Benedetto il Signore, mia roccia, che addestra le mie mani alla guerra, le mie dita alla battaglia

di malacam
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima Notte ***
Capitolo 2: *** Seconda Notte ***
Capitolo 3: *** Terza Notte ***



Capitolo 1
*** Prima Notte ***


Benedetto il Signore

Dedico questa fanfiction:

a tuttE quelle persone a cui devo la mia esistenza (sentitevi pure chiamati in causa!)

alle sorelle che mi fanno macchiare le camicie di vino

ai discemoli pazienti e disponibili

al mio troppo giovane padawan

 

 

Benedetto il Signore, mia roccia,

che addestra le mie mani alla guerra e le mie dita alla battaglia

 

 

Parte 1

 

“Allora?...Altro da dire?...”

 

Nonostante il volto dello skull fosse incapace di esprimere emozioni, la sua disperazione e il dolore erano più che evidenti. Il capo reclinato in avanti, quasi non riusciva a fissare in volto l’uomo che aveva di fronte.

Trovava insopportabile il suo profumo di acqua di colonia, e non riusciva a smettere di fissare il vuoto dietro la maschera che gli celava metà del viso.

Sebbene fossero passati anni dall’ultima volta che aveva provato terrore, il custode dell’arca provava ora in modo talmente vivido quella sensazione da credere che non l’avesse abbandonato per un singolo istante della sua esistenza.

“Uff…uff…uff…”

Grondò un fiotto di sangue dalla bocca come per tossire, e la testa gli cadde pesante sul petto.

 

Lui si staccò dalla spalliera dell’elegante poltrona di velluto. Poggiando lentamente il gomito sinistro sul ginocchio e sporgendosi in avanti allungò la mano destra fino al tavolinetto di vetro. Presa delicatamente una sigaretta dal posacenere, con un colpetto del pollice ne fece cadere la metà ormai consumata dal tempo e se la portò alla bocca, facendo un lunghissimo tiro. La luce che ardeva dalla sigaretta illuminò per un attimo il suo volto, impassibile e freddo come catturato da uno spettacolo irresistibile ma al contempo vacuo. L'uomo rimise la sigaretta nel posacenere, e con i polpastrelli sollevò il mento dello skull come per guardarlo in faccia.

Ruotando il volto leggermente verso sinistra lasciò andare il fumo. Poi avvicinò la mano alla fronte del servo del Conte e, disegnando con il pollice una croce, recitò con voce ferma:

“In nomine Patris... et Filii... et Spiritus Sancti...”

Un leggero colpetto alla fronte dello skull con il dito medio ed indice accoppiati e la testa della creatura si spostò pesantemente all’indietro, il sangue che usciva dalla bocca disegnando un arco. Il corpo, sbilanciato, cadde pesantemente all’indietro trascinando con sé la sedia di legno al quale lo skull era stato legato, finendo con un sordo tonfo sul tappeto veneziano bordeaux già macchiato dal sangue macabro e scuro.

L'uomo si riappoggiò alla spalliera della poltrona.

“…Direi che possiamo procedere… ”

disse, riprendendo la sigaretta e facendo un altro tiro.

“…Direi anche io… i tempi sono maturi, ormai…” rispose una voce dell’angolo della stanza di fianco al camino. Lentamente la figura che aveva appena parlato uscì dalla penombra e si incamminò verso il centro della stanza, le braccia lungo i fianchi. Sul suo volto indefinito spiccava un lungo sorriso a spicchio di luna, che però non emanava gioia né pace, e i suoi occhi grandi ed ovali non tradivano nessuna emozione.

“I margini sono stretti, credo ti convenga rispettare gli accordi…”

“Uhm, mio caro Cross... non starai mica tentennando, vero?”

“Naah! Ci tengo solo a ricordarti che nel nostro contratto non è prevista nessuna penale per la rescissione se non la dannazione... prospettiva non certo più piacevole per te che per me…”

Un silenzio pesante scese nella stanza, lo scorrere del tempo dettato solamente dal fumo che usciva dalla sigaretta, ormai quasi del tutto consumata, che l’esorcista teneva nella mano poggiata sull’ampio bracciolo della poltrona. L’aria era impregnata dell’odore del fumo e del sangue. Entrambe le figure erano ferme, immobili, gli unici movimenti erano quelli del fuoco che scoppiettava sottotono, inquieto, e il tremolio delle candele.

