il caffè fa schifo

di Budo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - lo staff ***
Capitolo 2: *** 1 - La sorpresa ***
Capitolo 3: *** 2- gli stronzi ***
Capitolo 4: *** 3- L'inizio ***



Capitolo 1
*** Prologo - lo staff ***


Prologo
Lo staff
 
La titolare de La Bettola era una bettola di donna, alta poco più di un metro e trenta, sgraziata e zoppa. Aveva portato per troppi anni i capelli lunghi legati malamente e perennemente in una treccia, con una tinta giallo smorta che faceva di rado. Ultimamente, sulla soglia dei cinquant’anni, aveva deciso di darci un taglio. Era venuta un pomeriggio, al locale, con un corto sbarazzino, quasi troppo da ragazzina, ma che riusciva in qualche strano modo a farla apparire più donna. Il suo corpo era stato modellato da anni ed anni di pasti alle ore più assurde del giorno, mangiando quando poteva, cosa poteva e quanto poteva. Il risultato era una pancetta non eccessiva ma ben formata, che stonava un poco con le gambe magre e vagamente muscolose, e col sedere a mandolino alto e sodo, del quale andava molto fiera. Non si sarebbe mai detto di lei che fosse una ballerina. Molti, troppi anni addietro. La titolare si chiamava Angelica Di Stato. Mai nome fu meno azzeccato di quello.
 
La signora Angelica mi disse che il mio primo giorno di lavoro sarebbe stato un sabato sera. Me lo disse in un messaggio whatsapp, perché si proclamava contro gli sms. Adorava le faccine e il non doversi sprecare troppo a scrivere cose eccessivamente lunghe. O semplicemente perché non pagava. Non lo so.
La giornata sarebbe cominciata alle cinque di pomeriggio e sarebbe finita a chiusura. Cioè molto tardi, mi disse. Ma non mi importava. Dovevo lavorare, ne avevo bisogno. E per quanto fosse una Bettola, era comunque il miglior locale che c’era dalle mie parti. Lo dico per esperienza.
Quando entrai nel La Bettola, la prima cosa che vidi fu la signora Angelica seduta dietro la cassa, con i capelli bagnati da una doccia frettolosa e pettinati indietro come se una mucca le avesse assaggiato il capo pochi secondi prima. Aveva il viso acciaccato di chi non dormiva da una vita e mezzo, e un pantalone di tuta viola con una camicia a piccoli fiori gialli e arancioni di chi desidera a tutti i costi irritare gli occhi del mondo intero; ai piedi, un delizioso paio di infradito nere con un’enorme stella marina applicata. Inutile dirlo, la amavo già, con l’amore sconfinato di chi ha appena trovato il suo nuovo idolo.
Le sorrisi. Mi sorrise.
“allora, bellezza, nascondi zaino e felpa dietro la cassa, prendi una di quelle tovaglie vecchi e lucida i coltelli con l’aceto, mentre controlli che le posate sia venute bene. Se ne trovi qualcuna che fa schifo al cazzo, rimettila a lavare, che nessuno vuole cenare con la cena di quello prima di lui. Poi ti faccio vedere come sistemare i bicchieri e l’apparecchiatura. Ma alla fine, fai un po’ come ti pare. Torno a fare i conti”. E sparì dietro un mucchio di ricevute alte poco più della sua testa.
Sorrisi e posai le cose dove mi aveva detto. Poi mi affacciai in cucina per salutare i miei nuovi colleghi e prendere il cestello con le posate e l’aceto.
Fabrizia era la cuoca, sorella della signora Angelica, e condivideva con lei gli occhi azzurri, l’aletta e il fisico rettangolare. Aveva i capelli biondi, ancora naturali, tirati in una coda bassa e stretti in una retina, che le dava molto l’aria della signora della mensa. Grigliava delle melanzane con poca voglia di vivere. Glielo si leggeva negli occhi spenti e nella mano sul fianco, sul cui dorso aveva tatuato un indice alzato.
La salutai e grugnì come risposta. Ma mi piaceva.
Mentre andavo a prendere il cestello delle posate, sistemato su uno dei banconi, venni travolto da Giulietta. Portava in equilibrio almeno sei pentole sporche una dentro l’altra. Era un’ambientalista vegana femminista, e aveva un’idea chiara su qualunque cosa. In pratica era una rompi palle di professione, oltre che una brava lavapiatti. Aveva i capelli grigio topo a chiazze nere, perché era contro la tintura per capelli; non aveva il telefono perché era contro la schiavitù della tecnologia; e aveva il corpo ricoperto di peli perché era contro gli stereotipi della donna col fisico perfetto e perfettamente depilato.
Mi chiese scusa un’infinità di volte per la botta al petto, prima di urlarmi di stare più attento io. Mi piaceva.
All’angolo delle pizze c’era Alfredo, l’unico uomo dello staff, a parte me. Era un bell’uomo di mezz’età che si manteneva giovane andando in palestra e a correre quasi ogni giorno. Era fissato per l’arte e il monopoli, e in una discussione era quello che doveva sempre avere l’idea contraria, anche se non la condivideva, per “creare il dibattito”. Sembrava una versione più umana di Derek Shepherd.
"benvenuto in questo covo di pazzi!" mi gridò dalla sua postazione, continuando a fare le palline di pasta. Lo ringraziai e tornai in sala con tutto ciò che mi serviva. Mi piaceva anche lui.
In sala trovai Carlo, il marito di Angelica. La prima volta che lo vidi pensai che fosse un uomo di un coraggio immenso, per aver accettato di sposare una come la signora Angelica. Poi lo conobbi, e capii che quei due si erano proprio trovati. Due elementi in un mondo di gente quasi normale. Carlo era un uomo dall’aspetto anonimo: occhialetti tondi, camicia a quadri e pantaloni corti. Ai piedi un paio di sandali con calzini bianchi. Era cordiale e piacevole. Lavorava come informatico da qualche parte che non ho mai capito, ma stava sempre a bighellonare a La Bettola, aprendo e bevendo un po’ di vino e parlando con i clienti. Aveva una storia per qualunque cosa.
Carlo e Angelica avevano la casa piena di animali. Quel giorno conobbi Zampotto e Psico. Il primo era un gatto senza una zampa che avevano trovato mezzo morto qualche anno prima davanti la porta del locale. Il cuore tenero di Angelica batteva forte per lui, che considerava come il figlio che non aveva mai avuto. Psico era un cane psicopatico, che io amavo nonostante non fossi mai riuscito ad accarezzarlo. Mi ringhiava sempre.
 
