentre l’altra gli sfiorava le labbra con l’indice come a farlo tacere qualche istante:

«Facciamo trombaris lassù» spiegò indicando la luce del Sole che filtrava dall’entrata dell’Abisso:

«Abbiamo già fottuto Manny, tanto vale fottere due volte quelli che se ne stanno fuori da questo buco di posto scopando allegramente nei roseti di Phantasia, non credi?» domandò curiosa.

Era un’idea geniale.

Assolutamente, dannatamente, perfettamente geniale.

 

E c’era voluto poco perché la mettessero in pratica, ovviamente dopo essersi messi addosso alla bene e meglio qualche straccio preso qua e là dal leggendario borsone di Halley che nemmeno Mary Poppins poteva vantare.

L’uscita ufficiale dall’Abisso Phobos l’aveva sempre immaginata come qualcosa di terribilmente epico, una scena di quelle che sarebbero rimaste impresse nella mente dei suoi nemici per tutti i secoli a venire, e la loro non aveva nulla da invidiare ai film mentali che si era fatto: l’Abisso stesso era stato pervaso da un rombo dirompente, un ruggito ancestrale che l’aveva fatto tremare ancora una volta, poi era scesa un’inquietante calma talmente piatta che anche il vento sembrava aver smesso di soffiare.

E alla fine niente, si era scatenato il caos.

Forse l’Abisso era fuori pericolo dall’imminente crollo che per poco Phobos aveva causato, ma l’improvviso lampo di luce che era seguito all’assoluto silenzio era stato così intenso da aver illuminato tutto intorno più intensamente di quanto potesse mai fare il Sole, un bagliore probabilmente visibile anche agli occhi di Manny da quanto era penetrato a fondo nella nebbia, poi nelle nubi ed infine attraverso l’etere dello spazio.

Comet era stata la prima a venirne fuori, e lo aveva fatto in grande stile: le braccia aperte verso l’immensità delle superficie, circondate anche loro dall’alone di altofuoco color magenta che si dimenava come se fosse un serpente rabbioso, le donavano l’insolito quanto singolare aspetto di una stella nel pieno della sua vitalità, un piccolo astro che dietro tutta quella bellezza cosmica nascondeva una forza talmente grande da essere distruttiva sia per se stessa che per gli altri:

«Muovi il culo signore dei gatti! Voglio vedere cosa ti sei inventato!» lo incitò sedendosi evidentemente nel nulla mentre levitava con quel suo sguardo strafottente di chi se ne frega di tutto e di tutti.

Lei gli aveva chiesto un’uscita memorabile, e Phobos l’aveva accontentata: c’era stato un brontolio sinistro nell’Abisso quando Halley aveva voltato lo sguardo, ma era subito stato sopraffatto da una vampata di fiamme nere come la notte che erano andate attorcigliando una sull’altra fino quasi a toccare il cielo, un turbinio disordinato che era andato a ghermire l’aria fino a quando non si era rappreso in un’enorme sfera violacea ad una decina di metri da terra, forse qualcosa di più.

Sembrava fatta d’acqua, quella sfera, una sorta di bolla viola percorsa un po’ ovunque da sottili filamenti nerastri in continuo movimento, in una perpetua danza plasmata dall’oscurita; poi, quasi come se fosse stata scoppiata da un ago, anche quella si ruppe ricoprì di crepe su tutta la sua superficie e si ruppe improvvisamente, mossa da chissà quale forza: la maggioranza dei resti del guscio di quella sorta di uovo primordiale si erano presto trasformati in piccole fiammelle incandescenti, meteoriti che andavano a schiantarsi a terra bruciando e distruggendo ciò con il quale venivano a contatto mentre altri, per un movimento frutto di chissà quale sortilegio, avevano preso ad ammassarsi assumendo le sembianze di un qualcosa di non meglio definito, ma che sicuramente era enorme.

Comet aveva impiegato qualche secondo per mettere a fuoco la situazione, anche perché non ci stava capendo moltissimo, ma quando c’era riuscita era rimasta dannatamente abbagliata da tanta magnificenza: un leone, un gigantesco leone completamente nero fatta eccezione per gli occhi dorati che scrutavano inquieti il terreno lì intorno, un mostro fatto di magia ed oscurità che aveva lanciato un ruggito udibile a centinai e centinaia di chilometri di distanza.

E sulla sua testa, quasi a dominare tutta l’area intorno come il maschio alpha di un branco, c’era Phobos con le braccia rivolte verso la bestia e gli occhi con la pupilla quasi resa invisibile dalla coltre di magia che lo stava inebriando: erano bastate poche parole pronunciate in chissà quale lingua perché quel mostro chinasse il muso e facesse scendere il padrone dissolvendosi in polvere nera poco dopo, un chissà quale sortilegio che per quanto fosse meraviglioso gli era costato parecchio in termine di energie, ma almeno l’applauso di Halley fu più che meritato.

Fu solo allora che Phobos le si avvicinò mettendole un braccio intorno al collo e tirandola verso sé:

«Trombaris nei roseti di Phantasia, milady?» domandò curioso mentre l’altra, proprio come una nobildonna, faceva un breve inchino allungandogli una mano che lui prese doclemente:

«Trombaris nei roseti di Phantasia, milord.»

 

Nord aveva subito capito che c’era qualcosa che non andava quel giorno, ma non capì il perché subito: forse era il suo sesto senso di Guardiano, forse erano i pregi dell’esperienza lavorativa come tale, forse la vodka che faceva effetto.

O forse era semplicemente perché in uno dei suoi mappamondi, esattamente uguale a quello con il quale sorvegliava la Terra tranne per il fatto che fosse in formato giga enorme, si era illuminato un insignificante quanto fastidioso puntino rosso lampeggiante.

Nord allora si avvicinò lisciandosi la barba inquieto, quasi sentisse nell’aria che qualcosa non andava, e infatti rimase di pietra quando osservò meglio la posizione della pallina birbantella:

l’Abisso di Phantasia, il Regno della Fantasia.

 

Il Regno della Regina della Fantasia.

Il Regno di Harmonia.

Cazzo.

 

Buon Manny.

Per tutti i cavalca draghi incestuosi.

Accipigna.

Perdindirindina.

Porca di quella merda.

Svegliatosi dal temporaneo letargo post-trauamtico il Guardiano si affrettò a chiamare a raccolta i suoi fidati yeti impartendo ordini a destra ed a manca:

«Andate da altri Guardiani e avvisate loro, dite che situazione grave abbiamo! Muovete culo pulcioso! Correte dannati giganti pelosi da piccolo cervello!» urlò contro ai poveretti che, presi anche loro dal panico senza saperlo, si era sbrigati ad aprire portali un po’ ovunque per raggiungere gli altri Guardiani.

Non c’era più tempo da perdere.

 

 

__________________________________________

 

Angolino dell’autrice

 

Salve a tutti fandom!

Ok, ingresso molto poco epico come quello di Phobos, MA FA NIENTE :D

Comunque sia, essendo nuova nel fandom delle Cinque Leggende mi presento brevemente: sono Rising_Phoenix, di solito scrivo nel fandom di Kinnikuman, sono quella che ha millemila storie nella testa che prendono vita sulla tastiera a rilento perché è troppo occupata con il primo anno universitario, e sono alla mia prima long da queste parti (in realtà qui ho già scritto la one-shot “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, ma era una cosa veloce xD).

Che posso dire di questa fan fiction?

Innazitutto, ci sono UNA MOLTITUDINE di personaggi nuovi creati tutti dalla sottoscritta (ed io creo personaggi o quando mi vengono in mente a random o quando vedo immagini che mi affascinando particolarmente, ma non è il caso di questa fan fiction), e già in questo primo capitolo ne avete conosciuti due, Halley e Phobos, sui quali vorrei spendere due parole: Phobos è un aitante (?) personaggio bipolare di mia creazione, mentre Comet E. Halley mi è stata gentilmente regalata dalla mia dolce puledra (non fatevi domande :D) letteraria che è _Dracarys_, che si è anche occupata del suo background e della definizione della sua personalità, dovendo essere io a gestirla xD

Ecco, ora mi soffermerei un attimo su questa bella persona: credetemi se vi dico che senza di lei non avrei MAI pubblicato questa long (soprattutto perché ho cambiato storie dei vari oc ed idee TROPPO spesso xD), ero dannatamente insicura sul fare un esordio con una fan fiction di tale portata dopo il successo leggermente scarso della one shot, ma mi ha supportato e ripetuto di crederci fino a quando? Ieri sera?

Quindi voglio dirle grazie, grazie tantissimo per tutto quello che fai nel darmi la tua opinione sulle dubbie scelte di trombaris in questa long <3

Passata la parte piena d’ammmore, cosa devo dirvi d’altro?

Ah sì, scusate per la lunghezza IMMENSA, ma non volevo tranciare in due un capitolo importante come questo: se siete arrivati a leggere fino a questo punto vi ringrazio tantissimo, non potete immaginare quanto sia importante per me vedere che qualcuno apprezza (spero!) quello che scrivo, soprattutto perché è la prima long seria qui!

Quindi basta, ho detto tutto, solo una cosa: vi lascio il disegno fatto da _Dracarys_ dell’uscita trionfale di Halley e Phobos dall’Abisso, ci tiene a precisare che è un disegno vecchio di almeno un anno perché adesso è migliorata come non so cosa :D

Niente gente, arrivederci al prossimo capitolo e buona permanenza in questa long dove si incroceranno Guardiani dubbiosi, giumente vogliose e complotti intergalattici (ma questa è un’altra long, QUINDI NON FATECI CASO) che nemmeno in Game of Thrones.

Al prossimo capitolo!


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Capitolo 2
*** Come una scacchiera ***


Alla fine i Guardiani erano anche riusciti a riunirsi tutti al covo di Nord, solo che la sua agitazione metteva tutti in un costante stato di allerta che, almeno alla loro vista, era del tutto ingiustificata: Calmoniglio che batteva furiosamente la zampa a terra con le braccia incrociate, Dentolina che svolazzava a destra ed a sinistra senza tregua, Sandman che osservava perplesso, Nord che camminava per la stanza con aria severa.

E poi c’era Jack Frost, beatamente assopito nella propria ignoranza, che proprio non capiva tutta quella preoccupazione per la convocazione sua e degli altri Guardiani: era dalla sconfitta di Pitch Black che Nord non li riuniva tutti insieme, anche perché dopo il suo delirio di onnipotenza era seguito un periodo di pace e calma piatta, eppure il Guardiano del divertimento sentiva nell’aria che gli spirava addosso un qualcosa di terribilmente sinistro, come se una qualche forza fosse finita per inquinare anche il vento.

Quel suo atteggiamento di costante disinteresse verso i problemi che affliggevano gli altri Guardiani probabilmente lo rendeva anche il meno considerato fra i presenti, e forse era proprio per questo che gli altri quattro parlottavano fra loro senza nemmeno guardarlo, motivo per cui aveva deciso di intromettersi con decisione nel discorso:

«Ragazzi! Ragazzi, avanti! Di cosa parlate, eh? Di cosa parlate? Eh? Eh?­» iniziò a chiedere senza ottenere nulla in cambio, ma i suoi dubbi erano presto stati sciolti dal Guardiano più anziano:

«Immagino volete sapere perché ho riunito Guardiani in periodo di pace, o almeno spero che domanda sia questa perché ho preparato discorso.» asserì fermandosi in mezzo alla stanza e prendendo posto su una grossa poltrona di velluto rosso per poi invitare gli altri a fare lo stesso, ma da parte sua Calmoniglio si rifiutava di fingersi tranquillo:

«Evita i giri di parole e vieni al punto Nord, non ho lasciato la mia sessione quotidiana di pittura delle uova per ascoltare i tuoi discorsi che fra un’ora non avranno portato a niente di niente.» si lamentò sbuffando annoiato, e in effetti il suo stato rifletteva quello un po’ di tutti.

Il vecchio Guardiano stava per rispondere alla frecciatina del coniglio pasquale, ma si era trattenuto iniziando a massaggiarsi le tempie recitando un misterioso mantra per mantenersi lontano dalla voglia di stufato di prima mattina, cosa che però servì a ben poco dato che si rivolse verso Sandman, ovviamente occupato a mantenere la sua costante calma:

«Manda Jack a prendere rosmarino, tra poco cuciniamo coniglio che si lamenta e mangiamo lui in panino farcito: io non mi divertire a girare intorno a discorso, tu divertire a farlo!» gli disse inarcando le sopracciglia puntandogli contro il dito:

«Io? Io stavo lavorando! Pasqua e vicina e tu cosa fai? Ci convochi così a caso!» rispose impettito alzando lo sguardo con fare minaccioso:

«Guardati intorno, Nord: quello spilungone maleodorante è stato ricacciato dal buco dal quale veniva, i bambini credono di nuovo in noi e siamo belli freschi a goderci la pace che abbiamo faticato a conquistare, per quale motivo dovremmo pensare che c’è un problema?» fece notare incrociando le braccia ed esibendo un facepalm degno di Manny in persona.

Nord da parte sua non sapeva più cosa fare per convincere Calmoniglio a darsi una calmata, ed ascoltarlo, così aveva optato per smetterla con le buone maniere ed iniziare ad affrontarlo faccia a faccia, o forse faccia a muso:

«Stammi a sentire, coda pulciosa, ho già detto che non mi divertire a convocare Guardiani, se dico che abbiamo problema allora abbiamo problema, chiaro o no?» asserì sperando di averlo finalmente convinto, ma l’altro gli puntò l’indice sulla pancia:

«Sorvolerò sul fatto che mi hai chiamato coda pulciosa, panzone ubriaco, ma fino a quando qualcuno non mi dimostrerà che abbiamo realmente un problema non intendo nemmeno muovere una zampa, ok?­» rispose a tono drizzando le orecchie, poi si girò di scatto e fece per uscire dalla stanza:

«Ed ora signori, se volete scusarmi, ho delle uova da dipingere mentre voi state qui a fare GNEGNEGNE tutto il giorn-»

«Hanno violato l’Abisso, Phobos è libero.» disse semplicemente Nord con freddezza, abbastanza perché al coniglio pasquale si rizzasse la pelliccia solo a sentire quelle parole.

 

Poi il silenzio.

Il gelo.

E non era quello sprigionato normalmente da Jack Frost.

 

Nessuno aveva proferito parola, tutti erano come rimasti pietrificati al solo sentire pronunciare quel nome: Phobos, lo stesso che era stato imprigionato non senza difficoltà in quella spaccatura nel terreno conosciuta come Abisso, era davvero riuscito ad evadere dalla sua prigionia?

Certo che c’era riuscito, ma per loro sfortuna non erano ancora al corrente di tutto ciò che era accaduto su Exodus, motivo per cui ai loro occhi no, non poteva esserci riuscito, d’altronde non ce l’aveva fatta fino a quel giorno.

O almeno quello era ciò che tutti i Guardiani si ripetevano come una cantilena per cercare di convincersi che la verità fosse quella.

Ma Nord non diceva stronzate, e tutti lo sapevano fin troppo bene.

Persino Calmoniglio aveva improvvisamente abbassato le orecchie stringendo i pugni fino a quando non iniziò a provare dolore, e tutti i Guardiani erano finiti per guardarsi confusi l’uno con l’altro nella speranza di scorgere in almeno uno di loro un minimo di sicurezza:

«Avanti Nord, fai il serio e smettila di prenderci in giro, sappiamo entrambi che l’Abisso è inviolabile, figurarsi poi da qualcuno che non ha poteri, ah!» cercò di sdrammatizzare ridacchiando nervosamente per convincere anche se stesso, ma lo sguardo freddo e distaccato del Guardiano aveva parlato per lui.

Nessuno sapeva bene cosa dire, così prese parola Dentolina, visibilmente spaventata ed addirittura tremante:

«Calmoniglio ha ragione: Phobos è stato privato dei propri poteri da secoli, ed anche le sue creature sono state imprigionate, non vedo motivi per cui preoccuparci, giusto?» domandò sbattendo furiosamente le ali evidentemente disturbata da quella surreale situazione, ansia alla quale si aggiunse quella palpitante del coniglio pasquale:

«Nord. Seriamente. Non può essere scappato. Vero? Vero?» disse per trovare una conferma delle proprie parole, prendendo di rimando solo il silenzioso cenno di Nord di seguirlo in una stanza che per Jack Frost si rivelò essere del tutto nuova.

 

 

Era uno spazio immenso, grande decine di volte il quartier generale del vecchio Guardiano dove si trovava quella sorta di mappamondo luminoso, con le pareti di un blu talmente profondo da sembrare quasi nero interrotto qua e là da sottile filamenti multicolore che andavano tutti a confluire in ciò che aveva catturato lo sguardo del giovane Guardiano, probabilmente perché occupava buona parte della grandezza di quello spazio misterioso: sullo sfondo di quella che sembrava una vera e propria volta stellata, con tanto di Costellazioni, se ne stava in un angolo in alto, quasi invisibile in tutta la struttura, lo stesso globo che vedeva e rivedeva nella stanza principale del palazzo di Nord, così piccolo rispetto alla grande stella dorata che se ne stava al centro dell’intricato labirinto che gli si parava davanti, circondata su tutti i lati da altre sfere più o meno grandi.

Avvicinandosi di più Jack notò che la stella centrale era in realtà una sorta di composizione che ricordava vagamente un castello immerso nello spazio più profondo, recante sopra la scritta “May the stars shine forever”, “Che le stelle possano brillare per sempre”: una frase rincuorante, pensò il giovane Guardiano che, ovviamente incuriosito, era finito per spostare lo sguardo all’altezza di quella che riconobbe essere la Costellazione di Orione, e allora non si sentì più così rincuorato come lo era stato prima.

“Conquest and Destroy”, “Conquista e Distruggi”.

Proprio una cosa tanto bella.

Poco più sotto a quella scritta, in un punto non meglio definito di quella sorta di mappa galattica, vide poi una forma che ricordava vagamente, molto vagamente, una sinuosa fenice azzurro ghiaccio la cui coda si snodava fino ad incontrare altre due stelle poste ai due estremi della Costellazione dello Scorpione, una rosso intenso ed una verde acceso, il tutto ovviamente coronato dai soliti motti che poco lasciavano all’immaginazione: le ali dell’uccello recavano la scritta “Soar higher than yesterday, lower than tomorrow”, “Ergersi più in alto di ieri, più in basso di domani”.

Poco ambiziosi a quanto pare, giusto un po’ megalomani.

L’altra scritta invece aveva lasciato Jack piuttosto perplesso, ma allo stesso tempo l’aveva fatto ridere male guadagnandosi gli sguardi interrogativi degli altri: “Take it from behind”, “Prendetelo da dietro”.

“Prendetelo da dietro” cosa, esattamente?

Non voleva nemmeno saperlo, ma le sue risate avevano parlato per lui e le guance di Dentolina, improvvisamente colorate di un tenue alone di imbarazzo, gli avevano fatto capire che sì, era proprio quello ciò che bisognava prendere da dietro.

Quella gente aveva fantasia a scegliere frasi ad effetto, anche troppa.

Jack Frost era talmente occupato a mantenere la bocca aperta per lo stupore che aveva ignorato tutto ciò che gli stava accadendo intorno, compreso Nord che gli si era avvicinato intuendo ciò che aveva catturato l’attenzione del giovane Guardiano:

«Questo è Palazzo di Creazione» disse calmo indicando la grande stella al centro:

«Sua sovrana è Mother Galaxy, proprio lei: donna potente, Jack, più potente di nostro Uomo di Luna, e tu sapere perché?» domandò all’altro, che però scosse la testa:

«Allora ti dire io perchè: lei fa brillare stelle, stelle che illuminano buio, e buio essere pericoloso in spazio senza confini, molto pericoloso.» asserì toccando dei puntini luminosi biancastri che si mossero sullo sfondo nero-bluastro della stanza come stelle cadenti, per poi posarsi sul naso di Jack Frost e scomparire in una nebbiolina biancastra che lo aveva lasciato a bocca aperta.

Nord si girò verso il giovane, che per poco non finì con la testa contro la sua immensa pancia, e spostò l’indice sulla Costellazione di Orione che tanto aveva inquietato Frost:

«Loro invece essere Chandrasekhar, signori di guerra più potenti che Galassia conosca: loro capo è Idhunn Orionis Chandrasekhar, donna più temibile che tu puoi avere sfortuna di incontrare, sempre se tu riuscire a toccare suoi confini.» spiegò seguendo con il dito la sagoma della Costellazione nella sua immensità, per poi spostare il proprio sguardo su Jack che tremava nemmeno gli avessero detto che non aveva nevicato durante la notte.

Jack si era anche accontentato di quella spiegazione palesemente ambigua, ma Calmoniglio aveva dato una gomitata divertita a Frost per poi mettergli una mano intorno alle spalle mentre con l’altra gli indicava la fenice che si stagliava diafana in quella sorta di cielo:

«Quello invece è il regno di Jexiha Eclypsis Aeternae, una donna decisamente poco raccomandabile sotto certi punti di vista dalla quale è meglio stare lontani: se si sveglia con le piume arruffate apriti cielo, per non dire Galassia!» gli disse scherzoso scompigliandogli i capelli, ma Nord non sembrava totalmente d’accordo con la sua spiegazione piena di frecciatine:

«Ciò che coda pulciosa volere dire è che sovrana di Costellazione di Fenice non essere cattiva persona, ma mettere interessi verso polvere di stelle prima di altro: Jexiha è potente alleata di Chandrasekhar, ma anche lei dovere sottostare a loro se non volere problemi.» rettificò atteggiandosi come un vecchio professore voglioso di insegnare.

Un dubbio però era ancora nella mente di Jack, ma ci pensò Sandy a sbrogliarsi velocemente: il Guardiano fece prima apparire una ciambella fatta di polvere dorata, poi un wurstel, e allora indicò la Costellazione dello Scorpione iniziando a fare movimenti ambigui con le due pietanze, salvo poi essere fermato da un’imbarazzata Dentolina:

«Sanderson Mansnoozie! Per tutti i denti cariati abbi un po’ di riguardo!» lo sgridò mentre lui rotolava via tenendosi la pancia dal ridere.

Il facepalm di Calmoniglio che ne seguì scatenò anche le risate di Nord, il quale guardò Jack che se ne stava a metà fra il divertito ed il traumatizzato a vita al quale era stata appena bloccata la crescita, se mai fosse cresciuto:

«Alexia Dhambros preso molte delusioni amorose, per questo suo motto è che persone hanno messo in suo didietro loro pen-­»

«Smettetela con queste cose! Siete vergognosi!» intervenne nuovamente la fatina dei denti mentre si chiudeva le orecchie con le mani iniziando a canticchiare sopra ciò che dicevano gli altri Guardiani intorno a lei, tutti lieti che finalmente l’atmosfera cupa di prima si fosse almeno leggermente dissolta lasciando poste a battute di pessimo gusto, ma sempre battute erano.

A quel punto Jack stava capendo anche qualcosa, fra uccelli a destra ed altri uccelli a sinistra, ma una stella verdastra collocata sull’altra estremità della Costellazione dello Scorpione l’aveva incuriosito, dal momento che non aveva nessuna scritta:

«Il suo motto quale sarebbe?» chiese perplesso, prendendosi di rimando lo sguardo altrettanto confuso di Nord che fece spallucce:

«Nessuno avvicinato mai abbastanza per chiedere a Tayaran quale essere suo motto, Jack Frost, strega di fuoco verde è tanto misteriosa quanto acida quando suoi incantesimi non funzionare, soprattutto incantesimo di trasformare sassi in pizze: meglio non fare domande su lei, o potresti trovare tuo letto con fuoco, e allora tu diventare pizza fumante, ah!» lo liquidò lasciando più inquietato di quanto già fosse per via della storia dei Chandrasekhar.

Dopo essere tornato con i piedi per terra al seguito dei violenti brividi che gli avevano percorso la schiena, una cosa decisamente rara per lo spirito dell’Inverno, si era ricomposto ed avvicinato ad un minuscolo quanto insignificante pallino luminoso rosso scarlatto che lampeggiava incessantemente sulla superficie di un altro di quei globi, che recava la curiosa scritta “May Her hooves never be shod”, “Possano i suoi zoccoli non essere mai ferrati”.

Il Guardiano stava per allontanarsi quando l’altro si riprese dal suo temporaneo stato di torpore e subito afferrò la manica della sua giacca per chiamarlo:

«E questo?­» chiese indicando curioso il puntino rosso lampeggiante; il viso di Nord si  era improvvisamente trasformato in una maschera che non lasciava trasparire nessuna emozione, ma poco dopo aveva cercato di sembrare perfettamente calmo:

«Quello è Abisso, luogo più oscuro che tua mente possa mai immaginare, ancora più oscuro di lato nascosto di Luna dove abita l’Altro, ma tu giovane Guardian-»

«Nord! Per l’amor dei molari taci!» lo interruppe Dentolina volando vicino a lui con un guizzo repentino e tappandogli la bocca con le sue mani coperte di soffici piume variopinte.

Ma era troppo tardi, e dagli sguardi attoniti dei compagni anche Jack lo aveva capito.

«Momento momento momento!» lo interruppe bruscamente sbattendo il proprio bastone contro le pareti, che risposero con un sordo eco sinistro:

«Posso capire di essere il novellino, che magari ci siano cose delle quali non mi avete mai parlato, ma siamo sinceri: l’Abisso? Il lato nascosto della Luna? L’Altro? Ragazzi, ma di cosa state parlando?» aveva subito domandato Jack non più incuriosito quanto insospettito, sospsetto che venne messo da parte piuttosto velocemente:

«Ma no Jack, nulla di importante, non ti nasconderemmo mai nul-­­»

«Lo state facendo, e vorrei delle risposte: le esigo, me le dovete.» ordinò con aria severa, talmente tanto da non sembrare nemmeno lo scherzoso Guardiano del Divertimento.

 

E allora il brusio di sottofondo, provocato dai Guardiani che confabulavano fra loro rimproverando il povero Nord, colpevole di aver parlato troppo, si era improvvisamente interrotto, quasi come uno sciame di fastidiose mosche spazzato via dalla brezza che spirava dietro il giovane Guardiano, che al momento sembrava leggermente nervoso.

Nessuno aveva osato proferire parola dato che parlare di quello sarebbe stato difficile per tutti, ma alla fine Jack aveva ragione: c’erano complotti che lui non conosceva, stelle che brillavano dove non avrebbero dovuto farlo, fratelli che tornavano per riprendersi ciò che avrebbe dovuto essere loro, famiglie talmente potenti da poter spazzare via il creato con il semplice schiocco delle dita, c’erano Abissi dove erano stati gettati problemi, ricordi, nostalgie, dolori, sofferenze, promesse.

E persone, soprattutto quelle.

 

Il silenzio che era seguito all’ordine di Jack era stato imbarazzante ed inquietante allo stesso tempo, sembrava quasi che persino il tempo stesso si fosse fermato dalla curiosità di conoscere la risposta alla domanda del giovane Guardiano, ma alla fine Nord aveva raccolto tutto il coraggio che sentiva di avere dentro e si era limitato ad avvicinarsi a Jack, che lo guardava non senza diffidenza, per poi fargli mestamente strada verso una stanza collegata a quella in cui si trovavano: era più o meno grande quanto l’altra, con le pareti bianco latte ed un arredamento che, fatta eccezione per librerie che si innalzavano per metri e metri fino all’apertura circolare sul soffitto, decisamente molto sobrio composto da un grosso tavolo centrale ed una dozzina di sedie poste intorno ad esso.

Dopo aver fatto accomodare tutti, compreso Frost che si era quasi sdraiato sulla sedia, Nord aveva fatto per prendere una teiera che gli era gentilmente portata da uno dei propri yeti, il tutto fingendo di non vedere l’impazienza negli occhi del giovane Guardiano: probabilmente Jack temeva che stesse per prenderlo in giro con un’altra delle sue storie come faceva sempre, giusto per distrarlo dal vero obbiettivo, ma aveva dovuto ricredersi quando si era trovato faccia a faccia con i volti di tutti gli altri, con un velo di tristezza a nascondere la gioia di pochi istanti prima e gli occhi ridotti a due fessure dalle quali non traspariva nulla se non un crescente senso di sconfitta.

Il primo a prendere parola fu proprio Nord, il quale cercava di distrarsi fissando il fumo che fuoriusciva dalla tazza ancora bollente:

«E’ stato molti secoli fa, Jack, tanto tempo è passato, ma noi Guardiani ricordare bene grande guerra di Luna, anche troppo bene» disse mentre il costante battere della zampa di Calmoniglio faceva vibrare il tavolo creando onde concentriche nel tè:

«Risparmierò te dettagli, ma questo devi sapere: grande guerra si è scatenata quando Uomo di Luna ha deciso di combattere l’Altro, così noi chiamiamo signore che vive su Lato Nascosto di satellite, guerra sua che diventata guerra nostra, di tutti Guardiani.» raccontò stringendo il manico della tazza così tanto che sembrava fosse pronto a rompersi da un momento all’altro.

Calmoniglio, già visibilmente agitato, diede un colpo con la zampa ad una sedia facendola cadere rovinosamente:

«E certo che è diventata la nostra guerra, mica potevamo starcene fuori, ti pare Jack?» lo canzonò con aria severa «Quando ti dicono “Come vi ho creato, io vi distruggo!” non è che hai molta scelta, soprattutto se devi la tua stessa esistenza ad una palla di lardo rotolant… no Sandy, non parlo di te.» precisò facendo un cenno al Guardiano dei Sogni, che nel frattempo aveva incrociato le braccia sembrando offeso dall’affermazione.

L’Uomo della Luna… che minacciava i Guardiani?

Manny, così osannato per la sua indole pacifica e del proprio ammmore verso i Guardiani che lui stesso aveva creato, che iniziava una guerra contro qualcuno?

No, non poteva essere lui, gli altri cercavano solo di confonderlo.

Jack si era quasi sentito tirato in causa a quelle parole, le stesse che dipingevano l’uomo che gli aveva ridato la vita come un mostro:

«State mentendo!» sbottò all’improvviso sbattendo con violenza i pugni sul tavolo:

«Manny non è così! Io lo conosco! Voi lo conoscet-»

«Lo conosciamo?» ripeté Calmoniglio alzandosi ed avvicinandosi a Jack per poi puntargli minacciosamente un dito al petto:

«Il tuo Manny, il tuo caro Uomo nella Luna, ha lasciato che sterminassero la mia gente, Jack Frost, lo ha permesso senza nemmeno battere le sue lunghe e grasse ciglia biondo platino: non mi credi forse? Chiedi a loro, avanti!» lo provocò prendendosi di rimando solo uno sguardo ammutolito.

E allora fu lui a parlare, se Frost non voleva farlo, indicando prima Dentolina:

«Racconta al nostro amico Jack di come l’Uomo nella Luna ha lasciato che l’Altro spazzasse via il tuo regno, dille di come ha ammazzato le tue sorelle e tua madre! E tu Nord, sì, proprio tu…» continuò indicando il vecchio Guardiano, i cui occhi si erano incupiti a tal punto da non capire più se quello che provava fosse imbarazzo o dolore:

«Spiega a Jack come ti ha fatto trovare il corpo di Olga, la tua Olga, impalato sulle corna del tuo Rudolph, spiegagli quanti anni sono passati senza il Natale!» lo accusò puntando infine il dito verso Sandman, che intanto aveva abbassato lo sguardo:

«E tu Sandy, proprio tu che eri l’amicone di Manny… alla faccia, ah!» disse con una risata amara e piena di rancore «Narra a Jack di Phobos, dei tuoi inutili tentativi di salvargli il culo prima che l’Altro gli riducesse il cervello ad una pappetta molle che ha potuto plasmare a suo piacimento, di come lo abbiamo sbattuto in una fottutissima voragine su di un pianeta in culo all’Universo! Raccontaglielo!» concluse con il respiro che gli moriva in gola per quanta rabbia aveva messo in quelle parole, quelle che Jack chiamava “GNEGNEGNE ditemi la verità GNEGNEGNE”.

 

Ancora una volta, l’ennesima in quella giornata, il silenzio era calato sui Guardiani, soprattutto su Jack che guardava Calmoniglio mentre… aveva le lacrime agli occhi?

Calmoniglio?

Proprio lui?

Lui, che ostentava una fierezza ed una forza che nemmeno gli appartenevano, ormai sul punto di piangere come un bambino?

Ma presto si era accorto che riportare a galla quei ricordi non era stato difficile solo per il coniglio pasquale, era stato terribilmente difficile per tutti: non conosceva le sorelle di Dentolina o sua madre, non aveva idea di chi fosse Olga e nemmeno Phobos, né aveva mai sentito parlare della presunta razza dalla quale discendeva Calmoniglio, ma quelle cose, quelle che avevano appena incriminato Manny, erano troppo dolorose per non essere vere.

Aspettò qualche minuto perché tutti si ricomponessero, salvo Dentolina che era stata portata fuori dal coniglio pasquale quando era scoppiata in un pianto a dirotto, così Jack si fece coraggio per parlare con Nord:

«Manny… lui… lui dov’era?» chiese infine stringendosi le braccia al petto quasi stesse per avere un mancamento, anche se quello che sembrava sull’orlo di una crisi di pianto sembrava essere Nord, che tuttavia trovò la forza per rispondere:

«Uomo di Luna occupato a nascondere suo culo grasso mentre intera galassia combatteva l’Altro, lui non ha fatto vedere sua faccia in giro per tutta durata di guerra­» spiegò aprendo una mano e prendendo una delle piccole stelle biancastre che dall’altra stanza si era intrufolata in quella sorta di biblioteca:

«Grandi famiglie di Costellazioni si sono alleate per proteggere nostro mondo, loro mondo: Mother Galaxy salvato tutti, lei e Chandrasekhar stati decisivi per sconfiggere Altro, ma anche lei pagato prezzo per idiozia di Manny, tutti avere pagato.» spiegò prendendo da una tasca del pesante cappotto un campanellino con un nastro di velluto verde e rosso che aveva preso a girarsi e rigirarsi fra le mani con aria nostalgica.

Jack non sapeva cosa stesse passando per la mente di Nord, tuttavia non riuscì a trattenersi dall’allungare il collo per osservare meglio l’intricato mosaico di rifiniture su quel piccolo oggetto dorato e luccicante, cosa che non sfuggì all’altro:

«Olga era mia compagna, lei aiutato Guardiani quando l’Altro arrivato su Terra e minacciato distruzione di pianeta se noi non consegnare Manny in sue viscide mani» raccontò senza distogliere lo sguardo dal prezioso ninnolo:

«Avvertimento di Altro è stato fuoco, fuoco che scioglieva ghiaccio di questo regno, Jack Frost, ma fuoco non poteva spegnere volontà di resistere, non di Olga: lei donna coraggiosa, più di me e di nostri amici Guardiani, ma anche impulsiva, tanto eh!» continuò lasciandosi scappare un sorriso forzato che gli riportò alla mente ricordi che pensava di aver dimenticato:

«Olga combattuto fino a stremo di sue forze con Altro, più di quanto avere combattuto io: lei guidato slitta in viaggio senza ritorno verso mostro, lei e mie renne, nostre renne, ma lui era potente, troppo potent-­»

«Lei è morta?» domandò stupidamente Jack pentendosi subito di aver buttato lì una domanda di quel genere, sapendo già la risposta tra l’altro.

Nord impiegò qualche minuto a rispondere, e quando lo fece si sentiva chiaramente che gli stava costando un carico immenso di emozioni non troppo piacevoli:

«Morta per salvare mio regno, pochi minuti prima di mio arrivo, insieme a tutti altri Guardiani che hanno guidato Resistenza di Terra: dobbiamo a loro nostra vita, se loro non avere combattuto a nostro posto allora nessuno avrebbe fatto, a famiglie di Costellazioni non interessare nostro piccolo e inutile pianeta.» disse mettendo al proprio posto il campanello con il quale stava riportando a galla chissà quali emozioni contrastanti, ma non si era reso conto di aver dato al giovane Jack l’incipit per una nuova domanda.

La Resistenza della Terra, l’Altro, i Guardiani caduti… ecco, proprio loro: chissà chi erano, cosa proteggevano, se avevano avuto paura come lui quando aveva affrontato Pitch oppure se si erano immolati guardando in faccia la morte.

Tutti quei dubbi continuavano a ronzare prepotenti nella mente di Frost, tanto da costringerlo ad altre domande sempre più precise:

«Non voglio essere di disturbo con tutte queste domande, ma gli Altri Guardiani… insomma, loro… loro sono arrivati come me? Chi erano? Cosa proteggevano? Perché loro son-­»

«Oh oh oh, Jack, quante domande!» esclamò Nord dandogli una vigorosa pacca sulla spalla che lo fece sobbalzare, poi si picchiettò la testa con un dito come a pensare:

«In guerra partecipato sorelle Temporibus, Guardiane di stagioni su Terra: loro combattuto contro Altro per salvare grande foresta di Madre Natura quando lei fuggita, quattro sorelle avere dimostrato grande unione in combattimento, molto grande! E Vincent, Vincent Valentine, proprio lui caro Jack!» continuò facendogli l’occhiolino:

«Vincent era Guardiano di amore, lui è caduto per primo quando Altro portato disperazione in cuori di gente: nessuno creduto in amore per lungo tempo, ma Vincent cercato fino ad ultimo momento di riportare speranza, e lui riuscito darci volontà di continuare, sai?» puntualizzò notando un leggero rossore sulle guance del giovane Guardiano:

«Anche piccolo burrito farcito è mancata come suoi compagni, ma lei morta ridendo, come sempre rideva in sua vita: beffata di Altro anche prima di morire, tutti hanno sentito sua mancanza quando lei scomparsa in guerra.» gli disse notando che anche Sandman aveva accennato un sorriso:

«Ah, Sandy! Ricordi di lei, di nostra “El Burrito”? Lei piaceva che gente chiamasse così, ragazza adorava burritos!­ Devi sapere che in real-» stava dicendo quando venne interrotto dall’arrivo di Calmoniglio e Dentolina, che ormai sembrava essersi visibilmente calmata.

 

 

Nord ed il coniglio pasquale, complice l’imbarazzante discussione di qualche istante prima, non si erano guardati negli occhi da quando era rientrato nella stanza con la fata dei denti, tuttavia lo sguardo pentito di Calmoniglio sembrava parlare da solo.

I momenti che erano seguiti non erano certo stati facili, fra litigi vari e ricordi ormai dimenticati che tornavano alla mente, ma i pensieri di Jack continuavano a farsi spazio con prepotenze fra le pieghe del suo buonsenso, portandolo a fare domande inopportune: d’altronde nessuno gli aveva ancora detto chi fosse quel Phobos, e nemmeno gli avevano raccontato molto sulla questione dell’Abisso che tanto aveva agitato tutti, ma c’era una domanda che lo perseguitava da secoli interi, dal primo istante in cui la sua vita era finita in quel dannato lago dove si specchiava l’imponente sagoma della luna bianca.

Una domanda alla quale nessuno aveva mai fatto riferimento, anche se probabilmente tutti immaginano la curiosità del giovane Guardiano al riguardo.

Per quanto però la curiosità gli stesse ruggendo dentro con una furia immane, Jack Frost cercò di trattenersi, preoccupandosi invece delle condizioni della compagna di lavoro:

«Tutto bene, Dentolina?­» domandò in modo piuttosto scontato senza nascondere un velo di imbarazzo che si era manifestato con un tenue rossore sulle guance, imbarazzo ricambiato dall’altra, che accennò un timido sorriso decisamente forzato:

«Tutto bene, grazie per l’interesse, Jack, ora sto meglio.» rispose mostrando fiera le proprie piume che fremevano dandole l’aspetto di un passerotto arruffato:

«Si è trattato solo di un attimo di mancamento, nulla di qui preoccuparsi: parlare della guerra contro l’Altro è sempre difficile, soprattutto…» continuò sospirando e posandosi a terra, facendo svanire l’improvvisa euforia di qualche istante prima «Soprattutto se hai perso tutto, o meglio tutti, come me… o come Calmonigl-»

«Parla per te, Dentolina: per quanto possa apprezzare l’interessamento pensa a preoccuparti delle tue perdite, che alle mie ci penso io.» rispose stizzito il coniglio pasquale, facendo comparire sul volto della fata un’espressione di rimorso per quelle parole di troppo.

Calmoniglio stava soffrendo, ormai Jack ne aveva la conferma, solo che non voleva ammetterlo; d’altronde ognuno soffriva a modo suo, che fosse piangendo o tenendosi tutto dentro non aveva importanza, ma nessuno di loro era solo, con tutti i compagni a sostenerlo.

Tranne Frost, lui era davvero solo: lo spirito del divertimento, lo stesso tanto amato dai bambini, quello che aveva rimandato Pitch Black nella sua tana impolverata sotto il letto di qualcuno a mangiarsi bruschette alla cenere condite con le sue lacrime di solitudine, era sempre stato solo, almeno da quando era diventato Guardiano.

Non perché non avesse amici che lo facessero sentire amato, quelli li aveva, ma c’era una persona della quale sentiva terribilmente la mancanza in ogni singolo istante da più di trecento anni, una persona sulla quale nemmeno Manny si era mai pronunciato: Emma.

Emma Overland, la sua sorellina, chissà che fine aveva fatto… morta era morta, quello sicuramente dato tutto il tempo passato, ma in Jack c’era sempre stata la speranza di rivederla, magari nelle vesti di Guardiana: nessuno le aveva detto nulla sulla sua sorte, nemmeno Dentolina aveva mai tirato fuori i denti con i ricordi della piccola, ma era certo che sapessero qualcosa e che non volessero proprio rivelargli nulla.

I Guardiani intanto erano occupati a confabulare, giustamente senza far caso alla figura di Jack che li guardava dal basso verso l’altro:

«Servire provvedimenti per questione di Abisso, non potere stare qui a leccare pelo tutto giorno grattandosi orecchie!»

«Cosa? Parli tu di non fare nulla? Ah! Raccontaci cosa fai in estate, quando il Natale non è così vicino, dillo a tutti!»

«Tu dire che io essere fannullone? Parlare quello che fare bagno con fragole in cioccolato fuso!» ribatté Nord dando vita all’ennesima discussione del giorno.

Doveva parlare adesso, non avrebbe avuto altre possibilità.

Per sciogliere i dubbi di una vita.

Jack Frost doveva parlare.

Doveva farlo per sé stesso.

Doveva farlo per Emma.

Ovviamente i due continuarono imperterriti, come se non ci fosse nessuno intorno:

«Io prendere tue grasse orecchie e farci stufato!»

«Ed io prendo a calci il tuo lardoso fondoschiena sotto Natale, così vediamo se riesci a metterlo sulla tua slitta trainata da capre vogliose di carrube!»

«Non ti azzardare ad insultare mie ren-­»

«Voi sapete che fine ha fatto mia sorella, che fine ha fatto Emma?»

 

Lo aveva fatto, dunque, aveva trovato il coraggio di chiedere, ma gli altri non avevano ugualmente trovato il coraggio di rispondere.

Nessuno di loro lo aveva fatto.

Ma se lo aspettavano, era solo questione di tempo: la domanda non era “se” e “come” Jack avrebbe fatto domande sulla sorella, era un “quando”, una questione con quale prima o poi tutti avrebbero dovuto fare i conti senza troppi giri di parole per nascondere la verità al giovane Guardiano, nonché al fratello dell’interessata.

Questa volta, quella in cui Frost si aspettava di incontrare maggiore resistenza e silenzio di quelle precedenti, i Guardiani si decisero finalmente a parlare, e con sorpresa del ragazzo fu Dentolina a prendere la parola mentre Dente da Latte si spostava dalla sua spalla alle mani aperte dell’altro, che le aveva dischiuse per accogliere la piccola fata nel frattempo che la Guardiana della Memoria gli si avvicinava librandosi lentamente:

«Non pensare che ti abbiamo nascosto ciò che sapevamo di lei per farti del male, ti prego» gli disse mentre la fatina gli si premeva sulla guancia come ad abbracciarlo «E’ stata una decisione difficile per tutti, quella di non dirti nulla, ma è stato per il tuo bene, perché non volevamo che la notizia di facesse più male di quanto dovrebbe: noi ti vogliamo bene, Jack, te ne abbiamo sempre voluto, e volevamo bene anche ad Emma, puoi starne certo.» lo rassicurò mentre il suo sguardo si perdeva negli occhi vuoti del compagno, probabilmente non ancora pronto ad ascoltare ma sicuramente voglioso di sapere la verità.

Su di lei, sulla sua vita e, con molta probabilità, anche sulla sua fine.

Per Jack fu istintivo prendere nuovamente fra le mani l’aiutante della fatina dei senti ed iniziare ad arruffarle le piume facendola ridere divertita, ma la sua mente era altrove:

«Tu hai i suoi ricordi? Li hai? Devi averli, Dentolina, quindi mostrameli, per favore.» la pregò con gli occhi lucidi, ma l’altra lo guardò mestamente:

«Purtroppo non ho i ricordi di tua sorella, però pos-­

«Perché?» domandò alzando la voce, tanto che Dente da Latte gli lanciò un’occhiata infastidita

«Jack, devi capire che tua sorel-»

«Non devo capire nulla, vogl… vorrei sapere dove si trova, solo quello… solo quello.» continuò mentre le sue dita, forse per il nervosismo o forse per un gesto inconscio, si chiudevano sul piccolo corpo della fatina facendola fremere e contorcere per lo spavento:

«Jack?» chiese Dentolina impaurita, non riconoscendo più l’amico «Jack basta! Le stai facendo male! Jack! Smettila!» urlò facendo riprendere il giovane, che con lo sguardo perso e sconvolto osservò la creatura che aveva fra le mani la quale, dopo avergli pizzicato la mano con il sottile becco per liberarsi, era schizzata via impaurita verso le braccia di Dentolina.

O almeno ci aveva provato.

 

Ciò che era accaduto negli istanti successivi era un mistero per tutti, soprattutto la modalità in cui ciò era avvenuto: tutto quello che Jack aveva visto era un’imponente figura nera scagliarsi fra lui e la fata con un rombo assordante, un qualcosa di simile ad un ruggito che si era mischiato ai mattoni ed al legno della stanza che si frantumavano sotto quell’immane forza che, a quanto pare, aveva fatto irruzione nella stanza dove si trovavano tutti.

Udì un grido strozzato quasi impercettibile, seguito da uno molto più acuto che gli rimbombava nei timpani: il rumore di qualcosa che si serrava con violenza facendo schizzare chissà cosa contro le sue guance, un lungo suono sordo accompagnato da un tonfo altrettanto rumoroso al suolo, le voci degli altri Guardiani che gridavano chissà cosa, voci che man mano diventavano sempre più ovattate ed incomprensibili.

Poi il rosso.

Ovunque.

 

 

Sangue, era quella la prima cosa che Jack aveva pensato quando i suoi occhi, aprendosi, si erano trovati davanti solo quel colore, un rosso intenso così scuro che non avrebbe lasciato dubbi a nessuno.

O meglio, non ne avrebbe lasciati se la sua guancia, quasi per caso, non avesse sfiorato quella macchia monocromatica avvertendo che non era liquida e nemmeno inconsistente, ma sembrava più simile a… velluto?

Di sangue vellutato non ne aveva mai sentito parlare, così si decise a sgranare gli occhi alzandosi dalla posizione fetale che aveva istintivamente assunto, e ciò che vide lo lasciò ancora più sconvolto di quanto avessero fatto le storie di Nord: il mare cremisi che aveva visto non era altro che il tessuto di un mantello che scendeva morbido lungo i fianchi di qualcosa, un qualcosa di non ancora meglio definito, che gli si stagliava davanti, una massa grigia che tendeva al bianco man mano che si avvicinava a quattro grosse colonne che, in un primo momento, il Guardiano non aveva capito bene cosa fossero.

Aveva reagito esattamente come quando aveva incontrato Pitch Black, e lo aveva fatto senza pensarci sopra troppo tempo: bastone alla mano ed orecchie ancora tappate per il frastuono di prima, aveva richiamato il vento come faceva sempre quando doveva togliersi dai guai il più velocemente possibile per poi, appena sentita la leggera brezza che gli aveva risposto, fare un piccolo salto per cavalcarla.

Salvo essere atterrato malamente da un qualcosa di non meglio definito, ma sicuramente ricoperto di un’ispida pelliccia simile, almeno per consistenza, a quella di Calmoniglio:

«Non andrai da nessuna parte, Jack Frost, e ti conviene non fare scherzi: Spettro non si fa problemi a divorarti, e nemmeno io, nessuno lo verrà a sapere.» gli raccomandò una voce femminile che inizialmente non riuscì a distinguere troppo bene.

Poi riuscì a distinguerla, e allora sfiorò l’infarto miocardico: ad appena qualche centimetro dal suo naso c’era una gigantesca bocca irta di canini color avorio sporchi di sangue e piume opalescenti che gli ringhiava contro con un suono sordo che gli riempiva le orecchie, due occhi azzurri come il ghiaccio che lo scrutavano in malo modo.

 

Sangue… e piume.

Il frastuono di poco prima.

Dente da Latte.

 

Non ci volle molto perché facesse due più due e capisse che il gridolino strozzato di prima fosse quello della povera fatina, probabilmente catturata dalle fauci di quella bestia mentre cercava di tornare da Dentolina, e in effetti gli bastò guardare la fata dei denti per capire che aveva ragione: si agitava convulsamente per scagliarsi contro la massa grigia, trattenuta per i polsi da Calmoniglio che se la strinse a sé non senza una certa difficoltà, che nel frattempo aveva alzato la testa quasi a tastare e fiutare l’aria.

Quello era il momento buono per scappare, osservò Frost: con un gesto fulmineo, derivato dalle serate fatte di vodka e limbo sfrenato, si era lasciato scivolare fra le gambe della bestia oltrepassandola in tutta la sua lunghezza che, ad occhio e croce, dalla testa alla coda, sfiorava qualcosa come i quattro metri buoni, spuntando vicino ai propri compagni con l’aria di chi ha appena vinto chissà cosa.

Tipo l’ennesima sorpresa della giornata.

Aveva ipotizzato che ci fosse una donna a cavalcare quel mostro dalla voce femminile che aveva sentito, ma non immaginava quel genere di donna: alta e possente, probabilmente rasentava il metro e novanta d’altezza, il corpo robusto protetto da una spessa armatura argentea decorata con intricati motivi floreali, ovviamente compreso il prosperoso seno che lasciava ben poco all’immaginazione dal momento che era decisamente scoperto a mostrare il piccolo rubino che pendeva dal collo, armatura che era identica a quella che copriva l’immensità del corpo e la testa del grosso lupo che cavalcava, con tanto di rubino corredato.

A guardarla bene era anche affascinante, una macchina da guerra con il fascino di un’indomita lupa selvatica: i capelli biondi lunghi fino alle spalle quasi non si vedevano sotto il cappuccio rosso che teneva calcato sulla fronte, cappuccio che si trasformava in un lungo mantello che scendeva lungo i fianchi del lupo, ovviamente in tinta con la gonna che le copriva a malapena le nudità mostrando tutto ciò che l’immaginazione non poteva nemmeno lontanamente immaginare.

Ma ciò che aveva colpito Frost, e che non avrebbe dimenticato presto, erano stati gli occhi della donna: freddi come il ghiaccio, di una curiosa tonalità di grigio che tendeva all’argento, si sposavamo alla perfezione con quell’aria fiera che aveva avuto dal primo istante in cui aveva fatto irruzione nel covo di Nord.

 

Per quanto Calmoniglio si stesse visibilmente impegnando nel tenere a bada Dentolina, una sua distrazione ed un allentamento della sua presa avevano fatto sì che la fata dei denti sfruttasse l’opportunità per divincolarsi più del solito e riuscire a sfuggirli prima che potesse rendersene minimamente conto:

«Maledetta! Maledetta! Maledetta!» urlò con le lacrime agli occhi mentre si gettava a capofitto verso la propria avversaria, che invece manteneva uno sguardo calmo ed assente.

Forse perché aveva in mano una lancia di due metri alla quale nessuno aveva fatto caso prima, forse perché il grosso lupo aveva spiccato un balzo verso di lei atterrandola con una zampata, o forse era perché ora Dentolina se ne stava a terra bloccata da mezza tonnellata di muscoli che tenevano fra le fauci una delle sue ali mentre la donna le teneva un piede sulla schiena e la propria arma puntata sulla nuca.

Forse, ma non ne era proprio sicura.

La situazione non era delle migliori, ma i suoi lamenti di dolore soffocati sembravano divertire i due ospiti, soprattutto quando la bestia stringeva la presa:

«L’avvertimento di non fare scherzi vale anche per te, feticista dei denti, quindi vedi di stare al tuo posto e nessuno si farà male… tranne la tua fatina, lei si è già fatta male, vero?» la sbeffeggiò sorridendo prendendosi di rimando una serie di insulti che lasciarono sconvolto Jack Frost, abituato a vedere la compagna calma e riflessiva:

«Non ti a-aveva fatto n-nulla!» riuscì a rispondere con un filo di voce, complice il sangue che aveva iniziato a colare dai denti dell’animale:

«Non stava f-facendo nulla… ma t-tu! Tu! L’hai a-ammazzata! L’ha uccis-­»

«Non stava facendo nulla?» ripeté la donna piegando la testa «Era sulla mia traiettoria, quando io e Spettro sfondiamo i muri non vediamo anche attraverso, non credi?» domandò inclinando la testa incuriosita, poi le afferrò il mento guardandola negli occhi ormai persi nel vuoto:

«Un cacciatore non ha pietà per la propria preda, e la Cacciatrice non ha pietà nemmeno per i cacciatori, ormai dovresti averlo imparat-­»

«Ah, Scarlet! Piacere davvero rivederti!» intervenne Nord con un tono stranamente calmo, non certo in linea con la situazione, e le occhiate che aveva lanciato ai compagni volevano dire qualcosa del tipo “Fate come se nulla fosse altrimenti qui crepiamo tutti”, e nessuno era in disaccordo con quell’idea.

Dunque era così che si chiamava, Scarlet, l’ennesima di tante conoscenze di quella giornata, o almeno Jack la vedeva così:

«Sì, certo, un vero piacere, non aspettavo altro che incontrarvi» rispose sarcastica mollando la presa della lancia su Dentolina, così Nord ne approfittò per prendere Jack fra le braccia e costringerlo ad allungare una mano verso di lei:

«Jack Frost, lei essere Scarl-­»

«Prego, Nord, le mie presentazioni vorrei farle da sola, se permetti» lo rimproverò afferrando la mano del giovane Guardiano che, seppur con titubanza, si era reso conto che sua stretta era anche più forte di quella di Nord:

«Il mio nome è Scarlet Redcape, anche se alcuni preferiscono rivolgersi a me come la Cacciatrice»  si presentò con un leggero inchino del capo richiamando a sé il gigantesco lupo, finalmente facendogli mollare l’ala della povera Dentolina, ormai ridotta ad un grumo informe e sanguinante di piume opalescenti:

«Lui è mio fratello Spettro, mio fratello ed anche il mio fidato compagno di viaggio: la tua amica ha avuto il piacere di stringergli la zampa, o forse è stato lui a stringerla a lei.» continuò mentre il lupo, o meglio Spettro, si sedeva al suo fianco leccandosi i denti ancora sporchi di sangue, ed il fatto che da seduto fosse anche più alto di Scarlet non era certo poco inquietante:

«Serviamo la principessa guerriera Alice Castle Wonderwood, sovrana del regno di Fairy Oak del pianeta Exodus, e siamo qui perché la mia signora ha modo di pensare che i tuoi amici Guardiani siano coinvolti nella liberazione del Ciciarampa, e tutti sanno cosa succede a chi ruba il Ciciarampa.» puntualizzò lasciando tutti con una smorfia di sorpresa sul volto.

 

Il Ciciarampa… scomparso?

Una bestia di dodici metri… scomparsa nel nulla?

 

Tutto ciò aveva senso per i Guardiani, ma non per Jack Frost, il quale si intromise nuovamente:

«Il Ciciacosa? Cosa sarebbe? Un animal-»

«E’ uno dei guardiani del regno di Fairy Oak, piccolo spirito impiccione, e si da il caso che sia casualmente scomparso quando la mia signora è stata avvertita dalla Regina di Phantasia che c’era qualcosa che non andava con l’Abisso… ma almeno sai di cosa e chi sto parlando?» domandò confusa abbassandosi per toccare con l’indice la punta del naso di Jack, che iniziò a scuotere la testa prendendosi un facepalm di rimando:

«Peggio di quanto pensassi… seriamente non gli avete detto nulla, nemmeno su Phobos ed Harmonia?» chiese ai Guardiani, i quali fecero spallucce:

«Stavamo spiegando lui di Abisso quando tu entrata senza bussare!­» si giustificò Nord facendo spallucce imbarazzato «Stavamo dicendo che l’Altr-­»

«L’Altro? Lo chiamate ancora così?» domandò incuriosita ridendo e facendo una smorfia di compassione «Sembra quasi che voi, i potenti Guardiani di Manny, abbiano paura a pronunciare il suo nome, nemmeno fosse affare vostro anziché della gente delle Costellazioni: ma d’altronde bisogna capirvi, incompetenti come siete stati nella guerra contro “l’Altro” ­è già tanto che non siate morti male… come avreste meritato.» concluse tirando l’ennesima frecciatina della giornata, quella che aveva lasciato i presenti senza nulla con cui controbattere alle sue affermazioni.

Perché alla fine, che lo volessero ammettere o meno, erano tutti consapevoli che la loro utilità in quel conflitto era stata marginale, decisamente marginale.

Tuttavia, nonostante la discussione tutt’altro che pacifica, il motivo per cui Scarlet si fosse scomodata ad attraversare chissà quali cunicoli nel ventre dell’Universo per arrivare dai Guardiani sulla Terra era ancora ignoto, e Nord dubitava che fosse lì solo per accusarli di aver rubato il Ciciarampa:

«Noi non volere essere poco educati, ma volere sapere perché grande Cacciatrice venuta da noi, solo per sapere se noi dovere preoccupare di avere fatto qualc-­»

«Sono venuta qui per questo» disse indicando al vecchio Guardiano il puntino rosso che lampeggiava sul gigantesco globo formato Universo, ormai visibile dopo che lei ed il compagno avevano fatto irruzione:

«Alice ha motivo di credere che Phobos si sia liberato, o meglio che sia stato liberato: senza poteri non può fare molto, ma se quei poteri li avesse riottenuti beh, lascio immaginare a voi le conseguenze della cosa…» spiegò incrociando le braccia «Ed il Ciciarampa è sparito nel nulla: probabilmente non siete stati voi a prenderlo, dal momento che non siete capaci nemmeno di riprendervi la fiducia dei bambini che quel povero disgraziato di Pitchone vi aveva sottratto piuttosto male, ma mi è stato comunque chiesto di accompagnarvi al cospetto della mia signora per sciogliere ogni dubb-»

«Venire a Fairy Oak? Noi non potere venire a Fairy Oak! Avere molto da far-­»

«Non mi interessa cosa avete da fare nei vostri patetici palazzi» rispose fredda con aria strafottente mentre con un gesto felino si era nuovamente messa in groppa del proprio lupo, il quale aveva approvato con un ululato appena accennato.

Vedendo che ne stavano ancora tutti con le mani in mano, o con Dentolina in braccio nel caso di Calmoniglio, aveva pensato Scarlet a dare una svegliata ai Guardiani, punzecchiando la fata con il lato meno affilato della lancia:

«Nessuno escluso, sia chiaro, e tutti sono pregati di camminare con le proprie gambe, capito?» le chiese prendendosi di rimando un cenno assopito «Bene, ora che siamo tutti d’accordo vi chiederei di stare indietro, se ci tenete alla pelle.»

Jack conosceva solo, oltre al compagno sempre presente vento, le gallerie di Calmoniglio e le sfere di neve di Nord come metodi per raggiungere luoghi lontani, ma a quanto pare quella donna aveva in mente ben altro: con la lancia iniziò a disegnare strani segni sulle assi di legno del muro rimasto in piedi, il quale si era improvvisamente ricoperto di quelle che dovevano essere lettere simili ad antichi quanto arcaiche rune violacee, segni che avevano iniziato a brillare mentre lei, con il capo chino, recitava formule il cui significato era ignoto.

Appena il tempo di realizzare ciò che stava succedendo e Jack si trovò davanti a quello che aveva tutto l’aspetto di un portale come quello che utilizzava Nord, solo variopinto dei colori e delle forme più insolite: nemmeno lui, come del resto gli altri, ci aveva messo molto a fare il primo passo per entrare in quella misteriosa porta verso chissà cosa, si sentiva come attratto da una forza invisibile che, volente o meno, lo aveva costretto ad avanzare senza sapere la meta.

Qualche istante di attesa in quel vortice colorato, poi una luce bianca così intensa da ricordargli quella della Luna che gli era apparsa quando era morto, quando era diventato un Guardiano di Manny, dell’Uomo nella Luna.

Poi l’odore dell’erba fresca, nient’altro.

 

 

Non poteva crede ai suoi occhi.

Non poteva farlo.

Non doveva.

Ma lo aveva fatto, nonostante il trauma iniziale: dinanzi al giovane Guardiano si stagliava un’immensa distesa di prati ed alberi dalle forme e dai colori più impensabili che sembravano macchie di colore buttate completamente a caso su quella tavolozza verde acceso in un ordine talmente casuale da risultare affascinante come pochi, un quadro con sprazzi qua e là formati da complessi di case bianche delle dimensioni più disparate, con torrenti e fiumi che si sovrapponevano in giochi d’acqua capaci di rapire lo sguardo di chiunque, con persone che camminavano da un lato all’altro di quello spazio incontaminato affiancate da strani animali dei quali Jack, nei suoi oltre trecento anni di vita da Guardiano, non aveva mai nemmeno osato pensare potessero esistere, un luogo dove la magia e le favole che conosceva da quando ne aveva memoria si incontravano in un perfetto insieme, appunto, fiabesco.

Il regno di Fairy Oak, il Paese delle Meraviglie, si era certo meritato quel soprannome.

Solo quando aveva alzato lo sguardo aveva poi notato l’immane castello che svettava lontano da dove erano atterrati senza problemi, e quello lo aveva lasciato nuovamente senza fiato: era gigantesco, un enorme blocco di preziosa pietra bianca immacolata come la neve fresca, pietra che era stata lavorata nei modi più disparati per formare intricate e sinuose decorazioni che parevano rincorrersi su quelle mura che, anche se fatte di pietra, non sembravano affatto fredde, ma invece riscaldate dai limpidi fasci di luce che si riflettevano nelle finestre dai tre soli alti nel cielo.

Tre soli?

Tre soli, a quanto pareva: d’altronde erano su un altro pianeta, non si poteva mica pretendere che ce ne fosse uno normale che se ne stava bello fresco nel cielo.

Nord inspirò a pieni polmoni una ventata d’aria fresca rilassandosi dopo tutto quello che era accaduto in quel giorno:

«Ah, quanto tempo! Proprio come ricordavo, tutto meraviglioso come sempre stato!» esclamò gonfiando il petto fiero, poi prese di forza Frost «Visto, Jack? Guarda spettacolo che questo posto ti offre! Guarda quanto è meravig-­»

«Benvenuti, Guardiani, nel regno di Fairy Oak.» disse una voce femminile appena accennata dietro di loro all’improvviso.

Immediatamente Scarlet scese da Spettro e fece un lungo inchino piegandosi sul ginocchio, gesto che venne sorprendentemente imitato dal lupo, il quale abbassò il muso piegando una zampa e tenendo tesa l’altra come a salutare:

«Mia signora, ti ho portato i Guardiani come mi avevi chiest-­»

«Suvvia, Scarlet, prima o poi dovrai abituarti a darmi del tu senza tutte quelle formalità, ma ti ringrazio per il tuo operato, ti sono immensamente grata» la ringraziò con un breve inchino a sua volta «Vai pure a riposarti, il viaggio è stato lungo, penserò io ai Guardiani.» la congedò per poi, con l’ennesimo gesto formale della giornata, vederla allontanarsi insieme al fidato compagno.

Jack iniziò a squadrare quella che avrebbero dovuto essere una donna che, in realtà, si era rivelata essere una ragazzina poco più alta di lui: i capelli biondi non troppo lunghi ricadevano morbidi sulle spalle, incorniciando quel viso innocente coronato da due occhi di un azzurro talmente intenso da fare invidia ad uno zaffiro, il corpo esile ma al tempo stesso ben proporzionato era coperto, alla faccia dell’espressione da ragazzina innocente, da un lungo vestito blu con dei merletti bianchi coperto per la maggioranza da quella che aveva tutta l’aria di essere una pesante armatura argentea finemente lavorata che, oltre a proteggerle petto e braccia con una grossa placca pettorale e dei guanti di metallo, scendeva sull’ampia gonna dell’abito in una cascata metallica argentea e dorata donandole un aspetto da guerriera reso più mite dal mantello bluastro con pregiate rifiniture di pelliccia bianca e nera ai bordi.

E la spada, soprattutto quella, una spada più grande di lei che però sembrava maneggiare senza alcun problema degno di nota.

La ragazza li aveva squadrati tutti soffermandosi su Dentolina tuttavia, quasi senza farci troppo caso, si era rivolta a Jack Frost facendogli un cenno con la testa:

«Immagino che mi abbiano già presentata, ma mi permetto di presentarmi da sola al nuovo Guardiano» disse sfoderando un sorriso che il Guardiano non capì bene se essere sincero o meno:

«Il mio nome è Alice Castle Wonderwood, principessa guerriera del glorioso regno di Fairy Oak e generale delle Armate delle Meraviglie, è un piacere per me conoscere l’ultima creazione di Manny e presentarti il luogo dove te ed i tuoi amici passerete l’eternità se non verrà fuori chi mi ha fottuto il mio dannatissimo Ciciarampa, ma non vorrei dilungarmi troppo.» spiegò mentre Jack, baciandogli elegantemente la mano come si conviene ad un vero gentiluomo, si rendeva conto che il sorriso e la gentilezza di prima avevano fatto posto ad uno sguardo minaccioso che lasciava presagire ben poco di buono, poi fece strada a tutti ed iniziò a camminare senza proferire parola, atteggiamento che venne imitato all’unanimità.

Era appena arrivato e già lo accusavano di qualcosa che nemmeno sapeva!

O meglio, che non ancora sapeva.

Ma lo avrebbe scoperto molto presto.

 

 

[ Intanto sulla Luna… ]

 

«Scacco matto, per l’ennesima volta.»

Quella voce iniziava ad irritarlo seriamente, ed il fatto che provenisse da una donna di quel fascino lo irritava ancora peggio: anche se non era nei suoi abiti formali, la veste bianca che scendeva fino al pavimento accompagnando la sinuosa forma della sedia le dava un aspetto a dir poco etereo ed evanescente, impressione resa ancora più forte dai lunghi capelli biondo grano raccolti sulla nuca che lasciavano ricadere dei grossi boccoli ai alti del viso mentre, esattamente come una corona, dei filamenti dorati che ricordavano piccole stelle scendevano lungo la folta chioma formando un intricato mosaico d’oro che pareva provenire da un’altra dimensione.

Ed era cosa, più o meno, e guardandola meglio si poteva capire il perché: gli occhi celesti, se osservati da vicino, nascondevano nel loro immenso e profondo mare dei puntini luminosi e delle variegate sfumature che ricordavano le forme e di colori di una galassia, persino la pupilla pareva essere un vero e proprio pianeta.

E se quelle prove non fossero bastate per provare quanto la donna che aveva davanti fosse tutto tranne che una donna comune bastava rivolgere lo sguardo verso la sua schiena, dove due grandi e morbide ali di soffici piume bianche immacolate si stagliavano prepotenti verso il suo interlocutore facendo sembrare che l’altra fosse seduta su quelle, anziché su una sedia.

Da parte sua, l’interlocutore stesso non poteva che essere d’accordo con quelle frecciatine, visti i risultati ottenuti nelle partite dell’ultimo millennio:

«Meravigliosa come sempre, mi sorprende che Nonno Drago non ti abbia ancora convocato per un torneo di scacchi con lui­, sarebbe uno spettacolo per il quale mezza Galassia pagherebbe più polvere di stelle di quanta ne estragga Idhunn in un decennio.­» asserì l’uomo mentre afferrava un bicchiere posto vicino alla scacchiera, il tutto mentre la donna si lisciava le lunghe piume imitando il suo gesto: «Non sottovalutare Idhunn, conoscendola potrebbe anche sentirti» rispose ridacchiando «Queste tue lusinghe mi fanno pensare che tu voglia evitare di parlarne.»

«Parlarne?» ripeté l’altro come se nulla fosse «Non so proprio di cosa tu stia parl-­­»

«Hanno risvegliato i poteri di Phobos, poco fa, e le tue pedine si sono mosse, come d’altronde era prevedibile che facessero» continuò alzandosi e rigirandosi il bicchiere fra le dita:

«Mi chiedo solo come pensi di sistemare le cose, ora che hai appena permesso che si muovessero dal loro stato di torpore: nessuno è disposto a combattere nuovamente in una guerra come quella appena passata… ma d’altronde cosa lo dico a fare, i tuoi Guardiani sono già pronti a morire e immolarsi per il loro Manny, o almeno è quello che tu pensi, vero?» domandò senza ricevere alcuna risposta.

Ci volle un po’ per trovare il coraggio di rispondere senza offenderla:

«I Guardiani sanno cavarsela, se necessario, e loro combatteranno per me come hanno sempre fatto, come fanno e come sempre faran-­»

«Non lo faranno.» annunciò una voce dal nulla, voce che si materializzò nella vaga sagoma di una figura nascosta nella penombra della quale si distingueva solo un occhio azzurro luminescente con la pupilla bianca dal quale si diramavano strani filamenti dello stesso colore, il tutto posto piuttosto in alto rispetto a terra:

«Non combatteranno, non come l’ultima volta, l’ho visto molto chiarament-»

«Vedi troppe cose, vecchio mio, è meglio se torni alla tua torre a risposare quell’occhio anziché stare qui ad ubriacarti di latte, molto buono del resto, invocando profez-.»

«O forse è meglio se tu inizia a giocare a scacchi in modo presentabile» intervenne la donna alzandosi e facendo per andarsene, ma non prima di afferrare la pedina del re avversaria:

«Tu, il re, hai i tuoi pedoni che ti difendono a costo della vita, tuttavia….» continuò prendendo la sua pedina che corrispondeva alla regina «Io ho una regina ed un’intera corte che la proteggerà: sta a te la scelta di come muovere le pedine, ma stai attento Manny caro» disse posando la regina e riprendendo il re per poi metterglielo in mano «Prima o poi faranno scacco matto, e lo faranno all’Uomo nella Luna.» concluse andandosene e lasciando dietro di sé una scia dorata.

Era questione di tempo.

Ed il turno avversario era appena iniziato.

 

 

____________________________________________

 

Angolino dell’autrice

 

Buongiorno a tutti ed eccoci finalmente al secondo capitolo che, fra impegni scolastici vari, ho aggiornato solo oggi, ma meglio tardi che mai no? :D

Non mi dilungherò troppo sulle spiegazioni perché se lo facessi uscirebbero spoiler a random che MYSONANTIS VI RIVELO TUTTO COSA, ma una cosa fondamentale che vorrei fare è ringraziare l’adorabile _Dracarys_ per il suo supporto anche in questo capitolo: se non fosse stato per lei che mi ha chiarito le idee sui vari avvenimenti sarei ancora ferma a mangiare crackers con la cenere grigia insieme a Pitchone, per cui ti ringrazio davvero tanto ancora una volta per il supporto e l’aiuto che mi dai con questa fan fiction <3

Detto questo ringrazio chi sta seguendo la storia e chi ha voglia o ne avrà di recensirla: la vostra opinione è molto importante per me, giusto per sapere se le vicende vi stanno piacendo e cosa ne pensate di tutte le cose GNE che stanno spuntando :3

Qui di seguito vi lascio l’aspetto di Scarlet Redcape insieme a Spettro e di Alice Castle Wonderwood, giusto per chiarirvi le idee, ed il castello molto GNE di Alice :D

Ci vediamo al prossimo capitolo! 

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Capitolo 3
*** Say "Hello" to Her Majesty ***


capitolo3

Che sarebbe successo qualcosa lo immaginava anche, ma non poteva certo pensare che sarebbe accaduto proprio quello: dalla Luna lo aveva notato appena, il bagliore rosato proveniente da Venere, una specie di lampo che aveva illuminato la superficie della Luna come il Sole illuminava la Terra durante il giorno, e solo allora si era deciso ad alzare il proprio regale fondoschiena dalla sedia, con un bicchiere di latte in mano.

Che era caduto appena aveva spostato lo sguardo a Nord-Est, verso Venere: poco lontano dall’enorme astro fonte di vita della Terra, ed indirettamente sotto la protezione dell’Uomo della Luna, non si stagliava più un pianeta coperto da lande desolate e popolazioni che si fidavano a malapena del proprio vicino, c’era solo una palla di fuoco incandescente color magenta che ardeva e ardeva, e ardeva ancora.

Senza mai consumarsi, senza mai mettere fine a quell’agonia: se scrutava l’orizzonte, avvicinandosi quel tanto che bastava per distinguere le varie forme, poteva vedere le persone che fuggivano, che scappavano urlando, che danzavano in preda agli spasmi per le fiamme che stavano lentamente ma inesorabilmente consumando i loro fragili corpi da umani o quasi.

Era stato un avvertimento, una sfida, un gesto folle che aveva però sortito gli effetti sperati: se l’Uomo della Luna voleva distruggere una propria creazione poteva anche farlo, ma prima doveva riuscire a proteggersi dalla sua creazione stessa.

Tsar Lunar XII, alias Manny, era lì immobile, come inebriato dall’acre odore di zolfo che sembrava aver impregnato anche i meandri dello spazio più profondo, se ne stava a guardare la scena come uno spettatore esterno ad una tragedia, sperando che un giorno non ci sarebbe stato lui nei panni carbonizzati degli attori: non avrebbe dovuto provocarla, era stata una scelta sciocca e dettata solo da un malsano senso di controllo e possessione, una decisione presa in quei momenti in cui si sentiva come se ci fosse un altro uomo a governare al posto suo.

Ma lui era diverso dal mostro che si sentiva in quel momento, o almeno le persone lo credevano e continuavano a pensarlo: Manny era il creatore dei Guardiani, quello che si era premurato di proteggere la Terra da un nemico che lui stesso aveva contribuito a nutrire, ma fino a quando la gente sarebbe stata convinta della sua innocenza non avrebbe dovuto preoccuparsi, nessuno lo aveva visto litigare con quella sua creazione mancata qualche istante prima del disastro.

Nessuno, tranne lui: osservava, osservava ogni cosa in ogni istante in qualsiasi parte dell’Universo, si limitava a guardare e, se fosse stato il caso, radere al suolo ciò che non era previsto nei piani di quel grande romanzo che è il destino.

Ed anche ora, proprio mentre Manny era sul punto di andarsene, lo aveva visto, gli era apparso davanti in tutta la sua imponenza, con il grande occhio azzurro luminescente che lo fissava con quattro braccia incrociate al petto, senza contare quella posata sul fianco e l’altra che sorreggeva il bicchiere di latte con tanto di cannuccia:

«Non era nei tuoi piani, né in quelli di questo Universo, non era nemmeno nei miei: un vero peccato, direi» asserì senza distogliere lo sguardo dall’Uomo nella Luna, il quale tremava visibilmente stringendo i pugni fino a sentire il dolore che gli percorreva le dita, una sensazione da nulla paragonata al trovarsi davanti quella creatura:

«Un errore di battitura, ecco come potremmo chiamare questo spiacevole inconveniente: sono io quello che corregge gli errori perché la storia scorra come è programmato che faccia, non altri, non certo l’Uomo nella Luna» disse mentre, esattamente come quando era apparso all’improvviso, l’ombra iniziava ad inghiottire la sua sagoma nell’oscurità più profonda del cosmo, lasciando visibile solo un grande occhio azzurro dalla pupilla bianca:

«Io vi vedo. Sempre. Fino alla fine del tempo.»

Poi era scomparso nel vuoto dell’Universo, e Manny aveva capito che darsi agli scacchi era un’idea decisamente migliore del rimediare ai propri errori.

 

 

Sole, vodka e trombaris.

Avrebbero potuto continuare così per tutta l’eternità, se non fosse stato per le fastidiose spine che gli si infilavano anche dove non avrebbero dovuto.

Non erano roseti comuni, ma sempre di roseti si trattava: le immense distese verdi e rigogliose del regno di Phantasia venivano interrotte qua e là da sterminati campi variopinti, colmi delle stesse rose con i colori dell’arcobaleno che avevano tenuto ben chiusa la voragine nella quale Phobos aveva passato gli ultimi secoli della propria esistenza immortale.

Istintivamente, quasi senza fare caso a ciò che lui e la compagna stavano combinando, prese fra le mani una rosa e si fermò ad osservarla: la bellezza di quei fiori era sconvolgente per un occhio mortale, ma per chi era abituato a vedere gli effetti delle meraviglie create dalla leggendaria magia della Regina della Fantasia non era una novità che i suoi influssi fossero arrivati, oltre che nell’ambiente, persino in forme di vita così semplici come le rose.

Forse anche lui, esattamente come quegli splendidi fiori, era stato un involucro vuoto riempito prepotentemente con la magia di quel buontempone che era Manny, ma la difficoltà nel ricordare il suo passato, quello che c’era stato prima della guerra, lo metteva in una posizione nella quale meno sapeva e meglio stava, caratteristiche che lo avvicinava curiosamente al comportamento per il quale era famosa invece Comet E. Halley.

Halley, la stessa che se ne stava comodamente seduta sul bacino di Phobos senza vestiti come se nulla fosse leggendo l’ultimo numero di “Mannity Fair”, era l’unica creatura che avrebbe voluto intorno in quel momento, lo stesso che aveva sperato di assaporare con decisione da tempo immemore: Halley non era il bigottismo dei Guardiani, non era l’autorità prepotente di Manny, non era nemmeno l’acido moralismo di Harmonia, né tantomeno le belle parole delle quali i nobili delle Costellazioni si infarcivano la bocca, e non solo quella.

Comet era semplicemente Comet, con le sue voglie ambigue di fare sesso dall’alba al tramonto in barba ai campi dove Amicaharmo, come la chiamava lei, coltivava il futuro della propria gente e del proprio regno, ed a Phobos quello stile di vita andava più che bene: certo, c’era stato un periodo durante il quale lui e Comet non erano andati veramente d’accordo, un periodo durante il quale si chiedeva se l’origine delle profonde ferite alla schiena che aveva visto di striscio per qualche istante, complice la rigenerazione tipica delle creature magiche come loro, fosse opera di una sua distrazione o invece dello scontro con lo Strumentopolo Misterioso sul quale aveva sentito vociferare qualcosa, ma aveva ormai imparato a non farle troppe domande.

Lo Strumentopolo Misterioso alias il Guardone Mistico, nome affibbiato con dolcezza da Phobos ed Halley dopo aver preso visione di alcune notizie apparse in prima pagina su “Mannity Fair”, era un nome come un altro dato a quello che avrebbe potuto essere considerato senza problemi l’essere più misterioso che la Galassia avesse mai visto: nessuno sapeva nulla su di lui, si diceva che persino le grandi famiglie delle Costellazioni faticassero ad avere informazioni sul soggetto e, tanto per aggiungere un alone di mistero, correva la curiosa voce che non appartenesse nemmeno a quello stesso mondo, per non dire Universo.

 

Ma, Universo o meno, misterioso o no, per ora tutto ciò che Phobos voleva fare era rilassarsi godendosi la libertà ed i raggi solari dopo più di mezzo millennio passato nelle tenebre più assolute, salvo il chiarore artificiale di X-Box e simili, mentre il suo corpo e quello della compagna si fondevano in uno solo in un’intricata quanto frenetica danza colma di desiderio e di passione.

Un po’ gli dispiaceva turbare quell’equilibrio che nulla aveva da invidiare ai passatempi incestuosi delle alte corti nobiliari di Orionis III, ma d’altronde non poteva starsene sdraiato tutto il tempo a cincischiare, adorabile verbo che aveva sentito in un qualche programma televisivo all’urlo di “Ma cosa fa? Cincischia? Vada! Vada! Per l’amor del cielo si sbrighi! Non cincischi!”, ed in realtà ci aveva pensato Halley ad interrompere i suoi ragionamenti, per non dire seghe mentali:

«La notizia della scomparsa di Necrohunger si è già sparsa ovunque, conoscendo Alice le starà salendo il Chandrasekhar violento: per tutte le supernove, non so cosa accidenti darei per vedere la sua faccia angelica in questo momento!» osservò ridendo da sola passando il giornale al compagno indicandogli un paragrafo:

«Ecco, leggi qua: “La principessa di Fairy Oak ha messo una taglia sulla testa di coloro che hanno privato il suo regno della fondamentale protezione del Guardia di Porta, chiunque abbia informazioni al riguardo è pregato di rivolgersi alla corte del suddetto regno al fin-­» non fece in tempo a finire che l’altro glielo strappo dalle mani cogliendola di sorpresa:

«Ehi! Stavo leggendo!» si lamentò dandogli un leggero pugno sulla spalla, che però non sembrò smuoverlo nemmeno di un millimetro.

Solo quando Halley si decise ad allungare il collo per vedere cosa stesse attirando l’attenzione di Phobos in modo così morboso, e allora capì il perché di tutta quella concentrazione: poco sotto l’articolo, in un angolo in basso a sinistra c’era un altro piccolo paragrafo con una foto di una donna vicino, e non si sorprese che l’altro se ne stesse lì con gli occhi di un pesce lesso, né tantomeno che avesse buttato un’occhiata furtiva al lembo di stoffa che gli copriva il braccio.

Istintivamente Halley afferrò appena il bordo della pagina che, senza il minimo sforzo, prese improvvisamente fuoco riducendosi ad un mucchietto di cenere, cosa che lasciò allibito il compagno di trombaris:

«Halley! Cosa cazzo stai facend-» si lamentò per poi trovarsi l’indice dell’altra sulle labbra come per dire di starsene zitto:

«Devi smetterla di pensare a lei, non è qui e non ci sarà fino a quando non andrai a cercarla, per cui metti da parte Harmonia e concentrati su quello che stavamo facendo: non si lasciano le cose a metà, quello lo fanno i Guardiani e la gente che si dimentica di legare bene il proprio Ciciarampa, e noi non siamo come quelli.»

“Tu non sei come quelli, ma io sì”, pensò Phobos stringendo i pugni fino a sentire le unghie che affondavano nella pelle provocandogli una smorfia di dolore per la consapevolezza che lui aveva lasciato le cose a metà, lo aveva sempre fatto: aveva combattuto i Guardiani ma lo avevano sconfitto, si era scontrato con la Regina della Fantasia in persona ed era stato miseramente buttato in una voragine scavata appositamente per lui, aveva chiesto spiegazioni a Manny e lui gli aveva tagliato di rimando l’abbonamento mensile per il wi-fi, aveva tentato di evadere dall’Abisso per secoli e secoli salvo poi essere aiutato a farlo da qualcuno, aveva riottenuto i propri poteri e ci mancava poco che si ammazzasse da solo.

La verità era che Phobos non era in grado di fare ciò che si era prefissato, non avrebbe mai potuto reggere il confronto se gli altri Guardiani gli avessero dato addosso tutti insieme come l’ultima volta, non era minimamente in grado di raggiungere gli obbiettivi che si era prefissato: si faceva pena da solo, forse anche più di quanto ne facesse agli altri Pitch “Pitchone” Black, ed il fatto che in quell’istante di autocommiserazione una fitta lancinante gli avesse attraversato la testa come per farlo riprendere dalla depressione che lo stava divorando vivo, come per evitargli ulteriore dolore nel vano tentativo di ricordare.

 

Questa volta era stato molto peggio di quelle precedenti, tanto che si era rannicchiato su se stesso tenendosi la testa con due mani per scacciare il dolore, gesto che però si era rivelato utile solo perché Comet gli accarezzasse il volto con aria vagamente preoccupata, giustamente incurante del fatto che entrambi fossero nudi come vermi:

«Oh avanti, te le vai proprio a cercare!­» lo rimproverò mentre Phobos, in preda ai tremori, la fissava con gli occhi sgranati «Non ricordare, non farlo, non ci provare nemmeno perché tanto sappiamo come finisce, è solo una tortura inutile: Phobos… Phobos.» continuò afferrandogli saldamente il volto con le mani «Guardami, avanti: non è successo niente, siamo solo noi due e nessun altro, mi hai capito? Phobos, mi hai capito o no?» domandò prendendosi di rimando solo un gesto istintivo per cui l’altro le aveva messo le mani sulle spalle come se fosse sul punto di svenire da un momento all’altro:

«Mi fa… male, mi fa tanto male… la t-testa… mi fa male, non ci riesco…» riuscì a balbettare guardandosi intorno con aria circospetta «Io ci… provo… sì, ci provo… a ricordare, eppure… ogni v-volta… sì, ogni d-dannata… volta… finisce così… e fa… male, tant-» non riuscì a finire che, in preda ad uno dei suoi soliti attimi di confusione mentale e dolore insopportabile, il balbettare si trasformo ben presto in un singhiozzo sommesso, almeno fino a quando le lacrime non iniziarono ad uscire da quegli occhi dorati così vuoti.

Stava soffrendo peggio del previsto, Halley lo aveva notato, eppure qualche istante prima stava benissimo, abbastanza da fare trombaris come pochi avrebbero fatto: finiva sempre in quel modo quando Phobos cercava di riportare alla mente qualche ricordo e, nonostante tutti i fallimenti, ci provava fino allo sfinimento senza risultati, ma forse quella volta era complice il fatto che avesse appena riottenuto i propri poteri e, magari, si doveva ancora abituare alla situazione dopo secoli durante i quali ne era stato brutalmente privato.

Un po’ le dispiaceva anche di vederlo ridotto in quello stato e, a giudicare dal grosso leone nero che gli si era avvicinato accucciandosi vicino al padrone, anche quelle creature dovevano sentire quando qualcosa non andava, motivo per cui prese una mano del compagno e la pose fra l’immensa criniera diafana della bestia stando attenta a tenerla d’occhio:

«Ecco, pensa ad accarezzare il tuo gatto, con gli umani funziona» gli raccomandò mentre il leone, forse avendo capito le sue intenzioni, non aveva protestato ed aveva anzi iniziato a fare quelle che sembravano vere e proprie fusa:

«Si chiama… Thorax… non è un leone… qualsiasi, no… guarda qui» la corresse Phobos fissando un punto indefinito nel profondo dell’oscurità del manto del suo adorato animale, poi indicò ad Halley alcuni ciuffi della criniera ai quali inizialmente non aveva fatto caso dove il pelo, anziché nero pece, era di un bianco candido da fare invidia alla stessa neve: per quanto quella bestia fosse imponente e fiera non si tirava indietro dal farsi accarezzare il manto dal proprio padrone come un qualsiasi gattino domestico, ed in realtà quel gesto così naturale sembrava aver sortito un effetto positivo nel calmare, almeno per ora, il Phobos depresso di qualche istante prima.

Ecco, era il momento buono, o lo faceva adesso o non lo faceva proprio.

Con tutta la nonchalance del mondo, Halley si era alzata in fretta e furia senza far caso alle occhiatacce che gli lanciava l’altro e, dopo aver recuperato i propri abiti, non senza una certa fatica per distinguerli da quelli da Phobos ammucchiati lì vicino, si era vestita alla bene e meglio per poi sollevarsi da terra per andarsene senza dare spiegazioni, salvo essere afferrata saldamente da Phobos per un lembo del vestito:

«Dove vai? Comet… dove vai? Eh? Comet… per favore… Com-­»

«Che ti frega? Non ti guarderò piangerti addosso, ed il tuo gatto ti può consolare meglio di quanto faccia io con il mio inguaribile menefreghismo: non fare stronzate, non dare fuoco a nulla e rimani nascosto qui, che se ti trova Amicaharmo in queste condizioni l’Abisso sarà l’ultimo dei tuoi problemi.» spiegò togliendogli la mano dall’abito, che ormai era visibilmente stropicciato:

«Non puoi abbandonarmi! Non un’altra volta nel giro di nemmeno un giorno! E poi sono i nostri problemi, non sono solo i miei di probl-­» le urlò contro Phobos, a quanto pare improvvisamente guarito dal suo stato confusionale, così Halley gli si avvicinò appena e, prendendogli il volto fra le mani, gli diede un bacio sulle labbra appena accennato, giusto di sfuggita:

«Oh no, sono i tuoi problemi, io sono neutrale, ricordi?» gli domandò senza dargli il tempo di rispondere «Vedi di non combinare guai fino al mio ritorno, ma soprattutto goditi lo spoiler: se vedi un occhio che ti si avvicina, inizia a correre. Velocemente.» lo liquidò sparendo fra le nuvole in un lampo color magenta che aveva timidamente colorato di porpora le rose arcobaleno nelle quali giacevano entrambi fino a qualche istante prima.

Phobos si guardò intorno confuso e spaventato, con Thorax che ondeggiava la lunga coda nera leccandosi una zampa: “Se vedi un occhio che ti si avvicina inizia a correre”, gli aveva detto Halley, ma non aveva la minima idea di cosa parlasse, né per quale motivo avrebbe dovuto temere un semplice quanto innocuo occhio.

Ma l’avrebbe ascoltata, oh se l’avrebbe fatto!

 

 

Il silenzio che si era creato nell’enorme atrio del castello di Alice metteva addosso a tutti una certa soggezione, un velo di imbarazzo che copriva le bocche dei presenti impedendo loro di dire qualsiasi cosa: non era solamente per l’imponente spada che la principessa teneva davanti a sé, o per Scarlet che se ne stava al suo fianco con lo sguardo freddo, non era nemmeno per la presenza di Spettro placidamente sdraiato ai piedi del trono.

Era perché Alice, con le sue conoscenze da sangue nobile, sapeva più di quanto i Guardiani stessi potessero anche solo immaginare, e ciò avrebbe reso vani i tentativi dei suddetti Guardiani per nascondere a Jack tutto ciò che gli stava accadendo intorno senza che lui se ne accorgesse: certo, da quando Scarlet aveva fatto irruzione nella fabbrica di Nord qualche domanda aveva iniziato a farsela, compresa quella particolarmente scomoda riguardo Emma, ma metterlo al corrente di tutto o quasi, di una guerra e di complotti che difficilmente avrebbe potuto capire, era dannatamente più difficile del fare i vaghi come avevano fatto fino a quel momento.

Ma non c’era scelta, non c’era mai stata: avrebbero dovuto farlo, prima o poi, e quel momento era appena arrivato.

La principessa guerriera osservò i volti perplessi dei Guardiani uno per uno, soffermandosi sulle espressioni confuse e preoccupate degli altri, poi appoggiò il meno sopra le mani incrociate sull’elsa della propria spada:

«Normalmente Phobos in libertà non sarebbe un grosso problema, se non fosse che c’è in giro anche il mio Ciciarampa, casualmente scomparso nello stesso giorno: chiunque lo abbia liberato sapeva ciò che stava facendo, e non mi sorprenderei se avesse utilizzato la forza di quella bestia per violare in qualche modo l’Abisso, o comunque aiutarsi nell’impresa» affermò senza distogliere lo sguardo da un punto indefinito nella stanza:

«Tuttavia, da quel che ricordo la quantità di magia necessaria per aprire l’Abisso e mantenerlo in quello stato per tutto il tempo utile a Phobos per evadere è spaventosamente elevata, talmente tanto da uccidere chiunque non l’abbia creato, l’Abisso si intende.» concluse mentre un’aria interrogativa si dipinse sul volto di Nord:

«Phobos essere senza poteri, lui non potere fare tutto da solo, no! Qualcuno aiutato lui!» sbottò il vecchio Guardiano mentre Sandman, forte del proprio mutismo, faceva apparire un grande punto di domanda sulla propria testa, seguito dal facepalm di Alice:

«Ma dai, non lo avrei mai detto, ma proprio mai eh!» esclamò con tono palesemente sarcastico

«Per tutte le stelle del cielo, Nord! Se non venivi tu a dirci questa novità nessuno avrebbe mai immaginato che Phobos, senza poteri e senza dignità, fosse riuscito ad evadere! Sei proprio il degno Guardiano di Manny, a furia di stare con gli yeti hai anche lo stesso ritardo di comprensione!» gli urlò contro scattando in piedi con la spada fra le mani, salvo essere fermata dal braccio di Scarlet che le si parò davanti costringendola a sedersi.

A Jack sembrò quasi che la Cacciatrice non fosse solo la guardia del corpo della principessa guerriera, era come se la trattasse al pari di una sorellina minore da sorvegliare e proteggere, ed in effetti a vedere la reazione della ragazza alle parole di Nord ringraziò la Luna che ci fosse Scarlet a tenerla buona, anche se sapere questo non lo aiutava certo ad essere più tranquillo in quel clima di tensione ormai a livelli insopportabili: da una parte i Guardiani che fingevano di non sapere, o che comunque sembravano visibilmente agitati all’idea di parlare di ciò che era accaduto nel famoso Abisso, dall’altra Alice che li guardava con aria di rimprovero come se avesse capito fin troppo bene la sceneggiata che tenevano in piedi a fatica.

Poi c’era Jack Frost, che non stava capendo un emerito cazzo di ciò che gli accadeva intorno.

Certo, qualcosa gli avevano detto, ma fino ad ora aveva capito solamente tre cose: che questo Phobos era pericoloso, che c’era stata una guerra dove erano stati decimati i Guardiani e che, lo volesse o meno, anche lui si era trovato invischiato in quello che si prospettava essere un altro conflitto che avrebbe potuto scoppiare da un momento all’altro.

E ci si sarebbe trovato dentro fino al collo senza possibilità di uscita.

Da vivo, si intende.

 

Ed anche ora tutti lo stavano ignorando, o almeno aveva pensato che fosse così fino a quando non aveva visto Alice alzarsi, e questa volta Scarlet non si era fatta avanti per fermarla, tanto che gli si era parata davanti con la spada puntata verso la fronte:

«Quindi tu saresti Jack Frost, l’ultimo schiavo di Manny: ti immaginavo un po’ più minaccioso, da quello che ho saputo sul trattamento che tu e di tuoi amichetti avete riservato a Black mi aspettavo chissà cosa, e invece mi trovo davanti un ragazzino di… quanti anni hai?» domandò curiosa e, nonostante il fatto che non fosse stata per niente cortese, Jack aveva cercato di essere educato almeno lui:

«Trecento anni, anno più anno men-»

«Ne ho più di millesettecento, quindi non cercare di fare il furbo o ti posso assicurare che non avrai vita facile, sono stata abbastanza chiara?» chiese prendendosi di rimando solo un timido cenno preoccupato, così fece spallucce «Ora dimmi un po’, Jack Frost, Guardiano del Divertimento, cosa accidenti ti hanno raccontato sull’Abisso, sulla guerra, su Phobos? Ti hanno farcito la testa di tante storielle piene di ammmore come sono soliti fare, vero? Sono abituati a vedere solo quello, quei piccoli falliti, ma posso capirli.» continuò con evidente aria di sfida, talmente evidente che sul suo volto si dipinse un sorriso malizioso che significava solo una cosa, e cioè che lo stesse beatamente pigliando per il culo.

E ciò non andò particolarmente giù al giovane Guardiano, che improvvisamente fece per alzare il proprio bastone impugnandolo a due mani:

«I Guardiani sono stati più coraggiosi di una ragazzina insolente che se ne sta seduta a lagnarsi che gli hanno rubato il Ciciacosa!­» sbottò con violenza mentre un sottile strato di brina iniziava a ricoprire il legno «Non hai nessun diritto di offenderli, tu non hai perso nes-­» non fece in tempo a finire che la ragazza, complice le parole un po’ troppo azzardate di Jack, gli si fiondò addosso facendolo crollare a terra, per poi mettersi sopra il suo petto con la spada tenuta premuta con due mani sul collo, appena a qualche centimetro dalla giugulare:

«Ho perso più di quanto tu possa credere, fottutissimo bambinetto insolente, e se provi ancora a minacciarmi con le tue parole giuro che quel bastone te lo infilo su per il culo e telo faccio uscire da ben altre par-­»

«Mia signora, basta: è sufficiente, credo abbia capito, vero ragazzo?» intervenne Scarlet afferrandole un braccio e trascinandola in piedi, il tutto mentre Frost annuiva terrorizzato mettendo una mano sul profondo solco che la lama aveva lasciato per la pressione con la quale era stata premuta sulla pelle:

«Lasciami! Lasciami o ammazzo anche te! Scarlet, cazzo!» le urlò contro Alice mentre si dimenava per liberarsi dalla solida presa da dietro le spalle nella quale la Cacciatrice l’aveva intrappolata vedendo che le cose stavano degenerando, e allora a Jack sembrò di vedere qualcosa nei suoi occhi: era stato come un lampo, un improvviso bagliore azzurrino che era balenato fra le sue pupille profonde come l’oceano, un flash di pochi millisecondi che gli aveva fatto accapponare la pelle, proprio a lui, il Guardiano che con l’Inverno ed il freddo ci andava a braccetto.

 

Alice sembrava fuori controllo, non aveva nulla a che fare con la dolce e fragile ragazzina che aveva pensato che fosse appena l’aveva vista al suo arrivo a Fairy Oak, ed a giudicare da quanta fatica facesse Scarlet a tenerla a bada doveva avere anche una forza niente male: Jack non sapeva bene se affermare con certezza la presenza di un qualche problema mentale che le provocasse quegli improvvisi scatti d’ira e cambiamenti d’umore, ma quello di cui era assolutamente sicuro era che ora la principessa guerriera Alice Castle Wonderwood, improvvisamente diventata docile come un agnellino, se ne stava fra le braccia della sua mercenaria a piangere come la bambina che doveva essere, almeno vedendo il corpo che dimostrava poco più di quindici anni.

Scarlet da parte sua non si scompose nemmeno troppo, anzi l’assecondava permettendole di versare le proprie lacrime sulla sua spalla bagnando il mantello di velluto rosso, ma a giudicare dal suo sguardo totalmente vuoto e freddo quella non doveva essere la prima volta che andava incontro a quelle spiacevoli situazioni:

«Mi hanno preso il… Ciciarampa… il mio Ciciarampa… io non ho fatto niente… a nessuno… non ho fatto niente…» si lamentò la ragazza senza staccarsi dalla sicurezza che le faceva provare lo stare appiccicata alla Cacciatrice «Se la prendono sempre con me… tutti… cosa dovrei avere di sbagliat-­»

«Non c’è nulla di sbagliato, mia signora, ma dovete riprendere il controllo delle vostre emozioni: abbiamo molto di cui discutere, e di certo piangere sul latte versato, a meno che non siate quello che osserva, non servirà a nulla.» la rassicurò accarezzandole la testa con fare materno, gesto che riuscì, incredibilmente, a riportare l’altra in uno stato di lucidità mentale che nulla lasciava presagire, nemmeno il crollo appena avuto.

Noncurante dei Guardiani che la fissavano confusi e silenziosi, Alice si liscò l’ampia gonna azzurra del proprio abito e si sistemò un ciuffo di capelli che gli era ricaduto davanti agli occhi:

«Come ti stavo dicendo» disse rivolgendosi a Jack «La tua situazione è quella di qualcuno che si è trovato in mezzo ad una serie di sfortunati eventi senza nemmeno conoscere tutta la storia che c’è dietro: certo, i Guardiani ti hanno anche accennato qualcosa, ma già il fatto che si rivolgono ad Alexander con il nomignolo di “Altro” la dice lunga sul perché i Chadrasekhar si rifiutassero di muovere guerra per salvare il culo ad un branco di ingrati creati da un essere che in questo momento sta sorseggiando latte in compagnia di un puledro, e questo è un grosso problema» gli fece notare iniziando a girargli intorno con aria impettita e le mani dietro la schiena per poi fermarsi davanti a lui, che la guardava interrogativo:

«Io non credo di aver capito la domand-­» fece per rispondere, ma venne interrotto da Alice che gli poggiò l’indice sulle labbra mentre con l’altro gli faceva segno di non parlare:

«Ssssh, Jack, non devi capire nulla, devi solo dirmi se intendi combattere» spiegò mentre sul suo volto appariva un sorriso malizioso «Non sei obbligato a farlo, ma se decidi di combattere qualcosa o qualcuno che non conosci dopo non potrai tornare indietro: la parola di un Guardiano è la parola stessa dell’Uomo nella Luna, non lo sapevi?» concluse mentre Jack la fissava stranito.

Non aveva capito molto di quel teatrino, tranne che nessuno avrebbe aperto la bocca su nulla a meno che lui non fosse stato davvero intenzionato a prendere parte alla cosa: forse era perché Alice temeva che spifferare tutto ai quattro venti, letteralmente, non sarebbe stata una scelta saggia, magari riteneva che se lui non era interessato a combattere non aveva nemmeno senso informarlo di cose che poi non gli sarebbero tornare utili, o forse più semplicemente, e più realisticamente, la principessa guerriera era in preda ad uno dei suoi ormai noti sbalzi d’umore.

Però, penso Jack, fra quelle informazioni avrebbero potuto essercene alcune riguardo Emma, oppure avrebbe potuto farne alcune ad Alice che, dal poco che aveva visto e sentito, sembrava saperne di più di tutti i Guardiani messi insieme.

E fu proprio per quello che, con un gesto inconscio o forse fin troppo cosciente, Jack Frost annuì deciso alla proposta della principessa guerriera, la quale fece quella che aveva tutta l’aria di essere una smorfia soddisfatta:

«Ma come siamo coraggiosi, più di Manny addirittura!» disse ridendo fra sé e sé, per poi fare un cenno a Scarlet per farla avvicinare richiamando a sé Spettro, ora intento a stiracchiarsi le zampe dopo il sonnellino:

«Se siete tutti d’accordo preferirei parlarvi in un luogo più appartato dell’atrio del mio castello, non si sa mai che il Ciciarampa torni improvvisamente a casa e sfondi la porta, anche perché chi lo sente il Guardone Mistico se muore un Guardiano sbranato male senza che lui lo avesse previsto?» continuò strappando un sorriso divertito anche a Scarlet, il primo che Jack le avesse visto sul volto da quando l’aveva incontrata, poi la ragazza fece segno agli altri di seguirla verso una l’ala destra del castello che dava sull’ampio salone in cui si trovavano.

 

Mentre camminavano tutti in quella che sembrava una processione di pentimento governata dal mutismo e dalla rassegnazione, Jack era intento ad osservare ogni singolo centimetro di quell’immenso castello i cui corridoi sembravano senza fine, ammirando con gli occhi sgranati ciò che gli capitava sotto tiro: pareti coperte da meravigliosi arazzi dagli intricati motivi floreali, quadri che raffiguravano combattimenti epici fra donne alate che cavalcavano grandi draghi dalle zanne d’oro contro mostri ripugnanti, altri che rappresentavano figure circondate da una coltre di stelle che disegnava labirinti nel buio di quelle che sembravano essere le profondità del cosmo, monili ed oggetti dalle forme più strane e bizzarre poggiati su eleganti piedistalli che fluttuavano nell’etere, ampie vetrate che arrivavano fino al soffitto lasciando entrare la morbida e calda luce dei tre soli, e poi porte, porte di dimensioni immani che svettavano lungo le pareti facendolo sentire tremendamente piccolo.

Era un posto semplicemente meraviglioso, soprattutto una volta che ci si era abituati al carattere di Alice, e Frost se avesse potuto ci avrebbe passato volentieri la propria eternità da Guardiano.

Fu mentre camminava in fondo alla fila dei Guardiani che il suo sguardo venne catturato da una porta dorata socchiusa, forse attirato dai battenti finemente lavorati con disegni a dir poco realistici che rappresentavano una scena di fantasia dove un grande serpente racchiudeva fra le sue spire un unicorno protetto dalle immense ali una donna con una corona di stelle sul capo, il tutto mentre la testa del rettile veniva trafitta dalla spada di un’altra figura femminile con addosso un’armatura decorata da diversi diamanti in rilievo.

L’istinto ovviamente lo portò ad abbandonare la processione dei suoi compagni, che nel frattempo si erano già allontanati da quanto sentiva le loro voci ovattate, per poi spingere lievemente i battenti facendoli muovere con un suono sordo, e ciò che vide lo lasciò ancora più perplesso di quanto fosse già: la stanza era immensa, non sembrava nemmeno così grande dall’esterno, dominata dalla grande statua di un drago avvolto intorno ad una donna che sfoggiava sei ali, ed in realtà guardando meglio aveva intravisto una teca con… con niente, dato che Scarlet lo aveva afferrato per il collo prima che potesse mettere bene a fuoco la situazione:

«I tuoi amici si sono già accomodati, e ti consiglio di fare lo stesso: la curiosità uccise il gatto, dovresti ricordart-»

«E la soddisfazione lo riportò in vita, giusto?» rispose fiero di avergli tenuto testa almeno una volta, ma gli sembrava strano che Scarlet non avesse nulla da dire:

«Giusto, ma questo gatto è già stato riportato in vita una volta, purtroppo Manny non potrebbe farlo di nuovo, capito?» asserì afferrandogli il braccio e trascinandolo fuori con il volto bianco per la paura di quella risposta, ma non prima che Jack riuscisse a scorgere sopra l’immensa statua la scritta “May Her hooves never be shod”, “Possano i suoi zoccoli non essere mai ferrati”, la stessa che aveva visto nel covo di Nord.

La stessa scritta.

E non era una coincidenza.

 

Una volta che tutti i Guardiani, compreso quel birichino di Jack che aveva inutilmente cercato di fare il fuggitivo, si erano accomodati nella grande stanza costellata qua e là da librerie, Alice aveva preso posto dall’altro lato della stanza fissando il giovane Guardiano, il quale aveva iniziato a sperare che i bisbigli che si stava scambiando con Scarlet non lo riguardassero, ma a giudicare dal sorriso compiaciuto che aveva fatto non ne era proprio sicuro:

«Sei troppo curioso, Jack Frost, e la curiosità non va bene quando non si ha nemmeno idea di cosa si nasconda dietro porte che avevo espressamente chiesto restassero chiuse» asserì lanciando un’occhiata di rimprovero a Scarlet, la quale aveva abbassato lo sguardo imbarazzata:

«Comunque sia abbiamo già perso abbastanza tempo, e se la situazione è quella che penso sarà meglio darsi una mossa a scoprire gli altarini, non siete d’accordo?» domandò ai Guardiani, i quali se ne stavano tutti in disparte a guardarsi cercando di scorgere un qualche segno che indicasse il da farsi.

Segno che, giustamente, venne interpretato da Calmoniglio come un motivo per cui avrebbe dovuto dire la sua anche quando nessuno glielo chiedeva:

«Stammi a sentire, Alice, secondo me è inutile stare qui a raccontargli tutto, a grandi linee gli abbiamo già detto quello che c’era da dir-»

«Oh Calmoniglio, Calmoniglio caro, mio piccolo Pooka curioso…» gli rispose sorridendo mentre scorreva un dito sulla propria spada «Come chiamate Apophis? L’Altro, giusto? Non stiamo qui a prenderci in giro, questo dovrebbe essere sufficiente a dimostrare che non avete nemmeno il coraggio di pronunciare il nome dell’artefice dello sterminio dei Guardiani» lo punzecchiò con aria di sfida, poi gli piantò gli occhi addosso «E della tua inutile razza di stufati ambulanti, i miei Diggerwurm i Pooka se li mangiavano a colazione.»

Ecco, non avrebbe dovuto dirlo.

Non avrebbe dovuto, ma lo aveva detto, aveva tirato l’ennesima frecciatina della giornata, quella che aveva fatto scattare il coniglio pasquale in piedi per avventarsi sulla docile e mansueta principessa che se ne stava seduta su una poltrona dove la sua esile figura sembrava perdersi:

«Non parlare della mia gente! Non ti azzardare dannata ragazzina!» le urlò contro tirando fuori il proprio boomerang nella totale indifferenza di Alice e nel terrore dei compagni, soprattutto di Dentolina che a malapena si era alzata per fermarlo preoccupata:

«Calmoniglio fermati! Lo ha fatto apposta! E’ ciò che vuol-­­» fece per avvisarlo senza terminare la frase che un rumore di ramo spezzato si diffuse nella stanza.

Quel rumore, poi un tonfo sordo e dei gridolini agonizzanti, il suono insistente del battere incessante di qualcosa contro una superficie fin troppo dura che aumentava solo l’immane senso di impotenza dei presenti.

Nonostante i Guardiani la conoscessero da decisamente più tempo, Jack aveva capito prima degli altri che con Alice bisognava andarci piano, e la sua intuizione fu confermata dalle fauci di Spettro chiuse intorno alla zampa di Calmoniglio, zampa che penzolava allegramente mostrando l’osso spezzato di netto:

«Se siete venuti qui per provocarmi avete scelto il momento e la persona sbagliata, e se volete restare in questa stanza nessuno che non sia Jack Frost si azzardi ad aprire la bocca, è chiaro a tutti?» domandò ricevendo di risposta solo dei cenni sommessi, ed allora fece segno a Scarlet di riprendersi il proprio cane troppo cresciuto, non prima di aver dato un altro assaggio alla succulenta zampa del Pooka, il quale fu aiutato da Nord a rimettersi in piedi senza però controbattere a nulla.

Alice allora chiese a Jack di avvicinarsi, ordine che venne immediatamente recepito:

«Dunque devo iniziare dal principio con te, da quando l’ombra di quella serpe ha iniziato ad aggirarsi sulla Terra e nello spazio qui intorno…» disse fra sé e sé, poi si mise comoda mentre Frost la guardava stranamente interessato:

«Partiamo dal presupposto che il vero nome “dell’Altro” è Apophis Nightcrawler, e già questo è un passo avanti: Apophis è una creatura potente e pericolosa, più di quanto pensassimo quando ci siamo trovati ad affrontarlo, un essere talmente potente da essere in grado di trasformarsi in un enorme serpente capace di divorare le stelle senza tregua come se fossero biscotti allo zenzero» spiegò facendo accapponare la pelle al povero Guardiano «Apophis si era messo in testa di distruggere ciò che più lo aggradava per saziare la propria sete di sangue, che fossero stelle o persone per lui non aveva importanza, per poi eventualmente dominare incontrastato ciò che sarebbe rimasto in seguito al suo passaggio: fronteggiare un nemico simile sembrava impossibile ed infatti era un grosso problema per tutti, famiglie delle Costellazioni comprese, ma ciò su cui mise gli occhi per primo, o meglio le spire, fu semplicemente la Terra, la vostra Terra.» continuò mentre Jack, forse per distrarsi, guardò i compagni:

«Apophis scese sulla Terra da solo, senza un esercito al seguito, e per questo i Guardiani pensavano di potergli tenere testa senza troppe difficoltà, d’altronde erano in centinaia contro un solo uomo: pessima mossa, davvero pessima.»

Nessuno di loro osava alzare la testa, Dentolina addirittura teneva le mani premute sulle orecchie per non sentire, e questo gli bastò per capire il motivo del tono serio della principessa:

«Come ti hanno già raccontato sono morti diversi Guardiani, come anche altrettanti sono scappati a gambe levate dimostrando di essere i degni successori dell’Uomo Nero: quella che doveva essere una guerra veloce si è trasformata in un genocidio di massa, una strage che nessuno aveva previsto, nemmeno Manny» disse mentre gli scappava un sorriso «Manny, il leggendario Uomo nella Luna, aveva il nemico proprio in casa, sul lato oscuro del suo adorato satellite, ma non aveva mai mosso un dito, né si era fatto domande: quando scoppiò la guerra alzò un’immensa barriera magica per proteggere il suo lato di Luna, e nessuno lo vide più per tutta la durata del conflitto, nemmeno quando si rese conto che erano rimasti appena quattro di tutti i suoi Guardiani.» fece una pausa come se anche per lui, per quanto se ne fregasse male di quelli che erano morti in un’altra fazione diversa dalla sua, fosse comunque difficile ricordare quei momenti.

 

E fu per questo che Jack si permise di intervenire:

«E poi cosa successe? Mi hanno detto che Apophis è stato sconfitto, ma da come ne stai parlando sembra che non fosse nemmeno immaginabile battere quel mostro!» si intromise con la rabbia che gli ribolliva nelle vene per il pensiero che quell’uomo fosse ancora in giro, ed in effetti Alice fece semplicemente spallucce:

 «Dopo il colossale fallimento dei Guardiani, Apophis era più che pronto a divorare la Terra, ma fu allora che anche le forze di Exodus, di questo pianeta, mossero guerra ad Apophis: i regni di Phantasia, Fairy Oak e Quetzalli presero parte al conflitto, anche se quest’ultima fazione si ritirò quando vide che le perdite erano troppo elevate, così rimasero i nostri regni a combattere quella bestia» spiegò con un filo di orgoglio mentre Frost, per la sorpresa, si chiese come poteva quella ragazzina guidare un intero esercito contro un mostro così potente da sola:

«Io guidai l’assalto principale, quello che servì più che altro a stancare Apophis perché la polvere di stelle della quale si nutriva andasse esaurendosi, il tutto mentre Phantasia preparava il terreno a magie talmente potenti da essere in grado di rispedire Apophis nello spazio dal quale proveniva: Phobos, il compagno della regina Harmonia, teneva aperto il varco per espellere quella bestia dal pianeta, Harmonia stessa invece si scontrò direttamente con lui, così ch-­»

«E poi, eh? Eh? Cosa successe? Apophis tornò da dove era venuto?» domandò curioso come un bambino che vuole sapere il finale di una storia.

Alice lo guardò qualche istante, poi il suo volto divenne una maschera di tristezza:

«Poi ci accorgemmo che Apophis non si sarebbe arreso tanto facilmente, non senza lasciare un segno del proprio passaggio anche sulla Terra» rispose fredda tirando un sospiro che sembrava esserle costato un dolore immenso:

«Phobos stava ancora tenendo aperto il varco quando Apophis fu spedito nello spazio, e gli era tremendamente vicino: fu un attimo prima che io ed Harmonia ci accorgessimo di quello che stava accadendo, ed anche Apophis ci mise ben poco per afferrare il braccio di Phobos con una violenza spaventosa scaraventandolo a terra in preda agli spasmi in condizioni agonizzanti, poi se ne andò diventando un brutto affare delle famiglie delle Costellazioni, non più un nostro problema» spiegò notando che Jack, resosi contro che si stava parlando di Phobos, stava per farle una domanda:

«Se te lo stai chiedendo la risposta è no, Phobos non fu più lo stesso: tutti noi, compresi i Guardiani, cercammo di aiutarlo, ma il suo braccio e la sua mente ormai recavano il marchio indelebile di Apophis Nightcrawler, e non potevamo farci nulla, nulla… Harmonia provò a salvarlo, a risvegliare nella sua coscienza l’uomo che amava, ma di tutta risposta lui cercò di ucciderla, per poi scatenare la furia appena ottenuta contro tutto e tutti: non potevamo fare nulla per salvare, ma dovevamo fare qualcosa per salvare noi stessi ed il resto dell’Universo.» concluse prendendosi una pausa per stringere i pugni fino a sentire dolore.

Jack iniziava a capire purtroppo per lui, ed insieme alla consapevolezza di ciò che era accaduto iniziò a provare uno strano senso di malessere: per quanto avesse perso improvvisamente Emma, non osava nemmeno immaginare il dolore di perdere qualcuno che si amava dall’oggi al domani, soprattutto se quella persona era diventata un mostro cercando di salvare qualcuno nel nome del Guardiano dei Guardiani, lo stesso che aveva osservato tutto senza muovere un solo dito, senza nemmeno provare ad intervenire.

E faceva male pensare che quello fosse davvero Manny, faceva tanto male, ma purtroppo per lui quella era la sola ed unica verità, ed ora capiva perché i Guardiani non ne volessero parlare: doveva essere doloroso pensare che la persona che ti ha creato ti ha anche abbandonato a te stesso, non poteva certo biasimarli per avergli nascosto una verità che nemmeno lui era certo di poter sopportare, ora che la conosceva.

Tuttavia Alice sapeva che mancava un ultimo pezzo, e Jack glielo chiese prontamente:

«Phobos poi che fine fece? Vene confinato nell’Abis-­»

«L’Abisso fu una scelta obbligata, se fosse stato per Harmonia lei non avrebbe mai osato fare del male all’unico uomo della propria vita, non voleva creare quel luogo» ci tenne a precisare prima di continuare «Comunque sì, Phobos era troppo pericoloso per restare in libertà, così venne creato un posto dove non avrebbe potuto fare del male a nessuno: Harmonia dovette combattere contro di lui con le lacrime agli occhi, e quando gettò il corpo del proprio amante in fin di vita in una voragine che tutti noi la aiutammo a creare per lei fu un colpo durissimo, fu terribil-­»

«Se ami una persona non la getti in una voragine, cerchi di salvarla» obiettò il giovane Guardiano pensando di essere dalla parte della ragione «Voglio dire, questa Harmonia avrebbe potuto impegnarsi di più, magari Phobos avrebbe potuto essere salvato, no?» domandò rivolto a tutti i presenti nella stanza.

 

Il silenzio.

Totale, assordante ed inquietante silenzio.

Da parte di tutti.

 

Alice lo guardò come se avesse appena dichiarato guerra a qualcuno, poi si alzò di scatto sbattendo con violenza le mani sui braccioli della sedia di frost:

«Harmonia ha fatto di tutto, tutto, per salvare Phobos, ma non è bastato, non è bastato!» gli urlò contro furiosa «Tu non c’eri, dannato Guardiano! Non c’eri mentre agonizzava da sola sul ciglio dell’Abisso! Non eri tu che passava giornate intere temendo che il suo dolore potesse contagiare l’intero pianeta e portarlo alla morte! Non c’eri!» continuò ad infierire mentre Scarlet, forse temendo un’altra sfuriata, gli si era avvicinata, ma questo non bastò a Jack per sentirsi più calmo dopo quella che aveva creduto essere una semplice domanda più che logica.

A quel punto fu Nord ad intervenire sperando di calmare le acque:

«Jack non volere dire che Harmonia ha colpa di avere abbandonato Phobos, ma lui non capir-­­»

«Non capisce cosa, esattamente?» rigirò la domanda infuriata «Che il suo Uomo nella Luna è un’emerita testa di cazzo, forse? Oh certo, tutti bravi a parlare quando non sanno cosa c’è dietro alle parole, proprio bravi! Ma c’è una soluzione, oh se c’è!» sbottò improvvisamente facendo un sorriso che non lasciava presagire nulla di buono «Alzatevi e seguitemi.» ordinò semplicemente, ordine che venne subito eseguito.

Nessuno aveva osato chiedere dove stessero andando, ma appena Alice tornò nel grande atrio e si fermò al centro di quello che sembrava essere un intricato mosaico variopinto sul pavimento fu Dentolina ad opporre resistenza:

«No! Alice non è necessario! Jack non è ancora pront-­»

«Non è un mio problema se è pronto o meno, a casa mia si fa quello che dico io: vuole le risposte? Benissimo, allora le chieda direttamente ad Harmonia, se ha il coraggio di farlo.»

«Tutta quella magia… lui non è abituato… potrebbe… potrebb-» cercò di controbattere la fata con aria davvero preoccupata, ma la principessa guerriera era irremovibile:

«Ucciderlo? Ben venga, un impiccio in meno.» concluse l’altra, poi invitò tutti ad entrare nel cerchio formato dalle decorazioni del disegno per terra, prese la spada e la conficcò al centro del mosaico, sollevando quello che sembrava un campo di energia che confluiva in un portale del tutto simile a quello che Jack Frost aveva visto usare da Scarlet.

Aveva paura ed entrarci, il giovane Guardiano, e si maledisse per non essere riuscito a tenere a freno la lingua per l’ennesima volta: da una parte forse avrebbe finalmente conosciuto qualcuna delle persone delle quali sentiva continuamente i nomi nei discorsi dei Guardiani e di Alice, dall’altra l’idea che Dentolina si stesse addirittura preoccupando che non fosse ancora pronto, non aveva ancora capito se intendesse dal punto di vista mentale oppure fisico, gli metteva addosso una certa ansia.

Non voleva certo morire giovane, non era come Sandman che tornava alla vita a random nemmeno fosse un gatto che di vite ne aveva nove, né tantomeno voleva farlo prima di avere avuto le proprie risposte riguardo Emma, che al momento restava comunque la sua priorità assoluta dopo secoli di silenzio.

Non fece nemmeno in tempo a continuare i propri ragionamenti alquanto ambigui che si sentì risucchiato da qualcosa, esattamente come era successo quando era approdato a Fairy Oak: questa volta la sensazione durò molto meno tempo, complice il fatto che i due luoghi si trovassero sullo stesso pianeta, ma era rimasto comunque nuovamente stranito, come intorpidito da uno strano senso di piccolezza.

Soprattutto quando aveva riaperto gli occhi.

 

 

Se quello era il paradiso, allora avrebbe preferito morire per andarci.

Jack non aveva creduto ai suoi occhi nemmeno quando aveva visto il Paese delle Meraviglie, ma quel luogo era decisamente al di sopra ogni aspettativa: anche se era pieno giorno, le immense distese di nubi variopinte dai caldi colori del tramonto svettavano prepotenti sul cielo che andava dall’azzurro fino al blu dello spazio più profondo, profondità illuminata però da una miriade di stelle bianche delle quali ne risaltava in particolarmente una azzurrina, sfondo sul quale pareva essere stato dipinto l’intero paesaggio che gli si stagliava davanti, un paesaggio talmente irreale da sembrare uscito da un sogno da mille e una notte.

Dal terreno si innalzavano fino al cielo torri che uscivano dal ventre dal terreno pazientemente plasmate dalla magia che permeava l’aria riempiendola di un dolce profumo fruttato, prati sconfinati che crescevano ovunque arrampicandosi dalla pianura fino alla sommità di quei palazzi di terra fresca e rigogliosa coperta da fiori di ogni tipo, forma e colore, comprese grosse piante dall’insolita forma a palloncino con il fusto ricurvo che emanavano una luminescenza giallastra rendendo il tutto ancora più magico, segnando un sentiero che andava fino alla costruzione più immane che dominasse il luogo: un enorme pilastro di terra e roccia che si univa con una sorta di ponte a quelle che avevano tutta l’aria di essere isole che fluttuavano nell’etere facendo ricadere morbide e frizzanti cascate dall’acqua limpida e cristallina, cascate volanti che ricoprivano il pilastro fino a ricadere a terra in un grande lago sottostante.

Ed infine, sulla sommità di quel gigantesco pilastro di roccia, un castello, il più bello e imponente che Jack avesse mai visto, effetto reso ancora più magnifico dal fatto che ci fossero delle insenature dalle quali sgorgava l’acqua della cascata stessa: non sembrava fatto di pietra come quello di Alice, le pareti dorate dalle sfumature rosate donavano alla costruzione un aspetto più fiabesco rispetto all’altro, e le alte torri che si abbracciavano in abbracci fatati svanendo fra le morbide nuvole rendevano l’idea che potessero addirittura toccare il la grande stella azzurra che pareva sorvegliare tutto i territorio circostante all’area.

Troppo occupati a godersi quello spettacolo e letteralmente rapito dall’atmosfera del posto, Frost era rimasto indietro rispetto ai compagni, i quali erano già in cammino dietro Alice e Scarlet verso la sommità della montagna percorrendo il sentiero illuminato dagli strani fiori luminescenti: con una corsa veloce aveva recuperato lo svantaggio e si era messo alla pari con gli altri senza fiatare, notando che tutti avevano un’aria decisamente più rilassata di prima, quasi che il profumo e la magia dell’aria stessa avesse un qualche effetto positivo sul corpo e la mente.

Non seppe quantificare il tempo che avevano impiegato per risalire la torre di roccia, anche perché per tutta la camminata era stato con il naso all’insù per godersi ancora qualche istante il paesaggio che gli si apriva intorno rendendosi conto, proprio a causa dell’elevata altezza raggiunta, che il territorio di quel regno era molto più vasto del previsto: non riusciva nemmeno a vederne i confini talmente era grande, ed anzi vedeva addirittura la leggera curvatura del pianeta da dove si trovava, fatta eccezione per delle alte montagne simili a vulcani in lontananza.

Aveva capito di essere arrivato a destinazione quando si scontrò con una certa violenza contro la schiena di Nord, azione che gli aveva finalmente fatto abbassare lo sguardo verso i cancelli dorati formati da due unicorni rampanti le cui ali si erano dischiuse facendoli entrare ed approdare in quello che aveva tutta l’aria di essere un giardino con ogni specie vegetale immaginabile: non era tanto il verde lussureggiante e florido del giardino in sé ad averlo colpito, era più l’immensa cupola soprastante che ricordava vagamente l’aspetto delle serre che utilizzavano gli umani per coltivare determinate piante in luoghi particolari.

Alice allora invitò tutti a raccolta in un piccolo angolo vicino ad un laghetto con degli strani cigni con vezzose corone di piume adornate da piccole perle iridescenti che però non sembravano voler prestare attenzione ai nuovi ospiti, e proprio quando Jack, complice la stanchezza, aveva fatto per accomodarsi su una graziosa sedia ricavata da un masso bianco piuttosto grande, Scarlet gli aveva sbattuto il piatto della propria lancia sulla schiena facendolo drizzare in piedi per lo spavento, non tanto per il dolore quasi inesistente:

«Abbi rispetto per questo luogo, Guardiano del Divertimento, e vedi di inchinarti come hanno già fatto i tuoi compagni.» gli raccomandò imitando gli altri a sua volta, compresa Alice che teneva la testa china sull’elsa della propria spada.

Se doveva essere sincero proprio non capiva il perché di tutte quelle formalità, motivo per cui decise di fare il trasgressivo standosene in piedi con le braccia incrociate come se stesse sfidando Manny in persona:

«Oh certo, così appena mi inchino lo prendo nel c-»

«Perdonatemi il ritardo ma lucidare gli zoccoli può rivelarsi un’operazione più lunga del previsto quando si tratta di incontri formali, mi fa molto piacere vedere che ci siete tutti.» annunciò una voce femminile da un punto che inizialmente Frost non riuscì ad identificare troppo bene, preso com’era dal suo stesso ego e per questo fu solo dopo qualche istante che vide, appena dietro un cespuglio piuttosto fitto di bacche violacee, quella che doveva essere una donna in sella ad un cavallo che si avvicinava a dove si trovavano loro, a giudicare dagli zoccoli dorati che si riuscivano ad  intravedere nella vegetazione

O almeno aveva pensato che fosse a cavallo.

Fino a quando non si era ritrovato ad appena un metro da lei.

E allora pensò che il trauma di essere diventato un Guardiano non era più quello che l’avrebbe segnato più di tutti nella sua vita.

 

 

Se quella era il genere di bellezza che avrebbe trovato nelle donne che abitavano quel regno, allora avrebbe messo una firma su qualsiasi contratto per stabilirsi a Phantasia fino a quando l’Universo non sarebbe collassato: la liscia pelle color pesca era in netto contrasto con l’armatura dorata decorata da grezzi ricami floreali in rilievo sulle placche che coprivano a malapena il prosperoso seno proporzionato e non esagerato rispetto al resto del corpo, persino con i muscoli addominali ben visibili che rendevano l’idea di quanta forza dovesse avere dentro di sé quella donna, armatura che si ripeteva nuovamente con dei bracciali fino al gomito presenti su entrambe le braccia ed una collana che invece ricadevano fino a poco sopra il seno.

E poi il volto, un viso angelico che nulla aveva da invidiare alle raffigurazioni delle dee greche reperibili ovunque sulla Terra, adornato da due grandi occhi azzurri con le stesse sfumature del lago sottostante quasi i colori fossero stati presi in prestito dall’acqua stessa, il tutto coronato da una cascata di capelli il cui curioso colore andava dal verde acqua, all’azzurro, al violetto fino al rosa intenso, una chioma che ricordava un arcobaleno sempre in movimento, come se fosse una nube eterea che si muoveva seguendo un’invisibile brezza anche se l’aria, almeno in quel luogo, sembrava piuttosto quieta.

Arrivato a quel punto, Jack si sarebbe volentieri fermato alla parte superiore del corpo, ma quando l’aveva guardata meglio non aveva potuto ignorare quella inferiore: non c’erano delle gambe ed un fondoschiena da urlo come si era poco castamente immaginato, ma il possente corpo di un grosso cavalli bianco dagli zoccoli dorati e la coda sempre in movimento come la folta chioma.

Ecco.

 

Lo sgomento iniziale fu tremendo, abbastanza perché servisse l’aiuto di Nord a reggerlo in piedi, ma la donna non si era scomposta più di tanto, anzi aveva accennato un timido sorriso:

«Immagino che non capiti tutti i giorni di vedere una centauressa sulla Terra, quindi non preoccuparti e prenditi tutto il tempo che ti serv-»

«Ma se fai sesso quale sarebbe il buco per le cose GNE?» chiese con tutta la nonchalance che il mondo potesse offrirgli facendo raggelare il sangue nelle vene dei Guardiani, abbastanza perché Dentolina si precipitasse verso di lui mettendogli una mano sulla bocca:

«Jack! Vergognati! Ma che domande sono? Ma dai!» lo rimproverò talmente sconvolta che il suo volto divenne più rosso del mantello di Scarlet, poi si girò verso l’altra:

«Mi dispiace! Non voleva dirlo! Non si riesce a controllare! Ti prego di perdonar-»

«Nessun problema, Dentolina, d’altronde è ancora un giovane Guardiano, certe domande sono ovvie quando ci si ritrova davanti a duna donna mezza cavallo, non credi?» domandò ridacchiando, poi si avvicinò a Jack che, preso da un improvviso senso di imbarazzo, si era inchinato a terra terrorizzato dalle conseguenze delle sue parole, ma lei lo aveva invitato a sollevarsi con un tocco dello zoccolo sulla nuca:

«Per rispondere alla tua domanda, Jack Frost, vorrei informarti che genitali da cavallo hanno la stessa funzione di quelli di una qualsiasi donna: è una questione di pratica il modo in cui ci si destreggia fra zampe e zoccoli vari senza rompersi una costola, ma una volta che ci si fa l’abitudine non sarebbe diverso dal fare sesso con qualsiasi altra donna umana, la mia risposta ti ha soddisfatto a sufficienza?» gli chiese prendendosi di rimando il silenzio imbarazzato del Guardiano e degli altri, compresa Alice ed il suo facepalm.

Dopo qualche istante di mutismo Jack si decise a fare un cenno con la testa, gesto che venne accolto dalla donna come un segno che forse avevano finalmente rotto il ghiaccio:

«Molto bene, vedo che la curiosità non ti manca, in questo regno è fondamentale essere disposti ad uscire dagli schemi» si complimentò facendo rilassare Frost, che continuava a fissarla con la testa piegata di lato per cogliere ogni particolare della sua figura, soprattutto la corona:

«Oh, quasi mi stavo dimenticando delle presentazioni: come ti avranno già detto il nome è Harmonia, Regina della Fantasia oltre che sovrana del regno di Phantasia e del pianeta Exodus, » si presentò con un inchino abbassando il capo e piegando una zampa tenendo tesa l’altra, per poi allungare una mano verso Jack che, dietro suggerimento dell’ultimo minuti di Dentolina, si era affrettato a prenderla e baciarne il dorso come la fata gli aveva spiegato per rendere omaggio a quella che, almeno da ciò che aveva brevemente sentito, era la massima autorità dinanzi alla quale si sarebbe trovato quel giorno.

Terminati i convenevoli, stranamente senza spargimenti di sangue come invece era successo alla corte della principessa guerriera, la regina aveva spostato lo sguardo sui Guardiani feriti immaginando già chi fosse l’autrice di quella scena pietosa, la stessa che si era però prontamente premurata di discolparsi:

«Siamo qui perché il signorino Frost ha delle domande da farti, non per discutere dei miei ambigui metodi di accoglienza» asserì stizzita spingendo Jack con l’elsa della spada verso di lei, che lo guardò incuriosita:

«Domande? Oh beh, penso che abbiamo tempo per qualche domanda, non è il cas-»

«Su Phobos.» buttò lì Alice senza troppi giri di parole.

Harmonia aveva improvvisamente assunto un’aria perplessa, i muscoli delle braccia visibilmente tesi e le mani chiuse a pugni fecero capire ai presenti che forse, per l’ennesima volta, Jack avrebbe dovuto imparare a tenersi per sé i propri dubbi:

«Molto bene, non vedo il motivo per cui non dovrebbe farle» disse la regina cogliendo di sorpresa un po’ tutti, soprattutto quando si era chinata verso il giovane Guardiano prendendogli il mento perché i loro sguardi si incrociassero, anche se quella posizione metteva leggermente a disagio il povero spirito dell’Inverno:

«Io… ecco, volevo… volevo sapere per quale motivo… insomma… l’Abisso… Phob-»

«Vuoi sapere perché abbia deciso di abbandonarlo là dentro, piuttosto che tentare il tutto per tutto per riaverlo indietro, vero?» domandò infine, e l’altro fece un cenno di approvazione:

«Lo immaginavo, sono in molti che faticano a capire il perché di quel gesto, ma non mi aspetto che tutti comprendano.» sospirò con un velo di tristezza Harmonia, la quale aveva abbassato lo sguardo nostalgica.

Jack avrebbe dato di tutto per sapere cosa girava nella sua testa in quel momento, dopo la sua domanda fin troppo scomoda, ma qualsiasi cosa stesse pensando aveva capito un punto focale: se per Alice era stato difficile parlare della questione, allora per Harmonia doveva essere al pari di una vera e propria tortura.

La regina tuttavia ritrovò presto l’aria composta che era solita mantenere in ogni genere di situazione, e quella volta non fu da meno:

«Immagino che Alice ti abbia già raccontato a grandi linee ciò che è accaduto prima della mia decisione, ma ci tengo a specificare comunque una cosa: la mia scelta fu difficile, molto più di quanto avrei potuto immaginare che potesse essere, e fu dettata soprattutto dalla necessità di mettere fine ad un conflitto che, se fosse andato avanti, avrebbe portato solo più danni ad una guerra già in corso» riferì assumendo un’aria seria mentre un curioso passerotto dalle piume bluastre e la coda simile a quella di un pavone le si era posato sul dorso:

«Phobos era stremato, lo eravamo tutti dopo l’infinità di incantesimi che la protezione del pianeta aveva richiesto, nessuno di noi era in grado di resistere ad un altro attacco di Apophis se mai fosse arrivato: avevamo combattuto, erano morte persone, c’erano stati interi regni completamente rasi al suolo, non avevamo tempo per occuparci dei singoli individui, tantomeno di vigilare che nessuno rimanesse indietro» continuò accarezzando il piccolo uccello che canticchiava felice:

«I Guardiani erano fuori combattimento da un pezzo quando ho portato gli eserciti di Exodus sulla Terra, ed abbiamo dovuto cavarcela da soli: ognuno aveva il proprio ruolo, ma eravamo io e Phobos a confrontarci direttamente con Apophis, lui che lo teneva lontano dalla superficie ed io che cercavo con tutte le mie forze di rimandarlo da dove era venuto, o almeno di respingerlo abbastanza perché diventasse un problema di Manny, non nostro.» concluse facendo una pausa durante la quale il volatile era sparito fra le fronde di un grande albero dai frutti rosati.

Dopo qualche istante Harmonia incrociò le braccia al petto come se volesse abbracciarsi per darsi conforto, gesto che non sfuggì a Frost:

«Questo già lo sapevo, in realtà, ma non capisco perché hai scavato proprio una vor-»

«Quando Phobos perse il controllo cercai di usare quel poco di energie che la battaglia mi aveva lasciato per utilizzare delle magie di guarigione, ma furono del tutto inutili: aveva improvvisamente ripreso le forze come spinto da una forza più grande di lui, e quando ci attaccò capii che non avremmo mai potuto sostenere lo scontro uscendone vivi, così ripiegai sull’Abisso» spiegò con la voce incrinata dalla tristezza e dai rimorsi:

«Fu un attimo per sconfiggerlo, soprattutto perché dopo il suo attacco sembrò che l’immane potenza che aveva fra le mani fosse svanita nel nulla, ma sono secoli che mi porto dietro il dolore del mio gesto: ho cercato di convincermi che la salvezza dell’intero Universo fosse più importante dei miei sentimenti per Phobos, non avevo altra scelta che accettare ciò che era succes-»

 

Un boato.

Le schegge di vetro che schizzavano ovunque.

Un calore terribile.

Il silenzio.

Poi era partito “Burn” sull’mp4.

 

«When the lights turned down, they dont know what they heard: strike the match, play it loud, giving love to the world! We’ll be raising our hands, shining up to the sky, cause we got the fire, fire, fire, yeah we got the fire fire fire!» iniziò a canticchiare una vocina non meglio identificata che sembrava vicino, anche troppo.

Jack fu il primo ad aprire gli occhi dopo tutto quel baccano, e ciò che aveva visto lo aveva lasciato sconvolto: l’enorme vetrata che ricopriva quel alto del giardino di Harmonia era andata in frantumi, le schegge multicolore sparse ovunque si girasse, Dentolina che agonizzava per un grosso pezzo di vetro che le si era conficcato nella spalla inchiodandola a terra, probabilmente rimasta fuori dalla portata dello scudo diafano creato da Harmonia all’ultimo secondo prima del disastro, lo stesso che aveva permesso a tutti di cavarsela con qualche graffio.

E giustamente, in tutto quel casino, c’era una donna dai capelli color magenta che li osservava divertita intenta a togliersi le cuffie dalle orecchie:

«Ma ciao ragazzi, quanto tempo!» esclamò tutta felice facendo l’occhiolino ed avvicinandosi barcollando come se fosse ubriaca, poi fece un ironico inchino davanti alla regina:

«Mi sei mancata proprio, Amicaharmo, non vedevo l’ora di vederti! Cercavo proprio te!» disse tutta felice comportandosi come se quella fosse una semplice visita di cortesia.

Amicaharmo?

L’aveva davvero chiamata Amicaharmo?

Jack aveva la sensazione che la stesse provocando con frecciatine sottilissime, ed a quanto pare anche la regina aveva avuto la stessa impressione:

«Comet E. Halley, è da molto che non ti si vede nei pressi di Phantasia, per non dire che non ti si vede proprio in giro: cosa ti porta qui, dunque?» domandò calma sforzandosi di essere educata con chi le aveva appena sfondato la vetrata nemmeno fosse Spettro:

«Eh? Oh, sì! Volevo dirti una cosa, sai ci tengo che tu  lo sappia, non sia mai che poi mi vengono a dire che ti ha avvisato qualcun altro eh!» spiegò mentre se ne stava chinata a mangiare con nonchalance delle bacche prese dal cespuglio vicino, gesto che Harmonia faticò ad ignorare considerando la sfacciataggine con la quale lo stava facendo:

«Avvisarmi? Avvisarmi di cosa, esattamente? Spero che sia qualcosa di importante, noi qui stavamo discutendo di argomenti che nulla hanno a che fare con la tua eterna superficialità, ma non te ne faccio una colpa.» rispose piegando leggermente la testa di lato confusa, e soprattutto buttando un occhio su Alice che teneva già la mano sull’elsa della spada pronta ad intervenire a qualsiasi scherzo della stella solitaria.

Anche Halley aveva notato tutta quella tensione fra i presenti, motivo per cui aveva sfoderato uno dei suoi soliti sorrisetti maliziosi avvicinandosi ad Harmonia:

«Abbiamo un amico in comune, lo sai?» disse mentre la regina la guardava confusa, come s enon stesse capendo ciò che voleva dirle:

«Abbiamo molte conoscenze in comune, non vedo perché questo debba essere un motiv-»

«In tutti questi secoli, con chi pensi se la sia spassata Phobos?»

 

Quando la freccia venne scoccata dall’arco comparso dal nulla nelle mani di Harmonia, ormai Comet si era già volatilizzata come era solita fare, a nulla era servito nemmeno il fendente con la spada che si era conficcata nello spesso tronco dell’albero.

Ciò che accadde dopo fu questione di secondi, quelli che bastarono a tutti per realizzare il significato delle parole della donna, ma soprattutto quelli che servirono ad Harmonia per fare due più due collegando i vari avvenimenti ai quali avevano assistito.

Ne seguì una discussione piuttosto concitata fra la regina, la principessa guerriera ed i Guardiani durante la quale, fra un’imprecazione e l’altra, aveva capito solo uno spezzone di frase pronunciata da Harmonia stessa: «Abbiamo un problema non previsto.»

Un grosso problema.

 

 

In lontananza, sulla sommità di una collina dalla quale si poteva ammirare la magnificenza offerta dal castello di Phantasia, la donna dalle immense ali bianche osservava la scena mentre la cascata di capelli biondi che toccavano terra veniva dolcemente cullata dalla brezza che spirava in quel luogo, un vento impregnato di preoccupazioni ed ansia: dopo la discussione con Manny aveva deciso di andare a controllare di persona, e da quanto stava vedendo c’era stato l’ennesimo imprevisto della giornata, con l’arrivo di Comet, ma confidava che Harmonia potesse gestire egregiamente la situazione come aveva sempre fatto.

Nonostante fosse bellamente immersa nei propri pensieri, la donna avvertì chiaramente la presenza dell’altro, appena apparso da un portale che si era aperto proprio al suo fianco, complice il frusciare delle grandi ali nere sulle foglie a terra:

«Le pedine di Manny mi sembrano piuttosto scarse, come del resto chi le comanda» asserì senza distogliere lo sguardo dal castello in lontananza, cosa che fece anche la donna:

«In realtà, credo che siano un po’ come i sassi» disse afferrando un piccolo ciottolo davanti ai propri piedi e rigirandoselo fra le dita «Nelle mani di alcuni uomini un minuscolo sasso può essere un’arma terribile, mentre in altre potrebbe essere la prima pietra sulla quale verranno poggiate le fondamenta di un’imponente palazzo.» spiegò porgendolo all’altro, che lo guardava incuriosito:

«Tuttavia, se si tratta dell’Uomo nella Luna, un sasso resterà sempre e solo un inutile ed insignificante sasso, proprio come lui.» continuò lui chiudendo le dita intorno alla roccia per poi riaprirle, mostrando solo della polvere nerastra.

La donna si lasciò scappare una fragorosa risata, tanto che pensò che qualcuno avrebbe anche potuto sentirla, ma tornò ben presto composta:

«Piuttosto, come mai anche tu qui? Interessi particolari?» domandò all’uomo che le stava di fianco, il quale fece spallucce:

«Fosse per me, sarei restato comodamente a casa mia, nel mio Universo: ho anche io qualcuno che mi aspetta, una puledra che ha bisogno di me e del mio impagabile egocentrismo, le questioni mortali non sono oggetto del mio interesse» rispose schietto:

«L’unico interesse che io possa avere in questa faccenda è che tutto scorra come il destino ha previsto, e questo non sta succedendo» disse indicando con un’ala la scia lasciata da Comet:

«Sta dando troppi problemi a questo mondo, ma non è affar mio, non ancora: i miei piani, i piani di questa dimensione, non erano questi, non del tutto.» concluse con aria seria.

L’altra lo osservò anche lei con un’espressione compassionevole:

«Pensavo ti occupassi di pesci più grossi di questo, ma presumo che tu abbia le tue ragioni quindi non metterò mano a nulla, almeno fino a quando potrò starmene fuori, ma da quello che sto vedendo le cose si sono evolute più velocemente del previsto: nessuno interverrà con gli affari degli immortali ma, come negli scacchi, per i pedoni proteggere la regina è di fondamentale importanza…»

«Ed abbattere il re lo è altrettanto.» rispose completando la frase dell’altra.

Poi, esattamente com’era arrivato, nel silenzio e nell’anonimato più assoluto, aveva lasciato che il suo corpo svanisse nell’oscurità lasciando a terra solo una chiazza d’erba apparentemente bruciata dalla forma che ricordava vagamente un occhio.

La donna allora si girò verso la stella che ardeva nel cielo sovrastante il castello, osservandola mentre dischiudeva le proprie ali oscurando la luce dei soli che filtrava attraverso le nuvole rosate su quella zona di terra, spostando lo sguardo sulla Luna che si intravedeva appena:

«Sarà meglio che tu impari a giocare a scacchi, se vuoi tenerti stretto il tuo regno.» sussurrò appena per poi, come l’altro, scomparire in una cascata di polvere dorata dall’aspetto simile a piccole stelle danzanti.

Dunque la partita era iniziata.

 

 

_______________________________________________

 

Angolino dell’autrice

 

Eccomi qui con il capitolo 3, scritto più velocemente del previsto, ed è anche lungo <3

Vi avviso già che ho avuto problemi con Nvu, per cui il testo sarà leggermente più grande dei capitoli precedenti, ma era l’unico modo per farlo funzionare xD

Comunque sia, non voglio dilungarmi troppo per non fare spoiler, ma una cosa devo dirla: finalmente ho presentato il personaggio principale di questo fanfiction, ovvero la mia oc Harmonia, e devo dire che non vedevo proprio l’ora di mostrarla al mondo in tutta la sua nobiltà di centauressa :3

Harmonia è uno dei miei oc preferiti, per non dire la mia preferita, forse perché dietro la sua storia c’è anche una serie di eventi e indecisioni che l’hanno portata a trovare finalmente un posto nelle mie long, e questa fan fiction un po’ gliela dedico, a giudicare da tutto l’impegno che c’è dietro un personaggio così complesso.

A proposito di Harmonia, vorrei darvi un’idea sul suo aspetto e per farlo ho voluto usare i suoi disegni ufficiali: il primo, quello con l’arco, è stato il primo disegno a colori in assoluto di Harmonia, fatto dalla meravigliosa _Dracarys_ non ricordo nemmeno quanto tempo fa, sicuramente più di un anno, e come vedete l’aspetto di Harmonia stessa è cambiato nel tempo xD

Quella attuale, ed ufficiale, e l’altro disegno che ho fatto io impegnandomi come non so cosa con Photoshop: non sarà il massimo, non so ancora usarlo molto bene, ma l’idea generale è quella e devo dire che mi piace come sono riuscita a farla :D

Il disegno di _Dracarys_ però rimane quello storico, il primo dei primi, soprattutto perché è riuscita ad infilarci il leggendario arco che tanto mi piaceva, per cui la ringrazio immensamente come faccio sempre perché è molto GNE ed immensamente meravigliosa <3

Che dire, penso di avervi detto tutto quello che dovevo senza spoiler vari: ringrazio tantissimo chi è arrivato fin qui a leggere, e soprattutto vorrei ringraziare ancora di più chi ha lasciato una recensione facendomi sapere cosa ne pensa di questa long, è davvero bellissimo vedere che anche ad altri piace ciò che scrivo in questo fandom :3

Ci vediamo al prossimo capitolo! :)

Come ho detto, vi lascio il disegno originale di Harmonia fatto da _Dracarys_, quello attuale fatto da me (con la mia firma) ed il castello di Harmonia :D

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Capitolo 4
*** Babylon's Ruins ***


capitolo4

Che ingresso, signori, che ingresso!

Era stato qualcosa di trionfale e dannatamente eccezionale persino per i suoi standard, per non parlare delle espressioni allibite che si erano dipinte sui volti dei Guardiani, e soprattutto sul visino angelico di Harmonia!

Certamente era stata una mossa azzardata uscire allo scoperto in modo così brutale, ma il risultato non aveva assolutamente avuto prezzo: chissà quali domande stavano affliggendo la Regina della Fantasia ora che era venuta a conoscenza del trombaris fra lei e Phobos, dalla sua reazione si notava benissimo quanto la cosa le bruciasse più del previsto, e di certo non si sarebbe mai aspettata che la stessa persona che si fotteva Phobos quando più le aggradava fosse la stessa che andava pure a sbatterglielo in faccia senza ritegno con la consueta dose di strafottenza che accompagnava la sua esistenza da quando ne aveva memoria.

Comunque fossero messe le cose nella mente di Harmonia adesso, ormai Halley l’aveva fatto, ed era meglio iniziare a prepararsi per un’eventuale reazione che era quasi sicura ci sarebbe stata, se non immediatamente comunque diluita nel tempo: per ora ciò che le importava, oltre a mangiarsi con una certa foga le deliziose bacche rubate qua e là a Phantasia dal sapore vagamente simile a quello dei biscotti alla cannella, era tornare dal suo amico di trombaris per accordarsi su cosa avrebbero dovuto fare per rimanere fuori dalla portata di Amicaharmo almeno fino a quando Phobos avrebbe potuto iniziare a difendersi da solo senza l’aiuto di mamma Comet ad abbandonarlo male ad ogni suo momento di autocommiserazione.

Non è che le desse fastidio averlo intorno, ma proprio non era brava a rincuorare la gente: non c’era un motivo particolare per cui fosse così menefreghista, ma fino ad ora la filosofia del pensare solo a divertirsi in barba alle guerre che imperversavano un po’ ovunque aveva funzionato, e se proprio non si divertiva allora poteva tranquillamente andarsene dal momento che, parole sue, di lei non c’era da fidarsi troppo, non avendo un’etica morale diversa dal trombaris selvaggio ovunque capitasse.

Ma evidentemente non tutti lo capivano, ed avevano anche il coraggio di lamentarsi di averlo preso nel posteriore da lei, proprio da lei!

Comunque fosse messa la sua dubbio moralità, aveva impiegato un po’ a ritrovare il luogo dove aveva lasciato Phobos a causa della somiglianza di tutte le zone circondate dai roseti arcobaleno, ma era stato tutto reso più semplice dall’ingombrante coda di Necrohunger che spuntava dalla cavità dove aveva detto all’altro di nascondersi fino ad una completa ripresa: era scesa a terra più lentamente del previsto così da non svegliare il Cicicarampa addormentato, limitandosi a dargli una leggera carezza sul dorso ricoperto di un misto fra placche ossee e pelliccia, poi era atterrata con un gesto fulmineo sollevando una sottile nebbiolina rosata.

Dopo essersi stiracchiata le braccia intorpidite dalla fuga improvvisa da Harmonia e compagnia, Halley si era guardata intorno qualche istante per controllare che nessuno l’avesse seguita anche se vederli, in quella zona coperta su tre lati da grossi alberi millenari e su quello rimanente da una piccola grotta abbastanza profonda da contenere una bestia di dodici metri ed un branco di leoni con i quali Necrohunger stesso andava stranamente d’accordo, sarebbe stato difficile.

Mossi i primi incerti passi verso il luogo dove ricordava di aver lasciato Phobos, Halley era stata distratta da un ringhio che l’aveva fatta girare di scatto già con il fuoco color magenta alla mano mentre una miriade di domande le affollavano la mente: e se lui fosse tornato? Cosa avrebbe fatto? Come l’avrebbe affrontato?

Fortunatamente per lei, e per in fantomatico nemico, aveva atteso abbastanza a lungo per scagliare l’attacco da rendersi conto che la fonte di quei rumori era semplicemente Thorax che, per quanto fosse imponente e forse anche inquietante, la stava solo squadrando da capo a piedi:

«Accidenti a te, dannato gatto troppo cresciuto!» gli urlò contro mentre il felino, con un curioso gesto che mai si sarebbe aspettata, aveva iniziato a sfregare il muso sull’abito della ragazza come se volesse renderla partecipe di qualcosa:

«Che c’è? Mi dispiace amico ma non ho croccantini, solo queste.» disse mostrandogli le bacche rosate, e fu solo quando Thorax aprì la bocca per afferrarne una manciata che Halley si rese conto di quello che le stava realmente cercando di dire.

A prima vista pensò che fosse tutto causato da qualche battaglia per il cibo intrattenuta con gli altri leoni o con Necrohunger, almeno a giudicare dalla carcasse spolpate davanti all’entrata della cavità dove alloggiava placidamente il suo Ciciarampa, ma nonostante la spiegazione più che logica c’era qualcosa che la lasciava perplessa e stranamente all’erta: il rivolo di sangue che stava colando a terra dalla bocca di quella bestia proveniva dalla cavità lasciata dalla zanna superiore sinistra, decisamente strana a vedersi dato che le altre erano grandi quanto il palmo della sua mano, eppure era stata inspiegabilmente strappata con una certa violenza da quanto era danneggiata la pelle della gengiva lì intorno.

Necrohunger avrebbe potuto fare danni consistenti, con gli artigli e la mole che si ritrovava, ma ad un esame più attento della bocca di Thorax, nella quale lui le lasciava curiosare con nonchalance, aveva scagionato il povero Ciciarampa: non c’erano segni di lotta sul muso, cosa improbabile dato che in uno scontro fra quei due titani la prima alla quale avrebbe mirato Necrohunger sarebbe stati gli occhi, c’era solo… una chiazza di pelo bruciata?

Cazzo.

Non sapeva nemmeno da dove cominciare a mettersi le mani nei lunghi capelli color magenta quando Thorax l’aveva guidata in quello spiazzo di erba bassa, o almeno ciò che ne rimaneva: il rigoglioso e florido prato verde smeraldo coperto di fiori era solo un ricordo brutalmente rimpiazzato da una disordinata distesa di erba carbonizzata che lasciava intravedere qua e là il terreno sottostante, alberi a terra ed arbusti che continuavano ad ardere consumandosi poco alla volta da fiamme nere come l’oscurità più profonda.

E proprio lì in mezzo, accucciato vicino ad un masso incrinato in diversi punti, se ne stava Phobos girato di spalle che continuava a colpire qualcosa con una certa furia: non avrebbe nascosto che le metteva una certa inquietudine rivedere la stessa scena accaduta nell’Abisso in quel luogo così allo scoperto, fin troppo visibile dall’alto a chiunque sarebbe passato di lì anche per puro caso, ma ciò che la preoccupava di più era se Phobos si fosse ammazzato da solo, a giudicare dalle condizioni mentali nelle quali versava.

Si era diretta verso di lui lentamente, rigorosamente da dietro accompagnata da Thorax, che teneva però le orecchie basse e la coda in mezzo alle zampe avanzando dietro di lei, e solo quando si era avvicinata abbastanza aveva visto quello che non avrebbe voluto né immaginato: intorno a Phobos c’era una pozza di sangue, sangue che era finito ovunque nei metri circostanti ma difficilmente distinguibile dalle chiazze nere di terreno, e guardando meglio notò che stava tremando come se fosse in preda a degli spasmi incontrollabili.

Non che fosse una novità del resto, da quando aveva ritrovato i propri poteri sembrava quasi che non fosse in grado di maneggiarli, e per questo ne veniva sopraffatto il più delle volte, ma c’era qualcosa di tremendamente sbagliato in quella scena:

«Phobos? Cosa stai combinando? Me ne sono andata venti minuti, venti!» lo rimproverò quando si trovava appena a qualche metro da lei, ma l’altro non ebbe alcuna reazione:

«Mi rispondi o no? Avanti, non fare l’offeso perché ti ho lasciato qui, era per un buon mot… aspetta, ma cos-» stava per dire quando sentì la voce morirle in gola.

Lo aveva visto crollare in ginocchio stremato dopo la sfuriata nell’Abisso.

Lo aveva visto anche mentre si faceva del male ricordando quello che non avrebbe dovuto.

Ed ora lo stava vedendo mentre ci maciullava il braccio con la zanna di Thorax cercando invano di togliere di mezzo il marchio violaceo, il quale continuava a brillare imperterrito sulla carne fresca ed i muscoli sottostanti.

Nonostante la presenza della compagna, Phobos non si era scomodato e nemmeno mosso di un millimetro, continuando ad infierire su quello che rimaneva dell’avambraccio ridotto ad un grumo informe di sangue, almeno fino a quando non era stata Halley a prendergli il dente del suo stesso leone facendolo crollare in uno stato che rasentava quello vegetale: era consapevole di quello che stava facendo, sentiva il braccio che gli bruciava sotto il marchio che gli divorava la carne scendendo sempre più in fondo ad ogni suo tentativo di scacciarlo, il dolore lo stava facendo delirare più di quanto avesse mai pensato di poter fare, gli stava facendo scoprire che il fondo più profondo non era l’Abisso, era la sua mente.

Si era accasciato fra le braccia di Halley per l’ennesima volta da quando era evaso da quella voragine, la vedeva anche che gli parlava più confusa di lui, eppure sentiva come se tutto intorno a lui provenissero solo suoni ovattati e confusi, suoni che venivano scavalcati da uno stridio simile ad un sibilo nella propria testa che lo faceva contorcere dalla sofferenza che gli provocava.

Tutto ciò che riusciva a distinguere mentre intorno a sé diventava tutto nero era stata Comet che tentava di fermargli l’emorragia con le proprie fiamme, ma davanti al marchio era tutto inutile, lo era sempre stato, e dopo poco aveva rinunciato poggiandogli la testa su Thorax, il quale si era messo dietro il padrone nonostante ciò che gli aveva fatto, inconsciamente o meno:

«Non morirai, non oggi» gli sussurrò mentre la vedeva alzarsi e scrutare il cielo con aria circospetta

«Torno subito, vedremo di sistemare tutto e tu» disse rivolta al grosso leone dal manto nero

«Tu pensa a tenerlo nascosto, hai il mio permesso per mangiarlo.» concluse per poi, ancora una volta, lasciarlo indietro a languire da solo.

