La gente fa cose

di pandamito
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 001 - Gatto dominante ***
Capitolo 2: *** 002 - Soufflé afflosciati ***
Capitolo 3: *** 003 - Brunch ansiogeno ***
Capitolo 4: *** 004 - Alexandre fa cose ***
Capitolo 5: *** 005 - Letti che raccontano ***
Capitolo 6: *** 006 - Sogno di una notte non di mezza estate ***
Capitolo 7: *** #laggente 007 - James Bond mancato ***



Capitolo 1
*** 001 - Gatto dominante ***


Alcune piccole precisazioni prima di iniziare: questa storia è stata scritta per mia personale necessità, in quanto la userò molto come cavia per un mio progetto futuro, #whosalice per chi ne avesse già sentito parlare. Quindi ci tengo a dire che lo stile con cui verrà scritta la storia è molto sperimentale, di conseguenza probabilmente talvolta non avrà senso, la storia in sé non avrà un senso, tutti i comportamenti dei personaggi non avranno un senso e va benissimo così.
La storia è fatta un po' per ridere, un po' no, prendetela come vi pare, no one cares.
Bao.


 





Mentre da una parte nel mondo Andrea e Giuliano incontrarono Licia per caso, in un’altra parte sempre molto super random qualcuno mi chiese mi raccontare una storia. Sinceramente non ne avevo proprio voglia, però sapete com’è, non avevo niente di meglio da fare mentre il torrent finiva di scaricarsi e poi ho realizzato: quello era il mio momento. Il Destino, il Fato, un cavallo, qualcosa di mistico e onnipresente che governava le forze dell’universo mi stava dando l’opportunità che avevo sempre aspettato per risplendere ancor di più, per infangare ancora il nome di qualche persona e bearmi delle loro sventure.
 
E così una testolina riccia e nera trotterellava tranquilla per strada, intento nel tornare a casa da-
 
No, aspettate, non è così che inizia la storia.
Torniamo indietro. Rewind.
 
Supponiamo di immaginarci un tizio, un po’ stempiato, un po’ acciaccato, un po’ –ato insomma. Beh, supponiamo anche che questo tizio anni e anni prima avesse avuto la poco brillante idea di aprire una fumetteria nella zona più sfigata e malfamata della città. Che genio, insomma, ma non è questo l’importante. In effetti – e stranamente, dobbiamo dire – la sua attività andava alla grande, cioè wow, chi se lo sarebbe mai aspettato, complimenti, magari riuscissi io a portare avanti un lavoro per guadagnarmi da vivere invece di fare il parassita a scrocco a casa di altra gente. AHAHAHAHAH ma chi prendiamo in giro, tutti vorremmo vivere gratis a scrocco e discapito di qualcun altro.
Così abbiamo detto che il Signor-Proprietario-Della-Fumetteria stava messo abbastanza bene col lavoro e teneva anche un fucile sotto il bancone per le evenienze; sapete, non si sa mai. Ma quindi cos’è che ha di tanto importante in questa storia da collegarlo al Tizio Trotterello di cui parlavamo prima?
Si dà il caso che il Signor-Proprietario-Della-Fumetteria non solo aveva, appunto, una fumetteria, con dei veri fumetti all’interno, ma aveva anche un ragazzo che gli lavorava lì perché lui non ne aveva più voglia e, ancor più importante e sconvolgente, aveva anche dei clienti. Davvero, davvero sconvolgente.
Uno di questi clienti un giorno arrivò con addosso un paio di occhiali da sole. Perché? Perché fuori c’era il sole.
In quello stesso momento il Ragazzo-Che-Lavorava-Nella-Fumetteria-Per-Il-Signor-Proprietario-Della-Fumetteria stava leggendo un fumetto mentre si trovava dietro il bancone della cassa. E sempre il Destino/Fato/cavallo decise proprio che in quel momento un raggio di sole avrebbe picchiato ardentemente attraverso le vetrate del negozio, battendo contro gli occhiali da sole del misterioso Signor-Cliente-Con-Gli-Occhiali-Da-Sole e producendo un’angolazione tale che il riflesso andò ad appiccare fuoco al fumetto del Ragazzo-Che-Lavorava-Nella-Fumetteria-Per-Il-Signor-Proprietario-Della-Fumetteria e lui stesso prese fuoco e iniziò a dimenarsi, a correre in giro, uscire dal negozio e rotolarsi per terra.
Andò in ospedale e di questo siamo certi perché un’ambulanza venne a prenderlo e si vocifera sia morto in quell’occasione, ma di questo non ci interessa.
Il Sigor-Proprietario-Della-Fumetteria fortunatamente non aveva perso la sua merce nel quasi incendio, ma aveva comunque perso uno schiavo sottopagato e a lui non era ritornata la voglia di lavorare; quindi come fare?
Ecco che per l’appunto passò il nostro ricciolino trottolino amoroso dudu dadada. Chi era codesta angelica figura benedetta mandata dal cielo?
Philip Orwell era la persona dall’anima più bella che sia mai esistita e non lo dico mica per via dei biscotti che mi ha sempre dato, no, la mia è un’opinione oggettiva.
Aveva ventidue anni, un cespuglio di ricci neri e due occhi azzurri da cucciolo; studiava Beni Culturali e proprio in quel momento, armato di maglioncino con le renne e zainetto in spalla, stava tornando a casa tutto sorridente, quando il Signor-Proprietario-Della-Fumetteria lo fermò.
«Ehi, tu!» lo chiamò a gran voce, avanzando ad ampie falcate verso di lui.
Philip si fermò e strabuzzò gli occhi, perplesso. Lo conosceva solo di vista, ma gli sorrise lo stesso.
«Vuoi guadagnare pochi soldi?»
 
Philip salì le scale fino al quinto piano e girò le chiavi nella serratura dell’appartamento numero dodici, ma quelle si bloccarono. Provò a estrarle, ma si erano incastrate; tentò di nuovo di girarle, ma gli si spezzarono in mano e i denti rimasero nella serratura. Sbatté le palpebre, incredulo e, indeciso sul da farsi, bussò alla porta.
Sentì dei passi avanzare dall’altra parte.
«Che diavolo fai?» domandò una voce che riconobbe come quella di suo fratello Robin. Sicuro lo stava osservando dall’occhiello.
Alzò la mano con la metà chiave per mostrarla. «Mi si è spezzata nella serratura.»
«Che cosa?» disse la voce, che diventava più acuta a nervosa.
Sentì che qualcuno stava tentando di forzare la maniglia dall’altro lato, ma la porta non si mosse.
«Che succede?» domandò una voce dietro di lui.
Philip si voltò e notò Peggy che stava salendo le scale. Era di un paio d’anni più grande di lui, i capelli neri e mossi erano stati un po’ cotonati quel giorno, i grandi occhi azzurri circondati dal pesante trucco; indossava solo una canotta scollata quasi trasparente, una minigonna attillata e un paio di zeppe, mentre teneva in una mano smaltata rosa fluo la sua borsa e nell’altra il suo cellulare.
«Si è bloccata la porta» spiegò, sincero e innocentemente.
Detto questo improvvisamente un’ascia sfondò la porta e Peggy lanciò un grido, mentre l’arma affondava ancora un paio di volte nella porta seguita da qualche calcio che la buttò definitivamente giù.
Mentre Peggy si era artigliata al fratello minore, terrorizzata, dall’altra parte ne emerse Wade, il maggiore, che fece rimbombare la sua risata.
Wade poteva avere pure trentaquattro anni, una carriera nel marketing già avviata, i folti capelli mossi e neri tipici degli Orwell, tagliati non molto corti, e anche gli stessi occhi azzurri che aveva tutto il resto della sua famiglia, un accenno di barba che faceva intendere che era più grande di quel che sembrava, ma nonostante ciò di certo gli mancava il buon senso.
«Te l’avevo detto che avrei vinto» disse a Robin, che guardava orripilante la scena dietro di lui.
Robin invece aveva ventinove anni, i capelli ricci di un putto e sempre neri, con i tipici occhi azzurri, ma spesso gonfi e un po’ infossati, e schifava quasi tutto della vita.
Peggy ribollì di rabbia, uscì impetuosa dal suo nascondiglio e come una furia prese l’ascia e la lanciò contro il maggiore.
Wade si scagliò di lato per evitare il colpo e cadde a terra, mentre Philip tentava di tenere stretta sua sorella per evitare che riempisse di calci l’altro. L’ascia, però, andò a finire contro una delle gambe del tavolo da pranzo, che cedette.
«Perfetto, ora non abbiamo neanche un tavolo» si lamentò Robin, «dovremmo mangiare tipo i giapponesi.»
Philip gonfiò le guance. «Che cos’hai contro i giapponesi?»
Robin roteò gli occhi. «Non ho niente contro i giapponesi, era un modo di dire.»
«Sei impazzito?!» gridò isterica Peggy. «E perché diavolo abbiamo un’ascia nell’appartamento?»
«Per casi come questo!» si giustificò Wade, cercando di rotolare via dalla vista della minore.
«È proprio per questo che non sto mai a casa!» continuò a sbraitare quella.
«Io comunque ho trovato un lavoro» annunciò Philip.
Improvvisamente il silenzio scese nella sala e tutti gli occhi furono puntati su di lui.
«Cosa?» qualcuno disse, quasi impercettibile distinguere chi.
«Soldi!» scoppiò Wade, volenteroso di andare ad abbracciare il fratello, ma ricordandosi che non sarebbe stato più a distanza di sicurezza da Peggy.
A quella magica parola, qualcuno uscì da dietro la tenda che separava la stanza dalla zona con i letti a castello: una figura mingherlina di circa quindici anni, dai corti e lisci capelli neri e gli occhi azzurri.
«Questo vuol dire che ora possiamo abbonarci a Netflix?» chiese.
Una risata fece voltare tutti verso la figura che fino a quel momento era passata inosservata e che giaceva a gambe incrociate sul divano, col computer in grembo, una chitarra accanto e le cuffie attorno al collo, trentun anni di capelli neri e ricci raggruppati in una crocchia disordinata, barba incolta e grandi occhi azzurri puntati fissi sullo schermo.
«Hanno appena sfondato la porta e abbattuto il tavolo, tesoro, mi sa che Netflix viene al prossimo giro» commentò aspramente.
«E allora dammi il computer» protestò il minore.
«Scordatelo, devo finire di montare il video per Alexandre.»
«Non frega a nessuno del tuo ragazzo, io mi annoio.»
«Non frega a nessuno della tua esistenza, smamma
Peggy alzò gli occhi al cielo e con essi anche le mani. «Io non ce la faccio, me ne vado» sbottò, uscendo di nuovo.
Robin tentò di spostare la porta o perlomeno accostarla, ma senza successo, mentre Wade andò ad aprire la credenza per prendere una tazza per il caffè. Improvvisamente qualcosa gli morse una gamba e, prima che potesse accorgersi che non era nient’altro che Ragnarock, il gatto nero e dai grandi occhi verdi che aiutava a rendere la loro vita ancor più un inferno e che in quel momento reclamava cibo, la tazza gli scivolò dalle mani, andandosi a rompere in mille frammenti sul pavimento.
Tutti si ammutolirono, per poi posare lentamente lo sguardo su Philip.
La tazza, quando era ancora intatta, era lunga e stretta, con sopra dipinto a mano un prato fiorito con un’ape che volava sbarazzina nel cielo azzurro. Era la sua preferita.
Philip scoppiò a piangere.
 
Poteva avere, che so, tipo sui ventisette anni o qualcosa del genere, i capelli biondicci tirati indietro, gli occhi azzurri segnati da un’espressione crucciata, in quel momento più del solito. Era in piedi di fronte l’uscio dove fino a poco tempo prima c’era una porta reale e fissava quello spazio vuoto, apriva la bocca talvolta come per dire qualcosa, ma poi la richiudeva subito, rimangiandosi tutte le parole che avrebbe voluto dire. Non sapeva se doveva alzare il braccio e bussare– ma bussare dove?
Dall’altra parte l’uomo con la crocchia disordinata si sciolse i capelli e continuò a fissarlo, prendendo un altro sorso di caffè.
«Alexandre, lo sai che posso vederti, sì?» gli fece notare, rompendo il silenzio.
Il biondo irrigidì ancor di più la mandibola. «È proprio questo particolare che sto cercando di capire.»
Il moro gli andò in contro e gli prese una mano per condurlo sul divano, facendolo sedere, mentre il biondo era ancora visibilmente spaesato. Alexandre rubò la tazza di caffè dalle mani del suo ragazzo, quello se la riprese velocemente e lui gliela strappò di nuovo con forza, prendendo un sorso. Il caffè non gli faceva granché bene, così l’altro gliela sfilò dalle mani per l’ennesima volta e la poggiò a terra.
Alexandre sentì qualcosa attorcigliarsi attorno a lui e stringerlo in un abbraccio, mentre lui continuava a fissare la porta abbattuta senza muovere un muscolo, soffermandosi sui segni d’ascia. Poi spostò lo sguardo e, accovacciato sopra un mobile, notò un gatto bianco a pelo corto e degli enormi occhi a palla che lo fissavano, spauriti.
«Tony» lo chiamò il biondo.
L’interessato mugugnò qualcosa d’incomprensibile e nascose la testa nell’incavo del collo dell’altro, facendo cadere entrambi di peso sul divano.
Il minore ridacchiò ma poi tornò serio l’attimo dopo. «No, serio Tony, il tuo gatto mi odia e continua a fissarmi.»
«Quel gatto odia tutti» commentò assonnato, chiudendo gli occhi. «E poi non ti odia. Anzi, sei l’unico essere vivente di cui abbia paura, è un miracolo. Se ti odiasse, avrebbe rotto lo specchio nel bel mezzo della notte solo per cercare di tagliarti la gola, com’è successo a Wade» spiegò.
C’è da dire che la meravigliosa creatura di cui stiamo parlando aveva il nome di Ferale Magnus e la sua sempre meravigliosa esistenza consisteva nel rendere la vita di tutti un inferno, titolo che per ora sosteneva indiscusso senza rivali.
L’altro rimase senza parole, incerto su cosa dovesse pensare. «Ed è un bene?»
«Se l’alternativa è morire, direi proprio di sì.»
Alexandre si rigirò per ritrovarsi faccia a faccia con l’altro ed entrambi chiusero gli occhi per addormentarsi.
Stettero così per un po’ fino a quando Tony non ruppe il silenzio: «E comunque sono tutti usciti…»
Il problema del condominio dove vivevano gli Orwell era proprio la privacy: ogni appartamento aveva solo una stanza e gli Orwell si erano dovuti arrangiare a inserire piano cucina, sala da pranzo e salotto in un unico spazio, tanto che era praticamente impossibile distinguere dove iniziasse l’uno e dove l’altro; ma una parte della stanza era divisa da delle tende che nascondevano i numerosi letti a castello tutti addossati dove dormivano. Quindi ci rendiamo conto che era altamente difficile stare un momento da soli in quella casa.
Alexandre corrugò la fronte e lanciò uno sguardo accusatorio all’altro. «Non faremo un bel niente con la porta aperta, Tony.»
Il maggiore sbuffò e nascose la testa nella maglia del biondo, che gli accarezzò i capelli, sospirando come una mamma chioccia.
«Uhm, ti è…» iniziò il maggiore, un po’ titubante, «ti è piaciuta la cover che ti ho mandato?»
«Tanto» confessò l’interpellato, notando che però il suo ragazzo aveva praticamente iniziato a tremare, così gli sfregò una mano contro la schiena.
«Uhm» fece di nuovo il moro.
«Non uhmmarmi
Tony ringraziò tutti gli dei perché nessuno potesse vedere il sorriso idiota che gli si era stampato in faccia e accorse subito a cambiare discorso in una zona che potesse ritenere sicura.
«Penso che Satana» - precisiamo che è così che veniva spesso chiamato il Ferale Magnus - «ti tema perché non aveva mai trovato un altro gatto dominante prima d’ora.»
«E chi sarebbe il gatto dominante?» domandò il biondo, noncurante.
«Ovviamente tu.»
«Cosa? No! Io non sono per niente il gatto dominante!» protestò.
Tony ghignò. «Sì che lo sei. Guarda.» Gli punzecchiò una guancia per infastidirlo e Alexandre cercò di nascondere il volto mentre lasciò andare un mugugno irritato. «Solo i gatti fanno così. Oh, ora non offenderti» accorse subito a dire, «ho il gelato, ma ciò non cambia che sei il gatto dominante.»
Alexandre gli si attorcigliò contro ancor di più, fingendo delle fusa per scherzare e per cercare di dargli fastidio, al che Tony non poté far a meno di ridere ancor di più e abbracciarlo.
Si addormentarono così, mentre presero a canticchiare qualcosa come and we keep living anyway.





 



a n d a bitch.
Non pubblicavo da sei mesi esatti. Forse non scrivevo da sei mesi esatti.
Mi era mancato, l'ho fatto un po' per necessità, ma so che pagherò a caro prezzo questa cosa e fa tutto molto schifo, but who cares.
Quindi altre precisazioni: aggiornerò quando mi pare, scriverò molto come mi pare, verranno introdotti molti altri personaggi nel corso della storia ed è tutto molto come mi gira in quel momento, quindi ripeto che niente deve avere un senso ed è tutto molto sperimentale ma ci piace così. Anche perché dobbiamo abbattere questa convinzione popolare che il trash non è bello. Viva il trash! Viva l'aesthetic trash! Viva me! REVOLUTION!!1!1ONE
Quindi per chi volesse contattarmi/seguirmi ripeto che sono Come una bestemmia. su facebook e pinterest, mentre sono pandamito su tumblr, twitter, ask, 8tracks, praticamente qualsiasi altro social che ti venga in mente, tua nonna, il Ferale Magnus e poi boh.
Ovviamente il Ferale Magnus è un riferimento ai Libri dell'Inizio nonché miglior personaggio esistente al mondo *coff coff* quindi se non sapete di cosa io stia parlando siete proprio degli indegni.
Ah, un piesse enorme è che volevo fare il capitolo molto più corto perché mi ero prefissata di scrivere capitoli minuscoli tipo raccolta di flash-fic, invece mi è scappata la mano, che schifo.
Che la forza delle scaloppine sia con voi.
Bao e panda, Mito.

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Capitolo 2
*** 002 - Soufflé afflosciati ***




Per una volta nella vita l’appartamento numero dodici nella palazzina era in perfetto silenzio, sebbene non per volontà degli inquilini che lo abitavano.
Poco prima Tony stava tranquillamente strimpellando la sua chitarra, mentre Peggy gli inveiva contro dal letto che poteva pure sforzarsi di suonare qualcosa di decente. Per tutta risposta Tony si mise a cantare ancora più forte qualcosa di estremamente malinconico come «Did you see me bleeding out?» al che Peggy gli tirò contro uno dei suoi cuscini.
Svegliata e contrariata, lanciò uno sguardo al letto a castello vicino al suo, dove Robin stava dormendo. Sebbene all’inizio volesse lasciarlo dormire, annoiata, lo strattonò mettendogli un piede in faccia, il quale l’altro quasi morse, infastidito, facendo lanciare a Peggy un urletto a metà tra l’impaurito e il disgusto.
«Non me ne frega un cazzo, non rompere» brontolò il fratello.
Questo avvenne prima che Philip Orwell imponesse il suo governo e fece ammutolire tutti. Ma come ci riuscì? Non fu per niente facile, in realtà, ma quando Philip aveva uno scopo a cui teneva più di ogni altra cosa, riusciva a tirar fuori lo spirito che risiedeva in lui e a imporsi.
E qual era questo scopo? I suoi soufflé.
Approfittando che Theodore quella mattina era a liceo e che lui per una volta non aveva nessuna lezione, si era messo in testa di cucinare qualcosa di carino. Beh, in realtà Philip cucinava sempre cose carine, ma nel senso che voleva fare qualcosa di particolare, ecco, così aveva iniziato a ricattare tutti. O forse era perché teneva un manganello in mano, chi lo sa.
Robin era subito andato a favore del silenzio per dormire, mentre Tony aveva combattuto e si era lamentato – forse più per rompere la noia che discutere realmente – ma alla fine avevano trovato il compromesso di lasciare alcuni dei dolci al cioccolato per Alexandre e così, soddisfatto, aveva poggiato la chitarra sul divano e si era messo a messaggiare in silenzio, probabilmente sperando di dare fastidio al proprio ragazzo mentre quello era al lavoro.
Quello che più stranamente fu facile da convincere fu proprio Wade.
Il giorno prima, dopo l’incidente della porta con l’ascia e tutto il resto, aveva provato a rimettere la porta al suo posto perché i suoi fratelli si erano lamentati che passasse troppa aria o qualcosa del genere. O forse c’entrava qualcosa la nudità, chi ricorda. Sta di fatto che inizialmente ce l’aveva fatta, era riuscito a rimettere la porta in piedi, anche se bisognava aprirla piano per non farsela cadere addosso e c’era ancora il problema dell’enorme buco centrale… Solo che dopo un altro paio di volte che quella si era ostinata a ricadere – più Peggy che si era lamentata che chiunque poteva entrare con la serratura ancora rotta e aggiungiamo anche qualcuno ancora anonimato che aveva denunciato l’accaduto al proprietario del condominio – Wade purtroppo si era dovuto rassegnare a chiamare qualcuno che gli rimettesse una porta nuova. Era venuto quella mattina presto e chiunque fosse passato di lì non avrebbe mai dimenticato la faccia riluttante e amareggiata con cui Wade l’aveva pagato.
Ora se ne stava abbattuto al bancone della cucina, sorseggiando silenziosamente il proprio caffè, aspettando l’ora per andare al lavoro; così Peggy andò da lui cercando di non fare rumore e gli mostrò una nota sul suo cellulare in cui aveva scritto “Accarezzami i capelli mentre mi addormento”. Sarà che quel giorno Wade era triste, ma l’aveva seguita e, mentre sua sorella si metteva sotto le coperte, lui si sedette accanto a lei sul letto, prendendo a giocare con i suoi capelli con una mano mentre con l’altra scorreva le pagine internet dei giornali sul suo cellulare.
Tutto questo fino a quando un boato non esplose per tutto il palazzo.
I soufflé si afflosciarono.
 
Peggy Orwell scendeva le scale sbattendo i piedi nudi a ogni singolo passo che avanzava, incanalando tutta la rabbia che le ribolliva in corpo. Probabilmente però solo un miracolo avrebbe permesso ai coinquilini del condominio di sentirla, perché qualcuno dei piani di sotto aveva messo la musica a un volume così alto da sentirsi perfettamente persino al quarto piano.
Una volta scesa al terzo piano, prima che potesse proseguire, dall’appartamento numero otto si affacciò una testolina scura con frangetta e occhi chiari, che fissò Peggy. Non ricordava sinceramente come si chiamasse, né le interessava.
«Stai andando a picchiarlo?» urlò la ragazza per sovrastare la musica.
«Sto andando a ucciderlo!» sbraitò l’altra.
Se non avesse avuto fretta, avrebbe potuto osservare che sul viso della castana si era creato un cipiglio di confusione, che stava analizzando se la Orwell fosse seria o meno. No perché penso proprio fosse più che seria.
Entrambe sapevano chi era il problema in quella situazione: Rafael Perez, l’inquilino dell’appartamento centrale numero tre al primo piano, gigante in altezza che faceva la sua porca figura pure senza muscoli da body building, occhi scuri e penetranti, capelli folti e mossi, con un accenno di barba, codice fiscal- no, ok, non siamo a conoscenza del suo codice fiscale. Chissà se ce l’ha un codice fiscale.
Che entrambe lo conoscessero abbastanza bene di fama era dovuto al fatto che oramai era rinomato per girare praticamente nudo per tutto il palazzo e ogni volta si creavano situazioni imbarazzanti nei bagni in comune nel seminterrato.
Peggy si ritrovò di fronte alla porta dell’appartamento numero tre e prese a bussare senza smettere.
Senza smettere.
Senza smettere.
Non smise neanche quando la porta si aprì, facendo rimbombar ancor di più la musica, e Peggy gli bussò praticamente sul petto. Perché diciamo che era praticamente impossibile per la sua altezza arrivare al viso di Rafael. Solo che quel petto era nudo perché come sempre il caro signor Perez stava girando con solo un asciugamano in vita e delle pantofole lilla a forma di coniglietto; così per un attimo Peggy gli tastò un pettorale, Rafael alzò un sopracciglio chiedendo spiegazioni – non che ce ne volessero poi molte – e poi Peggy gli diede un calcio a una gamba, che lo fece accasciare, facendo cadere l’asciugamano che lo copriva, e gli iniziò a tirare pugni a caso ovunque riuscisse a colpire.
«Che diavolo fai?» sbraitò l’uomo, che in realtà poteva avere qualcosa come l’età di Robin su per giù. Rafael cercava di bloccarle i colpi, mentre la squadrava confuso. «Aspetta, sei in pigiama?» domandò, un po’ stupito.
«E tu sei nudo!» ribatté la minore, per niente imbarazzata, ma semmai più furiosa di prima, dandogli nuovamente un calcio, che il moro parò con una mano, così lei gli tirò uno schiaffo per farsi lasciare andare la gamba a mezz’aria.
Il vero motivo dello sbalordimento di Rafael era perché in realtà mai nessuno aveva visto Peggy Orwell senza trucco – ma di questo non vi era problema, aveva dormito truccata, per essere pronta alle evenienze – ma soprattutto nessuno l’aveva mai vista senza essere vestita a puntino o come una dipendente da night club. Entrambi i casi andavano bene per lei.
Ancor più imbarazzante era che lei dormisse con un babydoll rosa confetto con tanto di piumaggio. Cioè, l’imbarazzo non era per Rafael, era proprio imbarazzante il concetto in generale.
«Hai fatto afflosciare i soufflé di mio fratello!» gridò quella mentre continuava a prenderlo a schiaffi e Rafael tentava di respingerla dall’invadere il suo appartamento. «E ora lui ha una crisi! E se lui ha una crisi, io ho un crollo isterico!»
«Questo lo vedo!» rispose, sollevandola di forza e portandosela in spalla come un sacco.
Peggy urlò ancor di più e prese a dimenarsi con calci e pugni. «Abbassa la musica e ripagami i soufflé!»
«Giammai! Non li hai neanche pagati i soufflé!» ribatté e con ciò la fece cadere di peso a terra e chiuse velocemente la porta dell’appartamento per assicurarsi che restasse fuori.
La mora si rialzò furiosa e batté i pugni alla porta, gridando per la frustrazione.
 
