Die Frau in Gold (La donna in oro)

di artemideluce
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dieci marzo 1925 ***
Capitolo 2: *** Il cortile del Kunsthistorisches Museum ***
Capitolo 3: *** Come Didone ed Enea ***



Capitolo 1
*** Dieci marzo 1925 ***


Era un giorno come tutti gli altri, uno di quei giorni primaverili che risplendono di luce e illuminano le strade e le stanze.

Ero distesa nel mio letto, non potevo muovermi, la mia testa era pesante, i miei pensieri erano deformi e irreali, illogici. Tutto di quella stanza mi era sconosciuto, le persone che sedevano al mio fianco avevano delle forme animalesche, i suoni a tratti paradisiaci come il canto di un biondo angelo, a tratti provenienti direttamente dagli inferi. Volevo alzarmi, danzare, leggere il libro che non avevo concluso, mettermi un po' di rossetto sulle labbra, fumare un'altra sigaretta. Invece il mio corpo era immobile, irrigidito; non avevo il controllo delle mie braccia ne delle gambe. Sentivo degli spasmi ogni tanto, sentivo le mie dita muoversi e le ginocchia contrarsi come un felino nel sonno. Un demone si era impossessato di me, muoveva i miei arti come fossi un burattino.

Nei pochi momenti di lucidità riconoscevo le mie due nipotine che mi leggevano una favola accanto al mio letto. Come le amavo! Le amavo come fossero figlie mie. Una delle due, Maria, la più piccola, mi ricordava me alla sua età, sempre imbronciata e con la testa tra le nuvole.

Chissà cosa vedeva al mio posto la gente che mi osservava, vedeva me, la solita Adele, o vedeva una donna distrutta da un male incurabile nel fisico e nell'anima? Maledetta questa vita, che non mi ha concesso di avverare i miei desideri più reconditi, che mi ha rinchiuso nel corpo di una fragile donna di alta borghesia, imprigionata nel suo palazzo di cristallo.

La luce che penetrava dalla finestra illuminava la mia mano sinistra, aggrappata alla fine coperta ricamata che mi copriva le gambe rigide, quelle che una volta erano state desiderate da così tanti uomini e invidiate da altrettante donne.

Quella luce dorata che immergeva la mia Vienna in quel caldo colore che mi faceva ricordare le felici giornate in compagnia di colui che mi aveva rubato il cuore e l'aveva steso con un pennello in quei quadri che tanto amava e che ora mi osservavano dall'alto della loro posizione, sopra il camino della sala da thè. Quell'uomo, il mio amore, il mio amato, il mio amante. Lui il mio Dio e io la sua Musa. Lui, Amore sceso in terra per elevare me a sua Psiche per sempre.

Mio marito accorse, stavo delirando ancora. Probabilmente dalla mia bocca erano usciti i miei pensieri deliranti, quei pensieri che avevo tenuto nascosti negli angoli più profondi del mio cuore per i sette anni dopo la morte del mio amato.

Si avvicinò con il suo fare da galantuomo qual era, si inginocchiò al mio fianco, mi diede un lieve bacio sul dorso della mano.

"Mia cara, mia dolce, mia angelica moglie. Mi stavate chiamando? Sono qui, ora, mia amata Adele." Vedevo i suoi occhi tristi, colmo di rabbia per la fatalità che mi era capitata, proprio a

me in mezzo alle milioni di cittadini della nostra città. Forse avevo fatto arrabbiare gli dei, avendo rubato uno di loro dal loro monte Olimpo per tenerlo un po' al mio fianco. Con uno sforzo immane allungai l'altra mano al comodino che stava accanto al letto, presi un piccolo taccuino rilegato in pelle marrone e finemente inciso. Lo presi e in quel momento sembrò così infinitamente pesante, come la mia anima peccatrice. Lo misi sopra la mano di mio marito e dissi che lo avrebbe dovuto dare a Maria quando fosse stata abbastanza grande per capire. Non so se dissi proprio così,non sentivo la mia voce: udivo solo un dolce canto, paradisiaco, come un melodioso richiamo verso l'aldilà. Ma seppi che lui capì ciò che avevo detto, e nel suo volto lessi la rassegnazione nel comprendere che la mia ora era giunta, troppo presto forse, prima di vedere che il mondo cambiasse come lo sognavo io, prima di poter dare alla luce una progenie per il mio fedele e amato marito. Gli sorrisi flebilmente, lui rispose con un altro bacio e una calda lacrima mi bagnò la mano.