Quando la sua visione si era oscurata completamente non aveva combattuto, si era semplicemente arreso: aveva fatto del male a se stesso per niente, preso com’era da quegli istanti di follia e furia cieca, aveva addirittura ferito Thorax per i suoi problemi, tanto valeva farla finita una volta per tutte, aspettare la morte e mettersi il cuore in pace.

Ma sapeva che non sarebbe affatto andata così, la morte era un premio troppo grande per quelli come lui: era destinato a soffrire e soffrire ancora, a maledire di essere venuto al mondo, a dannarsi per trovare una via di fuga che non c’era mai stata.

Tuttavia, una volta toccato il fondo avrebbe solo potuto risalire.

Cosa accidenti le era venuto in mente?

Halley non poteva che biasimare se stessa per quella decisione presa senza pensarci troppo davanti a Phobos che agonizzava come suo solito, non avrebbe dovuto fargli una promessa che sapeva benissimo di non poter mantenere: va bene tenere a lui per le meravigliose giornate al gusto di trombaris e vodka con l’accompagnamento musicale della bella gente di Castamere, ma aveva come l’impressione che si stesse affezionando troppo a lui.

Lei, che si affezionava a qualcuno?

Avanti, non era una persona della quale fidarsi, figurarsi se avrebbe addirittura potuto fare qualcosa di così tremendamente stupido per un povero disgraziato con brutti mal di testa che nemmeno il Moment faceva passare!

Ecco, adesso l’aveva fatto, ma si era anche ripromessa che sarebbe stata l’ultima volta in cui sarebbe andata nella tana del lupo per i cazzi degli altri: poi magari lo avrebbe fatto ancora giusto per sollazzo e piacere personale nel disturbare il Guardone Mistico mentre si masturbava sulle foto della sua adorata puledra, ma per ora aveva aiutato a sufficienza Phobos e la prossima volta, mal di testa o meno, ci sarebbe andato lui di persona, non lei.

Distratta com’era da tutti quei ragionamenti dei quali le importava poco o niente, non si era accorta di essere arrivata fino a quando non aveva visto l’immensa figura della torre che si stagliava davanti a lei sullo sfondo di una nebulosa qualunque, e allora aveva aspettato qualche istante per avanzare premurandosi di controllare ogni metro davanti a sé:

«“Poi dissero: venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”, proprio perfetto!» disse ad alta voce recitando una frase che aveva letto su alcuni libri umani trovati una biblioteca qualche secolo prima riguardo ciò che si trovava davanti, chiaro segno che anche lui aveva raggiunto diversi Universi chissà quando.

La Torre di Babilonia, così chiamata per l’imponenza e l’autorità che emanavano le sue pareti, era il luogo dove viveva il Guardone Mistico nel suo Universo, ma da quello che aveva sentito dire dalla gente delle Costellazioni quella struttura era in grado di viaggiare ovunque nello spazio e nel tempo, di rendersi invisibile all’occorrenza e di difendersi, un po’ come il T.A.R.D.I.S. che aveva visto nella serie di Doctor Who insieme a Phobos.

Con l’unica differenze che la Torre era talmente autonoma e senziente da non permettere a nessuno che non fosse il Guardone stesso di entrarci, a meno che non fosse lui a permetterlo, e quando lo permetteva significava solo tre cose: che eri la sua dolce puledra, che eri il suo maggiordomo alias il Dorito Malvagio oppure che ti voleva morto.

Halley non era la puledra tanto amata da quell’essere e nemmeno una cameriera, quindi non aveva dubbi che, se fosse riuscita ad entrare, avrebbe dovuto guardarsi le spalle per ogni singolo passo.

Comunque fossero messe le cose, appena aveva messo piede sulla landa che galleggiava nel vuoto del cosmo si era presa qualche istante per ammirare l’immensità della Torre senza farsi troppo notare: era talmente alta che la sua cima si perdeva fra le nubi di polvere di stelle della nebulosa in cui si trovava, una struttura dall’aspetto imponente reso ancora più particolare dalle sue mura, costruite con chissà quale materiale che dava l’idea di una creatura dalle linee curve che si arrampicava fino alla sommità in un abbraccio continuo di filamenti di tutte le dimensioni, che andavano da quelli più piccoli per formare gli intricati disegni fino a quelli più grandi che dovevano essere una sorta di struttura portante, per poi culminare con due biforcazioni che lasciavano appena visibile dall’esterno la luce della stella che ardeva nella sala principale rischiarando tutto l’ambiente, o almeno Comet ricordava che fosse disposta in quel modo.

Non aveva esitato troppo prima di dirigersi ad aprire, altofuoco alla mano, verso l’enorme porta d’entrata della Torre di Babilonia, curiosamente intagliata in una statua a forma di testa di drago con un grosso occhio centrale luminescente giusto per rimarcare l’egocentrismo dal suo proprietario e del suo animale domestico, per poi aprirla trovandosi nella sala centrale ed iniziando a destreggiarsi fra i labirinti di stanze e corridoi.

Poi l’aveva vista, finalmente: la sala dove veniva conservata la Sorgente del Cosmo, un’immane cascata d’acqua iridescente che ricadeva in un vaso dorato dove assumeva forme e colori diversi agli occhi di chi era incaricato di osservare il passato, il presente ed il futuro di quell’Universo e di tutti gli altri, dal momento che la Torre di Babilonia stessa era il centro del Multiverso da quando era stata eretta.

Tirò fuori velocemente una bottiglia di vodka vuota che si era legata al fianco e si mise all’opera per raccogliere una manciata di quell’acqua miracolosa, a quanto aveva sentito: al Guardone Mistico serviva per amplificare i propri poteri per osservare altri luoghi oltre a quello in cui viveva abitualmente, ad altri serviva per guarire ferite altrimenti mortali.

Tipo quelle di Phobos.

Non ne serviva molta, e per questo appena ne riuscì a prendere l’equivalente di un bicchiere si alzò di fretta e furia chiudendo la bottiglia per poi tornare sui suoi passi con gli occhi socchiusi: lui era lì, lo sapeva fin troppo bene, ed era meglio sbrigarsi se voleva evitare un disastro burocratico fra Universi, motivo per cui una volta fuori era volata via a tutta velocità lasciandosi dietro una scia color magenta che andava perdendosi nell’etere.

Qualche istante dopo, l’uomo con l’occhio azzurro luminescente la osservava allontanarsi:

«Le comete si spengono, quando si avvicinano troppo ad un buco nero: direi che faresti meglio a stare più attenta a dove ti trovi, o con chi ti trovi.» disse fra sé e sé mentre toccava terra e, con un breve cenno della mano, faceva aprire la pesante porta dorata entrando a sua volta.

Sapeva quello che Comet aveva fatto nella sua casa, e volendo avrebbe anche potuto impedirle di prendere l’acqua della Sorgente per i suoi scopi, ma se non aveva mosso nemmeno un dito era perché, dall’altezza della sua onniscienza ed onnipresenza, sapeva che quel gesto era l’unico modo perché i piani del Multiverso andassero come lui aveva previsto che dovessero andare: il coinvolgimento di Comet E. Halley lo aveva lasciato spiazzato nei primi istanti in cui ne era venuto a conoscenza, con i dolori lancinanti che conseguivano il non avverarsi di un destino già previsto, ma fortunatamente tutto era stato risolto con il gesto a dir poco avventato della giovane donna di avventurarsi dove non avrebbe dovuto.

Una volta dentro, si limitò a camminare calmo percorrendo tutta la navata centrale lasciando ricadere stancamente le ali a terra fino a quando non aveva imboccato un corridoio diverso da quello di Halley, lo stesso che era precedentemente premurato di nascondere per far sì che lei non lo notasse, per buoni motivi ovviamente: qualche miliardo di anni prima non si sarebbe fatto problemi se qualcuno avesse visto quella parte della Torre, ma adesso la considerava più personale, quasi più intima, forse perché lì passava le giornate con la sua puledra.

La sua puledra, la sua adorata puledra con le crisi di identità, gli mancava più di quanto avesse pensato quando era partito per quell’Universo lasciandola con il suo cameriere alias il Dorito Malvagio ed il suo animale domestico oltre che con le amiche di una vita ma, nonostante sapesse bene che l’aveva lasciata in ottime mani, o meglio zoccoli, durante le giornate tutte uguali almeno uno dei suoi tanti pensieri era per lei.

Non si era ancora capacitato di come avesse fatto breccia nel cuore che non aveva, fatto stava che avrebbe decisamente preferito essere con lei piuttosto che ad occuparsi di un altro Universo perché chi di dovere preferiva ubriacarsi inghiottendo Galassie oppure giocare a scacchi con i pianeti tutto il giorno, ma d’altronde il dovere era dovere e nessuno, nessuno, avrebbe potuto svolgerlo se non lui.

Data la mancanza di particolari ed immediate necessità, si concesse ancora qualche istante ad osservare uno dei tanti quadri che li ritraeva con tutta la famiglia che era finito per acquisire, fra puledre vogliose, Doritos e draghi di dimensioni immani, e gli sarebbe anche scappato un sorriso se non fosse stato interrotto dall’inconfondibile suono dell’acqua della Sorgente che scorreva più velocemente di quanto facesse normalmente.

Con tutta calma si diresse verso la stanza dove veniva conservata la preziosa cascata iridescente, poi passò una mano sull’acqua fino a quando quest’ultima non cambiò forma diventando prima un gigantesco serpente che strisciava fra delle sfere di dimensioni variabili, poi un leone stretto fra le spire della suddetta bestia ed infine, esattamente come aveva fatto a prendere forma, era ricaduta nella Sorgente con un leggero tonfo che gli aveva fatto schizzare alcune gocce sul braccio.

Gocce d’acqua limpida, certo, che aveva improvvisamente assunto un colore rosso intenso.

Lo stesso del sangue.

Sangue che l’uomo dall’occhio azzurro luminescente, inizialmente insospettito, si limitò ad assaggiare con nonchalance per avere la conferma che fosse davvero quello che sembrava essere a prima vista, ed effettivamente verificò che fosse proprio sangue quello che si stava sfregando fra due dita: dunque aveva visto bene, con la sua interpretazione, come sempre.

Chiudendo gli occhi, fu un altro occhio quello che volse il proprio sguardo alla volta stellata visibile da quella sorta di lucernario che illuminava la Sorgente del Cosmo:

«Ho visto il futuro» le parole gli uscirono dalla bocca in modo quasi meccanico, abituato com’era a quei momenti di visioni che si susseguivano ininterrottamente «Ed ho visto la Morte.»

Poi scomparve dalla Torre di Babilonia.

Se da Phobos ed Halley, tentativi suicidi a parte, l’aria che si respirava era vagamente calma, al palazzo di Harmonia l’unica cosa che si riusciva a respirare erano le imprecazioni di Alice, le espressioni preoccupate ed imbarazzate dei Guardiani e Jack Frost che fissava tutti senza sapere cosa accidenti avrebbe dovuto dire.

Poi c’era Harmonia, che se ne stava ferma a fissare il terreno con gli occhi vuoti e l’arco ancora fra le mani strette a pugno, l’aria fredda e distaccata di chi si era appena estraniato da tutto ciò che lo circondava per perdersi nel vuoto delle affermazioni di Comet: “In tutti questi secoli, con chi pensi se la sia spassata Phobos?”, le aveva detto, e quelle parole erano state un colpo troppo duro da sopportare, erano ancora peggio di una pugnalata allo stomaco, le stesse che temeva di sentirsi dire da quasi settecento anni.

Faceva già male sapere che quello non era più l’uomo che aveva amato e continuava ad amare da quando lo aveva perso, ma addirittura sentirsi dire che Phobos, il suo Phobos, si era scopato chissà quante volte quell’inaffidabile creatura che era Comet E. Halley era il colpo di grazia dato dietro le spalle al cuore spezzato che Harmonia teneva insieme con uno sforzo immane da quando la guerra contro Apophis era terminata.

Fino ad ora non c’era stato posto per i sentimentalismi, il tutto semplicemente perché lei era la Regina della Fantasia, la sovrana di un intero pianeta, il pilastro sul quale contava il suo popolo: doveva mostrarsi forte e determinata, doveva mantenere la compostezza che ci si aspetta da una Regina anche nelle situazioni più difficili e, soprattutto, non avrebbe dovuto mostrare altri sentimenti che non fossero l’amore incondizionato per la propria gente e l’impegno nell’assicurare a tutti un mondo migliore dove l’armonia vigeva sovrana.

Ma a volte era difficile indossare quelle maschere, e quel giorno il cuore Harmonia aveva ricevuto il colpo di grazia dalle parole di Halley: avrebbe voluto piangere a dirotto come aveva fatto per anni interi, gridare all’Universo perché quelle prove così difficili fossero riservate solo a lei, chiedere alle famiglie delle Costellazioni per quale motivo avevano lasciato che Apophis le portasse via tutto ciò a cui teneva di più, domandare a Phobos se la riconosceva come si era ostinata a fare per anni, troppi anni, per poi rinunciare mestamente con i frammenti del proprio amore sotto gli zoccoli.

La risposta da parte sua era sempre stata la stessa, ripetuta come una cantilena mentre lanciava incantesimi che andavano svanendo insieme ai suoi poteri inghiottiti dall’Abisso stesso, ma la speranza di rivedere nei suoi occhi lo sguardo dell’uomo che aveva amato e continuava ad amare indipendentemente dalla sue condizioni mentali e fisiche: lo aveva aspettato a lungo, il suo Phobos, come anche aveva aspettato una risposta da certi personaggi ben oltre Manny, ma alla fine aveva rinunciato ed era tornata a fare quello che le riusciva meglio, e cioè governare occupando la propria mente con la burocrazia più pura, il tutto mentre Phobos faceva sesso sfrenato con Halley.

Non che gliene facesse una colpa, alla stella solitaria, sapeva bene che Comet non era il tipo di persona che si interessava a qualcosa che non fosse l’ubriacarsi oppure il trombaris, come lo chiamava lei, ed una parte della sua persona voleva credere che tutto ciò Halley lo avesse fatto in buona fede, senza sapere il passato di Phobos.

Una parte di lei, perché l’altra vedeva nel gesto appena compiuto dalla ragazza una presa per il culo con il solo scopo di sbeffeggiarla sbattendole in faccia quel “Mentre tu ti dannavi per il ritrovare il tuo fidanzatino perduto, io ci scopavo tutti i giorni” che, esplicito o meno, era stato il messaggio principale della sua visita.

Non che volesse fargliela pagare, quello no, ma la sicurezza e l’avventatezza con la quale era stato compiuta l’entrata trionfale di Halley mettevano sul piatto un altro punto fondamentale, e cioè che forse Phobos era davvero in giro ed era anche aiutato proprio da lei a cavarsela: teoricamente non aveva poteri, gli erano stati quasi completamente tolti del tutto lasciandogli giusto quelli per avere la forza di svolgere le azioni quotidiane, ma c’era stato un bagliore sulla Luna che Harmonia aveva notato con la coda dell’occhio.

Era successo qualcosa di grosso, ed aveva la certezza che avrebbe presto scoperto cosa.

Mentre la Regina soffriva in silenzio riflettendo sulle conseguenze di ciò che era appena successo, Alice ed i Guardiani erano invece intenti a litigare fra loro come erano soliti fare, il tutto accompagnato da Scarlet che faticava a tenere a bada Spettro, probabilmente desideroso di finire il pranzo con la zampa di un Camoniglio che se stava seduto a terra dolorante:

«Ve ne siete stati lì impalati a guardarle il culo, ecco cosa siete stati capaci di fare!» aveva urlato contro Nord mentre riprendeva la spada «L’avevate davanti! Davanti! Una mano non potevate darla, eh? Ma va, figurati! Cosa ci si aspetta dai Guardiani di Manny? Nulla! Ecco cosa!»

«Noi non avere avuto tempo di agire, nemmeno tuo colpo andato a buon fine!» controbatté il vecchio Guardiano puntandole contro un dito che, per via dei soliti fendenti della principessa guerriera, aveva evitato per pochi millimetri di essere tranciato di netto:

«Io almeno ci ho provato!» rispose Alice mentre i suoi occhi fiammeggiavano di rabbia, ma a quanto pare nemmeno l’altro voleva cedere:

«Certo, tu provato a lamentarti come sempre! Brava a fare solo quel-­»

«Questo è troppo!» sbottò improvvisamente furibonda «Domani vado a prendere i tuo yeti e quanto è vero che il Sole sorge ci faccio una pelliccia: giuro che li ammazzo uno per uno con le mie stesse mani, vado a scuoiarli e lascio le pulizie a Spet-»

«Smettetela.» intervenne allora Harmonia sedando gli animi, e allora calò finalmente il silenzio, un silenzio al tempo stesso dannatamente assordante ed ingombrante.

Alle parole della Regina della Fantasia nessuno aveva più osato controbattere alle varie frecciatine, soprattutto perché Harmonia stessa guardava tutti con aria severa:

«Non è il momento di litigare, è proprio ciò che vuole che facciamo» disse mentre l’arco si dissolveva in una sottile polvere azzurrina, poi si girò verso i Guardiani e le due ospiti:

«Non so quale sia il piano di Comet, sempre ammesso che ne abbia uno, ma dividerci è l’ultima cosa che ci serve, soprattutto alla luce di quello che sta accadendo.» spiegò pensando inizialmente di raccontare a tutti dei suoi sospetti su quello che presumeva fosse accaduto sulla Luna, ma dopo un’attenta riflessione si rese conto che in fondo i suoi erano solo sospetti senza fondamento che avrebbero solo messo in allarme tutti per qualcosa di non meglio definito, per cui preferì sorvolare la cosa, almeno per il momento.

Quello che però non sembrava voler capire il significato di “sorvolare” era proprio Jack Frost, il quale aveva iniziato a dimenarsi agitando le braccia al cielo nemmeno fosse posseduto:

«Ci vogliono uccidere! Per colpa tua il tuo ex fidanzato ci vuole uccider-»

Pessima mossa, come sempre.

Frost non aveva fatto in tempo a finire la frase che aveva sentito un colpo al petto seguito dalla freschezza dell’erba unita all’incredibile durezza della roccia viva sulla schiena, poi aveva alzato gli occhi tremante:

«Per colpa mia siamo ancora tutti vivi, giovane Guardiano, perché se non fosse stato per il mio scudo adesso sareste tutti ridotti a dei bersagli per schegge di vetro» gli intimò mentre con una zampa gli teneva lo zoccolo premuto sullo sterno con una discreta forza, certo non abbastanza da provocare chissà quale dolore a Jack dal momento che, dopo che lui annuì, fu Harmonia stessa a dargli la zampa per farlo rialzare, il che lo fece sentire tremendamente in colpa:

«Non volevo dire che… cioè… io non intendevo che tu… cioè voi… no aspet-»

«Non scusarti Frost, per questa volta te la concedo solo perché stai affrontando fin troppe cose tutte insieme, ma non sentirti autorizzato ad insinuare che ci siano colpevoli in ciò che sta accadendo» spiegò mentre si avvicinava a Dentolina voltando le spalle al ragazzo che la guardò stupito quando lei si era chinata per esaminare quanto il vetro si fosse conficcato nella spalla:

«L’unico colpevole di tutto questo, di ciò che è accaduto a Phobos e di conseguenza di ciò sta accadendo ora, è l’Uomo nella Luna, solo lui: come è sempre accaduto con i Lunanoff, anche Manny aveva il nemico in casa, sul suo satellite, ma ha voltato la faccia ed ha scaricato ad altri il problema, piuttosto semplice come cosa… ora tu stai ferma, altrimenti farà più male del necessario» continuò mentre con una mano afferrò saldamente la scheggia e, con uno strappo netto, riuscì a toglierla dalla spalla della povera e malaugurata fatina dei denti.

L’urlo di Dentolina fu qualcosa di inumano, un suono che sembrava essere uscito direttamente dagli inferi, ma anche l’aspetto della ferita non era dei migliori: tralasciando il sangue che aveva iniziato ad uscire copiosamente, il vetro era penetrato talmente a fondo da rendere visibili interi pezzi di carne mista a piume che ricoprivano anche il frammento stesso, ora nelle mani insanguinate della Regina:

«Sarà meglio entrare nel mio castello, è più sicuro che occuparsi di te qui con Halley in giro, anche se dubito che si farà rivedere presto: non ti nascondo che è una gran brutta ferita, probabilmente infetta a giudicare dal colore nerastro che i bordi stanno già assumendo, ma nulla di incurabile se ce ne occupiamo subito.» concluse alzandosi e facendo sparire del tutto lo scudo che li proteggeva in una nebbia multicolore; successivamente si girò verso il sentiero costellato da quegli strani fiori luminosi che davano sul castello:

«Cosa state aspettando, un invito forse?» domandò severa per avviarsi verso l’imponente porta dorata che ne consentiva l’accesso venendo imitata da tutti gli altri.

Prima di entrare, Harmonia aveva gettato lo sguardo verso un punto indefinito sulle colline poco lontano da casa sua come se avesse visto qualcosa, ma dopo qualche istante di indecisione si era limitata a fare spallucce e riunirsi ai propri ospiti.

Sperando che non ci fosse nessuno a guardare, ovviamente.

Ormai Jack si era in un certo senso abituato a tutta quella pomposità e grandezza che accompagnava ogni ingresso trionfale in castelli vari, ma non pensava che dopo le magnifiche statue e quadri visti da Alice ci sarebbe stato qualcosa di ancora più glorioso: per sua fortuna questa volta non si era precipitato in testa al gruppo come faceva sempre, anche perché se lo avesse fatto seriamente con la sua solita impazienza sarebbe finito nell’immensa voragine che sostituiva il pavimento.

Rimanendo dietro gli altri, Frost aveva notato che il palazzo della Regina della Fantasia non aveva un vero e proprio pavimento, fatta eccezione per un lembo di pavimentazione che dava sulla porta lungo diversi metri che percorreva buona parte della navata centrale per poi continuare fino alla seduta del trono con dei gradini che sembravano fatti da un misto di rami e sassi immacolati dai quali sgorgava acqua limpida, la stessa che poi ricadeva nella parte inferiore del castello e si riversava nella cascata visibile dall’esterno: il trono di Harmonia, come anche il resto della struttura interna visibile, era sorretto da grandi e imponenti rami di alberi bianchi con foglie dalle delicate tinte color pastello e con radici che spuntavano dalle pareti e dalle profondità di quella sorta di lago di corte come se facessero parte della stessa montagna che sosteneva tutta la costruzione, andando infine ad abbracciarsi in mille forme differenti fino ad unirsi al trono stesso nella straordinariamente accurata forma di un unicorno con le ali spalancate ed una corona sul capo che dominava tutta la scena.

Mentre Harmonia non sembrava avere alcun problema nel percorrere la navata con il vuoto sotto gli zoccoli, gli altri Guardiani erano invece piuttosto cauti nell’avanzare, soprattutto Calmoniglio che si reggeva a malapena alla spalla di Nord e Dentolina che si muoveva incerta a piccoli passi alla volta, e la cosa non era sfuggita alla Regina che fece segno a tutti di fermarsi dove si trovavano con stupore di Jack:

«Ma quella… cosa, quella strada… è sicura, vero? Non è che se ci metto sopra il piede poi cado nell’acqua, e magari l’acqua è acido, e poi muoio, e poi Manny non mi riporta in vit-»

«Nessun problema, l’arredamento si può sempre rinnovare.» disse Harmonia mentre, chiudendo gli occhi e tirando un profondo respiro, davanti a lei si innalzavano quelli che avevano tutta l’aria di essere blocchi marmorei che, con tutta la calma del creato, erano andati incastrandosi nella fitta rete di radici più piccole appena comparsa dal nulla dopo un breve cenno del capo della donna, formando un vero e proprio pavimento che non avrebbe nemmeno lontanamente lasciato immaginare la presenza della cascata sottostante, se non per lo scrosciare dell’acqua.

Per l’immensa sorpresa, Jack si era lasciato sfuggire di mano il bastone, il quale era però subito stato preso al volo da un ramo spuntato da chissà dove che glielo aveva anche rimesso fra le mani fra una risata di Harmonia e l’altra:

«Dovresti avere più cura del tuo bastone, non credo che Manny te ne procurerebbe un altro molto presto, e non vogliamo certo che il Guardiano del Divertimento rimanga senza poteri, no?» gli domandò Harmonia mentre Jack, con una corsa repentina, si mise al fianco della Regina nella sua avanzata verso il trono:

«Suppongo che sarebbe un problema, ma la mia domanda è un’altra» si azzardò sperando di non ricevere lo stesso trattamento di Alice «Come hai.. cioè ha… avete… aspetta… volevo dire aspetti! Aspettate! Insom-­»

«Nessuna formalità, dammi del tu senza pensarci troppo e non farti problemi: siete i Guardiani, ed a differenza dell’Uomo nella Luna questa libertà posso concederv-­»

«Come hai fatto a fare quella cosa, a far apparire dal nulla un pavimento?» domandò schietto prendendosi di rimando le occhiatacce di Nord e compagnia «Io non riesco a creare pavimento dal nulla, i Guardiani non creano cose dal nulla… di solito.» rifletté ad alta voce mentre Harmonia, sorridendogli, sospirò compiaciuta:

«Hai detto bene, i Guardiani non possono, ma io sì: penso che ormai anche tu avrai fatto due più due di diverse situazioni, e confermarti che non sono una Guardiana è il minimo che possa fare per sciogliere i tuoi dubbi.»

Panico.

Panico generale nella testa.

Trauma non proprio infantile.


Jack era rimasto più sbigottito del previsto a quell’affermazione: era vero che si era fatto diverse domande su Harmonia, ne aveva pensate a decine dal primo istante in cui aveva visto il regno di Phantasia, sapere che tutti si rivolgevano a lei come Regina e non come Guardiana gli aveva anche fatto capire che in effetti dovesse essere una donna incredibilmente importante, ma averne la conferma adesso, dopo tutto quello che aveva visto, era la goccia che aveva fatto traboccare il suo adorabile vaso delle certezze e delle sicurezze che aveva avuto fino ad ora.

Eppure, per quanto si stesse sforzando si concepire la cosa, c’era una domanda che ancora lo lasciava perplesso, quella che avrebbe messo al loro posto diversi tasselli:

«Non sarai una Guardiana, ma allora perché Manny ti ha creato? Per quale scopo?» chiese piegando la testa confuso notando che Harmonia cambiò improvvisamente espressione:

«Manny non c’entra proprio nulla con me, se fossi stata una delle sue creazioni ora come ora mi starei preoccupando che i bambini credano in me, non a come risolvere la spiacevole situazione che si è creata con Phobos­» rispose allora con aria severa:

«Non voglio entrare troppo nel merito al riguardo perché non ne vedo la necessità, ma ti dico una cosa, Frost: chi mi ha dato ciò che possiedo è svariati gradini più in alto di Manny, proprio sulla cima della scalinata che lui si ostina a percorrere mentre la sua pancia gli impedisce di correre troppo, e di certo non sono la schiava di nessuno, non come i Guardiani. Per esempio prendi questo» spiegò indicandogli il bastone «Senza, i tuoi poteri si limitano a creare della brina, non è proprio il massimo per un Guardiano… e soprattutto senza di loro» continuò puntando invece il dito sulla collana di perline che gli aveva affettuosamente regalato Sophie, la sorella di Jaime

«Tu scompariresti senza la possibilità di ritornare: senza i bambini che credono non esistono i Guardiani, ma senza i Guardiani il mondo continua a girare senza problemi.» concluse salendo la piccola scalinata che conduceva al suo trono.

Jack strinse fra le dita la collana come a volerla proteggere, quasi cercasse di rifugiarsi nei bei momenti che gli faceva venire alla mente quel delizioso ninnolo: fino a quel momento, come per tante altre cose che aveva appena scoperto, aveva creduto che la presenza dei Guardiani fosse fondamentale per mantenere le cose in equilibrio com’erano, che senza di lui e degli altri i bambini non avrebbero più saputo dove aggrapparsi, ed in effetti la disperazione nella quale erano piombati tutti quando Pitch aveva cancellato la Pasqua pensava ne fosse la dimostrazione, ma Harmonia aveva appena posto un muro nel mondo idilliaco di Jack Frost, o forse glielo aveva solo indicato dal momento che quell’impedimento c’era sempre stato.

Come c’era anche sempre stata la consapevolezza che, senza i bambini, sarebbe finito per morire una seconda volta, con la differenza che al secondo giro Manny non sarebbe potuto intervenire per salvarlo nuovamente.

O forse sì?

Era già pronto per fare quella domanda quando, girandosi, notò che Harmonia era alle prese con le ferite alla spalla ed alle ali ancora sanguinanti di Dentolina, la quale se ne stava seduta su un ramo mentre con una mano teneva quella di Calmoniglio per farsi coraggio:

«Cerca di rilassarti, con i muscoli tesi sarà solo più difficile: pronta?» domandò alla fatina dei denti che, seppur titubante e terribilmente spaventata, le fece cenno di procedere pure, e allora Jack ebbe l’ulteriore dimostrazione che quando la donna diceva di essere ad un livello superiore a quello dei Guardiani aveva dannatamente ragione.

Sapeva di avere un certo fattore di guarigione come gli altri compagni, anche se molto limitato ed effettivamente utile solo su ferite di piccole dimensioni o comunque non troppo profonde come lo squarcio che aveva Dentolina, ma quello che Harmonia stava facendo andava ben oltre la sua immaginazione riguardo la rigenerazione dei tessuti: come aveva già fatto quando era improvvisamente comparso il pavimento, anche questa volta si era limitata a chiudere gli occhi poggiando la propria mano sulla pelle dilaniata fino a quando una fitta rete dorata di filamenti simili a piccoli viticci non aveva ricoperto il taglio come riempiendo gli spazi lasciati dalla scheggia di vetro per poi spostarsi verso l’ala come se avesse una volontà propria riparando i danni lasciati dalle zanne di Spettro.

Ed infine, con un bagliore appena visibile, tutto era scomparso lasciando al loro posto solo la pelle ricoperta dalle soffici piume iridescenti tipiche della fata, la quale stava addirittura svolazzando serena intorno a Jack che la guardava incredula:

«D-Dentolina non sarebbe… m-meglio se… insomma… ti riposassi? » domandò alla compagna, la quale lo fissò per qualche istante seria per poi toccargli il naso volando via:

«Riposarmi? Oh no, sto benissimo! Non si vede, forse?» rispose lei tranquilla mentre la Regina continuava il proprio operato occupandosi di Calmoniglio.

Sì che si vedeva che stava bene, si vedeva perfettamente.

Anche troppo.

Probabilmente resosi conto delle perplessità del giovane Guardiano, fu Nord ad avvicinarsi a lui dandogli una pacca sulla spalla:

«Poteri di guarigione di Regina Harmonia essere sorprendenti, caro Jack, tu non doverti preoccupare se non capire: suo potere va oltre nostro, è difficil-»

«Nord, stammi a sentire, ma bene eh» lo canzonò indicandogli Dentolina «Stava morendo male, malissimo, ed ora cosa fa? Svolazza, svolazza e basta… e lui» continuò indicando Calmoniglio che si reggeva perfettamente in piedi ed era intento a grattarsi un orecchio con la zampa fino a poco prima rotta «Lui sta anche meglio di prima, e non si sta nemmeno lamentando! Questi non sono poteri, c’è sotto qualcosa che va terribilmente oltre la semplice rigenerazion-»

«Tipo?» intervenne Harmonia spuntandogli improvvisamente davanti e lasciando Jack leggermente, ma proprio leggermente, insicuro sulle proprie parole.

Non sapeva bene cosa rispondere in effetti, e la cosa gli provocava un certo imbarazzo, ma vedendo i suoi compagni che non lo ascoltavano essendo troppo occupati a festeggiare l’improvviso miracolo decise di dire finalmente la sua:

«Hai detto che non sei una creatura di Manny, ma questo genere di potere io non credo proprio che esca a random dalle tue mani: insomma, da qualche parti sarai venuta, e poi questa cosa di chiudere gli occhi proprio non la capisco, come non capisco perché noi Guardiani sembriamo così scarsi al confronto…» disse tutto d’un fiato rendendosi conto dopo, a giudicare dallo sguardo di Alice, che forse si era preso un po’ troppa libertà a lasciare che le parole uscissero dalla propria bocca come un fiume in piena.

Harmonia tuttavia non sembrava affatto essere contrariata, anzi lo guardava ridacchiando:

«Oh certo che sono uscita da qualche parte, anche io ero qualcuno prima di diventare la Regina della Fantasia, e se vogliamo dirla tutta questo pianeta, il pianeta che io governo, è il luogo dove sono nata e vissuta: sorprendente, vero?» gli domandò sorridendo per poi mostrare a Jack le proprie mani, ancora intrise di quei filamenti dorati:

«Questo potere, quello di poter creare pavimenti dal nulla o di curare ferite altrimenti incurabili è tutto racchiuso qui dentro» disse indicandosi e picchiettandosi la testa con l’indice

«Sono Harmonia, Regina della Fantasia, e questo appellativo deriva dal fatto che ciò che io immagino, io posso anche crearlo: la fantasia, tienilo bene a mente Jack Frost, è l’arma più potente che tutti possiedono indipendentemente dalla loro condizione sociale o simili, ed io» continuò mentre quei filamenti diventavano improvvisamente una polvere multicolore che si spargeva in tutta la stanza come una fine ma fitta pioggia come di coriandoli

«Io ho il dono di dare vita alla mia immaginazione, a tutto ciò che posso creare nella mia mente: tutto quello che vedi, dalle ferite rimarginate dei tuoi amici al mio castello fino all’intero regno di Phantasia, sono stati creati dalla sottoscritta, sicuramente non da Manny.

Certo, ho avuto anche un aiuto extra dall’alto, ma i miei poteri hanno fatto il resto, e ne sono dannatamente orgogliosa, per questo non intendo permettere a nessuno di portarmi via ciò per cui ho sputato sangue un’intera vita… nemmeno a Phobos.» concluse con un breve inchino al giovane Guardiano che la fissava sbalordito.

Immaginava che Harmonia fosse potente, ma non pensava così tanto.

Ancora impegnato a tenere la bocca aperta non si era nemmeno accorto che la donna gli aveva poggiato una mano sulla testa e gli aveva scompigliato i capelli, poi si era abbassata fino ad avere gli occhi all’altezza di quelli del ragazzo:

«Hai tante domande, alcune delle quali troveranno risposta qui, ma ci sono domande alle quali non posso rispondere, non del tutto come meriteresti» gli disse dolcemente, e Jack ebbe come la convinzione che stesse facendo riferimento ad Emma, ma quel pensiero era stato scacciato via piuttosto velocemente «Tuttavia, buona parte dei tuoi dubbi verrà soddisfatta se avrai la cortesia di seguirmi: siete tutti invitati, ovviamente.» propose facendo un cenno anche agli Guardiani, i quali seguirono Harmonia e Jack che l’affiancava nell’avanzata in un largo corridoio circolare, fortunatamente pavimentato, costellato di statue.

Mentre tutti davano segno di aver già visto in precedenza l’immensa stanza del tutto nuova a Frost, non riuscivano certo a nascondere l’emozione pulsante che accompagnava tanta magnificenza: tutte le varie raffigurazioni scolpite nella pietra erano dominate da una identica a quella del grosso drago e della donna dalle sei ali presente nel castello di Alice, ma Jack lasciò da parte le coincidenze per seguire come un cagnolino la Regina mentre camminava.

Impiegò un po’ per capire di cosa si trattasse, ma quando vide la prima serie di statue restò sconvolto dal fatto che raffigurassero… i Guardiani?

E c’era anche lui!

Si trattava di una statua sorprendentemente a grandezza naturale che lo raffigurava appollaiato sul suo bastone al fianco di Nord con le sciabole sguainate e Calmoniglio con il suo boomerang, il tutto completato da Sandy circondato da un vortice di sabbia formato da pietre giallastre dietro tutti che faceva anche da appoggio per l’esile statua di Dentolina, le cui ali erano del tutto simili a quelle reali grazie ad un curioso gioco di metallo e vetro piombato.

Harmonia era visibilmente compiaciuta da tutto l’entusiasmo dimostrato dal giovane Guardiano in quella stanza, tanto da essersi quasi dimenticata di ciò che stava accadendo fuori dal suo castello e dentro la sua mente, ed anche se aveva notato lo sguardo perplesso ed annoiato di Alice decise di non farci caso e godersi anche lei quei pochi istanti di spensieratezza, ed in realtà sapeva anche come coinvolgere la principessa guerriera:

«Alla vostra destra, signore e signori, potete ammirare la magnificenza senza eguali della sovrana di Fairy Oak e della sua corte di lupi abnormi, non sia mai che cotanta grandezza venga ignorata!» rise lei facendo un pomposo inchino ed indicando con una mano la statua che invece raffigurava appunto Alice con la spada alzata verso il cielo e l’ampia gonna che sembrava svolazzare al vento, quando in realtà era semplicemente di dura pietra, accompagnata da entrambi i lati da Scarlet con la lancia fra le mani e Spettro in procinto di saltare a zanne snudate.

La principessa venne presa da un improvviso senso di imbarazzo, forse perché Jack aveva appena notato quanto il suo seno fosse incredibilmente piccolo rispetto a quello della scultura di Harmonia con il muscoloso corpo da cavallo rampante lì vicino, ma tutto si era risolto con una pacca sulla spalla ed un sospiro accompagnato da una sonora risata, una risata da parte di Alice Castle Wonderwood!

Tette grandi e tette piccole a parte, una cosa che aveva attirato la sua attenzione era stata la statua di una conoscenza di tutti i Guardiani, e non era proprio una conoscenza gradita:

«Harmonia… perché c’è anche… lui? Questa è una sorta di “sala della gloria”, ma lui…» domandò indicando con il bastone niente poco di meno che un gracile Pitch Black di fredda roccia che teneva fra le mani l’acuminato muso di un Incubo cavalcato da quella che sembrava essere una ragazza a giudicare dall’ampio vestito intarsiato di gemme verdi, ma la statua rotta per metà non lasciava spazio ad un’ulteriore identificazione:

«Nulla di particolare, è solo un promemoria perché tutti possano ricordare quanto sia inutile la presenza di Pitch in questo mondo, ma era doveroso mettere anche lui: la fantasia non ha mai lasciato spazio alla paura e mai ne lascerà, ma mi dispiaceva vedere Pitchone che piange.» rispose composta e, dato che non aveva fatto cenni a quella rovinata, Jack aveva preferito non approfondire.

Forse perché la sua meraviglia era stata catturata da ben altre statue, come per esempio quella che raffigurava un grosso tronco sul quale prendevano posto quattro ragazze dall’aspetto simile a piccoli e graziosi cervi con le corna appena accennate:

«Le sorelle Temporibus, Guardiane delle Stagioni» esordì Harmonia, per poi indicarle una per una «Primrose era la Guardiana della Primavera, Jessamine dell’Estate, Dhalia dell’Autunno ed infine Marigold, lei era la Guardiana dell’Invern-»

«Era? Oh, sì… Nord mi ha raccontato che le sorelle sono… insomma…»

«Morte, morte per proteggere il regno di Madre Natura quando lei lo ha abbandonato nel pieno della battaglia contro Apophis» completò la frase stizzita «Suo padre è sempre stato un codardo, ed Emily Jane ha preso quella caratteristica da lui, ovviamente.» concluse con un velo di tristezza, ma era determinata a non permettere alla malinconia di rovinare quel momento, così seguì Frost quando si fermò davanti ad un monumento che raffigurava invece un uomo piuttosto giovane che teneva fra le braccia una donna in una curiosa posa da tango argentino.

E la donna aveva un sombrero in testa ed un burrito in mano che stava per essere divorato da una sottospecie di cavallo verdognolo.

Un sombrero.

Ed un burrito.

Ecco.

Questa volta fu Dentolina ad avvicinarsi a lui svolazzando beatamente:

«Saresti andato d’accordo con Conchita, era un animale da festa proprio come te nonostante fosse molto dedita ai propri doveri di Guardiana di Halloween, proprio così!» squittì tutta esaltata mentre sfiorava la pietra «Ma avresti dovuto stare attento a Vincent Valentine, altrimenti non ci avrebbe messo molto a farti innamorare di qualcuno piantandoti quella nella schiena!» gli fece notare indicando la balestra che teneva nell’altra marmorea mano.

Un’altra persona dalla quale si sarebbe tenuto lontano, molto lontano.

Se solo fosse stato vivo e non morto.

A proposito di morti, fu allora che Jack decise di chiedere finalmente ad Harmonia informazioni riguardo Emma, soprattutto perché la Regina aveva mostrato di saperne più di tutti gli altri insieme:

«Non vorrei sembrare impertinente, ma volevo chiederti se sapevi qualcosa… insomma... riguardo mia sorel… Harmonia? Harmonia? Ragazz… occazzo.» stava dicendo quando notò con sua grande sorpresa che era rimasto da solo, a causa della distrazione provocata dalla sua mente mentre osservava le varie sculture si era perso, oltre che la spiegazione ufficiale approfondita al riguardo, anche il resto del gruppo, il quale era probabilmente già andato avanzi senza di lui.

Che era rimasto da solo come un idiota: senza indicazioni su dove sbattere la testa, senza la minima idea su quale delle tante strade imboccare, senza la sanità mentale di non andare nel panico ed iniziare a correre in tondo nemmeno fosse un topo in gabbia… con una porta semi aperta davanti agli occhi?

Si avvicinò alla parete fra due statue per controllare se aveva visto bene oppure se fosse solo il suo cervello a fargli brutti scherzi: eh no, quella porta bianca di dimensioni piuttosto contenute rispetto alle altre era proprio aperta, non se lo stava sognando.


E giustamente, da bravo bambino curioso che dimostrava sempre di essere, Jack non si era fatto troppe domande nel farsi strada verso quella che sperava essere una via di salvezza: sentiva in lontananza lo scrosciare dell’acqua e quindi, facendo due più due e ricordandosi che lo stesso suono con la stessa intensità si poteva udire dalla sala del trono, si convinse che effettivamente percorrendo la lunga scala marmorea sarebbe uscito da qualche parte.

Non aveva idea dove, non sapeva quando, ma ne sarebbe uscito.

Bando alle ciance, ciancio alle bande, il giovane Guardiano non si era fatto inibizioni a scendere lentamente ma inesorabilmente i gradini uno dopo l’altro mentre l’odore dell’umidità e del muschio che copriva le rocce appena visibili sotto la fitta boscaglia biancastra gli riempiva le narici, i riflessi della brina che ricopriva il bastone teso davanti a lui che si perdevano fra i piccoli ruscelli che spuntavano dalle pareti, ma il paesaggio era drasticamente mutato quando era arrivato alla base della scalinata trovandosi, ahimè, in uno spiazzo buio e tetro pieno di corridoi rischiarati solo da piccole lanterne giallastre e pieni di ragnatele.

E lui aveva paura dei ragni, ma tanta.

Se ci fosse stato Pitch Black lì intorno avrebbe trovato pane per i suoi denti storti con il quale giocherellare qualche ora facendogli comparire ragni davanti ad ogni angolo, ma per sua fortuna non era né in quel luogo né nella sua testa a sottrargli quel poco di coraggio che aveva racimolato per proseguire verso l’ignoto, ignoto che si era rivelato essere un vero e proprio labirinto di stanze e ragnatele che sembravano portarlo sempre nello stesso punto.

Solo che non era una sensazione, era proprio la realtà.

Con il cuore che ci mancava poco gli uscisse dal petto e la bocca rimasta senza saliva per l’agitazione e la confusione, dopo qualche metro Jack era rovinosamente inciampato in quello che inizialmente aveva creduto essere un qualche tipo di trappola rasoterra ma che, dopo un’attenta analisi, si era rivelata essere una… ragnatela?

Curioso com’era finì per prenderne in mano un pezzo: era incredibilmente resistente ed elastica alla stesso tempo, liscia e del tutto simile alla pregiata seta che aveva visto più volte sulla Terra, eppure anche provando a romperla con un certo impegno non si era rotta, al massimo aveva perso qualche filo dalla sua fitta struttura.

Impegnato a fantasticare sulla paura che ad un certo punto sarebbe spuntato un ragno gigante a mangiarlo, Frost non si rese nemmeno conto che stava procedendo verso un corridoio che andava ingrandendosi man mano che avanzava, sfociando in una stanza impolverata con delle strane crisalidi appese al soffitto che perdevano qualche misterioso liquido:

«Dove sono finito… dove! Mannaggia a me! Mannaggia alla mia curios…»

«The itsy bitsy spider climbed up the water spout, down came the rain and washed the spider out!» sentì canticchiare dall’eco di una voce che non riuscì a distinguere da dove provenisse.

Lo aveva solo immaginato?

No, certo che no, sapeva perfettamente di non esserlo immaginato, motivo per cui brandì senza paura il suo bastone congelando la zona immediatamente intorno sè:

«Chi sei? Sei Phobos? Fatti sotto!» domandò minaccioso quando nella sua mente si dipinse l’immagine di un attacco interno da parte di quel famoso uomo e della donna che lo accompagnava; di tutta risposta sentì il cigolio di una porta che sbatteva mentre la stanza veniva riempita di uno zampettare lesto e quasi impercettibile, come se la cosa che aveva appena parlato non toccasse nemmeno terra:

«Non ho paura! Qualsiasi cosa o persona tu sia, fatti avanti o vengo a prenderti!» continuò cercando di concentrare la forza del ghiaccio nelle mani così da difendersi in caso di attacco diretto o simili.

Dopo qualche istante di silenzio più assoluto e calma piatta, vide come un lampo giallognolo illuminare la stanza lasciandola comunque nella penombra aumentando l’inquietudine per la bizzarra situazione:

«Te lo dirò un’ultima volta: non sono qui con intenzioni ostili, mi sono solo pers-­»

«Out came the sun and dried up all the rain…» rispose finalmente la stessa voce, chiaramente femminile, e questa volta qualcosa Frost riuscì anche a vederlo; non ne era assolutamente sicuro, anzi di dubbi ne aveva molti, ma in uno degli angoli riuscì a scorgere una figura piuttosto massiccia con delle protuberanze lucide, almeno vedendo i riflessi della fioca luce che vi si rifletteva, figura che era subito scomparsa dalla sua vista con uno scatto fulmineo quando la lanterna aveva lampeggiato di nuovo.

Accadde tutto nel giro di qualche secondo: qualcosa che gli afferrava le caviglie trascinandolo a terra mentre sentiva il bastone che veniva sfilato dalle proprie dita, i poteri che lo abbandonavano insieme alla certezza di essere da solo in quella sorta di sotterranei, un ronzio tremendamente acuto che gli riempiva le orecchie quasi per farlo impazzire, il suo corpo diventato leggero e la terra gli era mancata sotto i piedi.

Dimenandosi come una mosca finita nella tela di un ragno, Jack non fece altro che peggiorare la situazione, la quale era precipitata quando qualcosa di affilato e coriaceo gli aveva sfiorato il volto sussurrandogli dolcemente delle parole all’orecchio:

«And the itsy bitsy spider climbed up the spout again!» sentì prima di svenire.

Il tempo di affidarsi alle entità della Morte, poi tutto si era fatto nero.

Tremendamente nero.

Un po’ come Pitch.

______________________________________________________________

Angolino dell’autrice

Eccomi qui con il quarto capitolo!

Che ha impiegato più tempo del previsto per essere pubblicato, ma i capitoli di transizione sono sempre un po’ GNE da scrivere perché tutti i tasselli trovino il loro posto: ammetto che inizialmente mi ha dato diversi problemi, in particolare nella parte centrale, ma sono soddisfatta di come è uscito e spero che possa piacere anche a voi :)

Di solito non mi metto a dare consigli ai lettori, anche perché non sarei la persona adatta a farlo, ma mi permetto di consigliare di leggere la one shot “Verrà la Morte e avrà i tuoi occhi” per un semplice motivo: finalmente arriveranno nuovi oc dal capitolo 5 in poi, ed avrò un margine di scrittura maggiore con loro rispetto al muovermi con la manciata di personaggi che ho avuto fino ad ora, e leggere quella one shot farà capire meglio a tutti i comportamenti di Jack Frost nei prossimi capitoli, ed anche in questo la famosa statua delle “Entità della Morte” :3

Poi c’è _Dracarys_ che è l’addetta ai lavori ed ormai si diverte a trovare gli spoiler che infilo un po’ ovunque, e devo ringraziare anche lei che mi ha dato delle delucidazioni nei primi momenti di stesura del capitolo riguardo il non buttare subito tutti gli oc insieme ma mostrandoli poco per volta, facendomi capire che effettivamente è la cosa migliore da fare <3

Inoltre vorrei ringraziare tutti quelli che stanno recensendo questa long ed anche a chi la sta semplicemente leggendo, il supporto è sempre ben accetto! :D

Vi lascio con l’adorabile immagine della Torre di Babilonia, questione sulla quale si ritornerà molto presto :3

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Capitolo 5
*** Pain-eater's whisper ***


capitolo5

Jack se lo sentiva, che sarebbe morto male.

Malissimo.

In un modo atroce, probabilmente.

Appeso a testa in giù come un salame avvolto in una sottospecie di crisalide che sembrava più un sacco a pelo incredibilmente morbido e caldo, per giunta.

Nonostante la spiacevole situazione nella quale si era infilato in modi a lui sconosciuti, Jack aveva affrontato diversi momenti da quando aveva ripreso conoscenza: all’inizio si era dimenato come se il suo corpo fosse posseduto da chissà quale demone, si era inutilmente agitato talmente forte da essersi addirittura illuso che i fili che lo tenevano incollato al soffitto fossero sul punto di spezzarsi, poi aveva iniziato a piangere come un bambino rassegnandosi all’idea che fosse arrivato il momento della sua dipartita e infine, con un’incredibile dose di entusiasmo nemmeno si fosse scolato l’intera riserva di vodka di Nord, aveva iniziato a guardarsi intorno mantenendo una certa compostezza e silenzio.

Se prima tutta la stanza era nel buio quasi totale con la debole luce di una lanterna ad illuminarne gli angoli, ora era dolcemente illuminata da un numero indefinito di grosse candele appese ai muri o poste su delle statue di ragni le cui zampe formavano curiosi candelabri di notevoli dimensioni in un gioco di luci ed ombre che davano alla stanza, più grande di quanto avesse notato prima, un tocco quasi elegante.

Anche inquietante, certo, ma restava davvero elegante.

Riusciva a distinguere chiaramente un pavimento di pietre umide dove c’erano strane masse biancastre che parevano essere state distrattamente buttate lì o forse dimenticate, masse che vedeva ripetersi poco lontano da lui ed anche sulle pareti fittamente ricoperte da spesse ragnatele che formavano veri e propri tappeti da una parte all’altra della stanza, andando a congiungersi quello che aveva tutta l’aria di essere una sorta di grande nido con una singola apertura circolare nella parte anteriore.

Apertura dalla quale penzolavano un paio di protuberanze viola-nerastre di almeno tre metri.

Ecco, ora sarebbe morto male.

Conclusione che lo aveva fatto piombare nuovamente in uno stato di trauma profondo per cui era tornato ad agitarsi in modo spastico iniziando a dondolare pericolosamente facendo muovere con lui tutta la fitta ragnatela sottostante ed adiacente, e la cosa non era certo passata inosservata a chiunque occupasse quel nido: non ci volle molto perché l’intera rete iniziasse a vibrare in modo quasi impercettibile mentre le due protuberanze andavano ritirandosi, evento che fece tirare a Frost un sospiro di sollievo.

Se non fosse che al loro posto ne erano uscite non due, ma ben otto.

Otto.

E allora niente, il cervello gli era completamente partito per la tangente male, ma proprio nel peggiore dei modi immaginabili, soprattutto quando aveva notato che il suo bastone era poggiato ad una parete laggiù, sul pavimento così lontano da lui:

«Non voglio morire! Non sono pronto! Sono giovane, sono troppo giovane!» iniziò ad urlare come un forsennato «Sono appena diventato un Guardiano, ti prego! Lasciami! Lasciami! Aiuto! Aiutatemi! Sto per morire! Non mangiarm-­» stava dicendo quando sentì sulle labbra il freddo tocco di quelle che gli sembravano essere dita, sì, ma coperte di qualcosa di coriaceo:

«Non preoccuparti, mio piccola crisalide, non è ancora la stagione degli accoppiamenti» lo rassicurò una voce femminile, la stessa che aveva già sentito, mentre con l’altra mano scendeva lungo il suo corpo «In quel caso avrei già deposto le mie uova qui dentro, proprio qui…» continuò infilandosi con una certa sensualità sotto la felpa e massaggiandogli l’addome facendogli salire un imbarazzo senza eguali «Ed i piccoli che sarebbero nati si sarebbero nutriti con la tua dolce e pallida carne di Guardiano, facendosi strada nelle tue viscere fino ad uscire alla luce del sole tutti felici e grati per il tuo servizio: adorabile, non trovi?» domandò curiosa ad un Frost che stava per rimettere l’anima a sentire quelle parole.

Quella cosa, qualsiasi cosa fosse, non voleva mangiarlo, no… voleva solo deporre le proprie uova nel suo stomaco, le uova! Nemmeno fosse una fottuta incubatrice!

 

Nonostante a quel punto il terrore lo stesse consumando come neve al Sole, sapeva anche che legato com’era non sarebbe stato possibile liberarsi in alcun modo, soprattutto perché non aveva fra le mani il proprio bastone, motivo per cui decise di non opporre resistenza quando si era sentito sollevare di peso ancora avvolto in quel sacco a pelo di ragnatele e premuto contro qualcosa di morbido e liscio, intervallato qua e là da quello che doveva essere un tessuto di qualche tipo:

«Ma quanto sei carino, davvero adorabile!» squittì la voce di prima entusiasta per poi stringerlo a sé con forza «Non preoccuparti mio piccolo Guardiano, sei assolutamente al sicuro fra le mie tele: nessun ragno cattivo ti farà del male o cercherà di deporre le proprie uova in te, non glielo permetterò di certo!» lo rassicurò pizzicandogli le guance per poi lasciarlo finalmente riprendere fiato dopo la permanenza in un luogo oscuro e morbido.

Che si era rivelato essere un seno fin troppo grande coperto a malapena da un lembo di stoffa che ne lasciava scoperti tre quarti.

Eh.

Ancora stordito per aver appena infilato la propria testa fra le tette di una perfetta sconosciuta, Jack Frost non si era assolutamente accorto dello stridio metallico che aveva accompagnato la rottura del filo che lo teneva incollato al soffitto e della sacca nel quale era contenuto, portandolo ad una rovinosa caduta libera verso il tanto agognato pavimento; proprio mentre temeva di essere sul punto di spiaccicarsi male sentì tirare il cappuccio della felpa:

«Non penserai che ti avrei lasciato diventare come una fetta biscottata coperta di marmellata appena caduta dalla mano, vero? Sei troppo adorabile per morire in un modo simil… non guardarmi così, ti ho fatto un favore!» si lamentò lei quando notò che Jack la fissava con la bocca aperta a metà tra il traumatizzato e l’estasiato.

Pensava che dopo Harmonia ed il suo corpo da centauressa avesse visto di tutto, ma questo andava oltre l’immaginabile, almeno per lui: al primo impatto tutto ciò che aveva visto era una donna dal corpo esile con un seno decisamente troppo abbondante che forse stonava anche un po’ nel complesso, la pelle pallida che a circa tre quarti del braccio e verso il bacino si trasformava in una sorta di esoscheletro con pezzi ben definiti che ricoprivano soprattutto le mani e le dita che avevano una certa parvenza di insetto, il volto semi nascosto dai capelli di un lilla chiaro tenuti in un ordinato caschetto scalato verso la parte anteriore che rendevano difficile vedere tre coppie di occhi rosso cremisi privi di pupilla dove quelli principali erano ben più grandi degli altri posti all’altezza della fronte.

Ecco, fosse stato per Jack si sarebbe fermato alla parte superiore del corpo, evitando decisamente quella inferiore, probabilmente perché era la stessa di un grosso ragno di un lucido colore viola-nerastro con zampe che sfioravano i tre metri di lunghezza e che la portavano ad essere ben più alta di lui anche adesso che se ne stava chinata ad osservarlo.

Fu una questione di secondi: anche se parzialmente ancora appiccicato alla crisalide ormai quasi del tutto rotta, capì presto che il suo bastone era poco lontano, ad una distanza dove gli sarebbe bastato allungare il braccio per afferrarlo, ed anche se la cosa comportava i suoi rischi non aveva molta scelta se non lanciarsi con violenza verso l’angolo dove si trovava il suo prezioso compagno di poteri, appollaiarsi sopra di esso nemmeno fosse una chioccia che covava i suoi pulcini e, appena la donna mezza ragno fu abbastanza vicino, scagliarle contro qualsiasi incantesimo sarebbe uscito dal bastone stesso.

Se non fosse che l’utilità di tutto quel teatrino era stata resa vana da un filo setoso che gli aveva incollato la mano al muro:

«Oh avanti, credevo che ormai avessimo fatto conoscenza, se continui così mi vedrò costretta ad arrotolarti di nuovo dentr-­» non fece in tempo a finire che si trovò un grosso pezzo di ghiaccio tutti intorno alla zampa anteriore che la bloccava saldamente a terra; Frost a quel punto era determinato a spuntarla una volta per tutte:

«Lasciami immediatamente altriment-»

«Altrimenti cosa?» lo interrogò mentre, con una certa nonchalance, tirava fuori la zampa spaccando il ghiaccio in mille frammenti, segno che doveva essere più forte di quanto sembrasse, molto di più.

Lei allora prese ad avanzare verso il giovane Guardiano, il quale continuava a stringere tremante il bastone nella mano intrappolata:

«Non voglio ucciderti, in quante lingue devo dirtelo? Sylkeniano? Ophidiano? Quale lingua preferisci? Aramaico antico? Valyriano? Parlo pure quello, stai a sentir-»

«No! No! No! Voglio solo tornare dai miei compagni, nient’altro!» gli urlò contro con le lacrime agli occhi in preda allo sconforto «Io ero con loro, ero con loro! Ma poi…» fece una pausa costringendo senza riuscirci le lacrime a restare al loro posto «Poi mi sono distratto a guardare… la statua… quella con le tizie… le cose… le Entità della Morte, ecco… mi sono girato e poi… poi loro non c’erano più!» esclamò mimando l’espressione di stupore che aveva avuto nella sala poco prima «Allora c’era la porta aperta e… e sono… entrato, sì… ma non sapevo dove uscire! Non lo sapevo!» concluse asciugandosi le guance con la manica libera.

Nessuno dei due aveva commentato nei minuti seguenti quella sceneggiata, ed anche l’altra si era limitata ad ascoltarlo in silenzio con la testa piegata di lato e le braccia incrociate al petto, poi però era scoppiata in una fragorosa risata:

«Tutto qui? Pensavo che tu fossi un intruso o chissà cos’altro, se avessi saputo che eri semplicemente un Guardiano avrei anche fatto a meno di catturarti, ah!» spiegò ridendo prima di lanciare a Jack il bastone dopo averlo liberato, poi guardò verso la cima della cascata

«Sarà meglio tornare dai tuoi amici, ormai si saranno accorti della tua mancanza: chi la sente Harmonia se ci scappa il morto? Io no di certo, proprio no!» asserì fingendosi seria prima di invitare Jack a seguirla.

Quindi conosceva Harmonia, quella sottospecie di donna mezza ragno, e sapeva anche che i Guardiani erano con lei, oltre che Frost era uno di loro… ma come?

Non aveva notato nessuno quando stava parlando insieme alla Regina, tantomeno un aracnide o ragnatele che potessero far scattare in lui il vago sospetto che potesse esserci un’altra ospite ad attenderli, eppure quella donna sapeva tutto di loro, e non si sarebbe affatto sorpreso se fosse stata a conoscenza anche della vicenda di Phobos.

Sulle prime avrebbe anche voluto indagare proprio ora che aveva di nuovo il suo bastone fra le mani ed i pieni poteri dei quali disponeva, ma la sua nuova amica ottozampe gli aveva detto che lo stava riportando da Harmonia e dal resto del gruppo, per cui aveva deciso di fidarsi: non aveva idea se fosse vero oppure se invece lo volesse semplicemente mangiare, se lo avrebbe portato alla luce del Sole o se lo avrebbe legato come un salame e deposto le proprie uova nel suo tratto digerente o da altre parti, ma la posizione in cui si trovava non era proprio quella giusta per porsi troppe domande a proposito.

Per la prima volta nella sua esistenza, il Guardiano del Divertimento aveva la vaga sensazione che anche quella sarebbe stata una delle tante situazioni durante le quali avrebbe fatto decisamente meglio a stare zitto, ovviamente con la convinzione che forse avrebbe avuto le risposte che cercava da Harmonia poco dopo.

O almeno lo sperava.

Posò distrattamente lo sguardo nei profondi tagli che costellavano la coda macchiando le spesse squame color smeraldo di un pallido rosso cremisi, sottili striature di sangue che colavano placidamente fino alle rigide placche dorate che coprivano la parte del sinuoso corpo da serpente che toccava terra: non si aspettava uno scontro di quella portata, d’altronde si era portata appresso solo l’arco ed una dozzina o poco più di frecce per eventualità varie, ma nulla l’aveva preparata per un violenta lotta contro ben cinque delle sue simili.

Due delle quali le erano fin troppo famigliari.

No, no, no!

La famiglia era l’ultima cosa alla quale avrebbe dovuto pensare, l’ultima!

La prima era la figura che la osservava dall’alto di un albero.

La figura di Tanith, per la precisione.

Nonostante la conoscesse fin troppo bene decise di avanzare senza farci caso, la stazza era una delle poche cose che potevano darle, se non un vantaggio, almeno una certa sensazione di uguaglianza più o meno sensata:

«Oh, cercavo proprio te!» esclamò particolarmente entusiasta l’Ephemeride ciondolando da un ramo che non sembrava proprio sicuro «Volevo solo dirti di ringraziare Harmonia ed Alice da parte mia, avevo giusto bisogno di una merenda e devo ammettere che hanno fatto entrambe un ottimo lavoro, i miei omaggi alle nobili di corte.» concluse improvvisando un inchino srotolando le spire dall’albero.

Tipiche di Tanith, le verità buttate lì senza troppe spiegazioni: ogni volta, ogni dannatissima volta, il tutto finiva con lei che scompariva ridacchiando in stile “Ora mi vedi ora no, intangibile qua intangibile là”, ed era abbastanza frustrante come situazione, motivo per cui la stragrande maggioranza dei loro incontri si limitava ad essere una fugace apparizione a puro scopo di scherno.

Non che le interessasse più di tanto negli ultimi tempi, aveva anche fatto l’abitudine all’occasionale presenza dell’Ephemeride, ma qualche secolo prima probabilmente le sarebbe inutilmente saltata alla gola con la spada snudata finendo rovinosamente a terra con il rischio di trovarsi impalata nemmeno fosse un’anguilla, altro che una naga.

Ed era meglio evitare troppi problemi tenendosi buona anche lei, dal momento che la guerra era sempre dietro l’angolo, ed aver ottenuto Tanith come nemica non era proprio la massima aspirazione che un generale potesse avere.

Nonostante persino le serpi che aveva al posto dei capelli avessero iniziato a sibilare minacciosamente con le sottili zanne in vista, e nonostante sapesse che una delle qualità più eccelse di Tanith fosse di metterla sempre e comunque sulla difensiva, alla fine aveva deciso di fare la fatidica domanda:

«Cosa mi sono persa? E non farti pregare per una buona volta, perché la mia pazienza è rimasta nella foresta insieme ad una dozzina di frecce.» chiese faticando a nascondere la tensione e la confusione che correva in ogni singola squama:

«Povera, povera piccola naga infelice, è tutto così commovente: i tuoi problemi famigliari mi spezzerebbero il cuore, se solo ne avessi uno, davvero eh! Comunque sia» disse mentre assumeva un’espressione pensierosa alzando gli occhi al cielo «Può darsi che qualcuno abbia fatto irruzione al castello della tua amichetta e che io sia arrivata proprio al momento giusto per pranzare… ma forse ho solo visto male, chissà: ormai sono vecchia, probabilmente ho già le visioni, direi di sì.» concluse facendo per andarsene.

Pranzare?

Pranzare.

E Tanith pranzava con il dolore altrui.

 

Non aveva nemmeno ascoltato il resto del discorso da quando aveva sentito la parola “irruzione”, il suo cervello aveva automaticamente iniziato a formulare decine e decine di ipotesi sui colpevoli di un atto simile: non c’erano persone interessate ad attaccare Harmonia da molto tempo, da quando Phobos era stato rinchiuso nell’Abis… Phobos.

Non sapeva perché, ma era certa che c’entrasse qualcosa.

C’entrava sempre qualcosa quando si trattava di far soffrire Harmonia.

L’Ephemeride tuttavia non sembrava disposta a collaborare alla sua indagine, ma d’altronde un tentativo non sarebbe costato nulla:

«Di chi si tratta? Tanith, Tanith! Maledizione non lasciare le cose a metà! Avanti!» le urlò contro strenuamente fino a quando non la vide più nel proprio campo visivo, segno che come sempre il suo giochetto di non approfondire mai ciò che vedeva o sentiva aveva funzionato alla perfezione per l’ennesima volta; forse avrebbe anche dovuto ascoltarli, i suoi serpenti sibilanti, soprattutto perché avevano dannatamente ragione:

«Oggi mi sento generosa, dovresti ringraziarmi: non mi aspetto che tu lo faccia, voi giovani siete così maleducati con gli anziani!» la rimproverò l’Ephemeride spuntandole improvvisamente dietro le spalle e facendole rasentare l’infarto «Per una serie di sfortunati eventi Dentolina e Calmoniglio se la sono vista brutta, ma purtroppo non sono morti: un vero peccato, avrei di gran lunga preferito banchettare sui loro compagni addolorati, ma ammetto che con Phobos ho recuperato alla grande ciò che non ho avuto da lor-­»

«Phobos? Cosa c’entra Phobos?» domandò con gli occhi sgranati.

Se lo sentiva che c’entrava qualcosa, la sua non era solamente una dannatissima impressione!

Tanith la osservò annoiata, segno che si stava stancando di parlare del più e del meno:

«Come sarebbe, non lo hai saputo?» rigirò la domanda ridacchiando «L’Abisso si è aperto, e si da il caso che un povero disgraziato abbia tentato il suicidio quando? Qualche ora fa? Forse meno, non saprei dirtelo con sicurezza. Certo, c’era parecchio da mangiare, tuttavia» continuò girandole intorno con le braccia dietro la schiena «Il dolore di Harmonia  ha un sapore migliore, decisamente migliore».

Non aveva più visto nulla se non la furia cieca.

 

Inutile, ovviamente, sarebbe stato solo un azzardo che avrebbe potuto costarle la vita, ma non le importava se si trattava di proteggere Harmonia; non si era nemmeno resa conto dell’avere preso fra le dita l’ultima freccia rimasta nella faretra e di averla puntata al collo di Tanith, salvo sentirsi afferrare il polso con una violenza decisamente maggiore:

«Avanti grande generale, non dirmi che pensavi davvero di farlo!» la bacchettò mentre sul suo viso si dipingeva un’espressione di finta sorpresa «Non avercela con me, non è colpa mia ciò che è accaduto durante la guerra contro Apophis, mi sono semplicemente limitata a mangiare come faccio sempre e con tutti quindi, grande generale, vedi di mantenere la calma se ci tieni alla coda, seriamente.»

L’Ephemeride mollò la presa di scatto subito dopo aver spezzato la freccia:

«Ringraziami per non aver approfittato più di tanto dell’immane quantità di cibo che avrei potuto avere da Harmonia nei venticinque anni in cui ha portato il suo regno sull’orlo del baratro per colpa di quell’incompetente di Phobos, anziché cercare la morte attaccandomi: non mi sono avvicinata troppo a questo pianeta in quel periodo, ed anche se lo avessi fatto non sono io che ho aperto l’Abisso, quindi datti una calmata. Ha già perso un amante, no?» domandò senza aspettarsi una risposta per poi avvicinarsi al suo orecchio:

«Evitiamo che ne perda un altro.»

Poi si era volatilizzata, questa volta veramente, lasciandola con il polso dolorante e gli occhi sgranati: avevano riaperto l’Abisso, lo avevano fatto e nessuno se ne era accorto, nemmeno lei che avrebbe dovuto pensare solamente alla protezione della Regina in persona.

Non aveva idea se Harmonia fosse già a conoscenza della cosa o meno, ma per sicurezza tornare al castello era assolutamente una priorità.

Priorità che si era intensificata quando, totalmente assorta nei suoi pensieri e nel controllare il dolore che le squame che sfregavano l’una sull’altra nei pugni serrati le provocavano, quasi non aveva fatto caso alle chiazze d’erba carbonizzate da quelle che a prima vista sembravano semplici gocce verdognole di una sostanza non meglio identificata.

Una sostanza che sapeva perfettamente provenire da un mondo totalmente diverso da quello.

E allora aveva iniziato a correre, o meglio strisciare, verso casa: senza voltarsi, senza constatare se l’ennesima di tante intuizione fosse vera, voleva soltanto tornare a riferire quel poco che Tanith le aveva gentilmente concesso di sapere sulla vicenda.

Sperando che non fosse troppo tardi.

 

 

Una statua di Tanith, ecco cosa sarebbe stato utile!

Non sapeva nemmeno come avrebbe potuto ringraziarla per aver distratto quella dannata Ophidian mentre lei stava tornando da Phobos evitandole uno scontro diretto che, con l’acqua della Sorgente in mano, proprio non poteva permettersi.

Il Guardone Mistico non era intervenuto una volta, ma se Halley fosse tornata perché aveva accidentalmente versato il prezioso tesoro per terra probabilmente le avrebbe dato addosso con l’armeria pesante, dove con “armeria pesante” si intendeva che avrebbe tirato fuori il suo drago da un portale dimensione aperto chissà dove.

E non era proprio il caso: di cavalcadraghi incestuosi in quell’Universo ne esistevano abbastanza, e forse anche Nonno Drago si sarebbe offeso per la concorrenza, per cui era meglio lasciare il suo animale domestico dov’era a mangiarsi i pianeti come già faceva.

Comunque fossero messe le cose alla Torre in quel momento, l’unica cosa che preoccupava attualmente la mente di Comet era di tornare da Phobos senza rischiare per la secondo volta di farsi beccare da Harmonia o da qualcuna delle sue adorabili guardie del corpo, considerando che dopo l’entrata in scena di qualche ora prima il suo coinvolgimento nella sua fuga dall’Abisso era ormai quasi del tutto palese a tutti.

Guardò la bottiglia che aveva fra le mani davanti alla luce di uno dei Soli come inebriata da qualche strana sensazione, una sorta di visione continua dove tutto le scorreva davanti: l’acqua del Guardone Mistico, la stessa dove si specchiava il sapere di colui che aveva assistito alla nascita di milioni e milioni di Universi finiti con il consumarsi e congelare e bruciare, che aveva visto il tempo scorrere via, momento dopo momento, finché non era rimasto più nulla, nulla tranne lui, che Universo dopo Universo aveva osservato mentre prendevano vita amori e perdite, nascite e morti, gioia e dolore, che conosceva segreti che non avrebbero mai dovuto essere svelati per non disturbare il precario equilibrio di quell’immenso gioco di ruolo che è l’esistenza, dove anche la più piccola foglia caduta nel momento sbagliato avrebbe potuto generare una serie infinita di paradossi talmente inspiegabili da essere in grado di prendere il Multiverso ed accartocciarlo.

Quel liquido, quel semplice ed apparentemente innocuo liquido, conteneva il sapere più puro, la conoscenza ultima del creato: il passato, il presente, il futuro, ciò che avrebbe potuto essere ma non era stato, ciò che era ma avrebbe potuto non essere, ciò che sarebbe stato ed allo stesso tempo non sarebbe mai stato se si fossero prese decisioni diverse da quelle prescelte, un passato mai vissuto ed un futuro mai scritto.

 

Quella era la Sorgente del Cosmo, quello era il Veggente.

 

Anche ora che si trovava ormai lontana dalla Torre poteva quasi sentire la sua presenza, l’incombenza del suo occhio sopra le teste degli abitanti di quel mondo, di quell’Universo, la consapevolezza che alzando un dito avrebbe potuto spazzare via qualsiasi cosa dinanzi a lui: sarebbe bastato un capriccio, un insulto non troppo velato e puff, ciao ciao cosmo.

Nonostante la testa che le pulsava insistentemente e le sembrasse quasi di vedere delle macchie sfocate davanti agli occhi, capì presto che dare troppo peso a quella sensazione non avrebbe fatto altro che privarla di tempo prezioso: le seghe mentali le avrebbe lasciate a Phobos che, nemmeno a dirlo, dava sempre segno di esserne piacevolmente allietato.

Scese velocemente atterrando vicino alla grotta di Necrohunger, il quale questa volta era intento a leccare il pelo dei leoni che se ne stavano placidamente accoccolati sotto le sue ali o intorno a lui come se fosse mamma chioccia, scena piuttosto inusuale dal momento che quando si erano incontrati avevano iniziato a strapparsi la carne di dosso, ma fu felice che almeno loro non cercavano più di ammazzarsi a vicenda.

 

Situazione diversa venne trovata da Halley quando si fece strada fino a Phobos, dove l’unica cosa che riusciva a distinguere in quel lago di sangue era la figura di Thorax sdraiata nello stesso luogo dove l’aveva lasciato prima di allontanarsi, il tutto coronato da un alone di silenzio alquanto inquietante che aveva due possibili spiegazioni: o Phobos era morto, o Phobos era morto male.

Nessuna delle due possibilità contemplava che il quel povero disgraziato fosse ancora vivo, ma chissà che il destino non gli avrebbe riservato una gradita sorpresa.

Gli si avvicinò lentamente con il timore che l’avesse presa alla lettera quando gli aveva detto che poteva anche mangiarsi il suo compagno di trombaris, ma fortunatamente notò subito che in realtà Phobos se ne stava appoggiato, o forse collassato, sul dorso di Thorax tenendogli il braccio sano intorno al collo come se vi si stesse disperatamente aggrappando; non sembrava cosciente, e nemmeno vivo a dire la verità, ma quando poggiò delicatamente l’indice ed il medio all’altezza della carotide tirò un sospiro di sollievo notando che respirava ancora: debolmente, certo, era privo di sensi ed aveva perso una quantità non indifferente di sangue, ma era vivo.

Vivo!

Che fosse ringraziato il Veggente!

Thorax sembrò avvertire le sue intenzioni ancora prima che le manifestasse: iniziò a sfregare il muso contro la fronte di Phobos leccandogli le guance come per fargli capire che lui c’era, c’era sempre stato e, nonostante ciò che gli avesse fatto più o meno volontariamente, avrebbe continuato ad esserci; con la zampa lo scostò dal proprio dorso per scoprire il braccio ferito, che fino ad ora era rimasto coperto dalla folta criniera del grande felino, abbastanza perché Comet potesse velocemente valute l’estensione del danno.

Senza pensarci troppo strappò un lembo della tunica del compagno e vi versò sopra circa la metà dell’acqua della Sorgente contenuta nella bottiglia, premurandosi di avanzarne un po’ per eventuali evenienze: con la mano tremante per la grottesca quanto macabra vista dello squarcio che gli percorreva l’avambraccio dal polso fino al gomito, e che lasciava visibili i muscoli lacerati in preda agli spasmi che avvolgevano l’osso color avorio, si premurò di pulire la ferita alla bene e meglio per poi avvolgere il tessuto direttamente intorno ad essa sperando che  quell’improbabile viaggio fino alla Torre di Babilonia fosse servito seriamente a qualcosa e non fosse stato invece un semplice azzardo dove il gioco non sarebbe valso la candela.

L’unico segno di vita da parte di Phobos era stato un gemito sommesso che si era presto trasformato in un dolore pulsante che sembrava consumarlo dalle profondità più remote del corpo, e per Halley questo non facilitò certo il resto dell’operazione:

«Phobos, guardami, guardami e stai calmo, faccio in fretta ma devi stare calmo» lo rassicurò mentre gli prendeva il volto fra le mani incrociando uno sguardo che sembrava dire “Facciamola finita una volta per tutte, ti prego”, ma non si fece troppi scrupoli :

«Adesso bevi questa, ti farà stare meglio… soffrirai come un animale per qualche ora, forse giorni interi, ma non conosco un altro modo per salvarti il culo, spiacente amico.» concluse mentre gli dava una mano a portarsi alle labbra quel poco dell’acqua della Sorgente del Cosmo rimasta, assicurandosi che la mandasse giù e non facesse scherzi strozzandosi male.

Quello che era venuto dopo non era nemmeno stata a guardarlo, non le serviva vedere la scena quando bastava ascoltarne i suoni: non sapeva esattamente gli effetti della Sorgente sulle persone normali anziché sul Veggente, stava di fatto che le grida agonizzanti di Phobos ed il suo contorcersi in preda a violenti quanto inquietanti spasmi che gli scuotevano ogni fibra del corpo parlava sicuramente da sé, e non era più proprio sicura che curarlo in quel modo fosse la scelta migliore da fare per salvarlo.

Ma d’altronde anche il sovrano della Torre si riduceva in quello stato quando cercava e riusciva a cambiare un futuro già scritto, era il prezzo da pagare per quella che avrebbe potuto essere considerata una sorta di ribellione al fato, quindi pensò che se sopportava lui anche Phobos avrebbe dovuto riuscirci.

Poi se fosse morto o meno non lo sapeva, ma almeno aveva l’inutile consapevolezza di averci provato, più o meno.

Eh sì, perché dopo aver assolto il proprio compito ed essersi lisciata l’abito sporco di terra bruciata ciò che aveva fatto Comet era stato voltarsi senza guardarsi indietro, senza dare peso alle richieste di aiuto di un Phobos fra le lacrime che strisciava per terra per raggiungerla, salvo essere preso di forza da Thorax che lo teneva buono: era già tanto l’aver rischiato la pelle andando dal Guardone Mistico e prendendo la sua acqua, figurarsi se ora sarebbe anche stata lì ad aspettare che l’altro si riprendesse, senza sapere quanto ci avrebbe messo tra l’altro!

Quando aveva lasciato la superficie per librarsi in volo si era lasciata alle spalle Phobos e tutto il resto, tutto quello che era velocemente accaduto negli ultimi tempi: aveva bisogno di riprendere in mano la vera Comet E. Halley, quella che se ne fregava di tutto e di tutti per andare a divertirsi dove più le aggradava, dal momento che lei non quella che andava nella tana del lupo per i guai altrui, non lo era mai stata, e se Phobos voleva tentare qualche altra impresa suicida che facesse da solo, lei non avrebbe mosso un dito per qualcuno che non fosse se stessa.

A meno che questo non avrebbe giocato a suo favore, ovviamente, in quel caso uno strappo alla regola lo avrebbe anche fatto piuttosto volentieri.

Ma gli strappi alle regole, si sa, hanno delle conseguenze.

Soprattutto per chi le regole le decide.

 

 

Contro ogni sua più rosea previsione, ci era mancato poco che Jack si mettesse a piangere come un bambino alla vista della luce del Sole che filtrava dalle immense vetrate del castello di Harmonia, segno che finalmente era tornato in superficie dopo un’infinità di scalinate e corridoi percorsi appiccicato al fianco della donna mezza ragno.

Ed a giudicare dalle espressioni di sorpresa e commozione dei compagni si vedeva bene che anche loro erano stati in pensiero per tutto il tempo della sua assenza:

«Jack! Jack! Per tutti i denti di latte, sei vivo! Sei ancora vivo!» gli gridò Dentolina precipitandosi da lui spedita e finendo per farlo cadere a terra mentre lo stringeva fra le piume che lo stavano soffocando male «Sta bene? Sei ferito? Sei disidratato? Ti sei scheggiato un dente? Non dirmi che ti sei scheggiato un dente! Fammi vedere!» continuò mentre gli apriva forzatamente la bocca tirando un sospiro di sollievo «Non farmi prendere questi colpi, non farli prendere più a nessuno di noi! Eravamo terrorizzati! Pensavamo che tu… che tu…» non fece in tempo a finire la frase che scoppiò in una cascata di lacrime tenendosi la testa fra le mani mentre il giovane Guardiano, abbastanza imbarazzato dalla cosa, le dava pacche sulla spalla in modo decisamente impacciato nemmeno fosse alle prese con un alieno.

Ah, eccoli, eccoli che arrivavano: i sensi di colpa, quell’adorabile sensazione di colpevolezza per la reazione spropositata della fatina dei denti, avevano iniziato a farsi strada nella sua mente come delle bestie pronte a divorarlo fino a quando non sarebbe crollato psicologicamente anche lui insieme alla compagna.

Fortunatamente, Harmonia aveva intuito la situazione e si era premurata di smorzare tutta la serietà che comportava, ovviamente con le dovute cautele:

«Il tempo di girarmi per parlare con i Guardiani ed eri già sparito dalla circolazione, ringraziamo che ti abbia trovato Antares prima di altri non proprio intenzionati ad indicarti la strada per uscire» asserì sorridendo, poi si girò verso l’altra donna «Ti ringrazio per averci riportato Frost, e per non averlo sottoposto ad una delle tue sessioni di sartoria quotidiane: nessuno avrebbe voluto un Guardiano insacchettato in una ragnatel… Antares.» la canzonò sfregandosi fra le dita un filamento setoso rimasto incastrato nel cappuccio della felpa del ragazzo; lei lo prese subito nascondendoselo dietro la schiena e tirò fuori un sorrisetto nervoso:

«Non so proprio di cosa tu stia parlando, proprio non lo s… non guardarmi così! Sono una Sylke, cosa pretendevi? Nei sotterranei ci vivo, non è colpa mia se è finito nelle mie ragnatele!» si giustificò alzando le due grandi zampe anteriori in segno di resa.

Jack le guardava discutere piuttosto perplesso, almeno fino a quando Harmonia non aveva scosso la testa accompagnando il gesto da un facepalm:

«In effetti non penso che Frost abbia perso la strada di proposito solo per venire a rovinarti le ragnatele, e non riconoscendolo posso anche passare sopra il fatto che tu lo abbia legato come un salame e fossi pronta a mangiarlo, o forse a farne la tua incubatrice personale. Comunque sia» disse mentre indicava la donna a Jack «Hai già fatto la sua conoscenza in modo più che approfondito, ma le presentazioni sono state saltate volentieri da quello che ho visto» ridacchiò divertita «Lei è Antares, uno dei miei più fidati generali nonch-»

«La sarta di corte, sono anche la sarta di corte!» si intromise lei tutta euforica mostrando un filo di seta che si girava fra le dita coperte dallo spesso esoscheletro utilizzandole come se fossero i ferri di una maglia «E tu sei Jack Frost, il Guardiano del Divertimento scelto da quel buontempone di Manny.» lo presentò iniziando a squadrarlo.

Non sapeva se definire il suo sguardo incredibilmente attraente oppure semplicemente inquietante, o forse era entrambi:

«Guardiano al quale starebbe proprio bene una sciarpa nuova fatta dalla sottoscritta! Posso, eh? Posso? Posso posso poss-»

«Dille di sì, ti scongiuro dille di sì.» suggerì Harmonia mettendosi una mano fra la folta chioma che si muoveva ad un vento invisibile; Jack decise di seguire il suo consiglio, ma nemmeno il tempo di annuire che Antares lo aveva stretto al seno facendolo soffocare di nuovo:

«Awww ma che gentile! Mi metto subito al lavoro, piccola crisalide, sarai ancora più adorabile di quanto sei già! La farò come il mio maglione!» concluse entusiasta sparendo nella stessa porta dalla quale era sbucata poco prima insieme a Jack.

 

Dopo qualche istante di silenzio il giovane Guardiano guardò Harmonia perplesso:

«Fa sempre così con tutti? Rapirli e minacciare di deporre le sue uova nel loro corpo intendo, è abbastanza… inquietante.» chiese alla Regina, la quale fece spallucce divertita:

«Direi di sì, ma le minacce di accoppiamento riguardano solo gli individui di sesso maschile, per fortuna» rispose ridendo «Devi sapere che Antares appartiene alla razza delle Sylkes, donne per metà ragno sparse un po’ ovunque sul pianeta Exodus, anche se uno dei loro nidi più grandi si trova poco lontano da qui, ai confini del mio regno» continuò vedendo che Frost la fissava con lo sguardo vuoto, terrorizzato dai ragni com’era; Harmonia tuttavia gli diede una pacca sulla spalla che lo fece rinsavire «Non sono pericolose, la maggioranza delle specie di ragno con le quali sono fuse hanno un veleno a puro scopo paralizzante per cibarsi, anche se ammetto che una fetta di loro possiede veleni talmente potenti da uccidere un uomo adulto. Ma non è il caso di Antares, se vuoi saperlo, per cui puoi stare tranquillo.» lo rassicurò dolcemente.

“Poteva stare tranquillo”, ma certo.

Al massimo si sarebbe trovato incinto di tanti piccoli ragnetti affamati di viscere e carne fresca, certo che stava tranquillo!

Il pensiero gli fece salire un conato di vomito che riuscì a trattenere a stento, complice il fatto che si stava davvero immaginando la scena:

«Voleva accoppiarsi con me! Voleva usarmi come incubatrice! E poi… e poi… le uova! Le sue uova… dentro di me!» disse fra sé e sé ad alta voce prendendosi di rimando lo sguardo della Regina come se avesse avuto un’improvvisa idea «Oh sì, stavo per dimenticarmene» si scusò velocemente «Durante la stagione dell’accoppiamento le Sylkes si trovano un compagno, gli fanno fecondare le proprie uova e poi le depongono dentro di lui, creatura umana o animale che sia: immagino che Antares ti abbia già avvisato su quello che accade dopo, ma fortunatamente per te non è questo il periodo giusto per diventare padre di piccoli aracnidi affamat-»

«Una razza… di donne… ragno? Un’intera… razza… che si accoppia male?» scandì lentamente con gli occhi sgranati per poi, con tutta la nonchalance del mondo, prendere il suo bastone e girarsi:

«Ringrazio tutti, è stato bello fino a che è durato: breve ma intenso, tutto molto bello, tutti molto gentili, ma per me è no.» terminò in tutta calma.

Poi Jack Frost si era avviato a tutta velocità verso la porta d’uscita.

Va bene Phobos e tutta la storia commovente dietro, va bene anche l’arrivo di quella donna dai capelli color magenta completamente a random, andava bene persino che fosse stato rapito.

Ma i ragni non andavano bene, quelli no.

Nord tuttavia non la pensava così, motivo per cui lo afferrò prontamente per il cappuccio rimettendolo al suo posto:

«Lasciami! Lasciami! No Harmonia, io esco! Io esco! I ragni! Non voglio i ragni che mi violentano da dietro! Lasciami!­» implorò dimenandosi come un topo appena catturato dagli artigli di un gatto fin troppo grande:

«Tu dovere stare calmo, Jack, nessuno infilerà nulla in tuo didietro, nessuno! Non preoc-»

«Andate a quel paese voi ed i vostri “non preoccuparti”! Mi preoccupo! Mi preoccupo eccome!» sbottò improvvisamente dando un morso al braccio del vecchio Guardiano e facendo per scappare a gambe levate, salvo essere trascinato a terra dalla zampata di Spettro alla schiena:

«Lo vedi? Lo vedete tutti? Come faccio a non preoccuparmi! Come!» continuò in preda alla disperazione più incontrollabile, anche quando il lupo lo aveva lasciato libero.

Quella che era seguita era stata una discussione piuttosto animata il cui perno centrale era la totale mancanza di responsabilità di Frost che, giusto per rincarare la dose, stava finendo per mettersi contro i suoi stessi compagni:

«Stai prendendo tutto troppo alla leggera, dovresti almeno metterci un minimo di impegno!» si lamentò Dentolina, supportata subito da Calmoniglio e successivamente anche da Nord

«Impegno? Stai chiedendo di impegnarsi alla stessa persona che non voleva nemmeno diventare un Guardiano, cosa ti aspetti? Che usi un po’ di quella zucca vuota per darci una mano? Ma va! Ma ti pare? Un altro Manny, un altro Manny!»

«Calmoniglio, tu stare esagerando! Jack aiutato noi a sconfiggere Pitch Black, suo aiuto stato fondamentale per sconfiggere Uomo Nero!»

«Utile quanto la pioggia il giorno di Pasqua, oserei dire!» si impuntò il coniglio pasquale per poi puntare un indice verso Jack senza guardarlo «Avremmo dovuto tenergli nascosto tutto ancora un po’ di tempo, tanto cosa se ne fa della verità? Sente quelle che vuole sentire, fa quello che vuole fare, risponde solo a ciò che gli fa comodo! Sono sempre della mia idea, e questa ne è la dimostrazione: Manny ha sbagliato, Jack Frost non è mai stato un Guard-»

«Ora ne ho abbastanza.» tuonò Harmonia pestando uno zoccolo a terra con così tanta violenza che il suono fece eco nell’intero castello.

 

Nessuno osò proferire parola subito dopo, ed anche i vari litiganti si limitavano a guardare distratti il pavimento come imbarazzati e pentiti delle loro stesse parole:

«Scelte sbagliato o giuste che siano state, Frost ha comunque dimostrato più di coraggio di quanto ne abbia avuto Madre Natura prima di darsi alla fuga quando Apophis ha attaccato il suo regno, gettando in pasto quattro ragazzine che hanno difeso Tandokka fino allo stremo da un mostro senza pietà» ricordò a tutti senza nascondere un velo di nostalgia «Non mi interessa la vostra opinione, non voglio nemmeno saperla, fino a prova contraria Jack Frost è e resterà il Guardiano del Divertimento, e su questo punto non ho intenzione di ritornarci di nuovo. Chiaro a tutti?» domandò ricevendo di risposta dei cenni eseguiti all’unisono per dire che sì, era anche troppo chiaro a tutti.

Jack nel frattempo se ne stava lì immobile, con gli occhi vitrei persi nel vuoto mentre ripensava alle parole dei compagni, gli stessi che a quanto aveva sentito non lo consideravano ancora uno di loro; fu con grande sorpresa che notò la sagoma di Harmonia venirgli incontro e poggiargli una mano sulla testa con fare materno:

«So che te l’ho già chiesto e che non avresti dovuto avere dubbi a proposito, che ti hanno già detto cosa rischiavi sin dal primo momento in cui hai varcato il portale per Phantasia, ma posso capirti, posso capirti più di quanto tu stesso possa immaginare» gli disse sorridendo «Hai coraggiosamente affrontato tanti, troppi cambiamenti nel giro di poche ore, hai visto cose delle quali ignoravi l’esistenza e venuto a conoscenza di verità che avrebbero dovuto rimanerti celate per il tuo bene, perché non si arrivasse a questo punto, ma voglio essere sincera: sei libero di abbandonare la nave, Jack Frost, Guardiano del Divertimento, ovviamente senza temere le conseguenze di questo gesto» spiegò mantenendo quell’aria stranamente serena «Non siamo Chandrasekhar, se prendi un impegno e poi ti tiri indietro nessuno cercherà di fartela pagare in alcun modo, ma vorrei che fosse una tua scelta, non loro: se resti sai a cosa vai incontro, se te ne vai tutto questo sarà solo un ricordo più o meno piacevole, ma del quale non ti dovrai assolutamente preoccupare.»

Jack quasi non ci poteva credere: parlava sul serio?

Poteva davvero andarsene senza problemi, tutti amici come prima?

O lo stava prendendo bellamente per il culo, ed in realtà sarebbe finita per fargli pagare cotanta codardia con chissà quali torture?

Non ne aveva la minima idea.

Velocemente, il giovane Guardiano iniziò a visualizzare pro e contro di un eventuale abbandono o mantenimento della propria posizione: se fosse rimasto forse avrebbe potuto fare ad Harmonia domande per le quali necessitava una risposta da troppo tempo, e se avessero arginato il problema della gestione di Phobos, perché da quello che aveva visto e sentito fino ad ora lo scopo della riunione era proprio quello, avrebbe avuto qualche privilegio!

Oppure sarebbe rimasto ucciso nel fragore di un’improbabile battaglia, il suo corpo gettato in una fossa insieme a quelli dei suoi compagni mentre la Morte passeggiava lì vicino raccogliendo le loro anime in un cestino da pic-nic con tartine e tramezzini.

Tramezzini con la maionese, di quelli che ti accorgi della salsa solo quando lo hai già addentato.

E lui, oltre ai ragni, odiava la maionese.

Ma se avesse abbandonato la nave, se si fosse ritirato in tempo da quello che pensava essere un imminente conflitto senza troppe domande, sarebbe sopravvissuto a qualsiasi cosa sarebbe venuta dopo, guerra o pace che fosse: certamente odiato dai suoi compagni per l’aver dimostrato di essere un vigliacco e forse se ne sarebbe pentito subito dopo senza la possibilità di intervenire nel mezzo della battaglia che esisteva solo nel suo immaginario, ma l’idea di correre ai ripari come aveva fatto Manny nella guerra contro Apophis stuzzicava il suo continuo aggrapparsi alla vita, e quella era una tentazione alla quale chiunque avrebbe faticato a resistere.

Vedendo che Jack era caduto in una sorta di stato catatonico mentre il suo cervello elaborava le opzioni disponibili, Harmonia aveva rotto il ghiaccio come solito:

«Non devi scegliere subito, prenditi tutto il tempo che ti serve: l’ultima cosa che vogliamo è una decisione sbagliata, e le decisioni sbagliate sono le stesse che si prendono in fretta e furia quando si è sotto pressione… oppure osservati dagli sguardi severi dei propri compagni» fece notare gettando l’occhio su Nord e compagnia «Vorrei che lasciaste soli me e Frost, se non vi dispiace, ha ben altro a cui pensare che accontentarvi.»

Oltraggio.

Che venne preso al balzo da Calmoniglio, particolarmente voglioso di fare rissa a quanto stava dimostrando alla corte della Regina:

«Ben altro a cui pensare? Certo, a come mostrare la sua vigliaccheria al mondo, ecco a cosa deve continuamente pensare! Lavoro impegnativo, mi dicono, degno di uno scansafatiche!» ruggì prepotente verso Harmonia «E tu sei d’accordo, tu lo supporti! Gli infarcisci la testa di discorsi tutti “Non temere Jack caro, puoi anche abbandonare i tuoi compagni perché tanto ci sono io a proteggerci, GNEGNEGNE!” Bella trovata, mia Regina, davvero ottima! Un po’ come quella di non ammazzare Phobos quando potevi farlo ma tu no, hai lasciato in vita quel bastardo solo perché era l’uomo che ti scopavi ogni fottuta vol-»

«Taci, se non vuoi che anche l’ultimo Pooka finisca in uno degli stomaci di un Diggerwurm­, non sei nella posizione per muovere accuse» rispose fredda mentre nella sua mano compariva lo stesso arco di prima «Ancora una parola sulla questione da parte di chiunque, una sola, e firmerete la vostra condanna all’esilio, ed ora» continuò indicando con l’arco la porta «Fuori.»

Nonostante gli sguardi preoccupati che i Guardiani iniziarono a scambiarsi l’uno con l’altro, soprattutto con il responsabile del repentino quanto pericolosamente inaspettato cambiamento d’umore di Harmonia, seguirono alla lettera il suo consiglio, o forse ordine, avviandosi mestamente verso la porta di quella stanza e chiudendosela alle spalle; l’unica indecisa sul da farsi era Alice, che guardava la Regina con aria confusa:

«Tutto bene?» domandò semplicemente, ed Harmonia abbozzò un sorriso alla bene e meglio

«Tutto bene, nulla di cui preoccuparsi, ti ringrazio per l’interessamento» rispose cercando di dare una parvenza di calma «Ti chiedo solo di controllare i Guardiani: siamo nel mio castello, nel mio Regno, sul mio pianeta, bada bene che si ricordino di non stare giocando in casa e che sono in netto svantaggio numerico.»

«Come desideri, se posso darti una mano sai che lo faccio sempre volentieri, snudare la spada una volta in più non è un problema, d’altronde. Harmonia, Jack Frost, con permesso.» si dileguò con un breve inchino ricambiato da entrambi.

 

 

Rimasto solo con la Regina, Jack venne colto da un senso di vuoto: erano loro due da soli, senza anima viva intorno, loro due in quell’immensa stanza bianca che dava direttamente nel grande salone delle statue, lo stesso dove Harmonia lo aveva riportato probabilmente così che il ragazzo potesse accomodarsi sui bordi della fontana centrale nella cui acqua limpida si stavano specchiando gli occhi azzurro ghiaccio del giovane Guardiano.

Non ci vedeva più nulla, in quegli occhi, non più: nessuna delle certezze che aveva avuto sino ad ora, nessuno che lo supportasse, nessuna voglia di provare a combattere per far valere la sua opinione perché questa potesse finalmente avere lo stesso valore di quella degli altri Guardiani.

Non ci vedeva dentro più nulla di tutto quello in cui aveva creduto sino ad ora, niente di niente, solo un profondo senso di sconfitta bruciante, ancora peggio di quella che aveva provato quando il suo corpo era caduto nel lago in quella fredda giornata invernale, il giorno in cui aveva capito che aveva fallito come fratello esattamente come ora stava fallendo come Guardiano: Manny gli aveva dato fiducia, gli aveva dato un incarico che Jack credeva di portare avanti nel migliore dei modi, i suoi amici lo incoraggiavano come se farlo a sentire a proprio agio fosse il loro unico scopo, eppure adesso gli avevano appena sbattuto in faccia la sua incapacità di prendere decisioni.

E faceva male, più male di quanto fosse disposto a sopportare.

Guardò distrattamente il proprio riflesso che ricambiava il suo sguardo: quello non era il ragazzino che conosceva Emma, il suo aspetto da Guardiano avevano sostituito da troppo tempo quello che ricordava di avere prima di morire ed essere scelto, con i suoi capelli castani arruffati e gli occhi marroni sostituiti dagli sterili colori del gelo dell’Inverno che si portava dentro.

Quella sensazione che cercava di non manifestare fu subito notata da Harmonia, che gli si era avvicinata ed aveva posato l’imponente corpo da cavallo sul bordo della fontana sfiorando la superficie dell’acqua con una zampa:

«Ho assunto questa forma per ricordarmi chi sono, per non dimenticare da dove vengo: avrei potuto creare qualsiasi corpo con la mia magia, ma ho pensato che essere una centauressa mi potesse aiutare a mantenere vivi i ricordi» disse senza alzare lo sguardo ma cercando quello di Jack nell’acqua «Buffo, vero? La Regina della Fantasia che teme di dimenticare… come se poi potessi farlo, ma tu» continuò sollevandogli il mento con una mano «Tu hai già dimenticato, per questo ti aggrappi con tutte le tue forze all’idea che restare possa darti le risposte che stai cercando, ho ragione?» domandò incuriosita mantenendo una certa compostezza.

Aveva ragione, certo che aveva ragione!

Avrebbe voluto urlarlo, gridarlo al mondo che sì, Jack Frost temeva di dimenticarsi da dove era venuto, delle persone che aveva conosciuto e di chi fosse veramente!

Eppure si limitò ad annuire tristemente, senza proferire parola quasi fosse rassegnato ad una realtà che conosceva fin troppo bene:

«Ognuno ha i propri demoni che si trascina dietro da una vita, se poi sei immortale i fantasmi del tuo passato di perseguitano ogni istante dell’eternità che hai davanti: credimi, ti capisco perfettamente, i sensi di colpa per aver lasciato che Phobos venisse trascinato nell’oscurità sono mostri che mi hanno consumata per venticinque anni prima che…» fece una pausa inspirando profondamente «Prima che recidessi i legami con quella parte del mio passato… eppure eccoci qui, con i Guardiani che discutono di come ucciderlo: darsi delle priorità è fondamentale, ed io ho messo la salvezza del mio Regno e di tutti gli altri prima dell’amore che provavo per Phobos e, per quanto me ne sia pentita, oggi so che è stata la scelta giusta» spiegò con voce incredibilmente decisa e sicura di sé.

Jack rimase sorprendentemente colpito dal fatto che Harmonia gli stesse raccontando qualcosa di così intimo che aveva tenuto dentro il suo cuore per tanto, troppo tempo: lei che lo conosceva a malapena stava davvero confessandogli che sì, dietro la il pilastro sul quale faceva affidamento un regno ed un intero pianeta c’è una donna stanca e ferita, che quel pilastro era solcato da profonde crepe che nessuno aveva pensato di riparare perché nessuno sarebbe stato in grado di farlo, fenditure nell’anima che tuttavia non avevano intaccato quei suoi modi gentili e quell’amore per la propria gente che la caratterizzavano.

L’ammirava, l’ammirava più di quanto già facesse, e non poteva essere più felice

Accennando un timido sorriso, Harmonia gli diede una carezza sulla guancia:

«Accettare le conseguenze delle proprie azioni come di quelle altrui è il minimo che si possa fare per mettersi in pace con il proprio passato, bisogna perdonarsi le scelte che ci fanno soffrire ed essere pronti a perdonare chi ci ha fatto del male, volontariamente o meno...» sussurrò con un alone di tristezza facendo capire a Frost che si riferiva a Phobos «Ma tu, giovane Guardiano, tu non ti sei ancora perdonato, non ti capaciti di come tu sia qui senza tua sorella a stringerti la mano per farti forza e per avere la sicurezza che solo suo fratello maggiore poteva darle, e questo ti sta distruggendo» asserì scegliendo cautamente le parole «Purtroppo, io non posso darti le risposte che tu hai già dentro te stesso, devi solo trovare il coraggio di andare a cercarle e, che ti rendano felice o meno, accettarle per come sono: ci vorrà tempo, quello sicuramente, ma non puoi cercarle da altre persone se non te stes-»

«Dalla Morte, io voglio chiederle alla Morte in persona» asserì quasi senza rendersene conto.

Nessuno dei due presenti si permise di proferire parola riguardo le parole del ragazzo, tuttavia fu proprio lui a lasciare correre i pensieri senza frenarli:

«Emma è morta, ed i morti vengono accompagnati dalle Entità nel loro mondo… se solo trovassi una di loro… se solo potessi… parlarci...» disse con un filo di voce toccando l’acqua e perdendosi nelle onde concentriche che si formavano «Loro sanno qualcosa di Emma, devono saperlo… devono! Loro… devono! Lo sanno… io lo so…» terminò crollando e facendosi trascinare dalle lacrime mentre Harmonia cercava di sostenerlo dandogli delle leggere pacche di consolazione sulla schiena.

“Oh Jack, se solo tu sapessi quanto la Morte conosce tua sorella… se solo tu lo sapessi”, pensò la Regina senza dare a vedere l’aria preoccupata che le parole del Guardiano avevano suscitato in lei insieme ad una vaga sensazione di paura per il ragazzino che aveva di fianco: se Frost fosse davvero andato a cercare la Morte avrebbe fatto un clamoroso buco nell’acqua, dal momento che la Morte non si faceva trovare dai vivi così facilmente, ma se ci fosse riuscito… cosa sarebbe accaduto, se avesse davvero trovato la Morte?

No, non l’avrebbe mai trovata… a meno che non fosse morto a sua volta, ovviamente, ma non vedeva motivi per cui avrebbe dovuto preoccuparsi anche di fare da balia a quel ragazzino, d’altronde sulla possibilità che Phobos fosse effettivamente in possesso dei propri non c’erano ancora certezze, solo insinuazioni e pensieri da scacciare tipo prima di subito.

Ovvero prima che la porta si spalancasse con violenza inaudita rivelando la figura di Alice che ansimava per quanto aveva corso veloce:

«Alice? Avevo chiesto di essere lasciata sola a parlare con Jack Frost, per qual motiv-»

«È appena tornata! Ha incontrato Tanith! Tanith!» furono le uniche parole che le uscirono dalla bocca prima che si inginocchiasse stancamente a terra per riprendersi.

 

E allora Harmonia aveva sentito il sangue che le si gelava nelle vene.

Tanith significava solo una cosa: guai.

Grossi guai.

 

Ciò che aveva seguito quella comunicazione aveva anche lasciato sbigottito Jack, soprattutto quando Harmonia aveva abbandonato la sala galoppando con sicurezza attraverso il labirinto di corridoi del proprio castello fino ad uscire e trovarsi davanti alla vastità dei campi color smeraldo di Phantasia; Antares l’aveva raggiunta poco dopo, dando mostra di una particolare quanto inquietante armatura argentea che le copriva le zampe ed il seno fino ad ora quasi totalmente scoperto da quel top striminzito:

«Dobbiamo alzare lo scudo intorno al castello il prima possibile, Tanith potrebbe essere ovunque e non ci accorgeremmo di nulla… ed ho la vaga sensazione che non sia lei il solo problema» spiegò alla donna mezza ragno «Porta dentro tutti, questo è un lavoro che devo fare da sola e non voglio morti sulla coscienza.» disse all’altra, la quale annuì decisa e si limitò a riportare tutti al sicuro nella dimora della Regina di Phantasia.

Se Frost aveva trovato sorprendentemente affascinante la barriera che Harmonia aveva eretto per proteggerli dall’arrivo di Halley, allora questa volta le parole per descrivere lo spettacolo avrebbero richiesto uno sforzo non indifferente per essere trovate: gli occhi della Regina si erano improvvisamente riempiti di un bagliore azzurro costellato di puntini biancastri che aveva oscurato la vista dell’iride e della pupilla dando quasi l’idea che fosse in una sorta di trance, gli zoccoli che affondavano nel terreno come se l’intero corpo fosse schiacciato da una forza invisibile, i capelli che ondeggiavano ad un vento impercettibile che avevano assunto un colore vagamente simile a quello di una nebulosa che andava dall’azzurro fino al viola ed all’oro nei quali si potevano distinguere le sagome di quelle che parevano essere costellazioni, le mani ed il corpo che si erano subito ricoperti di sottili filamenti multicolore che si arrampicavano sulle zampe come se fossero serpenti che sibilavano al vuoto.

Poi aveva spalancato le braccia, e allora dalla cima più alta del castello era andata formandosi una barriera biancastra che emanava una luce inizialmente quasi insopportabile, poi andata attenuandosi mettendo in risalto il fatto che sembrasse fatta da tanti piccoli tasselli simili a gemme luminescenti ricadendo infine nel terreno spandendosi fino a qualche metro più in fuori dal palazzo con spesse radici che si conficcavano nel ventre della terra.

Per una frazione di secondo, solo una, a Jack era parso di vedere un vortice di ombre nere aggirarsi intorno all’unica protezione che li divideva dal mondo esterno, da dove si annidavano i pericoli, ma si convinse che era stata solamente una sensazione.

L’ennesima di tante.

 

Quando lo scudo aveva terminato di assestarsi, Harmonia aveva dato segno di reggersi a malapena sulle zampe tremanti che la facevano barcollare, ma fortunatamente Antares le diede una spalla sulla quale appoggiarsi per riprendersi dall’immane sforzo di innalzare quella barriera nel giro di appena qualche minuto completamente da sola; con una certa imprudenza, Nord si era avvicinato alla centauressa osservando attentamente il paesaggio intorno alla allo scudo:

«Questa situazione dimostra che noi avere bisogno di stare uniti, tua alleanza per combattere minacce da fuori essere fondamentale!» asserì con sicurezza e particolare decisione stringendo i pugni deciso, parole che però suonarono fastidiose alle orecchie della Regina.

Aspettava l’arrivo di quel momento da quando i Guardiani avevano messo piede a Fairy Oak e poi a Phantasia, la sua Phantasia, e fu proprio per quello che si fece forza per rialzarsi assumendo la sua solita aria fiera:

«Alleanza? Tu, un Guardiano, vieni a parlarmi di… alleanza? Mi prendi per il culo?» ripeté quasi incredula piegando la testa di lato per poi pararsi davanti a Nord superandolo di parecchio in altezza «Tu, il fantomatico capo dei Guardiani, degli stessi Guardiani che mi hanno abbandonato mentre combattevo contro il mostro che il vostro Guardiano dei Guardiani ha permesso arrivasse fin qui, mi vieni a chiedere di allearmi con voi dopo tutto quello che mi avete fatto, direttamente o meno, passare? Col cazzo.»

Ecco.

L’espressione sorpresa di Nord si era presto sparsa a tutti i Guardiani che osservavano silenziosamente la scena, ma gli animi si erano scaldati molto presto, soprattutto quelli di un Pooka piuttosto dedito alle lamentele:

«Tu devi aiutarci! Cosa facciamo se Phobos dovesse dare davvero di matto, se fosse già libero in giro e ci attaccasse? Harmonia, ti prego, cerca di essere ragionevol-»

«Oh lo sono, sono anche troppo ragionevole» lo canzonò lei fredda «Il mio regno viene prima di alleanze che hanno avuto il solo scopo di lasciare in mano ad una manciata di persone tutto il lavoro da fare mentre altri se ne stavano a cincischiare quindi sì, Calmoniglio, sono molto ragionevole» asserì facendo per rientrare; Dentolina come suo solito non riusciva proprio a stare zitta, ed anche adesso lo stava dimostrando:

«Harmonia… cerca di capire la nostra posizione: nessuno di noi ha un potere come il tuo, rimanere legati al passato ed a ciò che è accaduto sette secoli fa non ha sens-»

«Non ha senso per te, cara Dentolina, ma per me lo ha eccome: non dico che tu non abbia perso nulla come tanti altri, ho un profondo rispetto verso coloro che sono caduti per proteggere ciò in cui credevano, ma fino ad ora ciò che le alleanze mi hanno portato sono stati solo guai: sono stanca di combattere le battaglie altrui, sono tanto stanca di fare il lavoro degli altri… credimi, mi dispiace, tantissimo.» si scusò con espressione afflitta abbassando lo sguardo.

Jack non sapeva bene cosa pensare di quell’improvviso cambiamento di Harmonia, che da un lato vedeva anche giustificato dato il dolore che aveva provato, motivo per cui questa volta si impose di rimanere in silenzio:

«Non mi chiamo Emily Jane Pitchiner, non abbandono la mia gente quando la necessità di proteggerla dovrebbe essere la mia priorità: tu, Dentolina, non l’hai vista mentre ordinava alle radici dell’Albero di Olduvai di distruggere qualsiasi cosa gli capitasse a tiro pur di non consegnare il suo regno nelle spire di Apophis, non c’eri a sentire le urla strazianti degli abitanti di Tandokka implorare l’aiuto della loro sovrana mentre i viticci color smeraldo soffocavano donne e uomini, anziani e bambini, non hai nemmeno assistito alla strenua lotta delle sorelle Temporibus contro le fiamme che hanno liquefatto i loro corpi perché credevano nella persona sbagliata… non c’eri, nessuno di voi c’era» disse con aria di rimprovero puntando l’indice al petto della fatina dei denti che tremava visibilmente «Per questo, e per mille altri motivi, non intendo allearmi con nessuno, tantomeno i Guardiani, non senza delle… garanzie.» buttò lì con uno sguardo vagamente malizioso.

Garanzie?

Cosa intendeva esattamente per… garanzie?

 

Forse Jack Frost non capiva bene cosa volesse dire Harmonia, ma gli altri avevano dato segno di aver inteso tutto perfettamente:

«Garanzie? Delle garanzie? Parli come se si trattasse di un contratto, di una situazione in cui “Io ti do questo e tu mi dai quello”, non puoi pretendere di dare un prezzo e dei termini ad una cosa di tale portata! Sarebbe una cos-­»

«Molto conveniente da entrambe le parti, direi» aggiunse la Regina sorridendo «Questa volta intendo premunirmi prima di accettare una spinosa situazione come un’alleanza, soprattutto perché non intendo permettere che qualcuno al quale io offra la mia mano si prenda il braccio, la zampa e magari pretenda pure il culo: per questo la metto sul commerciale, non è nulla di personale ma non intendo essere con le spalle scoperte, tutto qui.» spiegò molto calma quasi fossero sul punto di firmare un contratto vero e proprio.

E allora a Jack erano cascate le braccia.

Harmonia, la stessa che poco prima gli aveva fatto discorsi di vita talmente profondi che era arrivato ad ammirarla come non ammirava nessuno da tutta una vita, ora pretendeva pure delle garanzie, dei sorta di pagamenti di qualche tipo per offrire il proprio aiuto ai Guardiani o a chiunque ne avesse più bisogno, lo stava facendo veramente?

Non ci aveva visto più, era andato su tutte le furie:

«Parli come se la vita degli altri valesse meno del tuo aiuto! Oh mi scusi, grande e ammirata Regina, ma pensavo che avessi più a cuore la salute degli altri, non solo la tua!» le urlò contro dimenandosi furioso «E voi magari le date pure ragione! Ma cosa siete, dei Guardiani o degli affaristi? Non vi ho chiesto un contratto prima di aiutarvi con Pitch Black, e invece arriva lei e ci state pure pensando sopra!» tuonò sicuro di sé; inaspettatamente, la sua reazione del tutto esagerata aveva mosso dei dubbi anche nelle menti degli altri Guardiani:

«In effetti Jack avere ragione… ah! Non pensavo di dire cosa simile! Ma ragazzo è sveglio, vita non avere prezzo!»

«Non ha tutti i torti in effetti, mi pentirò subito dopo di averlo detto ma ahimè, Jack Frost ha detto la prima cosa giusta da quando lo conosciamo, potrebbe anche mettersi a piovere a Pasqua se continua a sorprenderci in questo modo!» rise scuotendo la testa Calmoniglio.

Quell’atmosfera da Guardiani ribelli non piaceva ad Harmonia, soprattutto perché non avevano la minima idea di ciò che stavano dicendo, ma d’altronde non poteva mettere loro un coltello alla gola ed obbligarli ad accettare che le venissero date delle sicurezze in cambio del suo aiuto:

«Molto bene, vedo che siete tutti d’accordo e non vedo il motivo per cui continuare ad insistere» asserì alzando una mano davanti a sé ed aprendo un portale identico a quello che li aveva fatti arrivare a Phantasia «Quella è la porta, andatevene.»

«A-andarcene?» ripetè Dentolina con gli occhi sgranati «Cosa f-facciamo se Halley ci attacca? E se arrivasse Tanith? Cosa s-succederebbe se Phobos riuscis-»

«Non sono più affari che mi riguardano: volete fare a modo vostro? Fate pure, ma non venite a piangere da me. Ed ora andatevene, non lo ripeterò ancora.»

«Sei crudele!­» intervenne Frost agitando il bastone nemmeno fosse in preda agli spasmi della rabbia «Sei come Phobos! Esattamente come lui! Sei un most-»

«Andatevene!» furono le parole della Regina prima che, con un movimento talmente veloce quanto invisibile, Antares avvolgesse i Guardiani in una spessa ragnatela e li rispedisse nel portale che si era chiuso subito dopo.

 

Senza i Guardiani del Moralismo intorno a romperle l’anima, Harmonia poté finalmente rilassarsi:

«Non hanno idea di cosa vogliono affrontare, sono così stolti! Idioti! Delle emerite teste di cazzo!» si lamentò con la donna mezza ragno che la osservava compiaciuta «Credono che io sia qui a giocare, a far nascere fiorellini su campi interminabili, ce ne rendiamo conto?­» le domandò, e l’altra la guardò con aria compiaciuta «Sono Guardiani, questo spiega tutto» osservò ridacchiando «Per loro la guerra non esiste, sulla Terra al massimo devono occuparsi di Pitch Black lanciandogli briciole di pane alla cenere, non di avere una voragine scavata con la magia che è stata appena violata, ma dobbiamo capirli.»

Capirli, quante volte aveva dovuto capirli, quante volte lei capiva tutti e nessuno capiva lei!

Harmonia si limitò a sospirare stancamente volgendo lo sguardo verso un punto non meglio definito dell’orizzonte, gesto che venne imitato dall’altra donna, lasciando che il vento trasportasse le sue profetiche parole mentre lei ed Antares tornavano dentro il castello:

«Non hanno ancora idea di cosa li attenda là fuori».

Ed aveva ragione.

Come sempre.

 

 
 

_________________________________________________________________________

 

Angolino dell’autrice

 

Eccomi qui con un capitolo fresco di avvenimenti molto GNE e ragnatele che spaventerebbero chiunque, chiunque tranne Jack Frost! :D

Ammetto che non credevo venisse fuori un capitolo così lungo, ma nel complesso lo adoro tantissimo e spero che comunque non lo troviate troppo pesante!

Non c’è molto da dire tranne due cose: la prima è che si stanno scoprendo carte fino a dora rimaste coperte nell’ombra, in una sorta di partita che si gioca sia fra i Guardiani sia fra Manny e donne alate che lo sconfiggono male a scacchi, la seconda è che MYSONANTIS TANITH MA COSA.

Tanith.

Eh già.

Capitemi, ADORO MALE QUELL’EPEHEMERIDE, ma tantissimo! <3

Ed adoro ancora di più _Dracarys_ che mi ha dato il permesso di usarla per apparizioni a random portatrici di notizie nella mia fan fiction, alla quale vanne i miei ringraziamenti più GNE, sperando di essere riuscita a restare nel suo carattere abituale da Ephemeride tanto gentile: Tanith non sarà la nostra coppia di ammmore platonico preferita, ma è GNE comunque <3

Detto questo, vi lascio on quello che dovrebbe essere l’aspetto di Antares, il ragno preferito (alla faccia!) di Jack Frost :3

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Capitolo 6
*** BOOM! Friendzoned! ***


capitolo6

Le si era avvicinato in modo impercettibile, attento a non fare rumore mentre si spostava sulle eteree nubi dell’Arco dell’Infinito:

«Quando sono venuta al mondo tutto pensavo tranne che avrei visto nascere una stella, e invece eccomi qui, insieme a te…» disse una flebile voce femminile «Io e te, solo noi due, ad osservare il luogo dove nasce il futuro del cosmo, dove le leggi vengono sovrastate dall’impellente necessità dell’Universo di avere nuovi puntini luminosi ad illuminare le notti buie… è così affascinante…»

«Mai quanto te, Sheretan» puntualizzò un’altra voce, questa volta maschile «Nessuno spettacolo di questo Universo può essere paragonato al vederti al mio fianco, la luce di ogni singola stella non può competere con i tuoi occhi, ormai lo sai.»

La risatina che venne dopo fu seguita subito da quattro grandi ali nere costellate di occhi che si chiudevano intorno al corpo della donna come a proteggerla, un morbido abbraccio nel lei si era dolcemente lasciata cullare:

«Vorrei che tutto questo durasse per sempre… lo vorrei tanto…» sussurrò appena quasi spaventata dalle sue stesse parole, e capendo le sue sensazioni l’altro le piantò gli occhi viola stellati dentro i suoi, di un insolito color ambra «Può durare per sempre, devi solo volerlo» la rassicurò avvicinando la propria fronte alla sua «Basta una tua sola parola e diverrai la mia Regina, potremo stare insieme fino alla fine del tempo e oltre» continuò entusiasta per poi guidare il suo sguardo con una mano che si muoveva indicando varie regioni del cosmo «Ti mostrerò la nascita di un Universo e la sua morte, ti porterò a cavalcare le scie delle comete prima che si spengano nell’anonimato dello spazio, vedrai luoghi dove il tempo e lo spazio non esistono, dove le leggi che governano le vite dei mortali non sono altro che il delirio di un folle, e lei» disse facendo per accarezzarle delicatamente il ventre «La crescerò come se fosse mia, se lo vorrai: sarà mia figlia, sarà nostr-»

«Non toccarla!» tuonò dandogli uno schiaffo sulla mano che venne subito ritirata.

Si staccò subito da quell’abbraccio facendosi strada fra una piuma e l’altra, divincolandosi per trovare una via d’uscita da quella gabbia di amore che sapeva di non poter ricambiare, per scappare da una relazione della quale sapeva già la fine:

«Stai lontano da lei! Non avvicinarti! Io non…» disse distrattamente nascondendo le lacrime e gli occhi gonfi di dolore e rabbia e sensi di colpa per ciò alla quale stava condannando se stessa e sua figlia, la sua unica figlia «Non posso.» concluse dissolvendosi nell’etere dello spazio.

 

Un stilettata di dolore dritta nel cervello la fece bloccare nel bel mezzo del volo, c’era mancato davvero poco che si schiantasse contro una parete di roccia che, occupata a tenersi la testa per quanto le pulsasse, quasi non aveva nemmeno notato.

Sentiva voci.

Vedeva cose.

Provava emozioni che non erano sue.

Cosa le stava succedendo?

Si era quasi convinta che fosse finita, dopo che le immagini che le riempivano il campo visivo erano passate dall’essere molto nitide a frammenti di vita offuscati e confusi, ma un nuovo brivido gelido le percorse il corpo fino a quando non finì per piegarsi su se stessa.

E allora le visioni erano ricominciate.

Purtroppo.

 

Questa volta la donna dagli occhi color ambra stava correndo come mai in vita sua, fra le mani un fagotto avvolto con estrema cura in una coperta azzurrina che doveva proteggerla da tutto il male del mondo, da tutte le difficoltà, dal futuro che le spettava:

«Veggente! Veggente! Ti prego! Aprimi! Ti scongiuro… aprimi!» urlò a squarciagola ansimando mentre sentiva la gola bruciarle per lo sforzo e le lacrime rigarle il volto «Ti prego! Apri le porte della Torre! Non lasciarmi… non lasciarci… qui fuori… ti prego! Te lo chiedo per favor-» stava dicendo quando sentì le gambe cederle sotto il peso della stanchezza e delle responsabilità, ma fortunatamente nel suo crollo verso terra riuscì a mettere in salvo il fagotto che si portava appresso stringendoselo al petto, fagotto dal quale iniziò a venire fuori un pianto a dirotto di disperazione più pura «Per favore piccola, non piangere… andrà tutto bene, c’è la mamma qui con te… non ti abbandonerò, non lo farò mai.»

Quante bugie in una sola frase: certo che l’avrebbe abbandonata, non avrebbe mai potuto tenerla con sé, non se voleva che sopravvivesse, che non ripetesse gli errori della madre.

Loro stavano arrivando, ormai erano vicini: nella Torre non sarebbero entrati, ma erano lì per lei, per prendersi ciò che volevano.

E lo avrebbero avuto, anche se questo avesse comportato l’uccisione di una neonata colpevole di essere la figlia della donna sbagliata.

L’unica speranza che le era rimasta era lì, asserragliata nella Torre di Babilonia ed insensibile ad ogni richiesta d’aiuto che fosse una, ma poteva capirlo: gli aveva spezzato l’anima con le sue parole, aveva dubitato dell’unica creatura che l’avesse mai amata, l’aveva trattato come un mostro quando si era offerto di prendere con sé lei e la sua bambina crescendola come se fosse stato lui il padre, lui che di figli non ne avrebbe mai potuti avere per colpa delle assurde leggi del creato che volevano mantenere tanta potenza nel corpo di un solo essere martoriato dalla solitudine.

Lo aveva supplicato fino a quando non le era mancata la voce e, quando aveva capito che era del tutto inutile, era riuscita a trascinarsi fino al portone di ingresso con il fagotto in mano con la consapevolezza che il Veggente la stava guardando:

«Mi avevi detto… che l’avresti presa come tua… nostra figlia…» disse con un filo di voce mentre sentiva il respiro farsi affannoso

«… Proteggila... da se stessa…» posò lo sguardo sulla bambina che le stava vicino, sugli occhi azzurri che le ricordavano il cielo che la sovrastava, le stelle che avrebbero assistito alla sua fine, l’ultima cosa che i suoi riuscirono a vedere prima di offuscarsi per l’ultima volta «… Phoenix.» pronunciò sorridendo quando vide le ali nere abbassarsi ed afferrarla delicatamente.

Poi si arrese.

Lasciò che l’ombra la divorasse, che l’oscurità prendesse possesso di ogni singola fibra del suo corpo senza opporre resistenza, che si facesse strada fino a quando tutto ciò che vedeva era un mondo in rosso sangue e nero.

Sarebbe stata al sicuro, sua figlia.

 

Il colpo successivo era stato quello peggiore, lo stesso che l’aveva portata a rasentare lo stato d’incoscienza per quanto il ruggito di dolore era stato aggressivo e tremendamente palpabile, e lei era lì a subirlo senza poter fare qualcosa.

Abbassò lo sguardo verso terra: non ci sarebbe mai arrivata, a toccare il terreno, sarebbe morta lì, sulle alture di Osterhagen, nel più completo anonimato.

Se lo sentiva.

E invece no, perché aveva avuto tutto il tempo per avere un’altra visione.

 

L’Universo avrebbe pagato.

Tutti avrebbero dovuto pagare.

Tutti, tranne lei.

Guardò il fagotto che aveva fra le mani con fare perplesso: poteva lasciarla morire, con Sheretan non si era fatto grossi problemi, poteva ucciderla e nessuno lo sarebbe venuto a sapere.

“È morta insieme a sua madre quando l’ha messa al mondo” avrebbe detto, non ci sarebbero state domande, nemmeno da chi Sheretan la conosceva bene, nessuno avrebbe osato controbattere alle parole dell’essere più potente che il Multiverso avesse mai visto, talmente potente che nascondere il proprio nome dietro quello di “Veggente” era quasi una necessità.

C’era qualcosa in quella neonata che gli ricordava sua madre, la stessa cosa che lo spingeva a non volerla seppellire come era successo come aveva appena fatto con l’amore della sua eterna esistenza: gli occhi azzurro intenso, forse, con quella screziatura color ambra appena visibile, o magari il fatto che sembrava aggrapparsi alla vita con tutte le forze che quel gracile corpicino appena venuto al mondo le offriva.

Sheretan non aveva avuto il tempo di controllare sua figlia e le sue condizioni, d’altronde si era precipitata alla Torre di Babilonia in fretta e furia senza mai voltare lo sguardo, ma se lo avesse fatto avrebbe sicuramente notato che a sua figlia restava talmente poco tempo da vivere che ormai sarebbe stato inutile qualsiasi tentativo di affezionarsi a quel batuffolo indifeso: troppo debole per restare al mondo, per resistere al male di un creato incredibilmente crudele con gli oppressi e gli innocenti, il respiro appena accennato di chi non ha mai avuto la forza di reagire in qualsiasi modo all’ombra che aveva già iniziato a consumarla dall’interno, dove si annidava ed attendeva solo di uscire con prepotenza.

Esattamente come aveva fatto con Sheretan.

Il gioco non sarebbe valso la candela, lo sapeva bene.

Lo sapeva, ma non gli importava.

Quando le catene dorate avevano iniziato a farsi strada fra una piuma e l’altra, fra un centimetro di quel corpo che era solo una delle sue tante forme e l’altro, il dolore era stato accecante: non si evitava a qualcuno di morire per niente, non si cambiava il destino di una persona e di tutto l’Universo gratuitamente, un prezzo da pagare c’era sempre.

Ma lo avrebbe pagato volentieri.

Quando l’occhio luminescente aveva iniziato a sanguinare un viscoso liquido nero come le profondità del cosmo aveva abbandonato la lotta: si era lasciato trascinare senza fiatare dal dolore dilaniante com’era abituato a fare, una sensazione pulsante che però prima o poi avrebbe avuto fine, ed allora sarebbe tornato a vivere come sempre in un silenzio disarmante, lo stesso silenzio nel quale aveva vissuto fino a quando non aveva conosciuto Sheretan.

Quando tutto finì com’era iniziato, a stento riusciva a tenere aperti gli occhi, steso a terra stremato e coperto di ferite sanguinanti che sarebbero svanite da lì a poco, il petto che si alzava e si abbassava in modo del tutto scombinato, nonostante la mancanza dei polmoni e di qualsiasi altro organo, a rendere ancora più evidente la tortura auto inflitta appena subita.

Sentì appena il pianto di una neonata, ma non di una neonata qualunque: di Phoenix, della figlia di Sheratan, della sua adorata Sheretan.

Sarebbe andato avanti per lei.

Per lei e per sua figlia.

Glielo doveva.

 

 

Visioni.

Visioni ovunque.

Che la tormentavano da poco più di una settimana.

Appoggiata ad una roccia sporgente, Halley si era dovuta assolutamente fermare durante il suo volo a zonzo per Orionis III perché quelle visioni, quelle fottutissime e maledettissime visioni, avevano ricominciato a tormentarla dopo qualche ora di tregua: erano qualcosa di terribilmente insistente e doloroso, quelle immagini fin troppo nitide che le scorrevano davanti agli occhi mostrandole cose, una sorta di tortura costante che non lasciava segni fisici, quello no, ma le conseguenze mentali erano spaventosamente evidenti se riuscivano a farla crollare costringendola a fermarsi durante quei flash di spezzoni di vita.

Avrebbe dovuto immaginare che il Veggente non le avrebbe perdonato così facilmente l’avergli preso l’acqua della Sorgente del Cosmo, ma avrebbe decisamente preferito che fosse venuto lui di persona riprendersela se il prezzo da pagare era vedere il suo passato, il passato di un essere che viveva da miliardi e miliardi di anni girovagando da un Universo all’altro, da una dimensione all’altra, una conoscenza millenaria che restava confinata nella mente distorta del sovrano di tutto ciò che era esistito, esisteva e sarebbe ancora dovuto esistere.

Ed ora quella conoscenza era dentro la testa di Comet E. Halley, e non poteva fare proprio nulla per togliersela di dosso.

Passati i primi momenti di confusione e scompiglio generale che quelle cose che vedeva le provocavano, rimase qualche istante a riflettere su ciò che aveva visto: mai nella sua vita avrebbe pensato che persino un essere come lui potesse aver amato qualcuno ed essere ferito da un sentimento che, a conti fatti, senza un cuore ed un cervello proprio non avrebbe potuto provare, ma a quanto aveva visto era successo eccome.

Gettò distrattamente lo sguardo verso l’imponente castello che dominava l’orizzonte, notando due figure che si avviavano verso di esso: a quanto pareva Iddhy Bubu, tenero nome affibbiato ad Idhunn Orionis Chandrasekhar da Halley stessa in seguito a vicende piuttosto divertenti accadute in passato, aveva compagnia quel giorno, ma non si trattava delle solite compagnie composte principalmente dai suoi famigliari o amanti che fossero.

Ruolo che poi coincideva anche, non per niente erano conosciuti nell’intera Galassia come i “cavalcadraghi incestuosi”.

Tipico di Idhunn, passeggiare mostrando al mondo le immense ali di un azzurro ed un rosa iridescente mentre i capelli biondo platino si muovevano al vento donandole l’aspetto, a chi non la conoscesse, di un angelo sceso direttamente dalla volta celeste, un angelo le cui manie di protagonismo ed il suo egocentrismo facevano a gara solo con la sua crudeltà.

Come era tipico della Chandrasekhar che era, si portava appresso il suo amato drago che quale lasciava grosse tracce di polvere di stelle sul terreno come se non ci fosse un domani: non c’erano dubbi sul fatto che avrebbe volentieri fatto una visitina di cortesia alla sovrana di Orionis III, ma aveva deciso di desistere quando aveva notato che le figure che l’accompagnava non erano, come solito, il fratello o il padre.

Al loro posto c’erano due donne che non ricordava di aver visto prima, o almeno quella era stata l’impressione che aveva avuto vedendole da lontano, ed il fatto che una di loro camminasse a braccetto con Idhunn non la rassicurava affatto: non tanto per il fatto in sé, non era una novità che Idhunn stessa facesse la Chandrasekhar modello intrattenendosi con donne, uomini e creature varie senza farsi domande, più che altro era la sensazione che se si fosse avvicinata le visoni sarebbero state l’ultimo dei suoi problemi.

Soprattutto perché il primo dei suoi problemi le era appena spuntato dietro le spalle.

 

Non era proprio cambiato da come lo ricordava lei, almeno in quella forma: sfiorando i due metri e dieci di altezza, quel corpo gracile sembrava non poter nemmeno minimamente reggere il peso delle sei braccia che si ritrovava, ornate da una serie non meglio definita di bracciali dorati intonati alla pesante collana che scendeva fino alle spalle ed ai sottili filamenti dello stesso colore dai quali drappeggiava il velo bianco-giallastro lasciato dietro di sé come un morbido strascico che copriva a stento ciò che avrebbe dovuto coprire, il ventre squarciato da quell’enorme bocca irta di denti e lingue nere che fuoriuscivano gocciolando un liquido viscoso dello stesso colore, nero come le sei immense ali costellate di occhi gialli e azzurri, gli stessi che spuntavano qua e là sulla pelle rosea di una tonalità vagamente scura segnata da strani disegni e scritte di una lingua che probabilmente apparteneva ad un altro Universo.

Ma del Veggente, Halley lo sapeva, c’era solo una cosa che contava: l’occhio.

L’occhio sulla fronte.

Il grosso occhio azzurro luminescente i cui filamenti sia avvinghiavano nell’etere e sui capelli di un biondo tendente al bianco come se fossero tentacoli, incorniciando alla perfezione gli altri occhi, quelli di una qualsiasi persona, dalla sclera nera e l’iride violetta che si fondeva con la pupilla dello stesso colore, giusto un po’ più scura.

Si girò di scatto a braccio teso mentre il fuoco color magenta le avvolgeva la mano pronto a scagliarsi su tutto ciò che avrebbero potuto consumare instancabilmente, fece leva su tutta la forza che le era rimasta in corpo dopo quelle dannatissime visioni e niente, aveva colpito completamente alla cieca, con gli occhi ancora offuscati dagli istanti di vita altrui appena ai quali aveva appena assistito.

O almeno ci aveva provato, ed era già qualcosa.

Sentì una fitta alla schiena che fece svanire l’altofuoco sul punto di nascere nell’altra mano, una sensazione di calore che metteva in soggezione persino lei, che nel fuoco delle stelle  ci camminava con tutta la nonchalance dell’Universo, sensazione che era andata intensificandosi fino a quando non aveva raggiunto un punto critico dal quale non sarebbe potuta tornare:

«Non avresti dovuto fare molte cose, Comet E. Halley, davvero molte» la rimproverò con aria severa «Venire al mondo, per esempio… sei stata così inaspettata, così… imprevista… ed io non sopporto gli imprevisti» si lamentò fingendosi afflitto «Dovresti averlo imparato, ormai: le comete bruciano, si consumano e, prima o poi…» continuò facendo apparire una flebile fiammella su un mucchio di foglie che teneva fra le dita «Si spengono, smettono di bruciare… per sempre.» concluse mentre le fiamme si estinguevano, lasciando come loro ricordo solo una manciata di cenere grigiastra.

In quel momento, Comet E. Halley sperava solo di non fare la stessa fine.

 

 

Nonostante fosse passata poco più di una settimana, l’affronto subito continuava a bruciare nel petto di Jack Frost come un incendio che non voleva essere domato: come poteva Harmonia, dall’alto della sua fama di sovrana giusta e pronta a capire ed aiutare coloro che ne avevano più bisogno, dare un valore alla protezione di chissà quante vite tramite un’alleanza con i Guardiani?

Dove aveva trovato il coraggio di chiedere quelle fantomatiche “garanzie” in cambio del proprio supporto, dove?

La priorità di ogni sovrano, almeno secondo lui, avrebbe dovuto essere quella di proteggere la propria gente e chiunque avesse chiesto il suo aiuto per fronteggiare minacce molto più grandi di un povero disgraziato che si rintana sotto i letti dei bambini a sniffare cenere, ma a quanto sembrava la visione di Harmonia era totalmente diversa: lei metteva sì in primo piano la protezione di qualcuno, ma quel qualcuno era lei, nessun altro.

Forse anche Alice e Scarlet e Antares, ma solo perché loro le leccavano il grosso culo da cavallo in modo talmente spudorato da far crogiolare la Regina nella certezza che potesse avere ai propri piedi, o meglio zoccoli, chiunque le si presentasse davanti: non importava che si trattasse di un Guardiano o di un ragno mezzo umano, non importava nemmeno se quel “chiunque” fosse estremamente gentile oppure se piombasse nelle abitazioni altrui sfondando le pareti, Harmonia sapeva di poter ottenere tutto ciò che voleva da chiunque.

E invece no, no!

Lui, Jack Frost, non si sarebbe mai inchinato dinanzi a lei, non avrebbe mai abbassato il capo mettendo da parte il proprio orgoglio non da Guardiano, ma da persona con una propria coscienza e con una chiara consapevolezza delle proprie azioni, buone o meno che fossero, e delle conseguenze di esse.

Compreso cosa sarebbe accaduto accettando quelle “garanzie”, che lui preferiva definire “ricatto vero e proprio”: Harmonia li avrebbe potuti manipolare a suo piacimento con la scusa che sarebbero stati alleati, magari minacciando di togliere loro il suo stesso appoggio, e allora non sarebbero più stati i Guardiani di Manny, ma più i Guardiani di un accordo che sembrava essere favorevole solo da un lato.

Harmonia li avrebbe aiutati, e dopo?

E dopo niente, perché a lei serviva solo e solamente quello, poi avrebbe benissimo potuto mandarli a quel paese tutti senza troppe riserve: aveva un pianeta, il titolo di Regina della Fantasia ed anche di Phantasia, era unica custode del pianeta Exodus, aveva a corte dei fottuti ragni che deponevano uova negli stomaci altrui e, da quello che aveva capito, diversi generali pronti ad obbedirle ciecamente.

Non le serviva l’aiuto dei Guardiani, ed a loro non serviva il suo: con Pitch Black erano riusciti a cavarsela da soli, e con Phobos o qualche suo eventuale alleato avrebbero fatto lo stesso, dimostrando una volta per tutte alla Regina che erano stati scelti da Manny, il Guardiano dei Guardiani, per un puro e semplice scopo, e cioè proteggere i bambini.

Non lei, non Phantasia, solo i bambini.

Punto.

 

Assorto nei propri pensieri di complotti e congiure contro la sua persona e seduto sul bordo di un piccolo stagno, Jack non aveva fatto caso a Dentolina che era svolazzata al suo fianco in quella landa di neve bianca immacolata e si era seduta al suo fianco nonostante le piume arruffate:

«Non è cattiva, davvero, è solo... ferita, tutto qui» sussurrò appena probabilmente intuendo il motivo per cui il compagno se ne fosse andato nel bel mezzo della discussione con gli altri Guardiani svanendo nella tormenta che imperversava fuori dalla base di Nord; strinse le braccia intorno alle gambe in una posizione accovacciata che le faceva sentire meno il gelo:

«Phobos le ha spezzato il cuore tanti, tanti secoli fa... non si è mai ripresa del tutto, fa fatica a fidarsi di chiunque da quando lo ha perso… soprattutto di noi.» spiegò malinconica nel silenzio più totale mentre il vento le scivolava addosso facendole arrivare il freddo fino alle ossa.

Ci mancava solo un’altra che cercava di convincerlo che Harmonia fosse la vittima, giusto quello!

Era dal primo istante in cui Harmonia li aveva rispediti a casa con la forza che i Guardiani cercavano di farlo ragionare su quanto fosse stato brusco ed inappropriato il suo comportamento nei confronti della Regina, soprattutto dopo che lei stessa gli aveva cortesemente offerto di abbandonare la nave e tornare a fare ciò che faceva di solito senza doversi preoccupare delle eventuali responsabilità di un conflitto, ma erano tutti sforzi talmente inutili che combattere contro i mulini a vento sarebbe stato più semplice.

Qualunque fosse la sua posizione, però, Frost aveva anche subito messo in chiaro una cosa: lui non avrebbe mai appoggiato il ricatto di Harmonia, da quell’idea non si sarebbe mai mosso, ma gli altri erano liberissimi di fare la scelta che secondo loro sarebbe stata migliore; allora si sarebbe tirato da parte lavandosene le mani e tornando a giocare con le palle di neve insieme a Jamie e i suoi amici, ma che poi non venissero a chiedere il suo aiuto di nuovo eh!

Per quanto fosse occupato a lagnarsi nella sua testa del fatto che i Guardiani sembravano tutti intenzionati a ripensarci ed accettare la proposta di Harmonia, in quel momento Jack cercò di non farci caso e si concentrò più che altro sul dare un minimo di calore alla povera Dentolina tremante mettendole sulle spalle piumate la propria sciarpa logora; la fatina dei Denti arrossì a quel gesto, ma si strinse anche al petto quel semplice quanto consumato pezzo di stoffa che, almeno per lei, aveva un significato tutto particolare:

«Grazie mille» sussurrò appena mentre le sue ali fremevano, non si sapeva se più per il freddo o per l’improvviso ritorno all’umanità di Jack Frost, il quale però sembrava ancora distaccato dal resto del mondo «Se hai bisogno di parlare sono qui per farlo, non mi hanno mandato gli altri, non pensarlo nemmeno.» lo rassicurò intuendo i dubbi che gli annebbiavano la mente facendo per poggiargli una mano sulla spalla, gesto che venne subito evitato dal giovane Guardiano con uno scatto felino nemmeno gli stessero puntando un coltello alla gola.

Vedendo gli occhi spaventati ed incredibilmente delusi di Dentolina, si pentì subito dopo di aver rifiutato l’ennesima offerta di aiuto che gli avrebbe fatto molto comodo, ma negli ultimi giorni di isolamento lui ed i sensi di colpa per le azioni fin troppo stupide che continuava a fare senza pensarci nemmeno un secondo sopra avevano fatto conoscenza, quasi ci si era pure affezionato a quelle spiacevoli sensazioni di inutilità sociale: d’altronde Calmoniglio glielo aveva sbattuto in faccia, che nessuno credeva che lui potesse veramente essere un Guardiano, ed a nulla erano valsi i tentativi di Nord di farli riappacificare nei giorni seguenti il litigio.

E forse era proprio per quelle insicurezze che la fiducia che gli stava dimostrando Dentolina gli aveva improvvisamente scaldato il cuore come la cioccolata calda che avrebbe tanto voluto offrirle pur di smetterla di vederla tremare con un passerotto appollaiato su un ramo, ma dentro di sé era frenato dall’esprimere qualcosa che non fosse semplice e sterile riconoscenza:

«Ti ringrazio per l’offerta, ma vorrei solo stare un po’ da solo: ho bisogno di riflettere, tutto qui, e vorrei farlo in solitudine… nulla di personale, Dentolina, apprezzo l’interessamento… davvero.» asserì sforzandosi di abbozzare un sorriso guardando un punto indefinito nello stagno ghiacciato coperto da un sottile strato di soffice e candida neve che cadeva silenziosa.

Lei non rispose, limitandosi a fissarlo mentre si chiedeva dove stesse sbagliando nell’approcciarsi con Jack: non era sua intenzione farlo chiudere a riccio più di quanto già non fosse da una settimana a quella parte, ma nonostante tutto non aveva affatto intenzione di arrendersi facilmente, tanto che finì per stringersi al giovane Guardiano condividendo la sciarpa che lui le aveva dato come gesto per dirgli “Non sei da solo, non lo sei mai stato: nessuno ha intenzione di abbandonarti, ma nei momenti di rabbia si dicono e si fanno cose delle quali ci si pente subito dopo”, o almeno sperava che quel messaggio arrivasse anche a lui usando quell’insignificante brandello di lana sgualcita come collegamento fra le loro menti, fra i loro cuori.

Non avrebbe avuto un’altra possibilità, doveva approfittare adesso di quella vicinanza.

Del respiro calmo di Jack che aveva lasciato che la sua testa si cullasse nell’incavo della sua spalla, dell’averlo così vicino col corpo eppure così lontano con la mente, del poter finalmente avere un momento per sé e per l’altro: senza Guardiani intorno, senza le incombenze del suo lavoro, del loro lavoro, niente di niente se non la neve che aveva iniziato a cadere quando Frost, estremamente deluso dalle reazioni dei compagni, aveva scatenato la furia dell’Inverno.

Ma non aveva paura della tormenta che stava assalendo tutto ciò di visibile nel terreno circostante, ricoprendo con un manto bianco tutti i mali e le preoccupazioni del mondo, non avrebbe mai potuto averne: quello era Jack Frost, il Guardiano del Divertimento, uno dei suoi migliori amici e, almeno per lei, qualcosa di più.

Qualcosa di più che si era presto trasformato nelle piccole mani della fatina dei Denti che afferravano con delicatezza il volto dell’altro Guardiano per portare i loro sguardi alla stessa altezza, per scrutare dentro quegli occhi azzurro ghiaccio alla ricerca di un segno di approvazione che le dicesse “Sì, anche io lo desideravo da tanto tempo”, ma anche quando non lo vide non si fermò di certo, anzi gli si avvicinò ulteriormente fino a quando non mancarono pochi centimetri fra le labbra di una e dell’altro.

Lui, con lo sguardo perso e disinteressato che non riusciva proprio a togliersi di dosso, non aveva opposto nessun tipo di resistenza, questa volta non si era tirato indietro, l’aveva lasciata fare abbandonandosi ai rumori dell’ambiente circostante resi ovattati dalla neve che pareva insonorizzare qualsiasi melodia creata dalla natura: un orecchio poco attento non avrebbe distinto alcun suono in quel caos innevato, ma Jack Frost riusciva ormai a distinguere di tutto, dal frusciare delle foglie alla carezza del vento, dagli squittii dei piccoli abitanti del bosco lì vicino fino al tuonante scalpitare di zoccoli e nitriti selvaggi che sembravano provenire direttamente dall’Inferno.

Ecco.

Staccatosi da Dentolina con uno scatto che l’aveva lasciata con un pugno di mosche in mano, aveva appena avuto il tempo per scrutare l’orizzonte prima di sentire lo stomaco stringersi ed il cuore salirgli in gola, la stessa dalla quale era arrivata una sola parola:

«Incubi».

Poi tutto era stato offuscato da una coltre bianca.

 

 

Si guardò intorno confuso: non c’era una via di scampo che fosse una.

Nemmeno una.

La scena che si trovava davanti non dava speranze di fuga, e intanto uccideva quelle che già avevano lui e la povera Dentolina fino a qualche istante prima: almeno una trentina o più di Incubi di polvere nera li osservavano minacciosi muovendosi sul posto impazienti, gli occhi come fiamme dorate che rischiaravano il manto dello stesso colore della più oscura delle notti puntati addosso, gli affilati denti visibili fra le fauci parzialmente aperte dai quali si intravedeva la saliva mostrando quanto fossero affamati della loro paura, una visione resa ancora più spaventosa dai grotteschi nitriti di quelle bestie che sovrastavano gli ululati del vento di tempesta, soprattutto il ruggito del grosso capobranco che sembrava avvicinarsi a loro.

Ancora parzialmente nascosto dalla nebbia, tutto ciò che Jack Frost riusciva a distinguere mentre proteggeva Dentolina dietro le proprie spalle era la sagoma di un Incubo che avanzava lentamente ma inesorabilmente verso di loro vicino, una creatura mostruosa il cui tocco degli zoccoli sulla neve scavava profondi solchi nel terreno scoprendo la nuda terra sottostante e i cui nitriti creavano una sottile nebbiolina quando venivano a contatto con l’aria gelida.

Jack analizzò velocemente le opzioni disponibili, rendendosi conto che non c’era proprio nulla da fare: la neve che ricopriva tutto l’ambiente, mista al polverone sollevato dagli Incubi, rendeva quasi del tutto irriconoscibile qualsiasi cosa li circondasse ed assolutamente impossibile orientarsi, motivo per cui capì di essere praticamente in trappola, brutalmente tradito dal suo stesso elemento.

La sua analisi delle possibilità di fuga terminò presto, giusto quando lo stallone gli fu ad appena qualche metro di distanza rivelando una presenza non proprio gradita, ma che aveva sospettato fosse dietro tutto fin dal primo istante in cui aveva visto gli Incubi intorno a lui e Dentolina: con una vaga aria di superiorità, Pitch Black se ne stava sul dorso del capobranco tenendone le redini in una mano e la falce nera nell’altra con lo stesso atteggiamento di un generale pronto a scendere in battaglia, il solito abbigliamento completamente nero sostituito da un’insolita tunica sì nera, ma con i bordi delle maniche larghi e intarsiati di curiosi motivi dorati, come erano dorati anche il collo alto della tunica e la cintura metallica intorno alla vita.

Ecco, ora Pitch Black poteva seriamente fare paura, soprattutto perché sembrava incredibilmente sicuro di sé stesso, e la scintilla dorata che Jack aveva intravisto nei suoi occhi dietro quel sorriso malizioso di vittoria ne era stata la conferma: sapeva che li stava spaventando, che i suoi Incubi si stavano nutrendo del loro più puro terrore, lo sapeva benissimo e se ne stava approfittando, giusto perché veder tremare due Guardiani era uno spettacolo senza prezzo.

Guardandolo meglio, Jack non poté fare a meno di riflettere sul fatto che Pitch si fosse rimesso in piedi decisamente meglio del previsto dall’umiliante sconfitta subita non molto tempo prima, e non era un buon segno: quell’uomo, l’uomo che aveva davanti, era lo stesso che aveva visto mentre veniva trascinato nel suo buco di tana dagli Incubi, gli stessi Incubi che ora li avevano circondati dietro il preciso ordine del loro padrone, di Pitch Black.

Da parte sua Pitch non aveva proferito parola, si era semplicemente limitato ad osservarli divertito mentre la sua ombra riempiva ogni singolo angolo di quello spiazzo incontaminato facendo sparire la poca luce che la tempesta lasciava intravedere, mentre la sua oscurità divorava quel briciolo di speranza rimasto nei cuori dei Guardiani che si stringevano l’uno all’altra: Dentolina era quella più spaventata dei due, poteva avvertirlo chiaramente, mentre Frost… ah!

Frost l’avrebbe protetta fino allo stremo, ovviamente consapevole che in una battaglia contro il sovrano del terrore il suo bastoncino di legno sarebbe stato utile solo per cuocere i marshmallow, altro che proteggerlo!

Dopo qualche istante di indecisione passato a girare intorno a loro con l’Incubo che mostrava i denti, Pitch  si era nuovamente fermato davanti a loro tutto impettito, aveva lasciato le redini e preso la falce a due mani mentre dei sottili filamenti nerastri provenienti da quest’ultima andavano ricoprendo le sue mani.

Poi era stato brutalmente disarcionato dal suo stesso incubo, sbattendo rovinosamente l’enorme naso a terra e restando con il culo al vento.

Eh.

Senza avere il tempo per ridere come un cretino, Jack vide avanzare verso di loro una figura femminile che si era rivelata essere una ragazza di media statura infagottata in una felpa verdognola e dei pantaloni da ginnastica che un tempo dovevano essere stati dello stesso colore: fatta eccezione per due ciocche incredibilmente lunghe e sottili che le ricadevano sugli occhi, i capelli corvini tagliati fino alla nuca alla bene e meglio con ciuffi disordinati le donavano un aspetto trasandato, reso ancora più evidente dalle guance scavate e le profonde occhiaie violacee che segnavano due incredibili pepite d’oro che brillavano ai tenui bagliori di luce esterni.

Si avvicinò a Pitch a grandi falcate, fermandosi davanti a lui con le braccia incrociate al petto:

«È una scena penosa, potevi anche risparmiartela» asserì con fare di rimprovero «Io lo dicevo che Onyx non si sarebbe lasciato cavalcare, dopo la figuraccia con i Guardiani, ma tu “No, abbi fiducia, sono il Signore degli incubi! Uuuuuh! Temetemi!”: è penoso, ma tanto.» sospirò rassegnata; lui si alzò a fatica barcollando, poi le puntò l’indice al petto:

«Ah! Parla quella che “GNEGNEGNE sono Madre Natura e sono potente però non fatemi male vi prego GNEGNEGNE”, senti da che pulpito viene la predica!» rispose di rimando accompagnando ai gesti un continuo gesticolare come se fosse una scimmia delirante

«Si fa quello che dico io, signorina, e non ti azzardare a controbattere o ti rimando a raccogliere erbette nel bosco!» minacciò prendendosi di rimando un facepalm annoiato.

Madre… Natura?

Quella era seriamente… Madre Natura?

Non ci assomigliava affatto, a quella che aveva visto nei libri al covo di Nord, non poteva assolutamente essere lei: in quei libri costellati di immagini aveva visto una ragazza dai capelli che ricadevano fino a terra in una cascata nera, con un abito verde smeraldo ricamato da finissimi motivi floreali che lasciava scoperto l’ombelico, non di quella che sembrava essere un’adolescente vestita come se vivesse sulla strada.

La sua mente, quasi in modo inconsapevole, gli suggerì di fare un breve inchino dinanzi a quella che era considerata una delle creature più potenti che quel pezzo di mondo avesse mai conosciuto, ma una valanga di pensieri gli rimbombarono nella testa con una violenza tale da farlo subito desistere, riportando a galla le parole della Regina della Fantasia: “… Non l’hai vista mentre ordinava alle radici dell’Albero di Olduvai di distruggere qualsiasi cosa gli capitasse a tiro pur di non consegnare il suo regno nelle spire di Apophis, non c’eri a sentire le urla strazianti degli abitanti di Tandokka implorare l’aiuto della loro sovrana mentre i viticci color smeraldo soffocavano donne e uomini, anziani e bambini, non hai nemmeno assistito alla strenua lotta delle sorelle Temporibus contro le fiamme che hanno liquefatto i loro corpi perché credevano nella persona sbagliata…”.

Tutte quelle immagini gli affollarono gli occhi in pochi secondi: se si concentrava, riusciva a vedere un albero le cui radici emergevano prepotenti dalla terra, la gente che scappava terrorizzata mentre le piante uscivano dal terreno e prendevano possesso dei loro corpi, bambini ed anziani che rimanevano indietro e venivano divorati dal fango, delle ragazzine che combattevano quel gigantesco mostro che era Apophis… se poteva essere considerato lui il vero mostro e non la regina di Tandokka stessa.

Quella era Madre Natura, o Emily Jane che dir si voglia, non la sovrana severa ma incredibilmente giusta descritta dai libri.

Ed era una persona spregevole, vigliacca, codarda, irresponsabile, altezzosa e.. e… e qualsiasi altro aggettivo gli venisse in mente in quel momento di rabbia mista d una profonda quanto amara delusione, insulti compresi.

Il gelo e l’ira che iniziavano a montargli dentro stavano giusto avanzando liberamente sul bastone ricoprendolo di un sottile strato di ghiaccio quando vennero bruscamente interrotti da l’ennesimo battibecco fra Pitch Black ed Emily Jane:

«Ora sono curiosa di vedere cosa fai, voglio assistere all’ennesima umiliazione alla quale stai per andare a sottoporti, davvero» lo stuzzicò lei piantandogli addosso uno sguardo freddo mettendosi una mano sul fianco e gesticolando con l’altra, gesto che venne interpretato in modo alquanto oltraggioso dal signore della paura in persona:

«Oh lo vedrai, ti assicuro che lo vedrai!» rispose lui distaccato e tutto impettito; come ennesima dimostrazione della propria potenza, o almeno presunta tale, Pitch si avvicinò a Jack e Dentolina molto lentamente, quasi volesse assaporare ogni istante della disfatta di ben due Guardiani:

«Mi dispiace così tanto di avere interrotto in modo così brutale la vostra scenetta di ammmore, quasi quasi mi sento addirittura in colpa!» finse di scusarsi ridendo «Ah no, aspetta, non mi dispiace affatto, anzi! Come si dice qui sulla Terra, “prendere due piccioni con una fava”, giusto?» domandò senza ottenere risposta e ponendosi ad appena un metro da loro.

 

Per quanto Jack fosse spaventato e non sapesse quale ruolo avesse Madre Natura in quel frangente, decise di reagire: il tempo di issarsi sul bastone e riuscì a sferrare un calcio nei reni che lo fece sbilanciare a sufficienza perché la falce svanisse in un battito di ciglia nel soffio nel vento e Pitch, forte dei suoi Incubi, riuscì a scagliargliene conto un paio che presero a sferrare colpi di zoccoli con una potenza tale da costringere Frost ad indietreggiare perdendosi nella nebbia.

Quando si guardò intorno in cerca della figura di Black che rispondeva ai suoi attacchi, non riuscì a vedere nulla se non la neve: sentiva Dentolina che lo chiamava, come anche percepiva diverse presenze intorno a sé, ma il manto innevato che ricopriva qualsiasi cosa e la tormenta che lui aveva creato gli impedivano di avere una qualunque certezza che fosse tale anziché iniziare a sferrare colpi a vuoto.

La neve, il suo elemento, l’aveva appena tradito spudoratamente.

Di nuovo.

