Prequel - Lei non dorme mai

di Stella cadente
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1976 – Dicembre ***
Capitolo 3: *** 1971 ***
Capitolo 4: *** 1977 – Febbraio ***
Capitolo 5: *** 1972 ***
Capitolo 6: *** 1977 – Febbraio: Liza ***
Capitolo 7: *** 1973 ***
Capitolo 8: *** 1977 – Aprile: Ashley ***
Capitolo 9: *** 1974 ***
Capitolo 10: *** 1977 – Aprile: Emily ***
Capitolo 11: *** 1975 ***
Capitolo 12: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***








"Non lo capisci Rachel?
Lei non dorme mai."










Prologo
10 febbraio 1970


 
 
Quella notte pioveva. L’acqua cadeva furiosamente, in gocce simili a sassi.
Sotto quel diluvio furioso, una donna correva con una bambina tra le braccia, che piangeva.
Arrancava. Si sentiva stanca, appesantita, inquieta.
Non appena aveva preso in braccio la bambina, si era sentita come se qualcosa la stesse portando giù a fondo, sempre più giù.           
Non sopportava quella sensazione.
Doveva liberarsene, al più presto.
La piccola, intanto, strillava e sgambettava, come se si stesse per abbattere su di lei una condanna inconcepibile. Mary cercò di andare avanti, ignorandola.
Quando vide il cancello in stile vittoriano in lontananza, capì di essere arrivata a destinazione.
Fece un ultimo sforzo e, una volta arrivata, iniziò a suonare il campanello con tutte le forze che aveva in corpo.
                                   `          
 
 
– Salve – la accolse una donna di bassa statura, dalla faccia amichevole. – Posso fare qualcosa per lei?
Era stanca, si vedeva benissimo; Mary si rimproverò per essere arrivata a quell’ora, ma si ripeté che non aveva altra scelta.
Doveva lasciare lì quella bambina – si era zittita improvvisamente adesso, come se ciò che l’aveva disturbata non fosse stato il buio, il freddo o la stanchezza, ma solamente la pioggia.
Ricordava ancora le grida di sua madre, quando gliel’avevano strappata dalle braccia.
 
C’è un demone dentro di lei! Uccidetela! Uccidetela, per il suo bene!
 
La scena era stata raccapricciante: mentre le infermiere la portavano via, Mary aveva fatto caso ai suoi capelli scompigliati, allo sguardo vuoto, quello sguardo vacuo e disperato che hanno soltanto i malati di mente, mentre le mani si tendevano in maniera grottesca verso il fagottino che ora lei teneva delicatamente tra le braccia.
Guardò la bambina, poi si rivolse alla donna.
– Devo lasciare qui questa bambina. Sua madre ha tentato di assassinarla. Potrebbe prendersene cura?
La donna assottigliò lo sguardo; si vedeva che non si fidava.
– Senta, lei da dove viene? – chiese, per tutta risposta.
– Da una casa d'accoglienza poco distante da qui, la St. Mary Magdalen Women’s. La prego, mi può dire se c’è qualche posto per un affidamento?
Nella sua voce c’era una nota quasi disperata; sentiva che, in qualche modo, liberandosi della bambina si sarebbe liberata anche delle immagini di Evelyn che urlava e piangeva, tendendo le sue mani, quelle mani nodose e smagrite, verso la piccola figlia di appena qualche giorno.
La donna aprì un fascicolo e dette una lunga occhiata, setacciando ogni annotazione.
– C’è un posto libero – disse poi. – Come si chiama la bambina?
Mary sentì improvvisamente una fastidiosa perdita di sensibilità agli arti. Il corpicino minuscolo che teneva tra le braccia sembrò agitarsi in maniera strana, come se volesse dare dimostrazione del fatto che la madre avesse ragione.
– Samara – disse poi Mary, dopo aver deglutito. – Il nome della madre è Evelyn Osorio.
La donna la guardò un attimo con occhi indagatori – ma perché sembrava non volersi fidare di lei, dannazione? – poi chiamò qualcuno al telefono. I movimenti circolari ripetitivi che fece per effettuare la chiamata ipnotizzarono Mary in modo inquietante. Sentiva solo la bambina che la richiamava a sé, che non voleva essere lasciata lì, l’essere dentro di lei che si muoveva e che protestava.
Devo liberarmene. Devo liberarmene.         
Samara aveva aperto i suoi occhi. Neri, neri come le profondità più scure della terra.        Intelligenti, forse troppo per una neonata. Sentiva l’oscurità incombere su di sé.
Aiutatemi.
Uno strano cerchio le apparve in un flash, un sottile anello di luce in mezzo ad un’immensità buia; Mary si spaventò talmente che sentì che Samara stava per caderle.
Non può essere lei. Non una bambina così piccola.
– Bene. La dia a me – la riscosse la voce della donna, che aveva proteso le braccia verso Samara. – Sono certa che troverà dei genitori al più presto, è talmente dolce – disse, guardandola con affetto.
Silenzio. Mary riusciva solo a sentire un immenso sollievo per essersi liberata finalmente di lei.
Si sentiva leggera, come se non avesse più potuto accaderle nulla di male.
Non finché lei è lontana.
– La ringrazio per averla portata qui. Non molte persone penserebbero di fare una cosa simile, oggigiorno – aggiunse la balia, con tono bonario.
– Sì, è vero – replicò Mary, come un automa.
– Bene, allora credo che dovrei andare – disse poi, recandosi verso l’uscita.         
Ma gli occhi di Samara erano su di lei, e Mary lo sentiva.
Li sentiva fissarla mentre se ne andava – mentre l’abbandonava – ostinati, accusatori.
Il cerchio le passò di nuovo nella mente. Si sentì raggelare.
– Signora, che cosa c’è?
La balia non poteva vedere.
Non poteva vedere che lei la guardava.
La spiava.
La osservava.
Quella fu l’ultima immagine che vide, perché dopo sentì che il suo corpo cadeva a terra e non fu più in grado di rialzarsi.
Il cerchio l’accompagnava.

