A Song for a Broken Heart di Neferikare (/viewuser.php?uid=731613)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dall'Abisso con furore ***
Capitolo 2: *** Come una scacchiera ***
Capitolo 3: *** Say "Hello" to Her Majesty ***
Capitolo 4: *** Babylon's Ruins ***
Capitolo 5: *** Pain-eater's whisper ***
Capitolo 6: *** BOOM! Friendzoned! ***
Capitolo 7: *** Una volta una falena mi disse ***
Capitolo 8: *** Di cracker, kraken e teste rotolanti ***
Capitolo 9: *** Shattered mind ***
Capitolo 10: *** Unmei no akai ito ***
Capitolo 11: *** Cwtch ***
Capitolo 12: *** A carte scoperte ***
Capitolo 13: *** Dance into the fire ***
Capitolo 14: *** Exulansis ***
Capitolo 15: *** Il tunnel per El Dorado (più o meno) ***
Capitolo 16: *** Rebirth ***
Capitolo 17: *** Olympus has fallen - parte I ***
Capitolo 18: *** Olympus has fallen - parte II ***
Capitolo 19: *** Olympus has fallen - parte III ***
Capitolo 1 *** Dall'Abisso con furore ***
Niente
wi-fi.
Niente-wi-fi.
Nulla.
Nada
de nada.
Segnale
morto.
Defunto.
Ancora.
Di
questo passo si sarebbe procurato un criceto e
lo avrebbe collegato al computer, chissà che in quel modo
così ingegnoso e
tecnologicamente poco avanzato sarebbe finalmente riuscito a vedere
l'ultimo
episodio di America's Next Top Model senza che quell'aggeggio diabolico
perdesse la diretta streaming.
Accidenti
a Manny ed il canone mensile che si era
dimenticato di pagare, accidenti a lui ed a quei dannatissimi operatori
del
modem: oh avanti, nessuno capiva quanto potesse essere tremendamente
noioso
starsene in un abisso dimenticato da dio senza nessuno intorno e con la
sola
compagnia degli occasionali topi e dell'oscurità perenne?
E
del computer, della tv al plasma da cinquanta
pollici, della playstation 4, della Wii, del condizionatore, della
friggitrice,
dell'alcool e di una serie non meglio definita di programmi spazzatura
che
riuscivano ad allietarlo da tipo settecento anni.
Niente
male certo, soprattutto quando seguiva le
sfilate di Victoria's Secret appiccicato
allo schermo con tanto di bavetta alla bocca, ma sarebbe stato disposto
a tutto
per riavere un po' di libertà e di luce, la stessa che gli
aveva tolto quella
sottospecie di alleanza che gli altri guardiani avevano fatto tra loro
quando
si erano resi conto che lui era solamente uno spirito libero: a chi
importava
delle loro regole e dei loro doveri, se non volevano accettare che ci
fosse
qualcuno che non era disposto ad inchinarsi di fronte ai mocciosi umani
allora
potevano anche andare a farsi fottere allegramente.
O
almeno provarci dato che alla fine era stato
solo lui a prenderlo in posti dove non batte il sole.
Ah
già, laggiù il sole non c’era nemmeno.
Comunque
fossero messe le cose in superficie a
Phobos poco importava, a lui bastava avere un bicchiere di vodka liscia
in mano
e poteva anche trascorrere giornate ad ubriacarsi da far schifo persino
a sé
stesso, poi il suo cervello faceva il resto: fantasticava su come
avrebbe
distrutti i regni dei guardiani uno per uno, di come si sarebbe preso
la
felicità dei bambini che Nord amava tanto, del suono delle
urla dell’amabile
Dentolina mentre le strappava le ali, di quanto sarebbe stato
divertente
cucinare uno stufato a base di Calmoniglio, del favoloso modo in cui i
suoi
capelli avrebbero fatto swish mentre si
allontanava dalle città in fiamme stile film americani.
E
soprattutto di come avrebbe avuto vendetta sul
regno di Phantasia, soprattutto quello:
era stata la regina di quell’agglomerato di pezzi di terra
volanti e cascate
fiabesche a gettarlo nell’Abisso, aveva marciato con il suo
esercito di animali
antropomorfi sulla sua terra riducendo in polvere le foreste con i suoi
zoccoli
d’oro, aveva sventolato trionfante la bandiera ridotta a
brandelli del suo
castello mentre squillavano le trombe della vittoria e poi, giusto per
dare
oltre al danno anche la beffa, lo aveva umiliato farfugliando qualcosa
sul
fatto che si conoscessero, che lui “non
fosse più lo stesso”.
Le
avrebbe tolto quella corona dalla testa e
l’avrebbe usata come cavalcatura personale,
l’avrebbe umiliata pubblicamente e
le avrebbe fatto passare l’inferno pur di riprendersi la
dignità che aveva
lasciato sotto i suoi zoccoli: sarebbe stato lungo, difficile e magari
anche
pericoloso ma Phobos, che ormai non aveva più nulla da
perdere, lo avrebbe fatto.
Proprio
mentre era placidamente nei suoi ormai
quotidiani pensieri di vendetta notò con amarezza gli
effetti dell'alcool
iniziavano a farsi sentire, e forse era per quello che quando
notò la bottiglia
ormai vuota stretta nella sua mano fu preso da un sussulto di rabbia
che gliela
fece stringere fino a romperla, con tanto di schegge di vetro piantate
saldamente nel proprio palmo: restò fermo a guardare il
sangue scorrere sulle
schegge, a contemplare le gocce che cadevano a terra dissolvendosi nel
terreno
arido, il tutto lasciando che la propria mente lo trasportasse
aldilà di quel
muro alto migliaia di metri che lo divideva dalla superficie.
Poi,
quasi preso da un'illuminazione, si alzò di
scatto stringendo i pugni e non curandosi delle fitte di dolore
procurate dai
numerosi tagli come se nemmeno li sentisse: si diresse a grandi falcate
verso
la parte più profonda di quella che ora era la sua casa, una
sorta di grossa
voragine scavata in un'altra ancora più profonda che era
l'Abisso chiusa
superiormente da una sorta di intricato labirinto di viticci fioriti
resi
viscidi dal muschio, infine si inginocchiò davanti
all'enorme buco e passò una
mano su quelle grate assaporando l'odore pungente
dell'umidità: quanto tempo
era passato dall'ultima volta che erano state spezzate?
Quattrocento,
cinquecento anni? No, probabilmente
di più.
Molti
di più.
Non
appena la sua pelle sfiorò quelle fronde il
silenzio di tomba che era solito vivere là dentro venne
immediatamente riempito
da un ruggito così forte da smuovere qualche piccolo sasso
dalle ripide pareti,
e per Phobos nessun suono fu più lieto: poteva chiaramente
distinguere il
rumore degli artigli neri come l'ossidiana che cercavano freneticamente
di
trovare un appiglio al quale appoggiarsi per fuoriuscire dalla gabbia
in cui
erano stati rinchiusi, lo schioccare dei denti d'avorio che non
aspettavano
altro che divorare ogni briciolo di speranza rimasto nel mondo, una
miriade di
occhi di rubino che lo scrutavano fedeli quasi a supplicarlo di tirarli
fuori
da quel buco infernale.
Riavrete
la libertà tra poco tesori miei, pazientate come avete fatto
fino ad ora ancora qualche tempo perché l’ora
è ormai vicina,
pensò mentre si inginocchiava a raccogliere uno dei fiori
nati in quel
luogo così oscuro: era del tutto simile ad una rosa tranne
che per i petali dello
stesso colore dell’arcobaleno, una gamma così
vasta ed impensabile di colori
che, nonostante potessero sembrare decisamente in contrasto fra loro,
avevano
un’insospettabile quanto raffinata armonia floreale che non
si trovava in
nessun luogo terreno.
Armonia…
quanto odiava quella parola: forse perché
nel suo inconscio c’era sempre qualcosa che gli ricordava
come l’armonia non
fosse mai stata parte della sua vita immortale, forse perché
non capiva il
motivo per cui gli altri guardiani fossero considerati così
armonici con loro
stessi e con la natura che li circondava, o forse perché
quel nome richiamava
fin troppo quello di Harmonia.
Harmonia,
regina di Phantasia e guardiana della
fantasia, la stessa che si era crogiolata sul suo
trono ancora in tenuta da guerra mentre con uno zoccolo lo
teneva inchiodato al suolo salutando continuamente il suo popolo che la
ringraziava di aver scongiurato ancora una volta la fine del loro
mondo, il
tutto mentre al suo fianco c’erano schierati Nord e compagnia
bella che tenevano
a bada i poveri leoni di Phobos che si contorcevano inutilmente nelle
reti di
sabbia dei sogni create da quella palla rotolante di Sandy.
Ma
quello era stato il meno, il peggio era venuto
quando lo avevano portato davanti all'Abisso: l'Abisso, una vera e
propria
crepa creata appositamente per lui dalla magia congiunta dei guardiani
che divorava
migliaia e migliaia di metri di roccia e terra fino a perdersi in
un'oscurità
alquanto inquietante nel fondo più buio del mondo, un luogo
ben poco ospitale dove
aveva passato secoli a lagnarsi del fatto che lo avessero abbandonato
lì senza
poteri e senza dignità a marcire per il resto della propria
esistenza nella
noia e nella solitudine.
Solitudine
che con il tempo era diventata rimorso,
poi rabbia, infine un profondo senso di vendetta sanguinolenta che lo
aveva
consumato da dentro portandogli via anche l'ultimo briciolo di ricordo
che
aveva della superficie.
E
la sua vendetta l’avrebbe avuta, oh se l’avrebbe
avuta.
Non
capì il perché del suo gesto immediatamente dopo
che lo fece, percepì solo che la sua mano si era contratta
intorno ad uno di
quei viticci verde smeraldo quasi istintivamente e lo aveva stretto, lo
aveva
stretto con tutte le forze che aveva in corpo: c’era voluto
poco perché dal suo
palmo si sviluppassero dei sottili filamenti violacei simili a
fiammelle
brillanti che avevano risalito le dita fino a quando non avevano
incontrato il
quasi impercettibile bagliore azzurrino proveniente da quelle maledette
piante
così rigogliose.
Questa
volta ne era certo, questa volta le avrebbe
spezzate, ormai ce la stava facendo: finalmente,
pensò fra sé e sé, finalmente
avrò
indietro ciò che mi hai tolto!
Ma
non fu così, non proprio:
c’era stato un rombo assordante come un tuono prima di
una tempesta, un lampo così accecante da costringerlo a
proteggersi gli occhi
per il dolore, una malsana danza di fiamme celesti ed altre viola
intenso che
si contorcevano come serpi sopra di lui fino a circondarlo, gli
sembrava quasi
di essere intrappolato nuovamente nella gabbia che Harmonia aveva
utilizzato
secoli e secoli prima per sconfiggerlo una volta per tutte.
E
dinanzi a lui, proprio come allora, si stagliava
ancora una volta un immenso cavallo con un corno dorato in fronte che
oscurava
la poca luce che il lampo gli aveva donato con quelle enormi ali
diafane che
sembravano dissolversi nell’etere come anche la criniera e la
coda, che erano
invece di uno strano arcobaleno che andava dal verde acqua,
all’azzurro fino al
rosa; e poi quel nitrito, quel suono così orribile del tutto
simile ad un
ruggito, lo stesso che anche in quel momento lo aveva terrorizzato al
punto da
costringerlo a rannicchiarsi dondolandosi in un angolino buio con la
testa fra
le ginocchia e le mani sulle orecchie come ad isolarsi da
quell’inferno equino.
Non
sta succedendo niente, non sta succedendo niente,
continuava a ripetersi nel tentativo di calmarsi, lei
non è qui, non può essere qui: sei da solo,
respira, respira… non
sta accadendo nulla, è tutto nella tua testa, tutto nella
tua dannatissima
testa!
Durò
una manciata di secondi, secondi durante i
quali Phobos aveva assaggiato nuovamente il terrore della sconfitta nel
profondo della propria anima dopo i quali, non senza un certo fragore
che
risuonava nell’aria, l’immenso
cavallo di poco prima si era dissolto esattamente come era arrivato,
nell’anonimato più assoluto e senza lasciare
tracce di sé.
Senza
lasciare tracce, certo, ma alcune c’erano
eccome, ed era l’inquietante silenzio proveniente dalla
voragine dove si
trovavano i leoni dell’altro: erano insolitamente taciturni,
anche troppo per i
suoi gusti.
Quando
Phobos trovò finalmente il coraggio di
lasciare la sicurezza della posizione fetale che aveva tenuto fino ad
ora e si era
avvicinato all’orlo del baratro rimase, nonostante in
realtà si aspettasse una
cosa simile, leggermente sconvolto: se ne stavano tutti accucciati sul
fondo
con gli occhi pietrificati, nessuno di loro sembrava
dell’umore di smuoversi
dal luogo in cui si trovava, figurarsi se avevano voglia di ruggire
dopo il
colpo che si erano presi.
La
verità era che quei felini, per quanto fossero
imponenti, erano spaventati a morte dai cavalli in generale, o almeno
lo erano
da quando si erano imbattuti negli immensi branchi di equini selvaggi
della
regina durante la leggendaria Guerra che, da ciò che aveva
sentito dire da Nord
e gli altri, lo aveva “reso
irriconoscibile rispetto a come era sempre
stato”.
Ma
Phobos non ricordava nulla di ciò che fosse
accaduto prima, né tantomeno ricordava di essere stato
diverso da come era ora.
E
nulla voleva ricordare, soprattutto perché ogni
volta che ci provava sentiva delle fitte lancinanti alla testa, era
come se una
moltitudine di pugnali gli trapassassero la mente da una parte
all’altra, come
se ci fosse qualcosa o qualcuno che non volesse che lui ricordasse: e
forse era
proprio per questo che le poche volte che ci aveva provato ci aveva
anche direttamente
rinunciato dopo aver visto gli scarsi risultati ottenuti, specie quando
si
trovava piegato in due a rigettare l’anima.
Quel
suo momento di ritorno ad una condizione di
terrore ancestrale era durata fin troppo per i suoi gusti, forse resa
ancora
più vivida dalla rinnovata potenza con la quale quel
dannatissimo unicorno gli
si era parato davanti inibendo ogni sua emozione, ma proprio quando era
convinto di averla scampata per l’ennesima volta quella sua
calma piatta era
stata bruscamente interrotta da un tonfo sordo seguito da
un’intensa luce che
aveva illuminato l’intero Abisso costringendolo a coprirsi
gli occhi
nuovamente: qualcuno voleva accecarlo quel giorno, ormai aveva
l’assoluta
certezza sulla cosa.
Tutto
quel trambusto lo aveva istintivamente
spinto a rimettersi velocemente in piedi e tendere una mano davanti a
sé, la
quale si era ricoperta dopo pochi secondi di fiammelle nerastre che
avvolgevano
il braccio come vipere desiderose di stringere qualsiasi cosa, ed ormai
era
pronto ad ogni evenienza possibile immaginabile.
Tranne
un eventuale arrivo di Harmonia, a quello non sarebbe mai stato
pronto a sufficienza.
E
invece no, tanto rumore per nulla: appena la
nube di polvere si era diradata Phobos era riuscito a scorgere una
figura che
si dimenava freneticamente al ritmo di “Waka waka”
con tanto di ritornello eseguito
abbastanza a caso con una vocina stridula impregnata di tequila e white
russian,
figura che era andata delineandosi a suon di curve niente male ed una
folta
chioma di un intenso color magenta che andava confondendosi con le alte
fiamme lì
intorno dello stesso colore.
Comet,quell’adorabile
creatura che era Comet E. Halley, chi altri
poteva essere?
Pericolo
centauressa scampato, almeno ora poteva
tranquillizzarsi e godersi la solita entrata trionfale da parte di
quell’esibizionista di Comet che, come suo solito, era ancora
impegnata a
dimenarsi in preda a delle convulsioni che dovevano essere un ballo, o
qualcosa
di molto simile:
«Tsamina
mina eh eh, waka waka eh eh! Tsamina mina zangalewa, this time
for Africa!» ripeteva
ad alta voce uscendo con nonchalance da
quella sfera di fiamme cremisi stile Daenerys Targaryen senza far caso
a quel
povero disgraziato che la guardava ancora tremante:
«Ehm
ehm» si schiarì la voce «Non vorrei
interrompere questa tua danz-»
«People are raising their
expectations, go on
and feel it! This
is your moment, no hesitation!» gli
parlò
sopra come se lui nemmeno esistesse, e allora Phobos aveva capito che
avrebbe
dovuto aspettare che la canzone finisse per ragionare con lei.
Ok,
avrebbe aspettato.
E
aspettato.
E
ancora aspettato.
Finalmente,
dopo una serie non meglio definita di “waka
waka, eh eh!” la donna si era tolta le cuffie
dell’mp4 dalle orecchie, aveva
tirato fuori da chissà dove un grosso borsone talmente
gonfio da sembrare che contenesse
contenere un cadavere e lo aveva trascinato fin da lui buttandoglielo
addosso,
ovviamente senza far caso agli insulti di dolore che erano partiti:
«Ehilà
amicone! Come va la vita nell’umido e
freddo Abisso eh? Hai scaricato le ultime puntate di
America’s Next Top Model?
Le hai scaricate? Eh? Le hai scaricate, Phobos? Eh? Eh,
Phob-»
«No
no no! Non ho il wi fi, Comet! Non ho il wi fi
cazzo!» le urlò contro mettendosi le mano sulle
orecchie per non sentire la sua
voce un’altra volta cercando di alzarsi, se non fosse che un
piede gli era
rimasto incastrato nelle cinghie del borsone ed era caduto
rovinosamente a
terra mangiando terra con un vago sapore di tequila.
Ancora
a pancia all’aria aveva riaperto gli occhi
a fatica trovandosi sopra Halley con lo sguardo alquanto divertito
dalla
situazione, soprattutto quando aveva tirato fuori una tessera magnetica
che
aveva preso a sventolargli davanti:
«Sapevo
che Manny non ti aveva pagato il wi-fi
questo mese, quindi ho provveduto a farlo io al suo posto, non devi
ringraziarmi: sono o no la migliore compagna di trombaris che puoi
trovarti?»
chiese ammiccando ma, proprio quando Phobos stava allungando la mano
speranzoso
di afferrare la preziosa reliquia, lei l’aveva allontanata
ridacchiando:
«Chissà
cosa vuole questo povero disgraziato… vuoi
questa? Ma davvero? Nah, non credo.»
«Avanti
Comet, sono in astinenza da serie tv!» la
pregò con le lacrime agli occhi, ma la donna sembrava
impassibile ed anzi
compiaciuta da quel teatrino pietoso:
«Trovati
un lavoro e pagatelo da solo il canone
mensile, alza il tuo regale culetto e vai a domare leoni,
chissà che fai
qualche spicciolo.»
«Comet…
ti prego, ti scongiuro.»
«Non
ho voglia di essere buona oggi, mi sono anche
trovata davanti quella sottospecie di piccione nero e fumoso che si
lagnava di
quanto facesse pen-» stava per dire quando
l’altro l’aveva afferrata per la
nuca e l’aveva tirata verso sé strappandole un
bacio a tradimento che,
ovviamente, gli aveva dato il tempo di prendersi la tessera senza
problemi:
«Tuttavia,
posso fare un’eccezione: muoviti e sistema il divano, abbiamo
l’alcool e lo
streaming, possiamo andare avanti fino
all’eternità così.»
«Alcool,
streaming e trombaris, non
dimentichiamoci del nostro vecchio amico di post-bevute selvagge da
qualche
secolo» aveva detto buttandosi sul divano di pelle afferrando
una bottiglia che
Comet le aveva allungato, raggiunto poco dopo dalla stessa che si era
invece
occupata della parte burocratica del leggendario abbonamento mensile
degli
streaming.
E
allora il mondo aveva ripreso a girare dalla
parte giusta.
O
almeno, lo aveva fatto fino a quando non era
stato interrotto da un rumore alquanto inquietante simile allo stridio
del
metallo che sembrava scarnificare la fredda roccia
dell’Abisso nel buffo quanto
efficace tentativo di raggiungere il fondo dove si trovavano i due
compagni di
bevute: non era Harmonia, non poteva
essere davvero lei, a meno che non si fosse fatta spuntare
improvvisamente
degli artigli d’acciaio con i suoi miracolosi poteri.
Quasi
d’istinto Phobos si era alzato di scatto ed
aveva gettato la bottiglia mezza piena a terra sostituendola con un
lampo
violaceo-nerastro che si era materializzato sulla sua mano, il tutto
nella
totale indifferenza della ragazza, che invece continuava a starsene
sdraiata
comodamente sul divano come se nulla fosse; e la cosa non gli andava
giù a
giudicare dalla netta sensazione che quella cosa si stesse avvicinando,
fatto
confermato dal continuo tremolio dei sassi e dei pezzi di pietra sparsi
a
terra:
«Comet
dammi una mano, abbiamo visite nell’Abisso»
asserì serio assumendo un’espressione degna di un
condottiero, ma lei non se lo
filò nemmeno di striscio:
«Eh?
Oh Phobos, datti una calmata, ho tutto sotto
controllo.» rispose lei con nonchalance, ma lui non era
proprio convinto:
«Comet
cazzo! Muovi il culo da quel fottuto
divano!» la incitò nuovamente alzando la voce,
ovviamente senza nessun effetto.
E
allora aveva perso la pazienza: si era girato,
aveva afferrato i lembi della coperta sulla quale era sdraiata la donna
e
niente, l’aveva tirata con forza facendola cadere
rovinosamente a terra con l’aspetto
di un fusillo rigato a strisce azzurre e gialle; quando lei si era
rialzata non
si era affatto lamentata, ma la forchetta con la quale stava mangiando
la
cheesecake che si stava sciogliendo male aveva parlato al posto suo, ed
anche
quel sorrisetto compiaciuto aveva fatto lo stesso.
Pessima
mossa.
Non
aveva ancora realizzato ciò che stava
accadendo quando si era sentito schiacciare a terra da qualcosa di
tremendamente grande, una figura nera che lo aveva sovrastato per poi
artigliargli il collo e scaraventarlo rovinosamente contro la parete
dell’Abisso; Phobos non aveva avuto il tempo di reagire che
quella figura,
grande su per giù una decina di metri abbondanti a vederla
da quella posizione,
si era girata di scatto ed aveva spalancato quelle che dovevano essere
grosse
ali membranose lanciandosi in una furiosa corsa verso il poveretto.
Che
si sarebbe anche spostato, se la tunica non si
fosse impigliata in un ramo.
Era
colpa di Harmonia anche quello, ovviamente.
Per
quanto di solito Phobos non temesse nulla
tranne quella giumenta troppo cresciuta, per quanto di solito
ostentasse
un’amara sicurezza e fiducia nelle proprie
capacità, quella volta proprio non
ce l’aveva fatta a guardare la scena in prima persona,
esattamente come non
aveva trovato il coraggio di alzare lo sguardo mentre Harmonia
innalzava la
propria bandiera sulla sua fortezza ormai decaduta: si era rassegnato,
aveva
ceduto allo spettro dell’insicurezza che sentiva aleggiare
nella propria anima
dal primo istante in cui era stato gettato a peso morto
nell’Abisso come si
getta via un giocattolo del quale ci si è stancati.
Ad
un certo punto, ad occhi chiusi e con il fiato
mozzato in gola, aveva avvertito una pressione insopportabile premergli
il
petto contro la roccia nuda mentre una lama fredda come
l’acciaio disegnava
percorsi sanguinolenti sulla propria fragile pelle, un rantolio sordo
accompagnato
da un sinistro quanto pungente odore di zolfo misto a carne bruciata ad
appena
qualche centimetro dal suo volto che andava sommandosi al violento
suono
dell’aria frustata con violenza.
Phobos
era ormai pallido per il terrore più puro,
uno di quelli sui quali Pitch Black un tempo ci avrebbe banchettato
volentieri,
nulla a che vedere con l’ombra dell’uomo che era
stato che andava
trascinandosi a
quel tempo.
Aveva
atteso qualsiasi cosa in quegli istanti di
paura cieca, morte o vita che lo attendesse, ma i rassicuranti passi di
Comet,
impossibili da non riconoscere per via dello scricchiolare delle foglie
bruciate che li accompagnavano, avevano fatto sì che un
barlume di speranza si
accendesse nella mente di quel povero disgraziato; anche se non poteva
vederla
aveva chiaramente avvertito il suo lento avvicinarsi ed il successivo
fermarsi
poco lontano dalla gabbia nella quale si era trovato costretto, poi
aveva
sentito una specie di grottesco gorgoglio fin troppo simile alle fusa
di un
gatto di qualche misteriosa dimensione a lui sconosciuta:
«Mi
ero dimenticata di avvisarti prima del mio
arrivo, Phobosuccio mio» disse fra una risatina di scherno e
l’altra mentre gli
afferrava il mento con una certa sensualità
«Fidati
di mamma Comet e apri quegli occhioni da
cerbiatto omicida, voglio presentarti il mio nuovo animaletto fresco
fresco di
giornata.» gli disse incitandolo ad aprire gli occhi dato che
la sua morte,
almeno sperava, era appena stata rimandata.
Ma
avrebbe preferito averli tenuti saldamente
chiusi, quegli occhi: all’inizio aveva sperato si trattasse
di qualche drago
trovato abbastanza a caso nei meandri della galassia, poi il pensiero
si era
spostato sul basilisco che viveva nei laghi poco lontano
dall’Abisso, ma
l’ultima cosa che avrebbe pensato di trovarsi davanti, e
della cui esistenza
sapeva poco o niente, ora s ela trovava davanti con le zanne sporche di
brandelli di carne snudate.
Il
ciciarampa.
Il
fottuto ciciarampa di Alice Castle Wonderwood.
La
principessa guerriera di Fairy Oak.
L’amichetta
di Harmonia.
E
quel coso si trovava davanti a lui.
Nell’Abisso.
Era
fottuto.
Lo
sgomento iniziale si era presto trasformato in
panico totale, un’ansia crescente che lo aveva portato a
dimenarsi gridando
come un cretino ricavandoci solo una costellazione di graffi e squarci
sui
vestiti che ci mancava poco lo lasciassero nudo come un verme, il tutto
fra
un’imprecazione di Comet ed un ringhio innervosito della
bestia; ora che lo
guardava bene in effetti non c’erano dubbi che si trattasse
del mostro che
Alice aveva messo a guardia delle porte della città, anche s
elo aveva visto
ben poco era ben difficile dimenticarselo: il corpo era
fondamentalmente quello
di un drago come tanti ne aveva visti di un malsano color
grigio-verdastro,
solcato qua e là da profonde cicatrici rosee di antichi
scontri contro chissà
cosa, la testa piuttosto appiattita era un misto fra quelle di un
serpente e di
un pesce di altri tempi, incassata in una sorta di corona membranosa
formata da
barbigli simili a quelli dei pesci gatto e dalla pelle sottile piena di
venature, gli arti sottili che si addicevano al corpo snello dal quale
si
diramavano due grossi ali da pipistrello consumate da buchi grandi
quanto il
palmo di una mano e da tagli sottili come foglie, decisamente
sproporzionate
rispetto al corpo esile, che andavano a terminare verso la coda, una
frusta
coperta da quelle che non si capivano essere squame, scaglie o
un’ispida
peluria nerastra.
E
poi gli occhi, due rubini intrisi di sangue
piantati sulla sommità del lungo collo dal quale pendeva
ciò che rimaneva delle
catene con le quali Alice si assicurava che quell’animale non
scappasse da
Fairy Oak o che, molto peggio, non uccidesse nessuno dei suoi abitanti.
Solo
che ora era libero, e Phobos lo aveva a mezzo
metro di distanza.
Tuttavia,
se lui aveva iniziato a tremare come un
ramoscello durante una tempesta, allora l’altra continuava ad
accarezzare la
testa di quello scherzo della natura con tutta l’indifferenza
che il mondo
potesse offrirle, e la cosa aveva iniziato a preoccuparlo
più del mostro
stesso:
«Hai
rubato il ciciarampa di Alice! Hai rubato il
ciciarampa cazzo! Il ciciarampa!» le sbraitò
contro liberandosi dalla presa di
quegli artigli, che si erano dischiusi con molto probabilità
solo perché che si
erano dischiusi solo perché avevano iniziato a grattarsi
l’orecchio, o
qualunque cosa fosse, nemmeno si trattasse di un coniglio godurioso, ma
la
donna aveva solo fatto spallucce:
«Non
l’ho proprio rubato nel
senso stretto del termine: lui era lì incatenato, mi
faceva anche un po’ pena quindi niente, ho pensato che ad
Alice non sarebbe
dispiaciuto se avessi preso il suo animale da compagnia, o comunque ne
avrebbe
trovato uno simil-»
«Simile?
Simile?
Il ciciarampa è uno solo Comet, uno
solo!» insistette con la rabbia a livelli
spaventosi, abbastanza perché
Comet avesse un sussulto di sorpresa:
«Oh
avanti, non essere così sever-»
«Quel
coso è stato creato all’alba dei tempi con
chissà quali sortilegi per custodire Fairy Oak, secondo te
ne trova un altro,
eh? Rispondim… smettila di volteggiare a testa in
giù cazzo! Non mi sto
divertendo, cretina che non sei altr-» non
fece in tempo a finire che sentì
la guancia sinistra bruciargli in modo a dir poco insopportabile per
l’improvviso schiaffo che aveva ricevuto:
«Nessuno
mi dice cosa devo e cosa non devo fare,
se volevo un capo che mi pagasse la pensione di vecchiaia iniziavo a
lavorare
come Guardiana per Manny, cosa credi?» gli disse non con
un’espressione
arrabbiata, ma con una alquanto inquietante:
«Un
tempo i nostri incontri erano più
trombaris e meno parlaris, erano più
le serate dove eravamo sbronzi da far schifo che quelle dove eravamo
anche minimamente
sobri: pensi troppo Phobos, pensi troppo a quella giumenta vogliosa e
poco al
vivere la tua misera quanto eterna esistenza in questo buco di fogna in
modo
non dico decente, ma almeno presentabile.» lo
rimproverò sistemandosi il
vestito e scostando i capelli dal volto scoprendo un’aria
severa:
«Non
mi serve un moralizzatore Phobos, ne abbiamo
già parlato abbastanza l’ultima volta che hai
avuto una crisi nervosa: io me ne
vado, e non intendo tornare se devo trovarmi davanti il Sandy della
situazione
o, ancora peggio, un Pitchone che vuole farsi compatire nella sua
miseria; richiamami
quando ti sarà passata la voglia di morale e ti
sarà tornata quella di
trombaris, fino ad allora ciaone proprio.» asserì
sorridendo e facendo per
svolazzarsene via come solito.
Phobos
era sconvolto, abbastanza perché le
afferrasse una caviglia trattenendola:
«Ed
io cosa me ne faccio di quello? Dove lo nascondo
un mostro di quindici metri! Dimmi dove lo nascondo se arriva
Alice!» le urlò
contro ricevendo di rimando una risata di scherno:
«Non
è un mostro, si chiama Necrohunger, per
chiarirci.» puntualizzò severa:
«Te
lo regalo, magari ti fa compagnia e ti passa
questa voglia di zoccolate regali sul culo da parte di Harmonia che
probabilmente trovi anche eccitanti dal punto di vista sessuale, amante
del
sadomaso come sei: ti lascio anche l’alcool, male che vada
troverò il tempo di fare
una visita alle cantine di Fairy Oak, ho scoperto che hanno una vasta
scelta di
birre là dentro, un salto veloce non può che
farmi del bene… e lo farebbe anche
a te.» concluse
sparendo in un lampo color magenta prima che l’altro potesse
controbattere.
Era
andata via.
Anche
lei.
Non
poteva permettersi di perdere anche Comet, non
ora che lo avevano sbattuto nell’Abisso: forse nella parte
della sua vita che
non ricordava aveva anche avuto degli alleati, forse addirittura degli
amici
dei quali si fidava, ma ora come ora Comet D. Halley era
l’unica che andasse a
trovarlo qualche volta, l’unica che gli faceva sentire un
po’ meno gli artigli
brucianti della solitudine che aveva preso a consumarlo con una ferocia
inaudita negli ultimi secoli, per non parlare del fatto che fosse una
delle
poche creature in grado di introdursi nell’Abisso senza che
le armate di
Harmonia si muovessero per una violazione simile.
E
poi gli pagava il wi-fi, soprattutto quello.
Eppure
niente, aveva perso anche lei.
Come
sempre, del resto.
Ecco
in cos’era davvero bravo, a perdere le
persone che aveva intorno, ad allontanarle fino a quando non erano loro
a
scappare a gambe levate: prima il suo passato del quale ricordava poco
o nulla,
poi i Guardiani che dicevano quanto lui fosse cambiato e diventato
quello che
era adesso, poi ancora Harmonia che lo aveva pregato in ginocchio di
tornare ad
essere il Phobos che lei aveva amato, ed ora Comet che gli dava buca a
causa
dei suoi disagi mentali e di tutte quelle questioni morali snervanti
che
portavano solo ad un amaro senso di inutilità e delusione.
Faceva
male perdere qualcuno, ma Phobos non
avrebbe mai ammesso a se stesso una cosa simile, non si sarebbe mai
ritirato in
un angolino a piangere per sfogare tutta la rabbia che si portava
dentro da
secoli.
Sarebbe
scoppiata, quella rabbia, lo avrebbe fatto
da un giorno all’altro, lui lo sapeva: c’era una
sensazione che lo tormentava
da qualche settimana, una sorta di istinto che gli ruggiva dentro per
farsi
sentire come se stesse dicendo “Lasciamo
andare, lasciami uscire da questo angolo buio della tua mente e lascia
fare a
me quello che tu non hai nemmeno il coraggio di immaginare
perché sei troppo
codardo per ricordare.”
In
secoli e secoli aveva aspettato il momento
buono per andarsene dall’Abisso, ma la verità era
che non aveva mai trovato la
spinta giusta per decidersi a farlo, e in realtà non aveva
nemmeno la forza per
una cosa simile: erano serviti gli sforzi congiunti dei Guardiani, di
Alice, di
Harmonia e di tutti i suoi generali per scavare l’Abisso, una
ferita profonda
chilometri e chilometri sul volto del pianeta, ma era stata Harmonia da
sola a
rinchiuderci dentro lui ed i suoi leoni perché non potessero
più nuocere a
nessuno come avevano fatto fino a quel momento.
Senza
contare che gli erano stati tolti quasi
completamente i propri poteri, quelli con i quali aveva raso al suolo
il regno
di Nord quando questo era stato scelto come il campo di battaglia fra
le forze
dei guardiani e le sue: con il tempo aveva acquistato nuovamente una
minima
percentuale della magia che possedeva inizialmente, ma era davvero
troppo
esigua per pensare di poterla sfruttare per scappare
dall’Abisso una volta per
tutte.
Ok,
in realtà l’Abisso se ne stava bellamente
aperto, ma la magia della regina della fantasia era abbastanza potente
da
impedire a chiunque di penetrare all’interno di quella
gigantesca fenditura, a
chiunque tranne a quelli come Comet, quelli che trascendevano le regole
di
Manny.
A
meno che Manny non fosse stato distratto, allora
in quel caso avrebbe potuto farsi gli affari suoi in santa pace senza
che lui
non si accorgesse di nulla.
Un’eclissi
lunare, una di quelle che coprivano il
satellite per mostrarne l’Altro Lato della Luna, ecco cosa
gli avrebbe fatto davvero comodo:
durante le eclissi
l’influenza di Manny sui guardiani si indeboliva di parecchio
rispetto alla
norma, quasi scompariva per quei pochi istanti, e se avesse potuto
approfittarne per… no, non c’erano eclissi, non ne
aveva mai viste in secoli di
attesa.
A
meno che non l’avesse provocata.
Comet
non era ancora arrivata fuori dall’Abisso,
ormai conosceva bene il tempo che impiegava per arrivare da lui e
successivamente andarsene, e da quelle considerazioni
scaturì la voglia malata
di azzardare anche quell’idea che gli frullava in testa da
tempo immemore:
«Comet!
Comet aspetta un attimo! Aspetta!» aveva
urlato con l’intima speranza che l’altra avesse
sentito quel gridolino
disperato, e in effetti la speranza l’aveva persa quando si
era trovato da solo
con il silenzio, interrotto qua e là dai rantoli del
ciciarampa visibilmente
irritata dalla mancanza della nuova padroncina; ma fortunatamente la
donna
l’aveva sentito, ed era tornata indietro in una cascata di
fiamme cremisi in
uno spettacolo alquanto egocentrico:
«Sì,
cosa vuoi ancora? Ti avviso che se non si
tratta di trombaris non ne voglio sapere nul-»
«Io
e te. Divano. Ora. Ma voglio qualcosa in
cambio, qualcosa che puoi fare solo tu.» rispose con una vaga
aria di sfida negli
occhi, un’espressione di riscatto che anche Comet, in tutti
quei secoli di
conoscenza, aveva faticato a vedergli addosso.
Phobos
sperava che il tirare in ballo il trombaris
potesse avere un qualche effetto sull’innata
curiosità sessualmente ambigua di
quella creatura sociale fatta d’altofuoco e menefreghismo e,
come aveva
previsto, la ragazza si era avvicinata toccando terra con una
leggerezza
innaturale:
«Di
cosa si tratta?» domandò incuriosita piegando
la testa su un lato con fare sospettoso, atteggiamento che poco dopo
era andato
svanendo quando l’altro le aveva accarezzato amorevolmente la
guancia: l’aveva in pugno, mancava
così poco.
A
quel punto aveva cercato di tirare fuori tutto
il suo charme, tutta l’esperienza che il passato gli aveva
concesso di
mantenere con le donne: tranne con centauresse e simili, ma quella era
un’altra
storia che sarebbe stato meglio tenere fuori da quella situazione;
Phobos prese
a scostarle i capelli incurante delle fiammelle scarlatte che vagavano
sulla
sua mano, se quel che aveva in mente fosse andato in porto un paio di
ustioni
sarebbero state decisamente trascurabili:
«Devi
oscurare la Luna, mi bastano pochi minuti ma
devi farlo, Manny non deve vedere.»
asserì
con uno sguardo cupo, tanto che Comet lo squadrò da capo a
piedi:
«Sei
sicuro di non essere ubriaco? Cosa accidenti
vai blaterando?» domandò confusa, ma se
c’era una cosa che Phobos sapeva fare
era convincere le persone:
«Avanti
tesoro, si tratta di una cosuccia da nulla
paragonata alle tue capacità: tu eviti che Manny mi veda per
una manciata di
minuti, ed io ti faccio fare tutto il trombaris che vuoi, possiamo
continuare
fino all’eternità se ti aggrada la cosa.»
E
Phobos sapeva che l’aggradava, oh se lo faceva.
Eppure
a Comet il dubbio era rimasto, tanto che
aveva allontanato la mano dell’uomo:
«Non
per farmi gli affari tuoi, Phobosuccio, ma
che cosa Manny non dovrebbe vedere, esattamente? Abbiamo sempre fatto
trombaris
senza tutti questi problemi, per caso l’andropausa ti ha
fatto salire la
vergogna di mostrare il tuo amichetto all’Uomo della
Luna?» chiese ridendo ed
indicando un punto fin troppo definito verso l’inguine
dell’altro:
«Abbiamo
già appurato che la regola della elle non
è valida, non penso che tu possa aver sviluppato una crisi
esistenziale su
quanto il tuo pene sia più grande rispetto a quel-
«Ci stai o
no?» domandò a bruciapelo
cogliendola abbastanza di sorpresa.
Non
seppe quale divinità lo assistette in quegli
istanti di tensione in cui gli occhi color magenta di Comet si
incontrarono con
i suoi che parevano oro liquido, non seppe nemmeno come Harmonia non lo
avesse
ancora fulminato per quel complotto attraverso i suoi mistici poteri da
big
queen, stava di fatto che ad un certo punto si trovo la mano stretta in
una
presa decisamente convinta da parte della donna, che lo osservava con
un
sorriso compiaciuto:
«Ci
sto Phobosuccio, per il trombaris questo ed
altro» confermò iniziando a volteggiare
visibilmente eccitata dall’idea che
avrebbe avuto la serata ubriaca che tanto agognava:
«Dammi
una decina di minuti e intanto preparati
per l’ennesima delle nostre avventure sessualmente perverse,
prendi anche il
ghiaccio che la tequila mi piace fredda: già arrivare fino a
Manny è
complicato, farlo senza che le guardie della tua amica e di tutti i
suoi
compagni guardianosi ci scoprano e tutt’altro lavoro, ed
è decisamente più
difficile.» spiegò assumendo quello che doveva
sembrare un atteggiamento serio
ma che era risultato essere l’ultimo di tanti atteggiamenti
ambigui tipici di
Comet, per poi subito sparire lasciando dietro di sé una
striscia di fiamme che
sembravano poter ghermire anche la nuda roccia fredda, le quali erano
andate
diradandosi poco dopo in una soffice nebbiolina rosata.
Era
fatta.
L’aveva
convinta.
Non
poteva nemmeno crederci.
L’attesa
era stata qualcosa di incredibilmente snervante,
soprattutto perché era incredibilmente complicato vedere
fuori dall’Abisso dal
fondo dove lui si trovava, e la tensione non era palpabile solo per
lui:
nonostante il Ciciarampa di Comet lo avesse preso ben poco in simpatia
fin dal
primo istante ora se ne stava accucciato in un angolo con le zanne
snudate in
un costante ringhio di paura ed intimidazione allo stesso tempo mentre
i suoi
leoni, fino a pochi minuti prima terrorizzati dall’improvvisa
apparizione del
sigillo imposto dalla magia di Harmonia secoli addietro, ruggivano come
non
facevano da tempo immemore, il rumore degli artigli che raschiavano la
pietra
come se volessero squarciare la terra per tornare dal loro padrone dopo
chissà
quanto tempo di prigionia.
Sarebbero
tornati, lo avrebbero fatto presto,
Phobos ne aveva l’assoluta certezza.
Ad
un certo punto, così preso e concentrato su se
stesso ed i propri progetti, quasi non aveva fatto caso al bagliore
rosato nel
cielo blu note appena percettibile da dove si trovava: dunque Comet era
arrivata dove doveva, ed evidentemente era pronta ad iniziare quel
piano che,
se mai fosse riuscito ad andare a buon fine, lo avrebbe tirato fuori da
quel
buco; forse quel lampo era stato il suo modo per dirgli “ed
ora stai a guardare, bellezza, mentre ti mostro di cosa sono capace
pur di avere il trombaris”, o più
probabilmente era solo l’inizio di uno
dei suoi soliti spettacoli decisamente ed immensamente egocentrici.
Poco
male, gli bastava che funzionasse.
O
almeno lo sperava, dato che Manny non era
l’unico occhio presente in quel cielo notturno:
c’era l’Altro, c’era quella
donna sulla costellazione di
Orione e c’erano i Pilastri della Creazione.
Manny
era ben circondato di alleati come di nemici,
su quello non poteva avere dubbi, ma ora anche lui avrebbe avuto la
fetta di
quella torta, quella che gli avevano rubato secoli prima.
Se
tutto fosse andato a buon fine, ovviamente.
Comunque
sarebbero andate le cose, per ora Phobos si
limitava ad osservare la scena dal fondo dell’Abisso con
tutta la calma che
poteva concedergli il Ciciarampa che aveva poggiato il proprio
fondoschiena
squamoso-peloso-pescioso sul divano:
«Penso
sia inutile chiederti di spostart-» gli
fece notare ricavandone solo un ringhio annoiato di disapprovazione,
così fece
spallucce ed afferrò i popcorn che Comet aveva portato per
la serata a tema
Game of Thrones, ma proprio mentre lo faceva l’altro aveva
infilato il proprio
muso nella ciotola coprendo di bava i pochi chicchi rimasti dentro:
«Mi
prendi per il culo? Non mi faccio sottomettere
da un pollo gigant-» disse senza finire la frase che
si trovò coperto di
saliva alquanto viscida fino alle punte dei lunghi capelli rosso rubino.
Almeno
non avrebbe dovuto metterci il gel, se
doveva vedere il lato positivo della cosa.
Fu
questione di secondi prima che avvertisse un
boato provenire dall’esterno, e allora aveva capito che lo
spettacolo era
iniziato, il suo spettacolo.
Ora
doveva solo aspettare che venisse calato il sipario.
Arrivata
nel vuoto dello spazio, ad appena qualche
chilometro dalla Luna, Comet si era fermata qualche istante a
contemplare
quello che gli umani consideravano un semplice satellite del loro
pianeta ma
che, allo sguardo di un Guardiano o di una creatura come lei, altro non
era che
la base di quel big boss che era Manny, noto anche come
l’Uomo della Luna, lo
Stronzone Astemio o il Caino di turno a seconda
dell’interlocutore.
E
del suo gemello sociopatico con manie di protagonismo,
ma quella era una questione ben più spinosa che a lei certo
non poteva
interessare, menefreghista com’era.
Era
bella, la Luna, quella specie di sfera bianca
che sembrava immobile nell’oscurità
dell’Universo quasi a sorvegliare dalla sua
postazione ciò che la circondava, e da alcuni punti di vista
era proprio così:
Manny non interveniva mai, quando non aveva interessi particolari, lui
si
limitava ad osservare, osservare ed ancora osservare, ritanato
com’era nella
sua base con fiumi d’aranciata e caramelle mou, ma allo
stesso tempo non si
lasciava sfuggire nulla in nessun luogo.
Ma
per sorvegliare bisogna vedere l’oggetto della
propria sorveglianza, ed era proprio per quello che Comet si trovava
lì:
l’influenza dell’Uomo della Luna sui guardiani, la
sua opera di osservazione
continua, la mancanza di poteri di Phobos, tutto dipendeva dalla
costane
presenza di Manny che si manifestava nel cielo ogni notte, in qualsiasi
condizione atmosferica.
Tranne
durante un’eclissi totale lunare: se
un’eclissi oscurava la vista della Luna da ogni luogo
conosciuto ai Guardiani e
viceversa, Manny non poteva vedere, e quindi non poteva nemmeno
intervenire.
E
lo scopo era proprio quello.
Comet
non ci aveva messo molto a richiamare a sé
tutta la forza che si portava dentro, una sorta di potere che si
portava dentro
da quando ne aveva memoria: qualche secondo ed il suo corpo era stato
avvolto
dalle stesse fiamme rosate mostrate poco prima a Phobos, talmente
intense e
luminose da farla sembrare del tutto simile ad un piccolo Sole in
miniatura che
nulla aveva da invidiare alle stelle più brillanti del
firmamento, le sottili
strisce color magenta che andavano a confondersi con i folti capelli
dello
stesso colore in quella che ricordava vagamente la danza che
l’altofuoco faceva
quando veniva scatenato contro chi si trovava sul proprio cammino.
E
adesso sul cammino di Comet E. Halley c’era la Luna.
Non
voleva distruggerla, ovviamente, ma sarebbe
ugualmente bastato, oltre a dare una mano a Phobos, anche a dimostrare
a Manny
fin dove riusciva a spingersi quando aveva qualcosa per cui impegnarsi,
il che
era decisamente raro data la sua natura incredibilmente dedita al
fottesega
generale che l’accompagnava fin dal primo giorno in cui si
era trovata in quel
misterioso luogo chiamato Universo, fra i complotti dei Guardiani e
quelli
della Costellazione di Orione con annessi e connessi.
Ancora
assopita nel suo dolce naufragare nel mare
stellato del firmamento non si era nemmeno accorta delle sue fiamme che
si
erano sparse qua e là iniziando a donare alla Luna un
malsano color magenta, a
dir poco accecante agli occhi di chi non fosse abituato alla
luminosità della
distruzione come lei: la superficie biancastra del satellite che andava
pian
piano sparendo in un sottile velo pietoso steso da una forza della
natura come
Comet E. Halley, i crateri ormai ridotti a chiazze rossastre dove
decine di
serpenti fiammeggianti combattevano fra loro innalzando colonne
d’altofuoco che
avrebbero continuato ad ardere fino alla fine delle stelle, la Luna che
sembrava sempre di più simile al Sole non troppo lontano per
intensità e luce
con la differenza che, se l’astro si sarebbe spento arrivato
alla sua fine, le
fiamme che bruciavano l’aria del satellite terrestre lo
avrebbero fatto solo
quando Comet lo avrebbe comandato.
E
cioè appena vide un lampo violaceo ruggire dalle
profondità del cosmo con una violenza tale da scatenare
un’onda d’urto che
aveva investito le sue fiamme dissolvendole in qualche istante ancora
prima che
fosse lei a comandarglielo: aveva percepito qualcosa, una sorta di
immensa
forza liberarsi dai meandri dell’Universo, un qualcosa che le
sembrava
tremendamente sbagliato ma che allo stesso tempo, a conti fatti, non
avrebbe
nemmeno dovuto interessarle.
I
poteri di Phobos, ecco cosa doveva essere ciò
che aveva percepito: nessuno sapeva dove Harmonia avesse seppellito
l’oscurità
che aveva corrotto la sua anima dopo la guerra nella quale, sempre a
suo dire,
l’aveva perso, nemmeno Comet nei suoi secoli di vagabondare
era riuscita a
scoprirlo con certezza, ma qualsiasi posto fosse ora non importava
più, dal
momento che era appena stato violato malissimo nemmeno fosse la linea
Maginot.
E
probabilmente lei non era stata l’unica ad avvertirlo.
Il
potere.
Il
suo
potere.
Lo
poteva sentire chiaramente adesso,
ogni singola cellula del suo corpo stava gridando come mai
aveva fatto negli ultimi secoli per riprendersi il nutrimento della
quale erano
state private, ogni atomo della sua coscienza sembrava essersi appena
risvegliato da un letargo durato quella che gli era sembrata
un’eternità: Phobos
non si aspettava una reazione così violenta da parte del
proprio corpo, era
qualcosa di totalmente inaspettato e stranamente piacevole, una fitta
lancinante, esattamente come quella che aveva provato mentre Harmonia
gli strappava
dal petti propri poteri.
Ma
questa volta avrebbe sopportato, avrebbe patito
anche le pene inflitte dai Chandrasekhar ai traditori pur di riavere
indietro gli
stessi poteri che gli avevano tolto per puro egoismo ed invidia verso
l’immensità delle cose che avrebbe potuto fare se
li avesse avuti.
Buone
o cattive non aveva importanze, ora
le avrebbe fatte, dalla prima
all’ultima: la prima era di evadere dall’Abisso
dopo qualche secolo, l’ultima
era di avere la corona di Harmonia, l’approvazione di Manny
e, chissà, forse
riusciva anche a farci scappare dentro un’improbabile
alleanza con gente del
calibro di Idhunn Orionis Chandrasekhar.
Ma
forse per ora era meglio limitare i progetti ai
regni vicini, il resto delle Costellazioni poteva anche aspettare.
Ancora
con la mente offuscata dalla temporanea
perdita di orientamento, Phobos aveva dovuto combattere con tutta la
volontà
che aveva in corpo per restare cosciente quando aveva iniziato a
bruciargli in
modo insopportabile il braccio destro che ricordava di aver
già provato, e
allora aveva abbassato lo sguardo: un marchio violaceo, il suo marchio, una sorta di segno in
rilievo sul dorso della mano
destra dalla vaga forma a stella dalla quale si diramava quello che
sembrava un
vero e proprio labirinto di linee viola che andavano dal gomito fino
alla punta
delle dita.
Se
lo portava dietro da quando ne aveva memoria, e
cioè da qualche secolo a quanto la sua mente gli permettesse
di ricordare, e
con il tempo aveva imparato che non era nulla di buono agli occhi dei
Guardiani: loro lo consideravano una sorta di segno indelebile di
chissà quale
maledizione ad opera di un certo individuo contro il quale anche Manny
aveva
combattuto, a lui dannatamente estraneo, Phobos invece lo vedeva come
la fonte
inesauribile di forza dalla quale traeva la maggioranza dei propri
poteri da
quando aveva preso parte “alla guerra che lo aveva reso il
mostro che era ora”.
Ed
ora quel marchio pulsava come non aveva mai
fatto, molto più intensamente di quanto facesse quando usava
quel briciolo di
potere che gli era rimasto: non sapeva come ma a quanto pareva Halley
c’era
riuscita, a distrarre quella palla di ciccia lunare di Manny,
c’era riuscita ed
ora non c’erano più le catene
dell’Abisso a fermarlo.
Come
per comprovare la ritrovata forza Phobos si
era affacciato ancora una volta verso la voragine dove i suoi leoni
ruggivano
furiosi, questa volta senza il terrore negli occhi di dover
fronteggiare il
sigillo di Harmonia un’altra volta, motivo per cui aveva
poggiato senza paura
la mano che recava il marchio sulla fitta rete di rampicanti fioriti
che lo
separavano dalle sue adorate bestiole:
«Non
puoi nemmeno immaginare cosa abbia dovuto
passare qui dentro…» disse fra sé e
sé mentre si chinava inginocchiandosi con
la mano tesa ed aperta, i capelli cremisi che ricadevano sul volto
nella parte
non legata da una lunga treccia portata penzoloni sulla schiena.
Che
tuttavia non riuscivano comunque a nascondere
quello sguardo dorato pieno di rabbia:
«Le
umiliazioni, il dolore, le notti passate a
biasimarmi… tu non lo sai Harmonia, non lo hai mai saputo,
anche se pretendevi
di sapere cosa stessi passando…»
continuò mentre i viticci avevano iniziato a
ricoprirsi di sottili fili violacei che lasciavano dietro di
sé solo dei
tralicci secchi, una sorta di danza dove i fiori iniziavano ad
appassire e le
rose a sfiorire, quasi fossero inevitabilmente consumate da una forza
più
grande:
Phobos
sentiva chiaramente una forza immane
montargli dentro l’anima, nelle profondità
più nascoste del suo essere, ed era
anche perfettamente consapevole del fatto che ne avrebbe perso il
controllo
molto presto:
«Mi
hai sconfitto due volte, quando hai preso il
mio regno e quando mi hai sbattuto qui dentro, ma oggi le cose
cambieranno, oh
se lo faranno…» asserì digrignando i
denti per l’odio che gli stava ribollendo
dentro, un odio senza freni, quasi viscerale, lo stesso che qualche
istante
dopo lo aveva travolto senza che se ne rendesse minimamente conto.
Era
stata questione di secondi perchè la rete di filamenti
si estendesse tutta intorno trasformandosi improvvisamente in vere e
proprie
fiamme del tutto simili alle stesse che utilizzava abitualmente, solo decisamente più distruttive,
un disegno
che richiamava quello che portava sul dorso della mano capace di
sprigionare un
calore talmente intenso che la rete di rampicanti era andata
dissolvendosi in
cenere in un rombo di tuono che aveva scosso l’intero Abisso
facendo cadere
qualche piccolo sasso dalle pareti.
E
allora i suoi leoni erano usciti dalla loro
gabbia secolare, per non dire millenaria: il loro aspetto, un tempo
quello di
maestose creature nere come la notte con due occhi color rubino, ora
era
ridotto a dei veri e propri scheletri con brandelli di pelo che
cadevano qua e
là, non avevano nulla a che fare con le creature possenti di
un tempo,
esattamente come lui.
Ma
bastò che uno di loro si avvicinasse, uno dei
più grandi ed imponenti nel branco, e poggiasse il muso
sulla mano del padrone
quasi a fargli le fusa perché il cambiamento fosse radicale:
le bestie si erano
trovate legate a terra da diafane funi viola intenso che brillavano
più della
luce del Sole, avevano iniziato a ruggire forse spaventati o forse
grati, ma
alla fine di tutto, alla fine di quella tortura, ciò che ne
era uscito era un
gruppo di mostri più grandi di un uomo, i
suoi mostri: le criniere che fiammeggiavano di un fuoco nero
come la pece,
gli artigli e di canini bianco avorio snudati della stessa dimensione
di un
palmo umano, il manto che pareva essere fatto
d’oscurità in netto contrasto con
i rubini rosso sangue che lampeggiavano minacciosi sotto il voluminoso
pelo.
Quanto
gli erano mancati, i suoi dolci felini ruggenti, quanto?
Troppo,
Phobos lo sapeva fin troppo bene, e sapeva anche
che era ora di lasciarsi andare una volta per tutte: non aveva
più senso darsi
un freno, non c’era più nessun motivo per cui
avrebbe dovuto interessarsi alla
vita altrui, e forse fu proprio che, inconsciamente o meno, che lo
volesse o
no, finì per evocare sotto di sé quello che
ricordava vagamente un cerchio
alchemico d’altri tempi che recava lo stesso disegno sulla
sua mano.
Poi
i bordi viola acceso di quell’anello si erano
sparsi un po’ ovunque nell’Abisso, si erano
irradiati fino alle pareti e, quasi
mossi da una forza troppo grande anche per Phobos, avevano preso una
volontà
tutta loro: ogni singola linea di quel tracciato si era illuminato di
un’intensa luce nerastra per poi trasformarsi in serpi
incandescenti che nel
giro di pochi istanti avevano finito per sopraffare Phobos in un
vortice di
fiamme del quale non aveva nessun controllo, ed era felice di non
averlo, per
convogliare infine in una colonna di fuoco talmente luminosa da aver
accecato
anche la povera Comet, decisamente abituata a piccoli Soli tascabili,
appena di
ritorno dal suo viaggio interstellare di qualche minuto.
Un
boato.
Un’esplosione.
Poi
l’Abisso era crollato.
Phobos
aveva faticato ad accorgersi dell’arrivo di
Comet, che era atterrata dopo qualche istante di indecisione sul luogo
dove
appoggiare i piedi per non finire arrosto anche lei:
«Phobos?
Cosa stai combinando? Io me ne vado dieci
minuti e tu distruggi l’Abisso?» chiese cautamente,
ma l’altro pareva
totalmente assente, non c’era nulla nel suo sguardo che le
potesse far
intendere che sì, l’aveva sentita, così
decise di avvicinarsi ancora:
«Phobos?
Phobos ci sei? Mi senti?» fece appena in
tempo a dire quando si trovò accerchiata dai leoni del
compagno, delle belve
fameliche che avevano iniziato a ringhiarle minacciosamente contro
costringendola ad indietreggiare ed allontanarsi dal padrone; Comet se
lo
sentiva dentro, che c’era qualcosa di dannatamente strano e
sbagliato in tutto
ciò che le si prospettava davanti, quasi la stessa
sensazione che aveva avuto
quando quel lampo aveva attraversato il suo campo visivo mentre si
trovava a
cazzeggiare qualche momento prima.
Non
seppe perchè sentì l’istinto, poi
rivelatosi
sbagliato, di toccargli la spalla, stava di fatto che appena la sua
mano
l’aveva sfiorato si era trovata con il polso bloccato in una
morsa dalla quale
si sarebbe difficilmente liberata:
«Cosa
cazzo stai facendo? Si parlava di trombaris,
non di uccidaris!» gli urlò contro cercando di
divincolarsi furiosamente, ma
l’altro non dava alcun segno di cedimento, anzi sembrava
sempre più convinto di
ciò che stesse facendo, e allora Comet decise di passare
alle maniere forti:
«Non
dire che non ti avevo avvisato!» asserì
mentre un luccichio rossastro cominciò a brillare sulla sua
mano, delle sottili
fiammelle rosate che andarono presto a ricoprirle
l’avambraccio quasi a
proteggerla da quello che doveva essere il suo alleato di vodka
preferito.
Non
avrebbe mai voluto colpire Phobos con
l’intento di fargli del male, sarebbe stato un vero peccato
se avesse rovinato
anche il suo amichetto di trombaris preferito, ma in quelle
circostanze, in
quella situazione, attaccarlo con il suo altofuoco era
l’unica opzione
possibile per tirarsi fuori da quella questione così
spiacevole.
Se
solo avesse sortito un qualsiasi effetto.
Non
aveva nemmeno fatto una piega che fosse una.
Non
si era mosso di un millimetro.
Niente
di niente.
Anzi,
una cosa l’aveva fatta: il suo marchio aveva
iniziato a brillare di un malsano alone viola acceso
mentre dei filamenti dello stesso colore
sembravano aver iniziato ad espandersi su tutta la lunghezza del
braccio fino
al petto, parzialmente visibile sotto i vestiti rimasti quasi
carbonizzati
durante l’esplosione, per poi prendere posto anche sul polso
di Halley
spegnendo ogni singola traccia di fuoco che incontravano come se lo
consumassero, per non parlare del fatto che lei, quella che si
ricopriva
d’altofuoco come se nulla fosse, ora provava
un’intensa sensazione di bruciore dove
quei filamenti arrivavano:
«Phobos!
Smettila dannato idiota! Lasciami
andare!» gli gridò mentre lo fissava negli occhi
ricavandone solo un brivido
lungo la schiena: erano vuoti,
completamente assenti, lo sguardo di qualcuno che non aveva
più nulla da
perdere perché nulla aveva mai avuto.
Ed
erano pericolosi, tremendamente pericolosi.
Non
c’era più tempo per pensare per Comet, adesso
era solo il momento di agire, se solo avesse saputo come farlo davanti
a quel
puttanaio: Phobos aveva dato di matto, quello era abbastanza ovvio e
visibile,
ed aveva il sospetto che fosse perché il suo corpo, provato
da secoli di
prigionia estenuante, fosse stato improvvisamente riempito con poteri
che
nemmeno lui ricordava più come utilizzare per non esserne
sopraffatto e ridursi
ad essere lui quello controllato dalla sua stessa forza.
Phobos
aveva sempre amato il potere, come tutti
probabilmente, ma se c’era una cosa che le centinaia
d’anni di compagnia a quel
povero disgraziato gli aveva insegnato era che c’era qualcosa che amava ancora di
più dello sconfiggere Harmonia.
E
cioè il trombaris.
Tutti
amavano il trombaris… tranne Manny, quale
sconsiderata l’avrebbe data a quella palla di lardo rotolante
che nemmeno
Sandy?
Manny
che scopava o meno, Sandy che si faceva le
sue bambole gonfiabili tutte sabbiose e sbrilluccicanti o no, alla fine
Comet
si era decisa a tentare il tutto per tutto, anche se prima
c’erano stati altri
tentativi di farlo ragionare:
«Non
vedi come accidenti ti sei ridotto? Per tutte
le stelle di Mother Galaxy, cerca di riprenderti almeno un secondo,
provac-»
non finì che venne zittita:
«Non
ho più bisogno di te, né degli altri, e
nemmeno del tuo pollo che sta correndo via
urlando“coccognè coccognè!”:
non ho
bisogno di nessuno, nessuno!» le disse avvicinandosi a meno
di un palmo da lei,
i loro sguardi che si erano incontrati un’altra volta, ma
Comet non dava alcun
segno di cedimento, anzi:
«Ora
come ora anche tu sei d’intralcio, lo sei
sempre stata: ho dovuto aspettare solo oggi per poter finalmente
riprenderm-»
«Senza
di me saresti ancora chiuso nell’Abisso.»
«Non
mi servivi tu! Potevo fare da solo!»
«Ah
sì, e come? Non mi risulta che tu sia mai riuscito
a combinare qualcosa, o mi sbaglio? Eh? Eh Phobos? Mi sbaglio? Eh?
Eh?»
«Io
non… no! Cioè in realtà
sì… no… oh avanti, smettila
di confondermi!
Mettiamola
così: ci sono cose dove si deve essere
in due, ok? E fra queste cose c’è
anch-» questa volta fu lui ad essere
zittito.
Con
un passionale bacio in cui era stato
trascinato dalla ragazza, tra l’altro.
Nessuno
dei due capì il perché, né tantomeno
Halley riuscì a capacitarsi del motivo per cui le sue labbra
avevano toccato
quelle dell’altro aveva sentito una stilettata che le era
scesa lungo tutto il
corpo mozzandole il respiro, stava di fatto che, anche questa volta,
era
riuscita nel suo intento di calmare la situazione: in modo
probabilmente
inconscio la telecinesi di Phobos era riuscita a frenare il crollo
delle pareti
dell’Abisso evitando il disastro per poi riparare ai danni
fatti riportandole
tutte al loro posto, l’incendio di fiamme nere che stava
addirittura
liquefacendo il terreno si era improvvisamente spento senza apparente
motivo e,
cosa più importante, il marchio sulla mano di Phobos aveva
smesso di brillare,
furtivamente coperto da Vomet con un lembo dle proprio vestito.
Ne
era seguito un silenzio a dir poco
imbarazzante, soprattutto quando Phobos le era crollato fra le braccia
stremato
con gli occhi, a quanto pare tornati alla loro consueta
vitalità, ridotti a due
fessure per lo sforzo; per lei, forse per pietà o forse
perché per qualche
istante si era davvero preoccupata,
cosa rara per una menefreghista come lei, era risultato naturale
stringerselo
al pettoin un abbraccio stranamente materno:
«Fra
le cose da far ein due c’è il trombaris,
soprattutto quello.» disse sorridendo come suo solito mentre
l’altro la
guardava stranito.
Phobos
aveva impiegato qualche secondo a
realizzare l’accaduto, con molta probabilità
perché era ancora mezzo intontito
da ciò che aveva fatto, ma alla fine aveva fissato la
compagna con lo sguardo
perso:
«Cosa
ho combinato… cosa accidenti ho
combinato…»
sospirò fra sé e sé:
«Comet?
Sei ancora intera? Porca merda pensavo di
averti ucciso m-male, io non… non so c-cosa… cosa
d-dire… io non… non volev-»
«Nah,
ci vuole di più per mettermi fuori gioco, se
non ci sono riusciti i Cavalcadraghi Incestuosi Distruggimondo,
piuttosto dimmi
un po’, come ti senti? Ancora rincoglionito?»
domandò senza ricevere
inizialmente risposta.
L’altro
si guardò addosso rendendosi conto di
essere rimasto praticamente mezzo nudo, ma il problema non era il
pudore dal
momento che quello lo aveva abbandonato da un pezzo, il problema era il
braccio
che, forse confuso o magari no, aveva fatto per toccarsi levando il
lembo del
vestito di Halley; lei però lo fermò prontamente:
«Hai
già perso il controllo una volta, fermati e
lascia fare a me» lo rimproverò poggiando la sua
mano su quella dell’altro per
fermarlo, poi si allontanò ed iniziò a frugare
nel borsone che si era portata
dietro tirandone fuori alcune bende, che iniziò prontamente
ad avvolgere
intorno alla zona del braccio di Phobos coperta dal marchio.
Lui
non si oppose a nulla, rimase solo a guardare
indifferente con la testa chinata verso il proprio polso mentre i segni
che lo
solcavano sparivano ad ogni giro della benda bianco latte:
«Non
intendevo dire quello che ho detto, davvero.»
cercò di scusarsi mentre l’altra faceva un nodo
all’altezza del gomito:
«Mh?
Ah sì, non devi preoccuparti: sai meglio di
me che l’opinione degli altri non mi fa né caldo
né freddo quindi stai
tranquillo e pensa a riprenderti, non puoi uscire dall’Abisso
in questo stat-»
stava dicendo quando si trovò le mani di Phobos appoggiarsi
con una delicatezza
innaturale sulle spalle per poi scendere sui fianchi ed infine
indugiare
qualche istante sul suo ventre, quasi stesse decidendo sul da farsi, i
brividi
gelati di prima che si trasformano in una calda scarica che le aveva
piacevolmente percorso il corpo facendole istintivamente inarcare la
schiena.
Quell’improvviso
cambiamento d’umore non la
disturbava affatto, soprattutto quando aveva chiuso gli occhi per
concentrarsi
al meglio sulla sensazione delle mani di Phobos che erano andate
esplorando
ogni centimetro che incontravano nella lenta ma inesorabile discesa
verso il
basso per trovare le curve che stava cercando, esplorandole come un
bambino desideroso
di succhiare il latte dal petto della madre e, sperando che quella
scena non si
ripetesse anche nell’Abisso, Comet si era abbandonata a quel
turbine di
emozioni lasciandogli fare.
Ad
un certo punto sentì il suo respiro contro il
suo collo, un suono profondo e regolare che riusciva sempre e comunque
a
rilassarla, poi si diede al morderle il collo nemmeno fosse un vampiro,
prima
delicatamente e poi con un ardore sempre crescente: le mani di Phobos
che si
tuffavano sotto il vestito facendosi strada verso ben altre curve, il
movimento
felino con il quale era passato dall’accarezzarle
delicatamente i lati dei seni
per poi concentrarsi all’esplorazione di tutta la loro
superficie era stato
qualcosa di dannatamente magico, tanto che non era riuscita a
trattenere un
gemito di piacere che si era promessa di risparmiarsi, il tutto
affondando il
viso nei morbidi capelli cremisi del suo scopamico.
Per
quanto però Halley si stesse divertendo, e per
quanto ormai si fosse praticamente accucciata sul petto
dell’altro ansimando,
c’era stato un momento durante il quale gli aveva afferrato
la mano bloccando
quel suo viaggio erotico nel quale si stava destreggiando ed era stata
lei a
cercare le sue labbra per cercare un bacio passionale, quasi famelico:
adorava
quei momenti, quelli durante i quali nemmeno i ricordi appannati che
tormentavano Phobos ogni istante potevano disturbare i loro rapporti,
erano
qualcosa di assolutamente magico.
Erano
andati avanti qualche istanti, poi lui le
aveva dato tregua sistemandole i capelli arruffati:
«Sei
già stanca, mia piccola stella solitaria?» le
domandò accarezzandole il volto intanto che premeva la
propria fronte contro quella
dell’altra:
«Oh
no, abbiamo appena iniziato, ma ho un’idea
geniale.» propose lei accennando un sorriso malizioso che
aveva inevitabilmente
incuriosito l’altro:
«Spiegati
meglio, avanti.» le chiese mentre l’altra
gli sfiorava le labbra con l’indice come a farlo tacere
qualche istante:
«Facciamo
trombaris lassù» spiegò
indicando la luce del Sole che filtrava
dall’entrata dell’Abisso:
«Abbiamo
già fottuto Manny, tanto vale fottere due
volte quelli che se ne stanno fuori da questo buco di posto scopando
allegramente nei roseti di Phantasia, non credi?»
domandò curiosa.
Era
un’idea geniale.
Assolutamente,
dannatamente, perfettamente geniale.
E
c’era voluto poco perché la mettessero in
pratica, ovviamente dopo essersi messi addosso alla bene e meglio
qualche
straccio preso qua e là dal leggendario borsone di Halley
che nemmeno Mary
Poppins poteva vantare.
L’uscita
ufficiale dall’Abisso Phobos l’aveva
sempre immaginata come qualcosa di terribilmente epico, una scena di
quelle che
sarebbero rimaste impresse nella mente dei suoi nemici per tutti i
secoli a
venire, e la loro non aveva nulla da invidiare ai film mentali che si
era
fatto: l’Abisso stesso era stato pervaso da un rombo
dirompente, un ruggito
ancestrale che l’aveva fatto tremare ancora una volta, poi
era scesa
un’inquietante calma talmente piatta che anche il vento
sembrava aver smesso di
soffiare.
E
alla fine niente, si era scatenato il caos.
Forse
l’Abisso era fuori pericolo dall’imminente
crollo che per poco Phobos aveva causato, ma l’improvviso
lampo di luce che era
seguito all’assoluto silenzio era stato così
intenso da aver illuminato tutto
intorno più intensamente di quanto potesse mai fare il Sole,
un bagliore
probabilmente visibile anche agli occhi di Manny da quanto era
penetrato a
fondo nella nebbia, poi nelle nubi ed infine attraverso
l’etere dello spazio.
Comet
era stata la prima a venirne fuori, e lo
aveva fatto in grande stile: le braccia aperte verso
l’immensità delle
superficie, circondate anche loro dall’alone di altofuoco
color magenta che si
dimenava come se fosse un serpente rabbioso, le donavano
l’insolito quanto
singolare aspetto di una stella nel pieno della sua
vitalità, un piccolo astro
che dietro tutta quella bellezza cosmica nascondeva una forza talmente
grande da
essere distruttiva sia per se stessa che per gli altri:
«Muovi
il culo signore dei gatti! Voglio vedere
cosa ti sei inventato!» lo incitò sedendosi
evidentemente nel nulla mentre
levitava con quel suo sguardo strafottente di chi se ne frega di tutto
e di
tutti.
Lei
gli aveva chiesto un’uscita memorabile, e
Phobos l’aveva accontentata: c’era stato un
brontolio sinistro nell’Abisso
quando Halley aveva voltato lo sguardo, ma era subito stato sopraffatto
da una
vampata di fiamme nere come la notte che erano andate attorcigliando
una
sull’altra fino quasi a toccare il cielo, un turbinio
disordinato che era
andato a ghermire l’aria fino a quando non si era rappreso in
un’enorme sfera
violacea ad una decina di metri da terra, forse qualcosa di
più.
Sembrava
fatta d’acqua, quella sfera, una sorta di
bolla viola percorsa un po’ ovunque da sottili filamenti
nerastri in continuo
movimento, in una perpetua danza plasmata dall’oscurita; poi,
quasi come se
fosse stata scoppiata da un ago, anche quella si ruppe
ricoprì di crepe su
tutta la sua superficie e si ruppe improvvisamente, mossa da
chissà quale
forza: la maggioranza dei resti del guscio di quella sorta di uovo
primordiale
si erano presto trasformati in piccole fiammelle incandescenti,
meteoriti che
andavano a schiantarsi a terra bruciando e distruggendo ciò
con il quale
venivano a contatto mentre altri, per un movimento frutto di
chissà quale
sortilegio, avevano preso ad ammassarsi assumendo le sembianze di un
qualcosa
di non meglio definito, ma che sicuramente era enorme.
Comet
aveva impiegato qualche secondo per mettere
a fuoco la situazione, anche perché non ci stava capendo
moltissimo, ma quando
c’era riuscita era rimasta dannatamente abbagliata da tanta
magnificenza: un
leone, un gigantesco leone completamente nero fatta eccezione per gli
occhi
dorati che scrutavano inquieti il terreno lì intorno, un
mostro fatto di magia
ed oscurità che aveva lanciato un ruggito udibile a centinai
e centinaia di
chilometri di distanza.
E
sulla sua testa, quasi a dominare tutta l’area
intorno come il maschio alpha di un branco, c’era Phobos con
le braccia rivolte
verso la bestia e gli occhi con la pupilla quasi resa invisibile dalla
coltre
di magia che lo stava inebriando: erano bastate poche parole
pronunciate in
chissà quale lingua perché quel mostro chinasse
il muso e facesse scendere il
padrone dissolvendosi in polvere nera poco dopo, un chissà
quale sortilegio che
per quanto fosse meraviglioso gli era costato parecchio in termine di
energie,
ma almeno l’applauso di Halley fu più che meritato.
Fu
solo allora che Phobos le si avvicinò
mettendole un braccio intorno al collo e tirandola verso sé:
«Trombaris
nei roseti di Phantasia, milady?»
domandò curioso mentre l’altra, proprio
come una nobildonna, faceva un breve inchino allungandogli una mano che
lui
prese doclemente:
«Trombaris
nei roseti di Phantasia, milord.»
Nord
aveva subito capito che c’era qualcosa che
non andava quel giorno, ma non capì il perché
subito: forse era il suo sesto
senso di Guardiano, forse erano i pregi dell’esperienza
lavorativa come tale,
forse la vodka che faceva effetto.
O
forse era semplicemente perché in uno dei suoi
mappamondi, esattamente uguale a quello con il quale sorvegliava la
Terra
tranne per il fatto che fosse in formato giga enorme, si era illuminato
un
insignificante quanto fastidioso puntino rosso lampeggiante.
Nord
allora si avvicinò lisciandosi la barba
inquieto, quasi sentisse nell’aria che qualcosa non andava, e
infatti rimase di
pietra quando osservò meglio la posizione della pallina
birbantella:
l’Abisso
di Phantasia, il Regno della Fantasia.
Il
Regno della Regina
della Fantasia.
Il
Regno di Harmonia.
Cazzo.
Buon
Manny.
Per
tutti i cavalca draghi incestuosi.
Accipigna.
Perdindirindina.
Porca
di quella merda.
Svegliatosi
dal temporaneo letargo post-trauamtico
il Guardiano si affrettò a chiamare a raccolta i suoi fidati
yeti impartendo
ordini a destra ed a manca:
«Andate
da altri Guardiani e avvisate loro, dite
che situazione grave abbiamo! Muovete culo pulcioso! Correte dannati
giganti
pelosi da piccolo cervello!» urlò contro ai
poveretti che, presi anche loro dal
panico senza saperlo, si era sbrigati ad aprire portali un
po’ ovunque per
raggiungere gli altri Guardiani.
Non
c’era più tempo da perdere.
__________________________________________
Angolino
dell’autrice
Salve
a tutti fandom!
Ok,
ingresso molto poco epico come quello di
Phobos, MA FA NIENTE :D
Comunque
sia, essendo nuova nel fandom delle
Cinque Leggende mi presento brevemente: sono Rising_Phoenix, di solito
scrivo nel
fandom di Kinnikuman, sono quella che ha millemila storie nella testa
che
prendono vita sulla tastiera a rilento perché è
troppo occupata con il primo
anno universitario, e sono alla mia prima long da queste parti (in
realtà qui
ho già scritto la one-shot “Verrà la
morte e avrà i tuoi occhi”, ma era una
cosa veloce xD).
Che
posso dire di questa fan fiction?
Innazitutto,
ci sono UNA MOLTITUDINE di personaggi
nuovi creati tutti dalla sottoscritta (ed io creo personaggi o quando
mi
vengono in mente a random o quando vedo immagini che mi affascinando
particolarmente, ma non è il caso di questa fan fiction), e
già in questo primo
capitolo ne avete conosciuti due, Halley e Phobos, sui quali vorrei
spendere
due parole: Phobos è un aitante (?) personaggio bipolare di
mia creazione,
mentre Comet E. Halley mi è stata gentilmente regalata dalla
mia dolce puledra
(non fatevi domande :D) letteraria che è _Dracarys_,
che si è anche occupata del suo background e della
definizione della sua
personalità, dovendo essere io a gestirla xD
Ecco,
ora mi soffermerei un attimo su questa bella
persona: credetemi se vi dico che senza di lei non avrei MAI pubblicato
questa
long (soprattutto perché ho cambiato storie dei vari oc ed
idee TROPPO spesso
xD), ero dannatamente insicura sul fare un esordio con una fan fiction
di tale
portata dopo il successo leggermente scarso della one shot, ma mi ha
supportato
e ripetuto di crederci fino a quando? Ieri sera?
Quindi
voglio dirle grazie, grazie tantissimo per
tutto quello che fai nel darmi la tua opinione sulle dubbie scelte di
trombaris
in questa long <3
Passata
la parte piena d’ammmore, cosa devo dirvi
d’altro?
Ah
sì, scusate per la lunghezza IMMENSA, ma non
volevo tranciare in due un capitolo importante come questo: se siete
arrivati a
leggere fino a questo punto vi ringrazio tantissimo, non potete
immaginare
quanto sia importante per me vedere che qualcuno apprezza (spero!)
quello che
scrivo, soprattutto perché è la prima long seria
qui!
Quindi
basta, ho detto tutto, solo una cosa: vi
lascio il disegno fatto da _Dracarys_
dell’uscita trionfale di Halley e Phobos
dall’Abisso, ci tiene a precisare che
è un disegno vecchio di almeno un anno perché
adesso è migliorata come non so
cosa :D
Niente
gente, arrivederci al prossimo capitolo e
buona permanenza in questa long dove si incroceranno Guardiani
dubbiosi,
giumente vogliose e complotti intergalattici (ma questa è
un’altra long, QUINDI
NON FATECI CASO) che nemmeno in Game of Thrones.
Al
prossimo capitolo!
|
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Capitolo 2 *** Come una scacchiera ***
Alla
fine i Guardiani erano anche riusciti a
riunirsi tutti al covo di Nord, solo che la sua agitazione metteva
tutti in un
costante stato di allerta che, almeno alla loro vista, era del tutto
ingiustificata: Calmoniglio che batteva furiosamente la zampa a terra
con le
braccia incrociate, Dentolina che svolazzava a destra ed a sinistra
senza
tregua, Sandman che osservava perplesso, Nord che camminava per la
stanza con
aria severa.
E
poi c’era Jack Frost, beatamente assopito nella
propria ignoranza, che proprio non capiva tutta quella preoccupazione
per la
convocazione sua e degli altri Guardiani: era dalla sconfitta di Pitch
Black
che Nord non li riuniva tutti insieme, anche perché dopo il
suo delirio di
onnipotenza era seguito un periodo di pace e calma piatta, eppure il
Guardiano del
divertimento sentiva nell’aria che gli spirava addosso un
qualcosa di
terribilmente sinistro, come se una qualche forza fosse finita per
inquinare
anche il vento.
Quel
suo atteggiamento di costante disinteresse
verso i problemi che affliggevano gli altri Guardiani probabilmente lo
rendeva
anche il meno considerato fra i presenti, e forse era proprio per
questo che
gli altri quattro parlottavano fra loro senza nemmeno guardarlo, motivo
per cui
aveva deciso di intromettersi con decisione nel discorso:
«Ragazzi!
Ragazzi, avanti! Di cosa parlate, eh? Di
cosa parlate? Eh? Eh?»
iniziò a
chiedere senza ottenere nulla in cambio, ma i suoi dubbi erano presto
stati
sciolti dal Guardiano più anziano:
«Immagino
volete sapere perché ho riunito Guardiani
in periodo di pace, o almeno spero che domanda sia questa
perché ho preparato
discorso.» asserì fermandosi in mezzo alla stanza
e prendendo posto su una grossa
poltrona di velluto rosso per poi invitare gli altri a fare lo stesso,
ma da
parte sua Calmoniglio si rifiutava di fingersi tranquillo:
«Evita
i giri di parole e vieni al punto Nord, non
ho lasciato la mia sessione quotidiana di pittura delle uova per
ascoltare i
tuoi discorsi che fra un’ora non avranno portato a niente di
niente.» si
lamentò sbuffando annoiato, e in effetti il suo stato
rifletteva quello un po’
di tutti.
Il
vecchio Guardiano stava per rispondere alla
frecciatina del coniglio pasquale, ma si era trattenuto iniziando a
massaggiarsi le tempie recitando un misterioso mantra per mantenersi
lontano
dalla voglia di stufato di prima mattina, cosa che però
servì a ben poco dato
che si rivolse verso Sandman, ovviamente occupato a mantenere la sua
costante
calma:
«Manda
Jack a prendere rosmarino, tra poco cuciniamo
coniglio che si lamenta e
mangiamo lui in panino farcito: io non mi divertire a girare
intorno a
discorso, tu divertire a farlo!» gli disse inarcando le
sopracciglia
puntandogli contro il dito:
«Io?
Io stavo lavorando! Pasqua e vicina e tu cosa
fai? Ci convochi così a caso!» rispose impettito
alzando lo sguardo con fare
minaccioso:
«Guardati
intorno, Nord: quello spilungone
maleodorante è stato ricacciato dal buco dal quale veniva, i
bambini credono di
nuovo in noi e siamo belli freschi a goderci la pace che abbiamo
faticato a
conquistare, per quale motivo dovremmo
pensare che c’è un problema?»
fece notare incrociando le braccia ed
esibendo un facepalm degno di Manny in persona.
Nord
da parte sua non sapeva più cosa fare per
convincere Calmoniglio a darsi una calmata, ed ascoltarlo,
così aveva optato
per smetterla con le buone maniere ed iniziare ad affrontarlo faccia a
faccia,
o forse faccia a muso:
«Stammi
a sentire, coda pulciosa, ho
già detto che non mi divertire a convocare
Guardiani, se dico che abbiamo problema allora abbiamo problema, chiaro
o no?»
asserì sperando di averlo finalmente convinto, ma
l’altro gli puntò l’indice
sulla pancia:
«Sorvolerò
sul fatto che mi hai chiamato coda
pulciosa, panzone ubriaco, ma fino
a
quando qualcuno non mi dimostrerà che abbiamo realmente un
problema non intendo
nemmeno muovere una zampa, ok?» rispose a tono
drizzando le orecchie, poi si
girò di scatto e fece per uscire dalla stanza:
«Ed
ora signori, se volete scusarmi, ho delle uova
da dipingere mentre voi state qui a fare GNEGNEGNE tutto il
giorn-»
«Hanno
violato l’Abisso, Phobos è libero.»
disse semplicemente Nord con freddezza,
abbastanza perché al coniglio pasquale si rizzasse la
pelliccia solo a sentire
quelle parole.
Poi
il silenzio.
Il
gelo.
E
non era quello sprigionato normalmente da Jack Frost.
Nessuno
aveva proferito parola, tutti erano come
rimasti pietrificati al solo sentire pronunciare quel nome: Phobos, lo
stesso
che era stato imprigionato non senza difficoltà in quella
spaccatura nel terreno
conosciuta come Abisso, era davvero
riuscito ad evadere dalla sua prigionia?
Certo
che c’era riuscito, ma per loro sfortuna non
erano ancora al corrente di tutto ciò che era accaduto su
Exodus, motivo per
cui ai loro occhi no, non poteva esserci
riuscito, d’altronde non ce l’aveva fatta
fino a quel giorno.
O
almeno quello era ciò che tutti i Guardiani si
ripetevano come una cantilena per cercare di convincersi che la
verità fosse
quella.
Ma
Nord non diceva stronzate, e tutti lo sapevano fin troppo bene.
Persino
Calmoniglio aveva improvvisamente
abbassato le orecchie stringendo i pugni fino a quando non
iniziò a provare
dolore, e tutti i Guardiani erano finiti per guardarsi confusi
l’uno con
l’altro nella speranza di scorgere in almeno uno di loro un
minimo di
sicurezza:
«Avanti
Nord, fai il serio e smettila di prenderci
in giro, sappiamo entrambi che l’Abisso è
inviolabile, figurarsi poi da
qualcuno che non ha poteri, ah!» cercò di
sdrammatizzare ridacchiando
nervosamente per convincere anche se stesso, ma lo sguardo freddo e
distaccato
del Guardiano aveva parlato per lui.
Nessuno
sapeva bene cosa dire, così prese parola
Dentolina, visibilmente spaventata ed addirittura tremante:
«Calmoniglio
ha ragione: Phobos è stato privato
dei propri poteri da secoli, ed anche le sue creature sono state
imprigionate,
non vedo motivi per cui preoccuparci, giusto?»
domandò sbattendo furiosamente
le ali evidentemente disturbata da quella surreale situazione, ansia
alla quale
si aggiunse quella palpitante del coniglio pasquale:
«Nord.
Seriamente. Non può essere scappato. Vero? Vero?»
disse per trovare una conferma
delle proprie parole, prendendo di rimando solo il silenzioso cenno di
Nord di
seguirlo in una stanza che per Jack Frost si rivelò essere
del tutto nuova.
Era
uno spazio immenso, grande decine di volte il
quartier generale del vecchio Guardiano dove si trovava quella sorta di
mappamondo luminoso, con le pareti di un blu talmente profondo da
sembrare
quasi nero interrotto qua e là da sottile filamenti
multicolore che andavano
tutti a confluire in ciò che aveva catturato lo sguardo del
giovane Guardiano,
probabilmente perché occupava buona parte della grandezza di
quello spazio
misterioso: sullo sfondo di quella che sembrava una vera e propria
volta
stellata, con tanto di Costellazioni, se ne stava in un angolo in alto,
quasi
invisibile in tutta la struttura, lo stesso globo che vedeva e rivedeva
nella
stanza principale del palazzo di Nord, così piccolo rispetto
alla grande stella
dorata che se ne stava al centro dell’intricato labirinto che
gli si parava
davanti, circondata su tutti i lati da altre sfere più o
meno grandi.
Avvicinandosi
di più Jack notò che la stella
centrale era in realtà una sorta di composizione che
ricordava vagamente un
castello immerso nello spazio più profondo, recante sopra la
scritta “May the stars shine
forever”, “Che le
stelle possano brillare per sempre”: una frase
rincuorante, pensò il
giovane Guardiano che, ovviamente incuriosito, era finito per spostare
lo
sguardo all’altezza di quella che riconobbe essere la
Costellazione di Orione,
e allora non si sentì più così
rincuorato come lo era stato prima.
“Conquest
and Destroy”, “Conquista e Distruggi”.
Proprio
una cosa tanto bella.
Poco
più sotto a quella scritta, in un punto non
meglio definito di quella sorta di mappa galattica, vide poi una forma
che
ricordava vagamente, molto
vagamente,
una sinuosa fenice azzurro ghiaccio la cui coda si snodava fino ad
incontrare
altre due stelle poste ai due estremi della Costellazione dello
Scorpione, una rosso
intenso ed una verde acceso, il tutto ovviamente coronato dai soliti
motti che
poco lasciavano all’immaginazione: le ali
dell’uccello recavano la scritta “Soar
higher than yesterday, lower than tomorrow”,
“Ergersi più in alto di ieri, più in
basso di domani”.
Poco
ambiziosi a quanto pare, giusto un po’
megalomani.
L’altra
scritta invece aveva lasciato Jack
piuttosto perplesso, ma allo stesso tempo l’aveva fatto
ridere male
guadagnandosi gli sguardi interrogativi degli altri: “Take
it from behind”, “Prendetelo da dietro”.
“Prendetelo
da dietro” cosa, esattamente?
Non
voleva nemmeno saperlo, ma le sue risate
avevano parlato per lui e le guance di Dentolina, improvvisamente
colorate di
un tenue alone di imbarazzo, gli avevano fatto capire che
sì, era proprio quello
ciò che bisognava
prendere da dietro.
Quella
gente aveva fantasia a scegliere frasi ad
effetto, anche troppa.
Jack
Frost era talmente occupato a mantenere la
bocca aperta per lo stupore che aveva ignorato tutto ciò che
gli stava
accadendo intorno, compreso Nord che gli si era avvicinato intuendo
ciò che
aveva catturato l’attenzione del giovane Guardiano:
«Questo
è Palazzo di Creazione» disse calmo
indicando la grande stella al centro:
«Sua
sovrana è Mother Galaxy, proprio lei: donna
potente, Jack, più potente di nostro Uomo di Luna, e tu
sapere perché?» domandò
all’altro, che però scosse la testa:
«Allora
ti dire io perchè: lei fa brillare stelle,
stelle che illuminano buio, e buio essere pericoloso in spazio senza
confini, molto pericoloso.»
asserì toccando dei
puntini luminosi biancastri che si mossero sullo sfondo nero-bluastro
della
stanza come stelle cadenti, per poi posarsi sul naso di Jack Frost e
scomparire
in una nebbiolina biancastra che lo aveva lasciato a bocca aperta.
Nord
si girò verso il giovane, che per poco non
finì con la testa contro la sua immensa pancia, e
spostò l’indice sulla
Costellazione di Orione che tanto aveva inquietato Frost:
«Loro
invece essere Chandrasekhar, signori di
guerra più potenti che Galassia conosca: loro capo
è Idhunn Orionis
Chandrasekhar, donna più temibile che tu puoi avere sfortuna
di incontrare,
sempre se tu riuscire a toccare suoi confini.»
spiegò seguendo con il dito la
sagoma della Costellazione nella sua immensità, per poi
spostare il proprio
sguardo su Jack che tremava nemmeno gli avessero detto che non aveva
nevicato
durante la notte.
Jack
si era anche accontentato di quella
spiegazione palesemente ambigua, ma Calmoniglio aveva dato una gomitata
divertita
a Frost per poi mettergli una mano intorno alle spalle mentre con
l’altra gli
indicava la fenice che si stagliava diafana in quella sorta di cielo:
«Quello
invece è il regno di Jexiha Eclypsis
Aeternae, una donna decisamente poco raccomandabile sotto certi punti
di vista
dalla quale è meglio stare lontani: se si sveglia con le
piume arruffate apriti
cielo, per non dire Galassia!» gli disse scherzoso
scompigliandogli i capelli, ma
Nord non sembrava totalmente d’accordo con la sua spiegazione
piena di
frecciatine:
«Ciò
che coda
pulciosa volere dire è che sovrana di
Costellazione di Fenice non essere
cattiva persona, ma mettere interessi verso polvere di stelle prima di
altro:
Jexiha è potente alleata di Chandrasekhar, ma anche lei
dovere sottostare a loro
se non volere problemi.» rettificò atteggiandosi
come un vecchio professore
voglioso di insegnare.
Un
dubbio però era ancora nella mente di Jack, ma
ci pensò Sandy a sbrogliarsi velocemente: il Guardiano fece
prima apparire una
ciambella fatta di polvere dorata, poi un wurstel, e allora
indicò la
Costellazione dello Scorpione iniziando a fare movimenti ambigui con le
due
pietanze, salvo poi essere fermato da un’imbarazzata
Dentolina:
«Sanderson
Mansnoozie! Per tutti i denti cariati abbi un po’ di riguardo!»
lo sgridò
mentre lui rotolava via tenendosi la pancia dal ridere.
Il
facepalm di Calmoniglio che ne seguì scatenò
anche le risate di Nord, il quale guardò Jack che se ne
stava a metà fra il
divertito ed il traumatizzato a vita al quale era stata appena bloccata
la
crescita, se mai fosse cresciuto:
«Alexia
Dhambros preso molte delusioni amorose,
per questo suo motto è che persone hanno messo in suo
didietro loro pen-»
«Smettetela
con queste cose! Siete vergognosi!»
intervenne nuovamente la fatina dei denti mentre si chiudeva le
orecchie con le
mani iniziando a canticchiare sopra ciò che dicevano gli
altri Guardiani intorno
a lei, tutti lieti che finalmente l’atmosfera cupa di prima
si fosse almeno
leggermente dissolta lasciando poste a battute di pessimo gusto, ma
sempre
battute erano.
A
quel punto Jack stava capendo anche qualcosa,
fra uccelli a destra ed altri uccelli a sinistra, ma una stella
verdastra
collocata sull’altra estremità della Costellazione
dello Scorpione l’aveva
incuriosito, dal momento che non aveva nessuna scritta:
«Il
suo motto quale sarebbe?» chiese perplesso,
prendendosi di rimando lo sguardo altrettanto confuso di Nord che fece
spallucce:
«Nessuno
avvicinato mai abbastanza per chiedere a
Tayaran quale essere suo motto, Jack Frost, strega di fuoco verde
è tanto
misteriosa quanto acida quando suoi incantesimi non funzionare,
soprattutto
incantesimo di trasformare sassi in pizze: meglio non fare domande su
lei, o
potresti trovare tuo letto con fuoco, e allora tu diventare pizza
fumante, ah!»
lo liquidò lasciando più inquietato di quanto
già fosse per via della storia
dei Chandrasekhar.
Dopo
essere tornato con i piedi per terra al
seguito dei violenti brividi che gli avevano percorso la schiena, una
cosa decisamente rara per lo
spirito dell’Inverno,
si era ricomposto ed avvicinato ad un minuscolo quanto insignificante
pallino
luminoso rosso scarlatto che lampeggiava incessantemente sulla
superficie di un
altro di quei globi, che recava la curiosa scritta “May
Her hooves never be shod”, “Possano i suoi zoccoli
non essere mai
ferrati”.
Il
Guardiano stava per allontanarsi quando l’altro
si riprese dal suo temporaneo stato di torpore e subito
afferrò la manica della
sua giacca per chiamarlo:
«E
questo?» chiese indicando curioso il puntino
rosso lampeggiante; il viso di Nord si
era improvvisamente trasformato in una maschera che non
lasciava
trasparire nessuna emozione, ma poco dopo aveva cercato di sembrare
perfettamente calmo:
«Quello
è Abisso, luogo più oscuro che tua mente
possa mai immaginare, ancora più oscuro di lato nascosto di
Luna dove abita l’Altro,
ma tu giovane Guardian-»
«Nord! Per
l’amor dei molari taci!» lo interruppe
Dentolina volando vicino a lui con
un guizzo repentino e tappandogli la bocca con le sue mani coperte di
soffici
piume variopinte.
Ma
era troppo tardi, e dagli sguardi attoniti dei
compagni anche Jack lo aveva capito.
«Momento
momento momento!» lo interruppe bruscamente
sbattendo il proprio bastone contro le pareti, che risposero con un
sordo eco
sinistro:
«Posso
capire di essere il novellino, che magari
ci siano cose delle quali non mi avete mai parlato, ma siamo sinceri:
l’Abisso?
Il lato nascosto della Luna? L’Altro? Ragazzi, ma
di cosa state parlando?» aveva subito domandato
Jack non più
incuriosito quanto insospettito, sospsetto che venne messo da parte
piuttosto
velocemente:
«Ma
no Jack, nulla di importante, non ti
nasconderemmo mai nul-»
«Lo
state facendo, e vorrei delle risposte: le
esigo, me le dovete.» ordinò con aria
severa, talmente tanto da non sembrare nemmeno lo scherzoso Guardiano
del Divertimento.
E
allora il brusio di sottofondo, provocato dai
Guardiani che confabulavano fra loro rimproverando il povero Nord,
colpevole di
aver parlato troppo, si era improvvisamente interrotto, quasi come uno
sciame
di fastidiose mosche spazzato via dalla brezza che spirava dietro il
giovane
Guardiano, che al momento sembrava leggermente
nervoso.
Nessuno
aveva osato proferire parola dato che parlare
di quello sarebbe stato difficile
per
tutti, ma alla fine Jack aveva ragione: c’erano complotti che
lui non
conosceva, stelle che brillavano dove non avrebbero dovuto farlo,
fratelli che
tornavano per riprendersi ciò che avrebbe dovuto essere
loro, famiglie talmente
potenti da poter spazzare via il creato con il semplice schiocco delle
dita, c’erano
Abissi dove erano stati gettati problemi, ricordi, nostalgie, dolori,
sofferenze, promesse.
E
persone, soprattutto quelle.
Il
silenzio che era seguito all’ordine di Jack era
stato imbarazzante ed inquietante allo stesso tempo, sembrava quasi che
persino
il tempo stesso si fosse fermato dalla curiosità di
conoscere la risposta alla
domanda del giovane Guardiano, ma alla fine Nord aveva raccolto tutto
il
coraggio che sentiva di avere dentro e si era limitato ad avvicinarsi a
Jack,
che lo guardava non senza diffidenza, per poi fargli mestamente strada
verso
una stanza collegata a quella in cui si trovavano: era più o
meno grande quanto
l’altra, con le pareti bianco latte ed un arredamento che,
fatta eccezione per librerie
che si innalzavano per metri e metri fino all’apertura
circolare sul soffitto,
decisamente molto sobrio composto da un grosso tavolo centrale ed una
dozzina
di sedie poste intorno ad esso.
Dopo
aver fatto accomodare tutti, compreso Frost
che si era quasi sdraiato sulla sedia, Nord aveva fatto per prendere
una teiera
che gli era gentilmente portata da uno dei propri yeti, il tutto
fingendo di
non vedere l’impazienza negli occhi del giovane Guardiano:
probabilmente Jack
temeva che stesse per prenderlo in giro con un’altra delle
sue storie come
faceva sempre, giusto per distrarlo dal vero obbiettivo, ma aveva
dovuto
ricredersi quando si era trovato faccia a faccia con i volti di tutti
gli
altri, con un velo di tristezza a nascondere la gioia di pochi istanti
prima e
gli occhi ridotti a due fessure dalle quali non traspariva nulla se non
un
crescente senso di sconfitta.
Il
primo a prendere parola fu proprio Nord, il
quale cercava di distrarsi fissando il fumo che fuoriusciva dalla tazza
ancora
bollente:
«E’
stato molti secoli fa, Jack, tanto tempo è
passato, ma noi Guardiani ricordare bene grande guerra di Luna, anche troppo bene» disse mentre
il
costante battere della zampa di Calmoniglio faceva vibrare il tavolo
creando
onde concentriche nel tè:
«Risparmierò
te dettagli, ma questo devi sapere:
grande guerra si è scatenata quando Uomo di Luna ha deciso
di combattere
l’Altro, così noi chiamiamo signore che vive su
Lato Nascosto di satellite, guerra
sua che diventata guerra nostra, di
tutti Guardiani.»
raccontò stringendo il
manico della tazza così tanto che sembrava fosse pronto a
rompersi da un
momento all’altro.
Calmoniglio,
già visibilmente agitato, diede un
colpo con la zampa ad una sedia facendola cadere rovinosamente:
«E
certo che è diventata la nostra guerra, mica
potevamo starcene fuori, ti pare Jack?» lo canzonò
con aria severa «Quando ti
dicono “Come vi ho creato, io vi distruggo!” non
è che hai molta scelta, soprattutto
se devi la tua stessa esistenza ad una palla di lardo
rotolant… no Sandy, non parlo di te.»
precisò facendo
un cenno al Guardiano dei Sogni, che nel frattempo aveva incrociato le
braccia sembrando
offeso dall’affermazione.
L’Uomo
della Luna… che minacciava i
Guardiani?
Manny,
così osannato per la sua indole pacifica e
del proprio ammmore verso i Guardiani che lui stesso aveva creato, che iniziava una guerra contro qualcuno?
No,
non poteva essere lui, gli altri cercavano solo di confonderlo.
Jack
si era quasi sentito tirato in causa a quelle
parole, le stesse che dipingevano l’uomo che gli aveva ridato
la vita come un mostro:
«State
mentendo!» sbottò all’improvviso
sbattendo
con violenza i pugni sul tavolo:
«Manny
non è così! Io lo conosco! Voi lo
conoscet-»
«Lo
conosciamo?» ripeté Calmoniglio
alzandosi ed avvicinandosi a Jack per poi
puntargli minacciosamente un dito al petto:
«Il
tuo Manny, il
tuo caro Uomo nella Luna, ha lasciato che sterminassero la
mia gente, Jack
Frost, lo ha permesso senza nemmeno
battere le sue lunghe e grasse ciglia biondo platino: non mi
credi forse?
Chiedi a loro, avanti!» lo provocò prendendosi di
rimando solo uno sguardo
ammutolito.
E
allora fu lui a parlare, se Frost non voleva
farlo, indicando prima Dentolina:
«Racconta
al nostro amico Jack di come l’Uomo nella
Luna ha lasciato che l’Altro spazzasse via il tuo regno,
dille di come ha
ammazzato le tue sorelle e tua madre! E tu Nord, sì, proprio
tu…» continuò
indicando il vecchio Guardiano, i cui occhi si erano incupiti a tal
punto da
non capire più se quello che provava fosse imbarazzo o
dolore:
«Spiega
a Jack come ti ha fatto trovare il corpo
di Olga, la tua Olga, impalato
sulle
corna del tuo Rudolph, spiegagli quanti anni sono passati senza il
Natale!» lo
accusò puntando infine il dito verso Sandman, che intanto
aveva abbassato lo
sguardo:
«E
tu Sandy, proprio tu che eri l’amicone di
Manny… alla faccia, ah!» disse con una risata
amara e piena di rancore «Narra a
Jack di Phobos, dei tuoi inutili tentativi di salvargli il culo prima
che
l’Altro gli riducesse il cervello ad una pappetta molle che
ha potuto plasmare
a suo piacimento, di come lo abbiamo sbattuto in una fottutissima
voragine su
di un pianeta in culo all’Universo! Raccontaglielo!»
concluse con il respiro che gli moriva in gola per quanta rabbia aveva
messo in
quelle parole, quelle che Jack chiamava “GNEGNEGNE ditemi la
verità GNEGNEGNE”.
Ancora
una volta,
l’ennesima in quella giornata, il silenzio era calato sui
Guardiani,
soprattutto su Jack che guardava Calmoniglio mentre… aveva le lacrime agli occhi?
Calmoniglio?
Proprio
lui?
Lui,
che
ostentava una fierezza ed una forza che nemmeno gli appartenevano, ormai sul punto di piangere come un
bambino?
Ma
presto si era accorto che riportare a galla
quei ricordi non era stato difficile solo per il coniglio pasquale, era
stato
terribilmente difficile per tutti: non conosceva le sorelle di
Dentolina o sua
madre, non aveva idea di chi fosse Olga e nemmeno Phobos, né
aveva mai sentito
parlare della presunta razza dalla quale discendeva Calmoniglio, ma
quelle
cose, quelle che avevano appena incriminato Manny, erano troppo
dolorose per
non essere vere.
Aspettò
qualche minuto perché tutti si
ricomponessero, salvo Dentolina che era stata portata fuori dal
coniglio
pasquale quando era scoppiata in un pianto a dirotto, così
Jack si fece
coraggio per parlare con Nord:
«Manny…
lui… lui
dov’era?» chiese infine stringendosi le
braccia al petto quasi stesse per
avere un mancamento, anche se quello che sembrava sull’orlo
di una crisi di
pianto sembrava essere Nord, che tuttavia trovò la forza per
rispondere:
«Uomo
di Luna occupato a nascondere suo culo
grasso mentre intera galassia combatteva l’Altro, lui non ha
fatto vedere sua
faccia in giro per tutta durata di guerra»
spiegò aprendo una mano e prendendo
una delle piccole stelle biancastre che dall’altra stanza si
era intrufolata in
quella sorta di biblioteca:
«Grandi
famiglie di Costellazioni si sono alleate
per proteggere nostro mondo, loro mondo:
Mother Galaxy salvato tutti, lei e Chandrasekhar stati decisivi per
sconfiggere
Altro, ma anche lei pagato prezzo per idiozia di Manny, tutti
avere pagato.» spiegò prendendo da una
tasca del pesante
cappotto un campanellino con un nastro di velluto verde e rosso che
aveva preso
a girarsi e rigirarsi fra le mani con aria nostalgica.
Jack
non sapeva cosa stesse passando per la mente
di Nord, tuttavia non riuscì a trattenersi
dall’allungare il collo per
osservare meglio l’intricato mosaico di rifiniture su quel
piccolo oggetto
dorato e luccicante, cosa che non sfuggì all’altro:
«Olga
era mia compagna, lei aiutato Guardiani
quando l’Altro arrivato su Terra e minacciato distruzione di
pianeta se noi non
consegnare Manny in sue viscide mani» raccontò
senza distogliere lo sguardo dal
prezioso ninnolo:
«Avvertimento
di Altro è stato fuoco, fuoco che
scioglieva ghiaccio di questo regno, Jack Frost, ma fuoco non poteva
spegnere
volontà di resistere, non di Olga: lei donna coraggiosa,
più di me e di nostri
amici Guardiani, ma anche impulsiva, tanto eh!»
continuò lasciandosi scappare
un sorriso forzato che gli riportò alla mente ricordi che
pensava di aver
dimenticato:
«Olga
combattuto fino a stremo di sue forze con
Altro, più di quanto avere combattuto io: lei guidato slitta
in viaggio senza
ritorno verso mostro, lei e mie renne, nostre
renne, ma lui era potente, troppo potent-»
«Lei
è morta?» domandò stupidamente Jack
pentendosi subito di aver buttato lì una domanda di quel
genere, sapendo già la
risposta tra l’altro.
Nord
impiegò qualche minuto a rispondere, e quando
lo fece si sentiva chiaramente che gli stava costando un carico immenso
di
emozioni non troppo piacevoli:
«Morta
per salvare mio regno, pochi minuti prima
di mio arrivo, insieme a tutti altri Guardiani che hanno guidato
Resistenza di
Terra: dobbiamo a loro nostra vita, se loro non avere combattuto a
nostro posto
allora nessuno avrebbe fatto, a famiglie di Costellazioni non
interessare
nostro piccolo e inutile pianeta.» disse mettendo al proprio
posto il
campanello con il quale stava riportando a galla chissà
quali emozioni
contrastanti, ma non si era reso conto di aver dato al giovane Jack
l’incipit
per una nuova domanda.
La
Resistenza della Terra, l’Altro, i Guardiani
caduti… ecco, proprio loro: chissà chi erano,
cosa proteggevano, se avevano
avuto paura come lui quando aveva affrontato Pitch oppure se si erano
immolati
guardando in faccia la morte.
Tutti
quei dubbi continuavano a ronzare prepotenti
nella mente di Frost, tanto da costringerlo ad altre domande sempre
più
precise:
«Non
voglio essere di disturbo con tutte queste
domande, ma gli Altri Guardiani… insomma, loro…
loro sono arrivati come me? Chi
erano? Cosa proteggevano? Perché loro
son-»
«Oh
oh oh, Jack, quante domande!» esclamò Nord
dandogli una vigorosa pacca sulla spalla che lo fece sobbalzare, poi si
picchiettò la testa con un dito come a pensare:
«In
guerra partecipato sorelle Temporibus,
Guardiane di stagioni su Terra: loro combattuto contro Altro per
salvare grande
foresta di Madre Natura quando lei fuggita, quattro sorelle avere
dimostrato
grande unione in combattimento, molto grande! E Vincent, Vincent
Valentine,
proprio lui caro Jack!» continuò facendogli
l’occhiolino:
«Vincent
era Guardiano di amore, lui è caduto per
primo quando Altro portato disperazione in cuori di gente: nessuno
creduto in
amore per lungo tempo, ma Vincent cercato fino ad ultimo momento di
riportare
speranza, e lui riuscito darci volontà di continuare,
sai?» puntualizzò notando
un leggero rossore sulle guance del giovane Guardiano:
«Anche
piccolo
burrito farcito è mancata come suoi compagni, ma
lei morta ridendo, come
sempre rideva in sua vita: beffata di Altro anche prima di morire,
tutti hanno
sentito sua mancanza quando lei scomparsa in guerra.» gli
disse notando che
anche Sandman aveva accennato un sorriso:
«Ah,
Sandy! Ricordi di lei, di nostra “El
Burrito”? Lei piaceva che gente chiamasse così,
ragazza adorava burritos! Devi
sapere che in real-» stava dicendo quando venne interrotto
dall’arrivo di
Calmoniglio e Dentolina, che ormai sembrava essersi visibilmente
calmata.
Nord
ed il coniglio pasquale, complice
l’imbarazzante discussione di qualche istante prima, non si
erano guardati
negli occhi da quando era rientrato nella stanza con la fata dei denti,
tuttavia lo sguardo pentito di Calmoniglio sembrava parlare da solo.
I
momenti che erano seguiti non erano certo stati
facili, fra litigi vari e ricordi ormai dimenticati che tornavano alla
mente,
ma i pensieri di Jack continuavano a farsi spazio con prepotenze fra le
pieghe
del suo buonsenso, portandolo a fare domande inopportune:
d’altronde nessuno
gli aveva ancora detto chi fosse quel Phobos, e nemmeno gli avevano
raccontato
molto sulla questione dell’Abisso che tanto aveva agitato
tutti, ma c’era una
domanda che lo perseguitava da secoli interi, dal primo istante in cui
la sua
vita era finita in quel dannato lago dove si specchiava
l’imponente sagoma
della luna bianca.
Una
domanda alla quale nessuno aveva mai fatto
riferimento, anche se probabilmente tutti immaginano la
curiosità del giovane
Guardiano al riguardo.
Per
quanto però la curiosità gli stesse ruggendo
dentro
con una furia immane, Jack Frost cercò di trattenersi,
preoccupandosi invece
delle condizioni della compagna di lavoro:
«Tutto
bene, Dentolina?» domandò in modo
piuttosto scontato senza nascondere un velo di imbarazzo che si era
manifestato
con un tenue rossore sulle guance, imbarazzo ricambiato
dall’altra, che accennò
un timido sorriso decisamente forzato:
«Tutto
bene, grazie per l’interesse, Jack, ora sto
meglio.» rispose mostrando fiera le proprie piume che
fremevano dandole
l’aspetto di un passerotto arruffato:
«Si
è trattato solo di un attimo di mancamento,
nulla di qui preoccuparsi: parlare della guerra contro
l’Altro è sempre
difficile, soprattutto…» continuò
sospirando e posandosi a terra, facendo
svanire l’improvvisa euforia di qualche istante prima
«Soprattutto se hai perso
tutto, o meglio tutti, come me… o come Calmonigl-»
«Parla
per te, Dentolina: per quanto possa
apprezzare l’interessamento pensa a preoccuparti delle tue perdite, che alle mie
ci
penso io.» rispose stizzito il coniglio pasquale, facendo
comparire sul volto
della fata un’espressione di rimorso per quelle parole di
troppo.
Calmoniglio
stava soffrendo, ormai Jack ne aveva
la conferma, solo che non voleva ammetterlo; d’altronde
ognuno soffriva a modo
suo, che fosse piangendo o tenendosi tutto dentro non aveva importanza,
ma
nessuno di loro era solo, con tutti i compagni a sostenerlo.
Tranne
Frost, lui era davvero solo: lo
spirito del divertimento, lo stesso tanto amato
dai bambini, quello che aveva rimandato Pitch Black nella sua tana
impolverata
sotto il letto di qualcuno a mangiarsi bruschette alla cenere condite
con le
sue lacrime di solitudine, era sempre stato solo, almeno da quando era
diventato Guardiano.
Non
perché non avesse amici che lo facessero
sentire amato, quelli li aveva, ma c’era una persona della
quale sentiva
terribilmente la mancanza in ogni singolo istante da più di
trecento anni, una
persona sulla quale nemmeno Manny si era mai pronunciato: Emma.
Emma
Overland, la sua sorellina,
chissà che fine aveva fatto… morta era morta,
quello
sicuramente dato tutto il tempo passato, ma in Jack c’era
sempre stata la
speranza di rivederla, magari nelle vesti di Guardiana: nessuno le
aveva detto
nulla sulla sua sorte, nemmeno Dentolina aveva mai tirato fuori i denti
con i
ricordi della piccola, ma era certo che sapessero qualcosa e che non
volessero
proprio rivelargli nulla.
I
Guardiani intanto erano occupati a confabulare,
giustamente senza far caso alla figura di Jack che li guardava dal
basso verso
l’altro:
«Servire
provvedimenti per questione di Abisso,
non potere stare qui a leccare pelo tutto giorno grattandosi
orecchie!»
«Cosa? Parli
tu di non fare nulla? Ah! Raccontaci cosa fai in estate, quando il
Natale non è
così vicino, dillo a tutti!»
«Tu
dire che io essere fannullone? Parlare quello
che fare bagno con fragole in cioccolato fuso!»
ribatté Nord dando vita
all’ennesima discussione del giorno.
Doveva
parlare adesso, non avrebbe avuto altre possibilità.
Per
sciogliere i dubbi di una vita.
Jack
Frost doveva parlare.
Doveva
farlo per sé stesso.
Doveva
farlo per Emma.
Ovviamente
i due continuarono imperterriti, come
se non ci fosse nessuno intorno:
«Io
prendere tue grasse orecchie e farci stufato!»
«Ed
io prendo a calci il tuo lardoso fondoschiena
sotto Natale, così vediamo se riesci a metterlo sulla tua
slitta trainata da
capre vogliose di carrube!»
«Non
ti azzardare ad insultare mie ren-»
«Voi
sapete che fine ha fatto mia sorella, che fine ha fatto Emma?»
Lo
aveva fatto, dunque, aveva trovato il
coraggio di chiedere, ma gli altri non avevano
ugualmente trovato il coraggio di rispondere.
Nessuno
di loro lo aveva fatto.
Ma
se lo aspettavano, era solo questione di tempo:
la domanda non era “se” e
“come” Jack avrebbe fatto domande sulla sorella,
era
un “quando”, una questione con quale prima o poi
tutti avrebbero dovuto fare i
conti senza troppi giri di parole per nascondere la verità
al giovane
Guardiano, nonché al fratello dell’interessata.
Questa
volta, quella in cui Frost si aspettava di
incontrare maggiore resistenza e silenzio di quelle precedenti, i
Guardiani si
decisero finalmente a parlare, e con sorpresa del ragazzo fu Dentolina
a
prendere la parola mentre Dente da Latte si spostava dalla sua spalla
alle mani
aperte dell’altro, che le aveva dischiuse per accogliere la
piccola fata nel
frattempo che la Guardiana della Memoria gli si avvicinava librandosi
lentamente:
«Non
pensare che ti abbiamo nascosto ciò che
sapevamo di lei per farti del male, ti prego» gli disse
mentre la fatina gli si
premeva sulla guancia come ad abbracciarlo «E’
stata una decisione difficile
per tutti, quella di non dirti nulla, ma è stato per il tuo
bene, perché non
volevamo che la notizia di facesse più male di quanto
dovrebbe: noi ti vogliamo
bene, Jack, te ne abbiamo sempre voluto, e volevamo bene anche ad Emma,
puoi
starne certo.» lo rassicurò mentre il suo sguardo
si perdeva negli occhi vuoti
del compagno, probabilmente non ancora pronto ad ascoltare ma
sicuramente
voglioso di sapere la verità.
Su
di lei, sulla sua vita e, con molta probabilità, anche sulla
sua
fine.
Per
Jack fu istintivo prendere nuovamente fra le
mani l’aiutante della fatina dei senti ed iniziare ad
arruffarle le piume
facendola ridere divertita, ma la sua mente era altrove:
«Tu hai i
suoi ricordi? Li hai? Devi averli, Dentolina, quindi
mostrameli, per
favore.» la pregò con gli occhi lucidi, ma
l’altra lo guardò mestamente:
«Purtroppo
non ho i ricordi di tua sorella, però
pos-
«Perché?»
domandò alzando la voce, tanto che Dente da Latte gli
lanciò un’occhiata
infastidita
«Jack,
devi capire che tua sorel-»
«Non
devo capire nulla, vogl… vorrei sapere
dove si trova, solo quello… solo
quello.» continuò mentre le sue
dita, forse per il nervosismo o forse per un gesto inconscio, si
chiudevano sul
piccolo corpo della fatina facendola fremere e contorcere per lo
spavento:
«Jack?»
chiese Dentolina impaurita, non
riconoscendo più l’amico «Jack basta! Le
stai facendo male! Jack! Smettila!»
urlò facendo riprendere il
giovane, che con lo sguardo perso e sconvolto osservò la
creatura che aveva fra
le mani la quale, dopo avergli pizzicato la mano con il sottile becco
per
liberarsi, era schizzata via impaurita verso le braccia di Dentolina.
O
almeno ci aveva provato.
Ciò
che era accaduto negli istanti successivi era
un mistero per tutti, soprattutto la modalità in cui
ciò era avvenuto: tutto
quello che Jack aveva visto era un’imponente figura nera
scagliarsi fra lui e
la fata con un rombo assordante, un qualcosa di simile ad un ruggito
che si era
mischiato ai mattoni ed al legno della stanza che si frantumavano sotto
quell’immane forza che, a quanto pare, aveva fatto irruzione
nella stanza dove
si trovavano tutti.
Udì
un grido strozzato quasi impercettibile,
seguito da uno molto più acuto che gli rimbombava nei
timpani: il rumore di
qualcosa che si serrava con violenza facendo schizzare
chissà cosa contro le
sue guance, un lungo suono sordo accompagnato da un tonfo altrettanto
rumoroso
al suolo, le voci degli altri Guardiani che gridavano chissà
cosa, voci che man
mano diventavano sempre più ovattate ed incomprensibili.
Poi
il rosso.
Ovunque.
Sangue,
era quella la prima cosa che Jack aveva
pensato quando i suoi occhi, aprendosi, si erano trovati davanti solo
quel
colore, un rosso intenso così scuro che non avrebbe lasciato
dubbi a nessuno.
O
meglio, non ne avrebbe lasciati se la sua
guancia, quasi per caso, non avesse sfiorato quella macchia
monocromatica
avvertendo che non era liquida e nemmeno inconsistente, ma sembrava
più simile
a… velluto?
Di
sangue vellutato non ne aveva mai sentito
parlare, così si decise a sgranare gli occhi alzandosi dalla
posizione fetale
che aveva istintivamente assunto, e ciò che vide lo
lasciò ancora più sconvolto
di quanto avessero fatto le storie di Nord: il mare cremisi che aveva
visto non
era altro che il tessuto di un mantello che scendeva morbido lungo i
fianchi di
qualcosa, un qualcosa di non ancora meglio definito, che gli si
stagliava
davanti, una massa grigia che tendeva al bianco man mano che si
avvicinava a
quattro grosse colonne che, in un primo momento, il Guardiano non aveva
capito
bene cosa fossero.
Aveva
reagito esattamente come quando aveva
incontrato Pitch Black, e lo aveva fatto senza pensarci sopra troppo
tempo:
bastone alla mano ed orecchie ancora tappate per il frastuono di prima,
aveva
richiamato il vento come faceva sempre quando doveva togliersi dai guai
il più
velocemente possibile per poi, appena sentita la leggera brezza che gli
aveva
risposto, fare un piccolo salto per cavalcarla.
Salvo
essere atterrato malamente da un qualcosa di
non meglio definito, ma sicuramente ricoperto di un’ispida
pelliccia simile,
almeno per consistenza, a quella di Calmoniglio:
«Non
andrai da nessuna parte, Jack Frost, e ti
conviene non fare scherzi: Spettro non si fa problemi a divorarti, e
nemmeno
io, nessuno lo verrà a sapere.»
gli
raccomandò una voce femminile che inizialmente non
riuscì a distinguere troppo
bene.
Poi
riuscì a distinguerla, e allora sfiorò
l’infarto miocardico: ad appena qualche centimetro dal suo
naso c’era una
gigantesca bocca irta di canini color avorio sporchi di sangue e piume
opalescenti che gli ringhiava contro con un suono sordo che gli
riempiva le
orecchie, due occhi azzurri come il ghiaccio che lo scrutavano in malo
modo.
Sangue…
e piume.
Il
frastuono di poco prima.
Dente
da Latte.
Non
ci volle molto perché facesse due più due e
capisse che il gridolino strozzato di prima fosse quello della povera
fatina,
probabilmente catturata dalle fauci di quella bestia mentre cercava di
tornare da
Dentolina, e in effetti gli bastò guardare la fata dei denti
per capire che
aveva ragione: si agitava convulsamente per scagliarsi contro la massa
grigia,
trattenuta per i polsi da Calmoniglio che se la strinse a sé
non senza una
certa difficoltà, che nel frattempo aveva alzato la testa
quasi a tastare e
fiutare l’aria.
Quello
era il momento buono per scappare, osservò Frost:
con un gesto fulmineo, derivato dalle serate fatte di vodka e limbo
sfrenato, si era lasciato scivolare fra le gambe della bestia
oltrepassandola
in tutta la sua lunghezza che, ad occhio e croce, dalla testa alla
coda,
sfiorava qualcosa come i quattro metri buoni, spuntando vicino ai
propri
compagni con l’aria di chi ha appena vinto chissà
cosa.
Tipo
l’ennesima sorpresa della giornata.
Aveva
ipotizzato che ci fosse una donna a cavalcare
quel mostro dalla voce femminile che aveva sentito, ma non immaginava quel genere di donna: alta e possente,
probabilmente rasentava il metro e novanta d’altezza, il
corpo robusto protetto
da una spessa armatura argentea decorata con intricati motivi floreali,
ovviamente
compreso il prosperoso seno che lasciava ben poco
all’immaginazione dal momento
che era decisamente scoperto a
mostrare il piccolo rubino che pendeva dal collo, armatura che era
identica a
quella che copriva l’immensità del corpo e la
testa del grosso lupo che
cavalcava, con tanto di rubino corredato.
A
guardarla bene era anche affascinante, una
macchina da guerra con il fascino di un’indomita lupa
selvatica: i capelli
biondi lunghi fino alle spalle quasi non si vedevano sotto il cappuccio
rosso
che teneva calcato sulla fronte, cappuccio che si trasformava in un
lungo
mantello che scendeva lungo i fianchi del lupo, ovviamente in tinta con
la
gonna che le copriva a malapena le nudità mostrando tutto
ciò che
l’immaginazione non poteva nemmeno lontanamente immaginare.
Ma
ciò che aveva colpito Frost, e che non avrebbe
dimenticato presto, erano stati gli occhi della donna: freddi
come il ghiaccio, di una curiosa tonalità di
grigio che
tendeva all’argento, si sposavamo alla perfezione con
quell’aria fiera che
aveva avuto dal primo istante in cui aveva fatto irruzione nel covo di
Nord.
Per
quanto Calmoniglio si stesse visibilmente
impegnando nel tenere a bada Dentolina, una sua distrazione ed un
allentamento
della sua presa avevano fatto sì che la fata dei denti
sfruttasse l’opportunità
per divincolarsi più del solito e riuscire a sfuggirli prima
che potesse
rendersene minimamente conto:
«Maledetta!
Maledetta! Maledetta!»
urlò con le lacrime agli occhi mentre si gettava a
capofitto verso la propria avversaria, che invece manteneva uno sguardo
calmo
ed assente.
Forse
perché aveva in mano una lancia di due metri
alla quale nessuno aveva fatto caso prima, forse perché il
grosso lupo aveva
spiccato un balzo verso di lei atterrandola con una zampata, o forse
era perché
ora Dentolina se ne stava a terra bloccata da mezza tonnellata di
muscoli che
tenevano fra le fauci una delle sue ali mentre la donna le teneva un
piede
sulla schiena e la propria arma puntata sulla nuca.
Forse,
ma non ne era proprio sicura.
La
situazione non era delle migliori, ma i suoi
lamenti di dolore soffocati sembravano divertire i due ospiti,
soprattutto
quando la bestia stringeva la presa:
«L’avvertimento
di non fare scherzi vale anche per
te, feticista dei denti, quindi
vedi di
stare al tuo posto e nessuno si farà male… tranne
la tua fatina, lei si è già
fatta male, vero?» la sbeffeggiò sorridendo
prendendosi di rimando una serie di
insulti che lasciarono sconvolto Jack Frost, abituato a vedere la
compagna
calma e riflessiva:
«Non
ti a-aveva fatto n-nulla!» riuscì a
rispondere con un filo di voce, complice il sangue che aveva iniziato a
colare
dai denti dell’animale:
«Non
stava f-facendo nulla… ma t-tu! Tu! L’hai
a-ammazzata! L’ha uccis-»
«Non stava
facendo nulla?» ripeté la donna piegando
la testa «Era sulla mia
traiettoria, quando io e Spettro
sfondiamo i muri non vediamo anche attraverso, non credi?»
domandò inclinando
la testa incuriosita, poi le afferrò il mento guardandola
negli occhi ormai
persi nel vuoto:
«Un
cacciatore non ha pietà per la propria preda, e
la Cacciatrice non ha pietà nemmeno per i
cacciatori, ormai dovresti averlo imparat-»
«Ah,
Scarlet! Piacere davvero rivederti!»
intervenne Nord con un tono stranamente calmo, non certo in linea con
la
situazione, e le occhiate che aveva lanciato ai compagni volevano dire
qualcosa
del tipo “Fate come se nulla fosse
altrimenti qui crepiamo tutti”, e nessuno era in
disaccordo con quell’idea.
Dunque
era così che si chiamava, Scarlet,
l’ennesima di tante conoscenze di quella giornata, o almeno
Jack la vedeva
così:
«Sì,
certo, un vero piacere, non aspettavo altro
che incontrarvi» rispose sarcastica mollando la presa della
lancia su
Dentolina, così Nord ne approfittò per prendere
Jack fra le braccia e
costringerlo ad allungare una mano verso di lei:
«Jack
Frost, lei essere Scarl-»
«Prego,
Nord, le mie presentazioni vorrei
farle da sola, se permetti» lo rimproverò
afferrando la mano del giovane Guardiano che, seppur con titubanza, si
era reso
conto che sua stretta era anche più forte di quella di Nord:
«Il
mio nome è Scarlet Redcape, anche se alcuni
preferiscono rivolgersi a me come la Cacciatrice» si presentò con
un leggero inchino del capo richiamando
a sé il gigantesco lupo, finalmente facendogli mollare
l’ala della povera
Dentolina, ormai ridotta ad un grumo informe e sanguinante di piume
opalescenti:
«Lui
è mio fratello Spettro, mio fratello ed anche
il mio fidato compagno di viaggio: la tua amica ha avuto il piacere di
stringergli la zampa, o forse è
stato lui
a stringerla a lei.» continuò mentre il
lupo, o meglio Spettro, si sedeva
al suo fianco leccandosi i denti ancora sporchi di sangue, ed il fatto
che da
seduto fosse anche più alto di Scarlet non era certo poco
inquietante:
«Serviamo
la principessa guerriera Alice Castle
Wonderwood, sovrana del regno di Fairy Oak del pianeta Exodus, e siamo
qui
perché la mia signora ha modo di pensare che i tuoi amici
Guardiani siano
coinvolti nella liberazione del Ciciarampa, e
tutti sanno cosa succede a chi ruba il Ciciarampa.»
puntualizzò lasciando
tutti con una smorfia di sorpresa sul volto.
Il
Ciciarampa… scomparso?
Una
bestia di dodici metri… scomparsa
nel nulla?
Tutto
ciò aveva senso per i Guardiani, ma non per
Jack Frost, il quale si intromise nuovamente:
«Il
Ciciacosa? Cosa sarebbe? Un animal-»
«E’
uno dei guardiani del regno di Fairy Oak, piccolo
spirito impiccione, e si da il
caso che sia casualmente scomparso quando la mia signora è
stata avvertita
dalla Regina di Phantasia che c’era qualcosa che non andava
con l’Abisso… ma almeno
sai di cosa e chi sto parlando?»
domandò confusa abbassandosi per toccare con
l’indice la punta del naso di
Jack, che iniziò a scuotere la testa prendendosi un facepalm
di rimando:
«Peggio
di quanto pensassi… seriamente non
gli avete detto nulla, nemmeno su Phobos ed Harmonia?» chiese
ai Guardiani, i quali fecero spallucce:
«Stavamo
spiegando lui di Abisso quando tu entrata
senza bussare!» si giustificò Nord
facendo spallucce imbarazzato «Stavamo
dicendo che l’Altr-»
«L’Altro? Lo
chiamate ancora così?»
domandò incuriosita ridendo e facendo una smorfia di
compassione «Sembra quasi che voi, i potenti Guardiani di
Manny, abbiano paura
a pronunciare il suo nome, nemmeno fosse affare vostro
anziché della gente
delle Costellazioni: ma d’altronde bisogna capirvi,
incompetenti come siete
stati nella guerra contro “l’Altro”
è
già tanto che non siate morti male… come
avreste meritato.» concluse tirando
l’ennesima frecciatina della giornata,
quella che aveva lasciato i presenti senza nulla con cui controbattere
alle sue
affermazioni.
Perché
alla fine, che lo volessero ammettere o
meno, erano tutti consapevoli che la loro utilità in quel
conflitto era stata
marginale, decisamente marginale.
Tuttavia,
nonostante la discussione tutt’altro che
pacifica, il motivo per cui Scarlet si fosse scomodata ad attraversare
chissà
quali cunicoli nel ventre dell’Universo per arrivare dai
Guardiani sulla Terra
era ancora ignoto, e Nord dubitava che fosse lì solo per
accusarli di aver rubato
il Ciciarampa:
«Noi
non volere essere poco educati, ma volere
sapere perché grande Cacciatrice venuta da noi, solo per
sapere se noi dovere
preoccupare di avere fatto qualc-»
«Sono venuta
qui per questo» disse indicando al vecchio
Guardiano il puntino rosso che
lampeggiava sul gigantesco globo formato Universo, ormai visibile dopo
che lei
ed il compagno avevano fatto irruzione:
«Alice
ha motivo di credere che Phobos si sia liberato,
o meglio che sia stato liberato:
senza poteri non può fare molto, ma se quei poteri li avesse
riottenuti beh,
lascio immaginare a voi le conseguenze della
cosa…» spiegò incrociando le
braccia «Ed il Ciciarampa è sparito nel nulla:
probabilmente non siete stati
voi a prenderlo, dal momento che non siete capaci nemmeno di
riprendervi la
fiducia dei bambini che quel povero disgraziato di Pitchone vi aveva
sottratto
piuttosto male, ma mi è stato comunque chiesto di
accompagnarvi al cospetto
della mia signora per sciogliere ogni dubb-»
«Venire
a Fairy Oak? Noi non potere venire a Fairy
Oak! Avere molto da far-»
«Non mi
interessa cosa avete da fare nei vostri patetici palazzi»
rispose fredda
con aria strafottente mentre con un gesto felino si era nuovamente
messa in
groppa del proprio lupo, il quale aveva approvato con un ululato appena
accennato.
Vedendo
che ne stavano ancora tutti con le mani in
mano, o con Dentolina in braccio nel caso di Calmoniglio, aveva pensato
Scarlet
a dare una svegliata ai Guardiani, punzecchiando la fata con il lato
meno affilato
della lancia:
«Nessuno
escluso, sia chiaro, e tutti sono pregati
di camminare con le proprie gambe, capito?»
le chiese prendendosi di rimando un cenno assopito «Bene, ora
che siamo tutti
d’accordo vi chiederei di stare indietro, se ci tenete alla
pelle.»
Jack
conosceva solo, oltre al compagno sempre
presente vento, le gallerie di Calmoniglio e le sfere di neve di Nord
come
metodi per raggiungere luoghi lontani, ma a quanto pare quella donna
aveva in
mente ben altro: con la lancia iniziò a disegnare strani
segni sulle assi di
legno del muro rimasto in piedi, il quale si era improvvisamente
ricoperto di
quelle che dovevano essere lettere simili ad antichi quanto arcaiche
rune
violacee, segni che avevano iniziato a brillare mentre lei, con il capo
chino,
recitava formule il cui significato era ignoto.
Appena
il tempo di realizzare ciò che stava
succedendo e Jack si trovò davanti a quello che aveva tutto
l’aspetto di un
portale come quello che utilizzava Nord, solo variopinto dei colori e
delle
forme più insolite: nemmeno lui, come del resto gli altri,
ci aveva messo molto
a fare il primo passo per entrare in quella misteriosa porta verso
chissà cosa,
si sentiva come attratto da una forza invisibile che, volente o meno,
lo aveva
costretto ad avanzare senza sapere la meta.
Qualche
istante di attesa in quel vortice
colorato, poi una luce bianca così intensa da ricordargli
quella della Luna che
gli era apparsa quando era morto, quando era diventato un Guardiano di
Manny,
dell’Uomo nella Luna.
Poi
l’odore dell’erba fresca, nient’altro.
Non
poteva crede ai suoi occhi.
Non
poteva farlo.
Non
doveva.
Ma
lo aveva fatto, nonostante il trauma iniziale:
dinanzi al giovane Guardiano si stagliava un’immensa distesa
di prati ed alberi
dalle forme e dai colori più impensabili che sembravano
macchie di colore
buttate completamente a caso su quella tavolozza verde acceso in un
ordine
talmente casuale da risultare affascinante come pochi, un quadro con
sprazzi
qua e là formati da complessi di case bianche delle
dimensioni più disparate, con
torrenti e fiumi che si sovrapponevano in giochi d’acqua
capaci di rapire lo
sguardo di chiunque, con persone che camminavano da un lato
all’altro di quello
spazio incontaminato affiancate da strani animali dei quali Jack, nei
suoi
oltre trecento anni di vita da Guardiano, non aveva mai nemmeno osato
pensare
potessero esistere, un luogo dove la magia e le favole che conosceva da
quando
ne aveva memoria si incontravano in un perfetto insieme, appunto,
fiabesco.
Il
regno di Fairy Oak, il Paese delle Meraviglie,
si era certo meritato quel soprannome.
Solo
quando aveva alzato lo sguardo aveva poi
notato l’immane castello che svettava lontano da dove erano
atterrati senza
problemi, e quello lo aveva lasciato nuovamente senza fiato: era
gigantesco, un
enorme blocco di preziosa pietra bianca immacolata come la neve fresca,
pietra
che era stata lavorata nei modi più disparati per formare
intricate e sinuose
decorazioni che parevano rincorrersi su quelle mura che, anche se fatte
di pietra,
non sembravano affatto fredde, ma invece riscaldate dai limpidi fasci
di luce
che si riflettevano nelle finestre dai tre soli alti nel cielo.
Tre
soli?
Tre
soli, a quanto pareva: d’altronde erano su un
altro pianeta, non si poteva mica pretendere che ce ne fosse uno
normale che se
ne stava bello fresco nel cielo.
Nord
inspirò a pieni polmoni una ventata d’aria
fresca rilassandosi dopo tutto quello che era accaduto in quel giorno:
«Ah,
quanto tempo! Proprio come ricordavo, tutto
meraviglioso come sempre stato!» esclamò gonfiando
il petto fiero, poi prese di
forza Frost «Visto, Jack? Guarda spettacolo che questo posto
ti offre! Guarda
quanto è meravig-»
«Benvenuti,
Guardiani, nel regno di Fairy Oak.» disse una voce
femminile appena
accennata dietro di loro all’improvviso.
Immediatamente
Scarlet scese da Spettro e fece un
lungo inchino piegandosi sul ginocchio, gesto che venne
sorprendentemente
imitato dal lupo, il quale abbassò il muso piegando una
zampa e tenendo tesa
l’altra come a salutare:
«Mia
signora, ti ho portato i Guardiani come mi
avevi chiest-»
«Suvvia,
Scarlet, prima o poi dovrai abituarti a
darmi del tu senza tutte quelle formalità, ma ti ringrazio
per il tuo operato,
ti sono immensamente grata» la ringraziò con un
breve inchino a sua volta «Vai
pure a riposarti, il viaggio è stato lungo,
penserò io ai Guardiani.» la
congedò per poi, con l’ennesimo gesto formale
della giornata, vederla
allontanarsi insieme al fidato compagno.
Jack
iniziò a squadrare quella che avrebbero
dovuto essere una donna che, in realtà, si era rivelata
essere una ragazzina poco
più alta di lui: i capelli biondi non troppo lunghi
ricadevano morbidi sulle
spalle, incorniciando quel viso innocente coronato da due occhi di un
azzurro
talmente intenso da fare invidia ad uno zaffiro, il corpo esile ma al
tempo
stesso ben proporzionato era coperto, alla faccia
dell’espressione da ragazzina
innocente, da un lungo vestito blu con dei merletti bianchi coperto per
la
maggioranza da quella che aveva tutta l’aria di essere una
pesante armatura
argentea finemente lavorata che, oltre a proteggerle petto e braccia
con una
grossa placca pettorale e dei guanti di metallo, scendeva
sull’ampia gonna
dell’abito in una cascata metallica argentea e dorata
donandole un aspetto da
guerriera reso più mite dal mantello bluastro con pregiate
rifiniture di
pelliccia bianca e nera ai bordi.
E
la spada, soprattutto
quella, una spada più grande di lei che
però sembrava maneggiare senza
alcun problema degno di nota.
La
ragazza li aveva squadrati tutti soffermandosi
su Dentolina tuttavia, quasi senza farci troppo caso, si era rivolta a
Jack
Frost facendogli un cenno con la testa:
«Immagino
che mi abbiano già presentata, ma mi
permetto di presentarmi da sola al nuovo Guardiano» disse
sfoderando un sorriso
che il Guardiano non capì bene se essere sincero o meno:
«Il
mio nome è Alice Castle Wonderwood, principessa
guerriera del glorioso regno di Fairy Oak e generale delle Armate delle
Meraviglie, è un piacere per me conoscere l’ultima
creazione di Manny e presentarti il luogo dove te ed i tuoi amici passerete
l’eternità se non verrà
fuori chi mi ha fottuto il mio dannatissimo Ciciarampa, ma non vorrei
dilungarmi troppo.» spiegò mentre Jack,
baciandogli elegantemente la mano
come si conviene ad un vero gentiluomo, si rendeva conto che il sorriso
e la
gentilezza di prima avevano fatto posto ad uno sguardo minaccioso che
lasciava
presagire ben poco di buono, poi fece strada a tutti ed
iniziò a camminare
senza proferire parola, atteggiamento che venne imitato
all’unanimità.
Era
appena arrivato e già lo accusavano di
qualcosa che nemmeno sapeva!
O
meglio, che
non ancora sapeva.
Ma
lo avrebbe scoperto molto presto.
[
Intanto sulla Luna… ]
«Scacco
matto, per l’ennesima volta.»
Quella
voce iniziava ad irritarlo seriamente, ed
il fatto che provenisse da una donna di quel
fascino lo irritava ancora peggio: anche se non era nei suoi
abiti formali,
la veste bianca che scendeva fino al pavimento accompagnando la sinuosa
forma
della sedia le dava un aspetto a dir poco etereo ed evanescente,
impressione
resa ancora più forte dai lunghi capelli biondo grano
raccolti sulla nuca che
lasciavano ricadere dei grossi boccoli ai alti del viso mentre,
esattamente
come una corona, dei filamenti dorati che ricordavano piccole stelle
scendevano
lungo la folta chioma formando un intricato mosaico d’oro che
pareva provenire
da un’altra dimensione.
Ed
era cosa, più o meno, e guardandola meglio si
poteva capire il perché: gli occhi celesti, se osservati da
vicino,
nascondevano nel loro immenso e profondo mare dei puntini luminosi e
delle
variegate sfumature che ricordavano le forme e di colori di una
galassia,
persino la pupilla pareva essere un vero e proprio pianeta.
E
se quelle prove non fossero bastate per provare
quanto la donna che aveva davanti fosse tutto tranne che una donna
comune
bastava rivolgere lo sguardo verso la sua schiena, dove due grandi e
morbide
ali di soffici piume bianche immacolate si stagliavano prepotenti verso
il suo
interlocutore facendo sembrare che l’altra fosse seduta su
quelle, anziché su una
sedia.
Da
parte sua, l’interlocutore stesso non poteva
che essere d’accordo con quelle frecciatine, visti i
risultati ottenuti nelle
partite dell’ultimo millennio:
«Meravigliosa
come sempre, mi sorprende che Nonno
Drago non ti abbia ancora convocato per un torneo di scacchi con
lui, sarebbe
uno spettacolo per il quale mezza Galassia pagherebbe più
polvere di stelle di
quanta ne estragga Idhunn in un decennio.»
asserì l’uomo mentre afferrava un
bicchiere posto vicino alla scacchiera, il tutto mentre la donna si
lisciava le
lunghe piume imitando il suo gesto: «Non sottovalutare
Idhunn, conoscendola
potrebbe anche sentirti» rispose ridacchiando
«Queste tue lusinghe mi fanno
pensare che tu voglia evitare di parlarne.»
«Parlarne?»
ripeté l’altro come se nulla fosse
«Non so proprio di cosa tu stia
parl-»
«Hanno
risvegliato i poteri di Phobos, poco fa, e
le tue pedine si sono mosse, come d’altronde era prevedibile
che facessero»
continuò alzandosi e rigirandosi il bicchiere fra le dita:
«Mi
chiedo solo come pensi di sistemare le cose,
ora che hai appena permesso che si muovessero dal loro stato di
torpore:
nessuno è disposto a combattere nuovamente in una guerra
come quella appena
passata… ma d’altronde cosa lo dico a fare, i tuoi
Guardiani sono già pronti a
morire e immolarsi per il loro Manny, o almeno è quello che
tu pensi, vero?»
domandò senza ricevere alcuna risposta.
Ci
volle un po’ per trovare il coraggio di
rispondere senza offenderla:
«I
Guardiani sanno cavarsela, se necessario, e
loro combatteranno per me come hanno sempre fatto, come fanno e come
sempre
faran-»
«Non lo
faranno.» annunciò una voce dal nulla,
voce che si materializzò nella vaga
sagoma di una figura nascosta nella penombra della quale si distingueva
solo un
occhio azzurro luminescente con la pupilla bianca dal quale si
diramavano
strani filamenti dello stesso colore, il tutto posto piuttosto in alto
rispetto
a terra:
«Non
combatteranno, non come l’ultima volta, l’ho visto
molto chiarament-»
«Vedi
troppe cose, vecchio mio, è meglio se torni
alla tua torre a risposare quell’occhio anziché
stare qui ad ubriacarti di latte,
molto buono del resto, invocando profez-.»
«O forse è
meglio se tu inizia a giocare a scacchi in modo presentabile»
intervenne la
donna alzandosi e facendo per andarsene, ma non prima di afferrare la
pedina
del re avversaria:
«Tu,
il re, hai i tuoi pedoni che ti difendono a
costo della vita, tuttavia….» continuò
prendendo la sua pedina che
corrispondeva alla regina «Io ho una regina ed
un’intera corte che la
proteggerà: sta a te la scelta di come muovere le pedine, ma
stai attento Manny
caro» disse posando la regina e riprendendo il re per poi
metterglielo in mano
«Prima o poi faranno scacco matto, e
lo
faranno all’Uomo nella Luna.» concluse
andandosene e lasciando dietro di sé
una scia dorata.
Era
questione di tempo.
Ed
il turno avversario era appena iniziato.
____________________________________________
Angolino
dell’autrice
Buongiorno
a tutti ed eccoci finalmente al secondo
capitolo che, fra impegni scolastici vari, ho aggiornato solo oggi, ma
meglio
tardi che mai no? :D
Non
mi dilungherò troppo sulle spiegazioni perché
se lo facessi uscirebbero spoiler a random che MYSONANTIS VI RIVELO
TUTTO COSA,
ma una cosa fondamentale che vorrei fare è ringraziare
l’adorabile _Dracarys_
per il suo supporto anche in questo capitolo: se non fosse stato per
lei che mi
ha chiarito le idee sui vari avvenimenti sarei ancora ferma a mangiare
crackers
con la cenere grigia insieme a Pitchone, per cui ti ringrazio davvero
tanto
ancora una volta per il supporto e l’aiuto che mi dai con
questa fan fiction
<3
Detto
questo ringrazio chi sta seguendo la storia
e chi ha voglia o ne avrà di recensirla: la vostra opinione
è molto importante
per me, giusto per sapere se le vicende vi stanno piacendo e cosa ne
pensate di
tutte le cose GNE che stanno spuntando :3
Qui
di seguito vi lascio l’aspetto di Scarlet
Redcape insieme a Spettro e di Alice Castle Wonderwood, giusto per
chiarirvi le
idee, ed il castello molto GNE di Alice :D
Ci
vediamo al prossimo capitolo!
|
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Capitolo 3 *** Say "Hello" to Her Majesty ***
capitolo3
Che
sarebbe successo qualcosa lo immaginava anche, ma non poteva certo
pensare che
sarebbe accaduto proprio quello: dalla Luna lo aveva notato appena, il
bagliore
rosato proveniente da Venere, una specie di lampo che aveva illuminato
la
superficie della Luna come il Sole illuminava la Terra durante il
giorno, e
solo allora si era deciso ad alzare il proprio regale fondoschiena
dalla sedia,
con un bicchiere di latte in mano.
Che
era caduto appena aveva spostato lo sguardo a Nord-Est, verso Venere:
poco
lontano dall’enorme astro fonte di vita della Terra, ed
indirettamente sotto la
protezione dell’Uomo della Luna, non si stagliava
più un pianeta coperto da
lande desolate e popolazioni che si fidavano a malapena del proprio
vicino,
c’era solo una palla di fuoco incandescente color magenta che
ardeva e ardeva,
e ardeva ancora.
Senza
mai consumarsi, senza mai mettere fine a quell’agonia: se
scrutava l’orizzonte,
avvicinandosi quel tanto che bastava per distinguere le varie forme,
poteva
vedere le persone che fuggivano, che scappavano urlando, che danzavano
in preda
agli spasmi per le fiamme che stavano lentamente ma inesorabilmente
consumando
i loro fragili corpi da umani o quasi.
Era
stato un avvertimento, una sfida, un gesto folle che aveva
però sortito gli
effetti sperati: se l’Uomo della Luna voleva distruggere una
propria creazione
poteva anche farlo, ma prima doveva riuscire a proteggersi dalla sua
creazione
stessa.
Tsar
Lunar XII, alias Manny, era lì immobile, come inebriato
dall’acre odore di
zolfo che sembrava aver impregnato anche i meandri dello spazio
più profondo,
se ne stava a guardare la scena come uno spettatore esterno ad una
tragedia,
sperando che un giorno non ci sarebbe stato lui nei panni carbonizzati
degli attori:
non avrebbe dovuto provocarla, era stata una scelta sciocca e dettata
solo da
un malsano senso di controllo e possessione, una decisione presa in
quei
momenti in cui si sentiva come se ci fosse un altro uomo a governare al
posto suo.
Ma
lui era diverso dal mostro che si sentiva in quel momento, o almeno le
persone
lo credevano e continuavano a pensarlo: Manny era il creatore dei
Guardiani,
quello che si era premurato di proteggere la Terra da un nemico che lui
stesso
aveva contribuito a nutrire, ma fino a quando la gente sarebbe stata
convinta
della sua innocenza non avrebbe dovuto preoccuparsi, nessuno lo aveva
visto
litigare con quella sua creazione mancata qualche istante prima del
disastro.
Nessuno,
tranne lui: osservava, osservava ogni cosa in ogni istante in qualsiasi
parte
dell’Universo, si limitava a guardare e, se fosse stato il
caso, radere al
suolo ciò che non era previsto nei piani di quel grande
romanzo che è il
destino.
Ed
anche ora, proprio mentre Manny era sul punto di andarsene, lo aveva
visto, gli
era apparso davanti in tutta la sua imponenza, con il grande occhio
azzurro
luminescente che lo fissava con quattro braccia incrociate al petto,
senza
contare quella posata sul fianco e l’altra che sorreggeva il
bicchiere di latte
con tanto di cannuccia:
«Non
era nei tuoi piani, né in quelli di questo Universo, non era
nemmeno nei miei:
un vero peccato, direi» asserì senza distogliere
lo sguardo dall’Uomo nella
Luna, il quale tremava visibilmente stringendo i pugni fino a sentire
il dolore
che gli percorreva le dita, una sensazione da nulla paragonata al
trovarsi
davanti quella creatura:
«Un
errore di battitura, ecco come potremmo chiamare questo spiacevole
inconveniente: sono io quello che corregge gli errori perché
la storia scorra
come è programmato che faccia, non altri, non certo
l’Uomo nella Luna» disse
mentre, esattamente come quando era apparso all’improvviso,
l’ombra iniziava ad
inghiottire la sua sagoma nell’oscurità
più profonda del cosmo, lasciando visibile
solo un grande occhio azzurro dalla pupilla bianca:
«Io
vi vedo. Sempre. Fino alla fine del tempo.»
Poi
era scomparso nel vuoto dell’Universo, e Manny aveva capito
che darsi agli
scacchi era un’idea decisamente migliore del rimediare ai
propri errori.
Sole,
vodka e trombaris.
Avrebbero
potuto continuare così per
tutta l’eternità, se non fosse stato per le
fastidiose spine che gli si
infilavano anche dove non avrebbero
dovuto.
Non
erano roseti comuni, ma sempre di
roseti si trattava: le immense distese verdi e rigogliose del regno di
Phantasia venivano interrotte qua e là da sterminati campi
variopinti, colmi
delle stesse rose con i colori dell’arcobaleno che avevano
tenuto ben chiusa la
voragine nella quale Phobos aveva passato gli ultimi secoli della
propria
esistenza immortale.
Istintivamente,
quasi senza fare caso a
ciò che lui e la compagna stavano combinando, prese fra le
mani una rosa e si
fermò ad osservarla: la bellezza di quei fiori era
sconvolgente per un occhio
mortale, ma per chi era abituato a vedere gli effetti delle meraviglie
create
dalla leggendaria magia della Regina della Fantasia non era una
novità che i
suoi influssi fossero arrivati, oltre che nell’ambiente,
persino in forme di
vita così semplici come le rose.
Forse
anche lui, esattamente come quegli
splendidi fiori, era stato un involucro vuoto riempito prepotentemente
con la
magia di quel buontempone che era Manny, ma la difficoltà
nel ricordare il suo
passato, quello che c’era stato prima della guerra, lo
metteva in una posizione
nella quale meno sapeva e meglio stava, caratteristiche che lo
avvicinava
curiosamente al comportamento per il quale era famosa invece Comet E.
Halley.
Halley,
la stessa che se ne stava
comodamente seduta sul bacino di Phobos senza vestiti come se nulla
fosse
leggendo l’ultimo numero di “Mannity
Fair”, era l’unica creatura che avrebbe
voluto intorno in quel momento, lo stesso che aveva sperato di
assaporare con
decisione da tempo immemore: Halley non
era il bigottismo dei Guardiani, non era
l’autorità prepotente di Manny, non
era nemmeno l’acido moralismo di Harmonia, né
tantomeno le belle parole delle
quali i nobili delle Costellazioni si infarcivano la bocca, e non solo
quella.
Comet
era semplicemente Comet, con le
sue voglie ambigue di fare sesso dall’alba al tramonto in
barba ai campi dove Amicaharmo, come la
chiamava lei,
coltivava il futuro della propria gente e del proprio regno, ed a
Phobos quello
stile di vita andava più che bene: certo, c’era
stato un periodo durante il
quale lui e Comet non erano andati veramente d’accordo, un
periodo durante il
quale si chiedeva se l’origine delle profonde ferite alla
schiena che aveva
visto di striscio per qualche istante, complice la rigenerazione tipica
delle
creature magiche come loro, fosse opera di una sua distrazione o invece
dello scontro
con lo Strumentopolo Misterioso sul
quale aveva sentito vociferare qualcosa, ma aveva ormai imparato a non
farle
troppe domande.
Lo
Strumentopolo Misterioso alias il Guardone Mistico, nome
affibbiato con dolcezza da Phobos ed Halley
dopo aver preso visione di alcune notizie apparse in prima pagina su
“Mannity
Fair”, era un nome come un altro dato a quello che avrebbe
potuto essere
considerato senza problemi l’essere più misterioso
che la Galassia avesse mai
visto: nessuno sapeva nulla su di lui, si diceva che persino le grandi
famiglie
delle Costellazioni faticassero ad avere informazioni sul soggetto e,
tanto per
aggiungere un alone di mistero, correva la curiosa voce che non
appartenesse
nemmeno a quello stesso mondo, per non
dire Universo.
Ma,
Universo o meno, misterioso o no, per
ora tutto ciò che Phobos voleva fare era rilassarsi
godendosi la libertà ed i
raggi solari dopo più di mezzo millennio passato nelle
tenebre più assolute,
salvo il chiarore artificiale di X-Box e simili, mentre il suo corpo e
quello
della compagna si fondevano in uno solo in un’intricata
quanto frenetica danza
colma di desiderio e di passione.
Un
po’ gli dispiaceva turbare
quell’equilibrio che nulla aveva da invidiare ai passatempi incestuosi delle alte corti nobiliari di
Orionis III, ma
d’altronde non poteva starsene sdraiato tutto il tempo a
cincischiare,
adorabile verbo che aveva sentito in un qualche programma televisivo
all’urlo
di “Ma cosa fa? Cincischia? Vada!
Vada!
Per l’amor del cielo si sbrighi! Non cincischi!”,
ed in realtà ci aveva
pensato Halley ad interrompere i suoi ragionamenti,
per non dire seghe mentali:
«La
notizia della scomparsa di
Necrohunger si è già sparsa ovunque, conoscendo
Alice le starà salendo il
Chandrasekhar violento: per tutte le supernove, non so cosa accidenti
darei per
vedere la sua faccia angelica in questo momento!»
osservò ridendo da sola
passando il giornale al compagno indicandogli un paragrafo:
«Ecco,
leggi qua: “La principessa di Fairy
Oak ha messo una taglia sulla testa di coloro
che hanno privato il suo regno della fondamentale protezione del
Guardia di
Porta, chiunque abbia informazioni al riguardo è pregato di
rivolgersi alla
corte del suddetto regno al fin-» non fece
in tempo a finire che l’altro
glielo strappo dalle mani cogliendola di sorpresa:
«Ehi!
Stavo leggendo!» si lamentò
dandogli un leggero pugno sulla spalla, che però non
sembrò smuoverlo nemmeno
di un millimetro.
Solo
quando Halley si decise ad allungare
il collo per vedere cosa stesse attirando l’attenzione di
Phobos in modo così
morboso, e allora capì il perché di tutta quella
concentrazione: poco sotto
l’articolo, in un angolo in basso a sinistra c’era
un altro piccolo paragrafo
con una foto di una donna vicino, e non si sorprese che
l’altro se ne stesse lì
con gli occhi di un pesce lesso, né tantomeno che avesse
buttato un’occhiata
furtiva al lembo di stoffa che gli copriva il braccio.
Istintivamente
Halley afferrò appena il
bordo della pagina che, senza il minimo sforzo, prese improvvisamente
fuoco
riducendosi ad un mucchietto di cenere, cosa che lasciò
allibito il compagno di
trombaris:
«Halley!
Cosa cazzo stai facend-» si
lamentò per poi trovarsi l’indice
dell’altra sulle labbra come per dire di
starsene zitto:
«Devi
smetterla di pensare a lei, non è
qui e non ci sarà fino a quando non andrai a cercarla, per
cui metti da parte
Harmonia e concentrati su quello che stavamo facendo: non si lasciano
le cose a
metà, quello lo fanno i Guardiani
e la
gente che si dimentica di legare bene il proprio Ciciarampa,
e noi non
siamo come quelli.»
“Tu
non sei come quelli, ma io sì”,
pensò
Phobos stringendo i pugni fino a sentire le unghie che affondavano
nella pelle
provocandogli una smorfia di dolore per la consapevolezza che lui aveva
lasciato le cose a metà, lo aveva sempre
fatto:
aveva combattuto i Guardiani ma lo avevano sconfitto, si era scontrato
con la
Regina della Fantasia in persona ed era stato miseramente buttato in
una
voragine scavata appositamente per lui, aveva chiesto spiegazioni a
Manny e lui
gli aveva tagliato di rimando l’abbonamento mensile per il
wi-fi, aveva tentato
di evadere dall’Abisso per secoli e secoli salvo poi essere
aiutato a farlo da
qualcuno, aveva riottenuto i propri poteri e ci mancava poco che si
ammazzasse
da solo.
La
verità era che Phobos non era in
grado di fare ciò che si era prefissato, non avrebbe mai
potuto reggere il
confronto se gli altri Guardiani gli avessero dato addosso tutti
insieme come
l’ultima volta, non era minimamente in grado di raggiungere
gli obbiettivi che
si era prefissato: si faceva pena da solo, forse anche più
di quanto ne facesse
agli altri Pitch “Pitchone” Black, ed il fatto che
in quell’istante di autocommiserazione
una fitta lancinante gli avesse attraversato la testa come per farlo
riprendere
dalla depressione che lo stava divorando vivo, come per evitargli
ulteriore
dolore nel vano tentativo di ricordare.
Questa
volta era stato molto peggio di
quelle precedenti, tanto che si era rannicchiato su se stesso tenendosi
la
testa con due mani per scacciare il dolore, gesto che però
si era rivelato
utile solo perché Comet gli accarezzasse il volto con aria
vagamente preoccupata,
giustamente incurante del fatto che entrambi fossero nudi come vermi:
«Oh
avanti, te le vai proprio a cercare!»
lo rimproverò mentre Phobos, in preda ai tremori, la fissava
con gli occhi sgranati
«Non ricordare, non farlo,
non ci
provare nemmeno perché tanto sappiamo come finisce,
è solo una tortura inutile:
Phobos… Phobos.»
continuò
afferrandogli saldamente il volto con le mani «Guardami,
avanti: non è successo niente,
siamo solo noi
due e nessun altro, mi hai capito? Phobos, mi hai capito o
no?» domandò
prendendosi di rimando solo un gesto istintivo per cui
l’altro le aveva messo
le mani sulle spalle come se fosse sul punto di svenire da un momento
all’altro:
«Mi
fa… male, mi fa tanto
male… la t-testa… mi fa male, non ci
riesco…» riuscì a
balbettare guardandosi intorno con aria circospetta «Io
ci… provo… sì, ci
provo… a ricordare, eppure… ogni
v-volta… sì, ogni d-dannata…
volta… finisce
così… e fa… male,
tant-» non riuscì a
finire che, in preda ad uno dei suoi soliti attimi di confusione
mentale e
dolore insopportabile, il balbettare si trasformo ben presto in un
singhiozzo
sommesso, almeno fino a quando le lacrime non iniziarono ad uscire da
quegli
occhi dorati così vuoti.
Stava
soffrendo peggio del previsto, Halley
lo aveva notato, eppure qualche istante prima stava benissimo,
abbastanza da
fare trombaris come pochi avrebbero fatto: finiva sempre in quel modo
quando
Phobos cercava di riportare alla mente qualche ricordo e, nonostante
tutti i
fallimenti, ci provava fino allo sfinimento senza risultati, ma forse
quella
volta era complice il fatto che avesse appena riottenuto i propri
poteri e,
magari, si doveva ancora abituare alla situazione dopo secoli durante i
quali
ne era stato brutalmente privato.
Un
po’ le dispiaceva anche di vederlo
ridotto in quello stato e, a giudicare dal grosso leone nero che gli si
era
avvicinato accucciandosi vicino al padrone, anche quelle creature
dovevano
sentire quando qualcosa non andava, motivo per cui prese una mano del
compagno
e la pose fra l’immensa criniera diafana della bestia stando
attenta a tenerla
d’occhio:
«Ecco,
pensa ad accarezzare il tuo
gatto, con gli umani funziona» gli raccomandò
mentre il leone, forse avendo
capito le sue intenzioni, non aveva protestato ed aveva anzi iniziato a
fare
quelle che sembravano vere e proprie fusa:
«Si
chiama… Thorax… non è un
leone…
qualsiasi, no… guarda qui» la corresse Phobos
fissando un punto indefinito nel
profondo dell’oscurità del manto del suo adorato
animale, poi indicò ad Halley
alcuni ciuffi della criniera ai quali inizialmente non aveva fatto caso
dove il
pelo, anziché nero pece, era di un bianco candido da fare
invidia alla stessa
neve: per quanto quella bestia fosse imponente e fiera non si tirava
indietro
dal farsi accarezzare il manto dal proprio padrone come un qualsiasi
gattino
domestico, ed in realtà quel gesto così naturale
sembrava aver sortito un
effetto positivo nel calmare, almeno per
ora, il Phobos depresso di qualche istante prima.
Ecco,
era il momento buono, o lo faceva adesso o non lo faceva proprio.
Con
tutta la nonchalance del mondo,
Halley si era alzata in fretta e furia senza far caso alle occhiatacce
che gli
lanciava l’altro e, dopo aver recuperato i propri abiti, non
senza una certa
fatica per distinguerli da quelli da Phobos ammucchiati lì
vicino, si era
vestita alla bene e meglio per poi sollevarsi da terra per andarsene
senza dare
spiegazioni, salvo essere afferrata saldamente da Phobos per un lembo
del
vestito:
«Dove
vai? Comet… dove vai? Eh? Comet…
per favore… Com-»
«Che
ti frega? Non ti guarderò piangerti addosso, ed il
tuo gatto ti può
consolare meglio di quanto faccia io con il mio inguaribile
menefreghismo: non
fare stronzate, non dare fuoco a nulla e rimani nascosto qui, che se ti
trova
Amicaharmo in queste condizioni l’Abisso sarà
l’ultimo dei tuoi problemi.»
spiegò togliendogli la mano dall’abito, che ormai
era visibilmente
stropicciato:
«Non
puoi abbandonarmi! Non un’altra
volta
nel giro di nemmeno un giorno! E poi sono i nostri
problemi, non sono solo i miei di probl-»
le urlò contro Phobos, a quanto
pare improvvisamente guarito dal suo stato confusionale,
così Halley gli si
avvicinò appena e, prendendogli il volto fra le mani, gli
diede un bacio sulle
labbra appena accennato, giusto di sfuggita:
«Oh
no, sono i tuoi problemi, io sono
neutrale, ricordi?» gli
domandò senza dargli il tempo di rispondere «Vedi
di
non combinare guai fino al mio ritorno, ma soprattutto goditi lo
spoiler: se vedi un occhio che ti si avvicina,
inizia a correre. Velocemente.» lo
liquidò sparendo fra le nuvole in un
lampo color magenta che aveva timidamente colorato di porpora le rose
arcobaleno nelle quali giacevano entrambi fino a qualche istante prima.
Phobos
si guardò intorno confuso e
spaventato, con Thorax che ondeggiava la lunga coda nera leccandosi una
zampa: “Se vedi un occhio che ti si
avvicina inizia
a correre”, gli aveva detto Halley, ma non aveva la
minima idea di cosa
parlasse, né per quale motivo avrebbe dovuto temere un
semplice quanto innocuo
occhio.
Ma
l’avrebbe ascoltata, oh se l’avrebbe fatto!
Il
silenzio che si era creato
nell’enorme atrio del castello di Alice metteva addosso a
tutti una certa
soggezione, un velo di imbarazzo che copriva le bocche dei presenti
impedendo
loro di dire qualsiasi cosa: non era solamente per
l’imponente spada che la
principessa teneva davanti a sé, o per Scarlet che se ne
stava al suo fianco
con lo sguardo freddo, non era nemmeno per la presenza di Spettro
placidamente
sdraiato ai piedi del trono.
Era
perché Alice, con le sue conoscenze
da sangue nobile, sapeva più di quanto i Guardiani stessi
potessero anche solo
immaginare, e ciò avrebbe reso vani i tentativi dei suddetti
Guardiani per
nascondere a Jack tutto ciò che gli stava accadendo intorno
senza che lui se ne
accorgesse: certo, da quando Scarlet aveva fatto irruzione nella
fabbrica di
Nord qualche domanda aveva iniziato a farsela, compresa
quella particolarmente scomoda riguardo Emma, ma metterlo
al corrente di tutto o quasi, di una guerra e di complotti che
difficilmente
avrebbe potuto capire, era dannatamente più difficile del
fare i vaghi come
avevano fatto fino a quel momento.
Ma
non c’era scelta, non c’era mai
stata: avrebbero dovuto farlo, prima
o poi, e quel momento era appena
arrivato.
La
principessa guerriera osservò i volti
perplessi dei Guardiani uno per uno, soffermandosi sulle espressioni
confuse e
preoccupate degli altri, poi appoggiò il meno sopra le mani
incrociate
sull’elsa della propria spada:
«Normalmente
Phobos in libertà non
sarebbe un grosso problema, se non fosse che c’è
in giro anche il mio Ciciarampa, casualmente scomparso nello stesso
giorno: chiunque lo abbia liberato
sapeva ciò che stava facendo, e non mi sorprenderei se
avesse utilizzato la
forza di quella bestia per violare in qualche modo l’Abisso,
o comunque
aiutarsi nell’impresa» affermò senza
distogliere lo sguardo da un punto
indefinito nella stanza:
«Tuttavia,
da quel che ricordo la
quantità di magia necessaria per aprire l’Abisso e
mantenerlo in quello stato
per tutto il tempo utile a Phobos per evadere è
spaventosamente elevata,
talmente tanto da uccidere chiunque non l’abbia creato,
l’Abisso si intende.» concluse
mentre un’aria interrogativa si dipinse sul volto di Nord:
«Phobos
essere senza poteri, lui non
potere fare tutto da solo, no! Qualcuno aiutato lui!»
sbottò il vecchio
Guardiano mentre Sandman, forte del proprio mutismo, faceva apparire un
grande punto
di domanda sulla propria testa, seguito dal facepalm di Alice:
«Ma
dai, non lo avrei mai detto, ma proprio mai eh!»
esclamò con tono
palesemente sarcastico
«Per
tutte le stelle del cielo, Nord! Se
non venivi tu a dirci questa novità nessuno avrebbe mai
immaginato che Phobos,
senza poteri e senza dignità, fosse riuscito ad evadere! Sei
proprio il degno
Guardiano di Manny, a furia di stare con
gli yeti hai anche lo stesso ritardo di comprensione!»
gli urlò contro
scattando in piedi con la spada fra le mani, salvo essere fermata dal
braccio
di Scarlet che le si parò davanti costringendola a sedersi.
A
Jack sembrò quasi che la Cacciatrice
non fosse solo la guardia del corpo della principessa guerriera, era
come se la
trattasse al pari di una sorellina minore da sorvegliare e proteggere,
ed in
effetti a vedere la reazione della ragazza alle parole di Nord
ringraziò la
Luna che ci fosse Scarlet a tenerla buona, anche se sapere questo non
lo
aiutava certo ad essere più tranquillo in quel clima di
tensione ormai a
livelli insopportabili: da una parte i Guardiani che fingevano di non
sapere, o
che comunque sembravano visibilmente agitati all’idea di
parlare di ciò che era
accaduto nel famoso Abisso, dall’altra Alice che li guardava
con aria di
rimprovero come se avesse capito fin troppo bene la sceneggiata che
tenevano in
piedi a fatica.
Poi
c’era Jack Frost, che non stava
capendo un emerito cazzo di
ciò che gli accadeva intorno.
Certo,
qualcosa gli avevano detto, ma
fino ad ora aveva capito solamente tre cose: che questo Phobos era
pericoloso,
che c’era stata una guerra dove erano stati decimati i
Guardiani e che, lo
volesse o meno, anche lui si era trovato invischiato in quello che si
prospettava essere un altro conflitto che avrebbe potuto scoppiare da
un
momento all’altro.
E
ci
si sarebbe trovato dentro fino al
collo senza possibilità di uscita.
Da
vivo, si intende.
Ed
anche ora tutti lo stavano ignorando,
o almeno aveva pensato che fosse così fino a quando non
aveva visto Alice
alzarsi, e questa volta Scarlet non si era fatta avanti per fermarla,
tanto che
gli si era parata davanti con la spada puntata verso la fronte:
«Quindi
tu saresti Jack Frost, l’ultimo
schiavo di Manny: ti immaginavo un po’ più
minaccioso, da quello che ho saputo
sul trattamento che tu e di tuoi amichetti avete riservato a Black mi
aspettavo
chissà cosa, e invece mi trovo davanti un ragazzino
di… quanti anni hai?»
domandò curiosa e, nonostante il fatto che non fosse stata
per niente cortese,
Jack aveva cercato di essere educato almeno lui:
«Trecento
anni, anno più anno men-»
«Ne
ho più di millesettecento, quindi non cercare di fare il
furbo o ti posso
assicurare che non avrai vita facile, sono stata abbastanza
chiara?» chiese
prendendosi di rimando solo un timido cenno preoccupato,
così fece spallucce «Ora
dimmi un po’, Jack Frost, Guardiano del Divertimento, cosa accidenti ti hanno raccontato
sull’Abisso, sulla guerra, su
Phobos? Ti hanno farcito la testa di tante storielle piene di
ammmore come
sono soliti fare, vero? Sono abituati a vedere solo quello, quei
piccoli
falliti, ma posso capirli.» continuò con evidente
aria di sfida, talmente
evidente che sul suo volto si dipinse un sorriso malizioso che
significava solo
una cosa, e cioè che lo stesse
beatamente
pigliando per il culo.
E
ciò non andò particolarmente giù al
giovane Guardiano, che improvvisamente fece per alzare il proprio
bastone
impugnandolo a due mani:
«I
Guardiani sono stati più coraggiosi
di una ragazzina insolente che se ne sta seduta a lagnarsi che gli
hanno rubato
il Ciciacosa!» sbottò con violenza mentre
un sottile strato di brina iniziava
a ricoprire il legno «Non hai nessun diritto di offenderli,
tu non hai perso
nes-» non fece in tempo a finire che la ragazza,
complice le parole un po’
troppo azzardate di Jack, gli si fiondò addosso facendolo
crollare a terra, per
poi mettersi sopra il suo petto con la spada tenuta premuta con due
mani sul
collo, appena a qualche centimetro dalla giugulare:
«Ho
perso più di quanto tu possa credere, fottutissimo
bambinetto insolente, e
se provi ancora a minacciarmi con le tue parole giuro che quel bastone
te lo
infilo su per il culo e telo faccio uscire da ben altre
par-»
«Mia
signora, basta: è sufficiente, credo abbia capito,
vero ragazzo?» intervenne
Scarlet afferrandole un braccio e
trascinandola in piedi, il tutto mentre Frost annuiva terrorizzato
mettendo una
mano sul profondo solco che la lama aveva lasciato per la pressione con
la
quale era stata premuta sulla pelle:
«Lasciami!
Lasciami o ammazzo anche te!
Scarlet, cazzo!» le urlò contro Alice mentre si
dimenava per liberarsi dalla
solida presa da dietro le spalle nella quale la Cacciatrice
l’aveva
intrappolata vedendo che le cose stavano degenerando, e allora a Jack
sembrò di
vedere qualcosa nei suoi occhi: era stato come un lampo, un improvviso
bagliore
azzurrino che era balenato fra le sue pupille profonde come
l’oceano, un flash
di pochi millisecondi che gli aveva fatto accapponare la pelle, proprio
a lui,
il Guardiano che con l’Inverno ed il freddo ci andava a
braccetto.
Alice
sembrava fuori controllo, non
aveva nulla a che fare con la dolce e fragile ragazzina che aveva
pensato che
fosse appena l’aveva vista al suo arrivo a Fairy Oak, ed a
giudicare da quanta
fatica facesse Scarlet a tenerla a bada doveva avere anche una forza
niente
male: Jack non sapeva bene se affermare con certezza la presenza di un
qualche
problema mentale che le provocasse quegli improvvisi scatti
d’ira e cambiamenti
d’umore, ma quello di cui era assolutamente sicuro era che
ora la principessa
guerriera Alice Castle Wonderwood, improvvisamente diventata docile
come un
agnellino, se ne stava fra le braccia della sua mercenaria a piangere
come la
bambina che doveva essere, almeno vedendo il corpo che dimostrava poco
più di
quindici anni.
Scarlet
da parte sua non si scompose
nemmeno troppo, anzi l’assecondava permettendole di versare
le proprie lacrime
sulla sua spalla bagnando il mantello di velluto rosso, ma a giudicare
dal suo
sguardo totalmente vuoto e freddo quella non doveva essere la prima
volta che
andava incontro a quelle spiacevoli situazioni:
«Mi
hanno preso il… Ciciarampa… il mio
Ciciarampa… io non ho fatto niente… a
nessuno… non ho fatto niente…» si
lamentò
la ragazza senza staccarsi dalla sicurezza che le faceva provare lo
stare
appiccicata alla Cacciatrice «Se la prendono sempre con
me… tutti… cosa dovrei
avere di sbagliat-»
«Non
c’è nulla di sbagliato, mia signora,
ma dovete riprendere il controllo delle vostre emozioni: abbiamo molto
di cui
discutere, e di certo piangere sul latte versato, a meno che non siate quello che osserva, non
servirà a
nulla.» la rassicurò accarezzandole la testa con
fare materno, gesto che
riuscì, incredibilmente, a riportare l’altra in
uno stato di lucidità mentale
che nulla lasciava presagire, nemmeno il crollo appena avuto.