Improvvisamente la voce della figura, che rapidamente e silenziosamente si era portata alle spalle di Cross, squarciò il silenzio:

“…tra 48 ore, come stabilito, nel luogo stabilito. 'Alea iacta est'!!!”

Una folata di vento entrò inspiegabilmente nella stanza, circondando la figura. Così com'era apparso il turbine si dissolse portandola con sè.

Con un pesante sospiro Cross spense la sigaretta nel posacenere e si alzò dalla poltrona, facendo leva sui principeschi poggia-mani, per poi dirigersi verso la grande porta di ciliegio di fronte al camino. Subito accanto alla porta c'era un mobile, e su quel mobile dei guanti di seta bianchi che prese e indossò. Con indice e pollice prese una piccola bacchetta che sorreggeva una campana d’argento finemente decorata con disegni floreali, e con questa fece il giro della stanza per spegnere le candele ancora accese. Una volta risistemato l'oggetto aprì il pesante portone, ma prima di uscire si volto verso il camino. Sopra di esso, illuminato dalla luce del fuoco che aveva ripreso a scoppiettare più vivacemente, faceva bella mostra di sé un trittico. Un sorrisino apparve sul volto del generale, che fissando l'immagine di Nostro Signore ripeté:

“Alea iacta est…”

Il portone si richiuse e salvò la stanza dal gelo dell’esterno. 

 

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Capitolo 2
*** Seconda Notte ***


Benedetto il Signore

 

Benedetto il Signore, mia roccia,

che addestra le mie mani alla guerra e le mie dita alla battaglia

 

 

Parte 2

 

Quarantotto ore non furono sufficienti per far cadere il vento, che non smise nemmeno per un attimo di frustare la città. Stalattiti di ghiaccio pendevano dalle grondaie dei tetti. Le strade erano attraversate solo da poche carrozze e i cittadini infreddoliti, coperti da pesanti scialli e bersagliati dall’incessante neve, si spostavano passando velocemente da un portone all’altro.

Marian era in ginocchio ai piedi del letto, un rosario stretto fra le mani poggiate congiunte sulla fronte e i lunghi capelli rossi che non permettevano di vedergli chiaramente il volto.

Scorso sulle dita l’ultimo grano, aprì gli occhi e li alzò leggermente al cielo dicendo:

“…O Dio, vieni a salvarmi. Signore, vieni presto in mio aiuto… Poiché tuo è il regno, e la potenza, e la gloria: Padre, e Figlio, e santo Spirito, ora e sempre, e nei secoli dei secoli. Amen.”

Alzatosi in piedi si mise il rosario al collo, e abbottonando l’ultimo bottone dell’elegante camicia di seta immacolata si avvicinò alla grande porta finestra che dava sulla veranda. Prese senza guardare la cravatta dalla spalliera di una sedia, gli occhi occupati a fissare il cielo, cercando inutilmente di seguire il tragitto di un singolo fiocco di neve. Spostò quindi lo sguardo alle cime delle montagne coperte dalle nubi, poi gli fece seguire il pendio, fino a cadere sul campanile della cattedrale a sud della grande piazza. Finì per fissare la propria immagine riflessa nei grandi vetroni e si fermò per un istante, la mano destra a sistemare i capelli e stirare il colletto della camicia aggrinzito dalla cravatta troppo stretta.

Prese dal taschino del panciotto un piccolo orologio e lo guardò: le esili e contorte lancette indicavano le 5 e 12 minuti. Dopo aver passato il pollice sul vetro ed aver rigirato l'orologio tra le dita, in modo da presentarne il retro d'oro verso l’esterno, lo rimise dentro la tasca percorrendo per qualche centimetro la catenella.

Infilò la giacca e dal comò tirò fuori un mazzetto di banconote. Dopo averle sfogliate velocemente, le piegò e se le infilò in tasca.

Passò dall’altro lato del letto e si chinò leggermente sulla gracile figura nuda che lo occupava. Spostò con una mano i lunghi e folti capelli neri e le fissò per qualche secondo il profilo angelico, il viso tondo e il nasino piccolo che faceva da tetto alle sue labbra carnose e rosee che spiccavano sulla pelle pallida e liscia. Sorvolando il mento e il delicato e gracile collo della fanciulla si chinò in avanti, baciandole delicatamente la schiena, un tocco impercettibile ma che scosse l’apparente immobile figura. Le poggiò la mano sui fianchi e la fece scorrere fino ad afferrare l’estremità del lenzuolo  che le cingeva la vita. Osservò i suoi seni nudi muoversi al ritmo del respiro, poi fece scorrere il lenzuolo fino a coprirle le spalle. Dopo essersi riempito i polmoni del profumo dei suoi capelli, scattò verso la porta, prendendo sciarpa e soprabito e mettendosi il cappello in testa. All'esterno, nel grande androne, la sua carrozza lo stava già aspettando.