Sorridevo contento, mentre cominciavo a lucidare le posate. I miei anni in quel ristorante si prospettavano quantomeno interessanti. Non avrei mai pensato che quel posto e quella gente avrebbero segnato la mia vita in un modo tanto profondo. E non solo la mia. 



Angolo dell'autore:
ciao a tutti. questa è la prima storia che scrivo, ed è nata proprio a fine serata lavorativa, alle 2:30 del mattino. in questa introduzione ho voluto far una panoramica generale del La Bettola con il suo staff, nient'altro. mancano alcuni personaggi che entreranno a far parte in seguito e manca, ancora, del tutto la tematica romantica. ma ci arriveremo. spero che vi abbia almeno un poco stuzzicato l'idea e che decidiate di leggere anche il seguito, che pubblicherò appena possibile a causa della sessione estiva. spero di non avervi fatto perdere tempo con questa lettura. buona giornata :)

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Capitolo 2
*** 1 - La sorpresa ***


Lavoravo a La Bettola da poco meno di due settimane, e in quell’arco di tempo due considerazioni si erano saldate perfettamente nella mia mente. Numero uno, la signora Angelica era la persona più di cuore che io avessi mai conosciuto, forse anche troppo; e numero due, decisamente la più dura da ammettere a me stesso, io ero assolutamente e innegabilmente un cameriere di merda.

In quella manciata di giorni avevo rotto almeno una decina di bicchieri, purtroppo non tutti a fine serata, scheggiato cinque piatti nel tentativo di tenerli in equilibrio portandoli in cucina e rovesciato non so più quante posate. Ed è un numero decisamente alto se si considera che il mio contratto prevedeva sole tre serate a settimana.

La signora Angelica, ogni volta che succedeva uno dei macelli che con straordinaria maestria ero capace di creare, alzava gli occhi al cielo e sussurrava un’imprecazione, all’inizio. Dopo un po’ ha cominciato a sorridere rassegnata e a raccontare le mie disavventure ai clienti, solo per farsi due risate con loro.

Si, perché le mie abilità come cameriere di merda non si limitavano soltanto a danneggiare qualsiasi cosa toccassi, ma erano specializzate nel far figure pessime. Il giovedì successivo il mio primo giorno, ad esempio, un tavolo era occupato da una signora che festeggiava il suo compleanno con quattro sue amiche. Al momento della torta mi trovo davanti un 3 e un 5 come candeline, e quando Fabrizia mi chiese con la sua grazia femminile “quanto compie, ‘sta cessa?” io risposi tranquillamente “35, se lei ha più di cinquant’anni, io sono Hugh Jackman”. La festeggiata, però, ne compiva 53. Quando la signora Angelica le riferì ciò che io avevo detto a Fabrizia, per elogiare le mie doti di gentiluomo e forse per farmi guadagnare un po’ di mancia, io, che sono un perfetto idiota, interruppi la signora Angelica ed esclamai contento “ah, ma mi ero confuso, pensavo che il compleanno fosse di un’altra”. Il gruppetto rise, ma non tornarono più al locale. Se ci penso, ancora adesso arrossisco per la vergona.

Comunque sia, arrivo al locale anche quel giovedì, con un’oretta di anticipo perché non avevo nulla da fare. Mi dissi che se avessi avuto a disposizione più tempo per la preparazione della sala, avrei fatto meno danni. Entro passando per la cucina, come al solito, salutando Alfredo intento alla preparazione della sua postazione, e Fabrizia che si grattava malamente la schiena tenendo una busta di zucchine in mano.

«Ehi fanciulla» mi chiama Alfredo «come mai così presto oggi?»

«Il bus è passato prima. E poi volevo vedere se riesco a rompere più cose con più tempo a disposizione».

«Più cose te le rompo io, se non impari subito. Con calma, ma subito» intervenne Fabrizia. E io arrossii per l’imbarazzo. Aveva ragione, ma che potevo farci io se ero un totale imbranato? Più che metterci tanta forza di volontà, intendo. Avevo preso ad esercitarmi anche a casa, tutto il tempo che potevo. E avevo finito per comprare un altro set di bicchieri, questa volta in plastica, ma i risultati comunque arrivavano troppo lenti.

Stavo per rispondere a Fabrizia quanto un rumore di stoviglie dalla sala mi riscosse dai miei pensieri.

«C’è qualcuno di là?» domandai indicando la porta grigia rovinata che dava sulla sala.

«Una sorpresa che speriamo ti aiuti. Primo giorno, in bocca al lupo» fece Alfredo con un mezzo sorriso. E scattai in sala.

