Broken Crown

di Youth_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. Immortal ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. I promise ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. Hopeless ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. Feed the madness ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. Talking to the moon ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. What I left behind ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. Immortal ***


“La vita è l’infanzia della nostra immortalità
- Goethe”




- Ah-ha! Non mi prendi!-
Un paio di occhi verdi scrutarono il sentiero da dietro la siepe del giardino. Ridevano, ma se qualcuno avesse allungato un po’ di più il collo, avrebbe visto anche il sorriso del ragazzo, splendente come il sole che illuminava il castello quel giorno.
- Vedremo, piccolo marinaio!-
Una matassa di capelli biondi illuminò lo spiazzo in pietra, il centro del labirinto dei giardini reali: gli occhi azzurri della fanciulla scrutarono attentamente lo spazio circostante.
Il ragazzo si lasciò scappare una risatina, e allora la bambina si voltò, individuando quegli occhi giocosi che la scrutavano con pericolosa e pura ammirazione. Sorrise, vittoriosa, e si lanciò di nuovo all’inseguimento.
Il ragazzino, dando prova della sua effettiva dimestichezza con la corsa, si allontanò a grandi falcate, con una velocità impressionante per un giovane, giovanissimo marinaio.
Lui e la sua simpatica inseguitrice avevano appena nove anni, meno di quanti loro potessero considerare effettivamente importanti, eppure sulle loro teste capeggiavano i nomi più chiacchierati di tutto il regno.
La ragazza si fermò esausta: un movimento di troppo, e il fanciullo si rivelò ai suoi occhi attenti: troppo stanco per scappare subito, si concesse un secondo di tregua.
Approfittando di quel momento di disattenzione, la principessa intraprese il salto più coraggioso che avesse mai fatto prima di allora, e si gettò sul ragazzo, inchiodandolo a terra.
Il ragazzo si sentì imprigionato, più dagli occhi della bambina che dalla sua presa sui polsi.
Rise di gusto, mentre la ragazzina cercava di bloccargli le gambe con le ginocchia: avrebbe potuto liberarsene in un attimo, ma preferì lasciarle godere quel piccolo momento di gloria:
- Che si decanti tutto, della principessa Emma!- esclamò lui con voce pomposa, come era solito fare quando voleva imitare uno di quei ridicoli ambasciatori che la scortavano dappertutto:- La bellezza, la grazia, l’intelligenza... Ma che nessuno sottovaluti la sua astuzia!-
- Smettila!- ridacchiò la principessina, pulendosi le mani sporche di terra sulla giacca del fortunato ragazzo, come era solita fare solo con lui:- Dovresti sapere con chi hai a che fare-
- Con una ragazzina?-
- No- sorrise lei, come da rituale:- Con una guerriera!-
Il ragazzo ricominciò a ridere, facendo arrossire le guance rosate dell’aggraziata fanciulla:- Perché fai così?-
- Perché sei solo uno scricciolo, Swan-
- E tu, Killian, sei solo un marinaio antipatico!-

Emma si alzò, lasciando che anche la sua vittima potesse alzarsi e pulirsi le maniche sporche.
- Tua mamma?-
- Uhm?- mormorò la bambina, non curandosi dell’orlo del vestito sporco di fango.
- Tua madre. Non dovrebbe essere qui?-
- Per quanto ne so, è in giro con mio padre- rispose lei vaga, con quel tipico scarso interesse dei bambini nei confronti degli affari dei “grandi”:- A fare delle... Cose-
- Sembra molto interessante-
- Insolente!- lo rimproverò lei, dandogli un colpetto sulla spalla:- Comunque hai ragione, non dev’essere granché, la vita di due sovrani. Sono sempre di qua e di là a cercare di acquietare il regno...-
- Un giorno sarà tutto tuo- sorrise Killian, incamminandosi con lei verso il palazzo:- La cosa non ti emoziona?-
La principessa sembrò pensarci, come se la prospettiva del suo futuro come regina, in fondo, non le interessasse poi tanto:- Dovrebbe?-
- Direi proprio di sì- annuì il ragazzo, sedendosi su una panchina.
- Allora sì, ne sono estremamente lusingata- dichiarò lei, utilizzando quei paroloni che aveva appreso, dai significati più grandi della sua stessa bocca.
Si sedette accanto al fanciullo, e sospirò:- Tu hai una vita grandiosa-
- Chi, io?- esclamò Killian, strabuzzando gli occhi:- Sì, certo, immagino che pescare sia un’attività che va molto di moda a corte-
- Non intendo questo- lo riprese lei, piuttosto spazientita:- Tu giri coi piedi nudi. Giochi quanto vuoi. Hai visto posti che non riuscirei nemmeno a sognare, e per di più non devi sottostare a nessuna regola d’etichetta-
- Ci sono pro e contro, fidati- ribatté allora lui, incrociando le gambe all’indiana:- Posso giocare più spesso ma non c’è molto con cui giocare: non restiamo mai nello stesso posto per troppo tempo, farsi degli amici è praticamente impossibile-
- Ma ci sono io- rispose lei, con ovvietà.
Killian sorrise, accondiscendente:- Ci sei tu perché abbiamo un contratto con la tua famiglia. Vi dobbiamo sempre portare il ricavato della nostra caccia per mare-
- Beh, e allora di cosa ti lamenti?- sorrise lei, accomodandosi accanto a lui sulla panchina.
Killian non arrossiva mai, ma quando si trattava di Emma, era sempre sul punto di fare un’eccezione:- Non esisti solo tu, Swan-
- Che simpatico- replicò lei, punta nel vivo da quell’affermazione:- E comunque vale la stessa cosa anche per te. Ci sono un sacco di bambini che vorrebbero giocare con me. Figli di conti e di principi di altri regni-
- E allora perché io sono qui?- ridacchiò lui, sfoggiando uno dei suoi sorrisi che l’avevano sempre salvato dalle situazioni sconvenienti.
Ma con la Swan era diverso. Emma non ci cascava mai.
- Rispondi tu alla domanda-

Killian si morse il labbro inferiore, a disagio. La principessina era molto più astuta di quanto lui stesso volesse ammettere, forse più di tutte le figlie dei re che aveva incontrato. Non che ne avesse incontrate tante: e quelle poche i cui genitori avevano consentito a comprare la loro merce, erano decisamente troppo viziate per lui.
Emma Swan, prossima erede al trono, era decisamente l’unica persona al mondo che riuscisse a mettere alle strette il promettente figlio del capitano della nave più conosciuta della Foresta Incantata, destinato al posto d’onore del padre, dopo aver terminato l’estenuante tirocinio da semplice mozzo.
- Perché sono affascinante?- provò a cavarsela, cercando di disarmarla.
Lei scosse la testa, semplicemente:- Non sei affascinante-
- Questa è blasfemia, mia principessa-
- Hai gli occhi troppo piccoli. E comunque non hai ancora risposto alla mia domanda-
Ci sarebbe stato un tempo, molto lontano ai loro occhi inesperti, ma in realtà molto prossimo, in cui Emma avrebbe scorto il lato affascinante e seducente del giovane Killian, e ne sarebbe rimasta compiaciuta: ma anche allora non le sarebbe bastato, e anche allora avrebbe scosso la testa, come quel giorno.
- Perché ti faccio divertire?-
- Discretamente. Sai correre bene, meglio del ragazzo di Agrabah, ma sei nettamente più scarso del principe di DunBroch. Quindi no-
Il ragazzo si mordicchiò la lingua, infastidito da quell’osservazione.
In effetti non poteva negare di sentirsi lusingato di essere il favorito della principessa della Foresta Incantata, ma Emma era talmente lontana da quella realtà fittizia e lontana che è il mondo dei reali da essere quasi normale. Sentirla parlare come una principessa, e soprattutto mentre decantava le doti di un principe a discapito suo, lo faceva sentire nettamente inferiore.
E Killian Jones non si faceva mai sconfiggere da un titolo nobiliare.
- Perché sotto quella coroncina sei una testa dura, Swan- sorrise lui, compiaciuto dalla sua deduzione:- E tra testardi ci s’intende, no?-
Lei ridacchiò, e annuì facendo ondeggiare i capelli biondi, che risplendevano come spighe di grano sotto la luce del sole estivo:- Risposta esatta-
- Mi merito un premio?-
- Le principesse di solito danno un bacio come premio-
- Non nascondo che non mi dispiacerebbe-
- In teoria dovrebbe, perché io non te ne darò neanche uno- s’impuntò la principessa, stringendo i pugni come se quella dovesse essere una minaccia.
Killian osservò con tenerezza le mani bianche, molto più piccole delle sue e troppo delicate per fargli male, ma decise di stare al gioco:- Non ci scommetterei nemmeno il mio straccio-
- Dico sul serio!- continuò la ragazza, con una prepotenza che solo i bambini possono giostrare così facilmente:- Ti sei visto? Preferirei baciare un rospo-
- Fammelo sapere, voglio assistere allo spettacolo- ridacchiò lui, alzandosi di scatto.
S’inginocchiò dinanzi alla principessa come a chi porge il saluto al sovrano, poi, facendole l’occhiolino, disse:- Io, Killian Jones, prometto che ti farò rimangiare le tue parole-
- Giammai, sporco marinaio!- esclamò Emma, prima di spingerlo via e correre a nascondersi di nuovo nel labirinto.

