Fritto misto di paranza (tutto quel che non saprei dove mettere)

di PandorasBox
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Close your eyes and leap! ***
Capitolo 2: *** Il tempo che ho lasciato ***
Capitolo 3: *** Il tempo che ho lasciato per inseguirne altro ***
Capitolo 4: *** Fixing up the car to drive in it again ***
Capitolo 5: *** Baby, look at us, any fool could see ***
Capitolo 6: *** Si può sbagliare senza perdere affatto ***
Capitolo 7: *** These are the nights that never die ***
Capitolo 8: *** Che il tempo era pronto a guardarci partire. ***



Capitolo 1
*** Close your eyes and leap! ***


Close your eyes and leap!







Ci sono decisioni di cui, lo sa benissimo, pentirsi è più facile del previsto.
 
Si era pentita, ad esempio, di aver comprato quel costume che ha preso perché "Costa così poco!" e che ora indossa e, a suo dire, le fa le tette piccole –che poi, ad essere sinceri, il problema è quel che c’è sotto quella poca stoffa, non la stoffa in sé.
 
Si era pentita di aver dimenticato gli occhiali da sole a casa, non esattamente un’idea geniale visti i suoi occhi chiari, ed aveva tenuto la fronte aggrottata per talmente tanto tempo da aver mal di testa.
 
Si era pentita di non aver portato qualcosa per ascoltare la musica tranne il suo iPod mezzo scarico e tutto vecchio («Rispetto per questo reperto storico, ragazzina, ha combattuto la guerra di secessione!»).
 
Si era pentita di aver menzionato quella giornata al mare a suo fratello che, felice e contento e con quella sua espressione da bambino davanti ad un sacchetto di caramelle, aveva detto che sarebbe venuto anche lui.
Ed avrebbe portato Piper, perché guai a muoversi senza di lei.
E lo avrebbe detto a Percy perché, praticamente, sono lui e suoi fratello ad essere fidanzati e poi, vuoi mettere?, Percy ama il mare (e Talia ha evitato di fargli notare quanto tale affermazione sembrasse gay). Con Percy sarebbe venuta Annabeth perché quei due sono esseri simbiotici e si è ritrovata più di qualche volta a chiedersi quando quei due abbiano ipotecato la loro vita come singole entità per imbarcarsi in quella storia.
E Percy avrebbe sicuramente avvertito Grover, figurarsi, ha da farsi perdonare troppe cose per non invitarlo a qualsiasi cosa lui faccia.
Con Grover si deve contare nel pacchetto anche Juniper e non ha assolutamente voglia di star a sentire i suoi discorsi sulla salvaguardia delle balene e l’inquinamento delle acque da parte delle navi da crociera quando potrebbe semplicemente godersi qualche attenzione della sua ragazza, prendere il sole e rilassarsi.
Però ormai era andata.
 
Si era pentita dell’essersi lasciata convincere dall’espressione speranzosa di Jason ed aver mandato a puttane ogni speranza di una giornata come si deve.
 
«Tu sei troppo buona, Lia.» aveva detto Reyna, quella mattina, mentre metteva stuoie ed asciugamani nel cofano della macchina e Talia aveva sospirato perché, no, lei non è affatto buona, è colpa di suo fratello se lo diventa. Reyna dovrebbe conoscere il problema, dopotutto, ed essere più comprensiva di quanto già non sia.
 
La decisione peggiore (la più peggiore di tutte, perché non esistono forme grammaticalmente corrette per descrivere la cosa), però, è stata ascoltare suo fratello ma, soprattutto, raccogliere la sfida dell'uomo pesce: in piedi sul bordo della scogliera, Talia si pente di ogni peccato commesso nella sua vita e si impegna a tenere gli occhi serrati.
«Ho paura delle altezze» si era lamentata, tentando di non salire su quello scoglio («Che vuoi che siano tre metri o poco più di dislivello?» la prende in giro Percy e vorrebbe rispondergli che neanche tre denti in meno sono poi tanto ma si trattiene) e la risposta di suo fratello era stata calma e dannatamente illogica.
«Non preoccuparti, il trucco è non guardare giù!» le aveva detto, non lasciando la mano che lei gli stava strizzando da quando Reyna si era buttata come se nulla fosse —e la chiamava sguazzando felice nell'acqua, dannata!
«Ma se devo...tuffarmi!!» erano state le ultime parole, strozzate e per metà urlate dopo la "gentilissima spinta di incoraggiamento" che quell'idiota di suo fratello e l'altrettanto idiota amico Percy Jackson le avevano dato e che la stava facendo volare giù dalla scogliera e, se lo sente, morirà. Morirà senza aver detto addio a Reyna e al suo pappagallino Paquito che ora non avrà più modo di beccarle l'indice.
Se il volo è male, l'impatto con l'acqua è anche peggio e, non fosse per Reyna che la fa tornare a galla, è quasi sicura che sarebbe rimasta sott'acqua un paio d'ore a metabolizzare l'orribile esperienza.
«È stato tanto tremendo?» la voce di Reyna è divertita, i capelli scuri che ondeggiano sul pelo dell'acqua e lei vorrebbe davvero non riservarle quell'espressione da cucciolo spaurito che è sicura di avere.
«La prossima volta andiamo in parapendio, allora.» e per poco Talia non rischia di soffocare con la poca aria che ha ripreso.
 
 
Quando un paio d'ore dopo, mentre ormai stava calando la sera, Grover era tornato -perché a lui quella cosa di tuffi ed affini non interessava, era finito a visitare una piccola riserva lì vicino con Juniper- nota l'assenza di Percy e Jason e sente l'inconfondibile odore (che per lui è puzza) di carne che cuoce sul loro falò improvvisato, Talia che armeggia intorno al fuoco come se non avesse fatto altro nella loro vita, le altre ragazze che aprono pacchetti di patatine.
E quando, dopo ormai mezz'ora, prova a chiedere che fine abbiano fatto, la risposta di Talia è semplicemente alzare lo sguardo dal fuoco e chiedere «Li cuociamo tra poco. Vuoi un pezzo in particolare?» con un'espressione  talmente seria da fargli passare la fame e fargli temere per l'effettiva incolumità dei suoi amici.
Sente le altre ragazze -Juniper compresa- ridere e non capisce davvero cosa ci sia di tanto divertente.

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Capitolo 2
*** Il tempo che ho lasciato ***


  • Note:

 

L'ho aspettata ed è arrivata: la Jason Week dello spingshower di CampMezzosangue mi è piombata tra capo e collo ed io, nel mio delirio da universitaria male organizzata ho fatto quel che ho potuto (ovvero: un casino). L'idea è nata dal prompt del lunedì + un prompt segnato da chissà dove (ma soprattutto chissà quando) sul mio quadernino dei prompt. Non c'è poi troppo da capire, come in ogni mia storia, perché io non so lasciare indizi ed il mio cervello ragiona in linea retta. 

(La canzone, come al solito, la offre Area765 )





 

"Il tempo che ho soltanto immaginato è quello che mi stringo nella tasca

 Lì dentro ce n'è quanto ne vuoi per mischiarlo con quello che mi resta"

 








Praticamente i problemi di Jason, a patto che possano essere chiamati problemi, hanno tutti un nome e cognome -o quanto meno un indirizzo- e questo li rende stupidamente veri e fastidiosamente consistenti.

I suddetti problemi sono tutti annotati in bella grafia -perché se scrivesse come si sente di scrivere, probabilmente sarebbe il primo a non capire- su quella lista che tiene attaccata al frigorifero con una calamita che sua sorella si è premurata di spedirgli da chissà dove («Percy, hai idea di dove sia Tallin?» «Non può esistere una città che si chiama Tallin!») e che osserva almeno una volta al giorno per essere sicuro di non mancarne neanche uno. Perché, nella sua testa, continuare a guardare quella lista farà arrivare il momento in cui, magari, cancellerà uno dei punti e risolverà uno dei problemi.

È fiducioso ed ha tempo.

Alcuni problemi sono del tutto ordinari, altri sono assurdi, altri ancora probabilmente non sono neanche problemi. Quella lista però è la sua ancora e lui deve fidarsi di quell’ancora altrimenti la corrente diventa troppo forte e fa la fine di sua madre. Talia gli ha fatto giurare di non fare la finire di sua madre, Hazel gli ha fatto giurare di trovare un’ancora.

Deve ricordarsi di chiamare Talia e di passare da Hazel dopo le lezioni, a proposito.

Perché ora il problema in cima alla lista lo ha scritto solo nella sua testa e lo ha anche sottolineato di colori sgargianti per non perderlo d’occhio ─ come se si potesse, poi.

 

«Se continui a pensare ti va a fuoco il cervello.» aveva detto Percy, senza staccare gli occhi dal libro che tiene sulle gambe e che cerca, con non poca fatica di decifrare: programma fatto a posto o meno, la dislessia lì è e lì resta però resta anche il college e quindi denti stretti e si va avanti.

Da qualche parte, al piano superiore, si sente un gran fracasso ed una valanga di oscenità in spagnolo. Percy ghigna e Jason si sente in dovere di alzare gli occhi al cielo: vive con due scaricatori di porto su una “barca” in mezzo alla tempesta e, paradossalmente, soffre di mal di mare.

 

«È la ragazza che ho conosciuto alla festa.» si costringe ad ammettere con un sospiro, sotto lo sguardo divertito dell’amico che chiude il libro, ormai disinteressato.

Percy caccia un fischio e la testa di Leo fa capolino dal soppalco solo per lanciare qualche altra blasfemia (ed ammette che c’è qualcosa di melodico e quasi affezionato nel modo in cui Leo si impegna a creare certe cose) e chiedere da quando in qua è lui ad essere chiamato con il fischio e non Mrs. O’Leary.

Lui e Percy alzano il dito medio quasi in contemporanea e Leo se ne va ghignando.


Il problema al momento in cima alla sua lista ha un nome e cognome (Piper McLean, l’ha sentita dirlo al telefono a chissà chi), un profumo buonissimo e due occhi che lo inchiodano agli armadietti e la voce più melodiosa che abbia mai ascoltato e «Madre de Díos Jason, sei imbarazzante!» e sì, sì, ora la smette.

Perché l’altro suo problema è il fatto che non si sia mai neanche avvicinato per sbaglio ad una ragazza ─ cioè, sì, c’è stata Reyna ma la loro era più una cosa da “ti ho intorno da quando siamo due marmocchi e sento di doverti star vicino, oh, aspetta, no ora è passato”, quelle cose da film scadenti per adolescenti che non sono assolutamente vere ed infatti ora Reyna se ne sta per fatti suoi e gli dispiace solo che sia finita senza iniziare.