Aveva appena abbassato furtivamente lo sguardo verso il terreno quando si era anche reso conto che era troppo tardi: sentì qualcosa strappargli il bastone di mano, dei tentacoli di pura oscurità che gli si avvolgevano intorno a polsi e caviglie tenendolo inchiodato in ginocchio a terra, con il capo chino costretto da un’ulteriore tentacolo nerastro che stringeva in modo spaventosamente pericoloso il suo fragile collo da ragazzino:

«Guarda, Jack, guarda! Ti ho sconfitto! Ho sconfitto un Guardian-»

«Tentacoli? Sul serio?» intervenne Madre Natura avvicinandosi e lasciando scivolare la mano su quelle strane appendici, studiando la sabbia nera che gli era rimasta sulle esili dita

«La banalità. Non ci voglio nemmeno credere guarda…» esclamò quasi disgustata da quella pietosa vista per poi indicare Jack Frost «E poi avanti, guardalo: sembra che siate in procinto di fare ben altre cose, dal momento che ha la faccia all’altezza del tuo bacino… cosa mi tocca vedere, cosa mi tocca vedere!» concluse alzando gli occhi al cielo ed aprendo le braccia facendole ricadere mollemente lungo i fianchi.

Nessuno proferì parola, proprio nessuno: l’espressione sbalordita di Pitch diceva già tutto da sola, ed altre parole sarebbero state decisamente superflue quanto inutili per descrivere la situazione che era andata a crearsi.

Con sua somma sorpresa, Frost avvertì la presa sul proprio corpo allentarsi, non abbastanza perché si potesse liberare, certo, ma abbastanza perché tornasse a respirare senza troppa fatica e riuscisse a fare segno di Dentolina di chiamare i rinforzi, per quanto gli dispiacesse farlo; da parte sua Pitch aveva ben altro a cui interessarsi, per esempio una Madre Natura nauseata da “tanta mediocrità nel creare sistemi di cattura che potessero essere definiti tali”, e lo spettacolo aveva un qualcosa di tremendamente divertente quanto comico:

«Banale? Banale? Ho catturato un Guardiano, io! Ormai era pronto per un-»

«Una sessione di bondage, forse? No, perché l’impressione era quella a vederti, e parlo da osservatrice esterna alla vicenda: eri ambiguo, molto ambiguo, tanto ambiguo…»

«Non me ne frega un cazzo se sembravo ambiguo!» tuonò lui rabbioso «Ambiguo o no, ero ormai sul punto di prendermi finalmente la mia vendetta! Tu mi hai interrot-»­

«Essere rilegato in quel buco di posto freddo ed umido che tu chiami “casa”, starsene sotto i letti dei bambini aspettando che arrivi la notte per “spaventarli” prima che tirino un cuscino sul tuo improponibile naso che se abbassi la testa ci inciampi pure e far pena a chiunque ti veda non è colpa dei Guardiani, è più che altro merito del tuo essere fondamentalmente inutile in qualsiasi ruolo ti venga propinato… che sia quello di fantomatico ed autoproclamato “Re degli Incubi” o semplicemente di padr-» cerco di ribattere sfacciata Emily, ma non fece in tempo a finire che avvertì la guancia diventare calda per lo schiaffo appena ricevuto.

 

Il caos.

La terra che tremava, le onde degli oceani che ruggivano invadendo l’entroterra, le foreste che prendevano vita marciando su qualsiasi sentiero esistente devastandolo, gli incendi che divoravano interi popoli bruciando generazioni di uomini e donne, le stelle che iniziavano a cadere, la Luna che voltava la faccia per non guardare: era quello lo scenario che Jack aveva visualizzato nella propria mente quando Pitch Black aveva sferrato quello schiaffo sulla guancia di Madre Natura, quando quel suono secco si era fatto strada nella sua mente.

Era Madre Natura, non chicchessia: la sovrana di tutto ciò che era vivente, di tutti gli elementi naturali conosciuti, una ragazza con poteri immensi paragonabili a quelli inimmaginabili di Manny stesso, mica bruscolini!

E invece no, non era successo proprio nulla: la Terra continuava a girare, le piante stavano ancora al loro posto, le stelle brillavano ancora, il tempo non si era fermato e, sorpresa delle sorprese, l’Universo non era collassato.

Non era successo niente di niente.

 

L’unica reazione degna di nota da parte di Emily Jane a quello schiaffo era stato un sottile viticcio verdastro coperto da una manciata di fiori bianchi e piccole foglie piene di buchi che era spuntato da terra ed era andato avvolgendosi intorno al polso di Pitch Black, ancora vicino al suo volto, ma senza proferire parola; da parte sua, Pitch stesso non si era nemmeno sforzato per afferrare quell’insignificante piantina dall’aspetto tremendamente debole, proprio come lo sguardo di Madre Natura, e strapparlo tenendoglielo teso davanti agli occhi vuoti:

«Non azzardarti ad insinuare nulla sul mio conto, perché ti assicuro che non sei assolutamente la persona che si trova nella posizione corretta per credere di poter giudicare qualcuno, casomai il contrario: ti è abbastanza chiaro, “Madre Natura”?» domandò lui calcando la voce su quello che per Jack, fino a quel momento, era uno dei titoli più importanti che avesse mai sentito.

Pitch invece lo pronunciava quasi con disprezzo, come se fosse disgustato alla sola idea di doverla chiamare in quel modo, ma se c’era una cosa che Emily Jane non si sarebbe mai lasciata scappare era la voglia di frecciatine:

«E tu non parlarmi né schiaffeggiarmi come se avessi il diritto di farlo» asserì con le fiamme negli occhi  e di pugni serrati

«Tu, con me, c’entri meno di quanto c’entrasse Apophis con la Terra, non venire a farmi la predica perché, caro il mio “Re degli Incubi”, uno che non è in grado di spaventare dei bambini non è nemmeno l’uomo giusto per sconfiggere i Guardiani: incompetente come sei sempre stato, sei ora e continuerai ad essere, nemmeno i cavalli ti rispettano, forse Onyx dovrebbe diventare il nuovo sovrano dell’oscurità.» concluse infine a testa alta.

A testa alta, come se nulla fosse della storia di Tandokka che aveva appena accennato, forse in modo inconsapevole o forse fin troppo consapevolmente, quasi per provocare Jack che se ne stava lì in mezzo ai due litiganti; ristabilito l’ordine dopo una serie non meglio definita di occhiatacce scambiate e lanciate l’uno all’altra, Pitch si era deciso a fare spallucce come per dire “Tregua, ci sono cose, o meglio persone, più importanti delle quali occuparsi”, e infatti gli si era avvicinato con le mani dietro la schiena:

«Dove eravamo rimasti? Ah, sì, stavo per liberarmi di te una volta per tut-»

«Sarai anche Madre Natura, ma mi fai proprio schifo. Ci tenevo a dirtelo di persona.» buttò lì Frost rivolgendo freddamente lo sguardo ad Emily Jane, la quale si era girata con un’espressione a metà fra lo sconvolta ed il furiosa per l’affronto subito.

Nessun moccioso si era mai permesso di trattarla in un modo simile, ed i sottili viticci che avevano chiuso la bocca a Jack mentre lei gli puntava l’indice sulla fronte lo avevano messo in chiaro per l’ennesima volta:

«Fammi indovinare: Tandokka. Il fuoco. Le sorelle Temporibus. Il minaccioso Albero di Olduvai. Madre Natura che è fuggita via dopo aver visto il brutto muso squamoso di Apophis…» disse ad alta voce con aria interrogativa, poi si finse sorpresa

«Giretto da Harmonia, vero?» domandò senza poter ricevere una risposta «Avrei dovuto immaginarlo, che ci fosse lei dietro tutte queste stronzate, è un classic-»

«Harmonia? La Regina? Mi prendi in giro?» domandò preoccupato Pitch «Quel piccolo incompetente… ha incontrato Harmonia? É così? Allora, Frost, dim… porca puttana Emily fallo parlare! C’è qualcosa di meglio del discutere della tua codardia!» le ordinò prendendosi di rimando un sospiro annoiato e infastidito.

Liberato da quel bavaglio verdognolo che gli aveva lasciato in bocca dei petali incredibilmente amari, Jack non si tirò indietro dal confronto, anzi continuò ad infierire:

«Hai lasciato bruciare la tua gente! Li hai lasciati morire! Sei una schifosissima vigliacca!» le urlò contro come se Pitch non ci fosse nemmeno «Ti chiamano “Madre Natura”, ma forse “Natura Morta” sarebbe stato decisamente meglio! Almeno saresti crepata ed avresti evitato a tutti di rivedere la tua faccia da “sovrana” egocentrica in giro! Le Entità della Morte hanno fatto un grosso errore a lasciarti in vit-»

«Non potrei essere più d’accordo» asserì lei afferrandogli la felpa «Se fossi morta poi avrei potuto andare in giro a vantarmi di essere stata scelta da Manny… il grandioso Manny, il favoloso Manny, quel piccolo bambino prodigio che ora, udite udite, è addirittura il Guardiano dei Guardiani! Avrei camminato gridando “Ehi gente, guardatemi! Sono una Guardiana! Una Guardiana!”, sai che divertimento?» continuò sorridendogli «Tu non puoi nemmeno immaginare quante stronzate racconti Harmonia, non lo puoi sapere: per ogni verità che dice ne tiene nascoste altre dieci, ma tu non puoi saperlo, certo che no… la Regina della Fantasia, la sovrana di Phantasia e dell’intero pianeta Exodus, lei racconta quello che le fa comodo, quello ch-»

«Quello che è vero, Emily Jane Pitchiner, e tu sapere questo. Molto bene.» la interruppe una voce famigliare a Jack, una di quelle che avrebbe voluto sentire dal primo momento in cui era riuscito a far distratte a sufficienza i due nemici perché Dentolina chiedesse aiuto ai loro compagni.

Ai suoi compagni.

 

 

Dall’alto di una sporgenza a pochi metri da lui, Nord capeggiava il gruppo dei Guardiani con le sciabole alla mano e l’aria di chi è perfettamente consapevole delle persone che si trova davanti, come anche era consapevole del branco di Incubi che avevano preso ad avanzare minacciosamente con le zanne snudate:

«Tu dire così solo perché Harmonia tolto te qualcosa, ma sappiamo tutti e due che tu cercato scontro con lei, con tutte conseguenze… nessuno volere farti del male, Emily, ma non raccontare bugie a Jack! Merita di sapere verità, ormai lui pronto per questo! E soprattutto tu non dovere stare con lui!» la rimproverò Nord indicando con una delle spade Pitch Black, il quale guardava indifferente la sceneggiata; la ragazza rimase in silenzio qualche minuto, quelli che le bastarono perché la rabbia le montasse dentro con una violenza inaudita:

«Io ho cercato lo scontro? Io? Volevo prendermi solo ciò che mi spettava, solo quello! E cosa ho ricevuto in cambio?» chiese afferrando con violenza una ciocca dei capelli tremendamente corti, solo un ricordo di quelli chilometrici che aveva sempre avuto

«Ecco cosa, è abbastanza chiaro? Volete un disegnino esplicativo? Una vignetta, magari? No perché un minimo di cervello pensavo che lo aveste anche, ma a quanto par-­»

«Emily siamo qui per aiutare Jack, e anche te lo vorrai! Non vogliamo litigare e combatterti, il nemico comune lo hai davanti agli occhi!» intervenne Dentolina con le sue soliti intenzioni di pacificatrice gettando distrattamente lo sguardo verso Pitch.

Seguì qualche istante di silenzio, istanti durante i quali Jack Frost si soffermò a guardare e studiare le espressioni di Emily Jane, di Madre Natura, anche se era bellamente costretto a terra da quei tentacoli viscidi: dietro quell’atteggiamento egoistico e per certi versi prepotente doveva nascondersi un’anima ferita, lacerata, calpestata, l’anima di qualcuno che non emanava più quel grande senso di onnipotenza che aveva visto appena nei libri e sentito con gli occhi sgranati nelle storie che gli venivano raccontate, e questo avrebbe spiegato il comportamento della ragazza, almeno a grandi linee.

Non avere il potere di un tempo, per motivi a lui ancora del tutto ignoti, doveva averla segnata più di quanto lei stessa avesse previsto e Jack aveva il vaghissimo sospetto che, per l’ennesima volta fra tante, Harmonia ne sapesse qualcosa: Emily aveva accennato ai propri capelli quando si era parlato della Regina della Fantasia, ma niente di più di un semplice cenno abbozzato, e non si sarebbe sorpreso se anche dietro quel gesto apparentemente senza conseguenze, ovvero che qualcuno l’avesse privata dei suoi lunghi capelli corvini, si nascondesse una verità ancora più oscura del suo sguardo.

Ma, giustamente, ora come ora poteva solo fare supposizioni varie, senza avere conferme o smentite: chiederglielo allegramente non sarebbe proprio stato possibile dal momento che l’atmosfera era già tesa di suo, ed anche perché si trovava fin troppo vicino a Pitch per fare una simile domanda, e se avesse voluto delle risposte degne di essere chiamate tali avrebbe dovuto chiedere all’unica persona che stava cercando di evitare da una settimana perché si sentiva particolarmente ribelle, nonché quella che gli aveva salvato la vita dalla morte certa per colpa delle schegge di vetro.

E cioè Harmonia.

Sebbene fosse consapevole che se ne sarebbe pentito subito dopo, dimostrando di non essere coerente come diceva e faceva sempre notare, Jack avrebbe voluto che ci fosse anche lei lì con loro: in quel momento, in quel luogo, con quelle persone, di certo con la sua presenza sarebbe stato tutto più semplice, compreso l’occuparsi di Pitch Black.

Soprattutto adesso che si era avvicinato ad Emily Jane e le aveva messo una mano sulla spalla scostandola non senza una certa prepotenza:

«Largo ai professionisti, Madre di stocazzo, quelle con i Guardiani riuniti tutti allegramente sono questioni per gli adulti, non certo per le ragazzine altezzose!» asserì mentre lei faceva per replicare, ma non aveva avuto il tempo di fare nulla che si era sbilanciata abbastanza da cadere a terra su di un fianco emettendo un gridolino strozzato.

Forse quella non era la donna più gentile ed altruista che conoscessero, ma di certo quella violenza gratuita non avrebbe mai dovuto essere usata su una qualsiasi persona, che fosse l’ultimo degli ultimi o una sovrana più o meno giusta non aveva importanza; per quel motivo, e perché la situazione sembrava sull’orlo di sfuggire a quel precario controllo dettato dalla superiorità numerica di Nord e degli altri, il vecchio Guardiano si era avvicinato a Pitch tenendo tesa la sua sciabola che sembrava tagliare il vento stesso:

«Alza ancora tue mani contro lei e ti assicurare che quelle finire tagliate prima che tu accorgerti!» lo minacciò con sguardo severo «Cosa volere da noi, Pitch? Guardiani avere già dimostrato di potere sconfiggere Uomo Nero, se tu non volere fare fine di altra volta meglio se porti tuoi animali da altra parte!»

«E magari ci porti pure il tuo grosso e inguardabile naso da incubo: ci credo che i bambini si spaventano quando lo vedono! Sfiderei chiunque a non prendersi un colpo quando si nota che non si capisce dove inizia quello e dove finisce la fronte!» lo schernì ridendo Calmoniglio con il boomerang pronto ad essere scagliato.

Da parte sua, Pitch Black si era limitato ad accennare un sorriso appena visibile sotto le coltre di oscurità che si portava dietro, le dita che accarezzavano i tentacoli d’ombra che tenevano Jack costretto a terra mentre teneva l’altra mano dietro la schiena:

«Oh, vedo che il mio naso è motivo di scherno da parte di molti, ma voglio vedere quanto lo sarà nel momento in cui farete la fine che ho in mente per voi…» rispose con una calma inquietante mentre Onyx, l’incubo più grande, gli si metteva di fianco venendo imitato da tutti gli altri

«Vedete, è piuttosto semplice, il mio piano: catturare un Guardiano, dargli la possibilità di chiedere aiuto ai suoi amici del cuore che nemmeno credono in lui, lasciare che si riuniscano tutti… è così semplice, eppure così efficac-»

«Cosa avere in mente, Pitch?» domandò Nord nascondendo un velo di preoccupazione che, come per gli altri, sembrava non essere giustificato.

Black lo guardò perplesso qualche istante, poi scoppiò in una fragorosa risata degna del peggiore degli psicopatici disponibili sul mercato:

«Cosa ho in mente, Nord?» rigirò la  domanda piegando la testa e poggiando la mano sul collo dell’Incubo che gli stava vicino, Incubo i cui occhi avevano preso a brillare di un alone dorato, come anche era dorata la polvere che iniziò ad uscire copiosamente dalle fenditure sui loro corpi; Madre Natura alzò appena gli occhi, quasi si vergognasse di guardargli direttamente in faccia uno per uno, e gettò uno sguardo malinconico verso i Guardiani, sguardo che venne subito intercettato e messo a tacere da un gesto fulmineo della mano di Pitch Black: «Questo».

 

Dopo fu veramente il caos.

Dalle profondità più remoto della terra e dell’ambiente intorno a loro, i Guardiani si trovarono davanti Incubi e Incubi e ancora Incubi: dieci, cento, mille, forse di più, forse di meno, non avevano idea di quanti fossero esattamente.

Ma erano tanti, troppi.

Non erano Incubi comuni, quella era l’unica certezza: anziché il semplice manto di polvere nerastra, questa volta gli equini avevano sul corpo veri e propri squarci dai quali esalavano una strana sostanza la cui consistenza andava da inconsistenti vapori a lava di polvere il cui colore variava dal giallo intenso all’oro talmente scuro da sembrare nero, quasi fosse in tinta con i loro occhi che lasciavano intravedere le pupille verticali altrimenti non visibili.

E quelle bestie dalla cui bocca usciva della bava schiumosa avevano tinto di nero tutto il paesaggio circostante: il bianco della neve, il verde degli alberi, l’azzurro dell’acqua, il grigio delle pietre, i colori variopinti degli uccelli che saltavano di ramo in ramo.

Qualsiasi colore di qualsiasi cosa era diventato nero, come se l’oscurità stesse divorando il mondo come mai aveva fatto prima.

E, questa volta, ci stava riuscendo.

Quando Jack si era guardato indietro, per quanto potesse guardarsi dietro le spalle dalla scomoda posizione in cui si trovava, capì anche che lui, che loro, sarebbero stati i prossimi: i nitriti furiosi degli Incubi infestavano l’aria come mosche in una calda serata estiva, lo scalpitare dei loro zoccoli verso i nemici indicati dal padrone al quale facevano riferimento parevano muoversi in sincronia con un qualche canto di guerre leggendarie, poteva addirittura sentirsi le loro ombre addosso, i loro denti che sfregavano gli uni contro gli altri provocando suoni allucinanti.

La risata di Pitch aveva coronato quel quadretto idilliaco, almeno per il signore degli Incubi: niente più Guardiani, niente più avversari, solo l’oscurità, solo Pitch Black; ormai era finita per le famose quanto odiose “scelte” di Manny, lo sentiva chiaramente, lo dicevano a gran voce persino i nitriti selvaggi delle sue stesse bestie che stavano per avventarsi sui corpi martoriati dal fragore di decine e decine di zoccoli neri come la pece.

Poi, senza alcun preavviso, i nitriti si erano trasformati in lamenti.

Lamenti di agonia.

 

 

Una freccia.

Una fottutissima, dannatissima… freccia.

Conficcata in mezzo alla fronte di un Incubo che gli si era accasciato addosso, con la lingua a penzoloni fuori dalla bocca e gli occhi vitrei sbarrati come se avesse visto la Morte in persona.

Jack questa volta si sentiva sì un peso addosso, ovvero quello del pesante cavallo che gli schiacciava le gambe, ma non era più quello dei tentacoli: erano spariti, volatilizzati, evaporati… non ci voleva nemmeno credere, di essere libero, senza nessuna catena sessualmente ambigua a tenerlo fermo!

Recuperato velocemente il bastone senza guardarsi intorno, fu costretto a farlo quando andò a sbattere contro l’ennesimo corpo che ci mancava poco lo abbattesse mentre stava rigidamente cadendo a terra, questa volta con una freccia infilzata nel petto: ne vennero altri, quello di sicuro, ma Jack correva troppo velocemente per controllare.

Alzò gli occhi al cielo con il fiatone: la tempesta si era diradata e lasciava finalmente intravedere la luce del Sole in tutta la sua magnificenza, un alone giallo splendente che rischiarava il firmamento ormai al tramonto, persino la neve aveva iniziato a sciogliersi cedendo il passo all’erba fresca ed il suo inconfondibile profumo, l’oscurità che ormai era solo un lontano ricordo degli attimi di terrore vissuti poco prima.

Quello spettacolo della natura, ahimè, venne presto interrotto quando girò la testa verso quello che ormai poteva definirsi il campo di battaglia: non riusciva nemmeno a contare quanti Incubi ci fosse sdraiati a terra, alcuni ancora agonizzanti che lanciavano lamenti capaci di straziare l’anima a chiunque li sentisse mentre altri che stavano ormai esalando o avevano già esalato il loro ultimo respiro, ne erano giusto rimasti una ventina ancora in piedi a dimenarsi furiosi contro qualcosa di non meglio definito.

Ma la cosa più inquietante di tutte era il modo in cui erano stai uccisi, che notò quando prese a farsi strada fra i cadaveri per avvicinarsi ai compagni che non riusciva ancora a vedere: frecce, una sola per ognuno di quei poveri cavalli, solo una freccia.

Capace di compiere una vera e propria mattanza.

Un genocidio, avrebbe osato dire.

Distrattamente, si fermò per abbassarsi a raccoglierne una che si era conficcata nell’occhi odi una di quelle bestie, che appena lo sentì tirare con una discreta forza lanciò un paio di zoccolate involontarie facendogli prendere un colpo; per quanto letale, quell’arma era davvero affascinante: una freccia dorata poco più lunga del normale ma incredibilmente sottile, lavorata su tutta la lunghezza in una forma serpentina con tanto di testa ed occhi come pietre raggianti, una freccia dalla punta ricurva studiata per ancorarsi alla carne e non staccarsi ricoperta di una sostanza violacea che preferì non approfondire.

Preso com’era dall’ammirare quel curioso oggetto che era stato letale per gli Incubi, Frost nemmeno si rese conto che uno di loro gli stava venendo incontro al galoppo nonostante zoppicasse visibilmente, una furia che si stava scagliando verso di lui senza alcun controllo:

«No no no! Occazzo! Occaz-» furono le uniche parole che riuscì a pronunciare prima di venire colto da un’improvvisa paralisi che gli impedì di fare tutto, tutto tranne di fissare negli occhi il mostro che lo avrebbe travolto.

 

Accadde tutto a rallentatore: l’Incubo che poggiava le zampe sane a terra, il sibilo acuto che accompagnò i passaggio di qualcosa sopra la sua testa sfiorandogli i capelli, un nitrito disumano che gli aveva fatto venire i brividi, la bestia immonda che perdeva i sensi e la vita crollando a terra dopo essere inciampata sui suoi stessi passi, andando a morirgli proprio davanti ai piedi.

Sentì muoversi dietro di sé: «Non metterti fra la freccia di un arciere e il suo bersaglio. Mai.» lo rimproverò una voce che non riuscì a definire.

Poi venne colto dal panico generale.

 

Non sapeva bene cosa fosse peggio, se l’Incubo morto oppure la causa di un simile genocidio nonché del fatto che fosse ancora vivo.

Gli altri Guardiani lo avevano raggiunto di fretta e furia, i loro abiti e mani sporchi di polvere nera nemmeno avessero ucciso loro quei poveri, ma nemmeno tanto, animali:

«Jack! Jack temevamo fossi rimasto ucciso dalla carica di quei mostri! Stai bene? Sei sicuro?» gli si fiondò addosso Dentolina in piena crisi di pianto nel rivederlo ancora vivo, ma nessuna delle sue domande, come anche quelle dei compagni lì intorno, trovò risposta in un Jack Frost occupato ad osserva la figura femminile, a giudicare dalla voce, che aveva davanti.

Avvolta com’era da un pesante mantello violetto munito di cappuccio calato sul volto, ciò che lo lasciò più perplesso era l’aspetto delle gambe, o almeno ciò che le sostituiva: una lunga coda color smeraldo che usciva dall’abito arrotolata in più giri su se stessa a formare un groviglio disordinato di squame simili a placche ossee, anziché a semplice pelle da rettile; le stesse squame si ripetevano sulle mani, o almeno su ciò che riusciva a distinguere fuori dalle maniche, che tenevano saldamente un arco dalla curiosa forma di due serpenti che si abbracciavano e si contorcevano intorno al corpo principale dorato come tutti i monili che adornavano le parti visibili di quella creatura, compresi dei graziosi anelli lavorati vezzosamente portati da quei piccoli quanto irritati serpentelli verdi che uscivano sibilando dal cappuccio.

Nonostante le varie domande che stava per fare, venne subito zittito da quella nuova ospite che, almeno per ora, non sembrava vogliosa di deporre uova nel suo stomaco:

«Ringraziate che Harmonia abbia avuto sospetti su ciò che stava per accadere, o non sareste certo vivi per raccontarlo: il popolo di Phantasia non ha alcun tipo di interesse nel salvare i Guardiani, la sua Regina sì, per questo mi ha mandato» asserì seria senza sbilanciare il proprio tono, accompagnando il tutto dal girarsi verso un portale a tutti fin troppo famigliare dove la aspettava un’altra figura incappucciata da un mantello azzurro, con uno scettro in mano che si concludeva con un cerchio al quale erano appese varie targhette con strane incisioni, ed una lunga coda da leopardo delle nevi che si agitava placidamente:

«Accettate l’alleanza e le garanzie, o al prossimo di questi spiacevoli quanto fastidiosi episodi nessuno manderà nessuno a salvarvi: se entrerete nel portale verrà considerato come un “sì”, quindi badate bene a ciò che scegliete di fare.» concluse mentre i Guardiani la seguivano fino all’imboccatura del portale stesso scambiandosi rapide occhiate quasi del tutto indecifrabili.

La serpentessa o presunta tale si girò nuovamente verso di loro:

«Guardiani di Manny, custodi dei bambini della Terra, avete dunque preso una decisione?» domandò con un tono simile a quello utilizzato nelle più alte cerimonie senza ricevere una risposta di rimando, semplicemente perché non sarebbe servita.

Quando le due figure ed i Guardiani erano stati inghiottiti dal portale, avevano già preso una decisione unanime: giusta o sbagliata, lo avrebbero scoperto solo vivendo.

Appunto, vivendo.

Cosa non proprio scontata, visti gli ultimi avvenimenti.

 

 

Avrebbe voluto gridare.

Nient’altro.

Mentre girava mesto fra ciò che rimaneva degli Incubi, dei suoi Incubi, Pitch Black sentiva una continua stretta allo stomaco che ci mancava poco lo facesse scoppiare in lacrime: avevano sterminato le sue creature, le sue stesse creazioni, lo avevano fatto senza alcuna pietà, senza un briciolo di coraggio nell’affrontarlo di persona!

Fortunatamente per lui, Onyx era ancora vivo, essendo rimasto a proteggere il padrone tutto il tempo dietro una coltre d’ombra: aveva appena visto morire i suoi stessi fratelli sotto una cascata di frecce scagliate tutte da una singola persona, aveva sentito le loro urla strazianti mentre i loro corpi cadevano a terra privi di vita, aveva osservato il campo di battaglia costellato di cadaveri che gli avevano riempito gli occhi dorati.

Ma era vivo.

Terrorizzato, scalpitante, ma vivo.

Come in teoria era viva anche Emily Jane, ma essendosela data a gambe come era solita fare Pitch non ne aveva la certezza: non che gli importasse, ma era un’altra umiliazione, l’ennesima di tante, quella di non riuscire nemmeno a tenere a freno quella ragazzina altezzosa.

Rimasto a languire nel dolore e nella rabbia, Pitch si era preso un colpo quando aveva sentito un ruggito alle spalle sue e di Onyx, un colpo talmente forte che non aveva nemmeno osato muovere un passo, limitandosi a girare lentamente il capo: un grosso leone dal manto nero e dalla criniera di fiamme dello stesso colore, fatta eccezione per un insolito ciuffo bianco quasi invisibile in mezzo a quel buio, stava piantando addosso a lui ed all’Incubo i suoi occhi come rubini di sangue, con le zanne color avorio snudate e la saliva che gocciolava a terra, esattamente come quella di tutti gli altri leoni che lo accompagnavano.

Purtroppo per lui, Pitch non aveva la minima idea che quel leone fosse Thorax.

Perché se lo avesse saputo avrebbe tirato fuori la falce prima che quello saltasse addosso ad Onyx azzannandolo alla gola e conficcandogli gli artigli sul dorso: rimase lì a guardare impotente mentre combattevano solo loro due, con il suo cavallo che veniva sovrastato dalla sagoma muscolosa e imponente del leone di Phobos che strappava brandelli di materia nerastra come se fossero pezzetti di burro, le grida che gli morirono in gola quando Onyx tentò di reagire colpendo sul muso quella bestia famelica, salvo poi sentire un rumore secco di ramo spezzato.

E allora Thorax aveva mollato la presa, ruggendo mentre teneva sotto le zampe l’Incubo straziato dai morsi e dalle artigliate, per poi svanire nell’ombra.

Si avvicinò ad Onyx gattonando, strisciando quasi per terra da quanto le gambe non lo reggevano in piedi, gli si accasciò vicino tenendogli con le mani la testa poggiata sulle ginocchia ed iniziò ad accarezzarlo con le lacrime agli occhi cercando di non guardare la zampa posteriore spezzata di netto da un singolo colpo:

«Non ti azzardare a morire, non ci pensare nemmeno!» gli ordinò mentre vedeva il suo sguardo spegnersi, così gli poggiò una mano sulla ferita più profonda, quella fra il petto e la gola

«Me ne pentirò subito dopo, ma salvare te è una priorità: i Guardiani possono aspettare, non mi costerà più di tanto utilizzare i poteri per… ecco, stai fermo… Onyx, fermo… bravo, stai buono.» lo tenne a bada mentre dei filamenti di oscurità uscivano dalle sue mani andando aggrovigliandosi nelle ferite del cavallo, che sembrò iniziare a provare un po’ di sollievo.

Pitch Black si guardò intorno furioso: chiunque avesse mandato quelle bestie, chiunque, avrebbe pagato il prezzo di tale affronto.

Un prezzo molto alto.

 

 

Dopo aver aperto delicatamente la porta, scivolò lentamente verso il letto dove giaceva il corpo di Harmonia, caduta nell’abbraccio del sonno da qualche ora ormai, e si infilò velocemente sotto le coperte fino a quando non aveva sentito il calore del morbido manto bianco della centauressa scaldarle il corpo ed il cuore come riusciva sempre a fare.

Avvertendo un improvviso peso all’altezza dello stomaco, Harmonia si svegliò lasciando che fossero le sue mani le prime ad avvertire la presenza dell’unica persona che in quel momento avrebbe voluto avere vicino:

«Buonasera, mia Regina» disse dolcemente la voce accarezzando i fianchi di Harmonia e dandole un lieve bacio sul ventre; lei non si oppose a quelle dimostrazioni di amore che riuscivano sempre a calmarla dopo una lunga giornata di burocrazia pura, ed anzi ricambiò le attenzioni stringendo a sé la figura nascosta nella penombra della notte incurante dell’intimo contatto di quel piacevole peso che premeva contro il suo seno nudo:

«Ho avuto paura, tanta paura… temevo di non rivederti…» sussurrò appena con una punta di malinconia affondando la testa nella sua spalla come per trovare un rifugio sicuro.

Ci furono alcuni istanti di silenzio dopo quell’affermazione da parte di Harmonia, istanti in cui la magia di qualche attimo prima sembrava essere svanita, ma tutto venne risolto dalle mani della figura che esploravano il corpo della Regina passando dai fianchi alla vita fino alle spalle per poi finire sul suo volto sollevandolo delicatamente:

«Tornerò sempre, non ti abbandonerò mai, mai» la rassicurò premendo la propria fronte contro quella dell’altra «Sembrerò banale, forse lo sono anche dato che sono secoli che te lo ripeto» continuò mentre i loro sguardi si incrociavano in un inspiegabile silenzio pieno di parole non dette «Ma ti amo, ti amo più di qualsiasi altra persona, non dimenticarlo…»

«…Mai.» completò la frase Harmonia prima di gettarsi in un bacio che valeva molto più di quante frasi sdolcinate avrebbero potuto dirsi a vicenda.

Era il loro modo per dirsi “Ci sono, ci sarò sempre, non avere paura” quando le parole non sarebbero bastate per descrivere le loro emozioni, un caldo abbraccio fra le loro labbra che cercavano instancabilmente di rincorrersi in quella frenetica avventura che era un amore voluto da entrambe le parti in modo quasi inconsapevole, un sentimento talmente intenso da farle scordare di tutto il dolore che aveva provato, di tutte le umiliazioni e le difficoltà che avevano segnato il suo corpo e la sua mente da tanto, troppo tempo.

Erano solo loro due, loro due e la complicità delle stelle che osservavano silenziose dalla finestra che illuminava appena la stanza di un tenue bagliore azzurrino, uniche testimoni mentre i loro corpi si fondevano in uno solo spinti da un desiderio più alto della semplice voglia carnale, una meravigliosa danza dove non c’era nessuno a guidare nessun altro ma solamente la voglia di rendersi felici a vicenda, di darsi piacere a vicenda.

Harmonia avrebbe voluto che quella notte durasse per sempre: lo voleva con ogni singola fibra del suo corpo che fremeva per ricevere l’amore promesso dalle mani che sapientemente percorrevano la sua pelle facendole venire i brividi, lo urlava al mondo con ogni gemito di appagamento quasi impercettibile che si lasciava scorrere piacevolmente addosso, lo dimostrava ricambiando la passione che ardeva nei loro corpi con cascate di baci distribuiti su ogni centimetro del corpo dell’amante quasi in modo vorace, come se volesse lasciare il segno indelebile del proprio amore sulla carnagione pallida dove risaltavano i leggeri segni dei suoi morsi di tenerezza.

Avrebbe voluto, ma sapeva bene che nulla era destinato a durare per sempre.

Nemmeno la pace.

 

 


____________________________________________

 

Angolino dell’autrice

 

Eccoci in un nuovo capitolo dove scatta subito il MYSONANTIS MA COSA xD

Fra visioni, Pitchoni esaltati, bistecche di Incubo, personaggi misteriosi e tentacoli ambigui qui non si sa proprio cosa sia più delirante, per cui lo considero un po’ il capitolo del delirio malissimo :D

Non ho molto da dire se non una cosa: il Veggente, signore e signori, il Veggente!

Non immaginate nemmeno da quanto volessi finalmente mostrarlo al mondo nella sua immensa voglia di comparire a random dietro la gente :3

Dedico a  _Dracarys_ i riferimenti puramente casuali alla coppia formata dall’ammmore platonico più bello della Galassia, le amykette che vogliono tagliare la lingua e la bruschetta alla gente: ormai devo infilarle ovunque, lo sai anche tu, e dove se non in un capitolo con Pitchone? <3

Dentto questo, non voglio dilungarmi troppo: ringrazio chi sta seguendo la storia e chi la recensisce, avere un’opinione esterna è sempre gradito per migliorarsi, e fa bene alla consapevolezza che questa storia piace anche ad altri oltre agli addetti ai lavori :)

Vi lascio con l’aspetto attuale (attuale, tenetelo a mente) del Veggente :D

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Capitolo 7
*** Una volta una falena mi disse ***


capitolo7

Come se si trattasse di un qualche rituale del buongiorno, Harmonia era stata svegliata dal delicato profumo floreale che inebriava l’aria di Phantasia, accolta dai flebili e caldi raggi di uno dei Soli che si tuffavano nell’acqua scrosciante fuori dal castello creando curiosi arcobaleni e giochi di luce che tingevano il suo manto bianco immacolato, per poi riflettersi sulle squame color smeraldo che le circondavano il corpo.

Nella posizione a pancia e zampe in su in cui si trovava stesa nel letto, la Regina della Fantasia guardò distrattamente davanti a sé sorridendo: con la testa premuta sul suo seno e le braccia strette in un coinvolgente abbraccio alla vita di lei, proprio lì, se ne stava la donna che le aveva dato tutto l’amore che lei stessa potesse desiderare ed era stata ricambiata allo stesso modo, quel sentimento verso il quale Harmonia aveva perso tutte le speranze dopo aver perso Phobos, chiusa com’era nella convinzione che, se anche a lei fosse accaduto qualcosa come con quel povero disgraziato, sarebbe solo e sempre stata colpa sua.

Ma con Myricae era diverso, molto diverso: non era solo il suo più fidato generale che l’accompagnava dal primo giorno in cui aveva incrociato il suo sguardo dopo la rocambolesca fuga da Quetzalli, regno delle donne naga note con il nome di Ophidians sue simili, era anche una persona, la sua persona, meravigliosamente coinvolta da quella relazione che andava avanti dalla bellezza di quasi sette secoli, iniziata venticinque anni dopo la perdita di Phobos ma già anticipata da un’amicizia che era qualcosa di più, era l’amante che ogni sera aspettava il suo ritorno a letto per farle dimenticare di tutti gli impegni che il ruolo di Regina comportava.

Myricae era il suo mondo, il suo faro in venticinque anni di sofferenze dilanianti a causa delle quali si era lasciata morire, la donna alla quale aveva consegnato il suo cuore fatto a pezzi e calpestato per poi, giorno dopo giorno, scoprire che stava riuscendo nella difficile se non impossibile impresa di farla credere di nuovo nell’amore.

Tutto ciò che era venuto dopo lo aveva fatto da sé, quasi senza chiedere il permesso all’una o all’altra: sebbene agli inizi Harmonia fosse piuttosto perplessa sull’avere nuovamente qualcuno con cui condividere il proprio letto e anche altro, pian piano si era lasciata andare capendo che non tutti erano lì per ferirla e farla soffrire, ed il grande passo lo aveva fatto la prima volta che lei e Myricae avevano fatto l’amore.

Solo loro due, nessun dovere, nessuna preoccupazione: Harmonia e Myricae, Myricae e Harmonia, quella notte c’erano state solo loro e, almeno per la naga, la consapevolezza che la compagna stava concedendo a lei quello che non aveva dato a nessuno oltre che a Phobos, e cioè la sua fiducia incondizionata.

Le aveva messo fra le mani il proprio cuore, e custodirlo era diventato lo scopo dei gesti che compiva ogni giorno per renderla felice.

Da parte sua, Harmonia era consapevole che quella relazione fra due donne, fra la sovrana ed il suo generale, aveva portato con sé i bisbigli della gente che le guardava inorridita perché “la Regina avrebbe dovuto trovare il proprio Re”, non un’altra compagna che avrebbe solo gettato scandalo e vergogna sul suo regno: c’erano così tanti individui con il cervello talmente piccolo da ballonzolare liberamente per la scatola cranica che qualche domanda le era venuta anche, ma era stata accantonata prima di subito dal momento che a lei e Myricae, dell’opinione altrui sul fatto che scopassero selvaggiamente, non fregava un emerito cazzo.

Ciò che quella stessa gente non sapeva, sfortunatamente per sé, era che a Phantasia e sul pianeta Exodus in generale gli abitanti erano abbastanza svegli da sapere che la loro libertà sessuale, che si trattasse della Regina o di un semplice commerciante, non doveva essere subordinata alla volontà di nessuno che non fossero le persone coinvolte, e quella certezza era l’ennesimo dei molteplici motivi per cui Harmonia era tanto amata dalla sua gente.

Non come certe sovrane di Tandokka, si intende.

Quasi avesse avvertito i dubbi che attraversavano la mente della sua Regina, la naga aveva mosso impercettibilmente le lunghe orecchie coperte di squame facendo risuonare i pesanti orecchini dorati a forma di anello contro le sottili catenelle costellate di gemme colorate che pendevano da uno all’altro, andando poi a stiracchiare la coda in tutta la sua lunghezza e agitandone la punta come se fosse un serpente a sonagli, ovviamente attirando l’attenzione della compagna:

«Vanimle sila tiri, a’maelamin» la salutò arrampicandosi fino a darle un bacio sulla fronte con tutta la dolcezza di quell’Universo.

Harmonia adorava quando Myricae parlava l’Ophidiano, la lingua madre delle naga come lei, e negli anni aveva imparato a capirne tutte le sfumature e di più piccoli significati nascosti dietro la più insignificante differenza di pronuncia di una singola lettera: quando le dava il buongiorno con, quel tono vagamente sensuale tipico della sua razza, finiva per sciogliersi come neve al sole, compiaciuta da forme di apprezzamento che mai avrebbe pensato di sentir pronunciare nella sua esistenza immortale, non rivolte a lei almeno.

Terminati i convenevoli di saluto tutti dolci e carini, Myricae aveva cambiato totalmente personalità, diventando il predatore che era nata per essere: scendendo dalla fronte fino alle labbra della compagna, prese a baciarla con una passione tale che sembrava volerle divorare persino l’anima, la lingua biforcuta che si muoveva nella sua bocca in una danza alla quale Harmonia si era felicemente abbandonata come faceva sempre, consapevole che tutto quello che sarebbe venuto dopo avrebbe solo potuto piacerle ogni giorno di più.

Le era scivolata addosso mantenendo il contatto che le sue labbra avevano con il corpo della centauressa usando una mano per afferrare le sue e tenergliele poco sopra la testa pronte per essere avvolte dall’estremità della coda come se fosse una catena liscia color smeraldo, coda che aveva accompagnato l’intero corpo da serpente mentre questo si sbrogliava dal manto bianco per andare a formare nuovi intrecci che le bloccavano le zampe anteriori, premurandosi di lasciare che le spesse squame affilate come pugnali si frapponessero fra una zampa posteriore e l’altra, costringendola a tenerle leggermente divaricate.

Myricae sapeva bene quello che faceva, conosceva i limiti pressoché inesistenti che Harmonia le metteva, ed era per quello che lei la lasciava fare: se fosse stato qualcun altro mai avrebbe permesso che la costringessero a quel genere di giochi erotici, né tantomeno che la tenessero legata in un modo simile, ma con lei vicino la cosa assumeva tutto un altro significato, un significato che andava ben oltre il semplice desiderio carnale.

Improvvisamente ricordatasi di avere un’altra mano libera, Myricae l’aveva fatta scivolare sotto l’armatura che copriva a stento il seno ad Harmonia, togliendola con uno scatto felino e lasciando che ricadesse sulle coperte a terra, dedicandosi subito dopo all’esplorazione di ogni singolo centimetro di quella pelle bianco latte con le punte delle dita: il gelo degli unghie più simili ad artigli e la sensazione di pizzicore che si lasciavano dietro era qualcosa che portava il significato della parola preliminari ad un livello tutto nuovo, uno di quelli che si raggiungono solo se tu sei una naga vogliosa e la tua compagna una centauressa con un corpo che bramava solo di essere capito, amato, coccolato.

Nonostante i gridolini strozzati di Harmonia si fossero già fatti sentire quando l’altra si era fiondata con la bocca a completare il lavoro che aveva iniziato con le dita, un gemito nemmeno troppo strozzato le era partito quando le mani di Myricae, ora libere di muoversi come volevano perché la coda faceva tutto il lavoro al posto loro, avevano iniziato a scorrerle addosso dal seno ai fianchi fino alla vita, fermandosi dove avevano incontrato la morbida pelliccia bianca: l’aveva guardata come per cercare un segno di approvazione nell’andare oltre e, quando la Regina aveva risposto con un debole cenno mentre si mordeva distrattamente le labbra, le accarezzò l’interno delle cosce salendo verso l’inguine sfiorando la sua intimità.

E allora Harmonia si era irrigidita.

Myricae lo notò subito, quel cambiamento nella sua espressione, motivo per cui prese il mento della compagna portando i loro occhi alla stessa altezza:

«Avo anírach echaded meleth na nin, arwenamin? Vuoi che mi fermi?» domandò nell’antica lingua con aria pensierosa, ma l’altra iniziò a scuotere la testa:

«No, mela en’ coiamin, vorrei che tu non ti fermassi mai, solo fai… piano, come se avessimo tutta l’eternità e oltre davanti. Solo noi due, nessun altro.» la rassicurò dandole un leggero bacio sul naso che la fece squittire appena, una sorta di via libera che la naga aveva accolto a braccia, e non solo quelle, aperte.

Quello che venne dopo restò confinato nella stanza di Harmonia, quella della Regina, quella del loro amore: che fossero i gemiti di piacere della centauressa accompagnati dalla schiena che si inarcava faticosamente, che fossero le parole che Myricae le sussurrava all’orecchio per renderla partecipe di ogni singolo pensiero che affollava la sua mente in quegli istanti così intimi o che si trattasse semplicemente dei loro corpi che si fondevano insieme non aveva importanza.

Quello era il loro momento.

Loro, e di nessun altro.

Almeno per ora.

 

 

Dal momento che le due figure che li avevano scortati fino a Phantasia erano arrivate quando era ormai notte fonda, Jack e gli altri Guardiani erano stati invitati a passare la notte direttamente al castello di Harmonia in attesa di parlarle la mattina seguente durante la colazione.

Per quanto Frost non volesse ammetterlo, il letto nel quale aveva dormito era tremendamente comodo e accogliente: non che questo contasse qualcosa in particolare, ma in quel modo non poteva nemmeno più lamentarsi della scarsa accoglienza della Regina; come avrebbe fatto a trovare qualcosa su cui insistere per portare avanti le sue tesi di non andarci d’accordo se non poteva nemmeno dirle “Il materasso era duro perché GNEGNEGNE volevi farmi rompere la schiena GNEGNEGNE”, urlando al “gombloddoh!” ogni tre per due?

In compenso doveva ringraziare Harmonia per aver assegnato ad ognuno di loro una stanza personale, almeno doveva dividere la sua con Dentolina: quella poveretta probabilmente si stava ancora crogiolando nella convinzione che in realtà Jack non l’avesse baciata così intensamente solo perché era arrivato Pitch Black, che per una buona volta era comparso nel momento giusto nel posto giusto, anziché perché per lui la fatina dei denti non era che una collega di lavoro, una buona amica e nient’altro.

In poche parole, quella friendzone nemmeno troppo esplicita gli aveva fatto comodo per non rovinare i rapporti che aveva con lei: “colpa di Pitch che ci ha interrotto”, avrebbe detto se lei gli avesse chiesto perché non le aveva dato libero sfogo a quel fatidico bacio, ma prima o poi avrebbe dovuto trovare anche un’altra scusa.

Poco male, aveva tutto il tempo per pensarci, soprattutto adesso che si era appena svegliato ed era intento a stiracchiarsi come un gatto con addosso una felpa… ed una sciarpa?

La prese fra le mani osservandola: lavorata ad uncinetto per ricordare degli incredibilmente realistici motivi a forma di fiocco di neve, trovava sorprendente come le varie sfumature di azzurro che andavano dal bianco al cobalto fino al blu rendessero l’idea che fosse stata lavorata durante una tempesta di neve, quasi ne avesse assorbito gli stessi colori; guardando meglio, notò la presenza di un bigliettino attaccato come se fosse un’etichetta: “A Jack Frost, perché i ragni smettano di fargli paura” accompagnato da un cuoricino.

Antares, avrebbe dovuto immaginarlo: d’altronde la sciarpa gliel’aveva promessa quando si erano incontrati una decina di giorni prima, quando aveva anche minacciato di deporre le proprie uova nel suo stomaco, ma proprio non ci sperava più che dopo la scenata con Harmonia e la sua alleanza avrebbe ancora avuto voglia di fargli un regalo che, seppur inaspettato, era decisamente gradito dal momento che la sua sciarpa preferita era andata persa nella carica degli Incubi di Pitch Black del giorno prima.

Già, la carica degli Incubi del giorno prima.

Quella dove avrebbero perso la vita lui e tutti gli altri Guardiani se non fosse stato per l’intervento di quell’arciera e dell’altra figura che l’aspettava all’entrata del portale.

Affondando la testa nella sciarpa nuova, che si era rivelata molto più morbida e calda di quanto avesse immaginato, la mente di Frost era andata allo spiacevole episodio appena affrontato non proprio a testa alta: non sapeva cosa fosse peggio fra il sapere che Pitch Black ormai era tornato ad essere un pericolo non indifferente o l’aver visto Madre Natura in tutta la bellezza del suo outfit da senzatetto, stava di fatto che Jack aveva avuto la prova che non potevano stare tranquilli o abbassare la guardia nemmeno per un secondo che fosse uno, perché tanto i cattivi di turno del passato potevano tornare alla carica in qualsiasi momento.

Fu un quella consapevolezza, ovvero che lasciarsi alle spalle i nemici del proprio passato era praticamente impossibile, che riportò la mente di Jack alle inquietanti parole di Madre Natura: “Tu non puoi nemmeno immaginare quante stronzate racconti Harmonia, non lo puoi sapere: per ogni verità che dice ne tiene nascoste altre dieci, ma tu non puoi saperlo, certo che no… la Regina della Fantasia, la sovrana di Phantasia e dell’intero pianeta Exodus, lei racconta quello che le fa comodo”, parole che significavano una sola cosa.

E cioè di guardarsi le spalle dalla Regina alla quale avevano appena affidato il loro destino accettando quell’alleanza.

In realtà non sapeva bene come interpretarle, d’altronde Harmonia non aveva dato segno di volerli solo sfruttare e poi tradire come anche lui aveva giustamente pensato in un momento di rabbia, forse Emily Jane aveva detto così solo perché aveva rivelato a tutti la fastidiosa questione di Tandokka, fatto stava che il dubbio nella mente glielo aveva insinuato comunque.

E faticava ad andare via.

Cercò di pensare alle informazioni riguardo Harmonia arrivate a lui fino ad ora: era la Regina della Fantasia da un numero non meglio definito di anni, cosa che lo aveva insospettito non poco dal primo momento, non dipendeva da Manny come tutti i Guardiani,  aveva un pianeta fiorente e lussureggiante che sembrava uno di quelli dei libri delle favole, al suo fianco c’era un manipolo di generali uno dei quali era sicuramente Antares, sette secoli prima aveva combattuto una guerra quasi da sola e lì aveva perso Phobos e infine, cosa più importante, aveva a casa sua state di Guardiani o presunti tali che nessuno gli aveva mai nominato.

E poi?

Poi niente, perché di Harmonia non sapeva altro che quelle poche cose, nemmeno raccontate di persona ma tirate fuori fra un discorso e l’altro: se era così potente perché aveva alzato quella barriera contro un nemico a lui sconosciuto?

Se sei tutta questa grande potenza, pensò Jack, non dovresti temere nemmeno Manny in persona, figurarsi innalzare scudi magici di portata immane che consumavano tanta energia quanto erano spettacolari per proteggere il tuo castello!

Sembrava quasi che temesse qualcosa, o forse qualcuno, abbastanza perché non fosse certa delle proprie capacità, ma magari era solo una sua distorta impressione come tante altre: Harmonia aveva l’intelligenza di una donna di potere e l’affetto materno di una sovrana giusta e caritatevole, il tutto unito alla forza di un fottuto cavallo abnorme, chi accidenti poteva spaventarla con gli zoccoli che si ritrovava?

Forse era solo una delle sue bugie, chi lo sapeva!

Qualcuno sicuramente, ma non Jack Frost.

Mentre si stava lasciando trascinare ancora una volta da quelle ingombranti ipotesi di complotto, Jack venne interrotto dal rumore della pesante porta della sua stanza che si apriva lentamente, lasciando intravedere la figura dell’ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento e, più in generale, per tutto il resto della sua vita da Guardiano; dopo essersi chiuso la porta alle spalle attento a farlo non troppo rumorosamente, Calmoniglio si era appoggiato allo stipite dell’entrata gettando distrattamente lo sguardo verso Jack, che era invece seduto sul bordo di quel grande letto a baldacchino.

Passarono alcuni minuti senza dire nulla e senza nemmeno guardarsi in faccia, poi il coniglio pasquale alzò le mani in segno di resa:

«Oh avanti, non puoi andare avanti a non rivolgermi la parola per sempre, Jack! Prima o poi dovrai deciderti a parlarmi di nuovo, anche solo perché siamo compagni di lavoro!» si lamentò incrociando poi le braccia al petto, ma nulla sembrò smuovere qualsiasi cosa nella mente dell’altro interlocutore «Veramente? Non intendi parlare con me per quella questione, quella che non sei un Guardiano? Stammi a sentire, quello che ho detto.. l’ho detto in un momento di rabbia, va bene? Non intendevo dirti quelle cose, non era ciò che volevo dir-»

«Oh, invece intendevi dire proprio quello, non ci sono dubbi.» si decise a risponde freddamente Jack Frost, sempre mantenendo lo sguardo basso.

Calmoniglio stava giusto per controbattere quando l’altro lo aveva interrotto bruscamente:

«Non cercare di prendermi in giro, sappiamo entramb… tutti, sappiamo tutti, che nessuno mi considera all’altezza di questo ruolo, del ruolo di Guardiano del Divertimento…» continuò malinconico stringendo i pugni «… E per quanto ora cerchiate tutti di consolarmi e farmi ricredere su questo punto, per quanto sia frustrante e umiliante, lo ammetto: avete ragione, avete sempre avuto ragione... non sono nemmeno degno nemmeno la metà di quanto lo siete voi di essere definito “Guardiano”… non son-»

«Sei più Guardiano di quanto lo siamo stati noi nella guerra contro Apophis, di questo ne puoi stare certo: non siamo affatto stati migliori di te in quell’occasione… nemmeno io che mi lamento tanto per quello che hai fatto tu, anzi...» disse assumendo un’espressione piuttosto triste, che però nascose alla bene e meglio dietro la sua solita aria orgogliosa.

A quelle parole, Jack alzò lo sguardo sorpreso: Calmoniglio non aveva mai ammesso di avere una qualche responsabilità nella lotta contro Apophis, dedicandosi più che altro al continuo lamentarsi di quanto lui e gli altri Guardiani fossero stati abbandonati nelle spire di quella bestia immonda, né tantomeno era mai stato sul punto di parlare con lui non come Guardiano, ma più semplicemente come amico; tuttavia, intuendo che la situazione stava diventando più seria di quanto già fosse, decise di non chiedere ulteriori spiegazioni sull’argomento, nonostante lo incuriosisse come poche altre cose in vita sua.

Ma non servì fare domande, non servì farle semplicemente perché l’altro aveva continuato da solo il proprio sfogo o presunto tale:

«Avrei dovuto proteggere la mia gente a costo della mia stessa vita, combattere fino allo stremo perché la guerra non finisse per diventare anche il momento buono per sterminare la razza dei Pooka… ma non l’ho fatto! Non ho combattuto abbastanza duramente, non abbastanza per salvarli tutti, nemmeno una manciata di loro» si rimproverò stringendo i pugni «Se fossi riuscito ad arrivare qualche istante prima, quando Apophis non aveva ancora puntato il proprio brutto muso su di noi… se solo… ah! Cosa lo dico a fare? Ormai sono tutti morti, e stare qui a piangersi addosso non servirà certo a riportarli in vit-­»

«Come sono morti?» chiese il giovane Guardiano con una delle sue solite domande scomode e decisamente inopportune per la situazione.

Qualcuno avrebbe dovuto spiegargli a suon di calci sui denti che starsene zitto, quando si parlava della leggendaria guerra contro quel serpente troppo cresciuto, sarebbe stata una scelta migliore dell’indagare su argomenti non proprio semplici da affrontare.

Inizialmente, Calmoniglio lo aveva guardato con aria sorpresa e furiosa allo stesso tempo, probabilmente per rimproverarlo di tanto tatto, e non si sarebbe sorpreso se  gli avesse sferrato una zampata sullo stomaco facendolo tornare al covo di Nord senza nemmeno passare per i portali tutti colorati e carini carucci; per quel motivo, e perché non era proprio nella posizione giusta per commentare certi argomenti dato che non era nemmeno nato ai tempi, Jack Frost mise le mani avanti a sé:

«Non volevo, mi dispiace, mi dispiace!» si scusò scuotendo la testa e dandosi leggeri pugni alle tempie «Lo so, lo so, non dirlo nemmeno: dovrei farmi gli affari miei, senza immischiarmi in questioni più grandi di quelle che mi sono concesse di conoscere, e dovrei anche tenere la bocca chiusa se voglio vivere in pac-»

«Divorati, sono morti divorati» asserì freddo «Da Apophis… e dai Diggerwurm. Tutti. Sono l’unico rimasto.» asserì con lo sguardo assente di chi sta passando l’indicibile per parlare.

 

Quasi non ci fosse più nulla intorno a sé ed alla sua mente, Calmoniglio si lasciò trascinare dai ricordi poggiandosi alla finestra e perdendosi negli sterminati campi di soffici nuvole tinte dai mille caldi colori dell’alba:

«Quando Apophis attaccò noi Pooka, nessuno era preparato ad una strage: pensavamo ad un conflitto, quello di sicuro, ma non avevamo tenuto conto del fatto che Apophis fosse così interessato alla nostra razza da gettarsi a capofitto con il suo muso fra le mia gente, alzandolo ogni volta per mostrare i cadaveri che gli cadevano dalle fauci, per ricordarci che il suo obiettivo era quello di cancellarci dalla superficie di quel mondo… ma eravamo riusciti a resistere nascondendoci sotto terra, eravamo sopravvissuti: non tutti, purtroppo, ma buona parte di noi aveva sfruttato un certo sesto senso unito ad altri segnali riguardo la situazione, intuendo le intenzioni di Apophis e riuscendo ad agire in tempo per salvarsi… fino a quando non è arrivata Alice con i suoi Diggerwurm.» raccontò abbassando la testa e chiudendo gli occhi

«I Diggerwurm… bestie immonde simili a grossi vermi con la pelle formata da rocce più dure del diamante, che utilizzano il loro corpo per scavare il terreno divorandolo nel mentre: immagina dei vermi lunghi centinaia e centinaia di metri fino a sfiorare e superare il chilometro nel caso degli esemplari più vecchi, con la mascella capace di dividersi in più pezzi per raccogliere meglio la terra della quale si nutrono instancabilmente, lombrichi giganti che se ne vanno in giro bellamente sotto la superficie di Exodus, in particolare di Fairy Oak… trasportati tramite portali di dimensioni immani creati appositamente dalla principessa guerriera sul mio pianeta, e lasciati liberi di divorarlo senza controllo.» terminò con lo sguardo pieno di rabbia.

Il gelo nelle vene, ecco cosa aveva sentito Jack a quelle parole.

Alice non era troppo sana di mente, quello sarebbe stato ovvio anche solo a vederla, figurarsi se poi la si conosceva anche, ma aveva dubbi sul fatto che avesse lasciato estinguere un’intera razza per puro scopo alimentare.

E quel dubbio il coniglio pasquale lo aveva intuito benissimo:

«So che non è facile da credere, ma l’ho vista con questi occhi, gli stessi che ti stanno guardando in questo preciso momento» si affrettò a mettere in chiaro afferrando Jack per la felpa e costringendolo a guardarlo «Lei se ne stava lì, sulla cima di una rupe poco lontana dalla pianura dove io ed altri Pooka ci eravamo rifugiati senza renderci conto che le stavamo semplificando il lavoro, il suo solito faccino angelico che non lasciava trasparire nessuna emozione: pensavo fosse venuta ad aiutarci, tanto che quando dietro la testa era apparso un Diggerwurm cercai di avvisarla senza riuscirci… pensavo che ormai l’avesse già divorata, e invece no, no!» continuò scuotendolo violentemente «Le si era messo di fianco con la mascella serrata nemmeno fosse un animaletto domestico come tutti: quando oltre a quello se ne sono affiancati tanti altri ho capito tutto, ed i miei dubbi hanno trovato conferma nel vederla aizzarci contro i suoi animaletti schifosi al grido di “Ska’a et yomtìng, mo yawne ngawng”, ovvero “Distruggete e divorate, miei adorati vermi” in una delle lingue parlate sul pianeta Exodus, te ne rendi fottutamente conto?» gli chiese senza però ottenere risposta.

Perché di risposte non potevano nemmeno essercene.

 

Il silenzio.

Frost non sapeva cosa dire non perché non volesse, ma perché non c’erano parole che sarebbe state giusto o sbagliate se pronunciate in quel frangente, con Calmoniglio che stava crollando psicologicamente passando dalla rabbia alla malinconia nel giro di mezzo secondo, e lui che invece cercava di evitare il suo sguardo palesemente imbarazzato: sapeva che Alice era pericolosa, ma non fino a quel punto.

Solo ad immaginarla mentre sterminava i Pooka rimasti, Jack sentiva i brividi salirgli per la schiena e diradarsi verso le punte delle dita: quando l’aveva vista per la prima volta gli era sembrata una ragazzina più o meno della sua età del tutto innocua, poi aveva scoperto che non ci metteva molto a torturare chiunque non fosse d’accordo con lei e infine, come colpo di grazia che aveva distrutto anche le ultime certezze rimaste su di lei, Calmoniglio gli aveva appena detto che quella ragazzina dalla dubbia personalità multipla aveva portato all’estinzione la sua gente.

Un’intera razza, o almeno ciò che ne rimaneva dopo il passaggio di ben altri personaggi, ma comunque fossero messe le cose stava di fatto che Alice aveva davvero cancellato i Pooka dalla faccia dell’Universo.

Fatta eccezione per Calmoniglio, quasi lo avesse lasciato come monito per chiunque avesse in mente di voler fare la stessa fine.

 

Come faceva sempre da quando aveva iniziato a scoprire cose, Jack Frost era balzato in piedi con violenza tale che per poco non si era preso uno dei bastoni del baldacchino in testa:

«E Harmonia cosa ha fatto per fermarla, eh? Se ne è stata a guardare, ecco cosa ha fatto!» gridò furioso agitando il bastone «Ma glielo dico eh! Vado a dirgliene quattro, perché non si può che vengo a sapere una cosa del genere per puro caso! Furba, quella lì, dice solo quello che vuole, Emily Jane aveva ragion-»

«Stava combattendo Apophis sulla Terra, era nel bel mezzo della perdita di ragione da parte di Phobos e doveva proteggere il proprio regno: Harmonia non avrebbe potuto fare nulla nemmeno volendo» rispose secco giustificando, stranamente, la Regina «E non credere che non si sia sentita in colpa anche per questo, soprattutto perché Alice era una sua alleata e si supponeva rendesse conto a lei delle sue azioni: un peso in più da sopportare sulle spalle per lei non ha mai fatto differenza, e quello di avere fra le proprie fila un’assassina è solo uno dei tanti ai quali non ha potuto e non può porre rimedio, tutto qui.» spiegò facendo tornare Jack ad uno stato in cui era possibile parlargli.

Il che non servì a molto, perché proprio mentre stava per controbattere fu Calmoniglio a mettergli una zampa sulla bocca facendogli segno di stare in silenzio:

«Per oggi ne ho abbastanza di parlare di gente morta e tutto ciò che ne deriva, seriamente: il passato è passato, continua a fare male per forza di cose e non ci si può mettere una pietra sopra, abbiamo ben altre preoccupazioni che litigare con Harmonia per qualcosa di cui non ha proprio colpe» gli disse assumendo un’aria pensierosa «Tipo il fatto che sia tarda mattina e non ci abbia ancora convocati per parlare dell’alleanza… non è da lei arrivare in ritardo, soprattutto per qualcosa di tale portata, forse starà solo dormend-»

«E se fosse arrivato Pitch nella notte e le avesse tagliato la gola? E se fosse entrato Phobos di nascosto mentre noi dormivamo? O forse quella donna strana che ci ha frantumato una vetrata addosso le ha dato fuoco e ci serviranno bistecche di cavallo e bistecche di Harmonia e bistecche di chissà cosa!» iniziò a delirare Jack andando nel panico; il coniglio pasquale non lo guardava male, lo guardava malissimo:

«Cosa ti sei fumato questa mattina, esattamente? Guarda che certe erbe a Phantasia sono pure velenose eh, non vorrei che ti fosse andato il veleno al cervel… Jack? Jack!» stava per dire quando lo vide scomparire come un fulmine dalla sua vista, probabilmente per andare a cercare Harmonia di persona e calmarsi.

O forse solo per assicurarsi che le bistecche fossero ben cotte.

 

 

Non aveva la minima idea di dove quel labirinto di corridoi lo avrebbe portato, ma sgattaiolando da una parte all’altra in quei luoghi stranamente silenziosi gli metteva anche più ansia del ritrovarsi ad immaginare il sapore di una cotoletta di centauressa: non c’era nessuno in giro per il castello, nemmeno Antares e le sue molestie da riproduzione, e quel silenzio non faceva altro che permettergli di sentire il proprio cuore che batteva all’impazzata per il terrore di trovarsi davanti al cadavere della Regina.

Comunque fossero messe le cose, quel suo continuo correre a destra e sinistra senza una vera e propria meta aveva dato i propri frutti quando era arrivato in un’ala del castello con una porta che, almeno a vederla, gli aveva dato l’impressione di essere più importante di altre: forse era per i battenti dorati sui quali era raffigurata Harmonia vista di fronte a grandezza naturale, la quale teneva le braccia incrociate al petto con una spada in una mano ed una rosa con tanto di spine che le si avvinghiavano sul braccio nell’altra mentre sul capo aveva una corona che sosteneva una gemma a forma di stella azzurra, forse era perché su tutto il profilo della porta si snodava una donna dal corpo di serpente, come anche ai lati della regina c’erano due figure appena abbozzate, la prima incappucciata con una sfera in mano e la seconda con uno spadone ed uno scudo, il tutto completato da una ragnatela fatta da sottilissimi fili di gemme multicolore che faceva da sfondo alla scritta “Semper fidelis Reginae”, “Sempre fedeli alla Regina”.

O forse tutta quella pomposità non serviva proprio a niente, perché era riuscito a distinguere dei suoni strozzati provenienti da quella stanza e vi si era fiondato dentro prima di subito con tutta la forza che aveva in corpo senza nemmeno pensarci.

Interrompendo brutalmente un orgasmo.

 

 

Quella era una fottutissima serpentessa con un fottutissimo pene che se ne stava fottutamente avvolta intorno al corpo di Harmonia

La scena era abbastanza imbarazzante, disturbante ed inquietante allo stesso tempo: da una parte c’era Jack Frost lì, fermo sullo stipite della porta con gli occhi sbarrati e la crescita bloccata definitivamente a causa dello spettacolo che si stava consumando davanti alla sua figura immobile, paralizzata dal trauma appena subito e dalla consapevolezza che aver aperto quella porta era stata una scelta peggiore dell’aprire il vaso di Pandora.

Dall’altra c’era Myricae che se ne stava avvolta intorno al corpo di Harmonia con il proprio bacino premuto su quello equino dell’altra, la quale se ne stava sdraiata a pancia in su con le zampe tenute aperte ed un braccio sulla fronte intenta ad ansimare e lanciare gemiti di piacere che ben poco lasciavano all’immaginazione su cosa stessero facendo.

Nessuno aveva proferito parola.

Tranne Harmonia, che ormai sembrava essersi finalmente accorta della presenza di quel povero disgraziato intento a fissarla mentre faceva sesso con la sua compagna:

«Eh? J-Jack? Ah, Frost! Stavo g-giusto per chi-chiamare te e-ed i tuoi am-amici appena… f-fi-finivo, ecco, giusto v-voi… M-Myricae…» cercò di biascicare probabilmente ancora presa dall’intenso piacere nel quale si stava crogiolando, per poi afferrare due dei serpenti che scendevano dal capo dell’altra tirandola a sé «Credo c-che per og-oggi, per q-questa ma-mattina… a-ab-abbiamo… finito, credo di s-sì… per o-ora, almeno.» la congedò prendendosi di rimando un delicato bacio sulla fronte che nulla c’entrava con quello spettacolo.

Nel mentre che la serpentessa si srotolava e si avviava verso la porta, Jack Frost ebbe tutto il tempo di osservarla: sebbene il volto e gli occhi verde lime fossero incorniciati da una cascata di sottili serpenti adornati da diversi gioielli anziché da capelli, fino al bacino aveva l’aspetto di una donna dalla pelle chiara e interrotta qua e là da sottili scaglie verde acceso concentrate soprattutto su spalle, fianchi e collo, con il prosperoso seno che sembrava faticasse ad essere trattenuto da delle placche dello stesso colore, placche che si ripetevano sugli avambracci e scendevano fino alle mani dando sfoggio di dita spaventosamente artigliate, ora impegnate a stringere i fianchi di Harmonia lasciando dei solchi rossastri abbastanza profondi da quanto erano affilati.

La parte che lo preoccupava di più era però quella inferiore, ovvero dal bacino in giù: il corpo da serpente esageratamente lungo era coperto di spesse scaglie verde smeraldo che si sovrapponevano l’una con l’altra rendendolo pressoché impenetrabile, le stesse che andavano ad incontrare delle sorta di placche di un giallo oro che a prima vista dovevano essere le stesse che toccavano terra quando si muoveva disseminate fino alla punta della coda che sembrava un solo ed unico fascio di muscoli che, se lo avesse voluto, avrebbe potuto romperlo in due nel giro di mezzo secondo.

E fino a lì tutto bene, era una donna mezza serpente, non era così strano se ripensava che Antares era una donna mezza ragno.

Solo che quella, di donna, aveva il pene, oltre alla normale dotazione genitale.

Eh.

 

Nonostante le premesse per una valanga di domande da parte di Jack Frost, la situazione lo aveva sconvolto al punto che anche adesso, rimasto solo con Harmonia, non osava proferire parola, nemmeno quando la centauressa, che aveva impiegato qualche minuto per riprendersi del tutto dall’esperienza con la sua amante, si era alzata barcollando e stiracchiandosi le zampe; incurante del fatto che fosse praticamente nuda e con il seno al vento, quando Jack si era coperto gli occhi per evitare di far cadere lo sguardo dove non avrebbe dovuto anche solo per sbaglio, la Regina si era rivolta a lui con tutta la calma del mondo:

«Puoi anche guardare, Jack, non ho nulla da nascondere… come invece fa Myricae» fece notare ridendo mentre il giovane Guardiano, sforzandosi non poco, cercava di mantenere un’espressione che non sembrasse da maniaco sessuale mentre vedeva Harmonia che si sistemava l’armatura che le copriva il petto: «Accomodati pure, finisco di prepararmi e arrivo subito: ero talmente presa da quello che stavo facendo da non essermi resa conto che fosse già tardi, ma spero che per voi Guardiani non sia un problema aspettarmi.» si scusò prendendo posto davanti ad uno specchio tirando fuori una serie non meglio definita di trucchi vari.

Jack trovava abbastanza sconvolgente la nonchalance con la quale la Regina, reduce da una scopata che lo aveva lasciato allibito in un modo spaventoso, fosse intenta a maneggiare curiosi pennelli dalle setole arcobaleno e l’impugnatura che ricordava il corno di chissà quale specie di cavallo di Phantasia, ma si era tenuto per sé quel dubbio con la consapevolezza che Harmonia aveva ben altro di cui parlare:

«Avrai intuito che Myricae è molto più che uno dei miei generali, quindi salterò la parte in cui ti dico che è stata lei a salvare la situazione ieri e che sempre lei è l’amore della mia vita da quasi sette secoli a questa parte, e verrò direttamente a quella in cui ti spiego perché ha qualcosa in più là sotto» lo anticipò tranquillamente mentre le sue palpebre superiori si coloravano di un delicato azzurrino «Myricae è un’Ophidian, una razza di donne naga che vivono nella foresta ai confini di Phantasia, nell’antica città di Quetzalli: nulla di sconvolgente per loro, ma per esigenze riproduttive varie nascono ermafrodite, potendo decidere se deliziarsi in due con i piacere dell’accoppiamento o se fecondarsi autonomamente.» spiegò mettendosi un velo si rossetto color albicocca.

Il volto di Frost non era una maschera di terrore, era molto di più:

«Loro possono… fecondarsi… da… sole? Ma nel senso… nel senso che… si infilano da sole… le cose… cioè…» biascicò incredulo e tremante, avendo subito dopo la mano di Harmonia sulla testa che gli scompigliava i capelli:

«Non proverà a deporre le sue uova nel tuo stomaco, di quello non devi assolutamente preoccuparti, anche se…»

«Anche se?» ripeté preoccupato temendo già il peggio

«Anche se è leggermente una ninfomane, tutte le Ophidians lo sono, ma Myricae lo è solo con me» lo rassicurò ridendo «Al massimo ti ritroverai con i pantaloni abbassati di notte, nulla di particolarmente preoccupante. Ed ora è meglio se ci sbrighiamo, i cornetti caldi per colazione ci stanno aspettando… ed anche i tuoi amici, non vorrei far attendere nemmeno lor-­»

«Harmonia… come facevi a sapere che Pitch avrebbe attaccato? Insomma… hai mandato i tuoi generali, quindi lo sapevi… ma come?» domandò incuriosito piegando la testa di lato.

La domanda l’aveva lasciata spiazzata.

Improvvisamente, la mente di Harmonia tornò a ciò che era successo il giorno precedente il famoso attacco al Polo Nord…

 

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Quella pausa  dalla burocrazia era assolutamente indispensabile per sciogliere la tensione accumulata nell’ultima settimana: fra i Guardiani che facevano la loro muta rivoluzione ed il problema dell’Abisso ancora irrisolto, Harmonia sentiva la testa che le scoppiava.

Ogni tanto, e con ogni tanto intendeva le poche volte in cui non aveva davvero nulla da fare, si concedeva dei momenti in cui non pensava altro che a rilassarsi, per godersi ciò che la sua terra le offriva: il profumo inebriante dei fiori che tingevano l’orizzonte di sfumature variopinte, la sensazione dell’erba bagnata dalla rugiada che le sfiorava gli zoccoli dorati mentre avanzava con passo lento al fine di assaporare fino in fondo quella sensazione, gli occhi che le si riempivano della tenue luce rosata del mattino riflettendola in quel mare azzurro come l’acqua che sgorgava dal suo castello, da quella che era la sua casa da settemila anni a quella parte.

Decise di appartarsi all’ombra di una piccola radura con un laghetto le cui rocce formavano una sorta di cascata di dimensioni piuttosto contenute, come se fosse una vera e propria oasi di pace e tranquillità: senza impegni incombenti sulle spalle, Harmonia si limitò a svestirsi dell’armatura minima che le copriva il seno, le spalle e parte dell’addome, per poi immergersi fino a metà delle zampe nell’acqua e sdraiarsi su una pietra collocata direttamente sotto quella cascata scosciante di vita, iniziando a giocherellare con i capelli.

In quegli istanti in cui la sua mente si era liberata da tutti i problemi e le preoccupazioni, Harmonia guardò orgogliosa intorno a sé: Phantasia era un posto da sogno, un paradiso sceso in terra che rendeva felici i propri abitanti e chi lo visitava per la prima volta, un luogo dove i timori e le paure non osavano nemmeno entrare perché sarebbero state accolte solo da persone che, della paura, proprio non sapevano cosa farsene quando avevano l’amore della propria Regina a loro completa ed indiscriminata disposizione.

Tuttavia, per quanto ora fosse così felice e fiera del proprio operato, c’era sempre un fendente di dolore che prendeva strada nel suo cuore frammentato: dove ora c’erano i campi color smeraldo, i roseti che parevano arcobaleni e gli alberi le cui bacche deliziavano anche il palato più raffinato, un tempo c’erano state lande bruciate, cadaveri che tappezzavano l’orizzonte e oltre, laghi di sangue e fosse scavate nella nuda terra che piangeva i suoi figli.

Era stato molto, moltissimo, tempo fa, certo, ma non poteva dimenticare cosa le era stato messo nelle mani e fra gli zoccoli: sforzo dopo sforzo, lacrima dopo lacrima, era riuscita a riportare quel pianeta ormai sterile all’antico splendore che l’aveva accompagnata per tutta la vita, se non addirittura ad un livello superiore, e questo le bastava per sorridere ancora una volta.

Almeno fino a quando un fremito dell’orecchio non l’aveva avvisata che, nemmeno fosse a corte come suo solito, c’erano visite sempre molto gradite.

 

La sentì scivolare appena fra una fenditura e l’altra nella nuda roccia, un suono quasi impercettibile che riusciva ad avvertire appena, quello che bastava per non prendersi ogni volta un colpo e rendersi conto che si era appollaiata al riparo dall’acqua in un incavo sotto la cascata:

«Non è stato carino da parte tua chiudermi le porte in faccia, davvero scortese» commentò palesemente ben poco afflitta Tanith mentre le faceva segno di “no” con l’indice «Potrei addirittura essermi offesa per un tale oltraggio, questo tuo gesto alquanto villano mi ha spezzato il cuore che non ho!» continuò chinando la schiena e portandosi una mano alla fronte come se stesse per svenire.

Harmonia si limitò a sorridere appena, quasi divertita dalla scenetta portata avanti dall’Ephemeride, ma non perse di vista la consapevolezza che con lei era meglio non tirare troppo la corda, se non la si voleva spezzare di netto:

«Sono addolorata che il mio gesto impulsivo quanto necessario ti abbia ferita, ma ahimè non mi hai dato altra scelta se non di chiuderti fuori, gesto ovviamente fatto a malincuore» rispose scuotendo la testa «Capiscimi, Tanith, ho un regno da mandare avanti, le tue comparsate sono motivo di grande preoccupazione: quando decidi di omaggiare noi poveri plebei con la tua presenza che emana voglia di dolore da tutte le ossa, potrei addirittura pensare che tu mi voglia uccidere!» esclamò gesticolando per fingersi spaventata.

Ecco, se c’era una cosa che Harmonia poteva permettersi di fare senza troppe preoccupazioni, ma sempre con la dovuta cautela richiesta dal caso, era di utilizzare con l’Ephemeride un linguaggio che rasentava quello delle sue frecciatine, gesto reso possibile solo dalle velate, se non velatissime minacce, di tirare in ballo le famose “conoscenze alle alte sfere” delle quali godeva la Regina della Fantasia.

Tanith la osservò perplessa nei primi momenti, accennando solo dopo un sorriso:

«Ammetto che mi hai preso alla sprovvista, questo te lo concedo, non sono molti quelli che si permettono di dirmi “Tu qui non puoi entrare”, ma è stato un gesto ammirevole… tremendamente rischioso, ma di un coraggio quasi proverbiale» si complimentò applaudendo calorosamente

«E proprio per questo voglio farti una sorpresa, dicendoti che potrai costringere i Guardiani ad accettare la tua alleanza direttamente domani, con tua grande gioia immagino!» buttò lì con i suoi soliti sorrisetti maliziosi; improvvisamente, Harmonia sentì il sangue gelarsi nelle vene, e non era per l’acqua particolarmente fredda:

«Ma guarda un po’, sono addirittura riuscita ad incuriosire la grande Regina della Fantasia, ora sono io che mi sento onorata!» le disse poggiandosi con nonchalance sul suo dorso.

In realtà, Harmonia tratteneva a stento i brividi nel sentire il corpo di Tanith, ora fin troppo tangibile, che le scivolava addosso avvolgendole la coda intorno ad una zampa:

«Devo supporre che si tratti di qualcosa di particolarmente importante, se vieni a dirlo a me anziché a Myricae» rifletté  girandosi per guardarla negli occhi, facendo riferimento all’incontro fra l’Ephemeride e la propria amante.

L’altra la guardò con altrettanta intensità, a metà fra il divertito ed il profondamente perplesso:

«Oh sì, almeno tu non cerchi di farti ammazzare, anche se sarei curiosa di vedere quanto ci metti prima di chiamare quella gente là» disse indicandole la grande stella che brillava sopra il castello di Harmonia «Comunque sia, bella gente a parte e minacce che credi io non riesca a percepire, si tratta di Black, di Pitch Black. Ed Emily Jane Pitchiner, anche lei» buttò lì giocherellando con i capelli di Harmonia «Domani, sulla Terra: attaccherà il Polo Nord con un branco di Incubi leggermente più svegli del solito, ma nulla che non si possa risolvere con qualche freccia avvelenata piantata in mezzo ai loro occhi mentre li tieni confinati con un qualche campo di magia. Un lavoretto semplice, per Myricae e Naevia, ti suggerisco di mandare loro due.» concluse scendendo con calma dal suo corpo.

Harmonia sentiva le domande affollarle la mente impedendole di pensare a qualsiasi altra cosa che non fosse la parola “attacco” vicino ai nomi di Pitch ed Emily Jane, uno più problematico ed altezzoso dell’altra; distratta da quei ragionamenti che un po’ di preoccupazione gliela davano anche, quasi non aveva fatto caso a Tanith che stava pian piano scomparendo nella sua invisibilità terminato il proprio compito:

«Tanith! Aspetta un attimo!» la chiamò facendola girare «Come fai a saperlo? Nel senso… ne sei assolutamente sicura? Insomma… chi ti ha dato esattamente queste informazioni? chiese senza aspettarsi una risposta.

Che in effetti non arrivò, non direttamente almeno, perché quando la figura dell’Ephemeride era scomparsa del tutto dalla sua vista aveva sentito un brivido vicino all’orecchio:

«Me l’ha detto una falena.» sussurrò quasi impercettibilmente dissolvendosi nel vento.

 

Ora la passeggiata era finita.

Ora il divertimento era finito.

Ora aveva in mente solo una cosa, e cioè organizzare una spedizione sulla Terra, salvando la situazione come sempre.

E farsi dare qualcosa in cambio.

L’alleanza, magari.

 

-----

 

Nonostante le domanda scomoda, Harmonia fece semplicemente spallucce:

«Sesto senso da Regina, nulla di più.» mentì sorridendo; anche se Jack aveva diversi dubbi, il giovane Guardiano si limitò a starle dietro mentre si avviavano senza troppe domande: aveva la netta impressione che ci fosse qualcosa di più che un “sesto senso”sotto quella risposta, ma aveva anche l’impressione che approfondire sarebbe stato del tutto inutile.

E pericoloso.

 

 

Arrivati nel grande salone illuminato dai raggi che penetravano dal lucernario multicolore, Frost si era sentito particolarmente rincuorato vedendo tutti i suoi compagni seduti davanti ad un tavolo di rami bianchi esageratamente lungo ed imbandito con tutto ciò che si poteva chiedere per una colazione che si potesse definire tale: seduti ad una delle due estremità con Nord a capotavola, i Guardiani sembravano aver lasciato da parte le preoccupazioni per impegnarsi nella difficile quanto ardua scelta di mangiare prima i croissants da gusti esotici o i pancake o i waffles o ancora le svariate torte o chissà cos’altro che non vedeva dalla porta d’entrata; all’altra estremità del tavolo c’era la seduta di Harmonia, una sorta di piccolo divanetto romano adatto ad accogliere il suo corpo equino senza che dovesse fare chissà quali acrobazie per tenerci le zampe sopra, affiancata su due lati dai suoi generali, da Alice e da Scarlet con Spettro occupato a spolpare un grosso pezzo di carne per terra.

Fra un’occhiata e l’altra ai commensali, Jack Frost si rese conto che l’atmosfera sembrava essere molto più distesa di quanto lui stesso si aspettasse, e soprattutto che Dentolina non pareva avercela con lui come si era aspettato, ma tutto sommato non gli dispiaceva che finalmente ci fosse un po’ di silenzio e nessuna aria di complotti sotto il naso: ora come ora erano solamente delle persone preoccupate solo di consumare la loro colazione senza formalità varie ed eventuali, persino Myricae che aveva delicatamente preso la nuca ad Harmonia per strapparle l’ennesimo bacio con la scusa di pulirla dalla cioccolata non lo metteva in soggezione ma anzi riusciva a strappargli una risata, e tutto sommato era una bella situazione, molto serena ecco.

O almeno lo era stata fino a quando dalla porta principale non era entrata l’ennesima ospite sconosciuta a Jack, l’ennesima delle donne che gravitavano intorno alla Regina.

Solo che non era una donna, era un leopardo delle nevi antropomorfo.

Con in mano una serie non meglio definita di fogli, tra l’altro.

Mentre si avvicinava a passo lento, Frost ebbe tutto il tempo per osservare quella singolare creatura: nonostante il corpo seguisse effettivamente le forme di una donna adulta, compreso il seno nemmeno molto pronunciato, l’aspetto era quello di un leopardo delle nevi dal manto bianco immacolato e grigio chiaro costellato su braccia, gambe e fianchi di macchie di varie sfumature di nero che continuavano sulla lunga e folta coda lunga quasi quanto era alto quell’essere, per certi versi troppo grande per quel corpo esile ma comunque atletico.

Anche se era un mezzo animale, o meglio un animale che stava su due zampe, Jack non poteva nascondere che aveva un certo fascino: i capelli neri e lisci che percorrevano tutta la schiena incorniciavano un viso felino completato da due grandi occhi di un color turchese profondo, la soffice pelliccia coperta sul seno e sull’inguine da un’armatura dorata e argentea piuttosto leggera, giusto quello che bastava per non andare in giro mezza nuda per quello strano gioco di “vedo non vedo” offerto dalla pelliccia, armatura formata principalmente da delle placche metalliche sul petto e sulle spalle intervallate da uno strato di tessuto rosso scarlatto come se fosse un corsetto, oltre che quella presente sugli avambracci ed i polpacci.

Ed aveva una spada da dare invidia a quella di Alice, soprattutto quella, ma almeno se la teneva premuta sul fianco.

Si era incamminata verso Harmonia dandole in mano i fogli che portava con sé, volgendo poi lo sguardo verso il giovane Guardiano, probabilmente perché era l’unico presente a non conoscerla:

«Felice di fare la tua conoscenza, Jack Frost, Guardiano del Divertimento» lo salutò molto gentilmente con un breve inchino «Il mio nome è Naevia, generale alla corte della Regina della Fantasia, oracolo di Phantasia e ambasciatrice di Exodus sulla Terra, lieta che ti sia unito anche tu a questa colazione insieme agli altri Guard-»

«Naevia la Frigida, sovrana dell’Insensibilità, quella-che-vede-cose» intervenne stuzzicandola prontamente Myricae spezzando l’atmosfera formale mentre le pendeva un waffle grondante di sciroppo d’acero dalla bocca «Sappiamo chi sei, quindi smettila con questi atteggiamenti da principessina sul pisel… ah no, aspetta, quello proprio no! Non sia mai che la tua regale pelliccia venga violata da cotanto desiderio carnale… sempre che tu e la tua altezzosità sappiate cosa sia, il desiderio carnale.» la schernì nuovamente.

Nonostante le palesi frecciatine, Naevia non sembrava curarsi delle parole che le veniva rivolte dalla sua collega di lavoro né delle espressioni imbarazzate di Harmonia, tanto che aveva preso posto senza fiatare e senza commentare, dimostrando un incredibile autocontrollo; da parte sua, la Regina aveva dato una rapida occhiata alle carte che aveva davanti annuendo man mano che le scorreva, per poi fare cenno a Nord di ascoltarla:

«Quelli che ho in mano sono i documenti dell’alleanza fra voi Guardiani e la sottoscritta, oltre a ciò che rappresento: Phantasia e Fairy Oak si impegneranno personalmente per mantenere i termini accordati, l’intero pianeta Exodus e tutto ciò che è sotto la mia giurisdizione si presterà formalmente perché tali termini non vengano violati. Da entrambe le parti, si intende.» spiegò lasciando che Myricae passasse con la sua coda gli incartamenti fino al lato dove se ne stavano seduti i Guardiani stessi.

Carte alla mano e occhiali tirati fuori da chissà dove, Nord e Sandy si erano messi a dare una veloce occhiata a ciò che era appena stato loro consegnato spostando gli occhi da destra verso sinistra in modo quasi compulsivo, fino a quando il primo non si era fermato sull’ultima pagina:

«Credo che esserci errore, Harmonia, questo punto forse esser-»

«L’ho scritto di mio pugno, è tutto esattamente come dovrebbe essere» asserì tranquillamente «Queste sono le condizioni, e non potete che accettarle dal momento che ieri Myricae ha parlato chiaro, chiarissimo: varcate il portale e accetterete le condizioni, e voi l’avete varcato senza pensarci, il mio portale.» puntualizzò mentre i fogli passavano di mano in mano, dipingendo sui volti dei presenti espressioni sempre più sconvolte:

«Non volevo arrivare a tali contromisure, credimi, ma è l’unico modo per spingere voi Guardiani ad impegnarvi seriamente e non ritirarvi dall’eventuale battaglia nel bel mezzo della stessa: una garanzia, la chiamo io, una garanzia della vostra fedeltà, perché ciò che è accaduto con Apophis non possa ripetersi.» concluse tornando composta a consumare un croissant.

Quando i fogli arrivarono a Jack, ci mancava poco che si prendesse un infarto: un Guardiano.

 

Un Guardiano

Harmonia chiedeva un Guardiano.

La garanzia era… uno di loro cinque.

Da tenere a palazzo come ostaggio, come “ospite”, per assicurarsi che nessuno cambiasse improvvisamente idea in corsa, per evitare cambi di idee e di fazione imprevisti, un modo come un altro per tenere tutti loro stretti fra gli artigli suoi e dei generali che la circondavano.

E non potevano fare nulla se non accettare di consegnare…  ma chi?

Chi di loro cinque?

Per un istante, Jack Frost ebbe la netta sensazione che essere il Guardiano più problematico del gruppo, quello del quale tutti o quasi avrebbero più o meno esplicitamente voluto liberarsi, non fosse proprio la posizione migliore nella quale trovarsi.

Nella quale lui si trovava.

 

 

Se l’unica cosa della quale doveva preoccuparsi Harmonia era di lasciare che la sua amante le facesse provare talmente piacere da farle dimenticare tutti i problemi, allora Halley poteva anche considerarsi fortunata a non essere morta.

Non ancora, almeno.

Il Veggente era lì impassibile davanti a lei, che se ne stava invece a terra faticando ad alzare la testa da quanto il dolore si era fatto pungente ed insistente, che la guardava con uno sguardo talmente indecifrabile da non lasciar trasparire nessuna emozione che fosse una; lasciandosi indietro le grandi ali nere stese a terra come se fossero un continuo della tunica che gli copriva a malapena le nudità, piegò appena la testa tenendo quattro delle sei braccia incrociate al petto:

«Potrei ucciderti, se lo volessi…» asserì piantandogli addosso quegli occhi viola inteso reso ancora più profondo dalla sclera nera tendendo una mano verso di lei.

Ecco.

Era finita.

Finita.

Game over.

Ciao ciao.

Auf wiedersehen.

E invece no.

Con sua somma sorpresa, Halley si trovò con due braccia che la afferravano da sotto le ascelle e la sollevavano delicatamente rimettendola in piedi, premurandosi che in piedi ci si reggesse anche, per poi tornare alla loro consueta posizione al petto bianco del legittimo proprietario:

«Ma, attualmente, la tua morte non è nei miei piani, né in quelli di questo Universo: ritieniti fortunata, Comet E. Halley… molto fortunata.» disse semplicemente il Veggente con quel suo tono altezzoso da essere superiore quale giustamente era.

La situazione era abbastanza inquietante, confusa e sorprendente: lei, quella che aveva preso l’acqua della Sorgente del Cosmo intrufolandosi nella Torre di Babilonia senza pensarci troppo, e lui, la creatura più potente, più onnipresente e più onnisciente che il creato avesse mai avuto l’onore di vedere, che la fissava con un’espressione più pacata rispetto al “Sono venuto qui per ucciderti e farla finita una volta per tutte, così imparai a prenderti la mia acqua” che si aspettava quando le era comparso davanti.

Dopo essersi ricomposta, Halley notò un’altra bizzarria: il dolore pulsante alla testa provocato dalle visioni, come anche quello bruciante alla schiena che l’aveva fatta piegare in due, erano completamente spariti.

Temporaneamente, ma almeno le avevano dato tregua.

Ora come ora, con il controllo dei propri poteri del tutto ristabilito, Comet capì che aveva due possibilità, una peggiore dell’altra: approfittare della situazione tornata a sua vantaggio per scappare prima di subito senza guardarsi indietro, con la consapevolezza che scappare dal Veggente sarebbe sttao impossibile e che prima o poi l’avrebbe ritrovata, oppure starsene lì a capire per quale motivo fosse andato a cercarla per fare qualsiasi cosa che non fosse ucciderla, il che era piuttosto strano dal momento che il Veggente stesso preferiva passare le giornate chiuso nella sua Torre anziché andare dietro ad una cometa ubriaca.

Lo guardò ancora qualche istante prima di decidere: non aveva nulla di diverso rispetto a quanto ricordasse, non c’era niente che potesse far pensare che era talmente assuefatto dal latte interstellare che mungeva direttamente dalla Via Lattea, nome assegnato proprio per ricordarne la funzione, da non essere più in grado di ragionare con il cervello fisico che non aveva nella scatola cranica, e nemmeno quella c’era.

Però una cosa l’aveva eccome.

Ed era quella sulla quale Halley stava puntando i propri pensieri, occhi e pure le mani.

Iniziò a fantasticare su come l’avrebbero chiamata se fosse riuscita nel proprio intento: Comet. E Halley, prima del suo nome, “colei che è nata dall’altofuoco”, incendiaria di pianeti, bevitrice di KAFFÉÉÉ, distruttrice di Abissi, madre del Ciciarampa, ladra dell’Acqua, amante del trombaris.

E, soprattutto, “quella che si è scopata il Veggente”.

A volte si chiedeva se lui stesso fosse consapevole di avere la bruschetta, tenero nomignolo di uso curiosamente molto diffuso per indicare i genitali maschili, cosmica.

Non normale, non “tanta”, semplicemente “cosmica”.

Il fatto che appartenesse già di diritto alla dolce puledra del Veggente che aspettava il suo glorioso amante in un altro Universo poco le importava, quella meraviglia del creato non poteva mica essere riservata, avrebbe dovuto essere di dominio pubblico!

O anche solo di Halley, bastava che gliela desse a lei.

 

Non sospettando nulla, o forse sapendo già tutto dall’alto della sua onniscienza ma facendo finta di niente, l’altro era rimasto piuttosto spiazzato quando la donna gli si era fiondata addosso strusciandosi sulle grandi ali nere mentre giocherellava con le piume, prendendosi di rimando gli sguardi sconvolti dei molteplici occhi che le ricoprivano:

«Cercavi compagnia, vero? Dai dai che lo so, che vuoi fare all’ammmore con questa cattiva ragazza che ti ha preso l’acqua senza dirtelo!» gli sussurrò sorridendo maliziosamente premendo prepotentemente il seno contro il suo petto, incurante delle fauci che gli squarciavano il ventre all’altezza dello stomaco «Sono tutta tua, sovrano del creato, puniscimi per le mie azioni tanto ma taaanto malvagie e fammi pentire di essere venuta al mondo!» lo stuzzicò mettendogli le braccia intorno al collo e toccandogli la punta del naso.

In tutto quel teatrino, il Veggente non aveva mosso nemmeno un dito per assecondare o liberarsi della presa della donna, limitandosi ad osservarla perplesso:

«Penso proprio che le visioni sulla mia esistenza che va avanti da miliardi e miliardi di anni possano bastare, eventuali punizioni fisiche sarebbero inutili» rispose freddamente mentre l’altra abbassava lo sguardo verso la tunica biancastra trasparente «Spero ti siano piaciute, quelle visioni, perché ne verranno molte altre sul mio, di passato. Ed è un passato bello lungo, parecchio lung-­»

«Non tanto lungo quanto la tua bruschetta, però!» fece notare lei infilando una mano sotto la cintura e afferrando quello che non avrebbe nemmeno dovuto sfiorare:

«Me la dai, eh? Eh? Dai dai Veggy, fammi fare una cavalcata sul puledro più vergognosamente overpower del cosmo! Ti preeeegooo! Solo una!» insistette facendo gli occhi dolci.

Nonostante Halley avesse palesemente intenzioni sessualmente ambigue, e nonostante avesse praticamente fra le mani la bruschetta cosmica, l’altro l’aveva guardata senza scomporsi, ed anzi sospirando annoiato:

«Sorvolerò sul fatto che tu mi abbia chiamato Veggy…» si lamentò lanciandogli un’occhiataccia di intesa «Ho una puledra che mi aspetta in un altro Universo, Comet E. Halley, dunque sei pregata di lasciare il mio pen-­»

«La bruschetta! Si chiama bruschetta!» si affrettò a correggerlo

«... Qualsiasi nome tu abbia dato al mio organo sessuale privo di qualsiasi funzionalità riproduttiva, sei gentilmente pregata di mollare la presa, o ti assicuro che te la faccio mollare io.» minacciò sapendo di averla convinta; e invece no, perché a quel punto se l’era trovata con la mano libera che giocherellava con i suoi capelli di un biondo tendente al bianco:

«Ho tanta paura delle tue minacce, Veggy, tantissima!» rispose fingendo di tremare per il terrore mentre si sfilava l’abito rosso scarlatto abbandonandolo sui fianchi «Credo di aver bisogno di essere punita molto duramente per i miei gesti oltremodo oltraggiosi, potrei non imparare la lezione se tu mi lasciassi andare senza conseguenze!».

Il Veggente la osservò qualche istante perplesso: a quanto stava vedendo, Halley non si stava facendo scrupoli per chiedergli di fare sesso con lei, ovviamente fregandosene malissimo se lui era già fidanzato con un’altra in un altro Universo di tutti disponibili sulla piazza, ed il problema era la consapevolezza che lei voleva seriamente scoparselo selvaggiamente fino a quando ne avrebbe avuto le forze, il che poteva significare andare avanti per chissà quanto tempo data la sua natura di essere immortale, ore che per il Veggente potevano protrarsi all’infinito data la mancanza di una qualsiasi concezione della fatica.

Come di tutte le altre sensazioni del resto.

Vedendo che la ragazza non intendeva desistere, ed anzi aveva iniziato a dargli improbabili bacini sul collo facendo spaventare gli occhi gialli e azzurri che lo costellavano, aveva interposto fra lui ed Halley una delle spesse ali nere per tenerla a bada, gesto che però servì a ben poco quando lei iniziò ad emettere gridolini strozzati:

«Che monello che sei! Lo sai che soffro il solletic… smettila! Smettila! Daaaaai!» squittì contorcendosi su se stessa mentre lui iniziò a scuotere la testa allibito, rendendosi conto che ogni gesto sarebbe stato interpretato come l’essere felici di tali molestie:

«Ho già una puledra, Comet E. Halley, non penso proprio di essere interessato alle tue manifestazioni di bisogni affettivi e di “sesso”, come lo chiamate voi plebaglia in questo pos-»

«Però il culo della tua puledra te lo prendi, eh? Vecchio maiale che non sei altro!» ci rise sopra mettendogli una mano sulla nuca e portando la sua fronte contro la propria «Scommettiamo che ti faccio cambiare idea?» senza aspettare la risposta per poi gettarsi in un caldo quanto appassionante bacio.

Con il Veggente: il sovrano incontrastato del Multiverso intero, quello che aveva regalato alla sua puledra una corona con incastonata una gemma che conteneva ciò che rimaneva di una supernova, la prima creatura mai esistita che però già esisteva quando il concetto di tempo come quello di spazio non era che una fantasia.

Proprio lui.

Al quale però non sembrava interessare proprio nulla, dal momento che non aveva mosso un solo dito da quando Halley gli aveva premuto le proprie labbra sulla bocca:

«Hai finito o ne hai ancora per molto? Ho un Universo da vigilare, io, perché quel vostro drago ubriaco anziché gestire il suo, di Universo, preferisce infilare il proprio pene nei buchi neri: quindi, Comet, hai finito o no?» chiese infine con aria seccata talmente palese che la donna gli si staccò di dosso quasi inorridita:

«Oh avanti, non dirmi che non ti è piaciuto eh!» ruggì prendendosi di rimando un’espressione neutrale come per dire “Meh, niente di speciale” in modo più o meno esplicito.

Non volendosi arrendere allora gli saltò addosso sapendo bene che, nonostante il fatto che fosse incredibilmente infastidito, l’avrebbe comunque afferrata sostenendole le gambe che gli aveva chiuso intorno alla vita:

«Ma insomma! Non c’è mai niente che ti renda felice, eh? Daaaaai Veggy, dim-»

«Buongiorno ad entrambi» sussurrò una voce dietro di loro; Halley non aveva avuto il tempo di girarsi, ma quello per sentire la risposta del Veggente lo aveva avuto eccome

«Buongiorno a te, Mother Galaxy» la salutò lui con tono cortese.

 

Mother Galaxy in persona.

La Regina delle Galassie in persona.

Lei mezza nuda.

Su Orionis III.

In quel momento, Halley aveva appena assaggiato il brivido dell’infarto.

 

 

 

 

_____________________________________________

 

Angolino dell’autrice

 

Di seguito, riporto la traduzione delle varie frasi presenti nella lingua di Myricae:

“Vanimle sila tiri, a’maelamin” = “la tua bellezza risplende intensamente, amore mio”

“Avo anírach echaded meleth na nin, arwenamin?” = “non desideri fare l’amore con me, mia signora?”

“Mela en’ coiamin” = “amore della mia vita”

 

Dopo questa breve premessa, eccomi qui a dirvi che mi scuso se l’attesa per questo capitolo è stata più lunga del previsto, ma il computer purtroppo non aveva intenzione di collaborare e funzionare decentemente per cui fra una cosa e l’altra c’è voluto più tempo di quanto i ostessa avessi programmato :’D

Tralasciando questo punto, mi rendo conto che sono successe TANTE cose in questo capitolo, ma spero che possa piacervi comunque e non risulti pesante: ormai le carte in mano a buona parte dei presenti stanno venendo scoperte, e non tutte sono così favorevoli come si era pensato all’inizio di questa leggendaria alleanza.

Per la quale dobbiamo ringraziare quell’adorabile Ephemeride di Tanith e _Dracarys_ che me la fa usare senza aspettarsi che io la infili a random, fra una proposta indecente e l’altra! :D

Ringrazio anche vermissen_stern per avermi permesso di citare sottilmente una certa falena, sorvolando sul fatto che mi è servita pure l’intermediaria per chiederglielo eh :’D

Detto questo, un grazie va anche a chi segue la storia e ci tiene a farmi sapere che tutto questo disagio è piacevole da leggere, oltre che da scrivere :3

Vi lascio con l’aspetto di Myricae (capitemi, ADORO quella naga) e di Naevia :)

 

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Capitolo 8
*** Di cracker, kraken e teste rotolanti ***


capitolo8

Nonostante la tensione che stesse provando Halley fosse chiaramente visibile e palpabile sulla pelle d’oca che le era venuta, Mother Galaxy sembrava invece perfettamente a proprio agio con l’imbarazzante situazione che si era creata, come anche il Veggente non si faceva problemi a tenerla in braccio mentre lei aveva il seno ed altro di fuori e le sue gambe snelle avvinghiate intorno alla vita, con il bacino premuto sulle fauci irte di denti che squarciavano il ventre del compagno di molestie sbavando un liquido nero.

Da parte sua, se non faceva troppo caso alla sovrana delle Galassie ad appena un metro da lei che premeva la testa contro le soffici quanto calde piume nere delle immense ali dell’altro, Comet riusciva quasi a rilassarsi e mettere da parte le brutte sensazioni che la stavano assalendo: nonostante a primo impatto il Veggente fosse davvero un essere perfettamente consapevole del proprio ruolo e della propria forza, e nonostante lo dimostrasse con quel suo atteggiamento freddo e distaccato di chi è privo di qualsiasi emozione che possa essere definita tale, sotto sotto, molto sotto, non era poi così frigido come sembrava.

D’altronde, aveva pensato più volte Halley, c’era anche una puledra che lo amava, e questo dimostrava che sì, il Veggente provava sentimenti, almeno con chi voleva: non aveva idea di chi fosse, ma da un certo punto di vista non era nemmeno così importante saperlo.

Perché tanto voleva scoparselo comunque, non si sarebbe certo fatta qualche scrupolo solo perché lui se ne usciva con i “GNEGNEGNE sono già fidanzato GNEGNEGNE”, a lei non gliene importava assolutamente nulla: era Comet E. Halley, la creatura più inaffidabile che l’Universo avesse mai visto, figurarsi se lei avrebbe potuto prendere una scopata con lui talmente sul serio da metterci del sentimento!

Però le piaceva starsene lì fra le sue ali, si sentiva davvero al sicuro, ed era per quello che si era lasciata cullare da quell’abbraccio piumoso senza fare troppo caso a Mother Galaxy lì vicino, facendo ulteriormente presa con le sue braccia sulla schiena longilinea del Veggente, il quale si era adoperato per coprire le nudità della sua ospite con uno dei tre paia di ali per permetterle di rivestirsi.

Il gesto l’aveva lasciata talmente spiazzata che si era trovata paralizzata da un’azione così gentile e cortese da parte di un essere onnipotente e onnisciente, talmente potente da essere capace di distruggere o creare Universi semplicemente sbattendo le palpebre; notando la condizione di catalessi nella quale era caduta la poveretta, il Veggente fece un sospiro annoiato e le afferrò con delicatezza i lembi del vestito facendolo scorrere sul corpo nudo che aveva davanti con un’indifferenza disarmante, per poi posarla a terra con altrettanta nonchalance.

Erano seguiti minuti in cui nessuno dei presenti aveva proferito parola facendo calare un imbarazzante sipario di silenzio sopra le loro teste, minuti in cui Halley si era premurata di non allontanarsi troppo dalla presa che aveva su una delle sei braccia del Veggente: Mother Galaxy che se ne usciva dal Palazzo della Creazione per fare qualcosa che non fosse giocare a scacchi con Manny non era una cosa troppo normale.

Anzi, era preoccupante.

Molto preoccupante.

Mother Galaxy, il cui vero nome era conosciuto solo da sette persone in tutto l’Universo, era la Regina delle Galassie, e questo bastava per intimidire chiunque l’avesse davanti: nonostante  fosse la creatura che teneva in piedi con le proprie forze e poteri il precario equilibrio nel quale le famiglie delle Costellazioni si crogiolavano più o meno beatamente, la stessa che poteva far nascere o morire le stelle come se fossero lampadine nell’immensa stanza nera del cosmo, era una donna dall’atteggiamento amorevole e materno, estremamente protettiva verso chiunque chiedesse il suo aiuto.

Effettivamente, il suo aspetto piuttosto semplice certo non faceva presagire tanta forza in una donna, ma un vago cenno veniva dato dalle grandi e immense ali dalle soffici piume di un bianco talmente brillante da far male alla vista: i capelli biondo grano mollemente raccolti sulla nuca ed acconciati sulla parte anteriore con una treccia simile ad una corona, anziché lasciati liberi di toccate terra ondeggiando come sempre, facevano da splendida cornice per due occhi la cui iride era di una curiosa serie di sfumature di azzurro che richiamavano la forma di una Galassia, con tanto di puntini biancastri come stelle intorno.

In quanto ad abbigliamento, Mother Galaxy non si sbilanciava mai più di tanto, preferendo restare sui temi del bianco e dell’oro: anche quella volta indossava come solito un lungo abito bianco con dei finissimi ricami appena più scuri, tenuto morbido sul seno e sui fianchi da una sottile cintura bluastra dalla quale pendevano delle sottili catenelle dorate con vari ciondoli a forma di stella di dimensioni variabili, in particolare quello più grande con una gemma azzurrina che se ne stava al centro del petto diramandosi fino ai lati del seno; simili a quelli presenti sul corpo, persino i gioielli che scendevano sulle spalle accompagnando dei lembi di stoffa quasi trasparenti ricordavano gli astri, sottolineando il concetto che Mother Galaxy, fra quelle stelle, era nata e cresciuta.

E ora le governava.

 

Per quanto l’atmosfera si fosse fatta leggermente più tesa del previsto, fu proprio Mother Galaxy a rompere il ghiaccio nell’unico modo possibile:

«Posso chiedere il motivo per cui ti trovi qui, Veggente? Mi risulta che stiano accadendo cose più importanti del gettarsi nella tana del lupo, o meglio del drago… in sua compagnia, soprattutto» disse stupita inarcando le sopracciglia «Non mi risulta che lei goda di questi grandi e amorevoli rapporti con Idhunn Orionis Chandrasekhar, se la vedesse potrebbe succed-»

«Nulla, non potrebbe succedere proprio nulla» puntualizzò freddo l’uomo incrociando quattro braccia al petto e lasciando una di quelle libere ad Halley «Davanti a me, nessuno ucciderà nessuno, non senza il mio permesso: se i piani del Multiverso prevedono spargimenti di sangue allora ben vengano, ma non verranno consumate vendette personali senza che questo sia stato previsto da me. Molto semplice, direi.» concluse serioso.

Tanta autorità inizialmente aveva lasciato interdetta la sovrana delle Galassie, la quale però aveva assunto un’espressione perplessa nella quale si poteva intuire un velo di seccatura: non aveva nulla contro il Veggente, anzi andava anche molto d’accordo con lui quando si trattava di mettere davanti il dovere di ricoprire ruoli di importanza, anziché il piacere di comportarsi come Unigon ed ubriacarsi mentre giocava a bowling con le stelle supergiganti rosse, ma se c’era una cosa che non riusciva proprio a sopportare del Veggente era quel suo atteggiamento strafottente che veniva abilmente nascosto dal suo sguardo indecifrabile.

Solitamente non lo dava a vedere, di essere e di sentirsi talmente superiore a chiunque da non degnare nemmeno di uno sguardo chi apparteneva alla “plebaglia delle Costellazioni”, ed anche ora non aveva un comportamento differente dal solito, ma il solo fatto che fosse su Orionis III con Comet E. Halley era un motivo più che valido per guardarlo storto.

Soprattutto perché era arrivato in quel momento, quel dannatissimo momento: lei non era certo Unigon o il Veggente che si facevano gli affari degli altri come se non ci fosse un domani -il secondo tra l’altro ancora prima che tali affari accadessero- ma Mother Galaxy aveva saputo dell’arrivo di ospiti illustri alla corte di Idhunn Orionis Chandrasekhar quasi subito, avvertendo chiaramente e con sua estrema preoccupazione che stava succedendo qualcosa di grosso.

Lei non sapeva cosa, certo.

Ma il Veggente lo sapeva benissimo, cosa c’era sotto a quegli incontri fra donne talmente potenti da tenere sotto scacco le guerre ed i complotti che muovevano le prima mezza galassia, e i secondi chissà cosa.

Per quel motivo, e perché non aveva intenzione di aspettare le conseguenze di tali incontri per scoprirlo sulla propria pelle, la Regina delle Galassie aveva preso l’iniziativa ed era andata direttamente incontro al Veggente, ed ora sperava solo che la ascoltasse:

«Ho bisogno di parlarti di alcune… cose, ecco. Cose importanti. Molto importanti» esordì seria per poi indicare Halley «Possibilmente senza lei intorno: nulla di personale, Comet, ma ci sono argomenti dei quali è meglio che nessuno venga a conoscenza, che devono riman-»

«Io non mi muovo, ma proprio no!» le urlò contro facendole una linguaccia con nonchalance e strafottenza «Il mio Veggy ha bisogno di me, non di una vecchia signora rachitica che “GNEGNEGNE spengo le stelle ti faccio del male GNEGNEGNE”, vero ammmore mio?» domandò al Veggente, il quale tirò un sospiro rassegnandosi all’idea che stesse per assistere ad una guerra di insulti fra le due donne.

Che iniziò prontamente, com’era giusto che fosse:

«Cosa hai detto? Chi sarebbe la “vecchia signora rachitica”? Non ti azzardare nemmeno, piccola cometa ubriaca, perché tu non sai nemmeno cosa accidenti sia il fuoco! Te lo fac-»

«Uuuuuh, che paaaauraaa! Tremo malissimo! Aiuto! Aiuuuutooo!» la prese in giro Halley emettendo dei gridolini di terrore tanto sarcastici quanto realistici, i quali non facevano altro se non innervosire ulteriormente l’altra «Ti chiamano “Mother Galaxy” ma dovrebbero chiamarti “Granny Galaxy” da quanto sei veeeecchiaaaa! Hai già le ali bianche per la vecchiaiaaaa!» la stuzzicò ancora toccandole le ali candide.

Una vena iniziava ad intravedersi sulla fronte della donna, la quale sembrava ormai prossima all’omicidio, ma che al tempo stesso li limitava a stringere i pugni estremamente impaziente di metterle le mani al collo:

«Veggente, dille qualcosa, dille qualcosa o l’ammazzo. Io l’ammazzo. Adesso eh. Non aspetto. Non permetto a nessuna puttanella insolente di prendermi per il cu-»

«Sarò una puttanella ma a me la danno, la bruschetta mentre tu…» rispose a tono indicandosi prima il suo inguine e poi quello dell’altra «Sarà dal Big Bang che non vedi un pene, anzi, dal Big Gang Bang! L’hai capita, eh? L’hai capita? Big Bang? Gang bang? Eheh!... Eh?» domandò ridendo talmente tanto da doversi tenere la pancia «… Non l’hai capita… ma poi cosa pretendevo? Che la capisse una donna che non vede un pene dall’era glac-» non aveva fatto in tempo a finire che Mother Galaxy, in preda alla rabbia più cieca, le aveva scagliato addosso un massa luminosa sferica non meglio definita con colori che andavano dal rosso all’oro fino all’azzurro.

Una sfera che bruciava, e tanto… come una stella.

Ma che, fino ad Halley, non era arrivata.

 

Il volto di Mother Galaxy era diventato una maschera di puro terrore.

Non aveva idea di cosa fosse peggio, come conseguenza a quel suo gesto avventato: le due ali sciolte come neve al sole ridotte a due grumi informi che grondavano un viscoso liquido nero misto a piume bruciate, la carne del petto maciullata i cui brandelli penzolavano ancora liberamente ricoperti da una curiosa polverina dorata, buona parte del volto sparita che lasciava visibili i denti, o almeno quanto ne restava, il bulbo oculare sinistro che si stava sciogliendo davanti ai suoi occhi, forse il braccio mancante unito alle svariate dita sparite dagli arti superiori.

Perché il colpo ad Halley non era mai arrivato, certo che no.

Lo aveva preso tutto il Veggente.

 

Veggente che continuava a mantenere una calma spaventosa, decisamente agghiacciante dal momento che gli mancava buona parte del corpo, fatto che però non sembrava disturbarlo minimamente nonostante tutto:

«Una piccola stella di neutroni, eh? Classico, ma ugualmente notevole» asserì quasi compiaciuto toccandosi la parte del volto mancante, scena alquanto grottesca dal momento che parlava senza mezza faccia come se nulla fosse avvicinandosi a Mother Galaxy, la quale lo fissava terrorizzata temendo il peggio «Tieni solo a mente un dettaglio: quando dico che “davanti a me, nessuno ucciderà nessuno, non senza il mio permesso”, il discorso vale tanto per la gentaglia delle Costellazioni quanto per la sovrana delle Galassie, non dimenticar… Halley.» stava per controbattere alla Regina quando l’altra donna, particolarmente divertita dalla situazione, si era messa a giocherellare con il bulbo oculare disciolto, facendolo cadere rovinosamente a terra ed alzando divertita le mani in segno di resa.

Probabilmente Mother Galaxy si aspettava da Halley chissà quale scenata di delirio e paura nel vedere il corpo del Veggente mezzo maciullato, ma la sua sorpresa sarebbe stata minore se avesse saputo che Halley, del Veggente, sapeva abbastanza perché potesse addirittura scherzare sopra al fatto che ci fossero in giro bulbi oculari vaganti; a conti fatti, le poche cose conosciute su di lui erano quelle fondamentali per sapere che quella condizione non aveva nessuna ripercussione, dal momento che quella che pendeva ondeggiando dal suo volto non poteva nemmeno essere definita “carne” vera e propria, come anche quel liquido nero e viscoso non era “sangue”.

Per non parlare del fatto che, dentro di sé, non aveva nemmeno un organo, delle viscere, delle ossa, muscoli e tendini... non aveva nemmeno un cervello, nemmeno un cuore che batteva.

Niente di niente.

E anche la Regina delle Galassie lo sapeva, ma vedere come lo aveva ridotto e conoscendo le capacità di chi aveva davanti le metteva un’ansia terribile addosso, la consapevolezza che quel dannatissimo attacco aveva colpito l’ultima persone che avrebbe dovuto essere colpita: sentiva un nodo alla gola, le gambe non la reggevano nemmeno più in piedi sotto il peso della paura più profonda e oscura, persino le ali sembravano aver smesso di brillare quando quel mantello di timore e panico generale l’aveva circondata su tutti i fronti.

Per un attimo, le parve di aver addirittura visto la sua vita scorrerle davanti mentre si preparava al peggio, ad essere eliminata dal volto di quell’Universo per colpa di un fottutissimo malinteso, di una cosa che non aveva certo fatto e non avrebbe mai voluto fare volontariamente.

Dopo qualche istante, lo sgomento e la preoccupazione erano diventati insopportabili persino per lei, e allora aveva iniziato a vedere tutto sfocato -tremendamente sfocato- mentre avvertiva i sensi abbandonarla lentamente ma inesorabilmente in un vortice di emozioni che aveva lasciato dietro di sé solo un involucro vuoto: con le gambe molli ed il petto svuotato di qualsiasi cosa che non fosse il timore di morire nonostante fosse immortale, l’ultima sensazione che aveva provato era stata quella del suo corpo che si abbandonava al crollo verso le rocce appuntite tipiche della catena montuosa di Osterhagen.

Salvo avere il tempo di avvertire la presa salda e sicura delle braccia che si era infilate sotto le sue ali sostenendola prima che collassasse sulla fredda pietra:

«Se hai intenzione di morire trascinando con te un numero indefinito di Galassie, Costellazioni e stelle oltre che il tempo e lo spazio stessi, allora fai pure… ma dopo che mi avrai detto il motivo per cui mi hai cercato, Mother Galaxy.» asserì il Veggente mentre con gli occhi, o meglio con quello rimanente, sembrava scavarle direttamente nell’anima; inizialmente restò leggermente perplessa nel trovarsi ciò che restava del suo volto a pochi centimetri dal proprio, così perfetto rispetto a quello mezzo maciullato dell’altro, ma si calmò quando capì che non c’era nulla di cui avrebbe dovuto preoccuparsi.

Ma si stava preoccupando lo stesso, purtroppo per lei:

«Mi dispiace, mi dispiace moltissimo!» buttò lì sperando di convincerlo mentre sentiva le lacrime premere impazienti per uscire «Non volevo, Veggente! Non volevo colpirti! Non era mia intenz-»

«Sono il Veggente, io so che non volevi colpirmi… e sapevo anche che avresti colpito Halley ancora prima che tu decidessi di farlo, quindi direi che abbiamo chiarito la questione. Ora che me lo hai sentito dire te ne sei convinta, eh?» domandò con voce calma prendendosi di rimando un sorriso abbozzato da parte della donna che annuì debolmente; si rimise in piedi da sola in fretta lisciandosi il vestito, gesto durante il quale il Veggente si avvicinò all’altra presente:

«Ora devi lasciarci soli, Comet E. Halley, quindi ti chiedo gentilmente di andartene fino a quando la tua presenza non sarà nuovamente richiesta» le comunicò secco ma senza essere troppo duro, mantenendo però una certa compostezza.

Cosa che servì a ben poco, dal momento che Comet aveva iniziato a dimenarsi nemmeno fosse in preda a dei violenti spasmi di delirio:

«Cosa?» reagì incredula spalancando talmente tanto le palpebre che gli occhi sembravano sul punto di uscirle dalle orbite «Tu non puoi abbandonarmi, qui poi! Ma l’hai vista, Idhunn? Io sì, che l’ho vista, ed aveva compagnia! Lei ha ancora compagnia! Veggy! Dai Veggy, lasciami rest-»

«No, non se ne parla assolutamente» si impuntò severo «Non rendere tutto più difficile e limitati ad ascoltarmi, per una buona volta.» concluse allontanandosi; nel vederlo andare via da lei, Halley gli si aggrappo ad una delle ali, incurante che si stesse sporcando con quello strano quanto inquietante liquido nero, ma ciò non sortì alcun effetto:

«C’è qualcosa che possa fare per convincerti a lasciarci da soli per qualche ora, eh?» domandò il Veggente vedendo quanta resistenza stava opponendo la donna.

E allora le si erano illuminati gli occhi più di quanto già fossero, con quelle curiose sfumature dorate nel color magenta dell’iride:

«Verameeeeente qualcosa ci sarebbe… da quello che vedo» disse infilando la testa sotto la tunica quasi trasparente che scendeva dalla vita dell’altro «La bruschetta è ancora intera, quindi fooooooorse potremmo… insomma… potremmo fare sess-»

«Ne riparleremo quando sarai tornata, ora vai.» la liquidò senza darle conferme o smentite riguardo le sue proposte indecenti; nonostante i dubbi che le erano rimasti, questa volta Halley era davvero convinta, così decise di seguire il consiglio dell’altro, ma non prima di avergli afferrato il volto ed averlo coinvolto in un bacio appassionato, incurante del fatto che la parte del viso mancante rendeva fin troppo visibile la lingua all’interno della sua bocca:

«Quando tornerò conto di trovarti già sdraiato a letto con la bruschetta coperta da queste meravigliose alette, Veggy caro» gli sussurrò all’orecchio divertita «Ci si rivede, allora.» si congedò mandando un bacio con la mano mentre volava via e lasciava solo una scia magenta incredibilmente calda dietro di sé.

Il Veggente la guardò allontanarsi perplesso, con un solo pensiero nella mente: sperava vivamente che Comet, in giro a zonzo per Orionis III, non avrebbe combinato guai, non guai grossi almeno.

Ma dentro di sé sapeva già come sarebbe finita.

Ovviamente.

 

Rimasti finalmente soli, Mother Galaxy ed il Veggente si erano spostati su un piccolo spiazzo nelle montagne che dava su uno strapiombo, una lingua di terra così in alto rispetto alla superficie da permettere di distinguere all’orizzonte la timida curvatura del pianeta, da quanto era enorme Orionis III, dando libero sfogo a riflessioni di ogni genere.

Ennesimo di una serie non meglio definita di pianeti appartenenti a quella che era la stirpe più temuta della Galassia, Orionis III era l’attuale casa della capofamiglia dei Chandrasekhar e del suo seguito di parenti non proprio raccomandabili, oltre che la base militare intorno alla quale ruotava un esercito -a detta di diversi diversi scritti vecchi di centinaia di migliaia di anni- “la cui marcia era in grado di smuovere il centro dell’Universo stesso, data la sua immensità”.

Una diceria, ovviamente, il centro dell’Universo non si muoveva di un millimetro, ma rendeva perfettamente l’idea di quanto fosse illimitato il potere in mano ai Chandrasekhar, non per niente il loro motto era “Conquista e Distruggi”: forse le loro truppe non muovevano il centro galattico o quello universale, ma dove passavano i Chandrasekhar non restava nulla, assolutamente nulla, niente di niente.

Radevano al suolo tutto e tutti, senza distinzioni e senza farsi domande: trovavano un pianeta, lo attaccavano con un dispiegamento di forze spaventoso, distruggevano qualsiasi cosa trovassero sulla loro strada, sottomettevano le popolazioni schiavizzandole o estinguendole direttamente e poi niente, prosciugavano le stelle appartenenti al pianeta stesso, se non l’intera Costellazione nella quale quello si trovava, per ottenerne la polvere.

La polvere di stelle, generata dal naturale decadimento di una stella man mano che invecchiava, muoveva l’intera economia, potenza e terrore firmato Chandrasekhar dal momento che ne detenevano l’assoluto monopolio -un monopolio difeso con le unghie, con i denti e con orde di draghi i cui ruggiti risuonavano nello spazio- rendendoli indispensabili a chiunque, persino a Mother Galaxy.

Perché Mother Galaxy, con i Chandrasekhar, voleva averci a che fare il meno possibile, in particolare con la loro capofamiglia, tale Idhunn Orionis Chandrasekhar: considerata la personificazione della distruzione e della guerra, dall’alto della sua disarmante perfezione teneva saldamente stretta in pugno mezza Galassia da svariate migliaia di anni; ci aveva pensato sopra parecchio prima di lasciare il Palazzo della Creazione quasi del tutto scoperto per andare a parlare con il Veggente disturbandolo mentre faceva chissà cosa, quando poi aveva scoperto che si trovava su Orionis III un attimo di indecisione e panico generale l’avevano assalita anche, ma le sue domande e le relative risposte che sperava di ricevere erano più importanti del lasciar perdere quella visita solo perché era sul pianeta di Idhunn.

 

Il suo malsano naufragare in pensieri che non facevano altro se non agitarla ulteriormente venne interrotto dal Veggente, il quale le si mise di fianco lasciando stancamente ricadere ciò che rimaneva delle ali a terra:

«Mi chiedo se quello sguardo preoccupato sia dovuto alla consapevolezza di essere in territorio Chandrasekhar… o se invece sia dovuto alle recenti visite avvenute a Phantasia» buttò lì senza pensarci troppo; improvvisamente, Mother Galaxy sentì il respiro morirle in gola:

«T-tu cosa ne sai, delle v-visite a Phan-»

«Oh avanti, per chi mi hai preso? Sono il Veggente, io vedo tutti e tutto, in ogni istante della storia del Multiverso, io conosco già il passato, il presente ed anche il futuro…» puntualizzò accennando un sorriso beffardo «Eri davvero convinta che non avessi notato il tuo piccolo aiuto nell’alzare la barriera intorno al castello di Harmonia, eh? Pensavo che avessi notato la presenza di quel curioso cigno, nel laghetto intorno al castello!» ci rise sopra dando vita ad uno spettacolo a dir poco agghiacciante, data la mancanza della carne e del bulbo oculare da un lato del volto.

Senza sapere cosa controbattere, Mother Galaxy rimase qualche istante in silenzio distogliendo lo sguardo dal grande occhio azzurro luminescente che galleggiava sopra la fronte del Veggente, ma era consapevole che sarebbe stato difficile reggere il confronto con lui, troppo difficile:

«Non volevo rischiare che quell’Ephemeride causasse più guai di quanti ne porta già la sua sola presenza, tutto qui… avresti fatto lo stesso, Veggente, e non dirmi che Tanith non ti mette un po’ di timore perché non ci crederei mai, assolutamente mai.» rigirò il discorso facendogli quella velatissima insinuazione quasi senza pensarci.

L’altro la osservò qualche istante con aria severa, poi iniziò a ridere fragorosamente:

«Tanith? Preoccuparmi di Tanith? Di lei? Mother Galaxy, mi sorprendi!» ripeté tenendosi l’addome da quanto rideva «Tanith è solamente un’Ephemeride, un ammasso di ossa e dolore che crede di poter terrorizzare il mondo quando nemmeno lo conosce, il terrore vero… povera illusa» continuò tornando improvvisamente serio tendendo una mano davanti a sé, la quale si ricoprì di sottilissimi filamenti azzurrini proveniente dall’occhio sulla fronte.

Avrebbe dovuto stare zitta sulla questione Tanith, perché ora stava leggermente sfuggendo di mano, ed avrebbe potuto degenerare da un momento all’altro: da parte loro, le altre Ephemerides non avevano mai dato problemi con la burocrazia della Galassia, si limitavano ad essere dei parassiti che si nutrivano di dolore senza disturbare nessuno e senza complotti, tutto sommato la loro presenza nemmeno percettibile non era affatto un problema.

Poi c’era Tanith, il cui egocentrismo e voglia di dare mostra di sé era a livelli fin troppo alti persino per la sua razza.

Soprattutto quando metteva le mani nelle questione sbagliate, dando “spintarelle” a situazioni già piuttosto tese da sole, spingendo chi di competenza a preparare le armi ancora prima di incontrarla di persona:

«Dovrei solo alzare un dito, e allora di Tanith e delle altre sue simili non resterebbe che un vaghissimo ricordo­…» rifletté ad alta voce quando i filamenti erano andati unendosi in una piccola sfera scintillante «Anzi, nemmeno quello, perché subito dopo mi preoccuperei di cancellare qualsiasi informazione relativa a quelle ridicole, inutili e fastidiose serpentesse dagli improbabili gusti alimentari» disse facendo cenno alla donna di allungare una mano verso la sua, donandole la sfera luminosa «Nana azzurra in formato mignon, la stessa che infilerò su per la gola di qualsiasi persona o serpente intenda sconfinare in questioni che non la riguardano.» terminò sospirando divertito.

Con una stella che le brillava fra le mani, Mother Galaxy non riuscì a resistere alla tentazione di accarezzare la nuova arrivata come se fosse un cucciolo, concentrandosi sull’intensa ma non fastidiosa né dolorosa sensazione di calore che l’astro appena nato trasmetteva alle sue dita:

«Apprezzo le tue delucidazioni sulla questione di Tanith, ma immagino che tu sappia anche di un’altra questione... ovvero quella delle previsioni di Mot-»

«Mothman? Quella falena è anche peggio di Tanith, non puoi immaginare quanto mi dia i nervi» commentò sbuffando annoiato «Tutti a sorprendersi delle sue “previsioni” o presunte tali, ma anche lui non è nulla che non possa essere sistemato a dovere se dovesse rendersi necessario» asserì mettendosi una mano fra i capelli bianco-biondi «Una previsione in più del dovuto, e potrei anche intervenire a proposito, che ne so, cambiando il futuro, forse? Chi lo sa, il fato è così imprevedibile… soprattutto se viene disturbato mentre si sta masturbando» puntualizzò alzando la voce «Io non reggo proprio chi mi disturba mentre mi sto masturbando. Non lo sopporto.» concluse seccato.

Nonostante la piccola stella che prese a sfrigolare emettendo strani fischi acuti, quasi avvertisse la tensione nell’aria, Mother Galaxy non riuscì proprio a trattenere una risata a quelle parole: era vero, il Veggente mal sopportava coloro o le situazioni che interrompevano la sua attività preferita in quell’Universo senza la sua puledra, non si sarebbe nemmeno sorpresa più di tanto scoprendo che aveva raso al suolo interi mondi solo perché qualcuno si era messo fra lui e le sue sessioni di masturbazione quotidiane.

Non c’erano dubbi che fosse una creatura strana, inusuale e curiosa ad un livello inquietante, con quell’alone di mistero che lo circondava, ma a volte si lasciava andare a quelle rivelazioni per lui molto serie che invece provocavano solo fragorose risate, rendendo la sua presenza meno pressante di quanto fosse realmente.

Parlando di presenze, la mente della Regina tornò ad uno degli argomenti spinosi della giornata, uno di quelli che la preoccupavano di più, e con esso arrivò anche quel velo di preoccupazione mascherato da irritazione verso la superficialità dimostrata dall’altro:

«Non voglio assolutamente interrompere i tuoi monologhi su quante volte ti masturbi e quanto a lungo, tra l’altro molto interessanti» si mise in mezzo chinando il capo «Ma vorrei ricordarti che ci sono la sovrana della distruzione e la sovrana dei complotti sullo stesso pianeta, su questo pianeta, quindi ti chiedo: intendi fare qualcosa? Qualsiasi cosa?» domandò questa volta lei con aria severa; l’altro osservò l’orizzonte qualche istante, poi fece spallucce:

«Sì, farò qualcosa» rispose sicuro notando gli occhi di Mother Galaxy illuminarsi.

 

Finalmente!

Finalmente sarebbe intervenuto!

Era anche ora che si decidesse!

 

Tutta sognante e ancora incredula, la donna aveva congiunto le mani all’altezza del cuore che pareva volerle uscire dal petto, da quanto era emozionata:

«E cosa, dunque? Cosa intendi fare, eh? Prenderai provvedimenti? Lo sapevo che non saresti passato sopra la cosa, lo sapevo! Ne ero conv-»

«Masturbarmi. Andrò a masturbarmi, ecco. Farò questo.» rispose con altrettanto entusiasmo alzando l’indice come per affermare meglio la sua decisione.

Mother Galaxy si mise le mani fra i chilometrici capelli che toccavano terra, sentendo la testa sul punto di scoppiarle per quella risposta degna della persona che l’aveva pronunciata:

«Guarda che sono seria, io non so scherzando» affermò con sicurezza inarcando le sopracciglia perplessa con la sua classica aria di rimprovero addosso, quella che avrebbe fatto sentire in colpa chiunque, anche chi di colpe non ne aveva; il Veggente non ci fece nemmeno caso, impegnato com’era a pensare alla sua prossima attività:

«Nemmeno io sto scherzando, pensa un po’» rispose infine pacatamente.

Sentì le braccia cascarle dal corpo: non era possibile che pensasse solo a quello, non era fottutamente possibile che menarsi la bruschetta fosse la sua unica preoccupazione, nemmeno Unigon che -fra una partita di scacchi e l’altra- infilava la sua nei buchi neri prendeva così sul serio quell’attività!

E invece no, era possibile, possibilissimo.

Per quanto però ci stesse scherzando sopra, il Veggente non aveva perso di vista l’affermazione dell’altra riguardo le due regine presenti in quel momento su Orionis III, perché di certo non dimenticava il motivo per cui Mother Galaxy era andata a cercarlo di persona:

«Da sola, la semplice forza bruta non ha nessun fine se non quello di distruggere tutto ciò che vi si oppone: chi dice che con la violenza non si ottiene nulla evidentemente non è un Chandrasekhar, perché loro, con la violenza, hanno ottenuto e continuano ad ottenere tutto, e tengono egregiamente sotto scacco mezza Galassia, tanto di cappello» disse togliendosi un copricapo invisibile «I complotti, invece, sono più insidiosi, ma ugualmente efficaci: lavorano dietro le quinte, ottenendo risultati non indifferenti oserei dire, soprattutto se le redini di tali complotti ed influenze vengono tenute da chi, dei complotti, ha fatto la propria principale ragione di vita» spiegò guardandosi la mano.

Il Veggente avanzò di appena qualche passo verso Mother Galaxy:

«La Regina della distruzione, la personificazione della guerra stessa…» sussurrò facendo comparire un minuscolo drago rosso rubino «E la Regina dei complotti, la strategia fatta persona…» continuò mentre nell’altra mano appariva un polipo viola altrettanto piccolo, i cui tentacoli si avvolgevano intorno alle sue dita «E infine, la Regina dello spazio e del tempo, dell’equilibrio cosmico stesso» fece segno all’altra di tendergli la stella che teneva fra le mani come se si trattasse di un tesoro inestimabile.

Avvicinato con delicatezza il minuscolo astro alle mani del Veggente, ciò che lui fece fu di aprire le proprie lasciando che le due creaturine, una alla volta, vedessero ciò che avevano davanti:

«Tu non hai paura di chi si trova su questo pianeta, in questo momento, in queste circostanze… certo che no, perché se quel qualcuno fosse da solo…» fece notare mandando avanti prima il draghetto che, dopo un paio di artigliate e fiammelle lanciate alla stella -entrambe andate a vuoto- con immane ferocia, si era ritirato annoiato «Non ti preoccuperebbe così tanto…» continuò dando il cambio con il polipo, il quale aveva provato ad avvolgere il piccolo astro, prendendosi di rimando una bruciatura su un tentacolo.

Non aveva idea di cosa stesse accadendo, e nemmeno di cosa volesse dimostrarle con quello spettacolo quasi buffo, ma non ci volle molto per capirlo:

«Ma se due potenze tali minacciassero di collaborare insieme…» asserì sorridendo lasciando andare i due animali entrambi nello stesso momento, gesto al quale seguì un breve bisticcio che finì per sedarsi piuttosto presto, esattamente quando notarono la stella davanti a loro

«In quel caso, e solo in quel caso, nemmeno le stelle sarebbero più al sicuro.» concluse il Veggente assumendo un’espressione compiaciuta.

Ma Mother Galaxy non era compiaciuta, tutt’altro, soprattutto perché fra le proprie mani si stava consumando un omicidio stellare: nonostante i dubbi iniziali, il drago ed il polipo ora stavano collaborando insieme, si erano fiondati sulla sfera incandescente strappandone brandelli, poi interi pezzi, divorandola e avvolgendola con fiamme e tentacoli, il tutto mentre quella poveretta emetteva inquietanti sibili simili ad urla agonizzanti.

Paralizzata dallo spavento di sentire fra le proprie dita la vita di una stella che scivolava via come la Sabbia del Tempo nella clessidra che vedeva ogni giorno, non reagì minimamente quando il Veggente pose una mano su quella scena pietosa:

«Le stelle si possono uccidere…» puntualizzò aprendo le dita nel mentre che sotto il suo palmo si formava una sorta di disco nerastro che vorticava su stesso, come se uscisse direttamente dalla mano stessa «I buchi neri invece no: divorano le galassie solo sfiorandole, spengono le Costellazioni come se nulla fosse, radono al suolo interi Universi… ma non muoiono. Mai.» terminò quando il disco, con violenza inaudita, aveva risucchiato a sé tutto quanto, che fosse la stella o il drago oppure il polipo «Ed è bene che tutti ricordino questo piccolo, piccolissimo e insignificante particol-»

«VEGGY! Veggy Veggy Veeeeeeeggy!» venne interrotto bruscamente.

 

 

Da Halley, ovviamente, chi altri poteva essere se non lei?

La quale però non aveva addosso la sua solita aria costantemente entusiasta, tutt’altro: forse era per i capelli spettinati in una posa improbabile, forse per il volto segnato dal terrore e dal petto che si alzava e si abbassava in preda agli spasmi, forse era colpa dei vestiti a brandelli, stava di fatto che Comet E. Halley era sconvolta.

Motivo per cui non aveva nemmeno provato a gettarsi fra le braccia del Veggente, paralizzata e che faticava a reggersi in piedi com’era, ma di certo ciò non la giustificava per essere apparsa all’improvviso nel bel mezzo di un discorso serio:

«Cosa c’è? Qualche probl-»

«Mi insegue! Mi vuole mangiare! GNAM!» urlò sbracciandosi come una forsennata «Un cracker! UN ENORME CRACKER! Mi sta inseguendo!» concluse crollandole tremante mentre si teneva il capo con le mani fra le ali di Mother Galaxy, la quale capiva ancora meno di lei cosa accidenti stesse accadendo:

«Veggente? Cosa sta dicendo? Un.. cracker?... Veggente? Veggente?» lo chiamò più volte senza mai ricevere risposta.

L’uomo si era infatti incamminato verso la sporgenza di quell’altura, notando il gran polverone che si stava sollevando all’orizzonte lontano, un misto di sabbia e detriti nel quale il Veggente riuscì comunque a distinguere ciò che gli interessava vedere: kraken.

Sorrise.

Dall’alto del silenzio del suo interlocutore, Mother Galaxy era in una situazione piuttosto scomoda, dal momento che non capiva il perché di quel sorrisetto che mai -mai!- gli aveva visto addosso:

«V-Veggente… di cosa… di cosa si trat-»

«Kraken, non cracker… kraken! KRAKEN!» rispose subito entusiasta sfoderando una gioia che nemmeno sembrava potergli appartenere; dire che la Regina era sbiancata sarebbe stato un eufemismo, sul suo volto non si riuscivano nemmeno più a distinguere espressioni da quanto era pallida in quel momento:

«K-kraken? Un k-kraken… un kraken? Qui? Non prendermi per il culo! L’unico kraken in giro per questa parte della Galassia è quello della… della… no» cercò di convincersi senza tuttavia riuscirci «Tu non mi stai dicendo questo. No. No!... Quello non può -non deve!- essere il kraken di quella là! Non dell’Ald-»

«E invece sì! Morbido, caldo ed insaziabile kraken!» emise un gridolino sentendo le ali fremere «Con permesso, signore mie, devo andare a salutare una vecchia conoscenza.» si congedò sparendo improvvisamente e riapparendo nell’enorme distesa di roccia a terra.

 

Improvvisamente, il cuore che il Veggente non aveva nemmeno si era riempito di una strana sensazione, una sorta di felicità o presunta tale mista alla consapevolezza che stava andando a farsi macellare, ma non gli dispiaceva affatto, anzi: aveva sempre adorato in modo inquietante gli animaletti che i nobili delle Costellazioni si portavano appresso, che fossero i draghi Chandrasekhar o i kraken spaziali non faceva certo discriminazioni, a differenza dei rispettivi padroni loro gli piacevano davvero.

Se poi non li vedeva da tempo immemore il tutto era amplificato a livelli spaventosi, soprattutto se tali “animaletti” erano fottutamente enormi e terrorizzavano chiunque li vedesse.

Chiunque tranne lui, ovviamente: con le ali piegate sulla schiena e le braccia abbandonate lungo i fianchi, il Veggente non si era mosso di un solo millimetro mentre l’immenso corpo di quella bestia si avvicinava fin troppo velocemente; come anche non aveva smesso un solo istante di tenersi quel sorriso sul volto ancora non rigenerato, ed anzi era finito a chiudere gli occhi per godersi ogni singolo secondo di quei ruggiti che riempivano l’aria di Orionis III come il suono di un corno da guerra.

Era perfettamente calmo, di una tranquillità estremamente disarmante, soprattutto se veniva confrontata con lo sguardo terrorizzato di Mother Galaxy e le sue grida che lo pregavano di tirarsi fuori dalla traiettoria di quel mostro, ma non è che servissero a dissuaderlo o fargli cambiare idea sull’andare ad accarezzare un kraken spaziale leggermente diverso da un gattino.

Perché i gattini non avevano tentacoli che si abbattevano con violenza spaventosa sul suolo scavando conche profonde e larghe diversi metri.

Il primo colpo gli aveva portato via un’ala, con sua estrema sorpresa, ma ciò non gli aveva impedito di iniziare a canticchiare:

«Theeeeere’s a starman waaaaaiting in the skyyyyy! He'd like to cooooome and meet yoooouuu!» un secondo attacco, questa volta di striscio, gli aveva tranciato con una facilità disarmante tre quarti della gamba destra, facendogli perdere l’equilibrio per qualche istante prima che riuscisse a reggersi in piedi con una delle ali ancora sane.

Dall’alto della sporgenza dove si trovava, Mother Galaxy non poteva fare altro se non osservare la scena incredula: quella bestia lo stava macellando, se il tutto fosse andato avanti di quel passo il Veggente si sarebbe trovato con solo la testa -se fosse rimasta- al proprio posto, ed il lago di liquido nero che colava dagli arti e dai brandelli mancanti non era che una conferma di quella spiacevole impressione.

Voleva fare qualcosa, doveva farlo!

Lasciata Comet a terra ancora tremante, Mother Galaxy aprì le immense e luminose ali bianche per planare fino ad una ventina di metri dal Veggente e dal suo amico cefalopode gigante: mentre un manto dorato di stelle si formava sulle sue spalle fino a confondersi con i suoi chilometrici capelli biondo grano, nei suoi occhi azzurro cielo i sottili filamenti che ricordavano stelle e Costellazioni avevano assunto un’intensità differente, come anche la pupilla che da totalmente nera era stata sostituita dal vaghissimo profilo di una galassia.

Sentì chiaramente il fuoco montarle dentro l’anima, le fiamme inesauribili degli astri dai quali era nata che ruggivano prepotentemente nel mentre che sulle sue mani si formavano degli intricati disegni che andavano dal giallo all’azzurro fino al viola che brillavano di luce propria; poi la terra aveva iniziato a tremare: non si erano aperti squarci apocalittici nel terreno, né tantomeno c’erano stati vulcani che avevano iniziato ad eruttare morte direttamente dalle loro bocche, e non si erano neppure viste piogge meteoriche che avrebbero raso al suolo il creato.

La terra tremava lì intorno, tremava e basta, e le uniche ferite visibili sulla sua superficie erano quelle del terreno affondato intorno alla sfera biancastra -percorsa qua e là da filamenti multicolore, prevalentemente azzurri- che si era creata intorno alla Regina delle Galassie, quasi fosse uscita direttamente dal suo corpo; quando Halley l’aveva vista, improvvisamente si era resa conto di quanto avesse rischiato a darle addosso poco prima: non che i suoi poteri fossero da meno, ma le sue condizioni mentali attuali non le permettevano di fare molto.

E giustamente, con Mother Galaxy che si stava adoperando per mettere fine alla questione del kraken, il Veggente non era affatto contrariato dall’essere arrivato ad un punto in cui gli mancavano mezzo corpo, tutt’altro!

Con la sfera bianca che aveva ormai raggiunto i dieci metri abbondanti di diametro, ma mantenendo però un centro azzurro scuro luminoso tenuto fra le mani dalla donna esattamente al centro del petto, Mother Galaxy questa volta era decisa a fare sul serio:

«Veggente! Levati da lì se non vuoi che una supernova travolga anche te insieme a quella palla di tentacoli! Non lo dirò una seconda volt-»

«Theeere’s a starman waaaaaiting in the sky! Ther… una supernova?» ripeté ancora più divertito di prima girandosi verso di lei con le braccia aperte «Provaci, e allora ripasseremo i fondamenti della fisica scoprendo che i buchi neri le supernove le mangiano a colazione! Ed ora, se vuoi scusarmi» la liquidò con un breve inchino, ma senza voltarsi «Let the krakeeeen looooose it! Let the kraaaaaken use it! Let the kraaaaken boogie! Because there’s a staaaarman waaait-» non riuscì a finire.

Perché la sua testa era sparita dalle spalle, era rotolata fino ai piedi di Mother Galaxy -lasciando lì solo il suo corpo martoriato ancora in piedi- e lì si era fermata.

 

Come anche si era fermato il cuore della donna, almeno per qualche istante.

Perché anche se sapeva che il Veggente era l’overpower cosmico più overpower degli overpower del creato, raccogliendo la sua testa e trovandosi con un occhio luminescente che la fissava il timore che quello fosse troppo le era venuto anche.

Halley invece no, lei rideva da sola in modo talmente smodato da essere imbarazzante solo a vederla, e tutto nonostante sapesse ancora meno del Veggente, altro che essere a conoscenza della sua rigenerazione a livelli spaventosamente overpower!

 

Che Mother Galaxy conosceva a grandi linee, ma ciò non le impedì di iniziare a sudare freddo qualche secondo dopo, mentre era ancora immersa nel terribile momento “Hai la testolina del Veggente in mano”:

«… Questo… questo mi costerà un brutto, bruttissimo… mal di testa» rifletté il Veggente stesso ad alta voce con tutta la nonchalance possibile ad una testa vagante; ci mancò poco che la Regina lo gettasse via dall’infarto che sentirlo parlare le aveva provocato:

«Presa un colpo, eh? Dovresti vedere la tua faccia in questo momento, è un concentrato di terrore assolutamente adorabile!» commentò ridacchiando piantandole in suoi occhi viola intenso dalla sclera nera addosso «Sono il Veggente, mica bruscolini! Ma d’altronde il gioco è bello finché dura poco, quindi… con permesso.» ci congedò sparendo in un bagliore accecante.

Non sapeva se ridere o cosa.

Anzi, sapeva cosa fare: godersi lo spettacolo.

Pochi secondi ed il liquido viscoso di un nero intenso che colava dalle sue ferite era andato addensandosi all’altezza delle ali, mancanti o meno che fossero, sostituendole  con altre ancora grondanti di quella strana sostanza, per poi chiudersi tutte e sei come se fossero state un grosso bozzolo di pura oscurità cosmica, una crisalide che si era dischiusa pian piano lasciando trapelare una fioca luce dorata dalle fessure fra una piuma e l’altra.

Poi si era aperta del tutto con un rombo assordante, talmente intenso da aver creato un’onda d’urto che aveva fatto sobbalzare le rocce e le montagne lì intorno, e pure quell’enorme kraken sembrava essere stato preso alla sprovvista da come aveva ritirato i tentacoli; abbassatosi il gran polverone che si era alzato nel giro di pochi istanti, solo una figura si era palesata in mezzo al caos: il Veggente, con la testa attaccata ovviamente.

Con due paia di ali che gli coprivano il petto e le nudità -data la mancanza della sua solita tunica- e l’altro paio lasciato dietro di sé come uno strascico, l’occhio del Veggente si illuminò di una luce azzurro-verde acqua mentre i suoi occhi viola intenso tornavano a brillare con la stessa intensità di sempre: con tutte e sei le braccia conserte al petto, le gambe al loro posto e la bocca sul suo addome che sembrava ruggire, era fermo in quella posizione, impassibile come suo solito.

L’unico che sembrava tutto tranne che impassibile era però il polipo davanti a lui che, dopo qualche esitazione, aveva scagliato uno dei propri enormi tentacoli dritto sul Veggente con il solo scopo di spiaccicarlo talmente male a terra che avrebbero dovuto raccoglierlo con un cucchiaino; prevedere il futuro era la specialità di quell’essere, e dare mostra dei propri poteri lo era altrettanto, motivo per cui non si tirò indietro dal fermare quello stesso gigantesco tentacolo con il solo indice.

Approfittando della distrazione di quella creatura che cercava di capire come accidenti facesse un essere così piccolo rispetto a lui a fermarlo, il Veggente si era volatilizzato da davanti quella bestia per materializzarsi subito dopo sull’altura dove si trovavano le due donne:

«Signore mie, credo che i giochi qui siano finiti, soprattutto perché avverto chiaramente un Interstellar in avvicinamento dal fronte orientale» asserì indicando con la coda dell’occhio una vaghissima figura dalle forme indistinte che emergeva dall’altro versante della catena di Osterhagen «Non per dire, ma se si insospettiscono troppe persone le cose non si metteranno bene… per voi, ovviamente.» rifletté facendo spallucce.

Fra le due, Mother Galaxy era quella che capiva meglio ciò che intendeva con quelle parole, complice il fatto che il ruggito dell’Interstellar le avesse appena iniziato a rimbombare nella mente: «Credi che Idhunn sappia che-»

«No. Non ancora, almeno. Ma lo scoprirà presto, molto presto: quella bestiola fa un po’ troppo rumore mentre si lamenta, e se fossi in voi eviterei un confronto diretto con la capofamiglia dei Chandrasekhar, per cui…» tirò un sospiro annoiato mentre i filamenti azzurri dell’occhio sulla sua fronte si aggrovigliavano intorno alle braccia.

La pelle delle mani diventò quasi trasparente, lasciando visibile sotto di essa solo una sorta di manto stellato di un nero intenso:

«Meglio che torniate entrambe a casa. La vostra, però. Quindi, signore mie, direi che per voi il tempo delle visite è concluso, almeno per og-»

«Non puoi farlo! Non puoi rispedire me al Palazzo della Creazione! Non ti devi nemmeno azzardare!» gli urlò contro senza nemmeno accorgersi della terra che sotto di lei e Comet si stava trasformando in polvere nera luccicante «Io sono Mother Galaxy, Regina delle Galassie, sovrana del Palazzo della Creazione, il luogo dove io governo lo spazio e il tempo: io sono nata dalle stelle, dalle stesse stelle che posso spegnere come se nulla fosse, e tu… tu non devi nemmeno permetterti di dirmi cosa posso e cosa non posso far-»

«Io sono il Veggente. Io posso.» concluse muovendo appena il dito e facendole scomparire inghiottite da quei portali, i quali avevano lasciato dietro di sé due sagome a forma di occhio scavate nella fredda e dura roccia.

Tornato tutto alla normalità, braccia comprese, si guardò intorno compiaciuto: lui era il Veggente.

Le sue visioni non sbagliavano mai.

Mai.

 

 

Nonostante Orionis III fosse distante un numero non indifferente di anni luce dalla Terra, i pensieri che affollavano la mente di Emily Jane Pitchiner parevano poter giungere in ogni angolo del cosmo da quanto erano insistenti.

Probabilmente avrebbe dovuto provare vergogna e rimproverare a se stessa il gesto alquanto villano di essere fuggita dalla battaglia -o presunta tale- nella quale suo padre era rimasto coinvolto, ma tutto ciò che sentiva dentro di sé non era altro che un profondo senso di sollievo: era considerata una codarda da quando aveva abbandonato -a detta delle fonti “ufficiali” dettate dai Guardiani, e soprattutto da Harmonia- il suo stesso regno, esserlo considerata nuovamente per aver lasciato il suo caro papino a combattere da solo non avrebbe fatto differenza, non davanti ad una dignità che ormai nemmeno più aveva.

Accovacciatasi sulle sponde di un piccolo ruscello, Emily non poté fare a meno di fissare la propria immagine riflessa nell’acqua con un certo disgusto: le guance scavate e gli occhi infossati segnati da delle profonde occhiaie, il suo sguardo color oro ridotto a due sfere opache che non trasmettevano più nulla, i capelli che qua e là lasciavano intravedere il capo nudo, il tutto unito a quegli abiti logori, sporchi, strappati… quella non era Madre Natura, era una pezzente.

Era l’ombra della Regina che era stata, niente di più: una ragazza come tante altre vestita con degli abiti recuperati dagli scarti -gli scarti!- di alcuni umani, anziché con i pomposi vestiti color smeraldo ai quali era abituata, obbligata a starsene vicino a quella discutibile figura di suo padre se voleva mettere la testa fuori di casa perché, nelle condizioni in cui versava da trent’anni a quella parte, difendersi autonomamente era diventato pressoché impossibile.

Se un tempo Madre Natura era la stessa donna il cui nome incuteva timore e rispetto nella mente di chi lo sentiva anche solo pronunciare, e se prima i suoi poteri erano talmente smisurati da renderla quasi una dea agli occhi di molti, ora di quella figura non restava che una mocciosa stanca e scarnita che faticava persino ad evocare un fragile rametto verdognolo dalla dubbia utilità; Emily non aveva solo perso tutta la sua credibilità, aveva perso con essa la stragrande -per non dire tutti­- maggioranza dei propri poteri donatagli da Typhan non ricordava nemmeno quanto tempo prima, gli stessi poteri che un tempo avrebbero fatto tremare la terra e l’aria.

Un tempo lo avrebbero fatto, non ora: perché adesso, ad Emily Jane, non restava altro che qualche rimasuglio della sua forza originaria, un contentino che aveva ottenuto con diversi anni di sforzi immani ma che, a conti fatti, la rendeva dipendente da qualcuno nel caso in cui si fosse prospettata un qualche scontro.

E quel qualcuno, purtroppo per lei, era anche l’unica persona che le era rimasta al mondo, e cioè quel suo adorabile padre che rispondeva al nome di Pitch Black: stentava ancora a chiamarlo così, a chiamarlo “papà”, dal momento che non si era fatto sentire per tempo immemore rispuntando solo quando era stato miseramente, ma in quello stato non aveva comunque avuto molta scelta se non accettare di seguirlo e sopportarne le conseguenze.

Le conseguenze tipo quello schiaffo dato davanti a tutti i Guardiani, l’ennesimo di tanti altri che aveva già ricevuto da diversi punti di vista, fisici o psicologici che fossero: non le bruciava tanto il fatto che l’avesse schiaffeggiata, a quello era già abituata fin da piccolissima, era proprio il chi l’avesse schiaffeggiata a scavarle un solco profondo quanto l’Abisso nell’anima, a farle stringere i pugni per la rabbia afferrando un sasso e scagliando nell’acqua, dove la sua immagine si era persa fra le mille onde concentriche.

Era stato Pitch Black, suo padre, un povero disgraziato compatito da tutti gli altri Guardiani da quanto si era rivelato incapace di gestire il potere dell’oscurità che era arrivata a divorare tutti i sogni e le speranze dei bambini della Terra, un potere tanto grande quanto sprecato, dal momento che Pitch stesso era stato miseramente -molto miseramente- sconfitto da un branco di bambini urlanti nonostante la temporanea mancanza di Sandman.

Un branco di mocciosi, accidenti!

Emily sorrise appena: non aveva mai sopportato i bambini, provava verso di loro un senso di fastidio interiore che non sapeva spiegarsi, forse perché vederli tutti belli felici a godersi la loro infanzia le ricordava che lei un’infanzia nemmeno l’aveva avuta, non felice almeno, e di certo non circondata dall’amore e dall’affetto di una famiglia; si strinse le braccia al petto facendo per abbracciarsi da sola mentre cercava di respingere le lacrime che le riempivano gli angoli degli occhi, non avrebbe più permesso a se stessa di affogare in una serie non meglio definita di ricordi che comprendevano omicidi siderali e guerre e tanta -troppa- solitudine, non dopo tutta la fatica che aveva fatto per rilegare quei ricordi in un luogo inaccessibile nella sua mente!

Subito dopo quel breve crollo, però, venne un istante in cui non sentì più nulla dentro di sé e intorno a sé, c’era solo un inquietante vuoto colmato da un silenzio a dir poco assordante, un omento durante il quale prese a toccarsi con insistenza il capo ed i vestiti: le avevano portato via i capelli, i suoi meravigliosi capelli corvini che toccavano terra come se fosse un modo per comunicare con la natura stessa, le avevano metaforicamente strappato le vesti di Regina di dosso lasciandola nuda con la sua dignità che le scivolava fra le mani, le avevano portato via con violenza inaudita i poteri che aveva ricevuto in dono da un titano poi ferocemente ucciso per averla aiutata e protetta da dei demoni travestiti da angeli.

Lo avevano fatto i Guardiani, lo aveva permesso Manny… ma soprattutto Harmonia aveva dato il colpo di grazia, era stata lei a farlo.