 

Si adagiò all'interno senza neanche aver abbottonato il cappotto di velluto nero. Estrasse dalla tasca un portasigarette d’argento, il fregio della Dark Religious sul davanti, senza degnarlo di un solo sguardo. Lo aprì e tirò fuori una sigaretta che accese e portò alla bocca mentre continuava a guardare dal finestrino.

La carrozza si avvicinò rapidamente al ponte egizio. Il Generale seguì con lo sguardo la piccola sfinge scura che sorvegliava il passaggio, ammirandone il decorativo copricapo dorato e fissandone gli occhi. Per qualche istante ebbe l'impressione che la sfinge lo seguisse con lo sguardo, ma presto se ne dimenticò, la sua attenzione catturata dall'imponente obelisco che svettava subito a lato. 

La carrozza salì sul ponte. Osservò il fiume, ghiacciato e apparentemente fermo, come tutto in quella città. Sembrava di essere in un mondo illusorio, statico e freddo... ma fu sufficiente il rapido guizzo di un gatto nero, che corse veloce da una sponda all’altra, per riportare il Generale alla realtà. La cosa gli strappò un sorriso.

Il tragitto fu breve, neanche il tempo di finire la sua sigaretta. Quando la carrozza si fermò e il paggio aprì lo sportello per consentirgli di scendere, Cross si trovò davanti al piccolo portico del Teatro Antico. Il rumore dei suoi stivali che riecheggiava sulle pietre della pavimentazione fu coperto dalle pesanti campane della cattedrale di Sant' Isacco che suonarono sei volte; l'ultimo dei rintocchi si disperse mentre il Generale entrava nel teatro per raggiungere il suo palchetto.

 

Lì lo attendeva, seduto di spalle su un'elegante poltroncina, un signore distinto, molto alto, con i capelli lunghi tirati all’indietro. Senza nemmeno girarsi l'uomo allungò un braccio, porgendogli un calice colmo di vino.

“Ben arrivato, Marian…mi sono permesso di ordinare, spero di non averti in questo modo arrecato offesa!”

“Se i tuoi gusti in fatto di vino sono migliorati, no di certo…” rispose sorridendo. Lasciato il soprabito al cameriere prese il bicchiere offerto e si sedette di fianco al suo ospite.

“Ho il nostro ragazzo, come d’accordo…”

“...Quello che voi Noah non riuscirete mai a capire è il momento in cui parlare d’affari o meno…”

Prese un sorso di vino e proseguì. “…tu crea il «suonatore», io creo l’«esorcista»; insegno a te come scegliere il vino, a gustare l’opera. Se entrambi facciamo un buon lavoro, beh... il Conte cade, il Vaticano si annoia e io forse riesco a svegliarmi di fianco alla prima ballerina senza pensare di dover vedere il tuo visino da pagliaccio uscito male, che almeno hai avuto la cortesia di celare stasera, signor Quattordicesimo!”

Il Quattordicesimo sorrise di gusto, trovava molto divertente questo lato spavaldo di Cross. Tornò serio dopo aver notato lo sguardo irritato della signora impellicciata seduta nel palchetto a fianco. Non era il caso di dare troppo spettacolo.

“Credo che Sua Eccellenza il Conte – mimando con le mani le virgolette - sia abbastanza rilassato, vista la situazione... questo ci permetterà una discreta capacità di manovra…”

Il discorso dei due si interruppe bruscamente quando sul palco, sulle note della «Toccata e Fuga in D minore» di Bach, entrarono degli attori vestiti da fantasmi.

Gli artisti volteggiavano sulle assi di legno disegnando delle figure circolari e accompagnando con il movimento delle ampie vesti la principale sonata d’organo, come se ne fossero possedute. Il silenzio della folla, incantata dai giochi di colori e d’armonia del corpo del balletto che simulava l'irrompere delle presenze immonde nel mondo, fu interrotto da un colpo di tosse.