Gli dispiace anche non aver detto niente a quei due per un paio di mesi ma li conosce, li conosce troppo bene, finirebbero per rovinare qualsiasi cosa senza volerlo e solo respirando, perché loro le cose le fanno prima e ci pensano su dopo e mica tutti se lo possono permettere. Lui, Jason Grace, non può permetterselo perché altrimenti cosa le fa a fare le liste? Ha tempo, certo, ma mica ne ha da perdere!

Però Piper risponde al suo messaggio ed un mezzo spiraglio di luce lo vede ─ anche se gli sa di luce in fondo del tunnel e lui vede bene di non avvicinarcisi neanche per scherzo.

Si danno appuntamento di lì a quattro giorni e Percy e Leo ghignano perché sono stupidi ma sono i suoi migliori amici e lui può sentirsi quasi felice.

Praticamente il mondo gira per il verso giusto.





 

Praticamente Jason è morto.

È morto il giorno delle idi di marzo e le uniche coltellate gliele ha date la Vita, come se un paio non le avesse già sferrate e non potesse ritenersi più che soddisfatta.

Un attimo prima si stava versando il caffè ed un attimo dopo, BAM!, steso a terra e ciao ciao sogni di diventare qualsiasi cosa volesse diventare.

A nulla è servito lamentarsi che tra una manciata d’ore sarebbe dovuto finalmente uscire con Piper: un attimo prima respirava e rideva con i suoi coinquilini ed aspettava il buongiorno da parte della sua quasi ragazza, un attimo dopo non c’era più niente da aspettare.

Fine della storia.

Neanche il tempo di scriverle su Messenger che il loro appuntamento è rinviato a mai più.
Mesi passati ad inseguirsi e mezzo secondo per perdersi, che burlone il Fato! Di nuovo una storia che finiva senza cominciare, divertente!

 

 

Praticamente è stato un incidente di percorso, continua a ripetergli il piccoletto di fronte a lui (e quindi è stato quel soggetto a tagliare le gambe ai suoi progetti?) tra  una scusa e l’altra, legge e rilegge la lista da cima e fondo e poi trova l’inghippo e, Dio!, ora chi lo sente il Capo? Perché ha ucciso Jason Grace e non John Green e quello è un problema, chissà se la sua assicurazione copre sta cosa, insomma, lui ha una famiglia da mantenere, il lavoro non lo può perdere, tra l’altro è ancora in prova!

«Ma John Green lo scrittore…?» chiede Jason con una certa curiosità ed una tranquillità che non capisce ed il piccoletto annuisce distratto poi, di nuovo, si spalma una mano in faccia e comincia ad armeggiare con il telefonino.

Perché lui ci ha provato a dirgli che ormai il danno è fatto e lui vorrebbe solo togliersi da davanti alla porta e capire cosa deve fare della sua vita (ormai finita) però l’altro non sembra proprio starlo ad ascoltare e, d’accordo, se proprio non ha voglia di starlo a sentire che almeno lo rimandi nel suo corpo ché si sta freddando e non gli pare proprio il caso di lasciarlo così.

«Fanculo, il wifi prende sempre così male nell’Alto dei Cieli!» borbotta e Jason è perplesso.

«Non dovrebbe funzionare bene, insomma, il Paradiso…?»

«Senti, ragazzino, perché pensi che tutti vogliano andare all’Inferno? Il wifi funziona meglio, ecco perché! E c’è l’open bar ogni venerdì e sabato. L’unico problema è sopportarsi un po’ di gente, vedi Adolf e quel tizio...Josif?, ma pazienza.»

Il piccoletto prova di nuovo a chiamare e, mentre una voce chiaramente registrata gli ripete di lasciare un messaggio dopo il coro angelico, Jason si chiede se ci sia un’uscita di sicurezza, magari una porta sul retro, così se la svigna e magari si trova un paio di pantaloni. È morto in mutande e con un’improbabile maglietta della squadre di pallamano, diciamo che si aspettava il trapasso in abiti un po’ più decenti, se deve passare il giudizio divino vorrebbe farlo vestito, letteralmente solo vestito e non in mutande. Sembra uno dei suoi sogni ed invece è tutto mortalmente vero.

«Senti, cocco, facciamo che ti do la chiave e la stanza te la trovi da te, va bene? Tanto non sei né buono e né cattivo e mi sa che una decina centinaia di anni di Purgatorio te li fai, se sei bravo ti scontano la pena, vedi di non fare come quelli che inforchettano la mano della gente con le posate di plastica e tra diciassette massimo diciotto secoli stacchi il biglietto destinazione Paradiso. Fatti una buona tariffa dati, nel frattempo.»

E così com’era arrivato il piccoletto era sparito e Jason era rimasto come un cretino, in mutande e con addosso la maglietta della squadra di pallamano, solo e decisamente morto.

Guarda l’orologio che tiene sempre al polso, anche quando dorme, e vede che ormai non funziona più, fermo sull’orario, un triste promemoria del fatto che non vedrà mai Piper tra qualche ora.

Nero su arancione il suo orologio constata che è martedì 15 marzo.

Si sente un po’ Giulio Cesare, che gioco del destino morire alle idi di marzo!, e si ricorda perché non ha mai amato il martedì.

Giulio Cesare gli era anche abbastanza simpatico ma se lo incontra, lo giura, un pugno sul naso non glielo risparmia nessuno. Con qualcuno dovrà pur riprendersela, no?

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Capitolo 3
*** Il tempo che ho lasciato per inseguirne altro ***


"Il tempo per cui vale la pena è quello che decidi solo tu

Io da qui ne vedo già un bel po', e se vuoi ne prendo anche per te."






 

Ci sono tre modi per guardare alle cose: quello giusto, quello sbagliato e quello necessario.

 

Quello giusto è tipico delle persone misurate, quelle che hanno la vita in pugno e possono stringere ed allentare la presa quando vogliono. È il punto di vista di chi sa che, semmai qualcosa dovesse andar storto, potrebbe comunque raddrizzarlo con uno schiocco di dita ed un po’ d’olio di gomito.

Inutile dirlo, lui non ha mai avuto la fortuna di vedere le cose da quel punto di vista, neanche nei periodi migliori.

 

Quello sbagliato è tipico di tutti gli altri, è il modo in cui la maggior parte del mondo si approccia ad una difficoltà perché piangere prima ed agire poi è assolutamente più semplice che cercare una soluzione in tempi consoni e comportarsi come persone civili.

Lui, per tutta la sua vita, aveva visto le cose dal punto di vista sbagliato ed aveva ricevuto come premio una dose formato famiglia di astio e rancore. Non è una cosa che consiglia e sta cercando di smettere.

 

Quello necessario, invece, è il punto di vista di chi vuole risalire la china, di chi si rende conto che le montagne che vedeva sul suo cammino erano solo sassi e che, volendo ed impegnandosi, impara che aggirarli è molto più facili che scalarli a mani nude. Il primo passo, gli dicono, è accettare di non essere più soli e di non poterlo più essere per tutto il resto della vita perché, quando butti giù un muro puoi provare a ricostruirlo da capo ma poi devi sempre cementare le pietre con una massiccia dose di sincerità e allora tanto vale lasciarlo com’è, a pezzi ed ai tuoi piedi, magari chiedere aiuto per portar via un po’ di schifo per poi godersi il panorama insieme.

È una gran fatica ma poi scopri che c’è un bel sole allegro oltre a tanti tramonti tristi, brindi con un bicchiere di limonata e ti godi lo spettacolo.

 

Il primo passo, si dice, lo ha fatto e, certo, ancora deve schivare qualche maceria rimasta qua e là ma sa che non è più solo e che difficilmente lo sarà di nuovo perché non ha più motivo di nascondersi dietro un dito e gli altri non devono più fingere di non vederlo.

Perché se vuole che la gente smetta di trattarlo come un ragazzino spaventoso in perenne crisi adolescenziale, beh, lui deve essere il primo a decidere di non vedersi più così. Perché è stato lui a trasformare un sasso (per quanto grosso e pesante) nell’Himalaya ed ora deve rimediare. Deve imparare a vedere le cose sotto un’altra luce.

Ed è quel che sta provando a fare, sdraiato sul suo letto, la testa penzoloni dal materasso perché gli hanno sempre detto che tutto dipende dal modo in cui si guardano le cose e lui vuole vedere se cambia qualcosa a vederle al contrario.

«Non era esattamente quello che intendevo quando ti ho detto di vedere le cose da un altro punto di vista.» dice una voce divertita fuori dalla sua finestra. Nico sposta lo sguardo dal muro che ha di fronte a quel quadrato luminoso alla sua destra e la prima cosa che mette a fuoco sono un paio di braccia abbronzate, poi un sorriso che taglia ben bene una faccia altrettanto abbronzata ed una massa di capelli biondi e arruffati di chi si è alzato e non se n’è ancora accorto. L’ultima cosa che mette a fuoco sono un paio di occhi chiari che lo guardano a metà tra il divertito ed il perplesso ─ che poi è l’espressione standard dell’altro, sempre in bilico tra l’apprensione e il divertimento e qualcos’altro.

Visto a testa in giù, si dice, Will ha una faccia ancora più irritante che visto a testa in su -a testa in giù somiglia troppo a suo padre, per dire- però il sorriso è sempre quello ed è comunque sempre bello.

E lui è comunque sempre scemo perché se ci pensa si imbarazza ma non c’è un bel niente di cui imbarazzarsi, è solo una constatazione, ma abituarsi ad essere sinceri con sé stessi è un processo lungo.

«Volevo provare a vedere se hai la faccia da scemo anche visto da qui.» replica, non muovendosi di un millimetro e strizzando appena gli occhi per cercare di capire cosa l’altro abbia poggiato sul davanzale mentre cerca di mettersi comodo.

«La faccia da scemo ce l’ho anche visto di lato, pensavo ormai lo sapessi. Sono settimane che mi hai sempre intorno!» è la replica, poi un altro sorriso che gli fa venir voglia di avere gli occhiali da sole ed una domanda «Mi apri la porta o devo scavalcare?»

«Visto che non ho intenzione di alzarmi da questo letto prima dell’ora di pranzo mi sa proprio che dovrai arrangiarti.»



 

Will è uno di quelli che le cose le vede nel modo necessario e un po’ anche nel modo giusto e Nico non capisce come ci riesca perché di schifo sotto mano ne ha avuto parecchio dalla vita ma lui le sorride in faccia e raddrizza le spalle e non sente il bisogno di piangersi addosso.

Forse è così perché è un modello nuovo mentre lui è uno di quelli abbastanza datati, magari questi semidei 2.0 (questi esseri umani 2.0) hanno quella marcia in più che permette loro di non passare la vita a rimuginare, farsi il sangue cattivo e buttar fuori il loro peso in lacrime e negatività.

