Long & Lost

di Hermione Weasley
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Autunno ***
Capitolo 2: *** Inverno ***
Capitolo 3: *** Primavera ***
Capitolo 4: *** Estate ***



Capitolo 1
*** Autunno ***


Note: premetto subito che la storia è stata scritta prima che uscisse Civil War. In comune col film ha soltanto gli schieramenti (per altro solo menzionati) e nient'altro, quindi non contiene spoiler e non segue il canon MCU per quanto riguarda le coppie.
Secondo, la vicenda - divisa in quattro parti già scritte, ciascuna a tema "stagionale" - è ambientata circa dieci anni dopo la fine della guerra civile. Clint dovrebbe avere sui 50 anni, Natasha sui 40. Il motivo per cui ho scritto la storia è che di solito si tende sempre a scrivere AU dove sono più giovani, ma non mi è mai capitato di leggerne dove sono più vecchi. Quindi ecco qua :P
La situazione è spiegata credo abbastanza chiaramente nel capitolo. L'unica cosa che mi sento di precisare subito è che Clint e Natasha erano decisamente più che amici prima dello scoppio della guerra civile. La storia riguarda soltanto loro - c'è una sola apparizione (sporadica) di un altro Avenger.

Credo di aver detto tutto quello che c'è da dire (: ringrazio la beta Sheep01 che legge sempre tutto in anteprima e tiene vivo il neurone clintashoso ù_ù
Buona lettura e fatemi sapere che ne pensate!

Disclaimer: i personaggi menzionati appartengono a Disney e Marvel. La storia non è stata scritta a scopo di lucro.




Long & Lost

 

Is it too late to come on home?
Are all those bridges now old stone?
Is it too late to come on home?
Can the city forgive? I hear its sad song

(Florence + the Machine – Long & Lost)

 

 

(Autunno)

 

*

 

 

Accelerò non appena la sbarra del passaggio a livello divenne visibile sul fondo della strada, ma era già troppo tardi.

Natasha la guardò abbassarsi lenta ed inesorabile, costringendola a spostare il piede sul freno. Ancora pochi attimi e l'auto si fermò del tutto.

Lasciò scivolare le mani dal volante, innervosita da quell'inaspettato contrattempo. Controllò l'orologio e lo specchietto retrovisore quasi ossessivamente, come se l'inerzia imposta dalla pausa imprevista richiedesse un sovrappiù di gesti e le risultasse quindi insopportabile.

L'aria era tersa e immobile oltre i finestrini di spesso vetro antiproiettile; non avrebbe disdegnato un po' d'aria, ma tenerli abbassati sarebbe stato inutile. Stupido, persino. Non che la strada fosse affollata – tutt'altro: erano passate almeno due ore dall'ultima volta che aveva incrociato anima viva.

Aveva seguito le indicazioni che si era curata di imparare a memoria ormai diversi anni prima e, man mano che le tappe si polverizzavano sotto i pneumatici, il panorama era diventato sempre più rarefatto e ostile, la vegetazione più selvaggia e opprimente.

L'antiquato passaggio a livello era in linea con l'atmosfera circostante. Il treno che si materializzò alla sua destra, macinando a fatica la distanza, sembrava uscito da una pittoresca e inquietante illustrazione per bambini.

Si costrinse a rilassarsi, a ricordarsi che non c'era motivo d'agitarsi. Faceva freddo ed era attualmente dispersa tra le foreste del Nevada; aveva preso meticolose precauzioni per assicurarsi di non essere seguita, ripetendosi poi – almeno un migliaio di volte – che non ce ne sarebbe stato bisogno. Non realmente.

Finì per coprirsi il viso con una mano, stropicciarsi gli occhi e massaggiarsi una tempia mentre il treno si avvicinava sempre di più. Ancora qualche secondo e le sarebbe sfrecciato proprio davanti.

Schiacciò le spalle al sedile, lo sguardo che vagava distrattamente sul posto del passeggero su cui aveva poggiato uno spesso file tenuto insieme da un paio di grossi elastici.

Lo stomaco si strinse e, per quella che doveva essere almeno la ventesima volta da quando era partita da Washington, pensò che era stato tutto un madornale errore di valutazione da parte sua. Che credeva di fare esattamente? Presentarsi dopo quasi dieci anni e chiedere un favore come se niente fosse successo?

Il panico le serpeggiò nello stomaco, gelido e familiare; le avevano detto che invecchiando avrebbe trovato l'equilibrio che le mancava, ma più il tempo passava e più Natasha realizzava che le cose non facevano che peggiorare. Gli attacchi d'ansia, l'insonnia, la tachicardia che la coglievano impreparata nei momenti meno opportuni – magari durante un briefing o una riunione di capitale importanza – erano ormai sgraditi e fedeli compagni dei suoi giorni.

Si impedì a stento di inserire la retromarcia e allontanarsi il più lontano possibile, fare dietrofront e ripercorrere al contrario le infinite miglia che aveva frapposto tra sé e Washington. Era un viaggio che non aveva senso, quello: lo scopo era insensato, talmente ridicolo da obbligarla a combattere contro se stessa pur di non desistere; il tragitto – che prevedeva l'attraversamento degli Stati Uniti d'America da una costa all'altra – semplicemente folle.

Ma non era un caso. In fondo sapeva di aver pianificato un itinerario tanto pazzesco per mettersi in condizione – più d'una volta – di ritornare sulle proprie decisioni, mettere alla prova la propria resistenza, testare il proprio coraggio. E per adesso aveva avuto ragione, la sfida era vinta: dopo due giorni di viaggio, la meta era finalmente alla portata d'un paio d'ore. Ce l'aveva quasi fatta.

Quasi.

Il treno sfrecciò davanti alla vecchia jeep; una macchia scura che le oscurò la visuale per un interminabile attimo. L'ultimo vagone sparì e il cielo – una distesa autunnale, grigia e fredda – tornò a riaprire il suo gelido sipario, tutt'altro che invitante.

La sbarra bianca e rossa si sollevò con un cigolio sommesso, dandole il via libera.

Prima che potesse sfiorare anche solo col pensiero l'idea di tornare indietro, Natasha schiacciò il piede sull'acceleratore.

 

*

 

La casa era una vecchia baita nascosta tra altissimi abeti. Era sicura ci fosse un lago, poco distante, ma dalla strada non era riuscita ad individuarlo.

Spense il motore quand'era ancora in fondo all'ideale vialetto che conduceva dritto dritto fino al portico della casetta; ideale perché non era altro che un sentiero invaso da erbacce e macchie umide lasciate dalle prime, deboli nevi.

Sbirciò l'abitazione attraverso il parabrezza: le fronde degli alberi le si chiudevano addosso in gelosa protezione; il tetto era stato rattoppato in più punti e lo stesso poteva dirsi dei gradini dell'ingresso e della parete frontale.

Il mozzicone di un comignolo di pietra svettava dal tetto spiovente, ma non c'era neanche un alito di fumo ad attorcigliarsi nell'aria.

Strinse con forza il volante tra le mani finché le nocche non diventarono bianche per la tensione.

I dubbi l'assalirono di nuovo, più decisi e sferzanti che mai. In fondo chi le assicurava che la casa fosse ancora abitata? Tutti i segni dell'abbandono erano proprio lì, davanti ai suoi occhi; sarebbe stato stupido non prenderli in considerazione.

Solo a quel punto, per un improvviso capovolgimento, la paura si trasformò in delusione – delusione cocente e insopportabile di aver fatto tutta quella strada per niente. Di aver sconfitto se stessa almeno un milione di volte per convincersi a continuare e di averlo fatto inutilmente.

L'urgenza di capire se avesse fatto o meno un buco nell'acqua la spinse a scendere dalla jeep, ma non prima di aver recuperato una vecchia Glock dallo scomparto del cruscotto e averla infilata nella cintura. Le vecchie abitudini erano davvero dure a morire.

Si ricordò del file all'ultimo secondo, strappandolo al sedile del passeggero per metterlo sottobraccio.

Il tonfo sordo della portiera che si chiudeva fece levare in volo, spaventati, alcuni uccelli appollaiati sui rami più bassi: non avevano l'aria di essere abituati alla presenza dell'uomo, il che non fece che aggravare i suoi sospetti e peggiorare il suo nervosismo.

Si avviò su per il corto sentiero quasi del tutto inghiottito dalla vegetazione. Il buon senso le impose di muoversi lentamente: se c'era davvero qualcuno, in quella baita, non aveva intenzione di presentarglisi come un pericolo imminente.

Non smise di guardarsi attorno con attenzione quasi ossessiva, pronta a recepire il minimo segno di movimento; ma non successe niente del genere. Raggiunse il primo gradino dell'ingresso nel totale disinteresse degli alberi, degli animali, del cielo grigio e cupo del primo pomeriggio.

Le assi scricchiolarono sinistramente non appena mise piede sullo scalino.

Restò in attesa. Ancora niente.

Il silenzio quasi opprimente, lo stridore lontano di uccelli che neanche riusciva a vedere, cominciarono ad agitarla. Si strinse il file al petto e si obbligò a salire anche gli altri tre gradini, evitando all'ultimo secondo di mettere piede in un punto in cui il legno sembrava essere marcito.

Avvicinò la porta, allora, protetta da una zanzariera strappata in prossimità della maniglia, arricciata agli angoli e tenuta ferma da alcuni chiodi arrugginiti. Alzò una mano e, prima di poterci ripensare, bussò.

Fece un passo indietro e attese. Attese per un minuto intero prima di riprovarci.

Di nuovo nessuna risposta.

Il cuore prese a batterle rapido in petto, minacciando di impegnarsi in una delle sue solite corse, di quelle che le toglievano il fiato e la obbligavano a mettere in pratica tutte le tecniche che aveva imparato, nella sua lunga carriera, per imporre all'agitazione di recedere in un remoto angolo della sua testa.

Si spostò verso le finestre, ma quelle sul davanti erano chiuse entrambe, celando l'interno della baita alla vista; se solo avesse potuto dare un'occhiata, avrebbe capito se l'incuria era dovuta alla mancanza di esseri umani che se ne prendessero cura o, piuttosto, al loro disinteresse.

Ridiscese i gradini, spostandosi sul lato e circumnavigando il piccolo edificio: più il tempo passava e più si muoveva rapida, impaziente. Si soffermò sul retro per poi dirigersi a passo spedito verso l'unica finestra del primo piano; si accorse con sollievo che, seppur sigillata, lo scuro interno non era del tutto chiuso.

Forse era colpa del battito cardiaco che le martellava furiosamente nelle tempie, o forse della distrazione cui il lavoro d'ufficio l'aveva ormai abituata – fatto stava che Natasha si accorse dei passi alle sue spalle con un secondo di ritardo.

Fece appena in tempo a scorgere l'ombra scura che si disegnava riflessa sul vetro, di torcere la mano dietro la schiena per raggiungere la pistola nascosta sotto il cappotto e sfiorarne il calcio... prima che il suono secco e nitido di un fucile che veniva caricato non le risuonasse alle spalle.

«Non ci pensare neanche», le intimò una voce bassa e roca che avrebbe riconosciuto tra mille. «Alza le mani... e lascia cadere a terra il fascicolo.»

Natasha obbedì, tenendo gli occhi bassi e le mani sollevate. Il file, invece, finì tra le foglie umide che tappezzavano il terreno.

«Adesso girati... molto lentamente. Nessuno scherzo o sparo», stabilì duramente la voce. Era diversa da come la ricordava e al tempo stesso così familiare da farle contorcere lo stomaco.

L'agitazione minacciava di toglierle il respiro e il panico che l'impazienza aveva temporaneamente dissolto tornò a farsi sentire a piena potenza. Si pentì di aver fatto tutta quella strada, si pentì di aver preso una decisione tanto stupida e si pentì di essersi messa in condizione di ricevere una reazione che – ne era certa – non sarebbe stata positiva.

Perché lei al suo posto non avrebbe voluto saperne: l'avrebbe mandato via, rispedito per direttissima da qualsiasi buco di fetente burocrazia dal quale era uscito.

«Ho detto di voltarti», insisté la voce, prendendo un'inflessione diversa, arrabbiata e severa ma con il più piccolo indizio di disperata frustrazione.

Con tutta la sua concentrazione focalizzata sul non farsi tremare le mani troppo vistosamente, Natasha ruotò lentamente su se stessa fino a fronteggiare l'uomo che le stava di fronte. E poi le mani presero a tremare, perché mantenere neutrale la propria espressione divenne la priorità assoluta.

Scarponi sporchi di terra. Jeans scoloriti e macchiati di fresco in corrispondenza delle ginocchia. Una camicia in plaid rossa e nera; le maniche arrotolate fino ai gomiti nonostante il freddo d'inizio novembre e scucita in almeno un paio di punti, a lasciar intravedere la t-shirt bianca sottostante.

Si costrinse a puntare lo sguardo sul viso ricoperto di una fitta barba biondiccia, sui capelli un po' troppo lunghi, sugli occhi grigi che la fissavano carichi di rabbia, stupore, paura... e almeno un altro centinaio di cose che forse avrebbe saputo riconoscere, non fosse stata tanto agitata.

«T-Tasha?» lo sentì biascicare, incredulo.

La canna del fucile con cui ancora la teneva sotto mira sussultò impercettibilmente, ma rimase dov'era.

«Barton», ricambiò soltanto, meno stentata di quanto avesse temuto.

Erano passati nove anni e cinque mesi dall'ultima volta che si erano visti.

 

*

 

«Che hai fatto ai capelli?» fu la prima cosa che le chiese, dopo averle fatto bruscamente cenno di prendere posto al tavolo di legno grezzo che campeggiava nella piccola cucina.

«Il rosso mi rendeva troppo riconoscibile», rispose, appoggiando il file sporco di terra sulla sedia libera accanto alla sua.

La situazione aveva un che di surreale: le pareva essere trascorsa una vita intera da quando si erano divisi al confine tra gli Stati Uniti e il Canada... eppure adesso era in casa sua e stavano parlando dei suoi capelli, tinti di castano scuro ormai da diversi anni – un po' per precauzione, un po' per una bizzarra punizione e un po' perché ormai gli sporadici capelli bianchi erano una seccatura anche per lei.

Clint rimase immobile per un lungo istante. Aveva abbandonato il fucile all'ingresso, ma non si era tolto gli scarponi prima di condurla in cucina. Le occhiate che le lanciava e il modo un po' goffo in cui si spostava le fecero capire che non era abituato ad avere ospiti... o altri esseri umani nelle vicinanze.

«Ho solo caffè», si scusò in anticipo prima di mettersi a rovistare nei vari sportelli.

Natasha non si mosse, limitandosi a seguirlo con lo sguardo. Stava aspettando che il disagio che le serrava lo stomaco si polverizzasse, perché con Clint era così che le cose avevano sempre funzionato; ma i secondi passavano e l'angoscia era sempre lì, a tormentarla.

Rimasero in silenzio mentre lui preparava il caffè.

«Credevo non ci fosse nessuno», si sforzò di dire.

«Non è un castello», si giustificò Clint sulla difensiva, intuendo le sue riserve. «Come hai fatto a trovarmi?»

Avrebbe potuto dirgli che erano almeno quattro anni che sapeva che era andato a rifugiarsi da qualche parte in Nevada, sulle sponde del lago Tahoe; avrebbe potuto, ma non lo fece. Perché avrebbe implicato confessare che per altrettanto tempo non aveva sentito il bisogno di vederlo o di andarlo a cercare – il che, ovviamente, sarebbe stata una menzogna bella e buona.