 
 




Buongiorno a tutti!
Dopo diversi mesi, eccomi qui, a pubblicare il famoso prequel di "Lei voleva solo essere ascoltata" :D
ve lo avevo detto che avevo in mente una serie e che per nulla al mondo l'avrei abbandonata, hehe ;)
Sono un po' emozionata, dopo tanto tempo ritrovo la mia piccola Samara e... niente, sono contenta :)
Bando alle ciance: questa, come avrete ben capito, sarà una storia incentrata sul periodo trascorso dalla bambina all'orfanotrofio, e sarà un po' diversa dalla precedente. In "Lei voleva solo essere ascoltata" abbiamo visto i vari eventi quasi esclusivamente con gli occhi di Samara - e quindi c'è anche un che di tragico e drammatico in tutto ciò - qui invece vedremo Samara con occhi esterni, quindi...
Entreremo nell'horror puro, ecco. Per questo il rating è arancione: perché il tasso ansiogeno è un po' più alto - o almeno, lo scopo è quello.
Detto ciò, immergiamoci in questa nuova avventura! Non vedo l'ora di vedere che ne pensate.
Spero di ritrovarvi tutti, un abbraccio,
Stella cadente

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Capitolo 2
*** 1976 – Dicembre ***


1976
Dicembre


 
 
 
– Allora, piccola, cosa ti piace fare di solito?
Una giovane donna si era chinata al suo livello, per guardarla negli occhi. Ma lei non si azzardava ad alzarli.
Non voleva.
– Samara?
La chiamava.
Anche il cerchio la chiamava.
– Mi piace stare sola – disse, per tutta risposta. – Non mi piacciono gli altri.
Il sorriso sul volto della donna si spense. Più la guardava, più aveva la sensazione che avesse cambiato opinione su di lei. Si chiamava Victoria Neal, ed aveva dei bei capelli rossi.
Samara la guardò. Si era allontanata un po’ sulla panchina, e la fissava come a volerla psicanalizzare.
– Però mi piace quando gli altri vengono a farmi visita.
Alzò per un attimo gli angoli della bocca, continuando a guardare Victoria, che adesso aveva un’espressione inquieta dipinta negli occhi.
– Ah – disse, dopo alcuni, interminabili secondi di silenzio. – E come mai?
La bambina fece spallucce. La donna notò che aveva uno sguardo triste, vuoto, eppure così tremendamente consapevole, come se fosse già cosciente di cose che una bambina di sei anni in realtà non dovrebbe sapere. C’era l’oscurità in quegli occhi, una profondità che non aveva mai visto da nessuna parte, in nessuna persona.
E la inquietava.
– Perché gli altri non possono capire quello che vedo io.
Ci fu un attimo di silenzio, un attimo insopportabile in cui Victoria sentì fischiarle le orecchie. Un sibilo fastidioso le si era annidato nei timpani, come se avesse un nido di vespe nel cervello.
Di colpo, non sentì più nulla. Il cuore cominciò a palpitarle in petto furiosamente, impazzito, pompandole la paura nelle vene.
Cadde a terra prima che potesse rendersene conto. Sentiva la fronte imperlarsi di sudore, gli arti formicolare, e ancora quel sibilo nella testa non lasciarle pace.
La bambina, invece, se ne stava lì, con i suoi occhi tristi e vuoti fissati in un punto inesistente.
 
 
****
 
 
– No, devo aver avuto un calo di pressione, tutto qui – disse Victoria al marito.
Nate la guardò, ansioso.
– Se vuoi vado a chiamare qualcuno.
– Sul serio Nate, sto bene.
– Vuoi tornare da lei? – le chiese lui.
Victoria sapeva a chi alludesse.
A Samara.
Ma non voleva tornarci. Solo a sentire quella frase le era venuta la pelle d’oca, anche se non sapeva perché. Aveva come la sensazione che fosse stata lei a farla sentire male, ma non aveva detto nulla al marito per non sembrare sciocca. Anche perché, obiettivamente, era una sciocchezza.
Non era possibile che una bambina di sei anni potesse far venire malori alle persone. Anche se, Victoria ne era convinta, doveva essere parecchio disturbata. Lo aveva visto dagli occhi, dall’espressione fissa, dal tono di voce basso, malinconico e troppo serio per poter appartenere ad una bambina così piccola.
– Senti Nate – si decise a dire. – Vorrei sapere di più su di lei, prima di parlarci di nuovo.
– Che vuoi dire?
Victoria sospirò.
– Voglio dire che Samara mi è sembrata molto... disturbata. Non ha un comportamento da normale bambina di sei anni; ha una consapevolezza così forte negli occhi... da un certo punto di vista, mi fa paura.
Nate sembrò accorgersi dell’angoscia crescente della moglie, mentre ne parlava.
Avevano guardato le sue foto da vari fascicoli che erano stati mandati loro direttamente dall’orfanotrofio, avevano parlato con le balie e si erano fatti mille filmini mentali su come avrebbero potuto essere felici con lei, con la loro figlia adottiva.
Sembrava che tutto non potesse che andare nel migliore dei modi. Ed invece qualcosa stava andando storto. Cos’era che le balie avevano omesso? Non avevano scritto niente nei fascicoli.
– Direi che in primis dobbiamo fare una bella chiacchierata con chi, nel plico di fogli che riguardano Samara, non ha scritto niente di tutto questo – disse, stizzito. – Non è possibile che non si venga informati del fatto che la bambina che stiamo per adottare abbia qualche disturbo mentale.
– Ma non ne sono sicura, Nate – provò lei. – È solo che secondo me dovremmo parlare con qualcuno seriamente, prima di giungere a conclusioni affrettate.
Il giovane uomo la guardò.
– Intanto potremmo cominciare dalla donna che si occupa di Samara – disse, deciso.
 