A volte si chiede se si possa fare l’upload perché non sarebbe male, non sarebbe male davvero.

 

«Comunque i film a colori e tutti questi effetti speciali sono una figata.» dice, per scrollarsi di dosso un po’ di pensieri e perché Will si è girato solo per controllare che non si sia addormentato visto che sono più di trenta secondi che non fa domande ─ e non è colpa sua perché ormai sa chi sono i protagonisti ed ha più o meno capito che quello con la cicatrice è Harry Potter e, davvero, ora capisce perché la gente ci sia entrata tanto in fissa.
Will aggrotta le sopracciglia e sistema lo schermo di quel lettore DVD portatile che, da come racconta, gli è costato un mese di non ha ben capito cosa con quelle due che hanno preso il posto degli Stoll a capo dei traffici loschi del Campo. A suo dire, però, gli sta facendo un favore perché è ora che conosca il Ventunesimo secolo e non capisce come un paio di film sui maghi ed altri su strani supereroi che se le danno di santa ragione possano aiutarlo. Erano molto più utili i libri di storia che gli aveva rimediato un paio di settimane prima, i dischi che continua a portargli, per dire.

Tutt’ora, comunque, le diavolerie inventate negli ultimi settant’anni gli sembrano molto più assurde di una scuola di magia e di tutta la storia di essere figlio di Ade ed aver combattuto due guerre e tutto il resto, quindi decide di godersi i film e non pensarci troppo su. Anche il fatto che qualcuno come Will voglia aiutarlo per il semplice gusto di farlo, poi, lo disorienta ma, ora che ci pensa, deve essere qualcosa insito nell’indole da crocerossino di Solace e quindi la cosa diventa già più plausibile.

«Perché, non c’erano i film a colori quando....?» la voce di Will lo sveglia di nuovo, lo guarda con quel suo sguardo curioso mentre si gratta una guancia come fa di solito quando è imbarazzato ma non lo vuole dare a vedere.
Scuote la testa, allungandosi quel che basta per afferrare un pacchetto di patatine che è quasi sicuro di non aver finito «Hai idea di quando è arrivato il sonoro, Solace? E la TV a colori? Siamo davvero qui a parlarne?»

Will blocca il film ─ male, molto male, perché quello significa parlare e lui mica ancora è così bravo- e si gira lentamente verso di lui e si pente di non aver molta via di scampo perché ora quel paio di occhi azzurri lo scrutano ben bene e, da qualsiasi parte la guardi, quella situazione non è quella in cui vorrebbe ritrovarsi (forse).

«A volte dimentico che sei più vecchio di mio nonno.» borbotta solo, prima di ritirarsi, rifilandogli un’occhiata strana sotto le sopracciglia aggrottate «Deve sembrarti tutto strano.»

«Infatti mi sembra tutto strano.» ammette, stringendosi nelle spalle. «Non so se in bene o in male, però. Non ho avuto tempo per capirlo.»

Will sembra farsi bastare la risposta perché (per fortuna!) decide di far cadere la cosa e gli regala un gran sorriso e riavvia il film «Non una parola, ora, che arriva il pezzo importante» dice solo, mettendosi comodo con la schiena contro il letto, spalla contro spalla, rifilandogli una gomitata.

Silenzio, le immagini scorrono sotto i loro occhi.

«Quindi aspetta, Will blocca un attimo!, il tipo con il turbante ha due teste perché…?»

Will prova a rispondere ma poi ci sono solo un sospiro ed una risata, lo sguardo che si distrae dal film ed un bacio (timido) a fior di labbra.


 

 

«Comunque, no, volevo dirti...e se un giorno di questi ti portassi a prendere un gelato da qualche parte qui a Long Island? Conosco anche un bel negozio di dischi, magari...»

«Stai chiedendo un appuntamento ad uno più vecchio di tuo nonno? Siete così sfacciati, voi giovani d’oggi?»

«Sì, lo sto facendo e sì, lo siamo. La fai sembrare una cosa brutta.»

«Se accettassi sarebbe strano?»

«Non nel Ventunesimo secolo. Basta non dire che sei più vecchio di mio nonno.»




 

Ci sono tre modi per vedere le cose: quello giusto, quello sbagliato e quello necessario.

Quello necessario è il punto di vista di chi vuole risalire la china, di chi si rende conto che le montagne che vedeva sul suo cammino erano solo sassi e che, volendo ed impegnandosi, impara che aggirarli è molto più facili che scalarli a mani nude. Il primo passo, si dice Nico, è accettare di non essere più soli e di non poterlo più essere per tutto il resto della vita, accettare il fatto che, a tutti gli altri, tu possa piacere esattamente così come sei, anche se non hai capito tutta quella storia di Voldemort e cose così.

È accettare di essere capiti ma, soprattutto, accettarsi. Ed è bello, ed è strano ma strano in senso buono, è un po’ come guardare qualcuno a testa in giù e capire che cambia niente ma in realtà cambia tutto, ché tanto le facce sceme rimangono tali ma forse, vista così, anche la tua tanto intelligente non sembra.



 
«Credo mi piaccia, sto Ventunesimo secolo. Vedi di farmi piacere anche il gelato.»

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Capitolo 4
*** Fixing up the car to drive in it again ***


And you can say what is, or fight for it
close your mind or take a risk
you can say it’s mine and clench your fist
or see each sunrise as a gift




«Credevo te ne intendessi di macchine.» sono le prime parole che l’altra pronuncia dopo più di tre ore fermi in mezzo al nulla, tirando un calcio ad una ruota e passandosi una mano tra i capelli - li ha fatti ricrescere, pensa ancora una volta Luke, e le stanno bene anche se così è meno sé stessa e molto più la persona che è voluta diventare ad ogni costo.
«Me ne intendo quanto serve per farne partire una senza avere le chiavi, non so niente di...motori e cose che fumano! Per quel che ne so potrebbe essere anche solo la batteria.» è la sua risposta mentre finalmente esce una volta per tutte da sotto quella maledetta macchina, il telefono con la torcia accesa stretto in mano, la batteria quasi morta.
«Ripetimi quando arriverà il primo carro attrezzi.»
«Domani ma non prima di mezzogiorno.»
«Fantastico! Peccato che io domani, alle undici, dovrei sposarmi!» una risata molto poco divertita esce dalle labbra della ragazza e Luke la osserva alla luce dei fari e delle stelle, il rumore del nulla intorno a loro e le sue mani che vanno veloci a spazzolarsi i jeans troppo impolverati per i suoi gusti.
Talia è bella com’era bella a tredici anni, bella in quel modo tutto suo che ha tutto e niente a che fare con i tratti somatici ed il modo di vestirsi, di parlare.
La osserva attentamente mentre si siede sul cofano, la macchina che cede un po’ sotto il suo peso (che forse è più il peso dei suoi pensieri che altro), e vede la ragazza imitarlo poco dopo.
«Pensi sia una gran cazzata, vero?» la sente mormorare, una risata amara e lo sguardo perso da qualche parte lungo la strada deserta. Vede chiaramente la sua mano giocare con il braccialetto d’argento che indossa sempre, quel gesto che sa di disagio ed indecisione. Luke non può che mordersi la lingua per non far uscire le parole che sente premere contro le labbra.
Perché, sì, quel matrimonio è una gran cazzata, lei vestita da brava ragazza è una gran cazzata, lei che dà retta a suo padre è una gran cazzata, il suo futuro marito, invece, è un gran cazzone ─ ma, dopotutto, chi si aspetta altro da uno che si chiama Dick?
Avevano passato gli ultimi dieci anni della loro vita ad evitarsi: lui aveva cercato in ogni modo di evitarla perché non era quello giusto, non era quello adatto, la figlia dei Grace non dovrebbe frequentare uno così!, ed era bastata una chiamata ed un invito per essere di nuovo insieme, di nuovo in macchina, di nuovo in viaggio.
«Io e te per l’ultima volta, Luke, sulla strada come quando eravamo dei ragazzini.» gli aveva detto al telefono, un paio di mesi prima, e Luke aveva acconsentito perché sarebbero stati loro due sulla strada per l’ultima volta. Un viaggio (l’ultimo) per accompagnarla fino alle porte del municipio e si sarebbe messo l’anima in pace, avrebbe chiuso quel capitolo della sua vita fatto di occhi blu e giacchetti di pelle, di fratellini fastidiosi e voglia di rivalsa..
Non erano neanche alle superiori quando avevano deciso che la loro vita non era quella che volevano, così avevano impacchettato le loro cose in un paio di zaini ed avevano tentato di attraversare il paese. La polizia aveva impiegato quasi tre mesi per riacciuffarli ─perché erano stati bravi, perché erano stati attenti, perché volevano davvero scappare- e quei tre mesi continuavano a tornare davanti ai suoi occhi come i migliori della sua vita. Era bello essere liberi, liberi di decidere anche chi essere.
La prima volta che l’aveva baciata era stato mentre tentavano di serrare le porte di uno spogliatoio di un vecchio campo per poterci dormire dentro, Talia era stata così sorpresa da aver quasi fatto cadere la torcia che teneva in mano. Però poteva farlo perché era libero e perché anche lei era libera di ricambiare.
Poi erano tornati e si erano sentiti più in gabbia di prima, nel giro di un paio d’anni Talia era sparita (anche se non voleva, l’aveva rassicurato) ed era tornato solo. Lui e sua madre, quella casa che non sentiva sua, quella vita che gli andava (e tuttora va) stretta, quei giri che non avrebbe dovuto frequentare. Poi aveva deciso di scappare e scappare e scappare di nuovo: era tornato a casa solo perché non sapeva più dove correre, in realtà. Talia sembrava aver fatto lo stesso ma non era più Talia nonostante ripetesse di non essere cambiata.
Il loro problema, da quel che capisce, è che entrambi si raccontano bugie e si guardano in due specchi appannati che riflettono l’immagine di chi credono di essere e non di chi sono.
«Ti prego, dillo.» mormora Talia, accanto a lui, lo sguardo ora rivolto alle stelle sopra di loro. «Dillo così diventerà tutto vero. Dillo perché è l’ultima volta in cui posso aspettarmi un po’ di sincerità da te.»
«È una gran cazzata.»
«Già.»
Di nuovo silenzio, il cofano della macchina che si abbassa seguendo i movimenti della ragazza accanto a lui, la testa di Talia che si posa sulla sua spalla. Ha gli occhi chiusi e l’espressione rassegnata, si stringe al suo braccio come se avesse paura di scivolare.
«Messico.» mormora, aprendo gli occhi per alzarli verso di lui, un’espressione fiduciosa che Luke, però, non capisce subito.
«Il viaggio di nozze…?»
«No, io e te. Ripariamo la macchina ed andiamo in Messico. Con il mio vestito da sposa puoi sfamare una villaggio africano per due anni, perché non dovrebbe bastare a pagare la banzina per arrivare in Messico?»
«E Dick?»
«Tornerà da Mildred, saranno felici e contenti e verranno a trovarci a Cancun dove tu dovrai sfidarlo a duello per difendere il mio onore.»
Luke lancia un’occhiata al retro della sua macchina, il vestito da sposa di Talia è sdraiato sul sedile passeggeri, le sue valigie chiuse nel bagagliaio, poi un’idea, un lampo di genio, un ghigno che stira le sue labbra senza volerlo.
Che scemo che sei, Luke Castellan.
«Era la tua idea fin dall’inizio?» chiede e, prima ancora di ricevere risposta ride, ride di gusto perché sa che è vero, sa perché Talia perché lo ha chiamato, ha capito.
Talia gli molla un pugno su una spalla (e fa male, la ragazza, si vede che va in palestra!) e sbuffa un risentito «Ce ne hai messo di tempo!» che però viene soffocato da un abbraccio, altre risate, le loro labbra così vicine da potersi quasi toccare.
Ha paura che il suo cuore possa scoppiare e chissà se poi, quelli dell’officina, potrebbero dare un’aggiustatina anche a lui
«Tuo padre mi ucciderà...» mormora solo, sconsolato.
«Mio padre non verrebbe in Messico neanche sotto pagamento, Luke. Perché credi che io abbia tanta voglia di andarci, altrimenti?»


