La rapina di Lella Duke (/viewuser.php?uid=8825)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sulla sponda del lago ***
Capitolo 2: *** Nel posto sbagliato ***
Capitolo 3: *** In banca ***
Capitolo 4: *** Ferito ***
Capitolo 5: *** Legami d'amicizia ***
Capitolo 6: *** In ospedale ***
Capitolo 7: *** Risvegli ***
Capitolo 8: *** Ricordando ***
Capitolo 9: *** Confortarsi a vicenda ***
Capitolo 10: *** Voglio andare a casa ***
Capitolo 11: *** Ti voglio bene ***
Capitolo 1 *** Sulla sponda del lago ***
La
rapina
Capitolo uno: Sulla
sponda del lago
Se
c’era una cosa che
Luke Duke proprio non tollerava, era il chiacchiericcio sterile della
gente.
Persone che con ogni probabilità pensavano fosse
indispensabile mantenere una
conversazione sempre viva quando in realtà non
c’era assolutamente niente da
dire. Odiava le pacche di conforto sulle spalle e non sopportava gli
venissero
rivolti sguardi tristi e compassionevoli. Aveva abbastanza
dimestichezza col
dolore da saperselo gestire da solo. Non aveva bisogno di compagnia,
voleva
solo starsene per conto suo. Non c’era modo, altrimenti per
lui, di elaborare
quanto era successo.
Aveva
lasciato la
fattoria quando si era reso conto che non avrebbe trovato quel silenzio
a cui
tanto anelava. La cucina, il salotto e perfino il granaio erano colmi
di
persone le quali volevano offrire il proprio appoggio alla famiglia
Duke.
Apprezzava il gesto, ma ne faceva volentieri a meno. Era saltato nel
Generale
Lee e si era diretto verso il laghetto di Hazzard. Nel bagagliaio erano
rimaste
le canne da pesca che lui e Bo avevano utilizzato solo qualche giorno
prima,
magari si sarebbe seduto sulla sponda aspettando che qualche pesce gli
si fosse
offerto spontaneamente. Amava pescare perché era un sport
silenzioso. Poteva
provvedere alla cena per la sua famiglia e nel contempo poteva
occuparsi dei
suoi pensieri. E di pensieri ne aveva tanti quel giorno. Sapeva che se
fosse
riuscito a radunarli in maniera coerente, avrebbe cominciato a vedere
l’intera
faccenda sotto un’ottica completamente diversa.
Sistemò
la lenza e
posizionò l’esca sull’amo. Si sedette su
un grosso tronco d’albero sbattuto a
terra dall’ultimo nubifragio invernale. Distese il braccio ed
effettuò il
lancio con quanta forza aveva in corpo. Rimase a fissare per qualche
minuto il
galleggiante danzare irregolarmente sul pelo dell’acqua.
Ripercorse
mentalmente ancora
una volta, gli eventi di quella giornata. Qualcuno avrebbe pagato per
quello
che era successo, ne era sicuro. Chiuse gli occhi e lasciò
che la testa gli
cadesse sulle ginocchia. Odiava sentirsi inutile, odiava sentirsi
impotente. Ed
era proprio così che si era sentito quella mattina.
Abbandonò
la canna da
pesca sul prato e si strinse le gambe al petto.
Se
solo fosse entrato
lui in banca.
Se
non avesse preferito
aiutare Cooter a sistemare uno stupidissimo motore nel cofano di una
vecchia Mustang.
“Se
fossi stato al tuo
posto Bo…” sussurrò a fior di labbra.
“Saresti
morto.” La
risposta giunse inattesa da dietro gli alberi che aveva alle spalle.
Luke
si alzò di scatto
e si girò in direzione della voce: “chi
c’è? Enos? Che ci fai qui? Come
sapevi dove trovarmi?”
“Perdonami
Luke, non
volevo spaventarti né tanto meno volevo essere
invadente.” Il vice sceriffo
mosse pochi passi in avanti e si sedette sul tronco. Non indossava la
consueta
uniforme, ma dei semplici jeans e una camicia quadrettata bianca e
rossa. “Ti
ho visto allontanarti dalla fattoria e ti ho seguito.
Ero un po’ preoccupato per te, tutto
qui.”
“Ti
ringrazio Enos, ma
non hai motivo di essere in pensiero per me. Sto benissimo.”
Rispose Luke
recuperando la sua canna da pesca e sforzandosi di apparire tranquillo.
“Amico
mio, da quanti
anni ci conosciamo? Da quando siamo nati più o meno? Posso
sembrare ingenuo a
volte, ma non sono stupido. Non rifilarmi la tua solita solfa:
‘sto benissimo’.
Non stai bene affatto e la frase che ti ho sentito pronunciare pochi
istanti fa
ne è una prova lampante.” Enos, insolitamente
determinato, non era disposto a
lasciar correre. “Tu e Bo mi avete aiutato
un’infinità di volte senza che io ve
lo chiedessi. Se adesso posso fare qualcosa per te e per la tua
famiglia, ne
sarei felice. Soprattutto perché mi ritengo in parte
responsabile di quello che
è successo.”
“Oh
smettila Enos. Non
hai niente di cui rimproverarti. Non pensarci neanche a farti venire i
sensi di
colpa.”
“Se
lo dici tu… e va
bene. Io smetterò di sentirmi in colpa se tu farai lo
stesso. Non puoi
accusarti di qualcosa che non è dipeso dalla tua
volontà. In fin dei conti…”
Luke
interruppe
bruscamente il vice sceriffo: “altroché se posso
accusarmi! Si suppone io sia
il maggiore dei tre, il più responsabile, il protettore.
Dovrei essere io
quello che veglia sui miei cugini più giovani. E invece
guardami ora. Cosa ci
faccio qui senza Bo?”
“Vecchio
mio, ammetto
che sia difficile per me vedervi l’uno lontano
dall’altro, ma ormai è successo
e non possiamo cambiare le cose. Capisco che tu ti senta in dovere di
vegliare
sui tuoi cugini, ma non dimenticare che ormai sono adulti e non hanno
bisogno
di avere una balia continuamente alle calcagna.” Enos aveva
poggiato la sua
mano sulla spalla di Luke tentando così di rassicurarlo.
Il
conforto arrivò
tutto e Luke non poté negare di sentirsi rincuorato dalla
presenza di quello
che considerava a tutti gli effetti, un amico fraterno. Dovevano essere
i
postumi di quella giornata. Si sentiva completamente sfasato. Eppure
credeva di
odiare le persone che cercavano in tutti i modi di alleviare le sue
pene. Ma
come si poteva odiare qualcosa che arrivava da uno come Enos? Era tra
le
persone più buone che avesse mai conosciuto. Retto, onesto,
ligio al dovere,
affidabile.
Tanto
prezioso da
rendersi conto dell’incolmabile perdita, soltanto il giorno
che era volato via
alla volta di Los Angeles.
Decise
che avrebbe
accettato volentieri la sua compagnia, si rese conto di essersi preso
in giro
da solo. Non aveva nessuna voglia di starsene per conto suo a
lambiccarsi il
cervello. Gli erano bastati quei pochi minuti in solitaria sul tronco.
La sua
mente aveva cominciato a vagare ed era arrivata dove non avrebbe mai
voluto. Nel
giro di pochi istanti si era creato da solo scenari tanto drammatici da
farsi
drizzare i peli sulla nuca.
“Dimmi
una cosa, Enos…
perché non hai sparato?” Voglio dire... ne hai avuta
l’occasione e ne avevi tutto il diritto.”
Domandò all’improvviso Luke.
“Pensi
non l’abbia
fatto perché sono un codardo, non è
vero?” Rispose Enos incurvando le labbra in
un mesto sorriso.
“Niente
affatto! Non
penso assolutamente una cosa del genere. Voglio saperlo davvero, Enos.
Perché
non hai premuto il grilletto?”
“Perché
non è facile
Luke. E tu dovresti saperlo meglio di me. Si tratta di un semplice
gesto in realtà, il
cervello non deve far altro che inviare il comando giusto al dito
indice ed è
fatta. E’ sufficiente flettere una falange e ti ergi a
supremo giudice, decidi
della vita o della morte di chi ti sta davanti.”
“Si,
penso tu abbia
ragione. Non è affatto facile premere un
grilletto.”
“Ad
alcuni basta
stringere una pistola tra le mani per credersi invincibili, immortali.
A me non
è mai piaciuto portare armi addosso. Lo faccio solo
perché me lo impone il mio
lavoro ed è una fortuna che qui ad Hazzard non sia mai
successo niente di tanto
grave da costringermi a lasciare la mia fondina vuota.”
“Non
è mai successo
niente, fino ad oggi.” Aggiunse Luke sospirando.
“Già.
Ecco che torna a
galla il mio senso di colpa. Non posso proprio fare a meno di pensare
che a
causa del mio scrupolo di coscienza e della mia esitazione, a
rimetterci è
stato il povero Bo.” Riprese Enos alzando gli occhi al cielo.
“Caro Bo, non
vedeva l’ora di tornare a casa e prepararsi per uscire con
Melinda Sue Robbins.
Era eccitato come uno scolaretto. Era allegro e gioviale come al solito. Sorrideva
perché non
poteva ancora sapere che presto sarebbe finito con la faccia a terra
sul freddo
pavimento della banca.” Concluse Enos alzandosi in piedi e
scalciando con forza
una pietra in direzione del lago.
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Capitolo 2 *** Nel posto sbagliato ***
Capitolo due: Nel posto sbagliato
Ufficio
dello sceriffo, ore 9:00 del mattino
“Non
me ne importa un bel niente Samuel se il
raccolto di quest’anno è andato male. E non mi
interessa neanche sapere che tuo
padre è rimasto di nuovo bloccato con la schiena e che tutto
il lavoro grava
sulle tue spalle. Questa è la terza rata consecutiva del
mutuo che salti. Non
sono più disposto ad aspettarti. Tornatene alla fattoria,
impacchetta i tuoi
stracci e le tue quattro vacche, dai una lunga occhiata nostalgica a
pareti e
pavimenti e vattene. Hai tempo fino a domani mattina per sgomberare
tutto.”
L’inconfondibile
ringhio di J.D. Hogg oltrepassava
i limiti delle imposte. Le sue grida arrivavano aldilà della
porta del suo
ufficio e scavalcavano addirittura la finestra spandendosi per tutta la
piazza
di Hazzard. Di fronte a lui sedeva mestamente Samuel J. Stewart. Il
giovane,
poco più che ventenne, si era alzato di buon’ora
quel giorno e si era
presentato al cospetto di Boss per chiedere una proroga sul pagamento
della
rata mensile. Nonostante avesse fatto del suo meglio nei mesi passati,
non era
riuscito ad onorare il debito che suo padre aveva contratto con Hogg.
Aveva
tentato di farlo ragionare, gli aveva illustrato una ad una tutte le
sue
validissime giustificazioni, ma di fronte si era ritrovato niente altro
che un
muro invalicabile.
La
testa china e lo sguardo assente, il povero
Samuel aveva smesso di ascoltare le grida di Boss. Nella sua affollata
mente,
stava già tentando di trovare una soluzione a quello che si
prospettava come un
evento devastante per lui e per i suoi anziani genitori. Si nascose il
volto
tra le mani. Ma come faceva a tornare a casa con una notizia del
genere? No, la
questione non si poneva neanche. Non avrebbe mai dato loro un dolore
così
grande. Doveva trovare una soluzione e doveva farlo alla svelta.
E
intanto quel grassone continuava a sbraitare.
Samuel alzò il viso di scatto e piantò i suoi
occhi verdi in quelli di Boss. J.D.
si azzittì all’istante. Rimase a fissare il
giovane la cui disperazione era
stata soppiantata da un’ira feroce. Un brivido gli
attraversò il midollo e
barcollò quando si mosse per raggiungere la sua scrivania.