Sentendo dei passi risalire per le scale, Tony aprì la porta e vide Peggy tornare ancora più in collera di prima.
«Dalla musica ancora a tutto volume direi che non ha funzionato» commentò.
Dietro di lui apparse Robin. «Wade sta cercando in una strana maniera di confortare Phil. E la cosa non sta funzionando.»
«È ancora arrotolato nella coperta» precisò l’altro fratello.
Peggy gli ignorò, andando invece di fronte la porta dell’appartamento a destra, il numero undici, e sfilandosi una forcina dai capelli raccolti, che oramai erano già belli che sfatti.
«I vicini lo tengono ancora il lanciafiamme?» domandò, iniziando a forzare la serratura con la forcina.
«Ok, perché i vicini hanno un lanciafiamme?» chiese Tony allarmato.
Robin avanzò un poco, incrociando le braccia. «Margaret che diavolo vuoi fare?» Al sentire il suo vero nome, la ragazza si voltò di scatto, digrignando i denti, e gli tirò un calcio, che lo fece indietreggiare dolorante. «No, sul serio, vuoi irrompere nel loro appartamento?» tentò di abbassare la voce, sebbene fosse impossibile con la musica ancora alta proveniente dal primo piano. «Non sai neanche se sono a casa!» cercò di farla ragionare.
«No, stanno sempre al piano di sopra di solito. E poi perché diavolo devono avere due appartamenti? Dovremmo protestare alla prossima riunione di condominio!» si lamentò, smanettando ancora con la forcina. «Se ci sono, diremo loro che abbiamo bussato, figurati se sentono, con ‘sta musica.»
«Diremo? Abbiamo?» ripeté Tony. «Ragazzina, cosa ti fa pensare che io sia disposto a mettere in pericolo la mia vita così e a partecipare al tuo folle piano?»
La serratura scattò e per la prima volta quella mattina il viso della giovane s’illuminò. «Yay!» esclamò, spingendo la porta, ma quella si arrestò e Peggy notò che era chiusa col chiavistello a catena; lasciò uscire un ringhio frustrato dal profondo della gola. Provò a far passare il braccio nella fessura e a trovare il gancio nella catena, ma tastando non riusciva a trovare nulla e il braccio le si stava indolenzendo per colpa della fessura troppo stretta.
Tony ridacchiò. «Che c’è, sei troppo grassa?» la punzecchiò e Robin lo seguì a ruota con le risa.
Peggy diventò paonazza e ringhiò come un cane. «Fallo tu! E muoviti!» gli ordinò, rialzandosi e spintonandolo verso la porta.
Tony si pentì delle sue stesse parole, ma infilò comunque il braccio nell’apertura e si mise a tastare la catenina per risalire a dove fosse agganciata.
Peccato però che la porta si richiuse violentemente sul braccio del giovane uomo, che lanciò un grido disumano, cercando di reprimere le lacrime che gli stavano affiorando ai margini degli occhi.
Peggy urlò e lei e Robin si abbracciarono di scatto per via dello spavento, mentre il maggiore si accasciava a terra, tenendosi il braccio dolorante e rilasciando dei lamenti.
La porta si aprì, stavolta senza catenina e ne uscì un uomo abbastanza alto e dal fisico asciutto e, sebbene avesse i capelli corti pel di carota e gli occhi azzurri, la cosa più appariscente in lui era il fatto che indossasse un grembiule sporco di sangue e la mano poggiata sulla porta era guantata, mentre l’altra era dietro la schiena.
«Hai rotto il braccio a mio fratello!» esclamò allarmata Peggy, alzando il tono di un’ottava.
Robin le si avvicinò all’orecchio. «Non hai pensato di controllare che fosse l’appartamento giusto e non quello di Ernest prima di fare la scassinatrice?»
«Perché diavolo stavate cercando di entrare?» domandò a denti stretti il rosso, pronto a mangiarsi vivo qualcuno.
Peggy avanzò per fronteggiarlo. «Che problemi hai? Gli hai quasi staccato un braccio!»
«Non lo sai?» fece Ernest, seccato. «Nei film chi irrompe nelle proprietà altrui presto si ritrova sempre morto. Proprio così» e detto ciò da dietro la schiena cacciò un intestino non ben identificato di chi e lo sbatté in faccia alla ragazza, che iniziò a gridare.
Peggy diede di matto, specialmente perché il sangue le schizzò sui capelli puliti, e afferrò qualsiasi cosa di viscido che il suo vicino teneva in mano e lo rivoltò contro di lui, iniziando a tirarglielo contro, costringendolo a indietreggiare nel suo stesso appartamento.
«Assassino! Assassino!» gridava in preda al panico.
«Giuro che è solo pollo!» esclamò il rosso mentre tentava di ripararsi da quella furia.
Peggy non si fermava e continuava a urlare senza prender fiato. Si arrestò completamente solo quando entrò nel monolocale di Ernest: era tutto pulito e preciso, sebbene qualche mobile andasse a pezzi; ma non era questo che attirò l’attenzione della mora, perché sul tavolo c’erano pezzi di carne e in un angolo della stanza c’era un altarino pieno di foto di una ragazza asiatica dai lunghi e lisci capelli castani.
«Aspetta ma io quella la conosco, l’ho vista su qualche giornale…» Peggy si fermò a riflettere, poi rivolse lo sguardo a Ernest, poi di nuovo alle foto e poi nuovamente sulla carne e a questo punto riprese a urlare. «Assassino! Hai ucciso una modella!»
«Cosa? No!» obiettò il maggiore, mentre parava i colpi che la ragazza gli tirava con l’intestino di pollo.
«Non è una giustificazione ucciderla solo perché è brutta!»
A queste parole Ernest s’incupì, una scintilla di rabbia accese i suoi occhi ed esplose: «Brutta?? Ma l’hai vi-» ma qui si dovette fermare perché qualcosa sfondò il soffitto, cadde e bucò anche il pavimento, distruggendosi al suolo dell’appartamento sottostante.
I due si bloccarono e cautamente si affacciarono all’enorme buco nel parquet. Da sotto sbucò la testolina castana con la frangetta e gli occhi chiari che Peggy aveva incontrato prima. Li guardò in cagnesco, spostando lo sguardo da loro ai pezzi di legno e metallo rotti sparsi per il suo pavimento.
Alzò le braccia e un occhio le tremava visibilmente dal nervoso. «Siete seri?»
«Oh, scusate!» Tutti alzarono il capo per scorgere una chioma bionda e voluminosa affacciata dal quinto piano. «Stavo cercando di montare il nuovo palco ma mi sa che qualcosa è andato storto.»
Una voce rimbombò da fuori, sembrava disperata. «Ditemi che non devo pagare di nuovo qualcosa!»
Era Wade.
Robin era esasperato, ma nonostante ciò raccolse tutte le sue forze per mantenere la calma, prese la sorella per le spalle e cercò di allontanarsi di lì il più in fretta possibile. «E comunque per il lanciafiamme potevi utilizzare la lacca e un accendino» la informò.
 
«Ok, quindi Heather si è offerta di ripagare tutti i danni?» chiese Alexandre.
Lui e Tony erano seduti vicini nella sala d’attesa del pronto soccorso ad aspettare che chiamassero il povero Orwell per farsi mettere il gesso – perché, a quanto pareva, sì, Ernest gli aveva rotto il braccio – mentre ora teneva solo una veloce fasciatura appuntata attorno al collo.
«Non è che si sia offerta» precisò Tony, «è che il palco era suo, non l’ho mica sfondato io il soffitto di ben due appartamenti.»
«Sì ma avete comunque cercato di irrompere in casa altrui» ribatté il biondo.
Il moro s’imbronciò, lanciandogli un’occhiata triste e un po’ seccata. «Potresti impegnarti a cercare di tirarmi su il morale, per favore?»
«Scusa, è che mi domando quando purtroppo arriverà il giorno in cui dovrò tirarti fuori di galera.» Si torturò le mani, un po’ in ansia. «Non vi ha fatto denuncia, vero?»
«No» rispose il maggiore, riflettendoci un attimo un po’ di più. «Credo di no. Ma tranquillo, che quando finirò al fresco sarà perché ti ho stupidamente seguito in qualche rissa iniziata per chissà che ridicola cosa come l’assenza di rampa per disabili o lo spreco di cibo nei ristoranti o l’ascensore-»
«Senti, quel povero ragazzino disabile del tuo palazzo non ha modo di salire e i proprietari non gli vogliono cedere l’appartamento al piano terra. E quell’ascensore! Non può rimanere così per sempre, va riparato!» esplose Alexandre, al che Tony non poté trattenere una risata. «Ogni volta che vengo da te o me ne vado è una sudata e mi rovina il completo, non posso presentarmi a lavoro bagnato di sudore!»
«Oh, fidati che ai tuoi colleghi non dispiace affatto e sabbiamo bene che quel “bagnato di sudore” non è certo per le scale» alluse il moro con un ghigno malizioso.
Alexandre serrò la bocca e divenne paonazzo; si voltò, mettendosi dritto sulla sedia e abbassando il capo, sprofondando nell’imbarazzo. All’improvviso diede una gomitata al presunto fidanzato, ma quello lanciò un grido di dolore, facendo voltare tutti gli altri pazienti.
Tony si tenne stretto il braccio fasciato, mentre Alexandre tentava di calmarlo e mormorava velocemente: «Scusa, scusa, scusa, scusa, scusa…»




 




a n d a bitch.
Ho sprecato un giorno della mia vita a scrivere invece di studiare. Ma perché.
Continua la mia depressione, continua la depressione dei personaggi, iniziano altre depressioni di altri nuovi personaggi che pian piano verranno introdotti meglio. 
Yay.
Ripeto che sono Come una bestemmia. su facebook e pinterest e pandamito su qualsiasi social possibile e immaginabile tra cui twitter, tumblr, 8tracks, tvshowtime e sparatene uno a caso e serio che ci sono.
Comunque la canzone dello scorso capitolo cantata da Tony era Wait For It tratta da Hamilton, mentre quella di questo capitolo è No Rest di Dry The River, che è una canzone che amo e che mi fa particolarmente piangere. Sì, metterò molte canzone sparse nei vari capitoli.
Si continua col nonsense.
Bao e panda, Mito.

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Capitolo 3
*** 003 - Brunch ansiogeno ***


Avvertenze: questo capitolo si è scritto da solo perché non è per niente ciò che volevo scrivere all'inizio ma va bene così, la forza cosmica dell'universo ha voluto che scrivessi flangst invece che demenziale, quindi come al solito finisco per fare flangst demenziale e va bene così. No shame.
Ora faccio come gli autori inglesi che mettono avvertente inutili e nonsense e quindi vi dico che in questo capitolo vengono introdotte le prime interazioni coi social network. Nel corso della storia ce ne saranno diverse per varie ragioni, visto che comunque la storia è ambientata ai giorni nostri, quindi è anche comune che le persone si approccino in un determinato modo ai social network.


 






Era troppo presto perché gli altri fossero svegli, di fatti la tenda che separava l’angolo della zona notte dal resto del monolocale era chiusa e da dietro di essa si sentiva solo il leggero russare di Tony.
Effettivamente era così presto che non so neanche io come faccio a sapere bene tutte le cose che accaddero. L’unico forse più sveglio in quella stanza era Ragnarock, il gatto nero dai grandi occhi verdi che in quel momento faceva finta di dormire, accoccolato su una delle credenze.
Non sapeva neanche Wade stesso come faceva a stare in piedi e Theodore – anche lui purtroppo sveglio perché doveva andare a scuola – poté scommettere che il caffè che il maggiore stava bevendo fosse corretto.
Wade lo osservò mentre si dirigeva mogio mogio verso il piano cucina e si sedeva a uno sgabello del bancone di marmo per versarsi il latte in una tazza e mangiare i suoi cereali.
Il maggiore alzò un sopracciglio. «Ragazzino, che succede?» L’altro scrollò le spalle. «Sei fin troppo depresso persino per i tuoi standard» proseguì il primogenito.
Theodore prese una cucchiaiata di cereali e la fece ricadere nel latte, poi ne riprese un’altra e se la portò alla bocca. Masticò per un po’ e deglutì. «Vogliono cambiarmi classe» spiegò finalmente. «Cioè, vogliono mandarmi un anno più avanti perché dicono che sono troppo intelligente rispetto a gli altri, o loro sono troppo stupidi per me. Fa lo stesso.»
Wade staccò gli occhi dalla home di facebook sul cellulare e il suo viso si illuminò un poco. «Ma è fantastico!» esclamò, andando dall’altra parte del bancone per sedersi vicino al fratello e dargli una pacca sulla spalla. «Non dicevi che tanto la tua classe ti faceva schifo?»
«Sì, ma…» iniziò il minore, un po’ seccato, «se la nuova classe è peggio e la gente mi farà ancora più schifo?»
«Beh, devi pensare che rimarrai meno in quella scuola rispetto agli altri in questo modo» cercò di confortarlo l’altro.
«So che nella nuova classe c’è anche il tipo sulla sedia a rotelle che ogni tanto viene qua a trovare il padre.»
Wade sorrise. «Vedi? È già un buon inizio. Potresti fartelo amico.»
«Ma a me non piace» obiettò il minore.
«Ci hai mai parlato?»
«No, ma so che non mi piace.»
«Come fai a dirlo se non ci hai mai parlato?» chiese il primogenito, insistendo.
Theo scrollò le spalle e lo guardò annoiato. «Anche se non ti avessi mai parlato, saprei di certo che mi staresti sul cazzo» spiegò.
Wade lo guardò impassibile per qualche attimo che sembrò un’eternità e l’altro non accennava a rompere il contatto visivo, come una sfida segreta fra i due a chi fosse il gatto dominante in quella situazione.
Poi finalmente Wade parlò: «Ed è proprio per questo che ti scordi il passaggio in macchina.»

 