 

Non ricordo la prima cosa che pensai di Leila in quanto Leila, ma stampata nella mia mente ho un omino con le mie sembianze che balla ed esulta, gridando al cielo e ringraziandolo per quel dono immensamente gradito. E stava semplicemente sistemando i bicchieri sullo scaffale.

«Ciao! Tu devi essere Mattia» mi disse appena si accorse della mia presenza, annunciata dallo sbattere della porta della cucina. «Io sono Leila». E, posato il vassoio di bicchieri che teneva premuto contro il fianco, mi corse incontro tendendomi la mano. Aveva il sorriso più sincero che avessi mai visto.

«Ciao» e le strinsi la mano. «Non mi avevano detto che avrebbero assunto qualcun altro».

«Oh, ma non preoccuparti, non sono qui per sostituirti. Angelica ha detto un qualcosa del tipo “aiutami a togliergli il rotolo di monetine che ha ficcato su per il culo, così magari si scoglie un po’”, ma bada, non ho alcuna intenzione di metterci le dita, sia chiaro. Qualunque cosa tu abbia nel tuo culo, io non voglio né vederla né toccarla» e scoppiò a ridere.

Io arrossii, ma risi anche io. Si, infondo la storia delle monetine era proprio qualcosa che la signora Angelica avrebbe potuto dire di me.

Durante la preparazione io e Leila parlammo come se ci conoscessimo da una vita. Dopo che io le ebbi spiegato le posizioni dell’apparecchiatura, da quale rubinetto uscisse l’acqua liscia, frizzante e tiepida e fatto vedere dove trovare le bevande, lei mi spiegò finalmente come stappare una bottiglia di vino, spillare una birra e portare due bicchieri senza che si distruggessero a vicenda (o forse dovrei dire “senza che io li distruggessi con la mia forza brutale”).

Poi chiacchierammo del più e del meno. Mi disse che si era tinta i capelli di azzurro perché, cito, quello stronzo di Gianni, il suo migliore amico, le ha messo della tintura per capelli a basso prezzo nello shampoo durante un campeggio che avevano fatto in comitiva, ma che lei si era vendicata mettendo del peperoncino nelle sue mutande. Disse che si era pentita di non avercelo messo proprio in tutta la valigia. Questa cosa era successa diversi mesi addietro, ma alla fine l’azzurro le piaceva e le stava anche bene, quindi aveva deciso di tenerlo.

Io le dissi che i miei rapporti con Daniele, il mio migliore amico, erano piuttosto normali: lui tentava di iniziarmi alle feste, ma io rifiutavo, lui tentava di iniziarmi all’alcool, ma io rifiutavo, lui tentava di iniziarmi al sesso occasionale, ma io rifiutavo. In pratica lui era quello fico e divertente, e io ero quello che per serata perfetta intende popcorn e game of thrones.

«Dai, davvero segui il trono di spade

«È tipo la mia serie preferita»

«Non me ne parlare! Ho visto le prime quattro stagioni in una settimana, e solo perché la mattina dovevo fare da babysitter a dei ragazzini rompicoglioni di due anni».

«Ammirato. Ma io sono un fan di vecchia data. Mi appassionai alla serie dalla prima messa in onda ed il mio appuntamento fisso, l’unica cosa regolare della mia vita. Quindi non ho mai fatto le nottate a recuperare niente».

Rise. «Sai?» continuò «non ti facevo tipo da Trono di spade»

Alzai un sopracciglio.

«No? E che tipo ti sembro, scusa?»

«Bah, dai l’idea del tipo troppo precisino e per bene per una serie così rude, esplicita e violenta. Mi ispiri più roba intellettuale.»

«Tipo?»

«I documentari di Piero Angela»

«Sono contenta che andate già d’accordo, zuccherini» intervenne d’un tratto la signora Angelica, seguita dal guaito di approvazione e dal ringhio di Psico, appena entrati nel locale.

 

 

La Bettola vive due particolari momenti di caos da buffet: il venerdì sera, col buffet civile “all you can eat”, bel quale il cibo lo serviamo (per quanto le mie doti lo permettano); e quello incivile, appunto, il giovedì sera. In confronto a questa serata, il sabato sera in pieno agosto è una stupidaggine, me ne rendo conto col senno di poi.

A quel tempo ero piuttosto felice del buffet del giovedì sera. Ancora di più quando vidi che la bravura di Leila non si limitava al non far rompere i bicchieri. Non avevo mai provato invidia per qualcuno, men che meno per una sciocchezza come quella, ma mentre ero relegato al bar a preparare le bevande, guardavo Leila muoversi con grazia e velocità tra i tavoli, mentre quegli animali che la signora Angelica si ostina a chiamare clienti si avventavano sul cibo, e non potevo che provare un certo nodo di fastidio allo stomaco. Leila correva da una parte all’altra del locale con il sorriso stampato sul volto, agilità ed eleganza, come se non avesse potuto far altro nella vita. Io molto spesso mi sorprendevo a ringraziare il Dio nel quale non credevo per non inciampare sui miei stessi piedi. Era frustrante vedere con che facilità Leila riusciva ad essere perfetta nella sua totale inesperienza, mentre io ancora ero di un’insicurezza paurosa.

Molte volte mi sono chiesto come sarebbe la mia vita se fossi capace a fare le cose. E sicuramente, se possedessi almeno un minimo della naturalezza e della grazia di Leila, sarei quantomeno un cameriere accettabile.