Noncurante
dei Guardiani che la
fissavano confusi e silenziosi, Alice si liscò
l’ampia gonna azzurra del
proprio abito e si sistemò un ciuffo di capelli che gli era
ricaduto davanti agli
occhi:
«Come
ti stavo dicendo» disse
rivolgendosi a Jack «La tua situazione è quella di
qualcuno che si è trovato in
mezzo ad una serie di sfortunati eventi senza nemmeno conoscere tutta
la storia
che c’è dietro: certo, i Guardiani ti hanno anche
accennato qualcosa, ma già il
fatto che si rivolgono ad Alexander con il nomignolo di
“Altro” la dice lunga
sul perché i Chadrasekhar si rifiutassero di muovere guerra
per salvare il culo
ad un branco di ingrati creati da un essere che in questo momento sta
sorseggiando
latte in compagnia di un puledro, e questo è un grosso problema» gli fece
notare iniziando a girargli intorno con
aria impettita e le mani dietro la schiena per poi fermarsi davanti a
lui, che
la guardava interrogativo:
«Io
non credo di aver capito la domand-»
fece per rispondere, ma venne interrotto da Alice che gli
poggiò l’indice sulle
labbra mentre con l’altro gli faceva segno di non parlare:
«Ssssh,
Jack, non devi capire nulla,
devi solo dirmi se intendi combattere» spiegò
mentre sul suo volto appariva un
sorriso malizioso «Non sei obbligato a farlo, ma se decidi di
combattere
qualcosa o qualcuno che non conosci dopo non potrai tornare indietro:
la parola
di un Guardiano è la parola stessa dell’Uomo nella
Luna, non lo sapevi?»
concluse mentre Jack la fissava stranito.
Non
aveva capito molto di quel teatrino,
tranne che nessuno avrebbe aperto la bocca su nulla a meno che lui non
fosse
stato davvero intenzionato a
prendere
parte alla cosa: forse era perché Alice temeva che
spifferare tutto ai quattro
venti, letteralmente, non sarebbe
stata una scelta saggia, magari riteneva che se lui non era interessato
a
combattere non aveva nemmeno senso informarlo di cose che poi non gli
sarebbero
tornare utili, o forse più semplicemente, e
più realisticamente, la principessa guerriera era
in preda ad uno dei suoi
ormai noti sbalzi d’umore.
Però,
penso Jack, fra quelle
informazioni avrebbero potuto essercene alcune riguardo Emma, oppure
avrebbe
potuto farne alcune ad Alice che, dal poco che aveva visto e sentito,
sembrava
saperne di più di tutti i Guardiani messi insieme.
E
fu
proprio per quello che, con un
gesto inconscio o forse fin troppo cosciente, Jack Frost
annuì deciso alla
proposta della principessa guerriera, la quale fece quella che aveva
tutta
l’aria di essere una smorfia soddisfatta:
«Ma
come siamo coraggiosi, più di Manny
addirittura!» disse ridendo fra sé e
sé, per poi fare un cenno a Scarlet per
farla avvicinare richiamando a sé Spettro, ora intento a
stiracchiarsi le zampe
dopo il sonnellino:
«Se
siete tutti d’accordo preferirei
parlarvi in un luogo più appartato dell’atrio del
mio castello, non si sa mai
che il Ciciarampa torni improvvisamente a casa e sfondi la porta, anche
perché
chi lo sente il Guardone Mistico se muore un Guardiano sbranato male
senza che
lui lo avesse previsto?» continuò strappando un
sorriso divertito anche a
Scarlet, il primo che Jack le avesse visto sul volto da quando
l’aveva
incontrata, poi la ragazza fece segno agli altri di seguirla verso una
l’ala
destra del castello che dava sull’ampio salone in cui si
trovavano.
Mentre
camminavano tutti in quella che
sembrava una processione di pentimento governata dal mutismo e dalla
rassegnazione, Jack era intento ad osservare ogni singolo centimetro di
quell’immenso
castello i cui corridoi sembravano senza fine, ammirando con gli occhi
sgranati
ciò che gli capitava sotto tiro: pareti coperte da
meravigliosi arazzi dagli
intricati motivi floreali, quadri che raffiguravano combattimenti epici
fra
donne alate che cavalcavano grandi draghi dalle zanne d’oro
contro mostri
ripugnanti, altri che rappresentavano figure circondate da una coltre
di stelle
che disegnava labirinti nel buio di quelle che sembravano essere le
profondità
del cosmo, monili ed oggetti dalle forme più strane e
bizzarre poggiati su
eleganti piedistalli che fluttuavano nell’etere, ampie
vetrate che arrivavano
fino al soffitto lasciando entrare la morbida e calda luce dei tre
soli, e poi porte, porte di
dimensioni immani
che svettavano lungo le pareti facendolo sentire tremendamente piccolo.
Era
un posto semplicemente meraviglioso,
soprattutto una volta che ci si era abituati al carattere di Alice, e
Frost se
avesse potuto ci avrebbe passato volentieri la propria
eternità da Guardiano.
Fu
mentre camminava in fondo alla fila
dei Guardiani che il suo sguardo venne catturato da una porta dorata
socchiusa,
forse attirato dai battenti finemente lavorati con disegni a dir poco
realistici che rappresentavano una scena di fantasia dove un grande
serpente
racchiudeva fra le sue spire un unicorno protetto dalle immense ali una
donna
con una corona di stelle sul capo, il tutto mentre la testa del rettile
veniva
trafitta dalla spada di un’altra figura femminile con addosso
un’armatura
decorata da diversi diamanti in rilievo.
L’istinto
ovviamente lo portò ad
abbandonare la processione dei suoi compagni, che nel frattempo si
erano già
allontanati da quanto sentiva le loro voci ovattate, per poi spingere
lievemente i battenti facendoli muovere con un suono sordo, e
ciò che vide lo
lasciò ancora più perplesso di quanto fosse
già: la stanza era immensa, non
sembrava nemmeno così grande
dall’esterno, dominata dalla grande statua di un drago
avvolto intorno ad una
donna che sfoggiava sei ali, ed in realtà guardando meglio
aveva intravisto una
teca con… con niente, dato che
Scarlet lo
aveva afferrato per il collo prima che potesse mettere bene a fuoco la
situazione:
«I
tuoi amici si sono già accomodati, e
ti consiglio di fare lo stesso: la curiosità uccise il
gatto, dovresti
ricordart-»
«E
la soddisfazione lo riportò in vita,
giusto?» rispose fiero di avergli
tenuto testa almeno una volta, ma gli sembrava strano che Scarlet non
avesse
nulla da dire:
«Giusto,
ma questo gatto è già stato
riportato in vita una volta, purtroppo
Manny non potrebbe farlo di nuovo, capito?»
asserì afferrandogli il braccio
e trascinandolo fuori con il volto bianco per la paura di quella
risposta, ma
non prima che Jack riuscisse a scorgere sopra l’immensa
statua la scritta “May
Her hooves never be shod”, “Possano i suoi zoccoli
non essere mai ferrati”, la
stessa che aveva visto nel covo di Nord.
La
stessa
scritta.
E
non era una coincidenza.
Una
volta che tutti i Guardiani,
compreso quel birichino di Jack che aveva inutilmente cercato di fare
il
fuggitivo, si erano accomodati nella grande stanza costellata qua e
là da
librerie, Alice aveva preso posto dall’altro lato della
stanza fissando il
giovane Guardiano, il quale aveva iniziato a sperare che i bisbigli che
si
stava scambiando con Scarlet non lo riguardassero, ma a giudicare dal
sorriso
compiaciuto che aveva fatto non ne era proprio sicuro:
«Sei
troppo curioso, Jack Frost, e la
curiosità non va bene quando non si ha nemmeno idea di cosa
si nasconda dietro
porte che avevo espressamente chiesto restassero chiuse»
asserì lanciando
un’occhiata di rimprovero a Scarlet, la quale aveva abbassato
lo sguardo
imbarazzata:
«Comunque
sia abbiamo già perso
abbastanza tempo, e se la situazione è quella che penso
sarà meglio darsi una
mossa a scoprire gli altarini, non siete
d’accordo?» domandò ai Guardiani, i
quali se ne stavano tutti in disparte a guardarsi cercando di scorgere
un
qualche segno che indicasse il da farsi.
Segno
che, giustamente, venne
interpretato da Calmoniglio come un motivo per cui avrebbe dovuto dire
la sua
anche quando nessuno glielo chiedeva:
«Stammi
a sentire, Alice, secondo me è
inutile stare qui a raccontargli tutto, a grandi linee gli abbiamo
già detto
quello che c’era da dir-»
«Oh
Calmoniglio, Calmoniglio caro, mio
piccolo Pooka curioso…» gli rispose sorridendo
mentre scorreva un dito sulla
propria spada «Come chiamate
Apophis?
L’Altro, giusto? Non stiamo qui a prenderci in
giro, questo dovrebbe essere
sufficiente a dimostrare che non avete nemmeno il coraggio di
pronunciare il
nome dell’artefice dello sterminio dei Guardiani»
lo punzecchiò con aria di
sfida, poi gli piantò gli occhi addosso «E
della tua inutile razza di stufati ambulanti, i miei Diggerwurm i Pooka
se li
mangiavano a colazione.»
Ecco,
non avrebbe dovuto dirlo.
Non
avrebbe dovuto, ma lo aveva detto,
aveva tirato l’ennesima frecciatina della giornata, quella
che aveva fatto
scattare il coniglio pasquale in piedi per avventarsi sulla docile e
mansueta
principessa che se ne stava seduta su una poltrona dove la sua esile
figura sembrava
perdersi:
«Non
parlare della mia gente! Non ti
azzardare dannata ragazzina!» le urlò contro
tirando fuori il proprio boomerang
nella totale indifferenza di Alice e nel terrore dei compagni,
soprattutto di
Dentolina che a malapena si era alzata per fermarlo preoccupata:
«Calmoniglio
fermati! Lo ha fatto apposta! E’ ciò che
vuol-» fece per avvisarlo senza
terminare la frase che un rumore di ramo spezzato si diffuse nella
stanza.
Quel
rumore, poi un tonfo sordo e dei
gridolini agonizzanti, il suono insistente del battere incessante di
qualcosa
contro una superficie fin troppo dura che aumentava solo
l’immane senso di
impotenza dei presenti.
Nonostante
i Guardiani la conoscessero
da decisamente più tempo, Jack aveva capito prima degli
altri che con Alice
bisognava andarci piano, e la sua intuizione fu confermata dalle fauci
di
Spettro chiuse intorno alla zampa di Calmoniglio, zampa che penzolava
allegramente mostrando l’osso spezzato di netto:
«Se
siete venuti qui per provocarmi avete scelto il momento e la persona
sbagliata,
e se volete restare in questa stanza nessuno che non sia Jack Frost si
azzardi
ad aprire la bocca, è chiaro a tutti?»
domandò ricevendo di risposta solo dei
cenni sommessi, ed allora fece segno a Scarlet di riprendersi il
proprio cane
troppo cresciuto, non prima di aver dato un altro assaggio alla
succulenta
zampa del Pooka, il quale fu aiutato da Nord a rimettersi in piedi
senza però
controbattere a nulla.
Alice
allora chiese a Jack di
avvicinarsi, ordine che venne immediatamente recepito:
«Dunque
devo iniziare dal principio con
te, da quando l’ombra di quella serpe ha iniziato ad
aggirarsi sulla Terra e
nello spazio qui intorno…» disse fra sé
e sé, poi si mise comoda mentre Frost
la guardava stranamente interessato:
«Partiamo
dal presupposto che il vero nome
“dell’Altro” è Apophis
Nightcrawler, e già questo è un passo avanti:
Apophis è
una creatura potente e pericolosa, più di quanto pensassimo
quando ci siamo
trovati ad affrontarlo, un essere talmente potente da essere in grado
di
trasformarsi in un enorme serpente capace di divorare le stelle senza
tregua
come se fossero biscotti allo zenzero» spiegò
facendo accapponare la pelle al
povero Guardiano «Apophis si era messo in testa di
distruggere ciò che più lo
aggradava per saziare la propria sete di sangue, che fossero stelle o
persone
per lui non aveva importanza, per poi eventualmente dominare
incontrastato ciò
che sarebbe rimasto in seguito al suo passaggio: fronteggiare un nemico
simile
sembrava impossibile ed infatti era un grosso problema per tutti,
famiglie
delle Costellazioni comprese, ma ciò su cui mise gli occhi
per primo, o meglio
le spire, fu semplicemente la Terra, la vostra
Terra.» continuò mentre Jack, forse per distrarsi,
guardò i compagni:
«Apophis
scese sulla Terra da solo,
senza un esercito al seguito, e per questo i Guardiani pensavano di
potergli
tenere testa senza troppe difficoltà, d’altronde
erano in centinaia contro un
solo uomo: pessima mossa, davvero pessima.»
Nessuno
di loro osava alzare la testa,
Dentolina addirittura teneva le mani premute sulle orecchie per non
sentire, e
questo gli bastò per capire il motivo del tono serio della
principessa:
«Come
ti hanno già raccontato sono morti
diversi Guardiani, come anche altrettanti sono scappati a gambe levate
dimostrando di essere i degni successori dell’Uomo Nero:
quella che doveva
essere una guerra veloce si è trasformata in un genocidio di
massa, una strage
che nessuno aveva previsto, nemmeno Manny»
disse mentre gli scappava un sorriso «Manny, il
leggendario Uomo nella Luna, aveva il nemico proprio in casa,
sul lato oscuro del suo adorato satellite, ma non aveva mai
mosso un dito, né si era fatto domande: quando
scoppiò la
guerra alzò un’immensa barriera magica per
proteggere il suo lato di Luna, e
nessuno lo vide più per tutta la durata del conflitto,
nemmeno quando si rese
conto che erano rimasti appena quattro di tutti i suoi
Guardiani.» fece una
pausa come se anche per lui, per quanto se ne fregasse male di quelli
che erano
morti in un’altra fazione diversa dalla sua, fosse comunque
difficile ricordare
quei momenti.
E
fu
per questo che Jack si permise di
intervenire:
«E
poi cosa successe? Mi hanno detto che
Apophis è stato sconfitto, ma da come ne stai parlando
sembra che non fosse
nemmeno immaginabile battere quel mostro!» si intromise con
la rabbia che gli
ribolliva nelle vene per il pensiero che quell’uomo fosse
ancora in giro, ed in
effetti Alice fece semplicemente spallucce:
«Dopo
il colossale fallimento dei Guardiani, Apophis era più che
pronto a divorare la
Terra, ma fu allora che anche le forze di Exodus, di questo pianeta,
mossero
guerra ad Apophis: i regni di Phantasia, Fairy Oak e Quetzalli presero
parte al
conflitto, anche se quest’ultima fazione si ritirò
quando vide che le perdite
erano troppo elevate, così rimasero i nostri regni a
combattere quella bestia»
spiegò con un filo di orgoglio mentre Frost, per la
sorpresa, si chiese come
poteva quella ragazzina guidare un intero esercito contro un mostro
così
potente da sola:
«Io
guidai l’assalto principale, quello
che servì più che altro a stancare Apophis
perché la polvere di stelle della
quale si nutriva andasse esaurendosi, il tutto mentre Phantasia
preparava il
terreno a magie talmente potenti da essere in grado di rispedire
Apophis nello
spazio dal quale proveniva: Phobos, il compagno della regina Harmonia,
teneva
aperto il varco per espellere quella bestia dal pianeta, Harmonia
stessa invece
si scontrò direttamente con lui, così
ch-»
«E
poi, eh? Eh? Cosa successe? Apophis tornò da dove era venuto?»
domandò
curioso come un bambino che vuole sapere il finale di una storia.
Alice
lo guardò qualche istante, poi il
suo volto divenne una maschera di tristezza:
«Poi
ci accorgemmo che Apophis non si sarebbe arreso tanto facilmente, non
senza
lasciare un segno del proprio passaggio anche sulla Terra»
rispose fredda
tirando un sospiro che sembrava esserle costato un dolore immenso:
«Phobos
stava ancora tenendo aperto il
varco quando Apophis fu spedito nello spazio, e
gli era tremendamente vicino: fu un attimo prima che io ed
Harmonia ci accorgessimo di quello che stava accadendo, ed anche
Apophis ci
mise ben poco per afferrare il braccio di Phobos con una violenza
spaventosa
scaraventandolo a terra in preda agli spasmi in condizioni agonizzanti,
poi se
ne andò diventando un brutto affare delle famiglie delle
Costellazioni, non più
un nostro problema» spiegò notando che Jack,
resosi contro che si stava
parlando di Phobos, stava per farle una domanda:
«Se
te
lo stai chiedendo la risposta è no, Phobos non fu
più lo stesso: tutti noi,
compresi i Guardiani, cercammo di aiutarlo, ma il suo braccio e la sua
mente
ormai recavano il marchio indelebile di Apophis Nightcrawler, e non
potevamo
farci nulla, nulla… Harmonia provò a salvarlo, a
risvegliare nella sua
coscienza l’uomo che amava, ma di tutta risposta lui
cercò di ucciderla, per
poi scatenare la furia appena ottenuta contro tutto e tutti: non potevamo fare nulla per salvare, ma
dovevamo fare qualcosa per salvare noi stessi ed il resto
dell’Universo.»
concluse prendendosi una pausa per stringere i pugni fino a sentire
dolore.
Jack
iniziava a capire purtroppo per
lui, ed insieme alla consapevolezza di ciò che era accaduto
iniziò a provare uno
strano senso di malessere: per quanto avesse perso improvvisamente
Emma, non
osava nemmeno immaginare il dolore di perdere qualcuno che si amava
dall’oggi
al domani, soprattutto se quella persona era diventata un mostro
cercando di
salvare qualcuno nel nome del Guardiano dei Guardiani, lo stesso che
aveva
osservato tutto senza muovere un solo dito, senza nemmeno provare ad
intervenire.
E
faceva male pensare che quello fosse davvero Manny, faceva tanto male,
ma
purtroppo per lui quella era la sola ed unica verità, ed ora capiva
perché i Guardiani non ne volessero
parlare: doveva essere doloroso pensare che la persona che ti ha creato
ti ha
anche abbandonato a te stesso, non poteva certo biasimarli per avergli
nascosto
una verità che nemmeno lui era certo di poter sopportare,
ora che la conosceva.
Tuttavia
Alice sapeva che mancava un
ultimo pezzo, e Jack glielo chiese prontamente:
«Phobos
poi che fine fece? Vene
confinato nell’Abis-»
«L’Abisso
fu una scelta obbligata, se fosse stato per Harmonia lei non avrebbe
mai osato
fare del male all’unico uomo della propria vita, non voleva
creare quel luogo»
ci tenne a precisare prima di continuare «Comunque
sì, Phobos era troppo
pericoloso per restare in libertà, così venne
creato un posto dove non avrebbe
potuto fare del male a nessuno: Harmonia dovette combattere contro di
lui con
le lacrime agli occhi, e quando gettò il corpo del proprio
amante in fin di
vita in una voragine che tutti noi la aiutammo a creare per lei fu un
colpo
durissimo, fu terribil-»
«Se
ami una persona non la getti in una voragine, cerchi di salvarla»
obiettò
il giovane Guardiano pensando di essere dalla parte della ragione
«Voglio dire,
questa Harmonia avrebbe potuto impegnarsi di più, magari
Phobos avrebbe potuto
essere salvato, no?» domandò rivolto a tutti i
presenti nella stanza.
Il
silenzio.
Totale,
assordante ed inquietante
silenzio.
Da
parte di tutti.
Alice
lo guardò come se avesse appena
dichiarato guerra a qualcuno, poi si alzò di scatto
sbattendo con violenza le
mani sui braccioli della sedia di frost:
«Harmonia
ha fatto di tutto, tutto, per salvare Phobos, ma non è
bastato, non è bastato!»
gli urlò contro furiosa «Tu
non c’eri,
dannato Guardiano! Non c’eri mentre agonizzava da sola sul
ciglio dell’Abisso!
Non eri tu che passava giornate intere temendo che il suo dolore
potesse
contagiare l’intero pianeta e portarlo alla morte! Non
c’eri!» continuò ad
infierire mentre Scarlet, forse temendo un’altra sfuriata,
gli si era
avvicinata, ma questo non bastò a Jack per sentirsi
più calmo dopo quella che
aveva creduto essere una semplice domanda più che logica.
A
quel punto fu Nord ad intervenire
sperando di calmare le acque:
«Jack
non volere dire che Harmonia ha
colpa di avere abbandonato Phobos, ma lui non
capir-»
«Non
capisce cosa, esattamente?» rigirò la
domanda infuriata «Che il suo Uomo
nella Luna è un’emerita testa di cazzo, forse?
Oh certo, tutti bravi a parlare quando non sanno cosa
c’è dietro alle parole,
proprio bravi! Ma c’è una soluzione, oh se
c’è!» sbottò improvvisamente
facendo
un sorriso che non lasciava presagire nulla di buono
«Alzatevi e seguitemi.»
ordinò semplicemente, ordine che venne subito eseguito.
Nessuno
aveva osato chiedere dove
stessero andando, ma appena Alice tornò nel grande atrio e
si fermò al centro
di quello che sembrava essere un intricato mosaico variopinto sul
pavimento fu
Dentolina ad opporre resistenza:
«No!
Alice non è necessario! Jack non è
ancora pront-»
«Non
è un mio problema se è pronto o
meno, a casa mia si fa quello che dico io: vuole le risposte? Benissimo, allora le chieda direttamente ad
Harmonia, se ha il coraggio di farlo.»
«Tutta
quella magia… lui non è abituato…
potrebbe… potrebb-» cercò di
controbattere la fata con aria davvero
preoccupata, ma la principessa guerriera era irremovibile:
«Ucciderlo?
Ben venga, un impiccio in
meno.» concluse l’altra, poi invitò
tutti ad entrare nel cerchio formato dalle
decorazioni del disegno per terra, prese la spada e la
conficcò al centro del
mosaico, sollevando quello che sembrava un campo di energia che
confluiva in un
portale del tutto simile a quello che Jack Frost aveva visto usare da
Scarlet.
Aveva
paura ed entrarci, il giovane
Guardiano, e si maledisse per non essere riuscito a tenere a freno la
lingua
per l’ennesima volta: da una parte forse avrebbe finalmente
conosciuto qualcuna
delle persone delle quali sentiva continuamente i nomi nei discorsi dei
Guardiani e di Alice, dall’altra l’idea che
Dentolina si stesse addirittura
preoccupando che non fosse ancora pronto, non aveva ancora capito se
intendesse
dal punto di vista mentale oppure fisico, gli metteva addosso una certa
ansia.
Non
voleva certo morire giovane, non era
come Sandman che tornava alla vita a random nemmeno fosse un gatto che
di vite
ne aveva nove, né tantomeno voleva farlo prima di avere
avuto le proprie
risposte riguardo Emma, che al momento restava comunque la sua
priorità
assoluta dopo secoli di silenzio.
Non
fece nemmeno in tempo a continuare i
propri ragionamenti alquanto ambigui che si sentì
risucchiato da qualcosa,
esattamente come era successo quando era approdato a Fairy Oak: questa
volta la
sensazione durò molto meno tempo, complice il fatto che i
due luoghi si
trovassero sullo stesso pianeta, ma era rimasto comunque nuovamente
stranito,
come intorpidito da uno strano senso di piccolezza.
Soprattutto
quando aveva riaperto gli occhi.
Se
quello era il paradiso, allora avrebbe preferito morire per andarci.
Jack
non aveva creduto ai suoi occhi
nemmeno quando aveva visto il Paese delle Meraviglie, ma quel luogo era
decisamente
al di sopra ogni aspettativa: anche se era pieno giorno, le immense
distese di
nubi variopinte dai caldi colori del tramonto svettavano prepotenti sul
cielo
che andava dall’azzurro fino al blu dello spazio
più profondo, profondità
illuminata però da una miriade di stelle bianche delle quali
ne risaltava in
particolarmente una azzurrina, sfondo sul quale pareva essere stato
dipinto
l’intero paesaggio che gli si stagliava davanti, un paesaggio
talmente irreale
da sembrare uscito da un sogno da mille e una notte.
Dal
terreno si innalzavano fino al cielo
torri che uscivano dal ventre dal terreno pazientemente plasmate dalla
magia
che permeava l’aria riempiendola di un dolce profumo
fruttato, prati sconfinati
che crescevano ovunque arrampicandosi dalla pianura fino alla
sommità di quei
palazzi di terra fresca e rigogliosa coperta da fiori di ogni tipo,
forma e
colore, comprese grosse piante dall’insolita forma a
palloncino con il fusto
ricurvo che emanavano una luminescenza giallastra rendendo il tutto
ancora più
magico, segnando un sentiero che andava fino alla costruzione
più immane che
dominasse il luogo: un enorme pilastro di terra e roccia che si univa
con una
sorta di ponte a quelle che avevano tutta l’aria di essere
isole che
fluttuavano nell’etere facendo ricadere morbide e frizzanti
cascate dall’acqua
limpida e cristallina, cascate volanti che ricoprivano il pilastro fino
a
ricadere a terra in un grande lago sottostante.
Ed
infine, sulla sommità di quel
gigantesco pilastro di roccia, un castello, il più bello e
imponente che Jack
avesse mai visto, effetto reso ancora più magnifico dal
fatto che ci fossero
delle insenature dalle quali sgorgava l’acqua della cascata
stessa: non
sembrava fatto di pietra come quello di Alice, le pareti dorate dalle
sfumature
rosate donavano alla costruzione un aspetto più fiabesco
rispetto all’altro, e
le alte torri che si abbracciavano in abbracci fatati svanendo fra le
morbide
nuvole rendevano l’idea che potessero addirittura toccare il
la grande stella
azzurra che pareva sorvegliare tutto i territorio circostante
all’area.
Troppo
occupati a godersi quello
spettacolo e letteralmente rapito dall’atmosfera del posto,
Frost era rimasto
indietro rispetto ai compagni, i quali erano già in cammino
dietro Alice e
Scarlet verso la sommità della montagna percorrendo il
sentiero illuminato
dagli strani fiori luminescenti: con una corsa veloce aveva recuperato
lo
svantaggio e si era messo alla pari con gli altri senza fiatare,
notando che
tutti avevano un’aria decisamente più rilassata di
prima, quasi che il profumo
e la magia dell’aria stessa avesse un qualche effetto
positivo sul corpo e la
mente.
Non
seppe quantificare il tempo che
avevano impiegato per risalire la torre di roccia, anche
perché per tutta la
camminata era stato con il naso all’insù per
godersi ancora qualche istante il
paesaggio che gli si apriva intorno rendendosi conto, proprio a causa
dell’elevata altezza raggiunta, che il territorio di quel
regno era molto più
vasto del previsto: non
riusciva nemmeno a vederne i confini talmente era grande, ed anzi
vedeva
addirittura la leggera curvatura del pianeta da dove si trovava, fatta
eccezione
per delle alte montagne simili a vulcani in lontananza.
Aveva
capito di essere arrivato a
destinazione quando si scontrò con una certa violenza contro
la schiena di
Nord, azione che gli aveva finalmente fatto abbassare lo sguardo verso
i
cancelli dorati formati da due unicorni rampanti le cui ali si erano
dischiuse
facendoli entrare ed approdare in quello che aveva tutta
l’aria di essere un
giardino con ogni specie vegetale immaginabile: non era tanto il verde
lussureggiante e florido del giardino in sé ad averlo
colpito, era più
l’immensa cupola soprastante che ricordava vagamente
l’aspetto delle serre che
utilizzavano gli umani per coltivare determinate piante in luoghi
particolari.
Alice
allora invitò tutti a raccolta in
un piccolo angolo vicino ad un laghetto con degli strani cigni con
vezzose
corone di piume adornate da piccole perle iridescenti che
però non sembravano
voler prestare attenzione ai nuovi ospiti, e proprio quando Jack,
complice la
stanchezza, aveva fatto per accomodarsi su una graziosa sedia ricavata
da un
masso bianco piuttosto grande, Scarlet gli aveva sbattuto il piatto
della
propria lancia sulla schiena facendolo drizzare in piedi per lo
spavento, non
tanto per il dolore quasi inesistente:
«Abbi
rispetto per questo luogo,
Guardiano del Divertimento, e vedi di inchinarti come hanno
già fatto i tuoi
compagni.» gli raccomandò imitando gli altri a sua
volta, compresa Alice che
teneva la testa china sull’elsa della propria spada.
Se
doveva essere sincero proprio non
capiva il perché di tutte quelle formalità,
motivo per cui decise di fare il trasgressivo
standosene in piedi con le
braccia incrociate come se stesse sfidando Manny in persona:
«Oh
certo, così appena mi inchino lo
prendo nel c-»
«Perdonatemi
il ritardo ma lucidare gli zoccoli può rivelarsi
un’operazione più lunga del
previsto quando si tratta di incontri formali, mi fa molto piacere
vedere che
ci siete tutti.» annunciò una voce
femminile da un punto che inizialmente
Frost non riuscì ad identificare troppo bene, preso
com’era dal suo stesso ego
e per questo fu solo dopo qualche istante che vide, appena dietro un
cespuglio
piuttosto fitto di bacche violacee, quella che doveva essere una donna
in sella
ad un cavallo che si avvicinava a dove si trovavano loro, a giudicare
dagli zoccoli
dorati che si riuscivano ad intravedere
nella vegetazione
O
almeno aveva pensato che fosse a
cavallo.
Fino
a quando non si era ritrovato ad appena un metro da lei.
E
allora pensò che il trauma di essere diventato un Guardiano
non era più quello
che l’avrebbe segnato più di tutti nella sua vita.
Se
quella era il genere di bellezza che avrebbe trovato nelle donne che
abitavano
quel regno, allora avrebbe messo una firma su qualsiasi contratto per
stabilirsi a Phantasia fino a quando l’Universo non sarebbe
collassato: la liscia
pelle color pesca era in netto contrasto
con l’armatura dorata decorata da grezzi ricami floreali in
rilievo sulle
placche che coprivano a malapena il prosperoso seno proporzionato e non
esagerato rispetto al resto del corpo, persino con i muscoli addominali
ben
visibili che rendevano l’idea di quanta forza dovesse avere
dentro di sé quella
donna, armatura che si ripeteva nuovamente con dei bracciali fino al
gomito
presenti su entrambe le braccia ed una collana che invece ricadevano
fino a
poco sopra il seno.
E
poi
il volto, un viso angelico che
nulla aveva da invidiare alle raffigurazioni delle dee greche
reperibili
ovunque sulla Terra, adornato da due grandi occhi azzurri con le stesse
sfumature del lago sottostante quasi i colori fossero stati presi in
prestito
dall’acqua stessa, il tutto coronato da una cascata di
capelli il cui curioso
colore andava dal verde acqua, all’azzurro, al violetto fino
al rosa intenso,
una chioma che ricordava un arcobaleno sempre in movimento, come se
fosse una
nube eterea che si muoveva seguendo un’invisibile brezza
anche se l’aria,
almeno in quel luogo, sembrava piuttosto quieta.
Arrivato
a quel punto, Jack si sarebbe
volentieri fermato alla parte superiore
del corpo, ma quando l’aveva guardata meglio non aveva potuto
ignorare quella inferiore: non
c’erano delle gambe ed un
fondoschiena da urlo come si era poco castamente immaginato, ma il possente corpo di un grosso cavalli
bianco dagli zoccoli dorati e la coda sempre in movimento come la folta
chioma.
Ecco.
Lo
sgomento iniziale fu tremendo,
abbastanza perché servisse l’aiuto di Nord a
reggerlo in piedi, ma la donna non
si era scomposta più di tanto, anzi aveva accennato un
timido sorriso:
«Immagino
che non capiti tutti i giorni
di vedere una centauressa sulla Terra, quindi non preoccuparti e
prenditi tutto
il tempo che ti serv-»
«Ma
se fai sesso quale sarebbe il buco per le cose GNE?»
chiese con tutta la
nonchalance che il mondo potesse offrirgli facendo raggelare il sangue
nelle
vene dei Guardiani, abbastanza perché Dentolina si
precipitasse verso di lui
mettendogli una mano sulla bocca:
«Jack!
Vergognati! Ma che domande sono? Ma dai!» lo
rimproverò talmente sconvolta
che il suo volto divenne più rosso del mantello di Scarlet,
poi si girò verso l’altra:
«Mi
dispiace! Non voleva dirlo! Non si
riesce a controllare! Ti prego di perdonar-»
«Nessun
problema, Dentolina, d’altronde è
ancora un giovane Guardiano, certe domande sono ovvie quando ci si
ritrova
davanti a duna donna mezza cavallo, non credi?»
domandò ridacchiando, poi si
avvicinò a Jack che, preso da un improvviso senso di
imbarazzo, si era
inchinato a terra terrorizzato dalle conseguenze delle sue parole, ma
lei lo
aveva invitato a sollevarsi con un tocco dello zoccolo sulla nuca:
«Per
rispondere alla tua domanda, Jack
Frost, vorrei informarti che genitali da cavallo hanno la stessa
funzione di
quelli di una qualsiasi donna: è una questione di pratica il
modo in cui ci si
destreggia fra zampe e zoccoli vari senza rompersi una costola, ma una
volta
che ci si fa l’abitudine non sarebbe diverso dal fare sesso
con qualsiasi altra
donna umana, la mia risposta ti ha soddisfatto a
sufficienza?» gli chiese
prendendosi di rimando il silenzio imbarazzato del Guardiano e degli
altri,
compresa Alice ed il suo facepalm.
Dopo
qualche istante di mutismo Jack si
decise a fare un cenno con la testa, gesto che venne accolto dalla
donna come
un segno che forse avevano finalmente rotto il ghiaccio:
«Molto
bene, vedo che la curiosità non
ti manca, in questo regno è fondamentale essere disposti ad
uscire dagli
schemi» si complimentò facendo rilassare Frost,
che continuava a fissarla con
la testa piegata di lato per cogliere ogni particolare della sua
figura,
soprattutto la corona:
«Oh,
quasi mi stavo dimenticando delle presentazioni:
come ti avranno già detto il nome è Harmonia,
Regina della Fantasia oltre che
sovrana del regno di Phantasia e del pianeta Exodus, » si
presentò con un
inchino abbassando il capo e piegando una zampa tenendo tesa
l’altra, per poi
allungare una mano verso Jack che, dietro suggerimento
dell’ultimo minuti di
Dentolina, si era affrettato a prenderla e baciarne il dorso come la
fata gli
aveva spiegato per rendere omaggio a quella che, almeno da
ciò che aveva
brevemente sentito, era la massima autorità dinanzi alla
quale si sarebbe
trovato quel giorno.
Terminati
i convenevoli, stranamente
senza spargimenti di sangue come invece era successo alla corte della
principessa guerriera, la regina aveva spostato lo sguardo sui
Guardiani feriti
immaginando già chi fosse l’autrice di quella
scena pietosa, la stessa che si
era però prontamente premurata di discolparsi:
«Siamo
qui perché il signorino Frost ha delle domande da farti, non
per discutere dei
miei ambigui metodi di accoglienza»
asserì stizzita spingendo Jack con
l’elsa della spada verso di lei, che lo guardò
incuriosita:
«Domande?
Oh beh, penso che abbiamo
tempo per qualche domanda, non è il cas-»
«Su
Phobos.» buttò lì Alice senza
troppi giri di parole.
Harmonia
aveva improvvisamente assunto
un’aria perplessa, i muscoli delle braccia visibilmente tesi
e le mani chiuse a
pugni fecero capire ai presenti che forse, per
l’ennesima volta, Jack avrebbe dovuto imparare a
tenersi per sé i propri
dubbi:
«Molto
bene, non vedo il motivo per cui
non dovrebbe farle» disse la regina cogliendo di sorpresa un
po’ tutti,
soprattutto quando si era chinata verso il giovane Guardiano
prendendogli il
mento perché i loro sguardi si incrociassero, anche se
quella posizione metteva
leggermente a disagio il povero spirito dell’Inverno:
«Io…
ecco, volevo… volevo sapere per
quale motivo… insomma…
l’Abisso… Phob-»
«Vuoi
sapere perché abbia deciso di abbandonarlo là
dentro, piuttosto che tentare il
tutto per tutto per riaverlo indietro, vero?»
domandò infine, e l’altro
fece un cenno di approvazione:
«Lo
immaginavo, sono in molti che
faticano a capire il perché di quel gesto, ma non mi aspetto
che tutti
comprendano.» sospirò con un velo di tristezza
Harmonia, la quale aveva abbassato
lo sguardo nostalgica.
Jack
avrebbe dato di tutto per sapere
cosa girava nella sua testa in quel momento, dopo la sua domanda fin
troppo
scomoda, ma qualsiasi cosa stesse pensando aveva capito un punto
focale: se per
Alice era stato difficile parlare della questione, allora
per Harmonia doveva essere al pari di una vera e propria
tortura.
La
regina tuttavia ritrovò presto l’aria
composta che era solita mantenere in ogni genere di situazione, e
quella volta
non fu da meno:
«Immagino
che Alice ti abbia già
raccontato a grandi linee ciò che è accaduto
prima della mia decisione, ma ci
tengo a specificare comunque una cosa: la mia scelta fu difficile,
molto più di
quanto avrei potuto immaginare che potesse essere, e fu dettata
soprattutto
dalla necessità di mettere fine ad un conflitto che, se
fosse andato avanti,
avrebbe portato solo più danni ad una guerra già
in corso» riferì assumendo
un’aria seria mentre un curioso passerotto dalle piume
bluastre e la coda
simile a quella di un pavone le si era posato sul dorso:
«Phobos
era stremato, lo eravamo tutti
dopo l’infinità di incantesimi che la protezione
del pianeta aveva richiesto,
nessuno di noi era in grado di resistere ad un altro attacco di Apophis
se mai
fosse arrivato: avevamo combattuto, erano morte persone,
c’erano stati interi
regni completamente rasi al suolo, non avevamo tempo per occuparci dei
singoli
individui, tantomeno di vigilare che nessuno rimanesse
indietro» continuò
accarezzando il piccolo uccello che canticchiava felice:
«I
Guardiani erano fuori combattimento
da un pezzo quando ho portato gli eserciti di Exodus sulla Terra, ed
abbiamo
dovuto cavarcela da soli: ognuno aveva il proprio ruolo, ma eravamo io
e Phobos
a confrontarci direttamente con Apophis, lui che lo teneva lontano
dalla
superficie ed io che cercavo con tutte le mie forze di rimandarlo da
dove era
venuto, o almeno di respingerlo abbastanza perché diventasse
un problema di
Manny, non nostro.»
concluse facendo
una pausa durante la quale il volatile era sparito fra le fronde di un
grande
albero dai frutti rosati.
Dopo
qualche istante Harmonia incrociò
le braccia al petto come se volesse abbracciarsi per darsi conforto,
gesto che
non sfuggì a Frost:
«Questo
già lo sapevo, in realtà, ma non
capisco perché hai scavato proprio una vor-»
«Quando
Phobos perse il controllo cercai
di usare quel poco di energie che la battaglia mi aveva lasciato per
utilizzare
delle magie di guarigione, ma furono del tutto inutili: aveva
improvvisamente
ripreso le forze come spinto da una forza più grande di lui,
e quando ci
attaccò capii che non avremmo mai potuto sostenere lo
scontro uscendone vivi, così
ripiegai sull’Abisso» spiegò
con la
voce incrinata dalla tristezza e dai rimorsi:
«Fu
un attimo per sconfiggerlo,
soprattutto perché dopo il suo attacco sembrò che
l’immane potenza che aveva
fra le mani fosse svanita nel nulla, ma sono secoli che mi porto dietro
il
dolore del mio gesto: ho cercato di convincermi che la salvezza
dell’intero Universo
fosse più importante dei miei sentimenti per Phobos, non
avevo altra scelta che
accettare ciò che era succes-»
Un
boato.
Le
schegge di vetro che schizzavano ovunque.
Un
calore terribile.
Il
silenzio.
Poi
era partito “Burn” sull’mp4.
«When
the lights turned down, they dont know what they heard: strike the
match, play
it loud, giving love to the world! We’ll be raising our
hands, shining up to
the sky, cause we got the fire, fire, fire, yeah we got the fire fire
fire!» iniziò
a canticchiare una vocina non meglio
identificata che sembrava vicino, anche
troppo.
Jack
fu il primo ad aprire gli occhi
dopo tutto quel baccano, e ciò che aveva visto lo aveva
lasciato sconvolto:
l’enorme vetrata che ricopriva quel alto del giardino di
Harmonia era andata in
frantumi, le schegge multicolore sparse ovunque si girasse, Dentolina
che
agonizzava per un grosso pezzo di vetro che le si era conficcato nella
spalla
inchiodandola a terra, probabilmente rimasta fuori dalla portata dello
scudo
diafano creato da Harmonia all’ultimo secondo prima del
disastro, lo stesso che
aveva permesso a tutti di cavarsela con qualche graffio.
E
giustamente, in tutto quel casino,
c’era una donna dai capelli color magenta che li osservava
divertita intenta a
togliersi le cuffie dalle orecchie:
«Ma
ciao ragazzi, quanto tempo!» esclamò
tutta felice facendo l’occhiolino ed avvicinandosi
barcollando come se fosse
ubriaca, poi fece un ironico inchino davanti alla regina:
«Mi
sei mancata proprio, Amicaharmo,
non vedevo l’ora di vederti!
Cercavo proprio te!» disse tutta felice comportandosi come se
quella fosse una
semplice visita di cortesia.
Amicaharmo?
L’aveva
davvero chiamata Amicaharmo?
Jack
aveva la sensazione che la stesse
provocando con frecciatine sottilissime, ed a quanto pare anche la
regina aveva
avuto la stessa impressione:
«Comet
E. Halley, è da molto che non ti
si vede nei pressi di Phantasia, per non dire che non ti si vede
proprio in
giro: cosa ti porta qui, dunque?» domandò calma
sforzandosi di essere educata
con chi le aveva appena sfondato la vetrata nemmeno fosse Spettro:
«Eh?
Oh, sì! Volevo dirti una cosa, sai
ci tengo che tu lo
sappia, non sia mai
che poi mi vengono a dire che ti ha avvisato qualcun altro
eh!» spiegò mentre
se ne stava chinata a mangiare con nonchalance delle bacche prese dal
cespuglio
vicino, gesto che Harmonia faticò ad ignorare considerando
la sfacciataggine
con la quale lo stava facendo:
«Avvisarmi?
Avvisarmi di cosa,
esattamente? Spero che sia qualcosa di importante, noi qui stavamo
discutendo
di argomenti che nulla hanno a che fare con la tua eterna
superficialità, ma
non te ne faccio una colpa.» rispose piegando leggermente la
testa di lato
confusa, e soprattutto buttando un occhio su Alice che teneva
già la mano
sull’elsa della spada pronta ad intervenire a qualsiasi
scherzo della stella
solitaria.
Anche
Halley aveva notato tutta quella
tensione fra i presenti, motivo per cui aveva sfoderato uno dei suoi
soliti
sorrisetti maliziosi avvicinandosi ad Harmonia:
«Abbiamo
un amico in comune, lo sai?»
disse mentre la regina la guardava confusa, come s enon stesse capendo
ciò che
voleva dirle:
«Abbiamo
molte conoscenze in comune, non
vedo perché questo debba essere un motiv-»
«In
tutti questi secoli, con chi pensi se la sia spassata
Phobos?»
Quando
la freccia venne scoccata dall’arco comparso dal nulla nelle
mani di Harmonia,
ormai Comet si era già volatilizzata come era solita fare, a
nulla era servito
nemmeno il fendente con la spada che si era conficcata nello spesso
tronco
dell’albero.
Ciò
che accadde dopo fu questione di
secondi, quelli che bastarono a tutti per realizzare il significato
delle
parole della donna, ma soprattutto quelli che servirono ad Harmonia per
fare
due più due collegando i vari avvenimenti ai quali avevano
assistito.
Ne
seguì una discussione piuttosto
concitata fra la regina, la principessa guerriera ed i Guardiani
durante la
quale, fra un’imprecazione e l’altra, aveva capito
solo uno spezzone di frase
pronunciata da Harmonia stessa: «Abbiamo
un problema non previsto.»
Un
grosso problema.
In
lontananza, sulla sommità di una
collina dalla quale si poteva ammirare la magnificenza offerta dal
castello di
Phantasia, la donna dalle immense ali bianche osservava la scena mentre
la
cascata di capelli biondi che toccavano terra veniva dolcemente cullata
dalla
brezza che spirava in quel luogo, un vento impregnato di preoccupazioni
ed
ansia: dopo la discussione con Manny aveva deciso di andare a
controllare di
persona, e da quanto stava vedendo c’era stato
l’ennesimo imprevisto della
giornata, con l’arrivo di Comet, ma confidava che Harmonia
potesse gestire
egregiamente la situazione come aveva sempre fatto.
Nonostante
fosse bellamente immersa nei
propri pensieri, la donna avvertì chiaramente la presenza
dell’altro, appena
apparso da un portale che si era aperto proprio al suo fianco, complice
il
frusciare delle grandi ali nere sulle foglie a terra:
«Le
pedine di Manny mi sembrano
piuttosto scarse, come del resto chi le comanda»
asserì senza distogliere lo
sguardo dal castello in lontananza, cosa che fece anche la donna:
«In
realtà, credo che siano un po’ come
i sassi» disse afferrando un piccolo ciottolo davanti ai
propri piedi e
rigirandoselo fra le dita «Nelle mani di alcuni uomini un
minuscolo sasso può
essere un’arma terribile, mentre in altre potrebbe essere la
prima pietra sulla
quale verranno poggiate le fondamenta di un’imponente
palazzo.» spiegò
porgendolo all’altro, che lo guardava incuriosito:
«Tuttavia,
se si tratta dell’Uomo nella
Luna, un sasso resterà sempre e solo un inutile ed
insignificante sasso, proprio come lui.»
continuò lui
chiudendo le dita intorno alla roccia per poi riaprirle, mostrando solo
della
polvere nerastra.
La
donna si lasciò scappare una
fragorosa risata, tanto che pensò che qualcuno avrebbe anche
potuto sentirla, ma
tornò ben presto composta:
«Piuttosto,
come mai anche tu qui?
Interessi particolari?» domandò all’uomo
che le stava di fianco, il quale fece
spallucce:
«Fosse
per me, sarei restato comodamente
a casa mia, nel mio Universo: ho
anche io qualcuno che mi aspetta, una puledra che ha bisogno di me e
del mio
impagabile egocentrismo, le questioni mortali non sono oggetto del mio
interesse» rispose schietto:
«L’unico
interesse che io possa avere in
questa faccenda è che tutto scorra come il destino ha
previsto, e questo non sta succedendo»
disse
indicando con un’ala la scia lasciata da Comet:
«Sta
dando troppi problemi a questo
mondo, ma non è affar mio, non ancora: i miei piani, i piani di questa dimensione, non erano
questi, non del tutto.»
concluse con aria seria.
L’altra
lo osservò anche lei con un’espressione
compassionevole:
«Pensavo
ti occupassi di pesci più
grossi di questo, ma presumo che tu abbia le tue ragioni quindi non
metterò
mano a nulla, almeno fino a quando potrò starmene fuori, ma
da quello che sto
vedendo le cose si sono evolute più velocemente del
previsto: nessuno
interverrà con gli affari degli immortali ma, come negli
scacchi, per i pedoni
proteggere la regina è di fondamentale
importanza…»
«Ed
abbattere il re lo è altrettanto.»
rispose completando la frase dell’altra.
Poi,
esattamente com’era arrivato, nel
silenzio e nell’anonimato più assoluto, aveva
lasciato che il suo corpo svanisse
nell’oscurità lasciando a terra solo una chiazza
d’erba apparentemente bruciata
dalla forma che ricordava vagamente un occhio.
La
donna allora si girò verso la stella
che ardeva nel cielo sovrastante il castello, osservandola mentre
dischiudeva
le proprie ali oscurando la luce dei soli che filtrava attraverso le
nuvole
rosate su quella zona di terra, spostando lo sguardo sulla Luna che si
intravedeva appena:
«Sarà
meglio che tu impari a giocare a scacchi, se vuoi tenerti stretto il
tuo regno.»
sussurrò appena per poi, come l’altro, scomparire
in una cascata di polvere
dorata dall’aspetto simile a piccole stelle danzanti.
Dunque
la partita era iniziata.
_______________________________________________
Angolino
dell’autrice
Eccomi
qui con il capitolo 3, scritto
più velocemente del previsto, ed è anche lungo
<3
Vi
avviso già che ho avuto problemi con
Nvu, per cui il testo sarà leggermente più grande
dei capitoli precedenti, ma
era l’unico modo per farlo funzionare xD
Comunque
sia, non voglio dilungarmi troppo per non
fare spoiler, ma una cosa devo dirla: finalmente ho presentato il
personaggio
principale di questo fanfiction, ovvero la mia oc Harmonia, e devo
dire che
non vedevo proprio l’ora di mostrarla al mondo in tutta la
sua nobiltà di centauressa :3
Harmonia
è uno dei miei oc preferiti,
per non dire la mia preferita, forse perché dietro la sua
storia c’è anche una
serie di eventi e indecisioni che l’hanno portata a trovare
finalmente un posto
nelle mie long, e questa fan fiction un po’ gliela dedico, a
giudicare da tutto
l’impegno che c’è dietro un personaggio
così complesso.
A
proposito di Harmonia, vorrei darvi
un’idea sul suo aspetto e per farlo ho voluto usare i suoi
disegni ufficiali:
il primo, quello con l’arco, è stato il primo
disegno a colori in assoluto di
Harmonia, fatto dalla meravigliosa _Dracarys_ non ricordo nemmeno
quanto tempo fa, sicuramente più di un anno, e come vedete
l’aspetto di
Harmonia stessa è cambiato nel tempo xD
Quella
attuale, ed ufficiale, e l’altro
disegno che ho fatto io impegnandomi come non so cosa con Photoshop:
non sarà
il massimo, non so ancora usarlo molto bene, ma l’idea
generale è quella e devo
dire che mi piace come sono riuscita a farla :D
Il
disegno di _Dracarys_
però rimane
quello storico, il primo dei primi, soprattutto perché
è riuscita ad infilarci
il leggendario arco che tanto mi piaceva, per cui la ringrazio
immensamente
come faccio sempre perché è molto GNE ed
immensamente meravigliosa <3
Che
dire, penso di avervi detto tutto
quello che dovevo senza spoiler vari: ringrazio tantissimo chi
è arrivato fin
qui a leggere, e soprattutto vorrei ringraziare ancora di
più chi ha lasciato
una recensione facendomi sapere cosa ne pensa di questa long,
è davvero
bellissimo vedere che anche ad altri piace ciò che scrivo in
questo fandom :3
Ci
vediamo al prossimo capitolo! :)
Come
ho detto, vi lascio il disegno
originale di Harmonia fatto da _Dracarys_,
quello attuale fatto da
me (con la mia firma) ed il castello di Harmonia :D
|
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Capitolo 4 *** Babylon's Ruins ***
capitolo4
Che
ingresso, signori, che ingresso!
Era
stato qualcosa di trionfale e
dannatamente eccezionale persino per i suoi standard, per non parlare
delle
espressioni allibite che si erano dipinte sui volti dei Guardiani, e
soprattutto sul visino angelico di Harmonia!
Certamente
era stata una mossa azzardata
uscire allo scoperto in modo così brutale, ma il risultato
non aveva assolutamente
avuto prezzo: chissà quali domande stavano affliggendo la
Regina della Fantasia
ora che era venuta a conoscenza del trombaris fra lei e Phobos, dalla
sua
reazione si notava benissimo quanto la cosa le bruciasse più
del previsto, e di
certo non si sarebbe mai aspettata che la stessa persona che si fotteva
Phobos
quando più le aggradava fosse la stessa che
andava pure a sbatterglielo in faccia senza ritegno con la consueta
dose di
strafottenza che accompagnava la sua esistenza da quando ne aveva
memoria.
Comunque
fossero messe le cose nella
mente di Harmonia adesso, ormai Halley l’aveva fatto, ed era
meglio iniziare a
prepararsi per un’eventuale reazione che era quasi sicura ci
sarebbe stata, se non
immediatamente comunque diluita nel tempo: per ora ciò che
le importava, oltre
a mangiarsi con una certa foga le deliziose bacche rubate qua e
là a Phantasia
dal sapore vagamente simile a quello dei biscotti alla cannella, era
tornare
dal suo amico di trombaris per accordarsi su cosa avrebbero dovuto fare
per
rimanere fuori dalla portata di Amicaharmo almeno fino a quando Phobos
avrebbe
potuto iniziare a difendersi da solo senza l’aiuto di mamma
Comet ad
abbandonarlo male ad ogni suo momento di autocommiserazione.
Non
è che le desse fastidio averlo
intorno, ma proprio non era brava a rincuorare la gente: non
c’era un motivo
particolare per cui fosse così menefreghista, ma fino ad ora
la filosofia del
pensare solo a divertirsi in barba alle guerre che imperversavano un
po’
ovunque aveva funzionato, e se proprio non si divertiva allora poteva
tranquillamente andarsene dal momento che, parole sue, di lei non
c’era da
fidarsi troppo, non avendo un’etica morale diversa dal
trombaris selvaggio
ovunque capitasse.
Ma
evidentemente non tutti lo capivano,
ed avevano anche il coraggio di lamentarsi di averlo preso nel
posteriore da
lei, proprio da lei!
Comunque
fosse messa la sua dubbio moralità,
aveva impiegato un po’ a ritrovare il luogo dove aveva
lasciato Phobos a causa
della somiglianza di tutte le zone circondate dai roseti arcobaleno, ma
era
stato tutto reso più semplice dall’ingombrante
coda di Necrohunger che spuntava
dalla cavità dove aveva detto all’altro di
nascondersi fino ad una completa
ripresa: era scesa a terra più lentamente del previsto
così da non svegliare il
Cicicarampa addormentato, limitandosi a dargli una leggera carezza sul
dorso
ricoperto di un misto fra placche ossee e pelliccia, poi era atterrata
con un
gesto fulmineo sollevando una sottile nebbiolina rosata.
Dopo
essersi stiracchiata le braccia
intorpidite dalla fuga improvvisa da Harmonia e compagnia, Halley si
era
guardata intorno qualche istante per controllare che nessuno
l’avesse seguita
anche se vederli, in quella zona coperta su tre lati da grossi alberi
millenari
e su quello rimanente da una piccola grotta abbastanza profonda da
contenere
una bestia di dodici metri ed un branco di leoni con
i quali Necrohunger stesso andava stranamente d’accordo, sarebbe
stato difficile.
Mossi
i primi incerti passi verso il
luogo dove ricordava di aver lasciato Phobos, Halley era stata
distratta da un
ringhio che l’aveva fatta girare di scatto già con
il fuoco color magenta alla
mano mentre una miriade di domande le affollavano la mente: e se lui fosse tornato? Cosa avrebbe fatto?
Come l’avrebbe affrontato?
Fortunatamente
per lei, e per in
fantomatico nemico, aveva atteso abbastanza a lungo per scagliare
l’attacco da
rendersi conto che la fonte di quei rumori era semplicemente Thorax
che, per
quanto fosse imponente e forse anche inquietante, la stava solo
squadrando da
capo a piedi:
«Accidenti
a te, dannato gatto troppo
cresciuto!» gli urlò contro mentre il felino, con
un curioso gesto che mai si
sarebbe aspettata, aveva iniziato a sfregare il muso
sull’abito della ragazza
come se volesse renderla partecipe di qualcosa:
«Che
c’è? Mi dispiace amico ma non ho
croccantini, solo queste.» disse mostrandogli le bacche
rosate, e fu solo quando
Thorax aprì la bocca per afferrarne una manciata che Halley
si rese conto di quello
che le stava realmente cercando di
dire.
A
prima vista pensò che fosse tutto
causato da qualche battaglia per il cibo intrattenuta con gli altri
leoni o con
Necrohunger, almeno a giudicare dalla carcasse spolpate davanti
all’entrata
della cavità dove alloggiava placidamente il suo
Ciciarampa, ma nonostante la spiegazione più che
logica c’era
qualcosa che la lasciava perplessa e stranamente all’erta: il
rivolo di sangue
che stava colando a terra dalla bocca di quella bestia proveniva dalla
cavità
lasciata dalla zanna superiore sinistra, decisamente strana a vedersi
dato che
le altre erano grandi quanto il palmo della sua mano, eppure era stata
inspiegabilmente
strappata con una certa violenza da quanto era danneggiata la pelle
della
gengiva lì intorno.
Necrohunger
avrebbe potuto fare danni
consistenti, con gli artigli e la mole che si ritrovava, ma ad un esame
più
attento della bocca di Thorax, nella quale lui le lasciava curiosare
con
nonchalance, aveva scagionato il povero Ciciarampa: non
c’erano segni di lotta
sul muso, cosa improbabile dato che in uno scontro fra quei due titani
la prima
alla quale avrebbe mirato Necrohunger sarebbe stati gli occhi,
c’era solo… una chiazza
di pelo bruciata?
Cazzo.
Non
sapeva nemmeno da dove cominciare a
mettersi le mani nei lunghi capelli color magenta quando Thorax
l’aveva guidata
in quello spiazzo di erba bassa, o almeno ciò che ne
rimaneva: il rigoglioso e
florido prato verde smeraldo coperto di fiori era solo un ricordo
brutalmente
rimpiazzato da una disordinata distesa di erba carbonizzata che
lasciava
intravedere qua e là il terreno sottostante, alberi a terra
ed arbusti che
continuavano ad ardere consumandosi poco alla volta da fiamme nere come
l’oscurità più profonda.
E
proprio lì in mezzo, accucciato vicino
ad un masso incrinato in diversi punti, se ne stava Phobos girato di
spalle che
continuava a colpire qualcosa con una certa furia: non avrebbe nascosto
che le
metteva una certa inquietudine rivedere la stessa scena accaduta
nell’Abisso in
quel luogo così allo scoperto, fin troppo visibile
dall’alto a chiunque sarebbe
passato di lì anche per puro caso, ma ciò che la
preoccupava di più era se
Phobos si fosse ammazzato da solo, a giudicare dalle condizioni mentali
nelle
quali versava.
Si
era diretta verso di lui lentamente,
rigorosamente da dietro accompagnata da Thorax, che teneva
però le orecchie
basse e la coda in mezzo alle zampe avanzando dietro di lei, e solo
quando si
era avvicinata abbastanza aveva visto quello che non avrebbe voluto
né
immaginato: intorno a Phobos c’era una pozza di sangue,
sangue che era finito
ovunque nei metri circostanti ma difficilmente distinguibile dalle
chiazze nere
di terreno, e guardando meglio notò che stava tremando come
se fosse in preda a
degli spasmi incontrollabili.
Non
che fosse una novità del resto, da
quando aveva ritrovato i propri poteri sembrava quasi che non fosse in
grado di
maneggiarli, e per questo ne veniva sopraffatto il più delle
volte, ma c’era
qualcosa di tremendamente sbagliato in quella scena:
«Phobos?
Cosa stai combinando? Me ne
sono andata venti minuti, venti!» lo rimproverò
quando si trovava appena a
qualche metro da lei, ma l’altro non ebbe alcuna reazione:
«Mi
rispondi o no? Avanti, non fare
l’offeso perché ti ho lasciato qui, era per un
buon mot… aspetta, ma cos-»
stava per dire quando sentì la voce morirle in
gola.
Lo
aveva visto crollare in ginocchio
stremato dopo la sfuriata nell’Abisso.
Lo
aveva visto anche mentre si faceva
del male ricordando quello che non avrebbe dovuto.
Ed
ora lo stava vedendo mentre ci maciullava il braccio con la zanna di
Thorax
cercando invano di togliere di mezzo il marchio violaceo, il quale
continuava a
brillare imperterrito sulla carne fresca ed i muscoli sottostanti.
Nonostante
la presenza della compagna,
Phobos non si era scomodato e nemmeno mosso di un millimetro,
continuando ad
infierire su quello che rimaneva dell’avambraccio ridotto ad
un grumo informe
di sangue, almeno fino a quando non era stata Halley a prendergli il
dente del
suo stesso leone facendolo crollare in uno stato che rasentava quello
vegetale:
era consapevole di quello che stava
facendo, sentiva il braccio che gli bruciava sotto il marchio
che gli
divorava la carne scendendo sempre più in fondo ad ogni suo
tentativo di
scacciarlo, il dolore lo stava facendo delirare più di
quanto avesse mai
pensato di poter fare, gli stava facendo
scoprire che il fondo più profondo non era
l’Abisso, era la sua mente.
Si
era accasciato fra le braccia di
Halley per l’ennesima volta da quando era evaso da quella
voragine, la vedeva
anche che gli parlava più confusa di lui, eppure sentiva
come se tutto intorno
a lui provenissero solo suoni ovattati e confusi, suoni che venivano
scavalcati
da uno stridio simile ad un sibilo nella propria testa che lo faceva
contorcere
dalla sofferenza che gli provocava.
Tutto
ciò che riusciva a distinguere
mentre intorno a sé diventava tutto nero era stata Comet che
tentava di
fermargli l’emorragia con le proprie fiamme, ma davanti al
marchio era tutto
inutile, lo era sempre stato, e dopo poco aveva rinunciato poggiandogli
la
testa su Thorax, il quale si era messo dietro il padrone nonostante
ciò che gli
aveva fatto, inconsciamente o meno:
«Non
morirai, non oggi» gli
sussurrò mentre la vedeva alzarsi e scrutare il cielo
con aria circospetta
«Torno
subito, vedremo di sistemare
tutto e tu» disse rivolta al grosso leone dal manto nero
«Tu
pensa a tenerlo nascosto, hai il mio
permesso per mangiarlo.» concluse per poi, ancora una volta,
lasciarlo indietro
a languire da solo.
Quando
la sua visione si era oscurata
completamente non aveva combattuto, si era semplicemente arreso: aveva
fatto
del male a se stesso per niente, preso com’era da quegli
istanti di follia e
furia cieca, aveva addirittura ferito Thorax per i suoi
problemi, tanto valeva farla finita una volta per tutte,
aspettare la morte e mettersi il cuore in pace.
Ma
sapeva che non sarebbe affatto andata
così, la morte era un premio troppo grande per quelli come
lui: era destinato a
soffrire e soffrire ancora, a maledire di essere venuto al mondo, a
dannarsi
per trovare una via di fuga che non c’era mai stata.
Tuttavia,
una volta toccato il fondo avrebbe solo potuto risalire.
Cosa
accidenti le era venuto in mente?
Halley
non poteva che biasimare se
stessa per quella decisione presa senza pensarci troppo davanti a
Phobos che
agonizzava come suo solito, non avrebbe dovuto fargli una promessa che
sapeva
benissimo di non poter mantenere: va bene tenere a lui per le
meravigliose
giornate al gusto di trombaris e vodka con l’accompagnamento
musicale della
bella gente di Castamere, ma aveva come l’impressione che si
stesse
affezionando troppo a lui.
Lei,
che si affezionava a qualcuno?
Avanti,
non era una persona della quale
fidarsi, figurarsi se avrebbe addirittura potuto fare qualcosa di
così
tremendamente stupido per un povero disgraziato con brutti mal di testa
che
nemmeno il Moment faceva passare!
Ecco,
adesso l’aveva fatto, ma si era
anche ripromessa che sarebbe stata l’ultima volta in cui
sarebbe andata nella
tana del lupo per i cazzi degli altri: poi magari lo avrebbe fatto
ancora
giusto per sollazzo e piacere personale nel
disturbare il Guardone Mistico mentre si masturbava sulle foto della
sua
adorata puledra, ma per ora aveva aiutato a sufficienza
Phobos e la
prossima volta, mal di testa o meno, ci sarebbe andato lui di persona, non lei.
Distratta
com’era da tutti quei
ragionamenti dei quali le importava poco o niente, non si era accorta
di essere
arrivata fino a quando non aveva visto l’immensa figura della
torre che si
stagliava davanti a lei sullo sfondo di una nebulosa qualunque, e
allora aveva aspettato
qualche istante per avanzare premurandosi di controllare ogni metro
davanti a
sé:
«“Poi
dissero: venite, costruiamoci una città e una torre, la cui
cima tocchi il
cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la
terra”, proprio
perfetto!» disse ad alta voce recitando una
frase che aveva letto su alcuni libri umani trovati una biblioteca
qualche
secolo prima riguardo ciò che si trovava davanti, chiaro
segno che anche lui aveva
raggiunto diversi Universi
chissà quando.
La
Torre
di Babilonia, così chiamata per
l’imponenza e l’autorità che emanavano
le
sue pareti, era il luogo dove viveva il Guardone Mistico nel suo Universo, ma da quello che aveva
sentito dire dalla gente delle Costellazioni quella struttura era in
grado di
viaggiare ovunque nello spazio e nel tempo, di rendersi invisibile
all’occorrenza e di difendersi, un po’ come il
T.A.R.D.I.S. che aveva visto
nella serie di Doctor Who insieme a Phobos.
Con
l’unica differenze che la Torre era
talmente autonoma e senziente da non permettere a nessuno che non fosse
il
Guardone stesso di entrarci, a meno che non fosse lui a permetterlo, e
quando
lo permetteva significava solo tre cose: che eri la sua dolce puledra,
che eri
il suo maggiordomo alias il Dorito Malvagio oppure che
ti voleva morto.
Halley
non era la puledra tanto amata da
quell’essere e nemmeno una cameriera, quindi non aveva dubbi
che, se fosse riuscita
ad entrare, avrebbe dovuto guardarsi le
spalle per ogni singolo passo.
Comunque
fossero messe le cose, appena
aveva messo piede sulla landa che galleggiava nel vuoto del cosmo si
era presa
qualche istante per ammirare l’immensità della
Torre senza farsi troppo notare:
era talmente alta che la sua cima si perdeva fra le nubi di polvere di
stelle
della nebulosa in cui si trovava, una struttura dall’aspetto
imponente reso
ancora più particolare dalle sue mura, costruite con
chissà quale materiale che
dava l’idea di una creatura dalle linee curve che si
arrampicava fino alla
sommità in un abbraccio continuo di filamenti di tutte le
dimensioni, che
andavano da quelli più piccoli per formare gli intricati
disegni fino a quelli
più grandi che dovevano essere una sorta di struttura
portante, per poi
culminare con due biforcazioni che lasciavano appena visibile
dall’esterno la
luce della stella che ardeva nella sala principale rischiarando tutto
l’ambiente, o almeno Comet ricordava che fosse disposta in
quel modo.
Non
aveva esitato troppo prima di
dirigersi ad aprire, altofuoco alla mano,
verso l’enorme porta d’entrata della Torre di
Babilonia, curiosamente
intagliata in una statua a forma di testa di drago con un grosso occhio
centrale luminescente giusto per
rimarcare l’egocentrismo dal suo proprietario e del suo
animale domestico,
per poi aprirla trovandosi nella sala centrale ed iniziando a
destreggiarsi fra
i labirinti di stanze e corridoi.
Poi
l’aveva vista, finalmente: la sala
dove veniva conservata la Sorgente del Cosmo, un’immane
cascata d’acqua
iridescente che ricadeva in un vaso dorato dove assumeva forme e colori
diversi
agli occhi di chi era incaricato di osservare
il passato, il presente ed il futuro di quell’Universo e di
tutti gli altri,
dal momento che la Torre di Babilonia stessa era il centro del
Multiverso da
quando era stata eretta.
Tirò
fuori velocemente una bottiglia di
vodka vuota che si era legata al fianco e si mise all’opera
per raccogliere una
manciata di quell’acqua miracolosa, a quanto aveva sentito:
al Guardone Mistico
serviva per amplificare i propri poteri per osservare altri luoghi
oltre a
quello in cui viveva abitualmente, ad altri serviva per guarire ferite
altrimenti mortali.
Tipo
quelle di Phobos.
Non
ne serviva molta, e per questo
appena ne riuscì a prendere l’equivalente di un
bicchiere si alzò di fretta e
furia chiudendo la bottiglia per poi tornare sui suoi passi con gli
occhi
socchiusi: lui era lì, lo
sapeva fin
troppo bene, ed era meglio sbrigarsi se voleva evitare un disastro
burocratico
fra Universi, motivo per cui una volta fuori era volata via a tutta
velocità
lasciandosi dietro una scia color magenta che andava perdendosi
nell’etere.
Qualche
istante dopo, l’uomo con l’occhio
azzurro luminescente la osservava allontanarsi:
«Le
comete si spengono, quando si
avvicinano troppo ad un buco nero: direi che faresti meglio a stare
più attenta
a dove ti trovi, o con chi ti trovi.»
disse fra sé e sé mentre toccava terra e, con un
breve cenno della mano, faceva
aprire la pesante porta dorata entrando a sua volta.
Sapeva
quello che Comet aveva fatto nella
sua casa, e volendo avrebbe anche
potuto impedirle di prendere l’acqua della Sorgente per i
suoi scopi, ma se non
aveva mosso nemmeno un dito era perché,
dall’altezza della sua onniscienza ed
onnipresenza, sapeva che quel gesto era l’unico modo
perché i piani del
Multiverso andassero come lui aveva previsto che dovessero andare: il
coinvolgimento di Comet E. Halley lo aveva lasciato spiazzato nei primi
istanti
in cui ne era venuto a conoscenza, con i dolori lancinanti che
conseguivano il
non avverarsi di un destino già previsto, ma fortunatamente
tutto era stato
risolto con il gesto a dir poco avventato della giovane donna di
avventurarsi dove
non avrebbe dovuto.
Una
volta dentro, si limitò a camminare
calmo percorrendo tutta la navata centrale lasciando ricadere
stancamente le
ali a terra fino a quando non aveva imboccato un corridoio diverso da
quello di
Halley, lo stesso che era precedentemente premurato di nascondere per
far sì
che lei non lo notasse, per buoni motivi ovviamente: qualche miliardo
di anni
prima non si sarebbe fatto problemi se qualcuno avesse visto quella
parte della
Torre, ma adesso la considerava più personale, quasi
più intima, forse perché
lì passava le giornate con la sua puledra.
La
sua puledra, la sua adorata puledra con le
crisi di identità, gli mancava più di
quanto avesse pensato quando era partito per quell’Universo
lasciandola con il
suo cameriere alias il Dorito Malvagio
ed il suo animale domestico oltre che con le amiche di una vita ma,
nonostante
sapesse bene che l’aveva lasciata in ottime mani, o meglio
zoccoli, durante le
giornate tutte uguali almeno uno dei suoi tanti pensieri era per lei.
Non
si era ancora capacitato di come
avesse fatto breccia nel cuore che non aveva, fatto stava che avrebbe
decisamente preferito essere con lei piuttosto che ad occuparsi di un
altro
Universo perché chi di dovere preferiva
ubriacarsi inghiottendo Galassie oppure giocare a scacchi con i pianeti
tutto
il giorno, ma d’altronde il dovere era dovere e
nessuno, nessuno, avrebbe potuto
svolgerlo se non
lui.
Data
la mancanza di particolari ed
immediate necessità, si concesse ancora qualche istante ad
osservare uno dei
tanti quadri che li ritraeva con tutta la famiglia che era finito per
acquisire, fra puledre vogliose, Doritos e draghi di dimensioni immani,
e gli
sarebbe anche scappato un sorriso se non fosse stato interrotto
dall’inconfondibile
suono dell’acqua della Sorgente che scorreva più
velocemente di quanto facesse
normalmente.
Con
tutta calma si diresse verso la
stanza dove veniva conservata la preziosa cascata iridescente, poi
passò una
mano sull’acqua fino a quando quest’ultima non
cambiò forma diventando prima un
gigantesco serpente che strisciava fra delle sfere di dimensioni
variabili, poi
un leone stretto fra le spire della suddetta bestia ed infine,
esattamente come
aveva fatto a prendere forma, era ricaduta nella Sorgente con un
leggero tonfo
che gli aveva fatto schizzare alcune gocce sul braccio.
Gocce
d’acqua limpida, certo, che aveva
improvvisamente assunto un colore rosso intenso.
Lo
stesso del sangue.
Sangue
che l’uomo dall’occhio azzurro
luminescente, inizialmente insospettito, si limitò ad
assaggiare con
nonchalance per avere la conferma che fosse davvero quello che sembrava
essere
a prima vista, ed effettivamente verificò che fosse proprio
sangue quello che
si stava sfregando fra due dita: dunque aveva visto bene, con la sua
interpretazione, come sempre.
Chiudendo
gli occhi, fu un altro occhio
quello che volse il proprio sguardo alla volta stellata visibile da
quella
sorta di lucernario che illuminava la Sorgente del Cosmo:
«Ho
visto il futuro» le parole gli
uscirono dalla bocca in modo quasi meccanico, abituato
com’era a quei momenti
di visioni che si susseguivano ininterrottamente «Ed ho visto la Morte.»
Poi
scomparve dalla Torre di Babilonia.
Se
da Phobos ed Halley, tentativi
suicidi a parte, l’aria che si respirava era vagamente calma,
al palazzo di
Harmonia l’unica cosa che si riusciva a respirare erano le
imprecazioni di
Alice, le espressioni preoccupate ed imbarazzate dei Guardiani e Jack
Frost che
fissava tutti senza sapere cosa accidenti avrebbe dovuto dire.
Poi
c’era Harmonia, che se ne stava
ferma a fissare il terreno con gli occhi vuoti e l’arco
ancora fra le mani
strette a pugno, l’aria fredda e distaccata di chi si era
appena estraniato da
tutto ciò che lo circondava per perdersi nel vuoto delle
affermazioni di Comet:
“In tutti questi secoli, con chi
pensi se
la sia spassata Phobos?”, le aveva detto, e quelle
parole erano
state un colpo troppo duro da sopportare, erano ancora peggio di una
pugnalata
allo stomaco, le stesse che temeva di sentirsi dire da quasi settecento
anni.
Faceva
già male sapere che quello non
era più l’uomo che aveva amato e continuava ad
amare da quando lo aveva perso,
ma addirittura sentirsi dire che Phobos, il suo
Phobos, si era scopato chissà
quante
volte quell’inaffidabile creatura che era Comet E. Halley
era il colpo di
grazia dato dietro le spalle al cuore spezzato che Harmonia teneva
insieme con
uno sforzo immane da quando la guerra contro Apophis era terminata.
Fino
ad ora non c’era stato posto per i
sentimentalismi, il tutto semplicemente perché lei era la
Regina della
Fantasia, la sovrana di un intero pianeta, il pilastro sul quale
contava il suo
popolo: doveva mostrarsi forte e determinata, doveva mantenere la
compostezza
che ci si aspetta da una Regina anche nelle situazioni più
difficili e,
soprattutto, non avrebbe dovuto mostrare altri sentimenti che non
fossero
l’amore incondizionato per la propria gente e
l’impegno nell’assicurare a tutti
un mondo migliore dove l’armonia vigeva sovrana.
Ma
a volte era difficile indossare
quelle maschere, e quel giorno il cuore Harmonia aveva ricevuto il
colpo di
grazia dalle parole di Halley: avrebbe voluto piangere a dirotto come
aveva
fatto per anni interi, gridare all’Universo perché
quelle prove così difficili
fossero riservate solo a lei, chiedere alle famiglie delle
Costellazioni per
quale motivo avevano lasciato che Apophis le portasse via tutto
ciò a cui
teneva di più, domandare a Phobos se la riconosceva come si
era ostinata a fare
per anni, troppi anni, per poi
rinunciare mestamente con i frammenti del proprio amore sotto gli
zoccoli.
La
risposta da parte sua era sempre
stata la stessa, ripetuta come una cantilena mentre lanciava
incantesimi che
andavano svanendo insieme ai suoi poteri inghiottiti
dall’Abisso stesso, ma la
speranza di rivedere nei suoi occhi lo sguardo dell’uomo che
aveva amato e
continuava ad amare indipendentemente dalla sue condizioni mentali e
fisiche:
lo aveva aspettato a lungo, il suo Phobos, come anche aveva aspettato
una
risposta da certi personaggi ben oltre Manny, ma alla fine aveva
rinunciato ed
era tornata a fare quello che le riusciva meglio, e cioè
governare occupando la
propria mente con la burocrazia più pura, il tutto mentre
Phobos faceva sesso
sfrenato con Halley.
Non
che gliene facesse una colpa, alla
stella solitaria, sapeva bene che Comet non era il tipo di persona che
si
interessava a qualcosa che non fosse l’ubriacarsi oppure il
trombaris, come lo
chiamava lei, ed una parte della sua persona voleva credere che tutto
ciò
Halley lo avesse fatto in buona fede, senza sapere il passato di Phobos.
Una
parte di lei, perché l’altra vedeva
nel gesto appena compiuto dalla ragazza una presa per il culo con il
solo scopo
di sbeffeggiarla sbattendole in faccia quel “Mentre tu ti
dannavi per il
ritrovare il tuo fidanzatino perduto, io ci scopavo tutti i
giorni” che, esplicito
o meno, era stato il messaggio principale della sua visita.
Non
che volesse fargliela pagare, quello
no, ma la sicurezza e l’avventatezza con la quale era stato
compiuta l’entrata
trionfale di Halley mettevano sul piatto un altro punto fondamentale, e
cioè
che forse Phobos era davvero in
giro
ed era anche aiutato proprio da lei a cavarsela: teoricamente non aveva
poteri,
gli erano stati quasi completamente tolti del tutto lasciandogli giusto
quelli
per avere la forza di svolgere le azioni quotidiane, ma c’era
stato un bagliore
sulla Luna che Harmonia aveva notato con la coda dell’occhio.
Era
successo qualcosa di grosso, ed aveva la certezza che avrebbe presto
scoperto
cosa.
Mentre
la Regina soffriva in silenzio
riflettendo sulle conseguenze di ciò che era appena
successo, Alice ed i
Guardiani erano invece intenti a litigare fra loro come erano soliti
fare, il
tutto accompagnato da Scarlet che faticava a tenere a bada Spettro,
probabilmente desideroso di finire il pranzo con la zampa di un
Camoniglio che
se stava seduto a terra dolorante:
«Ve
ne siete stati lì impalati a
guardarle il culo, ecco cosa siete stati capaci di fare!»
aveva urlato contro
Nord mentre riprendeva la spada «L’avevate davanti!
Davanti! Una mano non
potevate darla, eh? Ma va, figurati! Cosa ci si aspetta dai Guardiani
di Manny?
Nulla! Ecco cosa!»
«Noi
non avere avuto tempo di agire,
nemmeno tuo colpo andato a buon fine!» controbatté
il vecchio Guardiano puntandole
contro un dito che, per via dei soliti fendenti della principessa
guerriera,
aveva evitato per pochi millimetri di essere tranciato di netto:
«Io
almeno ci ho provato!» rispose Alice
mentre i suoi occhi fiammeggiavano di rabbia, ma a quanto pare nemmeno
l’altro
voleva cedere:
«Certo,
tu provato a lamentarti come
sempre! Brava a fare solo quel-»
«Questo
è troppo!» sbottò
improvvisamente furibonda «Domani vado a prendere i tuo yeti
e quanto è vero
che il Sole sorge ci faccio una pelliccia: giuro che li ammazzo uno per
uno con
le mie stesse mani, vado a scuoiarli e lascio le pulizie a
Spet-»
«Smettetela.»
intervenne allora Harmonia sedando gli animi, e allora calò
finalmente il
silenzio, un silenzio al tempo stesso dannatamente assordante ed
ingombrante.
Alle
parole della Regina della Fantasia nessuno
aveva più osato controbattere alle varie frecciatine,
soprattutto perché
Harmonia stessa guardava tutti con aria severa:
«Non
è il momento di litigare, è proprio
ciò che vuole che facciamo» disse mentre
l’arco si dissolveva in una sottile
polvere azzurrina, poi si girò verso i Guardiani e le due
ospiti:
«Non
so quale sia il piano di Comet,
sempre ammesso che ne abbia uno, ma dividerci è
l’ultima cosa che ci serve, soprattutto
alla luce di quello che sta
accadendo.» spiegò pensando inizialmente
di raccontare a tutti dei suoi
sospetti su quello che presumeva fosse accaduto sulla Luna, ma dopo
un’attenta
riflessione si rese conto che in fondo i suoi erano solo sospetti senza
fondamento che avrebbero solo messo in allarme tutti per qualcosa di
non meglio
definito, per cui preferì sorvolare la cosa, almeno per il
momento.
Quello
che però non sembrava voler
capire il significato di “sorvolare” era proprio
Jack Frost, il quale aveva iniziato
a dimenarsi agitando le braccia al cielo nemmeno fosse posseduto:
«Ci
vogliono uccidere! Per colpa tua il tuo
ex fidanzato ci vuole uccider-»
Pessima
mossa, come sempre.
Frost
non aveva fatto in tempo a finire
la frase che aveva sentito un colpo al petto seguito dalla freschezza
dell’erba
unita all’incredibile durezza della roccia viva sulla
schiena, poi aveva alzato
gli occhi tremante:
«Per
colpa mia siamo ancora tutti vivi, giovane Guardiano, perché
se non fosse stato
per il mio scudo adesso sareste tutti ridotti a dei bersagli per
schegge di
vetro» gli intimò mentre con una zampa
gli teneva lo zoccolo premuto sullo
sterno con una discreta forza, certo non abbastanza da provocare
chissà quale
dolore a Jack dal momento che, dopo che lui annuì, fu
Harmonia stessa a dargli
la zampa per farlo rialzare, il che lo fece sentire tremendamente in
colpa:
«Non
volevo dire che… cioè… io non
intendevo che tu… cioè voi… no
aspet-»
«Non
scusarti Frost, per questa volta te
la concedo solo perché stai affrontando fin troppe cose
tutte insieme, ma non
sentirti autorizzato ad insinuare che ci siano colpevoli in
ciò che sta
accadendo» spiegò mentre si avvicinava a Dentolina
voltando le spalle al
ragazzo che la guardò stupito quando lei si era chinata per
esaminare quanto il
vetro si fosse conficcato nella spalla:
«L’unico
colpevole di tutto questo, di
ciò che è accaduto a Phobos e di conseguenza di
ciò sta accadendo ora, è l’Uomo
nella Luna, solo lui: come è sempre accaduto con i Lunanoff,
anche Manny aveva
il nemico in casa, sul suo
satellite,
ma ha voltato la faccia ed ha scaricato ad altri il problema, piuttosto
semplice come cosa… ora tu stai ferma, altrimenti
farà più male del necessario»
continuò mentre con una mano afferrò saldamente
la scheggia e, con uno strappo
netto, riuscì a toglierla dalla spalla della povera e
malaugurata fatina dei
denti.
L’urlo
di Dentolina fu qualcosa di
inumano, un suono che sembrava essere uscito direttamente dagli inferi,
ma
anche l’aspetto della ferita non era dei migliori:
tralasciando il sangue che
aveva iniziato ad uscire copiosamente, il vetro era penetrato talmente
a fondo
da rendere visibili interi pezzi di carne mista a piume che ricoprivano
anche
il frammento stesso, ora nelle mani insanguinate della Regina:
«Sarà
meglio entrare nel mio castello, è
più sicuro che occuparsi di te qui con Halley in giro, anche
se dubito che si
farà rivedere presto: non ti nascondo che è una
gran brutta ferita,
probabilmente infetta a giudicare dal colore nerastro che i bordi
stanno già
assumendo, ma nulla di incurabile se ce ne occupiamo subito.»
concluse
alzandosi e facendo sparire del tutto lo scudo che li proteggeva in una
nebbia multicolore;
successivamente si girò verso il sentiero costellato da
quegli strani fiori
luminosi che davano sul castello:
«Cosa
state aspettando, un invito
forse?» domandò severa per avviarsi verso
l’imponente porta dorata che ne
consentiva l’accesso venendo imitata da tutti gli altri.
Prima
di entrare, Harmonia aveva gettato
lo sguardo verso un punto indefinito sulle colline poco lontano da casa
sua
come se avesse visto qualcosa, ma dopo qualche istante di indecisione
si era
limitata a fare spallucce e riunirsi ai propri ospiti.
Sperando
che non ci fosse nessuno a guardare, ovviamente.
Ormai
Jack si era in un certo senso
abituato a tutta quella pomposità e grandezza che
accompagnava ogni ingresso
trionfale in castelli vari, ma non pensava che dopo le magnifiche
statue e
quadri visti da Alice ci sarebbe stato qualcosa di ancora
più glorioso: per sua
fortuna questa volta non si era precipitato in testa al gruppo come
faceva
sempre, anche perché se lo avesse fatto seriamente con la
sua solita impazienza
sarebbe finito nell’immensa voragine
che
sostituiva il pavimento.
Rimanendo
dietro gli altri, Frost aveva
notato che il palazzo della Regina della Fantasia non aveva un vero e
proprio
pavimento, fatta eccezione per un lembo di pavimentazione che dava
sulla porta
lungo diversi metri che percorreva buona parte della navata centrale
per poi
continuare fino alla seduta del trono con dei gradini che sembravano
fatti da un
misto di rami e sassi immacolati dai quali sgorgava acqua limpida, la
stessa
che poi ricadeva nella parte inferiore del castello e si riversava
nella
cascata visibile dall’esterno: il trono di Harmonia, come
anche il resto della
struttura interna visibile, era sorretto da grandi e imponenti rami di
alberi
bianchi con foglie dalle delicate tinte color pastello e con radici che
spuntavano
dalle pareti e dalle profondità di quella sorta di lago di
corte come se
facessero parte della stessa montagna che sosteneva tutta la
costruzione,
andando infine ad abbracciarsi in mille forme differenti fino ad unirsi
al
trono stesso nella straordinariamente accurata forma di un unicorno con
le ali
spalancate ed una corona sul capo che dominava tutta la scena.
Mentre
Harmonia non sembrava avere alcun
problema nel percorrere la navata con il vuoto sotto gli zoccoli, gli
altri
Guardiani erano invece piuttosto cauti nell’avanzare,
soprattutto Calmoniglio
che si reggeva a malapena alla spalla di Nord e Dentolina che si
muoveva
incerta a piccoli passi alla volta, e la cosa non era sfuggita alla
Regina che
fece segno a tutti di fermarsi dove si trovavano con stupore di Jack:
«Ma
quella… cosa, quella strada… è
sicura, vero? Non è che se ci metto sopra il piede poi cado
nell’acqua, e
magari l’acqua è acido, e poi muoio, e poi Manny
non mi riporta in vit-»
«Nessun
problema, l’arredamento si può
sempre rinnovare.» disse Harmonia mentre, chiudendo gli occhi
e tirando un
profondo respiro, davanti a lei si innalzavano quelli che avevano tutta
l’aria
di essere blocchi marmorei che, con tutta la calma del creato, erano
andati
incastrandosi nella fitta rete di radici più piccole appena
comparsa dal nulla
dopo un breve cenno del capo della donna, formando un vero e proprio
pavimento
che non avrebbe nemmeno lontanamente lasciato immaginare la presenza
della
cascata sottostante, se non per lo scrosciare dell’acqua.
Per
l’immensa sorpresa, Jack si era lasciato
sfuggire di mano il bastone, il quale era però subito stato
preso al volo da un
ramo spuntato da chissà dove che glielo aveva anche rimesso
fra le mani fra una
risata di Harmonia e l’altra:
«Dovresti
avere più cura del tuo
bastone, non credo che Manny te ne procurerebbe un altro molto presto,
e non
vogliamo certo che il Guardiano del Divertimento rimanga senza poteri,
no?» gli
domandò Harmonia mentre Jack, con una corsa repentina, si
mise al fianco della Regina
nella sua avanzata verso il trono:
«Suppongo
che sarebbe un problema, ma la
mia domanda è un’altra» si
azzardò sperando di non ricevere lo stesso
trattamento di Alice «Come hai.. cioè
ha… avete… aspetta… volevo dire
aspetti!
Aspettate! Insom-»
«Nessuna
formalità, dammi del tu senza
pensarci troppo e non farti problemi: siete i Guardiani, ed a
differenza
dell’Uomo nella Luna questa libertà posso
concederv-»
«Come
hai fatto a fare quella cosa, a
far apparire dal nulla un pavimento?» domandò
schietto prendendosi di rimando
le occhiatacce di Nord e compagnia «Io non riesco a creare
pavimento dal nulla,
i Guardiani non creano cose dal nulla… di solito.»
rifletté ad alta voce mentre
Harmonia, sorridendogli, sospirò compiaciuta:
«Hai
detto bene, i Guardiani non
possono, ma io sì: penso
che ormai
anche tu avrai fatto due più due di diverse situazioni, e
confermarti che non
sono una Guardiana è il minimo che possa fare per sciogliere
i tuoi dubbi.»
Panico.
Panico
generale nella testa.
Trauma
non proprio infantile.
Jack
era rimasto più sbigottito del
previsto a quell’affermazione: era vero che si era fatto
diverse domande su
Harmonia, ne aveva pensate a decine dal primo istante in cui aveva
visto il
regno di Phantasia, sapere che tutti si rivolgevano a lei come Regina e
non
come Guardiana gli aveva anche fatto capire che in effetti dovesse
essere una
donna incredibilmente importante, ma averne la conferma adesso, dopo tutto quello che aveva visto, era
la goccia che aveva fatto traboccare il suo adorabile vaso delle
certezze e
delle sicurezze che aveva avuto fino ad ora.
Eppure,
per quanto si stesse sforzando
si concepire la cosa, c’era una domanda che ancora lo
lasciava perplesso,
quella che avrebbe messo al loro posto diversi tasselli:
«Non
sarai una Guardiana, ma allora
perché Manny ti ha creato? Per quale scopo?»
chiese piegando la testa confuso
notando che Harmonia cambiò improvvisamente espressione:
«Manny
non c’entra proprio nulla con me, se fossi stata
una delle sue creazioni
ora come ora mi starei preoccupando che i bambini credano in me, non a
come
risolvere la spiacevole situazione che si è
creata con Phobos» rispose
allora con aria severa:
«Non
voglio entrare troppo nel merito al
riguardo perché non ne vedo la necessità, ma ti
dico una cosa, Frost: chi mi ha
dato ciò che possiedo è
svariati gradini
più in alto di Manny, proprio sulla cima della
scalinata che lui si ostina
a percorrere mentre la sua pancia gli impedisce di correre troppo, e di
certo
non sono la schiava di nessuno, non come
i Guardiani. Per esempio prendi questo»
spiegò indicandogli il bastone
«Senza, i tuoi poteri si limitano a creare della brina, non
è proprio il massimo
per un Guardiano… e soprattutto senza di loro»
continuò puntando invece il dito sulla collana di perline
che gli aveva
affettuosamente regalato Sophie, la sorella di Jaime
«Tu
scompariresti senza la possibilità di ritornare:
senza i bambini che
credono non esistono i Guardiani, ma senza i Guardiani il mondo
continua a
girare senza problemi.» concluse salendo la piccola scalinata
che conduceva al
suo trono.
Jack
strinse fra le dita la collana come
a volerla proteggere, quasi cercasse di rifugiarsi nei bei momenti che
gli
faceva venire alla mente quel delizioso ninnolo: fino a quel momento,
come per
tante altre cose che aveva appena scoperto, aveva creduto che la
presenza dei
Guardiani fosse fondamentale per mantenere le cose in equilibrio
com’erano, che
senza di lui e degli altri i bambini non avrebbero più
saputo dove aggrapparsi,
ed in effetti la disperazione nella quale erano piombati tutti quando
Pitch
aveva cancellato la Pasqua pensava ne fosse la dimostrazione, ma
Harmonia aveva
appena posto un muro nel mondo idilliaco di Jack Frost, o forse glielo
aveva
solo indicato dal momento che quell’impedimento c’era sempre stato.
Come
c’era anche sempre stata la
consapevolezza che, senza i bambini, sarebbe finito per morire una
seconda
volta, con la differenza che al secondo giro Manny non sarebbe potuto
intervenire per salvarlo nuovamente.
O
forse sì?
Era
già pronto per fare quella domanda
quando, girandosi, notò che Harmonia era alle prese con le
ferite alla spalla
ed alle ali ancora sanguinanti di Dentolina, la quale se ne stava
seduta su un
ramo mentre con una mano teneva quella di Calmoniglio per farsi
coraggio:
«Cerca
di rilassarti, con i muscoli tesi
sarà solo più difficile: pronta?»
domandò alla fatina dei denti che, seppur
titubante e terribilmente spaventata, le fece cenno di procedere pure,
e allora
Jack ebbe l’ulteriore dimostrazione che quando la donna
diceva di essere ad un
livello superiore a quello dei Guardiani aveva
dannatamente ragione.
Sapeva
di avere un certo fattore di
guarigione come gli altri compagni, anche se molto limitato ed
effettivamente
utile solo su ferite di piccole dimensioni o comunque non troppo
profonde come
lo squarcio che aveva Dentolina, ma quello che Harmonia stava facendo
andava
ben oltre la sua immaginazione riguardo la rigenerazione dei tessuti:
come
aveva già fatto quando era improvvisamente comparso il
pavimento, anche questa
volta si era limitata a chiudere gli occhi poggiando la propria mano
sulla
pelle dilaniata fino a quando una fitta rete dorata di filamenti simili
a
piccoli viticci non aveva ricoperto il taglio come riempiendo gli spazi
lasciati dalla scheggia di vetro per poi spostarsi verso
l’ala come se avesse
una volontà propria riparando i danni lasciati dalle zanne
di Spettro.
Ed
infine, con un bagliore appena
visibile, tutto era scomparso lasciando al loro posto solo la pelle
ricoperta
dalle soffici piume iridescenti tipiche della fata, la quale stava
addirittura svolazzando
serena intorno a Jack che la guardava incredula:
«D-Dentolina
non sarebbe… m-meglio se…
insomma… ti riposassi? » domandò alla
compagna, la quale lo fissò per qualche
istante seria per poi toccargli il naso volando via:
«Riposarmi?
Oh no, sto benissimo! Non si
vede, forse?» rispose lei tranquilla mentre la Regina
continuava il proprio operato
occupandosi di Calmoniglio.
Sì
che si vedeva che stava bene, si
vedeva perfettamente.
Anche
troppo.
Probabilmente
resosi conto delle
perplessità del giovane Guardiano, fu Nord ad avvicinarsi a
lui dandogli una
pacca sulla spalla:
«Poteri
di guarigione di Regina Harmonia
essere sorprendenti, caro Jack, tu non doverti preoccupare se non
capire: suo
potere va oltre nostro, è difficil-»
«Nord,
stammi a sentire, ma bene eh»
lo canzonò indicandogli Dentolina
«Stava morendo male, malissimo, ed ora cosa fa? Svolazza, svolazza e basta… e
lui» continuò indicando Calmoniglio
che si reggeva perfettamente in piedi ed era intento a grattarsi un
orecchio
con la zampa fino a poco prima rotta «Lui sta anche meglio di
prima, e non si
sta nemmeno lamentando! Questi non sono poteri,
c’è sotto qualcosa che va
terribilmente oltre la semplice rigenerazion-»
«Tipo?»
intervenne Harmonia spuntandogli improvvisamente davanti e lasciando
Jack
leggermente, ma proprio leggermente, insicuro sulle proprie parole.
Non
sapeva bene cosa rispondere in
effetti, e la cosa gli provocava un certo imbarazzo, ma vedendo i suoi
compagni
che non lo ascoltavano essendo troppo occupati a festeggiare
l’improvviso
miracolo decise di dire finalmente la sua:
«Hai
detto che non sei una creatura di
Manny, ma questo genere di potere io non credo proprio che esca a
random dalle
tue mani: insomma, da qualche parti sarai venuta, e poi questa cosa di
chiudere
gli occhi proprio non la capisco, come non capisco perché
noi Guardiani
sembriamo così scarsi al confronto…»
disse tutto d’un fiato rendendosi conto
dopo, a giudicare dallo sguardo di Alice, che forse si era preso un
po’ troppa
libertà a lasciare che le parole uscissero dalla propria
bocca come un fiume in
piena.
Harmonia
tuttavia non sembrava affatto
essere contrariata, anzi lo guardava ridacchiando:
«Oh
certo che sono uscita da qualche
parte, anche io ero qualcuno prima di diventare la Regina della
Fantasia, e se
vogliamo dirla tutta questo pianeta, il
pianeta che io governo, è il luogo dove sono nata
e vissuta: sorprendente,
vero?» gli domandò sorridendo per poi mostrare a
Jack le proprie mani, ancora
intrise di quei filamenti dorati:
«Questo
potere, quello di poter creare
pavimenti dal nulla o di curare ferite altrimenti incurabili
è tutto racchiuso
qui dentro» disse indicandosi e picchiettandosi la testa con
l’indice
«Sono
Harmonia, Regina della Fantasia, e
questo appellativo deriva dal fatto che ciò
che io immagino, io posso anche crearlo: la fantasia, tienilo
bene a mente
Jack Frost, è l’arma più potente che
tutti possiedono indipendentemente dalla
loro condizione sociale o simili, ed io» continuò
mentre quei filamenti
diventavano improvvisamente una polvere multicolore che si spargeva in
tutta la
stanza come una fine ma fitta pioggia come di coriandoli
«Io
ho il dono di dare vita alla mia
immaginazione, a tutto ciò che posso creare nella mia mente:
tutto quello che
vedi, dalle ferite rimarginate dei tuoi amici al mio castello fino
all’intero
regno di Phantasia, sono stati creati dalla sottoscritta, sicuramente
non da
Manny.
Certo,
ho avuto anche un aiuto extra
dall’alto, ma i miei poteri hanno fatto il resto, e ne sono
dannatamente
orgogliosa, per questo non intendo permettere a nessuno di portarmi via
ciò per
cui ho sputato sangue un’intera vita… nemmeno
a Phobos.» concluse con un breve inchino al giovane
Guardiano che la
fissava sbalordito.
Immaginava
che Harmonia fosse potente,
ma non pensava così tanto.
Ancora
impegnato a tenere la bocca
aperta non si era nemmeno accorto che la donna gli aveva poggiato una
mano
sulla testa e gli aveva scompigliato i capelli, poi si era abbassata
fino ad
avere gli occhi all’altezza di quelli del ragazzo:
«Hai
tante domande, alcune delle quali
troveranno risposta qui, ma ci sono domande alle quali non posso
rispondere,
non del tutto come meriteresti» gli disse dolcemente, e Jack
ebbe come la
convinzione che stesse facendo riferimento ad Emma, ma quel pensiero
era stato
scacciato via piuttosto velocemente «Tuttavia, buona parte
dei tuoi dubbi verrà
soddisfatta se avrai la cortesia di seguirmi: siete tutti invitati,
ovviamente.» propose facendo un cenno anche agli Guardiani, i
quali seguirono
Harmonia e Jack che l’affiancava nell’avanzata in
un largo corridoio circolare,
fortunatamente pavimentato,
costellato
di statue.
Mentre
tutti davano segno di aver già
visto in precedenza l’immensa stanza del tutto nuova a Frost,
non riuscivano
certo a nascondere l’emozione pulsante che accompagnava tanta
magnificenza:
tutte le varie raffigurazioni scolpite nella pietra erano dominate da
una
identica a quella del grosso drago e della donna dalle sei ali presente
nel
castello di Alice, ma Jack lasciò da parte le coincidenze
per seguire come un
cagnolino la Regina mentre camminava.
Impiegò
un po’ per capire di cosa si
trattasse, ma quando vide la prima serie di statue restò
sconvolto dal fatto
che raffigurassero… i Guardiani?
E
c’era anche lui!
Si
trattava di una statua
sorprendentemente a grandezza naturale
che lo raffigurava appollaiato sul suo bastone al fianco di Nord con le
sciabole sguainate e Calmoniglio con il suo boomerang, il tutto
completato da
Sandy circondato da un vortice di sabbia formato da pietre giallastre
dietro
tutti che faceva anche da appoggio per l’esile statua di
Dentolina, le cui ali
erano del tutto simili a quelle reali grazie ad un curioso gioco di
metallo e
vetro piombato.
Harmonia
era visibilmente compiaciuta da
tutto l’entusiasmo dimostrato dal giovane Guardiano in quella
stanza, tanto da
essersi quasi dimenticata di ciò che stava accadendo fuori
dal suo castello e
dentro la sua mente, ed anche se aveva notato lo sguardo perplesso ed
annoiato
di Alice decise di non farci caso e godersi anche lei quei pochi
istanti di
spensieratezza, ed in realtà sapeva anche come coinvolgere
la principessa
guerriera:
«Alla
vostra destra, signore e signori, potete
ammirare la magnificenza senza eguali della sovrana di Fairy Oak e
della sua
corte di lupi abnormi, non sia mai che cotanta grandezza venga
ignorata!» rise
lei facendo un pomposo inchino ed indicando con una mano la statua che
invece
raffigurava appunto Alice con la spada alzata verso il cielo e
l’ampia gonna
che sembrava svolazzare al vento, quando in realtà era
semplicemente di dura
pietra, accompagnata da entrambi i lati da Scarlet con la lancia fra le
mani e
Spettro in procinto di saltare a zanne snudate.
La
principessa venne presa da un improvviso
senso di imbarazzo, forse perché Jack aveva appena notato
quanto il suo seno
fosse incredibilmente piccolo rispetto a quello della scultura di
Harmonia con
il muscoloso corpo da cavallo rampante lì vicino, ma tutto
si era risolto con
una pacca sulla spalla ed un sospiro accompagnato da una sonora risata,
una risata da parte di Alice Castle
Wonderwood!
Tette
grandi e tette piccole a parte,
una cosa che aveva attirato la sua attenzione era stata la statua di
una
conoscenza di tutti i Guardiani, e non era proprio una conoscenza
gradita:
«Harmonia…
perché c’è anche… lui? Questa è una sorta di
“sala della
gloria”, ma lui…»
domandò indicando
con il bastone niente poco di meno che un gracile Pitch Black di fredda
roccia
che teneva fra le mani l’acuminato muso di un Incubo
cavalcato da quella che
sembrava essere una ragazza a giudicare dall’ampio vestito
intarsiato di gemme
verdi, ma la statua rotta per metà non lasciava spazio ad
un’ulteriore
identificazione:
«Nulla
di particolare, è solo un
promemoria perché tutti possano ricordare quanto sia inutile
la presenza di
Pitch in questo mondo, ma era doveroso mettere anche lui: la fantasia
non ha
mai lasciato spazio alla paura e mai ne lascerà, ma mi
dispiaceva vedere
Pitchone che piange.» rispose composta e, dato che non aveva
fatto cenni a
quella rovinata, Jack aveva preferito non approfondire.
Forse
perché la sua meraviglia era stata
catturata da ben altre statue, come per esempio quella che raffigurava
un
grosso tronco sul quale prendevano posto quattro ragazze
dall’aspetto simile a
piccoli e graziosi cervi con le corna appena accennate:
«Le
sorelle Temporibus, Guardiane delle
Stagioni» esordì Harmonia, per poi indicarle una
per una «Primrose era la
Guardiana della Primavera, Jessamine dell’Estate, Dhalia
dell’Autunno ed infine
Marigold, lei era la Guardiana dell’Invern-»
«Era?
Oh, sì… Nord mi ha raccontato che le
sorelle sono… insomma…»
«Morte,
morte per proteggere il regno di Madre Natura quando lei lo ha
abbandonato nel
pieno della battaglia contro Apophis»
completò la frase stizzita «Suo padre
è sempre stato un codardo, ed Emily Jane ha preso quella
caratteristica da lui,
ovviamente.» concluse con un velo di tristezza, ma era
determinata a non
permettere alla malinconia di rovinare quel momento, così
seguì Frost quando si
fermò davanti ad un monumento che raffigurava invece un uomo
piuttosto giovane
che teneva fra le braccia una donna in una curiosa posa da tango
argentino.
E
la donna aveva un sombrero in testa ed
un burrito in mano che stava per essere divorato da una sottospecie di
cavallo
verdognolo.
Un
sombrero.
Ed
un burrito.
Ecco.
Questa
volta fu Dentolina ad avvicinarsi
a lui svolazzando beatamente:
«Saresti
andato d’accordo con Conchita,
era un animale da festa proprio come te nonostante fosse molto dedita
ai propri
doveri di Guardiana di Halloween, proprio così!»
squittì tutta esaltata mentre
sfiorava la pietra «Ma avresti dovuto stare attento a Vincent
Valentine,
altrimenti non ci avrebbe messo molto a farti innamorare di qualcuno
piantandoti
quella nella schiena!» gli fece notare indicando la balestra
che teneva
nell’altra marmorea mano.
Un’altra
persona dalla quale si sarebbe
tenuto lontano, molto lontano.
Se
solo fosse stato vivo e non morto.
A
proposito di morti, fu
allora che Jack decise di chiedere
finalmente ad Harmonia informazioni riguardo Emma, soprattutto
perché la Regina
aveva mostrato di saperne più di tutti gli altri insieme:
«Non
vorrei sembrare impertinente, ma
volevo chiederti se sapevi qualcosa… insomma... riguardo mia
sorel… Harmonia?
Harmonia? Ragazz… occazzo.»
stava
dicendo quando notò con sua grande sorpresa che era rimasto
da solo, a causa
della distrazione provocata dalla sua mente mentre osservava le varie
sculture
si era perso, oltre che la spiegazione ufficiale approfondita al
riguardo,
anche il resto del gruppo, il quale era probabilmente già
andato avanzi senza
di lui.
Che
era rimasto da solo come un idiota:
senza indicazioni su dove sbattere la testa, senza la minima idea su
quale
delle tante strade imboccare, senza la sanità mentale di non
andare nel panico
ed iniziare a correre in tondo nemmeno fosse un topo in
gabbia… con una porta semi aperta
davanti agli
occhi?
Si
avvicinò alla parete fra due statue
per controllare se aveva visto bene oppure se fosse solo il suo
cervello a
fargli brutti scherzi: eh no, quella porta bianca di dimensioni
piuttosto
contenute rispetto alle altre era proprio
aperta, non se lo stava sognando.
E
giustamente, da bravo bambino curioso
che dimostrava sempre di essere, Jack non si era fatto troppe domande
nel farsi
strada verso quella che sperava essere una via di salvezza: sentiva in
lontananza lo scrosciare dell’acqua e quindi, facendo due
più due e
ricordandosi che lo stesso suono con la stessa intensità si
poteva udire dalla
sala del trono, si convinse che effettivamente percorrendo la lunga
scala
marmorea sarebbe uscito da qualche parte.
Non
aveva idea dove, non sapeva quando, ma ne sarebbe uscito.
Bando
alle ciance, ciancio alle bande, il
giovane Guardiano non si era fatto inibizioni a scendere lentamente ma
inesorabilmente
i gradini uno dopo l’altro mentre l’odore
dell’umidità e del muschio che
copriva le rocce appena visibili sotto la fitta boscaglia biancastra
gli
riempiva le narici, i riflessi della brina che ricopriva il bastone
teso
davanti a lui che si perdevano fra i piccoli ruscelli che spuntavano
dalle
pareti, ma il paesaggio era drasticamente mutato quando era arrivato
alla base
della scalinata trovandosi, ahimè, in uno spiazzo buio e
tetro pieno di
corridoi rischiarati solo da piccole lanterne giallastre e pieni di
ragnatele.
E
lui aveva paura dei ragni, ma tanta.
Se
ci fosse stato Pitch Black lì intorno
avrebbe trovato pane per i suoi denti storti con il quale giocherellare
qualche
ora facendogli comparire ragni davanti ad ogni angolo, ma per sua
fortuna non
era né in quel luogo né nella sua testa a
sottrargli quel poco di coraggio che
aveva racimolato per proseguire verso l’ignoto, ignoto che si
era rivelato
essere un vero e proprio labirinto di stanze e ragnatele che sembravano
portarlo sempre nello stesso punto.
Solo
che non era una sensazione, era proprio la realtà.
Con
il cuore che ci mancava poco gli
uscisse dal petto e la bocca rimasta senza saliva per
l’agitazione e la
confusione, dopo qualche metro Jack era rovinosamente inciampato in
quello che
inizialmente aveva creduto essere un qualche tipo di trappola rasoterra
ma che,
dopo un’attenta analisi, si era rivelata essere
una… ragnatela?
Curioso
com’era finì per prenderne in
mano un pezzo: era incredibilmente resistente ed elastica alla stesso
tempo,
liscia e del tutto simile alla pregiata seta che aveva visto
più volte sulla
Terra, eppure anche provando a romperla con un certo impegno non si era
rotta,
al massimo aveva perso qualche filo dalla sua fitta struttura.
Impegnato
a fantasticare sulla paura che
ad un certo punto sarebbe spuntato un ragno gigante a mangiarlo, Frost
non si
rese nemmeno conto che stava procedendo verso un corridoio che andava
ingrandendosi man mano che avanzava, sfociando in una stanza
impolverata con
delle strane crisalidi appese al soffitto che perdevano qualche
misterioso
liquido:
«Dove
sono finito… dove! Mannaggia a me!
Mannaggia alla mia curios…»
«The
itsy bitsy spider climbed up the water spout, down came the rain and
washed the
spider out!» sentì
canticchiare
dall’eco di una voce che non riuscì a distinguere
da dove provenisse.
Lo
aveva solo immaginato?
No,
certo che no, sapeva perfettamente di non esserlo immaginato,
motivo per cui brandì senza paura il suo bastone
congelando la zona immediatamente intorno sè:
«Chi
sei? Sei Phobos? Fatti sotto!»
domandò minaccioso quando nella sua mente si dipinse
l’immagine di un attacco
interno da parte di quel famoso uomo e della donna che lo accompagnava;
di
tutta risposta sentì il cigolio di una porta che sbatteva
mentre la stanza
veniva riempita di uno zampettare lesto e quasi impercettibile, come se
la cosa che aveva appena parlato non
toccasse nemmeno terra:
«Non
ho paura! Qualsiasi cosa o persona
tu sia, fatti avanti o vengo a prenderti!»
continuò cercando di concentrare la
forza del ghiaccio nelle mani così da difendersi in caso di
attacco diretto o
simili.
Dopo
qualche istante di silenzio più assoluto
e calma piatta, vide come un lampo giallognolo illuminare la stanza
lasciandola
comunque nella penombra aumentando l’inquietudine per la
bizzarra situazione:
«Te
lo dirò un’ultima volta: non sono
qui con intenzioni ostili, mi sono solo pers-»
«Out
came the sun and dried up all the rain…»
rispose finalmente la stessa voce, chiaramente femminile, e questa
volta
qualcosa Frost riuscì anche a vederlo; non ne era
assolutamente sicuro, anzi di
dubbi ne aveva molti, ma in uno degli angoli riuscì a
scorgere una figura
piuttosto massiccia con delle protuberanze lucide, almeno vedendo i
riflessi
della fioca luce che vi si rifletteva, figura che era subito scomparsa
dalla
sua vista con uno scatto fulmineo quando la lanterna aveva lampeggiato
di
nuovo.
Accadde
tutto nel giro di qualche
secondo: qualcosa che gli afferrava le caviglie trascinandolo a terra
mentre
sentiva il bastone che veniva sfilato dalle proprie dita, i poteri che
lo
abbandonavano insieme alla certezza di essere da solo in quella sorta
di
sotterranei, un ronzio tremendamente acuto che gli riempiva le orecchie
quasi
per farlo impazzire, il suo corpo diventato leggero e la terra gli era
mancata
sotto i piedi.
Dimenandosi
come una mosca finita nella
tela di un ragno, Jack non fece altro che peggiorare la situazione, la
quale
era precipitata quando qualcosa di
affilato e coriaceo gli aveva sfiorato il volto sussurrandogli
dolcemente delle
parole all’orecchio:
«And
the itsy bitsy spider climbed up the spout
again!» sentì prima di
svenire.
Il
tempo di affidarsi alle entità della
Morte, poi tutto si era fatto nero.
Tremendamente
nero.
Un
po’ come Pitch.
______________________________________________________________
Angolino
dell’autrice
Eccomi
qui con il quarto capitolo!
Che
ha impiegato più tempo del previsto
per essere pubblicato, ma i capitoli di transizione sono sempre un
po’ GNE da
scrivere perché tutti i tasselli trovino il loro posto:
ammetto che
inizialmente mi ha dato diversi problemi, in particolare nella parte
centrale,
ma sono soddisfatta di come è uscito e spero che possa
piacere anche a voi :)
Di
solito non mi metto a dare consigli
ai lettori, anche perché non sarei la persona adatta a
farlo, ma mi permetto di
consigliare di leggere la one shot “Verrà
la Morte e avrà i tuoi occhi” per un
semplice motivo: finalmente
arriveranno nuovi oc dal capitolo 5 in poi, ed avrò un
margine di scrittura
maggiore con loro rispetto al muovermi con la manciata di personaggi
che ho
avuto fino ad ora, e leggere quella one shot farà capire
meglio a tutti i
comportamenti di Jack Frost nei prossimi capitoli, ed anche in questo
la
famosa statua delle “Entità della Morte”
:3
Poi
c’è _Dracarys_
che è l’addetta
ai lavori ed ormai si diverte a trovare gli spoiler che infilo un
po’ ovunque,
e devo ringraziare anche lei che mi ha dato delle delucidazioni nei
primi
momenti di stesura del capitolo riguardo il non buttare subito tutti
gli oc
insieme ma mostrandoli poco per volta, facendomi capire che
effettivamente è la
cosa migliore da fare <3
Inoltre
vorrei ringraziare tutti quelli
che stanno recensendo questa long ed anche a chi la sta semplicemente
leggendo,
il supporto è sempre ben accetto! :D
Vi
lascio con l’adorabile immagine della
Torre di Babilonia, questione sulla quale si ritornerà molto
presto :3
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Capitolo 5 *** Pain-eater's whisper ***
capitolo5
Jack
se lo sentiva, che sarebbe morto
male.
Malissimo.
In
un
modo atroce, probabilmente.
Appeso
a testa in giù come un salame avvolto in una sottospecie di
crisalide che
sembrava più un sacco a pelo incredibilmente morbido e
caldo, per giunta.
Nonostante
la spiacevole situazione
nella quale si era infilato in modi a lui sconosciuti, Jack aveva
affrontato
diversi momenti da quando aveva ripreso conoscenza:
all’inizio si era dimenato
come se il suo corpo fosse posseduto da chissà quale demone,
si era inutilmente
agitato talmente forte da essersi addirittura illuso che i fili che lo
tenevano
incollato al soffitto fossero sul punto di spezzarsi, poi aveva
iniziato a
piangere come un bambino rassegnandosi all’idea che fosse
arrivato il momento
della sua dipartita e infine, con un’incredibile dose di
entusiasmo nemmeno si
fosse scolato l’intera riserva di vodka di Nord, aveva
iniziato a guardarsi
intorno mantenendo una certa compostezza e silenzio.
Se
prima tutta la stanza era nel buio
quasi totale con la debole luce di una lanterna ad illuminarne gli
angoli, ora
era dolcemente illuminata da un numero indefinito di grosse candele
appese ai
muri o poste su delle statue di ragni le cui zampe formavano curiosi
candelabri
di notevoli dimensioni in un gioco di luci ed ombre che davano alla
stanza, più
grande di quanto avesse notato prima, un tocco quasi elegante.
Anche
inquietante, certo, ma restava davvero
elegante.
Riusciva
a distinguere chiaramente un
pavimento di pietre umide dove c’erano strane masse
biancastre che parevano
essere state distrattamente buttate lì o forse dimenticate,
masse che vedeva
ripetersi poco lontano da lui ed anche sulle pareti fittamente
ricoperte da
spesse ragnatele che formavano veri e propri tappeti da una parte
all’altra
della stanza, andando a congiungersi quello che aveva tutta
l’aria di essere
una sorta di grande nido con una singola apertura circolare nella parte
anteriore.
Apertura
dalla quale penzolavano un paio di protuberanze viola-nerastre di
almeno tre
metri.
Ecco,
ora sarebbe morto male.
Conclusione
che lo aveva fatto piombare
nuovamente in uno stato di trauma profondo per cui era tornato ad
agitarsi in
modo spastico iniziando a dondolare pericolosamente facendo muovere con
lui
tutta la fitta ragnatela sottostante ed adiacente, e la cosa non era
certo
passata inosservata a chiunque occupasse quel nido: non ci volle molto
perché l’intera
rete iniziasse a vibrare in modo quasi impercettibile mentre le due
protuberanze andavano ritirandosi, evento che fece tirare a Frost un
sospiro di
sollievo.
Se
non fosse che al loro posto ne erano
uscite non due, ma ben otto.
Otto.
E
allora niente, il cervello gli era
completamente partito per la tangente male, ma proprio nel peggiore dei
modi
immaginabili, soprattutto quando aveva notato che il suo bastone era
poggiato
ad una parete laggiù, sul pavimento così lontano
da lui:
«Non
voglio morire! Non sono pronto!
Sono giovane, sono troppo giovane!» iniziò ad
urlare come un forsennato «Sono
appena diventato un Guardiano, ti prego! Lasciami! Lasciami! Aiuto!
Aiutatemi!
Sto per morire! Non mangiarm-» stava dicendo quando
sentì sulle labbra il
freddo tocco di quelle che gli sembravano essere dita, sì,
ma coperte di
qualcosa di coriaceo:
«Non
preoccuparti, mio piccola crisalide,
non è ancora la stagione degli accoppiamenti» lo
rassicurò una voce femminile,
la stessa che aveva già sentito, mentre con
l’altra mano scendeva lungo il suo
corpo «In quel caso avrei già deposto le mie uova
qui dentro, proprio qui…»
continuò infilandosi con una certa sensualità
sotto la felpa e massaggiandogli
l’addome facendogli salire un imbarazzo senza eguali
«Ed i piccoli che sarebbero nati si
sarebbero nutriti con la tua dolce e
pallida carne di Guardiano, facendosi strada nelle tue viscere fino ad
uscire
alla luce del sole tutti felici e grati per il tuo servizio: adorabile,
non
trovi?» domandò curiosa ad un Frost che
stava per rimettere l’anima a
sentire quelle parole.
Quella
cosa, qualsiasi cosa fosse, non
voleva mangiarlo, no… voleva solo
deporre le proprie uova nel suo
stomaco, le uova! Nemmeno fosse una fottuta incubatrice!
Nonostante
a quel punto il terrore lo
stesse consumando come neve al Sole, sapeva anche che legato
com’era non
sarebbe stato possibile liberarsi in alcun modo, soprattutto
perché non aveva fra
le mani il proprio bastone, motivo per cui decise di non opporre
resistenza
quando si era sentito sollevare di peso ancora avvolto in quel sacco a
pelo di
ragnatele e premuto contro qualcosa di morbido e liscio, intervallato
qua e là
da quello che doveva essere un tessuto di qualche tipo:
«Ma
quanto sei carino, davvero
adorabile!» squittì la voce di prima entusiasta
per poi stringerlo a sé con
forza «Non preoccuparti mio piccolo Guardiano, sei
assolutamente al sicuro fra
le mie tele: nessun ragno cattivo ti farà del male o
cercherà di deporre le
proprie uova in te, non glielo permetterò di
certo!» lo rassicurò pizzicandogli
le guance per poi lasciarlo finalmente riprendere fiato dopo la
permanenza in
un luogo oscuro e morbido.
Che
si era rivelato essere un seno fin troppo grande coperto a malapena da
un lembo
di stoffa che ne lasciava scoperti tre quarti.
Eh.
Ancora
stordito per aver appena infilato
la propria testa fra le tette di una perfetta sconosciuta, Jack Frost
non si
era assolutamente accorto dello stridio metallico che aveva
accompagnato la
rottura del filo che lo teneva incollato al soffitto e della sacca nel
quale
era contenuto, portandolo ad una rovinosa caduta libera verso il tanto
agognato
pavimento; proprio mentre temeva di essere sul punto di spiaccicarsi
male sentì
tirare il cappuccio della felpa:
«Non
penserai che ti avrei lasciato
diventare come una fetta biscottata coperta di marmellata appena caduta
dalla
mano, vero? Sei troppo adorabile per morire in un modo
simil… non guardarmi
così, ti ho fatto un favore!» si
lamentò lei quando notò che Jack la fissava
con la bocca aperta a metà tra il traumatizzato e
l’estasiato.
Pensava
che dopo Harmonia ed il suo
corpo da centauressa avesse visto di tutto, ma questo andava oltre
l’immaginabile, almeno per lui: al primo impatto tutto
ciò che aveva visto era
una donna dal corpo esile con un seno decisamente troppo abbondante che
forse
stonava anche un po’ nel complesso, la pelle pallida che a
circa tre quarti del
braccio e verso il bacino si trasformava in una sorta di esoscheletro
con pezzi
ben definiti che ricoprivano soprattutto le mani e le dita che avevano
una
certa parvenza di insetto, il volto semi nascosto dai capelli di un
lilla
chiaro tenuti in un ordinato caschetto scalato verso la parte anteriore
che
rendevano difficile vedere tre coppie di occhi rosso cremisi privi di
pupilla
dove quelli principali erano ben più grandi degli altri
posti all’altezza della
fronte.
Ecco,
fosse stato per Jack si sarebbe
fermato alla parte superiore del corpo, evitando decisamente quella
inferiore, probabilmente perché
era la stessa di un
grosso ragno di un lucido colore viola-nerastro con zampe che
sfioravano i tre
metri di lunghezza e che la portavano ad essere ben più alta
di lui anche
adesso che se ne stava chinata ad osservarlo.
Fu
una questione di secondi: anche se
parzialmente ancora appiccicato alla crisalide ormai quasi del tutto
rotta,
capì presto che il suo bastone era poco lontano, ad una
distanza dove gli
sarebbe bastato allungare il braccio per afferrarlo, ed anche se la
cosa
comportava i suoi rischi non aveva molta scelta se non lanciarsi con
violenza
verso l’angolo dove si trovava il suo prezioso compagno di
poteri, appollaiarsi
sopra di esso nemmeno fosse una chioccia che covava i suoi pulcini e,
appena la
donna mezza ragno fu abbastanza vicino, scagliarle contro qualsiasi
incantesimo
sarebbe uscito dal bastone stesso.
Se
non fosse che l’utilità di tutto quel
teatrino era stata resa vana da un filo setoso che gli aveva incollato
la mano
al muro:
«Oh
avanti, credevo che ormai avessimo
fatto conoscenza, se continui così mi vedrò
costretta ad arrotolarti di nuovo
dentr-» non fece in tempo a finire che si
trovò un grosso pezzo di ghiaccio
tutti intorno alla zampa anteriore che la bloccava saldamente a terra;
Frost a
quel punto era determinato a spuntarla una volta per tutte:
«Lasciami
immediatamente altriment-»
«Altrimenti
cosa?» lo interrogò mentre, con una
certa nonchalance, tirava fuori la
zampa spaccando il ghiaccio in mille frammenti, segno che doveva essere
più
forte di quanto sembrasse, molto di
più.
Lei
allora prese ad avanzare verso il
giovane Guardiano, il quale continuava a stringere tremante il bastone
nella
mano intrappolata:
«Non
voglio ucciderti, in quante lingue
devo dirtelo? Sylkeniano? Ophidiano? Quale lingua preferisci? Aramaico
antico?
Valyriano? Parlo pure quello, stai a sentir-»
«No!
No! No! Voglio solo tornare dai
miei compagni, nient’altro!» gli urlò
contro con le lacrime agli occhi in preda
allo sconforto «Io ero con loro, ero con loro! Ma
poi…» fece una pausa
costringendo senza riuscirci le lacrime a restare al loro posto
«Poi mi sono
distratto a guardare… la statua… quella con le
tizie… le cose… le Entità della
Morte, ecco… mi sono girato e poi… poi loro non
c’erano più!» esclamò mimando
l’espressione di stupore che aveva avuto nella sala poco
prima «Allora c’era la
porta aperta e… e sono… entrato,
sì… ma non sapevo dove uscire! Non lo
sapevo!»
concluse asciugandosi le guance con la manica libera.
Nessuno
dei due aveva commentato nei minuti
seguenti quella sceneggiata, ed anche l’altra si era limitata
ad ascoltarlo in
silenzio con la testa piegata di lato e le braccia incrociate al petto,
poi
però era scoppiata in una fragorosa risata:
«Tutto
qui? Pensavo che tu fossi un
intruso o chissà cos’altro, se avessi saputo che
eri semplicemente un Guardiano
avrei anche fatto a meno di catturarti, ah!»
spiegò ridendo prima di lanciare a
Jack il bastone dopo averlo liberato, poi guardò verso la
cima della cascata
«Sarà
meglio tornare dai tuoi amici,
ormai si saranno accorti della tua mancanza: chi la sente Harmonia se
ci scappa
il morto? Io no di certo, proprio no!» asserì
fingendosi seria prima di
invitare Jack a seguirla.
Quindi
conosceva Harmonia, quella
sottospecie di donna mezza ragno, e sapeva anche che i Guardiani erano
con lei,
oltre che Frost era uno di loro… ma
come?
Non
aveva notato nessuno quando stava
parlando insieme alla Regina, tantomeno un aracnide o ragnatele che
potessero
far scattare in lui il vago sospetto che potesse esserci
un’altra ospite ad
attenderli, eppure quella donna sapeva tutto di loro, e non si sarebbe
affatto
sorpreso se fosse stata a conoscenza anche della vicenda di Phobos.
Sulle
prime avrebbe anche voluto
indagare proprio ora che aveva di nuovo il suo bastone fra le mani ed i
pieni
poteri dei quali disponeva, ma la sua nuova amica ottozampe gli aveva
detto che
lo stava riportando da Harmonia e dal resto del gruppo, per cui aveva
deciso di
fidarsi: non aveva idea se fosse vero oppure se invece lo volesse
semplicemente
mangiare, se lo avrebbe portato alla luce del Sole o se lo avrebbe
legato come
un salame e deposto le proprie uova nel suo tratto digerente o da altre parti, ma la posizione in cui
si trovava non era proprio quella giusta per porsi troppe domande a
proposito.
Per
la prima volta nella sua esistenza,
il Guardiano del Divertimento aveva la vaga sensazione che anche quella
sarebbe
stata una delle tante situazioni durante le quali avrebbe
fatto decisamente meglio a stare zitto, ovviamente con la
convinzione che forse avrebbe avuto le risposte che cercava da Harmonia
poco
dopo.
O
almeno lo sperava.
Posò
distrattamente lo sguardo nei
profondi tagli che costellavano la coda macchiando le spesse squame
color
smeraldo di un pallido rosso cremisi, sottili striature di sangue che
colavano
placidamente fino alle rigide placche dorate che coprivano la parte del
sinuoso
corpo da serpente che toccava terra: non si aspettava uno scontro di
quella
portata, d’altronde si era portata appresso solo
l’arco ed una dozzina o poco
più di frecce per eventualità varie, ma nulla
l’aveva preparata per un violenta
lotta contro ben cinque delle sue
simili.
Due
delle quali le erano fin troppo famigliari.
No,
no, no!
La
famiglia era l’ultima cosa alla quale
avrebbe dovuto pensare, l’ultima!
La
prima era la figura che la osservava dall’alto di un albero.
La
figura di Tanith, per la precisione.
Nonostante
la conoscesse fin troppo bene
decise di avanzare senza farci caso, la stazza era una delle poche cose
che
potevano darle, se non un vantaggio, almeno una certa sensazione di
uguaglianza
più o meno sensata:
«Oh,
cercavo proprio te!» esclamò
particolarmente entusiasta l’Ephemeride ciondolando da un
ramo che non sembrava
proprio sicuro «Volevo solo dirti di ringraziare Harmonia ed
Alice da parte
mia, avevo giusto bisogno di una merenda e devo ammettere che hanno
fatto
entrambe un ottimo lavoro, i miei omaggi alle nobili di
corte.» concluse
improvvisando un inchino srotolando le spire dall’albero.
Tipiche
di Tanith, le verità buttate lì
senza troppe spiegazioni: ogni volta, ogni
dannatissima volta, il tutto finiva con lei che scompariva
ridacchiando in
stile “Ora mi vedi ora no, intangibile qua intangibile
là”, ed era abbastanza
frustrante come situazione, motivo per cui la stragrande maggioranza
dei loro
incontri si limitava ad essere una fugace apparizione a puro scopo di
scherno.
Non
che le interessasse più di tanto
negli ultimi tempi, aveva anche fatto l’abitudine
all’occasionale presenza
dell’Ephemeride, ma qualche secolo prima probabilmente le
sarebbe inutilmente
saltata alla gola con la spada snudata finendo rovinosamente a terra
con il rischio
di trovarsi impalata nemmeno fosse un’anguilla, altro che una
naga.
Ed
era meglio evitare troppi problemi
tenendosi buona anche lei, dal momento che la guerra era sempre
dietro l’angolo, ed aver ottenuto Tanith come nemica non era
proprio la massima aspirazione che un generale potesse avere.
Nonostante
persino le serpi che aveva al
posto dei capelli avessero iniziato a sibilare minacciosamente con le
sottili
zanne in vista, e nonostante sapesse che una delle qualità
più eccelse di
Tanith fosse di metterla sempre e comunque sulla difensiva, alla fine
aveva
deciso di fare la fatidica domanda:
«Cosa
mi sono persa? E non farti pregare
per una buona volta, perché la mia pazienza è
rimasta nella foresta insieme ad
una dozzina di frecce.» chiese faticando a nascondere la
tensione e la
confusione che correva in ogni singola squama:
«Povera,
povera piccola naga infelice, è
tutto così commovente: i tuoi problemi famigliari mi
spezzerebbero il cuore, se
solo ne avessi uno, davvero eh! Comunque sia» disse mentre
assumeva
un’espressione pensierosa alzando gli occhi al cielo
«Può darsi che qualcuno
abbia fatto irruzione al castello della tua amichetta e che io sia
arrivata
proprio al momento giusto per pranzare… ma forse ho solo
visto male, chissà:
ormai sono vecchia, probabilmente ho già le visioni, direi
di sì.» concluse facendo
per andarsene.
Pranzare?
Pranzare.
E
Tanith pranzava con il dolore altrui.
Non
aveva nemmeno ascoltato il resto del
discorso da quando aveva sentito la parola
“irruzione”, il suo cervello aveva
automaticamente iniziato a formulare decine e decine di ipotesi sui
colpevoli
di un atto simile: non c’erano persone interessate ad
attaccare Harmonia da
molto tempo, da quando Phobos era stato rinchiuso
nell’Abis… Phobos.
Non
sapeva perché, ma era certa che c’entrasse
qualcosa.
C’entrava
sempre qualcosa quando si trattava di far soffrire Harmonia.
L’Ephemeride
tuttavia non sembrava
disposta a collaborare alla sua indagine, ma d’altronde un
tentativo non
sarebbe costato nulla:
«Di
chi si tratta? Tanith, Tanith!
Maledizione non lasciare le cose a metà! Avanti!»
le urlò contro strenuamente fino
a quando non la vide più nel proprio campo visivo, segno che
come sempre il suo
giochetto di non approfondire mai ciò che vedeva o sentiva
aveva funzionato
alla perfezione per l’ennesima volta; forse avrebbe anche
dovuto ascoltarli, i
suoi serpenti sibilanti, soprattutto perché avevano
dannatamente ragione:
«Oggi
mi sento generosa, dovresti ringraziarmi:
non mi aspetto che tu lo faccia, voi giovani siete così
maleducati con gli
anziani!» la rimproverò l’Ephemeride
spuntandole improvvisamente dietro le
spalle e facendole rasentare l’infarto «Per una
serie di sfortunati eventi
Dentolina e Calmoniglio se la sono vista brutta, ma purtroppo non sono
morti:
un vero peccato, avrei di gran lunga preferito banchettare sui loro
compagni
addolorati, ma ammetto che con Phobos ho recuperato alla grande
ciò che non ho
avuto da lor-»
«Phobos?
Cosa c’entra Phobos?» domandò
con gli occhi sgranati.
Se
lo
sentiva che c’entrava qualcosa, la
sua non era solamente una dannatissima impressione!
Tanith
la osservò annoiata, segno che si
stava stancando di parlare del più e del meno:
«Come
sarebbe, non lo hai saputo?»
rigirò la domanda ridacchiando «L’Abisso
si è
aperto, e si da il caso che un povero disgraziato abbia tentato il
suicidio
quando? Qualche ora fa? Forse meno, non saprei dirtelo con sicurezza.
Certo,
c’era parecchio da mangiare, tuttavia»
continuò girandole intorno con le
braccia dietro la schiena «Il dolore
di
Harmonia ha un
sapore migliore,
decisamente migliore».
Non
aveva più visto nulla se non la furia cieca.
Inutile,
ovviamente, sarebbe stato solo
un azzardo che avrebbe potuto costarle la vita, ma non le importava se
si
trattava di proteggere Harmonia; non si era nemmeno resa conto
dell’avere preso
fra le dita l’ultima freccia rimasta nella faretra e di
averla puntata al collo
di Tanith, salvo sentirsi afferrare il polso con una violenza
decisamente
maggiore:
«Avanti
grande generale, non dirmi che
pensavi davvero di farlo!» la bacchettò mentre sul
suo viso si dipingeva
un’espressione di finta sorpresa «Non avercela con
me, non è colpa mia ciò che
è accaduto durante la guerra contro Apophis, mi sono
semplicemente limitata a
mangiare come faccio sempre e con tutti quindi, grande
generale, vedi di mantenere la calma se ci tieni alla coda, seriamente.»
L’Ephemeride
mollò la presa di scatto
subito dopo aver spezzato la freccia:
«Ringraziami
per non aver approfittato più di
tanto dell’immane quantità di
cibo che avrei potuto avere da Harmonia nei venticinque anni in cui ha
portato
il suo regno sull’orlo del baratro per colpa di
quell’incompetente di Phobos,
anziché cercare la morte attaccandomi: non mi sono
avvicinata troppo a questo
pianeta in quel periodo, ed anche se lo avessi fatto non
sono io che ho aperto l’Abisso, quindi datti una
calmata. Ha
già perso un amante, no?» domandò senza
aspettarsi una risposta per poi
avvicinarsi al suo orecchio:
«Evitiamo
che ne perda un altro.»
Poi
si era volatilizzata, questa volta veramente,
lasciandola con il polso
dolorante e gli occhi sgranati: avevano
riaperto
l’Abisso, lo avevano fatto e nessuno se ne era accorto,
nemmeno lei che avrebbe
dovuto pensare solamente alla protezione della Regina in persona.
Non
aveva idea se Harmonia fosse già a
conoscenza della cosa o meno, ma per sicurezza tornare al castello era
assolutamente una priorità.
Priorità
che si era intensificata
quando, totalmente assorta nei suoi pensieri e nel controllare il
dolore che le
squame che sfregavano l’una sull’altra nei pugni
serrati le provocavano, quasi
non aveva fatto caso alle chiazze d’erba carbonizzate da
quelle che a prima
vista sembravano semplici gocce verdognole di una sostanza non meglio
identificata.
Una
sostanza che sapeva perfettamente
provenire da un mondo totalmente diverso
da quello.
E
allora aveva iniziato a correre, o
meglio strisciare, verso casa: senza voltarsi, senza constatare se
l’ennesima
di tante intuizione fosse vera, voleva soltanto tornare a riferire quel
poco
che Tanith le aveva gentilmente concesso di sapere sulla vicenda.
Sperando
che non fosse troppo tardi.
Una
statua di Tanith, ecco cosa sarebbe
stato utile!
Non
sapeva nemmeno come avrebbe potuto
ringraziarla per aver distratto quella dannata Ophidian mentre lei
stava
tornando da Phobos evitandole uno scontro diretto che, con
l’acqua della
Sorgente in mano, proprio non poteva
permettersi.
Il
Guardone Mistico non era intervenuto
una volta, ma se Halley fosse tornata perché aveva
accidentalmente versato il
prezioso tesoro per terra probabilmente le avrebbe dato addosso con
l’armeria
pesante, dove con “armeria pesante” si intendeva
che avrebbe tirato fuori il
suo drago da un portale dimensione aperto chissà dove.
E
non
era proprio il caso: di cavalcadraghi
incestuosi in
quell’Universo ne esistevano abbastanza, e forse anche Nonno
Drago si sarebbe
offeso per la concorrenza, per cui era meglio lasciare il suo animale
domestico
dov’era a mangiarsi i pianeti come già faceva.
Comunque
fossero messe le cose alla
Torre in quel momento, l’unica cosa che preoccupava
attualmente la mente di
Comet era di tornare da Phobos senza rischiare per la secondo volta di
farsi
beccare da Harmonia o da qualcuna delle sue adorabili guardie del
corpo,
considerando che dopo l’entrata in scena di qualche ora prima
il suo
coinvolgimento nella sua fuga dall’Abisso era ormai quasi del
tutto palese a
tutti.
Guardò
la bottiglia che aveva fra le
mani davanti alla luce di uno dei Soli come inebriata da qualche strana
sensazione, una sorta di visione continua dove tutto le scorreva
davanti:
l’acqua del Guardone Mistico,
la
stessa dove si specchiava il sapere di colui che aveva assistito alla
nascita di
milioni e milioni di Universi finiti con il consumarsi e congelare e
bruciare, che
aveva visto il tempo scorrere via, momento dopo momento,
finché non era rimasto
più nulla, nulla tranne lui,
che Universo
dopo Universo aveva osservato mentre prendevano vita amori e perdite,
nascite e
morti, gioia e dolore, che conosceva segreti che non avrebbero mai
dovuto
essere svelati per non disturbare il precario equilibrio di
quell’immenso gioco
di ruolo che è l’esistenza, dove anche la
più piccola foglia caduta nel momento
sbagliato avrebbe potuto generare una
serie infinita di paradossi talmente inspiegabili da essere in grado di
prendere
il Multiverso ed accartocciarlo.
Quel
liquido, quel semplice ed
apparentemente innocuo liquido, conteneva il sapere più
puro, la conoscenza
ultima del creato: il passato, il presente, il futuro, ciò
che avrebbe potuto
essere ma non era stato, ciò che era ma avrebbe potuto non
essere, ciò che
sarebbe stato ed allo stesso tempo non sarebbe mai stato se si fossero
prese
decisioni diverse da quelle prescelte, un
passato mai vissuto ed un futuro mai scritto.
Quella
era la Sorgente del Cosmo, quello era il Veggente.
Anche
ora che si trovava ormai lontana
dalla Torre poteva quasi sentire la sua presenza,
l’incombenza del suo occhio
sopra le teste degli abitanti di quel mondo, di
quell’Universo, la
consapevolezza che alzando un dito avrebbe potuto spazzare via
qualsiasi cosa
dinanzi a lui: sarebbe bastato un capriccio, un insulto non troppo
velato e puff, ciao ciao cosmo.
Nonostante
la testa che le pulsava
insistentemente e le sembrasse quasi di vedere delle macchie sfocate
davanti
agli occhi, capì presto che dare troppo peso a quella
sensazione non avrebbe
fatto altro che privarla di tempo prezioso: le seghe mentali le avrebbe
lasciate a Phobos che, nemmeno a dirlo, dava sempre segno di esserne
piacevolmente
allietato.
Scese
velocemente atterrando vicino alla
grotta di Necrohunger, il quale questa volta era intento a leccare il
pelo dei
leoni che se ne stavano placidamente accoccolati sotto le sue ali o
intorno a
lui come se fosse mamma chioccia, scena piuttosto inusuale dal momento
che
quando si erano incontrati avevano iniziato a strapparsi la carne di
dosso, ma
fu felice che almeno loro non cercavano più di ammazzarsi a
vicenda.
Situazione
diversa venne trovata da
Halley quando si fece strada fino a Phobos, dove l’unica cosa
che riusciva a
distinguere in quel lago di sangue era la figura di Thorax sdraiata
nello
stesso luogo dove l’aveva lasciato prima di allontanarsi, il
tutto coronato da
un alone di silenzio alquanto inquietante che aveva due possibili
spiegazioni: o
Phobos era morto, o Phobos era morto male.
Nessuna
delle due possibilità contemplava
che il quel povero disgraziato fosse ancora vivo, ma chissà
che il destino non
gli avrebbe riservato una gradita sorpresa.
Gli
si avvicinò lentamente con il timore
che l’avesse presa alla lettera quando gli aveva detto che
poteva anche
mangiarsi il suo compagno di trombaris, ma fortunatamente
notò subito che in
realtà Phobos se ne stava appoggiato, o forse collassato,
sul dorso di Thorax
tenendogli il braccio sano intorno al collo come se vi si stesse
disperatamente
aggrappando; non sembrava cosciente, e nemmeno vivo a dire la
verità, ma quando
poggiò delicatamente l’indice ed il medio
all’altezza della carotide tirò un
sospiro di sollievo notando che respirava ancora: debolmente, certo,
era privo
di sensi ed aveva perso una quantità non indifferente di
sangue, ma era vivo.
Vivo!
Che
fosse ringraziato il Veggente!
Thorax
sembrò avvertire le sue
intenzioni ancora prima che le manifestasse: iniziò a
sfregare il muso contro
la fronte di Phobos leccandogli le guance come per fargli capire che
lui c’era,
c’era sempre stato e, nonostante ciò che gli
avesse fatto più o meno
volontariamente, avrebbe continuato ad esserci; con la zampa lo
scostò dal
proprio dorso per scoprire il braccio ferito, che fino ad ora era
rimasto
coperto dalla folta criniera del grande felino, abbastanza
perché Comet potesse
velocemente valute l’estensione del danno.
Senza
pensarci troppo strappò un lembo
della tunica del compagno e vi versò sopra circa la
metà dell’acqua della
Sorgente contenuta nella bottiglia, premurandosi di avanzarne un
po’ per
eventuali evenienze: con la mano tremante per la grottesca quanto
macabra vista
dello squarcio che gli percorreva l’avambraccio dal polso
fino al gomito, e che
lasciava visibili i muscoli lacerati in preda agli spasmi che
avvolgevano
l’osso color avorio, si premurò di pulire la
ferita alla bene e meglio per poi
avvolgere il tessuto direttamente intorno ad essa sperando che quell’improbabile
viaggio fino alla Torre di
Babilonia fosse servito seriamente
a
qualcosa e non fosse stato invece un semplice azzardo dove il gioco non
sarebbe
valso la candela.
L’unico
segno di vita da parte di Phobos
era stato un gemito sommesso che si era presto trasformato in un dolore
pulsante che sembrava consumarlo dalle profondità
più remote del corpo, e per
Halley questo non facilitò certo il resto
dell’operazione:
«Phobos,
guardami, guardami e stai
calmo, faccio in fretta ma devi stare calmo» lo
rassicurò mentre gli prendeva
il volto fra le mani incrociando uno sguardo che sembrava dire “Facciamola finita una volta per tutte,
ti
prego”, ma non si fece troppi scrupoli :
«Adesso
bevi questa, ti farà stare
meglio… soffrirai come un animale per qualche ora, forse
giorni interi, ma non
conosco un altro modo per salvarti il culo, spiacente amico.»
concluse mentre
gli dava una mano a portarsi alle labbra quel poco dell’acqua
della Sorgente
del Cosmo rimasta, assicurandosi che la mandasse giù e non
facesse scherzi
strozzandosi male.
Quello
che era venuto dopo non era
nemmeno stata a guardarlo, non le serviva vedere la scena quando
bastava
ascoltarne i suoni: non sapeva esattamente gli effetti della Sorgente
sulle
persone normali anziché sul Veggente, stava di fatto che le
grida agonizzanti
di Phobos ed il suo contorcersi in preda a violenti quanto inquietanti
spasmi
che gli scuotevano ogni fibra del corpo parlava sicuramente da
sé, e non era
più proprio sicura che curarlo in quel modo fosse la scelta
migliore da fare
per salvarlo.
Ma
d’altronde anche il sovrano della
Torre si riduceva in quello stato quando cercava e riusciva a cambiare
un
futuro già scritto, era il prezzo da pagare per quella che
avrebbe potuto
essere considerata una sorta di ribellione al fato, quindi
pensò che se
sopportava lui anche Phobos avrebbe dovuto riuscirci.
Poi
se fosse morto o meno non lo sapeva,
ma almeno aveva l’inutile consapevolezza di averci provato,
più o meno.
Eh
sì, perché dopo aver assolto il
proprio compito ed essersi lisciata l’abito sporco di terra
bruciata ciò che
aveva fatto Comet era stato voltarsi senza guardarsi indietro, senza
dare peso
alle richieste di aiuto di un Phobos fra le lacrime che strisciava per
terra
per raggiungerla, salvo essere preso di forza da Thorax che lo teneva
buono:
era già tanto l’aver rischiato la pelle andando
dal Guardone Mistico e
prendendo la sua acqua, figurarsi
se
ora sarebbe anche stata lì ad aspettare che
l’altro si riprendesse, senza
sapere quanto ci avrebbe messo tra l’altro!
Quando
aveva lasciato la superficie per
librarsi in volo si era lasciata alle spalle Phobos e tutto il resto,
tutto
quello che era velocemente accaduto negli ultimi tempi: aveva bisogno
di
riprendere in mano la vera Comet E.
Halley, quella che se ne fregava di tutto e di tutti per andare a
divertirsi
dove più le aggradava, dal momento che lei non quella che
andava nella tana del
lupo per i guai altrui, non lo era mai stata, e se Phobos voleva
tentare
qualche altra impresa suicida che facesse da solo, lei non avrebbe
mosso un
dito per qualcuno che non fosse se stessa.
A
meno che questo non avrebbe giocato a
suo favore, ovviamente, in quel caso uno strappo alla regola lo avrebbe
anche
fatto piuttosto volentieri.
Ma
gli strappi alle regole, si sa, hanno
delle conseguenze.
Soprattutto
per chi le regole le decide.
Contro
ogni sua più rosea previsione, ci
era mancato poco che Jack si mettesse a piangere come un bambino alla
vista
della luce del Sole che filtrava dalle immense vetrate del castello di
Harmonia, segno che finalmente era tornato in superficie dopo
un’infinità di
scalinate e corridoi percorsi appiccicato al fianco della donna mezza
ragno.
Ed
a
giudicare dalle espressioni di
sorpresa e commozione dei compagni si vedeva bene che anche loro erano
stati in
pensiero per tutto il tempo della sua assenza:
«Jack!
Jack! Per tutti i denti di latte,
sei vivo! Sei ancora vivo!» gli gridò Dentolina
precipitandosi da lui spedita e
finendo per farlo cadere a terra mentre lo stringeva fra le piume che
lo
stavano soffocando male «Sta bene? Sei ferito? Sei
disidratato? Ti sei
scheggiato un dente? Non dirmi che ti sei scheggiato un dente! Fammi
vedere!»
continuò mentre gli apriva forzatamente la bocca tirando un
sospiro di sollievo
«Non farmi prendere questi colpi, non farli prendere
più a nessuno di noi!
Eravamo terrorizzati! Pensavamo che tu… che
tu…» non fece in tempo a finire la
frase che scoppiò in una cascata di lacrime tenendosi la
testa fra le mani
mentre il giovane Guardiano, abbastanza imbarazzato dalla cosa, le dava
pacche
sulla spalla in modo decisamente impacciato nemmeno fosse alle prese
con un
alieno.
Ah,
eccoli, eccoli che arrivavano: i
sensi di colpa, quell’adorabile sensazione di colpevolezza
per la reazione
spropositata della fatina dei denti, avevano iniziato a farsi strada
nella sua
mente come delle bestie pronte a divorarlo fino a quando non sarebbe
crollato
psicologicamente anche lui insieme alla compagna.
Fortunatamente,
Harmonia aveva intuito
la situazione e si era premurata di smorzare tutta la
serietà che comportava,
ovviamente con le dovute cautele:
«Il
tempo di girarmi per parlare con i
Guardiani ed eri già sparito dalla circolazione, ringraziamo
che ti abbia
trovato Antares prima di altri non proprio intenzionati ad indicarti la
strada
per uscire» asserì sorridendo, poi si
girò verso l’altra donna «Ti ringrazio
per averci riportato Frost, e per non averlo sottoposto ad una delle
tue
sessioni di sartoria quotidiane: nessuno avrebbe voluto un Guardiano
insacchettato in una ragnatel… Antares.»
la canzonò sfregandosi fra le dita un filamento setoso
rimasto incastrato nel
cappuccio della felpa del ragazzo; lei lo prese subito nascondendoselo
dietro
la schiena e tirò fuori un sorrisetto nervoso:
«Non
so proprio di cosa tu stia
parlando, proprio non lo s… non guardarmi così!
Sono una Sylke, cosa
pretendevi? Nei sotterranei ci vivo, non è colpa mia se
è finito nelle mie
ragnatele!» si giustificò alzando le
due grandi zampe anteriori in segno di resa.
Jack
le guardava discutere piuttosto
perplesso, almeno fino a quando Harmonia non aveva scosso la testa
accompagnando il gesto da un facepalm:
«In
effetti non penso che Frost abbia
perso la strada di proposito solo per venire a rovinarti le ragnatele,
e non
riconoscendolo posso anche passare sopra il fatto che tu lo abbia
legato come
un salame e fossi pronta a mangiarlo, o forse a farne la tua
incubatrice
personale. Comunque sia» disse mentre indicava la donna a
Jack «Hai già fatto la
sua conoscenza in modo più che
approfondito, ma le presentazioni sono state saltate
volentieri da quello
che ho visto» ridacchiò divertita «Lei
è Antares, uno dei miei più fidati
generali nonch-»
«La
sarta di corte, sono anche la sarta
di corte!» si intromise lei tutta euforica mostrando un filo
di seta che si
girava fra le dita coperte dallo spesso esoscheletro utilizzandole come
se
fossero i ferri di una maglia «E tu sei Jack Frost, il
Guardiano del
Divertimento scelto da quel buontempone di Manny.» lo
presentò iniziando a
squadrarlo.
Non
sapeva se definire il suo sguardo
incredibilmente attraente oppure semplicemente inquietante, o forse era
entrambi:
«Guardiano
al quale starebbe proprio bene
una sciarpa nuova fatta dalla sottoscritta! Posso, eh? Posso? Posso
posso
poss-»
«Dille
di sì, ti scongiuro dille di sì.»
suggerì Harmonia mettendosi una mano fra
la folta chioma che si muoveva ad un vento invisibile; Jack decise di
seguire
il suo consiglio, ma nemmeno il tempo di annuire che Antares lo aveva
stretto
al seno facendolo soffocare di nuovo:
«Awww
ma che gentile! Mi metto subito al
lavoro, piccola crisalide, sarai ancora più adorabile di
quanto sei già! La
farò come il mio maglione!» concluse entusiasta
sparendo nella stessa porta
dalla quale era sbucata poco prima insieme a Jack.
Dopo
qualche istante di silenzio il
giovane Guardiano guardò Harmonia perplesso:
«Fa
sempre così con tutti? Rapirli e
minacciare di deporre le sue uova nel loro corpo intendo, è
abbastanza… inquietante.»
chiese alla Regina, la
quale fece spallucce divertita:
«Direi
di sì, ma le minacce di
accoppiamento riguardano solo gli individui di sesso maschile, per
fortuna»
rispose ridendo «Devi sapere che Antares appartiene alla
razza delle Sylkes,
donne per metà ragno sparse un po’ ovunque sul
pianeta Exodus, anche se uno dei
loro nidi più grandi si trova poco lontano da qui, ai
confini del mio regno»
continuò vedendo che Frost la fissava con lo sguardo vuoto,
terrorizzato dai
ragni com’era; Harmonia tuttavia gli diede una pacca sulla
spalla che lo fece
rinsavire «Non sono pericolose, la maggioranza delle specie
di ragno con le
quali sono fuse hanno un veleno a puro scopo paralizzante per cibarsi,
anche se
ammetto che una fetta di loro possiede veleni talmente potenti da
uccidere un
uomo adulto. Ma non è il caso di Antares, se vuoi saperlo,
per cui puoi stare
tranquillo.» lo rassicurò dolcemente.
“Poteva
stare tranquillo”, ma certo.
Al
massimo si sarebbe trovato incinto di tanti piccoli ragnetti affamati
di
viscere e carne fresca, certo che stava tranquillo!
Il
pensiero gli fece salire un conato di
vomito che riuscì a trattenere a stento, complice il fatto
che si stava davvero immaginando la
scena:
«Voleva
accoppiarsi con me! Voleva
usarmi come incubatrice! E poi… e poi… le uova!
Le sue uova… dentro di me!»
disse fra sé e sé ad alta voce prendendosi di
rimando lo sguardo della Regina
come se avesse avuto un’improvvisa idea «Oh
sì, stavo per dimenticarmene» si scusò
velocemente «Durante la stagione dell’accoppiamento
le Sylkes si trovano un
compagno, gli fanno fecondare le proprie uova e poi le depongono dentro
di lui,
creatura umana o animale che sia: immagino che Antares ti abbia
già avvisato su
quello che accade dopo, ma fortunatamente per te non è
questo il periodo giusto
per diventare padre di piccoli aracnidi affamat-»
«Una
razza… di donne… ragno?
Un’intera… razza… che si accoppia
male?» scandì lentamente con gli occhi
sgranati per poi, con tutta la
nonchalance del mondo, prendere il suo bastone e girarsi:
«Ringrazio
tutti, è stato bello fino a
che è durato: breve ma intenso, tutto molto bello, tutti
molto gentili, ma per me è no.»
terminò in tutta calma.
Poi
Jack Frost si era avviato a tutta velocità verso la porta
d’uscita.
Va
bene Phobos e tutta la storia
commovente dietro, va bene anche l’arrivo di quella donna dai
capelli color
magenta completamente a random, andava bene persino che fosse stato
rapito.
Ma
i
ragni non andavano bene, quelli no.
Nord
tuttavia non la pensava così,
motivo per cui lo afferrò prontamente per il cappuccio
rimettendolo al suo
posto:
«Lasciami!
Lasciami! No Harmonia, io esco!
Io esco! I ragni! Non voglio i ragni che mi violentano da dietro!
Lasciami!»
implorò dimenandosi come un topo appena catturato dagli
artigli di un gatto fin
troppo grande:
«Tu
dovere stare calmo, Jack, nessuno
infilerà nulla in tuo didietro, nessuno! Non
preoc-»
«Andate
a quel paese voi ed i vostri
“non preoccuparti”! Mi preoccupo! Mi
preoccupo eccome!» sbottò
improvvisamente dando un morso al braccio del
vecchio Guardiano e facendo per scappare a gambe levate, salvo essere
trascinato a terra dalla zampata di Spettro alla schiena:
«Lo
vedi? Lo vedete tutti? Come faccio a
non preoccuparmi! Come!» continuò in preda alla
disperazione più
incontrollabile, anche quando il lupo lo aveva lasciato libero.
Quella
che era seguita era stata una
discussione piuttosto animata il cui perno centrale era la totale
mancanza di
responsabilità di Frost che, giusto per rincarare la dose,
stava finendo per
mettersi contro i suoi stessi compagni:
«Stai
prendendo tutto troppo alla
leggera, dovresti almeno metterci un minimo di impegno!» si
lamentò Dentolina,
supportata subito da Calmoniglio e successivamente anche da Nord
«Impegno?
Stai chiedendo di impegnarsi
alla stessa persona che non voleva nemmeno diventare un Guardiano, cosa
ti
aspetti? Che usi un po’ di quella zucca vuota per darci una
mano? Ma va! Ma ti
pare? Un altro Manny, un altro Manny!»
«Calmoniglio,
tu stare esagerando! Jack
aiutato noi a sconfiggere Pitch Black, suo aiuto stato fondamentale per
sconfiggere Uomo Nero!»
«Utile
quanto la pioggia il giorno di
Pasqua, oserei dire!» si impuntò il coniglio
pasquale per poi puntare un indice
verso Jack senza guardarlo «Avremmo dovuto tenergli nascosto
tutto ancora un
po’ di tempo, tanto cosa se ne fa della verità?
Sente quelle che vuole sentire,
fa quello che vuole fare, risponde solo a ciò che gli fa
comodo! Sono sempre
della mia idea, e questa ne è la dimostrazione: Manny ha sbagliato, Jack Frost non è mai
stato un Guard-»
«Ora
ne ho abbastanza.» tuonò Harmonia
pestando uno zoccolo a terra con così
tanta violenza che il suono fece eco nell’intero castello.
Nessuno
osò proferire parola subito
dopo, ed anche i vari litiganti si limitavano a guardare distratti il
pavimento
come imbarazzati e pentiti delle loro stesse parole:
«Scelte
sbagliato o giuste che siano
state, Frost ha comunque dimostrato più di coraggio di
quanto ne abbia avuto
Madre Natura prima di darsi alla fuga quando Apophis ha attaccato il suo regno, gettando in pasto quattro
ragazzine
che hanno difeso Tandokka fino allo stremo da un mostro senza
pietà» ricordò a
tutti senza nascondere un velo di nostalgia «Non mi interessa
la vostra
opinione, non voglio nemmeno saperla, fino a prova contraria Jack Frost
è e
resterà il Guardiano del Divertimento, e su questo punto non
ho intenzione di ritornarci
di nuovo. Chiaro a tutti?»
domandò
ricevendo di risposta dei cenni eseguiti all’unisono per dire
che sì, era anche
troppo chiaro a tutti.
Jack
nel frattempo se ne stava lì
immobile, con gli occhi vitrei persi nel vuoto mentre ripensava alle
parole dei
compagni, gli stessi che a quanto aveva sentito non lo consideravano
ancora uno
di loro; fu con grande sorpresa che notò la sagoma di
Harmonia venirgli
incontro e poggiargli una mano sulla testa con fare materno:
«So
che te l’ho già chiesto e che non
avresti dovuto avere dubbi a proposito, che ti hanno già
detto cosa rischiavi
sin dal primo momento in cui hai varcato il portale per Phantasia, ma
posso
capirti, posso capirti più di
quanto tu
stesso possa immaginare» gli disse sorridendo
«Hai coraggiosamente affrontato
tanti, troppi cambiamenti nel giro
di
poche ore, hai visto cose delle quali ignoravi l’esistenza e
venuto a conoscenza
di verità che avrebbero dovuto rimanerti celate per il tuo
bene, perché non si
arrivasse a questo punto, ma voglio essere sincera: sei libero di
abbandonare
la nave, Jack Frost, Guardiano del Divertimento, ovviamente senza
temere le
conseguenze di questo gesto» spiegò mantenendo
quell’aria stranamente serena
«Non siamo Chandrasekhar, se prendi un impegno e poi ti tiri
indietro nessuno
cercherà di fartela pagare in alcun modo, ma vorrei che
fosse una tua scelta, non loro: se
resti sai a cosa vai
incontro, se te ne vai tutto questo sarà solo un ricordo
più o meno piacevole, ma del quale
non ti dovrai assolutamente
preoccupare.»
Jack
quasi non ci poteva credere:
parlava sul serio?
Poteva
davvero andarsene senza problemi,
tutti amici come prima?
O
lo stava prendendo bellamente per il culo, ed in realtà
sarebbe finita per
fargli pagare cotanta codardia con chissà quali torture?
Non
ne aveva la minima idea.
Velocemente,
il giovane Guardiano iniziò
a visualizzare pro e contro di un eventuale abbandono o mantenimento
della
propria posizione: se fosse rimasto forse avrebbe potuto fare ad
Harmonia
domande per le quali necessitava una risposta da troppo tempo, e se
avessero arginato
il problema della gestione di Phobos, perché da quello che
aveva visto e
sentito fino ad ora lo scopo della riunione era proprio quello, avrebbe
avuto
qualche privilegio!
Oppure
sarebbe rimasto ucciso nel
fragore di un’improbabile battaglia, il suo corpo gettato in
una fossa insieme
a quelli dei suoi compagni mentre la Morte passeggiava lì
vicino raccogliendo
le loro anime in un cestino da pic-nic con tartine e tramezzini.
Tramezzini
con la maionese, di quelli
che ti accorgi della salsa solo quando lo hai già addentato.
E
lui, oltre ai ragni, odiava la maionese.
Ma
se
avesse abbandonato la nave, se si
fosse ritirato in tempo da quello che pensava essere un imminente
conflitto
senza troppe domande, sarebbe sopravvissuto a qualsiasi cosa sarebbe
venuta
dopo, guerra o pace che fosse: certamente odiato dai suoi compagni per
l’aver
dimostrato di essere un vigliacco e forse se ne sarebbe pentito subito
dopo
senza la possibilità di intervenire nel mezzo della
battaglia che esisteva solo
nel suo immaginario, ma l’idea di correre ai ripari come
aveva fatto Manny
nella guerra contro Apophis stuzzicava il suo continuo aggrapparsi alla
vita, e
quella era una tentazione alla quale chiunque avrebbe faticato a
resistere.
Vedendo
che Jack era caduto in una sorta
di stato catatonico mentre il suo cervello elaborava le opzioni
disponibili,
Harmonia aveva rotto il ghiaccio come solito:
«Non
devi scegliere subito, prenditi
tutto il tempo che ti serve: l’ultima cosa che vogliamo
è una decisione sbagliata,
e le decisioni sbagliate sono le stesse che si prendono in fretta e
furia
quando si è sotto pressione… oppure
osservati dagli sguardi severi dei propri compagni»
fece notare gettando
l’occhio su Nord e compagnia «Vorrei che lasciaste
soli me e Frost, se non vi
dispiace, ha ben altro a cui pensare che accontentarvi.»
Oltraggio.
Che
venne preso al balzo da Calmoniglio,
particolarmente voglioso di fare rissa a quanto stava dimostrando alla
corte
della Regina:
«Ben
altro a cui pensare? Certo, a come
mostrare la sua vigliaccheria al mondo, ecco a cosa deve continuamente
pensare!
Lavoro impegnativo, mi dicono, degno di uno scansafatiche!»
ruggì prepotente
verso Harmonia «E tu sei
d’accordo, tu lo
supporti! Gli infarcisci la testa di discorsi tutti
“Non temere Jack caro,
puoi anche abbandonare i tuoi compagni perché tanto ci sono
io a proteggerci,
GNEGNEGNE!” Bella trovata, mia Regina, davvero ottima! Un po’ come quella di non ammazzare
Phobos quando potevi farlo ma tu
no, hai lasciato in vita quel bastardo solo perché era
l’uomo che ti scopavi
ogni fottuta vol-»
«Taci,
se non vuoi che anche l’ultimo Pooka finisca in uno degli
stomaci di un
Diggerwurm, non sei nella posizione per muovere
accuse» rispose fredda
mentre nella sua mano compariva lo stesso arco di prima
«Ancora una parola
sulla questione da parte di chiunque, una
sola, e firmerete la vostra condanna all’esilio, ed
ora» continuò indicando
con l’arco la porta «Fuori.»
Nonostante
gli sguardi preoccupati che i
Guardiani iniziarono a scambiarsi l’uno con
l’altro, soprattutto con il
responsabile del repentino quanto pericolosamente inaspettato
cambiamento
d’umore di Harmonia, seguirono alla lettera il suo consiglio,
o forse ordine,
avviandosi mestamente verso la porta di quella stanza e chiudendosela
alle
spalle; l’unica indecisa sul da farsi era Alice, che guardava
la Regina con
aria confusa:
«Tutto
bene?» domandò semplicemente, ed
Harmonia abbozzò un sorriso alla bene e meglio
«Tutto
bene, nulla di cui preoccuparsi,
ti ringrazio per l’interessamento» rispose cercando
di dare una parvenza di
calma «Ti chiedo solo di controllare i Guardiani: siamo nel
mio castello, nel
mio Regno, sul mio pianeta, bada bene che
si ricordino di non stare giocando in casa e che sono in netto
svantaggio
numerico.»
«Come
desideri, se posso darti una mano
sai che lo faccio sempre volentieri, snudare la spada una volta in
più non è un
problema, d’altronde. Harmonia, Jack Frost, con
permesso.» si dileguò con un
breve inchino ricambiato da entrambi.
Rimasto
solo con la Regina, Jack venne
colto da un senso di vuoto: erano loro due da soli, senza anima viva
intorno,
loro due in quell’immensa stanza bianca che dava direttamente
nel grande salone
delle statue, lo stesso dove Harmonia lo aveva riportato probabilmente
così che
il ragazzo potesse accomodarsi sui bordi della fontana centrale nella
cui acqua
limpida si stavano specchiando gli occhi azzurro ghiaccio del giovane
Guardiano.
Non
ci vedeva più nulla, in quegli
occhi, non più: nessuna delle certezze che aveva avuto sino
ad ora, nessuno che
lo supportasse, nessuna voglia di provare a combattere per far valere
la sua
opinione perché questa potesse finalmente avere lo stesso
valore di quella
degli altri Guardiani.
Non
ci vedeva dentro più nulla di tutto
quello in cui aveva creduto sino ad ora, niente di niente, solo un
profondo
senso di sconfitta bruciante, ancora peggio di quella che aveva provato
quando
il suo corpo era caduto nel lago in quella fredda giornata invernale,
il giorno
in cui aveva capito che aveva fallito come fratello esattamente come
ora stava
fallendo come Guardiano: Manny gli aveva dato fiducia, gli aveva dato
un
incarico che Jack credeva di portare avanti nel migliore dei modi, i
suoi amici
lo incoraggiavano come se farlo a sentire a proprio agio fosse il loro
unico
scopo, eppure adesso gli avevano appena sbattuto in faccia la sua
incapacità di
prendere decisioni.
E
faceva male, più male di quanto fosse disposto a sopportare.
Guardò
distrattamente il proprio
riflesso che ricambiava il suo sguardo: quello non era il ragazzino che
conosceva
Emma, il suo aspetto da Guardiano avevano sostituito da troppo tempo
quello che
ricordava di avere prima di morire ed essere scelto, con i suoi capelli
castani
arruffati e gli occhi marroni sostituiti dagli sterili colori del gelo
dell’Inverno che si portava dentro.
Quella
sensazione che cercava di non
manifestare fu subito notata da Harmonia, che gli si era avvicinata ed
aveva
posato l’imponente corpo da cavallo sul bordo della fontana
sfiorando la
superficie dell’acqua con una zampa:
«Ho
assunto questa forma per ricordarmi
chi sono, per non dimenticare da dove vengo: avrei potuto creare
qualsiasi
corpo con la mia magia, ma ho pensato che essere una centauressa mi
potesse
aiutare a mantenere vivi i ricordi» disse senza alzare lo
sguardo ma cercando
quello di Jack nell’acqua «Buffo, vero? La Regina
della Fantasia che teme di
dimenticare… come se poi potessi farlo, ma tu»
continuò sollevandogli il mento
con una mano «Tu hai già
dimenticato,
per questo ti aggrappi con tutte le tue forze all’idea che
restare possa darti
le risposte che stai cercando, ho ragione?»
domandò incuriosita mantenendo una
certa compostezza.
Aveva
ragione, certo che aveva ragione!
Avrebbe
voluto urlarlo, gridarlo al
mondo che sì, Jack Frost temeva di dimenticarsi da dove era
venuto, delle
persone che aveva conosciuto e di chi fosse veramente!
Eppure
si limitò ad annuire tristemente,
senza proferire parola quasi fosse rassegnato ad una realtà
che conosceva fin
troppo bene:
«Ognuno
ha i propri demoni che si
trascina dietro da una vita, se poi sei immortale i fantasmi del tuo
passato di
perseguitano ogni istante dell’eternità che hai
davanti: credimi, ti capisco
perfettamente, i sensi di colpa per aver lasciato che Phobos venisse
trascinato
nell’oscurità sono mostri che mi hanno consumata
per venticinque anni prima che…»
fece una pausa inspirando profondamente «Prima che recidessi
i legami con
quella parte del mio passato… eppure eccoci qui, con i
Guardiani che discutono di
come ucciderlo: darsi delle priorità è
fondamentale, ed io ho messo la salvezza
del mio Regno e di tutti gli altri prima dell’amore che
provavo per Phobos e,
per quanto me ne sia pentita, oggi so che è stata la scelta
giusta» spiegò con
voce incredibilmente decisa e sicura di sé.
Jack
rimase sorprendentemente colpito
dal fatto che Harmonia gli stesse raccontando qualcosa di
così intimo che aveva
tenuto dentro il suo cuore per tanto, troppo tempo: lei che lo
conosceva a
malapena stava davvero confessandogli che sì, dietro la il
pilastro sul quale
faceva affidamento un regno ed un intero pianeta
c’è una donna stanca e ferita,
che quel pilastro era solcato da profonde crepe che nessuno aveva
pensato di
riparare perché nessuno sarebbe stato in grado di farlo,
fenditure nell’anima
che tuttavia non avevano intaccato quei suoi modi gentili e
quell’amore per la
propria gente che la caratterizzavano.
L’ammirava,
l’ammirava più di quanto già
facesse, e non poteva essere più felice
Accennando
un timido sorriso, Harmonia
gli diede una carezza sulla guancia:
«Accettare
le conseguenze delle proprie
azioni come di quelle altrui è il minimo che si possa fare
per mettersi in pace
con il proprio passato, bisogna perdonarsi le scelte che ci fanno
soffrire ed
essere pronti a perdonare chi ci ha fatto del male, volontariamente o
meno...»
sussurrò con un alone di tristezza facendo capire a Frost
che si riferiva a
Phobos «Ma tu, giovane Guardiano, tu non ti sei ancora
perdonato, non ti
capaciti di come tu sia qui senza tua sorella a stringerti la mano per
farti
forza e per avere la sicurezza che solo suo fratello maggiore poteva
darle, e
questo ti sta distruggendo» asserì scegliendo
cautamente le parole «Purtroppo,
io non posso darti le risposte che tu hai già dentro te
stesso, devi solo
trovare il coraggio di andare a cercarle e, che ti rendano felice o
meno,
accettarle per come sono: ci vorrà tempo, quello
sicuramente, ma non puoi
cercarle da altre persone se non te stes-»
«Dalla
Morte, io voglio chiederle alla Morte in persona»
asserì quasi senza
rendersene conto.
Nessuno
dei due presenti si permise di
proferire parola riguardo le parole del ragazzo, tuttavia fu proprio
lui a
lasciare correre i pensieri senza frenarli:
«Emma
è morta, ed i morti vengono
accompagnati dalle Entità nel loro mondo… se solo
trovassi una di loro… se solo
potessi… parlarci...» disse con un filo di voce
toccando l’acqua e perdendosi
nelle onde concentriche che si formavano «Loro sanno qualcosa
di Emma, devono
saperlo… devono! Loro… devono! Lo
sanno… io lo so…» terminò
crollando e
facendosi trascinare dalle lacrime mentre Harmonia cercava di
sostenerlo
dandogli delle leggere pacche di consolazione sulla schiena.
“Oh
Jack, se solo tu sapessi quanto la Morte conosce tua
sorella… se solo tu lo
sapessi”,
pensò la Regina senza dare
a vedere l’aria preoccupata che le parole del Guardiano
avevano suscitato in
lei insieme ad una vaga sensazione di paura per il ragazzino che aveva
di
fianco: se Frost fosse davvero andato a cercare la Morte avrebbe fatto
un
clamoroso buco nell’acqua, dal momento che la Morte non si
faceva trovare dai
vivi così facilmente, ma se ci fosse riuscito…
cosa sarebbe accaduto, se avesse
davvero trovato la Morte?
No,
non l’avrebbe mai trovata… a meno
che non fosse morto a sua volta, ovviamente, ma non vedeva motivi per
cui
avrebbe dovuto preoccuparsi anche di fare da balia a quel ragazzino,
d’altronde
sulla possibilità che Phobos fosse effettivamente in
possesso dei propri non
c’erano ancora certezze, solo insinuazioni e pensieri da
scacciare tipo prima di subito.
Ovvero
prima che la porta si spalancasse
con violenza inaudita rivelando la figura di Alice che ansimava per
quanto
aveva corso veloce:
«Alice?
Avevo chiesto di essere lasciata
sola a parlare con Jack Frost, per qual motiv-»
«È
appena tornata! Ha incontrato Tanith! Tanith!»
furono le uniche parole che
le uscirono dalla bocca prima che si inginocchiasse stancamente a terra
per
riprendersi.
E
allora Harmonia aveva sentito il sangue che le si gelava nelle vene.
Tanith
significava solo una cosa: guai.
Grossi
guai.
Ciò
che aveva seguito quella
comunicazione aveva anche lasciato sbigottito Jack, soprattutto quando
Harmonia
aveva abbandonato la sala galoppando con sicurezza attraverso il
labirinto di
corridoi del proprio castello fino ad uscire e trovarsi davanti alla
vastità
dei campi color smeraldo di Phantasia; Antares l’aveva
raggiunta poco dopo,
dando mostra di una particolare quanto inquietante armatura argentea
che le
copriva le zampe ed il seno fino ad ora quasi totalmente scoperto da
quel top
striminzito:
«Dobbiamo
alzare lo scudo intorno al
castello il prima possibile, Tanith potrebbe essere ovunque e non ci
accorgeremmo di nulla… ed ho la
vaga
sensazione che non sia lei il solo problema»
spiegò alla donna mezza ragno «Porta
dentro tutti, questo è un lavoro che devo fare da sola e non voglio morti sulla coscienza.»
disse all’altra, la quale annuì
decisa e si limitò a riportare tutti al sicuro nella dimora
della Regina di
Phantasia.
Se
Frost aveva trovato sorprendentemente
affascinante la barriera che Harmonia aveva eretto per proteggerli
dall’arrivo
di Halley, allora questa volta le parole per descrivere lo spettacolo
avrebbero
richiesto uno sforzo non indifferente per essere trovate: gli occhi
della Regina
si erano improvvisamente riempiti di un bagliore azzurro costellato di
puntini
biancastri che aveva oscurato la vista dell’iride e della
pupilla dando quasi
l’idea che fosse in una sorta di trance, gli zoccoli che
affondavano nel
terreno come se l’intero corpo fosse schiacciato da una forza
invisibile, i
capelli che ondeggiavano ad un vento impercettibile che avevano assunto
un colore
vagamente simile a quello di una nebulosa che andava
dall’azzurro fino al viola
ed all’oro nei quali si potevano distinguere le sagome di
quelle che parevano
essere costellazioni, le mani ed il corpo che si erano subito ricoperti
di
sottili filamenti multicolore che si arrampicavano sulle zampe come se
fossero
serpenti che sibilavano al vuoto.
Poi
aveva spalancato le braccia, e
allora dalla cima più alta del castello era andata
formandosi una barriera
biancastra che emanava una luce inizialmente quasi insopportabile, poi
andata
attenuandosi mettendo in risalto il fatto che sembrasse fatta da tanti
piccoli
tasselli simili a gemme luminescenti ricadendo infine nel terreno
spandendosi
fino a qualche metro più in fuori dal palazzo con spesse
radici che si
conficcavano nel ventre della terra.