 

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Capitolo 5
*** Baby, look at us, any fool could see ***


 

Note:

Non sempre scrivo per le iniziative ma, quando lo faccio, di solito mi lascio prendere la mano. Tutto questo non è betato, non è riletto, è solo postato con tutta la frustrazione di chi ci mette eoni a scrivere quel che vorrebbe e non viene assolutamente fuori come vorrebbe.



 


 


It's like finding gold

Buried in the shore

Once it's yours to hold

All you want is more

 

Baby, look at us

Any fool could see

I was made for you

And you were made for me

[...]

We could walk away

And just like others would

Or we live our life

Like we know we should





 

Talia è disordinata e lei è stanca di raccogliere le sue mutandine di pizzo dal pavimento della cucina, è stanca di ripescare posate sporche un po’ ovunque, è stanca di dover cercare i suoi vestiti nel monocromatico armadio dell’altra ed è stanca e basta: perché a lei piace avere tutto sotto controllo e così non va.

Talia è tra le peggiori coinquiline che abbia mai avuto la sfortuna di incontrare ma almeno paga il dannato affitto con regolarità e tanto basta per riuscire a sopportare la musica rock a volume improponibile e ad orari non proprio consoni e la sua mania di girare per casa seminuda praticamente ad ogni ora del giorno.

Più la osserva più le sembra impossibile che quella bestia tatuata sia la sorella del suo ex ragazzo, lo stesso ex ragazzo che le aveva chiesto in ginocchio di affittare a lei la camera libera che aveva in casa così da salvarla da quei vagabondaggi che l’avevano portata a visitare qualcosa come venti paesi nell’ultimo periodo viaggiando quasi solo in autostop.

«Non vuole tornare a casa con papà e non le do colpa, ma le serve un posto in cui abitare che non sia un ostello in India oggi ed una tenda in Tibet domani.» erano state le parole di Jason e Reyna non aveva avuto il coraggio di ribattere: dopotutto anche lei era scappata da casa di suo padre, dopotutto anche lei aveva passato anni a cercare il proprio posto nel mondo.

Però non lo aveva fatto sparendo in Mongolia, insomma.

Già andarsene dal Porto Rico era stato dannatamente difficile, non immagina neanche lontanamente cosa possa essere vivere come una nomade cercando di incastrarsi in quel che dovrebbe essere il tuo posto nel mondo.

«Non è difficile.» aveva detto Talia, una mattina, seduta sul bancone della cucina a mangiare il suo gelato per colazione «Viaggiare in autostop, intendo. Una volta, in Argentina, ho detto di essere una missionaria e mi hanno portata in macchina praticamente fino in Colombia. Ho i miei metodi»

«Non so come abbiano fatto a crederti, io non ti darei un passaggio.»

«Oh, non lo so, devono essere strani i missionari, in Argentina. E non ho bisogno di passaggi ora che sono a San Francisco.»

 
*


«Hai una del genere in casa e non ci provi neanche per sbaglio?» Nico la guarda come se volesse prenderla a sberle e ci starebbe, ci starebbe benissimo, se lo meriterebbe uno schiaffo ed anche uno bello forte così magari si sveglia.

Lo ha cercato perché sa che è in città e gli ha dato a malapena il tempo di andare a trovare Hazel prima di chiamarlo come si chiama l’ambulanza in casi di emergenza.

Perché la sua è un po’ un’emergenza, perché la sua coinquilina è assurda e Nico di coinquilini assurdi se ne intende─ dopotutto ha diviso una casa con gente del calibro di Leo Valdez ed è sopravvissuto a qualcosa come tre principi d’incendio - tutt’ora a che fare con un ragazzo che a volte passa le nottate a far maratone di Grey’s Anatomy e Doctor House dimenticandosi anche di mangiare, qualcosa deve pur sapere.

Se avesse saputo che il discorso si sarebbe spostato su Talia e sul suo problema con le magliette extra-large (che, no, decisamente non sono vestiti ma lei si ostina a pensarla diversamente e non metterci assolutamente degli shorts sotto) avrebbe evitato ed avrebbe chiamato, che so?, Frank. Ora che ci pensa, Frank sarebbe stato l’ideale.

Stupida Reyna che ci pensa troppo tardi.

«D’accordo, Octavian non era il più virile dei ragazzi ma questo non significa che sia passata all’altra sponda.» mugugna e, di nuovo, lo sguardo di Nico è più eloquente di mille parole ─ ed è tutto dire, visto il vizio che l’altro ha preso di parlare e parlare e parlare fin quando qualcuno non gli rifila una gomitata.

Nico ha capito prima di lei che quella che ha detto è una bugia bella e buona ed è tutto dire, di nuovo.

Perché Reyna non sopporta il disordine di Talia in casa tanto quanto non sopporta il disordine che crea nei suoi pensieri. Quei pensieri che riduce ad una matassa aggrovigliata che non somiglia a niente di tutto ciò a cui Reyna pensa di solito. Solo due notti prima si era svegliata accaldata dopo un sogno fin troppo vivido che l’aveva lasciata confusa, imbarazzata e con la voglia di scoprire dove finisse il tatuaggio che l’altra ha sulla spalla.

Per tutta la giornata aveva evitato lo sguardo dell’altra ragazza, si era rintanata in palestra e, una volta tornata, si era trincerata in camera sua.

«Ho ordinato cinese, esci o mangerò anche le tue nuvolette» aveva urlato Talia dall’altra parte della sua porta ostinatamente chiusa ma Reyna aveva risposto solo con un suono indistinto.

«Fa niente, resterò qui finché non avrai voglia di aprire.» aveva detto Talia ma lei non le aveva dato ascolto e quella era stata la discussione più lunga avuta tra di loro per più di due settimane.

Quando la mattina dopo aveva deciso di mettere il naso fuori dalla camera se non altro per andare in bagno, Talia era ancora seduta accanto allo stipite della sua porta, accanto a lei un cartone di riso alla cantonese mezzo mangiucchiato ed il suo telefono, la testa abbandonata sulla spalla destra.

Perché a Reyna piace avere tutto sotto controllo ma, quando si tratta di lei, di controllo non se ne parla proprio e  sente le sue dita pizzicare dalla voglia di scostarle i capelli dal viso ma si riscuote appena in tempo.

Quando esce dal bagno la sua coinquilina sembra sparita ma basta un veloce sguardo all’interno della sua camera per vederla sdraiata sul suo letto mentre abbraccia il suo cuscino per capire che, di nuovo, non è tutto sotto controllo ed un’altra giornata in palestra non gliela toglie nessuno.

«Stai uscendo?» le chiede l’altra comodamente sdraiata sulle sue lenzuooa, con la voce ancora impastata dal sonno, aprendo appena gli occhi.

Reyna annuisce e Talia sembra farselo bastare.

«Il tuo letto è davvero comodo, credevo volessi farmi compagnia.» è l’ultima cosa che le sente dire prima di chiudersi la porta alle spalle ed andarsene.

 
*
 

«Quello è il suo modo di flirtare.» è quel che le conferma Jason, masticando con gusto il suo panino — ed a furia di frequentare il coach evidentemente anche le sue papille gustative devono essersi bruciate, visto tutto quello che ha infilato tra quelle due fette di pane.

E deve aver notato il disgusto sul suo volto, vista la velocità con cui si scusa ed aggiunge «Non sai cosa significa avere una fidanzata salutista, vivo per i giovedì fast food con gli altri ragazzi.»

Reyna gli rivolge solo un gesto della mano perché, davvero, non fa niente, è comunque amica di Nico anche se le sue abitudini alimentari passano da un estremo all'altro e perché i suoi problemi sono altri, al momento,  e sono più ingombranti di un panino. Reyna non si è mai posta determinate domande perché non ne ha mai bisogno. La storia con Jason era durata abbastanza a lungo da farle capire che, in generale, non è fatta per le storie né per i Jason né per nessun altro. Era stato divertente, all’inizio, dare la colpa di quel fallimento a Piper ma il divertimento era finito presto perché Piper è una ragazza in gamba con la quale parlare dei nuovi rossetti della MAC come del football come del riscaldamento globale e la tratta delle armi nel Centro America.

Quindi il problema deve essere effettivamente lei e niente, non vale la pena farsi domande per per cose a cui non sa dare (e per cui non vuole avere) risposta.

«Comunque se non ti interessa puoi dirglielo, non è di vetro né ha dieci anni.» continua Jason, abbandonando il panino per dedicarle una lunghissima e serissima occhiata. Per una frazione di secondo Reyna nota quanto gli occhi del ragazzo somiglino a quelli di sua sorella ma si ferma prima che il pensiero possa diventare qualcosa di concreto.

«Scusa se te lo faccio notare, ma sei la persona meno indicata per dare certi consigli.»

«Scusa se te lo faccio notare, ma sono la persona che conosce meglio entrambe.»

Reyna sospira, avvilita,  ma nasconde la sua sconfitta dietro un sopracciglio alzato ed un sorso preso dal suo bicchiere di spremuta.

«Comunque la settimana prossima pensavamo di affittare alla “Cabina di Ermes” per una festicciola prima che ognuno torni alla sua vita.»

«Odio quel posto.»

«Chi non lo odia?»