Il momento di lasciare questo mondo era arrivato, sentivo quella soave melodia che mi chiamava a salire verso un qualcosa di altro, di ignoto, di limpido e lontano dai dolori del genere umano. Posai i miei occhi per l'ultima volta su quel quadro che mi ritraeva, così altera e regale in quella veste dorata, come una dea dell'Olimpo scesa a esibire ai mortali la propria bellezza e magnificenza. Quel quadro che lui aveva dipinto per me, che proseguiva sempre dopo aver fatto l'amore con me, seduto su uno sgabello traballante in quello studio buio e polveroso che era il nostro covo. Tutto di quel quadro mi ricordava i momenti di estasi trascorsi con lui, il mio Gustav, il mio Gustav Klimt.
 



Studio arte e storia, è il mio primo scritto storicamente fedele e, nonostante sia appassionata e informata potrei aver commesso degli errori e, se li notate, fatemeli notare e correggerò subito il tutto!
Sarei molto felice se lasciaste dei commenti, che siano negativi o positivi, accetto tutto e cercherò di rispondere il più velocemente possibile!

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Capitolo 2
*** Il cortile del Kunsthistorisches Museum ***


Tredici Maggio 1937

Si diceva che il mese di maggio era il mese migliore per sposarsi: la primavera faceva sbocciare i fiori, il sole scaldava i cuori e infondeva una strana aura di gioia per le strade di Vienna. Maria si sposò con un giovane cantante lirico, un certo Frizz, bello, alto, moro e con due incantevoli occhi azzurri. Era figlio di un noto imprenditore, ma amava la musica classica ed era un celebre cantante d'opera, agognato da molte signore dell'alta borghesia austriaca che lo miravano e rimiravano dai loro posti in galleria, accanto ai mariti conciati in frac. Si sposarono nella loro casa, c'era spazio per il centinaio di amici e parenti invitati alla cerimonia, tutti erano felici e cantavano e danzavano e applaudivano i novelli sposi. Lei era bella come sempre, in un abito bianco di pizzo che le risaltava la silhouette, i tacchi che era solita portare e una fine tiara intrecciata tra i capelli la rendevano lucente più che mai. Si vedeva da come si guardavano che si amavano, si amavano alla follia. In uno dei pochi momenti in cui la novella signora Frizz non era al centro delle danze lo Zio Ferdinand la rubò all'attenzione della felice e confusionaria folla degli invitati.

"Tua zia Adele sarebbe stata molto felice nel vederti così innamorata di quell'uomo. Era così fiera di te, ti amava come una madre." Negli anni successivi alla morte della moglie lo zio si era lasciato andare ai piaceri della tavola, acquistando qualche taglia in più, tanto che il vecchio frac che indossava sembrava gemere sotto la tensione di un corpo non più della sua misura. Non aveva neanche più acquistato quadri, ne tanto meno ne aveva commissionati. Era una passione che lo accomunava alla moglie, mecenati di artisti classici quanto di innovativi, come i dipinti del loro amico Klimt, che ancora si stagliavano imponenti sulla parete della sala da thè. "Questo è il mio, il nostro dono per te, mia cara nipote. Lei amava così tanto la sua collana, almeno quanto amava te, mia dolce Maria. Sul punto di morte mi disse che avrei dovuto donarla a te, così avresti potuto sfoggiarla nella tua giovinezza." Fece un lungo sospiro, un colpo di tosse, e alzò lo sguardo verso il ritratto della moglie. Non era cambiata per nulla in tutti questi anni. "Mi diede anche questo taccuino, da darti quando sarebbe stato il momento opportuno. Ora, mia amata nipote,sai quale dramma sta incombendo sul nostro paese. Il partito nazista vuole dominare su tutto e tutti, e noi qui non siamo i benvenuti. Faranno di tutto per derubarci dei nostri averi e per imprigionarci. Tieni - prese una mano alla sposa, che teneva la testa abbassata per coprire gli occhi gonfi di lacrime, pronti ad esplodere - sono per te. Leggi le sue memorie anche per me." Si alzò in piedi e presa in mano la collana, con uno sguardo triste e rassegnato diede un bacio al rubino incastonato al centro, e diede un ultimo fugace sguardo alla sua Adele, la mise al collo di Maria. Appoggiò le grassocce e pesanti mani sulle sue spalle e diede un ruvido bacio sulla guancia della nipote. Si alzò e tornò di fronte alla ragazza che fino ad allora aveva tenuto la testa bassa a guardare il suo nuovo anello e a trattenere le lacrime. Lei si alzò, cercando di evitare gli occhi dello zio, intrecciò il suo braccio con quello che zio Ferdinand le stava porgendo ed entrambi si avviarono di nuovo verso il salone rimbombante di voci e musica.