 
 
****
 
 
– Perché non ci avete detto che la bambina ha disturbi mentali?
Victoria si passò una mano sul viso; Nate non sembrava aver seguito il suo consiglio, decisamente.
La donna che stava dietro alla scrivania, infatti, li guardò con espressione stupita.
– Samara non ha problemi mentali – disse. – Che cosa state dicendo?
– Ecco, vede – intervenne Victoria. – Ci ho parlato prima; non è che mi sia sembrata aggressiva o altro, ma... credo che ci sia qualcosa che non va in lei – snocciolò.
La donna – si chiamava Nancy – li guardò perplessa, poi sospirò.
– Samara è molto particolare, è bene che lo sappiate. È una bambina difficile; non parla con i coetanei, né si avvicina a loro. È come se fosse prigioniera della sua mente, come se fosse chiusa in un suo mondo personale. E qualunque cosa ci sia in quel mondo, non è di alcuna attrattiva per gli altri bambini.
I coniugi la guardarono perplessi.
– Ma questo c’era nel fascicolo, no? – fece, un po’ stizzita.
– Certo – ribatté Nate. – C’era scritto che era introversa, non una specie di disadattata – disse, duro.
– Nate! – esclamò Victoria. – Non posso credere che tu abbia detto una cosa simile.
Il giovane uomo sbuffò.
– Victoria – disse – quello che volevo dire era che non possiamo prenderci una simile responsabilità. Non è per lei, è che... avevo immaginato solo una cosa un po’ diversa. Tutto qua.
– Ad ogni modo – proruppe Nancy. – Che volete fare? Volete comunque prendervela o no? Perché vi avverto: qui gli indecisi non sono graditi.
Nate vide che si era trasformata: da donna accomodante, gentile, sorridente, quasi entusiasta per la loro predilezione verso Samara, adesso era diventata cupa, quasi aggressiva.
Sentì un nodo in gola: ma perché gli sembrava che tutti, in quell’orfanotrofio, fossero strani?
– Voglio solo avere chiarezza – si decise a dire. – Voglio sapere la sua storia.
Nancy si schiarì la voce.
– Dunque – esordì. – Quando Samara giunse qui, capii subito che nella donna che la portò all’orfanotrofio c’era qualcosa che non andava per il verso giusto. Lo ricordo come se fosse ieri. Aveva tra le braccia questo piccolo esserino che mi guardava. Pensai subito che fosse dolcissima; era una bambina meravigliosa. Ma la donna sembrava scioccata.
Fece una pausa, mentre i due la guardavano attoniti, poi proseguì.
– Mi raccontò che la bambina era nata dopo una gestazione difficile, che la madre aveva avuto continue emicranie e visioni orribili. L’avevano ricoverata in ospedale... suppongo che ora si trovi sempre là. Le avevano strappato via la piccola; altrimenti l’avrebbe uccisa. Diceva che dentro di lei c’era un demone, che doveva essere uccisa per il suo bene, perché altrimenti avrebbe seminato orrore e distruzione ovunque andasse.
Nell’aria, un silenzio agghiacciante aveva preso forma. Nate e Victoria se ne stavano ammutoliti, come se anche loro cominciassero a credere che Samara avesse qualcosa di sovrannaturale.
– Comunque – proseguì – Samara è praticamente stata sempre qui. Non ha mai avuto una figura materna nella sua vita, e a causa del suo temperamento ha cambiato balie molto spesso. Io stessa posso dire che probabilmente è tra i soggetti più difficili, qua dentro, se non il più difficile.
Victoria non poté fare a meno di pensare agli occhi enormi della bambina, che la guardavano intensamente. Quegli occhi che sembravano studiarla con l’attenzione e l’esperienza di un adulto, quegli occhi fatti di terra scura, paranormali.
– Mi ha detto che le piace stare da sola, prima – disse a Nancy. – Ma che non le piacciono gli altri, perché non possono vedere quello che vede lei.
Silenzio.
– Che significa?
– Non lo so – rispose la donna. – Ma di una cosa sono certa: se cercate un bambino con cui andate sul sicuro, non guardate lei. Ve lo sconsiglio.
A Victoria sembrò che ci fosse un filo di inquietudine nella sua voce.
Inquietudine che, in qualche modo, si insinuò anche dentro di lei.
 
 
****
 
 
– Allora, che facciamo? – chiese Nate, quando uscirono dalla stanza.
Victoria guardò distrattamente verso la finestra che dava sul giardino. Tutti i bambini giocavano allegramente, dolci e vivaci nelle loro risate.
Ma non Samara.
Era sempre lì, su quella panchina, lo sguardo fisso e pervaso di una strana malinconia, come se fosse triste e arrabbiata insieme.
La angosciava.
– Non lo so – disse, girandosi verso il marito. – Non so se potremmo prenderci questa responsabilità.
Nate annuì con aria grave, senza proferire parola.
Quando Victoria tornò a guardare la finestra, Samara non c’era più.
Si sentì impallidire.
– Nate – disse, con la voce che tremava. – Samara non è più sulla panchina.
Lui la guardò con aria interrogativa.
– Era lì un momento fa – aggiunse, la voce ridotta ad un filo.
– Ciao – sentì dire da una vocina dietro di sé.
Sobbalzò, voltandosi, e si sentì morire.
La bambina era davanti a lei, piccola, quasi tenera mentre la guardava con quei suoi occhioni grandi.
Victoria rimase a guardarla, inebetita. Nate si raggelò.
– Ciao – disse suo marito.
– Devo farvi vedere una cosa – fece lei. – Venite con me? – chiese con voce innocente.
Victoria si sforzò di sorridere.
– Certo – disse, mentre un groppo di terrore le si stringeva in gola.
 