Il fanciullo si lasciò andare ad una risata: ma prima che potesse seguire la giovane ragazza dai capelli dorati, una mano gli afferrò la spalla e lo rimise in piedi bruscamente.
Killian se la massaggiò, piuttosto infastidito: alzò gli occhi e non si stupì di trovare il padre di Emma, il re in persona, al suo cospetto. Lo guardava con un’aria truce, ma ormai ci era abituato.
Non c’era la regina, accanto a lui: probabilmente era andata a recuperare la figlia, per assicurarsi che non si fosse fatta male, o che quel sudicio mozzo non l’avesse importunata.
- Vostra Altezza- recitò il ragazzo, inchinandosi come aveva fatto prima, ma molto più svogliato e sicuramente meno divertito dalla situazione.
- Jones, che ci fai qui?-
- Intrattenevo vostra figlia, Signore- mormorò lui, tenendo lo sguardo chino: era abituato a sorbirsi i rimproveri del padre di Emma. D’altronde, sapeva benissimo che nessuno dei due genitori approvava la loro amicizia.
Nonostante fossero, a giudicare dall’opinione pubblica, delle persone dall’amore infinito e dei sovrani eccezionali, non riuscivano ad accettare una presenza come quella di un navigante come compagno di giochi della loro tanto amata erede.
- Non devi fare qualcosa, alla tua nave?-
- C’è sempre qualcosa da fare a bordo- sorrise lui, alzando il capo e raddrizzando la schiena:- Ma vorrei almeno poter salutare vostra figlia prima di togliere il disturbo-
Il re James lo osservò come se stesse scrupolosamente cercando, nella sua espressione, un qualunque pretesto per non acconsentire: e di motivi ne avrebbe avuti molti, a giudicare della sua posizione sociale.
Ciononostante annuì, piuttosto controvoglia, e osservò un punto preciso del giardino reale; Killian si volse per vedere la figura imponente della regina, bellissima come sempre nel suo vestito bianco come i petali di una margherita, mentre reggeva in braccio la figlia.
Emma osservò con malcelata seccatura la situazione; si ripeteva ormai tutti i giorni, da quando i due bambini si erano conosciuti, e da nessuna delle due parti c’era stato modo di chiarire la situazione e dissipare il notevole attrito che impediva a Killian e al re e alla regina di capirsi.
Il ragazzo le lanciò un’occhiata complice: la regina se ne accorse e strinse la mano della figlia più forte.
Emma cercò di liberarsi dalla presa ferrea della madre, spingendo come per liberarsi da un intreccio di spine:- Mamma, io e Killian stavamo giocando, fammi andare...-
- Non c’è più tempo per giocare- rispose la regina con tono apprensivo:- Saluta il tuo amico e vieni su, hai le scarpette sporche di terriccio-
- Ma io...-
- Swan, ascolta tua madre- intervenne Killian, dipingendosi sul volto un sorriso di circostanza:- Io dovevo comunque andare, mio padre ha bisogno di me-

Emma gli lanciò un’occhiata inequivocabile, di quelle che avrebbero potuto incantare un serpente e convincerlo a fare per lei qualsiasi cosa ella volesse, come sembrava fare con tutti, effettivamente; nonostante fosse troppo giovane per saper esercitare bene quel fascino puro e capriccioso che ispirano i visi come i suoi, Killian non ne era affatto indifferente.
Nonostante ciò, era molto più preoccupato dallo sguardo che il re gli stava rivolgendo per lasciarsi ammaliare; salutò la ragazza con un cenno del capo, raccolse la sacca che aveva lasciato ai piedi della panchina, e si incamminò verso i cancelli del castello.
- Killian! Killian!-
Il ragazzo sorrise, voltandosi: quella piccola peste era riuscita a sgusciare dalle mani della madre e in quel momento stava correndo verso di lui. Si dice che le principesse debbano camminare elegantemente, con un portamento appropriato, schiena dritta e tutte quelle cose su cui blateravano gli insegnanti della piccola; eppure, non le sembrava mai tanto bella come in quei momenti.
Lo raggiunse, e con il fiatone che le percuoteva il petto, gli sorrise:- Domani vieni, vero?-
Lui ridacchiò, scompigliandole i capelli biondi, arruffati sulla testa:- Certo. E non riuscirai a prendermi-
- Vedremo!- esclamò lei, sistemandosi le ciocche dietro le orecchie.
Il ragazzo stette sull’attenti, battendo i tacchi sulla pietra del sentiero e portando due dita alla fronte, come se stesse imitando un saluto militare:- Arrivederci, Swan-
- Emma! Torna qui!-
La principessina roteò gli occhi, abbozzando un altro sorriso.
Killian s’incamminò frettolosamente fuori dal cancello, verso il porto. Anche lei si mise sull’attenti, e mise la mano sul cuore. L’aveva visto fare alle guardie durante le cerimonie importanti, e anche ai suoi genitori, a volte.
- Arrivederci, piccolo marinaio-






Nota dell'autrice. 

Salve carissimi lettori, 
Intanto vi ringrazio per essere arrivati sin qui. A meno che non siate Odisseo e quindi siate avvezzi a viaggi tortuosi e spericolati, siete stati molto coraggiosi. Bando alle ciance, questa è la prima fanfiction che m'impegno a voler continuare su questo profilo. Vi prometto che la situazione si farà molto pepata quando vedremo Emma un po' più cresciuta: ma l'introduzione del personaggio (e ovviamente di Killian, perchè non mi sarei sentita del tutto appagata senza di lui) era fondamentale. 
Detto ciò, vi ringrazio ancora, 
A molto, molto presto (sperando che quella maledetta tartaruga non superi la velocità dei miei updates), 
Fede xx





 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. I promise ***


“Non è il giuramento che ci fa credere all’uomo, ma l’uomo al giuramento.
- Eschilo”




- Première... No, Emma, quella è la sesta posizione, non la prima...-
Emma si lasciò scappare un urletto soffocato. Osservò la sua immagine nello specchio della sala da ballo: indossava un tutù stretto in vita e con una gonna molto ampia che le pizzicava le caviglie.
Sortiva un certo effetto quando cominciava a girare come una trottola, ma la sua professoressa di danza classica non sembrava gradire, e da più o meno due ore stavano provando a fare le posizioni base, con scarsissimo successo.
Emma si passò una mano tra i capelli, che aveva rinunciato a legare. La frustrazione dipinta sul suo viso le impediva persino di rallegrarsi per il pomeriggio libero. Peccato che quelle agognate ore sembrassero non arrivare mai...
- Allora, vogliamo ricominciare?-
- Penso sia ora di andare- pigolò timidamente Emma, dando un’occhiata all’orologio a pendolo posizionato in un angolo della sala. Quelle lancette le mettevano ansia, come se ogni secondo scandito da esse fosse un momento perso, un passo falso, un errore irrecuperabile.
Desiderava andarsene, e basta.
L’insegnante di danza sospirò, massaggiandosi le tempie con le dita:- Va bene. Tanto, non combineremmo niente, se restassimo un’ora di più qui-
Emma cercò di non sorridere troppo largamente; al contrario, sbatté le lunghe ciglia e, simulando un profondo dispiacere, mormorò:- Mi dispiace, madame. Sono un disastro...-
- Oh, no Emma, non lo sei...- esclamò la donna, facendole una carezza:- Sono sicura che diventerai una ballerina eccezionale. Dobbiamo solo lavorare un po’-

 La principessina si lasciò scappare un sorrisino.
Nonostante per lei il tempo non passasse mai, erano già trascorsi quattro anni dalla sua era di giochi e divertimenti: aveva compiuto da poco tredici anni e, in vista della cerimonia per presentarla alla società ―o, come la chiamava Killian, “l’esposizione di merce preziosa a prezzi più bassi”, guadagnandosi puntualmente un pugno affettuoso sulla spalla―, la madre stava facendo di tutto per risvegliare il piccolo genio della giovane.
Ad Emma, da parte sua, non dispiaceva dover seguire lezioni diverse, a patto che potesse avere il pomeriggio della domenica interamente per sé; l’unica sua preoccupazione erano le aspettative della madre.
D’altra parte, i suoi genitori erano degli eroi; delle leggende, nella Foresta Incantata.
Si supponeva che la figlia del vero amore fosse un prodigio, una stella dall’incredibile versatilità, con una bellezza stupefacente ed innumerevoli talenti. Emma, dal canto suo, non faceva fatica ad avvalersi della seconda qualità, vanitosa com’era; ma per il resto, era solo una bambina.
Non sapeva suonare il piano, e non aveva una particolare inclinazione personale per il violino; in storia, poi, era davvero terribile. Per non parlare della geografia.
Insomma, un fiasco totale, una buona a nulla.
Ma ciò che la teneva ben lontana da quella scarsa considerazione di sé era la sua capacità innata di stregare chiunque le fosse vicino.
Sembrava una dote naturale, tant’è che Emma pensò di cimentarsi nella stregoneria, se sua madre non glielo avesse proibito malamente: non solo per la sua autorità, sembrava abituata ad essere servita e riverita; e siccome la massa odia essere conformista, nel suo intimo, completava il circolo, viziandola e ricoprendola di complimenti.
Era la ragazza più desiderata del regno, e ciononostante non riusciva a sentirsi felice.
Che poi, cosa sia la felicità, non lo sa nessuno.
Chi potrebbe? Chi ne ha assaggiato il sapore, ne è stato maledetto, ed è stato un morso talmente fugace da non riuscirne ad acchiappare il segreto. Chi non l’ha provata la desidera, la cerca senza nemmeno sapere come averla, come trovarla. Per quanto ne sapeva Emma, poteva essere già felice e non sapere di esserlo.
E allora, se fosse stato così, a cosa avrebbe dovuto attribuire quel buco nello stomaco che la tormentava la notte, risvegliando i mostri assopiti, gli incubi taciuti?

 Pensava a questo, la giovane Emma, mentre percorreva il corridoio che l’avrebbe condotta verso le cucine.
Spinse la porta, e per poco un cameriere non le rovesciò il purè di patate addosso, data l’enfasi con cui stava imboccando l’uscita.
Egli si fermò di botto, tenendo il piatto in equilibrio col palmo della mano destra: con l’altra mano si sistemò i capelli corvini, come sperando che non fosse stato lui a spiaccicarsi a terra, al posto del purè.
- Hey, ma chi... Oh, principessa Emma, siete voi-
- Salve- salutò educatamente la ragazza, accorgendosi con relativo stupore che non si ricordava il nome del cameriere.
Lui, comunque, non sembrò accorgersene, e uscì ricominciando a marciare, come se avesse fretta di consegnare quel piatto. Emma lo osservò allontanarsi, finché a catturare il suo interesse non fu uno splendido profumo di cioccolato che le riempì le narici.
Senza badare troppo ai formalismi, entrò in cucina, stando in punta di piedi per guardare cosa stessero facendo i cuochi sui piani cottura. Uno di loro, uno chef convocato dal castello della principessa Belle ―una sua coetanea con cui aveva giocato un paio di volte prima di considerarla troppo noiosa per lei―, stava preparando la deliziosa torta che aveva tentato le sue narici.
Emma si leccò le labbra, avvicinandosi. Lo chef, notandola, si lasciò scappare una risata:- Cosa fate qui, mademoiselle, con un tutù?-
- Sono stata attratta dal vostro dolce, signore- spiegò lei, battendo ancora una volta le ciglia.
Lo chef, deliziato da un visino così dolce, le scoccò un’occhiata complice e prese un coltello; tagliò uno spicchio di torta e, strizzando l’occhio destro, glielo passò avvolto in un fazzoletto bianco.
Emma rimase lì a guardarlo, come incantata:- Grazie-
- Mais de rien-