«Verranno?» chiese di nuovo Clint, voltandosi per lanciarle una penetrante occhiata.

«No. Sei al sicuro.»

Le parve di registrare un minimo segno di sollievo nei suoi occhi grigi, ancora carichi di sorpresa e sospetto.

Provò a rilassarsi sfilandosi la sciarpa pesante e appoggiandola sul tavolo, a guardarsi attorno, nonostante tutto curiosa. Per quel che aveva potuto scorgere, l'interno della baita aveva l'aspetto di un glorificato capanno da caccia. I mobili e gli elettrodomestici erano vecchi, ma funzionali. Quel che era evidente era la totale mancanza di tecnologia o tracce di un altro essere umano.

Giurò di aver intravisto arco e frecce abbandonati all'imboccatura del salotto, ma Clint le poggiò una tazza di caffè caldo sotto il naso, costringendola a deviare la sua attenzione.

«Perché sei qui?» le chiese senza mezzi termini. Non si sedette: restò in piedi, appoggiato contro il bancone della cucina.

L'irruenza, il suo andare dritto al punto, le fecero capire che non ci sarebbero stati né convenevoli, né ragguagli su ciò che, in tanti anni, era successo nelle loro vite. Non che si fosse aspettata di essere accolta a braccia aperte – tutt'altro – ma una cosa era figurarsi la sua reazione, un'altra era sperimentarla sulla propria pelle.

Era invecchiato, ma i capelli erano ancora del solito biondo, gli occhi sempre accesi e attenti, il fisico ancora prestante. Non aveva la più pallida idea di come riempisse le sue giornate in un posto del genere, ma immaginava che includessero lunghe passeggiate nel bosco, legna da tagliare, riparazioni da effettuare... magari aveva un lavoro. A questo non aveva ancora pensato.

Neanche l'aria di chi sembra portare sulle proprie spalle il peso del mondo se n'era andata.

«Natasha», insisté, perché si era persa di nuovo. Si chiese se fosse capace di immaginarsi, anche solo lontanamente, l'effetto che le faceva sentirgli pronunciare il suo nome dopo così tanto tempo.

Ignorò la tazza di caffè e recuperò il file dalla sedia, poggiandolo sul tavolo davanti a sé.

«Ricordi i trafficanti di droga polacchi su cui abbiamo indagato nel 2008?»

L'operazione era durata un anno intero, con Clint che ne aveva trascorso una buona parte sotto copertura a Varsavia; decisamente una delle missioni a lungo termine più sfiancanti e impegnative della sua carriera – prima che gli Avengers entrassero in scena, s'intende.

Lo vide annuire. Continuava a fissarla con sfacciataggine o forse era aria di sfida: un'aggressiva curiosità di scoprire fin dove la sua faccia tosta si sarebbe spinta. Chi le aveva dato il permesso di presentarsi sulla soglia di casa sua? Come aveva potuto cedere tanto facilmente all'insopportabile voglia di rivederlo, di sapere cosa ne era stato della sua vita?

Quelli non erano più affari suoi da tanto tempo, da quando aveva deciso di stare dalla parte di Tony Stark e del Ministero della Difesa durante quella che, a cose fatte, era stata chiamata Guerra Civile – solo la seconda più popolare della storia americana.

Perché avrebbero dovuto, comunque? Si sarebbe dovuta accorgere in tempo che la situazione non si sarebbe mai risolta pacificamente, che la tensione che separava i due schieramenti avrebbe portato ad una deflagrazione d'imponderabili dimensioni. Come aveva potuto fidarsi del governo degli Stati Uniti? Come aveva potuto credere che un ammasso di burocrati avrebbero agito ragionevolmente ed evitare che si arrivasse al peggio?

Steve Rogers era morto anche per colpa sua, perché era stata troppo stupida, troppo scandalosamente ottimista per analizzare correttamente la situazione. Era stato un modo ingenuo, forse, di tenere insieme l'unica famiglia che avesse mai avuto.

E quando era stato troppo tardi non aveva potuto far altro che rimediare – male e inadeguatamente – al danno compiuto. Si era assicurata che Clint e chiunque avesse sostenuto Steve trovasse il modo di correre al riparo e di sfuggire alle grinfie del sistema nelle cui mani si era messa tanto inavvertitamente.

Per questo l'aveva condotto fino al confine col Canada. Per questo gli aveva detto di andarsene senza guardarsi indietro. Per questo aveva ignorato le sue domande e le sue richieste di accompagnarlo. Per questo gli aveva consegnato un borsone contenente pochi effetti personali, documenti falsi, qualche migliaio di dollari, e l'aveva lasciato.

A quei tempi non aveva immaginato che la decisione sarebbe stata tanto definitiva, ma col passare dei mesi aveva capito di non poter fare altrimenti.

Tutte le cose buone che era sicura di essersi guadagnata – perfino meritata – negli anni dello SHIELD, degli Avengers, si erano polverizzate davanti ai suoi occhi. Impossibili da recuperare.

E poi c'era stato il senso di colpa, talmente forte e schiacciante da impedirle di dormire per più di tre ore consecutive a notte.

A tutto questo ormai si era adattata, ma non senza pagarne le conseguenze.

«Certo che li ricordo», confermò Clint con evidente disinteresse.

Natasha era sicura che guardarla in faccia gli fosse più che sufficiente per leggerle negli occhi tutti i pensieri che le stavano ingombrando la mente. Si sentì dolorosamente vulnerabile e pure un po' ridicola per l'avventatezza di quella decisione (per quanto avventato potesse essere, in retrospettiva, un viaggio durato più di quarantotto ore che avrebbe potuto interrompersi in qualsiasi momento se solo l'avesse voluto).

Deglutì, cercando di non lasciar intravedere l'agitazione: «Sono riemersi qualche mese fa a Minsk. Siamo sicuri si tratti degl-»

«Chi è noi?» le chiese, facendo fatica a nascondere un improvviso disprezzo. Se per lei o per il fatto che stesse parlando di missioni e operazioni come se niente fosse successo, questo Natasha non seppe dirlo o valutarlo.

«Il nuovo SHIELD.»

«Vuoi dire il governo», la corresse.

Non rispose, né ribatté; tutti sapevano che il nuovo SHIELD non era altro che un'organizzazione fantoccio che si assicurava di proteggere gli interessi strategici degli Stati Uniti; la sicurezza mondiale non era più la priorità.

Sostenne a fatica il suo sguardo carico di disprezzo, delusione, derisione... o forse si stava immaginando tutto. Forse pretendeva di vedere nei suoi occhi quello che lei stessa provava nei propri confronti; non sarebbe stata la prima volta, ma non voleva illudersi che Clint avesse dimenticato – che l'avesse perdonata.

«Le modalità sono le stesse,» si costrinse a dire, «e nessuno conosce quell'operazione meglio di te».

«Credi che mi ricordi i dettagli di una missione di più di quindici anni fa?» le chiese, l'ombra di un sorriso incredulo ad increspargli le labbra.

«Ho portato il fascicolo,» alluse, «per rinfrescarti le idee».

Clint bevve un lungo sorso di caffè dalla tazza fumante appoggiata sul bancone, limitandosi ad osservarla in silenzio. Tutto ciò che c'era di storto in quella spiegazione era così evidente che quasi avrebbe desiderato essere smascherata e messa davanti alla realtà dei fatti; avrebbe voluto che Clint le ricordasse che riusciva a vedere attraverso le sue stronzate senza la minima difficoltà, che poteva mentire con chiunque, ma non con lui.

Ma tutto quello che fece fu annuire, amaramente divertito da una situazione che lei stessa trovava a dir poco surreale.

«Ti dirò tutto quello che mi ricordo», disse, prendendo posto al tavolo, davanti a lei. «Hai intenzione di prendere appunti?» chiese, non scontroso, ma indifferente.

«Pensavo di registrarti, se non ti dispiace.» Estrasse un vecchio registratore dalla tasca del cappotto.

«E quel pezzo d'antiquariato dove l'hai trovato?»

«I pezzi d'antiquariato non sono hackerabili o rintracciabili», spiegò; solo un patetico tentativo di fargli sapere che non era stata maldestra, che nonostante tutto la sua incolumità le stava ancora a cuore.

«Fa' pure», le concesse.

 

*

 

«Hai tutto quello che ti serve?» le domandò mentre Natasha si stava rimettendo la sciarpa.

Annuì senza rispondere. Tutto quello che voleva fare era uscire all'aria aperta e respirare a pieni polmoni: se fosse rimasta un altro secondo là dentro, temeva che il panico le avrebbe serrato la gola e non aveva la benché minima intenzione di dare spettacolo.

Dopo che ebbe recuperato il fascicolo, Clint le fece cenno di precederlo fino alla porta sul retro. Non ebbe neanche la prontezza di riflessi per mettere gli occhi su quanti più angoli possibili della casa, tanto l'angoscia minacciava di prendere il sopravvento.

Fu lui ad aprirle la porta in un eccesso di cavalleria un tantino grottesco; forse per prenderla in giro, realizzò Natasha, ma abbandonò il sospetto non appena l'ebbe formulato (non perché lo credesse falso, ma perché non era in grado affrontarlo).

«Natasha», la richiamò Clint, bloccandosi sulla soglia della baita. Aspettò che si voltasse verso di lui (atto che richiese energie che ormai scarseggiavano pericolosamente) per parlare di nuovo: «Perché sei venuta fin qui?»

Si bloccò, le mani in tasca e il file sottobraccio, e sperò che non si fosse accorto del pallore del suo viso, del cuore che continuava a battere troppo rapido. Forse gli anni trascorsi avevano arrugginito il loro legame al punto da impedirgli di leggerla come un libro aperto.

Perché era ovvio che non aveva guidato per più di due giorni per ottenere informazioni sul crimine organizzato polacco ricollocatosi in Bielorussia. Avrebbe potuto chiamarlo, contattarlo in qualsiasi altro modo; o – meglio ancora – servirsi dei verbali redatti a suo tempo: era pur vero che le scartoffie non erano la specialità di Clint, ma vi avrebbe comunque trovato l'essenziale.

Ma non l'aveva fatto. Aveva preferito partire da Washington sulla sua vecchia Corvette, raggiungere il Missouri dove il suo contatto le aveva fatto trovare una jeep dalla targa finta, registrata a nome di un illustre sconosciuto e discretamente blindata nel caso avesse fatto spiacevoli incontri lungo la strada.

Sapeva che la cosa migliore da fare era essere sincera, dirgli chiaro e tondo che aveva voglia di vederlo, che aveva combattuto contro se stessa per anni pur di vincere una tentazione che, alla fine, aveva comunque avuto la meglio.

Invece gli mostrò il registratore, come a ribadire – vigliaccamente – che era stato il lavoro a portarla fin lì. Un lavoro che, a ragione, Clint aveva imparato a disprezzare.

Non le parve sorpreso, solo riconfermato in una delusione che non aveva smesso un secondo di adombrargli gli occhi.

«Ti trovo bene», le disse però, colpendo dove sapeva di poter far male: combattere la menzogna con la sincerità – che altro?

«Anch'io», ammise, lo stomaco contorto in un groviglio inestricabile. In tempi diversi avrebbe risposto con una battuta ad effetto, ma era troppo occupata ad ignorare una nuova, improvvisa e ridicola voglia di piangere per pensare a qualsiasi altra cosa.

«Ci vediamo, Clint», esalò dopo aver raccolto l'ultimo briciolo di convinzione che le restava.

«Romanoff», disse solo, dandole indirettamente il permesso di voltargli le spalle e andarsene una volta per tutte.

Non le credeva. Non le aveva creduto neppure per un attimo.

Natasha annuì, combattuta tra la voglia che aveva di guardarlo il più a lungo possibile – quando le sarebbe ricapitato? – e quella, altrettanto forte, di andarsene. Fu quest'ultima a vincere; se ne accorse solo quando realizzò di essere tornata all'auto praticamente di corsa.

«Vigliacca,» bisbigliò a mezza voce, «vigliacca, vigliacca, vigliacca».

Lanciò il fascicolo sul sedile del passeggero e mise in moto: voleva essere abbastanza lontana da Clint e dal lago per il momento in cui ignorare l'attacco di panico sarebbe diventato impossibile.

 

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Capitolo 2
*** Inverno ***


(Inverno)

 

*

 

 

Un debole segnale acustico lo informò che il portellone automatico del garage era stato attivato dall'esterno. Voci confuse ne accompagnarono il silenzioso sollevarsi.

Si accostò maggiormente ad una delle tante rientranze in ombra: il garage era talmente ampio da poter accogliere svariate centinaia di persone. Uniche ospiti, invece, erano le costose auto di lusso di Tony Stark. Ce n'erano per tutti i gusti: sportive, aggressive, vintage, rosse, blu, nere, pittorescamente decorate; si distribuivano a perdita d'occhio nell'enorme stanzone fatto di box auto sapientemente collocati.

Quella prescelta per la serata appena conclusasi era una vecchia Rolls-Royce imbiancata dalla neve che non aveva smesso un secondo di cadere – sarebbe stato un gennaio più rigido del solito a New York. O almeno così aveva ripetuto più volte il notiziario intravisto per caso alla stazione dei pullman.

Restò in silenzio mentre la voce dall'esterno – petulante e insistente, probabilmente appartenente ad una guardia del servizio di sicurezza notturno – si assottigliava fino a spegnersi del tutto, ma non prima di aver smozzicato un'imprecazione che Clint sospettò non essere stata programmata. Il portellone si chiuse, tagliando fuori lo sconosciuto senza troppi complimenti.

Uscì allo scoperto dopo una rapida occhiata all'orologio che aveva in tasca; l'unico motivo per cui aveva scelto il garage della residenza newyorkese di Stark era che non c'erano telecamere, ma non aveva intenzione di peccare d'ingenuità e rischiare di essere beccato. Doveva essere veloce.

Costeggiò le zone in ombra fino a raggiungere il box in cui Stark stava finendo di parcheggiare la Rolls. Aspettò che si accorgesse della sua presenza senza dire niente, le mani infilate in tasca, un gran sonno a pesargli sugli occhi e qualcosa di molto più schiacciante all'altezza del petto.

Stark scese dall'auto con movimenti nervosi – su qualsiasi cosa fosse stato il diverbio con la guardia, doveva avergli messo addosso un pessimo umore. I capelli gli si erano ingrigiti in più punti, ma l'abbigliamento era sempre lo stesso: impeccabile e un tantino eccentrico. Indossava occhiali da sole che mal si sposavano con le necessità della stagione. Il pizzetto estremamente curato, spruzzato di grigio anche quello.

Eppure Tony Stark sembrava stanco. Stanco di tutto. Appesantito nei movimenti, nel respiro, forse un po' anche nella figura.

L'uomo fece appena in tempo a richiudere la portiera prima di realizzare di non essere solo. Le linee del viso – molto più marcate di quanto Clint ricordasse – si contrassero vistosamente in un'espressione spaventata; subito sostituita dalla scintilla della consapevolezza e quindi da perplessità e disagio.

L'ultima volta che si erano trovati faccia a faccia c'erano cadaveri e edifici in fiamme a circondarli; adesso soltanto auto silenziose e lucide sotto la soffusa illuminazione del garage.