 
****
 
 
La stanza di Samara era piccola, spoglia, con una finestra che dava sul giardino. Era in alto, però, e i bambini che giocavano sembravano tante, minuscole formichine.
La bambina stava in silenzio.
– Cosa devi farci vedere, Samara? – esordì Nate, cercando di essere accomodante.
Lei si voltò lentamente. Li guardò; sembrava portare dentro di sé un risentimento immenso.
I due si guardarono, preoccupati.
– Ho visto cosa avete detto di me – fece, con voce atona.
Victoria avvertì un atroce senso di colpa gravarle sul petto. Allora aveva sentito tutto, era stata lì mentre parlavano? Ma la porta era chiusa...
Forse ha origliato da fuori.
Dio...
– Samara – iniziò Victoria. Le prese una mano con un gesto affettuoso. Rabbrividì quando sentì che la mano candida della bambina era gelida, ma mantenne il contatto. – Credo che noi non siamo la famiglia adatta a te. Non siamo quello che cerchi. Ma questo non vuol dire che noi non ti vogliamo. Giusto, Nate?
– Giusto – assentì il marito.
Samara li guardò per un attimo con occhi tristi.
– Hai origliato dalla porta?
La piccola scosse la testa, facendo ondeggiare i lunghi capelli scuri.
– No. L’ho visto e basta.
Victoria, a quella frase, sentì come se qualcosa di freddo si stesse propagando in tutto il suo corpo. Cosa accidenti significava?
– Che vuoi dire? – chiese, sforzandosi di sembrare tranquilla.
– Vi ho visti – disse solo la bambina. – E ora anche voi vedrete.
Perché aveva quel tono così serio e triste?
Era così fragile, così piccola...
Non poteva essere così.
Victoria non fece in tempo a formulare un altro pensiero comunque.
La mano della bambina scivolò via dalla sua con uno scatto, e si piantò con decisione sul suo braccio.
Si sentì bruciare.
Una serie di immagini passarono come un film velocizzato nella sua testa, immagini inquietanti, insensate, nere come l’animo di quella bambina. Sentì  l’urlo di dolore di Nate, che però risuonò nella sua mente come un eco, come se non esistesse nemmeno.
Vide gli occhi scuri e consapevoli di Samara che la guardavano seri, e i bambini che, diversi metri più in basso, giocavano.
Mentre andava giù, sempre più giù, sentiva il vento sferzarle il corpo e ucciderla.
Nel suo ultimo istante, un cerchio le lampeggiò nella testa.
Poi un freddo lancinante, e dopo, il nulla.
 
 
****
 
 
Nel buio, quella notte, una bambina non dormiva.
Era circondata dal buio, e nel buio stava bene. Era sola nella sua stanza, ma non aveva paura. Aveva visto la morte, ma non aveva paura.
Anzi... era quello che voleva.
Voleva che quella coppia non la disturbasse più.
Lei aveva dato loro questa possibilità, e loro l’avevano fatto.
Aveva fatto la cosa giusta.
Sorrise, dentro al buio.
E quel sorriso era freddo come la morte che aveva causato.

 
 

L'aggiornamento non l'ho fatto dopo sette giorni precisi, ARGH.
Comunque.
Allora, prima di commentare il capitolo, un'informazione: questa storia sarà scritta in maniera un po' particolare. Ovverosia, sarà un alternarsi di capitoli dal 1976 in poi - l'anno di questo famoso "incidente" - e di flashback sulla vita di Samara prima di allora. Questo schema non è casuale: ci sono molte risposte e retroscena di cui si saprà soltanto a tempo debito.
Detto questo: che ne pensate del capitolo? Come vedete partiamo subito in quarta, e Samara si mostra per quello che è. E' un po' diversa dalla prima storia, perché non ha quella consapevolezza che ha in "Lei voleva solo essere ascoltata". E' solo una piccola bambina, e come tale le sembra quasi "normale" che lei faccia certe cose. Proprio questo, secondo me, la rende adorabile e inquietante allo stesso tempo, e spero che abbia reso bene l'idea.
Detto ciò, via libera alle recensioni!
Alla prossima,
Stella cadente

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Capitolo 3
*** 1971 ***


1971

 
 
Nancy cullava la piccola Samara tra le braccia, ascoltando i battiti del suo cuoricino.
Era una bambina bellissima. Aveva due guance delicatamente paffute e degli occhi scuri che la guardavano con interesse qualunque cosa facesse. Sulla testolina erano già comparsi dei capelli fini e morbidi.
– Vado a prendere un po’ di latte – disse Kate, la nuova balia. – Ti sta guardando con una faccia imbronciata... – scherzò, ridendo.
– D’accordo – sorrise lei. Samara non piangeva mai; era un po’ difficile da interpretare, ma Nancy faceva sempre del suo meglio per soddisfarla.
Quando Kate se ne andò, rifletté su come fosse cresciuta e fosse diventata bella da quando quella strana donna gliel’aveva portata. Pensò, per l’ennesima volta, che alla bambina non avrebbe fatto bene restare con lei.
Era così strana...
Nancy non avrebbe mai dimenticato che cos’era successo dopo. Non avrebbe mai dimenticato che quella donna era stata in preda a convulsioni per attimi interminabili; e le parole confuse che aveva detto, poi.
Diceva qualcosa a proposito di un cerchio e del buio...
Samara, intanto, la guardava intensamente; sembrava che si fosse messa pienamente in sintonia con quello che pensava lei. Ma non poteva essere; aveva solo un anno.
Nancy si meravigliò quando la piccola, con un’espressione preoccupata, posò i suoi occhi sulla porta semiaperta della stanza.
Subito dopo, un urlo ruppe il silenzio.