Qualche minuto dopo, Emma sedeva sul muretto di pietra che cingeva la stalla, al momento vuota a causa di alcuni lavori che suo padre stava operando lì dentro, cose che non le interessavano.
Diede un altro morso alla torta, mormorando compiaciuta: la adorava.
Piuttosto triste per non essere in compagnia ma troppo furba per pensare che lo sarebbe stata ancora per molto, avvolse la torta rimanente nel fazzoletto e, a gambe penzoloni, guardò il cielo, come assorta.
Aspettava qualcuno in particolare, ma egli sembrava non avere nessuna fretta a farsi vivo, e così lei pure. Si distese sul muretto, le braccia lungo i fianchi e la mente chissà dove, lì dove solo i bambini possono andare.
Era entrata in uno stato di dormiveglia, come tra il sonno e il risveglio; a spingerla definitivamente verso la seconda sponda, fu un paio di occhi verdi.
Emma non distolse lo sguardo, e piuttosto infastidita disse:- Potresti evitare di venire di soppiatto ogni volta?-
- Non sono venuto di soppiatto- si scusò lui, tornando a sedere sul muretto:- Sono qui da un po’. Sei tu che dormi troppo. Pigrona-
- Quindi hai già mangiato il pezzo di torta?- chiese lei, sorvolando il commento.
- Quelle quattro briciole? Sì, buonissime-
- Ho faticato per prenderle- asserì lei spavalda:- L’ho dovuta rubare dalle cucine, era dei miei genitori-
- Emma, non sai dire le bugie-
- Non è vero-
- Beh, non a me- ribatté il ragazzo, poggiandole il fazzoletto bianco sugli occhi, dispettosamente:- Ora smettila di lamentarti e ascoltami-

 - Novità dalla Jolly Roger?- chiese lei, mettendosi a sedere per bene per poter guardare meglio Killian.
Aveva un’alga tra i capelli, il che gli capitava spesso, e aveva ancora l’orlo dei pantaloni e i polsini della camicia fradici. Se non fosse stato per quei tre particolari non indifferenti avrebbe persino pensato che si fosse tirato a lucido giusto per farle visita; ma non era per nulla nello stile di Killian.
- Manca una botte- brontolò lui, slacciando una fiaschetta dalla cintura:- Stiamo cercando di capire chi si è tracannato il vino-  
- Pensate che sia uno dei vostri?-
- Io non lo penso, ma il capitano vuole comunque fare i controlli. Ha ispezionato praticamente tutti, anche me e mio fratello, e i mozzi più giovani- rispose lui, stappando il curioso contenitore.
Lo mostrò ad Emma, con malcelato orgoglio:- Queste sono le fiaschette dei marinai, quelli seri-
- Cosa ci si tiene dentro?-
- Quello che vuoi- rispose lui, scrollando le spalle:- Loro ci mettono il rum, ma io non posso berlo e mi sembra il momento meno appropriato per cominciare, quindi ci metto acqua o succo di zucca-
- Bevi succo di zucca?-
- Me lo dà una delle tue badanti- confessò lui, strizzando l’occhio:- Quella rossa. Penso si sia innamorata di me. Come potrebbe non farlo, d’altra parte...-
- Sei troppo pieno di te per concedere agli altri di apprezzarti- commentò lei, alzando il mento:- E poi, sinceramente, non ti trovo per niente attraente. Sei un ragazzino con i piedi sporchi e i capelli arruffati-
- E tu sei una bambina viziata e capricciosa-
- Ti detesto!-
- Tu mi ami, Swan- asserì lui, guadagnandosi un’occhiata inorridita.
Lui, come se non fosse successo niente, continuò:- Non lo sai ancora, ma un giorno mi amerai, e allora io ti dirò di no-
- Tu non puoi dirmi di no. Nessuno può dirmi di no- rispose lei, come una litania, una filastrocca che era solita pronunciare.

 Era quanto mai vero: nessuno diceva no ai capricci della principessa, fare il contrario avrebbe sollevato polemiche e problematiche di ogni tipo, quindi era sempre meglio non rischiare e assecondare ogni desiderio della piccola.
I genitori le permettevano tutto, e quindi Emma era piuttosto abituata a ricevere solo assensi comuni.
L’idea di un “no” come risposta la infastidiva come poche altre cose, era una sensazione fastidiosa ed irritante.
Scacciò via il pensiero con un gesto della mano, e prima che Killian continuasse con il suo discorso, decretando così morte certa, domandò:- Piuttosto, non hai qualche novità interessante da raccontarmi? Qualche racconto da marinaio, qualche storia?-
- Ne ho giusto una, oggi- ridacchiò lui soddisfatto, richiudendo la fiaschetta:- Ieri abbiamo fatto un falò, e il secondo in comando ci ha parlato di un’isola da cui nessuno è mai tornato-
- E lui allora come fa a sapere che esiste?- domandò lei, scettica.
- Beh, lui dice di aver udito canti di sirene- rispose lui, con tono da mistero.
- E cosa cantavano?-
- Cantavano dell’Isola Che non C’è- cominciò lui, incrociando le gambe, emozionato:- Un’isola che si può raggiungere solo usando dei fagioli magici, o attraverso altri portali a noi sconosciuti-
- Perché si chiama “Isola Che non C’è”, se invece a quanto pare c’è?-
- Non è accessibile a tutti- continuò lui, pazientemente:- Sembra che lì ci vadano solo i bambini-
- Bambini? E per fare cosa?-
- Immagina il posto più bello che ti viene in mente- esclamò Killian, gesticolando:- Un posto dove non ci sono regole, né grandi che ti dicono cosa fare. Un posto dove puoi volare e fare tutto quello che vuoi, senza alcuna preoccupazione. Un posto dove il tempo si ferma, e rimani così come sei, senza crescere mai!-
- Così dicevano le sirene?- chiese Emma, rapita:- E tu ci credi?-
- Le sirene sono esseri ingannevoli- l’ammonì lui, sorridendole scaltro subito dopo:- Ma nelle loro storie, c’è sempre un fondo di verità-
Emma rimase in silenzio per qualche secondo, ammaliata da quel mondo irreale che Killian le aveva descritto. Un luogo dove nessuna preoccupazione l’avrebbe rincorsa chiedendole di indossare questo o quel corsetto, di essere perfetta, di essere la figlia del re e della regina. Un luogo dove poter essere lei, eternamente, meravigliosamente lei.
Doveva andarci.
- Partiamo insieme, allora!- esclamò subito, colta da una fiamma improvvisa:- Portami all’Isola Che non C’è. Non lo diremo a nessuno, saremo solo io e te!-
Killian rise, con un’ilarità che scoraggia i cuori intrepidi e dissipa la nebbia dell’immaginazione, che a volte confonde più di quanto aiuti:- Emma, tesoro, se fosse per me, ti avrei già portata via... Ma non possiamo-
- Perché?- s’indispettì lei:- Tu sei praticamente un marinaio esperto e io... Beh... Tu hai bisogno di me. Ce la caveremmo benissimo...-
- È solo un sogno, Emma- sospirò lui, con una saggezza che non aveva ma che doveva rubare per lei:- Noi non ci andremo mai, lì. Non so dove sia, non ho fagioli magici, e la Jolly Roger ha bisogno di me. I tuoi genitori hanno bisogno di te-
- Io non ho bisogno di nessuno- affermò lei con convinzione, incrociando le braccia al petto:- Potrei andarci da sola...-
- Ti prometto- s’inserì lui, con uno sguardo eloquente:- Che andrò sull’Isola Che non C’è, controllerò che sia sicura e ti ci porterò in un baleno, prima o poi-
- Promesso?-
- Promesso-

 I due si guardarono a lungo, studiandosi come per quantificare l’importanza del gesto che avevano appena fatto cercando di capire che effetto avesse avuto sull’altro. Poi Killian sorrise, tagliando l’ansia a fette:
- Comunque, mi pare di averti sentita chiamarmi “marinaio esperto”-
- Ero presa dalla circostanza- si scusò lei, frettolosamente:- Sono una splendida attrice, non una macchina della verità-
- Quindi, se servisse, mi diresti anche che sono affascinante?-
- Non ti servirebbe mai- stroncò lei subito, sistemandosi le pieghe della gonna:- Te lo dici almeno quaranta volte al giorno. Non hai bisogno di me, in questo caso-
- Io ho sempre bisogno di te, Swan- replicò lui lusinghiero, prendendole la mano come in un’esibizione teatrale, platealmente:- Sei tu che mi respingi-
Emma allontanò la mano, ridendo imbarazzata, e scese dal muretto:- Avanti, Romeo, ho il pomeriggio libero e non ho intenzione di sprecarlo con le tue moine-
Killian saltò, e atterrò agilmente ―molto più rispetto ad Emma, ma preferì non farglielo notare― sul terriccio morbido, scambiandosi un’occhiata complice con la compagna di giochi:
- Andiamo nella sala degli specchi a spaventare i passanti?-
Emma rise, estremamente divertita all’idea di vedersi tramutare in un mostro dal riflesso di uno specchio:- Andata!-
Avevano tredici anni e tutta la vita davanti.
Ne passarono altri tre, e furono troppo pochi per dirsi addio. 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. Hopeless ***


“L’animo umano è sempre ingannato nelle sue speranze, e sempre ingannabile: sempre deluso dalla speranza medesima, e sempre capace di esserlo: aperto non solo, ma posseduto dalla speranza nell’atto stesso dell’ultima disperazione.
- Giacomo Leopardi”



Quella sera, fu diversa.
Il porto era rumoroso, nonostante non ce ne fosse apparente motivo.
Non avevano pescato nulla, non ci avevano nemmeno provato; i fuochi accesi, sparpagliati sulla spiaggia, riscaldavano le braccia deboli, quelle che non potevano aiutare il flusso di uomini che saltavano come cavallette dalla nave alla terraferma.
Tra loro, disteso sul bagnasciuga, c’era Killian, considerato troppo piccolo per poter trasportare le casse, nonostante i sedici anni suonati di cui lui si vantava.
Il ragazzo osservò tutto quel fermento con circospezione.
La banchina pullulava di marinai che caricavano casse di viveri, botti di vino, oppure sacchi, pieni di ciò che loro chiamavano (non senza una strizzatina d’occhio) “il raccolto”, che altro non era se non denaro guadagnato frugando nelle tasche dei ricconi ubriachi nei bar ogni sera.
C’erano veramente pochi soldi che loro potessero definire legittimi, ma d’altra parte, nessuna delle persone che incontravano aveva la fedina pulita.