Per
una frazione di secondo, solo una,
a Jack era parso di vedere un
vortice di ombre nere aggirarsi intorno all’unica protezione
che li divideva
dal mondo esterno, da dove si annidavano i pericoli, ma si convinse che
era
stata solamente una sensazione.
L’ennesima
di tante.
Quando
lo scudo aveva terminato di
assestarsi, Harmonia aveva dato segno di reggersi a malapena sulle
zampe
tremanti che la facevano barcollare, ma fortunatamente Antares le diede
una
spalla sulla quale appoggiarsi per riprendersi dall’immane
sforzo di innalzare
quella barriera nel giro di appena qualche minuto completamente
da sola; con una certa imprudenza, Nord si era
avvicinato alla centauressa osservando attentamente il paesaggio
intorno alla
allo scudo:
«Questa
situazione dimostra che noi
avere bisogno di stare uniti, tua alleanza per combattere minacce da
fuori
essere fondamentale!» asserì con sicurezza e
particolare decisione stringendo i
pugni deciso, parole che però suonarono fastidiose alle
orecchie della Regina.
Aspettava
l’arrivo di quel momento da
quando i Guardiani avevano messo piede a Fairy Oak e poi a Phantasia,
la sua Phantasia, e fu proprio per
quello che
si fece forza per rialzarsi assumendo la sua solita aria fiera:
«Alleanza?
Tu, un Guardiano, vieni a parlarmi di… alleanza?
Mi prendi per il culo?» ripeté quasi
incredula piegando la testa di lato
per poi pararsi davanti a Nord superandolo di parecchio in altezza
«Tu, il
fantomatico capo dei Guardiani,
degli
stessi Guardiani che mi hanno abbandonato mentre combattevo contro il
mostro
che il vostro Guardiano dei
Guardiani
ha permesso arrivasse fin qui, mi vieni a chiedere di allearmi con voi
dopo
tutto quello che mi avete fatto, direttamente o meno, passare? Col cazzo.»
Ecco.
L’espressione
sorpresa di Nord si era
presto sparsa a tutti i Guardiani che osservavano silenziosamente la
scena, ma
gli animi si erano scaldati molto presto, soprattutto quelli di un
Pooka piuttosto
dedito alle lamentele:
«Tu
devi aiutarci! Cosa facciamo se
Phobos dovesse dare davvero di matto, se fosse già libero in
giro e ci
attaccasse? Harmonia, ti prego, cerca di essere ragionevol-»
«Oh
lo sono, sono anche troppo
ragionevole» lo canzonò lei
fredda «Il mio regno viene prima di alleanze che hanno avuto
il solo scopo di
lasciare in mano ad una manciata di persone tutto il lavoro da fare
mentre
altri se ne stavano a cincischiare quindi sì, Calmoniglio,
sono molto ragionevole»
asserì facendo per
rientrare; Dentolina come suo solito non riusciva proprio a stare
zitta, ed
anche adesso lo stava dimostrando:
«Harmonia…
cerca di capire la nostra
posizione: nessuno di noi ha un potere come il tuo, rimanere legati al
passato
ed a ciò che è accaduto sette secoli fa non ha
sens-»
«Non
ha senso per te, cara Dentolina, ma per me lo ha eccome: non
dico che tu
non abbia perso nulla come tanti altri, ho un profondo rispetto verso
coloro
che sono caduti per proteggere ciò in cui credevano, ma fino
ad ora ciò che le
alleanze mi hanno portato sono stati solo guai: sono stanca di
combattere le
battaglie altrui, sono tanto stanca di fare il lavoro degli
altri… credimi, mi
dispiace, tantissimo.» si
scusò con
espressione afflitta abbassando lo sguardo.
Jack
non sapeva bene cosa pensare di
quell’improvviso cambiamento di Harmonia, che da un lato
vedeva anche
giustificato dato il dolore che aveva provato, motivo per cui questa
volta si
impose di rimanere in silenzio:
«Non
mi chiamo Emily Jane Pitchiner, non
abbandono la mia gente quando la necessità di proteggerla
dovrebbe essere la
mia priorità: tu, Dentolina, non l’hai vista
mentre ordinava alle radici dell’Albero
di Olduvai di distruggere qualsiasi cosa gli capitasse a tiro pur di
non consegnare
il suo regno nelle spire di Apophis, non c’eri a sentire le
urla strazianti degli
abitanti di Tandokka implorare l’aiuto della loro sovrana
mentre i viticci
color smeraldo soffocavano donne e uomini, anziani e bambini, non hai
nemmeno assistito
alla strenua lotta delle sorelle Temporibus contro le fiamme che hanno
liquefatto i loro corpi perché credevano nella persona
sbagliata… non c’eri,
nessuno di voi c’era» disse
con aria di rimprovero puntando l’indice al petto della
fatina dei denti che
tremava visibilmente «Per questo, e per mille altri motivi,
non intendo
allearmi con nessuno, tantomeno i Guardiani, non senza
delle… garanzie.»
buttò lì con uno sguardo
vagamente malizioso.
Garanzie?
Cosa
intendeva esattamente per… garanzie?
Forse
Jack Frost non capiva bene cosa
volesse dire Harmonia, ma gli altri avevano dato segno di aver inteso
tutto perfettamente:
«Garanzie?
Delle garanzie? Parli come se
si trattasse di un contratto, di una situazione in cui “Io ti
do questo e tu mi
dai quello”, non puoi pretendere di dare un prezzo e dei
termini ad una cosa di
tale portata! Sarebbe una cos-»
«Molto
conveniente da entrambe le parti, direi» aggiunse
la Regina sorridendo
«Questa volta intendo premunirmi prima di accettare una
spinosa situazione come
un’alleanza, soprattutto perché non intendo
permettere che qualcuno al quale io
offra la mia mano si prenda il braccio,
la zampa e magari pretenda pure il culo: per questo la metto
sul
commerciale, non è nulla di personale ma non intendo essere
con le spalle
scoperte, tutto qui.» spiegò molto calma quasi
fossero sul punto di firmare un
contratto vero e proprio.
E
allora a Jack erano cascate le braccia.
Harmonia,
la stessa che poco prima gli
aveva fatto discorsi di vita talmente profondi che era arrivato ad
ammirarla
come non ammirava nessuno da tutta una vita, ora pretendeva pure delle
garanzie, dei sorta di pagamenti di qualche tipo per offrire il proprio
aiuto
ai Guardiani o a chiunque ne avesse più bisogno, lo stava facendo veramente?
Non
ci aveva visto più, era andato su
tutte le furie:
«Parli
come se la vita degli altri
valesse meno del tuo aiuto! Oh mi scusi, grande e ammirata Regina, ma
pensavo
che avessi più a cuore la salute degli altri, non solo la
tua!» le urlò contro
dimenandosi furioso «E voi magari le date pure ragione! Ma
cosa siete, dei
Guardiani o degli affaristi? Non vi ho chiesto un contratto prima di
aiutarvi
con Pitch Black, e invece arriva lei e ci state pure pensando
sopra!» tuonò
sicuro di sé; inaspettatamente, la sua reazione del tutto
esagerata aveva mosso
dei dubbi anche nelle menti degli altri Guardiani:
«In
effetti Jack avere ragione… ah! Non
pensavo di dire cosa simile! Ma ragazzo è sveglio, vita non
avere prezzo!»
«Non
ha tutti i torti in effetti, mi
pentirò subito dopo di averlo detto ma ahimè,
Jack Frost ha detto la prima cosa
giusta da quando lo conosciamo, potrebbe anche mettersi a piovere a
Pasqua se
continua a sorprenderci in questo modo!» rise scuotendo la
testa Calmoniglio.
Quell’atmosfera
da Guardiani ribelli non
piaceva ad Harmonia, soprattutto perché non avevano la
minima idea di ciò che
stavano dicendo, ma d’altronde non poteva mettere loro un
coltello alla gola ed
obbligarli ad accettare che le venissero date delle sicurezze in cambio
del suo
aiuto:
«Molto
bene, vedo che siete tutti d’accordo
e non vedo il motivo per cui continuare ad insistere»
asserì alzando una mano
davanti a sé ed aprendo un portale identico a quello che li
aveva fatti
arrivare a Phantasia «Quella è la porta, andatevene.»
«A-andarcene?»
ripetè Dentolina con gli
occhi sgranati «Cosa f-facciamo se Halley ci attacca? E se
arrivasse Tanith?
Cosa s-succederebbe se Phobos riuscis-»
«Non
sono più affari che mi riguardano:
volete fare a modo vostro? Fate pure, ma non venite a piangere da me.
Ed ora
andatevene, non lo ripeterò ancora.»
«Sei
crudele!» intervenne Frost
agitando il bastone nemmeno fosse in preda agli spasmi della rabbia
«Sei come
Phobos! Esattamente come lui! Sei un most-»
«Andatevene!»
furono le parole della Regina prima che, con un movimento talmente
veloce
quanto invisibile, Antares avvolgesse i Guardiani in una spessa
ragnatela e li rispedisse
nel portale che si era chiuso subito dopo.
Senza
i Guardiani del
Moralismo intorno
a romperle l’anima, Harmonia poté finalmente
rilassarsi:
«Non
hanno idea di cosa vogliono
affrontare, sono così stolti! Idioti! Delle emerite teste di
cazzo!» si lamentò
con la donna mezza ragno che la osservava compiaciuta
«Credono che io sia qui a
giocare, a far nascere fiorellini su campi interminabili, ce ne
rendiamo conto?»
le domandò, e l’altra la guardò con
aria compiaciuta «Sono Guardiani, questo
spiega tutto» osservò ridacchiando «Per
loro la guerra non esiste, sulla Terra
al massimo devono occuparsi di Pitch Black lanciandogli briciole di
pane alla
cenere, non di avere una voragine scavata con la magia che è
stata appena
violata, ma dobbiamo capirli.»
Capirli,
quante volte aveva dovuto
capirli, quante volte lei capiva tutti e nessuno capiva lei!
Harmonia
si limitò a sospirare
stancamente volgendo lo sguardo verso un punto non meglio definito
dell’orizzonte,
gesto che venne imitato dall’altra donna, lasciando che il
vento trasportasse
le sue profetiche parole mentre lei ed Antares tornavano dentro il
castello:
«Non
hanno ancora idea di cosa li attenda là fuori».
Ed
aveva ragione.
Come
sempre.
_________________________________________________________________________
Angolino
dell’autrice
Eccomi
qui con un capitolo fresco di
avvenimenti molto GNE e ragnatele che spaventerebbero chiunque,
chiunque tranne
Jack Frost! :D
Ammetto
che non credevo venisse fuori un
capitolo così lungo, ma nel complesso lo adoro tantissimo e
spero che comunque non
lo troviate troppo pesante!
Non
c’è molto da dire tranne due cose:
la prima è che si stanno scoprendo carte fino a dora rimaste
coperte nell’ombra,
in una sorta di partita che si gioca sia fra i Guardiani sia fra Manny
e donne
alate che lo sconfiggono male a scacchi, la seconda è che
MYSONANTIS TANITH MA
COSA.
Tanith.
Eh
già.
Capitemi,
ADORO MALE QUELL’EPEHEMERIDE,
ma tantissimo! <3
Ed
adoro ancora di più _Dracarys_
che mi ha dato il permesso di usarla per apparizioni a random
portatrici di
notizie nella mia fan fiction, alla quale vanne i miei ringraziamenti
più GNE,
sperando di essere riuscita a restare nel suo carattere abituale da
Ephemeride
tanto gentile: Tanith non sarà la
nostra
coppia di ammmore platonico preferita, ma è GNE
comunque <3
Detto
questo, vi lascio on quello che
dovrebbe essere l’aspetto di Antares, il ragno preferito
(alla faccia!) di Jack
Frost :3
|
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Capitolo 6 *** BOOM! Friendzoned! ***
capitolo6
Le
si era avvicinato in modo impercettibile, attento a non fare rumore
mentre si
spostava sulle eteree nubi dell’Arco dell’Infinito:
«Quando
sono venuta al mondo tutto pensavo tranne che avrei visto nascere una
stella, e
invece eccomi qui, insieme a te…» disse una
flebile voce femminile «Io e te,
solo noi due, ad osservare il luogo dove nasce il futuro del cosmo,
dove le
leggi vengono sovrastate dall’impellente necessità
dell’Universo di avere nuovi
puntini luminosi ad illuminare le notti buie… è
così affascinante…»
«Mai
quanto te, Sheretan» puntualizzò
un’altra voce, questa volta maschile «Nessuno
spettacolo di questo Universo può essere paragonato al
vederti al mio fianco, la
luce di ogni singola stella non può competere con i tuoi
occhi, ormai lo sai.»
La
risatina che venne dopo fu seguita subito da quattro grandi ali nere
costellate
di occhi che si chiudevano intorno al corpo della donna come a
proteggerla, un
morbido abbraccio nel lei si era dolcemente lasciata cullare:
«Vorrei
che tutto questo durasse per sempre… lo vorrei
tanto…» sussurrò appena quasi
spaventata dalle sue stesse parole, e capendo le sue sensazioni
l’altro le
piantò gli occhi viola stellati dentro i suoi, di un
insolito color ambra «Può
durare per sempre, devi solo volerlo» la rassicurò
avvicinando la propria
fronte alla sua «Basta una tua sola parola e diverrai la mia
Regina, potremo
stare insieme fino alla fine del tempo e oltre»
continuò entusiasta per poi
guidare il suo sguardo con una mano che si muoveva indicando varie
regioni del
cosmo «Ti mostrerò la nascita di un Universo e la
sua morte, ti porterò a
cavalcare le scie delle comete prima che si spengano
nell’anonimato dello
spazio, vedrai luoghi dove il tempo e lo spazio non esistono, dove le
leggi che
governano le vite dei mortali non sono altro che il delirio di un
folle, e lei»
disse facendo per accarezzarle delicatamente il ventre «La
crescerò come se
fosse mia, se lo vorrai: sarà mia figlia, sarà
nostr-»
«Non
toccarla!» tuonò dandogli uno schiaffo sulla mano
che venne subito ritirata.
Si
staccò subito da quell’abbraccio facendosi strada
fra una piuma e l’altra,
divincolandosi per trovare una via d’uscita da quella gabbia
di amore che
sapeva di non poter ricambiare, per scappare da una relazione della
quale
sapeva già la fine:
«Stai
lontano da lei! Non avvicinarti! Io non…» disse
distrattamente nascondendo le
lacrime e gli occhi gonfi di dolore e rabbia e sensi di colpa per
ciò alla
quale stava condannando se stessa e sua figlia, la sua unica figlia
«Non
posso.» concluse dissolvendosi nell’etere dello
spazio.
Un
stilettata di dolore dritta nel
cervello la fece bloccare nel bel mezzo del volo, c’era
mancato davvero poco
che si schiantasse contro una parete di roccia che, occupata a tenersi
la testa
per quanto le pulsasse, quasi non aveva nemmeno notato.
Sentiva
voci.
Vedeva
cose.
Provava
emozioni che non erano sue.
Cosa
le stava succedendo?
Si
era quasi convinta che fosse finita,
dopo che le immagini che le riempivano il campo visivo erano passate
dall’essere molto nitide a frammenti di vita offuscati e
confusi, ma un nuovo
brivido gelido le percorse il corpo fino a quando non finì
per piegarsi su se
stessa.
E
allora le visioni erano ricominciate.
Purtroppo.
Questa
volta la donna dagli occhi color ambra stava correndo come mai in vita
sua, fra
le mani un fagotto avvolto con estrema cura in una coperta azzurrina
che doveva
proteggerla da tutto il male del mondo, da tutte le
difficoltà, dal futuro che
le spettava:
«Veggente!
Veggente! Ti prego! Aprimi! Ti scongiuro… aprimi!»
urlò a squarciagola
ansimando mentre sentiva la gola bruciarle per lo sforzo e le lacrime
rigarle
il volto «Ti prego! Apri le porte della Torre! Non
lasciarmi… non lasciarci…
qui fuori… ti prego! Te lo chiedo per favor-»
stava dicendo quando sentì le
gambe cederle sotto il peso della stanchezza e delle
responsabilità, ma
fortunatamente nel suo crollo verso terra riuscì a mettere
in salvo il fagotto
che si portava appresso stringendoselo al petto, fagotto dal quale
iniziò a
venire fuori un pianto a dirotto di disperazione più pura
«Per favore piccola,
non piangere… andrà tutto bene,
c’è la mamma qui con te… non ti
abbandonerò,
non lo farò mai.»
Quante
bugie in una sola frase: certo che l’avrebbe abbandonata, non
avrebbe mai
potuto tenerla con sé, non se voleva che sopravvivesse, che
non ripetesse gli
errori della madre.
Loro
stavano arrivando, ormai erano vicini: nella Torre non sarebbero
entrati, ma
erano lì per lei, per prendersi ciò che volevano.
E
lo avrebbero avuto, anche se questo avesse comportato
l’uccisione di una
neonata colpevole di essere la figlia della donna sbagliata.
L’unica
speranza che le era rimasta era lì, asserragliata nella
Torre di Babilonia ed
insensibile ad ogni richiesta d’aiuto che fosse una, ma
poteva capirlo: gli
aveva spezzato l’anima con le sue parole, aveva dubitato
dell’unica creatura
che l’avesse mai amata, l’aveva trattato come un
mostro quando si era offerto
di prendere con sé lei e la sua bambina crescendola come se
fosse stato lui il
padre, lui che di figli non ne avrebbe mai potuti avere per colpa delle
assurde
leggi del creato che volevano mantenere tanta potenza nel corpo di un
solo
essere martoriato dalla solitudine.
Lo
aveva supplicato fino a quando non le era mancata la voce e, quando
aveva
capito che era del tutto inutile, era riuscita a trascinarsi fino al
portone di
ingresso con il fagotto in mano con la consapevolezza che il Veggente
la stava
guardando:
«Mi
avevi detto… che l’avresti presa come
tua… nostra figlia…» disse con un filo
di
voce mentre sentiva il respiro farsi affannoso
«…
Proteggila... da se
stessa…»
posò lo sguardo sulla bambina che le stava vicino, sugli
occhi azzurri che le
ricordavano il cielo che la sovrastava, le stelle che avrebbero
assistito alla
sua fine, l’ultima cosa che i suoi riuscirono a vedere prima
di offuscarsi per
l’ultima volta «… Phoenix.»
pronunciò sorridendo quando vide le ali nere
abbassarsi ed afferrarla delicatamente.
Poi
si arrese.
Lasciò
che l’ombra la divorasse, che l’oscurità
prendesse possesso di ogni singola
fibra del suo corpo senza opporre resistenza, che si facesse strada
fino a
quando tutto ciò che vedeva era un mondo in rosso sangue e
nero.
Sarebbe
stata al sicuro, sua figlia.
Il
colpo successivo era stato quello
peggiore, lo stesso che l’aveva portata a rasentare lo stato
d’incoscienza per
quanto il ruggito di dolore era stato aggressivo e tremendamente
palpabile, e
lei era lì a subirlo senza poter fare qualcosa.
Abbassò
lo sguardo verso terra: non ci
sarebbe mai arrivata, a toccare il terreno, sarebbe morta
lì, sulle alture di
Osterhagen, nel più completo anonimato.
Se
lo sentiva.
E
invece no, perché aveva avuto tutto il
tempo per avere un’altra visione.
L’Universo
avrebbe pagato.
Tutti
avrebbero dovuto pagare.
Tutti,
tranne lei.
Guardò
il fagotto che aveva fra le mani con fare perplesso: poteva lasciarla
morire,
con Sheretan non si era fatto grossi problemi, poteva ucciderla e
nessuno lo
sarebbe venuto a sapere.
“È
morta insieme a sua madre quando l’ha messa al
mondo” avrebbe detto, non ci
sarebbero state domande, nemmeno da chi Sheretan la conosceva bene,
nessuno
avrebbe osato controbattere alle parole dell’essere
più potente che il
Multiverso avesse mai visto, talmente potente che nascondere il proprio
nome
dietro quello di “Veggente” era quasi una
necessità.
C’era
qualcosa in quella neonata che gli ricordava sua madre, la stessa cosa
che lo
spingeva a non volerla seppellire come era successo come aveva appena
fatto con
l’amore della sua eterna esistenza: gli occhi azzurro
intenso, forse, con
quella screziatura color ambra appena visibile, o magari il fatto che
sembrava
aggrapparsi alla vita con tutte le forze che quel gracile corpicino
appena
venuto al mondo le offriva.
Sheretan
non aveva avuto il tempo di controllare sua figlia e le sue condizioni,
d’altronde si era precipitata alla Torre di Babilonia in
fretta e furia senza
mai voltare lo sguardo, ma se lo avesse fatto avrebbe sicuramente
notato che a
sua figlia restava talmente poco tempo da vivere che ormai sarebbe
stato
inutile qualsiasi tentativo di affezionarsi a quel batuffolo indifeso:
troppo
debole per restare al mondo, per resistere al male di un creato
incredibilmente
crudele con gli oppressi e gli innocenti, il respiro appena accennato
di chi
non ha mai avuto la forza di reagire in qualsiasi modo
all’ombra che aveva già
iniziato a consumarla dall’interno, dove si annidava ed
attendeva solo di
uscire con prepotenza.
Esattamente
come aveva fatto con Sheretan.
Il
gioco non sarebbe valso la candela, lo sapeva bene.
Lo
sapeva, ma non gli importava.
Quando
le catene dorate avevano iniziato a farsi strada fra una piuma e
l’altra, fra
un centimetro di quel corpo che era solo una delle sue tante forme e
l’altro,
il dolore era stato accecante: non si evitava a qualcuno di morire per
niente,
non si cambiava il destino di una persona e di tutto
l’Universo gratuitamente,
un prezzo da pagare c’era sempre.
Ma
lo avrebbe pagato volentieri.
Quando
l’occhio luminescente aveva iniziato a sanguinare un viscoso
liquido nero come
le profondità del cosmo aveva abbandonato la lotta: si era
lasciato trascinare
senza fiatare dal dolore dilaniante com’era abituato a fare,
una sensazione pulsante
che però prima o poi avrebbe avuto fine, ed allora sarebbe
tornato a vivere
come sempre in un silenzio disarmante, lo stesso silenzio nel quale
aveva
vissuto fino a quando non aveva conosciuto Sheretan.
Quando
tutto finì com’era iniziato, a stento riusciva a
tenere aperti gli occhi, steso
a terra stremato e coperto di ferite sanguinanti che sarebbero svanite
da lì a
poco, il petto che si alzava e si abbassava in modo del tutto
scombinato,
nonostante la mancanza dei polmoni e di qualsiasi altro organo, a
rendere
ancora più evidente la tortura auto inflitta appena subita.
Sentì
appena il pianto di una neonata, ma non di una neonata qualunque: di
Phoenix,
della figlia di Sheratan, della sua adorata Sheretan.
Sarebbe
andato avanti per lei.
Per
lei e per sua figlia.
Glielo
doveva.
Visioni.
Visioni
ovunque.
Che
la tormentavano da poco più di una settimana.
Appoggiata
ad una roccia sporgente,
Halley si era dovuta assolutamente fermare durante il suo volo a zonzo
per
Orionis III perché quelle visioni, quelle
fottutissime e maledettissime visioni, avevano ricominciato a
tormentarla
dopo qualche ora di tregua: erano qualcosa di terribilmente insistente
e
doloroso, quelle immagini fin troppo nitide che le scorrevano davanti
agli
occhi mostrandole cose, una sorta di
tortura costante che non lasciava segni fisici, quello no, ma le
conseguenze
mentali erano spaventosamente evidenti se riuscivano a farla crollare
costringendola a fermarsi durante quei flash di spezzoni di vita.
Avrebbe
dovuto immaginare che il Veggente
non le avrebbe perdonato così facilmente l’avergli
preso l’acqua della Sorgente
del Cosmo, ma avrebbe decisamente preferito che fosse venuto lui di
persona
riprendersela se il prezzo da pagare era vedere il suo passato, il
passato di
un essere che viveva da miliardi e miliardi di anni girovagando da un
Universo
all’altro, da una dimensione all’altra, una
conoscenza millenaria che restava
confinata nella mente distorta del sovrano di tutto ciò che
era esistito,
esisteva e sarebbe ancora dovuto esistere.
Ed
ora quella conoscenza era dentro la testa di Comet E. Halley, e non
poteva fare
proprio nulla per togliersela di dosso.
Passati
i primi momenti di confusione e
scompiglio generale che quelle cose che
vedeva le provocavano, rimase qualche istante a riflettere su
ciò che aveva
visto: mai nella sua vita avrebbe pensato che persino un essere come
lui
potesse aver amato qualcuno ed essere ferito da un sentimento che, a
conti
fatti, senza un cuore ed un cervello proprio non avrebbe potuto
provare, ma a
quanto aveva visto era successo eccome.
Gettò
distrattamente lo sguardo verso
l’imponente castello che dominava l’orizzonte,
notando due figure che si
avviavano verso di esso: a quanto pareva Iddhy
Bubu, tenero nome affibbiato ad Idhunn Orionis Chandrasekhar
da Halley
stessa in seguito a vicende piuttosto divertenti accadute in passato,
aveva
compagnia quel giorno, ma non si trattava delle solite compagnie
composte
principalmente dai suoi famigliari o amanti che fossero.
Ruolo
che poi coincideva anche, non per
niente erano conosciuti nell’intera Galassia come i “cavalcadraghi incestuosi”.
Tipico
di Idhunn, passeggiare mostrando
al mondo le immense ali di un azzurro ed un rosa iridescente mentre i
capelli
biondo platino si muovevano al vento donandole l’aspetto, a
chi non la conoscesse,
di un angelo sceso direttamente dalla volta celeste,
un angelo le cui manie di protagonismo ed il suo egocentrismo facevano
a gara solo con la sua crudeltà.
Come
era tipico della Chandrasekhar che
era, si portava appresso il suo amato drago che quale lasciava grosse
tracce di
polvere di stelle sul terreno come se non ci fosse un domani: non
c’erano dubbi
sul fatto che avrebbe volentieri fatto una visitina di cortesia alla
sovrana di
Orionis III, ma aveva deciso di desistere quando aveva notato che le
figure che
l’accompagnava non erano, come solito, il fratello o il padre.
Al
loro posto c’erano due donne che non
ricordava di aver visto prima, o almeno quella era stata
l’impressione che
aveva avuto vedendole da lontano, ed il fatto che una di loro
camminasse a braccetto con Idhunn
non la
rassicurava affatto: non tanto per il fatto in sé, non era
una novità che Idhunn
stessa facesse la Chandrasekhar modello intrattenendosi con donne, uomini e creature varie senza
farsi domande, più che altro era la sensazione che se si
fosse avvicinata le
visoni sarebbero state l’ultimo dei suoi problemi.
Soprattutto
perché il primo dei suoi problemi le era appena spuntato
dietro le spalle.
Non
era proprio cambiato da come lo
ricordava lei, almeno in quella forma: sfiorando i due metri e dieci di
altezza, quel corpo gracile sembrava non poter nemmeno minimamente
reggere il
peso delle sei braccia che si ritrovava, ornate da una serie non meglio
definita di bracciali dorati intonati alla pesante collana che scendeva
fino
alle spalle ed ai sottili filamenti dello stesso colore dai quali
drappeggiava
il velo bianco-giallastro lasciato dietro di sé come un
morbido strascico che copriva a stento
ciò che avrebbe dovuto coprire,
il ventre squarciato da quell’enorme bocca irta di denti e
lingue nere che
fuoriuscivano gocciolando un liquido viscoso dello stesso colore, nero
come le
sei immense ali costellate di occhi gialli e azzurri, gli stessi che
spuntavano
qua e là sulla pelle rosea di una tonalità
vagamente scura segnata da strani disegni e scritte di una lingua che
probabilmente apparteneva ad un altro Universo.
Ma
del Veggente, Halley lo sapeva, c’era
solo una cosa che contava: l’occhio.
L’occhio
sulla fronte.
Il
grosso occhio azzurro luminescente i
cui filamenti sia avvinghiavano nell’etere e sui capelli di
un biondo tendente
al bianco come se fossero tentacoli, incorniciando alla perfezione gli
altri
occhi, quelli di una qualsiasi persona, dalla sclera nera e
l’iride violetta
che si fondeva con la pupilla dello stesso colore, giusto un
po’ più scura.
Si
girò di scatto a braccio teso mentre il
fuoco color magenta le avvolgeva la mano pronto a scagliarsi su tutto
ciò che
avrebbero potuto consumare instancabilmente, fece leva su tutta la
forza che le
era rimasta in corpo dopo quelle dannatissime visioni e niente, aveva
colpito completamente
alla cieca, con gli occhi ancora offuscati dagli istanti di vita altrui
appena
ai quali aveva appena assistito.
O
almeno ci aveva provato, ed era già qualcosa.
Sentì
una fitta alla schiena che fece
svanire l’altofuoco sul punto di nascere nell’altra
mano, una sensazione di
calore che metteva in soggezione persino lei, che nel fuoco delle stelle ci camminava con tutta la
nonchalance
dell’Universo, sensazione che era andata intensificandosi
fino a quando non
aveva raggiunto un punto critico dal quale non sarebbe potuta tornare:
«Non
avresti dovuto fare molte cose,
Comet E. Halley, davvero molte» la rimproverò con
aria severa «Venire al mondo, per
esempio… sei stata
così inaspettata, così… imprevista…
ed io
non sopporto gli imprevisti» si lamentò
fingendosi afflitto «Dovresti
averlo imparato, ormai: le comete bruciano, si consumano e, prima o
poi…» continuò
facendo apparire una flebile fiammella su un mucchio di foglie che
teneva fra
le dita «Si spengono, smettono di bruciare… per
sempre.» concluse mentre le fiamme si estinguevano,
lasciando come loro
ricordo solo una manciata di cenere grigiastra.
In
quel momento, Comet E. Halley sperava solo di non fare la stessa fine.
Nonostante
fosse passata poco più di una
settimana, l’affronto subito continuava a bruciare nel petto
di Jack Frost come
un incendio che non voleva essere domato: come poteva Harmonia,
dall’alto della
sua fama di sovrana giusta e pronta a capire ed aiutare coloro che ne
avevano
più bisogno, dare un valore alla protezione di
chissà quante vite tramite
un’alleanza con i Guardiani?
Dove
aveva trovato il coraggio di
chiedere quelle fantomatiche “garanzie” in cambio
del proprio supporto, dove?
La
priorità di ogni sovrano, almeno
secondo lui, avrebbe dovuto essere quella di proteggere la propria
gente e
chiunque avesse chiesto il suo aiuto per fronteggiare minacce molto
più grandi
di un povero disgraziato che si rintana
sotto i letti dei bambini a sniffare cenere, ma a quanto
sembrava la
visione di Harmonia era totalmente diversa: lei metteva sì
in primo piano la
protezione di qualcuno, ma quel qualcuno era lei, nessun altro.
Forse
anche Alice e Scarlet e Antares,
ma solo perché loro le leccavano il
grosso culo da cavallo in modo talmente spudorato da far
crogiolare la
Regina nella certezza che potesse avere ai propri piedi, o meglio
zoccoli, chiunque
le si presentasse davanti: non importava che si trattasse di un
Guardiano o di
un ragno mezzo umano, non importava nemmeno se quel
“chiunque” fosse
estremamente gentile oppure se piombasse nelle abitazioni altrui
sfondando le
pareti, Harmonia sapeva di poter
ottenere tutto ciò che voleva da chiunque.
E
invece
no, no!
Lui,
Jack Frost, non si sarebbe mai inchinato
dinanzi a lei, non avrebbe
mai abbassato il capo mettendo da
parte il proprio orgoglio non da Guardiano, ma da persona con una
propria coscienza
e con una chiara consapevolezza delle proprie azioni, buone o meno che
fossero,
e delle conseguenze di esse.
Compreso
cosa sarebbe accaduto
accettando quelle “garanzie”, che lui preferiva
definire “ricatto vero e
proprio”: Harmonia li avrebbe potuti manipolare a
suo piacimento con la scusa che sarebbero stati alleati, magari
minacciando di
togliere loro il suo stesso appoggio, e allora non sarebbero
più stati i
Guardiani di Manny, ma più i Guardiani di un accordo che
sembrava essere
favorevole solo da un lato.
Harmonia
li avrebbe aiutati, e dopo?
E
dopo niente, perché a lei serviva solo
e solamente quello, poi avrebbe benissimo potuto mandarli a quel paese
tutti
senza troppe riserve: aveva un pianeta, il titolo di Regina della
Fantasia ed
anche di Phantasia, era unica custode del pianeta Exodus, aveva a corte
dei fottuti ragni che deponevano uova negli
stomaci altrui e, da quello che aveva capito, diversi
generali pronti ad
obbedirle ciecamente.
Non
le serviva l’aiuto dei Guardiani, ed
a loro non serviva il suo: con Pitch
Black erano riusciti a cavarsela da soli, e con Phobos o qualche suo
eventuale
alleato avrebbero fatto lo stesso, dimostrando una volta per tutte alla
Regina
che erano stati scelti da Manny, il Guardiano dei Guardiani, per un
puro e
semplice scopo, e cioè proteggere i bambini.
Non
lei, non Phantasia, solo i bambini.
Punto.
Assorto
nei propri pensieri di complotti
e congiure contro la sua persona e seduto sul bordo di un piccolo
stagno, Jack
non aveva fatto caso a Dentolina che era svolazzata al suo fianco in
quella
landa di neve bianca immacolata e si era seduta al suo fianco
nonostante le piume
arruffate:
«Non
è cattiva, davvero, è solo...
ferita, tutto qui» sussurrò appena probabilmente
intuendo il motivo per cui il
compagno se ne fosse andato nel bel mezzo della discussione con gli
altri
Guardiani svanendo nella tormenta che imperversava fuori dalla base di
Nord;
strinse le braccia intorno alle gambe in una posizione accovacciata che
le
faceva sentire meno il gelo:
«Phobos
le ha spezzato il cuore tanti,
tanti secoli fa... non si è mai ripresa del tutto, fa fatica
a fidarsi di
chiunque da quando lo ha perso… soprattutto
di noi.» spiegò malinconica nel silenzio
più totale mentre il vento le
scivolava addosso facendole arrivare il freddo fino alle ossa.
Ci
mancava solo un’altra che cercava di convincerlo che Harmonia
fosse la vittima,
giusto quello!
Era
dal primo istante in cui Harmonia li
aveva rispediti a casa con la forza che i Guardiani cercavano di farlo
ragionare su quanto fosse stato brusco ed inappropriato il suo
comportamento
nei confronti della Regina, soprattutto dopo che lei stessa gli aveva
cortesemente offerto di abbandonare la nave e tornare a fare
ciò che faceva di
solito senza doversi preoccupare delle eventuali
responsabilità di un
conflitto, ma erano tutti sforzi talmente inutili che combattere contro
i
mulini a vento sarebbe stato più semplice.
Qualunque
fosse la sua posizione, però,
Frost aveva anche subito messo in chiaro una cosa: lui non avrebbe mai appoggiato il ricatto
di Harmonia, da quell’idea non si sarebbe mai
mosso, ma gli altri erano
liberissimi di fare la scelta che secondo loro sarebbe stata migliore;
allora
si sarebbe tirato da parte lavandosene le mani e tornando a giocare con
le palle
di neve insieme a Jamie e i suoi amici, ma che poi non venissero a
chiedere il suo aiuto di nuovo eh!
Per
quanto fosse occupato a lagnarsi
nella sua testa del fatto che i Guardiani sembravano tutti intenzionati
a
ripensarci ed accettare la proposta di Harmonia, in quel momento Jack
cercò di
non farci caso e si concentrò più che altro sul
dare un minimo di calore alla
povera Dentolina tremante mettendole sulle spalle piumate la propria
sciarpa
logora; la fatina dei Denti arrossì a quel gesto, ma si
strinse anche al petto
quel semplice quanto consumato pezzo di stoffa che, almeno per lei,
aveva un
significato tutto particolare:
«Grazie
mille» sussurrò appena mentre le
sue ali fremevano, non si sapeva se più per il freddo o per
l’improvviso
ritorno all’umanità di Jack Frost, il quale
però sembrava ancora distaccato dal
resto del mondo «Se hai bisogno di parlare sono qui per
farlo, non mi hanno
mandato gli altri, non pensarlo nemmeno.» lo
rassicurò intuendo i dubbi che gli
annebbiavano la mente facendo per poggiargli una mano sulla spalla,
gesto che
venne subito evitato dal giovane Guardiano con uno scatto felino
nemmeno gli
stessero puntando un coltello alla gola.
Vedendo
gli occhi spaventati ed
incredibilmente delusi di Dentolina, si pentì subito dopo di
aver rifiutato
l’ennesima offerta di aiuto che gli avrebbe fatto molto
comodo, ma negli ultimi
giorni di isolamento lui ed i sensi di colpa per
le azioni fin troppo stupide che continuava a fare senza pensarci
nemmeno un secondo sopra avevano fatto conoscenza, quasi ci
si era pure
affezionato a quelle spiacevoli sensazioni di inutilità
sociale: d’altronde
Calmoniglio glielo aveva sbattuto in faccia, che nessuno credeva che
lui
potesse veramente essere un
Guardiano, ed a nulla erano valsi i tentativi di Nord di farli
riappacificare
nei giorni seguenti il litigio.
E
forse era proprio per quelle
insicurezze che la fiducia che gli stava dimostrando Dentolina gli
aveva
improvvisamente scaldato il cuore come la cioccolata calda che avrebbe
tanto
voluto offrirle pur di smetterla di vederla tremare con un passerotto
appollaiato su un ramo, ma dentro di sé era frenato
dall’esprimere qualcosa che
non fosse semplice e sterile riconoscenza:
«Ti
ringrazio per l’offerta, ma vorrei
solo stare un po’ da solo: ho bisogno di riflettere, tutto
qui, e vorrei farlo
in solitudine… nulla di personale, Dentolina, apprezzo
l’interessamento… davvero.»
asserì sforzandosi di
abbozzare un sorriso guardando un punto indefinito nello stagno
ghiacciato
coperto da un sottile strato di soffice e candida neve che cadeva
silenziosa.
Lei
non rispose, limitandosi a fissarlo
mentre si chiedeva dove stesse sbagliando nell’approcciarsi
con Jack: non era
sua intenzione farlo chiudere a riccio più di quanto
già non fosse da una
settimana a quella parte, ma nonostante tutto non aveva affatto
intenzione di
arrendersi facilmente, tanto che finì per stringersi al
giovane Guardiano condividendo
la sciarpa che lui le aveva dato come gesto per dirgli “Non
sei da solo, non lo sei mai stato: nessuno ha intenzione di
abbandonarti,
ma nei momenti di rabbia si dicono e si fanno cose delle quali ci si
pente
subito dopo”, o almeno sperava che quel messaggio
arrivasse anche a lui
usando quell’insignificante brandello di lana sgualcita come
collegamento fra
le loro menti, fra i loro cuori.
Non
avrebbe avuto un’altra possibilità,
doveva approfittare adesso di
quella
vicinanza.
Del
respiro calmo di Jack che aveva
lasciato che la sua testa si cullasse nell’incavo della sua
spalla, dell’averlo
così vicino col corpo eppure così lontano con la
mente, del poter finalmente
avere un momento per sé e per l’altro: senza
Guardiani intorno, senza le
incombenze del suo lavoro, del loro
lavoro, niente di niente se non la neve che aveva iniziato a cadere
quando
Frost, estremamente deluso dalle reazioni dei compagni, aveva scatenato
la
furia dell’Inverno.
Ma
non aveva paura della tormenta che stava
assalendo tutto ciò di visibile nel terreno circostante,
ricoprendo con un
manto bianco tutti i mali e le preoccupazioni del mondo, non avrebbe mai potuto averne: quello era Jack
Frost, il Guardiano del Divertimento, uno dei suoi migliori amici e,
almeno per
lei, qualcosa di più.
Qualcosa
di più che si era presto
trasformato nelle piccole mani della fatina dei Denti che afferravano
con
delicatezza il volto dell’altro Guardiano per portare i loro
sguardi alla
stessa altezza, per scrutare dentro quegli occhi azzurro ghiaccio alla
ricerca
di un segno di approvazione che le dicesse “Sì,
anche io lo desideravo da tanto tempo”, ma anche
quando non lo vide non si
fermò di certo, anzi gli si avvicinò
ulteriormente fino a quando non mancarono
pochi centimetri fra le labbra di una e dell’altro.
Lui,
con lo sguardo perso e
disinteressato che non riusciva proprio a togliersi di dosso, non aveva
opposto
nessun tipo di resistenza, questa volta non si era tirato indietro,
l’aveva
lasciata fare abbandonandosi ai rumori dell’ambiente
circostante resi ovattati dalla
neve che pareva insonorizzare qualsiasi melodia creata dalla natura: un
orecchio poco attento non avrebbe distinto alcun suono in quel caos
innevato,
ma Jack Frost riusciva ormai a distinguere di tutto, dal frusciare
delle foglie
alla carezza del vento, dagli squittii dei piccoli abitanti del bosco
lì vicino
fino al tuonante scalpitare di zoccoli e
nitriti selvaggi che sembravano provenire direttamente
dall’Inferno.
Ecco.
Staccatosi
da Dentolina con uno scatto
che l’aveva lasciata con un pugno di mosche in mano, aveva
appena avuto il
tempo per scrutare l’orizzonte prima di sentire lo stomaco
stringersi ed il
cuore salirgli in gola, la stessa dalla quale era arrivata una sola
parola:
«Incubi».
Poi
tutto era stato offuscato da una coltre bianca.
Si
guardò intorno confuso: non
c’era una via di scampo che fosse una.
Nemmeno
una.
La
scena che si trovava davanti non dava
speranze di fuga, e intanto uccideva quelle che già avevano
lui e la povera
Dentolina fino a qualche istante prima: almeno una trentina o
più di Incubi di
polvere nera li osservavano minacciosi muovendosi sul posto impazienti,
gli
occhi come fiamme dorate che rischiaravano il manto dello stesso colore
della
più oscura delle notti puntati addosso, gli affilati denti
visibili fra le
fauci parzialmente aperte dai quali si intravedeva la saliva mostrando
quanto fossero
affamati della loro paura, una
visione resa ancora più spaventosa dai grotteschi nitriti di
quelle bestie che
sovrastavano gli ululati del vento di tempesta, soprattutto il ruggito
del
grosso capobranco che sembrava avvicinarsi a loro.
Ancora
parzialmente nascosto dalla
nebbia, tutto ciò che Jack Frost riusciva a distinguere
mentre proteggeva
Dentolina dietro le proprie spalle era la sagoma di un Incubo che
avanzava
lentamente ma inesorabilmente verso di loro vicino, una creatura
mostruosa il
cui tocco degli zoccoli sulla neve scavava profondi solchi nel terreno
scoprendo la nuda terra sottostante e i cui nitriti creavano una
sottile
nebbiolina quando venivano a contatto con l’aria gelida.
Jack
analizzò velocemente le opzioni
disponibili, rendendosi conto che non c’era proprio nulla da
fare: la neve che
ricopriva tutto l’ambiente, mista al polverone sollevato
dagli Incubi, rendeva
quasi del tutto irriconoscibile qualsiasi cosa li circondasse ed
assolutamente
impossibile orientarsi, motivo per cui capì di essere
praticamente in trappola,
brutalmente tradito dal suo stesso
elemento.
La
sua analisi delle possibilità di fuga
terminò presto, giusto quando lo stallone gli fu ad appena
qualche metro di
distanza rivelando una presenza non proprio gradita, ma che aveva
sospettato
fosse dietro tutto fin dal primo istante in cui aveva visto gli Incubi
intorno
a lui e Dentolina: con una vaga aria di superiorità, Pitch
Black se ne stava
sul dorso del capobranco tenendone le redini in una mano e la falce
nera
nell’altra con lo stesso atteggiamento di un generale pronto
a scendere in
battaglia, il solito abbigliamento completamente nero sostituito da
un’insolita
tunica sì nera, ma con i bordi delle maniche larghi e
intarsiati di curiosi
motivi dorati, come erano dorati anche il collo alto della tunica e la
cintura
metallica intorno alla vita.
Ecco,
ora Pitch Black poteva seriamente
fare paura, soprattutto perché sembrava incredibilmente
sicuro di sé stesso, e
la scintilla dorata che Jack aveva intravisto nei suoi occhi dietro
quel
sorriso malizioso di vittoria ne era stata la conferma: sapeva che li
stava
spaventando, che i suoi Incubi si stavano nutrendo del loro
più puro terrore,
lo sapeva benissimo e se ne stava approfittando, giusto
perché veder tremare
due Guardiani era uno spettacolo senza
prezzo.
Guardandolo
meglio, Jack non poté fare a
meno di riflettere sul fatto che Pitch si fosse rimesso in piedi
decisamente
meglio del previsto dall’umiliante sconfitta subita non molto
tempo prima, e
non era un buon segno: quell’uomo, l’uomo che aveva
davanti, era lo stesso che
aveva visto mentre veniva trascinato nel suo buco di tana dagli Incubi,
gli
stessi Incubi che ora li avevano circondati dietro il preciso ordine
del loro
padrone, di Pitch Black.
Da
parte sua Pitch non aveva proferito
parola, si era semplicemente limitato ad osservarli divertito mentre la
sua
ombra riempiva ogni singolo angolo di quello spiazzo incontaminato
facendo
sparire la poca luce che la tempesta lasciava intravedere, mentre la
sua
oscurità divorava quel briciolo di speranza rimasto nei
cuori dei Guardiani che
si stringevano l’uno all’altra: Dentolina era
quella più spaventata dei due,
poteva avvertirlo chiaramente, mentre Frost… ah!
Frost
l’avrebbe protetta fino allo
stremo, ovviamente consapevole che in una battaglia contro il sovrano
del
terrore il suo bastoncino di legno
sarebbe stato utile solo per cuocere i marshmallow, altro che
proteggerlo!
Dopo
qualche istante di indecisione
passato a girare intorno a loro con l’Incubo che mostrava i
denti, Pitch si era
nuovamente fermato davanti a loro
tutto impettito, aveva lasciato le redini e preso la falce a due mani
mentre
dei sottili filamenti nerastri provenienti da quest’ultima
andavano ricoprendo
le sue mani.
Poi
era stato brutalmente disarcionato
dal suo stesso incubo, sbattendo rovinosamente l’enorme naso a terra e restando con
il culo al vento.
Eh.
Senza
avere il tempo per ridere come un
cretino, Jack vide avanzare verso di loro una figura femminile che si
era
rivelata essere una ragazza di media statura infagottata in una felpa
verdognola e dei pantaloni da ginnastica che un tempo dovevano essere
stati
dello stesso colore: fatta eccezione per due ciocche incredibilmente
lunghe e
sottili che le ricadevano sugli occhi, i capelli corvini tagliati fino
alla
nuca alla bene e meglio con ciuffi disordinati le donavano un aspetto
trasandato, reso ancora più evidente dalle guance scavate e
le profonde
occhiaie violacee che segnavano due incredibili pepite d’oro
che brillavano ai
tenui bagliori di luce esterni.
Si
avvicinò a Pitch a grandi falcate,
fermandosi davanti a lui con le braccia incrociate al petto:
«È
una scena penosa, potevi anche risparmiartela»
asserì con
fare di rimprovero «Io lo dicevo che Onyx non si sarebbe
lasciato cavalcare,
dopo la figuraccia con i Guardiani, ma tu “No,
abbi fiducia, sono il Signore degli incubi! Uuuuuh! Temetemi!”:
è penoso,
ma tanto.» sospirò rassegnata; lui si
alzò a fatica barcollando, poi le puntò
l’indice al petto:
«Ah!
Parla quella che “GNEGNEGNE sono
Madre Natura e sono potente
però non fatemi male vi prego GNEGNEGNE”,
senti da che pulpito viene la predica!»
rispose di rimando accompagnando ai gesti un continuo gesticolare come
se fosse
una scimmia delirante
«Si
fa quello che dico io, signorina, e non ti azzardare
a controbattere o ti rimando a raccogliere erbette nel
bosco!» minacciò
prendendosi di rimando un facepalm annoiato.
Madre…
Natura?
Quella
era seriamente… Madre Natura?
Non
ci assomigliava affatto, a quella
che aveva visto nei libri al covo di Nord, non poteva assolutamente
essere lei: in quei libri costellati di immagini
aveva visto una ragazza dai capelli che ricadevano fino a terra in una
cascata nera,
con un abito verde smeraldo ricamato da finissimi motivi floreali che
lasciava
scoperto l’ombelico, non di quella che sembrava essere
un’adolescente vestita
come se vivesse sulla strada.
La
sua mente, quasi in modo inconsapevole,
gli suggerì di fare un breve inchino dinanzi a quella che
era considerata una
delle creature più potenti che quel pezzo di mondo avesse
mai conosciuto, ma una
valanga di pensieri gli rimbombarono nella testa con una violenza tale
da farlo
subito desistere, riportando a galla le parole della Regina della
Fantasia: “… Non
l’hai vista mentre ordinava alle
radici dell’Albero di Olduvai di distruggere qualsiasi cosa
gli capitasse a
tiro pur di non consegnare il suo regno nelle spire di Apophis, non
c’eri a
sentire le urla strazianti degli abitanti di Tandokka implorare
l’aiuto della
loro sovrana mentre i viticci color smeraldo soffocavano donne e
uomini,
anziani e bambini, non hai nemmeno assistito alla strenua lotta delle
sorelle
Temporibus contro le fiamme che hanno liquefatto i loro corpi
perché credevano
nella persona sbagliata…”.
Tutte
quelle immagini gli affollarono
gli occhi in pochi secondi: se si concentrava, riusciva a vedere un
albero le
cui radici emergevano prepotenti dalla terra, la gente che scappava
terrorizzata mentre le piante uscivano dal terreno e prendevano
possesso dei
loro corpi, bambini ed anziani che rimanevano indietro e venivano
divorati dal
fango, delle ragazzine che combattevano quel gigantesco mostro che era
Apophis…
se poteva essere considerato lui il vero
mostro e non la regina di Tandokka stessa.
Quella era Madre
Natura, o Emily Jane che dir si voglia, non
la sovrana severa ma incredibilmente giusta descritta dai libri.
Ed
era una persona spregevole,
vigliacca, codarda, irresponsabile, altezzosa e.. e… e
qualsiasi altro
aggettivo gli venisse in mente in quel momento di rabbia mista d una
profonda
quanto amara delusione, insulti compresi.
Il
gelo e l’ira che iniziavano a
montargli dentro stavano giusto avanzando liberamente sul bastone
ricoprendolo
di un sottile strato di ghiaccio quando vennero bruscamente interrotti
da
l’ennesimo battibecco fra Pitch Black ed Emily Jane:
«Ora
sono curiosa di vedere cosa fai, voglio
assistere all’ennesima umiliazione alla quale stai per andare
a sottoporti, davvero» lo
stuzzicò lei piantandogli
addosso uno sguardo freddo mettendosi una mano sul fianco e
gesticolando con
l’altra, gesto che venne interpretato in modo alquanto
oltraggioso dal signore
della paura in persona:
«Oh
lo vedrai, ti assicuro che lo
vedrai!» rispose lui distaccato e tutto impettito; come
ennesima dimostrazione
della propria potenza, o almeno presunta tale, Pitch si
avvicinò a Jack e
Dentolina molto lentamente, quasi volesse assaporare ogni istante della
disfatta di ben due Guardiani:
«Mi
dispiace così tanto di avere
interrotto in modo così brutale la vostra scenetta di
ammmore, quasi quasi mi
sento addirittura in colpa!» finse di scusarsi ridendo
«Ah no, aspetta, non mi
dispiace affatto, anzi! Come si dice qui sulla Terra,
“prendere due piccioni
con una fava”, giusto?» domandò senza
ottenere risposta e ponendosi ad appena
un metro da loro.
Per
quanto Jack fosse spaventato e non
sapesse quale ruolo avesse Madre Natura in quel frangente, decise di
reagire:
il tempo di issarsi sul bastone e riuscì a sferrare un
calcio nei reni che lo
fece sbilanciare a sufficienza perché la falce svanisse in
un battito di ciglia
nel soffio nel vento e Pitch, forte dei suoi Incubi, riuscì
a scagliargliene
conto un paio che presero a sferrare colpi di zoccoli con una potenza
tale da
costringere Frost ad indietreggiare perdendosi nella nebbia.
Quando
si guardò intorno in cerca della
figura di Black che rispondeva ai suoi attacchi, non riuscì
a vedere nulla se
non la neve: sentiva Dentolina che lo chiamava, come anche percepiva
diverse
presenze intorno a sé, ma il manto innevato che ricopriva
qualsiasi cosa e la
tormenta che lui aveva creato gli impedivano di avere una qualunque
certezza
che fosse tale anziché iniziare a sferrare colpi a vuoto.
La
neve, il suo elemento, l’aveva appena tradito spudoratamente.
Di
nuovo.
Aveva
appena abbassato furtivamente lo
sguardo verso il terreno quando si era anche reso conto che era troppo
tardi:
sentì qualcosa strappargli il bastone di mano, dei tentacoli
di pura oscurità
che gli si avvolgevano intorno a polsi e caviglie tenendolo inchiodato
in
ginocchio a terra, con il capo chino costretto da
un’ulteriore tentacolo
nerastro che stringeva in modo spaventosamente pericoloso il suo
fragile collo
da ragazzino:
«Guarda,
Jack, guarda! Ti ho sconfitto!
Ho sconfitto un Guardian-»
«Tentacoli?
Sul serio?» intervenne Madre Natura avvicinandosi e
lasciando scivolare la
mano su quelle strane appendici, studiando la sabbia nera che gli era
rimasta
sulle esili dita
«La
banalità. Non ci voglio nemmeno credere
guarda…» esclamò quasi disgustata
da quella pietosa vista per poi indicare Jack Frost «E poi
avanti, guardalo: sembra che siate in
procinto di fare ben
altre cose, dal momento che ha la faccia
all’altezza del tuo bacino… cosa
mi tocca vedere, cosa mi tocca vedere!» concluse alzando gli
occhi al cielo ed
aprendo le braccia facendole ricadere mollemente lungo i fianchi.
Nessuno
proferì parola, proprio nessuno:
l’espressione sbalordita di Pitch diceva già tutto
da sola, ed altre parole
sarebbero state decisamente superflue
quanto inutili per descrivere la situazione che era andata a crearsi.
Con
sua somma sorpresa, Frost avvertì la
presa sul proprio corpo allentarsi, non abbastanza perché si
potesse liberare,
certo, ma abbastanza perché tornasse a respirare senza
troppa fatica e
riuscisse a fare segno di Dentolina di chiamare i rinforzi, per quanto
gli
dispiacesse farlo; da parte sua Pitch aveva ben altro a cui
interessarsi, per
esempio una Madre Natura nauseata da “tanta
mediocrità nel creare sistemi di cattura che potessero
essere definiti tali”,
e lo spettacolo aveva un qualcosa di tremendamente divertente quanto
comico:
«Banale?
Banale? Ho catturato un Guardiano,
io! Ormai era pronto per un-»
«Una
sessione di bondage, forse? No, perché
l’impressione era quella a vederti,
e parlo da osservatrice esterna alla vicenda: eri ambiguo, molto
ambiguo, tanto
ambiguo…»
«Non
me ne frega un cazzo se sembravo
ambiguo!» tuonò lui rabbioso «Ambiguo o
no, ero ormai sul punto di prendermi
finalmente la mia vendetta! Tu mi hai interrot-»
«Essere
rilegato in quel buco di posto
freddo ed umido che tu chiami “casa”, starsene
sotto i letti dei bambini
aspettando che arrivi la notte per “spaventarli”
prima che tirino un cuscino
sul tuo improponibile naso che se abbassi la testa ci inciampi pure e
far pena
a chiunque ti veda non è colpa dei Guardiani, è
più che altro merito del tuo
essere fondamentalmente inutile in qualsiasi ruolo ti venga
propinato… che sia quello di
fantomatico ed
autoproclamato “Re degli Incubi” o semplicemente di
padr-» cerco di
ribattere sfacciata Emily, ma non fece in tempo a finire che
avvertì la guancia
diventare calda per lo schiaffo appena ricevuto.
Il
caos.
La
terra che tremava, le onde degli oceani
che ruggivano invadendo l’entroterra, le foreste che
prendevano vita marciando
su qualsiasi sentiero esistente devastandolo, gli incendi che
divoravano interi
popoli bruciando generazioni di uomini e donne, le stelle che
iniziavano a
cadere, la Luna che voltava la faccia per non guardare: era quello lo
scenario
che Jack aveva visualizzato nella propria mente quando Pitch Black
aveva
sferrato quello schiaffo sulla guancia di Madre Natura, quando quel
suono secco
si era fatto strada nella sua mente.
Era
Madre Natura, non chicchessia: la sovrana di tutto ciò che
era vivente, di
tutti gli elementi naturali conosciuti, una ragazza con poteri immensi
paragonabili a quelli inimmaginabili di Manny stesso, mica bruscolini!
E
invece no, non era successo proprio
nulla: la Terra continuava a girare, le piante stavano ancora al loro
posto, le
stelle brillavano ancora, il tempo non si era fermato e, sorpresa delle
sorprese, l’Universo non era collassato.
Non
era successo niente di niente.
L’unica
reazione degna di nota da parte
di Emily Jane a quello schiaffo era stato un sottile viticcio verdastro
coperto
da una manciata di fiori bianchi e piccole foglie piene di buchi che
era
spuntato da terra ed era andato avvolgendosi intorno al polso di Pitch
Black,
ancora vicino al suo volto, ma senza proferire parola; da parte sua,
Pitch
stesso non si era nemmeno sforzato per afferrare
quell’insignificante piantina
dall’aspetto tremendamente debole, proprio come lo sguardo di
Madre Natura, e
strapparlo tenendoglielo teso davanti agli occhi vuoti:
«Non
azzardarti ad insinuare nulla sul
mio conto, perché ti assicuro che non
sei
assolutamente la persona che si trova nella posizione corretta per
credere di poter
giudicare qualcuno, casomai il contrario: ti è
abbastanza chiaro, “Madre
Natura”?» domandò lui calcando
la
voce su quello che per Jack, fino a quel momento, era uno dei titoli
più
importanti che avesse mai sentito.
Pitch
invece lo pronunciava quasi con
disprezzo, come se fosse disgustato alla sola idea di doverla chiamare
in quel
modo, ma se c’era una cosa che Emily Jane non si sarebbe mai
lasciata scappare
era la voglia di frecciatine:
«E
tu non parlarmi né schiaffeggiarmi
come se avessi il diritto di farlo» asserì con le
fiamme negli occhi e
di pugni serrati
«Tu,
con me, c’entri meno
di quanto c’entrasse Apophis
con la Terra, non venire a farmi la predica
perché, caro il mio “Re
degli Incubi”, uno che non è in
grado di spaventare dei bambini non è nemmeno
l’uomo giusto per sconfiggere i
Guardiani: incompetente come sei sempre stato, sei ora e continuerai ad
essere,
nemmeno i cavalli ti rispettano, forse Onyx dovrebbe diventare il nuovo
sovrano
dell’oscurità.» concluse infine a testa
alta.
A
testa alta, come se nulla fosse della
storia di Tandokka che aveva appena accennato, forse in modo
inconsapevole o
forse fin troppo consapevolmente, quasi per provocare Jack che se ne
stava lì
in mezzo ai due litiganti; ristabilito l’ordine dopo una
serie non meglio
definita di occhiatacce scambiate e lanciate l’uno
all’altra, Pitch si era
deciso a fare spallucce come per dire “Tregua,
ci sono cose, o meglio persone, più importanti delle quali
occuparsi”, e infatti
gli si era avvicinato con le mani dietro la schiena:
«Dove
eravamo rimasti? Ah, sì, stavo per
liberarmi di te una volta per tut-»
«Sarai
anche Madre Natura, ma mi fai proprio schifo. Ci tenevo a dirtelo di
persona.»
buttò lì Frost rivolgendo freddamente lo sguardo
ad Emily Jane, la quale si era
girata con un’espressione a metà fra lo sconvolta
ed il furiosa per l’affronto
subito.
Nessun
moccioso si era mai permesso di
trattarla in un modo simile, ed i sottili viticci che avevano chiuso la
bocca a
Jack mentre lei gli puntava l’indice sulla fronte lo avevano
messo in chiaro
per l’ennesima volta:
«Fammi
indovinare: Tandokka. Il fuoco. Le
sorelle Temporibus. Il minaccioso Albero di Olduvai. Madre Natura che
è fuggita
via dopo aver visto il brutto muso squamoso di
Apophis…» disse ad alta voce con
aria interrogativa, poi si finse sorpresa
«Giretto
da Harmonia, vero?» domandò
senza poter ricevere una risposta «Avrei dovuto immaginarlo,
che ci fosse lei
dietro tutte queste stronzate, è un classic-»
«Harmonia?
La Regina? Mi prendi in giro?» domandò
preoccupato Pitch «Quel piccolo
incompetente… ha incontrato
Harmonia?
É così? Allora, Frost, dim… porca
puttana Emily fallo parlare! C’è qualcosa di
meglio del discutere della tua codardia!» le
ordinò prendendosi di rimando un
sospiro annoiato e infastidito.
Liberato
da quel bavaglio verdognolo che
gli aveva lasciato in bocca dei petali incredibilmente amari, Jack non
si tirò
indietro dal confronto, anzi continuò ad infierire:
«Hai
lasciato bruciare la tua gente! Li
hai lasciati morire! Sei una schifosissima vigliacca!» le
urlò contro come se
Pitch non ci fosse nemmeno «Ti chiamano “Madre
Natura”, ma forse “Natura Morta”
sarebbe stato decisamente meglio! Almeno saresti crepata ed avresti
evitato a
tutti di rivedere la tua faccia da “sovrana”
egocentrica in giro! Le Entità della
Morte hanno fatto un grosso errore a lasciarti in vit-»
«Non
potrei essere più d’accordo»
asserì lei afferrandogli la felpa «Se fossi
morta poi avrei potuto andare in giro a vantarmi di essere stata scelta
da
Manny… il grandioso Manny, il favoloso Manny, quel piccolo
bambino prodigio che
ora, udite udite, è addirittura il
Guardiano dei Guardiani! Avrei camminato gridando “Ehi gente, guardatemi! Sono una
Guardiana! Una Guardiana!”, sai
che divertimento?» continuò sorridendogli
«Tu non puoi nemmeno immaginare
quante stronzate racconti Harmonia, non
lo puoi sapere: per ogni verità che dice ne tiene
nascoste altre dieci, ma
tu non puoi saperlo, certo che no…
la
Regina della Fantasia, la sovrana di Phantasia e dell’intero
pianeta Exodus,
lei racconta quello che le fa comodo, quello ch-»
«Quello
che è vero, Emily Jane Pitchiner, e tu sapere questo. Molto
bene.» la
interruppe una voce famigliare a Jack, una di quelle che avrebbe voluto
sentire
dal primo momento in cui era riuscito a far distratte a sufficienza i
due
nemici perché Dentolina chiedesse aiuto ai loro compagni.
Ai
suoi compagni.
Dall’alto
di una sporgenza a pochi metri
da lui, Nord capeggiava il gruppo dei Guardiani con le sciabole alla
mano e
l’aria di chi è perfettamente consapevole delle
persone che si trova davanti,
come anche era consapevole del branco di Incubi che avevano preso ad
avanzare
minacciosamente con le zanne snudate:
«Tu
dire così solo perché Harmonia tolto
te qualcosa, ma sappiamo tutti e due che tu cercato scontro con lei,
con tutte
conseguenze… nessuno volere farti del male, Emily, ma non
raccontare bugie a
Jack! Merita di sapere verità, ormai lui pronto per questo!
E soprattutto tu
non dovere stare con lui!» la rimproverò Nord
indicando con una delle spade
Pitch Black, il quale guardava indifferente la sceneggiata; la ragazza
rimase
in silenzio qualche minuto, quelli che le bastarono perché
la rabbia le montasse
dentro con una violenza inaudita:
«Io
ho cercato lo scontro? Io? Volevo
prendermi solo ciò che mi spettava, solo quello! E cosa ho
ricevuto in cambio?»
chiese afferrando con violenza una ciocca dei capelli tremendamente
corti, solo
un ricordo di quelli chilometrici che aveva sempre avuto
«Ecco cosa, è abbastanza
chiaro? Volete un disegnino esplicativo?
Una vignetta, magari? No perché un minimo di cervello
pensavo che lo aveste
anche, ma a quanto par-»
«Emily
siamo qui per aiutare Jack, e
anche te lo vorrai! Non vogliamo litigare e combatterti, il nemico
comune lo
hai davanti agli occhi!» intervenne Dentolina con le sue
soliti intenzioni di
pacificatrice gettando distrattamente lo sguardo verso Pitch.
Seguì
qualche istante di silenzio,
istanti durante i quali Jack Frost si soffermò a guardare e
studiare le
espressioni di Emily Jane, di Madre Natura, anche se era bellamente
costretto a
terra da quei tentacoli viscidi: dietro quell’atteggiamento
egoistico e per
certi versi prepotente doveva nascondersi un’anima ferita,
lacerata,
calpestata, l’anima di qualcuno che non emanava
più quel grande senso di
onnipotenza che aveva visto appena nei libri e sentito con gli occhi
sgranati
nelle storie che gli venivano raccontate, e questo avrebbe spiegato il
comportamento della ragazza, almeno a grandi linee.
Non
avere il potere di un tempo, per motivi a lui
ancora del tutto ignoti,
doveva averla segnata più di quanto lei stessa avesse
previsto e Jack aveva il
vaghissimo sospetto che, per l’ennesima volta fra tante, Harmonia ne sapesse qualcosa: Emily
aveva accennato ai propri
capelli quando si era parlato della Regina della Fantasia, ma niente di
più di
un semplice cenno abbozzato, e non si sarebbe sorpreso se anche dietro
quel
gesto apparentemente senza conseguenze,
ovvero che qualcuno l’avesse privata dei suoi lunghi capelli
corvini, si
nascondesse una verità ancora più oscura del suo
sguardo.
Ma,
giustamente, ora come ora poteva
solo fare supposizioni varie, senza avere conferme o smentite:
chiederglielo
allegramente non sarebbe proprio stato possibile dal momento che
l’atmosfera
era già tesa di suo, ed anche perché si trovava
fin troppo vicino a Pitch per
fare una simile domanda, e se avesse voluto delle risposte degne di
essere
chiamate tali avrebbe dovuto chiedere all’unica persona che
stava cercando di
evitare da una settimana perché si
sentiva particolarmente ribelle, nonché quella che
gli aveva salvato la
vita dalla morte certa per colpa delle schegge di vetro.
E
cioè Harmonia.
Sebbene
fosse consapevole che se ne sarebbe
pentito subito dopo, dimostrando di non essere coerente come diceva e
faceva sempre notare, Jack avrebbe
voluto che ci
fosse anche lei lì con loro: in quel momento, in quel luogo,
con quelle
persone, di certo con la sua presenza sarebbe stato tutto
più semplice, compreso l’occuparsi di Pitch Black.
Soprattutto
adesso che si era avvicinato
ad Emily Jane e le aveva messo una mano sulla spalla scostandola non
senza una
certa prepotenza:
«Largo
ai professionisti, Madre di stocazzo,
quelle con i Guardiani
riuniti tutti allegramente sono questioni per gli adulti, non certo per
le
ragazzine altezzose!» asserì mentre lei faceva per
replicare, ma non aveva
avuto il tempo di fare nulla che si era sbilanciata abbastanza da
cadere a
terra su di un fianco emettendo un gridolino strozzato.
Forse
quella non era la donna più
gentile ed altruista che conoscessero, ma di certo quella violenza
gratuita non
avrebbe mai dovuto essere usata su
una qualsiasi persona, che fosse l’ultimo degli ultimi o una
sovrana più o meno
giusta non aveva importanza; per quel motivo, e
perché la situazione sembrava sull’orlo di
sfuggire a quel precario
controllo dettato dalla superiorità numerica di Nord e degli
altri, il
vecchio Guardiano si era avvicinato a Pitch tenendo tesa la sua
sciabola che
sembrava tagliare il vento stesso:
«Alza
ancora tue mani contro lei e ti
assicurare che quelle finire tagliate prima che tu
accorgerti!» lo minacciò con
sguardo severo «Cosa volere da noi, Pitch? Guardiani avere
già dimostrato di
potere sconfiggere Uomo Nero, se tu non volere fare fine di altra volta
meglio
se porti tuoi animali da altra parte!»
«E
magari ci porti pure il tuo grosso e
inguardabile naso da incubo: ci credo che i bambini si spaventano
quando lo
vedono! Sfiderei chiunque a non prendersi un colpo quando si nota che
non si
capisce dove inizia quello e dove finisce la fronte!» lo
schernì ridendo
Calmoniglio con il boomerang pronto ad essere scagliato.
Da
parte sua, Pitch Black si era
limitato ad accennare un sorriso appena visibile sotto le coltre di
oscurità
che si portava dietro, le dita che accarezzavano i tentacoli
d’ombra che
tenevano Jack costretto a terra mentre teneva l’altra mano
dietro la schiena:
«Oh,
vedo che il mio naso è motivo di
scherno da parte di molti, ma voglio vedere quanto lo sarà
nel momento in cui
farete la fine che ho in mente per voi…» rispose
con una calma inquietante
mentre Onyx, l’incubo più grande, gli si metteva
di fianco venendo imitato da
tutti gli altri
«Vedete,
è piuttosto semplice, il mio
piano: catturare un Guardiano, dargli la possibilità di
chiedere aiuto ai suoi
amici del cuore che nemmeno credono in lui, lasciare che si riuniscano
tutti… è
così semplice, eppure così efficac-»
«Cosa
avere in mente, Pitch?» domandò
Nord nascondendo un velo di preoccupazione che, come per gli altri,
sembrava
non essere giustificato.
Black
lo guardò perplesso qualche
istante, poi scoppiò in una fragorosa risata degna del
peggiore degli
psicopatici disponibili sul mercato:
«Cosa
ho in mente, Nord?» rigirò la domanda
piegando la testa e poggiando la mano
sul collo dell’Incubo che gli stava vicino, Incubo i cui
occhi avevano preso a
brillare di un alone dorato, come anche era dorata la polvere che
iniziò ad
uscire copiosamente dalle fenditure sui loro corpi; Madre Natura
alzò appena
gli occhi, quasi si vergognasse di guardargli direttamente in faccia
uno per
uno, e gettò uno sguardo malinconico verso i Guardiani,
sguardo che venne
subito intercettato e messo a tacere da un gesto fulmineo della mano di
Pitch
Black: «Questo».
Dopo
fu veramente il caos.
Dalle
profondità più remoto della terra
e dell’ambiente intorno a loro, i Guardiani si trovarono
davanti Incubi e
Incubi e ancora Incubi: dieci, cento, mille, forse di più,
forse di meno, non
avevano idea di quanti fossero esattamente.
Ma
erano tanti, troppi.
Non
erano Incubi comuni, quella era
l’unica certezza: anziché il semplice manto di
polvere nerastra, questa volta
gli equini avevano sul corpo veri e propri squarci dai quali esalavano
una
strana sostanza la cui consistenza andava da inconsistenti vapori a
lava di
polvere il cui colore variava dal giallo intenso all’oro
talmente scuro da
sembrare nero, quasi fosse in tinta con i loro occhi che lasciavano
intravedere
le pupille verticali altrimenti non visibili.
E
quelle bestie dalla cui bocca usciva
della bava schiumosa avevano tinto di nero tutto il paesaggio
circostante: il
bianco della neve, il verde degli alberi, l’azzurro
dell’acqua, il grigio delle
pietre, i colori variopinti degli uccelli che saltavano di ramo in ramo.
Qualsiasi
colore di qualsiasi cosa era
diventato nero, come se l’oscurità stesse
divorando il mondo come mai aveva
fatto prima.
E,
questa volta, ci stava riuscendo.
Quando
Jack si era guardato indietro,
per quanto potesse guardarsi dietro le spalle dalla scomoda posizione
in cui si
trovava, capì anche che lui, che loro, sarebbero stati i
prossimi: i nitriti furiosi
degli Incubi infestavano l’aria come mosche in una calda
serata estiva, lo
scalpitare dei loro zoccoli verso i nemici indicati dal padrone al
quale
facevano riferimento parevano muoversi in sincronia con un qualche
canto di
guerre leggendarie, poteva addirittura sentirsi le loro ombre addosso,
i loro
denti che sfregavano gli uni contro gli altri provocando suoni
allucinanti.
La
risata di Pitch aveva coronato quel
quadretto idilliaco, almeno per il signore degli Incubi: niente
più Guardiani,
niente più avversari, solo l’oscurità,
solo Pitch Black; ormai era finita per
le famose quanto odiose “scelte” di Manny, lo
sentiva chiaramente, lo dicevano
a gran voce persino i nitriti selvaggi delle sue stesse bestie che
stavano per
avventarsi sui corpi martoriati dal fragore di decine e decine di
zoccoli neri
come la pece.
Poi,
senza alcun preavviso, i nitriti si
erano trasformati in lamenti.
Lamenti
di agonia.
Una
freccia.
Una
fottutissima, dannatissima… freccia.
Conficcata
in mezzo alla fronte di un Incubo che gli si era accasciato addosso,
con la
lingua a penzoloni fuori dalla bocca e gli occhi vitrei sbarrati come
se avesse
visto la Morte in persona.
Jack
questa volta si sentiva sì un peso
addosso, ovvero quello del pesante cavallo che gli schiacciava le
gambe, ma non
era più quello dei tentacoli: erano spariti, volatilizzati,
evaporati… non ci
voleva nemmeno credere, di essere libero, senza nessuna catena
sessualmente ambigua a tenerlo fermo!
Recuperato
velocemente il bastone senza
guardarsi intorno, fu costretto a farlo quando andò a
sbattere contro
l’ennesimo corpo che ci mancava poco lo abbattesse mentre
stava rigidamente
cadendo a terra, questa volta con una freccia infilzata nel petto: ne
vennero
altri, quello di sicuro, ma Jack correva troppo velocemente per
controllare.
Alzò
gli occhi al cielo con il fiatone:
la tempesta si era diradata e lasciava finalmente intravedere la luce
del Sole
in tutta la sua magnificenza, un alone giallo splendente che
rischiarava il
firmamento ormai al tramonto, persino la neve aveva iniziato a
sciogliersi
cedendo il passo all’erba fresca ed il suo inconfondibile
profumo, l’oscurità
che ormai era solo un lontano ricordo degli attimi di terrore vissuti
poco
prima.
Quello
spettacolo della natura, ahimè,
venne presto interrotto quando girò la testa verso quello
che ormai poteva
definirsi il campo di battaglia: non riusciva nemmeno a contare quanti
Incubi
ci fosse sdraiati a terra, alcuni ancora agonizzanti che lanciavano
lamenti
capaci di straziare l’anima a chiunque li sentisse mentre
altri che stavano
ormai esalando o avevano già esalato il loro ultimo respiro,
ne erano giusto
rimasti una ventina ancora in piedi a dimenarsi furiosi contro qualcosa
di non
meglio definito.
Ma
la
cosa più inquietante di tutte era
il modo in cui erano stai uccisi, che notò quando prese a
farsi strada fra i
cadaveri per avvicinarsi ai compagni che non riusciva ancora a vedere:
frecce,
una sola per ognuno di quei poveri cavalli, solo una freccia.
Capace
di compiere una vera e propria mattanza.
Un
genocidio, avrebbe osato dire.
Distrattamente,
si fermò per abbassarsi
a raccoglierne una che si era conficcata nell’occhi odi una
di quelle bestie,
che appena lo sentì tirare con una discreta forza
lanciò un paio di zoccolate
involontarie facendogli prendere un colpo; per quanto letale,
quell’arma era davvero affascinante:
una freccia dorata
poco più lunga del normale ma incredibilmente sottile,
lavorata su tutta la
lunghezza in una forma serpentina con tanto di testa ed occhi come
pietre
raggianti, una freccia dalla punta ricurva studiata per ancorarsi alla
carne e
non staccarsi ricoperta di una sostanza violacea che preferì
non approfondire.
Preso
com’era dall’ammirare quel curioso
oggetto che era stato letale per gli Incubi, Frost nemmeno si rese
conto che
uno di loro gli stava venendo incontro al galoppo nonostante zoppicasse
visibilmente, una furia che si stava scagliando verso di lui senza
alcun
controllo:
«No
no no! Occazzo! Occaz-» furono le
uniche parole che riuscì a pronunciare prima di venire colto
da un’improvvisa
paralisi che gli impedì di fare tutto, tutto tranne di
fissare negli occhi il
mostro che lo avrebbe travolto.
Accadde
tutto a rallentatore: l’Incubo che poggiava le zampe sane a
terra, il sibilo
acuto che accompagnò i passaggio di qualcosa sopra la sua
testa sfiorandogli i
capelli, un nitrito disumano che gli aveva fatto venire i brividi, la
bestia
immonda che perdeva i sensi e la vita crollando a terra dopo essere
inciampata sui
suoi stessi passi, andando a morirgli proprio davanti ai piedi.
Sentì
muoversi dietro di sé: «Non metterti fra la
freccia di un arciere e il suo
bersaglio. Mai.» lo rimproverò una voce che non
riuscì a definire.
Poi venne colto dal panico generale.
Non
sapeva bene cosa fosse peggio, se
l’Incubo morto oppure la causa di un simile genocidio
nonché del fatto che
fosse ancora vivo.
Gli
altri Guardiani lo avevano raggiunto
di fretta e furia, i loro abiti e mani sporchi di polvere nera nemmeno
avessero
ucciso loro quei poveri, ma nemmeno tanto,
animali:
«Jack!
Jack temevamo fossi rimasto
ucciso dalla carica di quei mostri! Stai bene? Sei sicuro?»
gli si fiondò
addosso Dentolina in piena crisi di pianto nel rivederlo ancora vivo,
ma
nessuna delle sue domande, come anche quelle dei compagni lì
intorno, trovò
risposta in un Jack Frost occupato ad osserva la figura femminile, a
giudicare
dalla voce, che aveva davanti.
Avvolta
com’era da un pesante mantello violetto
munito di cappuccio calato sul volto, ciò che lo
lasciò più perplesso era
l’aspetto delle gambe, o almeno ciò che le
sostituiva: una lunga coda color
smeraldo che usciva dall’abito arrotolata in più
giri su se stessa a formare un
groviglio disordinato di squame simili a placche ossee,
anziché a semplice
pelle da rettile; le stesse squame si ripetevano sulle mani, o almeno
su ciò
che riusciva a distinguere fuori dalle maniche, che tenevano saldamente
un arco
dalla curiosa forma di due serpenti che si abbracciavano e si
contorcevano
intorno al corpo principale dorato come tutti i monili che adornavano
le parti
visibili di quella creatura, compresi dei graziosi anelli lavorati
vezzosamente
portati da quei piccoli quanto irritati serpentelli verdi che uscivano
sibilando dal cappuccio.
Nonostante
le varie domande che stava
per fare, venne subito zittito da quella nuova ospite che, almeno per
ora, non sembrava vogliosa di deporre uova
nel
suo stomaco:
«Ringraziate
che Harmonia abbia avuto
sospetti su ciò che stava per accadere, o non sareste certo
vivi per
raccontarlo: il popolo di Phantasia non ha alcun tipo di interesse nel
salvare
i Guardiani, la sua Regina sì,
per
questo mi ha mandato» asserì seria senza
sbilanciare il proprio tono,
accompagnando il tutto dal girarsi verso un portale a tutti fin troppo
famigliare dove la aspettava un’altra figura incappucciata da
un mantello
azzurro, con uno scettro in mano che si concludeva con un cerchio al
quale
erano appese varie targhette con strane incisioni, ed una lunga coda da
leopardo delle nevi che si agitava placidamente:
«Accettate
l’alleanza e le garanzie, o
al prossimo di questi spiacevoli quanto fastidiosi episodi nessuno
manderà
nessuno a salvarvi: se entrerete nel portale verrà
considerato come un “sì”,
quindi badate bene a ciò che scegliete di fare.»
concluse mentre i Guardiani la
seguivano fino all’imboccatura del portale stesso
scambiandosi rapide occhiate
quasi del tutto indecifrabili.
La
serpentessa o presunta tale si girò
nuovamente verso di loro:
«Guardiani
di Manny, custodi dei bambini
della Terra, avete dunque preso una
decisione?» domandò con un tono simile a
quello utilizzato nelle più alte
cerimonie senza ricevere una risposta di rimando, semplicemente
perché non
sarebbe servita.
Quando
le due figure ed i Guardiani
erano stati inghiottiti dal portale, avevano già preso una
decisione unanime:
giusta o sbagliata, lo avrebbero scoperto solo vivendo.
Appunto,
vivendo.
Cosa
non proprio scontata, visti gli ultimi avvenimenti.
Avrebbe
voluto gridare.
Nient’altro.
Mentre
girava mesto fra ciò che rimaneva
degli Incubi, dei suoi Incubi,
Pitch
Black sentiva una continua stretta allo stomaco che ci mancava poco lo
facesse
scoppiare in lacrime: avevano sterminato le sue creature, le sue stesse
creazioni, lo avevano fatto senza alcuna pietà, senza un
briciolo di coraggio
nell’affrontarlo di persona!
Fortunatamente
per lui, Onyx era ancora
vivo, essendo rimasto a proteggere il padrone tutto il tempo dietro una
coltre
d’ombra: aveva appena visto morire i suoi stessi fratelli
sotto una cascata di
frecce scagliate tutte da una singola persona, aveva sentito le loro
urla
strazianti mentre i loro corpi cadevano a terra privi di vita, aveva
osservato
il campo di battaglia costellato di cadaveri che gli avevano riempito
gli occhi
dorati.
Ma
era vivo.
Terrorizzato,
scalpitante, ma vivo.
Come
in teoria era viva anche Emily
Jane, ma essendosela data a gambe come era solita fare Pitch non ne
aveva la
certezza: non che gli importasse, ma era un’altra
umiliazione, l’ennesima di tante,
quella di non
riuscire nemmeno a tenere a freno quella ragazzina altezzosa.
Rimasto
a languire nel dolore e nella
rabbia, Pitch si era preso un colpo quando aveva sentito un ruggito
alle spalle
sue e di Onyx, un colpo talmente forte che non aveva nemmeno osato
muovere un
passo, limitandosi a girare lentamente il capo: un grosso leone dal
manto nero
e dalla criniera di fiamme dello stesso colore, fatta eccezione per un
insolito
ciuffo bianco quasi invisibile in mezzo a quel buio, stava piantando
addosso a
lui ed all’Incubo i suoi occhi come rubini di sangue, con le
zanne color avorio
snudate e la saliva che gocciolava a terra, esattamente come quella di
tutti
gli altri leoni che lo accompagnavano.
Purtroppo
per lui, Pitch non aveva la minima idea che quel leone fosse Thorax.
Perché
se lo avesse saputo avrebbe tirato
fuori la falce prima che quello saltasse addosso ad Onyx azzannandolo
alla gola
e conficcandogli gli artigli sul dorso: rimase lì a guardare
impotente mentre
combattevano solo loro due, con il suo cavallo che veniva sovrastato
dalla
sagoma muscolosa e imponente del leone di Phobos che strappava
brandelli di
materia nerastra come se fossero pezzetti di burro, le grida che gli
morirono
in gola quando Onyx tentò di reagire colpendo sul muso
quella bestia famelica,
salvo poi sentire un rumore secco di ramo spezzato.
E
allora Thorax aveva mollato la presa,
ruggendo mentre teneva sotto le zampe l’Incubo straziato dai
morsi e dalle artigliate,
per poi svanire nell’ombra.
Si
avvicinò ad Onyx gattonando,
strisciando quasi per terra da quanto le gambe non lo reggevano in
piedi, gli
si accasciò vicino tenendogli con le mani la testa poggiata
sulle ginocchia ed
iniziò ad accarezzarlo con le lacrime agli occhi cercando di
non guardare la
zampa posteriore spezzata di netto da un singolo colpo:
«Non
ti azzardare a morire, non ci
pensare nemmeno!» gli ordinò mentre vedeva il suo
sguardo spegnersi, così gli
poggiò una mano sulla ferita più profonda, quella
fra il petto e la gola
«Me
ne pentirò subito dopo, ma salvare
te è una priorità: i Guardiani possono aspettare,
non mi costerà più di tanto
utilizzare i poteri per… ecco, stai fermo… Onyx,
fermo… bravo, stai buono.» lo
tenne a bada mentre dei filamenti di oscurità uscivano dalle
sue mani andando
aggrovigliandosi nelle ferite del cavallo, che sembrò
iniziare a provare un po’
di sollievo.
Pitch
Black si guardò intorno furioso:
chiunque avesse mandato quelle bestie, chiunque, avrebbe pagato il
prezzo di
tale affronto.
Un
prezzo molto alto.
Dopo
aver aperto delicatamente la porta,
scivolò lentamente verso il letto dove giaceva il corpo di
Harmonia, caduta
nell’abbraccio del sonno da qualche ora ormai, e si
infilò velocemente sotto le
coperte fino a quando non aveva sentito il calore del morbido manto
bianco
della centauressa scaldarle il corpo ed il cuore come riusciva sempre a
fare.
Avvertendo
un improvviso peso
all’altezza dello stomaco, Harmonia si svegliò
lasciando che fossero le sue
mani le prime ad avvertire la presenza dell’unica persona che
in quel momento
avrebbe voluto avere vicino:
«Buonasera,
mia Regina» disse dolcemente
la voce accarezzando i fianchi di Harmonia e dandole un lieve bacio sul
ventre;
lei non si oppose a quelle dimostrazioni di amore che riuscivano sempre
a
calmarla dopo una lunga giornata di burocrazia pura, ed anzi
ricambiò le
attenzioni stringendo a sé la figura nascosta nella penombra
della notte incurante
dell’intimo contatto di quel piacevole peso che premeva
contro il suo seno
nudo:
«Ho
avuto paura, tanta paura… temevo di
non rivederti…» sussurrò appena con una
punta di malinconia affondando la testa
nella sua spalla come per trovare un rifugio sicuro.
Ci
furono alcuni istanti di silenzio
dopo quell’affermazione da parte di Harmonia, istanti in cui
la magia di
qualche attimo prima sembrava essere svanita, ma tutto venne risolto
dalle mani
della figura che esploravano il corpo della Regina passando dai fianchi
alla
vita fino alle spalle per poi finire sul suo volto sollevandolo
delicatamente:
«Tornerò
sempre, non ti abbandonerò mai,
mai» la
rassicurò premendo la propria
fronte contro quella dell’altra
«Sembrerò banale, forse lo sono anche dato che
sono secoli che te lo ripeto» continuò mentre i
loro sguardi si incrociavano in
un inspiegabile silenzio pieno di parole non dette «Ma ti amo, ti amo più di qualsiasi altra
persona, non dimenticarlo…»
«…Mai.»
completò la frase Harmonia prima di gettarsi in un bacio che
valeva molto più
di quante frasi sdolcinate avrebbero potuto dirsi a vicenda.
Era
il loro modo per dirsi “Ci sono, ci
sarò sempre, non avere paura”
quando le parole non sarebbero bastate per descrivere le loro emozioni, un caldo abbraccio fra le loro labbra
che cercavano instancabilmente di rincorrersi in quella frenetica
avventura che
era un amore voluto da entrambe le parti in modo quasi inconsapevole,
un
sentimento talmente intenso da farle scordare di tutto il dolore che
aveva
provato, di tutte le umiliazioni e le difficoltà che avevano
segnato il suo
corpo e la sua mente da tanto, troppo tempo.
Erano
solo loro due, loro due e la
complicità delle stelle che osservavano silenziose dalla
finestra che
illuminava appena la stanza di un tenue bagliore azzurrino, uniche
testimoni mentre
i loro corpi si fondevano in uno solo spinti da un desiderio
più alto della
semplice voglia carnale, una meravigliosa danza dove non
c’era nessuno a
guidare nessun altro ma solamente la voglia di rendersi felici a
vicenda, di
darsi piacere a vicenda.
Harmonia
avrebbe voluto che quella notte durasse per sempre: lo voleva
con ogni singola fibra del suo corpo che
fremeva per ricevere l’amore promesso dalle mani che
sapientemente percorrevano
la sua pelle facendole venire i brividi, lo urlava al mondo con ogni
gemito di appagamento
quasi impercettibile che si lasciava scorrere piacevolmente addosso, lo
dimostrava ricambiando la passione che ardeva nei loro corpi con
cascate di
baci distribuiti su ogni centimetro del corpo dell’amante
quasi in modo vorace,
come se volesse lasciare il segno indelebile del proprio amore sulla
carnagione
pallida dove risaltavano i leggeri segni dei suoi morsi di tenerezza.
Avrebbe
voluto, ma sapeva bene che nulla
era destinato a durare per sempre.
Nemmeno
la pace.
____________________________________________
Angolino
dell’autrice
Eccoci
in un nuovo capitolo dove scatta
subito il MYSONANTIS MA COSA xD
Fra
visioni, Pitchoni esaltati,
bistecche di Incubo, personaggi misteriosi e tentacoli ambigui qui non
si sa
proprio cosa sia più delirante, per cui lo considero un
po’ il capitolo del
delirio malissimo :D
Non
ho molto da dire se non una cosa: il
Veggente, signore e signori, il Veggente!
Non
immaginate nemmeno da quanto volessi
finalmente mostrarlo al mondo nella sua immensa voglia di comparire a
random
dietro la gente :3
Dedico
a _Dracarys_ i riferimenti
puramente casuali alla coppia formata dall’ammmore platonico
più bello della Galassia, le amykette
che vogliono tagliare la lingua e la bruschetta alla gente:
ormai devo
infilarle ovunque, lo sai anche tu, e dove se non in un capitolo con
Pitchone?
<3
Dentto
questo, non voglio dilungarmi
troppo: ringrazio chi sta seguendo la storia e chi la recensisce, avere
un’opinione esterna è sempre gradito per
migliorarsi, e fa bene alla
consapevolezza che questa storia piace anche ad altri oltre agli
addetti ai
lavori :)
Vi
lascio con l’aspetto attuale
(attuale, tenetelo a mente) del Veggente :D
|
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Capitolo 7 *** Una volta una falena mi disse ***
capitolo7
Come
se si trattasse di un qualche
rituale del buongiorno, Harmonia era stata svegliata dal delicato
profumo
floreale che inebriava l’aria di Phantasia, accolta dai
flebili e caldi raggi
di uno dei Soli che si tuffavano nell’acqua scrosciante fuori
dal castello
creando curiosi arcobaleni e giochi di luce che tingevano il suo manto
bianco
immacolato, per poi riflettersi sulle squame color smeraldo che le
circondavano
il corpo.
Nella
posizione a pancia e zampe in su
in cui si trovava stesa nel letto, la Regina della Fantasia
guardò
distrattamente davanti a sé sorridendo: con la testa premuta
sul suo seno e le
braccia strette in un coinvolgente abbraccio alla vita di lei, proprio
lì, se
ne stava la donna che le aveva dato tutto l’amore che lei
stessa potesse
desiderare ed era stata ricambiata allo stesso modo, quel sentimento
verso il
quale Harmonia aveva perso tutte le speranze dopo aver perso Phobos,
chiusa
com’era nella convinzione che, se anche a lei fosse accaduto
qualcosa come con
quel povero disgraziato, sarebbe solo e
sempre stata colpa sua.
Ma
con Myricae era diverso, molto
diverso: non era solo il suo più
fidato generale che l’accompagnava dal primo giorno in cui
aveva incrociato il
suo sguardo dopo la rocambolesca fuga da Quetzalli, regno delle donne
naga note
con il nome di Ophidians sue simili, era anche una persona, la sua persona, meravigliosamente coinvolta
da quella relazione che andava avanti dalla bellezza di quasi sette
secoli,
iniziata venticinque anni dopo la perdita di Phobos ma già
anticipata da
un’amicizia che era qualcosa di
più,
era l’amante che ogni sera aspettava il suo ritorno a letto
per farle
dimenticare di tutti gli impegni che il ruolo di Regina comportava.
Myricae
era il suo mondo, il suo faro
in
venticinque anni di sofferenze dilanianti a causa delle quali si era
lasciata
morire, la donna alla quale aveva consegnato il suo cuore fatto a pezzi
e
calpestato per poi, giorno dopo giorno, scoprire che stava riuscendo
nella
difficile se non impossibile impresa di farla credere di nuovo
nell’amore.
Tutto
ciò che era venuto dopo lo aveva
fatto da sé, quasi senza chiedere il permesso
all’una o all’altra: sebbene agli
inizi Harmonia fosse piuttosto perplessa sull’avere
nuovamente qualcuno con cui
condividere il proprio letto e anche
altro, pian piano si era lasciata andare capendo che non
tutti erano lì per
ferirla e farla soffrire, ed il grande passo lo aveva fatto la prima
volta che
lei e Myricae avevano fatto l’amore.
Solo
loro due, nessun dovere, nessuna
preoccupazione: Harmonia e Myricae, Myricae e Harmonia, quella
notte c’erano state solo loro e, almeno per la
naga, la
consapevolezza che la compagna stava concedendo a lei quello che non
aveva dato
a nessuno oltre che a Phobos, e cioè la sua fiducia
incondizionata.
Le
aveva messo fra le mani il proprio cuore, e custodirlo era diventato lo
scopo
dei gesti che compiva ogni giorno per renderla felice.
Da
parte sua, Harmonia era consapevole
che quella relazione fra due donne,
fra la sovrana ed il suo generale, aveva portato con sé i
bisbigli della gente
che le guardava inorridita perché “la
Regina avrebbe dovuto trovare il proprio Re”, non
un’altra compagna che
avrebbe solo gettato scandalo e vergogna sul suo regno:
c’erano così tanti
individui con il cervello talmente piccolo da ballonzolare liberamente
per la
scatola cranica che qualche domanda le era venuta anche, ma era stata
accantonata prima di subito dal
momento che a lei e Myricae, dell’opinione altrui sul fatto
che scopassero
selvaggiamente, non fregava un emerito cazzo.
Ciò
che quella stessa gente non sapeva,
sfortunatamente per sé, era che a Phantasia e sul pianeta
Exodus in generale
gli abitanti erano abbastanza svegli da sapere che la loro
libertà sessuale,
che si trattasse della Regina o di un semplice commerciante, non doveva essere subordinata alla
volontà
di nessuno che non fossero le persone coinvolte, e quella
certezza era
l’ennesimo dei molteplici motivi per cui Harmonia era tanto
amata dalla sua
gente.
Non
come certe sovrane di Tandokka, si intende.
Quasi
avesse avvertito i dubbi che
attraversavano la mente della sua Regina, la naga aveva mosso
impercettibilmente le lunghe orecchie coperte di squame facendo
risuonare i
pesanti orecchini dorati a forma di anello contro le sottili catenelle
costellate di gemme colorate che pendevano da uno all’altro,
andando poi a
stiracchiare la coda in tutta la sua lunghezza e agitandone la punta
come se
fosse un serpente a sonagli, ovviamente attirando
l’attenzione della compagna:
«Vanimle
sila tiri, a’maelamin»
la salutò
arrampicandosi fino a darle un bacio sulla fronte con tutta la dolcezza
di
quell’Universo.
Harmonia
adorava quando Myricae parlava
l’Ophidiano, la lingua madre delle naga come lei, e negli
anni aveva imparato a
capirne tutte le sfumature e di più piccoli significati
nascosti dietro la più
insignificante differenza di pronuncia di una singola lettera: quando
le dava
il buongiorno con, quel tono vagamente sensuale tipico della sua razza,
finiva
per sciogliersi come neve al sole, compiaciuta da forme di
apprezzamento che
mai avrebbe pensato di sentir pronunciare nella sua esistenza
immortale, non
rivolte a lei almeno.
Terminati
i convenevoli di saluto tutti
dolci e carini, Myricae aveva cambiato totalmente
personalità, diventando il
predatore che era nata per essere: scendendo dalla fronte fino alle
labbra
della compagna, prese a baciarla con una passione tale che sembrava
volerle
divorare persino l’anima, la lingua biforcuta che si muoveva
nella sua bocca in
una danza alla quale Harmonia si era felicemente abbandonata come
faceva
sempre, consapevole che tutto quello che sarebbe venuto dopo avrebbe
solo
potuto piacerle ogni giorno di più.
Le
era scivolata addosso mantenendo il
contatto che le sue labbra avevano con il corpo della centauressa
usando una
mano per afferrare le sue e tenergliele poco sopra la testa pronte per
essere
avvolte dall’estremità della coda come se fosse
una catena liscia color
smeraldo, coda che aveva accompagnato l’intero corpo da
serpente mentre questo
si sbrogliava dal manto bianco per andare a formare nuovi intrecci che
le
bloccavano le zampe anteriori, premurandosi di lasciare che le spesse
squame
affilate come pugnali si frapponessero fra una zampa posteriore e
l’altra, costringendola
a tenerle leggermente divaricate.
Myricae
sapeva bene quello che faceva,
conosceva i limiti pressoché inesistenti che Harmonia le
metteva, ed era per
quello che lei la lasciava fare: se fosse stato qualcun altro mai avrebbe permesso che la
costringessero
a quel genere di giochi erotici, né tantomeno che la
tenessero legata in un
modo simile, ma con lei vicino la cosa assumeva tutto un altro
significato, un
significato che andava ben oltre il semplice desiderio carnale.
Improvvisamente
ricordatasi di avere
un’altra mano libera, Myricae l’aveva fatta
scivolare sotto l’armatura che
copriva a stento il seno ad Harmonia, togliendola con uno scatto felino
e
lasciando che ricadesse sulle coperte a terra, dedicandosi subito dopo
all’esplorazione di ogni singolo centimetro di quella pelle
bianco latte con le
punte delle dita: il gelo degli unghie più simili ad artigli
e la sensazione di
pizzicore che si lasciavano dietro era qualcosa che portava il
significato
della parola preliminari ad un livello tutto nuovo, uno di quelli che
si
raggiungono solo se tu sei una naga vogliosa e la tua compagna una
centauressa
con un corpo che bramava solo di essere capito, amato, coccolato.
Nonostante
i gridolini strozzati di
Harmonia si fossero già fatti sentire quando
l’altra si era fiondata con la
bocca a completare il lavoro che aveva iniziato con le dita, un gemito nemmeno troppo strozzato le era partito
quando le mani di Myricae, ora libere di muoversi come volevano
perché la coda
faceva tutto il lavoro al posto loro, avevano iniziato a scorrerle
addosso dal
seno ai fianchi fino alla vita, fermandosi dove avevano incontrato la
morbida
pelliccia bianca: l’aveva guardata come per cercare un segno
di approvazione
nell’andare oltre e, quando la Regina aveva risposto con un
debole cenno mentre
si mordeva distrattamente le labbra, le accarezzò
l’interno delle cosce salendo
verso l’inguine sfiorando la sua intimità.
E
allora Harmonia si era irrigidita.
Myricae
lo notò subito, quel cambiamento
nella sua espressione, motivo per cui prese il mento della compagna
portando i
loro occhi alla stessa altezza:
«Avo
anírach echaded meleth na nin, arwenamin? Vuoi che mi fermi?»
domandò nell’antica
lingua con aria pensierosa, ma l’altra iniziò a
scuotere la testa:
«No,
mela
en’ coiamin, vorrei che tu non ti fermassi mai,
solo fai… piano, come se
avessimo tutta
l’eternità e oltre davanti. Solo
noi due,
nessun altro.» la rassicurò dandole un
leggero bacio sul naso che la fece
squittire appena, una sorta di via libera che la naga aveva accolto a
braccia, e non solo quelle, aperte.
Quello
che venne dopo restò confinato
nella stanza di Harmonia, quella della Regina, quella
del loro amore: che fossero i gemiti di piacere della
centauressa accompagnati dalla schiena che si inarcava faticosamente,
che
fossero le parole che Myricae le sussurrava all’orecchio per
renderla partecipe
di ogni singolo pensiero che affollava la sua mente in quegli istanti
così
intimi o che si trattasse semplicemente dei loro corpi che si fondevano
insieme
non aveva importanza.
Quello
era il loro momento.
Loro,
e di nessun altro.
Almeno
per ora.
Dal
momento che le due figure che li
avevano scortati fino a Phantasia erano arrivate quando era ormai notte
fonda,
Jack e gli altri Guardiani erano stati invitati a passare la notte
direttamente
al castello di Harmonia in attesa di parlarle la mattina seguente
durante la
colazione.
Per
quanto Frost non volesse ammetterlo,
il letto nel quale aveva dormito era tremendamente comodo e
accogliente: non
che questo contasse qualcosa in particolare, ma in quel modo non poteva
nemmeno
più lamentarsi della scarsa accoglienza della Regina; come
avrebbe fatto a
trovare qualcosa su cui insistere per portare avanti le sue tesi di non
andarci
d’accordo se non poteva nemmeno dirle “Il
materasso era duro perché GNEGNEGNE volevi farmi rompere la
schiena GNEGNEGNE”,
urlando al “gombloddoh!” ogni
tre per
due?
In
compenso doveva ringraziare Harmonia
per aver assegnato ad ognuno di loro una stanza personale, almeno
doveva
dividere la sua con Dentolina: quella poveretta probabilmente si stava
ancora
crogiolando nella convinzione che in realtà Jack non
l’avesse baciata così
intensamente solo perché era arrivato Pitch Black, che per
una buona volta era
comparso nel momento giusto nel posto giusto, anziché
perché per lui la fatina
dei denti non era che una collega di lavoro, una buona amica e
nient’altro.
In
poche parole, quella friendzone
nemmeno troppo esplicita gli aveva fatto comodo per non rovinare i
rapporti che
aveva con lei: “colpa di Pitch che ci ha
interrotto”, avrebbe detto se lei gli
avesse chiesto perché non le aveva dato libero sfogo a quel
fatidico bacio, ma
prima o poi avrebbe dovuto trovare anche un’altra scusa.
Poco
male, aveva tutto il tempo per
pensarci, soprattutto adesso che si era appena svegliato ed era intento
a
stiracchiarsi come un gatto con addosso una felpa… ed una sciarpa?
La
prese fra le mani osservandola:
lavorata ad uncinetto per ricordare degli incredibilmente realistici
motivi a
forma di fiocco di neve, trovava sorprendente come le varie sfumature
di
azzurro che andavano dal bianco al cobalto fino al blu rendessero
l’idea che
fosse stata lavorata durante una tempesta di neve, quasi ne avesse
assorbito gli
stessi colori; guardando meglio, notò la presenza di un
bigliettino attaccato
come se fosse un’etichetta: “A
Jack
Frost, perché i ragni smettano di fargli paura”
accompagnato da un
cuoricino.
Antares,
avrebbe dovuto immaginarlo:
d’altronde la sciarpa gliel’aveva promessa quando
si erano incontrati una
decina di giorni prima, quando aveva
anche minacciato di deporre le proprie uova nel suo stomaco,
ma proprio non
ci sperava più che dopo la scenata con Harmonia e la sua
alleanza avrebbe
ancora avuto voglia di fargli un regalo che, seppur inaspettato, era
decisamente gradito dal momento che la sua sciarpa preferita era andata
persa
nella carica degli Incubi di Pitch Black del giorno prima.
Già,
la
carica degli Incubi del giorno prima.
Quella
dove avrebbero perso la vita lui e tutti gli altri Guardiani se non
fosse stato
per l’intervento di quell’arciera e
dell’altra figura che l’aspettava
all’entrata del portale.
Affondando
la testa nella sciarpa nuova,
che si era rivelata molto più morbida e calda di quanto
avesse immaginato, la
mente di Frost era andata allo spiacevole episodio appena affrontato
non
proprio a testa alta: non sapeva cosa fosse peggio fra il sapere che
Pitch
Black ormai era tornato ad essere un pericolo non indifferente o
l’aver visto
Madre Natura in tutta la bellezza del suo outfit
da senzatetto, stava di fatto che Jack aveva avuto la prova
che non
potevano stare tranquilli o abbassare la guardia nemmeno per un secondo
che
fosse uno, perché tanto i cattivi di turno del passato
potevano tornare alla
carica in qualsiasi momento.
Fu
un quella consapevolezza, ovvero che
lasciarsi alle spalle i nemici del proprio passato era praticamente
impossibile, che riportò la mente di Jack alle inquietanti
parole di Madre
Natura: “Tu non puoi nemmeno
immaginare
quante stronzate racconti Harmonia, non lo puoi sapere: per ogni
verità che
dice ne tiene nascoste altre dieci, ma tu non puoi saperlo, certo che
no… la
Regina della Fantasia, la sovrana di Phantasia e dell’intero
pianeta Exodus,
lei racconta quello che le fa comodo”, parole che
significavano una sola
cosa.
E
cioè di guardarsi le spalle dalla Regina alla quale avevano
appena affidato il
loro destino accettando quell’alleanza.
In
realtà non sapeva bene come
interpretarle, d’altronde Harmonia non aveva dato segno di
volerli solo
sfruttare e poi tradire come anche lui aveva giustamente
pensato in un momento di rabbia, forse Emily Jane aveva
detto così solo perché aveva rivelato a tutti la
fastidiosa questione di
Tandokka, fatto stava che il dubbio nella mente glielo aveva insinuato
comunque.
E
faticava ad andare via.
Cercò
di pensare alle informazioni
riguardo Harmonia arrivate a lui fino ad ora: era la Regina della
Fantasia da
un numero non meglio definito di anni, cosa che lo aveva insospettito
non poco
dal primo momento, non dipendeva da Manny come tutti i Guardiani, aveva un pianeta fiorente
e lussureggiante
che sembrava uno di quelli dei libri delle favole, al suo fianco
c’era un
manipolo di generali uno dei quali era sicuramente Antares, sette
secoli prima
aveva combattuto una guerra quasi da sola e lì aveva perso
Phobos e infine,
cosa più importante, aveva a casa sua state di Guardiani o
presunti tali che
nessuno gli aveva mai nominato.
E
poi?
Poi
niente, perché di Harmonia non sapeva
altro che quelle poche cose, nemmeno raccontate di persona ma tirate
fuori fra
un discorso e l’altro: se era così potente
perché aveva alzato quella barriera
contro un nemico a lui sconosciuto?
Se
sei tutta questa grande potenza,
pensò Jack, non dovresti temere nemmeno Manny in persona,
figurarsi innalzare
scudi magici di portata immane che consumavano tanta energia quanto
erano
spettacolari per proteggere il tuo castello!
Sembrava
quasi che temesse qualcosa, o
forse qualcuno, abbastanza perché non fosse certa delle
proprie capacità, ma
magari era solo una sua distorta impressione come tante altre: Harmonia
aveva l’intelligenza
di una donna di potere e l’affetto materno di una sovrana
giusta e
caritatevole, il tutto unito alla forza di un fottuto cavallo abnorme,
chi
accidenti poteva spaventarla con gli zoccoli che si ritrovava?
Forse
era solo una delle sue bugie, chi
lo sapeva!
Qualcuno
sicuramente, ma non Jack Frost.
Mentre
si stava lasciando trascinare
ancora una volta da quelle ingombranti ipotesi di complotto, Jack venne
interrotto dal rumore della pesante porta della sua stanza che si
apriva
lentamente, lasciando intravedere la figura dell’ultima
persona che avrebbe
voluto vedere in quel momento e, più in generale, per tutto
il resto della sua
vita da Guardiano; dopo essersi chiuso la porta alle spalle attento a
farlo non
troppo rumorosamente, Calmoniglio si era appoggiato allo stipite
dell’entrata
gettando distrattamente lo sguardo verso Jack, che era invece seduto
sul bordo
di quel grande letto a baldacchino.
Passarono
alcuni minuti senza dire nulla
e senza nemmeno guardarsi in faccia, poi il coniglio pasquale
alzò le mani in
segno di resa:
«Oh
avanti, non puoi andare avanti a non
rivolgermi la parola per sempre, Jack! Prima o poi dovrai deciderti a
parlarmi
di nuovo, anche solo perché siamo compagni di
lavoro!» si lamentò incrociando
poi le braccia al petto, ma nulla sembrò smuovere qualsiasi
cosa nella mente
dell’altro interlocutore «Veramente? Non intendi
parlare con me per quella
questione, quella che non sei un Guardiano? Stammi a sentire, quello
che ho
detto.. l’ho detto in un momento di rabbia, va
bene? Non intendevo dirti quelle cose, non era ciò
che volevo dir-»
«Oh,
invece intendevi dire proprio quello,
non ci sono dubbi.» si
decise a risponde freddamente Jack Frost, sempre mantenendo lo sguardo
basso.
Calmoniglio
stava giusto per
controbattere quando l’altro lo aveva interrotto bruscamente:
«Non
cercare di prendermi in giro,
sappiamo entramb… tutti,
sappiamo
tutti, che nessuno mi considera all’altezza di questo ruolo,
del ruolo di
Guardiano del Divertimento…» continuò
malinconico stringendo i pugni «… E per
quanto ora cerchiate tutti di consolarmi e farmi ricredere su questo
punto, per
quanto sia frustrante e umiliante, lo ammetto: avete
ragione, avete sempre avuto ragione... non sono nemmeno degno
nemmeno la metà di quanto lo siete voi di essere definito
“Guardiano”… non son-»
«Sei
più Guardiano di quanto lo siamo stati noi nella guerra
contro Apophis, di
questo ne puoi stare certo: non siamo affatto
stati migliori di te in quell’occasione… nemmeno
io che mi lamento tanto per
quello che hai fatto tu, anzi...»
disse assumendo un’espressione piuttosto triste, che
però nascose alla bene e
meglio dietro la sua solita aria orgogliosa.
A
quelle parole, Jack alzò lo sguardo
sorpreso: Calmoniglio non aveva mai ammesso di avere una qualche
responsabilità
nella lotta contro Apophis, dedicandosi più che altro al
continuo lamentarsi di
quanto lui e gli altri Guardiani fossero stati abbandonati nelle spire
di
quella bestia immonda, né tantomeno era mai stato sul punto
di parlare con lui
non come Guardiano, ma più semplicemente come amico;
tuttavia, intuendo che la
situazione stava diventando più seria di quanto
già fosse, decise di non
chiedere ulteriori spiegazioni sull’argomento, nonostante lo
incuriosisse come
poche altre cose in vita sua.
Ma
non servì fare domande, non servì
farle semplicemente perché l’altro aveva
continuato da solo il proprio sfogo o
presunto tale:
«Avrei
dovuto proteggere la mia gente a
costo della mia stessa vita,
combattere fino allo
stremo perché la guerra non finisse per diventare anche il
momento buono per
sterminare la razza dei Pooka… ma non l’ho fatto!
Non ho combattuto abbastanza
duramente, non abbastanza per salvarli tutti, nemmeno una manciata di
loro» si
rimproverò stringendo i pugni «Se fossi riuscito
ad arrivare qualche istante
prima, quando Apophis non aveva ancora puntato il proprio brutto muso
su di noi…
se solo… ah! Cosa lo dico a fare? Ormai sono tutti morti, e
stare qui a piangersi
addosso non servirà certo a riportarli in
vit-»
«Come
sono morti?» chiese il giovane Guardiano con una
delle sue solite domande
scomode e decisamente inopportune
per
la situazione.
Qualcuno
avrebbe dovuto spiegargli a
suon di calci sui denti che starsene zitto, quando si parlava della
leggendaria
guerra contro quel serpente troppo cresciuto, sarebbe stata una scelta
migliore
dell’indagare su argomenti non proprio semplici da affrontare.
Inizialmente,
Calmoniglio lo aveva
guardato con aria sorpresa e furiosa allo stesso tempo, probabilmente
per
rimproverarlo di tanto tatto, e non
si sarebbe sorpreso se gli
avesse
sferrato una zampata sullo stomaco facendolo
tornare al covo di Nord senza nemmeno passare per i portali tutti
colorati e
carini carucci; per quel motivo, e perché non era
proprio nella posizione
giusta per commentare certi argomenti dato che non era nemmeno nato ai
tempi,
Jack Frost mise le mani avanti a sé:
«Non
volevo, mi dispiace, mi dispiace!»
si scusò scuotendo la testa e dandosi leggeri pugni alle
tempie «Lo so, lo so,
non dirlo nemmeno: dovrei farmi gli affari miei, senza immischiarmi in
questioni più grandi di quelle che mi sono concesse di
conoscere, e dovrei
anche tenere la bocca chiusa se voglio vivere in pac-»
«Divorati,
sono morti divorati» asserì freddo «Da
Apophis… e dai Diggerwurm.
Tutti. Sono l’unico rimasto.» asserì con
lo
sguardo assente di chi sta passando l’indicibile per parlare.
Quasi
non ci fosse più nulla intorno a
sé ed alla sua mente, Calmoniglio si lasciò
trascinare dai ricordi poggiandosi
alla finestra e perdendosi negli sterminati campi di soffici nuvole
tinte dai
mille caldi colori dell’alba:
«Quando
Apophis attaccò noi Pooka, nessuno era
preparato ad una strage:
pensavamo ad un conflitto, quello di sicuro, ma non avevamo tenuto
conto del
fatto che Apophis fosse così interessato alla nostra razza
da gettarsi a
capofitto con il suo muso fra le mia gente, alzandolo ogni volta per
mostrare i
cadaveri che gli cadevano dalle fauci, per ricordarci che il suo
obiettivo era
quello di cancellarci dalla superficie di quel mondo… ma
eravamo riusciti a
resistere nascondendoci sotto terra, eravamo sopravvissuti:
non tutti, purtroppo, ma buona parte di noi aveva
sfruttato un certo sesto senso unito ad altri segnali riguardo la
situazione,
intuendo le intenzioni di Apophis e riuscendo ad agire in tempo per
salvarsi… fino a quando non
è arrivata Alice con i
suoi Diggerwurm.» raccontò abbassando la
testa e chiudendo gli occhi
«I
Diggerwurm… bestie immonde simili a
grossi vermi con la pelle formata da rocce più dure del
diamante, che
utilizzano il loro corpo per scavare il terreno divorandolo nel mentre:
immagina dei vermi lunghi centinaia e centinaia di metri fino a
sfiorare e
superare il chilometro nel caso degli esemplari più vecchi,
con la mascella
capace di dividersi in più pezzi per raccogliere meglio la
terra della quale si
nutrono instancabilmente, lombrichi giganti che se ne vanno in giro
bellamente sotto
la superficie di Exodus, in particolare di Fairy Oak… trasportati tramite portali di dimensioni immani
creati appositamente
dalla principessa guerriera sul mio pianeta, e lasciati liberi di
divorarlo
senza controllo.» terminò con lo sguardo
pieno di rabbia.
Il
gelo nelle vene, ecco cosa aveva sentito Jack a quelle parole.
Alice
non era troppo sana di mente,
quello sarebbe stato ovvio anche solo a vederla, figurarsi se poi la si
conosceva anche, ma aveva dubbi sul fatto che avesse lasciato
estinguere
un’intera razza per puro scopo
alimentare.
E
quel dubbio il coniglio pasquale lo
aveva intuito benissimo:
«So
che non è facile da credere, ma l’ho
vista con questi occhi, gli stessi
che ti stanno guardando in questo
preciso momento» si affrettò a mettere in chiaro
afferrando Jack per la felpa e
costringendolo a guardarlo «Lei se ne stava lì,
sulla cima di una rupe poco
lontana dalla pianura dove io ed altri Pooka ci eravamo rifugiati senza
renderci conto che le stavamo semplificando il lavoro, il suo solito
faccino
angelico che non lasciava trasparire nessuna emozione: pensavo fosse
venuta ad
aiutarci, tanto che quando dietro la testa era apparso un Diggerwurm
cercai di avvisarla
senza riuscirci… pensavo che ormai l’avesse
già divorata, e invece no, no!»
continuò scuotendolo violentemente «Le si era
messo di fianco con la mascella
serrata nemmeno fosse un animaletto domestico come tutti: quando oltre
a quello
se ne sono affiancati tanti altri ho capito tutto, ed i miei dubbi
hanno
trovato conferma nel vederla aizzarci contro i suoi animaletti schifosi
al
grido di “Ska’a et
yomtìng, mo yawne ngawng”,
ovvero “Distruggete e divorate, miei adorati vermi”
in una delle
lingue parlate sul pianeta Exodus, te ne
rendi fottutamente conto?» gli chiese senza
però ottenere risposta.
Perché
di risposte non potevano nemmeno essercene.
Il
silenzio.
Frost
non sapeva cosa dire non perché
non volesse, ma perché non c’erano parole che
sarebbe state giusto o sbagliate
se pronunciate in quel frangente, con Calmoniglio che stava crollando
psicologicamente passando dalla rabbia alla malinconia nel giro di
mezzo
secondo, e lui che invece cercava di evitare il suo sguardo palesemente
imbarazzato: sapeva che Alice era pericolosa, ma
non fino a quel punto.
Solo
ad immaginarla mentre sterminava i
Pooka rimasti, Jack sentiva i brividi salirgli per la schiena e
diradarsi verso
le punte delle dita: quando l’aveva vista per la prima volta
gli era sembrata
una ragazzina più o meno della sua età del tutto
innocua, poi aveva scoperto
che non ci metteva molto a torturare chiunque non fosse
d’accordo con lei e
infine, come colpo di grazia che aveva distrutto anche le ultime
certezze
rimaste su di lei, Calmoniglio gli aveva appena detto che quella
ragazzina
dalla dubbia personalità multipla aveva portato
all’estinzione la sua gente.
Un’intera
razza, o almeno
ciò che ne rimaneva
dopo il passaggio di ben altri personaggi,
ma comunque fossero messe le cose stava di fatto che Alice aveva
davvero
cancellato i Pooka dalla faccia dell’Universo.
Fatta
eccezione per Calmoniglio, quasi lo avesse lasciato come monito per
chiunque
avesse in mente di voler fare la stessa fine.
Come
faceva sempre da quando aveva
iniziato a scoprire cose, Jack
Frost
era balzato in piedi con violenza tale che per poco non si era preso
uno dei
bastoni del baldacchino in testa:
«E
Harmonia cosa ha fatto per fermarla,
eh? Se ne è stata a guardare, ecco cosa ha fatto!»
gridò furioso agitando il
bastone «Ma glielo dico eh! Vado a dirgliene quattro,
perché non si può che
vengo a sapere una cosa del genere per puro caso! Furba, quella
lì, dice solo
quello che vuole, Emily Jane aveva ragion-»
«Stava
combattendo Apophis sulla Terra,
era nel bel mezzo della perdita di ragione da parte di Phobos e doveva
proteggere il proprio regno: Harmonia non
avrebbe potuto fare nulla nemmeno volendo» rispose
secco giustificando, stranamente,
la Regina «E non credere
che non si sia sentita in colpa anche per questo, soprattutto
perché Alice era
una sua alleata e si supponeva rendesse conto a lei delle sue azioni:
un peso
in più da sopportare sulle spalle per lei non ha mai fatto
differenza, e quello
di avere fra le proprie fila un’assassina è solo
uno dei tanti ai quali non ha
potuto e non può porre rimedio, tutto qui.»
spiegò facendo tornare Jack ad uno
stato in cui era possibile parlargli.
Il
che non servì a molto, perché proprio
mentre stava per controbattere fu Calmoniglio a mettergli una zampa
sulla bocca
facendogli segno di stare in silenzio:
«Per
oggi ne ho abbastanza di parlare di
gente morta e tutto ciò che ne deriva, seriamente: il
passato è passato,
continua a fare male per forza di cose e non ci si può
mettere una pietra
sopra, abbiamo ben altre preoccupazioni che litigare con Harmonia per
qualcosa
di cui non ha proprio colpe» gli disse assumendo
un’aria pensierosa «Tipo il
fatto che sia tarda mattina e non ci abbia ancora convocati per parlare
dell’alleanza… non è da lei arrivare in
ritardo, soprattutto per qualcosa di
tale portata, forse starà solo dormend-»
«E
se fosse arrivato Pitch nella notte e le avesse tagliato la gola? E se
fosse
entrato Phobos di nascosto mentre noi dormivamo? O forse quella donna
strana
che ci ha frantumato una vetrata addosso le ha dato fuoco e ci
serviranno
bistecche di cavallo e bistecche di Harmonia e bistecche di
chissà cosa!»
iniziò a delirare Jack andando nel panico; il coniglio
pasquale non lo guardava
male, lo guardava malissimo:
«Cosa
ti sei fumato questa mattina, esattamente? Guarda che certe
erbe a
Phantasia sono pure velenose eh, non vorrei che ti fosse andato il
veleno al
cervel… Jack? Jack!» stava per dire quando lo vide
scomparire come un fulmine
dalla sua vista, probabilmente per andare a cercare Harmonia di persona
e
calmarsi.
O
forse solo per assicurarsi che le
bistecche fossero ben cotte.
Non
aveva la minima idea di dove quel
labirinto di corridoi lo avrebbe portato, ma sgattaiolando da una parte
all’altra in quei luoghi stranamente silenziosi gli metteva
anche più ansia del
ritrovarsi ad immaginare il sapore di una cotoletta di centauressa: non
c’era
nessuno in giro per il castello, nemmeno Antares e le sue molestie da
riproduzione, e quel silenzio non faceva altro che permettergli di
sentire il
proprio cuore che batteva all’impazzata per il terrore di
trovarsi davanti al
cadavere della Regina.
Comunque
fossero messe le cose, quel suo
continuo correre a destra e sinistra senza una vera e propria meta
aveva dato i
propri frutti quando era arrivato in un’ala del castello con
una porta che,
almeno a vederla, gli aveva dato l’impressione di essere
più importante di
altre: forse era per i battenti dorati sui quali era raffigurata
Harmonia vista
di fronte a grandezza naturale, la
quale
teneva le braccia incrociate al petto con una spada in una mano ed una
rosa con
tanto di spine che le si avvinghiavano sul braccio nell’altra
mentre sul capo
aveva una corona che sosteneva una gemma a forma di stella azzurra,
forse era
perché su tutto il profilo della porta si snodava una donna
dal corpo di
serpente, come anche ai lati della regina c’erano due figure
appena abbozzate,
la prima incappucciata con una sfera in mano e la seconda con uno
spadone ed
uno scudo, il tutto completato da una ragnatela fatta da sottilissimi
fili di
gemme multicolore che faceva da sfondo alla scritta “Semper
fidelis Reginae”, “Sempre fedeli alla
Regina”.
O
forse tutta quella pomposità non
serviva proprio a niente, perché era riuscito a distinguere
dei suoni strozzati
provenienti da quella stanza e vi si era fiondato dentro prima
di subito con tutta la forza che aveva in corpo senza nemmeno
pensarci.
Interrompendo
brutalmente un orgasmo.
Quella
era una fottutissima serpentessa con un fottutissimo pene che se ne
stava
fottutamente avvolta intorno al corpo di Harmonia
La
scena era abbastanza imbarazzante,
disturbante ed inquietante
allo stesso tempo: da una parte c’era Jack Frost
lì, fermo sullo stipite
della porta con gli occhi sbarrati e la crescita bloccata definitivamente a causa dello spettacolo
che si stava consumando
davanti alla sua figura immobile, paralizzata dal trauma appena subito
e dalla
consapevolezza che aver aperto quella porta era stata una scelta
peggiore
dell’aprire il vaso di Pandora.
Dall’altra
c’era Myricae che se ne stava
avvolta intorno al corpo di Harmonia con il proprio bacino premuto su
quello
equino dell’altra, la quale se ne stava sdraiata a pancia in
su con le zampe
tenute aperte ed un braccio sulla fronte intenta ad ansimare e lanciare
gemiti
di piacere che ben poco lasciavano all’immaginazione su cosa
stessero facendo.
Nessuno
aveva proferito parola.
Tranne
Harmonia, che ormai sembrava
essersi finalmente accorta della
presenza di quel povero disgraziato intento a fissarla mentre faceva
sesso con
la sua compagna:
«Eh?
J-Jack? Ah, Frost! Stavo g-giusto
per chi-chiamare te e-ed i tuoi am-amici appena…
f-fi-finivo, ecco, giusto
v-voi… M-Myricae…» cercò di
biascicare probabilmente ancora presa dall’intenso
piacere nel quale si stava crogiolando, per poi afferrare due dei
serpenti che
scendevano dal capo dell’altra tirandola a sé
«Credo c-che per og-oggi, per
q-questa ma-mattina… a-ab-abbiamo… finito, credo
di s-sì… per o-ora,
almeno.» la congedò prendendosi di
rimando un delicato
bacio sulla fronte che nulla c’entrava con quello spettacolo.
Nel
mentre che la serpentessa si
srotolava e si avviava verso la porta, Jack Frost ebbe tutto il tempo
di
osservarla: sebbene il volto e gli occhi verde lime fossero
incorniciati da una
cascata di sottili serpenti adornati da diversi gioielli
anziché da capelli, fino
al bacino aveva l’aspetto di una donna dalla pelle chiara e
interrotta qua e là
da sottili scaglie verde acceso concentrate soprattutto su spalle,
fianchi e
collo, con il prosperoso seno che sembrava faticasse ad essere
trattenuto da
delle placche dello stesso colore, placche che si ripetevano sugli
avambracci e
scendevano fino alle mani dando sfoggio di dita spaventosamente
artigliate, ora
impegnate a stringere i fianchi di Harmonia lasciando dei solchi
rossastri
abbastanza profondi da quanto erano affilati.
La
parte che lo preoccupava di più era
però quella inferiore, ovvero dal bacino in giù:
il corpo da serpente esageratamente
lungo era coperto di spesse scaglie verde smeraldo che si
sovrapponevano l’una
con l’altra rendendolo pressoché impenetrabile, le
stesse che andavano ad
incontrare delle sorta di placche di un giallo oro che a prima vista
dovevano essere
le stesse che toccavano terra quando si muoveva disseminate fino alla
punta
della coda che sembrava un solo ed unico fascio di muscoli che, se lo
avesse
voluto, avrebbe potuto romperlo in due nel giro di mezzo secondo.
E
fino a lì tutto bene, era una donna
mezza serpente, non era così strano se ripensava che Antares
era una donna
mezza ragno.
Solo
che quella, di donna, aveva il pene,
oltre alla normale dotazione genitale.
Eh.
Nonostante
le premesse per una valanga di
domande da parte di Jack
Frost, la situazione lo aveva sconvolto al punto che anche adesso,
rimasto solo
con Harmonia, non osava proferire parola, nemmeno quando la
centauressa, che
aveva impiegato qualche minuto per riprendersi del tutto dall’esperienza
con la sua amante, si era alzata barcollando e
stiracchiandosi le zampe; incurante del fatto che fosse praticamente
nuda e con
il seno al vento, quando Jack si era coperto gli occhi per evitare di far cadere lo sguardo dove non avrebbe
dovuto anche solo per
sbaglio, la Regina si era rivolta a lui con tutta la calma
del mondo:
«Puoi
anche guardare, Jack, non ho nulla
da nascondere… come invece fa
Myricae»
fece notare ridendo mentre il giovane Guardiano, sforzandosi non poco,
cercava
di mantenere un’espressione che non sembrasse da maniaco
sessuale mentre vedeva
Harmonia che si sistemava l’armatura che le copriva il petto:
«Accomodati pure,
finisco di prepararmi e arrivo subito: ero talmente presa da quello che
stavo
facendo da non essermi resa conto che fosse già tardi, ma
spero che per voi
Guardiani non sia un problema aspettarmi.» si
scusò prendendo posto davanti ad
uno specchio tirando fuori una serie non meglio definita di trucchi
vari.
Jack
trovava abbastanza sconvolgente la
nonchalance con la quale la Regina, reduce
da una scopata che lo aveva lasciato allibito in un modo spaventoso,
fosse
intenta a maneggiare curiosi pennelli dalle setole arcobaleno e
l’impugnatura
che ricordava il corno di chissà quale specie di cavallo di
Phantasia, ma si
era tenuto per sé quel dubbio con la consapevolezza che
Harmonia aveva ben
altro di cui parlare:
«Avrai
intuito che Myricae è molto più
che uno dei miei generali, quindi salterò la parte in cui ti
dico che è stata
lei a salvare la situazione ieri e che sempre lei è
l’amore della mia vita da
quasi sette secoli a questa parte, e verrò direttamente a
quella in cui ti
spiego perché ha qualcosa in
più là
sotto» lo anticipò tranquillamente mentre le sue
palpebre superiori si
coloravano di un delicato azzurrino «Myricae è
un’Ophidian, una razza di donne
naga che vivono nella foresta ai confini di Phantasia,
nell’antica città di
Quetzalli: nulla di sconvolgente per loro, ma per esigenze
riproduttive varie nascono ermafrodite, potendo decidere
se deliziarsi in due con i piacere dell’accoppiamento o se
fecondarsi
autonomamente.» spiegò mettendosi un velo si
rossetto color albicocca.
Il
volto di Frost non era una maschera
di terrore, era molto di più:
«Loro
possono… fecondarsi… da… sole? Ma
nel senso… nel senso che… si infilano da
sole… le cose…
cioè…» biascicò incredulo e
tremante, avendo subito dopo la
mano di Harmonia sulla testa che gli scompigliava i capelli:
«Non
proverà a deporre le sue uova nel
tuo stomaco, di quello non devi assolutamente preoccuparti, anche
se…»
«Anche
se?» ripeté preoccupato temendo
già il peggio
«Anche
se è leggermente una
ninfomane, tutte le Ophidians lo sono, ma Myricae
lo è solo con me» lo rassicurò ridendo
«Al
massimo ti ritroverai con i pantaloni abbassati di notte, nulla di
particolarmente preoccupante. Ed ora è meglio se
ci sbrighiamo, i cornetti
caldi per colazione ci stanno aspettando… ed anche i tuoi
amici, non vorrei far
attendere nemmeno lor-»
«Harmonia…
come facevi a sapere che Pitch avrebbe
attaccato? Insomma… hai
mandato i tuoi generali, quindi lo sapevi… ma
come?» domandò incuriosito piegando la
testa di lato.
La
domanda l’aveva lasciata spiazzata.
Improvvisamente,
la mente di Harmonia tornò a ciò che era successo
il giorno precedente il
famoso attacco al Polo Nord…
Quella
pausa dalla
burocrazia era assolutamente
indispensabile per sciogliere la tensione accumulata
nell’ultima settimana: fra
i Guardiani che facevano la loro muta rivoluzione ed il problema
dell’Abisso
ancora irrisolto, Harmonia sentiva la testa che le scoppiava.
Ogni
tanto, e con ogni tanto intendeva
le poche volte in cui non aveva davvero
nulla da fare, si concedeva dei momenti in cui non pensava altro che a
rilassarsi, per godersi ciò che la sua
terra le offriva: il profumo inebriante dei fiori che tingevano
l’orizzonte di
sfumature variopinte, la sensazione dell’erba bagnata dalla
rugiada che le
sfiorava gli zoccoli dorati mentre avanzava con passo lento al fine di
assaporare fino in fondo quella sensazione, gli occhi che le si
riempivano
della tenue luce rosata del mattino riflettendola in quel mare azzurro
come
l’acqua che sgorgava dal suo castello, da quella che era la sua casa da settemila anni a quella
parte.
Decise
di appartarsi all’ombra di una
piccola radura con un laghetto le cui rocce formavano una sorta di
cascata di
dimensioni piuttosto contenute, come se fosse una vera e propria oasi
di pace e
tranquillità: senza impegni incombenti sulle spalle,
Harmonia si limitò a
svestirsi dell’armatura minima che le copriva il seno, le
spalle e parte dell’addome,
per poi immergersi fino a metà delle zampe
nell’acqua e sdraiarsi su una pietra
collocata direttamente sotto quella cascata scosciante di vita,
iniziando a
giocherellare con i capelli.
In
quegli istanti in cui la sua mente si
era liberata da tutti i problemi e le preoccupazioni, Harmonia
guardò
orgogliosa intorno a sé: Phantasia era un posto da sogno, un
paradiso sceso in
terra che rendeva felici i propri abitanti e chi lo visitava per la
prima
volta, un luogo dove i timori e le paure non osavano nemmeno entrare
perché
sarebbero state accolte solo da persone che, della paura, proprio non
sapevano
cosa farsene quando avevano l’amore della propria Regina a
loro completa ed
indiscriminata disposizione.
Tuttavia,
per quanto ora fosse così
felice e fiera del proprio operato, c’era sempre un fendente
di dolore che
prendeva strada nel suo cuore frammentato: dove ora c’erano i
campi color
smeraldo, i roseti che parevano arcobaleni e gli alberi le cui bacche
deliziavano anche il palato più raffinato, un tempo
c’erano state lande
bruciate, cadaveri che tappezzavano l’orizzonte e oltre,
laghi di sangue e
fosse scavate nella nuda terra che piangeva i suoi figli.
Era
stato molto, moltissimo, tempo fa,
certo, ma non poteva dimenticare cosa le era
stato messo nelle mani e fra gli zoccoli: sforzo dopo sforzo, lacrima
dopo
lacrima, era riuscita a riportare quel pianeta ormai sterile
all’antico
splendore che l’aveva accompagnata per tutta la vita, se non
addirittura ad un
livello superiore, e questo le bastava per sorridere ancora una volta.
Almeno
fino a quando un fremito
dell’orecchio non l’aveva avvisata che, nemmeno
fosse a corte come suo solito,
c’erano visite sempre molto gradite.
La
sentì scivolare appena fra una
fenditura e l’altra nella nuda roccia, un suono quasi
impercettibile che
riusciva ad avvertire appena, quello che bastava per non prendersi ogni
volta
un colpo e rendersi conto che si era appollaiata al riparo
dall’acqua in un
incavo sotto la cascata:
«Non
è stato carino da parte tua
chiudermi le porte in faccia, davvero scortese»
commentò palesemente ben poco
afflitta Tanith mentre le faceva segno di “no” con
l’indice «Potrei addirittura
essermi offesa per un tale oltraggio, questo tuo gesto alquanto villano
mi ha
spezzato il cuore che non ho!» continuò chinando
la schiena e portandosi una
mano alla fronte come se stesse per svenire.
Harmonia
si limitò a sorridere appena,
quasi divertita dalla scenetta portata avanti
dall’Ephemeride, ma non perse di
vista la consapevolezza che con lei era meglio non tirare troppo la
corda, se
non la si voleva spezzare di netto:
«Sono
addolorata che il mio gesto
impulsivo quanto necessario ti abbia ferita, ma ahimè non mi
hai dato altra
scelta se non di chiuderti fuori, gesto ovviamente fatto a
malincuore» rispose
scuotendo la testa «Capiscimi, Tanith, ho un regno da mandare
avanti, le tue
comparsate sono motivo di grande preoccupazione: quando decidi di
omaggiare noi
poveri plebei con la tua presenza che emana voglia di dolore da tutte
le ossa,
potrei addirittura pensare che tu mi voglia uccidere!»
esclamò gesticolando per
fingersi spaventata.
Ecco,
se c’era una cosa che Harmonia
poteva permettersi di fare senza troppe preoccupazioni, ma sempre con
la dovuta
cautela richiesta dal caso, era di utilizzare con
l’Ephemeride un linguaggio
che rasentava quello delle sue frecciatine, gesto reso possibile solo
dalle
velate, se non velatissime minacce, di tirare in ballo le famose
“conoscenze
alle alte sfere” delle quali godeva la Regina della Fantasia.
Tanith
la osservò perplessa nei primi
momenti, accennando solo dopo un sorriso:
«Ammetto
che mi hai preso alla
sprovvista, questo te lo concedo, non sono molti quelli che si
permettono di
dirmi “Tu qui non puoi
entrare”, ma è
stato un gesto ammirevole… tremendamente
rischioso, ma di un coraggio quasi proverbiale» si
complimentò applaudendo
calorosamente
«E
proprio per questo voglio farti una
sorpresa, dicendoti che potrai costringere i Guardiani ad accettare la
tua
alleanza direttamente domani, con tua grande gioia immagino!»
buttò lì con i
suoi soliti sorrisetti maliziosi; improvvisamente, Harmonia
sentì il sangue
gelarsi nelle vene, e non era per l’acqua particolarmente
fredda:
«Ma
guarda un po’, sono addirittura
riuscita ad incuriosire la grande Regina della Fantasia, ora sono io
che mi
sento onorata!» le disse poggiandosi con nonchalance sul suo
dorso.
In
realtà, Harmonia tratteneva a stento
i brividi nel sentire il corpo di Tanith,
ora fin troppo tangibile, che le scivolava addosso
avvolgendole la coda
intorno ad una zampa:
«Devo
supporre che si tratti di qualcosa
di particolarmente importante, se vieni a dirlo a me anziché
a Myricae»
rifletté girandosi
per guardarla negli
occhi, facendo riferimento all’incontro fra
l’Ephemeride e la propria amante.
L’altra
la guardò con altrettanta
intensità, a metà fra il divertito ed il
profondamente perplesso:
«Oh
sì, almeno tu non cerchi di farti
ammazzare, anche se sarei curiosa di vedere quanto ci metti prima di
chiamare quella gente là»
disse indicandole la
grande stella che brillava sopra il castello di Harmonia
«Comunque sia, bella gente a parte
e minacce che credi io
non riesca a percepire, si tratta di Black, di Pitch Black.
Ed Emily Jane
Pitchiner, anche lei»
buttò lì
giocherellando con i capelli di Harmonia «Domani,
sulla Terra: attaccherà il Polo Nord con un branco
di Incubi leggermente
più svegli del solito, ma nulla che non si possa risolvere
con qualche freccia
avvelenata piantata in mezzo ai loro occhi mentre li tieni confinati
con un qualche
campo di magia. Un lavoretto semplice, per Myricae e Naevia, ti
suggerisco di
mandare loro due.» concluse scendendo con calma dal suo corpo.
Harmonia
sentiva le domande affollarle
la mente impedendole di pensare a qualsiasi altra cosa che non fosse la
parola
“attacco” vicino ai nomi di Pitch ed Emily Jane,
uno più problematico ed
altezzoso dell’altra; distratta da quei ragionamenti che un
po’ di
preoccupazione gliela davano anche, quasi non aveva fatto caso a Tanith
che
stava pian piano scomparendo nella sua invisibilità
terminato il proprio compito:
«Tanith!
Aspetta un attimo!» la chiamò
facendola girare «Come fai a saperlo? Nel senso…
ne sei assolutamente sicura? Insomma…
chi ti ha dato esattamente queste
informazioni? chiese senza aspettarsi una
risposta.
Che
in effetti non arrivò, non
direttamente almeno, perché quando la figura
dell’Ephemeride era scomparsa del
tutto dalla sua vista aveva sentito un brivido vicino
all’orecchio:
«Me
l’ha detto una falena.»
sussurrò quasi impercettibilmente dissolvendosi nel
vento.
Ora
la passeggiata era finita.
Ora
il divertimento era finito.
Ora
aveva in mente solo una cosa, e cioè organizzare una
spedizione sulla Terra,
salvando la situazione come sempre.
E
farsi dare qualcosa in cambio.
L’alleanza,
magari.
Nonostante
le domanda scomoda, Harmonia
fece semplicemente spallucce:
«Sesto
senso da Regina, nulla di più.»
mentì sorridendo; anche se Jack aveva diversi
dubbi, il giovane Guardiano si limitò a starle dietro mentre
si avviavano senza
troppe domande: aveva la netta impressione che ci fosse qualcosa
di più che un “sesto
senso”sotto quella risposta, ma aveva
anche l’impressione che approfondire sarebbe stato del tutto
inutile.
E
pericoloso.
Arrivati
nel grande salone illuminato
dai raggi che penetravano dal lucernario multicolore, Frost si era
sentito
particolarmente rincuorato vedendo tutti i suoi compagni seduti davanti
ad un
tavolo di rami bianchi esageratamente lungo ed imbandito con tutto
ciò che si
poteva chiedere per una colazione che si potesse definire tale: seduti
ad una
delle due estremità con Nord a capotavola, i Guardiani
sembravano aver lasciato
da parte le preoccupazioni per impegnarsi nella difficile quanto ardua
scelta
di mangiare prima i croissants da gusti esotici o i pancake o i waffles
o
ancora le svariate torte o chissà cos’altro che
non vedeva dalla porta d’entrata;
all’altra estremità del tavolo c’era la
seduta di Harmonia, una sorta di
piccolo divanetto romano adatto ad accogliere il suo corpo equino senza
che
dovesse fare chissà quali acrobazie per tenerci le zampe
sopra, affiancata su
due lati dai suoi generali, da Alice e da Scarlet con Spettro occupato
a
spolpare un grosso pezzo di carne per terra.
Fra
un’occhiata e l’altra ai commensali,
Jack Frost si rese conto che l’atmosfera sembrava essere
molto più distesa di
quanto lui stesso si aspettasse, e soprattutto che Dentolina non pareva
avercela con lui come si era aspettato, ma tutto sommato non gli
dispiaceva che
finalmente ci fosse un po’ di silenzio e nessuna aria di
complotti sotto il
naso: ora come ora erano solamente delle persone preoccupate solo di
consumare
la loro colazione senza formalità varie ed eventuali,
persino Myricae che aveva
delicatamente preso la nuca ad Harmonia per strapparle
l’ennesimo bacio con la
scusa di pulirla dalla cioccolata
non
lo metteva in soggezione ma anzi riusciva a strappargli una risata, e
tutto
sommato era una bella situazione, molto serena ecco.
O
almeno lo era stata fino a quando dalla
porta principale non era entrata l’ennesima ospite
sconosciuta a Jack,
l’ennesima delle donne che gravitavano intorno alla Regina.
Solo
che non era una donna, era un leopardo delle
nevi antropomorfo.
Con
in mano una serie non meglio
definita di fogli, tra l’altro.
Mentre
si avvicinava a passo lento,
Frost ebbe tutto il tempo per osservare quella singolare creatura:
nonostante
il corpo seguisse effettivamente le forme di una donna adulta, compreso
il seno
nemmeno molto pronunciato, l’aspetto era quello di un
leopardo delle nevi dal
manto bianco immacolato e grigio chiaro costellato su braccia, gambe e
fianchi di
macchie di varie sfumature di nero che continuavano sulla lunga e folta
coda
lunga quasi quanto era alto quell’essere, per certi versi
troppo grande per
quel corpo esile ma comunque atletico.
Anche
se era un mezzo animale, o meglio
un animale che stava su due zampe, Jack non poteva nascondere che aveva
un
certo fascino: i capelli neri e lisci che percorrevano tutta la schiena
incorniciavano un viso felino completato da due grandi occhi di un
color
turchese profondo, la soffice pelliccia coperta sul seno e
sull’inguine da un’armatura
dorata e argentea piuttosto leggera, giusto quello che bastava per non
andare
in giro mezza nuda per quello strano gioco di “vedo non
vedo” offerto dalla
pelliccia, armatura formata principalmente da delle placche metalliche
sul petto
e sulle spalle intervallate da uno strato di tessuto rosso scarlatto
come se
fosse un corsetto, oltre che quella presente sugli avambracci ed i
polpacci.
Ed
aveva una spada da dare invidia a
quella di Alice, soprattutto quella,
ma almeno se la teneva premuta sul fianco.
Si
era incamminata verso Harmonia
dandole in mano i fogli che portava con sé, volgendo poi lo
sguardo verso il
giovane Guardiano, probabilmente perché era
l’unico presente a non conoscerla:
«Felice
di fare la tua conoscenza, Jack
Frost, Guardiano del Divertimento» lo salutò molto
gentilmente con un breve
inchino «Il mio nome è Naevia, generale alla corte
della Regina della Fantasia,
oracolo di Phantasia e ambasciatrice di Exodus sulla Terra, lieta che
ti sia
unito anche tu a questa colazione insieme agli altri Guard-»
«Naevia
la Frigida, sovrana dell’Insensibilità,
quella-che-vede-cose» intervenne stuzzicandola
prontamente Myricae spezzando l’atmosfera formale mentre le
pendeva un waffle
grondante di sciroppo d’acero dalla bocca «Sappiamo
chi sei, quindi smettila
con questi atteggiamenti da principessina sul pisel… ah no,
aspetta, quello
proprio no! Non sia mai che la tua regale pelliccia venga violata da
cotanto
desiderio carnale… sempre che tu e la tua
altezzosità sappiate cosa sia, il
desiderio carnale.» la schernì
nuovamente.
Nonostante
le palesi frecciatine, Naevia
non sembrava curarsi delle parole che le veniva rivolte dalla sua
collega di
lavoro né delle espressioni imbarazzate di Harmonia, tanto
che aveva preso
posto senza fiatare e senza commentare, dimostrando un incredibile
autocontrollo;
da parte sua, la Regina aveva dato una rapida occhiata alle carte che
aveva
davanti annuendo man mano che le scorreva, per poi fare cenno a Nord di
ascoltarla:
«Quelli
che ho in mano sono i documenti
dell’alleanza fra voi Guardiani e la sottoscritta, oltre a
ciò che rappresento:
Phantasia e Fairy Oak si impegneranno personalmente per mantenere i
termini
accordati, l’intero pianeta Exodus e tutto ciò che
è sotto la mia giurisdizione
si presterà formalmente perché tali termini non
vengano violati. Da entrambe le parti, si
intende.»
spiegò lasciando che Myricae passasse con la sua coda gli
incartamenti fino al
lato dove se ne stavano seduti i Guardiani stessi.
Carte
alla mano e occhiali tirati fuori
da chissà dove, Nord e Sandy si erano messi a dare una
veloce occhiata a ciò
che era appena stato loro consegnato spostando gli occhi da destra
verso sinistra
in modo quasi compulsivo, fino a quando il primo non si era fermato
sull’ultima
pagina:
«Credo
che esserci errore, Harmonia,
questo punto forse esser-»
«L’ho
scritto di mio pugno, è tutto
esattamente come dovrebbe essere»
asserì tranquillamente «Queste sono le condizioni,
e non potete che accettarle
dal momento che ieri Myricae ha parlato chiaro, chiarissimo:
varcate il portale e accetterete le condizioni, e voi
l’avete varcato senza pensarci, il mio
portale.» puntualizzò mentre i fogli passavano di
mano in mano, dipingendo sui
volti dei presenti espressioni sempre più sconvolte:
«Non
volevo arrivare a tali
contromisure, credimi, ma è l’unico modo per
spingere voi Guardiani ad
impegnarvi seriamente e non ritirarvi dall’eventuale
battaglia nel bel mezzo
della stessa: una garanzia, la chiamo io, una
garanzia della vostra fedeltà, perché
ciò che è accaduto con Apophis non
possa ripetersi.» concluse tornando composta a consumare un
croissant.
Quando
i fogli arrivarono a Jack, ci
mancava poco che si prendesse un infarto: un
Guardiano.
Un
Guardiano
Harmonia
chiedeva un Guardiano.
La
garanzia era… uno di loro cinque.
Da
tenere a palazzo come ostaggio, come
“ospite”, per assicurarsi che nessuno
cambiasse improvvisamente idea in corsa, per evitare cambi di idee e di
fazione
imprevisti, un modo come un altro per tenere tutti loro stretti fra gli
artigli
suoi e dei generali che la circondavano.
E
non potevano fare nulla se non accettare
di consegnare… ma chi?
Chi
di loro cinque?
Per
un istante, Jack Frost ebbe la netta
sensazione che essere il Guardiano più problematico del
gruppo, quello del
quale tutti o quasi avrebbero più o meno esplicitamente
voluto liberarsi, non
fosse proprio la posizione migliore nella quale trovarsi.
Nella
quale lui si trovava.
Se
l’unica cosa della quale doveva
preoccuparsi Harmonia era di lasciare che la sua amante le facesse
provare
talmente piacere da farle dimenticare tutti i problemi, allora
Halley poteva anche considerarsi fortunata a non essere morta.
Non
ancora, almeno.
Il
Veggente era lì impassibile davanti a
lei, che se ne stava invece a terra faticando ad alzare la testa da
quanto il
dolore si era fatto pungente ed insistente, che la guardava con uno
sguardo
talmente indecifrabile da non lasciar trasparire nessuna emozione che
fosse
una; lasciandosi indietro le grandi ali nere stese a terra come se
fossero un
continuo della tunica che gli copriva a malapena le nudità,
piegò appena la
testa tenendo quattro delle sei braccia incrociate al petto:
«Potrei
ucciderti, se lo volessi…»
asserì piantandogli addosso quegli occhi viola inteso reso
ancora più profondo
dalla sclera nera tendendo una mano verso di lei.
Ecco.
Era
finita.
Finita.
Game
over.
Ciao
ciao.
Auf
wiedersehen.
E
invece no.
Con
sua somma sorpresa, Halley si trovò
con due braccia che la afferravano da sotto le ascelle e la sollevavano
delicatamente rimettendola in piedi, premurandosi che in piedi ci si
reggesse
anche, per poi tornare alla loro consueta posizione al petto bianco del
legittimo proprietario:
«Ma,
attualmente, la tua morte non è nei
miei piani, né in quelli di questo Universo: ritieniti
fortunata, Comet E.
Halley… molto
fortunata.» disse
semplicemente il Veggente con quel suo tono altezzoso da essere
superiore quale giustamente era.
La
situazione era abbastanza
inquietante, confusa e sorprendente: lei, quella che aveva preso
l’acqua della
Sorgente del Cosmo intrufolandosi nella Torre di Babilonia senza
pensarci
troppo, e lui, la creatura più potente, più
onnipresente e più onnisciente che
il creato avesse mai avuto l’onore di vedere, che la fissava
con un’espressione
più pacata rispetto al “Sono
venuto qui
per ucciderti e farla finita una volta per tutte, così
imparai a prenderti la
mia acqua” che si aspettava quando le era comparso
davanti.
Dopo
essersi ricomposta, Halley notò
un’altra bizzarria: il dolore pulsante alla testa provocato
dalle visioni, come
anche quello bruciante alla schiena che l’aveva fatta piegare
in due, erano completamente spariti.
Temporaneamente,
ma almeno le avevano
dato tregua.
Ora
come ora, con il controllo dei
propri poteri del tutto ristabilito, Comet capì che aveva
due possibilità, una
peggiore dell’altra: approfittare della situazione tornata a
sua vantaggio per
scappare prima di subito senza
guardarsi indietro, con la consapevolezza che scappare dal Veggente
sarebbe
sttao impossibile e che prima o poi l’avrebbe ritrovata,
oppure starsene lì a
capire per quale motivo fosse andato a cercarla per fare qualsiasi cosa
che non
fosse ucciderla, il che era piuttosto strano dal momento che il
Veggente stesso
preferiva passare le giornate chiuso nella sua Torre anziché
andare dietro ad
una cometa ubriaca.
Lo
guardò ancora qualche istante prima
di decidere: non aveva nulla di diverso rispetto a quanto ricordasse,
non c’era
niente che potesse far pensare che era talmente assuefatto dal latte
interstellare che mungeva direttamente dalla Via Lattea, nome assegnato
proprio
per ricordarne la funzione, da non essere più in grado di
ragionare con il
cervello fisico che non aveva nella scatola cranica, e nemmeno quella
c’era.
Però
una cosa l’aveva eccome.
Ed
era quella sulla quale Halley stava puntando i propri pensieri, occhi e
pure le
mani.
Iniziò
a fantasticare su come
l’avrebbero chiamata se fosse riuscita nel proprio intento: Comet. E Halley, prima del suo nome,
“colei
che è nata dall’altofuoco”, incendiaria
di pianeti, bevitrice di KAFFÉÉÉ,
distruttrice di Abissi, madre del Ciciarampa, ladra
dell’Acqua, amante del trombaris.
E,
soprattutto, “quella che si è scopata il
Veggente”.
A
volte si chiedeva se lui stesso fosse
consapevole di avere la bruschetta,
tenero nomignolo di uso curiosamente molto diffuso per indicare i
genitali
maschili, cosmica.
Non
normale, non “tanta”, semplicemente “cosmica”.
Il
fatto che appartenesse già di diritto
alla dolce puledra del Veggente che aspettava il suo glorioso amante in
un
altro Universo poco le importava, quella meraviglia del creato non
poteva mica
essere riservata, avrebbe dovuto essere di dominio pubblico!
O
anche solo di Halley, bastava che
gliela desse a lei.
Non
sospettando nulla, o forse sapendo
già tutto dall’alto della sua onniscienza ma
facendo finta di niente, l’altro
era rimasto piuttosto spiazzato quando la donna gli si era fiondata
addosso
strusciandosi sulle grandi ali nere mentre giocherellava con le piume,
prendendosi di rimando gli sguardi sconvolti dei molteplici occhi che
le
ricoprivano:
«Cercavi
compagnia, vero? Dai dai che lo
so, che vuoi fare all’ammmore con questa cattiva ragazza che
ti ha preso
l’acqua senza dirtelo!» gli sussurrò
sorridendo maliziosamente premendo
prepotentemente il seno contro il suo petto, incurante delle fauci che
gli
squarciavano il ventre all’altezza dello stomaco
«Sono tutta tua, sovrano del
creato, puniscimi per le mie azioni tanto ma taaanto malvagie e fammi
pentire
di essere venuta al mondo!» lo stuzzicò
mettendogli le braccia intorno al collo
e toccandogli la punta del naso.
In
tutto quel teatrino, il Veggente non
aveva mosso nemmeno un dito per assecondare o liberarsi della presa
della
donna, limitandosi ad osservarla perplesso:
«Penso
proprio che le visioni sulla mia
esistenza che va avanti da miliardi e miliardi di anni possano bastare,
eventuali punizioni fisiche sarebbero inutili» rispose
freddamente mentre
l’altra abbassava lo sguardo verso la tunica biancastra
trasparente «Spero ti
siano piaciute, quelle visioni, perché ne verranno molte
altre sul mio, di
passato. Ed è un passato bello lungo, parecchio
lung-»
«Non
tanto lungo quanto la tua
bruschetta, però!» fece notare lei infilando una
mano sotto la cintura e afferrando
quello che non avrebbe nemmeno dovuto
sfiorare:
«Me
la dai, eh? Eh? Dai dai Veggy,
fammi fare una cavalcata sul
puledro più vergognosamente overpower del cosmo! Ti
preeeegooo! Solo una!»
insistette facendo gli occhi dolci.
Nonostante
Halley avesse palesemente
intenzioni sessualmente ambigue, e nonostante avesse praticamente fra
le mani la bruschetta cosmica,
l’altro l’aveva
guardata senza scomporsi, ed anzi sospirando annoiato:
«Sorvolerò
sul fatto che tu mi abbia
chiamato Veggy…» si lamentò
lanciandogli un’occhiataccia di intesa «Ho una
puledra che mi aspetta in un altro Universo, Comet E. Halley, dunque
sei
pregata di lasciare il mio pen-»
«La
bruschetta! Si chiama bruschetta!» si
affrettò a correggerlo
«...
Qualsiasi nome tu abbia dato al mio
organo sessuale privo di qualsiasi
funzionalità riproduttiva, sei gentilmente
pregata di mollare la presa, o ti assicuro che te la faccio
mollare io.»
minacciò sapendo di averla convinta; e invece no,
perché a quel punto se l’era
trovata con la mano libera che giocherellava con i suoi capelli di un
biondo
tendente al bianco:
«Ho
tanta paura delle tue minacce,
Veggy, tantissima!» rispose fingendo di tremare per il
terrore mentre si
sfilava l’abito rosso scarlatto abbandonandolo sui fianchi
«Credo di aver bisogno di essere
punita molto
duramente per i miei gesti oltremodo oltraggiosi, potrei non
imparare la
lezione se tu mi lasciassi andare senza conseguenze!».
Il
Veggente la osservò qualche istante
perplesso: a quanto stava vedendo, Halley non si stava facendo scrupoli
per
chiedergli di fare sesso con lei, ovviamente fregandosene malissimo se
lui era
già fidanzato con un’altra in un altro Universo di
tutti disponibili sulla
piazza, ed il problema era la consapevolezza che lei voleva seriamente scoparselo selvaggiamente
fino a quando ne avrebbe avuto le forze, il che poteva significare
andare
avanti per chissà quanto tempo data la sua natura di essere
immortale, ore che
per il Veggente potevano protrarsi all’infinito data la
mancanza di una
qualsiasi concezione della fatica.
Come
di tutte le altre sensazioni del resto.
Vedendo
che la ragazza non intendeva
desistere, ed anzi aveva iniziato a dargli improbabili bacini sul collo
facendo
spaventare gli occhi gialli e azzurri che lo costellavano, aveva
interposto fra
lui ed Halley una delle spesse ali nere per tenerla a bada, gesto che
però
servì a ben poco quando lei iniziò ad emettere
gridolini strozzati:
«Che
monello che sei! Lo sai che soffro il solletic…
smettila! Smettila!
Daaaaai!» squittì contorcendosi su se stessa
mentre lui iniziò a scuotere la
testa allibito, rendendosi conto che ogni gesto sarebbe stato
interpretato come
l’essere felici di tali molestie:
«Ho
già una puledra, Comet E. Halley,
non penso proprio di essere interessato alle tue manifestazioni di
bisogni
affettivi e di “sesso”, come lo chiamate voi
plebaglia in questo pos-»
«Però
il culo della tua puledra te lo
prendi, eh? Vecchio maiale che non sei
altro!» ci rise sopra mettendogli una mano sulla
nuca e portando la sua
fronte contro la propria «Scommettiamo che ti faccio cambiare
idea?» senza
aspettare la risposta per poi gettarsi in un caldo quanto appassionante
bacio.
Con
il Veggente: il sovrano
incontrastato
del Multiverso intero, quello che aveva regalato alla sua puledra una
corona con
incastonata una gemma che conteneva ciò che rimaneva di una
supernova, la prima
creatura mai esistita che però già esisteva
quando il concetto di tempo come
quello di spazio non era che una fantasia.
Proprio
lui.
Al
quale però non sembrava interessare
proprio nulla, dal momento che non aveva mosso un solo dito da quando
Halley
gli aveva premuto le proprie labbra sulla bocca:
«Hai
finito o ne hai ancora per molto?
Ho un Universo da vigilare, io, perché quel vostro drago
ubriaco anziché
gestire il suo, di Universo,
preferisce infilare il proprio pene nei buchi neri: quindi, Comet, hai
finito o
no?» chiese infine con aria seccata talmente palese che la
donna gli si staccò
di dosso quasi inorridita:
«Oh
avanti, non dirmi che non ti è
piaciuto eh!» ruggì prendendosi di rimando
un’espressione neutrale come per
dire “Meh, niente di
speciale” in
modo più o meno esplicito.
Non
volendosi arrendere allora gli saltò
addosso sapendo bene che, nonostante il fatto che fosse incredibilmente
infastidito, l’avrebbe comunque afferrata
sostenendole le gambe che gli aveva chiuso intorno alla vita:
«Ma
insomma! Non c’è mai niente che ti
renda felice, eh? Daaaaai Veggy, dim-»
«Buongiorno
ad entrambi» sussurrò
una voce dietro
di loro; Halley non aveva avuto il tempo di girarsi, ma quello per
sentire la
risposta del Veggente lo aveva avuto eccome
«Buongiorno
a te, Mother Galaxy» la
salutò lui con tono cortese.
Mother
Galaxy in persona.
La
Regina delle Galassie in persona.
Lei
mezza nuda.
Su
Orionis III.
In
quel momento, Halley aveva appena assaggiato il brivido
dell’infarto.
_____________________________________________
Angolino
dell’autrice
Di
seguito, riporto la traduzione delle
varie frasi presenti nella lingua di Myricae:
“Vanimle
sila tiri, a’maelamin”
= “la tua
bellezza risplende intensamente, amore mio”
“Avo
anírach echaded meleth na nin, arwenamin?”
= “non desideri fare l’amore con me, mia
signora?”
“Mela
en’ coiamin” =
“amore della mia vita”
Dopo
questa breve premessa, eccomi qui a
dirvi che mi scuso se l’attesa per questo capitolo
è stata più lunga del
previsto, ma il computer purtroppo non aveva intenzione di collaborare
e
funzionare decentemente per cui fra una cosa e l’altra
c’è voluto più tempo di
quanto i ostessa avessi programmato :’D
Tralasciando
questo punto, mi rendo
conto che sono successe TANTE cose in questo capitolo, ma spero che
possa piacervi
comunque e non risulti pesante: ormai le carte in mano a buona parte
dei
presenti stanno venendo scoperte, e non tutte sono così
favorevoli come si era
pensato all’inizio di questa leggendaria alleanza.
Per
la quale dobbiamo ringraziare quell’adorabile
Ephemeride di Tanith e _Dracarys_
che me la fa usare senza
aspettarsi che io la infili a random, fra una proposta indecente e
l’altra! :D
Ringrazio
anche vermissen_stern
per
avermi permesso di citare sottilmente una certa falena, sorvolando sul
fatto
che mi è servita pure l’intermediaria per
chiederglielo eh :’D
Detto
questo, un grazie va anche a chi
segue la storia e ci tiene a farmi sapere che tutto questo disagio
è piacevole
da leggere, oltre che da scrivere :3
Vi
lascio con l’aspetto di Myricae
(capitemi, ADORO quella naga) e di Naevia :)
|
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Capitolo 8 *** Di cracker, kraken e teste rotolanti ***
capitolo8
Nonostante
la tensione che stesse
provando Halley fosse chiaramente visibile e palpabile sulla pelle
d’oca che le
era venuta, Mother Galaxy sembrava invece perfettamente a proprio agio
con
l’imbarazzante situazione che si era creata, come anche il
Veggente non si
faceva problemi a tenerla in braccio mentre lei aveva il seno ed altro di fuori e le sue gambe snelle
avvinghiate
intorno alla vita, con il bacino premuto sulle fauci irte di denti che
squarciavano il ventre del compagno di molestie sbavando un liquido
nero.
Da
parte sua, se non faceva troppo caso
alla sovrana delle Galassie ad appena un metro da lei che premeva la
testa
contro le soffici quanto calde piume nere delle immense ali
dell’altro, Comet
riusciva quasi a rilassarsi e mettere da parte le brutte sensazioni che
la
stavano assalendo: nonostante a primo impatto il Veggente fosse davvero un essere perfettamente
consapevole del proprio ruolo e della propria forza, e nonostante lo
dimostrasse con quel suo atteggiamento freddo e distaccato di chi
è privo di
qualsiasi emozione che possa essere definita tale, sotto sotto, molto sotto, non era poi così
frigido
come sembrava.
D’altronde,
aveva pensato più volte
Halley, c’era anche una puledra che lo amava, e questo
dimostrava che sì, il Veggente
provava sentimenti, almeno con chi voleva: non aveva idea di chi fosse,
ma da
un certo punto di vista non era nemmeno così importante
saperlo.
Perché
tanto voleva scoparselo comunque,
non si sarebbe certo fatta qualche scrupolo solo perché lui
se ne usciva con i
“GNEGNEGNE sono già fidanzato
GNEGNEGNE”, a lei non gliene importava
assolutamente nulla: era Comet E. Halley, la creatura più
inaffidabile che
l’Universo avesse mai visto, figurarsi se lei
avrebbe potuto prendere una scopata con lui talmente sul serio da
metterci del
sentimento!
Però
le piaceva starsene lì fra le sue
ali, si sentiva davvero al sicuro,
ed
era per quello che si era lasciata cullare da quell’abbraccio
piumoso senza
fare troppo caso a Mother Galaxy lì vicino, facendo
ulteriormente presa con le
sue braccia sulla schiena longilinea del Veggente, il quale si era
adoperato
per coprire le nudità della sua ospite con uno dei tre paia
di ali per
permetterle di rivestirsi.
Il
gesto l’aveva lasciata talmente
spiazzata che si era trovata paralizzata da un’azione
così gentile e cortese da
parte di un essere onnipotente e onnisciente, talmente potente da
essere capace
di distruggere o creare Universi semplicemente sbattendo le palpebre;
notando
la condizione di catalessi nella quale era caduta la poveretta, il
Veggente
fece un sospiro annoiato e le afferrò con delicatezza i
lembi del vestito
facendolo scorrere sul corpo nudo che aveva davanti con
un’indifferenza disarmante,
per poi posarla a terra con altrettanta nonchalance.
Erano
seguiti minuti in cui nessuno dei
presenti aveva proferito parola facendo calare un imbarazzante sipario
di
silenzio sopra le loro teste, minuti in cui Halley si era premurata di
non allontanarsi
troppo dalla presa che aveva su una delle sei braccia del Veggente:
Mother
Galaxy che se ne usciva dal Palazzo della Creazione per fare qualcosa
che non
fosse giocare a scacchi con Manny non era una cosa troppo normale.
Anzi,
era preoccupante.
Molto
preoccupante.
Mother
Galaxy, il cui vero nome era
conosciuto solo da sette
persone in tutto l’Universo, era la Regina delle Galassie, e
questo bastava per
intimidire chiunque l’avesse davanti: nonostante fosse la creatura che
teneva in piedi con le
proprie forze e poteri il precario equilibrio nel quale le famiglie
delle
Costellazioni si crogiolavano più o meno beatamente, la
stessa che poteva far
nascere o morire le stelle come se fossero lampadine
nell’immensa stanza nera
del cosmo, era una donna dall’atteggiamento amorevole e
materno, estremamente
protettiva verso chiunque chiedesse il suo aiuto.
Effettivamente,
il suo aspetto piuttosto
semplice certo non faceva presagire tanta forza in una donna, ma un
vago cenno
veniva dato dalle grandi e immense ali dalle soffici piume di un bianco
talmente brillante da far male alla vista: i capelli biondo grano
mollemente
raccolti sulla nuca ed acconciati sulla parte anteriore con una treccia
simile
ad una corona, anziché lasciati liberi di toccate terra
ondeggiando come
sempre, facevano da splendida cornice per due occhi la cui iride era di
una
curiosa serie di sfumature di azzurro che richiamavano la forma di una
Galassia,
con tanto di puntini biancastri come stelle intorno.
In
quanto ad abbigliamento, Mother
Galaxy non si sbilanciava mai più di tanto, preferendo
restare sui temi del
bianco e dell’oro: anche quella volta indossava come solito
un lungo abito
bianco con dei finissimi ricami appena più scuri, tenuto
morbido sul seno e sui
fianchi da una sottile cintura bluastra dalla quale pendevano delle
sottili
catenelle dorate con vari ciondoli a forma di stella di dimensioni
variabili, in
particolare quello più grande con una gemma azzurrina che se
ne stava al centro
del petto diramandosi fino ai lati del seno; simili a quelli presenti
sul
corpo, persino i gioielli che scendevano sulle spalle accompagnando dei
lembi
di stoffa quasi trasparenti ricordavano gli astri, sottolineando il
concetto
che Mother Galaxy, fra quelle stelle, era nata e cresciuta.
E
ora le governava.
Per
quanto l’atmosfera si fosse fatta
leggermente più tesa del previsto, fu proprio Mother Galaxy
a rompere il
ghiaccio nell’unico modo possibile:
«Posso
chiedere il motivo per cui ti
trovi qui, Veggente? Mi risulta che stiano accadendo cose
più importanti del
gettarsi nella tana del lupo, o meglio del drago… in sua
compagnia,
soprattutto» disse stupita inarcando le sopracciglia
«Non mi risulta che lei
goda di questi grandi e amorevoli rapporti con Idhunn Orionis
Chandrasekhar, se
la vedesse potrebbe succed-»
«Nulla,
non potrebbe succedere proprio nulla» puntualizzò
freddo l’uomo incrociando quattro
braccia al petto e lasciando una di quelle libere ad Halley
«Davanti a me,
nessuno ucciderà nessuno, non senza il mio
permesso: se i piani del Multiverso prevedono spargimenti di sangue
allora ben
vengano, ma non verranno consumate vendette personali senza che questo
sia
stato previsto da me. Molto
semplice,
direi.» concluse serioso.
Tanta
autorità inizialmente aveva
lasciato interdetta la sovrana delle Galassie, la quale però
aveva assunto
un’espressione perplessa nella quale si poteva intuire un
velo di seccatura:
non aveva nulla contro il Veggente, anzi andava anche molto
d’accordo con lui
quando si trattava di mettere davanti il dovere di ricoprire ruoli di
importanza, anziché il piacere di comportarsi come Unigon ed
ubriacarsi mentre
giocava a bowling con le stelle supergiganti rosse, ma se
c’era una cosa che
non riusciva proprio a sopportare del Veggente era quel suo
atteggiamento strafottente
che veniva abilmente nascosto dal suo sguardo indecifrabile.
Solitamente
non lo dava a vedere, di
essere e di sentirsi talmente superiore a chiunque da non degnare
nemmeno di
uno sguardo chi apparteneva alla “plebaglia delle
Costellazioni”, ed anche ora
non aveva un comportamento differente dal solito, ma il solo fatto che
fosse su
Orionis III con Comet E. Halley era un motivo più che valido
per guardarlo
storto.
Soprattutto
perché era arrivato in quel
momento, quel dannatissimo momento:
lei non era certo Unigon o il Veggente che si facevano gli affari degli
altri
come se non ci fosse un domani -il secondo tra l’altro ancora
prima che tali
affari accadessero- ma Mother Galaxy aveva saputo dell’arrivo
di ospiti
illustri alla corte di Idhunn Orionis Chandrasekhar quasi subito,
avvertendo
chiaramente e con sua estrema preoccupazione che stava succedendo
qualcosa di grosso.
Lei
non sapeva cosa, certo.
Ma
il Veggente lo sapeva benissimo,
cosa c’era sotto a quegli
incontri fra donne talmente potenti da tenere sotto scacco le guerre ed
i
complotti che muovevano le prima mezza galassia, e i secondi
chissà cosa.
Per
quel motivo, e perché non aveva
intenzione di aspettare le conseguenze di tali incontri per scoprirlo
sulla
propria pelle, la Regina delle Galassie aveva preso
l’iniziativa ed era andata
direttamente incontro al Veggente, ed ora sperava solo che la
ascoltasse:
«Ho
bisogno di parlarti di alcune… cose,
ecco. Cose importanti. Molto
importanti» esordì seria per poi
indicare Halley «Possibilmente senza lei intorno: nulla di
personale, Comet, ma
ci sono argomenti dei quali è meglio che nessuno venga a
conoscenza, che devono
riman-»
«Io
non mi muovo, ma proprio no!» le
urlò contro facendole una linguaccia con nonchalance e
strafottenza «Il mio Veggy
ha bisogno di me, non di una vecchia signora rachitica che
“GNEGNEGNE spengo le
stelle ti faccio del male GNEGNEGNE”, vero ammmore
mio?» domandò al Veggente,
il quale tirò un sospiro rassegnandosi all’idea
che stesse per assistere ad una
guerra di insulti fra le due donne.
Che
iniziò prontamente, com’era giusto
che fosse:
«Cosa
hai detto? Chi sarebbe la “vecchia
signora rachitica”? Non ti
azzardare nemmeno, piccola cometa ubriaca, perché tu non sai
nemmeno cosa
accidenti sia il fuoco! Te lo fac-»
«Uuuuuh,
che paaaauraaa! Tremo
malissimo! Aiuto! Aiuuuutooo!» la prese in giro Halley
emettendo dei gridolini
di terrore tanto sarcastici quanto realistici, i quali non facevano
altro se
non innervosire ulteriormente l’altra «Ti chiamano
“Mother Galaxy” ma
dovrebbero chiamarti “Granny Galaxy” da quanto sei
veeeecchiaaaa! Hai già le
ali bianche per la vecchiaiaaaa!» la stuzzicò
ancora toccandole le ali candide.
Una
vena iniziava ad intravedersi sulla
fronte della donna, la quale sembrava ormai prossima
all’omicidio, ma che al
tempo stesso li limitava a stringere i pugni estremamente impaziente di
metterle le mani al collo:
«Veggente,
dille qualcosa, dille
qualcosa o l’ammazzo. Io l’ammazzo. Adesso eh. Non
aspetto. Non permetto a
nessuna puttanella insolente di prendermi per il cu-»
«Sarò
una puttanella ma a me la danno,
la bruschetta mentre tu…» rispose a tono
indicandosi prima il suo inguine e poi
quello dell’altra «Sarà dal Big Bang che
non vedi un pene, anzi, dal Big Gang Bang!
L’hai capita, eh? L’hai
capita? Big Bang? Gang bang? Eheh!... Eh?» domandò
ridendo talmente tanto da
doversi tenere la pancia «… Non l’hai
capita… ma poi cosa pretendevo? Che la
capisse una donna che non vede un pene dall’era
glac-» non aveva fatto in tempo
a finire che Mother Galaxy, in preda alla rabbia più cieca,
le aveva scagliato
addosso un massa luminosa sferica non meglio definita con colori che
andavano
dal rosso all’oro fino all’azzurro.
Una
sfera che bruciava, e tanto… come
una stella.
Ma
che, fino ad Halley, non era arrivata.
Il
volto di Mother Galaxy era diventato una maschera di puro terrore.
Non
aveva idea di cosa fosse peggio,
come conseguenza a quel suo gesto avventato: le due ali sciolte come
neve al
sole ridotte a due grumi informi che grondavano un viscoso liquido nero
misto a
piume bruciate, la carne del petto maciullata i cui brandelli
penzolavano
ancora liberamente ricoperti da una curiosa polverina dorata, buona
parte del
volto sparita che lasciava visibili i denti, o almeno quanto ne
restava, il
bulbo oculare sinistro che si stava sciogliendo davanti ai suoi occhi,
forse il
braccio mancante unito alle svariate dita sparite dagli arti superiori.
Perché
il colpo ad Halley non era mai
arrivato, certo che no.
Lo
aveva preso tutto il Veggente.
Veggente
che continuava a mantenere una
calma spaventosa, decisamente agghiacciante dal momento che gli mancava
buona
parte del corpo, fatto che però non sembrava disturbarlo
minimamente nonostante
tutto:
«Una
piccola stella di neutroni, eh? Classico, ma ugualmente
notevole» asserì
quasi compiaciuto toccandosi la parte del volto mancante, scena
alquanto
grottesca dal momento che parlava senza mezza faccia come se nulla
fosse avvicinandosi
a Mother Galaxy, la quale lo fissava terrorizzata temendo il peggio
«Tieni solo
a mente un dettaglio: quando dico che “davanti a me, nessuno
ucciderà nessuno,
non senza il mio
permesso”, il
discorso vale tanto per la gentaglia delle Costellazioni quanto per la
sovrana
delle Galassie, non dimenticar… Halley.»
stava per controbattere alla Regina quando l’altra donna,
particolarmente
divertita dalla situazione, si era messa a giocherellare con il bulbo
oculare
disciolto, facendolo cadere rovinosamente a terra ed alzando divertita
le mani
in segno di resa.