Qualche mese dopo la Gestapo fece irruzione nel palazzo di famiglia. Lo zio Ferdinand se n'era andato a Colonia subito dopo la festa, o forse già durante. Aveva lasciato la dirigenza delle aziende di famiglia al fratello Gustav, padre di Maria. Questi comprò due biglietti per Colonia per la figlia e il cognato, facendosi aiutare da un contadino che gli doveva un favore per portarli di nascosto all'aeroporto. Loro restarono lì, nella loro lussuosa dimora al centro di Vienna, mentre la polizia sequestrava dipinti e argenteria, compreso il collier di diamanti che Maria non aveva potuto portare con se verso la sua nuova vita in America. Furono entrambi internati in campi di concentramento, e se ne persero le tracce, così come delle loro fabbriche e dei loro averi.

Molti anni dopo Maria, nella solitudine apparsa nella sua casa dopo la morte del marito, sistemando la soffitta ritrovò il taccuino della zia. Era impolverato e le pagine ingiallite stavano per staccarsi. Ma la rilegatura in pelle era ancora in ottimo stato, merito della eccellente fattura di chissà quale artigiano austriaco. Si mise a sfogliarlo, non senza un certo timore nel rievocare quel periodo così buio per la sua famiglia.

Primo maggio 1882

Era uno splendido giorno di primavera quando visitando il Kunsthistorisches Museum quando vedemmo per la prima volta il giovane Gustav all'opera nel dipingere il cortile del Belvedere. Era in cima alla sua scala, con la tipica casacca blu da pittore, tutta macchiata dei colori della sua tavolozza. Stava lassù da molte ore, poiché lo vedemmo anche dopo aver visitato il muso. Mio marito si soffermò a chiacchierare con un collega finanziere, mentre io mi avvicinai a lui, per osservare il suo lavoro all'opera. Le chiacchiere degli uomini borghesi si dilungavano, mentre io ero rapita dalle sue veloci pennellate, dai suoi vortici, dal modo di disegnare e delle sue pause. Notai che si soffermava con il pennello in mano a osservare il punto vuoto che doveva riempire, disegnando degli arabeschi in aria prima di far baciare le setole con la calce del muro. Ero stregata dai suoi movimenti, mentre lui non si era nemmeno accorto della mia curiosa presenza. Mi aveva trasportata in un universo fatto di colori e movimenti, isolata dal mondo reale che mi circondava. Non mi accorsi che Ferdinand mi raggiunse se non quando mi posò la mano su un fianco, e sobbalzai dalla sorpresa, strappata dai miei sogni e dalle mie fantasticherie.

"Tesoro, era il direttore della banca di Vienna, ci invita a cena domani, ci saranno anche gli altri membri della commissione del tesoro" mi disse, nel suo solito tono placido e tranquillo.

"Oh, certo, Ferdinand. Perdonami se mi sono allontanata, ma ero incuriosita da questo giovane artista e dal suo lavoro" Risposi, incapace di staccare gli occhi dalle mani sporche e dal pennello di quel ragazzo.