Una volta seduto,
ebbe la mera sensazione di sentirsi al sicuro avendo frapposto un
tavolo tra
lui e Samuel.
“Non
finisce qui Boss. Te la stai prendendo con le
persone sbagliate. Sentirai ancora parlare di me.”
Sentenziò il giovane
alzandosi in piedi e dirigendosi verso la porta. Prima di abbandonare
del tutto
l’ufficio, però, rivolse un ultimo sguardo
disgustato in direzione di Hogg.
J.D.,
per la seconda volta nel giro di pochi
istanti, sentì di nuovo una strana sensazione di disagio
alla bocca dello stomaco:
“quel ragazzo mi fa paura.” Bisbigliò
quando fu rimasto da solo.
Officina
di Cooter, ore 11:00 del mattino
“Dai
retta a me cugino, Melinda Sue Robbins è la
ragazza più bella con la quale mi sia mai capitato di
uscire.” Disse Bo seduto
con le gambe a penzoloni sul cofano del Generale Lee. Da settimane il
giovane
tentava di estorcere un appuntamento a quella ragazza e finalmente ci
era
riuscito. Negli ultimi giorni non aveva parlato d’altro e,
poiché quella sera
ci sarebbe stato il tanto atteso incontro, ormai non stava
più nella pelle.
“Bo,
hai detto lo stesso un mese fa di Mary K. Bless
e due settimane prima di Johanna Carson. Non capisco cosa ci trovi in
una
stangona tutta pelle e ossa. Non è neanche
simpatica.” Fu il commento
sarcastico di Luke.
“Non
capisci niente di donne Luke Duke. O forse
sei solo invidioso perché tu stasera te ne rimarrai a casa a
giocare a scacchi
con zio Jesse?”
“Invidioso
io? Di te? Ma fammi il favore. Comunque
smettila di startene con la testa tra le nuvole e datti da fare.
Dobbiamo
ancora passare in banca a prelevare del contante, altrimenti non
potremo
comprare il fertilizzante che ci ha chiesto zio Jesse.”
Tagliò corto Luke
“Ragazzi, non
vorrei interrompervi, ma già che mi avete invaso l’officina
vi dispiacerebbe darmi una
mano?” Si intromise Cooter riemergendo da sotto una vecchia
Mustang.
“Di
che si tratta?” Chiese Bo accovacciandosi
accanto all’amico meccanico.
Cooter
si alzò in piedi e si diresse verso un
motore che aveva poggiato in terra. Lo indicò con lo
sguardo: “dovrei rimettere
questo bolide al suo posto, ma non penso di farcela da solo. Allora,
chi si
offre volontario?”
“Ti
aiuto io.” Propose Luke. “Bo, perché nel
frattempo non fai un salto in banca? Guadagneremo tempo. Finisco con
Cooter e
ti raggiungo.”
“Sissignore!”
Rispose Bo con la sua solita aria allegra
e scanzonata. Prima di allontanarsi, si piegò fino a
mettersi all’altezza dello
specchietto del Generale e si rimirò. Si sistemò
i capelli e si passò le mani
su camicia e jeans per spiegarli e sistemarli. Si raddrizzò
di nuovo e,
fischiettando, si diresse verso la banca.
Quando
si fu allontanato, Luke e Cooter non
poterono fare a meno di mettersi a ridere: “beato lui! Ma
come fa ad
innamorarsi di ogni ragazza che incontra?” Domandò
il meccanico afferrando il
motore da un lato.
“Non
ne ho idea. Però su una cosa hai ragione…
beato lui!” Sorrise Luke aiutando l’amico a tirar
su quel peso.
I due
se la sbrigarono in una decina di minuti: “ecco
qui. Come nuova!” Esclamò Cooter ammirando il suo
lavoro ultimato. “Grazie dell’aiuto,
amico mio.”
“Figurati.”
Luke si avvicinò a un tavolo e si pulì
le mani con un straccio sudicio: “Beh, se non hai
più bisogno di me, io andrei.
Sarà meglio che…”
D’un
tratto la calma e la quiete della piazza
furono interrotte bruscamente da una terrorizzante sequenza di strane
detonazioni.
“Ma
cosa…?” Luke e Cooter corsero fuori
dall’officina
per cercare di capire di cosa si fosse trattato. Si voltarono alla loro
destra
e videro un caos di persone che fuggivano in tutte le direzioni. Chi
gridando,
chi piangendo, stavano scappando tutti dalla banca.
“CHIAMATE
LO SCERIFFO! HANNO SPARATO! FATE PRESTO,
HANNO SPARATO IN BANCA!” Urlò il vecchio Charlie
attraversando di corsa la
piazza.
“Bo…”
Luke non disse altro. Seguito da Cooter, iniziò
a correre. Erano solo poche centinaia di metri, ma non ricordava di
aver mai
percorso una distanza così lunga a piedi. Procedeva a
perdifiato, ma aveva la
sensazione di stare fermo, non arrivava mai. Quella piazza non finiva
mai. Quando
stava finalmente per salire i tre gradini che lo separavano dalla porta
d’ingresso,
fu sbattuto a terra da qualcuno che aveva fretta di uscire. Lo vide
solo di
sfuggita, ma non se ne curò affatto. Si rialzò in
piedi ed entrò.
Rimase
immobile accanto allo stipite della porta. Quello
che vide gli bloccò il respiro. Bo giaceva riverso al suolo.
Accanto a lui,
inginocchiato e con il viso bianco come un lenzuolo, c’era
Enos.
“Luke…
io…” Il vice sceriffo non riuscì a dire
niente.
Luke
mosse pochi passi e si accovacciò accanto al
cugino. C’era del sangue sul pavimento, ma non riusciva a
capire da dove
arrivasse. Freneticamente gli tirò su la camicia e gli
tastò la schiena con le
mani. Sospirò per il sollievo quando vide che non
c’erano fori di proiettile. Nel
frattempo era arrivato anche Cooter il quale si era avvicinato e si era
inginocchiato
accanto a Enos.
“Voltiamolo.”
Suggerì Luke con un filo di voce.
Cooter
lo osservò con il cuore in gola. Poche
volte in vita sua gli era capitato di vedere l’amico in
quello stato. Aveva gli
occhi sbarrati e le sue mani tremavano senza controllo. Anche senza
guardarlo in
faccia poteva sentire tutta la sua paura.
Con
tutta la delicatezza possibile, afferrarono Bo
per le spalle e lo girarono sulla schiena. Senza perdere tempo, Luke
gli
strappo la camicia e gli esaminò il torace.
Poi
spostò lo sguardo un po’ più in alto.
Ingoiò
a fatica un grumo d’aria e trattenne il
fiato.
Finalmente
vide da dove era uscito il sangue.
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Capitolo 3 *** In banca ***
Capitolo
tre: In banca
Ore
9:30
Samuel
stava guidando il suo furgoncino color
bianco sporco verso casa. Si sarebbe detto che stesse passeggiando per
quanto
andava piano. Il braccio sinistro era poggiato sul finestrino, reggeva
lo
sterzo con la punta delle dita. Con la mano destra afferrò
una sigaretta dal
cassettino portaoggetti e se la accese. Aspirò avidamente
dal filtro e sbuffò
un paio di ricche volute di fumo, l'abitacolo ne uscì completamente
annebbiato. Non stava prestando la minima attenzione alla
strada che aveva
davanti, procedeva a memoria. Nella sua mente stava già
prendendo corpo uno
strano pensiero. Un’idea che forse avrebbe fatto meglio ad
abbandonare, ma che
invece fremeva dalla voglia di assecondare.
Parcheggiò
il furgoncino sullo spiazzale adiacente
la sua fattoria, balzò fuori dall’abitacolo e si
diresse verso l’entrata. Notò
con stupore che i suoi genitori non erano in veranda. Da quando il
vecchio
Jeremiah era rimasto nuovamente bloccato con la schiena, soleva
trascorrere le sue
giornate seduto all’aria aperta su di una grossa poltrona di
vimini. Accanto a
lui la moglie talvolta pelava le patate, talvolta sgranava le
pannocchie,
talvolta lavorava a maglia. Per essergli di compagnia espletava la
maggior
parte dei suoi lavori domestici all’esterno della casa.
Si
arrestò sul pianerottolo domandandosi dove
potessero essere finiti, quando d’un tratto si
ricordò che proprio quella
mattina il padre aveva una visita di controllo presso lo studio del
Dott.
Appleby. Di sicuro non erano ancora tornati.
L’assenza
dei suoi genitori fu lo sprone decisivo
per fargli compiere un passo di cui presto si sarebbe pentito. E
vergognato.
Raggiunse
in tutta fretta il piccolo studio del
padre e aprì l’armadietto di legno che si trovava
dietro lo scrittoio. Ammirò
una ad una tutte le pistole da collezione che il vecchio Jeremiah
custodiva da
anni. Alla fine scelse quella che, tra tutte, sembrava la
più moderna e
funzionante: una Colt 45.
Tirò
fuori una chiave da uno stipetto e la usò per
aprire un altro cassetto. Ne estrasse dei proiettili.
Sganciò il tamburo e li
posizionò all’interno.
Entrò
nella sua stanza come una furia e rovistò
freneticamente nell'armadio. Afferrò una sciarpa e un
cappello di lana,
prese un paio di occhiali da sole sul suo comodino e si
avviò verso l’uscita.
Riprese
posto sul furgoncino, innestò la marcia e
partì.
Direzione:
Hazzard.
Ore
11:30
Bo
stava percorrendo distrattamente il breve
tratto di strada che dall’officina di Cooter, arrivava fino
in banca. Il suo
consueto buonumore quel giorno era elevato all’ennesima
potenza; il giovane
stava contando i minuti che lo separavano dall’atteso
incontro con Melinda Sue.
Saltellò
agilmente sui gradini che gli avrebbero
consegnato l’ingresso della banca. Una volta entrato,
sbuffò contrariato. Non
si era aspettato di trovare tante persone in fila all’unico
sportello. Era
convinto che se la sarebbe cavata in un paio di minuti ma, dopo un
rapido
calcolo mentale, considerò che gli sarebbe occorsa una buona
mezzora. Doveva
aspettare che avessero finito le sei persone che aveva davanti, prima
di poter
essere servito. Con estremo disappunto, si incrociò le
braccia sul petto e si
mise pazientemente in fila.
La
sua insoddisfazione, tuttavia, durò poco: gli
bastò ripensare alla serata che aveva di fronte
perché il sorriso gli tornasse
sulle labbra.
Era
immobile con lo sguardo perso sul soffitto,
quando si sentì poggiare una mano sulla spalla:
“ehi Bo! Qual buon vento?”
“Enos,
amico mio!” Esclamò Bo voltandosi.
“Anche
tu vieni a sorbirti la fila allo sportello?” Aggiunse poi
ricambiando la pacca
sulla spalla.
“E’
una mattinata tranquilla e non ho molto da
fare in ufficio. Ho chiesto allo sceriffo se potevo allontanarmi
qualche minuto
ma, a giudicare dalla gente che c’è, penso ci
vorrà molto di più.” Appurò
Enos sporgendosi per osservare la fila di persone.
“Hai
ragione, anch’io speravo di sbrigarmela in
poco tempo, ma pazienza. Aspetteremo!” Constatò
divertito Bo.
“Ehi,
ehi! Non penso proprio di sbagliarmi. A
quanto pare qualcuno oggi è su di giri. Allora? Qual
è il motivo? Tu e Luke
avete messo a punto il Generale Lee per la gara di sabato? Oppure si
tratta di
una ragazza?” Chiese quindi Enos sorridendo ampiamente.
“Melinda
Sue Robbins.” Rispose Bo con un’espressione
a metà tra il sognante e il trionfante.
Enos
afferrò la mano dell’amico e gliela strinse
con vigore: “caspita vecchio mio! Questo si che è
un bel colpo! Ah se fossi bravo
come te con le donne!” Aggiunse poi sospirando rassegnato.