 

Quando è in mezzo agli altri, Talia è completamente un’altra persona: ride, scherza, parla con quel suo tono di voce assordante e si muove come se fosse nata per stare in mezzo alla gente, come se gli altri fossero in qualche modo fatti per starla a sentire ─ e chissà di cosa sta parlando, poi, visto come tutti ridono.

Non ha visto Percy ed Annabeth che per pochi minuti: un po’ chiunque se li sta contendendo, un po’ chiunque vuole sentire del loro viaggio in Giappone sulle orme di un Grover che ha deciso di salvare le balene sparendo senza avvisare.

«Ho incontrato Grover in aeroporto, una volta.» le dice Talia che appare accanto a lei, si  fa versare un bicchiere di qualcosa che sembra limonata ad aggrotta le sopracciglia. Parte della sua espressione allegra è sparita, nonostante il tono resti lo stesso «È stato un caso ed è stato strano, ho deciso allora di tornare a casa. Comunque dovresti divertirti, è una festa, conosci la parola festa? Dovrebbe essere una delle prime che insegnano a chi arriva in America!» poi alza il bicchiere come ad imitare un brindisi e, senza aspettare che lei trovu qualcosa da dire si dirige verso Annabeth per abbracciarla.

Le vede parlare e parlare e parlare, ridere, darsi pacche sulle spalle; Jason e Percy le hanno raccontato qualcosa a proposito della loro infanzia ma lei è stata abbastanza indelicata da dimenticare ed ora se ne pente. Non è gelosa ma vorrebbe sapere, insomma, la sua è solo semplice curiosità.

Una curiosità un po’ ingombrante -più ingombrante di quella collana che adora ma è una tortura indossare- ed parecchio scomoda.

Dal suo angolo da “anima della festa” vede Hazel che tenta di convincere Frank a ballare, un alticcio Will che spiega ad una ancora più alticcia Clarisse come si fa a spezzare un osso («Se sai aggiustarle allora sai anche come romperle per bene!») e tante altre facce che non conosce si mescolano in uno strano amalgama di voci e corpi e vite che non le appartengono e sente il bisogno di uscire un po’.

Il vestito che ha messo , già di per sé stretto, sembra diventare ancora più soffocante.

Niente è sotto controllo ma fuori soffia un vento leggero e fresco, qualcosa sembra andare meglio. Il basso muretto di fronte al locale continua a non essere il posto più comodo su cui si sia mai seduta ed è quasi convinta di aver rotto le calze, i capelli sciolti continuano a solleticarle il naso e si pente di non aver portato nulla per legarli.

«L’ultima volta che sono stata qui Grover aveva messo della musica di merda, doveva essere qualcosa tipo Jesse McCartney o qualcosa del genere. Strano ma vero stasera ho la stessa voglia di andarmene.» la voce di Talia alle sue spalle la sorprende ma poi non troppo, i suoi passi sul vialetto sono quasi riconoscibili ed il modo in cui si siede a cavalcioni sul muretto è così poco femminile e così da lei da riuscire a strapparle un sorriso.

«Credo che anche i proprietari vorrebbero andarsene, chissà perché ci ostiniamo a venire qui.»

«Perché alla fine diremmo così di qualsiasi altro posto.»

Silenzio tra loro ma voci tutt’intorno, musica troppo alta, vestiti scomodi e rossetto rosso. Un bacio inaspettato su quel muretto ed i suoi bracciali che tintinnano mentre le sue braccia vanno automaticamente ad allacciarsi dietro il collo dell’altra, i suoi capelli corti che quasi fanno solletico.

Poi ancora labbra su labbra, mani fredde e pelle scoperta, una scossa ogni volta che i loro bocche si incontrano. È così strano e così normale che fa fatica persino a capire che sta accadendo davvero.

Quando i loro visi si allontanano Talia non dice una parola, non la guarda, indossa solo il suo sorriso migliore mentre scola qualsiasi cosa ci sia nel suo bicchiere.

«Lascia i capelli sciolti più spesso, stai bene.» le dice, alzandosi dal muretto e tornando verso il locale camminando a tempo di musica.

 

Quando Reyna rientra e chiede di Talia, è Annabeth a risponderle che se n’è andata poco prima, a quanto pare non stava troppo bene e lo dice come se ci credesse.

«È stata strana tutta la sera.» aggiunge, come a giustificarsi, giocando con la collana che indossa.

Quando poi aveva chiesto a Jason dove fosse sua sorella lui si era semplicemente stretto nelle spalle ed aveva detto, con tono rassegnato, che per quanto ne sa potrebbe anche essere sul primo volo per la Filippine.

«Non è colpa di nessuno, Rey, è fatta così. È anche rimasta troppo a lungo.» le dice ma Reyna lo blocca prima che possa finire la frase.

«Spero solo non sia davvero su un aereo per le Filippine perché ha le mie chiavi.»

«Allora forse è il caso che tu vada a controllare. Chiama Leo, in caso.»

 

*



Talia è disordinata e lei è stanca di raccogliere le sue mutandine di pizzo dal pavimento della cucina, è stanca di ripescare posate sporche un po’ ovunque, è stanca di dover cercare i suoi vestiti nel monocromatico armadio dell’altra ed è stanca e basta perché a lei piace avere tutto sotto controllo e così non va.

Quando apre per la prima volta la porta della camera della sua coinquilina trovandola sveglia, quasi la stesse aspettando, Reyna si accorge che sta provando con tutte le sue forze ad odiarla almeno un po’ ma non ci riesce.

«Sai che si bussa prima di entrare?» chiede l’altra, la faccia ancora sprofondata nel cuscino, e lei non risponde ma si avvicina, si siede sul bordo del letto e le regala uno sguardo perplesso, un sopracciglio alzato.

«Quando ieri hai deciso di metterci la lingua non hai “bussato”, pensavo di ricambiare il favore.» replica ed il sorriso compare di nuovo sulla labbra di Talia che rotola di lato, quasi a farle un po’ di posto in quel letto che non ricorda di aver mai visto rifatto.

«Mi stai chiedendo il bis nel modo più imbarazzante?»

«Ti sto chiedendo di lasciarmi un po’ di cuscino.» sbuffa e si arrende, sdraiandosi accanto all’altra, le mani incrociate sullo stomaco nel disperato tentativo di non sfiorarla neanche per sbaglio, Talia compiaciuta e stesa su un fianco sembra godersi la scena e il suo glorioso look mattutino fatto di vecchi pantaloncini da calcio ed una maglietta che non ha mai restituito a Jason.

Vorrebbe non sentirsi a disagio ma c’è qualcosa che punge appena al lato della sua coscienza ed una vocina che non vuole ascoltare nella sua testa.

Cerca delle parole ma le sfuggono, vorrebbe che le cose fossero più semplici da mettere in fila ma non è così.

La verità è che è ad un bivio ed in realtà sa già quale strada prendere, ha solo paura di cambiarla perché quella vecchia la conosce bene e, proprio all’entrata di quella nuova, trova solo una strana ragazza tatuata ad attenderla.

Le dita dell’altra trovano una ciocca dei suoi capelli e cominciano a giocarci, passano minuti interi in silenzio ad ascoltare le voci di qualcuno che litiga qualche piano più in basso.

«Sì o no?» chiede di botto Talia, senza smettere di giocare con i suoi capelli, ed a Reyna tocca sospirare, decidendosi a degnare finalmente l’altra di uno sguardo, quegli occhi blu che la inchiodano lì dov’è, la obbligano a non guardare altrove.

«Direi di sì.» è quel che risponde prima di voltarsi, il viso dell’altra ad un soffio dal suo ed è davvero facile attirarla a sé, è facile baciare di nuovo quelle labbra ed è facile sapere cosa fare, è facile sentire quelle mani su di sé.

È facile ammettere a sé stessa che è effettivamente quel che ha sempre voluto da quando l’altra è comparsa in casa sua con addosso un improbabile poncho variopinto.
«Sei comunque la peggiore coinquilina del mondo ed io sono comunque stanca di raccogliere la tua biancheria da terra.» riesce a dire, tra un bacio e l’altro, la risata di Talia che vibra sulle sua labbra.

Uno sguardo malizioso, il tono divertito e poche parole «Oh, Reyna,di questo ne riparliamo tra un paio di settimane, che ne dici?»

 

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Capitolo 6
*** Si può sbagliare senza perdere affatto ***


L'hai visto che, e chi l'avrebbe detto,

si può sbagliare senza perdere affatto.





La cosa che più la innervosisce di lui, gli dice sempre Clarisse, è quell’aria perennemente tranquilla che ha stampata in faccia, quel modo che ha di sorridere con gli occhi anche quando è una pessima giornata e quel suo modo di fare che sa farti infuriare e sbollire in quindici secondi netti.

La innervosisce non essere mai riuscita a dargli un pugno come avrebbe voluto perché a colpire un soggetto del genere, a quanto pare, ci si sente troppo in colpa.

Will non ha mai capito il modo di pensare di Clarisse ma, forse, non ci ha neanche mai provato. Sono amici senza sapere neanche loro il perché e Will si dice che una guardia del corpo può tornare sempre utile, soprattutto quando sei bravo a fare a pugni quanto lo sei a ballare il tip tap e non sei proprio famoso per essere un ballerino di tip tap.

Le gambe penzoloni dal davanzale della finestra, Will osserva la via, osserva le macchine passare, la gente camminare, la TV accesa in casa Montes trasmette l’ennesima telenovela brasiliana, la pizzeria dei Benvenuti inizia ad aprire per la cena. Sente lo stomaco borbottare e si domanda se prendere di nuovo una pizza sia così sbagliato, poi ricorda che forse sua madre gli ha lasciato qualcosa per cena prima di quella sua serata a tre ore di macchina da lì.

«Cazzo guardi?» chiede la voce sgraziata di Clarisse alle sue spalle e Will si limita a stringersi nelle spalle e scendere dal davanzale.

«Non c’è molto da guardare, in questo quartiere: la pizzeria.»

«Qui uno ci viene per i prezzi da fame,non per la bella vista.» conclude lei, allungandogli un quaderno perché possa controllare quel che c’è scritto e vedendoselo restituire poco dopo con un paio di correzioni a matita.

«Fanculo, Solace, come fai?»

«È matematica, Clarisse, logica e pazienza, non è difficile.»

Lei gli lancia il più astioso degli sguardi  e, con una banconota in mano, lo spedisce fuori dalla sua stanza con la sua solita grazia.

Non gli ha ancora ripetuto quanto sia sprecato in quel quartiere, forse oggi glielo risparmierà e si risparmierà i pensieri che accompagnano certe parole.

«Ci vediamo mercoledì?»

«Non se continui a sorridere così. Ora fuori dalle palle che sto aspettando Chris.»




 

Lou Ellen gli ripete spesso che è una persona troppo buona: troppo buona per quel quartiere e troppo buona per il mondo in generale e Will non ha ancora capito da dove le venga quest’idea.