Probabilmente
Mother Galaxy si aspettava
da Halley chissà quale scenata di delirio e paura nel vedere
il corpo del Veggente
mezzo maciullato, ma la sua sorpresa sarebbe stata minore se avesse
saputo che
Halley, del Veggente, sapeva abbastanza perché potesse
addirittura scherzare
sopra al fatto che ci fossero in giro bulbi oculari vaganti; a conti
fatti, le
poche cose conosciute su di lui erano quelle fondamentali per sapere
che quella
condizione non aveva nessuna ripercussione, dal momento che quella che
pendeva
ondeggiando dal suo volto non poteva nemmeno essere definita
“carne” vera e
propria, come anche quel liquido nero e viscoso non era
“sangue”.
Per
non parlare del fatto che, dentro di
sé, non aveva nemmeno un organo, delle viscere, delle ossa,
muscoli e
tendini... non aveva nemmeno un cervello, nemmeno
un cuore che batteva.
Niente
di niente.
E
anche la Regina delle Galassie lo
sapeva, ma vedere come lo aveva ridotto e conoscendo le
capacità di chi aveva
davanti le metteva un’ansia terribile addosso, la
consapevolezza che quel
dannatissimo attacco aveva colpito l’ultima persone che
avrebbe dovuto essere
colpita: sentiva un nodo alla gola, le gambe non la reggevano nemmeno
più in
piedi sotto il peso della paura più profonda e oscura,
persino le ali
sembravano aver smesso di brillare quando quel mantello di timore e
panico
generale l’aveva circondata su tutti i fronti.
Per
un attimo, le parve di aver
addirittura visto la sua vita scorrerle davanti mentre si preparava al
peggio,
ad essere eliminata dal volto di quell’Universo per colpa di
un fottutissimo
malinteso, di una cosa che non aveva certo fatto e non avrebbe mai voluto fare volontariamente.
Dopo
qualche istante, lo sgomento e la
preoccupazione erano diventati insopportabili persino per lei, e allora
aveva iniziato
a vedere tutto sfocato -tremendamente
sfocato- mentre avvertiva i sensi abbandonarla lentamente ma
inesorabilmente
in un vortice di emozioni che aveva lasciato dietro di sé
solo un involucro
vuoto: con le gambe molli ed il petto svuotato di qualsiasi cosa che
non fosse
il timore di morire nonostante fosse immortale, l’ultima
sensazione che aveva
provato era stata quella del suo corpo che si abbandonava al crollo
verso le
rocce appuntite tipiche della catena montuosa di Osterhagen.
Salvo
avere il tempo di avvertire la
presa salda e sicura delle braccia che si era infilate sotto le sue ali
sostenendola prima che collassasse sulla fredda pietra:
«Se
hai intenzione di morire trascinando
con te un numero indefinito di Galassie, Costellazioni e stelle oltre
che il
tempo e lo spazio stessi, allora fai pure… ma dopo che mi
avrai detto il motivo
per cui mi hai cercato, Mother Galaxy.» asserì il
Veggente mentre con gli
occhi, o meglio con quello rimanente, sembrava scavarle direttamente
nell’anima; inizialmente restò leggermente
perplessa nel trovarsi ciò che
restava del suo volto a pochi centimetri dal proprio, così
perfetto rispetto a
quello mezzo maciullato dell’altro, ma si calmò
quando capì che non c’era nulla
di cui avrebbe dovuto preoccuparsi.
Ma
si stava preoccupando lo stesso,
purtroppo per lei:
«Mi
dispiace, mi dispiace moltissimo!»
buttò lì sperando di convincerlo mentre sentiva
le lacrime premere impazienti
per uscire «Non volevo, Veggente! Non volevo colpirti! Non
era mia intenz-»
«Sono
il Veggente, io so che non volevi
colpirmi… e sapevo
anche che avresti colpito Halley ancora prima che tu decidessi di
farlo, quindi
direi che abbiamo chiarito la questione. Ora che me lo hai sentito dire
te ne
sei convinta, eh?» domandò con voce calma
prendendosi di rimando un sorriso
abbozzato da parte della donna che annuì debolmente; si
rimise in piedi da sola
in fretta lisciandosi il vestito, gesto durante il quale il Veggente si
avvicinò all’altra presente:
«Ora
devi lasciarci soli, Comet E.
Halley, quindi ti chiedo gentilmente di andartene fino a quando la tua
presenza
non sarà nuovamente richiesta» le
comunicò secco ma senza essere troppo duro,
mantenendo però una certa compostezza.
Cosa
che servì a ben poco, dal momento
che Comet aveva iniziato a dimenarsi nemmeno fosse in preda a dei
violenti
spasmi di delirio:
«Cosa?»
reagì incredula spalancando talmente tanto le palpebre che
gli occhi sembravano
sul punto di uscirle dalle orbite «Tu non puoi abbandonarmi,
qui poi! Ma l’hai
vista, Idhunn? Io sì, che l’ho vista, ed
aveva compagnia! Lei ha ancora compagnia! Veggy! Dai Veggy,
lasciami rest-»
«No,
non se ne parla assolutamente» si
impuntò severo «Non rendere tutto più
difficile e limitati ad ascoltarmi, per
una buona volta.» concluse allontanandosi; nel vederlo andare
via da lei,
Halley gli si aggrappo ad una delle ali, incurante che si stesse
sporcando con
quello strano quanto inquietante liquido nero, ma ciò non
sortì alcun effetto:
«C’è
qualcosa che possa fare per
convincerti a lasciarci da soli per qualche ora, eh?»
domandò il Veggente
vedendo quanta resistenza stava opponendo la donna.
E
allora le si erano illuminati gli
occhi più di quanto già fossero, con quelle
curiose sfumature dorate nel color
magenta dell’iride:
«Verameeeeente
qualcosa ci sarebbe… da
quello che vedo» disse infilando la testa sotto la tunica
quasi trasparente che
scendeva dalla vita dell’altro «La bruschetta
è ancora intera, quindi fooooooorse
potremmo… insomma… potremmo fare sess-»
«Ne
riparleremo quando sarai tornata, ora vai.»
la liquidò senza darle
conferme o smentite riguardo le sue proposte indecenti; nonostante i
dubbi che
le erano rimasti, questa volta Halley era davvero convinta,
così decise di
seguire il consiglio dell’altro, ma non prima di avergli
afferrato il volto ed
averlo coinvolto in un bacio appassionato, incurante del fatto che la
parte del
viso mancante rendeva fin troppo visibile la lingua
all’interno della sua
bocca:
«Quando
tornerò conto di trovarti già
sdraiato a letto con la bruschetta coperta da queste meravigliose
alette, Veggy
caro» gli sussurrò all’orecchio
divertita «Ci si rivede, allora.» si
congedò
mandando un bacio con la mano mentre volava via e lasciava solo una
scia
magenta incredibilmente calda dietro di sé.
Il
Veggente la guardò allontanarsi
perplesso, con un solo pensiero nella mente: sperava vivamente che
Comet, in
giro a zonzo per Orionis III, non avrebbe combinato guai, non guai grossi almeno.
Ma
dentro di sé sapeva già come sarebbe
finita.
Ovviamente.
Rimasti
finalmente soli, Mother Galaxy
ed il Veggente si erano spostati su un piccolo spiazzo nelle montagne
che dava
su uno strapiombo, una lingua di terra così in alto rispetto
alla superficie da
permettere di distinguere all’orizzonte la timida curvatura
del pianeta, da
quanto era enorme Orionis III, dando libero sfogo a riflessioni di ogni
genere.
Ennesimo
di una serie non meglio
definita di pianeti appartenenti a quella che era la stirpe
più temuta della
Galassia, Orionis III era l’attuale casa della capofamiglia
dei Chandrasekhar e
del suo seguito di parenti non proprio raccomandabili, oltre che la
base
militare intorno alla quale ruotava un esercito -a detta di diversi
diversi
scritti vecchi di centinaia di migliaia di anni- “la
cui marcia era in grado di smuovere il centro dell’Universo
stesso,
data la sua immensità”.
Una
diceria, ovviamente, il centro
dell’Universo non si muoveva di un millimetro, ma rendeva
perfettamente l’idea
di quanto fosse illimitato il potere in mano ai Chandrasekhar, non per
niente il
loro motto era “Conquista e Distruggi”: forse le
loro truppe non muovevano il
centro galattico o quello universale, ma dove passavano i Chandrasekhar
non
restava nulla, assolutamente nulla, niente
di niente.
Radevano
al suolo tutto e tutti, senza
distinzioni e senza farsi domande: trovavano un pianeta, lo attaccavano
con un
dispiegamento di forze spaventoso, distruggevano qualsiasi cosa
trovassero
sulla loro strada, sottomettevano le popolazioni schiavizzandole o
estinguendole direttamente e poi niente, prosciugavano le stelle
appartenenti
al pianeta stesso, se non l’intera Costellazione nella quale
quello si trovava,
per ottenerne la polvere.
La
polvere di stelle, generata dal naturale
decadimento di una stella man mano che invecchiava, muoveva
l’intera economia,
potenza e terrore firmato Chandrasekhar dal momento che ne detenevano
l’assoluto monopolio -un monopolio difeso con le unghie, con
i denti e con orde
di draghi i cui ruggiti risuonavano nello spazio- rendendoli
indispensabili a
chiunque, persino a Mother Galaxy.
Perché
Mother Galaxy, con i
Chandrasekhar, voleva averci a che fare il meno possibile, in
particolare con
la loro capofamiglia, tale Idhunn Orionis Chandrasekhar: considerata la
personificazione della distruzione e della guerra, dall’alto
della sua
disarmante perfezione teneva saldamente stretta in pugno mezza Galassia
da
svariate migliaia di anni; ci aveva pensato sopra parecchio prima di
lasciare
il Palazzo della Creazione quasi del tutto scoperto per andare a
parlare con il
Veggente disturbandolo mentre faceva chissà cosa, quando poi
aveva scoperto che
si trovava su Orionis III un attimo di indecisione e panico generale
l’avevano
assalita anche, ma le sue domande e le relative risposte che sperava di
ricevere erano più importanti del lasciar perdere quella
visita solo perché era
sul pianeta di Idhunn.
Il
suo malsano naufragare in pensieri
che non facevano altro se non agitarla ulteriormente venne interrotto
dal Veggente,
il quale le si mise di fianco lasciando stancamente ricadere
ciò che rimaneva
delle ali a terra:
«Mi
chiedo se quello sguardo preoccupato
sia dovuto alla consapevolezza di essere in territorio
Chandrasekhar… o se invece sia
dovuto alle recenti visite
avvenute a Phantasia» buttò
lì senza pensarci troppo; improvvisamente,
Mother Galaxy sentì il respiro morirle in gola:
«T-tu
cosa ne sai, delle v-visite a
Phan-»
«Oh
avanti, per chi mi hai preso? Sono
il Veggente, io vedo tutti e tutto, in ogni istante della storia del
Multiverso, io conosco già il passato, il presente ed anche
il futuro…»
puntualizzò accennando un sorriso beffardo «Eri davvero convinta che non avessi notato il
tuo piccolo aiuto
nell’alzare la barriera intorno al castello di Harmonia, eh?
Pensavo che avessi
notato la presenza di quel curioso cigno, nel laghetto intorno al
castello!» ci
rise sopra dando vita ad uno spettacolo a dir poco agghiacciante, data
la
mancanza della carne e del bulbo oculare da un lato del volto.
Senza
sapere cosa controbattere, Mother
Galaxy rimase qualche istante in silenzio distogliendo lo sguardo dal
grande
occhio azzurro luminescente che galleggiava sopra la fronte del
Veggente, ma
era consapevole che sarebbe stato difficile reggere il confronto con
lui, troppo difficile:
«Non
volevo rischiare che
quell’Ephemeride causasse più guai di quanti ne
porta già la sua sola presenza,
tutto qui… avresti fatto lo stesso, Veggente, e non dirmi
che Tanith non ti
mette un po’ di timore perché non ci crederei mai,
assolutamente mai.» rigirò
il discorso facendogli quella velatissima insinuazione quasi senza
pensarci.
L’altro
la osservò qualche istante con
aria severa, poi iniziò a ridere fragorosamente:
«Tanith?
Preoccuparmi di Tanith? Di lei? Mother
Galaxy, mi sorprendi!» ripeté
tenendosi l’addome da quanto rideva «Tanith
è solamente
un’Ephemeride, un ammasso di ossa e dolore che crede di
poter terrorizzare il mondo quando nemmeno lo conosce, il terrore
vero… povera illusa»
continuò tornando
improvvisamente serio tendendo una mano davanti a sé, la
quale si ricoprì di
sottilissimi filamenti azzurrini proveniente dall’occhio
sulla fronte.
Avrebbe
dovuto stare zitta sulla
questione Tanith, perché ora stava leggermente sfuggendo di
mano, ed avrebbe
potuto degenerare da un momento all’altro: da parte loro, le
altre Ephemerides
non avevano mai dato problemi con la burocrazia della Galassia, si
limitavano
ad essere dei parassiti che si nutrivano di dolore senza disturbare
nessuno e
senza complotti, tutto sommato la loro presenza nemmeno percettibile
non era
affatto un problema.
Poi
c’era Tanith, il cui egocentrismo e
voglia di dare mostra di sé era a livelli fin troppo alti
persino per la sua
razza.
Soprattutto
quando metteva le mani nelle
questione sbagliate, dando “spintarelle” a
situazioni già piuttosto tese da
sole, spingendo chi di competenza a preparare le armi ancora prima di
incontrarla di persona:
«Dovrei
solo alzare un dito, e allora di
Tanith e delle altre sue simili non resterebbe che un vaghissimo
ricordo…»
rifletté ad alta voce quando i filamenti erano andati
unendosi in una piccola
sfera scintillante «Anzi, nemmeno quello, perché
subito dopo mi preoccuperei di
cancellare qualsiasi informazione relativa a quelle ridicole,
inutili e fastidiose serpentesse dagli improbabili gusti
alimentari» disse facendo cenno alla donna di
allungare una mano verso la
sua, donandole la sfera luminosa «Nana azzurra in formato
mignon, la stessa che
infilerò su per la gola di qualsiasi persona o serpente
intenda sconfinare in
questioni che non la riguardano.» terminò
sospirando divertito.
Con
una stella che le brillava fra le
mani, Mother Galaxy non riuscì a resistere alla tentazione
di accarezzare la
nuova arrivata come se fosse un cucciolo, concentrandosi
sull’intensa ma non
fastidiosa né dolorosa sensazione di calore che
l’astro appena nato trasmetteva
alle sue dita:
«Apprezzo
le tue delucidazioni sulla
questione di Tanith, ma immagino che tu sappia anche di
un’altra questione...
ovvero quella delle previsioni di Mot-»
«Mothman?
Quella falena è anche peggio
di Tanith, non puoi immaginare quanto mi dia i nervi»
commentò sbuffando
annoiato «Tutti a sorprendersi delle sue
“previsioni” o presunte tali, ma anche
lui non è nulla che non possa essere sistemato a dovere se
dovesse rendersi
necessario» asserì mettendosi una mano fra i
capelli bianco-biondi «Una
previsione in più del dovuto, e potrei anche intervenire a
proposito, che ne
so, cambiando il futuro, forse? Chi lo sa, il fato è
così imprevedibile…
soprattutto se viene disturbato mentre si sta masturbando»
puntualizzò alzando
la voce «Io non reggo proprio chi mi disturba mentre mi sto
masturbando. Non lo sopporto.»
concluse seccato.
Nonostante
la piccola stella che prese a
sfrigolare emettendo strani fischi acuti, quasi avvertisse la tensione
nell’aria,
Mother Galaxy non riuscì proprio a trattenere una risata a
quelle parole: era
vero, il Veggente mal sopportava coloro o le situazioni che
interrompevano la
sua attività preferita in quell’Universo senza la
sua puledra, non si sarebbe
nemmeno sorpresa più di tanto scoprendo che aveva raso al
suolo interi mondi
solo perché qualcuno si era messo fra lui e le sue sessioni
di masturbazione
quotidiane.
Non
c’erano dubbi che fosse una creatura
strana, inusuale e curiosa ad un livello inquietante, con
quell’alone di
mistero che lo circondava, ma a volte si lasciava andare a quelle
rivelazioni
per lui molto serie che invece provocavano solo fragorose risate,
rendendo la
sua presenza meno pressante di quanto fosse realmente.
Parlando
di presenze, la mente della Regina
tornò ad uno degli argomenti spinosi della giornata, uno di
quelli che la
preoccupavano di più, e con esso arrivò anche
quel velo di preoccupazione
mascherato da irritazione verso la superficialità dimostrata
dall’altro:
«Non
voglio assolutamente interrompere i
tuoi monologhi su quante volte ti masturbi e quanto a lungo, tra
l’altro molto
interessanti» si mise in mezzo chinando il capo «Ma
vorrei ricordarti che ci
sono la sovrana della distruzione e la sovrana dei complotti sullo
stesso
pianeta, su questo pianeta, quindi
ti
chiedo: intendi fare qualcosa? Qualsiasi cosa?»
domandò questa volta lei con
aria severa; l’altro osservò l’orizzonte
qualche istante, poi fece spallucce:
«Sì,
farò qualcosa» rispose sicuro
notando gli occhi di Mother Galaxy illuminarsi.
Finalmente!
Finalmente
sarebbe intervenuto!
Era
anche ora che si decidesse!
Tutta
sognante e ancora incredula, la
donna aveva congiunto le mani all’altezza del cuore che
pareva volerle uscire
dal petto, da quanto era emozionata:
«E
cosa, dunque? Cosa intendi fare, eh?
Prenderai provvedimenti? Lo sapevo che non saresti passato sopra la
cosa, lo
sapevo! Ne ero conv-»
«Masturbarmi.
Andrò a masturbarmi, ecco. Farò
questo.» rispose con altrettanto entusiasmo
alzando l’indice come per affermare meglio la sua decisione.
Mother
Galaxy si mise le mani fra i
chilometrici capelli che toccavano terra, sentendo la testa sul punto
di
scoppiarle per quella risposta degna della persona che
l’aveva pronunciata:
«Guarda
che sono seria, io non so
scherzando» affermò con
sicurezza inarcando le sopracciglia perplessa con la sua classica aria
di
rimprovero addosso, quella che avrebbe fatto sentire in colpa chiunque,
anche
chi di colpe non ne aveva; il Veggente non ci fece nemmeno caso,
impegnato
com’era a pensare alla sua prossima attività:
«Nemmeno
io sto scherzando, pensa un
po’» rispose infine pacatamente.
Sentì
le braccia cascarle dal corpo: non
era possibile che pensasse solo a quello, non era fottutamente
possibile che
menarsi la bruschetta fosse la sua unica preoccupazione, nemmeno Unigon
che
-fra una partita di scacchi e l’altra- infilava la sua nei
buchi neri prendeva così
sul serio quell’attività!
E
invece no, era possibile, possibilissimo.
Per
quanto però ci stesse scherzando
sopra, il Veggente non aveva perso di vista l’affermazione
dell’altra riguardo
le due regine presenti in quel momento su Orionis III,
perché di certo non
dimenticava il motivo per cui Mother Galaxy era andata a cercarlo di
persona:
«Da
sola, la semplice forza bruta non ha
nessun fine se non quello di distruggere tutto ciò che vi si
oppone: chi dice
che con la violenza non si ottiene nulla evidentemente non è
un Chandrasekhar,
perché loro, con la violenza, hanno ottenuto e continuano ad
ottenere tutto, e tengono
egregiamente sotto
scacco mezza Galassia, tanto di cappello» disse togliendosi
un copricapo
invisibile «I complotti, invece, sono più
insidiosi, ma ugualmente efficaci: lavorano
dietro le quinte, ottenendo risultati non indifferenti oserei dire,
soprattutto
se le redini di tali complotti ed influenze vengono tenute da chi, dei
complotti, ha fatto la propria principale ragione di vita»
spiegò guardandosi
la mano.
Il
Veggente avanzò di appena qualche
passo verso Mother Galaxy:
«La
Regina della distruzione, la
personificazione della guerra stessa…»
sussurrò facendo comparire un minuscolo
drago rosso rubino «E la Regina dei complotti, la strategia
fatta persona…»
continuò mentre nell’altra mano appariva un polipo
viola altrettanto piccolo, i
cui tentacoli si avvolgevano intorno alle sue dita «E infine,
la Regina dello spazio
e del tempo, dell’equilibrio cosmico stesso» fece
segno all’altra di tendergli
la stella che teneva fra le mani come se si trattasse di un tesoro
inestimabile.
Avvicinato
con delicatezza il minuscolo
astro alle mani del Veggente, ciò che lui fece fu di aprire
le proprie
lasciando che le due creaturine, una alla volta, vedessero
ciò che avevano
davanti:
«Tu
non hai paura di chi si trova su questo pianeta, in questo
momento, in queste
circostanze… certo
che no, perché se quel qualcuno fosse da
solo…» fece notare mandando avanti
prima il draghetto che, dopo un paio di artigliate e fiammelle lanciate
alla
stella -entrambe andate a vuoto- con immane ferocia, si era ritirato
annoiato
«Non ti preoccuperebbe così
tanto…»
continuò dando il cambio con il polipo, il quale aveva
provato ad avvolgere il
piccolo astro, prendendosi di rimando una bruciatura su un tentacolo.
Non
aveva idea di cosa stesse accadendo,
e nemmeno di cosa volesse dimostrarle con quello spettacolo quasi
buffo, ma non
ci volle molto per capirlo:
«Ma
se due potenze tali minacciassero di
collaborare insieme…»
asserì
sorridendo lasciando andare i due animali entrambi nello stesso
momento, gesto
al quale seguì un breve bisticcio che finì per
sedarsi piuttosto presto,
esattamente quando notarono la stella davanti a loro
«In
quel caso, e solo in quel caso, nemmeno le
stelle sarebbero più al sicuro.»
concluse il Veggente assumendo un’espressione compiaciuta.
Ma
Mother Galaxy non era compiaciuta,
tutt’altro, soprattutto perché fra le proprie mani
si stava consumando un omicidio stellare:
nonostante i dubbi
iniziali, il drago ed il polipo ora stavano collaborando insieme,
si erano fiondati sulla sfera incandescente strappandone
brandelli, poi interi pezzi, divorandola e avvolgendola con fiamme e
tentacoli,
il tutto mentre quella poveretta emetteva inquietanti sibili simili ad
urla
agonizzanti.
Paralizzata
dallo spavento di sentire
fra le proprie dita la vita di una stella che scivolava via come la
Sabbia del
Tempo nella clessidra che vedeva ogni giorno, non reagì
minimamente quando il Veggente
pose una mano su quella scena pietosa:
«Le
stelle si possono uccidere…»
puntualizzò aprendo le dita nel mentre che sotto il suo
palmo si formava una
sorta di disco nerastro che vorticava su stesso, come se uscisse
direttamente
dalla mano stessa «I buchi neri invece no: divorano le
galassie solo
sfiorandole, spengono le Costellazioni come se nulla fosse, radono al
suolo
interi Universi… ma non muoiono. Mai.»
terminò quando il disco, con violenza inaudita, aveva
risucchiato a sé tutto
quanto, che fosse la stella o il drago oppure il polipo «Ed
è bene che tutti
ricordino questo piccolo, piccolissimo e insignificante
particol-»
«VEGGY!
Veggy Veggy Veeeeeeeggy!» venne interrotto bruscamente.
Da
Halley, ovviamente, chi altri poteva
essere se non lei?
La
quale però non aveva addosso la sua
solita aria costantemente entusiasta, tutt’altro: forse era
per i capelli
spettinati in una posa improbabile, forse per il volto segnato dal
terrore e dal
petto che si alzava e si abbassava in preda agli spasmi, forse era
colpa dei
vestiti a brandelli, stava di fatto che Comet E. Halley era sconvolta.
Motivo
per cui non aveva nemmeno provato
a gettarsi fra le braccia del Veggente, paralizzata e che faticava a
reggersi
in piedi com’era, ma di certo ciò non la
giustificava per essere apparsa
all’improvviso nel bel mezzo di un discorso serio:
«Cosa
c’è? Qualche probl-»
«Mi
insegue! Mi vuole mangiare! GNAM!»
urlò sbracciandosi come una forsennata «Un
cracker! UN ENORME CRACKER! Mi sta
inseguendo!» concluse crollandole tremante mentre si teneva
il capo con le mani
fra le ali di Mother Galaxy, la quale capiva ancora meno di lei cosa
accidenti stesse
accadendo:
«Veggente?
Cosa sta dicendo? Un.. cracker?...
Veggente? Veggente?» lo
chiamò più volte senza mai ricevere risposta.
L’uomo
si era infatti incamminato verso
la sporgenza di quell’altura, notando il gran polverone che
si stava sollevando
all’orizzonte lontano, un misto di sabbia e detriti nel quale
il Veggente
riuscì comunque a distinguere ciò che gli
interessava vedere: kraken.
Sorrise.
Dall’alto
del silenzio del suo
interlocutore, Mother Galaxy era in una situazione piuttosto scomoda,
dal
momento che non capiva il perché di quel sorrisetto che mai -mai!- gli aveva visto addosso:
«V-Veggente…
di cosa… di cosa si trat-»
«Kraken,
non cracker… kraken! KRAKEN!»
rispose subito
entusiasta sfoderando una gioia che nemmeno sembrava potergli
appartenere; dire
che la Regina era sbiancata sarebbe stato un eufemismo, sul suo volto
non si
riuscivano nemmeno più a distinguere espressioni da quanto
era pallida in quel
momento:
«K-kraken?
Un k-kraken… un kraken? Qui? Non
prendermi per il culo! L’unico kraken in giro per questa
parte della Galassia è
quello della… della… no»
cercò di
convincersi senza tuttavia riuscirci «Tu non
mi stai dicendo questo. No. No!... Quello
non può -non deve!- essere il kraken di quella
là! Non dell’Ald-»
«E
invece sì! Morbido, caldo ed
insaziabile kraken!» emise un gridolino sentendo
le ali fremere «Con permesso, signore mie, devo andare a
salutare una vecchia
conoscenza.» si congedò sparendo improvvisamente e
riapparendo nell’enorme
distesa di roccia a terra.
Improvvisamente,
il cuore che il Veggente
non aveva nemmeno si era riempito di una strana sensazione, una sorta
di
felicità o presunta tale mista alla consapevolezza che stava
andando a farsi
macellare, ma non gli dispiaceva affatto, anzi: aveva sempre adorato in
modo
inquietante gli animaletti che i nobili delle Costellazioni si
portavano
appresso, che fossero i draghi Chandrasekhar o i kraken spaziali non
faceva
certo discriminazioni, a differenza dei rispettivi padroni loro gli
piacevano davvero.
Se
poi non li vedeva da tempo immemore
il tutto era amplificato a livelli spaventosi, soprattutto se tali
“animaletti”
erano fottutamente enormi e terrorizzavano chiunque li vedesse.
Chiunque
tranne lui, ovviamente: con le
ali piegate sulla schiena e le braccia abbandonate lungo i fianchi, il
Veggente
non si era mosso di un solo millimetro mentre l’immenso corpo
di quella bestia
si avvicinava fin troppo velocemente; come anche non aveva smesso un
solo
istante di tenersi quel sorriso sul volto ancora non rigenerato, ed
anzi era
finito a chiudere gli occhi per godersi ogni singolo secondo di quei
ruggiti
che riempivano l’aria di Orionis III come il suono di un
corno da guerra.
Era
perfettamente calmo, di una
tranquillità estremamente disarmante, soprattutto se veniva
confrontata con lo
sguardo terrorizzato di Mother Galaxy e le sue grida che lo pregavano
di
tirarsi fuori dalla traiettoria di quel mostro, ma non è che
servissero a
dissuaderlo o fargli cambiare idea sull’andare ad accarezzare
un kraken
spaziale leggermente diverso da un gattino.
Perché
i gattini non avevano tentacoli che
si abbattevano con violenza spaventosa sul suolo scavando conche
profonde e
larghe diversi metri.
Il
primo colpo gli aveva portato via
un’ala, con sua estrema sorpresa, ma ciò non gli
aveva impedito di iniziare a
canticchiare:
«Theeeeere’s
a starman waaaaaiting in the skyyyyy! He'd
like to cooooome
and meet yoooouuu!»
un secondo
attacco, questa volta di striscio, gli aveva tranciato con una
facilità
disarmante tre quarti della gamba destra, facendogli perdere
l’equilibrio per
qualche istante prima che riuscisse a reggersi in piedi con una delle
ali
ancora sane.
Dall’alto
della sporgenza dove si
trovava, Mother Galaxy non poteva fare altro se non osservare la scena
incredula: quella bestia lo stava macellando, se il tutto fosse andato
avanti
di quel passo il Veggente si sarebbe trovato con solo la testa -se fosse rimasta- al proprio posto, ed
il
lago di liquido nero che colava dagli arti e dai brandelli mancanti non
era che
una conferma di quella spiacevole impressione.
Voleva
fare qualcosa, doveva farlo!
Lasciata
Comet a terra ancora tremante,
Mother Galaxy aprì le immense e luminose ali bianche per
planare fino ad una
ventina di metri dal Veggente e dal suo amico cefalopode gigante:
mentre un
manto dorato di stelle si formava sulle sue spalle fino a confondersi
con i
suoi chilometrici capelli biondo grano, nei suoi occhi azzurro cielo i
sottili
filamenti che ricordavano stelle e Costellazioni avevano assunto
un’intensità
differente, come anche la pupilla che da totalmente nera era stata
sostituita
dal vaghissimo profilo di una galassia.
Sentì
chiaramente il fuoco montarle
dentro l’anima, le fiamme inesauribili degli astri dai quali
era nata che
ruggivano prepotentemente nel mentre che sulle sue mani si formavano
degli
intricati disegni che andavano dal giallo all’azzurro fino al
viola che
brillavano di luce propria; poi la terra aveva iniziato a tremare: non
si erano
aperti squarci apocalittici nel terreno, né tantomeno
c’erano stati vulcani che
avevano iniziato ad eruttare morte direttamente dalle loro bocche, e
non si
erano neppure viste piogge meteoriche che avrebbero raso al suolo il
creato.
La
terra tremava lì intorno, tremava e
basta, e le uniche ferite visibili sulla sua superficie erano quelle
del
terreno affondato intorno alla sfera biancastra -percorsa qua e
là da filamenti
multicolore, prevalentemente azzurri- che si era creata intorno alla
Regina
delle Galassie, quasi fosse uscita direttamente dal suo corpo; quando
Halley
l’aveva vista, improvvisamente si era resa conto di quanto
avesse rischiato a
darle addosso poco prima: non che i suoi poteri fossero da meno, ma le
sue
condizioni mentali attuali non le permettevano di fare molto.
E
giustamente, con Mother Galaxy che si
stava adoperando per mettere fine alla questione del kraken, il
Veggente non
era affatto contrariato dall’essere arrivato ad un punto in
cui gli mancavano mezzo
corpo, tutt’altro!
Con
la sfera bianca che aveva ormai
raggiunto i dieci metri abbondanti di diametro, ma mantenendo
però un centro
azzurro scuro luminoso tenuto fra le mani dalla donna esattamente al
centro del
petto, Mother Galaxy questa volta era decisa a fare sul
serio:
«Veggente!
Levati da lì se non vuoi che
una supernova travolga anche te insieme a quella palla di tentacoli!
Non lo
dirò una seconda volt-»
«Theeere’s
a starman waaaaaiting in the sky! Ther… una
supernova?» ripeté ancora più
divertito di prima girandosi verso di lei con le braccia aperte
«Provaci, e
allora ripasseremo i fondamenti della fisica scoprendo che i buchi neri
le supernove
le mangiano a colazione! Ed ora, se vuoi scusarmi» la
liquidò con un breve
inchino, ma senza voltarsi «Let the
krakeeeen looooose it! Let the kraaaaaken use it! Let the kraaaaken
boogie!
Because there’s a staaaarman waaait-» non
riuscì a finire.
Perché
la sua testa era sparita dalle
spalle, era rotolata fino ai piedi di Mother Galaxy -lasciando
lì solo il suo
corpo martoriato ancora in piedi- e lì si era fermata.
Come
anche si era fermato il cuore della
donna, almeno per qualche istante.
Perché
anche se sapeva che il Veggente
era l’overpower cosmico più overpower degli
overpower del creato, raccogliendo
la sua testa e trovandosi con un occhio luminescente che la fissava il
timore che
quello fosse troppo le era venuto
anche.
Halley
invece no, lei rideva da sola in
modo talmente smodato da essere imbarazzante solo a vederla, e tutto
nonostante
sapesse ancora meno del Veggente, altro che essere a conoscenza della
sua
rigenerazione a livelli spaventosamente overpower!
Che
Mother Galaxy conosceva a grandi
linee, ma ciò non le impedì di iniziare a sudare
freddo qualche secondo dopo,
mentre era ancora immersa nel terribile momento “Hai
la testolina del Veggente in mano”:
«…
Questo… questo mi costerà un brutto,
bruttissimo… mal di testa» rifletté il
Veggente stesso ad alta voce con tutta
la nonchalance possibile ad una testa vagante; ci mancò poco
che la Regina lo
gettasse via dall’infarto che sentirlo parlare le aveva
provocato:
«Presa
un colpo, eh? Dovresti vedere la
tua faccia in questo momento, è un concentrato di terrore
assolutamente
adorabile!» commentò ridacchiando piantandole in
suoi occhi viola intenso dalla
sclera nera addosso «Sono il Veggente,
mica bruscolini! Ma d’altronde il gioco è bello
finché dura poco, quindi… con
permesso.» ci congedò sparendo in un bagliore
accecante.
Non
sapeva se ridere o cosa.
Anzi,
sapeva cosa fare: godersi lo spettacolo.
Pochi
secondi ed il liquido viscoso di
un nero intenso che colava dalle sue ferite era andato addensandosi
all’altezza
delle ali, mancanti o meno che fossero, sostituendole
con altre ancora grondanti di quella strana
sostanza, per poi chiudersi tutte e sei come se fossero state un grosso
bozzolo
di pura oscurità cosmica, una crisalide che si era dischiusa
pian piano
lasciando trapelare una fioca luce dorata dalle fessure fra una piuma e
l’altra.
Poi
si era aperta del tutto con un rombo
assordante, talmente intenso da aver creato un’onda
d’urto che aveva fatto
sobbalzare le rocce e le montagne lì intorno, e pure
quell’enorme kraken
sembrava essere stato preso alla sprovvista da come aveva ritirato i
tentacoli;
abbassatosi il gran polverone che si era alzato nel giro di pochi
istanti, solo
una figura si era palesata in mezzo al caos: il Veggente, con la testa
attaccata
ovviamente.
Con
due paia di ali che gli coprivano il
petto e le nudità -data la mancanza della sua solita tunica-
e l’altro paio
lasciato dietro di sé come uno strascico, l’occhio
del Veggente si illuminò di
una luce azzurro-verde acqua mentre i suoi occhi viola intenso
tornavano a
brillare con la stessa intensità di sempre: con tutte e sei
le braccia conserte
al petto, le gambe al loro posto e la bocca sul suo addome che sembrava
ruggire, era fermo in quella posizione, impassibile come suo solito.
L’unico
che sembrava tutto tranne che
impassibile era però il polipo davanti a lui che, dopo
qualche esitazione,
aveva scagliato uno dei propri enormi tentacoli dritto sul Veggente con
il solo
scopo di spiaccicarlo talmente male a terra che avrebbero dovuto
raccoglierlo
con un cucchiaino; prevedere il futuro era la specialità di
quell’essere, e
dare mostra dei propri poteri lo era altrettanto, motivo per cui non si
tirò
indietro dal fermare quello stesso gigantesco tentacolo con il solo
indice.
Approfittando
della distrazione di
quella creatura che cercava di capire come accidenti facesse un essere
così
piccolo rispetto a lui a fermarlo, il Veggente si era volatilizzato da
davanti
quella bestia per materializzarsi subito dopo sull’altura
dove si trovavano le
due donne:
«Signore
mie, credo che i giochi qui
siano finiti, soprattutto perché avverto chiaramente un
Interstellar in
avvicinamento dal fronte orientale» asserì
indicando con la coda dell’occhio
una vaghissima figura dalle forme indistinte che emergeva
dall’altro versante
della catena di Osterhagen «Non per dire, ma se si
insospettiscono troppe
persone le cose non si metteranno bene… per voi,
ovviamente.» rifletté facendo
spallucce.
Fra
le due, Mother Galaxy era quella che
capiva meglio ciò che intendeva con quelle parole, complice
il fatto che il
ruggito dell’Interstellar le avesse appena iniziato a
rimbombare nella mente:
«Credi che Idhunn sappia che-»
«No.
Non ancora, almeno. Ma lo scoprirà
presto, molto presto: quella
bestiola
fa un po’ troppo rumore mentre si lamenta, e se fossi in voi
eviterei un
confronto diretto con la capofamiglia dei Chandrasekhar, per
cui…» tirò un
sospiro annoiato mentre i filamenti azzurri dell’occhio sulla
sua fronte si aggrovigliavano
intorno alle braccia.
La
pelle delle mani diventò quasi
trasparente, lasciando visibile sotto di essa solo una sorta di manto
stellato
di un nero intenso:
«Meglio
che torniate entrambe a casa. La
vostra, però. Quindi, signore mie, direi che per voi il
tempo delle visite è
concluso, almeno per og-»
«Non
puoi farlo! Non puoi rispedire me
al Palazzo della Creazione! Non ti devi nemmeno azzardare!»
gli urlò contro
senza nemmeno accorgersi della terra che sotto di lei e Comet si stava
trasformando in polvere nera luccicante «Io sono Mother
Galaxy, Regina delle
Galassie, sovrana del Palazzo della Creazione, il luogo dove io governo lo spazio e il tempo: io sono nata dalle stelle, dalle stesse
stelle che posso spegnere come se nulla fosse, e tu… tu non devi nemmeno permetterti di dirmi cosa posso
e cosa non posso
far-»
«Io
sono il Veggente. Io posso.»
concluse muovendo appena il
dito e facendole scomparire inghiottite da quei portali, i quali
avevano
lasciato dietro di sé due sagome a forma di occhio scavate
nella fredda e dura
roccia.
Tornato
tutto alla normalità, braccia
comprese, si guardò intorno compiaciuto: lui
era il Veggente.
Le
sue visioni non sbagliavano mai.
Mai.
Nonostante
Orionis III fosse distante un
numero non indifferente di anni luce dalla Terra, i pensieri che
affollavano la
mente di Emily Jane Pitchiner parevano poter giungere in ogni angolo
del cosmo
da quanto erano insistenti.
Probabilmente
avrebbe dovuto provare
vergogna e rimproverare a se stessa il gesto alquanto villano di essere
fuggita
dalla battaglia -o presunta tale- nella quale suo padre era rimasto
coinvolto,
ma tutto ciò che sentiva dentro di sé non era
altro che un profondo senso di
sollievo: era considerata una codarda da quando aveva abbandonato -a
detta
delle fonti “ufficiali” dettate dai Guardiani, e
soprattutto da Harmonia- il
suo stesso regno, esserlo considerata nuovamente per aver lasciato il
suo caro
papino a combattere da solo non avrebbe fatto differenza, non davanti
ad una
dignità che ormai nemmeno più aveva.
Accovacciatasi
sulle sponde di un
piccolo ruscello, Emily non poté fare a meno di fissare la
propria immagine
riflessa nell’acqua con un certo disgusto: le guance scavate
e gli occhi
infossati segnati da delle profonde occhiaie, il suo sguardo color oro
ridotto a
due sfere opache che non trasmettevano più nulla, i capelli
che qua e là
lasciavano intravedere il capo nudo, il tutto unito a quegli abiti
logori,
sporchi, strappati… quella non era Madre Natura, era una pezzente.
Era
l’ombra della Regina che era stata,
niente di più: una ragazza come tante altre vestita con
degli abiti recuperati
dagli scarti -gli scarti!- di alcuni umani, anziché con i
pomposi vestiti color
smeraldo ai quali era abituata, obbligata a starsene vicino a quella
discutibile figura di suo padre se voleva mettere la testa fuori di
casa perché,
nelle condizioni in cui versava da trent’anni a quella parte,
difendersi
autonomamente era diventato pressoché impossibile.
Se
un tempo Madre Natura era la stessa
donna il cui nome incuteva timore e rispetto nella mente di chi lo
sentiva
anche solo pronunciare, e se prima i suoi poteri erano talmente
smisurati da
renderla quasi una dea agli occhi di molti, ora di quella figura non
restava
che una mocciosa stanca e scarnita che faticava persino ad evocare un
fragile
rametto verdognolo dalla dubbia utilità; Emily non aveva
solo perso tutta la
sua credibilità, aveva perso con essa la stragrande -per non
dire tutti- maggioranza
dei propri poteri donatagli da Typhan non ricordava nemmeno quanto
tempo prima,
gli stessi poteri che un tempo avrebbero fatto tremare la terra e
l’aria.
Un
tempo lo avrebbero fatto, non ora:
perché adesso, ad Emily Jane,
non restava altro che qualche rimasuglio della sua forza originaria, un
contentino che aveva ottenuto con diversi anni di sforzi immani ma che,
a conti
fatti, la rendeva dipendente da qualcuno nel caso in cui si fosse
prospettata un
qualche scontro.
E
quel qualcuno, purtroppo per lei, era
anche l’unica persona che le era rimasta al mondo, e
cioè quel suo adorabile padre
che rispondeva al nome di Pitch Black: stentava ancora a chiamarlo
così, a
chiamarlo “papà”, dal momento che non si
era fatto sentire per tempo immemore
rispuntando solo quando era stato miseramente, ma in quello stato non
aveva
comunque avuto molta scelta se non accettare di seguirlo e sopportarne
le
conseguenze.
Le
conseguenze tipo quello schiaffo dato
davanti a tutti i Guardiani, l’ennesimo di tanti altri che
aveva già ricevuto
da diversi punti di vista, fisici o psicologici che fossero: non le
bruciava
tanto il fatto che l’avesse schiaffeggiata, a quello era
già abituata fin da
piccolissima, era proprio il chi l’avesse schiaffeggiata a
scavarle un solco
profondo quanto l’Abisso nell’anima, a farle
stringere i pugni per la rabbia
afferrando un sasso e scagliando nell’acqua, dove la sua
immagine si era persa
fra le mille onde concentriche.
Era
stato Pitch Black, suo padre, un
povero disgraziato compatito da tutti gli altri Guardiani da quanto si
era
rivelato incapace di gestire il potere
dell’oscurità che era arrivata a
divorare tutti i sogni e le speranze dei bambini della Terra, un potere
tanto
grande quanto sprecato, dal momento che Pitch stesso era stato
miseramente
-molto miseramente- sconfitto da un branco di bambini urlanti
nonostante la
temporanea mancanza di Sandman.
Un
branco di mocciosi, accidenti!
Emily
sorrise appena: non aveva mai
sopportato i bambini, provava verso di loro un senso di fastidio
interiore che
non sapeva spiegarsi, forse perché vederli tutti belli
felici a godersi la loro
infanzia le ricordava che lei un’infanzia nemmeno
l’aveva avuta, non felice
almeno, e di certo non circondata dall’amore e
dall’affetto di una famiglia; si
strinse le braccia al petto facendo per abbracciarsi da sola mentre
cercava di
respingere le lacrime che le riempivano gli angoli degli occhi, non
avrebbe più
permesso a se stessa di affogare in una serie non meglio definita di
ricordi
che comprendevano omicidi siderali e guerre e tanta -troppa-
solitudine, non dopo tutta la fatica che aveva fatto per
rilegare quei ricordi in un luogo inaccessibile nella sua mente!
Subito
dopo quel breve crollo, però,
venne un istante in cui non sentì più nulla
dentro di sé e intorno a sé, c’era
solo un inquietante vuoto colmato da un silenzio a dir poco assordante,
un
omento durante il quale prese a toccarsi con insistenza il capo ed i
vestiti:
le avevano portato via i capelli, i suoi meravigliosi capelli corvini
che
toccavano terra come se fosse un modo per comunicare con la natura
stessa, le
avevano metaforicamente strappato le vesti di Regina di dosso
lasciandola nuda
con la sua dignità che le scivolava fra le mani, le avevano
portato via con
violenza inaudita i poteri che aveva ricevuto in dono da un titano poi
ferocemente
ucciso per averla aiutata e protetta da dei demoni travestiti da angeli.
Lo
avevano fatto i Guardiani, lo aveva
permesso Manny… ma soprattutto Harmonia aveva dato il colpo
di grazia, era
stata lei a farlo.
Improvvisamente,
gli occhi di Emily Jane
Pitchiner presero a brillare con rinnovato ardore, forti di quel
sentimento che
si stava impossessando della sua mente secondo dopo secondo, dopo tre
decenni
passati ad essere costantemente represso dietro la consapevolezza che i
suoi
poteri non bastavano nemmeno a far sbocciare un fiore: avrebbero pagato
tutti, tutti, dal primo
all’ultimo, il solo
pensiero le diede la forza di evocare un piccolo viticcio intorno alle
proprie
dita che vi si arrampicò desideroso di stringere le spine
intorno alla sua
pelle diafana.
Avrebbero
pagato i Guardiani, per essere
stati a guardare mentre Madre Natura crollava in ginocchio con il petto
svuotato dall’essenza stessa del suo ruolo.
Avrebbe
pagato Manny, per non aver mosso
nemmeno un dito quando avevano ucciso Typhan prima, e quando avevano
ucciso
psicologicamente lei dopo.
Avrebbe
pagato Harmonia, soprattutto Harmonia,
per aver guidato la
sua rovina dall’alto della sua grandezza equina, per averla
umiliata, per
averla ridotta ad una pezzente.
Avrebbero
pagato, certo… ma come?
Quell’interrogativo
imprevisto fece
tornare Emily con i piedi per terra, facendole anche notare con orrore
che le
spine di quella piantina le si erano conficcate nella pelle, ma non
diede
nemmeno troppo peso a quel piccolo dolore quasi insignificante:
osservando i
sottili rivoli di sangue rosso pallido, l’ormai decaduta
Madre Natura si rese
conto che i piani di vendetta che si trascinava dietro da
trent’anni a quella
parte non avrebbero potuto andare in porto nemmeno per sbaglio,
considerando l’irrisoria
quantità di potere a sua disposizione.
Non
avrebbe potuto fare nulla da sola,
figurarsi cercare lo scontro con un gruppo di Guardiani pronti a
difendersi gli
uni con gli altri con le unghie e con i denti, e di affrontare
direttamente
Harmonia non c’era nemmeno da parlarne: l’avrebbe
cacciata nell’Abisso insieme
a Phobos prima ancora che potesse varcare i confini di Phantasia,
quella
giumenta osannata e amata da tutti!
O
quasi, almeno.
Tutte
le preoccupazioni che affollavano
la mente di Emily Jane Pitchiner sparirono in un istante senza che
nemmeno se
ne potesse rendere conto: Harmonia era amata da tutti… o
quasi, perché sicuramente
qualcuno che voleva fargliela pagare quanto lei c’era per
forza, e quel
qualcuno avrebbe potuto essere un suo alleato.
Ecco
cosa le serviva, un alleato, un
alleato e nient’altro!
Con
un’espressione raggiante dipinta sul
volto ed un sorriso a tratti inquietante, Emily si rese conto che forse
era
finalmente arrivato il momento del riscatto per lei, quello che
aspettava impazientemente
da quando aveva perso tutto ciò che aveva: era solo
questione di tempo, doveva
solamente sopportare qualche altra umiliazione, abbassare la testa,
essere
accondiscendente con suo padre o chiunque altro e attendere qualche
tempo.
Aveva
atteso per trent’anni, avrebbe
aspettato ancora.
________________________________________________________
Angolino
dell’autrice
Eccomi
qui con questo capitolo che è un
po’ una pausa fra quello che sta accadendo a Phantasia e la
famosa partita a
scacchi che certa gente sta giocando senza farsi notare :3
Prima
di tutto, vorrei solo dire che sulla
questione cracker-kraken-quella-cosa-riferimenti-random
non mi pronuncio più di tanto per evitare spoiler su
fanfiction che non sono
mie, ma ringrazio _Dracarys_
per avermi dato il permesso di infilare genteH, ed
anche per avermi dato una mano enorme
a sistemare l’ultimo pezzo del capitolo stesso <3
Per
il resto non ho moltissimo da dire,
solo due parole su Mother Galaxy: è un personaggio
più importante di quanto sembri
in questa fanfiction ed avrà una long tutta sua dove questa
importanza verrà
del tutto fuori, ma spero che il suo ruolo inizi ad essere delineato a
sufficienza già da ora.
Come
quello del Veggente, del resto, ma
su di lui è meglio se non dico nulla perché si
tratta di uno spoiler unico! :’D
Penso
di aver detto tutto, quindi vi lascio
con l’aspetto di Mother Galaxy :D
|
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Capitolo 9 *** Shattered mind ***
Un
lieve pizzicore sulla nuca l’aveva svegliata durante il suo
sonno già di suo
non poco agitato, portando Emily Jane a darsi un leggero schiaffo sul
collo,
come se stesse scacciando un qualche insetto responsabile di quella
spiacevole
sensazione appena provata; continuando a tenere il volto immerso nel
cuscino e
mugugnando qualcosa, si mise a tastare pigramente le coperte che
l’avvolgevano
nonostante fosse ancora mezza addormentata, constatando però
l’assenza di
ospiti indesiderati.
Passò
qualche minuto così, con il corpo premuto a pancia in
giù sul letto e le
braccia abbandonate lungo i fianchi fuori dalle lenzuola, poi si decise
a
girare la testa alla propria sinistra: il letto era sfatto da quel
lato, con la
coperta tirata da una parte per liberarsi da quel bozzolo e
probabilmente
alzarsi, il cuscino visibilmente stropicciato per l’utilizzo
e abbandonato lì
mentre pendeva pericolosamente verso terra.
Emily
sorrise appena, posò la mano sulle lenzuola ancora calde ed
iniziò ad
accarezzarle bisbigliando parole incomprensibili: come a cercare un
ulteriore
rifugio, Madre Natura afferrò anche l’altro
cuscino salvandolo dalla sua caduta
verso il pavimento e lo strinse a sé perdendosi
nell’inconfondibile profumo che
emanava, cardamomo e cedro se non sbagliava.
E
sapeva di non stare sbagliando.
Dall’alto
del suo millennio e mezzo circa di vita, Emily Jane Pitchiner ricordava
una
sola persona che utilizzasse quella particolare fragranza, un odore di
casa e
nostalgia che la riportò indietro di sette secoli nel giro
di pochi preziosi
istanti.
Gettando
lo sguardo verso le scale che portavano ai rami più alti
dell’Albero di Olduvai,
le sembrò di rivedere le due sagome che erano solite
occuparlo sdraiate su una
pila di morbidi cuscini dai motivi floreali, le parve addirittura di
odorare in
lontananza il gusto della Red Velvet che l’aspettava ogni
singola mattina mentre
era ancora rintanata sotto le coperte… ah, le coperte!
Ad
Emily scappò un mezzo sorriso vagamente malizioso ripensando
a cosa avevano visto quelle
lenzuola, se
avessero potuto parlare probabilmente persino suo padre si sarebbe
chiuso la
bocca da solo sul rimproverarle la frigidità latente che
aleggiava intorno alla
figura di Madre Natura… o forse no. Conosceva fin troppo
bene suo padre ed il
suo malsano modo di ragionare, sapeva perfettamente che non avrebbe mai
ammesso
di essere dalla parte del torto nemmeno se fosse stato ovvio, se poi si
trattava di dare ragione a lei probabilmente
Pitch avrebbe preferito tagliarsi un pezzo di naso piuttosto che
riconoscerlo.
Il
che non sarebbe stato un male, dal momento che quella era
l’unica parte del
corpo del sovrano degli incubi degna di poter essere definita un vero e
proprio
“incubo”, dei chirurghi di rinoplastica
però.
Non
aveva idea di come avesse fatto, ma quel pensiero era riuscito a
strapparle
addirittura una risatina nemmeno troppo contenuta, una cosa
praticamente
impensabile se si parlava di suo padre dal momento che, da 1500 anni
circa a
quella parte, l’unico effetto che quell’uomo aveva
sulla sua psiche era di far
tornare a galla ricordi che Emily aveva faticato a sommergere di odio,
rancore
e tanta, troppa, solitudine, e quella Madre Natura non la reggeva
troppo bene.
Prima
che le cose potessero degenerare e ridurla nelle solite condizioni
pietose in
cui biasimava se stessa per non avere più un briciolo di
dignità, Emily Jane
girò distrattamente la testa verso il terrazzo.
E
sentì il cuore perdere un battito, poi un altro,
sentì il respiro che le moriva
in gola e la bocca diventare secca all’improvviso, gli occhi
spalancarsi in un
misto di stupore e paura.
Non
poteva credere a ciò che stava vedendo, non doveva
crederci.
Non
era reale, non poteva essere reale.
Rifletté
qualche istante, avanzando diverse ipotesi che spiegassero
ciò che si trovava davanti:
prima ipotesi, ipotesi del fantasma.
Al
solo pensiero, e nonostante nella sua testa ci fossero il panico e la
confusione più totali, Emily purtroppo non riuscì
a controllare il suo lato
canoro:
«If
there's something strange, in your
neighborhood, who you gonna call? GHOSTBUSTERS!» iniziò a canticchiare
urlando l’ultima parola a
squarciagola, dondolando la testa da una parte all’altra per
stare al ritmo «If there's
something weird, and it don't
look good, who you gonna call? GHOSTBUSTERS!».
Che
scena pietosa, avrebbe dovuto vergognarsi di se stessa… ma
anche no, forse non sarebbe
stata una brutta idea chiamare i Ghostbusters in caso di spiriti
malevoli sul
terrazzo, e comunque lo riteneva un buon modo per esorcizzare il
terrore che la
stava attanagliando.
Poi
ci pensò meglio, all’ipotesi del fantasma, e
concluse che in realtà non era
Halloween, quindi non c’erano fantasmi in giro per la Terra
per i quali si
sarebbe dovuta chiamare la disinfestatrice dal regno dei morti
-nonché
simpatica vicina di casa delle sovrane di suddetto regno-, inoltre non
sentiva
nemmeno l’odore di tacos unti e bisunti in lontananza
accompagnato da curiose
incitazioni al “farsi farcire come un burrito coperto di
salsa al formaggio”.
A
lei nemmeno piaceva, il formaggio.
Ipotesi
del fantasma scartata.
Un
altro lampo di genio aggiunse un’ipotesi a quella precedente,
e cioè che fosse
suo padre in vena di fare scherzoni, quelli belli proprio, magari in
occasione
del pesce d’aprile.
Emily
guardò meglio la figura che aveva davanti, cercando di
distinguerne per bene i
contorni: vada per il corpo snello che avvalorava la sua tesi, vada
anche per
la pelliccia che forse era quella famosa che Pitch aveva ricevuto in
dono dal
Grinch -non voleva nemmeno sapere come-, ma ciò che aveva
messo alle strette
questa nuova possibilità era la mancanza di un naso di
dimensioni immani come
quello di suo padre, ed Emily Jane concordava sul fatto che sarebbe
stato
praticamente impossibile da nascondere.
Ipotesi
dello scherzo epico finito male scartata.
Senza
distogliere lo sguardo dall’oggetto delle sue ipotesi, Emily
Jane si issò sui
gomiti per passare dalla posizione sdraiata nella quale si trovava fino
a
sedersi sul suo lato di letto: strinse le esili quanto pallide dita
intorno ai
lembi della vestaglia trasparente color smeraldo -uno dei pochissimi
abiti che
le ricordavano ancora i bei tempi andati- che portava addosso,
iniziando ad
allacciare freneticamente uno per uno i bottoni dorati finemente
lavorati all’altezza
del seno fino a quando non fu certa di averli chiusi per bene tutti.
Sì
guardò di nuovo intorno cercando di capire se stesse
sognando o se fosse tutto
reale, si diede addirittura un pizzicotto sulla guancia ricavando
giusto un
dolore che indicò la veridicità di ciò
che stava assistendo e provando, eppure non
si sentiva affatto meglio di come si sentisse prima, di quando la terza
e
ultima ipotesi si era insinuata nella sua mente.
Che
fosse tutto frutto di un brutto scherzo della sua psiche, un diabolico
quanto intricato
piano del suo cervello che creava false percezioni per farle credere
che la
persona che stava vedendo -la quale se ne stava con i gomiti
placidamente
poggiati sulla ringhiera di rami intrecciati quasi ad attenderla- fosse
la
stessa che aveva visto morire settecento anni fa.
Perché
quel profumo, quello di legno di cedro e cardamomo, era più
di una semplice
fragranza a lei famigliare: era odore di casa quando Emily Jane
Pitchiner ancora
era una sovrana rispettata -amata non proprio, ma anche quello era
meglio di
niente- dal suo popolo, odore di un amore che era riuscito a tirare
fuori il
meglio da Madre Natura nonostante le sue resistenze, odore di
“per te farei
durare l’inverno per secoli, solo per avvolgerti in una
coperta ed imboccarti
di cioccolata calda e brownies in eterno” quando credeva
ancora a quella
promessa.
Era
odore di morte, soprattutto quello.
Perché
Marigold Temporibus era caduta insieme alle sue sorelle, era morta in
nome di
una regina -la sua regina- che non
aveva
portato il lutto nemmeno per un istante, indaffarata a maledirla
com’era per
aver trascinato con sé nel baratro anche il Seme, il cuore
pulsante di Tandokka
stessa.
Marigold
non era viva, era morta, morta, e
quello era tutto uno scherzo della sua stramaledetta mente che voleva
farla
impazzire: ecco qual era la terza ipotesi, che non la stesse
perseguitando il
fantasma della Guardiana dell’Inverno, ma che fosse il suo
stesso senso di
colpa a rincorrerla anche nelle pieghe della notte, oltre a quelle del
giorno.
Perché
nella notte, lei lo sapeva bene, c’era una cosa che non
poteva raggiungerla: il buonsenso.
Il
buonsenso che le diceva di non avvicinarsi oltre.
Il
buonsenso che le diceva di lasciar perdere e tornare a letto.
Il
buonsenso che le diceva quanto non fosse saggio trovarsi a dieci
centimetri da
Marigold -o dal suo fantasma, dal suo spirito, da
qualsiasi cosa fosse- fissandola con gli occhi vuoti ed il
volto
contratto in un’espressione tanto stupita quanto indifferente.
Ma
il buonsenso, appunto, di notte non sfiorava minimamente Madre Natura,
e per
quello stesso motivo ora si trovava esattamente dove non avrebbe dovuto
trovarsi
ed a fare ciò che non avrebbe dovuto fare con una persona
che in quel momento
non avrebbe dovuto essere viva, naturalmente.
Se
Emily era immobile come una statua completamente in balia di emozioni
contrastanti, con la voglia di piangere e ridere mista a quella di
strapparsi
ciò che rimaneva dei suoi capelli, allora l’altra
pareva perfettamente calma,
quasi divertita a dirla tutta. Forse stava impazzendo, forse era
già pazza ma
non riusciva ad accettarlo -il che era decisamente probabile-, fatto
stava che
persino le foglie della radura lì intorno parevano banchi di
pesci guizzanti
che ondeggiavano al ritmo della brezza notturna, proprio come facevano
i lunghi
ricci color ebano di Marigold.
Proprio
come le lanterne azzurrine illuminavano i rami più alti
dell’Albero di Olduvai ed
il terrazzo stesso, così gli occhi di un intenso color
smeraldo della guardiana
erano gli unici punti luminosi presenti suo corpo, poiché
esso era interamente
coperto da una soffice pelliccia bruna dalle più svariate
sfumature del
marrone, eccezione fatta per le screziature bianco-grigiastre che
apparivano
qua e là sugli arti e sul busto e le piccole corna ricurve
color antracite che
facevano capolino fra i capelli.
Emily
la squadrò qualche istante da capo a piedi -o meglio, da
corna a zoccoli-
restando in silenzio, si diede un pizzicotto per l’ennesima
volta, poi un altro
e un altro ancora: non poteva essere tutto reale, non
doveva esserlo.
Eppure
lo sembrava, lo era.
Strinse
ancora di più la vestaglia al petto fino a quando non
sentì le nocche
intorpidirsi, fece lo stesso con le palpebre sforzandosi di non
piangere dalla
disperazione o dalla felicità o da qualsiasi accidenti di
sentimento la stessa
consumando in quel frangente, ma sapeva che era una sfida che avrebbe
perso in
partenza: avrebbe voluto scappare nel letto e gettarsi sotto le coperte
pregando di addormentarsi, addormentarsi e non svegliarsi mai
più.
Improvvisamente,
persino le gambe si rifiutarono di sostenere il peso della sua
esistenza
tormentata e decisero di cedere, facendola crollare a terra mentre le
lacrime sgorgavano
a fiumi dai suoi occhi dorati, lacrime che mentre scendevano lungo le
guance
sembravano tizzoni incandescenti che le bruciavano l’anima, o
almeno ciò che ne
rimaneva.
Ma
il corpo di Emily Jane terra non la toccò mai, al posto del
freddo del
pavimento e delle radici che le squarciavano le vesti sentiva solo una
stretta
calda e morbida che l’aveva accolta nel momento in cui lei
stava collassando
inerme, e che ora la stava stringendo a sé con fare materno.
Chiuse gli occhi
piano, quasi avesse paura che se li avesse riaperti sarebbe svanito
tutto come
sabbia fra le dita di un bambino, e si abbandonò
completamente a quel bozzolo
caldo che la confortava adesso esattamente come l’aveva
confortata per tre
secoli interi, settecento anni prima.
Il
calore sulla pelle, il sollievo per i suoi occhi stanchi di piangere,
il
sentirsi amata standosene semplicemente fra le sue braccia, i flebili
sussurri
per tranquillizzarla e dirle che sarebbe andato tutto bene, la
sicurezza che
quell’abbraccio le trasmetteva… ora lo sapeva, ne
era assolutamente certa, non
c’era più dubbio alcuno per Emily Jane Pitchiner:
era tutto vero, tutto.
Marigold
c’era veramente, la stava
confortando
per davvero, gli occhi colori
smeraldo che ora -dopo averle sollevato il mento- parevano star facendo
l’amore
con i suoi da quanto lo sguardo fosse intenso erano vivi, vivi!
Lo
giurò a se stessa, agli astri che stavano assistendo a
quella scena, lo giurò
ad ogni foglia che in quel momento stava cadendo, a quelle che lo
avevano già
fatto e quelle che sarebbero cadute: mai più, mai,
avrebbe permesso che le portassero via di nuovo la donna che
amava, potesse il Sole sorgere ad Occidente e tramontare ad Oriente se
mai
avesse infranto quella promessa!
Accettò
di buon grado la mano che Marigold le offrì per aiutarla a
rialzarsi da quella
condizione di miseria nella quale si trovava -che alla fine era un
po’ la metafora
della sua esistenza negli ultimi tre decenni-, lasciò che
nell’alzarla da terra
le sfiorasse la vita provocandole un brivido che aveva scordato di
poter
provare, non si oppose nemmeno quando ci mancò poco che le
labbra della
guardiana sfiorassero le proprie nel sistemarle i capelli, che
l’altra stava
osservando confusa.
Madre
Natura si coprì la testa con le mani arrossendo e provando
un senso di immensa
vergogna: aveva scordato quel piccolo e
sicuramente non evidente dettaglio della sua persona, il
marchio che si
portava dietro a ricordarle di come era stata sconfitta e umiliata e
rinnegata
dalla Regina della Fantasia trent’anni prima, che aveva
rovinato le cose tante
volte e che, ora, stava rovinando in modo irreparabile un momento che
avrebbe
dovuto essere l’unico felice in tanti disastrosi che aveva
passato.
Del
resto ormai ci aveva fatto l’abitudine, al trovarsi qualcuno
o qualcosa che
rovinava ogni singolo istante normale della sua vita, non avrebbe
dovuto farsi
tanti romantici viaggi mentali sul fatto che -settecento anni dopo-
Marigold
Temporibus potesse ancora amare la donna che aveva perso, specie se
questa era
totalmente differente.
Ma
la guardiana non sembrava disturbata dal cambio di look,
tutt’altro:
delicatamente, prese le mani dell’altra e le
scostò dal suo capo incurante
della resistenza che incontrava nel farlo, poi chinò
leggermente la testa e le
diede un bacio sui capelli come a dirle “Va tutto bene, sei
bellissima anche
così”, le parve addirittura di sentir uscire
quelle parole dalle sue labbra
nonostante non avesse ancora proferito parola. Marigold la
guardò e sorrise, e
allora la giovane Pitchiner capì: no, non c’era
bisogno che glielo dicesse, lei
l’amava ancora come l’aveva amata un tempo.
Emily
ricambiava, non aveva mai smesso di farlo, e Goldie pareva averlo
capito ben
prima di lei: capito che la compagna si era tranquillizzata, con
dolcezza
infinita le aveva preso il viso fra le mani e l’aveva messa
fronte a fronte con
la propria socchiudendo gli occhi e sussurrandole qualcosa di
indecifrabile, ma
che a quanto pareva riguardava con buona probabilità
l’avvicinarsi dei loro
visi con la chiara intenzione di baciarla dopo tutto quel tempo che non
lo
faceva.
Bacio
che l’altra fermò prontamente.
“Come
se ci si potesse aspettare altro da una frigida come te”,
avrebbe detto suo
padre con quella sua solita faccia da schiaffi -e pugni, e calci, e
rinoplastica, soprattutto quella-, ma Madre Natura sapeva bene cosa
stava
facendo, lo sapeva fin troppo bene.
Emily
si era opposta a quel bacio sì, ma solo per prendere le mani
di Marigold e
guidarle lentamente verso i suoi fianchi pallidi e scheletrici sui
quali la
vestaglia cadeva larga, sentendo chiaramente il calore delle dita della
guardiana che scivolano sulla propria pelle attraverso la stoffa che
pareva
potersi lacerare da un momento all’altro: assaporò
ogni singolo morso che
Marigold stava dando al suo esile collo dopo aver infilato la testa
nell’incavo
della sua spalla, ora che i ruoli si erano invertiti era lei che stava
cercando
rifugiò là in mezzo.
Era
certa che Emily Jane le avrebbe lasciato fare, e invece
all’ennesimo tocco
delle labbra sul suo corpo venne bruscamente fermata senza che potesse
capirne
il motivo, finì per staccarsela proprio di dosso; inutile
dire che Marigold
venne presa totalmente alla sprovvista da quel gesto, e finì
per andare a
cercare conferma o conforto o qualsiasi cosa fosse nel volto della
donna che
aveva davanti: né paura, né dolore e nemmeno
rimprovero provenivano dagli occhi
dorati di Madre Natura, no, tutto ciò che ora riusciva a
vedere era una luce
nuova ma a lei familiare, una luce che conosceva bene e che diceva di
fare una
sola cosa.
Abbandonarsi
alla passione.
Letteralmente
gettatasi al collo della compagna, Emily non aveva perso ulteriore
tempo e
aveva iniziato a baciarla avidamente con una passione più
ardente del fuoco di
riscatto che le bruciava dentro, le stesse labbra delle due donne
parevano
avere vita propria mentre danzavano preda di
quell’incontrollabile frenesia, la
stessa con la quale i loro corpi si erano fusi in uno solo quando
Marigold
l’aveva sollevata da terra afferrandole saldamente le natiche.
La
baciò ancora, e ancora, e poi ancora, ogni bacio scavava la
pelle sempre più a
fondo, scendeva sempre più in basso, dalla bocca al collo e
poi alle clavicole
pareva che la stesse divorando; anzi, in un certo senso lo stava pure
facendo,
altrimenti non avrebbe afferrato con i denti i bottoni della vestaglia
per
farli saltare uno ad uno, facendo allentare la veste che ricadde
mollemente
sulle braccia di chi la stava indossando.
Stava
per dire qualcosa, Madre Natura, ma venne zittita dallo spasmo
improvviso che
le attraverso il corpo quando il volto della compagna
affondò fra i suoi seni
nudi e ormai piacevolmente indifesi; Goldie non indugiò
certo nell’esplorarli
con intensità sempre crescente, di tanto in tanto si
soffermava giusto per
gustarsi l’espressione di piacere che si dipingeva sul volto
della sua regina e
per sentirla mentre le chiedeva di continuare, pareva quasi che fosse
alle
prese con una mappa del tesoro da quanta concentrazione ci stava
mettendo!
Tesoro
che Marigold aveva trovato senza problemi, qualche istante dopo, e che
si era
affrettata a stringere piano fra i denti quasi temesse che gli potesse
scappare
da un momento all’altro
Pure
Emily Jane temeva che -sempre da un momento all’altro- le
uscisse dalla bocca
un gemito che stava tentando di reprimere con uno sforo immane da
prima, da
quando aveva sentito le labbra della compagna chiudersi intorno al suo
capezzolo roseo, ma era ben consapevole che la sua era in tutto e per
tutto una
battaglia dalla quale non poteva uscire vincitrice.
Anzi,
non voleva proprio: bastò un istante solo, quello in cui la
lingua dell’altra
prese a giocare con quella sua zona erogena mantenendo salda presa, ed
Emily
Jane Pitchiner aveva ceduto completamente e senza inibizione alcuna,
abbandonandosi ad un grido di piacere né strozzato,
né trattenuto in alcun
modo, si era semplicemente lasciata andare in tutto e per tutto.
Goldie
aveva alzato leggermente lo sguardo al sentirla gemere, forse sorpresa
che
avesse osato tanto, forse compiaciuta dal sentire forte e chiaro i
risultati
del suo lavoro, stava di fatto che aveva preso quel gemito quasi come
un
segnale che poteva andare oltre, e non se lo era certo fatto ripetere
due volte.
Fortunatamente per entrambe, la guardiana era abbastanza forte
perché una mano
potesse reggere Emily da sola, o forse era quest’ultima ad
essere troppo magra:
fece scivolare la mano libera sotto la vestaglia trovando presto la
pelle
morbida del gluteo che premeva sul suo palmo, si fermò ad
accarezzarlo solo per
un fugace momento e poi via, sempre più giù, fino
ad insinuarsi con le dita in
mezzo alle sue cosce umide e calde che al solo tocco erano state scosse
da un
fremito.
Emily
Jane la guardò con la faccia di chi è appena
stato bruscamente svegliato da un
sogno: una parte di lei si rimproverò perché non
aver indossato l’intimo prima
di coricarsi, un’altra -quella che aveva avuto la meglio, per
giunta- si
mordeva le labbra ringraziando quella svista capitata al momento giusto
e,
soprattutto, con la persona giusta. Si strinse forte al collo di
Marigold
premendo la testa sulla sua spalla ogni volta che l’altra
sfiorava la sua
intimità strappandole gemiti sempre più intensi,
sempre più frequenti: fra una
carezza e l’altra, fra un morso e l’altro, a Madre
Natura parve addirittura di
sentire in terza persona la propria voce gridare il nome
dell’amante senza il
suo consenso, quasi l’ardore dal quale si stava lasciando
trascinare l’avesse
catapultata in una dimensione parallela.
Poi
un dito si insinuò nel suo grembo, e allora Emily Jane
Pitchiner e la sua
dimensione erano andate in frantumi in un’esplosione di
piacere
incontrollabile.
Le
si accasciò addosso ancora scossa dai brividi e
già completamente stremata, gli
occhi socchiusi e le mani abbandonate mollemente al collo
dell’altra, ancora
dentro di lei; dovette pazientare non poco prima di prendere coscienza
di sé,
ma quando lo fece sentì chiaramente le carezze profonde,
intime, che Marigold
le stava dedicando mentre la riportava dal terrazzo nella sua stanza,
la loro stanza, fermandosi ai piedi
del
letto.
La
guardiana la guardò come a chiedere il suo permesso per
continuare, e lei annuì
sorridendo; la posò delicatamente sulle lenzuola senza
smettere un attimo di
baciarla, prese i cuscini che aveva precedentemente scansato e glieli
mise
dietro la testa per farla stare più comoda chiedendole
conferma, e in un attimo
su sopra di lei con le mani poggiate sul materasso.
Emily
allungò le braccia sui fianchi dell’altra, le dita
esili che si perdevano e
parevano scomparire fra la spessa pelliccia marrone della guardiana
dell’inverno, poi prese a risalire lentamente come se stesse
verificando che
fosse tutto vero: prima i fianchi, poi la vita e l’addome,
dopo risalì lungo il
seno -completamente nascosto dal pelo- e infine il collo ed il volto,
che si
mise a studiare qualche istante.
Era
bella, bellissima, la creatura più incantevole che avesse
mai conosciuto in più
di un millennio di vita: ed era solo sua, sua e di
nessun’altra.
All’inizio,
però, la giovane Pitchiner qualche dubbio che fosse lei per davvero lo aveva nutrito eccome, non
riusciva a capacitarsi di
come fosse possibile che Marigold Temporibus -che pure era certa di
aver visto
morire davanti ai suoi stessi occhi, quel giorno maledetto in cui
Apophis era
disceso a Tandokka- fosse viva e vegeta, che non fosse sconvolta quanto
lei di
averla rivista dopo sette secoli, e che anzi stesse facendo
l’amore con lei. Ma
i dubbi erano durati abbastanza perché permettesse loro di
avere la meglio
ancora una volta, aveva passato troppo tempo a illudersi di scorgerla
dietro
ogni angolo, in cima ad ogni scala, ad aspettarla dietro ad ogni porta:
era
lei, era vera, ne era sicura.
E
per chi avesse avuto ancora qualche dubbio in proposito nessun
problema, Emily avrebbe
mostrato a quel qualcuno la vestaglia che ora Marigold le aveva tolto
lasciandola nuda in balìa delle sue premure: la stoffa umida
all’altezza
dell’interno coscia avrebbe convinto anche i più
scettici in merito
all’autenticità del suo orgasmo, forse addirittura
suo padre.
Finalmente
libera di sentire il contatto diretto con la sua pelle senza
più abiti ad
impicciarla, la guardiana fu finalmente libera di iniziare a baciarla
ovunque
-e con ovunque si intente proprio dappertutto, anche in posti dove
posti non ci
sono-, soffermandosi ora sul suo seno, ora sul collo, ora invece vicino
alle
orecchie, per poi magari scendere verso l’addome: non
c’era un ordine preciso
in ciò che stava facendo, e non era certo l’ordine
che Marigold che stava
cercando, solo il piacere. Accavallò una delle sue gambe a
quella dell’altra,
trovandosi con l’inguine che sfregava sulla stessa,
lasciandosi scappare un
mugolio sommesso: non si fermò nemmeno allora, no,
continuò imperterrita nella
sua cascata di effusioni al corpo dell’amata come se volesse
recuperare in un
colpo solo tanti secoli di lontananza, ed a giudicare dai risultati ci
stava
riuscendo bene, molto bene.
Talmente
bene che, appena i suoi baci si avvicinarono all’inguine di
Emily Jane,
quest’ultima le premette la testa dove già la
stava tenendo per assicurarsi che
capisse ciò che voleva le venisse fatto, ciò che pretendeva le venisse fatto: Goldie lo
aveva capito, oh se lo aveva
capito, ma non era intenzionata a soddisfarla subito, certo che no.
Tornò
alla posizione di prima, questa volta sedendosi sulle ginocchia e
liberandosi a
malincuore della presa della giovane Pitchiner, alla quale
allontanò piano le
mani racchiudendole nella sua e sistemandogliele con dolcezza sopra la
testa:
non oppose resistenza, Emily, invece la lasciò fare
mordendosi le labbra e
abbandonando mollemente le sue gambe, ora che Marigold gliele stava
delicatamente piegando verso il petto sdraiandosi davanti ad esse.
Prese
a riempirgliele di baci partendo dal polpaccio e risalendo lentamente
fino alla
coscia, dove si concentrò alternando momenti in cui la
sfiorava ad altri in cui
la prendeva a piccoli morsi, segni indelebili su quella pelle diafana
che venivano
sanati dal passaggio della sua lingua calda e leggermente ruvida.
L’altra
tratteneva a stento le suppliche di darle finalmente ciò che
attendeva
pazientemente da quando si erano riabbracciate, ogni tanto tentava
inutilmente
di stringere le gambe ma veniva puntualmente fermata dalla presa salda
di
Goldie, che di rimando gliele allargava quel poco in più che
bastava a farle
capire che aveva intenzione di fare tutto, ma non di fermarsi.
Sollevò
un’ultima volta la testa, poi sparì non si sa dove.
Ma
a giudicare da come gridava Emily una mezza idea ce la si poteva pure
fare, e
pure senza impegnarsi troppo con l’immaginazione.
“And
who are you”, the proud queen said
“that
I must bow so low?”
Aprì
gli occhi di scatto, allarmata: una voce, le era parso di udire una
voce che…
cantava? Si guardò intorno: no, probabilmente era solo
frutto della sua mente
letteralmente in visibilio dal piacere che provava ad ogni movimento
della
lingua della sua amante perduta, ecco cos’era.
“A
naughty
girl with a gold armor,
that’s
all the truth I know”.
L’aveva
sentita di nuovo, quella voce, ma ora era parsa più simile
ad un coro… no, no,
no! Doveva smetterla di farsi tutte quelle fantasie, stava rovinando
tutto come
solito! Non era niente, non c’era nessuno, solo loro due,
punto: basta
paranoie, basta agitazione, basta a tutto ciò che non fosse
fare l’amore con la
donna che amava.
Chiuse
gli occhi, infine, non c’era proprio nulla che andasse fatto
con gli occhi in
quegli istanti.
“As
young as you, or old as me,
Chandrasekhars
still have their swords
and
mine is long and sharp, you fool,
as
long and sharp as yours”.
Chandrasekhar.
Quella
parola, o meglio quel cognome, risuonò nella mente di Emily
Jane come un eco
distraendola dal suo piacevole passatempo:
“chandra”, cioè
“venerabile”, e
“sek’har”,
ossia “nato dal sangue”. A furia di sentirlo
pronunciare ormai lo aveva
imparato a memoria, il cognome della stirpe di discendenza divina
più potente
che la galassia avesse mai visto, che gli ignari abitanti del pianeta
di turno potessero
temere di conoscere, che suo padre avesse
mai sfidato.
Spalancò
gli occhi e le parve che tutto intorno a lei andasse più
veloce e la stesse
lasciando indietro, la vista annebbiata che non le permetteva
più di
distinguere i confini della sua stanza iniziava ad agitarla ma niente,
non
riusciva a muovere nessun muscolo e nemmeno a gridare, a chiedere aiuto
a
Marigold che era lì vicino a lei.
Ma
certo, Marigold!
Abbassò
lo sguardo per chiederle aiuto, ma venne scossa da un conato di vomito:
la
pelle le si stava letteralmente cospargendo di crepe che si
ramificavano sempre
più raggiungendo ogni singolo arto, ogni singola
estremità, persino i capelli
color ebano stavano volando via come paglia al vento lasciando posto ad
una
chioma biondo platino.
Voleva
scappare, voleva fuggire da quell’incubo e dimenticare tutto
ciò che stava
vedendo, ma di nuovo i tentativi di chiedere soccorso finirono tutti a
vuoto,
persi nei ciuffi di pelo che si staccavano dal corpo di Goldie -o
almeno, di
ciò che rimaneva di lei- svanendo in quel turbine scuro
sfumato di rosso che la
circondava: c’era qualcosa di familiare anche in quello,
eppure non riusciva a
ricordare, o forse il suo cervello le impediva di farlo per proteggerla.
Delle
immense ali iridescenti che risplendevano di rosa e d’azzurro
come se
brillassero di luce propria si erano spalancate sulla schiena della
guardiana, mandando
in pezzi con un rombo assordante tutto ciò che, prima, era
stato Marigold
Temporibus.
Al
suo posto, una figura femminile sovrastava Emily Jane e stava risalendo
lentamente il suo corpo immobilizzato, esattamente come prima aveva
fatto la
sua compagna: il solo tocco delle mani sulla sua pelle e le labbra che
vi si
posavano sopra baciandola le davano una sensazione di bruciore sempre
più
forte, sempre più profonda e dilaniante, le sembrava di
stare letteralmente
andando a fuoco mentre l’altra le si avvicinava al volto,
ogni singolo tocco
era come un tizzone ardente che le trapassava le carni carbonizzate.
Fece per
chiudere gli occhi ma non ci riuscì, era come se una forza
esterna la stesse
costringendo a tenerli spalancati per vedere tutto, e quel qualcosa
stava
avendo la meglio.
Poi
li vide, quegli occhi.
Non
li aveva mai dimenticati dalla prima volta in cui li aveva visti, mai: se si concentrava, in quelle sfere
azzurre di una sfumatura così innaturale da sembrare
forgiata dalle stelle,
riusciva a vedere le proprie paure, gli incubi che l’avevano
perseguitata per
decenni, secoli, millenni, dal fatidico giorno in cui il suo sguardo da
bambina
smarrita aveva incrociato quello di Idhunn Orionis Chandrasekhar.
La
capofamiglia dei Chandrasekhar, la sovrana della distruzione, la donna
che
aveva dato la caccia a suo padre e, nel periodo in cui la Golden Age
iniziava a
tramontare amaramente, anche a lei.
Quando
le labbra della regina avevano toccato le sue, la giovane Pitchiner
avrebbe
solo voluto piangere, e prenderla a pugni, e strapparle quelle dannate
ali
dalla schiena, e prendersi finalmente la sua rivincita dopo
ciò che le aveva fatto;
ma nulla di tutto questo era avvenuto, ovviamente, e lei era ancora
preda di
quel bacio che le faceva salire un conato di vomito lungo
l’esofago se pensava
a chi glielo stesse dando.
Per
distrarsi -e sperava pure svegliarsi da quell’incubo-, Emily
girò gli occhi
verso la finestra: il paesaggio era cambiato drasticamente da come lo
ricordava, le distese di alberi di Tandokka avevano lasciato posto a
quello che
pareva essere lo spazio sconfinato di un nero così profondo
da essere
indescrivibile con parole umane, un’oscurità che
pian piano veniva rischiarata
dall’apparizione di sporadiche e timide stelle che si stavano
disponendo a
formare… una costellazione? No, non una qualunque.
“Typhan!”,
gridò con le lacrime che le
rigavano le guance, ma nessuno poté sentirla.
Né
lui, né il drago che emergeva dalle tenebre alle sue spalle.
“And
so she spoke, and so she spoke,
the
six black winged queen,
but
now Orion’s stars weep over his hall,
with
no one to hear”.
Nella sua mente come fuori dalla
sua finestra, la
scena si dispiegò davanti ai suoi occhi: lei che giocava in
solitaria come
sempre in quegli ultimi dieci anni, il titano che cercava pazientemente
di
parlarci dopo l’ennesimo litigio riguardo ciò che
le aveva nascosto, poi un
tuono che aveva scosso la loro beata tranquillità, il rombo
di un corno da
guerra comparso dal nulla insieme a mille e mille di altre sagome
indistinte
che si perdevano nella vastità del cosmo.
Dinanzi a loro, con le ali spiegate
e la spada
sguainata nella mano, la regina Idhunn Orionis Chandrasekhar in tutto
il suo
maestoso splendore da creatura di discendenza divina: era venuta per
lei, per
la figlia del generale Kozmotis Pitchiner, e Typhan lo sapeva bene.
Le aveva detto di nascondersi, di
fuggire, di
scappare e non guardarsi indietro, ma Emily Jane non lo aveva ascoltato
ed era
rimasta al suo fianco: per combattere e riscattarsi dalle delusioni che
gli
aveva dato, era questo ciò che pensava di fare, del resto
dei poteri ora li
aveva anche lei! E così non lo aveva avvisato, Typhan, che
si sarebbe gettata a
capofitto verso il nemico dispiegando il meglio del meglio di
ciò che lui le
aveva insegnato, forte solo della sua ignoranza verso il sapere chi
aveva
davanti esattamente.
Ma si era bloccata subito, lei, non
era riuscita
a muovere nemmeno un passo in più quando le figure che
accompagnavano la donna
si erano fatte più chiare: draghi, draghi a perdita
d’occhio, erano ovunque e
la stavano circondando, li stavano
circondando.
“Hic sunt
dracones”, era una delle frasi per cui
erano conosciuti i Chandrasekhar, ma a quei tempi Madre Natura non
poteva
saperlo.
In un ultimo disperato tentativo di
salvarla,
Typhan aveva debolmente -vecchio e cieco com’era- lanciato
una tempesta
indirizzata a lei tanto quanto ai suoi avversari, costringendola a
lasciare il
campo di battaglia e rimanendo a combattere da solo. Emily divenne una
spettatrice dell’orrore che si consumò pochi
istanti dopo, quando un immane
drago che pareva essere fatto di pure fiamme emerse dal nero dello
spazio.
Lo avvertiva, poteva sentire il
crepitio del
fuoco che ruggiva sotto il manto scuro e l’armatura dorata di
quella bestia che
si era affiancata a Idhunn, che prese a parlargli in una lingua
proibita ai
mortali: Rasalgethi, questo era il nome del drago della regina, ma lo
avrebbe
scoperto solo anni più tardi.
Tutto si era consumato in fretta,
allora: Idhunn
che dava l’ordine di attaccare, i draghi che si gettavano
addosso a Typhan
strappandogli brandelli di polvere di stelle un pezzo alla volta, astro
per
astro così da impiegarci il più a lungo
possibile, il titano che soccombeva
sotto quel branco di mostri famelici che lo divoravano nella loro
caotica
frenesia, le fiamme che lo avvolgevano strappandogli urla inumane, la
sua
agonia che si protraeva all’infinito mentre nel cosmo
galleggiavano flebili
stelle morenti che, un tempo, erano state l’essere che
l’aveva accolta.
E lei lì, lontana ma non
abbastanza, che
incrociava lo sguardo della sovrana della distruzione per la prima
volta: non
voleva lei morta, la voleva traumatizzata a vita, voleva vederla in
faccia mentre
riduceva in polvere -letteralmente- l’ultima parvenza di
famiglia che aveva,
l’ultimo legame affettivo che le era rimasto.
Anzi, no, quello lo aveva fatto
dopo, quando
aveva visto accendersi negli occhi dorati di quella ragazzina dai
capelli corvini
la scintilla della speranza, e lo aveva fatto nel peggior modo
possibile: le
aveva mostrato la metà del medaglione di suo padre che
recava la foto della sua
amata figlia, segno innegabile che Idhunn Orionis Chandrasekhar sapeva
cosa gli
era accaduto e che, forse, era stata complice a sua volta.
Ed era lo stesso medaglione che
ora, dopo averla
liberata da quel bacio dal sapore di un passato troppo doloroso, le
stava
sventolando davanti al naso.
Con uno sforzo immane e la forza
della
disperazione dalla sua, ad Emily parve proprio di essere riuscita a
muovere
leggermente le dita prima immobili, segnale che forse se si fosse
impegnata
sarebbe riuscita a liberarsi da quell’incubo: Idhunn aveva
vinto una volta, ma
la rivincita sarebbe stata dalla sua parte. Poco a poco, centimetro
dopo
centimetro, muscolo che pareva esploderle dopo muscolo,
riuscì a sollevare
prima i polsi, poi i gomiti, poi mosse le dita con pieno controllo,
intenzionata a stringerle al collo della donna.
Lo avrebbe fatto per Typhan,
sì, per lui e per
chiunque era perito nel tentativo di proteggere la figlia del generale
Kozmotis, lo avrebbe fatto per tutti, tutti!
Era lì per stringere,
era così vicina, poteva
quasi sentire il calore del suo collo nudo così vicino,
così indifeso: una
giustiziera, ecco cosa sarebbe stata da allora, non più la
figlia di Pitch
Black, no, ma la donna che aveva ucciso quella creatura immortale che
era
Idhunn Orionis Chandrasekhar!
Ma non erano né la
gloria né la vendetta che
attendevano Emily Jane, solo le fiamme.
Quei pochi centimetri che la
separavano dalla
riconoscenza eterna furono riempiti in pochi secondi da scintille
infuocate che
le si aggrapparono alle mani dilaniandole, sciogliendo la pelle e
scoprendo le
ossa, fiamme che provenivano direttamente dalle viscere della regina di
Orionis
III, ora in preda ad una risata folle mentre il suo corpo si scioglieva
lasciando posto ad un essere che era fuoco puro, persino i capelli
erano
diventati vortici fiammeggianti che danzavano nel buio di quella notte.
Fu questione di secondi prima che
l’intera stanza
prendesse fuoco, eppure niente si stava bruciando: le pareti, lo
spoglio
mobilio, il letto, Typhan, i suoi ricordi, il
corpo di Emily stessa, tutto si scioglieva come neve al Sole,
colava per
terra ammassandosi in chiazze come pozze d’acqua bollenti.
Si sentiva bruciare dentro, la
giovane Pitchiner,
così prese a tossire dolorosamente: dalla sua bocca si
riversava magma
incandescente che avvertiva spingere da dentro per esploderle fuori
dalla gola,
stava letteralmente bruciando viva e perfettamente cosciente, si stava
vedendo
liquefarsi mentre le ossa spuntavano dalle sue dita, dalle guance, dal
petto
stesso.
Lo sguardo sprezzante di Idhunn le
si piantò
addosso mentre le afferrava la mascella, le fiamme che non la
sfioravano nemmeno:
conficcò le unghie nelle sue carni fino a trovare le
costole, gliele afferrò
con violenza immane mentre il fuoco cicatrizzava i tessuti ancora prima
di
bruciarli, strappandole una per una e facendogliele vedere soddisfatta.
L’altra
non aveva idea di come facesse ad essere ancora cosciente, era
fisicamente
impossibile, ma lo restò abbastanza a lungo per sentire
delle vere e proprie
coltellate nel corpo quando la Chandrasekhar aveva usato le sue stesse
ossa
come paletti con cui trafiggerle le mani, le braccia, le gambe, il
collo,
l’inguine, il petto.
Infine, Idhunn aveva mirato in
mezzo agli occhi.
“Yes,
now Orion’s stars weep o’er her hall,
and
not a soul to hear”.
«Se non ti alzi adesso
giuro che parto e ti
lascio qui, non farmelo ripetere!».
Emily Jane scattò ritta
sul letto affamata d’aria
e madida di sudore: era… viva?
Si guardò intorno
freneticamente, cercando
conferma di ciò che aveva visto fino a quel momento: i
mobili erano al loro
posto, le finestre erano chiuse, i soffitti non stavano colando, non
c’era
nessun incendio, fuori anche il paesaggio era il solito di sempre a
Tandokka;
allora guardò se stessa: le coperte tirate fin sopra le
spalle, la vestaglia al
proprio posto, la pelle ancora attaccata alla carne, le ossa dentro il
petto ed
il suo cuore che batteva ancora, anche se all’impazzata.
Che si fosse sognata tutto? No, non
era
possibile, lei aveva sentito tutto, toccato tutto, in un sogno
ciò non sarebbe
potuto accadere, non in una misura del genere! C’era
Marigold, c’era Idhunn, c’era
il fuoco, ed era tutto reale, doveva essere accaduto tutto veramente! O
quello,
o era impazzita lei!
E l’ipotesi non le
sembrò poi così remota.
Inconsapevole di tutto
ciò che stava frullando
nella testa di sua figlia, Pitch si stava evidentemente spazientendo di
starsene lì a guardarla con gli occhi sbarrati:
«Mi hai sentito o sei
diventata sorda? Ti ho
detto di prendere le tue cose e di farlo in fretta, ce ne andiamo via
da qui il
prima possibile» le ripeté senza ricevere risposta
alcuna; infastidito, Pitch
si decise a scrollarla per una spalla.
Improvvisamente, Emily Jane si
riprese:
«Andarcene?»
«Sì, ce ne
andiamo» confermò suo padre.
«E dove dovremmo
andare?» era confusa, sia per
quello, sia perché non capiva ancora bene cosa le fosse
accaduto «È notte
fonda, non credo che-»
«Ciò che credi
tu non mi interessa assolutamente,
limitati a fare le valigie -o la borsa, o il sacco della monnezza, fai
come
preferisci insomma- e mettiti qualcosa addosso», le
gettò un borsello in grembo
«Muoviti, non voglio ripetermi».
Lei si impuntò,
ritrovando chissà dove la forza
di discutere con lui nonostante fosse ancora distrutta
dall’esperienza
allucinatoria appena avvenuta: non avrebbe detto nulla a suo padre di
tutto ciò
che aveva visto, era meglio così, anche perché le
avrebbe sicuramente riso
dietro; lo guardò con aria di sfida:
«Io non farò
proprio nessuna valigia» ripeté
rigettandogli indietro il contenitore «finché non
mi dici dove ce ne andiamo,
almeno. E non prendo ordini da te, non sei la persona giusta per
darli».
Black avrebbe voluto risponderle
per tono, ma si
limitò a borbottare qualcosa sottovoce:
«Galles, Regno Unito,
ecco dove andiamo» rispose
poggiandosi sullo stipite della porta «contenta,
adesso?»
«Galles?»
ripeté lei piegando la testa di lato «E
cosa ci andiamo a fare, in Galles? Nelle condizioni pietose in cui ci
troviamo
è meglio restare il più a lungo possibile lontano
dalle scene, non possiamo
fronteggiare altri attacchi come quello ai tuoi Incubi»
iniziò a mettere
qualche abito dentro la saccoccia che lui le aveva restituito, ma non
era
veramente presente «è andata bene una volta, la
seconda non saremo così
fortunati, lo sai anche tu. E poi-»
«Andiamo in Galles, punto», tuonò severo
Pitch lanciandole un’occhiata feroce e facendo
per uscire, trovandosi però bloccato da un viticcio
verdognolo fatto spuntare
da Emily in un impeto illuminante:
«Aspetta.
Aspetta-aspetta-aspetta: Galles… non dirmi che-»
«Lo ripeterò
un’ultima volta: raccogli le tue
cose, sciacquati la faccia e muoviti» strappò
violentemente il ramo gettandolo
lontano «non farmi domande, non farti domande, non rompermi i
coglioni: zitta,
stai semplicemente zitta, è tutto ciò
che-»
«Io dalla tua troia non
ci vengo».
Silenzio.
Si stava già aspettando
il peggio da suo padre,
dopo aver toccato quel tasto, e infatti il peggio fu proprio
ciò che le venne
riservato; iracondo, Black le afferrò il collo della
vestaglia sollevandola
quel tanto che bastava da puntarle gli occhi addosso molto
più che arrabbiato,
filamenti di oscurità le si arrampicarono su per le guance:
«Non permetterti di darle
della troia, dannata
ragazzina insolente che non sei altro, non farlo!» le
sbraitò contro
scuotrndola «Hai idee migliori, eh? Guardati, guardaci:
a chi credi di poter far paura? Non certo a Gwenllian,
nossignora: non la spaventano nemmeno cose ben peggiori di te, nemmeno
la Strega
delle Lande» la mollò di scatto, saggiandosi le
dita con l’altra mano «è la
befana ed è una maga, è figlia di Howl Jenkins
Pendragon e di Sophie Hatter, è
una mutaforma ed è stata addestrata alla magia da Madame
Suliman in persona,
inoltre-»
«È stata la
tua fidanzata»
«E quindi?»
Pitch era completamente
disinteressato ad iniziare quel discorso, infatti si
incamminò verso la porta
mettendo mano al pomello «È successo tempo fa, e
se credi che stia andando da
lei per questo mi spiace deluderti, ma hai toppato alla grande. Quindi
no, non
mi importa ciò che hai da dire, ecco tutto»
aprì la porta.
«A mamma
importerebbe…» sussurrò lei
socchiudendo
gli occhi.
Pitch si fermò un
istante, esattamente come aveva
fatto la sua mente: per un attimo, Emily sperò che qualcosa
in lui si fosse
risvegliato ed avesse iniziato a farlo ragionare, aveva sempre avuto la
speranza che accadesse, che iniziasse a ricordare; ma durò
un secondo appena,
quella scintilla che le si era accesa da qualche parte in quel cuore
congelato,
soffocata da suo padre che usciva sbattendo la porta.
Guardò la borsa che
aveva in grembo, quasi ad
assicurarsi che pure quella non fosse un’allucinazione:
sì, avrebbe fatto
meglio a rassegnarsi.
---
«Neeessun
dormaaaaa! Nessuuun dooormaaaaa!» lanciò
una fiamma nera che si insinuò fra
le radici di un albero facendolo bruciare dall’interno, le
foglie bianco
opalescente ora nere che cadevano come macabri coriandoli «Tuuuuu pure, oh Reeeginaaaa»
questa volta una scintilla sfiorò un
roseto, mandandolo in fumo qualche istante dopo «neeella tua freeeddaaaaaa staaanza guaaaaardi le
steeelleee che treeemaaanooooo»
continuò camminando e danzando, sfiorando un piccolo stagno
con un dito mentre
vi si specchiava dentro «d'ammmoreeeee
e
di speeeranzaaaaa!» l’acqua subito si
macchio di nero, una ferita
sanguinante che andava spandendosi come una ragnatela fino a coprire
del tutto
lo specchio d’acqua, ora ridotto ad una pozza nerastra e
appiccicosa come
petrolio.
Phobos non era mai stato tanto
contento in vita
sua: ballettava con una bottiglia di birra alla mano, stonava quanto e
più di
Halley, dava fuoco a Phantasia a piccoli pezzi, il preludio di una
giornata
assolutamente perfetta!
Non credeva fosse possibile essere
felice, specie
considerando gli ultimi avvenimenti non proprio gioiosi che gli erano
capitati,
ma ora tutto sembrava girare finalmente per il meglio: sentiva
chiaramente il
proprio potere ruggirgli dentro come Thorax quando era affamato,
avvertiva un
cambiamento in positivo da quel punto di vista, aveva addirittura
iniziato a
credere che anche dalla Luna che in quei giorni brillasse di un alone
rossastro
come i suoi capelli.
All’inizio aveva pensato
che ci fosse lo zampino
di Halley, ma smise di pensarci quando si guardò intorno e
non la vide più,
nemmeno durante il giorno della frittata e del rutto libero: poco male,
non
aveva certo bisogno di lei o di chiunque altro per cavarsela!
Aveva riflettuto a lungo da quando
tanta
sicurezza aveva iniziato a insinuarsi nelle pieghe della sua mente, che
insieme
alle certezze -o presunte tali- sarebbero arrivati anche i dubbi era
qualcosa
che aveva messo in conto e del quale era perfettamente consapevole, ma
non gli
importava più di tanto: avrebbe corso il rischio, questa
volta.
Non aveva più niente da
perdere, del resto, solo
la vita, e per quanto lo riguardava avrebbero potuto strappargliela da
un
momento all’altro e sarebbe stato contento comunque: era
sopravvissuto sette
secoli dentro l’Abisso, gettato in un crepaccio e dimenticato
da ogni dio
esistente nel creato, adesso poteva resistere a qualsiasi cosa. Vero,
negli
ultimi tempi c’erano stati momenti in cui era stato assalito
e divorato dalla
disperazione, ma si disse che doveva solo darsi tempo per riprendersi,
per
riabituarsi alla vita da uomo libero, il resto sarebbe venuto da
sé.
Ed era venuto da sé per
davvero, tanto che l’idea
che frullava nella sua mente era finalmente riuscita a farsi strada fra
le
paure, le insicurezze, la depressione più pura: vendicarsi,
finalmente.
Era stata una decisione ponderata?
No.
Aveva pensato ai pro e ai contro
del non
attendere la completa stabilizzazione dei propri poteri ritrovati,
prima di
attaccare? No.
Aveva un’idea precisa del
livello dei propri
avversari? No.
Aveva un piano di riserva? No,
certo che no.
Era certo di potercela fare? Assolutamente.
Spavalderia, sfacciataggine, idea
del cazzo,
chiunque poteva chiamarla come più preferiva, ma per Phobos
quello era
semplicemente “riscatto”: giorno dopo giorno,
secolo dopo secolo, quando non
c’era Halley con la quale sbronzarsi o scopare lui pensava
sempre e solo a
quello, al modo in cui si sarebbe vendicato una volta per tutte della
donna che
lo aveva mandato in rovina, a come avrebbe tolto ad Harmonia tutto
ciò che
aveva di più caro al mondo, esattamente come lei aveva fatto
con lui.
E ci stava andando proprio adesso,
dalla Regina
della Fantasia, trotterellando e cantando tutto entusiasta come un
ubriaco.
E forse un po’ lo era
pure.
«Maaa
il
mio misteeerooooo è chiuuuuuso in meee, iiiiil nomeee mio
neeeeessuuun saaaprà!»
canticchiò mentre la sua fida falce le compariva in una mano
di fuoco dalla
lama «No, no, sulla tuuua boccaaaaa
looo
diiiiirò» una seconda falce, identica
alla prima, prese forma dalla magia
che trasudava dal marchio sul suo braccio, ora completamente esposto
«quaaando la luuuceeee
spleeeenderààà»
alzò le mani al cielo «eeeed
il miooo baaaciooooo
scioooglierà» avvicinò piano
le sue armi, che già parevano attrarsi
vicendevolmente con ferocia inumana «iiiil
sileeenziooooo che ti faaa miaaaaa!» con un colpo
secco si unirono,
sprigionando un cerchio nero fiammeggiante nel punto di unione che
però non
parve disturbare Phobos.
Un passo dopo l’altro,
falcata su falcata,
avanzava fiero e con una sicurezza che nemmeno credeva di poter avere,
certo
delle proprie potenzialità:
«Dilegua,
oh notte!» davanti a sé il castello di
Harmonia, che pareva venirgli
incontro da quanto si stava avvicinando alla svelta «Tramontate, stelle!» dietro,
solo terra bruciata, carbonizzata fin
dentro la linfa degli alberi «All'alba
vincerò!» animali che fuggivano, un
sentiero di caos così dolcemente
familiare che avrebbe potuto commuoversi da un momento
all’altro.
Roteò la falce, e tutto
intorno fu l’inferno: «Vincerò!»,
concluse.
---
I guardiani non avevano smesso un
secondo di
parlottare e scambiarsi sguardi confusi e preoccupati, da quando
Harmonia aveva
messo davanti ai loro occhi le condizioni della loro alleanza: potevano
capire
che volesse delle garanzie prima di dar loro una mano, riconoscevano
con un
velo di vergogna di averla lasciata nei guai fino al collo durante la
guerra
contro Apophis, ma chiedere un guardiano in cambio era inaccettabile!
La regina al contrario pareva
perfettamente
calma, quasi divertita dal vedere le prevedibili -e forse sperate-
reazioni
degli altri che tenevano il foglio con mani tremanti; dopo qualche
istante di
silenzio assoluto, finalmente Calmoniglio prese la parola:
«Fammi capire: il prezzo
per non averti come
ulteriore problema oltre a quel demente pel di carota è il
darti uno di noi in
ostaggio, ho capito bene?»
La regina non si scompose, anzi
sorrise
serenamente:
«Suvvia, chiamarlo
“ostaggio” mi pare eccessivo,
“ospite” rende meglio l’idea»
spiegò calma facendo chiamando Naevia «un
ostaggio verrebbe trattato da criminale, penderebbe fra la vita e la
morte, un
ospite no, invece» precisò mentre
l’altra le consegnava una lunga piuma
variopinta «avrebbe tutte le comodità che la mia
corte può umilmente offrire,
sarebbe trattato con riserbo e verrebbe a lui -o lei- dedicata ogni
attenzione,
soprattutto in questi tempi di forte instabilità, e lo
sapete bene».
Era vero, lo sapevano bene:
Harmonia non si era
mai tirata indietro di fronte ai propri impegni, era conosciuta per
essere una
regina amata e benvoluta dal proprio popolo, che con il tocco del suo
fare
materno aveva superato periodi oscuri e tremendamente difficili come
quelli
della guerra; allora, Phantasia era stata la prima a rialzarsi dal
disastro, e
guardandola ora nessuno avrebbe mai detto che -settecento anni prima-
un immane
serpente cosmico l’avesse messa in ginocchio.
La donna intinse la penna
nell’inchiostro e firmò,
allungando il foglio agli altri presenti:
«Un mio ospite, ci tengo
a ribadirlo», ripeté nel
caso qualcuno se lo fosse scordato.
Harmonia aveva ragione, non
c’era altra scelta se
non quella di allearsi con lei se non volevano trovarsi nella stessa
situazione
di secoli prima, riempirsi la testa di ulteriori dubbio sarebbe stato
inutile
quanto dolorosamente logorante.
Ed era ormai troppo tardi, dal
momento che ormai
tutte le firme erano state apposte.
Con un sorriso che non nascondeva
nemmeno troppo
la sua soddisfazione, la regina vi pose infine il sigillo reale
ufficializzando
il loro accordo, che venne poi consegnato nelle mani di Naevia per
metterlo al
sicuro:
«Avete fatto la scelta
giusta, ve lo posso
garantire» si complimentò con voce dolce, non
certo quella di chi aveva appena
ottenuto un guardiano come ospite
«resta solo da decidere chi di voi avrà questo
privilegio, ora: avete già
un’idea al proposito, forse?», domandò
cogliendoli totalmente alla sprovvista.
Che dovessero scegliere uno di loro
lo avevano
capito, ma non che la cosa fosse attiva dal momento in cui avevano
firmato quel
pezzo di carta, non potevano certo decidere su due piedi! Anche se le
alternative non erano molte, alla fine, ma Harmonia -capito come si
stavano
mettendo le cose- decise di intervenire ugualmente:
«Se posso
permettermi-».
Un’esplosione, poi una
cascata di vetri colorati
e pietre li investì cadendo dal lucernario della stanza in
cui si erano
riuniti, scoprendo il cielo limpido di Phantasia:
«Se posso permettermi,
succhiami il cazzo!».
Phobos era arrivato.
____________________________________________________
Angolino dell’autrice
Ssssssssh, non parliamo del tempo
che ho
impiegato ad aggiornare COFF COFF un anno il 9 dicembre COFF COFF
:’D
No, non vi farò perdere
tempo a giustificarmi a
destra e sinistra per darvi fior di spiegazioni in proposito, dico solo
che
nell’anno appena passato avevo tutto per la testa tranne che
scrivere la long:
qualche one shot ce l’ho fatta a scrivere nel mentre, ma
capite anche voi che
l’impegno per una long -dove ogni capitolo è
collegato ad un altro- è ben
diverso da quello per una fanfiction a se stante, per cui…
GNE! :’D
Spero comunque possiate apprezzare
questo ritorno
di fiamma -letteralmente, Phobos docet-, e vi rassicuro sul fatto che
GNO
(traduzione Chandrasekhar/Italiano = NO), questa long non
l’abbandono nemmeno
per sbaglio COFF COFF e figuratevi se non c’era _Dracarys_ a convincermi a non farlo
mentre deliravo COFF COFF, ma
vi dico subito che non so ogni quanto aggiornerò -NON UN
ANNO DI CERTO LO
GIUROH- e con quale frequenza causa impegni esterni, ma lo
farò sicuramente :)
Ah, vi lascio un'immagine di Marigold Temporibus, alla prossima!
|
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Capitolo 10 *** Unmei no akai ito ***
Premessa:
in
questo capitolo, le parti scritte con un colore più chiaro
rappresentano una
sorta di esperienza extracorporea di Phobos per la quale si trova a
parlare
nella propria testa, buona lettura! :)
____________________________________________________________
Chioma rossa mossa dal vento che si
disperdeva tutta
intorno, sguardo fiero e sicuro di chi sa quello che vuole e sa come
ottenerlo,
falce alla mano che bramava solo di posarsi sul bianco collo della
Regina: “sì”,
pensò Phobos, “è un’entrata
assolutamente perfetta, perfetta!”. Mosse un passo
per scendere a consumare finalmente la sua vendetta, testa alta e petto
in
fuori come si confaceva ad un uomo fiero com’era lui.
E allora era capitombolato per
terra.
Complice la sbornia triste che
aveva addosso, nella
sua rovinosa caduta aveva sbattuto prima contro il cornicione sotto il
lucernario appena distrutto, poi contro curiose statue filiformi che si
diramavano dalle pareti -e lì gli parve pure di aver perso
un dente o due-, dopo
i capelli gli si erano incastrati in una delle stesse: fu solo dopo che
si ruppero
a furia di dimenarsi che riuscì ad atterrare.
Di faccia.
Sui vetri.
Che lui stesso aveva distrutto, fra
l’altro.
Mai
più birra
prima del lavoro, mai più.
Va bene, la sua entrata in scena
non era poi stata
così trionfale e appariscente come aveva creduto, ma era
abbastanza certo che
-pessima figura o meno- alla fine il risultato sperato di terrorizzare
tutti
era arrivato comunque: sì, doveva essere così,
gli pareva quasi si poter
sentire la paura nei loro occhi, i loro volti contratti in espressioni
di
sorpresa e orrore allo stesso tempo nel rivedere qualcuno dimenticato
da sette
secoli, proprio ciò a cui aspirava!
Mosso da questa certezza, Phobos
allungò la mano
sinistra verso il terreno intorno a sé alla ricerca della
falce:
«Aspettate eh, datemi un
min- MA PORC-»
un’imprecazione impronunciabile gli uscì dalla
bocca quando le dita si
strinsero intorno ad un pezzo di vetro, credendo fosse la sua arma; si
fece
forza e tentò di nuovo, questa volta con la destra
«… sto bene, sto bene, va
tutto ben- E MA CHE CAZ-» di nuovo, l’unica cosa
che riuscì ad afferrare fu un
calcinaccio, ottenendo lo stesso identico risultato di prima.
Jack Frost, non si sapeva se per
pietà o per curiosità
o per altro, allungò sospettoso il suo bastone verso la
falce, spingendogliela
vicino; finalmente, quel povero disgraziato riuscì ad
afferrarla.
Una gomitata per alzarsi dopo
l’altra, un dolore
lancinante al petto dopo l’altro causa caduta e relativi
lividi, alla fine
Phobos era riuscito prima a mettersi con un ginocchio a terra per
prendere
fiato, poi a rialzarsi. O
almeno
provarci, perché da come se ne stava ingobbito pareva che le
gambe fossero rette
da gelatina al melograno, più che da ossa; dopo innumerevoli
tentativi, però, a
reggersi in piedi c’era riuscito eccome, e considerando come
stava andando la
giornata già quella fu un’enorme conquista per
quel poveretto illuso di stare
combinando chissà cosa.
Ad occhi chiusi per godersi meglio
il maestoso
momento, alzò la testa verso i guardiani e la loro compagnia
sicuro di se stesso,
con una convinzione addosso che mai aveva creduto di poter avere, o
meglio
riavere.
«Tremate, sciocchi!
Temetemi, miserabili!» gridò
gonfiando il petto e imbracciando la falce tendendola davanti a
sé «Credevate
di esservi liberati di me, vero? E invece no, eccomi qui, pezzi di
codardi che
non siete altro!» l’arma si illuminò di
una luce rossastra, facendo apparire
come delle scanalature nel metallo simili a lettere di un alfabeto
dimenticato
«E tu, oh! Tu!» indicò Harmonia
«Tu pagherai più di tutti, finalmente! Non
immagini nemmeno da quanto attendo questo momento, da secoli
interi!» ringhiò
rabbioso per poi, con un movimento rapido del braccio, puntarle la
falce in
mezzo agli occhi.
Harmonia non reagì, non
si era mossa di un millimetro
né aveva mutato espressione, il che rendeva difficile a
Phobos capire se le sue
minacce stessero funzionando o meno. Colpa della paura, si disse, era
talmente
spaventata da essersi paralizzata, quella sgualdrina dal grasso
posteriore
equino!
Phobos le sorrise
un’ultima volta, voleva che quel
ghigno le restasse ben impresso nella mente quando avrebbe colto la sua
regale
testa dal suo corpo.
«Ultime parole?»
«Ma tu chi
sei?» rispose lei calma e pacata, con
addosso un sorriso di condiscendenza e pietà come pochi
altri.
Il gelo.
Non lo aveva riconosciuto? Ma stava
scherzando?
Iniziò a squadrare tutti
freneticamente col cervello
ridottosi in poltiglia da un momento all’altro: lo
osservavano tutti a metà fra
l’incuriosito e l’impietosito, sembravano chiedersi
“ma chi cazzo è questo?”
mentre gli piantavano addosso quei loro occhi carichi di
superiorità o presunta
tale verso chi avrebbero dovuto temere come la neve col Sole, a
guardarli nessuno
di loro stava reagendo con la paura ed il terrore che Phobos aveva
invece
previsto per il suo ritorno.
E non ne capiva il motivo.
Aveva sfondato il lucernario, aveva
tirato fuori
l’arma più spaventosa che avesse a disposizione,
si era pure impegnato per
essere convincente -e lo era, nel suo immaginario- nelle sue minacce,
eppure
non stava accadendo nulla di tutto ciò che aveva immaginato.
Anzi, Harmonia lo stava pure
prendendo per il culo,
alla faccia della paura!
Sette secoli passati nel freddo e
gelido Abisso,
settecento anni passati ad orchestrare la sua vendetta, la
possibilità di
compierla data dal fortuito intervento di Comet combinato con delle
casualità tutte
a suo favore, giorni e giorni per riprendersi dalla depressione
più oscura
nella quale ricordava di essere crollato da anni a quella parte, una
nuova autostima
creata sudando sangue e affrontando a testa alta le innumerevoli
avversità che
lo avevano perseguitato… e tutto ciò era stato
distrutto, svanito, calpestato,
nel giro di quattro parole, in quel “ma tu chi
sei?”.
Non se ne era nemmeno accorto
-assorto com’era nel
turbine di domande che gli frullavano nella testa-, ma ora la Regina
della
Fantasia gli si era avvicinata cautamente un passo dopo
l’altro, uno zoccolo
davanti all’altro, fino a trovarsi di fronte a quel caso
umano color carota.
Nessuno dei due proferì
parola -anche perché Phobos
era ancora vittima di quella specie di oscura trance-, restarono a
fissarsi gli
occhi uno nell’altra per istanti che parvero eterni, poi
Harmonia posò il
pesante corpo equino a terra sedendosi e allungando una mano verso il
viso di
quello che, eoni prima, era stato il suo amante.
E lui l’aveva lasciata
fare, sì.
Non si era mosso nemmeno quando le
dita sottili e
affusolate della regina avevano incontrato il suo volto segnato dalla
sofferenza come mai prima d’ora: non solo la stava lasciando
fare, ma sentiva
addirittura un qualcosa nella sua testa che reputava piacevole
quella sensazione, e ciò lo confondeva non poco.
Era come
se una voce gli pizzicasse la mente ripetendogli di non opporre
resistenza e di
abbandonarsi a lei, alla Regina di Phantasia, ad Harmonia, alla donna
che, un
tempo, aveva amato più della sua stessa vita.
Il suo cervello si
bloccò su quel pensiero: l’aveva
amata? Lo aveva fatto veramente?
Allora perché non ricordava? Perché aveva un buco
nella memoria prima di quei
settecento anni di agonia? Cosa era successo che non riusciva a
ricordare, che
non poteva ricordare? O forse non doveva?
Chi è che non voleva che lui-
***
Il buio.
Non c’erano
più Harmonia e i guardiani intorno a lui, solo nero a
perdita
d’occhio: a destra, a sinistra, sopra e sotto di lui, era
come se stesse
galleggiando nel nulla più assoluto, o forse
nell’acqua a giudicare dai cerchi
concentrici che si creavano quando poggiava un piede avanti
all’altro per
camminare.
Avanzò
ancora, e ancora, e poi ancora, sembrava che quel luogo non avesse
mai fine, qualsiasi posto fosse quello in cui si trovava, ed il peggio
era che
gli sembrava tremendamente famigliare, nonostante sul momento non
riuscisse a
identificarlo.
«Ed’
i’ear ar’ elenea! (*) Non credevo di rivederti
così presto, Phobos»
una voce dal nulla lo spaventò facendolo girare
all’improvviso.
Chi aveva parlato, se
non c’era nessuno oltre a lui?
«Non temere,
povera e disgraziata creatura che non sei altro, sono
l’ultimo dei tuoi problemi io» la voce gli
parlò di nuovo, questa volta ridendo
«il tuo problema principale è qui dentro,
ahimè: hai la testa vuota» si sentì
sfiorare e picchiettare il capo, ma non lo aveva fatto nulla di
corporeo e
tangibile, perché nulla aveva visto farlo «ma non
abbastanza vuota da lasciarti
in pace, dal momento che sei qui».
«Qui?»
ripeté confuso il rosso mentre cercava la fonte di quelle
parole «Qui…
dove?»
«Ma nella
tua testa, ovviamente».
Nella sua…
testa? Nel suo subconscio? A quelle parole, Phobos non parve
sorprendersi nemmeno troppo, certo non quanto avrebbe dovuto, era
semplicemente
come se si aspettasse quella conversazione da tempo e quella fosse solo
la
conferma dei suoi sospetti.
Sospetti che gli
diedero quel po’ di coraggio necessario per farsi avanti,
infine.
«E come ci
sono finito, nella mia testa? Io stavo…
stavo…» si bloccò un
attimo, quello che gli bastò per rendersi conto che non
ricordava assolutamente
ciò che stava facendo prima di quella conversazione, gli
pareva di essere
comparso dal nulla.
Esattamente
come gli era
successo settecento anni prima.
A metà fra
lo spaventato dalla sua stessa mente e da ciò che stava
vivendo, Phobos girò su se stesso una moltitudine di volte
per trovare uno
spiraglio di salvezza, ma fu tutto inutile: non vedeva luci o segnali
che
potessero aiutarlo ad orientarsi, non sentiva nessun rumore che potesse
guidarlo da qualsiasi parte che non fosse
quel luogo, non aveva nemmeno uno spiraglio di salvezza da se
stesso.
«Lle
n'vanima ar' lle atara lanneina, sai? Ti comporti come se fosse la
prima volta che mi senti, quando sappiamo perfettamente entrambi che
non è così,
considerando quanto sei fuori di cervello» intervenne la voce
divertita da quel
suo silenzioso disperarsi «anche se probabilmente non
ricordi, non ricordi mai
ciò che dovresti o vorresti, tu… nemmeno
adesso».
Non senza
difficoltà, Phobos cercò di nascondere alla bene
e meglio l’inquietudine
provocata da quell’affermazione, ahimè fin troppo
veritiera.
«Non ho la
possibilità di farlo» rispose stringendo i pugni e
girandosi da
dove gli pareva che provenisse quel suono «ed è
colpa tua, immagino, altrimenti
non saresti qui come non lo sono tutti gli altri».
«Ná,
confermo: mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa»
sentì battere
tre colpi, come prevede la formula «sono proprio un birbone,
che ci vuoi fare?
Vecchio, annoiato e rilegato in quattro mura con solo rocce e polvere a
farmi
compagnia, nemmeno la luce del Sole mi raggiunge. Come vedi la mia vita
ha ben pochi
momenti di spasso».
«E
tormentare me rientra in questi momenti, suppongo».
«Tancave!
Uno dei migliori, devo ammetterlo» un’altra
risatina di scherno
gli giunse alle orecchie tagliente come non mai «mi
intrattieni da sette secoli
a questa parte, osservare le tue disgrazie è quasi meglio
del sesso, sai?».
Sette secoli?
Possibile che… ?
«Sì, sono io»
confermò la voce,
quasi che avesse letto i suoi pensieri.
Gelo, di nuovo.
E questa volta non fu
una semplice sensazione, non fu nemmeno una folata
fredda come le altre, no, questa volta lo sentì chiaramente
dentro di sé,
dentro la sua testa, in quel luogo:
era come se dei pugnali di ghiaccio gli trapassassero il cervello da
una parte
all’altra, la stessa identica sensazione che provava quando
pareva ricordare un
frammento del suo passato, ma ora quei coltelli gli sembravano
tremendamente
reali e palpabili che poteva sentire il sangue caldo scorrergli sulle
tempie.
Anche
perché erano reali eccome.
Fece per alzare una
mano per toccarsi i capelli, ma una forza misteriosa
oppose resistenza e gli impedì di farlo.
«Sai,
Phobos, non siamo poi così diversi, noi due: entrambi
rilegati in un
luogo che non gli appartiene» l’energia che lo
aveva fermato prese forma,
disegnando i contorni di un braccio mascolino bianco pallido
«da soli, mostri
rinnegati dal cosmo intero, dalla propria famiglia, dalle persone che
promettevano di amarti per sempre» un altro braccio comparve
dal nulla,
spingendo più a fondo le lame fredde che gli aveva piantato
nel cranio «a
bramare vendetta, a vivere per essa e nient’altro, a renderla
la propria unica
e penosa ragione che ti spinge ad alzarti ogni giorno».
Phobos
tentò di divincolarsi, ci stava provando con tutte le forze
che
aveva in corpo: se quello era un incubo, se quella era la
realtà, se quella era
qualsiasi cosa fosse, allora voleva
che finisse il prima possibile, anche morendo se ciò fosse
stato utile a
liberarlo!
Tentò di
gridare, ma qualcosa gli strinse la gola con brutalità
immane,
sembrava che gli volesse afferrare la giugulare e strappargliela.
Toccò e trovò
solo una massa di capelli intorno al suo collo già livido,
una lunga e sottile
coda retta da gioielli dorati recanti una luna nera stilizzata: sopra
di essa,
una fenditura che la squarciava in due.
E lui la conosceva, sapeva di
conoscerla, ma il suo cervello non si azzardava a collaborare sul
ricordare il
perché.
In compenso,
collaborava eccome a fargli provare il dolore.
«Hai mai
assaggiato la vendetta, Phobos? No, certo che no, cosa lo chiedo
a fare» la stretta si fece più feroce, intanto che
la voce con la quale
dialogava assumeva finalmente il volto di un uomo «eri
così contento con la tua
Harmonia, così completo, così realizzato: una
coppia perfetta, assolutamente»
non riusciva ancora a vederlo, ma gli parve di intravedere il ghigno
col quale
gli parlava «talmente perfetta che saresti stato disposto a
morire per la tua
regina, a sacrificare la tua vita per lei, per Phantasia, per i vostri
ideali.
E lo hai fatto, in un certo senso, e sai perché?»
infine, la presa si sciolse e
lui cadde a terra «No, non lo sai, non puoi
ricordarlo».
Quindi era vero, che
c’era stato un tempo in cui aveva amato Harmonia, era
vero!
Ma allora
perché non ricordava? Perché ogni dannata volta
andava a finire
così, con lui a terra che agonizzava maledicendo la sua
mente che andava alla
spasmodica ricerca di un ricordo che fosse uno? Perché
doveva patire tutto quel
dolore?
Non ebbe il coraggio
né la forza di alzare la testa per osservarlo, ridotto
com’era, ma ci pensò l’altro ad
afferrargli il collo e portarselo davanti agli
occhi; Phobos lì guardò: due pozze nere nelle
quali pareva concentrarsi il male
del mondo, un vaso di Pandora incorniciato da una chioma bionda che
toccava
terra intrappolata in una coda di cavallo sottile, di un biondo platino
come i
baffi e la corta barba sul suo mento.
Conosceva quel volto,
ne era assolutamente sicuro.
Si mise alla ricerca
di un dettaglio, un particolare qualsiasi che potesse
risvegliare qualche memoria dimenticata dal mondo: al diavolo il
dolore, al
diavolo anche la probabile inutilità di quel gesto, Phobos
decise che sarebbe
andato fino in fondo pur di sapere l’identità
dell’uomo che pareva conoscere
più dettagli sul suo passato di quanti ne sapesse lui stesso!
Poi lo vide, quel
dettaglio: sotto l’occhio destro c’era un tatuaggio
-ad
occhio e croce impresso sulla pelle con la magia, vedendo che brillava
come
quello che aveva lui sull’avambraccio-, quattro punti di
dimensioni crescenti
che partivano dall’angolo interno dell’occhio
seguendolo fino all’altra
estremità, dove terminavano con una mezzaluna nera dalla
quale si diramavano sottilissimi
capillari dello stesso colore.
Allora, e solo allora,
i ricordi si riversarono nella sua mente come un
fiume in piena, dopo settecento anni di vuoto più totale.
«…
A-Apophis… ?» sussurrò appena senza
rendersene conto, le labbra che si
muovevano da sole.
L’altro
sorrise compiaciuto «Precisamente».
Seguì un
silenzio che parve infinito, ma ormai nella testa di Phobos
c’era
tutto fuorché la quiete: aveva avuto un passato anche lui,
ora lo sapeva, lo ricordava; poco
gli importava se era
ancora un passato fatto di ricordi vaghi, confusi, indistinti, a lui
bastava la
consapevolezza che quelle memorie dimenticate da tempo avessero un
unico e solo
denominatore comune, una certezza che aveva scordato di avere da
secoli, ormai.
E quella certezza era
Harmonia.
Aveva vissuto al suo
fianco come se fossero un’unica persona, l’aveva
amata più di quanto avesse mai amato la sua stessa vita,
aveva messo la sua
spada al servizio della sua Regina e amante di una vita quando era
venuta la
guerra. Lo ricordava, sì, che avevano combattuto e cavalcato
insieme per
difendere Phantasia ed Exodus intero dalla minaccia che -da un giorno
all’altro- era discesa dal cosmo più profondo in
terra, quel serpente fatto di
stelle e dolore di civiltà perdute, di grida degli innocenti
che lo avevano
incontrato e tanta, troppa sofferenza di chi era stato inghiottito
dalle sue
fauci, dalla bestia che portava lo stesso nome del caos più
puro.
E quel nome era
Apophis Nightcrawler.
Apophis, che ora era
lì nella sua testa, era sempre
stato lì: lo aveva combattuto, lo aveva visto
bruciare e
divorare quasi interamente Phantasia, era stato testimone di Harmonia
che
crollava in ginocchio esattamente come la sua terra, pregando
un’ultima volta gli
dei di risparmiare di nuovo, se non lei, almeno il suo popolo.
Ma non era stato
presente quando gli dei l’avevano ascoltata.
Non aveva visto
Harmonia rialzarsi e caricarsi sulle spalle quel macigno
immane che era un pianeta -il suo pianeta-
devastato e ormai sull’orlo del baratro, non c’era
stato per vederla prendere
la sua gente disperata sotto la propria ala protettrice e materna
giurando loro
che Exodus sarebbe tornato al suo antico splendore e, infine, non era
stato
testimone nemmeno di quando Harmonia l’aveva mantenuta,
quella promessa.
Non c’era,
Phobos, perché stava pagando le conseguenze di aver protetto
la
donna della sua vita per un’ultima, disperata e tremenda
volta.
Si era messo fra lei e
Apophis, settecento anni prima, lo aveva fatto
senza pensarci e senza pentirsene, e lo avrebbe rifatto milioni di
volte se
fosse stato necessario. Non si erano detti addio, allora, non era stato
concesso loro il lusso di un ultimo sguardo prima di salutarsi per
sempre,
nemmeno una parola di conforto, erano semplicemente stati due amanti
separati
dal destino.
Un destino crudele, il
loro, perché il peggio era venuto dopo.
La falce tesa davanti
sé, Thorax e gli altri leoni che lo accompagnavano
in quell’ultimo salto nel buio -letteralmente- come i
compagni fedeli di una
vita che erano, negli occhi un fuoco più ardente della
stella in fondo alla
gola di quella belva che stava puntando con lo sguardo: a guidarlo,
solo la
consapevolezza che Harmonia sarebbe stata salva, che tutti lo sarebbero
stati,
che il suo sacrificio non sarebbe stato vano.
“Camminerò
al tuo fianco finché
avrò vita, e continuerò a farlo anche
dopo”, le aveva sussurrato
baciandola quella stessa notte dopo aver fatto l’amore con
lei, quando la
guerra non aveva ancora sfiorato le loro vite.
E
invece non era stato così.
Ignorava quali antiche
magie possedesse quel demone.
Ignorava che il suo
attacco fosse proprio ciò che Apophis voleva da lui.
Ignorava anche e
soprattutto il fatto che da lì in poi sarebbe diventato
lo schiavo dell’oscurità che lo aveva avvolto
là dentro.
Aveva sentito
chissà quali maledizioni che gli strappavano i ricordi
cercandoli avidamente nella sua testa come segugi da caccia, aveva
avvertito gli
artigli del mostro piantarsi nella sua anima fino a corromperla e
renderla più
nera della profondità del cosmo dal quale era nato, non gli
era nemmeno stato
risparmiato il dolore del braccio dilaniato da un marchio che lo aveva
segnato
come eterno servo delle tenebre.
Poi, il nulla: quel
giorno, Phobos aveva cessato di esistere.
Al suo posto, solo un
burattino senza memoria e senza più nulla a tenerlo
vivo se non la brama di vendetta verso Harmonia del suo padrone, un
giocattolo
rotto che poteva essere manovrato a piacimento per attuarla a distanza
da
Apophis stesso nonostante il suo esilio sulla Luna. A nulla valeva
tentare di
ribellarsi, nemmeno ricordava come si facesse, doveva solo rassegnarsi
e
cercare di uccidere -a comando- la donna che aveva amato, che amava
ancora dopo
settecento dolorosi anni di buio.
E, sempre settecento
anni di buio dopo, Phobos finalmente lo ricordava.
Ma non serviva a
nulla, esattamente come non era servito tempo prima; lo
mollò per terra lanciandogli un’occhiata pietosa,
quasi stesse nuovamente
leggendo i suoi pensieri.
«Ricordi,
eh?» gli rise in faccia Apophis senza contegno alcuno, si
vedeva
che aveva appena ottenuto ciò che voleva «Tu non
odi Harmonia, la ami ancora
perdutamente, oh se la ami! Scoparti Halley, devastare la sua terra,
fare
irruzione nel suo palazzo: tu non faresti mai tutto ciò che
stai facendo, mai»
aprì le braccia in modo scenico
come ad indicargli la vastità del male che le stava facendo
«tu, appunto, ma
quello che ho davanti ora è solo il mio personale
giocattolo, per cui non hai
nessuna voce in capitolo. Spiacente, bellezza.».
«…
Tu» Phobos sentiva la
rabbia
montargli dentro con ferocia immane, talmente intensa da
anestetizzargli il
dolore alla testa e allo sterno provocato dalla caduta «Tu
sei un… un… sei un
fottuto bastardo!» gli saltò alla gola con uno
scatto repentino.
Una fitta lancinante
al petto lo travolse quando le sue mani furono a pochi
centimetri dallo stringersi intorno al collo dell’altro.
Phobos guardò in basso:
una mano, sì, ma era insanguinata.
Una mano insanguinata
che lo trapassava.
«Ti sei
divertito anche troppo, Barbie Platinata» un’altra
voce maschile gli
giunse alle orecchie ovattata e confusa, i sensi che non rispondevano
più
nonostante la mano fosse uscita dalle sue carni con la stessa
rapidità con la
quale era entrata «muovi il tuo dolce culo dalla mente di
questo povero
disgraziato e torna a casa, prima che il tuo dio delle disgrazie si
arrabbi, o
peggio che ti fotta la tinta biondo platino dal bagno»
l’energia non meglio
definita si mise a giocherellare con i capelli di Apophis, visibilmente
infastidito «e pure le scorte nascoste nel divano!»
«Sono
occupato, se permetti» lo rimproverò lui tenendo
il tono basso ed esibendo
un facepalm palesemente rassegnato «per cui sei pregato di
tenere a bada i tuoi
divini ormoni fino a quando non sarò di rit-»
«Voglio
scopare, e voglio farlo adesso».
Phobos
squadrò Apophis con sguardo tanto sorpreso quanto perplesso,
nemmeno gli avesse appena detto che si scopava sua madre -della quale
nemmeno
ricordava il volto, per cui non sarebbe stato un insulto tanto efficace
come
sperato-, ed a giudicare da quanto era arrossito l’uomo
sembrava aver notato
fin troppo bene quella sua occhiataccia che gridava “SHAME!
SHAME!”, ci mancava
giusto il campanaccio!
Schiaritosi la voce,
si strofinò gli occhi con la mano e sospirò
pesantemente, Phobos che continuava ad osservarlo: non pareva nuovo a
quel
genere di entrare sessualmente ambigue -ma nemmeno troppo, si capiva
perfettamente quale fosse il succo del discorso- e alquanto
inopportune, forse
quella volta aveva semplicemente creduto di poter scampare una pessima
figura.
Ma stava di fatto che
una risatina ad immaginarlo chinato a 90 mentre
qualcuno glielo metteva là dove non batte il Sole -parole di
Apophis sulla sua
casa, del resto- riuscì a strappargliela, il che era
sorprendente vista la
situazione.
A sorprenderlo, poi,
fu la vittima di tanta ilarità qualche istante dopo;
con l’altro inginocchiato a terra che tentava di riprendersi,
si chinò
lentamente fino a raggiungere la sua altezza senza fare altro, solo
guardandolo
negli occhi.
«“Observe”» il
tatuaggio sotto il suo occhio si illuminò di un bagliore
violaceo,
creando un una sorta di ragnatela che si spandeva dalla mezzaluna fino
agli
altri punti scendendogli sul volto e sul petto «“Adapt”»
Phobos non distingueva bene le forme che si disegnavano
sotto le sue vesti, ma era quasi sicuro di intravedere la magia
addensarsi nel
disegno di una Luna tagliata a metà recante strane incisioni
«“Evolve”»
infine, gli occhi di Apophis
presero a brillare di un viola intenso come la punta delle sue dita,
sostenere
il suo sguardo era ormai diventato impossibile.
«Conosci
questo motto, eh?» domandò sorridendo.
«Mai
sentito» mentì lui, ricordava bene la Casa a cui
appartenevano quelle
parole.
Il biondo sorrise e
gli pose una mano sulla testa.
«Me lo sono
sentito ripetere dai miei famigliari per anni, decenni, e mio
fratello ha continuato a ripetermelo per tutti i secoli seguenti.
“Siamo
rimasti solo noi due: non andiamo d’accordo, ma dobbiamo
collaborare per il
bene della famiglia”, diceva» la magia
iniziò a fluirgli dalle dita, sottili
filamenti simili a serpi che si insinuavano fra i capelli e scorrevano
sul
corpo inerme dell’altro «ma io non volevo
ascoltarlo, non ero interessato alle
sue parole. A dirla tutta non ho mai capito cosa intendessero, lui o
quei due
buoni samaritani dei nostri genitori, ma volevo essere presente nella
vita di
mio fratello, lo volevo davvero».
Si insinuarono a
terra, quei maledetti fili magici ora simili a catene,
trattenendo Phobos in ginocchio a dimenarsi inutilmente.
«Anche solo
per un attimo, quello che sarebbe bastato per fargli capire
ciò che aveva portato via me, al
primogenito: l’affetto dei propri genitori, troppo
occupati dalla carità verso
i bisognosi e da quel piccolo e indifeso neonato prodigio, per pensare
al loro
primo figlio» si incupì stringendo gli occhi,
esattamente come facevano quelle
catene magiche.
«Il trono,
caduto insieme a loro un millennio e mezzo fa, ora nelle grasse
mani di un pelato con un ciuffo in mezzo alla testa che risponde al
nome di
Tsar Lunar XII» Apophis si lasciò scappare una
risata amara, a tratti
malinconica, ma Phobos era troppo occupato a cercare un modo di
liberarsi per
compatirlo: sapeva fin troppo bene cosa sarebbe accaduto dopo, lo
ricordava fin
troppo bene, e non poteva permetterlo, non di nuovo.
«Mi
privarono persino del mio numero in linea di successione, sai?
Scivolai incomprensibilmente dal Lunanoff numero dodici al tredici, vai
a
sapere perché, ma non fu il cognome ciò il cui
furto mi portò a cercare
vendetta, certo che no» Apophis si bloccò un
attimo, e con lui la sua magia.
Phobos avrebbe
volentieri approfittato di quell’attimo di distrazione per
tentare un ultimo e disperato tentativo, ma tutto d’un tratto
sentì le unghie
dell’altro che gli si piantavano nella carne.
«Mi
rubò i poteri, Manny, nacque con essi e con essi si prese
tutto ciò
che apparteneva a me, al primogenito, il primogenito!»
scattò iracondo scavando
a fondo nella testa dell’altro, la schiena che si inarcava
per la stilettata
che gli trapassò le cervella con violenza inaudita
«E io ricambiai, oh se lo
feci! Proprio come lui aveva fatto con me, da fratello a fratello,
settecento
anni fa gli portai via tutto ciò che aveva costruito con la
sua portentosa
magia: i guardiani. Li feci cadere uno dopo l’altro, uno in
modo più brutale
dell’altro, fino a quando non ne rimasero
più… o quasi».
Le grida agonizzanti
di Phobos riempivano quel luogo con ferocia tale da
sembrare che potesse tutto crollare da un momento all’altro,
e in effetti era
proprio ciò che stava accadendo.
Quella era la sua
mente, il suo subconscio, e stava cadendo a pezzi,
esattamente come Apophis gli stava strappando i ricordi dalla testa per
la
seconda volta in sette secoli: se prima il nero dominava
quell’antro tetro nel
quale stava conversando con il Lunanoff rinnegato, ora sulla sua testa
si
stavano formando crepe sempre più grandi dalle quali
filtrava una luce bianca,
in netto contrasto col sangue nero e appiccicoso che colava da quegli
stessi
squarci, ferite aperte che riflettevano quelle sul cranio del povero
Phobos.
Stringendo
un’ultima volta, Apophis gli afferrò la mascella
come se
volesse spaccargliela:
«Ma tu
concluderai ciò che io non ho potuto concludere: mi porterai
le
teste dei guardiani, e con essi quella della donna che amavi, della
regina
Harmonia. Portamele, e forse potrei
decidere di mettere finalmente fine a questo tuo continuo trascinarti
nel mondo
alla ricerca del senso del tuo misero vivere» gli promise
guardandolo negli
occhi, le pupille rovesciate all’indietro a monito di cosa
Phobos stesse
provando a dimenticare tutto per l’ennesima volta
«Servirmi, è questo il senso
della tua esistenza».
Provò a
ricordare il volto di Harmonia quella notte, quella in cui erano
ancora felici, quando la guerra non era che una parola scritta sul
dizionario:
non ci riuscì. Stava dimendicando, Aveva già
dimenticato. Era finita, di nuovo.
«E uccidere».
***
Phobos si liberò dal
tocco della regina
indietreggiando quasi spaventato, la falce tesa davanti a sé
per mantenere le
distanze e, forse, proteggersi da qualcosa che solo lui vedeva.
«Non toccarmi! Tu non sai
chi sono io!»
«Su questo hai ragione,
non ho idea di chi tu sia,
sono desolata» si scusò Harmonia.
«… Mi pigli
per il culo?» le domandò lui a metà fra
il
sorpreso ed il seccato, gli sembrava impossibile che proprio lei non lo riconoscesse!
«No, cielo, non mi
permetterei mai di mancare di
rispetto in questo modo a qualcuno!» si affrettò a
precisare muovendo le mani
«Anche se quel qualcuno fosse entrato in casa mia sfondando
il lucernario,
spargendo vetri ovunque -sul suo corpo compreso- e mi stesse parlando
con un
linguaggio piuttosto scurrile e volgare, non faccio distinzioni
né mi offendo
facilmente. Ma in fondo ti capisco: hai preso una brutta botta in
testa, devi
darti tempo per riprenderti».
Phobos sgranò gli occhi
basito «Tempo per… riprendermi?
Ma cosa caz-»
«Naevia, prego»
Harmonia chiamò la leopardessa delle
nevi al suo fianco, la quale non si fece attendere dalla propria regina
«ti
chiederei di dare un’occhiata al nostro ospite, vorrei
assicurarmi che non sia
ferito: nel caso, mi affido alla certezza che gli offrirai le migliori
cure che
conosci » si raccomandò indicando con particolare
attenzione i vetri macchiati
di sangue sparsi qua e là sulla pelle dell’uomo.
«Io non-» non
fece in tempo a finire lui che si trovò
Naevia vicino al fianco sinistro intenta a studiare le sue ferite,
cercò di
nascondere la sorpresa nel non essersi nemmeno accorto
che lei si fosse mossa.
Avrebbe voluto fare qualcosa, il
povero Phobos, ma
ogni volta che tentava di aprire la bocca ecco che ci si metteva pure
Dentolina
a controllargli i denti ora squittendo entusiasta, ora borbottando
contrariata:
se esisteva l’inferno, allora lui c’era dentro fino
al collo.
Anzi, era stato proprio sommerso.
Si specchiò in uno dei
frammenti di vetro a terra per
contemplare la propria miseria: capelli rossi tenuti sciolti sulle
spalle,
occhi dorati, quel vago accenno di lentiggini sul naso. C’era
tutto ciò che
ricordava di avere anche settecento anni fa -e che quindi Harmonia
avrebbe
dovuto ricordare, a meno che pure lei non fosse smemorata tanto quanto
lui-,
eppure la Regina della Fantasia non l’aveva nemmeno
riconosciuto.
Lanciò
un’occhiata veloce agli altri presenti cercando
di capire se almeno loro ricordassero il suo volto: niente di nuovo,
stesse
espressioni tranquille e serene, con quel pizzico di compassione per
quel
povero disgraziato che, invece, si guardava intorno come un topo in
gabbia.
“Non era così
che dovevano andare le cose”,
si disse Phobos abbattuto, “non vanno
mai come dovrebbero andare, le cose che faccio io”
lasciò cadere la falce a
terra, il clangore dell’acciaio che si spandeva fra le mura
del castello
dissolvendosi in un eco sordo “e se le cose non vanno come
devono andare, la
colpa è solo mia che non sono in grado di farle andare nel
verso giusto”.
Senza rendersene conto, Phobos si
accasciò a terra
tirandosi le ginocchia al petto e nascondendo la testa fra di essere
“Sono un
disastro, un totale disastro, non sono buono nemmeno a entrare in casa
altrui”,
si ripeteva come un mantra.
Vedendolo crollare in ginocchio
così all’improvviso e
forse temendo un suo malore, Harmonia si protese verso di lui.
«Tutto bene? Hai bisogno
di aiut-»
«Ho bisogno che tu mi
riconosca, ecco di cosa ho
fottutamente bisogno!» sbottò lui alzando la testa
e battendo i pugni per
terra, non era raro che i suoi momenti bui sfociassero in crisi di
violenza
inaudita.
Harmonia lo guardò
impietosita dal non poter dare una
risposta diversa da quella data poco prima alla stessa richiesta, si
vedeva che
era seriamente dispiaciuta.
«Perdonami,
davvero» si scusò di nuovo chinando il capo
in segno di rammarico «ma, come ti ho già detto,
io non ho idea di chi tu sia.
Mi spiace, credimi».
Stava scherzando, si stava
prendendo gioco di lui!
Phobos si alzò in piedi
e allargo le braccia, le
lacrime che avevano lasciato posto a qualcosa di nuovo, alla rabbia
più pura.
«Guardami!
GUARDAMI!» le intimò minaccioso «Sono
io,
per tutti i tuoi stramaledetti dei, IO!» gridò
spaventando i guardiani, i quali
indietreggiarono. Myricae, al contrario, aveva già messo la
mano sulla sua
spada, pronta per ogni evenienza.
«Posso guardarti
finché vuoi, ma continuerò a non-
«Sono quello che hai
sbattuto a marcire nell’Abisso
per settecento anni, brutta sgualdrina! Quello che hai dimenticato nel
fottuto
buco del culo di questo stramaledetto pianeta sperando di tornare e
trovarci le
mie ossa! Phobos! PHOBOS! Ficcatelo
in quel tuo cervello equino, perché possa il Sole sorgere a
Occidente se non te
lo ficco io da qualche altra parte a colpi di minchia, pur di fartelo
capire!»
tuonò secco tutto d’un fiato, il marchio sul suo
braccio che prese a brillare.
In quel momento, il mondo di
Harmonia smise di girare.
Phobos.
Quello era Phobos.
Il suo Phobos.
Settecento anni, erano passati
settecento dannatissimi
anni da quando lo aveva visto l’ultima volta prima di
gettarlo nell’Abisso col
cuore in gola, ed ora eccolo lì davanti a lei: i capelli
più lunghi di quanto
ricordasse, gli occhi dorati ora di un giallo grigiastro spento, lo
sguardo
perennemente perso a cercare un’ancora di salvezza, quel
segno sul suo
avambraccio più grande di quanto fosse tempo addietro.
Lo aveva sbattuto
nell’Abisso, Phobos, e lì lo aveva
dimenticato… no, non era vero, non ce lo aveva sbattuto
tanto per divertirsi,
era stata costretta a farlo.
E poi era andata a trovarlo ogni
giorno, sì, ogni
singolo giorno per venticinque lunghi anni, un quarto di secolo passato
nella
disperazione più pura, nell’Abisso che lei si era
creata nella sua mente dove
si tormentava ogni ora, ogni minuto, ogni più impercettibile
secondo: quello
non era abbandonarlo!
Forse… forse avrebbe
dovuto fare di più? No, aveva un
pianeta da mandare avanti, non c’era stato tempo per gli
addii… ma avrebbe
dovuto trovarlo, quel tempo, forse in quel modo Phobos si sarebbe
sentito meno
solo, forse non sarebbe stato tanto arrabbiato, forse non sarebbe evaso.
Come aveva fatto a evadere, poi? I
suoi incantesimi
non erano sufficientemente potenti? Aveva sbagliato qualcosa? Stava
sbagliando
qualcosa anche ora?
No, aveva fatto tutto alla
perfezione, aveva espressamente
richiesto anche la presenza dei guardiani il giorno in cui aveva
scavato
l’Abisso, così da essere certa che il suo cuore in
frantumi non potesse
inconsciamente giocare brutti scherzi a lei e alla sua magia. Aveva
fatto tutto
come doveva essere fatto, sì. Non era colpa sua, non poteva
fare più di così.
Cercava di giustificarsi con se
stessa, la Regina di
Phantasia, ma -esattamente come non ci riusciva da sette secoli a
quella parte-
non ci stava riuscendo nemmeno un po’ anche adesso: era colpa
sua se Phobos era
diventato quello che era.
Lo aveva fatto per lei, si era
sacrificato per lei e
nessun altro.
E lei non lo aveva nemmeno
ringraziato, né salutato,
né baciato.
“Sono stata un
mostro”.
No, non lo era stata: era successo
tutto troppo in
fretta, Apophis era troppo potente,
non
era colpa sua… o forse sì, avrebbe dovuto trovare
il tempo per farlo, se lo
amava tanto, avrebbe dovuto morire con lui!
“La colpa di tutto
è mia, mia e basta”.
Si era staccata dal mondo da un
pezzo, Harmonia, e si
era assicurata di trascinare con sé la propria magia. Al
posto della
centauressa dal manto bianco e gli zoccoli dorati, ora c’era
una semplice donna
-più o meno, la cascata di capelli verde acqua e azzurro e
rosa pastello mossi
da un vento impalpabile era rimasta al suo posto- con lo sguardo perso
davanti
a sé, i riflessi azzurri e rosa dei suoi occhi nei quali si
specchiava la falce
di Phobos sempre più vicina, pronta a ghermire la vita dal
suo corpo.
“Avrei
dovuto
esserci io al suo posto”.
«Concordo.
Intanto
grazie per il banchetto, sai sempre come rendere contenta questa
Ephemeride
vecchia, strana e tremendamente annoiata».
La voce compiaciuta di Tanith fu
l’ultimo sussurro che
le arrivò alle orecchie, poi Harmonia sommerse tutto
ciò che la circondava con
i sensi di colpa, e i rimpianti, e il dolore, un velo nero che la
isolava dal
mondo e dal cosmo intero.
Scacco matto.
La coda di Myricae
frustò l’aria tonando a terra e mandando
in frantumi il pavimento, un sottile rivolo di sangue che colava dalle
squame
color smeraldo nel punto d’impatto della falce di Phobos su
di esse: dietro di
lei, Harmonia che pareva più simile ad una statua di gesso,
piuttosto che una
persona.
L’Ophidian non aveva
dubitato nemmeno per un istante
sull’identità di quell’uomo dai capelli
rossi che aveva fatto irruzione nel
palazzo, lo aveva riconosciuto fin dal primissimo istante e -sempre dal
primissimo istante- si era preparata a proteggere la sua regina,
nonché amante.
Sfruttando i vaghi poteri da oracolo della leopardessa, aveva
mentalmente
chiesto conferma a Naevia dei suoi sospetti, non volendo scatenare il
panico
inutilmente, e la sua risposta affermativa le aveva confermato che
valeva la
pena tenere alta la guardia.
E per fortuna che lo aveva fatto!
Appena aveva visto negli occhi di
Harmonia i primi
segni del congelamento che sarebbe venuto dopo, Myricae aveva capito
che doveva
intervenire per evitare che Phobos -approfittando di quel suo blocco
globale
totale- la uccidesse fiondandole addosso con la falce, e non avrebbe
proprio
potuto scegliere un momento migliore per farlo. Priva di ogni coscienza
di sé,
indifesa, insensibile a tutto e tutti, incapace di provare qualsiasi
cosa, di
riconoscere qualsiasi persona, di utilizzare la sua stessa magia, in
quello
stato Harmonia non riusciva nemmeno a sbattere le palpebre.
Il ricordo di una notte
d’estate si fece largo nella
mente di Myricae, ma lei lo ricacciò indietro prima che
potesse iniziare a
macerare e macerare: la priorità era proteggere la regina,
punto, tutto il
resto era superfluo.
E l’ennesimo affondo di
Phobos glielo ricordò a gran
voce. Myricae non si lasciò certo cogliere impreparata da
quella sua furia
cieca: seguì con gli occhi la lama della falce fin
dall’istante in cui lui l’aveva
sollevata da terra e protesa verso il cielo pronto a lasciarsi cadere
nuovamente, e attese con pazienza fino a quando non raggiunse la
massima
elevazione.
Il metallo brillò dei
raggi del Sole: ecco il momento
che aspettava.
Un colpo secco con la coda ai
polpacci di Phobos fu
tutto ciò che fece, e il “crack” che ne
seguì fu la conferma che l’attesa era
valsa il risultato: quell’arma doveva essere particolarmente
pesante, aveva
pensato la naga quando l’aveva vista per la prima volta, per
cui l’approccio
migliore del caso sarebbe sicuramente stato danneggiare il baricentro
di chi la
impugnava, più che il corpo in sé, ed era
esattamente ciò che aveva fatto. Il
lungo corpo delle Ophidians era un unico ed efficiente fascio di puri
muscoli e
ossa più simili a titanio che alle porose ossicine umane,
attutire l’impatto
era semplicemente impossibile.
Crollò a terra quasi
immediatamente con il fiato che
gli moriva in gola e i polpacci praticamente distrutti, ma Myricae non
si
avvicinò per prendergli la falce dalle mani: non era affatto
convinta che
avesse vinto con così poco.
E infatti aveva ragione.
Il marchio sul braccio di Phobos si
illuminò di una
luce violetta intermittente per qualche istante, poi parve spegnersi
del tutto,
ma fu solo una questione di secondi perché la sua pelle
rosea si coprisse di
sottili venature e capillari di un viola più simile al nero,
le gambe -coperte
dagli abiti e quindi non visibili agli altri- in particolare erano
cosparse di
macchie nerastre dalla superficie increspata simile a quella della
terra arida.
Chiuse gli occhi per un istante
appena, poi fu di
nuovo in piedi.
“Ecco, quella sua
rigenerazione così rapida potrebbe
essere un problema non indifferente”, pensò
Myricae fra sé e sé senza voler
mettere in allarme nessuno, ma dallo sguardo di Naevia capì
che doveva averla
sentita.
Guardò di nuovo
Harmonia, ancora impietrita: ora come
ora non era troppo diversa da una bambina incapace di provvedere a se
stessa, i
fatti erano quelli, una bambina in mezzo ad un campo di mine antiuomo
che non
aveva nessuna mappa di dove si trovassero le stesse.
E anche chi aveva la mappa si stava
rendendo conto che
era inesatta.
Si fermò un attimo a
pensare, studiando il castello
intorno a sé in cerca di una via dalla quale farla fuggire
il prima possibile,
di certo non poteva tenerla lì a fare la bella statuina!
Guardò i guardiani:
forse loro… no, non se ne parlava,
mai e poi mai avrebbe messo la vita di Harmonia nelle loro mani, non
gli
avrebbe affidato un moscerino nemmeno se fosse stata costretta a farlo,
e a dirla
tutta era piuttosto restìa anche a chiedere loro aiuto.
“Ah, al
diavolo!”, imprecò silenziosamente sospirando
rassegnata.
Sapeva bene che dare le spalle a
Phobos non era
affatto una buona idea, ma lo fece comunque per rivolgersi ai cinque
che se ne
stavano ancora vicino al tavolo davanti al contratto.
«Intendete dare una mano,
o volete forse un invito
scritto?» li canzonò severa cercando di
controllare l’altro con la coda
dell’occhio.
«Dare mano?»
ripeté Nord confuso.
«“Oui!
Anche
due!”» commentò sarcastica
Tanith ricordando
i bei tempi andati, doveva essere seriamente annoiata se si stava pure
infilando nelle conversazioni altrui.
«Cosa?» a
Myricae era parso di aver sentito un
sussurro, ma si disse che era tutta colpa dell’agitazione e
non gli diede peso
«Comunque sì, “dare mano”,
anziché stare lì a guardare senza muovere un
dito»
cercò di contenere il fastidio nel dover fare presenti cose
ovvie «anche perché
immagino che quel signorino laggiù voglia pure le vostre
teste. Devo anche
ricordarvi che avete firmato un contratto di alleanza o ci arrivate da
soli, a
muovere il-»
Le parole le morirono in gola.
«Su una cosa hai ragione,
voglio anche le loro teste»
approvò Phobos sorridendo e spingendo più a fondo
il sottile pugnale che aveva
conficcato diagonalmente fra la scapola e il collo della naga, il
sangue che colava
sul marchio e pareva bollire.
Nonostante il dolore, Myricae non
emise nemmeno un
suono, non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di piegarla.
«Ma per ora la mia
priorità resta un bel paio di
scarpe nuove in pelle di Ophidians: il verde non è
esattamente il mio colore
preferito, ma me le farò andar bene»
rigirò il coltello nella ferita
affondandolo fino all’impugnatura, la falce invece tenuta
davanti a Myricae che
le sfiorava il collo ogni volta che respirava «anche
perché quando le chiedevo
a Babbo Natale non me le ha mai portate, quell’infame figlio
di una cagna con
la scabbia!» si lamentò rivolto verso Nord.
Se fino ad ora i guardiani non
avevano ancora
combinato nulla di buono, ora finalmente sembravano essersi svegliati
dal dolce
torpore in cui si stavano sollazzando. Nord soprattutto pareva aver
preso
parecchio sul personale l’offesa rivoltagli, tanto da aver
impugnato le proprie
spade avanzando verso Phobos incurante delle preghiere degli altri di
fermarsi.
«Mordi tua lingua prima
di parlare di mia madre,
ragazzo, o io infilare te in lista di cattiva prima di Jack Frost, e
lui essere
al primo posto!»
«Come?» il
guardiano del divertimento trasalì «Mi
avevi detto che se mi fossi occupato delle renne per tutto
l’anno fino a Natale
mi ci avresti tolto, da quella lista, e io l’ho
fatto!» si lagnò prendendo a
indicarsi compulsivamente «Ho spalato merda per niente!
NIENTE! Hai idea di-»
«Ti ha messo a spalare la
merda delle sue renne?» si
intromise Phobos incredulo.
«Quella, e pure tutto il
resto! E tutto perché “tu
altrimenti restare in lista di cattivi, da!”»
scimmiottò lui imitando malamente
Nord, a tanto così dal mettergli le mani al collo.
«Per tutti gli dei vivi e
morti» inorridì l’altro sollevando
le sopracciglia in segno di stupore «ed io che mi lamentavo
dell’Abisso! Al
confronto, quello era-»
«Il
posto in cui
devi tornare» sibilò Myricae.
Il tempo di gonfiare minacciosi il
collare membranoso
che avevano intorno al collo, e le serpi che l’Ophidians
aveva come capelli si
lanciarono in massa sul volto e sul collo di Phobos, affondando i loro
denti
veleniferi nella carne e ancorandosi ad essa come uncini.
Seguendo l’istinto di
sopravvivenza, l’uomo mollò
falce e pugnale per afferrare quegli animali con le mani ora libere, ma
la naga
lo precedette sul tempo di nuovo, anzi lo fecero quelle bestioline in
modo del
tutto autonomo: bastarono due paio delle code -che fuoriuscivano dal
suo capo
esattamente come facevano le teste- per bloccargli i polsi,
avvolgendosi
intorno ad essi e stringendoli finché non iniziarono a
diventare viola. Era
vero, Myricae lo aveva in pugno, ma la posizione in cui si trovava
rendeva
scomodo tentare un qualsiasi altro attacco, specie perché
girandosi avrebbe
dovuto abbassare la guardia per l’ennesima volta di troppo.
In suo aiuto, però, una
delle zampe di Antares
comparve da chissà dove, tendendole il filo con cui tesseva
le sue tele; il
resto della donna mezza aracnide arrivò poco dopo,
ovviamente con addosso quel
suo solito infantile entusiasmo.
Complice l’antica guerra
che andava avanti da tempo
immemore fra Ophidians e Sylkes -le cui conseguenze però non
si erano mai
riversate sul loro rapporto, unite com’erano
dall’amicizia in comune con
Harmonia e da un paio di favori che si erano fatte a vicenda-, la naga
non era
riuscita a trattenere il facepalm.
«Alla
buon’ora» si limitò a commentare
stizzita.
«Meglio tardi che mai,
ero a tessere dei regalini per
i nostri ospiti! Un attimo solo» Antares si mise a frugare
nella borsa di
cucito che si portava sempre dietro, i ferri da maglia sopra
l’orecchio come si
confaceva alla grande -e incompresa- artista che era
«… accidenti a me, sono
più sbadata di mia madre quando ha mangiato per sbaglio le
nostre sorelle… o
forse le avevo cucinate io perché non avevo le uova per la
frittata? Oh beh,
arrivo! Ci sono!»
Passarono altri interminabili
minuti, poi finalmente
tirò fuori dal borsello una serie di lavori ad uncinetto
-presumibilmente
sciarpe- dai colori più variopinti che si mise a distribuire
tutta contenta ai
guardiani.
“Non farti domande, non
sorprenderti nemmeno: la
conosci, ormai” si disse l’Ophidians cercando di
non dare a vedere il proprio
disappunto.
«Antares» la
richiamò.
«Ti sta benissimo,
ghiacciolino mio adorato, sei un
meraviglioso batuffolo di calore e tenerezza e- e-» prese
fiato incredula, poi
tornò alla carica più molesta che mai
«e queste guanciotte mooooooorbideee!»
squittì mentre strizzava le guance a Frost, che poverello
era immobile come uno
stoccafisso per la paura di finire inseminato.
«Antares».
«Oh-miei-dei! Sei
favolosa, tesoro, fa-vo-lo-saH!
Questo verde iridescente si abbina proprio bene alle tue piume, ho
fatto bene a
non ascoltare Naevia che diceva che fosse troppo appariscente: alla
faccia tua,
eh eh!» rise rivolgendosi alla leopardessa, che di suo fece
spallucce annoiata.
«Antares!»
«Eh? Che
c’è?» finalmente, la Sylkes
degnò l’Ophidians
di uno sguardo.
«Ehm-ehm»
tossì indicandogli Phobos dietro di lei
«provvedi alle sue mani, grazie».
«Oooooooh! Quello! Non
potevi dirlo prima? Che
sciocchina che sei!»
«Dirlo… prima?
Sto cercando di- oh, lascia stare e fai quello che devi, per la
dea!» si
rassegnò infine.
Ad Antares ci volle qualche minuto
a fare ciò che
doveva, ma infine Myricae poté finalmente liberare se stessa
e pure i suoi
serpenti, i quali si preoccuparono ance di strapparle il pugnale dalle
carni
con un colpo secco.
Gettò lo sguardo su
Phobos con un misto fra pena e
orrore: cos’era tornato a fare, adesso?
Pensava forse di poter riconquistare Harmonia? Di tornare insieme a
lei? Di
conquistare il suo cuore, forse? Quell’ultima ipotesi gli
sembro sì plausibile,
ma solo in forma letterale se ripensava a come l’aveva
ridotta col suo solo
palesarsi, o come le si era avventato addosso.
Strisciò fino a trovarsi
di fronte alla Regina di
Phantasia e le prese il volto fra le mani, come in altre circostanze
faceva
quando voleva baciarla ma che, adesso, era solo un modo per farle
sentire che
le era vicina.
«Non ti lascio da sola,
mai» le sussurrò piano
poggiando dolcemente la propria fronte a quella dell’altra
«resta con me, va
bene? Ascolta la mia voce e resisti, fallo per me, per noi:
passa tutto, passa sempre» la strinse a sé
cercando di
ignorare la voglia di urlare che le stava invadendo anche i dotti
lacrimali.
Non sapeva se le stesse accarezzando la testa per rassicurare lei o
più se
stessa, ma doveva essere forte per entrambe, adesso «Non
andare dove non posso
raggiungerti, mela en’ coiamin, non un’altra volta.
Dartho na nin, a’maelamin,
dartho na nin» la pregò infine.
«Che scena
pietosa» intervenne Phobos.
Myricae si girò di
scatto verso di lui lasciando il
volto di Harmonia, ma non prima di darle un bacio sulla fronte; gli si
avvicinò
strisciando lenta ma inesorabile, con gli occhi color lime pieni di
voglia di
spaccargli la faccia appena lo avesse avuto davanti, esattamente come i
pugni
che fremevano per posarsi su quel suo nasino tanto carino e caruccio.
«Hai qualche problema con
me, forse?» domandò quando
fu lì ergendosi sopra di lui, complice il corpo serpentino
che glielo
permetteva.
«Tu e la tua amichetta mi
fate semplicemente schifo,
per farla breve, tante sdolcinerie mi fanno venire
l’acidità di stomaco. E non
ho comprato il Gaviscon, quindi fai tu due conti di come sono
messo».
«Oh, sono seriamente
dispiaciuta, davvero» commentò
apatica incrociando le braccia, poi gli indicò Naevia
«un medico lo abbiamo
pure noi per cui il problema non si pone: forse un qualche intruglio
particolarmente amaro potrebbe farti rinsavire, Phobos».
«AdoVo come pronunci la
lettera “esse”, sssembra che
tu ssssssibili nel farlo, mi sssssbaglio? Si tratta di una mia
impresssssione,
sssssignorina?» prese a sfotterla lui sfoderando uno di
quegli sguardi che
dovevamo sembrare convincenti, ma che in realtà facevano
solo sorride
allontanandosi lentamente.
Myricae rise scuotendo la testa
«Sei penoso».
«Concordano in tanti con
te, e ahimè devo proprio
darti ragione su questo punto. Ma capiscimi, ho passato sette secoli
nell’Abisso, il mio charme ha perso di efficacia, anche se
certo non lo avrei
sprecato con un serpente ermafrodito come te».
«Sette secoli
nell’Abisso, appunto, e non sono stati
abbastanza: avresti dovuto marcirci dentro fino alla fine dei tempi,
nell’Abisso, vedo bene cosa stai combinando adesso che ne sei
uscito» asserì
lei con un velo di rabbia nel tono della voce, afferrando la camicia di
Phobos
e portandoselo all’altezza dei suoi occhi «devasti
e uccidi, o almeno ci provi:
colpisci alle spalle come un vigliacco, non meriti nemmeno di impugnare
un’arma
diversa dalle bacchette del sushi con le quali probabilmente ti sei
allenato in
quel buco di posto».
Prese la propria spada dal fianco
-una lunga lama
ondulata che ricordava il corpo di un serpente, la cui testa infatti
formava
l’elsa dorata- e gliela poggio sul petto.
«Non puoi nemmeno
immaginare quanta voglia abbia di
affondartela nelle viscere, Phobos, non puoi nemmeno lontanamente
immaginarlo».
«Fallo, allora. Avanti.
Ti sto aspettando» la invitò cortesemente
per prenderla ulteriormente in giro «Hai paura,
forse?» la stuzzicò lui.
«Paura? No, certo che no,
non temo di certo te» rise
la naga di tutta risposta, affondando -se non la lama- almeno
l’autostima dell’altro
«Pietà, ecco cosa. Non ti darò mai e
poi mai la soddisfazione di morire e
trovare la pace, non lo meriti, come anche non meritavi il suo
dolore» indicò
Harmonia, immobile, con la spada «L’ho vista
versare più lacrime in una sola
notte di quante qualsiasi creatura ne possa versare in tutta la sua
esistenza, prendersi
in spalla colpe che non aveva e sopportare tutto, tutto,
in assoluto silenzio e col sorriso sul volto: non permetterò
che accada di nuovo, gliel’ho giurato. Non lo meriti. Non la meriti. Non meriti proprio-»
Phobos pensò bene di
interromperla sputandole in
faccia, dando mostra della sua incredibilità
maturità e serietà.
«Tu fai schifo. Harmonia
fa schifo. Phantasia fa
schifo. Tutti loro» girò il volto verso i
guardiani a indicarli «fanno schifo.
Fate tutti schifo, signori miei, e nemmeno tanto meno di quanto lo
faccia io. E
ora, chiudi cortesemente quella bocca, o giuro che te la faccio
chiudere io
infilandoci il mio cazzo dentro».
Myricae si pulì il volto
«Il massimo che potrei fare
col tuo cazzo è usarlo come filo interdentale, ad essere
generosi. E poi, come
avresti intenzione di fare? Ti va di spiegarlo a noi poveri rifiuti che
ti
inorridiamo tanto, eh?»
«Loro lo faranno con
piacere» concluse calmo facendo
un cenno verso la porta d’ingresso.
Davanti ad essa, Thorax e il resto
del branco con i
canini snudati.
I leoni non avevano perso tempo in
convenevoli, e
tutto d’un tratto la frenesia di poco prima era ricominciata
più violenta e
rumorosa di quanto lo fosse stata quando Phobos aveva fatto la sua
entrata in
scena. Si erano subito divisi ed avevano iniziato a lanciarsi contro
qualsiasi
cosa o persona si trovasse davanti al loro cammino, e i loro ruggiti
che riempivano
l’atrio del castello e rendevano impossibile qualsiasi forma
di comunicazione
verbale non facilitavano certo le cose tanto per i guardiani come per
tutti
altri.
Nonostante il caos,
però, c’era da riconoscere che
tutti stavano collaborando per uscirne nel miglior modo possibile:
Sandman e
Calmoniglio erano quelli che se la cavavano meglio sul fattore
quantità,
riuscendo ad abbattere diversi leoni in un colpo solo uno con la sua
frusta di
sabbia dorata, e l’altro col boomerang che -c’era
da dirlo- aveva rischiato di
tagliare di netto pure la testa del povero Jack Frost.
Quest’ultimo, infatti,
sembrava piuttosto confuso su
ciò che stava accadendo, prendeva tutto come un giochi
proprio com’era nel suo
stile: ora una palla di neve e ghiaccio dritta in mezzo agli occhi che
faceva
stramazzare a terra quelle bestie, ora un paio di stalattiti affilate
che come
pioggia si abbattevano sui felini tutte d’un colpo dopo
averli attirati in
trappola in uno spiazzo libero, ora il semplice congelarli e poi
gettare il
bozzolo di ghiaccio a terra mandandolo in frantumi.
Il guardiano del divertimento,
quindi, se la stava
cavando egregiamente nel suo scivolare da una parte all’altra
su piattaforme
ghiacciate da lui create.
Dentolina invece era quella
più in difficoltà, fra
tutti loro: poteva svolazzare qua e là per attirare i leoni
dove voleva Frost,
ma già un paio di volte aveva prestato poca attenzione agli
stessi e si era
presa delle brutte artigliate sulle ali, ora costellate da buchi di
dimensioni
non indifferenti. Le sue fate, poi, erano anche più inutili
di lei: i leoni nemmeno
le sentivano, e quando lo facevano era solo perché le
stavano divorando.
Per l’ennesima volta, la
fata dei denti abbassò la
guardia nell’aiutare Jack: subito, un leone nero la
intercettò come la sua
prossima preda, le conficcò gli artigli fra le fragili ali
da colibrì per poi,
poco dopo, appendersi letteralmente a lei trascinandola a terra. Solo
il
tempestivo intervento di Nord la salvò dall’essere
sicuramente sbranata, ma
certo non le sfuggì l’occhiata di rimprovero che
le lanciò prima di gettarsi
nuovamente nella mischia con l’entusiasmo di un bambino.
Phobos spalancò gli
occhi incredulo, e non era per il
veleno che iniziava a fare effetto dilatandogli le pupille nemmeno
fosse uno
scherzo del destino: come tessere di dominio perfettamente allineate, i
suoi
leoni stavano crollando uno dopo l’altro, stavano sparendo
inesorabilmente
tornando ai mucchi di ossa e polvere che erano stati in origine, e lui
era lì a
guardare tutto ciò completamente inerme.
Non poteva sopportare una vista del
genere, non di
nuovo! Glieli avevano già portati via una volta, non poteva
-non doveva-
permetterloancora, non lo avrebbe mai permesso!
Forse avvertendo la rabbia
crescente del padrone,
Thorax alzò il muso e gli corse incontro ruggendo, cogliendo
Myricae di
sorpresa dal momento che lei nel mentre era impegnata a dare una mano a
Naevia,
dopo aver poggiato Phobos a terra in un angolo ben lontano dalla regina
Harmonia.
“Uccidi, UCCIDI!”
gli gridò mentalmente lui.
L’Ophidian si
girò tardi, giusto in tempo per vedere
la maestosa sagoma del grosso leone dal manto nero che le saltava alla
gola:
gli occhi che fiammeggiavano come rubini nella notte, le enormi zanne
snudate
che colavano saliva, gli artigli dispiegati vogliosi solo di affondarle
fra o
delicati interstizi fra una squama e l’altra, che di per
sé erano estremamente
resistenti.
Un ruggito.
Un ululato.
Poi l’ombra nera del
leone che spariva dal suo campo
visivo, collassando e rotolando a terra lontano da lei.
Guardò verso la porta, e
finalmente vide un viso
famigliare: Scarlet Redcape, la Cacciatrice di Fairy Oak.
La donna diede un segnale
indecifrabile al suo lupo,
che obbedì gettandosi sopra il leone dando inizio alla loro
furiosa lotta: le
due bestie si azzannavano e graffiavano a vicenda con ferocia inaudita
anche
per gli standard animali, entrambi ruggivano e ringhiavano come se nel
contempo
che si ferivano si stessero anche insultando in una lingua che solo
loro
potevano comprendere, ma ora come ora era Spettro che stava avendo la
meglio
sul felino. Il lupo albino era decisamente più grande del
leone nero, motivo
per cui non ebbe problemi a sovrastarlo completamente imprigionandogli
tutto il
collo fra la mascella e la mandibola: quando strinse,
l’effetto fu a dir poco devastante.
Un miagolio agonizzante si sparse
tutto intorno, poi
il silenzio.
Tutti i leoni si bloccarono
all’unisono, riconoscendo
il segnale: il loro capobranco era crollato, non avevano né
motivo né una guida
per continuare a combattere. Approfittando della loro confusione nel
non capire
più cosa fare, Myricae raccolse arco e frecce che Naevia le
passò lesta.
Una, due, tre frecce, poi dieci,
venti, cinquanta,
forse cento, tutte dritte in mezzo a quei rubini che esplodevano
liquefacendosi
per terra; i guardiani e gli altri generali della regina Harmonia le
diedero
volentieri una mano, finché dei leoni non rimase che polvere
color avorio. Solo
qualcuno di loro fu abbastanza rapido -e furbo- da darsela a gambe, ma
la
maggior parte di loro cadde quel giorno.
«Tu
e il tuo
amico volete farmi ingrassare, oggi: sento già Mothman che
si beffa del fatto
che vada a trovarlo rotolando per terra da quanto mi sono ingozzata
qui, più
che strisciare».
E Tanith non poteva avere
più ragione, nel parlare ad
Harmonia così, perché il dolore che stava
provando Phobos lo stava
letteralmente facendo impazzire: i leoni erano tutto ciò che
gli era rimasto, e
loro glieli avevano portati via. Non una, ma ben due volte.
E lui lo aveva permesso.
Era colpa sua, di nuovo.
Era sempre colpa sua.
Cercò conforto in
Thorax, l’unica ancora di salvezza
che aveva in quel delirio costante che era la sua vita
nell’Abisso, e ora fuori
da esso: non si muoveva.
«…
Thorax?» lo chiamò di nuovo, ma il leone non
rispose.
Il panico iniziò ad
impossessarsi di lui «Thorax…
avanti bello, non scherzare, non è divertente» gli
intimò ma, di nuovo, da lui
non arrivò alcun segno di vita.
Spettro gli ringhiò
contro alzando la testa dal corpo
esanime del leone, mostrando i canini insanguinati al proprietario
della bestia
come a sbeffeggiarlo; appena la pressione dei denti del lupo sul collo
del
felino venne meno, una chiazza rossa si sparse tutta intorno al suo
corpo.
«Thorax…
avanti… non puoi lasciarmi da solo adesso»
sussurrò Phobos
crollando in ginocchio
davanti a lui, avrebbe voluto accarezzarlo ma con le mani legate non
poteva
certo farlo «avevamo dei progetti, amico, non posso portarli
avanti solo io,
sai che non ne sono in grado di farlo… ho bisogno di te,
bello, ne ho un
fottuto bisogno… non lasciarmi, non farlo».
A tutta quella scena nessuno stava
prestando
attenzione, troppo impegnati com’erano ad assicurarsi che il
resto del branco
fosse fuggito.
«…
Thorax…» questa volta lo disse con un tono che non
era una domanda, e nemmeno un richiamo al farsi sentire. Era una
supplica, lo
stava supplicando con le lacrime agli occhi di rispondergli, non
chiedeva
altro.
Ma non gli rispondeva, Thorax, non
poteva più farlo.
Phobos esplose.
Esattamente come era accaduto
quando aveva quasi fatto
crollare l’abisso, la magia prese a fluirgli dal corpo senza
controllo alcuno,
fiumi di filamenti viola acceso che si spandevano a ragnatela tutto
intorno a
lui e al suo leone come inneschi per ciò che sarebbe venuto
dopo. E cioè le
fiamme, fiamme che ghermivano qualsiasi cosa si trovasse nel raggio
d’azione di
quei fili magici, bruciando e consumando finché non fossero
rimaste solo le
ossa: anzi, nemmeno quelle, avrebbe carbonizzato pure le ossa,
esattamente come
quelle dei suoi leoni si erano ridotte in polvere davanti ai suoi occhi
intenti
a piangere.