“Credi
a me Enos. Sarebbe un talento sprecato su
di te. Che te ne faresti del dono di ammaliare giovani fanciulle se
tanto a te
ne interessa una sola? E sappiamo bene di chi stiamo
parlando!”
Enos
avvampò all’istante e si passò un
braccio
dietro la testa con fare imbarazzato: “è vero, il mio è un
caso disperato.”
Con
Enos al suo fianco, il tempo passò più
velocemente per Bo. Davanti a lui c’erano ormai solo un paio
persone.
I due
amici stavano continuando a chiacchierare
del più e del meno, quando d’un tratto videro il
vecchio Charlie alzare le
braccia al cielo imitato poi a breve anche dalle altre persone
presenti. Ignari
di quanto stava accadendo, si voltarono verso la porta
d’ingresso della banca e
videro un uomo con un grosso cappello di lana calato sulla testa, gli
occhi
coperti da un paio di occhiali da sole a specchio e una sciarpa che gli
copriva
metà viso fin sopra al naso. Pistola alla mano, si diresse
con passo svelto
verso lo sportello e puntò la canna in faccia alla povera
Laverne, l’impiegata
della banca: “fai come ti dico donna e nessuno si
farà male.” Sentenziò usando un
tono di voce molto basso.
Bo,
preso alla sprovvista, rimase immobile ad
osservare la scena, mentre Enos istintivamente estrasse la propria arma
dalla
fondina: “getta la pistola e alza le mani.” Fu
l’ordine che impartì con voce
incerta.
L’uomo,
che non si era reso conto in banca ci
fosse un rappresentante della legge, si voltò nella sua
direzione, ma Enos non
era in grado di dire se lo stesse guardando. Non c’era verso
di oltrepassare lo
specchio degli occhiali che portava indosso.
“Abbassa
quella pistola!” Gridò nuovamente Enos.
L’uomo
dimenticò Laverne e si avvicinò di qualche
passo al vicesceriffo tanto che le canne delle rispettive pistole
vennero quasi
a contatto.
Improvvisamente
sollevò la gamba destra e con un
calcio fece volare via l’arma del suo avversario. Enos, del
tutto impreparato
ad un simile attacco, perse l’equilibrio e cadde in terra.
Nella
frenesia del momento, il vicesceriffo fece
in tempo solo a sentire una serie di spari. Il rumore assordante unito
ad una
pioggia di calcinacci, lo costrinse a chiudere gli occhi.
Quando
li riaprì, l’uomo non c’era
più e si
ritrovò in un vortice di gente che fuggiva e urlava.
Ma
qualcos’altro catturò la sua attenzione:
“Bo…”
Sussurrò avvicinandosi tremolante all’amico
riverso a terra.
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Capitolo 4 *** Ferito ***
Capitolo
quattro: Ferito
Samuel
uscì dalla banca come un forsennato. Saltò a
piè pari gli scalini che gli
avrebbero fatto guadagnare la strada e solo per un caso fortuito non
finì a
terra andando a sbattere contro qualcuno che procedeva nel senso
inverso al
suo. Nell’urto perse gli occhiali da sole, ma ebbe la
prontezza di non voltarsi
e riuscì a dileguarsi alla chetichella. Soltanto quando si
fu allontanato di
qualche metro realizzò di aver quasi travolto Luke Duke: “mi dispiace amico, non avrei mai
voluto far del male a Bo.” Pensò
continuando a correre.
Per
sua fortuna l’intera piazza era nel panico più
totale; la maggior parte della
gente correva a gambe levate cercando rifugio in qualche posto chiuso.
Si tolse
il cappello e la sciarpa e si mischiò ad un gruppo di
ragazzi che si dirigevano
a perdifiato verso la chiesa. Si voltò alla sua destra e
vide un paio di
signore che piangevano in modo quasi isterico mentre venivano portate a
braccia
nell’ufficio dello sceriffo.
Mischiato
agli spaventati cittadini di Hazzard, Samuel riuscì a
raggiungere il suo
furgoncino e filò via senza mai voltarsi indietro. Quando
afferrò lo sterzo, si
rese conto di quanto sarebbe stato difficile guidare: le mani gli
tremavano e
la vista era annebbiata. Fece in tempo ad uscire dal centro abitato,
non appena
imboccata la statale che lo avrebbe ricondotto a casa, fu costretto ad
accostare. Scese dal pick-up e si avvicinò ad una grande
quercia, si poggiò con
entrambe le mani al tronco e perse completamente il controllo. In pochi
secondi
il suo stomaco espulse quel poco di cibo che aveva ingurgitato la
mattina per
colazione. Dopodiché crollò in ginocchio e pianse
fino a non avere più lacrime.
Non
era certo la prima volta che Luke si trovava faccia a faccia con una
tragedia.
Durante i suoi anni da Marine, aveva visto decine di compagni feriti,
alcuni
non ce l’avevano fatta, altri si erano ripresi. Quello che
era stato il suo più
caro amico “laggiù”, gli era morto
praticamente tra le braccia.
Stavolta
però era diverso.
Stavolta
tra le sue braccia, inerme come un bambino addormentato c’era
Bo.
Prese
un brandello della camicia di Bo e, con tutta la delicatezza di cui era
capace,
gli pulì la fronte. Ma ogni volta che tentava di arginare il
sangue che usciva
copioso dalla ferita che aveva sul sopracciglio destro, ne usciva
dell’altro.
Sempre più abbondante. Aveva la percezione del trambusto che
lo circondava, ma
non se ne rendeva conto. Intuiva che Enos e Cooter gli stavano
parlando. Aveva
afferrato parole come “ambulanza”,
“grave”, “telefonare”. Ma non
riusciva a
dire se facessero parte di una frase di senso compiuto. Niente aveva
senso quel
giorno. Era netta l’impressione di avere le orecchie piene di
ovatta e la
visuale ridotta a ciò che aveva davanti agli occhi. A
ciò che stringeva tra le
braccia con la forza di chi ha il terrore di vedersi strappare di mano
ciò che
ha di più caro al mondo.
“Luke…
Luke ascoltami. Lascia andare Bo. E’ arrivata
l’ambulanza, devono portarlo
via.” Enos aveva poggiato una mano sulla spalla
dell’amico. Non era il primo
tentativo che faceva per richiamare l’attenzione di Luke. Ma
finora era stato
come parlare ad un muro.
“Andiamo
vecchio mio, Enos ha ragione. Se non lo lasci non possono caricarlo
sulla
barella.” Anche Cooter era intervenuto in aiuto. Il meccanico
conosceva bene i
Duke, non aveva mai avuto amici più cari e non conosceva
persone più oneste.
Non avrebbe mai pensato che un giorno sarebbe stato testimone di una
simile
tragedia.
Era
tutto così irreale.
Come
poteva essere successa una cosa del genere? Fino a pochi minuti prima
Bo era il
ritratto spudorato della gioia, faceva mille progetti per la sua
memorabile
serata con Melinda Sue Robbins, era irrequieto quanto una sposa
sull’altare. E
ora giaceva immobile sul pavimento della banca. I suoi riccioli biondi,
sempre
così vaporosi e lucenti erano imbrattati di sangue e polvere
di calcinacci. Una
poltiglia che glieli aveva fatti diventare appiccicaticci, assurdo
pensare di
attraversarli con le dita senza correre il rischio di rimanere
attaccato con la
mano alla sua testa.
Soltanto
quando fu tirato su di peso, Luke si accorse di ciò che gli
stava accadendo
intorno. Un uomo grande e grosso gli aveva fatto passare entrambe le
braccia
sotto le ascelle e lo aveva sollevato, un altro lo aveva sostituito nel
tenere
ferma la testa di Bo. Si riscosse come fosse stato fino ad allora in
uno stato
di torpore e iniziò a sentire il frastuono attorno a
sé. C’era la sirena
dell’ambulanza appena fuori la banca, Rosco che urlava a
squarciagola tentando
di farsi ascoltare da chiunque gli capitasse a tiro. Enos e Cooter che
gli
parlavano sovrapponendosi l’uno all’altro e
informandolo che zio Jesse e Daisy
erano già stati avvisati. Sbatté un paio di volte
le palpebre, appena in tempo
per vedere quei due omoni tirare su di peso Bo e adagiarlo sulla
barella.
“Vado
con lui.” Disse incerto mettendosi alle calcagna dei
portantini.
“Ti
seguiamo con la macchina.” Rispose Enos di rimando.
Luke
salì sull’ambulanza per ultimo: “dove
posso mettermi per non darvi fastidio?”
Chiese con un filo di voce.
“Ci
darebbe comunque fastidio signore, quindi si limiti a stare seduto e
non ci
intralci.” Fu la risposta stizzita di uno dei due energumeni
vestiti di bianco.
In
qualunque altra occasione Luke Duke non ci avrebbe pensato due volte e si
sarebbe fatto
rispettare. Si limitò invece ad abbassare il capo e a
sedersi accanto agli
sportelli sul retro dell’ambulanza. Senza accorgersene
unì le palme delle mani
e le lasciò penzolare con i gomiti appoggiati alle ginocchia.
Non
stava pensando a niente.
Non
stava neanche pregando, malgrado la sua postura lo suggerisse.
Tutto
ciò che faceva era fissare il monitor sul quale una lucina
intermittente
scandiva il battito del cuore di Bo.
Sapeva
bene infatti che finché quella lucina avrebbe continuato a
pulsare, non ci
sarebbe stato niente di cui preoccuparsi. Almeno questo era
ciò che sperava.
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Capitolo 5 *** Legami d'amicizia ***
Capitolo
cinque: Legami d’amicizia
Di
ritorno a casa Daisy Duke avrebbe dovuto rifare il bucato daccapo visto
che le
era caduta la cesta di vimini riversando tutto il suo contenuto in
terra.
Le
era bastato alzare gli occhi verso lo zio e notare il diffuso pallore
che stava
avanzando inesorabile sul suo volto. Aveva intuito subito che qualcosa
non
andava. Le sue mani avevano immediatamente allentato la presa su
ciò che stava
stringendo ed era corsa in direzione del portico della fattoria.
Jesse
Duke era immobile, rispondeva con impercettibili cenni gutturali al suo
interlocutore dall’altra parte del telefono:
“grazie di averci avvisato, Enos.
Arriviamo subito.” Concluse la breve conversazione
riagganciando la cornetta.
Daisy
gli si era parata ad un palmo dal naso: “è
successo qualcosa ai ragazzi? Rosco
li ha sbattuti di nuovo in prigione con qualche assurdo
pretesto?” Chiese con
poca convinzione.
Bo
e Luke erano stati arrestati talmente tante volte, che Daisy aveva
finito ormai
per perderne il conto. In svariate occasioni il vecchio Jesse era stato
invitato per telefono ad andarsi a riprendere i nipoti dietro pagamento
di una
salata cauzione. Di solito, prima di salire sul suo vecchio pick-up,
sbuffava,
lanciava qualche accidente e inveiva contro il commissario di contea J.
D. Hogg
e il suo fedele burattino lo sceriffo Rosco P. Coltraine.
Ma
l’espressione che era rimasta sul volto di Jesse stavolta,
era tutt’altra
storia. Le sue rughe sembravano più profonde, i suoi occhi
più incavati, i suoi
capelli più bianchi che mai: “prendi la jeep
Daisy. Andiamo al Tri Country
Hospital.”
“Mio
Dio. Cosa c’è, zio Jesse? I ragazzi hanno avuto un
incidente?” Domandò la
giovane afferrando con forza le mani dello zio.
“Si
tratta di Bo. Enos dice che è rimasto coinvolto in una
sparatoria durante una
rapina in banca.”
Come
a voler trattenere un gemito, Daisy si coprì la bocca con la
mano: “una
sparatoria?” Ripeté incredula. “Ma come
sta? E Luke? Dov’è Luke?”