 
Fissava la schiena marmorea rivolta verso di lui.
Perfetta.
Se qualcuno gliel’avesse chiesto, gli sarebbe bastato anche solo guardarla da lontano per l’eternità per essere felice. E invece poteva toccarla. Così allungò il braccio sinistro, quello ancora intatto e libero dal gesso, e con i polpastrelli delle dita sfiorò leggermente tutta la lunghezza di quella spina dorsale che gli si protraeva davanti agli occhi come un’opera d’arte, provocando un brivido nel corpo- no, in quella scultura marmorea stranamente morbida e calda. Poteva sentirlo. O forse era lui che aveva i brividi? Oh, ma lui ce li aveva sempre in sua presenza, o anche solo quando lo pensava. Un po’ patetico. Un po’ molto, ma non poteva farci nulla, né se ne vergognava. Forse solo un po’, ma di se stesso, non di lui. Mai di lui.
Notò come i muscoli si contraevano mentre venivano coperti da una semplice camicia bianca e i loro opposti si allungavano. Gli ricordò di una lezione al college che sicuramente non aveva finito di seguire, così lasciò perdere e si intristì perché avrebbe più gradito farne una sua tela di quella schiena piuttosto che coprirla. Un vero peccato.
Poi però si ricordò che era sua. Sua, sua, sua, sua, sua.
Fece leva sul braccio sinistro per alzare quel tanto di busto che gli serviva per raggiungerla – la perfezione – e su di essa vi lasciò un bacio, poi un altro, poco distante dal precedente, poi un altro ancora e un altro e un altro e sua, sua, sua, sua e mia, mia, mia, mia. Lo circondò in un semi-abbraccio – ovvero con un braccio solo – e risalì con le labbra fino alle spalle e intrecciò le dita della sua mano sinistra nei capelli biondi più lunghi alla nuca, che tendevano ad arricciarsi più si andava verso le punte.
Alexandre lo allontanò con una leggera spinta sul petto, facendolo ricadere sul letto stretto e sfatto che gli toccava, e gli lanciò un’occhiata di rimprovero.
Tornò a dargli le spalle, finendo di abbottonarsi la camicia. «Rivestiti, che devo scappare in ufficio appena posso.»
Le labbra di Anthony si piegarono all’ingiù mentre il proprio ragazzo non si degnava neanche di guardarlo. Il minore fece per alzarsi, ma prontamente il moro gli circondò la vita con un braccio e lo buttò giù di peso, facendolo ricadere sul proprio petto e avvinghiandosi a lui per non lasciarlo andare.
«Avevi promesso che avremmo fatto un brunch assieme» protestò Tony, fintamente offeso. O realmente offeso, sinceramente non lo so. Scivolò da sotto il peso del ragazzo per metterglisi a cavalcioni e riprese a torturarlo con le labbra per inchiodarlo a letto, col viso stampato il sorriso più ebete che qualcuno potesse mai avere, della serie che avrebbe vinto contro una schiera di bambini felici la notte di Natale.
Alexandre sospirò, lasciandolo un po’ fare. «Lo so, per questo ho portato anche da mangiare. Sta di fatti che dopo devo comunque scappare» precisò.
Di fatti sul bancone nella zona cucina c’erano un paio di buste di cui all’interno vi si potevano scorgere alcuni contenitori di cibo a cui Tony lanciò un’occhiata preoccupata e poi rivolse lo stesso sguardo verso il minore.
Alexandre alzò gli occhi al cielo, trattenendosi dallo sbuffare. «Tranquillo, ho comprato tutto» lo rassicurò, appoggiando una mano sul petto dell’altro per spostarlo e rimettersi seduto al bordo del letto, dandogli ancora una volta le spalle.
«Sai che apprezzo quando ti applichi in cucina, solo che preferisco mangiare qualcosa di carino, almeno oggi» confessò il moro, tracciando ancora una volta la linea della spina dorsale del biondo, stavolta coperta dalla camicia. Si riavvicinò nuovamente, circondandolo in un abbraccio. «Forse mangerò te» disse maliziosamente, prima di piombare seriamente sul suo collo.
«Anthony» lo ammonì, cercando di allontanarlo.
Il maggiore trattenne una risata, scostandosi un poco. «Oh, è serio quando mi chiami così.» Alexandre gli lanciò un’occhiata e Tony alzò le mani in segno di resa. «Hai ragione, non sei carino» disse, cercando di restare il più serio possibile. Gli diede un buffetto sulla guancia. «Diciamo che probabilmente hanno inventato la parola “perfezione” quando ti hanno visto.»
Alexandre per poco non si strozzò con la sua stessa saliva e abbassò il capo per cercare di nascondersi mentre arrossiva violentemente, neanche riuscendo a guardare l’altro.
«Smettila, Tony» lo rimproverò, sebbene le sue labbra premessero per lasciarsi sfuggire un sorriso lusingato.
«Mh, cosa dicevi l’altro giorno? L’ascensore…?» gli sussurrò all’orecchio, stuzzicandolo.
Se fosse stato possibile, Alexandre sarebbe arrossito ancor di più, stavolta anche un po’ per l’irritazione. «Oh, piantala!» esclamò.
«Dove?» chiese il moro con un ghigno.
Il minore rimase impassibile, fissandolo negli occhi chiari. «Ti rompo anche l’altro braccio se continui» lo avvertì.
Tony scrollò le spalle. «Non è un problema, so come arrangiarmi» disse, continuando a ghignare malizioso. Il biondo lo guardò perplesso e il maggiore si rese conto che purtroppo il suo presunto fidanzato non sarebbe mai riuscito ad arrivare alla sua allusione; così fece un gesto sbrigativo con la mano. «Lascia stare.»
Scostò le lenzuola e scese dal letto, andando a ripescare un paio di mutande da infilarsi, sebbene con una sola mano potesse sembrare alquanto ridicolo.
Alexandre lo lasciò fare, continuando anche lui a rivestirsi, ma osservò comunque quanto il ragazzo fosse goffo in quella situazione e il suo sguardo si addolcì. «Ti aiuto a rivestirti» propose, andando a prendere una maglia da fargli infilare.
«Oh, siamo arrivati già a questa fase? Tra poco dovrai ricordarmi di prendere le pillole e cambiarmi il catetere o qualcosa del genere» scherzò l’altro.
Ma l’eco della risatina di Tony fu l’unica cosa ad echeggiare in quella stanza. Alexandre non stava ridendo. Alexandre non stava ridendo e cercava di fissarlo negli occhi, rigido come una statua di ghiaccio. E a quel punto Tony andò internamente nel panico, tentando di evitare lo sguardo azzurro dell’altro.
Forse non era stata una così gran battuta, pensava. Cioè ovvio che non lo era stata, ma forse era proprio pessima, forse non era stata per niente una buona idea dire quelle cose. E se avesse ferito Alexandre in qualche modo dicendo così? Anzi, peggio, se si fosse spinto troppo in là? Se ad Alexandre quelle cose non interessassero? Se non ci avesse mai pensato? Se – cosa più probabile di tutte – non avesse mai avuto l’intenzione di restare per sempre con Anthony? Cioè, era comprensibile, per carità, Tony sarebbe stato il primo a non stare con se stesso, avrebbe capito perfettamente qualcuno come Alexandre, solo che… C’era qualcosa in lui che si rompeva anche solo a questo pensiero, da star male. Che cosa avrebbe fatto in quel caso? Ma era ovvio che prima o poi sarebbe arrivato quel giorno. Ora che ci pensava Alexandre gli ricordava già quando doveva prendere le pillole-
Oh, no. No, no, no, no, si stava per far prendere dal panico e Alexandre lo stava fissando. Non poteva permetterselo perché ogni volta che perdeva la testa per cose del genere, l’altro se ne accorgeva e si preoccupava e far preoccupare Alexandre era l’ultima cosa che l’Orwell volesse fare. Autocontrollo. Doveva avere autocontrollo!
L’espressione del biondo si fece più preoccupata, ma Tony tentò disperatamente di cambiare discorso, o almeno di portarlo in una zona dove si sentisse più sicuro.  «E poi un brunch da nudo è più divertente ora che non c’è nessuno, siamo tutti più felici. Si spera» scherzò. Più o meno.
Alexandre fece passare con cautela le braccia del maggiore nelle maniche corte della maglietta e poi gli fece infilare la testa nel giusto buco del collo. Gli liberò alcuni boccoli scuri intrappolati dentro la maglia che ora finivano sulle spalle del giovane. I loro occhi s’incrociarono ed erano così stranamente e terribilmente seri che il bacio venne da sé, improvviso ma energico e stavolta fu il minore a circondare il bacino di Tony e a stringerlo a sé, con una presa ferma che, per controverso, era così salda proprio perché partiva dalla preoccupazione. Poi gli accarezzò una guancia e l’altro si rilassò un po’ a quel contatto.
«È che quel gatto continua a fissarmi e mi mette in soggezione» confessò, lanciando un’occhiata verso il divano, dove appollaiato c’era una grassa palla di pelo bianco dagli enormi occhi giallognoli che fissavano i due. Che comunque rimaneva una bellissima e maestosa palla di pelo, eh.
Il moro sospirò, quasi esasperato. Prese la mano del proprio ragazzo con quella buona che gli era rimasta e lo condusse verso l’angolo della cucina, dove li attendeva il brunch. «Xandre, davvero, sei l’unica persona al mondo oltre a Phil a cui quel gatto non porta rogna e sei di certo l’unica cosa che teme» spiegò, per poi continuare: «Posso assicurarti che non ti farà alcun male, almeno a te. Una volta è saltato sulla schiena di una tizia mentre lo stavamo facendo e ha fatto cose ancora più assurde, quindi se avesse voluto ucciderti, l’avrebbe già fatto dopo tutto questo tempo.»
«Ah» fu l’unica cosa che il biondo riuscì a far uscire dalle proprie labbra, irrigidendosi improvvisamente mentre si sedeva.
Tony iniziò a cacciare la roba dalle buste e si fiondò sui cornetti salati appena li vide. Alexandre invece si torturò per un attimo le mani, sentendo l’agitazione ritornare in lui, poi si costrinse a tenersi occupato e aprì il contenitore della frutta, prendendo qualche fragola e ponendola sul waffle che addentò.
«E la ragazza?» chiese, dopo un po’ di silenzio.
«Cosa?» chiese il moro distrattamente, godendosi le fette di formaggio e miele e illuminandosi alla vista di un thermos pieno di caffè all’interno di una delle buste.
«Che fine ha fatto?» domandò ancora l’altro, tenendo la testa bassa per non guardare negli occhi l’interrogato e facendo finta di interessarsi alla marmellata che stava spalmando su una fetta biscottata.
Tony rifletté un attimo, versando a entrambi un po’ di caffè e poi prendendo uno dei mini toast che il minore gli aveva comprato. «L’ho accompagnata in ospedale» disse semplicemente, tra un morso e un altro. Quando mandò giù, la realizzazione incominciò a farsi strada in lui. «Ah, no, aspetta, tu intendevi- Alexandre, sei geloso?» domandò velocemente, la sua voce divenne leggermente più acuta e incredula e, per sua enorme sfortuna, ciò che ne uscì suonò un po’ accusatorio.
«No» tagliò prontamente l’altro, continuando a tenere la testa bassa.
«Alexandre, io-»
«Ho detto di no, non agitarti!» lo interruppe di nuovo, perdendo quasi la pazienza e prendendo bruscamente il succo d’arancia sul tavolo per versarsene un po’.
«Piuttosto, che cosa hai intenzione di fare col lavoro?» domandò, ansioso di spostare la conversazione altrove.
Tony sospirò, scuotendo il capo, finendo con un boccone il toast. «Ah, so solo che sono nella merda. Oggi ho chiesto di sostituirmi il turno, ma non posso prendermi dei giorni» spiegò. «E poi non mi toglieranno mai subito il gesso.»
L’altro finalmente sollevò lo sguardo dalla fetta biscottata cui stava facendo finta di interessarsi e corrugò le sopracciglia. «Ma non possono fare così-»
«Sì, Alexandre» lo interruppe, sospirando. «Possono.»
Il biondo rimuginò un attimo nei suoi pensieri e sembrò alquanto preoccupato. Lanciò un’occhiata timorosa al proprio ragazzo, come se avesse paura di chiedere qualcosa. «Vuoi che…?»
Il maggiore scosse la testa. «No. Lascia stare.»
La sua espressione si addolcì e Alexandre per qualche istante si concesse di osservare quanto fossero più belli gli occhi di Tony quando sorridevano gentili. Allungò una mano sul tavolo di marmo e il sorriso del moro si allargò ancor di più, corrispondendo al gesto con la sua sinistra e stringendo teneramente le dita attorno alla presa dell’altro, disegnando cerchi immaginari col pollice nel suo palmo.
«Nessuno dei tuoi fratelli può sostituirti?» azzardò il minore.
Tony sospirò ancora. «Xandre, lavorano tutti. Sarebbe un suicidio per loro.»
«E Theodore?» insistette.
«Ah! Bella battuta» si fece scappare con una smorfia. «Non lo farà mai, piuttosto mi farebbe licenziare.»
Alexandre si morse le labbra, pensante. «Hai provato a chiedere un favore a qualcuno del palazzo?» Fece una piccola pausa in cui Anthony alzò un sopracciglio, poco convinto, e il biondo riprese: «So che sembra assurdo, ma tentar non nuoce…»
«Qui in realtà potrebbe nuocermi eccome» brontolò. «Mi servirebbe qualcuno non migliore di me in modo da non farmi rimpiazzare e qualcuno di non così incapace da non farmi licenziare» rifletté, mentre Alexandre con la mano libera gli avvicinava una forchettata di uova con bacon e il moro fu più che felice di farsi imboccare. «Devo pensarci.»
Alexandre riprese un’altra forchettata, ma stavolta fu lui ad addentarla, fissando il contenitore con le uova strapazzate. «Non avevi detto che credevi di piacere al tipo del piano di sotto? Potresti chiedere a lui.»
Tony sgranò gli occhi a quella proposta, cercando di attirare l’attenzione dell’altro, che però si ostinava a tenere basso lo sguardo sul cibo, prendendo un sorso di caffè. Gli strinse la mano con maggiore enfasi.
«Alexandre, sei sicuro di non essere geloso?» chiese, allarmato.
L’interpellato ritrasse immediatamente la mano, come se si fosse bruciato o – peggio – infastidito. «Non essere paranoico» sbottò, rotando gli occhi. Poi lanciò un’occhiata all’orologio e scattò in piedi. «Dannazione, devo davvero scappare. È tutto tuo» gesticolò, indicando l’enorme quantità di cibo che era ancora rimasta e avviandosi di corsa per prendere la giacca all’attaccapanni vicino la porta.
L’Orwell si affrettò ad alzarsi e lo seguì a ruota, col terrore che cresceva nei suoi occhi. «Alexandre, io-» iniziò, ma l’altro lo interruppe subito.
«Lo so» disse, aprendo la porta e fermandosi a guardarlo seriamente.
«Ma non-» provò di nuovo il mondo.
Alexandre chiuse gli occhi e scosse la testa. «Shh, lo so e basta.»
Anthony, ancora titubante, prese coraggio e lo lasciò andare con un ultimo bacio corrisposto proprio sull’uscio. Le sue labbra tremarono.
Alexandre si fiondò giù per le scale e Tony uscì di poco nell’atrio, gridandogli dietro: «Sappi che ti disturberò su whatsapp ogni tre secondi, come al solito.»
Sempre più lontano, dalle scale, si udì la risposta: «Sappi che non risponderò, come al solito.»
Tony non poteva neanche torturarsi le mani per colpa del gesso e si maledì, maledì tutto, ma soprattutto se stesso.
Si sentì osservato e voltandosi verso destra vide un uomo rosso barbuto, con gli occhi azzurri penetranti che volevano fulminarlo con uno sguardo.
«Non sono potuto andare a lavoro perché devo controllare che i carpentieri non mi rubino nulla» disse Ernest, il vicino, con tono accusatorio.
Tony dubitava che qualcuno volesse davvero derubarlo, da ciò che gli aveva raccontato Peggy sull’altarino dedicato alle foto della modella asiatica.
«Lo prenda come una piccola vacanza» cercò di risollevarlo il povero sfigatello.
Ernest si rabbuiò ancora di più se possibile. «Il mio lavoro è la mia vacanza. Almeno lì non vedo persone vive» e con ciò chiuse bruscamente la porta dell’appartamento numero undici.
Tony rimase spiazzato e corse a rientrare in casa, cercando disperatamente il suo cellulare e, una volta trovato, scorse la rubrica.
Pigiò il nome di un contatto e aspettò ansioso.
Tuuuu tuuuu tuuuuu.
«Dai, dai, dai, rispondi» mormorava.
Dopo altri severi squilli, finalmente qualcuno rispose.
«Che diavolo vuoi?» la voce di Peggy dall’altra parte era, come al solito, scocciata.
«Ok ho fatto la cazzata più cazzata del mondo non lo so Peggy non lo so forse ho spaventato Xandre e ho detto delle cose ma ora non ricordo cioè stavamo parlando ok forse è meglio se non ti dico le circostanze ma insomma io ho fatto questa battuta ma non era divertente e me ne sono accorto dopo-» Tony iniziò a buttar fuori tutte le sue preoccupazioni in un getto senza fine, ma Peggy dovette fermarlo.
«Calma, dannazione, non sto capendo nulla!» sbottò. «Mi hai chiamato perché ti sei appena accorto che le tue battute fanno schifo e guarda caso neanche il tuo Ken ha riso? Non penso neanche che Ken sappia ridere.»
Tony si lasciò sfuggire un suono frustrato, ma cercò di trattenersi da non perdere tempo a star difendere il proprio ragazzo e continuare il suo monologo interiore. «No allora non è questo è che ho detto una cosa forse un po’ troppo… insomma, sul nostro futuro? Ma è stato per sbaglio! Non me ne ero accorto ma poi sì perché si è tutto irrigidito e l’ho spaventato e sono andato nel panico perché sono stato stupido insomma come diavolo mi è venuto in mente di dire quelle cose aiuto Peggy come faccio se non volesse stare più con me? E se mi lasciasse? Cioè in realtà mi chiedo perché non l’abbia già fatto ma me lo sento che accadrà e la mia vita è finita aiuto non ce la posso fare ad andare avanti no no no no no io non posso come faccio sono così patetico e lui è così bello non so neanche perché stia a perdere tempo con me e io sono così fortunato ma non sono abbastanza e che schifo la vita ma perché a me cioè oddio in realtà è bellissimo perché cioè wow proprio a me però no perché io non me la merito una cosa così bella e invece lui-» Improvvisamente una baraonda di rumori esplose oltre le pareti alla destra dell’appartamento. «Che cosa…?» mormorò tra sé e sé il giovane, confuso.
Era il rumore di una sega o qualcosa del genere e Tony capì che dovevano essere i carpentieri nell’appartamento di fianco.
«Tony, non ti sento» fece sua sorella al telefono.
«Cosa?» chiese di riflesso, effettivamente sentendola a malapena. «No, aspetta!»
«Ciaoooo» salutò la Orwell sbrigativa, attaccando il telefono in faccia al fratello.
Maledizione.

 


 
Ira aprì la porta, con la testa che gli pulsava dolorante. Non aveva neanche idea di che ore erano, ma di certo non presto… o forse troppo presto? Ah, ma che gliene importava, l’unica cosa era che la chiamata mattutina di sua sorella quel giorno proprio non ci voleva.
E le notizie che portava ancora meno.
Subito fuori la porta trovò una bottiglia di latte. Il suo vicino, quello dell’appartamento numero tre, faceva il lattaio e ogni mattina aveva preso l’abitudine di lasciare una bottiglia di latte di fronte la porta di ciascuno nel palazzo. Beh, spesso in realtà le portava il suo cane gigante quando non aveva voglia di salire le scale e c’era da dire che spesso i tappi quindi erano pieni di saliva, per non parlare che si sospettava che quel latte se lo procurasse con una combutta assieme al losco vecchietto che abitava nel palazzo che talvolta parlava di una mucca, ma- ehi, latte gratis!
Ecco, parlando proprio di vicini, il grosso bovaro arrivò scodinzolando vicino a lui e Ira si sforzò a focalizzare lo sguardo; quando lo alzò trovò proprio Rafael che stava ritornando dalla passeggiata con Ernesto, il suo cane.
«Sei più distrutto del solito» commentò il moro.
Ira fece una smorfia. «Niente, è mia sorella che dà rogne. Si è messa in testa di volersi trasferire qui» si lamentò.
Rafael ridacchiò. «Almeno è gnocca?» L’altro gli lanciò un’occhiata. «Ti capisco, probabilmente anch’io ne uscirei pazzo se le mie sorelle piombassero qui da un momento all’altro, ma che vuoi farci.»
Ira alzò un sopracciglio. «Hai delle sorelle?»
Rafael rimase impassibile, rendendosi conto solo ora di cosa aveva detto. «Probabile. Perché, t’interessa?» L’altro si limitò a scrollare le spalle.
A un tratto un rumore attirò la loro attenzione e sulle scale videro un uomo in giacca e cravatta, con i capelli biondi rigorosamente portati indietro.
«Scusate l’interruzione» disse appena gli altri si accorsero di lui, avvicinandosi e rivolgendosi verso Ira: «Se ti aiuto col trasloco di tua sorella, saresti disposto a lavorare a un bar all’angolo… diciamo… non venendo pagato?» propose, titubante, ma nella sua voce si poteva sentire anche una chiara nota di disperazione.
Ira si lasciò sfuggire una risata. «Spero tu stia scherzando.»
«Io lo farei» intervenne Rafael, alzando le spalle. «Tu sei… il belloccio, insomma il fidanzato di cui quello del quarto piano non fa altro che parlare?» Alexandre arrossì violentemente e si costrinse ad annuire. «Perché no, almeno così fermerei un po’ il capitalismo assurdo che circola in quel coffee shop. Prima o poi scoprirò chi l’ha inventata questa storia assurda che la gente deve pagare per mangiare.»
Alexandre si raggelò. Per quanto avesse amato fermarsi lì a dare ragione a quel tipo e intrattenere una lunga e stimolante discussione ben argomentata sul sistema economico della società, ignorando le scartoffie da avvocato che l’attendevano a lavoro, strano a dirsi ma in quel momento c’era una cosa molto più importante di tutto ciò: Anthony.
Tornò a rivolgersi all’altro ragazzo: «Va bene, sono disposto a pagarti se ti offri di sostituire Anthony a lavoro.»
Il volto di Ira s’illuminò per qualche secondo, ma non era un sorriso di felicità il suo, bensì quello di un miserabile che si aggrappa a ciò di cui ha bisogno per andare avanti. In questo caso per Ira erano i soldi per pagare l’affitto, quelli che non riusciva a raggiungere solo vincendo gli incontri clandestini.
«Ora sì che parliamo la stessa lingua.»
Alexandre inclinò la testa, confuso. «Perché, prima cosa parlavamo?»
«Lascia stare» tagliò corto l’altro, roteando gli occhi.
«Ehi, ehi, ehi, io ero disposto a farlo gratis, ho più ragione io di essere pagato che lui!» protestò Rafael.
Alexandre sospirò. «Scusa, ma ho bisogno che Anthony non venga licenziato e offrire caffè alla gente non lo aiuterà» spiego, per poi rivolgersi nuovamente all’altro: «Non riceverai la sua paga, prenderai solo i soldi che ti darò io, nemmeno una parola con nessuno a parte lui» e indicò Rafael «e il cane. Andrai da lui e farai finta di offrirti, dì che qualcuno lo stava dicendo nel palazzo, non so, inventati qualcosa. Ti prego non esibirti al locale, né osare farlo licenziare, resta nella media e dovrebbe andare tutto bene. Sono stato chiaro?»
Ira annuì, abbastanza noncurante.

 



 



p a n d a bitch.
Va tutto male nella vita ma va bene così, si va avanti.
Ripeto che scrivo questa storia perché così mi dice la testa e tutto questo progetto in realtà è una mia fase sperimentale per capire alcune cose per altri progetti. Insomma sfruttamento su sfruttamento.
Poi mi sono dimenticata cosa dovevo dire, forse dovevo ripetere again che questo capitolo è uscito così e basta, non doveva avere tutte queste dosi di fluff e semi-angst ma va Beth.
E alla fine ricordo a tutti che sono pandamito su praticamente qualsiasi social network, tra cui twitter, tumblr, tvshowtime, sparatene uno e io ci sarò e poi Come una bestemmia. su facebook e pinterest.
Ringrazio chi deciderà di seguirmi in questa....... cosa, se qualcuno ne ha davvero il coraggio.
Baci e panda, Mito.

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Capitolo 4
*** 004 - Alexandre fa cose ***


In quel momento Anthony Orwell era un ammasso di sorpresa con il braccio destro rotto. Sarebbe stata più o meno questa la descrizione sulla sua lapide se fosse morto di lì a cinque secondi. Gli occhi azzurri squadravano il ragazzo dai capelli castano chiaro che gli stava davanti, quasi indifferente all’intera faccenda. Alquanto strano, poiché era lui la causa principale dell’incredulità di Tony.
 
Mi scoccia un po’, detto sinceramente, spiegare l’intera questione, ma la storia necessita di un breve riepilogo per spiegare i fatti.
Perché Anthony Orwell aveva la bocca a “o”?
 
Ira Marque, tipo losco dell’appartamento numero due al secondo piano del condominio, nonché occasionale compagno di pugilato di Tony e chissà che altro, si era misteriosamente presentato alla porta di “casa” Orwell – aveva addirittura stranamente bussato – e si era proposto dal nulla di sostituire Tony a lavoro senza nulla in cambio.
Questo era il perché della bocca a “o”.
 
«Perché?» chiese Tony, ancora incredulo. I capelli neri erano sciolti e gli sfioravano le spalle e il braccio destro era ancora fasciato.
Ira inclinò la testa. «Cosa?»
«Perché mai vorresti farlo?»
Ira si finse confuso e un po’ dispiaciuto. «Ehi, tu mi hai sempre aiutato e poi devo sdebit-»
Tony lo interruppe alla svelta. «Ira, un conto è prestare del disinfettante al tuo compagno di boxe se si fa male, un altro è lavorare al posto suo… gratis? Di certo Becky non lo farebbe e non so quanto tu sia messo meglio.»
 
Ora, fermi di nuovo tutti. Chi era Becky?
Becky Sanchez abitava l’appartamento numero sei al secondo piano e- oh, beh, un giorno vi parlerò di lei, ora sinceramente perderei il filo.
 
La verità era che Ira sarebbe potuto stare meglio, ma per alcuni problemi, che fondamentalmente provenivano solo dalle sue pare mentali, non era così.
Becky Sanchez faceva circa tre lavori per mantenere lei, l’appartamento e suo nipote. Ira aveva un lavoro e un hobby-lavoro ed entrambi erano illegali.
Kyle Cruz, un amico di Becky, gestiva una palestra qualche isolato più in là, il che era una faccenda abbastanza comoda. La sera, però, si trasformava.
Se Ira non andava lì a fare scommesse e gareggiare contro qualcuno, allora era per strada a svendersi e se non era per strada a svendersi, allora era lì a fare scommesse e gareggiare contro qualcuno.
Insomma, la notte andava sempre così in casa Marque.
Ma in realtà mi sono perso nel discorso, il succo è che grazie a Becky sia Ira che Anthony poterono permettersi un posto dove sfogarsi e spesso accadeva che i tre si ritrovassero nella palestra di Kyle negli stessi orari. Fine.
Ciò che si sapeva di Ira, però, a differenza degli altri, era sì che aveva un lavoro, ma non si facevano domande su quale fosse. Sebbene in quel condominio fossero sempre stati tutti molto pettegoli, vigeva una muta legge del non fare domande sconvenienti, semplicemente perché a tutti conveniva che rimanesse il silenzio. Tranne che per alcuni casi che un giorno v’illustrerò.
 
Ira tentennò, serrando le labbra; era ovvio non si sentisse a suo agio, ma per fortuna qualcosa – o meglio, qualcuno – venne in suo aiuto.
«E chi se ne frega!»
Una voce provenne dall’interno dell’appartamento numero dodici. Tony si sporse per vedere Theodore stravaccato sul divano che continuava a cambiare canale, mentre ai suoi piedi, sdraiato sul tappeto, c’era Philip intento a leggere non si sa cosa.
«Non troverai mai nessuno che ti salvi il culo in questa maniera, bro, accontentati. Chi se e frega perché lo fa.»
«Esiste la solidarietà!» trillò Phil, senza staccare gli occhi dal libro e Theodore si morse la lingua per non dar voce a qualche commento sarcastico.
In realtà Theo aveva capito fin da subito che quel ragazzo non stava facendo nulla senza qualcosa in cambio, ma era troppo stufo di quella faccenda tirata troppo per le lunghe per non intervenire. L’unica cosa che gli interessava in quel momento era che Ira Marque in qualche modo fosse in debito con lui.
Tony sospirò, rassegnato, mentre Ira aveva iniziato a indietreggiare piano per svignarsela. «Allora poi ti dico per i turni, ok? Anzi, puoi dire già da ora a Rafael e Marvyn che ci sarà una serata karaoke al locale?»
«No!» una voce obiettò, facendo rizzare tutti gli altri. La tenda che separava la zona notte – ovvero semplicemente i letti a castello dove dormivano gli Orwell – dalla zona giorno – ergo tutto il resto dell’unica stanza dell’appartamento – si scostò, facendo apparire una Peggy non molto felice. E quando mai. «Dì a quella testa di cazzo che domani è il mio giorno libero e che deve alzare il culo e andare a lavorare!» predicò verso Ira, che corrucciò le sopracciglia.
Theo roteò gli occhi, seppur non degnandola di uno sguardo. «È difficile stabilire di quale testa di cazzo tu stia parlando.»
«Marvyn! Marvyn Foster!» continuò la ragazza, avanzando a grandi falcate verso Tony e il vicino. «Se pensa che scambierò il mio turno col suo, non ha capito nulla!»
Ira alzò le mani in aria. «Va bene, riferirò a Rafael…» lanciò un’occhiata a Peggy, «e a Marvyn.» Tornò a rivolgersi verso l’Orwell maggiore e infortunato. «Però non so, sinceramente, dipende se Becky lavora, di solito le tiene il bambino.»
«Il bambino?» ripeté Philip ancora sdraiato a terra, alzando solo il capo incuriosito.
«Il nipote, quello che è» tagliò corto Ira, scocciato.
«Per un momento ho creduto che Becky fosse rimasta incinta» spiegò.
Peggy sbuffò e roteò gli occhi, ritornandosene da dove era venuta. «Ci manca solo questo.»
 
Quando facevo il mio solito giro quotidiano nei giorni sì, mi divertivo ad andare a spiare Anthony a lavoro, per vedere se accadeva qualcosa degno di nota e anche per sperare che qualcuno mi offrisse qualcosa.
Anthony Orwell aveva passato tutta la mattina a spiegare a Ira cosa dovesse fare. Stranamente il ragazzo dell’appartamento quattro si era presentato più o meno in orario, sebbene con la maglia un po’ sgualcita e i capelli scompigliati, ma era nella norma. In realtà aveva fatto cinque minuti di ritardo, ma li faceva sempre anche Tony, quindi a malapena se ne accorse.
Tony finì quasi subito di spiegargli le mansioni, ripeté pure per sicurezza e si sentì un enorme idiota nel farlo. C’era una parte di lui che gli diceva di rilassarsi, che tanto era comunque un lavoro da poracci, che non ne valeva la pena e che tanto aveva sempre saputo che prima o poi l’avrebbero sbattuto fuori; ma dall’altra parte inspiegabilmente ci teneva, non voleva tornare ad avere una vita priva di senso e piena di nullafacenza e… e… e insomma tante altre piccole cose si sovrapponevano l’una sopra l’altra nella sua mente, tanto che finì per restare al coffee shop tutta la mattina, seduto in un angolino a fissare Ira e a mangiarsi le unghie fino a sanguinare.
Alexandre dovette venire a ripescarlo fino a lì, ordinò un caffè da portar via, scambiò un’occhiata con Ira, diede un bacio sulla guancia a Tony e neanche fosse sua madre lo costrinse ad alzarsi e ad andare a casa.
«Non dovevi parlare con Heather?» gli ricordò.
«Sì, ma-» ma Alexandre non ammise nessun "ma". Ma, ma, ma, ma, quanti ma ci son qua.
«So che sei nervoso» gli confessò, tentando di confortarlo. «Lo capisco. Però in fondo non è tutto questo gran casino, almeno per ora hai ancora un lavoro e pian piano il braccio ti ritornerà come nuovo. Anzi, in realtà non so se sia una buona idea che tu vada stasera.»
«Impossibile!» obiettò prontamente il moro.
 