Quel che non sopporta di lui, gli dice, è la sua mania di dover essere sincero e corretto ogni attimo della sua vita, con qualsiasi persona incontra. Il suo insulto peggiore risale ai suoi quattordici anni quando diede del perdente anemico ad uno smilzo snob di un’altra scuola, da lì in poi solo parole buone.

Certo, non è Cecil ed i suoi cugini che hanno una denuncia per furto a testa, non è i fratelli Stoll e la loro compravendita di macchine rubate, non è come Katie e le sue sorelle che hanno quel “vivaio” un paio di case più in là, ma lui non si sente una brava persona.

«Vuoi fare il medico, Will, non puoi non essere una brava persona!» insiste lei, seduta sul suo letto,  incitandolo a scegliere una carta senza fargliela vedere, facendola poi sparire nel mazzo che prende a mescolare con cura.

Quel discorso lo hanno affrontato così spesso che, volendo, potrebbero ripeterlo anche i muri pieni di mensole e perline della camera della ragazza.

«Potrei sempre diventare un medico corrotto.»

«Con quella faccia?» aveva chiesto Lou Ellen, divertita, dividendo il mazzo a metà.

«Questa ho.» aveva replicato, stizzito, indicando il mazzo a destra. «Potrebbe essere tutta apparenza.»

«Will, tu restituisci il resto sbagliato alla cassa del supermercato.» erano state le sue ultime parole poi aveva semplicemente preso la prima carta del mazzo a destra porgendogli il cinque di picche.

«È la tua carta?» aveva chiesto, cambiando discorso e sostenendo lo sguardo perplesso di Will che annuisce.

«È facile, Solace, è matematica. Dieci dollari e ti spiego il trucco.»




 

Kayla gli ripete spesso che è tutta una questione di trovare la propria strada, che non sempre quella degli altri è buona anche per te.

Quel che meno sopporta di lui, gli dice sempre Kayla, e il fatto che non capisce che magari uno dovrebbe concentrarsi meno su quel che non sa fare e più su quello in cui riesce bene.

Mirare dritto al bersaglio, tirar la corda finché serve e far centro, dice lei.

Ma Will non è mai stato bravo e non hai mai avuto questa gran mira: quando giocano a freccette per decidere chi paga finisce sempre lui con il portafoglio in mano.

«Hai ricucito Paolo più volte di quanto papà non abbia ricucito i miei vestiti da bambina, sei bravo!» gli aveva fatto notare Kayla ma Will si era semplicemente stretto nelle spalle ed aveva sistemato una cornice storta attaccata alla parete.

«Mi stai dicendo che dovrei darmi al ricamo?»

«Solo se ti metti a fare mezzopunto.» era stata la risposta sarcastica di sua sorella, accompagnata da una gomitata dritta dritta sulle costole. Kayla era tornata a preparare la sua borsa per l’ennesima gara e lui era rimasto a guardarla prima di decidersi a prendere il suo zaino ed andarsene.

«Torna con una coppa, mi raccomando.» e quel che le dice, salutandola con un bacio sulla guancia.

«Se faccio montare un’altra mensola papà mi ammazza.»




 

Il problema di Will, gli dice sempre Austin, è che ha troppe persone con cui confrontarsi anche se nessuno gli chiede di farlo.

Quando tuo padre non sa tenerselo nei pantaloni, però, ti fornisce di un arsenale di fratelli sparsi per tutta la città, fratelli che conosci perché tuo padre ha voluto così, fratelli che il più delle volte fanno e riescono dove tu provi e fallisci, fallisci e fallisci di nuovo prima di riuscire. Questo però non deve bloccarti dal cercare di essere chiunque tu voglia essere.

«Lo sai, vero, che se io vedo una goccia di sangue svengo?» ripete Austin, sistemando le corde della sua chitarra, e Will si strige nelle spalle.

«Ma tu andrai a suonare in qualche orchestra importante di cui non ricordo il nome, il prossimo autunno. Io no.»

«E tu diventerai un medico di quelli alla Grey’s Anatomy, tra qualche anno. Io no.» era stata la risposta di suo fratello mentre gli piazzava in mano un pacchetto di spartiti perché facesse da leggio e voltasse la pagina quando richiesto.

«Non sono abbastanza promiscuo per poter essere un medico di Grey’s Anatomy.»

Austin aveva sorriso ed aveva alzato un sopracciglio, indicando con il mento il numero 13 in fondo alla via.

«Meglio per te, non ci tengo a vedere te sotto terra e  Nico dentro per omicidio.»




 

Quel che gli dà più fastidio di lui, gli dice Nico, è...beh, in realtà è un po’ tutto.

Da che si conoscono, quattro anni o giù di lì, non c’è stato un attimo in cui non gli abbia ripetuto quanti piccoli dettagli in lui gli facciano perdere le staffe ─ che poi sono le stesse cose che lo hanno fatto innamorare di lui, pare, ma questo guai a dirlo.

In tre anni e mezzo di relazione, poi, ci ha tenuto a sottolineare più volte quanto, a momenti, avrebbe una gran voglia di dargli una testata e lasciarlo solo il mezzo alla strada a contemplare quanto può essere scemo ed irritante.

Se Will non conoscesse bene l’altro ragazzo, se non avesse anche solo provato a vedere un po’ oltre, probabilmente gli avrebbe creduto. Ma Will lo conosce bene e lo sa, sa cos’è che l’altro non sopporta di lui.

 

Le mani aperte di fronte al viso dell’altro e lo sguardo confuso che questo gli scocca mentre cerca di capire dove il discorso voglia andare a parare hanno una luce diversa sotto ai lampioni un po’ fiochi disseminati per la via.

Seduti sulle scale abbandonate del numero 2 -e chissà se qualcuno è mai vissuto in quella casa- Will capisce chiaramente che il fastidio di Nico sta diventando quasi un terzo ospite per di più molto ingombrante.

«Cosa vedi?» gli chiede e vede gli occhi dell’altro ragazzo assottigliarsi, studiando le sue mani e poi la sua faccia.

«Cerotti colorati di cattivo gusto. Non credevo ti piacesse Spongebob.» è la risposta che lo obbliga a roteare gli occhi e avvicinarle ancora un po’.

«E sotto?»

«Dieci dita. Mi stai misurando la vista in qualche modo strano, non capisco…»

«Mani, Nico, la risposta giusta è mani. Inutili. Dimmi cosa so farci.»

«Potresti schiaffeggiartici, ad esempio. O potrebbe farlo Clarisse, sono anni che muore dalla voglia.»

«Sii serio!»

Nico gli scocca un’occhiata piena di rassegnazione e, di nuovo, si mette a scrutare quei palmi, quella dieci dita, sfiora un paio di cerotti per poi borbottare.

«Giocare a pallacanestro, non sei male a suonare il piano. Picchiettare sopra ad una calcolatrice quando non riesci a fare i conti a mente.»

«Vedi? Kayla sa tirare con l’arco, Clarisse sa tirare cazzotti ed hai mai sentito Austin? Io cosa so fare di utile con queste dieci dita?»

«Curare, Will, ecco cosa sai fare. Devo ricordarti Annabeth? E Paolo? I Montes avrebbero passato la sua infanzia al pronto soccorso, altrimenti!» Will lo vede alzarsi, scendere gli scalini, dare un calcio ad un paio di pietre come per calmarsi e poi tornare a sedersi accanto a lui con le mani infilate in tasca.

Nico glielo ripete spesso: quel che gli dà più fastidio di lui è il fatto che si ostini ad essere tanto ansioso dentro quanto tranquillo fuori. Arriverà il giorno in cui esploderà, gli dice, ma Will è stoico -ed un po’ stupido- e continua per la sua strada.

La sua, poi, è un’ansia tutta particolare fatta di paura di non fare abbastanza e consapevolezza di fare fin troppo. «È come se dovessi pagare un debito che non ricordo di aver mai contratto.» aveva ammesso una volta e la sensazione è ancora lì.

Poggia la testa contro la spalla dell'altro e lo sente irrigidirsi, come al solito, prima di sentire una mano salire a spostare qualche ciuffo ribelle dal suo viso.

Un silenzio confortevole tra di loro, solo i rumori ovattati e le voci della via a far loro compagnia.

«Devo ricordarti che ho rischiato di tranciarmi un dito tagliando una carota? Chiedi davvero a me cosa sai fare con dieci dita?» mormora Nico, sovrappensiero, e Will non ce la fa a non ridere ricevendo come regalo un coppino ben assestato.

Il rumore di qualcosa che esplode li fa sobbalzare, del fumo inizia ad uscire da quella sorta di officina qualche casa più in là, qualcuno urla il nome di Harley, qualcuno quello di Nyssa subito seguito dalla parole “estintore”.

Will si lascia scappare un lamento, le spalle che cadono, accanto a sé l’altro ragazzo ride di una risata esasperata.

«Non ho intenzione di disinfettare nessuna bruciatura.» è quel borbotta, sperando di non farsi sentire, ma Nico gli dà una spallata e continua a ridere.

«Allora dovresti fare la cosa che sai fare meglio?»
«Lamentarmi?»
«No, correre.»





 

«Sai Will, ho trovato un’altra cosa che odio di te.»

Piegato a metà, le mani sulle ginocchia tentando di riprendere fiato, Will alza lo sguardo sull’altro.

«La lista si allunga...ma dimmi.» riesce a replicare, tornando dritto, e lo sguardo dell’altro cade inevitabilmente sui suoi piedi.

«Le tue infradito.»

«Credevo avresti detto la mia faccia.»

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Capitolo 7
*** These are the nights that never die ***


 
Hey, once upon a younger year
When all our shadows disappeared
The animals inside came out to play
Hey, went face to face with all our fears
Learned our lessons through the tears
Made memories we knew would never fade
 





 
 
«Perché ovunque andiamo c’è sempre un morto? Sono stanco dei cadaveri! Mi dite che questo si è solo addormentato, per favore? Dorme, vero? Tra poco inizierà a russare, no?! Ditemi che è così!»
Le mani nei capelli e la voce di due ottave più alta del normale, Leo si allontana dalla scena che gli si para davanti agli occhi e da due ragazzi che la stanno esaminando: perché non è umanamente possibile trovare così tanti morti in pochi mesi e lui si sta impegnando a non ricordare che ovviamente tutto quello non è umanamente possibile visto che i responsabili di quegli omicidi sono quanto di meno umano esista al mondo. Solo negli ultimi due mesi ben tre branchi sono arrivati in città e, se per anni aveva –erroneamente- creduto che in un branco di lupi mannari ci fossero solo lupi mannari, si era dovuto ricredere molto presto di fronte a bestie dai nomi impronunciabili che avevano le fattezze di baldi giovanotti ma potevano tranciarti un arto o sventrarti in quarantotto secondi. Li aveva cronometrati, sa perfettamente come funziona, quarantotto secondi nelle giornate buone, lo sa.
C’è da dire che una scoperta del genere gli aveva regalato giornate di ansia e il vizio di guardarsi le spalle ad ogni passo e la sua vita aveva preso una strada che non riesce a tenere. Cosa sta facendo dei suoi giorni e dei suoi sogni, li sta davvero buttando al macero per notti insonni e un po’ di adrenalina?
Le parole dell’ultimo discorso con Piper gli tornano in mente «Qui nessuno sa quel che sta facendo, ci muoviamo saltando da un sasso all’altro, come nei film, e speriamo di restare vivi un giorno in più. Che è più o meno il sogno di ogni ventenne, no?» e Piper aveva riso ma Leo no, perché in vita sua non aveva fatto nulla e stava rischiando di morire avendo fatto ancor meno.
Stupido lui e stupida la sua idea di non trasferirsi fuori per il college, dannazione!, doveva intuire che ci fosse un motivo per il quale i prezzi delle case erano tanto bassi, da quelle parti!