Domandò poi.
“Non
so nient’altro Daisy. Non ho idea di cosa sia successo. E
adesso per favore,
portami dai miei ragazzi. Io non ho la forza di guidare.”
“Enos
te lo dico per l’ultima volta: RIPORTA LE TUE CHIAPPE IN
UFFICIO E NON FARMELO
PIU’ RIPETERE!” Era prassi che Rosco alzasse la
voce o ricorresse a frasi poco
edificanti per ottenere ciò che voleva. Nessuno infatti
riconosceva in lui la
benché minima autorità, malgrado sfoggiasse
beatamente da mattina a sera la sua
sgargiante stelletta. Enos generalmente ubbidiva prima ancora che gli
venisse
impartito qualunque ordine. E non perché avesse paura di
Rosco o perché temesse
i suoi improperi. Enos semplicemente ubbidiva perché era un
vice sceriffo ligio
al suo lavoro. Credeva nel valore della divisa che indossava e ne aveva
il
massimo rispetto.
“Sono
costretto a contravvenire ai suoi ordini sceriffo, mi
dispiace.” L’avvenimento
era senza precedenti. Mai prima di allora Enos si era sognato di
disattendere
le aspettative del suo superiore. “Tornerò in
ufficio solo se e quando avrò la
certezza che Bo Duke starà bene.”
“PEZZO
DI IDIOTA! Abbiamo una montagna di lavoro che ci aspetta, Dobbiamo
interrogare
tutti i clienti e le impiegate della banca. Dobbiamo raccogliere le
testimonianze di coloro che erano in piazza e che possono aver visto
quel
balordo fuggire. Non posso fare tutto da solo. Ho bisogno che tu ti
occupi di
tutto!”
“La
sola impiegata della banca è Laverne. Immagino che sia
ancora sotto shock per
quello che è successo, ma non penso siano necessari due
uomini di legge per
scambiarci quattro chiacchiere. Per quanto riguarda i clienti, al
momento della
rapina a parte me e Bo, c’erano solo il vecchio Charlie, la
signora Ruebottom e
Franky, il figlio del fioraio.”
“ENOS
ADESSO BASTA, IO…IO…” Rosco fu
interrotto bruscamente.
“SCERIFFO,
basta lo dico io! Tornerò in ufficio tra qualche ora al
massimo. Se ha davvero
paura di non riuscire a sbrigarsela da solo, chiami i federali e si
faccia dare
una mano. Passo e chiudo.”
Malgrado
l’angoscia che lo stava dilaniando, il buon Cooter non
poté fare a meno di
osservare l’amico e di sorridergli: “questa te la
farà scontare il vecchio
Rosco. Lo sai vero?” Domandò il meccanico.
“Non
mi importa Cooter. Hai visto anche tu in che condizioni era Bo. E hai
visto
Luke. Non potrei mai lasciare due dei miei più cari amici in
un momento come
questo. Che mi licenziasse pure se crede.”
Enos
tornò con lo sguardo sulla strada. Il carro attrezzi di
Cooter correva oltre i
limiti delle sue possibilità. Mangiava l’asfalto
come avrebbe fatto il Generale
Lee. Davanti a loro l’ambulanza nella cui pancia di lamiera
giaceva Bo.
“Pensi
sia grave, Enos? Tu eri lì con lui. Cosa gli è
successo? Voglio dire, la ferita
che ha sulla fronte a cosa è dovuta?
E’… è una pallottola?” Dio sa
come riuscì
Cooter a formulare la domanda che più gli stava a cuore.
Doveva sapere cos’era
successo al suo amico, ma aveva paura di scoprire una verità
che avrebbe fatto
fatica ad accettare.
Enos
si tormentò un po’ le mani e prese qualche boccata
d’ossigeno. Chiuse gli
occhi, ma si accorse ben presto che non era stata una buona idea visto
che la
mente gli rimandava continui flash di quello che era successo:
“Dio mio Cooter!
Se solo non avessi esitato. Se avessi premuto il grilletto invece di
farmi
disarmare con tanta facilità. Adesso non staremmo alle
costole di
un’ambulanza.” Si passò una mano
tremante tra i capelli: “io non lo so
cos’è
successo. Avevo appena preso un calcio ed ero finito gambe
all’aria quando ho
sentito gli spari. E quella pioggia di calcinacci poi! Ci ho messo un
paio di
minuti buoni per capire che il ladro era fuggito e che Bo era a terra
esamine.
Non ho idea di come si sia ritrovato con quella ferita sulla
fronte.”
Il
tremore delle mani gli si era arrampicato fin sulle spalle. Quando Cooter si
accorse
che all’amico cominciava a mancare la voce, gli
toccò dolcemente un braccio e
lo rassicurò: “non è colpa tua Enos.
Non avresti ottenuto niente di buono
sparando. E poi quel ragazzo è giovane e forte come un toro.
Vedrai che non è
nulla di grave.”
Enos
alzò lo sguardo regalando un sorriso poco convinto
all’uomo che gli sedeva di
fianco: “spero tu abbia ragione amico mio. Lo spero
davvero.”
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Capitolo 6 *** In ospedale ***
Capitolo
sei: In ospedale
Luke
non aveva mai realizzato quanto fosse distante il Tri Country Hospital,
non
pensava che il viaggio sarebbe stato così lungo. Ma forse
era proprio quel viaggio ad essere
interminabile.
Per
tutto il tempo se ne restò seduto, stretto tra le sue
braccia in un angolo ai
piedi della lettiga sulla quale era adagiato Bo. Osservava nervoso
tutti quegli aggeggi bizzarri che lo circondavano: monitor, sacche piene di liquidi
dal colore
indefinibile. E poi aghi, siringhe, fili e tubi strani che sbucavano da
ogni
parte.
Da
quando erano saliti sull’ambulanza, non aveva mai tolto gli
occhi di dosso dai
due omoni vestiti di bianco che lo avevano relegato senza tante
cerimonie nel
suo attuale cantuccio. Li aveva visti entrambi auscultare ripetutamente
il
petto nudo di Bo, li aveva osservati mentre gli passavano sulla fronte
garze su
garze imbevute di disinfettante o forse di alcol. E infine li aveva
sorpresi ad
inserire nel braccio del cugino un ago, a suo dire, spropositatamente
grande:
“dobbiamo idratarlo.” Disse uno dei due rivolto
all’altro. Da quell’ago partiva
un tubicino che arrivava fin dentro una di quelle sacche che aveva
già visto lì
intorno da qualche parte e che era stata assicurata ad una sorta di
curioso
attaccapanni. O almeno è quello che sembrava a Luke.
Incredibilmente si scoprì
a sorridere al pensiero che almeno Bo era incosciente. Non sarebbero
bastati
altrimenti due energumeni per tenerlo fermo e infilargli
quell’ago nel braccio.
Bo.
Fin
da quando erano bambini, Luke aveva promesso ai suoi zii, a se stesso e
perfino
a Dio, che avrebbe vegliato sui suoi cugini più giovani
finché avesse avuto
fiato nei polmoni. E invece aveva fallito miseramente. Tra quel
convulso
incrocio di braccia e schiene, riusciva a malapena a distinguere i
tratti del
volto di Bo. Sembrava stesse dormendo tanto appariva sereno.
Luke
si ritrovò ancora una volta a chiedersi che diavolo poteva
essere successo per
arrivare fino a quel punto. Come poteva una giornata iniziata come
tante altre
e destinata a finire nello stesso modo, riservare un imprevisto di tale
portata. Come poteva essere accaduta una cosa del genere a Bo? Che ci
faceva
steso su di una barella malferma e arrugginita, la persona
più allegra e solare
che avesse mai conosciuto in vita sua? E come avrebbe reagito zio
Jesse? E
Daisy?
Il
solo rievocare i volti degli altri due membri della sua famiglia, gli
provocò
un attacco di sudarella fredda. Temeva che se a Bo fosse successo
qualcosa di
irreparabile, Jesse e Daisy lo avrebbero ritenuto responsabile. Lui
stesso si
riteneva colpevole. Erano trascorsi solo pochi minuti dalla sparatoria,
ma il
senso di colpa di Luke aveva già cominciato ad ingigantirsi
senza freno. Il suo
era un tormento destinato ad aumentare.
Luke
era talmente assorto nei suoi pensieri, da rendersi conto che
l’ambulanza si
era fermata solo quando uno dei due portantini lo invitò
senza mezze misure a
togliersi dai piedi e lasciarli uscire con la barella. Si
alzò di scatto e fu
costretto ad aggrapparsi allo sportello posteriore per non ricadere
indietro.
Aiutò quindi ad aprire le porte e si spostò di
lato.
I
due omoni, inaspettatamente agili e rapidi, fecero uscire la lettiga
dall’ambulanza e si diressero verso l’entrata
dell’ospedale. Luke li seguì
all’interno finché si ritrovò la mano
di uno dei due premuta sul petto: “lei
qui non può entrare. Si metta seduto in sala
d’aspetto, al più presto i medici
le daranno notizie.”
Luke
vide la porta che i due avevano appena varcato, richiudersi proprio
davanti al
suo naso. Rimase a fissarli da una piccola finestrella di fronte a
sé, li vide
svoltare un angolo e sentì il tonfo di un’altra
porta che si richiudeva. Dopo
qualche istante, si girò e si mise a sedere sulla sedia a
lui più vicina.
Ora
non doveva fare altro che attendere l’arrivo di Jesse e di
Daisy.
Ora
non doveva fare altro che congiungere le mani e pregare.
Non
fece neanche in tempo a raccogliere mentalmente le parole
più adatte per
iniziare la sua supplica a Dio, che udì le voci di Enos e
Cooter in
avvicinamento. Sollevò lo sguardo proprio mentre i due amici
lo avevano
raggiunto: “abbiamo fatto più in fretta che
abbiamo potuto.” Esordì Cooter
sedendosi accanto a Luke.
“E’
dentro da molto? Ha mai ripreso conoscenza durante il
viaggiò?” Domandò poi
Enos andando ad occupare un’altra sedia.
Luke
passò più volte in rassegna le facce dei suoi due
amici. Aveva capito che gli
stavano rivolgendo delle domande alle quali era certo di poter
rispondere, ma
la voce non ne voleva sapere di uscire. Se in banca aveva avuto la
sgradevole
sensazione di avere le orecchie piene di ovatta, ora si aggiungeva
anche il
sospetto di avere la lingua annodata. Se avesse parlato, anche solo per
affermare o negare, avrebbe rivelato un tremore che lo avrebbe fatto
passare
agli occhi dei suoi amici come una persona sopraffatta dal panico. E
lui non
poteva permettere che una cosa del genere accadesse.
Luke
Duke non perdeva mai il controllo.
Non
si lasciava mai trascinare dagli eventi. Lui gli eventi li controllava.
Niente
era mai troppo bello o troppo brutto per permettere che Luke si
sbottonasse la
corazza che aveva sempre indosso.
Nossignore.
Non
avrebbe parlato.
Sarebbe
rimasto in silenzio malgrado le pressanti domande di Enos e Cooter e
avrebbe
atteso composto notizie di Bo.
Serrò
le palpebre per permettere a tutto il suo corpo di assorbire la
decisione
appena presa. Quando le riaprì vide spalancarsi
violentemente la porta
d’ingresso dalla quale lui stesso era da poco entrato in
ospedale.
Vide
Daisy e Jesse procedere a passo svelto nella sua direzione. Avevano
entrambi il
viso segnato dall’angoscia e dall’incertezza.
Quando
gli furono arrivati a pochi metri, si fermarono e rimasero in attesa di
spiegazioni che invece non arrivarono.
Luke
si alzò in piedi e si posizionò di fronte allo
zio: “mi dispiace zio Jesse.” Fu
tutto ciò che riuscì a dire prima di collassargli tra le braccia.