«Barton», fu Stark a parlare per primo, solo una minima incertezza nella voce. «Come hai fatto ad entrare?» Stava cercando di comportarsi come se niente fosse, come se l'imprevisto non lo mettesse minimamente in difficoltà.

«Non ho dimenticato proprio tutti i trucchi del mestiere», rispose soltanto, senza muovere un passo.

«A che devo l'onore?» domandò ancora, avvicinandosi con malcelata cautela.

«Quale onore?» rilanciò Clint, un tantino sarcastico.

In fin dei conti era un uomo morto, un fantasma che finiva di scontare la sua purgatoriale esistenza sulle sponde di un lago gelato nella più completa delle solitudini. All'onore aveva smesso di pensare molto prima che le cose andassero definitivamente a puttane; averlo lì non gli sarebbe valso alcun merito, solo una valanga di seccature nel caso l'avessero scoperto.

«Voglio sapere che è successo a Natasha», riprese, deciso ad andare dritto al punto.

«Romanoff?» chiese, improvvisamente allarmato. «Le è successo qualcosa?»

«In questi ultimi dieci anni», si corresse per evitare fraintendimenti. Stark si rilassò impercettibilmente.

«Perché non lo chiedi a lei?» obiettò allora.

«Perché non mi risponderà.»

«Allora, forse-»

«Stark», lo richiamò all'attenzione, il tono sommesso ma carico di determinazione.

Conosceva Natasha come il palmo della sua mano; la conosceva così bene da sapere che non gli avrebbe detto un bel niente di ciò che voleva sapere. L'aveva capito nel momento esatto in cui se l'era ritrovata davanti, i cambiamenti fisici a malapena accennati, eppure così diversa da fargli contorcere lo stomaco.

Gli aveva ricordato la ragazzina recalcitrante che era miracolosamente riuscito a convincere a dare una chance allo SHIELD, la bestia braccata che non smetteva neanche per un secondo di proiettare il suo sguardo attento e suo malgrado spaventato tutt'intorno, in attesa del minimo segno di pericolo.

Non c'entravano i capelli più scuri, o le sottili rughe che le solcavano il viso; erano stati gli occhi, vacui e carichi di un'angoscia che era sicuro si fosse lasciata alle spalle – erano stati gli occhi a metterlo in guardia. Non che si fosse aspettato di trovarla tale e quale; dieci anni sono tanti per chiunque, persino per la Vedova Nera.

«Credevo foste rimasti in contatto», ammise Stark a fatica.

«No», negò in fretta, perché era l'ultima cosa a cui voleva pensare. Tutte le volte che sfiorava anche solo per un istante la concretezza di tutti quegli anni trascorsi ad aspettare neanche lui sapeva bene cosa, una rabbia cieca e disperata gli contraeva i muscoli.

«Cosa vuoi sapere?»

«Lavora ancora per lo SHIELD?»

«Sì. Se così vuoi chiamarlo.»

«Perché?»

«Perché non ha altra scelta.»

«Di che stai parlando?»

Stark si adombrò di colpo, improvvisamente sospettoso. Per un attimo, Clint pensò che avesse a che fare col governo e il Ministero della Difesa: sapeva per certo che neanche i suoi legami con l'esercito erano stati rescissi del tutto. Dopo la Guerra Civile e la morte di Rogers c'erano state conseguenze per tutti, non importava di che schieramento avessero fatto parte – quello, in fin dei conti, non aveva mai avuto alcuna importanza.

«Non lo sai», esalò, rivolgendosi più a se stesso che a lui.

«Cos'è che non so?» fece un passo avanti, incurante di quanto minaccioso potesse apparire.

«Romanoff...»

«Tony.»

Stark ebbe uno scatto inconsulto, di nervosismo, forse; si sfilò gli occhiali da sole e gli offrì i suoi occhi, il destro solcato da una cicatrice che gli tagliava il sopracciglio e lo zigomo sottostante. La pupilla era appannata – cieca, realizzò Clint.

«Lo so,» commentò, perché doveva aver intuito la sua sorpresa, «suppongo sia una sorta di legge del contrappasso per tutte le volte che ho fatto battute inopportune sul vecchio Nick».

Un brivido gli corse giù per la schiena, ma fece finta di niente. Era rimasto talmente lontano, estraniato da quel mondo, che ritrovarcisi dentro all'improvviso gli causava molti più scompensi di quanti avesse inizialmente preventivato.

«Natasha è stata indagata», lo informò Stark subito dopo.

«Lei come tutti.»

«Come tutti,» confermò. «Ma è stata l'unica a...,» fece una breve pausa, in evidente difficoltà, «lei...»

«Stark», insisté, cancellando la distanza che li separava e più che intenzionato ad afferrarlo per il bavero di quella sua stupida giacca d'alta sartoria se non si fosse deciso a parlare.

«L'hanno incarcerata», si affrettò a chiarire allora, costringendolo a bloccarsi dov'era.

«S-Scusa?»

«Dopo che gli uomini di Ro-», la voce gli si spense per un orribile istante, quasi un calo di tensione che lo obbligò a interrompersi e ricominciare da capo. «Dopo che siete stati accusati d'alto tradimento, Romanoff si è fatta in quattro per assicurarsi che aveste una chance. Quando si è accorta di non poterci riuscire per vie legali, ha fatto di tutto per farvi uscire dal paese.»

«Questo lo so», gli parlò sopra, impaziente. Come poteva non saperlo? C'era stato anche lui su quel maledetto confine ad implorarla di seguirlo, di lasciarsi alle spalle le ceneri di quelle che erano state la loro famiglia – prima lo SHIELD, poi gli Avengers – e di andare con lui. Dove non aveva importanza, quel che contava è che fossero insieme, al sicuro dalle ripercussioni di quel conflitto insensato che avevano creduto di combattere gli uni contro gli altri e che invece li aveva visti burattini inconsapevoli di interessi troppo più grandi di loro.

«Quello che non sai è che si è praticamente venduta per assicurarsi che non vi trovassero.»

«C-Che intendi?»

«Sapeva che coi mezzi a loro disposizione, il governo vi avrebbe trovati. Tutti... dal primo all'ultimo. Sapeva che l'unico modo per impedire che succedesse era dar loro qualcosa di più prezioso delle teste di traditori ormai innocui.»

«Che c-cosa...» Si sentiva la testa disgustosamente leggera.

«Nessuno sapeva più di lei. Dello SHIELD, degli Avengers... quella donna legge tutto e assorbe tutto», esalò Stark con gesti rapidi e nervosi. «Ha fatto un accordo.»

«Hai detto che è stata incarcerata.»

«Per più di tre anni. Nessuno ha mai saputo dove. Ad oggi non ho idea di d-», si bloccò bruscamente, l'occhio buono innaturalmente lucido. «Ho fatto di tutto per trovarla. Ho parlato con tutti i figli di puttana di Washington, con i lobbisti, ho chiesto persino udienza al Presidente», distolse lo sguardo, faticando a nascondere la smorfia furente che gli deformava il viso. «Mi ero convinto che fosse mor-»

«Stark», lo interruppe, impedendogli di pronunciare quella parola. Avrebbe voluto urlargli contro che Natasha non si lasciava ammazzare proprio da nessuno, men che meno da quei burocrati del cazzo, ma la voce gli uscì più come un bisbiglio sconnesso che altro.

Tony non lo guardava più; fingeva interesse per la parete del box auto. Restò in silenzio per un minuto buono prima di decidersi ad incrociare di nuovo il suo sguardo, riluttante e visibilmente desideroso di porre fine a quell'incontro.

«È ricomparsa così com'era scomparsa», riprese. «Sembrava tutto normale. A p-parte il fatto che era diventata l'agente di punta del nuovo SHIELD. Una s-specie di direttore fantoccio.»

«Non puoi credere seriamente che la stiano obbligando a lavorare per loro», ribatté incerto, forse col preciso intento di farsi contraddire.

«Non lavora per loro, Barton. È un loro ostaggio.»

«No.»

«No? Pensi che Romanoff abbia qualcosa a che spartire con quei figli di puttana?»

«Penso che non faccia mai niente senza una motivazione ben precisa.»

«Sono passati dieci anni. Dieci anni in cui il governo ha magicamente allentato la morsa sui traditori ancora da trovare.»

«Si è venduta per salvarci il culo?»

«Si è venduta per salvarti il culo», lo corresse, quasi incredulo di dovergli spiegare per filo e per segno qualcosa che a lui appariva tanto scontata.

«Se lavora per loro-»

«L'hai vista?» gli chiese, interrompendolo bruscamente. «Perché se l'hai vista, allora sai che ho ragione. Qualsiasi cosa stia facendo... Natasha non è più la stessa.»

«Nessuno di noi lo è», replicò furente.

«Già, ma è lei che lavora per chi ha mandato tutto a puttane. Li vede tutti i giorni, li aiuta, si assicura che le loro operazioni vadano a buon fine.»

«Nessuno la sta obbligando, mi pare», un ridicolo tentativo di smentirlo.

«Non ce n'è bisogno. È convinta di sapere cosa deve fare per espiare i suoi peccati. Credevo che... speravo che foste ancora in contatto.»

«Ci vediamo, Stark», stroncò il discorso sul nascere, provando l'irrefrenabile bisogno di sparire.

Non esitò a dargli le spalle, ad allontanarsi rapidamente in direzione dell'entrata secondaria che aveva usato per introdursi di soppiatto nel garage.

«Barton!» gli urlò dietro Stark, «Abbiamo tutti perso qualcosa,» gli ricordò quand'era ormai lontano, «non lasciare che si prendano anche il resto».

 

*

 

Si strinse nel giaccone, tentando inutilmente di tenersi al caldo. La neve continuava a scendere imperterrita, ammucchiandosi ai lati della strada, inumidendo l'asfalto, i marciapiedi, i suoi vestiti.

Il cappellino che si era calcato sulla testa era quasi completamente fradicio; se lo sarebbe tolto se non ci fosse stata una ridicola cautela a fermarlo.

Aspettava ormai da un paio d'ore. Era notte fonda, quell'area della città pressoché deserta. Si era più volte trovato a sospettare che l'informazione che un suo vecchio contatto gli aveva procurato fosse falsa – magari era tutto un complicato inganno per rinchiuderlo finalmente in gattabuia. O magari Natasha aveva tardato. Magari, di rientro dalla sua ennesima missione, aveva optato per tornare immediatamente a Washington.

Fece risalire lo sguardo sulla facciata dell'edificio in cui una volta la donna aveva abitato. Non era neppure sicuro che l'appartamento fosse ancora di sua proprietà; sapeva solo che l'aveva adorato: piccolo, funzionale, sempre pulito e in ordine come piaceva a lei. Solo la camera da letto era abbastanza ampia da poterci stare in due senza togliersi l'aria a vicenda – per quello, di solito, si erano dati da fare in ben altri modi.

Contrasse bruscamente i pugni infreddoliti, ancora infossati nelle tasche, e spinse istintivamente la schiena contro il lampione spento a cui era rimasto appoggiato per tutto quel tempo.

La parte peggiore non era ripensare a quello che era successo, alla Guerra Civile, al trovarsi improvvisamente su schieramenti opposti; no, la parte peggiore era ricordare quello che c'era stato prima. Le giornate pigre sul suo divano a Bed-Stuy, le colazioni a metà pomeriggio nel letto di Natasha, le docce condivise con la scusa di risparmiare acqua, i baci scambiati all'Avengers Tower quando gli altri erano troppo distratti per prestar loro attenzione.

Erano quelli a fargli male. Un male del diavolo.

Un'auto comparve sul fondo della strada; solo un'ombra confusa tra le altre, ma Clint non fece fatica a distinguerla. Era pur vero che quei dieci anni gli avevano fatto dono di un paio di simpatici acciacchi, ma la vista era rimasta tale e quale (non che la possibilità di fregiarsi ancora del titolo di Occhio di Falco lo consolasse in alcun modo).

La vettura si avvicinava; dapprima rapidamente e poi, di colpo, più lenta. Fu sicuro che chiunque fosse al volante avesse rallentato dopo essersi accorto della sua presenza. Non mosse un dito, però, finché l'auto non si fermò proprio davanti al lampione.

Il finestrino del sedile del passeggero si abbassò lentamente, rivelando il volto pallido, stupito e provato di Natasha, le mani arpionate al volante.

Non aspettò un invito, neanche si scrollò di dosso la neve che gli si era depositata sul cappello, sulle spalle, sugli scarponi; si limitò a salire in macchina.

Natasha ripartì senza una parola.

 

*

 

Quando scesero in una zona deserta dell'area portuale, la neve cadeva con sempre maggior intensità.

«Voglio sapere che è successo in questi dieci anni», le disse non appena furono scesi dall'auto.

Natasha era uscita per prima. Si era avvicinata alla linea, a malapena distinguibile nell'oscurità, che separava l'asfalto dall'acqua e gli dava le spalle senza dire niente.

«Natasha», la richiamò all'attenzione, impaziente. Si sentì stupido, perché in fondo aveva aspettato una quantità di tempo che adesso gli appariva infinita e solo ora si lasciava prendere dalla fretta; una fretta disperata e inderogabile.

«Perché sei venuto fin qui?» gli chiese invece, sempre voltata.

Avrebbe voluto dirle la verità, che un altro anno era finito, che l'anno nuovo aveva portato con sé una parola che aveva sempre trovato ridicola – propositi – e dalla quale, invece, si era lasciato sedurre. Che per quasi due mesi aveva pensato a come si era sentito nel vederla seduta al tavolo della sua cucina, sbiadita da un'angoscia che aveva tentato invano di nascondergli. Che nonostante tutte le recriminazioni che si era ripromesso di muoverle contro – che altro c'era da fare, di notte, con gli occhi insonni fissi al soffitto se non fantasticare su un nuovo, improbabile incontro? – l'unico vero bisogno che si era impossessato di lui era quello di aiutarla.

«Perché sei venuta in Nevada?» insisté. Non avrebbe ceduto per primo, non era lui ad aver nascosto segreti tanto importanti in quei dieci anni.

Natasha si decise finalmente a voltarsi. Era buio, ma Clint riuscì comunque a scorgere l'espressione contrita che campeggiava sul suo viso.

«Non ho voglia di-»

«Avresti potuto leggere i verbali di quelle missioni a Varsavia», disse, sottolineando una verità che doveva esserle già fin troppo evidente.

«I tuoi verbali sono sempre stati pessimi, Barton», rispose, calcando inutilmente sulla nota sarcastica nella propria voce.

Era sempre il solito teatrino di azioni fisse e rodate: lui la costringeva a parlare, lei ricorreva alle sue armi per non farlo, ma alla fine cedeva. Perché in fondo era quello che voleva anche lei: deporre ogni difesa, confessarsi e fingere d'averlo fatto perché non c'erano alternative.

Sapeva che tutto quello che Natasha voleva era lasciarsi smascherare; e, per farlo, gli aveva dato più di un'occasione: quando gli aveva propinato quella ridicola scusa sui trafficanti di droga polacchi, quando gli aveva mostrato il registratore prima di trattenersi a stento dal correre fino alla jeep che l'avrebbe trascinata via da lì. Di nuovo.

Eppure non l'aveva fatto, perché non era compito suo. Perché, dopo dieci anni, estrarle la verità con le pinze non era più nella lista di cose che era disposto a fare; perché era tempo che Natasha si prendesse apertamente le sue responsabilità.