Cross accese un'altra sigaretta. Fissava il palco, ma la sua mente era altrove. Senza spostare lo sguardo si rivolse al Quattordicesimo.

“Disponiamo le nostre pedine. Quando il tuo messaggero giungerà a me, prenderò il testimone…”

Il Noah non distolse per un attimo lo sguardo dalla rappresentazione. La sonata andò in crescendo, le note si fecero veloci, i corpi dei ballerini troppo rapidi... e improvvisamente tutti gli spettatori del teatro sembrarono fissare il loro palchetto, anche se i due occupanti non li degnavano di uno sguardo.

“Allora arrivederci, amico mio.”

Abbozzando un sorriso il Noah si dileguò, lasciando che i suoi abiti si afflosciassero sulla poltrona di velluto rosso.

 

Era appena cominciata la seconda fuga della sonata, una sonata decisamente troppo macabra per una serata particolare come quella. Cross si alzò in piedi e, continuando a guardare il palcoscenico, poggiò le mani sulla balaustra, i suoi occhi fissi in quelli della bellissima prima ballerina.

L’esorcista sorrise vistosamente. Mentre la ragazza continuava a ballare e tenere lo sguardo fisso su di lui, con la sinistra tolse la sigaretta dalla bocca. Uno sparo, un rumore immondo, coprì per un istante la soave musica che continuò a scorrere, mentre la ragazza si contorceva dal dolore al centro del palcoscenico.

Nessuno, fra il pubblico, fece una piega. Continuavano a fissare il palchetto, e Cross continuava a fissare la ragazza finché un enorme mostro con la faccia contorta come da secoli di urla uscì dalla bellissima e vellutata pelle della ragazza ed esplose.

Riportando la sigaretta alla bocca, Cross sollevò all'altezza del viso la pistola bianca che teneva nella destra. L'arma era decorata sui due lati della canna con disegni d’argento che ricordavano dei gigli. 

Judgement.

Rimanendo fermo dov’era, cominciò a sparare e colpire tutti i presenti nel teatro.

Molti vennero raggiunti dai colpi prima ancora di rendersene conto. Altri avevano fatto in tempo a rivelare la loro natura di akuma, ma non abbastanza velocemente da costituire un reale problema.

Le esplosioni continuarono a susseguirsi, facendo crollare parti del teatro. Quando l’ultimo akuma esplose, un denso fumo misto a polvere pervase l’ambiente. Cross abbasso l’arma all’altezza della balaustra, senza poggiarla.

“AMEN”

Rinfoderò la pistola, uscì dal palchetto e riprese il suo soprabito, abbandonato per terra nel corridoio che conduceva alla galleria.

 

Quando mise piede fuori dal teatro il vento si era calmato, e nevicava in maniera soffice e delicata.

Avanzò oltre il porticato fino a che il suono dei suoi stivali non mutò da sordi e secchi tacchettii, a sommessi e cupi scricchiolii di neve.

Evidentemente i tempi erano veramente maturi.

Continuò a passeggiare per le vie della città soffocata dalla coltre bianca. I bagliori delle lanterne, che trapelavano appena dai lampioni coperti di neve, si riflettevano nella Neva che attraversava gli innumerevoli ponti della città. La capitale di tutte le Russie era silenziosa e calma.

Estrasse nuovamente il suo orologio dal panciotto, ma stavolta dovette passarci sopra il dito più volte perché la neve che cadeva si ostinava a posarsi sul suo quadrante.

Il tempo continuava a scorrere.

 

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Capitolo 3
*** Terza Notte ***


Benedetto il Signore

 

Benedetto il Signore, mia roccia,

che addestra le mie mani alla guerra e le mie dita alla battaglia

 

 

Parte 3

 

Il tempo scorreva anche per mare, nonostante il lento dondolare delle onde lasciasse quasi pensare che non fosse così.

Gli eleganti e lucidi stivali neri che portava ai piedi erano fermi sul cigolante ponte in legno; nonostante la nave non fosse per nulla vecchia, il ponte di prima classe sembrava quasi non sopportare il gravare di uomo all’apparenza troppo giovane e tranquillo per portare tutto il peso del mondo sulle spalle.

Si sporse sull’impavesata di ferro poggiandoci sopra i gomiti, lo sguardo catturato dall’oscurità che si confondeva con le gelide acque del Mare del Nord.

Gli sembrava di essere in viaggio da decenni, ormai, anche se il tempo trascorso, le battaglie, gli amori e le menzogne non erano stati evidentemente sufficienti a lasciare segni sul suo volto.