E leggermente poco più motivato, Tony bussò alla porta dell’appartamento numero quattordici.
Ve la ricordate Heather, giusto? Decisamente non magra, leggermente più alta della media, capelli biondi sempre curati, sorriso stampato in faccia, occhi verdi che appaiono sempre più grandi del normale per via degli ombretti glitter con cui ama truccarsi. Sì, insomma, quella che in poche parole aveva sfondato il soffitto del piano di sotto con la sua ex impalcatura.
Quando aprì la porta e si ritrovò di fronte l’Orwell, sorrise ancor di più e lo stritolò in un abbraccio. No, sul serio, Tony dovette pregarla di lasciarlo andare perché altrimenti si sarebbe dovuto rifare un gesso nuovo al braccio.
«Vuoi pranzare?» gli propose subito Heather, cordiale. «Al turno di oggi devo attaccare un po’ prima, quindi mi tocca mangiare a quest’ora» spiegò.
«Oh, no, ma grazie tante» dismise l’altro, gentile, aggiustandosi un po’ la maglia stropicciata. «Piuttosto… ti ricordi che per stasera ti avevo chiesto…»
«Oh, non preoccuparti, tesoro» lo tranquillizzò la bionda, facendogli l’occhiolino e dandogli una pacca più forte del solito sulla spalla. «Ci penso io a rompere il ghiaccio per la serata. Vedrai, alla chiusura ci saranno ancora le persone che spingeranno per cantare e ballare. Sto anche continuando a spammare su twitter.»
«Oh, fico! Grazie!» esclamò il moro, sorridendole.
I due continuarono a fissarsi sorridendo, fino a che detto sinceramente la situazione non divenne imbarazzante, no sul serio, mi stavo sotterrando io.
Heather si guardò attorno e poi ritornò a prestare attenzione al ragazzo nell’atrio.
«Anthony, sai che ti voglio bene, vero?» chiese.
«Ehm… sì, credo qualcosa del genere» rispose l’interrogato, un po’ incerto.
«Bene, allora continua a ricordartelo perché, se non vuoi pranzare con me, allora ho un piatto che mi attende, non ho molto tempo prima di attaccare a lavoro e, sai com’è, tra te e il mio cibo…»
«Oh!» si lasciò sfuggire l’altro, scoppiando poi in una risata. «Giusto, certo, nessun problema. A stasera!» la salutò, allontanandosi verso le scale.
«A stasera, tesy!» ricambiò Heather, chiudendosi la porta alle spalle.
Tony scese le scale per ritornare nel suo appartamento, quando notò la testa rossa di Ernest che spuntava dalla porta dell’appartamento di fianco.
«Ehi» lo salutò, sperando che gli fosse passata l’arrabbiatura per la storia della porta… e del soffitto… «stasera vieni a-»
«No» lo interruppe bruscamente il rosso e chiuse la porta in malo modo.
Ok, probabilmente non gli era passata.
 
 
Il problema di quella sera? Tony non era ancora del tutto convinto dell’intera storia. Si ritrovò al bancone a ordinare cicchetti su cicchetti a Ira, che serviva, e nessuno aveva capito se avesse preso la scusa di bere per monitorare il ragazzo che lo sostituiva o… stava semplicemente bevendo per disperazione nei confronti delle sfortunate pieghe che la sua vita ogni volta sembrava divertirsi a prendere.
Il moro si prese la testa tra le mani, mentre una presenza si sedette al suo fianco su uno sgabello. Il secondogenito degli Orwell si voltò e riconobbe la chioma bionda, tirata all’indietro e un po’ scompigliata, di Alexandre, che tentò di sorridergli gentilmente, mentre i suoi occhi azzurri tradivano un po’ qualcos’altro.
E ad Anthony guardarlo gli fece male perché non poteva fare a meno di considerarlo meraviglioso ogni cosa che facesse, anche la più piccola.
«Lascia stare il bancone e vieni con me» gli propose il minore.
«A te neanche piace ballare» rispose l’altro.
«Non dico di ballare» precisò Xandre. «Solo… stai con me. Sei più cordiale da sobrio.»
«In realtà penso sia il contrario» obiettò Anthony. «Quando bevo sono una macchinetta a parlare, non mi ferma nessuno. Davvero, sono molto più di compagnia. Pensi dovrei fare l’escort?»
Il sarcasmo del moro lasciò andare Alexandre in una risata genuina, che strappò un sorriso anche al suo ragazzo, il quale però sembrava non voler cedere e ordinò un altro cicchetto.
Alexandre assottigliò lo sguardo. «Tony» lo richiamò, cercando di farsi serio.
L’altro lo guardò negli occhi e qualcosa reagì in lui. Ghignò. «Ira, anzi, fammene tre.»
«Tony!» continuò Alexandre, indignato. «Giuro che mi metto a bere pure io se fai il bambino.»
«Fermati, non reggi l’alcol» brontolò il maggiore, improvvisamente serio.
Alexandre lo guardò negli occhi, uno sguardo di sfida, e Tony provò a sostenerlo, sebbene con fatica e un’eccessiva preoccupazione nei suoi confronti.
«Tre» proferì alla fine il biondo verso il barman di turno, dopo una lunga pausa.
«Tre cosa?» si alterò Tony, in realtà estremamente preoccupato. Le sue labbra divennero una linea sottile e guardò l’altro duramente. «Anch’io. Cinque.»
Aveva accettato la sfida.
«Sette» ribatté il biondo.
«Fermati!» esclamò il maggiore. Voleva farlo ragionare, eppure non voleva cedere. «Dieci!»
«Quindici!»
«No!» esclamò il moro.
Xandre batté una banconota sopra il bancone, continuando a guardare fisso il proprio ragazzo.
Ira la prese e la osservò, scrutando poi i due clienti. «Posso tenermi il resto come mancia?»
Alexandre gli lanciò un’occhiata per niente amichevole. «No.»
Ira alzò le spalle. «Io ci ho provato.»
«Ok, allora posso tenermelo io il resto?» domandò una voce poco lontana. Il biondo si voltò e riconobbe Wade Orwell poco più in là.
«No!» ripeté il biondo.
Il primogenito della famiglia fece spallucce. «Io ci ho provato» disse, tornando poi a ballare con alcune ragazze.
Tony ne approfittò per prendere le mani del biondo e abbassare la voce, sebbene mediamente visto il volume della musica presente nel locale. «Ti prego, Xan, lascia perdere. Sappiamo tutti come andrà a finire e domani te ne pentirai. Io… io sto bene, ok?»
Alexandre strinse ancor più la presa sulle mani del ragazzo e gli concesse un veloce bacio, per poi sorridergli rassicurante. «So che non è la soluzione più giusta» confessò, accarezzandoli una guancia. «Ma io non ti lascio.»
E per un attimo Anthony si sentì avvolto da una sensazione di tepore, sostituita poi con la preoccupazione che le cose si sarebbero messe male.
 


 
Rafael Perez – ricordiamo: alto, impostato, capelli scuri e mossi e ricrescita di barba fin troppo lasciata andare a se stessa – stava scendendo le scale dal tetto saltellando i gradini due a due, mentre sulle spalle teneva un bambino dalla pelle mulatta, i capelli ricci e folti sul castano, gli occhi scuri; poteva avere… che ne so, tre anni? Quattro? Ne dimostrava decisamente di meno. Era il nipote di Becky Sanchez a cui Rafael ogni tanto – ok, diciamo spesso, ma perché lui amava starci assieme – badava e il suo nome era Cris, bambino abbastanza tranquillo, dobbiamo ammetterlo.
Nel condominio non c’era quasi nessuno quella sera, tutte le luci erano spente, fino a quando non arrivò al terzo piano e dagli spifferi della porta del numero otto vide trapelare una luce. Ricordava che in quell’appartamento abitavano tre ragazze… studentesse? Forse.
Bussò, incuriosito, non poté farne a meno e mentre aspettava fischiettò la canzoncina della pubblicità di un budino che Cris prese a canticchiare.
La porta finalmente si aprì e ne uscì Tempest Brennan al posto delle sue coinquiline. Ok, ve la ricordate Tempest, vero? Non molto alta, neanche tanto magra, capelli scuri, frangetta, occhi chiari… Oh, giusto, non l’avevamo ancora introdotta col suo nome. Sì, insomma, Tempest era la ragazzina inquietante che Peggy ha cercato di ignorare e che l’ha incitata per andare a picchiare Rafael.
Situazione imbarazzante ritrovarselo di fronte.
Ma guardiamo il lato positivo: almeno era una di quelle poche volte in cui era vestito! ... Cioè, diciamo che non aveva il solito asciugamano attaccato alla vita ma un paio di bermuda e una camicia dai motivi colorati totalmente aperta e inutile.
«Ehi, cosa ci fai ancora qui? Sono tutti al locale» parlò Rafael per primo, mentre Cris aveva preso a giocare con i suoi capelli.
Tempest gli lanciò un’occhiata, passando subito sulla difensiva. «Non ti è passato per la testa che potrei essere malata?» rispose, decisamente acida.
Il moro la squadrò per un attimo. «Non sei malata» constatò.
La ragazza roteò gli occhi. «E anche se non volessi semplicemente andarci?»
Rafael rifletté per un attimo e poi fece spallucce, noncurante. «Ok, allora mi tieni Cris?»
«Cosa?» si lasciò sfuggire la castana, sgomenta.
«Io vado alla serata, se tu rimani qui puoi tenere il bambino fino a quando torno» spiegò.
«Non puoi pulirti le mani così e poi ho da fare!» obiettò feroce l’altra. «Chiedilo al tuo coinquilino!»
«Marvyn deve lavorare in pizzeria pure questa sera. La stronza del numero dodici ha detto che questa volta non gli scambia il turno. Hai presente?» disse, riferendosi a Peggy Orwell. Tempest non gli rispose, si limitò solo ad alzare un sopracciglio e a guardarlo male, come al solito. Rafael alzò di nuovo le spalle e fece per andarsene con Cris. «Va be’, ci si vede.»
«Aspetta, hai intenzione di portarti il bambino alla festa?» chiese allarmata la ragazza, sporgendosi dall’uscio del suo appartamento.
Il moro si fermò e ritornò a guardarla. «Non posso fare altrimenti. Tu non me lo tieni.»
«Certo che puoi, potresti rimanere a casa come qualsiasi persona con un minimo di criterio!» protestò l’altra.
«Sì ma oramai gli ho già detto che ci andiamo, vero Cris?» chiese al bambino, sollevando di poco il capo e quello fece cenno con la testa, dando poi qualche piccolo colpo sulla fronte di Rafael. «Vedi, poi si dispiacerà e poi deve crescere, i bambini di oggi sono precoci. Gli altri bambini probabilmente andranno a una serata del genere a cinque anni di questi tempi e lui potrà vantarsi di esserci già andato.»
«Ma ho quattro anni e mezzo» precisò il bambino, che finalmente parlò.
«Vedi? In anticipo di mezzo anno. Avrai tutte le pollastre ai tuoi piedi, amico, te lo dico io» lo rassicurò l’altro.
«Non ti permetterò di portartelo!» obiettò nuovamente la castana.
Rafael scoppiò in una risata e riprese a scendere velocemente le scale. «Prova a fermarmi!»
Tempest digrignò i denti e, frustrata, corse a prendere la giacca per uscire.
 
Nel frattempo nella Fantabolosa Foresta Incantata entrarono due figure a braccetto, entrambe avevano capelli neri, occhi azzurri e sguardo di sufficienza. Ok, avete capito che la Foresta Incantata in realtà è il pub, vero? Comunque sia, Peggy Orwell abbraccio il fratello Robin, che le diede un bacio sulla guancia, mentre lei scattava prontamente un selfie da postare su instagram.
La minore prese a mormorare: «Hashtag party, hashtag bro, hashtag dov’è la droga datemela, hashtag… hashtag…?»
«Hashtag ma che è 'sto schifo» concluse il fratello riccioluto per lei.
La corvina gli diede una gomitata scherzosa e poi detto sinceramente non ce ne frega più di loro, cambiamo scena dove c’è qualcosa di più divertente.
Heather Jasper
 che probabilmente aveva svaligiato il catalogo di PlayBoy per quanto poco era vestita e specialmente con che cosa  si stava allontanando dal piccolo palco dove aveva finito di cantare la millesima canzone per quella sera; aveva iniziato lei a rompere il ghiaccio sperando che qualcuno controbattesse con qualche altra canzone e movimentasse la serata, ma la verità era che le piaceva decisamente troppo sfidare la gente per divertirsi e vedere che tasso alcolico avevano raggiunto gli altri da quante note stonavano. Si fece largo tra la folla danzante, facendosi trasportare un po’ dalla musica e ridacchiando, mentre alla fine della pista c’era una persona che le stava facendo di avvicinarsi.
Era una ragazza bruna e dagli occhi scuri, con un ampio sorriso e due cocktail in mano. Ne porse uno alla bionda appena si avvicinò, fecero cin-cin e poi presero un grande sorso.
«Jaden!» trillò Heather.
«Heather!» trillò Jaden.
E poi si abbracciarono, ridendo.
Heather si guardò attorno e la sua espressione divenne più confusa. «Dov’è il tuo fidanzato?» domandò.
Jaden scrollò le spalle. «Roy non è potuto venire, l’avevano chiamato a lavoro per una cosa urgente stasera. Non immagini quanto abbia predicato prima di andarsene» spiegò, scoppiando poi in una risata che non riuscì a trattenere.
«Ovviamente» le diede corda la bionda.
Avevamo già parlato di Jaden e Roy, sebbene non esplicitamente. Ricordate la coppia da cui Peggy voleva intrufolarsi? Ecco, l’appartamento era il loro; ma, se vogliamo essere più precisi, Jaden Reed e il suo fidanzato usavano quell’appartamento come seconda casa dove ammucchiare la loro roba, visto che avevano praticamente le mani bucate, e risiedevano principalmente al piano superiore e di fatti proprio per questo, sebbene fossero una buona compagnia la maggior parte del tempo, non erano visti di buon occhio da gran parte del restante condominio.
Poi un angelo si avvicinò al tavolo occupato dalle due, i grandi occhi azzurri, i capelli ricci e illuminati dalla luce divina- ok, probabilmente erano semplicemente le luci del locale che lo stavano colpendo in pieno, ma sta di fatto che Philip Orwell potrebbe benissimo avere le chiavi del paradiso nel suo mazzo attaccate al peluche di un Pikachu o qualcosa del genere e nessuno ne dubiterebbe.
«Ehi, Philip!» esclamò Jaden appena lo vide avvicinarsi.
Heather gli scompigliò i capelli, al che il riccio rise allegramente, e gli domandò: «Ti offro qualcosa?»
Phil ci pensò su, in un primo momento deciso a rifiutare, ma poi notando che effettivamente aveva una certa voglia: «Oh, sì, grazie. Qualsiasi cosa con fragola, alcol e ghiaccio andrà bene.»
«Torno subito, tesoro» lo rassicurò la bionda, allontanandosi.
«Ehi, Phil, io e Heather è da un po’ che stavamo pensando a una cosa» disse l’altra.
Philip si sedette al tavolo, incuriosito. «Uh, cosa?»
«Che ne dici se un giorno ci organizziamo e lo passiamo interamente a cucinare?» propose, facendogli l’occhiolino. «Potremmo fare anche un buffet, sai, con tutti. Vorremmo che venissi anche tu.»
«Oh, fico!» rispose il corvino.
«Ci stai?»
«Sì!»
Jaden si avvicinò un po’ di più al minore, sebbene non si preoccupò di abbassare la voce. «E poi abbiamo notato che Rafael ti porta il latte migliore da quando è successa la storia dei soufflé.»
«Davvero?» chiese, sgranando gli occhi. «Oh, ma che gentile! Ma non doveva! Appena lo vedo devo ringraziarlo» disse sorpreso e con un sincero sorriso sulle labbra. Come se i sorrisi di Philip Orwell fossero mai falsi.
Jaden ridacchiò, divertita dalla semplicità del ragazzo.
 
Nel frattempo, quando si parla del diavolo, o in questo caso del lattaio, Rafael Perez era arrivato da poco e se ne stava per un po’ in disparte scrutando per bene il locale, con ancora Cris sulle spalle e Tempest che gli stava alle calcagna, alquanto a disagio e imbarazzata tra quella folla.
«Balli?» domandò all’improvviso il moro.
Tempest gli lanciò un’occhiataccia. «No» rispose, secca.
Rafael alzò le braccia e prese Cris per la vita per metterlo con i piedi per terra. «Allora tieni Cris.»
«No!» protestò prontamente la ragazza, inorridita. «Se volevi andarti a divertire perché ti sei offerto di badargli?»
«Guarda che se non lo tieni tu, me lo porto in pista» rispose l’altro. «E comunque Becky è mia amica e ha un lavoro notturno e ha tutto il diritto di andare a divertirsi, solo che non può spendere soldi in babysitter se vuole mettere da parte qualcosa per farlo. E poi Cris mi piace» spiegò con un fervore che convinse Tempest che fosse serio, ma detto questo le voltò le spalle e andò a ballare assieme agli altri.
Tempest sospirò, frustrata e incapace di rassegnarsi pienamente.
«Brandy» fece una vocina.
La ragazza strabuzzò gli occhi, credendo di aver capito male, e si rivolse al bambino con cui era stata lasciata. «Cosa?»
«Mi compri un brandy?» domandò Cris.
Tempest inorridì. «Cosa? No! Non puoi berlo! E come diavolo sai cos’è il brandy?»
«Ma ho sete!» protestò Cris, battendo il piede per terre e cacciando il labro.
Tempest prese un respiro profondo, cercando di non cadere ancora più nel panico. «Ok, ti compro qualcosa, ma il brandy no.»
«Rum? Gin?» propose l’altro.
La castana alzò gli occhi al cielo e prese la mano del minore per condurlo al bancone. «Oh cielo, ma che ti danno questi… Devono pur avere qualche succo, proviamo con quelli.»
 
Heather tornò al tavolo, con un bis del suo cocktail e quello per Philip.
«Heather» cantilenò Jaden, «indovina chi si unirà a noi per la nostra Giornata Cucina™?»
Heather mandò un urletto eccitato e batté le mani, quando poi improvvisamente la sua attenzione fu catturata da qualcos’altro e il suo sorriso, se possibile, si allargò ancor di più. «Rafael!» chiamò, prendendo ad agitare un braccio.
L’uomo, che era facile individuare persino tra la folla per via della sua altezza imponente, sentendosi chiamare, si voltò e sorrise soddisfatto non appena vide l’amica. Si fece largo e, una volta al tavolo, lasciò un sonoro bacio sulla guancia di Heather e abbracciò calorosamente Philip lì vicino, per poi sedersi e salutare anche Jaden, felice di vederlo.
«Rafael, dopo devi cantare una canzone con me, promettimelo» gli ordinò Heather, decisa.
«Oh, ma non avresti possibilità con me, tesoro» scherzò il cubano. «Ma prima devo trovare tuo fratello» puntò il dito verso Philip.
«Quale dei tanti?» chiese l’Orwell, un po’ confuso.
«Ho una gara di shots in sospeso» continuò.
«Ok, deve essere decisamente Wade» affermò l’altro.
Parlando di Orwell, Anthony si avvicinò al tavolo, prendendo posto, mentre in mano teneva un drink e il volto gli si era un po’ arrossato da inizio serata.
«Ehilà, gente, che si dice?» salutò tutti, legandosi i capelli per il caldo con una molletta che teneva al polso e poi sorseggiando nuovamente qualsiasi intruglio si fosse preso.
«Ehi, Tony» lo salutò Jaden di rimando. «Certo che non sapevo che il tuo ragazzo avesse una voce del genere, dovresti portarlo più spesso alle serate.»
Tony continuò a bere, sollevando poi un sopracciglio e lanciandole un’occhiata confusa. «Cosa?» chiese, credendo di aver capito male.
La bruna corrugò la fronte, anch’essa perplessa. «Ma come, non è il tuo ragazzo quello sul palco? Saranno forse cinque canzoni che fa di seguito e non vuole lasciare il microfono a nessuno. Però è davvero bravo, non l’avrei mai detto» spiegò, indicando il ragazzo biondo che effettivamente stava sul palco.
Alexandre Grandpré stava cantando a squarciagola, la camicia tutta stropicciata, alcuni bottoni aperti a caso, i capelli tutti scompigliati e le guance arrossate per via dell’alcol.
D’improvviso parlò: «E questa la dedico al mio ragazzo preferito- no, cioè, non che ne abbia più di uno. Al mio ragazzo, sì, al mio ragazzo, che è anche il mio barman preferito, questo sì. All’amore della mia vita, alla mia anima gemella, al mio futuro marito, a quello a cui a volte devo ricordare di allacciarsi le scarpe perché sennò inciampa, non m’importa se non ne hai voglia… sì, insomma, avete capito. La dedico a lui perché almeno spero che così non ci fraintendiamo come al solito» e detto questo riprese a cantare, cercando di sbottonarsi la camicia ma invado e accarezzando l’asta del microfono, per poi iniziare a muovere il bacino.
«Che cosa sta facendo?» chiese Philip, perplesso.
«Cose» risposero gli altri tre al tavolo all’unisono.
Tony si strozzò e sputò il suo drink addosso agli altri, tentando di prendere aria.
Venti minuti dopo c’era l’ambulanza di fronte al locale.




 


p a n d a bitch.
EEEEEH MACARENA!
Sono morta, sono risorta, rimorirò di nuovo a breve. Yay.
L'html di sto capitolo non s'ha voleva da fare e vbb.
Mi sa che mi si sono pure crashate alcune immagini nei capitoli precedenti quindi fatemi sapere se non le vedere perché is a big big big problem, bruh.
Aggiornamenti nella mia vita? Ho tipo un fake, tipo. In realtà il mio real è un fake, anzi io sono un fake vivente; ciemmequ è questo ma sinceramente gradirei che per messaggi e quant'altro, scambi di opninioni, etc... mi scriveste sulla mia pagina Come una bestemmia., mentre per qualsiasi altro social network dove potete contattarmi e seguirmi, sono pandamito. Potete trovarmi anche nei link dei cuori nel mio profilo, anche se effettivamente dovrei aggiornarlo ma ok.
Che altro? Uh, sì, ora ho iniziato a pubblicare anche su Wattpad, anche se con più calma, quindi vi lascio il link. La copertina l'ho fatta randomissima ma mi è uscita pretty figa quindi bao.
Baci e panda, Mito.

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Capitolo 5
*** 005 - Letti che raccontano ***


Sentiva le palpebre pesanti, gli occhi che quasi gli bruciavano e un grave cerchio alla testa che continuava a stringersi. Sbatté a fatica le ciglia, assottigliando lo sguardo e cercando di nascondersi dalla luce che filtrava. Osservò il soffitto, che però a quanto pareva non era un soffitto, bensì la rete e il materasso del letto sopra di lui. Spostò leggermente lo sguardo verso destra, sempre puntandolo verso l’altro, e finalmente vide il vero soffitto bianco sporco, un po’ macchiato; pian piano iniziò a notare più dettagli mentre i suoi occhi cominciavano ad abituarsi, come i rivestimenti in legno delle pareti, dei separé color prugna che circondavano l’area dove si trovava e vari letti a castello vicino a lui e poi… una figura seduta sulle coperte del suo letto, indossava i pantaloni grigi di una tuta e una canotta nera macchiata di… Era tempera o salsa quella? Ah, ma che uomo pignolo a soffermarsi su certe cose, piuttosto, quando mise meglio a fuoco, notò i lunghi capelli mossi, la barba scura incolta e i grandi occhi azzurri che lo fissavano.
Fu preso dal panico. «Oh, no, sono a casa tua» emise Alexandre in un lamento, chiudendo gli occhi istintivamente in quella che sembrava sofferenza spirituale e lasciandosi sprofondare nuovamente nel cuscino su cui aveva dormito.
«Buongiorno, principessa» lo salutò ironicamente Anthony Orwell. Ok, forse neanche troppo ironicamente, ammettiamolo.
«Non mi piace per niente che sia a casa tua, vuol dire che non potevo tornare da me perché è successo qualcosa di brutto» sputò il biondo tutto d’un fiato e con una voce gravemente preoccupata, quasi a diventare più acuta.
Il maggiore roteò gli occhi. «Diciamo che sì, la storia è più o meno questa. Anche se sono offeso per il tuo continuo non voler restare a dormire qui.»
Alexandre aprì di nuovo gli occhi, incrociò le braccia al petto e- ok ma stava indossando una canotta di Tony? Si fermò un attimo per sentire se aveva dei pantaloni e sì, li aveva ed erano piuttosto comodi.
«Ti ho cambiato io» rispose il moro, anticipando i pensieri del ragazzo, che arrossì. Oddio ma che pudico. «I tuoi vestiti sono di là.»
Alexandre gli lanciò un’occhiata ancora più preoccupata. «Cos’è successo?»
«Oh, sì, ignoriamo pure i miei sentimenti sul tuo astio verso quest'appartamento» rispose l’Orwell, fingendosi offeso.
«Tony!» squittì involontariamente l’altro. «Lo sai che m’imbarazza dormire con la tua famiglia che mi fissa!»
«Ok, effettivamente è stato imbarazzante, ma solo perché eri ubriaco e non ti rendevi conto di quel che stavi facendo» confessò.
Alexandre impallidì. «Oh, cielo, cos’ho fatto? Anzi no, non dirmelo, non verrò mai più qui e non vedrò mai più la tua famiglia. Mi dispiace, ma i pranzi di Natale dovremmo farli separati.»
Tony cercò di interrompere quel flusso di coscienza. «Prima di tutto, ti sei ubriacato.»
«L’avevo immaginato» ammise il biondo.
Il maggiore gli lanciò un’occhiata accusatoria. «Ti avevo detto di non farlo perché so cosa ti succede dopo.»
Alexandre abbassò lo sguardo, sentendosi un po’ vulnerabile. «Volevo solo che non ti deprimessi al bancone e che stessi con me.»
Tony abbandonò la sua vecchia espressione per rimpiazzarla con un sorriso e uno sguardo da pesce lesso innamorato- mio dio vi prego censuratelo, non voglio vivere assieme a quest’uomo. «Se ti può consolare, quando ho capito che stavi degenerando, ho lasciato subito tutto per cercare di riportarti a casa.»
Il minore s’intristì ancor di più. «No, non mi consola.»
Tony alzò le spalle. «Ci ho provato.»
Alexandre sospirò. «Vai avanti.»
«Mi hai tenuto il broncio per un bel po’, devo ammetterlo.»
«Me lo aspettavo.»
«Abbiamo quasi litigato» continuò.
A queste parole il Grandpré sgranò gli occhi e tornò a preoccuparsi. «Che ti ho detto?» domandò allarmato.
Tony alzò nuovamente le spalle, stando bene a non incrociare lo sguardo dell’altro. «Niente d’importante.»
Alexandre indurì la sua espressione, cercando di guardarlo fisso negli occhi. «Anthony, che ti ho detto?» ripeté, scandendo bene le parole.
«Che… diciamo…» iniziò, mordendosi il labbro. Abbassò il capo, prendendo a giocherellare con le proprie dita per distrarsi. «Beh, all’inizio mi hai insultato- No, no, cioè in realtà mi hai detto cose giuste, tipo che non dovrei preoccuparmi troppo, o che non dovrei far finta di star bene, o… Insomma, le cose che mi dici sempre, solo… sai come fai quando ti arrabbi» concluse, cercando di sorridere rassicurante.
«Oh… in realtà pensavo peggio, per i miei standard» confessò il biondo, allentando un po’ la pressione sentita addosso. Ritornò a guardare di nuovo il proprio ragazzo, un po’ intristendosi e tornando serio. «Non avrei comunque dovuto perdere la calma, scusa.»
«E poi…» continuò Anthony, mordendosi nuovamente il labbro e torturandosi le mani. Alla fine perse la pazienza dal nervoso. «Dannazione, perché non puoi ricordarti le cose quando bevi?»
Alexandre corrugò le sopracciglia. «Adesso è colpa mia se mi dimentico le cose da ubriaco?»
«Beh, direi di sì! Com’è che io-»
Prontamente il minore si tappò le orecchie e si mise ad alzare la voce. «La la la la la, mi rifiuto di ascoltare!»
«Devi affrontare il tuo problema di non reggere l’alcol!» cercò di sovrastarlo col tono, ma quello non accennava a smettere, quindi Anthony per ripicca gli si buttò addosso e prese a fargli il solletico.
«Che vuoi?» chiese scorbutico il biondo quando si sentì attaccato. Venne schiacciato dal peso dell’altro, ritrovandosi immobilizzato e con Tony a peso morto sopra di lui. «Questo è sleale!» protestò.
«Zitto» brontolò il moro.
«Zitto tu, continua la storia» si lamentò l’altro.
«Come faccio a star zitto e continuare?»
Alexandre cercò di lanciargli l’ennesima occhiataccia, ma in quella posizione era difficile persino ruotare il capo. «Tuo fratello ha ancora la passione delle piante grasse fuori dalla finestra? Sto ponderando di vincere un record di tiro al bersaglio con la tua faccia.»
 