Improvvisamente, gli occhi di Emily Jane Pitchiner presero a brillare con rinnovato ardore, forti di quel sentimento che si stava impossessando della sua mente secondo dopo secondo, dopo tre decenni passati ad essere costantemente represso dietro la consapevolezza che i suoi poteri non bastavano nemmeno a far sbocciare un fiore: avrebbero pagato tutti, tutti, dal primo all’ultimo, il solo pensiero le diede la forza di evocare un piccolo viticcio intorno alle proprie dita che vi si arrampicò desideroso di stringere le spine intorno alla sua pelle diafana.

 

Avrebbero pagato i Guardiani, per essere stati a guardare mentre Madre Natura crollava in ginocchio con il petto svuotato dall’essenza stessa del suo ruolo.

Avrebbe pagato Manny, per non aver mosso nemmeno un dito quando avevano ucciso Typhan prima, e quando avevano ucciso psicologicamente lei dopo.

Avrebbe pagato Harmonia, soprattutto Harmonia, per aver guidato la sua rovina dall’alto della sua grandezza equina, per averla umiliata, per averla ridotta ad una pezzente.

 

Avrebbero pagato, certo… ma come?

Quell’interrogativo imprevisto fece tornare Emily con i piedi per terra, facendole anche notare con orrore che le spine di quella piantina le si erano conficcate nella pelle, ma non diede nemmeno troppo peso a quel piccolo dolore quasi insignificante: osservando i sottili rivoli di sangue rosso pallido, l’ormai decaduta Madre Natura si rese conto che i piani di vendetta che si trascinava dietro da trent’anni a quella parte non avrebbero potuto andare in porto nemmeno per sbaglio, considerando l’irrisoria quantità di potere a sua disposizione.

Non avrebbe potuto fare nulla da sola, figurarsi cercare lo scontro con un gruppo di Guardiani pronti a difendersi gli uni con gli altri con le unghie e con i denti, e di affrontare direttamente Harmonia non c’era nemmeno da parlarne: l’avrebbe cacciata nell’Abisso insieme a Phobos prima ancora che potesse varcare i confini di Phantasia, quella giumenta osannata e amata da tutti!

O quasi, almeno.

Tutte le preoccupazioni che affollavano la mente di Emily Jane Pitchiner sparirono in un istante senza che nemmeno se ne potesse rendere conto: Harmonia era amata da tutti… o quasi, perché sicuramente qualcuno che voleva fargliela pagare quanto lei c’era per forza, e quel qualcuno avrebbe potuto essere un suo alleato.

Ecco cosa le serviva, un alleato, un alleato e nient’altro!

Con un’espressione raggiante dipinta sul volto ed un sorriso a tratti inquietante, Emily si rese conto che forse era finalmente arrivato il momento del riscatto per lei, quello che aspettava impazientemente da quando aveva perso tutto ciò che aveva: era solo questione di tempo, doveva solamente sopportare qualche altra umiliazione, abbassare la testa, essere accondiscendente con suo padre o chiunque altro e attendere qualche tempo.

Aveva atteso per trent’anni, avrebbe aspettato ancora.

 

 

________________________________________________________

 

Angolino dell’autrice

 

Eccomi qui con questo capitolo che è un po’ una pausa fra quello che sta accadendo a Phantasia e la famosa partita a scacchi che certa gente sta giocando senza farsi notare :3

Prima di tutto, vorrei solo dire che sulla questione cracker-kraken-quella-cosa-riferimenti-random non mi pronuncio più di tanto per evitare spoiler su fanfiction che non sono mie, ma ringrazio _Dracarys_ per avermi dato il permesso di infilare genteH, ed anche per avermi dato una mano enorme a sistemare l’ultimo pezzo del capitolo stesso <3

Per il resto non ho moltissimo da dire, solo due parole su Mother Galaxy: è un personaggio più importante di quanto sembri in questa fanfiction ed avrà una long tutta sua dove questa importanza verrà del tutto fuori, ma spero che il suo ruolo inizi ad essere delineato a sufficienza già da ora.

Come quello del Veggente, del resto, ma su di lui è meglio se non dico nulla perché si tratta di uno spoiler unico! :’D

Penso di aver detto tutto, quindi vi lascio con l’aspetto di Mother Galaxy :D

 

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Capitolo 9
*** Shattered mind ***


Un lieve pizzicore sulla nuca l’aveva svegliata durante il suo sonno già di suo non poco agitato, portando Emily Jane a darsi un leggero schiaffo sul collo, come se stesse scacciando un qualche insetto responsabile di quella spiacevole sensazione appena provata; continuando a tenere il volto immerso nel cuscino e mugugnando qualcosa, si mise a tastare pigramente le coperte che l’avvolgevano nonostante fosse ancora mezza addormentata, constatando però l’assenza di ospiti indesiderati.

Passò qualche minuto così, con il corpo premuto a pancia in giù sul letto e le braccia abbandonate lungo i fianchi fuori dalle lenzuola, poi si decise a girare la testa alla propria sinistra: il letto era sfatto da quel lato, con la coperta tirata da una parte per liberarsi da quel bozzolo e probabilmente alzarsi, il cuscino visibilmente stropicciato per l’utilizzo e abbandonato lì mentre pendeva pericolosamente verso terra.

Emily sorrise appena, posò la mano sulle lenzuola ancora calde ed iniziò ad accarezzarle bisbigliando parole incomprensibili: come a cercare un ulteriore rifugio, Madre Natura afferrò anche l’altro cuscino salvandolo dalla sua caduta verso il pavimento e lo strinse a sé perdendosi nell’inconfondibile profumo che emanava, cardamomo e cedro se non sbagliava.

E sapeva di non stare sbagliando.

Dall’alto del suo millennio e mezzo circa di vita, Emily Jane Pitchiner ricordava una sola persona che utilizzasse quella particolare fragranza, un odore di casa e nostalgia che la riportò indietro di sette secoli nel giro di pochi preziosi istanti.

Gettando lo sguardo verso le scale che portavano ai rami più alti dell’Albero di Olduvai, le sembrò di rivedere le due sagome che erano solite occuparlo sdraiate su una pila di morbidi cuscini dai motivi floreali, le parve addirittura di odorare in lontananza il gusto della Red Velvet che l’aspettava ogni singola mattina mentre era ancora rintanata sotto le coperte… ah, le coperte!

Ad Emily scappò un mezzo sorriso vagamente malizioso ripensando a cosa avevano visto quelle lenzuola, se avessero potuto parlare probabilmente persino suo padre si sarebbe chiuso la bocca da solo sul rimproverarle la frigidità latente che aleggiava intorno alla figura di Madre Natura… o forse no. Conosceva fin troppo bene suo padre ed il suo malsano modo di ragionare, sapeva perfettamente che non avrebbe mai ammesso di essere dalla parte del torto nemmeno se fosse stato ovvio, se poi si trattava di dare ragione a lei probabilmente Pitch avrebbe preferito tagliarsi un pezzo di naso piuttosto che riconoscerlo.

Il che non sarebbe stato un male, dal momento che quella era l’unica parte del corpo del sovrano degli incubi degna di poter essere definita un vero e proprio “incubo”, dei chirurghi di rinoplastica però.

Non aveva idea di come avesse fatto, ma quel pensiero era riuscito a strapparle addirittura una risatina nemmeno troppo contenuta, una cosa praticamente impensabile se si parlava di suo padre dal momento che, da 1500 anni circa a quella parte, l’unico effetto che quell’uomo aveva sulla sua psiche era di far tornare a galla ricordi che Emily aveva faticato a sommergere di odio, rancore e tanta, troppa, solitudine, e quella Madre Natura non la reggeva troppo bene.

Prima che le cose potessero degenerare e ridurla nelle solite condizioni pietose in cui biasimava se stessa per non avere più un briciolo di dignità, Emily Jane girò distrattamente la testa verso il terrazzo.

 

E sentì il cuore perdere un battito, poi un altro, sentì il respiro che le moriva in gola e la bocca diventare secca all’improvviso, gli occhi spalancarsi in un misto di stupore e paura.

Non poteva credere a ciò che stava vedendo, non doveva crederci.

Non era reale, non poteva essere reale.

 

Rifletté qualche istante, avanzando diverse ipotesi che spiegassero ciò che si trovava davanti: prima ipotesi, ipotesi del fantasma.

Al solo pensiero, e nonostante nella sua testa ci fossero il panico e la confusione più totali, Emily purtroppo non riuscì a controllare il suo lato canoro:

«If there's something strange, in your neighborhood, who you gonna call? GHOSTBUSTERS!» iniziò a canticchiare urlando l’ultima parola a squarciagola, dondolando la testa da una parte all’altra per stare al ritmo «If there's something weird, and it don't look good, who you gonna call? GHOSTBUSTERS!».

Che scena pietosa, avrebbe dovuto vergognarsi di se stessa… ma anche no, forse non sarebbe stata una brutta idea chiamare i Ghostbusters in caso di spiriti malevoli sul terrazzo, e comunque lo riteneva un buon modo per esorcizzare il terrore che la stava attanagliando.

Poi ci pensò meglio, all’ipotesi del fantasma, e concluse che in realtà non era Halloween, quindi non c’erano fantasmi in giro per la Terra per i quali si sarebbe dovuta chiamare la disinfestatrice dal regno dei morti -nonché simpatica vicina di casa delle sovrane di suddetto regno-, inoltre non sentiva nemmeno l’odore di tacos unti e bisunti in lontananza accompagnato da curiose incitazioni al “farsi farcire come un burrito coperto di salsa al formaggio”.

A lei nemmeno piaceva, il formaggio.

Ipotesi del fantasma scartata.

 

Un altro lampo di genio aggiunse un’ipotesi a quella precedente, e cioè che fosse suo padre in vena di fare scherzoni, quelli belli proprio, magari in occasione del pesce d’aprile.

Emily guardò meglio la figura che aveva davanti, cercando di distinguerne per bene i contorni: vada per il corpo snello che avvalorava la sua tesi, vada anche per la pelliccia che forse era quella famosa che Pitch aveva ricevuto in dono dal Grinch -non voleva nemmeno sapere come-, ma ciò che aveva messo alle strette questa nuova possibilità era la mancanza di un naso di dimensioni immani come quello di suo padre, ed Emily Jane concordava sul fatto che sarebbe stato praticamente impossibile da nascondere.

Ipotesi dello scherzo epico finito male scartata.

 

Senza distogliere lo sguardo dall’oggetto delle sue ipotesi, Emily Jane si issò sui gomiti per passare dalla posizione sdraiata nella quale si trovava fino a sedersi sul suo lato di letto: strinse le esili quanto pallide dita intorno ai lembi della vestaglia trasparente color smeraldo -uno dei pochissimi abiti che le ricordavano ancora i bei tempi andati- che portava addosso, iniziando ad allacciare freneticamente uno per uno i bottoni dorati finemente lavorati all’altezza del seno fino a quando non fu certa di averli chiusi per bene tutti.

Sì guardò di nuovo intorno cercando di capire se stesse sognando o se fosse tutto reale, si diede addirittura un pizzicotto sulla guancia ricavando giusto un dolore che indicò la veridicità di ciò che stava assistendo e provando, eppure non si sentiva affatto meglio di come si sentisse prima, di quando la terza e ultima ipotesi si era insinuata nella sua mente.

 

Che fosse tutto frutto di un brutto scherzo della sua psiche, un diabolico quanto intricato piano del suo cervello che creava false percezioni per farle credere che la persona che stava vedendo -la quale se ne stava con i gomiti placidamente poggiati sulla ringhiera di rami intrecciati quasi ad attenderla- fosse la stessa che aveva visto morire settecento anni fa.

Perché quel profumo, quello di legno di cedro e cardamomo, era più di una semplice fragranza a lei famigliare: era odore di casa quando Emily Jane Pitchiner ancora era una sovrana rispettata -amata non proprio, ma anche quello era meglio di niente- dal suo popolo, odore di un amore che era riuscito a tirare fuori il meglio da Madre Natura nonostante le sue resistenze, odore di “per te farei durare l’inverno per secoli, solo per avvolgerti in una coperta ed imboccarti di cioccolata calda e brownies in eterno” quando credeva ancora a quella promessa.

Era odore di morte, soprattutto quello.

Perché Marigold Temporibus era caduta insieme alle sue sorelle, era morta in nome di una regina -la sua regina- che non aveva portato il lutto nemmeno per un istante, indaffarata a maledirla com’era per aver trascinato con sé nel baratro anche il Seme, il cuore pulsante di Tandokka stessa.

Marigold non era viva, era morta, morta, e quello era tutto uno scherzo della sua stramaledetta mente che voleva farla impazzire: ecco qual era la terza ipotesi, che non la stesse perseguitando il fantasma della Guardiana dell’Inverno, ma che fosse il suo stesso senso di colpa a rincorrerla anche nelle pieghe della notte, oltre a quelle del giorno.

Perché nella notte, lei lo sapeva bene, c’era una cosa che non poteva raggiungerla: il buonsenso.

Il buonsenso che le diceva di non avvicinarsi oltre.

Il buonsenso che le diceva di lasciar perdere e tornare a letto.

Il buonsenso che le diceva quanto non fosse saggio trovarsi a dieci centimetri da Marigold -o dal suo fantasma, dal suo spirito, da qualsiasi cosa fosse- fissandola con gli occhi vuoti ed il volto contratto in un’espressione tanto stupita quanto indifferente.

Ma il buonsenso, appunto, di notte non sfiorava minimamente Madre Natura, e per quello stesso motivo ora si trovava esattamente dove non avrebbe dovuto trovarsi ed a fare ciò che non avrebbe dovuto fare con una persona che in quel momento non avrebbe dovuto essere viva, naturalmente.

 

Se Emily era immobile come una statua completamente in balia di emozioni contrastanti, con la voglia di piangere e ridere mista a quella di strapparsi ciò che rimaneva dei suoi capelli, allora l’altra pareva perfettamente calma, quasi divertita a dirla tutta. Forse stava impazzendo, forse era già pazza ma non riusciva ad accettarlo -il che era decisamente probabile-, fatto stava che persino le foglie della radura lì intorno parevano banchi di pesci guizzanti che ondeggiavano al ritmo della brezza notturna, proprio come facevano i lunghi ricci color ebano di Marigold.

Proprio come le lanterne azzurrine illuminavano i rami più alti dell’Albero di Olduvai ed il terrazzo stesso, così gli occhi di un intenso color smeraldo della guardiana erano gli unici punti luminosi presenti suo corpo, poiché esso era interamente coperto da una soffice pelliccia bruna dalle più svariate sfumature del marrone, eccezione fatta per le screziature bianco-grigiastre che apparivano qua e là sugli arti e sul busto e le piccole corna ricurve color antracite che facevano capolino fra i capelli.

Emily la squadrò qualche istante da capo a piedi -o meglio, da corna a zoccoli- restando in silenzio, si diede un pizzicotto per l’ennesima volta, poi un altro e un altro ancora: non poteva essere tutto reale, non doveva esserlo.

Eppure lo sembrava, lo era.

Strinse ancora di più la vestaglia al petto fino a quando non sentì le nocche intorpidirsi, fece lo stesso con le palpebre sforzandosi di non piangere dalla disperazione o dalla felicità o da qualsiasi accidenti di sentimento la stessa consumando in quel frangente, ma sapeva che era una sfida che avrebbe perso in partenza: avrebbe voluto scappare nel letto e gettarsi sotto le coperte pregando di addormentarsi, addormentarsi e non svegliarsi mai più.

Improvvisamente, persino le gambe si rifiutarono di sostenere il peso della sua esistenza tormentata e decisero di cedere, facendola crollare a terra mentre le lacrime sgorgavano a fiumi dai suoi occhi dorati, lacrime che mentre scendevano lungo le guance sembravano tizzoni incandescenti che le bruciavano l’anima, o almeno ciò che ne rimaneva.

Ma il corpo di Emily Jane terra non la toccò mai, al posto del freddo del pavimento e delle radici che le squarciavano le vesti sentiva solo una stretta calda e morbida che l’aveva accolta nel momento in cui lei stava collassando inerme, e che ora la stava stringendo a sé con fare materno. Chiuse gli occhi piano, quasi avesse paura che se li avesse riaperti sarebbe svanito tutto come sabbia fra le dita di un bambino, e si abbandonò completamente a quel bozzolo caldo che la confortava adesso esattamente come l’aveva confortata per tre secoli interi, settecento anni prima.

Il calore sulla pelle, il sollievo per i suoi occhi stanchi di piangere, il sentirsi amata standosene semplicemente fra le sue braccia, i flebili sussurri per tranquillizzarla e dirle che sarebbe andato tutto bene, la sicurezza che quell’abbraccio le trasmetteva… ora lo sapeva, ne era assolutamente certa, non c’era più dubbio alcuno per Emily Jane Pitchiner: era tutto vero, tutto.

Marigold c’era veramente, la stava confortando per davvero, gli occhi colori smeraldo che ora -dopo averle sollevato il mento- parevano star facendo l’amore con i suoi da quanto lo sguardo fosse intenso erano vivi, vivi!

Lo giurò a se stessa, agli astri che stavano assistendo a quella scena, lo giurò ad ogni foglia che in quel momento stava cadendo, a quelle che lo avevano già fatto e quelle che sarebbero cadute: mai più, mai, avrebbe permesso che le portassero via di nuovo la donna che amava, potesse il Sole sorgere ad Occidente e tramontare ad Oriente se mai avesse infranto quella promessa!

Accettò di buon grado la mano che Marigold le offrì per aiutarla a rialzarsi da quella condizione di miseria nella quale si trovava -che alla fine era un po’ la metafora della sua esistenza negli ultimi tre decenni-, lasciò che nell’alzarla da terra le sfiorasse la vita provocandole un brivido che aveva scordato di poter provare, non si oppose nemmeno quando ci mancò poco che le labbra della guardiana sfiorassero le proprie nel sistemarle i capelli, che l’altra stava osservando confusa.

Madre Natura si coprì la testa con le mani arrossendo e provando un senso di immensa vergogna: aveva scordato quel piccolo e sicuramente non evidente dettaglio della sua persona, il marchio che si portava dietro a ricordarle di come era stata sconfitta e umiliata e rinnegata dalla Regina della Fantasia trent’anni prima, che aveva rovinato le cose tante volte e che, ora, stava rovinando in modo irreparabile un momento che avrebbe dovuto essere l’unico felice in tanti disastrosi che aveva passato.

Del resto ormai ci aveva fatto l’abitudine, al trovarsi qualcuno o qualcosa che rovinava ogni singolo istante normale della sua vita, non avrebbe dovuto farsi tanti romantici viaggi mentali sul fatto che -settecento anni dopo- Marigold Temporibus potesse ancora amare la donna che aveva perso, specie se questa era totalmente differente.

Ma la guardiana non sembrava disturbata dal cambio di look, tutt’altro: delicatamente, prese le mani dell’altra e le scostò dal suo capo incurante della resistenza che incontrava nel farlo, poi chinò leggermente la testa e le diede un bacio sui capelli come a dirle “Va tutto bene, sei bellissima anche così”, le parve addirittura di sentir uscire quelle parole dalle sue labbra nonostante non avesse ancora proferito parola. Marigold la guardò e sorrise, e allora la giovane Pitchiner capì: no, non c’era bisogno che glielo dicesse, lei l’amava ancora come l’aveva amata un tempo.

Emily ricambiava, non aveva mai smesso di farlo, e Goldie pareva averlo capito ben prima di lei: capito che la compagna si era tranquillizzata, con dolcezza infinita le aveva preso il viso fra le mani e l’aveva messa fronte a fronte con la propria socchiudendo gli occhi e sussurrandole qualcosa di indecifrabile, ma che a quanto pareva riguardava con buona probabilità l’avvicinarsi dei loro visi con la chiara intenzione di baciarla dopo tutto quel tempo che non lo faceva.

Bacio che l’altra fermò prontamente.

“Come se ci si potesse aspettare altro da una frigida come te”, avrebbe detto suo padre con quella sua solita faccia da schiaffi -e pugni, e calci, e rinoplastica, soprattutto quella-, ma Madre Natura sapeva bene cosa stava facendo, lo sapeva fin troppo bene.

Emily si era opposta a quel bacio sì, ma solo per prendere le mani di Marigold e guidarle lentamente verso i suoi fianchi pallidi e scheletrici sui quali la vestaglia cadeva larga, sentendo chiaramente il calore delle dita della guardiana che scivolano sulla propria pelle attraverso la stoffa che pareva potersi lacerare da un momento all’altro: assaporò ogni singolo morso che Marigold stava dando al suo esile collo dopo aver infilato la testa nell’incavo della sua spalla, ora che i ruoli si erano invertiti era lei che stava cercando rifugiò là in mezzo.

Era certa che Emily Jane le avrebbe lasciato fare, e invece all’ennesimo tocco delle labbra sul suo corpo venne bruscamente fermata senza che potesse capirne il motivo, finì per staccarsela proprio di dosso; inutile dire che Marigold venne presa totalmente alla sprovvista da quel gesto, e finì per andare a cercare conferma o conforto o qualsiasi cosa fosse nel volto della donna che aveva davanti: né paura, né dolore e nemmeno rimprovero provenivano dagli occhi dorati di Madre Natura, no, tutto ciò che ora riusciva a vedere era una luce nuova ma a lei familiare, una luce che conosceva bene e che diceva di fare una sola cosa.

Abbandonarsi alla passione.

 

Letteralmente gettatasi al collo della compagna, Emily non aveva perso ulteriore tempo e aveva iniziato a baciarla avidamente con una passione più ardente del fuoco di riscatto che le bruciava dentro, le stesse labbra delle due donne parevano avere vita propria mentre danzavano preda di quell’incontrollabile frenesia, la stessa con la quale i loro corpi si erano fusi in uno solo quando Marigold l’aveva sollevata da terra afferrandole saldamente le natiche.

La baciò ancora, e ancora, e poi ancora, ogni bacio scavava la pelle sempre più a fondo, scendeva sempre più in basso, dalla bocca al collo e poi alle clavicole pareva che la stesse divorando; anzi, in un certo senso lo stava pure facendo, altrimenti non avrebbe afferrato con i denti i bottoni della vestaglia per farli saltare uno ad uno, facendo allentare la veste che ricadde mollemente sulle braccia di chi la stava indossando.

Stava per dire qualcosa, Madre Natura, ma venne zittita dallo spasmo improvviso che le attraverso il corpo quando il volto della compagna affondò fra i suoi seni nudi e ormai piacevolmente indifesi; Goldie non indugiò certo nell’esplorarli con intensità sempre crescente, di tanto in tanto si soffermava giusto per gustarsi l’espressione di piacere che si dipingeva sul volto della sua regina e per sentirla mentre le chiedeva di continuare, pareva quasi che fosse alle prese con una mappa del tesoro da quanta concentrazione ci stava mettendo!

Tesoro che Marigold aveva trovato senza problemi, qualche istante dopo, e che si era affrettata a stringere piano fra i denti quasi temesse che gli potesse scappare da un momento all’altro

Pure Emily Jane temeva che -sempre da un momento all’altro- le uscisse dalla bocca un gemito che stava tentando di reprimere con uno sforo immane da prima, da quando aveva sentito le labbra della compagna chiudersi intorno al suo capezzolo roseo, ma era ben consapevole che la sua era in tutto e per tutto una battaglia dalla quale non poteva uscire vincitrice.

Anzi, non voleva proprio: bastò un istante solo, quello in cui la lingua dell’altra prese a giocare con quella sua zona erogena mantenendo salda presa, ed Emily Jane Pitchiner aveva ceduto completamente e senza inibizione alcuna, abbandonandosi ad un grido di piacere né strozzato, né trattenuto in alcun modo, si era semplicemente lasciata andare in tutto e per tutto.

Goldie aveva alzato leggermente lo sguardo al sentirla gemere, forse sorpresa che avesse osato tanto, forse compiaciuta dal sentire forte e chiaro i risultati del suo lavoro, stava di fatto che aveva preso quel gemito quasi come un segnale che poteva andare oltre, e non se lo era certo fatto ripetere due volte. Fortunatamente per entrambe, la guardiana era abbastanza forte perché una mano potesse reggere Emily da sola, o forse era quest’ultima ad essere troppo magra: fece scivolare la mano libera sotto la vestaglia trovando presto la pelle morbida del gluteo che premeva sul suo palmo, si fermò ad accarezzarlo solo per un fugace momento e poi via, sempre più giù, fino ad insinuarsi con le dita in mezzo alle sue cosce umide e calde che al solo tocco erano state scosse da un fremito.

Emily Jane la guardò con la faccia di chi è appena stato bruscamente svegliato da un sogno: una parte di lei si rimproverò perché non aver indossato l’intimo prima di coricarsi, un’altra -quella che aveva avuto la meglio, per giunta- si mordeva le labbra ringraziando quella svista capitata al momento giusto e, soprattutto, con la persona giusta. Si strinse forte al collo di Marigold premendo la testa sulla sua spalla ogni volta che l’altra sfiorava la sua intimità strappandole gemiti sempre più intensi, sempre più frequenti: fra una carezza e l’altra, fra un morso e l’altro, a Madre Natura parve addirittura di sentire in terza persona la propria voce gridare il nome dell’amante senza il suo consenso, quasi l’ardore dal quale si stava lasciando trascinare l’avesse catapultata in una dimensione parallela.

Poi un dito si insinuò nel suo grembo, e allora Emily Jane Pitchiner e la sua dimensione erano andate in frantumi in un’esplosione di piacere incontrollabile.

 

Le si accasciò addosso ancora scossa dai brividi e già completamente stremata, gli occhi socchiusi e le mani abbandonate mollemente al collo dell’altra, ancora dentro di lei; dovette pazientare non poco prima di prendere coscienza di sé, ma quando lo fece sentì chiaramente le carezze profonde, intime, che Marigold le stava dedicando mentre la riportava dal terrazzo nella sua stanza, la loro stanza, fermandosi ai piedi del letto.

La guardiana la guardò come a chiedere il suo permesso per continuare, e lei annuì sorridendo; la posò delicatamente sulle lenzuola senza smettere un attimo di baciarla, prese i cuscini che aveva precedentemente scansato e glieli mise dietro la testa per farla stare più comoda chiedendole conferma, e in un attimo su sopra di lei con le mani poggiate sul materasso.

Emily allungò le braccia sui fianchi dell’altra, le dita esili che si perdevano e parevano scomparire fra la spessa pelliccia marrone della guardiana dell’inverno, poi prese a risalire lentamente come se stesse verificando che fosse tutto vero: prima i fianchi, poi la vita e l’addome, dopo risalì lungo il seno -completamente nascosto dal pelo- e infine il collo ed il volto, che si mise a studiare qualche istante.

Era bella, bellissima, la creatura più incantevole che avesse mai conosciuto in più di un millennio di vita: ed era solo sua, sua e di nessun’altra.

All’inizio, però, la giovane Pitchiner qualche dubbio che fosse lei per davvero lo aveva nutrito eccome, non riusciva a capacitarsi di come fosse possibile che Marigold Temporibus -che pure era certa di aver visto morire davanti ai suoi stessi occhi, quel giorno maledetto in cui Apophis era disceso a Tandokka- fosse viva e vegeta, che non fosse sconvolta quanto lei di averla rivista dopo sette secoli, e che anzi stesse facendo l’amore con lei. Ma i dubbi erano durati abbastanza perché permettesse loro di avere la meglio ancora una volta, aveva passato troppo tempo a illudersi di scorgerla dietro ogni angolo, in cima ad ogni scala, ad aspettarla dietro ad ogni porta: era lei, era vera, ne era sicura.

E per chi avesse avuto ancora qualche dubbio in proposito nessun problema, Emily avrebbe mostrato a quel qualcuno la vestaglia che ora Marigold le aveva tolto lasciandola nuda in balìa delle sue premure: la stoffa umida all’altezza dell’interno coscia avrebbe convinto anche i più scettici in merito all’autenticità del suo orgasmo, forse addirittura suo padre.

Finalmente libera di sentire il contatto diretto con la sua pelle senza più abiti ad impicciarla, la guardiana fu finalmente libera di iniziare a baciarla ovunque -e con ovunque si intente proprio dappertutto, anche in posti dove posti non ci sono-, soffermandosi ora sul suo seno, ora sul collo, ora invece vicino alle orecchie, per poi magari scendere verso l’addome: non c’era un ordine preciso in ciò che stava facendo, e non era certo l’ordine che Marigold che stava cercando, solo il piacere. Accavallò una delle sue gambe a quella dell’altra, trovandosi con l’inguine che sfregava sulla stessa, lasciandosi scappare un mugolio sommesso: non si fermò nemmeno allora, no, continuò imperterrita nella sua cascata di effusioni al corpo dell’amata come se volesse recuperare in un colpo solo tanti secoli di lontananza, ed a giudicare dai risultati ci stava riuscendo bene, molto bene.

Talmente bene che, appena i suoi baci si avvicinarono all’inguine di Emily Jane, quest’ultima le premette la testa dove già la stava tenendo per assicurarsi che capisse ciò che voleva le venisse fatto, ciò che pretendeva le venisse fatto: Goldie lo aveva capito, oh se lo aveva capito, ma non era intenzionata a soddisfarla subito, certo che no.

Tornò alla posizione di prima, questa volta sedendosi sulle ginocchia e liberandosi a malincuore della presa della giovane Pitchiner, alla quale allontanò piano le mani racchiudendole nella sua e sistemandogliele con dolcezza sopra la testa: non oppose resistenza, Emily, invece la lasciò fare mordendosi le labbra e abbandonando mollemente le sue gambe, ora che Marigold gliele stava delicatamente piegando verso il petto sdraiandosi davanti ad esse.

Prese a riempirgliele di baci partendo dal polpaccio e risalendo lentamente fino alla coscia, dove si concentrò alternando momenti in cui la sfiorava ad altri in cui la prendeva a piccoli morsi, segni indelebili su quella pelle diafana che venivano sanati dal passaggio della sua lingua calda e leggermente ruvida. L’altra tratteneva a stento le suppliche di darle finalmente ciò che attendeva pazientemente da quando si erano riabbracciate, ogni tanto tentava inutilmente di stringere le gambe ma veniva puntualmente fermata dalla presa salda di Goldie, che di rimando gliele allargava quel poco in più che bastava a farle capire che aveva intenzione di fare tutto, ma non di fermarsi.

Sollevò un’ultima volta la testa, poi sparì non si sa dove.

Ma a giudicare da come gridava Emily una mezza idea ce la si poteva pure fare, e pure senza impegnarsi troppo con l’immaginazione.

 

 

“And who are you”, the proud queen said

“that I must bow so low?”

 

Aprì gli occhi di scatto, allarmata: una voce, le era parso di udire una voce che… cantava? Si guardò intorno: no, probabilmente era solo frutto della sua mente letteralmente in visibilio dal piacere che provava ad ogni movimento della lingua della sua amante perduta, ecco cos’era.

 

“A naughty girl with a gold armor,

that’s all the truth I know”.

 

L’aveva sentita di nuovo, quella voce, ma ora era parsa più simile ad un coro… no, no, no! Doveva smetterla di farsi tutte quelle fantasie, stava rovinando tutto come solito! Non era niente, non c’era nessuno, solo loro due, punto: basta paranoie, basta agitazione, basta a tutto ciò che non fosse fare l’amore con la donna che amava.

Chiuse gli occhi, infine, non c’era proprio nulla che andasse fatto con gli occhi in quegli istanti.

 

“As young as you, or old as me,

Chandrasekhars still have their swords

and mine is long and sharp, you fool,

as long and sharp as yours”.

 

Chandrasekhar.

Quella parola, o meglio quel cognome, risuonò nella mente di Emily Jane come un eco distraendola dal suo piacevole passatempo: “chandra”, cioè “venerabile”, e “sek’har”, ossia “nato dal sangue”. A furia di sentirlo pronunciare ormai lo aveva imparato a memoria, il cognome della stirpe di discendenza divina più potente che la galassia avesse mai visto, che gli ignari abitanti del pianeta di turno potessero temere di conoscere, che suo padre avesse mai sfidato.

Spalancò gli occhi e le parve che tutto intorno a lei andasse più veloce e la stesse lasciando indietro, la vista annebbiata che non le permetteva più di distinguere i confini della sua stanza iniziava ad agitarla ma niente, non riusciva a muovere nessun muscolo e nemmeno a gridare, a chiedere aiuto a Marigold che era lì vicino a lei.

Ma certo, Marigold!

Abbassò lo sguardo per chiederle aiuto, ma venne scossa da un conato di vomito: la pelle le si stava letteralmente cospargendo di crepe che si ramificavano sempre più raggiungendo ogni singolo arto, ogni singola estremità, persino i capelli color ebano stavano volando via come paglia al vento lasciando posto ad una chioma biondo platino.

Voleva scappare, voleva fuggire da quell’incubo e dimenticare tutto ciò che stava vedendo, ma di nuovo i tentativi di chiedere soccorso finirono tutti a vuoto, persi nei ciuffi di pelo che si staccavano dal corpo di Goldie -o almeno, di ciò che rimaneva di lei- svanendo in quel turbine scuro sfumato di rosso che la circondava: c’era qualcosa di familiare anche in quello, eppure non riusciva a ricordare, o forse il suo cervello le impediva di farlo per proteggerla.

Delle immense ali iridescenti che risplendevano di rosa e d’azzurro come se brillassero di luce propria si erano spalancate sulla schiena della guardiana, mandando in pezzi con un rombo assordante tutto ciò che, prima, era stato Marigold Temporibus.

Al suo posto, una figura femminile sovrastava Emily Jane e stava risalendo lentamente il suo corpo immobilizzato, esattamente come prima aveva fatto la sua compagna: il solo tocco delle mani sulla sua pelle e le labbra che vi si posavano sopra baciandola le davano una sensazione di bruciore sempre più forte, sempre più profonda e dilaniante, le sembrava di stare letteralmente andando a fuoco mentre l’altra le si avvicinava al volto, ogni singolo tocco era come un tizzone ardente che le trapassava le carni carbonizzate. Fece per chiudere gli occhi ma non ci riuscì, era come se una forza esterna la stesse costringendo a tenerli spalancati per vedere tutto, e quel qualcosa stava avendo la meglio.

Poi li vide, quegli occhi.

Non li aveva mai dimenticati dalla prima volta in cui li aveva visti, mai: se si concentrava, in quelle sfere azzurre di una sfumatura così innaturale da sembrare forgiata dalle stelle, riusciva a vedere le proprie paure, gli incubi che l’avevano perseguitata per decenni, secoli, millenni, dal fatidico giorno in cui il suo sguardo da bambina smarrita aveva incrociato quello di Idhunn Orionis Chandrasekhar.

La capofamiglia dei Chandrasekhar, la sovrana della distruzione, la donna che aveva dato la caccia a suo padre e, nel periodo in cui la Golden Age iniziava a tramontare amaramente, anche a lei.

Quando le labbra della regina avevano toccato le sue, la giovane Pitchiner avrebbe solo voluto piangere, e prenderla a pugni, e strapparle quelle dannate ali dalla schiena, e prendersi finalmente la sua rivincita dopo ciò che le aveva fatto; ma nulla di tutto questo era avvenuto, ovviamente, e lei era ancora preda di quel bacio che le faceva salire un conato di vomito lungo l’esofago se pensava a chi glielo stesse dando.

Per distrarsi -e sperava pure svegliarsi da quell’incubo-, Emily girò gli occhi verso la finestra: il paesaggio era cambiato drasticamente da come lo ricordava, le distese di alberi di Tandokka avevano lasciato posto a quello che pareva essere lo spazio sconfinato di un nero così profondo da essere indescrivibile con parole umane, un’oscurità che pian piano veniva rischiarata dall’apparizione di sporadiche e timide stelle che si stavano disponendo a formare… una costellazione? No, non una qualunque.

Typhan!”, gridò con le lacrime che le rigavano le guance, ma nessuno poté sentirla.

Né lui, né il drago che emergeva dalle tenebre alle sue spalle.

 

“And so she spoke, and so she spoke,

the six black winged queen,

but now Orion’s stars weep over his hall,

with no one to hear”.

 

Nella sua mente come fuori dalla sua finestra, la scena si dispiegò davanti ai suoi occhi: lei che giocava in solitaria come sempre in quegli ultimi dieci anni, il titano che cercava pazientemente di parlarci dopo l’ennesimo litigio riguardo ciò che le aveva nascosto, poi un tuono che aveva scosso la loro beata tranquillità, il rombo di un corno da guerra comparso dal nulla insieme a mille e mille di altre sagome indistinte che si perdevano nella vastità del cosmo.

Dinanzi a loro, con le ali spiegate e la spada sguainata nella mano, la regina Idhunn Orionis Chandrasekhar in tutto il suo maestoso splendore da creatura di discendenza divina: era venuta per lei, per la figlia del generale Kozmotis Pitchiner, e Typhan lo sapeva bene.

Le aveva detto di nascondersi, di fuggire, di scappare e non guardarsi indietro, ma Emily Jane non lo aveva ascoltato ed era rimasta al suo fianco: per combattere e riscattarsi dalle delusioni che gli aveva dato, era questo ciò che pensava di fare, del resto dei poteri ora li aveva anche lei! E così non lo aveva avvisato, Typhan, che si sarebbe gettata a capofitto verso il nemico dispiegando il meglio del meglio di ciò che lui le aveva insegnato, forte solo della sua ignoranza verso il sapere chi aveva davanti esattamente.

Ma si era bloccata subito, lei, non era riuscita a muovere nemmeno un passo in più quando le figure che accompagnavano la donna si erano fatte più chiare: draghi, draghi a perdita d’occhio, erano ovunque e la stavano circondando, li stavano circondando.

“Hic sunt dracones”, era una delle frasi per cui erano conosciuti i Chandrasekhar, ma a quei tempi Madre Natura non poteva saperlo.

In un ultimo disperato tentativo di salvarla, Typhan aveva debolmente -vecchio e cieco com’era- lanciato una tempesta indirizzata a lei tanto quanto ai suoi avversari, costringendola a lasciare il campo di battaglia e rimanendo a combattere da solo. Emily divenne una spettatrice dell’orrore che si consumò pochi istanti dopo, quando un immane drago che pareva essere fatto di pure fiamme emerse dal nero dello spazio.

Lo avvertiva, poteva sentire il crepitio del fuoco che ruggiva sotto il manto scuro e l’armatura dorata di quella bestia che si era affiancata a Idhunn, che prese a parlargli in una lingua proibita ai mortali: Rasalgethi, questo era il nome del drago della regina, ma lo avrebbe scoperto solo anni più tardi.

Tutto si era consumato in fretta, allora: Idhunn che dava l’ordine di attaccare, i draghi che si gettavano addosso a Typhan strappandogli brandelli di polvere di stelle un pezzo alla volta, astro per astro così da impiegarci il più a lungo possibile, il titano che soccombeva sotto quel branco di mostri famelici che lo divoravano nella loro caotica frenesia, le fiamme che lo avvolgevano strappandogli urla inumane, la sua agonia che si protraeva all’infinito mentre nel cosmo galleggiavano flebili stelle morenti che, un tempo, erano state l’essere che l’aveva accolta.

E lei lì, lontana ma non abbastanza, che incrociava lo sguardo della sovrana della distruzione per la prima volta: non voleva lei morta, la voleva traumatizzata a vita, voleva vederla in faccia mentre riduceva in polvere -letteralmente- l’ultima parvenza di famiglia che aveva, l’ultimo legame affettivo che le era rimasto.

Anzi, no, quello lo aveva fatto dopo, quando aveva visto accendersi negli occhi dorati di quella ragazzina dai capelli corvini la scintilla della speranza, e lo aveva fatto nel peggior modo possibile: le aveva mostrato la metà del medaglione di suo padre che recava la foto della sua amata figlia, segno innegabile che Idhunn Orionis Chandrasekhar sapeva cosa gli era accaduto e che, forse, era stata complice a sua volta.

 

Ed era lo stesso medaglione che ora, dopo averla liberata da quel bacio dal sapore di un passato troppo doloroso, le stava sventolando davanti al naso.

Con uno sforzo immane e la forza della disperazione dalla sua, ad Emily parve proprio di essere riuscita a muovere leggermente le dita prima immobili, segnale che forse se si fosse impegnata sarebbe riuscita a liberarsi da quell’incubo: Idhunn aveva vinto una volta, ma la rivincita sarebbe stata dalla sua parte. Poco a poco, centimetro dopo centimetro, muscolo che pareva esploderle dopo muscolo, riuscì a sollevare prima i polsi, poi i gomiti, poi mosse le dita con pieno controllo, intenzionata a stringerle al collo della donna.

Lo avrebbe fatto per Typhan, sì, per lui e per chiunque era perito nel tentativo di proteggere la figlia del generale Kozmotis, lo avrebbe fatto per tutti, tutti!

Era lì per stringere, era così vicina, poteva quasi sentire il calore del suo collo nudo così vicino, così indifeso: una giustiziera, ecco cosa sarebbe stata da allora, non più la figlia di Pitch Black, no, ma la donna che aveva ucciso quella creatura immortale che era Idhunn Orionis Chandrasekhar!

Ma non erano né la gloria né la vendetta che attendevano Emily Jane, solo le fiamme.

Quei pochi centimetri che la separavano dalla riconoscenza eterna furono riempiti in pochi secondi da scintille infuocate che le si aggrapparono alle mani dilaniandole, sciogliendo la pelle e scoprendo le ossa, fiamme che provenivano direttamente dalle viscere della regina di Orionis III, ora in preda ad una risata folle mentre il suo corpo si scioglieva lasciando posto ad un essere che era fuoco puro, persino i capelli erano diventati vortici fiammeggianti che danzavano nel buio di quella notte.

Fu questione di secondi prima che l’intera stanza prendesse fuoco, eppure niente si stava bruciando: le pareti, lo spoglio mobilio, il letto, Typhan, i suoi ricordi, il corpo di Emily stessa, tutto si scioglieva come neve al Sole, colava per terra ammassandosi in chiazze come pozze d’acqua bollenti.

Si sentiva bruciare dentro, la giovane Pitchiner, così prese a tossire dolorosamente: dalla sua bocca si riversava magma incandescente che avvertiva spingere da dentro per esploderle fuori dalla gola, stava letteralmente bruciando viva e perfettamente cosciente, si stava vedendo liquefarsi mentre le ossa spuntavano dalle sue dita, dalle guance, dal petto stesso.

Lo sguardo sprezzante di Idhunn le si piantò addosso mentre le afferrava la mascella, le fiamme che non la sfioravano nemmeno: conficcò le unghie nelle sue carni fino a trovare le costole, gliele afferrò con violenza immane mentre il fuoco cicatrizzava i tessuti ancora prima di bruciarli, strappandole una per una e facendogliele vedere soddisfatta. L’altra non aveva idea di come facesse ad essere ancora cosciente, era fisicamente impossibile, ma lo restò abbastanza a lungo per sentire delle vere e proprie coltellate nel corpo quando la Chandrasekhar aveva usato le sue stesse ossa come paletti con cui trafiggerle le mani, le braccia, le gambe, il collo, l’inguine, il petto.

Infine, Idhunn aveva mirato in mezzo agli occhi.

 

“Yes, now Orion’s stars weep o’er her hall,

and not a soul to hear”.

 

 

«Se non ti alzi adesso giuro che parto e ti lascio qui, non farmelo ripetere!».

Emily Jane scattò ritta sul letto affamata d’aria e madida di sudore: era… viva?

Si guardò intorno freneticamente, cercando conferma di ciò che aveva visto fino a quel momento: i mobili erano al loro posto, le finestre erano chiuse, i soffitti non stavano colando, non c’era nessun incendio, fuori anche il paesaggio era il solito di sempre a Tandokka; allora guardò se stessa: le coperte tirate fin sopra le spalle, la vestaglia al proprio posto, la pelle ancora attaccata alla carne, le ossa dentro il petto ed il suo cuore che batteva ancora, anche se all’impazzata.

Che si fosse sognata tutto? No, non era possibile, lei aveva sentito tutto, toccato tutto, in un sogno ciò non sarebbe potuto accadere, non in una misura del genere! C’era Marigold, c’era Idhunn, c’era il fuoco, ed era tutto reale, doveva essere accaduto tutto veramente! O quello, o era impazzita lei!

E l’ipotesi non le sembrò poi così remota.

Inconsapevole di tutto ciò che stava frullando nella testa di sua figlia, Pitch si stava evidentemente spazientendo di starsene lì a guardarla con gli occhi sbarrati:

«Mi hai sentito o sei diventata sorda?­ Ti ho detto di prendere le tue cose e di farlo in fretta, ce ne andiamo via da qui il prima possibile» le ripeté senza ricevere risposta alcuna; infastidito, Pitch si decise a scrollarla per una spalla.

Improvvisamente, Emily Jane si riprese:

«Andarcene?»

«Sì, ce ne andiamo» confermò suo padre.

«E dove dovremmo andare?» era confusa, sia per quello, sia perché non capiva ancora bene cosa le fosse accaduto «È notte fonda, non credo che-»

«Ciò che credi tu non mi interessa assolutamente, limitati a fare le valigie -o la borsa, o il sacco della monnezza, fai come preferisci insomma- e mettiti qualcosa addosso», le gettò un borsello in grembo «Muoviti, non voglio ripetermi».

Lei si impuntò, ritrovando chissà dove la forza di discutere con lui nonostante fosse ancora distrutta dall’esperienza allucinatoria appena avvenuta: non avrebbe detto nulla a suo padre di tutto ciò che aveva visto, era meglio così, anche perché le avrebbe sicuramente riso dietro; lo guardò con aria di sfida:

«Io non farò proprio nessuna valigia» ripeté rigettandogli indietro il contenitore «finché non mi dici dove ce ne andiamo, almeno. E non prendo ordini da te, non sei la persona giusta per darli».

Black avrebbe voluto risponderle per tono, ma si limitò a borbottare qualcosa sottovoce:

«Galles, Regno Unito, ecco dove andiamo» rispose poggiandosi sullo stipite della porta «contenta, adesso?»

«Galles?» ripeté lei piegando la testa di lato «E cosa ci andiamo a fare, in Galles? Nelle condizioni pietose in cui ci troviamo è meglio restare il più a lungo possibile lontano dalle scene, non possiamo fronteggiare altri attacchi come quello ai tuoi Incubi» iniziò a mettere qualche abito dentro la saccoccia che lui le aveva restituito, ma non era veramente presente «è andata bene una volta, la seconda non saremo così fortunati, lo sai anche tu. E poi-»

«Andiamo in Galles, punto», tuonò severo Pitch lanciandole un’occhiata feroce e facendo per uscire, trovandosi però bloccato da un viticcio verdognolo fatto spuntare da Emily in un impeto illuminante:

«Aspetta. Aspetta-aspetta-aspetta: Galles… non dirmi che-»

«Lo ripeterò un’ultima volta: raccogli le tue cose, sciacquati la faccia e muoviti» strappò violentemente il ramo gettandolo lontano «non farmi domande, non farti domande, non rompermi i coglioni: zitta, stai semplicemente zitta, è tutto ciò che-»

«Io dalla tua troia non ci vengo».

 

Silenzio.

 

Si stava già aspettando il peggio da suo padre, dopo aver toccato quel tasto, e infatti il peggio fu proprio ciò che le venne riservato; iracondo, Black le afferrò il collo della vestaglia sollevandola quel tanto che bastava da puntarle gli occhi addosso molto più che arrabbiato, filamenti di oscurità le si arrampicarono su per le guance:

«Non permetterti di darle della troia, dannata ragazzina insolente che non sei altro, non farlo!» le sbraitò contro scuotrndola «Hai idee migliori, eh? Guardati, guardaci: a chi credi di poter far paura? Non certo a Gwenllian, nossignora: non la spaventano nemmeno cose ben peggiori di te, nemmeno la Strega delle Lande» la mollò di scatto, saggiandosi le dita con l’altra mano «è la befana ed è una maga, è figlia di Howl Jenkins Pendragon e di Sophie Hatter, è una mutaforma ed è stata addestrata alla magia da Madame Suliman in persona, inoltre-»

«È stata la tua fidanzata»

«E quindi?» Pitch era completamente disinteressato ad iniziare quel discorso, infatti si incamminò verso la porta mettendo mano al pomello «È successo tempo fa, e se credi che stia andando da lei per questo mi spiace deluderti, ma hai toppato alla grande. Quindi no, non mi importa ciò che hai da dire, ecco tutto» aprì la porta.

«A mamma importerebbe…» sussurrò lei socchiudendo gli occhi.

Pitch si fermò un istante, esattamente come aveva fatto la sua mente: per un attimo, Emily sperò che qualcosa in lui si fosse risvegliato ed avesse iniziato a farlo ragionare, aveva sempre avuto la speranza che accadesse, che iniziasse a ricordare; ma durò un secondo appena, quella scintilla che le si era accesa da qualche parte in quel cuore congelato, soffocata da suo padre che usciva sbattendo la porta.

Guardò la borsa che aveva in grembo, quasi ad assicurarsi che pure quella non fosse un’allucinazione: sì, avrebbe fatto meglio a rassegnarsi.

 

---

 

«Neeessun dormaaaaa! Nessuuun dooormaaaaa!» lanciò una fiamma nera che si insinuò fra le radici di un albero facendolo bruciare dall’interno, le foglie bianco opalescente ora nere che cadevano come macabri coriandoli «Tuuuuu pure, oh Reeeginaaaa» questa volta una scintilla sfiorò un roseto, mandandolo in fumo qualche istante dopo «neeella tua freeeddaaaaaa staaanza guaaaaardi le steeelleee che treeemaaanooooo» continuò camminando e danzando, sfiorando un piccolo stagno con un dito mentre vi si specchiava dentro «d'ammmoreeeee e di speeeranzaaaaa!» l’acqua subito si macchio di nero, una ferita sanguinante che andava spandendosi come una ragnatela fino a coprire del tutto lo specchio d’acqua, ora ridotto ad una pozza nerastra e appiccicosa come petrolio.

Phobos non era mai stato tanto contento in vita sua: ballettava con una bottiglia di birra alla mano, stonava quanto e più di Halley, dava fuoco a Phantasia a piccoli pezzi, il preludio di una giornata assolutamente perfetta!

Non credeva fosse possibile essere felice, specie considerando gli ultimi avvenimenti non proprio gioiosi che gli erano capitati, ma ora tutto sembrava girare finalmente per il meglio: sentiva chiaramente il proprio potere ruggirgli dentro come Thorax quando era affamato, avvertiva un cambiamento in positivo da quel punto di vista, aveva addirittura iniziato a credere che anche dalla Luna che in quei giorni brillasse di un alone rossastro come i suoi capelli.

All’inizio aveva pensato che ci fosse lo zampino di Halley, ma smise di pensarci quando si guardò intorno e non la vide più, nemmeno durante il giorno della frittata e del rutto libero: poco male, non aveva certo bisogno di lei o di chiunque altro per cavarsela!

Aveva riflettuto a lungo da quando tanta sicurezza aveva iniziato a insinuarsi nelle pieghe della sua mente, che insieme alle certezze -o presunte tali- sarebbero arrivati anche i dubbi era qualcosa che aveva messo in conto e del quale era perfettamente consapevole, ma non gli importava più di tanto: avrebbe corso il rischio, questa volta.

Non aveva più niente da perdere, del resto, solo la vita, e per quanto lo riguardava avrebbero potuto strappargliela da un momento all’altro e sarebbe stato contento comunque: era sopravvissuto sette secoli dentro l’Abisso, gettato in un crepaccio e dimenticato da ogni dio esistente nel creato, adesso poteva resistere a qualsiasi cosa. Vero, negli ultimi tempi c’erano stati momenti in cui era stato assalito e divorato dalla disperazione, ma si disse che doveva solo darsi tempo per riprendersi, per riabituarsi alla vita da uomo libero, il resto sarebbe venuto da sé.

Ed era venuto da sé per davvero, tanto che l’idea che frullava nella sua mente era finalmente riuscita a farsi strada fra le paure, le insicurezze, la depressione più pura: vendicarsi, finalmente.

 

Era stata una decisione ponderata? No.

Aveva pensato ai pro e ai contro del non attendere la completa stabilizzazione dei propri poteri ritrovati, prima di attaccare? No.

Aveva un’idea precisa del livello dei propri avversari? No.

Aveva un piano di riserva? No, certo che no.

Era certo di potercela fare? Assolutamente.

 

Spavalderia, sfacciataggine, idea del cazzo, chiunque poteva chiamarla come più preferiva, ma per Phobos quello era semplicemente “riscatto”: giorno dopo giorno, secolo dopo secolo, quando non c’era Halley con la quale sbronzarsi o scopare lui pensava sempre e solo a quello, al modo in cui si sarebbe vendicato una volta per tutte della donna che lo aveva mandato in rovina, a come avrebbe tolto ad Harmonia tutto ciò che aveva di più caro al mondo, esattamente come lei aveva fatto con lui.

E ci stava andando proprio adesso, dalla Regina della Fantasia, trotterellando e cantando tutto entusiasta come un ubriaco.

E forse un po’ lo era pure.

«Maaa il mio misteeerooooo è chiuuuuuso in meee, iiiiil nomeee mio neeeeessuuun saaaprà!» canticchiò mentre la sua fida falce le compariva in una mano di fuoco dalla lama «No, no, sulla tuuua boccaaaaa looo diiiiirò» una seconda falce, identica alla prima, prese forma dalla magia che trasudava dal marchio sul suo braccio, ora completamente esposto «quaaando la luuuceeee spleeeenderààà» alzò le mani al cielo «eeeed il miooo baaaciooooo scioooglierà» avvicinò piano le sue armi, che già parevano attrarsi vicendevolmente con ferocia inumana «iiiil sileeenziooooo che ti faaa miaaaaa!» con un colpo secco si unirono, sprigionando un cerchio nero fiammeggiante nel punto di unione che però non parve disturbare Phobos.

Un passo dopo l’altro, falcata su falcata, avanzava fiero e con una sicurezza che nemmeno credeva di poter avere, certo delle proprie potenzialità:

«Dilegua, oh notte!» davanti a sé il castello di Harmonia, che pareva venirgli incontro da quanto si stava avvicinando alla svelta «Tramontate, stelle!» dietro, solo terra bruciata, carbonizzata fin dentro la linfa degli alberi «All'alba vincerò!» animali che fuggivano, un sentiero di caos così dolcemente familiare che avrebbe potuto commuoversi da un momento all’altro.

Roteò la falce, e tutto intorno fu l’inferno: «Vincerò!», concluse.

 

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I guardiani non avevano smesso un secondo di parlottare e scambiarsi sguardi confusi e preoccupati, da quando Harmonia aveva messo davanti ai loro occhi le condizioni della loro alleanza: potevano capire che volesse delle garanzie prima di dar loro una mano, riconoscevano con un velo di vergogna di averla lasciata nei guai fino al collo durante la guerra contro Apophis, ma chiedere un guardiano in cambio era inaccettabile!

La regina al contrario pareva perfettamente calma, quasi divertita dal vedere le prevedibili -e forse sperate- reazioni degli altri che tenevano il foglio con mani tremanti; dopo qualche istante di silenzio assoluto, finalmente Calmoniglio prese la parola:

«Fammi capire: il prezzo per non averti come ulteriore problema oltre a quel demente pel di carota è il darti uno di noi in ostaggio, ho capito bene?»

La regina non si scompose, anzi sorrise serenamente:

«Suvvia, chiamarlo “ostaggio” mi pare eccessivo, “ospite” rende meglio l’idea» spiegò calma facendo chiamando Naevia «un ostaggio verrebbe trattato da criminale, penderebbe fra la vita e la morte, un ospite no, invece» precisò mentre l’altra le consegnava una lunga piuma variopinta «avrebbe tutte le comodità che la mia corte può umilmente offrire, sarebbe trattato con riserbo e verrebbe a lui -o lei- dedicata ogni attenzione, soprattutto in questi tempi di forte instabilità, e lo sapete bene».

Era vero, lo sapevano bene: Harmonia non si era mai tirata indietro di fronte ai propri impegni, era conosciuta per essere una regina amata e benvoluta dal proprio popolo, che con il tocco del suo fare materno aveva superato periodi oscuri e tremendamente difficili come quelli della guerra; allora, Phantasia era stata la prima a rialzarsi dal disastro, e guardandola ora nessuno avrebbe mai detto che -settecento anni prima- un immane serpente cosmico l’avesse messa in ginocchio.

La donna intinse la penna nell’inchiostro e firmò, allungando il foglio agli altri presenti:

«Un mio ospite, ci tengo a ribadirlo», ripeté nel caso qualcuno se lo fosse scordato.

Harmonia aveva ragione, non c’era altra scelta se non quella di allearsi con lei se non volevano trovarsi nella stessa situazione di secoli prima, riempirsi la testa di ulteriori dubbio sarebbe stato inutile quanto dolorosamente logorante.

Ed era ormai troppo tardi, dal momento che ormai tutte le firme erano state apposte.

Con un sorriso che non nascondeva nemmeno troppo la sua soddisfazione, la regina vi pose infine il sigillo reale ufficializzando il loro accordo, che venne poi consegnato nelle mani di Naevia per metterlo al sicuro:

«Avete fatto la scelta giusta, ve lo posso garantire» si complimentò con voce dolce, non certo quella di chi aveva appena ottenuto un guardiano come ospite «resta solo da decidere chi di voi avrà questo privilegio, ora: avete già un’idea al proposito, forse?», domandò cogliendoli totalmente alla sprovvista.

Che dovessero scegliere uno di loro lo avevano capito, ma non che la cosa fosse attiva dal momento in cui avevano firmato quel pezzo di carta, non potevano certo decidere su due piedi! Anche se le alternative non erano molte, alla fine, ma Harmonia -capito come si stavano mettendo le cose- decise di intervenire ugualmente:

«Se posso permettermi-».

Un’esplosione, poi una cascata di vetri colorati e pietre li investì cadendo dal lucernario della stanza in cui si erano riuniti, scoprendo il cielo limpido di Phantasia:

«Se posso permettermi, succhiami il cazzo!».

Phobos era arrivato.

 

 

 

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Angolino dell’autrice


Ssssssssh, non parliamo del tempo che ho impiegato ad aggiornare COFF COFF un anno il 9 dicembre COFF COFF :’D

No, non vi farò perdere tempo a giustificarmi a destra e sinistra per darvi fior di spiegazioni in proposito, dico solo che nell’anno appena passato avevo tutto per la testa tranne che scrivere la long: qualche one shot ce l’ho fatta a scrivere nel mentre, ma capite anche voi che l’impegno per una long -dove ogni capitolo è collegato ad un altro- è ben diverso da quello per una fanfiction a se stante, per cui… GNE! :’D

Spero comunque possiate apprezzare questo ritorno di fiamma -letteralmente, Phobos docet-, e vi rassicuro sul fatto che GNO (traduzione Chandrasekhar/Italiano = NO), questa long non l’abbandono nemmeno per sbaglio COFF COFF e figuratevi se non c’era _Dracarys_ a convincermi a non farlo mentre deliravo COFF COFF, ma vi dico subito che non so ogni quanto aggiornerò -NON UN ANNO DI CERTO LO GIUROH- e con quale frequenza causa impegni esterni, ma lo farò sicuramente :)
Ah, vi lascio un'immagine di Marigold Temporibus, alla prossima!


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Capitolo 10
*** Unmei no akai ito ***


Premessa: in questo capitolo, le parti scritte con un colore più chiaro rappresentano una sorta di esperienza extracorporea di Phobos per la quale si trova a parlare nella propria testa, buona lettura! :)

 

____________________________________________________________

 

 

Chioma rossa mossa dal vento che si disperdeva tutta intorno, sguardo fiero e sicuro di chi sa quello che vuole e sa come ottenerlo, falce alla mano che bramava solo di posarsi sul bianco collo della Regina: “sì”, pensò Phobos, “è un’entrata assolutamente perfetta, perfetta!”. Mosse un passo per scendere a consumare finalmente la sua vendetta, testa alta e petto in fuori come si confaceva ad un uomo fiero com’era lui.

E allora era capitombolato per terra.

Complice la sbornia triste che aveva addosso, nella sua rovinosa caduta aveva sbattuto prima contro il cornicione sotto il lucernario appena distrutto, poi contro curiose statue filiformi che si diramavano dalle pareti -e lì gli parve pure di aver perso un dente o due-, dopo i capelli gli si erano incastrati in una delle stesse: fu solo dopo che si ruppero a furia di dimenarsi che riuscì ad atterrare.

 

Di faccia.

Sui vetri.

Che lui stesso aveva distrutto, fra l’altro.

Mai più birra prima del lavoro, mai più.

 

Va bene, la sua entrata in scena non era poi stata così trionfale e appariscente come aveva creduto, ma era abbastanza certo che -pessima figura o meno- alla fine il risultato sperato di terrorizzare tutti era arrivato comunque: sì, doveva essere così, gli pareva quasi si poter sentire la paura nei loro occhi, i loro volti contratti in espressioni di sorpresa e orrore allo stesso tempo nel rivedere qualcuno dimenticato da sette secoli, proprio ciò a cui aspirava!

Mosso da questa certezza, Phobos allungò la mano sinistra verso il terreno intorno a sé alla ricerca della falce:

«Aspettate eh, datemi un min- MA PORC-» un’imprecazione impronunciabile gli uscì dalla bocca quando le dita si strinsero intorno ad un pezzo di vetro, credendo fosse la sua arma; si fece forza e tentò di nuovo, questa volta con la destra «… sto bene, sto bene, va tutto ben- E MA CHE CAZ-» di nuovo, l’unica cosa che riuscì ad afferrare fu un calcinaccio, ottenendo lo stesso identico risultato di prima.

Jack Frost, non si sapeva se per pietà o per curiosità o per altro, allungò sospettoso il suo bastone verso la falce, spingendogliela vicino; finalmente, quel povero disgraziato riuscì ad afferrarla.

Una gomitata per alzarsi dopo l’altra, un dolore lancinante al petto dopo l’altro causa caduta e relativi lividi, alla fine Phobos era riuscito prima a mettersi con un ginocchio a terra per prendere fiato, poi a rialzarsi.  O almeno provarci, perché da come se ne stava ingobbito pareva che le gambe fossero rette da gelatina al melograno, più che da ossa; dopo innumerevoli tentativi, però, a reggersi in piedi c’era riuscito eccome, e considerando come stava andando la giornata già quella fu un’enorme conquista per quel poveretto illuso di stare combinando chissà cosa.

Ad occhi chiusi per godersi meglio il maestoso momento, alzò la testa verso i guardiani e la loro compagnia sicuro di se stesso, con una convinzione addosso che mai aveva creduto di poter avere, o meglio riavere.

«Tremate, sciocchi! Temetemi, miserabili!» gridò gonfiando il petto e imbracciando la falce tendendola davanti a sé «Credevate di esservi liberati di me, vero? E invece no, eccomi qui, pezzi di codardi che non siete altro!» l’arma si illuminò di una luce rossastra, facendo apparire come delle scanalature nel metallo simili a lettere di un alfabeto dimenticato «E tu, oh! Tu!» indicò Harmonia «Tu pagherai più di tutti, finalmente! Non immagini nemmeno da quanto attendo questo momento, da secoli interi!» ringhiò rabbioso per poi, con un movimento rapido del braccio, puntarle la falce in mezzo agli occhi.

Harmonia non reagì, non si era mossa di un millimetro né aveva mutato espressione, il che rendeva difficile a Phobos capire se le sue minacce stessero funzionando o meno. Colpa della paura, si disse, era talmente spaventata da essersi paralizzata, quella sgualdrina dal grasso posteriore equino!

Phobos le sorrise un’ultima volta, voleva che quel ghigno le restasse ben impresso nella mente quando avrebbe colto la sua regale testa dal suo corpo.

«Ultime parole?»

«Ma tu chi sei?» rispose lei calma e pacata, con addosso un sorriso di condiscendenza e pietà come pochi altri.

 

Il gelo.

 

Non lo aveva riconosciuto? Ma stava scherzando?

Iniziò a squadrare tutti freneticamente col cervello ridottosi in poltiglia da un momento all’altro: lo osservavano tutti a metà fra l’incuriosito e l’impietosito, sembravano chiedersi “ma chi cazzo è questo?” mentre gli piantavano addosso quei loro occhi carichi di superiorità o presunta tale verso chi avrebbero dovuto temere come la neve col Sole, a guardarli nessuno di loro stava reagendo con la paura ed il terrore che Phobos aveva invece previsto per il suo ritorno.

E non ne capiva il motivo.

Aveva sfondato il lucernario, aveva tirato fuori l’arma più spaventosa che avesse a disposizione, si era pure impegnato per essere convincente -e lo era, nel suo immaginario- nelle sue minacce, eppure non stava accadendo nulla di tutto ciò che aveva immaginato.

Anzi, Harmonia lo stava pure prendendo per il culo, alla faccia della paura!

Sette secoli passati nel freddo e gelido Abisso, settecento anni passati ad orchestrare la sua vendetta, la possibilità di compierla data dal fortuito intervento di Comet combinato con delle casualità tutte a suo favore, giorni e giorni per riprendersi dalla depressione più oscura nella quale ricordava di essere crollato da anni a quella parte, una nuova autostima creata sudando sangue e affrontando a testa alta le innumerevoli avversità che lo avevano perseguitato… e tutto ciò era stato distrutto, svanito, calpestato, nel giro di quattro parole, in quel “ma tu chi sei?”.

Non se ne era nemmeno accorto -assorto com’era nel turbine di domande che gli frullavano nella testa-, ma ora la Regina della Fantasia gli si era avvicinata cautamente un passo dopo l’altro, uno zoccolo davanti all’altro, fino a trovarsi di fronte a quel caso umano color carota.

Nessuno dei due proferì parola -anche perché Phobos era ancora vittima di quella specie di oscura trance-, restarono a fissarsi gli occhi uno nell’altra per istanti che parvero eterni, poi Harmonia posò il pesante corpo equino a terra sedendosi e allungando una mano verso il viso di quello che, eoni prima, era stato il suo amante.

E lui l’aveva lasciata fare, sì.

Non si era mosso nemmeno quando le dita sottili e affusolate della regina avevano incontrato il suo volto segnato dalla sofferenza come mai prima d’ora: non solo la stava lasciando fare, ma sentiva addirittura un qualcosa nella sua testa che reputava piacevole quella sensazione, e ciò lo confondeva non poco. Era come se una voce gli pizzicasse la mente ripetendogli di non opporre resistenza e di abbandonarsi a lei, alla Regina di Phantasia, ad Harmonia, alla donna che, un tempo, aveva amato più della sua stessa vita.

Il suo cervello si bloccò su quel pensiero: l’aveva amata? Lo aveva fatto veramente? Allora perché non ricordava? Perché aveva un buco nella memoria prima di quei settecento anni di agonia? Cosa era successo che non riusciva a ricordare, che non poteva ricordare? O forse non doveva? Chi è che non voleva che lui-

 

 

***

 

Il buio.

Non c’erano più Harmonia e i guardiani intorno a lui, solo nero a perdita d’occhio: a destra, a sinistra, sopra e sotto di lui, era come se stesse galleggiando nel nulla più assoluto, o forse nell’acqua a giudicare dai cerchi concentrici che si creavano quando poggiava un piede avanti all’altro per camminare.

Avanzò ancora, e ancora, e poi ancora, sembrava che quel luogo non avesse mai fine, qualsiasi posto fosse quello in cui si trovava, ed il peggio era che gli sembrava tremendamente famigliare, nonostante sul momento non riuscisse a identificarlo.

«Ed’ i’ear ar’ elenea! (*) Non credevo di rivederti così presto, Phobos» una voce dal nulla lo spaventò facendolo girare all’improvviso.

Chi aveva parlato, se non c’era nessuno oltre a lui?

«Non temere, povera e disgraziata creatura che non sei altro, sono l’ultimo dei tuoi problemi io» la voce gli parlò di nuovo, questa volta ridendo «il tuo problema principale è qui dentro, ahimè: hai la testa vuota» si sentì sfiorare e picchiettare il capo, ma non lo aveva fatto nulla di corporeo e tangibile, perché nulla aveva visto farlo «ma non abbastanza vuota da lasciarti in pace, dal momento che sei qui».

«Qui?­» ripeté confuso il rosso mentre cercava la fonte di quelle parole «Qui… dove?»

«Ma nella tua testa, ovviamente».

Nella sua… testa? Nel suo subconscio? A quelle parole, Phobos non parve sorprendersi nemmeno troppo, certo non quanto avrebbe dovuto, era semplicemente come se si aspettasse quella conversazione da tempo e quella fosse solo la conferma dei suoi sospetti.

Sospetti che gli diedero quel po’ di coraggio necessario per farsi avanti, infine.

«E come ci sono finito, nella mia testa? Io stavo… stavo…» si bloccò un attimo, quello che gli bastò per rendersi conto che non ricordava assolutamente ciò che stava facendo prima di quella conversazione, gli pareva di essere comparso dal nulla.

Esattamente come gli era successo settecento anni prima.

A metà fra lo spaventato dalla sua stessa mente e da ciò che stava vivendo, Phobos girò su se stesso una moltitudine di volte per trovare uno spiraglio di salvezza, ma fu tutto inutile: non vedeva luci o segnali che potessero aiutarlo ad orientarsi, non sentiva nessun rumore che potesse guidarlo da qualsiasi parte che non fosse quel luogo, non aveva nemmeno uno spiraglio di salvezza da se stesso.

«Lle n'vanima ar' lle atara lanneina, sai? Ti comporti come se fosse la prima volta che mi senti, quando sappiamo perfettamente entrambi che non è così, considerando quanto sei fuori di cervello» intervenne la voce divertita da quel suo silenzioso disperarsi «anche se probabilmente non ricordi, non ricordi mai ciò che dovresti o vorresti, tu… nemmeno adesso».

Non senza difficoltà, Phobos cercò di nascondere alla bene e meglio l’inquietudine provocata da quell’affermazione, ahimè fin troppo veritiera.

«Non ho la possibilità di farlo» rispose stringendo i pugni e girandosi da dove gli pareva che provenisse quel suono «ed è colpa tua, immagino, altrimenti non saresti qui come non lo sono tutti gli altri».

«Ná, confermo: mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa» sentì battere tre colpi, come prevede la formula «sono proprio un birbone, che ci vuoi fare? Vecchio, annoiato e rilegato in quattro mura con solo rocce e polvere a farmi compagnia, nemmeno la luce del Sole mi raggiunge. Come vedi la mia vita ha ben pochi momenti di spasso».

«E tormentare me rientra in questi momenti, suppongo».

«Tancave! Uno dei migliori, devo ammetterlo» un’altra risatina di scherno gli giunse alle orecchie tagliente come non mai «mi intrattieni da sette secoli a questa parte, osservare le tue disgrazie è quasi meglio del sesso, sai?».

Sette secoli? Possibile che… ?

«Sì, sono io» confermò la voce, quasi che avesse letto i suoi pensieri.

Gelo, di nuovo.

E questa volta non fu una semplice sensazione, non fu nemmeno una folata fredda come le altre, no, questa volta lo sentì chiaramente dentro di sé, dentro la sua testa, in quel luogo: era come se dei pugnali di ghiaccio gli trapassassero il cervello da una parte all’altra, la stessa identica sensazione che provava quando pareva ricordare un frammento del suo passato, ma ora quei coltelli gli sembravano tremendamente reali e palpabili che poteva sentire il sangue caldo scorrergli sulle tempie.

Anche perché erano reali eccome.

Fece per alzare una mano per toccarsi i capelli, ma una forza misteriosa oppose resistenza e gli impedì di farlo.

«Sai, Phobos, non siamo poi così diversi, noi due: entrambi rilegati in un luogo che non gli appartiene» l’energia che lo aveva fermato prese forma, disegnando i contorni di un braccio mascolino bianco pallido «da soli, mostri rinnegati dal cosmo intero, dalla propria famiglia, dalle persone che promettevano di amarti per sempre» un altro braccio comparve dal nulla, spingendo più a fondo le lame fredde che gli aveva piantato nel cranio «a bramare vendetta, a vivere per essa e nient’altro, a renderla la propria unica e penosa ragione che ti spinge ad alzarti ogni giorno».

Phobos tentò di divincolarsi, ci stava provando con tutte le forze che aveva in corpo: se quello era un incubo, se quella era la realtà, se quella era qualsiasi cosa fosse, allora voleva che finisse il prima possibile, anche morendo se ciò fosse stato utile a liberarlo!

Tentò di gridare, ma qualcosa gli strinse la gola con brutalità immane, sembrava che gli volesse afferrare la giugulare e strappargliela. Toccò e trovò solo una massa di capelli intorno al suo collo già livido, una lunga e sottile coda retta da gioielli dorati recanti una luna nera stilizzata: sopra di essa, una fenditura che la squarciava in due.

E lui la conosceva, sapeva di conoscerla, ma il suo cervello non si azzardava a collaborare sul ricordare il perché.

In compenso, collaborava eccome a fargli provare il dolore.

«Hai mai assaggiato la vendetta, Phobos? No, certo che no, cosa lo chiedo a fare» la stretta si fece più feroce, intanto che la voce con la quale dialogava assumeva finalmente il volto di un uomo «eri così contento con la tua Harmonia, così completo, così realizzato: una coppia perfetta, assolutamente» non riusciva ancora a vederlo, ma gli parve di intravedere il ghigno col quale gli parlava «talmente perfetta che saresti stato disposto a morire per la tua regina, a sacrificare la tua vita per lei, per Phantasia, per i vostri ideali. E lo hai fatto, in un certo senso, e sai perché?» infine, la presa si sciolse e lui cadde a terra «No, non lo sai, non puoi ricordarlo».

Quindi era vero, che c’era stato un tempo in cui aveva amato Harmonia, era vero!

Ma allora perché non ricordava? Perché ogni dannata volta andava a finire così, con lui a terra che agonizzava maledicendo la sua mente che andava alla spasmodica ricerca di un ricordo che fosse uno? Perché doveva patire tutto quel dolore?

Non ebbe il coraggio né la forza di alzare la testa per osservarlo, ridotto com’era, ma ci pensò l’altro ad afferrargli il collo e portarselo davanti agli occhi; Phobos lì guardò: due pozze nere nelle quali pareva concentrarsi il male del mondo, un vaso di Pandora incorniciato da una chioma bionda che toccava terra intrappolata in una coda di cavallo sottile, di un biondo platino come i baffi e la corta barba sul suo mento.

Conosceva quel volto, ne era assolutamente sicuro.

Si mise alla ricerca di un dettaglio, un particolare qualsiasi che potesse risvegliare qualche memoria dimenticata dal mondo: al diavolo il dolore, al diavolo anche la probabile inutilità di quel gesto, Phobos decise che sarebbe andato fino in fondo pur di sapere l’identità dell’uomo che pareva conoscere più dettagli sul suo passato di quanti ne sapesse lui stesso!

Poi lo vide, quel dettaglio: sotto l’occhio destro c’era un tatuaggio -ad occhio e croce impresso sulla pelle con la magia, vedendo che brillava come quello che aveva lui sull’avambraccio-, quattro punti di dimensioni crescenti che partivano dall’angolo interno dell’occhio seguendolo fino all’altra estremità, dove terminavano con una mezzaluna nera dalla quale si diramavano sottilissimi capillari dello stesso colore.

Allora, e solo allora, i ricordi si riversarono nella sua mente come un fiume in piena, dopo settecento anni di vuoto più totale.

«… A-Apophis… ?» sussurrò appena senza rendersene conto, le labbra che si muovevano da sole.

L’altro sorrise compiaciuto «Precisamente».

 

Seguì un silenzio che parve infinito, ma ormai nella testa di Phobos c’era tutto fuorché la quiete: aveva avuto un passato anche lui, ora lo sapeva, lo ricordava; poco gli importava se era ancora un passato fatto di ricordi vaghi, confusi, indistinti, a lui bastava la consapevolezza che quelle memorie dimenticate da tempo avessero un unico e solo denominatore comune, una certezza che aveva scordato di avere da secoli, ormai.

E quella certezza era Harmonia.

Aveva vissuto al suo fianco come se fossero un’unica persona, l’aveva amata più di quanto avesse mai amato la sua stessa vita, aveva messo la sua spada al servizio della sua Regina e amante di una vita quando era venuta la guerra. Lo ricordava, sì, che avevano combattuto e cavalcato insieme per difendere Phantasia ed Exodus intero dalla minaccia che -da un giorno all’altro- era discesa dal cosmo più profondo in terra, quel serpente fatto di stelle e dolore di civiltà perdute, di grida degli innocenti che lo avevano incontrato e tanta, troppa sofferenza di chi era stato inghiottito dalle sue fauci, dalla bestia che portava lo stesso nome del caos più puro.

E quel nome era Apophis Nightcrawler.

Apophis, che ora era lì nella sua testa, era sempre stato lì: lo aveva combattuto, lo aveva visto bruciare e divorare quasi interamente Phantasia, era stato testimone di Harmonia che crollava in ginocchio esattamente come la sua terra, pregando un’ultima volta gli dei di risparmiare di nuovo, se non lei, almeno il suo popolo.

Ma non era stato presente quando gli dei l’avevano ascoltata.

Non aveva visto Harmonia rialzarsi e caricarsi sulle spalle quel macigno immane che era un pianeta -il suo pianeta- devastato e ormai sull’orlo del baratro, non c’era stato per vederla prendere la sua gente disperata sotto la propria ala protettrice e materna giurando loro che Exodus sarebbe tornato al suo antico splendore e, infine, non era stato testimone nemmeno di quando Harmonia l’aveva mantenuta, quella promessa.

Non c’era, Phobos, perché stava pagando le conseguenze di aver protetto la donna della sua vita per un’ultima, disperata e tremenda volta.

Si era messo fra lei e Apophis, settecento anni prima, lo aveva fatto senza pensarci e senza pentirsene, e lo avrebbe rifatto milioni di volte se fosse stato necessario. Non si erano detti addio, allora, non era stato concesso loro il lusso di un ultimo sguardo prima di salutarsi per sempre, nemmeno una parola di conforto, erano semplicemente stati due amanti separati dal destino.

Un destino crudele, il loro, perché il peggio era venuto dopo.

La falce tesa davanti sé, Thorax e gli altri leoni che lo accompagnavano in quell’ultimo salto nel buio -letteralmente- come i compagni fedeli di una vita che erano, negli occhi un fuoco più ardente della stella in fondo alla gola di quella belva che stava puntando con lo sguardo: a guidarlo, solo la consapevolezza che Harmonia sarebbe stata salva, che tutti lo sarebbero stati, che il suo sacrificio non sarebbe stato vano.

“Camminerò al tuo fianco finché avrò vita, e continuerò a farlo anche dopo”, le aveva sussurrato baciandola quella stessa notte dopo aver fatto l’amore con lei, quando la guerra non aveva ancora sfiorato le loro vite.

E invece non era stato così.

Ignorava quali antiche magie possedesse quel demone.

Ignorava che il suo attacco fosse proprio ciò che Apophis voleva da lui.

Ignorava anche e soprattutto il fatto che da lì in poi sarebbe diventato lo schiavo dell’oscurità che lo aveva avvolto là dentro.

Aveva sentito chissà quali maledizioni che gli strappavano i ricordi cercandoli avidamente nella sua testa come segugi da caccia, aveva avvertito gli artigli del mostro piantarsi nella sua anima fino a corromperla e renderla più nera della profondità del cosmo dal quale era nato, non gli era nemmeno stato risparmiato il dolore del braccio dilaniato da un marchio che lo aveva segnato come eterno servo delle tenebre.

Poi, il nulla: quel giorno, Phobos aveva cessato di esistere.

Al suo posto, solo un burattino senza memoria e senza più nulla a tenerlo vivo se non la brama di vendetta verso Harmonia del suo padrone, un giocattolo rotto che poteva essere manovrato a piacimento per attuarla a distanza da Apophis stesso nonostante il suo esilio sulla Luna. A nulla valeva tentare di ribellarsi, nemmeno ricordava come si facesse, doveva solo rassegnarsi e cercare di uccidere -a comando- la donna che aveva amato, che amava ancora dopo settecento dolorosi anni di buio.

E, sempre settecento anni di buio dopo, Phobos finalmente lo ricordava.

 

Ma non serviva a nulla, esattamente come non era servito tempo prima; lo mollò per terra lanciandogli un’occhiata pietosa, quasi stesse nuovamente leggendo i suoi pensieri.

«Ricordi, eh?» gli rise in faccia Apophis senza contegno alcuno, si vedeva che aveva appena ottenuto ciò che voleva «Tu non odi Harmonia, la ami ancora perdutamente, oh se la ami! Scoparti Halley, devastare la sua terra, fare irruzione nel suo palazzo: tu non faresti mai tutto ciò che stai facendo, mai» aprì le braccia in modo scenico come ad indicargli la vastità del male che le stava facendo «tu, appunto, ma quello che ho davanti ora è solo il mio personale giocattolo, per cui non hai nessuna voce in capitolo. Spiacente, bellezza.».

«… Tu» Phobos sentiva la rabbia montargli dentro con ferocia immane, talmente intensa da anestetizzargli il dolore alla testa e allo sterno provocato dalla caduta «Tu sei un… un… sei un fottuto bastardo!» gli saltò alla gola con uno scatto repentino.

Una fitta lancinante al petto lo travolse quando le sue mani furono a pochi centimetri dallo stringersi intorno al collo dell’altro. Phobos guardò in basso: una mano, sì, ma era insanguinata.

Una mano insanguinata che lo trapassava.

«Ti sei divertito anche troppo, Barbie Platinata» un’altra voce maschile gli giunse alle orecchie ovattata e confusa, i sensi che non rispondevano più nonostante la mano fosse uscita dalle sue carni con la stessa rapidità con la quale era entrata «muovi il tuo dolce culo dalla mente di questo povero disgraziato e torna a casa, prima che il tuo dio delle disgrazie si arrabbi, o peggio che ti fotta la tinta biondo platino dal bagno» l’energia non meglio definita si mise a giocherellare con i capelli di Apophis, visibilmente infastidito «e pure le scorte nascoste nel divano!»

«Sono occupato, se permetti» lo rimproverò lui tenendo il tono basso ed esibendo un facepalm palesemente rassegnato «per cui sei pregato di tenere a bada i tuoi divini ormoni fino a quando non sarò di rit-»

«Voglio scopare, e voglio farlo adesso».

Phobos squadrò Apophis con sguardo tanto sorpreso quanto perplesso, nemmeno gli avesse appena detto che si scopava sua madre -della quale nemmeno ricordava il volto, per cui non sarebbe stato un insulto tanto efficace come sperato-, ed a giudicare da quanto era arrossito l’uomo sembrava aver notato fin troppo bene quella sua occhiataccia che gridava “SHAME! SHAME!”, ci mancava giusto il campanaccio!

Schiaritosi la voce, si strofinò gli occhi con la mano e sospirò pesantemente, Phobos che continuava ad osservarlo: non pareva nuovo a quel genere di entrare sessualmente ambigue -ma nemmeno troppo, si capiva perfettamente quale fosse il succo del discorso- e alquanto inopportune, forse quella volta aveva semplicemente creduto di poter scampare una pessima figura.

Ma stava di fatto che una risatina ad immaginarlo chinato a 90 mentre qualcuno glielo metteva là dove non batte il Sole -parole di Apophis sulla sua casa, del resto- riuscì a strappargliela, il che era sorprendente vista la situazione.

A sorprenderlo, poi, fu la vittima di tanta ilarità qualche istante dopo; con l’altro inginocchiato a terra che tentava di riprendersi, si chinò lentamente fino a raggiungere la sua altezza senza fare altro, solo guardandolo negli occhi.

«“Observe”» il tatuaggio sotto il suo occhio si illuminò di un bagliore violaceo, creando un una sorta di ragnatela che si spandeva dalla mezzaluna fino agli altri punti scendendogli sul volto e sul petto «“Adapt”» Phobos non distingueva bene le forme che si disegnavano sotto le sue vesti, ma era quasi sicuro di intravedere la magia addensarsi nel disegno di una Luna tagliata a metà recante strane incisioni «“Evolve”» infine, gli occhi di Apophis presero a brillare di un viola intenso come la punta delle sue dita, sostenere il suo sguardo era ormai diventato impossibile.

«Conosci questo motto, eh?» domandò sorridendo.

«Mai sentito» mentì lui, ricordava bene la Casa a cui appartenevano quelle parole.

Il biondo sorrise e gli pose una mano sulla testa.

«Me lo sono sentito ripetere dai miei famigliari per anni, decenni, e mio fratello ha continuato a ripetermelo per tutti i secoli seguenti. “Siamo rimasti solo noi due: non andiamo d’accordo, ma dobbiamo collaborare per il bene della famiglia”, diceva» la magia iniziò a fluirgli dalle dita, sottili filamenti simili a serpi che si insinuavano fra i capelli e scorrevano sul corpo inerme dell’altro «ma io non volevo ascoltarlo, non ero interessato alle sue parole. A dirla tutta non ho mai capito cosa intendessero, lui o quei due buoni samaritani dei nostri genitori, ma volevo essere presente nella vita di mio fratello, lo volevo davvero».

Si insinuarono a terra, quei maledetti fili magici ora simili a catene, trattenendo Phobos in ginocchio a dimenarsi inutilmente.

«Anche solo per un attimo, quello che sarebbe bastato per fargli capire ciò che aveva portato via me, al primogenito: l’affetto dei propri genitori, troppo occupati dalla carità verso i bisognosi e da quel piccolo e indifeso neonato prodigio, per pensare al loro primo figlio» si incupì stringendo gli occhi, esattamente come facevano quelle catene magiche.

«Il trono, caduto insieme a loro un millennio e mezzo fa, ora nelle grasse mani di un pelato con un ciuffo in mezzo alla testa che risponde al nome di Tsar Lunar XII» Apophis si lasciò scappare una risata amara, a tratti malinconica, ma Phobos era troppo occupato a cercare un modo di liberarsi per compatirlo: sapeva fin troppo bene cosa sarebbe accaduto dopo, lo ricordava fin troppo bene, e non poteva permetterlo, non di nuovo.

«Mi privarono persino del mio numero in linea di successione, sai? Scivolai incomprensibilmente dal Lunanoff numero dodici al tredici, vai a sapere perché, ma non fu il cognome ciò il cui furto mi portò a cercare vendetta, certo che no» Apophis si bloccò un attimo, e con lui la sua magia.

Phobos avrebbe volentieri approfittato di quell’attimo di distrazione per tentare un ultimo e disperato tentativo, ma tutto d’un tratto sentì le unghie dell’altro che gli si piantavano nella carne.

«Mi rubò i poteri, Manny, nacque con essi e con essi si prese tutto ciò che apparteneva a me, al primogenito, il primogenito!» scattò iracondo scavando a fondo nella testa dell’altro, la schiena che si inarcava per la stilettata che gli trapassò le cervella con violenza inaudita «E io ricambiai, oh se lo feci! Proprio come lui aveva fatto con me, da fratello a fratello, settecento anni fa gli portai via tutto ciò che aveva costruito con la sua portentosa magia: i guardiani. Li feci cadere uno dopo l’altro, uno in modo più brutale dell’altro, fino a quando non ne rimasero più… o quasi».

Le grida agonizzanti di Phobos riempivano quel luogo con ferocia tale da sembrare che potesse tutto crollare da un momento all’altro, e in effetti era proprio ciò che stava accadendo.

Quella era la sua mente, il suo subconscio, e stava cadendo a pezzi, esattamente come Apophis gli stava strappando i ricordi dalla testa per la seconda volta in sette secoli: se prima il nero dominava quell’antro tetro nel quale stava conversando con il Lunanoff rinnegato, ora sulla sua testa si stavano formando crepe sempre più grandi dalle quali filtrava una luce bianca, in netto contrasto col sangue nero e appiccicoso che colava da quegli stessi squarci, ferite aperte che riflettevano quelle sul cranio del povero Phobos.

Stringendo un’ultima volta, Apophis gli afferrò la mascella come se volesse spaccargliela:

«Ma tu concluderai ciò che io non ho potuto concludere: mi porterai le teste dei guardiani, e con essi quella della donna che amavi, della regina Harmonia. Portamele, e forse potrei decidere di mettere finalmente fine a questo tuo continuo trascinarti nel mondo alla ricerca del senso del tuo misero vivere» gli promise guardandolo negli occhi, le pupille rovesciate all’indietro a monito di cosa Phobos stesse provando a dimenticare tutto per l’ennesima volta «Servirmi, è questo il senso della tua esistenza».

Provò a ricordare il volto di Harmonia quella notte, quella in cui erano ancora felici, quando la guerra non era che una parola scritta sul dizionario: non ci riuscì. Stava dimendicando, Aveva già dimenticato. Era finita, di nuovo.

«E uccidere».

 

***

 

 

Phobos si liberò dal tocco della regina indietreggiando quasi spaventato, la falce tesa davanti a sé per mantenere le distanze e, forse, proteggersi da qualcosa che solo lui vedeva.

«Non toccarmi! Tu non sai chi sono io!»

«Su questo hai ragione, non ho idea di chi tu sia, sono desolata» si scusò Harmonia.

«… Mi pigli per il culo?» le domandò lui a metà fra il sorpreso ed il seccato, gli sembrava impossibile che proprio lei non lo riconoscesse!

«No, cielo, non mi permetterei mai di mancare di rispetto in questo modo a qualcuno!» si affrettò a precisare muovendo le mani «Anche se quel qualcuno fosse entrato in casa mia sfondando il lucernario, spargendo vetri ovunque -sul suo corpo compreso- e mi stesse parlando con un linguaggio piuttosto scurrile e volgare, non faccio distinzioni né mi offendo facilmente. Ma in fondo ti capisco: hai preso una brutta botta in testa, devi darti tempo per riprenderti».

Phobos sgranò gli occhi basito «Tempo per… riprendermi? Ma cosa caz-»

«Naevia, prego» Harmonia chiamò la leopardessa delle nevi al suo fianco, la quale non si fece attendere dalla propria regina «ti chiederei di dare un’occhiata al nostro ospite, vorrei assicurarmi che non sia ferito: nel caso, mi affido alla certezza che gli offrirai le migliori cure che conosci » si raccomandò indicando con particolare attenzione i vetri macchiati di sangue sparsi qua e là sulla pelle dell’uomo.

«Io non-» non fece in tempo a finire lui che si trovò Naevia vicino al fianco sinistro intenta a studiare le sue ferite, cercò di nascondere la sorpresa nel non essersi nemmeno accorto  che lei si fosse mossa.

Avrebbe voluto fare qualcosa, il povero Phobos, ma ogni volta che tentava di aprire la bocca ecco che ci si metteva pure Dentolina a controllargli i denti ora squittendo entusiasta, ora borbottando contrariata: se esisteva l’inferno, allora lui c’era dentro fino al collo.

Anzi, era stato proprio sommerso.

Si specchiò in uno dei frammenti di vetro a terra per contemplare la propria miseria: capelli rossi tenuti sciolti sulle spalle, occhi dorati, quel vago accenno di lentiggini sul naso. C’era tutto ciò che ricordava di avere anche settecento anni fa -e che quindi Harmonia avrebbe dovuto ricordare, a meno che pure lei non fosse smemorata tanto quanto lui-, eppure la Regina della Fantasia non l’aveva nemmeno riconosciuto.

Lanciò un’occhiata veloce agli altri presenti cercando di capire se almeno loro ricordassero il suo volto: niente di nuovo, stesse espressioni tranquille e serene, con quel pizzico di compassione per quel povero disgraziato che, invece, si guardava intorno come un topo in gabbia.

“Non era così che dovevano andare le cose, si disse Phobos abbattuto, “non vanno mai come dovrebbero andare, le cose che faccio io” lasciò cadere la falce a terra, il clangore dell’acciaio che si spandeva fra le mura del castello dissolvendosi in un eco sordo “e se le cose non vanno come devono andare, la colpa è solo mia che non sono in grado di farle andare nel verso giusto”.

Senza rendersene conto, Phobos si accasciò a terra tirandosi le ginocchia al petto e nascondendo la testa fra di essere “Sono un disastro, un totale disastro, non sono buono nemmeno a entrare in casa altrui”, si ripeteva come un mantra.

Vedendolo crollare in ginocchio così all’improvviso e forse temendo un suo malore, Harmonia si protese verso di lui.

«Tutto bene? Hai bisogno di aiut-»

«Ho bisogno che tu mi riconosca, ecco di cosa ho fottutamente bisogno!» sbottò lui alzando la testa e battendo i pugni per terra, non era raro che i suoi momenti bui sfociassero in crisi di violenza inaudita.

Harmonia lo guardò impietosita dal non poter dare una risposta diversa da quella data poco prima alla stessa richiesta, si vedeva che era seriamente dispiaciuta.

«Perdonami, davvero» si scusò di nuovo chinando il capo in segno di rammarico «ma, come ti ho già detto, io non ho idea di chi tu sia. Mi spiace, credimi».

Stava scherzando, si stava prendendo gioco di lui!

Phobos si alzò in piedi e allargo le braccia, le lacrime che avevano lasciato posto a qualcosa di nuovo, alla rabbia più pura.

«Guardami! GUARDAMI!» le intimò minaccioso «Sono io, per tutti i tuoi stramaledetti dei, IO!» gridò spaventando i guardiani, i quali indietreggiarono. Myricae, al contrario, aveva già messo la mano sulla sua spada, pronta per ogni evenienza.

«Posso guardarti finché vuoi, ma continuerò a non-

«Sono quello che hai sbattuto a marcire nell’Abisso per settecento anni, brutta sgualdrina! Quello che hai dimenticato nel fottuto buco del culo di questo stramaledetto pianeta sperando di tornare e trovarci le mie ossa! Phobos! PHOBOS! Ficcatelo in quel tuo cervello equino, perché possa il Sole sorgere a Occidente se non te lo ficco io da qualche altra parte a colpi di minchia, pur di fartelo capire!» tuonò secco tutto d’un fiato, il marchio sul suo braccio che prese a brillare.

 

In quel momento, il mondo di Harmonia smise di girare.

Phobos.

Quello era Phobos.

Il suo Phobos.

Settecento anni, erano passati settecento dannatissimi anni da quando lo aveva visto l’ultima volta prima di gettarlo nell’Abisso col cuore in gola, ed ora eccolo lì davanti a lei: i capelli più lunghi di quanto ricordasse, gli occhi dorati ora di un giallo grigiastro spento, lo sguardo perennemente perso a cercare un’ancora di salvezza, quel segno sul suo avambraccio più grande di quanto fosse tempo addietro.

Lo aveva sbattuto nell’Abisso, Phobos, e lì lo aveva dimenticato… no, non era vero, non ce lo aveva sbattuto tanto per divertirsi, era stata costretta a farlo.

E poi era andata a trovarlo ogni giorno, sì, ogni singolo giorno per venticinque lunghi anni, un quarto di secolo passato nella disperazione più pura, nell’Abisso che lei si era creata nella sua mente dove si tormentava ogni ora, ogni minuto, ogni più impercettibile secondo: quello non era abbandonarlo!

Forse… forse avrebbe dovuto fare di più? No, aveva un pianeta da mandare avanti, non c’era stato tempo per gli addii… ma avrebbe dovuto trovarlo, quel tempo, forse in quel modo Phobos si sarebbe sentito meno solo, forse non sarebbe stato tanto arrabbiato, forse non sarebbe evaso.

Come aveva fatto a evadere, poi? I suoi incantesimi non erano sufficientemente potenti? Aveva sbagliato qualcosa? Stava sbagliando qualcosa anche ora?

No, aveva fatto tutto alla perfezione, aveva espressamente richiesto anche la presenza dei guardiani il giorno in cui aveva scavato l’Abisso, così da essere certa che il suo cuore in frantumi non potesse inconsciamente giocare brutti scherzi a lei e alla sua magia. Aveva fatto tutto come doveva essere fatto, sì. Non era colpa sua, non poteva fare più di così.

Cercava di giustificarsi con se stessa, la Regina di Phantasia, ma -esattamente come non ci riusciva da sette secoli a quella parte- non ci stava riuscendo nemmeno un po’ anche adesso: era colpa sua se Phobos era diventato quello che era.

Lo aveva fatto per lei, si era sacrificato per lei e nessun altro.

E lei non lo aveva nemmeno ringraziato, né salutato, né baciato.

“Sono stata un mostro”.

No, non lo era stata: era successo tutto troppo in fretta, Apophis era troppo potente, non era colpa sua… o forse sì, avrebbe dovuto trovare il tempo per farlo, se lo amava tanto, avrebbe dovuto morire con lui!

“La colpa di tutto è mia, mia e basta”.

Si era staccata dal mondo da un pezzo, Harmonia, e si era assicurata di trascinare con sé la propria magia. Al posto della centauressa dal manto bianco e gli zoccoli dorati, ora c’era una semplice donna -più o meno, la cascata di capelli verde acqua e azzurro e rosa pastello mossi da un vento impalpabile era rimasta al suo posto- con lo sguardo perso davanti a sé, i riflessi azzurri e rosa dei suoi occhi nei quali si specchiava la falce di Phobos sempre più vicina, pronta a ghermire la vita dal suo corpo.

 “Avrei dovuto esserci io al suo posto”.

«Concordo. Intanto grazie per il banchetto, sai sempre come rendere contenta questa Ephemeride vecchia, strana e tremendamente annoiata».

La voce compiaciuta di Tanith fu l’ultimo sussurro che le arrivò alle orecchie, poi Harmonia sommerse tutto ciò che la circondava con i sensi di colpa, e i rimpianti, e il dolore, un velo nero che la isolava dal mondo e dal cosmo intero.

Scacco matto.

 

La coda di Myricae frustò l’aria tonando a terra e mandando in frantumi il pavimento, un sottile rivolo di sangue che colava dalle squame color smeraldo nel punto d’impatto della falce di Phobos su di esse: dietro di lei, Harmonia che pareva più simile ad una statua di gesso, piuttosto che una persona.

L’Ophidian non aveva dubitato nemmeno per un istante sull’identità di quell’uomo dai capelli rossi che aveva fatto irruzione nel palazzo, lo aveva riconosciuto fin dal primissimo istante e -sempre dal primissimo istante- si era preparata a proteggere la sua regina, nonché amante. Sfruttando i vaghi poteri da oracolo della leopardessa, aveva mentalmente chiesto conferma a Naevia dei suoi sospetti, non volendo scatenare il panico inutilmente, e la sua risposta affermativa le aveva confermato che valeva la pena tenere alta la guardia.

E per fortuna che lo aveva fatto!

Appena aveva visto negli occhi di Harmonia i primi segni del congelamento che sarebbe venuto dopo, Myricae aveva capito che doveva intervenire per evitare che Phobos -approfittando di quel suo blocco globale totale- la uccidesse fiondandole addosso con la falce, e non avrebbe proprio potuto scegliere un momento migliore per farlo. Priva di ogni coscienza di sé, indifesa, insensibile a tutto e tutti, incapace di provare qualsiasi cosa, di riconoscere qualsiasi persona, di utilizzare la sua stessa magia, in quello stato Harmonia non riusciva nemmeno a sbattere le palpebre.

Il ricordo di una notte d’estate si fece largo nella mente di Myricae, ma lei lo ricacciò indietro prima che potesse iniziare a macerare e macerare: la priorità era proteggere la regina, punto, tutto il resto era superfluo.

E l’ennesimo affondo di Phobos glielo ricordò a gran voce. Myricae non si lasciò certo cogliere impreparata da quella sua furia cieca: seguì con gli occhi la lama della falce fin dall’istante in cui lui l’aveva sollevata da terra e protesa verso il cielo pronto a lasciarsi cadere nuovamente, e attese con pazienza fino a quando non raggiunse la massima elevazione.

Il metallo brillò dei raggi del Sole: ecco il momento che aspettava.

Un colpo secco con la coda ai polpacci di Phobos fu tutto ciò che fece, e il “crack” che ne seguì fu la conferma che l’attesa era valsa il risultato: quell’arma doveva essere particolarmente pesante, aveva pensato la naga quando l’aveva vista per la prima volta, per cui l’approccio migliore del caso sarebbe sicuramente stato danneggiare il baricentro di chi la impugnava, più che il corpo in sé, ed era esattamente ciò che aveva fatto. Il lungo corpo delle Ophidians era un unico ed efficiente fascio di puri muscoli e ossa più simili a titanio che alle porose ossicine umane, attutire l’impatto era semplicemente impossibile.

Crollò a terra quasi immediatamente con il fiato che gli moriva in gola e i polpacci praticamente distrutti, ma Myricae non si avvicinò per prendergli la falce dalle mani: non era affatto convinta che avesse vinto con così poco.

E infatti aveva ragione.

Il marchio sul braccio di Phobos si illuminò di una luce violetta intermittente per qualche istante, poi parve spegnersi del tutto, ma fu solo una questione di secondi perché la sua pelle rosea si coprisse di sottili venature e capillari di un viola più simile al nero, le gambe -coperte dagli abiti e quindi non visibili agli altri- in particolare erano cosparse di macchie nerastre dalla superficie increspata simile a quella della terra arida.

Chiuse gli occhi per un istante appena, poi fu di nuovo in piedi.

“Ecco, quella sua rigenerazione così rapida potrebbe essere un problema non indifferente”, pensò Myricae fra sé e sé senza voler mettere in allarme nessuno, ma dallo sguardo di Naevia capì che doveva averla sentita.

Guardò di nuovo Harmonia, ancora impietrita: ora come ora non era troppo diversa da una bambina incapace di provvedere a se stessa, i fatti erano quelli, una bambina in mezzo ad un campo di mine antiuomo che non aveva nessuna mappa di dove si trovassero le stesse.

E anche chi aveva la mappa si stava rendendo conto che era inesatta.

Si fermò un attimo a pensare, studiando il castello intorno a sé in cerca di una via dalla quale farla fuggire il prima possibile, di certo non poteva tenerla lì a fare la bella statuina!

Guardò i guardiani: forse loro… no, non se ne parlava, mai e poi mai avrebbe messo la vita di Harmonia nelle loro mani, non gli avrebbe affidato un moscerino nemmeno se fosse stata costretta a farlo, e a dirla tutta era piuttosto restìa anche a chiedere loro aiuto.

“Ah, al diavolo!”, imprecò silenziosamente sospirando rassegnata.

Sapeva bene che dare le spalle a Phobos non era affatto una buona idea, ma lo fece comunque per rivolgersi ai cinque che se ne stavano ancora vicino al tavolo davanti al contratto.

«Intendete dare una mano, o volete forse un invito scritto?» li canzonò severa cercando di controllare l’altro con la coda dell’occhio.

«Dare mano?» ripeté Nord confuso.

«“Oui! Anche due!”» commentò sarcastica Tanith ricordando i bei tempi andati, doveva essere seriamente annoiata se si stava pure infilando nelle conversazioni altrui.

«Cosa?» a Myricae era parso di aver sentito un sussurro, ma si disse che era tutta colpa dell’agitazione e non gli diede peso «Comunque sì, “dare mano”, anziché stare lì a guardare senza muovere un dito» cercò di contenere il fastidio nel dover fare presenti cose ovvie «anche perché immagino che quel signorino laggiù voglia pure le vostre teste. Devo anche ricordarvi che avete firmato un contratto di alleanza o ci arrivate da soli, a muovere il-»

Le parole le morirono in gola.

«Su una cosa hai ragione, voglio anche le loro teste» approvò Phobos sorridendo e spingendo più a fondo il sottile pugnale che aveva conficcato diagonalmente fra la scapola e il collo della naga, il sangue che colava sul marchio e pareva bollire.

Nonostante il dolore, Myricae non emise nemmeno un suono, non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di piegarla.

«Ma per ora la mia priorità resta un bel paio di scarpe nuove in pelle di Ophidians: il verde non è esattamente il mio colore preferito, ma me le farò andar bene» rigirò il coltello nella ferita affondandolo fino all’impugnatura, la falce invece tenuta davanti a Myricae che le sfiorava il collo ogni volta che respirava «anche perché quando le chiedevo a Babbo Natale non me le ha mai portate, quell’infame figlio di una cagna con la scabbia!» si lamentò rivolto verso Nord.

Se fino ad ora i guardiani non avevano ancora combinato nulla di buono, ora finalmente sembravano essersi svegliati dal dolce torpore in cui si stavano sollazzando. Nord soprattutto pareva aver preso parecchio sul personale l’offesa rivoltagli, tanto da aver impugnato le proprie spade avanzando verso Phobos incurante delle preghiere degli altri di fermarsi.

«Mordi tua lingua prima di parlare di mia madre, ragazzo, o io infilare te in lista di cattiva prima di Jack Frost, e lui essere al primo posto!»

«Come?» il guardiano del divertimento trasalì «Mi avevi detto che se mi fossi occupato delle renne per tutto l’anno fino a Natale mi ci avresti tolto, da quella lista, e io l’ho fatto!» si lagnò prendendo a indicarsi compulsivamente «Ho spalato merda per niente! NIENTE! Hai idea di-»

«Ti ha messo a spalare la merda delle sue renne?» si intromise Phobos incredulo.

«Quella, e pure tutto il resto! E tutto perché “tu altrimenti restare in lista di cattivi, da!”» scimmiottò lui imitando malamente Nord, a tanto così dal mettergli le mani al collo.

«Per tutti gli dei vivi e morti» inorridì l’altro sollevando le sopracciglia in segno di stupore «ed io che mi lamentavo dell’Abisso! Al confronto, quello era-»

«Il posto in cui devi tornare» sibilò Myricae.

Il tempo di gonfiare minacciosi il collare membranoso che avevano intorno al collo, e le serpi che l’Ophidians aveva come capelli si lanciarono in massa sul volto e sul collo di Phobos, affondando i loro denti veleniferi nella carne e ancorandosi ad essa come uncini.

Seguendo l’istinto di sopravvivenza, l’uomo mollò falce e pugnale per afferrare quegli animali con le mani ora libere, ma la naga lo precedette sul tempo di nuovo, anzi lo fecero quelle bestioline in modo del tutto autonomo: bastarono due paio delle code -che fuoriuscivano dal suo capo esattamente come facevano le teste- per bloccargli i polsi, avvolgendosi intorno ad essi e stringendoli finché non iniziarono a diventare viola. Era vero, Myricae lo aveva in pugno, ma la posizione in cui si trovava rendeva scomodo tentare un qualsiasi altro attacco, specie perché girandosi avrebbe dovuto abbassare la guardia per l’ennesima volta di troppo.

In suo aiuto, però, una delle zampe di Antares comparve da chissà dove, tendendole il filo con cui tesseva le sue tele; il resto della donna mezza aracnide arrivò poco dopo, ovviamente con addosso quel suo solito infantile entusiasmo.

Complice l’antica guerra che andava avanti da tempo immemore fra Ophidians e Sylkes -le cui conseguenze però non si erano mai riversate sul loro rapporto, unite com’erano dall’amicizia in comune con Harmonia e da un paio di favori che si erano fatte a vicenda-, la naga non era riuscita a trattenere il facepalm.

«Alla buon’ora» si limitò a commentare stizzita.

«Meglio tardi che mai, ero a tessere dei regalini per i nostri ospiti! Un attimo solo» Antares si mise a frugare nella borsa di cucito che si portava sempre dietro, i ferri da maglia sopra l’orecchio come si confaceva alla grande -e incompresa- artista che era «… accidenti a me, sono più sbadata di mia madre quando ha mangiato per sbaglio le nostre sorelle… o forse le avevo cucinate io perché non avevo le uova per la frittata? Oh beh, arrivo! Ci sono!»

Passarono altri interminabili minuti, poi finalmente tirò fuori dal borsello una serie di lavori ad uncinetto -presumibilmente sciarpe- dai colori più variopinti che si mise a distribuire tutta contenta ai guardiani.

“Non farti domande, non sorprenderti nemmeno: la conosci, ormai” si disse l’Ophidians cercando di non dare a vedere il proprio disappunto.

«Antares» la richiamò.

«Ti sta benissimo, ghiacciolino mio adorato, sei un meraviglioso batuffolo di calore e tenerezza e- e-» prese fiato incredula, poi tornò alla carica più molesta che mai «e queste guanciotte mooooooorbideee!» squittì mentre strizzava le guance a Frost, che poverello era immobile come uno stoccafisso per la paura di finire inseminato.

«Antares».

«Oh-miei-dei! Sei favolosa, tesoro, fa-vo-lo-saH! Questo verde iridescente si abbina proprio bene alle tue piume, ho fatto bene a non ascoltare Naevia che diceva che fosse troppo appariscente: alla faccia tua, eh eh!» rise rivolgendosi alla leopardessa, che di suo fece spallucce annoiata.

«Antares!»

«Eh? Che c’è?» finalmente, la Sylkes degnò l’Ophidians di uno sguardo.

«Ehm-ehm» tossì indicandogli Phobos dietro di lei «provvedi alle sue mani, grazie».

«Oooooooh! Quello! Non potevi dirlo prima? Che sciocchina che sei!»

«Dirlo… prima? Sto cercando di- oh, lascia stare e fai quello che devi, per la dea!» si rassegnò infine.

 

Ad Antares ci volle qualche minuto a fare ciò che doveva, ma infine Myricae poté finalmente liberare se stessa e pure i suoi serpenti, i quali si preoccuparono ance di strapparle il pugnale dalle carni con un colpo secco.

Gettò lo sguardo su Phobos con un misto fra pena e orrore: cos’era tornato a fare, adesso? Pensava forse di poter riconquistare Harmonia? Di tornare insieme a lei? Di conquistare il suo cuore, forse? Quell’ultima ipotesi gli sembro sì plausibile, ma solo in forma letterale se ripensava a come l’aveva ridotta col suo solo palesarsi, o come le si era avventato addosso.

Strisciò fino a trovarsi di fronte alla Regina di Phantasia e le prese il volto fra le mani, come in altre circostanze faceva quando voleva baciarla ma che, adesso, era solo un modo per farle sentire che le era vicina.

«Non ti lascio da sola, mai» le sussurrò piano poggiando dolcemente la propria fronte a quella dell’altra «resta con me, va bene? Ascolta la mia voce e resisti, fallo per me, per noi: passa tutto, passa sempre» la strinse a sé cercando di ignorare la voglia di urlare che le stava invadendo anche i dotti lacrimali. Non sapeva se le stesse accarezzando la testa per rassicurare lei o più se stessa, ma doveva essere forte per entrambe, adesso «Non andare dove non posso raggiungerti, mela en’ coiamin, non un’altra volta. Dartho na nin, a’maelamin, dartho na nin» la pregò infine.

«Che scena pietosa» intervenne Phobos.

Myricae si girò di scatto verso di lui lasciando il volto di Harmonia, ma non prima di darle un bacio sulla fronte; gli si avvicinò strisciando lenta ma inesorabile, con gli occhi color lime pieni di voglia di spaccargli la faccia appena lo avesse avuto davanti, esattamente come i pugni che fremevano per posarsi su quel suo nasino tanto carino e caruccio.

«Hai qualche problema con me, forse?» domandò quando fu lì ergendosi sopra di lui, complice il corpo serpentino che glielo permetteva.

«Tu e la tua amichetta mi fate semplicemente schifo, per farla breve, tante sdolcinerie mi fanno venire l’acidità di stomaco. E non ho comprato il Gaviscon, quindi fai tu due conti di come sono messo».

«Oh, sono seriamente dispiaciuta, davvero» commentò apatica incrociando le braccia, poi gli indicò Naevia «un medico lo abbiamo pure noi per cui il problema non si pone: forse un qualche intruglio particolarmente amaro potrebbe farti rinsavire, Phobos».

«AdoVo come pronunci la lettera “esse”, sssembra che tu ssssssibili nel farlo, mi sssssbaglio? Si tratta di una mia impresssssione, sssssignorina?» prese a sfotterla lui sfoderando uno di quegli sguardi che dovevamo sembrare convincenti, ma che in realtà facevano solo sorride allontanandosi lentamente.

Myricae rise scuotendo la testa «Sei penoso».

«Concordano in tanti con te, e ahimè devo proprio darti ragione su questo punto. Ma capiscimi, ho passato sette secoli nell’Abisso, il mio charme ha perso di efficacia, anche se certo non lo avrei sprecato con un serpente ermafrodito come te».

«Sette secoli nell’Abisso, appunto, e non sono stati abbastanza: avresti dovuto marcirci dentro fino alla fine dei tempi, nell’Abisso, vedo bene cosa stai combinando adesso che ne sei uscito» asserì lei con un velo di rabbia nel tono della voce, afferrando la camicia di Phobos e portandoselo all’altezza dei suoi occhi «devasti e uccidi, o almeno ci provi: colpisci alle spalle come un vigliacco, non meriti nemmeno di impugnare un’arma diversa dalle bacchette del sushi con le quali probabilmente ti sei allenato in quel buco di posto».

Prese la propria spada dal fianco -una lunga lama ondulata che ricordava il corpo di un serpente, la cui testa infatti formava l’elsa dorata- e gliela poggio sul petto.

«Non puoi nemmeno immaginare quanta voglia abbia di affondartela nelle viscere, Phobos, non puoi nemmeno lontanamente immaginarlo».

«Fallo, allora. Avanti. Ti sto aspettando» la invitò cortesemente per prenderla ulteriormente in giro «Hai paura, forse?» la stuzzicò lui.

«Paura? No, certo che no, non temo di certo te» rise la naga di tutta risposta, affondando -se non la lama- almeno l’autostima dell’altro «Pietà, ecco cosa. Non ti darò mai e poi mai la soddisfazione di morire e trovare la pace, non lo meriti, come anche non meritavi il suo dolore» indicò Harmonia, immobile, con la spada «L’ho vista versare più lacrime in una sola notte di quante qualsiasi creatura ne possa versare in tutta la sua esistenza, prendersi in spalla colpe che non aveva e sopportare tutto, tutto, in assoluto silenzio e col sorriso sul volto: non permetterò che accada di nuovo, gliel’ho giurato. Non lo meriti. Non la meriti. Non meriti proprio-»

Phobos pensò bene di interromperla sputandole in faccia, dando mostra della sua incredibilità maturità e serietà.

«Tu fai schifo. Harmonia fa schifo. Phantasia fa schifo. Tutti loro» girò il volto verso i guardiani a indicarli «fanno schifo. Fate tutti schifo, signori miei, e nemmeno tanto meno di quanto lo faccia io. E ora, chiudi cortesemente quella bocca, o giuro che te la faccio chiudere io infilandoci il mio cazzo dentro».

Myricae si pulì il volto «Il massimo che potrei fare col tuo cazzo è usarlo come filo interdentale, ad essere generosi. E poi, come avresti intenzione di fare? Ti va di spiegarlo a noi poveri rifiuti che ti inorridiamo tanto, eh?»

«Loro lo faranno con piacere» concluse calmo facendo un cenno verso la porta d’ingresso.

 

Davanti ad essa, Thorax e il resto del branco con i canini snudati.

I leoni non avevano perso tempo in convenevoli, e tutto d’un tratto la frenesia di poco prima era ricominciata più violenta e rumorosa di quanto lo fosse stata quando Phobos aveva fatto la sua entrata in scena. Si erano subito divisi ed avevano iniziato a lanciarsi contro qualsiasi cosa o persona si trovasse davanti al loro cammino, e i loro ruggiti che riempivano l’atrio del castello e rendevano impossibile qualsiasi forma di comunicazione verbale non facilitavano certo le cose tanto per i guardiani come per tutti altri.

Nonostante il caos, però, c’era da riconoscere che tutti stavano collaborando per uscirne nel miglior modo possibile: Sandman e Calmoniglio erano quelli che se la cavavano meglio sul fattore quantità, riuscendo ad abbattere diversi leoni in un colpo solo uno con la sua frusta di sabbia dorata, e l’altro col boomerang che -c’era da dirlo- aveva rischiato di tagliare di netto pure la testa del povero Jack Frost.

Quest’ultimo, infatti, sembrava piuttosto confuso su ciò che stava accadendo, prendeva tutto come un giochi proprio com’era nel suo stile: ora una palla di neve e ghiaccio dritta in mezzo agli occhi che faceva stramazzare a terra quelle bestie, ora un paio di stalattiti affilate che come pioggia si abbattevano sui felini tutte d’un colpo dopo averli attirati in trappola in uno spiazzo libero, ora il semplice congelarli e poi gettare il bozzolo di ghiaccio a terra mandandolo in frantumi.

Il guardiano del divertimento, quindi, se la stava cavando egregiamente nel suo scivolare da una parte all’altra su piattaforme ghiacciate da lui create.

Dentolina invece era quella più in difficoltà, fra tutti loro: poteva svolazzare qua e là per attirare i leoni dove voleva Frost, ma già un paio di volte aveva prestato poca attenzione agli stessi e si era presa delle brutte artigliate sulle ali, ora costellate da buchi di dimensioni non indifferenti. Le sue fate, poi, erano anche più inutili di lei: i leoni nemmeno le sentivano, e quando lo facevano era solo perché le stavano divorando.

Per l’ennesima volta, la fata dei denti abbassò la guardia nell’aiutare Jack: subito, un leone nero la intercettò come la sua prossima preda, le conficcò gli artigli fra le fragili ali da colibrì per poi, poco dopo, appendersi letteralmente a lei trascinandola a terra. Solo il tempestivo intervento di Nord la salvò dall’essere sicuramente sbranata, ma certo non le sfuggì l’occhiata di rimprovero che le lanciò prima di gettarsi nuovamente nella mischia con l’entusiasmo di un bambino.

Phobos spalancò gli occhi incredulo, e non era per il veleno che iniziava a fare effetto dilatandogli le pupille nemmeno fosse uno scherzo del destino: come tessere di dominio perfettamente allineate, i suoi leoni stavano crollando uno dopo l’altro, stavano sparendo inesorabilmente tornando ai mucchi di ossa e polvere che erano stati in origine, e lui era lì a guardare tutto ciò completamente inerme.

Non poteva sopportare una vista del genere, non di nuovo! Glieli avevano già portati via una volta, non poteva -non doveva- permetterloancora, non lo avrebbe mai permesso!

Forse avvertendo la rabbia crescente del padrone, Thorax alzò il muso e gli corse incontro ruggendo, cogliendo Myricae di sorpresa dal momento che lei nel mentre era impegnata a dare una mano a Naevia, dopo aver poggiato Phobos a terra in un angolo ben lontano dalla regina Harmonia.

“Uccidi, UCCIDI!” gli gridò mentalmente lui.

L’Ophidian si girò tardi, giusto in tempo per vedere la maestosa sagoma del grosso leone dal manto nero che le saltava alla gola: gli occhi che fiammeggiavano come rubini nella notte, le enormi zanne snudate che colavano saliva, gli artigli dispiegati vogliosi solo di affondarle fra o delicati interstizi fra una squama e l’altra, che di per sé erano estremamente resistenti.

Un ruggito.

Un ululato.

Poi l’ombra nera del leone che spariva dal suo campo visivo, collassando e rotolando a terra lontano da lei.

Guardò verso la porta, e finalmente vide un viso famigliare: Scarlet Redcape, la Cacciatrice di Fairy Oak.

La donna diede un segnale indecifrabile al suo lupo, che obbedì gettandosi sopra il leone dando inizio alla loro furiosa lotta: le due bestie si azzannavano e graffiavano a vicenda con ferocia inaudita anche per gli standard animali, entrambi ruggivano e ringhiavano come se nel contempo che si ferivano si stessero anche insultando in una lingua che solo loro potevano comprendere, ma ora come ora era Spettro che stava avendo la meglio sul felino. Il lupo albino era decisamente più grande del leone nero, motivo per cui non ebbe problemi a sovrastarlo completamente imprigionandogli tutto il collo fra la mascella e la mandibola: quando strinse, l’effetto fu a dir poco devastante.

 

Un miagolio agonizzante si sparse tutto intorno, poi il silenzio.

 

Tutti i leoni si bloccarono all’unisono, riconoscendo il segnale: il loro capobranco era crollato, non avevano né motivo né una guida per continuare a combattere. Approfittando della loro confusione nel non capire più cosa fare, Myricae raccolse arco e frecce che Naevia le passò lesta.

Una, due, tre frecce, poi dieci, venti, cinquanta, forse cento, tutte dritte in mezzo a quei rubini che esplodevano liquefacendosi per terra; i guardiani e gli altri generali della regina Harmonia le diedero volentieri una mano, finché dei leoni non rimase che polvere color avorio. Solo qualcuno di loro fu abbastanza rapido -e furbo- da darsela a gambe, ma la maggior parte di loro cadde quel giorno.

«Tu e il tuo amico volete farmi ingrassare, oggi: sento già Mothman che si beffa del fatto che vada a trovarlo rotolando per terra da quanto mi sono ingozzata qui, più che strisciare».

E Tanith non poteva avere più ragione, nel parlare ad Harmonia così, perché il dolore che stava provando Phobos lo stava letteralmente facendo impazzire: i leoni erano tutto ciò che gli era rimasto, e loro glieli avevano portati via. Non una, ma ben due volte.

E lui lo aveva permesso.

Era colpa sua, di nuovo.

Era sempre colpa sua.

Cercò conforto in Thorax, l’unica ancora di salvezza che aveva in quel delirio costante che era la sua vita nell’Abisso, e ora fuori da esso: non si muoveva.

«… Thorax?» lo chiamò di nuovo, ma il leone non rispose.

Il panico iniziò ad impossessarsi di lui «Thorax… avanti bello, non scherzare, non è divertente» gli intimò ma, di nuovo, da lui non arrivò alcun segno di vita.

Spettro gli ringhiò contro alzando la testa dal corpo esanime del leone, mostrando i canini insanguinati al proprietario della bestia come a sbeffeggiarlo; appena la pressione dei denti del lupo sul collo del felino venne meno, una chiazza rossa si sparse tutta intorno al suo corpo.

«Thorax… avanti… non puoi lasciarmi da solo adesso» sussurrò  Phobos crollando in ginocchio davanti a lui, avrebbe voluto accarezzarlo ma con le mani legate non poteva certo farlo «avevamo dei progetti, amico, non posso portarli avanti solo io, sai che non ne sono in grado di farlo… ho bisogno di te, bello, ne ho un fottuto bisogno… non lasciarmi, non farlo».

A tutta quella scena nessuno stava prestando attenzione, troppo impegnati com’erano ad assicurarsi che il resto del branco fosse fuggito.

«… Thorax…» questa volta lo disse con un tono che non era una domanda, e nemmeno un richiamo al farsi sentire. Era una supplica, lo stava supplicando con le lacrime agli occhi di rispondergli, non chiedeva altro.

Ma non gli rispondeva, Thorax, non poteva più farlo.

Phobos esplose.

Esattamente come era accaduto quando aveva quasi fatto crollare l’abisso, la magia prese a fluirgli dal corpo senza controllo alcuno, fiumi di filamenti viola acceso che si spandevano a ragnatela tutto intorno a lui e al suo leone come inneschi per ciò che sarebbe venuto dopo. E cioè le fiamme, fiamme che ghermivano qualsiasi cosa si trovasse nel raggio d’azione di quei fili magici, bruciando e consumando finché non fossero rimaste solo le ossa: anzi, nemmeno quelle, avrebbe carbonizzato pure le ossa, esattamente come quelle dei suoi leoni si erano ridotte in polvere davanti ai suoi occhi intenti a piangere.

Di rabbia, di dolore, di frustrazione: non sapeva nemmeno lui perché lo stesse facendo, ma non riusciva nemmeno a fermarsi.

Allora, e solo allora, i guardiani e tutti gli altri notarono il cerchio di fuoco che circondava l’uomo, le cui fiamme si stavano alzando come a formare una cupola che rinchiudesse lui ed il fedele compagno steso a terra. Nord e Calmoniglio fecero per attaccare di nuovo preparandosi alla carica, ma Myricae stese prontamente la coda davanti a loro fermandoli: no, non era il tempo di infierire, lo riconosceva bene anche lei che -ridotto com’era- sarebbe stato come sparare sull’ambulanza. E Harmonia non lo avrebbe mai voluto.

Si scambiò un ultimo sguardo con Phobos, incrociando i suoi occhi fra le fiamme che crepitavano: se si era ridotto all’ombra dell’uomo che era un tempo, se i suoi leoni erano andati al macello, se stava accadendo tutto ciò, era solo colpa sua.

Un bagliore, poi la cupola implose su se stessa in un suono sordo simile a quello di un tuono. Dentro di essa non c’era più nessuno: né Phobos, né la salma di Thorax.

Restarono tutti in silenzio per qualche istante, poi Myricae si divise dal gruppo intento a parlottare entusiasta, a vantarsi della propria impresa con le stalattiti nonostante i tentativi più o meno volontari di decapitazione, a raccontare di come con una spada avesse trapassato due leoni, a imitare come con la frusta ne avesse mezzo impiccato uno, di come si era quasi fatta mangiare. L’Ophidians, invece, si diresse da Harmonia e la prese in braccio, sparendo sulle scale con lei accucciata al petto.

 

***

 

Naevia era salita un paio di volte per rassicurarsi delle condizioni di salute sue e della loro regina, oltre che per medicarle la scapola con i suoi soliti intrugli che solo gli dei sapevano cosa contenessero, e Antares aveva fatto altrettanto portando con sé una coperta fresca di tessitura.

“Vedrai che così si riprenderà prima di subito, parola di Sylkes!”, le aveva detto, ma Myricae non ci credeva poi così tanto: sapeva bene di cosa aveva bisogno Harmonia per riprendersi da quel brutto momento, e una delle cose a lei più necessarie era proprio l’avere vicino la propria compagna che le teneva la mano silenziosamente seduta al suo capezzale.

Le aveva fatto una doccia per pulirla dalla polvere e dai frammenti di vetro, le aveva messo addosso dei vestiti puliti e poi subito a letto, coprendola con cura per assicurarsi che non patisse troppo freddo o troppo caldo: sarebbe passato, passava sempre, ma ogni volta che accadeva era come una pugnalata.

Peggiore di quella ricevuta quel giorno, fra l’altro.

Senza lasciare la mano della sua mela en’ coiamin, “l’amore della sua vita” nella sua lingua, Myricae allungò la coda per prendere un carillon che Harmonia custodiva gelosamente in un cassetto magico invisibile a chi non occupasse quella stanza, solo loro due sapevano dove trovarlo; girò la manovella per caricarlo: una melodia dimenticata iniziò a fuoriuscire da esso, mentre la naga poggiava la sua testa sul petto della compagna.

“Sarà una notte lunga”, si disse.

 

 

 

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Angolino dell’autrice

 

(*) Traduzioni varie ed eventuali

Ed’ i’ear ar’ elenea = per la luna e per le stelle (esclamazione)

Lle n'vanima ar' lle atara lanneina = mi fai ridere

= sì

Tancave = certamente

Mela en’ coiamin = amore della mia vita

Dartho na nin, a’maelamin, dartho na nin = resta con me, amore mio, resta con me

Ed eccoci qua con questo capitolo immensamente lungo , il cui titolo è un riferimento al filo rosso del destino, "unmei no akai ito" appunto. Secondo la tradizione giapponese, ogni persona porta, fin dalla nascita, un invisibile filo rosso indistruttibile legato al mignolo della mano sinistra che lo lega alla propria anima gemella, che li destina, prima o poi, a incontrarsi e a sposarsi. Perché se non era destino che si incontrassero di nuovo Harmonia e Phobos non so proprio cosa sia! :'D

Ne approfitto giusto per ringraziare chiunque si sia mostrato ancora interessato a questa fanfiction nonostante il tempo immemore che ho impiegato ad aggiornare, specie chi ha trovato ancora la voglia di recensire: seriamente, mi fate commuovere, nemmeno ci speravo! Quindi grazie a tutti dal profondo del cccccccuore :3

Ah, chi non ha ancora ricevuto una risposta alla propria recensione qui o in altri miei scritti la riceverà in questi giorni, scusate per il ritardo nel rispondere ma ehi, sempre meglio ritardare in quello che ad aggiornare dopo quasi un anno :’D

Al prossimo capitolo!

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Capitolo 11
*** Cwtch ***


cap11

Avviso: in questo capitolo sono presenti scene di sesso dal rating ambiguo, che probabilmente oscilla fra l’arancione e il rosso. Dal momento che non mi sembrava proprio il caso di cambiare rating all’intera storia per un pezzo di un capitolo dalla dubbia classificazione, se vi sentite a disagio con la cosa potete tranquillamente saltare alla fine.

Grazie della comprensione e buona lettura! :)

 

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«“Ma quanto manca? Ma siamo arrivati? Ma quando si mangia? Ma dov’è l’Autogrill? Ma c’è l’acqua calda?”: azzardati a lamentarti ancora mezza volta e giuro che te ne do tante, ma talmente tante, che ti riduco in formato tascabile e ti infilo nella saccoccia che hai in spalla, possa sparirmi il naso se non lo faccio!»

Uno stormo di uccelli si alzò gracchiando come a maledire Pitch per averli disturbati con le sue urla gutturali, e come dare torto a quelle povere bestiole? La scampagnata padre e figlia nei boschi del Galles non stava precisamente procedendo come previsto.

Tutt’altro.

Ad Emily Jane quel posto metteva i brividi, doveva ammetterlo: c’era qualcosa nell’aria di quel luogo dimenticavo dagli dei che la inquietava e non le permetteva di rilassarsi completamente; se si concentrava, le pareva addirittura di avvertire la magia scorrere con potenza immane in ogni sasso, in ogni foglia, persino in ogni filo d’erba, e non era un tipo di magia che ricordava di conoscere.

C’era qualcosa, ma non aveva idea di cosa fosse esattamente.

 

“Come Little Children

I'll Take Thee Away

Into A Land

Of Enchantment”

 

«Come hai detto?»

«Eh?» Pitch si girò verso la figlia, stranito «Non ho nemmeno parlato, io, perché me lo chiedi?»

Non aveva parlato? Come poteva essere possibile che non fosse stato lui a parlare? Eppure qualcuno aveva appena cantato, aveva distinto molto chiaramente le parole come se le fossero state sussurrate all’orecchio, le era parso di avvertire anche il calore del fiato sulla pelle!... Esattamente come era accaduto durante l’allucinazione avuta a Tandokka, appunto.

«Niente, niente, mi era solo sembrato di aver sentito un rumore, probabilmente sarà stato un qualche animale. O un folletto che voleva sbirciare sotto la mia gonna».

«Sì, probabilmente sì» rise lui tornando a fischiettare bello tranquillo, totalmente inconsapevole di ciò che frullava nella testa di sua figlia. Per sua fortuna, bisogna dire.

Sì, era stata solo un’altra allucinazione, niente di più.

 

“Come Little Children

The Time's Come To Play

Here In My Garden

Of Shadows”

 

Con la coda dell’occhio, ad Emily Jane parve di vedere qualcosa o qualcuno nascosto fra gli alberi, una figura scura accompagnata da quella che le parve una fiammella tremolante, forse una lanterna; si girò di scatto: non c’era nulla.

“È solo un’allucinazione, lo sto sentendo solo io, lo sto vedendo solo io” si disse mentalmente stringendo gli occhi al riprovare quella sensazione di calore all’orecchio “non farci caso, non dargli corda e vedrai che passa da solo, fingi che vada tutto bene e comportati normalmente”.

Guardò suo padre: continuava a camminare imperterrito e sereno, ogni tanto si fermavano e lui si guardava intorno pensieroso ma poi subito ripartivano.

Dietro di loro, le sagome nere divennero due.

 

“Follow Sweet Children

I'll Show Thee the Way

Through All The Pain And

The Sorrow"

 

E Madre Natura le vide.

Pitch no, invece.

“Va tutto bene, benissimo, non sta accadendo nulla di male. È solo nella tua testa, nella tua stramaledetta testa: non è reale, non è reale, è tutta un’allucinazione” si ripeté nuovamente fingendo di non notare come entrambe le ombre si stessero affiancando a lei e suo padre; cercando di mantenere la calma, si chiese come fosse possibile che lui non le notasse, considerando che quelle figure gli stavano a cinque centimetri!

Poi si rispose da sola: era una sua allucinazione, era ovvio che nessun altro oltre a lei potesse vederle o sentirle.

 

“Weep Not Poor Children

For Life Is This Way

Murdering Beauty And

Passions”

 

Fece per girarsi verso una di esse, il cuore che batteva all’impazzata come se volesse uscirle dal petto, ma era troppo tardi: non c’era più nulla. Esattamente come le ombre erano comparse, ora era svanite senza lasciare traccia alcuna del loro passaggio.

O quasi.

Frugando con la mano nella propria saccoccia, la giovane Pitchiner trovò quella che le parve essere una bambola alquanto rudimentale, se così si poteva chiamare la figura umanoide stilizzata ottenuta unendo dei bastoncini di legno che stava tenendo in mano.

«Dove l’hai presa?» domandò suo padre svegliandola dai suoi pensieri.

Emily la guardò qualche istante, forse per capire cosa fosse, forse per cercare di trovare una spiegazione logica che non implicasse il raccontare delle proprie allucinazioni.

«Deve essersi incastrata nella mia borsa mentre camminavamo, non ricordo di aver mai avuto niente di simile con me» rispose mostrandogli la bambola «forse era attaccata a qualche albero, non saprei, ma non penso sia importante».

Pitch non parve affatto convinto di quella versione: prese l’oggetto fra le mani, studiandolo attentamente per minuti che parvero eterni borbottando qualcosa fra sé e sé.

«Di cosa si-»

«Twanas, talismani per la magia nera» spiegò gettandolo a terra «dobbiamo andarcene, e dobbiamo farlo in fretta».

Emily trasalì «Come sarebbe a dire che-» si bloccò quando si rese conto che stava parlando col vento: suo padre se l’era filata da un pezzo, precisamente subito dopo aver visto la bambola.

Che si fosse immaginata pure la sua voce?

Sospirando, Madre Natura si limitò ad accucciarsi ai piedi di un albero; si portò le ginocchia al petto e vi poggiò la testa sopra: se i demoni fossero venuti a prenderla, le avrebbero solo fatto un favore.

 

Ma a prenderla venne solo Black, un indefinito lasso di tempo dopo.

Ansimante e con lo sguardo stralunato che schizzava da una parte all’altra visibilmente preoccupato, subito si fiondò sulla saccoccia della figlia estraendone del pane senza che questa potesse proferire parola o fare qualsiasi altra cosa.

Svanì fra gli alberi di fretta e furia di nuovo, dietro di sé una scia di molliche nemmeno fossero nella favola di Hänsel e Gretel.

 

E ricomparve di nuovo poco dopo, assolutamente delirante.

«… Non c’è via di scampo, siamo senza speranza, lo siamo sempre stati da quando siamo entrati, saremo vittime del bosco anche noi…» continuò però a disperarsi alzando il tono di voce incrinata dal pianto; iniziò a frugarsi nelle tasche, estraendo ciò che rimaneva della pagnotta di prima «Guarda! GUARDA! Avevo lasciato delle tracce per terra per non perdermi, eppure eccomi qui al punto di partenza! E sai perché?!!»

Lei scosse la testa.

«Perché qualche demone le avrà mangiate, ecco perché!»

«Demoni, dici?» ripeté con fare interrogativo Emily «Forse è stato qualche folletto, non è una novità che i boschi dell’arcipelago britannico siano abitati dal Piccolo Popolo, per cui-»

«Per cui mi hanno rotto il cazzo, i folletti e gli animaletti fatati e tutte le fate e gli elfi rottinculo di questo stramaledetto posto! Ora gli faccio vedere io come si fa a schiacciare l’erba! Glielo faccio vedere io!» gridò furioso alzandosi di scatto.

Come mosso da una furia incontenibile, Pitch prese a pestare forte i piedi a terra assicurandosi di estirpare per bene ogni più piccolo filo d’erba, di schiacciare ogni singolo insetto che gli capitasse sotto tiro dando vita ad una vera e propria caccia ora alla formica, ora al centopiedi; pestava i piedi per terra, il sovrano degli incubi, e per rincarare la dose di offese al Piccolo Popolo si mise pure a strappare quanti più fiori e piante possibile, ortiche comprese: con le mani o con la bocca -nemmeno fosse un caprone al pascolo- non aveva importanza, voleva solo distruggere quel dannatissimo labirinto di alberi che lo stava facendo impazzire.

E tutto ciò lo faceva gridando come uno scimpanzé al quale è stata rubata la sua banana.

“Ed ecco l’anello mancante fra l’uomo e la scimmia”, pensò Emily Jane scuotendo la testa allibita: era suo padre, quello, a tratti non ci credeva nemmeno lei.

Pitch strappava, mordeva, schiacciava.

Poi gridava, ringhiava, grugniva.

… Grugniva?

 

Un eco di voci femminili si fece largo fra risate e applausi scroscianti.

Emily alzò gli occhi e le vide di nuovo, le due ombre di prima, ma questa volta avevano fattezze femminili: davanti a lei, due donne si ergevano statuarie scrutando incuriosite e compiaciute la scenetta offerta da Pitch che -a causa di chissà quali malefici contenuti in quel bosco maledetto- si trovava con qualcosa di ben più raccapricciante del suo solito enorme naso.

Tipo quest’ultimo che aveva assunto le sembianze di quello di un maiale, con tanto di orecchie e coda correlati.

Una delle due donne, quella dai lunghi ricci biondi che le ricadevano fin sopra le natiche come una criniera, gli si avvicinò sospettosa e lo guardò qualche istante, toccandogli con fare confuso le sue nuove simpatiche orecchie da suino.

«Per le cento teste di Ladone! Non è mai capitato che i miei incantesimi fallissero, con tutti gli uomini che ho trasformato in maiali veri!» esclamò a metà fra il sorpreso e il divertito; si girò verso l’altra, sfidando lo sguardo di quegli occhi gialli cerchiati di nero dalle vaghe reminescenze feline «Dì, Elly Kedward, non è che ti sei intromessa con la mia magia, eh? Quelle tue bambole mi disturbano, lo sai».

«Prima cosa: non azzardarti a chiamarmi di nuovo così, o giuro che chiamo tua madre e le dico di quando ti sei scopata Ulisse, e pure dei due incidenti di percorso. Che ne dici, Ecate si incazzerà di più perché una dea è scesa a scoparsi un mortale, o al non aver conosciuto i suoi nipotini?» domandò stizzita scostando il cappuccio violetto che le copriva la corta chioma nera «Blair, Strega di Blair, prego. Seconda cosa: secondo te, chi è che rovina sempre la festa -e gli incantesimi- a chiunque? Indizio: la sorella incestella di re Artù!»

«Fatela finita, voi due, che senza il mio labirinto non sareste nemmeno riuscite a fare la metà delle cose che avete fatto a questi due poveri disgraziati, la Dea Madre abbia pietà di loro» intervenne una terza figura che uscì direttamente dal bosco, una donna i cui capelli bluastri erano raccolti in sottili dreadlock che fuoruscivano dal cappuccio del mantello che portava «e comunque non sono stata io a fermare il tuo incantesimo, Circe, mettiti il cuore in pace su questo».

Pitch passione Babe maialino coraggioso ebbe come un’illuminazione: Circe? Quella Circe?

Inutile dire che bastò quella parola a risvegliare in lui la rabbia di prima, con la sola differenza che ora le sue grida erano più simili a grugniti suini, che a qualcosa di umano.

«Brutta figlia di una dea a tre teste, se ti metto le mani al collo ti-»

«Le unghie, più che altro» precisò indicandogli che da maiale aveva pure le zampe.

Black non si scompose più di tanto «Le unghie te le ficco negli occhi finché non te li cavo, se non ti muovi a riportarmi alla normalità! E tu, oh! Tu!» indicò l’altra donna dai capelli neri, che intanto si era messa a ridere sonoramente «Strega di Blair di stocazzo o no, giuro che le tue bambole di merda te le infilo su per il culo una per una, maledetta megera!»

«Oh-oh, questa brucia, letteralmente» intervenne l’incappucciata delle tre prendendo in mano l’uomo stilizzato fatto di legnetti, che si dissolse in cenere dopo che venne avvolto da una sottile fiammella comparsa sul suo palmo.

«E brucio pure te! Cosa credi, Morgana, di essere esente da colpe? Dannata strega incestuosa, non mi fotti un’altra volta con i tuoi stramaledetti incantesimi, una mi è bastata e avanzata» le indicò gli alberi dietro di sé «quello è un fottuto labirinto, un labirinto: io so orientarmi in questo bosco, mi sembrava ben strano non riuscirci questa volta, e infatti ecco di chi è la colpa!» le alzò il medio, furibondo «E ora qualcuno mi faccia tornare normale, oppure-»

Detto fatto: Pitch tornò lo stesso di prima in uno schioccare di dita.

“Per fortuna o per sfortuna non saprei proprio dirlo, quel naso era sempre meno inquietante di quello che ha solitamente”, pensò Emily tenendosi per sé quella riflessione, temendo anche che una di quelle donne la leggesse nella mente, dal momento che praticavano tutte la magia nera.

Ma non la praticava l’uomo sulla cinquantina che era appena apparso davanti a loro: capelli brizzolati tenuti in un ordinato ciuffo piegato di lato, barba e baffi corti e curati dello stesso colore, occhi di un viola-bluastro tendente al nero, Madre Natura non ricordava di averlo mai visto o che suo padre gliene avesse mai parlato.

A chiarirle le idee, tuttavia, pensarono le streghe poco dopo.

«Merlino infame, per te soltanto rane!» gridò la Strega di Blair evocando una pioggia di rospi sulla testa del collega, evidentemente furibonda.

Con eleganza innata, l’altro fece comparire un ombrello per ripararsi.

«Desolato, signore mie, ma ho ritenuto opportuno che interrompere il vostro sollazzo fosse la cosa giusta da fare: non si accoglie così un amico, ve l’ho detto più volte» le rimproverò tranquillo, poi si girò verso Pitch «ti chiedo di scusarle, Black, sai come sono fatte».

“Oooooh, il mago Merlino! Ora è tutto più chiaro!” si illuminò la giovane Pitchiner.

Ora ricordava il perché non lo aveva riconosciuto: aveva sentito pronunciare quel nome da suo padre solo un paio di volte in tutta la sua esistenza nel post-Befana, e per ognuna di esse era accompagnato da epiteti non molto gradevoli, qualcosa come degli insulti.

E delle bestemmie.

E imprecazioni varie ed eventuali.

E pure un paio di maledizioni.

Forse anche una minaccia di querela.

E tutto perché era il migliore amico della sua fidanzata.

Pronto ad impugnare un’ascia di guerra mai sotterrata, Pitch non lo ringraziò per l’aiuto e, anzi, gli lanciò un’occhiata di sprezzo e disapprovazione.

«Tsk, stavo riuscendo a liberarmi da solo, il tuo intervento è stato inutile e superfluo come lo è sempre» asserì quasi schifato dall’aiuto dell’altro.

Merlino -che ben conosceva i suoi polli, o maiali- sorrise tranquillo «Oh, ho visto come stavi risolvendo da solo, ho visto eccome» ridacchiò nascondendo le labbra con il cappotto che teneva sulle spalle «comunque figurati, non c’è di che. Stai andando da Gwenllian, immagino».

«Non sono cazzi tuoi dove sto andando, immagino».

«No, hai ragione, non lo sono, perdonami per la domanda fuori luogo» si scusò con un breve inchino «ma, dato che sappiamo entrambi che la risposta alla domanda e sì, vi consiglierei di andare sopra quella roccia laggiù» indicò un masso alto poco lontano che si innalzava nel bosco, in una zona con poche piante «sarà più semplice prendere il vostro passaggio aereo, direi».

L’Uomo Nero trasalì «NO EH! Non di nuov-…!!!»

Cinque secondi netti dopo, Pitch ed Emily Jane stavano sorvolando gli alberi sospesi agli artigli di un’aquila albina gigante, che sbatteva le ali furiosa come se volesse farli cadere. Teoria che forse per Black aveva pure un certo fondamento.

E il Signore degli Anelli poteva accompagnare solo.

 

 

---

 

 

E pure il voltastomaco poteva accompagnare solo.

Il tempo di riprendersi dall’aver vomitato la vita, l’universo e tutto quanto, Pitch trovò la forza per raddrizzarsi e guardarsi intorno; tirò un sospiro che doveva essere di sollievo, ma che non riusciva a nascondere un velo di agitazione: erano arrivati, dunque.

Per chiunque non fosse pratico del posto, l’abitazione della Befana sarebbe sembrato tutto tranne che la dimora di una strega del calibro di Gwenllian Jenkins Pendragon: in mezzo ad una radura d’erba verde e fiori delle più svariate specie che sbocciavano rigogliosi emanando mille profumi differenti -e protetta tutt’intorno dagli alberi del bosco, che formavano una vera e propria barriera naturale- c’era la sua casa, una sorta di capanna di legno e pietra di modeste dimensioni che pareva essere direttamente uscita dalla Contea, a giudicare da come se ne stava accucciata sotto una collinetta d’erba che fungeva sia da tetto, sia come prolungamento del vastissimo prato tutt’intorno.

Prato che era anche il nido delle sue aquile, o almeno di quelle che non erano in giro a volare libere per il Galles, per la Gran Bretagna, per dove solo gli dei sapevano, esattamente come lo era la loro padrona; complice il castello di suo padre e la porta per Ognidove, infatti, fin da piccolissima Gwenllian era stata abituata a girare letteralmente il mondo in lungo e in largo, per terra e per mare e pure per aria.

Dovunque ci fosse un nuovo luogo da visitare, c’era anche una giovane Pendragon sempre dietro a mamma e papà per unirsi all’avventura, avventure che -da più cresciuta- l’avevano portata a scovare nidi e nidi dei suoi fidati rapaci nascosti negli angoli più remoti del mondo, enormi aquile che si narrava fossero nate dall’unione del Roc con l’uccello del tuono.

E la prima aquila dalle candide piume bianche da lei incontrata era lì a qualche metro da Pitch, intenta ad afferrare col becco una carcassa equina facendola poi scivolare intera giù per la gola, con vicino dei teneri pulcini -grandi quanto il torso dell’Uomo Nero, fra l’altro- che le zampettavano intorno per rubarle il cibo incuranti delle enormi zanne di quella bestia. Kya, questo era il suo nome, non pareva farci troppo caso, ma fece invece caso eccome a Pitch poco lontano; gli lanciò un’occhiataccia terribile, penetrante, facendogli capire che mal lo sopportava tanto ora quanto quando lui stava con Gwenllian, e che ci avrebbe messo poco a farsi scivolare nella gola lui, anziché un cavallo.

Black notò perfettamente quello sguardo rosso rosato che incontrava il proprio, ma era troppo preso a vagare nei ricordi per spaventarsi: non aveva mai più cercato contatti con lei, con la sua donna, dal giorno in cui le loro strade si erano separate, ma occasionalmente tentava di interessarsi a come stesse -da leggersi “se avesse una relazione con qualcuno”- per vie traverse: forse per semplice curiosità, forse perché si sentiva ancora in dovere di proteggerla o, più semplicemente, forse perché l’amava ancora.

Senza il forse, però.

L’Uomo Nero guardò di nuovo la piccola capanna, nostalgico: il fumo che usciva dal comignolo, i vasi di fiori appesi ai davanzali, l’edera sul muro di pietra, il legno coperto di soffice muschio, persino le goccioline di rugiada gli ricordavano i migliori anni della sua vita, anni passati al fianco della Befana e di nessun’altra nel mondo.

Senza sforzo alcuno, nella nuvola grigiastra che usciva dal tetto a Pitch parve di rivedere le mattine in cui lui cucinava la colazione per entrambi: quasi sempre frittelle o pancakes, che si premurava di condire nei modi più disparati per poi portarli a letto, dove sarebbero stati consumati; per quanto lo riguardava, ancora più dolce della colazione in sé c’erano solo i gridolini entusiasti di Gwenllian nell’assaggiare la combinazione di marmellata e frutta del giorno che da lì a poco avrebbe annegato nello sciroppo d’acero, quando Black non lo usava per rendere più dolci al palato ben altre zone del corpo della sua amante.

Rivide lei che -ancora mezza addormentata- gli faceva segno di mettergliene una forchettata in bocca, rivide anche se stesso che si destreggiava -posata alla mano- in mezzo a quella cascata di capelli color cioccolato, facendole borbottare qualcosa quando i pancakes erano talmente caldi da scottarle la lingua.

Ma anche allora non c’era nulla che un bacio non potesse risolvere, Pitch aveva imparato anche quello stando con lei; uno, due, dieci, cento, mille baci: non aveva importanza quanti fossero, non sarebbero mai stati abbastanza, e nessuno dei due si sarebbe mai lamentato che fossero troppi.

Specie perché buona parti di essi era riservato a zone particolari.

Eh, pure il meraviglioso sesso che faceva con lei gli mancava eccome, ma non era mai stato al primo posto nei suoi pensieri di allora come di oggi: gli mancava lei, non il suo corpo e nemmeno i suoi gemiti.

Gli mancava lo svegliarsi e rendersi conto di quanto fosse un uomo fortunato ad avere vicino una donna che lo amava per ciò che era, fregandosene di ciò che gli altri dicevano sul suo aspetto e sulle dimensioni del suo naso.

Gli mancava stringerla fra le braccia e sentire il calore delle sue mani che si posavano sulle proprie guance, per poi accarezzargliele con dolcezza infinita sussurrandogli quanto lo amasse.

Gli mancava il poggiare la propria fronte alla sua per perdersi in quegli occhi nocciola dall’eterocromia anulare azzurra, che rendeva la sua damante ancora più speciale di quanto già fosse per il solo fatto di essere lei.

Gli mancava, eccome se gli mancava, ma non poteva farci niente di niente: la loro storia era finita, lui non aveva saputo tenersela stretta ed era tornato solo, solo con la sua speranza -di cosa non lo sapeva nemmeno lui- come un cane che attende il padrone standosene accasciato al ciglio della strada. Il che rendeva pure piuttosto bene l’idea di come fosse messo Pitch appena mollato, intento com’era ad ubriacarsi acciambellato in un angolino a piangere e maledire il mondo per la sua miseria.

«Oh, siete arrivati! Vi stavo aspettando, benvenuti!»

 

Quella voce.

L’avrebbe riconosciuta fra mille altre voci, Pitch Black, sarebbe stato capace di distinguerla fra altre milioni che gridavano tutte all’unisono l’aveva ascoltata talmente tante volte da conoscere a memoria ogni pausa, ogni sospiro, ogni singolo cambio d’intonazione che corrispondeva ad una differente sfumatura del suo umore.

Avrebbe voluto girarsi, ma una parte di sé lo bloccava: se l’avesse vista di nuovo, non sarebbe mai riuscito a lasciarla andare, non lo avrebbe permesso.

Un’altra parte di sé, quella più razionale, gli gridava invece di tornare con i piedi per terra e guardare in faccia la realtà: tra loro era finita da un pezzo, cosa si crogiolava a fare nell’illusione che potesse esserci un lieto fine anche per lui? Era l’Uomo Nero, non ci sarebbe mai stato nulla se non l’amaro sapore della sconfitta ad accompagnarlo nei suo trascinarsi nel cammino della vita eterna: perché lagnarsi tanto, dunque?

Senza che potesse pensare ad altro, una sensazione di calore lo pervase.

“Cwtch”.

Nella sua mente, le parole dette dalla strega in una di quelle mattine passate a coccolarsi risuonarono con violenza inaudita.

“Esiste una parola gallese che non può essere tradotta in nessun’altra lingua, ‘Cwtch’. Cwtch è l’abbraccio della persona amata, il porto sicuro in cui fare ritorno quando tutto non va e il mondo cerca di farti cadere, è il luogo dove niente ti può rattristare o ferire o raggiungerti, niente se non l’amore. È un posto speciale che puoi trovare solo fra quelle braccia, quelle che ti stanno stringendo quando lo dici: non braccia qualunque, bada bene! Le braccia di quella persona, la tua persona. Ecco, il mio Cwtch sei tu”.

 

E ora Gwenllian Jenkins Pendragon non era solo un volto scavato in un ricordo, no, era lì che lo abbracciava -dopo aver fatto lo stesso con Emily Jane, o almeno averci provato dato che lei l’aveva liquidata con un secco e sterile “ciao”- per salutarlo. Lo abbracciava!

Staccatasi dall’abbraccio, la donna lo guardò perplessa dandogli un buffetto sulla guancia come per svegliarlo.

«Hai freddo o sei solo felice di vedermi, Pitch?» domandò la strega all’Uomo Nero.

L’altro la guardò perplesso «Come?»

«Your meat popsicle, my dear» diede delucidazioni Gwen dopo qualche istante, indicandogli distrattamente i pantaloni.

Dai quali faceva capolino una fin troppo vistosa erezione.

Non si seppe se fece più rumore il facepalm di Emily Jane -che già si preparava mentalmente un elenco delle figuracce che gli avrebbe fatto fare suo padre-, il respiro affannoso di quest’ultimo che cercava disperatamente di far rientrare l’anaconda alla base o le risate della gallese, fatto stava che fu lei infine a riderci sopra ed invitare gli altri due a seguirla in casa propria.

«Appena avete ritirato l’artiglieria, venite pure... anche in quel senso, se proprio volete, dei fazzoletti li ho in giro» scoppiò a ridere di nuovo avviandosi verso la capanna, padre e figlia che la seguivano a ruota.

Si preannunciava una giornata dura.

Durissima.

Ma mai quanto il pene di Pitch.

 

 

 

Si sarebbe potuta ricercare la somiglianza di Gwenllian con i suoi genitori nei capelli, guardando quella treccia di ciocche bluastre e argento -rispettivamente ereditati da Howl e Sophie- che spiccava particolarmente nella chioma color cioccolato, ma sarebbe bastato mettere piede in casa sua per capire che con suo padre aveva ben altro in comune.

Il caos più assoluto.

Esattamente come il castello errante del mago di Ingary, anche casa della Befana era piena di ogni sorta di oggetto possibile immaginabile: montagne di libri che formavano vere e proprie torri, manuali di magia con mille segnalibri che spuntavano dalle pagine come fiori in un campo, misteriosi artefatti e congegni -se fossero magici o semplici ninnoli non era dato a sapere- dalle forme più bizzarre, animali di pezza variopinta sparsi un po’ ovunque, ampolle e vasi riempiti con erbe e pozioni e polveri e solo gli dei sapevano cos’altro, fiori e piante di specie sconosciute e tante, troppe, altre cose incomprensibili ai semplici umani.

Emily Jane sbuffò sonoramente, assicurandosi che gli altri la sentissero; persino uno di quei volatili fuori dalla porta avrebbe capito che quella calma piatta, quel silenzio irreale smorzato solo dalla forchetta che affondava tanto nell’impasto quanto nella sua anima, era più falso di una moneta d’oro di cioccolato, per non parlare del fatto che ricordava bene quanto il motivo della visita fosse ben poco di cortesia.

Appunto, lei lo ricordava, ma le sembrò più di una volta che suo padre lo avesse scordato, invece.

Irritata, Madre Natura fece per prendere la parola, ma l’altra la interruppe appena le vide muovere il labbro per pronunciare ciò che aveva da dire.

«Immagino che questa non sia una visita di cortesia» asserì seriosa Gwen standosene appoggiata al muro vicino alla cucina, le braccia incrociate al petto e lo sguardo tagliente di chi sa già perfettamente dove vuole andare a parare.

Pitch venne colto di sorpresa e si interruppe con la forchetta a mezz’aria, lo sguardo che si abbassava su quel boccone per non guardare la sua interlocutrice.

«No, appunto, la nostra non è una visita di cortesia» confermò senza alzare gli occhi, ormai fissi a contemplare quel pezzo di cibo che aveva davanti al naso.

La strega sospirò «Posso sapere il motivo per cui siete venuti, dunque? Non ho molto tempo da perdere, per cui se non dovete dirmi nulla» indicò una porta di legno intarsiato che si intravedeva dal tavolo in cui li aveva fatti accomodare «io torno a fare ciò che stavo facendo. L’alchimia è una scienza che non dorme mai, nel caso in cui non lo sapeste».

«Lo sappiamo, lo sappiamo» convenne Black con aria seccata «anche perché se dormisse non avresti quella» additò una piccola pietra rossa che svettava su di un anello al dito della donna, lanciando sfumature del colore delle fiamme dell’inferno. Si alzò in piedi, avvicinandosi e ponendosi davanti a lei con le mani dietro la schiena «Quanto tempo hai impiegato per ottenere la pietra filosofale? Più di quanto ne hai impiegato per tornare a camminare dopo che Merlino te lo ha sbattuto nel culo, eh?»

Gwenllian alzò gli occhi al cielo: eccolo che iniziava con le scenate di gelosia.

 

Sapeva fin troppo bene come si sarebbe evoluta la questione, la giovane strega, ricordava perfettamente tuuuuutte quelle che avevano contribuito alla sua -non facile- scelta di lasciarlo, e questa era solo l’ennesima di tante.

Che coinvolgevano quasi tutte Merlino, fra l’altro: non ne capiva il motivo, ma fin dal primo istante in cui lei glielo aveva presentato come “il mio migliore amico, anche se ormai lo considero un fratello maggiore” l’Uomo Nero era stato accecato dalla pura gelosia. Il semplice parlare fra la sua fidanzata e il mago si trasformava in un tentativo di abbordaggio, gli abbracci erano sempre e solo per farle sentire “la bacchetta magica”, e guai quando restavano da soli! In quel caso lo stava cornificando di sicuro!