Solo adesso si rendeva conto di essere stato ingiusto e che, in fin dei conti, era venuto meno al tacito accordo stipulato tra di loro tanti anni prima, quando Natasha era ancora una recluta mal vista tra le file dello SHIELD e lui un coglione che tentava di barcamenarsi nel caos che era la sua vita.

«Tutte le informazioni che ti ho dato, avresti potuto ricavarle da quelli», si ostinò.

«Non tutte.»

«C'eri anche tu, ricordi?»

«Ero soltanto il tuo contatto esterno.»

«A cui raccontavo tutto. Se le cose non sono cambiate, la tua memoria funziona ancora meglio della mia.»

Natasha si voltò del tutto verso di lui, le mani nascoste nelle tasche del lungo cappotto nero che indossava; il vento gelido le agitava i capelli scuri punteggiati dalla neve.

«Perché sei venuta fino in in Nevada?» ripeté, scandendo le parole quasi religiosamente.

«Secondo te perché l'ho fatto?» ribatté, la voce faticosamente mantenuta chiara e ferma.

«No. No, voglio sentirtelo dire.» Ne aveva bisogno; solo in quel momento realizzò di averne un fottuto bisogno.

«Sono passati dieci anni. Volevo... v-volevo...» tacque di colpo e distolse lo sguardo. «Volevo rivederti. Sapere... s-sapere come te la passavi», ammise in un soffio.

Clint socchiuse gli occhi, lasciando ricadere il capo in avanti; ma la sensazione di calore che gli riempì il petto durò solo per un istante. Dopodiché le parole di Stark tornarono a tormentarlo.

«Perché non me l'hai detto?» le chiese, nonostante tutto brusco, quasi aggressivo.

Quando Natasha tornò a guardarlo, non si sorprese di non leggere neppure un briciolo di stupore nel suo sguardo.

«Perché saresti tornato indietro.»

Un moto di rabbia lo costrinse ad avvicinarsi di un paio di passi: «Non è un valido motivo», stabilì, trattenendo a stento la furia che gli si risvegliò in corpo senza alcun preavviso.

«Sì che lo è. Saresti tornato indietro, ti saresti consegnato al Ministero e allora tutto quello che ho fatto sarebbe stato inutile», rispose senza esitazioni, segno che su quel punto sarebbe stata inflessibile.

«Nessuno ti ha chiesto di fare quello che hai fatto!» Non era di certo stato lui a implorarla di sacrificarsi; il concetto gli appariva talmente assurdo che neanche sotto tortura l'avrebbe mai preso in considerazione.

«Non ce n'era bisogno.»

«Non c-ce n'era bisogno? T-Ti sei...»

«Li ho aiutati. Prima che tutto andasse a puttane, credevo che-»

«No, la Guerra non c'entra.»

«Sì che c'entra. Ho commesso un errore di valutazione e Steve è morto.»

«Non sei cambiata per un cazzo», sibilò arrabbiato. «Eravamo tutti coinvolti in quella storia, ma sì, ti prego, fa' come se fosse tutta colpa tua. Come se tu sola avessi deciso le sorti della situazione.»

«Tu non capisci.»

«Non capisco? Capisco che ti sei consegnata a quei gran figli di puttana per non so che peccato che credi di aver commesso.»

«Steve è morto», ripeté.

«Steve è stato ucciso dal governo americano.»

«Che io

«No! No, Natasha», scosse il capo con veemenza. «Per quanti anni ancora hai intenzione di raccontarti una stronzata del genere?»

«Non è una stronzata.»

«Sì che lo è! Non eri dalla parte del governo. Eri dalla parte di Stark, sapevi che razza di effetto distruttivo gli Avengers potevano avere ed eri convinta che se fossimo stati supervisionati avremmo trovato il modo di trattenerci, limitare i danni in attesa di una soluzione migliore», disse duramente. «Non ero d'accordo dieci anni fa e non lo sono adesso. Ma questo non significa che sia andato tutto a puttane per colpa tua. Nessuno, neanche Rogers immaginava che la risposta del Ministero della Difesa sarebbe stata tanto violenta.»

«Clint», esalò, come per fargli capire di star mancando completamente il punto.

«No. Vuoi prenderti le tue colpe? Perché hai aspettato dieci anni per farti viva? Perché cazzo hai pensato che salvarmi il culo fosse compito tuo?»

«Ho fatto quello che era giusto fare», ribatté, più convinta adesso.

«Senza consultarmi!» Aveva la minima idea di come sapere che aveva rinunciato a tre anni della sua vita per lui lo facesse sentire?

«Mi avresti impedito di farlo.»

«Certo che te l'avrei impedito! Ti sembrerà strano, ma so cavarmela. So badare a me stesso, non ho bisogno che tu mi faccia da badante ogni santa volta!»

«Avresti fatto lo stesso per me.»

«E tu mi avresti preso a calci! Non avresti mai accettato che mi compromettessi per te.»

«No, perché l'hai già fatto una volta, ricordi?» Aveva improvvisamente alzato la voce, e si era fatta avanti con urgenza.

«Mi sono compromesso con lo SHIELD, mi sono messo nella situazione di essere espulso o sospeso, di certo non mi sono fatto chiudere in gattabuia per tre anni!» Possibile che tutto tornasse sempre a quel punto? Al giorno in cui si era rifiutato di ucciderla perché aveva deciso che ci doveva pur essere un'alternativa?

«Non ha importanza», insisté Natasha, il respiro controllato e regolare. Avrebbe saputo riconoscere i suoi maledetti esercizi di respirazione anche ad occhi chiusi.

«Ce l'ha, eccome. Ce l'ha per me

«Volevo che fossi al sicuro.»

«Non volevo essere al sicuro! Volevo essere con te, Natasha! Per gli Avengers, per Tony e Steve è andato tutto a puttane quando ci siamo spaccati in due. Ma tra te e me le cose sono precipitate quando ti ho chiesto di venire in Canada con me e tu te ne sei andata senza neppure guardarmi in faccia, già con l'idea di sacrificarti per me quando tutto quello che volevo era che fossimo insieme! Non m'importava né dove né quando, avrei potuto fuggire per una vita intera se tu fossi venuta con me.» Si fermò per riprendere fiato, le guance ricoperte di barba improvvisamente accaldate, le mani intirizzite tremanti, ma non per il freddo.

Cadde il silenzio. C'era solo il flebile sciabordio dell'acqua altrimenti immobile a fare da sottofondo alla furiosa percussione del suo cuore.

Si sentì in colpa, irrazionalmente, non appena comprese che Natasha era in difficoltà, che faceva fatica a rincorrere i propri respiri. Le si avvicinò, ma la donna si ritrasse di colpo, gelosamente.

«Sta' calma, Natasha», mormorò senza demordere.

«S-Sono calma», lo contraddisse, ma si era portata una mano al petto e stava tornando verso l'auto su passi incerti, quasi barcollanti.

La guardò appoggiarsi al cofano, chinare il capo in avanti, boccheggiare per convincere i polmoni a reclamare l'aria che si erano improvvisamente rifiutati d'accettare.

Gli era capitato solo una volta di vederla in condizioni simili, tanti anni prima e solo pochi mesi dopo il loro primo incontro. In altre situazioni ci era andata molto vicina, ma era sempre riuscita a placarsi, a ritrovare un seppur misero straccio di equilibrio. Qualcosa, però, gli diceva che stavolta non sarebbe successo, che era precipitata più a fondo del previsto.

«Natasha», la chiamò di nuovo, poggiandole una mano sulla schiena.

La donna si ribellò, scostandogliela bruscamente, i respiri corti e affannati. Clint l'afferrò per le spalle e la costrinse a farsi guardare, incurante delle sue proteste.

«Respira.»

«Sto r-respirando.»

«Stai boccheggiando. Guardami», le ordinò perentorio. «Guardami, Natasha.» La osservò mentre tentava inutilmente di sottrarsi ai suoi occhi.

Quando cedette quasi si pentì d'aver insistito così tanto: non c'era quasi più traccia dello sguardo impertinente a cui si era abituato. Non c'erano il sarcasmo, il divertimento a malapena trattenuto, la voluta vacuità di chi pretendeva di non essere compresa. Pure il verde delle iridi sembrava essere sbiadito insieme a tutto il resto.

Si chiese se per lei non fosse lo stesso, se vederlo in quelle condizioni – così cambiato dopo così tanto tempo – le avesse contorto lo stomaco in preda a rabbia, disperazione, inutile nostalgia.

«Sta' calma», ripeté, perché non aveva ancora ripreso a respirare. «Guardami. Concentrati sulla mia voce.»

«C-Clint.»

«Concentrati sulla mia voce, ho detto», tagliò corto. «Stringimi le braccia», aggiunse, assicurandosi che obbedisse.

Natasha gli dette miracolosamente retta, ma forse più con l'idea di strattonarlo e farsi lasciare che per reale volontà di seguire il suo suggerimento. Fatto stava che rimase aggrappata alle maniche del suo giaccone come ne andasse del suo equilibrio.

«Sono qui. Tu sei qui», parlò a voce bassa, sperando suonasse tranquillizzante, il nervosismo a malapena represso. «La senti la neve? È gelida... e c'è una gran puzza di pesce marcio.»

Non aveva pianificato quello che successe dopo, ma la docilità che le lesse negli occhi innescò il meccanismo prima che potesse anche solo provare a trattenerlo: l'attirò a sé, avvolgendola tra le braccia, stringendo quanto più possibile senza farle male.

La sentì abbandonarsi contro di lui, nascondere il viso nella patetica scusa per una sciarpa che portava attorno al collo e sussultare appena.

Era sicuro stesse piangendo, ma non disse niente.

 

*

 

La macchina si fermò ad un isolato di distanza dalla stazione dei pullman. Era quasi l'alba e nessuno dei due aveva dormito molto: avevano trascorso le ultime ore percorrendo insensati, silenziosi itinerari attraverso New York.

Parole non ce n'erano state; forse entrambi sapevano che avrebbero soltanto peggiorato le cose.

Ma, con l'imminente spuntare del nuovo giorno, Natasha doveva aver deciso che quel tour improvvisato era arrivato al capolinea. Non gli aveva fatto domande, né chiesto che intenzioni avesse; probabilmente aveva intuito che era arrivato fin lì in pullman e agito di conseguenza.

Non spense neanche il motore, segno che voleva che tutto si svolgesse il più rapidamente possibile.

«Ti conviene andare,» fu lei, infine, ad interrompere il confortevole silenzio che li aveva accompagnati fin lì, «New York è troppo pericolosa».

Gli venne quasi da ridere: aveva attraversato gli Stati Uniti solo per dar conto ad un ridicolo proposito per il nuovo anno, e tutto quello che Natasha aveva da dargli erano un paio di stupidi consigli sulla sua incolumità? Nonostante tutto quello che era successo, nonostante gli anni passati, una parte di lei era sempre in all'erta, sempre sull'attenti, sempre pronta a fare la cosa giusta. Qualsiasi cosa significasse, comunque.

Valutò se rispondere, ma decise che non ne aveva voglia. Di parole, in fondo, sentiva di averne sprecate pure troppe. E poi temeva che se solo avesse azzardato a dar voce alla sua frustrazione, non avrebbe più chiuso bocca.

Dovette soffocare la vocina interna che l'avrebbe spinto – ancora e ancora – a chiederle di andare con lui. Non l'aveva fatto dieci anni fa, di certo non avrebbe cambiato idea adesso, senza alcun preavviso o uno straccio di pianificazione.

Aprì la portiera e si preparò ad uscire.

«Clint», lo richiamò Natasha, tendendogli quello che aveva l'aria d'essere un cellulare usa e getta tirato fuori da chissà dove. Neanche lo stava guardando.

Esitò per qualche secondo, ma alla fine accettò quella criptica offerta – un modo sicuro per contattarla, suppose.

Ne osservò il profilo, i lineamenti sempre uguali, i capelli scuri incastrati nella sciarpa e una stretta di disperazione gli prese lo stomaco. In fin dei conti, forse, non si erano mai capiti a sufficienza, altrimenti non sarebbero stati in quell'orrenda situazione... di nuovo.

«Sono così stanco di dirti addio, Natasha», si lasciò sfuggire, esausto davvero.

Richiuse la portiera e non si voltò per controllare che lo stesse guardando. Dopo un paio di metri sentì l'auto che si allontanava lungo la strada costeggiata da mucchi di neve sporca, immersa nella luce grigiastra dell'alba.

Neanche New York sembrava più la stessa.







Note: nell'intro mi sono dimenticata di dire che i capitoli sono due dal POV di Natasha, due dal POV di Clint. Per il resto nient'altro da aggiungere (:
Grazie a chi legge & commenta! Al prossimo capitolo (:

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Capitolo 3
*** Primavera ***


(Primavera)

 

*

 

 

Si era pentita della scelta non appena aveva messo piede al Riverside Park. In qualche modo, aveva ignorato l'avvento della primavera fino a quel momento e adesso, che si ritrovava circondata da sprazzi di verde e rosa stagliati contro il cielo di un azzurro intenso, ne aveva dovuto prendere atto, seppur con una certa riluttanza.

Perché aveva imparato a detestare il bel tempo. Il disgelo prima e la fioritura poi non facevano che rammentarle che di rinascite, per lei, non ce ne sarebbero state. Solo il solito, squallido tran tran quotidiano che aveva improvvisamente cambiato fondale – uno, che per l'appunto, stonava tremendamente col suo perenne stato d'animo.

Mai come in quegli ultimi anni aveva provato nostalgia per la Russia, il suo freddo, la sua neve impietosa, il gelo che scende fin nelle ossa e blandisce con la sua promessa di un sereno, eterno riposo. Sapeva che i suoi ricordi non combaciavano con la realtà, che anche in Russia si avvicendavano le stagioni, eppure immaginarsi sulle distese ghiacciate, che aveva percorso troppe volte perché potesse contarle, l'aiutava a mantenersi stabile, a sopportare il verde con cui New York la schiaffeggiava ogni anno alla fine dell'inverno.

«Se continui a fissare gli alberi in quel modo, penseranno che li vuoi uccidere.» Una voce, la stessa che l'aveva perseguitata in quegli ultimi mesi (ma mentiva a se stessa: erano anni, piuttosto), la costrinse a lasciar perdere la fioritura.

Clint le si sedette di fianco, abbandonandosi senza troppi complimenti contro lo schienale della panchina. Aveva ancora la barba lunga, ma aveva scambiato il giaccone pesante e la sciarpa con cui l'aveva visto l'ultima volta con un giubbotto di jeans dall'aria pericolosamente vissuta.

La stretta allo stomaco tornò a farsi sentire, puntuale e sferzante, ma non poteva proprio dire di esserci abituata. Non ancora, almeno.

«Non dovresti starmi così vicino», gli disse, distogliendo lo sguardo.

L'istinto le suggeriva che la cosa migliore era fingere di essere due perfetti estranei trovatisi per caso in un parco qualunque di New York. La passeggiata non era esattamente affollata, ma non voleva comunque correre il rischio che qualcuno – in bicicletta, a piedi o su degli improbabili roller blades – li riconoscesse.

«Perché? Sei contagiosa?» le chiese senza nascondere il sarcasmo del proprio tono.

«Barton», esalò, ostinandosi a fissare un punto qualunque.

«È pieno di panchine vuote», le spiegò più o meno pazientemente, «non ha senso che mi sia seduto proprio qui se non ti conosco. Non mi va di fare la parte del maniaco dei parchi».