 
 

Buon Samara! (se ve lo state chiedendo, sì, ricomincerò a salutarvi così)
Dunque... primo capitolo flashback: come vedete Samara comincia a provocare disastri sin da piccolissima. Chiaramente il tutto non verrà ricondotto subito a lei, ma poi vedrete come si svilupperà la storia...
Non c'è molto da dire, se non voglio fare spoiler: in realtà penso che dopo alcuni capitoli non scriverò l'angolino dell'autrice per mantenere meglio la suspense.
Che ve ne è sembrato, comunque?
So che mi sto avventurando in una tecnica narrativa un po' complicata, ma spero che sia di vostro gradimento e che mantenga vivo  l'interesse per questa storia.
Grazie per le opinioni che mi avete già dato, davvero siete fantastici. 
Alla prossima,
Stella cadente

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Capitolo 4
*** 1977 – Febbraio ***


1977
Febbraio

 
 
 
– Ciao, Samara.
La bambina era seduta sul letto, con il viso rivolto verso la finestra. Guardava le gocce di pioggia che scivolavano lente sul vetro.
– Chi è lei? – chiese, senza guardarla.
La donna indugiò. Si ritrovò, inspiegabilmente, a non voler dire il suo nome; preferì mantenere un certo distacco dalla bambina che si trovava davanti.
– Una... beh, diciamo che sono una specie di supervisore; devo controllare che sia tutto a posto – disse poi. – Sono qui perché – indugiò ancora.
Samara si voltò lentamente e la guardò circospetta.
– Per sapere come stai tu.
La bambina continuò a fissarla, e nella stanza calò il silenzio.
 
 
 