L’orda di barbari che si azzuffava per accaparrarsi più cibo possibile intorno alla tavola si dimenava da un po’, quando esternai questo mio pensiero a Leila.

«Guarda che non è così difficile» mi rispose mentre riempivo una bottiglia d’acqua e lei stappava del pessimo vino. «Sei tu che rendi tutto più complicato di quello che è. Scommetto che quando il rotolo di monetine ti cadrà dal culo ti verrà tutto più naturale». E ridendo portò gli ordini al tavolo.

Arricciai il naso, vagamente contrariato, mentre poggiavo una mano sulle mie natiche. Sarebbe stato tutto più semplice se il mio essere un totale imbranato potesse essere attributo solo ed esclusivamente ad un rotolo di monetine su per il culo.

 

Le belve affamate che si contendevano il buffet erano, a conti fatti, solo una quarantina, divisi in un tre tavolate. E l’accanimento verso il cibo sfumò ben presto, così che alle undici appena scoccate La Bettola era già vuota, con Fabrizia che salutava borsa in spalla e Alfredo e Giulietta a pulire la cucina. A me sembrava del tutto ingiusto che Leila pulisse anche la sala, dopo che praticamente aveva lavorato da sola, così cercai di essere il più rapido possibile a mettere le sedie sui tavoli e a spazzare per terra. Mi imposi anche per pulire io i bagni, ma quando finii con quello delle signore, scoprii che lei aveva già finito con quello degli uomini. Era frustrante, ma mi limitai a fare una finta faccia imbronciata con tiepidi occhi di rimprovero, ai quali rispose con una risatina appena accennata.

Anche Alfredo e Giulietta, terminati i loro compiti, salutarono e andarono via. Così, rimanemmo soltanto io, la signora Angelica, Leila e Zampotto, che tutto soddisfatto mangiava i suoi croccantini appollaiato su un tavolo che avevo appena finito di pulire. Bastardo.

«Birretta?» domandò quindi la signora Angelica mentre io e Leila cominciavamo a lucidare le posate.

Scossi la testa convinto. Ho già detto che non sono un appassionato bevitore?

«Si, grazie mille!» esclamò Leila sorridente. Era così fresca e allegra da sembrar appena uscita da una festa più che da una serata di lavoro, che seppur breve, era stata particolarmente intensa. «Tu non prendi niente?»

Stavo per rispondere, ma la padrona di casa mi interruppe dicendo «non sia mai! Sono piuttosto sicura che potrebbe uscire ubriaco con un sorso di coca cola. Ma aspetta! A pensarci bene potrebbe essere di aiuto a farti uscire una certa cosa dalle chiappe! Non mi è sembrato di sentire nessun click questa sera a terra. Tu Lei, l’hai sentito?»

«Non credo proprio» rispose divertita.

«Allora dobbiamo almeno tentare».

 

La Ø2 bionda sbatté sul tavolo davanti a me in un rumore secco. Qualche goccia uscì dai bordi, bagnando la tovaglia che un tempo molto lontano doveva essere stata gialla. La guardai quasi spaventato, tra le risate divertite e crudeli della signora Angelica, che mi fissava con le braccia conserte come una madre che controlla il proprio figlio mangiare le verdure, e Leila, che cercava con tutta sé stessa di mantenere un’espressione seria.

«Io non…» cercai di dire.

«Avanti, non fare storie!»

«Davvero, non la voglio!»

«Muoviti!»

«Non mi va!»

«Ti aiuterà!»

«Non mi piace.»

«Assaggiala!»

«Si può?»

Benedissi la voce di chiunque fosse per aver interrotto quella patetica scenetta. La signora Angelica guardò la porta con l’indice puntato verso di me e le sopracciglia aggrottate verso il nuovo arrivato. Era un ragazzo piuttosto alto, capelli rossicci e una barba leggermente incolta, jeans e maglietta ordinari e un paio di caschi sottobraccio.

«Gianni!» salutò Leila, con un sorriso larghissimo e sincero. «Stavamo facendo un’iniziazione. Ma tra poco dovrei aver finito».

«No, avete finito adesso. È deprimente lavorare con te, Mattia. Ma non desisto. Domani te la berrai, una birra. La considererò una missione» fece la signora Angelica, alzando le braccia teatralmente al cielo e andando verso la cassa, per fare i conti della nostra paga.

Intanto Leila mi presentò il suo amico e gli strinsi la mando, mormorando un “ti ringrazio tantissimo!” davvero patetico, ma non potei farne a meno.

 

Più tardi, mentre tornavo a casa, ripensai a quella birra. Una volta solo, nella mia vita, ne avevo bevuta una. Era il mio compleanno dei miei diciotto anni, il giorno in cui pensavo che la mia vita sarebbe cambiata del tutto. Ma la mia geniale idea di scolarmi una bottiglia da 0.66 da solo come prima volta non si rivelò tanto geniale, e la testa mi girò praticamente subito, accompagnata da un vago senso di nausea. La mattina dopo mi svegliai con un mal di testa incredibile, così mi ripromisi che non avrei più bevuto. Mai. Non volevo ripetere l’sperienza. 


 angolo dell'autore

finalmente la sessione estiva mi concede un attimo di respiro e riesco a continuare questa storia! Il giovane Mattia mi ricorda troppo il me dei primi giorni di lavoro, ma mi sono divertito a rivangare certi ricordi che all'epoca mi fecero morire dalla vergogna.

spero vi piaccia. lasciate una recensione per farmi sapere cosa ne pensate

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Capitolo 3
*** 2- gli stronzi ***