Ora ci prendiamo tutti un momento per parlare della passione di Philip Orwell di collezionare piante grasse. Prima di tutto: perché lo faceva? Era partito tutto un giorno in cui c’era il mercato; a Philip piaceva tantissimo girare tra le bancarelle, lo affascinavano. Sta di fatto che quel giorno arrivò alla bancarella del fioraio proprio in tempo per sentire due vrenzole – due donne di buona donna, in poche parole, ma riteniamo che il termine “vrenzole” sia più appropriato per esprimere i sentimenti di riguardo nei loro confronti – che si erano messe a commentare i fiori, iniziando così ad offendere le povere piantine grasse in esposizione. Esse ritenevano che quelle povere creature floreali fossero poco estetiche e che non aveva senso comprare qualcosa che non faceva altro che male con quelle spine e che, per giunta, era anche tozzo.
Philip Orwell ovviamente sentì il suo povero cuore infrangersi e, gonfiando le guance, prese posizione alla difesa delle piante grasse. Ne comprò una decina, che non abbiamo idea di come riuscì a portare a casa, ma probabilmente con molta difficoltà, poiché Theo dovette restare circa due ore e mezza a togliergli le spine dagli arti.
Da quel giorno, comunque, iniziò la campagna di difesa verso le piante grasse, dichiarando di non doverle giudicare solo dal loro peso e aspetto e che probabilmente si erano fatte crescere le spine perché in passato erano state ferite. Questa più o meno era la visione di Philip Orwell, che metteva le sue piantine in vasetti tutti affilati sul bancone, sperando che prendessero un po’ di sole.
E questa è più o meno la storia.
Ora torniamo a un’altra cosa che non ci interessa ma in realtà sì perché vogliamo il gossip.
 
«Sai, da quando mi frequenti hai più senso dell’umorismo. Sei terribile» dichiarò Anthony.
«Non sei neanche il primo che me lo dice. Vai avanti.»
«Non ti piacerà.»
«Perché prima mi stavo proprio divertendo» sbottò il minore con una smorfia.
«Vedi? Sei più spiritoso» fece notare, ma il biondo sotto di lui cercò di muoversi violentemente per dargli fastidio e toglierselo di torno. Anthony cercò di calmarlo e finì con l’avvinghiarsi ancor più a lui, abbracciandolo per immobilizzargli le braccia e appoggiando la testa lateralmente sul petto del più giovane per nascondere il sorrisetto che gli stava affiorando sulle labbra. Doveva ammettere che si stava un po’ divertendo. Si lasciò scappare un sospiro. «Va bene, va bene, potresti avermi detto di essere geloso e sono davvero felice di starti schiacciando così ti impedisco di scappare» confessò. Non ricevette nessuna risposta. Tony alzò il capo e poggiò il mento sul petto dell’altro per scrutarlo in viso, ma il biondo l’aveva distolto lateralmente per non essere guardato ed era completamente rosso in viso dall’imbarazzo. Tony sgranò gli occhi e aprì la bocca, non sapendo se doveva essere preoccupato o se semplicemente doveva scoppiare a ridere. «Xandre? Sei arrossito.»
«Vai avanti» ordinò prontamente l’interpellato, non scostando lo sguardo neanche di un millimetro con la paura di incrociare gli occhi del maggiore. «E non guardarmi così!» aggiunse, irritato, ma in realtà solo terribilmente in imbarazzo.
Anthony si trattenne dal ridere per non farlo veramente innervosire e approfittò della debolezza del ragazzo per sviare dai discorsi che lui stesso non voleva affrontare, sperando che l’altro nello stato corrente avrebbe chiuso un occhio.«Sorvolando ciò che ho detto io, che non vorrei davvero ripetere…»
«Se ti fa sentire meglio…» borbottò il biondo, non ancora capace di formulare una frase decente.
«E passiamo alla parte in cui mi hai baciato. No, cioè, ci siamo baciati. Tipo tanto. Tipo molto. Tipo… hai capito.»
Alexandre rimuginò, facendosi scappare una smorfia di approvazione. «Ok, questo mi piace di più.» Dopo qualche istante di silenzio in cui si rese conto che Anthony non osava continuare e che lo stava fissando negli occhi per vedere se stava bene, Xandre sgranò lo sguardo, intuendo cosa ciò volesse dire. «Oh, no, dimmi che non era in pubblico.»
«Era decisamente in pubblico.»
«Oh, no, dimmi che non ho cercato di saltarti addosso in pubblico!»
«Ehm… ho spostato la situazione?» tentennò il moro, preoccupato della reazione dell’altro. «… In bagno?»
Alexandre sbiancò. «Dimmi che non- no… oh, no, dimmi almeno che non l’abbiamo fatto in bagno!»
«Ehm…»
«Anthony!» lo chiamò quasi come un rimprovero, mentre la sua voce era diventata un sibilo acuto e il suo volto era completamente rosso accesso. Ma per tutti i Buddha grassi che pudico, come se Anthony non andasse in giro a raccontare tutte le volte che l’hanno fatto in tutti i laghi e in tutti i mari e in tutto il mondo e l’universo e sono quasi certo che questa citazione provenga da una delle canzoni malvagie che ascolta Peggy.
«Che c’è?» domandò il maggiore, non capendo come risolvere la situazione. «Non è mica colpa mia.»
«Dovevi fermarmi!» ribatté il biondo.
Tony scoppiò immediatamente a ridere, come se ciò che avesse detto Alexandre non avesse neanche un briciolo di senso. «Ok, detto sinceramente il rifiutarti non è mai stata una delle mie intenzioni da quando ti ho conosciuto, quindi se c’è un contratto sulla nostra relazione dove viene specificato, voglio chiamare il mio avvocato per ribattere.»
«Sono io il tuo avvocato, Anthony» gli ricordò il minore, contrariato.
«Ok, questa cosa sarà un bel problema semmai vorrai divorziare.»
All’improvviso una voce parlò.
«Tony, Xandre vuole il caffè? Tè? Latte?»
La testolina riccia e folta di Philip si affacciò dal separé e Anthony ringraziò ancora una volta di star schiacciando di peso il suo ragazzo perché era visibilmente impallidito, gli occhi gli si sgranarono e le labbra si serrarono.
«Droga?» chiese la voce di Wade, più lontana e di scherno.
«Qualcosa?» continuò Philip.
Tony fece un cenno con la mano al fratello minore, una muta richiesta se poteva lasciarli soli; Philip si ritirò timidamente, scomparendo di nuovo dietro il separé e a quel punto il maggiore tornò seriamente preoccupato a scrutare Alexandre.
«Non dirmi che di là c’è tutta la tua famiglia che mi ha ascoltato finora» lo pregò con un filo di voce, immobile come una mummia.
«“Di là”, è tipo la stessa stanza, c’è solo un separé» gli ricordò Tony, ma si rese conto che ciò non era per niente di aiuto. «Ti consola se ti dico che non siamo tutta la gang del bosco al completo?»
«Buongiornissimo!» trillò Wade, ancora sarcastico, dall’altra parte della stanza.
Alexandre fissava il soffitto, pupille dilatate e corpo rigido, non osava muoversi, come se si stesse fingendo morto, tipo gli opossum per non farsi attaccare dai predatori. Credo fossero gli opossum. Sinceramente non sono un esperto di animali.
Tony storse il naso e roteò gli occhi, ma poi un sorrisetto malizioso gli affiorò all’angolo della bocca e ne approfittò per lasciare un bacio sulla canotta che Xandre indossava, all’altezza del cuore. Poggiò la testa in quel punto per rilassarsi e in qualche modo il biondo s’irrigidì ancor di più, s’impose di mantenere comunque il sangue freddo, ma da una breve occhiata e dal sorriso ancor più ampio sulle labbra di Tony sapeva che il moro poteva sentire chiaramente il battito accelerato del suo cuore.
«Sai, se vuoi scappare, che sia dalla porta o dalla finestra, dovrai comunque affrontarli. Preferirei comunque che scegliessi la porta, sebbene io sia assolutamente certo che potresti volare via dal quarto piano se lo volessi» lo avvertì il maggiore, stringendo un po’ di più la presa dell’abbraccio.
«Posso sempre sfondare il muro, ho saputo che ultimamente qui va di moda» commentò Alexandre.
L’altro si sollevò immediatamente col braccio ancora buono, guardandolo in volto pieno di meraviglia. «Te l’ho detto che sei diventato più spiritoso da quando mi frequenti!»
«Smettila di frignare Xandre» arrivò forte e chiara la voce di Wade dall’altra parte del separé, «stare con mio fratello ti ha rammollito. Vieni a sentire alcune storie di ieri, ti assicuro che sono divertenti.»
«Ti hanno fatto molti complimenti per come hai cantato e ballato, sei davvero bravo!» continuò la voce di Philip, che sembrava sincero e felice.
Alexandre sgranò gli occhi e fissò Tony in una muta richiesta di urgenti spiegazioni e il moro si sentì un po’ titubante, sperando che il proprio ragazzo non desse ancora di matto. «Ok, questo è vero, Ira voleva proporre al mio capo di assumerti per qualche serata.»
«Almeno ti ricordi di quando l’ambulanza è venuta per Anthony?» domandò Philip.
Ora l’espressione di Alexandre divenne ancora più preoccupata e i suoi occhi erano ancora più sgranati e interrogativi verso il moro, che si sentiva colto nel sacco, ma che purtroppo era consapevole di non poter gestire i propri fratelli.
«Me l’hanno raccontata e ti assicuro che la storia è meno scandalosa delle cose che hai detto quando siete tornati qui ieri sera» questa invece era la voce di Theodore. «E sì, solitamente sparliamo di voi quando non ci siete.»
Tony grugnì, contrariato. «In realtà anche quando ci siamo, non avete un minimo di tatto.»
«Bisogna sempre essere sinceri, non è colpa mia se l’umanità fa schifo» rispose il più giovane degli Orwell.
Tony sospirò, sollevandosi dal corpo di Alexandre e tentando di mettersi in piedi. «Alziamoci» gli propose, ma il biondo continuò a guardarlo e a rimanere immobile nel letto. Il maggiore sospirò un’altra volta e gli tese una mano per aiutarlo. «Giuro solennemente che proverò con tutte le mie forze a non farti mangiare vivo da loro.»
Alexandre, titubante, la accettò.
 
Soffitto in testa: presente. Letto: sicuramente non il suo perché non vi era nessun animale di fianco a lui. Faccia cattiva e molto arrabbiata di Becky Sanchez che lo fissava a braccia conserte: ok, forse quella era rivolta a lui.
I lunghi capelli castani di Becky erano legati in uno chignon, ma la tuta sportiva che indossava suggeriva che non stava andando nel ristorante dove lavorava; gli occhi scuri un po’ a mandorla erano taglienti e contrariati, ma sul suo viso tondeggiante conferivano un tono quasi buffo, mentre la sua bocca carnosa era storta in una smorfia di disapprovazione.
«Qualcosa mi dice che è successo un qualcosa e che c’è un quaranta percento che io c’entri un altro qualcosa» queste furono le prime parole di Rafael Perez quando si svegliò il nove ottobre duemilasedici.
«Novantasette percento» precisò Becky.
«Su, hermana, non esagerare.»
«A parte il fatto che sono tornata a casa e ti ho trovato in coma nel mio letto e ho dovuto dormire sul divano?» lo informò la compagna ispanica.
Rafael richiuse la bocca per qualche istante, cercando qualche scusa con cui sviare il discorso; alla fine rinunciò a trovarla. «Ok, forse un settanta percento te lo concedo.»
«Io ho dormito nel mio letto annunciò Cris, il nipote riccioluto di Becky a cui ogni tanto Rafael badava e che ora se ne stava in piedi accanto alla zia, guardando anch’esso l’uomo che aveva occupato il loro appartamento.
Il maggiore s’intenerì e sorrise alle sue parole. «Perché non puoi fare come lui e vedere il lato positivo delle cose?»
Becky emise un grugnito, roteando gli occhi. «Era sveglio alle tre di notte, stava mangiando dei crackers e ha finito il succo ai mirtilli» disse con tono di rimprovero.
«Uhm, no, penso che il succo sia colpa mia» confessò Rafael, pensieroso. Becky gli lanciò un’occhiata infuocata e mise i pugni sui fianchi. «Ehi, almeno i crackers non fanno male!» si affrettò ad aggiungere.
A un tratto la porta dell’appartamento si aprì e una testolina bionda sporse, guardandosi prima attorno e poi, individuandoli, sorrise a trentadue denti ed entrò, chiudendosi la porta alle spalle.
«Ehi, ciao!» salutò, la voce decisamente troppo acuta per essere ancora mattina.
«E quella chi è?» domandò Rafael, corrugando la fronte.
La ragazza aveva due grandi occhi azzurri e magnetici, chiara, con i lineamenti più squadrati rispetto Becky, una bocca grande e i capelli biondi e lisci ora racchiusi in una morbida coda bassa; indossava shorts, canotta e una felpa, ma la prima cosa che Rafael notò fu che decisamente quella tipa non era una nuova vicina né aveva mai abitato nel loro condominio perché alzava di gran lunga gli standard di bellezza di quella topaia per quanto era gnocca. Lo dico in tutta franchezza: non era bella, era proprio gnocca.
«Una mia collega» rispose Becky molto sbrigativa.
La biondina si affrettò a raggiungerli. «Oh, io sono Parker!» trillò, avvicinandosi al letto in cui Rafael era ancora disteso e stringendogli energicamente la mano. «È un piacere conoscerti da sveglio e non mentre tento di spostarti inutilmente dal letto.»
Il moro corrispose a quella stretta, ma le parole della ragazza lo lasciarono un po’ confuso.
Becky gli venne in aiuto, ma la sua espressione esprimeva tutto il disappunto che stava provando nei suoi confronti. «Ho scoperto due cose che già sapevo: non sei leggero e hai il sonno pesante.»
Rafael spalancò la bocca, sorpreso. «Hai cercato di spostarmi, davvero? Ti chiedo scusa, amiga» si rivolse a Parker, sinceramente dispiaciuto per l’accaduto. Doveva esser ritornato dalla serata e, una volta messo Cris a letto, probabilmente non si era accorto di non essere nel suo appartamento.
Quella scrollò le spalle, sorridente. «Non ti preoccupare. Volevo dormire con Becky e invece ho fatto nuove amicizie. Il tuo amico peloso è molto carino. Ah, sì, anche il tuo coinquilino è divertente» disse, probabilmente parlando di Ernesto, il suo cane, e di Marvyn, il suo coinquilino. Ci teniamo sempre a precisarlo perché spesso Marvyn viene confuso per il cane. Poi la bionda si rivolse alla sua collega: «Becky, posso usare il bagno? Il tizio che odorava di pizze diceva che non potevo entrare nel loro perché ci aveva chiuso dentro una tartaruga. Pensavo stesse usando una scusa ma poi ho sentito qualcosa che tentava di mordere la porta dall’interno.»
Becky scambiò un’occhiata con Rafael, sapendo perfettamente di cosa la ragazza stesse parlando.
Un giorno vi racconteremo di Juanita, la tartaruga, ma questo non ci sembra il momento più corretto perché toglieremmo tempo alla narrazione e per una storia come quella di Juanita dovremmo prenderci il giusto spazio per poter riportare fedelmente la pericolosità di quell’essere.
«Fai pure, ma ricorda che per la doccia devi andare sotto» rispose l’ispanica.
Come abbiamo già accennato in precedenza, tutto il condominio era organizzato in maniera alquanto bizzarra; questo perché si vociferava che prima lì vi fossero solo studi, uffici o magazzini, poi un giorno l’attuale proprietario vinse l’intera struttura a una partita di poker e decise di realizzarne degli appartamenti, infischiandosene dei sanitari, giusto per ricavarne qualcosa. O almeno così narra la leggenda. Ecco perché ogni appartamento aveva un’unica e sola – ma grande – stanza, che, sì, aveva un piano cucina e, sì, aveva anche una piccola porticina sempre su un angolo che nascondeva un bagno così piccolo che non era neanche di un metro quadro: un gabinetto, un rubinetto, se si era fortunati uno specchio e una credenza e basta. Finito tutto lì. Per le docce bisognava andare nel piano sottoterra (se l’ascensore avesse funzionato, si sarebbe dovuto premere il meno uno, ma, appunto, non funzionava, quindi questa è un’informazione inutile), dove vi era una stanza piena di lavatrici per la lavanderia e poi, in quella accanto, varie docce tutte affilate, come in uno spogliatoio.
«Mi dimentico sempre che casa tua è strana» commentò Parker, un po’ divertita, mentre si dirigeva verso la porta del piccolo bagno. Quando la aprì, però, rimase immobile lì davanti, senza entrare. «Ehm… Becky, perché c’è un cadavere nel tuo bagno?» domandò.
La diretta interessata scattò la testa nella sua direzione, allarmata. «Cos- no, non è un cadavere! È…»
«Pensavo avessi smesso di nascondere cadaveri nel bagno» la interruppe Rafael, invece piuttosto tranquillo.
«Non è un cadavere!» gridò Becky esasperata. «È la tizia mora del numero otto e volevo sapere da te perché è nel mio appartamento e ha vomitato nel mio bagno!»
 
Rafael tentò di sforzarsi per collegare quelle informazioni, ma in quel momento non riusciva a connettere molto bene i pezzi risalenti alla sera precedente.
«È troppo presto per rispondere a tali domande, non ricordo neanche qual è l’appartamento numero otto» rispose.
«Vorrà dire che prendo in prestito un po’ di cose e ti aspetto sotto» concluse Parker, svicolando velocemente verso la porta dall’appartamento, per uscire. «Ciao!»
«Ciao, è stato un piacere!» salutò Rafael in risposta, sorridendo cordialmente e agitando una mano mentre l’altra usciva. Quando la porta si richiuse, la sua espressione divenne seria e si concentrò sull’amica. «Non sapevo fossi lesbica.»
Becky incrociò nuovamente le braccia al petto e lo guardò scocciata. «Sei fuori strada, lavoriamo al ristorante assieme.»
«Sei una di quelle che ha la politica di non andare a letto con i colleghi?» domandò il moro.
Becky si passò una mano sul viso per evitare di commettere un omicidio nel suo appartamento. «Parker ha dovuto dormire nel tuo letto nel tuo appartamento perché tu hai occupato il mio ed io non potevo dormire senza tenere d’occhio Cris e quindi sono finita a dormire sul mio divano nel mio appartamento!»
Troppi aggettivi possessivi.
Rafael mise le mani avanti, intimandola di calmarsi. «Sento una certa ostilità ne- No, aspetta, questo vuol dire che Marvyn ha avuto una serata più fortunata di me con quella?» domandò tutto a un tratto, come risvegliato alla realtà. Sgranò gli occhi e increspò le sopracciglia, quasi scioccato. «Marvyn non ha mai serate fortunate, mi rifiuto di crederlo! Non fraintendermi, amo quel ragazzo, in pratica siamo sposati, mi campa lui e stiamo parlando di un lattaio e un pizzettaro.»
«Da quando esiste la parola “pizzettaro”?» domandò la ragazza, alzando un sopracciglio.
«A me piace» s’intromise Cris.
Rafael lo indicò, sorridendo. «Visto? A Cris piace, quindi ora esiste.»
Becky continuò a fissarlo scettica e decise che era meglio ignorarlo. «Su, andiamo Cris» lo intimò, prendendogli una mano. Poi lanciò nuovamente un’occhiata truce a Rafael. «E tu metti in ordine prima di andartene!»
«È il tuo giorno libero?» chiese il moro.
Becky fece una smorfia. «Raf, ho tre lavori. Non ho mai un giorno libero.» Sbuffò, per poi continuare: «Tengo un corso di danza qui vicino, nella palestra di un mio amico.»
«Ah, ricordo» disse l’uomo, accarezzandosi il mento, pensieroso.
«Così non ho bisogno di affidare Cris a qualcuno, lo lasciano entrare e se sta in disparte, non dà fastidio.»
«Mi piace guardare le ragazze coi vestiti» confessò il bambino.
Rafael esplose in una fragorosa risata, quasi ricadendo sul letto. «Ragazzo mio, io ti adoro!»
Il bambino riccioluto fece spallucce, suonando però ancora innocente. «Ricambio, ma non sei il mio tipo.»
Rafael tentò di ricomporsi e tossì un paio di volte prima di parlare. «No, giusto. Aspetta ancora un anno prima di darti da fare, mentre per me magari facciamo ancora una ventina.»
«Sai, come padre saresti un pessimo esempio» fece notare Becky, quasi rimproverandolo.
«E tu come madre sei un discreto esempio» rispose l’altro noncurante, lanciandogli una frecciatina.
Becky gonfiò le guance, sentitasi punta nell’orgoglio. «Non sono sua madre!» si affrettò a precisare.
«Ed io non sono suo padre!» ribatté il moro. «Ma che ti piaccia o no, siamo gli esempi più vicini che abbia.»
Becky ci pensò su qualche istante, poi si voltò verso il nipote. «Cris, mi dispiace dirtelo, ma il tuo futuro è già spacciato in partenza.»
«Spacciato nel senso che probabilmente ti metterai a vendere erba tra qualche anno» precisò Rafael.
«Sì, esatto, però non dargli ascolto perché stiamo ancora fingendo di avere speranze nei giovani» gli diede corda Becky.
«Erba nel senso di fruttivendolo. Guarda che serve sempre» puntualizzò il moro, fingendosi (?) serio.
La castana chiuse il discorso con un gesto sbrigativo della mano. «Certo, certo, intanto iniziati ad alzare che il tuo coinquilino sotto sente la tua mancanza.»
«Quali dei tanti animali che vivono con me?»
«Quello che si spaccia per un umano.»
«Farò finta che tu stia parlando della tartaruga.»
«E chi fa finta» rispose la ragazza. Prendendo la mano di Cris e una borsa, si avviò verso l’uscita, parlando senza neanche voltarsi verso l’interessato: «Ricordati che domani voglio due bottiglie di latte per colpa del succo ai mirtilli. Ci vediamo!»
«Il latte…» ripeté il moro, mentre una preoccupazione finalmente riaffiorò nella sua mente. «Il latte! Che ore sono?»
Becky si assicurò di avere le chiavi di casa e aprì la porta. «Tranquillo, il vecchietto del numero cinque da cui lo prendi l’ha dato al tuo cane che l’ha distribuito. È meglio addestrato di te.»
Era vero. Il vecchietto dell’appartamento numero cinque di cui stiamo parlando, il cui nome è Pierino, era ovvero il proprietario di una mucca che teneva in campagna, la quale era la principale fonte di lavoro dei due: avevano messo a disposizione una bottiglia di latte giornaliera a un prezzo minore dei supermercati, così ogni mattina Rafael – e il suo bovaro Ernesto – distribuiva le bottiglie prima agli appartamenti dell’edificio e dopo di che andava in giro per il quartiere nelle case di chi aveva richiesto il servizio. I soldi venivano dati in anticipo per l’abbonamento e così Rafael era felice per aver posto un prezzo migliore rispetto alle aziende multinazionali e invece Pierino era felice per il gruzzoletto di soldi guadagnato senza molta fatica. Quel giorno, però, con tutto quello che era successo la sera precedente, Ernesto, non trovando il proprio padrone, da bravo compagno leale e intelligente, era uscito di casa ed era andato a prendere le bottiglie di latte da distribuire tutto da solo.
«Questo si sapeva. Be’, menomale. Allora divertitevi con le ballerine!»
«Ciao!» gridarono i due Sanchez prima di chiudersi la porta alle spalle.
 