E
come un bambino pianse tutte le lacrime che fino ad allora si era illuso di potersi
ricacciare
indietro.
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Capitolo 7 *** Risvegli ***
Dopotutto sono passati solo 11 anni da quando ho abbandonato questa storia!
Capitolo sette: Risvegli
Come quando era un bambino e per un motivo o per l’altro finiva tra le braccia dello zio. Allora faceva di tutto per prolungare il più possibile quel contatto. Non ne aveva mai abbastanza. La stretta decisa e dolce delle sue braccia, la barba che gli solleticava le guance. Il battito del suo cuore contro il petto, le parole dolci e rassicuranti che gli carezzavano l’anima. Chi avrebbe mai avuto voglia di far finire qualcosa di così imponente e rassicurante? Ogni secondo che passava avvinghiato allo zio lo calmava un po’ di più.
Fu Daisy a riscuoterlo aggrappandosi al suo braccio e a riportarlo al presente, l’urgenza dei suoi occhi non ammetteva ulteriore attesa: “perché piangi così, Luke? Cosa devi dirci? Come sta Bo?”
Luke si staccò mal volentieri dallo zio, provò imbarazzo nel rendersi conto che il suo pianto aveva alimentato le peggiori paure di Daisy e dello stesso Jesse. Si asciugò gli occhi con la manica della camicia e carezzando dolcemente la cugina si limitò a dire: “Bo è stato portato lì dentro.” Disse indicando le porte del pronto soccorso. “I medici si stanno prendendo cura di lui. E’ stato sempre incosciente, ha una lesione sul sopracciglio destro. Non so come si sia ferito, non ero con lui quando è successo.”
Jesse e Daisy sospirarono all’unisono sollevati dal sapere che niente di irreparabile fosse successo. Jesse si avvicinò ad una delle sedie e ci sprofondò. I suoi nipoti lo imitarono sedendoglisi di fianco.
“C’ero io zio Jesse.” Enos parlò con gli occhi bassi, le mani a rigirarsi in maniera disordinata il cappello. Era completamente sopraffatto, non riusciva a sostenere lo sguardo del patriarca dei Duke. “Eravamo in fila allo sportello in banca quando ad un tratto è entrato questo tizio che ha puntato una pistola in faccia a Laverne. Ho estratto anche io la pistola, ma lui è stato più veloce di me. Mi ha disarmato con un calcio e mi ha mandato gambe all’aria. In quel momento ho sentito distintamente almeno tre spari e una pioggia di calcinacci mi è piovuta addosso. Quando mi sono rimesso in piedi il rapinatore non c’era più e Bo era sdraiato sul pavimento.” Enos aveva lo sguardo triste e mortificato, neanche stesse confessando di essere lui l’artefice della rapina. “Mi dispiace zio Jesse.. perdonami Daisy.. Mi dispiace tanto. Non dovevo farmi mettere al tappeto così facilmente. Avrei dovuto sparare per primo. Avrei dovuto..”
“Basta così Enos!” Jesse si alzò in piedi a fronteggiare il vicesceriffo. “Niente di quanto è successo è colpa tua, è stato un bene che tu non abbia sparato. Pensi adesso staresti meglio se avessi ucciso un uomo?”
“Ma zio Jesse se avessi sparato adesso Bo..” Enos fu nuovamente interrotto “Bo avrebbe potuto trovarsi nelle medesime condizioni e per quanto ne sappiamo avrebbe potuto rimetterci anche qualcun altro. Smetti di torturarti e di sentirti in colpa. Enos si guardò bene dal controbattere, si limitò ad accasciarsi accanto a Daisy e a prendersi la testa tra le mani. Daisy gli posò una mano sulla gamba e lo costrinse a guardarla: “andrà tutto bene, Enos. Si sistemerà tutto. Bo starà bene.” Le sue labbra si incurvarono in un mesto sorriso, Enos le afferrò la mano e la strinse forte. Avrebbero atteso tutti insieme facendosi forza l’un l’altro.
Passarono un paio d’ore prima che qualcuno si decidesse a portare notizie sulle condizioni di Bo. Il medico, un uomo slanciato con una testa piena di ricci grigi e gli occhiali infilati nel taschino del camice, arrivò accompagnato da una giovane infermiera: “i famigliari di Bo Duke?” Chiese entrando nella sala d’attesa.
Jesse, Luke e Daisy si affrettarono a raggiungere il dottore, Enos e Cooter rimasero un passo indietro: “come sta il mio ragazzo?” Chiese Jesse impaziente.
“Dunque, il taglio sul sopracciglio è profondo e abbiamo dovuto ricucirlo con dei punti. Dagli esami a cui lo abbiamo sottoposto escludiamo ematomi interni, ma preferiamo tenerlo in osservazione e ricoverarlo almeno una notte..”
“Ma quindi non si tratta di una ferita provocata da un’arma da fuoco?” Fu Daisy a dar voce alla domanda che pendeva dalle labbra di tutti.
“Da un’arma da fuoco? No no, nella maniera più categorica. La ferita è compatibile con una brutta caduta o l’urto di un corpo contundente.”
Non ci fu bisogno di sentire altro, Daisy e Luke si avvinghiarono a Jesse. Cooter rilasciò l’ansia con quella che uscì fuori come una risata isterica mentre Enos si asciugò di nascosto una lacrima.
“Posso vedere il mio ragazzo?” Chiese Jesse con voce malferma.
“Certamente. L’infermiera Owen” disse il dottore indicando la donna che aveva di fianco “vi mostrerà la sua stanza. Non affaticatelo e non costringetelo a ricordare. E’ normale che adesso non ci riesca. E’ cosciente ma la botta in testa è stata importante.”
“Si dottore, abbiamo solo bisogno di sapere che sta bene e che si riprenderà completamente.” Aggiunse Jesse.
“E’ giovane e forte. Si rimetterà. Rimarrò tutto il giorno qui in ospedale se avrete bisogno di me. Ora se volete scusarmi ho altri pazienti da visitare.”
Il medico si congedò stringendo la mano a Jesse.
“Grazie di tutto dottore.” Salutò Luke stringendogli a sua volta la mano.
L’infermiera Owen si incamminò lungo il corridoio “se volete seguirmi, da questa parte.”
Luke dovette imporsi di stare al passo con l’infermiera e di non superarla. Avrebbe voluto correre per arrivare da Bo il prima possibile. Invece inspirò ed espirò profondamente ad ogni passo ringraziando mentalmente zia Martha e Dio per aver salvato la vita di Bo concedendogli solo un brutto bernoccolo e tanto spavento. Arrivati in fondo al corridoio l’infermiera si fermò di fronte alla stanza 27 “il vostro ragazzo è qui, vi prego di rimanere solo pochi minuti e di non affaticarlo.”
Fu Jesse il primo ad entrare seguito da Luke e Daisy. Enos e Cooter si affacciarono alla porta ma non entrarono. Jesse si avvicinò al letto di Bo e si sedette sul bordo. Allungò una mano e gliela posò dolcemente su una guancia. Si prese un attimo per osservarlo bene, un grosso cerotto gli copriva parte della fronte, ma tutto sommato il viso aveva un bel colorito. “Bo… sveglia ragazzo. Zio Jesse è qui.” Lo carezzò con tutta la dolcezza di cui era capace. Bo reagì sia al contatto che alle parole dello zio. Tentò un paio di volte di aprire gli occhi. La terza fu quella buona “ecco qui il mio ragazzo.” Gli sorrise Jesse.
Bo ci mise un po’ a mettere a fuoco e a riattivare tutti i sensi, si guardò attorno spaesato “che mal di testa” disse portandosi una mano sulla fronte.
“E’ stata una brutta botta ma non è niente di grave, tesoro.” Disse Daisy sedendosi a sua volta sul bordo del letto. Si chinò sul cugino e lo baciò sulla fronte. “Ci hai fatto prendere un bello spavento.”
“Che cosa è successo?” Bo si guardò attorno, un lampo di apprensione lo attraversò quando capì di trovarsi in ospedale. Fece per alzarsi, ma Jesse gli mise una mano sulla spalla e lo bloccò: “non ti preoccupare Bo, va tutto bene. Dovrai passare la notte in ospedale per precauzione ma domani sarai di nuovo a casa.”
Bo chiuse gli occhi cercando di assorbire le parole dello zio. Rimase qualche istante in silenzio per poi ridestarsi all’improvviso: “qualcuno ha sparato in banca. Ero in fila con Enos.” Il vicesceriffo si avvicinò appena sentì il suo nome. “Ho provato a disarmalo, non so se ci sono riuscito.. Non mi ricordo..”
“Non ti sforzare Bo, la memoria tornerà a poco a poco.” Era stato Luke a parlare, finalmente aveva ripreso possesso del suo corpo e delle sue emozioni, non c’era più pericolo che gli tremasse la voce.
Bo lo guardò intensamente, si prese un attimo per afferrare quel pensiero che gli si era affacciato alla memoria “Luke io.. credo di averlo riconosciuto. So chi ha sparato.” |
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Capitolo 8 *** Ricordando ***
Capitolo otto: Ricordando
“O almeno credo di saperlo. Mi sembra di averlo riconosciuto anche se aveva il viso coperto. No, scusate non ricordo cosa stavo pensando, io…”
“Bo stai calmo e non ti sforzare, qualunque cosa tu abbia visto o sentito ti tornerà alla mente a poco a poco. Datti tempo. E soprattutto riposati.” Quando Jesse parlava con quel tono, Bo lo ascoltava sempre. “Si zio Jesse, sono stanco. Voglio dormire un po’.”
Jesse gli carezzò il viso: “dormi tranquillo, saremo qui al tuo risveglio.”
Attesero tutti in silenzio per qualche istante, quando poi furono certi che Bo dormisse, uscirono dalla sua stanza e si fermarono in corridoio.
Luke era inquieto, Bo aveva riconosciuto il rapinatore ne era sicuro. Doveva solo aspettare che gli tornasse la memoria. “Enos tu sei proprio sicuro di non sapere chi fosse?” Chiese poi rivolto all’amico.
“Non lo so, Luke. E’ stato tutto così rapido e concitato. A pensarci bene sembrava qualcuno di conosciuto. Aveva una giacca verde militare che sono certo di aver già visto, non era possibile vedere il suo viso ma il suo fisico e la sua voce… lasciatemi un po’ di tempo per pensare.”
“Tutto il tempo che vuoi, tesoro.” Daisy si avvinghiò al braccio di Enos. “La cosa importante è che Bo stia bene e che domani tornerà a casa. Hai tutto il tempo che vuoi per arrestare quel delinquente.”
Enos arrossì: “sarà meglio che vada ora, non posso lasciare ancora da solo lo sceriffo, non è abituato a lavorare… voglio dire a sbrigare tutte le pratiche per conto suo.” Cooter sorrise e passò un braccio sulla spalla dell’amico, poi rivolto ai Duke: “fateci sapere se ci sono novità, noi andiamo.”
Enos e Cooter salutarono e si diressero verso l’uscita.
I Duke tornarono nella stanza di Bo, era strano vederlo in un letto d’ospedale ma era confortante sapere che niente di grave fosse accaduto. Diverse volte Bo si era risvegliato per poi riaddormentarsi subito, i suoi tempi di veglia variavano da pochi minuti a pochi secondi. Il medico era tornato a controllare e aveva rassicurato i famigliari che, considerata la botta in testa, il decorso di Bo era del tutto normale. Era ormai pomeriggio tardi quando Jesse decise che sarebbe stato meglio rientrare a casa, sarebbero tornati l’indomani a riprendersi Bo e portarselo via.
Il viaggio sul pick-up bianco fu lungo e silenzioso. Seduta al centro Daisy stringeva la mano di Luke e teneva la testa sulla spalla di un Jesse mai così concentrato alla guida. Arrivati nei pressi della fattoria iniziarono a vedere decine di macchine e furgoni parcheggiati nella loro proprietà: “ma che deve succedere ancora oggi?” Jesse sembrava più stanco che sorpreso.