Mio padre ripeteva fino alla nausea: “la madre degli stronzi è sempre incinta”. E, quando facevo l’animatore, l’immagine dello stronzo che mi ero creato coincideva in tutto, con rare eccezioni, con Ivan Casale, il dolce e amorevole ragazzino dai capelli brizzolati a 8 anni, che credo fermamente ancor oggi sia nato con la precisa missione di rompermi i coglioni.
Ivan era stato, per uno strano scherzo di Satana, affidato alla mia specifica supervisione dal responsabile di uno dei tanti campi estivi che ha avuto la fortuna di vedere me come animatore.
«L’ho fatto perché sei bravo!» mi rispondeva ogni volta che, esasperato e in preda agli istinti omicidi, gli domandavo la motivazione del supplizio. E anche se non ho mai saputo se quella frase fosse una risposta sincera o detta solo per mandarmi a cagare dolcemente, mi riempiva comunque d’orgoglio. Così avevo la forza per superare senza ucciderlo o uccidermi conversazioni del tipo:
- Animatore, animatore!
- Mattia.
- Ma sono Ivan!
- Si, e io ti ho detto che devi chiamarmi Mattia.
- Animatore, ho caldo!
- Tuffati in piscina con gli altri bambini.
- Ma non ho il costume.
- Fallo col pantaloncino.
- Ma poi si bagna.
- E si asciugherà.
- Ma non ho l’asciugamano.
- Ivan caro, ci sono 50° all’ombra. Credi davvero di riuscire ad uscire dall’acqua rimanendo bagnato?
- Ma se poi mi escono le piaghe?
- Allora non farti il bagno.
- Ma ho caldo.
E ricominciava.
 
Da quando lavoro a La Bettola, invece, il mio concetto di stronzo si è notevolmente ampliato, sino a comprendere la maggior parte dei clienti, per lo più abituali, del locale. Oppure, per meglio dire, la maggior parte dei clienti abituali estivi del locale, perché forse quella grandissima stronza della madre sempre incinta degli stronzi di cui parlava mio padre partorisce solo in estate.
La prova l’ho avuta quel sabato di inizio agosto, che vide la più grande concentrazione di stronzi che La Bettola abbia visto. O almeno, da quando io sono in sala.
 