Ritorniamo ora all’appartamento numero dodici del quarto piano.
Orwell presenti: Wade, Anthony, Philip e Theodore.
Grandpré presenti: Alexandre.
Erano tutti seduti e disposti attorno al piano della cucina che fungeva da tavolo, Alexandre e Wade opposti, Tony vicino al suo ragazzo e Theo di fianco a capo tavola – se così si poteva definire – mentre tutti rifiutavano il tè di Philip per rifocillarsi di caffè e il quintogenito degli Orwell, storcendo un po’ il naso, si versò fieramente il proprio tè nella tazza che Tony gli aveva appositamente dipinto per rimpiazzare quella rotta giorni prima. Prima di sedersi andò verso le ciotole dei gatti e, prendendo i croccantini da un’anta della cucina, le riempì, accarezzando il pelo lucido e nero di Ragnarock non appena si avvicinò al mangime, richiamato dal suono tintinnante dei bocconcini a contatto con le scodelle metalliche. Dopo di che, quando anche il Ferale Magnus si avvicinò, prese la palla di pelo bianca in braccio e gli posò un bacio sul capo prima di rilasciarlo a terra.
Wade osservò la scena come se fosse spaventato dal Ferale Magnus e detto sinceramente faceva bene, ma fu Theo a parlare, con un’espressione di pure disgusto in volto: «Vorrei farti notare come sia stato poco igienico e la tua non necessità di andarti a disinfettare immediatamente mi lascia perplesso.»
Phil roteò gli occhi, sbuffando. «Non sono mica bestie, Theo.»
«Potrei obiettare e probabilmente lo farò» rispose il minore.
Phil si apprestò a prendere dei dolcetti alla cannella da offrire, ma Xandre, sebbene un po’ in imbarazzo, lo fermò. «Scusami ma preferirei che non toccassi nulla di commestibile dopo aver accarezzato i gatti» confessò, rientrando un po’ la testa nelle spalle, sperando di non aver ferito i sentimenti dell’altro.
Il moro purtroppo s’intristì e andò a sedersi tra Wade e Theo, col capo chino sulla propria tazza. Xandre lanciò un’occhiata preoccupata a Tony, ma l’altro fece un gesto sbrigativo con la mano, intimandogli di lasciar perdere.
«Bene, mio caro Xanax» iniziò Wade, solenne e con un sorriso malizioso in volto.
«Ti prego non chiamarmi così» lo interruppe l’unico biondo.
Wade lo ignorò. «Dobbiamo ricapitolare cos’è successo ieri sera per quanto sia possibile dopo tutto quello che abbiamo bevuto e quindi abbiamo bisogno di fare una bella lista!»
 
Lista degli avvenimenti più importanti della serata karaoke del 09/10/2016, a cura di Wade Orwell, con vari interventi della gang del bosco:
Ora, sappiamo tutti che l’ambulanza era arrivata di fronte al locale per rianimare Tony, che è dovuto stare circa una buona mezz’ora con una bombola d’ossigeno attaccata; nel frattempo i partecipanti della festa si stavano godendo la versione umana e originale di Ken cantare Barbie Girl ignorando tutti i riferimenti sessuali al suo interno.
 
«Quali riferimenti sessuali?» domandò Xandre.
«Appunto» fece Wade, sghignazzando.
«A parte che non canterei mai qualcosa che ha come tema una Barbie!» protestò il biondo.
«E invece» intervenne Tony.
«Che cos’hai contro le Barbie?» chiese Philip, contrariato.
«Tutto molto bello ma torniamo alla mia lista» continuò Wade.
 
Dopo di che quelli dell’ambulanza furono trascinati dentro a cantare e ballare.
Sappiamo anche del tentato stupro consenziente da parte di Alexandre su Tony, sebbene Alexandre si sia rifiutato di dare i dettagli che in seguito sarebbero stati chiesti a Tony, che tanto non riesce a star zitto e canterà tutto.
Arrivati alla gara di shots, possiamo affermare che andò avanti per molto e a turno i partecipanti si spogliarono e si offrirono come ripiano per servirsi di vari tequila, sale e limone. A vincere fu Heather, quella del quinto piano, ma Wade ci tenne a mettere per iscritto che vinse solamente per sua benevolenza, perché far perdere le signore presenti sarebbe stato poco galante. Certo, Wade, ci crediamo tutti.
Sappiamo anche che la già citata Heather si strusciò con un certo infermiere per gran parte della serata fino a che non sparirono entrambi, a questo punto vi sono varie opzioni che teniamo a far presenti:
  • Ricordiamo la possibile esistenza dei rapimenti alieni;
  • Uno dei due è probabilmente morto, tanto i serial killer esistono ancora oggi;
  • Philip Orwell ci tenne a censurare in seguito altri possibili opzioni perché riteneva che la cosa stesse diventando troppo cruda.
Jaden Reed del quinto piano reclutò quella che reputiamo una delle coinquiline dell’appartamento numero otto, che fu la vera vincitrice della gara di alcolici, peccato che si fosse conclusa prima e non poté ufficializzare il suo titolo.
Siamo sicuri che a un tratto il nipote di Becky Sanchez salì sul palco per esibirsi in un karaoke e tutta la sala lo acclamò e trasportò sulle spalle. C’è anche la possibilità che si fosse rubato una bottiglia dal bancone, Tony si segnò un promemoria per andare a controllare.
Ci fu una gara rap in spagnolo che quasi finì in una rissa e a quel punto i tizi dell’ambulanza si ricordarono di aver lasciato il loro veicolo in mezzo alla strada.
L’ambulanza era sparita e per tutta la serata non si seppe più che fine avesse fatto.
 
Improvvisamente la porta si spalancò e Wade pregò tutte le religioni affinché non si fosse rotta nuovamente. Peggy Orwell entrò come una furia dentro l’appartamento, imbronciata.
«Non ci posso credere!» sbraitò, iniziando a camminare su e giù per la stanza.
«Mi sta venendo il mal di testa» disse Philip.
«Sai cos’ha fatto tuo fratello?» chiese in collera a nessuno in particolare.
«Che è anche tuo fratello, da quel che so» le ricordò Tony.
Peggy finalmente si fermò, ma in compenso prese a gesticolare violentemente. «Ieri sera ci stavo provando col barista per farmi dare da bere gratis e-»
«Ok dillo che hai fatto in modo che mi rompessi il braccio apposta perché così almeno potevi provarci col mio rimpiazzo» brontolò Tony.
«Ti rendi conto che Ira vive nel condominio da tipo mesi, vero?» s’intromise Theo.
Peggy alzò un sopracciglio. «Chi diavolo è Ira?»
«Il barista, Peggy. Quello che mi sostituisce» rispose Tony, incredulo.
«Come si vede che stai sempre a casa» aggiunse Theo e tutti sghignazzarono.
La corvina ci pensò qualche istante, poi decise che non valeva il suo tempo e tornò a gesticolare. «Chi se e frega. Comunque sia, dovevi per forza scegliere un sostituto gay?»
Tony corrugò la fronte, perplesso. «Ira è gay?» domandò, incredulo. «E comunque tengo a precisare anche la mia predilezione anche verso le belle ragazze.»
Alexandre fece palesemente finta di non sentire e di essere improvvisamente attratto dai dolcetti alla cannella di Philip.
«A quanto pare sì, visto che voleva palesemente provarci con Robin» informò. «Quello stronzo però l’ha liquidato per andarsene con… quante ne erano? Due? Tre ragazze? E mi ha lasciata sola!» spiegò, alzando la voce di un’ottava arrivata all’ultima frase e battendo un piede per terra. «Così ho dovuto per forza trovare qualche sostituto che mi pagasse e alla fine ho trovato questo tizio che penso fosse un infermiere e che ci ha dato un passaggio con l’ambulanza. Mi voleva portare a casa sua, ma come se non bastasse quello stronzo di Robin si imbuca con le altre oche per farsi accompagnare!»
«Peggy cara, io non vorrei allarmarti, ma non penso che quello fosse un infermiere perché tutti quelli chiamati a soccorrere Tony poi sono venuti con noi a farsi una gara di shots e sono rimasti a piedi senza ambulanza» la informò Wade.
Peggy assottigliò lo sguardo e storse la bocca. «Be’, allora non ho la minima idea di chi fosse, ma tanto non importa, perché questo tizio a un certo punto vomita mentre guida e tipo che schifo?! Ci siamo dovuti fermare e questo qui scende a casa sua e ovviamente non andavo con lui neanche morta, così Robin ha dovuto guidare l’ambulanza fino a casa di una di quelle tizie e non vi dico cosa odiavo di più tra la loro voce e la sirena che avevano acceso. E ho dovuto dormire a casa con loro! Mentre chissà cosa facevano nell’altra stanza! Che schifo!»
Theodore fece una smorfia di disgusto, sentendo immediatamente il bisogno di buttarsi dentro una lavatrice. «E sei tornata a piedi?» chiese, sperando di allontanare il discorso.
Peggy sbuffò. «Certo che no. Ho ripreso l’ambulanza e che Robin si attaccasse.»
Alexandre per poco non si strozzò col dolce che stava mangiando e si voltò di scatto verso la ragazza, preoccupato. «C’è un’ambulanza rubata qui sotto?»
«Ma no» Peggy lo rassicurò, facendo spallucce e mettendo le braccia conserte. «Quando sono scesa è passato un tizio che mi ha chiesto quanto volevo per vendergliela. Ho sparato un numero, ho incassato i soldi e lui se l’è portata via.»
A Wade s’illuminarono gli occhi e si sporse un po’ sul piano. «E quanto ti sei fatta dare?»
La quartogenita gli lanciò un’occhiataccia. «Non sono affari tuoi! Sono io quella che ha passato una serata di merda, mi merito una ricompensa!» esclamò, andandosi a buttare sul divano. «Phil, vieni qua, devi aiutarmi a scegliere i filtri per i miei selfie mentre guido l’ambulanza.»
 
Quando Rafael si alzò dal letto per andare a pisciare, si ricordò finalmente di Tempest Brennan, la quale dormiva distesa sul pavimento del bagno decisamente non suo, abbracciata al gabinetto. E ci teniamo a precisare che se ne ricordò solo perché la vide e perché la natura lo aveva chiamato.
La osservò per qualche istante, indeciso sul da farsi; le punzecchiò un braccio per vedere se era ancora viva. Quella mugugnò cose incomprensibili, ma era ancora viva, oppure si stava trasformando in uno zombie.
Rafael si grattò la nuca, storcendo il muso. «E ora che me ne faccio di te?»



 


p a n d a bitch.
UE' BEI UAGLIONI COME STATE. IO MALE. ADDIO.
Bene, mi vado a fare un viaggio, quindi come regalo vi lascio questo capitolo.
Non ho la minima idea di cosa dire. Era Rafael a fare il rap spagnolo, sì
Cosa ne sarà di Tempest? Lo scopriremo? Può darsi.
PIUTTOSTO AMMIRATE BECKY, GUYS.
E il Ferale Magnus, ma quello sempre.
Ricordo che potete venire in pagina Come una bestemmia. per parlarmi di tutto quello che volete; mentre per qualsiasi altro social network dove potete contattarmi e seguirmi, sono pandamito. Potete trovarmi anche nei link dei cuori nel mio profilo, anche se effettivamente dovrei aggiornarlo ma ok.
Questo link invece è per seguire la storia su wattpad e per il resto... boh, bao, volete essere aggiornati sulla mia vita?
Sì? No? Eccovi la mia vita: università, lavoro, ansia & stress. Fine.
Baci e panda, Mito. Sperando di sopravvivere.

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Capitolo 6
*** 006 - Sogno di una notte non di mezza estate ***


«Professoressa Trintignant! Professoressa Trintignant! Theodore sta dormendo!» trillò una voce.
Il suono diede enormemente fastidio a Theodore quando raggiunse le sue orecchie, tanto che strizzò gli occhi, ma si accorse da questo gesto che li aveva chiusi e che un attimo prima stava dormendo, visto che non ricordava cosa stesse facendo. Certo, alcuni di voi potranno dire che spesso non ricordano le cose o che sognano a occhi aperti, ma quello non era il caso di Theodore.
Aprì gli occhi quasi dolorosamente e realizzò di avere la testa poggiata su qualcosa di duro che sembrava essere un banco. Alzò il busto e si guardò intorno: era infatti, apparentemente, in una tipica aula liceale, in cui era già di norma costretto a passare la maggior parte del suo tempo. Attorno a lui i banchi erano occupati da altri studenti che avevano un qualcosa di familiare.
Di fronte a lui c’era la cattedra su cui era appoggiata quella che doveva essere la professoressa: a occhio e croce piuttosto giovane, lunghi capelli biondi legati in alto, gli occhi grandi e verdi sembravano persi nei suoi ricordi, stile anni settanta. Era una bella donna, peccato che Theodore Orwell non provasse il benché minimo interesse a riguardo. Quella sembrò ignorare totalmente la voce che Theodore aveva udito prima e poté intuire che essa apparteneva a una ragazza al primo banco che era voltata verso di lui e digrignava i denti, come se infastidita dal fatto che non fosse stato richiamato; aveva i lunghi capelli castani, un po’ crespi, con la frangia, e gli occhi scuri che lo fissavano. Theo corrugò la fronte perché quella ragazza era palesemente Tempest Brennan, la tizia dell’appartamento numero otto al terzo piano.
Che diavolo ci faceva Tempest in classe con lui?
Si voltò verso gli altri suoi “compagni” e quasi gli venne un colpo: al banco di fianco a lui c’era sua sorella Peggy, che però sembrava ringiovanita di qualche anno. Ma era decisamente lei e Theodore avrebbe potuto riconoscerla in qualsiasi caso per lo smartphone in mano con tanto di cover glitterata.
«Perché diavolo sei in classe mia?» domandò, un po’ perplesso e quasi disgustato.
Sua sorella si fermò per un attimo da qualsiasi cosa stesse facendo col cellulare e si voltò verso di lui, sfoggiando un’espressione schifata di rimando e Theodore non poté che essere ancora più sicuro che fosse lei.
«Sto aspettando di prendere un diploma per andarmene» ripose e il minore degli Orwell non poté che concordare mentalmente.
Il suo sguardo poi si posò qualche banco più in là, dove una testolina bionda spiccava tra tutti, appartenente un ragazzo intento a prendere appunti senza tregua. Dietro di lui un ragazzo dai capelli corvini legati indietro in una crocchia e gli occhi azzurri, che stava sorridendo maliziosamente, divertendosi nel dare dei piccoli calci alla sedia del biondo davanti per dargli fastidio. Theodore sussultò e sgranò gli occhi perché non c’era alcun dubbio: quel ragazzino moro era suo fratello Anthony, tale e quale alle foto nei suoi anni da liceale. Era intuibile quindi chi fosse il biondo dall’aria familiare che occupava il banco di fronte e, alla visione di quei due che facevano gli innamorati anche lì, Theodore quasi sentì i conati di vomito salirgli in gola.
Alexandre con aria scocciata si voltò di scatto all’ennesimo calcio. «Smettila, è una lezione importante!»
Spoiler: non lo era.
La professoressa Trintignant stava parlando delle sue avventure giovanili sin da quando Theodore si era svegliato e il giovane si chiedeva da quanto stesse continuando.
Tony roteò gli occhi e il suo sorriso divenne ancor più grande. «Dimmi che non stai seriamente prendendo appunti su quella volta in cui fece paracadutismo sulle alpi francesi perché potrei prenderti in giro per il resto della mia vita» lo avvertì.
Alexandre tornò al suo posto, schiena dritta sulla sedia e sguardo basso sul suo quaderno. «Sta’ zitto» sussurrò, ma le sue gote arrossirono. Con la mano sinistra afferrò quella a penzoloni di Tony che stava dietro di lui e rimase così, mentre con la destra teneva la penna. Tony non disse nulla, appoggiò il gomito destro sul banco e il mento sulla mano, mentre con la sinistra stringeva quella del biondo. Prediligendo la sinistra, Tony aveva ancor meno voglia di interessarsi al proprio quaderno, ma andava bene così, sebbene l’espressione incantata sul suo volto fosse estremamente sdolcinata e da voltastomaco.
Fu a quel punto che una voce si immischiò nel discorso, riportando Theo alla realtà. «Io credo che la lezione di Alphie sia molto interessante.»
Theo si voltò immediatamente dietro di lui, da dove era arrivata la voce, e al banco alle sue spalle vide suo fratello Philip, che, per contraddizione, invece di prendere appunti stava scarabocchiando cose indefinite sul suo quaderno.
Peggy si sporse dal suo posto per avvicinarsi al penultimo dei fratelli, mostrandogli il suo cellulare con la pagina aperta su instagram. «Ok, quale filtro ti sembra migliore?»
Theo invece si concentrò su ciò che aveva detto il fratello un attimo prima. Alphie. Non gli era nuovo, quel nome, e presto ricordò che era il diminutivo con cui Philip era solito chiamare Alphonsine, la gattara zitella del numero quindici al quinto piano. In effetti, ora che le dava nuovamente un’occhiata, il suo aspetto corrispondeva ad alcune foto di lei da giovane che la donna mostrava a chiunque passasse. Inoltre, se fosse stata davvero lei, si sarebbe spiegato il perché dei lunghi sproloqui sulla sua giovinezza, che effettivamente erano una caratteristica peculiare della vecchia signorina Alphonsine Trintignant. Si accorse anche di un dettaglio che confermava la sua identità che prima non aveva – stranamente – notato: la cattedra era piena di gatti e cani e sulla sedia vi era una capretta.
La campanella suonò e gli altri fuggirono via. Theodore non sapeva che fare. Gli sembrava tutto così strano, le persone del suo condominio nella sua classe e con età inesatte. Cosa diavolo stava succedendo? Era sempre stato un tipo molto logico e che si atteneva solo ai fatti dimostrabili e quella situazione lo infastidiva non poco; doveva trovare una soluzione per ristabilire l’equilibrio della sua sanità mentale o sarebbe certamente impazzito.
Guardò il quaderno aperto sul banco e si rese conto di non riuscire a leggere ciò che vi era scritto. Lo chiuse e lo ripose dello zaino appeso dietro la sedia, quando sentì qualcuno avvicinarsi. Alzò lo sguardo e vide una ragazzina dai lunghi capelli castani e gli occhi del medesimo colore che teneva per mano un ragazzo ricciolino sempre scuro di capelli e occhi. Entrambi gli sorridevano e a Theodore faceva male il solo guardarli perché... come diavolo facevano a fare dei sorrisi così grandi, non avevano male agli zigomi?
Cercò di trovare dei nomi da associare a quei volti così freschi e giovanili e intuì fossero Jaden Reed e il suo ragazzo storico, Roy Jones, che occupavano l’appartamento dal numero indecifrabile al quinto piano. Teoricamente doveva essere il numero sedici, ma per qualche motivo per cui nessuno sapeva dare una spiegazione sensata, i due avevano cancellato il numero per dipingerci invece un diciassette. Anche per questo spesso la loro posta andava persa. Erano anche gli occupanti del numero tredici, l’appartamento sottostante, nonché adiacente a quello degli Orwell. Sì, esatto, proprio i proprietari del famoso e presunto lanciafiamme di qualche capitolo fa.
Jaden aprì bocca per prima: «Ehi, Theo, stasera organizziamo un cineforum, vuoi-»
«No» tagliò corto l’interrogato, lanciando loro un’occhiata truce.
«Ma stavamo pensando di vedere Shining» tentò Roy.
«Quel film è sopravvalutato» affermò Theodore, non cambiando espressione. Roy si rattristò, mentre Jaden la prese sul ridere. Il corvino divenne ancora più annoiato. «Potreste andare a respirare da un’altra parte?»
Roy lanciò un’occhiata alla fidanzata, alzando il sopracciglio, e lei scrollò le spalle, stringendogli ancora la mano e uscendo assieme dalla classe.
Theo si voltò per vedere se nello zaino avesse qualche medicinale contro la nausea, ma scoprì che del suo zaino non vi era più traccia. Scomparso. Corrugò le sopracciglia, ma lasciò perdere, scocciato, e uscì anche lui dall’aula.
Peccato che neanche riuscì a svoltare verso gli armadietti che: «Ehi!»
Theodore ignorò completamente quella voce e si mise a fischiettare, ma all’improvviso un enorme braccio gli sbarrò la strada, costringendolo a impuntare. L’imponente Heather Jasper, col suo look da Sharpay Evans assunta per il numero oversize di PlayBoy e la sua pomposa chioma bionda tirata in alto probabilmente realizzata dall’acconciatore di Hairspray, lo guardava ammiccante, tenendo nell’altra mano dei volantini.
Theodore Orwell aveva già capito che sarebbe andata male ancor prima che Heather aprisse bocca.
«Sai, sto cercando nuove persone per il drama cl-»
«No» la interruppe immediatamente lui, cercando di superarla e proseguire per la propria strada.
La bionda gli si parò di fronte ancor una volta, bloccandolo, e continuò il discorso, ignorando completamente il suo precedente intervento: «-ub e sono sicura che sotto quella corazza da pulcino arrabbiato, non sei che un leone pronto a mostrarsi, devi solo cercare qualcuno che ti aiuti a spiccare il volo.»
«Penso che quello di cui stai parlando sia un grifone» precisò Theo, un po’ spaventato da tutti quei paragoni.
Ora, ancora oggi non siamo riusciti a spiegare le dinamiche di quel che successe in seguito, ma Heather cacciò in qualche modo una criniera di leone dalle sue tette.
Theo sbarrò gli occhi, perché «Come faceva quella cosa a stare lì dentro?» chiese, sconvolto.
Heather lo ignorò e infilò di forza la criniera in testa al minore degli Orwell, per poi sfoggiare un enorme sorriso. «Ecco, sei perfetto. Già ti segno per lo spettacolo» così dicendo, mise una semplice X su uno dei fogli che portava e poi se ne andò.
Il  corvino sbatté le palpebre ripetutamente. Non riusciva a riprendersi da ciò che era appena successo.
«Ehi, amigo» fece una voce alle sue spalle.
Oh, no.
Theo si voltò riluttante e dovette alzare un bel po’ la testa per riuscire a guardare il volto di Rafael Perez. Non che avesse bisogno di guardarlo in faccia per capire che era lui, visto che andava in giro a petto nudo, come sempre, indossando un paio di bermuda e delle infradito. In spalla aveva un asciugamano appeso.
Al suo fianco invece c’era il suo fedele cane gigante, che però… aveva… qualcosa di… strano. Theo, scandalizzato, non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Mentre il corpo era quello di un bovaro, la testa era… umana. Aveva capelli rossi, il volto abbastanza squadrato, la barba curata e due occhi azzurri che lo guardavano in modo truce. Era Ernest Stages dell’appartamento numero undici.
Si fissarono.
«Mi hanno costretto a indossare questi cosi» disse Rafael, indicando i suoi bermuda e scuotendo la testa, come se fosse la cosa peggiore del mondo. «Ma l’ho fatto solo perché sennò coinvolgevano la polizia e, diciamocelo, a volte ci sono cose che meritano di essere protette più della propria libertà di vestiario. Ma protesterò, eh! Sia chiaro! Ognuno deve avere il diritto di poter girare nudo.» Theodore non lo stava minimamente ascoltando e le poche parole che giungevano al suo orecchio gli sembravano assurde. Continuava a fissare l’ibrido, che lo fissava di rimando. «Ah, comunque bella criniera.»
«Cosa vuoi? Una gara a chi fissa più a lungo?» questa volta fu proprio il cane a parlare.
Theo rimane nella stessa posizione precedente, nessun muscolo si mosse, solo le sue pupille si dilatarono.
«Rafael… senti… c’è qualcosa che non va nel tuo cane, per caso?» domandò, cercando di mantenere un tono di voce normale.
Rafael abbassò il capo verso il suo cane. «Oh, sta solo avendo una crisi di mezza età. Ora ha anche deciso di farsi chiamare Ernest-o e non Ernesto.»
«È Ernest! Solo Ernest, ti ho detto!» sbraitò l’ibrido, per poi ringhiare.
Il “padrone” ispanico ridacchiò. «Certo, certo, ma alla fine siamo arrivati a un compromesso, Ernest-o.»
«Non è vero, hai fatto tutto tu!» continuò a borbottare il cane.
«Oh, eccoti finalmente!» esclamò una voce in arrivo.
I presenti si voltarono per vedere Becky Sanchez arrivare come una furia col suo passo svelto. L’altra ispanica teneva i capelli castani legati in una coda di cavallo che facevano sembrare il suo viso ancora più tondo. In braccio teneva un bambino dai corti riccioli scuri e, appena raggiunse il gruppo, lo lanciò letteralmente nelle braccia di Rafael, che lo prese al volo.
«Ti ho cercato ovunque!» esclamò la ragazza – che sembrava piuttosto arrabbiata – verso Rafael. «Lo sai che appena esco di qui devo scappare immediatamente a lavoro! Avevi detto che ti prendevi cura tu di Cris, non puoi svignartela così! E ora sono anche in ritardo!»
«Non me la stavo svignando» si giustificò Rafael, sincero, «sai che adoro tuo figlio.»
Il volto di Becky divenne paonazzo, ma per la rabbia, e le sue mani si serrarono a pugno. «Non è mio figlio!» sbraitò come se ormai fosse vecchia storia. Ma non diede neanche il tempo all’altro di replicare, che già se n’era andata via correndo e iniziando a imprecare qualcosa di incomprensibile in spagnolo.
Il moro sospirò, per poi voltarsi verso Theo. «Senti, reggimelo un secondo» disse, praticamente mettendo il bambino tra le braccia dell’altro senza neanche dargli tempo di rispondere. «Devo andare un attimo ad aiutare il mio coinquilino. Ha detto che se non mangiamo tutte le pizze avanzate entro stasera sarà costretto a buttarle e io ed Ernest-o di certo non lo vogliamo» disse, scompigliando i capelli del proprio ibrido.
Quello ringhiò e scosse il capo, infastidito dal tocco. «A me delle vostre pizze non può fregar di meno» replicò il can- ehm… Ernest…o?
Rafael rise di gusto, dando una pacca sul sedere dell’ibrido. «Peccato che sia quella la tua unica cena» lo informò il cubano, allontanandosi ed Ernest-o, sebbene controvoglia, lo seguì.
Theodore Orwell in tutto ciò aveva un fottutissimo neonato addormentato in braccio e non aveva la minima idea di cosa fare. Tutto ciò che sapeva sui bambini l’aveva letto in qualche libro di sviluppo, ma niente di più, niente di pratico, senza contare che quei libri li aveva letti solo perché costretto! Cioè, semi-costretto. Come ogni libro, ci sono parti che vuoi leggere con tutto te stesso, ma devi prima leggere per forza altre parti meno interessanti per poter capire e arrivare dove vuoi. Diciamo solo che Theo fu costretto a leggere lo sviluppo dei bambini per qualcosa che aveva a che fare con cavallucci marini e alieni, ma è meglio non andare nei dettagli.
In sintesi, poco ci frega dell’esperienza di Theo e poco fregava a lui: doveva sbarazzarsi di quel moccioso in un modo o in un altro.
Iniziò a incamminarsi per il corridoio, che era improvvisamente deserto, sebbene non avesse sentito alcuna campanella suonare; la cosa più bizzarra era che più andava avanti, passo dopo passo, più si accorgeva di non trovare porte alle pareti. Era come percorrere sempre lo stesso punto per minuti e minuti senza andare da nessuna parte, un grande e lungo rettilineo monotono. L’unica porta che vedeva era quella dell’uscita di emergenza davanti a lui. Si concentrò su di essa, migliorando la presa sul piccolo Cris per non farlo cadere, e prese a camminare in modo più decisivo.
Finalmente riuscì a raggiungere la porta e ad aprirla.
Dava su una parte del cortile e, sulla destra, vicino a uno dei muri esterni, Theodore riconobbe suo fratello Robin, assieme ad altri: Jaden e Roy e quello che probabilmente doveva essere Ira Marque, il quale sembrava più losco del solito e stava barattando qualcosa con i due in cambio dei loro soldi. Dallo spinello che Robin stava fumando, Theo potè immaginare di cosa si trattasse.
Sbuffò tra sé e sé, cercando di non digrignare i denti e di agire il più velocemente e pacificamente possibile. Ma sempre un po’ con la faccia da stronzo, o altrimenti non sarebbe stato più lui.
Avanzò verso il gruppo e Ira, vedendolo per primo, fece un cenno nella sua direzione per avvertire gli altri. Robin si voltò, vedendo il fratello minore, ma non fece neanche in tempo a metterlo a fuoco che si ritrovò un neonato in mano non si sa come. Theo era già pronto a scappare, ma il maggiore lo afferrò per la collottola, costringendolo a fermarsi.
Theo si voltò, sfoggiando un sorrisetto e facendo finta di nulla. «Che c’è? Ti si è risvegliato il lato materno?» scherzò, alludendo al bambino che suo fratello teneva in braccio.
Robin s’irrigidì dalla rabbia, le vene gli sporgevano dalla pelle chiara, parevano lividi, e i denti erano stretti in un ringhio. Per un istante il minore realizzò che forse aveva esagerato.
Jaden sfilò il neonato dalle braccia di Robin, per evitare che dal nervoso di lui finisse stritolato. Non ci furono né pugni né cose del genere e in realtà era piuttosto strano per qualcuno come Robin, che finiva sempre in qualche rissa. Forse era a causa del fatto che, beh, Theodore era suo fratello prima di essere un possibile sacco da boxe.
Theodore ampliò il sorriso, ma riuscì a sfuggire alla presa di Robin, che gli lanciò un ultimo ringhio alle spalle.
«E ora cosa ce ne facciamo di questo?» domandò Roy, accarezzando una manina del bambino che Jaden teneva in braccio.
Robin si guardò indietro, in direzione opposta al suo gruppo, e sorrise malignamente. «Ci penso io.»
Theodore nel frattempo era andato a ripararsi dentro l’edificio e osservò la scena dalle vetrate, sentendosi più al sicuro.
Robin prese il neonato dalle braccia di Jaden e bruscamente lo affidò in grembo a uno studente che passava di lì in quel momento. Aveva i capelli corti  e scuri, il viso un po’ squadrato ma non affilato e aveva una corporatura media. Era una persona piuttosto anonima, ma ancora una volta Theodore associò quel personaggio a una versione più giovane di uno degli abitanti del condominio. Jacob Sullivan, l’uomo paranoico e ipocondriaco che abitava l’appartamento numero dieci al terzo piano.
Quello rimase immobile sul posto non appena ebbe il bimbo tra le mani, che si svegliò per la precedente presa brusca di Robin. Jacob lo guardò, ma nei suoi occhi si poteva osservare il terrore che lo stava divorando, il suo corpo si era irrigidito e teneva Cris come se fosse Simba all’inizio del Re Leone.
Theodore ricordò che teneva ancora in testa quell’orribile criniera e gli venne prurito per tutto il corpo al solo pensiero. Iniziò a grattarsi, quando d’un tratto sentì Jacob Sullivan scoppiare a piangere; tuttavia, appena lanciò un’altra occhiata fuori dalle vetrate, scoprì che di lui non c’era più nemmeno l’ombra. Al suo posto c’erano due bambini, a terra nel cortile: Cris e un altro nuovo spuntato dal nulla.
Theodore si strofinò gli occhi con le mani e si domandò se per sbaglio quella mattina avesse bevuto qualche tè alle erbe strane di Philip invece del suo solito caffè.
Decise di voltare le spalle alla faccenda e di incamminarsi verso la prossima lezione o direttamente verso casa e il suo adorato computer, ma non appena si girò, a bloccargli la strada trovò Jasper, il ragazzino sulla sedia a rotelle che ogni tanto veniva a far visita al padre nel suo palazzo.
Theodore alzò il sopracciglio con aria annoiata, in un muto e scorbutico incitamento a chiedergli quello che doveva.
«Hai per caso dell’erba?» chiese il ragazzo. Era magrolino e Theo non capiva bene la sua altezza, visto che era seduto, ma aveva di certo le gambe lunghe, il viso tondeggiante da cui emergeva un naso sporgente, i capelli castani in un taglio che se fosse stato poco più lungo sarebbe potuto andare bene per un cosplay dei Beatles e un paio di occhiali dalla montatura nera e rettangolare.
Il corvino si trattenne dallo sfoggiare un’espressione confusa perché: prima di tutto ma che voleva da lui, secondo non credeva di essere il tipo da poter passare per uno spacciatore, anche se… e terzo… terzo… ma insomma, che volevano tutti da lui? Rimase quindi con la sua espressione impassibile di sempre.
«No, ma basta che vai fuori e penso te la diano se accetti di adottare un bambino» rispose.
In risposta, Jasper si alzò dalla sedia e… ok, quella era una cosa veramente strana, pensò Theodore, che d’un tratto si sentì piccolo piccolo in confronto a quel ragazzo che non faceva altro che crescere e che ora gli pareva un gigante. Abbassò lo sguardo e si rese conto di essere seduto... anche lui su una sedia a rotelle.
Scrollò le spalle, noncurante. «Poco male. Almeno non dovrò alzarmi.»
Non fece in tempo a finire la frase che il muro della scuola venne sfondato da una macchina, che si fermò esattamente e miracolosamente di fianco a lui. Il finestrino si abbassò e Theo scoprì che all’interno vi era suo fratello Wade.
Il maggiore si tolse drammaticamente gli occhiali da sole, che aveva addosso probabilmente per nessuna ragione particolare, e lanciò un’occhiata al fratello. «Mi sa che dovrai sforzare un bel po’ le braccia d’ora in poi» lo avvertì.
A quella frase, il vero panico esplose dentro Theodore, che lanciò un grido di disperazione.
 