- Jones Junior!- urlò Harold, uno dei mozzi, ex secondo in comando surclassato dall’età avanzata, che era seduto proprio accanto al ragazzo.
Gli diede una pacca energica sulla spalla, diede una boccata al sigaro che teneva tra le mani, e con sublime soddisfazione glielo mostrò:- Vò fare un tiro?-
- Sono troppo giovane per fumare....-
- Oh, ma và al diavolo, Jones!- esclamò lui, ficcandoglielo tra le mani:- Tu sei troppo piccolo, io sò troppo vecchio... Te pare che non potrei accopparli a tutti*, con un movimento del polso?-
- Certo, Harold...- annuì condiscendente il ragazzo, esaminando il sigaro come se fosse stata una bomba ad orologeria, rigirandoselo delicatamente tra le dita:- Ti temono tutti-
- Lo dico anche io, eh!-
Il vecchio tossì un paio di volte, si batté il petto con fierezza (o forse lo fece solo per spronare i suoi polmoni ridotti a sacchi della spazzatura), e squadrò Killian con sufficienza:- Allora, non vuoi provare?-
- Male non fa- rincarò un altro marinaio, torcendo il collo sfregiato da una lunga cicatrice che gli era valso il soprannome di Scar:- Io l’ho provato quando ero ancora un pupo. Guardami adesso!-
- No, non guardare a lui- ridacchiò Harold, grattandosi la pancia con pigrizia:- Che minimo te viene ‘na malattia-
Gli altri marinai si sganasciarono dalle risate, nonostante non ci fosse veramente nulla da ridere.
Killian si lasciò trasportare dalla corrente dell’ilarità, e alla fine accettò di provare il sigaro: al primo tentativo, però, i polmoni gli bruciarono come se gli stessero andando a fuoco e non riuscì a respirare per diversi secondi: si piegò in avanti, mentre l’ossigeno cominciava a circolare di nuovo, e più tossiva più i compagni ridevano; più ridevano, più lui si divertiva, nonostante per qualche attimo si fosse sentito morire.
- Diamine, Jones!- esclamò Scar:- Non devi mai inspirare-
- E mica lo sapevo!- si scusò energicamente il ragazzo, passando il sigaro ad Harold, che ne gustò un’ultima boccata prima di buttarlo via.
- Un pirata non si chiama pirata se non sa fumare-
- Beh, un giorno io sarò un pirata-
- Ammagara!- esclamò Harold, battendo le mani con energia:- Diventerai un disgraziato, Jones-
Killian arrossì, e i compagni di falò si passarono un cartone di vino, che lui evitò accuratamente.
Imbarazzato, e incuriosito dal continuo andirivieni della ciurma, si alzò e corse alla nave.
Appostato all’entrata del boccaporto, dove le casse venivano trasportate, c’era suo padre, il capitano per eccellenza.

Jones (quello vero, come diceva l’equipaggio, spesso per infastidire il figlio) era un uomo ben piazzato, con i tratti mediterranei di chi è nato ed ha vissuto in sintonia con il mare dal primo istante.
Stava bene nella sua divisa, tirato a lucido come pronto per celebrare una grande vittoria, anche se a lui piaceva molto di più quando dava veramente il meglio di sé, col sudore sulla fronte e i vestiti zuppi, il sangue che stilla dalle nocche e la sua incredibile capacità di sopravvivere a qualunque cosa.
Killian non aveva mai capito veramente perché fosse obbligato ad indossare “il vestito buono” ogni qualvolta dovevano lasciare un regno; lui gli aveva sempre risposto che la forma è tutto, nella vita.
Suo padre non si faceva problemi ad attaccare una nave carica di vite umane per avere il bottino, ma avrebbe preferito uccidersi piuttosto che rubare il pane ad un bambino malnutrito.
Era un uomo d’onore, e l’onore era l’unica cosa a cui Killian fosse veramente devoto, all’infuori di suo padre.
- Killian, non ti voglio tra i piedi quando controllo la merce- protestò immediatamente il capitano, rivolgendo un’occhiata truce ad un sacco di patate:- Quelli secondo me ci hanno messo i topi. Ci vogliono decimare, come se non li avessimo salvati da una carestia-
- Non penso sia nel loro interesse azzerare gli scambi commerciali, capitano- commentò il figlio, con l’aria di chi la sapeva lunga:- L’hanno già fatto in passato. Si sono sempre sentiti in debito con DunBroch per quella volta che non ritennero più utile fare i controlli annuali per le classi povere, e interruppero il baratto delle merci. Il re è stato decapitato dai contadini stessi-
Il padre alzò un sopracciglio, diffidente:- E tu come lo sai?-
- Me l’ha detto la Swan-
Una strana sensazione sembrò forgiare quelle parole, come un’amara consapevolezza del loro significato.

Emma.
Volse lo sguardo verso sud-est, dove sorgeva il castello. Da lì, ovviamente, non si vedeva bene: le fronde degli alberi coprivano la vista delle torri, eppure già gli sembrava di poterla vedere, vestita di tutto punto come solo lei sapeva fare, pur disprezzandosi proprio per questo.
Probabilmente, a quest’ora stava già dormendo: oppure, in preda ad un attacco d’insonnia (cosa che le capitava spesso), stava girovagando per il castello, alla ricerca di qualche guaio in cui cacciarsi.
L’aveva vista giusto quella mattina, dato che lei l’aveva raggiunto nei boschi, chiacchierando con lui per qualche minuto, concessole grazie ad un piccolo spazio ricavato tra la pausa pranzo e una certa lezione di musica.  
“Odio dover suonare il violino solo per compiacere gli ospiti” aveva detto lei, in vista di un incontro con il signor ChissàChi e sua moglie ChissàCheCosa: “Tanto, a loro non gliene importerà un fico secco. Vogliono solo intascare la marcia e andarsene”
“Si dice la mancia” l’aveva corretta lui, divertito.
“Stessa cosa!” aveva esclamato allora lei, indispettita: “Sono abituata a dire semplicemente monete. Oppure il vil denaro
Si era lanciata in un’esilarante imitazione di una certa duchessa che amava atteggiarsi in modo talmente raffinato da essere stucchevole e ridicolo, e allora aveva deciso che non le avrebbe detto che se ne stava andando, probabilmente per non tornare.
Preferiva immaginarla tranquilla, accovacciata nelle pieghe dei suoi sogni da bambina ai quali si era disperatamente aggrappata, in vista della grande festa che i suoi genitori stavano organizzando per annunciarla alla società.
Non voleva esserci, questa era la verità.
Non voleva essere presente quel giorno, quando l’avrebbero venduta agli occhi adoranti dei pretendenti, che l’avrebbero presa e trasformata in una bambola da riporre su uno scaffale. Non voleva vedere la sua migliore amica portata via dall’acquirente più audace.
Non voleva vedere Emma tramutata in un titolo, nella famosa principessa Swan.

Scacciò quel pensiero dalla mente, e si concentrò su suo padre, che lo stava esaminando di sottecchi.
- La tua amica sembra un tipo troppo raffinato per te, non trovi?-
- Decisamente- annuì il ragazzo, che preferì non sottolineare quanto invece fosse anti convenzionale.
- Però è una bella ragazza-
- Immagino che, sì, possa piacere-
- E le vuoi bene?-
Sì, certo che le voglio bene. Per questo non le ho detto niente: per questo, non devo dire niente a nessuno.
- Il voler bene è un concetto troppo astratto, la debole denominazione di un sentimento morto e sepolto- affermò lui, con tutta la compostezza che riuscì a spremere dalla sua educazione:- L’ho voluta come compagna di giochi, un piccolo desiderio infantile. Nient’altro-
- Bene- annuì il padre, rilassando i muscoli delle spalle:- Perché non è saggio innamorarsi dell’effimero, ricordatelo. Fa male vederlo volare via, e noi non possiamo perderci in questi dettagli-
- Certo che no, signore-

Qualche ora più tardi, persino la luna sembrava stanca di quello scenario, di quel formicaio che continuava incessantemente ad operare laborioso sulle poche mansioni rimaste.
L’ultima cassa venne caricata, e il ponte di legno sistemato alla bell’e meglio per salire facilmente sulla nave stava per essere rimosso.
Il mare carezzava i lati dell’imbarcazione, le vele sussultavano, come incoraggiate da quel richiamo.
La Jolly Roger non vedeva l’ora di poter sgranchire le sue assi cigolanti e partire per un nuovo, meraviglioso viaggio. I pochi abitanti che frequentavano le zone vicine durante le prime ore della notte si erano dileguati già da un bel po’, portando con loro i calici spumeggianti e i nasi arricciati.
Killian camminava su e giù per il ponte, vicino al padre che, fermo e immobile come una statua, aspettava il momento propizio per dare l’ordine di salpare.
Il ragazzo sentiva l’ansia scuoterlo violentemente, come se stesse cercando di risvegliarsi da un brutto sogno.
Continuava a chiedersi perché se ne dovesse andare da lì.
Ne aveva mille di motivazioni, in realtà: il suo mondo, la sua vita non apparteneva alla Foresta Incantata; eppure, nonostante ne fosse consapevole, aveva passato gran parte della sua vita lì. Erano giunti in quella terra ben dieci anni prima, e lui aveva evitato con impressionante maestria tutti i viaggi necessari per garantire l’apporto di viveri e tessuti che l’equipaggio doveva intraprendere, come stipulato nel contratto.
Solo in quel momento, si rendeva conto di quanto valessero poco quegli anni di fronte all’addio che gli bruciava sulle labbra, incapace di uscire, di rivelarsi a chi non c’era.
Odiava dover essere così.
Così maledettamente umano, per certi versi, con i suoi rimpianti e ripensamenti, le sue emozioni contrastanti, il suo egoismo e il suo orgoglio. Era troppo, per aver collezionato solo sedici miseri anni.

- A vela!- urlò il capitano.
Stavano seriamente partendo.
I marinai addetti al compito, due trentenni dalle braccia di ferro, si affrettarono a salire sull’albero maestro, per spiegare le vele.
Suo padre aveva uno sguardo glaciale, di chi esegue semplicemente gli ordini.
Anche lui, un giorno, sarebbe stato così.
Si mise nella sua stessa posizione; da piccolo, amava giocare ad imitarlo, ma in quel momento lo fece con tutta la serietà possibile. Schiena dritta, petto in fuori, occhi vitrei, sguardo perso nel vuoto.
La sua mano si posizionò istintivamente sul cuore, lì dove gli doleva il morbo senza nome di cui era affetto.
Suo padre lo notò, ma non si scompose: annuì, in segno di approvazione, e riprese la sua posa, immobile ed altero come una statua di marmo.
Killian sentì, almeno così gli parve, tanto il momento era inteso, i nodi che si scioglievano, la nave che prendeva lentamente il largo, accompagnata dal mare. Il momento doveva ancora arrivare; le corde si slacciavano una ad una, e ogni secondo era un passo indietro ad occhi chiusi.
E fu proprio in quel momento in cui la maschera che Killian si era imposto cadde.
Una figura solitaria emerse dal bosco, come la luce dell’alba si rivela improvvisamente alla notte.
Ne vide i fili dorati dei capelli, l’azzurro degli occhi appannati, la smorfia di stupore.
Ne vide le mani chiuse in due pugni.
Ne vide la bellezza travolgente quanto indesiderata, seppur tanto bramata, segretamente.
Vide Emma.