Di rabbia, di dolore, di
frustrazione: non sapeva
nemmeno lui perché lo stesse facendo, ma non riusciva
nemmeno a fermarsi.
Allora, e solo allora, i guardiani
e tutti gli altri
notarono il cerchio di fuoco che circondava l’uomo, le cui
fiamme si stavano
alzando come a formare una cupola che rinchiudesse lui ed il fedele
compagno
steso a terra. Nord e Calmoniglio fecero per attaccare di nuovo
preparandosi
alla carica, ma Myricae stese prontamente la coda davanti a loro
fermandoli:
no, non era il tempo di infierire, lo riconosceva bene anche lei che
-ridotto
com’era- sarebbe stato come sparare sull’ambulanza.
E Harmonia non lo avrebbe
mai voluto.
Si scambiò un ultimo
sguardo con Phobos, incrociando i
suoi occhi fra le fiamme che crepitavano: se si era ridotto
all’ombra dell’uomo
che era un tempo, se i suoi leoni erano andati al macello, se stava
accadendo
tutto ciò, era solo colpa sua.
Un bagliore, poi la cupola implose
su se stessa in un
suono sordo simile a quello di un tuono. Dentro di essa non
c’era più nessuno: né
Phobos, né la salma di Thorax.
Restarono tutti in silenzio per
qualche istante, poi
Myricae si divise dal gruppo intento a parlottare entusiasta, a
vantarsi della
propria impresa con le stalattiti nonostante i tentativi più
o meno volontari
di decapitazione, a raccontare di come con una spada avesse trapassato
due
leoni, a imitare come con la frusta ne avesse mezzo impiccato uno, di
come si
era quasi fatta mangiare. L’Ophidians, invece, si diresse da
Harmonia e la
prese in braccio, sparendo sulle scale con lei accucciata al petto.
***
Naevia era salita un paio di volte
per rassicurarsi
delle condizioni di salute sue e della loro regina, oltre che per
medicarle la
scapola con i suoi soliti intrugli che solo gli dei sapevano cosa
contenessero,
e Antares aveva fatto altrettanto portando con sé una
coperta fresca di
tessitura.
“Vedrai che
così si riprenderà prima di subito, parola
di Sylkes!”, le aveva detto, ma Myricae non ci credeva poi
così tanto: sapeva
bene di cosa aveva bisogno Harmonia per riprendersi da quel brutto
momento, e
una delle cose a lei più necessarie era proprio
l’avere vicino la propria
compagna che le teneva la mano silenziosamente seduta al suo capezzale.
Le aveva fatto una doccia per
pulirla dalla polvere e
dai frammenti di vetro, le aveva messo addosso dei vestiti puliti e poi
subito
a letto, coprendola con cura per assicurarsi che non patisse troppo
freddo o
troppo caldo: sarebbe passato, passava sempre, ma ogni volta che
accadeva era
come una pugnalata.
Peggiore di quella ricevuta quel
giorno, fra l’altro.
Senza lasciare la mano della sua
mela en’ coiamin, “l’amore
della sua vita” nella sua lingua, Myricae allungò
la coda per prendere un
carillon che Harmonia custodiva gelosamente in un cassetto magico
invisibile a
chi non occupasse quella stanza, solo loro due sapevano dove trovarlo;
girò la
manovella per caricarlo: una melodia dimenticata iniziò a
fuoriuscire da esso, mentre
la naga poggiava la sua testa sul petto della compagna.
“Sarà una
notte lunga”, si disse.
_____________________________________________________________
Angolino dell’autrice
(*)
Traduzioni varie ed eventuali
Ed’
i’ear ar’
elenea
= per la luna e per le stelle
(esclamazione)
Lle
n'vanima
ar' lle atara lanneina = mi fai
ridere
Ná = sì
Tancave = certamente
Mela
en’
coiamin
= amore della mia vita
Dartho
na nin,
a’maelamin, dartho na nin = resta con
me, amore mio, resta con me
Ed eccoci qua con questo capitolo
immensamente lungo ,
il cui titolo è un riferimento al filo rosso del destino,
"unmei no akai
ito" appunto. Secondo la tradizione giapponese, ogni persona porta, fin
dalla nascita, un invisibile filo rosso indistruttibile legato al
mignolo della
mano sinistra che lo lega alla propria anima gemella, che li destina,
prima o
poi, a incontrarsi e a sposarsi. Perché se non era destino
che si incontrassero
di nuovo Harmonia e Phobos non so proprio cosa sia! :'D
Ne approfitto giusto per
ringraziare chiunque si sia
mostrato ancora interessato a questa fanfiction nonostante il tempo
immemore
che ho impiegato ad aggiornare, specie chi ha trovato ancora la voglia
di
recensire: seriamente, mi fate commuovere, nemmeno ci speravo! Quindi
grazie a
tutti dal profondo del cccccccuore :3
Ah, chi non ha ancora ricevuto una
risposta alla
propria recensione qui o in altri miei scritti la riceverà
in questi giorni,
scusate per il ritardo nel rispondere ma ehi, sempre meglio ritardare
in quello
che ad aggiornare dopo quasi un anno :’D
Al prossimo capitolo!
|
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Capitolo 11 *** Cwtch ***
cap11
Avviso: in questo
capitolo sono presenti scene di sesso dal rating ambiguo, che
probabilmente
oscilla fra l’arancione e il rosso. Dal momento che non mi
sembrava proprio il
caso di cambiare rating all’intera storia per un pezzo di un
capitolo dalla
dubbia classificazione, se vi sentite a disagio con la cosa potete
tranquillamente saltare alla fine.
Grazie della
comprensione e buona lettura! :)
________________________________________________________________
«“Ma quanto
manca? Ma siamo
arrivati? Ma quando si mangia? Ma dov’è
l’Autogrill? Ma c’è l’acqua
calda?”:
azzardati a lamentarti ancora mezza volta e giuro che te ne do tante,
ma
talmente tante, che ti riduco in formato tascabile e ti infilo nella
saccoccia
che hai in spalla, possa sparirmi il naso se non lo faccio!»
Uno stormo di uccelli si
alzò
gracchiando come a maledire Pitch per averli disturbati con le sue urla
gutturali, e come dare torto a quelle povere bestiole? La scampagnata
padre e
figlia nei boschi del Galles non stava precisamente procedendo come
previsto.
Tutt’altro.
Ad Emily Jane quel posto metteva
i brividi, doveva ammetterlo: c’era qualcosa
nell’aria di quel luogo
dimenticavo dagli dei che la inquietava e non le permetteva di
rilassarsi
completamente; se si concentrava, le pareva addirittura di avvertire la
magia
scorrere con potenza immane in ogni sasso, in ogni foglia, persino in
ogni filo
d’erba, e non era un tipo di magia che ricordava di conoscere.
C’era qualcosa,
ma non aveva idea di cosa fosse esattamente.
“Come
Little Children
I'll
Take Thee Away
Into A
Land
Of
Enchantment”
«Come hai
detto?»
«Eh?» Pitch si
girò verso la
figlia, stranito «Non ho nemmeno parlato, io,
perché me lo chiedi?»
Non aveva parlato? Come
poteva essere possibile che non fosse stato lui a parlare? Eppure
qualcuno
aveva appena cantato, aveva distinto molto chiaramente le parole come
se le
fossero state sussurrate all’orecchio, le era parso di
avvertire anche il
calore del fiato sulla pelle!... Esattamente come era accaduto durante
l’allucinazione avuta a Tandokka, appunto.
«Niente, niente, mi era
solo
sembrato di aver sentito un rumore, probabilmente sarà stato
un qualche
animale. O un folletto che voleva sbirciare sotto la mia
gonna».
«Sì,
probabilmente sì» rise
lui tornando a fischiettare bello tranquillo, totalmente inconsapevole
di ciò
che frullava nella testa di sua figlia. Per sua fortuna, bisogna dire.
Sì, era stata solo
un’altra
allucinazione, niente di più.
“Come
Little Children
The
Time's Come To Play
Here In
My Garden
Of
Shadows”
Con la coda dell’occhio,
ad
Emily Jane parve di vedere qualcosa o qualcuno nascosto fra gli alberi,
una
figura scura accompagnata da quella che le parve una fiammella
tremolante,
forse una lanterna; si girò di scatto: non c’era
nulla.
“È solo
un’allucinazione, lo
sto sentendo solo io, lo sto vedendo solo io” si disse
mentalmente stringendo
gli occhi al riprovare quella sensazione di calore
all’orecchio “non farci
caso, non dargli corda e vedrai che passa da solo, fingi che vada tutto
bene e
comportati normalmente”.
Guardò suo padre:
continuava
a camminare imperterrito e sereno, ogni tanto si fermavano e lui si
guardava
intorno pensieroso ma poi subito ripartivano.
Dietro di loro, le sagome
nere divennero due.
“Follow
Sweet Children
I'll
Show Thee the Way
Through
All The Pain And
The Sorrow"
E Madre Natura le vide.
Pitch no, invece.
“Va tutto bene,
benissimo,
non sta accadendo nulla di male. È solo nella tua testa,
nella tua
stramaledetta testa: non è reale, non è reale,
è tutta un’allucinazione” si
ripeté nuovamente fingendo di non notare come entrambe le
ombre si stessero
affiancando a lei e suo padre; cercando di mantenere la calma, si
chiese come
fosse possibile che lui non le notasse, considerando che quelle figure
gli
stavano a cinque centimetri!
Poi si rispose da sola: era
una sua allucinazione, era ovvio
che
nessun altro oltre a lei potesse vederle o sentirle.
“Weep
Not Poor Children
For
Life Is This Way
Murdering
Beauty And
Passions”
Fece per girarsi verso una di
esse, il cuore che batteva all’impazzata come se volesse
uscirle dal petto, ma
era troppo tardi: non c’era più nulla. Esattamente
come le ombre erano
comparse, ora era svanite senza lasciare traccia alcuna del loro
passaggio.
O quasi.
Frugando con la mano nella
propria saccoccia, la giovane Pitchiner trovò quella che le
parve essere una
bambola alquanto rudimentale, se così si poteva chiamare la
figura umanoide
stilizzata ottenuta unendo dei bastoncini di legno che stava tenendo in
mano.
«Dove l’hai
presa?» domandò
suo padre svegliandola dai suoi pensieri.
Emily la guardò qualche
istante, forse per capire cosa fosse, forse per cercare di trovare una
spiegazione logica che non implicasse il raccontare delle proprie
allucinazioni.
«Deve essersi incastrata
nella mia borsa mentre camminavamo, non ricordo di aver mai avuto
niente di
simile con me» rispose mostrandogli la bambola
«forse era attaccata a qualche
albero, non saprei, ma non penso sia importante».
Pitch non parve affatto
convinto di quella versione: prese l’oggetto fra le mani,
studiandolo
attentamente per minuti che parvero eterni borbottando qualcosa fra
sé e sé.
«Di cosa si-»
«Twanas, talismani per la
magia nera» spiegò gettandolo a terra
«dobbiamo andarcene, e dobbiamo farlo in
fretta».
Emily trasalì
«Come sarebbe a
dire che-» si bloccò quando si rese conto che
stava parlando col vento: suo
padre se l’era filata da un pezzo, precisamente subito dopo
aver visto la
bambola.
Che si fosse immaginata pure
la sua voce?
Sospirando, Madre Natura si
limitò ad accucciarsi ai piedi di un albero; si
portò le ginocchia al petto e
vi poggiò la testa sopra: se i demoni fossero venuti a
prenderla, le avrebbero
solo fatto un favore.
Ma a prenderla venne solo
Black, un indefinito lasso di tempo dopo.
Ansimante e con lo sguardo
stralunato che schizzava da una parte all’altra visibilmente
preoccupato, subito
si fiondò sulla saccoccia della figlia estraendone del pane
senza che questa
potesse proferire parola o fare qualsiasi altra cosa.
Svanì fra gli alberi di
fretta e furia di nuovo, dietro di sé una scia di molliche
nemmeno fossero
nella favola di Hänsel e Gretel.
E ricomparve di nuovo poco
dopo, assolutamente delirante.
«… Non
c’è via di scampo,
siamo senza speranza, lo siamo sempre stati da quando siamo entrati,
saremo
vittime del bosco anche noi…» continuò
però a disperarsi alzando il tono di
voce incrinata dal pianto; iniziò a frugarsi nelle tasche,
estraendo ciò che
rimaneva della pagnotta di prima «Guarda! GUARDA! Avevo
lasciato delle tracce
per terra per non perdermi, eppure eccomi qui al punto di partenza! E
sai
perché?!!»
Lei scosse la testa.
«Perché
qualche demone le
avrà mangiate, ecco perché!»
«Demoni, dici?»
ripeté con
fare interrogativo Emily «Forse è stato qualche
folletto, non è una novità che
i boschi dell’arcipelago britannico siano abitati dal Piccolo
Popolo, per cui-»
«Per cui mi hanno rotto
il
cazzo, i folletti e gli animaletti fatati e tutte le fate e gli elfi
rottinculo
di questo stramaledetto posto! Ora gli faccio vedere io come si fa a
schiacciare l’erba! Glielo faccio vedere io!»
gridò furioso alzandosi di
scatto.
Come mosso da una furia
incontenibile, Pitch prese a pestare forte i piedi a terra
assicurandosi di
estirpare per bene ogni più piccolo filo d’erba,
di schiacciare ogni singolo
insetto che gli capitasse sotto tiro dando vita ad una vera e propria
caccia
ora alla formica, ora al centopiedi; pestava i piedi per terra, il
sovrano
degli incubi, e per rincarare la dose di offese al Piccolo Popolo si
mise pure
a strappare quanti più fiori e piante possibile, ortiche
comprese: con le mani
o con la bocca -nemmeno fosse un caprone al pascolo- non aveva
importanza,
voleva solo distruggere quel dannatissimo labirinto di alberi che lo
stava
facendo impazzire.
E tutto ciò lo faceva
gridando come uno scimpanzé al quale è stata
rubata la sua banana.
“Ed ecco
l’anello mancante
fra l’uomo e la scimmia”, pensò Emily
Jane scuotendo la testa allibita: era suo
padre, quello, a tratti non ci credeva nemmeno lei.
Pitch strappava, mordeva,
schiacciava.
Poi gridava, ringhiava,
grugniva.
…
Grugniva?
Un eco di voci femminili si
fece largo fra risate e applausi scroscianti.
Emily alzò gli occhi e
le
vide di nuovo, le due ombre di prima, ma questa volta avevano fattezze
femminili: davanti a lei, due donne si ergevano statuarie scrutando
incuriosite
e compiaciute la scenetta offerta da Pitch che -a causa di
chissà quali
malefici contenuti in quel bosco maledetto- si trovava con qualcosa di
ben più
raccapricciante del suo solito enorme naso.
Tipo quest’ultimo che
aveva
assunto le sembianze di quello di un maiale, con tanto di orecchie e
coda
correlati.
Una delle due donne, quella
dai lunghi ricci biondi che le ricadevano fin sopra le natiche come una
criniera, gli si avvicinò sospettosa e lo guardò
qualche istante, toccandogli
con fare confuso le sue nuove simpatiche orecchie da suino.
«Per le cento teste di
Ladone! Non è mai capitato che i miei incantesimi
fallissero, con tutti gli
uomini che ho trasformato in maiali veri!»
esclamò a metà fra il sorpreso e il divertito; si
girò verso l’altra, sfidando
lo sguardo di quegli occhi gialli cerchiati di nero dalle vaghe
reminescenze
feline «Dì, Elly Kedward, non è che ti
sei intromessa con la mia magia, eh?
Quelle tue bambole mi disturbano, lo sai».
«Prima cosa: non
azzardarti a
chiamarmi di nuovo così, o giuro che chiamo tua madre e le
dico di quando ti
sei scopata Ulisse, e pure dei due incidenti
di percorso. Che ne dici, Ecate si incazzerà di
più perché una dea è scesa
a scoparsi un mortale, o al non aver conosciuto i suoi
nipotini?» domandò
stizzita scostando il cappuccio violetto che le copriva la corta chioma
nera
«Blair, Strega di Blair, prego. Seconda cosa: secondo te, chi
è che rovina
sempre la festa -e gli incantesimi- a chiunque? Indizio: la sorella
incestella
di re Artù!»
«Fatela finita, voi due,
che
senza il mio labirinto non sareste nemmeno riuscite a fare la
metà delle cose
che avete fatto a questi due poveri disgraziati, la Dea Madre abbia
pietà di
loro» intervenne una terza figura che uscì
direttamente dal bosco, una donna i
cui capelli bluastri erano raccolti in sottili dreadlock che
fuoruscivano dal
cappuccio del mantello che portava «e comunque non sono stata
io a fermare il
tuo incantesimo, Circe, mettiti il cuore in pace su questo».
Pitch passione Babe maialino
coraggioso ebbe come un’illuminazione: Circe? Quella
Circe?
Inutile dire che bastò
quella
parola a risvegliare in lui la rabbia di prima, con la sola differenza
che ora
le sue grida erano più simili a grugniti suini, che a
qualcosa di umano.
«Brutta figlia di una dea
a
tre teste, se ti metto le mani al collo ti-»
«Le unghie,
più che altro»
precisò indicandogli che da maiale aveva pure le zampe.
Black non si scompose
più di
tanto «Le unghie te le ficco negli occhi finché
non te li cavo, se non ti muovi
a riportarmi alla normalità! E tu, oh! Tu!»
indicò l’altra donna dai capelli
neri, che intanto si era messa a ridere sonoramente «Strega
di Blair di
stocazzo o no, giuro che le tue bambole di merda te le infilo su per il
culo
una per una, maledetta megera!»
«Oh-oh, questa brucia, letteralmente» intervenne
l’incappucciata delle tre prendendo in mano l’uomo
stilizzato fatto di
legnetti, che si dissolse in cenere dopo che venne avvolto da una
sottile
fiammella comparsa sul suo palmo.
«E brucio pure te! Cosa
credi, Morgana, di essere esente da colpe? Dannata strega incestuosa,
non mi
fotti un’altra volta con i tuoi stramaledetti incantesimi,
una mi è bastata e
avanzata» le indicò gli alberi dietro di
sé «quello è un fottuto labirinto, un
labirinto: io so orientarmi in questo bosco, mi sembrava ben strano non
riuscirci questa volta, e infatti ecco di chi è la
colpa!» le alzò il medio, furibondo
«E ora qualcuno mi faccia tornare normale, oppure-»
Detto fatto: Pitch tornò
lo
stesso di prima in uno schioccare di dita.
“Per fortuna o per
sfortuna
non saprei proprio dirlo, quel naso era sempre meno inquietante di
quello che
ha solitamente”, pensò Emily tenendosi per
sé quella riflessione, temendo anche
che una di quelle donne la leggesse nella mente, dal momento che
praticavano
tutte la magia nera.
Ma non la praticava
l’uomo
sulla cinquantina che era appena apparso davanti a loro: capelli
brizzolati
tenuti in un ordinato ciuffo piegato di lato, barba e baffi corti e
curati
dello stesso colore, occhi di un viola-bluastro tendente al nero, Madre
Natura
non ricordava di averlo mai visto o che suo padre gliene avesse mai
parlato.
A chiarirle le idee,
tuttavia, pensarono le streghe poco dopo.
«Merlino infame, per te
soltanto rane!» gridò la Strega di Blair evocando
una pioggia di rospi sulla
testa del collega, evidentemente furibonda.
Con eleganza innata,
l’altro
fece comparire un ombrello per ripararsi.
«Desolato, signore mie,
ma ho
ritenuto opportuno che interrompere il vostro sollazzo fosse la cosa
giusta da
fare: non si accoglie così un amico, ve l’ho detto
più volte» le rimproverò
tranquillo, poi si girò verso Pitch «ti chiedo di
scusarle, Black, sai come
sono fatte».
“Oooooh, il mago Merlino!
Ora
è tutto più chiaro!” si
illuminò la giovane Pitchiner.
Ora ricordava il perché
non
lo aveva riconosciuto: aveva sentito pronunciare quel nome da suo padre
solo un
paio di volte in tutta la sua esistenza nel post-Befana, e per ognuna
di esse
era accompagnato da epiteti non molto gradevoli, qualcosa come degli
insulti.
E delle bestemmie.
E imprecazioni varie ed
eventuali.
E pure un paio di
maledizioni.
Forse anche una minaccia di
querela.
E tutto perché era il
migliore amico della sua fidanzata.
Pronto ad impugnare
un’ascia
di guerra mai sotterrata, Pitch non lo ringraziò per
l’aiuto e, anzi, gli
lanciò un’occhiata di sprezzo e disapprovazione.
«Tsk, stavo riuscendo a
liberarmi da solo, il tuo intervento è stato inutile e
superfluo come lo è
sempre» asserì quasi schifato dall’aiuto
dell’altro.
Merlino -che ben conosceva i
suoi polli, o maiali- sorrise tranquillo «Oh, ho visto come
stavi risolvendo da
solo, ho visto eccome» ridacchiò nascondendo le
labbra con il cappotto che
teneva sulle spalle «comunque figurati, non
c’è di che. Stai andando da
Gwenllian, immagino».
«Non sono cazzi tuoi dove
sto
andando, immagino».
«No, hai ragione, non lo
sono, perdonami per la domanda fuori luogo» si
scusò con un breve inchino «ma,
dato che sappiamo entrambi che la risposta alla domanda e
sì, vi consiglierei
di andare sopra quella roccia laggiù»
indicò un masso alto poco lontano che si
innalzava nel bosco, in una zona con poche piante
«sarà più semplice prendere
il vostro passaggio aereo, direi».
L’Uomo Nero
trasalì «NO EH!
Non di nuov-…!!!»
Cinque secondi netti dopo,
Pitch ed Emily Jane stavano sorvolando gli alberi sospesi agli artigli
di
un’aquila albina gigante, che sbatteva le ali furiosa come se
volesse farli
cadere. Teoria che forse per Black aveva pure un certo fondamento.
E il Signore degli Anelli
poteva accompagnare solo.
---
E pure il voltastomaco poteva
accompagnare solo.
Il tempo di riprendersi
dall’aver vomitato la vita, l’universo e tutto
quanto, Pitch trovò la forza per
raddrizzarsi e guardarsi intorno; tirò un sospiro che doveva
essere di
sollievo, ma che non riusciva a nascondere un velo di agitazione: erano
arrivati, dunque.
Per chiunque non fosse
pratico del posto, l’abitazione della Befana sarebbe sembrato
tutto tranne che
la dimora di una strega del calibro di Gwenllian Jenkins Pendragon: in
mezzo ad
una radura d’erba verde e fiori delle più svariate
specie che sbocciavano
rigogliosi emanando mille profumi differenti -e protetta
tutt’intorno dagli
alberi del bosco, che formavano una vera e propria barriera naturale-
c’era la
sua casa, una sorta di capanna di legno e pietra di modeste dimensioni
che
pareva essere direttamente uscita dalla Contea, a giudicare da come se
ne stava
accucciata sotto una collinetta d’erba che fungeva sia da
tetto, sia come
prolungamento del vastissimo prato tutt’intorno.
Prato che era anche il nido
delle sue aquile, o almeno di quelle che non erano in giro a volare
libere per
il Galles, per la Gran Bretagna, per dove solo gli dei sapevano,
esattamente
come lo era la loro padrona; complice il castello di suo padre e la
porta per
Ognidove, infatti, fin da piccolissima Gwenllian era stata abituata a
girare
letteralmente il mondo in lungo e in largo, per terra e per mare e pure
per
aria.
Dovunque ci fosse un nuovo
luogo da visitare, c’era anche una giovane Pendragon sempre
dietro a mamma e
papà per unirsi all’avventura, avventure che -da
più cresciuta- l’avevano
portata a scovare nidi e nidi dei suoi fidati rapaci nascosti negli
angoli più
remoti del mondo, enormi aquile che si narrava fossero nate
dall’unione del Roc
con l’uccello del tuono.
E la prima aquila dalle
candide piume bianche da lei incontrata era lì a qualche
metro da Pitch,
intenta ad afferrare col becco una carcassa equina facendola poi
scivolare
intera giù per la gola, con vicino dei teneri pulcini
-grandi quanto il torso
dell’Uomo Nero, fra l’altro- che le zampettavano
intorno per rubarle il cibo
incuranti delle enormi zanne di quella bestia. Kya, questo era il suo
nome, non
pareva farci troppo caso, ma fece invece caso eccome a Pitch poco
lontano; gli
lanciò un’occhiataccia terribile, penetrante,
facendogli capire che mal lo
sopportava tanto ora quanto quando lui stava con Gwenllian, e che ci
avrebbe
messo poco a farsi scivolare nella gola lui, anziché un
cavallo.
Black notò perfettamente
quello sguardo rosso rosato che incontrava il proprio, ma era troppo
preso a
vagare nei ricordi per spaventarsi: non aveva mai più
cercato contatti con lei,
con la sua donna, dal giorno in cui le loro strade si erano separate,
ma
occasionalmente tentava di interessarsi a come stesse -da leggersi
“se avesse
una relazione con qualcuno”- per vie traverse: forse per
semplice curiosità,
forse perché si sentiva ancora in dovere di proteggerla o,
più semplicemente,
forse perché l’amava ancora.
Senza il forse, però.
L’Uomo Nero
guardò di nuovo
la piccola capanna, nostalgico: il fumo che usciva dal comignolo, i
vasi di
fiori appesi ai davanzali, l’edera sul muro di pietra, il
legno coperto di
soffice muschio, persino le goccioline di rugiada gli ricordavano i
migliori
anni della sua vita, anni passati al fianco della Befana e di
nessun’altra nel
mondo.
Senza sforzo alcuno, nella
nuvola grigiastra che usciva dal tetto a Pitch parve di rivedere le
mattine in
cui lui cucinava la colazione per entrambi: quasi sempre frittelle o
pancakes,
che si premurava di condire nei modi più disparati per poi
portarli a letto,
dove sarebbero stati consumati; per quanto lo riguardava, ancora
più dolce
della colazione in sé c’erano solo i gridolini
entusiasti di Gwenllian
nell’assaggiare la combinazione di marmellata e frutta del
giorno che da lì a
poco avrebbe annegato nello sciroppo d’acero, quando Black
non lo usava per
rendere più dolci al palato ben
altre zone
del corpo della sua amante.
Rivide lei che -ancora mezza
addormentata- gli faceva segno di mettergliene una forchettata in
bocca, rivide
anche se stesso che si destreggiava -posata alla mano- in mezzo a
quella
cascata di capelli color cioccolato, facendole borbottare qualcosa
quando i
pancakes erano talmente caldi da scottarle la lingua.
Ma anche allora non c’era
nulla che un bacio non potesse risolvere, Pitch aveva imparato anche
quello
stando con lei; uno, due, dieci, cento, mille baci: non aveva
importanza quanti
fossero, non sarebbero mai stati abbastanza, e nessuno dei due si
sarebbe mai
lamentato che fossero troppi.
Specie perché buona
parti di
essi era riservato a zone particolari.
Eh, pure il meraviglioso
sesso che faceva con lei gli mancava eccome, ma non era mai stato al
primo
posto nei suoi pensieri di allora come di oggi: gli mancava lei, non il suo corpo e nemmeno i suoi
gemiti.
Gli mancava lo svegliarsi e
rendersi conto di quanto fosse un uomo fortunato ad avere vicino una
donna che
lo amava per ciò che era, fregandosene di ciò che
gli altri dicevano sul suo
aspetto e sulle dimensioni del suo naso.
Gli mancava stringerla fra le
braccia e sentire il calore delle sue mani che si posavano sulle
proprie guance,
per poi accarezzargliele con dolcezza infinita sussurrandogli quanto lo
amasse.
Gli mancava il poggiare la
propria fronte alla sua per perdersi in quegli occhi nocciola
dall’eterocromia
anulare azzurra, che rendeva la sua damante ancora più
speciale di quanto già
fosse per il solo fatto di essere lei.
Gli mancava, eccome se gli
mancava, ma non poteva farci niente di niente: la loro storia era
finita, lui
non aveva saputo tenersela stretta ed era tornato solo, solo con la sua
speranza -di cosa non lo sapeva nemmeno lui- come un cane che attende
il
padrone standosene accasciato al ciglio della strada. Il che rendeva
pure
piuttosto bene l’idea di come fosse messo Pitch appena
mollato, intento com’era
ad ubriacarsi acciambellato in un angolino a piangere e maledire il
mondo per
la sua miseria.
«Oh, siete arrivati! Vi
stavo
aspettando, benvenuti!»
Quella
voce.
L’avrebbe riconosciuta
fra
mille altre voci, Pitch Black, sarebbe stato capace di distinguerla fra
altre
milioni che gridavano tutte all’unisono l’aveva
ascoltata talmente tante volte
da conoscere a memoria ogni pausa, ogni sospiro, ogni singolo cambio
d’intonazione che corrispondeva ad una differente sfumatura
del suo umore.
Avrebbe voluto girarsi, ma
una parte di sé lo bloccava: se l’avesse vista di
nuovo, non sarebbe mai
riuscito a lasciarla andare, non lo
avrebbe permesso.
Un’altra parte di
sé, quella
più razionale, gli gridava invece di tornare con i piedi per
terra e guardare
in faccia la realtà: tra loro era finita da un pezzo, cosa
si crogiolava a fare
nell’illusione che potesse esserci un lieto fine anche per
lui? Era l’Uomo
Nero, non ci sarebbe mai stato nulla se non l’amaro sapore
della sconfitta ad
accompagnarlo nei suo trascinarsi nel cammino della vita eterna:
perché
lagnarsi tanto, dunque?
Senza che potesse pensare ad
altro, una sensazione di calore lo pervase.
“Cwtch”.
Nella sua mente, le parole
dette dalla strega in una di quelle mattine passate a coccolarsi
risuonarono
con violenza inaudita.
“Esiste
una parola gallese che non può essere tradotta
in nessun’altra lingua, ‘Cwtch’. Cwtch
è l’abbraccio della persona amata, il
porto sicuro in cui fare ritorno quando tutto non va e il mondo cerca
di farti
cadere, è il luogo dove niente ti può rattristare
o ferire o raggiungerti,
niente se non l’amore. È un posto speciale che
puoi trovare solo fra quelle
braccia, quelle che ti stanno
stringendo quando lo dici: non braccia qualunque, bada bene! Le braccia
di quella persona, la tua persona. Ecco, il mio Cwtch sei
tu”.
E ora Gwenllian Jenkins
Pendragon non era solo un volto scavato in un ricordo, no, era
lì che lo
abbracciava -dopo aver fatto lo stesso con Emily Jane, o almeno averci
provato
dato che lei l’aveva liquidata con un secco e sterile
“ciao”- per salutarlo. Lo
abbracciava!
Staccatasi
dall’abbraccio, la
donna lo guardò perplessa dandogli un buffetto sulla guancia
come per
svegliarlo.
«Hai freddo o sei solo
felice
di vedermi, Pitch?» domandò la strega
all’Uomo Nero.
L’altro la
guardò perplesso
«Come?»
«Your meat popsicle, my
dear»
diede delucidazioni Gwen dopo qualche istante, indicandogli
distrattamente i
pantaloni.
Dai quali faceva capolino una
fin troppo vistosa erezione.
Non si seppe se fece più
rumore il facepalm di Emily Jane -che già si preparava
mentalmente un elenco
delle figuracce che gli avrebbe fatto fare suo padre-, il respiro
affannoso di
quest’ultimo che cercava disperatamente di far rientrare
l’anaconda alla base o
le risate della gallese, fatto stava che fu lei infine a riderci sopra
ed
invitare gli altri due a seguirla in casa propria.
«Appena avete ritirato
l’artiglieria, venite pure... anche in quel
senso, se proprio volete, dei fazzoletti li ho in giro»
scoppiò a ridere di
nuovo avviandosi verso la capanna, padre e figlia che la seguivano a
ruota.
Si preannunciava una giornata
dura.
Durissima.
Ma mai quanto il pene di
Pitch.
Si sarebbe potuta ricercare
la somiglianza di Gwenllian con i suoi genitori nei capelli, guardando
quella
treccia di ciocche bluastre e argento -rispettivamente ereditati da
Howl e
Sophie- che spiccava particolarmente nella chioma color cioccolato, ma
sarebbe
bastato mettere piede in casa sua per capire che con suo padre aveva
ben altro
in comune.
Il caos più assoluto.
Esattamente come il castello
errante del mago di Ingary, anche casa della Befana era piena di ogni
sorta di
oggetto possibile immaginabile: montagne di libri che formavano vere e
proprie
torri, manuali di magia con mille segnalibri che spuntavano dalle
pagine come
fiori in un campo, misteriosi artefatti e congegni -se fossero magici o
semplici ninnoli non era dato a sapere- dalle forme più
bizzarre, animali di
pezza variopinta sparsi un po’ ovunque, ampolle e vasi
riempiti con erbe e
pozioni e polveri e solo gli dei sapevano cos’altro, fiori e
piante di specie
sconosciute e tante, troppe, altre cose incomprensibili ai semplici
umani.
Emily Jane sbuffò
sonoramente,
assicurandosi che gli altri la sentissero; persino uno di quei volatili
fuori
dalla porta avrebbe capito che quella calma piatta, quel silenzio
irreale
smorzato solo dalla forchetta che affondava tanto
nell’impasto quanto nella sua
anima, era più falso di una moneta d’oro di
cioccolato, per non parlare del
fatto che ricordava bene quanto il motivo della visita fosse ben poco
di
cortesia.
Appunto, lei lo ricordava, ma
le sembrò più di una volta che suo padre lo
avesse scordato, invece.
Irritata, Madre Natura fece
per prendere la parola, ma l’altra la interruppe appena le
vide muovere il
labbro per pronunciare ciò che aveva da dire.
«Immagino che questa non
sia
una visita di cortesia» asserì seriosa Gwen
standosene appoggiata al muro
vicino alla cucina, le braccia incrociate al petto e lo sguardo
tagliente di
chi sa già perfettamente dove vuole andare a parare.
Pitch venne colto di sorpresa
e si interruppe con la forchetta a mezz’aria, lo sguardo che
si abbassava su
quel boccone per non guardare la sua interlocutrice.
«No, appunto, la nostra
non è
una visita di cortesia» confermò senza alzare gli
occhi, ormai fissi a
contemplare quel pezzo di cibo che aveva davanti al naso.
La strega sospirò
«Posso
sapere il motivo per cui siete venuti, dunque? Non ho molto tempo da
perdere,
per cui se non dovete dirmi nulla» indicò una
porta di legno intarsiato che si
intravedeva dal tavolo in cui li aveva fatti accomodare «io
torno a fare ciò
che stavo facendo. L’alchimia è una scienza che
non dorme mai, nel caso in cui
non lo sapeste».
«Lo sappiamo, lo
sappiamo»
convenne Black con aria seccata «anche perché se
dormisse non avresti quella»
additò una piccola pietra rossa che svettava su di un anello
al dito della donna,
lanciando sfumature del colore delle fiamme dell’inferno. Si
alzò in piedi,
avvicinandosi e ponendosi davanti a lei con le mani dietro la schiena
«Quanto
tempo hai impiegato per ottenere la pietra filosofale? Più
di quanto ne hai
impiegato per tornare a camminare dopo che Merlino te lo ha sbattuto
nel culo,
eh?»
Gwenllian alzò gli occhi
al
cielo: eccolo che iniziava con le scenate di gelosia.
Sapeva fin troppo bene come
si sarebbe evoluta la questione, la giovane strega, ricordava
perfettamente
tuuuuutte quelle che avevano contribuito alla sua -non facile- scelta
di lasciarlo,
e questa era solo l’ennesima di tante.
Che coinvolgevano quasi tutte
Merlino, fra l’altro: non ne capiva il motivo, ma fin dal
primo istante in cui
lei glielo aveva presentato come “il mio migliore amico,
anche se ormai lo
considero un fratello maggiore” l’Uomo Nero era
stato accecato dalla pura
gelosia. Il semplice parlare fra la sua fidanzata e il mago si
trasformava in
un tentativo di abbordaggio, gli abbracci erano sempre e solo per farle
sentire
“la bacchetta magica”, e guai quando restavano da
soli! In quel caso lo stava
cornificando di sicuro!
Poi dettagli, se magari lei e
Merlino erano dalla sua maestra Suliman per apprendere le ultime
scoperte in
campo magico che una maga di Ingary era tenuta a conoscere, per Pitch
gli stava
comunque mettendo le corna.
Per un po’ Gwen aveva
pure
sopportato, lo aveva fatto in nome dell’amore profondo che
provava per
quell’uomo e di tutti i loro momenti felici, i migliori che
avesse mai provato
nella vita immortale che le apparteneva:
“passerà”, si ripeteva.
Ma non era passata, e allora
si era resa conto che non c’era più nulla di sano
nella loro relazione, né
qualcosa per cui valesse la pena continuare a struggersi inutilmente:
pedinamenti 24 ore su 24 sette giorni su sette, domande insistenti come
fosse
costantemente sotto la luce di una sala per gli interrogatori, lui che
addirittura si rifiutava di fare sesso con lei insistendo che non
voleva
trovarsi lo sperma di Merlino sul proprio membro.
E ora non solo non gli era
ancora passata l’incazzatura-disperazione-quellocheera da
rottura, veniva pure
a fare le scenate di gelosia senza che
stessero insieme! Era follia, pura follia.
E Pitch era decisamente
folle, ora.
Resasi conto di come il
discorso stesse cambiando repentinamente, la giovane Pendragon si
smosse e si
mise davanti al proprio ex dritta e col petto in fuori, come a
fronteggiarlo.
«Sicuramente meno di
quanto
tu ne stia impiegando per metterti il cuore in pace» rispose
secca,
piantandogli addosso uno sguardo freddo capace di penetrare la carne
tanto
quanto lo erano gli artigli di Kya «non ti è
ancora passata, vedo»
«A te immagino di
sì,
invece».
«Ovviamente» lo
rassicurò
sorridendo senza dare corda a quel suo atteggiamento provocatorio
«a differenza
tua, non mi ostino ancora a vivere nel ricordo di un passato che
sì, è stato,
ma che non potrà più essere. E non certo per
colpa mia» alzò e allargò le
braccia come a negare il suo coinvolgimento «guardati, Black:
non sei in grado
di voltare pagina, di andare oltre, di raccogliere la
dignità che ti è rimasta
e uscire da casa mia. Perché è ciò che
ti invito a fare, se sei venuto qui solo
per ossessionarmi con le tue scenate di gelosia o per pregarmi di
tornare con
te».
Gli si avvicinò
all’orecchio,
indicandogli con un cenno del capo Emily Jane, ancora impegnata a
punzecchiare
il proprio muffin.
«Fallo per lei,
più che per
me: in quanto padre, abbi la decenza di non farti vedere da tua figlia
nelle
condizioni pietose in cui ti riduci quando mi preghi di darti
un’altra
possibilità. E non lo dico per schernirti, è
solo-»
«Non è quello
il motivo per
cui sono venuto qui. Stai pure certa che ne avrei fatto volentieri a
meno, se
avessi potuto».
La strega parve sorpresa da
quell’affermazione, e c’era pure da capirla: a
parte il tormentarla con gelosie
morte e sepolte riguardo la loro relazione -altrettanto morta e
sepolta-, non
c’era proprio nulla che potesse vederla legata
all’Uomo Nero.
Ma se si era scomodato tanto
non era certo per qualcosa di piacevole, di quello Gwenllian ne era
assolutamente certa.
Restò il silenzio a
lungo,
poi si girò verso Emily Jane, che poverella pareva
più a disagio lei di tutti
gli altri presenti in quella stanza.
«Vai fuori» le
intimò
semplicemente.
«Non prendo ordini da
lui» la
giovane Pitchiner indicò suo padre «figurati se li
prendo da te».
«Lo dico per il tuo bene:
vai
fuori, Emily».
«Altrimenti?»
si alzò in
piedi, tentando inutilmente di tenere testa alla Befana «Cosa
mi fai, se non
esco? Mi trasformi in un rospo, forse? Un maiale come ha fatto la tua
collega
con mio padre? O forse preferisci-»
«Fa come dice. Vai
fuori» si
intromise Pitch.
Lei lo guardò in
cagnesco per
alcuni secondi che parvero infiniti, ma si limitò a
dirigersi verso la porta
aprendola e facendo per uscire, con grande sorpresa di tutti: Emily
Jane non
era assolutamente il tipo di persona che si lasciava scappare
un’ occasione del
genere per lamentarsi, quel comportamento non era proprio da lei!
“Vado fuori, vado fuori:
l’ultima volta che l’ho fatto, mamma si
è buttata da una rupe e l’hanno
raccolta con un cucchiaino, spero in bene che ora sia il tuo
turno” fu il suo
ultimo pensiero, poi si chiuse la porta alle spalle.
Che si scannassero da soli,
quei due.
«Finalmente ci ha
lasciati
soli, quella dannata palla al piede» esordì
l’Uomo Nero appena sparita la
figlia.
«Avete sempre un rapporto
molto stretto, da quel che vedo».
«Sicuramente
più stretto
delle tue gambe, Pendragon».
Gwen sospirò,
dirigendosi
verso il frigorifero.
«L’ho detto e
lo ripeto: se
vuoi toccare l’argomento, non aspettarti che io sia clemente,
e nemmeno che ti
dia conferme o smentite varie. Cosa faccio con le mie gambe sono solo
affari
miei, e anche se fossero pure tuoi non verrei certo a raccontartelo
né oggi, né
domani, né mai» tirò fuori due birre
ghiacciate e le aprì, passandone una a
Pitch «smettila di girarci intorno, Black, perché
non sono certo una stupida:
cosa vuoi da me? Hai detto che non è una visita di cortesia,
quindi cosa
dovrebbe essere questa sceneggiata?»
L’altro bevve un lungo
sorso
«Da quanto sapevi che stavo venendo qui, uh?»
La donna sorrise «Da
quando i
miei aquilotti hanno mangiato il pane che lasciavi per terra,
ovviamente» rise
lei vedendo l’espressione sorpresa di Pitch «e se
te lo stai chiedendo no, non
ho organizzato io il tuo comitato di benvenuto» lo
anticipò «anche perché fra i
due sono io quella che ha meno voglia di vederti bazzicare intorno a
casa mia,
o intorno a me in un raggio di svariate migliaia di chilometri in
generale.
Ringrazia la clemenza di Merlino, perché se ci fossi stata
io al suo posto ti
avrei lasciato trasformare in maiale da Circe per poi cuocerti allo
spiedo. Kya
e le altre ne sarebbero state contente».
Pitch posò la bottiglia
vuota
sul tavolo «E tu?»
Lei lo imitò
«Io? Io voglio
solo che tu ti decida a tagliare corto, perché -come ho
già detto- non ho tempo
da perdere: ho appena finito la mia birra e mi sto dirigendo al
laboratorio,
fai te due conti» rispose stizzita, poi prese a dirigersi a
lunghe falcate
verso la porta di prima, aprendola e invitando l’altro a
seguirla «ho un
preparato di cui occuparmi, hai tempo di spiegarti finché
non l’ho completato».
A vedere le porte del
laboratorio alchemico di Gwenllian Jenkins Pendragon aprirsi, Black
riuscì a
stento a trattenere l’emozione: se dall’esterno
quella pareva una modesta
casetta sperduta nella foresta, allora all’interno era un
enorme labirinto
fatto di scaffali e librerie colme di qualsiasi oggetto che un uomo
potesse
immaginare, tutto perfettamente sistemato e catalogato per colore,
dimensione e
nome, non aveva nulla a che fare col caos targato Pendragon della
stanza
accanto. Ed era proprio lì che avveniva la magia: Befana
quando serviva, strega
di nascita e alchimista a tempo pieno, Gwenllian era straordinaria
anche per
gli standard dei maghi.
Quel posto gli era mancato
come pochi altri, doveva ammetterlo.
Mentre la donna era alle
prese con la pozione alla quale aveva accennato poco prima, Pitch ne
approfittò
per fare un tour di quel luogo a lui così famigliare; non
era cambiato di una
virgola dall’ultima volta in cui lo aveva visto, un numero
indefinito di anni
prima, differenziava solo per la quantità immane di
esperimenti e solo gli dei
sapevano cosa che riempiva ogni singola parete e tavolo e mensola
là dentro
-decisamente aumentati da quando ricordava-, e forse pure per qualche
nuova
scala a chiocciola che spuntava qua e là per accedere ai
piani superiori.
E per la pietra rosso rubino
che troneggiava fiera la stanza, dall’alto del suo
galleggiare a mezz’aria
brillando di luce propria, anche per quella.
Si avvicinò incuriosito,
alzando il naso e osservandola compiaciuto: alla fine era riuscita a
crearla,
dunque. C’erano alchimisti che spendevano tutta la vita a
cercare di creare un
frammento di grandezza infinitesimale della pietra filosofale, magari
pure
senza riuscirci, e là dentro ce n’era una grande
quanto un cocomero.
“Meglio non farla
arrabbiare”, pensò l’Uomo Nero: se
possedeva magia e conoscenze sufficienti per
un lavoro del genere ad un’età come la sua, allora
con Gwenllian sarebbe stato
meglio non abbassare la guardia.
«Di cosa volevi parlarmi,
allora?
Ti ricordo che il tempo stringe» gli fece notare
l’altra, senza staccare gli
occhi dal ciò che la stava impegnando.
Pitch si avvicinò
lentamente
a lei «La farò breve: qualcuno ha mandato delle
creature a sbranare i miei
Incubi, e con “sbranare” intendo che ci si sono
fiondati sopra come un
viandante nel deserto su un bicchiere d’acqua. Leoni, per la
precisione, leoni
neri dagli occhi rossi».
«Leoni, dici?»
ripeté lei
mentre armeggiava con delle provette.
«Leoni, sì.
Inizialmente li
avevo scambiati per altri Incubi con nuove forme, ma quando si sono
avvicinati
ho notato che -più che di sabbia nera- parevano essere
costituiti da… vediamo,
a cosa potrei paragonarlo… oh, ecco: pura
oscurità, il termine giusto è
questo».
«E quindi?»
«E quindi credo che tu
possa
saperne qualcosa, Pendragon. Se non addirittura essere stata la
mandante di
quella mattanza» si accostò al tavolo, posandoci
con violenza un palmo sopra
«non conosco altre persone che possono volermi morto, con le
quali ho questioni
in sospeso o che vogliano danneggiarmi in qualche modo. Nessuno, tranne
che te» vedendo che non
gli dava la benché
minima attenzione, le afferrò un polso per fermarla nel suo
operato «non
provare a prendermi per il culo, Gwenllian, o giuro che-»
L’Uomo Nero si
lasciò
scappare grido soffocato di dolore. Si guardò la mano:
sanguinava.
E il suo sangue gocciolava
anche dagli artigli della strega, la cui mano si era ricoperta di
spesse squame
argentee iridescenti, un sottile strato di piume dello stesso colore
che le
fuoriuscivano dalla pelle dell’avambraccio a monito dei
poteri ereditati da suo
padre.
«Non giurare di nuovo,
perché
potresti non trovarti più la bocca per farlo»
ringhiò lei fulminandolo con lo
sguardo, gli occhi ridotti a due fessure scure nei quali si intravedeva
appena
la sottile pupilla azzurrognola.
Pitch sorrise appena.
«Oh-oh, qualcuno qui
graffia,
da quel che vedo» si saggiò la ferita che partiva
dal pollice e percorreva il
palmo fino al polso, massaggiandosela sorridendo «non
è così che si trattano i
propri ospiti, Gwen, no no. Mamma e papà non ti hanno
insegnato le buone maniere?»
«Mamma e papà
mi hanno
insegnato che se uno sconosciuto mi importuna prima devo avvisarlo di
non farlo
ancora» gli indicò il taglio «poi devo
staccargli il braccio a morsi. E stai
sicuro che lo farò ben volentieri». La Befana si
decise a lasciar perdere il
proprio esperimento, dando la schiena al banco di lavoro e girandosi
verso
l’altro -allontanatosi di qualche passo dopo
l’attacco- che la guardava senza
perdere quel suo sorrisetto.
Con fare malizioso, Gwenllian
si leccò il sangue dagli artigli.
«Sei delizioso, sai?
Esattamente come ricordavo che fossi, forse pure meglio».
«Non è buona
cosa restare col
dubbio» le fece notare l’uomo avvicinandosi
cautamente, fino a trovarsi a pochi
centimetri da lei «sai, sarebbe certamente meglio toglierselo
finché se ne ha
la possibilità» le accarezzò i capelli,
le dita che scorrevano fluide in quella
cascata color cioccolato con un ritmo quasi ipnotico «specie
perché potrebbe
succedere che poi non si abbia l’occasione di toglierselo in
futuro, quello
spiacevole dubbio» pose l’altra mano sul suo
fianco, sfiorandole appena il
corsetto di pelle.
Lei lo guardò fingendosi
afflitta «Oh, capisco. La mia è proprio una brutta
situazione, vero? Non so
proprio come potrei tirarmene fuori, proprio no» gli
afferrò il mento con la
mano artigliata, creando nuovi solchi nella pelle grigio cenere
dell’altro «e
dimmi un po’, re degli incubi, conosci forse un modo per
rimediare alla mia
condizione? Magari un modo che comprenda-»
E Pitch la baciò.
Un bacio vorace, intenso,
appassionato, che solo un uomo disperato dal ritrovare la donna che
aveva amato
e che ancora amava poteva dare: glielo avrebbe dimostrato, che era
ancora sua,
le avrebbe fatto capire che il suo cuore gli apparteneva, che non
poteva fare a
meno tanto dei suoi morsi sulle labbra quanto del suo corpo che premeva
sul
proprio, che -senza di lui- la sua vita non sarebbe stata completa come
lo era mai
stata tempo addietro.
Da parte sua, la sorpresa
iniziale di Gwenllian durò ben poco. Subito, si perse ben
volentieri in mezzo
alle loro labbra che si cercavano l’una con l’altra
come se ne avessero bisogno
per sopravvivere, persino la parte di sé che le diceva di
spaccargli la testa contro
il muro aveva lasciato posto ad una passione irrefrenabile, la stessa
che
animava le loro lingue che si intrecciavano freneticamente facendole
morire il
respiro in gola: se proprio avesse dovuto morire soffocata, quella
sarebbe
stata un’ottima occasione per farlo.
Interminabili minuti dopo, si
staccarono l’uno dall’altra.
«Il ficcarti la lingua in
bocca? Sì, questo lo conosco» scherzò
l’Uomo Nero poggiando la propria fronte a
quella della donna, ancora ansimante «allora, ho lo stesso
sapore o no?»
Ridendo, la strega si
leccò
le labbra «Sai che non credo di averlo capito per
bene?»
E ora fu lei a baciarlo di
nuovo, con la stessa intensità e fervore di poco prima. Gli
prese fra la testa
fra le mani e lo strinse a sé, spingendogli la lingua
all’interno della propria
bocca cogliendolo impreparato.
«Sì, hai un
sapore
decisamente migliore» sentenziò infine
soddisfatta, continuando nel mentre a
dargli piccoli baci su viso e collo «ma sai che cosa
è ancora più dolce in te,
Pitch?»
«Che cosa?»
chiese languido.
«Il
tuo sangue sul pavimento».
Poi iniziò una lotta
furiosa.
Approfittando della guardia
abbassata dell’altro, ancora troppo impegnato a fantasticare
su quel bacio
furbescamente rubatole per ragionare come si deve, la strega
impiegò poco per
trasformare ulteriormente il proprio corpo facendosi comparire -oltre
all’altra
mano artigliata- un paio di possenti ali dalle soffici piume marrone
nerastre,
azzurro turchese e bianco argentee; subito, la loro sola comparsa sulla
sua
schiena bastò per scaraventare l’Uomo Nero contro
uno degli scaffali alle
pareti, che finì inevitabilmente per crollargli addosso
insieme a tutto ciò che
conteneva.
Gwen gli si avvicinò a
piccoli passi totalmente incurante di vetri e cocci sparsi a terra,
complici
anche gli arti inferiori -che avevano assunto fattezze simili a quelle
delle
zampe di un rapace- ora coperti da squame dure e spesse, le ali ed una
lunga
coda dello stesso colore di queste ultime che si trascinavano per terra.
Si appollaiò per terra
vicino
al punto dove aveva impattato l’altro, osservando con
soddisfazione il rivolo
di sangue che colorava le schegge trasparenti: morto? Nah, non sarebbe
bastato
così poco per ucciderlo, tanto più che si
trattava di un immortale.
E infatti ne ebbe la
dimostrazione qualche secondo dopo.
Nel mentre che si apprestava
ad alzarsi, un’improvvisa ventata accompagnata da
un’ombra nera le passarono
rapide di fianco sfiorandole il corpo ed una delle ali, che
d’istinto fece
scomparire per evitare di trovarsela tranciata; si guardò
intorno pronta a
scattare: sapeva fin troppo bene quali trucchetti fosse capace di
mettere in
atto Pitch sfruttando il suo nascondersi negli anfratti bui, e per
questo non
si permise di abbassare la guardia. O almeno ci provò.
La seconda sferzata la
colpì
in pieno su di un fianco, ma almeno riuscì ad afferrare la
falce dell’altro
trascinandoselo a qualche centimetro dal volto. Sorrise.
«Funziona una volta, ma
la
seconda non mi fotti».
«Sicura?»
domandò lui
sghignazzante indicandole il corsetto e la maglia sottostante.
O ciò che rimaneva,
comunque,
dal momento che l’ultimo colpo lo aveva praticamente
squarciato in due
lasciando la strega a seno scoperto.
«Dannato man-»
tentò di
imprecare lei, ma fu questione di attimi prima che Black si premurasse
di
manipolare l’oscurità com’era solito
fare in quanto sovrano degli incubi.
Agì velocemente, facendo
fuoriuscire dall’ombra della strega dei veri e propri
tentacoli di sabbia nera
e grondante un liquido dello stesso colore, che le si avvolsero tanto
ai polsi
quanto alle caviglie per ridurre la sua mobilità a qualcosa
che si avvicinava
pericolosamente allo zero: più tentava di divincolarsi,
più quelle cose stringevano.
E lei lo stava capendo
tardi, a giudicare da come si stava inutilmente agitando.
Ridacchiando, Pitch la
strinse a sé, con ancora addosso quel suo sorrisetto da
prendere a schiaffi; da
lui Gwenllian si aspettava di tutto,
ma per ora l’Uomo Nero si stava semplicemente limitando ad
osservare e seguire
col dito le linee di ogni singolo tatuaggio che copriva il corpo di
quella che,
un tempo, era stata la sua amante: sapeva a memoria la posizione di
ogni singolo
simbolo, ogni significato che esso poteva avere, avrebbe saputo
disegnare una
vera e propria mappa dei segni presenti su quella pelle candida che lui
aveva
baciato, accarezzato, posseduto, per anni interi, esplorandone ogni
angolo.
La guardò negli occhi
solo un
istante, quello che gli bastò per capire che sarebbe stata
sua complice, che
aveva voluto esserlo fin dal primo momento in cui lo aveva rivisto.
Senza tanti complimenti,
l’Uomo Nero fece scivolare le labbra vicino al collo della
strega iniziando a
baciarlo avidamente una, due, tre volte, salì fino
all’orecchio dove rimase
qualche istante, conscio di quell’insignificante punto
sensibile del quale
ricordava bene la posizione; il corpo della donna fu scosso da un
brivido che
le incendiò la pelle, i muscoli, persino ogni più
piccola terminazione nervosa:
sentiva la bramosia dell’altro di averla, di reclamarla, di
possederla ancora
una volta, non riusciva nemmeno più a ragionare da quanto
quel fuoco le stesse
avvampando la mente, oltre che il corpo. Era sbagliato, tremendamente
sbagliato.
Ma non gliene fotteva
assolutamente un cazzo.
Non ebbe nemmeno il tempo di
farsi ulteriori domande su quanto ciò fosse giusto o meno,
che Pitch era già
sceso con la bocca sui suoi seni nudi, prendendo a torturarglieli come
solo lui
sapeva fare. Inizialmente si accontento di lambirle appena la pelle,
provava un
certo piacere nel sentirla mugolare come a implorarlo di darle di
più, e lo
aveva fatto sfiorandole delicatamente il capezzolo roseo e turgido con
la
lingua per farla gemere di nuovo, e poi ancora, e ancora, fino a quando
non era
crollata in un gemito sordo.
Mentre l’aveva fra le
braccia, la sentiva fin troppo chiaramente dimenarsi e inarcare
faticosamente
la schiena in un tormento costante, senza fine, una muta richiesta -non
poi
così tanto muta, considerando i gridolini che lanciava- di
andare oltre, di
darle di più, era come
uno spasmodico
desiderio carnale che le bruciava dentro mentre chiedeva solo di essere
soddisfatto, risvegliato, accolto.
Allora, e solo allora, aveva
iniziato a suggerle il seno in modo avido, rude, quasi selvaggio,
pareva
volesse divorarla da quanta passione ci stesse mettendo, dai segni
rossi che i
morsi gli stavano lasciando sulla pelle ad ogni suo affondo. Un grido
di
piacere scappò dalle labbra della strega, ormai in completo
visibilio a causa
di quel comportamento a metà fra l’umano e
l’animalesco che pareva svegliare in
lei istinti dimenticati da tempo immemore, istinti che ora ruggivano
ogni volta
che i denti di Black si serravano prepotenti intorno alla propria
areola: per
la dea, quanto gli era mancato quel maledetto disgraziato dal naso
abnorme!
Pitch stava giusto per
spostarsi sull’altro seno quando, in modo totalmente
inaspettato, Gwenllian gli
affondò le dita fra i capelli e gli trattenne la testa
lì dov’era spingendolo
più a fondo sul suo petto, come ad invitarlo a suggerla con
maggior vigore.
Sorpreso, la guardò qualche istante come per dirle
“Come e quando ti saresti liberata i
polsi?”, ma nel momento in cui
la sua bocca fu pronta a pronunciare quelle parole si trovò
bloccato da un
bacio caldo e profondo, le dita che gli scavavano la pelle fino a
lacerargli la
veste.
Non aveva importanza come
avesse fatto, non più, ormai.
Le mani -ancora trasformate-
della strega gli strinsero le proprie, guidandogliele prima sui
fianchi, poi
giù sulla vita e infine vicino all’orlo dei
pantaloni; Gwen gli sorrise.
Abilmente e con la calma di chi vuole farsi desiderare fino in fondo,
guidò
abilmente con le proprie mani le dita dell’altro fin dentro
gli abiti,
accompagnandolo fino a sfiorargli gli slip sottili che lasciavano
scoperti suoi
glutei.
Ancora una volta, i freni
inibitori dell’Uomo Nero andarono a farsi benedire:
esplorò le sue natiche in
lungo e in largo, strinse con non poca forza la carne soda come un
gatto che si
aggrappa ad un cuscino per farsi le unghie, e -similmente a come faceva
il
felino- anche lui piantò le proprie, di unghie, nelle carni
della donna
facendola gemere tanto di piacere quanto di dolore. Non smise nemmeno
un
secondo di costellarle il fondoschiena di segni rossastri che
rasentavano
lividi veri e propri, lei del resto non si stava certo opponendo, e non
lo fece
nemmeno quando le dita di Pitch finalmente si insinuarono sotto gli
slip per
cercare le sue zone più intime.
No, non si oppose, gli
piantò
solo una ginocchiata nello stomaco che ci mancava poco gli facesse
sputare
tutti gli organi interni.
«Eh! Voleeeeeeevi! Guarda
che
faccia, non se lo aspettava!» gli gridò la strega
dall’altra parte della
stanza, alzandogli il medio da entrambe le mani e facendogli il gesto
dell’ombrello senza pudore alcuno, soddisfatta
com’era.
Pitch non perse tempo:
conscio che la falce fosse un’opzione da scartare -dal
momento che Gwenllian
sapeva già come lottava e si muoveva con essa-,
ripiegò sul farsi comparire fra
le mani due sottili ma lunghi pugnali affusolati, che gli avrebbero
certamente
permesso di gareggiare in agilità con l’altra.
Ignorando il dolore che
ancora gli ruggiva nello sterno, le si lanciò addosso ad
armi dispiegate con
tutta la forza che trovò in corpo, cercando di sfruttare i
punti ciechi che gli
venivano offerti dagli scaffali interposti fra lui e la strega.
Funzionò un
po’, quel che bastò per non farsi notare mentre si
avvicinava guizzando da un
angolo all’altro, ma Black non aveva tenuto conto della
presenza di vasi e
ampolle che riflettevano la sua immagine.
Avendolo visto in anticipo
con la coda dell’occhio, la donna riuscì a
bloccarlo all’ultimo, quando i
pugnali erano incrociati a mezz’aria a pochi centimetri dal
suo volto madido di
sudore nel reggere quel confronto di forza immane: dire che stava
lottando
contro un orso inferocito rendeva perfettamente l’idea di
quanto lei si stesse
sforzando per non cedere sotto il peso di Pitch, che pareva essersi
totalmente
riversato nei propri arti superiori a giudicare da come si stesse
protraendo
quel braccio di ferro.
Fortunatamente per lei,
però,
il colpo di genio la raggiunse in tempo: una formula in una lingua
sconosciuta
ai mortali, e poco dopo la lunga coda piumata le ricomparve addosso;
attese un
istante solo, quello per constatare che l’uomo non aveva
notato quella sua
piccola trasformazione, poi finalmente la scostò vicino alle
sue caviglie...
per fargli il solletico.
Oh beh, con i tempi che
correvano doveva pure ingegnarsi in qualche modo, se voleva uscire viva
da quel
confronto.
Per quanto l’idea
sembrasse
stupida, però, sortì l’effetto sperato.
Colto di sorpresa, l’istinto dell’Uomo
Nero che gli suggeriva di scansarsi a quella sensazione pruriginosa
ebbe la
meglio, dando all’altra tutto il tempo per ritirare
l’ingombrante piumaggio,
voltarsi verso la scrivania e prepararsi a saltare il mobile per
allontanarsi
il prima possibile da lui, così da potersi prendere qualche
metro di vantaggio.
Solo che tutto ciò
avrebbe
avuto effetto se Pitch non avesse fatto caso alla coda di Gwenllian, e
lui
l’aveva notata eccome.
Non gli
avesse mai dato le spalle.
Pochi istanti prima che le
piume svanissero, Black gliele afferrò brutalmente
costringendola a bloccarsi
nel mentre che scavalcava il tavolo, tirandola poi verso sé
e sbattendola di
prepotenza sullo stesso senza risparmiarle un gridolino di dolore per
il colpo
ricevuto; la strega tentò un paio di volte da divincolarsi
da quella presa, ma
ogni suo movimento fu reso inutile quando dalla scrivania fuoriuscirono
gli
stessi dannatissimi tentacoli di prima: la puntarono fin da subito
quasi la
desiderassero, la pretendessero, e glielo dimostrarono decisamente bene.
Fu questione di attimi, e
-prima ancora che Gwen potesse riprendere fiato- si trovò
costretta così, mezza
nuda e piegata ad angolo retto sul bancone, i polsi e le caviglie che
le
pulsavano per la stretta infernale peggio di quanto facesse il suo
volto avvampato,
che l’Uomo Nero si assicurava di tenere ben premuto sul legno
grezzo mentre la
osservava particolarmente compiaciuto.
Le si avvicinò ad un
orecchio
per baciarglielo, scendendo sul collo e finendo sul tatuaggio della
triplice
Luna sulla sua nuca, che morsicò piano per lunghi istanti.
«Qualcuno sembra in
difficoltà, a quanto sto vedendo»
sghignazzò lui mentre posava con decisione le
mani sui fianchi della donna, continuando a scendere lento ma
inesorabile verso
la cintola «io ti avevo avvisato con largo anticipo, di non
sfidare né la mia
pazienza né la mia buona volontà di venire a
parlarti di persona, anziché
accusarti senza prove nelle mani, e tu cosa fai?» come a
seguire un suo ordine,
i tentacoli di sabbia nera che le serravano le caviglie le spalancarono
le
gambe, facendole morire le lamentele in gola «tenti di
ammazzarmi. Anzi: prima
di limonarmi, poi di usarmi per il tuo piacere personale, e infine di
ammazzarmi, per essere più precisi» Pitch le
afferrò le braghe con decisione,
sorridendo.
La baciò di nuovo
esplorandole la schiena con fare premuroso, come ad assaporare i
brividi che le
percorrevano il corpo.
«Non prendiamoci in giro
ancora, Gwen, lo facciamo da anni ormai: sappiamo entrambi cosa
vogliamo
veramente» quando le strappò i pantaloni insieme
agli slip quasi impalpabili con
brutalità inaudita e animalesca, il rumore della stoffa che
si lacerava, si
dilaniava, si smembrava, riempì la stanza come un tuono
«e quel “qualcosa” io
intendo dartelo, su questo puoi contarci» ora fu lui a
togliersi la cintura
lasciando cadere i propri, di pantaloni, a terra.
Il tempo che quelle appendici
nere svanissero lasciandogli campo libero, e subito Pitch la
penetrò con
un’unica spinta vigorosa che lo fece affondare in lei: fu un
gesto veloce,
furioso, a tratti brutale, ma il bisogno l’uno
dell’altra era troppo intenso
perché potesse essere trattenuto, come anche lo era la
necessità di scoparla a
fondo e assaporare quel momento come se fosse stata la loro prima
volta. E con
Gwenllian era sempre la prima volta.
Ed
era sempre perfetta.
A sentirsi riempire rudemente
in un solo colpo, la strega gridò: il dolore che la
investì fu intollerabile,
una violenta scossa che le percorse il corpo dal fondoschiena pulsante
fino
alla testa dove esplose come una lama affilata.
Ma ben presto a quella fitta
che l’aveva lacerata dentro si trasformò in
un’esplosione di ardente passione,
un fiume in piena di puro e tumultuoso piacere che la lasciò
senza fiato,
spingendola ad aggrapparsi con gli artigli al tavolo per non farsi
trascinare
solo gli dei sapevano dove da quella frenesia incontrollabile, ora che
era come
una foglia in balìa del vento.
Avrebbe potuto sottrarsi a
tutto ciò fin dal primissimo istante, Gwenllian Jenkins
Pendragon, del resto i
suoi poteri glielo permettevano: le sarebbe bastato trasformarsi
completamente
come faceva suo padre ai tempi della guerra fra Ingary e il regno
vicino, e
allora dell’Uomo Nero non sarebbe rimasto nulla se non uno
scheletro nel suo
stomaco. Semplice e veloce.
Ma non lo aveva fatto, non ci
aveva pensato nemmeno mezzo secondo fin da quando l’aveva
baciato: voleva che
lui la possedesse, voleva possederlo lei, volerla farsi scopare
finché non
avesse dimenticato come si cammina correttamente.
E non aveva nessun timore ad
ammetterlo.
Con le poche forze che
riuscì
a ritrovare in corpo, Gwen tentò di sollevarsi quel che le
bastava per trovare
il corpo dell’amante che premeva sul proprio in quella
perfetta comunione che
-tempo immemore dopo- era tornata a crearsi, ma Black la
anticipò facendo
scivolare una mano in mezzo alle sue cosce morbide che pareva lo
implorassero
di dare loro attenzione, iniziando a lavorare anche su altre zone
particolarmente sensibili.
Di nuovo in preda ai gemiti,
Gwen non poté fare altro che accasciarsi nuovamente sul
tavolo, a riflettere
sull’amara consapevolezza che quel meraviglioso sesso
selvaggio gli era mancato
quasi quanto l’ossigeno: amava come la faceva sentire
completa, amava come i
suoi respiri in sincronia con i propri le riempivano la mente, amava
come la
possedeva in ogni singola spinta, amava come la facesse gridare in un
misto fra
piacere e dolore, lo amava e basta.
«S-sei un
da-dannato…
b-ba-bastardo» si lasciò scappare sorridendo, il
desiderio pulsante che la
indusse ad abbandonare ogni resistenza rimasta fra loro due, a
rilassarsi più
di quanto stesse già facendo, a protendersi inarcando la
schiena per poterlo
accogliere meglio dentro di sé.
Stringendo i denti, Pitch
spinse più a fondo per accontentarla.
«Ma tu mi ami
comunque»
ridacchiò mentre le sue dita esploravano sapientemente la
femminilità della
donna, saggiandola come se avesse già in mente qualcosa.
«Potresti pure avere
ragione»
convenne la strega, chiudendo gli occhi per assaporare fino in fondo
l’ennesima
sferzata che le dilaniò l’anima, oltre che il
corpo.
L’altro si
fermò improvvisamente
«Potrei avere ragione?»
«È
ciò che ho detto».
«“Potrei”»
sottolineò lui quasi offeso.
«Non credo che sia il
momento
opportuno per stare qui a polemizzare sul mio uso dei tempi
verbali» gli fece
notare indicando con una mano dietro di sé «sai
com’è: mi stai scopando il
culo, io vorrei pure avere un orgasmo, tu anche, per cui-»
«Per cui non intendo
muovermi
di un millimetro, se non sei nemmeno sicura di amarmi».
La giovane Pendragon
restò
interdetta qualche istante, poi scoppiò a ridere
«Avanti! Non puoi essere
serio!»
«Sono
serissimo» concluse
l’Uomo Nero, incrociando le braccia al petto.
Le sembrava di impazzire:
fino a poco prima stava godendo come mai in vita sua, trascinata
dall’ardore
col quale l’altro stava facendo l’amore col suo
corpo e con la sua mente, a
giudicare da come lui stesse sapientemente sfoderando una dopo
l’altra tutte le
sue tecniche per compiacerla nei modi che sapeva le piacevano
maggiormente, si
stava addirittura pentendo di non essersi incontrata con lui tempo
prima, mentre
ora… ora si era tutto fermato, bloccato, svanito.
«…
Pitch» sussurrò la strega
poco dopo, incapace di sopportare oltre la mancanza del corpo del suo
amante a
contatto col proprio.
«Sì? Vuoi
dirmi qualcosa,
forse?»
Lei si strinse nelle spalle,
sospirando «… Avanti, sai benissimo cosa vorrei
dirti, dai…»
Black si finse pensieroso
«Non ne ho la minima idea, spiacente».
«Come sarebbe che
non…?
Pitch, ti prego, ti prego».
«“Ti
prego” di fare cosa, di
preciso?» domandò incuriosito,
facendo scivolare le mani a stringerle i seni con decisione
«Qualcosa tipo questo,
intendi?»
«S-sì, sì»
ansimò speranzosa «questo e-e p-poi…
poi-» non fece in tempo a
finire che lui tornò con più forza e vigore di
prima dentro di lei,
strappandole l’ennesimo di tanti, troppi, gemiti che le
morivano in gola
trasformandosi in gridolini strozzati, in mezze parole, in impalpabili
sospiri
che gridavano solo solo una cosa: che lei, l’Uomo Nero, non
aveva mai smesso di
amarlo.
A Black non serviva
sentirselo dire da lei, non aveva bisogno che la strega gli confermasse
ciò che
lui aveva capito fin dal primo sguardo, si accontentava delle conferme
che le
stava dando il suo corpo abbandonato a quel loro infuocato delirio che
pareva
non avere fine. Lasciò che la passione cancellasse il suo
autocontrollo, che la
parte di se stesso che la desiderava da impazzire prendesse il totale
controllo, che fosse il suo desiderio di possederla notte e giorno a
guidarlo:
non la risparmiò nemmeno un istante nel penetrarla a fondo,
non voleva essere
né gentile né tenero con lei, ben conscio che la
tenerezza e la gentilezza non
erano ciò che Gwenllian stava cercando da lui e che ora
chiedeva, bramava,
aveva bisogno, di ben altro.
E lui glielo diede volentieri,
ciò di cui aveva bisogno.
Riprese ad avanzare una, due,
tre, un numero indefinito di volte, poi si ritrasse nella stessa
maniera fin
quasi a lasciare il suo calore per allungare ogni istante di quella
preziosa
tortura, lei che conficcava le unghie nel legno scarnificandolo e
dilaniandolo
proprio come il piacere stava facendo col suo corpo inerme; con una
mano Pitch le
afferrò i polsi bloccandoglieli dietro la schiena, con
l’altra invece fece lo
stesso con capelli tirandoli a sé e costringendola ad
inarcarsi faticosamente,
mentre con inesorabile lentezza rientrava nel suo corpo fremente per
farle
assaporare ogni centimetro della sua erezione che affondava in lei.
Un grido di piacere si levo
alto dalla gola di Gwen, gemiti pregni di gioia e sollievo che lo
invitavano
chiaramente a proseguire con ardore devastante, urla che
però adesso avevano
una sfumatura diversa da prima, come segnate da un sentimento
dimenticato da
entrambi che ora faceva capolino per rendere quell’amplesso
unico, speciale,
diverso da qualsiasi altro. Quello non era solo sesso, non era solo
fare
l’amore finché i loro corpi fossero stati in grado
di reggere la sfida, non era
nemmeno una sveltina -poco svelta- e via per tornare alle proprie vite.
Era una conseguenza
dell’essersi
ritrovati faccia a faccia, corpo a corpo, era un nuovo inizio, il
ritentare di
costruire qualcosa per la seconda, indimenticabile, volta.
Quella consapevolezza lo
spinse a dare il massimo, come obiettivo ultimo il darle il paradiso in
terra
mentre lui possedeva lei e lei possedeva lui, assecondando i suoi
movimenti con
la stessa forza che l’Uomo Nero stava mettendo nel farle
raggiungere le vette
del piacere rubandole il fiato; le lasciò i polsi, adesso,
preoccupandosi
invece di chinarsi per baciarle la spina dorsale visibile sotto la
pelle
tatuata, come a confortarla dalle scosse che le percorrevano
implacabili il
corpo per guidarla verso il traguardo al quale ambivano entrambi.
«Sei un bastardo, e su
questo
non ho dubbi…» riuscì a mugolare la
strega fra un gemito e l’altro, cercando il
volto dell’altro e tirandolo a sé, per poi
baciarlo «… ma ti amo lo stesso,
sempre, s-semp-» si interruppe improvvisamente gettando
indietro la testa.
In quel preciso istante,
l’unico
suono che riempì la stanza fu il nome di Pitch Black gridato
da Gwenllian nel
pieno di un orgasmo, pure schegge di piacere che le sconquassarono il
corpo mentre
il seme del suo amante si riversava dentro di lei prepotente
svuotandole i
polmoni tutti d’un colpo, un calore intenso che
l’aveva riempita fino a farla
crollare esausta sul tavolo senza più forze in corpo.
L’altro lo
imitò e le si
accasciò sulla schiena per riprendere fiato, il cuore che
galoppava nel petto
talmente veloce che gli pareva di udirlo echeggiare fra le pareti
insieme ai
gemiti convulsi della compagna; passarono interi minuti
così, stesi su quel
pezzo di legno freddo ad attendere che i loro respiri si
normalizzassero e che
i loro corpi smettessero di fremere mossi da chissà quale
forza nascosta.
Nonostante fosse madido di sudore e stanco quanto lei, l’Uomo
Nero trovò comunque
le forze per darle un’infinità di baci sulla nuca
ben sapendo quanto lei li
apprezzasse, godendosi ogni singolo gridolino roco proveniente da
quella gola
che mormorava il suo nome ancora, e ancora e poi di nuovo, come a
volersi
imprimere nella mente la persona che le aveva appena fatto toccare con
mano qualcosa
che temeva di non poter provare mai più, da quando loro due
si erano amaramente
lasciati.
Con una delicatezza che nulla
aveva a che fare con la belva affamata di sesso di qualche istante
prima, Pitch
la sollevò piano prendendola in braccio e poggiandola sul
bancone, per poi
stringerla in un abbraccio pieno di piccoli baci sulla fronte, sul
collo, sulla
punta del naso, mentre lei, tremante, gli si abbandonava addosso
poggiandosi al
suo petto.
A Gwenllian ci volle ancora
un po’ per riprendersi, ma appena lo fece ricambiò
le tenerezze dell’altro
facendosi comparire nuovamente le sue grandi ali piumate sulla schiena,
che
utilizzò subito per avvolgere se stessa e l’amante
in un bozzolo caldo che li
isolava dal mondo, dai vetri rotti, dagli scaffali distrutti, persino
dal
sangue per terra e sui muri.
Non c’era niente oltre a
loro
due, non più, erano soli in mezzo ad una stanza vuota che
stavano riempiendo e
avrebbero riempito in eterno con i loro gemiti, le loro urla, i loro
dannatissimi orgasmi che avrebbero fatto sciogliere anche i ghiacciai,
da
quanto infiammavano il corpo e l’anima di entrambi.
Avvampata ancora da quella
passione, la strega approfitto di quell’abbraccio per
baciargli prima il petto,
poi le spalle, salendo su per il collo e afferrandogli infine il volto
fra le
mani per scambiarsi uno sguardo veloce, fugace, esattamente
com’era stato il
brivido che lui le aveva fatto provare mentre le piume svanivano
lentamente; affondò
le dita lunghe e sottili nei suoi capelli neri spingendolo sempre
più verso di
sé, gli aggredì la bocca in un bacio impetuoso
come a fargli capire che non
scherzava, che lo desiderava ancora, che voleva sentire il suo sapore
mentre le
loro lingue si intrecciavano impazienti.
Gwenllian gli si
strofinò
addosso il corpo nudo per godere ancora una volta di quel contatto
infuocato
fra le loro pelli ancora umide, una mano che afferrava sapientemente
quella di
Pitch posandola senza tanta delicatezza sul suo seno bianco che
brillava delle
piccole gocce di sudore che lo imperlavano, provocando impalpabili
sussulti
quando quest’ultime le sfioravano i capezzoli rosei ormai
completamente in
balìa delle dita dell’Uomo Nero.
Era certa che avrebbe
tranquillamente potuto raggiungere nuovamente l’apoteosi del
piacere
semplicemente così, ma non le bastava. Mentre con una mano
si aggrappava alle
spalle di lui per non crollargli di nuovo ansimante fra le braccia, con
l’altra
gli afferrò senza esitazione il membro ancora turgido
guidandolo fino alla sua
intimità e premendolo sulla stessa, in attesa.
Pitch le lanciò
un’occhiata come
a chiederle conferma, ben sapendo che le cose si stavano facendo
decisamente
più serie di quanto lo fossero state fino ad ora.
Se gli si fosse concessa
anche ora, se avesse deciso di
darle
nuovamente quella parte di sé insieme alla propria fiducia,
allora lui avrebbe
dovuto cambiare una volta per tutte: niente più scenate di
gelosia, niente
dubbi che non stavano né il cielo né in terra e
nemmeno per mare, niente di
niente che potesse portargliela via di nuovo solo e soltanto per colpa
sua e
del suo stramaledetto atteggiamento di possessione.
«Vuoi?» le
domandò infine.
Lei sorrise
«Voglio».
Guardandola negli occhi e
continuando ad accarezzarla piano, Black iniziò ad
affondarle dentro
lentamente, spinta dopo spinta, centimetro dopo centimetro: voleva
essere assolutamente
certo di sentirla rilassata e pronta ad accoglierlo prima di esplorarla
più
profondamente, ora non poteva fare tutto di fretta e furia come prima.
Gwenllian trasalì stringendosi nelle sue braccia quando lo
sentì farsi strada
nel suo ventre riempiendola con delicatezza: abbandonò le
mani prima sulle
spalle e poi sulla schiena a cercare la sua spina dorsale e scendere
giù,
sempre più, fino a conficcargli le unghie nelle natiche per
stringersi a lui e
premere il proprio bacino su quello del suo uomo.
Un ultimo affondo, e questa
volta la riempì completamente. Gwen lanciò un
urlo, che si premurò subito di
soffocare premendo la testa nell’incavo fra il collo e la
spalla dell’altro, il
piacere le esplodeva dentro diramandosi come una fitta lancinante.
Una smorfia di preoccupazione
apparve per qualche istante sul volto dell’Uomo Nero, ma
dovette ricredersi
subito quando lei cercò avidamente la sua bocca per serrarla
in un lungo bacio
di gratitudine: fu lì che comprese che non si sarebbe mai
accontentata, che
voleva di più, che voleva tutto. Con rinnovata passione e
ormai tranquillizzato
dai gemiti strozzati dell’altra, si ritirò un poco
e tornò a penetrarla a fondo
con ritmo sempre crescente, sempre più incalzante e serrato,
il piacere che
pervadeva entrambi in un’ondata calda mentre i loro corpi
fradici si univano in
uno solo, un insieme di muscoli che fremevano e si contorcevano in una
sinfonia
assolutamente perfetta.
Boccheggiando per riempirsi i
polmoni d’aria, la strega si strinse forte alle sue spalle e
gli cinse i bacino
con le gambe in un intimo abbraccio che le permettesse di assecondare
ogni suo
movimento, seguendolo in quella danza sollevando e abbassando
ritmicamente i
fianchi, contraendo e rilassando i muscoli al ritmo del loro amore.
Intrappolato com’era nel
suo
stretto calore, Pitch non poté fare altro che seguire il
desiderio di perdersi
in quel vortice di passione caldo e accogliente tuffandosi in lei
ancora e
ancora, un baratro senza fine che pareva risucchiarlo inesorabilmente
ad ogni
singolo movimento, salvo farlo esplodere in violenti sussulti ogni
volta che sentiva
i muscoli della donna stringersi in una stretta prepotente e al
contempo dolce
intorno al suo sesso, come se lei volesse trattenerlo dentro di
sé il più
possibile.
E probabilmente era proprio
così, a giudicare da come la tensione fra i loro corpi si
stesse
intensificando.
Seguendo un istinto
primitivo, Black le afferrò saldamente i glutei e la
sollevò dal tavolo,
tenendola stretta a sé, mentre Gwenllian -intenzionata ad
assecondarlo- gli si
agganciò ai fianchi stringendo la presa delle proprie mani
dietro il collo
dell’altro; ora non c’era più la
sicurezza della scrivania ad accogliere i loro
corpi durante l’amplesso, ma a nessuno dei due amanti
importava: avrebbero fatto
l’amore così, aggrappati l’uno
all’altra tanto nella carne quanto nell’anima, e
così avrebbero raggiunto le vette del piacere una volta, poi
due, tre, dieci,
cento, altre mille volte, se solo lo avessero voluto.
E loro lo volevano eccome.
La giovane Pendragon gli si
avvinghiò addosso come uno scoiattolo al proprio albero,
offrendogli nuovamente
il seno morbido e inerme da toccare e suggere e tormentare per
l’ennesima volta,
i suoi gemiti e i mugolii che ripagavano Pitch di tutte le attenzioni
che la propria
bocca riservava a quel corpo nudo che pareva essere stato modellato
appositamente per lui, dal modo in cui aderiva perfettamente alle sue
labbra.
Un rivolo di sangue prese a scorrere sulla pelle grigia della schiena
dell’Uomo
Nero, quando le unghie della strega gli si conficcarono nelle carni con
violenza immane mentre lei gemeva disperata preda di un incendio sempre
crescente.
Ma non era un semplice
incendio, quello, era una vera e propria tortura, un circolo vizioso,
un girone
infernale studiato per trascinarla fino al proprio limite di continuo,
quanto
avvertiva l’ingombrante presenza dell’altro dentro
di sé che le squarciava il
ventre partendo da un punto indistinto nelle proprie viscere, e che poi
la
rigettava inesorabilmente indietro quando si sentiva svuotarsi tutta
d’un colpo
per poi venire riempita e completata di nuovo. E si ripeteva di
continuo,
adesso, si ripeteva fino a farla impazzire.
E impazzì davvero,
qualche
istante dopo.
Un’altra spinta profonda,
poi
un grido gutturale si levò alto dai loro corpi ancora uniti,
pulsanti,
intrappolati in un incastro perfetto. L’ennesimo orgasmo di
quella giornata
travolse entrambi con ondate di abbagliante piacere che si riversarono
lente
fra le gambe serrate di Gwenllian, ormai accasciata fra le braccia
dell’amante
stremata e priva di forze, ma pienamente soddisfatta proprio come il
suo partner.
E così l’Uomo
Nero e la
Befana erano andati avanti ancora e ancora e poi di nuovo, a fare
l’amore per
ore ed ore fino a perdere ogni cognizione del tempo e della
realtà che li
circondava, decisi a non fermarsi nemmeno quando i loro corpi
imploravano una
pausa.
Non avrebbero frenato la loro
passione per un paio di crampi, non avrebbe smesso di cercarsi
l’una con
l’altra nemmeno se fosse crollato il mondo: si erano persi
una volta,
permettere che accadesse di nuovo sarebbe stato un crimine contro i
loro stessi
sentimenti appena ritrovati.
Nell’ultimo di quei rari
momenti di pausa post-orgasmo durante quegli amplessi così
intensi, Gwenllian
si arrampicò dall’inguine dell’altro
fino al suo petto, riempiendolo di baci
durante il tragitto e fermandosi quando incontrò le sue
labbra.
Prima di baciarlo, però,
si
scostò lentamente le ciocche di capelli blu e argento e gli
mostrò un punto
dietro l’orecchio destro, quello che lui aveva baciato per
primo quando avevano
iniziato la loro lunga e stancante avventura di quella giornata; il
tempo di
evocare la propria magia, e un piccolo tatuaggio le si
disegnò sulla pelle, un
cuore con una serratura al proprio centro. Senza staccarle lo sguardo
di dosso,
Black le prese delicatamente la mano e se la poggiò sullo
stesso punto, ma
sull’orecchio apposto.
«Rwyf wrth fy modd i chi.
Ti
amo» le sussurrò appena nella sua lingua, prima di
abbandonarsi al pizzicore
provocato dalle dita della compagna che si posavano su di lui.
Gwenllian gli sorrise, la
magia che fluiva lenta disegnando i contorni di una chiave.
«Rwyf wrth fy modd i chi
hefyd, fy nghariad» ricambiò lei baciandolo con
dolcezza.
A sentirsi chiamare
“amore
mio” ci mancò poco che Pitch svenisse: gli era
mancato come ossigeno sentirsi
chiamare così da lei, e ora lo aveva appena fatto, glielo
aveva detto per
davvero! Aveva pronunciato quella parola!
Lacrime di gioia iniziarono a
rigargli il volto.
«Non ti lascio andare mai
più, mai più» le promise affondando la
testa in quella cascata color cioccolato
per non farsi vedere in viso «ti giuro che-»
«Ehi, c’era la
porta aperta.
Anche se ovviamente non avrei bussato in ogni caso, perché
me ne sbatto altamente
se mi vogliate dentro o meno. Comunque mi servirebbe un attimo il
bagno,
mangiare tutte quelle bacche non è stata-… oh».
“Oh”, appunto.
In quel preciso istante,
Emily Jane desiderò con tutta se stessa che lo spettacolo
dinanzi ai suoi occhi
fosse solo l’ennesima delle sue deliranti allucinazioni.
Avrebbe chiuso gli occhi e,
una volta riaperti, non ci sarebbe stato più suo padre
stretto come un polipo a
quella sgualdrina di casa Pendragon, non avrebbe più visto non voleva nemmeno sapere quale genere di liquidi
sparsi per terra
e sul tavolo e da mille altre parti in quella stanza o sul corpo della
strega,
non ci sarebbe nemmeno stata lei immobile sull’uscio del
laboratorio in attesa
che tutto ciò svanisse dalla sua vista, dalla sua mente, dai
suoi ricordi.
Chiuse gli occhi, riaprendoli
poco dopo: era ancora tutto lì.
«Vedo che hai ben
riempito la
calza della Befana» si limitò a commentare Madre
Natura in modo meccanico,
senza provare nulla del pronunciare quelle parole, nemmeno quel
profondo senso
di schifo che la
turbava dentro riusciva
a raggiungerla.
Emily incrociò lo
sguardo
dell’Uomo Nero solo per un secondo, un dannatissimo secondo
che bastò per farle
capire una cosa che si ripromise di ricordare in eterno: che ora il suo
mondo,
il suo “Cwtch”, era fra le braccia di Gwenllian.
E lei, sua figlia, in quel
mondo non era compresa.
Si avvicinò ai due
amanti
ancora impegnati a stringersi l’uno con l’altra,
entrambi troppo occupati ad
amarsi per essere particolarmente turbati dal suo arrivo. Emily Jane
avrebbe
voluto dirgli tante cose, a quell’uomo che per lei era ormai
un completo
estraneo, ma fu solo una frase quella che riuscì a proferire
senza nemmeno
sentire le labbra muoversi.
«… Non hai
saputo proteggere
mamma da viva, e non sai nemmeno preservare il suo ricordo da
morta» disse
rivolta a suo padre indicandogli con un cenno la strega, poi
uscì e scomparve.
Pitch stava per risponderle,
ma rinunciò in partenza preferendo lasciare sua figlia a
sbollire nel proprio
brodo: era stanco di rincorrerla in lungo e in largo per tentare di
costruire
qualcosa con lei, specie perché indietro non riceveva
nemmeno uno straccio di
gratitudine che fosse tale, al diavolo lei ed i suoi squallidi metodi
per farlo
sentire in colpa!
Intenzionato a lasciarsi alle
spalle quell’entrata infelice da parte di sua figlia, Black
riprese a dedicarsi
a Gwen per regalarle l’ennesimo di tanti -ma mai troppi-
orgasmi che
l’avrebbero fatta crollare esattamente come tutti gli altri.
L’afferrò
svelto per i
fianchi e si scambiò con lei la propria posizione,
bloccandola sotto di sé
mentre le baciava la fronte e scendendo sul seno, prendendosi di
rimando una
marea di gridolini entusiasti; ormai pronto per affondarle dentro di
nuovo, si
rese però conto che ai piani bassi
c’era un piccolo problemino.
Letteralmente piccolo.
Inizialmente cercò di
non
dare a vedere la sua espressione sconvolta nel vedere che
l’erezione che aveva
retto fino ad ora era bella che andata, ma Gwenllian ci mise ben poco a
notarlo
da sola sentendo chiaramente la mancanza di qualcosa che premeva sulla
sua
pelle morbida.
La strega sospirò,
nascondendo
alla bene e meglio la seccatura nei confronti della giovane Pitchiner
che era
venuta solo per rovinare la festa ad entrambi.
«Pitch, va bene lo
stesso» lo
rassicurò accarezzandogli il volto, l’ultima cosa
che voleva era che si
sentisse lui colpevole di qualcosa che -a conti fatti- era accaduto da
solo
quando si era fatto cenno alla sua defunta moglie e non prima.
Lui però non era
intenzionato
a darsi per vinto, tutt’altro.
«Dammi un attimo, ci
riesco
eh!»
«Pitch».
«Non ti mando in bianco,
promesso!»
«…
Pitch».
«Aspetta
ancora-»
«Pitch!» tuonò
afferrandogli una mano per bloccarlo dal suo masturbarsi come un
forsennato.
Lui si fermò, sconsolato.
«Vado a preparare una
tisana
per entrambi, è meglio» gli sorrise lei dandogli
dolcemente un bacio sulla
fronte.
Gwenllian si sfilò da
sotto
di lui scivolando fra le coperte come burro, si infilò la
prima camicia che
trovò a portata di mano e si dileguò in cucina,
lasciando lui sul divano a
contemplare il proprio meat popsicle
da stallone che gli giaceva ormai inerme e inutilizzabile in mezzo alle
gambe.
Mille pensieri frullavano
nella mente dell’Uomo Nero guardando quella scena pietosa, ma
il fischio del
bollitore li mise tutti a tacere: meglio prendersi una tisana,
sì.
_______________________________________________________________
Angolino dell’autrice
Buon
Natale a tutti! Lo so, lo so, il capitolo
è
più lungo del meat
popsicle di Pitch :’D
I dovuti avvertimenti sul
probabile rating rosso sfiorato con le scene sessuali qui
l’ho fatto all’inizio
e non mi dilungo oltre. Vorrei cercare di essere regolare e aggiornare
almeno
un capitolo ogni due settimane, e sperando in bene vedrò di
impegnarmi per farlo :3
E quindi niente, ciò che
dovevo
dire l’ho detto, non mi resta che lasciarvi con delle
immagini trovate su
Internet di (partendo da sinistra) Morgana e Merlino sopra, e Circe e
Blair sotto.
Alla prossima! :)
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Capitolo 12 *** A carte scoperte ***
cap12
«Lasciami
spiegare, Ammë!»
«Lau,
gweriadir!» la robusta coda nera e bluastra le si
abbatté violenta
sulla schiena, il rumore delle ossa rotte che echeggiava sordo.
«La tua lingua
ha già sibilato abbastanza menzogne per i miei gusti,
yeldë, ogni tua ulteriore
parola serve solo a confermare ciò di cui sei accusata:
gweriad. Tradimento». Le
gettò vicino un fiore sgualcito, una rosa secca che ben poco
conservava dei
propri petali multicolore «Manke nae lle? Dove lo hai
preso?»
“Phantasia”
avrebbe dovuto rispondere la naga dalle squame color smeraldo,
ma tacque: non aveva il permesso di uscire da Quetzalli, nessuna
Ophidians lo
aveva.
E lo aveva fatto
comunque.
Fin dal primo istante
in cui il suo sinuoso corpo era strisciato fuori dai
confini del luogo in cui era nata, Myricae era stata consapevole che
né la sua
Ammë né la sua Amìl -il nome con il
quale la sua gente identificava le due madri
di ogni Ophidian, rispettivamente quella che aveva dato il proprio seme
e colei
che invece aveva ospitato nel proprio ventre il frutto della loro
unione-
avrebbero approvato, ma il richiamo della curiosità era
stato troppo forte:
c’era così tanto da esplorare fuori dalle mura
boschive di quel regno, c’era un
intero mondo che aspettava solo lei per schiudersi dinanzi al suo
sguardo
emozionato!
Era sembrata una
bambina, la prima volta in cui aveva osservato le
bellezze fuori da casa sua, una bambina con gli occhi spalancati di chi
scopre
la freschezza dell’erba morbida anziché le fredde
pietra che levigano le squame,
i colori di un tramonto diverso da quelli visibili fra gli immensi
vulcani che
circondavano Quetzalli, anche solo il vedere un fiore prima sconosciuto
l’aveva
fatta squittire dalla gioia!
L’aveva
colta, quella rosa dai vividi colori incredibilmente simili a quelli
di un arcobaleno, per poi conservarla gelosamente nella sua stanza come
un
ricordo indelebile di quell’esperienza, un monito a
promettersi “tornerò”.
Ma una delle sue
madri, la sua Ammë, l’aveva trovata: le aveva
affibbiato
la definizione di gweriadir, “traditrice”, e aveva
tutta l’intenzione di giustiziarla
sulla pubblica piazza.
Precisamente come si
stava accingendo a fare ora.
Si sentì
sollevare per il collo, gli artigli che lo stringevano come se
potessero spezzarlo da un momento all’altro. E potevano farlo
eccome.
«Parla,
yeldë!» le gridò, un’altra
frustata le arrivò dritta alla nuca, il
sangue che colava dalla sua chioma serpentina che si contorceva
agonizzante. «Fallo
prima che estorca la confessione direttamente dal tuo petto insieme al
tuo cuore
da gweriadir! Confessa, oppure-»
Myricae si svegliò di
colpo.
Alzò di scatto la testa
dal letto guardandosi intorno
sospettosa, i muscoli che già fremevano e una mano
sull’elsa della spada
poggiata al muro: era stato solo un sogno, per fortuna.
O meglio, un brutto ricordo, ma lo
scacciò subito
dalla mente.
Erano già due giorni che
vegliava la Regina di
Phantasia in quel suo stato simil comatoso, si era ripromessa che non
avrebbe
chiuso occhio nemmeno un istante, ma -complici le medicazioni e gli
intrugli
per curare la sua ferita, oltre che la stanchezza dopo il feroce
confronto con
Phobos- alla fine la sonnolenza aveva avuto la meglio, e
l’Ophidian si era
lasciata dolcemente cullare dalle braccia di Morfeo.
Non aveva idea di quanto avesse
dormito, forse qualche
decina di minuti o qualche ora o addirittura un giorno intero, ma una
certezza
l’aveva eccome: mai si sarebbe perdonata se fosse accaduto
qualcosa ad Harmonia
mentre lei era impegnata a sonnecchiare. Mai.
Il suo nome le era
risuonò nella mente: Harmonia.
Era stata talmente presa dal suo
brusco risveglio dopo
quell’incubo da non aver fatto caso al vuoto che aveva
improvvisamente sentito
sotto di sé, quando si era svegliata, rendendosi conto solo
adesso che non
c’erano più le gambe della compagna a sostenerle
il suo corpo stanco e
dormiente. Presa dal panico, si rizzò sulla coda
già pronta ad affrontare il
peggio, ma per sua fortuna Myricae venne presto rassicurata: gettando
distrattamente lo sguardo verso la finestra, al limite del suo campo
visivo
apparve anche l’altra donna, seduta ai bordi del letto con
quella sua cascata
di capelli multicolore abbandonata sulle coperte disfate, la magia che
fluiva
lentamente davanti a sé in una nebbia rosata.
Avvicinandosi cauta alle sue
spalle, Myricae iniziò a
distinguere un mormorio incomprensibile provenire dalle sue labbra
color pesca appena
dischiuse, movimenti lenti che accompagnavano ritmicamente il suono
appena
accennato dello stesso carillon che -due giorni prima- lei stessa aveva
azionato.
«“Hey there
little Sunshine, how do you do?”» canticchiò piano la
regina, quasi sussurrando.
Inizialmente l’altra
pensò che stesse parlando con lei,
del resto quella le era sembrata una domanda, ma vedendo come
quell’impercettibile nebbiolina si stesse aggregando in vere
e proprie forme
decise di tacere e stare ad assistere.
Avrebbe potuto semplicemente
avvicinarsi alla sua
donna, abbracciarla e felicitarsi con lei perché finalmente
si era ripresa, ma
dentro di sé Myricae sentì qualcosa che gli
diceva di dover osservare e
nient’altro: non doveva avvicinarsi, non doveva toccarla, non
doveva nemmeno
consolarla, semplicemente il suo compito era limitarsi a guardare e
ascoltare
in silenzio.
E decise di seguire
quell’istinto.
«“There’s
a great kingdom, waiting for you”» continuò
la sovrana alzando una mano.
La magia prese prima le sembianze
di una sfera, poi i
contorni che pian piano andarono delineandosi disegnando pianure e
montagne e
mari e quant’altro: quella palla somigliava ad un pianeta,
adesso, un pianeta rigoglioso
e fertile popolato da una miriade di punti luminosi.
«“as
you lay your tiny head, dream of the world”».
Tre di quei puntini presero forma,
tre figure dalle
fattezze umane che emersero dalla nebbia ora dorata. Myricae si
avvicinò per
guardare meglio, notando come la parte inferiore dei loro corpi non
fosse poi
tanto umana, ma piuttosto equina come la sua regina; erano una coppia,
forse
marito e moglie, e tenevano un fagotto fra le mani, probabilmente il
loro
neonato.
«“they’re
gonna love you”».
Altre figure -tante, troppe, per i
suoi modesti gusti
già sufficientemente confusi- presero forma, seppure in modo
meno definito di
quelle precedenti, ed erano tutte intorno a quella coppia, occupate ad
osservare quel piccolo corno dorato che spuntava dalle coperte.
«“their
sun
will return”».
Un flash bianco acceso
riempì la stanza, costringendo
l’Ophidian a coprirsi gli occhi con le mani per non rimanere
accecata.
Quando li riaprì, le
sembrò quasi di trovarsi da
tutt’altra parte: era consapevole che fosse tutta opera della
sovrana della
fantasia, ma la sua magia riusciva a rendere il paesaggio intorno ad
entrambe
così realistico che -per qualche istante- la naga aveva
creduto veramente che si fossero
teletrasportate
chissà dove.
Myricae trasalì.
Un pizzicore alla coda la fece
girare, gelandole il
sangue nelle vene come poche volte prima era accaduto in vita sua. Se
prima
quelli erano solo ammassi di nebbia, ora poteva chiaramente distinguere
come i
contorni delle stesse si fossero fatti incredibilmente nitidi e solidi,
scolpendo decine e decine, forse centinaia, volti di uomini e donne,
bambini e adulti,
comuni persone insomma. Tranne che per un piccolo dettaglio: il corno
sulla
loro fronte.
“Starequus”,
pensò la naga, sentendo lo stomaco farsi
piccolo piccolo.
Allungò una mano per
toccare una di quelle sagome
umanoidi, passandole attraverso: illusioni, ologrammi, forse ricordi;
qualsiasi
cosa fossero, però, di una cosa la serpentessa era
assolutamente certa: non
erano reali. Non più, almeno.
«“Though
the shadows may close in, you will stay
strong”».
Appena la regina
pronunciò quelle parole, nella stanza
tutto si fece più cupo, persino il Sole fuori dalla finestra
sembrò aver deciso
di nascondersi fra le nubi di fretta e furia.
Non si trattava certo di una
novità che Phantasia
reagisse allo stato d’animo di Harmonia, del resto era sempre
stata lei ad
averla creata, ma un brivido scosse la naga appena alzò la
testa; un’ombra
scura incombeva sulle loro teste, un’enorme nube di pura
oscurità che andava
avvolgendo il paesaggio facendolo morire al solo tocco. Quei tentacoli
neri parevano
risucchiare l’energia vitale da qualsiasi cosa capitasse loro
a tiro: dalle
piante ora secche, dal suolo ora arido, dalle persone ora ridotte a
scheletri
pietrificati nella posizione in cui stavano scappando
dall’Apocalisse.
Le sembrò di distinguere
due figure che ancora si
muovevano, in mezzo a quell’inferno, ma non ebbe il tempo di
metterle a fuoco
per bene.
«“your
little spark of love will cast out the dark”».
Si era fatto tutto cupo,
sì, ma solo per rischiararsi
poco dopo.
Un’esplosione di luce
divorò il macabro spettacolo che
la magia di Harmonia stava offrendo alla naga, facendole tirare un
profondo sospiro
di sollievo, non tanto per sé quanto per l’altra
che continuava a mantenere lo
sguardo basso e sconsolato verso quell’aggeggio infernale.
Lanciò
un’occhiata al carillon: quanto diavolo ci
stava mettendo quella dannatissima melodia ad esaurirsi? Per quanto
tempo
sarebbe andato avanti a torturare la sua regina? Per quanto?!!
«“Know that
you’re not alone, the moon’s at your
side”».
La voce di
quest’ultima si incrinò improvvisamente, come se
le si stesse strozzando in
gola.
In allarme, la
naga le si avvicinò ancora un poco e le si sedette vicino,
sempre senza
sfiorarla: se proprio non poteva disturbarla in un momento tanto
delicato,
allora avrebbe fatto di tutto per farle sentire la propria presenza.
«Ti ho promesso
che mai, mai, ti avrei lasciata da
sola, e intendo mantenere quella promessa» le
sussurrò piano, nel cuore solo la
speranza che quelle parole non fossero andate al vento come tutto
pareva stare
facendo. Il peggio per la centauressa avrebbero dovuto essere quei due
giorni
di stato catatonico, accidenti, non la ripresa!
Myricae non
riusciva ancora a distinguere per bene il paesaggio, c’era un
vero e proprio
polverone che le impediva di vedere oltre il proprio naso, motivo per
cui
iniziò a guardarsi distrattamente intorno girandosi e
rigirandosi.
E prendendosi qualcosa
di molto simile ad un infarto.
Due figure le
facevano muro, una donna ed una bambina che si tenevano per mano; la
prima
guardava la seconda con fare materno, con quello sguardo da
“va tutto bene” che
solo una madre può riuscire ad esibire in tutta calma quando
la situazione
sembra ed è disperata
pur di
rassicurare il proprio figlio, o -in quel caso- la propria figlia.
La donna la
stringeva a sé avvolgendola con una delle due imponenti ali
che spuntavano
sulla sua schiena, un luogo sicuro in cui la piccola si stava
rifugiando
nascondendovisi dentro, premendo il volto sconvolto sulle morbide piume
che la
stavano accogliendo mentre si aggrappava agli abiti di quella che
doveva essere
sua madre. Quest’ultima pareva molto tranquilla rispetto alla
figlia, ma si
vedeva da come non staccava gli occhi rosa pastello da lei che fosse
tremendamente preoccupata, come temesse per la vita di entrambe.
La strinse a sé
mettendole una mano sulla testa e prendendo ad accarezzarla, e fu
allora che
Myricae riuscì finalmente a vedere quella bambina.
Il suo cuore
perse un paio di battiti: nessuno che non fosse uno Starequus poteva
avere un
corno magico in mezzo alla propria fronte, e quei capelli verde acqua
che
sfumavano prima in azzurro poi viola e infine rosa non li aveva certo
chiunque.
Anzi, non li aveva proprio nessuno.
Tranne che
Harmonia.
«“together
you’ll cleanse the world… you’ll always
be my pride”».
La regina si fermò
improvvisamente, il petto che le si alzava e si abbassava velocemente e
la
bocca improvvisamente fattasi secca e al contempo appiccicosa.
Forse la
sovrana di Phantasia non parlava, ma dentro di sé
sentì un brivido che le fece
capire che non sarebbe mai riuscita ad arrivare al termine di quella
canzone
che le riempiva le orecchie, la mente, l’anima, che la stava
trascinando in
quell’agonia senza che potesse impedire a se stessa di dare
corda a tanto,
troppo, dolore.
Quelle parole,
quel “sarai sempre il mio orgoglio” le martellavano
nella testa prepotenti,
violente, incessanti, esattamente come faceva il ricordo di chi le
pronunciò a
suo tempo.
Ed Harmonia era
sola ad affrontare quella battaglia contro i propri ricordi, adesso che
non
riusciva a reagire nemmeno alla presenza della donna che amva: era da
sola non
contro il mondo, non contro la galassia, nemmeno contro
l’universo. Era sola contro
se stessa, se stessa e la mole immensa di rimpianti e rimorsi che si
trascinava
dietro da millenni.
Il che era pure
peggio del combattere l’universo intero, a dirla tutta.
«“I
may not always be here to guide your
way”…».
Passarono
minuti che parvero eterni prima che Harmonia stessa che tornasse a
canticchiare
qualcosa, e la magia -purtroppo- si premurò di seguire
quell’impronta triste che
aveva assunto la sua voce.
Per l’ennesima
volta, quel paesaggio disastrato si ripresentò a Myricae,
facendole lo stesso
macabro effetto di quando lo aveva visto poco prima; questa volta,
però, non
c’erano le miriadi di persone ormai decedute e pietrificate
come in precedenza
e nemmeno le figure di prima, si era tutto semplicemente ridotto ad una
landa
grigiastra desolata senza più nemmeno una roccia ad abitarla.
Non c’era
niente e nessuno, tranne che dei bozzi indistinti, forse qualcuno
chinato.
Strinse gli
occhi per aguzzare la vista: di nuovo, scorse una donna con due immense
ali
coperte di cenere e polvere -il che rendeva impossibile distinguerne il
colore
preciso, motivo per cui non ebbe la certezza che fosse la stessa di
prima- percorse
da ferite profonde, così profonde da farle grottescamente
sanguinare in una
pozza che le inzuppava tanto gli abiti stracciati quanto le soffici
piume;
sulla sommità delle ali stesse, delle pesanti catene
spezzate squarciavano la
carne esposta e carbonizzata.
Non senza poca
fatica, l’Ophidian ricacciò indietro un conato di
vomito, dall’intensità con la
quale l’odore di grasso bruciato le riempì le
narici.
«…
“but I know you’ll be
fine”…».
Harmonia invece
non pareva disturbata per nulla da quella scena.
E, se lo era,
non lo dava affatto a vedere.
La voce le si
fece sempre più tremolante, al punto che in certi momenti
pareva non fosse
nemmeno più in grado di respirare, ma fintanto che il
carillon suonava non
sarebbe stata certo lei a cedere per prima schiacciate dalle emozioni.
Ma stava cedendo,
glielo si leggeva in faccia, glielo si vedeva fin troppo bene in quei
suoi
occhi rosa e azzurro ora ridotti a due fessure bagnate da delle lacrime
che non
voleva, non poteva, versare; era la
regina, la sovrana di Phantasia, la madre di un intero popolo che
contava su di
lei per non cadere nuovamente nell’oscurità che
aveva avvolto quel pianeta
sette secoli or sono, l’ultima volta, ma che aveva conosciuto
il Male da prima,
molto prima.
Non aveva mai
potuto farsi vedere debole, non poteva permetterselo: una regnante non
si deve
far vedere debole, è una regola non scritta che chiunque
segga su di un trono
conosce fin troppo bene, una legge che aveva sentito pesarle sulle
spalle fin
dal primo istante in cui la corona di Exodus si era posata sul suo
capo,
migliaia e migliaia di anni fa.
Tuttavia, una
sensazione di calore la raggiunse.
Non abbassò lo
sguardo, sempre fisso sul carillon, ma non ne aveva bisogno per capire
da cosa
-o meglio, chi- provenisse.
Convenendo che
potessero bellamente andare a farsi fottere i
“però”, i “ma” e
pure gli “e se”,
Myricae le prese una mano, stringendola dolcemente.
«Ti sei trovata
una fidanzata tremendamente testarda, dovresti ormai saperlo»
le sorrise
ridendo la naga, accarezzandole piano il dorso della mano.
“E non potrei né vorrei desiderare nessuno
diverso da
te”, avrebbe voluto risponderle Harmonia.
«…
“ruling the day”».
Ma le parole
che le uscirono dalla bocca furono ben altre, purtroppo per lei.
E facevano un
male tremendo.
«“Dance
among the clouds, my dear… bring in the
light”».
Come anche
faceva un male tremendo all’Ophidian dover assistere a quella
scena a dir poco
raccapricciante, dover vedere lo strazio di una madre che piangeva sul
corpo
esanime della propria e unica figlia, dover rivivere e rivedere e
riprovare quelli
che erano stati gli ultimi minuti di coscienza della Regina della
Fantasia
prima che diventasse… la Regina della Fantasia, appunto,
prima che Harmonia
diventasse tutto ciò che era ora e anche di più.
Era stata la
principessa degli Starequus del pianeta Exodus, Harmonia, lì
era nata e lì era
morta, e sempre lì aveva ricostruito il regno che il
“Male piovuto dal cielo”
-lo “kælikantzoroi th’asteria”,
come lo chiamò ai tempi la sua gente- aveva
raso al suolo, lasciandole come unica eredità dei suoi
defunti genitori solo
una landa nera senza vita.
Lei la luce
l’aveva riportata, in quel luogo di sterilità e
speranze infrante, aveva
mantenuto la silenziosa promessa fatta a sua madre quando
quest’ultima,
cantando, aveva chiesto al suo corpo martoriato di esaudire quel suo
desiderio,
il suo ultimo desiderio.
E la centauressa
l’aveva esaudito, lo aveva fatto per davvero.
Ma sua madre
non c’era stata per vederlo, non c’era stato
nessuno: quel giorno gli Starequus
si erano estinti, e mai più avevano posato i loro zoccoli
sul suolo di Exodus.
«“be good for
me… my dear… as my soul
alights”»
Tranne lei, l’ultima
della sua razza.
“Sindrome del
sopravissuto”, la chiamavano, e Harmonia
aveva fatto l’abitudine pure a quella: lei era viva e gli
altri erano tutti
morti, lei era stata scelta ed il resto della sua gente no, lei era
nell’aldiqua
e qualsiasi altro Starequus era nell’aldilà.
Semplice e chiaro, rapido e
indolore.
In teoria.
In pratica, invece, una
giovanissima Regina di
Phantasia aveva passato anni, decenni, forse secoli, a chiedersi
perché lei sì
e gli altri no. Ai tempi sapeva già bene di non aver certo
chiesto lei una
seconda possibilità, era perfettamente consapevole di non
essere stata la
responsabile dell’estinzione dei suoi simili, era addirittura
cosciente del
fatto che -com’era capitato a lei- tutto ciò
avrebbe potuto capitare a
qualsiasi altra persona.
Ma si era sentita in colpa
comunque, Harmonia,
esattamente come stava succedendo con Phobos adesso:
non era stata colpa sua, non avrebbe potuto fare nulla di
più per salvarlo da Apophis, se lei fosse intervenuta ci
sarebbe stato solo un
morto in più, lo sapeva benissimo
… ma
non riusciva a perdonarselo comunque.
Non aveva potuto salutare lui, come
non aveva potuto salutare
suo padre e sua madre; la sua vita era quello, un rincorrersi di sensi
di colpa
per saluti mancati, ecco cosa.
Quella consapevolezza che le si
agitava nella mente fu
l’ultimo passo, prima che la regina crollasse in un pianto
tanto doloroso
quanto silenzioso: aveva un disperato bisogno di farlo, non poteva
trattenerlo
ancora, non voleva farlo.
«“Little
Sunshine… little Sunshine… let your radiance
show…»
le
parole faticarono a uscirle dalla bocca, fra un singhiozzo e
l’altro, fra una lacrima
che le bruciava il volto come un tizzone di carbone ardente e
l’altra
«…
little Sunshine… little Sunshine…»
ma
Harmonia continuò
a cantare, nonostante sentisse il proprio cuore spaccarsi, ridursi in
cocci e
frammenti e polvere, nonostante la sua voce si riducesse sempre
più ad un
sussurro reso roco dalla gola che le bruciava per quel pianto
trattenuto troppo
a lungo «…
let your kind heart-»
«Glow»,
concluse
Myricae, chiudendo il coperchio
del carillon; delicatamente, glielo sfilò dalle mani e lo
poggiò su di un
mobile lì vicino.
“E speriamo di
non averne bisogno ancora per molto tempo”, pensò
nel mentre.
L’altra non si
era mossa di un millimetro, però, pareva quasi che nemmeno
se ne fosse accorta
a giudicare dallo sguardo sempre fisso dove prima c’era il
prezioso oggetto, continuava
persino a tenere le mani come se lo stesse ancora stringendo fra le
dita.
Harmonia si
guardò i palmi rivolgendoli verso sé, dopo
interminabili minuti di silenzio
assoluto, gli occhi che li osservavano come a perdervisi dentro.
«Ci sono volte
in cui ripenso al mio passato e mi pare di sbagliare qualcosa, di
dimenticare
un dettaglio o due, di non riuscire a ricordare chiaramente come vorrei
e dovrei
delle persone o delle cose o degli eventi
particolari…» mormorò spostando lo
sguardo da una mano all’altra.
«Forse è solo
una mia impressione, forse è solo colpa dello stress, o
forse è perché ho
seimila anni e sono tremendamente vecchia… però a
pensarci bene sei millenni di
vita non sono niente per un immortale, sono solo una pagina in un libro
nel
quale non troverai mai scritta la parola “fine”,
quindi mi sa che l’ultima
opzione va scartata» rise lei, una risata che però
di divertente non aveva
proprio nulla.
Strinse i
pugni.
«Ho paura»
confessò
infine, un misto di tristezza e vergogna colorò le sue
guance di un timido
alone rosato «ho paura di dimenticare il volto di mia madre,
e di mio padre, e
delle persone alle quali volevo più bene; ho paura di
dimenticarmi la sua voce
mentre mi cantava quella canzone, tanto da viva quanto da morta; ho
tanta paura
di svegliarmi pensando a lei e- e-»
Esausta, Harmonia
si gettò fra le braccia della compagna, affondando la testa
nel suo petto come
a cercare un rifugio sicuro.
«E di non
ricordarmela, Myricae. Sono terrorizzata all’idea di
dimenticare tutto, tutto, di
scordarmi chi ero prima di...
di… di questo, prima del diventare l’ultima
Starequus vivente…». Alzando leggermente
il capo si indicò la fronte; fra i capelli ora spuntava il
corno tipico della
sua razza, un lungo corno decisamente più curvo e
attorcigliato su se stesso di
quanto lo fossero solitamente quelli degli Starequus più
vecchi. Riprese fiato «Per
cui ecco, ogni volta che mi pare di perdere colpi in qualche modo
eccomi qui, a
temere di non ricordare più nulla da un momento
all’altro, ad avere il terrore
che mi accada ciò che è accaduto a-»
L’Ophidian le
pose un dito sulle labbra, impedendole di finire la frase.
«Non ti
accadrà
mai ciò che è accaduto a Phobos, mela
en’ coiamin, non lo permetterò mai, mai»
la rassicurò mettendole le mani
sulle spalle, facendogliele poi scivolare fino alle guance
«ciò che è successo a
lui è dovuto solo e soltanto ad Apophis, non è
certo un’amnesia dettata da
cause naturali, né tantomeno è stata colpa tua:
non potevi fare altro,
Harmonia, e -considerando il tremendo prezzo che hai pagato e continui
a pagare-
ciò che hai fatto è stato già troppo.
Per cui» le asciugò le lacrime, attenta a
non farle male mentre le spesse e affilate squame sfioravano quella sua
pelle
morbida «basta pianti, almeno per oggi. Promesso?»
L’altra
la guardò qualche momento, esitante.
«Promesso»
rispose infine accoccolandosi a Myricae «… e
scusami, scusami tanto».
«Scusarti? E di
cosa?»
Harmonia parve
in difficoltà, le mani che iniziarono a sudarle freddo.
«Di…
di… di
averti fatto vedere quelle… cose.
Cose brutte, terribili, che credevo di aver superato tanto tempo fa,
che dovevo aver superato tanto
tempo fa, e
invece…» si interruppe qualche istante, quelli che
le bastarono per ingoiare
l’ennesimo sospiro angosciato. «Non volevo,
Myricae, te lo giuro! È solo che…
che… non so neanche io perché l’ho
fatto, a dirla tutta, non credo nemmeno di
essere stata completamente cosciente, nel mentre. Sentivo tutto, vedevo
tutto, rivivevo tutto, ma una parte
di me era
come-»
«Bloccata
laggiù, anziché quaggiù»
completò la frase la naga.
Lei la guardò
sorpresa.
«Precisamente
quello. Ma tu come- oh, che domande faccio: hai visto tutto, ovvio che
tu lo
sappia» la regina si diede un colpetto sulla testa
«… mi dispiace, comunque: ti
avevo già parlato di cosa successe alla mia gente, non era
niente di nuovo per
te, ma fra il sentirlo dire ed il viverlo c’è una
bella differenza. Una grossa
differenza. Un’immane differenza…» prese
forza, sospirando nuovamente «ti giuro
che non avrei mai voluto che tu-»
Myricae le diede
un bacio, intuendo bene che le proprie labbra fossero in grado di
esprimersi ad
Harmonia meglio di quanto potesse fare lei a voce.
«Va tutto bene,
e vai benissimo anche tu» la rassicurò staccandosi
piano da lei, assaporando
fino in fondo il dolce profumo fruttato della sua pelle. «Ti
ho vista ridotta
peggio di così svariate volte, eppure ti amo ancora, e ti
amerò sempre, a’maelamin.
Sempre, non dubitarne mai»
poggiò la
propria fronte a quella della sua donna «siamo uscite
dall’inferno una volta,
se sarà necessario lo faremo di nuovo. E lo faremo insieme,
come sempre».
«Come sempre»
ripeté la regina, dandole un piccolo bacio sulla fronte
mentre accennava un
timido sorriso.
E questa volta
era un sorriso vero, la naga
riuscì a
distinguerlo senza problemi, un sorriso che -dopo tante lacrime e
dolore- stava
regalando proprio a lei, a lei e nessun’altra, un silenzioso
“grazie” che
valeva tutti gli sforzi fatti fino a quel momento, e che sarebbe valsi
tutti
quelli futuri.
La guardò
qualche istante, per assicurarsi di nuovo che si stesse riprendendo
veramente e
che non fosse solo un’apparente ripresa temporanea.
«Va un po’
meglio, adesso?» le chiese.
Quando la sua
compagna annuì, lei tirò un sospiro di sollievo.
«Bene così,
allora, non avrei sopportato un giorno di più a saperti
incosciente stesa su
questo letto senza poter fare nulla per aiutarti, non ero nemmeno
sicura che mi
sentissi o che…» fece una pausa, deglutendo
«… o che ti saresti mai svegliata.
Ecco».
Sentendo quelle
parole, Harmonia strabuzzò gli occhi dalla sorpresa: per
quanto tempo era
rimasta in stato comatoso, se Myricae -che era solita non farsi piegare
nemmeno
dalle situazioni più disparate e disperate- aveva avuto così tanta paura di perderla?
L’ultima volta in cui l’aveva vista
ridotta in quelle condizioni, in cui le aveva sentito dire di aver
temuto che
non si svegliasse più, era stato quando… no, no,
meglio non riportare a galla
quei ricordi: “ciò che accade sull’orlo
dell’Abisso deve solo caderci dentro e
non tornare mai più in superficie”, si erano dette
di comune accordo quel
giorno, e quella spiacevole vicenda era fra le cose che
nell’Abisso erano state
gettate e che lì dovevano rimanere.
Un po’ come Phobos,
insomma.
«Due giorni»
anticipò la sua domanda l’Ophidian, intuendo
già su cosa si stesse interrogando
la sua regina «due giorni o qualcosina in meno, forse: sono
sempre stata a
vegliarti, puoi chiederlo anche a Naevia e Antares e Alice, ma
purtroppo mi
sono addormentata per non so quanto e-»
«E ti ringrazio
per essermi stata vicino» le sussurrò dolcemente,
abbracciandola «ti amo, ti
amo più di quanto il cielo ami le proprie stelle e di quanto
gli alberi amino
le proprie foglie: ti amo molto più di così,
ricordatelo sempre, e ricordati
che senza di te probabilmente sarebbe durata ben più di due
giorni…» “come
abbiamo già sperimentato”, pensò, ma
decise di tenerselo per sé così da non
rovinare quel loro intimo momento «per cui… grazie, grazie» concluse riempiendo il
collo della naga di baci, i
serpenti sul suo capo che sibilavano entusiasti facendo vibrare le loro
piccole
lingue come cani che fanno la festa al proprio padrone.
“Due giorni…
due giorni solo per averlo rivisto… cosa accadrà
quando dovrò combatterlo? Come
farò a controllarmi? Come?”,
si
domandò mentalmente la centauressa.
Il sussulto
delle braccia forti dell’Ophidian che se la mettevano in
braccio interruppe quel
suo pensiero sul nascere, evitandole seghe mentali talmente profonde
che probabilmente
per uscirne le sarebbe servita una settimana intera, altro che un paio
di
giornate!
No, ora non era
il momento di pensare al futuro: troppe volte lo aveva fatto, salvo
rendersi
conto subito dopo che fare progetti era totalmente inutile -specie
quando
l’oggetto di tali progetti è un disgraziato
psicolabile con cenni di
schizofrenia e misteriose voci nella testa-, se non addirittura dannoso
a lungo
termine.
Avrebbe atteso,
ecco cos’avrebbe fatto: lo scontro con Phobos sarebbe
arrivato comunque, prima
o poi, era solo questione di pazientare e sperare per il meglio.
Guardò Myricae:
era la sua roccia, la sua compagna, il suo porto sicuro, il faro che si
era
fatto breccia nelle tenebre di quei venticinque dannati anni passati a
piangere
un uomo che non era più il suo uomo, lanciandole un
salvagente che aveva
pazientemente trainato fino a riva attraversando un oceano di lacrime
pieno di
ansie e paure e sensi di colpa, facendole scoprire da un momento
all’altro che l’amore
lo poteva trovare tanto in una donna che le era sempre stata vicino
quando in
un uomo che, ormai, non era che l’ombra di se stesso.
Harmonia amava Myricae,
non più Phobos, e se avesse avuto qualche altro attimo di
cedimento, se avesse
dubitato di nuovo di non essere in grado di guardarlo in faccia e
affrontarlo,
allora avrebbe pensato di dovercela fare non per lei, nemmeno per la
naga, ma
per loro, per la loro relazione che mai, mai,
avrebbe permesso venisse danneggiata da un fantasma.
Mai.
«Come lo hai
trovato?»
«“Ubriaco da
fare schifo”, la definizione esatta è
questa» rispose l’Ophidian, sorseggiando
calma dalla propria tazza.
Era decisamente
più rilassate e tranquille entrambe, ora, e l’idea
di Harmonia di far comparire
una teiera di tè al gelsomino per staccare un po’
coronava perfettamente quel
loro quadretto di pace dopo la tempesta.
«Ubriaco,
dici?» commentò sorpresa.
«Beh, hai visto
anche tu l’entrata trionfale che ha fatto quel disgraziato.
Nemmeno gli
adolescenti alle feste delle confraternite puzzano tanto di pessimi
alcolici, patatine
scadute e sbornie tristi» ridacchiò la naga,
dandosi un paio di colpi al petto
quando il liquido le andò di traverso.
«Dì, piccola, davvero in seimila anni
hai visto qualcosa di peggio di un ubriaco che sfonda il soffitto, si
ferisce
con i vetri del suddetto soffitto appena sfondato, barcolla a falce
spiegata
balbettando e sbiascicando minacce incomprensibili e infine, nemmeno
viene
riconosciuto?»
Harmonia ci
pensò qualche istante, poi esplose in una fragorosa risata.
«Direi di no,
assolutamente» convenne, facendosi pensierosa
«… per quanto c’è da dire che
-ubriaco o meno- è riuscito comunque a mettermi in
ginocchio, e non certo per
una decina di minuti». Posò la tazza, osservando i
cerchi concentrici come
ipnotizzata «sapevo di dovermi aspettare che prima o poi
Phobos venisse a farmi
visita di persona, una volta evaso dall’Abisso, ma non
immaginavo che avrei
reagito in quel modo: sono sorpresa, e purtroppo non lo sono
piacevolmente,
Myricae».
L’Ophidian mise
la propria mano sulla sua, accarezzandogliela.
«Mela en’
coiamin, stai a sentire una naga ermafrodita ninfomane: hai rivisto
dopo sette
secoli un uomo che ti ha tormentato con il proprio fantasma per
altrettanto
tempo, sei davvero così
tanto
sorpresa da te stessa e dalla tua reazione?»
«… No, no, non
tanto quanto dovrei… e, a dirla tutta, forse ho peccato io
d’ingenuità: un
conto è saperlo in giro per Phantasia, un altro trovarselo
davanti» asserì
decisa alzando la testa, incontrando lo sguardo della compagna
«anche se
ammetto che mi sfugge come siamo passati dall’una
all’altra cosa così
velocemente, per non parlare di come sia uscito dall’Abisso:
ricordi le magie
che lo sigillavano?»
Myricae annuì.
«Mi ci volle
una mole immane di potere per creare e sigillare quella ferita sulla
pelle di
questo pianeta -del mio pianeta- e
rinchiuderci dentro Phobos, nonostante lo abbia fatto a
malincuore» disse
posando la mano libera sopra la teiera aperta.
«Attinsi ad
incantesimi e conoscenze antichi quanto la mia razza per assicurarmi
che
l’Abisso fosse a prova di evasione, persino per creature del
calibro di quel
bastardo dell’Uomo nella Luna sarebbe stato ben difficile
uscirne»
improvvisamente, il tè si agglomerò a formare una
sfera perfetta. Il suo corno
si illuminò di un bagliore argenteo, e allora un profondo e
lungo solco rosso
brillante apparve sulla superficie.
«Apposi
addirittura il sigillo della Tha’nera Yuvenciæl ,
la Dea Senza Sudditi di
Exodus» una polvere dorata riempì quello squarcio,
sanando pian piano quelle
venature che stavano spargendosi all’interno della sfera semi
trasparente «per
rendere inefficace qualsiasi altro sortilegio o maledizione che potesse
compromettere l’efficacia di un lavoro tanto
minuzioso!»
Sbatté un pugno
sul tavolo, facendo collassare quel globo di tè al gelsomino
nuovamente
all’interno della sua teiera, senza il minimo schizzo fra le
altre cose.
«Ho fatto tutto
questo e anche di più, eppure-»
«Eppure Naevia
ha notato come l’Abisso sia stato aperto in concomitanza con
una curiosa
eclissi lunare totale» la interruppe la naga.
Harmonia
trasalì, incredula «Cosa?»
L’altra le sorrise.
«Quella gatta
frigida mi ha riferito giusto mentre ero qui a vegliarti di
ciò che ti ho
appena detto, non prima. Nel giorno in cui abbiamo supposto sia stato
aperto
l’Abisso, lo stesso in cui anche tu hai sentito che qualcosa
non andava, ha
osservato uno strano e brillante alone color magenta intorno alla Luna;
ha
consultato le proprie tabelle e mappe astronomiche, ma non risultava
nessuna
eclissi prevista per allora» spiegò bevendo un
altro sorso.
«È durata
pochissimi istanti, così ha detto, ma è comunque
riuscita a raccogliere dati
sufficienti per affermare che, in quel preciso istante,
c’è stato come un
trasferimento di un grosso quantitativo di energia da
lassù» con la coda indicò
il soffitto, «a quaggiù» poi il
pavimento, che picchiettò piano.
«Ha idea di
cosa si trattasse, almeno?» domandò fremendo la
regina, in un misto fra
preoccupazione e curiosità.
«Non
precisamente» rispose facendo spallucce la naga «ma
dopo aver visto Phobos in
azione ne abbiamo parlato e beh, ho motivo di pensare che fosse un
qualche tipo
di magia estremamente potente che ora è nelle sue mani: non
ha mai avuto poteri
degni di nota, lui, quindi si tratta certamente di una forza esterna
liberata
durante quell’eclissi lunare. E immagino che ti
farà piacere sapere che è stata
liberata da niente poco di meno che dall’altofuoco cremisi di
Comet E. Halley,
tanto per aggiungere disagio al disagio».
Harmonia parve
sorpresa a quella notizia: non era stata solo un’impressione
che fosse accaduto
qualcosa di grosso sul suo pianeta, allora.
Come aveva
avuto anche ragione a pensare che Comet non si fosse presentata a casa
sua solo
per dirle che si scopava Phobos, tempo prima. Immaginava che fra quei
due ci
fosse sotto ben di più di un’intesa sessuale, ma
dubitava fortemente che
fossero in combutta fino a quel punto, fino ad appoggiarlo
nell’evasione
dall’Abisso appositamente per metterla in ginocchio e
prendersi la sua fetta di
qualsiasi cosa quell’uomo le avesse promesso in cambio del
suo aiuto.
A conti fatti,
probabilmente lo aveva fatto per lo stesso motivo per cui faceva
qualsiasi
altra cosa: puro divertimento.
O almeno
sperava che fosse così, perché -per quanto
sapesse bene di poterla
fronteggiare- l’ultima cosa di cui aveva bisogno era un altro
problema di cui
occuparsi.
«Vuoi che ti
porti la testa di Halley?» le chieste Myricae, interrompendo
il suo dolce
naufragare nelle mille ipotesi che le frullavano nella testa.
«Preferisco dei
biscotti, ad essere sincera» rise la regina, facendone
immediatamente comparire
un vassoio «anche perché trovare Comet
è come cercare un ago in un pagliaio. E
quel pagliaio è grande quanto
l’Universo».
«Se si ha una
calamita dovrebbe essere piuttosto semplice, trovare
quell’ago» contestò
l’Ophidian, borbottando a bocca piena.
«Se non fosse
che quella calamita ne troverebbe un’altra perfettamente
identica e finirebbe
per essere respinta, spingendo al contempo l’ago sempre
più verso mete
sconosciute». Prese un biscotto e se lo mise in bocca,
masticandolo pensierosa «No,
Myricae, Halley non è il pericolo,
ne
sono piuttosto sicura. Quella specie di eclissi è certamente
stata creata da
lei, ma non credo che sia tanto la causa della liberazione di
quell’energia
quanto un… diversivo.
Non
dimentichiamoci che lassù c’è Manny, e
si sa come sono i suoi rapporti con
quella scheggia impazzita di Comet E. Halley».
Harmonia si
lasciò scappare una risata nemmeno tanto contenuta
ripensando ai suddetti
rapporti, conscia com’era che quella donna fosse stata creata
-sotto sotto e molto indirettamente-
solo per “merito”
suo, sette secoli fa.
«Se
c’è una
cosa che so su Halley, è che difficilmente farebbe qualcosa
per fare un favore
a qualcun altro: se ne sbatte altamente di chiunque, Phobos
compreso, per cui non penso proprio che avesse un qualche
interesse nel dargli una mano, lei è più da
“morto un papa se ne fa un altro”,
ecco».
«Perché
dovrebbe averlo fatto, allora?» la
interrogò l’Ophidian, confusa e con un
biscotto che le pendeva dalle labbra.
«Divertimento».
«Divertimento?»
«Quello, sì.
Basta
solo guardare come si sia scomodata per dirmi di persona che si scopava
Phobos
solo per gustarsi la mia faccia, la situazione non è molto
diversa» la mise sul
ridere, non scordando quanto però la cosa le avesse bruciato
sul momento. «Ma non
mi preoccupa lei, mi preoccupa piuttosto ciò che ha
contribuito a liberare:
sulla Luna vivono solo due persone, tre se consideriamo anche
Nightlight, e fra
uno e l’altro non so chi possa volermi più
morta».
A
quell’affermazione, la naga posò il biscotto che
stava mangiando facendosi cupa
in volto.
«Tutto bene?»
le domandò la compagna, notando quell’improvviso
cambio di atteggiamento da
parte della serpentessa.
Myricae si
morsicò il labbro: doveva seriamente dirle
l’ultima cosa che Naevia aveva
notato durante l’osservazione di quell’eclissi, o
forse poteva evitare e andare
oltre? Harmonia aveva davvero così tanto bisogno di una
risposta a quella
domanda, o avrebbe potuto farne a meno? Era già abbastanza
stressata e
preoccupata di suo per Phobos, valeva la pena farla preoccupare anche
per le
minacce che arrivavano dal cielo, oltre a quelle presenti nella sua
stessa
patria?
Forse avrebbe
potuto omettere quel piccolo dettaglio, evitarle altri timori che
avrebbero
finito solo per non farle chiudere occhio la notte nemmeno nelle ore
che
seguivano i momenti in cui facevano l’amore.
E considerando
che già quel tempo era poco, non voleva certo essere lei a
privarla del sonno.
Per cosa, poi?
Per una supposizione come tutte quelle nate quel giorno, senza
fondamento
alcuno se non qualche ipotesi? Per una presunta illuminazione basata su
osservazioni
imprecise, per qualcosa che Naevia aveva visto ma della quale non era
assolutamente certa, per un dubbio?
No, non ne
valeva la pena, non poteva valerla: Harmonia si era appena ripresa, non
poteva
darle un altro dispiacere, magari rischiando pure che cadesse
nuovamente in
quello stato comatoso dal quale si era appena risvegliata.
…
Ma cosa cazzo ci stava pensando sopra a fare? Si era
rincoglionita? Certo che avrebbe dovuto dirglielo, e subito!
Non poteva, non
voleva, mentirle o nasconderle
qualcosa.
Tralasciando
che sarebbe stata scoperta immediatamente, la sola idea di dire una
bugia
proprio ad Harmonia, alla sua compagna di vita, alla Regina di
Phantasia, le mise
in subbuglio lo stomaco: aveva già sentito pronunciare
troppe bugie da quando
era venuta al mondo, non sarebbe stata lei a dirle l’ennesima.
E se proprio le
cose fossero precipitate, allora sarebbe stata al suo fianco. Come
sempre.
Assopita
com’era nei suoi pensieri, Myricae nemmeno si era accorta
della partner che si
era alzata e si era avvicinata a lei, sedendole in grembo.
«Ti va di dirmi
cos’hai non va, mājhē prēma?»
le domandò di nuovo, prendendole il volto fra le mani
accarezzandolo piano.
«Sai che puoi
parlarmi di tutto, sì? Sono qui ad ascoltarti, di qualsiasi
cosa si tratta io
ci sono, lo sai» le sorrise poggiandosi fronte a fronte.
«… Harmonia,
io
non so se-»
L’altra mise
l’indice sulle labbra, anticipandola.
«Qualsiasi
cosa, Myricae. Qualsiasi»
la
rassicurò di nuovo. «Ma dimmelo, te ne prego,
dimmela e basta, perché vederti
così mi spezza il cuore: cosa c’è di
così terribile da dovermelo nascondere a
tutti i costi? Hai litigato con Naevia e siete finite a letto insieme,
forse?»
domandò ridendo. Fingendosi arrabbiata, le toccò
la punta del naso «Avreste
potuto invitarmi, siete state scortesi! Almeno-»
«La barriera
eretta sulla metà oscura della Luna settecento anni fa si
è assottigliata, e le
Costellazioni se ne sbattono il cazzo» sputò tutto
fuori d’un fiato, la
coscienza improvvisamente più leggera.
E Harmonia improvvisamente
più silenziosa.
Inizialmente l’Ophidian
si spaventò non poco a vederla così taciturna e
paralizzata similmente a
com’era stata nei due giorni precedenti, ma poco a poco la
regina tornò a dare
segni di vita stringendosi nelle spalle.
«Naevia ne è
assolutamente certa?», domandò infine.
L’altra scosse
la testa.
«No, non lo
è»
disse con un tono tale da farla sembrare una sottospecie di
rassicurazione «c’è
una buona probabilità che sia così, è
vero, ma non ci sono crepe o punti deboli
in una particolare zona della barriera, sembra semplicemente essersi
assottigliata
nella sua interezza senza riportare un calo delle prestazione magiche
che
offre».
La regina parve
tranquillizzarsi a quelle parole, ma non poteva certo restare
indifferente di
fronte ad una notizia del genere: forse non significava che Apophis se
la
sarebbe fuggita dall’oggi al domani, ma non significava
nemmeno che potessero
abbassare la guardia.
Harmonia la
guardò confusa.
«Se non si è
indebolita, allora da cosa è stato provocato
quell’assottigliamento?»
«Naevia mi ha detto
che è come se la barriera avesse perso massa per un qualche
motivo, come se la
differenza fra lo spessore originario e quello attuale -minima, ma
c’è- si sia
convertita in un qualche tipo di energia o potere o qualsiasi cosa sia,
riversandosi qui a Phantasia».
Restò a pensare
qualche istante «… Anche se ci sono svariate
persone che sorvegliano il lato
oscuro della Luna dove si trova esiliata la pecora nera di casa
Lunanoff, a
dirla tutta: francamente, mi risulta difficile pensare che nessuno
oltre a noi
ci abbia fatto caso».
«Certo, a meno
che chiunque altro abbia visto ciò che abbiamo visto noi
abbia poi preferito non vedere, in
quel caso sarebbe tutto
un altro paio di maniche» precisò però
la centauressa.
«Precisamente
ciò che ho pensato io» convenne Myricae, seccata
«i nobili delle Costellazioni
non sono famosi per mobilitarsi in anticipo in caso di pericolo. Ne
è stata la
dimostrazione la guerra di sette secoli fa: Manny non ha fatto niente
che non
fosse nascondersi tutto il tempo dal suo caro fratello maggiore che
voleva
tagliargli la testa; Mother Galaxy non è uscita dalla sua
gabbia dorata ai
Pilastri della Creazione finché non si è
letteralmente trovata Apophis in casa;
persino quei macellai cosmici dei Chandrasekhar hanno deciso di non
spargere
sangue fino a quando non hanno visto i big money sul tavolo delle
trattative, insieme
a qualche stella da prosciugare e svariati pianeti da razziare e
stuprare fino
al midollo».
«E lo hanno
ottenuto, sottolineo, tutti loro hanno
ottenuto ciò che volevano. E noi l’abbiamo presa
nel didietro più profondamente
di quanto me la metta tu a me, con la differenza che in quest'ultimo
caso lo
ritengo alquanto piacevole» concluse ridendo Harmonia,
sdrammatizzando la
situazione.
Myricae le diede
un bacio sul collo, salendo pian piano fino all’orecchio, che
morsicò
leggermente ridacchiando.
«Sei una
posizione decisamente pericolosa per dire certe cose,
a’maelamin» le sussurrò maliziosa,
indicandole come le si fosse avvinghiata alla vita stringendole le
gambe
intorno ai fianchi e le braccia dietro al collo «stavamo per
caso discutendo di
Apophis, o di come invece tu voglia recuperare due giorni di astinenza,
eh?»
«Una cosa non
esclude l’altra, a mio avviso» rispose tranquilla
Harmonia, le mani che si
muovevano sulla schiena della partner seguendo gli intricati disegni
delle
squame color smeraldo fino a scendere giù, sempre
più giù, fermandosi sulle sue
natiche.
«Ed io non
potrei essere più d’accordo con ciò che
dici».
L’Ophidian
infilò gli artigli sotto le vesti dell’amata fino
ad incontrare la sua pelle
nuda e morbida e completamente inerme, che prese abilmente ad esplorare
in
lungo e in largo mentre continuava a baciarla ed a dedicarle le mille
attenzioni che nei giorni prima erano mancate; a dirla tutta, una
scopata dopo
i due giorni passati non l’aveva proprio prevista, era
più che convinta che la
sua mela en’ coiamin avrebbe preferito riposarsi e niente di
più, e invece!
Quella donna
l’avrebbe sorpresa ogni giorno di più, e
l’adorava anche per questo suo
piccolo, particolarissimo, dettaglio.
Quando Myricae
le strinse i seni fra le mani, Harmonia si morsicò il labbro
per trattenere un
gemito che si trasformò in un mormorio indistinto, soffocato
spingendo la testa
nell’incavo fra il collo e la spalla dell’altra
donna; sentì un’improvvisa
sensazione di freddo attanagliarla dall’inguine a tutto il
corpo, un brivido
che era andato dilaniandole le membra dal piacere quando le squame
fredde e
affilate della coda della serpentessa si insinuarono fra le sue cosce
calde, sfiorandole
l’intimità come la lama di un coltello.
Un coltello che
le era affondato nelle carni, qualche istante dopo.
La regina
crollò letteralmente fra le braccia dell’Ophidian,
sopraffatta com’era da quel piacere
che si fece improvvisamente fatto strada in ogni fibra del suo corpo
tutto d’un
colpo. Si aggrappò alle sue spalle con tutta la forza che
riuscì a trovare, piantandole
le unghie nella schiena come se fossero il suo unico appiglio per non
venire
trascinata via da quel fiume che la stava investendo.
«M-Myr…
Myric-»
tentò di mormorare appena, ma i sottili denti dei piccoli
serpenti sul capo
dell’altra che le stavano suggendo il seno le fecero morire
le parole in gola.
«Sì,
a’maelamin?
Vuoi dirmi qualcosa?» le chiese compiaciuta, senza nemmeno
tentare di
nascondere la soddisfazione nel vedere come
«S-sei… s-sei
u-una… una-»
«Creatura in
tremendo ritardo. Lo siete entrambe, a dire la
verità» le rimproverò Naevia, spuntando
sullo stipite della porta come se fosse uscita dal nulla.
«Non intendo
sorbirmi oltre domande sul perché la mia pelliccia sia
metà a macchie e metà a
strisce, signore mie, né tantomeno sopporterò
ancora Antares che riempie la
stanza di ragnatele da usare come tappeti elastici, quindi vi pregherei
di-».
«Andare a farti
fottere!» ringhiò Myricae, le zanne snudate e la
lingua biforcuta che vibrava
minacciosamente verso la leopardessa.
Quest’ultima
però non parve particolarmente colpita.
«Non concepisco
quelle che voi chiamate “emozioni”, e nemmeno il
curioso desiderio di far
riversare a chicchessia il proprio liquido seminale
all’interno del mio utero,
affibbiandomi il gravoso e spiacevole compito di avere dentro di me una
massa
di cellule che mi privi di nutrienti ed energie per crescere in un
rapporto
facilmente assimilabile al parassitismo. Questa tua imprecazione non mi
tange
in modo alcuno, quindi».
«Vediamo se
questo ti tange!»
Una sedia partì
verso di lei, sfiorandole appena le vibrisse traslucide;
l’unica reazione
dell’altra, però, fu solo di scuotere la testa
rassegnata e per niente
impressionata.
«Cielo, quanta
scena», sospirò annoiata. Si girò per
uscire «Vi aspetto insieme agli altri
nella sala del trono, e vi pregherei gentilmente di cercare di
accelerare le
cose fra voi per fare il prima possibile. Nei limiti di ciò
che la leggendaria
e profonda ninfomania delle Ophidian permette, ovviamente».
«I guardiani si
stanno forse lamentando?»
«No, ma potrei
presto commettere un duplice omicidio. Con permesso» fece un
breve inchino alla
sua regina, poi finalmente si dileguò, uscendo
silenziosamente com’era entrata.
I corpi di
Myricae e Harmonia, nel mentre di tutta quest’amabile
discussione con Naevia,
non si erano staccati nemmeno di un millimetro, forse per lo shock o
forse
perché pure loro -come la felinide- se ne sbattevano
altamente della sua
presenza.
O si sbattevano
e basta, insomma.
Si scambiarono
uno sguardo fugace, quello che bastò ad entrambe per
convenire che sarebbe
stato meglio rimandare quel loro amplesso ad un momento più
consono e
tranquillo per entrambe, accettando quindi il consiglio di Naevia:
vero, forse
i guardiani non si stavano lamentando -né lo avrebbero mai
fatto, considerando
l’intrattenimento e la mole immane di buffet a disposizione
nell’attesa-, ma la
voglia di chiudere almeno la
questione del contratto premeva tanto a loro quando alla sovrana di
Phantasia.
Capendosi al
volo, la naga srotolò il proprio lungo corpo serpentino
dalla compagna,
permettendole di alzarsi e dirigersi verso la finestra per guardare
fuori da
essa; lentamente, Harmonia sciolse il nodo in vita della candida
vestaglia semi
trasparente che indossava, lasciandosela scivolare addosso prima di
ricadere
morbidamente a terra.
Una scintilla
dorato-argentea illuminò le venature del suo corno:
sottilissimi filamenti
dello stesso colore andarono diramandosi su tutto il corpo della
sovrana,
avvolgendole la pelle chiara fino a farla scomparire completamente
sotto quella
coltre d’oro e d’argento che pareva essere stata
distesa direttamente dagli
angeli, da come le aderiva perfettamente. Un impercettibile bagliore di
stella
lungo quella sua chioma colore dell’arcobaleno, e il fragile
ed esile corpo
umanoide di Harmonia lasciò posto al possente fisico equino
che le apparteneva
dall’alba dei tempi.
Quelle erano le
sue vesti di principessa degli Starequus, vesti che portava la con
fierezza a per
non dimenticare mai nemmeno per un istante chi fosse veramente la
Regina di
Phantasia, di Exodus intero, un eterno memoriale della razza a cui
apparteneva,
del luogo dove seimila anni prima tutto era iniziato, e di dove tutto
sarebbe
continuato.
Si toccò il
corno: di solito lo nascondeva rendendo invisibile ed impalpabile a
chiunque
per motivi che lei stessa ignorava, ma questa volta non lo fece. Lo
avrebbe
lasciato lì a svettare sulla propria fronte senza curarsi
della sorpresa o meno
dei guardiani, stupidi com’erano avrebbero creduto fosse
l’ennesima creazione
dei suoi stessi poteri.
Myricae le si
avvicinò, dandole un bacio sulla fronte e allungandole una
mano.
«Che si alzi il
sipario».
Harmonia
gliel’afferrò
volentieri, uscendo a braccetto con lei dalla stanza.
«E che abbia
inizio la pagliacciata».
---
Il solo rumore
della pesante porta di pietra intarsiata che si apriva bastò
a smorzare il
mormorio dei guardiani, che si girarono tutti verso di essa.
Quasi come se
quel cigolio sordo fosse stato un qualche misterioso segnale udibile
solo dalle
loro orecchie, alla vista della sovrana si esibirono tutti in un
vistoso
inchino di accoglienza che perdurò a lungo, per tutto il
tempo in cui la
centauressa attraversò la navata con una grazia tale da far
sembrare che le sue
zampe candide nemmeno sfiorassero il pavimento.
Harmonia entrò
procedendo
a passo lento, Myricae al suo fianco con la mano sull’elsa
della spada legata
in vita e la testa tenuta alta a troneggiare al di sopra degli ospiti,
o -come
li aveva chiamati lei poco prima- delle “seccature
più secche della mia pelle
durante la muta”; il rumore degli zoccoli che si posavano sul
pavimento
riempiva la stanza, accompagnato dall’impercettibile stridio
delle spesse
squame color smeraldo che sfregavano sul marmo come carta vetrata.
Dinanzi a
suddetti ospiti, Harmonia fece un breve inchino.
«Chiedo
umilmente scusa se vi ho fatto attendere più a lungo del
previsto, signori e
signore, ma negli ultimi due giorni mi sono sentita poco
bene» fece ammenda la
regina, trovando che “poco bene” sostituisse
più che meravigliosamente un fin troppo
pomposo “sono rimasta in stato comatoso fino a qualche ora fa
e subito dopo ho
avuto uno splendido momento di collasso mentale durante il quale ho
ricordato
con immensa gioia l’estinzione della mia gente ”.
Getto lo
sguardo verso il lucernario -ormai riparato- al centro del soffitto,
l’intricato mosaico di vetri multicolore che riempiva
l’atrio di raggi
variopinti.
«Mi auguro che
non vi siate annoiati troppo in mia assenza, per quanto noto che avete
trovato
un delizioso modo d’intrattenervi nel mentre»
osservò notando che Naevia,
raccontando di tappeti elastici improvvisati tessuti dalla Sylkes,
diceva il
vero.
Non che certe
uscite da parte di Antares fossero una novità, quella donna
mezza ragno
compensava bene l’aria di estrema formalità che
aleggiava nel suo castello, ma
Harmonia sapeva anche quanto la leopardessa fosse contraria a
“certe
sciocchezzuole talmente inutili che andrebbero vietate”, come
le chiamava lei.
«Spero che le
mie collaboratrici vi abbiano intrattenuto a dovere, in mia assenza, ma
conto
sul fatto che abbiano svolto egregiamente i loro compiti».
«Puoi dirlo
forte!»
Aggrappandosi
ad un filo di seta semi trasparente nemmeno fosse una liana, Frost
raggiunse la
centauressa e il resto dei presenti in perfetto stile Tarzan.
Atterrò davanti
al gruppo con una capovolta, venendo accolto da un applauso scrosciante.
«Questo
posto è uno spasso come non ne esistono altrove! Nemmeno a
Burgess mi sono mai
divertito tanto! E poi lei» indicò Antares, poco
sopra la sua testa «è un
fenomeno, con quelle sue tele! Passato il terrore da uova in posti ci si dimentica completamente
che potrebbe avvolgerti
nella tela come un salame e mangiarti, pensa che-»
«MA
AAAAAAAWWW!!!» squittì la Sylkes, stringendosi con
decisione il guardiano al
petto. «Hai sentito, Harmonia? Ha detto che vuole permettermi
di deporre le mie
uova all’interno del suo stomaco! Il suo adorabile, morbido,
pallido, stomaco
da guardiano! Finalmente potrò avere anche io i miei piccoli
figli ragnetti che
usciranno dalle sue fragili carni squarciandole e dilaniandole e
nutrendosi di
lui alla nascitaaaaa!»
Jack
raggelò «Cosa? Io non ho parlato di-»
tentò di parlare nuovamente, ma il prosperoso
seno dell’altra lo stava ormai letteralmente inghiottendo, a
giudicare da come
lanciasse grida d’aiuto che, ora, erano più simili
a mugolii sommessi e
intraducibili.
La regina
si lasciò scappare una risata.
«Oh, per me non ci sono
problemi davvero,
può venire qui a vivere anche oggi stesso se ci tiene
tanto» sorrise con fare
materno, scompigliando scherzosamente i capelli al giovane «tuttavia…»
improvvisamente, il suo tono
si fece cupo «devo ricordarti che questo dipenderà
solo e unicamente dalla
decisione dei suoi compagni guardiani in merito
all’ospitalità da me offerta ad
uno di loro, come ben sanno tutti i presenti in questa
stanza».
Intorno a lei, i volti prima
sorridenti e
scherzosi si tramutarono in espressioni attonite e contrite nel giro di
mezzo
secondo.
Bingo.
Non lo diede
affatto a vedere, ma -internamente- Harmonia stava già
gongolando nella
consapevolezza di aver colpito il nervo che le interessava con una
singola, innocente
e per niente sospetta frase detta al momento giusto, e cioè
quando tutti i
guardiani avevano ormai abbassato la guardia: si stavano sentendo a
casa loro,
venivano trattati come se fossero a casa loro, avevano tutti i
privilegi che
avrebbero avuto a casa loro.
Eppure ora lei
se ne usciva così spontaneamente -almeno
all’apparenza, dal momento che aveva invece
calcolato ogni singola parola- con quello spiacevole, spinoso,
fastidiosissimo,
argomento che era la scelta dell’ostaggio.
Pardon, dell’ospite.
La regina era
una donna sveglia, “anche troppo”, avrebbe detto
qualcuno: aveva intravisto il
terrore nei loro occhi fin da quando era entrata dalla porta, non aveva
smesso
nemmeno un attimo di respirare a pieni polmoni l’acre odore
dei loro animi
tremendamente agitati, spauriti, confusi, al solo pensiero di dover
affrontare ciò
che lei, ora, si era gentilmente permessa di sbattere loro in faccia in
modo
alquanto scherzoso e al contempo serissimo.
Perché lei lo
era eccome, serissima e incredibilmente decisa: nessuno fa niente per
niente,
la sua filosofia era quella, nemmeno la Luna sorge se il Sole non
tramonta, non
inizia un nuovo giorno se la notte non si dilegua. Prima lo avrebbero
capito, prima
si sarebbero messi il cuore in pace.
E prima se ne
sarebbero andati, soprattutto quello.
Nessuno dei
guardiani proferì più parola per svariati minuti,
preferendo passare quel tempo
a guardarsi in faccia in cerca di un qualche segno sul da farsi e
sull’atteggiamento da adottare, forse sperando invano che uno
di loro si
facesse avanti per primo.
A dispetto
delle aspettative, fu infine Calmoniglio a prendere la parola.
«Non sarebbe
opportuno andare per gradi, prima di discutere di questo?»
tentennò cercando di
prendere tempo: non avevano discusso nemmeno un secondo di chi di loro
dovesse
prendere casa laggiù, a Phantasia, piuttosto avevano
preferito approfittare ampiamente
dell’ospitalità a loro concessa per divertirsi e
staccare la mente dall’attacco
appena subito. E ora il coniglio pasquale -come tutti gli altri- se ne
stava
amaramente pentendo.
«Intendo che
potremmo tutti prendercela con più calma, anziché
correre tanto: non penso
proprio che Phobos -conciato com’è- si
rifarà vivo tanto presto, per cui non ci
sono ragioni di metterci fretta a vicenda»,
precisò, pregando che non ci
fossero fraintendimenti.
Fece una lunga
pausa «E poi così tu avresti il tempo per
riprend-»
«Non mi serve
tempo per riprendermi» lo interruppe lei pestando uno zoccolo
a terra, il tono
improvvisamente fattosi duro e con una punta di aggressività
«sto
splendidamente, come puoi notare tanto tu quanto i suoi compagni, mai
stata
meglio» fece un giro su se stessa, i lunghi capelli che
fluttuavano eterei
mossi da quel solito e impercettibile vento che li manteneva
costantemente in
movimento.
Si avvicinò ai
guardiani, quasi con aria di sfida.
«Non mi serve
tempo per riprendermi, semplicemente perché non ho bisogno
di riprendermi da
nulla. Sono Harmonia, sono la Regina di Phantasia, sono la sovrana
della
fantasia» allargò le braccia «non
esistono pause né vacanze nel mio compito, il
mio ruolo non mi permette di lavorare un giorno l’anno
crogiolando alle isole
Cayman a bere Martini per gli altri trecentosessantaquattro»
continuò sfilando
davanti a loro mantenendo quell’atteggiamento di
superiorità, gli occhi rosa
azzurri che si piantavano prepotenti nelle pupille di ognuno dei cinque
«tantomeno
posso gustarmi il lusso di avere come unico cruccio della mia vita
immortale il
dover accontentare i desideri di una manciata di piccoli umuncoli
bavosi, se
non voglio cessare di esistere».
Infine, si
fermò davanti ad un Calmoniglio visibilmente intimidito.
«Ogni minuto,
ogni ora, ogni giorno, di quello che voi chiamate
“riposo” si traduce in tempo
che va inevitabilmente sprecato, tempo che regaliamo a Phobos e che gli
permette
di essere sempre un passo davanti a noi. Sempre.
Dì, conosci la fiaba della lepre e della
tartaruga?»
Il Pooka girò
il viso senza rispondere, imbarazzato.
«C’era una
lepre che si vantava con gli altri animali di quanto fosse veloce,
sottolineando
con disprezzo come nessuno fosse in grado di batterla in una gara di
velocità.
Una tartaruga, tuttavia, accettò la sfida»
raccontò la regina, la magia che
dalle sue mani fluiva a formare due sagome indistinte che, poco dopo,
presero
le forme degli animali da lei citati.
«Figurati come
reagì la lepre: le scoppiò a ridere in faccia
senza ritegno alcuno,
denigrandola e scherzandola per la sua estrema lentezza, mentre
già pregustava
la propria vittoria con la sfacciataggine che sono una lepre
particolarmente
stupida -o particolarmente fiera di sé- può
avere. La gara iniziò, dunque, e la
lepre partì in quarta: nemmeno il tempo di muovere
faticosamente il proprio
carapace dalla linea di partenza, e l’avversaria era
già fin quasi al traguardo»
proseguì, mentre la lepre eterea scattava da una parte
all’altra della stanza
talmente veloce da essere quasi invisibile, lasciando dietro di
sé una scia
dorata.
«Ma si fermo
poco prima, sicura com’era di vincere» a quelle
parole, anche l’animale magico
si fermò tutto d’un tratto.
«Si fermò a
dormire,
la lepre. “Tanto vincerò sicuramente”,
si diceva. E intanto la tartaruga
continuava a camminare e camminare e camminare, un passo dopo
l’altro,
centimetro dopo centimetro, senza mai darsi per vinta. I centimetri
divennero
metri, i metri decine di metri, le decine centinaia, e sai cosa
successe alla
fine?»
L’altro scosse
la testa.
«Vinse la
tartaruga. “Non è questione di chi correre
velocemente”, disse il rettile, “ma
di partire in tempo”, e la lepre lo capì
tardi» l’animale le saltò in mano,
sfregando il muso sul suo palmo «talmente tardi da essere
sbranata dal leone, o
peggio dal lupo».
Detto fatto, e
Spettro addentò la creatura magica, dissolvendola in una
cascata di polvere
iridescente che lo fece starnutire.
Harmonia si
abbassò fino all’altezza del muso di Calmoniglio,
fissandolo talmente tanto
intensamente che pareva gli volesse guardare fin dentro
l’anima per ghermirla.
«Abbiamo dato a
Phobos un vantaggio di due giorni per causa mia e me ne assumo tutta la
responsabilità, ma le conseguenze di un ulteriore ritardo
nel muoverci e
giocare le nostre carte sarà colpa vostra, guardiani, io me
ne lavo
completamente le mani» asserì imitando il gesto.
«Avete chiesto un’alleanza e
vi è stata concessa, e ora io chiedo la mia garanzia: un
ospite, tutto qui, uno
di voi che si fidi talmente tanto dei suoi compagni da mettere nelle
loro mani
la sua stessa vita».
«Sua vita?» si
intromise Nord, il tono quasi spaventato.
Harmonia
sorrise: oh-oh, altarino svelato.
Con tutta la
calma del mondo, la centauressa si avviò verso il tavolo al
centro della
stanza, prendendo posto davanti ad una teiera fumante.
«La sua vita,
certo, ho anche io le mie precauzioni» con cautela, si verso
l’ennesimo tè di
quell’intensa giornata, questa volta al caramello e vaniglia.
«Conosco troppo
bene voi guardiani, decisamente meglio di quanto vi conosca
l’Uomo nella Luna,
e se so una cosa per certo è che siete pronti a tradirmi
un’altra volta
dileguandovi dallo scontro, se le cose dovessero precipitare in modo
così
gravoso da mettere a repentaglio le vostre vite».
La fronte
dell’uomo si imperlò di sudore. Non per quelle
parole così dure, non per la
poca fiducia che la sovrana dava a loro guardiani, non era nemmeno
perché
parlava di tradimento così tranquillamente e serenamente,
certo che no.
Era perché Nord
sapeva che aveva ragione, a dire ciò che diceva:
l’avrebbero tradita un’altra
volta, se le cose si fossero messe troppo male, e lei li aveva
anticipati con
la firma del contratto.
«I miei
sospetti erano fondati, quindi» asserì lei notando
la sua espressione,
sorridendo come mai prima di quel giorno. Posò la tazza
ancora bollente «Sono
carina e amorevole e materna, ma non sono stupida: credevate di potermi
prendere in giro di nuovo scappando all’ultimo, vero? Beh,
potete farlo senza
problemi e non sarò certo io ad impedirvelo, ma non credo vi
convenga».
«Perché?»
chiese tranquillo Frost.
Harmonia tornò
a sorseggiare il proprio tè, soffiando sulla tazza calda: a
volte quel
poveretto le faceva quasi pena, ignorante com’era stato
cresciuto dai suoi
compagni che si era tanto premurati di mantenerlo puro da tutto quel
marciume
nascosto dalla coltre del titolo di “guardiani”.
«Oh, carissimo,
perché in quel caso io ucciderò il mio ospite.
Una garanzia della vostra
fedeltà, appunto».
Se si avesse
avuto un udito sufficientemente sensibile da percepire i battiti dei
presenti,
allora -in quel preciso istante- si sarebbero sentiti un paio di essi
perdersi
nelle rughe di sconcerto apparse sui loro volti increduli.
“Harmonia è
tanto tenerella e carina e materna con chiunque, figurati se
può mettercelo nel
culo profondo come la fossa delle Marianne”, dovevano aver
sempre pensato
ascoltando la regina della fantasia con quella sua voce angelica, quei
suoi
incantevoli occhi dai delicati colori pastello, il suo manto bianco
brillante
che ricordava il candore dei suoi atti e del suo cuore.
“Rettifico: non
solo ce lo ha messo in culo profondo come la fossa delle Marianne, ma
lo ha
pure fatto uscire dalla gola”, invece, rendeva bene
l’idea di cosa stessero
pensando tutti adesso, dopo che l’altarino -delle loro reali
intenzioni o del
vero scopo del contratto non faceva differenza- era stato scoperto.
«Questo essere
tradimento!»
La voce di Nord
tuonò come un fulmine a ciel sereno nella stanza,
rimbombando fino a creare un
eco che faceva suonare ancora più cupa
quell’accusa. L’uomo si diresse a grandi
passi verso la Regina di Phantasia raggiungendola al tavolo al quale
era
comodamente seduta, sbattendo pesantemente un palmo su di esso
facendolo
tremare.
«Tu averci
preso in giro, Harmonia, in contratto che noi avere firmato non esserci
alcun
riferimento ad omicidio di guardiano, di guardiano!»
inveì col viso rosso dalla
rabbia che stava provando. «Tu come spiegare questa richiesta
folle? Noi venuti
in pace, credevamo che tu fossi da nostra stessa parte e invece ah!
Chiedi vita
di guardiano!»
La donna non
parve per nulla scossa, anzi aspettò di finire quel lungo
sorso di tè che stava
bevendo prima di rispondere.
«Non è
precisamente così» puntualizzò, posando
poi la tazza «io non “chiedo vita di
guardiano”, non chiedo proprio la vita di nessuno. Io non
ucciderò un guardiano,
piuttosto sarete voi a
farlo».
«Noi?»
«Voi, sì.
Rispettate l’accordo senza scappare, e tutto
filerà liscio come l’acqua che
sgorga da una sorgente d’alta montagna. Traditemi come
settecento anni fa
scappando a gambe levate, e strapperò il cuore dal petto del
vostro malaugurato
compagno con queste stesse mani» le alzò per
mostrarle meglio.
La regina
sorrise, quel genere di sorriso tremendamente inquietante di chi sa di
aver già
vinto.
«Io sarò
soltanto un’esecutrice materiale della vostra scelta, diciamo
pure che sarò il
boia che calerà l’ascia sul collo del condannato,
ma la condanna o
l’assoluzione di quest’ultimo dipenderà
solo e unicamente dall’atteggiamento
che voi sceglierete di adottare: restare o fuggire, vita o morte, non
ci sono
vie di mezzo. Semplice semplice, a prova dello scarso comprendonio di
una
creatura scelta da Manny» rise in segno di scherno
«Domande?»
Calmoniglio
alzò una zampa, anche lui visibilmente iracondo.
«Io ne ho una.
Il fatto che due giorni fa ti abbiamo salvato il culo da Phobos proprio
non
conta nulla? Te ne sei improvvisamente dimenticata, o non lo dici solo
perché
non ti fa comodo? Se non fosse stato per noi-»
«I miei
generali se la sarebbero cavata ugualmente» intervenne
Harmonia alzandosi e
andandogli vicino. «Non metto in dubbio che il vostro
contributo sia stato
utile e per questo vi ringrazio, ovviamente,
tuttavia ci tengo a precisare che il nostro contratto è
stato stipulato ben
prima che Phobos attaccasse, ed è stato stilato sulla base
di azioni avvenute
settecento anni fa. Non ritengo che la vostra accusa di tradimento sia
sensata,
visto ciò che ho appena detto, quindi non accetto altre
lamentele su questo
punto».
«Ma questo non
essere-»
«Giusto?» si
chinò per incontrare lo sguardo di Nord. «Non fu
nemmeno giusto che voi
fuggiste nel momento del bisogno, sette secoli fa, ma voi lo faceste
ugualmente
e senza vergogna alcuna. Anzi, adesso avete anche il coraggio e la
sfacciataggine di lamentarvi che la vostra codardia abbia avuto
ripercussioni
sul presente, cercando di far passare me per la cattiva. È
giustissimo, guardiani,
così giusto che ora pretendo mi diciate il nome del
prescelto e poi vi leviate
immediatamente dalla mia vista».
Seguì un
silenzio a dir poco imbarazzante, durante il quale nessun aveva osato
proferire
parola: vuoi perché -alla luce di ciò che avevano
appena scoperto- il fare una
scelta era una mezza condanna, vuoi perché non avessero
pensato nemmeno mezzo
secondo a chi mandare fra tutti, ma dalle loro bocche non
uscì nemmeno un
sospiro.
Sandman, che
per tutto il tempo della discussione se n’era stato in
disparte -probabilmente
sapendo bene che fossero loro in torto- a braccia conserte, decise
infine di
prendere parola, o sabbia dorata insomma; con un paio di gesti, chiese
alla
regina se non potessero avere altro tempo per decidere.
Lei dondolò la
testa, in segno di risposta negativa.
«Ho atteso
anche troppo. Avete avuto tempo più che sufficiente per
parlare fra voi e prendere
una decisione comune, e anche se non vi foste trovati
d’accordo avreste sempre
potuto giocarvela a morra cinese» asserì facendo
spallucce, indifferente. «Non
rifarò la domanda un’altra volta: chi di voi
sarà mio ospite?»
«Harmonia, noi
non-»
«Ho detto che
non rifarò la domanda, né accetterò
ulteriori lamentele» ringhiò la donna verso
il coniglio pasquale «voglio solo un nome, niente di
più. Datemi un nome, e
questa pagliacciata finalmente terminerà: voi potrete
tornare a gongolare fino
a quando i vostri servigi non saranno nuovamente richiesti, io
potrò tornare ad
occuparmi del mio regno e del mio pianeta, tutti felici e contenti
insomma. Ma
mi serve un nome».
“Che noi non
abbiamo”, sottolineò l’uomo dei sogni.
«Non è un mio
problema. Non uscirete da questo castello finché non
avrò quel nome, questo posso
assicurarvelo» sorrise lei schioccando le dita.
La sua magia si
aggregò in sottili filamenti luminosi fin troppo simili a
sbarre, che comparvero
dal nulla ricoprendo finestre, porta e lucernario, chiudendo qualsiasi
via di
fuga ai guardiani.
«Spero che
basti a motivarvi» asserì compiaciuta la regina.
«Allora? Avete deciso chi-»
«Dentolina».
Tutti si
girarono verso il punto dal quale era provenuta la voce che aveva
nominato la
fata, gli sguardi concentrati verso quei capelli bianchi e quegli occhi
colore
del ghiaccio, un ghiaccio percorso da più crepe di quante
avrebbe dovuto averne
alla sua età.
Se prima i guardiani
era increduli di fronte alla rivelazione di Harmonia sul loro patto,
allora
adesso era a dir poco traumatizzati: Jack Frost, il più
giovane fra loro,
l’ultimo arrivato, il dilettante -nonché quello
col compito meno gravoso- aveva
preso in mano la situazione come i suoi colleghi non erano riusciti a
fare
tradendo una di loro senza pudore. E si era pure salvato il culo
evitando di
essere nominato.
Classica
strategia alla “Grande Fratello”, considerando
quale assiduo fan era lui di
quel programma.
Lo sgomento si
poteva leggere sui volti di ognuno, e non si sapeva se fosse
più per la
sorpresa che lui avesse tanta spina dorsale da decidere senza
consultarli o,
con più probabilità, per il trauma di fronte ad
un’infamata del genere.
Tutti erano lì
a guardarlo, a fissarlo, a piantargli quello sguardo accusatorio
addosso con la
speranza che ne venisse trafitto come da un pugnale, ma il giovane
guardiano
pareva del tutto impassibile: aveva la coscienza a posto, Frost, o
almeno così
si stava giustificando mentalmente con se stesso. Non aveva pronunciato
il suo
nome per cattiveria o per dispetto, aveva avuto delle motivazioni e
riteneva
che fossero tutte più che valide, ma -alzando gli occhi sui
visi sbiancati dei
compagni-, iniziò a riflettere sul fatto che tali
considerazioni non sarebbero
state precisamente semplici da spiegare o accettare.
Alla Regina di
Phantasia sarebbe piaciuto tanto stare lì a guardare i
guardiani scannarsi fra
loro, magari aprendo pure il lucernario per mostrarli alla Luna lontana
nel
cielo dicendo a Manny “Ecco, queste sono le tue creazioni:
ottimo lavoro, davvero”,
ma riteneva di non avere tempo da perdere.
Fece un
silenzioso cenno col capo a Myricae, che rispose con un cenno a sua
volta.
«E Dentolina
sia, dunque. Avvicinati».
«No! Certo che
non si avvicina!» si mise in mezzo Calmoniglio, frapponendosi
fra la fata e
l’Ophidian che era andata a prenderla. Si girò
verso Jack «Cosa stracazzo ti
passa per quel tuo cervello congelato? Sei impazzito? Sì,
sì che lo sei! Se
proprio eri voglioso di pronunciare un nome avresti dovuto dire il
tuo!»
Nord andò in
aiuto del fronte “portate una corda per impiccare il bianco
di capelli voglioso
di piselli, che altrimenti la chiediamo a Sandy”.
«Anche se
essere strano, Calmoniglio avere ragione: tuo gesto non essere stato
carino,
Jack! Tu finire in lista di cattivi, anche prima di grande naso di
Pitch!»
«Ma
scherzate?!! Guardate che mica l’ho detto per farle un
dispetto eh!» precisò il
guardiano, imbracciando il bastone nel vedere che lo stesso avevano
fatto gli
altri con boomerang e sciabole. «Ma l’avete vista
durante l’attacco di Phobos?
Ci stava per rimanere secca non solo una volta, ma almeno una decina! E
tutte
di fila! Almeno qui sarebbe al sicuro e non rischierebbe di venire
ammazzata
ogni tre per due!»
A quelle
parole, tutti ritirarono le proprie intenzioni bellicose, osservando
invece la
fatina che tremolava spaventata.
Potevano
tentare di cercare di trovare tutte le scuse del mondo, ma -in fin dei
conti-
Frost aveva ragione: Dentolina non aveva mostrato una particolare
utilità in
quel genere di scontri fisici ad alta pericolosità e tasso
di mortalità, aveva
rischiato la vita più volte creando solo problemi agli altri
che dovevano
pensare a se stessi e pure a lei.
Era stata solo
d’impiccio, ecco.
«Non può
andare
lei!» insistette però il coniglio pasquale, non
ancora convinto. «Non si
possono privare i bambini della fatina dei denti! Chi si
occuperà di loro? Chi
penserà a raccogliere i-»
«Se permettete,
ai bambini posso tranquillamente pensare io».
La voce di
Naevia si fece largo fra i litiganti, la lunga coda che
sfiorò il muso del
Pooka facendoglielo arricciare per il solletico. Lui però
non cambiò affatto
atteggiamento, mantenendo la difensiva.
«E come?
Passando di casa in casa con un paio di ali di carta sulla
schiena?»
«Oh, no di
certo. Piuttosto sventrandoli uno per uno, bambino dopo bambino,
passando un artiglio
sulle loro pallide gole molli e indifese finché non
vomiteranno fuori dalla
carotide e dalla giugulare tutta la vita che hanno in corpo. Sapete
che, una
volta fermatosi il cuore, si ha ancora qualche istante di coscienza?
Dai trenta
secondi fino ai tre o sette minuti, solitamente, ma non sono rari casi
in cui
quest’esperienza post-mortem perduri più a
lungo» spiegò con tutta calma,
tirando fuori gli artigli retrattili e prendendo a osservarseli
distrattamente.
«Sarebbe di
grande aiuto alla scienza studiare quali di quelle da voi comunemente
definite
“emozioni” appaiano sui loro volti
nell’acquisire la consapevolezza di stare per
andare all’altro mondo, magari provando anche a recuperare
l’ultima immagine
che i loro occhi hanno registrato prima del decesso, la cosiddetta
“imago
mortis”. Sarebbe “curioso” -è
l’emozione giusta, vero? La chiamate così
l’impellente
voglia di sperimentare qualcosa?- tentare una cosa del genere su dei
bambini,
dal momento che possiedo solo campioni adulti. Tutto sempre in nome
della
scienza, ovviamente».
Calmoniglio
inorridì, lo stomaco che gli si torceva
nell’impellente bisogno di vomitare: ma
che cazzo di generali si era trovata Harmonia?
La centauressa,
invece, scoppiò in una fragorosa risata.
«Dovete
perdonare Naevia, ma a lei e alla sua razza gli standard socialmente
accettati di
etica e moralità non si applicano in alcun modo»
spiegò indicando la
leopardessa, la quale la fissò come se non capisse cosa
stesse dicendo. «Tuttavia,
non dovete preoccuparvi perché non ci sarà
nessuna necessità di trovare una
sostituta a Dentolina, se rispetterete i patti. Come dicevo, ora
è tutto nelle
vostre mani: sono certa che ci tenete alla vostra amica, quindi non
c’è motivo
di agitarsi tanto».