Theodore si svegliò gridando, ma immediatamente un cuscino gli arrivò in faccia, azzittendolo. Strano a dirsi, ma quella reazione lo calmò un poco e gli fece intuire che probabilmente a lanciarglielo era stata Peggy.
Si alzò dal suo letto e, in punta di piedi, uscì dalla zona notte del loft andando a raggomitolarsi sopra il divano più grande, con il cellulare appresso. Era troppo tardi per essere notte e troppo presto per essere giorno, ma il sonno gli era passato e, cosa che odiava, il suo cuore stava battendo più velocemente del solito nel suo petto. Così si mise a giocare sul cellulare.
Qualche minuto dopo, la porta dell’appartamento si aprì e la luce del pianerottolo illuminò la figura di Robin Orwell. Robin che ritornava a casa, come sempre, a un orario indecente. Il riccio, una volta smanettato con le chiavi per non farle incastrare un’altra volta nella serratura, alzò lo sguardo e notò che un volto spiccava nel buio totale grazie a una piccola fonte di luce bluastra.
Il maggiore lanciò un urlo, spaventandosi, mentre l’altro rimase impassibile a fissarlo. Si sentì uno sbraitio indistinto – e troppo assonnato per essere comprensibile – provenire dalla zona notte, forse da Wade.
Robin, dopo essersi ricomposto e aver regolato il respiro, si richiuse la porta alle spalle, mentre Theodore era rimasto raggomitolato sul divano e illuminato semplicemente dalla luce dello schermo del suo cellulare.
«Che diavolo ci fai sveglio a quest’ora?» domandò Robin, a bassa voce.
«Tu stai tornando a quest’ora» gli fece notare l’altro.
Il maggiore lentamente si sedette sul divano accanto al fratello, cercando di non sedersi sui suoi piedi.
«Vero, ma io sono io.»
«Non ho sonno.»
«Va bene. Da quanto sei sveglio?»
«Qualche minuto. Ho fatto un sogno strano. Hai presente Ernest qui di fianco? Era un cane.»
«Sarebbe più interessante come vicino.»
«E Wade sfondava il muro della mia scuola con una macchina.»
«Sinceramente non mi sorprende per nulla.»
«In effetti penso che quella fosse la parte più normale del sogno» concordò il minore.
«Credo sia successo davvero almeno una volta» intervenne Tony, che si era alzato e stava raggiungendo gli altri due sul divano, col braccio ancora ingessato.
«Ma quando te lo tolgono?» domandò Robin, accennando proprio al gesso.
«Se tutto va bene, alla fine della settimana» rispose l’interessato.
«Chiedi se ti tolgono pure la bocca» mugugnò Peggy dal suo letto, rigirandosi e cercando di dormire.
«Cosa succede?» domandò un Philip assonnato e appena svegliato.
«Niente, Phil, torna a dormire» lo rassicurò Tony, a bassa voce, ma si sentì già il rumore delle coperte che venivano scostate e qualche secondo dopo Philip stava uscendo dai separé che dividevano l’angolo dei letti col resto della stanza, strofinandosi gli occhi con le mani.
«Sono appena tornato e Theo mi ha fatto cagare addosso» spiegò Robin.
L’altro alzò gli occhi al cielo, sebbene fosse buio e nessuno potesse vederlo, poiché l’unica luce che illuminava la stanza era quella della luna fuori dalle finestre e il minore era raggomitolato sul divano in modo che l’ombra dello schienale non permettesse di illuminare la sua figura.
«Non è colpa mia se sei facilmente impressionabile.»
«Non è vero, non lo sono!» protestò l’altro. «Solo che una faccia illuminata nel buio alle… quattro di mattina o qualcosa, mi ha colto un po’ di sorpresa.»
«O qualcosa» citò Anthony, prendendo in giro il fratello e ridacchiando piano, con una mano sulla bocca per trattenersi.
Philip chiuse gli occhi ed emise un gemito frustrato. «Andiamo tutti a dormire?»
«Sì, sì, ora andiamo» rispose Tony, alzandosi dal divano e punzecchiando il quintogenito con la mano libera.
«Vengo tra poco» avvertì Theodore.
Gli altri due si fermarono.
«Perché?» domandò Philip.
«Non ho sonno ora.»
«Vuoi una tisana per dormire?»
«Vorrei dei sonniferi» brontolò il minore degli Orwell.
«Quelli anche io, grazie» disse Peggy sempre dal suo letto, tentando di dormire e ignorare le voci.
«Pegs, guarda che l’insonnia è una cosa grave» affermò Philip, in tono serio ma lamentoso.
«Non ho l’insonnia e non è grave» lo contraddisse il minore.
«Beh, un po’ d’insonnia magari ce l’hai» suggerì Robin.
«Effettivamente dormi pochissimo, sei abituato a ore piccole, non hai quasi mai sonno» proseguì Tony.
«Perché quando si dorme non si è produttivi, è diverso!» esclamò il diretto interessato.
«Sì, ma il sonno è importante» gli ricordò Philip.
D’un tratto si sentì un sonoro sbuffo, poi un fruscio di coperte. Peggy Orwell si era ufficialmente svegliata controvoglia e si dirigeva verso il letto a castello di Wade. Batté violentemente la mano sul braccio del primogenito qualche volta, ma quello tentò di allontanarla con un gesto e di tornare a dormire.
Ovviamente aveva sbagliato tattica.
Peggy lo afferrò per la maglia e lo tirò a sé, tentando di farlo cadere, ma lui era più forte, tanto che riuscì a girarsi nel letto e a darle le spalle.
Peggy strinse i pugni e andò verso gli interruttori più vicini, accendendo bruscamente la luce. La stanza s’illuminò, tanto che gli altri fratelli dovettero chiudere gli occhi per qualche istante prima di abituarsi.
Wade lanciò un grido di dolore. «Ah! Luce! Sei impazzita?»
Peggy tornò verso il fratello. «Soffro io, soffri tu, ricordi?»
«Io Titanic me lo ricordavo diverso» si lamentò, affondando il volto nel cuscino per nascondersi dalla luce.
«Tre ore di film dove tutti muoiono e l’unica che sopravvive getta il gioiello più prezioso del mondo in mare e a seguire altre tre ore di pianto. Io direi che l’ho riassunto piuttosto bene.»
«Wade, Theo non riesce a dormire!» si lamentò Philip.
«Smettila di dirlo, non è un problema!» sbottò il minore, nervoso.
Wade emerse dal suo cuscino, stranamente interessato alla conversazione. «Non sarà mica ancora per quella storia della classe nuova, vero?»
«Cosa?» si lasciò sfuggire Tony e subito tutti gli occhi furono puntati su Theo.
Il minore rise nervosamente, scrollando le spalle. «Pff, certo che no.»
Wade finalmente scese dal letto, seguendo la sorella. «Sei ancora agitato per la classe nuova? E quel tipo… come si chiama? Il ragazzino sulla sedia a rotelle che a volte si vede qua in giro...»
«Oh, è perché vogliono metterti nella classe avanzata?» chiese Philip.
«Ho detto che non è niente!» sbottò Theodore, sbuffando.
«Hey, va tutto bene. È normale» intervenne Robin, provando a calmarlo e stando attento a non toccarlo. «A volte succede, quando si cambiano compagnie, c’è sempre un po’ di timore di non essere accettati, lo so. Ci sono passato. Va bene avere un po’ di paura.»
«Male che vada saranno tutti dei cazzoni e, capirai, lo è il novantanove percento della popolazione» lo rassicurò Peggy, o almeno tentò. Lei e Wade si avvicinarono al divano.
Ci fu qualche istante di silenzio, in cui Theodore osservò i suoi calzini.
«Ok» disse piano. «Ma è quasi sicuro che mi lamenterò per il resto dell’anno di loro.»
Wade si lasciò scappare una risata. «Come se ci aspettassimo diversamente.»
«Lamentarsi degli altri è già l’hobby preferito di Peggy» aggiunse Tony.
«Mai negato» affermò l’interpellata.
Theo quasi sorrise per quello che sembrò un millisecondo, ma poi tornò serio e il suo sguardo si fece truce. «Se provate ad abbracciarmi giuro che vi vomito addosso.»
Robin condivise la sua espressione di disgusto. «Giuro che non ci sarà nessun ab-»
Ma neanche ebbe il tempo di finire la frase che Philip gridò «Abbraccio di gruppo!» travolgendo tutti e cercando di stritolare più persone possibili tra le sue braccia. Wade si fece trasportare dall’entusiasmo e partecipò attivamente, cercando di ricambiare l’abbraccio e stritolando ancor di più gli altri in un sandwich. Tony fece altrettanto ma solo per infastidire i fratelli.
La cosa era così buffa che strappò una risata a tutti, persino a Peggy. Robin lo notò e le diede un buffetto sul naso.
«Non è poi così malvagio abbracciarsi di tanto in tanto» azzardò Tony.
«In questo momento sto cercando di pensare a qualcosa di peggiore e mi viene in mente solo un asteroide che colpisce la terra facendola esplodere e mi alletta molto di più come alternativa, perché almeno così non dovrò lavarmi minimo dieci volte per togliermi di dosso tutti i vostri odori e sudori e chissà quant’altro» disse Theo.
Peggy sbuffò e fu la prima a staccarsi e a rompere l’abbraccio, ritornando verso i letti. «Bene, ora fatemi dormire. Ho interrotto il mio sonno di bellezza per colpa vostra e, se mi sveglio con una minima occhiaia, giuro che avete finito di vivere!»


 


p a n d a bitch.
Ho avuto problemi? Sì.
Viva il trash? Quello sempre.
E' quasi angst tutto ciò.
Ricordo che potete venire in pagina Come una bestemmia. per parlarmi di tutto quello che volete; mentre per qualsiasi altro social network dove potete contattarmi e seguirmi, sono pandamito. Tumblr, twitter, wattpad, pinterest, qualsiasi cosa vi venga in mente, davvero. Tranne weheartit. Non ho weheartit e c'è un tizio che si spaccia per me e non so come segnalarlo, tutto regolare. Potete trovarmi anche nei link dei cuori nel mio profilo, anche se effettivamente dovrei aggiornarlo ma ok.
Questo link invece è per seguire la storia su wattpad e per il resto... per il resto my life is a joke e di solito non mi ammalo, ma quando lo faccio mi vengono le cose strane.
Inoltre mi si è rotto il computer, non ho idea di come abbia fatto a salvare questo capitolo e spero di recuperare tutti i miei altri progetti.
Probabilmente more musical trash verrà inserito in questa storia, è una promessa.
Eeeee niente, se volete ho anche un fake dove potete aggiungermi e boh, bao, solo che Zucchina culo mi ha segnalato e ho il mio nome, k skifo.
Baci e panda, Mito.

 

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Capitolo 7
*** #laggente 007 - James Bond mancato ***


Il lunedì è un giorno tragico. Sempre. Indipendentemente da cosa succede, lo è e basta, punto.
Vedete, il Creatore-della-settimana era una persona molto ma molto sadica e, quando decise di realizzare la sua opera, ci pensò molto bene.
Il lunedì è tragico perché è l’inizio di tutto: il lavoro o la scuola, la settimana di merda che verrà a seguire... insomma, è richiesto a tutti di essere attivi quando invece ci si deve ancora riprendere dal coma del giorno precedente.
Il martedì stessa storia, solo più lieve, non ci si abitua ancora alla routine ed è sempre un colpo al cuore quando si pensa a quanto rimanga prima del weekend.
Il mercoledì sta in mezzo, un po’ come il cazzo, quindi sinceramente ci interessa poco.
Il giovedì va un po’ meglio, anche se il giovedì, non so voi, ma ho notato che succede sempre qualcosa di brutto. Però il giovedì si pensa positivo, è quasi finita la settimana, quindi fare uno sforzo in più costa di meno.
Il venerdì è felicità, felicità pura. I più fortunati possono dire addio al loro lavoro e trascorrere la sera come preferiscono; i meno fortunati hanno ancora il sabato che li aspetta, ma lo affrontano con più positività.
Il sabato è il giorno in cui una volta a casa non si vuole sapere più niente, nessuno esiste più per nessuno, esiste solo l’egoismo di voler passare il resto del giorno come più si desidera.
Ma, se il venerdì è la gioia per il sabato e il sabato la gioia per la domenica, la domenica è la tristezza. Se il sabato non si vuole ricordare che la domenica aspetta le persone in lutto, quando arriva il fatidico giorno tutti sono costretti ad affrontare la realtà e a doversi preparare per il traumatico lunedì.
 
Così anche quel lunedì era un lunedì™.
Questa frase ha poco senso ma è vera.
 
Come sappiamo, al numero dodici del quarto piano di quello che oramai era nominato da tutti come Il Condominio™ (in questa storia ci sono un bel po’ di ™), viveva una famiglia che avrei voluto davvero tanto non incrociare mai nella mia vita. Come tutti i lunedì, Wade Orwell, il primogenito, finiva di prendere il suo caffè nero, aspettando i fratelli per uscire e salire in macchina, pronto per un’altra giornata di lavoro. Con lui vi erano Philip Orwell, il quintogenito, che quella mattina aveva lezione, e Theodore Orwell, il sesto e ultimo – per fortuna – della famiglia, che invece cominciava un’altra settimana di merda al liceo, tipica degli adolescenti.
Anthony Orwell era ancora a casa col gesso, Alexandre aveva portato il caffè per tutti quella mattina ed era pronto anche lui per il lavoro, a momenti. Di Peggy e Robin, invece, nessuna traccia, ma non era una novità.
Un’altra cosa che sappiamo, però, è chi viveva vicino a loro. No, non l’appartamento di sinistra, bensì quello di destra, il numero undici. Mentre gli Orwell mattinieri si apprestavano a scendere dalle scale, una figura li spiava dalla spioncino della porta. Capelli rossi, toga di seconda mano… dovresti essere un Weas- no, no, stiamo parlando di Ernest Stages.
Ernest Stages in qualche modo – e non siamo ancora riusciti a trovare una spiegazione scientifica a questo fenomeno – riusciva sempre ad essere presente quando qualcosa accadeva.
 