Poi dettagli, se magari lei e Merlino erano dalla sua maestra Suliman per apprendere le ultime scoperte in campo magico che una maga di Ingary era tenuta a conoscere, per Pitch gli stava comunque mettendo le corna.

Per un po’ Gwen aveva pure sopportato, lo aveva fatto in nome dell’amore profondo che provava per quell’uomo e di tutti i loro momenti felici, i migliori che avesse mai provato nella vita immortale che le apparteneva: “passerà”, si ripeteva.

Ma non era passata, e allora si era resa conto che non c’era più nulla di sano nella loro relazione, né qualcosa per cui valesse la pena continuare a struggersi inutilmente: pedinamenti 24 ore su 24 sette giorni su sette, domande insistenti come fosse costantemente sotto la luce di una sala per gli interrogatori, lui che addirittura si rifiutava di fare sesso con lei insistendo che non voleva trovarsi lo sperma di Merlino sul proprio membro.

E ora non solo non gli era ancora passata l’incazzatura-disperazione-quellocheera da rottura, veniva pure a fare le scenate di gelosia senza che stessero insieme! Era follia, pura follia.

E Pitch era decisamente folle, ora.

 

Resasi conto di come il discorso stesse cambiando repentinamente, la giovane Pendragon si smosse e si mise davanti al proprio ex dritta e col petto in fuori, come a fronteggiarlo.

«Sicuramente meno di quanto tu ne stia impiegando per metterti il cuore in pace» rispose secca, piantandogli addosso uno sguardo freddo capace di penetrare la carne tanto quanto lo erano gli artigli di Kya «non ti è ancora passata, vedo»

«A te immagino di sì, invece».

«Ovviamente» lo rassicurò sorridendo senza dare corda a quel suo atteggiamento provocatorio «a differenza tua, non mi ostino ancora a vivere nel ricordo di un passato che sì, è stato, ma che non potrà più essere. E non certo per colpa mia» alzò e allargò le braccia come a negare il suo coinvolgimento «guardati, Black: non sei in grado di voltare pagina, di andare oltre, di raccogliere la dignità che ti è rimasta e uscire da casa mia. Perché è ciò che ti invito a fare, se sei venuto qui solo per ossessionarmi con le tue scenate di gelosia o per pregarmi di tornare con te».

Gli si avvicinò all’orecchio, indicandogli con un cenno del capo Emily Jane, ancora impegnata a punzecchiare il proprio muffin.

«Fallo per lei, più che per me: in quanto padre, abbi la decenza di non farti vedere da tua figlia nelle condizioni pietose in cui ti riduci quando mi preghi di darti un’altra possibilità. E non lo dico per schernirti, è solo-­»

«Non è quello il motivo per cui sono venuto qui. Stai pure certa che ne avrei fatto volentieri a meno, se avessi potuto».

La strega parve sorpresa da quell’affermazione, e c’era pure da capirla: a parte il tormentarla con gelosie morte e sepolte riguardo la loro relazione -altrettanto morta e sepolta-, non c’era proprio nulla che potesse vederla legata all’Uomo Nero.

Ma se si era scomodato tanto non era certo per qualcosa di piacevole, di quello Gwenllian ne era assolutamente certa.

Restò il silenzio a lungo, poi si girò verso Emily Jane, che poverella pareva più a disagio lei di tutti gli altri presenti in quella stanza.

«Vai fuori» le intimò semplicemente.

«Non prendo ordini da lui» la giovane Pitchiner indicò suo padre «figurati se li prendo da te».

«Lo dico per il tuo bene: vai fuori, Emily».

«Altrimenti?» si alzò in piedi, tentando inutilmente di tenere testa alla Befana «Cosa mi fai, se non esco? Mi trasformi in un rospo, forse? Un maiale come ha fatto la tua collega con mio padre? O forse preferisci-»

«Fa come dice. Vai fuori» si intromise Pitch.

Lei lo guardò in cagnesco per alcuni secondi che parvero infiniti, ma si limitò a dirigersi verso la porta aprendola e facendo per uscire, con grande sorpresa di tutti: Emily Jane non era assolutamente il tipo di persona che si lasciava scappare un’ occasione del genere per lamentarsi, quel comportamento non era proprio da lei!

“Vado fuori, vado fuori: l’ultima volta che l’ho fatto, mamma si è buttata da una rupe e l’hanno raccolta con un cucchiaino, spero in bene che ora sia il tuo turno” fu il suo ultimo pensiero, poi si chiuse la porta alle spalle.

Che si scannassero da soli, quei due.

 

 

«Finalmente ci ha lasciati soli, quella dannata palla al piede» esordì l’Uomo Nero appena sparita la figlia.

«Avete sempre un rapporto molto stretto, da quel che vedo».

«Sicuramente più stretto delle tue gambe, Pendragon».

Gwen sospirò, dirigendosi verso il frigorifero.

«L’ho detto e lo ripeto: se vuoi toccare l’argomento, non aspettarti che io sia clemente, e nemmeno che ti dia conferme o smentite varie. Cosa faccio con le mie gambe sono solo affari miei, e anche se fossero pure tuoi non verrei certo a raccontartelo né oggi, né domani, né mai» tirò fuori due birre ghiacciate e le aprì, passandone una a Pitch «smettila di girarci intorno, Black, perché non sono certo una stupida: cosa vuoi da me? Hai detto che non è una visita di cortesia, quindi cosa dovrebbe essere questa sceneggiata?»

L’altro bevve un lungo sorso «Da quanto sapevi che stavo venendo qui, uh?»

La donna sorrise «Da quando i miei aquilotti hanno mangiato il pane che lasciavi per terra, ovviamente» rise lei vedendo l’espressione sorpresa di Pitch «e se te lo stai chiedendo no, non ho organizzato io il tuo comitato di benvenuto» lo anticipò «anche perché fra i due sono io quella che ha meno voglia di vederti bazzicare intorno a casa mia, o intorno a me in un raggio di svariate migliaia di chilometri in generale. Ringrazia la clemenza di Merlino, perché se ci fossi stata io al suo posto ti avrei lasciato trasformare in maiale da Circe per poi cuocerti allo spiedo. Kya e le altre ne sarebbero state contente».

Pitch posò la bottiglia vuota sul tavolo «E tu?»

Lei lo imitò «Io? Io voglio solo che tu ti decida a tagliare corto, perché -come ho già detto- non ho tempo da perdere: ho appena finito la mia birra e mi sto dirigendo al laboratorio, fai te due conti» rispose stizzita, poi prese a dirigersi a lunghe falcate verso la porta di prima, aprendola e invitando l’altro a seguirla «ho un preparato di cui occuparmi, hai tempo di spiegarti finché non l’ho completato».

A vedere le porte del laboratorio alchemico di Gwenllian Jenkins Pendragon aprirsi, Black riuscì a stento a trattenere l’emozione: se dall’esterno quella pareva una modesta casetta sperduta nella foresta, allora all’interno era un enorme labirinto fatto di scaffali e librerie colme di qualsiasi oggetto che un uomo potesse immaginare, tutto perfettamente sistemato e catalogato per colore, dimensione e nome, non aveva nulla a che fare col caos targato Pendragon della stanza accanto. Ed era proprio lì che avveniva la magia: Befana quando serviva, strega di nascita e alchimista a tempo pieno, Gwenllian era straordinaria anche per gli standard dei maghi.

Quel posto gli era mancato come pochi altri, doveva ammetterlo.

Mentre la donna era alle prese con la pozione alla quale aveva accennato poco prima, Pitch ne approfittò per fare un tour di quel luogo a lui così famigliare; non era cambiato di una virgola dall’ultima volta in cui lo aveva visto, un numero indefinito di anni prima, differenziava solo per la quantità immane di esperimenti e solo gli dei sapevano cosa che riempiva ogni singola parete e tavolo e mensola là dentro -decisamente aumentati da quando ricordava-, e forse pure per qualche nuova scala a chiocciola che spuntava qua e là per accedere ai piani superiori.

E per la pietra rosso rubino che troneggiava fiera la stanza, dall’alto del suo galleggiare a mezz’aria brillando di luce propria, anche per quella.

Si avvicinò incuriosito, alzando il naso e osservandola compiaciuto: alla fine era riuscita a crearla, dunque. C’erano alchimisti che spendevano tutta la vita a cercare di creare un frammento di grandezza infinitesimale della pietra filosofale, magari pure senza riuscirci, e là dentro ce n’era una grande quanto un cocomero.

“Meglio non farla arrabbiare”, pensò l’Uomo Nero: se possedeva magia e conoscenze sufficienti per un lavoro del genere ad un’età come la sua, allora con Gwenllian sarebbe stato meglio non abbassare la guardia.

«Di cosa volevi parlarmi, allora? Ti ricordo che il tempo stringe» gli fece notare l’altra, senza staccare gli occhi dal ciò che la stava impegnando.

Pitch si avvicinò lentamente a lei «La farò breve: qualcuno ha mandato delle creature a sbranare i miei Incubi, e con “sbranare” intendo che ci si sono fiondati sopra come un viandante nel deserto su un bicchiere d’acqua. Leoni, per la precisione, leoni neri dagli occhi rossi».

«Leoni, dici?» ripeté lei mentre armeggiava con delle provette.

«Leoni, sì. Inizialmente li avevo scambiati per altri Incubi con nuove forme, ma quando si sono avvicinati ho notato che -più che di sabbia nera- parevano essere costituiti da… vediamo, a cosa potrei paragonarlo… oh, ecco: pura oscurità, il termine giusto è questo».

«E quindi?»

«E quindi credo che tu possa saperne qualcosa, Pendragon. Se non addirittura essere stata la mandante di quella mattanza» si accostò al tavolo, posandoci con violenza un palmo sopra «non conosco altre persone che possono volermi morto, con le quali ho questioni in sospeso o che vogliano danneggiarmi in qualche modo. Nessuno, tranne che te» vedendo che non gli dava la benché minima attenzione, le afferrò un polso per fermarla nel suo operato «non provare a prendermi per il culo, Gwenllian, o giuro che-»

L’Uomo Nero si lasciò scappare grido soffocato di dolore. Si guardò la mano: sanguinava.

E il suo sangue gocciolava anche dagli artigli della strega, la cui mano si era ricoperta di spesse squame argentee iridescenti, un sottile strato di piume dello stesso colore che le fuoriuscivano dalla pelle dell’avambraccio a monito dei poteri ereditati da suo padre.

«Non giurare di nuovo, perché potresti non trovarti più la bocca per farlo» ringhiò lei fulminandolo con lo sguardo, gli occhi ridotti a due fessure scure nei quali si intravedeva appena la sottile pupilla azzurrognola.

Pitch sorrise appena.

«Oh-oh, qualcuno qui graffia, da quel che vedo» si saggiò la ferita che partiva dal pollice e percorreva il palmo fino al polso, massaggiandosela sorridendo «non è così che si trattano i propri ospiti, Gwen, no no. Mamma e papà non ti hanno insegnato le buone maniere?»

«Mamma e papà mi hanno insegnato che se uno sconosciuto mi importuna prima devo avvisarlo di non farlo ancora» gli indicò il taglio «poi devo staccargli il braccio a morsi. E stai sicuro che lo farò ben volentieri». La Befana si decise a lasciar perdere il proprio esperimento, dando la schiena al banco di lavoro e girandosi verso l’altro -allontanatosi di qualche passo dopo l’attacco- che la guardava senza perdere quel suo sorrisetto.

Con fare malizioso, Gwenllian si leccò il sangue dagli artigli.

«Sei delizioso, sai? Esattamente come ricordavo che fossi, forse pure meglio».

«Non è buona cosa restare col dubbio» le fece notare l’uomo avvicinandosi cautamente, fino a trovarsi a pochi centimetri da lei «sai, sarebbe certamente meglio toglierselo finché se ne ha la possibilità» le accarezzò i capelli, le dita che scorrevano fluide in quella cascata color cioccolato con un ritmo quasi ipnotico «specie perché potrebbe succedere che poi non si abbia l’occasione di toglierselo in futuro, quello spiacevole dubbio» pose l’altra mano sul suo fianco, sfiorandole appena il corsetto di pelle.

Lei lo guardò fingendosi afflitta «Oh, capisco. La mia è proprio una brutta situazione, vero? Non so proprio come potrei tirarmene fuori, proprio no» gli afferrò il mento con la mano artigliata, creando nuovi solchi nella pelle grigio cenere dell’altro «e dimmi un po’, re degli incubi, conosci forse un modo per rimediare alla mia condizione? Magari un modo che comprenda-­»

 

E Pitch la baciò.

Un bacio vorace, intenso, appassionato, che solo un uomo disperato dal ritrovare la donna che aveva amato e che ancora amava poteva dare: glielo avrebbe dimostrato, che era ancora sua, le avrebbe fatto capire che il suo cuore gli apparteneva, che non poteva fare a meno tanto dei suoi morsi sulle labbra quanto del suo corpo che premeva sul proprio, che -senza di lui- la sua vita non sarebbe stata completa come lo era mai stata tempo addietro.

Da parte sua, la sorpresa iniziale di Gwenllian durò ben poco. Subito, si perse ben volentieri in mezzo alle loro labbra che si cercavano l’una con l’altra come se ne avessero bisogno per sopravvivere, persino la parte di sé che le diceva di spaccargli la testa contro il muro aveva lasciato posto ad una passione irrefrenabile, la stessa che animava le loro lingue che si intrecciavano freneticamente facendole morire il respiro in gola: se proprio avesse dovuto morire soffocata, quella sarebbe stata un’ottima occasione per farlo.

Interminabili minuti dopo, si staccarono l’uno dall’altra.

«Il ficcarti la lingua in bocca? Sì, questo lo conosco» scherzò l’Uomo Nero poggiando la propria fronte a quella della donna, ancora ansimante «allora, ho lo stesso sapore o no?»

Ridendo, la strega si leccò le labbra «Sai che non credo di averlo capito per bene?»

E ora fu lei a baciarlo di nuovo, con la stessa intensità e fervore di poco prima. Gli prese fra la testa fra le mani e lo strinse a sé, spingendogli la lingua all’interno della propria bocca cogliendolo impreparato.

«Sì, hai un sapore decisamente migliore» sentenziò infine soddisfatta, continuando nel mentre a dargli piccoli baci su viso e collo «ma sai che cosa è ancora più dolce in te, Pitch?»

«Che cosa?» chiese languido.

«Il tuo sangue sul pavimento».

Poi iniziò una lotta furiosa.

 

Approfittando della guardia abbassata dell’altro, ancora troppo impegnato a fantasticare su quel bacio furbescamente rubatole per ragionare come si deve, la strega impiegò poco per trasformare ulteriormente il proprio corpo facendosi comparire -oltre all’altra mano artigliata- un paio di possenti ali dalle soffici piume marrone nerastre, azzurro turchese e bianco argentee; subito, la loro sola comparsa sulla sua schiena bastò per scaraventare l’Uomo Nero contro uno degli scaffali alle pareti, che finì inevitabilmente per crollargli addosso insieme a tutto ciò che conteneva.

Gwen gli si avvicinò a piccoli passi totalmente incurante di vetri e cocci sparsi a terra, complici anche gli arti inferiori -che avevano assunto fattezze simili a quelle delle zampe di un rapace- ora coperti da squame dure e spesse, le ali ed una lunga coda dello stesso colore di queste ultime che si trascinavano per terra.

Si appollaiò per terra vicino al punto dove aveva impattato l’altro, osservando con soddisfazione il rivolo di sangue che colorava le schegge trasparenti: morto? Nah, non sarebbe bastato così poco per ucciderlo, tanto più che si trattava di un immortale.

E infatti ne ebbe la dimostrazione qualche secondo dopo.

Nel mentre che si apprestava ad alzarsi, un’improvvisa ventata accompagnata da un’ombra nera le passarono rapide di fianco sfiorandole il corpo ed una delle ali, che d’istinto fece scomparire per evitare di trovarsela tranciata; si guardò intorno pronta a scattare: sapeva fin troppo bene quali trucchetti fosse capace di mettere in atto Pitch sfruttando il suo nascondersi negli anfratti bui, e per questo non si permise di abbassare la guardia. O almeno ci provò.

La seconda sferzata la colpì in pieno su di un fianco, ma almeno riuscì ad afferrare la falce dell’altro trascinandoselo a qualche centimetro dal volto. Sorrise.

«Funziona una volta, ma la seconda non mi fotti».

«Sicura?» domandò lui sghignazzante indicandole il corsetto e la maglia sottostante.

O ciò che rimaneva, comunque, dal momento che l’ultimo colpo lo aveva praticamente squarciato in due lasciando la strega a seno scoperto.

«Dannato man-» tentò di imprecare lei, ma fu questione di attimi prima che Black si premurasse di manipolare l’oscurità com’era solito fare in quanto sovrano degli incubi.

Agì velocemente, facendo fuoriuscire dall’ombra della strega dei veri e propri tentacoli di sabbia nera e grondante un liquido dello stesso colore, che le si avvolsero tanto ai polsi quanto alle caviglie per ridurre la sua mobilità a qualcosa che si avvicinava pericolosamente allo zero: più tentava di divincolarsi, più quelle cose stringevano. E lei lo stava capendo tardi, a giudicare da come si stava inutilmente agitando.

Ridacchiando, Pitch la strinse a sé, con ancora addosso quel suo sorrisetto da prendere a schiaffi; da lui Gwenllian si aspettava di tutto, ma per ora l’Uomo Nero si stava semplicemente limitando ad osservare e seguire col dito le linee di ogni singolo tatuaggio che copriva il corpo di quella che, un tempo, era stata la sua amante: sapeva a memoria la posizione di ogni singolo simbolo, ogni significato che esso poteva avere, avrebbe saputo disegnare una vera e propria mappa dei segni presenti su quella pelle candida che lui aveva baciato, accarezzato, posseduto, per anni interi, esplorandone ogni angolo.

La guardò negli occhi solo un istante, quello che gli bastò per capire che sarebbe stata sua complice, che aveva voluto esserlo fin dal primo momento in cui lo aveva rivisto.

Senza tanti complimenti, l’Uomo Nero fece scivolare le labbra vicino al collo della strega iniziando a baciarlo avidamente una, due, tre volte, salì fino all’orecchio dove rimase qualche istante, conscio di quell’insignificante punto sensibile del quale ricordava bene la posizione; il corpo della donna fu scosso da un brivido che le incendiò la pelle, i muscoli, persino ogni più piccola terminazione nervosa: sentiva la bramosia dell’altro di averla, di reclamarla, di possederla ancora una volta, non riusciva nemmeno più a ragionare da quanto quel fuoco le stesse avvampando la mente, oltre che il corpo. Era sbagliato, tremendamente sbagliato.

Ma non gliene fotteva assolutamente un cazzo.

Non ebbe nemmeno il tempo di farsi ulteriori domande su quanto ciò fosse giusto o meno, che Pitch era già sceso con la bocca sui suoi seni nudi, prendendo a torturarglieli come solo lui sapeva fare. Inizialmente si accontento di lambirle appena la pelle, provava un certo piacere nel sentirla mugolare come a implorarlo di darle di più, e lo aveva fatto sfiorandole delicatamente il capezzolo roseo e turgido con la lingua per farla gemere di nuovo, e poi ancora, e ancora, fino a quando non era crollata in un gemito sordo.

Mentre l’aveva fra le braccia, la sentiva fin troppo chiaramente dimenarsi e inarcare faticosamente la schiena in un tormento costante, senza fine, una muta richiesta -non poi così tanto muta, considerando i gridolini che lanciava- di andare oltre, di darle di più, era come uno spasmodico desiderio carnale che le bruciava dentro mentre chiedeva solo di essere soddisfatto, risvegliato, accolto.

Allora, e solo allora, aveva iniziato a suggerle il seno in modo avido, rude, quasi selvaggio, pareva volesse divorarla da quanta passione ci stesse mettendo, dai segni rossi che i morsi gli stavano lasciando sulla pelle ad ogni suo affondo. Un grido di piacere scappò dalle labbra della strega, ormai in completo visibilio a causa di quel comportamento a metà fra l’umano e l’animalesco che pareva svegliare in lei istinti dimenticati da tempo immemore, istinti che ora ruggivano ogni volta che i denti di Black si serravano prepotenti intorno alla propria areola: per la dea, quanto gli era mancato quel maledetto disgraziato dal naso abnorme!

Pitch stava giusto per spostarsi sull’altro seno quando, in modo totalmente inaspettato, Gwenllian gli affondò le dita fra i capelli e gli trattenne la testa lì dov’era spingendolo più a fondo sul suo petto, come ad invitarlo a suggerla con maggior vigore. Sorpreso, la guardò qualche istante come per dirle “Come e quando ti saresti liberata i polsi?”, ma nel momento in cui la sua bocca fu pronta a pronunciare quelle parole si trovò bloccato da un bacio caldo e profondo, le dita che gli scavavano la pelle fino a lacerargli la veste.

Non aveva importanza come avesse fatto, non più, ormai.

Le mani -ancora trasformate- della strega gli strinsero le proprie, guidandogliele prima sui fianchi, poi giù sulla vita e infine vicino all’orlo dei pantaloni; Gwen gli sorrise. Abilmente e con la calma di chi vuole farsi desiderare fino in fondo, guidò abilmente con le proprie mani le dita dell’altro fin dentro gli abiti, accompagnandolo fino a sfiorargli gli slip sottili che lasciavano scoperti suoi glutei.

Ancora una volta, i freni inibitori dell’Uomo Nero andarono a farsi benedire: esplorò le sue natiche in lungo e in largo, strinse con non poca forza la carne soda come un gatto che si aggrappa ad un cuscino per farsi le unghie, e -similmente a come faceva il felino- anche lui piantò le proprie, di unghie, nelle carni della donna facendola gemere tanto di piacere quanto di dolore. Non smise nemmeno un secondo di costellarle il fondoschiena di segni rossastri che rasentavano lividi veri e propri, lei del resto non si stava certo opponendo, e non lo fece nemmeno quando le dita di Pitch finalmente si insinuarono sotto gli slip per cercare le sue zone più intime.

 

No, non si oppose, gli piantò solo una ginocchiata nello stomaco che ci mancava poco gli facesse sputare tutti gli organi interni.

 

«Eh! Voleeeeeeevi! Guarda che faccia, non se lo aspettava!» gli gridò la strega dall’altra parte della stanza, alzandogli il medio da entrambe le mani e facendogli il gesto dell’ombrello senza pudore alcuno, soddisfatta com’era.

Pitch non perse tempo: conscio che la falce fosse un’opzione da scartare -dal momento che Gwenllian sapeva già come lottava e si muoveva con essa-, ripiegò sul farsi comparire fra le mani due sottili ma lunghi pugnali affusolati, che gli avrebbero certamente permesso di gareggiare in agilità con l’altra.

Ignorando il dolore che ancora gli ruggiva nello sterno, le si lanciò addosso ad armi dispiegate con tutta la forza che trovò in corpo, cercando di sfruttare i punti ciechi che gli venivano offerti dagli scaffali interposti fra lui e la strega. Funzionò un po’, quel che bastò per non farsi notare mentre si avvicinava guizzando da un angolo all’altro, ma Black non aveva tenuto conto della presenza di vasi e ampolle che riflettevano la sua immagine.

Avendolo visto in anticipo con la coda dell’occhio, la donna riuscì a bloccarlo all’ultimo, quando i pugnali erano incrociati a mezz’aria a pochi centimetri dal suo volto madido di sudore nel reggere quel confronto di forza immane: dire che stava lottando contro un orso inferocito rendeva perfettamente l’idea di quanto lei si stesse sforzando per non cedere sotto il peso di Pitch, che pareva essersi totalmente riversato nei propri arti superiori a giudicare da come si stesse protraendo quel braccio di ferro.

Fortunatamente per lei, però, il colpo di genio la raggiunse in tempo: una formula in una lingua sconosciuta ai mortali, e poco dopo la lunga coda piumata le ricomparve addosso; attese un istante solo, quello per constatare che l’uomo non aveva notato quella sua piccola trasformazione, poi finalmente la scostò vicino alle sue caviglie... per fargli il solletico.

Oh beh, con i tempi che correvano doveva pure ingegnarsi in qualche modo, se voleva uscire viva da quel confronto.

Per quanto l’idea sembrasse stupida, però, sortì l’effetto sperato. Colto di sorpresa, l’istinto dell’Uomo Nero che gli suggeriva di scansarsi a quella sensazione pruriginosa ebbe la meglio, dando all’altra tutto il tempo per ritirare l’ingombrante piumaggio, voltarsi verso la scrivania e prepararsi a saltare il mobile per allontanarsi il prima possibile da lui, così da potersi prendere qualche metro di vantaggio.

Solo che tutto ciò avrebbe avuto effetto se Pitch non avesse fatto caso alla coda di Gwenllian, e lui l’aveva notata eccome.

 

Non gli avesse mai dato le spalle.

 

Pochi istanti prima che le piume svanissero, Black gliele afferrò brutalmente costringendola a bloccarsi nel mentre che scavalcava il tavolo, tirandola poi verso sé e sbattendola di prepotenza sullo stesso senza risparmiarle un gridolino di dolore per il colpo ricevuto; la strega tentò un paio di volte da divincolarsi da quella presa, ma ogni suo movimento fu reso inutile quando dalla scrivania fuoriuscirono gli stessi dannatissimi tentacoli di prima: la puntarono fin da subito quasi la desiderassero, la pretendessero, e glielo dimostrarono decisamente bene.

Fu questione di attimi, e -prima ancora che Gwen potesse riprendere fiato- si trovò costretta così, mezza nuda e piegata ad angolo retto sul bancone, i polsi e le caviglie che le pulsavano per la stretta infernale peggio di quanto facesse il suo volto avvampato, che l’Uomo Nero si assicurava di tenere ben premuto sul legno grezzo mentre la osservava particolarmente compiaciuto.

Le si avvicinò ad un orecchio per baciarglielo, scendendo sul collo e finendo sul tatuaggio della triplice Luna sulla sua nuca, che morsicò piano per lunghi istanti.

«Qualcuno sembra in difficoltà, a quanto sto vedendo» sghignazzò lui mentre posava con decisione le mani sui fianchi della donna, continuando a scendere lento ma inesorabile verso la cintola «io ti avevo avvisato con largo anticipo, di non sfidare né la mia pazienza né la mia buona volontà di venire a parlarti di persona, anziché accusarti senza prove nelle mani, e tu cosa fai?» come a seguire un suo ordine, i tentacoli di sabbia nera che le serravano le caviglie le spalancarono le gambe, facendole morire le lamentele in gola «tenti di ammazzarmi. Anzi: prima di limonarmi, poi di usarmi per il tuo piacere personale, e infine di ammazzarmi, per essere più precisi» Pitch le afferrò le braghe con decisione, sorridendo.

La baciò di nuovo esplorandole la schiena con fare premuroso, come ad assaporare i brividi che le percorrevano il corpo.

«Non prendiamoci in giro ancora, Gwen, lo facciamo da anni ormai: sappiamo entrambi cosa vogliamo veramente» quando le strappò i pantaloni insieme agli slip quasi impalpabili con brutalità inaudita e animalesca, il rumore della stoffa che si lacerava, si dilaniava, si smembrava, riempì la stanza come un tuono «e quel “qualcosa” io intendo dartelo, su questo puoi contarci» ora fu lui a togliersi la cintura lasciando cadere i propri, di pantaloni, a terra.

Il tempo che quelle appendici nere svanissero lasciandogli campo libero, e subito Pitch la penetrò con un’unica spinta vigorosa che lo fece affondare in lei: fu un gesto veloce, furioso, a tratti brutale, ma il bisogno l’uno dell’altra era troppo intenso perché potesse essere trattenuto, come anche lo era la necessità di scoparla a fondo e assaporare quel momento come se fosse stata la loro prima volta. E con Gwenllian era sempre la prima volta.

 Ed era sempre perfetta.

A sentirsi riempire rudemente in un solo colpo, la strega gridò: il dolore che la investì fu intollerabile, una violenta scossa che le percorse il corpo dal fondoschiena pulsante fino alla testa dove esplose come una lama affilata.

Ma ben presto a quella fitta che l’aveva lacerata dentro si trasformò in un’esplosione di ardente passione, un fiume in piena di puro e tumultuoso piacere che la lasciò senza fiato, spingendola ad aggrapparsi con gli artigli al tavolo per non farsi trascinare solo gli dei sapevano dove da quella frenesia incontrollabile, ora che era come una foglia in balìa del vento.

 

Avrebbe potuto sottrarsi a tutto ciò fin dal primissimo istante, Gwenllian Jenkins Pendragon, del resto i suoi poteri glielo permettevano: le sarebbe bastato trasformarsi completamente come faceva suo padre ai tempi della guerra fra Ingary e il regno vicino, e allora dell’Uomo Nero non sarebbe rimasto nulla se non uno scheletro nel suo stomaco. Semplice e veloce.

Ma non lo aveva fatto, non ci aveva pensato nemmeno mezzo secondo fin da quando l’aveva baciato: voleva che lui la possedesse, voleva possederlo lei, volerla farsi scopare finché non avesse dimenticato come si cammina correttamente.

E non aveva nessun timore ad ammetterlo.

 

Con le poche forze che riuscì a ritrovare in corpo, Gwen tentò di sollevarsi quel che le bastava per trovare il corpo dell’amante che premeva sul proprio in quella perfetta comunione che -tempo immemore dopo- era tornata a crearsi, ma Black la anticipò facendo scivolare una mano in mezzo alle sue cosce morbide che pareva lo implorassero di dare loro attenzione, iniziando a lavorare anche su altre zone particolarmente sensibili.

Di nuovo in preda ai gemiti, Gwen non poté fare altro che accasciarsi nuovamente sul tavolo, a riflettere sull’amara consapevolezza che quel meraviglioso sesso selvaggio gli era mancato quasi quanto l’ossigeno: amava come la faceva sentire completa, amava come i suoi respiri in sincronia con i propri le riempivano la mente, amava come la possedeva in ogni singola spinta, amava come la facesse gridare in un misto fra piacere e dolore, lo amava e basta.

«S-sei un da-dannato… b-ba-bastardo» si lasciò scappare sorridendo, il desiderio pulsante che la indusse ad abbandonare ogni resistenza rimasta fra loro due, a rilassarsi più di quanto stesse già facendo, a protendersi inarcando la schiena per poterlo accogliere meglio dentro di sé.

Stringendo i denti, Pitch spinse più a fondo per accontentarla.

«Ma tu mi ami comunque» ridacchiò mentre le sue dita esploravano sapientemente la femminilità della donna, saggiandola come se avesse già in mente qualcosa.

«Potresti pure avere ragione» convenne la strega, chiudendo gli occhi per assaporare fino in fondo l’ennesima sferzata che le dilaniò l’anima, oltre che il corpo.

L’altro si fermò improvvisamente «Potrei avere ragione?»

«È ciò che ho detto».

«“Potrei”» sottolineò lui quasi offeso.

«Non credo che sia il momento opportuno per stare qui a polemizzare sul mio uso dei tempi verbali» gli fece notare indicando con una mano dietro di sé «sai com’è: mi stai scopando il culo, io vorrei pure avere un orgasmo, tu anche, per cui-»

«Per cui non intendo muovermi di un millimetro, se non sei nemmeno sicura di amarmi».

La giovane Pendragon restò interdetta qualche istante, poi scoppiò a ridere «Avanti! Non puoi essere serio!­»

«Sono serissimo» concluse l’Uomo Nero, incrociando le braccia al petto.

Le sembrava di impazzire: fino a poco prima stava godendo come mai in vita sua, trascinata dall’ardore col quale l’altro stava facendo l’amore col suo corpo e con la sua mente, a giudicare da come lui stesse sapientemente sfoderando una dopo l’altra tutte le sue tecniche per compiacerla nei modi che sapeva le piacevano maggiormente, si stava addirittura pentendo di non essersi incontrata con lui tempo prima, mentre ora… ora si era tutto fermato, bloccato, svanito.

«… Pitch» sussurrò la strega poco dopo, incapace di sopportare oltre la mancanza del corpo del suo amante a contatto col proprio.

«Sì? Vuoi dirmi qualcosa, forse?»

Lei si strinse nelle spalle, sospirando «… Avanti, sai benissimo cosa vorrei dirti, dai…»

Black si finse pensieroso «Non ne ho la minima idea, spiacente».

«Come sarebbe che non…? Pitch, ti prego, ti prego».

«“Ti prego” di fare cosa, di preciso?» domandò incuriosito, facendo scivolare le mani a stringerle i seni con decisione «Qualcosa tipo questo, intendi?»

«S-sì, » ansimò speranzosa «questo e-e p-poi… poi-» non fece in tempo a finire che lui tornò con più forza e vigore di prima dentro di lei, strappandole l’ennesimo di tanti, troppi, gemiti che le morivano in gola trasformandosi in gridolini strozzati, in mezze parole, in impalpabili sospiri che gridavano solo solo una cosa: che lei, l’Uomo Nero, non aveva mai smesso di amarlo.

A Black non serviva sentirselo dire da lei, non aveva bisogno che la strega gli confermasse ciò che lui aveva capito fin dal primo sguardo, si accontentava delle conferme che le stava dando il suo corpo abbandonato a quel loro infuocato delirio che pareva non avere fine. Lasciò che la passione cancellasse il suo autocontrollo, che la parte di se stesso che la desiderava da impazzire prendesse il totale controllo, che fosse il suo desiderio di possederla notte e giorno a guidarlo: non la risparmiò nemmeno un istante nel penetrarla a fondo, non voleva essere né gentile né tenero con lei, ben conscio che la tenerezza e la gentilezza non erano ciò che Gwenllian stava cercando da lui e che ora chiedeva, bramava, aveva bisogno, di ben altro.

E lui glielo diede volentieri, ciò di cui aveva bisogno.

Riprese ad avanzare una, due, tre, un numero indefinito di volte, poi si ritrasse nella stessa maniera fin quasi a lasciare il suo calore per allungare ogni istante di quella preziosa tortura, lei che conficcava le unghie nel legno scarnificandolo e dilaniandolo proprio come il piacere stava facendo col suo corpo inerme; con una mano Pitch le afferrò i polsi bloccandoglieli dietro la schiena, con l’altra invece fece lo stesso con capelli tirandoli a sé e costringendola ad inarcarsi faticosamente, mentre con inesorabile lentezza rientrava nel suo corpo fremente per farle assaporare ogni centimetro della sua erezione che affondava in lei.

Un grido di piacere si levo alto dalla gola di Gwen, gemiti pregni di gioia e sollievo che lo invitavano chiaramente a proseguire con ardore devastante, urla che però adesso avevano una sfumatura diversa da prima, come segnate da un sentimento dimenticato da entrambi che ora faceva capolino per rendere quell’amplesso unico, speciale, diverso da qualsiasi altro. Quello non era solo sesso, non era solo fare l’amore finché i loro corpi fossero stati in grado di reggere la sfida, non era nemmeno una sveltina -poco svelta- e via per tornare alle proprie vite.

Era una conseguenza dell’essersi ritrovati faccia a faccia, corpo a corpo, era un nuovo inizio, il ritentare di costruire qualcosa per la seconda, indimenticabile, volta.

Quella consapevolezza lo spinse a dare il massimo, come obiettivo ultimo il darle il paradiso in terra mentre lui possedeva lei e lei possedeva lui, assecondando i suoi movimenti con la stessa forza che l’Uomo Nero stava mettendo nel farle raggiungere le vette del piacere rubandole il fiato; le lasciò i polsi, adesso, preoccupandosi invece di chinarsi per baciarle la spina dorsale visibile sotto la pelle tatuata, come a confortarla dalle scosse che le percorrevano implacabili il corpo per guidarla verso il traguardo al quale ambivano entrambi.

«Sei un bastardo, e su questo non ho dubbi…» riuscì a mugolare la strega fra un gemito e l’altro, cercando il volto dell’altro e tirandolo a sé, per poi baciarlo «… ma ti amo lo stesso, sempre, s-semp-» si interruppe improvvisamente gettando indietro la testa.

 

In quel preciso istante, l’unico suono che riempì la stanza fu il nome di Pitch Black gridato da Gwenllian nel pieno di un orgasmo, pure schegge di piacere che le sconquassarono il corpo mentre il seme del suo amante si riversava dentro di lei prepotente svuotandole i polmoni tutti d’un colpo, un calore intenso che l’aveva riempita fino a farla crollare esausta sul tavolo senza più forze in corpo.

 

L’altro lo imitò e le si accasciò sulla schiena per riprendere fiato, il cuore che galoppava nel petto talmente veloce che gli pareva di udirlo echeggiare fra le pareti insieme ai gemiti convulsi della compagna; passarono interi minuti così, stesi su quel pezzo di legno freddo ad attendere che i loro respiri si normalizzassero e che i loro corpi smettessero di fremere mossi da chissà quale forza nascosta. Nonostante fosse madido di sudore e stanco quanto lei, l’Uomo Nero trovò comunque le forze per darle un’infinità di baci sulla nuca ben sapendo quanto lei li apprezzasse, godendosi ogni singolo gridolino roco proveniente da quella gola che mormorava il suo nome ancora, e ancora e poi di nuovo, come a volersi imprimere nella mente la persona che le aveva appena fatto toccare con mano qualcosa che temeva di non poter provare mai più, da quando loro due si erano amaramente lasciati.

Con una delicatezza che nulla aveva a che fare con la belva affamata di sesso di qualche istante prima, Pitch la sollevò piano prendendola in braccio e poggiandola sul bancone, per poi stringerla in un abbraccio pieno di piccoli baci sulla fronte, sul collo, sulla punta del naso, mentre lei, tremante, gli si abbandonava addosso poggiandosi al suo petto.

A Gwenllian ci volle ancora un po’ per riprendersi, ma appena lo fece ricambiò le tenerezze dell’altro facendosi comparire nuovamente le sue grandi ali piumate sulla schiena, che utilizzò subito per avvolgere se stessa e l’amante in un bozzolo caldo che li isolava dal mondo, dai vetri rotti, dagli scaffali distrutti, persino dal sangue per terra e sui muri.

Non c’era niente oltre a loro due, non più, erano soli in mezzo ad una stanza vuota che stavano riempiendo e avrebbero riempito in eterno con i loro gemiti, le loro urla, i loro dannatissimi orgasmi che avrebbero fatto sciogliere anche i ghiacciai, da quanto infiammavano il corpo e l’anima di entrambi.

Avvampata ancora da quella passione, la strega approfitto di quell’abbraccio per baciargli prima il petto, poi le spalle, salendo su per il collo e afferrandogli infine il volto fra le mani per scambiarsi uno sguardo veloce, fugace, esattamente com’era stato il brivido che lui le aveva fatto provare mentre le piume svanivano lentamente; affondò le dita lunghe e sottili nei suoi capelli neri spingendolo sempre più verso di sé, gli aggredì la bocca in un bacio impetuoso come a fargli capire che non scherzava, che lo desiderava ancora, che voleva sentire il suo sapore mentre le loro lingue si intrecciavano impazienti.

Gwenllian gli si strofinò addosso il corpo nudo per godere ancora una volta di quel contatto infuocato fra le loro pelli ancora umide, una mano che afferrava sapientemente quella di Pitch posandola senza tanta delicatezza sul suo seno bianco che brillava delle piccole gocce di sudore che lo imperlavano, provocando impalpabili sussulti quando quest’ultime le sfioravano i capezzoli rosei ormai completamente in balìa delle dita dell’Uomo Nero.

Era certa che avrebbe tranquillamente potuto raggiungere nuovamente l’apoteosi del piacere semplicemente così, ma non le bastava. Mentre con una mano si aggrappava alle spalle di lui per non crollargli di nuovo ansimante fra le braccia, con l’altra gli afferrò senza esitazione il membro ancora turgido guidandolo fino alla sua intimità e premendolo sulla stessa, in attesa.

Pitch le lanciò un’occhiata come a chiederle conferma, ben sapendo che le cose si stavano facendo decisamente più serie di quanto lo fossero state fino ad ora.

Se gli si fosse concessa anche ora, se avesse deciso di darle nuovamente quella parte di sé insieme alla propria fiducia, allora lui avrebbe dovuto cambiare una volta per tutte: niente più scenate di gelosia, niente dubbi che non stavano né il cielo né in terra e nemmeno per mare, niente di niente che potesse portargliela via di nuovo solo e soltanto per colpa sua e del suo stramaledetto atteggiamento di possessione.

«Vuoi?» le domandò infine.

Lei sorrise «Voglio».

Guardandola negli occhi e continuando ad accarezzarla piano, Black iniziò ad affondarle dentro lentamente, spinta dopo spinta, centimetro dopo centimetro: voleva essere assolutamente certo di sentirla rilassata e pronta ad accoglierlo prima di esplorarla più profondamente, ora non poteva fare tutto di fretta e furia come prima. Gwenllian trasalì stringendosi nelle sue braccia quando lo sentì farsi strada nel suo ventre riempiendola con delicatezza: abbandonò le mani prima sulle spalle e poi sulla schiena a cercare la sua spina dorsale e scendere giù, sempre più, fino a conficcargli le unghie nelle natiche per stringersi a lui e premere il proprio bacino su quello del suo uomo.

Un ultimo affondo, e questa volta la riempì completamente. Gwen lanciò un urlo, che si premurò subito di soffocare premendo la testa nell’incavo fra il collo e la spalla dell’altro, il piacere le esplodeva dentro diramandosi come una fitta lancinante.

Una smorfia di preoccupazione apparve per qualche istante sul volto dell’Uomo Nero, ma dovette ricredersi subito quando lei cercò avidamente la sua bocca per serrarla in un lungo bacio di gratitudine: fu lì che comprese che non si sarebbe mai accontentata, che voleva di più, che voleva tutto. Con rinnovata passione e ormai tranquillizzato dai gemiti strozzati dell’altra, si ritirò un poco e tornò a penetrarla a fondo con ritmo sempre crescente, sempre più incalzante e serrato, il piacere che pervadeva entrambi in un’ondata calda mentre i loro corpi fradici si univano in uno solo, un insieme di muscoli che fremevano e si contorcevano in una sinfonia assolutamente perfetta.

Boccheggiando per riempirsi i polmoni d’aria, la strega si strinse forte alle sue spalle e gli cinse i bacino con le gambe in un intimo abbraccio che le permettesse di assecondare ogni suo movimento, seguendolo in quella danza sollevando e abbassando ritmicamente i fianchi, contraendo e rilassando i muscoli al ritmo del loro amore.

Intrappolato com’era nel suo stretto calore, Pitch non poté fare altro che seguire il desiderio di perdersi in quel vortice di passione caldo e accogliente tuffandosi in lei ancora e ancora, un baratro senza fine che pareva risucchiarlo inesorabilmente ad ogni singolo movimento, salvo farlo esplodere in violenti sussulti ogni volta che sentiva i muscoli della donna stringersi in una stretta prepotente e al contempo dolce intorno al suo sesso, come se lei volesse trattenerlo dentro di sé il più possibile.

E probabilmente era proprio così, a giudicare da come la tensione fra i loro corpi si stesse intensificando.

Seguendo un istinto primitivo, Black le afferrò saldamente i glutei e la sollevò dal tavolo, tenendola stretta a sé, mentre Gwenllian -intenzionata ad assecondarlo- gli si agganciò ai fianchi stringendo la presa delle proprie mani dietro il collo dell’altro; ora non c’era più la sicurezza della scrivania ad accogliere i loro corpi durante l’amplesso, ma a nessuno dei due amanti importava: avrebbero fatto l’amore così, aggrappati l’uno all’altra tanto nella carne quanto nell’anima, e così avrebbero raggiunto le vette del piacere una volta, poi due, tre, dieci, cento, altre mille volte, se solo lo avessero voluto.

E loro lo volevano eccome.

La giovane Pendragon gli si avvinghiò addosso come uno scoiattolo al proprio albero, offrendogli nuovamente il seno morbido e inerme da toccare e suggere e tormentare per l’ennesima volta, i suoi gemiti e i mugolii che ripagavano Pitch di tutte le attenzioni che la propria bocca riservava a quel corpo nudo che pareva essere stato modellato appositamente per lui, dal modo in cui aderiva perfettamente alle sue labbra. Un rivolo di sangue prese a scorrere sulla pelle grigia della schiena dell’Uomo Nero, quando le unghie della strega gli si conficcarono nelle carni con violenza immane mentre lei gemeva disperata preda di un incendio sempre crescente.

Ma non era un semplice incendio, quello, era una vera e propria tortura, un circolo vizioso, un girone infernale studiato per trascinarla fino al proprio limite di continuo, quanto avvertiva l’ingombrante presenza dell’altro dentro di sé che le squarciava il ventre partendo da un punto indistinto nelle proprie viscere, e che poi la rigettava inesorabilmente indietro quando si sentiva svuotarsi tutta d’un colpo per poi venire riempita e completata di nuovo. E si ripeteva di continuo, adesso, si ripeteva fino a farla impazzire.

 

E impazzì davvero, qualche istante dopo.

Un’altra spinta profonda, poi un grido gutturale si levò alto dai loro corpi ancora uniti, pulsanti, intrappolati in un incastro perfetto. L’ennesimo orgasmo di quella giornata travolse entrambi con ondate di abbagliante piacere che si riversarono lente fra le gambe serrate di Gwenllian, ormai accasciata fra le braccia dell’amante stremata e priva di forze, ma pienamente soddisfatta proprio come il suo partner.

 

E così l’Uomo Nero e la Befana erano andati avanti ancora e ancora e poi di nuovo, a fare l’amore per ore ed ore fino a perdere ogni cognizione del tempo e della realtà che li circondava, decisi a non fermarsi nemmeno quando i loro corpi imploravano una pausa.

Non avrebbero frenato la loro passione per un paio di crampi, non avrebbe smesso di cercarsi l’una con l’altra nemmeno se fosse crollato il mondo: si erano persi una volta, permettere che accadesse di nuovo sarebbe stato un crimine contro i loro stessi sentimenti appena ritrovati.

Nell’ultimo di quei rari momenti di pausa post-orgasmo durante quegli amplessi così intensi, Gwenllian si arrampicò dall’inguine dell’altro fino al suo petto, riempiendolo di baci durante il tragitto e fermandosi quando incontrò le sue labbra.

Prima di baciarlo, però, si scostò lentamente le ciocche di capelli blu e argento e gli mostrò un punto dietro l’orecchio destro, quello che lui aveva baciato per primo quando avevano iniziato la loro lunga e stancante avventura di quella giornata; il tempo di evocare la propria magia, e un piccolo tatuaggio le si disegnò sulla pelle, un cuore con una serratura al proprio centro. Senza staccarle lo sguardo di dosso, Black le prese delicatamente la mano e se la poggiò sullo stesso punto, ma sull’orecchio apposto.

«Rwyf wrth fy modd i chi. Ti amo» le sussurrò appena nella sua lingua, prima di abbandonarsi al pizzicore provocato dalle dita della compagna che si posavano su di lui.

Gwenllian gli sorrise, la magia che fluiva lenta disegnando i contorni di una chiave.

«Rwyf wrth fy modd i chi hefyd, fy nghariad» ricambiò lei baciandolo con dolcezza.

A sentirsi chiamare “amore mio” ci mancò poco che Pitch svenisse: gli era mancato come ossigeno sentirsi chiamare così da lei, e ora lo aveva appena fatto, glielo aveva detto per davvero! Aveva pronunciato quella parola!

Lacrime di gioia iniziarono a rigargli il volto.

«Non ti lascio andare mai più, mai più» le promise affondando la testa in quella cascata color cioccolato per non farsi vedere in viso «ti giuro che-»

«Ehi, c’era la porta aperta. Anche se ovviamente non avrei bussato in ogni caso, perché me ne sbatto altamente se mi vogliate dentro o meno. Comunque mi servirebbe un attimo il bagno, mangiare tutte quelle bacche non è stata-… oh».

“Oh”, appunto.

 

In quel preciso istante, Emily Jane desiderò con tutta se stessa che lo spettacolo dinanzi ai suoi occhi fosse solo l’ennesima delle sue deliranti allucinazioni.

Avrebbe chiuso gli occhi e, una volta riaperti, non ci sarebbe stato più suo padre stretto come un polipo a quella sgualdrina di casa Pendragon, non avrebbe più visto non voleva nemmeno sapere quale genere di liquidi sparsi per terra e sul tavolo e da mille altre parti in quella stanza o sul corpo della strega, non ci sarebbe nemmeno stata lei immobile sull’uscio del laboratorio in attesa che tutto ciò svanisse dalla sua vista, dalla sua mente, dai suoi ricordi.

Chiuse gli occhi, riaprendoli poco dopo: era ancora tutto lì.

«Vedo che hai ben riempito la calza della Befana» si limitò a commentare Madre Natura in modo meccanico, senza provare nulla del pronunciare quelle parole, nemmeno quel profondo senso di  schifo che la turbava dentro riusciva a raggiungerla.

Emily incrociò lo sguardo dell’Uomo Nero solo per un secondo, un dannatissimo secondo che bastò per farle capire una cosa che si ripromise di ricordare in eterno: che ora il suo mondo, il suo “Cwtch”, era fra le braccia di Gwenllian.

E lei, sua figlia, in quel mondo non era compresa.

Si avvicinò ai due amanti ancora impegnati a stringersi l’uno con l’altra, entrambi troppo occupati ad amarsi per essere particolarmente turbati dal suo arrivo. Emily Jane avrebbe voluto dirgli tante cose, a quell’uomo che per lei era ormai un completo estraneo, ma fu solo una frase quella che riuscì a proferire senza nemmeno sentire le labbra muoversi.

«… Non hai saputo proteggere mamma da viva, e non sai nemmeno preservare il suo ricordo da morta» disse rivolta a suo padre indicandogli con un cenno la strega, poi uscì e scomparve.

Pitch stava per risponderle, ma rinunciò in partenza preferendo lasciare sua figlia a sbollire nel proprio brodo: era stanco di rincorrerla in lungo e in largo per tentare di costruire qualcosa con lei, specie perché indietro non riceveva nemmeno uno straccio di gratitudine che fosse tale, al diavolo lei ed i suoi squallidi metodi per farlo sentire in colpa!

Intenzionato a lasciarsi alle spalle quell’entrata infelice da parte di sua figlia, Black riprese a dedicarsi a Gwen per regalarle l’ennesimo di tanti -ma mai troppi- orgasmi che l’avrebbero fatta crollare esattamente come tutti gli altri.

L’afferrò svelto per i fianchi e si scambiò con lei la propria posizione, bloccandola sotto di sé mentre le baciava la fronte e scendendo sul seno, prendendosi di rimando una marea di gridolini entusiasti; ormai pronto per affondarle dentro di nuovo, si rese però conto che ai piani bassi c’era un piccolo problemino.

Letteralmente piccolo.

Inizialmente cercò di non dare a vedere la sua espressione sconvolta nel vedere che l’erezione che aveva retto fino ad ora era bella che andata, ma Gwenllian ci mise ben poco a notarlo da sola sentendo chiaramente la mancanza di qualcosa che premeva sulla sua pelle morbida.

La strega sospirò, nascondendo alla bene e meglio la seccatura nei confronti della giovane Pitchiner che era venuta solo per rovinare la festa ad entrambi.

«Pitch, va bene lo stesso» lo rassicurò accarezzandogli il volto, l’ultima cosa che voleva era che si sentisse lui colpevole di qualcosa che -a conti fatti- era accaduto da solo quando si era fatto cenno alla sua defunta moglie e non prima.

Lui però non era intenzionato a darsi per vinto, tutt’altro.

«Dammi un attimo, ci riesco eh!»

«Pitch».

«Non ti mando in bianco, promesso!»

«… Pitch».

«Aspetta ancora-»

«Pitch­­!» tuonò afferrandogli una mano per bloccarlo dal suo masturbarsi come un forsennato.

Lui si fermò, sconsolato.

«Vado a preparare una tisana per entrambi, è meglio» gli sorrise lei dandogli dolcemente un bacio sulla fronte.

Gwenllian si sfilò da sotto di lui scivolando fra le coperte come burro, si infilò la prima camicia che trovò a portata di mano e si dileguò in cucina, lasciando lui sul divano a contemplare il proprio meat popsicle da stallone che gli giaceva ormai inerme e inutilizzabile in mezzo alle gambe.

Mille pensieri frullavano nella mente dell’Uomo Nero guardando quella scena pietosa, ma il fischio del bollitore li mise tutti a tacere: meglio prendersi una tisana, sì.

 

 

 

 

_______________________________________________________________

 
Angolino dell’autrice

Buon Natale a tutti! Lo so, lo so, il capitolo è più lungo del meat popsicle di Pitch :’D

I dovuti avvertimenti sul probabile rating rosso sfiorato con le scene sessuali qui l’ho fatto all’inizio e non mi dilungo oltre. Vorrei cercare di essere regolare e aggiornare almeno un capitolo ogni due settimane, e sperando in bene vedrò di impegnarmi per farlo :3

E quindi niente, ciò che dovevo dire l’ho detto, non mi resta che lasciarvi con delle immagini trovate su Internet di (partendo da sinistra) Morgana e Merlino sopra, e Circe e Blair sotto.

Alla prossima! :)

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Capitolo 12
*** A carte scoperte ***


cap12

«Lasciami spiegare, Ammë!»

«Lau, gweriadir!» la robusta coda nera e bluastra le si abbatté violenta sulla schiena, il rumore delle ossa rotte che echeggiava sordo. «La tua lingua ha già sibilato abbastanza menzogne per i miei gusti, yeldë, ogni tua ulteriore parola serve solo a confermare ciò di cui sei accusata: gweriad. Tradimento». Le gettò vicino un fiore sgualcito, una rosa secca che ben poco conservava dei propri petali multicolore «Manke nae lle? Dove lo hai preso?»

“Phantasia” avrebbe dovuto rispondere la naga dalle squame color smeraldo, ma tacque: non aveva il permesso di uscire da Quetzalli, nessuna Ophidians lo aveva.

E lo aveva fatto comunque.

Fin dal primo istante in cui il suo sinuoso corpo era strisciato fuori dai confini del luogo in cui era nata, Myricae era stata consapevole che né la sua Ammë né la sua Amìl -il nome con il quale la sua gente identificava le due madri di ogni Ophidian, rispettivamente quella che aveva dato il proprio seme e colei che invece aveva ospitato nel proprio ventre il frutto della loro unione- avrebbero approvato, ma il richiamo della curiosità era stato troppo forte: c’era così tanto da esplorare fuori dalle mura boschive di quel regno, c’era un intero mondo che aspettava solo lei per schiudersi dinanzi al suo sguardo emozionato!

Era sembrata una bambina, la prima volta in cui aveva osservato le bellezze fuori da casa sua, una bambina con gli occhi spalancati di chi scopre la freschezza dell’erba morbida anziché le fredde pietra che levigano le squame, i colori di un tramonto diverso da quelli visibili fra gli immensi vulcani che circondavano Quetzalli, anche solo il vedere un fiore prima sconosciuto l’aveva fatta squittire dalla gioia!

L’aveva colta, quella rosa dai vividi colori incredibilmente simili a quelli di un arcobaleno, per poi conservarla gelosamente nella sua stanza come un ricordo indelebile di quell’esperienza, un monito a promettersi “tornerò”.

Ma una delle sue madri, la sua Ammë, l’aveva trovata: le aveva affibbiato la definizione di gweriadir, “traditrice”, e aveva tutta l’intenzione di giustiziarla sulla pubblica piazza.

Precisamente come si stava accingendo a fare ora.

Si sentì sollevare per il collo, gli artigli che lo stringevano come se potessero spezzarlo da un momento all’altro. E potevano farlo eccome.

«Parla, yeldë!» le gridò, un’altra frustata le arrivò dritta alla nuca, il sangue che colava dalla sua chioma serpentina che si contorceva agonizzante. «Fallo prima che estorca la confessione direttamente dal tuo petto insieme al tuo cuore da gweriadir! Confessa, oppure-»

 

 

Myricae si svegliò di colpo.

Alzò di scatto la testa dal letto guardandosi intorno sospettosa, i muscoli che già fremevano e una mano sull’elsa della spada poggiata al muro: era stato solo un sogno, per fortuna.

O meglio, un brutto ricordo, ma lo scacciò subito dalla mente.

Erano già due giorni che vegliava la Regina di Phantasia in quel suo stato simil comatoso, si era ripromessa che non avrebbe chiuso occhio nemmeno un istante, ma -complici le medicazioni e gli intrugli per curare la sua ferita, oltre che la stanchezza dopo il feroce confronto con Phobos- alla fine la sonnolenza aveva avuto la meglio, e l’Ophidian si era lasciata dolcemente cullare dalle braccia di Morfeo.

Non aveva idea di quanto avesse dormito, forse qualche decina di minuti o qualche ora o addirittura un giorno intero, ma una certezza l’aveva eccome: mai si sarebbe perdonata se fosse accaduto qualcosa ad Harmonia mentre lei era impegnata a sonnecchiare. Mai.

Il suo nome le era risuonò nella mente: Harmonia.

Era stata talmente presa dal suo brusco risveglio dopo quell’incubo da non aver fatto caso al vuoto che aveva improvvisamente sentito sotto di sé, quando si era svegliata, rendendosi conto solo adesso che non c’erano più le gambe della compagna a sostenerle il suo corpo stanco e dormiente. Presa dal panico, si rizzò sulla coda già pronta ad affrontare il peggio, ma per sua fortuna Myricae venne presto rassicurata: gettando distrattamente lo sguardo verso la finestra, al limite del suo campo visivo apparve anche l’altra donna, seduta ai bordi del letto con quella sua cascata di capelli multicolore abbandonata sulle coperte disfate, la magia che fluiva lentamente davanti a sé in una nebbia rosata.

 

Avvicinandosi cauta alle sue spalle, Myricae iniziò a distinguere un mormorio incomprensibile provenire dalle sue labbra color pesca appena dischiuse, movimenti lenti che accompagnavano ritmicamente il suono appena accennato dello stesso carillon che -due giorni prima- lei stessa aveva azionato.

«“Hey there little Sunshine, how do you do?”» canticchiò piano la regina, quasi sussurrando.

Inizialmente l’altra pensò che stesse parlando con lei, del resto quella le era sembrata una domanda, ma vedendo come quell’impercettibile nebbiolina si stesse aggregando in vere e proprie forme decise di tacere e stare ad assistere.

Avrebbe potuto semplicemente avvicinarsi alla sua donna, abbracciarla e felicitarsi con lei perché finalmente si era ripresa, ma dentro di sé Myricae sentì qualcosa che gli diceva di dover osservare e nient’altro: non doveva avvicinarsi, non doveva toccarla, non doveva nemmeno consolarla, semplicemente il suo compito era limitarsi a guardare e ascoltare in silenzio.

E decise di seguire quell’istinto.

«“There’s a great kingdom, waiting for you”» continuò la sovrana alzando una mano.

La magia prese prima le sembianze di una sfera, poi i contorni che pian piano andarono delineandosi disegnando pianure e montagne e mari e quant’altro: quella palla somigliava ad un pianeta, adesso, un pianeta rigoglioso e fertile popolato da una miriade di punti luminosi.

«“as you lay your tiny head, dream of the world”».

Tre di quei puntini presero forma, tre figure dalle fattezze umane che emersero dalla nebbia ora dorata. Myricae si avvicinò per guardare meglio, notando come la parte inferiore dei loro corpi non fosse poi tanto umana, ma piuttosto equina come la sua regina; erano una coppia, forse marito e moglie, e tenevano un fagotto fra le mani, probabilmente il loro neonato.

«“they’re gonna love you”».

Altre figure -tante, troppe, per i suoi modesti gusti già sufficientemente confusi- presero forma, seppure in modo meno definito di quelle precedenti, ed erano tutte intorno a quella coppia, occupate ad osservare quel piccolo corno dorato che spuntava dalle coperte.

 «“their sun will return”».

Un flash bianco acceso riempì la stanza, costringendo l’Ophidian a coprirsi gli occhi con le mani per non rimanere accecata.

Quando li riaprì, le sembrò quasi di trovarsi da tutt’altra parte: era consapevole che fosse tutta opera della sovrana della fantasia, ma la sua magia riusciva a rendere il paesaggio intorno ad entrambe così realistico che -per qualche istante- la naga aveva creduto veramente che si fossero teletrasportate chissà dove.

Myricae trasalì.

Un pizzicore alla coda la fece girare, gelandole il sangue nelle vene come poche volte prima era accaduto in vita sua. Se prima quelli erano solo ammassi di nebbia, ora poteva chiaramente distinguere come i contorni delle stesse si fossero fatti incredibilmente nitidi e solidi, scolpendo decine e decine, forse centinaia, volti di uomini e donne, bambini e adulti, comuni persone insomma. Tranne che per un piccolo dettaglio: il corno sulla loro fronte.

“Starequus”, pensò la naga, sentendo lo stomaco farsi piccolo piccolo.

Allungò una mano per toccare una di quelle sagome umanoidi, passandole attraverso: illusioni, ologrammi, forse ricordi; qualsiasi cosa fossero, però, di una cosa la serpentessa era assolutamente certa: non erano reali. Non più, almeno.

 

«“Though the shadows may close in, you will stay strong”».

Appena la regina pronunciò quelle parole, nella stanza tutto si fece più cupo, persino il Sole fuori dalla finestra sembrò aver deciso di nascondersi fra le nubi di fretta e furia.

Non si trattava certo di una novità che Phantasia reagisse allo stato d’animo di Harmonia, del resto era sempre stata lei ad averla creata, ma un brivido scosse la naga appena alzò la testa; un’ombra scura incombeva sulle loro teste, un’enorme nube di pura oscurità che andava avvolgendo il paesaggio facendolo morire al solo tocco. Quei tentacoli neri parevano risucchiare l’energia vitale da qualsiasi cosa capitasse loro a tiro: dalle piante ora secche, dal suolo ora arido, dalle persone ora ridotte a scheletri pietrificati nella posizione in cui stavano scappando dall’Apocalisse.

Le sembrò di distinguere due figure che ancora si muovevano, in mezzo a quell’inferno, ma non ebbe il tempo di metterle a fuoco per bene.

«“your little spark of love will cast out the dark”».

Si era fatto tutto cupo, sì, ma solo per rischiararsi poco dopo.

Un’esplosione di luce divorò il macabro spettacolo che la magia di Harmonia stava offrendo alla naga, facendole tirare un profondo sospiro di sollievo, non tanto per sé quanto per l’altra che continuava a mantenere lo sguardo basso e sconsolato verso quell’aggeggio infernale.

Lanciò un’occhiata al carillon: quanto diavolo ci stava mettendo quella dannatissima melodia ad esaurirsi? Per quanto tempo sarebbe andato avanti a torturare la sua regina? Per quanto?!!

 

«“Know that you’re not alone, the moon’s at your side”».

La voce di quest’ultima si incrinò improvvisamente, come se le si stesse strozzando in gola.

In allarme, la naga le si avvicinò ancora un poco e le si sedette vicino, sempre senza sfiorarla: se proprio non poteva disturbarla in un momento tanto delicato, allora avrebbe fatto di tutto per farle sentire la propria presenza.

«Ti ho promesso che mai, mai, ti avrei lasciata da sola, e intendo mantenere quella promessa» le sussurrò piano, nel cuore solo la speranza che quelle parole non fossero andate al vento come tutto pareva stare facendo. Il peggio per la centauressa avrebbero dovuto essere quei due giorni di stato catatonico, accidenti, non la ripresa!

Myricae non riusciva ancora a distinguere per bene il paesaggio, c’era un vero e proprio polverone che le impediva di vedere oltre il proprio naso, motivo per cui iniziò a guardarsi distrattamente intorno girandosi e rigirandosi.

E prendendosi qualcosa di molto simile ad un infarto.

Due figure le facevano muro, una donna ed una bambina che si tenevano per mano; la prima guardava la seconda con fare materno, con quello sguardo da “va tutto bene” che solo una madre può riuscire ad esibire in tutta calma quando la situazione sembra ed è disperata pur di rassicurare il proprio figlio, o -in quel caso- la propria figlia.

La donna la stringeva a sé avvolgendola con una delle due imponenti ali che spuntavano sulla sua schiena, un luogo sicuro in cui la piccola si stava rifugiando nascondendovisi dentro, premendo il volto sconvolto sulle morbide piume che la stavano accogliendo mentre si aggrappava agli abiti di quella che doveva essere sua madre. Quest’ultima pareva molto tranquilla rispetto alla figlia, ma si vedeva da come non staccava gli occhi rosa pastello da lei che fosse tremendamente preoccupata, come temesse per la vita di entrambe.

La strinse a sé mettendole una mano sulla testa e prendendo ad accarezzarla, e fu allora che Myricae riuscì finalmente a vedere quella bambina.

Il suo cuore perse un paio di battiti: nessuno che non fosse uno Starequus poteva avere un corno magico in mezzo alla propria fronte, e quei capelli verde acqua che sfumavano prima in azzurro poi viola e infine rosa non li aveva certo chiunque. Anzi, non li aveva proprio nessuno.

Tranne che Harmonia.

«“together you’ll cleanse the world… you’ll always be my pride”».

La regina si fermò improvvisamente, il petto che le si alzava e si abbassava velocemente e la bocca improvvisamente fattasi secca e al contempo appiccicosa.

Forse la sovrana di Phantasia non parlava, ma dentro di sé sentì un brivido che le fece capire che non sarebbe mai riuscita ad arrivare al termine di quella canzone che le riempiva le orecchie, la mente, l’anima, che la stava trascinando in quell’agonia senza che potesse impedire a se stessa di dare corda a tanto, troppo, dolore.

Quelle parole, quel “sarai sempre il mio orgoglio” le martellavano nella testa prepotenti, violente, incessanti, esattamente come faceva il ricordo di chi le pronunciò a suo tempo.

Ed Harmonia era sola ad affrontare quella battaglia contro i propri ricordi, adesso che non riusciva a reagire nemmeno alla presenza della donna che amva: era da sola non contro il mondo, non contro la galassia, nemmeno contro l’universo. Era sola contro se stessa, se stessa e la mole immensa di rimpianti e rimorsi che si trascinava dietro da millenni.

Il che era pure peggio del combattere l’universo intero, a dirla tutta.

 

«“I may not always be here to guide your way”…».

Passarono minuti che parvero eterni prima che Harmonia stessa che tornasse a canticchiare qualcosa, e la magia -purtroppo- si premurò di seguire quell’impronta triste che aveva assunto la sua voce.

Per l’ennesima volta, quel paesaggio disastrato si ripresentò a Myricae, facendole lo stesso macabro effetto di quando lo aveva visto poco prima; questa volta, però, non c’erano le miriadi di persone ormai decedute e pietrificate come in precedenza e nemmeno le figure di prima, si era tutto semplicemente ridotto ad una landa grigiastra desolata senza più nemmeno una roccia ad abitarla.

Non c’era niente e nessuno, tranne che dei bozzi indistinti, forse qualcuno chinato.

Strinse gli occhi per aguzzare la vista: di nuovo, scorse una donna con due immense ali coperte di cenere e polvere -il che rendeva impossibile distinguerne il colore preciso, motivo per cui non ebbe la certezza che fosse la stessa di prima- percorse da ferite profonde, così profonde da farle grottescamente sanguinare in una pozza che le inzuppava tanto gli abiti stracciati quanto le soffici piume; sulla sommità delle ali stesse, delle pesanti catene spezzate squarciavano la carne esposta e carbonizzata.

Non senza poca fatica, l’Ophidian ricacciò indietro un conato di vomito, dall’intensità con la quale l’odore di grasso bruciato le riempì le narici.

«… “but I know you’ll be fine”…».

Harmonia invece non pareva disturbata per nulla da quella scena.

E, se lo era, non lo dava affatto a vedere.

La voce le si fece sempre più tremolante, al punto che in certi momenti pareva non fosse nemmeno più in grado di respirare, ma fintanto che il carillon suonava non sarebbe stata certo lei a cedere per prima schiacciate dalle emozioni.

Ma stava cedendo, glielo si leggeva in faccia, glielo si vedeva fin troppo bene in quei suoi occhi rosa e azzurro ora ridotti a due fessure bagnate da delle lacrime che non voleva, non poteva, versare; era la regina, la sovrana di Phantasia, la madre di un intero popolo che contava su di lei per non cadere nuovamente nell’oscurità che aveva avvolto quel pianeta sette secoli or sono, l’ultima volta, ma che aveva conosciuto il Male da prima, molto prima.

Non aveva mai potuto farsi vedere debole, non poteva permetterselo: una regnante non si deve far vedere debole, è una regola non scritta che chiunque segga su di un trono conosce fin troppo bene, una legge che aveva sentito pesarle sulle spalle fin dal primo istante in cui la corona di Exodus si era posata sul suo capo, migliaia e migliaia di anni fa.

Tuttavia, una sensazione di calore la raggiunse.

Non abbassò lo sguardo, sempre fisso sul carillon, ma non ne aveva bisogno per capire da cosa -o meglio, chi- provenisse.

Convenendo che potessero bellamente andare a farsi fottere i “però”, i “ma” e pure gli “e se”, Myricae le prese una mano, stringendola dolcemente.

«Ti sei trovata una fidanzata tremendamente testarda, dovresti ormai saperlo» le sorrise ridendo la naga, accarezzandole piano il dorso della mano.

“E non potrei né vorrei desiderare nessuno diverso da te”, avrebbe voluto risponderle Harmonia.

«… “ruling the day”».

Ma le parole che le uscirono dalla bocca furono ben altre, purtroppo per lei.

E facevano un male tremendo.

 

«“Dance among the clouds, my dear… bring in the light”».

Come anche faceva un male tremendo all’Ophidian dover assistere a quella scena a dir poco raccapricciante, dover vedere lo strazio di una madre che piangeva sul corpo esanime della propria e unica figlia, dover rivivere e rivedere e riprovare quelli che erano stati gli ultimi minuti di coscienza della Regina della Fantasia prima che diventasse… la Regina della Fantasia, appunto, prima che Harmonia diventasse tutto ciò che era ora e anche di più.

Era stata la principessa degli Starequus del pianeta Exodus, Harmonia, lì era nata e lì era morta, e sempre lì aveva ricostruito il regno che il “Male piovuto dal cielo” -lo “kælikantzoroi th’asteria”, come lo chiamò ai tempi la sua gente- aveva raso al suolo, lasciandole come unica eredità dei suoi defunti genitori solo una landa nera senza vita.

Lei la luce l’aveva riportata, in quel luogo di sterilità e speranze infrante, aveva mantenuto la silenziosa promessa fatta a sua madre quando quest’ultima, cantando, aveva chiesto al suo corpo martoriato di esaudire quel suo desiderio, il suo ultimo desiderio.

E la centauressa l’aveva esaudito, lo aveva fatto per davvero.

Ma sua madre non c’era stata per vederlo, non c’era stato nessuno: quel giorno gli Starequus si erano estinti, e mai più avevano posato i loro zoccoli sul suolo di Exodus.

«“be good for me… my dear… as my soul alights”»

Tranne lei, l’ultima della sua razza.

“Sindrome del sopravissuto”, la chiamavano, e Harmonia aveva fatto l’abitudine pure a quella: lei era viva e gli altri erano tutti morti, lei era stata scelta ed il resto della sua gente no, lei era nell’aldiqua e qualsiasi altro Starequus era nell’aldilà. Semplice e chiaro, rapido e indolore.

In teoria.

In pratica, invece, una giovanissima Regina di Phantasia aveva passato anni, decenni, forse secoli, a chiedersi perché lei sì e gli altri no. Ai tempi sapeva già bene di non aver certo chiesto lei una seconda possibilità, era perfettamente consapevole di non essere stata la responsabile dell’estinzione dei suoi simili, era addirittura cosciente del fatto che -com’era capitato a lei- tutto ciò avrebbe potuto capitare a qualsiasi altra persona.

Ma si era sentita in colpa comunque, Harmonia, esattamente come stava succedendo con Phobos adesso: non era stata colpa sua, non avrebbe potuto fare nulla di più per salvarlo da Apophis, se lei fosse intervenuta ci sarebbe stato solo un morto in più, lo sapeva benissimo … ma non riusciva a perdonarselo comunque.

Non aveva potuto salutare lui, come non aveva potuto salutare suo padre e sua madre; la sua vita era quello, un rincorrersi di sensi di colpa per saluti mancati, ecco cosa.

Quella consapevolezza che le si agitava nella mente fu l’ultimo passo, prima che la regina crollasse in un pianto tanto doloroso quanto silenzioso: aveva un disperato bisogno di farlo, non poteva trattenerlo ancora, non voleva farlo.

«“Little Sunshine… little Sunshine… let your radiance show…» le parole faticarono a uscirle dalla bocca, fra un singhiozzo e l’altro, fra una lacrima che le bruciava il volto come un tizzone di carbone ardente e l’altra «… little Sunshine… little Sunshine…» ma Harmonia continuò a cantare, nonostante sentisse il proprio cuore spaccarsi, ridursi in cocci e frammenti e polvere, nonostante la sua voce si riducesse sempre più ad un sussurro reso roco dalla gola che le bruciava per quel pianto trattenuto troppo a lungo «… let your kind heart-»

«Glow», concluse Myricae, chiudendo il coperchio del carillon; delicatamente, glielo sfilò dalle mani e lo poggiò su di un mobile lì vicino.

“E speriamo di non averne bisogno ancora per molto tempo”, pensò nel mentre.

 

L’altra non si era mossa di un millimetro, però, pareva quasi che nemmeno se ne fosse accorta a giudicare dallo sguardo sempre fisso dove prima c’era il prezioso oggetto, continuava persino a tenere le mani come se lo stesse ancora stringendo fra le dita.

Harmonia si guardò i palmi rivolgendoli verso sé, dopo interminabili minuti di silenzio assoluto, gli occhi che li osservavano come a perdervisi dentro.

«Ci sono volte in cui ripenso al mio passato e mi pare di sbagliare qualcosa, di dimenticare un dettaglio o due, di non riuscire a ricordare chiaramente come vorrei e dovrei delle persone o delle cose o degli eventi particolari…» mormorò spostando lo sguardo da una mano all’altra.

«Forse è solo una mia impressione, forse è solo colpa dello stress, o forse è perché ho seimila anni e sono tremendamente vecchia… però a pensarci bene sei millenni di vita non sono niente per un immortale, sono solo una pagina in un libro nel quale non troverai mai scritta la parola “fine”, quindi mi sa che l’ultima opzione va scartata» rise lei, una risata che però di divertente non aveva proprio nulla.

Strinse i pugni.

«Ho paura» confessò infine, un misto di tristezza e vergogna colorò le sue guance di un timido alone rosato «ho paura di dimenticare il volto di mia madre, e di mio padre, e delle persone alle quali volevo più bene; ho paura di dimenticarmi la sua voce mentre mi cantava quella canzone, tanto da viva quanto da morta; ho tanta paura di svegliarmi pensando a lei e- e-»

Esausta, Harmonia si gettò fra le braccia della compagna, affondando la testa nel suo petto come a cercare un rifugio sicuro.

«E di non ricordarmela, Myricae. Sono terrorizzata all’idea di dimenticare tutto, tutto, di scordarmi chi ero prima di... di… di questo, prima del diventare l’ultima Starequus vivente…». Alzando leggermente il capo si indicò la fronte; fra i capelli ora spuntava il corno tipico della sua razza, un lungo corno decisamente più curvo e attorcigliato su se stesso di quanto lo fossero solitamente quelli degli Starequus più vecchi. Riprese fiato «Per cui ecco, ogni volta che mi pare di perdere colpi in qualche modo eccomi qui, a temere di non ricordare più nulla da un momento all’altro, ad avere il terrore che mi accada ciò che è accaduto a-»

L’Ophidian le pose un dito sulle labbra, impedendole di finire la frase.

«Non ti accadrà mai ciò che è accaduto a Phobos, mela en’ coiamin, non lo permetterò mai, mai» la rassicurò mettendole le mani sulle spalle, facendogliele poi scivolare fino alle guance «ciò che è successo a lui è dovuto solo e soltanto ad Apophis, non è certo un’amnesia dettata da cause naturali, né tantomeno è stata colpa tua: non potevi fare altro, Harmonia, e -considerando il tremendo prezzo che hai pagato e continui a pagare- ciò che hai fatto è stato già troppo. Per cui» le asciugò le lacrime, attenta a non farle male mentre le spesse e affilate squame sfioravano quella sua pelle morbida «basta pianti, almeno per oggi. Promesso?»

 L’altra la guardò qualche momento, esitante.

«Promesso» rispose infine accoccolandosi a Myricae «… e scusami, scusami tanto».

«Scusarti? E di cosa?»

Harmonia parve in difficoltà, le mani che iniziarono a sudarle freddo.

«Di… di… di averti fatto vedere quelle… cose. Cose brutte, terribili, che credevo di aver superato tanto tempo fa, che dovevo aver superato tanto tempo fa, e invece…» si interruppe qualche istante, quelli che le bastarono per ingoiare l’ennesimo sospiro angosciato. «Non volevo, Myricae, te lo giuro! È solo che… che… non so neanche io perché l’ho fatto, a dirla tutta, non credo nemmeno di essere stata completamente cosciente, nel mentre. Sentivo tutto, vedevo tutto, rivivevo tutto, ma una parte di me era come-»

«Bloccata laggiù, anziché quaggiù» completò la frase la naga.

Lei la guardò sorpresa.

«Precisamente quello. Ma tu come- oh, che domande faccio: hai visto tutto, ovvio che tu lo sappia» la regina si diede un colpetto sulla testa «… mi dispiace, comunque: ti avevo già parlato di cosa successe alla mia gente, non era niente di nuovo per te, ma fra il sentirlo dire ed il viverlo c’è una bella differenza. Una grossa differenza. Un’immane differenza…» prese forza, sospirando nuovamente «ti giuro che non avrei mai voluto che tu-»

Myricae le diede un bacio, intuendo bene che le proprie labbra fossero in grado di esprimersi ad Harmonia meglio di quanto potesse fare lei a voce.

«Va tutto bene, e vai benissimo anche tu» la rassicurò staccandosi piano da lei, assaporando fino in fondo il dolce profumo fruttato della sua pelle. «Ti ho vista ridotta peggio di così svariate volte, eppure ti amo ancora, e ti amerò sempre, a’maelamin. Sempre, non dubitarne mai» poggiò la propria fronte a quella della sua donna «siamo uscite dall’inferno una volta, se sarà necessario lo faremo di nuovo. E lo faremo insieme, come sempre».

«Come sempre» ripeté la regina, dandole un piccolo bacio sulla fronte mentre accennava un timido sorriso.

E questa volta era un sorriso vero, la naga riuscì a distinguerlo senza problemi, un sorriso che -dopo tante lacrime e dolore- stava regalando proprio a lei, a lei e nessun’altra, un silenzioso “grazie” che valeva tutti gli sforzi fatti fino a quel momento, e che sarebbe valsi tutti quelli futuri.

La guardò qualche istante, per assicurarsi di nuovo che si stesse riprendendo veramente e che non fosse solo un’apparente ripresa temporanea.

«Va un po’ meglio, adesso?» le chiese.

Quando la sua compagna annuì, lei tirò un sospiro di sollievo.

«Bene così, allora, non avrei sopportato un giorno di più a saperti incosciente stesa su questo letto senza poter fare nulla per aiutarti, non ero nemmeno sicura che mi sentissi o che…» fece una pausa, deglutendo «… o che ti saresti mai svegliata. Ecco».

Sentendo quelle parole, Harmonia strabuzzò gli occhi dalla sorpresa: per quanto tempo era rimasta in stato comatoso, se Myricae -che era solita non farsi piegare nemmeno dalle situazioni più disparate e disperate- aveva avuto così tanta paura di perderla? L’ultima volta in cui l’aveva vista ridotta in quelle condizioni, in cui le aveva sentito dire di aver temuto che non si svegliasse più, era stato quando… no, no, meglio non riportare a galla quei ricordi: “ciò che accade sull’orlo dell’Abisso deve solo caderci dentro e non tornare mai più in superficie”, si erano dette di comune accordo quel giorno, e quella spiacevole vicenda era fra le cose che nell’Abisso erano state gettate e che lì dovevano rimanere.

Un po’ come Phobos, insomma.

«Due giorni» anticipò la sua domanda l’Ophidian, intuendo già su cosa si stesse interrogando la sua regina «due giorni o qualcosina in meno, forse: sono sempre stata a vegliarti, puoi chiederlo anche a Naevia e Antares e Alice, ma purtroppo mi sono addormentata per non so quanto e-»

«E ti ringrazio per essermi stata vicino» le sussurrò dolcemente, abbracciandola «ti amo, ti amo più di quanto il cielo ami le proprie stelle e di quanto gli alberi amino le proprie foglie: ti amo molto più di così, ricordatelo sempre, e ricordati che senza di te probabilmente sarebbe durata ben più di due giorni…» “come abbiamo già sperimentato”, pensò, ma decise di tenerselo per sé così da non rovinare quel loro intimo momento «per cui… grazie, grazie» concluse riempiendo il collo della naga di baci, i serpenti sul suo capo che sibilavano entusiasti facendo vibrare le loro piccole lingue come cani che fanno la festa al proprio padrone.

“Due giorni… due giorni solo per averlo rivisto… cosa accadrà quando dovrò combatterlo? Come farò a controllarmi? Come?”, si domandò mentalmente la centauressa.

Il sussulto delle braccia forti dell’Ophidian che se la mettevano in braccio interruppe quel suo pensiero sul nascere, evitandole seghe mentali talmente profonde che probabilmente per uscirne le sarebbe servita una settimana intera, altro che un paio di giornate!

No, ora non era il momento di pensare al futuro: troppe volte lo aveva fatto, salvo rendersi conto subito dopo che fare progetti era totalmente inutile -specie quando l’oggetto di tali progetti è un disgraziato psicolabile con cenni di schizofrenia e misteriose voci nella testa-, se non addirittura dannoso a lungo termine.

Avrebbe atteso, ecco cos’avrebbe fatto: lo scontro con Phobos sarebbe arrivato comunque, prima o poi, era solo questione di pazientare e sperare per il meglio.

Guardò Myricae: era la sua roccia, la sua compagna, il suo porto sicuro, il faro che si era fatto breccia nelle tenebre di quei venticinque dannati anni passati a piangere un uomo che non era più il suo uomo, lanciandole un salvagente che aveva pazientemente trainato fino a riva attraversando un oceano di lacrime pieno di ansie e paure e sensi di colpa, facendole scoprire da un momento all’altro che l’amore lo poteva trovare tanto in una donna che le era sempre stata vicino quando in un uomo che, ormai, non era che l’ombra di se stesso.

Harmonia amava Myricae, non più Phobos, e se avesse avuto qualche altro attimo di cedimento, se avesse dubitato di nuovo di non essere in grado di guardarlo in faccia e affrontarlo, allora avrebbe pensato di dovercela fare non per lei, nemmeno per la naga, ma per loro, per la loro relazione che mai, mai, avrebbe permesso venisse danneggiata da un fantasma.

Mai.

 

 

«Come lo hai trovato?»

«“Ubriaco da fare schifo”, la definizione esatta è questa» rispose l’Ophidian, sorseggiando calma dalla propria tazza.

Era decisamente più rilassate e tranquille entrambe, ora, e l’idea di Harmonia di far comparire una teiera di tè al gelsomino per staccare un po’ coronava perfettamente quel loro quadretto di pace dopo la tempesta.

«Ubriaco, dici?» commentò sorpresa.

«Beh, hai visto anche tu l’entrata trionfale che ha fatto quel disgraziato. Nemmeno gli adolescenti alle feste delle confraternite puzzano tanto di pessimi alcolici, patatine scadute e sbornie tristi» ridacchiò la naga, dandosi un paio di colpi al petto quando il liquido le andò di traverso. «Dì, piccola, davvero in seimila anni hai visto qualcosa di peggio di un ubriaco che sfonda il soffitto, si ferisce con i vetri del suddetto soffitto appena sfondato, barcolla a falce spiegata balbettando e sbiascicando minacce incomprensibili e infine, nemmeno viene riconosciuto?»

Harmonia ci pensò qualche istante, poi esplose in una fragorosa risata.

«Direi di no, assolutamente» convenne, facendosi pensierosa «… per quanto c’è da dire che -ubriaco o meno- è riuscito comunque a mettermi in ginocchio, e non certo per una decina di minuti». Posò la tazza, osservando i cerchi concentrici come ipnotizzata «sapevo di dovermi aspettare che prima o poi Phobos venisse a farmi visita di persona, una volta evaso dall’Abisso, ma non immaginavo che avrei reagito in quel modo: sono sorpresa, e purtroppo non lo sono piacevolmente, Myricae».

L’Ophidian mise la propria mano sulla sua, accarezzandogliela.

«Mela en’ coiamin, stai a sentire una naga ermafrodita ninfomane: hai rivisto dopo sette secoli un uomo che ti ha tormentato con il proprio fantasma per altrettanto tempo, sei davvero così tanto sorpresa da te stessa e dalla tua reazione?»

«… No, no, non tanto quanto dovrei… e, a dirla tutta, forse ho peccato io d’ingenuità: un conto è saperlo in giro per Phantasia, un altro trovarselo davanti» asserì decisa alzando la testa, incontrando lo sguardo della compagna «anche se ammetto che mi sfugge come siamo passati dall’una all’altra cosa così velocemente, per non parlare di come sia uscito dall’Abisso: ricordi le magie che lo sigillavano?»

Myricae annuì.

«Mi ci volle una mole immane di potere per creare e sigillare quella ferita sulla pelle di questo pianeta -del mio pianeta- e rinchiuderci dentro Phobos, nonostante lo abbia fatto a malincuore» disse posando la mano libera sopra la teiera aperta.

«Attinsi ad incantesimi e conoscenze antichi quanto la mia razza per assicurarmi che l’Abisso fosse a prova di evasione, persino per creature del calibro di quel bastardo dell’Uomo nella Luna sarebbe stato ben difficile uscirne» improvvisamente, il tè si agglomerò a formare una sfera perfetta. Il suo corno si illuminò di un bagliore argenteo, e allora un profondo e lungo solco rosso brillante apparve sulla superficie.

«Apposi addirittura il sigillo della Tha’nera Yuvenciæl , la Dea Senza Sudditi di Exodus» una polvere dorata riempì quello squarcio, sanando pian piano quelle venature che stavano spargendosi all’interno della sfera semi trasparente «per rendere inefficace qualsiasi altro sortilegio o maledizione che potesse compromettere l’efficacia di un lavoro tanto minuzioso!»

Sbatté un pugno sul tavolo, facendo collassare quel globo di tè al gelsomino nuovamente all’interno della sua teiera, senza il minimo schizzo fra le altre cose.

«Ho fatto tutto questo e anche di più, eppure-»

«Eppure Naevia ha notato come l’Abisso sia stato aperto in concomitanza con una curiosa eclissi lunare totale» la interruppe la naga.

Harmonia trasalì, incredula «Cosa?»

L’altra le sorrise.

«Quella gatta frigida mi ha riferito giusto mentre ero qui a vegliarti di ciò che ti ho appena detto, non prima. Nel giorno in cui abbiamo supposto sia stato aperto l’Abisso, lo stesso in cui anche tu hai sentito che qualcosa non andava, ha osservato uno strano e brillante alone color magenta intorno alla Luna; ha consultato le proprie tabelle e mappe astronomiche, ma non risultava nessuna eclissi prevista per allora» spiegò bevendo un altro sorso.

«È durata pochissimi istanti, così ha detto, ma è comunque riuscita a raccogliere dati sufficienti per affermare che, in quel preciso istante, c’è stato come un trasferimento di un grosso quantitativo di energia da lassù» con la coda indicò il soffitto, «a quaggiù» poi il pavimento, che picchiettò piano.

«Ha idea di cosa si trattasse, almeno?» domandò fremendo la regina, in un misto fra preoccupazione e curiosità.

«Non precisamente» rispose facendo spallucce la naga «ma dopo aver visto Phobos in azione ne abbiamo parlato e beh, ho motivo di pensare che fosse un qualche tipo di magia estremamente potente che ora è nelle sue mani: non ha mai avuto poteri degni di nota, lui, quindi si tratta certamente di una forza esterna liberata durante quell’eclissi lunare. E immagino che ti farà piacere sapere che è stata liberata da niente poco di meno che dall’altofuoco cremisi di Comet E. Halley, tanto per aggiungere disagio al disagio».

 

Harmonia parve sorpresa a quella notizia: non era stata solo un’impressione che fosse accaduto qualcosa di grosso sul suo pianeta, allora.

Come aveva avuto anche ragione a pensare che Comet non si fosse presentata a casa sua solo per dirle che si scopava Phobos, tempo prima. Immaginava che fra quei due ci fosse sotto ben di più di un’intesa sessuale, ma dubitava fortemente che fossero in combutta fino a quel punto, fino ad appoggiarlo nell’evasione dall’Abisso appositamente per metterla in ginocchio e prendersi la sua fetta di qualsiasi cosa quell’uomo le avesse promesso in cambio del suo aiuto.

A conti fatti, probabilmente lo aveva fatto per lo stesso motivo per cui faceva qualsiasi altra cosa: puro divertimento.

O almeno sperava che fosse così, perché -per quanto sapesse bene di poterla fronteggiare- l’ultima cosa di cui aveva bisogno era un altro problema di cui occuparsi.

 

«Vuoi che ti porti la testa di Halley?» le chieste Myricae, interrompendo il suo dolce naufragare nelle mille ipotesi che le frullavano nella testa.

«Preferisco dei biscotti, ad essere sincera» rise la regina, facendone immediatamente comparire un vassoio «anche perché trovare Comet è come cercare un ago in un pagliaio. E quel pagliaio è grande quanto l’Universo».

«Se si ha una calamita dovrebbe essere piuttosto semplice, trovare quell’ago» contestò l’Ophidian, borbottando a bocca piena.

«Se non fosse che quella calamita ne troverebbe un’altra perfettamente identica e finirebbe per essere respinta, spingendo al contempo l’ago sempre più verso mete sconosciute». Prese un biscotto e se lo mise in bocca, masticandolo pensierosa «No, Myricae, Halley non è il pericolo, ne sono piuttosto sicura. Quella specie di eclissi è certamente stata creata da lei, ma non credo che sia tanto la causa della liberazione di quell’energia quanto un… diversivo. Non dimentichiamoci che lassù c’è Manny, e si sa come sono i suoi rapporti con quella scheggia impazzita di Comet E. Halley».

Harmonia si lasciò scappare una risata nemmeno tanto contenuta ripensando ai suddetti rapporti, conscia com’era che quella donna fosse stata creata -sotto sotto e molto indirettamente- solo per “merito” suo, sette secoli fa.

«Se c’è una cosa che so su Halley, è che difficilmente farebbe qualcosa per fare un favore a qualcun altro: se ne sbatte altamente di chiunque, Phobos compreso, per cui non penso proprio che avesse un qualche interesse nel dargli una mano, lei è più da “morto un papa se ne fa un altro”, ecco».

«Perché dovrebbe averlo fatto, allora?»­ la interrogò l’Ophidian, confusa e con un biscotto che le pendeva dalle labbra.

«Divertimento».

«Divertimento?»

«Quello, sì. Basta solo guardare come si sia scomodata per dirmi di persona che si scopava Phobos solo per gustarsi la mia faccia, la situazione non è molto diversa» la mise sul ridere, non scordando quanto però la cosa le avesse bruciato sul momento. «Ma non mi preoccupa lei, mi preoccupa piuttosto ciò che ha contribuito a liberare: sulla Luna vivono solo due persone, tre se consideriamo anche Nightlight, e fra uno e l’altro non so chi possa volermi più morta».

A quell’affermazione, la naga posò il biscotto che stava mangiando facendosi cupa in volto.

«Tutto bene?» le domandò la compagna, notando quell’improvviso cambio di atteggiamento da parte della serpentessa.

 

Myricae si morsicò il labbro: doveva seriamente dirle l’ultima cosa che Naevia aveva notato durante l’osservazione di quell’eclissi, o forse poteva evitare e andare oltre? Harmonia aveva davvero così tanto bisogno di una risposta a quella domanda, o avrebbe potuto farne a meno? Era già abbastanza stressata e preoccupata di suo per Phobos, valeva la pena farla preoccupare anche per le minacce che arrivavano dal cielo, oltre a quelle presenti nella sua stessa patria?

Forse avrebbe potuto omettere quel piccolo dettaglio, evitarle altri timori che avrebbero finito solo per non farle chiudere occhio la notte nemmeno nelle ore che seguivano i momenti in cui facevano l’amore.

E considerando che già quel tempo era poco, non voleva certo essere lei a privarla del sonno.

Per cosa, poi? Per una supposizione come tutte quelle nate quel giorno, senza fondamento alcuno se non qualche ipotesi? Per una presunta illuminazione basata su osservazioni imprecise, per qualcosa che Naevia aveva visto ma della quale non era assolutamente certa, per un dubbio?

No, non ne valeva la pena, non poteva valerla: Harmonia si era appena ripresa, non poteva darle un altro dispiacere, magari rischiando pure che cadesse nuovamente in quello stato comatoso dal quale si era appena risvegliata.

… Ma cosa cazzo ci stava pensando sopra a fare? Si era rincoglionita? Certo che avrebbe dovuto dirglielo, e subito!

Non poteva, non voleva, mentirle o nasconderle qualcosa.

Tralasciando che sarebbe stata scoperta immediatamente, la sola idea di dire una bugia proprio ad Harmonia, alla sua compagna di vita, alla Regina di Phantasia, le mise in subbuglio lo stomaco: aveva già sentito pronunciare troppe bugie da quando era venuta al mondo, non sarebbe stata lei a dirle l’ennesima.

E se proprio le cose fossero precipitate, allora sarebbe stata al suo fianco. Come sempre.

 

Assopita com’era nei suoi pensieri, Myricae nemmeno si era accorta della partner che si era alzata e si era avvicinata a lei, sedendole in grembo.

«Ti va di dirmi cos’hai non va, mājhē prēma?» le domandò di nuovo, prendendole il volto fra le mani accarezzandolo piano. «Sai che puoi parlarmi di tutto, sì? Sono qui ad ascoltarti, di qualsiasi cosa si tratta io ci sono, lo sai» le sorrise poggiandosi fronte a fronte.

«… Harmonia, io non so se-»

L’altra mise l’indice sulle labbra, anticipandola.

«Qualsiasi cosa, Myricae. Qualsiasi» la rassicurò di nuovo. «Ma dimmelo, te ne prego, dimmela e basta, perché vederti così mi spezza il cuore: cosa c’è di così terribile da dovermelo nascondere a tutti i costi? Hai litigato con Naevia e siete finite a letto insieme, forse?» domandò ridendo. Fingendosi arrabbiata, le toccò la punta del naso «Avreste potuto invitarmi, siete state scortesi! Almeno-­»

«La barriera eretta sulla metà oscura della Luna settecento anni fa si è assottigliata, e le Costellazioni se ne sbattono il cazzo» sputò tutto fuori d’un fiato, la coscienza improvvisamente più leggera.

E Harmonia improvvisamente più silenziosa.

Inizialmente l’Ophidian si spaventò non poco a vederla così taciturna e paralizzata similmente a com’era stata nei due giorni precedenti, ma poco a poco la regina tornò a dare segni di vita stringendosi nelle spalle.

«Naevia ne è assolutamente certa?», domandò infine.

L’altra scosse la testa.

«No, non lo è» disse con un tono tale da farla sembrare una sottospecie di rassicurazione «c’è una buona probabilità che sia così, è vero, ma non ci sono crepe o punti deboli in una particolare zona della barriera, sembra semplicemente essersi assottigliata nella sua interezza senza riportare un calo delle prestazione magiche che offre».

La regina parve tranquillizzarsi a quelle parole, ma non poteva certo restare indifferente di fronte ad una notizia del genere: forse non significava che Apophis se la sarebbe fuggita dall’oggi al domani, ma non significava nemmeno che potessero abbassare la guardia.

Harmonia la guardò confusa.

«Se non si è indebolita, allora da cosa è stato provocato quell’assottigliamento?»

«Naevia mi ha detto che è come se la barriera avesse perso massa per un qualche motivo, come se la differenza fra lo spessore originario e quello attuale -minima, ma c’è- si sia convertita in un qualche tipo di energia o potere o qualsiasi cosa sia, riversandosi qui a Phantasia».

Restò a pensare qualche istante «… Anche se ci sono svariate persone che sorvegliano il lato oscuro della Luna dove si trova esiliata la pecora nera di casa Lunanoff, a dirla tutta: francamente, mi risulta difficile pensare che nessuno oltre a noi ci abbia fatto caso».

«Certo, a meno che chiunque altro abbia visto ciò che abbiamo visto noi abbia poi preferito non vedere, in quel caso sarebbe tutto un altro paio di maniche» precisò però la centauressa.

«Precisamente ciò che ho pensato io» convenne Myricae, seccata «i nobili delle Costellazioni non sono famosi per mobilitarsi in anticipo in caso di pericolo. Ne è stata la dimostrazione la guerra di sette secoli fa: Manny non ha fatto niente che non fosse nascondersi tutto il tempo dal suo caro fratello maggiore che voleva tagliargli la testa; Mother Galaxy non è uscita dalla sua gabbia dorata ai Pilastri della Creazione finché non si è letteralmente trovata Apophis in casa; persino quei macellai cosmici dei Chandrasekhar hanno deciso di non spargere sangue fino a quando non hanno visto i big money sul tavolo delle trattative, insieme a qualche stella da prosciugare e svariati pianeti da razziare e stuprare fino al midollo».

«E lo hanno ottenuto, sottolineo, tutti loro hanno ottenuto ciò che volevano. E noi l’abbiamo presa nel didietro più profondamente di quanto me la metta tu a me, con la differenza che in quest'ultimo caso lo ritengo alquanto piacevole» concluse ridendo Harmonia, sdrammatizzando la situazione.

Myricae le diede un bacio sul collo, salendo pian piano fino all’orecchio, che morsicò leggermente ridacchiando.

«Sei una posizione decisamente pericolosa per dire certe cose, a’maelamin» le sussurrò maliziosa, indicandole come le si fosse avvinghiata alla vita stringendole le gambe intorno ai fianchi e le braccia dietro al collo «stavamo per caso discutendo di Apophis, o di come invece tu voglia recuperare due giorni di astinenza, eh?»

«Una cosa non esclude l’altra, a mio avviso» rispose tranquilla Harmonia, le mani che si muovevano sulla schiena della partner seguendo gli intricati disegni delle squame color smeraldo fino a scendere giù, sempre più giù, fermandosi sulle sue natiche.

«Ed io non potrei essere più d’accordo con ciò che dici».

L’Ophidian infilò gli artigli sotto le vesti dell’amata fino ad incontrare la sua pelle nuda e morbida e completamente inerme, che prese abilmente ad esplorare in lungo e in largo mentre continuava a baciarla ed a dedicarle le mille attenzioni che nei giorni prima erano mancate; a dirla tutta, una scopata dopo i due giorni passati non l’aveva proprio prevista, era più che convinta che la sua mela en’ coiamin avrebbe preferito riposarsi e niente di più, e invece!

Quella donna l’avrebbe sorpresa ogni giorno di più, e l’adorava anche per questo suo piccolo, particolarissimo, dettaglio.

Quando Myricae le strinse i seni fra le mani, Harmonia si morsicò il labbro per trattenere un gemito che si trasformò in un mormorio indistinto, soffocato spingendo la testa nell’incavo fra il collo e la spalla dell’altra donna; sentì un’improvvisa sensazione di freddo attanagliarla dall’inguine a tutto il corpo, un brivido che era andato dilaniandole le membra dal piacere quando le squame fredde e affilate della coda della serpentessa si insinuarono fra le sue cosce calde, sfiorandole l’intimità come la lama di un coltello.

Un coltello che le era affondato nelle carni, qualche istante dopo.

La regina crollò letteralmente fra le braccia dell’Ophidian, sopraffatta com’era da quel piacere che si fece improvvisamente fatto strada in ogni fibra del suo corpo tutto d’un colpo. Si aggrappò alle sue spalle con tutta la forza che riuscì a trovare, piantandole le unghie nella schiena come se fossero il suo unico appiglio per non venire trascinata via da quel fiume che la stava investendo.

«M-Myr… Myric-» tentò di mormorare appena, ma i sottili denti dei piccoli serpenti sul capo dell’altra che le stavano suggendo il seno le fecero morire le parole in gola.

«Sì, a’maelamin? Vuoi dirmi qualcosa?» le chiese compiaciuta, senza nemmeno tentare di nascondere la soddisfazione nel vedere come

«S-sei… s-sei u-una… una-­­»

«Creatura in tremendo ritardo. Lo siete entrambe, a dire la verità» le rimproverò Naevia, spuntando sullo stipite della porta come se fosse uscita dal nulla.

«Non intendo sorbirmi oltre domande sul perché la mia pelliccia sia metà a macchie e metà a strisce, signore mie, né tantomeno sopporterò ancora Antares che riempie la stanza di ragnatele da usare come tappeti elastici, quindi vi pregherei di-».

«Andare a farti fottere!» ringhiò Myricae, le zanne snudate e la lingua biforcuta che vibrava minacciosamente verso la leopardessa.

Quest’ultima però non parve particolarmente colpita.

«Non concepisco quelle che voi chiamate “emozioni”, e nemmeno il curioso desiderio di far riversare a chicchessia il proprio liquido seminale all’interno del mio utero, affibbiandomi il gravoso e spiacevole compito di avere dentro di me una massa di cellule che mi privi di nutrienti ed energie per crescere in un rapporto facilmente assimilabile al parassitismo. Questa tua imprecazione non mi tange in modo alcuno, quindi».

«Vediamo se questo ti tange!»

Una sedia partì verso di lei, sfiorandole appena le vibrisse traslucide; l’unica reazione dell’altra, però, fu solo di scuotere la testa rassegnata e per niente impressionata.

«Cielo, quanta scena», sospirò annoiata. Si girò per uscire «Vi aspetto insieme agli altri nella sala del trono, e vi pregherei gentilmente di cercare di accelerare le cose fra voi per fare il prima possibile. Nei limiti di ciò che la leggendaria e profonda ninfomania delle Ophidian permette, ovviamente».

«I guardiani si stanno forse lamentando?»

«No, ma potrei presto commettere un duplice omicidio. Con permesso» fece un breve inchino alla sua regina, poi finalmente si dileguò, uscendo silenziosamente com’era entrata.

 

I corpi di Myricae e Harmonia, nel mentre di tutta quest’amabile discussione con Naevia, non si erano staccati nemmeno di un millimetro, forse per lo shock o forse perché pure loro -come la felinide- se ne sbattevano altamente della sua presenza.

O si sbattevano e basta, insomma.

Si scambiarono uno sguardo fugace, quello che bastò ad entrambe per convenire che sarebbe stato meglio rimandare quel loro amplesso ad un momento più consono e tranquillo per entrambe, accettando quindi il consiglio di Naevia: vero, forse i guardiani non si stavano lamentando -né lo avrebbero mai fatto, considerando l’intrattenimento e la mole immane di buffet a disposizione nell’attesa-, ma la voglia di chiudere almeno la questione del contratto premeva tanto a loro quando alla sovrana di Phantasia.

Capendosi al volo, la naga srotolò il proprio lungo corpo serpentino dalla compagna, permettendole di alzarsi e dirigersi verso la finestra per guardare fuori da essa; lentamente, Harmonia sciolse il nodo in vita della candida vestaglia semi trasparente che indossava, lasciandosela scivolare addosso prima di ricadere morbidamente a terra.

Una scintilla dorato-argentea illuminò le venature del suo corno: sottilissimi filamenti dello stesso colore andarono diramandosi su tutto il corpo della sovrana, avvolgendole la pelle chiara fino a farla scomparire completamente sotto quella coltre d’oro e d’argento che pareva essere stata distesa direttamente dagli angeli, da come le aderiva perfettamente. Un impercettibile bagliore di stella lungo quella sua chioma colore dell’arcobaleno, e il fragile ed esile corpo umanoide di Harmonia lasciò posto al possente fisico equino che le apparteneva dall’alba dei tempi.

Quelle erano le sue vesti di principessa degli Starequus, vesti che portava la con fierezza a per non dimenticare mai nemmeno per un istante chi fosse veramente la Regina di Phantasia, di Exodus intero, un eterno memoriale della razza a cui apparteneva, del luogo dove seimila anni prima tutto era iniziato, e di dove tutto sarebbe continuato.

Si toccò il corno: di solito lo nascondeva rendendo invisibile ed impalpabile a chiunque per motivi che lei stessa ignorava, ma questa volta non lo fece. Lo avrebbe lasciato lì a svettare sulla propria fronte senza curarsi della sorpresa o meno dei guardiani, stupidi com’erano avrebbero creduto fosse l’ennesima creazione dei suoi stessi poteri.

Myricae le si avvicinò, dandole un bacio sulla fronte e allungandole una mano.

«Che si alzi il sipario».

Harmonia gliel’afferrò volentieri, uscendo a braccetto con lei dalla stanza.

«E che abbia inizio la pagliacciata».

 

 

---

 

 

Il solo rumore della pesante porta di pietra intarsiata che si apriva bastò a smorzare il mormorio dei guardiani, che si girarono tutti verso di essa.

Quasi come se quel cigolio sordo fosse stato un qualche misterioso segnale udibile solo dalle loro orecchie, alla vista della sovrana si esibirono tutti in un vistoso inchino di accoglienza che perdurò a lungo, per tutto il tempo in cui la centauressa attraversò la navata con una grazia tale da far sembrare che le sue zampe candide nemmeno sfiorassero il pavimento.

Harmonia entrò procedendo a passo lento, Myricae al suo fianco con la mano sull’elsa della spada legata in vita e la testa tenuta alta a troneggiare al di sopra degli ospiti, o -come li aveva chiamati lei poco prima- delle “seccature più secche della mia pelle durante la muta”; il rumore degli zoccoli che si posavano sul pavimento riempiva la stanza, accompagnato dall’impercettibile stridio delle spesse squame color smeraldo che sfregavano sul marmo come carta vetrata.

Dinanzi a suddetti ospiti, Harmonia fece un breve inchino.

«Chiedo umilmente scusa se vi ho fatto attendere più a lungo del previsto, signori e signore, ma negli ultimi due giorni mi sono sentita poco bene» fece ammenda la regina, trovando che “poco bene” sostituisse più che meravigliosamente un fin troppo pomposo “sono rimasta in stato comatoso fino a qualche ora fa e subito dopo ho avuto uno splendido momento di collasso mentale durante il quale ho ricordato con immensa gioia l’estinzione della mia gente ”.

Getto lo sguardo verso il lucernario -ormai riparato- al centro del soffitto, l’intricato mosaico di vetri multicolore che riempiva l’atrio di raggi variopinti.

«Mi auguro che non vi siate annoiati troppo in mia assenza, per quanto noto che avete trovato un delizioso modo d’intrattenervi nel mentre» osservò notando che Naevia, raccontando di tappeti elastici improvvisati tessuti dalla Sylkes, diceva il vero.

Non che certe uscite da parte di Antares fossero una novità, quella donna mezza ragno compensava bene l’aria di estrema formalità che aleggiava nel suo castello, ma Harmonia sapeva anche quanto la leopardessa fosse contraria a “certe sciocchezzuole talmente inutili che andrebbero vietate”, come le chiamava lei.

«Spero che le mie collaboratrici vi abbiano intrattenuto a dovere, in mia assenza, ma conto sul fatto che abbiano svolto egregiamente i loro compiti».

«Puoi dirlo forte!»

Aggrappandosi ad un filo di seta semi trasparente nemmeno fosse una liana, Frost raggiunse la centauressa e il resto dei presenti in perfetto stile Tarzan. Atterrò davanti al gruppo con una capovolta, venendo accolto da un applauso scrosciante.

«Questo posto è uno spasso come non ne esistono altrove! Nemmeno a Burgess mi sono mai divertito tanto! E poi lei» indicò Antares, poco sopra la sua testa «è un fenomeno, con quelle sue tele! Passato il terrore da uova in posti ci si dimentica completamente che potrebbe avvolgerti nella tela come un salame e mangiarti, pensa che-»

«MA AAAAAAAWWW!!!» squittì la Sylkes, stringendosi con decisione il guardiano al petto. «Hai sentito, Harmonia? Ha detto che vuole permettermi di deporre le mie uova all’interno del suo stomaco! Il suo adorabile, morbido, pallido, stomaco da guardiano! Finalmente potrò avere anche io i miei piccoli figli ragnetti che usciranno dalle sue fragili carni squarciandole e dilaniandole e nutrendosi di lui alla nascitaaaaa!»

Jack raggelò «Cosa? Io non ho parlato di-» tentò di parlare nuovamente, ma il prosperoso seno dell’altra lo stava ormai letteralmente inghiottendo, a giudicare da come lanciasse grida d’aiuto che, ora, erano più simili a mugolii sommessi e intraducibili.

La regina si lasciò scappare una risata.

«Oh, per me non ci sono problemi davvero, può venire qui a vivere anche oggi stesso se ci tiene tanto» sorrise con fare materno, scompigliando scherzosamente i capelli al giovane «tuttavia…» improvvisamente, il suo tono si fece cupo «devo ricordarti che questo dipenderà solo e unicamente dalla decisione dei suoi compagni guardiani in merito all’ospitalità da me offerta ad uno di loro, come ben sanno tutti i presenti in questa stanza».

Intorno a lei, i volti prima sorridenti e scherzosi si tramutarono in espressioni attonite e contrite nel giro di mezzo secondo.

 

Bingo.

Non lo diede affatto a vedere, ma -internamente- Harmonia stava già gongolando nella consapevolezza di aver colpito il nervo che le interessava con una singola, innocente e per niente sospetta frase detta al momento giusto, e cioè quando tutti i guardiani avevano ormai abbassato la guardia: si stavano sentendo a casa loro, venivano trattati come se fossero a casa loro, avevano tutti i privilegi che avrebbero avuto a casa loro.

Eppure ora lei se ne usciva così spontaneamente -almeno all’apparenza, dal momento che aveva invece calcolato ogni singola parola- con quello spiacevole, spinoso, fastidiosissimo, argomento che era la scelta dell’ostaggio.

Pardon, dell’ospite.

La regina era una donna sveglia, “anche troppo”, avrebbe detto qualcuno: aveva intravisto il terrore nei loro occhi fin da quando era entrata dalla porta, non aveva smesso nemmeno un attimo di respirare a pieni polmoni l’acre odore dei loro animi tremendamente agitati, spauriti, confusi, al solo pensiero di dover affrontare ciò che lei, ora, si era gentilmente permessa di sbattere loro in faccia in modo alquanto scherzoso e al contempo serissimo.

Perché lei lo era eccome, serissima e incredibilmente decisa: nessuno fa niente per niente, la sua filosofia era quella, nemmeno la Luna sorge se il Sole non tramonta, non inizia un nuovo giorno se la notte non si dilegua. Prima lo avrebbero capito, prima si sarebbero messi il cuore in pace.

E prima se ne sarebbero andati, soprattutto quello.

 

Nessuno dei guardiani proferì più parola per svariati minuti, preferendo passare quel tempo a guardarsi in faccia in cerca di un qualche segno sul da farsi e sull’atteggiamento da adottare, forse sperando invano che uno di loro si facesse avanti per primo.

A dispetto delle aspettative, fu infine Calmoniglio a prendere la parola.

«Non sarebbe opportuno andare per gradi, prima di discutere di questo?» tentennò cercando di prendere tempo: non avevano discusso nemmeno un secondo di chi di loro dovesse prendere casa laggiù, a Phantasia, piuttosto avevano preferito approfittare ampiamente dell’ospitalità a loro concessa per divertirsi e staccare la mente dall’attacco appena subito. E ora il coniglio pasquale -come tutti gli altri- se ne stava amaramente pentendo.

«Intendo che potremmo tutti prendercela con più calma, anziché correre tanto: non penso proprio che Phobos -conciato com’è- si rifarà vivo tanto presto, per cui non ci sono ragioni di metterci fretta a vicenda», precisò, pregando che non ci fossero fraintendimenti.

Fece una lunga pausa «E poi così tu avresti il tempo per riprend-»

«Non mi serve tempo per riprendermi» lo interruppe lei pestando uno zoccolo a terra, il tono improvvisamente fattosi duro e con una punta di aggressività «sto splendidamente, come puoi notare tanto tu quanto i suoi compagni, mai stata meglio» fece un giro su se stessa, i lunghi capelli che fluttuavano eterei mossi da quel solito e impercettibile vento che li manteneva costantemente in movimento.

Si avvicinò ai guardiani, quasi con aria di sfida.

«Non mi serve tempo per riprendermi, semplicemente perché non ho bisogno di riprendermi da nulla. Sono Harmonia, sono la Regina di Phantasia, sono la sovrana della fantasia» allargò le braccia «non esistono pause né vacanze nel mio compito, il mio ruolo non mi permette di lavorare un giorno l’anno crogiolando alle isole Cayman a bere Martini per gli altri trecentosessantaquattro» continuò sfilando davanti a loro mantenendo quell’atteggiamento di superiorità, gli occhi rosa azzurri che si piantavano prepotenti nelle pupille di ognuno dei cinque «tantomeno posso gustarmi il lusso di avere come unico cruccio della mia vita immortale il dover accontentare i desideri di una manciata di piccoli umuncoli bavosi, se non voglio cessare di esistere».

Infine, si fermò davanti ad un Calmoniglio visibilmente intimidito.

«Ogni minuto, ogni ora, ogni giorno, di quello che voi chiamate “riposo” si traduce in tempo che va inevitabilmente sprecato, tempo che regaliamo a Phobos e che gli permette di essere sempre un passo davanti a noi. Sempre. Dì, conosci la fiaba della lepre e della tartaruga?»

Il Pooka girò il viso senza rispondere, imbarazzato.

«C’era una lepre che si vantava con gli altri animali di quanto fosse veloce, sottolineando con disprezzo come nessuno fosse in grado di batterla in una gara di velocità. Una tartaruga, tuttavia, accettò la sfida» raccontò la regina, la magia che dalle sue mani fluiva a formare due sagome indistinte che, poco dopo, presero le forme degli animali da lei citati.

«Figurati come reagì la lepre: le scoppiò a ridere in faccia senza ritegno alcuno, denigrandola e scherzandola per la sua estrema lentezza, mentre già pregustava la propria vittoria con la sfacciataggine che sono una lepre particolarmente stupida -o particolarmente fiera di sé- può avere. La gara iniziò, dunque, e la lepre partì in quarta: nemmeno il tempo di muovere faticosamente il proprio carapace dalla linea di partenza, e l’avversaria era già fin quasi al traguardo» proseguì, mentre la lepre eterea scattava da una parte all’altra della stanza talmente veloce da essere quasi invisibile, lasciando dietro di sé una scia dorata.

«Ma si fermo poco prima, sicura com’era di vincere» a quelle parole, anche l’animale magico si fermò tutto d’un tratto.

«Si fermò a dormire, la lepre. “Tanto vincerò sicuramente”, si diceva. E intanto la tartaruga continuava a camminare e camminare e camminare, un passo dopo l’altro, centimetro dopo centimetro, senza mai darsi per vinta. I centimetri divennero metri, i metri decine di metri, le decine centinaia, e sai cosa successe alla fine?»

L’altro scosse la testa.

«Vinse la tartaruga. “Non è questione di chi correre velocemente”, disse il rettile, “ma di partire in tempo”, e la lepre lo capì tardi» l’animale le saltò in mano, sfregando il muso sul suo palmo «talmente tardi da essere sbranata dal leone, o peggio dal lupo».

Detto fatto, e Spettro addentò la creatura magica, dissolvendola in una cascata di polvere iridescente che lo fece starnutire.

Harmonia si abbassò fino all’altezza del muso di Calmoniglio, fissandolo talmente tanto intensamente che pareva gli volesse guardare fin dentro l’anima per ghermirla.

«Abbiamo dato a Phobos un vantaggio di due giorni per causa mia e me ne assumo tutta la responsabilità, ma le conseguenze di un ulteriore ritardo nel muoverci e giocare le nostre carte sarà colpa vostra, guardiani, io me ne lavo completamente le mani» asserì imitando il gesto. «Avete chiesto un’alleanza e vi è stata concessa, e ora io chiedo la mia garanzia: un ospite, tutto qui, uno di voi che si fidi talmente tanto dei suoi compagni da mettere nelle loro mani la sua stessa vita».

«Sua vita?» si intromise Nord, il tono quasi spaventato.

Harmonia sorrise: oh-oh, altarino svelato.

Con tutta la calma del mondo, la centauressa si avviò verso il tavolo al centro della stanza, prendendo posto davanti ad una teiera fumante.

«La sua vita, certo, ho anche io le mie precauzioni» con cautela, si verso l’ennesimo tè di quell’intensa giornata, questa volta al caramello e vaniglia. «Conosco troppo bene voi guardiani, decisamente meglio di quanto vi conosca l’Uomo nella Luna, e se so una cosa per certo è che siete pronti a tradirmi un’altra volta dileguandovi dallo scontro, se le cose dovessero precipitare in modo così gravoso da mettere a repentaglio le vostre vite».

La fronte dell’uomo si imperlò di sudore. Non per quelle parole così dure, non per la poca fiducia che la sovrana dava a loro guardiani, non era nemmeno perché parlava di tradimento così tranquillamente e serenamente, certo che no.

Era perché Nord sapeva che aveva ragione, a dire ciò che diceva: l’avrebbero tradita un’altra volta, se le cose si fossero messe troppo male, e lei li aveva anticipati con la firma del contratto.

«I miei sospetti erano fondati, quindi» asserì lei notando la sua espressione, sorridendo come mai prima di quel giorno. Posò la tazza ancora bollente «Sono carina e amorevole e materna, ma non sono stupida: credevate di potermi prendere in giro di nuovo scappando all’ultimo, vero? Beh, potete farlo senza problemi e non sarò certo io ad impedirvelo, ma non credo vi convenga».

«Perché?» chiese tranquillo Frost.

Harmonia tornò a sorseggiare il proprio tè, soffiando sulla tazza calda: a volte quel poveretto le faceva quasi pena, ignorante com’era stato cresciuto dai suoi compagni che si era tanto premurati di mantenerlo puro da tutto quel marciume nascosto dalla coltre del titolo di “guardiani”.

«Oh, carissimo, perché in quel caso io ucciderò il mio ospite. Una garanzia della vostra fedeltà, appunto».

 

Se si avesse avuto un udito sufficientemente sensibile da percepire i battiti dei presenti, allora -in quel preciso istante- si sarebbero sentiti un paio di essi perdersi nelle rughe di sconcerto apparse sui loro volti increduli.

“Harmonia è tanto tenerella e carina e materna con chiunque, figurati se può mettercelo nel culo profondo come la fossa delle Marianne”, dovevano aver sempre pensato ascoltando la regina della fantasia con quella sua voce angelica, quei suoi incantevoli occhi dai delicati colori pastello, il suo manto bianco brillante che ricordava il candore dei suoi atti e del suo cuore.

“Rettifico: non solo ce lo ha messo in culo profondo come la fossa delle Marianne, ma lo ha pure fatto uscire dalla gola”, invece, rendeva bene l’idea di cosa stessero pensando tutti adesso, dopo che l’altarino -delle loro reali intenzioni o del vero scopo del contratto non faceva differenza- era stato scoperto.

 

«Questo essere tradimento!»

La voce di Nord tuonò come un fulmine a ciel sereno nella stanza, rimbombando fino a creare un eco che faceva suonare ancora più cupa quell’accusa. L’uomo si diresse a grandi passi verso la Regina di Phantasia raggiungendola al tavolo al quale era comodamente seduta, sbattendo pesantemente un palmo su di esso facendolo tremare.

«Tu averci preso in giro, Harmonia, in contratto che noi avere firmato non esserci alcun riferimento ad omicidio di guardiano, di guardiano!» inveì col viso rosso dalla rabbia che stava provando. «Tu come spiegare questa richiesta folle? Noi venuti in pace, credevamo che tu fossi da nostra stessa parte e invece ah! Chiedi vita di guardiano!»

La donna non parve per nulla scossa, anzi aspettò di finire quel lungo sorso di tè che stava bevendo prima di rispondere.

«Non è precisamente così» puntualizzò, posando poi la tazza «io non “chiedo vita di guardiano”, non chiedo proprio la vita di nessuno. Io non ucciderò un guardiano, piuttosto sarete voi a farlo».

«Noi?»

«Voi, sì. Rispettate l’accordo senza scappare, e tutto filerà liscio come l’acqua che sgorga da una sorgente d’alta montagna. Traditemi come settecento anni fa scappando a gambe levate, e strapperò il cuore dal petto del vostro malaugurato compagno con queste stesse mani» le alzò per mostrarle meglio.

La regina sorrise, quel genere di sorriso tremendamente inquietante di chi sa di aver già vinto.

«Io sarò soltanto un’esecutrice materiale della vostra scelta, diciamo pure che sarò il boia che calerà l’ascia sul collo del condannato, ma la condanna o l’assoluzione di quest’ultimo dipenderà solo e unicamente dall’atteggiamento che voi sceglierete di adottare: restare o fuggire, vita o morte, non ci sono vie di mezzo. Semplice semplice, a prova dello scarso comprendonio di una creatura scelta da Manny» rise in segno di scherno «Domande?»­

Calmoniglio alzò una zampa, anche lui visibilmente iracondo.

«Io ne ho una. Il fatto che due giorni fa ti abbiamo salvato il culo da Phobos proprio non conta nulla? Te ne sei improvvisamente dimenticata, o non lo dici solo perché non ti fa comodo? Se non fosse stato per noi-»

«I miei generali se la sarebbero cavata ugualmente» intervenne Harmonia alzandosi e andandogli vicino. «Non metto in dubbio che il vostro contributo sia stato utile e per questo vi ringrazio, ovviamente, tuttavia ci tengo a precisare che il nostro contratto è stato stipulato ben prima che Phobos attaccasse, ed è stato stilato sulla base di azioni avvenute settecento anni fa. Non ritengo che la vostra accusa di tradimento sia sensata, visto ciò che ho appena detto, quindi non accetto altre lamentele su questo punto».

«Ma questo non essere-»

«Giusto?» si chinò per incontrare lo sguardo di Nord. «Non fu nemmeno giusto che voi fuggiste nel momento del bisogno, sette secoli fa, ma voi lo faceste ugualmente e senza vergogna alcuna. Anzi, adesso avete anche il coraggio e la sfacciataggine di lamentarvi che la vostra codardia abbia avuto ripercussioni sul presente, cercando di far passare me per la cattiva. È giustissimo, guardiani, così giusto che ora pretendo mi diciate il nome del prescelto e poi vi leviate immediatamente dalla mia vista».

Seguì un silenzio a dir poco imbarazzante, durante il quale nessun aveva osato proferire parola: vuoi perché -alla luce di ciò che avevano appena scoperto- il fare una scelta era una mezza condanna, vuoi perché non avessero pensato nemmeno mezzo secondo a chi mandare fra tutti, ma dalle loro bocche non uscì nemmeno un sospiro.

Sandman, che per tutto il tempo della discussione se n’era stato in disparte -probabilmente sapendo bene che fossero loro in torto- a braccia conserte, decise infine di prendere parola, o sabbia dorata insomma; con un paio di gesti, chiese alla regina se non potessero avere altro tempo per decidere.

Lei dondolò la testa, in segno di risposta negativa.

«Ho atteso anche troppo. Avete avuto tempo più che sufficiente per parlare fra voi e prendere una decisione comune, e anche se non vi foste trovati d’accordo avreste sempre potuto giocarvela a morra cinese» asserì facendo spallucce, indifferente. «Non rifarò la domanda un’altra volta: chi di voi sarà mio ospite?»

«Harmonia, noi non-»

«Ho detto che non rifarò la domanda, né accetterò ulteriori lamentele» ringhiò la donna verso il coniglio pasquale «voglio solo un nome, niente di più. Datemi un nome, e questa pagliacciata finalmente terminerà: voi potrete tornare a gongolare fino a quando i vostri servigi non saranno nuovamente richiesti, io potrò tornare ad occuparmi del mio regno e del mio pianeta, tutti felici e contenti insomma. Ma mi serve un nome».

“Che noi non abbiamo”, sottolineò l’uomo dei sogni.

«Non è un mio problema. Non uscirete da questo castello finché non avrò quel nome, questo posso assicurarvelo» sorrise lei schioccando le dita.

La sua magia si aggregò in sottili filamenti luminosi fin troppo simili a sbarre, che comparvero dal nulla ricoprendo finestre, porta e lucernario, chiudendo qualsiasi via di fuga ai guardiani.

«Spero che basti a motivarvi» asserì compiaciuta la regina. «Allora? Avete deciso chi-»

«Dentolina».

 

Tutti si girarono verso il punto dal quale era provenuta la voce che aveva nominato la fata, gli sguardi concentrati verso quei capelli bianchi e quegli occhi colore del ghiaccio, un ghiaccio percorso da più crepe di quante avrebbe dovuto averne alla sua età.

Se prima i guardiani era increduli di fronte alla rivelazione di Harmonia sul loro patto, allora adesso era a dir poco traumatizzati: Jack Frost, il più giovane fra loro, l’ultimo arrivato, il dilettante -nonché quello col compito meno gravoso- aveva preso in mano la situazione come i suoi colleghi non erano riusciti a fare tradendo una di loro senza pudore. E si era pure salvato il culo evitando di essere nominato.

Classica strategia alla “Grande Fratello”, considerando quale assiduo fan era lui di quel programma.

Lo sgomento si poteva leggere sui volti di ognuno, e non si sapeva se fosse più per la sorpresa che lui avesse tanta spina dorsale da decidere senza consultarli o, con più probabilità, per il trauma di fronte ad un’infamata del genere.

Tutti erano lì a guardarlo, a fissarlo, a piantargli quello sguardo accusatorio addosso con la speranza che ne venisse trafitto come da un pugnale, ma il giovane guardiano pareva del tutto impassibile: aveva la coscienza a posto, Frost, o almeno così si stava giustificando mentalmente con se stesso. Non aveva pronunciato il suo nome per cattiveria o per dispetto, aveva avuto delle motivazioni e riteneva che fossero tutte più che valide, ma -alzando gli occhi sui visi sbiancati dei compagni-, iniziò a riflettere sul fatto che tali considerazioni non sarebbero state precisamente semplici da spiegare o accettare.

Alla Regina di Phantasia sarebbe piaciuto tanto stare lì a guardare i guardiani scannarsi fra loro, magari aprendo pure il lucernario per mostrarli alla Luna lontana nel cielo dicendo a Manny “Ecco, queste sono le tue creazioni: ottimo lavoro, davvero”, ma riteneva di non avere tempo da perdere.

 

Fece un silenzioso cenno col capo a Myricae, che rispose con un cenno a sua volta.

«E Dentolina sia, dunque. Avvicinati».

«No! Certo che non si avvicina!» si mise in mezzo Calmoniglio, frapponendosi fra la fata e l’Ophidian che era andata a prenderla. Si girò verso Jack «Cosa stracazzo ti passa per quel tuo cervello congelato? Sei impazzito? Sì, sì che lo sei! Se proprio eri voglioso di pronunciare un nome avresti dovuto dire il tuo!»

Nord andò in aiuto del fronte “portate una corda per impiccare il bianco di capelli voglioso di piselli, che altrimenti la chiediamo a Sandy.

«Anche se essere strano, Calmoniglio avere ragione: tuo gesto non essere stato carino, Jack! Tu finire in lista di cattivi, anche prima di grande naso di Pitch!»

«Ma scherzate?!! Guardate che mica l’ho detto per farle un dispetto eh!» precisò il guardiano, imbracciando il bastone nel vedere che lo stesso avevano fatto gli altri con boomerang e sciabole. «Ma l’avete vista durante l’attacco di Phobos? Ci stava per rimanere secca non solo una volta, ma almeno una decina! E tutte di fila! Almeno qui sarebbe al sicuro e non rischierebbe di venire ammazzata ogni tre per due!»

A quelle parole, tutti ritirarono le proprie intenzioni bellicose, osservando invece la fatina che tremolava spaventata.

Potevano tentare di cercare di trovare tutte le scuse del mondo, ma -in fin dei conti- Frost aveva ragione: Dentolina non aveva mostrato una particolare utilità in quel genere di scontri fisici ad alta pericolosità e tasso di mortalità, aveva rischiato la vita più volte creando solo problemi agli altri che dovevano pensare a se stessi e pure a lei.

Era stata solo d’impiccio, ecco.

«Non può andare lei!» insistette però il coniglio pasquale, non ancora convinto. «Non si possono privare i bambini della fatina dei denti! Chi si occuperà di loro? Chi penserà a raccogliere i-»

«Se permettete, ai bambini posso tranquillamente pensare io».

La voce di Naevia si fece largo fra i litiganti, la lunga coda che sfiorò il muso del Pooka facendoglielo arricciare per il solletico. Lui però non cambiò affatto atteggiamento, mantenendo la difensiva.

«E come? Passando di casa in casa con un paio di ali di carta sulla schiena?»

«Oh, no di certo. Piuttosto sventrandoli uno per uno, bambino dopo bambino, passando un artiglio sulle loro pallide gole molli e indifese finché non vomiteranno fuori dalla carotide e dalla giugulare tutta la vita che hanno in corpo. Sapete che, una volta fermatosi il cuore, si ha ancora qualche istante di coscienza? Dai trenta secondi fino ai tre o sette minuti, solitamente, ma non sono rari casi in cui quest’esperienza post-mortem perduri più a lungo» spiegò con tutta calma, tirando fuori gli artigli retrattili e prendendo a osservarseli distrattamente.

«Sarebbe di grande aiuto alla scienza studiare quali di quelle da voi comunemente definite “emozioni” appaiano sui loro volti nell’acquisire la consapevolezza di stare per andare all’altro mondo, magari provando anche a recuperare l’ultima immagine che i loro occhi hanno registrato prima del decesso, la cosiddetta “imago mortis”. Sarebbe “curioso” -è l’emozione giusta, vero? La chiamate così l’impellente voglia di sperimentare qualcosa?- tentare una cosa del genere su dei bambini, dal momento che possiedo solo campioni adulti. Tutto sempre in nome della scienza, ovviamente».

Calmoniglio inorridì, lo stomaco che gli si torceva nell’impellente bisogno di vomitare: ma che cazzo di generali si era trovata Harmonia?

La centauressa, invece, scoppiò in una fragorosa risata.

«Dovete perdonare Naevia, ma a lei e alla sua razza gli standard socialmente accettati di etica e moralità non si applicano in alcun modo» spiegò indicando la leopardessa, la quale la fissò come se non capisse cosa stesse dicendo. «Tuttavia, non dovete preoccuparvi perché non ci sarà nessuna necessità di trovare una sostituta a Dentolina, se rispetterete i patti. Come dicevo, ora è tutto nelle vostre mani: sono certa che ci tenete alla vostra amica, quindi non c’è motivo di agitarsi tanto».

Con la fata vicino, la regina allungò un braccio di fianco a sé.

Tempo qualche istante, e la magia si aggregò in un lungo bastone, uno scettro che pareva essere fatto di un vetro iridescente che lanciava continui bagliori quando la luce lo illuminava, la cui sommità era formata dalla sagoma del busto trasparente di un unicorno alato con una gemma dorata come occhio, così com’erano dorati alcuni sottilissimi fili che ne ricoprivano il corno insieme a delle appena visibili schegge colorate.

Dentolina tremava come una foglia, si vedeva dal terrore sempre crescente nei suoi occhi che avrebbe solo voluto fuggire e andarsene, ma non si oppose quando quello scettro si posò delicatamente sul suo petto, all’altezza del cuore. Improvvisamente, si calmò.

O forse si prese solo un infarto, quando il corno si conficcò nelle sue carni spezzandole il respiro in gola.

Già pronti a scattare all’attacco per difendere la compagna, i guardiani vennero trattenuti dalla possente coda di Myricae che si parò loro davanti, impedendogli di avanzare oltre. Notando tanto subbuglio e Dentolina piegata in due, la sovrana sospirò annoiata.

«Non le ho fatto nulla, controllate pure» propose tranquilla, mostrando loro come -effettivamente- la fatina non recasse alcuna ferita o sanguinamento.

«Convinti?» domandò agli altri, che annuirono. Anche perché non avrebbero potuto fare altro.

Harmonia sorrise, osservando compiaciuta l’oggetto che aveva fra le mani: quello scettro apparteneva alla sua razza da tempo immemore, da quando il primo Starequus aveva posato i propri zoccoli sul suolo di Exodus, era stato passato di mano in mano per generazioni e generazione fino ad arrivare a lei, alla Regina di Phantasia, che ora lo custodiva insieme ai segreti ed ai tesori di un popolo che si era trascinato il proprio sapere nella tomba.

Istintivamente, una mano le scivolò sulla lunghezza del prezioso bastone, e la sua mente andò a vagare in quel passato che la tormentava da seimila anni, un passato nel quale il volto di sua madre che impugnava lo scettro era stata l’ultima cosa che i suoi occhi avevano visto prima di chiudersi.

«L’Erikepaios Anænketi…» sussurrò fra sé e sé, come se avesse l’impellente bisogno di parlarne «lo scettro della Dea Senza Sudditi, donato alle genti di questo pianeta in un tempo in cui ancora non esistevano parole adatte a descrivere la meraviglia ed il potere primigenio di questo artefatto. Qui dentro» indicò l’occhio del cavallo «scorre il sue sangue, non troverai mai nulla di più puro nemmeno se cercassi fino a consumare ogni centimetro del cosmo a furia di scavare nelle sue profondità. Ed è proprio ciò che mi serve ora».

Prese a studiare il busto dell’unicorno, osservando in controluce come all’interno dell’animale vi fosse un liquido rosso piuttosto denso che correva sulle pareti di vetro -o di qualsiasi cosa fosse- di quell’oggetto.

«Cos’è?»

«Sangue, giovane guardiano. Quello della tua amica, per la precisione» spiegò mostrandoglielo, lui che ci mancava poco vi si attaccasse con la faccia da quanto era incuriosito.

«Se in qualsiasi caso io non dovessi essere in grado di garantire la morte della fatina dei denti in seguito ad un vostro tradimento, l’Erikepaios lo farà al posto mio: è come un giuramento solenne, un giuramento che non può essere spezzato in alcun modo se non con la morte della persona il cui sangue è qui dentro. Niente e nessuno può sfuggire al giudizio della Dea, non le si può mentire».

Harmonia contemplò ancora qualche istante il prezioso bottino, salvo far dissolvere lo scettro in una polvere luccicante che pareva più una pioggia di glitter.

«Bene, direi che qui abbiamo finito. È stato un piacere fare affari con voi, signori miei carissimi, ma ora ho un’ospite della quale devo occuparmi e voi avete dei bambini ai quali far credere in voi: direi che siamo tutti molto occupati, per cui» tese una mano davanti a sé, evocando gli stessi portali che -tempo prima- avevano fatto piombare i guardiani sul suo pianeta «arrivederci fino a nuovo ordine».

Furono colti tutti piuttosto impreparati da tutta quella fretta, Dentolina compresa: sembrava più una bambola in balìa degli eventi piuttosto che una persona consapevole di ciò che le stesse accadendo, a giudicare dall’aria assente e dagli occhi vuoti e acquosi sarebbe legittimo aver dubitato che fosse sotto l’effetto di chissà quale droga. O forse, più semplicemente, solo di una disperazione troppo grande per essere esternata.

A testa bassa e improvvisamente ammansiti, i guardiani si avvicinarono piano alla regina e alla compagna che ora le stava di fianco, esibendo un breve inchino.

«Non potremmo avere il tempo di salutarla?» domandò un Calmoniglio che nulla aveva dell’aria minacciosa di prima.

Harmonia si diede ad un facepalm il cui eco si fece strada in tutta la sala del trono.

«Per la Dea, parlate di lei come se fosse una condannata a morte!» sbottò irritata. «Non è che non la vedrete mai più nella sua intera esistenza, o che appena vi girate Naevia la sgozza… anche se su quest’ultima cosa non garantisco, dovete giusto pregare che non sia interessata a dei particolari studi sull’anatomia dell’ultima abitante di Punjam Hy Loo», ridacchiò.

Spinse leggermente la fatina verso i compagni, invitandola a prendersi tutto il tempo necessario per salutarli mentre lei li girava per ritirarsi nelle proprie stanze.

Dopo qualche passo, però, Harmonia si fermò.

Gettò lo sguardo dietro di sé, notando i guardiani che si davano a quel genere di baci e abbracci riservati ai detenuti che stanno per andare sulla sedia elettrica, tutti raggruppati davanti all’amica ad aspettare il proprio turno. Immediatamente dietro di loro, il portale per la Terra. Sorrise.

Stiracchiò le zampe posteriori pestando gli zoccoli a terra, assicurandosi di avere una buona presa a terra con quelle anteriori; lanciò uno sguardo a Myricae: pollice verso, diceva l’Ophidian. E che pollice verso fosse, allora.

La regina si riempì i polmoni di tutta l’aria che potevano contenere, inspirando profondamente.

«QUESTA. È. PHANTASIA

Una zoccolata in perfetto stile spartano sulle loro schiene indifese, ed il varco si chiuse dietro i guardiani che vi caddero dentro mentre imprecavano e bestemmiavano.

Dentolina tentò di controbattere, ma Harmonia era ormai lontana sulle scale con la propria partner facendosi con lei grasse ridate. “Se trattano così gli ospiti”, pensò seguendo Naevia nel mentre che l’accompagnava a fare un giro del castello che sarebbe stato la sua casa per chissà quanto, “forse dovrei iniziare a preoccuparmi”.

Non poteva ancora immaginare quanto avesse ragione.

 

 

 

 

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Angolino dell’autrice

 

Sì, ci ho messo più tempo del solito ad aggiornare, ma ultimamente fra capitoli lunghi lunghissimi e vacanze le tempistiche si allungano pure loro :’D

Spero che i vari altarini scoperti non risultino troppo confusionari, nel caso me ne scuso, ma lascio il giudizio ultimo a voi e ad eventuali persiani che vogliono contestare l’immane figaggine di Leonida Harmonia; ne approfitto per ringraziare chiunque stia seguendo la storia e ci tenga a farmi sapere cosa ne pensa, ma anche solo a chi la legge ovviamente, anche perché da un paio di recensioni ho potuto capire e correggere alcune imprecisioni/eccessi qua e là, per cui grazie di cccuore a tutti :3

La canzone che ho utilizzato è "Little Sunshine - An Original MLP Song" di Ink Rose che potete trovare qui, e che è la stessa canzone alla quale fa riferimento il titolo di questa fanfiction.

Vi lascio con un mio disegno fatto a marzo (COFF COFF non è chissà cosa e ora non sarebbe certo meglio COFF COFF) di una piccola Harmonia con sua madre, al quale mi sono ispirata per descrivere una delle tante drammatiche scene alle quali ha assistito Myricae :)

Alla prossima!

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Capitolo 13
*** Dance into the fire ***


Avviso: regà, non potete nemmeno immaginare l’immane quantità di disagio presente dall’inizio di questo capitolo alla parte scritta in grigio, non potete :’D

Onde evitare traumi generali (?) o paure per cosa verrà dopo, rassicuro tutti sul fatto che peggio di così a Phobos non può proprio andare, NON può raggiungere un picco del disagio peggiore di questo, non è umanamente possibile: il culmine è quello che troverete scritto qui, non verrà nulla di paragonabile a tanta follia, giuroH! :’D

Se proprio non siete avvezzi al disagio della sottoscritta, volendo potete saltare direttamente alla parte scritta in grigio chiaro anziché nero, che tanto dai discorsi si evince comunque ciò che è successo :)

Buona lettura, si spera! :’D

 

 

 

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“Cosa cazzo stai aspettando?”

Eh, bella domanda: cosa cazzo stava aspettando? Un invito scritto? L’autorizzazione firmata da mamma e papà come a scuola?

Guardò il pugnale poggiato lì a terra, quasi ipnotizzato dalla lucentezza dell’acciaio che risplendeva sotto le macchie di sangue ora secco e rappreso, ora ancora fresco e dai colori vividi e brillanti: la lama lo stava chiamando, lo stava facendo da svariato tempo ormai, ma lui -codardo com’era- non si era ancora deciso a rispondere a quella chiamata.

Non si poteva dire che non provasse almeno ad alzare la cornetta, però: il coltello sul polso o sul collo o dovunque ci fosse una vena o un’arteria da recidere lo posava pure, ma ogni volta finiva per fermarsi. Non sapeva perché, non aveva idea di cosa lo trattenesse dallo spingere a fondo nelle carni quella maledetta lama fino a vederla affogare nel sangue scuro e denso, sapeva solo che -appena sulla pelle comparivano i tagli provocati dal metallo affilato che la sfiorava- gettava via tutto e si rannicchiava a piangere, e piangere, e piangere, finché la gola non gli bruciava ed il respiro si faceva affannoso.

Anche allora pregava di morire soffocato dalle sue stesse lacrime, dal muco che gli si riversava dal naso gocciolante alla gola, ma pure lì le sue speranze si infrangevano contro il suo corpo che -quasi volesse fargli uno sgarbo- si riprendeva pian piano, normalizzandosi e tornando nelle stesse condizioni in cui lo aveva lasciato poco prima dell’ennesima crisi.

Voleva farla finita, eppure non ci riusciva.

Sarebbe bastato poco, così poco, accidenti! Un taglio nel punto giusto, uno soltanto, e avrebbe raggiunto Thorax nell’aldilà prima ancora di rendersi conto di stare morendo.

Allora e solo allora, Phobos sarebbe stato un uomo libero, o almeno così la vedeva lui: nessun problema a cui pensare, nessun martellio incessante nella testa quando cercava di ricordare qualcosa del suo passato, nessun sentimento di vendetta che lo logorava incessantemente a causa della consapevolezza che -se le cose fossero andate come l’ultima volta- ciò che avrebbe ottenuto sarebbe stata solo un’umiliazione dopo l’altra. Una morte altrui dopo l’altra.

Inevitabilmente, lo sguardo gli si posò sul cadavere del leone nero davanti a sé; prese ad accarezzarlo con cautela, lentamente, come a non volerlo svegliare. Anche perché questa volta il pericolo che si svegliasse non c’era proprio.

Forse non aveva ancora metabolizzato il lutto, ma Phobos continuò a fare le carezze alla propria bestia come se nulla fosse, si comportava nello stesso modo di quando il fedele compagno gli dormiva in grembo e non voleva svegliarlo perché ora russava in modo alquanto buffo, ora sbavava muovendo le zampe come se stesse sbranando una preda, o -più semplicemente- perché adorava guardare Thorax sonnecchiargli vicino; gli piaceva la sensazione di accoglienza che emanava la sua pelliccia, a volte infilava la propria testa nella sua criniera anche solo per sentire il pelo che gli solleticava il volto, anche solo per sentire il calore di una casa, di una famiglia, di qualcuno che lo amasse.

E quel qualcuno era morto.

Per lui, fra l’altro, come se potesse valere la pena dare la vita per un soggettone quale lui stesso era! Un tale spreco avrebbe dovuto essere ritenuto illegale!

Del resto era solo un uomo buono solo a collezionare una figura di merda dopo l’altra, a mandare al macello gli altri al posto suo, ad annegare i propri dispiaceri fra una cassa di birra e uno shot di AK-47 e un numero indefinito di bottiglie di whiskey che era finite per annebbiargli la vista, la mente, l’anima: stava bene, da sbronzo, stava bene come non era mai stato. Talmente bene che i suoi occhi -anziché rivolti a quel povero leone che gli giaceva in grembo- erano già alla ricerca del prossimo alcolico da ingurgitare, della prossima botta da dare a quel suo povero fegato nella speranza di vincere quel braccio di ferro che stava protraendo col suo stesso fisico: se proprio doveva finire all’altro mondo, voleva farlo da ubriaco.

Allungò una mano verso la prima bottiglia che gli capitò a tiro, sollevandola con le mani tremanti come se fosse lo sforzo più immane che avesse mai fatto.

«Con questa» indicò l’etichetta della bevanda, una vodka Spyritus che -a detta sua- Halley doveva avergli lasciato prima di sparire dalla sua vista, forse un regalo per scusarsi «o andiamo all’altro mondo, o prendiamo fuoco. In entrambi i casi, ceneremo nell’AdeH!... o in qualsiasi buco di culo si finisca da morti, insomma» asserì bloccandosi qualche istante. Guardò il compagno «Secondo te finirò in paradiso o all’inferno, eh?»

Thorax, ovviamente, non rispose.

«Per gli dei, come sei malmostoso!» gridò seccato agitando la bottiglia aperta, schizzando vodka ovunque. Improvvisamente, iniziò a ridere come un deficiente «Ho capito, ho capito: vecchio bastardo, ne vuoi un bicchiere anche tu! Ti ho scoperto!» diede una pacca sulla spalla della bestia «Aspetta eh, ora te lo verso, abbi pazienza».

Seduto com’era, alzò il braccio fino ad incontrare i bordi del tavolo dove ricordava esserci qualche bicchierino per superalcolici. Troppo pigro per alzarsi, Phobos andò a tentoni con la mano provando ad afferrare uno di quegli shot: ci sarebbe pure riuscito, se non fosse stato ubriaco fradicio, ma la sua coordinazione degna di un bradipo fece cadere tutto a terra, o meglio, addosso.

Probabilmente l’ubriacatura anestetizzava efficacemente il dolore provato dalle schegge piantate fra i capelli, sul collo e sul volto, fatto stava che si mise a frugare tranquillamente fra i pezzi di vetro alla ricerca di un bicchiere integro come se nulla fosse.

Quando alzò la mano, questa era costellata di frammenti scintillanti insanguinati, ma di un ambito bicchierino nemmeno l’ombra.

«Al diavolo i bicchieri! Sono da fighette con le palle atrofizzate!» tuonò tirando un pugno alla gamba del tavolo con la mano ferita, visibilmente furioso.

Non solo le schegge gli penetrarono ancora più a fondo nelle carni, non solo si rese conto -continuando a ridere- di aver perso la sensibilità di un dito o due a causa dei nervi recisi, ma suddetto tavolo di legno massiccio finì pure per crollargli in testa.

Sentì qualcosa di caldo colargli dalla tempia fino al labbro. Lo leccò: sangue.

Improvvisamente, Phobos iniziò a ridere in modo folle, rumoroso, a tratti inquietante, quasi fosse inebriato dall’odore ferroso dei rivoli rosso intenso che gli scendevano dall’attaccatura dei capelli al naso fino ad insinuarsi fra gli abiti logori e strappati, dove andavano svanendo fondendosi col colore cremisi delle vesti zuppe d’alcol. Lui rideva, e rideva, e rideva ancora, e rise ancora di più quando -tastandosi la fronte- notò come un frammento di legno di modeste dimensioni si fosse conficcato su di essa; lo studiò qualche istante, poi vi versò sopra una bottiglia mezza vuota di Everclear.

Alcol di grano puro al novantacinque percento. Benzina, in pratica.

«Thorax! Thorax! Guardami, dannazione!» incitò il leone scattando in piedi, il cadavere dell’altro che rotolò giù dalle sue gambe fermandosi quando incontrò una pila di casse di birra. Ovviamente vuote. Il rosso iniziò a ballettare come se fosse in preda alle convulsioni «Guardami! Sono un fottuto unicorno! Un unicorno! Ihihihihihihihihihihi!» nitrì entusiasta, le braccia piegate a sembrare ali di una gallina.

Iniziò a razzolare tutt’intorno, chiocciando come suddetto animale; si strappò gli abiti di dosso, mostrando il marchio sul braccio che andava sempre più diramandosi sul resto del corpo.

«Alla salute, amico mio, e a nemmeno mezzo di questi giorni!» esclamò verso il leone, portandosi al contempo la vodka di prima alla bocca e mandandola giù tutto d’un fiato.

O almeno provandoci, dal momento che -complice la sbornia triste- un terzo dell’alcolico finì a terra, un altro terzo sul suo petto mischiandosi al sangue e, infine, solo un ultimo terzo gli finì in gola. Ma fu più che sufficiente, fu pure troppo.

 

Aveva perso la dignità, e poteva pure starci.

Aveva perso la ragione, e -tutto sommato- non era nulla di così grave rispetto a ciò che stava facendo ora.

Ma il rispetto per l’unica creatura che lo rispettasse a sua volta, quello, lo stava perdendo solo ora.

E la situazione era a dir poco tragica.

 

Razzolando  e sbandando, chiocciando e nitrendo, Phobos infine si avvicinò al corpo esanime di Thorax, ovviamente fermo dove l’aveva sbattuto poco prima; si chinò su di lui. Non per accarezzarlo, non per accovacciarsi fra la sua pelliccia morbida e calda, ma solo per servirsi delle sue enormi zanne per aprirsi un paio di birre, una delle quali gliela ficcò in bocca.

«Chi non beve in compagnia, o è amico di Harmonia o l’ha dato via!» brindò insieme a lui, se non fosse che -con tutta la forza che aveva messo in quel brindisi- le bottiglie finirono per impattare con violenza e spaccarsi vicendevolmente.

Iracondo, lanciò un paio di imprecazioni che avrebbero fatto impallidire qualsiasi divinità, dando un pugno sul muso della bestia. Un crack provenne da quest’ultimo, ma nemmeno lui stesso capì bene se fosse la mascella del leone ad aver ceduto o qualche altro osso della sua mano ad essere stato ulteriormente scavato dal vetro.

«Vaffanculo, cazzo! Dannato animale bavoso mangiato dalle mosche, guarda cosa mi hai fatto! Guarda, mannaggia al settebello!» imprecò premendo il palmo sul pelo nero, rendendolo appiccicoso per il sangue che sgorgava da esso. Tirò un altro paio di imprecazioni, poi gli lanciò addosso ciò che rimaneva del contenitore: gli si piantò in mezzo agli occhi, a Thorax, prendendone di striscio uno che iniziò a colare una sostanza gelatinosa.

Phobos gli rise in faccia senza ritegno, tenendosi lo stomaco dalle grasse risate che si stava facendo ad umiliarlo da morto.

«Ben ti sta! Così impari a metterti contro il boss, cazzo! Non si fotte l’unicorno!» gridò, mettendosi in quella che doveva sembrare una posa epica da stallone-che-monta-il-mondo ma che, in fin dei conti, era qualcosa di più simile ad un My Little Pony con una brutta ulcera perforante allo stomaco.

Trotterellando a zig zag, arrivò finalmente ad un armadio rovesciato a terra: lo aprì. Rum e cola alla mano, si rovesciò direttamente le bottiglie semi vuote in bocca, mettendosi a fare i gargarismi mentre frugava pazientemente nel sacco della spazzatura.

«Bingo!» gridò entusiasta, sollevando in aria un lime già spremuto e coperto di muffa.

Violando una serie non meglio definita di norme igieniche, rischiando di prendersi svariate delle malattie elencate nella lista dei rischi derivati dal consumo di alimenti marci in decomposizione, andando contro ogni singola punta di ragione umana che poteva essergli rimasta nel suo delirio alcolico, Phobos se lo ficcò in bocca. Iniziò a masticarlo per far uscire il succo rimasto in quel pezzo di lime secco e macerato, assumendo un’espressione alquanto goduriosa -letteralmente, perché dalla macchia sull’inguine pareva essere davvero venuto- nel farlo.

Voleva un Cuba Libre? Aveva avuto un Cuba Libre.

Mandò giù tutto in un colpo solo, sospirando e facendo schioccare la lingua sul palato quando lo finì come apprezzamento.

Restò qualche minuto a fissarsi i piedi, dondolando, come se stesse tentando di mettere a fuoco la terra sotto di sé che ora sentiva mancargli; si chinò, tastandosi le gambe dai polpacci, al ginocchio, alla coscia, risalendo poi sul torso nudo finendo a toccarsi il volto lercio e maleodorante.

Lo esplorò a lungo, sembrava che avesse improvvisamente dimenticato la sua stessa fisionomia e avesse bisogno di riconoscersi, le dita insanguinate che scorrevano sulla pelle butterata dalle ferite lasciando dietro di sé scie rossastre dal sapore metallico; insistette per diverso tempo, prendendo poi un pezzo di vetro nel quale si specchiò. Sorrise.

Silenzioso, Phobos si accasciò nuovamente vicino al leone nero, portando con sé una vecchia radio che -dopo qualche tentativo- si convinse a funzionare. Giocherellò un po’ con i pulsanti per trovare una stazione che trasmettesse qualcosa che gli piacesse, ma -vedendo che quell’aggeggio infernale non collaborava- abbandonò presto la ricerca.

Si frugò nella tasca, tirandone fuori due sigari mangiucchiati; se ne mise in bocca uno, l’altro lo diede a Thorax. Li accese.

Lasciò cadere la testa all’indietro, socchiudendo gli occhi: che il fato scegliesse per lui.

 

“Nightfall covers me, but you know the plans I'm making

Still overseas, could it be the whole Earth opening wide

A sacred why, a mystery gaping inside

A week is why, until we dance into the fire!”

 

«Ottima scelta», sussurrò, facendo il segno di “ok” rivolto alla Luna che si specchiava nei frammenti colorati ai suoi piedi.

Inspirò profondamente una, due, tre, cinque, dieci volte, finché non avvertì chiaramente l’odore pungente del tabacco riempirgli i polmoni e le narici di fumo scuro e denso, finché non consumò tutto il sigaro. Se lo spense sul palmo, incurante del dolore.

«Quello lo fumi?» domandò alla bestia indicando il suo, di sigaro. Attese qualche istante, poi fece spallucce ridendo «Chi tace acconsente, vecchio mio, per cui» glielo tirò fuori dalla bocca avvicinandolo alla propria, la cenere che gli cadeva sul petto bagnato dall’alcol e dal sangue e dalla schiuma rosea che gli colava ai lati della bocca.

Si pulì con un braccio, compiaciuto.

«Imminente coma etilico, intossicazione cronica da etanolo, reni e fegato al collasso: sto una meraviglia, insomma» rise forte, sempre più forte, fino a che tante risate non gli contrassero il volto in una smorfia divertita e impaurita allo stesso tempo.

Quell’espressione aveva del grottesco, vista in quel preciso contesto da far accapponare la pelle: Phobos mezzo nudo che trasudava letteralmente alcol da tutti i pori, Thorax zuppo quanto il padrone per le birre spaccategli in testa, gli abiti fradici abbandonati sulle macerie anch’esse bagnate dalle bevande rovesciate o vomitate in due giorni di bevute selvagge, persino il suolo si era impregnato talmente tanto degli alcolici da puzzare quanto quest’ultimi.

Eppure lui rideva, e rideva, e rideva ancora, e intanto piangeva, e piangeva, piangeva come non aveva mai pianto in vita propria: non sapeva il perché, ma lo faceva stare meglio.

La radio smise di funzionare qualche istante e lo interruppe, ma non fu nulla che un colpetto non potesse risolvere.

 

“A chance to find a phoenix for the flame

A chance to die but can we dance into the fire!”

 

Si tolse il sigaro dalle labbra, osservando come ipnotizzato la parte del tabacco che ancora bruciava, gli occhi oro opaco ora ravvivati da quel luccichio arancio-giallastro.

Era sempre stato affascinato dalla danza delle fiamme, dal modo in cui si contorcevano come bestie feroci in quella lotta fatta di scintille e lapilli e calore intenso, poteva dire di trovare quasi eccitante il modo in cui il fuoco consumava ogni cosa sul suo cammino lasciandosi dietro una scia di sangue e morte e distruzione. Ogni cosa, e ogni persona.

Si leccò le labbra, il gusto pungente dell’alcol puro che gli fece pizzicare da lingua da quant’era forte: Spyritus ed Everclear, un connubio perfetto. Per morire, si intende.

Gettò il mozzicone acceso per terra. E allora fu l’inferno.

 

“Dance into the fire,

that fatal kiss is all we need!

Dance into the fire

to fatal sounds of broken dreams!

 

Era uno spettacolo a dir poco meraviglioso: le macchie scure sul terreno che improvvisamente si tramutavano in un caldo tappeto di fuoco dalle curiose sfumature azzurrognole e verdastre, i vapori dell’etanolo che bruciavano accendendo l’aria in un effetto domino sempre crescente, sempre più vasto, sempre più fuori controllo, fino a formare un vero e proprio muro che s’innalzava fino al cielo e oltre.

E lui lì, appoggiato a delle scatole vuote ed al cadavere del suo leone coperto di larve di mosca che già lo stavano mangiando, che attendeva di diventare parte del combustile che avrebbe alimentato suddetto magnificente e poetico spettacolo naturale chiamato “incendio”.