"Di sicuro con tutta quella vernice verrà un capolavoro. Complimenti signor...." Si bloccò, stupendosi del fatto di non conoscere l'artista che affrescava le pareti del museo, il museo dal suo amico, quello che frequentavamo la domenica e che ospitava le serate di gala per l'alta borghesia viennese. "Sono Gustav." Il giovane si tolse il berretto e lo strinse addosso alla sua blusa da pittore, cercando di ripulirsi le mani per porgerle a Ferdinand. "Sono Gustav Klimt, signore." Mio marito fece un passo indietro e accavallò le mani dietro alla sua schiena, anche se per la sua stazza non riusciva a toccarsele. Io mi feci avanti, non so per quale strana attrazione magnetica e gli porsi la mano.

"Noi siamo i Bloch-Bauer, signor Klimt. Verremo di sicuro a vedere l'opera finta all'inaugurazione del cortile.." Ferdinand mi prese per un gomito e mi tirò indietro, non prima però che le nostre dita si sfiorassero e una scossa elettrica partisse da quel tocco fino a percorrere ogni centimetro del mio corpo, facendomi venire la pelle d'oca.

"Certo che verremo, mia cara. Ora però andiamo, lasciamo lavorare l'artista, non disturbiamolo con le nostre ignoranze da borghesi. Signore, con permesso". Mi mise il braccio sotto il suo, come era usanza della nobiltà e della borghesia e mi strattonò per partire nella camminata fino all'automobile. Io tenni lo sguardo basso per un lungo tratto, chiedendomi per quale incantesimo non riuscissi a togliermi dalla mente quel ragazzo dai capelli di fuoco, così arruffato e goffo, ma così ammaliante nel compiere le sue pennellate. Arrivati all'automobile il nostro chaffeur era lì ad attenderci con la porta spalancata. Misi un piede sull'alzata e in quel momento girai lo sguardo verso la direzione che avevamo appena lasciato e vidi lui ancora nella sua posizione di rispetto che guardava verso di me. Un secondo prima di girare lo sguardo vidi sul suo volto dipingersi un sorriso superbo, in grado di scogliere il cuore delle più altere delle dee e delle più dure pietre; alzò la mano con il berretto e fece un piccolo segno di inchino, che io ricambiai con un sorriso appena accennato. Chissà se da lontano vide la mia risposta, chissà se lo aspettava, chissà cosa avrà pensato di me. Ciò che era accaduto mi riempì il cuore di una calda gioia, quella che non provavo da anni.

Quello fu il nostro primo fugace, prorompente, inaspettato incontro.

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Capitolo 3
*** Come Didone ed Enea ***


Sedici agosto 1882 

La sera del compleanno di mio marito organizzammo una cena di gala invitando tutte le maggiori personalità intellettuali e altolocate della società viennese. Tutti gli invitati erano acconciati come fossero alla corte di un re o al cospetto di un imperatore. Per l'occasione Ferdinand si comprò un nuovo completo alla moda, con un panciotto bianco splendente e un farfallino bordeaux, che sotto il suo importante mento sembrava un uccellino appena uscito dal nido. Mi fece una sorpresa e regalò anche a me un abito, uno di quelli alla moda e freschi di sartoria. Anche quell'abito era di un rosso scuro ricamato con fili d'oro che intrecciati davano vita a dei magnifici fiori. Con quell'abito addosso mi sentivo una dea, potevo starmene ore ad osservarmi allo specchio fingendo danze o riverenze. Ero lì, nella mia stanza, accanto alla finestra che dava sulla via principale che fumavo una sigaretta osservando il mondo scorrere attraverso il vetro, quando sobbalzai al tocco di mio marito sul fianco. 

"Cara, finirai con il bruciare il tuo nuovo abito con la cenere, non vorrai doverti presentare in abito da notte spero!" Si vedeva che era in agitazione, la fronte imperlata già di sudore e le mani tremanti; era tipico di lui, si eccitava per ogni nonnulla.  