Ma facciamo un passo indietro. Chi o cosa era Ernest Stages e, soprattutto, com’era finito a vivere nel Condominio™?
Sebbene il suo carattere burbero e il suo disgusto verso l’umanità, quella di Ernest era stata una scelta; a differenza di molti che erano obbligati a stare lì dentro di malavoglia, Ernest comunque odiava lo stesso tutti gli altri abitanti del palazzo, però sì, aveva scelto lui di abitarci.
Vedete, nonostante Ernest non fosse di brutto aspetto, anzi, poteva apparire come un uomo affascinante – se fosse rimasto fermo senza guardare o rivolgere la parola a nessuno – dovete comunque sapere che aveva abbastanza anni a quel tempo da poter entrare nella crisi di mezza età.
Tutto risale ai favolosi anni Novanta. In quel periodo di pantaloni a zampa di elefante, choker, salopette e punk-rock, il nostro caro Ernest stava frequentando il college.
Era un giovane asciutto, ma dobbiamo ammettere che l’età gli ha giovato davvero, perché ovviamente in quegli anni da studente era un pel di carota a cui i capelli corti si arricciavano sempre, le sue camicie erano orribili e i jeans altrettanto.
La cosa più strana di quegli anni, però, era che Ernest era quasi felice. Scontroso, sempre, ma quasi felice.
In quegli anni ormai lontani, Ernest aveva preso appartamento proprio in quel buco di fogn- ehm, palazzo. No, chi se ne frega della censura, era proprio un buco di fogna che, vi giuro, neanche i topi ci ho mai visto. Una volta forse ne vidi uno di passaggio e mi disse: «No, amico, io faccio le valigie, qui non ci sto neanche per le zoccole gratis.» Da allora forse solo qualche procione in giro, una mucca, un agnellino, una tartaruga, un pulcino, molti gatti, troppi cani, qualche animale non ben identificato, ma vi giuro che quel condominio non poteva avere la reputazione di topaia. Al massimo di fattoria.
Ma comunque, tornando al nostro discorso inutile per allungare questo capitolo, dicevamo che Ernest si era trasferito lì poco tempo dopo che gli attuali proprietari… beh, non posso proprio dire che acquistarono il palazzo perché decisamente non fu quello ciò che accadde, ma possiamo dire che in qualche modo passò a loro. Un tempo non faceva neanche così schifo… cioè, oddio, forse meglio se non esagero ora, ma prima vi erano solo uffici. Che poi in realtà quasi tutti gli uffici nascondessero un giro di mafia e droga era un altro contro. Ma, ehi, erano pur sempre uffici! Quasi rispettabili, a dirla tutta. Come mai i successivi proprietari decisero di smantellare tutto e affittare i monolocali? Potremmo dire per ripicca, ma questa sarà una storia che vi racconterò un altro giorno.
Per il momento concentriamoci su Ernest, che a questo punto potremmo considerare come un membro onorario di quel palazzo visto che, se contiamo dalla prima volta che si trasferì lì, è quello che vi ha vissuto più a lungo.
Ma cosa successe alla sua quasi felicità?
Julie Daniels.
Si era semplicemente fatto fottere. E rimane il suo più grande tormento, pensare di aver agito proprio come tutti: un uomo con il cazzo.
La verità? Ernest non ci aveva mai dato tanto peso a questo genere di cose: relazioni, rapporti… robaccia. Non faceva per lui. Ma poi un giorno, in un festino del college a cui aveva accettato di essere trascinato solo per poter rubare una bottiglia d’alcol a cui attaccarsi, ecco che conobbe Julie Daniels.
Cosa fece interessare Ernest a lei? Probabilmente il fatto che vi era solo un divano libero su cui nessuno stesse pomiciando, lei era riluttante quanto lui a volerlo condividere, non lo degnò di uno sguardo, cercò di rubargli l’alcol e passò tutta la serata a insultare chiunque capitasse nel suo campo percettivo.
Ecco che a ventisei anni, non si sa come, Ernest si era sposato, Julie aveva sfornato una figlia e, veloce come era successo, ecco che stavano già divorziando ed Ernest aveva capito troppo tardi che Julie l’aveva incastrato solo per avere i soldi degli alimenti della bambina. Ernest si malediva ogni giorno per questo suo errore ma, in effetti, si era probabilmente innamorato almeno un po’ di quella donna proprio perché era il genere di stronza da poter fare una cosa del genere; non doveva sorprendersi.
La bambina, a proposito: Ophelia. Aveva qualcosa come diciassette anni, ma Ernest riceveva messaggi da lei come un orologio svizzero quando si trattava di una cosa:
 
 
Eppure, in qualche strana maniera inspiegabile, Ernest non poteva fare a meno di volerle un minimo di bene. Ci aveva provato a smettere, eh! Ma nei suoi confronti, sebbene fosse consapevole che la ragazza avesse preso dai genitori i loro peggiori difetti, proprio non ci riusciva. Forse era stato avvolto da quella strana condizione che talvolta affligge gli uomini e che viene chiamata col nome di paternità e per cui non si è ancora scoperta una cura.
 
Ernest, una volta pronto, prese la sua valigetta contenente alcuni fascicoli ordinatamente archiviati, uscì di casa, facendo roteare le chiavi della macchina tra le dita, e scese le scale al piano inferiore. Si fermò all’appartamento di destra del terzo piano, il numero dieci; suonò il campanello e aspettò.
 
Al suono del campanello, Jacob Sullivan rimase congelato sul posto. Il monolocale di Jacob era grande esattamente come tutti gli altri nella palazzina, ma, a differenza di qualsiasi altro appartamento, il suo poteva far invidia a una stanza di ospedale in quanto a depressione. C’erano pochissimi mobili, tre quarti di quella stanza erano praticamente vuoti, non vi era nessun oggetto fuori posto ed era tutto – tutto – ricoperto di plastica.
Jacob, di prima mattina, stava facendo l’inventario del suo armadietto dei farmaci, ovvero la cosa di cui andava più fiero al mondo: in quell’armadietto c’erano qualcosa come cinquanta farmaci e più, tutti ordinati e catalogati. Purtroppo a volte accadeva che dei farmaci sparissero misteriosamente e così c’erano due cose che Jacob aveva imparato a fare: fare l’inventario più volte possibile per tenere il conto di ciò che c’era o non c’era e chiudere ogni volta l’armadietto con un catenaccio.
Serviva? No. Ma almeno lo rassicurava un po’.
Così, quando il campanello suonò, Jacob era a metà del suo inventario, ma il rumore squillante lo prese così all’improvviso da fargli dimenticare a che punto fosse arrivato. Gli si gelò il sangue come uno scoiattolo in allerta, ma andò davvero nel panico nell’esatto secondo in cui si accorse di dover ricominciare l’inventario da capo e che contemporaneamente qualcuno lo stava aspettando alla porta. Il pensiero dell’inventario gli impediva di concentrarsi per pensare a chi potesse essere a quell’ora.
Il campanello suonò ancora, prolungato, più forte e impaziente. Quello dall’altra parte doveva essere arrabbiato e ciò spaventò Jacob. Non era la padrona del condominio, no? Era quasi certo che non fosse ancora arrivato il giorno dell’affitto, ma la possibilità che la vecchia donna stesse dall’altra parte della sua porta bastò a fargli accelerare il respiro.
Dopodiché, il campanello iniziò a suonare il motivetto di Seven Nation Army e alcune scatole di farmaci caddero dalle mensole, finendo addirittura in testa al nostro povero malcapitato. Jacob lanciò un urlo, colto di sorpresa, ma, sebbene il suo primo impulso fosse quello di raccogliere tutto, la paura di far attendere ancor di più il suo futuro ospite prese il sopravvento.
Disdetta – la sua gatta nera di cui un giorno parleremo meglio – ne approfittò, veloce, per prendere in bocca una scatola di farmaci caduta e correre via. Jacob tentò di urlarle contro, ma non sapeva bene cosa gridare nel panico, e la gatta fuggì nel bagno.
Jacob corse ad aprire la porta, quasi inciampando un paio di volte nei suoi stessi piedi.
Quando finalmente spalancò la porta, Ernest Stages gli si presentò davanti.
L’espressione che comparve sul volto di Jacob immediatamente dopo è paragonabile a quella di Kit Harington quando interpreta Jon Snow: l’espressione di quando la vita ti vuole male e non sai più cosa farne di te stesso.
Ma, invece di qualsiasi insulto di quotidiana amministrazione, Ernest disse: «Jerry, vuoi un passaggio?»
Ormai, da un annetto e poco più, cioè da quando aveva trovato un buon posto in obitorio e aveva avuto la malsana idea di trasferirsi in quel condominio, Jacob doveva sopportare l’esistenza di Ernest Stages nella sua vita. Ernest era il suo… “collega”, ma in realtà il rosso era così terribilmente geloso dei suoi spazi che proibiva a Jacob addirittura di avvicinarsi a certi oggetti dell’ambulatorio e lo trattava praticamente come un infermiere, bacchettandolo a destra e manca e mai una volta azzeccando il suo nome. Il fatto che si fosse rivelato un inquilino nel suo stesso palazzo fu, davvero, un caso dell’immensa sfortuna che perseguitava Jacob, perché era molto difficile stabilire se Ernest fosse peggio a lavoro o a casa.
Ernest trovava Jacob terribilmente semplice come persona, una che poteva facilmente passare inosservata, coi suoi corti capelli scuri e gli occhi castani, non aveva nulla di particolare, nemmeno il suo corpo rachitico, nemmeno la sua faccia da cane bastonato; si capiva benissimo che Jacob era la classica persona che odiava andare in palestra, ma Ernest poteva scommettere il culo di Barack Obama che l’altro calcolasse ogni caloria pronta a ingerire nel corpo pur di non andarci e allo stesso tempo non farsi venire ulteriori ansie sulla sua salute.
Ernest trovava la cosa piuttosto noiosa e inutile.
John qui – o qualunque fosse il suo nome – era ancora peggio, ora che le sue pupille si erano dilatate e somigliava a Bambi o qualche altro animale Disney, mentre lo fissava sgomento.
«Davvero?» domandò l’interpellato, la voce debole per l’incredulità.
Ernest grugnì e, di scatto, lo schiaffeggiò sulla fronte, facendo gridare l’altro per l’improvviso impatto.
«Certo che no, Jason. Se ti prendi un anno di malattia mi fai un favore.» Detto ciò, Ernest proseguì a scendere velocemente le scale.
Il moro si massaggiò la fronte e sospirò sonoramente, richiudendo la porta.
Ovvio che Ernest voleva solo giocargli un altro dei suoi scherzi.
Ricordò che nella fretta aveva lasciato ancora Disdetta dentro il bagno. E con una scatola di chissà quale farmaco! La porta della piccola stanza era ancora chiusa, della gatta nessuna traccia; provò a girare la maniglia ma era chiusa. Maledizione, si era chiusa dentro! Perché sì, quella gatta sapeva chiudere le porte a chiave.
Jacob provò a forzare la maniglia, ma iniziò ad aver paura che potesse staccarsi, frantumarsi in mille pezzi e finire con alcune schegge nel suo occhio. L’aveva visto in un film.
Tamburellò un dito sul suo labbro inferiore, per poi mordersi l’unghia nervosamente.
Cosa fare?
Aveva l’ansia di fare tardi a lavoro, ma non poteva di certo lasciare Disdetta in bagno, senza cibo. E se fosse morta? Rabbrividì al solo pensiero. Era vero che aveva trovato quella gatta per puro caso, si era infiltrata nel suo appartamento e da allora era rimasta lì, non lasciando molta scelta a Jacob se non quella di darle da mangiare, da bere e di prendersene cura.
Sospirò, cercando di non farsi prendere dal panico.
 
Il numero diciassette, scritto coi pennarelli colorati su un foglio attaccato a quello che doveva essere il numero sedici del corrispondente appartamento al quinto piano, lasciava sempre un po’ perplesso Jacob.
Ciononostante, bussò.
Jacob Sullivan non era di certo una persona in cerca di interazioni sociali, anzi; il fatto che lavorasse esclusivamente con gente morta la diceva lunga sul suo conto. Ma aveva dovuto scegliere fra delle priorità nella sua vita e proprio non riusciva ad andarsene con la consapevolezza che sarebbe potuto succedere qualcosa alla sua gatta.
Nessuno rispose.
Doveva forse ribussare? Sarebbe stato scortese? Forse era meglio andarsene, sì, decisamente, era già stata una pessima idea arrivare fin lì.
Voltò i tacchi e si avviò a raggiungere le scale, quando sentì la porta aprirsi.
«Ehi!» lo chiamò una voce maschile.
Jacob si voltò di scatto, come uno scoiattolo colto in flagrante a rubare noccioline. Non è colpa mia se faccio molti paragoni con gli scoiattoli, sono loro ad essere disagiati.
Roy Jones era appoggiato all’uscio della propria porta, i corti ricci scuri arruffati e l’espressione ancora assonnata, ma l’altro poteva sentire gli occhi nocciola osservarlo attraverso le ciglia.
Il panico tornò a insinuarsi dentro di lui. In realtà, non l’aveva mai lasciato.
Aprì e chiuse la bocca qualche volta, non sapendo come formulare una frase decente. Roy corrugò la fronte, cercando di capire cosa stesse succedendo.
«Motogatto» sputò fuori l’altro, mangiandosi le parole. Roy parve ancora più perplesso. «Volevo dire… motosega!» si corresse Jacob, irrigidendosi più di prima.
«Ti serve una motosega?» domandò Roy, provando a dar senso alle parole del maggiore. Quello annuì violentemente.
Roy rimase per qualche istante a fissarlo, un po’ spaventato. Erano rare le volte in cui riusciva a interagire con l’uomo che abitava al numero dieci e la ragione era proprio perché Jacob cercava in ogni modo di evitare di parlare con gli altri del condominio.
Roy non staccò gli occhi di dosso dall’uomo. «Devo aiutarti ad ammazzare qualcuno?»
Jacob trasalì, non riuscendo a capire se il giovane stesse dicendo sul serio o se lo stesse semplicemente prendendo per il culo. Visto chi abitava quella palazzina, non si poteva mai essere sicuri.
Jacob stava trattenendo il respiro e sentiva che sarebbe scoppiato da un momento all’altro, ma in quell’istante proprio non riusciva a ricordare come si respirasse.
«I-i-i-i-i-il m-m-m-mio ga-a-atto-o…» cercò di dire, invano. Poteva percepire di star tremando da capo a piedi e la lingua gli si era come annodata, provocandogli un imbarazzante balbettio. «È… è…. Incastrato. Nel bagno. No-non riesce… a… a uscire.» Una volta finita – finalmente – la frase, Jacob fece un respiro profondo, come toltosi un peso dal petto, tanto che sentì le sue gambe farsi molli.
Lo sguardo di Roy diventò improvvisamente buio e serio e un brivido di paura percorse Jacob, chiedendosi cosa avesse sbagliato.
L’altro si limitò a dire: «Arrivo subito.»
 
Ed è così che Roy Jones finì a tagliare una fessura nella parte bassa della porta del bagno nell’appartamento di Jacob Sullivan, mentre quello restava in piedi poco distante da lui e lo fissava lavorare, nel più completo imbarazzo. Aveva però imparato che Roy teneva tantissimo agli animali, ma a quanto pare era una caratteristica molto popolare in quel palazzo, e non avrebbe mai lasciato un “““amico””” in difficoltà.
Roy finì di ritagliare un rettangolo di fessura nel legno, applicò un po’ di pressione con la mano per farlo staccare dal resto del complesso e lo tirò via, poggiandolo a terra, di fianco a lui. Si abbassò nuovamente, sulle ginocchia, per osservare il bagno dalla fessura.
Si rialzò col busto, un po’ confuso, e si voltò verso Jacob. «Ma qui non c’è nessun gatto.»
L’altro sgranò gli occhi, facendosi prendere dal panico. Si inginocchiò a sua volta ma nella furia sbatté al ginocchio e si morse un labbro dolorosamente per non gridare, cercando di passare inosservato agli occhi degli altri. Osservò anche lui dalla fessura, ma Roy aveva ragione: di Disdetta neanche l’ombra. Invece notò la scatola di farmaci era a terra, vuota, e la finestra del bagno – che ridava sulle scale colleganti tutte le altre finestre – era stata aperta. Dannazione, non aveva minimamente pensato di passare dalle finestre della sala per andare a quella del bagno e aprire la porta!
«Il tuo gatto si è drogato?» alluse Roy, indicando la scatola vuota di farmaci.
Improvvisamente un miagolio fece voltare di scatto entrambi gli uomini. Sopra il frigorifero ecco che era comodamente accoccolata Disdetta, che li guardava dall’alto al basso.
Jacob sospirò, ma ciò che uscì fu più un lamento, chiudendo le palpebre per qualche secondo per riprendersi. Contò mentalmente fino a dieci per non mettersi a piangere dallo stress. Sentì la mano di Roy dargli un paio di pacche sulla spalla.
«Ehi, puoi sempre tenere la fessura per sicurezza, magari per il gatto, non si sa mai» provò a confortarlo il minore. Jacob lo guardò con occhi tristi, ma annuì. «Uhm, ora dovrei proprio andarmi a preparare» continuò, «ma se ti serve qualsiasi altra cosa, chiedi pure quando vuoi, eh. Ci vediamo» lo salutò, alzandosi e uscendo dalla porta.
Probabilmente a lavoro Ernest stava festeggiando il suo ritardo.
 
«E quindi alla fine come hai risolto?» domandò Ira, facendo un tiro dalla propria sigaretta.
Lui e Rafael Perez – che abitava l’appartamento alla sua sinistra – stavano spettegolando nell’atrio tra le loro porte e le scale, come quasi ogni mattina, quando Rafael consegnava il latte.
Il moro era appoggiato al muro, braccia conserte, col suo cane Ernesto seduto ai suoi piedi e, da quanto sembrava, interessato alla conversazione.
«Il fatto è che io dovevo proprio vuotare il serbatoio, ma lei era in mezzo alla strada. Ci credi che l’ho dovuta trattenere fin quando non è rinvenuta?» si lamentò l’altro, sentendosi un po’ in colpa per quello successo alla sua povera vittima. «E niente, ho cercato di ripulirla come meglio potevo mentre era incosciente, ma una volta svegliata si è messa a gridarmi contro. Ma che hanno le donne di questo condominio che ci tengono tanto a menarmi?»
«Forse a loro piace selvaggio» suggerì Ira, ghignando. «E quindi la cara Tempest non regge l’alcol. Era da tanto che volevo vederla divertirsi. Di solito ha sempre un palo ficcato in culo.»
«Ehi, amigo, ad alcune persone piace così.»
«Ah, dillo a me.» Il biondo alzò le sopracciglia, cogliendo al volo la battuta proposta.
All’improvviso dei passi veloci provennero dalle scale, Jacob Sullivan stava correndo giù, in estremo ritardo per il lavoro. Ed ecco che, nella breve curva dell’atrio per andare verso le altre scale, inciampò nei propri piedi, scivolando.
Ira lo prese al volo, aggrappandosi alla maglietta del moro e tirandolo su a sé.
«Caschè!» esclamò, ridacchiando.
Jacob arrossì, imbarazzato, e annuì in senso di ringraziamento, ma poi riprese a correre via, giù per le scale.
«Attento!» gridò Rafael, mentre lui e Ira scuotevano la mano per salutarlo. Il più alto tornò con l’attenzione sul biondo. «Mi fa sempre ridere, è impacciato, ma mi piace.»
«È davvero buono» disse Ira, serio, rigirandosi la sigaretta rimastra tra le dita. «È un po’ ansioso, ma mi ha aiutato spesso. Le ferite dalla palestra possono essere delle brutte bestie, menomale che lui ha sempre qualche rimedio.»
«Peccato non gli piaccia molto stare con gli altri.»
«Già, peccato» concordò l’altro.
«Comunque, sai che fine ha fatto Heather? L’altra sera ad un tratto l’ho persa completamente di vista.»
Ira espirò una nuvola di fumo, tamburellando l’indice della mano libera sul mento, pensieroso. «Ah, sì, l’ho vista andarsene con uno dell’ambulanza. Probabilmente la sua serata è finita meglio della nostra.»
Rafael alzò entrambi i pollici in approvazione, come se Heather potesse percepire in quell’istante che era fiero di lei.
«A proposito» iniziò il cubano, ghignando, «non mi avevi detto che doveva venire tua sorella?»
Ira grugnì, scocciato. «Sì, se tutto va male dovrebbe venire settimana prossima.»
«E se tutto va bene?»
«Se tutto va bene spero non venga mai» confessò il biondo. «Non fraintendermi, eh, voglio bene a mia sorella, solo che è assillante. Se mi sono trasferito è proprio perché voglio stare da solo, mentre so già che lei vorrà farmi tornare a casa o chissà che altra idea si è messa in testa.»
«Ed è gnocca?» domandò Rafael.
Ira roteò gli occhi. «Non il tuo tipo.»
Il moro alzò un sopracciglio. «Non ho un tipo.»
«Allora tu non sei il suo tipo» precisò, sorridendo.
«Questo lo staremo a vedere» disse l’altro, incrociando le braccia al petto.
«Il punto è che questo palazzo non è per niente un luogo dove Jordan potrebbe vivere» continuò Ira, nominando la sorella, «solo che non se ne rende ancora conto. Da quello che ho capito già vuole portare tutte le sue valige. Menomale che il belloccio con cui sta Tony ha detto che ci pensa lui ad aiutarla, perché io proprio non ho intenzione di muovere un dito. Abbiamo fatto questo accordo se accettavo di sostituire Tony al locale» spiegò.
In quel momento la figura pallida e vestita di nero – come al solito – di Robin Orwell comparve dalle scale, intento a salire lentamente fino al suo piano. I tre si salutarono.
«Stavamo giusto parlando di tuo fratello, quand’è che si toglie quel maledetto gesso?» domandò Rafael.
Robin si avvicinò al gruppo, rubando la sigaretta dalle mani di Ira e prendendo un tiro. «Mi sembra in fine settimana. Dalla prossima sarai libero» disse al biondo al suo fianco, dandogli un leggero pugno sulla spalla.
«A me e Becky manca prenderlo a pugni in palestra» confessò Ira, per poi continuare con l’accenno di un ghigno sulle labbra: «Piuttosto, non ti si vede dalla serata, te la sei spassata?»
«Nah, sono tornato stanotte, ma diciamo che ho dormito praticamente zero. Ho quasi litigato con mia sorella, così siamo usciti all’alba, a volte lo facciamo. Volevo portarla a fare colazione così mi perdonava, ma subito dopo mi ha scaricato per un tizio» raccontò, alzando le spalle alla fine. «Me lo meritavo. L’altra sera l’ho praticamente abbandonata in un’ambulanza.» Alle espressioni confuse e preoccupare degli altri due, Robin scosse la mano per non farli preoccupare. «Lunga storia» si limitò a dire.
«Tua sorella è una forza della natura e non credo in una maniera positiva» dovette ammettere Rafael.
«Fidati, lo so da quanto portava il pannolino e gridava come una matta la notte, tenendo tutti svegli.»
«Non è cambiato poi molto» ridacchiò Ira.
Robin si aggiunse alle risa. «Con la differenza che ora, se provo io a svegliarla la notte, come minimo mi ritrovo un machete in testa.»
Rafael sospirò, voltandosi verso Ernesto poco più in là. «Mi tocca andare e finire le consegne. Ci si vede!»
E detto ciò i tre si separarono, ognuno per la propria strada.




 


p a n d a bitch.
Breve aggiornamento della mia vita:
- sono in ritardo con gli esami
- ho l'ansia
- vado in Erasmus in Germania per sei mesi
- ho Lancya
- probabilmente morirò
- Ivola puzza ma già lo sapevate
Ora vi copio-incollo un messaggio:
Ricordo che potete venire in pagina Come una bestemmia. per parlarmi di tutto quello che volete; mentre per qualsiasi altro social network dove potete contattarmi e seguirmi, sono pandamito. Tumblr, twitter, wattpad, pinterest, qualsiasi cosa vi venga in mente, davvero. Tranne weheartit. Non ho weheartit e c'è un tizio che si spaccia per me e non so come segnalarlo, tutto regolare. Potete trovarmi anche nei link dei cuori nel mio profilo, anche se effettivamente dovrei aggiornarlo ma ok.
Questo link invece è per seguire la storia su wattpad.
Eeeee niente, ho cambiato pure profilo del fake dove potete aggiungermi se volete.
Baci e panda, Mito.

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