Con la fata
vicino, la regina allungò un braccio di fianco a
sé.
Tempo qualche
istante, e la magia si aggregò in un lungo bastone, uno
scettro che pareva
essere fatto di un vetro iridescente che lanciava continui bagliori
quando la
luce lo illuminava, la cui sommità era formata dalla sagoma
del busto trasparente
di un unicorno alato con una gemma dorata come occhio, così
com’erano dorati
alcuni sottilissimi fili che ne ricoprivano il corno insieme a delle
appena
visibili schegge colorate.
Dentolina
tremava come una foglia, si vedeva dal terrore sempre crescente nei
suoi occhi
che avrebbe solo voluto fuggire e andarsene, ma non si oppose quando
quello
scettro si posò delicatamente sul suo petto,
all’altezza del cuore. Improvvisamente,
si calmò.
O forse si
prese solo un infarto, quando il corno si conficcò nelle sue
carni spezzandole
il respiro in gola.
Già pronti a
scattare all’attacco per difendere la compagna, i guardiani
vennero trattenuti
dalla possente coda di Myricae che si parò loro davanti,
impedendogli di
avanzare oltre. Notando tanto subbuglio e Dentolina piegata in due, la
sovrana
sospirò annoiata.
«Non le ho
fatto nulla, controllate pure» propose tranquilla, mostrando
loro come
-effettivamente- la fatina non recasse alcuna ferita o sanguinamento.
«Convinti?»
domandò agli altri, che annuirono. Anche perché
non avrebbero potuto fare
altro.
Harmonia
sorrise, osservando compiaciuta l’oggetto che aveva fra le
mani: quello scettro
apparteneva alla sua razza da tempo immemore, da quando il primo
Starequus
aveva posato i propri zoccoli sul suolo di Exodus, era stato passato di
mano in
mano per generazioni e generazione fino ad arrivare a lei, alla Regina
di
Phantasia, che ora lo custodiva insieme ai segreti ed ai tesori di un
popolo
che si era trascinato il proprio sapere nella tomba.
Istintivamente,
una mano le scivolò sulla lunghezza del prezioso bastone, e
la sua mente andò a
vagare in quel passato che la tormentava da seimila anni, un passato
nel quale
il volto di sua madre che impugnava lo scettro era stata
l’ultima cosa che i
suoi occhi avevano visto prima di chiudersi.
«L’Erikepaios
Anænketi…» sussurrò fra
sé e sé, come se avesse l’impellente
bisogno di
parlarne «lo scettro della Dea Senza Sudditi, donato alle
genti di questo
pianeta in un tempo in cui ancora non esistevano parole adatte a
descrivere la
meraviglia ed il potere primigenio di questo artefatto. Qui
dentro» indicò
l’occhio del cavallo «scorre il sue sangue, non
troverai mai nulla di più puro
nemmeno se cercassi fino a consumare ogni centimetro del cosmo a furia
di
scavare nelle sue profondità. Ed è proprio
ciò che mi serve ora».
Prese a
studiare il busto dell’unicorno, osservando in controluce
come all’interno
dell’animale vi fosse un liquido rosso piuttosto denso che
correva sulle pareti
di vetro -o di qualsiasi cosa fosse- di quell’oggetto.
«Cos’è?»
«Sangue,
giovane guardiano. Quello della tua amica, per la precisione»
spiegò mostrandoglielo,
lui che ci mancava poco vi si attaccasse con la faccia da quanto era
incuriosito.
«Se in
qualsiasi caso io non dovessi essere in grado di garantire la morte
della
fatina dei denti in seguito ad un vostro tradimento,
l’Erikepaios lo farà al
posto mio: è come un giuramento solenne, un giuramento che
non può essere
spezzato in alcun modo se non con la morte della persona il cui sangue
è qui
dentro. Niente e nessuno può sfuggire al giudizio della Dea,
non le si può
mentire».
Harmonia
contemplò ancora qualche istante il prezioso bottino, salvo
far dissolvere lo
scettro in una polvere luccicante che pareva più una pioggia
di glitter.
«Bene, direi
che qui abbiamo finito. È stato un piacere fare affari con
voi, signori miei
carissimi, ma ora ho un’ospite della quale devo occuparmi e
voi avete dei
bambini ai quali far credere in voi: direi che siamo tutti molto
occupati, per
cui» tese una mano davanti a sé, evocando gli
stessi portali che -tempo prima-
avevano fatto piombare i guardiani sul suo pianeta
«arrivederci fino a nuovo
ordine».
Furono colti
tutti piuttosto impreparati da tutta quella fretta, Dentolina compresa:
sembrava
più una bambola in balìa degli eventi piuttosto
che una persona consapevole di
ciò che le stesse accadendo, a giudicare dall’aria
assente e dagli occhi vuoti
e acquosi sarebbe legittimo aver dubitato che fosse sotto
l’effetto di chissà
quale droga. O forse, più semplicemente, solo di una
disperazione troppo grande
per essere esternata.
A testa bassa e
improvvisamente ammansiti, i guardiani si avvicinarono piano alla
regina e alla
compagna che ora le stava di fianco, esibendo un breve inchino.
«Non potremmo
avere il tempo di salutarla?» domandò un
Calmoniglio che nulla aveva dell’aria
minacciosa di prima.
Harmonia si
diede ad un facepalm il cui eco si fece strada in tutta la sala del
trono.
«Per la Dea,
parlate di lei come se fosse una condannata a morte!»
sbottò irritata. «Non è
che non la vedrete mai più nella sua intera esistenza, o che
appena vi girate
Naevia la sgozza… anche se su quest’ultima cosa
non garantisco, dovete giusto
pregare che non sia interessata a dei particolari studi
sull’anatomia
dell’ultima abitante di Punjam Hy Loo»,
ridacchiò.
Spinse
leggermente la fatina verso i compagni, invitandola a prendersi tutto
il tempo necessario
per salutarli mentre lei li girava per ritirarsi nelle proprie stanze.
Dopo qualche
passo, però, Harmonia si fermò.
Gettò lo
sguardo dietro di sé, notando i guardiani che si davano a
quel genere di baci e
abbracci riservati ai detenuti che stanno per andare sulla sedia
elettrica,
tutti raggruppati davanti all’amica ad aspettare il proprio
turno.
Immediatamente dietro di loro, il portale per la Terra. Sorrise.
Stiracchiò le
zampe posteriori pestando gli zoccoli a terra, assicurandosi di avere
una buona
presa a terra con quelle anteriori; lanciò uno sguardo a
Myricae: pollice verso,
diceva l’Ophidian. E che pollice verso fosse, allora.
La regina si riempì
i polmoni di tutta l’aria che potevano contenere, inspirando
profondamente.
«QUESTA.
È. PHANTASIA!»
Una zoccolata
in perfetto stile spartano sulle loro schiene indifese, ed il varco si
chiuse dietro
i guardiani che vi caddero dentro mentre imprecavano e bestemmiavano.
Dentolina tentò
di controbattere, ma Harmonia era ormai lontana sulle scale con la
propria
partner facendosi con lei grasse ridate. “Se trattano
così gli ospiti”, pensò
seguendo Naevia nel mentre che l’accompagnava a fare un giro
del castello che
sarebbe stato la sua casa per chissà quanto,
“forse dovrei iniziare a
preoccuparmi”.
Non poteva
ancora immaginare quanto avesse ragione.
_____________________________________________________________
Angolino
dell’autrice
Sì, ci ho messo
più tempo del solito ad aggiornare, ma ultimamente fra
capitoli lunghi
lunghissimi e vacanze le tempistiche si allungano pure loro
:’D
Spero che i
vari altarini scoperti non risultino troppo confusionari, nel caso me
ne scuso,
ma lascio il giudizio ultimo a voi e ad eventuali persiani che vogliono
contestare l’immane figaggine di Leonida
Harmonia; ne approfitto per
ringraziare chiunque stia seguendo la storia e ci tenga a farmi sapere
cosa ne
pensa, ma anche solo a chi la legge ovviamente, anche perché
da un paio di
recensioni ho potuto capire e correggere alcune imprecisioni/eccessi
qua e là,
per cui grazie di cccuore a tutti :3
La canzone che ho utilizzato
è "Little Sunshine - An Original MLP Song" di Ink Rose che
potete trovare qui,
e che è la stessa canzone alla quale fa riferimento il
titolo di questa fanfiction.
Vi lascio con un
mio disegno fatto a marzo (COFF COFF non è chissà
cosa e ora non sarebbe certo
meglio COFF COFF) di una piccola Harmonia con sua madre, al quale mi
sono
ispirata per descrivere una delle tante drammatiche scene alle quali ha
assistito
Myricae :)
Alla prossima!
|
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Capitolo 13 *** Dance into the fire ***
Avviso:
regà, non potete nemmeno immaginare
l’immane quantità di disagio presente
dall’inizio di questo capitolo alla parte
scritta in grigio, non potete :’D
Onde
evitare
traumi generali (?) o paure per cosa verrà dopo, rassicuro
tutti sul fatto che
peggio di così a Phobos non può proprio andare,
NON può raggiungere un picco
del disagio peggiore di questo, non è umanamente
possibile: il culmine è
quello che troverete scritto qui, non verrà nulla di
paragonabile a tanta
follia, giuroH! :’D
Se
proprio
non siete avvezzi al disagio della sottoscritta, volendo potete saltare
direttamente alla parte scritta in grigio chiaro anziché
nero, che tanto dai
discorsi si evince comunque ciò che è successo :)
Buona
lettura, si spera! :’D
_________________________________________________________________
“Cosa cazzo stai
aspettando?”
Eh, bella domanda: cosa cazzo stava
aspettando? Un
invito scritto? L’autorizzazione firmata da mamma e
papà come a scuola?
Guardò il pugnale
poggiato lì a terra, quasi
ipnotizzato dalla lucentezza dell’acciaio che risplendeva
sotto le macchie di
sangue ora secco e rappreso, ora ancora fresco e dai colori vividi e
brillanti:
la lama lo stava chiamando, lo stava facendo da svariato tempo ormai,
ma lui -codardo
com’era- non si era ancora deciso a rispondere a quella
chiamata.
Non si poteva dire che non provasse
almeno ad alzare
la cornetta, però: il coltello sul polso o sul collo o
dovunque ci fosse una
vena o un’arteria da recidere lo posava pure, ma ogni volta
finiva per
fermarsi. Non sapeva perché, non aveva idea di cosa lo
trattenesse dallo
spingere a fondo nelle carni quella maledetta lama fino a vederla
affogare nel
sangue scuro e denso, sapeva solo che -appena sulla pelle comparivano i
tagli
provocati dal metallo affilato che la sfiorava- gettava via tutto e si
rannicchiava a piangere, e piangere, e piangere, finché la
gola non gli
bruciava ed il respiro si faceva affannoso.
Anche allora pregava di morire
soffocato dalle sue
stesse lacrime, dal muco che gli si riversava dal naso gocciolante alla
gola,
ma pure lì le sue speranze si infrangevano contro il suo
corpo che -quasi
volesse fargli uno sgarbo- si riprendeva pian piano, normalizzandosi e
tornando
nelle stesse condizioni in cui lo aveva lasciato poco prima
dell’ennesima
crisi.
Voleva farla finita, eppure non ci
riusciva.
Sarebbe bastato poco,
così poco, accidenti! Un taglio nel
punto giusto, uno soltanto, e avrebbe raggiunto Thorax
nell’aldilà prima ancora
di rendersi conto di stare morendo.
Allora e solo allora, Phobos
sarebbe stato un uomo
libero, o almeno così la vedeva lui: nessun problema a cui
pensare, nessun
martellio incessante nella testa quando cercava di ricordare qualcosa
del suo
passato, nessun sentimento di vendetta che lo logorava incessantemente
a causa
della consapevolezza che -se le cose fossero andate come
l’ultima volta- ciò
che avrebbe ottenuto sarebbe stata solo un’umiliazione dopo
l’altra. Una morte
altrui dopo l’altra.
Inevitabilmente, lo sguardo gli si
posò sul cadavere
del leone nero davanti a sé; prese ad accarezzarlo con
cautela, lentamente,
come a non volerlo svegliare. Anche perché questa volta il
pericolo che si
svegliasse non c’era proprio.
Forse non aveva ancora
metabolizzato il lutto, ma
Phobos continuò a fare le carezze alla propria bestia come
se nulla fosse, si
comportava nello stesso modo di quando il fedele compagno gli dormiva
in grembo
e non voleva svegliarlo perché ora russava in modo alquanto
buffo, ora sbavava
muovendo le zampe come se stesse sbranando una preda, o -più
semplicemente-
perché adorava guardare Thorax sonnecchiargli vicino; gli
piaceva la sensazione
di accoglienza che emanava la sua pelliccia, a volte infilava la
propria testa
nella sua criniera anche solo per sentire il pelo che gli solleticava
il volto,
anche solo per sentire il calore di una casa, di una famiglia, di
qualcuno che
lo amasse.
E quel qualcuno era morto.
Per lui, fra l’altro,
come se potesse valere la pena
dare la vita per un soggettone quale lui stesso era! Un tale spreco
avrebbe
dovuto essere ritenuto illegale!
Del resto era solo un uomo buono
solo a collezionare
una figura di merda dopo l’altra, a mandare al macello gli
altri al posto suo, ad
annegare i propri dispiaceri fra una cassa di birra e uno shot di AK-47
e un
numero indefinito di bottiglie di whiskey che era finite per
annebbiargli la
vista, la mente, l’anima: stava bene, da sbronzo, stava bene
come non era mai
stato. Talmente bene che i suoi occhi -anziché rivolti a
quel povero leone che
gli giaceva in grembo- erano già alla ricerca del prossimo
alcolico da ingurgitare,
della prossima botta da dare a quel suo povero fegato nella speranza di
vincere
quel braccio di ferro che stava protraendo col suo stesso fisico: se
proprio
doveva finire all’altro mondo, voleva farlo da ubriaco.
Allungò una mano verso
la prima bottiglia che gli
capitò a tiro, sollevandola con le mani tremanti come se
fosse lo sforzo più
immane che avesse mai fatto.
«Con questa»
indicò l’etichetta della bevanda, una
vodka Spyritus che -a detta sua- Halley doveva avergli lasciato prima
di
sparire dalla sua vista, forse un regalo per scusarsi «o
andiamo all’altro
mondo, o prendiamo fuoco. In entrambi i casi, ceneremo
nell’AdeH!... o in
qualsiasi buco di culo si finisca da morti, insomma»
asserì bloccandosi qualche
istante. Guardò il compagno «Secondo te
finirò in paradiso o all’inferno, eh?»
Thorax, ovviamente, non rispose.
«Per gli dei, come sei
malmostoso!» gridò seccato
agitando la bottiglia aperta, schizzando vodka ovunque.
Improvvisamente, iniziò
a ridere come un deficiente «Ho capito, ho capito: vecchio
bastardo, ne vuoi un
bicchiere anche tu! Ti ho scoperto!» diede una pacca sulla
spalla della bestia «Aspetta
eh, ora te lo verso, abbi pazienza».
Seduto com’era,
alzò il braccio fino ad incontrare i
bordi del tavolo dove ricordava esserci qualche bicchierino per
superalcolici. Troppo
pigro per alzarsi, Phobos andò a tentoni con la mano
provando ad afferrare uno
di quegli shot: ci sarebbe pure riuscito, se non fosse stato ubriaco
fradicio,
ma la sua coordinazione degna di un bradipo fece cadere tutto a terra,
o
meglio, addosso.
Probabilmente
l’ubriacatura anestetizzava efficacemente
il dolore provato dalle schegge piantate fra i capelli, sul collo e sul
volto, fatto
stava che si mise a frugare tranquillamente fra i pezzi di vetro alla
ricerca
di un bicchiere integro come se nulla fosse.
Quando alzò la mano,
questa era costellata di frammenti
scintillanti insanguinati, ma di un ambito bicchierino nemmeno
l’ombra.
«Al diavolo i bicchieri!
Sono da fighette con le palle
atrofizzate!» tuonò tirando un pugno alla gamba
del tavolo con la mano ferita,
visibilmente furioso.
Non solo le schegge gli penetrarono
ancora più a fondo
nelle carni, non solo si rese conto -continuando a ridere- di aver
perso la
sensibilità di un dito o due a causa dei nervi recisi, ma
suddetto tavolo di
legno massiccio finì pure per crollargli in testa.
Sentì qualcosa di caldo
colargli dalla tempia fino al
labbro. Lo leccò: sangue.
Improvvisamente, Phobos
iniziò a ridere in modo folle,
rumoroso, a tratti inquietante, quasi fosse inebriato
dall’odore ferroso dei
rivoli rosso intenso che gli scendevano dall’attaccatura dei
capelli al naso
fino ad insinuarsi fra gli abiti logori e strappati, dove andavano
svanendo fondendosi
col colore cremisi delle vesti zuppe d’alcol. Lui rideva, e
rideva, e rideva
ancora, e rise ancora di più quando -tastandosi la fronte-
notò come un
frammento di legno di modeste dimensioni si fosse conficcato su di
essa; lo
studiò qualche istante, poi vi versò sopra una
bottiglia mezza vuota di
Everclear.
Alcol di grano puro al
novantacinque percento.
Benzina, in pratica.
«Thorax! Thorax!
Guardami, dannazione!» incitò il
leone scattando in piedi, il cadavere dell’altro che
rotolò giù dalle sue gambe
fermandosi quando incontrò una pila di casse di birra.
Ovviamente vuote. Il
rosso iniziò a ballettare come se fosse in preda alle
convulsioni «Guardami!
Sono un fottuto unicorno! Un unicorno!
Ihihihihihihihihihihi!» nitrì
entusiasta, le braccia piegate a sembrare ali di una gallina.
Iniziò a razzolare
tutt’intorno, chiocciando come
suddetto animale; si strappò gli abiti di dosso, mostrando
il marchio sul
braccio che andava sempre più diramandosi sul resto del
corpo.
«Alla salute, amico mio,
e a nemmeno mezzo di questi
giorni!» esclamò verso il leone, portandosi al
contempo la vodka di prima alla
bocca e mandandola giù tutto d’un fiato.
O almeno provandoci, dal momento
che -complice la
sbornia triste- un terzo dell’alcolico finì a
terra, un altro terzo sul suo
petto mischiandosi al sangue e, infine, solo un ultimo terzo gli
finì in gola.
Ma fu più che sufficiente, fu pure troppo.
Aveva perso la dignità,
e poteva pure starci.
Aveva perso la ragione, e -tutto
sommato- non era
nulla di così grave rispetto a ciò che stava
facendo ora.
Ma il rispetto per
l’unica creatura che lo rispettasse
a sua volta, quello, lo stava
perdendo solo ora.
E la situazione era a dir poco
tragica.
Razzolando
e
sbandando, chiocciando e nitrendo, Phobos infine si avvicinò
al corpo esanime
di Thorax, ovviamente fermo dove l’aveva sbattuto poco prima;
si chinò su di
lui. Non per accarezzarlo, non per accovacciarsi fra la sua pelliccia
morbida e
calda, ma solo per servirsi delle sue enormi zanne per aprirsi un paio
di
birre, una delle quali gliela ficcò in bocca.
«Chi non beve in
compagnia, o è amico di Harmonia o
l’ha dato via!» brindò insieme a lui, se
non fosse che -con tutta la forza che
aveva messo in quel brindisi- le bottiglie finirono per impattare con
violenza
e spaccarsi vicendevolmente.
Iracondo, lanciò un paio
di imprecazioni che avrebbero
fatto impallidire qualsiasi divinità, dando un pugno sul
muso della bestia. Un
crack provenne da quest’ultimo, ma nemmeno lui stesso
capì bene se fosse la
mascella del leone ad aver ceduto o qualche altro osso della sua mano
ad essere
stato ulteriormente scavato dal vetro.
«Vaffanculo, cazzo!
Dannato animale bavoso mangiato
dalle mosche, guarda cosa mi hai fatto! Guarda, mannaggia al
settebello!» imprecò
premendo il palmo sul pelo nero, rendendolo appiccicoso per il sangue
che
sgorgava da esso. Tirò un altro paio di imprecazioni, poi
gli lanciò addosso
ciò che rimaneva del contenitore: gli si piantò
in mezzo agli occhi, a Thorax,
prendendone di striscio uno che iniziò a colare una sostanza
gelatinosa.
Phobos gli rise in faccia senza
ritegno, tenendosi lo
stomaco dalle grasse risate che si stava facendo ad umiliarlo da morto.
«Ben ti sta!
Così impari a metterti contro il boss,
cazzo! Non si fotte l’unicorno!» gridò,
mettendosi in quella che doveva
sembrare una posa epica da stallone-che-monta-il-mondo ma che, in fin
dei
conti, era qualcosa di più simile ad un My Little Pony con
una brutta ulcera
perforante allo stomaco.
Trotterellando a zig zag,
arrivò finalmente ad un
armadio rovesciato a terra: lo aprì. Rum e cola alla mano,
si rovesciò
direttamente le bottiglie semi vuote in bocca, mettendosi a fare i
gargarismi
mentre frugava pazientemente nel sacco della spazzatura.
«Bingo!»
gridò entusiasta, sollevando in aria un lime
già spremuto e coperto di muffa.
Violando una serie non meglio
definita di norme
igieniche, rischiando di prendersi svariate delle malattie elencate
nella lista
dei rischi derivati dal consumo di alimenti marci in decomposizione,
andando
contro ogni singola punta di ragione umana che poteva essergli rimasta
nel suo
delirio alcolico, Phobos se lo ficcò in bocca.
Iniziò a masticarlo per far
uscire il succo rimasto in quel pezzo di lime secco e macerato,
assumendo
un’espressione alquanto goduriosa -letteralmente,
perché dalla macchia sull’inguine
pareva essere davvero venuto- nel
farlo.
Voleva un Cuba Libre? Aveva avuto
un Cuba Libre.
Mandò giù
tutto in un colpo solo, sospirando e facendo
schioccare la lingua sul palato quando lo finì come
apprezzamento.
Restò qualche minuto a
fissarsi i piedi, dondolando, come
se stesse tentando di mettere a fuoco la terra sotto di sé
che ora sentiva
mancargli; si chinò, tastandosi le gambe dai polpacci, al
ginocchio, alla
coscia, risalendo poi sul torso nudo finendo a toccarsi il volto lercio
e
maleodorante.
Lo esplorò a lungo,
sembrava che avesse
improvvisamente dimenticato la sua stessa fisionomia e avesse bisogno
di
riconoscersi, le dita insanguinate che scorrevano sulla pelle butterata
dalle
ferite lasciando dietro di sé scie rossastre dal sapore
metallico; insistette
per diverso tempo, prendendo poi un pezzo di vetro nel quale si
specchiò.
Sorrise.
Silenzioso, Phobos si
accasciò nuovamente vicino al
leone nero, portando con sé una vecchia radio che -dopo
qualche tentativo- si
convinse a funzionare. Giocherellò un po’ con i
pulsanti per trovare una
stazione che trasmettesse qualcosa che gli piacesse, ma -vedendo che
quell’aggeggio infernale non collaborava-
abbandonò presto la ricerca.
Si frugò nella tasca,
tirandone fuori due sigari
mangiucchiati; se ne mise in bocca uno, l’altro lo diede a
Thorax. Li accese.
Lasciò cadere la testa
all’indietro, socchiudendo gli
occhi: che il fato scegliesse per lui.
“Nightfall
covers me, but you know the plans I'm
making
Still
overseas, could it be the whole Earth opening
wide
A
sacred why, a mystery gaping inside
A week is why, until
we dance into the fire!”
«Ottima
scelta», sussurrò, facendo il segno di
“ok”
rivolto alla Luna che si specchiava nei frammenti colorati ai suoi
piedi.
Inspirò profondamente
una, due, tre, cinque, dieci
volte, finché non avvertì chiaramente
l’odore pungente del tabacco riempirgli i
polmoni e le narici di fumo scuro e denso, finché non
consumò tutto il sigaro.
Se lo spense sul palmo, incurante del dolore.
«Quello lo
fumi?» domandò alla bestia indicando il
suo, di sigaro. Attese qualche istante, poi fece spallucce ridendo
«Chi tace
acconsente, vecchio mio, per cui» glielo tirò
fuori dalla bocca avvicinandolo
alla propria, la cenere che gli cadeva sul petto bagnato
dall’alcol e dal
sangue e dalla schiuma rosea che gli colava ai lati della bocca.
Si pulì con un braccio,
compiaciuto.
«Imminente coma etilico,
intossicazione cronica da
etanolo, reni e fegato al collasso: sto una meraviglia,
insomma» rise forte,
sempre più forte, fino a che tante risate non gli
contrassero il volto in una
smorfia divertita e impaurita allo stesso tempo.
Quell’espressione aveva
del grottesco, vista in quel
preciso contesto da far accapponare la pelle: Phobos mezzo nudo che
trasudava
letteralmente alcol da tutti i pori, Thorax zuppo quanto il padrone per
le
birre spaccategli in testa, gli abiti fradici abbandonati sulle macerie
anch’esse bagnate dalle bevande rovesciate o vomitate in due
giorni di bevute
selvagge, persino il suolo si era impregnato talmente tanto degli
alcolici da
puzzare quanto quest’ultimi.
Eppure lui rideva, e rideva, e
rideva ancora, e
intanto piangeva, e piangeva, piangeva come non aveva mai pianto in
vita
propria: non sapeva il perché, ma lo faceva stare meglio.
La radio smise di funzionare
qualche istante e lo
interruppe, ma non fu nulla che un colpetto non potesse risolvere.
“A
chance to find a phoenix for the flame
A chance to die but
can we dance into the fire!”
Si tolse il
sigaro dalle labbra, osservando come ipnotizzato la parte del tabacco
che
ancora bruciava, gli occhi oro opaco ora ravvivati da quel luccichio
arancio-giallastro.
Era sempre
stato affascinato dalla danza delle fiamme, dal modo in cui si
contorcevano
come bestie feroci in quella lotta fatta di scintille e lapilli e
calore
intenso, poteva dire di trovare quasi eccitante il modo in cui il fuoco
consumava ogni cosa sul suo cammino lasciandosi dietro una scia di
sangue e
morte e distruzione. Ogni cosa, e ogni persona.
Si leccò le
labbra, il gusto pungente dell’alcol puro che gli fece
pizzicare da lingua da quant’era
forte: Spyritus ed Everclear, un connubio perfetto. Per morire, si
intende.
Gettò il
mozzicone acceso per terra. E allora fu l’inferno.
“Dance
into the fire,
that
fatal kiss is all we need!
Dance
into the fire
to
fatal sounds of broken dreams!”
Era uno
spettacolo a dir poco meraviglioso: le macchie scure sul terreno che
improvvisamente si tramutavano in un caldo tappeto di fuoco dalle
curiose
sfumature azzurrognole e verdastre, i vapori dell’etanolo che
bruciavano
accendendo l’aria in un effetto domino sempre crescente,
sempre più vasto,
sempre più fuori controllo, fino a formare un vero e proprio
muro che s’innalzava
fino al cielo e oltre.
E lui lì,
appoggiato a delle scatole vuote ed al cadavere del suo leone coperto
di larve
di mosca che già lo stavano mangiando, che attendeva di
diventare parte del
combustile che avrebbe alimentato suddetto magnificente e poetico
spettacolo
naturale chiamato “incendio”.
Che poesia, che
scena, che pomposità!
“Dance
into the fire
that
fatal kiss is all we need!
Dance
into the fire
when all we see is the view to a
kill!”
Quando le fiamme
iniziarono a ghermirgli le gambe divorandogli la pelle e scavandogli le
carni,
Phobos sorrise con tutta la serenità del mondo; non
urlò, non emise nessun
suono, nessun lamento, molto semplicemente si strinse a Thorax,
accarezzandolo.
«L’amore
è uno schifo»,
gli disse ridendo.
La radio fu
l’ultima cosa a bruciare.
«Hai
combinato un bel casino».
Si svegliò
di colpo, guardandosi intorno: nero, era tutto nero, nemmeno
uno sprazzo di luce in tutto quel paesaggio sconfinato.
Guardò in
basso, notando come il pavimento -o qualsiasi cosa fosse- su cui
se ne stava paresse acqua, a giudicare dai cerchi concentrici che si
diramavano
dai suoi piedi quando si dondolava per bilanciarsi. Phobos
girò e rigirò su se
stesso a lungo, talmente a lungo che la testa finì per
girare insieme a lui,
ahimè senza risultato: non aveva idea di dove si trovasse,
non sapeva a chi
appartenesse la voce sentita poco prima di svegliarsi, a dirla tutta
non
ricordava nemmeno cosa stesse facendo prima di… prima di
fare qualsiasi cosa che
stesse facendo ora, insomma.
Avvertì un
certo bruciore e calore su tutto il corpo, ma non riuscì a
spiegarsi da cosa dipendesse; ci provò pure, a fare mente
locale degli ultimi
minuti prima di svegliarsi, ma nella sua mente c’era solo e
soltanto un vuoto
più vuoto di quel posto: nessun riferimento
spazio-temporale, nessun ricordo,
niente di niente.
“Forse sto
solo sognando”, pensò, e in effetti poteva pure
essere una
spiegazione piuttosto plausibile.
«Benvenuto,
bellezza, ti stavo aspettando».
“Questo
però non me lo sono sognato”, rettificò
poco dopo, sentendo molto
chiaramente la voce di poco prima dietro le sue spalle.
Col cazzo che si
sarebbe girato, col cazzo! Aveva visto abbastanza film
horror per sapere che, facendolo, poi l’assassino di turno lo
avrebbe sgozzato
come un agnello il giorno di Pasqua, cascarci nella realtà
sarebbe stato un
insulto alla sua stessa intelligenza! Decise allora di seguire
quell’istinto,
preferendo chiudere gli occhi e contare fino a dieci, venti, anche
cento se
fosse stato necessario.
Contando e contando,
infine si girò: non c’era nessuno.
Tirò un
profondo sospiro di sollievo: suggestione, nulla di più.
Calmatosi almeno sul
fatto che fosse solo lì dentro, girò i tacchi e
si
avviò per tornare indietro… o avanti, o dovunque
stesse per andare senza un
minimo di orientamento; improvvisamente, però,
sbatté contro qualcosa.
O meglio, qualcuno.
A fargli da muro,
c’era un uomo alto dall’aspetto androgino con la
pelle
bianca e diafana, che lo sovrastava non di poco troneggiando su di lui
con
quella sua cascata di capelli più neri del luogo in cui
galleggiavano, percorsi
qua e là da un curioso luccichio biancastro ora fisso, ora
intermittente, come
piccole stelle che rischiavano quella distesa di buio pesto che era il
cielo
notturno. Sulla sua schiena svettavano un paio di grandi ali, le piume
nerastro-violacee simili a vetro percorse da rune fucsia acceso.
Phobos
sentì uno strano brivido percorrerlo, la saliva che faticava
a
scendergli giù per la gola: non sapeva il perché
di quel giudizio, ma da uomo
eterosessuale qual era lo trovava quasi… affascinante? Era
quello il termine
giusto?
Va bene che lo aveva
mezzo scambiato per una donna, eyeliner e rossetto potevano
facilmente trarre in inganno, ma non riusciva a spiegarsi come potesse
aver
avuto anche il minimo dubbio di poter trovare sensuale qualcuno che
indossava
un completo di pelle e cuoio - in perfetto stile stereotipo
cinematografico da gay
bar del secolo scorso- e borchie, con tanto di cinghie che formavano un
pentacolo sul petto fra l’altro!
Assorto
com’era nei suoi pensieri, non si accorse della mani che si
misero
a palpeggiarlo letteralmente ovunque, come a studiarlo.
«Di persona
sei pure meglio di quanto credessi l’ultima volta, a dirla
tutta potrei pure farci un pensierino» rifletté ad
alta voce l’uomo, ammiccante.
«Ad Apophis però non lo diciamo, che se inizia a
fare il geloso chi lo
sopporta? Io no di certo, preferisco metterlo a tacere infilandogli il
mio
cazzo in gola, per cui eventualmente toccherà a te
farlo… anche se la vedo
dura, dal momento che lui è lassù»
indicò quello che doveva essere il soffitto
di quel luogo, dove una luce bianca iniziò a brillare,
formando qualcosa di
molto simile alla Luna «e tu quaggiù»
indicò il pavimento.
Phobos
trasalì: Apophis… quel nome non gli era affatto
nuovo, sentiva di
conoscerlo, sapeva di conoscerlo, gli suonava così
tremendamente familiare!
Una parte di
sé era convinta al cento percento di averlo già
sentito, un’altra
invece era convinta che probabilmente quello era solo
l’ennesimo di tanti,
troppi, nomi che gli vagavano nella mente senza meta, senza
destinazione, senza
un volto a loro assegnato.
«Come
sarebbe a dire “l’ultima
volta”?» domandò infine, facendosi
coraggio.
L’altro lo
guardò qualche istante, confuso esattamente come lo era lui.
«Oh,
è vero! Me ne stavo quasi scordando!»
esordì poco dopo dandosi una
pacca sulla fronte, come se avesse improvvisamente avuto
un’illuminazione.
«Devi scusarmi, zuccherino, mi ero completamente dimenticato
del lavoro della
Barbie Platinata col tuo povero cervello: ovvio che non ti ricordi di
me, non
ti ricordi di un bel cazzo di niente! Eheh!» rise, una risata
talmente affilata
che a Phobos parve quasi di sentirla lacerargli le carni.
Gli afferrò
il mento, le unghie affilate che lasciavano profondi segni
rossi sulla pelle pallida.
«Ma ora
c’è qui lo zio Endy a darti una mano,
contento?»
«Lo zio
En-»
Una fitta lancinante
gli attraversò la testa da una parte all’altra,
lasciandolo senza fiato.
Anche questa volta, a
Phobos parve di aver già provato quel dolore, di
aver già vissuto quella spiacevole sensazione di sentire
migliaia di coltelli che
gli si conficcavano all’unisono nella materia cerebrale
riducendola in zuppa, di
essere familiare a quella sofferenza. Eppure…
eppure…
Eppure ora
si ricordava fin
troppo bene che ad infliggerglielo era stato Apophis, la prima volta in
cui gli
aveva fatto visita nella sua testa.
L’altro lo
guardò, soddisfatto e alquanto compiaciuto.
«Come ho
detto, lo zio Endy pensa a te» gli disse languido
applaudendosi
da solo, poi agitò le mani davanti a sé
«non ringraziarmi, ti prego, ho solo
fatto il mio dovere di divinità fastidiosa e bastarda fin
dentro il midollo: è
sempre un immenso piacere fare uno sgarbo a qualcuno, del resto sono io
dio proprio
di questo genere di cosucce da umorismo spiccio» rise.
«C-cosa
m-mi… m-mi… hai f-fa-fatto?»
balbettò il rosso da terra, tentando
inutilmente di rimettersi in piedi a causa della testa che ancora gli
martellava
Il suo interlocutore
gli si avvicinò.
«Barbie ti
priva della memoria, io te la restituisco» spiegò
brevemente. Gli
tese una delle ali per aiutarlo a rialzarsi «O almeno, io
annullo i suoi
patetici incantesimi da dilettante qual è: vanta
chissà quanta esperienza con
la magia, si proclama come “l’unico Lunanoff degno
di sedere sul trono del Palazzo
della Creazione”, ma la verità è che
non riesce nemmeno a farsi una tinta come
si deve. Sapevi che è biondo platino tinto, eh? Al naturale
è castano, lui!
Chiaro, certo, ma castano non è biondo platino,
eh!» gli sussurrò all’orecchio
quasi stesse confessando chissà quale segreto.
Phobos si mise sulle
proprie gambe, aspettando a lasciare la presa salda
di quelle piume -incredibilmente dure e affilate, aveva notato-
finché gli arti
non smisero di tremare per lo sforzo al quale si era appena sottoposto.
Gettò uno
sguardo verso il proprietario di suddette piume: quella
voce…
quella voce era la stessa che aveva sentito quando aveva tentato di
attaccare
Apophis, la stessa identica voce di allora!
Allora si era detto
che probabilmente era un suo alleato, ma adesso
trovava alquanto improbabile che un suo collaboratore si mettesse a
riparare ai
suoi danni; la memoria gli era tornata, avrebbe dovuto essere contento,
ma non
ci riusciva nemmeno se si concentrava: c’era sotto qualcosa,
ma non aveva idea
di cosa fosse.
«Non
guardarmi così, avanti!» lo canzonò
l’altro alzando le mani in segno
di resa, notando come Phobos lo stesse fissando insistentemente.
«Lo so, lo so,
Barbie ha i capelli troppo morbidi per pensare che siano opera di ore e
ore e
ore di lotta in bagno contro il decolorante e la tinta che pare avere
vita
propria da quanto si sparge ovunque,
ma questi poveri occhi» se li indicò, due macchie
nere nelle quali facevano
capolino un paio di iridi e pupille bianco argenteo ciascuna
«hanno visto cose
che voi moscerini non potete nemmeno immaginare. Tipo Apophis quando si
fa la
maschera con-»
«Chi diavolo
sei?» lo interruppe Phobos.
L’uomo
sorrise.
«Endless
Sorrow» disse con un inchino «dio delle disgrazie e
della
sventura, mietitore di speranze e sogni, flagello di mortali e
immortali,
macellaio di divinità, nonché quello che si
sbatte Apophis Nightcrawler alias
La Barbie Platinata. Non sono di queste parti, diciamo che mi trovo in
questo
universo in villeggiatura: troppe grane, da me, troppe principesse del
giorno e
della notte e dell’amicizia e dell’ammmore e di
stocazzo. Ero stressato e avevo
bisogno di una pausa, per cui» allargò le braccia,
aprendo al contempo le ali
«eccomi qui».
Gli si
avvicinò, guardandolo dall’alto in basso
«Mentre tuuuuu…»
«Io
sono-»
«Phobos.
Capelli rossi, occhi dorati, seimila anni, principe dei
Chronalion e ultimo di essi, amante dell’allora principessa
degli Starequus,
Harmonia, unica sopravvissuta della sua razza nonché Regina
di Phantasia e del
pianeta Exodus. Siete diventati coppia fissa, millenni fa, ma la vostra
storia
è tragicamente finita settecento anni or sono per colpa di
Barbie. Nonostante
il modo completamente differente col quale avete affrontato la
situazione -uno
schizzato e schiavo di Apophis, l’altra disperata ma che ha
comunque trovato la
serenità con una naga ninfomane ermafrodita- vivete entrambi
consumati dal
senso di colpa: tu per non averle detto che non era colpa sua, lei per
non
essere riuscita a dirti addio».
I segni sulle sue ali
presero a brillare, poi Endless schioccò le dita:
comparvero un tavolo imbandito e due sedie, su una delle quali prese
posto lui.
«Questo lo so, tesoro mio, dimmi
qualcosa di nuovo».
Dire che Phobos si era
improvvisamente tramutato in una statua di marmo
non avrebbe reso sufficientemente bene l’idea di quanto fosse
sconvolta
l’espressione dipintasi sul suo volto.
“Endless
Sorrow, dolore eterno: un nome, una garanzia”, fu tutto
ciò che
riuscì a pensare nel mentre che il suo cervello si riduceva
in pappa, in
poltiglia, in un liquido denso che -se ondeggiava leggermente la testa-
gli
pareva di sentire scivolare da una parte all’altra della sua
scatola cranica
ora vuota, dal momento che tutto ciò che conteneva si era
volatilizzato
sentendo le parole del dio che aveva davanti.
Chronalion…
da quanto tempo non sentiva pronunciare quella parola da
qualcuno? Secoli? Millenni, forse? No era prima, molto prima, proprio
quando…
quando… no, no, no!
Si era ripromesso di
non sollevare mai più quel velo pietoso che -seimila
anni fa- aveva steso su quell’argomento, sulla sua vita prima che tornasse indietro, prima che
diventasse il partner della
Regina di Phantasia, e non intendeva scoprirlo proprio ora solo
perché qualcuno
dava a vedere di saperne su di lui più di quanto ne sapesse
lui stesso: ci sono
porte che non vanno aperte, libri che non vanno letti, vasi di Pandora
che non
devono essere scoperchiati, e per quel capitolo della sua esistenza
valeva la
stessa cosa.
E sarebbe valsa sempre.
Mostrarsi calmo,
però, non fu così semplice; anche se il rosso
riusciva a
nascondere bene il volto contratto dallo stupore, le sue mani tremanti
e la
sudorazione elevata lo tradivano.
«Come fai a-
a-»
«Potrei
essermi permesso di dare una sbirciatina ai tuoi ricordi, prima
che tu ti suicidassi» lo anticipò il dio
mettendosi un tovagliolo al collo «roba
interessante, devo ammetterlo, se non avessi finito le orecchie
d’infante
fritte con salsa Worcester sarei ancora qui a godermi lo spettacolo. Ma
purtroppo-»
«Suicidato?»
ripeté Phobos, tanto basito quanto incredulo.
Endless Sorrow lo
invitò a sedersi.
«Suicidato,
sì. Eri disperato per la morte del tuo amico leone, di
Thorax,
così ti sei spaccato ammerda di alcol -e droga, quelle canne
prima dei sigari
le ho viste eh!- finché non sei completamente partito di
zucca» si avvicinò il
dito alla tempia, muovendolo in cerchio per indicargli come avesse
perso
qualche rotella. «Ti sei dato fuoco, alla fine: scenografico,
non lo metto in
dubbio, ma ho visto talmente tanti roghi che non mi è poi
sembrato chissà cosa
di così spettacolare, a dirla tutta» concluse.
«Mi avrai
scambiato con qualcun altro, allora» lo interruppe sedendosi
«perché
da quel che ricordo io non mi sono mai suicidato né ho mai
pensato di farlo,
tantomeno ho motivi per averlo fatto o volerlo fare»
“tranne l’essere
intrappolato nel mio stesso subconscio”, avrebbe voluto
aggiungere, ma tacque.
«Hai qualche prova in merito, magari?»
«Oh,
ovviamente» rispose l’uomo alato, sorridendo.
Allungò una
mano verso il nulla che li circondava, sfiorandolo con
l’unghia
dell’indice come se volesse graffiarlo; contro ogni
aspettativa, uno squarcio
rosa acceso e violaceo si aprì in quel tessuto nero come la
pece, che iniziò a
sanguinare una serie di piccole sfere multicolore.
Il dio ne prese una
fra le dita, studiandola e gettandola nel bicchiere
davanti a sé: immediatamente, dinanzi a Phobos si
palesò una sorta di macchia i
cui contorni andarono allargandosi pian piano, delineandosi in qualcosa
che somigliava
molto ad uno schermo. Endless Sorrow gli fece segno di guardare, e
così fece:
le forme indistinte si delinearono poco alla volta, acquisendo
finalmente un
aspetto e un volto.
Il suo, per essere
precisi.
«Sono…
morto...?» mormorò il rosso, con un tono che aveva
dell’’interrogativo. Probabilmente aveva bisogno
che qualcuno lo svegliasse da
quell’incubo, ma non accadde: più guardava il suo
corpo carbonizzato, più il
ricordo di ciò che aveva fatto riaffiorava nella sua mente
stanca e dilaniata da
mille dubbi, da mille paure, da mille torture che stava subendo da
sette secoli
a quella parte.
L’altro
sospirò, quasi annoiato.
«Nah, non
puoi morire».
«C-cosa?»
Endless si
portò un boccone di quello che pareva essere curry alla
bocca,
masticando lentamente prima di rispondere. Lo mando giù,
leccandosi le labbra
dopo averlo fatto.
«Quello che
ho detto. Non puoi morire, pasticcino dolcino che non sei
altro. Non finché servi a Barbie, almeno. Avanti,
mangia».
«Ma io
vorrei sapere-»
«Saprai, ma
intanto mangia, che ti vedo sciupato. Sarebbe un peccato
sprecare tutto questo cibo gustandolo freddo, non è mica
come la vendetta» rise
il dio indicandogli il piatto «e anche quella va consumata
subito, parola di
chi ha atteso e si è trovato imprigionato come il
più patetico degli dei brutti
e cattivi. Anzi, solo cattivi: sono fottutamente fa-vo-lo-so, non
credi?»
Non sapendo
cos’altro dire, Phobos annuì.
Guardò il
proprio piatto, indeciso sul da farsi: non aveva nessuna voglia
di mangiare, ma non poteva nemmeno rifiutare un invito da parte del dio
delle
disgrazie e della sventura; non lo conosceva e non aveva idea di cosa
potesse
fargli, ma preferiva non scoprirlo.
Con uno sforzo immane,
dunque, si portò la forchetta alla bocca. Appena il
cibo gli sfiorò la lingua, alzò di scatto la
testa, come se fosse stato
svegliato all’improvviso.
«Piace il
curry di zio Endy, uh?» domandò l’altro,
intanto che metteva nel
piatto quelli che sembravano crostini dorati bruciacchiati.
«È…
È… è assolutamente delizioso.
Delizioso» rispose lui, sconcertato. Non
credeva di starlo dicendo per davvero, il rosso, ma non aveva altre
parole per
descrivere la tempesta di sapori che stava imperversando sul suo
palato: quel
piatto era semplicemente una delizia, una primizia come mai ne aveva
provate in
vita sua! Di fronte a tanto gusto, persino il suo suicidio non sembrava
più
così importante.
Ne mangiò
un altro boccone, poi un altro ancora, fino a quasi svuotare il
piatto, prima di continuare.
«Non credo
di aver mai mangiato qualcosa di sublime come questo» lo
indicò
con la forchetta, emozionato «dico davvero: è
speziato ma non eccessivamente,
si riescono a sentire tutti i sapori senza che uno sovrasti
l’altro, persino la
marcata nota piccante non disturba né intorpidisce la lingua
dopo averla avvertita,
per cui si riesce davvero a gustare fino in fondo. I miei complimenti,
sono
serio!»
Il dio
arrossì, facendo qualche moina da ragazzetta timida nel
mentre.
«Troppo
gentile, troppo gentile» lo ringraziò.
Gonfiò le ali, orgoglioso «Vedi,
il segreto sta nella placenta: bisogna lasciarla seccare al Sole a
lungo, ma mi
raccomando! Deve essere ancora attaccata alla madre, che altrimenti
perde
sapore e il piatto risulta sciapo! E se proprio vuoi fare il signore,
allora ci
aggiungi qualche pezzetto di feto umano appena strappato dal ventre
della sua
genitrice: amo soprattutto le manine» sollevò col
cucchiaio i presunti crostini
«sono una vera e propria benedizione per il palato, queste.
Le loro ossicine fanno
“crick crock” sotto i denti che è una
favola, scrocchiano che è un piacere!»
«WAT» esclamò
l’altro,
ingoiando l’ultimo boccone.
E pentendosene subito
dopo, quando sentì quel rumore di ossicina molli
rotte sotto un molare: non poteva essere vero, non dovev… lo
era, a giudicare
dal minuscolo piede che aveva sulla lingua.
Sconvolto, schifato e
pure un po’ impaurito, Phobos si gettò
immediatamente sulla caraffa che aveva davanti, svuotandola tutta
d’un fiato:
aveva appena mangiato dei feti, dei fottutissimi feti umani! Quello era
cannibalismo, per gli dei!
«Acqua!
Dammi altra acqua! SUBITO!» gridò quando la
terminò.
Endless lo
accontentò subito, facendone comparire un’altra;
solo dopo aver
bevuto qualcosa come quattro o cinque litri d’acqua,
finalmente il rosso alzò
la testa, visibilmente confuso: c’era qualcosa di strano in
quell’acqua, una
strana sfumatura rossiccia che però non sapeva di vino, e
nemmeno di… oh no.
«…
Non era acqua, vero?» rifletté ad alta voce dopo
qualche istante, inorridito.
La divinità
rise senza ritegno alcuno.
«Liquido
amniotico».
«Ma che
cazzo di problemi hai?!!» tuonò Phobos, intento a
ficcarsi due
dita in gola nel tentativo di vomitare.
«Mi
piacciono i bambini. Letteralmente»
rispose Sorrow facendo spallucce, come se fosse la cosa più
naturale del mondo.
«Ho solo gusti particolari, quante storie! Vedo una donna, la
scopo o la stupro
a seconda dei casi -perché qualche povera disperata che me
la dà
volontariamente c’è pure, cosa credi?-, la
ingravido, la sventro per mangiargli
il figlio: non è difficile da capire, è solo un
gusto differente dal tuo!»
spiegò, mostrandosi quasi offeso. «Non hai mai
conosciuto nessuno a cui
piacessero gli insetti? Ecco, vedila in questo modo: sono strano, tutto
qui».
«E mangi i neonati!»
«I feti,
prego» precisò «sono più
gustosi dei neonati, meno acquosi e meno
pieni di grasso. Ho anche io una certa linea da mantenere, cosa
credi?»
«Credo che
tu sia un fottuto pazzo. Divino, certo, ma pazzo.»
L’altro
stava per rispondere, ma si limitò a far comparire
l’ennesimo
piatto davanti al naso di un Phobos particolarmente iracondo. Il rosso
sollevò
il coperchio, rivelando un plumcake ai mirtilli ancora caldo sul quale
si stava
sciogliendo una porzione di gelato al fiordilatte, con topping di
caramello e
cioccolato bianco.
Lo guardò
sospettoso qualche istante, punzecchiandolo con la forchetta,
non fosse mai che ci avrebbe trovato dentro un dente da latte.
«È
un plumcake?» domandò.
«È
un plumcake. Un normalissimo, comunissimo, buonissimo,
plumcake»
rispose il dio, con tanto di bavetta alla bocca, sembrava glielo stesse
mangiando con gli occhi!
«…
Niente feti, qui dentro?»
Endless lo
guardò orripilato, quasi avesse bestemmiato in chiesa.
«Sono il mio
piatto preferito in assoluto, i plumcake, non mi azzarderei mai ad inquinarli con pezzi di corpo di
quegli schifosi mortali, mai e poi mai! Piuttosto mi strapperei una
piuma dopo
l’altra, mi taglierei i capelli, uscirei di casa senza
l’eyeliner, ma mai, MAI,
permetterei a dei luridi e lerci ningen
di rovinare tanta perfezione! MAAAAAAAAAI!!!».
«Parli come
Zamasu, cristo» commentò Phobos sprezzante,
scuotendo la testa.
«Zamasu non
aveva il mio fascino, ti prego, vuoi mettere il sottoscritto»
fece scivolare le mani dal collo fino ai fianchi, in un modo che doveva
sembrare provocante ma che -a conti fatti- aveva più
dell’inquietante «con
quell’omuncolo verde? Non c’è paragone,
avanti».
«Ma mi
sembri ugualmente interessato ai mortali, sbaglio?»
«Sbagli,
sì» rispose secco.
Si versò da
bere, temporeggiando prima di continuare.
«A me non
interessa niente di nessuno: sono una divinità capricciosa,
vogliosa
e pigra, tremendamente pigra, motivo per cui me ne sbatto il cazzo di
tutto e
tutti. Voglio solo divertirmi, in quest’universo, e con
“divertirmi” intendo
guardare esseri inferiori a me che si fanno la guerra, che muoiono dopo
dolori
indicibili, che schiavizzano altri esseri, che si dannano
l’anima per trovare
una via d’uscita quando questa non c’è,
che si nutrono come parassiti di ciò
che ho precedentemente elencato: sono un dio, Phobos, un dio crudele, e
questo è il modo in cui
mi diverto»
disse sorridendo tranquillo.
Poggiò i
gomiti sul tavolo «Oltre a scopare, si intende, metterlo nel
culo
a Barbie è un’altra mia grande passion-»
«Più
grande del venire qui a uccidermi senza che lui lo sappia?»
intervenne il rosso. Si alzò un po’ dalla sedia,
sporgendosi verso il dio
«Perché sei qui?»
«Per
ciò che ho appena detto: divertimento. Quello lo
mangi?» chiese
indicando il plumcake.
L’altro
avrebbe voluto mettergli le mani al collo, ma si trattenne.
«Ti ho fatto
una domanda» afferrò il dolcetto
«perché sei qui? Vuoi
uccidermi?»
«Mi hai
fatto una domanda, e intendo rispondere» asserì il
dio, piantandogli
le quattro pupille argentee addosso «ma prima voglio
quello» di nuovo, indicò ciò
che teneva in mano l’altro, ormai visibilmente irritato.
«È
la mia mente, questa, detto io le regole. E io dico che-»
«Che devi
darmi il mio plumcake. Subito»
gli intimò. Si fece improvvisamente cupo «Lo
voglio, e ora tu me lo-»
Ci fu solo un breve
sospiro causato dal soffice impasto che si ammosciava,
quando Phobos strinse con forza le dita intorno al dolcetto, rendendolo
una
poltiglia molliccia e appiccicosa dai colori non meglio definiti; lo
lasciò
cadere a terra con un sonoro “splat” quanto
toccò il suolo, le briciole che si sparsero
tutt’intorno come gocce di sangue: pareva una scena del
crimine, a vedere quel
povero plumcake spiaccicato al suolo, un delizioso cadavere dolce e
glassato
che giaceva inerme circondato dalle interiora fatte di mirtilli ormai
marmellata.
«No».
Se ci fosse stato un
colore più scuro del nero, allora sarebbe stato
quello perfetto per descrivere il tono che pareva aver assunto quel
luogo in
concomitanza col rifiuto del rosso all’insistente richiesta
del dio.
Quando lo sguardo
accusatorio di Endless Sorrow si riversò su di lui,
l’altro
uomo sentì lo stomaco farsi piccolo piccolo e il cuore
perdere un battito, forse
due, forse pure qualcuno di più: aveva sfidato una
divinità, e si stava
rendendo conto della gravità della cosa solo adesso. Ma non
avrebbe ceduto,
certo che no: voleva risposte, e le risposte sarebbero ciò
che avrebbe avuto;
divino o no, finché se ne stava nel suo subconscio avrebbe
rispettato le sue
regole.
Che sul piano teorico
funzionava pure, ma su quello pratico… meh.
Tutto d’un
tratto, sentì qualcosa muoversi sotto la mano che teneva sul
tavolino; guardò in basso: tavolo e sedie si stavano
sciogliendo.
Letteralmente.
Si scostò
subito, spaventato che il suo arto potesse fare la stessa
ingloriosa fine; messosi al sicuro dal rischio di liquefarsi, il rosso
osservò
come tutto il resto si fosse ridotto ad una macchia deforme stesa
tristemente a
terra, una sostanza viscosa che scoppiettava quando le bolle sulla sua
superficie si gonfiavano eccessivamente.
Restò
lì qualche istante, poi venne come assorbita dal pavimento,
o da
qualsiasi cosa fosse quella su cui si trovavano. Intanto, Endless
continuava a
starsene seduto nel vuoto senza sforzo alcuno, sospeso a
mezz’aria nonostante
la sua sedia fosse sparita.
«La mia
specialità sono le maledizioni» asserì
dopo un po’ con tono grave,
tenendo il capo chino. Le rune sulle ali iniziarono ad emanare uno
strano fumo
fucsia acceso, iniziando a brillare «Di solito scelgo
qualcuno, e semplicemente
lo maledico: semplice ed efficace, perfetto per un dio pigro come me.
Sai qual
è la cosa peggiore di una mia maledizione?»
domandò.
L’altro
scosse la testa.
«Che si
trasmette di generazione in generazione, di padre in figlio in
nipote e così via, continuando a tormentare il malcapitato e
la sua stirpe in
eterno senza mai fermarsi, semplicemente perché non
c’è incantesimo mortale o
immortale che possa fermarla. Ho spazzato via generazioni di
divinità, così, e
ammetto di essere fortemente tentato di farlo anche con te».
Seguì una
lunga pausa, durante la quale il dio parve seriamente
intenzionato a maledire pure lui, a giudicare dallo sguardo truce che
aveva
assunto.
«Ma sarebbe
inutile, dal momento che tu una stirpe non ce l’hai e mai
l’avrai, considerando la tua posizione».
Allargò le braccia, come a indicare la
vastità della mente dell’altro
«Guardati, Phobos, guardati e stai in silenzio:
solo, bloccato nel tuo stesso cervello, schiavo di un mostro come
Apophis che
ti sfrutta come il suo personale burattino, impossibilitato a
comunicare col
mondo esterno e costretto a vivere con consapevolezza di non poter
mettere fine
a questa tortura, di non poterti opporre quando Barbie ti ordina di
attaccare
ed uccidere Harmonia».
Lo guardò
come a studiarlo, sorridendo e corrugando la fronte nel mentre.
«Non potrei
fare di peggio, sono sincero, del resto cosa c’è
di peggiore
del non poter avere il controllo sulla propria vita? Di sapere che
è una
persona a te completamente estranea a controllarla e plasmarla a suo
piacere? A
decidere persino su come e quando tu debba mettere fine ad
essa?» domandò.
Il rosso non rispose,
limitandosi a stringere i pugni finché non sentì
le
nocche indolenzirsi, le unghie scavare nella pelle, il sangue colare
piano fra
le dita insinuandosi fra di esse.
Capendo di aver
centrato il punto, Endless Sorrow si fece comparire in
mano un plumcake identico a quello che l’altro aveva gettato
a terra; gli diede
un morso generoso, gustandoselo a dovere prima di continuare.
«Volevi una
risposta? Bene, io te la darò. Puoi tentare il suicidio
finché
vuoi, puoi anche riuscirci come hai già fatto dandoti fuoco,
ma sarà tutto
completamente inutile: tornerai in vita sempre e comunque, e quando
dico
“sempre” intendo proprio
“sempre”, in eterno».
«Perché?»
«Perché
servi ad Apophis, ecco perché» spiegò,
intanto che era intento a
scavare nell’impasto per cercare i mirtilli e mangiarli.
Ne prese uno fra le
dita, girandolo e rigirandolo; infine, si decise a
ingoiarlo.
«Esiliato
nel lato oscuro della Luna da incantesimi antichi quanto
l’universo,
ingabbiato come un animale da una barriera retta da magie che vanno
oltre
l’immortale comprensione, troppo accecato dai demoni che si
porta dentro per
organizzare le idee abbastanza lucidamente da pensare a ciò
che ti fa fare, la
Barbie Platinata non può certo portare a termine con le
proprie mani ciò che ha
iniziato settecento anni fa, ma tu» lo indicò
«puoi. Non vuoi, ovviamente,
perché a quella donna hai dedicato i tuoi ultimi seimila
anni di vita -o
meglio, cinquemila e trecento, togliendo la permanenza
nell’Abisso- e le hai
giurato assoluta fedeltà, ma ciò che vuoi o meno
tu non ha più nessuna
importanza: Apophis è rilegato sulla Luna, e tu sei rilegato
nella tua mente».
Con un movimento del
braccio, il dio fece comparire una scacchiera semi trasparente
e fluttuante davanti a sé.
«Apophis
è il re, tu il suo alfiere, i tuoi leoni sono i suoi pedoni.
Non
c’è nessun altro a proteggerlo, semplicemente
perché non ha bisogno di
protezione: nessuna creatura mortale o immortale può
oltrepassare la barriera, da
un certo punto di vista lui nemmeno gioca» disse, facendo
scomparire il pezzo
del re dal campo. «Dall’altra parte
c’è la regina, l’obiettivo di Apophis
alias
il tuo, dal momento che ti controlla. Cosa noti, guardando questo lato
della
scacchiera?»
Phobos rimase a
osservarlo per un po’, ma proprio non gli diceva niente di
niente; iniziava a pensare che Endless stesse vagheggiando per
confonderlo, ma
si tenne per sé quel pensiero: dopo il plumcake spiaccicato,
voleva evitare
altre grane.
«Ehm…
niente?» rispose imbarazzato il rosso.
Il dio scosse la testa.
«Guarda
meglio: che differenze noti fra questo lato»
indicò quello a
destra «rispetto a questo?» poi quello a sinistra.
«Che in
quello a destra ci sono più pezzi…?»
«Precisamente
quello» sorrise toccando la scacchiera.
Improvvisamente, i
pedoni di quel lato che si divisero in due, poi in
quattro, poi ancora in otto e così via, fino a diventare una
massa di minuscoli
puntini quasi indistinguibili, date le ridotte dimensioni rispetto ai
pezzi
originali.
La divinità
ne prese uno sul dito, mostrando quel granello di polvere
all’altro uomo.
«Harmonia ha
schiere di generali e soldati e gente pronta a proteggerla,
ai quali vanno aggiunti i guardiani e -occasionalmente- quelli che se
ne stanno
ai piani alti. Un numero indefinito di persone il cui unico obiettivo
è quello
di salvaguardare la regina, insomma, immolando persino la propria vita
se
dovesse rivelarsi necessario».
«È
quello che fanno tutti i soldati, Endless, perché ti
sorprendi tanto?»
«Oh, ma
perché tutti concentrano le loro energie sul proteggere la
loro
sovrana, ma -curiosamente- un tale dispiegamento di forze non
è impiegato per
proteggere qualcosa di ben più prezioso, o pericoloso, a
seconda dei punti di
vista».
Il dio si mosse,
mettendosi a girare intorno all’altro fino a trovarsi
alle sue spalle. Gli si fermò vicino all’orecchio,
avvicinandosi ad esso.
«“Possano i suoi zoccoli non essere
mai ferrati” non è solo il motto di
Phantasia, ma tu questo lo sapevi già» gli
sussurrò, la lingua -nerastra e biforcuta, notò
il rosso- che glielo leccò con
una certa malizia «e anche Apophis
lo sa».
A quelle parole,
Phobos si congelò: non riusciva più a muovere
nessun
muscolo del corpo, nemmeno le palpebre parevano rispondere ai suoi
comandi,
sembrava essersi scordato persino come si respirasse da quanto il suo
petto si
alzasse e abbassasse freneticamente.
No, Apophis NON
sapeva, no, no, certo che no!
Lui non aveva parlato,
mai lo avrebbe fatto! MAI!
«È
impossibile» si limitò a commentare stizzito: non
aveva tradito
Harmonia, non aveva rivelato nulla, lui, non era colpa sua. Non lo era.
Non
poteva esserlo. Non doveva esserlo.
Quella sua velata
disperazione venne subito notata dall’altro.
«Al
contrario, è possibilissimo»
controbatté l’uomo alato. Gli afferrò
il
mento, costringendolo a girarsi verso di lui che, intanto, si era
chinato per
guardarlo dritto negli occhi «Vuoi sapere chi glielo ha
detto, uh?»
Non ricordò
di aver annuito, ma dal sorrise di Endless Sorrow si rese
conto di averlo fatto.
Incontrò il
suo sguardo solo per una frazione di secondi, lo stesso in cui
si rese conto di non poterlo sostenere, di non poter reggere oltre il
confronto
con un essere di quel calibro; era fisicamente assente, del resto, si
sentiva come
se il suo corpo e la sua coscienza si fossero completamente staccati
l’uno
dall’altra, lasciando indietro quel guscio vuoto che si
reggeva in piedi solo
perché a sostenerlo c’era la presa della
divinità.
Quando le labbra del
dio si posarono sulle proprie, Phobos ringraziò gli
dei di non essere abbastanza lucido da rendersi completamente conto
della
situazione: avrebbe risposto alla sua domanda, forse, ma voleva
qualcosa in
cambio.
E quel qualcosa era
limonarselo.
O meglio, ficcargli la
lingua fino in gola fin dentro l’esofago,
mozzandogli il respiro e facendogli -purtroppo- riacquisire quel minimo
di
coscienza necessaria per rendersi conto di stare mezzo soffocando; non
che
allora poté scrollarsi il dio di dosso, ovviamente,
né riuscì a sottrarsi a
quel bacio talmente feroce da sembrare più il preludio di un
pranzo.
Chiuse gli occhi
stringendoli il più forte possibile, ricacciando indietro
quella lacrima solitaria che stava facendo capolino
all’angolo di uno dei due, con
l’unica speranza che tutto ciò finisse il prima
possibile: se quello sarebbe
servito a tornare da Harmonia, allora lo avrebbe sopportato in
silenzio.
Avrebbe sopportato tutto pur di poterla rivedere e toccare e baciare,
pur di
riaverla vicino per
sempre un’altra
volta, pur di poterle dire nuovamente “ti amo” con
la propria bocca. Tutto.
Tutto.
Dopo un tempo
interminabile, finalmente fu Endless a staccarsi, sorridente
e raggiante come mai fino ad ora. Lo guardò con
un’espressione che per il rosso
fu indecifrabile, un misto fra soddisfazione e malignità.
«Delizioso,
proprio come immaginavo. Cielo, non puoi immaginare quanto
vorrei stuprarti quel tuo culo verginello fino ad aprirlo tanto quanto
un buco nero
in questo preciso momento, ma mi tratterrò solo
perché sono di fretta» commentò
amareggiato leccandosi il labbro.
Lo squadrò
da capo a piedi, pensieroso.
«Dì,
vuoi ancora sapere chi è l’uccellino che ha
cantato su quel piccolo
segretuccio? Perché in caso contrario una scopata dovrei
riuscire a farcela
stare, prima che-»
«Dimmelo e
facciamola finita con questa storia» ringhiò il
suo
interlocutore, i pugni serrati che ci mancava poco partissero da soli
in
direzione dei denti della divinità.
Quest’ultima
gli toccò il naso con l’indice, ridacchiando.
«Sei stato
proprio tu,
sciocchino».
Prima che
l’altro potesse controbattere, però, Endless
Sorrow gli mise un
dito sulle labbra per zittirlo in partenza.
«Tu hai permesso a Barbie
di frugarti nella testa alla ricerca della via più
veloce per arrivare alla regina. Tu
hai
suggerito lui quali mosse far fare al proprio burattino -ovvero te
stesso- per
conquistare e radere al suolo Phantasia. Tu hai aperto il vaso di
Pandora,
quando sei evaso dall’Abisso ed hai spezzato il sigillo della
Dea di quel
pianeta in culo al cosmo. Tu e nessun
altro», Gli si avvicinò petto a petto,
costringendolo a indietreggiare «Se
c’è un colpevole, se c’è
qualcuno da condannare, se c’è un responsabile
contro
il quale puntare il dito per questa brutta faccenda, beh, quella
persona sei tu. Volevi fare
l’eroe, settecento anni
fa, ma sarai ricordato solo per essere stato il complice di un
massacro».
«Io non
ho-»
«Guardati,
Phobos, guarda cosa ti ha fatto il maggiore dei fratelli
Lunanoff! Controlla il tuo corpo. Controlla la tua mente. Controlla i
tuoi
ricordi. Ciò che ricordi tu, Apophis lo ricorda a sua volta,
o almeno lo vede:
non puoi tirarlo fuori dalla tua testa, è troppo tardi,
ormai». Si guardò
intorno, come se avesse appena scorto o sentito qualcosa
«Eeeeed è ora che io
me ne vada, non voglio essere qui quando ti cancellerà la
memoria e ti
strapperà dal dolce e confortevole abbraccio della
morte».
Girandosi,
indicò un lampo poco lontano, accompagnato da qualcosa di
molto
simile ad un ruggito che pareva provenire dagli inferi.
«La prima di
innumerevoli volte che verranno, si intende, perché ho la
vaga sensazione che -quando e se avrai qualche istante di
lucidità- finirai per
suicidarti ancora, e ancora, e poi di nuovo, nella vana speranza di
impedirgli
di arrivare al cuore pulsante di Phantasia. Ci si rivede, allora, mi
mancheranno quelle labbra».
«A-Aspetta!
ASPETTA!» gridò il rosso con tutto il fiato che
aveva in
corpo, disperato.
«Sì,
bellezza?»
Venne colto di
sorpresa dal dio che si voltò per ascoltarlo, menefreghista
com’era non si aspettava che l’avrebbe fatto per
davvero, ma ora non poteva più
tirarsi indietro: se voleva uscirne, allora doveva arrivare fino in
fondo.
Con uno sforzo
immenso, Phobos tirò fuori l’espressione
più minacciosa che
riuscì a racimolare.
«Se lui
guarderà nei miei ricordi, allora saprà anche
della nostra
conversazione, e non credo che tu lo voglia» gli fece
presente con calma
innaturale. «Se ora mi lasci qui, per me sarà la
fine, ma anche per te: Apophis
mi punirà come sempre, ma con te non sarà
più clemente».
«Cerchi di
ricattarmi, per caso?» domandò l’uomo
alato, sorridendo.
«“Ricatto”
suona male, trovo che la parola più adatta sia
“accordo
conveniente per entrambi”» precisò
facendo spallucce «se il tuo amico ti trova
qui, puoi stare sicuro che non si berrà la storia che fossi
solo curioso di
parlarmi in privato, specie quando andrà a frugare nella mia
mente e capirà che
tu hai complottato alle sue spalle: ti considererà un
traditore, e-»
«Ed
è proprio qui che sbagli. Non saprà mai cosa ci
siamo detti di
preciso, non verrà nemmeno mai a conoscenza che io sia stato
qui, in realtà:
sono un dio, credi davvero che non abbia preso le mie
precauzioni?» lo bloccò
Endless.
Improvvisamente,
tornò indietro da Phobos, fermandosi proprio di fronte a
lui. Di nuovo, quella sensazione di essere minuscolo tornò
ad assalirlo.
«Devi sapere
che, dal primissimo istante in cui ho messo piede qui dentro,
queste» si indicò le rune brillanti sulle ali
«hanno fatto ciò che fanno
sempre: nascondermi. Non puoi nemmeno immaginare quante creature abbia
portato
alla pazzia perseguitandole in pubblico, salvo fare il modo che mi
vedessero e solo
loro e che, solo a loro, io fossi tangibile. Guarda tu
stesso».
Aprì le
braccia e le ali, invitando il rosso a toccarlo; quest’ultimo
era
alquanto riluttante a farlo, ma decide di obbedire: posò la
mano sul suo
torace, e questa gli passò attraverso.
L’altro
rise, evidentemente compiaciuto.
«Plebei e
nobili, re e regine, dittatori e tiranni, tutti che venivano
internati come pazzi, quando farneticavano di un’ombra che
ghermiva i loro primogeniti
solo per far credere loro che la decima piaga d’Egitto fosse
una cosa da prende
sul serio; che sterminava i loro eserciti ancora prima che mettessero
piede
fuori dalle mura della città, per far insorgere le genti; o
ancora che gli infilava
una mano in mezzo alle gambe mentre loro tenevano i discorsi in
pubblica
piazza, la stessa dove venivano poi giustiziati dai loro stessi
cittadini, non
potevano mica tollerare un sovrano folle. “Dio delle
Disgrazie e Sventura”,
appunto».
Lentamente, il suo
corpo iniziò ad assumere lo stesso aspetto delle sue
ali, la pelle che lentamente veniva avvolta da una nebbiolina nerastro
violacea: man mano che avanzava pareva consumare
l’epidermide, le carni,
persino le ossa, lasciando dietro di sé una distesa di vetro
-o qualcosa che si
somigliasse molto- dello stesso colore.
«Tutto
ciò che Apophis vedrà sarà solo un
povero disgraziato che parla al
vento, niente di più e niente di meno: spiacente che il tuo
piano non abbia
funzionato» finse di scusarsi. Lo guardò
impietosito, quasi -falsamente-
commosso «Al prossimo suicidio, allora».
«Cosa-»
Una pioggia di schegge
lo investì in pieno.
Cercò di
gridare con tutto il fiato che aveva in corpo il suo dolore, ma
l’unica cosa che uscì dalla sua bocca fu un suono
strozzato che nulla aveva di
umano.
Dinanzi a lui,
Apophis. Di Endless Sorrow non c’era più nessuna
traccia.
Rassegnato, il rosso
si limitò a sospirare: conosceva già la procedura.
Disse qualcosa, il
Lunanoff, ma l’altro non diede peso alle sue parole
né
le ascoltò; “Terra”, tutto
ciò che aveva capito in quel borbottio sommesso era
stato “Terra”, tutto lì.
Quanto
sentì una mano posarsi sulla propria testa, Phobos si
lasciò
scappare un sorriso quasi divertito, uno di quelli che solo i
condannati a
morte possono riuscire a trovare nel fondo dell’anima
già perduta che si
ritrovano. Chiuse gli occhi, cercando di visualizzare il volto di
Harmonia: era
stata l’ultima persona che aveva visto prima di finire in
quel limbo, sette
secoli prima, era stata il suo ultimo pensiero prima di suicidarsi poco
prima,
voleva fosse il suo ultimo ricordo ad andarsene, adesso.
Lo sarebbe stata
sempre. Sempre.
Phobos riaprì gli occhi.
Thorax fece lo stesso.
Si guardarono intorno, confusi,
vagando con le loro
menti vuote fra le chiome a cupola degli alberi rosati che li
circondavano:
quella non era Phantasia.
***
“Non è
importante la meta, ma il cammino”, disse un
qualche hippie new era in palese trip da LSD e oppiacei vari.
“Stronzate”,
diceva Emily Jane Pitchiner.
Non aveva idea di quanto tempo
avesse passato a
camminare e correre e farsi sferzare dalla pioggia per recarsi a
Tandokka, ma
-francamente- se ne sbatteva altamente il cazzo: era arrivata, alla
fine, e
contava solo questo.
Contava pure che fosse ridotta in
uno stato a dir poco
pietoso, mentalmente o fisicamente non si sapeva su quale fronte fosse
messa
peggio, ma quelli erano semplici dettagli; ora come ora voleva solo
andarsene,
fuggire, scappare, voleva diventare invisibile, sparire dal mondo senza
più
voltarsi, dimenticare di avere un passato e, forse, tentare di
ricominciare.
E voleva farlo una volta per tutte.
Se Emily non avesse saputo di
essere in ritardo di
trent’anni, avrebbe seriamente creduto che
l’impetuosa tempesta che l’aveva
accolta fosse opera sua e del clima che pareva seguire il suo umore, un
po’
come faceva ai tempi in cui era Madre Natura di fatto e non solo per un
titolo
che, con lei, sembrava non avere più nulla da spartire. Se
era felice, il tempo
era sereno; se lei era triste, allora pioveva; se aveva addosso
un’impellente
voglia di rovesciare il mondo e dargli fuoco come l’aveva
ora, allora tsunami e
terremoti e uragani sarebbero stati all’ordine del giorno.
A pensare a suddette onde anomale,
un conato di vomitò
le risalì prepotente la gola. Non riuscì a
trattenerlo, non ci provò nemmeno.
Secondo il suo modesto parere,
Gwenllian Jenkins
Pendragon doveva avere un’idea piuttosto precisa di cosa
significasse
“tsunami”, a giudicare da com’era
conciata lei e il luogo dove giaceva con
l’amante ritrovato in fatto di ingenti quantità di liquidi sparse ovunque.
E quando diceva
“ovunque” intendeva proprio “in ogni
singolo angolo, anfratto o buco possibile immaginabile, di carne o meno
non
aveva importanza”.
Ecco.
Aveva incontrato gli occhi di suo
padre solo per un
istante, una manciata di secondi soltanto, ma erano stati
più che sufficienti
perché capisse ciò che il suo sguardo volesse
dirle: “Esci da questa casa, e
allora uscirai anche dalla mia vita”.
Le aveva detto quello, Pitch Black,
o almeno Emily Jane
così aveva interpretato l’occhiata che si erano
scambiati; se Madre Natura
avesse guardato meglio nel fondo di quegli stessi occhi,
però, forse anche lei si
sarebbe accorta di quel “mi dispiace” che aveva
solcato la mente di un Uomo
Nero che certo non avrebbe voluto mostrarsi a chicchessia nel mentre di
un atto
sessuale. Ma a lei non importava, non l’era importato nemmeno
un secondo: lui per
primo aveva fatto una scelta, e quella scelta aveva le fattezze di una
donna
dai capelli color cioccolato e dagli occhi nocciola solcati da quella
curiosa
eterocromia azzurra, non di una ragazza dai capelli corvini e dalle
iridi
dorate come le sue.
Non di sua figlia.
Guardò il cielo nero di
tempesta: per gli dei, quanto
avrebbe voluto che fosse stato tutto l’ennesima delle sue
innumerevoli
allucinazioni! Mai come ora desiderava trovarsi davanti lo spettro di
Marigold che
se la scopava in una stanza in fiamme!
E invece no, doveva accontentarsi
della cruda realtà
che le si palesava davanti anche lì, anche nel suo regno
perduto e ormai
disabitato.
Poco male: più ossigeno
per lei.
Come a svegliarla dal torpore nel
quale Madre Natura
stava crogiolando con lo sguardo perso nel vuoto, uno stormo di ara
macao -ormai
gli unici abitanti di quel luogo abbandonato da dio, insieme a scimmie
e
alligatori- si levò sopra il suo naso, volando talmente
basso che riuscì a
sentire persino l’aria spostata dalle loro ali che fremevano
e si dibattevano
nell’etere. Alzò lo sguardo per godersi lo
spettacolo offerto da quei maestosi
volatili, nonché dei suoi unici sudditi: incuranti della
pioggia scrosciante
che coprivano con le loro grida, il loro intenso gracchiare le
strappò
addirittura un risata in quella giornata da dimenticare, quando Emily
pensò che
-con tutto quel rumore- fossero in grado di risvegliare pure i morti.
Poi le defecarono in pieno volto, e
allora rise un po’
meno.
Con inquietante compostezza, si
specchiò in una
pozzanghera ai suoi piedi: come diavolo si era ridotta? Era ancora la
regina di
Tandokka, era ancora Madre Natura, oppure era diventata lo zimbello dei
pappagalli, oltre che del resto del mondo?
Ma soprattutto, come aveva fatto a
perdere tutta la
sua dignità e iniziare a sprofondare, sprofondare,
sprofondare sempre più in
basso, fino a toccare il fondo di un abisso prima a lei sconosciuto, un
luogo
dove la patina di regalità e acidità nella quale
si era rinchiusa non poteva
più raggiungerla per proteggerla e salvaguardarla, come? O
meglio, per colpa chi?
Ululando, il vento parve suggerirle
la risposta.
Emily Jane sospirò: non
aveva bisogno di ascoltare ciò
che già sapeva, conosceva fin troppo bene il nome e
l’aspetto di chi c’era dietro
le sue disgrazie da tre decenni a quella parte, un ripasso era
l’ultima cosa di
cui aveva bisogno. Specie se a darglielo fosse stato un temporale che,
tempo
immemore fa, avrebbe potuto controllare col solo schioccare delle dita.
“Oggi la tempesta, domani
Harmonia”, si disse, poi si
chiuse la porta alle spalle.
E la bufera tacque.
Le radici dell’Albero di
Olduvai si richiusero dietro
di lei, intrecciandosi attorno a quel pezzo di corteccia ricavato
direttamente
dal tronco della pianta come a sigillarla.
Lentamente, Madre Natura prese a
salire le lunghe
rampe che l’avrebbero portata alla sua casa, o almeno a
ciò che ne rimaneva:
l’incendio di sette secoli prima aveva ridotto quel luogo ad
un colabrodo -come
il resto di Tandokka, in fin dei conti- marcio e scricchiolante, gli
scalini
che ad ogni passo lanciavano rumori grotteschi fin troppo simili a
grida che
rendevano la risalita quasi surreale, con quel pizzico di sano brivido
nel
temere che il passo successivo sarebbe stato l’ultimo e poi
puff! Il legno
carbonizzato avrebbe ceduto e inghiottito il malcapitato!
Per gli dei, quanto avrebbe voluto
che le capitasse
proprio ora, quanto!
Sfortunatamente per lei,
però, la giovane Pitchiner
arrivò sana e salva fino alle sue stanze.
Con disprezzo, gettò
lontano quella maledetta
saccoccia lercia e bucata che si trascinava appresso da giorni, i pochi
vestiti
buoni a lei rimasti che si riversarono sul pavimento zuppo
d’acqua e fango e
guano -sia a causa sua, sia a causa degli uccellini che fra i rami
dell’albero
avevano trovato dimora- nella sua totale indifferenza. Li
guardò: nah, era
troppo stanca per premurarsi di raccoglierli, o di preoccuparsi per
come li
avrebbe lavati, o di fare qualsiasi cosa non fosse
l’accasciarsi mollemente
sulla poltrona sgualcita e strappata che ben volentieri
l’accolse.
Abbandonò il proprio
corpo su di essa stendendosi e
stirandosi un gatto, le ossa sporgenti che parevano prendere la forma
della
seduta come acqua in una caraffa: bere, aveva bisogno di bere per
dimenticare.
«Shajiiiiiiiiraaa!
Shaaaaaajiiiiiiiraaaaaaaaaa!» gridò,
chiamando la propria serva.
Quest’ultima non rispose,
il che era tutto fuorché
normale: era sempre stata una domestica fedele e sottomessa a lei, alla
sua
regina, che sopportava con incredibile pazienza le sue scenate
assecondandola
in ogni richiesta, anche la più infantile. Appena Madre
Natura la chiamava,
Shajira correva come una matta per soddisfare il capriccio del momento
della
sua sovrana, eppure ora non lo stava facendo.
“Quella dannata
bracciante nata in un campo di cotone
mi sentirà, appena riuscirò a metterle le mani
addosso! Si sarà imboscata con
qualche uomo!”, pensò la giovane Pitchiner,
visibilmente furibonda.
Presa dalla rabbia,
saltò giù dalla poltrona e si
diresse verso le stanze della servitrice a grandi falcate; non
bussò nemmeno,
intenzionata com’era a coglierla sul fatto. Sfondò
la porta.
«Sei in un fottuto mare
di guai, battitrice di strade
che non sei altro! Giuro che ti-»
S’interruppe: non
c’era nessuno, in quella camera.
Non convinta, Emily
entrò e iniziò a guardarsi in giro
sospettosa, aprendo ogni armadio e frugando in tutti i cassetti e
rovesciando
addirittura il letto, convinta com’era di trovare tracce
della domestica là
dentro.
Non trovando nulla -e non essendo
possibile che quella
benedetta donna si fosse volatilizzata da un momento
all’altro, fedele com’era
verso la propria regnante- ma non ancora convinta, uscì
sbattendo violentemente
la porta, sbuffando e borbottando fra sé e sé: se
a quella disgraziata dalla
pelle color ebano fosse accaduto qualcosa… no, no: doveva trovarla, non aveva altra scelta
se voleva continuare a
vivere tranquilla.
Una porta dopo l’altra,
una stanza dopo l’altra, la
regina di Tandokka passò il rassegna tutto
l’Albero di Olduvai, tutti gli
angoli e tutti gli anfratti del suo palazzo, senza trovare nulla;
qualche
minuto e, complice lo stress accumulato in quei giorni, la ricerca
della serva
passò in secondo piano: aveva bisogno di un lungo bagno
ristoratore, e che
Shajira si fottesse!
Nemmeno a farlo apposta,
sentì il suono dell’acqua
ancora aperta provenire dal bagno, accompagnata da una scia di abiti e
orme
sporche di fango che s’interrompeva davanti alla porta
d’entrata per
quest’ultimo.
Stanca com’era e
totalmente disinteressata a sapere
perché la domestica non avesse assolto ai propri doveri di
tenere in ordine la
casa, Emily Jane decise di sorvolare, trascinandosi fino a suddetto
bagno quasi
strisciando da quanto sentiva le gambe molli; iniziò a
spogliarsi piano,
lentamente, prendendosi tutto il tempo del mondo: aveva corso come una
forsennata
per tutto il tempo per arrivare a casa sua, decisa com’era a
lasciarsi dietro
le spalle suo padre e la sua puttana il prima possibile, tanto voleva
fare con
calma ora che finalmente poteva permetterselo.
Solo quando rimase in intimo, Madre
Natura notò che c’era
qualcuno dentro. Qualcuno che canticchiava, oltre a consumargli
l’acqua.
«Siamo
ritornati porca troia!»
Un ruggito si levò alto,
come a rispondere.
«Puoi
dirlo forte Thorax!»
Un
altro
ruggito rispose, questa volta più forte del primo.
«Harmonia
ti piscio in bocca!»
Qualcuno tipo Phobos, magari.
Nudo come un verme, con i gioielli
al vento che si
stava smanettando e, non meno importante, intento a sguazzare con tanto
di
pinne e boccaglio in una vasca piena di svariate latte di fagioli con
salsa,
tutte accatastate in un angolo a coprire una povera Shajira legata e
imbavagliata.
Vicino a lui, un Thorax
evidentemente alticcio che
emetteva bolle di sapone dalle fauci; forse perché si era
tracannato quattro o
cinque bottiglie di balsamo, a giudicare da quelle vuote sparse sul
pavimento.
Dinanzi alla doccia, Emily Jane in
mutande e reggiseno
rossa più del pomodoro contenuto in quelle scatolette, non
si sapeva se più per
l’essere senza vesti o per l’erezione
dell’altro.
Coperta di legumi, ovviamente, come
pure quelli
appiccicati ai capezzoli.
Il rosso la notò subito;
immediatamente le lanciò
-forse per lo spavento, forse perché era rincoglionito e
basta- una scatola piena
e aperta addosso, colpendola in piena fronte.
«Kessobuona sti faciola!
Porkaglidey mi piasano
pedavero li faciola, li mancio tutti!»
Il perfetto copione per un film
porno, insomma.
O per una pasta e fagioli.
[…
poco dopo…]
«Barbeeeraaaaa!»
«chaaampaaagneeeeee!»
«staaaseeera
beeeeeviam!»
«peeer
cooolpa deeel mio amooooor!»
«pa-ra-pa
-PA!»
«peeer
cooolpa deeel tuo amooooor!»
«pa-ra-pa-pa!»
«aaaaAi
nooostri dooolooooor!»
«insieeeeeme
briiiiindiaaam!»
«col
tuuuuo biiicchieeere di baaarbeeeeera! coool miiiiio bicchieeeeere
di chaaampaaaaagneee!» concluse Emily Jane,
sollevando in alto la propria bottiglia di champagne come se fosse un
trofeo,
spaccandola a terra subito dopo. Phobos la imitò,
rompendogliela dritta in
testa con entusiasmo degno di un bambino.
I due compagni di bevute si
guardarono qualche
istante, sorpresi e confusi, quasi si fossero improvvisamente resi
conto di
cosa stessero facendo.
Ma fu solo qualche istante, appunto.
Non aveva niente in comune, quei
due, niente in comune
se non l’odio profondo per la Regina di Phantasia: ci
sarebbero stati mille
modi diversi in cui Emily avrebbe potuto reagire alla presenza di uno
sconosciuto nel suo palazzo, come ci sarebbero pure stati mille altri
luoghi in
cui Apophis avrebbe potuto far finire Phobos, eppure eccoli
lì a mangiare
fagioli -“faciolaH!”, avrebbe detto il rosso-
affogati nell’alcol.
Ridendo come cretini, si stesero a
terra poggiandosi
le teste sopra il dorso Thorax, intento a leccare Martini da una
ciotola posta
davanti al suo muso.
La giovane Pitchiner -armata di
reggiseno tenuto sulla
testa come un cappello- prese una mano dell’altro,
stringendola nella propria.
«Siamo best friends
forevaH, vero?» domandò.
Phobos le sorrise, la bocca piena
di legumi che si riversarono
sulle loro mani unite come a benedire quell’unione.
«Ovviamente»
rispose sbavando salsa che gli intanto
gli andava di traverso e, quindi, gli usciva dal naso «best
friends forevaH,
Madre Pretura!» rispose tutto contento, dandosi ad un
abbraccio alquanto
fagioloso.
E incrociando le dita dietro la
schiena.
___________________________________________________________
Angolino dell’autrice
HASTA
LI
FACIOLA!
Dissi che Phobos aveva ormai
toccato il fondo più
profondo del disagio e della pena, e che più in basso di
così non sarebbe
potuto scendere? Mi sbagliavo, e non
aveva idea di quanto! :’D
Non ho nulla da aggiungere, mi
limito a scusarmi per
il ritardo nel rispondere alle recensioni ma pian piano mi sto
organizzando per
rispondere a tutto e tutti, vi ringrazio per la comprensione e ne
approfitto
per ringraziare anche per tutti quelli che leggono, recensiscono o
semplicemente seguono questa storia, Endless Sorrow vi
porterà dei plumcake in
segno di gratitudine <3
Spero che sia tutto chiaro e non ci
siano parti
confusionarie, nel caso non esitate a chiedere ulteriori delucidazioni
:)
Alla prossima!
|
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Capitolo 14 *** Exulansis ***
«Chi va via perde il
posto all’osteria!»
«La padrona è
tornata e la poltrona va ridata!»
«La chiave ce
l’ho io e il posto resta mio!»
«Io torno dal Campidoglio
e la poltrona la rivoglio!»
«Dove minchia sta il
Campidoglio?»
«Te lo dico solo se ti
levi dalla mia sedia».
«Altriment-»
Nemmeno il tempo di terminare la
frase, ed uno spesso viticcio
verdognolo coperto di foglie afferrò la caviglia del rosso,
sollevandolo a
mezz’aria. Con eleganza degna di una regina quale lei era,
finalmente Madre
Natura posò il proprio regale fondoschiena sulla sua
amatissima ed enorme poltrona
sgualcita.
«Altrimenti
quello» commentò stizzita, sistemandosi.
«Si può sapere
perché non potevo starmene seduto lì?»
domandò un povero Phobos ancora sottosopra.
Incrociò le braccia al petto «Chi
arriva primo meglio si accomoda, la regola è
questa!»
«Lo è, di
solito, ma questo posto»
accarezzò la stoffa «è mio. Mio. Solo e soltanto mio».
«E perché?
È un posto come un altr-»
«Non
osare dirlo»
tuonò lei, cupa.
La giovane Pitchiner
alzò leggermente la mano,
muovendo l’indice verso di sé; immediatamente, il
ramo che reggeva l’altro
parve obbedirle, portando l’uomo sufficientemente vicino da
potergli afferrare
il mento con le lunghe ed esili dita.
«Non è una
poltrona qualsiasi, questa, è la mia
poltrona» precisò di nuovo. Batté
con entrambe le mani sula propria seduta «D'inverno
quel posto è così vicino al termosifone che
staremo al calduccio, ma se uno
vuole sudare dovrà abbracciarlo. D'estate sta su una linea
di corrente fresca
che si ottiene aprendo sia quella finestra» indicò
la vetrata vicino alla porta
d’entrata «che quell'altra» e poi quella
dal lato opposto. «È di fronte alla
tv, ha un'angolazione che non scoraggia la conversazione ma non implica
neanche
la distorsione del parallasse, visto che non è lontana.
Potrei contin-»
«Di che problema soffri,
precisamente?» la bloccò l’altro
dondolando la testa, a metà fra il rassegnato
e lo spaventato.
La donna lo guardò
orripilata, terrificata, quasi offesa.
«Tu stai insinuando che
abbia problemi emotivi inconsci che influenzano il mio comportamento,
tanto da
farmi aggredire le cose e le persone che minacciano la mia
autorità di regina?
Ho capito bene od ho capito giusto?»
«Io insinuo di non essere
quello mentalmente più toccato fra i due, più che
altro».
«Facevi il bagno nei
fagioli, Phobos».
«… Traaaaanne
che in
quell’occasione, lì ero decisamente il
più mentalmente più toccato dei due»
convenne lui con un velo d’imbarazzo, arrossendo.
«Ma non lo sono ora, comunque.
Non sono finito quaggiù per mia volontà, non so
nemmeno come ci sono arrivato,
ma una cosa la so: eri meglio da ubriaca, sembravi meno socialmente
disturbata».
«Ah! Il bue che da del
cornuto all’asino, proprio!» gli urlò
contro Madre Natura, infastidita da
paragoni del genere. Gli piantò addosso uno sguardo truce
«Dovresti essermi
profondamente grato per l’ospitalità, e
soprattutto per la pazienza: è raro che
qualcuno metta piede in casa mia e riesca ad uscirne ancora con tutte
le dita
al loro posto, o che riesca a uscirne in generale»
“o almeno, lo era un tempo,
ora sei più pericoloso tu per me che io per te”,
avrebbe voluto aggiungere, ma si
limitò a pensarlo.
«La gratitudine non
è il
mio forte, lo ammetto. Ho altre doti, io».
«Tipo?»
domandò lei,
incuriosita.
L’altro le sorrise fiero,
visibilmente compiaciuto. Non senza poco sforzo cercò di
issarsi al sottile
ramo che lo tratteneva per la caviglia, fino a poterlo afferrare con la
mano
recante il marchio di Apophis; ci riuscì, infine. Qualche
istante, e di
suddetto ramo rimase solo la cenere a terra.
Poi dettagli se il rosso
non aveva tenuto conto che -bruciandolo- si sarebbe spiaccicato sul
pavimento,
una botta in testa non poteva che fargli bene.
O comunque non poteva
peggiorare nulla, considerando che il limite del
“peggio” era stato superato da
un pezzo.
Si alzò da terra, si
pulì i
vestiti, poi aprì le braccia per mostrare tutta la sua
presunta magnificenza.
«Tipo questo, vostra
maestà».
Emily Jane lo squadrò
qualche istante, sul volto un’espressione sorpresa che
mascherava a malapena
dietro quella patina da persona ben poco impressionata. O da regina che
mal
accettava il fatto di aver avuto l’ennesima dimostrazione che
i propri poteri
facessero cilecca.
«Ti odio» si
limitò ad asserire,
il viso imbronciato e le braccia al petto. Vedendo che l’uomo
stava per
controbattere, lo zittì in partenza mettendogli un dito
sulle labbra «Ma sono
grata a lui» gli indicò Thorax, accarezzandolo e
prendendosi di rimando fusa
goduriose «per la lezione data a mio padre e ad i suoi
stupidi equini qualche
tempo fa, quindi per questa volta ritieniti fortunato».
«Non mi taglierete la
testa, dunque?» chiese lui fingendosi afflitto e disperato e
in lacrime,
gettandosi al contempo ai suoi piedi per baciarglieli e così
inscenare una
richiesta di grazia che il Medioevo poteva accompagnare solo.
Scosse la testa,
rassegnata.
«Non oggi».
In millecinquecento anni di vita
come Madre Natura,
Emily Jane aveva conosciuto e classificato un numero non meglio
definito di
persone tutte diverse e uniche fra loro, ma con un singolo denominatore
comune:
le stavano sul cazzo. E non poco.
Poi c’era Phobos.
Phobos, per gli dei.
Quell’uomo era riuscito a
non farsi odiare dal primo
istante, e -ad ora- nemmeno lei aveva ancora capito come avesse fatto.
Da brava lesbica acida e
disinteressata al membro da
che ne avesse memoria, Emily aveva sempre preferito tenersi debita
distanza -da
leggersi “a qualche centinaio di metri, meglio di
chilometri” dal genere
maschile, quella fetta di mondo che nulla aveva da offrirle che fosse
degno
delle sue attenzioni e che, ovviamente, lei ricambiava allo stesso modo.
Era una lezione che aveva imparato
ben prima di
rendersi conto di essere omosessuale, questa, una lezione puramente
frutto
degli insegnamenti di quel brav’uomo di suo padre, di quello
che -in un tempo
remoto, dimenticato, ormai tenuto insieme solo da dei ricordi confusi-
era
stato il generale Kozmotis Pitchiner. Sempre amorevole con sua moglie e
sua
figlia, che non aveva mai fatto mancare nulla a l’una o
l’altra, ma al contempo
mai disposto ad abbassare la testa di fronte alle ingiustizie o
presunte tali,
lui e quella sua spada che pareva gridare
“JUUUUUSTIIIICEEEEEEE!” manco fosse
Toppo dei Pride Troopers.
Cristo, quanto le faceva male
guardare Dragon Ball
Super, un hakai sarebbe proprio ciò di cui avrebbe avuto
bisogno in quel
momento. Dritto in fronte magari.
Ma poi un disgraziato gli era
piombato in casa, nella
doccia, le si era presentato davanti nudo e crudo mangiando fagioli,
mentre si
faceva il bagno nei fagioli, con un leone dalla criniera piena di
fagioli, e
allora -per un qualche mistero del cosmo- era riuscito a fare breccia
nella
corazza che quella benedetta donna si trascinava dietro da tempo
immemore.
Un pochino, almeno, che se lo
avesse fatto
completamente avrebbe già cambiato sponda, da quanto si
erano ubriacati
ammerda.
Da parte sua, Emily Jane era
rimasta ad ascoltare la
sua storia per ore e ore e ore fino a perdere la cognizione del tempo,
da
quanto il racconto della vita dell’altro l’aveva
rapita, e non si era pentita
nemmeno un istante di aver usato il proprio prezioso tempo da regina
per farlo.
Aveva sentito pronunciare il nome
di Phobos ben poche
volte, ad essere sincera, e ognuna di esse legata alla guerra contro
Apophis di
settecento anni prima. Vuoi perché lei ai tempi fosse troppo
occupata a
maledire Marigold per essersi trascinata il Seme all’inferno,
vuoi perché il
conflitto che aveva investito la Terra fu solamente la punta
dell’iceberg di
quello avvenuto a Phantasia, vuoi perché semplicemente lei
se ne sbattesse il
cazzo di qualsiasi cosa non la riguardasse, ma per Emily Jane stare
lì seduta
in assoluto silenzio era stato come guardare un film mai visto prima,
sorprendendosi per ogni singolo particolare.
Era arrivata la sorpresa,
sì, e con essa pure un
minima, insignificante, frivola, consapevolezza: aveva pazientemente
atteso che
il piatto della sua vendetta si freddasse per trent’anni,
anni passati nella
miseria e nell’ombra del titolo di Madre Natura, ma forse, forse, adesso aveva trovato chi
l’avrebbe aiutata a consumare
quella dolcissima portata.
Certo, non aveva ancora detto nulla
all’altro, ma quando
gli aveva sentito pronunciare il nome di Harmonia vicino alla parola
“uccidere”…
beh, quella era stata la ciliegina
su
una torta vecchia di tre decenni, una torta ormai rancida che sperava, sapeva, sarebbe tornata commestibile una
volta bagnata col sangue della Regina di Phantasia.
Avrebbe ripreso ciò che
le spettava di diritto, eccome
se l’avrebbe fatto! E poi-
«Altri
faciola?»
E poi avrebbe mangiato altri
fagioli, sì.
Emily Jane sobbalzò
sulla sedia, da come il rosso
l’aveva colta di sorpresa, spezzando inconsapevolmente la
bolla mentale
insonorizzata nella quale lei si era rifugiata per sfuggire a quella
realtà
fatta di allucinazioni e fallimenti, e l’aveva fatto con la
stessa brutalità
con la quale un bambino lascia il ventre della madre al parto.
Ricompostasi, l’aveva
guardato malamente per qualche
istante, come per assicurarsi che capisse di averla disturbata e che
no, dopo
la figuraccia di prima i fagioli non sarebbero serviti a ricucire il
suo
orgoglio.
«Altri faciola,
sì, così tra un po’ mi
uscirà una
pianta di quegli stramaledetti legumi dalla bocca e inizierò
a gridare “ucci,
ucci, sento odor di alcolizzatucci”!»
«E il tuo naso sentirebbe
pure l’odore giusto,
considerando quello che abbiamo combinato» rise lui,
indicandole le bottiglie
vuote diligentemente accatastate in alcuni sacchi neri
sull’uscio. «Sono
sincero, non credevo reggessi tanto bene l’alcol, ti facevo
più-»
«Fine ed educata,
silenziosa e accondiscendente,
premurosa e affettuosa, interessata alle “cose da
regine” e meno alla birra, al
caviale estratto da uno storione millenario cresciuto in un lago fatato
a
polvere incantata e mentine piuttosto che alla frittata di cipolle.
Volevi dire
questo, forse?»
L’altro annuì.
«Bene: non lo sono. E se
vuoi saperlo sì, ho già
smaltito la sbornia, altrimenti anziché stare ad ascoltarti
ti sarei molto
probabilmente saltata addosso, per fare cosa non è dato a
sapere» fece una
pausa «fortunatamente».
«Fortunatamente,
sì» convenne Phobos, ridacchiando
«anche perché -per quanto reputi interessante
l’esperienza- abbiamo avuto e abbiamo
ancora ben altro da fare, e mi duole ammette che questo “ben
altro” è più
importante di un coito perduto… iddio, non credo di averlo
detto veramente,
devo essere impazzito».
Si accasciò sul divano,
stiracchiandosi e allungando
gli arti similmente a quanto stava facendo Thorax a terra.
«Tu sai tutto di me,
adesso».
«È
vero» confermò Emily «o almeno: io so
ciò che ti
ricordi pure tu, vuoti a parte, per essere precisi».
«Ecco, sì,
c’è anche quel dettaglio. Ma dubito che ti
infastidisca, altrimenti mi avresti buttato fuori a calci in culo
appena ti
sono apparso in doccia; sempre che non fossi troppo presa a guardarmi i
bassifondi» con gli occhi, si indicò
l’inguine «s’intende».
La giovane Pitchiner divenne
più rossa del sangue che
colava dalla bistecca in bocca al leone.
«Io non-»
«Suvvia, non temere: non
ti giudico, so bene che
effetto faccio alle donne» la rassicurò agitando
le braccia. Lasciò cadere la
testa all’indietro, così da poter guardare dritta
in faccia la donna «Tu sai
chi sono io, ora, ma io non so chi sei tu».
«Tu sai benissimo chi
sono» controbatté lei,
avvicinandosi «sono Emily Jane Pitchiner, sono Madre Natura,
sono la regina di
Tandokka. Come ho detto, tu sai-»
«Che vuoi vendicarti di
Harmonia proprio come lo
voglio io, ma -francamente- mi sfugge il perché»
l’interruppe «specie perché tu
sei quaggiù sulla Terra, mentre lei è
lassù a Phantasia: non dovresti c’entrare
nulla con quella donna, eppure da come parli pari provare verso di lei
tanto
astio quanto ne provo io, il che è incredibile dal momento
che quello sbattuto
nell’Abisso è stato il sottoscritto. Se
c’è sotto qualcosa, allora io voglio, pretendo, di saperlo».
«Pretendi?»
«Pretendo, sì:
cosa credevi, che ti avrei raccontato
della mia storia tanto per confidarmi?»
Lei non rispose, limitandosi a
deglutire
faticosamente.
No, certo che no, aveva intuito
eccome che il suo
turno per parlare sarebbe arrivato, ma non si era mentalmente
preparata, non
avrebbe potuto farlo neanche se si fosse impegnata: non aveva mai
raccontato a
nessuno nei dettagli di cosa fosse accaduto quel maledetto giorno,
figurarsi se
si fosse messa a raccontarlo a qualcuno appena incontrato! Ai tempi,
persino
suo padre si era accontentato di spiegazioni vaghe e confuse sulla
vicenda, e -per
il rapporto che aveva con sua figlia e per quanto le importasse delle
sue
stronzate- quelle erano bastate e avanzate.
Solo che lì non
c’era suo padre, c’era Phobos: un
perfetto sconosciuto, un uomo che era capitombolato nella sua vita
totalmente a
caso, forse il suo prossimo alleato. E non poteva permettersi di
perderlo,
soprattutto per un banale moto d’orgoglio.
«…
È iniziato tutto trent’anni fa».
Le parole le uscirono dalla bocca
quasi inconsapevolmente.
Non ricordava di aver sentito i
muscoli del proprio
volto darsi da fare per farle muovere le labbra, né
tantomeno aveva avvertito
le corde vocali vibrare per creare i suoni che aveva appena sputato e
messo
insieme in quella frase: aveva parlato, tutto qui, e ormai era troppo
tardi per
retrocedere.
Da parte sua, Phobos si sedette
più o meno composto e
si rivolse verso di lei, sempre mantenendo un religioso silenzio come
l’altra
aveva fatto a suo tempo.
Non si lamentò dei
lunghi minuti di pausa che Emily si
stava prendendo, semplicemente restò lì fermo con
le mani giunte. Lei, invece,
le mani le stava tenendo sull’abito che le cadeva morbido
sulle gambe, le
unghie conficcate sulle cosce che parevano poter squarciare la stoffa
da un
momento all’altro.
«È successo
molto tempo fa, dunque» azzardò l’uomo,
tentando di rompere il ghiaccio.
L’altra lo
guardò impassibile, poi scosse la testa.
«Non per un
immortale» rispose infine. «Dinanzi ai
miei occhi, ai tuoi, trent’anni non sono che polvere, un
granello di sabbia
soffiato via dal vento di un tempo che non smette mai di scorrere, di
soffiare,
di imperversare su tutto e tutti… me compresa»
sussurrò, le ultime parole che
svanirono come scritte cancellate da uno straccio umido.
Decise di farsi forza.
«Allora, ero la creatura
più potente che la Terra
avesse mai visto: Madre Natura. Il mio nome era sulle labbra di
chiunque, e
quel “chiunque” temeva tanto la mia persona, quanto
la mia ira. A buona
ragione, aggiungo, non sono mai stata un tipo facile da
prendere» iniziò a
raccontare, nostalgica.
Si alzò dalla poltrona,
avvicinandosi alle finestre.
«Avevo tutto
ciò che una persona può desiderare e
anche di più, molto di più: un regno che -sebbene
fosse irrimediabilmente
segnato dal passaggio di Apophis- riusciva ancora a dare una parvenza
di
regalità grazie alla mia magia» un sottile ramo
coperto di germogli le avvolse
il braccio «una magia che faceva fiorire i campi, e riempire
gli alberi di
foglie, e far crescere frutti maturi e succosi su piante ormai
avvizzite» ci
passò una mano sopra: immediatamente, dai piccoli boccioli
fuoriuscirono dei
minutissimi fiori grandi quanto viole selvatiche, di un acceso rosso
corallo.
«Dei poteri immani,
che mi consentivano di controllare il clima come un burattino
sottomesso alla
mia volontà, potevo addirittura organizzare pic-nic senza
preoccuparmi di
guardare il meteo perché -modestamente- il meteo ero io. E
pensa che potevo
creare dal nulla le peggiori catastrofi naturali, se ero arrabbiata,
altro che
la tempesta là fuori!» indicò il cielo,
tornato scuro e nero per il nuovo
acquazzone in arrivo.
Si bloccò qualche
istante, lo sguardo catturato dal
viticcio che aveva in mano: era già secco. “Alla
faccia dell’essere Madre
Natura”, pensò, ma ricacciò indietro
presto i propri complessi d’inferiorità.
«Avevo persino un
orgoglio, a quei tempi, un orgoglio che
m’impediva di piegarmi a chicchessia pretendesse di venire a
comandare a casa
mia».
Phobos alzò la mano,
come a prendere parola a scuola.
«Harmonia?»
«Harmonia, proprio
lei» confermò la donna. «I poteri
della Regina di Phantasia raggiungevano -e raggiungono- qualsiasi
angolo del
cosmo, direttamente o indirettamente, permettendo il proliferare della
fantasia: ogni invenzione, ogni scoperta, ogni singolo libro che sta
venendo
pubblicato in questo preciso istante, tutto ciò avviene
anche per merito suo. Senza
la fantasia, l’uomo muore».
«Senza ossigeno,
pure».
«Esatto! È la
stessa identica cosa che ripetevo loro!»
convenne un’Emily Jane particolarmente entusiasta, del resto
quella era la
prima persona fosse d’accordo con lei in decenni!
Il suo giubilo durò ben
poco, però, per lasciare
spazio ad un lato ben più oscuro di quella vicenda.
«Ma nessuno mi ascoltava,
ovviamente. Ero diventata paranoica,
vedevo nemici ovunque. Ovunque. A
buona ragione, aggiungo: erano tutti dalla parte di quella sgualdrina,
persino
Manny -solitamente neutrale- si era schierato» si
fermò, pensandoci sopra
«anzi, togli Manny, quello è un caso a
parte».
«Ah
sì?»
Emily gli si avvicinò
all’orecchio, come se stesse
confessando chissà quale indicibile segreto.
«Io non ne so nulla, come
puoi immaginare nessuno
amava scambiare due chiacchiere o qualche pettegolezzo con me, ma voci
di
corridoio vecchie di settecento anni narravano che -a guerra terminata-
l’Uomo
nella Luna chiese ad Harmonia di diventare la sua sposa e regina
consorte, e che
lei rifiutò. Rifiutò un Lunanoff, te ne rendi
conto?!!»
Lui fece segno di
“no” con la testa.
«Ovvio che non te ne
rendi conto, probabilmente sai a
malapena cosa siano un Lunanoff» borbottò fra
sé e sé, seccata. Batté sonoramente
le mani, come a ristabilire l’ordine «Sia come sia,
questo non cambia la
situazione e non è un dettaglio importante, la conferma o
smentita potrebbe
darla solo quella zoccoletta equina».
«E non l’ha mai
data, immagino».
«Immagini bene»
convenne lei, decidendo di omettere il
“non a me personalmente, almeno”.
Sorrise: ah, che gusto, che
sollazzo!
La giovane Pitchiner non lo avrebbe
mai ammesso, ma
provava un certo piacere ad infamare quella centauressa che -a
differenza sua-
incarnava tutte le doti e le qualità di una sovrana giusta e
amorevole, se lo
faceva davanti ad altri poi era pure meglio, e non si sarebbe certo
lasciata
scappare quella succulenta occasione.
«Ma non mi sorprenderei
affatto se una botta o due se
le fosse fatte dare eccome, da Manny, non aveva certo di che perderci a
farsi
scopare da quello; per come la vedo io, Harmonia non è
arrivata fin dov’è arrivata
solamente sputando e sudando sangue, basta vedere
com’è avvezza al farsi
trivellare il culo da un’Ophidian ninfomane ermafrodita del
resto!» rise.
Si aspettava che Phobos avrebbe
fatto lo stesso, ma
non fu così: di fronte al suo sparare giudizi random per via
di antipatie
vecchie quanto il mondo lui non aveva riso, era solamente rimasto
impassibile,
niente di più.
Aspettò ancora qualche
istante, speranzosa, poi decise
di lascia perdere.
«Comunque sia, in tutto
ciò io ero diventata
tremendamente paranoica, appunto; se prima vivevo serena e tranquilla a
Tandokka, allora tre decenni or sono iniziai a temere che da un momento
all’altro quella serenità mi sarebbe stata
improvvisamente strappata via, e con
essa tutto ciò che possedevo». Si cinse il torso
con le braccia, le nocche
rosse da quanta forza ci stava mettendo «Il mio regno, il mio
titolo, i miei
poteri… oh! Quanto temevo di perdere i poteri!»
«Sarebbe potuto
accadere?»
«Certo. Certo che sarebbe
potuto accadere, ed è accaduto!»
gli rispose ad alta voce, gridando, quasi. Un tuono
accompagnò l’atteggiamento
maniacale da lei assunto «Sapevo che sarebbe successo, me lo
sentivo dentro!
Non potevo sbagliarmi, non io, non io che non sbaglio mai! MAI!
Non-»
«E quindi
cos’hai fatto?» la interruppe il rosso, non si
sapeva se per sincera curiosità, o -più
probabilmente- perché mosso
dall’inquietudine che aveva iniziato a scorrergli nelle vene
dopo quell’uscita
da parte di Emily.
Quest’ultima non parve
apprezzare l’interruzione, ma
dovette farsela andare bene: prima si toglieva quel peso, prima sarebbe
finita
quella tortura.
«Feci l’unica
cosa possibile: decisi di trasferire i
miei poteri in un oggetto che avevo sempre con me, che potevo tenere
d’occhio
ventiquattr’ore ore su ventiquattro, sette giorni su sette,
in modo che
nessuno, nessuno, potesse
privarmene.
Ero ugualmente potente, ero sempre madre Natura, semplicemente avevo
solo
cambiato il contenitore dov’era riposta la fonte della mia
magia da qua dentro»
si mise una mano sul cuore «a qui» raccolse un
lungo e spesso ramo da terra,
alzandolo per mostrarlo al suo interlocutore.
Phobos lo guardò qualche
istante.
«… Un bastone
da passeggio?» chiese infine, confuso. E
sempre più convinto di non essere lui il pazzo fra i due,
anche quello.
«Uno scettro,
cielo» lo corresse lei, esibendo un
facepalm il cui suono riempì la stanza «che poi
fosse solamente un pezzo di
legno bianco impregnato di magia è un dettaglio, ma era uno
scettro, era magico
e, soprattutto, era mio».
«Era?»
«Era,
sì».
«Dici
“era”, ma perché non
“è”? Come mai ne parli al
passato? Se sei Madre Natura, allora devi per forza averlo da qualche
parte, o hai
nuovamente travasato i tuoi poteri da quel bastone al tuo corpo? E
perché-»
«E perché non
la smetti di fare domande?» sbottò
isterica, interrompendolo.
Con tutta la calma del mondo, il
rosso si alzò dal
divano, dirigendosi verso la porta.
«Dove vai?»
domandò l’altra, spaesata da quel comportamento;
tre secondi prima se ne stava in silenzio ad ascoltarla come lei aveva
fatto
prima di lui, e ora decideva di levare le tende tutto d’un
tratto! Che razza di
comportamento era?
«Ovunque, ma non qui.
Ecco dove vado, maestà» asserì
senza girarsi, senza degnarla d’uno sguardo che fosse uno.
«Non puoi
andartene».
«Posso, invece, e lo sto
facendo» controbatté mettendo
la mano sulla maniglia.
«Non
ti sta
bene se faccio domande? Allora non aspettarti che mi faccia trattare
come uno
zerbino per ascoltare le tue risposte: a differenza tua, io ho ancora
una certa
dignità da mantenere, e non permetterò certo ad
una sovrana lunatica di
levarmela. Con permesso» cercò di aprire la porta,
ma i rami non lo fecero
passare. Poco male: gli bastò poggiarci una mano sopra e
presero fuoco,
liberandogli il passaggio verso l’uscita.
Il panico investì Emily
Jane Pitchiner come un fiume
in piena, travolgendola.
Avrebbe potuto, dovuto, fare
qualcosa, qualsiasi cosa,
pur di non perdere quell’unica speranza di alleanza che
avesse, e invece cosa
stava facendo? Se ne stava immobile davanti alla finestra senza muovere
un
muscolo, gli occhi pietrificati che sembravano essere sul punto di
uscire dalle
orbite da un momento all’altro, da quanto erano spalancati
per l’amara sorpresa
di quella reazione.
“Fai qualcosa”,
le disse la sua coscienza.
Lo vide esitare, sulla porta,
aspettare un suo segnale
per tornare indietro. O almeno così le parve, afflitta dalla
disperazione nera
com’era.
“Qualsiasi
cosa”.
Non esitò
più, adesso. Agli occhi di Emily, tutto
appariva come in slow motion: il piede del rosso che si alzava dal
pavimento,
il corpo che -una volta che l’arto si staccava da terra- si
muoveva
impercettibilmente per bilanciarsi, le scarpe che toccavano di nuovo il
suolo,
questa volta fuori da casa sua, però. Tutto
ricominciò daccapo, quando mosse
l’altra gamba: passo dopo passo, lentamente e
silenziosamente, la sua unica
speranza stava uscendo dalla sua vita.
“Falla,
per
gli dei!”
«Harmonia ha distrutto il
mio scettro, trent’anni fa».
Pronunciò quelle parole
senza accorgersene,
esattamente come aveva già prima, ma questa volta il suo
cervello sembrò
spegnersi subito dopo: sentiva tutto ovattato, vedeva le figure
sfocate,
toccava il davanzale per sorreggersi ma non lo sentiva. Era come
intangibile,
quasi… irreale.
Prima che il terrore che fosse
tutta quanta un’enorme
un’allucinazione potesse possederla, Emily avvertì
una mano poggiarsi sulle sue
spalle e accompagnarla sul divano; sentì un certo calore
prima sulle gambe, poi
fino al petto.
L’ombra che aveva davanti
le mise fra le mani qualcosa
di non meglio definito, e allora avvertì una pressione non
indifferente sulle
braccia.
«Non so te, ma
accarezzare Thorax è utile per calmare
i nervi: se non fosse stato per lui non sarei uscito più o
meno sano di mente
da sette secoli di Abisso».
Pazientemente, prese una mano della
donna e gliela
mise sulla criniera del leone nero, accoccolatosi sul suo grembo mentre
spolpava un osso che lei gli teneva. Prima di riprendere parola,
però, Phobos
attese qualche istante.
«Ti dico un segreto: i
moti d’orgoglio non portano da
nessuna parte. Ci sono già passato, so come andrà
a finire, e non è nulla di
buono. Per cui adesso» le afferrò le dita bianche
e dalle punte gelide,
racchiudendole nelle proprie «sputa il rospo, Emilia GiannaH
Pitchoner, che se
lo ingoi poi non voglio nemmeno immaginare la bruttissima ulcera
gastrica che
ti procurerai. Specie perché sono velenosi: vuoi forse fare
la fine del
capitano Ginew, uh?»
«Segui Dragon
Ball?» domandò Emily, improvvisamente
svegliatasi da quel suo stato di torpore o, per dirla alla Phobos,
“di
rincoglionimento profondo”.
Lui fece un breve inchino, ridendo.
«Team settimo universo,
milady» rispose «e voi?»
«Universo undici,
sir» rispose lei, stizzita, a quella
che considerava una vera e propria bestemmia. Tirò un
colpetto sulla spalla
dell’altro «E ora abbiamo pure Toppo versione
palestrata che lancia hakai come
se piovessero, quel gatto nudo rachitico è fottuto
esattamente come lo erano
tutti gli altri membri dello zoo: presto o tardi, voi del sette
finirete a fare
compagnia all’inferno alla vostra lucertola effeminata di
quel pacchiano color
oro».
«L’oro non
è pacchiano!» sbottò.
«È alla moda!».
«Sì, quella
dell’epoca vittoriana, forse!»
«Sempre meglio delle
tutine aderenti che evidenziano
la pancia da bevitore di birra di uno che grida
“JUUUUSTISSSSSSHFUUUURAAAAAASH!” e lasciano ben
poco alla fantasia, per quanto
una persona sana di mente possa essere concentrata a guardare il culo
di E.T.
quando la nostra gente esce l’ultra istinto».
«Uscire Gogeta super
sayan di quarto livello sarebbe
stato più util- oooooops, che sbadata! La serie di GT non
è canonica!» dicendo
ciò, Emily si esibì in un plateale gesto
dell’ombrello. I medi alzati da
entrambe le mani arrivarono poco dopo «Fottetevi voi e le
vostre fusioni!»
«Ti inviterei a leggere
le sinossi con più attenzione,
se posso permettermi, non ci serve Gogeta per prenderci le Super
Sfere» la
rimproverò il rosso con sorriso sornione
«… Emily».
«Sì?»
«Come siamo finiti a
parlare di Dragon Ball Super?»
chiese grattandosi la testa.
«Non ne ho idea, ma mi
stava piacendo. Tanto. Tuttavia…»
la giovane Pitchiner tirò un profondo sospiro mentre faceva
spallucce,
sconsolata «… immagino che dovrò
tornare a parlare delle mie disgrazie, ora,
perché suppongo che tu voglia sapere come Harmonia abbia
iniziato a c’entrare
con la mia tragggica storia».
Il suo interlocutore non rispose,
ma quel silenzio fu
un “sì” abbastanza palese da calare come
una mannaia su quello spiraglio di
evasione e spensieratezza che era parso aprirsi fra di loro; non era
triste,
però: era durato poco, pochissimo, ma era durato.
E almeno sapeva che, se avesse
avuto un bicchiere
d’acqua nel deserto, allora lo avrebbe gettato per terra,
anziché darlo a
Phobos che moriva di sete: quell’uomo tifava per Beerus,
iddio!
Ci fu qualche attimo di silenzio.
«Ero stanca di vivere
nella paranoia e nella paura e
nella consapevolezza che un’estranea pretendesse di mettere
becco dove non le
competeva, così decisi di affrontare la questione
direttamente con
l’interessata. Harmonia voleva mettere i propri zoccoli
infangati sulla Terra?
Allora io avrei piantato radici su Exodus. Come si dice fra i
terrestri, “occhio
per occhio, dente per dente”, ed io volevo tutti i denti di
quella giumenta in
calore per farmici una collana».
Thorax lanciò un ringhio
di lamentela verso le dita
della sua poltrona di carne che -preda ad un fiume di ricordi
com’era- gli
strinse troppo forte la criniera, tirandogli il pelo.
«Andai su Exodus, il suo
pianeta, decisa a far valere
la mia ragione tanto quanto lei pretendeva di far valere la propria sul
mio, di
pianeta, sulla mia casa» “di ripiego,
perché certo non sono terrestre”, pensò
fra
sé e sé.
«Prendere Fairy Oak non
fu poi così difficile: tocca i
tasti giusti, e quella ragazzina schizofrenica di Alice Castle
Wonderwood perde
il controllo in un modo tale da farsi più male da sola di
quanto gliene possa
fare chicchessia. Soffre di personalità multipla o qualcosa
del genere, talmente
multipla che -ai tempi- finì per piantarsi una spada in
ventre credendosi la
nemica di se stessa, roba da matti!» Scoppiò in
una fragorosa risata «E tutto
ciò intanto che la vera nemica gliela faceva sotto il naso,
scivolando come
acqua fra le mura del suo castello e finendo per fare abbastanza danni
da mettere
in allarme la sua amyketta, la Regina di Phantasia» fece una
pausa «e fu lì, che
iniziarono i miei problemi».
Lasciò cadere lo sguardo
sul pavimento davanti a sé,
il volto contratto in un misto fra rimorso, imbarazzo e tanta, troppa,
rabbia,
ancora ardente come il primo giorno.
Strinse forte i denti, fino a
sentire male da quanto
sfregavano gli uni sugli altri: era arrivata a dover raccontare anche
quel
pezzo, alla fine; non che avesse scelta, in fin dei conti, si trattava
solo di
rimandare e rimandare e rimandare, di farlo ancora, e ancora, e poi di
nuovo
per chissà quanto tempo, per cui.
Inspirò talmente
profondamente che i polmoni parvero
essere sul punto di esplodere da un momento all’altro, come
anche -espirando-
sembrarono sgonfiarsi così bruscamente da essere stati
risucchiati chissà dove.
«Ero convinta di poterla
sconfiggere» mormorò
«convintissima. Non avevo paura di lei, non la temevo in
alcun modo, volevo
solo combatterci e farle il culo a strisce, dimostrarle che non aveva
capito
che stava scherzando col fuoco e che -se avesse continuato- sarebbe
rimasta
bruciata, ma che del suo corpo carbonizzato sarebbe rimasta solo
cenere».
«Immagino non sia
successo, però» le fece notare
Phobos.
Lei sorrise.
«No, infatti»
confermò amaramente Emily Jane «successe
tutt’altro. Quando iniziammo a combattere, Harmonia mi
scartavetrò non poco le
gonadi che non ho con discorsi strappalacrime: sul non dovermi sentire
minacciata perché a lei della Terra non importava come io
credevo, sul cambiare
idea prima di pentirmene, sul fatto che non avessi idea di dove mi
sarei
infilata se avessi insistito, e bla bla bla. Tutte stronzate, insomma,
stronzate alle quali risposi lanciandomi su di lei per strapparle la
lingua
dalla gola. “Così almeno smetterai di
blaterare”, le dissi».
«E poi?»
«E poi iniziò
una discesa a spirale verso l’oblio. Per
me, però» asserì, quel sorriso che
aveva ormai scomparso.
Girò la testa vero la
finestra, ipnotizzata dal
ticchettio della pioggia.
«Anche quel giorno
pioveva, sai? Combattemmo a lungo,
ma l’esito fu chiaro fin da subito. Menai fendenti a destra e
a manca fino a
non sentirmi più le braccia; evocai tralci spinati incurante
del trovarmici a
mezzo metro pur di intrappolarla in qualche modo; arrivai ad aizzare
una
tempesta che riempì il nostro campo di battaglia di fulmini
e incendi -a causa
degli alberi colpiti e bruciati- e fango. Ma Harmonia non
cedeva».
L’eco di un tuono la
interruppe.
«Resistette a tutto, tutto, non la vidi piegarsi nemmeno una
volta. Quando le chiesi
come facesse, lei mi rispose semplicemente che non poteva permettersi
di
cedere, che non voleva farlo e che mai l’avrebbe fatto,
specie dinanzi a
qualcuno che minacciava la sua gente di schiavitù e morte:
era il benessere dei
suoi sudditi a guidarla, l’istinto materno che aveva verso di
loro, e che per
quel motivo mai avrei potuto sconfiggerla».
«E infatti non ci
riuscisti».
«Precisamente. Capisci
bene che -a sentire quelle
parole- io divenni furiosa, iraconda, ero talmente rabbiosa da volerle
spaccare
il cranio in due e berci un Margarita dentro; non solo pretendeva di
comandare
sul mio pianeta, non solo faceva la
predica a me, ma aveva pure il
coraggio di darmi lezioni di politica interna, rimproverandomi di come
fossi
fuggita durante la guerra contro Apophis e che tale comportamento non
era da
regina! A me! Alla sovrana di
Tandokka! A Madre Natura! A quel punto, tutto ciò che volevo
fare era ucciderla».
Nei suoi occhi si accese un
bagliore inquietante, a
tratti grottesco, una sorta di luccichio animalesco che mise i brividi
al
rosso.
«Era ferita, stanca,
sanguinante, incatenata a terra
dai rovi, completamente disarmata: sarebbe dovuto bastare poco,
pochissimo, per
darle il colpo di grazia… ma non
bastò». Strinse i denti, come i palmi, fino a
quando non iniziarono a farle male «Quando Harmonia
iniziò la controffensiva,
capii che era volontariamente rimasta a subire per darmi una lezione.
“D’umiltà”,
come la chiamava lei, ma era più un’umiliazione
finemente nascosta da quella
sua finta patina di perbenismo e ammmore» squittì
mentre, con le dita, formava
un cuore. «All’inizio non capivo proprio dove
volesse arrivare, attaccava tutto
tranne che me personalmente, tanto che -a fine scontro- erano
più le ferite
riportate dalle mie azioni sconsiderate rispetto a quelle inflittemi da
quella
maledetta mezza cavalla, credevo che il suo scopo fosse quello di farmi
letteralmente impazzire!»
«E invece?»
«E invece puntava allo
scettro. Ai miei poteri».
Un sottile rivolo di sangue
colò dal suo palmo, da
quanto le unghie stavano scavando nelle carni; non provava dolore, non
sentiva
niente di niente, forse perché le ferite della mente stavano
bruciando più di
quanto quelle fisiche potessero mai fare.
«Fu una cosa breve,
brevissima, quasi non me ne
accorsi. Un attimo prima ero lì ad infierire sul corpo
martoriato della Regina
di Phantasia gridando alla vittoria» guardò a la
mano sinistra, alzandola «quello
dopo ero lì, immobile, gli occhi rivolti al cielo plumbeo e
la pioggia che mi
sferzava il volto come tizzoni di carbone ardente, scavandomi profondi
solchi
lungo le guance» fece lo stesso con la destra. Infine, se le
ripose in grembo. «Io,
Madre Natura, me ne stavo stramazzata a terra, sfinita, senza
più forze per
alzarmi né magia ad aiutarmi, sdraiata a guardare il
firmamento. Di fianco a
me, Harmonia, che mi guardava dall’alto in basso con quella
sua solita aria
materna, compassionevole, tendendomi una mano, tsk!»
Si lasciò scappare una
risatina.
«Non capivo né
cosa fosse accaduto, cosa stesse
accadendo, cosa sarebbe accaduto poi: ero solo stesa e guardavo il
cielo, le
gocce -ora meno pungenti- che mi accarezzavano il viso mi ricordavano
che ero viva,
ma c’era qualcosa di strano, di diverso, tanto nel paesaggio
quanto in me… le
nuvole si dissolvevano lasciando posto ai Soli di Exodus, la bufera
stava
tornando ad essere una leggera brezza, il rumore dei tuoni si faceva
sempre più
lontano. Tutto ciò che la mia magia aveva evocato stava
svanendo, ed io-»
«Non ne capivi il
motivo» l’anticipò Phobos,
completando la frase.
Emily Jane annuì.
«Tuttavia, mi
bastò girare la testa per vederlo, quel
motivo: il mio scettro spezzato, ridotto in frammenti, distrutto, ora
un comunissimo
bastone di legno scheggiato e marcescente».
«Ed i tuoi poteri? Avevi
detto che erano contenuti là
dentro, quindi-»
«Perduti. Completamente
perduti. Ciò che rimane di
essi lo hai già visto, non riesco né posso fare
di più col poco che sono
riuscita a recuperare in trent’anni, e qui mi va
già di lusso dal momento che a
Tandokka qualcosina riesco ancora a fare» si
bloccò, ripensando al ramo di
prima, subito seccatosi «… qualcosina, appunto.
Per il resto, quel giorno Madre
Natura cessò di esistere. Ma la colpa non fu della cavallina
storna, no di
certo, fu mia anche in quel caso!»
Sbatté gli occhi
più e volte, cercando di nascondersi
alla bene e meglio da quelli del rosso infilando la testa nella
criniera di
Thorax: ricacciare indietro le lacrime era più difficile di
quanto ricordasse.
Non si seppe se l’altro
la notò o meno, stava di fatto
che Phobos le poggiò una mano sul suo palmo per esprimerle
la sua vicinanza. Lei
però la ritrasse subito, fulminandolo con lo sguardo.
«Non ho finito di
parlare» commentò con tono grave,
quasi di rimprovero. Lui non commentò, limitandosi a
riportare le mani sulle
proprie cosce.
«Colpa tua,
dici?» domandò poi, per rompere quel
silenzioso imbarazzo.
«Colpa mia,
sì, o così la vedono tutti. Harmonia mi tese
una mano per rialzarmi, come ti ho detto, ma io la rifiutai
cordialmente: sai
cosa successe? Riuscii a rimettermi in piedi sulle mie gambe senza il
suo
aiuto, non le avrei certo dato la soddisfazione di dare mostra della
sua
benevolenza anche in quel momento! Alla fine, dunque, ci trovammo di
nuovo
faccia a faccia, una di fronte all’altra; a dividerci, i
resti del mio
bastone».
Tirò un sospiro annoiato.
«Mi propose un accordo:
se io avessi accettato un
giuramento vincolante sull’utilizzare i poteri da me
posseduti in quanto Madre
Natura solo ed esclusivamente a fin di bene, sul non tentare nuovamente
di
muovere guerra a chiunque si trovi fuori dalla mia giurisprudenza
terrestre,
sull’essere disposta a scusarmi e ammettere i miei errori,
allora lei avrebbe
rimesso insieme lo scettro e mi avrebbe restituito la mia magia. Dovevo
solo
scusarmi, Phobos, niente di più e niente di meno».
Fece spallucce «Avevo
attaccato brutalmente Fairy Oak, incendiato e devastato parte del suo
regno,
cercato battaglia mossa solo da stupide supposizioni e fantasie e
paranoie,
eppure la regina voleva solo e soltanto delle semplicissime scuse.
Tutto qui».
All’ultima frase, il
rosso sgranò gli occhi.
«… Ti prego,
dimmi che hai accettato quei termini e
non ti sei fatta prendere dall’orgoglio facendo la scelta
più cretina e
sbagliata di questo mondo. Ti scongiuro. Ti
supplico».
«Vuoi sapere quale fu la
mia risposta, eh?» ridacchiò
la giovane Pitchiner.
Lui fece segno di
“sì” con la testa, già pronto
al
peggio.
«Le sputai in faccia,
ecco cosa le risposi» rispose lei
tranquillamente, quasi vantandosi delle proprie discutibili gesta.
Si alzò, iniziando a
camminare per la stanza
gesticolando.
«Avrei potuto accettare
tutto l’accordo, ad essere
sincera: non avevo mire espansionistiche né sulla Terra
né fuori da essa, non
m’interessava ammazzare chicchessia dal momento che preferivo
farmi gli affari
miei a Tandokka, ma non mi sarei mai piegata a chiedere scusa ad
Harmonia, mai.
Mai. Se potessi tornare indietro
rifarei tutto, non mi pento di essermi tolta la soddisfazione di vedere
la mia
saliva colare su quel bel visino angelico: sta con Myricae,
c’è colato ben di
peggio che la saliva, su quel volto!»
«Una gran soddisfazione,
immagino» applaudì lui,
basito «vedo bene i risultati: senza magia, senza amici,
senza famiglia, sei
una sovrana senza corona e senza regno, una donna senza
dignità e senza pudore,
se hai il coraggio di raccontare una cosa del genere e vantartene. Ora
come
ora, sono io ad avere una gran voglia di sputarti addosso: sei inutile,
Emily,
lo sei persino più di me, per gli dei! E ce ne vuole
per-»
«Taci un attimo! Non hai
ancora sentito la parte
migliore che viene adesso!» lo interruppe lei, gracchiando
entusiasta.
«Harmonia non prese bene
quel mio affronto di lesa
maestà, nossignore: era furiosa, incazzata come mai prima
d’ora, ancora un po’
e le sarebbe uscita la schiuma dalla bocca come la cagna rabbiosa che
è!»
«E…
?»
«E allora mi
afferrò per i capelli, sollevandomi i
piedi da terra e facendomi penzolare come una pignatta da quanto era
imponente
la nostra differenza d’altezza, prese la propria spada e
ZAC!» imitò il gesto
«dei miei lunghi capelli neri che toccavano il pavimento e
fluttuavano
nell’etere non era rimasto più nulla, non
attaccato alla mia testa almeno»
iniziò a ridere.
«Io caddi al suolo come
corpo morto cade» si gettò sul
divano «senza rendermi immediatamente conto del danno; sentii
uno strano
prurito sulla nuca, così me la toccai: abituata
com’ero a sentire le dita
scorrermi fra i capelli, immagina la mia faccia quando i capelli non li
sentii
più, trovando al loro posto questa» si
toccò la testa per indicarla «distesa
rada e disordinata. Lei era radiosa, non c’è che
dire, teneva il marchio di
fabbrica della sovrana di Tandokka fra le mani come se fosse un trofeo!
Mi
disse anche qualcosa però meeeeeh, non ci feci troppo caso,
forse riguardo l’essere
ancora in tempo per pentirmi… oppure… mh, non mi
ricordo precisamente, sto
diventando vecchia, dopo millecinquecento anni».
«… Dimmi che
ti sei pent-»
«Col cazzo» lo
anticipò.
«E infatti raccolse i
resti del mio scettro, mi mise
in piedi e m’invitò a seguirla; non so se fossi
ancora troppo sconvolta o
troppo persa nella mia mente a dirmi che avevo preso una pessima
decisione, ma
non opposi resistenza e lo feci volontariamente, camminandole di fianco
diligentemente ed in rigoroso silenzio».
Si asciugò gli occhi da
quanto stava ridendo.
«Girammo tutte le strade
principali del suo regno
così, con la Regina di Phantasia che sfilava accompagnata da
Madre Natura; il
mio bastone nelle sue mani, i miei capelli nelle mie. Laggiù
certo non mi
conoscevano, probabilmente pensarono tutti che fosse una passeggiata e
niente
di più dal momento che mi salutarono pure, ma lo scopo di
Harmonia non era certo
offrire uno spettacolo alla sua gente. Voleva assicurarsi che la walk
of shame
alla quale mi aveva sottoposta me la ricordassi in eterno,
così da non commettere
più certe stronzate, ecco cosa».
Si fece pensierosa.
«… Non che
potrei farlo, anche volendo, non riesco
nemmeno a far fiorire una margherita».
Scoppiò in una fragorosa
risata, folle, rumorosa,
talmente tanto da coprire persino il temporale che imperversava fuori
dall’Albero di Olduvai.
«Ma la cosa ancora
più incredibile è che non possono
più ricrescermi, dal momento che Harmonia mi fece un
incantesimo “ad aeternum”,
allora, uno di quelli che oltrepassano i confini dello spazio e del
tempo e non
possono essere spezzati da nessuno in nessun caso e in nessun luogo,
nemmeno da
chi l’ha fatto. Niente di che, sia chiaro, solo un trucchetto
di magia che
consisteva nel poter più riavere indietro la mia chioma,
segno di riconoscimento
del mio status di Madre Natura, lasciandomi tornare a casa con questo
schifo
addosso e la coda fra le gambe. Non lo trovi bellissimo? Esatto! Ti
piace? Non
servono risposte!»
Emily Jane rideva, e rideva, e
rideva ancora, poi
ancora, senza mai fermarsi, senza perdere mai la voce e anzi
intensificando
sempre di più quel suono fastidioso, fino a quando le sue
guance non vennero
percorse da una cascata di lacrime.
E non erano provocate dalle risate,
adesso.
Si coprì il volto con le
maniche dell’abito che aveva
indosso, inzuppandole in quattro e quattr’otto dalla
disperazione che l’aveva
investita come un treno.
«Hai ragione,
Phobosuccio, non potrei essere più
d’accordo: sono inutile, fottutamente inutile. In una scala
dell’inutilità, io
riesco a sforare il limite massimo, sono utile quanto un dito coperto
di sabbia
infilato nel retto durante una visita alla prostata» rise,
interrompendosi ogni
tanto per via dei singhiozzi.
Si pose davanti
all’altro, alzandosi di scatto e
totalmente incurante di mostrare gli occhi gonfi per il pianto.
«Ti dirò un
segreto: le donne sono terribili. Pensavo
che le cose peggiori al mondo fossero i tagli provocati dalla carta, ma
mi sbagliavo.
Nessun pezzo di carta mi ha mai ferito così nel profondo,
nessun pezzo di carta
mi ha mai umiliata tanto, così tanto,
fino a farmi pentire di essere al mondo» sputò
tutto d’un fiato, crollando in
ginocchio «Per gli dei, guardami, guardami!»
«Ti sto
guardando».
«Guardami, guardami e
renditene conto da solo: ho un
brutto carattere, sono tremendamente acida e cinica, misantropa fino al
midollo, sono un fardello per chiunque mi conosca, non mi è
rimasto più nulla
da offrire a chicchessia, anche perché non voglio nessuno
vicino ma ho il terrore di morire
sola mia.
Come se non bastasse, mia madre è morta per colpa di mio
padre, il quale ha
scelto la sua troia anziché sua figlia: sono uno spreco di
spazio e di tempo e
di ossigeno, Phobos, persino di terreno dove venire seppellita. Se
dovessi
morire, nessuno mi piangerebbe, nessuno se ne accorger-»
Un bozzolo caldo
l’avvolse, isolandola dal resto dei
suoi problemi.
«Io sì,
però» le mormorò
all’orecchio, abbracciandola
«… anche perché sei qui davanti ai miei
occhi, la vedo ben dura non notarti nel
caso in cui tu stramazzassi a terra ad arti tesi!»
«… Sei un
idiota».
«Non complimentarti
troppo, o potrei montarmi la testa
e »
«Io faccio discorsi seri
e tu mi prendi in giro!
Bell’amico che sei!» tuonò una Pitchiner
particolarmente indiNNNiata, cercando
di scrollarsi l’altro di dosso. Il rosso, però,
non mollava la presa nemmeno a
pagarlo.
«Uh-uh! Ricordami in
quale momento siamo passati da
“compagni di bevute e di autocommiserazione” ad
“amici”, perché me lo sono
proprio perso!»
«Mai! MAI! E ora mollami,
ho detto! Mollam-»
«Nnnnno, non ti mollo no,
anzi!». Se la strinse al
petto ancora più forte, iniziando ad accarezzarle la testa
«Eeecco, ti stringo
di più, così ti passa la crisi esistenziale:
credimi, sono un esperto in questo
genere di cose, per quanto -sfortunatamente- io non avevo nessuno ad
abbracciarmi, solo lui» indicò Thorax «a
tenermi al caldo. Per il resto…» si
bloccò qualche istante.
Subito, però, si diede
un colpetto sulla testa.
«Eh no! Ora stiamo
parlando di te, non del
sottoscritto, peeeeeer cuuuuuuuiiiii» iniziò a
darle dei bacini sui capelli
«vieni qui e fatti limonare la testa, Madre
Pretura!»
«Madre Natura!
NATURA!» ringhiò Emily Jane, tentando
inutilmente di richiamare qualche ramo a darle una mano per sbrogliarsi
da
quella presa impossibile da sciogliere. Nemmeno quelli funzionarono,
specie
perché Thorax li afferrava e spezzava prima che potessero
arrivare fra lei e
quel polpo appiccicoso.
«Smettila di fare il
deficiente! Smettila, per gli
dei! Smettila o giuro che-»
«Solo se mi prometti che
non ti dici di essere inutile
per il resto del tempo che io mi trovo qui» disse lui, pacato
e sorridente
«promettimelo, e forse potrei lasciarti andare».
«Che ti
frega?!!» tuonò la donna, sbuffando.
«Non
interessa a me e nemmeno a mio padre, di cosa io dica o pensi o faccia,
figurati se deve preoccuparsene un perfetto sconosciuto quale sei tu!
Non sono
affari tuoi, Phobos, non lo sono!»
«Ora che mi hai
raccontato la tua storia, però, sono anche
affari miei» precisò il rosso «anche
perché potremmo darci vicendevolmente una
mano, sapendo di avere dei disagi mentali che ci accomunano. Potremmo
trovare
un sostegno materiale e tangibile
l’uno nell’altra, insomma, un supporto non solo
metaforico».
La Pitchiner lo fissò
qualche istante, confusa.
Non era certa di aver capito cosa
intendesse per
“sostegno materiale tangibile”, non lo era per
niente. Era sicura soltanto che Phobos
volesse qualcosa di non meglio definito in cambio della sua vicinanza,
se così
si poteva chiamare: oro, forse, magari qualche tipo di possedimento che
lei
certo non possedeva, magie e incantesimi a lei sconosciuti, o forse era
interessato a… oh. Come
aveva a non
pensarci prima?
“È un uomo, ed
interessato a ciò a cui sono
interessati tutti gli uomini”, pensò.
Sospirò rassegnata, scuotendo
impercettibilmente la testa.
Senza dare mostra della sua
esitazione, afferrò i
lacci del corsetto dell’abito che aveva indosso, facendo per
levarselo e denudarsi.
Ignorare la sua mente era difficile, ma non impossibile; vero, non
aveva mai
giaciuto con uomo e mai lo avrebbe fatto, ma -ora come ora- scegliere
era un
lusso che non poteva permettersi: o apriva le gambe, o
l’unica speranza di
trovarsi un alleato sarebbe andata in fumo.
“Per il bene
superiore”, si disse, “e che Marigold
chiuda gli occhi, dovunque si trovi”.
Le mani tremanti le impedirono di
spogliarsi
velocemente quanto avrebbe voluto, ma alla fine riuscì
finalmente a slacciarsi
la veste; tirò un respiro profondo, poi-
«COSA
STAI
FACENDO PRECISAMENTEH?!!»
Sentì una coperta
atterrargli direttamente in faccia;
colta di sorpresa, Emily finì per terra, avvolgendosi nella
stoffa come un
involtino primavera.
«Ma che
diavolo-»
«Scostumata! Deprevata!
Meretrice! Facilina! SABRINA
INTERVIENI!» le urlò contro Phobos, gridando e
gesticolando e
correndo per la stanza come un babbuino
impazzito. «Cosa credevi di fare, eh? Maniaca sessuale!
MANIACA!»
L’altra si rimise in
piedi, non senza una certa
fatica. Lo guardò interrogativa, perplessa, con gli occhi di
chi non sta
capendo un cazzo di niente: sapeva che gli uomini erano strani, sapeva
che
erano inclini alla depressione in mancanza di un orifizio in cui
sfogare le
proprie pulsioni sessuali, ma addirittura bipolari!
Ringraziò il cielo che non
le piacessero.
«Si può sapere
che ti prende?» gli domandò,
sinceramente confusa da quell’assurda situazione e reazione,
le mani strette
intorno all’abito.
Lui le gettò uno sguardo
addosso come se avesse appena
bestemmiato in chiesa.
«Cosa mi
prende?!!» ripeté, stizzito. «Credevo
fosse
abbastanza palese, ma lo ripeterò: mi prende che ti stavi
spogliando davanti a
me, per gli dei! SPOGLIANDO! Stavi denudandoti vai a sapere il
perché! Ho
capito che sono affascinante, però mi pare un
tantino-»
«Aspetta-aspetta-aspetta»
lo interruppe lei,
corrugando la fronte «mi stai dicendo che tu non vuoi fare
sesso con me?»
«Quando avrei detto che
voglio fare sesso con te, di
preciso?»
«Come sarebbe
“quando”? Prima hai detto che-
fermiamoci tutti un attimo» aprì le braccia, come
a dare lo “stop”. Respirò profondamente
qualche minuto, assicurandosi di tornare a ragionare lucidamente
«Prima tu cosa
intendevi per sostegno “materiale e tangibile” e
supporto “non solo metaforico”
fra di noi, precisamente?»
«Intendevo che avremmo
potuto diventare alleati e
darci una mano a vicenda, essendo accomunati dalla voglia di vendicarsi
della
stessa persona» spiegò il rosso
«cos’altro avrei dovuto intendere?»
Silenzio.
Poco dopo, il rumore del palmo di
Emily Jane che
impattava sulla sua fronte si fece largo nella stanza, insieme alla sua
risata.
«Aaaaaaaaaah! Intendevi quel genere di supporto!»
esclamò sorpresa e divertita
contemporaneamente, finalmente conscia del malinteso. «Avevo
capito che tu
volessi scoparmi in cambio del tuo aiuto, ecco perché stavo
per offrirti la
possibilità di possedermi! Non che avrei avuto piacere nel
farlo, ma la scelta
era ben poca».
«T-tu s-st-stavi
p-p-per… d-da-da-darme… la…
?»
balbettò Phobos, gli occhi ridotti a due pozze
d’acqua nelle quali stava
annegando. «… M-me la s-stavi p-per…
d-dare… s-sta-stavi p-pe… per-»
«Eh già, ma
ora ci siamo capiti! Meglio così! Anche
perché sono lesbica».
«Oh».
Ed ecco il colpo di grazia.
In quel momento, quel povero
disgraziato sentì il
mondo fermarsi: non solo quella sua stramaledetta lingua lunga -che
avrebbe
potuto utilizzare per ben altro!- gli era costata una scopata, non solo
lui
-pirla!- non aveva approfittato subito per correggere la sua
interlocutrice e
ribaltare la situazione, ma ora lei gli veniva pure a dire di essere
lesbica!
Lesbica! Addio qualsiasi chance di trombarsela!
Gli scese persino una lacrimuccia,
per quell’erezione
perduta: altro che Abisso, erano quelli
i veri dolori della vita!
«Tutto bene?»
gli chiese Emily, risvegliandolo da quel
suo stato catatonico.
Ormai rassegnato, annuì:
non poteva averla, del resto,
tanto valeva mettersi il cuore in pace una volta per tutte.
«Ne sono contenta, anche
perché volevo chiederti
delucidazioni su questa nostra alleanza volta
all’eliminazione di Harmonia… se
non sei troppo impegnato a piangere ripensando alla mia
omosessualità, ovviamente»
lo ammonì ridendo, immaginando già -e
c’entrando bene- a cosa fossero rivolti i
suoi pensieri dopo quella scottante rivelazione.
«Intendo che tu una mano
a me puoi pure darla, hai
detto di possedere dei poteri non indifferenti, inoltre hai
loro» indicò
Thorax, più un paio di altri leoni che erano da poco saliti
in casa «mentre io…
io…» fece una pausa, sospirando «io non
sono in grado di fare nulla più di ciò
che hai mostrato, se non meno: mi chiamano ancora “Madre
Natura”, ma nelle mie
condizioni attuali non potrei essere più distante da quel
titolo. Non posso
aiutarti, Phobos, non senza i miei poteri al completo».
«E non
c’è modo di recuperarli in alcun modo,
ormai»
rifletté lui ad alta voce.
«Nessuno,
assolutamente» confermò l’altra
«non posso
mica fare irruzione nel tempio di Quetzalli su di un carrarmato mosso
da un
motore a gatto imburrato, indossare un passamontagna e stringere fra le
mani un
Super Liquidator 5000 gridando “O lo scettro, o la
vita!”, sarebbe-»
«… Tu mi stai
dicendo che il tuo scettro non
è andato distrutto?» la interrogò il
rosso, strabuzzando gli occhi.
«Al contrario,
è stato distrutto trent’anni or sono
dalla regina di Phantasia, come sai già. Mi ascolti o no,
quando parlo?»
«Ma hai appena detto che
esiste ancora!»
«Se con
“esistere” intendi che lo scettro si trovi in
condizioni di essere utilizzato allora no, non esiste più.
Se invece mi stai
chiedendo se sia in uno stato tale da dirsi fisicamente tangibile,
allora sì,
esiste ancora» puntualizzò.
«Harmonia lo distrusse,
lo ridusse a pezzi e lo rese
un comune bastone di legno, ma era pure conscia che -con la magia
giusta-
sarebbe stato possibile rimetterlo insieme e riportare totalmente
indietro i
poteri di Madre Natura. E soprattutto sapeva che, nelle mani sbagliate,
un
potere del genere avrebbe significato il caos. Letteralmente.
Non puoi nemmeno immaginare di cosa fossi capace, e
non usavo nemmeno il cento percento del mio potenziale! Tipo Jiren che
silenzioso silenzioso e poi ZACCHETE! Fa il culo alla vostra scimmia
con
l’Ultra Istinto!» affermò gonfiando il
petto e ridacchiando. L’altro, però, non
la imitò. «Consapevole del pericolo, Harmonia
consegnò e assicurò
l’incolumità
dello scettro alle Ophidiands, affinché lo custodissero
nella loro città blindata
a chiunque non vi abiti: Quetzalli, appunto. Che io sappia è
ancora là, e-»
Le arrivò una scarpa
dritta dritta in mezzo alla
fronte.
«E POTEVI DIRMELO
PRIMA!» tuonò Phobos, evidentemente
alterato.
«Hai fatto fino ad ora a
lagnarti di come avessi perso
completamente i tuoi poteri, a dirmi che era impossibile riaverli
indietro, a
farmi spremere le meningi per cercare di trovarti
un’utilità, e poi cosa
succede? Te ne esci
dicendomi “Ehi!
Guarda che con i mezzi giusti si possono recuperare eccome! Possiamo
fare il
culo ad Harmonia ma preferisco tenermelo per me!”, e me lo
dici solo adesso!
ADESSO!»
«Prima non me lo hai
chiesto» lo corresse lei,
indifferente.
«Io prima non te
l’ho… ? MA IO TI RENDO CALVA! TI
STRAPPO I CAPELLI UNO PER UNO! GIURO CHE TI- calmo, calmo, devo stare
calmo.
Devo. Calmarmi» si suggerì da solo, massaggiandosi
le tempie. «Va bene, va bene….
innnnnnspiiiiiiiraaaaaaaa» si riempì i polmoni
d’aria, respirando profondamente
«eeeeespiiiiiiiiiraaaaaaaaaa» fece lo stesso,
però buttando fuori l’aria di
prima innnnnnspiiiiiiiraaaaaaaa…
eeeeespiiiiiiiiiraaaaaaaaaa… innnnnnsp- MA
PORC-»
«Se non ci dai un taglio
te ne tiro un altro, di
schiaffo».
Ci fu un attimo di imbarazzante
silenzio fra quei due,
durante il quale -fortunatamente- Phobos smise di respirare
così rumorosamente
da rendere difficile persino pensare, per la povera figlia
dell’Uomo Nero.
«Va bene, ora sono calmo
e non ho più voglia di
metterti le mani al collo» la rassicurò sorridendo
«ma ora torniamo a noi.
Dicevi che il tuo scettro si trova a Quetzalli, che è
considerata una città
blindata, uh? Quanto lo è, precisamente?»
«Abbastanza
perché nessuno osi metterci piede. Non so
il motivo di questo isolamento dal mondo, so solo che è
immersa nella foresta e
circondata da vulcani, oltre che costantemente presieduta da guardie
che
sorvegliano tutta la lunghezza dei confini. Sono una razza di donne
naga
guerriere, non hanno poteri vari ed eventuali ma non sono nemmeno da
sottovalutare».
«Non hanno poteri,
dici?»
«Non che io
sappia» fece spallucce Emily «e non sono
nemmeno originarie di Phantasia o di Exodus, aggiungo: le Ophidiands
nacquero
dall’unione fra il dio azteco Quetzalcoatl e la mortale
Medusa, una donna greca
colpita da una maledizione che la rese per metà serpente. Si
unirono in
matrimonio e giacquero insieme, e lei rimase incinta del dio; ebbero
una sola
figlia, Axechasti, “evento memorabile”, per
metà divina e per metà mortale. Mortale
come sua madre, del resto» raccontò.
Vedendo che l’altro
pareva interessato, decise di continuare.
«Approfittando della
mancanza di Quetzalcoatl, andato
a presentare la figlia al resto del suo pantheon perché gli
dei le donassero l’immortalità
come regalo di nascita, un gruppo di umani guidati da Perseo
s’intrufolò nella
dimora dei coniugi per uccidere Medusa: il tempo di decapitarla e
fuggire, e suo
marito tornò. Furioso e reso cieco dal dolore, Quetzalcoatl
decise allora di
portare la sua unica figlia il più lontano possibile dalla
Terra, in un luogo
dove gli uomini che gli avevano già portato via sua moglie
non potessero raggiungerla».
«Exodus?»
«Esattamente.
Portò Axechasti su Exodus e lì la
crebbe, ma arrivò un tempo in cui lei espresse a suo padre
la volontà di avere
dei figli a sua volta; Quetzalcoatl, tuttavia, era contrario: mai e poi
mai
avrebbe riportato sua figlia sulla Terra, tantomeno avrebbe permesso
che lì qualche
uomo si prendesse la sua innocenza e poi la reclamasse in sposa.
Tuttavia, vedendo
quanto lei soffrisse del suo rifiuto, alla fine trovarono un
compromesso: Axechasti
avrebbe avuto dei figli, ma senza che chicchessia la possedesse mai. La
dotò di
un apparitore riproduttore maschile, oltre a quello femminile
già in suo
possesso, rendendola ermafrodita: in quel modo poté
riprodursi e avere degli
eredi come desiderava, ma senza l’aiuto degli uomini che suo
padre tanto odiava.
E fu così che nacquero che Ophidians, quando lei
partorì».
«E come ha fatto
a… a…» balbettò Phobos,
più rosso più
dei suoi stessi capelli «a fare… sì
insomma… quella cosa lì…
cioè… dai-»
«Le Ophidians possono
ingravidarsi autonomamente,
essendo appunto ermafrodite possiedono sia il seme che
l’ovulo necessario a
farlo. Ne basta una sola per iniziare una stirpe intera, ma
sarà sempre e solo
una discendenza femminile: non esistono uomini, a Quetzalli, non
possono
esistere, così ha decretato Quetzalcoatl e così
sarà sempre».
L’altro la
guardò qualche istante, silenzioso, poi
scoppiò a ridere.
«Com’è
che sai tante cose sulle Ophidians? Una di loro
è stata la tua fidanzata per caso?»
“La mia fidanzata
è morta e defunta”, avrebbe voluto
rispondergli, ma se lo tenne per sé: non era pronta ad
aprirsi sul discorso
Marigold, non lo sarebbe mai stata e non voleva esserlo.
«Fortunatamente
no» si limitò a borbottare Emily Jane
«mi ero solo informata per capire se avessero qualche punto
debole particolare
tempo fa, intenzionata com’ero a ripiegare
sull’uccidere Myricae per
danneggiare Harmonia».
«Almeno ne hai trovati,
di punti deboli?»
«Non che possano essere
definiti tali, no» riferì «il
loro corpo è un fascio di muscoli, hanno serpi al posto dei
capelli, qualcuna
secerne anche un veleno più o meno potente -raramente
mortale, però- in
quantità più o meno elevata, e la maggior parte
di loro sa combattere
eccellentemente. L’unica mancanza che hanno è
quella di poteri magici» si fece
pensierosa, poi schioccò le dita come se avesse avuto
un’illuminazione «e di
alleanze, anche quello: si tengono lontane da chiunque, le Ophidians,
Harmonia
comp-»
«Mi stai dicendo che non
hanno l’appoggio di Harmonia?
Ho capito bene?» domandò Phobos, alzandosi di
scatto dal divano.
«Beh, sì,
quando dico che rifiutano la vicinanza di
chiunque intendo proprio tutti-tutti, anche della Regina di
Phantasia» rispose
lei. Sollevò un sopracciglio, perplessa «Ma
perché ti-… aspetta. Non dirmi che
stai seriamente prendendo in
considerazione l’idea di andare a Quetzalli!»
Da parte del rosso non provenne
nessuna risposta, solo
un sorriso compiaciuto.
«Tu lo stai pensando per davvero!» gli
gridò contro, schizzando in piedi e mettendosi le
mani nei capelli dall’esasperazione. «Cerca di
essere serio, cristo! Pensaci!
Non puoi farlo oggi, né domani, né mai!
È un’impresa impossibile! IMPOSSIBILE!»
«No, non lo
è» le disse indifferente.
«Lo è,
invece!» controbatté. «Metti pure caso
che
riuscissi miracolosamente a prendere lo scettro, cosa accidenti te ne
faresti,
dopo? Sicuramente non conosci incantesimi sufficientemente potenti per
rimetterlo insieme e renderlo utilizzabile, quella è roba
magica che compete a
gente tipo chi se ne sta lassù» indicò
la Luna fuori dalla finestra «non certo
a te! Nemmeno a me!»
«Sei davvero sicura che
io non conoscenza suddetta
roba magggica, uh?»
«Al cento percento,
Phobos, non puoi farcela» asserì.
«Sicura sicura?
Abbastanza da scommetterci sopra?» la
provocò. Tirò fuori un sacchetto di monete
d’oro che riversò sul tavolo
«Venghino, signore! Venghino! Sono aperte le
scommesse!»
«Ah! Al diavolo te e la
tua arroganza!» sbottò
l’altra, ormai stanca da tutte quelle sceneggiate. Si diresse
verso il
corridoio che portava alla sua stanza «Io me ne vado a
dormire, tu fai ciò che
preferisci: sbronzati ancora, lavati nei legumi, fottiti Shajira, non
m’interessa. Se trovi un modo per mettere in pratica il tuo
folle piano, allora
fammi un fischio» concluse, oltrepassando la porta.
Il motivetto fischiettato della
marcia di Topolino
raggiunse le sue orecchie, facendole girare il capo.
«Cosa dovrebbe
significarmi?»
«Che fra qualche giorno,
ai tuoi alberi, appenderemo
teste di naga anziché lanterne».
Si scambiarono uno sguardo
indecifrabile, non si
capiva bene se fosse d’intesa o più di profondo
disaccordo, ma nemmeno una
parola volò fra di loro, nemmeno un respiro: il tempo parve
essersi fermato,
bloccato, immobilizzato, come intimidito dalla tensione che
c’era fra i loro
occhi.
Infine, fu Emily Jane a prendere
parola.
«Sarà meglio
per te, se non vuoi che appena pure la
tua, di testa» lo avvisò semplicemente; si chiuse
la porta alle spalle.
E pregò che avesse
dannatamente ragione.
_______________________________________________________
Angolino dell’autrice
Niente strani suicidi, niente
divinità ambigue e
mentalmente disturbate dai dubbi gusti gastronomici, niente traumi in
giro:
tutto è tornato alla normalità, insomma. Compresa
la quotidiana dose di dramma
e altarini scoperti, adoVo troppo scoprirli! :’D
Il titolo del capitolo,
“Exulansis”, indica il momento
in cui ci si arrende nel raccontare la propria storia perché
l’altro non sta
ascoltando, trovandosi a parlare letteralmente al vento senza la
pretesa che
importi a qualcuno, continuando a farlo più per sfogarsi che
per altro,
insomma: considerando il contenuto di suddetto capitolo, non potevo
trovare
nulla di più appropriato!
Detto ciò non ho nulla
da aggiungere, ne approfitto
giuro per ringraziare chi segue la storia, chi legge e chi recensisce
(nonostante il curry del capitolo scorso :’D), fa sempre
piacere :)
Alla prossima!
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Capitolo 15 *** Il tunnel per El Dorado (più o meno) ***
Cinque giorni.
Cinque giorni di preparativi, poi
erano partiti alla
volta dell’ignoto, alla volta di Quetzalli.
Arrivare a Phantasia senza dare
nell’occhio non era
stato così difficile, non quanto una Madre Natura preda
delle paure derivanti
da brutti ricordi aveva inizialmente temuto almeno, complice il fatto
che Phobos
avesse “un piano”.
Suddetto piano aveva la forma di
pietre multicolore
simili a opali, che -a detta del rosso- avrebbero permesso la stessa
identica
cosa dei globi di neve di Nord, con la differenza che, se questi ultimi
permettevano ai guardiani di spostarsi sulla Terra, allora i suoi
sassolini
sbrilluccicanti possedevano un raggio d’azione ben
più esteso.
E aveva avuto ragione, a dispetto
della profonda
sfiducia e diffidenza dimostrata dalla sua lamentosa compagna
d’avventure.
Il tempo che la gemma toccasse il
pavimento, e un
portale si era aperto davanti ai loro occhi increduli di una,
compiaciuti
dell’altro; oltrepassato quello, erano spuntati ai confini
del regno di Phantasia,
dove finiva l’area direttamente governata da Harmonia e
iniziava Tauremorna,
“il bosco nero”, un luogo proibito e addirittura
maledetto, secondo alcuni.
Talmente maledetto che Phobos ed
Emily Jane Pitchiner
stavano facendo un pic-nic poco lontano dal suo perimetro, sdraiati
com’era sul
dorso di Thorax sotto l’ombra di giganteschi funghi bianchi
dalle lamelle verde
acqua luminescenti.
Il ritratto del terrore,
assolutamente.
Reduce da un violento litigio a
tema “nelle provviste
mettiamo le Pringles alla panna acida e cipolla, che piacciono a me, o
quelle
BBQ, che piacciono a te?”, l’uomo prese una
patatina e se la infilò in bocca. Ringraziò
di aver optato per il portarle entrambe.
«Che si fa,
adesso?»
«È la stessa
domanda che mi hai fatto quando siamo
arrivati quattro ore fa, genio».
Emily si alzò e si pose
davanti al compagno guardandolo
dall’alto in basso, imbronciata. Alzò una mano e
iniziò a contare con le dita.
«Da allora, le tue idee
in proposito sono state le
seguenti, in ordine: “diamoci un’occhiata
intorno”, “cerchiamo una via
d’entrata”,
“cerchiamo una via d’uscita in caso
d’emergenza”, “guardiamo su Exodus Maps
perché non si trova un cazzo di niente”,
“mangiamo fino a perdere la cognizione
del tempo”. Di tutto ciò, abbiamo portato a
termine con successo giusto
l’ultima cosa, capitan “fidati che ho un
piano”» si lamentò «inoltre,
siamo
anche pericolosamente esposti. Te l’ho detto che prima mi
è pure parso di
intravedere Myricae impegnata in un giro di guardia, no?
Ecco».
«Non è colpa
mia! Quella roba» controbatté lui,
indicando la foresta «è fottutamente impenetrabile
senza che si passi per
l’ingresso principale! Che nemmeno
c’è!»
E Phobos aveva ragione, purtroppo
per loro.
A proteggerla, la città
di Quetzalli non aveva solo
quella distesa di alberi millenari e arbusti fitti e sterpaglie alte
quanto un
uomo a perdita d’occhio che era Tauremorna, ma -attorno ad
esso- c’era una
serie non meglio definita di vulcani attivi,
una sorta di muraglia naturale di roccia e fuoco che circondava
totalmente il
territorio in mano alle Ophidians. Come se ciò non bastasse,
svariati di quei
vulcani erano talmente antichi da avere i pendii erosi e fessurati
dagli eventi
naturali, motivo per cui -di tanto in tanto- si potevano osservare
lacrime
incandescenti fare capolino sulle guance di quei giganti di terra,
sottilissimi
fiumi di magma che colavano fin sull’erba e lì si
solidificavano, complice
l’abbondanza di fiumi nella zona che arrestavano il flusso
lavico prima che
potesse dar vita a ben più pericolosi incendi.
Cola e cola, solidifica e
solidifica, millennio dopo
millennio anche l’acqua aveva ceduto, e quelle bisce
fiammeggianti si erano
accumulate a tal punto da straripare fuori dagli argini e crearne di
nuovi,
questa volta di pura ossidiana.
E l’ossidiana non si
rompeva, quando la lava ci colava
sopra, anzi!
La lasciava accumulare e
accumulare, fino a creare
curiosi corsi di magma anziché d’acqua, una
cintura di fuoco che seguiva i confini
di Tauremorna e rendeva impossibile accedervi a piedi;
l’unica strada
percorribile era il ponte scavato all’interno di un
gigantesco vulcano spento
-la cui sommità era stata intagliata a forma di testa di
serpente, giusto per
rendere chiaro dove portasse- che lo attraversava da un lato
all’altro.
Un ponte ormai crollato, tanto per
cambiare.
O meglio, fatto crollare dalle
Ophidians secoli prima,
così da impedire a chicchessia di violare
dall’esterno la clausura atta a
salvaguardare il loro popolo, ma ciò non cambiava le cose:
Emily e Phobos
avevano bisogno di entrare, e non c’erano vie per farlo.
«Passiamo
sottoterra».
Non vie convenzionali, almeno.
A sentire l’assurda
proposta della Pitchiner, l’altro
scattò in piedi strabuzzando gli occhi.
«Cosa ti sei fumata,
precisamente?»
«Di sicuro nulla di
peggiore di ciò che ti devi essere
fumato tu quando sei piombato nella mia vasca dopo averla riempita di
fagioli
in salsa» ridacchio Emily Jane. Tornò
però subito seria «Tralasciando l’uso di
sostanze stupefacenti da parte di uno o dell’altra, quando
siamo andati in
esplorazione ho notato dei grossi crateri di terra smossa sparsi nel
terreno tutt’intorno
alla foresta, specie in quello roccioso ai piedi dei vulcani».
«E quindi? Cosa credi,
che ci siano pure dei tunnel
sotterranei che portato a Khazad-dûm, il Reame di
Nanosterro?»
«Precisamente
quello» confermò «anche se temo che non
troveremo Thorin Scudodiquercia a darci il benvenuto offrendoci birra e
cinghiale, quanto più dei lombrichi grossi, brutti e molto, molto, affamati».
«Cos-»
«Diggerwurm. Colossali
vermi che si muovono nelle
profondità di tutto Exodus scavandovi gallerie nella roccia
come se fosse
gelatina» lo anticipò, invitandolo ad alzare il
culo e seguirla. Forse perché troppo
occupato a tenere aperta la bocca in un misto fra sorpresa e terrore,
Phobos obbedì
senza fiatare.
Lo portò fino al cratere
di cui parlava.
«Hanno mascelle immani,
capaci di spaccare montagne e inghiottire
intere città tutte d’un colpo, facendole svanire
in un battito di ciglia quando
-occasionalmente- riaffiorano in superficie, ma sono bestie totalmente
cieche
ed estremamente pacifiche» fece una pausa, pensierosa
«… per quanto possa
definirsi pacifico un verme chilometrico che scava la terra per
assicurare il
cibo a se stesso, e l’uniformità
dell’orogenesi al pianeta, insomma. Lezione di
biologia a parte, hai capito dove voglio arrivare, sì o
no?»
Lui scosse la testa, provocando un
sospiro rassegnato
da parte dell’altra.
«Intendo dire che
possiamo passare per quelle
gallerie, Phobos, sono talmente fitte che è matematicamente
impossibile che non
ce ne sia almeno una che porta dentro a Quetzalli! Tipo ques-»
«E se non la troviamo? Se
questa» additò
la buca davanti a loro «portasse da qualsiasi altra
parte, ma non a Quetzalli? E se spuntassimo dove dobbiamo spuntare, ma
venissimo circondati? Se ci trovassimo dietro il culo uno di quei
mostri? Se-»
«Se tu stessi zitto,
allora ti renderesti conto che
non abbiamo alternative!»
La giovane Pitchiner
allargò le braccia, come a
indicare la vastità che li circondava.
«Guardati intorno: hai
un’idea migliore? Perché se ce
l’hai, allora sono tutta orecchi!»
sbottò irritata. Dal compagno di avventure
non provenne risposta. Lei, allora, si chinò a prendere una
manciata di terra,
passandola fra le dita «È completamente asciutta,
questo passaggio non viene
utilizzato da svariato tempo» rifletté ad alta
voce «dovrebbe essere sicuro».
«Dovrebbe?»
«Non posso averne la
certezza. Basterà entrare e stare
attenti a non prendere i tunnel dove il suolo è umido o
vetrificato, perché
potrebbe essere segno della presenza di qualche diggerwurm: si muovono
nella
crosta rocciosa, sì, ma né il magma incandescente
né le tremende pressioni oceaniche
fanno paura alla loro stazza, per cui se dovesse esserci uno di questi
segnali…»
«Significherebbe che
siamo fottuti».
«Vedo che hai
capito» convenne lei, non senza un velo
di amarezza «per cui… ?»
«Per cui vai avanti tu.
“Prima le signore”, come si
suol dire» rispose pacificamente Phobos, esibendosi in un
inchino e un
sorrisetto compiaciuto.
Maledicendo come mai prima
d’ora il suo essere donna, Emily
Jane tenne per sé la serie di insulti che iniziarono a
balenargli nella mente,
limitandosi a fulminarlo con lo sguardo.
Lasciato Thorax ad attenderli
nascosto in una grotta,
infine si mise a capo della spedizione, il rosso dietro di lei che
teneva
accesa sul palmo della mano una fiamma per illuminare il luogo dove si
stavano
addentrando.
“Pregando che non diventi
la nostra tomba”, aggiunse
mentalmente.
Quando però furono
appena ad una decina di metri dall’entrata,
e notò che la rassicurante luce dei Soli già li
aveva abbandonati, quelle
preghiere iniziarono a sembrarle inutili.
Nelle gallerie scavate dai
diggerwurm regnava un
silenzio assoluto, irreale, quasi inquietante, come se quegli oscuri
meandri fossero
troppo sacri per essere violati da qualsiasi suono che-
«Questa è la
danza del serpeeenteeeee che vieeen
giùùù dal mooonte per ritrovare la sua
cooodaaaa che peeerse un dì!»
Che non fosse la voce di Phobos
mentre cantava
filastrocche per bambini, appunto.
Con agilità degna del
rettile le cui gesta stava cantando,
alla cantilena aggiunse pure un movimento più o meno
serpentino del corpo,
ondeggiando a destra e sinistra mentre girava intorno ad una
mentalmente
esaurita Madre Natura.
Ad un certo punto le si
fermò davanti, ovviamente
continuando a dimenarsi.
«Ma dimmi un po’!»
le puntò gli
indici sul naso, tirando fuori e agitando la lingua nel penoso
tentativo di
sibilare. O meglio, sputacchiare.
«Smettila».
«Sei proprio tu!»
iniziò a
punzecchiarle, palpeggiarle, molestarle, le guance pallide e scavate,
nemmeno
fosse una vecchia zia con addosso il caratteristico profumo di
patchouli.
«Finiscila».
«Quel pez-zet-tin del mio
co-din! Sì-»
«NO!»
Di fronte ad una reazione tanto
violenta da parte
della sua amyketta, il povero serpente rosso di capelli voglioso di
faciola rimase
interdetto qualche istante, evidentemente sconvolto; qualche istante,
appunto,
perché subito dopo le fece una linguaccia degna di un vero
ofide, a giudicare
da quanto aveva tirato fuori la lingua.
«…
Malmostosa» la rimproverò semplicemente,
imbronciato.
L’altra si astenne dal
dargli corda: con lui bisognava
agire così, lasciarlo parlare e attendere che si stancasse
di farlo da solo; in
caso contrario, bisognava avere sottomano una serie non meglio definita
di
frecciatine particolarmente pungenti per sostenere il botta e risposta
che sarebbe
scaturito dall’assecondare le sue uscite infelici.
Ed Emily Jane, che aveva ben altre
priorità per la
mente, certo non poteva permettersi il lusso di cazzeggiare e dimenarsi
e
rompere l’anima a chicchessia.
Specie perché iniziava
ad avere il vago sentore che si
fossero persi.
E si poteva pure togliere il
“vago”.
Non aveva la più pallida
idea del tempo da cui
stessero camminando, come nemmeno sapeva dove accidenti fossero finiti:
la
bussola non funzionava, il cellulare non aveva campo, gli enormi tunnel
-di
terra nerastra talmente compatta da sembrare cemento, sulle cui pareti
spuntavano ogni tanto ossa, pietre preziose e radici grandi quanto una
persona-
tutti uguali fra loro, che si incrociavano e diramavano fin dove solo
gli dei
sapevano.
Un labirinto sotterraneo, insomma.
Per evitare le gallerie umide -e
quindi fresche,
riconoscibili dalla terra più morbida che al solo tocco
cadeva come polvere ai
piedi- avevano svoltato una, due, tre, cinque, forse anche dieci volte,
ma non
era servito a nulla… se non a perdersi ulteriormente,
ovviamente.
Come se ciò non fosse
bastato a rendere un vero e
proprio inferno quella traversata, appena il buio li aveva avvolti
l’ansia era
arrivata a rischiarare le loro menti: la minima vibrazione o rumore,
pure che
fosse quello di un sasso calciato da uno dei due, e scattavano dritti
con le
orecchie tese, il cuore in gola all’idea che -da un momento
all’altro- sarebbe
spuntato un diggerwurm da dietro l’angolo. Non avrebbero
avuto vie di fuga,
allora, come pure non ne avevano adesso: ritrovare la via del ritorno
sarebbe
stato impossibile, andare avanti lo sarebbe stato altrettanto, dal
momento che
si muovevano alla cieca!
Madre Natura gettò uno
sguardo verso il rosso, che
continuava a ballettare tranquillissimo e sereno come non mai: era
pazzo,
assolutamente e indubbiamente pazzo.
Loro rischiavano di rimanerci
secchi, e lui che
faceva? Cantava e ballava.
«Emily».
E la importunava, anche quello.
Non si girò nemmeno,
consapevole che quasi sicuramente
si trattava di una delle sue solite stronzate.
«Cosa vuoi? Ti avviso che
se devi raccontarmi una
delle tue barzellette sconce, se vuoi propormi di fare sesso prima di
crepare
quaggiù, o se hai nuovamente intenzione di commentare la mia
mancanza di un
fondoschiena col quale puoi deliziarti mentre mi cammini dietro,
allora-»
«Devo andare al
bagno».
Ora però si
girò, basita.