Era proprio lei, senza margine d’errore, che si precipitava lì dove, un secondo prima, sembrava appoggiarsi la barca. Tutto, in lei, esprimeva l’assoluta impotenza.
Killian la osservò, più rassegnato che stupito, come se in fondo, non volesse crederci.
Schiena dritta, petto in fuori, occhi vitrei.
- KILLIAN, VIENI QUI!-
Il capitano arricciò il naso, infastidito.
Il ragazzo, in un improvviso slancio, si protese in avanti, aggrappandosi al corrimano.
Ci sarebbero state tante cose da dire, in un momento come quello, in quegli attimi eterni divisi solo dal mare.
Eppure lui ne disse solo una.
- Arrivederci-
Emma lo guardò con gli occhi spalancati, come incapaci di concepire un immaginario simile.
Come colta da un’idea folle, si sfilò le scarpe, probabilmente raccattate all’ultimo minuto dall’armadio, prese un gran respiro e si tuffò in acqua.
I marinai accorsero, incuriositi, guardando quello scricciolo rimanere faticosamente a galla.
- Killian, non puoi andartene così! Dovevi avvertirmi, dovevi...-
- A che pro?- chiese lui, e si stupì di come risultasse freddo, distaccato:- Sarei dovuto partire comunque-
La principessa sembrò voler ribattere, ma le parole le morirono in gola, forse incapaci di fuoriuscire dinanzi ad una realtà così prorompente.
La nave andava troppo veloce, persino per i loro pensieri, ed Emma questo lo capì.
Annaspò, cercando quanto ossigeno possibile per esprimere quello che nemmeno sedici anni avevano saputo dare:- Domani vieni... V-vero?-
Killian sorrise, come aveva sorriso quel pomeriggio al cancello:- Certo. E non riuscirai a prendermi-
- Questo... Questo è tutto da vedere!- singhiozzò lei, più per la mancanza di dimestichezza col nuoto che per altro, come avrebbe specificato anni dopo.
I due si guardarono con tenerezza. Era un giuramento, e si sarebbero impegnati a mantenerlo.
- Arrivederci, Swan- mormorò Killian.
La barca sparì lentamente, diventando un tutt’uno con l’orizzonte, senza lasciare traccia di tutto ciò.
Solo ore dopo, quando si trovò di nuovo in camera sua, tra le coperte calde, poco prima che il sole sorgesse, Emma ebbe il coraggio di rispondergli:- Arrivederci, piccolo marinaio-



* molte delle frasi pronunciate dal marinaio Harold prendono spunto da una mia interpretazione inesperta dei dialetti italiani, specie romano e siciliano, con qualche inesattezza grammaticale assolutamente intenzionale. Cercherò di fare del mio meglio, per rendere l’idea di un linguaggio simpatico e semplice ma non strettamente legato alla tradizione dello stesso (la maggior parte delle battute sarà in italiano, non in volgare, nel senso puramente etimologico del termine) per comodità, in modo che tutti possano comprendere il significato della frase pur non conoscendo il dialetto.

Nota dell’autrice.
Salve cari lettori,
eccoci ad un nuovo capitolo di quest’arcana fan fiction. Spero vivamente che vi sia piaciuto e che non sia risultato troppo sdolcinato, perché comunque il melenso non si addice troppo, secondo me, al carattere di Killian Jones, ma ho voluto comunque scoperchiare questo lato più tenero, dato che in seguito avremo modo di conoscere aspetti molto più macabri. A proposito di questo, vorrei concedermi una piccola anticipazione: la crescita personale dei due personaggi principali è l’argomento fulcro della fan fiction, e proprio per questo vi assicuro che, andando avanti con la storia, sarà ben più intrigante il modo in cui entrambi svilupperanno le proprie scelte spesso in modi non del tutto prevedibili; questo capitolo è, infatti, la vera origine della storia, poiché possibilmente, se Killian non fosse partito, il finale sarebbe stato molto più fiabesco, ed è una cosa che avrete modo di constatare più avanti.
Forse mi sono lasciata scappare qualche informazione di troppo, ma sono molto felice che questa storia mi sia finalmente congeniale (di solito nessuna di quelle che comincio lo è), e che venga apprezzata.
Con tanto affetto,
Al prossimo capitolo.
Fede xx

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Capitolo 4
*** Capitolo 4. Feed the madness ***


“I pazzi osano dove gli angeli temono d’andare.
- Alexander Pope”

 
Filare. Filare. Filare.
Rinchiuso nell’immortalità dell’ombra, alla quale era indissolubilmente legato, l’unica cosa che avesse senso era il movimento delle sue mani attorno al telaio, come una danza ipnotica che lo teneva aggrappato alla realtà.
Filare. Filare. Filare.
L’oro gli circondava le braccia, come nei sogni più fantasiosi degli avidi giovani. Aveva provato a strozzarsi con quei fili tanto preziosi quanto inutili, ad attorcigliarli attorno ai polsi, al collo, cercando di fermare quel sangue contaminato dall’odio che fluiva nelle sue vene, permettendogli di vivere ogni secondo di quella miserabile agonia.
Eppure la vita lo voleva, lo desiderava come la morte lo respingeva.
Doveva tanto ad entrambe, e di esse era schiavo. Tutto ciò che valesse era scivolato via da quel corpo squamoso; eppure, quei polmoni continuavano a raccogliere ossigeno, il cuore a pompare veleno.

- Nutri la pazzia
e lei si nutre di te...-

Un lento scalpicciare interruppe la sua litania.
Gli occhi languidi cercarono di identificare la fiaccola che si avvicinava da dietro le sbarre.
Le dita rugose si fermarono per un attimo, mentre una guardia in armatura si avvicinava, e l’elmo sottobraccio aveva scoperto un viso, troppo anonimo per ricordarsene il nome.
D’altronde, a cosa sarebbe servito ricordarsene? Uno valeva l’altro.
Si leccò le labbra al pensiero di come quella testa rossiccia sarebbe stata bene nella sua sala dei trofei.
- Signore Oscuro- lo chiamò, ostentando una voce sicura:- Ho un oggetto da recapitarle-
Tremotino ridacchiò divertito. Sì, stava decisamente impazzendo, ma non tanto da poter credere che qualcuno potesse realmente offrirgli uno dei monili dal suo castello:
- E chi sarebbe mai, il gentile mittente?-
- Non mi è dato rispondere- borbottò la guardia, squadrandolo con sufficienza:- È passato dai controlli. Non è nulla che potrebbe garantirle la fuga, se l’ha pensato-
- Beh, data la serietà dell’esercito, non mi metterei mai a dubitare della vostra scrupolosità- sogghignò il folletto, avvicinando il viso alle sbarre.
Le lingue di fuoco sembravano riflettersi nei suoi occhi vitrei, indecifrabili:- Allora, come volete uccidermi? Sappiate che posso infliggerle dolori peggiori ad un secondo dalla morte, e che non aspetto altro-
La guardia sorrise sprezzante, lanciandogli uno sguardo di sfida:- Il mio più grande desiderio sarebbe vederlo sparire davanti ai miei occhi, così da poter rendere il mondo un posto migliore. Purtroppo, i reali non la pensano allo stesso modo...-
- Biancaneve e il re James? Oh, no, loro vogliono esattamente la stessa cosa- sibilò lui, artigliando le sbarre come se volesse avvilupparsi ad esse:- Ma sono frenati da quella ridicola formalità che chiamano perdono. La loro bambina non ha fatto altro che renderli più vulnerabili; ma d’altra parte, chi siamo noi per giudicare il frutto del vero amore?-
- Le consiglio di non continuare...-
- Come se la piccola Emma fosse nata in maniera diversa da un semplice desiderio primordiale...-
- E lei come fa a sapere che...-
- Che hanno avuto una figlia? Che si chiama Emma?- troncò Tremotino, ridendo sprezzante:- Sapete, so molte più cose di quanto voi possiate immaginare. Sta tutto qui dentro...-
Si picchiettò la fronte, roteando gli occhi come palle da biliardo:- Le conviene andarsene prima che esploda. Tic, tac, tic, tac...-
- Sei un vecchio pazzo- mormorò la guardia, gettando a terra una scatola di legno, che nascondeva dietro la schiena, mentre indietreggiava:- E morirai così, consumato dalla tua pazzia-