Che poesia, che scena, che pomposità!

 

“Dance into the fire

that fatal kiss is all we need!

Dance into the fire

when all we see is the view to a kill!”

 

Quando le fiamme iniziarono a ghermirgli le gambe divorandogli la pelle e scavandogli le carni, Phobos sorrise con tutta la serenità del mondo; non urlò, non emise nessun suono, nessun lamento, molto semplicemente si strinse a Thorax, accarezzandolo.

«L’amore è uno schifo», gli disse ridendo.

La radio fu l’ultima cosa a bruciare.

 

 

 

«Hai combinato un bel casino».

Si svegliò di colpo, guardandosi intorno: nero, era tutto nero, nemmeno uno sprazzo di luce in tutto quel paesaggio sconfinato.

Guardò in basso, notando come il pavimento -o qualsiasi cosa fosse- su cui se ne stava paresse acqua, a giudicare dai cerchi concentrici che si diramavano dai suoi piedi quando si dondolava per bilanciarsi. Phobos girò e rigirò su se stesso a lungo, talmente a lungo che la testa finì per girare insieme a lui, ahimè senza risultato: non aveva idea di dove si trovasse, non sapeva a chi appartenesse la voce sentita poco prima di svegliarsi, a dirla tutta non ricordava nemmeno cosa stesse facendo prima di… prima di fare qualsiasi cosa che stesse facendo ora, insomma.

Avvertì un certo bruciore e calore su tutto il corpo, ma non riuscì a spiegarsi da cosa dipendesse; ci provò pure, a fare mente locale degli ultimi minuti prima di svegliarsi, ma nella sua mente c’era solo e soltanto un vuoto più vuoto di quel posto: nessun riferimento spazio-temporale, nessun ricordo, niente di niente.

“Forse sto solo sognando”, pensò, e in effetti poteva pure essere una spiegazione piuttosto plausibile.

«Benvenuto, bellezza, ti stavo aspettando».

“Questo però non me lo sono sognato”, rettificò poco dopo, sentendo molto chiaramente la voce di poco prima dietro le sue spalle.

Col cazzo che si sarebbe girato, col cazzo! Aveva visto abbastanza film horror per sapere che, facendolo, poi l’assassino di turno lo avrebbe sgozzato come un agnello il giorno di Pasqua, cascarci nella realtà sarebbe stato un insulto alla sua stessa intelligenza! Decise allora di seguire quell’istinto, preferendo chiudere gli occhi e contare fino a dieci, venti, anche cento se fosse stato necessario.

Contando e contando, infine si girò: non c’era nessuno.

Tirò un profondo sospiro di sollievo: suggestione, nulla di più.

Calmatosi almeno sul fatto che fosse solo lì dentro, girò i tacchi e si avviò per tornare indietro… o avanti, o dovunque stesse per andare senza un minimo di orientamento; improvvisamente, però, sbatté contro qualcosa.

O meglio, qualcuno.

A fargli da muro, c’era un uomo alto dall’aspetto androgino con la pelle bianca e diafana, che lo sovrastava non di poco troneggiando su di lui con quella sua cascata di capelli più neri del luogo in cui galleggiavano, percorsi qua e là da un curioso luccichio biancastro ora fisso, ora intermittente, come piccole stelle che rischiavano quella distesa di buio pesto che era il cielo notturno. Sulla sua schiena svettavano un paio di grandi ali, le piume nerastro-violacee simili a vetro percorse da rune fucsia acceso.

Phobos sentì uno strano brivido percorrerlo, la saliva che faticava a scendergli giù per la gola: non sapeva il perché di quel giudizio, ma da uomo eterosessuale qual era lo trovava quasi… affascinante? Era quello il termine giusto?

Va bene che lo aveva mezzo scambiato per una donna, eyeliner e rossetto potevano facilmente trarre in inganno, ma non riusciva a spiegarsi come potesse aver avuto anche il minimo dubbio di poter trovare sensuale qualcuno che indossava un completo di pelle e cuoio - in perfetto stile stereotipo cinematografico da gay bar del secolo scorso- e borchie, con tanto di cinghie che formavano un pentacolo sul petto fra l’altro!

Assorto com’era nei suoi pensieri, non si accorse della mani che si misero a palpeggiarlo letteralmente ovunque, come a studiarlo.

«Di persona sei pure meglio di quanto credessi l’ultima volta, a dirla tutta potrei pure farci un pensierino» rifletté ad alta voce l’uomo, ammiccante. «Ad Apophis però non lo diciamo, che se inizia a fare il geloso chi lo sopporta? Io no di certo, preferisco metterlo a tacere infilandogli il mio cazzo in gola, per cui eventualmente toccherà a te farlo… anche se la vedo dura, dal momento che lui è lassù» indicò quello che doveva essere il soffitto di quel luogo, dove una luce bianca iniziò a brillare, formando qualcosa di molto simile alla Luna «e tu quaggiù» indicò il pavimento.

Phobos trasalì: Apophis… quel nome non gli era affatto nuovo, sentiva di conoscerlo, sapeva di conoscerlo, gli suonava così tremendamente familiare!

Una parte di sé era convinta al cento percento di averlo già sentito, un’altra invece era convinta che probabilmente quello era solo l’ennesimo di tanti, troppi, nomi che gli vagavano nella mente senza meta, senza destinazione, senza un volto a loro assegnato.

«Come sarebbe a dire “l’ultima volta”?» domandò infine, facendosi coraggio.

L’altro lo guardò qualche istante, confuso esattamente come lo era lui.

«Oh, è vero! Me ne stavo quasi scordando!» esordì poco dopo dandosi una pacca sulla fronte, come se avesse improvvisamente avuto un’illuminazione. «Devi scusarmi, zuccherino, mi ero completamente dimenticato del lavoro della Barbie Platinata col tuo povero cervello: ovvio che non ti ricordi di me, non ti ricordi di un bel cazzo di niente! Eheh!» rise, una risata talmente affilata che a Phobos parve quasi di sentirla lacerargli le carni.

Gli afferrò il mento, le unghie affilate che lasciavano profondi segni rossi sulla pelle pallida.

«Ma ora c’è qui lo zio Endy a darti una mano, contento?»

«Lo zio En-»

Una fitta lancinante gli attraversò la testa da una parte all’altra, lasciandolo senza fiato.

Anche questa volta, a Phobos parve di aver già provato quel dolore, di aver già vissuto quella spiacevole sensazione di sentire migliaia di coltelli che gli si conficcavano all’unisono nella materia cerebrale riducendola in zuppa, di essere familiare a quella sofferenza. Eppure… eppure…

Eppure ora si ricordava fin troppo bene che ad infliggerglielo era stato Apophis, la prima volta in cui gli aveva fatto visita nella sua testa.

L’altro lo guardò, soddisfatto e alquanto compiaciuto.

«Come ho detto, lo zio Endy pensa a te» gli disse languido applaudendosi da solo, poi agitò le mani davanti a sé «non ringraziarmi, ti prego, ho solo fatto il mio dovere di divinità fastidiosa e bastarda fin dentro il midollo: è sempre un immenso piacere fare uno sgarbo a qualcuno, del resto sono io dio proprio di questo genere di cosucce da umorismo spiccio» rise.

«C-cosa m-mi… m-mi… hai f-fa-fatto?» balbettò il rosso da terra, tentando inutilmente di rimettersi in piedi a causa della testa che ancora gli martellava

Il suo interlocutore gli si avvicinò.

«Barbie ti priva della memoria, io te la restituisco» spiegò brevemente. Gli tese una delle ali per aiutarlo a rialzarsi «O almeno, io annullo i suoi patetici incantesimi da dilettante qual è: vanta chissà quanta esperienza con la magia, si proclama come “l’unico Lunanoff degno di sedere sul trono del Palazzo della Creazione”, ma la verità è che non riesce nemmeno a farsi una tinta come si deve. Sapevi che è biondo platino tinto, eh? Al naturale è castano, lui! Chiaro, certo, ma castano non è biondo platino, eh!» gli sussurrò all’orecchio quasi stesse confessando chissà quale segreto.

Phobos si mise sulle proprie gambe, aspettando a lasciare la presa salda di quelle piume -incredibilmente dure e affilate, aveva notato- finché gli arti non smisero di tremare per lo sforzo al quale si era appena sottoposto.

Gettò uno sguardo verso il proprietario di suddette piume: quella voce… quella voce era la stessa che aveva sentito quando aveva tentato di attaccare Apophis, la stessa identica voce di allora!

Allora si era detto che probabilmente era un suo alleato, ma adesso trovava alquanto improbabile che un suo collaboratore si mettesse a riparare ai suoi danni; la memoria gli era tornata, avrebbe dovuto essere contento, ma non ci riusciva nemmeno se si concentrava: c’era sotto qualcosa, ma non aveva idea di cosa fosse.

«Non guardarmi così, avanti!» lo canzonò l’altro alzando le mani in segno di resa, notando come Phobos lo stesse fissando insistentemente. «Lo so, lo so, Barbie ha i capelli troppo morbidi per pensare che siano opera di ore e ore e ore di lotta in bagno contro il decolorante e la tinta che pare avere vita propria da quanto si sparge ovunque, ma questi poveri occhi» se li indicò, due macchie nere nelle quali facevano capolino un paio di iridi e pupille bianco argenteo ciascuna «hanno visto cose che voi moscerini non potete nemmeno immaginare. Tipo Apophis quando si fa la maschera con-»

«Chi diavolo sei?» lo interruppe Phobos.

L’uomo sorrise.

«Endless Sorrow» disse con un inchino «dio delle disgrazie e della sventura, mietitore di speranze e sogni, flagello di mortali e immortali, macellaio di divinità, nonché quello che si sbatte Apophis Nightcrawler alias La Barbie Platinata. Non sono di queste parti, diciamo che mi trovo in questo universo in villeggiatura: troppe grane, da me, troppe principesse del giorno e della notte e dell’amicizia e dell’ammmore e di stocazzo. Ero stressato e avevo bisogno di una pausa, per cui» allargò le braccia, aprendo al contempo le ali «eccomi qui».

Gli si avvicinò, guardandolo dall’alto in basso «Mentre tuuuuu…»

«Io sono-»

«Phobos. Capelli rossi, occhi dorati, seimila anni, principe dei Chronalion e ultimo di essi, amante dell’allora principessa degli Starequus, Harmonia, unica sopravvissuta della sua razza nonché Regina di Phantasia e del pianeta Exodus. Siete diventati coppia fissa, millenni fa, ma la vostra storia è tragicamente finita settecento anni or sono per colpa di Barbie. Nonostante il modo completamente differente col quale avete affrontato la situazione -uno schizzato e schiavo di Apophis, l’altra disperata ma che ha comunque trovato la serenità con una naga ninfomane ermafrodita- vivete entrambi consumati dal senso di colpa: tu per non averle detto che non era colpa sua, lei per non essere riuscita a dirti addio».

I segni sulle sue ali presero a brillare, poi Endless schioccò le dita: comparvero un tavolo imbandito e due sedie, su una delle quali prese posto lui.

«Questo lo so, tesoro mio, dimmi qualcosa di nuovo».

 

Dire che Phobos si era improvvisamente tramutato in una statua di marmo non avrebbe reso sufficientemente bene l’idea di quanto fosse sconvolta l’espressione dipintasi sul suo volto.

“Endless Sorrow, dolore eterno: un nome, una garanzia”, fu tutto ciò che riuscì a pensare nel mentre che il suo cervello si riduceva in pappa, in poltiglia, in un liquido denso che -se ondeggiava leggermente la testa- gli pareva di sentire scivolare da una parte all’altra della sua scatola cranica ora vuota, dal momento che tutto ciò che conteneva si era volatilizzato sentendo le parole del dio che aveva davanti.

Chronalion… da quanto tempo non sentiva pronunciare quella parola da qualcuno? Secoli? Millenni, forse? No era prima, molto prima, proprio quando… quando… no, no, no!

Si era ripromesso di non sollevare mai più quel velo pietoso che -seimila anni fa- aveva steso su quell’argomento, sulla sua vita prima che tornasse indietro, prima che diventasse il partner della Regina di Phantasia, e non intendeva scoprirlo proprio ora solo perché qualcuno dava a vedere di saperne su di lui più di quanto ne sapesse lui stesso: ci sono porte che non vanno aperte, libri che non vanno letti, vasi di Pandora che non devono essere scoperchiati, e per quel capitolo della sua esistenza valeva la stessa cosa.

E sarebbe valsa sempre.

 

Mostrarsi calmo, però, non fu così semplice; anche se il rosso riusciva a nascondere bene il volto contratto dallo stupore, le sue mani tremanti e la sudorazione elevata lo tradivano.

«Come fai a- a-»

«Potrei essermi permesso di dare una sbirciatina ai tuoi ricordi, prima che tu ti suicidassi» lo anticipò il dio mettendosi un tovagliolo al collo «roba interessante, devo ammetterlo, se non avessi finito le orecchie d’infante fritte con salsa Worcester sarei ancora qui a godermi lo spettacolo. Ma purtroppo-»

«Suicidato?» ripeté Phobos, tanto basito quanto incredulo.

Endless Sorrow lo invitò a sedersi.

«Suicidato, sì. Eri disperato per la morte del tuo amico leone, di Thorax, così ti sei spaccato ammerda di alcol -e droga, quelle canne prima dei sigari le ho viste eh!- finché non sei completamente partito di zucca» si avvicinò il dito alla tempia, muovendolo in cerchio per indicargli come avesse perso qualche rotella. «Ti sei dato fuoco, alla fine: scenografico, non lo metto in dubbio, ma ho visto talmente tanti roghi che non mi è poi sembrato chissà cosa di così spettacolare, a dirla tutta» concluse.

«Mi avrai scambiato con qualcun altro, allora» lo interruppe sedendosi «perché da quel che ricordo io non mi sono mai suicidato né ho mai pensato di farlo, tantomeno ho motivi per averlo fatto o volerlo fare» “tranne l’essere intrappolato nel mio stesso subconscio”, avrebbe voluto aggiungere, ma tacque. «Hai qualche prova in merito, magari?»

«Oh, ovviamente» rispose l’uomo alato, sorridendo.

Allungò una mano verso il nulla che li circondava, sfiorandolo con l’unghia dell’indice come se volesse graffiarlo; contro ogni aspettativa, uno squarcio rosa acceso e violaceo si aprì in quel tessuto nero come la pece, che iniziò a sanguinare una serie di piccole sfere multicolore.

Il dio ne prese una fra le dita, studiandola e gettandola nel bicchiere davanti a sé: immediatamente, dinanzi a Phobos si palesò una sorta di macchia i cui contorni andarono allargandosi pian piano, delineandosi in qualcosa che somigliava molto ad uno schermo. Endless Sorrow gli fece segno di guardare, e così fece: le forme indistinte si delinearono poco alla volta, acquisendo finalmente un aspetto e un volto.

Il suo, per essere precisi.

«Sono… morto...?» mormorò il rosso, con un tono che aveva dell’’interrogativo. Probabilmente aveva bisogno che qualcuno lo svegliasse da quell’incubo, ma non accadde: più guardava il suo corpo carbonizzato, più il ricordo di ciò che aveva fatto riaffiorava nella sua mente stanca e dilaniata da mille dubbi, da mille paure, da mille torture che stava subendo da sette secoli a quella parte.

L’altro sospirò, quasi annoiato.

«Nah, non puoi morire».

«C-cosa?»

Endless si portò un boccone di quello che pareva essere curry alla bocca, masticando lentamente prima di rispondere. Lo mando giù, leccandosi le labbra dopo averlo fatto.

«Quello che ho detto. Non puoi morire, pasticcino dolcino che non sei altro. Non finché servi a Barbie, almeno. Avanti, mangia».

«Ma io vorrei sapere-»

«Saprai, ma intanto mangia, che ti vedo sciupato. Sarebbe un peccato sprecare tutto questo cibo gustandolo freddo, non è mica come la vendetta» rise il dio indicandogli il piatto «e anche quella va consumata subito, parola di chi ha atteso e si è trovato imprigionato come il più patetico degli dei brutti e cattivi. Anzi, solo cattivi: sono fottutamente fa-vo-lo-so, non credi?»

Non sapendo cos’altro dire, Phobos annuì.

Guardò il proprio piatto, indeciso sul da farsi: non aveva nessuna voglia di mangiare, ma non poteva nemmeno rifiutare un invito da parte del dio delle disgrazie e della sventura; non lo conosceva e non aveva idea di cosa potesse fargli, ma preferiva non scoprirlo.

Con uno sforzo immane, dunque, si portò la forchetta alla bocca. Appena il cibo gli sfiorò la lingua, alzò di scatto la testa, come se fosse stato svegliato all’improvviso.

«Piace il curry di zio Endy, uh?» domandò l’altro, intanto che metteva nel piatto quelli che sembravano crostini dorati bruciacchiati.

«È… È… è assolutamente delizioso. Delizioso» rispose lui, sconcertato. Non credeva di starlo dicendo per davvero, il rosso, ma non aveva altre parole per descrivere la tempesta di sapori che stava imperversando sul suo palato: quel piatto era semplicemente una delizia, una primizia come mai ne aveva provate in vita sua! Di fronte a tanto gusto, persino il suo suicidio non sembrava più così importante.

Ne mangiò un altro boccone, poi un altro ancora, fino a quasi svuotare il piatto, prima di continuare.

«Non credo di aver mai mangiato qualcosa di sublime come questo» lo indicò con la forchetta, emozionato «dico davvero: è speziato ma non eccessivamente, si riescono a sentire tutti i sapori senza che uno sovrasti l’altro, persino la marcata nota piccante non disturba né intorpidisce la lingua dopo averla avvertita, per cui si riesce davvero a gustare fino in fondo. I miei complimenti, sono serio!»

Il dio arrossì, facendo qualche moina da ragazzetta timida nel mentre.

«Troppo gentile, troppo gentile» lo ringraziò. Gonfiò le ali, orgoglioso «Vedi, il segreto sta nella placenta: bisogna lasciarla seccare al Sole a lungo, ma mi raccomando! Deve essere ancora attaccata alla madre, che altrimenti perde sapore e il piatto risulta sciapo! E se proprio vuoi fare il signore, allora ci aggiungi qualche pezzetto di feto umano appena strappato dal ventre della sua genitrice: amo soprattutto le manine» sollevò col cucchiaio i presunti crostini «sono una vera e propria benedizione per il palato, queste. Le loro ossicine  fanno “crick crock” sotto i denti che è una favola, scrocchiano che è un piacere!»

«WAT» esclamò l’altro, ingoiando l’ultimo boccone.

E pentendosene subito dopo, quando sentì quel rumore di ossicina molli rotte sotto un molare: non poteva essere vero, non dovev… lo era, a giudicare dal minuscolo piede che aveva sulla lingua.

Sconvolto, schifato e pure un po’ impaurito, Phobos si gettò immediatamente sulla caraffa che aveva davanti, svuotandola tutta d’un fiato: aveva appena mangiato dei feti, dei fottutissimi feti umani! Quello era cannibalismo, per gli dei!

«Acqua! Dammi altra acqua! SUBITO!» gridò quando la terminò.

Endless lo accontentò subito, facendone comparire un’altra; solo dopo aver bevuto qualcosa come quattro o cinque litri d’acqua, finalmente il rosso alzò la testa, visibilmente confuso: c’era qualcosa di strano in quell’acqua, una strana sfumatura rossiccia che però non sapeva di vino, e nemmeno di… oh no.

«… Non era acqua, vero?» rifletté ad alta voce dopo qualche istante, inorridito.

La divinità rise senza ritegno alcuno.

«Liquido amniotico».

«Ma che cazzo di problemi hai?!!» tuonò Phobos, intento a ficcarsi due dita in gola nel tentativo di vomitare.

«Mi piacciono i bambini. Letteralmente» rispose Sorrow facendo spallucce, come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Ho solo gusti particolari, quante storie! Vedo una donna, la scopo o la stupro a seconda dei casi -perché qualche povera disperata che me la dà volontariamente c’è pure, cosa credi?-, la ingravido, la sventro per mangiargli il figlio: non è difficile da capire, è solo un gusto differente dal tuo!» spiegò, mostrandosi quasi offeso. «Non hai mai conosciuto nessuno a cui piacessero gli insetti? Ecco, vedila in questo modo: sono strano, tutto qui».

«E mangi i neonati!»

«I feti, prego» precisò «sono più gustosi dei neonati, meno acquosi e meno pieni di grasso. Ho anche io una certa linea da mantenere, cosa credi?»

«Credo che tu sia un fottuto pazzo. Divino, certo, ma pazzo.»

L’altro stava per rispondere, ma si limitò a far comparire l’ennesimo piatto davanti al naso di un Phobos particolarmente iracondo. Il rosso sollevò il coperchio, rivelando un plumcake ai mirtilli ancora caldo sul quale si stava sciogliendo una porzione di gelato al fiordilatte, con topping di caramello e cioccolato bianco.

Lo guardò sospettoso qualche istante, punzecchiandolo con la forchetta, non fosse mai che ci avrebbe trovato dentro un dente da latte.

«È un plumcake?» domandò.

«È un plumcake. Un normalissimo, comunissimo, buonissimo, plumcake» rispose il dio, con tanto di bavetta alla bocca, sembrava glielo stesse mangiando con gli occhi!

«… Niente feti, qui dentro?»

Endless lo guardò orripilato, quasi avesse bestemmiato in chiesa.

«Sono il mio piatto preferito in assoluto, i plumcake, non mi azzarderei mai ad inquinarli con pezzi di corpo di quegli schifosi mortali, mai e poi mai! Piuttosto mi strapperei una piuma dopo l’altra, mi taglierei i capelli, uscirei di casa senza l’eyeliner, ma mai, MAI, permetterei a dei luridi e lerci ningen di rovinare tanta perfezione! MAAAAAAAAAI!!!».

«Parli come Zamasu, cristo» commentò Phobos sprezzante, scuotendo la testa.

«Zamasu non aveva il mio fascino, ti prego, vuoi mettere il sottoscritto» fece scivolare le mani dal collo fino ai fianchi, in un modo che doveva sembrare provocante ma che -a conti fatti- aveva più dell’inquietante «con quell’omuncolo verde? Non c’è paragone, avanti».

«Ma mi sembri ugualmente interessato ai mortali, sbaglio?»

«Sbagli, sì» rispose secco.

Si versò da bere, temporeggiando prima di continuare.

«A me non interessa niente di nessuno: sono una divinità capricciosa, vogliosa e pigra, tremendamente pigra, motivo per cui me ne sbatto il cazzo di tutto e tutti. Voglio solo divertirmi, in quest’universo, e con “divertirmi” intendo guardare esseri inferiori a me che si fanno la guerra, che muoiono dopo dolori indicibili, che schiavizzano altri esseri, che si dannano l’anima per trovare una via d’uscita quando questa non c’è, che si nutrono come parassiti di ciò che ho precedentemente elencato: sono un dio, Phobos, un dio crudele, e questo è il modo in cui mi diverto» disse sorridendo tranquillo.

Poggiò i gomiti sul tavolo «Oltre a scopare, si intende, metterlo nel culo a Barbie è un’altra mia grande passion-»

«Più grande del venire qui a uccidermi senza che lui lo sappia?» intervenne il rosso. Si alzò un po’ dalla sedia, sporgendosi verso il dio «Perché sei qui?»

«Per ciò che ho appena detto: divertimento. Quello lo mangi?» chiese indicando il plumcake.

L’altro avrebbe voluto mettergli le mani al collo, ma si trattenne.

«Ti ho fatto una domanda» afferrò il dolcetto «perché sei qui? Vuoi uccidermi?»

«Mi hai fatto una domanda, e intendo rispondere» asserì il dio, piantandogli le quattro pupille argentee addosso «ma prima voglio quello» di nuovo, indicò ciò che teneva in mano l’altro, ormai visibilmente irritato.

«È la mia mente, questa, detto io le regole. E io dico che-»

«Che devi darmi il mio plumcake. Subito» gli intimò. Si fece improvvisamente cupo «Lo voglio, e ora tu me lo-»

Ci fu solo un breve sospiro causato dal soffice impasto che si ammosciava, quando Phobos strinse con forza le dita intorno al dolcetto, rendendolo una poltiglia molliccia e appiccicosa dai colori non meglio definiti; lo lasciò cadere a terra con un sonoro “splat” quanto toccò il suolo, le briciole che si sparsero tutt’intorno come gocce di sangue: pareva una scena del crimine, a vedere quel povero plumcake spiaccicato al suolo, un delizioso cadavere dolce e glassato che giaceva inerme circondato dalle interiora fatte di mirtilli ormai marmellata.

«No».

 

Se ci fosse stato un colore più scuro del nero, allora sarebbe stato quello perfetto per descrivere il tono che pareva aver assunto quel luogo in concomitanza col rifiuto del rosso all’insistente richiesta del dio.

Quando lo sguardo accusatorio di Endless Sorrow si riversò su di lui, l’altro uomo sentì lo stomaco farsi piccolo piccolo e il cuore perdere un battito, forse due, forse pure qualcuno di più: aveva sfidato una divinità, e si stava rendendo conto della gravità della cosa solo adesso. Ma non avrebbe ceduto, certo che no: voleva risposte, e le risposte sarebbero ciò che avrebbe avuto; divino o no, finché se ne stava nel suo subconscio avrebbe rispettato le sue regole.

Che sul piano teorico funzionava pure, ma su quello pratico… meh.

Tutto d’un tratto, sentì qualcosa muoversi sotto la mano che teneva sul tavolino; guardò in basso: tavolo e sedie si stavano sciogliendo.

Letteralmente.

 

Si scostò subito, spaventato che il suo arto potesse fare la stessa ingloriosa fine; messosi al sicuro dal rischio di liquefarsi, il rosso osservò come tutto il resto si fosse ridotto ad una macchia deforme stesa tristemente a terra, una sostanza viscosa che scoppiettava quando le bolle sulla sua superficie si gonfiavano eccessivamente.

Restò lì qualche istante, poi venne come assorbita dal pavimento, o da qualsiasi cosa fosse quella su cui si trovavano. Intanto, Endless continuava a starsene seduto nel vuoto senza sforzo alcuno, sospeso a mezz’aria nonostante la sua sedia fosse sparita.

«La mia specialità sono le maledizioni» asserì dopo un po’ con tono grave, tenendo il capo chino. Le rune sulle ali iniziarono ad emanare uno strano fumo fucsia acceso, iniziando a brillare «Di solito scelgo qualcuno, e semplicemente lo maledico: semplice ed efficace, perfetto per un dio pigro come me. Sai qual è la cosa peggiore di una mia maledizione?» domandò.

L’altro scosse la testa.

«Che si trasmette di generazione in generazione, di padre in figlio in nipote e così via, continuando a tormentare il malcapitato e la sua stirpe in eterno senza mai fermarsi, semplicemente perché non c’è incantesimo mortale o immortale che possa fermarla. Ho spazzato via generazioni di divinità, così, e ammetto di essere fortemente tentato di farlo anche con te».

Seguì una lunga pausa, durante la quale il dio parve seriamente intenzionato a maledire pure lui, a giudicare dallo sguardo truce che aveva assunto.

«Ma sarebbe inutile, dal momento che tu una stirpe non ce l’hai e mai l’avrai, considerando la tua posizione». Allargò le braccia, come a indicare la vastità della mente dell’altro «Guardati, Phobos, guardati e stai in silenzio: solo, bloccato nel tuo stesso cervello, schiavo di un mostro come Apophis che ti sfrutta come il suo personale burattino, impossibilitato a comunicare col mondo esterno e costretto a vivere con consapevolezza di non poter mettere fine a questa tortura, di non poterti opporre quando Barbie ti ordina di attaccare ed uccidere Harmonia».

Lo guardò come a studiarlo, sorridendo e corrugando la fronte nel mentre.

«Non potrei fare di peggio, sono sincero, del resto cosa c’è di peggiore del non poter avere il controllo sulla propria vita? Di sapere che è una persona a te completamente estranea a controllarla e plasmarla a suo piacere? A decidere persino su come e quando tu debba mettere fine ad essa?» domandò.

Il rosso non rispose, limitandosi a stringere i pugni finché non sentì le nocche indolenzirsi, le unghie scavare nella pelle, il sangue colare piano fra le dita insinuandosi fra di esse.

Capendo di aver centrato il punto, Endless Sorrow si fece comparire in mano un plumcake identico a quello che l’altro aveva gettato a terra; gli diede un morso generoso, gustandoselo a dovere prima di continuare.

«Volevi una risposta? Bene, io te la darò. Puoi tentare il suicidio finché vuoi, puoi anche riuscirci come hai già fatto dandoti fuoco, ma sarà tutto completamente inutile: tornerai in vita sempre e comunque, e quando dico “sempre” intendo proprio “sempre”, in eterno».

«Perché?»

«Perché servi ad Apophis, ecco perché» spiegò, intanto che era intento a scavare nell’impasto per cercare i mirtilli e mangiarli.

Ne prese uno fra le dita, girandolo e rigirandolo; infine, si decise a ingoiarlo.

«Esiliato nel lato oscuro della Luna da incantesimi antichi quanto l’universo, ingabbiato come un animale da una barriera retta da magie che vanno oltre l’immortale comprensione, troppo accecato dai demoni che si porta dentro per organizzare le idee abbastanza lucidamente da pensare a ciò che ti fa fare, la Barbie Platinata non può certo portare a termine con le proprie mani ciò che ha iniziato settecento anni fa, ma tu» lo indicò «puoi. Non vuoi, ovviamente, perché a quella donna hai dedicato i tuoi ultimi seimila anni di vita -o meglio, cinquemila e trecento, togliendo la permanenza nell’Abisso- e le hai giurato assoluta fedeltà, ma ciò che vuoi o meno tu non ha più nessuna importanza: Apophis è rilegato sulla Luna, e tu sei rilegato nella tua mente».

Con un movimento del braccio, il dio fece comparire una scacchiera semi trasparente e fluttuante davanti a sé.

«Apophis è il re, tu il suo alfiere, i tuoi leoni sono i suoi pedoni. Non c’è nessun altro a proteggerlo, semplicemente perché non ha bisogno di protezione: nessuna creatura mortale o immortale può oltrepassare la barriera, da un certo punto di vista lui nemmeno gioca» disse, facendo scomparire il pezzo del re dal campo. «Dall’altra parte c’è la regina, l’obiettivo di Apophis alias il tuo, dal momento che ti controlla. Cosa noti, guardando questo lato della scacchiera?»

Phobos rimase a osservarlo per un po’, ma proprio non gli diceva niente di niente; iniziava a pensare che Endless stesse vagheggiando per confonderlo, ma si tenne per sé quel pensiero: dopo il plumcake spiaccicato, voleva evitare altre grane.

«Ehm… niente?» rispose imbarazzato il rosso.

Il dio scosse la testa.

«Guarda meglio: che differenze noti fra questo lato» indicò quello a destra «rispetto a questo?» poi quello a sinistra.

«Che in quello a destra ci sono più pezzi…?»

«Precisamente quello» sorrise toccando la scacchiera.

Improvvisamente, i pedoni di quel lato che si divisero in due, poi in quattro, poi ancora in otto e così via, fino a diventare una massa di minuscoli puntini quasi indistinguibili, date le ridotte dimensioni rispetto ai pezzi originali.

La divinità ne prese uno sul dito, mostrando quel granello di polvere all’altro uomo.

«Harmonia ha schiere di generali e soldati e gente pronta a proteggerla, ai quali vanno aggiunti i guardiani e -occasionalmente- quelli che se ne stanno ai piani alti. Un numero indefinito di persone il cui unico obiettivo è quello di salvaguardare la regina, insomma, immolando persino la propria vita se dovesse rivelarsi necessario».

«È quello che fanno tutti i soldati, Endless, perché ti sorprendi tanto?»

«Oh, ma perché tutti concentrano le loro energie sul proteggere la loro sovrana, ma -curiosamente- un tale dispiegamento di forze non è impiegato per proteggere qualcosa di ben più prezioso, o pericoloso, a seconda dei punti di vista».

Il dio si mosse, mettendosi a girare intorno all’altro fino a trovarsi alle sue spalle. Gli si fermò vicino all’orecchio, avvicinandosi ad esso.

«“Possano i suoi zoccoli non essere mai ferrati” non è solo il motto di Phantasia, ma tu questo lo sapevi già» gli sussurrò, la lingua -nerastra e biforcuta, notò il rosso- che glielo leccò con una certa malizia «e anche Apophis lo sa».

A quelle parole, Phobos si congelò: non riusciva più a muovere nessun muscolo del corpo, nemmeno le palpebre parevano rispondere ai suoi comandi, sembrava essersi scordato persino come si respirasse da quanto il suo petto si alzasse e abbassasse freneticamente.

No, Apophis NON sapeva, no, no, certo che no!

Lui non aveva parlato, mai lo avrebbe fatto! MAI!

«È impossibile» si limitò a commentare stizzito: non aveva tradito Harmonia, non aveva rivelato nulla, lui, non era colpa sua. Non lo era. Non poteva esserlo. Non doveva esserlo.

Quella sua velata disperazione venne subito notata dall’altro.

«Al contrario, è possibilissimo» controbatté l’uomo alato. Gli afferrò il mento, costringendolo a girarsi verso di lui che, intanto, si era chinato per guardarlo dritto negli occhi «Vuoi sapere chi glielo ha detto, uh?»

 

Non ricordò di aver annuito, ma dal sorrise di Endless Sorrow si rese conto di averlo fatto.

Incontrò il suo sguardo solo per una frazione di secondi, lo stesso in cui si rese conto di non poterlo sostenere, di non poter reggere oltre il confronto con un essere di quel calibro; era fisicamente assente, del resto, si sentiva come se il suo corpo e la sua coscienza si fossero completamente staccati l’uno dall’altra, lasciando indietro quel guscio vuoto che si reggeva in piedi solo perché a sostenerlo c’era la presa della divinità.

Quando le labbra del dio si posarono sulle proprie, Phobos ringraziò gli dei di non essere abbastanza lucido da rendersi completamente conto della situazione: avrebbe risposto alla sua domanda, forse, ma voleva qualcosa in cambio.

E quel qualcosa era limonarselo.

O meglio, ficcargli la lingua fino in gola fin dentro l’esofago, mozzandogli il respiro e facendogli -purtroppo- riacquisire quel minimo di coscienza necessaria per rendersi conto di stare mezzo soffocando; non che allora poté scrollarsi il dio di dosso, ovviamente, né riuscì a sottrarsi a quel bacio talmente feroce da sembrare più il preludio di un pranzo.

Chiuse gli occhi stringendoli il più forte possibile, ricacciando indietro quella lacrima solitaria che stava facendo capolino all’angolo di uno dei due, con l’unica speranza che tutto ciò finisse il prima possibile: se quello sarebbe servito a tornare da Harmonia, allora lo avrebbe sopportato in silenzio. Avrebbe sopportato tutto pur di poterla rivedere e toccare e baciare, pur di riaverla vicino  per sempre un’altra volta, pur di poterle dire nuovamente “ti amo” con la propria bocca. Tutto.

Tutto.

 

Dopo un tempo interminabile, finalmente fu Endless a staccarsi, sorridente e raggiante come mai fino ad ora. Lo guardò con un’espressione che per il rosso fu indecifrabile, un misto fra soddisfazione e malignità.

«Delizioso, proprio come immaginavo. Cielo, non puoi immaginare quanto vorrei stuprarti quel tuo culo verginello fino ad aprirlo tanto quanto un buco nero in questo preciso momento, ma mi tratterrò solo perché sono di fretta» commentò amareggiato leccandosi il labbro.

Lo squadrò da capo a piedi, pensieroso.

«Dì, vuoi ancora sapere chi è l’uccellino che ha cantato su quel piccolo segretuccio? Perché in caso contrario una scopata dovrei riuscire a farcela stare, prima che-»

«Dimmelo e facciamola finita con questa storia» ringhiò il suo interlocutore, i pugni serrati che ci mancava poco partissero da soli in direzione dei denti della divinità.

Quest’ultima gli toccò il naso con l’indice, ridacchiando.

«Sei stato proprio tu, sciocchino».

Prima che l’altro potesse controbattere, però, Endless Sorrow gli mise un dito sulle labbra per zittirlo in partenza.

«Tu hai permesso a Barbie di frugarti nella testa alla ricerca della via più veloce per arrivare alla regina. Tu hai suggerito lui quali mosse far fare al proprio burattino -ovvero te stesso- per conquistare e radere al suolo Phantasia. Tu hai aperto il vaso di Pandora, quando sei evaso dall’Abisso ed hai spezzato il sigillo della Dea di quel pianeta in culo al cosmo. Tu e nessun altro», Gli si avvicinò petto a petto, costringendolo a indietreggiare «Se c’è un colpevole, se c’è qualcuno da condannare, se c’è un responsabile contro il quale puntare il dito per questa brutta faccenda, beh, quella persona sei tu. Volevi fare l’eroe, settecento anni fa, ma sarai ricordato solo per essere stato il complice di un massacro».

«Io non ho-»

«Guardati, Phobos, guarda cosa ti ha fatto il maggiore dei fratelli Lunanoff! Controlla il tuo corpo. Controlla la tua mente. Controlla i tuoi ricordi. Ciò che ricordi tu, Apophis lo ricorda a sua volta, o almeno lo vede: non puoi tirarlo fuori dalla tua testa, è troppo tardi, ormai». Si guardò intorno, come se avesse appena scorto o sentito qualcosa «Eeeeed è ora che io me ne vada, non voglio essere qui quando ti cancellerà la memoria e ti strapperà dal dolce e confortevole abbraccio della morte».

Girandosi, indicò un lampo poco lontano, accompagnato da qualcosa di molto simile ad un ruggito che pareva provenire dagli inferi.

«La prima di innumerevoli volte che verranno, si intende, perché ho la vaga sensazione che -quando e se avrai qualche istante di lucidità- finirai per suicidarti ancora, e ancora, e poi di nuovo, nella vana speranza di impedirgli di arrivare al cuore pulsante di Phantasia. Ci si rivede, allora, mi mancheranno quelle labbra».

«A-Aspetta! ASPETTA!» gridò il rosso con tutto il fiato che aveva in corpo, disperato.

«Sì, bellezza?»

Venne colto di sorpresa dal dio che si voltò per ascoltarlo, menefreghista com’era non si aspettava che l’avrebbe fatto per davvero, ma ora non poteva più tirarsi indietro: se voleva uscirne, allora doveva arrivare fino in fondo.

Con uno sforzo immenso, Phobos tirò fuori l’espressione più minacciosa che riuscì a racimolare.

«Se lui guarderà nei miei ricordi, allora saprà anche della nostra conversazione, e non credo che tu lo voglia» gli fece presente con calma innaturale. «Se ora mi lasci qui, per me sarà la fine, ma anche per te: Apophis mi punirà come sempre, ma con te non sarà più clemente».

«Cerchi di ricattarmi, per caso?» domandò l’uomo alato, sorridendo.

«“Ricatto” suona male, trovo che la parola più adatta sia “accordo conveniente per entrambi”» precisò facendo spallucce «se il tuo amico ti trova qui, puoi stare sicuro che non si berrà la storia che fossi solo curioso di parlarmi in privato, specie quando andrà a frugare nella mia mente e capirà che tu hai complottato alle sue spalle: ti considererà un traditore, e-»

«Ed è proprio qui che sbagli. Non saprà mai cosa ci siamo detti di preciso, non verrà nemmeno mai a conoscenza che io sia stato qui, in realtà: sono un dio, credi davvero che non abbia preso le mie precauzioni?» lo bloccò Endless.

Improvvisamente, tornò indietro da Phobos, fermandosi proprio di fronte a lui. Di nuovo, quella sensazione di essere minuscolo tornò ad assalirlo.

«Devi sapere che, dal primissimo istante in cui ho messo piede qui dentro, queste» si indicò le rune brillanti sulle ali «hanno fatto ciò che fanno sempre: nascondermi. Non puoi nemmeno immaginare quante creature abbia portato alla pazzia perseguitandole in pubblico, salvo fare il modo che mi vedessero e solo loro e che, solo a loro, io fossi tangibile. Guarda tu stesso».

Aprì le braccia e le ali, invitando il rosso a toccarlo; quest’ultimo era alquanto riluttante a farlo, ma decide di obbedire: posò la mano sul suo torace, e questa gli passò attraverso.

L’altro rise, evidentemente compiaciuto.

«Plebei e nobili, re e regine, dittatori e tiranni, tutti che venivano internati come pazzi, quando farneticavano di un’ombra che ghermiva i loro primogeniti solo per far credere loro che la decima piaga d’Egitto fosse una cosa da prende sul serio; che sterminava i loro eserciti ancora prima che mettessero piede fuori dalle mura della città, per far insorgere le genti; o ancora che gli infilava una mano in mezzo alle gambe mentre loro tenevano i discorsi in pubblica piazza, la stessa dove venivano poi giustiziati dai loro stessi cittadini, non potevano mica tollerare un sovrano folle. “Dio delle Disgrazie e Sventura”, appunto».

Lentamente, il suo corpo iniziò ad assumere lo stesso aspetto delle sue ali, la pelle che lentamente veniva avvolta da una nebbiolina nerastro violacea: man mano che avanzava pareva consumare l’epidermide, le carni, persino le ossa, lasciando dietro di sé una distesa di vetro -o qualcosa che si somigliasse molto- dello stesso colore.

«Tutto ciò che Apophis vedrà sarà solo un povero disgraziato che parla al vento, niente di più e niente di meno: spiacente che il tuo piano non abbia funzionato» finse di scusarsi. Lo guardò impietosito, quasi -falsamente- commosso «Al prossimo suicidio, allora».

«Cosa-»

Una pioggia di schegge lo investì in pieno.

Cercò di gridare con tutto il fiato che aveva in corpo il suo dolore, ma l’unica cosa che uscì dalla sua bocca fu un suono strozzato che nulla aveva di umano.

Dinanzi a lui, Apophis. Di Endless Sorrow non c’era più nessuna traccia.

Rassegnato, il rosso si limitò a sospirare: conosceva già la procedura.

Disse qualcosa, il Lunanoff, ma l’altro non diede peso alle sue parole né le ascoltò; “Terra”, tutto ciò che aveva capito in quel borbottio sommesso era stato “Terra”, tutto lì.

Quanto sentì una mano posarsi sulla propria testa, Phobos si lasciò scappare un sorriso quasi divertito, uno di quelli che solo i condannati a morte possono riuscire a trovare nel fondo dell’anima già perduta che si ritrovano. Chiuse gli occhi, cercando di visualizzare il volto di Harmonia: era stata l’ultima persona che aveva visto prima di finire in quel limbo, sette secoli prima, era stata il suo ultimo pensiero prima di suicidarsi poco prima, voleva fosse il suo ultimo ricordo ad andarsene, adesso.

Lo sarebbe stata sempre. Sempre.

 

 

 

Phobos riaprì gli occhi. Thorax fece lo stesso.

Si guardarono intorno, confusi, vagando con le loro menti vuote fra le chiome a cupola degli alberi rosati che li circondavano: quella non era Phantasia.

 

 

 

***

 

 

 

“Non è importante la meta, ma il cammino”, disse un qualche hippie new era in palese trip da LSD e oppiacei vari.

“Stronzate”, diceva Emily Jane Pitchiner.

Non aveva idea di quanto tempo avesse passato a camminare e correre e farsi sferzare dalla pioggia per recarsi a Tandokka, ma -francamente- se ne sbatteva altamente il cazzo: era arrivata, alla fine, e contava solo questo.

Contava pure che fosse ridotta in uno stato a dir poco pietoso, mentalmente o fisicamente non si sapeva su quale fronte fosse messa peggio, ma quelli erano semplici dettagli; ora come ora voleva solo andarsene, fuggire, scappare, voleva diventare invisibile, sparire dal mondo senza più voltarsi, dimenticare di avere un passato e, forse, tentare di ricominciare.

E voleva farlo una volta per tutte.

Se Emily non avesse saputo di essere in ritardo di trent’anni, avrebbe seriamente creduto che l’impetuosa tempesta che l’aveva accolta fosse opera sua e del clima che pareva seguire il suo umore, un po’ come faceva ai tempi in cui era Madre Natura di fatto e non solo per un titolo che, con lei, sembrava non avere più nulla da spartire. Se era felice, il tempo era sereno; se lei era triste, allora pioveva; se aveva addosso un’impellente voglia di rovesciare il mondo e dargli fuoco come l’aveva ora, allora tsunami e terremoti e uragani sarebbero stati all’ordine del giorno.

A pensare a suddette onde anomale, un conato di vomitò le risalì prepotente la gola. Non riuscì a trattenerlo, non ci provò nemmeno.

Secondo il suo modesto parere, Gwenllian Jenkins Pendragon doveva avere un’idea piuttosto precisa di cosa significasse “tsunami”, a giudicare da com’era conciata lei e il luogo dove giaceva con l’amante ritrovato in fatto di ingenti quantità di liquidi sparse ovunque.

E quando diceva “ovunque” intendeva proprio “in ogni singolo angolo, anfratto o buco possibile immaginabile, di carne o meno non aveva importanza”.

Ecco.

Aveva incontrato gli occhi di suo padre solo per un istante, una manciata di secondi soltanto, ma erano stati più che sufficienti perché capisse ciò che il suo sguardo volesse dirle: “Esci da questa casa, e allora uscirai anche dalla mia vita”.

Le aveva detto quello, Pitch Black, o almeno Emily Jane così aveva interpretato l’occhiata che si erano scambiati; se Madre Natura avesse guardato meglio nel fondo di quegli stessi occhi, però, forse anche lei si sarebbe accorta di quel “mi dispiace” che aveva solcato la mente di un Uomo Nero che certo non avrebbe voluto mostrarsi a chicchessia nel mentre di un atto sessuale. Ma a lei non importava, non l’era importato nemmeno un secondo: lui per primo aveva fatto una scelta, e quella scelta aveva le fattezze di una donna dai capelli color cioccolato e dagli occhi nocciola solcati da quella curiosa eterocromia azzurra, non di una ragazza dai capelli corvini e dalle iridi dorate come le sue.

Non di sua figlia.

Guardò il cielo nero di tempesta: per gli dei, quanto avrebbe voluto che fosse stato tutto l’ennesima delle sue innumerevoli allucinazioni! Mai come ora desiderava trovarsi davanti lo spettro di Marigold che se la scopava in una stanza in fiamme!

E invece no, doveva accontentarsi della cruda realtà che le si palesava davanti anche lì, anche nel suo regno perduto e ormai disabitato.

Poco male: più ossigeno per lei.

Come a svegliarla dal torpore nel quale Madre Natura stava crogiolando con lo sguardo perso nel vuoto, uno stormo di ara macao -ormai gli unici abitanti di quel luogo abbandonato da dio, insieme a scimmie e alligatori- si levò sopra il suo naso, volando talmente basso che riuscì a sentire persino l’aria spostata dalle loro ali che fremevano e si dibattevano nell’etere. Alzò lo sguardo per godersi lo spettacolo offerto da quei maestosi volatili, nonché dei suoi unici sudditi: incuranti della pioggia scrosciante che coprivano con le loro grida, il loro intenso gracchiare le strappò addirittura un risata in quella giornata da dimenticare, quando Emily pensò che -con tutto quel rumore- fossero in grado di risvegliare pure i morti.

Poi le defecarono in pieno volto, e allora rise un po’ meno.

Con inquietante compostezza, si specchiò in una pozzanghera ai suoi piedi: come diavolo si era ridotta? Era ancora la regina di Tandokka, era ancora Madre Natura, oppure era diventata lo zimbello dei pappagalli, oltre che del resto del mondo?

Ma soprattutto, come aveva fatto a perdere tutta la sua dignità e iniziare a sprofondare, sprofondare, sprofondare sempre più in basso, fino a toccare il fondo di un abisso prima a lei sconosciuto, un luogo dove la patina di regalità e acidità nella quale si era rinchiusa non poteva più raggiungerla per proteggerla e salvaguardarla, come? O meglio, per colpa chi?

Ululando, il vento parve suggerirle la risposta.

Emily Jane sospirò: non aveva bisogno di ascoltare ciò che già sapeva, conosceva fin troppo bene il nome e l’aspetto di chi c’era dietro le sue disgrazie da tre decenni a quella parte, un ripasso era l’ultima cosa di cui aveva bisogno. Specie se a darglielo fosse stato un temporale che, tempo immemore fa, avrebbe potuto controllare col solo schioccare delle dita.

“Oggi la tempesta, domani Harmonia”, si disse, poi si chiuse la porta alle spalle.

E la bufera tacque.

 

Le radici dell’Albero di Olduvai si richiusero dietro di lei, intrecciandosi attorno a quel pezzo di corteccia ricavato direttamente dal tronco della pianta come a sigillarla.

Lentamente, Madre Natura prese a salire le lunghe rampe che l’avrebbero portata alla sua casa, o almeno a ciò che ne rimaneva: l’incendio di sette secoli prima aveva ridotto quel luogo ad un colabrodo -come il resto di Tandokka, in fin dei conti- marcio e scricchiolante, gli scalini che ad ogni passo lanciavano rumori grotteschi fin troppo simili a grida che rendevano la risalita quasi surreale, con quel pizzico di sano brivido nel temere che il passo successivo sarebbe stato l’ultimo e poi puff! Il legno carbonizzato avrebbe ceduto e inghiottito il malcapitato!

Per gli dei, quanto avrebbe voluto che le capitasse proprio ora, quanto!

Sfortunatamente per lei, però, la giovane Pitchiner arrivò sana e salva fino alle sue stanze.

Con disprezzo, gettò lontano quella maledetta saccoccia lercia e bucata che si trascinava appresso da giorni, i pochi vestiti buoni a lei rimasti che si riversarono sul pavimento zuppo d’acqua e fango e guano -sia a causa sua, sia a causa degli uccellini che fra i rami dell’albero avevano trovato dimora- nella sua totale indifferenza. Li guardò: nah, era troppo stanca per premurarsi di raccoglierli, o di preoccuparsi per come li avrebbe lavati, o di fare qualsiasi cosa non fosse l’accasciarsi mollemente sulla poltrona sgualcita e strappata che ben volentieri l’accolse.

Abbandonò il proprio corpo su di essa stendendosi e stirandosi un gatto, le ossa sporgenti che parevano prendere la forma della seduta come acqua in una caraffa: bere, aveva bisogno di bere per dimenticare.

«Shajiiiiiiiiraaa! Shaaaaaajiiiiiiiraaaaaaaaaa!» gridò, chiamando la propria serva.

Quest’ultima non rispose, il che era tutto fuorché normale: era sempre stata una domestica fedele e sottomessa a lei, alla sua regina, che sopportava con incredibile pazienza le sue scenate assecondandola in ogni richiesta, anche la più infantile. Appena Madre Natura la chiamava, Shajira correva come una matta per soddisfare il capriccio del momento della sua sovrana, eppure ora non lo stava facendo.

“Quella dannata bracciante nata in un campo di cotone mi sentirà, appena riuscirò a metterle le mani addosso! Si sarà imboscata con qualche uomo!”, pensò la giovane Pitchiner, visibilmente furibonda.

Presa dalla rabbia, saltò giù dalla poltrona e si diresse verso le stanze della servitrice a grandi falcate; non bussò nemmeno, intenzionata com’era a coglierla sul fatto. Sfondò la porta.

«Sei in un fottuto mare di guai, battitrice di strade che non sei altro!­ Giuro che ti-»

S’interruppe: non c’era nessuno, in quella camera.

Non convinta, Emily entrò e iniziò a guardarsi in giro sospettosa, aprendo ogni armadio e frugando in tutti i cassetti e rovesciando addirittura il letto, convinta com’era di trovare tracce della domestica là dentro.

Non trovando nulla -e non essendo possibile che quella benedetta donna si fosse volatilizzata da un momento all’altro, fedele com’era verso la propria regnante- ma non ancora convinta, uscì sbattendo violentemente la porta, sbuffando e borbottando fra sé e sé: se a quella disgraziata dalla pelle color ebano fosse accaduto qualcosa… no, no: doveva trovarla, non aveva altra scelta se voleva continuare a vivere tranquilla.

Una porta dopo l’altra, una stanza dopo l’altra, la regina di Tandokka passò il rassegna tutto l’Albero di Olduvai, tutti gli angoli e tutti gli anfratti del suo palazzo, senza trovare nulla; qualche minuto e, complice lo stress accumulato in quei giorni, la ricerca della serva passò in secondo piano: aveva bisogno di un lungo bagno ristoratore, e che Shajira si fottesse!

Nemmeno a farlo apposta, sentì il suono dell’acqua ancora aperta provenire dal bagno, accompagnata da una scia di abiti e orme sporche di fango che s’interrompeva davanti alla porta d’entrata per quest’ultimo.

Stanca com’era e totalmente disinteressata a sapere perché la domestica non avesse assolto ai propri doveri di tenere in ordine la casa, Emily Jane decise di sorvolare, trascinandosi fino a suddetto bagno quasi strisciando da quanto sentiva le gambe molli; iniziò a spogliarsi piano, lentamente, prendendosi tutto il tempo del mondo: aveva corso come una forsennata per tutto il tempo per arrivare a casa sua, decisa com’era a lasciarsi dietro le spalle suo padre e la sua puttana il prima possibile, tanto voleva fare con calma ora che finalmente poteva permetterselo.

Solo quando rimase in intimo, Madre Natura notò che c’era qualcuno dentro. Qualcuno che canticchiava, oltre a consumargli l’acqua.

«Siamo ritornati porca troia!»

Un ruggito si levò alto, come a rispondere.

«Puoi dirlo forte Thorax!»

 Un altro ruggito rispose, questa volta più forte del primo.

«Harmonia ti piscio in bocca!»

Qualcuno tipo Phobos, magari.

Nudo come un verme, con i gioielli al vento che si stava smanettando e, non meno importante, intento a sguazzare con tanto di pinne e boccaglio in una vasca piena di svariate latte di fagioli con salsa, tutte accatastate in un angolo a coprire una povera Shajira legata e imbavagliata.

Vicino a lui, un Thorax evidentemente alticcio che emetteva bolle di sapone dalle fauci; forse perché si era tracannato quattro o cinque bottiglie di balsamo, a giudicare da quelle vuote sparse sul pavimento.

Dinanzi alla doccia, Emily Jane in mutande e reggiseno rossa più del pomodoro contenuto in quelle scatolette, non si sapeva se più per l’essere senza vesti o per l’erezione dell’altro.

Coperta di legumi, ovviamente, come pure quelli appiccicati ai capezzoli.

Il rosso la notò subito; immediatamente le lanciò -forse per lo spavento, forse perché era rincoglionito e basta- una scatola piena e aperta addosso, colpendola in piena fronte.

«Kessobuona sti faciola! Porkaglidey mi piasano pedavero li faciola, li mancio tutti!­»

Il perfetto copione per un film porno, insomma.

O per una pasta e fagioli.

 

 

[… poco dopo…]

 

«Barbeeeraaaaa!»

«chaaampaaagneeeeee!»

«staaaseeera beeeeeviam!»

«peeer cooolpa deeel mio amooooor!»

«pa-ra-pa -PA

«peeer cooolpa deeel tuo amooooor!»

«pa-ra-pa-pa!»

«aaaaAi nooostri dooolooooor!»

«insieeeeeme briiiiindiaaam!»

«col tuuuuo biiicchieeere di baaarbeeeeera! coool miiiiio bicchieeeeere di chaaampaaaaagneee!» concluse Emily Jane, sollevando in alto la propria bottiglia di champagne come se fosse un trofeo, spaccandola a terra subito dopo. Phobos la imitò, rompendogliela dritta in testa con entusiasmo degno di un bambino.

I due compagni di bevute si guardarono qualche istante, sorpresi e confusi, quasi si fossero improvvisamente resi conto di cosa stessero facendo.

Ma fu solo qualche istante, appunto.

Non aveva niente in comune, quei due, niente in comune se non l’odio profondo per la Regina di Phantasia: ci sarebbero stati mille modi diversi in cui Emily avrebbe potuto reagire alla presenza di uno sconosciuto nel suo palazzo, come ci sarebbero pure stati mille altri luoghi in cui Apophis avrebbe potuto far finire Phobos, eppure eccoli lì a mangiare fagioli -“faciolaH!”, avrebbe detto il rosso- affogati nell’alcol.

Ridendo come cretini, si stesero a terra poggiandosi le teste sopra il dorso Thorax, intento a leccare Martini da una ciotola posta davanti al suo muso.

La giovane Pitchiner -armata di reggiseno tenuto sulla testa come un cappello- prese una mano dell’altro, stringendola nella propria.

«Siamo best friends forevaH, vero?­» domandò.

Phobos le sorrise, la bocca piena di legumi che si riversarono sulle loro mani unite come a benedire quell’unione.

«Ovviamente» rispose sbavando salsa che gli intanto gli andava di traverso e, quindi, gli usciva dal naso «best friends forevaH, Madre Pretura!» rispose tutto contento, dandosi ad un abbraccio alquanto fagioloso.

E incrociando le dita dietro la schiena.

 

 

 

 

 

___________________________________________________________

 

Angolino dell’autrice

 

HASTA LI FACIOLA!

Dissi che Phobos aveva ormai toccato il fondo più profondo del disagio e della pena, e che più in basso di così non sarebbe potuto scendere? Mi sbagliavo, e non aveva idea di quanto! :’D

Non ho nulla da aggiungere, mi limito a scusarmi per il ritardo nel rispondere alle recensioni ma pian piano mi sto organizzando per rispondere a tutto e tutti, vi ringrazio per la comprensione e ne approfitto per ringraziare anche per tutti quelli che leggono, recensiscono o semplicemente seguono questa storia, Endless Sorrow vi porterà dei plumcake in segno di gratitudine <3

Spero che sia tutto chiaro e non ci siano parti confusionarie, nel caso non esitate a chiedere ulteriori delucidazioni :)

Alla prossima!

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Capitolo 14
*** Exulansis ***


«Chi va via perde il posto all’osteria!»

«La padrona è tornata e la poltrona va ridata!»

«La chiave ce l’ho io e il posto resta mio!»

«Io torno dal Campidoglio e la poltrona la rivoglio!»

«Dove minchia sta il Campidoglio?»

«Te lo dico solo se ti levi dalla mia sedia».

«Altriment-­»­

Nemmeno il tempo di terminare la frase, ed uno spesso viticcio verdognolo coperto di foglie afferrò la caviglia del rosso, sollevandolo a mezz’aria. Con eleganza degna di una regina quale lei era, finalmente Madre Natura posò il proprio regale fondoschiena sulla sua amatissima ed enorme poltrona sgualcita.

«Altrimenti quello» commentò stizzita, sistemandosi.

«Si può sapere perché non potevo starmene seduto lì?» domandò un povero Phobos ancora sottosopra. Incrociò le braccia al petto «Chi arriva primo meglio si accomoda, la regola è questa!»

«Lo è, di solito, ma questo posto» accarezzò la stoffa «è mio. Mio. Solo e soltanto mio».

«E perché? È un posto come un altr-»

«Non osare dirlo» tuonò lei, cupa.

La giovane Pitchiner alzò leggermente la mano, muovendo l’indice verso di sé; immediatamente, il ramo che reggeva l’altro parve obbedirle, portando l’uomo sufficientemente vicino da potergli afferrare il mento con le lunghe ed esili dita.

«Non è una poltrona qualsiasi, questa, è la mia poltrona» precisò di nuovo. Batté con entrambe le mani sula propria seduta «D'inverno quel posto è così vicino al termosifone che staremo al calduccio, ma se uno vuole sudare dovrà abbracciarlo. D'estate sta su una linea di corrente fresca che si ottiene aprendo sia quella finestra» indicò la vetrata vicino alla porta d’entrata «che quell'altra» e poi quella dal lato opposto. «È di fronte alla tv, ha un'angolazione che non scoraggia la conversazione ma non implica neanche la distorsione del parallasse, visto che non è lontana. Potrei contin-»

«Di che problema soffri, precisamente?» la bloccò l’altro dondolando la testa, a metà fra il rassegnato e lo spaventato.

La donna lo guardò orripilata, terrificata, quasi offesa.

«Tu stai insinuando che abbia problemi emotivi inconsci che influenzano il mio comportamento, tanto da farmi aggredire le cose e le persone che minacciano la mia autorità di regina? Ho capito bene od ho capito giusto?»

«Io insinuo di non essere quello mentalmente più toccato fra i due, più che altro».

«Facevi il bagno nei fagioli, Phobos».

«… Traaaaanne che in quell’occasione, lì ero decisamente il più mentalmente più toccato dei due» convenne lui con un velo d’imbarazzo, arrossendo. «Ma non lo sono ora, comunque. Non sono finito quaggiù per mia volontà, non so nemmeno come ci sono arrivato, ma una cosa la so: eri meglio da ubriaca, sembravi meno socialmente disturbata».

«Ah! Il bue che da del cornuto all’asino, proprio!» gli urlò contro Madre Natura, infastidita da paragoni del genere. Gli piantò addosso uno sguardo truce «Dovresti essermi profondamente grato per l’ospitalità, e soprattutto per la pazienza: è raro che qualcuno metta piede in casa mia e riesca ad uscirne ancora con tutte le dita al loro posto, o che riesca a uscirne in generale» “o almeno, lo era un tempo, ora sei più pericoloso tu per me che io per te”, avrebbe voluto aggiungere, ma si limitò a pensarlo.

«La gratitudine non è il mio forte, lo ammetto. Ho altre doti, io».

«Tipo?» domandò lei, incuriosita.

L’altro le sorrise fiero, visibilmente compiaciuto. Non senza poco sforzo cercò di issarsi al sottile ramo che lo tratteneva per la caviglia, fino a poterlo afferrare con la mano recante il marchio di Apophis; ci riuscì, infine. Qualche istante, e di suddetto ramo rimase solo la cenere a terra.

Poi dettagli se il rosso non aveva tenuto conto che -bruciandolo- si sarebbe spiaccicato sul pavimento, una botta in testa non poteva che fargli bene.

O comunque non poteva peggiorare nulla, considerando che il limite del “peggio” era stato superato da un pezzo.

Si alzò da terra, si pulì i vestiti, poi aprì le braccia per mostrare tutta la sua presunta magnificenza.

«Tipo questo, vostra maestà».

Emily Jane lo squadrò qualche istante, sul volto un’espressione sorpresa che mascherava a malapena dietro quella patina da persona ben poco impressionata. O da regina che mal accettava il fatto di aver avuto l’ennesima dimostrazione che i propri poteri facessero cilecca.

«Ti odio» si limitò ad asserire, il viso imbronciato e le braccia al petto. Vedendo che l’uomo stava per controbattere, lo zittì in partenza mettendogli un dito sulle labbra «Ma sono grata a lui» gli indicò Thorax, accarezzandolo e prendendosi di rimando fusa goduriose «per la lezione data a mio padre e ad i suoi stupidi equini qualche tempo fa, quindi per questa volta ritieniti fortunato».

«Non mi taglierete la testa, dunque?» chiese lui fingendosi afflitto e disperato e in lacrime, gettandosi al contempo ai suoi piedi per baciarglieli e così inscenare una richiesta di grazia che il Medioevo poteva accompagnare solo.

Scosse la testa, rassegnata.

«Non oggi».

 

In millecinquecento anni di vita come Madre Natura, Emily Jane aveva conosciuto e classificato un numero non meglio definito di persone tutte diverse e uniche fra loro, ma con un singolo denominatore comune: le stavano sul cazzo. E non poco.

Poi c’era Phobos.

Phobos, per gli dei.

Quell’uomo era riuscito a non farsi odiare dal primo istante, e -ad ora- nemmeno lei aveva ancora capito come avesse fatto.

Da brava lesbica acida e disinteressata al membro da che ne avesse memoria, Emily aveva sempre preferito tenersi debita distanza -da leggersi “a qualche centinaio di metri, meglio di chilometri” dal genere maschile, quella fetta di mondo che nulla aveva da offrirle che fosse degno delle sue attenzioni e che, ovviamente, lei ricambiava allo stesso modo.

Era una lezione che aveva imparato ben prima di rendersi conto di essere omosessuale, questa, una lezione puramente frutto degli insegnamenti di quel brav’uomo di suo padre, di quello che -in un tempo remoto, dimenticato, ormai tenuto insieme solo da dei ricordi confusi- era stato il generale Kozmotis Pitchiner. Sempre amorevole con sua moglie e sua figlia, che non aveva mai fatto mancare nulla a l’una o l’altra, ma al contempo mai disposto ad abbassare la testa di fronte alle ingiustizie o presunte tali, lui e quella sua spada che pareva gridare “JUUUUUSTIIIICEEEEEEE!” manco fosse Toppo dei Pride Troopers.

Cristo, quanto le faceva male guardare Dragon Ball Super, un hakai sarebbe proprio ciò di cui avrebbe avuto bisogno in quel momento. Dritto in fronte magari.

Ma poi un disgraziato gli era piombato in casa, nella doccia, le si era presentato davanti nudo e crudo mangiando fagioli, mentre si faceva il bagno nei fagioli, con un leone dalla criniera piena di fagioli, e allora -per un qualche mistero del cosmo- era riuscito a fare breccia nella corazza che quella benedetta donna si trascinava dietro da tempo immemore.

Un pochino, almeno, che se lo avesse fatto completamente avrebbe già cambiato sponda, da quanto si erano ubriacati ammerda.

Da parte sua, Emily Jane era rimasta ad ascoltare la sua storia per ore e ore e ore fino a perdere la cognizione del tempo, da quanto il racconto della vita dell’altro l’aveva rapita, e non si era pentita nemmeno un istante di aver usato il proprio prezioso tempo da regina per farlo.

Aveva sentito pronunciare il nome di Phobos ben poche volte, ad essere sincera, e ognuna di esse legata alla guerra contro Apophis di settecento anni prima. Vuoi perché lei ai tempi fosse troppo occupata a maledire Marigold per essersi trascinata il Seme all’inferno, vuoi perché il conflitto che aveva investito la Terra fu solamente la punta dell’iceberg di quello avvenuto a Phantasia, vuoi perché semplicemente lei se ne sbattesse il cazzo di qualsiasi cosa non la riguardasse, ma per Emily Jane stare lì seduta in assoluto silenzio era stato come guardare un film mai visto prima, sorprendendosi per ogni singolo particolare.

Era arrivata la sorpresa, sì, e con essa pure un minima, insignificante, frivola, consapevolezza: aveva pazientemente atteso che il piatto della sua vendetta si freddasse per trent’anni, anni passati nella miseria e nell’ombra del titolo di Madre Natura, ma forse, forse, adesso aveva trovato chi l’avrebbe aiutata a consumare quella dolcissima portata.

Certo, non aveva ancora detto nulla all’altro, ma quando gli aveva sentito pronunciare il nome di Harmonia vicino alla parola “uccidere”… beh, quella era stata la ciliegina su una torta vecchia di tre decenni, una torta ormai rancida che sperava, sapeva, sarebbe tornata commestibile una volta bagnata col sangue della Regina di Phantasia.

Avrebbe ripreso ciò che le spettava di diritto, eccome se l’avrebbe fatto! E poi-

 

«Altri faciola?»­

E poi avrebbe mangiato altri fagioli, sì.

Emily Jane sobbalzò sulla sedia, da come il rosso l’aveva colta di sorpresa, spezzando inconsapevolmente la bolla mentale insonorizzata nella quale lei si era rifugiata per sfuggire a quella realtà fatta di allucinazioni e fallimenti, e l’aveva fatto con la stessa brutalità con la quale un bambino lascia il ventre della madre al parto.

Ricompostasi, l’aveva guardato malamente per qualche istante, come per assicurarsi che capisse di averla disturbata e che no, dopo la figuraccia di prima i fagioli non sarebbero serviti a ricucire il suo orgoglio.

«Altri faciola, sì, così tra un po’ mi uscirà una pianta di quegli stramaledetti legumi dalla bocca e inizierò a gridare “ucci, ucci, sento odor di alcolizzatucci”!»

«E il tuo naso sentirebbe pure l’odore giusto, considerando quello che abbiamo combinato» rise lui, indicandole le bottiglie vuote diligentemente accatastate in alcuni sacchi neri sull’uscio. «Sono sincero, non credevo reggessi tanto bene l’alcol, ti facevo più-»

«Fine ed educata, silenziosa e accondiscendente, premurosa e affettuosa, interessata alle “cose da regine” e meno alla birra, al caviale estratto da uno storione millenario cresciuto in un lago fatato a polvere incantata e mentine piuttosto che alla frittata di cipolle. Volevi dire questo, forse?»

L’altro annuì.

«Bene: non lo sono. E se vuoi saperlo sì, ho già smaltito la sbornia, altrimenti anziché stare ad ascoltarti ti sarei molto probabilmente saltata addosso, per fare cosa non è dato a sapere» fece una pausa «fortunatamente».

«Fortunatamente, sì» convenne Phobos, ridacchiando «anche perché -per quanto reputi interessante l’esperienza- abbiamo avuto e abbiamo ancora ben altro da fare, e mi duole ammette che questo “ben altro” è più importante di un coito perduto… iddio, non credo di averlo detto veramente, devo essere impazzito».

Si accasciò sul divano, stiracchiandosi e allungando gli arti similmente a quanto stava facendo Thorax a terra.

«Tu sai tutto di me, adesso».

«È vero» confermò Emily «o almeno: io so ciò che ti ricordi pure tu, vuoti a parte, per essere precisi».

«Ecco, sì, c’è anche quel dettaglio. Ma dubito che ti infastidisca, altrimenti mi avresti buttato fuori a calci in culo appena ti sono apparso in doccia; sempre che non fossi troppo presa a guardarmi i bassifondi» con gli occhi, si indicò l’inguine «s’intende».

La giovane Pitchiner divenne più rossa del sangue che colava dalla bistecca in bocca al leone.

«Io non-»

«Suvvia, non temere: non ti giudico, so bene che effetto faccio alle donne» la rassicurò agitando le braccia. Lasciò cadere la testa all’indietro, così da poter guardare dritta in faccia la donna «Tu sai chi sono io, ora, ma io non so chi sei tu»­.

«Tu sai benissimo chi sono» controbatté lei, avvicinandosi «sono Emily Jane Pitchiner, sono Madre Natura, sono la regina di Tandokka. Come ho detto, tu sai-»

«Che vuoi vendicarti di Harmonia proprio come lo voglio io, ma -francamente- mi sfugge il perché» l’interruppe «specie perché tu sei quaggiù sulla Terra, mentre lei è lassù a Phantasia: non dovresti c’entrare nulla con quella donna, eppure da come parli pari provare verso di lei tanto astio quanto ne provo io, il che è incredibile dal momento che quello sbattuto nell’Abisso è stato il sottoscritto. Se c’è sotto qualcosa, allora io voglio, pretendo, di saperlo».

«Pretendi?»

«Pretendo, sì: cosa credevi, che ti avrei raccontato della mia storia tanto per confidarmi?»

Lei non rispose, limitandosi a deglutire faticosamente.

No, certo che no, aveva intuito eccome che il suo turno per parlare sarebbe arrivato, ma non si era mentalmente preparata, non avrebbe potuto farlo neanche se si fosse impegnata: non aveva mai raccontato a nessuno nei dettagli di cosa fosse accaduto quel maledetto giorno, figurarsi se si fosse messa a raccontarlo a qualcuno appena incontrato! Ai tempi, persino suo padre si era accontentato di spiegazioni vaghe e confuse sulla vicenda, e -per il rapporto che aveva con sua figlia e per quanto le importasse delle sue stronzate- quelle erano bastate e avanzate.

Solo che lì non c’era suo padre, c’era Phobos: un perfetto sconosciuto, un uomo che era capitombolato nella sua vita totalmente a caso, forse il suo prossimo alleato. E non poteva permettersi di perderlo, soprattutto per un banale moto d’orgoglio.

«… È iniziato tutto trent’anni fa».

Le parole le uscirono dalla bocca quasi inconsapevolmente.

Non ricordava di aver sentito i muscoli del proprio volto darsi da fare per farle muovere le labbra, né tantomeno aveva avvertito le corde vocali vibrare per creare i suoni che aveva appena sputato e messo insieme in quella frase: aveva parlato, tutto qui, e ormai era troppo tardi per retrocedere.

Da parte sua, Phobos si sedette più o meno composto e si rivolse verso di lei, sempre mantenendo un religioso silenzio come l’altra aveva fatto a suo tempo.

Non si lamentò dei lunghi minuti di pausa che Emily si stava prendendo, semplicemente restò lì fermo con le mani giunte. Lei, invece, le mani le stava tenendo sull’abito che le cadeva morbido sulle gambe, le unghie conficcate sulle cosce che parevano poter squarciare la stoffa da un momento all’altro.

«È successo molto tempo fa, dunque» azzardò l’uomo, tentando di rompere il ghiaccio.

L’altra lo guardò impassibile, poi scosse la testa.

«Non per un immortale» rispose infine. «Dinanzi ai miei occhi, ai tuoi, trent’anni non sono che polvere, un granello di sabbia soffiato via dal vento di un tempo che non smette mai di scorrere, di soffiare, di imperversare su tutto e tutti… me compresa» sussurrò, le ultime parole che svanirono come scritte cancellate da uno straccio umido.

Decise di farsi forza.

«Allora, ero la creatura più potente che la Terra avesse mai visto: Madre Natura. Il mio nome era sulle labbra di chiunque, e quel “chiunque” temeva tanto la mia persona, quanto la mia ira. A buona ragione, aggiungo, non sono mai stata un tipo facile da prendere» iniziò a raccontare, nostalgica.

Si alzò dalla poltrona, avvicinandosi alle finestre.

«Avevo tutto ciò che una persona può desiderare e anche di più, molto di più: un regno che -sebbene fosse irrimediabilmente segnato dal passaggio di Apophis- riusciva ancora a dare una parvenza di regalità grazie alla mia magia» un sottile ramo coperto di germogli le avvolse il braccio «una magia che faceva fiorire i campi, e riempire gli alberi di foglie, e far crescere frutti maturi e succosi su piante ormai avvizzite» ci passò una mano sopra: immediatamente, dai piccoli boccioli fuoriuscirono dei minutissimi fiori grandi quanto viole selvatiche, di un acceso rosso corallo.

«Dei poteri immani, che mi consentivano di controllare il clima come un burattino sottomesso alla mia volontà, potevo addirittura organizzare pic-nic senza preoccuparmi di guardare il meteo perché -modestamente- il meteo ero io. E pensa che potevo creare dal nulla le peggiori catastrofi naturali, se ero arrabbiata, altro che la tempesta là fuori!» indicò il cielo, tornato scuro e nero per il nuovo acquazzone in arrivo.

Si bloccò qualche istante, lo sguardo catturato dal viticcio che aveva in mano: era già secco. “Alla faccia dell’essere Madre Natura”, pensò, ma ricacciò indietro presto i propri complessi d’inferiorità.

«Avevo persino un orgoglio, a quei tempi, un orgoglio che m’impediva di piegarmi a chicchessia pretendesse di venire a comandare a casa mia».

Phobos alzò la mano, come a prendere parola a scuola.

«Harmonia?»

«Harmonia, proprio lei» confermò la donna. «I poteri della Regina di Phantasia raggiungevano -e raggiungono- qualsiasi angolo del cosmo, direttamente o indirettamente, permettendo il proliferare della fantasia: ogni invenzione, ogni scoperta, ogni singolo libro che sta venendo pubblicato in questo preciso istante, tutto ciò avviene anche per merito suo. Senza la fantasia, l’uomo muore».

«Senza ossigeno, pure».

«Esatto! È la stessa identica cosa che ripetevo loro!» convenne un’Emily Jane particolarmente entusiasta, del resto quella era la prima persona fosse d’accordo con lei in decenni!

Il suo giubilo durò ben poco, però, per lasciare spazio ad un lato ben più oscuro di quella vicenda.

«Ma nessuno mi ascoltava, ovviamente. Ero diventata paranoica, vedevo nemici ovunque. Ovunque. A buona ragione, aggiungo: erano tutti dalla parte di quella sgualdrina, persino Manny -solitamente neutrale- si era schierato» si fermò, pensandoci sopra «anzi, togli Manny, quello è un caso a parte».

«Ah sì?»

Emily gli si avvicinò all’orecchio, come se stesse confessando chissà quale indicibile segreto.

«Io non ne so nulla, come puoi immaginare nessuno amava scambiare due chiacchiere o qualche pettegolezzo con me, ma voci di corridoio vecchie di settecento anni narravano che -a guerra terminata- l’Uomo nella Luna chiese ad Harmonia di diventare la sua sposa e regina consorte, e che lei rifiutò. Rifiutò un Lunanoff, te ne rendi conto?!!»

Lui fece segno di “no” con la testa.

«Ovvio che non te ne rendi conto, probabilmente sai a malapena cosa siano un Lunanoff» borbottò fra sé e sé, seccata. Batté sonoramente le mani, come a ristabilire l’ordine «Sia come sia, questo non cambia la situazione e non è un dettaglio importante, la conferma o smentita potrebbe darla solo quella zoccoletta equina».

«E non l’ha mai data, immagino».

«Immagini bene» convenne lei, decidendo di omettere il “non a me personalmente, almeno”.

Sorrise: ah, che gusto, che sollazzo!

La giovane Pitchiner non lo avrebbe mai ammesso, ma provava un certo piacere ad infamare quella centauressa che -a differenza sua- incarnava tutte le doti e le qualità di una sovrana giusta e amorevole, se lo faceva davanti ad altri poi era pure meglio, e non si sarebbe certo lasciata scappare quella succulenta occasione.

«Ma non mi sorprenderei affatto se una botta o due se le fosse fatte dare eccome, da Manny, non aveva certo di che perderci a farsi scopare da quello; per come la vedo io, Harmonia non è arrivata fin dov’è arrivata solamente sputando e sudando sangue, basta vedere com’è avvezza al farsi trivellare il culo da un’Ophidian ninfomane ermafrodita del resto!» rise.

Si aspettava che Phobos avrebbe fatto lo stesso, ma non fu così: di fronte al suo sparare giudizi random per via di antipatie vecchie quanto il mondo lui non aveva riso, era solamente rimasto impassibile, niente di più.

Aspettò ancora qualche istante, speranzosa, poi decise di lascia perdere.

«Comunque sia, in tutto ciò io ero diventata tremendamente paranoica, appunto; se prima vivevo serena e tranquilla a Tandokka, allora tre decenni or sono iniziai a temere che da un momento all’altro quella serenità mi sarebbe stata improvvisamente strappata via, e con essa tutto ciò che possedevo». Si cinse il torso con le braccia, le nocche rosse da quanta forza ci stava mettendo «Il mio regno, il mio titolo, i miei poteri… oh! Quanto temevo di perdere i poteri!»

«Sarebbe potuto accadere?»

«Certo. Certo che sarebbe potuto accadere, ed è accaduto!» gli rispose ad alta voce, gridando, quasi. Un tuono accompagnò l’atteggiamento maniacale da lei assunto «Sapevo che sarebbe successo, me lo sentivo dentro! Non potevo sbagliarmi, non io, non io che non sbaglio mai! MAI! Non-»

«E quindi cos’hai fatto?» la interruppe il rosso, non si sapeva se per sincera curiosità, o -più probabilmente- perché mosso dall’inquietudine che aveva iniziato a scorrergli nelle vene dopo quell’uscita da parte di Emily.

Quest’ultima non parve apprezzare l’interruzione, ma dovette farsela andare bene: prima si toglieva quel peso, prima sarebbe finita quella tortura.

«Feci l’unica cosa possibile: decisi di trasferire i miei poteri in un oggetto che avevo sempre con me, che potevo tenere d’occhio ventiquattr’ore ore su ventiquattro, sette giorni su sette, in modo che nessuno, nessuno, potesse privarmene. Ero ugualmente potente, ero sempre madre Natura, semplicemente avevo solo cambiato il contenitore dov’era riposta la fonte della mia magia da qua dentro» si mise una mano sul cuore «a qui» raccolse un lungo e spesso ramo da terra, alzandolo per mostrarlo al suo interlocutore.

Phobos lo guardò qualche istante.

«… Un bastone da passeggio?» chiese infine, confuso. E sempre più convinto di non essere lui il pazzo fra i due, anche quello.

«Uno scettro, cielo» lo corresse lei, esibendo un facepalm il cui suono riempì la stanza «che poi fosse solamente un pezzo di legno bianco impregnato di magia è un dettaglio, ma era uno scettro, era magico e, soprattutto, era mio».

«Era?»

«Era, sì».

«Dici “era”, ma perché non “è”? Come mai ne parli al passato? Se sei Madre Natura, allora devi per forza averlo da qualche parte, o hai nuovamente travasato i tuoi poteri da quel bastone al tuo corpo? E perché-»

«E perché non la smetti di fare domande?» sbottò isterica, interrompendolo.

Con tutta la calma del mondo, il rosso si alzò dal divano, dirigendosi verso la porta.

«Dove vai?» domandò l’altra, spaesata da quel comportamento; tre secondi prima se ne stava in silenzio ad ascoltarla come lei aveva fatto prima di lui, e ora decideva di levare le tende tutto d’un tratto! Che razza di comportamento era?

«Ovunque, ma non qui. Ecco dove vado, maestà» asserì senza girarsi, senza degnarla d’uno sguardo che fosse uno.

«Non puoi andartene».

«Posso, invece, e lo sto facendo» controbatté mettendo la mano sulla maniglia.

 «Non ti sta bene se faccio domande? Allora non aspettarti che mi faccia trattare come uno zerbino per ascoltare le tue risposte: a differenza tua, io ho ancora una certa dignità da mantenere, e non permetterò certo ad una sovrana lunatica di levarmela. Con permesso» cercò di aprire la porta, ma i rami non lo fecero passare. Poco male: gli bastò poggiarci una mano sopra e presero fuoco, liberandogli il passaggio verso l’uscita.

Il panico investì Emily Jane Pitchiner come un fiume in piena, travolgendola.

Avrebbe potuto, dovuto, fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di non perdere quell’unica speranza di alleanza che avesse, e invece cosa stava facendo? Se ne stava immobile davanti alla finestra senza muovere un muscolo, gli occhi pietrificati che sembravano essere sul punto di uscire dalle orbite da un momento all’altro, da quanto erano spalancati per l’amara sorpresa di quella reazione.

 

“Fai qualcosa”, le disse la sua coscienza.

Lo vide esitare, sulla porta, aspettare un suo segnale per tornare indietro. O almeno così le parve, afflitta dalla disperazione nera com’era.

“Qualsiasi cosa”.

Non esitò più, adesso. Agli occhi di Emily, tutto appariva come in slow motion: il piede del rosso che si alzava dal pavimento, il corpo che -una volta che l’arto si staccava da terra- si muoveva impercettibilmente per bilanciarsi, le scarpe che toccavano di nuovo il suolo, questa volta fuori da casa sua, però. Tutto ricominciò daccapo, quando mosse l’altra gamba: passo dopo passo, lentamente e silenziosamente, la sua unica speranza stava uscendo dalla sua vita.

“Falla, per gli dei!”

«Harmonia ha distrutto il mio scettro, trent’anni fa».

 

Pronunciò quelle parole senza accorgersene, esattamente come aveva già prima, ma questa volta il suo cervello sembrò spegnersi subito dopo: sentiva tutto ovattato, vedeva le figure sfocate, toccava il davanzale per sorreggersi ma non lo sentiva. Era come intangibile, quasi… irreale.

Prima che il terrore che fosse tutta quanta un’enorme un’allucinazione potesse possederla, Emily avvertì una mano poggiarsi sulle sue spalle e accompagnarla sul divano; sentì un certo calore prima sulle gambe, poi fino al petto.

L’ombra che aveva davanti le mise fra le mani qualcosa di non meglio definito, e allora avvertì una pressione non indifferente sulle braccia.

«Non so te, ma accarezzare Thorax è utile per calmare i nervi: se non fosse stato per lui non sarei uscito più o meno sano di mente da sette secoli di Abisso».

Pazientemente, prese una mano della donna e gliela mise sulla criniera del leone nero, accoccolatosi sul suo grembo mentre spolpava un osso che lei gli teneva. Prima di riprendere parola, però, Phobos attese qualche istante.

«Ti dico un segreto: i moti d’orgoglio non portano da nessuna parte. Ci sono già passato, so come andrà a finire, e non è nulla di buono. Per cui adesso» le afferrò le dita bianche e dalle punte gelide, racchiudendole nelle proprie «sputa il rospo, Emilia GiannaH Pitchoner, che se lo ingoi poi non voglio nemmeno immaginare la bruttissima ulcera gastrica che ti procurerai. Specie perché sono velenosi: vuoi forse fare la fine del capitano Ginew, uh?»

«Segui Dragon Ball?» domandò Emily, improvvisamente svegliatasi da quel suo stato di torpore o, per dirla alla Phobos, “di rincoglionimento profondo”.

Lui fece un breve inchino, ridendo. 

«Team settimo universo, milady» rispose «e voi?»

«Universo undici, sir» rispose lei, stizzita, a quella che considerava una vera e propria bestemmia. Tirò un colpetto sulla spalla dell’altro «E ora abbiamo pure Toppo versione palestrata che lancia hakai come se piovessero, quel gatto nudo rachitico è fottuto esattamente come lo erano tutti gli altri membri dello zoo: presto o tardi, voi del sette finirete a fare compagnia all’inferno alla vostra lucertola effeminata di quel pacchiano color oro».

«L’oro non è pacchiano!» sbottò. «È alla moda!».

«Sì, quella dell’epoca vittoriana, forse!»

«Sempre meglio delle tutine aderenti che evidenziano la pancia da bevitore di birra di uno che grida “JUUUUSTISSSSSSHFUUUURAAAAAASH!” e lasciano ben poco alla fantasia, per quanto una persona sana di mente possa essere concentrata a guardare il culo di E.T. quando la nostra gente esce l’ultra istinto».

«Uscire Gogeta super sayan di quarto livello sarebbe stato più util- oooooops, che sbadata! La serie di GT non è canonica!» dicendo ciò, Emily si esibì in un plateale gesto dell’ombrello. I medi alzati da entrambe le mani arrivarono poco dopo «Fottetevi voi e le vostre fusioni!»

«Ti inviterei a leggere le sinossi con più attenzione, se posso permettermi, non ci serve Gogeta per prenderci le Super Sfere» la rimproverò il rosso con sorriso sornione «… Emily».

«Sì?»

«Come siamo finiti a parlare di Dragon Ball Super?» chiese grattandosi la testa.

«Non ne ho idea, ma mi stava piacendo. Tanto. Tuttavia…» la giovane Pitchiner tirò un profondo sospiro mentre faceva spallucce, sconsolata «… immagino che dovrò tornare a parlare delle mie disgrazie, ora, perché suppongo che tu voglia sapere come Harmonia abbia iniziato a c’entrare con la mia tragggica storia».

Il suo interlocutore non rispose, ma quel silenzio fu un “sì” abbastanza palese da calare come una mannaia su quello spiraglio di evasione e spensieratezza che era parso aprirsi fra di loro; non era triste, però: era durato poco, pochissimo, ma era durato.

E almeno sapeva che, se avesse avuto un bicchiere d’acqua nel deserto, allora lo avrebbe gettato per terra, anziché darlo a Phobos che moriva di sete: quell’uomo tifava per Beerus, iddio!

Ci fu qualche attimo di silenzio.

«Ero stanca di vivere nella paranoia e nella paura e nella consapevolezza che un’estranea pretendesse di mettere becco dove non le competeva, così decisi di affrontare la questione direttamente con l’interessata. Harmonia voleva mettere i propri zoccoli infangati sulla Terra? Allora io avrei piantato radici su Exodus. Come si dice fra i terrestri, “occhio per occhio, dente per dente”, ed io volevo tutti i denti di quella giumenta in calore per farmici una collana».

Thorax lanciò un ringhio di lamentela verso le dita della sua poltrona di carne che -preda ad un fiume di ricordi com’era- gli strinse troppo forte la criniera, tirandogli il pelo.

«Andai su Exodus, il suo pianeta, decisa a far valere la mia ragione tanto quanto lei pretendeva di far valere la propria sul mio, di pianeta, sulla mia casa» “di ripiego, perché certo non sono terrestre”, pensò fra sé e sé.

«Prendere Fairy Oak non fu poi così difficile: tocca i tasti giusti, e quella ragazzina schizofrenica di Alice Castle Wonderwood perde il controllo in un modo tale da farsi più male da sola di quanto gliene possa fare chicchessia. Soffre di personalità multipla o qualcosa del genere, talmente multipla che -ai tempi- finì per piantarsi una spada in ventre credendosi la nemica di se stessa, roba da matti!» Scoppiò in una fragorosa risata «E tutto ciò intanto che la vera nemica gliela faceva sotto il naso, scivolando come acqua fra le mura del suo castello e finendo per fare abbastanza danni da mettere in allarme la sua amyketta, la Regina di Phantasia» fece una pausa «e fu lì, che iniziarono i miei problemi».

Lasciò cadere lo sguardo sul pavimento davanti a sé, il volto contratto in un misto fra rimorso, imbarazzo e tanta, troppa, rabbia, ancora ardente come il primo giorno.

Strinse forte i denti, fino a sentire male da quanto sfregavano gli uni sugli altri: era arrivata a dover raccontare anche quel pezzo, alla fine; non che avesse scelta, in fin dei conti, si trattava solo di rimandare e rimandare e rimandare, di farlo ancora, e ancora, e poi di nuovo per chissà quanto tempo, per cui.

Inspirò talmente profondamente che i polmoni parvero essere sul punto di esplodere da un momento all’altro, come anche -espirando- sembrarono sgonfiarsi così bruscamente da essere stati risucchiati chissà dove.

«Ero convinta di poterla sconfiggere» mormorò «convintissima. Non avevo paura di lei, non la temevo in alcun modo, volevo solo combatterci e farle il culo a strisce, dimostrarle che non aveva capito che stava scherzando col fuoco e che -se avesse continuato- sarebbe rimasta bruciata, ma che del suo corpo carbonizzato sarebbe rimasta solo cenere».

«Immagino non sia successo, però» le fece notare Phobos.

Lei sorrise.

«No, infatti» confermò amaramente Emily Jane «successe tutt’altro. Quando iniziammo a combattere, Harmonia mi scartavetrò non poco le gonadi che non ho con discorsi strappalacrime: sul non dovermi sentire minacciata perché a lei della Terra non importava come io credevo, sul cambiare idea prima di pentirmene, sul fatto che non avessi idea di dove mi sarei infilata se avessi insistito, e bla bla bla. Tutte stronzate, insomma, stronzate alle quali risposi lanciandomi su di lei per strapparle la lingua dalla gola. “Così almeno smetterai di blaterare”, le dissi».

«E poi?»

«E poi iniziò una discesa a spirale verso l’oblio. Per me, però» asserì, quel sorriso che aveva ormai scomparso.

Girò la testa vero la finestra, ipnotizzata dal ticchettio della pioggia.

«Anche quel giorno pioveva, sai? Combattemmo a lungo, ma l’esito fu chiaro fin da subito. Menai fendenti a destra e a manca fino a non sentirmi più le braccia; evocai tralci spinati incurante del trovarmici a mezzo metro pur di intrappolarla in qualche modo; arrivai ad aizzare una tempesta che riempì il nostro campo di battaglia di fulmini e incendi -a causa degli alberi colpiti e bruciati- e fango. Ma Harmonia non cedeva».

L’eco di un tuono la interruppe.

«Resistette a tutto, tutto, non la vidi piegarsi nemmeno una volta. Quando le chiesi come facesse, lei mi rispose semplicemente che non poteva permettersi di cedere, che non voleva farlo e che mai l’avrebbe fatto, specie dinanzi a qualcuno che minacciava la sua gente di schiavitù e morte: era il benessere dei suoi sudditi a guidarla, l’istinto materno che aveva verso di loro, e che per quel motivo mai avrei potuto sconfiggerla».

«E infatti non ci riuscisti».

«Precisamente. Capisci bene che -a sentire quelle parole- io divenni furiosa, iraconda, ero talmente rabbiosa da volerle spaccare il cranio in due e berci un Margarita dentro; non solo pretendeva di comandare sul mio pianeta, non solo faceva la predica a me, ma aveva pure il coraggio di darmi lezioni di politica interna, rimproverandomi di come fossi fuggita durante la guerra contro Apophis e che tale comportamento non era da regina! A me! Alla sovrana di Tandokka! A Madre Natura! A quel punto, tutto ciò che volevo fare era ucciderla».

Nei suoi occhi si accese un bagliore inquietante, a tratti grottesco, una sorta di luccichio animalesco che mise i brividi al rosso.

«Era ferita, stanca, sanguinante, incatenata a terra dai rovi, completamente disarmata: sarebbe dovuto bastare poco, pochissimo, per darle il colpo di grazia… ma non bastò». Strinse i denti, come i palmi, fino a quando non iniziarono a farle male «Quando Harmonia iniziò la controffensiva, capii che era volontariamente rimasta a subire per darmi una lezione. “D’umiltà”, come la chiamava lei, ma era più un’umiliazione finemente nascosta da quella sua finta patina di perbenismo e ammmore» squittì mentre, con le dita, formava un cuore. «All’inizio non capivo proprio dove volesse arrivare, attaccava tutto tranne che me personalmente, tanto che -a fine scontro- erano più le ferite riportate dalle mie azioni sconsiderate rispetto a quelle inflittemi da quella maledetta mezza cavalla, credevo che il suo scopo fosse quello di farmi letteralmente impazzire!»

«E invece?»

«E invece puntava allo scettro. Ai miei poteri».

Un sottile rivolo di sangue colò dal suo palmo, da quanto le unghie stavano scavando nelle carni; non provava dolore, non sentiva niente di niente, forse perché le ferite della mente stavano bruciando più di quanto quelle fisiche potessero mai fare.

«Fu una cosa breve, brevissima, quasi non me ne accorsi. Un attimo prima ero lì ad infierire sul corpo martoriato della Regina di Phantasia gridando alla vittoria» guardò a la mano sinistra, alzandola «quello dopo ero lì, immobile, gli occhi rivolti al cielo plumbeo e la pioggia che mi sferzava il volto come tizzoni di carbone ardente, scavandomi profondi solchi lungo le guance» fece lo stesso con la destra. Infine, se le ripose in grembo. «Io, Madre Natura, me ne stavo stramazzata a terra, sfinita, senza più forze per alzarmi né magia ad aiutarmi, sdraiata a guardare il firmamento. Di fianco a me, Harmonia, che mi guardava dall’alto in basso con quella sua solita aria materna, compassionevole, tendendomi una mano, tsk!»

Si lasciò scappare una risatina.

«Non capivo né cosa fosse accaduto, cosa stesse accadendo, cosa sarebbe accaduto poi: ero solo stesa e guardavo il cielo, le gocce -ora meno pungenti- che mi accarezzavano il viso mi ricordavano che ero viva, ma c’era qualcosa di strano, di diverso, tanto nel paesaggio quanto in me… le nuvole si dissolvevano lasciando posto ai Soli di Exodus, la bufera stava tornando ad essere una leggera brezza, il rumore dei tuoni si faceva sempre più lontano. Tutto ciò che la mia magia aveva evocato stava svanendo, ed io-»

«Non ne capivi il motivo» l’anticipò Phobos, completando la frase.

Emily Jane annuì.

«Tuttavia, mi bastò girare la testa per vederlo, quel motivo: il mio scettro spezzato, ridotto in frammenti, distrutto, ora un comunissimo bastone di legno scheggiato e marcescente».

«Ed i tuoi poteri? Avevi detto che erano contenuti là dentro, quindi-»

«Perduti. Completamente perduti. Ciò che rimane di essi lo hai già visto, non riesco né posso fare di più col poco che sono riuscita a recuperare in trent’anni, e qui mi va già di lusso dal momento che a Tandokka qualcosina riesco ancora a fare» si bloccò, ripensando al ramo di prima, subito seccatosi «… qualcosina, appunto. Per il resto, quel giorno Madre Natura cessò di esistere. Ma la colpa non fu della cavallina storna, no di certo, fu mia anche in quel caso!»

Sbatté gli occhi più e volte, cercando di nascondersi alla bene e meglio da quelli del rosso infilando la testa nella criniera di Thorax: ricacciare indietro le lacrime era più difficile di quanto ricordasse.

Non si seppe se l’altro la notò o meno, stava di fatto che Phobos le poggiò una mano sul suo palmo per esprimerle la sua vicinanza. Lei però la ritrasse subito, fulminandolo con lo sguardo.

«Non ho finito di parlare» commentò con tono grave, quasi di rimprovero. Lui non commentò, limitandosi a riportare le mani sulle proprie cosce.

«Colpa tua, dici?» domandò poi, per rompere quel silenzioso imbarazzo.

«Colpa mia, sì, o così la vedono tutti. Harmonia mi tese una mano per rialzarmi, come ti ho detto, ma io la rifiutai cordialmente: sai cosa successe? Riuscii a rimettermi in piedi sulle mie gambe senza il suo aiuto, non le avrei certo dato la soddisfazione di dare mostra della sua benevolenza anche in quel momento! Alla fine, dunque, ci trovammo di nuovo faccia a faccia, una di fronte all’altra; a dividerci, i resti del mio bastone».

Tirò un sospiro annoiato.

«Mi propose un accordo: se io avessi accettato un giuramento vincolante sull’utilizzare i poteri da me posseduti in quanto Madre Natura solo ed esclusivamente a fin di bene, sul non tentare nuovamente di muovere guerra a chiunque si trovi fuori dalla mia giurisprudenza terrestre, sull’essere disposta a scusarmi e ammettere i miei errori, allora lei avrebbe rimesso insieme lo scettro e mi avrebbe restituito la mia magia. Dovevo solo scusarmi, Phobos, niente di più e niente di meno». Fece spallucce «Avevo attaccato brutalmente Fairy Oak, incendiato e devastato parte del suo regno, cercato battaglia mossa solo da stupide supposizioni e fantasie e paranoie, eppure la regina voleva solo e soltanto delle semplicissime scuse. Tutto qui».

All’ultima frase, il rosso sgranò gli occhi.

«… Ti prego, dimmi che hai accettato quei termini e non ti sei fatta prendere dall’orgoglio facendo la scelta più cretina e sbagliata di questo mondo. Ti scongiuro. Ti supplico».

«Vuoi sapere quale fu la mia risposta, eh?» ridacchiò la giovane Pitchiner.

Lui fece segno di “sì” con la testa, già pronto al peggio.

«Le sputai in faccia, ecco cosa le risposi» rispose lei tranquillamente, quasi vantandosi delle proprie discutibili gesta.

Si alzò, iniziando a camminare per la stanza gesticolando.

«Avrei potuto accettare tutto l’accordo, ad essere sincera: non avevo mire espansionistiche né sulla Terra né fuori da essa, non m’interessava ammazzare chicchessia dal momento che preferivo farmi gli affari miei a Tandokka, ma non mi sarei mai piegata a chiedere scusa ad Harmonia, mai. Mai. Se potessi tornare indietro rifarei tutto, non mi pento di essermi tolta la soddisfazione di vedere la mia saliva colare su quel bel visino angelico: sta con Myricae, c’è colato ben di peggio che la saliva, su quel volto!»

«Una gran soddisfazione, immagino» applaudì lui, basito «vedo bene i risultati: senza magia, senza amici, senza famiglia, sei una sovrana senza corona e senza regno, una donna senza dignità e senza pudore, se hai il coraggio di raccontare una cosa del genere e vantartene. Ora come ora, sono io ad avere una gran voglia di sputarti addosso: sei inutile, Emily, lo sei persino più di me, per gli dei! E ce ne vuole per-»

«Taci un attimo! Non hai ancora sentito la parte migliore che viene adesso!» lo interruppe lei, gracchiando entusiasta.

«Harmonia non prese bene quel mio affronto di lesa maestà, nossignore: era furiosa, incazzata come mai prima d’ora, ancora un po’ e le sarebbe uscita la schiuma dalla bocca come la cagna rabbiosa che è!»

«E… ?»

«E allora mi afferrò per i capelli, sollevandomi i piedi da terra e facendomi penzolare come una pignatta da quanto era imponente la nostra differenza d’altezza, prese la propria spada e ZAC!» imitò il gesto «dei miei lunghi capelli neri che toccavano il pavimento e fluttuavano nell’etere non era rimasto più nulla, non attaccato alla mia testa almeno» iniziò a ridere.

«Io caddi al suolo come corpo morto cade» si gettò sul divano «senza rendermi immediatamente conto del danno; sentii uno strano prurito sulla nuca, così me la toccai: abituata com’ero a sentire le dita scorrermi fra i capelli, immagina la mia faccia quando i capelli non li sentii più, trovando al loro posto questa» si toccò la testa per indicarla «distesa rada e disordinata. Lei era radiosa, non c’è che dire, teneva il marchio di fabbrica della sovrana di Tandokka fra le mani come se fosse un trofeo! Mi disse anche qualcosa però meeeeeh, non ci feci troppo caso, forse riguardo l’essere ancora in tempo per pentirmi… oppure… mh, non mi ricordo precisamente, sto diventando vecchia, dopo millecinquecento anni».

«… Dimmi che ti sei pent-»

«Col cazzo» lo anticipò.

«E infatti raccolse i resti del mio scettro, mi mise in piedi e m’invitò a seguirla; non so se fossi ancora troppo sconvolta o troppo persa nella mia mente a dirmi che avevo preso una pessima decisione, ma non opposi resistenza e lo feci volontariamente, camminandole di fianco diligentemente ed in rigoroso silenzio».

Si asciugò gli occhi da quanto stava ridendo.

«Girammo tutte le strade principali del suo regno così, con la Regina di Phantasia che sfilava accompagnata da Madre Natura; il mio bastone nelle sue mani, i miei capelli nelle mie. Laggiù certo non mi conoscevano, probabilmente pensarono tutti che fosse una passeggiata e niente di più dal momento che mi salutarono pure, ma lo scopo di Harmonia non era certo offrire uno spettacolo alla sua gente. Voleva assicurarsi che la walk of shame alla quale mi aveva sottoposta me la ricordassi in eterno, così da non commettere più certe stronzate, ecco cosa».

Si fece pensierosa.

«… Non che potrei farlo, anche volendo, non riesco nemmeno a far fiorire una margherita».

Scoppiò in una fragorosa risata, folle, rumorosa, talmente tanto da coprire persino il temporale che imperversava fuori dall’Albero di Olduvai.

«Ma la cosa ancora più incredibile è che non possono più ricrescermi, dal momento che Harmonia mi fece un incantesimo “ad aeternum”, allora, uno di quelli che oltrepassano i confini dello spazio e del tempo e non possono essere spezzati da nessuno in nessun caso e in nessun luogo, nemmeno da chi l’ha fatto. Niente di che, sia chiaro, solo un trucchetto di magia che consisteva nel poter più riavere indietro la mia chioma, segno di riconoscimento del mio status di Madre Natura, lasciandomi tornare a casa con questo schifo addosso e la coda fra le gambe. Non lo trovi bellissimo? Esatto! Ti piace? Non servono risposte!»

Emily Jane rideva, e rideva, e rideva ancora, poi ancora, senza mai fermarsi, senza perdere mai la voce e anzi intensificando sempre di più quel suono fastidioso, fino a quando le sue guance non vennero percorse da una cascata di lacrime.

E non erano provocate dalle risate, adesso.

 

Si coprì il volto con le maniche dell’abito che aveva indosso, inzuppandole in quattro e quattr’otto dalla disperazione che l’aveva investita come un treno.

«Hai ragione, Phobosuccio, non potrei essere più d’accordo: sono inutile, fottutamente inutile. In una scala dell’inutilità, io riesco a sforare il limite massimo, sono utile quanto un dito coperto di sabbia infilato nel retto durante una visita alla prostata» rise, interrompendosi ogni tanto per via dei singhiozzi.

Si pose davanti all’altro, alzandosi di scatto e totalmente incurante di mostrare gli occhi gonfi per il pianto.

«Ti dirò un segreto: le donne sono terribili. Pensavo che le cose peggiori al mondo fossero i tagli provocati dalla carta, ma mi sbagliavo. Nessun pezzo di carta mi ha mai ferito così nel profondo, nessun pezzo di carta mi ha mai umiliata tanto, così tanto, fino a farmi pentire di essere al mondo» sputò tutto d’un fiato, crollando in ginocchio «Per gli dei, guardami, guardami!»

«Ti sto guardando».

«Guardami, guardami e renditene conto da solo: ho un brutto carattere, sono tremendamente acida e cinica, misantropa fino al midollo, sono un fardello per chiunque mi conosca, non mi è rimasto più nulla da offrire a chicchessia, anche perché non voglio nessuno vicino ma ho il terrore di morire sola mia. Come se non bastasse, mia madre è morta per colpa di mio padre, il quale ha scelto la sua troia anziché sua figlia: sono uno spreco di spazio e di tempo e di ossigeno, Phobos, persino di terreno dove venire seppellita. Se dovessi morire, nessuno mi piangerebbe, nessuno se ne accorger-»

Un bozzolo caldo l’avvolse, isolandola dal resto dei suoi problemi.

«Io sì, però» le mormorò all’orecchio, abbracciandola «… anche perché sei qui davanti ai miei occhi, la vedo ben dura non notarti nel caso in cui tu stramazzassi a terra ad arti tesi!»

«… Sei un idiota».

«Non complimentarti troppo, o potrei montarmi la testa e »

«Io faccio discorsi seri e tu mi prendi in giro! Bell’amico che sei!» tuonò una Pitchiner particolarmente indiNNNiata, cercando di scrollarsi l’altro di dosso. Il rosso, però, non mollava la presa nemmeno a pagarlo.

«Uh-uh! Ricordami in quale momento siamo passati da “compagni di bevute e di autocommiserazione” ad “amici”, perché me lo sono proprio perso!»

«Mai! MAI! E ora mollami, ho detto! Mollam-»

«Nnnnno, non ti mollo no, anzi!». Se la strinse al petto ancora più forte, iniziando ad accarezzarle la testa «Eeecco, ti stringo di più, così ti passa la crisi esistenziale: credimi, sono un esperto in questo genere di cose, per quanto -sfortunatamente- io non avevo nessuno ad abbracciarmi, solo lui» indicò Thorax «a tenermi al caldo. Per il resto…» si bloccò qualche istante.

Subito, però, si diede un colpetto sulla testa.

«Eh no! Ora stiamo parlando di te, non del sottoscritto, peeeeeer cuuuuuuuiiiii» iniziò a darle dei bacini sui capelli «vieni qui e fatti limonare la testa, Madre Pretura!»

«Madre Natura! NATURA!» ringhiò Emily Jane, tentando inutilmente di richiamare qualche ramo a darle una mano per sbrogliarsi da quella presa impossibile da sciogliere. Nemmeno quelli funzionarono, specie perché Thorax li afferrava e spezzava prima che potessero arrivare fra lei e quel polpo appiccicoso.

«Smettila di fare il deficiente! Smettila, per gli dei! Smettila o giuro che-»

«Solo se mi prometti che non ti dici di essere inutile per il resto del tempo che io mi trovo qui» disse lui, pacato e sorridente «promettimelo, e forse potrei lasciarti andare».

«Che ti frega?!!» tuonò la donna, sbuffando. «Non interessa a me e nemmeno a mio padre, di cosa io dica o pensi o faccia, figurati se deve preoccuparsene un perfetto sconosciuto quale sei tu! Non sono affari tuoi, Phobos, non lo sono!»

«Ora che mi hai raccontato la tua storia, però, sono anche affari miei» precisò il rosso «anche perché potremmo darci vicendevolmente una mano, sapendo di avere dei disagi mentali che ci accomunano. Potremmo trovare un sostegno materiale e tangibile l’uno nell’altra, insomma, un supporto non solo metaforico».

 

La Pitchiner lo fissò qualche istante, confusa.

Non era certa di aver capito cosa intendesse per “sostegno materiale tangibile”, non lo era per niente. Era sicura soltanto che Phobos volesse qualcosa di non meglio definito in cambio della sua vicinanza, se così si poteva chiamare: oro, forse, magari qualche tipo di possedimento che lei certo non possedeva, magie e incantesimi a lei sconosciuti, o forse era interessato a… oh. Come aveva a non pensarci prima?

“È un uomo, ed interessato a ciò a cui sono interessati tutti gli uomini”, pensò. Sospirò rassegnata, scuotendo impercettibilmente la testa.

Senza dare mostra della sua esitazione, afferrò i lacci del corsetto dell’abito che aveva indosso, facendo per levarselo e denudarsi. Ignorare la sua mente era difficile, ma non impossibile; vero, non aveva mai giaciuto con uomo e mai lo avrebbe fatto, ma -ora come ora- scegliere era un lusso che non poteva permettersi: o apriva le gambe, o l’unica speranza di trovarsi un alleato sarebbe andata in fumo.

“Per il bene superiore”, si disse, “e che Marigold chiuda gli occhi, dovunque si trovi”.

Le mani tremanti le impedirono di spogliarsi velocemente quanto avrebbe voluto, ma alla fine riuscì finalmente a slacciarsi la veste; tirò un respiro profondo, poi-

«COSA STAI FACENDO PRECISAMENTEH?!!»

 

Sentì una coperta atterrargli direttamente in faccia; colta di sorpresa, Emily finì per terra, avvolgendosi nella stoffa come un involtino primavera.

«Ma che diavolo-»

«Scostumata! Deprevata! Meretrice! Facilina! SABRINA INTERVIENI!» le urlò contro Phobos, gridando e gesticolando  e correndo per la stanza come un babbuino impazzito. «Cosa credevi di fare, eh? Maniaca sessuale! MANIACA!»

L’altra si rimise in piedi, non senza una certa fatica. Lo guardò interrogativa, perplessa, con gli occhi di chi non sta capendo un cazzo di niente: sapeva che gli uomini erano strani, sapeva che erano inclini alla depressione in mancanza di un orifizio in cui sfogare le proprie pulsioni sessuali, ma addirittura bipolari! Ringraziò il cielo che non le piacessero.

«Si può sapere che ti prende?» gli domandò, sinceramente confusa da quell’assurda situazione e reazione, le mani strette intorno all’abito.

Lui le gettò uno sguardo addosso come se avesse appena bestemmiato in chiesa.

«Cosa mi prende?!!» ripeté, stizzito. «Credevo fosse abbastanza palese, ma lo ripeterò: mi prende che ti stavi spogliando davanti a me, per gli dei! SPOGLIANDO! Stavi denudandoti vai a sapere il perché! Ho capito che sono affascinante, però mi pare un tantino-»

«Aspetta-aspetta-aspetta» lo interruppe lei, corrugando la fronte «mi stai dicendo che tu non vuoi fare sesso con me?»

«Quando avrei detto che voglio fare sesso con te, di preciso?»

«Come sarebbe “quando”? Prima hai detto che- fermiamoci tutti un attimo» aprì le braccia, come a dare lo “stop”. Respirò profondamente qualche minuto, assicurandosi di tornare a ragionare lucidamente «Prima tu cosa intendevi per sostegno “materiale e tangibile” e supporto “non solo metaforico” fra di noi, precisamente?»

«Intendevo che avremmo potuto diventare alleati e darci una mano a vicenda, essendo accomunati dalla voglia di vendicarsi della stessa persona» spiegò il rosso «cos’altro avrei dovuto intendere?»

Silenzio.

Poco dopo, il rumore del palmo di Emily Jane che impattava sulla sua fronte si fece largo nella stanza, insieme alla sua risata.

«Aaaaaaaaaah! Intendevi quel genere di supporto!» esclamò sorpresa e divertita contemporaneamente, finalmente conscia del malinteso. «Avevo capito che tu volessi scoparmi in cambio del tuo aiuto, ecco perché stavo per offrirti la possibilità di possedermi! Non che avrei avuto piacere nel farlo, ma la scelta era ben poca».

«T-tu s-st-stavi p-p-per… d-da-da-darme… la… ?» balbettò Phobos, gli occhi ridotti a due pozze d’acqua nelle quali stava annegando. «… M-me la s-stavi p-per… d-dare… s-sta-stavi p-pe… per-»

«Eh già, ma ora ci siamo capiti! Meglio così! Anche perché sono lesbica».

«Oh­­».

 

Ed ecco il colpo di grazia.

In quel momento, quel povero disgraziato sentì il mondo fermarsi: non solo quella sua stramaledetta lingua lunga -che avrebbe potuto utilizzare per ben altro!- gli era costata una scopata, non solo lui -pirla!- non aveva approfittato subito per correggere la sua interlocutrice e ribaltare la situazione, ma ora lei gli veniva pure a dire di essere lesbica! Lesbica! Addio qualsiasi chance di trombarsela!

Gli scese persino una lacrimuccia, per quell’erezione perduta: altro che Abisso, erano quelli i veri dolori della vita!

 

«Tutto bene?» gli chiese Emily, risvegliandolo da quel suo stato catatonico.

Ormai rassegnato, annuì: non poteva averla, del resto, tanto valeva mettersi il cuore in pace una volta per tutte.

«Ne sono contenta, anche perché volevo chiederti delucidazioni su questa nostra alleanza volta all’eliminazione di Harmonia… se non sei troppo impegnato a piangere ripensando alla mia omosessualità, ovviamente» lo ammonì ridendo, immaginando già -e c’entrando bene- a cosa fossero rivolti i suoi pensieri dopo quella scottante rivelazione.

«Intendo che tu una mano a me puoi pure darla, hai detto di possedere dei poteri non indifferenti, inoltre hai loro» indicò Thorax, più un paio di altri leoni che erano da poco saliti in casa «mentre io… io…» fece una pausa, sospirando «io non sono in grado di fare nulla più di ciò che hai mostrato, se non meno: mi chiamano ancora “Madre Natura”, ma nelle mie condizioni attuali non potrei essere più distante da quel titolo. Non posso aiutarti, Phobos, non senza i miei poteri al completo».

«E non c’è modo di recuperarli in alcun modo, ormai» rifletté lui ad alta voce.

«Nessuno, assolutamente» confermò l’altra «non posso mica fare irruzione nel tempio di Quetzalli su di un carrarmato mosso da un motore a gatto imburrato, indossare un passamontagna e stringere fra le mani un Super Liquidator 5000 gridando “O lo scettro, o la vita!”, sarebbe-»

«… Tu mi stai dicendo che il tuo scettro non è andato distrutto?» la interrogò il rosso, strabuzzando gli occhi.

«Al contrario, è stato distrutto trent’anni or sono dalla regina di Phantasia, come sai già. Mi ascolti o no, quando parlo?»

«Ma hai appena detto che esiste ancora!»

«Se con “esistere” intendi che lo scettro si trovi in condizioni di essere utilizzato allora no, non esiste più. Se invece mi stai chiedendo se sia in uno stato tale da dirsi fisicamente tangibile, allora sì, esiste ancora» puntualizzò.

«Harmonia lo distrusse, lo ridusse a pezzi e lo rese un comune bastone di legno, ma era pure conscia che -con la magia giusta- sarebbe stato possibile rimetterlo insieme e riportare totalmente indietro i poteri di Madre Natura. E soprattutto sapeva che, nelle mani sbagliate, un potere del genere avrebbe significato il caos. Letteralmente. Non puoi nemmeno immaginare di cosa fossi capace, e non usavo nemmeno il cento percento del mio potenziale! Tipo Jiren che silenzioso silenzioso e poi ZACCHETE! Fa il culo alla vostra scimmia con l’Ultra Istinto!» affermò gonfiando il petto e ridacchiando. L’altro, però, non la imitò. «Consapevole del pericolo, Harmonia consegnò e assicurò l’incolumità dello scettro alle Ophidiands, affinché lo custodissero nella loro città blindata a chiunque non vi abiti: Quetzalli, appunto. Che io sappia è ancora là, e-»

Le arrivò una scarpa dritta dritta in mezzo alla fronte.

«E POTEVI DIRMELO PRIMA!» tuonò Phobos, evidentemente alterato.

«Hai fatto fino ad ora a lagnarti di come avessi perso completamente i tuoi poteri, a dirmi che era impossibile riaverli indietro, a farmi spremere le meningi per cercare di trovarti un’utilità, e poi cosa succede?  Te ne esci dicendomi “Ehi! Guarda che con i mezzi giusti si possono recuperare eccome! Possiamo fare il culo ad Harmonia ma preferisco tenermelo per me!”, e me lo dici solo adesso! ADESSO!»

«Prima non me lo hai chiesto» lo corresse lei, indifferente.

«Io prima non te l’ho… ? MA IO TI RENDO CALVA! TI STRAPPO I CAPELLI UNO PER UNO! GIURO CHE TI- calmo, calmo, devo stare calmo. Devo. Calmarmi» si suggerì da solo, massaggiandosi le tempie. «Va bene, va bene…. innnnnnspiiiiiiiraaaaaaaa» si riempì i polmoni d’aria, respirando profondamente «eeeeespiiiiiiiiiraaaaaaaaaa» fece lo stesso, però buttando fuori l’aria di prima innnnnnspiiiiiiiraaaaaaaa… eeeeespiiiiiiiiiraaaaaaaaaa… innnnnnsp- MA PORC-»

«Se non ci dai un taglio te ne tiro un altro, di schiaffo».

Ci fu un attimo di imbarazzante silenzio fra quei due, durante il quale -fortunatamente- Phobos smise di respirare così rumorosamente da rendere difficile persino pensare, per la povera figlia dell’Uomo Nero.

«Va bene, ora sono calmo e non ho più voglia di metterti le mani al collo» la rassicurò sorridendo «ma ora torniamo a noi. Dicevi che il tuo scettro si trova a Quetzalli, che è considerata una città blindata, uh? Quanto lo è, precisamente?»

«Abbastanza perché nessuno osi metterci piede. Non so il motivo di questo isolamento dal mondo, so solo che è immersa nella foresta e circondata da vulcani, oltre che costantemente presieduta da guardie che sorvegliano tutta la lunghezza dei confini. Sono una razza di donne naga guerriere, non hanno poteri vari ed eventuali ma non sono nemmeno da sottovalutare».

«Non hanno poteri, dici?»

«Non che io sappia» fece spallucce Emily «e non sono nemmeno originarie di Phantasia o di Exodus, aggiungo: le Ophidiands nacquero dall’unione fra il dio azteco Quetzalcoatl e la mortale Medusa, una donna greca colpita da una maledizione che la rese per metà serpente. Si unirono in matrimonio e giacquero insieme, e lei rimase incinta del dio; ebbero una sola figlia, Axechasti, “evento memorabile”, per metà divina e per metà mortale. Mortale come sua madre, del resto» raccontò.

Vedendo che l’altro pareva interessato, decise di continuare.

«Approfittando della mancanza di Quetzalcoatl, andato a presentare la figlia al resto del suo pantheon perché gli dei le donassero l’immortalità come regalo di nascita, un gruppo di umani guidati da Perseo s’intrufolò nella dimora dei coniugi per uccidere Medusa: il tempo di decapitarla e fuggire, e suo marito tornò. Furioso e reso cieco dal dolore, Quetzalcoatl decise allora di portare la sua unica figlia il più lontano possibile dalla Terra, in un luogo dove gli uomini che gli avevano già portato via sua moglie non potessero raggiungerla».

«Exodus?»

«Esattamente. Portò Axechasti su Exodus e lì la crebbe, ma arrivò un tempo in cui lei espresse a suo padre la volontà di avere dei figli a sua volta; Quetzalcoatl, tuttavia, era contrario: mai e poi mai avrebbe riportato sua figlia sulla Terra, tantomeno avrebbe permesso che lì qualche uomo si prendesse la sua innocenza e poi la reclamasse in sposa. Tuttavia, vedendo quanto lei soffrisse del suo rifiuto, alla fine trovarono un compromesso: Axechasti avrebbe avuto dei figli, ma senza che chicchessia la possedesse mai. La dotò di un apparitore riproduttore maschile, oltre a quello femminile già in suo possesso, rendendola ermafrodita: in quel modo poté riprodursi e avere degli eredi come desiderava, ma senza l’aiuto degli uomini che suo padre tanto odiava. E fu così che nacquero che Ophidians, quando lei partorì».

«E come ha fatto a… a…» balbettò Phobos, più rosso più dei suoi stessi capelli «a fare… sì insomma… quella cosa lì… cioè… dai-»

«Le Ophidians possono ingravidarsi autonomamente, essendo appunto ermafrodite possiedono sia il seme che l’ovulo necessario a farlo. Ne basta una sola per iniziare una stirpe intera, ma sarà sempre e solo una discendenza femminile: non esistono uomini, a Quetzalli, non possono esistere, così ha decretato Quetzalcoatl e così sarà sempre».

L’altro la guardò qualche istante, silenzioso, poi scoppiò a ridere.

«Com’è che sai tante cose sulle Ophidians? Una di loro è stata la tua fidanzata per caso?»

“La mia fidanzata è morta e defunta”, avrebbe voluto rispondergli, ma se lo tenne per sé: non era pronta ad aprirsi sul discorso Marigold, non lo sarebbe mai stata e non voleva esserlo.

«Fortunatamente no» si limitò a borbottare Emily Jane «mi ero solo informata per capire se avessero qualche punto debole particolare tempo fa, intenzionata com’ero a ripiegare sull’uccidere Myricae per danneggiare Harmonia».

«Almeno ne hai trovati, di punti deboli?»

«Non che possano essere definiti tali, no» riferì «il loro corpo è un fascio di muscoli, hanno serpi al posto dei capelli, qualcuna secerne anche un veleno più o meno potente -raramente mortale, però- in quantità più o meno elevata, e la maggior parte di loro sa combattere eccellentemente. L’unica mancanza che hanno è quella di poteri magici» si fece pensierosa, poi schioccò le dita come se avesse avuto un’illuminazione «e di alleanze, anche quello: si tengono lontane da chiunque, le Ophidians, Harmonia comp-»

«Mi stai dicendo che non hanno l’appoggio di Harmonia? Ho capito bene?» domandò Phobos, alzandosi di scatto dal divano.

«Beh, sì, quando dico che rifiutano la vicinanza di chiunque intendo proprio tutti-tutti, anche della Regina di Phantasia» rispose lei. Sollevò un sopracciglio, perplessa «Ma perché ti-… aspetta. Non dirmi che stai seriamente prendendo in considerazione l’idea di andare a Quetzalli!»

Da parte del rosso non provenne nessuna risposta, solo un sorriso compiaciuto.

«Tu lo stai pensando per davvero!» gli gridò contro, schizzando in piedi e mettendosi le mani nei capelli dall’esasperazione. «Cerca di essere serio, cristo! Pensaci! Non puoi farlo oggi, né domani, né mai! È un’impresa impossibile! IMPOSSIBILE!»

«No, non lo è» le disse indifferente.    

«Lo è, invece!» controbatté. «Metti pure caso che riuscissi miracolosamente a prendere lo scettro, cosa accidenti te ne faresti, dopo? Sicuramente non conosci incantesimi sufficientemente potenti per rimetterlo insieme e renderlo utilizzabile, quella è roba magica che compete a gente tipo chi se ne sta lassù» indicò la Luna fuori dalla finestra «non certo a te! Nemmeno a me!»

«Sei davvero sicura che io non conoscenza suddetta roba magggica, uh?»

«Al cento percento, Phobos, non puoi farcela» asserì.

«Sicura sicura? Abbastanza da scommetterci sopra?» la provocò. Tirò fuori un sacchetto di monete d’oro che riversò sul tavolo «Venghino, signore! Venghino! Sono aperte le scommesse!»

«Ah! Al diavolo te e la tua arroganza!» sbottò l’altra, ormai stanca da tutte quelle sceneggiate. Si diresse verso il corridoio che portava alla sua stanza «Io me ne vado a dormire, tu fai ciò che preferisci: sbronzati ancora, lavati nei legumi, fottiti Shajira, non m’interessa. Se trovi un modo per mettere in pratica il tuo folle piano, allora fammi un fischio» concluse, oltrepassando la porta.

Il motivetto fischiettato della marcia di Topolino raggiunse le sue orecchie, facendole girare il capo.

«Cosa dovrebbe significarmi?»

«Che fra qualche giorno, ai tuoi alberi, appenderemo teste di naga anziché lanterne».

Si scambiarono uno sguardo indecifrabile, non si capiva bene se fosse d’intesa o più di profondo disaccordo, ma nemmeno una parola volò fra di loro, nemmeno un respiro: il tempo parve essersi fermato, bloccato, immobilizzato, come intimidito dalla tensione che c’era fra i loro occhi.

Infine, fu Emily Jane a prendere parola.

«Sarà meglio per te, se non vuoi che appena pure la tua, di testa» lo avvisò semplicemente; si chiuse la porta alle spalle.

E pregò che avesse dannatamente ragione.

 

 

 

 

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Angolino dell’autrice

 

Niente strani suicidi, niente divinità ambigue e mentalmente disturbate dai dubbi gusti gastronomici, niente traumi in giro: tutto è tornato alla normalità, insomma. Compresa la quotidiana dose di dramma e altarini scoperti, adoVo troppo scoprirli! :’D

Il titolo del capitolo, “Exulansis”, indica il momento in cui ci si arrende nel raccontare la propria storia perché l’altro non sta ascoltando, trovandosi a parlare letteralmente al vento senza la pretesa che importi a qualcuno, continuando a farlo più per sfogarsi che per altro, insomma: considerando il contenuto di suddetto capitolo, non potevo trovare nulla di più appropriato!

Detto ciò non ho nulla da aggiungere, ne approfitto giuro per ringraziare chi segue la storia, chi legge e chi recensisce (nonostante il curry del capitolo scorso :’D), fa sempre piacere :)

Alla prossima!

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Capitolo 15
*** Il tunnel per El Dorado (più o meno) ***


Cinque giorni.

Cinque giorni di preparativi, poi erano partiti alla volta dell’ignoto, alla volta di Quetzalli.

Arrivare a Phantasia senza dare nell’occhio non era stato così difficile, non quanto una Madre Natura preda delle paure derivanti da brutti ricordi aveva inizialmente temuto almeno, complice il fatto che Phobos avesse “un piano”.

Suddetto piano aveva la forma di pietre multicolore simili a opali, che -a detta del rosso- avrebbero permesso la stessa identica cosa dei globi di neve di Nord, con la differenza che, se questi ultimi permettevano ai guardiani di spostarsi sulla Terra, allora i suoi sassolini sbrilluccicanti possedevano un raggio d’azione ben più esteso.

E aveva avuto ragione, a dispetto della profonda sfiducia e diffidenza dimostrata dalla sua lamentosa compagna d’avventure.

Il tempo che la gemma toccasse il pavimento, e un portale si era aperto davanti ai loro occhi increduli di una, compiaciuti dell’altro; oltrepassato quello, erano spuntati ai confini del regno di Phantasia, dove finiva l’area direttamente governata da Harmonia e iniziava Tauremorna, “il bosco nero”, un luogo proibito e addirittura maledetto, secondo alcuni.

Talmente maledetto che Phobos ed Emily Jane Pitchiner stavano facendo un pic-nic poco lontano dal suo perimetro, sdraiati com’era sul dorso di Thorax sotto l’ombra di giganteschi funghi bianchi dalle lamelle verde acqua luminescenti.

Il ritratto del terrore, assolutamente.

Reduce da un violento litigio a tema “nelle provviste mettiamo le Pringles alla panna acida e cipolla, che piacciono a me, o quelle BBQ, che piacciono a te?”, l’uomo prese una patatina e se la infilò in bocca. Ringraziò di aver optato per il portarle entrambe.

«Che si fa, adesso?»

«È la stessa domanda che mi hai fatto quando siamo arrivati quattro ore fa, genio».

Emily si alzò e si pose davanti al compagno guardandolo dall’alto in basso, imbronciata. Alzò una mano e iniziò a contare con le dita.

«Da allora, le tue idee in proposito sono state le seguenti, in ordine: “diamoci un’occhiata intorno”, “cerchiamo una via d’entrata”, “cerchiamo una via d’uscita in caso d’emergenza”, “guardiamo su Exodus Maps perché non si trova un cazzo di niente”, “mangiamo fino a perdere la cognizione del tempo”. Di tutto ciò, abbiamo portato a termine con successo giusto l’ultima cosa, capitan “fidati che ho un piano”» si lamentò «inoltre, siamo anche pericolosamente esposti. Te l’ho detto che prima mi è pure parso di intravedere Myricae impegnata in un giro di guardia, no? Ecco».

«Non è colpa mia! Quella roba» controbatté lui, indicando la foresta «è fottutamente impenetrabile senza che si passi per l’ingresso principale! Che nemmeno c’è!»

 

E Phobos aveva ragione, purtroppo per loro.

A proteggerla, la città di Quetzalli non aveva solo quella distesa di alberi millenari e arbusti fitti e sterpaglie alte quanto un uomo a perdita d’occhio che era Tauremorna, ma -attorno ad esso- c’era una serie non meglio definita di vulcani attivi, una sorta di muraglia naturale di roccia e fuoco che circondava totalmente il territorio in mano alle Ophidians. Come se ciò non bastasse, svariati di quei vulcani erano talmente antichi da avere i pendii erosi e fessurati dagli eventi naturali, motivo per cui -di tanto in tanto- si potevano osservare lacrime incandescenti fare capolino sulle guance di quei giganti di terra, sottilissimi fiumi di magma che colavano fin sull’erba e lì si solidificavano, complice l’abbondanza di fiumi nella zona che arrestavano il flusso lavico prima che potesse dar vita a ben più pericolosi incendi.

Cola e cola, solidifica e solidifica, millennio dopo millennio anche l’acqua aveva ceduto, e quelle bisce fiammeggianti si erano accumulate a tal punto da straripare fuori dagli argini e crearne di nuovi, questa volta di pura ossidiana.

E l’ossidiana non si rompeva, quando la lava ci colava sopra, anzi!

La lasciava accumulare e accumulare, fino a creare curiosi corsi di magma anziché d’acqua, una cintura di fuoco che seguiva i confini di Tauremorna e rendeva impossibile accedervi a piedi; l’unica strada percorribile era il ponte scavato all’interno di un gigantesco vulcano spento -la cui sommità era stata intagliata a forma di testa di serpente, giusto per rendere chiaro dove portasse- che lo attraversava da un lato all’altro.

Un ponte ormai crollato, tanto per cambiare.

O meglio, fatto crollare dalle Ophidians secoli prima, così da impedire a chicchessia di violare dall’esterno la clausura atta a salvaguardare il loro popolo, ma ciò non cambiava le cose: Emily e Phobos avevano bisogno di entrare, e non c’erano vie per farlo.

 

«Passiamo sottoterra».

Non vie convenzionali, almeno.

A sentire l’assurda proposta della Pitchiner, l’altro scattò in piedi strabuzzando gli occhi.

«Cosa ti sei fumata, precisamente?»

«Di sicuro nulla di peggiore di ciò che ti devi essere fumato tu quando sei piombato nella mia vasca dopo averla riempita di fagioli in salsa» ridacchio Emily Jane. Tornò però subito seria «Tralasciando l’uso di sostanze stupefacenti da parte di uno o dell’altra, quando siamo andati in esplorazione ho notato dei grossi crateri di terra smossa sparsi nel terreno tutt’intorno alla foresta, specie in quello roccioso ai piedi dei vulcani».

«E quindi? Cosa credi, che ci siano pure dei tunnel sotterranei che portato a Khazad-dûm, il Reame di Nanosterro?»

«Precisamente quello» confermò «anche se temo che non troveremo Thorin Scudodiquercia a darci il benvenuto offrendoci birra e cinghiale, quanto più dei lombrichi grossi, brutti e molto, molto, affamati».

«Cos-»

«Diggerwurm. Colossali vermi che si muovono nelle profondità di tutto Exodus scavandovi gallerie nella roccia come se fosse gelatina» lo anticipò, invitandolo ad alzare il culo e seguirla. Forse perché troppo occupato a tenere aperta la bocca in un misto fra sorpresa e terrore, Phobos obbedì senza fiatare.

Lo portò fino al cratere di cui parlava.

«Hanno mascelle immani, capaci di spaccare montagne e inghiottire intere città tutte d’un colpo, facendole svanire in un battito di ciglia quando -occasionalmente- riaffiorano in superficie, ma sono bestie totalmente cieche ed estremamente pacifiche» fece una pausa, pensierosa «… per quanto possa definirsi pacifico un verme chilometrico che scava la terra per assicurare il cibo a se stesso, e l’uniformità dell’orogenesi al pianeta, insomma. Lezione di biologia a parte, hai capito dove voglio arrivare, sì o no?»

Lui scosse la testa, provocando un sospiro rassegnato da parte dell’altra.

«Intendo dire che possiamo passare per quelle gallerie, Phobos, sono talmente fitte che è matematicamente impossibile che non ce ne sia almeno una che porta dentro a Quetzalli! Tipo ques-»

«E se non la troviamo? Se questa» additò la buca davanti a loro «portasse da qualsiasi altra parte, ma non a Quetzalli? E se spuntassimo dove dobbiamo spuntare, ma venissimo circondati? Se ci trovassimo dietro il culo uno di quei mostri? Se-»

«Se tu stessi zitto, allora ti renderesti conto che non abbiamo alternative!»

La giovane Pitchiner allargò le braccia, come a indicare la vastità che li circondava.

«Guardati intorno: hai un’idea migliore? Perché se ce l’hai, allora sono tutta orecchi!» sbottò irritata. Dal compagno di avventure non provenne risposta. Lei, allora, si chinò a prendere una manciata di terra, passandola fra le dita «È completamente asciutta, questo passaggio non viene utilizzato da svariato tempo» rifletté ad alta voce «dovrebbe essere sicuro».

«Dovrebbe?»

«Non posso averne la certezza. Basterà entrare e stare attenti a non prendere i tunnel dove il suolo è umido o vetrificato, perché potrebbe essere segno della presenza di qualche diggerwurm: si muovono nella crosta rocciosa, sì, ma né il magma incandescente né le tremende pressioni oceaniche fanno paura alla loro stazza, per cui se dovesse esserci uno di questi segnali…»

«Significherebbe che siamo fottuti».

«Vedo che hai capito» convenne lei, non senza un velo di amarezza «per cui… ?»

«Per cui vai avanti tu. “Prima le signore”, come si suol dire» rispose pacificamente Phobos, esibendosi in un inchino e un sorrisetto compiaciuto.

Maledicendo come mai prima d’ora il suo essere donna, Emily Jane tenne per sé la serie di insulti che iniziarono a balenargli nella mente, limitandosi a fulminarlo con lo sguardo.

Lasciato Thorax ad attenderli nascosto in una grotta, infine si mise a capo della spedizione, il rosso dietro di lei che teneva accesa sul palmo della mano una fiamma per illuminare il luogo dove si stavano addentrando.

“Pregando che non diventi la nostra tomba”, aggiunse mentalmente.

Quando però furono appena ad una decina di metri dall’entrata, e notò che la rassicurante luce dei Soli già li aveva abbandonati, quelle preghiere iniziarono a sembrarle inutili.

 

 

Nelle gallerie scavate dai diggerwurm regnava un silenzio assoluto, irreale, quasi inquietante, come se quegli oscuri meandri fossero troppo sacri per essere violati da qualsiasi suono che-

«Questa è la danza del serpeeenteeeee che vieeen giùùù dal mooonte per ritrovare la sua cooodaaaa che peeerse un dì!»

Che non fosse la voce di Phobos mentre cantava filastrocche per bambini, appunto.

Con agilità degna del rettile le cui gesta stava cantando, alla cantilena aggiunse pure un movimento più o meno serpentino del corpo, ondeggiando a destra e sinistra mentre girava intorno ad una mentalmente esaurita Madre Natura.

Ad un certo punto le si fermò davanti, ovviamente continuando a dimenarsi.

«Ma dimmi un po’!» le puntò gli indici sul naso, tirando fuori e agitando la lingua nel penoso tentativo di sibilare. O meglio, sputacchiare.

«Smettila».

«Sei proprio tu­!» iniziò a punzecchiarle, palpeggiarle, molestarle, le guance pallide e scavate, nemmeno fosse una vecchia zia con addosso il caratteristico profumo di patchouli.  

«Finiscila».

«Quel pez-zet-tin del mio co-din! Sì-»

«NO!»

Di fronte ad una reazione tanto violenta da parte della sua amyketta, il povero serpente rosso di capelli voglioso di faciola rimase interdetto qualche istante, evidentemente sconvolto; qualche istante, appunto, perché subito dopo le fece una linguaccia degna di un vero ofide, a giudicare da quanto aveva tirato fuori la lingua.

«… Malmostosa» la rimproverò semplicemente, imbronciato.

L’altra si astenne dal dargli corda: con lui bisognava agire così, lasciarlo parlare e attendere che si stancasse di farlo da solo; in caso contrario, bisognava avere sottomano una serie non meglio definita di frecciatine particolarmente pungenti per sostenere il botta e risposta che sarebbe scaturito dall’assecondare le sue uscite infelici.

Ed Emily Jane, che aveva ben altre priorità per la mente, certo non poteva permettersi il lusso di cazzeggiare e dimenarsi e rompere l’anima a chicchessia.

Specie perché iniziava ad avere il vago sentore che si fossero persi.

E si poteva pure togliere il “vago”.

Non aveva la più pallida idea del tempo da cui stessero camminando, come nemmeno sapeva dove accidenti fossero finiti: la bussola non funzionava, il cellulare non aveva campo, gli enormi tunnel -di terra nerastra talmente compatta da sembrare cemento, sulle cui pareti spuntavano ogni tanto ossa, pietre preziose e radici grandi quanto una persona- tutti uguali fra loro, che si incrociavano e diramavano fin dove solo gli dei sapevano.

Un labirinto sotterraneo, insomma.

Per evitare le gallerie umide -e quindi fresche, riconoscibili dalla terra più morbida che al solo tocco cadeva come polvere ai piedi- avevano svoltato una, due, tre, cinque, forse anche dieci volte, ma non era servito a nulla… se non a perdersi ulteriormente, ovviamente.

Come se ciò non fosse bastato a rendere un vero e proprio inferno quella traversata, appena il buio li aveva avvolti l’ansia era arrivata a rischiarare le loro menti: la minima vibrazione o rumore, pure che fosse quello di un sasso calciato da uno dei due, e scattavano dritti con le orecchie tese, il cuore in gola all’idea che -da un momento all’altro- sarebbe spuntato un diggerwurm da dietro l’angolo. Non avrebbero avuto vie di fuga, allora, come pure non ne avevano adesso: ritrovare la via del ritorno sarebbe stato impossibile, andare avanti lo sarebbe stato altrettanto, dal momento che si muovevano alla cieca!

Madre Natura gettò uno sguardo verso il rosso, che continuava a ballettare tranquillissimo e sereno come non mai: era pazzo, assolutamente e indubbiamente pazzo.

Loro rischiavano di rimanerci secchi, e lui che faceva? Cantava e ballava.

«Emily».

E la importunava, anche quello.

Non si girò nemmeno, consapevole che quasi sicuramente si trattava di una delle sue solite stronzate.

«Cosa vuoi? Ti avviso che se devi raccontarmi una delle tue barzellette sconce, se vuoi propormi di fare sesso prima di crepare quaggiù, o se hai nuovamente intenzione di commentare la mia mancanza di un fondoschiena col quale puoi deliziarti mentre mi cammini dietro, allora-»

«Devo andare al bagno».

Ora però si girò, basita.

«Ah! Affari tuoi! Dovevi farla prima che entrassimo, adesso vai a sapere dove cazzo siamo finiti!» gli urlò contro, evidentemente adirata «Se proprio devi, allora falla su qualche parete! Tanto ce ne sono in abbondanza!»

«Ma poi mi guardi».

«Non m’interessa proprio nulla dell’appendice che hai in mezzo alle gambe, puoi starne assolutamente sicuro. Non tirarla per le lunghe, Phobos, fai quello che devi fare andiamo!»

«Dove?»

«Non ne ho la minima idea, per gli dei! NON LO SO!» urlò, salvo prendendoselo a braccetto subito dopo.

Lo accompagnò ad una ventina di metri da dov’erano.

«Quando avrai una risposta, allora falla sapere pure a me, ma intanto» gli slacciò la cintura, lasciando cadere mollemente i pantaloni a terra «piscia e taci!»

«Ma-»

«TACI!»

Lui, gli occhi fuori dalle orbite a causa dell’improvvisa severità dell’altra, non rispose, limitandosi a marchingegnare per fare ciò che doveva.

Nell’attesa che quel disgraziato terminasse ciò che doveva fare, la figlia dell’Uomo nero chiuse gli occhi e si godette quell’attimo di silenzio che, finalmente, poté concedersi: forse si erano persi, ma almeno non aveva suo padre e Gwenllian intorno, il che era-

«Emily».

Non prenderlo a pugni, non prenderlo a pugni, non prenderlo a pugni”.

Inspirando ed espirando profondamente per svariate volte, esibendo il miglior sorriso che aveva nel repertorio e fingendosi calma, la Pitchiner si decise ad ascoltarlo.

«Cosa c’è?»

«Per caso i diggerwurm hanno il corpo che somiglia alla roccia di cui si nutrono, con una mandibola che si divide in più pezzi vagamente somiglianti alle tenaglie di un insetto, con grossi buchi o placche al posto degli occhi, la testa scavata come un teschio animale e delle specie di ossa che spuntano dal loro corpo?»

«Ci sono molte forme di diggerwurm ma sì, l’aspetto grossomodo corrisponde alla tua descrizione» confermò «perché?»

«Per quello» rispose indicandogli le profondità della galleria.

Essendo rischiarati solo i pochi metri circostanti a loro dal fuoco dell’uomo, lei proprio non vedeva nulla; decise di rimediare strappando una radice dal soffitto e chiedendo al compagno di incendiare quella, così da usarla come una torcia.

La gettò verso il fondo del tunnel.

 

E vide un cucciolo di diggerwurm -nulla di che rispetto agli adulti, sarà stato lungo una quarantina di metri o giù di lì- che curiosava poco lontano da dove si trovavano.

Dietro di lui, uno dei genitori, una bestia lunga venti volte tanto.

Che stava allargando la galleria.

E puntava verso di loro.

 

Mantenendo una calma proverbiale, Emily Jane prese la mano al suo compagno di disavventure, stringendogliela fino a farla diventare bluastra.

«Phobos».

«Sì?»

«CORRI!»

Di disavventure, e ora pure di maratona.

 

 

---

 

 

Si strofinarono gli occhi per cinque minuti buoni, non convinti com’erano che il tunnel sotterraneo li avesse seriamente portati dove avrebbe dovuto portarli.

Alberi talmente alti e fitti da oscurare persino i raggi solari su tutti i fronti, qualche rustica capanna con mura di fango e tetto di paglia, un terreno sterile -per la mancanza di luce e calore- con una manciata di orti coltivati a frutta e verdura e cereali frugali, quel che bastava per sfamarsi insomma, fiumiciattoli quasi aridi e, infine, terre devastate dalle eruzioni vulcaniche.

Una civiltà sull’orlo del baratro, in poche parole.

Ecco, la loro idea di Quetzalli era qualcosa di molto simile a questo: una città sperduta nella foresta, popolata da tristi naga ermafrodite abbandonate a se stesse, scarnite per la mancanza di cibo e, soprattutto, arrabbiate col mondo che aveva voltato loro le spalle.

La realtà, però, era un tantiiiiiiiiiino differente.

Una città immersa fra gli alberi, sì, ma circondata da una foresta che assicurava una costante frescura anche durante i giorni più torridi, quando -come ora- i raggi dei Soli si riversavano roventi sulle imponenti piramidi azteche e gli innumerevoli castelli che parevano usciti da “Le mille e una notte”; le abitazioni, coperte d’oro e di gemme preziose com’erano, risplendevano al punto da colorare anche l’acqua delle numerose oasi presenti qua e là nella città, sulle quali si affacciavano svariate di quelle case che -grazie alle rampe e rampe di scalini che emergevano dalle acque come alberi di mangrovia- vi si gettavano letteralmente dentro a capofitto.

Se non era El Dorado quella, allora non avrebbe potuto esserlo nessun’altra città.

A dispetto del terreno arido atteso, le strade dorate di Quetzalli si snodavano invece in un vero e proprio tappeto di un acceso verde smeraldo, una distesa rigogliosa nella faceva capolino ogni genere di fiori e frutti e bacche -commestibili e non- dai colori vividi e brillanti, complice la cenere vulcanica che rendeva estremamente fertile il suolo.

E nemmeno le abitanti parevano poi tanto malinconiche e inconsolabili a causa del loro isolamento, tutt’altro!

Ovunque si gettasse lo sguardo, si potevano vedere Ophidians e Ophidians ora impegnate a strisciare serenamente per le vie della città con ceste di frutti esotici fra le mani, ora a conversare fra loro sulla riva del fiume tenendo d’occhio le figlie che sguazzavano nell’acqua, ora a combattere in quella sinuosa danza di corpi serpentini che s’avvolgevano l’uno con l’altro in nodi impossibili da sciogliere. Qualsiasi cattività stessero facendo, però, una cosa era certa: non erano tristi, né scarnite, né arrabbiate col mondo.

Emily e Phobos si scambiarono uno sguardo fugace, impegnati com’erano a tenere la bocca aperta per lo stupore, immobili come statue.

«È la cosa più bella che abbia mai visto in millecinquecento anni di vita».

«Sì, lo è» confermò lui, incapace di aggiungere altro «e dimostra che-»

Improvvisamente, il rosso avvertì una forte pressione sulla spalla, come se l’altra gliela stesse stringendo con particolare forza; d’istinto mise una mano dove iniziava a sentire i muscoli intorpiditi, per levargliela.

«Cosa diavolo stai- oh».

 

O Madre Natura aveva la pelle più secca che esistesse nell’intero cosmo, o stava toccando la mano di un’Ophidians. E i serpenti corallo che si trovò tutto d’un tratto a sibilargli ad un palmo dal naso confermarono la seconda opzione.

 

Una naga dalla coda nera costellata di squame rosse e gialle aveva poggiato le proprie mani squamate sulle spalle di entrambi, cogliendoli totalmente di sorpresa.

«Mani naa essa en lle? Qual è il vostro nome?» sibilò.

I due avventurieri -paralizzati com’erano da un misto di puro terrore, adrenalina a mille e l’istinto da “fight-or-flight” incapace di prendere una decisione- non risposero, limitandosi a fare la parte degli stoccafissi lasciati a seccare al Sole.

Lei, allora, li girò verso di sé con una certa decisione.

«Vi ho fatto una domanda, e siete pregate di rispondere: chi siete? Dove siete state catturate e, soprattutto, da quale Airë Tári? Di chi siete schiave?»

«Naa rashwe? C’è qualche problema?» intervenne un’Ophidian dalle squame bianco e arancio e rosse armata di lancia, accodandosi alla prima.

«Ho trovato or ora queste due schiave che si guardavano intorno, ma non paiono intenzionate a parlare e dirmi chi sia la regina che le ha catturate» spiegò l’altra serpentessa, indicandoli «secondo te a chi possono appartenere? I loro volti non mi sono nuovi».

«No, infatti, anche a me pare di averle già viste» convenne pensierosa; afferrò il mento di entrambi e si mise prima a studiarli, poi a sollevare lembi di stoffa come a cercare qualcosa.

Controllò loro il collo, poi smise.

«Confermo che sicuramente sono nuove schiave, non indossano ancora alcun ruxal' ambönnar e le loro vesti sono lerce e consumate, ma resta da capire a quale regina appartengono. E bisogna saperlo con certezza, dal momento che il furto di serve altrui costa carissimo».

«A mio avviso» intervenne la naga dalle squame nere «sono proprietà di Airë Tári Hippolyta. Considerando la quantità di femmine da lei catturata durante l’ultima battuta di caccia, non mi sorprenderebbe sapere che un paio di loro si sono separate dal gruppo, magari mentre venivano scortate all’harem per essere marchiate».

«Avrebbe senso» concordò «del resto è risaputo che lei e l’Airë Tári Antiope sono le prime a muoversi, quando arriva la notizia di qualche straniera nei nostri territori. E considerando che Antiope è gravida e fuori forma, poco ma sicuro che è Airë Tári Hippolyta l’è sfilata davanti al naso con lazo e rete in bella vista» ridacchiò.

Tirò fuori dalla saccoccia che teneva appesa in vita una spessa corda, con la quale legò le mani di uno e dell’altra. Nessuno dei due oppose resistenza.

«Le riporto a lei, allora, e le riferirò che sei stata tu a ritrovarle. Aa’ menealle nauva Quetzalcoatl’orn calen ar’ malta, mellonamin» fece un breve inchino quella dalle squame arancioni.

«Aa’ i’sul nora Quetzaltocatl’orn lanne’lle, mellonamin» ricambiò l’altra, allontanandosi.

Il rosso guardò la Pitchiner dritta negli occhi, incontrando due sfere dorate rese totalmente inespressive dalla preoccupazione.

«Spero almeno abbiano i faciola in salsa», le disse.

 

 

Il tragitto per arrivare all’abitazione della loro “padrona” era stato più lungo del previsto, e anche più istruttivo di quanto potessero lontanamente immaginare: girando e svoltando per vie dalle mattonelle d’oro, i due prigionieri avevano avuto l’occasione di osservare la città da una prospettiva differente.

Una prospettiva che li avrebbe decisamente dissuasi dall’impresa, se solo l’avessero notata prima di entrare.

Ora come ora, mischiati com’erano in mezzo alla popolazione, potevano finalmente notare che non erano solo Ophidians ad abitare Quetzalli: insieme a loro, spesso e volentieri affianco, c’erano anche delle donne.

Non Ophidians.

La maggioranza di loro avevano tratti umanoidi, ma -cammina e cammina- c’era voluto poco perché ne incrociassero anche di razze sconosciute ad entrambi: umane, aliene, succubi, dalle fattezze animalesche, talmente alte e muscolose da sembrare montagne o così minute e magre da parere fragili come ali di farfalla. Tutte sorridenti e serene, in quegli abiti succinti -che andavano dai variopinti tessuti indiani, ai leggeri veli in stile arabo, fino a bikini che lasciavano ben poco su cui lavorare alla fantasia- che nulla avevano a che fare con i collari intorno alle loro gole, segno inequivocabile dello status di schiave.

Schiave, certo, ma che non si comportavano affatto come tali: parlavano e ridevano e scherzavano con le Ophidians, davano preziosi consigli su quale stoffa o gioiello meglio s’intonasse alle squame, badavano alle stesse figlie della loro padrona che scorrazzavano da una parte all’altra del mercato.

Erano schiave, ma sembravano quasi entusiaste di quella loro condizione.

 

Impegnati com’erano a guardarsi intorno, non notarono quando la naga che li stava accompagnando si fermò; finirono per sbattere addosso alla sua schiena.

Intuendo di essere arrivati, alzarono entrambi il naso: se le altre abitazioni erano immense, allora quella le superava tutte, tutte.

La piramide azteca centrale era tremendamente alta, talmente tanto che a malapena si vedeva la sommità, affiancata da un’infinità di statue -prevalentemente di serpenti o naga- e da un complesso di torri dalle coloratissime cupole che parevano essere uscite dal film “Aladdin”; di fianco ad essere c’erano appartamenti più bassi, sì, ma ugualmente curati e maestosi, considerata l’imbarazzante quantità di gemme e mosaici che ne rivestivano le facciate.

E il sobrio color oro che ricopriva tutto e accecava al solo guardarlo, ovviamente.

Sentirono la presa sui propri polsi allentare, fino a svanire completamente.

«Questa è la vostra nuova casa. Il mio compito e le mie responsabilità terminano dove iniziano questi cancelli» asserì l’Ophidian che li aveva accompagnati, slegandoli. Indicò loro l’ingresso alla casa «D’ora in avanti, siete nelle mani della vostra nuova Airë Tári, la vostra regina nonché padrona dei vostri corpi e delle vostre vite, mi avete capito?»

Entrambi annuirono, sebbene non stessero seguendo minimamente il discorso. L’altra si guardò intorno.

«Dovrebbe arrivare una schiava a prender- oh, eccola».

Una figura fece capolino dalla porta, una donna dalla pelle scura ed i capelli verde acqua abbigliata nemmeno fosse la principessa Jasmine, con la differenza che il suo ampio abito era di un tenue rosa ciclamino.

Appena arrivò e la salutò inchinandosi, la serpentessa spinse i due verso di lei con la coda.

«Appartengono alla tua regina. Miulë Otrera le ha ritrovate ai confini di Quetzalli, probabilmente si erano perse, ma ora sono dove devono essere» asserì con un cenno del capo. «La mia parte di lavoro l’ho fatta riportandole qui, ora devo andare: porgi i miei saluti alle tue signore, mi raccomando».

«Sarà fatto» le sorrise la schiava «le mie padrone sicuramente apprezzeranno il vostro gesto e si premureranno di ringraziarvi a dovere».

Si chinò nuovamente in segno di riverenza, mantenendo la posizione finché la naga non uscì dal suo campo visivo.

Allora, e solo allora, si girò verso Emily e Phobos.

«Che bello che bello che bello che bello CHE BELLO!» squittì entusiasta, afferrando le mani di entrambi «Nuove amiche! Nuove amichette con le quali fare conoscenza e prendere il tè assieme e insegnare cucinare e truccare da mattina a sera e con le quali massaggiare con l’olio profumato la regina tuuuuuuutto il giornoooooooooo!» iniziò a saltellare e ballettare «Sono così contenta! CONTENTISSIMA!  IL VOSTRO ARRIVO È UNA NOTIZIA BELLA BELLISSIMA ESATTAMENTE COME LO SIETE VOI VI AMO GIÁ SIETE MERAVIGL-»

«Ma cosa stracazzo ti sei fumata?!!» tuonò il rosso, divincolandosi dalla presa della serva. Quest’ultima si fermò e si mise a guardarlo, pensierosa.

Solo per due secondi netti, sia chiaro.

«Niente! Giuro di non aver ancora toccato il narghilè, oggi!» esclamò mettendosi la mano sul cuore, ridacchiando «Sto solo esprimendo esternamente l’immensa gioia che riempie il mio petto nel vedere che sono arrivate in casa due future amiche amicissime amicissimissime!»

«Non puoi esprimerlo in modo più calmo?» bofonchiò lui.

«NO! Non bisogna contenersi di fronte a cose così belle bellissime!» rispose con tanto di linguaccia. Gli afferrò le guance e gli si pose davanti, naso contro naso, facendolo perdere in quelle iridi grigio scuro «Ma non stiamo qui a cincischiare! Dovete conoscere tutte le altre! E la regina! E pure l’altra regin- ah no, ora non è in casa…» si bloccò, mollando il rosso con un buffetto «E va beh! La conoscerete dopo, tanto di tempo ne avete a bizzeffe! Però priiiiiiiiiiiiima di andare a fare conoscenza... PRESENTAZIONI!»

Ballonzolò qualche metro più avanti, estraendo dalla tasca degli ampi pantaloni rosati due ventagli con -all’estremità- un lungo velo dello stesso colore che andava sfumando fino al bianco; iniziò ad agitare il corpo sinuoso e ballare per loro, inscenando qualcosa che doveva somigliare ad una danza orientale.

Il teatrino durò una manciata dei minuti, al termine dei quali fece un inchino.

«Il mio nome è Amira, piacere!» incrociando le braccia, strinse le mani a entrambe «Il vostro invece qual èèèèèèèè?»

«Io sono Emily Ja-»

Phobos se la tirò a sé girandosi, dopo averla interrotta con una gomitata sul fianco.

«Che diavolo stavi facendo? Vuoi dirle “Ehi! Sono Emily Jane Pitchiner, ma tu puoi chiamarmi pure Madre Natura o sovrana di Tandokka”, ti sei rincoglionita?!!» la rimproverò a bassa voce, severo.

La donna non controbatté, ben sapendo che il suo compagno aveva ragione: probabilmente nessuna delle schiave conosceva o aveva anche solo sentito nominare uno dei due, ma -per un motivo o per un altro- era meglio non rischiare; erano già nella tana del serpente, metterlo in allarme e lasciare che si svegliasse avrebbe significato essere sicuramente morsi.

E avevano come l’impressione che quel morso gli sarebbe stato fatale.

«Lieta di conoscerti, Amira, il mio nome è-»

«Emilia Gianna» rispose l’altro per lei «mentre io sono Phoebe, piacere di fare la tua conoscenza».

«Figuratevi! È un piacere tutto mio, quello di scortare due belle signorine come voi dalla mia signora, così possiamo già parlare del più e del meno fra noi ancora prima di presentarvi a tuuuuutte le altre!» cinguettò lei, letteralmente in visibilio.

Le prese frettolosamente a braccetto.

«Presto, presto, andiamo!»