Scesi dal pick-up furono circondati da amici e parenti accorsi perché avevano saputo dell’incidente in banca e temevano che qualcosa di brutto fosse accaduto a Bo. Erano giunti tutti per portare quel conforto di cui pensavano la famiglia avesse bisogno.
“Oh Jesse, Luke, Daisy che notizie ci portate? Come sta il caro Bo? Qualcuno ha detto che gli hanno sparato. E’ ancora vivo non è vero?” La dolce Lulù era sull’orlo di un pianto disperato, le tremavano voce e gambe. Unì le palme delle mani in preghiera. Dietro di lei si era creata una folla silenziosa in attesa di sentire la risposta.
Jesse si tolse il cappellino “grazie a tutti per essere venuti fin qui, mi dispiace che vi siate preoccupati. Bo sta bene grazie a Dio, non gli hanno sparato, ha ricevuto un colpo in testa ed ha una ferita sulla fronte. Ma domani sarà a casa, rimarrà in ospedale solo questa notte per precauzione.” Jesse non finì di parlare che Lulù gli buttò le braccia al collo “grazie a Dio! Oh come sono contenta.” Niente poté contro le lacrime che iniziarono a uscire e a bagnare la camicia di Jesse.
Tra la folla non si poteva non notare J.D.Hogg, il suo completo bianco spiccava su tutto e tutti “sono felice di sapere che Bo stia bene.” Si avvicinò a Jesse e mise una mano sulla schiena di Lulù invitandola a staccarsi da lui. “Non mi sono mai fatto scrupoli a sbattere i tuoi nipoti in galera con il più bieco dei pretesti, ma non farei mai loro del male e non vorrei mai che altri gliene facessero.”
Boss e Jesse si conoscevano dalla notte dei tempi, il loro rapporto era difficile da inserire in un qualunque schema. Non erano amici, ma neanche nemici. Un conto erano dispetti e scaramucce che a dirla tutta divertivano entrambi il più delle volte, ma mai e poi mai tra di loro era subentrata la violenza. Nessuno dei due avrebbe mai voluto veder soffrire l’altro, per nessuna ragione.
“Grazie J.D. lo so che sotto tutto quel grasso che ti porti dietro batte un cuore buono.” Jesse fece seguire alle parole una risata liberatoria “andiamo dentro, ti preparo qualcosa da mangiare.”
La folla finalmente serena e sollevata si mosse verso l’entrata della fattoria. Pacche sulle spalle e abbracci si susseguivano lungo il cammino. Solo Boss rimase indietro, aspettava il momento giusto per prendere Luke da parte. L’occasione si presentò quasi subito, libero dalla morsa di miss Tisdale, Luke riprese a camminare ma J.D. lo bloccò “fermati un istante ragazzo, ti devo parlare.” Solitamente spavaldo e arrogante, stavolta Boss sembrava impaurito.
“Sta tranquillo Boss, Bo sta bene. Potrai rimetterci Rosco alle calcagna quanto prima.” Luke pensava di chiudere così qualunque discorso e fece per allontanarsi “ne sono felice, ma non è di questo che ti devo parlare. Credo di sapere chi ha tentato di rapinare la banca."
Luke osservò attentamente J.D. e capì dal suo sguardo che qualcosa non andava. Stavolta non c’era di mezzo lui con qualche trabocchetto giocato ai danni dei ragazzi Duke, stavolta era successo qualcosa che non aveva precedenti. Era entrata la violenza nella piazza e nella vita dei cittadini di Hazzard: “vieni con me Boss, andiamo nel granaio. Lì nessuno ci disturberà.” Luke fece strada e lasciò che J.D. si accomodasse su una vecchia panca di legno.
Boss si tormentò un attimo le mani scegliendo con cura le parole da dire. Evitò preamboli e andò dritto al sodo “stamattina ho dato lo sfratto agli Stewart, ho rifiutato al giovane Samuel l’ennesima proroga per il pagamento del mutuo.” Boss chinò appena il capo quasi provasse vergogna per ciò che aveva fatto. “Se ne è andato dal mio ufficio avvertendomi che avrei sentito ancora parlare di lui. Poche ore dopo la mia banca è stata assaltata. Non lo ha riconosciuto nessuno perché aveva il volto coperto, ma è stato descritto come un giovane uomo. Non posso fare a meno di pensare che fosse lui.”
Seguì qualche minuto di silenzio, Boss sembrava finalmente sollevato dall’aver dato voce ai suoi pensieri. Luke dal canto suo stava assimilando l’informazione “Samuel J. Stewart? Accidenti. Non posso dire di conoscere bene quel ragazzo, di sicuro zio Jesse è un buon amico dei suoi genitori. So che il vecchio Jeremiah recentemente ha avuto qualche guaio di salute, ma non pensavo se la passassero tanto male economicamente.” Luke parlava più a sé stesso che a Boss, camminava avanti e indietro a occhi chiusi. “Ascolta Boss, è probabile che Bo abbia riconosciuto chiunque abbia rapinato la banca, ma a causa della botta in testa non riesce ancora a ricordare. Ti chiedo di non fare niente e di non condividere con nessuno i tuoi sospetti. Dammi solo un paio di giorni.”
Boss si alzò e si piazzò di fronte a Luke “non ne ho parlato neanche con Rosco. Aspetterò che tu mi faccia sapere qualcosa sperando non succeda nient’altro nel frattempo.”
Fece un mesto sorriso e si avviò verso la fattoria. A metà strada si fermò e si voltò nuovamente a cercare Luke con lo sguardo: “sono davvero contento che Bo stia bene. Si era sparsa la voce di una sparatoria, per un attimo ho temuto il peggio.”
Luke gli restituì il sorriso “grazie Boss.” |
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Capitolo 9 *** Confortarsi a vicenda ***
Capitolo nove: Confortarsi a vicenda
La fattoria era piena di gente, ovunque andasse sguardi, voci e mani gli si appiccicavano addosso come sabbia bagnata. Non aveva voglia di rispondere a nessuna domanda, non voleva sorridere ed era stufo marcio di pacche sulle spalle e strette di mano. Era grato a tutte quelle persone, sapeva che erano animate dalle migliori intenzioni, era un dono prezioso averle tutte lì per loro, la sua famiglia era amata e benvoluta, ne stava avendo un’ulteriore conferma. Era riconoscente soprattutto per conto dello zio, sapeva quanto gli facevano bene quelle dimostrazioni di amore. Ma ora ne aveva abbastanza, si sentiva sopraffatto. Doveva rimanere per conto suo. Il chiacchiericcio era talmente insistente che non riusciva a seguire un pensiero che fosse uno. Doveva allontanarsi da tutto e tutti. Senza dire niente a nessuno saltò nel Generale Lee con l’intenzione di dirigersi verso il lago. Giunto sulla sponda tirò fuori la canna da pesca, pensava avrebbe trovato un po’ di pace pescando e invece si ritrovò Enos all’improvviso che gli tenne compagnia e lo aiutò a ripercorrere gli avvenimenti di quella giornata infinita.
La notte era scesa portando con sé aria fredda e umida. Enos si alzò in piedi e massaggiandosi la schiena indolenzita disse: “credo sia arrivato il momento di tornare a casa amico mio. Zio Jesse e Daisy saranno in pensiero per te e poi ormai si è fatto buio. Vedrai che non ci sarà più nessuno alla fattoria.” Mise un braccio sulle spalle di Luke e lo spinse con dolcezza verso la macchina. “Vai a casa e riposati, ne hai bisogno. Noi ci sentiamo domani.”
“Grazie di tutto, Enos.” Luke tese la mano al vicesceriffo.
Enos gliel’afferrò e la strinse con vigore.
“Davvero, Enos. Se non ci fossi stato tu oggi non so come avrei fatto a superare tutto questo.”
“E’ così che fanno gli amici, si sostengono gli uni gli altri. E non si allontanano di un passo quando le cose vanno male. Tu per me ci sei sempre stato, stavolta è toccato a me prendermi cura di te.”
Luke sorrise e annuì “a domani, Enos.”
Guadagnarono ognuno la propria vettura e si allontanarono diretti verso casa.
“Finalmente sono andati via tutti!” Esclamò Daisy lasciandosi cadere sul divano. Era stremata ed aveva solo voglia di mettersi a letto e invece avrebbe dovuto occuparsi di una quantità spropositata di piatti, bicchieri, posate e pentole da lavare.
“Lascia stare tutto così com’è, puliremo domani mattina.” Disse Jesse affondando nella sua poltrona. “Mi chiedo che fine abbia fatto Luke.” Aggiunse poi con un cenno di apprensione
“L’ho visto salire sul Generale Lee e allontanarsi più di un’ora fa. Sta tranquillo zio Jesse, Enos gli è andato dietro. Credo ci fosse troppa gente qui per lui.” Disse Daisy poggiando una mano su quella dello zio.
“Chiamalo allo radio, voglio andare a dormire e voglio saperlo a casa…” Jesse si interruppe quando sentì il rombo del Generale Lee in lontananza.
“Eccolo, visto? Puoi metterti a letto tranquillo adesso.” Daisy si alzò dal divano e andò alla porta. La tenne aperta aspettando che Luke entrasse.
“Cominciavamo a stare in pensiero.” Disse quando Luke fu finalmente in casa.
Luke mise un braccio intorno alla vita della cugina e insieme si diressero verso la poltrona dove era seduto lo zio “mi dispiace essere scappato via. Non volevo darvi altri pensieri.”
“Siediti qui vicino a me, figlio mio.” Rispose Jesse indicando con la mano il bracciolo della poltrona.
Luke fece ciò che gli era stato chiesto. Lui e Daisy si sedettero su ciascuno dei braccioli accanto allo zio.
“Non volevo abbandonarvi così, ma stavo soffocando. C’era troppa gente qui dentro.” Luke sentì il bisogno di giustificarsi, aveva lo sguardo basso.
“Non mi devi spiegare niente e non devi sentirti in colpa, ti conosco lo so come funzioni. E comunque hai fatto bene, avessi potuto ti avrei seguito.” Jesse rise di cuore. La sua sembrava una risata liberatoria, quella giornata interminabile stava per finire, Dio solo sapeva come il suo vecchio cuore avesse potuto sopportarla.
“Vai a dormire, zio Jesse. Riposati, ci penso io a pulire qui.” Disse Luke poggiando una mano sulla spalla dello zio.
“In due ci metteremo la metà del tempo.” Intervenne Daisy.
“Non fate tardi, avete bisogno di riposo anche voi. Dobbiamo svegliarci presto domani. Dobbiamo andare a riprenderci Bo.” Jesse sorrise non appena evocò il nipote più giovane. Adesso che la grande paura era passata poteva finalmente sospirare di sollievo e rilassarsi.
“Faremo presto e saremo silenziosi.” Daisy baciò lo zio e si sollevò dal bracciolo per permettergli di alzarsi più agevolmente.
“Le mie povere ossa.” Jesse si tirò su a fatica. “Buonanotte ragazzi.”
“Buonanotte, zio Jesse.” Risposero in coro Luke e Daisy.
Lo osservarono in silenzio entrare nella sua stanza e attesero che la porta fosse chiusa.
Luke abbracciò la cugina “stai bene? Credo di non averti prestato molta attenzione oggi, scusami.”
Daisy lo strinse forte a sé “adesso si…” Rimase in silenzio qualche istante prima di continuare “mi sono spaventata oggi, Luke. Ci avevano detto solo che Bo aveva avuto un incidente in banca, ma non sapevamo cosa fosse accaduto. Non sapevamo cosa aspettarci. Quando siamo arrivati in ospedale e ti ho visto piangere è stato… terribile. Ho pensato al peggio, ho creduto che Bo fosse…” Un singulto interruppe il flusso di parole.