L’uomo scappò, nascosto come un bambino nella sua armatura di ferro.
Tremotino pensò per un secondo a quanto sarebbe stato piacevole sentire quel vecchio materiale corrodersi al suo tocco. Pregustò l’immagine della vendetta e la scacciò via con altrettanta prepotenza.
Rifiutava la speranza in ogni sua forma.
Arraffò lo scrigno e se lo portò al petto, lentamente.
Era stato lavorato in malo modo, nessun gioiello lo intarsiava a testimoniare quell’agio di cui tutti sembravano vantarsi, nella Foresta Incantata. Lo aprì, sbattendo i denti come tenaglie, non per il freddo quanto per la febbricitante emozione che gli percorreva il corpo.
Sapeva già cosa c’era lì dentro.
Quell’oggetto stava solo aspettando il momento propizio per tornare alle sue mani.
Lo afferrò con attenzione. Era uno specchio, un vezzo che molte donne si sarebbero concesse con facilità.
Quello specchio, però, non era affatto un gioco, e Tremotino lo sapeva bene.
Accarezzò il vetro con l’unghia, e la voce melliflua sembrò scivolare dalla labbra secche come un ultimo respiro, un richiamo istintivo dell’anima, o quello che ne rimaneva:
- Mostrami lei-
Il riflesso suo viso traballò per un attimo, lo specchio tremò e, per un attimo, Tremotino pensò che non avesse funzionato. Poi, un’altra immagine si proiettò su quella lastra perfetta, e gli restituì lo stesso sguardo di consumata vendetta, di rabbia distruttiva.
- Mio Signore- sussurrò Regina, rivolgendogli un sorriso color rosso sangue:- Vi vedo trascurato-
- Questa prigione...- mormorò lui, tremando come non gli accadeva da tempo:- Sta risucchiando tutto il mio vigore. Sono un sacco di carne, la pelle di un serpente. Mi lasciano quel tanto che basta per farmi vivere-
- Se il popolo sapesse quanto sono realmente gentili il re e la regina, vero?-
- Il popolo sarebbe solo contento- sputò Tremotino, afferrando saldamente il manico dello specchio:- Si tratta di dare le brioche al popolo, il cibo ai porci. E loro lo sanno fare molto bene-
La regina, o colei che era stata, un tempo, una vera regina, annuì lentamente.
Tremotino analizzò lo sfondo che gli proponeva lo specchio. Dietro il vestito sfavillante della donna, le mura della prigione sembravano incombere sulle sue spalle.
Si lasciò scappare un sorriso triste: Regina era stata esiliata come lui, dopo il colpo di stato. Si era tenuta addosso la sua dignità e i suoi gioielli, ma anche lei era vittima della sorte dei cattivi, o perlomeno, di coloro che ammettevano di esserlo.
- Ma a noi non interessa il popolo, giusto?- mormorò Tremotino, come pensando ad alta voce.
- Non adesso- continuò Regina, mordendosi il labbro:- Solo una persona. Sai di chi parlo-
Gli occhi dell’uomo brillarono per un momento, come se l’antica gloria avesse attraversato per un solo momento la mente offuscata dall’odio:

- Emma Swan-
- Esattamente- sorrise la donna:- La signorina Swan dovrà rispondere di molte cose, e non solo a noi-
- Lei non sa nulla, immagino-
- I genitori non ci hanno inclusi nelle favole della buonanotte- scosse la testa Regina, avvicinandosi allo specchio:- Ma non sarà necessario al nostro progetto. No, sarà lei a cercarci-
- Come fai ad esserne sicura?-
- Perché è la figlia della regina- sibilò lei, chiudendo la mano destra in un pugno:- Ha la sua natura, così come Biancaneve l’aveva di sua madre. La stessa indole vile, meschina, curiosa... Vulnerabile. Il tempo me l’ha insegnato-
Tremotino ridacchiò, divertito dalle aspettative che la sua vecchia alunna gli proponeva:- Quando?-
- Non molto. La principessa sta crescendo, ed è più sola che mai-
- Sai, Regina- mormorò lui, accarezzando le pietre impolverate che decoravano lo specchio:- Sono sempre stato stupito dalla tua maestria. Sai farti amici e nemici con la stessa facilità-
- Ho imparato dal migliore-
- Ma come fai, rinchiusa tra quelle quattro mura, a racimolare ancora degli alleati?-
Lo sguardo della vecchia regina s’incupì improvvisamente:- Biancaneve ha molti più nemici di quanto pensi. Evidentemente, due gote pallide e quattro parole dolci non hanno ammaliato tutti-
- Felice di saperlo-
- Allora preparati- rispose lei frettolosamente:- Riceverai visite molto presto. Ora devo andare-
- No, aspetta, un’altra domanda...-
- Non c’è tempo, il cambio di guardia è finito- troncò Regina, facendo saettare gli occhi da una parte all’altra, come un cerbiatto sperduto:- Se saremo fortunati, ci rivedremo prima di quanto pensi-
- Ma...-
- Addio, Tremotino- sussurrò lei, poggiando due dita sul vetro:- Fai quello che sai fare meglio-

Ingannare. Come sempre.
Aveva speso una vita intera, o persino di più, ad affinare la sublime e pericolosa arte della menzogna.
Cosa poteva toglierle, una bambina innocente, più di quanto il sangue del suo sangue non avesse già fatto?
L’immagine sparì, lasciando posto solo alla sua espressione interdetta.
Ma era cambiato qualcosa. Sotto quel viso marchiato dalle rughe del tempo e della sofferenza, si nascondeva una nuova prospettiva. Una speranza, sì, ma nella sua natura più malsana.
Quell’attimo di pace, prima del colpo fatale.
Vi era destinato, ma non avrebbe lasciato il mondo in quel modo, non affogando in quella pazzia cieca.
Un ultimo tentativo.
Ne sarebbe valsa la pena? 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5. Talking to the moon ***


“Pensare che non l'ho più.
Sentire che l'ho persa.
Sentire la notte immensa, ancor più immensa senza lei.
- Pablo Neruda”

 
Foglie che cadono. Rumori di passi. Un graffio sulla pelle.
Emma, fai la brava bambina...
Brucia, innaturalmente. Le ginocchia sfrigolano. I piedi soffrono.
Torna a casa, torna a casa...
Le mani che tremano, il cuore che palpita, la gola che brucia, e la voce non esce, non esce mai...
Ti avevo detto di non aprire quella porta... Oh, povera Emma, io te l’avevo detto...
E c’è il buio, solo il buio ad accoglierla, solo attimi immensi, solo cieco dolore...
E chi verrà a salvarti, questa volta?
Il ticchettio dell’orologio.
Sembra un’eco lontana, il rimbombo di un passato, il fischio di un treno mai preso.
Eppure continua a ricordarlo, come un promemoria.
Pungola proprio lì dove fa male, lì dove la memoria brucia, lì dove si nasconde la temibile, cruda verità.
Nessuno ti salverà, piccolina.
Tic, tac, tic, tac...

- BASTA!-
La fronte madida di sudore. Il cuscino umido, i piedi scoperti e infreddoliti. La luce della luna che filtrava dalle finestre. È un attimo, eppure è viva.
Emma si artigliò il petto con la mano, lì dove palpitava il cuore, e lo sentì.
Altri due respiri, strappati a quell’incubo.
Si lasciò cadere sul materasso, sospirando. Gli occhi si abituarono al buio rischiarato da quei pallidi fasci lunari, riconobbero le mura familiari, l’irrealtà del silenzio notturno.
Si girò verso il muro dove poggiava la ringhiera del suo letto, e con rabbia osservò le cinque linee che aveva segnato sulla pietra fredda. Prese lo scalpello che conservava sotto il letto, e incise il sesto marchio accanto alle altre. Ad ognuna corrispondeva una notte turbata dagli incubi, che presentavano sempre le stesse scene, le stesse voci e la stessa paura. Quel tipo di paura che ti divora all’interno, lasciandoti solo con la mera percezione della realtà, aggrappato ad un’orribile finzione, ad un quadro raccapricciante che ti riempie lo sguardo senza permetterti di guardare oltre.
Avrebbe dovuto sapere che quell’ondata di immagini in sequenza non potevano significare nulla per lei, ma in quei momenti era tutto così vero.
Guardò il vestito bianco appoggiato sullo scrittoio, cucito da poco tempo, e già le sembrava che le stesse stretto. Provò un moto di repulsione istintiva, quando se lo immaginò su di sé.

Non sarebbe successo che a distanza di poche ore.
Sarebbe stata introdotta alla società affamata di debuttanti, e tutti avrebbero avuto l’onore ―o la condanna― di vederla, parlarle, organizzare degli incontri. Non che lei volesse, ma d’altra parte nulla di ciò che faceva era dettato dal suo personale piacere.
Fosse stato per lei, avrebbe abolito quelle ridicole formalità e sarebbe fuggita, assetata di libertà com’era.
Avrebbe vissuto per boschi, avrebbe raggiunto Killian, in qualche modo, e lui l’avrebbe condotta da qualche parte, in un luogo dove nessuno avrebbe potuto rintracciarla.
Killian.
Aveva pensato poco a lui, per un motivo o per un altro; quell’impegno, quell’incontro, quella lezione...
C’era qualcosa di profondamente sbagliato nell’aver accantonato il ricordo del suo amico per ritirarlo fuori solo nel momento del bisogno, nelle sue folli fantasie di fuggiasca.
L’orgoglio era, però, più forte della morale, come ci insegnano tanti giovani spiriti; così preferì sorvolare la questione e dimenticarsi dei suoi sogni, piuttosto di ammettere l’errore.
Prima di addormentarsi, però, le parve di sentire un richiamo.
Il suo nome, nulla di più: ma le parve che fosse stato pronunciato con malizia, o con malignità. Quelle semplici lettere a lei tanto gradite suonarono scomode e squallide, e le provocarono un brivido lungo la schiena.
- Non pensarci- si disse, sussurrando, forse per non rompere la sacralità inconscia della notte:- Va tutto bene-
Gli artigli del sonno l’agguantarono, facendola precipitare in uno stato di tranquillità perenne nel quale non fece né sogni, né incubi; ma da qualche parte, quel nome continuava ad essere ripetuto, con desiderio.
Emma...
Emma...

Primo colpo.

La prima notte, quella più dura, la più fredda e la più solitaria, nella quale l’eco della notte l’aveva tormentato, torturato fino a non fargli sentire nient’altro, fino a che non aveva attutito il dolore, e gli sembrò una benedizione.
Secondo colpo.
La seconda notte aveva fatto sì che il mare potesse cullarlo fino a farlo addormentare, ma il sonno gli aveva portato poco altro che ricordi, spaventosi ricordi strappati alla memoria corrotta dal rimpianto, dalla mancanza, quella terribile mancanza, che sembrava divorarlo dentro.
Terzo, quarto, quinto...
Killian cacciò un urlo, rannicchiandosi su se stesso. La ciurma, sul ponte, stava mantenendo goffamente la rotta, evitando accuratamente il ciclone che turbava le acque a diverse miglia di distanza. Ci sarebbe dovuto essere lui, lì sopra, a prendersi cura di loro, a indirizzarli sulla retta via.
Ma alla vista della luna, quella sera, era crollato.
La seconda millesima luna, contata con precisione dalla partenza dalla Foresta Incantata, dalla partenza da lei.
Si afferrò l’uncino lucido con la mano ancora buona, in ricordo di uno dei suoi viaggi, la prova tangibile di quelle lune passate, di quelle notti che l’avevano masticato lentamente, assaporandone la giovinezza, succhiandola via dal corpo aspro e temperato che adesso l’esperienza gli aveva lasciato.
Non era riuscito a guardare gli altri segni che troneggiavano sulle mura della sua cabina. Non poteva capacitarsi dei cinque anni passati oltre quella realtà, del tempo buttato al vento. Di quanti mesi, settimane, giorni avrebbe potuto passare con lei, a vederla sorridere ogni giorno, a consolarla dei suoi pianti, a dilettarsi della musica delle sue risate.
Lei era l’unica terra a cui valesse la pena tornare, l’unica vera luna a cui sarebbe stato devoto, come lo era stato a quelle che li avevano separati.
Lentamente, graffiandosi la mano con la punta affilata dell’uncino, alzò lo sguardo.