Avvicinandosi all’abitazione verso la quale stavano venendo condotti, entrambi non poterono fare a meno di notare il lussureggiante e ampio giardino che circondava la villa: alberi da frutto, piante rampicanti che si avvinghiavano sugli stessi come a stringerli in un abbraccio verde smeraldo, e infine fiori, fiori a non finire, così profumati da spargere il loro aroma dolciastro per tutta l’area lì intorno. Appena visibili da dove si trovavano loro, delle lunghe vasche -piantate nel terreno- tappezzate di tasselli colorati, nella cui acqua limpida si specchiavano e giocavano almeno una dozzina di donne come Amira.

«All’interno le piscine sono mooooooolto più grandi» li informò la schiava, notando i loro sguardi meravigliati «quelle dentro sono grosse tanto… tanto… ecco! Tanto così!» allargò a più non posso le braccia, fiera.

«Amira».

«Sì, Emilia Gianna?»

“Giuro che questa gliela farò pagare, a quel maledetto disgraziato!”, si promise mentalmente la figlia dell’Uomo Nero.

«Posso chiederti una cosa?» domandò timida, sperando di non osare troppo. I suoi dubbi vennero però fugati dalla schiava, che le sorrise bonariamente.

«Certo! Chiedi pure tutto ciò che vuoi, tutto tuttissimo tuttissimissimo!»

Tirò un sospiro di sollievo.

«Quando quella naga ci ha catturato ai confini della città, ha iniziato a chiederci insistentemente da chi fossimo state catturate, e come lei ci è stato chiesto anche dall’altra serpentessa che ci ha portato fin qui; parlavano entrambi di “Airë Tári”, se non ricordo male, e -alla fine- hanno concluso che appartenessimo ad una certa “Airë Tári Hippolyta”. Hai idea di chi sia, per caso?»

«Ma certo! È la mia padrona, e ora è anche la vostra!» rispose entusiasta.

Tirò fuori un paio di occhiali e se li poggiò sul naso, come per sembrare più acuta di quanto non fosse e avere quel nonsochè di intellettuale.

«Dovete sapere che qui a Quetzalli, “Airë Tári” è il titolo che spetta alle regine che possiedono gli harem più grandi, e che -per questo e altri motivi- fanno parte del Calaciryandë, una sorta di gran consiglio della città» spiegò, continuando a camminare. «Immediatamente dopo di loro, troviamo le “Airë”: sono simili alle precedenti, semplicemente non hanno ancora raggiunto un livello tale da meritare un posto nel consiglio; dulcis in fundo, ci sono le “Miulë”, ovvero le principesse che non hanno ancora un harem proprio, o che sono agli inizi della costruzione di quest’ultimo. È una spiegazione molto approssimativa, lo riconosco, ma le differenze principali sono queste».

«Immagino che Hippolyta sia una sovrana piuttosto importante, se erano così sicure che ci avesse catturate lei» azzardò Phobos.

«Lo è eccome!» confermò fiera.

«La mia signora è molto stimata da tutte le altre Airë Tári, così come lo è la sua consorte, Airë Tári Phentesilea. Per quanto possa contare l’opinione di noi schiave, servirle non è un compito gravoso, tutt’altro! È un vero e proprio piacere! All’inizio può essere difficile accettare l’idea di appartenere a qualcuno che può disporre del tuo corpo a proprio piacimento, ma -detto fra noi- ci sono posti ben peggiori dove finire, e soprattutto regine molto meno magnanime da compiacere per il resto della propria esistenza. Vi è andata di lusso, posso assicurarvelo!».

Si avviarono in un lungo corridoio che passava sopra ad un piccolo laghetto, una sorta di tunnel dorato le cui pareti erano traforate da colonne e archi inflessi che -dando direttamente sull’acqua- fungevano pure da trampolino di tuffo.

Infine, si fermarono davanti ad una pesante porta di pietra, le ante intagliate a formare una miriade di serpenti dagli occhi costituiti da gemme preziose.

«Priiiiiiima di procedere oltre, dovete avere queeeeeesti» si mise a frugare e frugare e frugare nel borsello che aveva attaccato alla cintura. Tirò fuori due collari dorati.

Senza attendere oltre, li mise intorno al collo prima di uno, poi dell’altra.

«“Ruxal' ambönnar”, “collana della sottomissione”: questo» lo tocco, facendo tintinnare l’anello che pendeva sulla parte frontale «è ciò che dice a tutti “Ehi! Sono una schiava!”. Vi stringe troppo?»

Entrambi scossero la testa.

Amira, soddisfatta e rassicurata, spalancò allora la porta; i due compagni di sventure si scambiarono uno sguardo veloce, ma sufficiente per intendersi: non si tornava più indietro, adesso.

 

 

 

Si sarebbe potuto prendere in mano un dizionario e sfogliarlo per ore e ore e ore, per tentare di trovare trovare una serie di aggettivi che rendessero l’idea di ciò che si presentava dinanzi ai loro occhi increduli.

Nessuno di essi, tuttavia, sarebbe stato adatto a descrivere anche solo vagamente la realtà.

Complice il lucernario circolare di vetri colorati al centro del complesso, quell’immensa stanza dalle pareti blu cobalto e oro -intarsiata di pietre preziose e minuziose decorazioni e mattonelle variopinte per tutti i gusti- riusciva a essere luminosissima in ogni sua parte, compressa l’ampia piscina che si snodava per tutta la stanza. Così facendo, non solo tutta l’area risplendeva dei raggi dorati del Sole, ma pure dei riflessi multicolore creati dalle piccole tessere dei mosaici subacquei -visibili nell’acqua limpida- che formavano la pavimentazione della gigantesca vasca.

Ai bordi di essa, poi, c’era una zona completamente asciutta, dove sorgevano rientranze più o meno grandi agghindate come salotti: divani, montagne di cuscini, candele profumate, fiori, tavoli apparecchiati con ogni sorta di pietanza. Non mancava assolutamente nulla, insomma.

Nemmeno qualcuno che usufruisse di quel ben di dio.

Donne, donne ovunque girassero lo sguardo: che sguazzavano nell’acqua, che crogiolavano sui divanetti a parlare, che si acconciavano i capelli sedute a bordo piscina; tutte giovani, tutte d’indubbia bellezza, creature sorridenti e radiose che ballavano e cantavano e giocavano con tale entusiasmo da far dubitare chiunque che si trattasse di pure e semplici schiave.

«Se questo è lo schiavismo» si rivolse il rosso verso Emily Jane «allora prenditi lo scettro e vai pure senza di me, che ho un’improvvisa voglia di essere sodomizzato da una naga ermafrodita!»

«Vuoi essere sodomizzato pure da quelle?» gli indicò uno dei salotti.

Lì, con le code attorcigliate intorno alle colonne che reggevano gli archi coperti da tendaggi che offrivano un po’ di privacy alla zona, se ne stavano quattro di Ophidians, impegnate a scambiarsi particolari effusioni con altrettante donne, forse pure un paio di più.

In allarme, entrambi iniziarono a guardarsi intorno -cercando di non essere distratti da seni e fondoschiena al vento, che mica era facile per nessuno dei due!- sospettosi, trovando conferma alle proprie preoccupazioni: c’erano altre naga, là dentro, a occhio croce in quella stanza se ne contavano almeno una dozzina!

Guardando meglio, però, notarono che tutte loro portavano al collo un collare del tutto simile a quello di Amira e di tutte le altre schiave, per non dire che era lo stesso.

… Possibile che anche loro fossero-

«Aiiiiiirëëë Táriii Phenteeesiiiiileaaaa!  Aaaiiiiiiiiiirëëëëë Táááriiiiiiii Pheeeeenteeesiiiiileeeaaaaaaaaa » si mise a gridare Amira, saltellando «Ho delle nuove schiave sono belle bellissime giuro che PER LA TESTA MOZZATA DI MEDUSA MIA SIGNORA DEVE VEDERLE DEVE DEVE DEEEEEEEEVEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE!!!»

Quella benedetta ragazza era folle, folle.

Dalla piscina fece capolino una sua coetanea, la pelle chiara ed i capelli violetti come i suoi occhi.

«La regina è là in fondo!» le indicò il salotto più grande dall’altra parte della stanza.

Quest’ultimo dava direttamente sulla piscina -raggiungibile tramite alcuni scalini- e su una sorta di piccolo chiosco, una costruzione circolare di pietra semi-immersa nella vasca che, ora, era parzialmente nascosta dai tendaggi tirati.

Ringraziata l’amica, la serva condusse entrambi fin dove aveva indicato l’altra, salutando e sorridendo a chiunque incontrasse sulla propria strada. Quando fece per aprire le tende, Phobos le mise una mano sul polso, per trattenerla

«Ma sei sicura che possiamo entrare?» chiese preoccupato «C’è rumore, qui, magari stanno facendo qualcosa che non vogliono sia interrotto, magari stanno scopando!»

«In quel caso, stai sicura che la regina non si nasconderebbe certo!»

Aprendo la tenda, rivelò un salotto grosso modo simile agli altri, solo più grande e con più divanetti dei precedenti, oltre che con più ospiti.

Com’era prevedibile, le schiave non mancavano mai.

Alcune appollaiate sul divano a mangiare e cantare in una lingua sconosciuta -sicuramente quella delle Ophidians- e suonare curiosi strumenti dalle forme bizzarre, altre sedute sul muretto del chiosco a battere le mani e, infine, decine di concubine impegnate invece a esibirsi in quella che aveva tutta l’aria di essere una vera e propria danza del ventre, con tanto di ali di Iside e ventagli e nastri variopinti.

Era solo un po’ più… osè.

Una delle ragazze si staccò dal gruppo, avvicinandosi ad un’Ophidian dalle squame di un brillante bianco opalescente, fra le quali faceva capolino qualche squama solitaria di un rosso acceso; le si sedette in braccio, si tolse il velo azzurrino da intorno ai fianchi e glielo mise intorno al collo, tirandola e sé e baciandola in modo alquanto appassionato.

Nel mentre, iniziò a strusciare sensualmente il proprio bacino su quello della naga, che -di tutta risposta- le strinse le natiche con le mani artigliate, affondandole gli artigli in esse mentre l’accompagnava nel movimento.

Non era affatto ambiguo, ciò che stavano facendo.

Era palesissimo.

 

Amira mosse qualche passo in avanti, inchinandosi.

«Vanimle sila tiri belegohtar curucuar, Airë Tári Phentesilea» salutò semplicemente.

“Dunque quella è una delle regine”, pensò Emily Jane, scambiandosi uno sguardo con Phobos per assicurarsi che anche lui avesse tirato le stesse conclusioni.

A vederla, in realtà, non avrebbe scommesso nemmeno mezza moneta di rame che quella fosse una fra le sovrane che se ne stavano ai vertici di Quetzalli, piuttosto avrebbe pensato che potessero esserlo uno delle due Ophidians che l’affiancavano!

Magrolina, senza il minimo accenno alla muscolatura come le sue simili, il corpo come la coda -più lunga di altre, indubbiamente, ma non altrettanto spessa- snello e delicato, che pareva potersi spezzare solo guardandolo, la pelle talmente pallida da sembrare candida come le sue squame; persino i serpenti che aveva per capelli erano lunghissimi, sì, ma esili, una cascata color della neve dalla quale qua e là s’intravedevano le loro piccole teste rosse che schioccavano la lingua a saggiare l’aria.

Che loro fossero convinti o meno che si trattasse della regina, la serpentessa gettò il proprio sguardo verso la serva, sorridendole.

«Mae govannen, Amira» ricambiò il saluto, piegando impercettibilmente la testa.

Un paio di decisi movimenti d’anca, e la concubina che aveva in grembo inarcò la schiena, crollandole poi letteralmente fra le braccia; con un segno della mano, Phentesilea fece segno ad una sua simile di prendere la donna con la quale aveva appena copulato e portarla su uno dei divani.

Invitò i tre a sedersi.

«Eccoci qui, dunque» batté le mani, come a ufficializzare quell’incontro. Si girò verso la serva «Allora, vuoi dirmi un po’ chi sono queste due splendide ragazze?»

«Oh! Certamente! Lei è Emilia Gianna!» indicò la prima «E lei è Phoebe!» poi il secondo.

Si sdraiò a testa in giù sul divano, si prese un grappolo d’uva e, con tutta la calma del mondo, iniziò a mangiarlo.

«Quando sono uscita, si trattava di Airë Talestrie. Mi ha riferito che Miulë Otrera ha trovato loro due» li additò di nuovo «ai confini del regno, fuori dalla foresta, e che -dopo essersi consultata con lei- hanno concluso che parevano entrambe due delle donne catturate da Airë Tári Hippolyta nell’ultima battuta di caccia. Non ne era sicura al cento percento, in verità, ma ha ritenuto comunque più opportuno consegnarle a voi, piuttosto che ad altre regine».

«Hanno avuto un pensiero molto gentile entrambe, la mia consorte sarà felice di sapere che non sono andate ad Airë Tári Antiope!» annuì Phentesilea ridendo.

«Assicurati di mandare loro i dovuti ringraziamenti, Amira, mi raccomando. Voglio che sia riservata particolare attenzione ai doni di Miulë Otrera, inoltre: è solo una principessa, ma noto con piacere che si sta dando da fare per ingraziarsi noi cosiddetti “piani alti”, tanta intraprendenza va certamente premiata».

«Cosa preferite che le mandi? Oro? Argento? Gemme?»

«L’ultima che hai detto. Silmarillis» si fece pensierosa «una manciata. Dovrebbe bastarle per comprarsi qualche schiava per iniziare a fare concorrenza a sua madre, considerando che quello è l’obiettivo che abbiamo tutte da quando veniamo al mondo, qui!» rise.

Gli altri presenti non potevano saperlo, ma le gemme di Silmarillis erano la merce di scambio dal più alto valore che esistesse a Quetzalli, dinanzi alla quale qualsivoglia diamante impallidiva.

Donate all’alba dei tempi da Quetzalcoatl al regno di sua figlia, altro non erano che piccole pietre preziose grandi quanto un chicco di riso dall’aspetto adamantino, il cui interno -percorso da venature e sfaccettature colore dell’arcobaleno- brillava di luce propria talmente intensa da illuminare ciò che aveva intorno. Non potevano essere estratte in nessun luogo e con nessun attrezzo, però: l’unica fonte di Silmarillis erano delle fontane di cristallo che rarissimamente le regine possedevano nei loro territori, motivo per cui erano considerate come un ennesimo indicatore sociale.

 

Discusso un altro po’ con Amira sulle ricompense da elargire alle altre Ophidians, finalmente Phentesilea rivolse le sue attenzioni alla figlia dell’Uomo nero e il rosso.

«Gradite qualcosa da bere? Da mangiare, forse? Non fate complimenti, chiedete pure ciò di cui avete bisogno: alle mie serve non è mai stato negato nulla, potete tranquillamente chiedere a qualunque donna incontriate».

Nessuno dei due era troppo sicuro di cosa rispondere: se avessero accettato forse avrebbe pensato che si stessero approfittando della sua gentilezza, o che fossero troppo viziate, o che, ancora, non avrebbero dovuto e potuto parlare senza il suo permesso; se avessero rifiutato, al contrario, magari l’avrebbe presa come un’offesa, o un segno di maleducazione, o che non gradissero le buone maniere e volessero sperimentare quelle cattive! Alla fine, optarono per il silenzio.

«FACIOLA! FACIOLA IN SALSA!»

O almeno ci provarono.

Emily avrebbe voluto sprofondare sottoterra, o affogare in piscina: tentativi e tentativi per non dare nell’occhio, e cosa succedeva? Phobos voleva i fagioli.

I fagioli.

Sarebbe morta per mano di stupidi, maledetti, dannatissimi, fagioli in salsa.

Contro ogni più rosea previsione, però, la regina si mise a ridere.

«Faciola?» ripeté divertita «Intendi quei piccoli legumi a forma di bottone, leggermente ricurvi, con la buccia sottile sottile e quella consistenza pastosa quando si masticano?

«Sì! Quelli! QUELLI!» le si gettò davanti, le mani giunte e lo sguardo implorante «DITEMI CHE AVETE ANCHE QUELLI IN SALSA PICCANTE! VI PREGO VI SCONGIURO VI SUPPLICOOOOOH!»

«Ovvio che li abbiamo, qui accontentiamo i gusti culinari di chiunque».

Uno schiocco di dita, e comparve una serva con una grossa ciotola di vetro finemente lavorata fra le mani; al suo interno, un numero non meglio definito di chili di fagioli.

«Prego, serviti pur-»

Ancor prima di ricevere l’invito della sovrana, lui si trovava già con la testa letteralmente immersa nel contenitore, a sbafare faciola piangendo commosso nemmeno fossero finiti in un “Lo chiamavano Trinità”.

Se uno si strafogava senza ritegno alcuno, però, l’altra lo fissava perplessa.

E la regina la notò.

«Qualcosa ti turba, mia cara?»

Prima di risponderle, Emily esitò: non pareva avere cattive intenzioni, ma preferiva andarci piano sia con le domande, sia con le risposte. Meno diceva, meglio era.

«Come fate ad avere un cibo tipico della Terra? Non è proprio dietro l’angolo, e ho sentito dire che voi Ophidians non uscite mai dai confini della vostra città, mi risulta difficile capire come facciate a procurarvi dei… fagioli». A quella parola, si diede una sonora pacca sulla fronte «Lasci perdere, lasci perdere. Mi scusi, sono mortificata, non so perché sto chiedendo informazioni sui legumi ad una regina, non-»

«Oh, è molto semplice» l’anticipò la sovrana, sorridendo «avrai notato da sola che qui ci sono esemplari femmina delle più svariate razze che popolano il cosmo, non penso che le Almáttki del pianeta Dragsa passino poi tanto inosservate» ridacchiò, facendo riferimento a quelle donne che parevano montagne di muscoli viste in città.

«Comunque sia, il modo o il motivo per cui suddette femmine finiscono nei territori di nostra competenza non è un nostro problema: se bevono dai nostri fiumi, se colgono i frutti dai nostri alberi, se riposano le loro stanche membra sulle nostre pietre, se si sfamano con il nostro grano, se entrano a Quetzalli, allora diventano nostra proprietà. Noi Ophidians le cacciamo, le catturiamo e le reclamiamo come nostre schiave, e da allora diventiamo le padrone dei loro corpi e delle loro vite».

Prese un fagiolo caduto a terra.

«Un giorno arrivò una ragazza terrestre, una commerciante del deserto se non ricordo male, e con sé aveva questi legumi: fagioli, appunto» glielo mise sul palmo della mano «li piantò e ci mostrò come prendercene cura, e da allora crescono anche qui a Quetzalli. Innumerevoli altre piante aliene -che immagino tu abbia visto venendo qui- sono arrivate qui con la stessa metodologia, sai? Non usciamo mai dal nostro regno, ma abbiamo una varietà di fauna e di flora incredibilmente vasta e variegata».

«È una storia davvero affascinante» convenne Emily, sinceramente sorpresa.

Non seppe se fosse l’effetto del sentirsi priva di vie d’uscita, se dovesse dare la colpa al rincoglionimento di Phobos che l’aveva contagiata via aerea, o se fosse stata ipnotizzata dall’innegabile bellezza di quell’Ophidian così diversa dalle altre, fatto stava che, istintivamente, si trovò a cercare con la propria mano quella artigliata dell’altra, portandosela sulla coscia.

«E ditemi, Airë Tári Phentesilea» gliela fece scivolare sotto la gonna «ne avete altre, di storie come questa?»

La naga le sorrise, compiaciuta.

«Sono una creatura immortale di migliaia e migliaia di anni, Emilia, ne ho quante ne vuoi» le si accostò all’orecchio, sibilando e sfiorandoglielo con la lingua biforcuta, gli artigli che lasciavano piccoli segni rosati dove toccavano la pelle «e sembrano tutte più avvincenti, se le si ascolta nelle mie stanze, magari a mollo nella vasca da bagno, o sdraiate sul mio letto a godersi un bel massaggio, oppure potremmo starcene-»

«Sotto le lenzuola» le prese il volto fra le mani, avvicinando le proprie labbra a quelle dell’altra «a godere e basta».

L’Ophidian non ebbe il tempo di rispondere, che la lingua della Pitchiner stava già avidamente intrecciandosi alla propria.

La regina si abbandonò piacevolmente al contatto delle labbra della sua nuova schiava con le sue, un contatto dapprima gentile, poi sempre più esigente, avido, impetuoso, che le smorzava il fiato in gola, da com’era stata presa alla sprovvista. Emise un mugolio sommesso, quindi sollevò le braccia per passargliele attorno al collo, tirando Madre Natura a sé e ricambiando il bacio con tanto e più ardore, complice la mano che era finita chissà dove.

E che era tornata indietro insospettabilmente bagnata.

Ah, i misteri di Quetzalli! Quale meraviglia!

Quando si staccarono l’una dall’altra, i loro occhi non si persero di vista nemmeno un istante.

«Amira» chiamò la serva, che alzò la testa dalla sua improbabile posizione «mi ritiro nelle mie camere. Bada alle altre concubine, che a quella nuova» guardò Emily, maliziosa «penso io. Ne avremo per molto, molto, tempo».

«Il più a lungo possibile, assolutamente» convenne la sovrana di Tandokka, aggrappandosi al suo petto.

«Come desiderate, Airë Tári Phentesilea!» scattò sull’attenti l’altra, portando la mano alla fronte in un saluto militaresco. Infine, fece un breve inchino al congedarsi della sua regina.

Dall’altra parte, Phobos -letteralmente paralizzato, con i faciola che gli cadevano dalla bocca a causa della temporanea paresi facciale- non fu in grado di fare nulla: non reagì, non si alzò per impedire il folle gesto della sua partner di fagiolate, non sembrava nemmeno in grado di respirare, in quella modalità “statua di marmo”. Semplicemente, fissò con occhi vuoti Emily Jane Pitchiner, la che andava imboscandosi con una regina Ophidians.

A svegliarlo, ci pensò la pacca di Amira sulla schiena.

«Uh-uh! Vedrai che la inaugurerà come si deve, non ho mai sentito nessuna schiava lamentarsi della sua prima notte nell’harem!»

Annegò la testa nei fagioli per non sentirla.

 

 

 

[… la mattina seguente…]

 

«TU! MALEDETTA LESBICA INFOIATA! FORNICATRICE! CORTIGIANA!»

«Quante storie».

«“Quante storie”? “QUANTE STORIE”?»

Batté i pugni sul tavolo, facendo traboccare del karkadè dalla tazza che aveva davanti.

«Sei sparita da un momento all’altro, ieri, e sei rimasta da allora fino a questa mattina inoltrata a farti scopare in ogni posizione possibile e martellare gli orifizi da qualsiasi angolazione e sfondare l’anima dalla regina! E non credere che non abbia visto tutte le altre schiave che sono entrate nella stanza mentre eravate impegnate a copulare! Minimo erano una quindicina! UNA QUINDICINA!»

«Come sei noioso».

«E ci credo che sono noioso! Dopo quell’orgia voglio proprio vedere cosa reputi interessante!» sbottò il rosso, alzandosi di scatto e rovesciando la sedia.

Furibondo, si afferrò i lembi della lunga gonna -di un giallo acceso con uno spacco che mostrava la stoffa blu notte sottostante, costellata di piccole perline argentee che la rendevano somigliante ad un cielo pieni di astri- che indossava e gliela mostrò, orripilato.

«Non puoi nemmeno immaginare cosa ho rischiato, quando le concubine sono venute a svegliarmi per lavarmi e vestirmi con gli abiti dell’harem! Avrebbe potuto scoprire che sono un uomo! Erano a tanto così dal farlo!»

Di tutta risposta, lei gli toccò il pacco.

«Sei vivo e hai ancora il cazzo attaccato, quindi suppongo non lo abbiano scoperto».

«No, per fortuna!­ Sono riuscito -anzi, riuscita!- a fingermi troppo timida per denudarmi davanti a loro, ho detto che dovevo ancora abituarmi all’idea di essere vista senza veli da altre donne e che avrei fatto da sola, ringrazia il cielo che abbia funzionato! E non ti dico quando hanno notato che non ho il seno! Solo gli dei sanno come hanno fatto a credere al fatto che avessi troppi muscoli perché si notasse!»

Si sedette, mettendosi le mani fra i capelli.

«Potevi farmi ammazzare, ma stai sicuro che -se fosse accaduto- ti avrei trascinata con me» l’informò, facendosi scuro in volto «ma tanto che te ne frega, tu eri a scopare e divertirti. Per il resto, che si fotta il mondo! Letteralmente!»

Emily Jane, calmissima, poggiò la propria tazza di tè verde sul piattino. Si lisciò il lungo abito da danzatrice del ventre verde e bronzo-dorato che portava.

Chiuse gli occhi, tirando un profondo respiro.

«Ho fatto sesso con Phentesilea, lo ammetto, ma le ragazze che hanno partecipato alla suddetta orgia saranno state cinque o sei, non di più­» raccontò tranquilla, prendendo un biscotto e inzuppandolo nel tè «e non l’ho certo fatto per divertimento. Non solo per quello, almeno. Ero piuttosto curiosa di soperimentare di persona l’ermafroditismo di queste naga ninfomani, sì, non puoi nemmeno immaginare cosa-»

«Mezzo metro di cazzo, Emily, mezzo metro

«Non ero lì con un metro in mano ma sì, da quel che so le dimensioni di un’Ophidians adulta sono quelle, forse qualcosa di meno. Tralasciando che mia vagina non debba rendere conto a nessuno che non sia me stessa, il punto non è questo».

«E quale sarebbe?» domandò stizzito.

«Sarebbe che sì, mi sono messa a flirtare con lei e mi sono tolta lo sfizio di averci un rapporto sessuale insieme, ma è stato tutto dettato dalla necessità di carpire informazioni, più che dagli ormoni. Quelli hanno reso l’esperienza più interessante e godibile, in tutti i sensi, ma la missione aveva e ha ancora la priorità sul piacere personale».

L’uomo parve calmarsi, abbastanza da riuscire a tenere il bicchiere in mano senza romperlo dalla rabbia.

«Cos’hai scoperto?»

«Che abbiamo poco tempo. Pochissimo. Se vogliamo agire, allora dobbiamo farlo oggi: dopo questa sera, tu sarai morto, e io gravida».

«C-come?» strabuzzò gli occhi, pallido in volto «Cosa intendi per… gravida?»

«Intendo ciò che ho detto» ribatté lei, apatica. «Da quel che ho sentito e mi hanno detto, siamo capitati giusto giusto all’inizio del periodo dell’anno in cui le Ophidians fanno ingravidare le proprie schiave. La cerimonia inizierà questa sera stessa, appunto».

«Credevo pensassero loro, a queste cose».

«Per dare vita a ibridi? Nah. Ricordati che sono solo serve, concubine, schiave sessuali: ingravidarne una non sarebbe poi questo grande vanto, per una sovrana» fece spallucce «soprattutto perché i marmocchi verrebbero tenuti nell’harem di provenienza della madre prigioniera, per cui la regina finirebbe per accoppiarsi con i suoi stessi figli. Qui non siamo dalle parti della Costellazione di Orione, Phobos, non sono Chandrasekhar: l’incesto non si pratica».

«E quindi?»

«E quindi, una volta l’anno, le Ophidians aprono le porte della città ad alcuni membri della Né Räggira, una tribù mista a prevalenza maschile che abita qui su Exodus, i cui uomini si offrono ritualmente volontari per accoppiarsi con gli harem delle regine e, possibilmente, ingravidarle» spiegò. «Per tutta la durata di questa “stagione dell’accoppiamento”, se così vogliamo chiamarla, i maschi scelti vengono condotti bendati all’interno di Quetzalli, e solo al calare della notte. In questo modo, nessuna delle due persone coinvolte nel rapporto sessuale può conoscere il volto dell’individuo col quale ha giaciuto e, soprattutto, non potrà mai sapere l’identità dell’altro genitore, se l’unione dovesse andare a buon fine».

«E cosa succede ai bambini?» chiese l’altro, confuso «Se non ci sono uomini a Quetzalli, allora-»

«Se sono femmine, allora vengono tenute dalle Ophidians e allevate come schiave, incontrando lo stesso destino delle loro madri» lo anticipò «se sono maschi, invece, vengono riconsegnati ai Né Räggira, e ogni membro adulto adotta un bambino. Nessuno di loro potrà mai sapere se quello è suo figlio o meno, ma -forse perché i neonati vengono cresciuti da tutta la tribù- ciò non pare disturbarli, dal momento che continuano a offrirsi volontari stagione dopo stagione, anno dopo anno. E noi siamo finiti qui» allargò le braccia per indicarsi tutt’intorno «proprio all’inizio di questa stagione, pensa che fortuna che abbiamo avuto».

Il rosso, evidentemente preoccupato, si alzò, iniziando a camminare nervosamente avanti e indietro.

Su dei deliziosi tacchi a spillo, fra l’altro.

«Se non leviamo le tende prima di sera, allora non potremo farlo mai più. Letteralmente, perché qui ci ammazzano prima» rifletté ad alta voce. Si fermò davanti a Madre Natura, che intanto aveva finito il proprio tè «Come ne usciamo?»

«Da cosa? Da Quetzalli, o da questa situazione?» rigirò la domanda.

«Fa differenza?»

«Se intendi la prima, non ne ho idea: la città è blindatissima, in vista della cerimonia, e la galleria dalla quale siamo arrivati è impossibile da raggiungere senza farci notare. Se intendi la seconda, allora ho un piano».

«… Hai un piano?»

«Precisamente» confermò la Pitchiner, gongolando.

Si alzò anche lei, affiancandosi al compagno, che della sua calma non sapeva cosa farsene.

«Può darsi che qualcuno sia stato scelto dalla regina per accompagnarla al tempio di Medusa, per andare a pregare, le schiave che solitamente la scortano sono andate al mercato qualche ora fa e non torneranno prima del pomeriggio. Se andiamo con lei a quel benedetto santurio, allora ci salviamo pure dalla marchiatura che ci aspetta giusto fraaaaa» guardò una meridiana «trenta minuti».

«M-ma-marchiatura?»

«Quella. Non ci hai fatto caso nemmeno mentre venivamo qui, che ogni schiava ha inciso sulla pelle -in parti del corpo random- un simbolo diverso per ogni padrona? In questo modo, nessuna regina può pretendere la serva di un’altra regina, pratico e veloce. E un po’ doloroso, ma Amira ha detto che non è-»

«Andare a questo tempio ci farà perdere tempo?» l’interruppe, non volendo nemmeno sapere ulteriori dettagli su quella questione.

«Non credo, tutt’altro» sorrise Emily «è il luogo più sorvegliato dell’intera città, quiiiiiindi…?»

Lui si fece pensieroso qualche istante. Improvvisamente, schioccò le dita, come se avesse appena avuto un lampo di genio.

«Quindi lo scettro potrebbe trovarsi lì!»

«La stessa cosa che ho pensato anche io» convenne la Pitchiner. Subito, però, mise le mani avanti «Sottolineo che non ne ho la conferma, quindi bisognerà andarci con i piedi di piombo: potremmo avere ragione, come potremmo avere torto. Nel primo caso, prendiamo lo scettro e ce la fuggiamo con la certezza di uscirne vivi. Nel secondo caso, dovremo trovare alla bene e meglio un modo per fuggircela, e al diavolo la copertura» fece una breve pausa «anche se…»

«Anche se…?»

Si portò le mani alle tempie, massaggiandosele.

«Anche se, adiacente al tempio, ha la propria dimora Axechasti, la figlia di Quetzalcoatl e Medusa, come sai» corrugò la fronte «la sua presenza mi preoccupa abbastanza, specie perché non abbiamo grandi informazioni su di lei. Per quanto ne sappiamo, potrebbe già sospettare di noi e attendere solo un nostro passo falso, per cui-»

«Per cui dobbiamo rimanere nell’ombra e aspettare una conferma dei nostri sospetti sullo scettro, prima di fare qualsiasi cosa che implichi il giocare a carte scoperte».

«Esattamente, vedo che ci siamo capiti» confermò. Allungò una mano verso di lui «Siamo entrati in due, e usciremo in due: nessuno lascia indietro nessuno».

«Nessuno lascia indietro nessuno» ripeté Phobos, stringendogliela.

“A meno che tu ti riveli completamente inutile come penso”, aggiunse mentalmente, sorridendo.

Per un millesimo di secondo, Emily parve notare quel lievissimo e quasi impercettibile accenno di ghigno dipintasi sul volto del suo compagno, ma non fece in tempo a concentrarsi su quel dubbio che la voce di Phentesilea chiamò i loro nomi.

Il pensiero che dovesse guardarsi le spalle tanto dagli amici quanto dai nemici scivolò via dalla sua mente come rugiada su una foglia.

Sfortunatamente per lei.

 

 

 

___________________________________________________________________

 

Angolino dell’autrice

 

Traduzioni varie ed eventuali

Mani naa essa en lle? = Qual è il vostro nome?

Naa rashwe? = C’è qualche problema?

Aa’ menealle nauva Quetzalcoatl’orn calen ar’ malta, mellonamin (forma di saluto) = Possa Quetzalcoatl cospargere d’oro il tuo cammino, sorella

Aa’ i’sul nora Quetzaltocatl’orn lanne’lle, mellonamin (forma di saluto con la quale si risponde a quella precedente) = Possa Quetzalcoatl favorire sempre la tua sorte, sorella

Vanimle sila tiri belegohtar curucuar, Airë Tári Phentesilea = La tua bellezza risplende intensamente, Airë Tári Phentesilea

Mae govannen, Amira = Ben trovata, Amira

Né Räggira = è l’anagramma (leggermente modificato totalmente a caso :’D) del popolo dei Gargareni, una tribù di uomini che -secondo la mitologia- si accoppiavano con le Amazzoni

 

Eccoci qua!

Sì, è un capitolo più corto del solito, ma infilando anche il resto delle cose che avrebbero dovuto esserci sarebbe diventato veramente T(R)OPPO lungo, per restare in tema di Dragon Ball Super come piace tanto a Giannemilia :’D

Avrei voluto trovare una foto di Quetzalli, ma in realtà… GNE, non ne trovavo di adatte per descrivere la presenza di tanto oro in stile Aldebaran (cit.), ma se avete visto “La strada per El Dorado” allora un’idea piuttosto fedele alla realtà l’avete!

Ringrazio nuovamente tutti quelli che leggono, seguono la long e in particolare chi è sopravvissuto al capitolo 13, ora siete leggenda trovano il tempo di farmi sapere cosa ne pensano, fa sempre tanto tanto sapere le opinioni di chi legge da fuori :)

Alla prossima!

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Capitolo 16
*** Rebirth ***


Se non ci fosse stata la regina a guidarli, si sarebbero sicuramente persi nella foresta dopo nemmeno un centinaio di metri.

Alberi alti quanto palazzine talmente fitti da fare ombra tutt’intorno, immensi tronchi nodosi con insenature così profonde che ci si poteva accomodare dentro in più persone, gigantesche radici che spuntavano qua e là dal suolo come vere e proprie braccia demoniache, pronte a trascinare lo sventurato di turno negli inferi dal quale parevano provenire.

E c’erano liane, soprattutto liane.

Fottutissime liane muschiate che pendevano ovunque, finendo per attorcigliarsi intorno agli arti, al corpo, addirittura al collo come tentacoli di una piovra; in più di un’occasione si erano ingarbugliate ai capelli di un povero Phobos che -puntualmente- iniziava a gridare come una ragazzina fra le risate generali, salvo poi ridere lui quando Emily Jane -che in quei momenti di scherno certo non si era contenuta- si prese un mezzo infarto a sentire “un serpente su per il culo”, reduce com’era dal vivido ricordo della gita nei boschi del Galles con papà.

La regina, invece, strisciava sicura e decisa in mezzo a quel suolo tanto ombroso quanto lussureggiante: si muoveva piano, silenziosamente, quasi non volesse disturbare la foresta stessa con la sua presenza, trovando comunque il tempo di parlare con le sue serve.

Era un’abile conversatrice, bisognava riconoscerglielo: sempre con la risposta pronta, sempre disposta a mettersi in discussione e ascoltare le opinioni altrui con estremo interesse, sempre con quel suo tono così vispo e allegro che avrebbe reso affascinante anche la narrazione di “Guerra e Pace” a un sordo.

O a due loschi figuri che giravano con abiti da danzatrice del ventre, insomma.

«Airë Tári Phentesilea, potrei farvi una domanda?» prese parola Madre Natura mentre attraversavano un fiume, il ponte formato dal tronco di un enorme albero cresciuto quasi orizzontale al terreno.

«Certamente, carissima, qualsiasi cosa».

«Non ho potuto fare a meno di notare che il vostro harem è composto anche da altre Ophidians, sebbene siano in numero esiguo rispetto a schiave di altre razze, e che anche loro indossano questo» si toccò il collare dorato «sono schiave, forse?»

Tornarono sulla terraferma, per la gioia di una certa schiava rossa dal dubbio sesso che si aggrappava agli scivolosi rami coperti di fiori per il terrore di cadere e fare “splash” come un Magikarp.

«Lo sono, infatti» rispose la naga a voce bassa «ed è la fine peggiore che una regina possa desiderare di fare, quella di diventare concubina di un’altra regina. Specie quando finisci per diventarlo di una tua intima conoscente, un’amica d’infanzia, una parente».

«Addirittura?»

«Addirittura, sì».

La serpentessa invitò entrambi a sedersi con lei su un masso piatto e largo.

«È una triste realtà, lo riconosco, ma è la realtà di Quetzalli, della mia casa, della mia gente, ed è socialmente accettata e incoraggiata: quando un’Ophidians nasce, lo fa con l’obiettivo di possedere più schiave possibili, e la consapevolezza che finirà schiava a sua volta, se non riuscirà nel suo intento».

«È una pressione psicologica non indifferente, per delle bambine» osservò la figlia dell’Uomo Nero, lei che pensava che i compiti scolastici fossero già abbastanza oppressivi da soli «come fanno a reggere una situazione del genere?

«Non hanno scelta, devono farlo. In caso contrario…» fece una breve pausa «… finiscono come le sorelle di Airë Tári Antiope. Chiedete a qualsiasi mia concittadina, e vi racconteranno come sono tutte quante finite a far parte dell’harem della loro “sorella alpha”, come ama definirsi lei stessa. E Antiope è considerata alla pari di mostro, dalle sue serve, per cui vi lascio immaginare come se la passano quelle poverette».

Colse da un albero un frutto simile a una melagrana azzurra e verdognola, aprendolo e passandolo agli altri.

«Se una regina sfida un’altra regina con lo scopo di appropriarsi del suo harem, non solo quella perdente e tutti i suoi averi diventano legittimamente proprietà della vincitrice, non solo lo diventano le sue concubine, ma -ahimè- alla sua consorte e alle sue figlie tocca lo stesso destino».

«Anche le figlie?» ripeté il rosso, incredulo e col cibo ancora in bocca «Come è possibile? Non hanno colpe se le loro madri sono delle incompetenti nel combattimento!»

«È precisamente ciò che pensiamo io e mia moglie, Airë Tári Hippolyta, e infatti nel nostro harem non sono presenti i familiari delle regine sconfitte, e mai ci saranno» convenne, accennando un sorriso tanto dolce quanto severo. Che svanì poco dopo, però «Se la regina vincitrice lo ritiene opportuno, ha la facoltà e la libertà di concedere la grazia all’altra, rinunciando al rendere schiava lei, o almeno la sua famiglia. Fortunatamente, la concessione di una grazia va per la maggiore, non tutte sono assetate di schiave».

«Ma alcune lo sono, immagino».

«Mi duole confermarlo, ma è così» sospirò rassegnata.

«Ci sono regine disposte a tutto pur di superarne altre, regine come Antiope, che -per questo- finiscono per attaccare sovrane ancora giovani sapendo bene di avere vittoria facile, prendendosi loro e tutto il pacchetto al seguito senza vergogna alcuna». Strinse forte il frutto fra le dita diafane, sporcandosele del succo giallastro «Non c’è proprio nulla di cui vantarsi in un gesto del genere, non è una vittoria onorevole se una delle parti combatte con un bastone di legno e l’altra con una lancia di ferro, né tantomeno se sodomizzi una madre davanti alla sua stessa figlia “per insegnarle il suo futuro mestiere”. Eppure succede,  Phoebe, succede eccome…» gli occhi le divennero lucidi «e noi lo permettiamo. Lo sosteniamo, Lo incoraggiamo».

Probabilmente emotivamente provata da quei discorsi, l’Ophidian si tirò la coda al petto e ci poggiò la testa sopra, lasciando cadere mollemente le braccia lungo i fianchi prima di cingersi la testa con le stesse.

Il tonfo della melagrana a terra spezzò il silenzio della foresta.

«State bene, Airë Tári Phentesilea?» le domandò Phobos, mettendole una mano sulla spalla come se fosse realmente preoccupato «Volete tornare indietro? Devo chiamare qualcuno?»

«Sto bene, Phoebe, ti ringrazio» si sforzò di sorridergli, il volto stanco e gli occhi lucidi «stavo solo… riflettendo».

«Su cosa, se posso chiedere?»

«Sul fatto che sia una società tremendamente sbagliata, la nostra» mormorò.

Si alzò, strisciando fino al ciglio del precipizio appena attraversato.

«Che ci crediate o no, non siamo sempre state così, noi Ophidians. C’è stato un tempo dove vivevamo in pace e armonia col il resto della gente di Exodus, in cui eravamo guerriere il cui orgoglio e forza erano ammirati e applauditi da tutti, è esistito un passato che dove le nostre bambine giocavano serene e contente con i figli degli “stranieri venuti di là dalle montagne”, come definiamo oggi coloro che stanno al di fuori di Quetzalli. Pretendiamo di aver dimenticato tutto questo, fingiamo che non sia mai successo, ma non tutte riescono o vogliono farlo».

Guardò la propria immagine riflessa nell’acqua, contemplando con sguardo assente i lineamenti deformati dalla corrente.

«Abbiamo distrutta l’entrata della città settecento anni fa, ma l’isolamento è iniziato prima, molto prima: è stato lento, graduale, silenzioso, è passato inosservato tanto ai nostri occhi quanto a quelli altrui. Quando il ponte è crollato, nessuna di noi era veramente pronta ad abbandonare il mondo esterno».

«E per quale motivo lo avete fatto comunque?» chiese il rosso, incuriosito e confuso.

La regina, di tutta risposta, fece spallucce.

«Non avevamo scelta. Nessuno ci voleva, ma eravamo troppo orgogliose per lasciarci chiudere fuori dal mondo, così abbiamo chiuso noi il mondo fuori per prime, convinte com’eravamo e come siamo tutt’ora che Quetzalli sia un paradiso dorato nel quale vivere… ah!»

Con la coda, lanciò sbadatamente un sasso nel fiume; rimase ipnotizzata a lungo a osservare le onde concentriche create dall’impatto della pietra con la superfici dell’acqua.

«Quetzalli mi ha portato via una figlia, sette secoli or sono, l’unica e sola figlia che abbia mai avuto» sussurrò dopo un po’, con gli occhi lucidi.

«Nessuna mia simile ha mai capito cosa io provassi e cosa attualmente provi a vivere come una madre a metà, mutilata della creatura che ha messo al mondo, si sono sempre interessate di più al numero delle mie concubine che al dolore che mi stava dilaniando… che mi dilania ancora oggi…» le lacrime iniziarono a rigarle le guance pallide «persino mia moglie non capiva, all’inizio, tante volte mi sono chiesta se ci soffrisse anche lei o se io fossi l’unica a starci male. Ai tempi, mi consolava e mi diceva “Se un’altra figlia può farti stare meglio, allora possiamo farla,  nemmeno stessimo parlando di un giocattolo rotto che si può sostituire. Ora si limita a non parlarne e basta... ed è meglio così: non voglio che viva anche il mio dolore, ha già abbastanza cose di cui occuparsi all’interno del Calaciryandë».

Ci furono lunghissimi attimi di silenzio che parvero non finire mai, dopo quella frase, un silenzio talmente intimo che né Phobos né Emily Jane -dall’alto del loro essere lì solo per puro interesse- si azzardarono a profanare dicendo qualcosa.

A spezzarlo, solo i singhiozzi e la lacrime di Phentesilea.

«Devo vivere tentando di convincere me stessa e chi mi circonda di non aver mai messo al mondo una figlia, di non essere mai diventata madre. Devo dimenticare di avere una parte della mente costantemente preoccupata per lei, anziché fingere che sia morta come fa mia moglie, come fanno tutte. Devo negare di immaginarmi la mia piccola affacciata alla finestra a guardare la Luna là, a Phantasia, mentre lo sta facendo anche sua madre qui, a Quetzalli, ogni sera, quando calano le tenebre e resto sola coi miei pensieri, coi miei demoni. Allora, la mia unica consolazione è il sapere che la Luna che guardiamo è la stessa, quindi non possiamo essere poi così distanti».

«A Phantasia?» intervenne Madre Natura, piegando la testa.

«È lì che abita mia figlia, alla corte della regina Harmonia» confermò la serpentessa, asciugandosi intanto le lacrime «è la sua partner, oltre che la prima dei suoi generali, per cui-»

«Voi siete la madre di Myricae?!!»

 

In quel preciso istante, i neuroni della Pitchiner si presero una pausa.

Quella era la madre di Myricae.

Quella.

Aveva davanti la stramaledetta madre di quella stramaledetta naga che voleva nella tomba tanto quanto ci volesse l’altra stramaledetta centauressa dal culo spanato che rispondeva al nome di Harmonia.

Avrebbe potuto, voluto, farle di tutto, l’occasione c’era ed era succulenta come non mai!

A dirla tutta, si sarebbe chinata volentieri ai suoi intinti anche solo per colpire trasversalmente quelle dannata Ophidian dalle squame color smeraldo, più che per fare del male a una creaturina fragile e delicata com’era la sua mammina. Emotivamente distrutta e indifesa com’era, sicuramente Phentesilea non avrebbe opposto resistenza alcuna alla lama di un coltello che le affondava nella gola, occupata com’era a compiangere la sua figliola perduta sarebbe stato un lavoro di una semplicità talmente disarmante da sentirsi quasi in colpa, un po’ come rubare le caramelle a un bambino senza braccia.

Quasi, appunto, perché certo non si sarebbe pentita.

Quando toccò il pugnale che si teneva alla cintola, però, Emily decise improvvisamente di scacciare quei pensieri dalla sua mente: doveva restare lucida, attenersi al piano e non dare nell’occhio, ora.

Finché non avessero avuto conferme della posizione dello scettro, qualsiasi azione o gesto avventato sarebbe stata troppo rischioso; doveva prendere fiato, calmarsi e, soprattutto, non fare domande o insinuazioni sospette che non fossero inerenti a ciò che potevano sapere di loro o aver ascoltato, così da mantenere la copertura fino al momento propizio.

“Dovere”, sempre quel verbo in mezzo: e doveva fare questo, e doveva fare quell’altro, e doveva sottostare agli ordini di un disgraziato che pareva appena uscito da un centro per la riabilitazione degli alcolizzati cronici.

Doveva farlo lei, la regina di Tandokka.

La regina.

Re-gi-na.

Regina che, adesso, pensava solo una cosa: “che il piano si fotta”.

 

«Sono la sua Amìl, sì… ma voi come fate a sapere il nome di mia figlia?» domandò sorpresa la naga, alzandosi «La conoscete? L’avete vista? Ci avete parlato, forse? Come-»

«No no no no no, nieeeeeeeeente di tutto ciò! Ma va! Si figuri!» si affrettò a chiarire Phobos, agitando nervosamente le mani davanti a sé. Esibì il sorriso più falso che riuscì a racimolare in mezzo alle gocce di sudore che gli imperlavano la fronte «Abbiamo sentito parlare di lei, ma non la conosciamo di persona» si girò verso la sua compagna, dandole un vigoroso colpo di gomito sul braccio «vero, Emilia Gianna? Vero, che non conosciamo affatto la tenerissima figliola della regina? Vero

Lei, girata di spalle, si limitò a ridacchiare.

«Airë Tári Phentesilea?» la chiamò dopo un po’, atona.

«Sì, cara?»

«Lo scettro di Madre Natura si trova al tempio di Medusa, immagino».

A quelle parole, l’Ophidian si paralizzò: gli occhi sbarrati, il respiro ridottosi a un flebile soffio appena percettibile, il volto contratto in una smorfia di puro terrore.

«C-come lo s-sai?» fu l’unica frase che, a stento, riuscì a pronunciare mentre tremava «Chi… chi t-te l’ha d-de-detto?»

L’altra si voltò, sorridendole.

«Voi. Proprio ora».

 

«Cosa? I-io? Io n-non… n-n-non…» balbettò la regina indietreggiando, le pupille che guizzavano da un alto all’altro degli occhi a studiare i volti di quelle che -fino ad ora- aveva creduto essere semplici schiave. Si fermò quando la sua schiena incontrò il tronco di un albero.

Priva di vie d’uscita, circondata su tutti i fronti, senza la minima speranza di avere la meglio in uno scontro corpo a corpo, Phentesilea fece l’unica cosa che era nelle sue possibilità: urlò.

O almeno, tentò di farlo.

Stava per aprire la bocca per chiamare aiuto, quando il fiato le morì in gola.

«Grida, e ammazzerò tutte le bambine di questo buco città» la minacciò il rosso, stringendola a sé grazie all’avambraccio intorno al collo. Mantenne la presa finché non vide la pelle bianca diventare bluastra, e nemmeno allora la liberò.

I tentativi della donna di divincolarsi da quella morsa furono inutili, considerata la scarsità di muscoli nel suo esile corpo.

«Ho un branco di leoni neri pronti a sbranarle, quelle piccole e dolci Ophidians dalle squame ancora tenere. Aspettano solo un mio ordine per avventarsi sui loro corpicini inermi e usarle come gomitoli, per cui» estrasse un pugnale dalla tasca, facendoglielo scorrere dal collo alle labbra, un rivolo di sangue che le colò dalle stesse «non ti conviene urlare o anche solo pensare di poter avvertire chicchessia della nostra presenza, bellezza».

«Non le ba-bambine, non l-loro» mormorò la regina, in lacrime «fatemi ciò che volete, qualsiasi cosa vi venga in mente, ma non toccate le bambine: torturatemi, stupratemi, uccidetemi se volete, ma non fate loro del male, v-vi… vi p-prego, vi prego!»

«Uh-uh, che mammina sentimentale e coraggiosa che abbiamo qui, addirittura disposta a immolarsi e prostituirsi per delle mocciose!»

Certo che lei non avrebbe fiatato, le tolse il coltello dalla bocca; con tocco lento ma inesorabile, lo fece scivolare fino alla sottile catenella argentata che reggeva la setosa stoffa che le copriva il décolleté. Un rapido movimento del polso, e quella si spezzò senza difficoltà, lasciandola a seno scoperto.

«Quasi quasi, un pensierino sulla tua seconda offerta ce lo farei pure, ora che mi ci fai pensare» le sussurrò all’orecchio, leccandoglielo, incurante dei mugolii sommessi dell’altra «sono proprio curioso di vedere come-»

Uno scappellotto sulla nuca da parte di Madre Natura lo interruppe.

«Non siamo venuti qui per divertirci, idiota!»

Le lanciò un’occhiataccia terribile «Ma tu-»

«Ma io ho scopato con lei per avere informazioni utili a entrambi, che è ben diverso dal farlo per sfogare i propri ormoni» lo anticipò, zittendolo.

Si avvicinò a Phentesilea, in preda ai brividi. Tirò una liana a sé, strappandone un filamento col quale ricompose alla bene e meglio l’agganciò lacerato dell’abito della regina; non era un lavoro particolarmente degno di nota, ma bastava perché non girasse mezza nuda.

Non seppe precisamente perché lo fece, avrebbe anzi dovuto gioire al pensiero che venisse fatto del male alla madre di Myricae, ma -in quel momento- non se l’era sentita di infierire: “i figli non dovrebbero pagare le colpe dei genitori”, aveva detto l’Ophidian poco prima, che potesse valere anche al contrario?

Non l’avrebbe mai saputo, e non voleva nemmeno saperlo: aveva voluto farlo e l’aveva fatto, punto.

«Trattieniti i tuoi ormoni, o -riacquistati i poteri- lo scettro finirò per infilartelo su per il culo, e allora voglio vedere se avrai ancora voglia di violentare qualcuno» fulminò l’uomo, che intanto continuava a borbottare. Si girò verso di lui, prendendo il pugnale che era scivolato a terra e puntandoglielo all’inguine «Immagina, Phobos: una Airë Tári disperata, in lacrime, con qualche livido addosso e gli abiti strappati. Al suo fianco, due schiave che fischiettano indifferenti. Cosa credi, che nessuno farà domande?»

Lo premette sulla carne non con forza, ma abbastanza perché avvertisse la lama attraverso il tessuto e temesse per la vita del suo povero membro.

«E cosa gli risponderai, genio? “Se l’è andata a cercare, andava in giro vestita in modo provocante”? Non siamo sulla Terra, queste stronzate non funzionano» fece una breve pausa «per fortuna» aggiunse.

Dall’altro non provenne risposta.

Attestato che quel silenzio indicasse che avesse capito il concetto, Emily Jane si dedicò alla serpentessa.

«Ora ti spiego cosa faremo: tu ci accompagnerai al tempio, e noi prenderemo i resti del mio scettro. Non urlerai, non cercherai di scappare, non dirai nulla all’infuori di ciò che concorderemo. Se incontreremo Axechasti, e la incontreremo quasi certamente, allora manterrai la calma e fingerai che sia una visita come tante altre» le spiegò. Piantò il coltello nel tronco di un albero, facendola sobbalzare «Attieniti al piano, e potresti pure tornare a casa, questa sera. Tutto chiaro?».

Phentesilea, impossibilitata a fare altro, annuì.

Per tutta la durata del tragitto, in rigoroso silenzio, pregò: che Quetzalcoatl gliela mandasse buona, o che l’uccidesse prima di farla parlare e condannare la sua gente.

 

 

 

Sapevano che il santuario si trovava all’interno delle mura di Quetzalli, ma -a vederlo- il dubbio di essersi persi o finiti fuori strada li assalì comunque.

Niente mura d’oro, niente pavimento di gemme, niente fontane che anziché acqua sputavano preziosi cristalli arcobaleno, per quell’immensa piramide in perfetto stile azteco: pietra, semplice e comune pietra scura resa viscida dal muschio e fissurata dalle intemperie. Solo salendo un pezzo della lunghissima scalinata costellata di statue serpentine se ne poteva vedere la sommità, una sorta d’imponente tempio greco sorretto da alte colonne scavate e intagliate ora a forma di serpente, ora a sembrare tronchi nodosi.

Salirono gradino dopo gradino quella scala che pareva infinita, gli occhi combattuti fra il dover stare appiccicati a Phentesilea perché non facesse scherzi, alle maestose statue precolombiane di ofidi che li accompagnavano nella salita o, invece, al paesaggio che -da lassù- offriva una prospettiva diversa di ciò che li circondava: una sconfinata distesa verde e oro, ecco cos’era la El Dorado delle naga ermafrodite, un fazzoletto di terra posato sul volto di un pianeta che entrambi avrebbe voluto radere al suolo, se mai non fossero riusciti a salire al trono.

Non fecero nemmeno in tempo a decidersi, che i gradini finirono.

Prima di entrare, la figlia dell’Uomo Nero afferrò il polso all’altra donna.

«Ricordi ciò che ci siamo detti, vero?» la interrogò, ricevendo di risposta il debole sussurro di un “sì” ben poco convinto «Dì solo e soltanto ciò che abbiamo accordato, e allora nessuno si farà male: tornerai a casa e farai finta che non sia successo nulla, una volta finito qui, contenta?»

«Pure se non lo fossi, immagino che non sarebbe importante».

«E brava la mia Ophidian! Hai già capito tutto della vita!» le diede una pacca sulla schiena, poi fece lo stesso con Phobos «Signori e signore, si entra in scena!»

 

E in scena c’erano pure entrati, salvo trovarsi Axechasti a una cinquantina di metri.

In realtà, lei non parve nemmeno notarli, impegnata com’era a sistemare dei fiori in alcune anfore bianche poste ai piedi dell’altare; dietro di esso, i giganteschi monumenti raffiguranti i suoi genitori avvolti l’uno intorno all’altra, adornati con gioielli e ghirlande floreali, probabilmente doni per qualche grazia ricevuta.

Concorde alle loro peggiori previsioni, l’antenata comune delle Ophidians era più grande e robusta di queste ultime. Già solo la massiccia coda -coperta nella parte superiore fino alla punta di un soffice piumaggio, i cui colori variavano dall’acquamarina al turchese, fino al verde e al giallo- avrebbe potuto costituire un problema, a giudicare dagli spuntoni che la percorrevano superiormente nella sua interezza!

Per non parlare delle ali variopinte, sicura eredità di suo padre: non erano particolarmente grandi, probabilmente non erano nemmeno adatte al volo, ma -in uno scontro diretto- i muscoli che le muovevano non sarebbero certo stati delicati come le piume che le ricoprivano.

Sebbene sperassero e fossero ormai convinti di non essere stati notati, la naga si voltò appena avvertì i loro passi addentrarsi nel tempio.

Immediatamente, la regina che li accompagnava si affrettò ad esibirsi in un lungo inchino di riverenza.

«Valië Axechasti, buona giornata a voi».

«Oh, Airë Tári Phentesilea! È un piacere vederti» ricambiò il saluto l’altra, inchinandosi a sua volta. Rise «Ti ho detto mille volte che puoi darmi del tu, non è necessaria tutta questa formalità nei miei confronti, davvero».

«Eh? Oh… sì… sì, me lo sono… scordato, chiedo s-scusa» si corresse nervosamente, guardando le “serve”: stupida, stupida, stupida! Non poteva permettersi di sbagliare e insospettire qualcuno, ne andava della vita di tante, troppe, sue simili!

«Anche oggi sei qui a pregare per tua figlia» ruppe il silenzio la serpentessa piumata, vedendola in evidente imbarazzo «vero?»

Ricompostasi, la sovrana tirò un profondo respiro: doveva stare calma, calmissima.

«È l’unica persona che necessita delle mie preghiere, Valië» rispose dopo un po’, sospirando stanca «… ed è anche la sola la cui sorte non pare essere favorita in modo alcuno dai tuoi venerabili genitori, se posso permettermi».

«Mio padre agisce per vie misteriose, devo riconoscerlo» convenne, terminando di sistemare la composizione «ma sa distinguere bene fra le preghiere degne di essere ascoltate e quelle da ignorare. L’esilio è una scelta, Phentesilea, e tu stai soffrendo inutilmente per qualcuno che ha fatto la scelta sbagliata». Le afferrò dolcemente il mento «Non smetterò mai di ripetertelo, ma te lo dirò di nuovo comunque, perché vederti mentre ti fai del male mi spezza il cuore: mettiti l’anima in pace e dimenticala, cancella Myricae dalla tua vita una volta per tutte, perdonati e volta pagina»­ le mise le mani sulle spalle, fraternamente «Hippolyta c’è riuscita, provaci anche tu. Di figlie potete sempre averne altre, non sprecare il tuo amore di madre dietro a un fantasma».

«Potrei pure averle, altre figlie, ma guardando le foto di famiglia una voce che mi ricorderà sempre che ne manca una» controbatté la naga dalle squame bianche con tono deciso, un misto fra rabbia e disperazione.

Gentilmente, scostò la mano dalla propria spalla.

«Mi hanno privato della mia bambina, ma non permetterò a nessuno di privarmi del suo ricordo. Nessuno… ne-nessuno… nessu-» venne interrotta dai singhiozzi.

«Phentesilea…».

Axechasti rimase interdetta qualche secondo. Le asciugò le lacrime con la mano.

«Mi dispiace, non avrei mai voluto farti piangere, non era assolutamente mia intenzione causarti tanto dolore. Ti chiedo scusa» fece ammenda «c’è qualcosa che posso fare perché tu stia meglio? Ti prego, chiedimi pure qualsiasi cosa senza problemi, è il minimo».

«I-io… io non-»

«Qualsiasi cosa, Phentesilea. Ne hai diritto».

La sovrana, tremendamente combattuta, si girò verso Emily e Phobos, come a pregarli silenziosamente di non costringerla a fare ciò che avrebbe dovuto, a non farle pronunciare ciò che avevano concordato.

Da parte loro, però, arrivarono solo sorrisi compiaciuti: non aveva scelta, non ne aveva mai avuta.

Perché Quetzalcoatl non aveva ascoltato le sue preghiere? Perché la stava costringendo a sottoporsi a quel supplizio? Perché voleva che si macchiasse del tradimento, anziché ucciderla come lei l’aveva scongiurato di fare?

 

«U-una cosa ci sarebbe…» sussurrò allora, totalmente rassegnata, la gola in fiamme tanto dal pianto quando dal terrore «p-potresti a-ap-aprire… la stanza d-dove… do-dove… dove si trova lo scettro di… di Madre Natura?»

Non riusciva nemmeno a credere di averlo detto veramente.

E nemmeno Axechasti pareva crederci troppo, a giudicare da come la stava fissando a metà fra la semplice sorpresa e il puro sconcerto.

«… Cosa?­»

L’altra si limitò a deglutire sonoramente, incapace di fare altro.

«Lo scettro di… Madre Natura…» ripeté piano, tremando «… se p-puoi aprirmi la stanza e… e… e darmelo, sì, se puoi… da-darmelo. T-te ne sarei g-grata, p-profondamente… grata».

«Perché mi stai chiedendo quell’artefatto, Phentesilea? Cosa puoi mai fartene tu, di quel bastone marcio? Che interessi puoi avere verso i poteri che contiene?» continuò l’antenata, sospettosa, scrutando nel profondo di quegli occhi annegati nella paura. «Non hai mai fatto una richiesta simile, nessuno l’ha mai fatta da né ha motivo di farmela, nes-» si bloccò.

Quando alzò la testa, parve aver appena avuto un’illuminazione.

 «… Nessuno, tranne che Madre Natura stessa».

Quando lo sguardo della figlia di Quetzalcoatl e Medusa si posò sulle sue concubine, la naga dalle squame perlacee capì che le cose sarebbero degenerate da lì a poco: ormai aveva intuito qualcosa che non avrebbe dovuto intuire, la progenitrice della sua gente, e le sarebbe costato caro.

Carissimo.

E lei, delicata e deboluccia e spaventata a morte com’era, non poteva permetterlo.

 

«AXECHASTI! VATTENE! É TUTTA UNA TRAPPO-»

Mezzo secondo, e il corpo privo di sensi dell’Ophidin piumata cadde a terra con un tonfo sordo, i serpenti sul suo capo che -lentamente- smisero di sibilare e dimenarsi.

«… LA».

 

Era stata una pessima mossa.

Pessima, e inutile.

In quell’inquietante silenzio di tomba, la Pitchiner si fece tranquillamente strada fra le massicce spire della naga atterrata, incurante dello stare pestando ora una povera biscia, ora un’ala; si chinò sul suo bacino, strappandole un medaglione dorato -recante quello che pareva essere un calendario azteco mobile- dalla cintura di pelle.

Accovacciata, si mise a marchingegnare per qualche minuto con il meccanismo dell’oggetto, ruotando in senso orario e antiorario le strutture circolari di cui era composto un’infinità di volte, il “clic” dei cerchi che sfregavano gli uni sugli altri che riempiva quell’insolita quiete.

«Come fai a sapere se è la posizione giusta?» le chiese Phobos, dubbioso.

«Non lo so, infatti» replicò stizzita, continuando con i tentativi di trovare la combinazione corretta «se solo-»

Non fece in tempo a concludere la frase, che un rombo assordante le fece fischiare le orecchie.

La nube di detriti provocata da un’esplosione terrificante l’investì in pieno, costringendola ad accucciarsi sotto l’altare per non venire spazzata via; se le guardie non fossero state impegnate in città a organizzare la cerimonia, se il tempio non fosse stato isolato dal mondo, se non avessero appena avuto una botta di fortuna tremenda, probabilmente si sarebbero già trovati circondati da soldatesse pronte a tagliare loro la gola.

Tanto trambusto, però, fu utile a qualcosa.

Dissoltasi la nuvola di polvere, in mezzo ai resti distrutti delle immani statue dei divini amanti, si scorgeva una rampa di scale che portavano a quello che pareva un passaggio segreto sotterraneo.

«Prima le signore» si chinò il rosso, da vero gentiluomo qual era.

Fu un po’ meno gentiluomo, però, quando gettò la povera Ophidian a terra, incitandola a rimettersi in piedi e guardarlo in faccia; vedendo che lei non reagiva, le assestò un paio di brutali calci al ventre, alzandola di forza per i capelli fino ad altezza volto.

«E verrai anche tu».

Rivolse un ultimo sguardo alle statue distrutte, la regina, un’ultima preghiera a un dio che pareva morto o, comunque, totalmente disinteressato al destino di una delle sue innumerevoli nipoti.

Quando il buio l’avvolse, Phentesilea capì che quel luogo sarebbe stato la sua tomba.

 

 

Scesi per la scalinata, percorso un labirinto di corridoi e sfondato qualche muro per uscire dallo stesso, sbattuta un innumerevole numero di volte la testa contro muri su muri, finalmente arrivarono in una stanza piccola e angusta -dove difficilmente vi sarebbero entrare più di due o tre di Ophidians alla volta- senza più porte e cunicoli e tunnel fra le quali scegliere tramite “ambarabà-ciccì-coccò”.

Al centro della stessa, un altare.

Sopra di esso, in una teca, il bastone di Madre Natura, spezzato.

Emily Jane -che non condivideva con l’amico una certa passione per l’infilzarsi con schegge da sbronza- lasciò che Phobos rompesse il vetro magico per lei; vi poggiò sopra la mano, e quello s’infranse in mille pezzi sotto il calore delle fiammelle nere che gli ricoprivano le dita.

Si misero a guardare entrambi quei pezzi di legno, studiandolo; il rosso, poi, si mise a punzecchiarli con un dito, come a vedere se succedesse qualcosa.

«Serve una mano per incollare i pezzi, uh?»

«È il motivo per cui ti ho portato dietro».

«Non perché sono tremendamente affascinante?»

«Dal mio punto di vista molto poco eterosessuale, sei talmente affascinante che quando sei nato i tuoi genitori hanno preso a sprangate la cicogna e hanno chiesto il rimborso».

«Sei un’insopportabile lesbica mestruata».

«Almeno a me i sofficini sorridono».

Indispettito, si pose davanti all’altare, stringendo i resti dello scettro la le mani.

«Sia chiaro che lo faccio perché voglio farlo e perché senza poteri sei un’alleata utile quanto uno scolapasta senza buchi, non certo per farti un favore, eh!»

Il marchio sul suo avambraccio prese a brillare di un viola acceso, i segni sulla sua pelle che andarono diramandosi prima su tutto il braccio, poi sul lato sinistro del petto e, infine, su almeno tre quarti del volto.

Le nocche bluastre si serrarono con ancora più forza attorno all’artefatto, colorando il bianco immacolato di quest’ultimo di un malsano alone grigiastro; intanto, Phobos non smetteva di mormorare qualcosa in una lingua sconosciuta. Un alone scuro sembrò calare come un’ombra sui suoi occhi giallo-oro, le vene su fronte e collo talmente gonfie che parevano sul punto di scoppiare da un momento all’altro per lo sforzo.

Il bastone -ora completamente nero- ribolliva come pece bollente, l’aspetto identico alla sostanza densa e viscosa che prese a spillare dalle insenature sulla superficie legnosa, cadendo sul pavimento e liquefacendo la pietra, le rocce sottostanti, la terra stessa.

Una stilettata gli attraversò le tempie e il braccio e le dita, mentre un rivolo di sangue scuro gli colava dal naso e dall’occhio sinistro: un lampo accecante, poi il nulla.

Sul tavolo davanti a sé, lo scettro ricomposto.

Pulitosi il volto, il rosso rimase a lungo a saggiare l’artefatto magico, ipnotizzato com’era dalle sottili venature color smeraldo che brillavano di luce propria sotto la coltre nera del legno: c’era così tanto potere là dentro, talmente tanto che sarebbe stato un peccato lasciarlo tutto nelle mani di una persona sola, specie se quella persona l’aveva già perso una volta.

Chissà che-

«Dovresti tenertelo. Sappiamo entrambi che finirà per farselo sottrarre per l’ennesima volta da sotto il naso. E sarà meglio che sia tu, a sottrarglielo».

Scosse la testa, confuso: aveva davvero pensato di tenersi lo scettro?

No, certo che no, non se ne sarebbe fatto proprio nulla! Eppure… eppure… gli era sembrato di aver sentito qualcuno… qualcuno che gli parlava nella sua… nah, sicuramente era stata solo una suggestione dettata dallo sforzo, nulla di più. Senza indugiare, dunque, consegnò il bastone alla legittima proprietaria.

Con le mani tremanti per l’emozione, Emily lo accolse ben volentieri, un’espressione d’incredula commozione sul volto.

«Dopo tutto questo tempo...»

«Sempre».

Lo fulminò con lo sguardo.

«… Mi è salito il Severus Piton, chiedo scusa» alzò le mani in segno di resa lui, ridacchiando.

La figlia dell’Uomo Nero si concesse ancora qualche minuto per assaporare quel potere, il suo potere, che scorreva in ogni venatura, in ogni nodo, in ogni stilla di magia che temeva di aver dimenticato come utilizzare: trent’anni di attesa, di lontananza, di miseria, trent’anni che -finalmente- erano finiti.

Finiti.

Sorrise come mai prima d’ora.

«Risaliamo. Porta anche lei» indicò la regina, che in tutto ciò se ne stava impaurita in un angolo con la coda stretta al petto «deve assistere».

«A cosa?»

«Alla rinascita di una dea».

 

 

Aprì le braccia, respirando a pieni polmoni l’aria fresca e fruttata che spirava nell’atrio semi distrutto del tempio: sì, era il posto perfetto dove testare i propri poteri ritrovati.

Si voltò verso Phentesilea «Prima mi hai chiesto chi sono, e io intendo risponderti».

Picchiò lo scettro a terra, chiudendo gli occhi.

Iniziò subito a soffiare una brezza leggera, estiva, debole, ma sufficiente per sollevare appena le foglioline a terra, muovendole in circolo; la brezza si fece sempre più intensa, sempre più pungente sulla pelle, fino a trasformarsi in un vento forte, impetuoso, che sferzava fastidiosamente il viso e muoveva le cime degli alberi. I cerchi concentrici mossi dalla corrente ora vortici di dimensioni man mano crescenti.

Non parve disturbata, quando suddetti vortici si aggregarono in un vero e proprio piccolo tornado di foglie dai bordi affilati; semplicemente, la figlia di Black se ne stava nell’occhio del ciclone, perfettamente a proprio agio e con un sorriso a trentadue denti che gli tagliava il volto da un orecchio all’altro.

«Sono Emily Jane Pitchiner».

Qualche altro istante a vorticare, e quell’immane colonna dalle mille sfumature della foresta esplose, dissolvendosi in una nuvola di lamine vegetali che, proprio come pioggia, caddero a terra.

«Sono la sovrana di Tandokka».

Una, due, tre, dieci, cento, mille foglie, si posarono sul corpo della donna, aderendo alla stessa come un vestito fatto su misura, rimpiazzando quelli da schiava che già portava, collare compreso.

«Sono Madre Natura».

Foglia dopo foglia, strato dopo strato, prese forma un vero e proprio abito di un intenso verde scuro che prevaleva sulle altre sfumature arboree, le sottili venature del fogliame che formavano intricati ricami sul corpetto -alto fino al collo- e sulle maniche, interrompendosi quando incontravano l’ombelico scoperto.

Trent’anni dopo, finalmente era tornata a indossare i panni coi quali era stata conosciuta, rispettata, temuta.

«E sono venuta a reclamare ciò che mi appartiene».

Seguì un rigoroso silenzio, interrotto solo dall’applauso e dai fischi entusiasti di un Phobos particolarmente sovraeccitato, non si sapeva se dall’entrata in scena o per la consapevolezza che ora pure quella benedetta ragazza avrebbe avuto un’utilità.

Per i suoi scopi, s’intende.

 

Soddisfatta della propria sceneggiata, Emily si voltò e fece per andarsene; subito, lui l’afferrò per il polso, bloccandola.

«Dove diavolo stai andando?»

«Abbiamo recuperato lo scettro, e -per precauzione- ho già intrappolato Axechasti in mezzo ai rovi perché nessuno possa trovarla o sentirla, pure se dovesse riprendersi. Non c’è più nulla che possa interessarci, qui, per cui leviamo le tende».

«Non volevi distruggere Quetzalli?»

«Voglio farlo ancora, ovviamente» sorrise «ma questa sera, durante la cerimonia, quando saremo certi che tutte le Ophidians -o almeno quelle più importanti- saranno fuori dalle loro tane d’oro e di diamanti. Se attaccassimo ora, rischieremmo sia di perderne qualcuna per strada, sia di farci scoprire da Harmonia: mettere a fuoco e fiamme la foresta alzerebbe una coltre di fumo immane, verrebbe sicuramente intercettata a chilometri di distanza, e quello io non posso proprio impedirlo».

«Quindi ora che si fa? Usciamo di soppiatto dalla città come siamo entrati, e attendiamo la notte, forse?»

«Precisamente quello».

Avanzò di qualche passo, scendendo sui gradini; col bastone, indicò un punto lontano all’orizzonte.

«Raggiungiamo la galleria, ce la fuggiamo e ci giochiamo a Risiko attendendo di conquistare la Kamchatka e che calino le tenebre. Poi, una volta fattosi buio» sfiorò la sommità dello scettro, accendendovi una fiamma verde scoppiettante «illumineremo questa notte senza Luna come se fosse il Tempio di Baelor ad Approdo del Re. Quando domattina la Regina di Phantasia si alzerà, allora vedrà sorgere un’alba di sangue».

«E lei?» con un cenno del capo, Phentesilea «Ha visto tutto, Emilia Gianna, è una testimone pericolosa: sa chi siamo, sa cos’abbiamo in mente, sa quando e come attaccheremo».

La Pitchiner squadrò la regina dalle squame bianche per secondi che parvero infiniti. Alla fine, pensierosa, si limitò a fare spallucce.

«Rendila inoffensiva. Torturala, strappale la lingua, falla annegare nel suo stesso sangue, tagliale la testa come Medusa, giocaci a briscola insieme: purché non comprenda rapporti carnali dei quali io verrei a conoscenza in ogni caso, e non ti auguro che succeda, la tua scelta per riuscire ad ammansire quella biscia ermafrodita non m’interessa né tocca minimamente. Non raccontarmelo nemmeno, come l’hai resa incapace di nuocere ai nostri piani, fallo e basta».

Prima che la naga venisse trascinata via di peso dal rosso, Madre Natura le diede un bacio sulla fronte «Porterò i tuoi saluti a Myricae, quando l’impiccherò con gli stessi serpenti che ha per capelli».

 

 

Del brutale pestaggio che avvenne nelle segrete del tempio, Emily Jane non seppe nulla, e nulla volle sapere: non chiese a Phobos perché fosse zuppo di sangue, non s’interessò al motivo per cui stringesse fra le mani una manciata di candidi serpenti mozzati che ancora si dimenavano, non gli domandò se avesse ammazzato Phentesilea o se l’avesse invece lasciata in vita.

Fece semplicemente ciò che le riusciva meglio: se ne lavò le mani.

 

 

---

 

 

«Ce ripigliamm' tutt' chell che è 'o nuost'!»

Il loro era un piano assolutamente perfetto: uscire indisturbati da Quetzalli precisamente com’erano entrati, attendere pazientemente e, infine, darci giù pesante con l’offensiva proprio nel momento meno improbabile in cui avrebbero potuto farlo, sfruttando la distrazione delle Ophidians per colpirle quando più sarebbero state vulnerabili; con i poteri di Madre Natura disponibili, nulla avrebbe potuto andarle per il verso sbagliato!

Tranne trovare la galleria dalla quale erano spuntati collassata su se stessa.

«Siamo fottuti! FOTTUTI! Non abbiamo via d’uscita! Non ne abbiamo più neanche mezza! Non l’abbiamo mai avuta!» iniziò a urlare Phobos, crollando in ginocchio e battendo i pugni sull’erba «Ci troveranno! Ci cattureranno! Ci ingravideranno! PARTORIRÓ DEI FOTTUTI SERPENTI DAL CULO! NON SONO PRONTO A UN PARTO ANALE! E NEMMENO A DIVENTARE PADRE! NON-»

«Ah no? Credevo che -essendo tu nato dal culo di tua madre- ci fossi abituato, ai parti anali».

«NON SEI AFFATTO DIVERTENTE! E TANTO INGRAVIDERANNO PURE TE, SE NON SEI GIÁ INCINTA DI PHENTESILEA!»

«Oh beh, può tranquillamente darsi che tu abbia ragione» fece spallucce «niente preservativo e niente pillola, in effetti, e sai cosa? Penso pure che questi siano i miei giorni più fertili durante il mese. Riflettendoci bene, ricordo chiaramente di aver sentito pure lo sparo di partenza quando i suoi spermatozoi hanno iniziato la loro maratona verso il mio giovane e fertile utero, per cui-»

«LALALALALALALA NON TI SENTO LALALALALALALA!» si tappò le orecchie «LALALALALALALA NON STO ASCOLTANDO LALALA-»

«Per cui mettila di fare il cretino e dammi retta, pezzo d’idiota che non sei altro!» gli diede uno scappellotto sulla testa, facendolo scattare in piedi, si sperava rinsavito. Sollevò una manciata di terra dal tunnel chiuso, prendendo il palmo del rosso e posandocela sopra «Toccala, e dimmi come ti pare».

«Umida» asserì lui «un po’ come la tua vagina».

«Vuoi forse i dettagli di cosa Phentesilea ci abbia fatto la scorsa notte, con la mia vagina umida? Sì, credo sia un ottimo argomento di conversazione, ho proprio voglia di spiegarti come la lingua biforcuta delle Ophidians sia talmente lunga da sverginarti la vita, l’universo e-»

«BASTA BASTA BASTAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!!!»  gridò il rosso agitando le mani in segno di resa, il volto contratto in un’espressione che nulla aveva da invidiare a “L’urlo” di Munch «HO CAPITO! GIURO CHE HO CAPITO! MA SMETTILA DI DARMI DETTAGLI! SMETTILAH!»

«E dimmi un po’: cos’hai capito? Se sbagli, ti racconterò di quando a noi due si sono aggiunte un altro paio di donne munite di liane lunghe così» allargò le braccia «con le quali abbiamo dato luogo a una divertente sessione di soft bondage che-»

«Che è ancora fresca, quindi il tunnel non è crollato da molto tempo!» si affrettò a rispondere, temendo ulteriori delucidazioni sulle avventure sessuali della sua compagna. Sfregò il terreno fra le dita, saggiandolo «Considerando che oggi è una giornata soleggiata e qui non ci sono alberi a fare ombra, credo siano passati dieci o quindici minuti dal crollo, non di più».

«L’accendiamo?» fece comparire la fiamma verdognola di prima sul proprio indice.

«Ah! Vai a farti fottere!» le gettò la terra addosso Phobos di rimando, allontanandosi a grandi falcate a dir poco seccato.

Emily Jane non tentò nemmeno di fermarlo, impegnata a ridere com’era: sarebbe tornato in ogni caso, avrebbe dovuto farlo per forza di cose dal momento che tutte le altre vie d’uscita -che non dessero nell’occhio- erano sbarrate. Volente o nolente, avrebbe fatto dietro font.

Lei, intanto, si mise a ispezionare il tunnel crollato, sospettosa.

C’era qualcosa che non la convinceva, in quel terreno smosso ma non troppo, una bestia di centinaia di metri -ma pure di poche decine, come un cucciolo- così vicino alla superficie avrebbe sia fatto sentire la propria presenza con una serie di scosse d’intensità non indifferente, sia creato anche una voragine di rientro, oltre che d’uscita. Non poteva essere opera di un Diggerwurm.

E la cosa non gli piaceva proprio per niente.

Come pure non le piaceva quella curiosa sensazione di essere osservata, una sensazione che l’aveva accompagnata fin dal primissimo istante in cui si erano mossi da Phantasia, ancora prima di prendere la strada per la città delle Ophidians, e che l’aveva seguita persino sottoterra; forse allora era stata solo la soggezione causata dal rischio di schiattare e dalla claustrofobia, ma -se qualcuno gliel’avesse chiesto- sarebbe stata pronta a giurare di aver visto più e più volte degli occhi brillare laggiù, nelle tenebre, quando aveva gettato il proprio sguardo nel fondo buio dietro di loro.

Era stata un’impressione durata a lungo, quella che ci fosse qualcuno oltre a loro due, un sospetto che le aveva fatto accapponare la pelle finché non furono finalmente risaliti in superficie: allora, e solo allora, era totalmente scomparsa.

Fino a quel momento.

Sentiva, sapeva, che non erano soli, ma decise di optare per l’indifferenza: avrebbe fatto finta di niente, e allora le cose sarebbero venute da sé.

 

Improvvisamente, riapparve Phobos.

Reduce dal suo lunghissimo viaggio solitario della durata di sette minuti netti per trecento metri di allontanamento, le si avvicinò mogio mogio, a testa bassa, lo sguardo fisso a terra a causa dell’imbarazzo di doversi già arrendere.

«Già di ritorno dalla tua avventura?» gli chiese lei, senza girarsi e continuando a cercare indizi a terra.

«Eh già» rispose a metà fra il seccato e il dispiaciuto, ferito nell’orgoglio com’era «credevo di poter trovare un’altra strada per andarmene, ma a quanto pare avevi… per gli dei, non riesco a credere di stare dicendolo veramente…» emise un lungo sospiro «… avevi ragione tu, ecco: è tutto chiuso, sbarrato, sorvegliato, siamo letteralmente isolati dal mondo esterno. Inoltre temo che… che…» si bloccò.

«Che…?»

«Che ci abbiano scoperti, Emily».

Un silenzio di tomba calò sopra i loro volti sbiancati.

Persino Madre Natura -nonostante avesse ormai riavuto indietro i propri poteri e non dovesse quindi teoricamente temere niente e nessuno- non reagì diversamente.

«Ho visto una manciata di Ophidians, quando sono salito sul promontorio, e -a giudicare da com’erano agghindate con armature e artiglieria appresso- mi parevano un tantiiiiiiiino sul piede di guerra. Parlottavano fra loro di-»

«Di cosa? Cosa?»

«Di un’intrusa nella città. La chiamavano “gweriadir”, se non ricordo male» si fece pensieroso, inclinando la testa «non so cosa significhi, ma la naga a capo del gruppo -una con le squame nere e blu, ben più grossa di Phentesilea- che ho visto pareva molto ma molto incazzata, nel pronunciare quella parola o quel nome che sia, e-»

«Un’intrusa? Una sola?» lo interruppe.

Lui la guardò qualche istante, facendo spallucce «Una sola, sì. Perché?»

La donna, però, non rispose, impegnata com’era a riflettere e interrogarsi e fare strani collegamenti nella sua mente.

Una singola intrusa, ecco cosa cercavano le Ophidians, ecco cosa cercava lei: un’intrusa che non li aveva persi di vista nemmeno un istante, che li stava seguendo da quando avevano imboccato il tunnel il giorno precedente, che immaginava già quali sarebbero stati i loro piani e che, per questo, li aveva volontariamente rovinati.

Facendo crollare suddetto tunnel, magari.

Istintivamente, ritrasse il bastone; bastò che picchiettasse con le dita su di esso, e immediatamente lo scettro si dissolse in una pioggia di minuscole e brillanti foglioline nere dalle venature verdastre, assumendo la forma di un semplice anello al suo anulare destro.

Fortunatamente, Phobos era troppo impanicato per farle domande sul suo gesto.

«Tu credi che… che sappiano dove ci troviamo?­» le chiese con un velo di paura nella voce «Nel senso, io credo che non possano saperlo, pensano tutti che ci troviamo al tempio a pregare insieme alla nostra padrona, e abbiamo tutte le schiave come alibi! Le uniche testimoni dei nostri piani sono state neutralizzate, per cui-»

«Abbassa la testa!»

«Cos-»

 

Il tempo che Emily Jane lo spingesse a terra, e una freccia si conficcò nel tronco dell’albero dietro di loro, trapassandolo.

Un po’ come avrebbe dovuto fare col suo cranio.

 

«Chiedo scusa, devo averti scambiato la tua chioma rossa per una mela da colpire».

Quando nel suo campo visivo apparve una cascata di squame color smeraldo che si srotolavano lente dai rami di una grossa quercia nodosa, Madre Natura sorrise: trent’anni dopo, era arrivata la resa dei conti anche per loro due, dunque.

Si esibì in un lungo inchino, sollevando i lembi del proprio abito di foglie.

«Sono passati tre decenni dal nostro ultimo incontro faccia a faccia, Myricae, è un piacere incontrarti di nuovo».

«E avrei voluto che ne passassero almeno cento volte tanto, di anni, prima di costringere i miei poveri occhi a rivedere il tuo brutto muso anemico» ricambiò la riverenza l’Ophidian «ritrovarti qui è un piacere tutto mio, Emily».

Con la coda, le indicò l’albero trafitto.

«Sarei di fretta, io, per cui sentiti libera di infilzarti da sola con quella e facciamola finita subito: non ho nessuna voglia di sporcarmi le mani col tuo sangue, tantomeno col suo» additò Phobos, a terra raggomitolato su se stesso. Sbuffò «Anche tu, però, almeno potevi startene zitta e lasciarmelo ammazzare!»

«Ti assicuro che l’avrei fatto volentieri, ma purtroppo lui è il mio lasciapassare per andarmene da questo pianeta, per cui temo di doverti deludere».

Senza difficoltà alcuna, strappò la freccia dalla corteccia, ferendosi nel mentre con la punta; alla vista del sangue, però, la Pitchiner rimase totalmente indifferente: sapeva che il veleno di Myricae non era mortale, al massimo avrebbe potuto paralizzarle la mano per due o quattro d’ore.

Sprezzante, gliela gettò vicino «Ma questo già lo immaginavi già, o mi sbaglio?»

Iniziò ad avvicinarsi a lei lentamente, a piccoli passi.

«Hai intuito le nostre intenzioni fin dal principio, fin da quando -durante il solito giro di guardia- ci hai visto borbottare nei pressi dell’entrata dal tunnel sotterraneo» iniziò a spiegare mentre camminava «sapevi dove portava, sapevi che saremmo usciti a Quetzalli, sapevi anche che stavamo andando a recuperare il mio scettro. Hai cercato di fermarci prima che riuscissimo a risalire, dirottando quei diggerwurm nella galleria nella quale ci trovavamo, ma non ci sei riuscita e hai deciso di occupartene di persona».

Smise di camminare.

Puntata al petto, la spada dalla forma serpentina della naga.

Emily Jane, tuttavia, non parve per nulla disturbata o preoccupata. Sorrise.

«Volevi occuparti di noi personalmente, sì, ma -quando le Ophidians ci hanno portato dalla nostra padrona- sei rimasta fuori ad attendere che fossimo noi a venire allo scoperto per primi» osservò pensierosa «è un comportamento che m’incuriosisce, il tuo».

«La curiosità non è un lusso concesso ai cadaveri, donna» controbatté l’altra sbilanciando impercettibilmente il corpo, abbastanza perché la pressione del metallo facesse scivolare un rivolo di sangue che tinse di rosso le venature delle foglie del suo abito «specie se questi respirano e blaterano ancora».

«Harmonia me la concederà, secondo te?»

«Se vuoi chiederglielo, allora dovrai attendere che ti porti da lei, saprà sicuramente darti tutte le delucidazioni del caso. E conta sul fatto che ti farò entrare nel castello a piedi in avanti».

A quelle parole, la figlia dell’Uomo Nero mascherò sapientemente la propria sorpresa.

Si sarebbe aspettata di tutto, del resto gli imprevisti li aveva pure messi in conto, ma sapere che Harmonia non aveva accompagnato Myricae fu una notizia tanto inattesa quanto gradita. Era impossibile che l’avesse lasciata agire da sola in un’impresa di quel tipo, del resto comprendeva sempre la cattura di due pericolosi individui dei quali -per un motivo o per un altro-  la centauressa avrebbe certamente voluto occuparsi con le proprie mani.

Per quanto ne potesse sapere lei, la remota possibilità che la Regina di Phantasia nemmeno fosse a conoscenza della missione intrapresa dal suo generale non pareva più così remota, ora.

E non pareva remota nemmeno l’occasione di farsi una bella borsetta di pelle di serpente.

Strisciò un dito sul sangue che le colava sui vestiti, leccandolo maliziosamente.

«Vedo che non ti sei portata la fidanzatina dietro, oggi! Cos’è successo fra di voi, avete litigato perché gliel’hai infilato nel buco sbagliato o perché le sei venuta dentro, eh? Sono cose che possono capitare a chiunque, dovrebbe capirti!»

«Sicuramente non è dispiaciuto a te, che qualcuno sbagliasse buco» scoppiò a ridere la naga.

«Non torno a casa da un pezzo, ma ricordo bene cosa accade a una schiava durante la sua prima notte dentro l’harem, e tu hai proprio la faccia e la camminata di chi si è fatta felicemente spanare gli orifizi come se fossero gallerie di diggerwurm».

«Confermo! Ha pur partecipato a un’orgia con-»

Un’occhiataccia da parte di Madre Natura, e il rosso si zittì.

«Avrò pure gli orifizi talmente larghi che quando cammino applaudono, ma almeno io ho la decenza di non tradire la mia causa».

«Il tuo vocabolario linguistico comprende la parola “decenza”? È una barzelletta, forse?»

«Tanto quanto lo è il chiedersi cosa penserà la tua cara fidanzatina quando si sveglierà e non ti troverà nel suo letto a darle la consueta dose di minchia mattutina nel culo, Myricae, chissà che non vada a scoparsi Nae-»

Una violenta frustata con la coda, ed Emily Jane e il suo senso dell’umorismo vennero scaraventati contro il tronco di un grosso albero.

L’Ophidian strisciò fino a raggiungerla; una volta fatto, le mise la spada al collo e la sollevò di peso così, lasciandole un solco rosso poco sotto la mandibola, mettendola con la schiena contro la corteccia ruvida.

«Penserà che può farne tranquillamente a meno, per una volta. Fortunatamente, la nostra relazione ha basi ben più solide della semplice -ma intensa e sempre gradita- attività sessuale, ma non pretendo che tu capisca» rispose tranquilla «e aggiungo che penserà pure che ho fatto bene, a occuparmi di voi intanto che ero già qui: come dite voi terrestri, ho preso “due piccioni con una fava”».

«Di nascosto» aggiunse la figlia dell’Uomo Nero, ridendo di gusto nonostante la sua posizione scomoda. In tutti i sensi.

«Affatto, invece» la contraddisse.

Premette il piatto della spada sul suo collo con una certa forza, facendole morire il fiato in gola e, si sperava, facendola smettere di cianciare.

«Le mie occasionali capatine a Quetzalli non sono un mistero per nessuno, come non è nemmeno un mistero che tu sia stata esiliata da Exodus con la promessa di essere condannata alla pena capitale, se mai ti fossi nuovamente ripresentata qui con intenzioni belligeranti. Per colpa di quel decerebrato» indicò Phobos «la mia regina ha già abbastanza grane a cui pensare, occuparmi di voi due da sola e dargliene una in meno è un mio dovere e piacere tanto come generale quanto come partner».

«Come partner che agisce per conto proprio senza prima averla consultata» obiettò la Pitchiner con voce gutturale, quasi inquietante, a causa della costrizione alla quale era sottoposta.

Myricae sospirò, rassegnata: non capiva proprio, quella benedetta donna, non voleva capire!

«Esiste una cosa chiamata “indipendenza”, se non lo sai, e -solitamente- nelle relazioni sane ognuna delle due persone coinvolte è libera di avere una propria opinione, di ritagliarsi un proprio spazio personale e di agire anche in mancanza di un’autorizzazione scritta dalla propria compagna senza temere che si scatenino strane gelosie».

Elevandosi poco sopra di lei, iniziò ad avvolgere la coda intorno al tronco e al corpo della giovane Pitchiner serrandola in una presa soffocante, sperando che così imparasse una lezione che si rifiutava di comprendere da settecento anni a quella parte.

«Harmonia sa che ogni tanto faccio un salto qui per vedere come vanno le cose, sa che se c’è un pericolo che posso affrontare da sola lo faccio, e sa che mai, mai, agirei alle sue spalle. Nell’amore esiste una cosa chiamata “fiducia”, Emily, mi capisci?»

La risposta fu una pernacchia degna dell’asilo nido, seguita da una fragorosa risata di scherno.

“Ora l’ammazzo”, si disse la naga.

Ricordando che ciò non sarebbe stato quello ciò che avrebbe fatto la sua compagna al posto suo, però, riuscì a trattenere -con non poca fatica- l’istinto di sbranarla seduta stante; semplicemente, si limitò a fissare la figlia dell’Uomo Nero con un misto fra disgusto e pena per il suo comportamento alquanto infantile.

Ruotò leggermente la spada così che iniziasse a lambire la pelle, disegnando sottili ma profondi segni rossastri dai quali, da lì a poco, sarebbe sgorgato il sangue arterioso dell’altra.

«Prima che tu passi a miglior vita, voglio e pretendo che ricordi una cosa, e voglio che la ricordi anche il tuo amico laggiù» gettò velocemente il proprio sguardo verso il rosso, rintanatosi sotto la cappella di un fungo gigante «se mai dovesse avere la malsana idea di seguire le tue orme: insinuare il seme del dubbio fra me e la mia Harmonia è quanto di più impossibile la tua mente corrotta dall’egocentrismo e dalla megalomania possa concepire. Falla finita e taci, ti fa molto più onore» fece una breve pausa, ridendo «se mai ti ricordi cosa sia l’onore, s’intende».

 

Controvoglia, Madre Natura dovette darle ragione.

Sperava di poter far leva in qualche modo su un’eventuale spaccatura che si sarebbe creata fra la centauressa e la serpentessa, ma -a conti fatti- era un piano inattuabile per davvero: troppo legate l’uno all’altra, Harmonia e Myricae, troppo affiatate e pronte a sostenersi a vicenda anche nel buio più totale, e -soprattutto- con troppi pochi segreti nella loro relazione, per non dire che non ce n’erano proprio.

E va beh, per sua fortuna aveva ancora una carta da giocarsi.

 

Con tutta la calma del mondo, Emily Jane poggiò le mani sulla lama e la strinse con forza e decisione, totalmente incurante del sangue che colava sul metallo che rifletteva la sua immagine; sul volto, un sorriso che definire “da sociopatica” sarebbe stato limitativo.

«Quindi hai pensato che bastasse il tuo intervento, per mettere fuori gioco me e Phobos» mormorò.

Lei rise «Mi sbagliavo?»

Un sibilo strozzato, poi le sue spire smisero di stringere.

Entrato nell’addome e uscito fra il muscolo trapezio e l’articolazione della spalla destra, lo scettro nero di Madre Natura, grondante sangue e frammenti ossei e carne fresca appena strappata, dilaniata, tranciata di netto.

A terra, la lama ridotta in frammenti.

«Non immagini quanto».

Senza far caso a Phobos impegnato a rimettere il pranzo di seimila anni prima, Emily sollevò appena il bastone con una forza in corpo che sapeva non appartenergli; con la stessa facilità con la quale il burro viene spalmato da un coltello su una fetta di pane tostato, anche il corpo -vittima della gravità dell’Ophidian- scivolò lentamente verso il basso, lo scettro che emergeva sempre più dalla sua schiena.

A nulla valsero i tentativi di Myricae di far presa con le mani per fermare quell’impalamento alla quale era sottoposta, complice il braccio destro completamente paralizzato e insensibile -probabilmente a causa della recisione di qualche tendine o nervo- e il sinistro attraversato da violenti spasmi di dolore.

Quando si trovarono a pochi centimetri l’una all’altra, faccia a faccia, fu la figlia dell’Uomo Nero a fermarla, arrestando quell’agonia.

Le afferrò il volto con decisione, tirandola forzatamente a sé, e allora la baciò.

Presa totalmente alla sprovvista, la naga tentò più e volte di girare la testa per sottrarsi a quel maledetto bacio, ma tutti i tentativi furono inutili: bastò che provasse a dimenarsi una volta, e lunghi di rami di rovi le si avvolsero intorno al corpo, immobilizzandola e costringendola a dover subire quella tortura che andava ben oltre il dolore fisico.

Non era stupida, Myricae, sapeva fin troppo bene che Emily Jane non la stava baciando con così tanta passione per un mero e semplice desiderio di trarre piacere dal gesto, né pretendeva di ottenere nulla da ciò: voleva umiliarla, nulla di più, apporre il sigillo della propria vittoria e assicurarsi che rimanesse ben impresso tanto nella sua mente quanto sulle sue labbra. Voleva farla sentire in colpa verso Harmonia, farle credere che la stesse tradendo, convincerla che non fosse veramente la vittima, quanto la complice, dal momento che le stava lasciando fare i suoi porci comodi.

E ci stava riuscendo.

Mai in vita sua si era sentita così insicura, così sporca, così violata: la stava solo baciando, nulla di più, ma il modo in cui le mordeva le labbra, l’ardore col quale avvinghiava la sua lingua alla propria spingendogliela sempre più a fondo, la brutalità con la quale la stringeva a sé appena lei cercava disperatamente di retrocedere, tutto ciò la faceva sentire tremendamente piccola e indifesa.

Ah! Se solo non avesse fatto di testa propria e fosse andata a riferire a palazzo ciò che aveva scoperto e i propri sospetti!

Al montare di quella consapevolezza dentro, una lacrima solitaria si fece largo fra la piccole squame color smeraldo delle sue guance, scivolando fra di esse come aveva fatto lo scettro dell’altra fra le sue membra.

Che piangesse doveva proprio essere l’obiettivo di Madre Natura, dal momento che fu proprio allora che si stacco dalla serpentessa, leccandosi le labbra compiaciuta.

«Sei convinta che Harmonia ti amerà ancora, dopo questo?» le chiese soddisfatta, accarezzandole il volto «Che vorrà ancora baciarti, quando saprà che-»

Myricae le sputò in faccia.

«C-che una puttana s-senza… onore mi ha… co-costretta a… a… limonarci in-insieme?» riuscì a balbettare appena, ridendo, un misto di sangue e saliva che ancora gli colava dalle labbra «D-direi di sì, e… e ti d-dirò di p-più: ti… ti o-offri-offriremo anche de-delle mentine: hai… ha un alito da-davvero pessimo».

Emily strabuzzò gli occhi: la stava… perculando?

Quel bacio avrebbe dovuto distruggerla fisicamente e psicologicamente, annientarla nel profondo dell’anima fino a insinuare il seme nel dubbio nella sua mente, farla sentire umiliata oltre ogni immaginazione, e invece quella fottuta naga ninfomane cosa faceva? Rideva.

Rideva di lei.

«Come osi!» ringhiò iraconda, imbestialita, fuori di sé, sfilando lo scettro dal corpo dell’altra e utilizzandolo per sbatterla contro il tronco, invertendo quindi le loro rispettive posizioni «Come osi, prenderti gioco di me! DI ME! TU NON SAI CHI SONO IO!»

«U-una po-povera… d-di-disgraziata con manie di… di g-grandezza?»

«IO SONO MADRE NATURA!» tuonò spingendogli il bastone nero al collo per soffocarla «MADRE NATURA! MICA BRUSCOLINI! TU DOVRESTI INCHINARTI AI MIEI PIEDI! IMPLORARMI DI-»

«Ti pu-puzzano i piedi, c-comunque».

Basta.

Improvvisamente, la giovane Pitchiner ritrovò la calma.

Mentre con una mano teneva lo scettro nero in posizione per assicurarsi che la sua preda non andasse da nessuna parte, con l’altra richiamò a sé dei rami sottili ma affilati dall’albero dietro le spalle della serpentessa. Puntò il dito sulla sua fronte, in mezzo agli occhi, pronta a dare il comando di trapassargliela.

«Ultime dichiarazioni da fare prima di morire?»

«Solo che da qui a poco avrete l’intera Quetzalli alle calcagna, e non vorrei proprio essere qui quando accadrà» fece spallucce «però se mi ammazzi magari ti perdonano, c’è una taglia mica indifferente sulla mia testa!»

«Vedrò di ricordarmelo».

Un rapido movimento del dito, e quelle punte legnose che parevano coltelli scattar-

 

 

“Marigold?”

Sbatté le palpebre una, due, tre, cinque, dieci volte, Emily Jane, ma la guardiana era sempre lì a fissarla, il volto privo di una qualsiasi espressione, con quei suoi occhi che parevano due smeraldi appena estratti dalla fredda pietra che le scavavano nel profondo delle iridi dorate.

Incredula, lasciò cadere il bastone a terra.

Allungò una mano per sfiorarle le guance morbide che avevano sostituito le dure squame dell’Ophidian, ma l’altra le afferrò il polso, sorridendole. Guidandola con la propria, di mano, gliela poggiò sul ventre, invitando a toccarglielo.

Quando Madre Natura abbassò lo sguardo, per poco non si prese un infarto: era gravida.

Fremente di risposte, cercò un qualsiasi segno di conferma o smentita da Goldie, ma lei non rispose a nessuna delle sue domande, continuando invece a sorride; semplicemente, scostò il pesante maglione che aveva addosso, tirando fuori sotto da esso una specie di voluminosa sfera appuntita. Tirò un sospiro di sollievo.

Finché non vide il “bambino”, almeno.

Un grosso bocciolo di un bianco candido con venature argentee, circondato da foglie di un tenue verde pastello che lo racchiudevano e lo proteggevano similmente al guscio di un uovo.

Il Seme.

Il Seme di Tandokka.

Ciò che avrebbe potuto far rinascere la città devastata da Apophis in quattro e quattr’otto, ma che Marigold si era trascinata con sé fra le fiamme, condannando la sua regina a doversi fare il culo per -non- riportare all’antico splendore il suo stesso regno.

“Lo faccio per il tuo bene, min kjærlighet, un giorno lo capirai”, le parve di sentirle dire, le stesse identiche nonché ultime parole che le aveva sentito pronunciare settecento anni prima.

Non avrebbe permesso che le cose finissero allo stesso modo di allora.

Si protese verso il prezioso artefatto, intenzionata a farlo tornare nelle mani della sua legittima proprietaria; improvvisamente, però, il Seme iniziò a marcire: da bianco che era, diventò prima marroncino, poi marrone scuso e giallastro e grigiastro e, infine, nero. Allora, delle fiamme dello stesso colore iniziarono a fuoriuscire dai petali, avvolgendoli insieme a Marigold.

“No! No! Non di nuovo! Non un’altra volta! NO!”, tentò di gridare, ma nessuna parola uscì dalla sua bocca.

Disperata, si gettò in quello che era ormai un vero e proprio incendio, incurante del fuoco che le scioglieva la pelle e la faceva soffocare riempiendole i polmoni e le liquefaceva gli occhi prima che potesse vedere il Seme bruciare come già in passato era accaduto.

In quella scoppiettante frenesia rossa e arancione e gialla, le parve di udire delle parole uscire dalla sua bocca, ma quella era immobile. Anche perché era ormai cenere.

«Ridammi il Seme! Ridammelo! Non fare stronzate!»

«Non posso. Devi imparare, devi migliorare, devi crescere: se te lo ridessi indietro, nulla cambierebbe. Ti amo, Emily, ti perdono».

«Del tuo perdono non me ne faccio un cazzo! Voglio il Seme! Voglio il-»

 

 

«Ue’ guagliuncella! Bell ‘sto piezzu ‘e lignu!»

A svegliarla dalla sua allucinazione, un esemplare di Phobos in atteggiamenti napoletaneschi che la punzecchiava col suo scettro.

La Pitchiner scosse la testa, confusa e con il crepitio delle ossa bruciacchiate nelle orecchie: era… viva?

«Cos… cosa vuoi?» biascicò, ancora frastornata.

«Voglio che parevi una statua di marmo, per gli dei, ti eri letteralmente paralizzata!» gli urlò contro il rosso. «Non ti muovevi, non rispondevi, non respiravi nemmeno, hai persino lasciato cadere il tuo scettro e per poco quella» indicò Myricae, stramazzata a terra in una pozza di sangue «non trovava la forza di reagire, rifilandoti una codata in faccia. Fortunatamente, il tuo prode cavaliere l’ha neutralizzata prima che lo facesse e ora è incosciente, ma a un certo punto ho pensato -e ammetto, anche sperato- che fossi schioppata. Parevi un’allucinata in trip da LSD».

Un’allucinata? Oh, certo.

Avrebbe dovuto aspettarselo.

Nascondendo quanto fosse ancora scossa dopo aver rivisto nuovamente Marigold -rivivendo i suoi ultimi momenti di vita, gli ultimi minuti e parole che aveva scambiato con lei- nelle sue allucinazioni, si avvicinò a Myricae. Da brava donna di poca fede qual era, le diede un colpetto per vedere se reagiva in qualche modo o se invece fosse veramente svenuta; ottenuta una risposta negativa, si chinò su di lei e afferrò uno dei serpenti tramortiti che aveva per chioma.

Il tempo che una lama di plasma -una delle tante forme con le quali incanalava il proprio ritrovato controllo sui fulmini- le apparisse fra le dita esili, e lo tagliò di netto. Se lo legò attorno alla vita come una cintura.

Phobos, che la fissava stranito, decise di non farsi domande su certi feticismi: vai a sapere cosa passava per la mente di quella pazza normalmente, figurati adesso che era pure -molto probabilmente- strafatta di allucinogeni!

Una domanda, tuttavia, si decise a farla.

«Senti un po’, ma chi è Marigold?»

Emily Jane si girò di scatto, allarmata «Dove hai sentito quel nome?»

«Lo ripetevi continuamente, prima, e-»

«E occupati di nascondere quel sacco di carne da qualche parte, prima che ci trovino per davvero perché attirate dall’odore del sangue» cambiò discorso in fretta e furia. Gli strappò lo scettro dalle mani, guardandolo come se fosse un ladro «Bruciala, mangiala, nascondila: non m’interessa come te ne liberi, basta che ti sbarazzi di lei. Magari mettila insieme a Phentesilea, viva o morta che sia, così fanno una bella riunione mamma e figlia».

«Credevo che volessi ammazzarla, Myricae».

«E voglio ancora farlo» confermò «ma solo quando ci sarà anche Harmonia ad assistere. Voglio che mi veda uccidere la sua fidanzata, voglio che la senta implorare la mia pietà e poi sia lei, a pregarmi di risparmiarla, voglio portarle via ciò che di più caro ha al mondo: allora, e solo allora, strapperò il cuore dal petto della Regina di Phantasia e lo darò in pasto ai maiali, o ai leoni insomma. Sarebbe tremendamente egoista tenerci solo per noi lo spettacolo di impiccarla e tagliarle la gola, non credi?» ridacchiò.

Il rosso, caricandosi spalla il corpo esamine dell’Ophidian, fece spallucce «Se ne sei convinta»

Lui convinto non lo era nemmeno un po’, a dirla tutta.

Liberarsi subito della naga avrebbe costituito un problema in meno del quale preoccuparsi poi, ma non aveva importanza: aveva appena avuto l’ennesima dimostrazione che quella benedetta donna fosse guidata dalla vendetta e dall’impulsività, più che dal buonsenso e dalla tattica, di quel passo si sarebbe scavata la fossa da sola.

E lui l’avrebbe coperta di terra.

 

 

---

 

 

«Elgara vallas, da'len, melava somniar. Mala taren aravas, ara ma'desen melar».

 

“Sono morta?”

Crollata in uno stato che la teneva sospesa fra il mondo terreno e quello dell’aldilà, quel pensiero fu il primo che si palesò nella mente di Myricae, appena le sue orecchie udirono quelle parole: lingua Ophidians, non aveva dubbi.

Come pure non aveva dubbi di essere passata a miglior vita, ormai, considerando che sentiva pure le voci.

 

«Iras ma ghilas, da'len, ara ma ne'dan ashir? Dirthara lothlenan'as, bal emma mala dir».

 

Sapeva che non c’era nulla di reale, che suddetta voce era solo un qualche rimasuglio di coscienza riversatosi nel calderone di quei frammenti di vita che un cervello morente era solito riportare a galla, ma l’idea di essere in punto di morte -se non già morta da un pezzo- e di provare, vedere, sentire, certe cose, non la disturbava affatto, tutt’altro.

Sorrise: aveva bei ricordi, legati a quelle parole, i migliori della sua infanzia.

Ricordi dove la sua Amìl -e occasionalmente anche la sua Ammë, che però ammetteva divertita di avere altri talenti che il canto- la prendeva dolcemente fra le braccia e iniziava a cullarla, cantandole quella ninna nanna finché non vedeva gli occhi della sua creaturina squamata chiudersi e cedere al sonno, rigorosamente raggomitolata su se stessa come un armadillo. Non aveva mai saltato neanche una notte, a cantare per lei, persino le poche volte in cui si era sentita poco bene aveva sempre e comunque trovato il modo di far sì che quelle parole la accompagnassero fino alla mattina seguente.

C’era sempre stata, per lei, sempre.

 

«Tel'enfenim, da'len, irassal ma ghilas. Ma garas mir renan…»

 

Sebbene fosse consapevole che si tratta di un mero e semplici scherzo della sua mente che si stava spegnendo, decise di goderselo fino in fondo, abbandonandosi alla stessa sensazione di accoglienza materna che -ora come allora- stava pervadendo il suo corpo martoriato.

Voleva solo dormire, adesso, tutto il resto poteva aspettare: aveva sonno, tremendamente sonno, e la voce di sua madre come colonna sonora della sua dipartita era quanto di meglio potesse chiedere.

Così come l’aveva accompagnata fin dai primissimi istanti di vita, lo avrebbe fatto anche durante gli ultimissimi prima della morte.

 

«… Ara ma'athlan vhenas… »

 

O presunta tale, insomma.

A riportarla alla cruda realtà, una fitta lancinante che le percorse il torso dall’addome al collo, dove ricordava che fosse penetrato lo scettro di Madre Natura. Non riusciva ancora a muovere la testa per alzarla quel tanto che sarebbe bastato per vedersi il ventre, motivo per cui non notò come le sue ferite stessero iniziando almeno superficialmente a richiudersi, segno che la naturale rigenerazione dei suoi tessuti stava -seppur lentamente- facendo effetto, chiudendogli il buco che l’attraversava da una parte all’altra.

Dopo un numero indefinito di tentativi, riuscì appena ad abbassare lo sguardo, ma non vide altro che sangue, e sangue, e ancora sangue, una distesa rosso scuro -ora fresca, ora già rappresa- che gli riempiva il campo visivo, forse anche a causa di quello che le colava dal serpente mozzato fin sul viso.

Tentò di alzare un braccio per toccare la zona dolente, ma una mano dalle squame bianche la fermò, posandoglielo di nuovo delicatamente sul petto come a dirle “non è il momento”.

 

«… Ara ma'athlan vhenas… yeldë‘nin».

 

 … Yeldë?

Improvvisamente, l’ultima occasione in cui aveva sentito qualcuno rivolgersi a lei con quell’appellativo, quello di “figlia”, le rimbombò prepotente nella testa, le parole di Valië Axechasti in persona che si facevano strada fra mille altri pensieri: “Miulë Myricae, yeldë di Airë Tári Hippolyta e Airë Tári Phentesilea. Per il reato di gweriad, il Calaciryandë ti condanna a morte”.

Da allora, non era più stata yeldë di nessuno, tantomeno Miulë di qualsivoglia harem, solo Myricae: non Myricae “la figlia”, “la principessa”, “la traditrice”, semplicemente Myricae e basta.

L’aveva chiamata yeldë, ma la serpentessa che la stava tenendo fra le braccia, che le accarezzava il volto, che le cantava quella nenia tirata fuori dai meandri della sua infanzia, non era sua madre, non poteva esserlo.

Erano passati sette secoli dall’ultima volta in cui l’aveva vista, ma -pure dopo tanto tempo- sarebbe ancora stata perfettamente in grado di riconoscerla, e non era quello il caso.

Airë Tári Phentesilea era bella, bellissima, nulla a che vedere con ciò che aveva davanti.

 

La sua coda bianco perlacea non era costellata di chiazze sanguinanti, dove le squame mancanti lasciavano intravedere i muscoli sottostanti e, occasionalmente, qualche osso.

La sua pelle candida non era sfregiata da squarci talmente profondi da lasciare la carne gocciolante liquido rosso a penzoloni, ridotta a brandelli come se fosse stata azzannata da una bestia inferocita.

Il suo volto non aveva mai conosciuto i segni dei lividi gialli e viola e neri derivati da chissà quale brutale pestaggio, lo stesso che -a quella- aveva spaccato il naso, il sopracciglio, il labbro, che le aveva fatto scoppiare i capillari dei bulbi oculari iniettandoli di sangue.

E, soprattutto, la sua cascata di serpenti bianchi dalla testa rossa non era mai stata recisa alla base come a quella povera naga; sua madre, la regina, mai e poi mai avrebbe fatto una cosa del genere ai suoi piccoli ofidi sibilanti, che le si avvolgevano ora intorno alle braccia a chiederle coccole, ora sulla schiena ad acconciarsi in mille modi differenti.

Non era la sua Amìl, non poteva esserlo, non doveva.

Se lo fosse stato, allora non si sarebbe mai perdonata di aver permesso che l’avessero ridotta in quello stato. Mai.

Mai.

 

Non seppe se l’altra l’avesse fatto intuendo il suo conflitto interiore o semplicemente perché volesse farlo, se le dita le tremassero per l’emozione o per un qualche trauma fisico alle stesse, se stesse sorridendo o se invece avesse la bocca paralizzata come il viso gonfio per le botte; ora come ora, sapeva solo che, adesso, quella sconosciuta le teneva teneramente il viso fra le mani, guardandola con dolcezza infinita.

In quegli occhi verde lime acceso identici ai suoi, Myricae trovò tutte le risposte che stava cercando.

«… Mamma…?»

Phentesilea le sorrise: settecento anni dopo, Quetzalcoatl aveva risposto alle sue preghiere.

 



 

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Angolino dell’autrice

HELLO MY BRUDDA!

Entrata alla Ugandan Knuckles a parte, eccovi la traduzione della ninna nanna, la canzone è “Mir Da’len Somniar - Dalish Lullaby” dal gioco di Dragon Age, qui trovate il link se voleste ascoltarla :)

 

“Sun sets, little one, time to dream. Your mind journeys, but I will hold you here

Where will you go, little one, lost to me in sleep? Seek truth in a forgotten land, deep within your heart

Never fear, little one, wherever you shall go. Follow my voice

I will call you home

I will call you home, my daughter.”

 

Questo capitolo è uscito un po’ più lunghetto di quanto avessi previsto, spero che non sia particolarmente pesante per la moltitudine di cose che succedono… sempre meno di quelle che accadranno poi, MA DETTAGLIH :D

Non ho altro da dire, se non che ringrazio come sempre chi legge e chi recensisce, a questo punto della storia avere anche le vostre opinioni è una cosa che mi riempie di gggioia <3 e che mi fa capire come il disagio da faciola abbia contagiato altre menti oltre alla mia, ammettete che Phobos è sempre nei vostri pensieri! :’D

Alla prossima!

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Capitolo 17
*** Olympus has fallen - parte I ***


Non aveva un’idea precisa di quanto tempo avessero passato abbracciate in silenzio laggiù, nei meandri bui del tempio di Quetzalli, ma era stato sicuramente meno di quello passato a medicare alla bene e meglio le tremende ferite sul corpo di sua madre.

Scoperto di avere ancora legata in vita la propria saccoccia, e appurato che il contenuto di quest’ultima non era andato perduto durante lo scontro con Madre Natura, Myricae si era subito messa al lavoro a pestare e sminuzzare erbe e foglie e fiori medicinali -lì per insistenza di Naevia, che non le permetteva di lasciare il castello senza al grido di “non sia mai che possano salvarti la vita, un giorno”, mai come ora la ringraziava per tanta insistenza!- per preparare quei misteriosi intrugli amari appresi guardando quella gatta frigida all’opera nel suo laboratorio erboristico.

Se la regina aveva ricevuto tutte le approssimative cure necessarie, lei ne aveva fatto a meno: i suoi tessuti si stavano già rigenerando autonomamente, non aveva più un buco aperto in pancia, e tanto bastava per farla sorvolare sul resto del suo corpo dolorante.

Appena Phentesilea era stata in grado di parlare, Myricae non aveva perso tempo a tempestarla di domande su domande, prima fra tutte chi l’avesse ridotta in quello stato; quando aveva sentito pronunciarle il nome di Phobos -o meglio, di Phoebe- non ci aveva visto più: se prima voleva ammazzarlo e darlo in pasto ai “genitori” di Scarlet per quanto aveva fatto e stava facendo soffrire Harmonia, ora voleva la sua testa sopra il caminetto.

Quando aveva chiesto delucidazioni su come “Phoebe” fosse riuscita a entrare nella blindatissima Quetzalli, però, al generale della Regina di Phantasia erano cascate le braccia.

La vicenda aveva del tragicomico: il rosso era stato catturato da una principessa, trasportato all’harem di sua madre da una regina, lì era stato visto da un numero di schiave -fra le quali c’erano almeno una dozzina di Ophidians- compreso fra almeno duecento e trecento donne e, infine, portato dinanzi a una sovrana esperta, una Airë Tári; era pure stato cambiato di abiti, da quel che aveva visto, e quindi denudato. In tutto ciò, nessuno aveva notato che quello fosse un uomo.

Nessuno.

Nemmeno le sue simili che l’avevano visto sfilare per la città.

Era ridicolo, e anche tremendamente imbarazzante.

Inizialmente, avrebbe solo voluto inveire contro sua madre, chiederle come diavolo fosse stato possibile che una regina del suo calibro -che di concubine ne vedeva e ne esaminava e ne scopava a bizzeffe ogni giorno!- avesse potuto lasciarsi fuggire da sotto il naso non solo la mancanza di seno della nuova arrivata, non solo la sua voce mascolina, ma pure la presenza di un pacco in mezzo alle gambe.

Che magari era talmente piccolo da essere scambiato per un clitoride particolarmente sviluppato, c’era pure caso che le cose fossero messe così eh!

Poi aveva posato lo sguardo sugli occhi di Phentesilea, e allora aveva deciso di lasciar perdere: si sentiva già abbastanza in colpa di suo, infierire sarebbe stato stupido, inutile, crudele.

Aveva creduto che Phoebe fosse una qualche abitante rachitica del pianeta Dragsa, conosciuto per le sue donne che -fra l’essere montagne di muscoli e l’avere tratti particolarmente duri- di femminile avevano ben poco, e allora non si era fatta domande.

Come nemmeno Myricae se n’era fatte, conscia che rimuginare su cosa si sarebbe potuto e dovuto fare non avrebbe cambiato la loro situazione… anche perché, a fare un sincero esame di coscienza, pure da parte sua gli errori non erano certo mancati: avrebbe dovuto tornare al castello, riferire ad Harmonia ciò che aveva scoperto e organizzare una spedizione con lei, altro che fare tutto da sola credendo di potersela cavare senza l’aiuto altrui! Per ottenere cosa, poi? L’essere rinchiusa nelle segrete di un tempio isolato dal mondo con l’ossigeno che andava sempre più scarseggiando, forse? Aveva sbagliato, e quell’errore le sarebbe costato la vita.

Non sarebbe tornata a casa da Harmonia, né quella sera, né mai, causandole tanto e più dolore di quanto gliene avesse procurato Phobos da sette secoli a quella parte.

In fondo, non sarebbe stata poi tanto migliore di lui.

 

Da quando quella consapevolezza si era fatta strada nella sua mente fino a ora, la naga si era messa in un angolino, rivolta verso il muro, la coda tirata al petto e la testa poggiata su di essa, rifiutando qualsiasi contatto con la sua genitrice.

Quest’ultima, tuttavia, non pareva d’accordo.

Nonostante il dolore nello strisciare causato dalle zone sprovviste di squame, le si avvicinò piano, con cautela, attendendo di vapire se i serpenti sul suo capo fossero d’accordo nel lasciarla fare. Appurato che non l’avrebbero morsa, mise maternamente una mano sulla spalla di sua figlia, accarezzandogliela.

«Andrà tutto bene» le sussurrò.

Myricae si girò di scatto.

«Mi pigli per il culo?»

«No di certo, no» si affrettò a rassicurarla «dico solo che le cose vanno sempre bene, alla fine. Iniziano male, proseguono peggio, a volte, ma poi migliorano, devono migliorare. La natura si compensa da sola, da'len».

«Oggi mi chiami affettuosamente “da'len”, l’ultima volta mi chiamavi… mmmh, ce l’ho sulla punta della lingua…» tirò fuori la lingua biforcuta, indicandola mentre si fingeva pensierosa «ah, sì! “Gweriadir”, se non ricordo male! E so bene di ricordare perfettamente, madre, per cui» tornò a rintanarsi fra le proprie braccia, nascondendo il volto fra esse «lasciami in pace e torna a pregare il tuo dio, così magari ci farà dono di due cucchiai per scavarci un tunnel e uscire».

«Parli come se credessi che Quetzalcoatl sia capace di abbandonare due delle sue discendenti al proprio infausto destino».

«Parlo come chi ha pregato, ma non è mai stata esaudita» controbatté acida «per quanto mi riguarda, quel dio che tanto venerate in questa vostra gabbia d’oro mi ha dimenticata settecento anni or sono, e non intendo farmi ritrovare. Magari verrà per te, dato che gli sei così devota, ma non per me».

Phentesilea sospirò, sedendosi al suo fianco.

«Non verrà per nessuna delle due, né per qualsiasi altra Ophidians» asserì atona «Quetzalcoatl non è mai intervenuto di persona nelle questioni terrene, e mai interverrà. Ma agisce, quello sì… per vie misteriose e inesplicabili, forse, ma non abbandona nessuno, né lascia che le preghiere a lui rivolte rimangano inascoltate. Ho passato sette lunghissimi secoli a pregarlo giorno dopo giorno, notte dopo notte, e nemmeno a me ha mai risposto» allungando una mano, prese delicatamente il mento dell’altra, rivolgendolo verso sé «fino ad oggi, almeno» le sorrise.

«Cosa gli chiedevi, ma’? Di farti morire per asfissia insieme a quella traditrice senz’anima di tua figlia, magari?»

«Solo di farmi incontrare di nuovo la mia bambina, i modi e le circostanze non glieli ho mai specificati» rise la regina «mi bastava rivederti e poterti salutare, Myricae, nulla di più. Certo, avrei preferito che accadesse in un contesto diverso da questo, ma va bene lo stesso: se ci sei tu qui con me, allora sono ugualmente contenta».

«Sei contenta con poco» sbuffò.

«“Poco”?» ripeté Phentesilea, rizzandosi incredula «È molto più che “poco”, questo, è la gioia più grande che potessi avere come madre! Rivedere la mia piccola dopo secoli è- è- ah! Al diavolo! Non trovo le parole adatte!»

Le prese le mani fra le proprie, portandosele al cuore con le lacrime agli occhi.

«Temevo che non ti avrei più rivista, da’len, avevo… avevo… paura di non… di non vederti più, di dimenticare la tua voce, il tuo volto...» l’accarezzò «… il tuo profumo… avevo il terrore di… di svegliarmi una mattina e trovarmi Harmonia in casa, con… con…» iniziò a piangere «… con le tue spoglie fra le mani, da’len. Ero… ero terrorizzata, avevo incubi ogni notte su di te che… che… sai, sei il generale, per cui temevo che-»

«Sei stata talmente in pensiero per me che non sei mai venuta a rassicurarti sulle mie condizioni di persona, Amìl».

Con un movimento deciso, sfilò e ritrasse le mani da quelle dell’altra, cogliendola di sorpresa.

«Credi davvero che scappare mi abbia fatto piacere?» le chiese, piantandole addosso uno sguardo accusatorio  freddo come il ghiaccio «Che mi sia divertita, a dover fuggire di fretta e furia dal luogo nel quale ero nata e cresciuta? Che sia stato facile, andarmene e lasciarmi indietro una casa, una famiglia, una vita intera, e ricominciare da zero?»

Si alzò, guardandola dall’alto in basso mentre si alzava faticosamente facendo presa sul muro. Non l’aiutò, limitandosi a osservarla con aria pietosa.

«Rispondo io per te, statua di marmo: no, non c’è stato nulla di facile. Non è stato facile smettere di alzarmi di colpo in piena notte urlando, dopo aver sognato mia madre che calava l’ascia per eseguire la condanna dalla quale ero scappata. Non è stato facile rifarmi una vita, fingendo di non avere un passato. Non è stato facile abituarmi all’assenza di una Ammë tanto affettuosa quanto iperprotettiva, che s’informasse su dove fossi stata e con chi e per quanto, che mi aspettasse alzata con l’arakh in mano se fossi rientrata dieci minuti dopo l’orario pattuito, tremendamente preoccupata».

Le diede le spalle, indifferente, intenzionata a non permetterle -e non permettersi- di mostrare gli occhi gonfi di lacrime per il peso di quel dolore che tanto Harmonia, col suo amore, era riuscita a farle rilegare in un angolo buio della mente.

«Fuggivo dalla morte, fuggivo dalla mia gente, fuggivo dalle persone che avrebbero dovuto amarmi: se volevo vivere, allora non potevo rimanere» uno dei suoi serpenti le si strofinò sugli occhi, asciugandoglieli «Non è stato facile, ma non avevo alternative, voi non me ne avete date, voi-»

 

Il suono delle squame bianche che impattavano contro quelle color smeraldo della sua guancia riempì la stanza. Quando l’eco si disperse, Myricae si trovò con uno stampo di cinque dita di un delicato color rosso pompeiano in volto.

 

Immobile a massaggiarsi il viso, fissò la propria genitrice con aria di sconcerto, non si sapeva se più a causa dell’essere stata schiaffeggiata per la primissima volta nella sua vita, o perché suddetto schiaffo fosse provenuto proprio da lei.

Che non pareva affatto pentita del suo gesto, fra l’altro. Anzi, le afferrò pure due serpenti ai lati del volto e la tirò verso sé, portandola alla propria altezza.

«Smettila di comportarti come se fossi stata l’unica a non aver avuto alternative!» sbottò la naga bianca, fulminandola con lo sguardo «Sono estremamente paziente e gentile e dolce, ma non azzardarti mai più a mancare di rispetto alla donna che ti ha felicemente dato alla luce e ti ha cresciuto con dei principi, signorina, mai più! Sei arrabbiata e frustrata e stressata, lo so, lo so, ma non osare abusare della tua posizione per atteggiarti come l’unica e sola vittima di questa brutta storia perché, notiziona del momento, non lo sei! NON LO SEI!» la mollò.

Restarono entrambe interdette qualche istante, una ancora con gli occhi di fuori e l’altra col petto che si alzava e abbassava ritmicamente per lo sforzo, non abituata com’era a certe sfuriate tipiche invece della propria consorte. Per calmarsi, Phentesilea strisciò fino al tavolo di pietra, sedendosi ai piedi dello stesso.

Myricae la raggiunse poco dopo, appollaiandosi al suo fianco a testa bassa.

«Mi dispiace».

Phentesilea le sorrise, abbracciandola.

«È tutto a posto, da'len, non sono arrabbiata con te» la rassicurò, accarezzandole la schiena e accoccolandosi fra i serpenti che le facevano il solletico con le loro piccole lingue «… ma non ti nascondo che le tue parole mi hanno fatto male, tanto male». Si staccò da quell’abbraccio, tenendole le mani sulle spalle «Credimi, bambina mia, avremmo voluto più di ogni altra cosa evitare tutto ciò che è successo, io e-»

«Non parlare al plurale, ma’, sappiamo entrambe che eri solo tu a volermi viva».

«Sai anche tu che non è così» controbatté «e in cuor tuo sei perfettamente consapevole -tanto quanto lo sono io- che tua madre Hippolyta mai e poi mai ti avrebbe torto un capello, figurati se volesse decapitarti! Sai bene quanto la tua Ammë di amasse, quanto avesse desiderato la tua nascita, quanto tu significassi per lei, non puoi davvero aver creduto per settecento anni che ti volesse uccidere!»

«L’ho creduto perché l’ho sentita con queste stesse orecchie» se le indicò «chiamarmi “gweriadir”, “traditrice”. L’ho creduto perché era la sua mano, quella che ha calato la frusta sulla mia schiena in pubblica piazza una, due, tre, cinque, dieci, volte, finché non sono nemmeno stata in grado di strisciare fin sull’altare sul quale mi avrebbero decapitata, e mi ci hanno dovuto trascinare di peso come un animale. L’ho creduto perché era il freddo metallo del suo arakh, quello che avvertii posarsi sulla mia nuca mentre Valië Axechasti leggeva i miei campi d’imputazione. In tutto questo, tu sei ancora convinta che mamma Hippolyta mi volesse bene in qualche modo, dunque?»

«Lo sono, e dovresti esserlo anche tu, da’len».

Myricae scoppiò a ridere.

«Avanti! Cerca di essere obiettiva! Come puoi dire che-»

«Hanno minacciato di uccidere lei e di schiavizzare me, se la tua Ammë si fosse rifiutata di eseguire la tua condanna» sputò tutto d’un fiato la Airë Tári, secca e atona.

«Se si fosse trattato solo della sua morte, allora non avrebbe avuto bisogno di un minuto in più per mandare tutti quanti al diavolo: il solo concepire l’idea di fare una cosa così abominevole e innaturale come decapitare il sangue del suo sangue la disgustava tanto allora quanto la disgusta ancora oggi, non sarebbe andata contro i propri principi solo per soddisfare la voglia di esecuzioni del Calaciryandë» fece una lunga pausa, abbassando lo sguardo «Solo che…»

«Solo che…?» ripeté la naga verde.

«Solo che c’ero io, e lei… lei non poteva permettere che mi accadesse qualcosa, non voleva che mi… che mi facessero diventare una serva…» sussurrò piano, a bassa voce, come se si vergognasse di ciò che stava dicendo «… dovresti incolpare me, non lei. Se tua madre Hippolyta ha concordato sulla condanna come le altre Airë Tári, se ti ha frustato dinanzi a loro assecondandole, se stava per diventare la tua boia, allora lo stava facendo solo per me, per me e nessun’altra: lei sarebbe morta, ma a me sarebbe toccata la schiavitù, ed era fin troppo consapevole che non sarei sopravvissuta a quella condizione».

Quando gli occhi iniziarono a diventarle rossi per l’imminente pianto, Myricae se la strinse al petto con tanta e più forza di quanto avesse fatto lei prima, dandole piccoli baci sul capo finché non si calmò abbastanza da tornare a raccontare.

«C’erano fior di regine pronte a prendermi nel loro harem, e Antiope era in prima fila. È un mostro, quella donna, una bestia senza cuore né anima che abusa e sevizia le proprie serve in modi indicibili» un brivido la percorse, interrompendola qualche istante «fino a quando quelle poverette non muoiono dissanguate per via delle ferite interne riportate durante le ripetute violenze carnali subite. “Sono solo schiave, possono comprarne di altre”, dice per giustificarsi, e buona parte delle altre Airë -pur non approvando il suo comportamento- concordano, ed ecco perché gira a piede libero senza che nessuno le dica nulla».

«È orribile».

«Lo è» convenne la regina «e sarebbe stato anche il mio destino, se la tua Ammë non si fosse comportata come ha fatto, come ha dovuto fare. Lei sapeva che sarebbe stata Antiope a reclamarmi, e sapeva che non ne sarei uscita viva: avrebbe fatto di me la sua schiava preferita, mi avrebbe sbattuta e montata e ingravidata giorno e notte solo per sfornare figli per lei fino allo sfinimento, sarei stata al centro delle orge organizzate da lei e dalle sue discepole, dove il mio corpo sarebbe stato alla loro completa mercé. Avrei finito per uccidermi, prima o poi, e-»

«E mamma lo immaginava» completò la frase l’altra.

«Già. Mi disse “Se devo scegliere fra l’uccidere mia figlia e il condannare a una sorte ben peggiore della morte mia moglie, allora che Myricae non me ne voglia, ma non posso essere complice del suicidio della donna che ho giurato di proteggere con la vita”. Inizialmente mi opposi, cercai in tutti i modi di farle cambiare idea, di spronarla a trovare insieme una soluzione…»

«Ma una soluzione non c’era».

«Non c’era, e mai ci sarebbe stata, non è certo per ascoltare le ragioni della condannata che a Quetzalli si processa chi esce dalla città… e così noi… noi…» s’interruppe improvvisamente, annegando nei singhiozzi «… noi scegliemmo l’opzione più… più… più comoda, da’len, scegliemmo la strada più semplice da percorrere, quella che ci avrebbe garantita salva la vita, e-»

«L’unica strada, è diverso» la corresse.

Le sollevò delicatamente il mento, guardandola negli occhi con lo stesso fare materno che, di solito, era proprio di Phentesilea.

«Non avevate scelta, mamma, proprio come non ne ebbi io: se aveste deciso diversamente, la mia Ammë sarebbe morta inutilmente e la mia Amìl sarebbe diventata schiava, continuando a vivere con la consapevolezza di essere sopravvissuta alla propria compagna e alla propria figlia; in tutti i casi, io sarei comunque stata uccisa, e non sarebbe cambiato nulla».

«Ho serbato rancore per settecento anni, ma solo adesso capisco quanto voi abbiate fatto per me, quando invece avreste tranquillamente potuto rimpiazzarmi con-»

«Un’altra figlia?» l’anticipò sua madre.

Myricae annuì.

Phentesila scosse la testa.

«Ci pensammo a lungo, non lo nego, ma fu un nulla di fatto: il problema non era darti una sorella, l’idea di rimanere nuovamente incinta sai bene che non mi è mai dispiaciuta, il problema era dartela solo per accontentare il nostro disperato bisogno di riversare su un pargolo quell’amore materno troncato settecento anni fa. Dare alla luce una figlia solo per sopperire la mancanza di un’altra mi sembrava come… irrispettoso, ecco, tanto nei confronti della tua memoria, che viveva ancora qui» si toccò il cuore «quanto per la creaturina che sarebbe nata» poi il ventre «perché sarebbe stata una sostituta, e nulla di più».

Improvvisamente, un’ombra di stanchezza parve calare sugli occhi della regina, che si abbandonò a un sospiro rassegnato

«Non fraintendermi: l’avremmo amata, coccolata, resa felice in ogni modo possibile e immaginabile, proprio come abbiamo fatto con te, ma…» fece una breve pausa «… ma nel profondo, guardandola negli occhi, avremmo visto la nostra primogenita, non una nuova bambina. Era già difficile vivere fingendo di averti dimenticato o dandoti una caccia spietata per non insospettire nessuno, aggiungere anche il fardello di dover dire alla nostra bambina che sua sorella maggiore era morta -sapendola viva- sarebbe stato troppo… troppo… “troppo”, tutto qui».

Sperò che la sua yeldë non notasse il suo improvviso rattristamento o il cambio nel suo tono di voce, ma la naga dalle squame smeraldo lo notò eccome.

Piano, delicatamente, attorcigliò le proprie dite a quelle della sua Amìl in silenzio, senza aggiungere altro: sarebbe bastato il gesto, con lei, un gesto che le diceva “siamo di nuovo insieme, adesso, non devi più preoccuparti del passato”.

Quando la vide sorridere, capì che aveva recepito il messaggio.

«Ma non parliamo oltre di ciò che è successo sette secoli or sono, tesoro mio, ora abbiamo settecento anni di rapporti madre e figlia da recuperare!» le diede una vigorosa pacca sulla spalla, ridacchiando «Una volta uscite da qui, avremo tuuuuuuutto il tempo di fare ciò che non abbiamo fatto, e lo faremo in grande! Ti farò conoscere le nuove arrivate nell’harem e mi racconterai le tue avventure mentre ci godiamo un bel massaggio e poi andremo a fare shopping insieme e organizzeremo un pigiama party solo per noi due e faremo a battaglia di cuscini come due adolescenti mentre ci confessiamo segreti a vicenda e-»

«Come fai?» l’interruppe brusca Myricae.

«Uh?»

«A essere sempre così ottimista, intendo» asserì, stranamente seria.

«Vedi sempre un lato positivo anche nelle situazioni più drammatiche, riesci a trovare del buono in chiunque, confidi che tutto si sistemerà autonomamente nonostante le avversità…» gettò lo sguardo verso la sua Amìl, un misto fra curiosità e smarrimento «… come fai, ma’? Come puoi avere fede in un destino che ti, ci, sta remando contro in tutto e per tutto? Come ci riesci?»

Se sui primi momenti la serpentessa dalle squame bianche era parsa preoccupata da quell’improvviso cambio di atteggiamento da parte di sua figlia, ora appariva del tutto serena.

«Sono la moglie di Airë Tári Hippolyta, da’len, se non fossi stata come sono stai pure sicura che non saresti nemmeno venuta al mondo!» rise.

L’altra la guardò confusa, non capendo a cosa si riferisse.

Di tutta risposta, Phentesilea si tolse la collana che aveva ancora indosso, una rudimentale corda di pelle con -come pendente- una semplice pietrucola tondeggiante con la superficie scura butterata qua e là, non troppo diversa da qualsiasi roccia si sarebbe potuto trovare camminando col naso all’ingiù.

«Un ciottolo?»

«Il primissimo dono che mi fece tua madre Hippolyta, in realtà» precisò la regina. Lo alzò per mostrarglielo meglio «Consegnatomi con le mani tremanti, il volto più rosso dei nostri tramonti e un adorabile balbettio sulle labbra, da quanto era emozionata e imbarazzata nel darmelo di persona. “Quando ho visto come risplendeva, il mio pensiero non ha potuto che andare alla stessa sfumatura che assumono le tue squame opalescenti quando vengono baciate dai delicati raggi dell’alba”, mi disse, e-»

«Vacci piano, per la testa mozzata di Medusa!» si lamentò agitando concitatamente le braccia davanti a sé «Devo ancora rifarci l’abitudine, all’inguaribile romanticismo della mia Ammë verso la sua consorte, dopo tutte le volte che ha tentato di decapitarmi negli ultimi secoli capisci bene che ripensare a lei in quelle vesti mi risulta ancora incredibile!»

Phentesilea scoppiò a ridere.

«Effettivamente non hai tutti i torti, me ne ricorderò così da non scandalizzarti ulteriormente!» le prese una mano, posandoglielo sul palmo «Ti piace?»

«Sinceramente? Mamma ha un pessimo gusto per i regali, ed è pure mezza cecata se pensa che questo coso» lo picchiettò «risplenda in qualche modo».

«Perché non provi a girarlo, prima di giudicarlo dal suo aspetto esteriore?»

Ben poco convinta che le cose potessero migliorare e trattenendo a stento la voglia di riderle in faccia, obbedì.

 

Rimanendoci di sasso, tanto per restare in tema.

Se, di primo impatto, fuori quella pietra grezza e irregolare sembrava tutto tranne che il meraviglioso monile tanto elogiato da Phentesilea, allora adesso -girandola- anche Myricae capì il perché sua madre ne fosse così affascinata: fuori una scorza scura come il più comune dei geodi, dentro un opale bianco lattiginoso dalle mille sfaccettature iridescenti, che assumeva colori e sfumature differenti a seconda di come la luce si rifrangesse sulla sua superficie brillante.

«“Uur’ilweranta erumë”, “fuoco del deserto”, nato quando il nostro ancestrale creatore Quetzalcoatl discese in terra su di un grande arcobaleno che trasformava le rocce che toccava in opali splendenti» disse la regina «Sgraziato a vedersi, d’incredibile bellezza quando lo si guarda meglio: un po’ come tua madre, insomma».

Myricae, ancora impegnata a girarsi e rigirarsi fra le dita il pendente guardandolo incantata, si voltò verso di lei.

«Cosa c’entra mamma con un opale?»

«Sono più simili di quanto credi, sai? Come questa pietra, a prima vista forse Hippolyta può sembrare dura, fredda, insensibile» iniziò a contare sulla punta delle dita «eeeee anche arrogante, bruta, burbera, feroce, impaziente, ineluttabile, irascibile, rozza, rude, selvaggia, sgarbata, spaventosa, rozza, testarda e tremendamente volgare. Ma guardando oltre» le chiuse le dita sul ciondolo «si scopre che è la creatura più dolce e meravigliosa che abbia mai avuto l’onore di conoscere, e l’immenso piacere sposare».

Gli occhi le divennero improvvisamente lucidi, ma questa volta il sorriso sul suo volto non scomparve; se possibile, divenne ancora più luminoso.

«Riconosco che è una donna difficile da prendere, ma riconosco in ugual modo che con me, con noi due, è sempre stata affettuosa, amorevole, gentile, premurosa e, soprattutto, follemente innamorata della sua famiglia. Se fossi stata ad ascoltare le voci che giravano sul suo conto, allora avrei dovuto scappare a gambe levate, “aperte” secondo qualcuno, ma feci nessuna delle due cose: semplicemente, mi limitai ad aspettare che le cose si smuovessero da sole, che il destino facesse il suo corso. Pazientai a lungo prima che lei mi rivelasse i suoi sentimenti con questo» fece tintinnare le dita squamate sul geode contenente l’opale «ma ne valse la pena, attendere ne varrà sempre la pena».

Le accarezzò maternamente la guancia.

«Ed è valsa la pena anche attendere il tuo ritorno, da’len. Torneremo a essere una famiglia felice, Myricae, proprio come ho pregato che accadesse per settecento an-»

«E come pensi di fare, precisamente?»

«Cosa intendi?»

«Intendo che dovresti iniziare ad essere realista, ma’».

Si alzò, strisciando lentamente fino al muro. Quando vi fu vicino, bussò allo stesso.

«Siamo rinchiuse in questa stanza, alla fine del labirinto sotterraneo pieno di trappole del tempio, la cui entrata è stata bloccata da una frana; come se non bastasse, suddetto tempio è isolato dal mondo, trovandosi nel folto del Tauremorna, e dubito fortemente che -a questa profondità- qualcuno possa sentirci urlare o anche solo vvertire la nostra presenza. Nessuno sa che siamo qui, nemmeno Harmonia: siamo sole, sole e abbandonat-»

«Non siamo sole, e non siamo abbandonate» controbatté secca Phentesilea, interrompendola bruscamente «finché c’è speranza, allora non è detta l’ultima parola, non si sventola la bandiera di resa, non ci si getta a terra a lagnarsi attendendo che arrivi la fine. Quetzalcoatl non ignorerà le nostre preghiere, da’len, devi avere fede».

Basta.

Basta.

«AH! AL DIAVOLO LA TUA FEDE NELL’INVISIBILE UNICORNO ROSA! CHE SI FOTTANO QUETZALCOATL E TUTTA LA SUA DIVINA BANDA!»

Si avvicinò a sua madre sbracciandosi furibonda; l’altra, intanto, era immobile.

«Cosa credi? Che gli importi veramente di due povere disgraziate come noi? Che ascolti per davvero le tue dannatissime preghiere? Che gli importi abbastanza della sua gente per smuovere il suo soffice fondoschiena piumato?!! Cresci, dannazione! Se fosse così, allora a quest’ora avrebbe già fatto irruzione per-»

«WE CAME IN LIKE A WREEEEEEEEEEEEECKING BAAAAAAAAAAAAAAAAALL!»

L’esplosione del muro le scaraventò contro la parete opposta.

Lì, Myricae perse i sensi.

 

 

 

«Mamminaaaaaa! Ti avevo detto di essere delicata!»

«Sei stata tu a dire che dovevamo entrare come una palla demolitrice, ho solo seguito il tuo piano».

«Ma era in senso metaforico!»

«Avresti dovuto specificarlo prima».

«Ma era ovvio!»

«Non ho visto un cartello con scritto “è ovvio che io intenda che dobbiamo entrare come una palla demolitrice solo in senso metaforico e non letteralmente, mamma, non devi veramente sfondare il muro col tuo grasso addome” vicino al tuo volto mentre parlavi. E comunque siamo riuscite nel nostro intento, l’importante è questo».

«L’importante è che siano ancora vive, e col colpo che hanno preso non è un’eventualità da dare per scontata! Se sono morte prendendosi un mattone in fronte per colpa nostra, allora andrai tu a dirlo ad Harmonia, eh!»

«Ci andrò io, ci andrò io. Intanto aiutami a controllare, piuttosto che stare lì impalata a rosicchiarti nervosamente i cheliceri: è un brutto vizio, quello».

«Mai quanto quello di sfondare cose!»

«Precisamente la stessa cosa che mi disse tuo padre quando riempii il suo stomaco con centinaia di uova. Pace all’anima sua».

“Harmonia?”

A sentire il nome dell’amata, la naga dalle squame color smeraldo riprese conoscenza.

O almeno ci provò, ancora mezza intontita -e assordata- com’era dal boato di prima che le ronzava nelle orecchie, impedendole di pensare e collegare dei volti a quelle voci.

«Buonsalve a te, bella addormentata nel Tauremorna, riposato bene?»

Si stropicciò gli occhi, strizzandoli nel tentativo di mettere a fuoco i contorni indistinti del viso della persona che gli stava parlando.

«Uh…?»

«Credevo fossi schioppata, sai? Lo scettro di quell’allucinata di Emilia Gianna non è proprio uno stuzzicadenti, e -infilzata come un pezzo di carne allo spiedo com’eri- ero pronto a scommetterci le palle, sulla tua dipartita» commentò una voce maschile, seccata «e su quella di tua madre, soprattutto sulla sua. Ero convintissimo di averla pestata a sufficienza da spaccarle la testa, da annegarla nel suo stesso sangue, da farla implorare di morire dalla vergogna di non avere più quei bei serpentelli bianchi in testa, e invece scopro che è viva e vegeta! Per lo scroto di Quetzalcoatl, giuro che era più morta che viva, quando l’ho lasciata laggiù, era più di là che di qua! A saperlo prima, mi sarei tolto lo sfizio di buttarlo nel culo ad un’Ophidians come Emilia Gianna! E io che temevo di sembrare un necro-»

Gli incisivi di Phobos tintinnarono a terra.

Non si fece domande sul perché lui fosse lì, nell’atrio semi distrutto -da lui stesso, suppose- del tempio di Quetzalli, non se le fece su chi gli avesse legato polsi e caviglie, non se ne fece nemmeno su chi avesse sfondato il muro della stanza sotterranea, liberandola.

Semplicemente, con la coda gli afferrò i lunghi capelli cremisi, sollevandolo per gli stessi fino a portarselo davanti al volto. Lo fissò per minuti interi, disgustata.

«Quello che ti ho appena dato era per esserti preso la libertà di trascinare quel tuo brutto muso schifoso che puzza di birra e patetismo fuori dall’Abisso» ringhiò, gli occhi verde lime iniettati d’odio, rabbia, ribrezzo, resi completamente folli dalla voglia di farlo evaporare dalla realtà a suon di botte.

Ritrasse il braccio.

«Questo è per come hai ridotto Harmonia».

Un montante ben assestato al centro della mandibola, e l’arcata dentaria inferiore si riversò fuori dalla bocca insanguinata del rosso come una cascata.

«Questo è per ciò che hai fatto a mia madre».

Un violento gancio sul naso, e di quest’ultimo rimase solo una grumo informe di carne e sangue e ossa ridotte in frammenti schiacciato sul viso.

«Questo è per me».

Due pugni in contemporanea sulle tempie, e Phobos crollò a terra tramortito, preda di violenti tremori che gli facevano ingoiare lo stesso sangue che colava copioso dal naso maciullato, dalla bocca ridotta a un campo di guerra, dalle orecchie che -da dopo l’impatto- lo stavano facendo impazzire a furia di martellargli la mente con uno straziante e acuto stridio metallico.

A vedere come annaspasse a trovare fiato e avesse la pupilla completamente dilatata, la naga capì presto che -complice la robusta corazza di squame che ricopriva le sue nocche- l’ultimo colpo doveva avergli provocato un brutto trauma cranico. Sorrise.

Lentamente, iniziò ad avvolgersi il corpo con le spire color smeraldo, stringendolo nelle stesse per immobilizzarlo. Gli si avvicinò all’orecchio.

«Segnati la posizione delle ossa, Phobos, perché ora te ne darò talmente tante che ti servirà un GPS per ritrovarle tutte».

 

 

Il pestaggio che seguì quelle parole fu talmente brutale, che menti né mortali o immortali avrebbero potuto trovare nomi e verbi e aggettivi adatti a descrivere anche solo le grida gutturali del rosso, più simili a latrati di un qualche animale agonizzante che a qualcosa di umano.

Resa cieca dalla voglia, dalla necessità, di vendicare il dolore subito tanto dalla propria madre quanto dalla propria compagna, Myricae non saveva smesso nemmeno un secondo di riversare su di lui la propria furia primordiale, ferale, selvaggia, una furia che sapeva di sangue e saliva e liquido cerebrale. Aveva creduto di potersi contenere, di riconoscere quando dirsi “basta”, si era ripetuta e ripetuta e ripetuta “non mi abbasserò al suo livello, gli darò giusto una lezione”, ma -una volta iniziato- non era più stata in grado di a fermarsi: un pugno solo, il primissimo, e subito era stata trascinata in una spirale di follia che odorava di castigo, di giustizia, di morte.

Forse aveva sbagliato, ma al contempo si era sentita viva, vivissima, carica come non mai: sarebbe stata un mostro se avesse fatto del male a un innocente, lo sapeva bene, ma sarebbe stata riconosciuta innocente per averne fatto a un mostro.

Che comunque si rigenerava ogni tre per due, quindi non era nemmeno poi così tanto in svantaggio.

Ancora con l’adrenalina a mille e intenzionata a rimediare definitivamente a quel piccolo dettaglio, lo tirò su da terra di peso, tenendolo saldamente per le spalle.

«Inizialmente, l’intenzione sarebbe stata quella di infilarti un’alabarda nel culo per sventolarti come una bandiera, lanciando in aria le tue unghie e i tuoi denti come se fossero stati coriandoli, ma noto con dispiacere che i tuoi tessuti di rimarginano troppo in fretta per poterlo fare» asserì la naga, fingendosi affranta «ma possiamo rimediare».

«Uh uh! Fono proprio curiofo di fapere cofa ti frulla in quella tua teftolina da rettile!» squittì uno sdentato ma entusiasta Phobos «Intendi fculacciarmi, forfe? OH YEF! FPANK ME MOMMY! FPANK ME HARDER! È il mio fogno erotico quello di effere fculacciato da una ferpenteffa!»

«Posso pure provarci, se proprio ti aggrada l’idea» aprì la bocca, la mandibola -flessibile e totalmente dislocata dal cranio, proprio come quella degli ofidi ai quali la sua razza somigliava- che iniziò lentamente ad allargarsi di più, ancora di più, fino a raggiungere un’ampiezza tale da rendere chiaro il perché le Ophidians potessero ingurgitare una Sylkes intera «sempre che avrai ancora un culo da sculacciare» la pelle dell’esofago tesa a livelli a dir poco grotteschi, talmente tanto da sembrare che -trasparente com’era divenuta- potesse lacerarsi da un momento all’altro «una volta che i miei succhi gastrici ti avranno digerito».

«Sei cannibale?»

«C’è sempre una prima-»

«Tanya, yeldë».

Si bloccò.

Alzò lo sguardo: aveva avuto spettatrici fino a quel momento, allora, spettatrici che comprendevano sua madre, Antares e la genitrice di quest’ultima, la regina Engaruka.

A vederla, Myricae provò un misto fra sorpresa e preoccupazione: per quale motivo aveva lasciato la sicurezza del suo nido per farsi trovare lì, nel cuore di Quetzalli? Considerando che le loro razze erano rivali -essendo le donne ragno lo spuntino preferito dalle naga- per natura, che il suo grosso e tozzo corpo violaceo -che da solo superava i quattro metri d’altezza- era talmente pesante da costringerla a fare lunghissime pause un metro e l’altro e che, soprattutto, l’estinzione delle Ophidians sarebbe stata una notizia per la quale lei e le sue simili avrebbero solo potuto e dovuto gioire, la sua presenza lì non trovava giustificazione né in cielo, né in terra, né in mare.

Ma la trovava nell’atrio semi distrutto del tempio, e quello bastava e avanzava.

 

Seguì qualche istante di imbarazzante silenzio durante il quale ritrasse la mandibola, poi Antares le saltò letteralmente addosso, gettando malamente Phobos da una parte.

«TI SEI FINALMENTE SVEGLIATA! TI SEI SVEGLIATA E STAI BENE!» iniziò a coprirla di baci sulla testa e sul collo e sul naso, si mise persino a baciare uno per uno tutti i serpenti che aveva sul capo, facendoli sibilare contenti «Io ro così in pensiero! Harmonia era così in pensiero! Naevia era- no, beh, lei non è mai in pensiero per nessuno… MA FA NIENTE! Sei viva, e io sono talmente contenta che potrei cambiare esoscheletro per l’emozione!!!»

«Anche io sono felice di vederti, anche io» ricambiò sfregandole la mano sulla schiena con fare fraterno «ma evita di fare la muta proprio ora, o l’odore dei feromoni che rilascerai attirerà fior di Ophidians. E non mi pare proprio il caso, visto dove ci troviamo» rise.

Gettò lo sguardo verso Phobos.

«Perché lui è qui?»

«Lo abbiamo catturato noi» intervenne la regina ragno, indicando se stessa e la figlia «poco prima di scendere a soccorrere te e tua madre. Se non fossimo arrivate prima di lui, allora stai sicura che non saresti qui a parlare: stava venendo a finire il lavoro che aveva iniziato, da quel che ci ha detto».

«“Da quel che vi ha detto”? Vi ha seriamente detto qualcosa di utile?»

«Oh, sicuro! È stato sufficiente minacciare di inseminarlo, per fargli rivelare le sue intenzioni, e da lì ci ha detto dove vi trovavate; allora, siamo subito venute a portarvi via da questa trappola di pietra che sta letteralmente cadendo a pezzi. Si è dimostrato piuttosto collaborativo, comunque».

«Mi avevi fpogliato della gonna e ftavi per ficcarmi delle uova nel culo!» sbraitò Phobos, dimenandosi furiosamente nel tentativo di liberarsi «Ho dovuto efferlo per forza di-»

Una bavaglio di tela da parte di Antares, e tacque.

«Sì, può darsi che sia stato per quello. Comunque sia, l’importante avervi trovate, e averlo fato prima che accadesse il peggio» lanciò un’occhiata alle ancora visibili ferite di Phentesilea «... che è accaduto, in effetti, ma poteva andare molto più male, immagino. Qualche ora di anticipo non sarebbe dispiaciuta a nessuno, ma del resto abbiamo dovuto attendere che tu» si rivolse a Myricae «incendiassi un pezzo di foresta, per notare la tua richiesta di aiuto e rinforzi, motivo per cui abbiamo avuto le mani legate fino a quel momento».

«L’incendio?» ripeté l’interpellata, confusa.

«L’incendio, sì» confermò la Sylkes «quello che hai appiccato ai confini del Tauremorna, vicino a Phantasia. Te lo sei già scordata?»

Dall’altra non provenne alcuna risposta.

Engaruka lasciò passare pazientemente qualche istante, convenendo che forse l’Ophidian dovesse ancora riprendersi e abituarsi all’idea di essere ormai al sicuro; dopo minuti interi di silenzio totale, però, la sovrana la sfiorò con una zampa.

«Tutto bene? Sembri più sorpresa di quanto dovresti essere».

«Sto bene» mentì, decidendo di tenere per sé la consapevolezza di non aver appiccato nessun incendio, né tantomeno di farlo per avvisare chicchessia: la situazione era già tragica, meglio non spargere ulteriore panico inutilmente «sono solo ancora un po’ tramortita, ma sto bene. Piuttosto, vi ho sentito parlare di Harmonia» si affrettò a cambiare argomento «dove si trova? Vorrei raggiungerla».

«Fossi in te non lo farei, Myr-Myr, è un po’… nervosetta, ecco» mormorò timidamente Antares, arrossendo imbarazzata.

E come biasimarla?

Se l’era fuggita senza dirle nulla, si era messa in guai talmente grandi da esserle completamente sfuggiti di mano e, dulcis in fundo, aveva pure rischiato di rimanerci secca: secondo la sua modesta opinione, era già tanto che la sua donna non l’avesse esiliata da Phantasia, dopo averle creato tanti disagi. Coi suoi gesti aveva voluto salvaguardarla da ulteriori preoccupazioni, ma era finita per dargliene tre volte tanto.

Nonostante il senso di colpa e il terrore che uno dei suoi moti d’orgoglio potesse aver rovinato quasi sette secoli di relazione, Myricae riuscì a mostrare una freddezza proverbiale, degna del generale quale era.

«Dove si trova?» insistette.

«Io non-»

Un’occhiata, e l’ostinazione della piccola Sylkes venne meno.