Tavolo 1, quattro persone a nome Stracciabuca, ore 7.05. Queste due gentilissime coppie di vecchietti avevano smesso di venire a La Bettola più meno un paio di settimane dopo il mio arrivo al locale, dopo quasi 20 anni di abitudine. Perché? La cameriera che lavorava prima di me dava loro i calici per il vino più grandi e più belli, io quelli uguali agli altri. O almeno questa è la motivazione che ha dedotto la signora Angelica, dato che loro non hanno lasciato spiegazione.
Il loro ritorno al locale sconvolse anche la signora Angelica, che ormai si era abituata alla loro assenza. Li fece accomodare e si intrattenne a chiacchierare un po’ con loro, ma mandò Leila a prendere l’ordine, perché infondo, anche la signora Angelica non li sopportava.
Leila perse quasi un quarto d’ora a prendere quell’ordine, tra una spiegazione e una battuta sui suoi capelli azzurri e sul mio modo “nuovo e tutto del ragazzo” di apparecchiare la tavola. Al che guardai uno dei tavoli che avevo apparecchiato e non mi sembrava così strano, nell’apparecchiatura: coltello, forchetta, bicchiere e tovagliolo come tutte le altre volte. Ok, forse il coltello era leggermente storto. Allungai la mano a raddrizzarlo e corsi dietro il bancone del bar a stappare il vino che avevano chiesto.
Dopo essersi fatti spiegare il menù delle pizze una decina di volte, ordinarono una impepata di cozze e quattro primi diversi. Dal bar sentii l’eco delle bestemmie di Fabrizia, che aveva solo due bollitori, e le risate di Alfredo, che aveva quattro pizze in meno da fare.
«Aspettano, eh!» bofonchiò lei, e cominciò a cucinare. «Io una sono!»
I signori Stracciabuca erano i due più anziani, accompagnati dai loro amici, di cui non ho mai scoperto il nome, ma che identificavo come il signor Frederksen e compagna, perché era uguale. Ero quel tipo di anziano che quando ti vede sente il bisogno viscerale di raccontarti la sua vita, senza pretendere che tu faccia altrettanto. In particolare la signora aveva sempre una storia da raccontare, legata ad una parola che avevi detto, ad una scritta sulla tua maglietta o alla pendenza particolare della collana che avevi al collo.
Quella sera, quando portai il vino al loro tavolo, la signora Stracciabuca mi afferrò il polso e disse: «sai, caro, il modo in cui porti i capelli stasera mi ricorda di una festa che c’è stata in paese quando avevo quasi la tua età, ventisette, giusto?»
«19»
«Era la festa patronale e c’erano le giostre al porto. Io e mio marito ci eravamo appena fidanzati e mi portò alle giostre come appuntamento. Ma io non lo sapevo, quindi misi una gonna e i tacchetti, ero così carina! Se non ché il tacco del vestito si incastrò nel soppalco della giostra e si ruppe! Inutile dirti, poi, quando salimmo sulle giostre! Ero costretta a tenere le mani sulla gonna per non farla alzare! Terribile appuntamento. Ma io ero troppo innamorata e alla fine l’ho sposato»
Risero tutti, allora finsi anche io, mentre mi domandavo cosa c’entrassero i miei capelli con quel racconto. Le storie della signora Stracciabuca, però non erano il motivo del perché li ritenessi stronzi. Anzi, erano anche piuttosto piacevoli, se raccontate alle 7.00, quando non c’era nessuno in sala. Ma la storiella che ti bloccava il servizio alle 9.00 quando ormai la sala era quasi piena e dovevi lavorare cominciava a farti saltare i nervi, soprattutto perché ti teneva ancorato al tavolo conficcandoti le unghie della carne del braccio, con una forza tale che mi chiedevo spesso se non si allenasse a casa ad artigliare la gente. Se non altro, quando sono andati via erano soddisfatti, anche se io e Leila eravamo particolarmente contenti che fossero andati via e basta.
La gioia, comunque, è stata breve, anche se intensa.
Mentre Leila prendeva gli ordini e la signora Angelica si occupava delle ricevute alle pizze da portar via, io dovevo dividermi tra il bar con le bevande, e la cucina col servizio, cercando contemporaneamente di non calciare il ragazzino che correva beatamente in mezzo alle gambe delle persone che ridevano divertiti. Almeno loro. E assistendo a queste scene io mi domando se i genitori si dimenticano di essere tali entrati nei ristoranti, o se credono che i camerieri, tra le altre cose, si allenino a fare slalom in velocità per evitare di colpire giovani pargoli incustoditi. (*Nda: no, perché se ci sono genitori con queste convinzioni, tra voi lettori, sappiate che non è così e il 99% del tempo libero, noi camerieri lo passiamo a recuperare il sonno e a studiare, il restante 1% ad illuderci di avere una vita sociale).
E per ritornare al tema stronzi, mentre mi destreggiavo tra le migliori acrobazie in mezzo alla gente per evitare di fare troppi danni, anche se qualche forchetta mi è sfuggita e qualche piede l’ho acciaccato, ecco che fanno la loro gloriosa entrata i sette del tavolo 5, Barbieri.
«Salve, abbiamo prenotato a nome Barbieri. Spero non ci siano problemi ma non siamo più sette, siamo quindici.»
#rumore di tuono nella mia mente.
«E vorremo stare tutti allo stesso tavolo. Sa, è il compleanno della piccola Mariagioia.»
Così prego il Signore che non faccia girar troppo le scatole ai clienti già accomodati da un quarto d’ora in attesa di antipasti se mi allontano un attimo, urlo con quanto fiato ho in gola maledizioni contro i Barbieri, e torno a montare loro il tavolo. Si, montare. Perché non ci sono tavoli da quindici, normalmente, a La Bettola e mi tocca montare prolunghe e contro prolunghe, nonché apparecchiare, mentre la signora col vestito di velo si lamenta della sedia di paglia battendo il piede e non vorrei far altro che batterle una pentola sulla testa per farla smettere. Comunque sorrido e chiedo loro di attendere la preparazione del tavolo e decido di saltare la parte dell’urlare maledizioni, limitandomi a farlo interiormente. Perché dentro di me urlavo davvero forte.
Da quel momento la serata è proceduta abbastanza regolarmente, con tanto di spettacolo comico per i clienti, a quanto pare, perché la risata a boato che ho scatenato scaraventando un piatto a terra, grazie a Dio vuoto e grazie a Dio non in testa al pargoletto incustodito, caduto per evitare proprio il pargoletto incustodito e l’adorabile sorellina, è stata degna dei migliori cominci d’Italia.
Il culmine del divertimento, tuttavia, è arrivato col tavolo 21. O meglio, col vecchietto zoppo del tavolo 21. Aspettava da un po’ di tempo le pizze, ma una mezz’ora al massimo a voler esagerare. Contando che in otto si erano mangiati dieci porzioni di fritture fra patatine, misti e calamari, la fame si era acquietata, per il momento. Ma a quanto pare il tasso di stronzaggine no, così mi trovai con una pila di piatti in mano a discutere col vecchio al centro della sala, perché voleva mangiare.
Disse «questa è la prima volta che vengo a mangiare qui, e non è un buon biglietto da visita, ragazzino, far aspettare ore prima di servirci.»
«Signore, a parte che non è vero che è la prima volta perché è venuto anche ieri e l’altro ieri. E nemmeno che state aspettando ore. Comunque le vostre pizze sono sul banco, stanno arrivando. Se mi lascia il tempo di raggiungere la cucina vi servo immediatamente».
E lui, fiero, se esco con: «io ho il bastone, ragazzino. Alle poste mi fanno passare avanti!»
Fermi tutti.
Guardai accigliato il vecchio davanti a me, che agitava in aria il suo bastone per farmelo vedere bene, a sottolineare che non stava mentendo. Lui aveva davvero il bastone e io dovevo davvero farlo passare davanti gli altri tavoli. Il bastone. Il bastone?! Ma dico, ti pare stiamo alle poste, qui? Magari! Mi pagherebbero meglio.
«Senta, non so la politica che trova alle poste, ma in un ristorante non può passare davanti le altre persone perché ha il bastone», anche perché tu mangi con la bocca, non col piede zoppo. E se non mi lasci lavorare in pace ti azzoppo anche l’altro piede.
«Dovrei, invece… dovrei!» e si allontanò per andare nuovamente a sedersi, seguito dallo sguardo sbalordito mio e della signora Angelica, che aveva assistito alla scena.
La guardai e dissi: «non l’ho sognato io, vero? L’ha detto veramente?»
«Si… si, lo ha detto davvero».
 