 
«No, non dorme, è morto. Tu dormi con la gola squarciata?» ed eccolo lì, ecco lì il motivo per cui non fanno che trovare cadaveri, gli farebbe un occhio nero se solo non avesse paura di toccarlo e romperlo (anche se sa che potrebbe succedere il contrario), perché è raro trovare qualcuno più gracile di lui ma Nico sembra aver totalmente vinto la partita.
«Io NON dormo, ultimamente, perché voi mi portate a vedere certe cose e tu, tu Corvo!, tu mi inquieti, capisci? Io vivo nel terrore che ti metta ad urlare e, zac!, io cado stecchito! Ciao Leo, grazie per tutto il tofu!»
«Aspetto con ansia quel momento.» aveva replicato l’altro rivolgendogli uno sguardo stanco, infilandosi le mani in tasca ed avvicinandosi al cadavere per scattare qualche foto e mandarla al biondino, Tizio lì, il paramedico dell’ospedale, quello che aveva il fratello antipatico in polizia –e dice “aveva” perché quel tizio aveva fatto una finaccia tipo sei mesi prima, ma in città succede spesso e poi nessuno muore davvero, lo hanno imparato a loro spese. «Tornano solo con più voglia di ucciderti, è snervante.» aveva detto Percy e come dargli torto? Avevano dovuto uccidere di nuovo quell’arpia della Dodds solo due settimane prima.
 

Che poi anche quel biondino, il paramedico, è strano forte. Viene ad esaminare ogni singolo cadavere senza batter ciglio e poi ha anche il coraggio di offrir loro di andare a mangiare qualcosa insieme: perché chi non avrebbe voglia di un hot dog alle quattro del mattino dopo aver visto sangue ed interiora? Stava cominciando ad accarezzare l’idea di diventare un coniglio come Piper: le carote e l’insalata non sanguinano e non hanno l’odore di qualcosa di morto.

 
«Questa è la zona di Percy, io non posso far altro che chiedere a lui, non riconosco nessun odore e non riesco a riconoscere chi potrebbe essere stato. Non dovrebbero esserci omega da queste parti, abbiamo pattugliato con Frank la settimana scorsa.» è Jason a parlare, stavolta, continuando a misurare a grandi passi l’area attorno a loro, pulendosi le mani sui jeans.
Aveva conosciuto Jason alle elementari, quando era ancora paffuto e biondissimo e con gli occhiali di plastica verde ed erano sempre stati inseparabili. Perché Jason era, di base, una persona infinitamente buona e lui era, di base, un po’ un testa di cazzo, quindi insieme si compensavano e si volevano bene e Jason è una schiappa ai videogames e bisogna sempre avere amici schiappe ai videogames. Poi ormai vivevano uno a casa dell’altro e lui ha sempre detto a Piper che, un passo indietro!, lui c’era da prima. Piper, per tutta risposta, si era proposta come damigella ed ecco uno dei tanti motivi per cui le vuole bene.
 
E Jason era sempre stato un ragazzotto in forma, insomma, vista debole a parte ed una forte allergia alle noci (scoperta perché per poco non lo uccide offrendogli un biscotto a casa sua) non aveva avuto grandi problemi di salute, poi qualcosa era cambiato ed anche lui che al mondo fa poco caso lo aveva notato.
Perché era diventato un ragazzone muscoloso senza andare in palestra, perché improvvisamente la sua miopia era scomparsa e, se già prima poteva dirsi uno sportivo, ora era diventato un campione olimpico pur non muovendosi dal divano o dalla scrivania. Cioè, la cosa non lo sorprendeva poi troppo perché, dopotutto, era successo anche al Panda –alias Frank Zhang, il fidanzato di Hazel- ma in quel caso poteva credere a qualche strana schifezza cinese ingerita in quell’anno lontano dalla città e poi chi se ne frega di Zhang, insomma, chi gli dà più di quattro secondi di considerazione al giorno!
E ai cambiamenti fisici si erano accostati quelli nel modo di comportarsi ed aveva notato che non sopportava più la musica troppo alta in macchina (loro che sono campione di sgolate, impensabile!) e che sembrava muoversi come se tutto intorno a lui parlasse a voce troppo alta o si muovesse troppo lentamente: poi Jason aveva quasi rischiato di trasformarlo in una tartare di Leo alla prima luna piena e lui aveva finalmente capito.
In quel momento, la sua già di suo triste e complicata vita, era diventata un film. Ma non un film bello, un film che somiglia più alle infinite telenovelas che vede tía Rosa in cui, ad una sfiga se ne aggiunge un’altra ed un’altra e poi un’altra ancora e arrivi a milleottocento puntate senza aver risolto nulla e con più morti di una guerra nucleare. Solo che i morti che vorresti tornassero non tornano e restano sottoterra, sradicherebbe un albero dalla rabbia, se solo ne avesse la forza.
 
Ma lui la forza non ce l’ha, lui è un semplice umano con una certa bravura con gli ingranaggi ed un’eccessiva dose di iperattività, il massimo che sa fare è copiare pass o clonare carte di credito ed ha ancora parecchio da imparare nel caso volesse intraprendere la “carriera” da hacker ma…lui è quello che morirà prima, lo sa. O lui o il paramedico appariscente che non ha ancora capito le tecniche base del camuffarsi ma come potrebbe essere il contrario? Si finisce così ad ammuffire sui libri, ti mancano le cose pratiche come il coprirsi di cenere quando serve e rischiare quasi di finire arrosto dietro ad un cespuglio.
La sua unica forza sta nel cervello –e si pente di usarlo nel modo sbagliato circa tre quarti delle volte- e nei cacciavite che tiene in tasca ma, a meno che tu non sia il Dottore o tu voglia scassinare una serratura, non te ne fai molto di un cacciavite, che sia a stella o meno.
 
«Leo, Nico, tornate a casa e passate da Hazel a prendere qualcosa da mettere intorno casa vostra, io credo di dover chiamare gli altri e qui non è sicuro per voi.» aveva detto (ordinato) Jason con la sua miglior voce da alfa e quegli inquietanti occhi rossi accesi alla luce delle torce che stringono tra le mani.
E mentre Nico faceva per prendere le chiavi della macchina dalla tasca del giubbotto, Leo aveva piantato i piedi a terra ed aveva incrociato le braccia con aria di sfida perché, accidenti!, no che non si perderà il divertimento.
«E invece no, amigo, io resto qui perché sai che senza di me il tuo peloso culetto mannaro rischia grosso e tu e Percy avete bisogno di me e di lui perché senza di noi, ora che Annabeth pare essersi un po’ incazzata con tutto il paranormale, non avete molte possibilità di non morire uccisi dal coraggio da idioti che dimostrate.»
Accanto a lui, Nico si era esibito nella sua miglior espressione sorpresa (e si era quasi fatto cadere la torcia di mano, perché sembra tanto strano che anche lui abbia idee decenti?) salvo poi annuire, convinto, gettando uno sguardo a Jason –uno sguardo alla “te l’avevo detto”- e al Superlupo era toccato sospirare e tentare inutilmente di ribattere.
Inutilmente perché lo aveva stroncato sul nascere, ovviamente.
«Tu non uccidi neanche le mosche che ti ronzano sul panino quindi, prima che i tuoi canini cadano per sfinimento, te lo ripeto: tu hai bisogno di noi. Ed io ho bisogno di non vedere più cadaveri ma questo è il meno, tu hai bisogno di qualcosa?»
«Smettere di sentire le voci non sarebb-»
«La mia non era una vera domanda, Di Angelo, ora torna ad esalare un’aura di morte in silenzio mentre il nostro Lupo de Lupis chiama i suoi amici pelosi e noi aspettiamo l’arrivo di Tizio, lì, Raggio-di-Sole così ci dice che il cadavere è morto di una brutta morte e finiremo a bere gli strani milkshake di Hazel preparando un piano, ci siamo?» non aveva ricevuto altre risposte se non un lieve cenno del capo da parte di entrambi e un sorriso furbo era comparso sulle sue labbra. «Bene, qualcuno ha idee su come passare il tempo?»

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Capitolo 8
*** Che il tempo era pronto a guardarci partire. ***


 

Note: prima che chiunque mi dia dell'eretica, ci tengo a dire che questa cosa NON È QUEL CHE SEMBRA. Anzi, forse è tutto il contrario se ci penso bene.
Un regalino piccino picciò che il festeggiato(??) ha già ricevuto e che pubblico solo perché ha detto che l'avrebbe spammata ovunque se solo lo avessi fatto. Staremo a vedere.
No, non so per quale occasione si siano tutti riuniti, sì, credo che se anche ci si conosce da bambini si possa continuare ad essere amici anche da grandi e lo dico con cognizione di causa.
Detto ciò, enjoy ♥ (e qualcuno mi insegni a fare delle note decenti, grazie)


 









Un sospiro, un ansito, i loro corpi che continuano ad incontrarsi.

Le labbra che si cercano e poi un bacio, forse due o tre, l’altro che si sposta in un atto di pudicizia che non capisce ma asseconda ─ non potrebbe fare il contrario neanche volendo, si dice, le spiegazione, volendo, le chiederà dopo, molto più probabilmente non le chiederà affatto.

La radio, lasciata accesa per qualche strano motivo, forse una dimenticanza dovuta all’urgenza forse un sottofondo un po’ a casaccio, continua a suonare un pezzo che non coglie, una voce canta qualcosa riguardo l’essere giovani e voler dar fuoco al mondo.

Ed è un po’ così che si sente, un po’ così che spera si senta l’altro, a bruciare non è il mondo ma sono loro, questo è l’importante.