«Ah! Affari tuoi! Dovevi
farla prima che entrassimo,
adesso vai a sapere dove cazzo siamo finiti!» gli
urlò contro, evidentemente
adirata «Se proprio devi, allora falla su qualche parete!
Tanto ce ne sono in
abbondanza!»
«Ma poi mi
guardi».
«Non
m’interessa proprio nulla dell’appendice che hai
in mezzo alle gambe, puoi starne assolutamente sicuro. Non tirarla per
le
lunghe, Phobos, fai quello che devi fare andiamo!»
«Dove?»
«Non ne ho la minima
idea, per gli dei! NON LO SO!»
urlò, salvo prendendoselo a braccetto subito dopo.
Lo accompagnò ad una
ventina di metri da dov’erano.
«Quando avrai una
risposta, allora falla sapere pure a
me, ma intanto» gli slacciò la cintura, lasciando
cadere mollemente i pantaloni
a terra «piscia e taci!»
«Ma-»
«TACI!»
Lui, gli occhi fuori dalle orbite a
causa
dell’improvvisa severità dell’altra, non
rispose, limitandosi a marchingegnare
per fare ciò che doveva.
Nell’attesa che quel
disgraziato terminasse ciò che
doveva fare, la figlia dell’Uomo nero chiuse gli occhi e si
godette quell’attimo
di silenzio che, finalmente, poté concedersi: forse si erano
persi, ma almeno
non aveva suo padre e Gwenllian intorno, il che era-
«Emily».
“Non
prenderlo a
pugni, non prenderlo a pugni, non prenderlo a pugni”.
Inspirando ed espirando
profondamente per svariate
volte, esibendo il miglior sorriso che aveva nel repertorio e
fingendosi calma,
la Pitchiner si decise ad ascoltarlo.
«Cosa
c’è?»
«Per caso i diggerwurm
hanno il corpo che somiglia
alla roccia di cui si nutrono, con una mandibola che si divide in
più pezzi
vagamente somiglianti alle tenaglie di un insetto, con grossi buchi o
placche
al posto degli occhi, la testa scavata come un teschio animale e delle
specie
di ossa che spuntano dal loro corpo?»
«Ci sono molte forme di
diggerwurm ma sì, l’aspetto
grossomodo corrisponde alla tua descrizione»
confermò «perché?»
«Per quello»
rispose indicandogli le profondità della
galleria.
Essendo rischiarati solo i pochi
metri circostanti a
loro dal fuoco dell’uomo, lei proprio non vedeva nulla;
decise di rimediare
strappando una radice dal soffitto e chiedendo al compagno di
incendiare
quella, così da usarla come una torcia.
La gettò verso il fondo
del tunnel.
E vide un cucciolo di diggerwurm
-nulla di che
rispetto agli adulti, sarà stato lungo una quarantina di
metri o giù di lì- che
curiosava poco lontano da dove si trovavano.
Dietro di lui, uno dei genitori,
una bestia lunga venti
volte tanto.
Che stava allargando la galleria.
E puntava verso di loro.
Mantenendo una calma proverbiale,
Emily Jane prese la
mano al suo compagno di disavventure, stringendogliela fino a farla
diventare
bluastra.
«Phobos».
«Sì?»
«CORRI!»
Di disavventure, e ora pure di
maratona.
---
Si strofinarono gli occhi per
cinque minuti buoni, non
convinti com’erano che il tunnel sotterraneo li avesse
seriamente portati dove avrebbe
dovuto portarli.
Alberi talmente alti e fitti da
oscurare persino i
raggi solari su tutti i fronti, qualche rustica capanna con mura di
fango e
tetto di paglia, un terreno sterile -per la mancanza di luce e calore-
con una
manciata di orti coltivati a frutta e verdura e cereali frugali, quel
che
bastava per sfamarsi insomma, fiumiciattoli quasi aridi e, infine,
terre
devastate dalle eruzioni vulcaniche.
Una civiltà
sull’orlo del baratro, in poche parole.
Ecco, la loro idea di Quetzalli era
qualcosa di molto
simile a questo: una città sperduta nella foresta, popolata
da tristi naga
ermafrodite abbandonate a se stesse, scarnite per la mancanza di cibo
e,
soprattutto, arrabbiate col mondo che aveva voltato loro le spalle.
La realtà,
però, era un tantiiiiiiiiiino differente.
Una città immersa fra
gli alberi, sì, ma circondata da
una foresta che assicurava una costante frescura anche durante i giorni
più
torridi, quando -come ora- i raggi dei Soli si riversavano roventi
sulle imponenti
piramidi azteche e gli innumerevoli castelli che parevano usciti da
“Le mille e
una notte”; le abitazioni, coperte d’oro e di gemme
preziose com’erano, risplendevano
al punto da colorare anche l’acqua delle numerose oasi
presenti qua e là nella
città, sulle quali si affacciavano svariate di quelle case
che -grazie alle
rampe e rampe di scalini che emergevano dalle acque come alberi di
mangrovia- vi
si gettavano letteralmente dentro a capofitto.
Se non era El Dorado quella, allora
non avrebbe potuto
esserlo nessun’altra città.
A dispetto del terreno arido
atteso, le strade dorate
di Quetzalli si snodavano invece in un vero e proprio tappeto di un
acceso
verde smeraldo, una distesa rigogliosa nella faceva capolino ogni
genere di fiori
e frutti e bacche -commestibili e non- dai colori vividi e brillanti,
complice
la cenere vulcanica che rendeva estremamente fertile il suolo.
E nemmeno le abitanti parevano poi
tanto malinconiche
e inconsolabili a causa del loro isolamento, tutt’altro!
Ovunque si gettasse lo sguardo, si
potevano vedere Ophidians
e Ophidians ora impegnate a strisciare serenamente per le vie della
città con
ceste di frutti esotici fra le mani, ora a conversare fra loro sulla
riva del
fiume tenendo d’occhio le figlie che sguazzavano
nell’acqua, ora a combattere in
quella sinuosa danza di corpi serpentini che s’avvolgevano
l’uno con l’altro in
nodi impossibili da sciogliere. Qualsiasi cattività stessero
facendo, però, una
cosa era certa: non erano tristi, né scarnite, né
arrabbiate col mondo.
Emily e Phobos si scambiarono uno
sguardo fugace,
impegnati com’erano a tenere la bocca aperta per lo stupore,
immobili come
statue.
«È la cosa
più bella che abbia mai visto in
millecinquecento anni di vita».
«Sì, lo
è» confermò lui, incapace di aggiungere
altro
«e dimostra che-»
Improvvisamente, il rosso
avvertì una forte pressione
sulla spalla, come se l’altra gliela stesse stringendo con
particolare forza;
d’istinto mise una mano dove iniziava a sentire i muscoli
intorpiditi, per
levargliela.
«Cosa diavolo stai- oh».
O Madre Natura aveva la pelle
più secca che esistesse
nell’intero cosmo, o stava toccando la mano di
un’Ophidians. E i serpenti
corallo che si trovò tutto d’un tratto a
sibilargli ad un palmo dal naso
confermarono la seconda opzione.
Una naga dalla coda nera costellata
di squame rosse e
gialle aveva poggiato le proprie mani squamate sulle spalle di
entrambi,
cogliendoli totalmente di sorpresa.
«Mani naa essa en lle?
Qual è il vostro nome?» sibilò.
I due avventurieri -paralizzati
com’erano da un misto
di puro terrore, adrenalina a mille e l’istinto da
“fight-or-flight” incapace
di prendere una decisione- non risposero, limitandosi a fare la parte
degli
stoccafissi lasciati a seccare al Sole.
Lei, allora, li girò
verso di sé con una certa
decisione.
«Vi ho fatto una domanda,
e siete pregate di rispondere:
chi siete? Dove siete state catturate e, soprattutto, da quale Airë
Tári? Di chi siete schiave?»
«Naa rashwe?
C’è qualche problema?» intervenne
un’Ophidian
dalle squame bianco e arancio e rosse armata di lancia, accodandosi
alla prima.
«Ho trovato or ora queste
due schiave che si
guardavano intorno, ma non paiono intenzionate a parlare e dirmi chi
sia la
regina che le ha catturate» spiegò
l’altra serpentessa, indicandoli «secondo te
a chi possono appartenere? I loro volti non mi sono nuovi».
«No, infatti, anche a me
pare di averle già viste»
convenne pensierosa; afferrò il mento di entrambi e si mise
prima a studiarli,
poi a sollevare lembi di stoffa come a cercare qualcosa.
Controllò loro il collo,
poi smise.
«Confermo che sicuramente
sono nuove schiave, non indossano
ancora alcun ruxal' ambönnar e le loro vesti sono lerce e
consumate, ma resta
da capire a quale regina appartengono. E bisogna saperlo con certezza,
dal
momento che il furto di serve altrui costa carissimo».
«A mio avviso»
intervenne la naga dalle squame nere «sono
proprietà di Airë Tári Hippolyta.
Considerando la quantità di femmine da lei
catturata durante l’ultima battuta di caccia, non mi
sorprenderebbe sapere che
un paio di loro si sono separate dal gruppo, magari mentre venivano
scortate
all’harem per essere marchiate».
«Avrebbe senso»
concordò «del resto è risaputo che lei
e l’Airë Tári Antiope sono le prime a
muoversi, quando arriva la notizia di
qualche straniera nei nostri territori. E considerando che Antiope
è gravida e
fuori forma, poco ma sicuro che è Airë
Tári Hippolyta l’è sfilata davanti al
naso con lazo e rete in bella vista» ridacchiò.
Tirò fuori dalla
saccoccia che teneva appesa in vita
una spessa corda, con la quale legò le mani di uno e
dell’altra. Nessuno dei
due oppose resistenza.
«Le riporto a lei,
allora, e le riferirò che sei stata
tu a ritrovarle. Aa’ menealle nauva
Quetzalcoatl’orn calen ar’ malta,
mellonamin»
fece un breve inchino quella dalle squame arancioni.
«Aa’
i’sul nora Quetzaltocatl’orn lanne’lle,
mellonamin»
ricambiò l’altra, allontanandosi.
Il rosso guardò la
Pitchiner dritta negli occhi,
incontrando due sfere dorate rese totalmente inespressive dalla
preoccupazione.
«Spero almeno abbiano i
faciola in salsa», le disse.
Il tragitto per arrivare
all’abitazione della loro
“padrona” era stato più lungo del
previsto, e anche più istruttivo di quanto
potessero lontanamente immaginare: girando e svoltando per vie dalle
mattonelle
d’oro, i due prigionieri avevano avuto l’occasione
di osservare la città da una
prospettiva differente.
Una prospettiva che li avrebbe
decisamente dissuasi
dall’impresa, se solo l’avessero notata prima di
entrare.
Ora come ora, mischiati
com’erano in mezzo alla
popolazione, potevano finalmente notare che non erano solo Ophidians ad
abitare
Quetzalli: insieme a loro, spesso e volentieri affianco,
c’erano anche delle
donne.
Non Ophidians.
La maggioranza di loro avevano
tratti umanoidi, ma -cammina
e cammina- c’era voluto poco perché ne
incrociassero anche di razze sconosciute
ad entrambi: umane, aliene, succubi, dalle fattezze animalesche,
talmente alte
e muscolose da sembrare montagne o così minute e magre da
parere fragili come
ali di farfalla. Tutte sorridenti e serene, in quegli abiti succinti
-che andavano
dai variopinti tessuti indiani, ai leggeri veli in stile arabo, fino a
bikini
che lasciavano ben poco su cui lavorare alla fantasia- che nulla
avevano a che
fare con i collari intorno alle loro gole, segno inequivocabile dello
status di
schiave.
Schiave, certo, ma che non si
comportavano affatto
come tali: parlavano e ridevano e scherzavano con le Ophidians, davano
preziosi
consigli su quale stoffa o gioiello meglio s’intonasse alle
squame, badavano
alle stesse figlie della loro padrona che scorrazzavano da una parte
all’altra
del mercato.
Erano schiave, ma sembravano quasi entusiaste di quella loro condizione.
Impegnati com’erano a
guardarsi intorno, non notarono
quando la naga che li stava accompagnando si fermò; finirono
per sbattere
addosso alla sua schiena.
Intuendo di essere arrivati,
alzarono entrambi il
naso: se le altre abitazioni erano immense, allora quella le superava
tutte, tutte.
La piramide azteca centrale era
tremendamente alta,
talmente tanto che a malapena si vedeva la sommità,
affiancata da un’infinità
di statue -prevalentemente di serpenti o naga- e da un complesso di
torri dalle
coloratissime cupole che parevano essere uscite dal film
“Aladdin”; di fianco ad
essere c’erano appartamenti più bassi,
sì, ma ugualmente curati e maestosi,
considerata l’imbarazzante quantità di gemme e
mosaici che ne rivestivano le
facciate.
E il sobrio color oro che ricopriva
tutto e accecava
al solo guardarlo, ovviamente.
Sentirono la presa sui propri polsi
allentare, fino a
svanire completamente.
«Questa è la
vostra nuova casa. Il mio compito e le
mie responsabilità terminano dove iniziano questi
cancelli» asserì l’Ophidian
che li aveva accompagnati, slegandoli. Indicò loro
l’ingresso alla casa «D’ora
in avanti, siete nelle mani della vostra nuova Airë
Tári, la vostra regina
nonché padrona dei vostri corpi e delle vostre vite, mi
avete capito?»
Entrambi annuirono, sebbene non
stessero seguendo
minimamente il discorso. L’altra si guardò intorno.
«Dovrebbe arrivare una
schiava a prender- oh, eccola».
Una figura fece capolino dalla
porta, una donna dalla
pelle scura ed i capelli verde acqua abbigliata nemmeno fosse la
principessa
Jasmine, con la differenza che il suo ampio abito era di un tenue rosa
ciclamino.
Appena arrivò e la
salutò inchinandosi, la serpentessa
spinse i due verso di lei con la coda.
«Appartengono alla tua
regina. Miulë Otrera le ha
ritrovate ai confini di Quetzalli, probabilmente si erano perse, ma ora
sono
dove devono essere» asserì con un cenno del capo.
«La mia parte di lavoro l’ho
fatta riportandole qui, ora devo andare: porgi i miei saluti alle tue
signore,
mi raccomando».
«Sarà
fatto» le sorrise la schiava «le mie padrone
sicuramente apprezzeranno il vostro gesto e si premureranno di
ringraziarvi a
dovere».
Si chinò nuovamente in
segno di riverenza, mantenendo
la posizione finché la naga non uscì dal suo
campo visivo.
Allora, e solo allora, si
girò verso Emily e Phobos.
«Che bello che bello che
bello che bello CHE BELLO!»
squittì entusiasta, afferrando le mani di entrambi
«Nuove amiche! Nuove amichette
con le quali fare conoscenza e prendere il tè assieme e
insegnare cucinare e truccare
da mattina a sera e con le quali massaggiare con l’olio
profumato la regina tuuuuuuutto
il giornoooooooooo!» iniziò a saltellare e
ballettare «Sono così contenta!
CONTENTISSIMA! IL
VOSTRO ARRIVO È UNA
NOTIZIA BELLA BELLISSIMA ESATTAMENTE COME LO SIETE VOI VI AMO
GIÁ SIETE
MERAVIGL-»
«Ma cosa stracazzo ti sei
fumata?!!» tuonò il rosso,
divincolandosi dalla presa della serva. Quest’ultima si
fermò e si mise a
guardarlo, pensierosa.
Solo per due secondi netti, sia
chiaro.
«Niente! Giuro di non
aver ancora toccato il narghilè,
oggi!» esclamò mettendosi la mano sul cuore,
ridacchiando «Sto solo esprimendo
esternamente l’immensa gioia che riempie il mio petto nel
vedere che sono
arrivate in casa due future amiche amicissime
amicissimissime!»
«Non puoi esprimerlo in
modo più calmo?» bofonchiò lui.
«NO! Non bisogna
contenersi di fronte a cose così
belle bellissime!» rispose con tanto di linguaccia. Gli
afferrò le guance e gli
si pose davanti, naso contro naso, facendolo perdere in quelle iridi
grigio
scuro «Ma non stiamo qui a cincischiare! Dovete conoscere
tutte le altre! E la
regina! E pure l’altra regin- ah no, ora non è in
casa…» si bloccò, mollando il
rosso con un buffetto «E va beh! La conoscerete dopo, tanto
di tempo ne avete a
bizzeffe! Però priiiiiiiiiiiiima di andare a fare
conoscenza... PRESENTAZIONI!»
Ballonzolò qualche metro
più avanti, estraendo dalla
tasca degli ampi pantaloni rosati due ventagli con
-all’estremità- un lungo
velo dello stesso colore che andava sfumando fino al bianco;
iniziò ad agitare
il corpo sinuoso e ballare per loro, inscenando qualcosa che doveva
somigliare
ad una danza orientale.
Il teatrino durò una
manciata dei minuti, al termine
dei quali fece un inchino.
«Il mio nome è
Amira, piacere!» incrociando le
braccia, strinse le mani a entrambe «Il vostro invece qual
èèèèèèèè?»
«Io sono Emily
Ja-»
Phobos se la tirò a
sé girandosi, dopo averla
interrotta con una gomitata sul fianco.
«Che diavolo stavi
facendo? Vuoi dirle “Ehi! Sono
Emily Jane Pitchiner, ma tu puoi chiamarmi pure Madre Natura o sovrana
di
Tandokka”, ti sei rincoglionita?!!» la
rimproverò a bassa voce, severo.
La donna non
controbatté, ben sapendo che il suo
compagno aveva ragione: probabilmente nessuna delle schiave conosceva o
aveva
anche solo sentito nominare uno dei due, ma -per un motivo o per un
altro- era
meglio non rischiare; erano già nella tana del serpente,
metterlo in allarme e
lasciare che si svegliasse avrebbe significato essere sicuramente morsi.
E avevano come
l’impressione che quel morso gli
sarebbe stato fatale.
«Lieta di conoscerti,
Amira, il mio nome è-»
«Emilia Gianna»
rispose l’altro per lei «mentre io sono
Phoebe, piacere di fare la tua conoscenza».
«Figuratevi! È
un piacere tutto mio, quello di
scortare due belle signorine come voi dalla mia signora,
così possiamo già
parlare del più e del meno fra noi ancora prima di
presentarvi a tuuuuutte le altre!»
cinguettò lei, letteralmente in visibilio.
Le prese frettolosamente a
braccetto.
«Presto, presto,
andiamo!»
Avvicinandosi
all’abitazione verso la quale stavano
venendo condotti, entrambi non poterono fare a meno di notare il
lussureggiante
e ampio giardino che circondava la villa: alberi da frutto, piante
rampicanti
che si avvinghiavano sugli stessi come a stringerli in un abbraccio
verde
smeraldo, e infine fiori, fiori a non finire, così profumati
da spargere il
loro aroma dolciastro per tutta l’area lì intorno.
Appena visibili da dove si trovavano
loro, delle lunghe vasche -piantate nel terreno- tappezzate di tasselli
colorati, nella cui acqua limpida si specchiavano e giocavano almeno
una
dozzina di donne come Amira.
«All’interno le
piscine sono mooooooolto più grandi»
li informò la schiava, notando i loro sguardi meravigliati
«quelle dentro sono
grosse tanto… tanto… ecco! Tanto
così!» allargò a più non
posso le braccia,
fiera.
«Amira».
«Sì, Emilia
Gianna?»
“Giuro che questa gliela
farò pagare, a quel maledetto
disgraziato!”, si promise mentalmente la figlia
dell’Uomo Nero.
«Posso chiederti una
cosa?» domandò timida, sperando
di non osare troppo. I suoi dubbi vennero però fugati dalla
schiava, che le
sorrise bonariamente.
«Certo! Chiedi pure tutto
ciò che vuoi, tutto
tuttissimo tuttissimissimo!»
Tirò un sospiro di
sollievo.
«Quando quella naga ci ha
catturato ai confini della
città, ha iniziato a chiederci insistentemente da chi
fossimo state catturate,
e come lei ci è stato chiesto anche dall’altra
serpentessa che ci ha portato
fin qui; parlavano entrambi di “Airë
Tári”, se non ricordo male, e -alla fine-
hanno concluso che appartenessimo ad una certa “Airë
Tári Hippolyta”. Hai idea
di chi sia, per caso?»
«Ma certo! È
la mia padrona, e ora è anche la vostra!»
rispose entusiasta.
Tirò fuori un paio di
occhiali e se li poggiò sul
naso, come per sembrare più acuta di quanto non fosse e
avere quel nonsochè di
intellettuale.
«Dovete sapere che qui a
Quetzalli, “Airë Tári”
è il
titolo che spetta alle regine che possiedono gli harem più
grandi, e che -per
questo e altri motivi- fanno parte
del Calaciryandë, una sorta di gran consiglio della
città» spiegò, continuando
a camminare. «Immediatamente dopo di loro, troviamo le
“Airë”: sono simili alle
precedenti, semplicemente non hanno ancora raggiunto un livello tale da
meritare un posto nel consiglio; dulcis in fundo, ci sono le
“Miulë”, ovvero le
principesse che non hanno ancora un harem proprio, o che sono agli
inizi della
costruzione di quest’ultimo. È una spiegazione
molto approssimativa, lo
riconosco, ma le differenze principali sono queste».
«Immagino che Hippolyta
sia una sovrana piuttosto
importante, se erano così sicure che ci avesse catturate
lei» azzardò Phobos.
«Lo è
eccome!» confermò fiera.
«La mia signora
è molto stimata da tutte le altre Airë
Tári, così come lo è la sua consorte,
Airë Tári Phentesilea. Per quanto possa
contare l’opinione di noi schiave, servirle non è
un compito gravoso,
tutt’altro! È un vero e proprio piacere!
All’inizio può essere difficile
accettare l’idea di appartenere a qualcuno che può
disporre del tuo corpo a
proprio piacimento, ma -detto fra noi- ci sono posti ben peggiori dove
finire,
e soprattutto regine molto meno
magnanime da compiacere per il resto della propria esistenza. Vi
è andata di
lusso, posso assicurarvelo!».
Si avviarono in un lungo corridoio
che passava sopra
ad un piccolo laghetto, una sorta di tunnel dorato le cui pareti erano
traforate da colonne e archi inflessi che -dando direttamente
sull’acqua- fungevano
pure da trampolino di tuffo.
Infine, si fermarono davanti ad una
pesante porta di
pietra, le ante intagliate a formare una miriade di serpenti dagli
occhi costituiti
da gemme preziose.
«Priiiiiiima di procedere
oltre, dovete avere queeeeeesti»
si mise a frugare e frugare e frugare nel borsello che aveva attaccato
alla
cintura. Tirò fuori due collari dorati.
Senza attendere oltre, li mise
intorno al collo prima
di uno, poi dell’altra.
«“Ruxal'
ambönnar”, “collana della
sottomissione”:
questo» lo tocco, facendo tintinnare l’anello che
pendeva sulla parte frontale
«è ciò che dice a tutti “Ehi!
Sono una schiava!”. Vi stringe troppo?»
Entrambi scossero la testa.
Amira, soddisfatta e rassicurata,
spalancò allora la
porta; i due compagni di sventure si scambiarono uno sguardo veloce, ma
sufficiente
per intendersi: non si tornava più indietro, adesso.
Si sarebbe potuto prendere in mano
un dizionario e
sfogliarlo per ore e ore e ore, per tentare di trovare trovare una
serie di
aggettivi che rendessero l’idea di ciò che si
presentava dinanzi ai loro occhi
increduli.
Nessuno di essi, tuttavia, sarebbe
stato adatto a
descrivere anche solo vagamente la realtà.
Complice il lucernario circolare di
vetri colorati al
centro del complesso, quell’immensa stanza dalle pareti blu
cobalto e oro -intarsiata
di pietre preziose e minuziose decorazioni e mattonelle variopinte per
tutti i
gusti- riusciva a essere luminosissima in ogni sua parte, compressa
l’ampia
piscina che si snodava per tutta la stanza. Così facendo,
non solo tutta l’area
risplendeva dei raggi dorati del Sole, ma pure dei riflessi multicolore
creati
dalle piccole tessere dei mosaici subacquei -visibili
nell’acqua limpida- che
formavano la pavimentazione della gigantesca vasca.
Ai bordi di essa, poi,
c’era una zona completamente
asciutta, dove sorgevano rientranze più o meno grandi
agghindate come salotti: divani,
montagne di cuscini, candele profumate, fiori, tavoli apparecchiati con
ogni
sorta di pietanza. Non mancava assolutamente nulla, insomma.
Nemmeno qualcuno che usufruisse di
quel ben di dio.
Donne, donne ovunque girassero lo
sguardo: che
sguazzavano nell’acqua, che crogiolavano sui divanetti a
parlare, che si
acconciavano i capelli sedute a bordo piscina; tutte giovani, tutte
d’indubbia
bellezza, creature sorridenti e radiose che ballavano e cantavano e
giocavano
con tale entusiasmo da far dubitare chiunque che si trattasse di pure e
semplici schiave.
«Se questo è
lo schiavismo» si rivolse il rosso verso
Emily Jane «allora prenditi lo scettro e vai pure senza di
me, che ho
un’improvvisa voglia di essere sodomizzato da una naga
ermafrodita!»
«Vuoi essere sodomizzato
pure da quelle?» gli
indicò uno dei salotti.
Lì, con le code
attorcigliate intorno alle colonne che
reggevano gli archi coperti da tendaggi che offrivano un po’
di privacy alla
zona, se ne stavano quattro di Ophidians, impegnate a scambiarsi particolari effusioni con altrettante
donne, forse pure un paio di più.
In allarme, entrambi iniziarono a
guardarsi intorno
-cercando di non essere distratti da seni e fondoschiena al vento, che
mica era
facile per nessuno dei due!- sospettosi, trovando conferma alle proprie
preoccupazioni: c’erano altre naga, là dentro, a
occhio croce in quella stanza
se ne contavano almeno una dozzina!
Guardando meglio, però,
notarono che tutte loro
portavano al collo un collare del tutto simile a quello di Amira e di
tutte le
altre schiave, per non dire che era lo stesso.
… Possibile che anche
loro fossero-
«Aiiiiiirëëë
Táriii
Phenteeesiiiiileaaaa! Aaaiiiiiiiiiirëëëëë
Táááriiiiiiii
Pheeeeenteeesiiiiileeeaaaaaaaaa
» si mise a gridare Amira, saltellando «Ho delle
nuove schiave sono belle
bellissime giuro che PER LA TESTA MOZZATA DI MEDUSA MIA SIGNORA DEVE
VEDERLE
DEVE DEVE DEEEEEEEEVEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE!!!»
Quella benedetta ragazza era folle,
folle.
Dalla piscina fece capolino una sua
coetanea, la pelle
chiara ed i capelli violetti come i suoi occhi.
«La regina è
là in fondo!» le indicò il salotto
più
grande dall’altra parte della stanza.
Quest’ultimo dava
direttamente sulla piscina -raggiungibile
tramite alcuni scalini- e su una sorta di piccolo chiosco, una
costruzione
circolare di pietra semi-immersa nella vasca che, ora, era parzialmente
nascosta dai tendaggi tirati.
Ringraziata l’amica, la
serva condusse entrambi fin
dove aveva indicato l’altra, salutando e sorridendo a
chiunque incontrasse
sulla propria strada. Quando fece per aprire le tende, Phobos le mise
una mano sul
polso, per trattenerla
«Ma sei sicura che
possiamo entrare?» chiese preoccupato
«C’è rumore, qui, magari stanno facendo
qualcosa che non vogliono sia
interrotto, magari stanno scopando!»
«In quel caso, stai
sicura che la regina non si
nasconderebbe certo!»
Aprendo la tenda, rivelò
un salotto grosso modo simile
agli altri, solo più grande e con più divanetti
dei precedenti, oltre che con
più ospiti.
Com’era prevedibile, le
schiave non mancavano mai.
Alcune appollaiate sul divano a
mangiare e cantare in
una lingua sconosciuta -sicuramente quella delle Ophidians- e suonare
curiosi
strumenti dalle forme bizzarre, altre sedute sul muretto del chiosco a
battere
le mani e, infine, decine di concubine impegnate invece a esibirsi in
quella
che aveva tutta l’aria di essere una vera e propria danza del
ventre, con tanto
di ali di Iside e ventagli e nastri variopinti.
Era solo un po’
più… osè.
Una delle ragazze si
staccò dal gruppo, avvicinandosi
ad un’Ophidian dalle squame di un brillante bianco
opalescente, fra le quali
faceva capolino qualche squama solitaria di un rosso acceso; le si
sedette in
braccio, si tolse il velo azzurrino da intorno ai fianchi e glielo mise
intorno
al collo, tirandola e sé e baciandola in modo alquanto
appassionato.
Nel mentre, iniziò a
strusciare sensualmente il
proprio bacino su quello della naga, che -di tutta risposta- le strinse
le
natiche con le mani artigliate, affondandole gli artigli in esse mentre
l’accompagnava nel movimento.
Non era affatto ambiguo,
ciò che stavano facendo.
Era
palesissimo.
Amira mosse qualche passo in
avanti, inchinandosi.
«Vanimle sila tiri
belegohtar curucuar, Airë Tári
Phentesilea» salutò semplicemente.
“Dunque quella
è una delle regine”, pensò Emily Jane,
scambiandosi uno sguardo con Phobos per assicurarsi che anche lui
avesse tirato
le stesse conclusioni.
A vederla, in realtà,
non avrebbe scommesso nemmeno
mezza moneta di rame che quella
fosse
una fra le sovrane che se ne stavano ai vertici di Quetzalli, piuttosto
avrebbe
pensato che potessero esserlo uno delle due Ophidians che
l’affiancavano!
Magrolina, senza il minimo accenno
alla muscolatura
come le sue simili, il corpo come la coda -più lunga di
altre, indubbiamente,
ma non altrettanto spessa- snello e delicato, che pareva potersi
spezzare solo
guardandolo, la pelle talmente pallida da sembrare candida come le sue
squame;
persino i serpenti che aveva per capelli erano lunghissimi,
sì, ma esili, una
cascata color della neve dalla quale qua e là
s’intravedevano le loro piccole
teste rosse che schioccavano la lingua a saggiare l’aria.
Che loro fossero convinti o meno
che si trattasse della
regina, la serpentessa gettò il proprio sguardo verso la
serva, sorridendole.
«Mae govannen,
Amira» ricambiò il saluto, piegando
impercettibilmente la testa.
Un paio di decisi movimenti
d’anca, e la concubina che
aveva in grembo inarcò la schiena, crollandole poi
letteralmente fra le braccia;
con un segno della mano, Phentesilea fece segno ad una sua simile di
prendere la
donna con la quale aveva appena copulato e portarla su uno dei divani.
Invitò i tre a sedersi.
«Eccoci qui,
dunque» batté le mani, come a
ufficializzare quell’incontro. Si girò verso la
serva «Allora, vuoi dirmi un
po’ chi sono queste due splendide ragazze?»
«Oh! Certamente! Lei
è Emilia Gianna!» indicò la prima
«E lei è Phoebe!» poi il secondo.
Si sdraiò a testa in
giù sul divano, si prese un
grappolo d’uva e, con tutta la calma del mondo,
iniziò a mangiarlo.
«Quando sono uscita, si
trattava di Airë Talestrie. Mi
ha riferito che Miulë Otrera ha trovato loro due» li
additò di nuovo «ai
confini del regno, fuori dalla foresta, e che -dopo essersi consultata
con lei-
hanno concluso che parevano entrambe due delle donne catturate da
Airë Tári
Hippolyta nell’ultima battuta di caccia. Non ne era sicura al
cento percento,
in verità, ma ha ritenuto comunque più opportuno
consegnarle a voi, piuttosto
che ad altre regine».
«Hanno avuto un pensiero
molto gentile entrambe, la
mia consorte sarà felice di sapere che non sono andate ad
Airë Tári Antiope!»
annuì Phentesilea ridendo.
«Assicurati di mandare
loro i dovuti ringraziamenti,
Amira, mi raccomando. Voglio che sia riservata particolare attenzione
ai doni
di Miulë Otrera, inoltre: è solo una principessa,
ma noto con piacere che si
sta dando da fare per ingraziarsi noi cosiddetti “piani
alti”, tanta
intraprendenza va certamente premiata».
«Cosa preferite che le
mandi? Oro? Argento? Gemme?»
«L’ultima che
hai detto. Silmarillis» si fece
pensierosa «una manciata. Dovrebbe bastarle per comprarsi
qualche schiava per iniziare
a fare concorrenza a sua madre, considerando che quello è
l’obiettivo che
abbiamo tutte da quando veniamo al mondo, qui!» rise.
Gli altri presenti non potevano
saperlo, ma le gemme
di Silmarillis erano la merce di scambio dal più alto valore
che esistesse a
Quetzalli, dinanzi alla quale qualsivoglia diamante impallidiva.
Donate all’alba dei tempi
da Quetzalcoatl al regno di
sua figlia, altro non erano che piccole pietre preziose grandi quanto
un chicco
di riso dall’aspetto adamantino, il cui interno -percorso da
venature e
sfaccettature colore dell’arcobaleno- brillava di luce
propria talmente intensa
da illuminare ciò che aveva intorno. Non potevano essere
estratte in nessun
luogo e con nessun attrezzo, però: l’unica fonte
di Silmarillis erano delle fontane
di cristallo che rarissimamente le
regine
possedevano nei loro territori, motivo per cui erano considerate come
un
ennesimo indicatore sociale.
Discusso un altro po’ con
Amira sulle ricompense da
elargire alle altre Ophidians, finalmente Phentesilea rivolse le sue
attenzioni
alla figlia dell’Uomo nero e il rosso.
«Gradite qualcosa da
bere? Da mangiare, forse? Non
fate complimenti, chiedete pure ciò di cui avete bisogno:
alle mie serve non è
mai stato negato nulla, potete tranquillamente chiedere a qualunque
donna
incontriate».
Nessuno dei due era troppo sicuro
di cosa rispondere:
se avessero accettato forse avrebbe pensato che si stessero
approfittando della
sua gentilezza, o che fossero troppo viziate, o che, ancora, non
avrebbero
dovuto e potuto parlare senza il suo permesso; se avessero rifiutato,
al
contrario, magari l’avrebbe presa come un’offesa, o
un segno di maleducazione,
o che non gradissero le buone maniere e volessero sperimentare quelle
cattive!
Alla fine, optarono per il silenzio.
«FACIOLA! FACIOLA IN
SALSA!»
O almeno ci provarono.
Emily avrebbe voluto sprofondare
sottoterra, o
affogare in piscina: tentativi e tentativi per non dare
nell’occhio, e cosa
succedeva? Phobos voleva i fagioli.
I fagioli.
Sarebbe morta per mano di stupidi,
maledetti,
dannatissimi, fagioli in salsa.
Contro ogni più rosea
previsione, però, la regina si
mise a ridere.
«Faciola?»
ripeté divertita «Intendi quei piccoli
legumi a forma di bottone, leggermente ricurvi, con la buccia sottile
sottile e
quella consistenza pastosa quando si masticano?
«Sì! Quelli!
QUELLI!» le si gettò davanti, le mani
giunte e lo sguardo implorante «DITEMI CHE AVETE ANCHE QUELLI
IN SALSA
PICCANTE! VI PREGO VI SCONGIURO VI SUPPLICOOOOOH!»
«Ovvio che li abbiamo,
qui accontentiamo i gusti
culinari di chiunque».
Uno schiocco di dita, e comparve
una serva con una
grossa ciotola di vetro finemente lavorata fra le mani; al suo interno,
un
numero non meglio definito di chili di fagioli.
«Prego, serviti
pur-»
Ancor prima di ricevere
l’invito della sovrana, lui si
trovava già con la testa letteralmente immersa nel
contenitore, a sbafare
faciola piangendo commosso nemmeno fossero finiti in un “Lo
chiamavano Trinità”.
Se uno si strafogava senza ritegno
alcuno, però,
l’altra lo fissava perplessa.
E la regina la notò.
«Qualcosa ti turba, mia
cara?»
Prima di risponderle, Emily
esitò: non pareva avere
cattive intenzioni, ma preferiva andarci piano sia con le domande, sia
con le
risposte. Meno diceva, meglio era.
«Come fate ad avere un
cibo tipico della Terra? Non è
proprio dietro l’angolo, e ho sentito dire che voi Ophidians
non uscite mai dai
confini della vostra città, mi risulta difficile capire come
facciate a
procurarvi dei… fagioli». A quella parola, si
diede una sonora pacca sulla
fronte «Lasci perdere, lasci perdere. Mi scusi, sono
mortificata, non so perché
sto chiedendo informazioni sui legumi ad una regina, non-»
«Oh, è molto
semplice» l’anticipò la sovrana,
sorridendo «avrai notato da sola che qui ci sono esemplari
femmina delle più
svariate razze che popolano il cosmo, non penso che le
Almáttki del pianeta
Dragsa passino poi tanto inosservate» ridacchiò,
facendo riferimento a quelle
donne che parevano montagne di muscoli viste in città.
«Comunque sia, il modo o
il motivo per cui suddette
femmine finiscono nei territori di nostra competenza non è
un nostro problema:
se bevono dai nostri fiumi, se colgono i frutti dai nostri alberi, se
riposano
le loro stanche membra sulle nostre pietre, se si sfamano con il nostro
grano,
se entrano a Quetzalli, allora diventano nostra proprietà.
Noi Ophidians le
cacciamo, le catturiamo e le reclamiamo come nostre schiave, e da
allora
diventiamo le padrone dei loro corpi e delle loro vite».
Prese un fagiolo caduto a terra.
«Un giorno
arrivò una ragazza terrestre, una
commerciante del deserto se non ricordo male, e con sé aveva
questi legumi:
fagioli, appunto» glielo mise sul palmo della mano
«li piantò e ci mostrò come
prendercene cura, e da allora crescono anche qui a Quetzalli.
Innumerevoli
altre piante aliene -che immagino tu abbia visto venendo qui- sono
arrivate qui
con la stessa metodologia, sai? Non usciamo mai dal nostro regno, ma
abbiamo
una varietà di fauna e di flora incredibilmente vasta e
variegata».
«È una storia
davvero affascinante» convenne Emily,
sinceramente sorpresa.
Non seppe se fosse
l’effetto del sentirsi priva di vie
d’uscita, se dovesse dare la colpa al rincoglionimento di
Phobos che l’aveva
contagiata via aerea, o se fosse stata ipnotizzata
dall’innegabile bellezza di
quell’Ophidian così diversa dalle altre, fatto
stava che, istintivamente, si
trovò a cercare con la propria mano quella artigliata
dell’altra, portandosela
sulla coscia.
«E ditemi, Airë
Tári Phentesilea» gliela fece
scivolare sotto la gonna «ne avete altre, di storie come
questa?»
La naga le sorrise, compiaciuta.
«Sono una creatura
immortale di migliaia e migliaia di
anni, Emilia, ne ho quante ne vuoi» le si accostò
all’orecchio, sibilando e
sfiorandoglielo con la lingua biforcuta, gli artigli che lasciavano
piccoli
segni rosati dove toccavano la pelle «e sembrano tutte
più avvincenti, se le si
ascolta nelle mie stanze, magari a mollo nella vasca da bagno, o
sdraiate sul
mio letto a godersi un bel massaggio, oppure potremmo
starcene-»
«Sotto le
lenzuola» le prese il volto fra le mani, avvicinando
le proprie labbra a quelle dell’altra «a godere e
basta».
L’Ophidian non ebbe il
tempo di rispondere, che la
lingua della Pitchiner stava già avidamente intrecciandosi
alla propria.
La regina si abbandonò
piacevolmente al contatto delle
labbra della sua nuova schiava con le sue, un contatto dapprima
gentile, poi
sempre più esigente, avido, impetuoso, che le smorzava il
fiato in gola, da
com’era stata presa alla sprovvista. Emise un mugolio
sommesso, quindi sollevò
le braccia per passargliele attorno al collo, tirando Madre Natura a
sé e
ricambiando il bacio con tanto e più ardore, complice la
mano che era finita chissà dove.
E che era tornata indietro
insospettabilmente bagnata.
Ah, i misteri di Quetzalli! Quale
meraviglia!
Quando si staccarono
l’una dall’altra, i loro occhi
non si persero di vista nemmeno un istante.
«Amira»
chiamò la serva, che alzò la testa dalla sua
improbabile posizione «mi ritiro nelle mie camere. Bada alle
altre concubine,
che a quella nuova» guardò Emily, maliziosa
«penso io. Ne avremo per molto, molto,
tempo».
«Il più a
lungo possibile, assolutamente» convenne la
sovrana di Tandokka, aggrappandosi al suo petto.
«Come desiderate,
Airë Tári Phentesilea!» scattò
sull’attenti l’altra, portando la mano alla fronte
in un saluto militaresco.
Infine, fece un breve inchino al congedarsi della sua regina.
Dall’altra parte, Phobos
-letteralmente paralizzato,
con i faciola che gli cadevano dalla bocca a causa della temporanea
paresi
facciale- non fu in grado di fare nulla: non reagì, non si
alzò per impedire il
folle gesto della sua partner di fagiolate, non sembrava nemmeno in
grado di
respirare, in quella modalità “statua di
marmo”. Semplicemente, fissò con occhi
vuoti Emily Jane Pitchiner, la che andava imboscandosi con una regina
Ophidians.
A svegliarlo, ci pensò
la pacca di Amira sulla
schiena.
«Uh-uh! Vedrai che la inaugurerà come si deve, non
ho mai sentito nessuna schiava
lamentarsi della sua prima notte nell’harem!»
Annegò la testa nei
fagioli per non sentirla.
[…
la mattina
seguente…]
«TU! MALEDETTA LESBICA
INFOIATA! FORNICATRICE! CORTIGIANA!»
«Quante storie».
«“Quante
storie”? “QUANTE STORIE”?»
Batté i pugni sul
tavolo, facendo traboccare del
karkadè dalla tazza che aveva davanti.
«Sei sparita da un
momento all’altro, ieri, e sei
rimasta da allora fino a questa mattina inoltrata a farti scopare in
ogni
posizione possibile e martellare gli orifizi da qualsiasi angolazione e
sfondare l’anima dalla regina! E non credere che non abbia
visto tutte le altre
schiave che sono entrate nella stanza mentre eravate impegnate a
copulare!
Minimo erano una quindicina! UNA QUINDICINA!»
«Come sei
noioso».
«E ci credo che sono
noioso! Dopo quell’orgia voglio
proprio vedere cosa reputi interessante!» sbottò
il rosso, alzandosi di scatto
e rovesciando la sedia.
Furibondo, si afferrò i
lembi della lunga gonna -di un
giallo acceso con uno spacco che mostrava la stoffa blu notte
sottostante,
costellata di piccole perline argentee che la rendevano somigliante ad
un cielo
pieni di astri- che indossava e gliela mostrò, orripilato.
«Non puoi nemmeno
immaginare cosa ho rischiato,
quando le concubine sono venute a svegliarmi per
lavarmi e vestirmi con gli abiti dell’harem! Avrebbe potuto
scoprire che sono
un uomo! Erano a tanto così dal farlo!»
Di tutta risposta, lei gli
toccò il pacco.
«Sei vivo e hai ancora il
cazzo attaccato, quindi
suppongo non lo abbiano scoperto».
«No, per
fortuna! Sono riuscito -anzi, riuscita!-
a fingermi troppo timida per
denudarmi davanti a loro, ho detto che dovevo ancora abituarmi
all’idea di
essere vista senza veli da altre donne e che avrei fatto da sola,
ringrazia il
cielo che abbia funzionato! E non ti dico quando hanno notato che non
ho il
seno! Solo gli dei sanno come hanno fatto a credere al fatto che avessi
troppi
muscoli perché si notasse!»
Si sedette, mettendosi le mani fra
i capelli.
«Potevi farmi ammazzare,
ma stai sicuro che -se fosse
accaduto- ti avrei trascinata con me»
l’informò, facendosi scuro in volto «ma
tanto che te ne frega, tu eri a scopare e divertirti. Per il resto, che
si
fotta il mondo! Letteralmente!»
Emily Jane, calmissima,
poggiò la propria tazza di tè
verde sul piattino. Si lisciò il lungo abito da danzatrice
del ventre verde e
bronzo-dorato che portava.
Chiuse gli occhi, tirando un
profondo respiro.
«Ho fatto sesso con
Phentesilea, lo ammetto, ma le ragazze
che hanno partecipato alla suddetta orgia saranno state cinque o sei,
non di
più» raccontò tranquilla,
prendendo un biscotto e inzuppandolo nel tè «e non
l’ho certo fatto per divertimento. Non solo per quello,
almeno. Ero piuttosto
curiosa di soperimentare di persona l’ermafroditismo di
queste naga ninfomani,
sì, non puoi nemmeno immaginare cosa-»
«Mezzo metro di cazzo,
Emily, mezzo metro!»
«Non ero lì
con un metro in mano ma sì, da quel che so
le dimensioni di un’Ophidians adulta sono quelle, forse
qualcosa di meno.
Tralasciando che mia vagina non debba rendere conto a nessuno che non
sia me
stessa, il punto non è questo».
«E quale
sarebbe?» domandò stizzito.
«Sarebbe che
sì, mi sono messa a flirtare con lei e mi
sono tolta lo sfizio di averci un rapporto sessuale insieme, ma
è stato tutto
dettato dalla necessità di carpire informazioni,
più che dagli ormoni. Quelli
hanno reso l’esperienza più interessante e
godibile, in tutti i sensi, ma la
missione aveva e ha ancora la priorità sul piacere
personale».
L’uomo parve calmarsi,
abbastanza da riuscire a tenere
il bicchiere in mano senza romperlo dalla rabbia.
«Cos’hai
scoperto?»
«Che abbiamo poco tempo.
Pochissimo. Se vogliamo
agire, allora dobbiamo farlo oggi: dopo questa sera, tu sarai morto, e
io
gravida».
«C-come?»
strabuzzò gli occhi, pallido in volto «Cosa
intendi per… gravida?»
«Intendo ciò
che ho detto» ribatté lei, apatica. «Da
quel che ho sentito e mi hanno detto, siamo capitati giusto giusto
all’inizio
del periodo dell’anno in cui le Ophidians fanno ingravidare
le proprie schiave.
La cerimonia inizierà questa sera stessa, appunto».
«Credevo pensassero loro,
a queste cose».
«Per dare vita a ibridi?
Nah. Ricordati che sono solo
serve, concubine, schiave sessuali: ingravidarne una non sarebbe poi
questo
grande vanto, per una sovrana» fece spallucce
«soprattutto perché i marmocchi
verrebbero tenuti nell’harem di provenienza della madre
prigioniera, per cui la
regina finirebbe per accoppiarsi con i suoi stessi figli. Qui non siamo
dalle
parti della Costellazione di Orione, Phobos, non sono Chandrasekhar:
l’incesto
non si pratica».
«E quindi?»
«E quindi, una volta
l’anno, le Ophidians aprono le
porte della città ad alcuni membri della Né
Räggira, una tribù mista a
prevalenza maschile che abita qui su Exodus, i cui uomini si offrono
ritualmente
volontari per accoppiarsi con gli harem delle regine e, possibilmente,
ingravidarle» spiegò. «Per tutta la
durata di questa “stagione
dell’accoppiamento”, se così vogliamo
chiamarla, i maschi scelti vengono
condotti bendati all’interno di Quetzalli, e solo al calare
della notte. In
questo modo, nessuna delle due persone coinvolte nel rapporto sessuale
può conoscere
il volto dell’individuo col quale ha giaciuto e, soprattutto,
non potrà mai
sapere l’identità dell’altro genitore,
se l’unione dovesse andare a buon fine».
«E cosa succede ai
bambini?» chiese l’altro, confuso
«Se non ci sono uomini a Quetzalli, allora-»
«Se sono femmine, allora
vengono tenute dalle
Ophidians e allevate come schiave, incontrando lo stesso destino delle
loro
madri» lo anticipò «se sono maschi,
invece, vengono riconsegnati ai Né Räggira,
e ogni membro adulto adotta un bambino. Nessuno di loro
potrà mai sapere se quello
è suo figlio o meno, ma -forse perché i neonati
vengono cresciuti da tutta la
tribù- ciò non pare disturbarli, dal momento che
continuano a offrirsi volontari
stagione dopo stagione, anno dopo anno. E noi siamo finiti
qui» allargò le
braccia per indicarsi tutt’intorno «proprio
all’inizio di questa stagione,
pensa che fortuna che abbiamo avuto».
Il rosso, evidentemente
preoccupato, si alzò,
iniziando a camminare nervosamente avanti e indietro.
Su dei deliziosi tacchi a spillo,
fra l’altro.
«Se non leviamo le tende
prima di sera, allora non
potremo farlo mai più. Letteralmente, perché qui
ci ammazzano prima» rifletté
ad alta voce. Si fermò davanti a Madre Natura, che intanto
aveva finito il
proprio tè «Come ne usciamo?»
«Da cosa? Da Quetzalli, o
da questa situazione?» rigirò
la domanda.
«Fa differenza?»
«Se intendi la prima, non
ne ho idea: la città è
blindatissima, in vista della cerimonia, e la galleria dalla quale
siamo
arrivati è impossibile da raggiungere senza farci notare. Se
intendi la
seconda, allora ho un piano».
«… Hai un
piano?»
«Precisamente»
confermò la Pitchiner, gongolando.
Si alzò anche lei,
affiancandosi al compagno, che
della sua calma non sapeva cosa farsene.
«Può darsi che
qualcuno
sia stato scelto dalla regina per accompagnarla al tempio di Medusa,
per andare
a pregare, le schiave che solitamente la scortano sono andate al
mercato
qualche ora fa e non torneranno prima del pomeriggio. Se andiamo con
lei a quel
benedetto santurio, allora ci salviamo pure dalla marchiatura che ci
aspetta
giusto fraaaaa» guardò una meridiana
«trenta minuti».
«M-ma-marchiatura?»
«Quella. Non ci hai fatto
caso nemmeno mentre venivamo
qui, che ogni schiava ha inciso sulla pelle -in parti del corpo random-
un
simbolo diverso per ogni padrona? In questo modo, nessuna regina
può pretendere
la serva di un’altra regina, pratico e veloce. E un
po’ doloroso, ma Amira ha
detto che non è-»
«Andare a questo tempio
ci farà perdere tempo?»
l’interruppe, non volendo nemmeno sapere ulteriori dettagli
su quella
questione.
«Non credo,
tutt’altro» sorrise Emily «è
il luogo più
sorvegliato dell’intera città,
quiiiiiindi…?»
Lui si fece pensieroso qualche
istante. Improvvisamente,
schioccò le dita, come se avesse appena avuto un lampo di
genio.
«Quindi lo scettro
potrebbe trovarsi lì!»
«La stessa cosa che ho
pensato anche io» convenne la
Pitchiner. Subito, però, mise le mani avanti
«Sottolineo che non ne ho
la conferma, quindi bisognerà
andarci con i piedi di piombo: potremmo avere ragione, come potremmo
avere
torto. Nel primo caso, prendiamo lo scettro e ce la fuggiamo con la
certezza di
uscirne vivi. Nel secondo caso, dovremo trovare alla bene e meglio un
modo per
fuggircela, e al diavolo la copertura» fece una breve pausa
«anche se…»
«Anche
se…?»
Si portò le mani alle
tempie, massaggiandosele.
«Anche se, adiacente al
tempio, ha la propria dimora Axechasti,
la figlia di Quetzalcoatl e Medusa, come sai»
corrugò la fronte «la sua
presenza mi preoccupa abbastanza, specie perché non abbiamo
grandi informazioni
su di lei. Per quanto ne sappiamo, potrebbe già sospettare
di noi e attendere
solo un nostro passo falso, per cui-»
«Per cui dobbiamo
rimanere nell’ombra e aspettare una
conferma dei nostri sospetti sullo scettro, prima di fare qualsiasi
cosa che
implichi il giocare a carte scoperte».
«Esattamente, vedo che ci
siamo capiti» confermò.
Allungò una mano verso di lui «Siamo entrati in
due, e usciremo in due: nessuno
lascia indietro nessuno».
«Nessuno lascia indietro
nessuno» ripeté Phobos,
stringendogliela.
“A meno che tu ti riveli
completamente inutile come penso”,
aggiunse mentalmente, sorridendo.
Per un millesimo di secondo, Emily
parve notare quel
lievissimo e quasi impercettibile accenno di ghigno dipintasi sul volto
del suo
compagno, ma non fece in tempo a concentrarsi su quel dubbio che la
voce di
Phentesilea chiamò i loro nomi.
Il pensiero che dovesse guardarsi
le spalle tanto
dagli amici quanto dai nemici scivolò via dalla sua mente
come rugiada su una foglia.
Sfortunatamente per lei.
___________________________________________________________________
Angolino dell’autrice
Traduzioni varie ed
eventuali
Mani
naa
essa en lle? = Qual è il
vostro nome?
Naa
rashwe?
= C’è qualche problema?
Aa’
menealle
nauva Quetzalcoatl’orn calen ar’ malta, mellonamin (forma di saluto) = Possa
Quetzalcoatl cospargere d’oro
il tuo cammino, sorella
Aa’
i’sul
nora Quetzaltocatl’orn lanne’lle, mellonamin
(forma di saluto con la quale si risponde a quella precedente) =
Possa Quetzalcoatl favorire sempre la tua sorte, sorella
Vanimle
sila
tiri belegohtar curucuar, Airë Tári Phentesilea = La tua bellezza risplende
intensamente, Airë Tári
Phentesilea
Mae govannen, Amira =
Ben trovata, Amira
Né
Räggira
= è l’anagramma (leggermente modificato totalmente
a
caso :’D) del popolo dei Gargareni, una tribù di
uomini che -secondo la
mitologia- si accoppiavano con le Amazzoni
Eccoci qua!
Sì, è un
capitolo più corto del solito, ma infilando
anche il resto delle cose che avrebbero dovuto esserci sarebbe
diventato veramente
T(R)OPPO lungo, per restare in tema di Dragon Ball Super come piace
tanto a
Giannemilia :’D
Avrei voluto trovare una foto di
Quetzalli, ma in
realtà… GNE, non ne trovavo di adatte per
descrivere la presenza di tanto oro in
stile Aldebaran (cit.), ma se avete visto “La strada per El
Dorado” allora un’idea
piuttosto fedele alla realtà l’avete!
Ringrazio nuovamente tutti quelli
che leggono, seguono
la long e in particolare chi è sopravvissuto al
capitolo 13, ora siete
leggenda trovano il tempo di farmi sapere cosa ne pensano, fa
sempre tanto
tanto sapere le opinioni di chi legge da fuori :)
Alla prossima!
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Capitolo 16 *** Rebirth ***
Se non ci fosse stata la regina a
guidarli, si
sarebbero sicuramente persi nella foresta dopo nemmeno un centinaio di
metri.
Alberi alti quanto palazzine
talmente fitti da fare
ombra tutt’intorno, immensi tronchi nodosi con insenature
così profonde che ci si
poteva accomodare dentro in più persone, gigantesche radici
che spuntavano qua
e là dal suolo come vere e proprie braccia demoniache,
pronte a trascinare lo
sventurato di turno negli inferi dal quale parevano provenire.
E c’erano liane,
soprattutto liane.
Fottutissime liane muschiate che
pendevano ovunque, finendo per
attorcigliarsi
intorno agli arti, al corpo, addirittura al collo come tentacoli di una
piovra;
in più di un’occasione si erano ingarbugliate ai
capelli di un povero Phobos
che -puntualmente- iniziava a gridare come una ragazzina fra le risate
generali,
salvo poi ridere lui quando Emily Jane -che in quei momenti di scherno
certo
non si era contenuta- si prese un mezzo infarto a sentire “un
serpente su per
il culo”, reduce com’era dal vivido ricordo della
gita nei boschi del Galles
con papà.
La regina, invece, strisciava
sicura e decisa in mezzo
a quel suolo tanto ombroso quanto lussureggiante: si muoveva piano,
silenziosamente, quasi non volesse disturbare la foresta stessa con la
sua
presenza, trovando comunque il tempo di parlare con le sue serve.
Era un’abile
conversatrice, bisognava
riconoscerglielo: sempre con la risposta pronta, sempre disposta a
mettersi in
discussione e ascoltare le opinioni altrui con estremo interesse,
sempre con
quel suo tono così vispo e allegro che avrebbe reso
affascinante anche la
narrazione di “Guerra e Pace” a un sordo.
O a due loschi figuri che giravano
con abiti da
danzatrice del ventre, insomma.
«Airë
Tári Phentesilea, potrei farvi una domanda?»
prese parola Madre Natura mentre attraversavano un fiume, il ponte
formato dal
tronco di un enorme albero cresciuto quasi orizzontale al terreno.
«Certamente, carissima,
qualsiasi cosa».
«Non ho potuto fare a
meno di notare che il vostro
harem è composto anche da altre Ophidians, sebbene siano in
numero esiguo
rispetto a schiave di altre razze, e che anche loro indossano
questo» si toccò
il collare dorato «sono schiave, forse?»
Tornarono sulla terraferma, per la
gioia di una certa
schiava rossa dal dubbio sesso che si aggrappava agli scivolosi rami
coperti di
fiori per il terrore di cadere e fare “splash” come
un Magikarp.
«Lo sono,
infatti» rispose la naga a voce bassa «ed
è
la fine peggiore che una regina possa desiderare di fare, quella di
diventare
concubina di un’altra regina. Specie quando finisci per
diventarlo di una tua
intima conoscente, un’amica d’infanzia, una
parente».
«Addirittura?»
«Addirittura,
sì».
La serpentessa invitò
entrambi a sedersi con lei su un
masso piatto e largo.
«È una triste
realtà, lo riconosco, ma è la realtà
di
Quetzalli, della mia casa, della mia gente, ed è socialmente
accettata e
incoraggiata: quando un’Ophidians nasce, lo fa con
l’obiettivo di possedere più
schiave possibili, e la consapevolezza che finirà schiava a
sua volta, se non
riuscirà nel suo intento».
«È una
pressione psicologica non indifferente, per
delle bambine» osservò la figlia
dell’Uomo Nero, lei che pensava che i compiti
scolastici fossero già abbastanza oppressivi da soli
«come fanno a reggere una
situazione del genere?
«Non hanno scelta, devono
farlo. In caso contrario…» fece una
breve pausa «… finiscono come le sorelle
di Airë Tári Antiope. Chiedete a qualsiasi mia
concittadina, e vi racconteranno
come sono tutte quante finite a far parte dell’harem della
loro “sorella
alpha”, come ama definirsi lei stessa. E Antiope è
considerata alla pari di
mostro, dalle sue serve, per cui vi lascio immaginare come se la
passano quelle
poverette».
Colse da un albero un frutto simile
a una melagrana
azzurra e verdognola, aprendolo e passandolo agli altri.
«Se una regina sfida
un’altra regina con lo scopo di
appropriarsi del suo harem, non solo quella perdente e tutti i suoi
averi
diventano legittimamente proprietà della vincitrice, non
solo lo diventano le
sue concubine, ma -ahimè- alla sua consorte e alle sue
figlie tocca lo stesso
destino».
«Anche le
figlie?» ripeté il rosso, incredulo e col
cibo ancora in bocca «Come è possibile? Non hanno
colpe se le loro madri sono
delle incompetenti nel combattimento!»
«È
precisamente ciò che pensiamo io e mia moglie, Airë
Tári Hippolyta, e infatti nel nostro harem non sono presenti
i familiari delle
regine sconfitte, e mai ci saranno» convenne, accennando un
sorriso tanto dolce
quanto severo. Che svanì poco dopo, però
«Se la regina vincitrice lo ritiene
opportuno, ha la facoltà e la libertà di
concedere la grazia all’altra,
rinunciando al rendere schiava lei, o almeno la sua famiglia.
Fortunatamente,
la concessione di una grazia va per la maggiore, non tutte sono
assetate di
schiave».
«Ma alcune lo sono,
immagino».
«Mi duole confermarlo, ma
è così» sospirò rassegnata.
«Ci sono regine disposte
a tutto pur di superarne
altre, regine come Antiope, che -per questo- finiscono per attaccare
sovrane ancora
giovani sapendo bene di avere vittoria
facile, prendendosi loro e tutto il pacchetto al seguito
senza vergogna
alcuna». Strinse forte il frutto fra le dita diafane,
sporcandosele del succo
giallastro «Non c’è proprio nulla di cui
vantarsi in un gesto del genere, non è
una vittoria onorevole se una delle parti combatte con un bastone di
legno e l’altra
con una lancia di ferro, né tantomeno se sodomizzi una madre
davanti alla sua
stessa figlia “per insegnarle il suo futuro
mestiere”. Eppure succede, Phoebe,
succede eccome…» gli occhi le divennero
lucidi «e noi lo permettiamo. Lo sosteniamo, Lo
incoraggiamo».
Probabilmente emotivamente provata
da quei discorsi,
l’Ophidian si tirò la coda al petto e ci
poggiò la testa sopra, lasciando
cadere mollemente le braccia lungo i fianchi prima di cingersi la testa
con le
stesse.
Il tonfo della melagrana a terra
spezzò il silenzio
della foresta.
«State bene,
Airë Tári Phentesilea?» le
domandò
Phobos, mettendole una mano sulla spalla come se fosse realmente
preoccupato «Volete
tornare indietro? Devo chiamare qualcuno?»
«Sto bene, Phoebe, ti
ringrazio» si sforzò di
sorridergli, il volto stanco e gli occhi lucidi «stavo
solo… riflettendo».
«Su cosa, se posso
chiedere?»
«Sul fatto che sia una
società tremendamente
sbagliata, la nostra» mormorò.
Si alzò, strisciando
fino al ciglio del precipizio
appena attraversato.
«Che ci crediate o no,
non siamo sempre state così,
noi Ophidians. C’è stato un tempo dove vivevamo in
pace e armonia col il resto
della gente di Exodus, in cui eravamo guerriere il cui orgoglio e forza
erano
ammirati e applauditi da tutti, è esistito un passato che
dove le nostre
bambine giocavano serene e contente con i figli degli
“stranieri venuti di là
dalle montagne”, come definiamo oggi coloro che stanno al di
fuori di
Quetzalli. Pretendiamo di aver dimenticato tutto questo, fingiamo che
non sia
mai successo, ma non tutte riescono o vogliono farlo».
Guardò la propria
immagine riflessa nell’acqua,
contemplando con sguardo assente i lineamenti deformati dalla corrente.
«Abbiamo distrutta
l’entrata della città settecento
anni fa, ma l’isolamento è iniziato prima, molto
prima: è stato lento,
graduale, silenzioso, è passato inosservato tanto ai nostri
occhi quanto a
quelli altrui. Quando il ponte è crollato, nessuna di noi
era veramente pronta
ad abbandonare il mondo esterno».
«E per quale motivo lo
avete fatto comunque?» chiese
il rosso, incuriosito e confuso.
La regina, di tutta risposta, fece
spallucce.
«Non avevamo scelta.
Nessuno ci voleva, ma eravamo
troppo orgogliose per lasciarci chiudere fuori dal mondo,
così abbiamo chiuso
noi il mondo fuori per prime, convinte com’eravamo e come
siamo tutt’ora che
Quetzalli sia un paradiso dorato nel quale vivere…
ah!»
Con la coda, lanciò
sbadatamente un sasso nel fiume;
rimase ipnotizzata a lungo a osservare le onde concentriche create
dall’impatto
della pietra con la superfici dell’acqua.
«Quetzalli mi ha portato
via una figlia, sette secoli
or sono, l’unica e sola figlia che abbia mai avuto»
sussurrò dopo un po’, con
gli occhi lucidi.
«Nessuna mia simile ha
mai capito cosa io provassi e cosa
attualmente provi a vivere come una madre a metà, mutilata
della creatura che
ha messo al mondo, si sono sempre interessate di più al
numero delle mie
concubine che al dolore che mi stava dilaniando… che mi
dilania ancora oggi…» le
lacrime iniziarono a rigarle le guance pallide «persino mia
moglie non capiva,
all’inizio, tante volte mi sono chiesta se ci soffrisse anche
lei o se io fossi
l’unica a starci male. Ai tempi, mi consolava e mi diceva
“Se un’altra figlia
può farti stare meglio, allora possiamo farla, nemmeno stessimo parlando di
un giocattolo
rotto che si può sostituire. Ora si limita a non parlarne e
basta... ed è
meglio così: non voglio che viva anche il mio dolore, ha
già abbastanza cose di
cui occuparsi all’interno del
Calaciryandë».
Ci furono lunghissimi attimi di
silenzio che parvero
non finire mai, dopo quella frase, un silenzio talmente intimo che
né Phobos né
Emily Jane -dall’alto del loro essere lì solo per
puro interesse- si
azzardarono a profanare dicendo qualcosa.
A spezzarlo, solo i singhiozzi e la
lacrime di
Phentesilea.
«Devo vivere tentando di
convincere me stessa e chi mi
circonda di non aver mai messo al mondo una figlia, di non essere mai
diventata
madre. Devo dimenticare di avere una parte della mente costantemente
preoccupata per lei, anziché fingere che sia morta come fa
mia moglie, come fanno
tutte. Devo negare di immaginarmi la
mia piccola affacciata alla finestra a guardare la Luna là,
a Phantasia, mentre
lo sta facendo anche sua madre qui, a Quetzalli, ogni sera, quando
calano le
tenebre e resto sola coi miei pensieri, coi miei demoni. Allora, la mia
unica
consolazione è il sapere che la Luna che guardiamo
è la stessa, quindi non
possiamo essere poi così distanti».
«A Phantasia?»
intervenne Madre Natura, piegando la
testa.
«È
lì che abita mia figlia, alla corte della regina
Harmonia» confermò la serpentessa, asciugandosi
intanto le lacrime «è la sua
partner, oltre che la prima dei suoi generali, per cui-»
«Voi siete la madre di Myricae?!!»
In quel preciso istante, i neuroni
della Pitchiner si
presero una pausa.
Quella era la madre di Myricae.
Quella.
Aveva davanti la stramaledetta
madre di quella
stramaledetta naga che voleva nella tomba tanto quanto ci volesse
l’altra
stramaledetta centauressa dal culo spanato che rispondeva al nome di
Harmonia.
Avrebbe potuto, voluto,
farle di tutto, l’occasione c’era ed era succulenta
come non mai!
A dirla tutta, si sarebbe chinata
volentieri ai suoi
intinti anche solo per colpire trasversalmente quelle dannata Ophidian
dalle
squame color smeraldo, più che per fare del male a una
creaturina fragile e
delicata com’era la sua mammina. Emotivamente distrutta e
indifesa com’era,
sicuramente Phentesilea non avrebbe opposto resistenza alcuna alla lama
di un
coltello che le affondava nella gola, occupata com’era a
compiangere la sua
figliola perduta sarebbe stato un lavoro di una semplicità
talmente disarmante
da sentirsi quasi in colpa, un po’ come rubare le caramelle a
un bambino senza
braccia.
Quasi, appunto, perché
certo non si sarebbe pentita.
Quando toccò il pugnale
che si teneva alla cintola,
però, Emily decise improvvisamente di scacciare quei
pensieri dalla sua mente:
doveva restare lucida, attenersi al piano e non dare
nell’occhio, ora.
Finché non avessero
avuto conferme della posizione
dello scettro, qualsiasi azione o gesto avventato sarebbe stata troppo
rischioso; doveva prendere fiato, calmarsi e, soprattutto, non fare
domande o
insinuazioni sospette che non fossero inerenti a ciò che
potevano sapere di
loro o aver ascoltato, così da mantenere la copertura fino
al momento propizio.
“Dovere”,
sempre quel verbo in mezzo: e doveva fare
questo, e doveva fare quell’altro, e doveva sottostare agli
ordini di un
disgraziato che pareva appena uscito da un centro per la riabilitazione
degli
alcolizzati cronici.
Doveva farlo lei, la regina di
Tandokka.
La regina.
Re-gi-na.
Regina che, adesso, pensava solo
una cosa: “che il
piano si fotta”.
«Sono la sua
Amìl, sì… ma voi come fate a sapere il
nome di mia figlia?» domandò sorpresa la naga,
alzandosi «La conoscete? L’avete
vista? Ci avete parlato, forse? Come-»
«No no no no no,
nieeeeeeeeente di tutto ciò! Ma va!
Si figuri!» si affrettò a chiarire Phobos,
agitando nervosamente le mani
davanti a sé. Esibì il sorriso più
falso che riuscì a racimolare in mezzo alle
gocce di sudore che gli imperlavano la fronte «Abbiamo
sentito parlare di lei,
ma non la conosciamo di
persona» si
girò verso la sua compagna, dandole un vigoroso colpo di
gomito sul braccio
«vero, Emilia Gianna? Vero, che non
conosciamo affatto la tenerissima figliola della regina? Vero?»
Lei, girata di spalle, si
limitò a ridacchiare.
«Airë
Tári Phentesilea?» la chiamò dopo un
po’, atona.
«Sì,
cara?»
«Lo scettro di Madre
Natura si trova al tempio di
Medusa, immagino».
A quelle parole,
l’Ophidian si paralizzò: gli occhi
sbarrati, il respiro ridottosi a un flebile soffio appena percettibile,
il
volto contratto in una smorfia di puro terrore.
«C-come lo
s-sai?» fu l’unica frase che, a stento,
riuscì a pronunciare mentre tremava
«Chi… chi t-te l’ha
d-de-detto?»
L’altra si
voltò, sorridendole.
«Voi. Proprio
ora».
«Cosa? I-io? Io
n-non… n-n-non…» balbettò la
regina
indietreggiando, le pupille che guizzavano da un alto
all’altro degli occhi a
studiare i volti di quelle che -fino ad ora- aveva creduto essere
semplici
schiave. Si fermò quando la sua schiena incontrò
il tronco di un albero.
Priva di vie d’uscita,
circondata su tutti i fronti,
senza la minima speranza di avere la meglio in uno scontro corpo a
corpo,
Phentesilea fece l’unica cosa che era nelle sue
possibilità: urlò.
O almeno, tentò di farlo.
Stava per aprire la bocca per
chiamare aiuto, quando
il fiato le morì in gola.
«Grida, e
ammazzerò tutte le bambine di questo buco
città» la minacciò il rosso,
stringendola a sé grazie all’avambraccio intorno
al collo. Mantenne la presa finché non vide la pelle bianca
diventare bluastra,
e nemmeno allora la liberò.
I tentativi della donna di
divincolarsi da quella
morsa furono inutili, considerata la scarsità di muscoli nel
suo esile corpo.
«Ho un branco di leoni
neri pronti a sbranarle, quelle
piccole e dolci Ophidians dalle squame ancora tenere. Aspettano solo un
mio
ordine per avventarsi sui loro corpicini inermi e usarle come gomitoli,
per
cui» estrasse un pugnale dalla tasca, facendoglielo scorrere
dal collo alle
labbra, un rivolo di sangue che le colò dalle stesse
«non ti conviene urlare o
anche solo pensare di poter avvertire chicchessia della nostra
presenza,
bellezza».
«Non le ba-bambine, non
l-loro» mormorò la regina, in
lacrime «fatemi ciò che volete, qualsiasi cosa vi
venga in mente, ma non
toccate le bambine: torturatemi, stupratemi, uccidetemi se volete, ma
non fate
loro del male, v-vi… vi p-prego, vi prego!»
«Uh-uh, che mammina
sentimentale e coraggiosa che
abbiamo qui, addirittura disposta a immolarsi e prostituirsi per delle
mocciose!»
Certo che lei non avrebbe fiatato,
le tolse il
coltello dalla bocca; con tocco lento ma inesorabile, lo fece scivolare
fino
alla sottile catenella argentata che reggeva la setosa stoffa che le
copriva il
décolleté.
Un rapido movimento
del polso, e quella si spezzò senza difficoltà,
lasciandola a seno scoperto.
«Quasi quasi, un
pensierino sulla tua seconda offerta
ce lo farei pure, ora che mi ci fai pensare» le
sussurrò all’orecchio, leccandoglielo,
incurante dei mugolii sommessi dell’altra «sono
proprio curioso di vedere come-»
Uno scappellotto sulla nuca da
parte di Madre Natura
lo interruppe.
«Non siamo venuti qui per
divertirci, idiota!»
Le lanciò
un’occhiataccia terribile «Ma tu-»
«Ma io ho scopato con lei
per avere informazioni utili
a entrambi, che è ben diverso dal farlo per sfogare i propri
ormoni» lo
anticipò, zittendolo.
Si avvicinò a
Phentesilea, in preda ai brividi. Tirò
una liana a sé, strappandone un filamento col quale
ricompose alla bene e
meglio l’agganciò lacerato dell’abito
della regina; non era un lavoro
particolarmente degno di nota, ma bastava perché non girasse
mezza nuda.
Non seppe precisamente
perché lo fece, avrebbe anzi
dovuto gioire al pensiero che venisse fatto del male alla madre di
Myricae, ma
-in quel momento- non se l’era sentita di infierire:
“i figli non dovrebbero
pagare le colpe dei genitori”, aveva detto
l’Ophidian poco prima, che potesse
valere anche al contrario?
Non l’avrebbe mai saputo,
e non voleva nemmeno
saperlo: aveva voluto farlo e l’aveva fatto, punto.
«Trattieniti i tuoi
ormoni, o -riacquistati i poteri-
lo scettro finirò per infilartelo su per il culo, e allora
voglio vedere se
avrai ancora voglia di violentare qualcuno»
fulminò l’uomo, che intanto
continuava a borbottare. Si girò verso di lui, prendendo il
pugnale che era
scivolato a terra e puntandoglielo all’inguine
«Immagina, Phobos: una Airë Tári
disperata, in lacrime, con qualche livido addosso e gli abiti
strappati. Al suo
fianco, due schiave che fischiettano indifferenti. Cosa credi, che
nessuno farà
domande?»
Lo premette sulla carne non con
forza, ma abbastanza
perché avvertisse la lama attraverso il tessuto e temesse
per la vita del suo
povero membro.
«E cosa gli risponderai,
genio? “Se l’è andata a
cercare, andava in giro vestita in modo provocante”? Non
siamo sulla Terra,
queste stronzate non funzionano» fece una breve pausa
«per fortuna» aggiunse.
Dall’altro non provenne
risposta.
Attestato che quel silenzio
indicasse che avesse
capito il concetto, Emily Jane si dedicò alla serpentessa.
«Ora ti spiego cosa
faremo: tu ci accompagnerai al
tempio, e noi prenderemo i resti del mio scettro. Non urlerai, non
cercherai di
scappare, non dirai nulla all’infuori di ciò che
concorderemo. Se incontreremo
Axechasti, e la incontreremo quasi certamente, allora manterrai la
calma e
fingerai che sia una visita come tante altre» le
spiegò. Piantò il coltello nel
tronco di un albero, facendola sobbalzare «Attieniti al
piano, e potresti pure
tornare a casa, questa sera. Tutto chiaro?».
Phentesilea, impossibilitata a fare
altro, annuì.
Per tutta la durata del tragitto,
in rigoroso
silenzio, pregò: che Quetzalcoatl gliela mandasse buona, o
che l’uccidesse
prima di farla parlare e condannare la sua gente.
Sapevano che il santuario si
trovava all’interno delle
mura di Quetzalli, ma -a vederlo- il dubbio di essersi persi o finiti
fuori
strada li assalì comunque.
Niente mura d’oro, niente
pavimento di gemme, niente
fontane che anziché acqua sputavano preziosi cristalli
arcobaleno, per
quell’immensa piramide in perfetto stile azteco: pietra,
semplice e comune
pietra scura resa viscida dal muschio e fissurata dalle intemperie.
Solo
salendo un pezzo della lunghissima scalinata costellata di statue
serpentine se
ne poteva vedere la sommità, una sorta d’imponente
tempio greco sorretto da
alte colonne scavate e intagliate ora a forma di serpente, ora a
sembrare
tronchi nodosi.
Salirono gradino dopo gradino
quella scala che pareva
infinita, gli occhi combattuti fra il dover stare appiccicati a
Phentesilea
perché non facesse scherzi, alle maestose statue
precolombiane di ofidi che li
accompagnavano nella salita o, invece, al paesaggio che -da
lassù- offriva una prospettiva
diversa di ciò che li circondava: una sconfinata distesa
verde e oro, ecco
cos’era la El Dorado delle naga ermafrodite, un fazzoletto di
terra posato sul
volto di un pianeta che entrambi avrebbe voluto radere al suolo, se mai
non
fossero riusciti a salire al trono.
Non fecero nemmeno in tempo a
decidersi, che i gradini
finirono.
Prima di entrare, la figlia
dell’Uomo Nero afferrò il
polso all’altra donna.
«Ricordi ciò
che ci siamo detti, vero?» la interrogò,
ricevendo di risposta il debole sussurro di un
“sì” ben poco convinto
«Dì solo
e soltanto ciò che abbiamo accordato, e allora nessuno si
farà male: tornerai a
casa e farai finta che non sia successo nulla, una volta finito qui,
contenta?»
«Pure se non lo fossi,
immagino che non sarebbe
importante».
«E brava la mia Ophidian!
Hai già capito tutto della
vita!» le diede una pacca sulla schiena, poi fece lo stesso
con Phobos «Signori
e signore, si entra in scena!»
E in scena c’erano pure
entrati, salvo trovarsi
Axechasti a una cinquantina di metri.
In realtà, lei non parve
nemmeno notarli, impegnata com’era
a sistemare dei fiori in alcune anfore bianche poste ai piedi
dell’altare; dietro
di esso, i giganteschi monumenti raffiguranti i suoi genitori avvolti
l’uno
intorno all’altra, adornati con gioielli e ghirlande
floreali, probabilmente
doni per qualche grazia ricevuta.
Concorde alle loro peggiori
previsioni, l’antenata
comune delle Ophidians era più grande e robusta di queste
ultime. Già solo la
massiccia coda -coperta nella parte superiore fino alla punta di un
soffice
piumaggio, i cui colori variavano dall’acquamarina al
turchese, fino al verde e
al giallo- avrebbe potuto costituire un problema, a giudicare dagli
spuntoni
che la percorrevano superiormente nella sua interezza!
Per non parlare delle ali
variopinte, sicura eredità
di suo padre: non erano particolarmente grandi, probabilmente non erano
nemmeno
adatte al volo, ma -in uno scontro diretto- i muscoli che le muovevano
non
sarebbero certo stati delicati come le piume che le ricoprivano.
Sebbene sperassero e fossero ormai
convinti di non
essere stati notati, la naga si voltò appena
avvertì i loro passi addentrarsi
nel tempio.
Immediatamente, la regina che li
accompagnava si
affrettò ad esibirsi in un lungo inchino di riverenza.
«Valië
Axechasti, buona giornata a voi».
«Oh, Airë
Tári Phentesilea! È un piacere vederti»
ricambiò il saluto l’altra, inchinandosi a sua
volta. Rise «Ti ho detto mille
volte che puoi darmi del tu, non è necessaria tutta questa
formalità nei miei
confronti, davvero».
«Eh? Oh…
sì… sì, me lo sono…
scordato, chiedo s-scusa»
si corresse nervosamente, guardando le “serve”:
stupida, stupida, stupida! Non
poteva permettersi di sbagliare e insospettire qualcuno, ne andava
della vita
di tante, troppe, sue simili!
«Anche oggi sei qui a
pregare per tua figlia» ruppe il
silenzio la serpentessa piumata, vedendola in evidente imbarazzo
«vero?»
Ricompostasi, la sovrana
tirò un profondo respiro:
doveva stare calma, calmissima.
«È
l’unica persona che necessita delle mie preghiere,
Valië»
rispose dopo un po’, sospirando stanca
«… ed è anche la sola la cui sorte non
pare essere favorita in modo alcuno dai tuoi venerabili genitori, se
posso
permettermi».
«Mio padre agisce per vie
misteriose, devo
riconoscerlo» convenne, terminando di sistemare la
composizione «ma sa
distinguere bene fra le preghiere degne di essere ascoltate e quelle da
ignorare. L’esilio è una scelta, Phentesilea, e tu
stai soffrendo inutilmente
per qualcuno che ha fatto la scelta sbagliata». Le
afferrò dolcemente il mento
«Non smetterò mai di ripetertelo, ma te lo
dirò di nuovo comunque, perché
vederti mentre ti fai del male mi spezza il cuore: mettiti
l’anima in pace e
dimenticala, cancella Myricae dalla tua vita una volta per tutte,
perdonati e
volta pagina» le mise le mani sulle spalle,
fraternamente «Hippolyta c’è
riuscita, provaci anche tu. Di figlie potete sempre averne altre, non
sprecare
il tuo amore di madre dietro a un fantasma».
«Potrei pure averle,
altre figlie, ma guardando le
foto di famiglia una voce che mi ricorderà sempre che ne
manca una» controbatté
la naga dalle squame bianche con tono deciso, un misto fra rabbia e
disperazione.
Gentilmente, scostò la
mano dalla propria spalla.
«Mi hanno privato della
mia bambina, ma non permetterò
a nessuno di privarmi del suo ricordo. Nessuno…
ne-nessuno… nessu-» venne
interrotta dai singhiozzi.
«Phentesilea…».
Axechasti rimase interdetta qualche
secondo. Le
asciugò le lacrime con la mano.
«Mi dispiace, non avrei
mai voluto farti piangere, non
era assolutamente mia intenzione causarti tanto dolore. Ti chiedo
scusa» fece
ammenda «c’è qualcosa che posso fare
perché tu stia meglio? Ti prego, chiedimi
pure qualsiasi cosa senza problemi, è il minimo».
«I-io… io
non-»
«Qualsiasi cosa,
Phentesilea. Ne hai diritto».
La sovrana, tremendamente
combattuta, si girò verso
Emily e Phobos, come a pregarli silenziosamente di non costringerla a
fare ciò
che avrebbe dovuto, a non farle pronunciare ciò che avevano
concordato.
Da parte loro, però,
arrivarono solo sorrisi
compiaciuti: non aveva scelta, non ne aveva mai avuta.
Perché Quetzalcoatl non
aveva ascoltato le sue
preghiere? Perché la stava costringendo a sottoporsi a quel
supplizio? Perché
voleva che si macchiasse del tradimento, anziché ucciderla
come lei l’aveva scongiurato
di fare?
«U-una cosa ci
sarebbe…» sussurrò allora, totalmente
rassegnata, la gola in fiamme tanto dal pianto quando dal terrore
«p-potresti
a-ap-aprire… la stanza d-dove…
do-dove… dove si trova lo scettro di… di Madre
Natura?»
Non riusciva nemmeno a credere di
averlo detto veramente.
E nemmeno Axechasti pareva crederci
troppo, a giudicare
da come la stava fissando a metà fra la semplice sorpresa e
il puro sconcerto.
«… Cosa?»
L’altra si
limitò a deglutire sonoramente, incapace di
fare altro.
«Lo scettro
di… Madre Natura…» ripeté
piano, tremando
«… se p-puoi aprirmi la stanza e…
e… e darmelo, sì, se puoi… da-darmelo.
T-te
ne sarei g-grata, p-profondamente… grata».
«Perché mi
stai chiedendo quell’artefatto,
Phentesilea? Cosa puoi mai fartene tu, di quel bastone marcio? Che
interessi
puoi avere verso i poteri che contiene?» continuò
l’antenata, sospettosa,
scrutando nel profondo di quegli occhi annegati nella paura.
«Non hai mai fatto
una richiesta simile, nessuno l’ha mai fatta da né
ha motivo di farmela, nes-»
si bloccò.
Quando alzò la testa,
parve aver appena avuto
un’illuminazione.
«…
Nessuno, tranne
che Madre Natura stessa».
Quando lo sguardo della figlia di
Quetzalcoatl e
Medusa si posò sulle sue concubine, la naga dalle squame
perlacee capì che le
cose sarebbero degenerate da lì a poco: ormai aveva intuito
qualcosa che non
avrebbe dovuto intuire, la progenitrice della sua gente, e le sarebbe
costato
caro.
Carissimo.
E lei, delicata e deboluccia e
spaventata a morte
com’era, non poteva permetterlo.
«AXECHASTI! VATTENE!
É TUTTA UNA TRAPPO-»
Mezzo secondo, e il corpo privo di
sensi dell’Ophidin
piumata cadde a terra con un tonfo sordo, i serpenti sul suo capo che
-lentamente- smisero di sibilare e dimenarsi.
«…
LA».
Era stata una pessima mossa.
Pessima, e inutile.
In quell’inquietante
silenzio di tomba, la Pitchiner si
fece tranquillamente strada fra le massicce spire della naga atterrata,
incurante dello stare pestando ora una povera biscia, ora
un’ala; si chinò sul
suo bacino, strappandole un medaglione dorato -recante quello che
pareva essere
un calendario azteco mobile- dalla cintura di pelle.
Accovacciata, si mise a
marchingegnare per qualche
minuto con il meccanismo dell’oggetto, ruotando in senso
orario e antiorario le
strutture circolari di cui era composto
un’infinità di volte, il
“clic” dei
cerchi che sfregavano gli uni sugli altri che riempiva
quell’insolita quiete.
«Come fai a sapere se
è la posizione giusta?» le
chiese Phobos, dubbioso.
«Non lo so,
infatti» replicò stizzita, continuando con
i tentativi di trovare la combinazione corretta «se
solo-»
Non fece in tempo a concludere la
frase, che un rombo
assordante le fece fischiare le orecchie.
La nube di detriti provocata da
un’esplosione
terrificante l’investì in pieno, costringendola ad
accucciarsi sotto l’altare
per non venire spazzata via; se le guardie non fossero state impegnate
in città
a organizzare la cerimonia, se il tempio non fosse stato isolato dal
mondo, se
non avessero appena avuto una botta di fortuna tremenda, probabilmente
si
sarebbero già trovati circondati da soldatesse pronte a
tagliare loro la gola.
Tanto trambusto, però,
fu utile a qualcosa.
Dissoltasi la nuvola di polvere, in
mezzo ai resti
distrutti delle immani statue dei divini amanti, si scorgeva una rampa
di scale
che portavano a quello che pareva un passaggio segreto sotterraneo.
«Prima le
signore» si chinò il rosso, da vero gentiluomo
qual era.
Fu un po’ meno
gentiluomo, però, quando gettò la
povera Ophidian a terra, incitandola a rimettersi in piedi e guardarlo
in
faccia; vedendo che lei non reagiva, le assestò un paio di
brutali calci al
ventre, alzandola di forza per i capelli fino ad altezza volto.
«E verrai anche
tu».
Rivolse un ultimo sguardo alle
statue distrutte, la
regina, un’ultima preghiera a un dio che pareva morto o,
comunque, totalmente
disinteressato al destino di una delle sue innumerevoli nipoti.
Quando il buio l’avvolse,
Phentesilea capì che quel
luogo sarebbe stato la sua tomba.
Scesi per la scalinata, percorso un
labirinto di
corridoi e sfondato qualche muro per uscire dallo stesso, sbattuta un
innumerevole numero di volte la testa contro muri su muri, finalmente
arrivarono in una stanza piccola e angusta -dove difficilmente vi
sarebbero
entrare più di due o tre di Ophidians alla volta- senza
più porte e cunicoli e
tunnel fra le quali scegliere tramite
“ambarabà-ciccì-coccò”.
Al centro della stessa, un altare.
Sopra di esso, in una teca, il
bastone di Madre
Natura, spezzato.
Emily Jane -che non condivideva con
l’amico una certa passione
per l’infilzarsi con schegge da sbronza- lasciò
che Phobos rompesse il vetro
magico per lei; vi poggiò sopra la mano, e quello
s’infranse in mille pezzi
sotto il calore delle fiammelle nere che gli ricoprivano le dita.
Si misero a
guardare entrambi quei pezzi di legno, studiandolo; il rosso, poi, si
mise a punzecchiarli
con un dito, come a vedere se succedesse qualcosa.
«Serve una
mano per incollare i pezzi, uh?»
«È il
motivo per cui ti ho portato dietro».
«Non perché
sono tremendamente affascinante?»
«Dal mio
punto di vista molto poco eterosessuale, sei talmente affascinante che
quando
sei nato i tuoi genitori hanno preso a sprangate la cicogna e hanno
chiesto il
rimborso».
«Sei
un’insopportabile lesbica mestruata».
«Almeno a
me i sofficini sorridono».
Indispettito,
si pose davanti all’altare, stringendo i resti dello scettro
la le mani.
«Sia chiaro
che lo faccio perché voglio farlo e perché senza
poteri sei un’alleata utile
quanto uno scolapasta senza buchi, non certo per farti un favore,
eh!»
Il marchio
sul suo avambraccio prese a brillare di un viola acceso, i segni sulla
sua
pelle che andarono diramandosi prima su tutto il braccio, poi sul lato
sinistro
del petto e, infine, su almeno tre quarti del volto.
Le nocche
bluastre si serrarono con ancora più forza attorno
all’artefatto, colorando il
bianco immacolato di quest’ultimo di un malsano alone
grigiastro; intanto, Phobos
non smetteva di mormorare qualcosa in una lingua sconosciuta. Un alone
scuro sembrò
calare come un’ombra sui suoi occhi giallo-oro, le vene su
fronte e collo
talmente gonfie che parevano sul punto di scoppiare da un momento
all’altro per
lo sforzo.
Il bastone
-ora completamente nero- ribolliva come pece bollente,
l’aspetto identico alla sostanza
densa e viscosa che prese a spillare dalle insenature sulla superficie
legnosa,
cadendo sul pavimento e liquefacendo la pietra, le rocce sottostanti,
la terra
stessa.
Una
stilettata gli attraversò le tempie e il braccio e le dita,
mentre un rivolo di
sangue scuro gli colava dal naso e dall’occhio sinistro: un
lampo accecante,
poi il nulla.
Sul tavolo
davanti a sé, lo scettro ricomposto.
Pulitosi il
volto, il rosso rimase a lungo a saggiare l’artefatto magico,
ipnotizzato
com’era dalle sottili venature color smeraldo che brillavano
di luce propria
sotto la coltre nera del legno: c’era così tanto
potere là dentro, talmente
tanto che sarebbe stato un peccato lasciarlo tutto nelle mani di una
persona
sola, specie se quella persona l’aveva già perso
una volta.
Chissà che-
«Dovresti
tenertelo. Sappiamo entrambi che finirà per
farselo sottrarre per l’ennesima volta da sotto il naso. E
sarà meglio che sia
tu, a sottrarglielo».
Scosse la
testa, confuso: aveva davvero pensato di tenersi lo scettro?
No, certo
che no, non se ne sarebbe fatto proprio nulla! Eppure…
eppure… gli era sembrato
di aver sentito qualcuno… qualcuno che gli parlava nella
sua… nah, sicuramente
era stata solo una suggestione dettata dallo sforzo, nulla di
più. Senza
indugiare, dunque, consegnò il bastone alla legittima
proprietaria.
Con le mani tremanti
per l’emozione, Emily lo accolse ben volentieri,
un’espressione d’incredula
commozione sul volto.
«Dopo tutto
questo tempo...»
«Sempre».
Lo fulminò
con lo sguardo.
«… Mi
è
salito il Severus Piton, chiedo scusa» alzò le
mani in segno di resa lui,
ridacchiando.
La figlia
dell’Uomo Nero si concesse ancora qualche minuto per
assaporare quel potere, il
suo potere, che scorreva in ogni
venatura, in ogni nodo, in ogni stilla di magia che temeva di aver
dimenticato
come utilizzare: trent’anni di attesa, di lontananza, di
miseria, trent’anni
che -finalmente- erano finiti.
Finiti.
Sorrise
come mai prima d’ora.
«Risaliamo.
Porta anche lei» indicò la regina, che in tutto
ciò se ne stava impaurita in un
angolo con la coda stretta al petto «deve
assistere».
«A cosa?»
«Alla rinascita
di una dea».
Aprì le
braccia, respirando a pieni polmoni l’aria fresca e fruttata
che spirava
nell’atrio semi distrutto del tempio: sì, era il
posto perfetto dove testare i
propri poteri ritrovati.
Si voltò verso
Phentesilea «Prima mi hai chiesto chi sono, e io intendo
risponderti».
Picchiò lo
scettro a terra, chiudendo gli occhi.
Iniziò
subito a soffiare una brezza leggera, estiva, debole, ma sufficiente
per
sollevare appena le foglioline a terra, muovendole in circolo; la
brezza si
fece sempre più intensa, sempre più pungente
sulla pelle, fino a trasformarsi
in un vento forte, impetuoso, che sferzava fastidiosamente il viso e
muoveva le
cime degli alberi. I cerchi concentrici mossi dalla corrente ora
vortici di
dimensioni man mano crescenti.
Non parve
disturbata, quando suddetti vortici si aggregarono in un vero e proprio
piccolo
tornado di foglie dai bordi affilati; semplicemente, la figlia di Black
se ne
stava nell’occhio del ciclone, perfettamente a proprio agio e
con un sorriso a
trentadue denti che gli tagliava il volto da un orecchio
all’altro.
«Sono Emily
Jane Pitchiner».
Qualche
altro istante a vorticare, e quell’immane colonna dalle mille
sfumature della
foresta esplose, dissolvendosi in una nuvola di lamine vegetali che,
proprio
come pioggia, caddero a terra.
«Sono la
sovrana di Tandokka».
Una, due,
tre, dieci, cento, mille foglie, si posarono sul corpo della donna,
aderendo
alla stessa come un vestito fatto su misura, rimpiazzando quelli da
schiava che
già portava, collare compreso.
«Sono Madre
Natura».
Foglia dopo
foglia, strato dopo strato, prese forma un vero e proprio abito di un
intenso verde
scuro che prevaleva sulle altre sfumature arboree, le sottili venature
del
fogliame che formavano intricati ricami sul corpetto -alto fino al
collo- e
sulle maniche, interrompendosi quando incontravano l’ombelico
scoperto.
Trent’anni
dopo, finalmente era tornata a indossare i panni coi quali era stata
conosciuta, rispettata, temuta.
«E sono
venuta a reclamare ciò che mi appartiene».
Seguì un rigoroso
silenzio, interrotto solo dall’applauso e dai fischi
entusiasti di un Phobos
particolarmente sovraeccitato, non si sapeva se dall’entrata
in scena o per la
consapevolezza che ora pure quella benedetta ragazza avrebbe avuto
un’utilità.
Per i suoi
scopi, s’intende.
Soddisfatta
della propria sceneggiata, Emily si voltò e fece per
andarsene; subito, lui
l’afferrò per il polso, bloccandola.
«Dove
diavolo stai andando?»
«Abbiamo
recuperato lo scettro, e -per precauzione- ho già
intrappolato Axechasti in mezzo
ai rovi perché nessuno possa trovarla o sentirla, pure se
dovesse riprendersi. Non
c’è più nulla che possa interessarci,
qui, per cui leviamo le tende».
«Non volevi
distruggere Quetzalli?»
«Voglio
farlo ancora, ovviamente»
sorrise «ma
questa sera, durante la cerimonia, quando saremo certi che tutte le
Ophidians
-o almeno quelle più importanti- saranno fuori dalle loro
tane d’oro e di
diamanti. Se attaccassimo ora, rischieremmo sia di perderne qualcuna
per
strada, sia di farci scoprire da Harmonia: mettere a fuoco e fiamme la
foresta
alzerebbe una coltre di fumo immane, verrebbe sicuramente intercettata
a chilometri
di distanza, e quello io non posso proprio impedirlo».
«Quindi ora
che si fa? Usciamo di soppiatto dalla città come siamo
entrati, e attendiamo la
notte, forse?»
«Precisamente
quello».
Avanzò di
qualche passo, scendendo sui gradini; col bastone, indicò un
punto lontano
all’orizzonte.
«Raggiungiamo
la galleria, ce la fuggiamo e ci giochiamo a Risiko attendendo di
conquistare
la Kamchatka e che calino le tenebre. Poi, una volta fattosi
buio» sfiorò la
sommità dello scettro, accendendovi una fiamma verde
scoppiettante
«illumineremo questa notte senza Luna come se fosse il Tempio
di Baelor ad
Approdo del Re. Quando domattina la Regina di Phantasia si
alzerà, allora vedrà
sorgere un’alba di sangue».
«E lei?»
con un cenno del capo, Phentesilea «Ha visto tutto, Emilia
Gianna, è una
testimone pericolosa: sa chi siamo, sa cos’abbiamo in mente,
sa quando e come
attaccheremo».
La
Pitchiner squadrò la regina dalle squame bianche per secondi
che parvero
infiniti. Alla fine, pensierosa, si limitò a fare spallucce.
«Rendila
inoffensiva. Torturala, strappale la lingua, falla annegare nel suo
stesso
sangue, tagliale la testa come Medusa, giocaci a briscola insieme:
purché non
comprenda rapporti carnali dei quali io
verrei a conoscenza in ogni caso, e non ti auguro che succeda,
la tua
scelta per riuscire ad ammansire
quella biscia ermafrodita non m’interessa né tocca
minimamente. Non raccontarmelo
nemmeno, come l’hai resa incapace di nuocere ai nostri piani,
fallo e basta».
Prima che
la naga venisse trascinata via di peso dal rosso, Madre Natura le diede
un
bacio sulla fronte «Porterò i tuoi saluti a
Myricae, quando l’impiccherò con
gli stessi serpenti che ha per capelli».
Del brutale
pestaggio che avvenne nelle segrete del tempio, Emily Jane non seppe
nulla, e
nulla volle sapere: non chiese a Phobos perché fosse zuppo
di sangue, non
s’interessò al motivo per cui stringesse fra le
mani una manciata di candidi serpenti
mozzati che ancora si dimenavano, non gli domandò se avesse
ammazzato
Phentesilea o se l’avesse invece lasciata in vita.
Fece
semplicemente ciò che le riusciva meglio: se ne
lavò le mani.
---
«Ce ripigliamm'
tutt' chell
che è 'o nuost'!»
Il loro era un piano assolutamente
perfetto: uscire
indisturbati da Quetzalli precisamente com’erano entrati,
attendere
pazientemente e, infine, darci giù pesante con
l’offensiva proprio nel momento
meno improbabile in cui avrebbero potuto farlo, sfruttando la
distrazione delle
Ophidians per colpirle quando più sarebbero state
vulnerabili; con i poteri di
Madre Natura disponibili, nulla avrebbe potuto andarle per il verso
sbagliato!
Tranne trovare la galleria dalla
quale erano spuntati
collassata su se stessa.
«Siamo fottuti! FOTTUTI!
Non abbiamo via d’uscita! Non
ne abbiamo più neanche mezza! Non l’abbiamo mai
avuta!» iniziò a urlare Phobos,
crollando in ginocchio e battendo i pugni sull’erba
«Ci troveranno! Ci cattureranno!
Ci ingravideranno! PARTORIRÓ DEI FOTTUTI SERPENTI DAL CULO!
NON SONO PRONTO A
UN PARTO ANALE! E NEMMENO A DIVENTARE PADRE! NON-»
«Ah no? Credevo che
-essendo tu nato dal culo di tua
madre- ci fossi abituato, ai parti anali».
«NON SEI AFFATTO
DIVERTENTE! E TANTO INGRAVIDERANNO
PURE TE, SE NON SEI GIÁ INCINTA DI PHENTESILEA!»
«Oh beh, può
tranquillamente darsi che tu abbia
ragione» fece spallucce «niente preservativo e
niente pillola, in effetti, e
sai cosa? Penso pure che questi siano i miei giorni più
fertili durante il
mese. Riflettendoci bene, ricordo chiaramente di aver sentito pure lo
sparo di
partenza quando i suoi spermatozoi hanno iniziato la loro maratona
verso il mio
giovane e fertile utero, per cui-»
«LALALALALALALA NON TI
SENTO LALALALALALALA!» si tappò
le orecchie «LALALALALALALA NON STO ASCOLTANDO
LALALA-»
«Per cui mettila di fare
il cretino e dammi retta, pezzo
d’idiota che non sei altro!» gli diede uno
scappellotto sulla testa, facendolo
scattare in piedi, si sperava rinsavito. Sollevò una
manciata di terra dal
tunnel chiuso, prendendo il palmo del rosso e posandocela sopra
«Toccala, e
dimmi come ti pare».
«Umida»
asserì lui «un po’ come la tua
vagina».
«Vuoi forse i dettagli di
cosa Phentesilea ci abbia
fatto la scorsa notte, con la mia vagina umida? Sì, credo
sia un ottimo
argomento di conversazione, ho proprio voglia di spiegarti come la
lingua
biforcuta delle Ophidians sia talmente lunga da sverginarti la vita,
l’universo
e-»
«BASTA BASTA
BASTAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!!!» gridò
il rosso agitando le mani in segno di
resa, il volto contratto in un’espressione che nulla aveva da
invidiare a
“L’urlo” di Munch «HO CAPITO!
GIURO CHE HO CAPITO! MA SMETTILA DI DARMI
DETTAGLI! SMETTILAH!»
«E dimmi un
po’: cos’hai capito? Se sbagli, ti
racconterò di quando a noi due si sono aggiunte un altro
paio di donne munite
di liane lunghe così» allargò le
braccia «con le quali abbiamo dato luogo a una
divertente sessione di soft bondage che-»
«Che è ancora
fresca, quindi il tunnel non è crollato da molto tempo!»
si affrettò a
rispondere, temendo ulteriori delucidazioni sulle avventure sessuali
della sua
compagna. Sfregò il terreno fra le dita, saggiandolo
«Considerando che oggi è
una giornata soleggiata e qui non ci sono alberi a fare ombra, credo
siano
passati dieci o quindici minuti dal crollo, non di
più».
«L’accendiamo?»
fece comparire la fiamma verdognola di
prima sul proprio indice.
«Ah! Vai a farti
fottere!» le gettò la terra addosso
Phobos di rimando, allontanandosi a grandi falcate a dir poco seccato.
Emily Jane non tentò
nemmeno di fermarlo, impegnata a
ridere com’era: sarebbe tornato in ogni caso, avrebbe dovuto
farlo per forza di
cose dal momento che tutte le altre vie d’uscita -che non
dessero nell’occhio-
erano sbarrate. Volente o nolente, avrebbe fatto dietro font.
Lei, intanto, si mise a ispezionare
il tunnel crollato,
sospettosa.
C’era qualcosa che non la
convinceva, in quel terreno
smosso ma non troppo, una bestia di
centinaia di metri -ma pure di poche decine, come un cucciolo-
così vicino alla
superficie avrebbe sia fatto sentire la propria presenza con una serie
di
scosse d’intensità non indifferente, sia creato
anche una voragine di rientro,
oltre che d’uscita. Non poteva essere opera di un Diggerwurm.
E la cosa non gli piaceva proprio
per niente.
Come pure non le piaceva quella
curiosa sensazione di essere
osservata, una sensazione che l’aveva accompagnata fin dal
primissimo istante in
cui si erano mossi da Phantasia, ancora prima di prendere la strada per
la
città delle Ophidians, e che l’aveva seguita
persino sottoterra; forse allora
era stata solo la soggezione causata dal rischio di schiattare e dalla
claustrofobia, ma -se qualcuno gliel’avesse chiesto- sarebbe
stata pronta a
giurare di aver visto più e più volte degli occhi
brillare laggiù, nelle
tenebre, quando aveva gettato il proprio sguardo nel fondo buio dietro
di loro.
Era stata un’impressione
durata a lungo, quella che ci
fosse qualcuno oltre a loro due, un
sospetto che le aveva fatto accapponare la pelle finché non
furono finalmente
risaliti in superficie: allora, e solo allora, era totalmente scomparsa.
Fino a quel momento.
Sentiva, sapeva,
che non erano soli, ma decise di optare per l’indifferenza:
avrebbe fatto finta
di niente, e allora le cose sarebbero venute da sé.
Improvvisamente, riapparve Phobos.
Reduce dal suo lunghissimo viaggio
solitario della
durata di sette minuti netti per trecento metri di allontanamento, le
si
avvicinò mogio mogio, a testa bassa, lo sguardo fisso a
terra a causa dell’imbarazzo
di doversi già arrendere.
«Già di
ritorno dalla tua avventura?» gli chiese lei,
senza girarsi e continuando a cercare indizi a terra.
«Eh
già» rispose a metà fra il seccato e il
dispiaciuto, ferito nell’orgoglio com’era
«credevo di poter trovare un’altra
strada per andarmene, ma a quanto pare avevi… per gli dei,
non riesco a credere
di stare dicendolo veramente…» emise un lungo
sospiro «… avevi ragione tu,
ecco: è tutto chiuso, sbarrato, sorvegliato, siamo
letteralmente isolati dal
mondo esterno. Inoltre temo che… che…»
si bloccò.
«Che…?»
«Che ci abbiano scoperti,
Emily».
Un silenzio di tomba
calò sopra i loro volti
sbiancati.
Persino Madre Natura -nonostante
avesse ormai riavuto
indietro i propri poteri e non dovesse quindi teoricamente temere
niente e
nessuno- non reagì diversamente.
«Ho visto una manciata di
Ophidians, quando sono
salito sul promontorio, e -a giudicare da com’erano
agghindate con armature e
artiglieria appresso- mi parevano un tantiiiiiiiino sul piede di
guerra. Parlottavano
fra loro di-»
«Di cosa? Cosa?»
«Di un’intrusa
nella città. La chiamavano “gweriadir”,
se non ricordo male» si fece pensieroso, inclinando la testa
«non so cosa
significhi, ma la naga a capo del gruppo -una con le squame nere e blu,
ben più
grossa di Phentesilea- che ho visto pareva molto ma
molto incazzata, nel pronunciare quella parola o quel nome
che
sia, e-»
«Un’intrusa?
Una sola?» lo interruppe.
Lui la guardò qualche
istante, facendo spallucce «Una
sola, sì. Perché?»
La donna, però, non
rispose, impegnata com’era a
riflettere e interrogarsi e fare strani collegamenti nella sua mente.
Una singola intrusa, ecco cosa
cercavano le Ophidians,
ecco cosa cercava lei: un’intrusa che non li aveva persi di
vista nemmeno un
istante, che li stava seguendo da quando avevano imboccato il tunnel il
giorno precedente,
che immaginava già quali sarebbero stati i loro piani e che,
per questo, li
aveva volontariamente rovinati.
Facendo crollare suddetto tunnel,
magari.
Istintivamente, ritrasse il
bastone; bastò che
picchiettasse con le dita su di esso, e immediatamente lo scettro si
dissolse in
una pioggia di minuscole e brillanti foglioline nere dalle venature
verdastre,
assumendo la forma di un semplice anello al suo anulare destro.
Fortunatamente, Phobos era troppo
impanicato per farle
domande sul suo gesto.
«Tu credi che…
che sappiano dove ci troviamo?» le
chiese con un velo di paura nella voce «Nel senso, io credo
che non possano
saperlo, pensano tutti che ci troviamo al tempio a pregare insieme alla
nostra
padrona, e abbiamo tutte le schiave come alibi! Le uniche testimoni dei
nostri
piani sono state neutralizzate, per cui-»
«Abbassa la
testa!»
«Cos-»
Il tempo che Emily Jane lo
spingesse a terra, e una
freccia si conficcò nel tronco dell’albero dietro
di loro, trapassandolo.
Un po’ come avrebbe
dovuto fare col suo cranio.
«Chiedo scusa, devo
averti scambiato la tua chioma
rossa per una mela da colpire».
Quando nel suo campo visivo apparve
una cascata di
squame color smeraldo che si srotolavano lente dai rami di una grossa
quercia
nodosa, Madre Natura sorrise: trent’anni dopo, era arrivata
la resa dei conti
anche per loro due, dunque.
Si esibì in un lungo
inchino, sollevando i lembi del
proprio abito di foglie.
«Sono passati tre decenni
dal nostro ultimo incontro faccia
a faccia, Myricae, è un piacere incontrarti di
nuovo».
«E avrei voluto che ne
passassero almeno cento volte
tanto, di anni, prima di costringere i miei poveri occhi a rivedere il
tuo
brutto muso anemico» ricambiò la riverenza
l’Ophidian «ritrovarti qui è un
piacere tutto mio, Emily».
Con la coda, le indicò
l’albero trafitto.
«Sarei di fretta, io, per
cui sentiti libera di
infilzarti da sola con quella e facciamola finita subito: non ho
nessuna voglia
di sporcarmi le mani col tuo sangue, tantomeno col suo»
additò Phobos, a terra
raggomitolato su se stesso. Sbuffò «Anche tu,
però, almeno potevi startene
zitta e lasciarmelo ammazzare!»
«Ti assicuro che
l’avrei fatto volentieri, ma
purtroppo lui è il mio lasciapassare per andarmene da questo
pianeta, per cui
temo di doverti deludere».
Senza difficoltà alcuna,
strappò la freccia dalla
corteccia, ferendosi nel mentre con la punta; alla vista del sangue,
però, la
Pitchiner rimase totalmente indifferente: sapeva che il veleno di
Myricae non
era mortale, al massimo avrebbe potuto paralizzarle la mano per due o
quattro
d’ore.
Sprezzante, gliela gettò
vicino «Ma questo già lo
immaginavi già, o mi sbaglio?»
Iniziò ad avvicinarsi a
lei lentamente, a piccoli
passi.
«Hai intuito le nostre
intenzioni fin dal principio,
fin da quando -durante il solito giro di guardia- ci hai visto
borbottare nei
pressi dell’entrata dal tunnel sotterraneo»
iniziò a spiegare mentre camminava
«sapevi dove portava, sapevi che saremmo usciti a Quetzalli,
sapevi anche che
stavamo andando a recuperare il mio scettro. Hai cercato di fermarci
prima che
riuscissimo a risalire, dirottando quei diggerwurm nella galleria nella
quale ci
trovavamo, ma non ci sei riuscita e hai deciso di occupartene di
persona».
Smise di camminare.
Puntata al petto, la spada dalla
forma serpentina
della naga.
Emily Jane, tuttavia, non parve per
nulla disturbata o
preoccupata. Sorrise.
«Volevi occuparti di noi
personalmente, sì, ma -quando
le Ophidians ci hanno portato dalla nostra padrona- sei rimasta fuori
ad
attendere che fossimo noi a venire allo scoperto per primi»
osservò pensierosa «è
un comportamento che m’incuriosisce, il tuo».
«La curiosità
non è un lusso concesso ai cadaveri,
donna» controbatté l’altra sbilanciando
impercettibilmente il corpo, abbastanza
perché la pressione del metallo facesse scivolare un rivolo
di sangue che tinse
di rosso le venature delle foglie del suo abito «specie se
questi respirano e
blaterano ancora».
«Harmonia me la
concederà, secondo te?»
«Se vuoi chiederglielo,
allora dovrai attendere che ti
porti da lei, saprà sicuramente darti tutte le delucidazioni
del caso. E conta
sul fatto che ti farò entrare nel castello a piedi in
avanti».
A quelle parole, la figlia
dell’Uomo Nero mascherò
sapientemente la propria sorpresa.
Si sarebbe aspettata di tutto, del
resto gli
imprevisti li aveva pure messi in conto, ma sapere che Harmonia non
aveva accompagnato
Myricae fu una notizia tanto inattesa quanto gradita. Era impossibile
che
l’avesse lasciata agire da sola in un’impresa di
quel tipo, del resto comprendeva
sempre la cattura di due pericolosi individui dei quali -per un motivo
o per un
altro- la
centauressa avrebbe certamente
voluto occuparsi con le proprie mani.
Per quanto ne potesse sapere lei,
la remota possibilità
che la Regina di Phantasia nemmeno fosse a conoscenza della missione
intrapresa
dal suo generale non pareva più così remota, ora.
E non pareva remota nemmeno
l’occasione di farsi una
bella borsetta di pelle di serpente.
Strisciò un dito sul
sangue che le colava sui vestiti,
leccandolo maliziosamente.
«Vedo che non ti sei
portata la fidanzatina dietro,
oggi! Cos’è successo fra di voi, avete litigato
perché gliel’hai infilato nel
buco sbagliato o perché le sei venuta dentro, eh? Sono cose
che possono
capitare a chiunque, dovrebbe capirti!»
«Sicuramente non
è dispiaciuto a te, che
qualcuno sbagliasse buco» scoppiò a ridere la naga.
«Non torno a casa da un
pezzo, ma ricordo bene cosa accade
a una schiava durante
la sua prima notte dentro l’harem, e tu hai proprio la faccia
e la camminata di
chi si è fatta felicemente spanare gli orifizi come se
fossero gallerie di
diggerwurm».
«Confermo! Ha pur
partecipato a un’orgia con-»
Un’occhiataccia da parte
di Madre Natura, e il rosso
si zittì.
«Avrò pure gli
orifizi talmente larghi che quando
cammino applaudono, ma almeno io ho la decenza di non tradire la mia
causa».
«Il tuo vocabolario
linguistico comprende la parola
“decenza”? È una barzelletta,
forse?»
«Tanto quanto lo
è il chiedersi cosa penserà la tua
cara fidanzatina quando si sveglierà e non ti
troverà nel suo letto a darle la
consueta dose di minchia mattutina nel culo, Myricae, chissà
che non vada a
scoparsi Nae-»
Una violenta frustata con la coda,
ed Emily Jane e il
suo senso dell’umorismo vennero scaraventati contro il tronco
di un grosso
albero.
L’Ophidian
strisciò fino a raggiungerla; una volta
fatto, le mise la spada al collo e la sollevò di peso
così, lasciandole un
solco rosso poco sotto la mandibola, mettendola con la schiena contro
la corteccia
ruvida.
«Penserà che
può farne tranquillamente a meno, per una
volta. Fortunatamente, la nostra relazione ha basi ben più
solide della semplice
-ma intensa e sempre gradita- attività sessuale, ma non
pretendo che tu capisca»
rispose tranquilla «e aggiungo che penserà pure
che ho fatto bene, a occuparmi
di voi intanto che ero già qui: come dite voi terrestri, ho
preso “due piccioni
con una fava”».
«Di nascosto»
aggiunse la figlia dell’Uomo Nero,
ridendo di gusto nonostante la sua posizione scomoda. In tutti i sensi.
«Affatto,
invece» la contraddisse.
Premette il piatto della spada sul
suo collo con una
certa forza, facendole morire il fiato in gola e, si sperava, facendola
smettere di cianciare.
«Le mie occasionali
capatine a Quetzalli non sono un
mistero per nessuno, come non è nemmeno un mistero che tu
sia stata esiliata da
Exodus con la promessa di essere condannata alla pena capitale, se mai
ti fossi
nuovamente ripresentata qui con intenzioni belligeranti. Per colpa di
quel
decerebrato» indicò Phobos «la mia
regina ha già abbastanza grane a cui
pensare, occuparmi di voi due da sola e dargliene una in meno
è un mio dovere e
piacere tanto come generale quanto come partner».
«Come partner che agisce
per conto proprio senza prima
averla consultata» obiettò la Pitchiner con voce
gutturale, quasi inquietante,
a causa della costrizione alla quale era sottoposta.
Myricae sospirò,
rassegnata: non capiva proprio,
quella benedetta donna, non voleva capire!
«Esiste una cosa chiamata
“indipendenza”, se non lo
sai, e -solitamente- nelle relazioni sane ognuna delle due persone
coinvolte è
libera di avere una propria opinione, di ritagliarsi un proprio spazio
personale e di agire anche in mancanza di un’autorizzazione
scritta dalla
propria compagna senza temere che si scatenino strane
gelosie».
Elevandosi poco sopra di lei,
iniziò ad avvolgere la
coda intorno al tronco e al corpo della giovane Pitchiner serrandola in
una
presa soffocante, sperando che così imparasse una lezione
che si rifiutava di
comprendere da settecento anni a quella parte.
«Harmonia sa che ogni
tanto faccio un salto qui per
vedere come vanno le cose, sa che se c’è un
pericolo che posso affrontare da
sola lo faccio, e sa che mai, mai,
agirei alle sue spalle. Nell’amore esiste una cosa chiamata
“fiducia”, Emily, mi
capisci?»
La risposta fu una pernacchia degna
dell’asilo nido,
seguita da una fragorosa risata di scherno.
“Ora
l’ammazzo”, si disse la naga.
Ricordando che ciò non
sarebbe stato quello ciò che
avrebbe fatto la sua compagna al posto suo, però,
riuscì a trattenere -con non
poca fatica- l’istinto di sbranarla seduta stante;
semplicemente, si limitò a
fissare la figlia dell’Uomo Nero con un misto fra disgusto e
pena per il suo comportamento
alquanto infantile.
Ruotò leggermente la
spada così che iniziasse a
lambire la pelle, disegnando sottili ma profondi segni rossastri dai
quali, da
lì a poco, sarebbe sgorgato il sangue arterioso
dell’altra.
«Prima che tu passi a
miglior vita, voglio e pretendo
che ricordi una cosa, e voglio che la ricordi anche il tuo amico
laggiù» gettò
velocemente il proprio sguardo verso il rosso, rintanatosi sotto la
cappella di
un fungo gigante «se mai dovesse avere la malsana idea di
seguire le tue orme:
insinuare il seme del dubbio fra me e la mia Harmonia è
quanto di più
impossibile la tua mente corrotta dall’egocentrismo e dalla
megalomania possa
concepire. Falla finita e taci, ti fa molto più
onore» fece una breve pausa,
ridendo «se mai ti ricordi cosa sia l’onore,
s’intende».
Controvoglia, Madre Natura dovette
darle ragione.
Sperava di poter far leva in
qualche modo su
un’eventuale spaccatura che si sarebbe creata fra la
centauressa e la
serpentessa, ma -a conti fatti- era un piano inattuabile per davvero:
troppo
legate l’uno all’altra, Harmonia e Myricae, troppo
affiatate e pronte a
sostenersi a vicenda anche nel buio più totale, e
-soprattutto- con troppi
pochi segreti nella loro relazione, per non dire che non ce
n’erano proprio.
E va beh, per sua fortuna aveva
ancora una carta da
giocarsi.
Con tutta la calma del mondo, Emily
Jane poggiò le
mani sulla lama e la strinse con forza e decisione, totalmente
incurante del
sangue che colava sul metallo che rifletteva la sua immagine; sul
volto, un
sorriso che definire “da sociopatica” sarebbe stato
limitativo.
«Quindi hai pensato che
bastasse il tuo intervento,
per mettere fuori gioco me e Phobos» mormorò.
Lei rise «Mi
sbagliavo?»
Un sibilo strozzato, poi le sue
spire smisero di
stringere.
Entrato nell’addome e
uscito fra il muscolo trapezio e
l’articolazione della spalla destra, lo scettro nero di Madre
Natura, grondante
sangue e frammenti ossei e carne fresca appena strappata, dilaniata,
tranciata
di netto.
A terra, la lama ridotta in
frammenti.
«Non
immagini
quanto».
Senza far caso a Phobos impegnato a
rimettere il
pranzo di seimila anni prima, Emily sollevò appena il
bastone con una forza in
corpo che sapeva non appartenergli; con la stessa facilità
con la quale il
burro viene spalmato da un coltello su una fetta di pane tostato, anche
il
corpo -vittima della gravità dell’Ophidian-
scivolò lentamente verso il basso,
lo scettro che emergeva sempre più dalla sua schiena.
A nulla valsero i tentativi di
Myricae di far presa
con le mani per fermare quell’impalamento alla quale era
sottoposta, complice
il braccio destro completamente paralizzato e insensibile
-probabilmente a
causa della recisione di qualche tendine o nervo- e il sinistro
attraversato da
violenti spasmi di dolore.
Quando si trovarono a pochi
centimetri l’una
all’altra, faccia a faccia, fu la figlia dell’Uomo
Nero a fermarla, arrestando
quell’agonia.
Le afferrò il volto con
decisione, tirandola forzatamente
a sé, e allora la baciò.
Presa totalmente alla sprovvista,
la naga tentò più e
volte di girare la testa per sottrarsi a quel maledetto bacio, ma tutti
i
tentativi furono inutili: bastò che provasse a dimenarsi una
volta, e lunghi di
rami di rovi le si avvolsero intorno al corpo, immobilizzandola e
costringendola a dover subire quella tortura che andava ben oltre il
dolore
fisico.
Non era stupida, Myricae, sapeva
fin troppo bene che
Emily Jane non la stava baciando con così tanta passione per
un mero e semplice
desiderio di trarre piacere dal gesto, né pretendeva di
ottenere nulla da ciò:
voleva umiliarla, nulla di più, apporre il sigillo della
propria vittoria e assicurarsi
che rimanesse ben impresso tanto nella sua mente quanto sulle sue
labbra. Voleva
farla sentire in colpa verso Harmonia, farle credere che la stesse
tradendo,
convincerla che non fosse veramente la vittima, quanto la complice, dal
momento
che le stava lasciando fare i suoi porci comodi.
E ci stava riuscendo.
Mai in vita sua si era sentita
così insicura, così sporca,
così violata: la stava
solo baciando,
nulla di più, ma il modo in cui le mordeva le labbra,
l’ardore col quale avvinghiava
la sua lingua alla propria spingendogliela sempre più a
fondo, la brutalità con
la quale la stringeva a sé appena lei cercava disperatamente
di retrocedere,
tutto ciò la faceva sentire tremendamente piccola e indifesa.
Ah! Se solo non avesse fatto di
testa propria e fosse
andata a riferire a palazzo ciò che aveva scoperto e i
propri sospetti!
Al montare di quella consapevolezza
dentro, una
lacrima solitaria si fece largo fra la piccole squame color smeraldo
delle sue guance,
scivolando fra di esse come aveva fatto lo scettro dell’altra
fra le sue
membra.
Che piangesse doveva proprio essere
l’obiettivo di Madre
Natura, dal momento che fu proprio allora che si stacco dalla
serpentessa,
leccandosi le labbra compiaciuta.
«Sei convinta che
Harmonia ti amerà ancora, dopo
questo?» le chiese soddisfatta, accarezzandole il volto
«Che vorrà ancora
baciarti, quando saprà che-»
Myricae le sputò in
faccia.
«C-che una puttana
s-senza… onore mi ha… co-costretta
a… a… limonarci in-insieme?»
riuscì a balbettare appena, ridendo, un misto di
sangue e saliva che ancora gli colava dalle labbra «D-direi
di sì, e… e ti
d-dirò di p-più: ti… ti
o-offri-offriremo anche de-delle mentine: hai… ha un
alito da-davvero pessimo».
Emily strabuzzò gli
occhi: la stava… perculando?
Quel bacio avrebbe dovuto
distruggerla fisicamente e
psicologicamente, annientarla nel profondo dell’anima fino a
insinuare il seme
nel dubbio nella sua mente, farla sentire umiliata oltre ogni
immaginazione, e invece
quella fottuta naga ninfomane cosa faceva? Rideva.
Rideva di
lei.
«Come
osi!»
ringhiò iraconda, imbestialita, fuori di sé,
sfilando lo scettro dal corpo
dell’altra e utilizzandolo per sbatterla contro il tronco,
invertendo quindi le
loro rispettive posizioni «Come osi, prenderti gioco di me! DI ME! TU NON SAI CHI SONO IO!»
«U-una
po-povera… d-di-disgraziata con manie di… di
g-grandezza?»
«IO SONO MADRE
NATURA!» tuonò spingendogli il bastone
nero al collo per soffocarla «MADRE NATURA! MICA BRUSCOLINI!
TU DOVRESTI
INCHINARTI AI MIEI PIEDI! IMPLORARMI DI-»
«Ti pu-puzzano i piedi,
c-comunque».
Basta.
Improvvisamente, la giovane
Pitchiner ritrovò la
calma.
Mentre con una mano teneva lo
scettro nero in
posizione per assicurarsi che la sua preda non andasse da nessuna
parte, con
l’altra richiamò a sé dei rami sottili
ma affilati dall’albero dietro le spalle
della serpentessa. Puntò il dito sulla sua fronte, in mezzo
agli occhi, pronta
a dare il comando di trapassargliela.
«Ultime dichiarazioni da
fare prima di morire?»
«Solo che da qui a poco
avrete l’intera Quetzalli alle
calcagna, e non vorrei proprio essere qui quando
accadrà» fece spallucce «però
se mi ammazzi magari ti perdonano, c’è una taglia
mica indifferente sulla mia
testa!»
«Vedrò di
ricordarmelo».
Un rapido movimento del dito, e
quelle punte legnose che
parevano coltelli scattar-
“Marigold?”
Sbatté le palpebre una,
due, tre, cinque, dieci volte,
Emily Jane, ma la guardiana era sempre lì a fissarla, il
volto privo di una
qualsiasi espressione, con quei suoi occhi che parevano due smeraldi
appena
estratti dalla fredda pietra che le scavavano nel profondo delle iridi
dorate.
Incredula, lasciò cadere
il bastone a terra.
Allungò una mano per
sfiorarle le guance morbide che
avevano sostituito le dure squame dell’Ophidian, ma
l’altra le afferrò il polso,
sorridendole. Guidandola con la propria, di mano, gliela
poggiò sul ventre,
invitando a toccarglielo.
Quando Madre Natura
abbassò lo sguardo, per poco non
si prese un infarto: era gravida.
Fremente di risposte,
cercò un qualsiasi segno di
conferma o smentita da Goldie, ma lei non rispose a nessuna delle sue
domande,
continuando invece a sorride; semplicemente, scostò il
pesante maglione che
aveva addosso, tirando fuori sotto da esso una specie di voluminosa
sfera
appuntita. Tirò un sospiro di sollievo.
Finché non vide il
“bambino”, almeno.
Un grosso bocciolo di un bianco
candido con venature
argentee, circondato da foglie di un tenue verde pastello che lo
racchiudevano
e lo proteggevano similmente al guscio di un uovo.
Il Seme.
Il Seme di Tandokka.
Ciò che avrebbe potuto
far rinascere la città devastata
da Apophis in quattro e quattr’otto, ma che Marigold si era
trascinata con sé fra
le fiamme, condannando la sua regina a doversi fare il culo per -non-
riportare
all’antico splendore il suo stesso regno.
“Lo faccio per il tuo
bene, min kjærlighet, un giorno lo
capirai”, le parve di sentirle dire, le stesse identiche
nonché ultime parole
che le aveva sentito pronunciare settecento anni prima.
Non avrebbe permesso che le cose
finissero allo stesso
modo di allora.
Si protese verso il prezioso
artefatto, intenzionata a
farlo tornare nelle mani della sua legittima proprietaria;
improvvisamente,
però, il Seme iniziò a marcire: da bianco che
era, diventò prima marroncino,
poi marrone scuso e giallastro e grigiastro e, infine, nero. Allora,
delle
fiamme dello stesso colore iniziarono a fuoriuscire dai petali,
avvolgendoli
insieme a Marigold.
“No! No! Non di nuovo!
Non un’altra volta! NO!”, tentò
di gridare, ma nessuna parola uscì dalla sua bocca.
Disperata, si gettò in
quello che era ormai un vero e
proprio incendio, incurante del fuoco che le scioglieva la pelle e la
faceva
soffocare riempiendole i polmoni e le liquefaceva gli occhi prima che
potesse
vedere il Seme bruciare come già in passato era accaduto.
In quella scoppiettante frenesia
rossa e arancione e
gialla, le parve di udire delle parole uscire dalla sua bocca, ma
quella era
immobile. Anche perché era ormai cenere.
«Ridammi
il
Seme! Ridammelo! Non fare stronzate!»
«Non
posso.
Devi imparare, devi migliorare, devi crescere: se te lo ridessi
indietro, nulla
cambierebbe. Ti amo, Emily, ti perdono».
«Del
tuo
perdono non me ne faccio un cazzo! Voglio il Seme! Voglio il-»
«Ue’
guagliuncella! Bell ‘sto piezzu ‘e lignu!»
A svegliarla dalla sua
allucinazione, un esemplare di Phobos
in atteggiamenti napoletaneschi che la punzecchiava col suo scettro.
La Pitchiner scosse la testa,
confusa e con il
crepitio delle ossa bruciacchiate nelle orecchie: era… viva?
«Cos… cosa
vuoi?» biascicò, ancora frastornata.
«Voglio che parevi una
statua di marmo, per gli dei,
ti eri letteralmente paralizzata!» gli urlò contro
il rosso. «Non ti muovevi,
non rispondevi, non respiravi nemmeno, hai persino lasciato cadere il
tuo
scettro e per poco quella» indicò Myricae,
stramazzata a terra in una pozza di
sangue «non trovava la forza di reagire, rifilandoti una
codata in faccia.
Fortunatamente, il tuo prode cavaliere l’ha neutralizzata
prima che lo facesse
e ora è incosciente, ma a un certo punto ho pensato -e
ammetto, anche sperato-
che fossi schioppata. Parevi un’allucinata in trip da
LSD».
Un’allucinata? Oh, certo.
Avrebbe dovuto aspettarselo.
Nascondendo quanto fosse ancora
scossa dopo aver
rivisto nuovamente Marigold -rivivendo i suoi ultimi momenti di vita,
gli
ultimi minuti e parole che aveva scambiato con lei- nelle sue
allucinazioni, si
avvicinò a Myricae. Da brava donna di poca fede qual era, le
diede un colpetto per
vedere se reagiva in qualche modo o se invece fosse veramente svenuta;
ottenuta
una risposta negativa, si chinò su di lei e
afferrò uno dei serpenti tramortiti
che aveva per chioma.
Il tempo che una lama di plasma
-una delle tante forme
con le quali incanalava il proprio ritrovato controllo sui fulmini- le
apparisse fra le dita esili, e lo tagliò di netto. Se lo
legò attorno alla vita
come una cintura.
Phobos, che la fissava stranito,
decise di non farsi
domande su certi feticismi: vai a sapere cosa passava per la mente di
quella
pazza normalmente, figurati adesso che era pure -molto probabilmente-
strafatta
di allucinogeni!
Una domanda, tuttavia, si decise a
farla.
«Senti un po’,
ma chi è Marigold?»
Emily Jane si girò di
scatto, allarmata «Dove hai
sentito quel nome?»
«Lo ripetevi
continuamente, prima, e-»
«E occupati di nascondere
quel sacco di carne da
qualche parte, prima che ci trovino per davvero perché
attirate dall’odore del
sangue» cambiò discorso in fretta e furia. Gli
strappò lo scettro dalle mani, guardandolo
come se fosse un ladro «Bruciala, mangiala, nascondila: non
m’interessa come te
ne liberi, basta che ti sbarazzi di lei. Magari mettila insieme a
Phentesilea, viva
o morta che sia, così fanno una bella riunione mamma e
figlia».
«Credevo che volessi
ammazzarla, Myricae».
«E voglio ancora
farlo» confermò «ma solo quando ci
sarà anche Harmonia ad assistere. Voglio che mi veda
uccidere la sua fidanzata,
voglio che la senta implorare la mia pietà e poi sia lei, a pregarmi di risparmiarla, voglio
portarle via ciò che di più
caro ha al mondo: allora, e solo allora, strapperò il cuore
dal petto della
Regina di Phantasia e lo darò in pasto ai maiali, o ai leoni
insomma. Sarebbe
tremendamente egoista tenerci solo per noi lo spettacolo di impiccarla
e
tagliarle la gola, non credi?» ridacchiò.
Il rosso, caricandosi spalla il
corpo esamine
dell’Ophidian, fece spallucce «Se ne sei
convinta»
Lui convinto non lo era nemmeno un
po’, a dirla tutta.
Liberarsi subito della naga avrebbe
costituito un
problema in meno del quale preoccuparsi poi, ma non aveva importanza:
aveva appena
avuto l’ennesima dimostrazione che quella benedetta donna
fosse guidata dalla
vendetta e dall’impulsività, più che
dal buonsenso e dalla tattica, di quel
passo si sarebbe scavata la fossa da sola.
E lui l’avrebbe coperta
di terra.
---
«Elgara vallas, da'len,
melava somniar. Mala taren
aravas, ara ma'desen melar».
“Sono morta?”
Crollata in uno stato che la teneva
sospesa fra il
mondo terreno e quello dell’aldilà, quel pensiero
fu il primo che si palesò
nella mente di Myricae, appena le sue orecchie udirono quelle parole:
lingua
Ophidians, non aveva dubbi.
Come pure non aveva dubbi di essere
passata a miglior
vita, ormai, considerando che sentiva pure le voci.
«Iras ma
ghilas, da'len, ara ma ne'dan ashir?
Dirthara lothlenan'as, bal emma mala dir».
Sapeva che non c’era
nulla di reale, che suddetta voce
era solo un qualche rimasuglio di coscienza riversatosi nel calderone
di quei
frammenti di vita che un cervello morente era solito riportare a galla,
ma
l’idea di essere in punto di morte -se non già
morta da un pezzo- e di provare,
vedere, sentire, certe cose, non la disturbava affatto,
tutt’altro.
Sorrise: aveva bei ricordi, legati
a quelle parole, i
migliori della sua infanzia.
Ricordi dove la sua Amìl
-e occasionalmente anche la
sua Ammë, che però ammetteva divertita di avere
altri talenti che il canto- la prendeva
dolcemente fra le braccia e iniziava a cullarla, cantandole quella
ninna nanna
finché non vedeva gli occhi della sua creaturina squamata
chiudersi e cedere al
sonno, rigorosamente raggomitolata su se stessa come un armadillo. Non
aveva
mai saltato neanche una notte, a cantare per lei, persino le poche
volte in cui
si era sentita poco bene aveva sempre e comunque trovato il modo di far
sì che
quelle parole la accompagnassero fino alla mattina seguente.
C’era sempre stata, per
lei, sempre.
«Tel'enfenim,
da'len, irassal ma ghilas. Ma garas
mir renan…»
Sebbene fosse consapevole che si
tratta di un mero e
semplici scherzo della sua mente che si stava spegnendo, decise di
goderselo
fino in fondo, abbandonandosi alla stessa sensazione di accoglienza
materna che
-ora come allora- stava pervadendo il suo corpo martoriato.
Voleva solo dormire, adesso, tutto
il resto poteva
aspettare: aveva sonno, tremendamente sonno, e la voce di sua madre
come
colonna sonora della sua dipartita era quanto di meglio potesse
chiedere.
Così come
l’aveva accompagnata fin dai primissimi
istanti di vita, lo avrebbe fatto anche durante gli ultimissimi prima
della
morte.
«…
Ara ma'athlan vhenas… »
O presunta tale, insomma.
A riportarla alla cruda
realtà, una fitta lancinante
che le percorse il torso dall’addome al collo, dove ricordava
che fosse
penetrato lo scettro di Madre
Natura. Non riusciva ancora a muovere la testa per alzarla quel tanto
che
sarebbe bastato per vedersi il ventre, motivo per cui non
notò
come le sue ferite stessero iniziando almeno
superficialmente a richiudersi, segno che la naturale rigenerazione dei
suoi
tessuti stava -seppur lentamente- facendo effetto, chiudendogli il buco
che
l’attraversava da una parte all’altra.
Dopo un numero indefinito di
tentativi, riuscì appena
ad abbassare lo sguardo, ma non vide altro che sangue, e sangue, e ancora sangue,
una distesa rosso scuro -ora
fresca, ora già rappresa- che gli riempiva il campo visivo,
forse anche a causa
di quello che le colava dal serpente mozzato fin sul viso.
Tentò di
alzare un braccio per toccare la zona dolente, ma una mano dalle squame
bianche
la fermò, posandoglielo di nuovo delicatamente sul petto
come a dirle “non è il
momento”.
«…
Ara ma'athlan vhenas…
yeldë‘nin».
… Yeldë?
Improvvisamente,
l’ultima occasione in cui aveva sentito qualcuno rivolgersi a
lei con
quell’appellativo, quello di “figlia”, le
rimbombò prepotente nella testa, le
parole di Valië Axechasti in persona che si facevano strada
fra mille altri
pensieri: “Miulë Myricae, yeldë di
Airë Tári Hippolyta e Airë Tári
Phentesilea.
Per il reato di gweriad, il Calaciryandë ti condanna a
morte”.
Da allora, non era più
stata yeldë di
nessuno, tantomeno Miulë di qualsivoglia harem, solo Myricae:
non Myricae “la
figlia”, “la principessa”, “la
traditrice”, semplicemente Myricae e basta.
L’aveva chiamata
yeldë, ma la serpentessa
che la stava tenendo fra le braccia, che le accarezzava il volto, che
le
cantava quella nenia tirata fuori dai meandri della sua infanzia, non
era sua
madre, non poteva esserlo.
Erano passati sette secoli
dall’ultima
volta in cui l’aveva vista, ma -pure dopo tanto tempo-
sarebbe ancora stata perfettamente
in grado di riconoscerla, e non era quello il caso.
Airë Tári
Phentesilea era bella,
bellissima, nulla a che vedere con ciò che aveva davanti.
La sua coda bianco perlacea non era
costellata di chiazze sanguinanti, dove le squame mancanti lasciavano
intravedere
i muscoli sottostanti e, occasionalmente, qualche osso.
La sua pelle candida non era
sfregiata da
squarci talmente profondi da lasciare la carne gocciolante liquido
rosso a
penzoloni, ridotta a brandelli come se fosse stata azzannata da una
bestia inferocita.
Il suo volto non aveva mai
conosciuto i
segni dei lividi gialli e viola e neri derivati da chissà
quale brutale
pestaggio, lo stesso che -a quella- aveva spaccato il naso, il
sopracciglio, il
labbro, che le aveva fatto scoppiare i capillari dei bulbi oculari
iniettandoli
di sangue.
E, soprattutto, la sua cascata di
serpenti
bianchi dalla testa rossa non era mai stata recisa alla base come a
quella
povera naga; sua madre, la regina, mai e poi mai avrebbe fatto una cosa
del
genere ai suoi piccoli ofidi sibilanti, che le si avvolgevano ora
intorno alle
braccia a chiederle coccole, ora sulla schiena ad acconciarsi in mille
modi
differenti.
Non era la sua Amìl, non
poteva esserlo,
non doveva.
Se lo fosse stato, allora non si
sarebbe
mai perdonata di aver permesso che l’avessero ridotta in
quello stato. Mai.
Mai.
Non seppe se l’altra
l’avesse fatto
intuendo il suo conflitto interiore o semplicemente perché
volesse farlo, se le
dita le tremassero per l’emozione o per un qualche trauma
fisico alle stesse,
se stesse sorridendo o se invece avesse la bocca paralizzata come il
viso
gonfio per le botte; ora come ora, sapeva solo che, adesso, quella
sconosciuta
le teneva teneramente il viso fra le mani, guardandola con dolcezza
infinita.
In quegli occhi verde lime acceso
identici ai suoi, Myricae trovò tutte le risposte che stava
cercando.
«…
Mamma…?»
Phentesilea le sorrise: settecento
anni dopo,
Quetzalcoatl aveva risposto alle sue preghiere.
____________________________________________________________
Angolino dell’autrice
HELLO MY BRUDDA!
Entrata alla Ugandan Knuckles a
parte, eccovi la traduzione
della ninna nanna, la canzone è “Mir
Da’len Somniar - Dalish Lullaby” dal gioco
di Dragon Age, qui
trovate il link se voleste ascoltarla :)
“Sun
sets,
little one, time to dream. Your mind journeys, but I will hold you here
Where
will you
go, little one, lost to me in sleep? Seek truth in a forgotten land,
deep
within your heart
Never
fear,
little one, wherever you shall go. Follow my voice
I will
call
you home
I will call
you home, my daughter.”
Questo capitolo è uscito
un po’ più lunghetto di
quanto avessi previsto, spero che non sia particolarmente pesante per
la
moltitudine di cose che succedono… sempre meno di quelle che
accadranno poi, MA
DETTAGLIH :D
Non ho altro da dire, se non che
ringrazio come sempre
chi legge e chi recensisce, a questo punto della storia avere anche le
vostre
opinioni è una cosa che mi riempie di gggioia <3 e
che mi fa capire come il
disagio da faciola abbia contagiato altre menti oltre alla mia,
ammettete che
Phobos è sempre nei vostri pensieri! :’D
Alla prossima!
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Capitolo 17 *** Olympus has fallen - parte I ***
Non aveva un’idea precisa
di quanto tempo avessero
passato abbracciate in silenzio laggiù, nei meandri bui del
tempio di Quetzalli,
ma era stato sicuramente meno di quello passato a medicare alla bene e
meglio
le tremende ferite sul corpo di sua madre.
Scoperto di avere ancora legata in
vita la propria saccoccia,
e appurato che il contenuto di quest’ultima non era andato
perduto durante lo
scontro con Madre Natura, Myricae si era subito messa al lavoro a
pestare e
sminuzzare erbe e foglie e fiori medicinali -lì per
insistenza di Naevia, che
non le permetteva di lasciare il castello senza al grido di
“non sia mai che
possano salvarti la vita, un giorno”, mai come ora la
ringraziava per tanta
insistenza!- per preparare quei misteriosi intrugli amari appresi
guardando
quella gatta frigida all’opera nel suo laboratorio
erboristico.
Se la regina aveva ricevuto tutte
le approssimative
cure necessarie, lei ne aveva fatto a meno: i suoi tessuti si stavano
già
rigenerando autonomamente, non aveva più un buco aperto in
pancia, e tanto bastava
per farla sorvolare sul resto del suo corpo dolorante.
Appena Phentesilea era stata in
grado di parlare,
Myricae non aveva perso tempo a tempestarla di domande su domande,
prima fra
tutte chi l’avesse ridotta in quello stato; quando aveva
sentito pronunciarle
il nome di Phobos -o meglio, di Phoebe- non ci aveva visto
più: se prima voleva
ammazzarlo e darlo in pasto ai “genitori” di
Scarlet per quanto aveva fatto e
stava facendo soffrire Harmonia, ora voleva la
sua testa sopra il caminetto.
Quando aveva chiesto delucidazioni
su come “Phoebe”
fosse riuscita a entrare nella blindatissima Quetzalli,
però, al generale della
Regina di Phantasia erano cascate le braccia.
La vicenda aveva del tragicomico:
il rosso era stato
catturato da una principessa,
trasportato all’harem di sua madre da
una
regina, lì era stato visto da un numero di schiave
-fra le quali c’erano
almeno una dozzina di Ophidians- compreso fra almeno duecento e
trecento donne
e, infine, portato dinanzi a una sovrana esperta, una
Airë Tári; era pure stato cambiato di abiti,
da quel che aveva
visto, e quindi denudato. In tutto ciò, nessuno aveva notato
che quello fosse
un uomo.
Nessuno.
Nemmeno le sue simili che
l’avevano visto sfilare per
la città.
Era ridicolo, e anche tremendamente
imbarazzante.
Inizialmente, avrebbe solo voluto
inveire contro sua
madre, chiederle come diavolo fosse stato possibile che una regina del
suo
calibro -che di concubine ne vedeva e ne esaminava e ne scopava a
bizzeffe ogni
giorno!- avesse potuto lasciarsi fuggire da sotto il naso non solo la
mancanza
di seno della nuova arrivata, non solo la sua voce mascolina, ma pure
la
presenza di un pacco in mezzo alle gambe.
Che magari era talmente piccolo da
essere scambiato
per un clitoride particolarmente sviluppato, c’era pure caso
che le cose
fossero messe così eh!
Poi aveva posato lo sguardo sugli
occhi di
Phentesilea, e allora aveva deciso di lasciar perdere: si sentiva
già abbastanza
in colpa di suo, infierire sarebbe stato stupido, inutile, crudele.
Aveva creduto che Phoebe fosse una
qualche abitante
rachitica del pianeta Dragsa, conosciuto per le sue donne che -fra
l’essere
montagne di muscoli e l’avere tratti particolarmente duri- di
femminile avevano
ben poco, e allora non si era fatta domande.
Come nemmeno Myricae se
n’era fatte, conscia che rimuginare
su cosa si sarebbe potuto e dovuto fare non avrebbe cambiato la loro
situazione…
anche perché, a fare un sincero esame di coscienza, pure da
parte sua gli
errori non erano certo mancati: avrebbe dovuto tornare al castello,
riferire ad
Harmonia ciò che aveva scoperto e organizzare una spedizione
con lei, altro che
fare tutto da sola credendo di potersela cavare senza l’aiuto
altrui! Per
ottenere cosa, poi? L’essere rinchiusa nelle segrete di un
tempio isolato dal
mondo con l’ossigeno che andava sempre più
scarseggiando, forse? Aveva
sbagliato, e quell’errore le sarebbe costato la vita.
Non sarebbe tornata a casa da
Harmonia, né quella
sera, né mai, causandole tanto e più dolore di
quanto gliene avesse procurato
Phobos da sette secoli a quella parte.
In fondo, non sarebbe stata poi
tanto migliore di lui.
Da quando quella consapevolezza si
era fatta strada
nella sua mente fino a ora, la naga si era messa in un angolino,
rivolta verso
il muro, la coda tirata al petto e la testa poggiata su di essa,
rifiutando
qualsiasi contatto con la sua genitrice.
Quest’ultima, tuttavia,
non pareva d’accordo.
Nonostante il dolore nello
strisciare causato dalle
zone sprovviste di squame, le si avvicinò piano, con
cautela, attendendo di vapire
se i serpenti sul suo capo fossero d’accordo nel lasciarla
fare. Appurato che
non l’avrebbero morsa, mise maternamente una mano sulla
spalla di sua figlia, accarezzandogliela.
«Andrà tutto
bene» le sussurrò.
Myricae si girò di
scatto.
«Mi pigli per il
culo?»
«No di certo,
no» si affrettò a rassicurarla «dico
solo che le cose vanno sempre bene, alla fine. Iniziano male,
proseguono
peggio, a volte, ma poi migliorano, devono
migliorare. La natura si compensa da sola, da'len».
«Oggi mi chiami
affettuosamente “da'len”, l’ultima
volta mi chiamavi… mmmh, ce l’ho sulla punta della
lingua…» tirò fuori la
lingua biforcuta, indicandola mentre si fingeva pensierosa
«ah, sì!
“Gweriadir”, se non ricordo male! E so bene di
ricordare perfettamente, madre, per
cui» tornò a rintanarsi fra le proprie braccia,
nascondendo il volto fra esse
«lasciami in pace e torna a pregare il tuo dio,
così magari ci farà dono di due
cucchiai per scavarci un tunnel e uscire».
«Parli come se credessi
che Quetzalcoatl sia capace di
abbandonare due delle sue discendenti al proprio infausto
destino».
«Parlo come chi ha
pregato, ma non è mai stata
esaudita» controbatté acida «per quanto
mi riguarda, quel dio che tanto
venerate in questa vostra gabbia d’oro mi ha dimenticata
settecento anni or
sono, e non intendo farmi ritrovare. Magari verrà per te,
dato che gli sei così
devota, ma non per me».
Phentesilea sospirò,
sedendosi al suo fianco.
«Non verrà per
nessuna delle due, né per qualsiasi
altra Ophidians» asserì atona
«Quetzalcoatl non è mai intervenuto di persona
nelle
questioni terrene, e mai interverrà. Ma agisce, quello
sì… per vie misteriose e
inesplicabili, forse, ma non abbandona nessuno, né lascia
che le preghiere a
lui rivolte rimangano inascoltate. Ho passato sette lunghissimi secoli
a
pregarlo giorno dopo giorno, notte dopo notte, e nemmeno a me ha mai
risposto» allungando
una mano, prese delicatamente il mento dell’altra,
rivolgendolo verso sé «fino
ad oggi, almeno» le sorrise.
«Cosa gli chiedevi,
ma’? Di farti morire per asfissia insieme
a quella traditrice senz’anima di tua figlia,
magari?»
«Solo di farmi incontrare
di nuovo la mia bambina, i
modi e le circostanze non glieli ho mai specificati» rise la
regina «mi bastava
rivederti e poterti salutare, Myricae, nulla di più. Certo,
avrei preferito che
accadesse in un contesto diverso da questo, ma va bene lo stesso: se ci
sei tu
qui con me, allora sono ugualmente contenta».
«Sei contenta con
poco» sbuffò.
«“Poco”?»
ripeté Phentesilea, rizzandosi incredula
«È
molto più che “poco”, questo,
è la gioia più grande che potessi avere come
madre! Rivedere la mia piccola dopo secoli è- è-
ah! Al diavolo! Non trovo le
parole adatte!»
Le prese le mani fra le proprie,
portandosele al cuore
con le lacrime agli occhi.
«Temevo che non ti avrei
più rivista, da’len, avevo…
avevo… paura di non… di non vederti
più, di dimenticare la tua voce, il tuo
volto...» l’accarezzò
«… il tuo profumo… avevo il terrore
di… di svegliarmi una
mattina e trovarmi Harmonia in casa, con…
con…» iniziò a piangere
«… con le tue
spoglie fra le mani, da’len. Ero… ero
terrorizzata, avevo incubi ogni notte su
di te che… che… sai, sei il generale, per cui
temevo che-»
«Sei stata talmente in
pensiero per me che non sei mai
venuta a rassicurarti sulle mie condizioni di persona,
Amìl».
Con un movimento deciso,
sfilò e ritrasse le mani da
quelle dell’altra, cogliendola di sorpresa.
«Credi davvero che
scappare mi abbia fatto piacere?»
le chiese, piantandole addosso uno sguardo accusatorio freddo come il ghiaccio
«Che mi sia divertita,
a dover fuggire di fretta e furia dal luogo nel quale ero nata e
cresciuta? Che
sia stato facile, andarmene e lasciarmi indietro una casa, una
famiglia, una
vita intera, e ricominciare da zero?»
Si alzò, guardandola
dall’alto in basso mentre si alzava
faticosamente facendo presa sul muro. Non l’aiutò,
limitandosi a osservarla con
aria pietosa.
«Rispondo io per te,
statua di marmo: no, non c’è
stato nulla di facile. Non è stato facile smettere di
alzarmi di colpo in piena
notte urlando, dopo aver sognato mia madre che calava l’ascia
per eseguire la
condanna dalla quale ero scappata. Non è stato facile
rifarmi una vita, fingendo
di non avere un passato. Non è stato facile abituarmi
all’assenza di una Ammë
tanto affettuosa quanto iperprotettiva, che s’informasse su
dove fossi stata e
con chi e per quanto, che mi aspettasse alzata con l’arakh in
mano se fossi
rientrata dieci minuti dopo l’orario pattuito, tremendamente
preoccupata».
Le diede le spalle, indifferente,
intenzionata a non permetterle
-e non permettersi- di mostrare gli occhi gonfi di lacrime per il peso
di quel
dolore che tanto Harmonia, col suo amore, era riuscita a farle rilegare
in un
angolo buio della mente.
«Fuggivo dalla morte,
fuggivo dalla mia gente, fuggivo
dalle persone che avrebbero dovuto amarmi: se volevo vivere, allora non
potevo
rimanere» uno dei suoi serpenti le si strofinò
sugli occhi, asciugandoglieli «Non
è stato facile, ma non avevo alternative, voi
non me ne avete date, voi-»
Il suono delle squame bianche che
impattavano contro
quelle color smeraldo della sua guancia riempì la stanza.
Quando l’eco si
disperse, Myricae si trovò con uno stampo di cinque dita di
un delicato color
rosso pompeiano in volto.
Immobile a massaggiarsi il viso,
fissò la propria
genitrice con aria di sconcerto, non si sapeva se più a
causa dell’essere stata
schiaffeggiata per la primissima volta nella sua vita, o
perché suddetto
schiaffo fosse provenuto proprio da lei.
Che non pareva affatto pentita del
suo gesto, fra
l’altro. Anzi, le afferrò pure due serpenti ai
lati del volto e la tirò verso
sé, portandola alla propria altezza.
«Smettila di comportarti
come se fossi stata l’unica a
non aver avuto alternative!» sbottò la naga
bianca, fulminandola con lo sguardo
«Sono estremamente paziente e gentile e dolce, ma non
azzardarti mai più a
mancare di rispetto alla donna che ti ha felicemente dato alla luce e
ti ha
cresciuto con dei principi, signorina, mai più! Sei
arrabbiata e frustrata e
stressata, lo so, lo so, ma non
osare
abusare della tua posizione per atteggiarti come l’unica e
sola vittima di
questa brutta storia perché, notiziona del momento, non lo
sei! NON LO SEI!» la
mollò.
Restarono entrambe interdette
qualche istante, una ancora
con gli occhi di fuori e l’altra col petto che si alzava e
abbassava
ritmicamente per lo sforzo, non abituata com’era a certe
sfuriate tipiche
invece della propria consorte. Per calmarsi, Phentesilea
strisciò fino al
tavolo di pietra, sedendosi ai piedi dello stesso.
Myricae la raggiunse poco dopo,
appollaiandosi al suo
fianco a testa bassa.
«Mi dispiace».
Phentesilea le sorrise,
abbracciandola.
«È tutto a
posto, da'len, non sono arrabbiata con te»
la rassicurò, accarezzandole la schiena e accoccolandosi fra
i serpenti che le
facevano il solletico con le loro piccole lingue
«… ma non ti nascondo che le
tue parole mi hanno fatto male, tanto male». Si
staccò da quell’abbraccio,
tenendole le mani sulle spalle «Credimi, bambina mia, avremmo
voluto più di
ogni altra cosa evitare tutto ciò che è successo,
io e-»
«Non parlare al plurale,
ma’, sappiamo entrambe che
eri solo tu a volermi viva».
«Sai anche tu che non
è così» controbatté
«e in cuor
tuo sei perfettamente consapevole -tanto quanto lo sono io- che tua
madre
Hippolyta mai e poi mai ti avrebbe torto un capello, figurati se
volesse
decapitarti! Sai bene quanto la tua Ammë di amasse, quanto
avesse desiderato la
tua nascita, quanto tu significassi per lei, non puoi davvero aver
creduto per
settecento anni che ti volesse uccidere!»
«L’ho creduto
perché l’ho sentita con queste stesse
orecchie» se le indicò «chiamarmi
“gweriadir”, “traditrice”.
L’ho creduto
perché era la sua mano, quella che ha calato la frusta sulla
mia schiena in
pubblica piazza una, due, tre, cinque, dieci, volte, finché
non sono nemmeno
stata in grado di strisciare fin sull’altare sul quale mi
avrebbero decapitata,
e mi ci hanno dovuto trascinare di peso come un animale. L’ho
creduto perché era
il freddo metallo del suo arakh, quello che avvertii posarsi sulla mia
nuca mentre
Valië Axechasti leggeva i miei campi d’imputazione.
In tutto questo, tu sei
ancora convinta che mamma Hippolyta mi volesse bene in qualche modo,
dunque?»
«Lo sono, e dovresti
esserlo anche tu, da’len».
Myricae scoppiò a ridere.
«Avanti! Cerca di essere
obiettiva! Come puoi dire
che-»
«Hanno minacciato di
uccidere lei e di schiavizzare
me, se la tua Ammë si fosse rifiutata di eseguire la tua
condanna» sputò tutto
d’un fiato la Airë Tári, secca e atona.
«Se si fosse trattato
solo della sua morte, allora non
avrebbe avuto bisogno di un minuto in più per mandare tutti
quanti al diavolo:
il solo concepire l’idea di fare una cosa così
abominevole e innaturale come
decapitare il sangue del suo sangue la disgustava tanto allora quanto
la disgusta
ancora oggi, non sarebbe andata contro i propri principi solo per
soddisfare la
voglia di esecuzioni del Calaciryandë» fece una
lunga pausa, abbassando lo
sguardo «Solo che…»
«Solo
che…?» ripeté la naga verde.
«Solo che c’ero
io, e lei… lei non poteva permettere
che mi accadesse qualcosa, non voleva che mi… che mi
facessero diventare una serva…»
sussurrò piano, a bassa voce, come se si vergognasse di
ciò che stava dicendo
«… dovresti incolpare me, non lei. Se tua madre
Hippolyta ha concordato sulla
condanna come le altre Airë Tári, se ti ha frustato
dinanzi a loro
assecondandole, se stava per diventare la tua boia, allora lo stava
facendo
solo per me, per me e nessun’altra: lei sarebbe morta, ma a
me sarebbe toccata
la schiavitù, ed era fin troppo consapevole che non sarei
sopravvissuta a
quella condizione».
Quando gli occhi iniziarono a
diventarle rossi per
l’imminente pianto, Myricae se la strinse al petto con tanta
e più forza di
quanto avesse fatto lei prima, dandole piccoli baci sul capo
finché non si
calmò abbastanza da tornare a raccontare.
«C’erano fior
di regine pronte a prendermi nel loro
harem, e Antiope era in prima fila. È un mostro, quella
donna, una bestia senza
cuore né anima che abusa e sevizia le proprie serve in modi
indicibili» un
brivido la percorse, interrompendola qualche istante «fino a
quando quelle
poverette non muoiono dissanguate per via delle ferite interne
riportate
durante le ripetute violenze carnali subite. “Sono solo
schiave, possono
comprarne di altre”, dice per giustificarsi, e buona parte
delle altre Airë -pur
non approvando il suo comportamento- concordano, ed ecco
perché gira a piede
libero senza che nessuno le dica nulla».
«È
orribile».
«Lo
è» convenne la regina «e sarebbe stato
anche il
mio destino, se la tua Ammë non si fosse comportata come ha
fatto, come ha dovuto fare. Lei
sapeva che sarebbe
stata Antiope a reclamarmi, e sapeva che non ne sarei uscita viva:
avrebbe
fatto di me la sua schiava preferita, mi avrebbe sbattuta e montata e
ingravidata giorno e notte solo per sfornare figli per lei fino allo
sfinimento, sarei stata al centro delle orge organizzate da lei e dalle
sue
discepole, dove il mio corpo sarebbe stato alla loro completa
mercé. Avrei
finito per uccidermi, prima o poi, e-»
«E mamma lo
immaginava» completò la frase l’altra.
«Già. Mi disse
“Se devo scegliere fra l’uccidere mia
figlia e il condannare a una sorte ben peggiore della morte mia moglie,
allora
che Myricae non me ne voglia, ma non posso essere complice del suicidio
della
donna che ho giurato di proteggere con la vita”. Inizialmente
mi opposi, cercai
in tutti i modi di farle cambiare idea, di spronarla a trovare insieme
una
soluzione…»
«Ma una soluzione non
c’era».
«Non c’era, e
mai ci sarebbe stata, non è certo per
ascoltare le ragioni della condannata che a Quetzalli si processa chi
esce
dalla città… e così noi…
noi…» s’interruppe improvvisamente,
annegando nei
singhiozzi «… noi scegliemmo l’opzione
più… più… più
comoda, da’len, scegliemmo
la strada più semplice da percorrere, quella che ci avrebbe
garantita salva la
vita, e-»
«L’unica
strada,
è diverso» la corresse.
Le sollevò delicatamente
il mento, guardandola negli
occhi con lo stesso fare materno che, di solito, era proprio di
Phentesilea.
«Non avevate scelta,
mamma, proprio come non ne ebbi
io: se aveste deciso diversamente, la mia Ammë sarebbe morta
inutilmente e la
mia Amìl sarebbe diventata schiava, continuando a vivere con
la consapevolezza
di essere sopravvissuta alla propria compagna e alla propria figlia; in
tutti i
casi, io sarei comunque stata uccisa, e non sarebbe cambiato
nulla».
«Ho serbato rancore per
settecento anni, ma solo adesso
capisco quanto voi abbiate fatto per me, quando invece avreste
tranquillamente
potuto rimpiazzarmi con-»
«Un’altra
figlia?» l’anticipò sua madre.
Myricae annuì.
Phentesila scosse la testa.
«Ci pensammo a lungo, non
lo nego, ma fu un nulla di
fatto: il problema non era darti una sorella, l’idea di
rimanere nuovamente
incinta sai bene che non mi è mai dispiaciuta, il problema
era dartela solo per
accontentare il nostro disperato bisogno di riversare su un pargolo
quell’amore
materno troncato settecento anni fa. Dare alla luce una figlia solo per
sopperire la mancanza di un’altra mi sembrava
come… irrispettoso, ecco, tanto
nei confronti della tua memoria, che viveva ancora qui» si
toccò il cuore
«quanto per la creaturina che sarebbe nata» poi il
ventre «perché sarebbe stata
una sostituta, e nulla di più».
Improvvisamente, un’ombra
di stanchezza parve calare
sugli occhi della regina, che si abbandonò a un sospiro
rassegnato
«Non fraintendermi:
l’avremmo amata, coccolata, resa
felice in ogni modo possibile e immaginabile, proprio come abbiamo
fatto con
te, ma…» fece una breve pausa
«… ma nel profondo, guardandola negli occhi,
avremmo visto la nostra primogenita, non una nuova bambina. Era
già difficile
vivere fingendo di averti dimenticato o dandoti una caccia spietata per
non
insospettire nessuno, aggiungere anche il fardello di dover dire alla
nostra
bambina che sua sorella maggiore era morta -sapendola viva- sarebbe
stato
troppo… troppo… “troppo”,
tutto qui».
Sperò che la sua
yeldë non notasse il suo improvviso
rattristamento o il cambio nel suo tono di voce, ma la naga dalle
squame
smeraldo lo notò eccome.
Piano, delicatamente,
attorcigliò le proprie dite a
quelle della sua Amìl in silenzio, senza aggiungere altro:
sarebbe bastato il
gesto, con lei, un gesto che le diceva “siamo di nuovo
insieme, adesso, non devi
più preoccuparti del passato”.
Quando la vide sorridere,
capì che aveva recepito il
messaggio.
«Ma non parliamo oltre di
ciò che è successo sette
secoli or sono, tesoro mio, ora abbiamo settecento anni di rapporti
madre e
figlia da recuperare!» le diede una vigorosa pacca sulla
spalla, ridacchiando «Una
volta uscite da qui, avremo tuuuuuuutto il tempo di fare ciò
che non abbiamo
fatto, e lo faremo in grande! Ti farò conoscere le nuove
arrivate nell’harem e
mi racconterai le tue avventure mentre ci godiamo un bel massaggio e
poi andremo
a fare shopping insieme e organizzeremo un pigiama party solo per noi
due e
faremo a battaglia di cuscini come due adolescenti mentre ci
confessiamo
segreti a vicenda e-»
«Come fai?»
l’interruppe brusca Myricae.
«Uh?»
«A essere sempre
così ottimista, intendo» asserì,
stranamente seria.
«Vedi sempre un lato
positivo anche nelle situazioni più
drammatiche, riesci a trovare del buono in chiunque, confidi che tutto
si
sistemerà autonomamente nonostante le
avversità…» gettò lo sguardo
verso la sua
Amìl, un misto fra curiosità e smarrimento
«… come fai, ma’? Come puoi avere
fede in un destino che ti, ci, sta
remando contro in tutto e per tutto? Come ci riesci?»
Se sui primi momenti la serpentessa
dalle squame
bianche era parsa preoccupata da quell’improvviso cambio di
atteggiamento da
parte di sua figlia, ora appariva del tutto serena.
«Sono la moglie di
Airë Tári Hippolyta, da’len, se non
fossi stata come sono stai pure sicura che non saresti nemmeno venuta
al
mondo!» rise.
L’altra la
guardò confusa, non capendo a cosa si
riferisse.
Di tutta risposta, Phentesilea si
tolse la collana che
aveva ancora indosso, una rudimentale corda di pelle con -come
pendente- una semplice
pietrucola tondeggiante con la superficie scura butterata qua e
là, non troppo
diversa da qualsiasi roccia si sarebbe potuto trovare camminando col
naso all’ingiù.
«Un ciottolo?»
«Il primissimo dono che
mi fece tua madre Hippolyta,
in realtà» precisò la regina. Lo
alzò per mostrarglielo meglio «Consegnatomi con
le mani tremanti, il volto più rosso dei nostri tramonti e
un adorabile
balbettio sulle labbra, da quanto era emozionata e imbarazzata nel
darmelo di
persona. “Quando ho visto come risplendeva, il mio pensiero
non ha potuto che
andare alla stessa sfumatura che assumono le tue squame opalescenti
quando
vengono baciate dai delicati raggi dell’alba”, mi
disse, e-»
«Vacci piano, per la
testa mozzata di Medusa!» si lamentò
agitando concitatamente le braccia davanti a sé
«Devo ancora rifarci
l’abitudine, all’inguaribile romanticismo della mia
Ammë verso la sua consorte,
dopo tutte le volte che ha tentato di decapitarmi negli ultimi secoli
capisci
bene che ripensare a lei in quelle
vesti mi risulta ancora incredibile!»
Phentesilea scoppiò a
ridere.
«Effettivamente non hai
tutti i torti, me ne ricorderò
così da non scandalizzarti ulteriormente!» le
prese una mano, posandoglielo sul
palmo «Ti piace?»
«Sinceramente? Mamma ha
un pessimo gusto per i regali,
ed è pure mezza cecata se pensa che questo coso»
lo picchiettò «risplenda in
qualche modo».
«Perché non
provi a girarlo, prima di giudicarlo dal
suo aspetto esteriore?»
Ben poco convinta che le cose
potessero migliorare e trattenendo
a stento la voglia di riderle in faccia, obbedì.
Rimanendoci di sasso, tanto per
restare in tema.
Se, di primo impatto, fuori quella
pietra grezza e
irregolare sembrava tutto tranne che il meraviglioso monile tanto
elogiato da
Phentesilea, allora adesso -girandola- anche Myricae capì il
perché sua madre
ne fosse così affascinata: fuori una scorza scura come il
più comune dei geodi,
dentro un opale bianco lattiginoso dalle mille sfaccettature
iridescenti, che
assumeva colori e sfumature differenti a seconda di come la luce si
rifrangesse
sulla sua superficie brillante.
«“Uur’ilweranta
erumë”, “fuoco del deserto”,
nato
quando il nostro ancestrale creatore Quetzalcoatl discese in terra su
di un
grande arcobaleno che trasformava le rocce che toccava in opali
splendenti» disse
la regina «Sgraziato a vedersi, d’incredibile
bellezza quando lo si guarda
meglio: un po’ come tua madre, insomma».
Myricae, ancora impegnata a girarsi
e rigirarsi fra le
dita il pendente guardandolo incantata, si voltò verso di
lei.
«Cosa c’entra
mamma con un opale?»
«Sono più
simili di quanto credi, sai? Come questa
pietra, a prima vista forse Hippolyta può sembrare dura,
fredda, insensibile» iniziò
a contare sulla punta delle dita «eeeee anche arrogante,
bruta, burbera,
feroce, impaziente, ineluttabile, irascibile, rozza, rude, selvaggia,
sgarbata,
spaventosa, rozza, testarda e tremendamente volgare. Ma guardando
oltre» le
chiuse le dita sul ciondolo «si scopre che è la
creatura più dolce e
meravigliosa che abbia mai avuto l’onore di conoscere, e
l’immenso piacere
sposare».
Gli occhi le divennero
improvvisamente lucidi, ma
questa volta il sorriso sul suo volto non scomparve; se possibile,
divenne
ancora più luminoso.
«Riconosco che
è una donna difficile da prendere, ma riconosco
in ugual modo che con me, con noi due,
è sempre stata affettuosa, amorevole, gentile, premurosa e,
soprattutto,
follemente innamorata della sua famiglia. Se fossi stata ad ascoltare
le voci
che giravano sul suo conto, allora avrei dovuto scappare a gambe
levate,
“aperte” secondo qualcuno, ma feci nessuna delle
due cose: semplicemente, mi
limitai ad aspettare che le cose si smuovessero da sole, che il destino
facesse
il suo corso. Pazientai a lungo prima che lei mi rivelasse i suoi
sentimenti
con questo» fece tintinnare le dita squamate sul geode
contenente l’opale «ma
ne valse la pena, attendere ne varrà sempre la
pena».
Le accarezzò
maternamente la guancia.
«Ed è valsa la
pena anche attendere il tuo ritorno,
da’len. Torneremo a essere una famiglia felice, Myricae,
proprio come ho
pregato che accadesse per settecento an-»
«E come pensi di fare,
precisamente?»
«Cosa intendi?»
«Intendo che dovresti
iniziare ad essere realista,
ma’».
Si alzò, strisciando
lentamente fino al muro. Quando
vi fu vicino, bussò allo stesso.
«Siamo rinchiuse in
questa stanza, alla fine del
labirinto sotterraneo pieno di trappole del tempio, la cui entrata
è stata
bloccata da una frana; come se non bastasse, suddetto tempio
è isolato dal
mondo, trovandosi nel folto del Tauremorna, e dubito fortemente che -a
questa
profondità- qualcuno possa sentirci urlare o anche solo
vvertire la nostra
presenza. Nessuno sa che siamo qui, nemmeno Harmonia: siamo sole, sole
e
abbandonat-»
«Non siamo sole, e non
siamo abbandonate» controbatté
secca Phentesilea, interrompendola bruscamente
«finché c’è speranza, allora
non
è detta l’ultima parola, non si sventola la
bandiera di resa, non ci si getta a
terra a lagnarsi attendendo che arrivi la fine. Quetzalcoatl non
ignorerà le
nostre preghiere, da’len, devi avere fede».
Basta.
Basta.
«AH! AL DIAVOLO LA TUA
FEDE NELL’INVISIBILE UNICORNO
ROSA! CHE SI FOTTANO QUETZALCOATL E TUTTA LA SUA DIVINA
BANDA!»
Si avvicinò a sua madre
sbracciandosi furibonda;
l’altra, intanto, era immobile.
«Cosa credi? Che gli
importi veramente di due povere
disgraziate come noi? Che ascolti per
davvero le tue dannatissime preghiere? Che gli importi
abbastanza della sua
gente per smuovere il suo soffice fondoschiena piumato?!! Cresci,
dannazione!
Se fosse così, allora a quest’ora avrebbe
già fatto irruzione per-»
«WE
CAME IN LIKE
A WREEEEEEEEEEEEECKING BAAAAAAAAAAAAAAAAALL!»
L’esplosione del muro le
scaraventò contro la parete
opposta.
Lì, Myricae perse i
sensi.
«Mamminaaaaaa! Ti avevo
detto di essere delicata!»
«Sei stata tu a dire che
dovevamo entrare come una
palla demolitrice, ho solo seguito il tuo piano».
«Ma era in senso
metaforico!»
«Avresti dovuto
specificarlo prima».
«Ma era ovvio!»
«Non ho visto un cartello
con scritto “è ovvio che io
intenda che dobbiamo entrare come una palla demolitrice solo in senso
metaforico e non letteralmente, mamma, non devi veramente sfondare il
muro col
tuo grasso addome” vicino al tuo volto mentre parlavi. E
comunque siamo
riuscite nel nostro intento, l’importante è
questo».
«L’importante
è che siano ancora vive, e col colpo che
hanno preso non è un’eventualità da
dare per scontata! Se sono morte
prendendosi un mattone in fronte per colpa nostra, allora andrai tu a
dirlo ad
Harmonia, eh!»
«Ci andrò io,
ci andrò io. Intanto aiutami a
controllare, piuttosto che stare lì impalata a rosicchiarti
nervosamente i
cheliceri: è un brutto vizio, quello».
«Mai quanto quello di
sfondare cose!»
«Precisamente la stessa
cosa che mi disse tuo padre
quando riempii il suo stomaco con centinaia di uova. Pace
all’anima sua».
“Harmonia?”
A sentire il nome
dell’amata, la naga dalle squame color smeraldo riprese
conoscenza.
O almeno ci provò,
ancora
mezza intontita -e assordata- com’era dal boato di prima che
le ronzava nelle
orecchie, impedendole di pensare e collegare dei volti a quelle voci.
«Buonsalve a te, bella
addormentata nel Tauremorna, riposato bene?»
Si stropicciò gli occhi,
strizzandoli nel tentativo di mettere a fuoco i contorni indistinti del
viso
della persona che gli stava parlando.
«Uh…?»
«Credevo fossi
schioppata,
sai? Lo scettro di quell’allucinata di Emilia Gianna non
è proprio uno
stuzzicadenti, e -infilzata come un pezzo di carne allo spiedo
com’eri- ero
pronto a scommetterci le palle, sulla tua dipartita»
commentò una voce maschile,
seccata «e su quella di tua madre, soprattutto sulla sua. Ero
convintissimo di
averla pestata a sufficienza da spaccarle la testa, da annegarla nel
suo stesso
sangue, da farla implorare di morire dalla vergogna di non avere
più quei bei
serpentelli bianchi in testa, e invece scopro che è viva e
vegeta! Per lo
scroto di Quetzalcoatl, giuro che era più morta che viva,
quando l’ho lasciata
laggiù, era più di là che di qua! A
saperlo prima, mi sarei tolto lo sfizio di
buttarlo nel culo ad un’Ophidians come Emilia Gianna! E io
che temevo di
sembrare un necro-»
Gli incisivi di Phobos tintinnarono
a terra.
Non si fece domande sul
perché lui fosse lì, nell’atrio semi
distrutto -da lui stesso, suppose- del
tempio di Quetzalli, non se le fece su chi gli avesse legato polsi e
caviglie,
non se ne fece nemmeno su chi avesse sfondato il muro della stanza
sotterranea,
liberandola.
Semplicemente, con la
coda gli afferrò i lunghi capelli cremisi, sollevandolo per
gli stessi fino a
portarselo davanti al volto. Lo fissò per minuti interi,
disgustata.
«Quello che ti ho appena
dato era per esserti preso la libertà di trascinare quel tuo
brutto muso
schifoso che puzza di birra e patetismo fuori
dall’Abisso» ringhiò, gli occhi
verde lime iniettati d’odio, rabbia, ribrezzo, resi
completamente folli dalla
voglia di farlo evaporare dalla realtà a suon di botte.
Ritrasse il braccio.
«Questo è per
come hai
ridotto Harmonia».
Un montante ben assestato
al centro della mandibola, e l’arcata dentaria inferiore si
riversò fuori dalla
bocca insanguinata del rosso come una cascata.
«Questo è per
ciò che hai
fatto a mia madre».
Un violento gancio sul
naso, e di quest’ultimo rimase solo una grumo informe di
carne e sangue e ossa
ridotte in frammenti schiacciato sul viso.
«Questo è per
me».
Due pugni in
contemporanea sulle tempie, e Phobos crollò a terra
tramortito, preda di
violenti tremori che gli facevano ingoiare lo stesso sangue che colava
copioso
dal naso maciullato, dalla bocca ridotta a un campo di guerra, dalle
orecchie
che -da dopo l’impatto- lo stavano facendo impazzire a furia
di martellargli la
mente con uno straziante e acuto stridio metallico.
A vedere come annaspasse a
trovare fiato e avesse la pupilla completamente dilatata, la naga
capì presto che
-complice la robusta corazza di squame che ricopriva le sue nocche-
l’ultimo
colpo doveva avergli provocato un brutto trauma cranico. Sorrise.
Lentamente, iniziò ad
avvolgersi il corpo con le spire color smeraldo, stringendolo nelle
stesse per immobilizzarlo.