«Era in procinto di guidare le truppe nella marcia sul Tauremorna, quando ci siamo divise dal gruppo per venirvi a cercare e assicurarci che tutto fosse sgombro per la battaglia: se hanno continuato con quel ritmo, allora credo sia ormai a metà strada, forse qualcosa di più».

Non le servì sapere altro per decidere il da farsi.

Uscendo dal tempio, allungò al volo una mano per strappare dalle fauci di un serpente di pietra una grossa zanna di una qualche gemma non meglio definita; raccolse uno spesso bastone da terra, la legò alla bene meglio alle estremità et voilà, una primitiva lancia nuova di zecca.

A vederla, una curiosamente pallida Phentesilea le afferrò un polso, fermandola.

«Dove vai?»

«Da lei» rispose secca, liberandosi piano dalla debole presa di sua madre «sono il generale di Phantasia e sono la sua compagna, le ho procurato troppi problemi per non andarle incontro e, almeno, aiutarla a sistemarli, per quanto possibile».

«Vengo con te».

«No, non questa volta. Resterai qui finché tutto non si sarà sistemato, sei più al sicuro in questo luogo che da altre parti». Le strinse le mani «Non sono riuscita a impedire che ti facessero del male una volta, la seconda non potrei mai perdonarmela, mai: ti prego, ma’, dammi retta e resta qui, lo faccio per te, per noi».

«Ma tu-»

«Io starò attenta, te lo prometto, ma devi esserlo anche tu: se vogliamo tornare ad essere una famiglia come lo eravamo una volta, allora dobbiamo esserci tutte e tre. E venire con me non è l’opzione migliore per assicurarsi la sopravvivenza».

Sapeva, però, che Phentesilea non si sarebbe mai accontentata di starsene con le mani in mano mentre la sua terra veniva devastata.

«Se proprio vuoi fare qualcosa, allora fatti accompagnare in città da una di loro» indicò le due Sylkes «e spiega a tutte cosa sta succedendo; dì loro di prendere le bambine, barricarsi dentro gli harem e chiudere tutte le entrate: attualmente, quelli sono i posti più sicuri dove trovarsi, restare in strada espone a troppi agenti atmosferici che Madre Natura potrebbe facilmente controllare» le spiegò.

Leggendo la preoccupazione nei suoi occhi, le sorrise.

«Quanto a me… ehi, ho nelle vene il sangue di due delle più  grandi Airë Tári che abbia mai conosciuto, cosa mai potrebbe andare storto?»

«Tutto, a dire il vero» rise Phentesilea «ma suppongo che non saprei dirti nulla in grado di convincerti a lasciarmi venire o a restare qui con me, per cui» fece spallucce. Maternamente, le accarezzò la guancia «Quanto ti sento parlare, mi sembra di stare conversando con tua madre Hippolyta, sai? Testarda, cocciuta, ostinata, permalosa e tremendamente orgogliosa, talmente tanto da essere pronte a morire, piuttosto che chiedere aiuto a chicchessia».

«Ma abbiamo anche dei difetti».

Le diede uno scappellotto sulla nuca.

«Dei difetti, e anche lo stesso senso dell’umorismo!»

Con le lacrime agli occhi, l’abbracciò.

«Tiro na nin» le afferrò dolcemente il mento, facendo sì che la guardasse negli occhi «Ennas ad estel, da’len, ennas ad estel im melithon. Rina amin, cormamin niuve tenna’ ta Amìl’elea lle au’».

«Han iston» rispose, stringendosela al petto con tutta la forza che trovò in corpo, piangendo senza vergognarsene: a Phentesilea non aveva detto nulla per non farla preoccupare ulteriormente, ma -per quanto poteva saperne- quella sarebbe potuta essere l’ultima volta in cui si sarebbero viste, dopo essersi perse per sette secoli. Ciò che sarebbe accaduto una volta che la battaglia avesse iniziato a infuriare, nessuno lo sapeva.

Nonostante non volesse staccarsi da quell’abbraccio che sapeva di casa, di amore, di salvezza, fu costretta a farlo, interminabili minuti dopo.

«Tollen i lû nîn si boe bedin» enunciò lasciandola piano, lentamente, come ad assaporarsi i loro -forse- ultimi minuti insieme. Quando si girò per andarsene, il cuore le andò in frantumi «Tenna’ telwan, Amìl» la salutò.

«Tenna’ telwan, da’len» ricambiò sua madre, stringendo le mani al petto mentre la figura di sua figlia, lentamente, scompariva fra gli alberi «Mae marth» sussurrò, un “buona fortuna” che Myricae -già lontana- non sentì.

La fortuna era tutto ciò di cui aveva bisogno, adesso.

 

 

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Più contemplava il fumo che saliva dalla foresta in fiamme, più l’ipotesi che fosse tutta opera di Phobos iniziava a sembrarle un dato di fatto.

Era riuscita a liberarsi di lui all’ultimo, allontanandolo con la scusa di andare a finire il lavoro iniziato con Myricae dal momento che “è stata sicuramente lei ad appiccare il fuoco, avrà voluto avvisare la sua fidanzatatina”, ma ormai il danno era stato fatto: Harmonia l’aveva certamente già notata, quella nube nera, e -per quanto ne sapesse lei- forse si stava anche già organizzando di conseguenza.

Non temeva uno scontro diretto, anzi, però -ora come ora- avrebbe preferito evitarlo: controllava i propri poteri, sì, ma non come avrebbe voluto.

Forse era solo una sua impressione, forse doveva solamente darsi tempo, forse era la paranoia che l’aveva assalita da quando aveva visto il rosso col suo scettro in mano a pensare al posto suo, stava di fatto che sentiva come se… come se… come se le mancasse qualcosa, ecco. Non trovava parole per descrivere quella sensazione, ma stava come Lord Voldemort alle prese con la bacchetta di sambuco: la controllava, la utilizzava, ne traeva beneficio, ma non poteva sfruttarne appieno le devastanti potenzialità, non essendone il legittimo possessore. Inoltre, come Riddle, nemmeno lei aveva idea di chi dovesse uccidere per risolvere quella spiacevole situazione.

Phobos fu il primo sospettato: era stato lui a rimettere insieme lo scettro, che quello ora obbedisse solo ai suoi comandi? Improbabile, gliel’avrebbe rivolto contro da un pezzo.

Harmonia, forse? L’aveva disarmata, trent’anni fa, e la bacchetta suprema apparteneva a chi l’avesse strappata al proprietario! Nah, con lei lo scettro aveva fatto la fine del secondo dono della morte nelle mani di Potter: spezzato e gettato via.

Myricae? Che il suo sangue avesse creato un qualche strano legame con il bastone e i poteri in esso contenuto? Poco verosimile, probabilmente era già-

 

Zac.

 

Girò il capo: due centimetri più a sinistra, e quella sorta di spada ricurva le si sarebbe conficcata nella coscia, anziché nel tronco sul quale era appollaiata.

Non ebbe nemmeno bisogno di sbirciare con la coda dell’occhio dietro di sé, per sapere a chi appartenesse quell’arma: Ophidians, indubbiamente, le stesse che Myricae aveva detto stare venendo a cercarla.

Sorrise.

Bastone alla mano, si voltò per studiare le proprie nemiche: una dozzina? Tutto lì ciò che Quetzalli aveva da offrirle come riscaldamento? E lei che se ne aspettava chissà quante, ah!

Subito, individuò quelle a capo del gruppo, due soltanto. Ripescò velocemente ciò che aveva appreso dalla sua breve esperienza all’interno dell’harem, mettendo insieme i tasselli per ricostruire le identità di quelle Ophidians.

Pelle azzurrina, squame blu e nere, due vistose cicatrici sotto l’occhio destro, di un arancio acceso, la coda adornata con una moltitudine di ruxal' ambönnar tintinnanti appartenenti alle regine sconfitte: Airë Tári Hippolyta, la consorte di Phentesilea, che stringeva fra le mani la pesante catena alle cui estremità erano agganciati due arakh di un qualche metallo scuro, uno dei quali era lo stesso che le aveva scagliato contro.

Pelle di un profondo color ebano, squame che andavano da un delicato tono crema fino a un metallico color oro e bronzo e rame, gravida: quella squilibrata di Airë Tári Antiope tridente alla mano, senza dubbio.

Non avrebbe proprio potuto chiedere di meglio.

Con uno strattone, la prima serpentessa strappò la spada dal tronco con impeto tale che quest’ultimo, ancorato al suolo, venne letteralmente sradicato e sollevato per aria di qualche metro, prima di ricadere.

Colta alla sprovvista da tanta forza bruta, Emily Jane riuscì a gettarsi giù dal fusto dell’albero solo all’ultimo, ruzzolando per terra; col cuore in gola, si guardò il dito: fortunatamente per lei, l’anello -o meglio, lo scettro- era intatto. Tirò un sospiro di sollievo.

L’arakh tornò nelle mani dell’Ophidians dalla pelle cerulea, che si riavvolse la catena in vita strisciando verso di lei.

«Veniamo per catturare una gweriadir, e ci troviamo davanti nientepopodimeno che Madre Natura: il mondo è davvero piccolo, non trovi?»

«Lo è» convenne la Pitchiner, alzandosi «motivo per cui ho deciso di fare le pulizie di primavera per sgombrare spazio, prima di dominare questo insulso pianeta. Stavo pensando che Quetzalli potrei adibirlo come bagno padronale, con tutte le piscine e le oasi che avete negli harem, ma sono indecisa sul colore delle piastrelle: meglio color pesca, o albicocca? Chartreuse, forse? Magari un bel fucsia bordesto lillato! Oppure-»

Hippolyta incrociò le spade nell’incavo fra il collo e la spalla.

«Che ne dici del colore del tuo sangue? Credo proprio che sarebbe perfetto per tinteggiare le pareti, lascia giusto che ti stacchi la testa per usarla come pennello così-»

«Ucciderla sarebbe uno spreco!» intervenne Antiope, levando con la coda l’arma così pericolosamente vicina al collo di Emily Jane.

Si avvicinò a lei, iniziando a squadrarla da capo a piedi con aria incuriosita.

«Piuttosto, sarebbe un ottimo esemplare per il mio harem: giovane, graziosa, snella, pelle morbida, con un culetto niente male» le diede una forte pacca sul fondoschiena, dopo la quale esibì un’espressione di pura sorpresa «pure abbastanza sodo! Ottimo! L’unica cosuccia che mi lascia perplessa sono questi due affarini» con altrettanta calma, le saggiò il seno con le mani squamate, perplessa «Che dici, Hippolyta, credi che una sega con queste riesca a farmela?»

«Se ti accontenterai di riceverla da un cadavere, allora sì» le rispose irritata. La scansò «Ma ora vediamo di farla finita, perché questo penoso teatrino mi sta facendo esplodere gonadi e ovaie e beh, sai com’è, quelle mi servirebbero ancora per figliare» premette le lame sul suo collo pallido, facendo colare un rivolo di sangue che tinse le foglie dell’abito «ultime parole?»

La figlia dell’Uomo Nero sorrise.

«Solo due: sono intoccabile».

«Addirittura?»

«Addirittura, sì» confermò «perché, vedete, Harmonia è più interessata a me di quanto potreste mai esserlo voi tutte nelle vostre -ancora per poco- immortali esistenze, motivo per cui tenermi qui rischierebbe di degenerare in un brutto incidente burocratico. Non credo che voi-»

«Harmonia può andare a farsi fottere insieme a tutta la sua corte, per quanto m’importa della sua strafottuta opinione: sei finita a Quetzalli, e verrai giudicata secondo le leggi di Quetzalli. Se Harmonia ha qualcosa da controbattere, che parli con questi» con lo sguardo, indicò i propri arakh scintillanti «proprio come farai tu fra qualche istante».

«Ne siete così certa?»

«Non ho motivi per non esserlo» fece spallucce «sarai pure Madre Natura, ma senza i tuoi poteri cosa credi di poter fare a noi dodici, eh? Intrecciare una gabbia di rami di vimini dove intrappolarci? Far crescere delle ciliegie da offrirci, pregando che ci strozziamo con i noccioli? O forse vuoi lanciarci del polline addosso, magari sperando che inizieremo a starnutire fino alla morte!» rise.

«Nah, non voglio i vostri germi sul mio divino corpo» agitò le mani davanti a sé. Si fece pensierosa qualche istante, poi schioccò le dita «Ho trovato!»

Un rapido movimento della mano, e lo scettro le comparve fra le dita.

Lo piantò nel terreno.

Il suolo tremò, radici immani lo sventrarono protendendosi verso il cielo come fiamme in un camino, ruggiti demoniaci si levarono alti dal ventre della terra.

Prima che le Ophidians fossero in grado di contrarre i loro muscoli facciali in un’espressione che era un misto fra incredulità, paura e tanta, troppa, sorpresa, prima che potessero anche solo tentare di fermarla scagliandosi contro di lei ad armi spiegate, prima che potessero realizzare di stare per morire, le immani bocche di una manciata di gigantesche piante carnivore si serrarono intorno ai loro corpi serpenteschi.

Li divorarono, li dilaniarono, li sventrarono, li strapparono, li ridussero in poltiglia.

Quando la Pitchiner diede il segnale di smettere, delle dieci soldatesse Ophidians non erano rimasti che deformi grumi insanguinati di carne e organi e squame. A cinque metri metri da loro, volontariamente risparmiate dalla furia omicida di quelle bestie, Hippolyta e Antiope, ammutolite.

Si scambiarono un’occhiata fugace: erano nei guai fino al collo.

E nessuno lo sapeva.

 

Emily si voltò verso di loro.

«Credevate che mi fossi dimenticata di voi?» sorrise.

Detto fatto, i viticci e le radici di quelle stesse piante si scagliarono contro le due regine, avvolgendosi prima intorno alle loro code, poi ai loro arti per immobilizzarle; da parte di entrambe, però, non venne a mancare un’eroica quanto inutile resistenza.

Dando mostra di un’insospettabile agilità nonostante la già avanzata gravidanza, Antiope mulinò il proprio tridente in aria recidendo ramo su ramo, rizoma su rizoma, testa munita di affilate zanne  color avorio su testa, fino a quando non riuscì a liberarsi dall’inferno verde che l’aveva circondata; in suo aiuto arrivò Hippolyta, che -arakh alle mani- si unì al disboscamento: forse erano rivali e competevano per chi delle due avesse l’harem più grande, ma ora non era il momento per tirare fuori vecchi rancori e farsi la guerra. Avevano una nemica comune, combattevano per la stessa causa, avevano entrambe qualcosa o qualcuno da proteggere: unire le forze erano l’unico modo per uscirne vive.

O almeno provarci.

Il sollievo delle due serpentesse nel vedere che il loro strenuo collaborare stava dando i suoi frutti durò ben poco, il tempo necessario a rendersi conto che -come il leggendario idra- quelle piante carnivore si moltiplicavano esponenzialmente: ne abbattevano una e ne crescevano due, ne abbattevano due e ne crescevano quattro e così via, e via, e via, in un circolo vizioso senza fine che sarebbe terminato solo con la morte di una delle due parti. E loro due proprio non avevano la capacità di farsi ricrescere il capo, se decapitate.

La Pitchiner -appollaiata sul fusto di una delle sue creature e intenta ad accarezzarla- rimase a godersi lo spettacolo per un po’, ma a un certo punto finì per annoiarsi anche di quello.

Sbuffando seccata, portò le mani davanti a sé tenendo il palmo girato verso l’altro: richiuse lentamente le dita su di esso tenendole estremamente tese, dure, quasi pietrificate; osservò attentamente i movimenti delle sovrane, attendendo il momento propizio.

“Ora”.

Chiuse il pugno.

Le urla che provennero dalle gole delle due naga non furono nulla di terreno

Se fino a poco prima le Airë Tári erano entrambe occupate a difendere la propria città, adesso se ne stavano lì, inermi e immobili, le armi abbandonate a terra e i corpi letteralmente impalati in più punti da giganteschi cristalli di lattiginoso quarzo sbucati dal terreno.

Antiope gettò lo sguardo verso il cristallo coperto di sangue che le usciva dal centro del ventre, fissandolo perplessa col sopracciglio alzato.

«Uhm… Ho la vaga sensazione di aver appena abortito, sai?» riferì qualche minuto dopo alla compagna, con tutta la calma del mondo. Uno dei serpenti sui suoi capelli le si accostò all’addome, come a mettersi in ascolto di qualcosa; pochi secondi, e si avvicinò all’orecchio della sua padrona, sibilando «Confermo: niente battito, sono proprio andate tutte quante. E va beh» fece spallucce.

«E lo dici così, come se nulla fosse?!!»

«Quante storie. Come mi sono inseminata questa volta, posso pure farlo di nuovo, sono sempre in tempo per averne altre, di bambine».

«Ne hai perse tre!»

«Vorrà dire che la prossima volta ne farò quattro» minimizzò.

«Ma sono sempre tre in meno!»

«Ma come sei noiooooosaaa! Che due palle! Manco fossi mia madre, poi!» sbuffò evidentemente scocciata «Importa più a te delle mie figlie perdute di quanto possa mai importare a me, che sono -ero- la loro madre! Datti una fottuta calmata e rilassati, Hippolyta! Piuttosto, guarda il lato positivo».

L’Ophidians cerulea strabuzzò gli occhi d’ambra.

«Riesci davvero a trovarci un lato positivo?!!»

«Ora c’è più posto per le nostre, di figlie, così potrai inseminarmi e avremo le nostre personalissime piccole Ophidians!» la guardò sognante «Dì ai tuoi spermatozoi che la camera è tornata sfitta, ho già un ovulo caldo caldo disposto ad affittarla loro mooolto volentieri per i prossimi mesi, ovviamente previa stipulazione di un contratto fra i nostri organi genitali!»

Emily Jane -che inizialmente aveva guardato quella scenetta divertita- s’incupì, trovando che la vicenda stesse assumendo un aspetto a metà fra l’assurdo e l’inquietante.

«Che genere di problemi ha?» chiese a Hippolyta, indicando l’altra.

Lei scosse la testa.

«Elencarli sarebbe impossibile, ma è ossessionata dall’idea che la ingravidi­­ nonostante io abbia già una moglie. Non sarebbe qualcosa di strano, qui a Quetzalli, ma non sono proprio interessata».

«Capisco. In questo caso» schioccò le dita, e l’enorme formazione cristallina inghiottì letteralmente la naga dalla pelle d’ebano, inglobandola «meglio che se li tenga per lei, i suoi problemi, iniziava a darmi sui nervi».

Senza perdere altro tempo, si avvicinò alla consorte di Phentesilea, facendo attenzione a non toccare con la pelle nuda tanto i cristalli a terra quanto quelli che la reggevano in quella scomoda posizione di crocifissione: un solo tocco, e nemmeno lei avrebbe potuto evitare che il attecchissero alla sua divina persona, trasformandola lentamente ma inesorabilmente in minerale a sua volta.

Processo che in Hippolyta stava già avvenendo, nelle zone dove il quarzo era penetrato nelle carni, tanto che buona parte delle teste dei serpenti sul suo capo erano ormai ridotte a semplici pietruzze scintillanti.

Emily Jane fece tintinnare un rametto su uno di essi, ridacchiando: la minima vibrazione, e andò in frantumi. Sorrise.

«Qualche ora, e tu farai la stessa fine» dichiarò soddisfatta «contenta?»

Di tutta risposta, dando mostra di invidiabili doti diplomatiche e di comunicazione, nonché di una particolare attenzione verso la psicologia dei gesti, Hippolyta le sputò in faccia. Del veleno a penetrazione transdermica, fra le altre cose, ma questo la Pitchiner non lo sapeva.

«Curioso» si pulì «è lo stesso identico modo in cui ha reagito Myricae quando-»

«Cosa le hai fatto?» ringhiò la serpentessa alzando la voce, dimenandosi al punto da far ondeggiare persino i cristalli che la tenevano prigioniera, fottendosene altamente se così facendo finiva solo per intrappolarsi di più a sua volte.

«Giuro che se le hai fatto qualcosa io-» si bloccò.

Con la coda dell’occhio, guardò l’altra sovrana: no, non poteva permettersi di tirare giù  la maschera, non senza avere la certezza che Antiope fosse veramente incosciente e non stesse, invece, fingendo.

Decise di cucirsi la bocca.

«Tu “cosa”, uh? Mi ucciderai? Mi torturerai? Mi ingraviderai?» rise la figlia dell’Uomo Nero «Cosa vuoi farmi, se ti confesso che ho trapassato tua figlia con il mio scettro» lo agitò «poi le ho strappato questo» indicò il serpente che utilizzava come cintura «dal capo mentre era incosciente per i colpi subiti, e che poi l’ho fatta gettare insieme alla sua adorata mamma ad aspettare la morte? Che provvedimenti intendi prendere, per punirmi dall’aver scopato, ingannato e fatto torturare Phentesilea, la tua dolce e delicata e zuccherosa mogliettina? Non puoi nemmeno immaginare com’è ridotta, nemmeno nei tuoi incubi riusciresti a capacitartene!» sogghignò.

Le si accostò all’orecchio.

«Ci hai ripensato e vuoi forse consegnarmi ad Harmonia?»

«Con quello che costa la spedizione fra un regno e l’altro, sono venuta a prenderti di persona» la corresse una voce fin troppo familiare alle sue spalle, spingendola a girarsi «e per fortuna che non ho scelto il pagamento in contrassegno, altrimenti mi trovavo pure il sovrapprezzo per lo scettro non previsto!»

«Cos-»

 

 

E Madre Natura cadde come corpo stordito da una zoccolata in pieno volto cade.

Con tanto di uccellini svolazzanti sul capo, giusto perché la Regina di Phantasia era particolarmente in vena di fare la simpatica.

O voleva solo percularla, insomma.

 

 

Nonostante l’imbarazzante silenzio, la centauressa non perse ulteriore tempo a starsene impalata a scambiarsi sguardi indecifrabili con la Airë Tári; immediatamente, si posizionò dietro i grossi cristalli che trattenevano e due sovrane: un colpo secco con gli zoccoli, e andarono in frantumi, dissolvendosi come polvere sciolta dalla pioggia.

Prima che si sciogliessero del tutto, Naevia -in tenuta casalinga, a differenza dell’amica, con nemmeno un filo d’armatura addosso!- si abbassò e ne raccolse qualche briciola, mettendola poi in una provetta che si sfilò dalla vita.

«Ci servirà un antidoto per quelle» indicò le chiazze di minerali ancora sul corpo della naga, che -sebbene non si fossero staccate dalla pelle- almeno avevano arrestato la loro crescita «e per crearlo avrò bisogno di un altro paio di ingredienti: sarà una versione piuttosto rozza della pozione vera e propria, del resto senza i miei preparati che si trovano nel laboratorio e con così poco tempo non posso fare molto, ma funzionerà».

«Molto bene, procedi pure. Airë Tári Hippolyta ti accompagnerà in città, dove sicuramente potrai trovare tutto ciò di cui hai bisogno».

«Io farò cosa?» per la sorpresa, mollò Antiope -che si stava caricando in spalla- per terra.

Harmonia annuì.

«Scorterai Naevia a recuperare il necessario per le cure di cui avete un estremo bisogno tu e l’altra regina, e lì resterai: a farti medicare, a riposarti, ad aiutare a far mantenere la calma, a sostenere le tue simili in questo momento di estremo pericolo, a-»

«Io non prendo ordini da te, tantomeno da una gatta spelacchiata».

«Tale madre, tale figlia» notò la leopardessa.

La regina si lasciò scappare una risatina.

«Considerando che sono entrambe due Ophidians talmente testarde che quando s’impuntano su qualcosa non muovono le radici finché non marciscono da sole, direi proprio che hai ragione! Ma fortunatamente ha preso tante cose buone anche dalla sua Amìl» si voltò verso Hippolyta, guardandola dritta in quelle pozze color ambra «la stessa Amìl che ora, andando in città, potrai trovare ad aspettarti, se è andato tutto per il meglio».

 

A sentire quell’accenno alla sua amata, la serpentessa -sempre così fredda e distaccata e sicura di sé- rimase interdetta qualche istante, immobilizzandosi con la bocca serrata e gli occhi spalancati per lo stupore: Phentesilea stava bene? Era davvero viva?

… Però la Pitchiner le aveva detto che era… che era...

No, Harmonia stava mentendo solo per tenersela buona, doveva essere sicuramente cosi!... ma che interessi avrebbe mai avuto nel mentirle? Le aveva salvato la vita, se avesse voluto liberarsi di lei avrebbe tranquillamente potuto fingere di non vederla e passare oltre… che stesse dicendo la verità, forse?

Gettò lo sguardo verso il sottile bracciale di “perline” -chiamarle così sarebbe stata un’offesa alle perle vere, con la forma tozza e irregolare che avevano!- di legno che aveva al polso, il primissimo regalo che le aveva fatto Phentesilea; dentro di sé, sorrise: lei si era presentata con un opale fra le mani, mentre quella che sarebbe diventata la sua futura consorte con cosa era arrivata al loro appuntamento?

Un bracciale di legno e corda malamente intrecciato, intagliato pure peggio e, ciliegina sulla torta, mezzo mangiucchiato dalle termiti.

Sul momento era stata tentata eccome di rispondere al suo “Ti piace?” con un’espressione di pietà e compassione in volto, ma poi aveva abbassato lo sguardo sulle sue mani bianche sempre così morbide e curate: schegge, tagli e morsi di insetto, tutto per farle un regalo. A lei, che la pietra portatale come presente l’aveva trovata semplicemente per caso, senza scarnificarsi le dita a scavare la terra.

Da allora, quel dono che ai suoi occhi valeva più del suo intero harem e quella minuta naga dalle squame colore dell’alba erano diventati i suoi tesori più inestimabili. Loro, e anche Myricae.

 

Tirò un profondo respiro, inalando più ossigeno di quanto i suoi polmoni potessero contenerne.

«Seguimi».

Non aggiunse altro: si mise gli arakh in vita, prese Antiope sulle spalle e si strinse nelle spalle, attendendo che Naevia -dopo essersi scambiata un’occhiata con la propria regina- le si affiancasse.

Strisciando, si fermò quando passò a lato della centauressa.

«Sia chiaro che lo faccio solo per la mia famiglia» le disse severa, senza distogliere lo sguardo da davanti a sé «Non per te, non per Quetzalli, non per Exodus: solo per mia moglie» fece una breve pausa, mordendosi le labbra «e per la mia bambina. Riportamela a casa intera, Harmonia».

«Conto di poterlo fare con tutta la città» le sorrise. Fece un breve inchino «Grazie, Hippolyta, apprezzo il tuo aiuto».

«Tsk, aspetta a ringraziarmi, che se tu mai dovessi tornare col cadavere di mia moglie o di mia figlia fra le braccia, allora beh» fece tintinnare le spade «stai pure sicura che costituirò un problema ben peggiore di Madre Natura» concluse.

Vedendola strisciare via in compagnia dell’altra, il sorriso della regina lasciò posto ad un’espressione corrucciata: aveva promesso che avrebbe tirato fuori Myricae viva da quella situazione, ma lei nemmeno aveva idea di dove fosse, Myricae.

Come non aveva idea che Emily Jane le si stesse avventando alle spalle a lame di ghiaccio sguainate.

 



 

 

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Angolino dell’autrice

 

Autrice che è in leggero ritardo, ma questi sono dettagliH :D

Spero che con tuuuuutte le cose che sono accadute in questo capitolo il tutto nel complesso non risulti confusionario, nel caso in cui sia così me ne scuso profondamente! Per eventuali dubbi, comunque, non esitate a chiedere, risponderò senza problemi cercando eventualmente di spiegarmi meglio :) senza spoilerare la vita, l’universo e tutto quanto, magari :’D

Detto questo, ringrazio come sempre chi legge e chi segue e chi recensisce, vi amo tanto quanto Giannemilia ama il proprio scettro, AWWete <3

Qui sotto vi lascio direttamente le traduzioni di pezzi di dialogo, spero che si capiscano di più che a fare una traduzione singola frase per frase :)

 

- ORIGINALE DAL TESTO -

 

«Tiro na nin» le afferrò dolcemente il mento, facendo sì che la guardasse negli occhi «Ennas ad estel, da’len, ennas ad estel im melithon. Rina amin, qa’cormamin niuve’lla tenna’ ta Amìl’elea lle au’».

«Han iston».

[...].

«Tollen i lû nîn si boe bedin» enunciò lasciandola piano, lentamente, come ad assaporarsi  i loro -forse- ultimi minuti insieme. Quando si girò per andarsene, il cuore le andò in frantumi «Tenna’ telwan, Amìl» la salutò.

«Tenna’ telwan, da’len» ricambiò sua madre, stringendo le mani al petto mentre la figura di sua figlia, lentamente, scompariva fra gli alberi «Mae marth» sussurrò, ma Myricae -già lontana- non la sentì.

 

- TRADUZIONE -

 

«Guardami» le afferrò dolcemente il mento, facendo sì che la guardasse negli occhi «C'è ancora speranza, piccola mia, c'è sempre speranza. Ricordati di me, e del mio cuore che dormirà fino al tuo ritorno».

«Lo so».

[...].

«E arrivato il momento che io vada» enunciò lasciandola piano, lentamente, come ad assaporarsi  i loro -forse- ultimi minuti insieme. Quando si girò per andarsene, il cuore le andò in frantumi «A dopo, mamma» la salutò.

«A dopo, piccola mia» ricambiò sua madre, stringendo le mani al petto mentre la figura di sua figlia, lentamente, scompariva fra gli alberi «Buona fortuna» sussurrò, ma Myricae -già lontana- non la sentì.

 

 

Alla prossima!

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Capitolo 18
*** Olympus has fallen - parte II ***


“Non impara mai, quella benedetta ragazza”.

Agli occhi di una statuaria Harmonia, tutto si mosse come a rallentatore: la sagoma verde dell’altra sempre più vicina, la barriera a cupola argento bianca che si diramava dal suo corno fino a terra per proteggerla, le labbra della Pitchiner che si muovevano a pronunciare bestemmie irripetibili quando le sue spade s’infransero contro di essa in mille e mille frammenti luccicanti.

Investita in pieno volto da quell’esplosione di schegge ghiacciate, Emily Jane finì per scivolare a terra, rotolando nell’erba soffice per metri interi prima di essere fermata dal violento impatto contro un masso. Poco lontano da lei, l’anello sfilatosi dal suo dito nella caduta.

L’altra le trotterellò vicino, guardandola dall’alto in basso con un misto fra pietà, compassione e pure un pizzico di sano divertimento.

«Attaccare alle spalle è da codarde, non da regine» notò sarcastica «ma non mi aspettavo proprio altro da te, che una regina non lo sei mai stata. E mai lo sarai, se credi che uno scettro in mano possa improvvisamente renderti una sovrana: una corona in testa dice a tutti chi sei, ma dimostrarlo è tutt’altra storia».

Trovato l’anello, si chinò leggermente per afferrarlo.

«Una di quelle storie che tu preferisci non vengano raccontate, visti i disastrosi risu-»

«ME NE FOTTO DELLA TUA OPINIONE!» la interruppe infuriata, tentando senza successo di rimettersi in piedi «Se per avere la tua testa dovrò giocare sporco, allora che possa crescermi il cazzo seduta stante se non giocherò sporco!»

«Anche perché è l’unico modo in cui tu sappia giocare».

«TACI!»

Forte di un tremendo rilascio di adrenalina causato dal terrore di perdere nuovamente i propri poteri, bastò un suo calcio ben assestato sul metatarso di una delle zampe posteriori di Harmonia per sentire un “crack” per farla crollare a terra con un tonfo sordo, rendendola vittima della sua stessa imponente stazza.

Scansatasi all’ultimo dalla traiettoria di quella massa di muscoli che avrebbe potuto ridurla allo spessore di un waffles, afferrando l’anello al volo, subito Madre Natura si alzò e ritrovò velocemente l’equilibrio, ignorando il cuore che pareva volerle uscire dal petto e i polmoni affamati d’aria che imploravano un time-out che non sarebbe mai stato loro concesso: era una guerra, quella, e in guerra le pause caffè non erano contemplate.

Soddisfatta, guardando la donna che giaceva a terra con la stessa aria di superiorità che lei aveva mostrato nei suoi riguardi poco prima, Emily sorrise: non disse niente di niente, non commentò compiaciuta quello scambio di posti a suo favore, curiosamente non perse nemmeno tempo a blaterare su quanto fosse grande e potente e divina com’era solita fare! Molto semplicemente, tese un braccio davanti a sé, le foglie verdastre del suo abito che andavano lentamente ricoprendosi di scintille azzurrine scoppiettanti che sfrigolavano al contatto con la pelle delle sue dita, sulle quali iniziarono a concentrarsi quei filamenti luminosi.

Le saggiò qualche istante, poi si rivolse ad Harmonia.

«Ultime parole prima che ti frigga come un pollo da KFC?»

«Attenta al ritorno di fiamma» rise la centauressa.

«Vedrò di ricordarmelo» promise, e allora chiuse la mano a pugno.

E fu l’inferno.

Non solo quella belva famelica di puro plasma si stava riversando fuori dalle fessure fra un dito e l’altro avventandosi sul corpo inerme della sovrana, non solo aveva carbonizzato il suolo intorno a lei lasciandosi dietro macchie di terra vetrificata, ma ciò che era iniziato come un “piccolo” fulmine si era trasformato in una vera e propria gabbia incandescente discesa dal cielo, per Harmonia.

Un cielo sereno e sgombro da nubi, prima, ma ormai nero e buio e percorso da tremendi lampi che illuminavano a giorno il paesaggio ormai notturno.

Quando l’odore della carne bruciata inebriò le narici della signora incontrastata degli elementi, un grido di gioia si levò alto nella sua mente, mentre il suo corpo -tremante per l’emozione- non rispose: ce l’aveva fatta, ce l’aveva fatta! Si era presa la propria rivincita nonostante Harmonia giocasse in casa!

Poi Emily Jane abbassò lo sguardo verso il proprio piede, e si rese conto di essere lei a stare andando a fuoco.

«Come diavolo è-»

Il ritorno di fiamma annunciato poco prima la travolse.

Fortunatamente per lei, le foglie del suo abito assorbirono quella tremenda fiammata al posto della sua delicata pelle diafana, riducendosi a un cumulo bruciacchiato e maleodorante di un bel nero carbone.

La Regina di Phantasia, invece, raggiante e fresca come la rosa arcobaleno che aveva fra i capelli, si rialzò senza fretta, placidamente, forte dell’impenetrabile barriera che l’aveva protetta.

Le si avvicinò.

«Io te lo avevo detto, di stare attenta» fece spallucce.

 

Dentro di sé, la figlia dell’Uomo Nero avrebbe voluto morire seduta stante: che umiliazione! Che umiliazione! Va bene l’essere messa in difficoltà da attacco altrui, ma cadere vittima dei propri stessi poteri… ah!

Forse avrebbe dovuto rinunciarci, alla sua voglia di riscatto, proprio come aveva fatto suo padre coi guardiani: lui si era ritirato insieme a Gwenllian per cercare di ricostruire la loro storia amorosa, lei avrebbe dovuto ritirarsi dal conflitto e abbracciare serenamente la propria miseria. Sapeva di non essere nata per vincere, era un vizio di famiglia quello di passare letteralmente dalle stelle stalle, e la chiara dimostrazione di ciò l’aveva proprio sotto il naso ereditato da papà, sul proprio abito ormai carbonizzato.

Nonostante la voglia di arrendersi fosse più forte che mai, però, quella di riscattarsi lo era ancora di più, o almeno provava ad esserlo: forse quello era stato solo un incidente di percorso, nulla di più, forse dandosi un’altra possibilità ce l’avrebbe fatta, forse… forse… nah, troppi forse.

Gettò lo sguardo verso l’anello, verso lo scettro: aveva sputato sangue -e non solo metaforicamente parlando- per riaverlo indietro, cos’aveva da perdere nello sputare altro sangue per tenerselo? La vita, magari? Ah! Per quanto le importasse della sua miserevole esistenza, quella avrebbe potuto tranquillamente prenderla chicchessia e anzi, l’avrebbe ceduta volentieri lei stessa!

Non valeva la pena vivere senza lo scettro, senza essere Madre Natura, e lo sapeva fin troppo bene da trent’anni a quella parte: o da Quetzalli usciva vincitrice, o da Quetzalli usciva a piedi in avanti.

 

La voglia di mettersi una corona sul capo la spinse a rialzarsi, a riprovarci, a riscattarsi: non si sarebbe arresa, no! Avrebbe insistito e insistito, tentato e ritentato, provato e riprovato!

Salvo fallire miseramente, ma quelli erano dettagli.

Una, due, tre, quattro, cinque, dieci, aveva perso il conto di tutte le furiose cariche a testa bassa e muso duro nelle quali si era impegnata pur di far cedere Harmonia, ma ogni volta il risultato era sempre e solo lo stesso: più lo colpiva, più quello scudo magico assorbiva ogni suo attacco, ricacciandoglielo indietro dieci volte più devastante di quanto già non fosse; di quel passo, più che uno scontro corpo a corpo sarebbe diventata una guerra di logoramento, dove avrebbe vinto chi sarebbe rimasto in piedi più a lungo.

E chi avrebbe sprecato meno energie a mollare un affondo dopo l’altro, colpo su colpo, ignorando la totale inefficacia dell’affrontare il combattimento in quel modo tanto inutile quanto dispendioso.

Ignorando il buonsenso, di nuovo Emily tornò alla carica, rabbiosa e furiosa e talmente accecata dal desiderio di vendetta da essere certa che avrebbe funzionato, questa volta.

Ottenendo lo stesso, identico, mesto, risultato di sempre.

Armi, mani nude, elementi naturali vari ed eventuali sui quali esercitava il proprio controllo, nulla pareva funzionare: Harmonia era in piedi, lei era sull’erba a mangiare la terra; dopo l’ennesima di quelle spiacevoli quanto umilianti cadute, capì che un attacco a distanza era l’unico metodo vagamente sicuro grazie al quale avrebbe potuto ottenere un qualche risultato in quello scontro: non poteva resistere in eterno, né ai colpi né a un utilizzo della magia così massiccio, doveva darsi una svegliata e farlo subito.

Approfittando della vicinanza di un albero dinanzi al quale era stata scaraventata, piantò con decisione le proprie dita nella corteccia della pianta. Qualche istante, e decine di tronchi acuminati perforarono violentemente il soffice terreno come chiodi piantati in un muro, spuntando uno ad uno a velocità disarmante in linea retta verso la centauressa.

Harmonia, però, non si fece cogliere impreparata.

Immobile come una statua millenaria, senza mai staccare lo sguardo da quei fusti affilati che le stavano venendo addosso, attese che fossero a pochi metri da lei.

Sorrise.

«Riesci a intrufolarti a Quetzalli senza farti scoprire» s’impennò sulle zampe posteriori «riacquisti i poteri di Madre Natura» attese qualche secondo in quella posizione, sforzandosi terribilmente per mantenere l’equilibrio «millanti chissà quale tremenda vendetta» finalmente, lasciò ricadere il muscoloso e pesante corpo equino a terra, premurandosi di caricare tutto il peso sugli zoccoli anteriori «e qualche scheggia di legno è tutto ciò che sei in grado di fare?»

L’onda d’urto che ne scaturì fu qualcosa di apocalittico, talmente potente da piegare e spezzare e ridurre in trucioli quei tronchi con la stessa facilità con la quale si può spezzare un fiammifero.

Facendo scrocchiare il legno sotto i propri zoccoli, si avvicinò all’altra a braccia spalancate, come a dirle “Questa è la direzione in cui devi guardare per capire quanto i tuoi sforzi siano completamente inutili”.

Le si fermò davanti.

«Non sono un vampiro, Emily, temo che tu debba scegliere un approccio differente dal ficcarmi dei paletti di frassino nel cuore per riuscire ad avere la meglio».

Detto fatto.

Non ebbe neanche il tempo per voltarsi o di far scendere su di sé la barriera, che la Pitchiner le comparve alle spalle, a cavalcioni sul dorso; nelle mani, lo scettro. Un movimento deciso, e glielo conficcò alla base della schiena, facendoglielo uscire dalla bocca grazie all’angolazione che si era curata di imprimere prima di affondarglielo nelle carni.

Non un grido, non una parola, non un lamento: sangue, solo sangue, nulla di più era uscito dalle labbra di Harmonia.

«Stavi dicendo?» la schernì.

Sfilato l’artefatto, le saltò giù dalla groppa; fischiettando, iniziò a girarle intorno, fermandosi solo quando si trovò davanti al volto inespressivo della donna che, trent’anni prima, le aveva rovinato l’esistenza: c’è l’aveva fatta per davvero, dunque? Sospettosa, le prese un polso per auscultare se ci fosse battito: nessun segno di vita.

Prima ancora che potesse abbandonarsi a quel turbine di emozioni impossibile da descrivere a parole che la stava lentamente investendo, però, dalla bocca della sovrana uscì… una farfalla?

Credendo di essere preda delle allucinazioni da overdose di endorfina causate da tanta felicità arrivata in così poco tempo, evocò una radice che la sollevasse all’altezza del volto dell’altra, così da poter controllare da vicino. Allungò il capo.

«Ma cos-»

Il tempo di sporgersi appena, e uno sciame di lepidotteri le volò addosso.

Nel comico e disperato tentativo di scacciare quelle bestie immonde menando botte da orbi al nulla, la povera donna cadde a terra; da lì, tanto ammaliata quanto orripilata dallo spettacolo, osservò il corpo di Harmonia dissolversi nell’aria in un turbine di piccoli insetti dorati che volarono subito via oltre le nubi di tempesta. Di loro non rimase nulla, se non un’impercettibile polverina luminescente dello stesso colore cascata direttamente dalle loro ali e, poi, posatasi al suolo come zucchero a velo su di una torta.

Non rimase nulla della loro presenza, e non rimase nulla nemmeno di quella della regina di Phantasia.

Cercando di controllare l’improvviso attacco di papilofobia, si guardò furiosamente intorno: dove diavolo era finita? Cosa diavolo era successo? Che diavolo avrebbe dovuto pensare? Aveva vinto? Aveva perso? COSA?!!

Alle ultime domande, però, una risposta l’aveva: Harmonia doveva essere viva per forza di cose, non c’erano alternative. Se fosse stata davvero morta, allora a quest’ora l’intero pianeta Exodus sarebbe dovuto essere solamente una biglia arida e desolata e sterile che galleggia nello spazio, proprio come lo era stato prima che l’ultima principessa Starequus lo facesse rifiorire grazie ai propri poteri, dopo che il Kælikantzoroi Th’asteria lo aveva raso al suolo: era la guardiana della fantasia, ma ciò che aveva creato e che creava era fin troppo reale.

Mossa dalla consapevolezza che quindi quella battaglia fosse tutto tranne che terminata, Emily Jane iniziò a cercare e ricercare ovunque l’altra donna, decisa a scovarla e farla finita una volta per tutte.

Dapprima si limitò all’utilizzare la vista, aguzzando lo sguardo in cerca del movimento di un filo d’erba, di una foglia ancora verde caduta nonostante la mancanza di vento, di un’onda creatasi nell’acqua. Poi, risoluta, si mosse di persona, chinandosi a controllare ogni più piccolo anfratto, strisciando in qualsiasi cunicolo le capitasse a tiro -persino quelli delle talpe, da quanto era decisa o partita di cervello che dir si voglia- e arrampicandosi sugli alberi, totalmente incurante delle escoriazioni che andava procurandosi. Infine, vista la mancanza di risultati e la rottura di ovaie che la stava assalendo, convenne che fosse il momento di tirare fuori i trucchetti di magia: se i vegetali erano sensibili a carezze e parole smielate, allora erano anche sufficientemente senzienti da poterle dire dove si trovasse la regina.

Poggiò un ginocchio e un palmo a terra, chinando il capo. Chiuse gli occhi: immediatamente, dalla sua mano andarono diramandosi sottilissimi venature verde acceso che raggiunsero ogni albero, ogni foglia, ogni più piccola nervatura delle stesse; adesso, tutto pareva risplendere di una luce intermittente, come se attraverso quei canali le piante si stessero scambiando curiosi messaggi sottoforma di impulsi di linfa vitale.

E in effetti era proprio ciò che stava accadendo.

Adesso, i suoi occhi erano le piante alle quali si era connessa come se fosse stata una vera e propria rete informatica, tanti terminali che attraverso le proprie pupille -costituite dalle folte chiome e dai rami nodosi e dai tronchi spessi e vecchi- si scambiavano informazioni fra loro e poi le passavano a lei, al mainframe, permettendole di vedere e avvertire tutto ciò che vedevano e avvertivano i vegetali.

Il tempo di isolare le voci degli alberi -che, ahimè, sentiva eccome, quel brusio profondo e indistinto faceva parte del pacchetto- dalle altre sensazioni che provava sulla propria pelle, e il “tutto ciò” di prima finalmente comprese anche il peso degli zoccoli della centauressa sul manto erboso. Che, poverello, gridava pure di dolore, mentalmente s’intende.

Non perse nemmeno un istante: subito, senza attendere, evocò delle radici che potessero trafiggerla. Perse il segnale.

Salvo riottenerlo poco dopo.

Ripeté ancora il procedimento.

E poi ancora.

E ancora.

E ancora, in un circolo vizioso senza fine: Harmonia appariva e scompariva, appariva e scompariva, appariva e scompariva, e lei di rimando era contenta e poi incazzata, contenta e poi incazzata, contenta e poi incazzata.

Improvvisamente, quando era ormai talmente esasperata da volersi disconnettere e fare le cose “alla cazzo di cane, di gatto e di tutto lo zoo”, un nuovo segnale prese forma in quella sorta di Wolrd Wide Web Ecofriendly Edition; allarmata e speranzosa, lo esaminò: era uno solo, piccolo, insignificante, quasi invisibile, rispetto all’imponente sagoma della sovrana che appariva quando veniva rilevata la sua presenza. Il dubbio che avesse intuito le sue intenzioni e cambiato forma di conseguenza le strinse lo stomaco: non sapeva cosa dovesse aspettarsi, e ciò la rendeva più inquieta di quanto avrebbe dovuto esserlo qualcuno con poteri della sua portata.

Notando che suddetto punto era in avvicinamento piuttosto velocemente, però, trovò il coraggio di agire: aprì gli occhi, già con i palmi carichi di energia per attaccare.

«Vieni fuori, codarda che non sei altro!» gridò a squarciagola «Smettila di nasconderti dietro delle dannatissime illusioni e fatti vedere, così la risolviamo da regina a regina una volta per tutte! O forse hai troppa-» si sentì tirare l’abito.

Non vedendo nessuno intorno e dietro di lei, abbassò lo sguardo: uno… gnomo? Uno gnomo armato d’ascia che cavalcava una nutria a petto nudo?

“Promemoria per me: mai bere prima del lavoro”.

Convinta fosse un’altra delle sue solite allucinazioni, si strofinò a lungo gli occhi: era ancora lì, e la guardava in modo indecifrabile con i propri grandi occhi neri da pesce lesso.

«Do you know da wae?» le domandò dopo qualche istante con un accento grave, profondo, che le ricordava fin troppo quello di un film ugandiano visto durante una serata all’insegna del trash.

Lei lo fisso a metà fra il divertito e il sinceramente confuso.

«… Come?»

«Da wae» ripeté l’esserino «Do you know da wae?»

«Cosa sarebbe “da wae”?»

Prima che quella creatura le rispondesse, avvertì un altro segnale; qualche secondo, e le si palesò dinanzi un altro essere assolutamente identico a quello precedente, a differenza del cappello che -anziché rosso- era blu.

Iniziò a scambiarsi vigorosi schiocchi della lingua sul palato con il collega, poi rivolse lo sguardo verso la Pitchiner.

«Do you know da wae?» le domandò anche questo.

«Can you show us da wae?» rincarò la dose l’altro.

Si massaggiò le tempie, rassegnata.

«Ragazzi, io non so cosa-»

Nemmeno il tempo di finire la frase, e l’ennesima creatura le comparve davanti agli occhi.

Si mise ad annusarla insieme alla propria nutria, si scambiò uno schiocco con i propri simili e alzò il capo verso di lei.

«You do not smell like ebola!» asserì visibilmente contrariato, poi si girò verso i compagni «She is a fake Queen my bruddas! She does not know da wae!»

Senza che potesse controbattere -non sapeva come, dal momento che nemmeno capiva cosa diavolo volessero da lei!- a quel curioso teatrino, la testa parve sul punto di esploderle: ancora connessa ai vegetali com’era, avvertì un altro segnale, poi dieci, cento, mille.

Non aveva la minima idea di quanti diavolo fossero, ma una cosa la sapeva: era circondata, era circondata da fottutissimi gnomi dai cappelli rossi e blu armati fino ai denti di asce e primitive lance e martelli che, adesso, stavano inveendo contro di lei a suon di forti e rumorosi schiocchi di lingua sul palato.

Era assurdo.

Uno di loro -probabilmente il capotribù, considerando che era l’unico a portare un cappello giallo- si fece avanti trotterellando sul proprio animale, fermandosi ai suoi piedi.

Alzò un braccio, indicandola.

«SPIT ON HER MY BRUDDAS! SPIT ON DA FAKE QUEEN!»

«FAKE QUEEN! FAKE QUEEN! FAKE QUEEN!» si levò alto un coro mentre gli gnomi le si stringevano intorno «FAKE QUEEN! FAKE QUEEN! NO MERCY FOR DA FAKE QUEEN!» un rantolo grottesco iniziò a provenire dalle loro gole «YOU WILL FREEZE! DA FAKE QUEEN WILL FREEEZE!»

Poi le sputarono addosso in massa.

Le sputarono addosso.

Cristo.

 

Tanto schifata quanto spaventata da quella tragicomica situazione nella quale si era involontariamente infilata, Emily Jane mulinò in aria lo scettro per mettervi un punto… o almeno ci provò, dal momento che uno sputo raggiunse pure quello.

Al contrario di ciò che si sarebbe potuto pensare, se la Pitchiner non lo stava utilizzando non era per il disgusto, ma perché materialmente impossibilitata a farlo; la saliva posatasi sul suo corpo, infatti, si stava indurendo come se fosse stata gesso, immobilizzando lei e intrappolando il suo bastone in un ripugnante involucro semi trasparente a pochi centimetri dalle sue mani.

Quando poi credeva che la situazione non potesse degenerare ulteriormente, arrivò il colpo di grazia.

Dagli alberi, con tutta l’eleganza e la calma del cosmo, spuntò Harmonia, impettita sui suoi zoccoli scintillanti e con uno sguardo di perculìo così tagliente che avrebbe potuto trafiggere la sua contendente come se fosse stata fatta di burro.

Appena la vide comparire, lo gnomo capo si mise sull’attenti.

«STAAAAAAAAP MY BRUDDAS!» gridò.

Subito, tutti smisero di sputacchiarle addosso, rivolgendo le proprie attenzioni e i propri occhi estasiati alla Regina di Phantasia.

Quello col cappello giallo le si avvicinò, fremente. L’annusò.

«SHE SMELL LIKE EBOLA MY BRUDDAS! SHE IS OUR REAL QUEEN!» concluse entusiasta «OUR QUEEN IS HERE! OUR QUEEN IS HERE TO SHOW US DA WAE MY BRUDDAS!»

«DA QUEEN! DA QUEEN! DA QUEEN!» convennero tutti.

Immediatamente, accerchiarono la centauressa, ma senza sputarle addosso: le salirono in groppa saltellando e ballando sulla stessa, le abbracciarono le zampe strusciandovisi contro, la coprirono di baci dopo essersi arrampicati fin sulle sue spalle, scivolano giù per le onde che la coda creava muovendosi nell’etere, addirittura le spazzolarono i capelli!

Harmonia li lasciò fare a lungo, senza fretta, fino a quando il loro capo non le si mise davanti esibendosi in un goffo inchino.

«Do you know da wae?» le chiese.

«I know da wae» sorrise la donna «and I will show to you and your bruddas da wae later, Commander Gaztons».

«She is a fake Queen» di rimando, le indicò la figlia dell’Uomo Nero «she does not smell like Ebola, she is a poser. But we bruddas spit on her my Queen! We give her no mercy!»

«Thank you brudda, da Queen blesses you» gli sfilò delicatamente il cappello e, dopo essersi abbassata, gli diede un bacio sulla testa. Additò un punto non meglio definito nel folto del Tauremorna, assicurandosi che la vedessero tutti gli gnomi «This is da wae, my bruddas, da wae that da Queen show you!» concluse.

Dire che a quelle parole fosse corrisposto un terremoto di grado sette per lo spostamento in massa sarebbe stato un eufemismo.

Tre secondi prima il luogo era pieno di gnomi impegnati ad ascoltare la sovrana nemmeno fosse una dea scesa in terra, tre secondi dopo puff, spariti, volatilizzati, galoppati via sul dorso delle loro nutrie dal pelo ispido verso da wae, “la via”.

Non poteva andare peggio.

 

 

Rimaste finalmente sole, Harmonia le si avvicinò, facendo un breve inchino di scherno appena l’ebbe davanti. Sfiorò il liquido viscoso -ormai quasi completamente solido- che teneva in gabbia l’altra, saggiandolo fra le dita.

«Comoda nel tuo bozzolo di saliva di gnomo?»

«Fottiti».

«Farmi fottere è precisamente ciò che spero di poter fare questa sera» convenne con una punta di acidità che non tentò nemmeno di nascondere «sempre che per allora abbia ancora una donna che possa fottermi, s’intende. E da ciò che mi hanno detto non è una cosa che dovrei dare così per scontata, mi sbaglio?»

«Oh no, non ti sbagli affatto» sorrise Emily Jane «anzi, oserei dire che sei fin troppo ottimista: l’ultima volta che ho visto la tua compagna questa era mezza morta, agonizzante, infilzata come un pollo allo spiedo sul mio scettro» con lo sguardo, lo indicò «che implorava la mia pietà e rinnegava la sua reginetta dai boccoli arcobaleno. Ora come ora, probabilmente quella serpentessa schifosa è già carne per le mosche» rise.

La regina, contro ogni sua aspettativa, la imitò.

«Passi pure per Myricae che mi rinnega per avere salva la vita, ma lei che implora pietà? Se vuoi che io ci creda, allora in futuro dovrai inventarti qualcosa di ben più credibile di certe baggianate, Emily Jane Pitchiner, perché che quella benedetta Ophidian sia disposta a farsi decapitare piuttosto che cedere ai ricatti di chicchessia è un dato di fatto che ormai persino i fili d’erba conoscono!» fece una breve pausa «E immagino che te lo abbiano già detto, visto quanto ci hai conversato».

Un’espressione di pura sorpresa si dipinse sul volto della Pitchiner: sapeva tutto, tutto, aveva intuito le sue mosse fin dal primissimo istante!

«… Tu sapevi che-»

«Che stavi tracciando i miei movimenti? Ovviamente».

Iniziò a girarle intorno, sfiorandole il volto con la coda fluttuante solo per infastidirla.

 «In caso contrario, non avrei certo chiesto aiuto agli gnomi per confonderti: si chiama strategia, ma non pretendo che una come te la conosca, considerando che -sebbene la strategia migliore per sopravvivere fosse farsi gli affari propri sulla Terra- sei venuta a minacciare, ad attaccare, a uccidere, la mia gente. Di nuovo». Si fermò, afferrandole il mento con una certa prepotenza «Sei tremendamente prevedibile, lo sai? Sono stati trent’anni di pace, quelli passati dal nostro ultimo incontro e scontro, ma in cuor mio ho sempre immaginato che prima o poi saresti tornata a riprenderti ciò che sostieni ti appartenga“di diritto”, per cui-»

«Non lo sostengo, è così» la interruppe bruscamente, liberandosi dalla presa delle sue dita «e lo sai anche tu: quello scettro contiene i poteri di Madre Natura, gli stessi che io vi ho riversato dentro perché nessuno me li rubasse e, dal momento che sono io Madre Natura, allora quelli sono i miei poteri. A me sono stati donati, e solo a me possono e devono essere restituiti: nessun altro può averli né reclamarli, nessuno se non la sottoscritta!»

«Ed è proprio qui che ti sbagli, carissima».

Con in volto un ghigno beffardo che non sembrava nemmeno appartenerle, Harmonia si chinò fino a incrociare i suoi occhi, due pepite d’oro nelle quali piantò il proprio sguardo rosa azzurrino che ci affondò dentro come un pugnale.

«Quelli sono i poteri di Madre Natura, che -come certamente saprai- è solo un titolo come tanti: duca, conte, principessa, regina, Madre Natura, sono solo e soltanto modi diversi per identificare la posizione sociale di una persona; inoltre, come tutti i titoli, può ovviamente essere assegnato a chiunque si dimostri degno e volenteroso di caricarsi suddetto macigno sulle spalle, un macigno che va ben oltre il giocherellare con nubi che seguano i propri nemici tutto il giorno. Pensa che potrei diventare Madre Natura anche io, proprio qui, senza tanti fronzoli e cerimonie d’investitura come per i guardiani, mi basterebbe prendere il tuo bastone et voilà! Cambio di testimone!» scoppiò a ridere.

Si girò.

«Inoltre, se non ricordo male, il titano Typhan ti ha fatto dono di quei poteri con l’intento di utilizzarli per fare del bene, non per fare del male» le si avvicinò all’orecchio «Scommetto che infatti non rispondono come dovrebbero, vero?»

«C-come fai a… sa-saperlo?»

«Ricevere le avanche del principe dei Lunanoff ha i suoi vantaggi, tipo quello di venire a conoscenza dei cazzi delle altre Costellazioni senza volerlo» fece spallucce «delle Costellazioni, e anche della figlia di un generale caduto in disgrazia per essere andato a ficcare il proprio naso negli affari di famiglie del calibro degli Alab… Abalar… Alderab-»

«Aldebaran».

«Quelli lì, brava. E poi anche i... i Cha… Chacha… no, aspetta… Champasemar… no, no, non era così… Cha-»

«Chandrasekhar» sbuffò.

Harmonia schioccò le dita, come se avesse improvvisamente avuto un’illuminazione.

«Loro, sì, i sovrani dei complotti e i signori dei draghi!» confermò schioccando le dita, come se avesse avuto un’illuminazione «Quelli che ti hanno distrutto la famiglia, insomma, anche se sappiamo entrambe che sarebbe più accurato dire che è stato papà a cercarsi le rogne: se fosse stato al proprio posto, allora-»

«Cosa sai tu di ciò che mi è successo?!»

 

Black out globaletotale.

Al momento, nella già confusa mente della figlia dell’Uomo Nero era appena scatto l’allarme rosso, rossissimo, più rosso del suo volto avvampato dal dubbio: chi le aveva parlato del suo passato? Come faceva a conoscere certi dettagli e, addirittura, millantare di essere a conoscenza anche di altri? Ma soprattutto, quanto sapeva?

Da lei non era uscita mezza parola, da Phobos nemmeno -non avendo lui ancora incontrato la centauressa-, dovette persino scartare dalla lista dei sospettati quel puttaniere infame di suo padre dal momento che, sfortunatamente per lui e fortunatamente per lei, della sua vita come il generale Kozmotis Pitchiner ricordava solo vaghissimi e sporadici momenti, e la maggior parte di essi non comprendevano sua figlia.

 

Come se avesse intuito i dubbi che la assillavano, l’altra donna -intanto sedutasi comodamente a terra, con le braccia poggiate su di un masso- prese parola.

«Non so nulla, in realtà, solo ciò che Manny -fra un tè e una proposta di matrimonio- mi ha riferito settecento anni fa, suppongo per cercare di impressionarmi con le sue doti di cantastorie» rise, facendole involontariamente tirare un lunghissimo sospiro di sollievo.

Si fece pensierosa.

«Però ricordo chiaramente che mi raccontò di questa bella bambina dagli occhi dorati e i capelli corvini, figlia di una donna che aveva sposato questo grande generale tanto amato dal popolo quanto ritenuto fastidioso da chi aveva qualcosa da nascondere, una dolce e tenera frugoletta che aveva sempre avuto un’infanzia piena di amore, di affetto e di ignoranza verso i giochi di corte» si abbracciò da sola, ovviamente in segno di scherno. Finse di rabbuiarsi in volto «Ma poi il suo papà, un certo generale Koyotis se non ricordo male, ha pisciato fuori dal vaso, ficcando il suo grooosso naso nei gombloddi di una famiggghia relativamente potente, all’apparenza, ma che dietro le quinte aveva nelle mani un impero. E allora…».

«Taci» le intimò Emily, la rabbia che iniziava a montarle dentro insieme alla magia.

La sovrana, ovviamente, non le diede retta.

«Tacere? E perché dovrei? Sono stata brava e buona, ti ho dato una seconda possibilità quando chiunque altro -con ciò che avevi combinato- nemmeno ti avrebbe lasciato in vita, ho cercato di ragionare con te perché desistessi: dal momento che con le belle parole non ho ottenuto nulla, non biasimarmi se ora faccio la parte della donnaccia acida e cattiva che usa il tuo stesso tragico passato per farti del male» agitò le mani davanti a sé, come a discolparsi, le labbra impegnate in un sorriso che diceva “hai voluto la bicicletta? Ora pedala”.

«Ma non perdiamo altro tempo! Dicevo, a quel punto è successo un bel patatracchete, eh già! Caccia grossa a suddetto generale, morte della sua cara mogliettina per una serie di sfortunati eventi, fuga verso la-»

«Taci» pronunciò di nuovo, questa volta con una voce differente, gutturale, a tratti inquietante, gli occhi ridotti a due fessure perse fra la pelle che stava inspiegabilmente andando scurendosi sulla fronte, sugli avambracci e sui polpacci; Harmonia, tuttavia, non notò quei cambiamenti, coperta com’era dai capelli la prima e da quella gabbia semi trasparente gli ultimi due.

Come pure non notò i pugni stretti di una Pitchiner -che, intrappolata, non avrebbe dovuto nemmeno riuscire a gonfiare troppo i polmoni- furiosa, le sottili venature verde acceso illuminatasi a disegnarle una mappa sulla pelle, la prigione di saliva coperta di crepe scriocchiolanti.

Totalmente estranea a tutti quei dettagli che non preannunciavano nulla di più, la Regina di Phantasia continuò a infierire.

«Come sei noiosa!» sbuffò indispettita «Guarda, se proprio vuoi la farò corta, ma solo perché il resto è storia: tuo padre che diventa Pitch Black, la fine della Golden Age e la cancellazione della stragrande maggiorranza delle Costellazioni, tu che vieni presa sotto l’ala da un titano morente che ti accudisce, ti mente perché ti vuole tutta per sé manco fosse un vecchio maniaco e, dulcis in fundo, ti dona i poteri di Madre Natura. E quando tu scopri la verità cosa ne fai, di questo ben di dio?»

Emily, in vena di fare tutto tranne che rispondere, rimase in silenzio.

«Distruggi una nave e ammazzi solo gli dei sanno quante persone, spingendolo a reciderti quella fetta di poteri sugli astri che ti avrebbero reso una dea in terra, ecco cosa!»

In una mano, si fece comparire un sottile pugnale color crema, l’impugnatura -che terminava in una piccola rosa con una pietra iridescente al centro- finemente lavorata in sinuose e delicate forme eteree che parevano nuvole.

Le trotterellò vicino.

«Non sei furba, esattamente come non lo erano i tuoi genitori».

Le poggiò la lama sul petto, premendo abbastanza perché la pelle si arrossasse, ma non a sufficienza perché si tagliasse.

«Non era furbo tuo padre, che se avesse messo a tacere il suo presunto senso del dovere avrebbe evitato di finire dritto dritto nella tela del ragno, trascinandosi con sé i propri familiari come mosche sul miele» la fece scorrere fin sotto il mento, alzandoglielo leggermente «E non era furba tua madre, che è rimasta a bearsi nella propria ignoranza accontentandosi degli “Ho tutto sotto controllo” di suo marito per vivere serena. Non la conoscevo, ma -visto com’è finita e com’è uscita sua figlia- sarà certamente stata una di quelle ragazzette follemente innamorate del proprio consorte al punto di seguirlo per terra e per mare e per cielo, pur di vederlo contento, sempre pronta a supportarlo e mai a dargli contro pure se ha torto, una donnuccia che non ha capito in cosa era stata involontariamente messa in mezzo fino a quando non hanno dovuto raccoglierla da terra col cucchiaino. Povera scema».

«TACI!»

 

Un’esplosione di rabbia, un’esplosione di magia, un’esplosione della gabbia che conteneva Madre Natura e tutta la sua furia, dissoltasi in un lampo accecante.

 

Senza che Harmonia potesse realizzare ciò che stava accadendo, un frammento duro come il marmo la colpì in pieno, poco al di sotto della zona di congiunzione fra il corpo equino e quello umano, scaraventandola contro lo stesso masso sul quale, poco prima, stava crogiolando.

Un solo colpo, e adesso una delle zampe anteriori penzolava mestamente a mezz’aria.

Tentò subito di rialzarsi, ma invano: prima ancora che potesse farlo, delle spesse radici coperte di spine perforarono la terra e le afferrano gli arti, immobilizzandola; al contrario, Emily Jane era libera, liberissima.

E incazzata abbestia.

«Non ti permettere» alzò lo sguardo, la pupilla ridotta a un puntino disperso in quelle iridi dorate intrise d’odio e di rabbia e d’omicidio «assolutamente» strinse con forza le dita artigliate coperte di vera e propria corteccia -come pure lo erano gli avambracci e la parte inferiore della gambe- sul nero scettro, un malsano alone grigiastro che ribolliva nelle striature smeraldo dello stesso e colava come lava fumante su tutta la sua lunghezza «di nominare mia madre!» una manciata di lingue di immani lingue rocciose sventrarono la terra tutta intorno alla regina, circondandola.

“Pensa! Pensa! Pensa!”

«Non ti permettere mai più!» tutto d’un tratto si richiusero su di lei, intrappolandola e stringendola in uno spazio angusto che a malapena la conteneva «Mai più!» l’estremità appuntita di un ultimo masso centrale fece capolino dal suolo, pronto a impalarla «Mai più!» con violenza tale da far tremare la terra, infine emerse dal terreno.

Un tuono esplose, squassando l’aria calda.

Il bagliore di un lampo si profilò fra le sbarre di pietra, ora tomba della Regina di Phantasia, della Guardiana della Fantasia, della custode del pianeta Exodus. Come allertati dall’accaduto, uno stormo di uccelli gracchiò in lontananza, volando via fra le nuvole nere illuminate a giorno dalla ragnatela di fulmini che dilaniavano il cielo.

Volarono via tutti, tranne un piccolo, insignificante, minuscolo, passero bianco dalle ali di perla, che invece tornò indietro; goffamente, si posò su di un arbusto dall’altra riva del fiume, a poche decine di metri da Madre Natura.

Il tempo che il ritmico alzarsi e abbassarsi del suo lillipuziano petto si regolasse, e venne avvolto da una nuvola rosata che lo strinse in un abbraccio morbido, candido, materno, al riparo dalle intemperie che lo circondavano; persino le saette e la pioggia battente ora grandine, infatti, non sfioravano quella sfera dei colori dell’alba, venendo respinti ancor prima che ne toccassero la superficie liscia oltre ogni umana concezione.

Tempo al tempo, e la Pitchiner si sarebbe pentita di non aver dato peso a quel curioso fenomeno atmosferico.

Lentamente, senza fretta, e quel soffice bozzolo andò sfogliandosi strato dopo strato, coltre nebbiosa dopo coltre nebbiosa, lasciando che sottili fasci di luce dorata ne fuoriuscissero frementi, tremolanti, come se fino ad ora non avessero atteso altro che librarsi nel cielo come farfalle umide appena uscite dalla loro crisalide.

E, proprio come un insetto che lascia il proprio bozzolo, anche da quella sottile foschia si schiusero quattro immense ali color madreperla simili a quelle di una libellula, coperte superiormente da un soffice e spesso strato di piume nivee la cui attaccatura andava perdendosi in una cascata fluttuante dai colori di un brillante arcobaleno verde acqua e azzurro e violetto e rosa, un arcobaleno che finiva a terra e si originava sul capo coronato dal corno d’oro dell’ultima principessa Starequus, splendente e raggiante come mai prima d’ora.

Ritta sui propri zoccoli dorati, a mostrarsi fiera letteralmente come mamma l’aveva fatta, Harmonia se ne stava lì, sul margine del fiume opposto a quello dell’altra, la lunghissima coda che galleggiava nell’etere circondandola e perdendosi fra i capelli nebulosi tipici della sua gente.

Fino a quel momento aveva giocato, si era concessa di conservare durante lo scontro quella forma da centauressa a lei tanto cara pensando di poter fare a meno della quantità di magia e concentrazione necessari a mantenerla, ma si era sbagliata. Si era sbagliata, sì, e allora aveva rimediato: niente uso dei poteri per cambiare i propri connotati rispetto all’originale, adesso, solo il corpo umano dotato di zampe equine e ricoperto da una morbida peluria bianca -più lunga e folta sulle estremità degli arti, che s’interrompeva giusto sul petto e sul volto- che denotava senza ombra di dubbio, che urlava, a quale razza appartenesse.

La razza che avrebbe rispedito Madre Natura nel buco di regno perduto dal quale proveniva, per la precisione.

Sebbene però fuori stesse ostentando tanta regalità e sicurezza, dentro di sé la regina tirò un profondo, lunghissimo, necessario, sospiro di sollievo: meno male che aveva trovato da qualche parte la forza per trasformarsi all’ultimo, perché in caso contrario non era poi così certa che ne sarebbe uscita intera!

Poco importava: le era andata di lusso, ora aveva il dovere di sfruttare al massimo quel colpo di fortuna che il fato le aveva concesso.

 

Senza attendere che Emily Jane recuperasse la mandibola che -da quanto se ne stava con la bocca aperta- pareva esserle caduta per terra, Harmonia mosse qualche passo verso la riva, gli zoccoli che lasciavano dietro di sé piccole tracce luminescenti.

Si fermò sul ciglio del fiume reso grosso dalla tempesta, talmente intimorita dal rivedere una creatura millenaria che deviava le proprie gocce ancor prima di sfiorarle la pelle.

«Credevi di avermi ucciso, ma la verità è che non morirò mai, non posso morire: fino a quando ci sarà anche un solo suddito che necessiterà del mio aiuto, bambino o adulto o vecchio che sia, a qualsiasi razza apparterrà e in qualunque tipo di rapporto mi troverò con lui, allora io ci sarò, e sarò pronta a offrirgli i miei servigi».

Improvvisamente, il suo corpo venne come cosparso da una nebbiolina argentea che le si depositò sulla pelle, aderendo ad essa; qualche istante, e suddetta nebbia si tramutò in un’armatura finemente lavorata dello stesso colore, sulle spalle un mantello blu notte cosparso di puntini brillanti che parevano stelle.

«Sono la regina, ma prima di essere colei che porta la corona sono sono la serva, l’amica e la madre della mia gente: prima di sedermi a fare colazione mi assicuro che abbiano il cibo di cui necessitano, prima di riposarmi mi curo che possano dormire sonni tranquilli, prima di concedermi qualsiasi cosa non programmata mi assicuro che un mio lusso non incida sulla qualità delle loro vite. Sono contenta quando c’è un nuovo nato, festeggio insieme a loro dopo che ho officiato un’unione o un matrimonio, piango con e per loro quando qualcuno ci lascia».

Allargò le braccia.

Tutto d’un tratto, materializzatosi dal nulla, in una mano le comparve un’imponente lancia da giostra dello stesso color crema del pugnale di prima, l’elsa che ricordava una testa di unicorno dagli occhi cristallini e la lama costituita dal corno dell’animale.

«Non lotto per me stessa, per la ricchezza, per l’onore, per la vendetta o per dimostrare la mia superiorità a chicchessia: lotto per il mio popolo, perché tragedie come quella di sei millenni fa non si ripetano, perché non ci siano più bambini costretti a veder morire impotenti i propri genitori come è successo a me, perché il futuro di coloro che mi hanno affidato le loro vite, quelle dei loro figli e dei loro nipoti, possa sempre essere luminoso e sereno».

Nell’altra mano, invece, prese forma uno scudo allungato che le andava dalla vita fino a terra, il pezzo centrale formato dalla testa di un cavallo e il resto della protezione offerta dalle piume metalliche dello stesso che la circondavano.

Si calò l’elmo.

«Il mio nome è Harmonia, Regina di Phantasia, principessa degli Starequus, Guardiana della Fantasia, protettrice del pianeta Exodus, ultima della mia specie» puntò l’arma in direzione di Madre Natura «e finché il mio cuore batterà, finché le gambe mi reggeranno, respingerò chiunque osi mettersi sulla strada fra i miei sudditi e la loro felicità».

 

 

Clap, clap, clap.

 

 

Degli applausi furono tutto ciò che provenne dall’altra parte del fiume, i palmi legnosi della Pitchiner che s’incontravano svogliatamente producendo uno stridio fastidioso. Con un rapido movimento del capo, si scostò dagli occhi i viticci fioriti che le spuntavano fra i capelli corvini.

«Tante belle parole, non lo metto in dubbio, ma se c’è una cosa che so per certa è che nessuno ha mai vinto una guerra con discorsi strappalacrime sull’onore e sull’ammmore per i propri sudditi e quel genere di stronzate da adolescenti» rise.

«Senza tanti giri di parole, mi hai dunque chiesto di scegliere fra le buone maniere e la violenza?»

Harmonia annuì.

Di rimando, la rivale avanzò di qualche metro verso le sponde del canale, l’erba che -alla faccia dell’essere Madre Natura- s’inaridiva ad ogni suo passo. Si fermò.

Con lo scettro stretto nell’altra mano, alzò un indice: come rispondendo a un suo comando, sassi e pietre e persino la ghiaia del fiume s’illuminarono di un bagliore smeraldo, levandosi dalle acque e dalla terra per iniziare a levitare a mezz’aria intorno alla figlia dell’Uomo Nero.

Sorrise.

«Scelgo la violenza».

Un cenno, e quelli che qualche istante prima non erano stati altro che cumuli di rocce di ogni forma e grandezza andarono aggregandosi l’uno con l’altro, pezzo per pezzo, assumendo sembianze che nel loro essere grottesche e terribilmente deformi -fra teste minute su corpi enormi e viceversa, arti mancanti o di dimensioni differenti l’uno dall’altro, occhi in più e occhi in meno- parevano umanoidi.

A vedersi comparire davanti una manciata di imponenti golem, la Starequus -che avrebbe dovuto quantomeno essere impressionata, se non dall’indicibile bruttura di quegli esseri, almeno dalla superiorità numerica dell’altra- non si scompose per nulla.

Chiuse gli occhi, il corno sulla fronte che prese a baluginare di una luce perlacea la quale, poco dopo, mutò in uno e poi due e poi tre sottili cerchi dello stesso colore che le cinsero il capo.

«Nîn o Chithaeglir lasto beth daer» le venature iridescenti delle sue ali presero a brillare a intermittenza, come se vi si stesse incanalando da un qualche tipo di potente magia «rimmo nîn Kelusindi dan in Hatha Laurinque».

Ma non accadde nulla.

La Pitchiner scoppiò a ridere, intanto che i suoi giganti di pietra si gettavano nel torrente per attraversarlo e raggiungere la sovrana.

«È così che pensi di sconfiggermi? Blaterando parole totalmente a caso?» la schernì. Allargò le braccia «Se qualcuno che millanta di essere chissà quale minaccia ma poi non sa fare altro che parlare è il massimo sul quale Exodus possa fare affidamento per proteggersi, allora ti concedo di andare a dire ai bambini di iniziare a recitare le proprie preghierine, perché fra poco ne avranno un estremo bisogno!»

Nessuna reazione provenne dall’altra donna, che continuò a recitare quella formula imperterrita, irremovibile, solenne nella sua immobilità: quei mostri erano sempre più vicini, eppure Harmonia era calma, tranquilla, totalmente serena, lo era persino di fronte al fiume che sembrava starsi prosciugando!

Era pazza? No, era semplicemente paziente.

E la sua pazienza venne ricompensata.

Nel preciso istante in cui tutte quante le creature si trovarono nel tragitto fra lei e la loro padrona, rigagnoli di dimensioni sempre crescenti iniziarono a scorrere sul letto quasi asciutto del fiume, attirando l’attenzione di quegli uomini di freddo sasso senza cuore né anima che, finalmente, si girarono verso la direzione dalla quale proveniva quello strano fenomeno. Lo scrosciare dell’acqua era ormai assordante, talmente tanto che i ciottoli rimasti a terra iniziarono a tremare prima piano, in modo quasi impercettibile, poi più forte, sempre più forte, fino a quando la terra stessa non venne scossa da violenti tremori uniti a suoni infernali, assordanti, come se le viscere del mondo stessero venendo attraversate da un branco di cavalli scalpitanti.

Che poi furono precisamente ciò che si palesò davanti agli occhi increduli di Madre Natura qualche secondo dopo, quando il fiume si riversò sì sul proprio letto di fango e sabbia, ma lo fece con la forza e la forma di un’onda di grandi e limpidi stalloni che al loro interno custodivano alghe e pesci e qualsiasi cosa quel torrente portasse con sé, una carica selvaggia di equini che nitrivano furiosi sbuffando vapore e galoppando già per il fiume che costituivano travolgendo qualsiasi cosa si trovasse sul loro cammino.

 

Golem compresi.

 

Una volta abbattuti quei giganti, un’innaturale calma piatta tornò a dominare il corso d’acqua, ormai quieto e silenzioso com’era sempre stato.

Una soddisfatta e sorridente Harmonia avvicinò una mano all’orecchio, protendendosi verso l’avversaria come a voler sentire meglio.

«Stavi dicendo qualcosa a proposito del mio “blaterare parole a caso”? Sono costernata, ma l’assordante rumore della vittoria ha coperto le tue parole, saresti così gentile da ripeterle a quest’anziana puledra?»

Non l’avesse mai detto.

Dire che Emily Jane fosse furiosa, non sarebbe bastato nemmeno a descrivere la sommità dell’iceberg di rabbia e odio e frustrazione che quella benedetta ragazza covava dentro di sé.

Senza darsi tregua per permettere al suo corpo -adulto, sì, ma non più abituato a sostenere i ritmi imposti da un utilizzo così intenso dei propri poteri- di riprendersi, evocò altri golem di pietra ancora più grandi di quelli di prima.

«Taci! TACI! STAI ZITTA! DEVI STARE ZITTA! ZITTA!» le gridò contro con quanto fiato aveva in corpo, la gola che le bruciava per lo sforzo.

Non contenta, completamente in balìa della necessità vitale di eliminare la Regina di Phantasia, ignorando ogni segnale che il suo cervello logorato dal rancore le mandasse intimandole di fermarsi, ampliò il proprio esercito con qualsiasi cosa le venisse in mente: creature alate simili a pipistrelli che trafissero le nuvole trascinando i fulmini dietro di sé, radici improvvisamente trasformatesi in serpenti grassi e sibilanti, fiere ruggenti emerse dalle voragini che si stavano aprendo nel suolo -le cui striature sul corpo roccioso lasciavano intravedere il magma che ribolliva nei loro corpi- e mille altri mostri.

Infine, aggiunse anche il carico da novanta: elefanti.

Colossali elefanti di pietra e legno e liane che tenevano insieme il tutto, bestie alte almeno venti metri dotate di tre paia di enormi zanne di ghiaccio simili a quelle di un mammut una più grande dell’altra, una più spaventosa dell’altra, dove quello più imponenti -che si snodavano dalla testa dell’animale fino a terra, incurvandosi orizzontalmente verso l’interno- potevano tranquillamente essere utilizzate per svolgere lo stesso lavoro di uno spazzaneve: travolgere di tutto.

E i Mûmakil della battaglia dei Campi del Pelennor potevano accompagnare solo.

Un rivolo di sangue le colò dal naso, scorrendo sulla corteccia che stava sempre più spandendosi sul suo volto: doveva fermarsi prima che fossero i suoi poteri a controllare lei e non il contrario, ne era consapevole, ma non poteva, non voleva, farlo. La vendetta era tutto ciò che la guidava, e la vendetta sarebbe stato ciò che avrebbe ottenuto a fine giornata: non importava il prezzo, non importava se per raggiungerla avrebbe dovuto annegare nelle sabbie mobili della follia più di quanto già non ci fosse dentro, a dirla tutta non le importava nemmeno dello stare rischiando la propria vita: finché non avesse avuto ciò che bramava disperatamente da trent’anni a quella parte, allora non avrebbe arretrato nemmeno di un passo.

Alzò lo scettro dinanzi a sé, indicando la regina sua rivale ai propri mostri.

«Prova a usarla adesso, la tua magica acqua frizzante scacciademoni! Vediamo se farai ancora la fichettina, una volta che sarai ridotta a una crepê farcita con sangue d’unicorno e codette arcobaleno! È finito il tempo delle mele, PUTTANAH!»

Un cenno, e quelle creature si riversarono in terra: verso di lei “solamente” i pachidermi, verso il limite del Tauremorna e la città il resto di loro.

Con quella scena davanti agli occhi, Harmonia non poté fare altro che ingoiare faticosamente quel groppo che le chiudeva la gola, inspirare profondamente e, infine, prepararsi al contrattacco: c’era un intero pianeta che contava sulla sua vittoria, non poteva deluderlo.

Strinse le dita intorno alle proprie armi fino a sentire dolore, comandando ai propri occhi lucidi di ricacciare indietro le lacrime che stavano per solcarle le guance: svariati soldati sarebbero morti quel giorno, padri e madri di famiglia avrebbero perso la vita sul campo di battaglia, e a lei sarebbe toccato l’infame compito di spiegare ai loro figli di come fossero rimasti orfani.

Non era colpa sua, aveva fatto e stava facendo il possibile, di certo non poteva salvare tutti… esattamente come non aveva potuto farlo seimila anni prima, quando lei-

No, non avrebbe permesso al proprio disturbo post traumatico da stress di avere la meglio proprio ora, non era un lusso che poteva concedersi, non sul campo di battaglia: quella era la guerra, e in guerra si muore.

Punto.

Il suo esercito se la sarebbe cavata egregiamente, le Ophidians si sarebbero difese da sole senza problemi, e lei li avrebbe ripagati sconfiggendo la Pitchiner il prima possibile, così da recidere alla radice gli umuncoli da lei generati. Ai figli dei caduti, avrebbe detto la stessa identica cosa che si era detta lei in prima persona per sei lunghissimi millenni, in quei momenti bui durante i quali la nostalgia del calore delle ali di sua madre e delle braccia forti di suo padre le attanagliava l’anima: i loro genitori erano caduti come eroi, e come tali sarebbero stati ricordati.

Sorrise: sarebbe andato tutto bene, lo avrebbe fatto andare bene.

Mossa dalla forza che le donava quella nuova consapevolezza, Harmonia iniziò a squadrare quella manciata di mastodontici elefanti che le venivano incontro: una mezza dozzina, tutti tremendamente grandi, ma quello li rendeva solo bersagli più facili da colpire.

Senza indugiare oltre, spalancò le ali e si alzò in volo.

Destreggiandosi fra le gocce di pioggia più taglienti della lama che aveva nella mano, zigzagando fra un fulmine e una nube che le oscurava temporaneamente la vista, a furia di sferzare furiosamente l’aria le sue ali la portarono in breve fra a quelle montagne erranti. Avvicinarsi, tuttavia, non fu altrettanto semplice: tralasciando l’attenzione che -se non voleva finire impigliata e schiacciata fra le zanne- doveva porgere al non volare troppo rasoterra, il problema maggiore era costituito dalle interminabili proboscidi di quelle bestie che, come braccia provenienti dagli inferi, si levavano e dimenavano nel cielo a catturare qualsiasi cosa o animale o persona capitasse loro a tiro; già un paio di volte si era trovata a dover virare all’ultimo per evitarle, ora non poteva più permettersi errori.

Impegnata a riflettere com’era, non si accorse di quando arrivò il terzo colpo.

Fortunatamente per lei, il suo corpo agì istintivamente, senza consultarsi col cervello: ancoratasi con la coda a una delle zanne, effettuò una rapidissima sterzata -che per poco non le fece perdere la presa ed essere scagliata chissà dove, da quanto fu improvvisa!- in volo che portò le estremità affilate delle ali a sfiorare la pelle corazzata dell’animale, penetrando a fondo in essa.

Un giro della morte, e la proboscide venne tranciata di netto. Cadde a terra, agitandosi come la coda di una lucertola.

Completando quell’evoluzione, si trovò -senza sapere precisamente come, ma visto il risultato le modalità non erano poi così importanti- sul capo dell’animale, ovviamente ormai imbizzarrito a causa della ferita; il solo restare attaccata a quella bestia che correva e sbandava e s’inarcava disperata era una sfida, ma non si arrese: doveva andare fino in fondo, letteralmente.

In balìa delle intemperie a venti metri d’altezza, costretta a scansarsi o appiattirsi ogni tre per due per evitare le forze aeree di Emily Jane, con la sola presa delle ali nelle carni a mantenerla in un equilibrio che chiamare precario sarebbe stato un complimento troppo grande, afferrò la lancia con due mani e ne poggiò la punta sulla pellaccia dell’elefante, in quella minuta area scoperta nella congiunzione fra la testa e il collo. La spinse dentro fino all’impugnatura, decisa.

Un barrito agonizzante si sparse tutt’intorno.

L’animale rallentò la propria corsa, tramutandola prima in un cammino lento a testa bassa, sempre più pericolosamente bassa, poi in un’andatura ondeggiante, sconclusionata, senza ritmo, un trascinarsi dietro le zampe molli che, infine, cedettero completamente sotto il loro stesso peso, facendo crollare al suolo quell’abominio della natura; mentre questo collassava, Harmonia si calò giù per le zanne di ghiaccio usandole come uno scivolo, ruzzolando via giusto pochissimi istanti prima che quelle s’infrangessero come bicchieri di cristalli sul pavimento.

Nemmeno il tempo di riprendere fiato, che subito l’ombra di un’imponente zampa le si profilò sopra la testa, talmente vicina da sfiorarle addirittura i capelli.

 

Non poteva volare via: l’altro arto era troppo vicino alle sue ali perché queste non si impigliassero.

Non poteva lanciarsi di lato: sarebbe stata troppo lenta.

Non poteva usare la magia: il suo cervello sarebbe stato ridotto in poltiglia ancora prima di riuscire a pronunciare qualsivoglia formula o incantesimo.

Fece l’unica cosa che poteva fare: chiuse gli occhi.

 

Un boato squassò la terra.

Il tempo di riaprire le palpebre, e una voragine si aprì dietro le sue spalle, inghiottendo l’elefante che la sovrastava; senza più nulla intorno che la ostacolasse, riuscì a spiccare il volo all’ultimo momento, giusto una manciata di secondi prima che quel buco nero improvvisamente apertosi nel terreno inghiottisse anche lei come aveva fatto con la povera bestia.

Povera bestia che, adesso, se ne stava sospesa a più di un centinaio di metri d’altezza, intrappolata e stritolata fra le gigantesche fauci a tenaglia di una creatura ben più grossa di lei, capace di sventrare il terreno e sbriciolare la pietra come pasta frolla: vermi di terra, diggerwurm. Adulti.

Sul capo di quello emerso dinanzi a lei, con tanto di briglie -briglie!- alla mano, una perfettamente calma Alice Castle Wonderwood che salutava con la manina l’amica.

«Ehi! La prossima volta ricordati di mandarmi l’invito alla festa!» gridò da lassù.

La regina -ora nella parte di colei alla quale rischiava di cadere la mandibola per il troppo stupore- la fissò sbalordita: alla faccia del tempismo! Si era premurata -e vergognata- di non dirle nulla temendo che desse di matto come solito, considerando i precedenti con Madre Natura risalenti a trent’anni prima, ma a quanto pare tenerla all’oscuro della spedizione non era servito per tenerla lontano dal campo di battaglia.

Senza che la sovrana potesse risponderle, Alice le indicò l’orizzonte.

«Ho portato anche il resto della cavalleria, per quanto non sia dato a sapere se venuti solo per combattere, o anche per assicurarsi che la sanità mentale non mi abbandoni durante la battaglia: in quel caso, sarei un problema beeeeen peggiore di Miss Bellicapelli!» ridacchiò.

Non sapendo come ribattere, Harmonia girò il capo dove l’altra aveva additato: dal folto del Tauremorna, sulle cime dei vulcani più o meno attivi di Quetzalli, una vera e propria valanga di metalupi che digradavano giù per le montagne con la stessa facilità e agilità con le quali avrebbe potuto farlo una capra; in testa a loro, affiancata dai suoi pelosi genitori adottivi, Scarlet in groppa a Spettro, nelle mani quella che riconobbe subito trattarsi della Spada Vorpale.

Aveva tirato fuori l’artiglieria pesante, quella ragazzetta bipolare, faceva davvero sul serio!

E che tutti stessero facendo sul serio si capì presto: diggerwurm che sbucavano dalla terra inghiottendo qualsiasi cosa si trovasse sopra i loro musi, lupi che si gettavano a zanne spiegate sulle creature della Pitchiner disfandole pezzo per pezzo, pietra dopo pietra, la Cacciatrice che -lama alla mano- passava in mezzo ai pachidermi e, con un colpo netto, scavava con essa profondissimi solchi nelle loro tozze zampe perché si ribaltassero e fossero alla totale mercé dei suoi fratelli e sorelle.

La Starequus si concesse un mezzo sorriso: di quel passo, il grosso delle truppe di Madre Natura sarebbe stato abbattuto prima che potesse raggiungere il bosco o la città, il che per la sua gente avrebbe significato meno tombe da scavare, meno morti da piangere, meno bambini da lasciare orfani.

Sperando che avesse ragione, ovviamente, il che -a guardare Emily Jane- non era proprio da dare per scontato.

Più pioggia, fulmini, più tornado, più crepe nel suolo, più mostri, più di tutto ciò che lo scettro le consentiva di evocare: stava dando di matto, quella benedetta ragazza, e ne era consapevole tanto quanto lo era che, non facendolo, sarebbe stata sconfitta per l’ennesima volta.

Specchiandosi in una pozzanghera ai suoi piedi, si toccò il viso: cos’era rimasto della donna che era stata? C’era ancora lei sotto quella corteccia che, lentamente ma inesorabilmente, a furia di utilizzare la magia, la stava letteralmente divorando? Come aveva fatto a ridursi in quello stato pietoso?

Le bastò alzare lo sguardo per capirlo: le sue bestie venivano continuamente abbattute, esattamente com’era stata abbattuta lei durante quegli anni di miseria e autocommiserazione ed elemosina.

Quando il barrito dell’ennesimo elefante che collassò al suolo le riempì le orecchie, chiuse gli occhi: lo scettro brillò, e allora radici provenienti da esso iniziarono ad arrampicarsi su per il braccio, avvolgendo in poco tempo le sue stanche membra in un abbraccio caldo, accogliente, protettivo, un po’ come quello offerto del ventre materno; si richiusero sul suo capo, isolandola dal mondo, dalle umiliazioni, dall’imminente sconfitta.

 

Che si fottesse la sua mente che gridava di smetterla, di fermarsi, di non oltrepassare quel limite che l’avrebbe resa schiava dei propri stessi poteri.

Che si fottesse la raccomandazione di Typhan di non utilizzare mai, per nessun motivo, per qualsiasi cosa al mondo, la sua magia al pieno della potenza, pena il diventare incapace di distinguere il bene dal male, la verità dalla menzogna, la realtà dalla fantasia.

Che si fottessero Pitch e Gwenllian e chiunque le avesse remato contro nel suo millennio e mezzo di vita immortale.

 

Adesso, di Emily Jane Pitchiner non restava che un guscio di puro potere ruggente, ma senza coscienza: ormai era una divinità, un essere superiore a quella plebaglia con la quale era stata costretta a condivide l’ossigeno per troppo tempo, e pretendeva i propri sudditi.

Con i suoi nuovi e luminosi occhi di dea, ora vedeva chiaramente il passato e il presente e il futuro, chi era stata e chi era e chi sarebbe potuta e dovuta essere, vedeva razze estinte e razze che ancora dovevano nascere, frasi pronunciate per cambiare il mondo e frasi che sarebbero state pronunciate per distruggerlo, in quel bozzolo vegetale riusciva addirittura a scorgere pianeti sconosciuti e galassie mai osservate e universi lontani, tutti che galleggiavano nell’occhio di una creatura incarnazione stessa dell’esistenza e della non-esistenza.

E vedeva anche quel bozzolo diventare prima giallo, poi marrone scuro, infine nero, le radici -secche e senza vita- che si staccavano e cadevano a terra, denudandola: la sveglia era suonata destandola dal sogno, l’incantesimo si era spezzato, la carrozza era tornata ad essere una zucca.

Il palmo di una mano -forse reale, forse frutto della sua immaginazione- fece irruzione nel suo mondo che stava crollando a pezzi, mostrandole un minuscolo frammento di legno scuro; un’altra mano le indicò un punto preciso sul suo artefatto: allora, e solo allora, notò che ne mancava un pezzettino lì, proprio sotto l’incrocio fra una venatura e un nodo.

Mentre avvertiva chiaramente lo scettro scivolarle fra le dita, sentì un respiro caldo vicino all’orecchio.

«Mai fidarsi di chi mangia i faciola con la forchetta anziché il cucchiaio».

 

 

 

 

 

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Angolino dell’autrice

 

Autrice in ritardo di una settimana, perché si è accorta giusto l’altro giorno che il capitolo era talmente LUNGO da necessitare -dopo attente consultazioni- di essere diviso in due capitoli, come ho appunto fatto: chiedo venia, mi faccio perdonare con i millemila riferimenti al “Signore degli Anelli” e quelli agli Ugandan Knuckles! :’D

Detto questo, vi assicuro che col capitolo 19 terminerà la “saga” di Quetzalli che perdura da nonricordoquanti capitoli, che se la Th’anera Yuvenciae vuole ormai siamo agli sgoccioli di questa long :) je la famo regà!

Dopo i consueti ringraziamenti, sotto vi lascio la traduzione della frase detta da Harmonia, che poi è la stessa -con qualche modifica sui nomi- pronunciata da Arwen Undómiel per respingere l’attacco dei Nazgul sul fiume Bruinen.

 

“Nîn o Chithaeglir lasto beth daer, rimmo nîn Kelusindi dan in Hatha Laurinque” = “acque delle montagne di fuoco, ascoltate le mie parole: scorrete acque del Kelusindi contro lo spettro di Madre Natura”

 

Alla prossima!

 

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Capitolo 19
*** Olympus has fallen - parte III ***


Piume.

Quando riaprì gli occhi, tutto ciò che apparve nel suo campo visivo furono morbide, calde, accoglienti, piume, che la circondavano e le permettevano di conservare quel  briciolo di dignità rimastole in corpo dopo quell’ultima umiliazione, coprendo le sue nudità.

Non si chiese da dove spuntassero, né tantomeno a chi appartenessero: già lo sapeva e, francamente, non le importava.

Non le importava di aver sfiorato la cima della gerarchia sociale ed essere caduta subito dopo, non le importava che Phobos l’avesse tradita così spudoratamente per prendersi il suo scettro e i suoi poteri, non le importava nemmeno che fossero di Harmonia le braccia che la stavano sostenendo e nelle quali, adesso, si stava rifugiando: voleva piangere, niente di più, e farlo da una parte o dall’altra, davanti a una persona piuttosto che a un’altra, le era totalmente indifferente.

Chi non era indifferente invece era il rosso, intento a gongolare per la riuscita di un piano iniziato nella vasca di Madre Natura e finito con quest’ultima stesa a terra in una pozza di sangue e lui lì, ritto, spavaldo, col petto in fuori e lo scettro in mano.

Perfettamente in linea col proprio stile, si girò, si chinò e si abbassò la gonna, mostrando fieramente le chiappe al vento.

«Alla faccia vostra, zittellacce che non siete altro! Baciate il culo di Padre Natura!»

Il solito, appunto.

E, sempre come solito, la Starequus aveva voglia di fare tutto tranne che di perdere tempo davanti a un buffone: c’era la guerra, e ogni minuto che passava a rendersi ridicolo era un minuto in più che i suoi uomini dovevano sopportare contro le bestie di Emily Jane; finché il bastone non veniva spezzato, allora quelle avrebbero continuato a riprodursi.

E non era un lusso che poteva o voleva permettersi.

Fatta comparire sul suo corpo martoriato una tunica pesante che la coprisse e la tenesse al caldo, posò piano la figlia dell’Uomo Nero a terra, scambiandosi con lei solamente un neutrale sguardo che non conteneva traccia né di disprezzo, né di pietà, né di rabbia, solo un tacito “Ti aspettavi che finisse diversamente?”: sarebbe bastato quello a insegnarle la lezione, sperando che stavolta avesse la volontà d’impararla.

Con una mano poggiata sulla propria arma così da non farsi cogliere impreparata, avanzò di qualche passo verso l’altro.

«E quindi? Quali sono i tuoi piani, ora che sei entrato in possesso dello scettro?» domandò.

Lui si grattò la testa.

«Io veramente-»

«Non sto parlando con te» con uno scatto, tese la lancia davanti a sé, interponendola fra la sua persona e il rosso «ma con chi hai nella testa. Dì ad Alexander di farsi vedere, o lo trascinerò giù dalla Luna a suon di schiaffi a palmo teso».

«Luna? “Alexander”? Gente dentro di me?» la guardò stranito, inclinando il capo «Cosa minchia vai blaterando? Altro che “guardiana della fantasia”, tu vedi gli arcobaleni e gli unicorni e tuttecose solo perché ti cali gli acidi potenti! Quel tuo corno deve proprio averti perforato il cervello in qualche modo, se credi che-» s’interruppe.

O meglio, parve proprio spegnersi: lo sguardo perso nel vuoto, il petto che non si alzava e abbassava più al ritmo del suo respiro, le braccia abbandonate lungo i fianchi, lasciò persino cadere lo scettro a terra!

“Adesso o mai più”.

Senza indugiare, Harmonia vi si gettò sopra intenzionata ad afferrarlo.

Tempo di sfiorarlo con le dita, e Phobos -improvvisamente ripresosi- fu più veloce di lei nel raccoglierlo; i loro sguardi si incrociarono solo un istante, quello che bastò alla donna per notare come sotto l’occhio destro gli fosse comparsa dal nulla la sagoma di una mezzaluna nera, identica a quella di… oh no.

Messo al sicuro il bastone, l’uomo si guardò il corpo con aria perplessa qualche istante, squadrando e annusandosi gli abiti con aria schifata.

«Mannaggia a Manny, puzzo d’alcol da fare schifo!» esclamò sorpreso.

Schioccò le dita, e gli abiti da danzatrice del ventre vennero sostituiti da una camicia bianca e da un elegante completo damascato blu violaceo. Se lo aggiustò addosso, compiaciuto.

«Decisamente meglio».

Si girò verso la sovrana e, con tutta l’educazione del mondo, si esibì in un lungo inchino.

«Avrei preferito porgere i miei personalissimi omaggi alla Regina di Phantasia faccia a faccia, ma purtroppo le antiche magie che mi tengono chiuso nel Palazzo di Mezzanotte mi impediscono anche solo di mettere piede fuori di casa. In ogni caso» le prese delicatamente la mano, baciandogliela da vero gentiluomo «rivederti è un onore tutto mio, Harmonia: sono passati sette secoli dal nostro ultimo incontro, ma noto con piacere che risplendi ora più che mai della stessa bellezza che illuminava il dolce volto di tua madre. Quand’era viva, s’intende» rise.

«Suppongo di stare parlando con Apophis il demone, se fai riferimento ad episodi vecchi di millenni antecedenti alla nascita di Apophis il Lunanoff» sempre sorridendo, ritrasse la mano «o meglio, Tsar Alexander Lunar XIII».

«Dodicesimo, prego, ti ricordo che mio fratello mi ha rubato anche il numero in linea di successione, oltre che i poteri» precisò quasi infastidito «ma non te ne faccio una colpa, non temere: quando tornerò a sedere sul trono lunare, allora sentirai talmente tanto spesso il mio nome che ci farai l’abitudine come tutti gli altri, è solo questione di pazientare. E io so essere molto paziente, mia regina, moltissimo».

Si legò i capelli in una coda bassa sulla nuca.

«Rispondendo alla tua domanda beh, siamo la stessa persona da svariato tempo, io e il demone che ha sterminato la tua razza e quella del tuo amante nel giro di qualche minuto, ormai è talmente aggrappato al mio cervello che mi è assolutamente impossibile distinguere i suoi ricordi dai miei. Ma non è un problema: io gli offro ospitalità e lui in cambio mi dà il suo potere, un potere che ormai controllo come se fosse mio dalla nascita». Sfiorò appena un albero: un istante, e questo si sciolse in una cascata di lucidi serpenti neri. Ne pestò uno, stritolandolo sotto la scarpa finché non si ridusse in polvere «Come vedi, noi due conviviamo in un mutualismo perfetto, l’uno guadagna qualcosa dalla presenza dell’altro e viceversa. Tutto sommato siamo in ottimi rapporti» s’interruppe qualche istante, come a voler calcare la voce su quell’ultima frase «a differenza di come io lo sia con Phobos».

«Non stavamo parlando di-»

«Parlare di Phobos, parlare di me: che differenza vuoi che faccia? È sotto il mio completo e totale controllo, distinguerci l’uno dall’altro è inutile, superfluo, crudele… per te».

Voltò le spalle alla regina, iniziando a camminare e borbottare come se stesse intrattenendo un monologo, più che conversando con lei.

«Rinchiuso nel limbo della sua stessa mente» passò una mano sullo scettro, un liquido nero che iniziò a trasudare dalle venature smeraldo, inerpicandosi sulla sommità dello stesso sfidando la gravità «totalmente incapace di gridare il proprio dolore al mondo esterno» lentamente, una massa informe iniziò a gorgogliare sulla punta del bastone, andando aggregandosi «impossibilitato a ricordare, perché effettuo dei reset quotidiani sui quei pochi -ma faticosamente guadagnati, glielo riconosco, s’impegna più di quanto facesse da vivo!- pezzi appartenenti al puzzle di una vita che, ormai, non è che un passato nebuloso e frammentato» quando smise di modellarsi, la sagoma di un sole oscurato da una mezzaluna aveva sostituito l’estremità liscia dell’artefatto.

Lo saggiò girandoselo e rigirandoselo nelle dita, osservandolo soddisfatto.

«Anche in questo preciso istante sta lottando, sai? Non si arrende mai, l’ultimo principe Chronalion ancora in vita, combatte contro il parassita che si è insinuato nella sua mente giorno e notte, ininterrottamente, tentando di riprendere il controllo sulla propria coscienza come se fosse ciò che di più importante ha al mondo» si fece pensieroso «e in effetti immagino sia proprio così, dal momento che vi conserva dentro i ricordi di quasi seimila anni al tuo fianco: la morbidezza della tua pelle, il profumo dei tuoi capelli, il calore del tuo corpo nudo vicino al suo stretti nelle lenzuola. Se la passava bene, il ragazzo, non credi?»

Harmonia non rispose, impegnata com’era a mantenere quella parvenza di normalità per nascondere l’incredulità: aveva passato sette secoli convinta di aver perduto per sempre l’uomo che aveva amato per una vita intera, e adesso cosa scopriva? Che era ancora vivo.

Sepolto sotto strati e strati e strati di torture psicologiche che non osava nemmeno immaginare, ma Phobos c’era, c’era! Poteva ancora salvarlo!

S’impose di contenersi: doveva restare concentrata sul proprio obiettivo, adesso; se si fosse trovata davanti al dover scegliere fra l’ucciderlo -e quindi perderlo una volta per tutte- e il condannare la propria gente, allora non avrebbe dovuto esitare nemmeno un istante a scegliere la prima opzione.

Aveva un regno, una donna che amava alla follia e una vita faticosamente ricostruita al suo fianco, non avrebbe gettato via tutto questo per rincorrere un fantasma.

«Intendi rispondermi oppure vuoi fare la bella statuina, uh?» la canzonò l’altro, seccato.

Tirò un profondo respiro: non l’avrebbe mai fatto, no.

«Mi scuso per averti fatto attendere ma vedi, stavo solo riflettendo su di una cosa».

«Ah sì? E su cosa, mia regina?»

«Qualcuno mi ha detto che le guerre si vincono con i fatti e non con le belle parole, e -sebbene quando me lo disse non fossi d’accordo- credo proprio che quel qualcuno avesse ragione. Non so quali siano i tuoi piani e non voglio nemmeno saperlo, ma una cosa posso assicurartela, Alexander» allargò le ali, il corno che prese a baluginare di scintille argentate e la magia che già scorreva prepotente nelle venature semi-trasparenti sulle stesse «non permetterò in alcun modo che finisca nello stesso modo in cui è finita sei millenni fa».

Phobos -o chi per lui- non parve per nulla impressionato da quelle parole. Semplicemente, poggiò lo scettro al suolo.

«Dimostralo».

Un movimento deciso, e lo conficcò nel terreno finché non vi affondò dentro quasi completamente, solo la mezzaluna visibile fuori da terra.

Immediatamente, una fitta rete di venature si diramò tutt’intorno ad esso, sottili crepe che correvano veloci in ogni direzione spaccando la roccia e sventrando la terra e aprendo immani crepacci lì, nella radura dove si trovavano, dall’altro lato del fiume, nel fitto del Tauremorna, e poi là, sempre più in là, fino a raggiungere il confine estremo di Quetzalli. Una, due, tre, quattro, cinque, dieci forti scosse, una dopo l’altra, una più forte dell’altra, una scossa continua evolutasi in un terremoto talmente devastante da star facendo ondeggiare le acque calme del fiume, da stare incrinando quei millenari tappi di roccia che impedivano ai mostri d’ossidiana di destarsi dal loro antico sonno.

Silenzio.

Quando però il terremoto raggiunse i piedi della cintura di fuoco della città d’oro, un boato detonò nell’aria con potenza tale da essere udito dall’altra parte del pianeta.

L’intera cintura di vulcani intorno alla città esplose, eruttando nell’aria bollente sciami di lapilli e cenere e rocce arroventate le cui dimensioni andavano da quelle di un chicco di riso a quelle di una palla da bowling, una cascata nera che andò oscurando la fioca luce dei Soli che tanto aveva faticato a fare capolino nella tempesta scatenata da Madre Natura. Come spinta da una sotterranea forza invisibile, la lava non si fece attendere: fiumi di magma incandescente iniziarono a sgorgare da quelle bocche che parevano rifornirsi direttamente dall’inferno, riversandosi sui pendii del vulcano di appartenenza e scivolando sui fianchi dello stesso placidamente, senza fretta, facendosi strada fra i massi e gli alberi e gli strapiombi a suon di detriti rotolanti e fiamme.

Pochi minuti, e l’intero regno delle Ophidians si trovò circondato da un anello di fuoco che andava sempre più espandendosi, stringendo le sue abitanti in una morsa fatale.

Con lo sguardo perso nelle fiamme, Harmonia lasciò cadere le armi a terra: no, no, no, no, no! Non poteva stare succedendo per la seconda volta! Non stava davvero fallendo di nuovo nel proteggere la propria gente! Non stava sopravvivendo a tutti ancora! No! No! NO!

Phobos le si avvicinò in silenzio, ponendosi al suo fianco a osservare l’orizzonte.

«Se rimarrai qui e lascerai bruciare la tua gente, allora ti prometto da oggi fino a quando le stelle si spegneranno» si portò un dito sul cuore, disegnando su di esso la sagoma di una mezzaluna che scavò l’abito, la camicia, fino a imprimersi sulla pelle come un marchio, segno del giuramento «che libererò il corpo del tuo amante e mi lascerò uccidere senza opporre alcun tipo di resistenza: sarai l’eroina delle Costellazioni, ma non avrai più un popolo da governare».

Si voltò.

«Altrimenti puoi sempre correre da loro prima che la lava li raggiunga, ma in quel lungo lasso di tempo io sarò già fuggito, e un altro tassello della profezia che pende sulla tua testa sarà al proprio posto. La scelta è solo tua» concluse.

Senza esitare, Harmonia volò via.

 

 

---

 

 

Fiamme, fiamme ovunque volgesse il proprio sguardo.

Stava avviandosi verso l’entrata della città come indicatole da Antares, quando Myricae -sentito un tremendo boato- aveva avuto la pessima idea di alzare gli occhi: i vulcani stavano eruttando, e lei era lontano da tutte le persone con le quali avrebbe voluto passare i propri ultimi istanti di vita.

Fuggire era impossibile: l’anello di fuoco impediva qualsiasi spostamento via terra, cenere e lapilli e rocce ardenti avrebbero ridotto a uno scolapasta qualsiasi tipo di ala piumata o membranosa di chicchessia avesse voluto scappare via aerea, e la lava che riempiva i fiumi -grazie a ponti di magma solidificato che andavano formandosi su di essi, permettendo a quello fresco di scorrervi sopra- rendeva impraticabile l’attraversamento degli stessi. Oltre a tutto ciò, l’aria era ormai talmente calda da risultare irrespirabile, e solo le colline come quella dove si trovava lei offrivano un certo riparo dalla calura.

Per ora.

Un amaro sorriso si dipinse sul suo volto: le Ophidians si erano costruite una gabbia dorata per “proteggersi dal mondo esterno”, e ora quella stessa gabbia sarebbe stata la loro condanna a morte.

La sua parte rancorosa non provava affatto pena per loro, pensando che se la fossero cercata e che dovessero pagare le conseguenze del loro egocentrismo o deficienza che fosse; la parte migliore di sé, invece, quella più magnanima e disposta al perdono, le gridava che doveva fare qualcosa: le avevano fatto del male, ma restavano pur sempre la sua gente.

Proprio quando quest’ultimo suo lato stava per avere la meglio, la Myricae più realistica e obiettiva prese parola: voleva intervenire e salvare tutti, ma che diavolo avrebbe potuto fare lei?

Harmonia doveva essere in città da un pezzo, ormai, forse aveva anche già affrontato Madre Natura, e se avesse potuto rimediare lo avrebbe certamente fatto senza pensarci due volte; a giudicare dalla lava che continuava a colare, dal fumo sempre più nero e dalle scosse che andavano crescendo d’intensità e durata, però, ciò non era accaduto.

“E se non c’è riuscita lei, allora non posso certo sperare di riuscirci io”, si disse.

Rassegnata e piena di vergogna per la propria inutilità, si voltò per andarsene… o almeno ci provò, dal momento che una sagoma incappucciata le corse incontro a tutta velocità, scontrandosi con lei e facendola capitombolare per terra mezza ingarbugliata.

Dopo una lotta infinita con il losco figuro per districare più di dieci metri di coda, Myricae riuscì a rialzarsi; lancia alla mano, puntò l’arma sotto al mento dell’intruso. Senza opporre alcuna resistenza, quello alzò le mani in segno di resa.

Lentamente, fece scorrere la punta acuminata sull’estremità del cappuccio, scoprendolo: una cascata di capelli verde acqua si riversò fuori dallo stesso.

«… Amira…?» strabuzzò gli occhi, tanto stupita quanto incredula «Sei… viva?»

«Non ci vediamo da appena sette secoli e voi mi credete morta? Ma che comportazione è mai questa?!» squittì sorpresa la schiava, alzandosi ed esibendosi in una curiosa posa stile “Urlo” di Munch «Ho solamente settecentoquarantasettemila e novecentrotrentadue anni, Miulë Myricae, sono nel pieno del mio stadio embrionale! Piuttooostoooo…»

Senza preavviso, le si lanciò al petto peggio di prima, iniziando ad abbracciarla e stringerla con quanta forza avesse in corpo.

«Siete voi ad essermi mancata tipo TANTOCOSì! Giurin giurella! Credevo non di rivedermi piùissimamente!» come se fosse la cosa più naturale del mondo, le fiondò la testa in mezzo al seno «AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAWWWete! Sono ancora più morbide morbidissime di quanto ricordassi da che vi massaggiavo tuttecoseH dopo il bagno! Si vede che le strizzate per bene tutti i giorni! E le squame sono così lucide lucidissime che potrei specchiarmici dentro! Lasciatemi controllare anche il vostro pen-»

«Sì, sì, sono contenta pure io, sono contenta pure io!» non senza fatica, sgusciò fuori da quella presa che stava soffocando i suoi poveri serpenti. Le mise le mani sulle spalle, tenendo a distanza lei e quelle sue maledette grinfie che s’infilavano ovunque «Cosa ci fai qui?»

«Uh?» la guardò stranita qualche istante «Ah, sì! Stavo cercando vostra madre Airë Tári Phentesilea, in realtà, non credevo di trovarvi».

«Mia madre?»

«Lei, sì: è partita per la sua consueta preghiera al tempio a pregare qualche ora fa insieme a due nuove concubine, ma non è ancora tornata. Dal momento che di solito non ci mette tanto, ho voluto raggiungerla, pensando che magari avesse bisogno di qualcosa o si fosse sentita male e le altre ragazze non sapessero cosa fare e come farlo. Quando sono arrivata però…» fece un profondo respiro «… il tempio era quasi completamente crollato, e della regina non c’era alcuna traccia. Tutto ciò che ho trovato è stata una specie di sfera di rovi e una grossa Sylkes priva di-»

«Una Sylkes?»

Annuì.

«… Allora quel bastardo di Phobos è riuscito a scappare…» rifletté ad alta voce.

«Phobos?»

«È una lunga storia, Amira, lunghissima. Se ne usciremo vive allora te la racconterò, ma fino ad ora è meglio se-»

Una tremenda esplosione la interruppe.

Con le orecchie che ancora fischiavano, alzarono entrambe il naso al firmamento: l’aria stava andando a fuoco.

Letteralmente.

Rocce infuocate grandi quanto elefanti iniziarono a piovere dal cielo, comete dalla coda fiammeggiante che squarciavano le nuvole nere cosparse fai fulmini e ricadevano a terra aprendo profonde ferite sul volto del regno di Quetzalli, ferite che avevano l’aspetto di giganteschi crateri che bruciavano l’erba e vetrificavano il terreno e sradicavano di prepotenza qualsiasi cosa o persona che si trovasse sulla loro traiettoria; in lontananza, le grida delle Ophidians iniziarono a riempire l’aria assieme all’acre odore di zolfo.

Myricae strisciò fino all’estremità della collina, indecisa se gettare o meno il proprio sguardo in basso: sapeva già cos’avrebbe visto, perché torturarsi? Dopo infiniti attimi di profonda indecisione, si sporse.

E vomitò l’anima subito dopo.

Con la puzza della carne bruciata che le assaliva le narici lasciandola senza fiato e il conseguente disperato tentativo di catturare l’ossigeno che le sfuggiva dalla bocca aperta per la sorpresa, un attacco di panico s’impossessò delle membra della generalessa di Phantasia, immobilizzandola: non si muoveva, non batteva ciglio, sembrava che nemmeno respirasse. Nella sua mente, l’immagine dei cadaveri delle sue madri si palesò in modo talmente vivido che per un attimo credette che non fosse solo fantasia.

Ingannata dai propri occhi, Myricae si allungò verso lo strapiombo chinandosi per raggiungere i loro corpi esanim-

«ATTENTA!»

Un nanosecondo di ritardo da parte di Amira nel lanciarsi su di lei per scansarla, e la colossale roccia caduta dinanzi a lei l’avrebbe ridotta a una frittella bruciacchiata.

Ancora a terra, la osservarono entrambe confuse.

«Una… testa di serpente?» domandò la serva.

Dall’altra non provenne alcuna risposta.

Semplicemente, la naga si alzò, offrì una mano alla concubina perché si alzasse a sua volta e la portò qualche passo più in basso sulla collina, dove -per un gioco di prospettiva- gli alberi si diradavano a sufficienza da lasciar vedere le montagne più alte; lì, le indico un punto preciso.

Aguzzando la vista, Amira rabbrividì: l’entrata della città era quasi completamente collassata su se stessa, un fiume di magma incandescente che stava inondando a velocità disarmante non solo il terreno intorno al regno, ma persino al di fuori di esso! Di quel passo, anche la corte di Phantasia avrebbe bruciato.

A quel pensiero, Myricae tornò lucida: passa per il torturarla, passa pure per l’incendiare Quetzalli per vendicarsi, ma guai a toccare il nido suo e della sua donna.

Guai.

Mossa dalla ritrovata intenzione a fare qualcosa -non sapeva precisamente cosa, ma ci avrebbe pensato durante il tragitto-,  lasciando la schiava a contemplare quell’inferno, la serpentessa dalle squame smeraldo strisciò verso un piccolo tunnel scavato da qualche animale sotto le foglie: se suoi calcoli fossero stati esatti giusti, allora sarebbe spuntata nel cuore del Tauremorna, se fossero stati sbagliati… nah, meglio non pensarci.

Quatta quatta, in silenzio, vi s’infilò dentro non senza una certa fatica. Nemmeno a farlo apposta, l’altra la notò.

«State fuggendo?»

Sorrise.

«Sto andando a salvare il mondo», e sparì sottoterra.

 

 

---

 

 

La mano di Phentesilea le sfiorò le ali, sangue dorato che colava dalle venature sulle stesse per il massiccio -e inutile- utilizzo di magia fatto fino a quel momento.

«Hai fatto il possibile, non è colpa tua se non basta».

Quante volte erano intenzionate a ripeterglielo, quel dannatissimo “non è colpa tua”? Ovvio che fosse colpa sua, di chi altri avrebbe potuto o dovuto essere?! Phobos ed Emilia del resto si stavano solo limitando a fare i cattivi che erano, era lei che scarseggiava nel suo ruolo di buona!

Aveva mormorato incantesimi antichi quanto il mondo e utilizzato fino all’ultima stilla di magia che le scorreva nelle vene, per tentare di interrompere l’Apocalisse, persino Alice aveva mosso i diggerwurm nell’entroterra perché facessero da barriera fra il magma incandescente e le abitazioni, ma nulla di tutto ciò aveva avuto un effetto differente dal rallentare la sua avanzata, più che fermarlo definitivamente.

Quando poi i detriti avevano iniziato a cadere come asteroidi, il panico generale aveva investito anche lei.

Era stata tentata di farla cadere, quell’ultimissima barriera sotto la quale si trovavano gli harem e tutta la popolazione di Quetzalli, congedarsi e lasciare che la fine abbracciasse quel pianeta com’era accaduto seimila anni prima, specie perché -considerando quanto tutto ciò le stava costando in termini di energia- sarebbe stata comunque questione di tempo prima che crollasse da sola, o che lo facesse sotto i colpi incessanti delle rocce che l’avevano già ben più che incrinata.

Non erano nemmeno d’aiuto le parole di conforto delle regine, che la rassicuravano dicendole dirle che non era colpa sua, che aveva fatto tutto il possibile, che nessuno le avrebbe mai rimproverato nulla, non erano d’aiuto perché non era vero, che aveva tentato tutto-tutto: avrebbe potuto restare e spezzare lo scettro di Madre Natura, anziché correre in loro soccorso, e non l’aveva fatto.

Non l’aveva fatto.

Non se n’era pentita, sul momento, mai avrebbe abbandonato la propria gente a morire senza stare in prima linea a difenderla, ma -ora come ora- iniziava a chiedersi se la sua fosse stata la scelta giusta.

Con la coda dell’occhio, scrutò i volti delle Ophidians intorno a lei: dalle concubine che da secoli servivano la loro regina alle ultime catturate, dalle leggendarie Airë Tári del Calaciryandë alle Miulë più inesperte, dalle naga solitarie alle genitrici con le proprie neonate attaccate al seno che piangevano, tutte loro erano terribilmente spaventate, terrorizzate, sfiduciate che potesse esserci una qualche speranza di uscirne vive.

E anche lei lo era. Tantissimo.

A vedere quella scena, con le madri che tentavano disperatamente di essere forti per le loro stesse figlie, la mente non poté che andare all’ultimissimo ricordo che aveva della propria, di madre: aveva appena perso suo marito, il compagno di una vita che aveva amato con tutta se stessa e l’amico migliore che avesse mai avuto, eppure con lei non si era mostrata debole nemmeno per un istante, nemmeno per un secondo. Aveva continuato a sorridere, lo aveva fatto anche quando -essendo loro due le sole Starequus rimaste in vita al massacro, protette dal cadavere di quel re caduto che fino a poco prima era stato suo padre- Apophis l’aveva catturata e torturata e le aveva strappato mezza ala di fronte alla sua bambina, e aveva sorriso anche quando erano fuggite insieme verso solo la Dea Senza Sudditi sapeva dove.

Poi quella figlia per la quale continuava ad essere così forte era morta, e allora quel sorriso era scomparso insieme a lei.

Non aveva visto sua madre morire, ma di certo la stessa sorte era toccata anche alla regina dal momento che, una volta riportata in vita, tutto ciò che la Sovrana delle Galassie le aveva detto era stato un semplice “Sei l’ultima Starequus”, un modo breve e conciso per dirle “Sei rimasta sola al mondo, sola nella galassia, sola nell’intero cosmo, non hai più nessuno”.

E ora quella frase rischiava di doverla dire lei a una qualche piccola Ophidians.

A quel pensiero, guardò Hippolyta e Phentesilea, finalmente riunite l’una fra le spire dell’altra: erano così serene, così tranquille, a vederle nessuno avrebbe detto mai pensato che si stessero abbracciando anche e soprattutto per consolarsi a vicenda in quel momento di sconforto, di paura, di consapevolezza che -dopo averla ritrovata- forse non avrebbero più rivisto la loro bambina. Esattamente come lo temeva lei.

Non sapeva dove fosse Myricae, ma anche se l’avesse saputo era cosciente che andare a salvarla avrebbe condannato tutte le altre: se l’avesse fatto, se fosse corsa a salvare la sua donna anziché le Ophidians, allora la sua partner stessa non gliel’avrebbe mai perdonato. Se ci fosse stata lei al suo posto, probabilmente le avrebbe detto di fregarsene della sua persona e di combattere finché i suoi polmoni avessero continuato a espandersi e rilassarsi, il suo cuore a battere, il suo cervello a suggerirle modi tanto disperati quanto improbabili per sopravvivere.

“Faremo a modo tuo, allora”, si disse accennando un sorriso.

Si toccò il corno, ancora bollente per tutti gli incantesimi evocati: aveva ancora un po’ di magia di riserva, avrebbe dato fondo anche a quella prima di alzare bandiera bianca.

Issandosi sulla propria lancia, si rimise in piedi; scordandosi delle gambe che parevano gelatina e la testa che pareva sul punto di scoppiarle, tese le mani dinanzi a sé e chiuse gli occhi, concentrandosi per richiamare quel poco di forza rimastole in corpo per sferrare un altro paio di incantesimi. Rimase in quella posizione a lungo, ma si rese presto conto che non stava riuscendo a raggiungere la concentrazione necessaria: mentre sgombrava la mente, di sottofondo sentiva come un mormorio indistinto aleggiarle nelle orecchie disturbandola.

Si rivolse verso le serpentesse.

«Potreste cortesemente fare silenzio?» chiese loro gentilmente, cercando di non sembrare troppo brusca.

Si scambiarono fra loro sguardi confusi, poi piantarono i loro occhi su di lei.

«Hai le allucinazioni, tesoro, perché nessuna di noi ha parlato» asserì acida Antiope, proclamandosi portavoce delle sue simili.

Ora era Harmonia a fissarle sbalordita: non era pazza, o almeno sperava di non esserlo.

 

“Rithannen i geven
Thangen i harn
Na fennas i daur!”

 

«Cosa?»

«Come?»

«Avete detto qualcosa?»

«Insisti ancora? La gweriadir che ti porti in giro te lo ha forse sbattuto talmente tanto nelle orecchie da averti mosso il cervello, reginella?»

Cielo, quanto avrebbe voluto staccarle la lingua biforcuta dalla gola!

Per il bene della propria reputazione, decise di fingere di non aver sentito la frecciatina della tanto temuta Airë Tári. Si sforzò di sembrare calma, calmissima.

«Avete parlato sì o no?» ripeté alzando la voce.

Tutte scossero la testa.

Avanti, non era pazza! No che non lo era! Questa volta l’aveva sentito forte e chiaro, quel suono, aveva udito delle voci vere e proprie e non solo dei brusii indistinti, era fottutamente impossibile che nessun’altra ci avesse fatto caso!

Un rapido movimento della mano, e lo scudo da lei evocato si assottigliò lievemente: se ora si fosse sentito qualcosa, allora non sarebbe stata l’unica a sentirlo.

Mai come ora sperava che qualcuno confermasse le sue parole.

 

“Ôl dûr ristannen
Eryn echuiannen
I ngelaidh dagrar!”

 

Improvvisamente, una piccola Ophidians dalle squame rosate alzò una mano.

«Io signora ho sentito qualcosa» sussurrò.

Eccheccazzo! Vedi che non sei allucinata? Vedi che non sei l’unica? Lo sapevo io che… che sto parlando da sola, per l’amor della Dea Senza Sudditi, vabbè”.

Le si avvicinò, accovacciandosi alla sua altezza.

«Cosa ti è parso di sentire, piccola?»

«Ophidiano. Parlanono la nostra lingua. Hanno detto qualcosa sugli alberi».

«Gli alberi?» alzò un sopracciglio sorpresa.

«Gli Aldar, gli alberi del Tauremorna. È una canzone che la mamma mi ha letto prima di andare a dormire su un libro delle favole, “L’ultima marcia degli Aldar”».

«Di cosa parla questa canzone?»

«Della guerra, signora» rispose con naturalezza agghiacciante.

Tutt’intorno tacque.

«È una bella favola, tesoro mio, ma è una favola e nulla di più» intervenne l’altra genitrice, imbarazzata «Nessuno ha mai visto gli Aldar muoversi, la foresta è sempre stata in quella posizione».

Suo malgrado, Harmonia dovette darle ragione: aveva seimila anni, e mai in quel lunghissimo lasso di tempo aveva visto alberi spostarsi o cantare o fare le piroette; non metteva in dubbio che creature magiche del genere potessero esistere, ma -se così era- lei non ne aveva mai fatto la conoscenza.

 

“Ristar thynd, cúa tawar
Dambedir enyd i ganed!
Si linna i waew trin ylf
isto i dur i chuiyl!
I ngelaidh dagrar!”

 

“A me queste voci non sembrano poi tanto una favola, però” pensò la Starequus, allarmata: qualsiasi cosa stesse parlando, reale o meno, era vicina. Vicinissima.

E dagli sguardi inquieti delle Ophidians non sembrava l’unica a pensarlo.

«Ma ti dico che sono veri!» insistette la bambina «Non li abbiamo visti muoversi perché stavano aspettando il momento giusto, ma adesso quel momento è arrivato!»

«Hai una fervida immaginazione, cucciola, ma adesso basta» la madre si fece avanti, prendendola in braccio nonostante le proteste «Stai facendo preoccupare tutte, non è affatto una cosa carina da fare».

«Ma non li ho immaginati! Loro esistono davvero!»

«Ho detto-»

«Guarda!» indicò un punto perso nelle alture intorno all’entrata della città. Ovviamente, tutti gli sguardi si spostarono in quella direzione.

Le voci -che da lì parevano provenire- diventarono sempre più forti, sempre più nitide, sempre più numerose, fino a quando non diventarono un coro così intenso da scuotere la terra e far cadere i frutti dagli arbusti. Colossali figure allungate dalle mille sottili braccia fecero capolino all’orizzonte, i contorni che andarono delineandosi man mano che si avvicinavano alla valle: alberi. Aldar.

A dominare la scena dalla rupe più alta, Myricae.

“Myricae?!”

In quel momento, Harmonia sentì un principio d’infarto pervaderle il petto, non si sapeva per la contentezza di rivedere l’amata o per la sorpresa o per la voglia di prenderle a calci lo squamoso fondoschiena: cosa stracazzo ci faceva lì? Come stracazzo c’era arrivata? Dove stracazzo si era ficcata fino ad ora? Perché stra-

«Cosa vi avevo detto? Esistono!» squittì la bambina, fiera e impettita, interrompendola.

Come rispondendo alla lancia che l’Ophidian aveva alzato al cielo, i guerrieri assopiti del Tauremorna continuarono a discendere dalle colline ordinatamente, in fila indiana, divisi in due gruppi che aggiravano a destra e sinistra il vulcano collassato -ovvero la porta di Quetzalli- così che il magma non ghermisse le loro radici; anche quando ciò accadeva, però, semplicemente continuavano a camminare imperterriti, inviolabili nella serietà di quei volti scavati nella corteccia da nodi e termiti: erano stati chiamati, e portare a termine la loro ultima marcia era un dovere che trascendeva qualsiasi sacrificio.

Quando tutti quanti ebbero raggiunto la pianura, migliaia e migliaia di chiome di ogni forma e colore e dimensione si voltarono all’unisono verso la l’anello di fuoco che circondava la città; allungarono i rami l’uno verso l’altro per unirsi come una catena, poi levarono un ruggito al cielo: allora, e solo allora, iniziarono a risalire i vulcani.

Con le radici forgiate da millenni di immobilità e indurite dalle fiamme piantate nella nuda roccia, continuando a intonare ad alta voce il loro canto da guerra, gli Aldar scalarono compatti gli impervi pendii delle montagne senza mai arrestarsi o retrocedere quando uno di loro cadeva, scavando il suolo e riducendo in frantumi qualsiasi masso gli si presentasse davanti; nel momento in cui le basi dei loro tronchi uniti in uno solo furono finalmente piene di detriti e terra, allora anche la lava -incontrato quel muro impenetrabile- fu costretta a retrocedere.

Spinsero indietro il magma incandescente per così tante decine e decine di metri da sembrare che le cime di quell’anello di fuoco fossero distanti anni luce da loro, ma ad ogni metro che avanzavano era evidente che suddetta scalata si facesse sempre più lenta, sempre più difficoltosa, complici i corpi che stavano andando pietrificandosi.

Poi, un silenzio di tomba avvolse la città: gli Aldar avevano concluso la propria marcia.

Tutto ciò che rimaneva di loro, era una gigantesca muraglia dai colori dell’arcobaleno che si snodava lungo tutta la cintura vulcanica di Quetzalli, una barriera incurvata di legno percorso da ragnatele di crepe che -grazie al tremendo shock termico e alla pressione esercitata dai detriti- lasciavano intravedere il cuore d’opale di quelli che un tempo erano stati i mitologici guerrieri del Tauremorna, immobili e statuari tanto adesso quanto lo erano sempre stati.

Da parte sua, la lava continuava a sgorgare dai vulcani, sì, ma -a quella velocità- ci sarebbe voluto almeno un intero giorno perché riuscisse a straripare fuori da quel lunghissimo muro di legno opalizzato, e in quelle ventiquattro ore la questione Madre Natura sarebbe stata già bella che sistemata.

In teoria.

 

In pratica, ahimè, c’era da fare tutto fuorché festeggiare e adagiarsi sugli allori. O sugli Aldar, insomma.

 

Come se la montagna più grande dell’intera città avesse avvertito il fallimento dei propri fratelli minori, un lamento profondo simile a un ruggito si riversò fuori dalle sue viscere a squassare l’etere, un boato così assordante da stare aprendo la terra, spazzando via le creature di Madre Natura, incrinando ancora di più la già fragile barriera.

Intanto, il livello dell’incandescente brodo primordiale contenuto nella caldera quasi completamente collassata iniziò ad aumentare di più, sempre di più, fino a quando non finì per straripare rovinosamente dal muro di legno opalizzato; sulla sua superficie, gigantesche bolle di magma e roccia fusa che si gonfiavano e scoppiavano e si rigonfiavano al ritmo delle scosse che parevano provenire dalla terra sotto il vulcano, bubboni dai colori dell’inferno che lanciavano nell’aria tonnellate e tonnellate di rocce fuse e meteoriti infuocate e gas venefici talmente scuri e compatti da non riflettere nemmeno la poca luce proveniente dall’ambiente esterno. Pochi minuti, e Quetzalli si trovò avvolta in un velo più nero delle profondità del cosmo.

Allora, tutto parve congelarsi.

Una surreale quiete calò come una cappa di piombo sulla città, un clima di silenzio e calma piatta nel quale -aguzzando l’udito- si sarebbero potuti udire e contare uno per uno persino i battiti del cuore che martellava il petto della Regina di Phantasia, immobile come tutto intorno a lei.

Poi, un lamento profondo simile a un ruggito squassò l’aria.

Dinanzi all’onda d’urto di quel tremendo boato, la terrà si spaccò, le creature di Madre Natura vennero spazzate via come fuscelli da un tornado, la già pericolosamente fragile barriera divenne una cupola scricchiolante percorsa da ragnatele chiare.

Una spaventosa esplosione, e della montagna non rimase che un enorme cratere: all’interno di esso, emerso dalla cenere e dalla nebbia come un cadavere lì seppellito, un colossale leone di magma che trasudava lava dalle zanne d’ossidiana, dalle fenditure fra le rocce che costituivano il suo immenso corpo scuro, da quell’informe ammasso scoppiettante di fuoco e fiamme che si protendevano con prepotenza nell’aria bollente che era la criniera.

Aprì i propri brillanti occhi gialli, e Harmonia capì che quello sguardo era diretto a lei e lei soltanto: era una creatura di Phobos, quella, cos’altro avrebbe dovuto aspettarsi?

Che si muovesse, magari.

“Merda”.

Nonostante il panico e la paura e la consapevolezza di non avere più certezze, la Starequus riuscì comunque a fare chiarezza nella propria mente, così da tirare il punto della situazione: era allo stremo delle forze, aveva quasi esaurito il proprio repertorio di incantesimi, il suo scudo avrebbe ceduto al prossimo minimo tocco condannando l’intera città e la sua popolazione, c’era un felino fiammeggiante alto decine di metri che stava incendiando qualsiasi cosa sulla quale posasse le proprie zampe che avanzava nella sua direzione e, tanto per cambiare, la sua donna era proprio dove- oh cazzo.

Rendendosi conto che la collina doveva aveva visto Myricae era la stessa crollata insieme al vulcano, alzò lo sguardo: dell’Ophidians non c’era più traccia.

Una fitta le trapassò il petto come una coltellata, i polmoni che le si svuotarono tutto d’un tratto lasciandola senza fiato in gola: o era scappata, o era morta.

Tirò un profondo respiro: si ricompose, chiuse gli occhi e tornò a mormorare le proprie magie imperterrita, solerte, dedita ai propri doveri di regina. Il leone in rapido avvicinamento non la spaventava, non più dell’idea di aver perso l’altra metà della mela, del cuore, dell’anima: era già vissuta più a lungo della propria gente, sarebbe sopravvissuta anche a lei?

Il suo cervello le gridò la risposta.

Non lo volle ascoltare.

 

 

---

 

 

Gettò la lancia per terra.

Su un’altura a strapiombo sul magma sottostante, davanti a sé, Phobos, scettro alla mano e frecciatine pronte da sputare come veleno sulla lingua.

Sul volto, un sorrisetto beffardo che significava solo una cosa: al contrario di una povera Emily Jane con gli occhi fuori dalle orbite e la mandibola per terra, lui non era rimasto per nulla impressionato dallo spettacoluccio degli Aldar, probabilmente perché -col suo enorme felino di fuoco- ne aveva messo in piedi uno decisamente più interessante, più pericoloso, più letale.

Prima ancora che Myricae fosse sufficientemente vicino da poter essere sentita, il rosso già aveva avvertito della presenza. Non si era girato, ma aveva assunto un’aria corrucciata.

«Noto che sei ancora viva» asserì con tono contrariato.

«Un colpo di fortuna» fece spallucce lei «niente di più e niente di meno. Non avevo un piano di riserva per scappare in caso di pericolo, ma Quetzalcoatl deve finalmente avermi notata e aver deciso di darmi una zampa, facendomi ruzzolare in una buca quando l’onda d’urto ha colpito. E poi non volevo né potevo privarmi del piacere di venire a spaccarti quel tuo dolce visino di persona, sarebbe stato scortese lasciare il lavoro a metà».

«No di certo» convenne l’altro, ridacchiando «ma temo che tu sia in ritardo, tanto per tagliarmi la gola quanto per salvare tutti quanti. È sicuramente stato un nobile sacrificio, quello dei tuoi amici ramoscelli, tanto ingegno mi ha addirittura piacevolmente sorpreso, ma devo confessarti che è stato anche totalmente inutile: un mio schiocco di dita» imitò il gesto «e un paio di placche tettoniche si scontreranno seduta stante, aprendo un nuovo Abisso che inghiotta tutti questi ridicoli regni in un battito di ciglia. Non che ce ne sia bisogno, sia chiaro, il mio leone brucerà il pianeta prima di dovermi scomodare a fare tanto».

Finalmente, si voltò.

«Ho i miei poteri, e ora anche quelli di Madre Natura: come pensi di fermarmi?» domandò incuriosito «Come riesci a convincerti di poter spazzare via tutto ciò che ho creato con un potere che tu nemmeno puoi immaginare? Come credi di salvare te stessa, Harmonia, le tue madri, la tua gente, Exodus intera? Come puoi sperare di farlo proprio tu, una semplice Ophidians senza incantesimi né magia né capacità particolari, niente più che una grossa e fastidiosa biscia ermafrodita, uh?»

Allargò le braccia in segno di sfida.

«Come?»

Lei sorrise.

«Così».

Un rapido movimento per sgusciare via dalla vita di Madre Natura, e il serpente mozzatole dal capo si lanciò sulla mano del rosso, serrando le proprie zanne intorno ad essa; in una reazione istintiva e primordiale a quel dolore lancinante, Phobos aprì le dita.

 

E lo scettro gli scivolò nella lava.

 

Fu come lasciar cadere le tessere di un domino: i mostri si disfarono e dissolsero come sabbia portata via dal vento, le nubi nere di tempesta evaporarono in una pioggerellina delicata, le meteoriti piroclastiche esplosero a mezz’aria come fuochi d’artificio che colorarono la colorarono, la cenere venne portata via dalla rugiada per lasciare posto ai caldi raggi dei due Soli che rischiaravano il cielo ormai limpido, l’aria bollente finalmente tornò ad essere pervasa dal fresco e delicato profumo degli alberi in fiore.

Al leone di magma -ormai prossimo alla barriera che cadeva a pezzi- toccò la stessa sorte: partendo dalle zampe fino a salire su per il possente corpo in fiamme, poco a poco il fuoco che ardeva nelle sue viscere venne soffocato in un guscio di ossidiana; lanciò un ultimo possente ruggito, quando la pietrificazione raggiunse l’occhio fiammeggiante e lo spense, ma venne interrotto dalla roccia che s’insinuò nella sua gola.

Myricae non se lo fece dire due volte: raccolse la propria lancia, strisciò fino al fianco di un Phobos in stato catatonico e lì si fermò. Aguzzò la vista, caricò il braccio all’indietro e prese la mira. Infine, scoccò.

Un lungo fischio provocato dall’arma che fendeva l’aria, poi la statua nera s’infranse in mille e mille pezzi come fragilissimo cristallo.

Era finita. Finita.

 

Più o meno.

 

Nemmeno il tempo di tirare un sospiro di sollievo, infatti, e si trovò le mani del rosso strette intorno al collo.

«Maledetta puttana! Distruggerò il tuo fottuto pianeta! Raderò al suolo fino all’ultimo filo d’erba di questa città piena di ermafrodite ninfomani! E poi toccherà a quella della squilibrata bipolare! E infine al regno della tua troia, ma non prima che me la sia scopata! Oh, puoi stare certa che me la scoperò, lo farò eccome! Mi sbatterò pure tua madre, anzi tutte e due le tue madri! E mi assicurerò che tu assista, che mi caschi il cazzo se non ti farò guardare! Ti ridurrò a un ammasso di carne maciullata, e non potrai fare proprio nulla per impedirmelo! NULLA!»

Odiava ammetterlo, ma dovette dargli ragione: lei ci stava pure provando, a scollarselo di dosso, ma più tentava più si sentiva le braccia e la coda molli, di gelatina, come se non avesse più forza in corpo… e in effetti era proprio così.

Avrebbe tanto voluto dormire, non chiedeva altro: accendere qualche candela alla pesca, qualcuna al limone, acciambellarsi sotto le coperte calde insieme ad Harmonia, stringersela al petto, affondare il viso nei suoi capelli morbidi e chiudere gli occhi fino al mattino seguente, consapevole che, al risveglio, l’avrebbe trovata sempre lì al suo fianco. Andando avanti di quel passo, effettivamente gli occhi li avrebbe pure chiusi.

Per sempre, s’intende.

Una ginocchiata sul ventre per farla piegare, e Phobos la gettò a terra; le si mise a cavalcioni sull’addome, la presa sempre ben salda al collo ormai giallo e blu e viola che le premeva il capo contro l’orlo del precipizio.

Con la coda dell’occhio, la naga sbirciò sotto di sé: un lago di lava incandescente, ecco cosa l’aspettava se fosse caduta.

Nemmeno il tempo di voltarsi, e il suono del pugno dell’altro che impattava contro il suo zigomo le riempì le orecchie, credette quasi di avvertire ogni singolo frammento d’osso nel quale le aveva spaccato prima una guancia, poi l’altra, fino a quando il dolore era diventato talmente intenso da non avvertirlo nemmeno più.

«E questo è solo l’inizio! L’inizio! Ho in serbo cose ben peggiori per te!» le gridò contro il rosso, i suoi pugni che continuavano a cadere con violenza inaudita sul volto tumefatto.

In un disperato tentativo di liberarsi, Myricae allungò faticosamente una mano verso una roccia piatta e appuntita poco lontano da dove si trovava costretta; tese il braccio il più possibile, sentì persino la spalla lussarsi, ma non aveva importanza: era così vicina, così vicina!

Poi una stilettata corse veloce dalle sue dita all’arto intero fino al cervello, dove il dolore esplose con prepotenza immane. Piantato nella mano, un pugnale.

«Credevi davvero di potermi fottere? E invece!» ringhiò Phobos, girando e rigirando il coltello conficcato nelle carni dell’Ophidian.

Si chinò su di lei.

«Avrei preferito tenerti in vita per lo spettacolo che sarebbe venuto dopo solo per gustarmi la tua faccia nell’assistervi, ma vedo che non vuoi collaborare nel farmi passare la voglia di staccarti la testa qui e subito. Non sono paziente» afferrò l’arma e, con uno strattone, se la riprese «non ho tempo da perdere» fece scivolare l’altro braccio dal collo fino a sotto il mento della naga, così da poter vedere chiaramente le arterie affiorare sotto la sottile pelle della gola «e non ho nemmeno fiato da sprecare: me la sarei pure risparmiata, ma se la metti su questo spiacevole piano» puntando alla giugulare, alzò il braccio al cielo «allora non collaborerò nemmeno io!» infine, calò il pugnale.

Che si arrestò a mezzo centimetro dal collo dell’Ophidians.

Stretto intorno al polso del rosso, un viticcio rinsecchito che brillava di un malsano e opaco alone smeraldino.

Precisamente lo stesso che fluiva dalle esili dita della figlia dell’Uomo Nero: ritta in piedi qualche metro più in là, tremante, col fiato corto -non si sapeva se perché pentitasi dell’aver tradito chi l’aveva tradita, o per quanto quella magia recuperata nei meandri delle proprie vene le stesse costando in termini di energie- e un’espressione indecifrabile sul volto, un misto fra rabbia e terrore puro.

 

Al contrario, lo stato d’animo di Phobos era facilmente intuibile, a giudicare dallo sguardo omicida espresso dalle sue pupille ridotte a due infime fessure perse nell’oro.

«QUESTA DOVEVI RISPARMIARTELA! GIURO CHE TI-» non fece in tempo a terminare la frase, che si trovò la guancia scarnificata dalle affilate squame sul dorso della mano di Myricae.

Non seppe nemmeno lei dove riuscì a trovare la forza necessaria per sferrare quel pugno, per gettarsi addosso all’altro scambiandosi di posto e sovrastandolo, per stringerlo nelle spire mentre i suoi serpenti lo tenevano inchiodato al suolo, fatto stava che ci riuscì. Perse il conto dei pugni che gli aveva fatto cadere addosso, dei morsi che i suoi piccoli ofidi avevano dato al suo corpo fino a paralizzarlo, delle frustate con la coda con le quali gli strappò di dosso i vestiti e la pelle e la carne, perse il conto e non ci tenne a sapere da quanto tempo stesse andando avanti: lui non aveva avuto pietà per lei, per la sua gente, per il cuore di Harmonia, e nemmeno lei ne avrebbe avuta.

Quando di Phobos rimase solo un grumo insanguinato che borbottava bestemmie e pregava una certa “Barbie Platinata” di rifarsi viva, Myricae gettò lo sguardo sul pugnale scintillante del rosso, ad appena una manciata di centimetri da lei: a quella storia era stato posto un punto e virgola, sette secoli fa.

Senza nemmeno rendersene conto, si trovò a girarsi l’arma fra le dita, contemplando il da farsi: sì, era ora di metterci un punto.

Gli poggiò la lama in mezzo agli occhi: un punto fermo.

Era lì per affondarglielo nel cervello e mettere fine alle agonie sue e altrui, che uno scossone la fece sobbalzare. Abbassò lo sguardo: vuoi per tutti i terremoti della giornata, vuoi per le intemperie, vuoi per un colpo di sfiga, la roccia sotto di loro si stava sgretolando.

E -a giudicare dal sorriso sornione che aveva addosso- Phobos doveva averlo notato da un pezzo.

«Dovrefti vedere la tua faccia in quefto momento! Non ha affolutamente prezzo!» rise sputacchiando qualche dente «Cofa vuoi fare, generaleffa? Uccidermi e fchioppare pure tu, o lafciarmi andare e sopravvivere? In entrambi i cafi, dubito che la tua regina farebbe contenta, no che non lo farebbe!»

Myricae non rispose.

«Cofa c’è, il ferpente ti ha mangiato la lingua? Ah no, tu fteffa fei un ferpente!» la perculò.

Anche adesso, però, dalla naga non provenne nessuna risposta: era silenziosa, immobile, imperscrutabile, e lo era anche mentre lo spuntone roccioso dove si trovavano continuava a disgregarsi.

Al contrario, a vedersi letteralmente mancare la terra sotto i piedi, il rosso pareva un filino più preoccupato di lei.

«Intendi ftare lìa guardarmi con quegli occhi da pefce leffo, o vuoi deciderti a fare qualcofa? Non ti importa proprio niente niente niente che moriremo in due e lafcerai sola la tua donna? Non ti fenti nemmeno un pochiiiiino in colpa?» le domandò nervosamente dopo qualche istante di impaziente silenzio, come se il non aver ricevuto una risposta l’avesse colto di sorpresa. Tentò un altro approccio «Non ti vergogni di aver provocato tutto quefto cafino, uh? Hai fatto muovere l’efercito di Harmonia, hai provocato la morte di un fottio di perfone, ftai provocando l’eftinzione di un popolo che era fereno, prima del tuo arrivo. Ne fei fiera, forfe?»

Nulla, nada de nada, solo silenzio. Di nuovo.

A quel punto, la pazienza del rosso andò a farsi benedire.

Con uno scatto, afferrò due dei serpenti che l’Ophidians aveva sul capo, tirandola prepotentemente a sé.

«Parla! PARLA! PORCOILCAZZO DÍ QUALCOFA!» sbraitò iracondo, strattonandola «Parlami del tempo, delle mezze ftagioni che non ci fono più, della tua attività feffuale: dimmi qualfiafi fottuta cosa ma dilla! DILLA!»

Sorrise. Con tutta la calma del mondo, srotolò la propria coda dal corpo del nemico, si mozzò a malincuore le due bisce dal capo e, semplicemente, indietreggiò.

A vedersi liberato, il rosso la fissò allibito, sembrava la faccia di Phentesilea quando le aveva sentito bestemmiare il nome di Medusa dentro il tempio di Quetzalcoatl; si rimise in piedi, ma -anziché porgere attenzione a dove aveva i piedi- rimase incantato a guardarla stranito, confuso, pure un po’ gongolante: forse aveva deciso di arrendersi, forse aveva ceduto al suo charme, forse voleva tradire la sua regina e passare al lato oscuro!

Come risposta, Myrica alzò il dito medio.

«Fottiti».

 

Poi l’intero crostone roccioso sul quale si trovava Phobos collassò nella lava, trascinandolo giù nel magma incandescente insieme a migliaia di metri cubi di terra e pietre e alberi.

 

Incuriosita, strisciò sul bordo dello strapiombo per vederlo morire. Una timida quanto silenziosa Emily Jane la imitò.

Entrambe, però, ricevettero un’amara sorpresa: quando il suo corpo fu a pochi metri dalla morte fatta lava, una fiammata nerastra avvolse il rosso come un mantello d’oscurità, facendolo svanire nel nulla più assoluto.

A quella vista, la Pitchiner sbiancò.

«Tornerà per uccidermi» fu tutto ciò che si trovò in grado di mormorare, gli occhi sbarrati e la bocca secca che si rifiutava di mandare giù la saliva «tornerà per me, sì, e allora-»

Non fece in tempo a finire, che tentacoli di fuoco nero spuntarono dalla foresta e le si avvolsero intorno alle caviglie, trascinandola a terra; istintivamente, Myricae si gettò verso di lei, tendendole le mani perché non venisse trascinata nel folto degli alberi. Non seppe dirsi perché lo fece, non considerando che quella era la stessa donna che aveva fatto torturare sua madre e fatto del male alla sua partner e messo in piedi quel gran casino, ma mise a tacere il proprio buonsenso pensando che -in una situazione del genere, rivalità o meno- Harmonia avrebbe fatto la stessa identica cosa.

Per avere maggiore presa, si ancorò con la coda a una roccia sporgente.

«Non lasciare le mie mani! Non lasciarle andare o sei fottutamente morta, chiaro?!» gridò alla figlia dell’Uomo Nero, fin troppo consapevole di chi ci fosse dietro a quel teatrino. Strinse le spire attorno al masso, a mo’ di carrucola «Adesso inizio a tirare, va bene? Mi hai capita?»

«Non mollarmi! Non mollarmi! Ti prego! Ti scongiuro! Ti supplico!»

«Io non ti mollo sicuro, ma collabora anche tu, per gli dei! Dammi una mano e- PER LA FOTTUTA MUTA INVERNALE DI NAEVIA CHE RIEMPIE IL CASTELLO DI PELI, INTENDEVO METAFORICAMENTE! METAFORICAMENTE!» strillò tanto adirata quanto basita vedendo che Emily -forse presa dal panico, forse semplicemente rincoglionita- aveva mollato una mano per porgergliela, salvo quest’ultima venire afferrata dai tentacoli infuocati. Basita, tirò fuori il piano “b”, aggiungendo alla presa delle dita con quella dei suoi serpenti «E questi vedi di non mollarli!» precisò.

Ma un conto era dirlo, un altro farlo: per ogni centimetro faticosamente guadagnato, allora Phobos -seppur indirettamente presente- ne guadagnava cinque, dieci, trenta, cinquanta, un metro e così via, fino a quando la coda dell’Ophidian non iniziò a cedere e srotolarsi piano piano dalla roccia.

Lo notarono entrambe, ma -se la naga finse di non farci caso e continuò a fare ciò che stava facendo, diventando paonazza in viso per il tremendo sforzo- fu la Pitchiner a prendere in mano la situazione… letteralmente.

«Myricae» la chiamò, atona.

«Cosa c’è? Sarei un attimo impegnata a cercare di non morire, come vedi».

«Sei davvero fortunata ad avere Harmonia» le sorrise «Tienitela stretta, mi raccomando».

Mollò la presa. Svanì.

Il rinculo per quella tremenda forza improvvisamente dileguatasi fece ruzzolare via la naga, spingendola fin sul ciglio del baratro che si apriva sul lago di lava. Per sua fortuna, un massiccio tronco venne in suo soccorso, fermandola prima che ci cascasse dentro.

Stesa con le braccia larghe e la coda penzoloni, stremata, indolenzita al punto da non avere nemmeno più la forza necessaria per pensare, Myricae impiegò svariati minuti per realizzare cosa diavolo fosse accaduto negli ultimi minuti; spaesata e confusa, si guardò intorno: non c’era più nessuno, su quell’altura, solo lei e un profondo, rilassante, solenne silenzio.

Era finita? Era finita veramente, questa volta?

Una farfalla le si posò sul naso, scrollandosi la cenere dalle fragili ali diafane; alzando gli occhi per guardarla, la risposta venne da sé: il cielo limpido, le nuvole bianche timidamente tinte dai colori del tramonto, l’aria pura che profumava di frutti esotici, una brezza fresca ma piacevole che donava sollievo alla pelle martoriata dalle ferite, la calda luce dei Soli che si rifletteva sulla muraglia di legno opalizzato, avvolgendo in una gabbia di arcobaleni l’intera città. Già, la città: in una giornata appena, su di essa si erano scatenati eventi naturali tremendi come meteoriti, terremoti, inondazioni, incendi, tornado, mostri vari, piante assassine e faglie che l’Abisso al confronto era solo una buca scavata con la paletta da un bambino in spiaggia, ma a vederla pareva che nulla di tutto ciò l’avesse mai sfiorata.

Forse il terreno intorno a Quetzalli somigliava più a una forma di Emmental bruciacchiata che ad una pianura lussureggiante, forse la stragrande maggioranza dei vulcani era stata letteralmente ridotta in polvere, forse il Tauremorna era stato quasi completamente raso al suolo perché gli Aldar salvassero la città dalla lava, ma gli harem erano intatti, e così chiunque vi abitasse. C’erano stati danni ed erano stati danni tremendi, vero, ma -con tanta pazienza e dedizione- il terreno si sarebbe sempre potuto bonificare, mentre nulla al mondo avrebbe ridato una figlia a una madre, una moglie a una vedova, un passato a chi non ne aveva più uno. Fortunatamente, quello non era il caso.

Sorrise: sì, era decisamente finita, ed era finita bene.

Con quella consapevolezza ben chiara nella mente e le membra che imploravano pietà, decise di concedersi del meritato riposo… salvo venire disturbata da un qualcosa di vagamente appuntito che le punse la schiena. Istintivamente, scattò sui gomiti.

Sedutasi, si girò per controllare cosa diavolo fosse: un sassolino, a quanto sembrava.

Nel momento in cui lo prese fra le dita per osservarlo, però, quella pietruzza le parve più un pezzo di carbone, un frammento di brace scuro ancora caldo e fumante attraversato da venature smeraldine a dir poco microscopiche. Non si sorprese: con tutti gli alberi andati a fuoco in quella giornata, trovare dei rimasugli della grigliata organizzata Phobos per il week-end non sarebbe certo stato un fenomeno paranormale per il quale convocare Manny in persona!

Stava per gettarlo, quando notò che il colore di quel tizzone bollente stesse cambiando proprio sul suo palmo della sua mano, davanti ai suoi occhi increduli: da nero che era, prima divenne grigiastro, poi color avorio, infine bianco immacolato, come se fosse stato malamente pitturato e la tempera si stesse sciogliendo per il calore.

Lo guardò qualche istante, perplessa, poi recuperò la saccoccia, ce lo infilò dentro e si assicurò che non uscisse fra una maglia e l’altra: “Meglio farlo vedere ad Harmonia”, pensò.

Non senza una certa fatica, si alzò; dopo qualche istante per trovare l’equilibrio, diede una vigorosa pacca al borsello.

«E allora andiamo a farglielo vedere».

 

 

 

_______________________________________________________________________

 

Angolino dell’autrice

 

… Questo capitolo avrebbe dovuto essere quello conclusivo della “saga” di Quetzalli, ma di conclusivo non c’è un bel niente, dal momento che c’è stato l’ennesimo taglio in due capitoli che altrimenti sarebbero venuti lunghi quanto e più della lingua velenosa di Phobos, mi scuso se la sto davvero tirando per le lunghissime ma il dono della sintesi non l’ho mai avuto :’D ma almeno si scoprono altarini lunari su altarini lunari :D

Comunque ecco, sono accadute un bel po’ di cose e spero che le varie sequenze non risultino confusionarie, nel caso abbiate bisogno di delucidazioni chiedete pure senza problemi :)

Intanto, vi lascio la traduzione della canzone che ho inserito, ovvero “The Last March Of The Ents” da “Il Signore degli Anelli”.

 


DAL TESTO

“Rithannen i geven
Thangen i harn
Na fennas i daur!”

“Ôl dûr ristannen
Eryn echuiannen
I ngelaidh dagrar!”

“Ristar thynd, cúa tawar
Dambedir enyd i ganed!
Si linna i waew trin ylf
isto i dur i chuiyl!
I ngelaidh dagrar!”

 

TRADUZIONE

“Earth shakes
Stone breaks
The forest is at your door!”

The dark sleep is broken
The woods have awoken
The trees have gone to war!”

“Roots rend, wood bends
The Ents have answered the call!
Through branches now the wind sings
Feel the power of living things!
The trees have gone to war!”


Oh, se qualcuno non sa cosa sia il legno opalizzato vi lascio qualche foto per rendere l’idea :)

Alla prossima!


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