Erano, esattamente, 1825. Incisioni, una accanto all’altra, che infestavano le mura come fantasmi, affettavano il tempo come un coltello affetta la carne, e come la prima goccia di sangue stava puntellando il suo palmo, così la memoria colava da quei segni, crudeli testimoni delle sue lacrime e delle sue grida.
La vista gli appesantì lo sguardo, come un’ulteriore consapevolezza.
Con che faccia sarebbe tornato da lei? Con quale coraggio l’avrebbe affrontata, o le avrebbe parlato, cercando di recuperare dalla donna che doveva esser diventata quella giovane Emma con cui aveva trascorso la sua fanciullezza?
- Capitano!- esclamò Spugna, spalancando la porta con enfasi:- Mi s-s-scusi, ma deve venire immediatamente!-
Killian si risvegliò dal torpore in cui era lentamente sceso. Si ricordò che su quella nave era il capitano, da quando suo padre era deceduto. Il capitano Killian Jones.
- Cos’è successo?- chiese lui impaziente, seguendo Spugna sul ponte.
Le acque erano placide, la prua della Jolly Roger s’innalzava e si rituffava verso il mare dolcemente, seguendo la rotta prestabilita, come un cavallo che scuote la criniera cavalcando per i campi.
Il timone, però, era incustodito. La ciurma era rannicchiata attorno ad uno dei fianchi della nave, con i visi vuoti, gli occhi persi nel profilo sottile tra il cielo e il mare, come se cercassero qualcosa nello spazio invisibile tra l’uno e l’altro. Stringevano i cappelli umidi tra le mani dalle nocche screpolate, e dalle labbra violacee intonavano un canto muto, un brusio sommesso.
Uno di loro si girò, uno dei marinai più anziani, che più tra tutti sembrava scosso:- Capitano...-
Jones si avvicinò con circospezione, facendosi spazio tra i compagni silenziosi.
Diede un’occhiata all’acqua, pensando di scorgere uno scoglio o un qualsivoglia pericolo: l’unica cosa che intravide, al chiarore della luna, fu una singola bottiglia di birra, che sembrava bussare alle assi di legno, come a chiedere di essere ricordata, o perlomeno notata.

- Il vecchio Harold...- mormorò Spugna, con voce sofferta:- Si è buttato-
Un tuffo al cuore sembrò dare il colpo di grazia ad un’instabilità che già lo aveva provato pesantemente quella sera.
Arretrò spaventato, come a non volerci credere. Sentì la mano tremare, e la nascose dietro la schiena, un riflesso incondizionato, forse per abitudine. La ciurma lo notò, ma non disse niente. Continuarono a mormorare quel canto disperato, ad imprimere la memoria del dolore sulle labbra.
- È comunque nel posto a cui appartiene- sussurrò uno di loro, con moderatezza.
Il Capitano annuì, quasi inconsciamente. Il vecchio Harold era stato il padre senza divisa, il suo tutore, l’anima protettrice. Pensò a quando avevano iniziato quel viaggio, passandosi la fiaschetta di rum come se fossero stati due fratelli, esaltati all’idea di buttarsi nel vuoto come due ragazzini.
Capì che era giunto il momento di finire quell’avventura.
- Cosa facciamo adesso, capitano?- chiese un marinaio, asciugandosi una lacrima velocemente, quasi con vergogna.
Killian corse al timone. La nave sembrò scricchiolare, approvando, fidandosi del suo giudizio.
Guardò la luna con malinconia, e sperò che avrebbe presto smesso di contarla.
- Cambiamo rotta, uomini- esclamò lui, scacciando via la vista di quell’unica bottiglia:- Torniamo a casa-




Nota dell’autrice.
Salve a tutti,
Prima di poter aggiungere alcunché, voglio scusarmi per il madornale ritardo con cui ho aggiornato questa storia. È imperdonabile, e mi scuso anche per il modo in cui ho cercato di colmare questo periodo prolungato con un capitolo scarno come questo. Posso fare molto meglio, ve lo assicuro.
E vi prometto che il prossimo sarà molto più soddisfacente.
In secundis, vi ringrazio tantissimo per le undici (UNDICI!) recensioni alla mia fan fiction. Non mi era mai capitato e ho trovato delizioso ogni vostro commento, e sono molto contenta di aver letto i vostri consigli.
Ci vediamo molto presto. Ve lo assicuro.
Con affetto,
Fede xx

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Capitolo 6
*** Capitolo 6. What I left behind ***


“Niente come tornare in un luogo rimasto immutato ci fa scoprire quanto siamo cambiati. 
- Nelson Mandela”




Terra.
Gli stivali sporchi del capitano scricchiolarono di piacere, al tocco familiare della sabbia della spiaggia.
Il porto pullulava di gente, a quell’ora; gli uomini stavano comprando il pesce fresco, i bambini correvano tra le casse maleodoranti, mostrando le gambe bianche come il gesso, già marchiate dalle loro marachelle.
Killian guardò un branco di marmocchi schiamazzanti fare uno strano gioco con le monete, passandosele con uno schiocco di dita e prendendole con la lingua protesa.
Quei luoghi appartenevano a quell’età, in fondo; alla giovinezza senza ritegno, al divertimento sfrenato.
Non per quanto riguardava lui, comunque.
Scrollò energicamente le spalle, togliendosi lentamente il cappello.
Quattro giovani ragazze, cariche di frutta dai mille colori, gli scoccarono un sorriso civettuolo.
Killian ricambiò distrattamente, strizzando l’occhio e conquistandosi le risate divertite dei compagni.

- Dopo tutto questo tempo, non hai perso il tuo tocco magico-
Jones si girò, colto alla sprovvista: la folla si mosse inquieta, come acqua scossa dal colpo di coda di un’orca.
E l’orca era proprio lui, smagliante nella sua armatura lucidata a dovere, dal sorriso debole, a labbra chiuse: il re James.
Killian s’inchinò, seppur riluttante: non aveva dimenticato quanto quello squalo spietato avesse minato il tempo prezioso che spendeva con sua figlia.
Emma. Il suo corpo ebbe un fremito. Era a due passi da lì, più vicina di quanto no fosse mai stata negli ultimi anni. Quel posto profumava di lei, il vento sembrava riportare l’eco della sua risata.
Il cielo aveva il colore dei suoi occhi. E lo stava aspettando, come lui aveva aspettato quel momento.
Sentì i passi dell’uomo avvicinarsi, scandendo i secondi che lo avvicinavano, o lo allontanavano da quell’incontro tanto atteso, a seconda della volontà del re.
- Fa sempre piacere vedere un vecchio amico-
- Con tutto il dovuto rispetto, sire, non penso sia il nostro caso- commentò Killian, con un sorriso sprezzante.
Il re sembrò indispettito, ma non ferito. Sembrava che nulla potesse scalfirlo, all’infuori del minimo capriccio di sua figlia, o di un sorriso magnanimo di sua moglie.
Killian aveva sempre pensato che amasse talmente tanto le due donne della sua vita, da non poterne riversare altro nelle persone che lo circondavano. Col tempo, quest’opinione non sembrava destinata a cambiare.
- No, infatti- sussurrò lui, facendolo rialzare, prendendolo bruscamente per la spalla destra.
Una volta che i due sguardi s’incrociarono, però, la sua mano ferma non smise di stringergli la scapola.
Si fissarono con fredda ostilità; tempo prima, Killian avrebbe chinato la testa, in segno di rispetto.
Ora, i suoi occhi rilucevano di spavalderia, acquisita col tempo che aveva assottigliato la distanza tra i due.
Il re James, da parte sua, non sembrava invecchiato; certo, qualche ruga in più gli segnava la fronte, forse il segno delle mille preoccupazioni che un sovrano doveva portare, insieme ai gioielli, sulla corona.
Erano entrambi uomini, questa volta, i due. E da tali si sarebbero trattati.
La mano del re si allontanò lentamente da Killian, platealmente, come un avvertimento più che un segno di rilassamento. Il capitano s’irrigidì, ma il suo sorriso non scomparve. Nessuno era riuscito a cancellarlo dal suo viso, d’altra parte.
- Non sono venuto qui per giocare, Jones- si affrettò il re James, tenendo una mano sull’elsa della spada che gli ciondolava a fianco:- Non c’è più tempo per queste cose-
- Concordo- annuì Killian, sentendo gli occhi di tutta la ciurma puntati addosso a lui:- Allora, dove sono le guardie?-
- Scusa?-
- Le guardie, per portarmi via. O preferisce stendermi davanti a tutti? Sappiamo entrambi che non le piaccio, quindi non credo che non alzerà un dito quando mi dirigerò verso il suo castello-
Il re James sembrò interdetto per un attimo, prima di ridacchiare, quasi divertito.
Killian si sentì preso in giro, e in circostanze normali avrebbe assestato un pugno a quel damerino; ma quelle non erano circostanze normali.
- Invece, caro capitano, penso che, come dici tu, non alzerò un dito- continuò lui, incrociando le braccia al petto, arricciando il naso.
Quando ricominciò a parlare, però, Killian non poté non notare che il suo sguardo si era incupito, e che la voce sembrava più grave, meno baldanzosa:- In verità, avevo intenzione di guidarti io stesso-
Il capitano aggrottò le sopracciglia, incredulo.
Non era mai stato invitato ufficialmente a palazzo, nonostante non avesse problemi ad intrufolarsi dietro le mura, e anche con una certa agilità; quella richiesta lo colse di sorpresa.
Il re James sembrò squadrarlo per diversi secondi, prima di aggiungere:- Si tratta di Emma-
- Cos’è successo? Non si sente bene?- si allarmò lui, subito.
- No, no... Sta bene- sorrise il re, come sollevato:- Ti sei perso la sua adolescenza. Adesso è... Bella. Sana, e forte, come ogni padre vorrebbe vedere una figlia. Eppure...-
- Eppure cosa?-
- Mi dà molte preoccupazioni- spiegò lui, aggrottando la fronte con aria seria:- Da diverse settimane non scende a pranzare con noi, mi parla a malapena, e così con sua madre. Esce di rado, e solo se obbligata: rimane nella sua camera, a fare Dio solo sa cosa-
A Killian quella sembrò più una fandonia; l’Emma che conosceva lui non si sarebbe mai barricata all’interno del castello come una principessa esiliata. Avrebbe corso per i prati, lanciando via scarpe e ombrellino.
Avrebbe goduto della luce del sole sino a bruciarsi la pelle bianca, ridendo.
No, non poteva essere vero.
- Mi costa ammetterlo, ma penso di aver sbagliato qualcosa... Come padre- sussurrò il re, vergognoso:- E dato che con me non parla...-
- Sta dicendo che ha bisogno di me, sire?-
Il re James lo guardò con aria d’urgenza, come non aveva mai osato fare; e in quel momento Killian capì che quelle rughe non erano dovute alle ribellioni civili, o ai commerci instabili.
La causa era Emma.
- Ho bisogno di mia figlia-