"Ferdinand, tu davvero vorresti mostrare la tua mogliettina in camicia di seta alla più alta borghesia di Vienna? Su, non temere per il mio abito nuovo, temi piuttosto per i miei nervi che privati di questo fumo inebriante rovinerebbero questa bella serata." Amavo mio marito, mi faceva sentire la donna più bella d'Austria, il suo gioiello più raro, il suo quadro più bello. Eravamo sposati da qualche anno, un matrimonio combinato. Inizialmente mi rifiutai di diventare moglie di un uomo più vecchio di me, di una stazza decisamente troppo avida, goffo, dai baffi pungenti e dalla parlantina accelerata. Eravamo due opposti: io ingorda di letteratura classica, di filosofia, in gioventù mi ribellai alla legge che non permetteva alle donne di fare l'università intrufolandomi con abiti maschili ad un corso di filosofia greca. Lui morigerato proprietario di molte fabbriche di zucchero in Austria e nella Cecoslovacchia, da dove proveniva, era un ricco dotto rampollo di società quando a 35 anni mi prese in sposa. Amava l'arte, passione ereditata dalla giovane madre, e forse fu questo il mio unico appiglio nella vita coniugale, ciò che mi teneva a galla legata a lui, questo mi fece pian piano tenere a lui, con quella tenerezza che si prova davanti ad un bambino di strada o ad un piccolo gattino miagolante. 

Fece un piccolo sbuffo, il suo solito modo di darmi ragione senza bisogno di una discussione, lui le odiava; le guance rosee in un secondo si riempirono d'aria che lascò tutta d'un colpo facendo tremare le labbra. "Che sia mai, mio fiore di primavera. Io volevo solamente.." Fece una lunga pausa e tolse la mano dal mio fianco, con timidezza. Mi girai e spensi la sigaretta nel posacenere di madreperla poggiato sul balcone. Lui aveva abbassato il viso, teneva lo sguardo fisso su una scatoletta di velluto nera, rettangolare, che aveva tra le mani. "Volevo solamente chiederti se.. Se ti andasse di portare il collier di mia madre." La sua voce tremava almeno quanto le sue mani, e non osava alzare gli occhi per paura di un mio rifiuto. Non ero mai stata legata con la sua famiglia, sua madre era sottomessa al marito che l'aveva relegata a ricamare e bere the in casa fino alla fine dei suoi giorni. Presi il suo volto tra le mani e lo alzai e vidi che aveva gli occhi gonfi di lacrime pronti a scoppiare. Capì che ci teneva davvero tanto, così gli dissi che l'avrei indossato per quella sera. Quando aprì quel piccolo cofanetto mi stupii di una così fine manifattura: non mi aspettavo uno splendido girocollo di diamanti incastonati su una maglia d'oro, intervallati da zaffiri del colore del mare, al centro un grosso rubino coronato da piccoli diamanti trasparenti. 

Fu una bella serata, una piccola orchestra suonava in un angolo, c'erano le più alte cariche del governo, attori, scrittori, professori universitari, filosofi e pittori. Stavo conversando con Alma Mahler della sua relazione con il pittore espressionista Oskar Kokoschka quando sentii la sensazione di essere osservata. Iniziai a guardarmi attorno, cercando con lo sguardo tra parenti e amici non so chi che mi faceva questo effetto. E poi lo vidi: lui, quel giovane pittore incontrato al Museo, vestito con una semplice camicia bianca mal stirata, il colletto per metà alzato e un papillon scoordinato dal resto del completo. Restai ferma, incredula, di aver rivisto colui che aveva imprigionato la mia mente tra le setole del suo pennello. Lui era qui, nella mia magione, nel mio palazzo, di fronte a me. Ci separavano molti piedi e molte persone, ma all'improvviso tutto scomparì dalla mia vista, tutto si immobilizzò, la mia vista diventò sfocata, la musica sempre più lontana. Tutto ciò che vedevo era quel ragazzo che dal fondo della stanza mi osservava silenzioso. 

Mi risvegliai nella sala da the, Alma e Ferdinand accanto al mio letto e non appena aprii gli occhi i due sobbalzarono. "Oh cara, stavamo per chiamare il dottore!" disse mio marito, con la voce mozzata dallo spavento. "Su, Ferdinand, lo sai che le donne devono sopportare corpetti e pesanti gonne giorno e notte per voi uomini? E' stato solo una ventata di calore, ora resta qui un poco, ti faremo portare del the dalla cameriera." Alma scacciò mio marito, lo rimandò alla sua festa. 