Gli si avvicinò all’orecchio.
«Segnati la posizione
delle ossa, Phobos, perché ora te ne darò
talmente tante che ti servirà un GPS
per ritrovarle tutte».
Il pestaggio che seguì
quelle parole fu talmente brutale, che menti né mortali o
immortali avrebbero
potuto trovare nomi e verbi e aggettivi adatti a descrivere anche solo
le grida
gutturali del rosso, più simili a latrati di un qualche
animale agonizzante che
a qualcosa di umano.
Resa cieca dalla voglia, dalla necessità, di vendicare
il dolore
subito tanto dalla propria madre quanto dalla propria compagna, Myricae
non saveva
smesso nemmeno un secondo di riversare su di lui la propria furia
primordiale,
ferale, selvaggia, una furia che sapeva di sangue e saliva e liquido
cerebrale.
Aveva creduto di potersi contenere, di riconoscere quando dirsi
“basta”, si era
ripetuta e ripetuta e ripetuta “non mi abbasserò
al suo livello, gli darò
giusto una lezione”, ma -una volta iniziato- non era
più stata in grado di a
fermarsi: un pugno solo, il primissimo, e subito era stata trascinata
in una
spirale di follia che odorava di castigo, di giustizia, di morte.
Forse aveva sbagliato, ma
al contempo si era sentita viva, vivissima, carica come non mai:
sarebbe stata
un mostro se avesse fatto del male a un innocente, lo sapeva bene, ma
sarebbe
stata riconosciuta innocente per averne fatto a un mostro.
Che comunque si
rigenerava ogni tre per due, quindi non era nemmeno poi così
tanto in
svantaggio.
Ancora con l’adrenalina a
mille e intenzionata a rimediare definitivamente a quel piccolo
dettaglio, lo
tirò su da terra di peso, tenendolo saldamente per le spalle.
«Inizialmente,
l’intenzione
sarebbe stata quella di infilarti un’alabarda nel culo per
sventolarti come una
bandiera, lanciando in aria le tue unghie e i tuoi denti come se
fossero stati
coriandoli, ma noto con dispiacere che i tuoi tessuti di rimarginano
troppo in
fretta per poterlo fare» asserì la naga,
fingendosi affranta «ma possiamo rimediare».
«Uh uh! Fono proprio
curiofo di fapere cofa ti frulla in quella tua teftolina da
rettile!» squittì
uno sdentato ma entusiasta Phobos «Intendi fculacciarmi,
forfe? OH YEF! FPANK
ME MOMMY! FPANK ME HARDER! È il mio fogno erotico quello di
effere fculacciato
da una ferpenteffa!»
«Posso pure provarci, se
proprio ti aggrada l’idea» aprì la
bocca, la mandibola -flessibile e totalmente
dislocata dal cranio, proprio come quella degli ofidi ai quali la sua
razza
somigliava- che iniziò lentamente ad allargarsi di
più, ancora di più, fino a
raggiungere un’ampiezza tale da rendere chiaro il
perché le Ophidians potessero
ingurgitare una Sylkes intera «sempre che avrai ancora un
culo da sculacciare» la
pelle dell’esofago tesa a livelli a dir poco grotteschi,
talmente tanto da
sembrare che -trasparente com’era divenuta- potesse lacerarsi
da un momento
all’altro «una volta che i miei succhi gastrici ti
avranno digerito».
«Sei cannibale?»
«C’è
sempre una prima-»
«Tanya,
yeldë».
Si bloccò.
Alzò lo sguardo: aveva
avuto spettatrici fino a quel momento, allora, spettatrici che
comprendevano
sua madre, Antares e la genitrice di quest’ultima, la regina
Engaruka.
A vederla, Myricae provò
un misto fra sorpresa e preoccupazione: per quale motivo aveva lasciato
la
sicurezza del suo nido per farsi trovare lì, nel cuore di
Quetzalli?
Considerando che le loro razze erano rivali -essendo le donne ragno lo
spuntino
preferito dalle naga- per natura, che il suo grosso e tozzo corpo
violaceo -che
da solo superava i quattro metri d’altezza- era talmente
pesante da
costringerla a fare lunghissime pause un metro e l’altro e
che, soprattutto,
l’estinzione delle Ophidians sarebbe stata una notizia per la
quale lei e le
sue simili avrebbero solo potuto e dovuto gioire, la sua presenza
lì non
trovava giustificazione né in cielo, né in terra,
né in mare.
Ma la trovava nell’atrio
semi distrutto del tempio, e quello bastava e avanzava.
Seguì qualche istante di
imbarazzante silenzio durante il quale ritrasse la mandibola, poi
Antares le saltò
letteralmente addosso, gettando malamente Phobos da una parte.
«TI SEI FINALMENTE
SVEGLIATA! TI SEI SVEGLIATA E STAI BENE!» iniziò a
coprirla di baci sulla testa
e sul collo e sul naso, si mise persino a baciare uno per uno tutti i
serpenti
che aveva sul capo, facendoli sibilare contenti «Io ro
così in pensiero!
Harmonia era così in pensiero! Naevia era- no, beh, lei non
è mai in pensiero
per nessuno… MA FA NIENTE! Sei viva, e io sono talmente
contenta che potrei
cambiare esoscheletro per l’emozione!!!»
«Anche io sono felice di
vederti, anche io» ricambiò sfregandole la mano
sulla schiena con fare fraterno
«ma evita di fare la muta proprio ora, o l’odore
dei feromoni che rilascerai attirerà
fior di Ophidians. E non mi pare proprio il caso, visto dove ci
troviamo» rise.
Gettò lo sguardo verso
Phobos.
«Perché lui
è qui?»
«Lo abbiamo catturato
noi»
intervenne la regina ragno, indicando se stessa e la figlia
«poco prima di
scendere a soccorrere te e tua madre. Se non fossimo arrivate prima di
lui,
allora stai sicura che non saresti qui a parlare: stava venendo a
finire il
lavoro che aveva iniziato, da quel che ci ha detto».
«“Da quel che
vi ha
detto”? Vi ha seriamente detto qualcosa di utile?»
«Oh, sicuro! È
stato
sufficiente minacciare di inseminarlo, per fargli rivelare le sue
intenzioni, e
da lì ci ha detto dove vi trovavate; allora, siamo subito
venute a portarvi via
da questa trappola di pietra che sta letteralmente cadendo a pezzi. Si
è
dimostrato piuttosto collaborativo, comunque».
«Mi avevi fpogliato della
gonna e ftavi per ficcarmi delle uova nel culo!»
sbraitò Phobos, dimenandosi
furiosamente nel tentativo di liberarsi «Ho dovuto efferlo
per forza di-»
Una bavaglio di tela da
parte di Antares, e tacque.
«Sì,
può darsi che sia
stato per quello. Comunque sia, l’importante avervi trovate,
e averlo fato
prima che accadesse il peggio» lanciò
un’occhiata alle ancora visibili ferite
di Phentesilea «... che è accaduto, in effetti, ma
poteva andare molto più
male, immagino. Qualche ora di
anticipo non sarebbe dispiaciuta a nessuno, ma del resto abbiamo dovuto
attendere che tu» si rivolse a Myricae «incendiassi
un pezzo di foresta, per
notare la tua richiesta di aiuto e rinforzi, motivo per cui abbiamo
avuto le
mani legate fino a quel momento».
«L’incendio?»
ripeté l’interpellata,
confusa.
«L’incendio,
sì» confermò
la Sylkes «quello che hai appiccato ai confini del
Tauremorna, vicino a
Phantasia. Te lo sei già scordata?»
Dall’altra non provenne
alcuna risposta.
Engaruka lasciò passare
pazientemente
qualche istante, convenendo che forse l’Ophidian dovesse
ancora riprendersi e
abituarsi all’idea di essere ormai al sicuro; dopo minuti
interi di silenzio
totale, però, la sovrana la sfiorò con una zampa.
«Tutto bene? Sembri
più
sorpresa di quanto dovresti essere».
«Sto bene»
mentì, decidendo
di tenere per sé la consapevolezza di non aver appiccato
nessun incendio, né
tantomeno di farlo per avvisare chicchessia: la situazione era
già tragica,
meglio non spargere ulteriore panico inutilmente «sono solo
ancora un po’
tramortita, ma sto bene. Piuttosto, vi ho sentito parlare di
Harmonia» si
affrettò a cambiare argomento «dove si trova?
Vorrei raggiungerla».
«Fossi in te non lo
farei, Myr-Myr, è un po’… nervosetta,
ecco» mormorò timidamente Antares, arrossendo
imbarazzata.
E come biasimarla?
Se l’era fuggita senza
dirle nulla, si era messa in guai talmente grandi da esserle
completamente
sfuggiti di mano e, dulcis in fundo, aveva pure rischiato di rimanerci
secca:
secondo la sua modesta opinione, era già tanto che la sua
donna non l’avesse
esiliata da Phantasia, dopo averle creato tanti disagi. Coi suoi gesti
aveva
voluto salvaguardarla da ulteriori preoccupazioni, ma era finita per
dargliene
tre volte tanto.
Nonostante il senso di
colpa e il terrore che uno dei suoi moti d’orgoglio potesse
aver rovinato quasi
sette secoli di relazione, Myricae riuscì a mostrare una
freddezza proverbiale,
degna del generale quale era.
«Dove si
trova?»
insistette.
«Io non-»
Un’occhiata, e
l’ostinazione
della piccola Sylkes venne meno.
«Era in procinto di
guidare le truppe nella marcia sul Tauremorna, quando ci siamo divise
dal
gruppo per venirvi a cercare e assicurarci che tutto fosse sgombro per
la
battaglia: se hanno continuato con quel ritmo, allora credo sia ormai a
metà
strada, forse qualcosa di più».
Non le servì sapere
altro
per decidere il da farsi.
Uscendo dal tempio,
allungò al volo una mano per strappare dalle fauci di un
serpente di pietra una
grossa zanna di una qualche gemma non meglio definita; raccolse uno
spesso
bastone da terra, la legò alla bene meglio alle
estremità et voilà, una
primitiva lancia nuova di zecca.
A vederla, una
curiosamente pallida Phentesilea le afferrò un polso,
fermandola.
«Dove vai?»
«Da lei»
rispose secca,
liberandosi piano dalla debole presa di sua madre «sono il
generale di
Phantasia e sono la sua compagna, le ho procurato troppi problemi per
non
andarle incontro e, almeno, aiutarla a sistemarli, per quanto
possibile».
«Vengo con te».
«No, non questa volta.
Resterai qui finché tutto non si sarà sistemato,
sei più al sicuro in questo
luogo che da altre parti». Le strinse le mani «Non
sono riuscita a impedire che
ti facessero del male una volta, la seconda non potrei mai
perdonarmela, mai: ti prego,
ma’, dammi retta e resta
qui, lo faccio per te, per noi».
«Ma tu-»
«Io starò
attenta, te lo
prometto, ma devi esserlo anche tu: se vogliamo tornare ad essere una
famiglia
come lo eravamo una volta, allora dobbiamo esserci tutte e tre. E
venire con me
non è l’opzione migliore per assicurarsi la
sopravvivenza».
Sapeva, però, che
Phentesilea non si sarebbe mai accontentata di starsene con le mani in
mano
mentre la sua terra veniva devastata.
«Se proprio vuoi fare
qualcosa, allora fatti accompagnare in città da una di
loro» indicò le due Sylkes
«e spiega a tutte cosa sta succedendo; dì loro di
prendere le bambine,
barricarsi dentro gli harem e chiudere tutte le entrate: attualmente,
quelli
sono i posti più sicuri dove trovarsi, restare in strada
espone a troppi agenti
atmosferici che Madre Natura potrebbe facilmente controllare»
le spiegò.
Leggendo la
preoccupazione nei suoi occhi, le sorrise.
«Quanto a me…
ehi, ho
nelle vene il sangue di due delle più
grandi Airë Tári che abbia mai
conosciuto, cosa mai potrebbe andare
storto?»
«Tutto, a dire il
vero»
rise Phentesilea «ma suppongo che non saprei dirti nulla in
grado di
convincerti a lasciarmi venire o a restare qui con me, per
cui» fece spallucce.
Maternamente, le accarezzò la guancia «Quanto ti
sento parlare, mi sembra di
stare conversando con tua madre Hippolyta, sai? Testarda, cocciuta,
ostinata, permalosa
e tremendamente orgogliosa, talmente tanto da essere pronte a morire,
piuttosto
che chiedere aiuto a chicchessia».
«Ma abbiamo anche dei
difetti».
Le diede uno scappellotto
sulla nuca.
«Dei difetti, e anche lo
stesso senso dell’umorismo!»
Con le lacrime agli
occhi, l’abbracciò.
«Tiro na nin»
le afferrò
dolcemente il mento, facendo sì che la guardasse negli occhi
«Ennas ad estel,
da’len, ennas ad estel im melithon. Rina amin, cormamin niuve
tenna’ ta Amìl’elea
lle au’».
«Han iston»
rispose,
stringendosela al petto con tutta la forza che trovò in
corpo, piangendo senza
vergognarsene: a Phentesilea non aveva detto nulla per non farla
preoccupare
ulteriormente, ma -per quanto poteva saperne- quella sarebbe potuta
essere
l’ultima volta in cui si sarebbero viste, dopo essersi perse
per sette secoli.
Ciò che sarebbe accaduto una volta che la battaglia avesse
iniziato a infuriare,
nessuno lo sapeva.
Nonostante non volesse
staccarsi da quell’abbraccio che sapeva di casa, di amore, di
salvezza, fu
costretta a farlo, interminabili minuti dopo.
«Tollen i lû
nîn si boe
bedin» enunciò lasciandola piano, lentamente, come
ad assaporarsi i loro
-forse- ultimi minuti insieme. Quando si girò per andarsene,
il cuore le andò
in frantumi «Tenna’ telwan,
Amìl» la salutò.
«Tenna’ telwan,
da’len»
ricambiò sua madre, stringendo le mani al petto mentre la
figura di sua figlia,
lentamente, scompariva fra gli alberi «Mae marth»
sussurrò, un “buona fortuna”
che Myricae -già lontana- non sentì.
La fortuna era tutto ciò
di cui aveva bisogno, adesso.
---
Più contemplava il fumo
che saliva dalla foresta in fiamme, più l’ipotesi
che fosse tutta opera di
Phobos iniziava a sembrarle un dato di fatto.
Era riuscita a liberarsi
di lui all’ultimo, allontanandolo con la scusa di andare a
finire il lavoro
iniziato con Myricae dal momento che “è stata
sicuramente lei ad appiccare il
fuoco, avrà voluto avvisare la sua fidanzatatina”,
ma ormai il danno era stato
fatto: Harmonia l’aveva certamente già notata,
quella nube nera, e -per quanto
ne sapesse lei- forse si stava anche già organizzando di
conseguenza.
Non temeva uno scontro
diretto, anzi, però -ora come ora- avrebbe preferito
evitarlo: controllava i propri
poteri, sì, ma non come avrebbe voluto.
Forse era solo una sua
impressione, forse doveva solamente darsi tempo, forse era la paranoia
che
l’aveva assalita da quando aveva visto il rosso col suo
scettro in mano a
pensare al posto suo, stava di fatto che sentiva come se…
come se… come se le
mancasse qualcosa, ecco. Non trovava parole per descrivere quella
sensazione,
ma stava come Lord Voldemort alle prese con la bacchetta di sambuco: la
controllava, la utilizzava, ne traeva beneficio, ma non poteva
sfruttarne
appieno le devastanti potenzialità, non essendone il
legittimo possessore. Inoltre,
come Riddle, nemmeno lei aveva idea di chi dovesse uccidere per
risolvere
quella spiacevole situazione.
Phobos fu il primo
sospettato: era stato lui a rimettere insieme lo scettro, che quello
ora
obbedisse solo ai suoi comandi? Improbabile, gliel’avrebbe
rivolto contro da un
pezzo.
Harmonia, forse? L’aveva
disarmata, trent’anni fa, e la bacchetta suprema apparteneva
a chi l’avesse
strappata al proprietario! Nah, con lei lo scettro aveva fatto la fine
del
secondo dono della morte nelle mani di Potter: spezzato e gettato via.
Myricae? Che il suo
sangue avesse creato un qualche strano legame con il bastone e i poteri
in esso
contenuto? Poco verosimile, probabilmente era già-
Zac.
Girò il capo: due
centimetri più a sinistra, e quella sorta di spada ricurva
le si sarebbe
conficcata nella coscia, anziché nel tronco sul quale era
appollaiata.
Non ebbe nemmeno bisogno
di sbirciare con la coda dell’occhio dietro di sé,
per sapere a chi
appartenesse quell’arma: Ophidians, indubbiamente, le stesse
che Myricae aveva
detto stare venendo a cercarla.
Sorrise.
Bastone alla mano, si
voltò per studiare le proprie nemiche: una dozzina? Tutto
lì ciò che Quetzalli
aveva da offrirle come riscaldamento? E lei che se ne aspettava
chissà quante,
ah!
Subito, individuò quelle
a capo del gruppo, due soltanto. Ripescò velocemente
ciò che aveva appreso
dalla sua breve esperienza all’interno dell’harem,
mettendo insieme i tasselli
per ricostruire le identità di quelle Ophidians.
Pelle azzurrina, squame
blu e nere, due vistose cicatrici sotto l’occhio destro, di
un arancio acceso,
la coda adornata con una moltitudine di ruxal'
ambönnar
tintinnanti appartenenti alle regine sconfitte: Airë
Tári Hippolyta, la
consorte di Phentesilea, che stringeva fra le mani la pesante catena
alle cui
estremità erano agganciati due arakh di un qualche metallo
scuro, uno dei quali
era lo stesso che le aveva scagliato contro.
Pelle di un profondo
color ebano, squame che andavano da un delicato tono crema fino a un
metallico
color oro e bronzo e rame, gravida: quella squilibrata di Airë
Tári Antiope
tridente alla mano, senza dubbio.
Non avrebbe proprio
potuto chiedere di meglio.
Con uno strattone, la
prima serpentessa strappò la spada dal tronco con impeto
tale che quest’ultimo,
ancorato al suolo, venne letteralmente sradicato e sollevato per aria
di
qualche metro, prima di ricadere.
Colta alla sprovvista da
tanta forza bruta, Emily Jane riuscì a gettarsi
giù dal fusto dell’albero solo
all’ultimo, ruzzolando per terra; col cuore in gola, si
guardò il dito: fortunatamente
per lei, l’anello -o meglio, lo scettro- era intatto.
Tirò un sospiro di
sollievo.
L’arakh tornò
nelle mani
dell’Ophidians dalla pelle cerulea, che si riavvolse la
catena in vita
strisciando verso di lei.
«Veniamo per catturare
una gweriadir, e ci troviamo davanti nientepopodimeno che Madre Natura:
il
mondo è davvero piccolo, non trovi?»
«Lo
è» convenne la
Pitchiner, alzandosi «motivo per cui ho deciso di fare le
pulizie di primavera
per sgombrare spazio, prima di dominare questo insulso pianeta. Stavo
pensando
che Quetzalli potrei adibirlo come bagno padronale, con tutte le
piscine e le
oasi che avete negli harem, ma sono indecisa sul colore delle
piastrelle:
meglio color pesca, o albicocca? Chartreuse, forse? Magari un bel
fucsia
bordesto lillato! Oppure-»
Hippolyta incrociò le
spade nell’incavo fra il collo e la spalla.
«Che ne dici del colore
del tuo sangue? Credo proprio che sarebbe perfetto per tinteggiare le
pareti,
lascia giusto che ti stacchi la testa per usarla come pennello
così-»
«Ucciderla sarebbe uno
spreco!» intervenne Antiope, levando con la coda
l’arma così pericolosamente vicina
al collo di Emily Jane.
Si avvicinò a lei,
iniziando a squadrarla da capo a piedi con aria incuriosita.
«Piuttosto, sarebbe un
ottimo esemplare per il mio harem: giovane, graziosa, snella, pelle
morbida, con
un culetto niente male» le diede una forte pacca sul
fondoschiena, dopo la
quale esibì un’espressione di pura sorpresa
«pure abbastanza sodo! Ottimo!
L’unica cosuccia che mi lascia perplessa sono questi due
affarini» con altrettanta
calma, le saggiò il seno con le mani squamate, perplessa
«Che dici, Hippolyta, credi
che una sega con queste riesca a farmela?»
«Se ti accontenterai di
riceverla da un cadavere, allora sì» le rispose
irritata. La scansò «Ma ora
vediamo di farla finita, perché questo penoso teatrino mi
sta facendo esplodere
gonadi e ovaie e beh, sai com’è, quelle mi
servirebbero ancora per figliare»
premette le lame sul suo collo pallido, facendo colare un rivolo di
sangue che
tinse le foglie dell’abito «ultime
parole?»
La figlia dell’Uomo Nero
sorrise.
«Solo due: sono
intoccabile».
«Addirittura?»
«Addirittura,
sì»
confermò «perché, vedete, Harmonia
è più interessata a me di quanto potreste
mai esserlo voi tutte nelle vostre -ancora per poco- immortali
esistenze, motivo
per cui tenermi qui rischierebbe di degenerare in un brutto incidente
burocratico. Non credo che voi-»
«Harmonia può
andare a
farsi fottere insieme a tutta la sua corte, per quanto
m’importa della sua
strafottuta opinione: sei finita a Quetzalli, e verrai giudicata
secondo le
leggi di Quetzalli. Se Harmonia ha qualcosa da controbattere, che parli
con
questi» con lo sguardo, indicò i propri arakh
scintillanti «proprio come farai
tu fra qualche istante».
«Ne siete così
certa?»
«Non ho motivi per non
esserlo» fece spallucce «sarai pure Madre Natura,
ma senza i tuoi poteri cosa
credi di poter fare a noi dodici, eh? Intrecciare una gabbia di rami di
vimini
dove intrappolarci? Far crescere delle ciliegie da offrirci, pregando
che ci
strozziamo con i noccioli? O forse vuoi lanciarci del polline addosso,
magari sperando
che inizieremo a starnutire fino alla morte!» rise.
«Nah, non voglio i vostri
germi sul mio divino corpo» agitò le mani davanti
a sé. Si fece pensierosa
qualche istante, poi schioccò le dita «Ho
trovato!»
Un rapido movimento della
mano, e lo scettro le comparve fra le dita.
Lo piantò nel terreno.
Il suolo tremò, radici
immani lo sventrarono protendendosi verso il cielo come fiamme in un
camino, ruggiti
demoniaci si levarono alti dal ventre della terra.
Prima che le Ophidians
fossero in grado di contrarre i loro muscoli facciali in
un’espressione che era
un misto fra incredulità, paura e tanta, troppa,
sorpresa, prima che potessero anche solo tentare di fermarla
scagliandosi
contro di lei ad armi spiegate, prima che potessero realizzare di stare
per
morire, le immani bocche di una manciata di gigantesche piante
carnivore si
serrarono intorno ai loro corpi serpenteschi.
Li divorarono, li
dilaniarono, li sventrarono, li strapparono, li ridussero in poltiglia.
Quando la Pitchiner diede
il segnale di smettere, delle dieci soldatesse Ophidians non erano
rimasti che
deformi grumi insanguinati di carne e organi e squame. A cinque metri
metri da
loro, volontariamente risparmiate dalla furia omicida di quelle bestie,
Hippolyta
e Antiope, ammutolite.
Si scambiarono
un’occhiata fugace: erano nei guai fino al collo.
E nessuno lo sapeva.
Emily si voltò verso di
loro.
«Credevate che mi fossi
dimenticata di voi?» sorrise.
Detto fatto, i viticci e
le radici di quelle stesse piante si scagliarono contro le due regine,
avvolgendosi prima intorno alle loro code, poi ai loro arti per
immobilizzarle;
da parte di entrambe, però, non venne a mancare
un’eroica quanto inutile resistenza.
Dando mostra di
un’insospettabile agilità nonostante la
già avanzata gravidanza, Antiope mulinò
il proprio tridente in aria recidendo ramo su ramo, rizoma su rizoma,
testa munita
di affilate zanne color
avorio su testa,
fino a quando non riuscì a liberarsi dall’inferno
verde che l’aveva circondata;
in suo aiuto arrivò Hippolyta, che -arakh alle mani- si
unì al disboscamento:
forse erano rivali e competevano per chi delle due avesse
l’harem più grande,
ma ora non era il momento per tirare fuori vecchi rancori e farsi la
guerra.
Avevano una nemica comune, combattevano per la stessa causa, avevano
entrambe
qualcosa o qualcuno da proteggere: unire le forze erano
l’unico modo per
uscirne vive.
O almeno provarci.
Il sollievo delle due
serpentesse nel vedere che il loro strenuo collaborare stava dando i
suoi
frutti durò ben poco, il tempo necessario a rendersi conto
che -come il
leggendario idra- quelle piante carnivore si moltiplicavano
esponenzialmente:
ne abbattevano una e ne crescevano due, ne abbattevano due e ne
crescevano
quattro e così via, e via, e via, in un circolo vizioso
senza fine che sarebbe
terminato solo con la morte di una delle due parti. E loro due proprio
non
avevano la capacità di farsi ricrescere il capo, se
decapitate.
La Pitchiner -appollaiata
sul fusto di una delle sue creature e intenta ad accarezzarla- rimase a
godersi
lo spettacolo per un po’, ma a un certo punto finì
per annoiarsi anche di
quello.
Sbuffando seccata, portò
le mani davanti a sé tenendo il palmo girato verso
l’altro: richiuse lentamente
le dita su di esso tenendole estremamente tese, dure, quasi
pietrificate; osservò
attentamente i movimenti delle sovrane, attendendo il momento propizio.
“Ora”.
Chiuse il pugno.
Le urla che provennero
dalle gole delle due naga non furono nulla di terreno
Se fino a poco prima
le Airë Tári erano entrambe occupate a
difendere la propria città, adesso se ne stavano
lì, inermi e immobili, le armi
abbandonate a terra e i corpi letteralmente impalati in più
punti da
giganteschi cristalli di lattiginoso quarzo sbucati dal terreno.
Antiope gettò lo sguardo
verso il cristallo coperto di sangue che le usciva dal centro del
ventre, fissandolo
perplessa col sopracciglio alzato.
«Uhm… Ho la
vaga
sensazione di aver appena abortito, sai?» riferì
qualche minuto dopo alla
compagna, con tutta la calma del mondo. Uno dei serpenti sui suoi
capelli le si
accostò all’addome, come a mettersi in ascolto di
qualcosa; pochi secondi, e si
avvicinò all’orecchio della sua padrona, sibilando
«Confermo: niente battito, sono
proprio andate tutte quante. E va beh» fece spallucce.
«E lo dici
così, come se
nulla fosse?!!»
«Quante storie. Come mi
sono inseminata questa volta, posso pure farlo di nuovo, sono sempre in
tempo
per averne altre, di bambine».
«Ne hai perse
tre!»
«Vorrà dire
che la
prossima volta ne farò quattro»
minimizzò.
«Ma sono sempre tre in
meno!»
«Ma come sei
noiooooosaaa! Che due palle! Manco fossi mia madre, poi!»
sbuffò evidentemente scocciata
«Importa più a te delle mie figlie perdute di
quanto possa mai importare a me,
che sono -ero- la loro madre! Datti una fottuta calmata e rilassati,
Hippolyta!
Piuttosto, guarda il lato positivo».
L’Ophidians cerulea
strabuzzò gli occhi d’ambra.
«Riesci davvero
a trovarci un lato positivo?!!»
«Ora
c’è più posto per le
nostre, di figlie, così potrai inseminarmi e avremo le
nostre personalissime piccole
Ophidians!» la guardò sognante
«Dì ai tuoi spermatozoi che la camera è
tornata
sfitta, ho già un ovulo caldo caldo disposto ad affittarla
loro mooolto volentieri
per i prossimi mesi, ovviamente previa stipulazione di un contratto fra
i
nostri organi genitali!»
Emily Jane -che
inizialmente aveva guardato quella scenetta divertita-
s’incupì, trovando che
la vicenda stesse assumendo un aspetto a metà fra
l’assurdo e l’inquietante.
«Che genere di problemi
ha?» chiese a Hippolyta, indicando l’altra.
Lei scosse la testa.
«Elencarli sarebbe
impossibile,
ma è ossessionata dall’idea che la
ingravidi nonostante io abbia già una
moglie. Non sarebbe qualcosa di strano, qui a Quetzalli, ma non sono
proprio interessata».
«Capisco. In questo
caso»
schioccò le dita, e l’enorme formazione
cristallina inghiottì letteralmente la
naga dalla pelle d’ebano, inglobandola «meglio che
se li tenga per lei, i suoi
problemi, iniziava a darmi sui nervi».
Senza perdere altro
tempo, si avvicinò alla consorte di Phentesilea, facendo
attenzione a non toccare
con la pelle nuda tanto i cristalli a terra quanto quelli che la
reggevano in
quella scomoda posizione di crocifissione: un solo tocco, e nemmeno lei
avrebbe
potuto evitare che il attecchissero alla sua divina persona,
trasformandola
lentamente ma inesorabilmente in minerale a sua volta.
Processo che in Hippolyta
stava già avvenendo, nelle zone dove il quarzo era penetrato
nelle carni, tanto
che buona parte delle teste dei serpenti sul suo capo erano ormai
ridotte a
semplici pietruzze scintillanti.
Emily Jane fece
tintinnare un rametto su uno di essi, ridacchiando: la minima
vibrazione, e
andò in frantumi. Sorrise.
«Qualche ora, e tu farai
la stessa fine» dichiarò soddisfatta
«contenta?»
Di tutta risposta, dando
mostra di invidiabili doti diplomatiche e di comunicazione,
nonché di una
particolare attenzione verso la psicologia dei gesti, Hippolyta le
sputò in
faccia. Del veleno a penetrazione transdermica, fra le altre cose, ma
questo la
Pitchiner non lo sapeva.
«Curioso» si
pulì «è lo
stesso identico modo in cui ha reagito Myricae quando-»
«Cosa
le hai fatto?» ringhiò la serpentessa
alzando la voce,
dimenandosi al punto da far ondeggiare persino i cristalli che la
tenevano
prigioniera, fottendosene altamente se così facendo finiva
solo per intrappolarsi
di più a sua volte.
«Giuro che se le hai
fatto qualcosa io-» si bloccò.
Con la coda dell’occhio,
guardò l’altra sovrana: no, non poteva permettersi
di tirare giù la
maschera, non senza avere la certezza che
Antiope fosse veramente incosciente
e
non stesse, invece, fingendo.
Decise di cucirsi la
bocca.
«Tu
“cosa”, uh? Mi
ucciderai? Mi torturerai? Mi ingraviderai?» rise la figlia
dell’Uomo Nero «Cosa
vuoi farmi, se ti confesso che ho trapassato tua figlia con il mio
scettro» lo
agitò «poi le ho strappato questo»
indicò il serpente che utilizzava come
cintura «dal capo mentre era incosciente per i colpi subiti,
e che poi l’ho
fatta gettare insieme alla sua adorata mamma ad aspettare la morte? Che
provvedimenti intendi prendere, per punirmi dall’aver
scopato, ingannato e
fatto torturare Phentesilea, la tua dolce e delicata e zuccherosa
mogliettina?
Non puoi nemmeno immaginare com’è ridotta, nemmeno
nei tuoi incubi riusciresti
a capacitartene!» sogghignò.
Le si accostò
all’orecchio.
«Ci hai ripensato e vuoi
forse consegnarmi ad Harmonia?»
«Con quello che costa la
spedizione fra un regno e l’altro, sono venuta a prenderti di
persona» la
corresse una voce fin troppo familiare alle sue spalle, spingendola a
girarsi «e
per fortuna che non ho scelto il pagamento in contrassegno, altrimenti
mi
trovavo pure il sovrapprezzo per lo scettro non previsto!»
«Cos-»
E Madre Natura cadde come
corpo stordito da una zoccolata in pieno volto cade.
Con tanto di uccellini
svolazzanti sul capo, giusto perché la Regina di Phantasia
era particolarmente in
vena di fare la simpatica.
O voleva solo percularla,
insomma.
Nonostante l’imbarazzante
silenzio, la centauressa non perse ulteriore tempo a starsene impalata
a
scambiarsi sguardi indecifrabili con la Airë Tári;
immediatamente, si posizionò
dietro i grossi cristalli che trattenevano e due sovrane: un colpo
secco con
gli zoccoli, e andarono in frantumi, dissolvendosi come polvere sciolta
dalla
pioggia.
Prima che si sciogliessero
del tutto, Naevia -in tenuta casalinga, a differenza
dell’amica, con nemmeno un
filo d’armatura addosso!- si abbassò e ne raccolse
qualche briciola, mettendola
poi in una provetta che si sfilò dalla vita.
«Ci servirà un
antidoto
per quelle» indicò le chiazze di minerali ancora
sul corpo della naga, che
-sebbene non si fossero staccate dalla pelle- almeno avevano arrestato
la loro
crescita «e per crearlo avrò bisogno di un altro
paio di ingredienti: sarà una
versione piuttosto rozza della pozione vera e propria, del resto senza
i miei
preparati che si trovano nel laboratorio e con così poco
tempo non posso fare
molto, ma funzionerà».
«Molto bene, procedi
pure.
Airë Tári Hippolyta ti accompagnerà in
città, dove sicuramente potrai trovare
tutto ciò di cui hai bisogno».
«Io farò cosa?» per la sorpresa,
mollò Antiope -che
si stava caricando in spalla- per terra.
Harmonia annuì.
«Scorterai Naevia a
recuperare il necessario per le cure di cui avete un estremo bisogno tu
e l’altra
regina, e lì resterai: a farti medicare, a riposarti, ad
aiutare a far
mantenere la calma, a sostenere le tue simili in questo momento di
estremo
pericolo, a-»
«Io non prendo ordini da
te, tantomeno da una gatta spelacchiata».
«Tale madre, tale
figlia»
notò la leopardessa.
La regina si lasciò
scappare una risatina.
«Considerando che sono
entrambe due Ophidians talmente testarde che quando
s’impuntano su qualcosa non
muovono le radici finché non marciscono da sole, direi
proprio che hai ragione!
Ma fortunatamente ha preso tante cose buone anche dalla sua
Amìl» si voltò
verso Hippolyta, guardandola dritta in quelle pozze color ambra
«la stessa Amìl
che ora, andando in città, potrai trovare ad aspettarti, se è andato tutto per il meglio».
A sentire quell’accenno
alla sua amata, la serpentessa -sempre così fredda e
distaccata e sicura di sé-
rimase interdetta qualche istante, immobilizzandosi con la bocca
serrata e gli
occhi spalancati per lo stupore: Phentesilea stava bene? Era davvero viva?
… Però la
Pitchiner le
aveva detto che era… che era...
No, Harmonia stava
mentendo solo per tenersela buona, doveva essere sicuramente cosi!...
ma che
interessi avrebbe mai avuto nel mentirle? Le aveva salvato la vita, se
avesse
voluto liberarsi di lei avrebbe tranquillamente potuto fingere di non
vederla e
passare oltre… che stesse dicendo la verità,
forse?
Gettò lo sguardo verso
il
sottile bracciale di “perline” -chiamarle
così sarebbe stata un’offesa alle
perle vere, con la forma tozza e irregolare che avevano!- di legno che
aveva al
polso, il primissimo regalo che le aveva fatto Phentesilea; dentro di
sé,
sorrise: lei si era presentata con un opale fra le mani, mentre quella
che
sarebbe diventata la sua futura consorte con cosa era arrivata al loro
appuntamento?
Un bracciale di legno e
corda malamente intrecciato, intagliato pure peggio e, ciliegina sulla
torta, mezzo
mangiucchiato dalle termiti.
Sul momento era stata
tentata eccome di rispondere al suo “Ti piace?” con
un’espressione di pietà e
compassione in volto, ma poi aveva abbassato lo sguardo sulle sue mani
bianche
sempre così morbide e curate: schegge, tagli e morsi di
insetto, tutto per
farle un regalo. A lei, che la pietra portatale come presente
l’aveva trovata
semplicemente per caso, senza scarnificarsi le dita a scavare la terra.
Da allora, quel dono che
ai suoi occhi valeva più del suo intero harem e quella
minuta naga dalle squame
colore dell’alba erano diventati i suoi tesori più
inestimabili. Loro, e anche
Myricae.
Tirò un profondo
respiro,
inalando più ossigeno di quanto i suoi polmoni potessero
contenerne.
«Seguimi».
Non aggiunse altro: si mise
gli arakh in vita, prese Antiope sulle spalle e si strinse nelle
spalle,
attendendo che Naevia -dopo essersi scambiata un’occhiata con
la propria
regina- le si affiancasse.
Strisciando, si fermò
quando passò a lato della centauressa.
«Sia chiaro che lo faccio
solo per la mia famiglia» le disse severa, senza distogliere
lo sguardo da
davanti a sé «Non per te, non per Quetzalli, non
per Exodus: solo per mia
moglie» fece una breve pausa, mordendosi le labbra
«e per la mia bambina.
Riportamela a casa intera, Harmonia».
«Conto di poterlo fare
con tutta la città» le sorrise. Fece un breve
inchino «Grazie, Hippolyta,
apprezzo il tuo aiuto».
«Tsk, aspetta a
ringraziarmi, che se tu mai dovessi tornare col cadavere di mia moglie
o di mia
figlia fra le braccia, allora beh» fece tintinnare le spade
«stai pure sicura
che costituirò un problema ben peggiore di Madre
Natura» concluse.
Vedendola strisciare via
in compagnia dell’altra, il sorriso della regina
lasciò posto ad un’espressione
corrucciata: aveva promesso che avrebbe tirato fuori Myricae viva da
quella
situazione, ma lei nemmeno aveva idea di dove fosse, Myricae.
Come non aveva idea che
Emily Jane le si stesse avventando alle spalle a lame di ghiaccio
sguainate.
______________________________________________________
Angolino dell’autrice
Autrice che è in leggero
ritardo, ma questi sono dettagliH :D
Spero che con tuuuuutte
le cose che sono accadute in questo capitolo il tutto nel complesso non
risulti
confusionario, nel caso in cui sia così me ne scuso
profondamente! Per eventuali
dubbi, comunque, non esitate a chiedere, risponderò senza
problemi cercando eventualmente
di spiegarmi meglio :) senza spoilerare la vita, l’universo e
tutto quanto,
magari :’D
Detto questo, ringrazio
come sempre chi legge e chi segue e chi recensisce, vi amo tanto quanto
Giannemilia ama il proprio scettro, AWWete <3
Qui sotto
vi lascio direttamente le traduzioni di pezzi di dialogo, spero che si
capiscano di più che a fare una traduzione singola frase per
frase :)
- ORIGINALE
DAL TESTO -
«Tiro
na nin» le afferrò dolcemente il
mento, facendo sì che la guardasse negli occhi
«Ennas ad estel, da’len, ennas
ad estel im melithon. Rina amin, qa’cormamin
niuve’lla tenna’ ta Amìl’elea
lle
au’».
«Han
iston».
[...].
«Tollen
i lû nîn si boe bedin» enunciò
lasciandola piano, lentamente, come ad assaporarsi
i loro -forse- ultimi minuti insieme. Quando
si girò per andarsene, il cuore le andò in
frantumi «Tenna’ telwan, Amìl»
la
salutò.
«Tenna’
telwan, da’len» ricambiò sua
madre, stringendo le mani al petto mentre la figura di sua figlia,
lentamente,
scompariva fra gli alberi «Mae marth»
sussurrò, ma Myricae -già lontana- non la
sentì.
-
TRADUZIONE -
«Guardami»
le afferrò dolcemente il mento, facendo sì che la
guardasse negli occhi «C'è
ancora speranza, piccola mia, c'è sempre speranza. Ricordati
di me, e del mio
cuore che dormirà fino al tuo ritorno».
«Lo so».
[...].
«E arrivato
il momento che io vada» enunciò lasciandola piano,
lentamente, come ad
assaporarsi i loro
-forse- ultimi minuti
insieme. Quando si girò per andarsene, il cuore le
andò in frantumi «A dopo,
mamma» la salutò.
«A dopo, piccola
mia» ricambiò sua madre,
stringendo le mani al petto mentre la figura di sua figlia, lentamente,
scompariva fra gli alberi «Buona fortuna»
sussurrò, ma Myricae -già lontana-
non la sentì.
Alla prossima!
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Capitolo 18 *** Olympus has fallen - parte II ***
“Non impara mai, quella
benedetta ragazza”.
Agli occhi di una
statuaria Harmonia, tutto si mosse come a rallentatore: la sagoma verde
dell’altra sempre più vicina, la barriera a cupola
argento bianca che si
diramava dal suo corno fino a terra per proteggerla, le labbra della
Pitchiner
che si muovevano a pronunciare bestemmie irripetibili quando le sue
spade
s’infransero contro di essa in mille e mille frammenti
luccicanti.
Investita in pieno volto
da quell’esplosione di schegge ghiacciate, Emily Jane
finì per scivolare a
terra, rotolando nell’erba soffice per metri interi prima di
essere fermata dal
violento impatto contro un masso. Poco lontano da lei,
l’anello sfilatosi dal
suo dito nella caduta.
L’altra le
trotterellò
vicino, guardandola dall’alto in basso con un misto fra
pietà, compassione e
pure un pizzico di sano divertimento.
«Attaccare alle spalle
è
da codarde, non da regine» notò sarcastica
«ma non mi aspettavo proprio altro
da te, che una regina non lo sei mai stata. E mai lo sarai, se credi
che uno
scettro in mano possa improvvisamente renderti una sovrana: una corona
in testa
dice a tutti chi sei, ma dimostrarlo è tutt’altra
storia».
Trovato l’anello, si
chinò leggermente per afferrarlo.
«Una di quelle storie che
tu preferisci non vengano raccontate, visti i disastrosi
risu-»
«ME NE FOTTO DELLA TUA
OPINIONE!» la interruppe infuriata, tentando senza successo
di rimettersi in
piedi «Se per avere la tua testa dovrò giocare
sporco, allora che possa
crescermi il cazzo seduta stante se non giocherò
sporco!»
«Anche perché
è l’unico
modo in cui tu sappia giocare».
«TACI!»
Forte di un tremendo
rilascio di adrenalina causato dal terrore di perdere nuovamente i
propri
poteri, bastò un suo calcio ben assestato sul metatarso di
una delle zampe
posteriori di Harmonia per sentire un “crack” per
farla crollare a terra con un
tonfo sordo, rendendola vittima della sua stessa imponente stazza.
Scansatasi all’ultimo
dalla traiettoria di quella massa di muscoli che avrebbe potuto ridurla
allo
spessore di un waffles, afferrando l’anello al volo, subito
Madre Natura si
alzò e ritrovò velocemente
l’equilibrio, ignorando il cuore che pareva volerle
uscire dal petto e i polmoni affamati d’aria che imploravano
un time-out che
non sarebbe mai stato loro concesso: era una guerra, quella, e in
guerra le
pause caffè non erano contemplate.
Soddisfatta, guardando la
donna che giaceva a terra con la stessa aria di superiorità
che lei aveva
mostrato nei suoi riguardi poco prima, Emily sorrise: non disse niente
di
niente, non commentò compiaciuta quello scambio di posti a
suo favore, curiosamente
non perse nemmeno tempo a blaterare su quanto fosse grande e potente e
divina
com’era solita fare! Molto semplicemente, tese un braccio
davanti a sé, le
foglie verdastre del suo abito che andavano lentamente ricoprendosi di
scintille azzurrine scoppiettanti che sfrigolavano al contatto con la
pelle
delle sue dita, sulle quali iniziarono a concentrarsi quei filamenti
luminosi.
Le saggiò qualche
istante, poi si rivolse ad Harmonia.
«Ultime parole prima che
ti frigga come un pollo da KFC?»
«Attenta al ritorno di
fiamma» rise la centauressa.
«Vedrò di
ricordarmelo»
promise, e allora chiuse la mano a pugno.
E fu l’inferno.
Non solo quella belva
famelica di puro plasma si stava riversando fuori dalle fessure fra un
dito e
l’altro avventandosi sul corpo inerme della sovrana, non solo
aveva
carbonizzato il suolo intorno a lei lasciandosi dietro macchie di terra
vetrificata, ma ciò che era iniziato come un
“piccolo” fulmine si era
trasformato in una vera e propria gabbia incandescente discesa dal
cielo, per
Harmonia.
Un cielo sereno e sgombro
da nubi, prima, ma ormai nero e buio e percorso da tremendi lampi che
illuminavano a giorno il paesaggio ormai notturno.
Quando l’odore della
carne bruciata inebriò le narici della signora incontrastata
degli elementi, un
grido di gioia si levò alto nella sua mente, mentre il suo
corpo -tremante per
l’emozione- non rispose: ce l’aveva fatta, ce
l’aveva fatta! Si era presa la
propria rivincita nonostante Harmonia giocasse in casa!
Poi Emily Jane abbassò
lo
sguardo verso il proprio piede, e si rese conto di essere
lei a stare andando a fuoco.
«Come diavolo
è-»
Il ritorno di fiamma
annunciato poco prima la travolse.
Fortunatamente per lei,
le foglie del suo abito assorbirono quella tremenda fiammata al posto
della sua
delicata pelle diafana, riducendosi a un cumulo bruciacchiato e
maleodorante di
un bel nero carbone.
La Regina di Phantasia, invece,
raggiante e fresca come la rosa arcobaleno che aveva fra i capelli, si
rialzò senza
fretta, placidamente, forte dell’impenetrabile barriera che
l’aveva protetta.
Le si avvicinò.
«Io te lo avevo detto, di
stare attenta» fece spallucce.
Dentro di sé, la figlia
dell’Uomo Nero avrebbe voluto morire seduta stante: che
umiliazione! Che
umiliazione! Va bene l’essere messa in difficoltà
da attacco altrui, ma cadere
vittima dei propri stessi poteri… ah!
Forse avrebbe dovuto
rinunciarci, alla sua voglia di riscatto, proprio come aveva fatto suo
padre
coi guardiani: lui si era ritirato insieme a Gwenllian per cercare di
ricostruire la loro storia amorosa, lei avrebbe dovuto ritirarsi dal
conflitto
e abbracciare serenamente la propria miseria. Sapeva di non essere nata
per
vincere, era un vizio di famiglia quello di passare letteralmente dalle
stelle
stalle, e la chiara dimostrazione di ciò l’aveva
proprio sotto il naso
ereditato da papà, sul proprio abito ormai carbonizzato.
Nonostante la voglia di arrendersi
fosse più forte che mai, però, quella di
riscattarsi lo era ancora di più, o
almeno provava ad esserlo: forse quello era stato solo un incidente di
percorso,
nulla di più, forse dandosi un’altra
possibilità ce l’avrebbe fatta, forse…
forse… nah, troppi forse.
Gettò lo sguardo verso
l’anello, verso lo scettro: aveva sputato sangue -e non solo
metaforicamente
parlando- per riaverlo indietro, cos’aveva da perdere nello
sputare altro
sangue per tenerselo? La vita, magari? Ah! Per quanto le importasse
della sua
miserevole esistenza, quella avrebbe potuto tranquillamente prenderla
chicchessia e anzi, l’avrebbe ceduta volentieri lei stessa!
Non valeva la pena vivere
senza lo scettro, senza essere Madre Natura, e lo sapeva fin troppo
bene da
trent’anni a quella parte: o da Quetzalli usciva vincitrice,
o da Quetzalli
usciva a piedi in avanti.
La voglia di mettersi una
corona sul capo la spinse a rialzarsi, a riprovarci, a riscattarsi: non
si
sarebbe arresa, no! Avrebbe insistito e insistito, tentato e ritentato,
provato
e riprovato!
Salvo fallire
miseramente, ma quelli erano dettagli.
Una, due, tre, quattro,
cinque, dieci, aveva perso il conto di tutte le furiose cariche a testa
bassa e
muso duro nelle quali si era impegnata pur di far cedere Harmonia, ma
ogni
volta il risultato era sempre e solo lo stesso: più lo
colpiva, più quello
scudo magico assorbiva ogni suo attacco, ricacciandoglielo indietro
dieci volte
più devastante di quanto già non fosse; di quel
passo, più che uno scontro
corpo a corpo sarebbe diventata una guerra di logoramento, dove avrebbe
vinto
chi sarebbe rimasto in piedi più a lungo.
E chi avrebbe sprecato
meno energie a mollare un affondo dopo l’altro, colpo su
colpo, ignorando la
totale inefficacia dell’affrontare il combattimento in quel
modo tanto inutile
quanto dispendioso.
Ignorando il buonsenso,
di nuovo Emily tornò alla carica, rabbiosa e furiosa e
talmente accecata dal
desiderio di vendetta da essere certa che avrebbe funzionato, questa
volta.
Ottenendo lo stesso,
identico, mesto, risultato di sempre.
Armi, mani nude, elementi
naturali vari ed eventuali sui quali esercitava il proprio controllo,
nulla
pareva funzionare: Harmonia era in piedi, lei era sull’erba a
mangiare la terra;
dopo l’ennesima di quelle spiacevoli quanto umilianti cadute,
capì che un attacco
a distanza era l’unico metodo vagamente sicuro grazie al
quale avrebbe potuto
ottenere un qualche risultato in quello scontro: non poteva resistere
in
eterno, né ai colpi né a un utilizzo della magia
così massiccio, doveva darsi
una svegliata e farlo subito.
Approfittando della
vicinanza di un albero dinanzi al quale era stata scaraventata,
piantò con
decisione le proprie dita nella corteccia della pianta. Qualche
istante, e
decine di tronchi acuminati perforarono violentemente il soffice
terreno come
chiodi piantati in un muro, spuntando uno ad uno a velocità
disarmante in linea
retta verso la centauressa.
Harmonia, però, non si
fece cogliere impreparata.
Immobile come una statua
millenaria, senza mai staccare lo sguardo da quei fusti affilati che le
stavano
venendo addosso, attese che fossero a pochi metri da lei.
Sorrise.
«Riesci a intrufolarti a
Quetzalli senza farti scoprire»
s’impennò sulle zampe posteriori
«riacquisti i
poteri di Madre Natura» attese qualche secondo in quella
posizione, sforzandosi
terribilmente per mantenere l’equilibrio «millanti
chissà quale tremenda
vendetta» finalmente, lasciò ricadere il muscoloso
e pesante corpo equino a
terra, premurandosi di caricare tutto il peso sugli zoccoli anteriori
«e
qualche scheggia di legno è tutto ciò che sei in
grado di fare?»
L’onda d’urto
che ne
scaturì fu qualcosa di apocalittico, talmente potente da
piegare e spezzare e ridurre
in trucioli quei tronchi con la stessa facilità con la quale
si può spezzare un
fiammifero.
Facendo scrocchiare il
legno sotto i propri zoccoli, si avvicinò
all’altra a braccia spalancate, come
a dirle “Questa è la direzione in cui devi
guardare per capire quanto i tuoi
sforzi siano completamente inutili”.
Le si fermò davanti.
«Non sono un vampiro,
Emily, temo che tu debba scegliere un approccio differente dal ficcarmi
dei paletti
di frassino nel cuore per riuscire ad avere la meglio».
Detto fatto.
Non ebbe neanche il tempo
per voltarsi o di far scendere su di sé la barriera, che la
Pitchiner le
comparve alle spalle, a cavalcioni sul dorso; nelle mani, lo scettro.
Un movimento
deciso, e glielo conficcò alla base della schiena,
facendoglielo uscire dalla
bocca grazie all’angolazione che si era curata di imprimere
prima di
affondarglielo nelle carni.
Non un grido, non una
parola, non un lamento: sangue, solo sangue, nulla di più
era uscito dalle
labbra di Harmonia.
«Stavi
dicendo?» la
schernì.
Sfilato l’artefatto, le
saltò
giù dalla groppa; fischiettando, iniziò a girarle
intorno, fermandosi solo
quando si trovò davanti al volto inespressivo della donna
che, trent’anni
prima, le aveva rovinato l’esistenza:
c’è l’aveva fatta per
davvero, dunque? Sospettosa, le prese un polso per auscultare
se ci fosse battito: nessun segno di vita.
Prima ancora che potesse
abbandonarsi
a quel turbine di emozioni impossibile da descrivere a parole che la
stava
lentamente investendo, però, dalla bocca della sovrana
uscì… una farfalla?
Credendo di essere preda
delle allucinazioni da overdose di endorfina causate da tanta
felicità arrivata
in così poco tempo, evocò una radice che la
sollevasse all’altezza del volto
dell’altra, così da poter controllare da vicino.
Allungò il capo.
«Ma cos-»
Il tempo di sporgersi
appena, e uno sciame di lepidotteri le volò addosso.
Nel comico e disperato tentativo
di scacciare quelle bestie immonde menando botte da orbi al nulla, la
povera
donna cadde a terra; da lì, tanto ammaliata quanto
orripilata dallo spettacolo,
osservò il corpo di Harmonia dissolversi nell’aria
in un turbine di piccoli
insetti dorati che volarono subito via oltre le nubi di tempesta. Di
loro non
rimase nulla, se non un’impercettibile polverina luminescente
dello stesso
colore cascata direttamente dalle loro ali e, poi, posatasi al suolo
come
zucchero a velo su di una torta.
Non rimase nulla della
loro presenza, e non rimase nulla nemmeno di quella della regina di
Phantasia.
Cercando di controllare
l’improvviso attacco di papilofobia, si guardò
furiosamente intorno: dove
diavolo era finita? Cosa diavolo era successo? Che diavolo avrebbe
dovuto
pensare? Aveva vinto? Aveva perso? COSA?!!
Alle ultime domande,
però, una risposta l’aveva: Harmonia doveva
essere viva per forza di cose, non c’erano alternative. Se
fosse stata davvero morta, allora a
quest’ora l’intero
pianeta Exodus sarebbe dovuto essere solamente una biglia arida e
desolata e
sterile che galleggia nello spazio, proprio come lo era stato prima che
l’ultima principessa Starequus lo facesse rifiorire grazie ai
propri poteri,
dopo che il
Kælikantzoroi Th’asteria lo aveva raso al suolo: era la
guardiana della fantasia, ma ciò che aveva
creato e che creava era fin troppo reale.
Mossa dalla
consapevolezza che quindi quella battaglia fosse tutto tranne che
terminata,
Emily Jane iniziò a cercare e ricercare ovunque
l’altra donna, decisa a
scovarla e farla finita una volta per tutte.
Dapprima si limitò
all’utilizzare la vista, aguzzando lo sguardo in cerca del
movimento di un filo
d’erba, di una foglia ancora verde caduta nonostante la
mancanza di vento, di
un’onda creatasi nell’acqua. Poi, risoluta, si
mosse di persona, chinandosi a
controllare ogni più piccolo anfratto, strisciando in
qualsiasi cunicolo le
capitasse a tiro -persino quelli delle talpe, da quanto era decisa o
partita di
cervello che dir si voglia- e arrampicandosi sugli alberi, totalmente
incurante
delle escoriazioni che andava procurandosi. Infine, vista la mancanza
di
risultati e la rottura di ovaie che la stava assalendo, convenne che
fosse il
momento di tirare fuori i trucchetti di magia: se i vegetali erano
sensibili a
carezze e parole smielate, allora erano anche sufficientemente
senzienti da
poterle dire dove si trovasse la regina.
Poggiò un ginocchio e un
palmo a terra, chinando il capo. Chiuse gli occhi: immediatamente,
dalla sua
mano andarono diramandosi sottilissimi venature verde acceso che
raggiunsero
ogni albero, ogni foglia, ogni più piccola nervatura delle
stesse; adesso,
tutto pareva risplendere di una luce intermittente, come se attraverso
quei
canali le piante si stessero scambiando curiosi messaggi sottoforma di
impulsi
di linfa vitale.
E in effetti era proprio
ciò che stava accadendo.
Adesso, i suoi occhi
erano le piante alle quali si era connessa come se fosse stata una vera
e
propria rete informatica, tanti terminali che attraverso le proprie
pupille
-costituite dalle folte chiome e dai rami nodosi e dai tronchi spessi e
vecchi-
si scambiavano informazioni fra loro e poi le passavano a lei, al
mainframe,
permettendole di vedere e avvertire tutto ciò che vedevano e
avvertivano i
vegetali.
Il tempo di isolare le
voci degli alberi -che, ahimè, sentiva eccome, quel brusio
profondo e
indistinto faceva parte del pacchetto- dalle altre sensazioni che
provava sulla
propria pelle, e il “tutto ciò” di prima
finalmente comprese anche il peso
degli zoccoli della centauressa sul manto erboso. Che, poverello,
gridava pure
di dolore, mentalmente s’intende.
Non perse nemmeno un
istante: subito, senza attendere, evocò delle radici che
potessero trafiggerla.
Perse il segnale.
Salvo riottenerlo poco
dopo.
Ripeté ancora il
procedimento.
E poi ancora.
E ancora.
E ancora, in un circolo
vizioso senza fine: Harmonia appariva e scompariva, appariva e
scompariva,
appariva e scompariva, e lei di rimando era contenta e poi incazzata,
contenta
e poi incazzata, contenta e poi incazzata.
Improvvisamente, quando era ormai
talmente esasperata da volersi
disconnettere e fare le cose “alla cazzo di cane, di gatto e
di tutto lo zoo”,
un nuovo segnale prese forma in quella sorta di Wolrd Wide Web
Ecofriendly
Edition; allarmata e speranzosa, lo esaminò: era uno solo,
piccolo,
insignificante, quasi invisibile, rispetto all’imponente
sagoma della sovrana
che appariva quando veniva rilevata la sua presenza. Il dubbio che
avesse
intuito le sue intenzioni e cambiato forma di conseguenza le strinse lo
stomaco:
non sapeva cosa dovesse aspettarsi, e ciò la rendeva
più inquieta di quanto avrebbe
dovuto esserlo qualcuno con poteri della sua portata.
Notando che suddetto punto era in
avvicinamento piuttosto velocemente,
però, trovò il coraggio di agire: aprì
gli occhi, già con i palmi carichi di
energia per attaccare.
«Vieni fuori, codarda che
non sei altro!» gridò a squarciagola
«Smettila di nasconderti dietro delle dannatissime illusioni
e fatti vedere,
così la risolviamo da regina a regina una volta per tutte! O
forse hai troppa-»
si sentì tirare l’abito.
Non vedendo nessuno intorno e
dietro di lei, abbassò lo sguardo: uno… gnomo? Uno gnomo armato d’ascia
che
cavalcava una nutria a petto nudo?
“Promemoria per me: mai
bere prima del lavoro”.
Convinta fosse un’altra
delle sue solite allucinazioni, si strofinò a
lungo gli occhi: era ancora lì, e la guardava in modo
indecifrabile con i
propri grandi occhi neri da pesce lesso.
«Do you know da
wae?» le domandò dopo qualche istante con un
accento
grave, profondo, che le ricordava fin troppo quello di un film
ugandiano visto
durante una serata all’insegna del trash.
Lei lo fisso a metà fra
il divertito e il sinceramente confuso.
«…
Come?»
«Da wae»
ripeté l’esserino «Do you know da
wae?»
«Cosa sarebbe
“da wae”?»
Prima che quella creatura le
rispondesse, avvertì un altro segnale;
qualche secondo, e le si palesò dinanzi un altro essere
assolutamente identico
a quello precedente, a differenza del cappello che -anziché
rosso- era blu.
Iniziò a scambiarsi
vigorosi schiocchi della lingua sul palato con il
collega, poi rivolse lo sguardo verso la Pitchiner.
«Do you know da
wae?» le domandò anche questo.
«Can you show us da
wae?» rincarò la dose l’altro.
Si massaggiò le tempie,
rassegnata.
«Ragazzi, io non so
cosa-»
Nemmeno il tempo di finire la
frase, e l’ennesima creatura le comparve
davanti agli occhi.
Si mise ad annusarla insieme alla
propria nutria, si scambiò uno schiocco
con i propri simili e alzò il capo verso di lei.
«You do not smell like
ebola!» asserì visibilmente contrariato, poi si
girò verso i compagni «She is a fake Queen my
bruddas! She does not know da
wae!»
Senza che potesse controbattere
-non sapeva come, dal momento che
nemmeno capiva cosa diavolo volessero da lei!- a quel curioso teatrino,
la
testa parve sul punto di esploderle: ancora connessa ai vegetali
com’era,
avvertì un altro segnale, poi dieci, cento, mille.
Non aveva la minima idea di quanti
diavolo fossero,
ma una cosa la sapeva: era circondata, era circondata da fottutissimi
gnomi dai
cappelli rossi e blu armati fino ai denti di asce e primitive lance e
martelli
che, adesso, stavano inveendo contro di lei a suon di forti e rumorosi
schiocchi di lingua sul palato.
Era assurdo.
Uno di loro -probabilmente il
capotribù,
considerando che era l’unico a portare un cappello giallo- si
fece avanti
trotterellando sul proprio animale, fermandosi ai suoi piedi.
Alzò un braccio,
indicandola.
«SPIT ON HER MY BRUDDAS!
SPIT ON DA FAKE QUEEN!»
«FAKE QUEEN! FAKE QUEEN!
FAKE QUEEN!» si levò alto un coro mentre gli
gnomi le si stringevano intorno «FAKE QUEEN! FAKE QUEEN! NO
MERCY FOR DA FAKE
QUEEN!» un rantolo grottesco iniziò a provenire
dalle loro gole «YOU WILL
FREEZE! DA FAKE QUEEN WILL FREEEZE!»
Poi le sputarono addosso in massa.
Le sputarono addosso.
Cristo.
Tanto schifata quanto spaventata da
quella tragicomica situazione
nella quale si era involontariamente infilata, Emily Jane
mulinò in aria lo
scettro per mettervi un punto… o almeno ci provò,
dal momento che uno sputo
raggiunse pure quello.
Al contrario di ciò che
si sarebbe potuto pensare, se la Pitchiner non
lo stava utilizzando non era per il disgusto, ma perché
materialmente
impossibilitata a farlo; la saliva posatasi sul suo corpo, infatti, si
stava
indurendo come se fosse stata gesso, immobilizzando lei e intrappolando
il suo
bastone in un ripugnante involucro semi trasparente a pochi centimetri
dalle
sue mani.
Quando poi credeva che la
situazione non potesse degenerare
ulteriormente, arrivò il colpo di grazia.
Dagli alberi, con tutta
l’eleganza e la calma del cosmo, spuntò
Harmonia, impettita sui suoi zoccoli scintillanti e con uno sguardo di
perculìo
così tagliente che avrebbe potuto trafiggere la sua
contendente come se fosse
stata fatta di burro.
Appena la vide comparire, lo gnomo
capo si mise sull’attenti.
«STAAAAAAAAP MY
BRUDDAS!» gridò.
Subito, tutti smisero di
sputacchiarle addosso, rivolgendo le proprie
attenzioni e i propri occhi estasiati alla Regina di Phantasia.
Quello col cappello giallo le si
avvicinò, fremente. L’annusò.
«SHE SMELL LIKE EBOLA MY
BRUDDAS! SHE IS OUR REAL QUEEN!» concluse
entusiasta «OUR QUEEN IS HERE! OUR QUEEN IS HERE TO SHOW US
DA WAE MY BRUDDAS!»
«DA QUEEN! DA QUEEN! DA
QUEEN!» convennero tutti.
Immediatamente, accerchiarono la
centauressa, ma senza sputarle
addosso: le salirono in groppa saltellando e ballando sulla stessa, le
abbracciarono le zampe strusciandovisi contro, la coprirono di baci
dopo essersi
arrampicati fin sulle sue spalle, scivolano giù per le onde
che la coda creava
muovendosi nell’etere, addirittura le spazzolarono i capelli!
Harmonia li lasciò fare
a lungo, senza fretta, fino a quando il loro
capo non le si mise davanti esibendosi in un goffo inchino.
«Do you know da
wae?» le chiese.
«I know da wae»
sorrise la donna «and I will show to you and your bruddas
da wae later, Commander Gaztons».
«She is a fake
Queen» di rimando, le indicò la figlia
dell’Uomo Nero
«she does not smell like Ebola, she is a poser. But we
bruddas spit on her my
Queen! We give her no mercy!»
«Thank you brudda, da
Queen blesses you» gli sfilò delicatamente il
cappello e, dopo essersi abbassata, gli diede un bacio sulla testa.
Additò un
punto non meglio definito nel folto del Tauremorna, assicurandosi che
la
vedessero tutti gli gnomi «This is da wae, my bruddas, da wae
that da Queen
show you!» concluse.
Dire che a quelle parole fosse
corrisposto un terremoto di grado sette
per lo spostamento in massa sarebbe stato un eufemismo.
Tre secondi prima il luogo era
pieno di gnomi impegnati ad ascoltare
la sovrana nemmeno fosse una dea scesa in terra, tre secondi dopo puff, spariti, volatilizzati, galoppati
via sul dorso delle loro nutrie dal pelo ispido verso da wae,
“la via”.
Non poteva andare peggio.
Rimaste finalmente sole, Harmonia
le si avvicinò, facendo un breve
inchino di scherno appena l’ebbe davanti. Sfiorò
il liquido viscoso -ormai
quasi completamente solido- che teneva in gabbia l’altra,
saggiandolo fra le
dita.
«Comoda nel tuo bozzolo
di saliva di gnomo?»
«Fottiti».
«Farmi fottere
è precisamente ciò che spero di poter fare questa
sera»
convenne con una punta di acidità che non tentò
nemmeno di nascondere «sempre
che per allora abbia ancora una donna che possa fottermi,
s’intende. E da ciò
che mi hanno detto non è una cosa che dovrei dare
così per scontata, mi
sbaglio?»
«Oh no, non ti sbagli
affatto» sorrise Emily Jane «anzi, oserei dire
che sei fin troppo ottimista: l’ultima volta che ho visto la
tua compagna questa
era mezza morta, agonizzante, infilzata come un pollo allo spiedo sul
mio
scettro» con lo sguardo, lo indicò «che
implorava la mia pietà e rinnegava la
sua reginetta dai boccoli arcobaleno. Ora come ora, probabilmente
quella
serpentessa schifosa è già carne per le
mosche» rise.
La regina, contro ogni sua
aspettativa, la imitò.
«Passi pure per Myricae
che mi rinnega per avere salva la vita, ma lei
che implora pietà? Se vuoi che io ci
creda, allora in futuro dovrai inventarti qualcosa di ben
più credibile di
certe baggianate, Emily Jane Pitchiner, perché che quella
benedetta Ophidian
sia disposta a farsi decapitare piuttosto che cedere ai ricatti di
chicchessia
è un dato di fatto che ormai persino i fili d’erba
conoscono!» fece una breve
pausa «E immagino che te lo abbiano già detto,
visto quanto ci hai conversato».
Un’espressione di pura
sorpresa si dipinse sul volto della Pitchiner:
sapeva tutto, tutto, aveva intuito
le
sue mosse fin dal primissimo istante!
«… Tu sapevi
che-»
«Che stavi tracciando i
miei movimenti? Ovviamente».
Iniziò a girarle
intorno, sfiorandole il volto con la coda fluttuante
solo per infastidirla.
«In
caso contrario, non avrei
certo chiesto aiuto agli gnomi per confonderti: si chiama strategia, ma
non
pretendo che una come te la conosca, considerando che -sebbene la
strategia
migliore per sopravvivere fosse farsi gli affari propri sulla Terra-
sei venuta
a minacciare, ad attaccare, a uccidere, la mia
gente. Di nuovo».
Si fermò,
afferrandole il mento con una certa prepotenza «Sei
tremendamente prevedibile, lo
sai? Sono stati trent’anni di pace, quelli passati dal nostro
ultimo incontro e
scontro, ma in cuor mio ho sempre immaginato che prima o poi saresti
tornata a
riprenderti ciò che sostieni ti appartenga“di
diritto”, per cui-»
«Non lo sostengo, è così»
la
interruppe bruscamente, liberandosi dalla presa delle sue dita
«e lo sai anche
tu: quello scettro contiene i poteri di Madre Natura, gli stessi che io vi ho riversato dentro
perché nessuno
me li rubasse e, dal momento che sono io
Madre Natura, allora quelli sono i miei
poteri. A me sono stati donati, e solo a me possono e devono
essere restituiti: nessun altro può averli né
reclamarli,
nessuno se non la sottoscritta!»
«Ed è proprio
qui che ti sbagli, carissima».
Con in volto un ghigno beffardo che
non sembrava nemmeno appartenerle,
Harmonia si chinò fino a incrociare i suoi occhi, due pepite
d’oro nelle quali
piantò il proprio sguardo rosa azzurrino che ci
affondò dentro come un pugnale.
«Quelli sono i poteri di
Madre Natura, che -come certamente saprai-
è solo un titolo come tanti: duca, conte,
principessa, regina, Madre Natura, sono solo e soltanto modi diversi
per
identificare la posizione sociale di una persona; inoltre, come tutti i
titoli,
può ovviamente essere assegnato a chiunque si dimostri degno
e volenteroso di caricarsi
suddetto macigno sulle spalle, un macigno che va ben oltre il
giocherellare con
nubi che seguano i propri nemici tutto il giorno. Pensa che potrei
diventare
Madre Natura anche io, proprio qui, senza tanti fronzoli e cerimonie
d’investitura come per i guardiani, mi basterebbe prendere il
tuo bastone et
voilà! Cambio di testimone!» scoppiò a
ridere.
Si girò.
«Inoltre, se non ricordo
male, il titano Typhan ti ha fatto dono di
quei poteri con l’intento di utilizzarli per fare del bene,
non per fare del
male» le si avvicinò all’orecchio
«Scommetto che infatti non rispondono come
dovrebbero, vero?»
«C-come fai a…
sa-saperlo?»
«Ricevere le avanche del
principe dei Lunanoff ha i suoi vantaggi,
tipo quello di venire a conoscenza dei cazzi delle altre Costellazioni
senza
volerlo» fece spallucce «delle Costellazioni, e
anche della figlia di un
generale caduto in disgrazia per essere andato a ficcare il proprio
naso negli
affari di famiglie del calibro degli Alab…
Abalar… Alderab-»
«Aldebaran».
«Quelli lì,
brava. E poi anche i... i Cha… Chacha… no,
aspetta…
Champasemar… no, no, non era così…
Cha-»
«Chandrasekhar»
sbuffò.
Harmonia schioccò le
dita, come se avesse improvvisamente avuto un’illuminazione.
«Loro, sì, i
sovrani dei complotti e i signori dei draghi!»
confermò
schioccando le dita, come se avesse avuto un’illuminazione
«Quelli che ti hanno
distrutto la famiglia, insomma, anche se sappiamo entrambe che sarebbe
più
accurato dire che è stato papà a cercarsi le
rogne: se fosse stato al proprio
posto, allora-»
«Cosa sai tu
di ciò che mi è
successo?!»
Black
out globaletotale.
Al momento, nella già
confusa mente della figlia dell’Uomo Nero era
appena scatto l’allarme rosso, rossissimo, più
rosso del suo volto avvampato
dal dubbio: chi le aveva parlato del suo passato? Come faceva a
conoscere certi
dettagli e, addirittura, millantare di essere a conoscenza anche di
altri? Ma
soprattutto, quanto sapeva?
Da lei non era uscita mezza parola,
da Phobos nemmeno -non avendo lui ancora
incontrato la centauressa-, dovette persino scartare dalla lista dei
sospettati
quel puttaniere infame di suo padre dal momento che, sfortunatamente
per lui e
fortunatamente per lei, della sua vita come il generale Kozmotis
Pitchiner
ricordava solo vaghissimi e sporadici momenti, e la maggior parte di
essi non
comprendevano sua figlia.
Come se avesse intuito i dubbi che
la assillavano, l’altra donna -intanto
sedutasi comodamente a terra, con le braccia poggiate su di un masso-
prese
parola.
«Non so nulla, in
realtà, solo ciò che Manny -fra un tè
e una proposta
di matrimonio- mi ha riferito settecento anni fa, suppongo per cercare
di
impressionarmi con le sue doti di cantastorie» rise,
facendole
involontariamente tirare un lunghissimo sospiro di sollievo.
Si fece pensierosa.
«Però ricordo
chiaramente che mi raccontò di questa bella bambina
dagli occhi dorati e i capelli corvini, figlia di una donna che aveva
sposato
questo grande generale tanto amato dal popolo quanto ritenuto
fastidioso da chi
aveva qualcosa da nascondere, una dolce e tenera frugoletta che aveva
sempre
avuto un’infanzia piena di amore, di affetto e di ignoranza
verso i giochi di
corte» si abbracciò da sola, ovviamente in segno
di scherno. Finse di
rabbuiarsi in volto «Ma poi il suo papà, un certo
generale Koyotis se non
ricordo male, ha pisciato fuori dal vaso, ficcando il suo grooosso naso
nei
gombloddi di una famiggghia relativamente potente,
all’apparenza, ma che dietro
le quinte aveva nelle mani un impero. E allora…».
«Taci» le
intimò Emily, la rabbia che iniziava a montarle dentro
insieme alla magia.
La sovrana, ovviamente, non le
diede retta.
«Tacere? E
perché dovrei? Sono stata brava e buona, ti ho dato una
seconda possibilità quando chiunque altro -con
ciò che avevi combinato- nemmeno
ti avrebbe lasciato in vita, ho cercato di ragionare con te
perché desistessi:
dal momento che con le belle parole non ho ottenuto nulla, non
biasimarmi se
ora faccio la parte della donnaccia acida e cattiva che usa il tuo
stesso
tragico passato per farti del male» agitò le mani
davanti a sé, come a
discolparsi, le labbra impegnate in un sorriso che diceva
“hai voluto la
bicicletta? Ora pedala”.
«Ma non perdiamo altro
tempo! Dicevo, a quel punto è successo un bel patatracchete,
eh già! Caccia grossa a suddetto generale, morte della sua
cara mogliettina per
una serie di sfortunati eventi, fuga verso la-»
«Taci»
pronunciò di nuovo,
questa volta con una voce differente, gutturale, a tratti inquietante,
gli
occhi ridotti a due fessure perse fra la pelle che stava
inspiegabilmente
andando scurendosi sulla fronte, sugli avambracci e sui polpacci;
Harmonia,
tuttavia, non notò quei cambiamenti, coperta
com’era dai capelli la prima e da
quella gabbia semi trasparente gli ultimi due.
Come pure non notò i
pugni stretti di una Pitchiner -che,
intrappolata, non avrebbe dovuto nemmeno riuscire a gonfiare troppo i
polmoni-
furiosa, le sottili venature verde acceso illuminatasi a disegnarle una
mappa sulla
pelle, la prigione di saliva coperta di crepe scriocchiolanti.
Totalmente estranea a tutti quei
dettagli che non preannunciavano
nulla di più, la Regina di Phantasia continuò a
infierire.
«Come sei
noiosa!» sbuffò indispettita «Guarda, se
proprio vuoi la
farò corta, ma solo perché il resto è
storia: tuo padre che diventa Pitch
Black, la fine della Golden Age e la cancellazione della stragrande
maggiorranza
delle Costellazioni, tu che vieni presa sotto l’ala da un
titano morente che ti
accudisce, ti mente perché ti vuole tutta per sé
manco fosse un vecchio maniaco
e, dulcis in fundo, ti dona i poteri di Madre Natura. E quando tu
scopri la
verità cosa ne fai, di questo ben di dio?»
Emily, in vena di fare tutto tranne
che rispondere, rimase in
silenzio.
«Distruggi una nave e
ammazzi solo gli dei sanno quante persone,
spingendolo a reciderti quella fetta di poteri sugli astri che ti
avrebbero
reso una dea in terra, ecco cosa!»
In una mano, si fece comparire un
sottile pugnale color crema,
l’impugnatura -che terminava in una piccola rosa con una
pietra iridescente al
centro- finemente lavorata in sinuose e delicate forme eteree che
parevano
nuvole.
Le trotterellò vicino.
«Non sei furba,
esattamente come non lo erano i tuoi genitori».
Le poggiò la lama sul
petto, premendo abbastanza perché la pelle si
arrossasse, ma non a sufficienza perché si tagliasse.
«Non era furbo tuo padre,
che se avesse messo a tacere il suo presunto
senso del dovere avrebbe evitato di finire dritto dritto nella tela del
ragno,
trascinandosi con sé i propri familiari come mosche sul
miele» la fece scorrere
fin sotto il mento, alzandoglielo leggermente «E non era
furba tua madre, che è
rimasta a bearsi nella propria ignoranza accontentandosi degli
“Ho tutto sotto
controllo” di suo marito per vivere serena. Non la conoscevo,
ma -visto com’è
finita e com’è uscita sua figlia- sarà
certamente stata una di quelle ragazzette
follemente innamorate del proprio consorte al punto di seguirlo per
terra e per
mare e per cielo, pur di vederlo contento, sempre pronta a supportarlo
e mai a
dargli contro pure se ha torto, una donnuccia che non ha capito in cosa era stata involontariamente
messa in mezzo fino a quando non hanno dovuto raccoglierla da terra col
cucchiaino. Povera scema».
«TACI!»
Un’esplosione di rabbia,
un’esplosione di magia, un’esplosione della
gabbia che conteneva Madre Natura e tutta la sua furia, dissoltasi in
un lampo
accecante.
Senza che Harmonia potesse
realizzare ciò che stava accadendo, un
frammento duro come il marmo la colpì in pieno, poco al di
sotto della zona di
congiunzione fra il corpo equino e quello umano, scaraventandola contro
lo
stesso masso sul quale, poco prima, stava crogiolando.
Un solo colpo, e adesso una delle
zampe anteriori penzolava mestamente
a mezz’aria.
Tentò subito di
rialzarsi, ma invano: prima ancora che potesse farlo,
delle spesse radici coperte di spine perforarono la terra e le
afferrano gli
arti, immobilizzandola; al contrario, Emily Jane era libera,
liberissima.
E incazzata abbestia.
«Non
ti permettere»
alzò lo sguardo, la
pupilla ridotta a un puntino disperso in quelle iridi dorate intrise
d’odio e
di rabbia e d’omicidio «assolutamente»
strinse con forza le dita artigliate coperte di vera e propria
corteccia -come
pure lo erano gli avambracci e la parte inferiore della gambe- sul nero
scettro, un malsano alone grigiastro che ribolliva nelle striature
smeraldo dello
stesso e colava come lava fumante su tutta la sua lunghezza «di
nominare mia madre!» una manciata di
lingue di immani lingue
rocciose sventrarono la terra tutta intorno alla regina, circondandola.
“Pensa!
Pensa! Pensa!”
«Non
ti permettere mai più!» tutto d’un tratto si
richiusero su di lei, intrappolandola e stringendola in uno spazio
angusto che
a malapena la conteneva «Mai più!»
l’estremità appuntita di un ultimo masso centrale
fece capolino dal suolo,
pronto a impalarla «Mai più!»
con
violenza tale da far tremare la terra, infine emerse dal terreno.
Un tuono esplose, squassando
l’aria calda.
Il bagliore di un lampo si
profilò fra le sbarre di pietra, ora tomba
della Regina di Phantasia, della Guardiana della Fantasia, della
custode del
pianeta Exodus. Come allertati dall’accaduto, uno stormo di
uccelli gracchiò in
lontananza, volando via fra le nuvole nere illuminate a giorno dalla
ragnatela di
fulmini che dilaniavano il cielo.
Volarono via tutti, tranne un
piccolo, insignificante, minuscolo,
passero bianco dalle ali di perla, che invece tornò
indietro; goffamente, si
posò su di un arbusto dall’altra riva del fiume, a
poche decine di metri da
Madre Natura.
Il tempo che il ritmico alzarsi e
abbassarsi del suo lillipuziano
petto si regolasse, e venne avvolto da una nuvola rosata che lo strinse
in un
abbraccio morbido, candido, materno, al riparo dalle intemperie che lo
circondavano; persino le saette e la pioggia battente ora grandine,
infatti,
non sfioravano quella sfera dei colori dell’alba, venendo
respinti ancor prima
che ne toccassero la superficie liscia oltre ogni umana concezione.
Tempo al tempo, e la Pitchiner si
sarebbe pentita di non aver dato
peso a quel curioso fenomeno atmosferico.
Lentamente, senza fretta, e quel
soffice bozzolo andò sfogliandosi
strato dopo strato, coltre nebbiosa dopo coltre nebbiosa, lasciando che
sottili
fasci di luce dorata ne fuoriuscissero frementi, tremolanti, come se
fino ad
ora non avessero atteso altro che librarsi nel cielo come farfalle
umide appena
uscite dalla loro crisalide.
E, proprio come un insetto che
lascia il proprio bozzolo, anche da quella
sottile foschia si schiusero quattro immense ali color madreperla
simili a
quelle di una libellula, coperte superiormente da un soffice e spesso
strato di
piume nivee la cui attaccatura andava perdendosi in una cascata
fluttuante dai
colori di un brillante arcobaleno verde acqua e azzurro e violetto e
rosa, un
arcobaleno che finiva a terra e si originava sul capo coronato dal
corno d’oro
dell’ultima principessa Starequus, splendente e raggiante
come mai prima d’ora.
Ritta sui propri zoccoli dorati, a
mostrarsi fiera letteralmente come
mamma l’aveva fatta, Harmonia se ne stava lì, sul
margine del fiume opposto a
quello dell’altra, la lunghissima coda che galleggiava
nell’etere circondandola
e perdendosi fra i capelli nebulosi tipici della sua gente.
Fino a quel momento aveva giocato,
si era concessa di conservare
durante lo scontro quella forma da centauressa a lei tanto cara
pensando di
poter fare a meno della quantità di magia e concentrazione
necessari a mantenerla,
ma si era sbagliata. Si era sbagliata, sì, e allora aveva
rimediato: niente uso
dei poteri per cambiare i propri connotati rispetto
all’originale, adesso, solo
il corpo umano dotato di zampe equine e ricoperto da una morbida
peluria bianca
-più lunga e folta sulle estremità degli arti,
che s’interrompeva giusto sul
petto e sul volto- che denotava senza ombra di dubbio, che urlava, a quale razza appartenesse.
La razza che avrebbe rispedito
Madre Natura nel buco di regno perduto
dal quale proveniva, per la precisione.
Sebbene però fuori
stesse ostentando tanta regalità e sicurezza,
dentro di sé la regina tirò un profondo,
lunghissimo, necessario, sospiro di
sollievo: meno male che aveva trovato da qualche parte la forza per
trasformarsi all’ultimo, perché in caso contrario
non era poi così certa che ne
sarebbe uscita intera!
Poco importava: le era andata di
lusso, ora aveva il dovere di
sfruttare al massimo quel colpo di fortuna che il fato le aveva
concesso.
Senza attendere che Emily Jane
recuperasse la mandibola che -da quanto
se ne stava con la bocca aperta- pareva esserle caduta per terra,
Harmonia
mosse qualche passo verso la riva, gli zoccoli che lasciavano dietro di
sé piccole
tracce luminescenti.
Si fermò sul ciglio del
fiume reso grosso dalla tempesta, talmente
intimorita dal rivedere una creatura millenaria che deviava le proprie
gocce ancor
prima di sfiorarle la pelle.
«Credevi di avermi
ucciso, ma la verità è che non morirò
mai, non
posso morire: fino a quando ci sarà anche un solo suddito
che necessiterà del
mio aiuto, bambino o adulto o vecchio che sia, a qualsiasi razza
apparterrà e
in qualunque tipo di rapporto mi troverò con lui, allora io
ci sarò, e sarò
pronta a offrirgli i miei servigi».
Improvvisamente, il suo corpo venne
come cosparso da una nebbiolina
argentea che le si depositò sulla pelle, aderendo ad essa;
qualche istante, e
suddetta nebbia si tramutò in un’armatura
finemente lavorata dello stesso
colore, sulle spalle un mantello blu notte cosparso di puntini
brillanti che
parevano stelle.
«Sono la regina, ma prima
di essere colei che porta la corona sono
sono la serva, l’amica e la madre della mia gente: prima di
sedermi a fare
colazione mi assicuro che abbiano il cibo di cui necessitano, prima di
riposarmi
mi curo che possano dormire sonni tranquilli, prima di concedermi
qualsiasi
cosa non programmata mi assicuro che un mio lusso non incida sulla
qualità
delle loro vite. Sono contenta quando c’è un nuovo
nato, festeggio insieme a
loro dopo che ho officiato un’unione o un matrimonio, piango
con e per loro
quando qualcuno ci lascia».
Allargò le braccia.
Tutto d’un tratto,
materializzatosi dal nulla, in una mano le comparve
un’imponente lancia da giostra dello stesso color crema del
pugnale di prima,
l’elsa che ricordava una testa di unicorno dagli occhi
cristallini e la lama
costituita dal corno dell’animale.
«Non lotto per me stessa,
per la ricchezza, per l’onore, per la
vendetta o per dimostrare la mia superiorità a chicchessia:
lotto per il mio
popolo, perché tragedie come quella di sei millenni fa non
si ripetano, perché
non ci siano più bambini costretti a veder morire impotenti
i propri genitori
come è successo a me, perché il futuro di coloro
che mi hanno affidato le loro
vite, quelle dei loro figli e dei loro nipoti, possa sempre essere
luminoso e sereno».
Nell’altra mano, invece,
prese forma uno scudo allungato che le andava
dalla vita fino a terra, il pezzo centrale formato dalla testa di un
cavallo e
il resto della protezione offerta dalle piume metalliche dello stesso
che la
circondavano.
Si calò l’elmo.
«Il mio nome è
Harmonia, Regina di Phantasia, principessa degli Starequus,
Guardiana della Fantasia, protettrice del pianeta Exodus, ultima della
mia
specie» puntò l’arma in direzione di
Madre Natura «e finché il mio cuore
batterà, finché le gambe mi reggeranno,
respingerò chiunque osi mettersi sulla
strada fra i miei sudditi e la loro felicità».
Clap,
clap, clap.
Degli applausi furono tutto
ciò che provenne dall’altra parte del
fiume, i palmi legnosi della Pitchiner che s’incontravano
svogliatamente
producendo uno stridio fastidioso. Con un rapido movimento del capo, si
scostò
dagli occhi i viticci fioriti che le spuntavano fra i capelli corvini.
«Tante belle parole, non
lo metto in dubbio, ma se c’è una cosa che so
per certa è che nessuno ha mai vinto una guerra con discorsi
strappalacrime
sull’onore e sull’ammmore per i propri sudditi e
quel genere di stronzate da
adolescenti» rise.
«Senza tanti giri di
parole, mi hai dunque chiesto di scegliere fra le
buone maniere e la violenza?»
Harmonia annuì.
Di rimando, la rivale
avanzò di qualche metro verso le sponde del
canale, l’erba che -alla faccia dell’essere Madre
Natura- s’inaridiva ad ogni
suo passo. Si fermò.
Con lo scettro stretto
nell’altra mano, alzò un indice: come
rispondendo a un suo comando, sassi e pietre e persino la ghiaia del
fiume s’illuminarono
di un bagliore smeraldo, levandosi dalle acque e dalla terra per
iniziare a
levitare a mezz’aria intorno alla figlia dell’Uomo
Nero.
Sorrise.
«Scelgo
la violenza».
Un cenno, e quelli che qualche
istante prima non erano stati altro che
cumuli di rocce di ogni forma e grandezza andarono aggregandosi
l’uno con
l’altro, pezzo per pezzo, assumendo sembianze che nel loro
essere grottesche e
terribilmente deformi -fra teste minute su corpi enormi e viceversa,
arti
mancanti o di dimensioni differenti l’uno
dall’altro, occhi in più e occhi in
meno- parevano umanoidi.
A vedersi comparire davanti una
manciata di imponenti golem, la
Starequus -che avrebbe dovuto quantomeno essere impressionata, se non
dall’indicibile
bruttura di quegli esseri, almeno dalla superiorità numerica
dell’altra- non si
scompose per nulla.
Chiuse gli occhi, il corno sulla
fronte che prese a baluginare di una
luce perlacea la quale, poco dopo, mutò in uno e poi due e
poi tre sottili
cerchi dello stesso colore che le cinsero il capo.
«Nîn
o Chithaeglir lasto
beth daer» le venature iridescenti delle sue ali
presero a brillare a
intermittenza, come se vi si stesse incanalando da un qualche tipo di
potente
magia «rimmo nîn
Kelusindi dan in
Hatha Laurinque».
Ma non accadde nulla.
La Pitchiner scoppiò a
ridere, intanto che i suoi giganti di pietra si
gettavano nel torrente per attraversarlo e raggiungere la sovrana.
«È
così che pensi di sconfiggermi? Blaterando parole totalmente
a
caso?» la schernì. Allargò le braccia
«Se qualcuno che millanta di essere
chissà quale minaccia ma poi non sa fare altro che parlare
è il massimo sul
quale Exodus possa fare affidamento per proteggersi, allora ti concedo
di
andare a dire ai bambini di iniziare a recitare le proprie preghierine,
perché
fra poco ne avranno un estremo bisogno!»
Nessuna reazione provenne
dall’altra donna, che continuò a recitare
quella formula imperterrita, irremovibile, solenne nella sua
immobilità: quei
mostri erano sempre più vicini, eppure Harmonia era calma,
tranquilla,
totalmente serena, lo era persino di fronte al fiume che sembrava
starsi
prosciugando!
Era pazza? No, era semplicemente
paziente.
E la sua pazienza venne
ricompensata.
Nel preciso istante in cui tutte
quante le creature si trovarono nel tragitto fra lei e la
loro padrona,
rigagnoli di dimensioni sempre crescenti iniziarono a scorrere sul
letto quasi
asciutto del fiume, attirando l’attenzione di quegli uomini
di freddo sasso
senza cuore né anima che, finalmente, si girarono verso la
direzione dalla
quale proveniva quello strano fenomeno. Lo scrosciare
dell’acqua era ormai
assordante, talmente tanto che i ciottoli rimasti a terra iniziarono a
tremare
prima piano, in modo quasi impercettibile, poi più forte,
sempre più forte,
fino a quando la terra stessa non venne scossa da violenti tremori
uniti a
suoni infernali, assordanti, come se le viscere del mondo stessero
venendo
attraversate da un branco di cavalli scalpitanti.
Che poi furono precisamente
ciò che si palesò davanti agli occhi
increduli di Madre Natura qualche secondo dopo, quando il fiume si
riversò sì
sul proprio letto di fango e sabbia, ma lo fece con la forza e la forma
di un’onda
di grandi e limpidi stalloni che al loro interno custodivano alghe e
pesci e
qualsiasi cosa quel torrente portasse con sé, una carica
selvaggia di equini
che nitrivano furiosi sbuffando vapore e galoppando già per
il fiume che
costituivano travolgendo qualsiasi cosa si trovasse sul loro cammino.
Golem compresi.
Una volta abbattuti quei giganti,
un’innaturale calma piatta tornò a
dominare il corso d’acqua, ormai quieto e silenzioso
com’era sempre stato.
Una soddisfatta e sorridente
Harmonia avvicinò una mano all’orecchio,
protendendosi verso l’avversaria come a voler sentire meglio.
«Stavi dicendo qualcosa a
proposito del mio “blaterare parole a caso”?
Sono costernata, ma l’assordante rumore della vittoria ha
coperto le tue parole,
saresti così gentile da ripeterle a quest’anziana
puledra?»
Non
l’avesse mai detto.
Dire che Emily Jane fosse furiosa,
non sarebbe bastato nemmeno a
descrivere la sommità dell’iceberg di rabbia e
odio e frustrazione che quella
benedetta ragazza covava dentro di sé.
Senza darsi tregua per permettere
al suo corpo -adulto, sì, ma non più
abituato a sostenere i ritmi imposti da un utilizzo così
intenso dei propri
poteri- di riprendersi, evocò altri golem di pietra ancora
più grandi di quelli
di prima.
«Taci! TACI! STAI ZITTA!
DEVI STARE ZITTA! ZITTA!» le gridò contro con
quanto fiato aveva in corpo, la gola che le bruciava per lo sforzo.
Non contenta, completamente in
balìa della necessità vitale di
eliminare la Regina di Phantasia, ignorando ogni segnale che il suo
cervello
logorato dal rancore le mandasse intimandole di fermarsi,
ampliò il proprio
esercito con qualsiasi cosa le venisse in mente: creature alate simili
a
pipistrelli che trafissero le nuvole trascinando i fulmini dietro di
sé, radici
improvvisamente trasformatesi in serpenti grassi e sibilanti, fiere
ruggenti
emerse dalle voragini che si stavano aprendo nel suolo -le cui
striature sul
corpo roccioso lasciavano intravedere il magma che ribolliva nei loro
corpi- e
mille altri mostri.
Infine, aggiunse anche il carico da
novanta: elefanti.
Colossali elefanti di pietra e
legno e liane che tenevano insieme il
tutto, bestie alte almeno venti metri dotate di tre paia di enormi
zanne di
ghiaccio simili a quelle di un mammut una più grande
dell’altra, una più
spaventosa dell’altra, dove quello più imponenti
-che si snodavano dalla testa
dell’animale fino a terra, incurvandosi orizzontalmente verso
l’interno- potevano
tranquillamente essere utilizzate per svolgere lo stesso lavoro di uno
spazzaneve:
travolgere di tutto.
E i Mûmakil
della
battaglia dei Campi del Pelennor potevano accompagnare solo.
Un rivolo di sangue le
colò dal naso, scorrendo sulla corteccia che
stava sempre più spandendosi sul suo volto: doveva fermarsi
prima che fossero i
suoi poteri a controllare lei e non il contrario, ne era consapevole,
ma non
poteva, non voleva, farlo. La
vendetta era tutto ciò che la guidava, e la vendetta sarebbe
stato ciò che
avrebbe ottenuto a fine giornata: non importava il prezzo, non
importava se per
raggiungerla avrebbe dovuto annegare nelle sabbie mobili della follia
più di
quanto già non ci fosse dentro, a dirla tutta non le
importava nemmeno dello
stare rischiando la propria vita: finché non avesse avuto
ciò che bramava
disperatamente da trent’anni a quella parte, allora non
avrebbe arretrato
nemmeno di un passo.
Alzò lo scettro dinanzi
a sé, indicando la regina sua rivale ai propri
mostri.
«Prova a usarla adesso, la tua
magica acqua frizzante scacciademoni! Vediamo se farai ancora la
fichettina, una
volta che sarai ridotta a una crepê farcita con sangue
d’unicorno e codette
arcobaleno! È finito il tempo delle mele,
PUTTANAH!»
Un cenno, e quelle creature si
riversarono in terra: verso di lei
“solamente” i pachidermi, verso il limite del
Tauremorna e la città il resto di
loro.
Con quella scena davanti agli
occhi, Harmonia non poté fare altro che
ingoiare faticosamente quel groppo che le chiudeva la gola, inspirare
profondamente e, infine, prepararsi al contrattacco: c’era un
intero pianeta
che contava sulla sua vittoria, non poteva deluderlo.
Strinse le dita intorno alle
proprie armi fino a sentire dolore,
comandando ai propri occhi lucidi di ricacciare indietro le lacrime che
stavano
per solcarle le guance: svariati soldati sarebbero morti quel giorno,
padri e
madri di famiglia avrebbero perso la vita sul campo di battaglia, e a
lei
sarebbe toccato l’infame compito di spiegare ai loro figli di
come fossero
rimasti orfani.
Non era colpa sua, aveva fatto e
stava facendo il possibile, di certo non
poteva salvare tutti… esattamente come non aveva potuto
farlo seimila anni
prima, quando lei-
No, non avrebbe permesso al proprio
disturbo post traumatico da stress
di avere la meglio proprio ora, non era un lusso che poteva concedersi,
non sul
campo di battaglia: quella era la guerra, e in guerra si muore.
Punto.
Il suo esercito se la sarebbe
cavata egregiamente, le Ophidians si
sarebbero difese da sole senza problemi, e lei li avrebbe ripagati
sconfiggendo
la Pitchiner il prima possibile, così da recidere alla
radice gli umuncoli da
lei generati. Ai figli dei caduti, avrebbe detto la stessa identica
cosa che si
era detta lei in prima persona per sei lunghissimi millenni, in quei
momenti
bui durante i quali la nostalgia del calore delle ali di sua madre e
delle
braccia forti di suo padre le attanagliava l’anima: i loro
genitori erano
caduti come eroi, e come tali sarebbero stati ricordati.
Sorrise: sarebbe andato tutto bene,
lo avrebbe fatto andare bene.
Mossa dalla forza che le donava
quella nuova consapevolezza, Harmonia iniziò
a squadrare quella manciata di mastodontici elefanti che le venivano
incontro: una
mezza dozzina, tutti tremendamente grandi, ma quello li rendeva solo
bersagli
più facili da colpire.
Senza indugiare oltre,
spalancò le ali e si alzò in volo.
Destreggiandosi fra le gocce di
pioggia più taglienti della lama che
aveva nella mano, zigzagando fra un fulmine e una nube che le oscurava
temporaneamente la vista, a furia di sferzare furiosamente
l’aria le sue ali la
portarono in breve fra a quelle montagne erranti. Avvicinarsi,
tuttavia, non fu
altrettanto semplice: tralasciando l’attenzione che -se non
voleva finire
impigliata e schiacciata fra le zanne- doveva porgere al non volare
troppo
rasoterra, il problema maggiore era costituito dalle interminabili
proboscidi
di quelle bestie che, come braccia provenienti dagli inferi, si
levavano e
dimenavano nel cielo a catturare qualsiasi cosa o animale o persona
capitasse
loro a tiro; già un paio di volte si era trovata a dover
virare all’ultimo per
evitarle, ora non poteva più permettersi errori.
Impegnata a riflettere
com’era, non si accorse di quando arrivò il
terzo colpo.
Fortunatamente per lei, il suo
corpo agì istintivamente, senza consultarsi
col cervello: ancoratasi con la coda a una delle zanne,
effettuò una
rapidissima sterzata -che per poco non le fece perdere la presa ed
essere
scagliata chissà dove, da quanto fu improvvisa!- in volo che
portò le estremità
affilate delle ali a sfiorare la pelle corazzata
dell’animale, penetrando a
fondo in essa.
Un giro della morte, e la
proboscide venne tranciata di netto. Cadde a
terra, agitandosi come la coda di una lucertola.
Completando
quell’evoluzione, si trovò -senza sapere
precisamente
come, ma visto il risultato le modalità non erano poi
così importanti- sul capo
dell’animale, ovviamente ormai imbizzarrito a causa della
ferita; il solo restare
attaccata a quella bestia che correva e sbandava e s’inarcava
disperata era una
sfida, ma non si arrese: doveva andare fino in fondo, letteralmente.
In balìa delle
intemperie a venti metri d’altezza, costretta a
scansarsi o appiattirsi ogni tre per due per evitare le forze aeree di
Emily
Jane, con la sola presa delle ali nelle carni a mantenerla in un
equilibrio che
chiamare precario sarebbe stato un complimento troppo grande,
afferrò la lancia
con due mani e ne poggiò la punta sulla pellaccia
dell’elefante, in quella
minuta area scoperta nella congiunzione fra la testa e il collo. La
spinse
dentro fino all’impugnatura, decisa.
Un barrito agonizzante si sparse
tutt’intorno.
L’animale
rallentò la propria corsa, tramutandola prima in un cammino
lento a testa bassa, sempre più pericolosamente bassa, poi
in un’andatura ondeggiante,
sconclusionata, senza ritmo, un trascinarsi dietro le zampe molli che,
infine,
cedettero completamente sotto il loro stesso peso, facendo crollare al
suolo
quell’abominio della natura; mentre questo collassava,
Harmonia si calò giù per
le zanne di ghiaccio usandole come uno scivolo, ruzzolando via giusto
pochissimi istanti prima che quelle s’infrangessero come
bicchieri di cristalli
sul pavimento.
Nemmeno il tempo di riprendere
fiato, che subito l’ombra di
un’imponente zampa le si profilò sopra la testa,
talmente vicina da sfiorarle
addirittura i capelli.
Non poteva volare via:
l’altro arto era troppo vicino alle sue ali
perché queste non si impigliassero.
Non poteva lanciarsi di lato:
sarebbe stata troppo lenta.
Non poteva usare la magia: il suo
cervello sarebbe stato ridotto in
poltiglia ancora prima di riuscire a pronunciare qualsivoglia formula o
incantesimo.
Fece l’unica cosa che
poteva fare: chiuse gli occhi.
Un boato squassò la
terra.
Il tempo di riaprire le palpebre, e
una voragine si aprì dietro le sue
spalle, inghiottendo l’elefante che la sovrastava; senza
più nulla intorno che
la ostacolasse, riuscì a spiccare il volo
all’ultimo momento, giusto una
manciata di secondi prima che quel buco nero improvvisamente apertosi
nel
terreno inghiottisse anche lei come aveva fatto con la povera bestia.
Povera bestia che, adesso, se ne
stava sospesa a più di un centinaio di
metri d’altezza, intrappolata e stritolata fra le gigantesche
fauci a tenaglia di
una creatura ben più grossa di lei, capace di sventrare il
terreno e
sbriciolare la pietra come pasta frolla: vermi di terra, diggerwurm. Adulti.
Sul capo di quello emerso dinanzi a
lei, con tanto di briglie -briglie!-
alla mano, una perfettamente
calma Alice Castle Wonderwood che salutava con la manina
l’amica.
«Ehi! La prossima volta
ricordati di mandarmi l’invito alla festa!»
gridò da lassù.
La regina -ora nella parte di colei
alla quale rischiava di cadere la mandibola
per il troppo stupore- la fissò sbalordita: alla faccia del
tempismo! Si era
premurata -e vergognata- di non dirle nulla temendo che desse di matto
come
solito, considerando i precedenti con Madre Natura risalenti a
trent’anni
prima, ma a quanto pare tenerla all’oscuro della spedizione
non era servito per
tenerla lontano dal campo di battaglia.
Senza che la sovrana potesse
risponderle, Alice le indicò l’orizzonte.
«Ho portato anche il
resto della cavalleria, per quanto non sia dato a
sapere se venuti solo per combattere, o anche per assicurarsi che la
sanità
mentale non mi abbandoni durante la battaglia: in quel caso, sarei un
problema beeeeen
peggiore di Miss Bellicapelli!» ridacchiò.
Non sapendo come ribattere,
Harmonia girò il capo dove l’altra aveva
additato: dal folto del Tauremorna, sulle cime dei vulcani
più o meno attivi di
Quetzalli, una vera e propria valanga di metalupi che digradavano
giù per le
montagne con la stessa facilità e agilità con le
quali avrebbe potuto farlo una
capra; in testa a loro, affiancata dai suoi pelosi genitori adottivi,
Scarlet in
groppa a Spettro, nelle mani quella che riconobbe subito trattarsi
della Spada
Vorpale.
Aveva tirato fuori
l’artiglieria pesante, quella ragazzetta bipolare,
faceva davvero sul serio!
E che tutti stessero facendo sul
serio si capì presto: diggerwurm che sbucavano
dalla terra inghiottendo qualsiasi cosa si trovasse sopra i loro musi,
lupi che
si gettavano a zanne spiegate sulle creature della Pitchiner disfandole
pezzo
per pezzo, pietra dopo pietra, la Cacciatrice che -lama alla mano-
passava in
mezzo ai pachidermi e, con un colpo netto, scavava con essa
profondissimi
solchi nelle loro tozze zampe perché si ribaltassero e
fossero alla totale
mercé dei suoi fratelli e sorelle.
La Starequus si concesse un mezzo
sorriso: di quel passo, il grosso
delle truppe di Madre Natura sarebbe stato abbattuto prima che potesse
raggiungere il bosco o la città, il che per la sua gente
avrebbe significato
meno tombe da scavare, meno morti da piangere, meno bambini da lasciare
orfani.
Sperando che avesse ragione,
ovviamente, il che -a guardare Emily
Jane- non era proprio da dare per scontato.
Più pioggia, fulmini,
più tornado, più crepe nel suolo, più
mostri,
più di tutto ciò che lo scettro le consentiva di
evocare: stava dando di matto,
quella benedetta ragazza, e ne era consapevole tanto quanto lo era che,
non
facendolo, sarebbe stata sconfitta per l’ennesima volta.
Specchiandosi in una pozzanghera ai
suoi piedi, si toccò il viso:
cos’era rimasto della donna che era stata? C’era
ancora lei sotto quella
corteccia che, lentamente ma inesorabilmente, a furia di utilizzare la
magia,
la stava letteralmente divorando? Come aveva fatto a ridursi in quello
stato
pietoso?
Le bastò alzare lo
sguardo per capirlo: le sue bestie venivano
continuamente abbattute, esattamente com’era stata abbattuta
lei durante quegli
anni di miseria e autocommiserazione ed elemosina.
Quando il barrito
dell’ennesimo elefante che collassò al suolo le
riempì le orecchie, chiuse gli occhi: lo scettro
brillò, e allora radici
provenienti da esso iniziarono ad arrampicarsi su per il braccio,
avvolgendo in
poco tempo le sue stanche membra in un abbraccio caldo, accogliente,
protettivo, un po’ come quello offerto del ventre materno; si
richiusero sul
suo capo, isolandola dal mondo, dalle umiliazioni,
dall’imminente sconfitta.
Che si fottesse la sua mente che
gridava di smetterla, di fermarsi, di
non oltrepassare quel limite che l’avrebbe resa schiava dei
propri stessi
poteri.
Che si fottesse la raccomandazione
di Typhan di non utilizzare mai,
per nessun motivo, per qualsiasi cosa al mondo, la sua magia al pieno
della
potenza, pena il diventare incapace di distinguere il bene dal male, la
verità dalla
menzogna, la realtà dalla fantasia.
Che si fottessero Pitch e Gwenllian
e chiunque le avesse remato contro
nel suo millennio e mezzo di vita immortale.
Adesso, di Emily Jane Pitchiner non
restava che un guscio di puro
potere ruggente, ma senza coscienza: ormai era una divinità,
un essere
superiore a quella plebaglia con la quale era stata costretta a
condivide
l’ossigeno per troppo tempo, e pretendeva i propri sudditi.
Con i suoi nuovi e luminosi occhi
di dea, ora vedeva chiaramente il
passato e il presente e il futuro, chi era stata e chi era e chi
sarebbe potuta
e dovuta essere, vedeva razze
estinte
e razze che ancora dovevano nascere, frasi pronunciate per cambiare il
mondo e
frasi che sarebbero state pronunciate per distruggerlo, in quel bozzolo
vegetale riusciva addirittura a scorgere pianeti sconosciuti e galassie
mai
osservate e universi lontani, tutti che galleggiavano
nell’occhio di una
creatura incarnazione stessa dell’esistenza e della
non-esistenza.
E vedeva anche quel bozzolo
diventare prima giallo, poi marrone scuro,
infine nero, le radici -secche e senza vita- che si staccavano e
cadevano a
terra, denudandola: la sveglia era suonata destandola dal sogno,
l’incantesimo
si era spezzato, la carrozza era tornata ad essere una zucca.
Il palmo di una mano -forse reale,
forse frutto della sua immaginazione-
fece irruzione nel suo mondo che stava crollando a pezzi, mostrandole
un
minuscolo frammento di legno scuro; un’altra mano le
indicò un punto preciso sul
suo artefatto: allora, e solo allora, notò che ne mancava un
pezzettino lì,
proprio sotto l’incrocio fra una venatura e un nodo.
Mentre avvertiva chiaramente lo
scettro scivolarle fra le dita, sentì
un respiro caldo vicino all’orecchio.
«Mai
fidarsi di chi mangia i
faciola con la forchetta anziché il cucchiaio».
________________________________________________________
Angolino dell’autrice
Autrice in ritardo di una
settimana, perché si è accorta giusto
l’altro
giorno che il capitolo era talmente LUNGO da necessitare -dopo attente
consultazioni- di essere diviso in due capitoli, come ho appunto fatto:
chiedo
venia, mi faccio perdonare con i millemila riferimenti al
“Signore
degli Anelli” e quelli agli Ugandan Knuckles! :’D
Detto questo, vi assicuro che col
capitolo 19 terminerà la “saga” di
Quetzalli che perdura da nonricordoquanti capitoli, che se la
Th’anera
Yuvenciae vuole ormai siamo agli sgoccioli di questa long :) je la famo
regà!
Dopo i consueti ringraziamenti,
sotto vi lascio la traduzione della
frase detta da Harmonia, che poi è la stessa -con qualche
modifica sui nomi- pronunciata
da Arwen Undómiel per respingere l’attacco dei
Nazgul sul fiume Bruinen.
“Nîn
o
Chithaeglir lasto beth daer, rimmo nîn
Kelusindi dan in Hatha
Laurinque” = “acque delle montagne
di fuoco, ascoltate le mie parole: scorrete acque del Kelusindi contro
lo
spettro di Madre Natura”
Alla prossima!
|
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Capitolo 19 *** Olympus has fallen - parte III ***
Piume.
Quando riaprì gli occhi,
tutto ciò che apparve nel suo campo visivo
furono morbide, calde, accoglienti, piume, che la circondavano e le
permettevano di conservare quel briciolo
di dignità rimastole in corpo dopo quell’ultima
umiliazione, coprendo le sue
nudità.
Non si chiese da dove spuntassero,
né tantomeno a chi appartenessero:
già lo sapeva e, francamente, non le importava.
Non le importava di aver sfiorato
la cima della gerarchia sociale ed
essere caduta subito dopo, non le importava che Phobos
l’avesse tradita così
spudoratamente per prendersi il suo scettro e i suoi poteri, non le
importava
nemmeno che fossero di Harmonia le braccia che la stavano sostenendo e
nelle
quali, adesso, si stava rifugiando: voleva piangere, niente di
più, e farlo da
una parte o dall’altra, davanti a una persona piuttosto che a
un’altra, le era
totalmente indifferente.
Chi non era indifferente invece era
il rosso, intento a gongolare per
la riuscita di un piano iniziato nella vasca di Madre Natura e finito
con
quest’ultima stesa a terra in una pozza di sangue e lui
lì, ritto, spavaldo,
col petto in fuori e lo scettro in mano.
Perfettamente in linea col proprio
stile, si girò, si chinò e si
abbassò la gonna, mostrando fieramente le chiappe al vento.
«Alla faccia vostra,
zittellacce che non siete altro! Baciate il culo
di Padre Natura!»
Il solito, appunto.
E, sempre come solito, la Starequus
aveva voglia di fare tutto tranne
che di perdere tempo davanti a un buffone: c’era la guerra, e
ogni minuto che
passava a rendersi ridicolo era un minuto in più che i suoi
uomini dovevano
sopportare contro le bestie di Emily Jane; finché il bastone
non veniva
spezzato, allora quelle avrebbero continuato a riprodursi.
E non era un lusso che poteva o
voleva permettersi.
Fatta comparire sul suo corpo
martoriato una tunica pesante che la
coprisse e la tenesse al caldo, posò piano la figlia
dell’Uomo Nero a terra,
scambiandosi con lei solamente un neutrale sguardo che non conteneva
traccia né
di disprezzo, né di pietà, né di
rabbia, solo un tacito “Ti aspettavi che
finisse diversamente?”: sarebbe bastato quello a insegnarle
la lezione,
sperando che stavolta avesse la volontà
d’impararla.
Con una mano poggiata sulla propria
arma così da non farsi cogliere
impreparata, avanzò di qualche passo verso l’altro.
«E quindi? Quali sono i
tuoi piani, ora che sei entrato in possesso
dello scettro?» domandò.
Lui si grattò la testa.
«Io veramente-»
«Non sto parlando con
te» con uno scatto, tese la lancia davanti a sé,
interponendola fra la sua persona e il rosso «ma con chi hai
nella testa. Dì ad
Alexander di farsi vedere, o lo trascinerò giù
dalla Luna a suon di schiaffi a
palmo teso».
«Luna?
“Alexander”? Gente dentro di me?» la
guardò stranito,
inclinando il capo «Cosa minchia vai blaterando? Altro che
“guardiana della
fantasia”, tu vedi gli arcobaleni e gli unicorni e tuttecose
solo perché ti
cali gli acidi potenti! Quel tuo
corno deve proprio averti perforato il cervello in qualche modo, se
credi che-»
s’interruppe.
O meglio, parve proprio spegnersi:
lo sguardo perso nel vuoto, il
petto che non si alzava e abbassava più al ritmo del suo
respiro, le braccia
abbandonate lungo i fianchi, lasciò persino cadere lo
scettro a terra!
“Adesso o mai
più”.
Senza indugiare, Harmonia vi si
gettò sopra intenzionata ad afferrarlo.
Tempo di sfiorarlo con le dita, e
Phobos -improvvisamente ripresosi-
fu più veloce di lei nel raccoglierlo; i loro sguardi si
incrociarono solo un
istante, quello che bastò alla donna per notare come sotto
l’occhio destro gli
fosse comparsa dal nulla la sagoma di una mezzaluna nera, identica a
quella di…
oh no.
Messo al sicuro il bastone,
l’uomo si guardò il corpo con aria
perplessa qualche istante, squadrando e annusandosi gli abiti con aria
schifata.
«Mannaggia a Manny, puzzo
d’alcol da fare schifo!» esclamò
sorpreso.
Schioccò le dita, e gli
abiti da danzatrice del ventre vennero
sostituiti da una camicia bianca e da un elegante completo damascato
blu
violaceo. Se lo aggiustò addosso, compiaciuto.
«Decisamente
meglio».
Si girò verso la sovrana
e, con tutta l’educazione del mondo, si esibì
in un lungo inchino.
«Avrei preferito porgere
i miei personalissimi omaggi alla Regina di
Phantasia faccia a faccia, ma purtroppo le antiche magie che mi tengono
chiuso
nel Palazzo di Mezzanotte mi impediscono anche solo di mettere piede
fuori di
casa. In ogni caso» le prese delicatamente la mano,
baciandogliela da vero
gentiluomo «rivederti è un onore tutto mio,
Harmonia: sono passati sette secoli
dal nostro ultimo incontro, ma noto con piacere che risplendi ora
più che mai
della stessa bellezza che illuminava il dolce volto di tua madre.
Quand’era
viva, s’intende» rise.
«Suppongo di stare
parlando con Apophis il demone, se fai riferimento
ad episodi vecchi di millenni antecedenti alla nascita di Apophis il
Lunanoff»
sempre sorridendo, ritrasse la mano «o meglio, Tsar Alexander
Lunar XIII».
«Dodicesimo, prego, ti
ricordo che mio fratello mi ha rubato anche il
numero in linea di successione, oltre che i poteri»
precisò quasi infastidito
«ma non te ne faccio una colpa, non temere: quando
tornerò a sedere sul trono
lunare, allora sentirai talmente tanto spesso il mio nome che ci farai
l’abitudine come tutti gli altri, è solo questione
di pazientare. E io so
essere molto paziente, mia regina, moltissimo».
Si legò i capelli in una
coda bassa sulla nuca.
«Rispondendo alla tua
domanda beh, siamo la stessa persona da svariato
tempo, io e il demone che ha sterminato la tua razza e quella del tuo
amante
nel giro di qualche minuto, ormai è talmente aggrappato al
mio cervello che mi
è assolutamente impossibile distinguere i suoi ricordi dai
miei. Ma non è un
problema: io gli offro ospitalità e lui in cambio mi
dà il suo potere, un
potere che ormai controllo come se fosse mio dalla nascita».
Sfiorò appena un
albero: un istante, e questo si sciolse in una cascata di lucidi
serpenti neri.
Ne pestò uno, stritolandolo sotto la scarpa
finché non si ridusse in polvere «Come
vedi, noi due conviviamo in un mutualismo perfetto, l’uno
guadagna qualcosa
dalla presenza dell’altro e viceversa. Tutto sommato siamo in
ottimi rapporti»
s’interruppe qualche istante, come a voler calcare la voce su
quell’ultima
frase «a differenza di come io lo sia con Phobos».
«Non stavamo parlando
di-»
«Parlare di Phobos,
parlare di me: che differenza vuoi che faccia? È sotto il mio completo e totale
controllo,
distinguerci l’uno dall’altro è inutile,
superfluo, crudele… per te».
Voltò le spalle alla
regina, iniziando a camminare e borbottare come
se stesse intrattenendo un monologo, più che conversando con
lei.
«Rinchiuso nel limbo
della sua stessa mente» passò una mano sullo
scettro, un liquido nero che iniziò a trasudare dalle
venature smeraldo,
inerpicandosi sulla sommità dello stesso sfidando la
gravità «totalmente
incapace di gridare il proprio dolore al mondo esterno»
lentamente, una massa
informe iniziò a gorgogliare sulla punta del bastone,
andando aggregandosi
«impossibilitato a ricordare, perché effettuo dei
reset quotidiani sui quei
pochi -ma faticosamente guadagnati, glielo riconosco,
s’impegna più di quanto
facesse da vivo!- pezzi appartenenti al puzzle di una vita che, ormai,
non è
che un passato nebuloso e frammentato» quando smise di
modellarsi, la sagoma di
un sole oscurato da una mezzaluna aveva sostituito
l’estremità liscia
dell’artefatto.
Lo saggiò girandoselo e
rigirandoselo nelle dita, osservandolo
soddisfatto.
«Anche in questo preciso
istante sta lottando, sai? Non si arrende
mai, l’ultimo principe Chronalion ancora in vita, combatte
contro il parassita
che si è insinuato nella sua mente giorno e notte,
ininterrottamente, tentando
di riprendere il controllo sulla propria coscienza come se fosse
ciò che di più
importante ha al mondo» si fece pensieroso «e in
effetti immagino sia proprio
così, dal momento che vi conserva dentro i ricordi di quasi
seimila anni al tuo
fianco: la morbidezza della tua pelle, il profumo dei tuoi capelli, il
calore
del tuo corpo nudo vicino al suo stretti nelle lenzuola. Se la passava
bene, il
ragazzo, non credi?»
Harmonia non rispose, impegnata
com’era a mantenere quella parvenza di
normalità per nascondere l’incredulità:
aveva passato sette secoli convinta di
aver perduto per sempre l’uomo che aveva amato per una vita
intera, e adesso
cosa scopriva? Che era ancora vivo.
Sepolto sotto strati e strati e
strati di torture psicologiche che non
osava nemmeno immaginare, ma Phobos c’era, c’era!
Poteva ancora salvarlo!
S’impose di contenersi:
doveva restare concentrata sul proprio
obiettivo, adesso; se si fosse trovata davanti al dover scegliere fra
l’ucciderlo -e quindi perderlo una volta per tutte- e il
condannare la propria
gente, allora non avrebbe dovuto esitare nemmeno un istante a scegliere
la
prima opzione.
Aveva un regno, una donna che amava
alla follia e una vita
faticosamente ricostruita al suo fianco, non avrebbe gettato via tutto
questo
per rincorrere un fantasma.
«Intendi rispondermi
oppure vuoi fare la bella statuina, uh?» la
canzonò l’altro, seccato.
Tirò un profondo
respiro: non l’avrebbe mai fatto, no.
«Mi scuso per averti
fatto attendere ma vedi, stavo solo riflettendo
su di una cosa».
«Ah sì? E su
cosa, mia regina?»
«Qualcuno mi ha detto che
le guerre si vincono con i fatti e non con
le belle parole, e -sebbene quando me lo disse non fossi
d’accordo- credo
proprio che quel qualcuno avesse ragione. Non so quali siano i tuoi
piani e non
voglio nemmeno saperlo, ma una cosa posso assicurartela,
Alexander» allargò le
ali, il corno che prese a baluginare di scintille argentate e la magia
che già
scorreva prepotente nelle venature semi-trasparenti sulle stesse
«non
permetterò in alcun modo che finisca nello stesso modo in
cui è finita sei
millenni fa».
Phobos -o chi per lui- non parve
per nulla impressionato da quelle
parole. Semplicemente, poggiò lo scettro al suolo.
«Dimostralo».
Un movimento deciso, e lo
conficcò nel terreno finché non vi
affondò
dentro quasi completamente, solo la mezzaluna visibile fuori da terra.
Immediatamente, una fitta rete di
venature si diramò tutt’intorno ad
esso, sottili crepe che correvano veloci in ogni direzione spaccando la
roccia
e sventrando la terra e aprendo immani crepacci lì, nella
radura dove si
trovavano, dall’altro lato del fiume, nel fitto del
Tauremorna, e poi là,
sempre più in là, fino a raggiungere il confine
estremo di Quetzalli. Una, due,
tre, quattro, cinque, dieci forti scosse, una dopo l’altra,
una più forte
dell’altra, una scossa continua evolutasi in un terremoto
talmente devastante
da star facendo ondeggiare le acque calme del fiume, da stare
incrinando quei
millenari tappi di roccia che impedivano ai mostri
d’ossidiana di destarsi dal
loro antico sonno.
Silenzio.
Quando però il terremoto
raggiunse i piedi della cintura di fuoco
della città d’oro, un boato detonò
nell’aria con potenza tale da essere udito
dall’altra parte del pianeta.
L’intera cintura di
vulcani intorno alla
città esplose, eruttando
nell’aria bollente sciami di lapilli e cenere
e rocce arroventate le cui dimensioni andavano da quelle di un chicco
di riso a
quelle di una palla da bowling, una cascata nera che andò
oscurando la fioca
luce dei Soli che tanto aveva faticato a fare capolino nella tempesta
scatenata
da Madre Natura. Come spinta da una sotterranea forza invisibile, la
lava non
si fece attendere: fiumi di magma incandescente iniziarono a sgorgare
da quelle
bocche che parevano rifornirsi direttamente dall’inferno,
riversandosi sui
pendii del vulcano di appartenenza e scivolando sui fianchi dello
stesso
placidamente, senza fretta, facendosi strada fra i massi e gli alberi e
gli
strapiombi a suon di detriti rotolanti e fiamme.
Pochi minuti, e l’intero
regno delle Ophidians si trovò circondato da
un anello di fuoco che andava sempre più espandendosi,
stringendo le sue
abitanti in una morsa fatale.
Con lo sguardo perso nelle fiamme,
Harmonia lasciò cadere le armi a
terra: no, no, no, no, no! Non poteva stare succedendo per la seconda
volta!
Non stava davvero fallendo di nuovo nel proteggere la propria gente!
Non stava
sopravvivendo a tutti ancora! No! No! NO!
Phobos le si avvicinò in
silenzio, ponendosi al suo fianco a osservare
l’orizzonte.
«Se rimarrai qui e
lascerai bruciare la tua gente, allora ti prometto da
oggi fino a quando le stelle si spegneranno» si
portò un dito sul cuore,
disegnando su di esso la sagoma di una mezzaluna che scavò
l’abito, la camicia,
fino a imprimersi sulla pelle come un marchio, segno del giuramento
«che
libererò il corpo del tuo amante e mi lascerò
uccidere senza opporre alcun tipo
di resistenza: sarai l’eroina delle Costellazioni, ma non
avrai più un popolo
da governare».
Si voltò.
«Altrimenti puoi sempre
correre da loro prima che la lava li
raggiunga, ma in quel lungo lasso di tempo io sarò
già fuggito, e un altro
tassello della profezia che pende sulla tua testa sarà al
proprio posto. La
scelta è solo tua» concluse.
Senza esitare, Harmonia
volò via.
---
Fiamme, fiamme ovunque volgesse il
proprio sguardo.
Stava avviandosi verso
l’entrata della città come indicatole da
Antares, quando Myricae -sentito un tremendo boato- aveva avuto la
pessima idea
di alzare gli occhi: i vulcani stavano eruttando, e lei era lontano da
tutte le
persone con le quali avrebbe voluto passare i propri ultimi istanti di
vita.
Fuggire era impossibile:
l’anello di fuoco impediva qualsiasi
spostamento via terra, cenere e lapilli e rocce ardenti avrebbero
ridotto a uno
scolapasta qualsiasi tipo di ala piumata o membranosa di chicchessia
avesse
voluto scappare via aerea, e la lava che riempiva i fiumi -grazie a
ponti di
magma solidificato che andavano formandosi su di essi, permettendo a
quello
fresco di scorrervi sopra- rendeva impraticabile
l’attraversamento degli
stessi. Oltre a tutto ciò, l’aria era ormai
talmente calda da risultare
irrespirabile, e solo le colline come quella dove si trovava lei
offrivano un certo
riparo dalla calura.
Per ora.
Un amaro sorriso si dipinse sul suo
volto: le Ophidians si erano
costruite una gabbia dorata per “proteggersi dal mondo
esterno”, e ora quella
stessa gabbia sarebbe stata la loro condanna a morte.
La sua parte rancorosa non provava
affatto pena per loro, pensando che
se la fossero cercata e che dovessero pagare le conseguenze del loro
egocentrismo o deficienza che fosse; la parte migliore di
sé, invece, quella
più magnanima e disposta al perdono, le gridava che doveva
fare qualcosa: le
avevano fatto del male, ma restavano pur sempre la sua gente.
Proprio quando
quest’ultimo suo lato stava per avere la meglio, la
Myricae più realistica e obiettiva prese parola: voleva
intervenire e salvare
tutti, ma che diavolo avrebbe potuto fare lei?
Harmonia doveva essere in
città da un pezzo, ormai, forse aveva anche
già affrontato Madre Natura, e se avesse potuto rimediare lo
avrebbe certamente
fatto senza pensarci due volte; a giudicare dalla lava che continuava a
colare,
dal fumo sempre più nero e dalle scosse che andavano
crescendo d’intensità e
durata, però, ciò non era accaduto.
“E se non
c’è riuscita lei, allora non posso certo sperare
di
riuscirci io”, si disse.
Rassegnata e piena di vergogna per
la propria inutilità, si voltò per
andarsene… o almeno ci provò, dal momento che una
sagoma incappucciata le corse
incontro a tutta velocità, scontrandosi con lei e facendola
capitombolare per
terra mezza ingarbugliata.
Dopo una lotta infinita con il
losco figuro per districare più di
dieci metri di coda, Myricae riuscì a rialzarsi; lancia alla
mano, puntò l’arma
sotto al mento dell’intruso. Senza opporre alcuna resistenza,
quello alzò le
mani in segno di resa.
Lentamente, fece scorrere la punta
acuminata sull’estremità del
cappuccio, scoprendolo: una cascata di capelli verde acqua si
riversò fuori
dallo stesso.
«… Amira…?» strabuzzò
gli
occhi, tanto stupita quanto incredula «Sei… viva?»
«Non ci vediamo da appena
sette secoli e voi mi credete morta? Ma che
comportazione è mai questa?!» squittì
sorpresa la schiava, alzandosi ed
esibendosi in una curiosa posa stile “Urlo” di
Munch «Ho solamente
settecentoquarantasettemila e novecentrotrentadue anni, Miulë
Myricae, sono nel
pieno del mio stadio embrionale! Piuttooostoooo…»
Senza preavviso, le si
lanciò al petto peggio di prima, iniziando ad
abbracciarla e stringerla con quanta forza avesse in corpo.
«Siete voi ad essermi
mancata tipo TANTOCOSì!
Giurin giurella! Credevo non di rivedermi
piùissimamente!»
come se fosse la cosa più naturale del mondo, le
fiondò la testa in mezzo al
seno «AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAWWWete! Sono ancora
più morbide morbidissime
di quanto ricordassi da che vi massaggiavo tuttecoseH dopo il bagno! Si
vede
che le strizzate per bene tutti i giorni! E le squame sono
così lucide
lucidissime che potrei specchiarmici dentro! Lasciatemi controllare
anche il
vostro pen-»
«Sì,
sì, sono contenta pure io, sono contenta pure io!»
non senza
fatica, sgusciò fuori da quella presa che stava soffocando i
suoi poveri
serpenti. Le mise le mani sulle spalle, tenendo a distanza lei e quelle
sue maledette
grinfie che s’infilavano ovunque
«Cosa ci fai qui?»
«Uh?» la
guardò stranita qualche istante «Ah,
sì! Stavo cercando
vostra madre Airë Tári Phentesilea, in
realtà, non credevo di trovarvi».
«Mia madre?»
«Lei, sì:
è
partita
per la sua consueta preghiera al tempio a pregare qualche ora fa
insieme a due nuove concubine, ma
non è ancora tornata. Dal momento che di solito non ci mette
tanto, ho voluto
raggiungerla, pensando che magari avesse bisogno di qualcosa o si fosse
sentita
male e le altre ragazze non sapessero cosa fare e come farlo. Quando
sono
arrivata però…» fece un profondo
respiro «… il tempio era quasi completamente
crollato, e della regina non c’era alcuna traccia. Tutto
ciò che ho trovato è
stata una specie di sfera di rovi e una grossa Sylkes priva
di-»
«Una Sylkes?»
Annuì.
«… Allora quel
bastardo di Phobos è riuscito a
scappare…» rifletté ad
alta voce.
«Phobos?»
«È una lunga storia, Amira,
lunghissima. Se ne usciremo vive
allora te la racconterò, ma fino ad ora è meglio
se-»
Una tremenda esplosione la
interruppe.
Con le orecchie che ancora
fischiavano, alzarono entrambe il naso al
firmamento: l’aria stava andando a fuoco.
Letteralmente.
Rocce infuocate grandi quanto
elefanti iniziarono a piovere dal cielo,
comete dalla coda fiammeggiante che squarciavano le nuvole nere
cosparse fai
fulmini e ricadevano a terra aprendo profonde ferite sul volto del
regno di
Quetzalli, ferite che avevano l’aspetto di giganteschi
crateri che bruciavano
l’erba e vetrificavano il terreno e sradicavano di prepotenza
qualsiasi cosa o
persona che si trovasse sulla loro traiettoria; in lontananza, le grida
delle
Ophidians iniziarono a riempire l’aria assieme
all’acre odore di zolfo.
Myricae strisciò fino
all’estremità della collina, indecisa se gettare
o meno il proprio sguardo in basso: sapeva già
cos’avrebbe visto, perché
torturarsi? Dopo infiniti attimi di profonda indecisione, si sporse.
E vomitò
l’anima subito dopo.
Con la puzza della carne bruciata
che le assaliva le narici lasciandola
senza fiato e il conseguente disperato tentativo di catturare
l’ossigeno che le
sfuggiva dalla bocca aperta per la sorpresa, un attacco di panico
s’impossessò
delle membra della generalessa di Phantasia, immobilizzandola: non si
muoveva,
non batteva ciglio, sembrava che nemmeno respirasse. Nella sua mente,
l’immagine
dei cadaveri delle sue madri si palesò in modo talmente
vivido che per un
attimo credette che non fosse solo fantasia.
Ingannata dai propri occhi, Myricae
si allungò verso lo strapiombo
chinandosi per raggiungere i loro corpi esanim-
«ATTENTA!»
Un nanosecondo di ritardo da parte
di Amira nel lanciarsi su di lei
per scansarla, e la colossale roccia caduta dinanzi a lei
l’avrebbe ridotta a
una frittella bruciacchiata.
Ancora a terra, la osservarono
entrambe confuse.
«Una… testa di
serpente?» domandò la serva.
Dall’altra non provenne
alcuna risposta.
Semplicemente, la naga si
alzò, offrì una mano alla concubina
perché
si alzasse a sua volta e la portò qualche passo
più in basso sulla collina,
dove -per un gioco di prospettiva- gli alberi si diradavano a
sufficienza da
lasciar vedere le montagne più alte; lì, le
indico un punto preciso.
Aguzzando la vista, Amira
rabbrividì: l’entrata della città era
quasi
completamente collassata su se stessa, un fiume di magma incandescente
che
stava inondando a velocità disarmante non solo il terreno
intorno al regno, ma
persino al di fuori di esso! Di quel passo, anche la corte di Phantasia
avrebbe
bruciato.
A quel pensiero, Myricae
tornò lucida: passa per il torturarla, passa
pure per l’incendiare Quetzalli per vendicarsi, ma guai a
toccare il nido suo e
della sua donna.
Guai.
Mossa dalla
ritrovata intenzione a fare qualcosa -non sapeva precisamente cosa, ma
ci
avrebbe pensato durante il tragitto-, lasciando
la schiava a contemplare quell’inferno, la serpentessa dalle
squame smeraldo
strisciò verso un piccolo tunnel scavato da qualche animale
sotto le foglie: se
suoi calcoli fossero stati esatti giusti, allora sarebbe spuntata nel
cuore del
Tauremorna, se fossero stati sbagliati… nah, meglio non
pensarci.
Quatta
quatta, in silenzio, vi s’infilò dentro non senza
una certa fatica. Nemmeno a
farlo apposta, l’altra la notò.
«State
fuggendo?»
Sorrise.
«Sto
andando a salvare il mondo», e sparì sottoterra.
---
La mano di Phentesilea le
sfiorò le ali, sangue dorato che colava
dalle venature sulle stesse per il massiccio -e inutile- utilizzo di
magia
fatto fino a quel momento.
«Hai fatto il possibile,
non è colpa tua se non basta».
Quante volte erano intenzionate a
ripeterglielo, quel dannatissimo
“non è colpa tua”? Ovvio che fosse colpa
sua, di chi altri avrebbe potuto o
dovuto essere?! Phobos ed Emilia del resto si stavano solo limitando a
fare i
cattivi che erano, era lei che
scarseggiava nel suo ruolo di buona!
Aveva mormorato incantesimi antichi
quanto il mondo e utilizzato fino
all’ultima stilla di magia che le scorreva nelle vene, per
tentare di
interrompere l’Apocalisse, persino Alice aveva mosso i
diggerwurm
nell’entroterra perché facessero da barriera fra
il magma incandescente e le
abitazioni, ma nulla di tutto ciò aveva avuto un effetto
differente dal
rallentare la sua avanzata, più che fermarlo definitivamente.
Quando poi i detriti avevano
iniziato a cadere come asteroidi, il
panico generale aveva investito anche lei.
Era stata tentata di farla cadere,
quell’ultimissima barriera sotto la
quale si trovavano gli harem e tutta la popolazione di Quetzalli,
congedarsi e
lasciare che la fine abbracciasse quel pianeta com’era
accaduto seimila anni
prima, specie perché -considerando quanto
tutto ciò le stava costando in termini di energia- sarebbe
stata comunque
questione di tempo prima che crollasse da sola, o che lo facesse sotto
i colpi
incessanti delle rocce che l’avevano già ben
più che incrinata.
Non erano nemmeno d’aiuto
le parole di conforto delle regine, che la
rassicuravano dicendole dirle che non era colpa sua, che aveva fatto
tutto il
possibile, che nessuno le avrebbe mai rimproverato nulla, non erano
d’aiuto
perché non era vero, che aveva tentato tutto-tutto:
avrebbe potuto restare e spezzare lo scettro di Madre Natura,
anziché correre
in loro soccorso, e non l’aveva fatto.
Non l’aveva fatto.
Non se n’era pentita, sul
momento, mai avrebbe abbandonato la propria
gente a morire senza stare in prima linea a difenderla, ma -ora come
ora- iniziava
a chiedersi se la sua fosse stata la scelta giusta.
Con la coda dell’occhio,
scrutò i volti delle Ophidians intorno a lei:
dalle concubine che da secoli servivano la loro regina alle ultime
catturate,
dalle leggendarie Airë Tári del Calaciryandë alle Miulë più
inesperte, dalle naga solitarie alle genitrici con le proprie neonate
attaccate
al seno che piangevano, tutte loro erano terribilmente spaventate,
terrorizzate, sfiduciate che potesse esserci una qualche speranza di
uscirne
vive.
E anche lei lo era. Tantissimo.
A vedere quella scena, con le madri
che tentavano disperatamente di
essere forti per le loro stesse figlie, la mente non poté
che andare
all’ultimissimo ricordo che aveva della propria, di madre:
aveva appena perso
suo marito, il compagno di una vita che aveva amato con tutta se stessa
e
l’amico migliore che avesse mai avuto, eppure con lei non si
era mostrata
debole nemmeno per un istante, nemmeno per un secondo. Aveva continuato
a
sorridere, lo aveva fatto anche quando -essendo loro due le sole
Starequus
rimaste in vita al massacro, protette dal cadavere di quel re caduto
che fino a
poco prima era stato suo padre- Apophis l’aveva catturata e
torturata e le
aveva strappato mezza ala di fronte alla sua bambina, e aveva sorriso
anche
quando erano fuggite insieme verso solo la Dea Senza Sudditi sapeva
dove.
Poi quella figlia per la quale
continuava ad essere così forte era
morta, e allora quel sorriso era scomparso insieme a lei.
Non aveva visto sua madre morire,
ma di certo la stessa sorte era
toccata anche alla regina dal momento che, una volta riportata in vita,
tutto
ciò che la Sovrana delle Galassie le aveva detto era stato
un semplice “Sei
l’ultima Starequus”, un modo breve e conciso per
dirle “Sei rimasta sola al
mondo, sola nella galassia, sola nell’intero cosmo, non hai
più nessuno”.
E ora quella frase rischiava di
doverla dire lei a una qualche piccola
Ophidians.
A quel pensiero, guardò
Hippolyta e Phentesilea, finalmente riunite
l’una fra le spire dell’altra: erano
così serene, così tranquille, a vederle nessuno
avrebbe detto mai pensato che si stessero abbracciando anche e
soprattutto per consolarsi
a vicenda in quel momento di sconforto, di paura, di consapevolezza che
-dopo
averla ritrovata- forse non avrebbero più rivisto la loro
bambina. Esattamente come
lo temeva lei.
Non sapeva dove fosse Myricae, ma
anche se l’avesse saputo era
cosciente che andare a salvarla avrebbe condannato tutte le altre: se
l’avesse
fatto, se fosse corsa a salvare la sua donna anziché le
Ophidians, allora la
sua partner stessa non gliel’avrebbe mai perdonato. Se ci
fosse stata lei al
suo posto, probabilmente le avrebbe detto di fregarsene della sua
persona e di
combattere finché i suoi polmoni avessero continuato a
espandersi e rilassarsi,
il suo cuore a battere, il suo cervello a suggerirle modi tanto
disperati
quanto improbabili per sopravvivere.
“Faremo a modo tuo,
allora”, si disse accennando un sorriso.
Si toccò il corno,
ancora bollente per tutti gli incantesimi evocati:
aveva ancora un po’ di magia di riserva, avrebbe dato fondo
anche a quella
prima di alzare bandiera bianca.
Issandosi sulla propria lancia, si
rimise in piedi; scordandosi delle
gambe che parevano gelatina e la testa che pareva sul punto di
scoppiarle, tese
le mani dinanzi a sé e chiuse gli occhi, concentrandosi per
richiamare quel
poco di forza rimastole in corpo per sferrare un altro paio di
incantesimi.
Rimase in quella posizione a lungo, ma si rese presto conto che non
stava
riuscendo a raggiungere la concentrazione necessaria: mentre sgombrava
la
mente, di sottofondo sentiva come un mormorio indistinto aleggiarle
nelle
orecchie disturbandola.
Si rivolse verso le serpentesse.
«Potreste cortesemente
fare silenzio?» chiese loro gentilmente,
cercando di non sembrare troppo brusca.
Si scambiarono fra loro sguardi
confusi, poi piantarono i loro occhi
su di lei.
«Hai le allucinazioni,
tesoro, perché nessuna di noi ha parlato»
asserì acida Antiope, proclamandosi portavoce delle sue
simili.
Ora era Harmonia a fissarle
sbalordita: non era pazza, o almeno
sperava di non esserlo.
“Rithannen i
geven
Thangen i harn
Na fennas i
daur!”
«Cosa?»
«Come?»
«Avete detto
qualcosa?»
«Insisti ancora? La
gweriadir che ti porti in giro te lo ha forse
sbattuto talmente tanto nelle orecchie da averti mosso il cervello,
reginella?»
Cielo, quanto avrebbe voluto
staccarle la lingua biforcuta dalla gola!
Per il bene della propria
reputazione, decise di fingere di non aver
sentito la frecciatina della tanto temuta Airë
Tári. Si sforzò di sembrare
calma, calmissima.
«Avete parlato
sì o no?» ripeté alzando la voce.
Tutte scossero la testa.
Avanti, non era pazza! No che non
lo era! Questa volta l’aveva sentito
forte e chiaro, quel suono, aveva udito delle voci vere e proprie e non
solo
dei brusii indistinti, era fottutamente impossibile che
nessun’altra ci avesse
fatto caso!
Un rapido movimento della mano, e
lo scudo da lei evocato si
assottigliò lievemente: se ora si fosse sentito qualcosa,
allora non sarebbe
stata l’unica a sentirlo.
Mai come ora sperava che qualcuno
confermasse le sue parole.
“Ôl
dûr
ristannen
Eryn echuiannen
I ngelaidh dagrar!”
Improvvisamente, una piccola
Ophidians dalle squame rosate alzò una
mano.
«Io signora ho sentito
qualcosa» sussurrò.
“Eccheccazzo!
Vedi che non
sei allucinata? Vedi che non sei l’unica? Lo sapevo io
che… che sto parlando da
sola, per l’amor della Dea Senza Sudditi,
vabbè”.
Le si avvicinò,
accovacciandosi alla sua altezza.
«Cosa ti è
parso di sentire, piccola?»
«Ophidiano. Parlanono la
nostra lingua. Hanno detto qualcosa sugli
alberi».
«Gli alberi?»
alzò un sopracciglio sorpresa.
«Gli Aldar, gli alberi
del Tauremorna. È
una canzone che la mamma mi ha letto prima di andare a dormire su un
libro
delle favole, “L’ultima marcia degli
Aldar”».
«Di cosa parla questa
canzone?»
«Della guerra,
signora» rispose con naturalezza agghiacciante.
Tutt’intorno tacque.
«È una bella favola, tesoro
mio, ma è una favola e nulla di più»
intervenne l’altra genitrice, imbarazzata
«Nessuno ha mai visto gli Aldar muoversi, la foresta
è sempre stata in quella
posizione».
Suo malgrado, Harmonia dovette
darle ragione: aveva seimila anni, e
mai in quel lunghissimo lasso di tempo aveva visto alberi spostarsi o
cantare o
fare le piroette; non metteva in dubbio che creature magiche del genere
potessero esistere, ma -se così era- lei non ne aveva mai
fatto la conoscenza.
“Ristar thynd,
cúa tawar
Dambedir enyd i ganed!
Si linna i waew trin ylf
isto i dur i chuiyl!
I ngelaidh dagrar!”
“A me queste voci non
sembrano poi tanto una favola, però”
pensò la Starequus, allarmata: qualsiasi cosa stesse
parlando, reale o meno,
era vicina. Vicinissima.
E dagli sguardi inquieti delle
Ophidians non sembrava
l’unica a pensarlo.
«Ma ti dico che sono
veri!» insistette la bambina «Non li abbiamo
visti muoversi perché stavano aspettando il momento giusto,
ma adesso quel momento
è arrivato!»
«Hai una fervida
immaginazione, cucciola, ma adesso basta» la madre si
fece avanti, prendendola in braccio nonostante le proteste
«Stai facendo
preoccupare tutte, non è affatto una cosa carina da
fare».
«Ma non li ho immaginati!
Loro esistono davvero!»
«Ho detto-»
«Guarda!»
indicò un punto perso nelle alture intorno
all’entrata della
città. Ovviamente, tutti gli sguardi si spostarono in quella
direzione.
Le voci -che da lì
parevano provenire- diventarono sempre più forti,
sempre più nitide, sempre più numerose, fino a
quando non diventarono un coro
così intenso da scuotere la terra e far cadere i frutti
dagli arbusti.
Colossali figure allungate dalle mille sottili braccia fecero capolino
all’orizzonte, i contorni che andarono delineandosi man mano
che si
avvicinavano alla valle: alberi. Aldar.
A dominare la scena dalla rupe
più alta, Myricae.
“Myricae?!”
In quel momento, Harmonia
sentì un principio d’infarto pervaderle il
petto, non si sapeva per la contentezza di rivedere l’amata o
per la sorpresa o
per la voglia di prenderle a calci lo squamoso fondoschiena: cosa
stracazzo ci
faceva lì? Come stracazzo c’era arrivata? Dove
stracazzo si era ficcata fino ad
ora? Perché stra-
«Cosa vi avevo detto?
Esistono!» squittì la bambina, fiera e impettita,
interrompendola.
Come rispondendo alla lancia che
l’Ophidian aveva alzato al cielo, i
guerrieri assopiti del Tauremorna continuarono a discendere dalle
colline
ordinatamente, in fila indiana, divisi in due gruppi che aggiravano a
destra e
sinistra il vulcano collassato -ovvero la porta di Quetzalli-
così che il magma
non ghermisse le loro radici; anche quando ciò accadeva,
però, semplicemente
continuavano a camminare imperterriti, inviolabili nella
serietà di quei volti
scavati nella corteccia da nodi e termiti: erano stati chiamati, e
portare a
termine la loro ultima marcia era un dovere che trascendeva qualsiasi
sacrificio.
Quando tutti quanti ebbero
raggiunto la pianura, migliaia e migliaia
di chiome di ogni forma e colore e dimensione si voltarono
all’unisono verso la
l’anello di fuoco che circondava la città;
allungarono i rami l’uno verso
l’altro per unirsi come una catena, poi levarono un ruggito
al cielo: allora, e
solo allora, iniziarono a risalire i vulcani.
Con le radici forgiate da millenni
di immobilità e indurite dalle
fiamme piantate nella nuda roccia, continuando a intonare ad alta voce
il loro
canto da guerra, gli Aldar scalarono compatti gli impervi pendii delle
montagne
senza mai arrestarsi o retrocedere quando uno di loro cadeva, scavando
il suolo
e riducendo in frantumi qualsiasi masso gli si presentasse davanti; nel
momento
in cui le basi dei loro tronchi uniti in uno solo furono finalmente
piene di
detriti e terra, allora anche la lava -incontrato quel muro
impenetrabile- fu
costretta a retrocedere.
Spinsero indietro il magma
incandescente per così tante decine e
decine di metri da sembrare che le cime di quell’anello di
fuoco fossero
distanti anni luce da loro, ma ad ogni metro che avanzavano era
evidente che
suddetta scalata si facesse sempre più lenta, sempre
più difficoltosa, complici
i corpi che stavano andando pietrificandosi.
Poi, un silenzio di tomba avvolse
la città: gli Aldar avevano concluso
la propria marcia.
Tutto ciò che rimaneva
di loro, era una gigantesca muraglia dai colori
dell’arcobaleno che si snodava lungo tutta la cintura
vulcanica di Quetzalli,
una barriera incurvata di legno percorso da ragnatele di crepe che
-grazie al
tremendo shock termico e alla pressione esercitata dai detriti-
lasciavano
intravedere il cuore d’opale di quelli che un tempo erano
stati i mitologici
guerrieri del Tauremorna, immobili e statuari tanto adesso quanto lo
erano
sempre stati.
Da parte sua, la lava continuava a
sgorgare dai vulcani, sì, ma -a
quella velocità- ci sarebbe voluto almeno un intero giorno
perché riuscisse a
straripare fuori da quel lunghissimo muro di legno opalizzato, e in
quelle
ventiquattro ore la questione Madre Natura sarebbe stata già
bella che
sistemata.
In teoria.
In pratica, ahimè,
c’era da fare tutto fuorché festeggiare e
adagiarsi
sugli allori. O sugli Aldar, insomma.
Come se la montagna più
grande dell’intera città avesse avvertito il
fallimento dei propri fratelli minori, un lamento profondo simile a un
ruggito
si riversò fuori dalle sue viscere a squassare
l’etere, un boato così
assordante da stare aprendo la terra, spazzando via le creature di
Madre
Natura, incrinando ancora di più la già fragile
barriera.
Intanto, il livello
dell’incandescente brodo primordiale contenuto
nella caldera quasi completamente collassata iniziò ad
aumentare di più, sempre
di più, fino a quando non finì per straripare
rovinosamente dal muro di legno
opalizzato; sulla sua superficie, gigantesche bolle di magma e roccia
fusa che
si gonfiavano e scoppiavano e si rigonfiavano al ritmo delle scosse che
parevano provenire dalla terra sotto il vulcano, bubboni dai colori
dell’inferno che lanciavano nell’aria tonnellate e
tonnellate di rocce fuse e
meteoriti infuocate e gas venefici talmente scuri e compatti da non
riflettere
nemmeno la poca luce proveniente dall’ambiente esterno. Pochi
minuti, e
Quetzalli si trovò avvolta in un velo più nero
delle profondità del cosmo.
Allora, tutto parve congelarsi.
Una surreale quiete calò
come una cappa di piombo sulla città, un
clima di silenzio e calma piatta nel quale -aguzzando
l’udito- si sarebbero
potuti udire e contare uno per uno persino i battiti del cuore che
martellava
il petto della Regina di Phantasia, immobile come tutto intorno a lei.
Poi, un lamento profondo simile a
un ruggito squassò l’aria.
Dinanzi all’onda
d’urto di quel tremendo boato, la terrà si
spaccò, le
creature di Madre Natura vennero spazzate via come fuscelli da un
tornado, la
già pericolosamente fragile barriera divenne una cupola
scricchiolante percorsa
da ragnatele chiare.
Una spaventosa esplosione, e della
montagna non rimase che un enorme cratere:
all’interno di esso, emerso dalla cenere e dalla nebbia come
un cadavere lì
seppellito, un colossale leone di magma che trasudava lava dalle zanne
d’ossidiana, dalle fenditure fra le rocce che costituivano il
suo immenso corpo
scuro, da quell’informe ammasso scoppiettante di fuoco e
fiamme che si
protendevano con prepotenza nell’aria bollente che era la
criniera.
Aprì i propri brillanti
occhi gialli, e Harmonia capì che quello
sguardo era diretto a lei e lei soltanto: era una creatura di Phobos,
quella, cos’altro
avrebbe dovuto aspettarsi?
Che si muovesse, magari.
“Merda”.
Nonostante il panico e la paura e
la consapevolezza di non avere più
certezze, la Starequus riuscì comunque a fare chiarezza
nella propria mente,
così da tirare il punto della situazione: era allo stremo
delle forze, aveva
quasi esaurito il proprio repertorio di incantesimi, il suo scudo
avrebbe
ceduto al prossimo minimo tocco condannando l’intera
città e la sua
popolazione, c’era un felino fiammeggiante alto decine di
metri che stava
incendiando qualsiasi cosa sulla quale posasse le proprie zampe che
avanzava
nella sua direzione e, tanto per cambiare, la sua donna era proprio
dove- oh cazzo.
Rendendosi conto che la collina
doveva aveva visto Myricae era la
stessa crollata insieme al vulcano, alzò lo sguardo:
dell’Ophidians non c’era
più traccia.
Una fitta le trapassò il
petto come una coltellata, i polmoni che le
si svuotarono tutto d’un tratto lasciandola senza fiato in
gola: o era
scappata, o era morta.
Tirò un profondo
respiro: si ricompose, chiuse gli occhi e tornò a
mormorare le proprie magie imperterrita, solerte, dedita ai propri
doveri di
regina. Il leone in rapido avvicinamento non la spaventava, non
più dell’idea
di aver perso l’altra metà della mela, del cuore,
dell’anima: era già vissuta
più a lungo della propria gente, sarebbe sopravvissuta anche
a lei?
Il suo cervello le gridò
la risposta.
Non lo volle ascoltare.
---
Gettò la lancia per
terra.
Su un’altura a strapiombo
sul magma sottostante, davanti a sé, Phobos,
scettro alla mano e frecciatine pronte da sputare come veleno sulla
lingua.
Sul volto, un sorrisetto beffardo
che significava solo una cosa: al
contrario di una povera Emily Jane con gli occhi fuori dalle orbite e
la
mandibola per terra, lui non era rimasto per nulla impressionato dallo
spettacoluccio degli Aldar, probabilmente perché -col suo
enorme felino di
fuoco- ne aveva messo in piedi uno decisamente più
interessante, più
pericoloso, più letale.
Prima ancora che Myricae fosse
sufficientemente vicino da poter essere
sentita, il rosso già aveva avvertito della presenza. Non si
era girato, ma
aveva assunto un’aria corrucciata.
«Noto che sei ancora
viva» asserì con tono contrariato.
«Un colpo di
fortuna» fece spallucce lei «niente di
più e niente di
meno. Non avevo un piano di riserva per scappare in caso di pericolo,
ma
Quetzalcoatl deve finalmente avermi notata e aver deciso di darmi una
zampa,
facendomi ruzzolare in una buca quando l’onda
d’urto ha colpito. E poi non
volevo né potevo privarmi del piacere di venire a spaccarti
quel tuo dolce
visino di persona, sarebbe stato scortese lasciare il lavoro a
metà».
«No di certo»
convenne l’altro, ridacchiando «ma temo che tu sia
in
ritardo, tanto per tagliarmi la gola quanto per salvare tutti quanti. È sicuramente stato un nobile
sacrificio, quello dei
tuoi amici ramoscelli, tanto ingegno mi ha addirittura piacevolmente
sorpreso, ma
devo confessarti che è stato anche totalmente inutile: un
mio schiocco di dita»
imitò il gesto «e un paio di placche tettoniche si
scontreranno seduta stante,
aprendo un nuovo Abisso che inghiotta tutti questi ridicoli regni in un
battito
di ciglia. Non che ce ne sia bisogno, sia chiaro, il mio leone
brucerà il
pianeta prima di dovermi scomodare a fare tanto».
Finalmente, si voltò.
«Ho i miei poteri, e ora
anche quelli di Madre Natura: come pensi di
fermarmi?» domandò incuriosito «Come riesci a convincerti di poter
spazzare via tutto ciò che ho
creato con un potere che tu nemmeno puoi immaginare? Come credi di
salvare te
stessa, Harmonia, le tue madri, la tua gente, Exodus intera? Come puoi
sperare
di farlo proprio tu, una semplice Ophidians senza incantesimi
né magia né capacità
particolari, niente più che una grossa e fastidiosa biscia
ermafrodita, uh?»
Allargò le
braccia in segno di sfida.
«Come?»
Lei sorrise.
«Così».
Un rapido movimento per sgusciare
via dalla vita di Madre Natura, e il
serpente mozzatole dal capo si lanciò sulla mano del rosso,
serrando le proprie
zanne intorno ad essa; in una reazione istintiva e primordiale a quel
dolore
lancinante, Phobos aprì le dita.
E lo scettro gli scivolò
nella lava.
Fu come lasciar cadere le tessere
di un domino: i mostri si disfarono
e dissolsero come sabbia portata via dal vento, le nubi nere di
tempesta
evaporarono in una pioggerellina delicata, le meteoriti piroclastiche
esplosero
a mezz’aria come fuochi d’artificio che colorarono
la colorarono, la cenere
venne portata via dalla rugiada per lasciare posto ai caldi raggi dei
due Soli
che rischiaravano il cielo ormai limpido, l’aria bollente
finalmente tornò ad
essere pervasa dal fresco e delicato profumo degli alberi in fiore.
Al leone di magma -ormai prossimo
alla barriera che cadeva a pezzi-
toccò la stessa sorte: partendo dalle zampe fino a salire su
per il possente
corpo in fiamme, poco a poco il fuoco che ardeva nelle sue viscere
venne
soffocato in un guscio di ossidiana; lanciò un ultimo
possente ruggito, quando
la pietrificazione raggiunse l’occhio fiammeggiante e lo
spense, ma venne
interrotto dalla roccia che s’insinuò nella sua
gola.
Myricae non se lo fece dire due
volte: raccolse la propria lancia,
strisciò fino al fianco di un Phobos in stato catatonico e
lì si fermò. Aguzzò
la vista, caricò il braccio all’indietro e prese
la mira. Infine, scoccò.
Un lungo fischio provocato
dall’arma che fendeva l’aria, poi la statua
nera s’infranse in mille e mille pezzi come fragilissimo
cristallo.
Era finita. Finita.
Più o meno.
Nemmeno il tempo di tirare un
sospiro di sollievo, infatti, e si trovò
le mani del rosso strette intorno al collo.
«Maledetta puttana!
Distruggerò il tuo fottuto pianeta! Raderò al
suolo fino all’ultimo filo d’erba di questa
città piena di ermafrodite
ninfomani! E poi toccherà a quella della squilibrata
bipolare! E infine al
regno della tua troia, ma non prima che me la sia scopata! Oh, puoi
stare certa
che me la scoperò, lo farò eccome! Mi
sbatterò pure tua madre, anzi tutte e due
le tue madri! E mi assicurerò che tu assista, che mi caschi
il cazzo se non ti
farò guardare! Ti ridurrò a un ammasso di carne
maciullata, e non potrai fare
proprio nulla per impedirmelo! NULLA!»
Odiava ammetterlo, ma dovette
dargli ragione: lei ci stava pure
provando, a scollarselo di dosso, ma più tentava
più si sentiva le braccia e la
coda molli, di gelatina, come se non avesse più forza in
corpo… e in effetti
era proprio così.
Avrebbe tanto voluto dormire, non
chiedeva altro: accendere qualche candela
alla pesca, qualcuna al limone, acciambellarsi sotto le coperte calde
insieme
ad Harmonia, stringersela al petto, affondare il viso nei suoi capelli
morbidi
e chiudere gli occhi fino al mattino seguente, consapevole che, al
risveglio, l’avrebbe
trovata sempre lì al suo fianco. Andando avanti di quel
passo, effettivamente gli
occhi li avrebbe pure chiusi.
Per sempre, s’intende.
Una ginocchiata sul ventre per
farla piegare, e Phobos la gettò a terra;
le si mise a cavalcioni sull’addome, la presa sempre ben
salda al collo ormai giallo
e blu e viola che le premeva il capo contro l’orlo del
precipizio.
Con la coda dell’occhio,
la naga sbirciò sotto di sé: un lago di lava
incandescente, ecco cosa l’aspettava se fosse caduta.
Nemmeno il tempo di voltarsi, e il
suono del pugno dell’altro che
impattava contro il suo zigomo le riempì le orecchie,
credette quasi di
avvertire ogni singolo frammento d’osso nel quale le aveva
spaccato prima una
guancia, poi l’altra, fino a quando il dolore era diventato
talmente intenso da
non avvertirlo nemmeno più.
«E questo è
solo l’inizio! L’inizio! Ho in serbo cose ben
peggiori per
te!» le gridò contro il rosso, i suoi pugni che
continuavano a cadere con
violenza inaudita sul volto tumefatto.
In un disperato tentativo di
liberarsi, Myricae allungò faticosamente
una mano verso una roccia piatta e appuntita poco lontano da dove si
trovava
costretta; tese il braccio il più possibile,
sentì persino la spalla lussarsi, ma
non aveva importanza: era così vicina, così
vicina!
Poi una stilettata corse veloce
dalle sue dita all’arto intero fino al
cervello, dove il dolore esplose con prepotenza immane. Piantato nella
mano, un
pugnale.
«Credevi davvero di
potermi fottere? E invece!» ringhiò Phobos,
girando
e rigirando il coltello conficcato nelle carni dell’Ophidian.
Si chinò su di lei.
«Avrei preferito tenerti
in vita per lo spettacolo che sarebbe venuto
dopo solo per gustarmi la tua faccia nell’assistervi, ma vedo
che non vuoi collaborare
nel farmi passare la voglia di staccarti la testa qui e subito. Non
sono
paziente» afferrò l’arma e, con uno
strattone, se la riprese «non ho tempo da
perdere» fece scivolare l’altro braccio dal collo
fino a sotto il mento della
naga, così da poter vedere chiaramente le arterie affiorare
sotto la sottile
pelle della gola «e non ho nemmeno fiato da sprecare: me la
sarei pure
risparmiata, ma se la metti su questo spiacevole piano»
puntando alla
giugulare, alzò il braccio al cielo «allora non
collaborerò nemmeno io!» infine,
calò il pugnale.
Che si arrestò a mezzo
centimetro dal collo dell’Ophidians.
Stretto intorno al polso del rosso,
un viticcio rinsecchito che
brillava di un malsano e opaco alone smeraldino.
Precisamente lo stesso che fluiva
dalle esili dita della figlia
dell’Uomo Nero: ritta in piedi qualche metro più
in là, tremante, col fiato
corto -non si sapeva se perché pentitasi dell’aver
tradito chi l’aveva tradita,
o per quanto quella magia recuperata nei meandri delle proprie vene le
stesse
costando in termini di energie- e un’espressione
indecifrabile sul volto, un
misto fra rabbia e terrore puro.
Al contrario, lo stato
d’animo di Phobos era facilmente intuibile, a
giudicare dallo sguardo omicida espresso dalle sue pupille ridotte a
due infime
fessure perse nell’oro.
«QUESTA DOVEVI
RISPARMIARTELA! GIURO CHE TI-» non fece in tempo a
terminare la frase, che si trovò la guancia scarnificata
dalle affilate squame
sul dorso della mano di Myricae.
Non seppe nemmeno lei dove
riuscì a trovare la forza necessaria per
sferrare quel pugno, per gettarsi addosso all’altro
scambiandosi di posto e
sovrastandolo, per stringerlo nelle spire mentre i suoi serpenti lo
tenevano inchiodato
al suolo, fatto stava che ci riuscì. Perse il conto dei
pugni che gli aveva
fatto cadere addosso, dei morsi che i suoi piccoli ofidi avevano dato
al suo
corpo fino a paralizzarlo, delle frustate con la coda con le quali gli
strappò
di dosso i vestiti e la pelle e la carne, perse il conto e non ci tenne
a
sapere da quanto tempo stesse andando avanti: lui non aveva avuto
pietà per
lei, per la sua gente, per il cuore di Harmonia, e nemmeno lei ne
avrebbe
avuta.
Quando di Phobos rimase solo un
grumo insanguinato che borbottava
bestemmie e pregava una certa “Barbie Platinata” di
rifarsi viva, Myricae gettò
lo sguardo sul pugnale scintillante del rosso, ad appena una manciata
di
centimetri da lei: a quella storia era stato posto un punto e virgola,
sette
secoli fa.
Senza nemmeno rendersene conto, si
trovò a girarsi l’arma fra le dita,
contemplando il da farsi: sì, era ora di metterci un punto.
Gli poggiò la lama in
mezzo agli occhi: un punto fermo.
Era lì per
affondarglielo nel cervello e mettere fine alle agonie sue
e altrui, che uno scossone la fece sobbalzare. Abbassò lo
sguardo: vuoi per
tutti i terremoti della giornata, vuoi per le intemperie, vuoi per un
colpo di
sfiga, la roccia sotto di loro si stava sgretolando.
E -a giudicare dal sorriso sornione
che aveva addosso- Phobos doveva
averlo notato da un pezzo.
«Dovrefti vedere la tua
faccia in quefto momento! Non ha affolutamente
prezzo!» rise sputacchiando qualche dente «Cofa
vuoi fare, generaleffa? Uccidermi
e fchioppare pure tu, o lafciarmi andare e sopravvivere? In entrambi i
cafi,
dubito che la tua regina farebbe contenta, no che non lo
farebbe!»
Myricae non rispose.
«Cofa
c’è, il ferpente ti ha mangiato la lingua? Ah no,
tu fteffa fei
un ferpente!» la perculò.
Anche adesso, però,
dalla naga non provenne nessuna risposta: era
silenziosa, immobile, imperscrutabile, e lo era anche mentre lo
spuntone
roccioso dove si trovavano continuava a disgregarsi.
Al contrario, a vedersi
letteralmente mancare la terra sotto i piedi,
il rosso pareva un filino più preoccupato di lei.
«Intendi ftare
lìa guardarmi con quegli occhi da pefce leffo, o vuoi
deciderti a fare qualcofa? Non ti importa proprio niente niente niente
che
moriremo in due e lafcerai sola la tua donna? Non ti fenti nemmeno un
pochiiiiino
in colpa?» le domandò nervosamente dopo qualche
istante di impaziente silenzio,
come se il non aver ricevuto una risposta l’avesse colto di
sorpresa. Tentò un
altro approccio «Non ti vergogni di aver provocato tutto
quefto cafino, uh? Hai
fatto muovere l’efercito di Harmonia, hai provocato la morte
di un fottio di
perfone, ftai provocando l’eftinzione di un popolo che era
fereno, prima del
tuo arrivo. Ne fei fiera, forfe?»
Nulla, nada de nada, solo silenzio.
Di nuovo.
A quel punto, la pazienza del rosso
andò a farsi benedire.
Con uno scatto, afferrò
due dei serpenti che l’Ophidians aveva sul
capo, tirandola prepotentemente a sé.
«Parla! PARLA!
PORCOILCAZZO DÍ QUALCOFA!» sbraitò
iracondo, strattonandola
«Parlami del tempo, delle mezze ftagioni che non ci fono
più, della tua
attività feffuale: dimmi qualfiafi fottuta cosa ma dilla! DILLA!»
Sorrise. Con tutta la calma del
mondo, srotolò la propria coda dal
corpo del nemico, si mozzò a malincuore le due bisce dal
capo e, semplicemente,
indietreggiò.
A vedersi liberato, il rosso la
fissò allibito, sembrava la faccia di
Phentesilea quando le aveva sentito bestemmiare il nome di Medusa
dentro il
tempio di Quetzalcoatl; si rimise in piedi, ma -anziché
porgere attenzione a
dove aveva i piedi- rimase incantato a guardarla stranito, confuso,
pure un po’
gongolante: forse aveva deciso di arrendersi, forse aveva ceduto al suo
charme,
forse voleva tradire la sua regina e passare al lato oscuro!
Come risposta, Myrica
alzò il dito medio.
«Fottiti».
Poi l’intero crostone
roccioso sul quale si trovava Phobos collassò
nella lava, trascinandolo giù nel magma incandescente
insieme a migliaia di
metri cubi di terra e pietre e alberi.
Incuriosita, strisciò
sul bordo dello strapiombo per vederlo morire.
Una timida quanto silenziosa Emily Jane la imitò.
Entrambe, però,
ricevettero un’amara sorpresa: quando il suo corpo fu
a pochi metri dalla morte fatta lava, una fiammata nerastra avvolse il
rosso
come un mantello d’oscurità, facendolo svanire nel
nulla più assoluto.
A quella vista, la Pitchiner
sbiancò.
«Tornerà per
uccidermi» fu tutto ciò che si trovò in
grado di
mormorare, gli occhi sbarrati e la bocca secca che si rifiutava di
mandare giù
la saliva «tornerà per me, sì, e
allora-»
Non fece in tempo a finire, che
tentacoli di fuoco nero spuntarono
dalla foresta e le si avvolsero intorno alle caviglie, trascinandola a
terra;
istintivamente, Myricae si gettò verso di lei, tendendole le
mani perché non
venisse trascinata nel folto degli alberi. Non seppe dirsi
perché lo fece, non
considerando che quella era la stessa donna che aveva fatto torturare
sua madre
e fatto del male alla sua partner e messo in piedi quel gran casino, ma
mise a
tacere il proprio buonsenso pensando che -in una situazione del genere,
rivalità o meno- Harmonia avrebbe fatto la stessa identica
cosa.
Per avere maggiore presa, si
ancorò con la coda a una roccia
sporgente.
«Non lasciare le mie
mani! Non lasciarle andare o sei fottutamente
morta, chiaro?!» gridò alla figlia
dell’Uomo Nero, fin troppo consapevole di
chi ci fosse dietro a quel teatrino. Strinse le spire attorno al masso,
a mo’
di carrucola «Adesso inizio a tirare, va bene? Mi hai
capita?»
«Non mollarmi! Non
mollarmi! Ti prego! Ti scongiuro! Ti supplico!»
«Io non ti mollo sicuro,
ma collabora anche tu, per gli dei! Dammi una
mano e- PER LA FOTTUTA MUTA INVERNALE DI
NAEVIA CHE RIEMPIE IL CASTELLO DI PELI, INTENDEVO METAFORICAMENTE!
METAFORICAMENTE!» strillò tanto adirata
quanto basita vedendo che Emily -forse
presa dal panico, forse semplicemente rincoglionita- aveva mollato una
mano per
porgergliela, salvo quest’ultima venire afferrata dai
tentacoli infuocati. Basita,
tirò fuori il piano “b”, aggiungendo
alla presa delle dita con quella dei suoi
serpenti «E questi vedi di non mollarli!»
precisò.
Ma un conto era dirlo, un altro
farlo: per ogni centimetro
faticosamente guadagnato, allora Phobos -seppur indirettamente
presente- ne
guadagnava cinque, dieci, trenta, cinquanta, un metro e così
via, fino a quando
la coda dell’Ophidian non iniziò a cedere e
srotolarsi piano piano dalla
roccia.
Lo notarono entrambe, ma -se la
naga finse di non farci caso e
continuò a fare ciò che stava facendo, diventando
paonazza in viso per il
tremendo sforzo- fu la Pitchiner a prendere in mano la
situazione…
letteralmente.
«Myricae» la
chiamò, atona.
«Cosa
c’è? Sarei un attimo impegnata a cercare di non
morire, come
vedi».
«Sei davvero fortunata ad
avere Harmonia» le sorrise «Tienitela
stretta, mi raccomando».
Mollò la presa.
Svanì.
Il rinculo per quella tremenda
forza improvvisamente dileguatasi fece
ruzzolare via la naga, spingendola fin sul ciglio del baratro che si
apriva sul
lago di lava. Per sua fortuna, un massiccio tronco venne in suo
soccorso,
fermandola prima che ci cascasse dentro.
Stesa con le braccia larghe e la
coda penzoloni, stremata, indolenzita
al punto da non avere nemmeno più la forza necessaria per
pensare, Myricae impiegò
svariati minuti per realizzare cosa diavolo fosse accaduto negli ultimi
minuti;
spaesata e confusa, si guardò intorno: non c’era
più nessuno, su quell’altura,
solo lei e un profondo, rilassante, solenne silenzio.
Era finita? Era finita veramente,
questa volta?
Una farfalla le si posò
sul naso, scrollandosi la cenere dalle fragili
ali diafane; alzando gli occhi per guardarla, la risposta venne da
sé: il cielo
limpido, le nuvole bianche timidamente tinte dai colori del tramonto,
l’aria
pura che profumava di frutti esotici, una brezza fresca ma piacevole
che donava
sollievo alla pelle martoriata dalle ferite, la calda luce dei Soli che
si
rifletteva sulla muraglia di legno opalizzato, avvolgendo in una gabbia
di
arcobaleni l’intera città. Già, la
città: in una giornata appena, su di essa si
erano scatenati eventi naturali tremendi come meteoriti, terremoti,
inondazioni, incendi, tornado, mostri vari, piante assassine e faglie
che
l’Abisso al confronto era solo una buca scavata con la
paletta da un bambino in
spiaggia, ma a vederla pareva che nulla di tutto ciò
l’avesse mai sfiorata.
Forse il terreno intorno a
Quetzalli somigliava più a una forma di
Emmental bruciacchiata che ad una pianura lussureggiante, forse la
stragrande
maggioranza dei vulcani era stata letteralmente ridotta in polvere,
forse il Tauremorna
era stato quasi completamente raso al suolo perché gli Aldar
salvassero la
città dalla lava, ma gli harem erano intatti, e
così chiunque vi abitasse. C’erano
stati danni ed erano stati danni tremendi, vero, ma -con tanta pazienza
e
dedizione- il terreno si sarebbe sempre potuto bonificare, mentre nulla
al
mondo avrebbe ridato una figlia a una madre, una moglie a una vedova,
un
passato a chi non ne aveva più uno. Fortunatamente, quello
non era il caso.
Sorrise: sì, era
decisamente finita, ed era finita bene.
Con quella consapevolezza ben
chiara nella mente e le membra che
imploravano pietà, decise di concedersi del meritato
riposo… salvo venire
disturbata da un qualcosa di vagamente appuntito che le punse la
schiena. Istintivamente,
scattò sui gomiti.
Sedutasi, si girò per
controllare cosa diavolo fosse: un sassolino, a
quanto sembrava.
Nel momento in cui lo prese fra le
dita per osservarlo, però, quella pietruzza
le parve più un pezzo di carbone, un frammento di brace
scuro ancora caldo e
fumante attraversato da venature smeraldine a dir poco microscopiche.
Non si
sorprese: con tutti gli alberi andati a fuoco in quella giornata,
trovare dei
rimasugli della grigliata organizzata Phobos per il week-end non
sarebbe certo
stato un fenomeno paranormale per il quale convocare Manny in persona!
Stava per gettarlo, quando
notò che il colore di quel tizzone bollente
stesse cambiando proprio sul suo palmo della sua mano, davanti ai suoi
occhi
increduli: da nero che era, prima divenne grigiastro, poi color avorio,
infine
bianco immacolato, come se fosse stato malamente pitturato e la tempera
si
stesse sciogliendo per il calore.
Lo guardò qualche
istante, perplessa, poi recuperò la saccoccia, ce lo
infilò dentro e si assicurò che non uscisse fra
una maglia e l’altra: “Meglio
farlo vedere ad Harmonia”, pensò.
Non senza una certa fatica, si
alzò; dopo qualche istante per trovare
l’equilibrio, diede una vigorosa pacca al borsello.
«E allora andiamo a
farglielo vedere».
_______________________________________________________________________
Angolino dell’autrice
… Questo capitolo
avrebbe dovuto essere quello
conclusivo della “saga” di Quetzalli, ma di
conclusivo non c’è un bel niente,
dal momento che c’è stato l’ennesimo
taglio in due capitoli che altrimenti
sarebbero venuti lunghi quanto e più della lingua velenosa
di Phobos, mi scuso
se la sto davvero tirando per le lunghissime ma il dono della sintesi
non l’ho
mai avuto :’D ma almeno si scoprono altarini lunari su
altarini lunari :D
Comunque ecco, sono accadute un bel
po’ di cose e
spero che le varie sequenze non risultino confusionarie, nel caso
abbiate
bisogno di delucidazioni chiedete pure senza problemi :)
Intanto, vi lascio la traduzione
della canzone che ho
inserito, ovvero “The Last March Of The Ents” da
“Il Signore degli Anelli”.
DAL
TESTO
“Rithannen
i geven
Thangen i harn
Na fennas i daur!”
“Ôl
dûr ristannen
Eryn echuiannen
I ngelaidh dagrar!”
“Ristar
thynd, cúa tawar
Dambedir enyd i ganed!
Si linna i waew trin ylf
isto i dur i chuiyl!
I ngelaidh dagrar!”
TRADUZIONE
“Earth
shakes
Stone breaks
The forest is at your door!”
The
dark sleep is broken
The woods have awoken
The trees have gone to war!”
“Roots rend,
wood bends
The Ents have
answered the call!
Through
branches now the wind sings
Feel the power
of living things!
The trees have
gone to war!”
Oh, se qualcuno non sa cosa sia il
legno opalizzato vi
lascio qualche foto per rendere l’idea :)
Alla prossima!
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