Faith era stata chiamata d’urgenza, dal momento che un episodio risalente a qualche mese prima aveva gettato scompiglio al King County Orphanage. La notizia era stata scioccante: una giovane coppia era morta. L’uomo era fuggito, morto inspiegabilmente e trovato a terra con il viso deformato in una smorfia di paura, mentre la donna si era gettata dalla finestra.
In mezzo a quello scenario, aveva trovato la bambina che ora la guardava.
Samara, si chiamava.
Era pallida e bellissima. Di una bellezza tenera e inquietante al tempo stesso. Una bellezza infantile, acerba, innocente, ma cupa e in qualche strano modo malinconica. Lunghi capelli neri le incorniciavano il viso tondo e contrastavano con la pelle diafana. Le guance morbide le davano un aspetto dolce.
L’unica cosa che in tutto quello stonava erano gli occhi.
Penetranti.
Osservatori.
E troppo seri per appartenere ad una bambina di appena sette anni.
L’avevano chiamata perché i bambini che quel giorno giocavano in cortile erano rimasti traumatizzati, ed anche Samara, che in prima persona aveva assistito alla scena.
O almeno, si presumeva che fosse così.
Ma Faith, che si era aspettata di trovare una bambina impaurita, in realtà notava che le descrizioni riportate dalla balia di Samara non corrispondevano affatto alla realtà.
Sembrava che quello che era successo non l’avesse toccata nemmeno da lontano.
Faith si perse per un attimo a guardarla, senza accorgersi che non le aveva nemmeno risposto; era come se quella bambina la ipnotizzasse.
E non ne capiva il perché.
Dopo qualche secondo si riscosse.
– Samara – la chiamò.
Lei la guardò con quegli occhi indagatori, antiestetici sul viso di una bambina così piccola; la giovane non poté fare a meno di trovarla vagamente sinistra.
– Sì?
La sua vocina angelica solcò l’aria.
– Vorrei che tu mi dicessi come stai.
Si sforzò di concentrarsi e si rivolse a lei, cercando di mantenere il contatto visivo – anche se era impossibile, perché non riusciva a sostenere quello sguardo. Comunque ci provò.
Fortunatamente la bambina voltò di nuovo la testa verso la finestra, e disse solo:
– Normale.
Silenzio.
Faith mise mano, senza farsi sentire, ad un piccolo registratore, e lo nascose sotto la sedia.
– Gli altri dicono che sono strana.
Aggrottò le sopracciglia, stupita; non pensava che Samara si sarebbe confidata così presto.
– Pensano che li abbia uccisi io.
La giovane donna rimase interdetta. Samara sembrava essere perfettamente consapevole della situazione. Lei si era già preparata una sorta di schema mentale per arrivare a toccare l’argomento senza urtare la sua delicata sensibilità – quel tipo di sensibilità che in genere hanno i bambini piccoli – ma a quanto pareva lei aveva già capito tutto.
– Dicono che sono un’assassina. Mi chiamano strega e fantasma. Non vogliono giocare con me.
Faith, per una frazione di secondo, fu tentata di abbracciarla, ma si trattenne.
Sembrava talmente fragile che aveva suscitato la sua compassione, ma c’era qualcosa che la faceva indietreggiare.
– Anche lei pensa che io sia un’assassina? – chiese poi, voltandosi.
Faith rimase di sasso di fronte a quella domanda. In un momento di lucidità, si accorse che doveva essere lei a tenere la seduta, e non la bambina.
Eppure sembrava che fosse proprio così, come se si fossero invertiti i ruoli.
– No, Samara – disse. – Penso che tu sia come tutti gli altri... solo che ti sei trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.
La piccola sorrise leggermente, poi inclinò la testa da un lato in un gesto interrogativo.
– Allora perché mi sta facendo queste domande?
Faith si sentì in soggezione per l’intelligenza e l’intuito che stava dimostrando quella bambina. Concluse che senza dubbio non era uguale a tutti gli altri. Era nettamente superiore.
Ma non sapeva se in bene o in male.
– Non le sto facendo solo a te – mentì. – Le sto facendo a tutti. Mi hanno assegnato questo caso, ed ora me ne sto occupando. Sono passata anche dalla bambina che sta di stanza accanto a te, Eliza, se ti può interessare.
A Samara quella spiegazione sembrò bastare, perché annuì con la testa.
– Vedi – proseguì la psichiatra. – Il punto è che sono tutti molto preoccupati, e tu sei stata l’ultima persona che ha parlato con loro, per cui è ovvio che i bambini pensino che sia colpa tua. Io sono qui per mostrare la verità.
Silenzio.
– Ovviamente non dirò a nessuno quello che verrà fuori in questa stanza; serve solo che io abbia prove sufficienti per smentire il fatto che sia colpa tua.
Samara annuì.
Faith rimase impressionata. Davvero aveva capito tutto quello che aveva detto? Conosceva il significato di “smentire” a sette anni?
– Sai che cosa vuol dire “smentire”? – le chiese, per accertarsene.
– Sì – replicò la bambina, serissima. – Nel suo caso, vuol dire dimostrare che una cosa detta da altre persone non è vera. Ma può voler dire anche deludere, oppure affermare che una persona ha mentito.
La psichiatra si trattenne per non spalancare la bocca dalla sorpresa. Perché Samara parlava in quel modo? Quanti bambini di quell’età parlavano così?
Era semplicemente una cosa assurda, fuori dal normale. Ma non era solo il modo di esprimersi: anche l’impostazione della sua voce stonava con il suo aspetto, e soprattutto con la sua età. Sembrava che dietro a quel corpicino di bambina si nascondesse qualcosa di più profondo... di più maturo.
Una maturità ultraterrena, una maturità che sembrava non avere niente di umano.
– Giusto – disse, sforzandosi di fare un sorriso accomodante. – Proprio così.
Pausa.
– Quindi, tornando a noi... vorresti raccontarmi cosa è successo davvero? Ti prometto che qualunque cosa tu mi dica, rimarrà qui.
Samara sembrò prendere in considerazione l’idea, perché la guardò, interessata.
– Va bene – disse poi. – Che cosa vorrebbe sapere?
– Beh... – tentennò Faith. Come si poteva fare ad una bambina una domanda del genere?
Guardò Samara.
Forse lei non è una normale bambina.
Si ripromise di studiare meglio il caso, ma intanto doveva sapere la verità su come erano andate le cose quel giorno.
Prese un bel respiro.
– Samara – si avvicinò a lei. – Vorrei sapere chi c’era, quel giorno. Chi ha ucciso Nate Embry, quel pomeriggio?
Silenzio.
– È qui nell’orfanotrofio, lo so. Samara, chi è? Una balia, o... un bambino – la raccapricciava sapere che un bambino avesse potuto ridurre un uomo in quello stato, ma doveva riconoscere che anche quell’ipotesi dovesse esser presa in considerazione. – Uno dei ragazzi più grandi... Devo saperlo.
La piccola la guardò in un modo che non seppe decifrare. Come se alludesse a qualcosa. Come se qualcosa fosse emerso da lei.
La possibilità che fosse stata quella strana bambina ad uccidere l’uomo attraversò il cervello di Faith, ma non voleva credere che fosse stata proprio lei.
– Io lo so chi è stato – sussurrò Samara.
Faith sentì il cuore palpitare insopportabilmente, e la gola farsi improvvisamente secca.
Attese che lei parlasse di nuovo.
– È stato il buio.
Nella mente di Faith fu tutto chiaro. Samara si rifiutava di aver visto – o compiuto – un atto del genere, ed identificava il colpevole con qualcos’altro. Restava solo da scoprire se il buio di cui parlava fosse qualcuno dell’orfanotrofio... o lei stessa.
La psichiatra rabbrividì di nuovo a quella prospettiva.
– Che cos’è il buio? – le chiese con prudenza.
Lo sguardo di Samara si perse nel vuoto.
– Mi promette che non lo dirà a nessuno?
Faith annuì, ma se ne pentì subito. Provò la sensazione improvvisa di non voler ascoltare quello che la piccola aveva da dirle.
Ma ormai era troppo tardi.
– Il buio non viene visto da nessuno, e mi fa fare le cose brutte.
La donna sentì del sudore freddo inumidirle le mani.
Sono stata io ad ucciderlo – sussurrò Samara.
Si sentì rabbrividire: come aveva fatto?
Non si era accorta che era rimasta in silenzio e che non aveva risposto a ciò che la bambina le aveva appena detto.
– Dottoressa.
Si riscosse all’istante quando sentì la sua voce. Quella voce che era delicata come un fiore e dolce come il canto di un usignolo; ma allora perché le sembrava come avvolta da un’oscurità impenetrabile? Perché le suscitava preoccupazione, perché le provocava paura?
– So cosa sta pensando. Lo sento.
– Cosa sto pensando? – chiese, con un filo di voce.
La bambina per un po’ guardò a terra, come se si stesse concentrando. I lunghi capelli neri che le ricoprivano parzialmente la faccia la facevano apparire ancora più inquietante.
Quando sollevò gli occhi,  Faith ebbe come l’impressione che la stessero trafiggendo.
– Lei ha paura, Faith Nichols.
Non le aveva detto come si chiamava.
Ma lei lo sapeva lo stesso.
 