Capì subito che non aveva voglia di perdersi in inutili stronzate o precauzioni; capì anche che lo stava facendo apposta, probabilmente per farle sapere che l'unico responsabile della sua incolumità era lui e nessun altro. Che non era affar suo se voleva correre rischi inutili, che aveva – anzi – il sacrosanto diritto di farlo.

Natasha, dal canto suo, si ritrovò a stringere i pugni nelle tasche del trench leggero. Sentiva, vivissimo, il disperato bisogno di ristabilire le distanze: una parte di lei non smetteva di farle notare che chiunque avrebbe potuto sorprenderli, riconoscerli, denunciarli. Non aveva lavorato con il governo per dieci, interminabili anni solo per vedere tutti i suoi sforzi andare in fumo durante una disgustosa mattinata di primavera.

Combatté contro quell'improbabile atto di ribellione in silenzio e a lungo, finché la presenza di Clint non finì per avere la meglio sui suoi nervi. Quali che fossero le sue intenzioni, lei era lì per un motivo ben preciso e non c'era tempo da perdere in inutili chiacchiere.

«Sei rimasto a New York per tutto questo tempo?» domandò, voltandosi verso di lui con una mezza idea di rimproverarlo finché le orecchie non avessero preso a sanguinargli.

Era stato uno dei suoi vecchi contatti – di quelli che risalivano a molto prima della Guerra Civile – ad informarla che c'era una vaga possibilità che Clint fosse ancora in città. Inizialmente non ci aveva creduto, perché aveva dato per scontato che fosse ripartito alla volta del Nevada il giorno stesso in cui l'aveva riportato alla stazione dei pullman.

Ma non aveva sentito il bisogno – non aveva avuto il coraggio – di indagare oltre per averne una conferma. Le parole di lui le si erano conficcate nel cervello, incastrate in un costante replay che si era sforzata di ignorare con tutte le sue forze. Sono così stanco di dirti addio, Natasha.

Era rimasto. Forse col preciso intento di disobbedire al suo ordine e rinfacciarle tutto quel ridicolo buon senso solo per dimostrarle che poteva fare come più gli aggradava. Non doveva rendere conto a nessuno, tanto meno a lei.

«L'idea ti ha tenuto sveglia la notte?» le domandò, grattandosi distrattamente la barba. «Mille e più pericoli per il povero Clint Barton. Riuscirà a sopravvivere nella tremenda e temibile New York?»

«Non è divertente», lo redarguì.

«Sì che lo è. In modo un po' deprimente, ma lo è.» Si voltò per guardarla dritto negli occhi, obbligandola a sostenere il suo sguardo e a fingere che fosse tutto a posto. Niente di più normale che sedergli accanto su una panchina in un giorno di primavera qualsiasi.

Riuscì a trattenersi ancora per qualche attimo, ma poi l'impellente bisogno di fargli capire che era un gioco troppo rischioso tornò a farsi sentire. Insopportabile.

«New York non è sicura», disse infine.

Clint sbuffò una risata e scosse il capo, quasi non avesse aspettato altro che quello: di vedere quanto avrebbe resistito prima di fargli la paternale. Non molto, a quanto pareva.

«Dimmi qualcosa che non so.»

«Se prendessi questa cosa un po' più seriamente-»

«Più seriamente di dieci anni nascosto nel bosco?» rilanciò, visibilmente seccato. «Mi hai chiamato solo per questo?»

«Credevo fossi tornato in Nevada. Certo che ti ho chiamato per questo», ribatté prima di poterselo impedire. Se ne pentì un attimo dopo perché l'aveva detto apposta per farlo rimanere male e magari punirlo di tutta quell'inutile sfacciataggine.

«Non sono tornato in Nevada. Evidentemente», sottolineò, sorvolando sulla tentata provocazione.

«Perché?»

«Perché non mi andava», rispose soltanto.

«Non puoi seriamente pensare che correre il rischio di essere riconosciuto solo per dimostrare non so co-»

«Quello che voglio dimostrare si dimostra da sé: faccio quel che voglio. Corro i rischi che voglio. E tu non puoi fare niente per impedirmelo.»

«Sei un idiota.»

«Wow. Erano quasi dieci anni che non me lo dicevi. Adesso sì che ti riconosco», le fece notare, ma più che divertito le parve solo nervoso. «Quando arriva la parte in cui fingi di odiarmi e mi prendi a sassate per convincermi a fuggire per il mio bene?»

«Non sei un cane.»

«Purtroppo.»

«Devi andartene da qui,» si sforzò di sottolineare, «lo SHIELD ha occhi e orecchie e ovunque.»

«Non m'importa, Natasha.»

«Importa a me.» Come faceva a non capirlo?

«Davvero? T'importa così tanto che saresti disposta a relegarmi per altri dieci o venti anni sulle rive terrose di un lago del cazzo? Che razza di vita credi che abbia fatto fino ad oggi?» La postura era apparentemente rilassata, ma il grigio dei suoi occhi si era incupito ulteriormente. Era arrabbiato e stava cercando di trattenersi dall'urlarle contro.

Una parte di lei avrebbe voluto che non lo facesse, che le sputasse addosso tutto il veleno che doveva aver covato in quegli anni, ma anche quello era un desiderio del tutto egoistico. Forse vedersi punita l'avrebbe fatta sentire meglio.

«Se venissero a sapere che sei a New York...»

«Non lo verranno a sapere. Perché non mi stanno cercando, ricordi? Sei stata tu ad assicurarti che non lo facessero.»

«Non sono al corrente di tutto quello che fanno. Pensi che mi dicano ogni cosa?»

«Penso che hai i tuoi mezzi per scoprire quello che sanno. E se mi hai chiesto di incontrarci in questo posto piuttosto che spararmi un tranquillante in fronte e trascinarmi lontano da New York, allora il pericolo non è poi così pressante», disse tutto d'un fiato.

Aprì bocca per ribattere, ma realizzò con un certo orrore di non aver niente da obiettare. Sì, stava correndo un grosso rischio e sì, avrebbe dovuto allontanarsi dalla città il più rapidamente possibile; però non aveva avuto alcuna avvisaglia concreta dai suoi contatti al nuovo SHIELD.

«Sei diventata paranoica», l'accusò a voce più bassa e meno stizzita.

«Sono sempre stata paranoica», lo corresse.

«Sì, ma poi era quasi rinsavita... quasi.» Fece una breve pausa, smettendo finalmente di guardarla per far vagare lo sguardo sui passanti che sfilavano loro di fronte. «Non voglio neanche sapere quanto ci hai messo a scegliere questo posto.»

«Conosco i punti sicuri di questa città a memoria», stabilì, tecnicamente con l'intento di contraddirlo... in pratica rivelandogli fin dove la sua ossessione per le misure di sicurezza si fosse spinta.

«Dieci anni e non sei ancora riuscita a trovarti un passatempo non inquietante.»

«Dipende da cosa intendi per non inquietante

«Quello che ho detto.» Tornò a guardarla appoggiando un gomito sullo schienale della panchina. «Mi sono comprato un vocabolario. So tutte le parole. Prova a chiedermene una.»

«No, aspetta. Ti sei comprato un vocabolario?» Quella sì che era una notizia bomba.

«Le parole crociate hanno delle definizioni davvero assurde, a volte.»

«Hai comprato un vocabolario per fare le parole crociate?»

«Che altro credi ci sia da fare in Nevada?»

«Hai fatto parole crociate... per dieci anni.»

«No», scosse il capo e si passò una mano tra i capelli. Natasha sentì lo stomaco contorcersi al gesto, così familiare da far male e costringerla a guardare altrove per qualche attimo. «Dal Canada mi sono spostato in Alaska. Ero indeciso se passare in Russia, ma mi avrebbe causato troppi problemi.»

«Già, il tuo russo fa schifo», convenne prima di poterselo impedire.

«Grazie. Comunque sono sceso di nuovo negli Stati Uniti e mi sono fermato nel punto meno schifoso che ho trovato.»

«Non ti facevo un tipo da lago», ammise.

«Non lo sono.»

«Hai incontrato qualcuno?» gli chiese.

«Che c'entra?» le parve quasi allarmato dalla prospettiva.

«Se hai scelto il lago e non sei un tipo da lago, magari hai incontrato qualcuno che ti ha convinto a restare.»

Clint si voltò del tutto verso di lei, fissandole addosso i suoi occhi grigi come l'acciaio. Si era rifatto terribilmente serio; la tristezza a malapena arginata sul volto invecchiato.

Dopo aver dibattuto a lungo con se stesso per decidere come comportarsi, mormorò distrattamente: «Pensavo ti sarebbe piaciuto... il lago, intendo».

Provò un irrefrenabile bisogno di allungare una mano e toccarlo, e solo per un improbabile sforzo di volontà riuscì a trattenersi.

«Ti ho aspettata», aggiunse, mettendola in seria difficoltà adesso. «Ti ho-»

«Clint, sta' zitto», si lasciò sfuggire senza poter nascondere la disperazione nella propria voce.

Si rifiutò di guardarlo, persino di prendere atto della sua presenza. Chiunque disse che le parole feriscono più di una spada – pensò Natasha – doveva aver in mente una situazione del genere; perché quelle di Clint se le sentiva conficcate nel petto come veri e propri coltelli, più appuntiti e affilati che mai per scivolare più a fondo possibile.

Il cuore aveva ripreso a battere troppo rapidamente per i suoi gusti.

«Ti succede spesso?» le chiese, impercettibilmente più vicino. Suonava preoccupato.

«Non è niente di c-che», lo rassicurò, sperando di convincere anche se stessa a non dare di matto.

«Certo.» Non le credeva. «Andiamocene di qui.»

«Dove?»

«Non sei l'unica a conoscere tutti i luoghi sicuri di New York, Tasha.»

 

*

 

Il vapore risaliva pigramente dalla tazza di tè che Clint aveva appena preparato. Piuttosto che concentrarsi sulla probabilità (piuttosto scontata a dire il vero) che si fosse procurato del tè in vista di una sua possibile visita, decise di scandagliare l'appartamento, tanto piccolo da risultare un tantino claustrofobico.

C'era stata solo in sporadiche occasioni, ma lo ricordava diverso, forse perché l'aveva visto solo ammobiliato e adesso, d'arredamento, ce n'era ben poco. Giusto l'essenziale: un tavolo, qualche sedia, una cucina ridotta all'osso. Le era capitato più d'una volta di tornare in un luogo del passato e chiedersi se non si fosse ristretto quasi per magia, come quando sbagliava le impostazioni e la lavatrice le risputava indumenti rimpiccioliti di almeno un paio di taglie.

«Come hai fatto a convincerla?» domandò, allentandosi un poco il foulard che aveva dimenticato di togliere insieme al trench.

«Non l'ho dovuta convincere. Maria ha sempre avuto un debole per me», asserì, sedendosi al tavolo proprio di fronte lei. Ringraziò il fatto che il cucinotto-salotto di Maria Hill non assomigliasse per niente alla cucina sgangherata della casa sul lago di Clint; quella dello scorso autunno non era una conversazione che amava rievocare in alcun modo.

«Mi dispiace infrangere i tuoi sogni di gloria, ma Maria non ha mai avuto un debole per te.»

Sapeva che l'ex-braccio destro di Fury aveva messo a disposizione la sua casa sicura di New York nel caso qualcuno della vecchia guardia avesse avuto bisogno di un posto dove stare. Il nuovo SHIELD non ne era a conoscenza: secondo i file del municipio, quell'appartamento neanche esisteva.

«Avresti potuto lasciarmi crogiolare nel dubbio.»

«Non mentivi quando hai detto di esserti comprato un vocabolario», realizzò, vagamente divertita.

«La tua mala fede mi ferisce.»

Natasha lo guardò sorseggiare distrattamente il suo caffè; si stava sforzando di non osservarla troppo a lungo o intensamente, ma non ci riusciva granché bene, non adesso che non c'erano stimoli esterni a deviare l'attenzione.

«Mentivi quando hai detto che mi trovavi bene», aggiunse più pacatamente.

La tachicardia se n'era andata a metà strada tra il Riverside Park e l'appartamento di Maria; seguire metodicamente i punti ciechi nel sistema di telecamere di sicurezza della città le aveva concesso di concentrarsi su tutt'altro. Non si era neanche accorta che l'attacco di panico si era ritirato finché non aveva messo piede oltre la soglia della casa sicura e il cuore aveva smesso di battere all'impazzata.

«Sì e no», rispose Clint, apparentemente tutt'altro in difficoltà.

«Sì e no?»

«Non sei invecchiata per niente.»

«Non è vero», lo contraddisse, perché i segni che quei dieci anni le avevano impresso sul viso, sul fisico, li vedeva ogni giorno tutte le volte che aveva la malaugurata idea di sorprendersi davanti allo specchio.

«È vero», ribadì Clint in tono pragmatico. «Ma si vede che non stai bene.»

No, forse l'età non c'entrava. Forse se gli eventi non fossero precipitati come avevano fatto, allora sarebbe stato diverso.

«Sto bene», obiettò irrazionalmente. Negare sempre e comunque: l'istinto era sempre lo stesso.

«Parli con qualcuno?»

«Parlo con gente diversa tutti i giorni», defletté.

«Lo sai che intendo.»

Sì che lo sapeva. Aiuto professionale, di questo stava parlando.

«Ci ho provato,» ammise allora, «ma non ha funzionato».

Non che confessarsi a cuore aperto con lo psicologo del nuovo SHIELD fosse mai stata una seria possibilità; c'era andata con la speranza di farsi prescrivere qualche medicinale, poi rapidamente abbandonato perché l'ultima cosa che poteva permettersi era trascorrere le sue giornate con le idee annebbiate e confuse dagli psicofarmaci.

«E tu?» gli ritorse contro la domanda.

«Parlare con qualcuno? Non ci sono psicologi in Nevada.»

«Non suona plausibile.»

«Il tizio che spilla la birra al pub, Jerry. È lui il mio psicologo.»

Nascose il mezzo sorriso che premeva per incresparle le labbra nella tazza di tè; se ne concesse un lungo sorso, godendosi – per una volta tanto – il silenzio che li aveva avvolti, più familiare che scomodo. Il calore del tè le risalì piacevolmente su per la guance.

«Allora mi dispiace per Jerry», commentò mentre si sfilava il foulard leggero e lo sistemava insieme al trench sullo schienale della sedia.

«Su questo siamo d'accordo,» convenne, «ma cerco di rimediare con le mance».

Stavolta il sorriso non si preoccupò di cancellarlo; non tanto perché l'idea del barista arricchitosi grazie alle pene di Clint Barton fosse particolarmente divertente, ma – piuttosto – perché l'atmosfera si era fatta più leggera. Forse era colpa della primavera che continuava a ricordare la propria presenza oltre le tende che coprivano quasi del tutto l'unica finestra della stanza, o magari si stava semplicemente riabituando ad averlo davanti.

C'era un non so che di selvatico, in lui, che non si era concessa di notare fino a quel preciso istante. Probabilmente era per via della barba; la trasandatezza del vestiario, in fondo, gli era sempre appartenuta. Di diverso c'era che le sembrava più solido, non necessariamente nel fisico: come se potesse leggergli in faccia l'orgogliosa intenzione di restare ancorato al suo posto, come sfidando qualsiasi agente esterno a trascinarlo via dal punto che aveva scelto per se stesso.