Emma gettò via l’ultima lettera sulla scrivania in mogano, annoiata. Alzò gli occhi, mentre bussavano alla porta; doveva essere di nuovo il postino, che caricava su un’altra decina di inviti, elogi, poesie che avrebbe scartato via, insieme a tutte le altre.
- Fermate la corrispondenza, per l’amor di Dio!- esclamò esasperata, gettando le braccia in avanti come per proteggersi da quella montagna di cartacce:- Di questo passo mi cadranno gli occhi!-
Qualcuno ridacchiò dall’altro lato della porta. Emma alzò un sopracciglio, chiedendosi se per caso non avesse sentito male. In generale, il postino non rideva mai.
- Non vorrei mai essere la causa della perdita dei vostri splendidi occhi, mia principessa-
- Killian!-
Emma corse alla porta, col cuore in gola: girò il pomello, con le mani che le tremavano.
Le sue orecchie non le avevano mentito, stavolta: era proprio lui. Era più alto di come l’aveva lasciato al porto, dieci anni prima; portava una di quelle camicie bianche che sembrano caratteristiche dei marinai, e aveva tutta l’aria di essere appena scampato da una rissa.
Sapeva di salsedine, di aria fresca, di libertà. I suoi occhi luccicavano come diamanti.
Pensò che nessuno di quei mille principi avrebbe potuto darle un regalo più gradito.
Per un attimo ―ma solo per un attimo, si ridisse― le venne voglia di abbracciarlo, come probabilmente non aveva mai fatto, e dirgli la verità: che le era mancato, come non avrebbe mai osato immaginare.
Ma si ricompose, alzando il delizioso nasino all’insù come le avevano insegnato, porgendogli la mano.
Lui guardò il guanto bianco che le copriva le dita con sospetto, come se dovesse temerla:- Oh beh, mi sembrava un po’ presto per darti subito dei regali...-
- Sciocco che sei!- esclamò lei, divertita:- Devi stringerla-
- Stringerla?-
- Tecnicamente dovresti baciarmela, ma voglio evitarti l’imbarazzo-
- Oh, ma per favore!- esclamò il marinaio, dandole un colpetto al polso, rifiutando la mano:- Non mi dirai che è bastato qualche anno a renderti una bambola di porcellana!-
Al ché lei corrucciò la fronte, indispettita, e con un portamento da far invidia a chiunque, si girò e si diresse al suo posto d’onore, nella scrivania ancora sommersa dalle buste strappate:- Sei un insolente, come al solito!
Ti sei intrufolato qui dentro solo per rinfacciarmi la mia mancata libertà?-
- A dire il vero no, ma eventualmente si preannuncia uno spettacolo esilarante- ridacchiò lui, chiudendo delicatamente la porta dietro di sé:- Piuttosto, non mi sono intrufolato-
- Ma fammi il piacere-
- Perché così tanto astio?-
- Non è astio. Sono solo nervosa- ripiegò lei, sbuffando:- E comunque, mio padre non ti farebbe mai entrare qui-
Killian, la cui arte seduttrice era stata notevolmente affinata dagli scambi commerciali che aveva intrapreso, sorrise furbastro:- A dire la verità, è stato lui a chiamarmi-
- Non mi dire-
- Dico davvero: avrei preferito venire qui domani, vestito meglio e tirato a lucido, come piace a questi vecchi signorotti- spiegò lui, passandosi una mano tra i capelli come a voler rafforzare la sua affermazione:- Invece lui mi ha aspettato al porto e ha detto che avevi bisogno di un piccolo incoraggiamento-
- Per cosa?- chiese lei, con aria di sufficienza.
Killian la conosceva bene, e per questo non si lasciò ingannare dal suo tremendo orgoglio:- Mi hanno detto che ci sono stati dei problemi, ultimamente. Circa il tuo... Comportamento-
Emma sospirò, esasperata: non doveva nascondersi solo dai suoi genitori e da tutta la corte che le stava col fiato sul collo come un cane da guardia, ma anche dal suo migliore amico.
Avrebbe preferito parlare di cose molto più piacevoli con lui, che subirsi la ramanzina.
Si sistemò i capelli con una mano, cercando di infondere nelle parole quanto più veleno potesse spremere dalla sua collera crescente:- Qualunque cosa ti abbiano detto, è falsa. Qui va tutto a meraviglia, io sono una meraviglia. Se sei venuto qui solo per annoiarmi, tanto valeva che rimanessi sulla tua nave con i tuoi compari per un altro decennio-
Vedendo che Killian non proferiva una parola, strinse i denti e sputò l’ultima goccia di acre acido che le stava corrodendo ogni attimo felice della sua vita:- Non ho bisogno di te-
- Quanta cattiveria, da una bocca così bella- commentò Jones, senza scomporsi:- Non una singola parola era vera, temo che tu lo sappia-
- Se non avessi detto il vero, lo diventerà presto- rispose lei, stringendo i pugni:- Mi hanno rinchiusa qui dentro come una bestia. Mentre tu eri là fuori a divertirti, io venivo trattata come una marionetta-
A quel punto la pazienza di Killian fu messa a dura prova, perché tutto si poteva dire del suo apprendistato, tranne che fosse stato semplice o addirittura divertente.
Aveva sudato e pianto sangue più di quanto avrebbe mai potuto immaginare. Aveva sperato in un’accoglienza calorosa, ma Emma era ancora troppo giovane per capirlo. Conosceva troppe poche cose, all’infuori di se stessa, per preoccuparsene; per questo doveva essere clemente con lei.
- Che hai fatto, vuoi spiegarmelo?-
- Non ho fatto niente- pigolò lei, come una bambina sorpresa a fare qualche marachella:- Se ho fatto veramente qualcosa è tutta colpa loro. Non ne posso più di tutta questa smania dell’eredità-
- Vogliono maritarti?-
- Da quando mi hanno inserita in società, cinque mesi fa- annuì lei, con un tono di profonda rassegnazione:- I miei genitori continuano a dire che vogliono vedermi felice. Io non sarò mai felice-
- Non dire stupidaggini- esclamò Killian, poggiando lo sguardo sulle sue mani bianche.
Tremavano, e gli venne voglia di accoglierle nelle sue, come aveva fatto quella volta che era caduta e si era lasciata curare. Eppure sapeva che le ferite che aveva lei non si potevano sanare con un po’ d’acqua fresca e una battuta di spirito. Dal suo sguardo, dal modo in cui parlava, Killian capì che anche per lei non dovevano essere stati degli anni facili.
Se fossero stati insieme, magari, sarebbe andata meglio.
- Non ti pare logico che ti vogliano vedere felice?-
- Vorrei soltanto che capissero che non troverò mai la felicità accanto ad uno di loro- esclamò, e così dicendo indicò la pila di lettere accatastate sulla scrivania. Il giovane marinaio ne adocchiò una, ma dovette smettere di leggere dopo i primi righi: si trattava di una poesia scritta da un certo conte, e chiunque dovesse essere aveva un pessimo gusto per le figure retoriche e i profumi per la carta da lettere, perché quella sapeva di cipolle.
- Sono tutte terribili come sembrano?-
- Alcune sono anche peggio- rispose lei, prendendone una dal curioso color limone:- Guarda questa: “Egregia principessa Swan, sarei onorato se potesse venire a trovami nella mia umile dimora venerdì diciassette per una battuta di caccia alla volpe, che mi vedrà presente in quanto vincitore per cinque volte di fila al grande torneo della famiglia. Sarebbe gradita quella deliziosa gonna color salmone che indossava l’altro giorno. Se vuole, può lasciare a casa le spille per sorreggere il vestito”-
Emma roteò gli occhi, disgustata, mentre Killian si lanciò in una risata cristallina che gli fece guadagnare un’occhiata fulminante e un calcio sullo stivale destro in meno di mezzo secondo.
- Scusa...- si affrettò lui, faticando a non piegarsi in due dalle risate:- L’ultima parte mi ha steso-
- Pensavo che ti saresti arrabbiato-
- Oh, sì, sono molto arrabbiato- commentò lui sarcasticamente, alzando un sopracciglio:- Non vorrei mai che un damerino che pratica la caccia alla volpe ti possa importunare, oh giovane donzella-
Allora persino Emma fece fatica a trattenere una risata, ma la soffocò perentoriamente con un colpetto di tosse, asserendo:- Non ho mai visto nulla di così volgare-
- Si vede che non esci con me la sera- sogghignò lui.
Emma spalancò gli occhi, a metà tra l’indignato e il rapito:- Esci la sera? E da quando?-
- Tesoro, saresti sorpresa di vedere quanta gente esce la sera per bersi una birra con gli amici- disse lui, ammiccando:- Ma tu sei troppo perbene per certe cose, giusto?-
- Oh, sì, decisamente troppo perbene- sorrise lei accondiscendente, avvicinandosi:- Quando ci vediamo, e dove?-
- All’entrata del labirinto del giardino, appena cala il sole. Non ti aspetterò a lungo-
Detto questo, Killian si alzò, come se avesse appena terminato una conversazione dai toni gravi:- Spero che ti sia tornato un po’ di senno in quella zucca vuota che ti ritrovi-
- La tua presenza mi ha illuminata- sospirò lei, azzardando una riverenza che le fece perdere l’equilibrio, facendola zoppicare in avanti.
Killian ridacchiò, e le porse la mano come aveva fatto lei prima:- Arrivederci, Swan-
Lei sorrise, e gli afferrò il polso, come le aveva insegnato lui durante le loro fugaci lotte con delle spade di legno. Lo ricacciò indietro, come se volesse sbarazzarsene:- Arrivederci, piccolo marinaio-
Il marinaio, che ormai non si poteva più dire tanto piccolo, apprezzò il gesto.
Chinò la testa, come faceva in presenza dei suoi genitori, e sgusciò via similmente ad una serpe.
Emma sorrise tra sé e sé, pensando che i suoi piani per la sera non potevano prospettarsi più graditi. 

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