"Grazie, non mi era mai accaduto. Il vestito è nuovo, la sarta avrà sbagliato le misure del corpetto, domani vado a farlo sistemare.." Ero ancora un po' confusa e stordita, ma mi sentivo meglio con il corpetto slacciato e un po' aperto sul davanti. Alma era seduta sulla lettiga accanto a me e mi parlava dolcemente. "Ho visto che lo guardavi." 

"Come? Chi? Io?" La testa tornò a sobbalzare e mi riappoggiai al cuscino di seta verde. 

"Sì, tu, Adele. Tutti ne parlano alla gilda dei pittori, si dice sia un visionario." Mi rispose, guardandomi negli occhi con quel suo sorriso beffardo. 

"L'ho incontrato al Kunsthistorisches mentre dipingeva il cortile. Mi ha stregata." Dissi l'ultima frase con un lieve imbarazzoSono stata una donna ribelle, ma mai avrei creduto di pensare ad un altro uomo oltre a mio marito, mi sentivo come Didone dopo aver incontrato l'eroe troiano. "Agnosco veteris vestigia flammae..*" Riconosco I segni dell'antica fiammaconfessava la regina di Cartagine alla sorella, un po' come stavo confessando la mia attrazione per quel giovane ad Alma.
"Vero, la tua passione per le tragedie greche. - Si interruppe di colpo e si alzò di scatto- Oh. Vi lascio soli" E se ne andò dalla stanza con la sua tipica camminata ancheggiante che l'aveva resa amata dagli intellettuali viennesi e con il suo sorriso malizioso impresso sul volto. Mi alzai di scatto, pensando fosse la servitrice con il the. Invece fui sorpresa a vedere proprio lui, quel giovane pittore, di fronte a me, ma a distanza di rispetto.
 

"Chiedo scusa, non voglio creare disturbo. Volevo solo sapere come stavate, signora Bloch-Bauer." Teneva le mani aggrovigliate all'altezza dell'ombelico, ancora sporche di vernice, e lo sguardo basso.  

Cercai di coprirmi il più possibile l'apertura del vestito con un lembo della gonna. "Sono io a chiederti scusa.Ciò che è accaduto non si addice ad una signora in presenza dei suoi ospiti. E mi scuso di essere indisposta in questo momento.- Feci una breve pausa. I nostri occhi non si staccarono nemmeno per un secondo. Tra di noi una scossa elettrica, un'attrazione quasi carnale. - Vieni, siediti." Si accomodò sulla poltrona accanto a me. 

Non ricordo bene come, ma dopo indeterminati secondi di silenzio, tutto d'un tratto le nostre labbra erano si sfioravano, le sue mani tra i miei capelli, le mie sulle sue spalle. Sentivo il calore della sua pelle da sotto la camicia e il suo cuore andare veloce come un treno, la mia mente era in estasi e il mio corpo ribolliva d'una sensazione che avevo dimenticato. Con una mano scostò la mia pudicizia e con un dito toccò lievemente una mia clavicola, e a quel contatto un'altra scarica di brividi percorse tutte le mie membra. Le nostre bocce si trovavano e perdevano in una danza di sensi e di respiri, si prendevano e comprendevano come due giovani amanti, colte dal timore di essere scoperti. Così come iniziammo, finimmo il nostro amplesso fatto di baci, e lui tornò a sedersi nella sua poltrona, risistemandosi la camicia malconcia. Dalla tasca estrasse un carboncino arrotolato in un foglio, prese un libro dal tavolino lì accanto e ci appoggiò sopra i suoi strumenti. Non avevo mai visto un pittore all'opera così da vicino. Mi guardò attentamente e mi parve che mi scrutasse l'anima da quanto i suoi occhi erano penetranti, e si mise a disegnare. 

"Sono venuto qui per questo, Adele. Per cogliere la tua anima e tenerne un pezzo con me."

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