Interruppe il flusso di pensieri, non troppo sicura di non star proiettando le sue esigenze su di lui. Sarebbe stato stupido credere che Clint avrebbe potuto risolvere tutti i suoi problemi, raddrizzare la sua esistenza così come si fa con un osso spezzato.

Riabbassò lo sguardo; il tè le rimandò il confuso riflesso del suo viso.

«Ce l'hai ancora», lo sentì sussurrare, sollevando di nuovo il capo per incrociare i suoi occhi. La rilassatezza di qualche attimo prima se n'era andata, sostituita da un improvviso turbamento.

«Di che parli?» Qualsiasi fosse il motivo, Clint si era incupito, ma non c'era traccia di rabbia o frustrazione, adesso – soltanto tristezza.

Non le rispose. Si limitò a toccarsi casualmente la base del collo per farle capire a che si riferisse. Natasha imitò meccanicamente il suo gesto, ritrovandosi a sfiorare la catenina sottile e il ciondolo a forma di freccia che aveva indossato ogni giorno da quando il nuovo SHIELD le aveva concesso di ritornare a Washington, a patto che fosse disposta a lavorare per loro.

La consapevolezza le balenò davanti agli occhi con bizzarra lentezza. Era talmente abituata a quel minuscolo accessorio, da aver completamente dimenticato di levarlo prima di incontrare Clint al Riverside Park. O almeno: col senno di poi, dopo essere stata tanto banalmente scoperta, avrebbe preferito essersene ricordata; eppure non era sicura che, nonostante la voglia improvvisa di strapparsela di dosso, avrebbe deciso di sbarazzarsene se ne avesse avuto l'opportunità.

Sapeva di dover dire qualcosa – qualsiasi cosa, ma non fece in tempo a pensare niente che Clint si era alzato dal suo posto, lasciando perdere il caffè.

«Clint», si sentì sussurrare, perché in fondo sapeva già cos'aveva intenzione di fare e voleva fermarlo. No, doveva fermarlo. Ma la protesta le rimase bloccata in gola, e tutto quello che riuscì a dire fu il suo nome, una, due, tre volte finché Clint non si fu chinato su di lei zittendola con un bacio.

Le sue labbra sulle proprie, il prurito della barba sulle guance, la mano che le aveva fatto scivolare sul collo per spingerla a sollevare il capo... furono le ultime cose che riuscì a registrare prima che buon senso e razionalità andassero a farsi benedire. Forse era stato il tremito della mano di Clint a convincerla, in un insensato bisogno di rassicurarlo, o forse – molto più probabile, anche se non era pronta ad ammetterlo – l'avrebbe baciato ovunque, comunque, quale che fosse stata la situazione. Perché la bocca di Clint era calda e le sue labbra morbide, e l'odore del suo corpo così invitante e familiare da cancellare qualsiasi ridicola forma di resistenza.

Ricambiò il bacio, allora, lo ricambiò inconsapevolmente per tutte le volte che non l'aveva fatto in quei dieci anni.

Lo baciò, lasciandosi rimettere in piedi per facilitargli le cose, per incastrarsi alla perfezione contro di lui e ritrovare il posto che era stato suo, una volta.

Lo baciò e, mentre l'avvolgeva tra le sue braccia e affondava una mano tra i suoi capelli, mandò al diavolo tutti i suoi stupidi ragionamenti.

Lo baciò e lo spogliò e si lasciò spogliare a sua volta e, nonostante fosse fin troppo consapevole di quel madornale errore, decise che non le importava.

Era a casa.

 

*

 

«Come hai fatto a rimediare più cicatrici sul lago Tahoe che in tanti anni di onorato servizio allo SHIELD?» chiese, fermando l'indice appena sopra l'ombelico.

Di tutte le cose che si era immaginata fantasticando di rincontrare Clint, la curiosità per i cambiamenti del suo corpo non l'aveva neppure sfiorata. Eppure non appena il respiro si era fatto meno affannoso e i postumi dell'orgasmo si erano acquietati, permettendole di recuperare la lucidità persa, la prima cosa che aveva sentito il bisogno di fare era stata studiarlo. Palmo a palmo, centimetro per centimetro. Per cercare di capire quanto e cosa fosse mutato dall'ultima volta che l'aveva visto; per farsi un'idea, insomma, di quanto si era persa per strada in quegli ultimi dieci anni.

«Ad un certo punto mi sono reso conto che per vivere dovevo anche guadagnare dei soldi», la informò, riaprendo un occhio per sbirciare le sue mosse.

«E quindi...»

«E quindi mi sono messo a fare qualche lavoretto.»

«Tipo?»

«Riparare cose. Motori, all'inizio. Poi ci ho preso la mano.»

«Non si direbbe», gli fece notare, alludendo alle nuove cicatrici con un mezzo sorriso di scherno.

«Ho detto poi», precisò stropicciandosi il viso con una mano. «Ho scoperto che ci sono un sacco di modi per farsi male anche in una vita normale.»

«Lo vedo.»

«Appunto. Smettila di guardarmi», la rimbrottò, afferrandole un polso per convincerla a rimettersi distesa accanto a lui. L'ex appartamento di Maria era dotato di un unico materasso ad una piazza e mezzo, decisamente non il massimo della comodità.

«No, voglio guardarti», si ritrasse con finto dispetto, restandogli seduta vicino.

«Non voglio che mi guardi», protestò, ma con leggerezza: più che preoccupato o infastidito sembrava vergognarsi di qualcosa.

«Perché?»

«Perché l'ultima volta che ci siamo visti ero un aitante Avenger con bicipiti straripanti e-»

«Bicipiti straripanti», ripeté per assicurarsi di aver capito bene.

«Bicipiti straripanti», confermò sfacciatamente.

«I tuoi bicipiti sono ancora lì», obiettò. «E anche il resto, ho controllato.»

«Smettila di guardarmi lo stesso», stabilì, sollevandosi col busto per acchiapparla e ributtarla giù con sé.

Natasha non fece proprio niente per impedirglielo. Il tepore delle lenzuola era fin troppo piacevole, la presenza di Clint invitante e la luce primaverile del pomeriggio illuminava l'angusta camera da letto per quel poco che era necessario.

Gli cinse il collo con entrambe le braccia, lasciando che Clint l'attirasse a sé per il fondoschiena e sistemasse entrambi in modo che potessero fronteggiarsi pur rimanendo distesi.

«Dovresti tagliarti i capelli», mormorò, giocherellando coi ciuffi troppo lunghi sulla nuca, mentre Clint aveva ripreso a baciarla delicatamente sul mento e sul collo.

«Avevo una mezza idea di farli crescere.»

«No.»

«Perché no?» interruppe quello che stava facendo solo per lanciarle un'occhiata indignata. «Credevo non ti importasse niente del mio aspetto esteriore.»

«Non m'importa infatti», ribadì. «Ma i capelli lunghi non sono un'opzione.»

«Va bene», accettò dopo un lungo secondo di divertito silenzio. «Ho qualche voce in capitolo sui tuoi, di capelli?»

«Non c'è niente che non va nei miei capelli.» Gli aveva già spiegato di averli tinti per ragioni tutt'altro che estetiche.

«Il castano non è il tuo colore.»

«Tutti i colori sono il mio colore.»

«Bionda staresti meglio.»

«Il biondo dà troppo nell'occhio.»

«Tasha, non sono i capelli la parte di te che dà nell'occhio», le fece notare, guadagnandosi una tirata di barba. «Mi hai fatto male.»

«Nessuno mi riconosce più per la strada. Funziona», lo contraddisse, senza degnar di un parola la sua protesta.

«Non è per i capelli.»

«Per cosa, allora?»

«È l'espressione con cui te ne vai in giro.» Le passò il pollice sulla fronte, scendendo lentamente sul naso e sulle labbra per cancellare le tracce di qualsiasi fosse l'espressione di cui andava parlando. «Anche tu hai delle nuove cicatrici», le ritorse contro, scendendo ad accarezzarle una coscia, «credevo lavorassi in ufficio».

«Il più delle volte.»

«Saresti una specie di... nuovo Nick Fury. Con una sola differenza...»

«Che Nick non era un burattino in mano alla burocrazia?»

«… che Nick era sexy e pieno di fascino», la smentì, beccandosi un pugno sulla spalla. «Ahi!»

«Non sei diventato meno stupido. Leggere il vocabolario non è servito a niente.»

«Adesso sono uno stupido acculturato

«Come no», scosse il capo perché le veniva da ridere.

«Fallo di nuovo.»

«Cosa?»

«Ridere.»

«Non posso ridere a comando.»

«Sappiamo entrambi che puoi.»

«Non spontaneamente», protestò divertita.

«Va bene», ammise, rilasciando il fiato. «Ti va di ricominciare o hai bisogno di altri dieci minuti?»

«Sta' zitto, Barton. Potevo ricominciare dieci minuti fa.»

«Meno male che non hai detto nulla.»

Lo baciò per impedirgli di aggiungere altro.

 

*

 

Finì di sciacquarsi il viso prima di richiudere il rubinetto e rialzò il capo per osservarsi nello specchio del mobiletto dei medicinali. Fece una smorfia nel ritrovarsi sempre uguale; sapeva che era stato stupido anche solo aspettarsi un qualsivoglia cambiamento, ma sentì comunque il sapore amarognolo della delusione in fondo alla gola.

Si affrettò ad asciugarsi con alcune salviette di carta e uscì dal bagno, curandosi di spegnere la luce.

La camera da letto era avvolta in un buio pressoché totale non fosse stato per il tenue bagliore dei lampioni che filtrava dalla finestra semiaperta.

Mancavano pochi minuti a mezzanotte e all'ufficiale esaurirsi del suo giorno libero. Ancora una manciata d'ore e sarebbe partita per l'Afghanistan dove avrebbe supervisionato alcune operazioni del nuovo SHIELD in collaborazione con l'esercito.

Non ne aveva alcuna voglia, ma neanche aveva alternative. Era già abbastanza preoccupata di dover spiegare perché era stata irraggiungibile per quasi un giorno intero.

Mentre si infilava gli stivaletti bassi e il trench, tentò di scacciare la preoccupazione e di non guardare troppo insistentemente verso Clint, profondamente addormentato in un gran caos di lenzuola, cuscini e coperte.

Sapeva che avrebbe dovuto svegliarlo, ma un po' per codardia – perché svegliarlo avrebbe significato affrontarlo – un po' perché era sicura avesse bisogno di una sana dormita, non lo fece. Si limitò a raccogliere le sue cose come una maledetta ladra che sparisce nel bel mezzo della notte cercando di far il minor rumore possibile.

Avrebbe voluto restare. Infilarsi nel letto e fingere che il mondo non esistesse ancora per un po'. Ma aveva delle responsabilità e non poteva esimersi dal prendersele, non importava che lo stomaco le si fosse accartocciato in un groviglio doloroso e insopportabile – non importava e basta.

Aveva già osato troppo e non poteva permettersi nient'altro.

Solo quando non le rimase che andarsene, si decise ad avvicinare il letto con passi felpati, a chinarsi su Clint, riverso a pancia in giù sul materasso, il volto affondato nel cuscino. Nonostante la penombra, le parve meno corrucciato, più simile al Clint del passato.

Sollevò una mano, tentata di sfiorargli una guancia, ma si trattenne all'ultimo secondo. Il cuore aveva ripreso a battere un po' troppo rapidamente per i suoi gusti e rimanere lì a lasciarsi dilaniare dai dubbi non l'avrebbe di certo aiutata a calmarsi.

«Mi dispiace», bisbigliò a voce bassissima, sperando ardentemente di non essere ascoltata.

Sparì un attimo prima che le sue difese finissero per polverizzarsi una volta per tutte.






Note: grazie a chi legge & commenta e alla beta Eli! Al prossimo e ultimo capitolo (:

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Capitolo 4
*** Estate ***


(Estate)

 

*

 

 

«Hai finito con quella?»

Clint distolse a fatica lo sguardo dalle catastrofiche immagini diffuse dal notiziario per prestare attenzione a Jerry, il barman che gli stava indicando il boccale vuoto.

«Sì», rispose dopo un attimo di smarrimento, «a posto».

I rumori del pub, che per qualche motivo il suo cervello aveva bloccato fino a quel momento, tornarono a farsi sentire uno alla volta: la musica country in sottofondo, le risate delle ragazze al tavolo vicino all'entrata, le grida di chi si era malauguratamente messo a discutere di politica e quelle di chi ancora reclamava a gran voce il canale dello sport.

«Ve l'ho già detto che non funziona!» urlò di rimando Jerry, gesticolando bruscamente in direzione di chi avrebbe voluto guardare qualcosa di un po' meno macabro mentre sorseggiava la sua razione d'alcool quotidiana. «Figli di puttana», lo sentì smozzicare a mezza voce.

Lasciò che si riprendesse il boccale vuoto e restò ad osservarlo mentre lo riempiva una seconda volta.

«Ehi, Jerry,» lo richiamò non appena gli ebbe piazzato davanti la sua birra, «che è successo?» domandò indicando distrattamente la TV.

«Ah, vallo a capire», borbottò quando intuì a cosa si riferisse, «un'esplosione da qualche parte in Giappone, un paio di giorni fa. Dicono che non c'entra il nucleare, ma non mi fido. Non fanno altro che mentirci questi politici del cazzo». Tra le (non molte) cose in cui eccelleva, Jerry era anche un maniaco del complotto: l'uomo non è mai stato sulla luna, l'11 settembre era tutto pianificato, l'Area 51 contiene la cura al cancro, ma gli interessi internazionali ne impediscono la diffusione. Cose così.

Clint lo trovava divertente; ogni tanto, nelle serate più difficili, quelle in cui non pensare diventava un'urgenza assoluta, lo imboccava con un argomento spinoso qualsiasi e restava ad ascoltarlo delirare per ore. I suoi momenti preferiti erano quelli in cui si infervorava per nessun motivo apparente, e sua moglie – dalla cucina sul retro – doveva intervenire per farlo stare zitto.

«Quanti morti?» domandò, puntando di nuovo l'attenzione sullo schermo.

«Nessuno. Un intero compound imploso e vogliono farci credere che nessuno ci ha rimesso la pelle», sbuffò una risata che gli raschiò la gola e lo costrinse a tossire un paio di volte. «Perché t'interessa, comunque?» chiese, appoggiandosi al bancone con entrambe le mani. «Credevo fossi uno fuori dal mondo, Frank.»

«Sono fuori dal mondo,» confermò, «per questo ti faccio tante domande». Accennò ad un sorriso stanco prima di bere un lungo sorso di birra. Ogni tanto doveva ricordarsi di fare attenzione con quello che si lasciava sfuggire; la sua parte razionale sapeva bene che arrivare ad un passo dall'ubriacatura una sera sì e l'altra pure lo metteva nella scomoda condizione di dire cose che non avrebbe dovuto. Sarebbe bastato un accenno troppo sfacciato per insospettire Jerry o chi per lui.

«Pensavo fosse perché ti piaccio, Frank», lo sfotté il barman, visibilmente divertito.

«Certo che mi piaci. Usciamo o non usciamo insieme tutte le sere?»

«Tu esci. Io sono qui a sgobbare», precisò. «E non farti sentire dalla mia signora, è piuttosto gelosa.»