 

Erano trascorse molte settimane da quando il messaggero del Noah l’aveva raggiunto.

I fumi e la fatica della battaglia non si erano ancora dissolti quando il generale si era reso conto che i tempi erano ormai maturi.

Durante la serata dopo la battaglia, seduto al tavolo con il suo caro amico Froi Tiedoll, non aveva pensato che fosse necessario salutare, certo che questi avrebbe capito... se non subito, appena gli avesse spiegato.

Dopo tutto era un compagno fidato, piacevole e così tremendamente distaccato da tutto il conflitto che quasi non sembrava neanche un compagno d’armi (quando non erano in presenza di akuma, ovviamente).

Era partito, in una notte illuminata dalla luna.

Erano ora un ricordo sbiadito i freddi tramonti sui Carpazi Meridionali, dove squallide e gelide bettole non davano nessun conforto dall’angoscia. Quasi era impossibile distinguere nei ricordi l’odore della terra umida e del muschio che impregnava l’aria, quando oramai anche Bucarest era alle spalle e la gelida ed inospitale regione della Valacchia sembrava ergersi a monito per il proseguire.

Era confuso fra le ciocche dei capelli biondi il sorriso di Cloud, quando si beveva a Budapest per festeggiare la distruzione dei servi del Conte, così come era scomparsa la sensazione della sua pelle nuda, liscia, sotto le mani fra le soffici lenzuola di seta la notte prima che Cross si dileguasse come la speranza nelle terre della Transilvania, settimane prima.

Finivano dissolti i sensi di colpa, come la premura di raggiungere la Prussia Orientale, e la nave che da Kaliningrad avrebbe dovuto cullarlo fino alle terre d’Inghilterra.

Perfino le fievoli luci di Copenaghen, che si rispecchiavano nella baia, scrutata a fondo dal porto mentre la nave imbarcava viveri, non avevano più spazio nei ricordi limpidi dopo tanti giorni di buio e gelo.

 

“Non temere, Tim, non sei stato troppo lento. Arriveremo in tempo, tutto com’era nei piani…come dici?...Ahahahaha, no, mio caro Tim, ti abbiamo scelto come messaggero perché eri affidabile, non veloce...  ma sta tranquillo, il tempo in questo caso è dalla nostra parte.

Mi piacerebbe che fosse dalla mia parte anche quando rivedrò Cloudnon credo che dimenticherà molto facilmente il modo in cui me ne sono andato, sempre ammesso che tornerò ad incrociare il suo sguardo!!!”

 

Voltò le spalle al mare e si diresse verso al sua cabina con il golem dorato adagiato sulla sua testa. In lontananza si scorgevano già le luci di Londra, mentre la nave entrava nella foce del Tamigi.

Una volta sbarcati in quella gotica e fredda isola, ci fu giusto il tempo di fare un giro in città, riposare e rifocillarsi. Era ancora vivido il suono delle monete d’argento sul bancone della locanda quando Tim prese a volare verso nord-ovest. 

 

Il paesaggio della campagna inglese al crepuscolo non era di nessun conforto, nonostante fossero spariti dall’orizzonte le acuminate cime della Transilvania, la sconfinata steppa russa, la nera tavola del Mare del Nord e i sinistri profili dei villaggi dei Carpazi Orientali.

La stazione di Birmingham era piena di gente. Tim e Cross non credevano di poter passare inosservati, ma alla fine non se ne curarono e si diressero a piedi verso sud, fino a raggiungere l'estrema periferia della città.

Il fruscio delle foglie marroni sul sentiero cadenzava lo spedito ed austero avanzare del Discepolo di Dio. Alberi spogli si offrivano all’inclemenza dell’inverno, mal celato dal debole autunno, e le staccionate apparivano di un nero terso mentre il sole si nascondeva dietro la città di Birmingham, offrendo all’insolita coppia di viaggiatori un paesaggio silenzioso e spento.

Nell’aria si respirava qualcosa di sinistro. La luna rossa, presagio nefasto che spuntava da dietro gli alberi spogli delle colline fuori della città, sembrava sporca del sangue piovuto dagli occhi di Dio.

Quella notte il sangue avrebbe sporcato pure la fredda terra d'Inghilterra.

 

Il pesante cancello di ferro del cimitero cattolico era aperto, quando Cross lo attraversò.