 
 
****
 
 
 
– Faith, che cosa vuol dire che non vuole più occuparsi di lei?
– Non voglio più occuparmi di quel caso, punto e basta. Sono una psichiatra da due mesi, Cristo santo, non posso affrontare quella cosa.
Il signor McDoyle la guardò con uno sguardo eloquente.
– Se proprio non vuole, non voglio costringerla, signorina Nichols. Ma deve argomentare, almeno. Lei è stata chiamata al King County Orphanage per il suo primo caso, e lei ha voluto mettersi alla prova. Ed ora vuole smettere. Perché?
Silenzio.
– Mi dica la verità: si sta prendendo gioco di me?
– Assolutamente no – replicò Faith. – Ma quella bambina...
Restò per un po’ con gli occhi persi nel vuoto.
– Sì? – la incalzò McDoyle.
– Mi fa paura.
L’uomo scoppiò a ridere.
– Non dirà sul serio? – fece, retorico.
Ma la faccia della signorina Nichols era pallida e tesa. Esprimeva angoscia, e non accennava al benché minimo sorriso.
Si ricompose, poi chiese:
– Che vuol dire?
Faith si limitò a tirar fuori dalla borsa il piccolo registratore.
– Ascolti.
– Signorina Nichols...
– La prego. Ascolti – lo interruppe lei.
E mise in play.
 
 
 
****
 
 
 
Henry McDoyle tenne a lungo lo sguardo fisso sulla porta da cui era uscita la signorina Nichols, prima di prestare davvero attenzione al piccolo registratore. L’aggeggio fece i capricci per qualche secondo, poi la voce della giovane divenne udibile in un suono che sembrava inscatolato.
 
 
– Salve, sono Faith Nichols[bzz] e questo è il mio primo report clinico [bzz] Il caso coinvolge la morte di un uomo e una donna, Nate Embry e Victoria Neal, che si trovavano in procinto di [bzz] adottare una bambina, S [bzz] m [bzz] ra.
 
 
McDoyle si avvicinò di più; ma perché il segnale era così disturbato? E perché, perché proprio sul nome della bambina?
Non ci stava capendo nulla sin dall’inizio.
La registrazione si interruppe.
 
 
– Gli altri dicono che sono strana. Pensano che li abbia uccisi io.
Pausa.
– Dicono che sono un’assassina. Mi chiamano strega e fantasma. Non vogliono giocare con me.
Pausa.
– Anche lei pensa che io sia un’assassina?
– No, Sam[bzz] a. Penso che tu sia come tutti gli altri... solo che ti sei trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.
– Allora perché mi sta facendo queste domande?
– Non le sto facendo solo a te. Le sto facendo a tutti. Mi hanno assegnato questo caso, ed ora me ne sto occupando. Sono passata anche dalla bambina che sta di stanza accanto a te, Eliza, se ti può interessare. Vedi, il punto è che sono tutti molto preoccupati, e tu sei stata l’ultima persona che ha parlato con loro, per cui è ovvio che i bambini pensino che sia colpa tua. Io sono qui per mostrare la verità.
Silenzio.
– Ovviamente non dirò a nessuno quello che verrà fuori in questa stanza; serve solo che io abbia prove sufficienti per smentire il fatto che sia colpa tua.
Pausa.
– Sai che cosa vuol dire “smentire”?
– Sì. Nel suo caso, vuol dire dimostrare che una cosa detta da altre persone non è vera. Ma può voler dire anche deludere, oppure affermare che una persona ha mentito.
Silenzio. McDoyle poté sentire lo stupore di Faith anche dal registratore, nel sentire parlare la piccola in quel modo sicuro.
Riascoltò la sua voce: andando ad orecchio, non doveva aver più di sei, forse sette anni.
Com’era possibile?
– Giusto. Proprio così.
Pausa.
 
 
C’era qualcosa di sbagliato nella voce della bambina. In più, non si riusciva a capire come accidenti si chiamasse; sembrava che il registratore stesso fosse animato di vita propria e non glielo volesse far sentire.
Andò avanti, con una strana sensazione di oppressione al petto.
 
 
– Quindi, tornando a noi... vorresti raccontarmi cosa è successo davvero? Ti prometto che qualunque cosa tu mi dica, rimarrà qui.
– Va bene. Che cosa vorrebbe sapere?
– Beh...
La signorina Nichols prese un respiro. Un respiro che suonò terribilmente tremolante, amplificato dal registratore. Stava entrando nel panico, si sentiva.
– Sam[bzz] a... Vorrei sapere chi c’era, quel giorno. Chi ha ucciso Nate Embry, quel pomeriggio?
Silenzio.
– È qui nell’orfanotrofio, lo so. Sam[bzz] a , chi è? Una balia, o... un bambino... uno dei ragazzi più grandi... Devo saperlo.
Silenzio.
– Io lo so chi è stato.
 
La registrazione si interruppe di nuovo, ma riprese quasi subito.
Ci fu un lunghissimo silenzio, che fece stare Henry con i nervi tesi. Adesso cominciava a capire perché la signorina Nichols non volesse più dedicarsi a quella bambina – chiunque fosse e comunque si chiamasse.
Quando sentì il pezzo finale della registrazione, non ci furono più dubbi.
 
– Dottoressa.
Silenzio. Come un inquietante sottofondo, si sentiva il lieve respiro di Faith, roco e ansante.
– So cosa sta pensando. Lo sento.
– Cosa sto pensando?
Un silenzio interminabile.
– Lei ha paura, Faith Nichols.
 
 
Il caso doveva chiudersi.
Ma non prima di averne saputo di più.