«Perché non stai zitto e fai qualcosa di utile, Jer?» Lo squillante monito della diretta interessata li sorprese entrambi.

«Quella donna ci sente meglio di un pipistrello», biascicò il barman, voltandosi verso la moglie – ferma sulla soglia della cucina – per rassicurarla con un cenno. «Un pipistrello che mi sta col fiato sul collo. Eppure non dovrebbe lamentarsi,» eccolo che ricominciava, «sono un uomo ancora piacente. Ho un po' di pancetta, ma sai cosa dicono, no? Un uomo senza pancia è come un cielo senza stelle. Quindi dovrebbe ringraziare che l'unica persona con cui parlo tutte le sere sia una specie di grizzly umano».

«Il grizzly umano sarei io?» domandò Clint, asciugandosi istintivamente la barba dalla schiuma della birra.

«Certo che saresti tu. È pieno di belle pollastre qua in giro...» Perse il filo del discorso perché qualcuno doveva essere appena entrato nel pub.

«Pollastre, Jerry? Chi è che dice ancora pollastre

«Porca zozza.»

«No, porca zozza non suona meglio di pollastre», ci tenne ad informarlo prima di tornare a sbirciare il televisore che adesso trasmetteva immagini da un talk show qualunque.

«Porca zozza», esalò di nuovo il barman.

«Come preferisci, amico, ma poi non dirmi che non ti avevo avvisato», lo mise in guardia, scoccandogli un'occhiata divertita... che subito si fece perplessa perché Jerry pareva molto preso da qualcosa. Qualcosa che – ad intuire dalla sua espressione – doveva esserglisi seduta proprio di fianco, sullo sgabello libero.

Forse a ripensarci avrebbe invertito l'ordine delle cose, ma giurò che fosse stata la sensazione che gli aveva preso lo stomaco a dirgli che in fondo già sapeva chi avrebbe visto, se si fosse deciso a voltarsi; che era la faccia di Jerry, insomma, a fargli capire tutto ciò che c'era da capire.

«Una birra», la voce di Natasha.

«B-Boccale o bottiglia?» balbettò il barman ancora in trance.

«Bottiglia.»

«Arriva subito.»

«JERRY!» l'urlo inviperito della moglie dalla cucina, ma Clint – stavolta – non poteva proprio biasimarla.

Perché Natasha avrebbe fatto girare la testa (o le palle, dipende dai punti di vista) a chiunque; specialmente conciata com'era: jeans stretti, maglietta aderente e tutto il resto. Soprattutto tutto il resto.

Il cuore aveva perso un battito e poi un altro ancora mentre si decideva a prendere atto del fatto che sì, quella che stava osservando seduta di fianco a lui in un pittoresco pub in prossimità del lago Tahoe era davvero Natasha Romanoff. In carne ed ossa.

Si voltò verso di lui soltanto quando Jerry le ebbe consegnato la sua birra e si fu allontanato per andare a sorbirsi le lamentele della moglie, sul retro; si voltò verso di lui e quasi gli venne da vomitare.

«Ti sei fatta bionda», fu l'unica cosa che si obbligò a dire pur di non sentirsi come un completo coglione.

Non si era aspettato di vederla. Il cellulare usa e getta che gli aveva consegnato per tenersi in contatto non aveva più squillato dal giorno in cui si erano incontrati al Riverside Park, a New York. Erano passati tre mesi, la primavera si era trasformata in estate, e il malessere che Clint aveva provato quando si era risvegliato da solo nell'ex appartamento di Maria Hill non aveva fatto che crescere e gonfiarsi, minacciando di trasformarsi in una forza potente e distruttiva con cui non aveva proprio alcuna voglia di fare i conti.

Per questo le aveva concesso una settimana: una settimana per vedere se si sarebbe rifatta viva. Ma allo scadere dei sette giorni non aveva voluto sentir storie; si era impedito di inventare per lei inutili giustificazioni, aveva raccolte le poche cose che aveva con sé ed era tornato da dov'era venuto, sperando che il lago l'avrebbe aiutato a recuperare il precario equilibrio miracolosamente conquistato in quegli ultimi dieci anni della sua vita.

Amava Natasha. Amava Natasha più di ogni altra cosa al mondo, ma era stanco di doverla inseguire.

«Mi hanno detto che il castano non è il mio colore», rispose dopo un attimo d'incertezza.

Nonostante tutta la rabbia che aveva provato nei suoi confronti, tutto quello che avrebbe voluto fare in quel momento era allungare una mano e sfiorarle i capelli legati in una coda bassa, passarle un dito sul viso, sul naso, sulle labbra... baciarla lì, davanti a tutti.

«Ti hanno detto bene», esalò, un tantino in difficoltà.

Gli sembrò diversa. Più rilassata, forse. O magari era solo un'illusione dovuta agli abiti che indossava e all'atmosfera del pub; magari era riuscito ad ubriacarsi con un boccale di birra e mezzo e adesso vaneggiava.

Cercò di concentrarsi sul fatto che l'unico motivo per cui era lì era che, in fondo, tutti e due sapevano che il legame che li univa avrebbe sempre resistito. Forse non era abbastanza forte da tenerli insieme nello stesso posto e nello stesso tempo, ma lo era per costringerli a tornare – se solo di tanto in tanto, non aveva importanza.

La immaginò di ritorno da una missione in un punto qualsiasi del globo: il senso di colpa per averlo mollato a New York aveva finalmente avuto la meglio e si era decisa a rimediare, facendogli visita sulle sponde del lago Tahoe. Per quanto, però, non ne aveva idea e, ad essere sincero, neanche voleva pensarci.

«Carino questo posto», commentò lei, distogliendo solo per un attimo gli occhi dai suoi. C'era un'impalpabile traccia di sarcasmo nella sua voce. «Quello là è il tuo psicologo?» chiese, alludendo a Jerry e ad una delle loro ultime conversazioni.

«Proprio lui», confermò mentre si sforzava di scrollarsi di dosso il disagio e l'agitazione – completamente immotivati, si ricordò, perché la situazione era piuttosto chiara e l'aveva già ampiamente illustrata a se stesso. «Come ci sei arrivata fin qui?»

«A piedi. Ero andata alla casa, ma non ti ho trovato.»

La osservò mentre si portava la bottiglia di birra alle labbra e fu costretto a guardare altrove perché l'immagine riportava a galla davvero troppe serate simili a quella. Alcune rilassate, altre nervose. Durante la sua breve permanenza a New York era andato a dare un'occhiata a Bed-Stuy, il quartiere di Brooklyn in cui aveva abitato per quasi tutta la sua vita, e aveva scoperto che il pub che lui e Natasha erano stati soliti frequentare neanche esisteva più. Al suo posto, una lavanderia a gettoni.

«Clint», fu Natasha a richiamarlo debolmente all'attenzione.

Si ritrovò a sussultare come un perfetto idiota quando gli poggiò una mano sul braccio, obbligandolo a voltarsi verso di lei.

Avrebbe voluto urlarle contro una serie infinita di insulti, maledizioni, anatemi, avrebbe voluto farle sapere per filo e per segno quanto era stufo del suo apparire e sparire del tutto indisturbata dalla sua vita; eppure fu soltanto la voglia di baciarla ad intensificarsi fino allo stremo.

Perché sì, era riuscito a fare a meno di lei per dieci anni, ma adesso che ricordava esattamente come ci si sentisse, ad averla accanto, ignorare quel ridicolo buco che si sentiva in petto era diventato quasi impossibile. Le aveva permesso di sbirciare oltre il muro che si era gelosamente costruito intorno, e adesso il muro rischiava di crollare.

«Ti va di uscire di qui?» andò dritta al punto.

Clint si assicurò di scolarsi il boccale di birra prima di rispondere, ma alla fine annuì comunque. A sdrammatizzare la bolla d'angoscia che sentiva crescergli addosso, mentre si allontanavano verso l'uscita, incrociò lo sguardo di Jerry che, dal fondo del locale, aveva alzato tutti e due i pollici in segno d'incoraggiamento.

 

*

 

«Avresti dovuto dirmi che eri ferita», ribadì per l'ennesima volta mentre rientrava in bagno con un kit di pronto soccorso dall'aria seriamente provata.

Natasha, seduta sul bordo della vasca con indosso solo una delle sue camicie a quadri – dettaglio che si curò di ignorare o sarebbe stato costretto a riportarla in camera da letto alla velocità della luce – alzò gli occhi al soffitto.

«Sto bene.»

«Lo so che stai bene. Ma se l'avessi detto sarei stato un po' più delicato», ribatté, appoggiando il kit nel lavandino.

«Non volevo che fossi più delicato», rispose soltanto, giusto per metterlo in difficoltà.

«Se volevi che ti tirassi i capelli o ti sculacciassi non dovevi far altro che dirlo», tentò di sdrammatizzare mentre rovistava alla ricerca di qualsiasi cosa che andasse bene per le ustioni. Manovrarla incurante delle ferite che aveva addosso non era esattamente la sua definizione preferita di sesso selvaggio. Neanche capiva come aveva potuto non accorgersi della fasciatura che le copriva quasi del tutto l'area in prossimità della scapola destra finché Natasha non gli si era distesa di fianco, a pancia in giù – nuda, affannata e col volto congestionato.

«Sto bene», ribadì ancora una volta.

«Dai, fammi vedere», tagliò corto, facendole cenno di voltarsi e di sfilarsi la camicia almeno fino a metà schiena.

«Non fa male», insisté, senza però sottrarsi alle sue istruzioni.

«È inutile che ci provi,» l'informò per direttissima. «Ha ripreso a sanguinare.»

«Ti dico che sto bene.»

Clint la ignorò completamente, adoperandosi per rimuovere la fasciatura, constatare il danno e decidere sul da farsi. Mentre il suo cervello si preoccupava di riattivare comportamenti e accorgimenti che era sicuro di essersi lasciato definitivamente alle spalle, si ritrovò a registrare che l'ustione confermava la sua iniziale ipotesi: Natasha, di ritorno da una missione, doveva aver deciso di fare una capatina al lago Tahoe per strapazzargli lo stomaco e incasinargli l'esistenza prima di ripartire alla volta di Washington o New York, qualsiasi fosse la capitale di corrotta burocrazia di sua scelta.

La frustrazione rese più bruschi i suoi movimenti, ma Natasha non si lamentò mai – non che si fosse realmente aspettato di sentirla protestare. Soltanto quando – dopo aver fermato la fuoriuscita del sangue – passò a spalmarle l'unguento, la sentì trattenere il respiro, magari chiudere gli occhi mentre si concentrava per ignorare il dolore. Sapeva che era quello che stava facendo anche se non poteva vederla in faccia.

Provò un consueto moto d'angoscia nel constatare che indossava ancora la collana che le aveva regalato, ufficialmente per scherzo, tanti anni prima. Probabilmente l'aveva avuta anche la prima volta che si erano rivisti, ma i vestiti pesanti gli avevano impedito di farci caso. Si sentì in colpa e allora si sforzò istintivamente di essere il più delicato possibile.

Gli ci vollero un paio di minuti per completare il lavoro con alcune bende adesive che aveva scovato chissà dove.

«Fatto», annunciò, trattenendosi a stento dal posarle un bacio sulla nuca.

Si ritrasse in tutta fretta, prima di poterci ripensare, e si tenne occupato col rimettere a posto il kit di pronto soccorso (come se l'ordine fosse mai stato una sua reale preoccupazione).

«Posso tagliarti i capelli?»

«Scusa?» si bloccò con alcune siringhe ancora incartate a mezz'aria.

«Posso tagliarti i capelli?» ripeté, agganciandosi solo un paio dei bottoni della camicia – decisamente troppo larga per lei – che aveva frettolosamente indossato prima che Clint la trascinasse in bagno per fare la conta dei danni.

«Sono quasi le due del mattino», le fece notare, come fosse un valido motivo per occuparsi d'altro.

«Devi svegliarti presto?»

La guardò mentre intrecciava le braccia al petto e lo sfidava con un'occhiata esplicita a trovare un'altra patetica scusa alla quale nessuno dei due avrebbe minimamente dato credito.

«E va bene», acconsentì con riluttanza.

«Siediti», ordinò indicandogli la tazza del water.

«Niente di più romantico», bofonchiò, ma le diede retta, perché disobbedire non era un'opzione.

Abbassò il coperchio e si mise seduto, sbirciandola mentre si spostava nel suo bagno con la stessa familiarità che avrebbe dimostrato nel suo vecchio appartamento di Bed-Stuy. Cercò di ignorare la spietata stretta allo stomaco che tornò puntualmente a farsi sentire, tentando piuttosto di capire se avesse bisogno d'aiuto per trovare un paio di forbici adatte allo scopo.

Ovviamente – scoprì un minuto più tardi – no. Lasciò che gli inumidisse i capelli con le mani bagnate, pentendosi d'aver acconsentito perché il livello d'intimità gli risultò improvvisamente troppo elevato per i suoi gusti.

«Sta' fermo», stabilì, passandogli tra i capelli un vecchio pettine ripescato da un qualche sconosciuto, oscuro recesso del bagno.

«E quello dove l'hai trovato?»

«Dietro il lavandino.»

«Come facevi a sapere che c'era un pettine dietro il lavandino?»

«Non lo sapevo. Ho solo dato un'occhiata», precisò, dando il primo taglio.

«Non credo sia mio.»

«Se non è tuo di chi dovrebbe essere?»

«Ti sembro il tipo che possiede un pettine?» Magari apparteneva al precedente proprietario della casa.

«No, ma mi sembri il tipo che si compra un pettine pensando di usarlo e poi lo perde dietro il lavandino dopo neanche un giorno.»

Avrebbe voluto ribattere, ma dovette riconoscere che non c'era proprio niente da aggiungere.

Natasha lavorava con gesti decisi, rapidi ma calibrati, muovendoglisi attorno senza incertezza. Non era la prima volta che gli tagliava i capelli; era già successo tanti anni prima, prima ancora che gli Avengers entrassero a far parte delle loro vite. Dopo una missione in Bolivia si era riportato a casa un'influenza virale che l'aveva tenuto fermo a letto per due intere settimane. Quando ne fu finalmente uscito, Natasha gli aveva piazzato uno specchio davanti al viso e aveva fatto terrorismo psicologico affinché le permettesse di rimediare alla selva oscura che aveva preso possesso della sua faccia.

In fondo non era stato molto diverso da com'era adesso, solo che stavolta la febbre boliviana non c'entrava proprio niente.

Le appoggiò le mani sulle cosce, insinuandole al di sotto della camicia per farle risalire lentamente fino ai fianchi; nel disegno era un completo disastro, ma avrebbe saputo tracciare quelle curve con assoluta fedeltà anche ad occhi chiusi.

«Così mi deconcentri», azzardò una protesta, senza interrompere quello che stava facendo.

«Più eccitante, no?»

«Non sei molto furbo. Sono i tuoi capelli che ne pagheranno le conseguenze», gli fece notare.

«Non ho alcuna velleità estetica», la informò, procedendo inesorabilmente su su, fino ai seni.

«Non farlo mai più.»

«Toccarti le tette?»

«Dire velleità

«Scusa», ma si consolò perché poteva continuare a torturarla, bastava non usasse paroloni di cui poteva sapere o non sapere il significato.

«Smettila, Barton.»

«Almeno hai un incentivo a darti una mossa», sollevò leggermente il capo per rivolgerle un sorriso del tutto innocente. Le strizzò un capezzolo tra indice e pollice per sottolineare il concetto.