Superò le prime croci di legno e le tombe illuminate dalle candele, dirigendosi verso la zona alta e antica del cimitero. Non gli ci volle molto per giungere sulla piccola altura che sovrastava il vecchio cimitero, poco a sud dell’ingresso meridionale della città.

Da lì riuscivano a scorgere un ragazzo che piangeva disperatamente accanto a una tomba. Cross si sedette per terra, dandogli le spalle, poggiando la schiena su di una lapide monumentale, con un angelo che reggeva una bibbia a fargli ombra dalla luna.

Quella sera il satellite costituiva una presenza inopportuna e non gradita per il generale.

Il ragazzo bagnava con le sue lacrime una sepoltura nuova, misera, la semplice lapide con il nome Mana Walker che trafiggeva la terra ancora umida.

La notte era silenziosa. Cross poteva percepire come se fosse nel suo petto il dolore che sovrastava il ragazzo. Neanche gli animali, solitamente molesti, volevano disturbare il cordoglio del giovane.

Marian accese una sigaretta.

Le ore passarono inesorabili, la luna salì alta nel cielo, ma nemmeno la stanchezza placò il dolore.

D’un tratto una strana e lugubre ombra si diffuse nel luogo sacro, facendo agitare perfino le anime dei defunti. Per Marian era una presenza già avvertita in passato, quasi famigliare, per cui non batté ciglio.

Era distinto e chiaro all’improvviso il senso di gioia e di speranza del ragazzo.

Cross scosse la testa e accennò un sorriso triste, come nel vedere il finale di un film già visto.

Il flebile bagliore di speranza che nutriva per il ragazzo si era appena dissolto, il fato aveva deciso di non risparmiare l’orrore agli occhi del fanciullo.

I rami degli alberi sembravano farsi spazio a fatica fra la pallida luce della luna, contorcendosi come appendici di un'anima che pativa indicibili sofferenze.

Infatti la gioia e speranza del giovane presto si tramutarono in angoscia, poi disperazione, rimorso e poi paura.

Pura paura.

Le ombre si diradarono.

 

Il chiarore di luna aveva ripreso possesso del buio del cimitero, mentre una risata stridula si perdeva negli echi.

Cross si alzò.

Cominciò a camminare verso il ragazzo, e quando lo raggiunse questi era straziato dal dolore. Teneva la mano sinistra deforme e insanguinata nella destra, negli occhi ancora la visione di qualcosa che avrebbe per sempre mutato il suo mondo.

Gli si avvicinò alle spalle e gli disse:

“Le anime dentro un akuma non hanno libertà, vengono imprigionate in eterno e diventano giocattoli del Conte del Millennio”

Si avvicinò di qualche passo, si inginocchiò e continuò:

“Per salvarli l’unico modo è distruggerli! Sei nato con un arma anti-akuma eh? Che destino sfortunato…anche tu sei un apostolo posseduto da Dio…”

Gli occhi del ragazzo continuavano a grondare sangue e lacrime. Cross gli poggiò una mano sulla spalla e disse:

“Non vorresti diventare un esorcista?”

Molto probabilmente quella strana tunica bordata con nastrini dorati, la stella sul suo petto coperta dai lunghi capelli rossi, la maschera bianca che celava il suo volto e Tim posato sul suo cappello a falde molto larghe dovettero essere sembrati strani al ragazzo, ma questi annuì: d'altra parte non aveva altre alternative o un'altra strada da percorrere davanti a sé.

Si rialzarono. Cross gli porse un fazzoletto per asciugarsi le lacrime e tamponare la ferite sull’occhio.

Lasciò per un istante il ragazzo e si allontanò.

Fissando la lapide pensò: “Chi sa esattamente quanti anni sono passati da allora, mio caro? Ma, come d’accordo… Io «creerò l’esorcista»…”

Si incamminò verso Birmingham per cercare un posto dove dormire, il ragazzo che accelerava il passo per stargli dietro.

La notte era illuminata da una luna stranamente grande, ma non più ostile.

Gli alberi spogli erano fermi: non un filo di vento muoveva i ramoscelli e i fili d’erba incolta, sulla via che dal vecchio cimitero cattolico conduceva in città.

L’ombra del ragazzo era molto lunga, molto più di quella del generale. Il suo volto aveva un lungo sorriso a spicchio di luna che non emanava né gioia né pace, i suoi occhi erano grandi ed ovali ma non tradivano nessuna emozione.

 

 

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