«Non pensarci così tanto.» gli intima la voce dell’altro, le mani che si spostano dalle sue spalle solo per prendere il suo viso, per assicurarsi che sia lui e solo lui quello che vede, quello a cui pensa, gli permette di non andare alla deriva.

Se solo potesse Jason lo bacerebbe di nuovo ma no, non può, no, non deve.


 

Avrebbe dovuto baciarlo di più.

Lo pensa spesso, ma la consepevolezza lo coglie mentre lo vede lì, qualche decina di metri da lui, che parla con il mondo con Will appoggiato ad una spalla ─ sono sempre insieme, quei due, sempre insieme da almeno dieci anni perché i primi erano stati burrascosi, appiccicati con quella colla che solo chi riesce a rimettere su i pezzi sembra avere.

A volte vorrebbe avere un po’ di quella colla ed un posto su quella spalla.

«Ha più bisogno di un amico che di un amante.» gli aveva detto Reyna, anni prima, quando era ancora un ragazzino e poteva permettersi di essere sorpreso dalle parole dell’altra «Non rovinare tutto.» gli aveva intimato, con una pacca sulla spalla, alzandosi e lasciandolo solo con i ricordi di una notte ancora freschi nella sua mente.

E lui si era impegnato a non rovinare niente, la muta promessa fatta all’altro di non parlarne, non farlo mai e poi mai, quindici anni erano passati e lui li aveva visti scorrere tutti davanti ai suoi occhi, nelle foto che lui e Piper scattano e collezionano, sui visi di tutti quelli che conosce.

E lui è felice, lei è felice, insieme sono felici eppure lui ancora ci pensa: avrebbe dovuto baciarlo di più, quella notte.

Fine.

Un pensiero che sta appeso lì, un po’ pesante ed un po’ scomodo.

E Piper sembra capire quel che gli passa per la testa, li intercetta e non cerca di dirottarli perché sa che non ci riuscirebbe: perché lei sa tutto pur senza che lui glielo abbia detto, perché lei sa tutto ed aspetta solo che lui glielo dica. Porgendogli un bicchiere di vino getta un’occhiata all’altra coppia, con un sorriso accondiscendente ed una carezza gentile gli sistema il colletto della camicia.

Ci sarà sempre qualcosa che non potrò capire, tra voi due, erano state le parole della ragazza che era, e Jason sa che è vero e non potrebbe essere altrimenti.

«Quanto tempo è che non parlate?» chiede lei, a bruciapelo, e Jason non è pronto a quella domanda eppure risponde con una velocità disarmante, gli occhi che si staccano dalla scena di fronte a lui..

«Ventidue mesi e tredici giorni.»

Piper sospira, storce il naso, sistema i suoi capelli impossibili da sistemare, e gli lascia un bacio a fior di labbra.

«Credi che Will posso ancora aver voglia di parlare con me di interventi a cuore aperto? Perché io ne ho davvero voglia!» e Jason capisce che dietro quelle parole, dietro quel sorriso, c’è qualcos’altro. C’è un muto invito, c’è un “io distraggo il biondo, tu parlagli!”, c’è tutto quel che Piper prova per lui e che lui prova per lei ─ ed è difficile dare un nome a tutto quel che hanno insieme, potrebbe essere amore, potrebbe essere tutt’altro, ma lui le stringe la mano per una frazione di secondo prima di vederla allontanarsi.


 

Jason ringrazia il brusio tutt’intorno, quelle voci che si intrecciano e creano una coperta confortevole in cui avvolgersi, una coperta diversa da quella fatta dal silenzio spesso e scomodo che c’è tra di loro.

Si gira e rigira il bicchiere tra le mani: il liquido che c’è all’interno deve essere ormai bollente, non se ne stupirebbe visto il caldo di quella sera di fine estate, ma lui non lo sa perché non l’ha neanche assaggiato. Non ha mai toccato alcol e mai lo farà, Piper lo sa eppure gli ha passato quel bicchiere perché potesse avere qualcosa tra le mani, perché potesse trovar loro un posto che non fossero le tasche, in quella posa imbarazzata che lui non si accorge di assumere ma che un po’ tutti gli fanno notare.

È quando alza gli occhi al cielo, nella remota e disperata speranza di trovare qualcosa da dire, qualcosa che spezzi quella mezz’ora di agonia e di sguardi che si evitano, che Nico gli sfila il bicchiere dalle mani facendo sparire il liquido in un paio di sorsi.

Il ricordo dell’ultima volta in cui lo ha riportato a casa ubriaco ─ trascinandolo di peso per la via ed ascoltandolo blaterare qualcosa a proposito di carte e mitologia e del fatto che forse Percy nella vita precedente era stato un pesce- costringe le sue labbra a stirarsi in un sorriso ed il suo stomaco a chiudersi in una morsa spiacevole.

«Me ne servirebbero altri dieci, peccato debba guidare.» è quel che gli sente dire, e lo vede fissare con insistenza il vetro tra le sue mani e lo vede, lentamente, alzare gli occhi verso di lui.

Ed in quegli occhi c’è un po’ di stanchezza, un po’ di tristezza, forse legge anche qualcosa che sembra fastidio; nei suoi, probabilmente, l’altro può leggere facilmente un po’ di senso di colpa e rammarico.

«Potevi almeno venirmi a salutare» lo sente continuare, e si obbliga a voltarsi quel che basta per essere faccia a faccia, abbastanza centimetri da non essere pericoloso eppure vicini come non lo sono da parecchio.

«Sono quasi sicuro che Will non avrebbe gradito.»

«Ho trent’anni e sono un uomo indipendente, posso scegliere chi salutare e chi no.»

«Non mi piacerebbe se Piper salutasse il figlio dell’uomo che ha reso la vita impossibile a mio padre. Non gliene faccio una colpa.»

«Non rispondi delle azioni di tuo padre, Jason, ne abbiamo già parlato.»

Di nuovo silenzio, Jason che rotea gli occhi e Piper che, poco più in là, si volta solo per lanciargli un sorriso incoraggiante prima di tornare alla sua conversazione, prima di allontanarsi da qualche parte con quel gruppetto di persone che, Jason ne è sicuro, la seguirebbe in capo al mondo.




 

Non era andata in porto perché, a diciassette anni, Jason non aveva avuto il coraggio di guardarsi allo specchio e dirsi la verità.

Non era andata in porto perché lui, a sedici, si era innamorato di due occhi belli ed un parlantina sciolta e, per un po’, aveva creduto di poter mettere tutto da parentesi.

Non era andata in porto perché, a quattordici, Nico aveva conosciuto uno a cui dirsi la verità non interessava affatto e viveva la vita come viene e non come dovrebbe venire.




 

«Avrei dovuto baciarti di più, quella notte.»

Lo ammette, ad alta voce e chiaramente, solo qualche ora dopo quanto tutti sono abbastanza allegri da non far caso a loro e lui, finalmente, può smettere di nasconderlo.

E si stupisce, Jason, del suono di quelle parole, dell’espressione che si dipinge sul viso dell’altro, del modo in cui annuisce ─ che Nico abbia avuto gli stessi pensieri?

Poco lontano la risata di Hazel spicca sopra al brusio, seguita da qualcosa di molto offensivo in spagnolo, Piper che canticchia un motivetto e Percy che chiama il suo nome. E Jason vorrebbe unirsi a lei, a loro, ma si trattiene: la tranquillità, il sollievo, sono cose che vanno tenute strette e segrete perché nessuno te le possa portar via.

Non si è mai raccontato bugie, mai in vita sua, non ne ha avuto bisogno: «Essere sinceri ripaga sempre» gli diceva sua madre, nei rari momenti di lucidità, e lui aveva capito molto presto che lo avrebbe fatto anche senza ricevere nulla in cambio. Perché Jason è fatto così ed a volte (spesso, molto spesso) si odia per non riuscire a mentire, per non riuscire a trovare bugie confortevoli su cui accomodarsi ─ a diciassette anni non si era odiato ma si sarebbe volentieri preso a schiaffi in faccia da solo. Non lo aveva fatto, alla fine, e si era limitato ad offrirsi come portiere per quella volta in cui Leo aveva tentato di imparare a giocare a calcio: una pessima idea e la sua faccia ancora brucia dopo quindici anni.

«Avresti dovuto farlo.» replica Nico, gli regala uno dei suoi ancora rarissimi sorrisi e si limita a scivolare appena più vicino su quella scomoda panca di legno «Non posso credere che tu ci abbia pensato per tutti questi anni.»

Una scrollata di spalle è l’unica risposta che regala all’altro, perché non c’è davvero altro da dire, non riuscirebbe a trovare altro da dire: con le parole ci sa fare ma fino ad un certo punto, la cosa non smetterà mai di imbarazzarlo ma pensa sia un po’ tardi per rimediare.

E questa volta il silenzio che c’è tra loro ha la consistenza giusta, non pesa addosso, entrambi i loro sguardi persi a cercare qualcuno in particolare in quel gruppetto di persone importanti.

«Se è la persona giusta lo capisci subito.» erano state le parole di sua sorella, seduti al tavolo della cucina, in un giorno di luglio, e Jason si era pulito gli occhiali per trovare qualcosa da fare che non fosse guardarla. Ora Jason fa lo stesso, si sfila gli occhiali e li pulisce con un lembo della sua camicia, i suoi occhi non lasciano per un attimo il gruppetto di persone di fronte a sé.

Dalla sua ragazza, presto moglie.

Dai suoi amici.

Dalla sua famiglia, circa.

Non credeva avrebbe potuto chiamarli così anche a trent’anni.

«Sono felice tu abbia trovato la persona giusta», dice all’altro, ed è sincero, e vede le spalle di Nico tendersi prima di rilassarsi di botto ─ non sa bene quel che passi nella testa del suo amico e non lo ha mai saputo, lo sente solo ridere e la cosa lo rincuora.

«Io e te saremmo stati un casino.»

«E poi tua nonna voleva almeno un medico in famiglia.»

«Pensa: l’ha avuto ed ha anche avuto il coraggio di non essere felice.»

La voce di Annabeth li raggiunge pochi istanti dopo, li richiama verso il tavolo perché non possono fare gli asociali così e non possono che obbedire perché è Annabeth e non si può non correre quando lei chiama, Piper gli libera un posto accanto a lei.

Avrebbe dovuto baciarlo di più quella notte, ma ormai è passata e con lei ne sono passate altre mille e mille ancora ed una pacca sulle spalle, una pallina di carta lanciata da Leo dall’altra parte del tavolo, la risata di Piper lo riportano al presente ed alla realtà.





 

*

Siamo stati fatti di cenere

di muscoli, nervi e di pezzi cuore

di cose non fatte, direzioni perfette,

talmente precise che portavano altrove.

*

 

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