«Ho quasi finito...»

«Grandioso.»

«… ma voglio accorciarti anche la barba.»

«Lo stai facendo apposta», l'accusò, trascinandosela a sedere addosso... non una mossa intelligente, perché adesso la tortura comprendeva anche lui.

Natasha gli si strinse contro, ribadendo efficacemente la questione; si chinò per baciarlo sulle labbra, ma solo per un istante.

«Dovrei tagliarti la lingua, piuttosto.»

«Tu adori la mia lingua.»

«Già, devo solo andarmela a cercare in mezzo a questo cespuglio», protestò, dando uno strattone alla barba.

«Rende tutto più interessante, non trovi?»

«Un po'. Ma va tenuta sotto controllo.»

«Va bene, ma fa' in fretta.» Catturò di nuovo la sua bocca, ma stavolta si preoccupò di non lasciarla andare tanto presto.

 

*

 

Si svegliò perché una folata di vento aveva aperto la finestra, lasciando che il sole di luglio facesse il suo glorioso ingresso nella camera da letto.

La luce lo colpì dritto in faccia, imponendogli d'aprire prima un occhio e poi l'altro, e infine la bocca per masticare un'imprecazione o due. Si girò a pancia all'ingiù, soffocando un sospiro nel cuscino.

Ci mise qualche secondo a realizzare che l'odore che sentiva era quello di Natasha; un altro perché gli eventi della sera e della notte precedente gli si riversassero addosso come un fiume in piena.

Si mise seduto sul letto sfatto, improvvisamente sveglio e vigile.

Il vago principio d'euforia che aveva provato nel ricordare cos'era successo, venne subito sostituito da uno sgradevole senso di déjà vu. Perché era solo e di Natasha non ce n'era neppure una traccia.

Saltò giù dal letto col cuore in tumulto e le viscere aggrovigliate, arraffando un paio di pantaloni e una t-shirt direttamente dal pavimento.

Si impose di stare calmo, ma prima che potesse rendersene conto si era già messo a cercarla; nel bagno, dove trovò soltanto il pavimento punteggiato dai suoi capelli, nel corridoio, nel soggiorno, nella cucina, in salotto.

Natasha non c'era. Se n'era andata. Se n'era andata di nuovo. Ci era cascato per l'ennesima volta come un fottuto principiante.

Uscì sul portico, il respiro disarticolato, la rabbia e la delusione che gli facevano tremare le mani. Si sentiva sul punto di esplodere, esplodere una volta per tutte; come se per tutti quegli anni non avesse fatto altro che giocare a fare l'equilibrista sul filo di un maledetto rasoio, e adesso tutta l'ansia, l'angoscia e la frustrazione che aveva incamerato fossero pronte a dar luogo alla deflagrazione del secolo.

Tentò di trattenersi, di cancellare il nodo che gli aveva chiuso la gola in una morsa gelida; tentò di trattenersi perché non era sicuro che avrebbe trovato sollievo alcuno. Certo, avrebbe potuto lasciar andare ogni cosa, ma poi che gli sarebbe rimasto?

Era un uomo solo che viveva in una stamberga sulle rive di un lago. Non aveva nessuno, non poteva cercare nessuno. Il governo degli Stati Uniti l'avrebbe condannato per tradimento se solo fosse riuscito a mettergli le mani addosso.

Era un fantasma. Un fantasma che non aveva smesso di infestare quel mondo del cazzo perché c'era ancora una questione irrisolta ad ancorarlo lì, al suo posto.

Avrebbe dovuto andarsene. Doveva prendere le sue cose e sparire, rendersi irrintracciabile, farle capire com'è che ci si sentiva a sentirsi abbandonati ogni santa volta, senza neppure una stupida parola d'addio ad addolcire la separazione.

Si sentì come se un blocco di cemento gli stesse schiacciando il petto, come se elettricità statica gli si stesse accumulando sulla pelle, pronta al rilascio.

Sferrò un pugno violento alla porta d'ingresso, facendola sbattere con forza intorno ai cardini che la tenevano miracolosamente ferma in posizione. Se ne concesse un altro, più deciso, beandosi del dolore che gli si propagò dalle nocche al polso e al resto del braccio fino a raggiungergli il cervello.

La pressione si alleggerì, ma durò solo un istante. Il blocco tornò ad opprimerlo, come e più di prima, minacciando di togliergli il respiro.

Come aveva potuto mettersi in condizione di provare l'orrore del vuoto ogni volta che Natasha non era con lui? Come aveva resistito, per anni, su quel lago del cazzo, animato dalla patetica speranza di essere prima o poi raggiunto? Quanto stupidi si doveva essere, esattamente, per imboccarsi la solita, merdosa illusione per così tanto tempo e crederci? Aggrapparcisi come un naufrago al suo relitto mentre la tempesta lo trascina in mare aperto...

Avrebbe dovuto lasciarsi andare. Avrebbe dovuto mollare la zattera improvvisa e lasciarsi sprofondare. Qualsiasi cosa, persino l'abbraccio gelido del mare, sarebbe stato meglio di tutta quell'angoscia. Doveva esserlo.

Si fermò con la fronte appoggiata alla porta cigolante, i respiri che cercavano di rincorrersi per riempirgli d'aria i polmoni. Il martellare insistente del proprio cuore ad assordarlo.

Fu un rapido spostamento atmosferico ad imporsi alle sue percezioni sconquassate; si ritrovò a voltarsi verso il prato invaso dalle erbacce che circondava la casa senza neanche sapere perché.

Il sole di luglio era accecante, inondava lo spiazzo nonostante la copertura offerta dagli alti alberi che facevano da sentinelle all'abitazione; il sole era accecante, ma la vide comunque che risaliva dal sentiero che conduceva al lago, i capelli biondissimi sotto la luce estiva.

L'ansia rinserrò la stretta sul suo stomaco, ma non gli impedì di scendere i pochi gradini del portico e di andarle incontro; quasi barcollante sui piedi scalzi, all'inizio, poi con più decisione.

Natasha doveva essersi accorta del suo turbamento, perché affrettò il passo; non gli importava perché l'avesse fatto, o che razza di espressione avesse in quel momento: l'unico obiettivo era raggiungerla.

Accelerò ancora, finché quasi gli mancò l'aria nei polmoni perché aveva smesso di respirare. Insisté, finendo quasi per mettersi a correre, come fa la gente in quegli stupidi film romantici che Natasha lo costringeva a guardare, una volta – si divertiva a prenderli in giro e lo obbligava a fare altrettanto.

La strinse tra le braccia e la sollevò da terra non appena l'ebbe a tiro. La sentì gemere, sorpresa, perché – nel tirarla su – aveva fatto forza sulla ferita alla spalla, ma non gli interessava, non in quel momento.

La strinse il più possibile, cercando sollievo nella sua presenza, viva e concreta; concentrandosi su quella che era una verità evidente: non se n'era andata senza salutarlo. Non si era dileguata nella notte, condannandolo all'ennesimo risveglio in solitaria.

«Clint», la sentì mormorare. Sorpresa e preoccupazione non le avevano impedito di ricambiare la sua stretta con la medesima intensità.

«C-Credevo te ne fossi andata», sussurrò, il volto nascosto nella camicia – la sua – che ancora indossava.

«No... ehi. Volevo vedere il lago.»

Tentò di guardarlo in faccia, ma Clint si sottrasse alle sue attenzioni, trattenendosela arpionata addosso contro ogni buon senso perché si sentiva pericolosamente vicino al punto di rottura e il primo istinto era quello di nascondersi.

«Clint,» ripeté ancora una volta, sfiorandogli il viso con entrambe le mani, «rimango».

«L-Lo so», mormorò, in sincera difficoltà. Paradossalmente, il sollievo provato nel rivederla invece che farlo sentire meglio non aveva fatto altro che peggiorare le cose.

«No, Clint. Rimango.» La sua voce era bassa, quasi ridotta ad un misero sussurro.

Ma fu abbastanza per convincerlo a rialzare il capo e a cercare i suoi occhi all'avida ricerca di una conferma o del minimo accenno di tentennamento sul suo volto.

Lo sguardo di Natasha era fermo nel suo; un timido sorriso ad incresparle le labbra, ma non sembrava avesse il coraggio di concedersi nient'altro.

«R-Rimani», bisbigliò, senza neanche avere la forza di inorridire al suono incerto che gli uscì di bocca in una preghiera smozzicata.

«Rimango.»

«P-Per quanto?» chiese, perché nonostante il tumulto che gli era esploso in petto – e che faceva sempre più fatica ad arginare – voleva essere sicuro. Sicuro davvero.

«Finché vorrai», sussurrò, a fatica ma senza esitazione alcuna.

Ebbe a malapena la prontezza di registrare quelle due stupide parole che gli occhi gli si riempirono di lacrime, e la deflagrazione che aveva rimandato per tutti quegli anni avvenne senza che potesse far niente per evitarlo.

Pianse come un bambino mentre Natasha lo stringeva.

Pianse perché stavolta sapeva che non l'avrebbe lasciato andare.

 

*

 

Il pontile cigolò un poco sotto i suoi passi mentre si avvicinava alla figura seduta all'estremità più lontana dalla terra ferma. Le lanciò una coperta leggera addosso, di malagrazia, lasciando che fosse lei a drappeggiarsela addosso.

L'aria era fresca, di sera, sul lago Tahoe. Non abbastanza da scoraggiare le zanzare, ma sufficiente a riempire la pelle d'impalpabili brividi.

Le si sedette di fianco, offrendole una bottiglia di birra appena stappata.

«A che pensi?» le chiese.

«Non sto pensando», lo contraddisse, accennando ad un sorriso.

«Questa sì che è una novità.»

«La tua pessima influenza sta già facendo effetto.»

«Prego.»

Natasha allungò un braccio per colpirlo alla spalla. Non protestò, però. Quando gli aveva raccontato di come avesse programmato e inscenato la sua morte durante l'ultima operazione internazionale condotta in Giappone con il nuovo SHIELD, il moto di riconoscenza era stato tanto forte da convincerlo a concederle qualsiasi cosa avesse voluto.

Almeno fino al giorno successivo, s'intende – non era poi così generoso.

Si sporse verso di lei per baciarla sulle labbra, passarle una mano tra i capelli sciolti e attirarla maggiormente a sé. La liberò dopo un lungo istante, permettendole di tornare a godersi la vista sul lago.

«Credi che torneranno a cercarti?» le chiese.

«No. Ci metteranno un po' ad assicurarsi che le mie spoglie siano effettivamente andate distrutte nell'esplosione, ma poi archivieranno il caso.»

Avrebbe voluto chiederle quando aveva deciso di piantare in asso il nuovo SHIELD, quanto ci aveva messo a metter su un piano tanto elaborato per accertarsi che non ci fossero conseguenze di sorta. Ma non lo fece perché, in fin dei conti, non aveva alcuna importanza.

«Mi dispiace», la sentì aggiungere, quasi in un soffio.

«Lo so.»

«Non so perché ho aspettato così tanto», ammise, voltandosi verso di lui – seria, imbarazzata e sinceramente desolata tutto insieme.

«Perché sapevi che ti avrei preso a calci», sottolineò, più che determinato a non lasciare che il suo buon umore fosse anche solo minimamente intaccato.

«Non mi hai preso calci», gli fece notare.

«Perché sono magnanimo.»

«La prima cosa che facciamo, domani, è dar fuoco al vocabolario.»

«Non sarai così crudele.»

Le bloccò la mano prima che potesse colpirlo di nuovo; gliela trattenne per qualche secondo prima di addolcire la presa e portarsela alle labbra per baciarle il polso.

«Lo so perché hai aspettato così tanto», precisò dopo un lungo silenzio in cui non avevano fatto altro che guardarsi. Cambiati, ma non in ciò che contava davvero. Le lasciò andare la mano e Natasha ne approfittò per sederglisi più vicina, fianco a fianco. «Era il tuo modo per punirti,» disse senza che lei lo smentisse, «come quella volta che ti eri convinta di dover vivere in quell'orrido appartamentino del Bronx».

«Smettila. Non era così tremendo.»

«No, certo,» sbuffò una risata, «aveva solo il cesso in mezzo alla cucina e il letto nascosto nel muro. Per non parlare del guardone dirimpetto e del soffitto marcio».

«Un tantino melodrammatico, Barton.»

«Sono fatto così», si giustificò mentre Natasha appoggiava il capo alla sua spalla e si concedeva un altro sorso di birra. Non avesse avuto più di cinquant'anni suonati avrebbe detto di avere le farfalle nello stomaco, un intero vivaio di farfalle a solleticargli le viscere. Ma era troppo vecchio per certe stronzate. «Potevo venirti a cercare anch'io,» si risolse a dire, più serio, «ma non l'ho fatto».

Perché era vero, l'aveva aspettata e probabilmente l'avrebbe aspettata ancora per il resto dei suoi giorni, ma non aveva mai fatto niente di concreto per rivederla. Il terrore di essere stato consapevolmente abbandonato – non per forze di causa maggiore, ma perché Natasha aveva trovato qualcosa di meglio: una vita che funzionava alla perfezione anche senza di lui – non si era mai realmente sopito.

Avrebbe potuto tornare a New York o Washington col rischio di essere respinto, di avere la conferma di essere stato accantonato così come si fa con un vecchio oggetto che non funziona più e che non vale la pena riparare. Non sarebbe stata la prima volta, nella sua vita.

«Lo so perché», gli ritorse contro Natasha, la consapevolezza ad accenderle gli occhi. Natasha sapeva sempre tutto.

«Non ha più importanza», esalò, ignorando il groppo in gola che era tornato a farsi sentire – avrebbe preferito affogare nel lago piuttosto che rimettersi a piangere.

«No», convenne.

La sentì rilassarsi contro di lui, mentre seguivano il progressivo spegnersi delle poche luci che punteggiavano le rive del lago.

«Cos'è che si fa in questo punto per non annoiarsi?» domandò di punto in bianco Natasha.

«Così tanto sesso da farsi uscire gli occhi dalle orbite.»

«Sempre così romantico, Barton.»

«È per questo che mi ami.»

«No,» lo smentì seccamente, «non è per questo che ti amo».

«Hai mille e più ragioni per amarmi. È una scelta saggia. L'unica sensata, a dire il vero.»

«Sta' zitto, prima che decida di buttarti nel lago.»

«Ma-»

«Zitto!»

«Va bene, va bene», obbedì... per la notevole durata di un minuto. «Natasha? Anch'io ti amo.»

«Lo so.»

Certo, che lo sapeva.

 

It's been so long between the words we spoke
Will you be there up on the shore, I hope
You wonder why it is that I came home
I figured out where I belong

(Florence + the Machine – Long & Lost)


The End



 

Note: breve ma intenso spero :P mi sono affezionata più del previsto a questa storia *sigh* spero di non aver esagerato con tristesse e malinconie varie. L'happy ending era un must, il drammone non mi viene e condannarli all'infelicità (soprattutto vista la situazione dell'MCU) pare quasi blasfemo ù_ù insomma, tutti felici a recuperare il tempo perduto!
Ringrazio la beta Eli, ovviamente, e tutti voi che avete letto e commentato :3 mi fa tanto tanto piacere. Quindi grazie!
Non so quando pubblicherò altro, ma non sparirò dalla circolazione (che culo eh, lo so XD).
Insomma, alla prossima!

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