Luke la strinse un po’ di più a sé, Daisy si perse nel suo abbraccio “mi dispiace averti spaventato, tesoro.”
“Non credo di averti mai visto crollare così, neanche quando eravamo bambini.”
Luke si prese del tempo per raccogliere i suoi pensieri “è stata la paura di perdere Bo. Neanche io avevo capito cosa fosse accaduto. Credevo gli avessero sparato in testa… per fortuna siete arrivati tu e zio Jesse, Enos e Cooter. Mi dispiace davvero. Si suppone io debba avere cura di voi e invece Bo è finito in ospedale e tu hai pensato il peggio perché mi sono crollati i nervi.” Luke aveva gli occhi bassi, non amava fallire e detestava il pensiero di aver deluso la sua famiglia, di non averla saputa proteggere.
“Non voglio sentirti parlare così, Luke. Non hai niente da rimproverarti. Ti prendi cura di noi più di quanto sia necessario e noi ce ne approfittiamo il più delle volte. Oggi ci siamo sostenuti a vicenda, non ci vedo niente di sbagliato.”
Daisy si scostò quel tanto che bastava per guardare il cugino negli occhi “Bo starà benissimo, domani sera a quest’ora ce l’avremo di nuovo in mezzo ai piedi a lamentarsi perché per qualche giorno non potrà saltare con il Generale Lee.” Sorrise, il suo voltò si illuminò.
Luke le posò un bacio sulla fronte “non vedo l’ora che arrivi domani. Mi manca.”
Rimasero avvinghiati qualche istante, fu Luke a staccarsi per primo “basta chiacchiere.” Disse asciugando con i pollici le guance della cugina. Le lacrime erano uscite senza che lei se ne fosse accorta. “Tu lavi i piatti e io li asciugo?”
“Affare fatto!” Esclamò Daisy rinunciando controvoglia al conforto di quell’abbraccio e avvicinandosi al tavolo iniziò a sparecchiare.
Fu Daisy a rompere il confortevole silenzio che riempiva la fattoria “cos’aveva di tanto importante da dirti Boss?”
Luke rimase con un piatto a mezz’aria, a quella ragazza non sfuggiva nulla doveva saperlo ormai. La osservò un istante combattuto se condividere con la cugina i dubbi di J.D. Hogg, ma si decise in fretta. Tanto l’indomani ne avrebbe comunque parlato con zio Jesse.
“Sospetta di sapere chi sia l’autore della rapina. Per il momento non ne ha fatto parola con nessuno, solo con me.”
Daisy rimase immobile a fissare il cugino in attesa “e chi sarebbe?” Lo incalzò poi quando la pausa si fece troppo lunga.
“Proprio stamattina ha negato l’ennesima proroga per il mutuo a Samuel Stuart e ha firmato lo sfratto per la sua famiglia. Pensa possa essere stato lui l’autore della rapina.”
Daisy rimase allibita, per tutto il giorno aveva sperato si trattasse di qualcuno estraneo alle Contea di Hazzard. Era impossibile per lei pensare che qualcuno di sua conoscenza avesse potuto portare paura, urla e spari tra i suoi concittadini, che aveva messo in pericolo la sua famiglia.
“Non posso dire di conoscere bene quel ragazzo, ma mi lasci senza parole. Zio Jesse è buon amico di suo padre. Mi chiedo cosa gli sia passato per la testa.”
“E’ probabile che Bo lo abbia riconosciuto, non ho nessuna intenzione di forzargli la memoria, ma vediamo se ricorda qualcosa.”
“Lo dirai a zio Jesse?”
“Si naturalmente. Gliene parlerò domani. Non volevo dargli altri pensieri, oggi ne ha avuti abbastanza.”
Luke e Daisy terminarono di rassettare la cucina in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri. Quella rivelazione aleggiava su di loro pesante e sgradita. Il giorno seguente si sarebbero andati a riprendere Bo, lui aveva la precedenza su tutto e tutti.
E poi sarebbero andati a fare due chiacchiere con Samuel Stuart.
Continua… |
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Capitolo 10 *** Voglio andare a casa ***
Capitolo dieci: voglio andare a casa
Si stava svegliando. Si rigirò nel letto cercando una posizione più comoda, aveva una spalla e la testa indolenzite. La nuova posizione non alleviò nessuno dei due fastidi. Non aveva voglia di aprire gli occhi, voleva dormire ancora un po’. Sapeva che di lì a breve avrebbe dovuto iniziare i lavori alla fattoria tra sole, fango e capre. Amava la sua vita non l’avrebbe cambiata con niente al mondo, ma la mattina era sempre stata dura per lui lasciare il conforto di coperte calde e di un cuscino morbido. Anche da bambino amava poltrire nel letto fino all’ultimo minuto utile. Zia Martha e zio Jesse dovevano fare la voce grossa quasi ogni mattina per evitare che arrivasse tardi a scuola.
Aveva ancora gli occhi chiusi, voleva prolungare il più possibile quel torpore che lo avvolgeva. All’improvviso però si rese conto che c’era qualcosa che non andava. Sentì in lontananza due voci femminili e un rumore sconosciuto che si avvicinava sempre più. Sembrava il cigolio di ruote sul pavimento. Anche le voci adesso erano più vicine. Era certo di non sapere a chi appartenessero. Decise di aprire gli occhi e cercare di capire cosa stesse succedendo. Si aspettava di trovarsi nella sua stanza illuminata dalle prime luci del mattino, credeva che avrebbe visto Luke sdraiato nel letto accanto al suo. E invece fu accecato dalla luce violenta e invadente di una lampada al neon. Si guardò attorno allarmato. Non si trovava nella sua stanza, quello non era il suo letto. Dalla porta aperta della stanza riusciva a vedere un lungo corridoio sul quale si aprivano decine di altre porte. Scorse due infermiere che spingevano un carrello alto e lungo pieno di vassoi.
Era in ospedale.
Si tirò su di scatto, la testa iniziò subito a pulsargli. Si portò una mano sulla fronte e si accorse di averla bendata “ma che sta succedendo?” Domandò a voce alta, ma era solo, nessuno avrebbe potuto rispondergli. Si mise a sedere e si poggiò allo schienale del letto. Si tenne la testa stretta tra le mani, sperava smettesse di fargli così male. Chiuse gli occhi “andiamo Bo ragiona. Come ci sono finito in ospedale? E perché non c’è nessuno qui con me? Dov’è zio Jesse? Dov’è Luke? E Daisy?”
“Guarda un po’ chi si è svegliato, buongiorno.” Bo si lasciò la testa e osservò le due infermiere che erano appena entrate nella sua stanza.
“Buongiorno.” Rispose a bassa voce.
“Tra poco il dottore verrà a controllare come stai. Intanto ti abbiamo portato la colazione. Cerca di mangiare tutto, è da ieri che sei a stomaco vuoto.”
Bo rimase con lo sguardo fisso sulla donna che aveva appena parlato, era una robusta signora di mezza età. Aveva un sorriso gentile. “Perché sono in ospedale? Che mi è successo?” Chiese ritrovando la voce.
“Non ricordi niente, tesoro?” Si intromise l’altra infermiera, una donna mora poco più grande della collega.
“No, mi sono appena svegliato. Non capisco cosa succede. Dov’è la mia famiglia?”
“E’ normale che tu faccia fatica a ricordare, ma fisicamente stai bene. Stai tranquillo i tuoi famigliari saranno qui tra poco. Stanno venendo a prenderti per portarti a casa.”
Una delle due sfilò un vassoio dal carrello e lo poggiò su di un tavolino che posizionò vicino a Bo in modo che potesse mangiare comodamente seduto sul letto. “Vado a chiamare il dottore, tu intanto mangia tutto mi raccomando.” Le due donne si allontanarono, una spingeva il carrello mentre l’altra si era avvicinata ad un telefono. Afferrò la cornetta e compose il numero. Bo non riuscì a sentire neanche una parola, ma sapeva che stava parlando con il suo medico.
Si sentiva confuso, smarrito. Era destabilizzante non ricordare niente. Decise di sforzarsi e di tentare di capire quale fosse l’ultima cosa che ricordava. Prese la tazza in mano e bevve un sorso di caffè caldo. Ricordava di esser stato nell’officina di Cooter, ricordava Luke impegnato ad aiutare l’amico meccanico con il motore di una macchina. Bene, era sulla buona strada. Afferrò una fetta di pane e la imburrò. Si appoggiò nuovamente allo schienale del letto cercando di mantenere alta la concentrazione. Non fece in tempo a dare il primo morso che spalancò gli occhi “Melinda Sue… sarei dovuto uscire con Melinda Sue!” Esclamò a voce alta. “Lo stavo giusto raccontando a Enos…” Bo lasciò cadere il pane smozzicato nel piatto e drizzò la schiena. “Si, ma dove glielo stavo dicendo? Nel suo ufficio forse? Oppure ci siamo incontrati per strada?” Strinse nuovamente gli occhi e si portò le mani sulle tempie, fece del suo meglio per concentrarsi e recuperare i ricordi che erano da qualche parte nella sua mente, ma che non riusciva ancora ad afferrare.
Fu così che lo trovarono Jesse, Luke e Daisy entrando nella sua stanza. Con gli occhi strizzati e la testa stretta tra le mani.
Jesse si sedette sul letto e gli posò una mano sul braccio per richiamare la sua attenzione, Bo non sembrava essersi accorto della loro presenza: “Bo? Ti senti male?” C’era preoccupazione nella sua voce.
Quando realizzò la presenza dello zio accanto a sé Bo si riscosse dai suoi pensieri. Si ritrovò di fronte il volto dell’uomo che amava come un padre “zio Jesse!” Esclamò afferrandolo per un braccio e tirandoselo addosso lo abbracciò stretto.
Jesse ricambiò l’abbraccio, aspettava quel momento da quando il giorno prima era stato informato dell’incidente. Gli baciò i capelli e le guance, lo cullò come faceva quando era un bambino. Bo si perse in quell’abbraccio, era stato orribile svegliarsi in un letto sconosciuto senza sapere il perché. Con zio Jesse al suo fianco sapeva che si sarebbe sistemato tutto.
“Senti dolore?” Ripeté Jesse tenendo ancora il nipote tra le braccia.
Bo rispose senza staccarsi dallo zio “un po’ di mal di testa, ma sto bene.”
Luke e Daisy guadagnarono l’altro lato del letto. Quando Daisy iniziò ad accarezzargli i capelli, Bo si staccò finalmente dallo zio e la guardò “ci hai fatto prendere un bello spavento, tesoro.” Sorrideva, ma aveva gli occhi lucidi, non poteva evitarlo. Si chinò e lo baciò sulla fronte “guai a te se ci riprovi.”
Bo le sorrise di rimando “farò del mio meglio.”
Luke era rimasto un passo indietro, la precedenza per baci e abbracci spettava a Jesse e Daisy. Bo si sottrasse controvoglia all’abbraccio dello zio e osservò il cugino. Luke abbassò istintivamente lo sguardo. Non riusciva a sostenere quegli occhi spaventati. Daisy si scansò per fargli spazio, Luke si avvicinò di più a Bo e gli afferrò una mano. La strinse forte e finalmente incrociò lo sguardo con quello del cugino.
“Bo… io…”
“Va tutto bene, Luke.” Bo lo sapeva bene quanto fosse difficile per Luke dare voce a pensieri ed emozioni “sono sano e salvo.”
Luke inghiottì un grumo di aria “grazie a Dio.” Rispose finalmente sollevato. “Mi hai spaventato a morte ieri. Io non ero con te quando è successo. Non ero al tuo fianco. Mi dispiace. Perdonami.” Tirò fuori tutte insieme quelle parole che gli bruciavano la gola fin dal giorno precedente.