Fare il cameriere, comunque, ha anche diversi lati positivi, tipo quello di riuscire a farti apprezzare le cose belle della vita. In mezzo all’odio per la mancanza di rispetto, all’incomprensione delle situazioni e alla svalutazione a schiavo che i clienti hanno di te, ci sono le piccole cose da apprezzare. E non sto parlando del “grazie, arrivederci e buon lavoro”, che solo Antonio riserva a Leila, ma proprio delle piccole cose, come il sedersi. Beato riposo di gambe e glutei che manco i fratelli Brownlee** possono capire.
Quando anche l’ultimo stronzo se ne fu andato, le stoviglie lavate e le posate lucidate, ci ritrovammo io, Leila, la signora Angelica e Giulietta seduti tutti intorno al solito tavolo, loro con la birretta in mano, io con un bicchiere da birra vuoto ridicolizzato con dell’acqua liscia, ad intavolare una piacevole discussione sulla qualità altissima della nostra clientela.
«Comunque i veri stronzi sono quelli tipo il tavolo 25, dodici cristiani e manco 0.20€ di mancia» sosteneva Leila.
«Ma dai, che se ti lasciavano 0.20€ li rincorrevi e glieli lanciavi addosso, come quei sette di ieri» la rimbeccò la signora Angelica, tra le risate generali.
«In effetti quella è taccagneria. L’apoteosi della stronzaggine è stato Cosimo al 13!» sostengo io. «Cliente da una vita e non ti rendi conto che abbiamo un solo forno dentro cui ci entrano sei pizze e se ci sono 40 persone davanti non puoi essere servito prima perché sei amico del capo, quindi è inutile che pretendi a fare che tiri fuori le tue merdosissime pizze dal taschino del mio grembiule?»
«Per non parlare dei tre del 34. Perdo venti minuti a spiegare il menù non una, non due, ma tre volte, la signora continua a fissarlo per altri dieci minuti per poi ordinarmi quella dannatissima margherita che avrei solo voluto rovesciarle addosso quando gliel’ho portata.» annuii in segno di assenso.
«Margherita» sbuffò Giulietta. «Può mai esistere pizza più banale?»
«Non è la margherita in sé ad essere banale» spiegai «ma è il fatto che non puoi sprecare un quarto d’ora per scegliere la margherita, se hai dovuto aspettare già venti minuti per ordinare, che ci sono cinque tavoli avanti e sei dopo di te!»
 
Serata sfiancante e finale in dibattito costruttivo. La Bettola: scuola di vita.
 
 
 
 
* riflessioni dell’autore
** i fratelli Brownlee sono stati, per chi non avesse seguito le olimpiadi di Rio 2016, oro e argento al triathlon.
 
NDA
Allora, prima mi scuso per la lunga attesa del capitolo. Sarebbe inutile dire che non l’ho pubblicato prima per mancanza di tempo, perché non è stato così. O almeno non fino alla fine. Con la sessione estiva, il lavoro sfiancante e il desiderio di voler una vita sociale il capitolo è stato solo accennato, poi abbandonato con l’inizio del nuovo anno universitario, che ha portato la mancanza di ispirazione. Non la mancanza di materiale su cui polemizzare. Quello non manca mai.
Spero di non aver scritto scemenze, di non avervi fatto annoiare o di aver deluso le aspettative. Ora vado a dar da mangiare al mio cane che mi sta distruggendo il timpano per richiamare l’attenzione.
Buona serata, grazie per la lettura e lasciate un commento per farmi sapere cosa ne pensate. Ciauuu

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Capitolo 4
*** 3- L'inizio ***


Mia madre sosteneva spesso che gli amici sono la nostra seconda famiglia, a volte addirittura migliore della nostra d’origine, perché è quella che ci scegliamo noi. Onestamente non sono mai stato molto d’accordo con questa definizione. Almeno non del tutto.
Come primo punto, io non mi sono mai scelto gli amici. Con questo non voglio dire che non ne avessi, per carità, ma sono sempre stati i compagni di classe, gli amici del calcetto, gli amici di nuoto, i compagni della biblioteca e i deficienti del mare. Insomma, gente con cui mi trovavo costretto, per la maggior parte dei casi, a passare del tempo perché avevo avuto la sfiga di incontrare e di condividere quartiere, passioni e lido.
Ma se, col passare del tempo, con gli altri ragazzi che conoscevo il rapporto è andato scemando, con quella che, inizialmente, era solo “la mia collega del lavoro serale” si stava cominciando a creare uno di quei rapporti che sembravano destinati a durare, come solo con Daniele era successo. Sarà stata la spropositata quantità di tempo che passavamo insieme, o il fatto che fosse un tipo di persona completamente diversa da quelle che ero solito frequentare, ma lei mi piaceva tanto e i momenti che passavamo insieme erano sempre piacevoli.
 