“Luke… sono sicuro che non hai niente di cui scusarti. Io ricordo solo che eravamo da Cooter e che sarei dovuto uscire con Melinda Sue. Ricordo di aver parlato con Enos, ma poi più niente. Dimmi cosa è successo per favore. Voglio sapere perché sono in ospedale.”
Jesse abbandonò la sponda del letto e si accomodò su una sedia. Fece un cenno al nipote più grande in evidente difficoltà e rispose al suo posto “ieri la banca ha subito un tentativo di rapina. Un uomo armato ha sparato prima di fuggire e far perdere le sue tracce. Tu eri lì quando è successo e con te c’era anche Enos. Hai una ferita sulla fronte, probabilmente ti è caduto in testa un calcinaccio. Il medico che ti ha visitato ci ha detto che potevi avere problemi a ricordare quindi non ti sforzare e non ti preoccupare se non ci riesci. La memoria tornerà.”
“Enos sta bene? E’ rimasto ferito anche lui?” C’era apprensione nel tono di Bo.
“No tesoro, tu sei l’unico a cui è andata male. A parte te non ci sono stati altri feriti.” Disse Daisy.
“Si sa chi è il responsabile? E’ stato arrestato?” Chiese ancora Bo.
“Purtroppo no, è riuscito a dileguarsi tra la folla senza che nessuno sia riuscito a vederlo in faccia.” Continuò Daisy.
Bo rimase in silenzio per permettere a quelle informazioni di depositarsi nella sua mente “sono sicuro che c’è qualcosa qui dentro che non riesco ad afferrare.” Disse poi toccandosi la testa con il dito indice.
Jesse afferrò un piede del nipote attraverso le coperte e lo scosse dolcemente “posso capire quanto sia frustrante per te, ma vedrai che ti tornerà la memoria. Prendila con calma.”
Bo sorrise, stava bene e la sua famiglia era lì per lui “se solo il dottore si sbrigasse ad arrivare. Voglio andare a casa.”
Finalmente l’atmosfera distesa e la consapevolezza di essere di nuovo tutti e quattro insieme fece sciogliere completamente la tensione residua. Il dottore arrivò dopo qualche minuto, visitò accuratamente Bo e alla fine diede parere positivo per le sue immediate dimissioni dall’ospedale.
“Se avete bisogno non esitate a contattarmi.” Disse rivolto alla famiglia. “Noi ci vediamo tra una settimana per togliere i punti.” Concluse il medico dando una pacca a Bo. Si congedò con un sorriso bonario.
Bo saltò giù dal letto e prese dalle mani di Daisy jeans e camicia puliti. Si vestì in tutta fretta e si avviò verso l’uscita della stanza “sono rimasto qui dentro anche troppo. Portatemi a casa.”
Continua… |
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Capitolo 11 *** Ti voglio bene ***
Capitolo undici: ti voglio bene
“Di questo passo arriveremo a casa stasera.” Disse Bo in tono ironico.
“Ci metteremo tutto il tempo che serve, non ho intenzione di correre. La strada è piena di buche e avvallamenti, non voglio rischiare che tu dia una testata da qualche parte e che ti si riaprano i punti.” Rispose Jesse in maniera più brusca del dovuto. Diede un’occhiata al nipote e gli regalò un largo sorriso. “Non abbiamo fretta, Bo. Godiamoci il viaggio.” Aggiunse poi.
“Sissignore.” Concluse Bo sorridendo a sua volta.
Jesse era alla guida del suo vecchio pick-up bianco, Daisy gli sedeva accanto. Luke era il più esterno, mentre Bo si trovava al centro protetto e custodito dalla sua famiglia. Daisy gli teneva stretta la mano ed aveva la testa abbandonata sulla sua spalla. La giornata era tranquilla, il clima era mite. Jesse aveva ragione, si sarebbero goduti un viaggio che tutti avrebbero ricordato negli anni a venire.
Giunti alla fattoria fu Luke il primo a scendere. Tenne lo sportello aperto per Bo e Daisy e quando anche Jesse fu sceso entrarono tutti e quattro in casa.
“Tu adesso fili in camera tua e vai a riposarti.” Jesse insisteva col suo tono burbero, ma i ragazzi sapevano che era una farsa. Lo zio voleva che tornasse tutto alla normalità il più in fretta possibile e sgridare i nipoti rientrava nelle sue mansioni quotidiane.
“Vai a riposarti, tesoro.” Si intromise Daisy. “Io e zio Jesse prepareremo la zuppa di gamberi più buona che tu abbia mai mangiato.”
“Va bene, Va bene. Me ne vado a letto.” Disse Bo alzando le mani in segno di resa.
Aprì la porta della stanza che divideva con il cugino da tutta la vita e si sedette sul suo letto. Non lo avrebbe mai ammesso davanti ai suoi famigliari, ma si sentiva effettivamente stanco e affaticato. Almeno non gli faceva più male la testa. Stava per sdraiarsi quando entrò Luke. Si richiuse la porta alle spalle e ci si appoggiò con la schiena. Le mani affondate nelle tasche dei jeans. Bo lo osservò per qualche secondo, continuava ad avere gli occhi bassi. Aveva parlato pochissimo sia in ospedale che durante il tragitto verso casa.
“Hai bisogno di qualcosa?” Chiese finalmente Luke.
Bo era seduto, i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani a sorreggergli il mento. Squadrò il cugino prima di drizzare la schiena e rispondere “si Luke. Ho bisogno che tu ti tolga quell’espressione colpevole dalla faccia.”
Luke sospirò “non posso farci niente, Bo. Mi sento in colpa. Ti ho mandato in banca mentre io sono rimasto con Cooter. Sarei dovuto andare io al tuo posto.”
“Certo, ora saremmo tutti più contenti se fossi finito tu in ospedale.” Il sarcasmo di Bo colpì Luke. “La rapina ci sarebbe stata comunque anche se tu fossi entrato al mio posto. Non hai nessuna colpa, Luke.”
Luke si lasciò cadere sul suo letto, dava le spalle al cugino. Si concesse qualche istante per raccogliere la forza necessaria a mettere a nudo la sua anima: “ho sentito gli spari e ho iniziato a correre. Quando sono arrivato in banca ti ho visto disteso a terra, c’era sangue sul pavimento. Ti chiamavo, ti scuotevo e tu non rispondevi. Poi è arrivata l’ambulanza, il viaggio fino all’ospedale è stato il più lungo della mia vita. E poi l’attesa. Infinita. Eravamo lì in una saletta aspettando che qualcuno ci desse tue notizie. Avevo paura che ti avessero sparato, chissà quali danni poteva averti provocato un proiettile in testa.” Rimase in silenzio e si voltò a guardare Bo “avevo paura di quello che ci avrebbero potuto dire i medici. Potevi essere rimasto invalido per quanto ne sapevo. Peggio ancora potevi essere già morto.” Si sistemò meglio sul letto e si passò una mano tra i capelli. “Avrei dovuto evitare che tu passassi un inferno simile. Avrei dovuto proteggerti e invece me ne stavo al sicuro nell’officina di Cooter.”
“Sei tu che hai passato l’inferno, Luke. Io non ricordo niente, l’unica scocciatura per me è stata quella di svegliarmi in un letto che non era il mio e di non sapere come ci ero finito.” Disse Bo dolcemente. “Mi dispiace che tu abbia provato tutto questo. Mi dispiace davvero.”
Bo si alzò dal suo letto e raggiunse Luke, gli si sedette accanto. “Per fortuna non è successo niente di irreparabile, nessuno si è fatto male. Io sto bene.” Disse mettendo un braccio sulle spalle del cugino. “Non hai fallito in niente, Luke. Mi sei stato vicino, ti sei preoccupato per me. Mi hai dato tutta la protezione di cui ho avuto bisogno.” Continuò Bo.
Luke voltò la testa e guardò il cugino, la sua prospettiva era più che logica e lo assolveva da quelle che riteneva le sue colpe.
Bo non aveva ancora finito “non sono più un bambino, Luke. Non puoi pretendere di dovermi ancora proteggere come facevi quando eravamo piccoli.”
Luke assimilò l’informazione, prese un paio di respiri profondi prima di rispondere “mi stai dicendo che sei diventato un uomo responsabile che sa come usare la sua testa e che non si caccerà mai più nei guai?” Sorrideva mentre parlava.
Bo strinse un po’ di più il braccio attorno alle spalle di Luke “non sono io che cerco i guai, sono loro che sanno sempre dove trovarmi.”
Non potendo più aspettare, Luke si voltò e abbracciò il cugino con tutta la forza che aveva in corpo “mi hai fatto morire di paura. Non è vita senza averti al mio fianco.”
Gli occhi di Bo divennero lucidi quando sentì la voce del cugino rompersi per l’emozione.
“Ti voglio bene, Luke.”
“Ti voglio bene, Bo.”
Jesse congiunse le mani e chiuse gli occhi “Signore, ti ringraziamo per aver fatto tornare a casa Bo sano e salvo. E grazie per il cibo sulla nostra tavola. Amen.”
“Amen.” Risposero in coro i ragazzi.
“Bene, adesso mangiamo.” Jesse aveva un sorriso stampato in faccia da ore. Finalmente poteva sedere di nuovo alla sua tavola con i suoi adorati ragazzi.
Bo si avventò sulla sua scodella come qualcuno che non mangiava da giorni “zio Jesse, questa è davvero la zuppa più buona che tu abbia mai cucinato!”
Il pranzo fu consumato tra chiacchiere e risate, quando Daisy fece per alzarsi e iniziare a sparecchiare, Luke la afferrò per un braccio e la invitò a rimanere seduta.
“Che succede, tesoro?” Chiese Daisy.
“Dobbiamo parlare di chi ha tentato di rapinare la banca.” Disse Luke.
“Sai chi è stato?” Domandò sorpreso Bo.
“No, non lo so. È un sospetto di Boss Hogg. Ieri sera mi ha preso da parte e mi ha riferito di aver dato lo sfratto a Samuel J. Stewart e alla sua famiglia perché non sono riusciti a pagare il mutuo neanche questo mese. Boss pensa che Samuel possa aver messo in atto le minacce con cui ha concluso il loro incontro.”
Jesse sembrava scioccato “come ha potuto J.D. fare una cosa del genere? Il povero Jeremiah non è in buona salute ultimamente, come faranno se gli verrà tolta la fattoria?”
“Samuel Stewart dici?” Bo era pensieroso. “Non ricordo niente o quasi di quei momenti in banca, ma sono certo di averlo visto il tizio che ha minacciato Laverne con la pistola. Se solo riuscissi a mettere a fuoco il suo viso.”
“Non ti sforzare, tesoro. Prima o poi ricorderai.” Daisy gli accarezzò dolcemente il viso. “Che cosa dovremmo fare a questo punto?” Chiese poi.
“Non sappiamo se sia stato davvero il giovane Stewart e di certo non possiamo andare a casa sua per accusarlo.” Jesse aveva preso in mano la situazione. “Lasciate fare a me. Andrò a porgere i miei saluti al caro Jeremiah e cercherò di capire che aria tira da quelle parti.” Guardò poi tutti e tre i suoi ragazzi soffermandosi alla fine su Luke “voi non fate niente e non parlate di questa storia con nessuno fino al mio ritorno, ci siamo capiti?”
“Sissignore.” Risposero i ragazzi all’unisono.
Luke si alzò e iniziò a sparecchiare la tavola, Daisy si mise a lavare i piatti.
“Torna a letto, Bo. Voglio saperti riposato e al sicuro in casa mentre sarò fuori.” Disse Jesse.
“Stai tranquillo, zio Jesse. Non ho intenzione di andare da nessuna parte.” Rispose Bo alzandosi dalla sedia e dirigendosi verso la sua stanza.
I ragazzi passarono il pomeriggio aspettando che lo zio tornasse a casa.
Continua… |
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