La nostra amicizia era cominciata quella sera di settembre, sabato, che avevamo fatto solo cinque coperti e avevamo chiuso per le undici nemmeno. Né io né Leila avevamo voglia di tornare a casa, così l’ho accompagnata a prendere una birra, vergognandomi come un ladro a bere il mio delizioso bicchiere di thè al limone. Non era il fatto del thè in sé per sé, ma quando l’ho chiesto il barista mi ha guardato stortissimo e mi ha detto: «limone? Ma sei serio? Le bestie di Satana prendono il thè al limone!»
«Allora non ti conviene farmi incazzare» gli ho risposto guardandolo negli occhi, ma quello era scoppiato a ridere, insieme a Leila, e io mi sono sentito morire, non sapendo se le risate erano dovute alla mia battuta, probabilmente uscita male, o al fatto che come bestia di Satana risultassi davvero poco credibile.
Quella sera io e Leila parlammo davvero per la prima volta.  Insomma, qualche parolina durante o dopo il servizio ce l’eravamo scambiata, si intende, ma non era certo una conversazione seria e, di certo, non potevo dire di conoscerla.
Così «allora, cosa fai nella vita, a parte la Cameriera-SchiavaDegli StronziSenzaRispettoDeiNostriClientiDiMerda?» chiesi una volta seduti al tavolino tondo del bar, in mezzo a una cinquantina di persone che non sapevo abitassero in paese.
Rise.
«Studio Chimica. Ho appena finito il primo anno. E fra un po’ si comincia il secondo»
«Ah! Napoli o Roma?»
«Napoli. Trenitalia permettendo dovrei arrivarci in un’oretta, mentre per Roma sono già un’ora e mezzo, senza contare metro varie che non so prendere perché ho un senso dell’orientamento che fa schifo.»
Risi.
«Si!» continuò. «Pensa, sono quasi vent’anni che vivo in questo stramaledetto paesino e mi sono persa non so più quante volte.»
«Ma se è una sola via!»
«Appunto! Senso dell’orientamento di merda!»
Le dissi che, invece, io non studiavo nulla. Avevo lasciato gli studi una volta terminato liceo, ma alla sua richiesta di ulteriori spiegazioni le dissi che non mi piaceva studiare e volevo subito la mia indipendenza, giustificando che non ero tipo da grandi sogni e grandi ambizioni e che volevo impararmi un mestiere e vivere così, senza perdere tempo a diventare un barbone acculturato col pezzo di carta. Cercavo di tagliare il discorso, non avevo proprio voglia di parlarne. Lei rise.
«Dai, seriamente! Devi ammettere che la storia del barbone acculturato ha un certo fascino».
«Seriamente! E tu perché hai scelto di fare proprio Chimica?»
«Che domande, così posso sintetizzare la droga e diventare ricca sulle spalle dei coglioni che si drogano. Mi sono già messa d’accordo con Gianni, che fa Architettura, e lui è disposto a progettarmi il laboratorio sotterraneo vicino casa mia. È perfetto!»
 
Il resto della serata procedette per lo più in maniera tranquilla, qualche battutina, una sua seconda birra, un po’ di chiacchiere e poi la accompagnai a casa, con la promessa che avremmo fatto altre di quelle serate.
Così la birretta-thè post servizio divenne praticamente un’abitudine, aggiungendosi rapidamente al caffè pre-servizio e a qualche colazione sporadica quando la mattina non dovevo lavorare al bar, ossia il lunedì.
Daniele, allora, divenne assillante. Credo di aver cominciato a parlare davvero spesso di lei, perché non aveva mai insistito così tanto nel conoscere dei miei amici. Va bene, devo ammetterlo, non aveva mai insistito perché quello con tanti amici tra me e lui era lui. Si può dire che Daniele fosse il mio unico amico, all’epoca. Credo gli sembrasse strano che io conoscessi e frequentassi persone al di fuori di lui.
Gliela presentai, allora, un mercoledì pomeriggio di inizio ottobre, e lei venne insieme a Gianni. Il primo commento del mio amico Daniele è stato un sussurro al mio orecchio con «carina, la tipa. Chissà se si è tinta di azzurro anche sotto». Si è guadagnato una gomitata nelle costole ed è finita lì, con lui che rideva quasi con le lacrime agli occhi.
Daniele e Gianni si trovarono praticamente subito, complice la comune passione per la Juve che sto ancora cercando di capire. E quello fu un piacevole pomeriggio che passammo in spiaggia, con la chitarra di Daniele e il canto consapevolmente stonato di Leila a rovinare qualsiasi cosa, tanto che a un certo punto abbiamo rinunciato per disperazione. Riprendemmo, però, praticamente immediatamente, con Leila che ballava tutta intorno a noi ad occhi chiusi e piedi scalzi sulla sabbia fredda, manco fosse piena estate. E non è che sapesse ballare così bene.
Sinceramente ne fui davvero sorpreso. Dopotutto, sul lavoro dimostrava di avere una grazia fuori dal comune, che invece andava completamente a farsi fottere quando tentava di ballare. Sembrava una foca che cerca di tornare a mare correndo sulla sabbia, che a tratti diventa un pinguino che agita le pinne al cielo. Era davvero una cosa inguardabile.
Ridemmo tanto. Non ridevo così tanto e non stavo così bene da una vita, credo. Quella serata è stata una delle più belle della mia vita. Tornai a casa il sorriso sul volto e la mente serena. Stampai praticamente subito la fotografia che ci eravamo scattati lì, in spiaggia, e la appesi al muro sulla scrivania. Eravamo tutti così allegri e sorridenti. Felici.
Ero felice. Sì, lo ero davvero.
 
 
NDA
Ehilà! No, non sono morto, quindi eccomi ancora qui, sempre in terribile ritardo.
So che qui non si parla del ristorante, ma volevo un capitolo che approfondisse un po’, o almeno cominciasse a raccontare, del legame di amicizia che si instaura tra Mattia e Leila, perché diventerà molto importante nel corso della storia. ed è un legame che prescinde dal lavoro. il capitolo è venuto più corto di come mi aspettassi, ma non volevo nemmeno raccontare troppo. Così è uscita fuori questa cosa, un po’ diversa da quello che avete letto nei capitoli precedenti.
Ringrazio chi ha inserito questa storia tra i preferiti, chi continua a seguirmi, chi lascia un scritto un pensiero e chi legge, sorride e passa oltre.
Baci a tutti, fatemi sapere cosa ne pensate, e al prossimo aggiornamento!

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