 

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Capitolo 5
*** 1972 ***


1972
 
 
 
Nancy era molto turbata da quello che stava succedendo nell’orfanotrofio.
Dopo la morte di Kate, era stato affidato principalmente a lei il compito di occuparsi di Samara; non aveva mai riscontrato problemi, ma era stata una cosa momentanea.
Da un po’ di tempo a quella parte l’aiutava Holly, un’anziana signora che probabilmente era lì da più tempo di lei. Ci sapeva fare con i bambini, ed era molto brava con Samara. Non aveva mai sentito ridere così la bambina, in due anni che era lì.
Nancy ogni volta pensava che Samara non avesse dovuto aver poi una storia molto felice. La vedeva crescere, e l’immagine che le si presentava davanti era irrimediabilmente quella di una bellissima ragazza piena di fantasmi e preoccupazioni, per il semplice fatto che non aveva mai avuto una figura materna nella sua vita.
Non proprio almeno.
Il fatto che fosse stata portata all’orfanotrofio avrebbe potuto cambiare le cose. Avrebbe potuto avere amici e persone che l’amavano.
Ma non era così.
– Avreste una risposta? – chiese all’agente, una volta che rimasero soli.
La signora Holly era morta di un male improvviso e sconosciuto, subito dopo aver passato il pomeriggio con Samara. Nessuno ne aveva capito il perché.
Ma sicuramente l’agente aveva una risposta. Avevano fatto un’autopsia.
Dovevano avere una risposta, no?
– Mi dispiace deluderla, Nancy – disse solo l’uomo, con uno sguardo preoccupato.
– La prego – disse la donna. – Ho bisogno di sapere.
L’agente prese un respiro, poi snocciolò:
– Non sono tenuto a fornire dettagli del genere, ma sento il bisogno di essere sicuro che tutto questo venga risolto e archiviato. Per cui le dirò tutto, se può servire a farla stare tranquilla.
La balia restò in silenzio, come per incoraggiarlo a proseguire.
– Mi ascolti: ci troviamo di fronte ad un caso senza precedenti. Non c’è stata alcuna emorragia, come avevamo previsto.
Nancy si sentì raggelare. Anche l’agente tirò un sospiro ansioso.
– Gli organi vitali sono intatti. Per dir la verità, non c’è proprio niente che non vada. È tutto regolare, a parte il fatto che nulla è più dotato di vita. Questa signora, in teoria, non dovrebbe neanche essere morta – aggiunse.
Sentì un formicolio sgradevole alle guance.
– E allora che è successo?
L’agente si limitò a scuotere la testa.
– Non lo sa nessuno, signora.
– Nancy!
Una vocina interruppe quella conversazione, e una Samara sorridente si lanciò su Nancy, avvinghiandosi alla sua gamba.
– Mi tiri su? – chiese poi.
La balia obbedì e le rivolse un sorriso, facendole una carezza sui capelli. La bambina si strinse di più a lei, contenta.
– Non so, agente – disse poi. – Cosa dovrei fare, io?
Sentiva il cuore che ancora le palpitava in petto come un tamburo impazzito.
– Siamo tutti molto scioccati, signora – fece l’uomo. Improvvisamente sembrava aver fretta di andarsene. – Io stesso non so come comportarmi, perché di fatto non c’è una spiegazione razionale a tutto questo.
La donna si voltò un istante verso Samara. Si era fatta seria e guardava l’agente con i suoi occhi scuri.
L’uomo, di colpo, indietreggiò.
– Adesso devo andare – balbettò. – Mi scusi.
Poi sparì via velocemente, lasciando Nancy in un mare di dubbi.
E ignara del fatto che Samara stesse seguendo la sua sagoma con lo sguardo.
 
 

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Capitolo 6
*** 1977 – Febbraio: Liza ***


 
1977
Febbraio




 
Liza
 
 
Quando Eliza sentì bussare alla porta della sua stanza, sobbalzò violentemente. Una serie di brividi agitarono il suo piccolo corpo; sentiva che al di là di quella porta c’era qualcosa di pericoloso.
Aveva paura. E non sapeva perché.
Rimase in silenzio.
I colpi alla porta si ripeterono, insistenti. I respiri della bambina si infransero nell’aria in un ritmo scandito dall’ansia. Voleva scappare – fuggire dalla finestra magari – ma quella che la attanagliava era una paura che la teneva inchiodata al pavimento.
– Liza? – si sentì chiamare.
Era una voce familiare, sapeva a chi appartenesse.
A Samara.
Tutti, ormai, al King County Orphanage, avevano capito chi fosse. La notizia del misterioso omicidio avvenuto in sua presenza si era diffusa tra gli altri bambini a macchia d’olio ed aveva seminato inquietudine. Il fatto che poi fosse coinvolta proprio lei aveva anche peggiorato le cose.
Samara non era mai stata particolarmente inserita; anzi, tutt’altro. Nessuno voleva giocare con lei, per il semplice fatto che era strana.
Non parlava mai, e quando lo faceva diceva sempre cose che facevano paura. Liza aveva paura di lei, perché sapeva che non era normale.
Ogni tanto, sentiva dei rumori provenire dalla sua stanza.
Delle voci.
Delle cose che sbattevano.
Eppure c’era solo lei, in quella camera.
 
 
Era notte. Liza si era alzata per andare a chiedere qualcosa da mangiare, e stava camminando in punta di piedi nel corridoio. Il cuore le palpitava nel petto alla velocità della luce; aveva sempre avuto paura del buio. Aveva paura che dei mostri saltassero fuori e che la rapissero.
Stava correndo di sotto quando la vide.
Non avrebbe mai più dimenticato quella notte.
 
 
Rimase in silenzio, ad ascoltare i colpi sulla porta.
– Liza! – esclamò la voce. – Aprimi!
Aveva un tono implorante e rabbioso insieme, che la fece rabbrividire.
La bambina si rintanò in un angolo e pianse, raccolta su se stessa.
 
 
Aveva una camicia da notte bianca, che la faceva sembrare spettrale. I lunghissimi capelli neri ricoprivano quasi interamente la sua figura.
Se ne stava immobile, immersa nel silenzio.
Eliza si raggelò.
S... Samara? – tentò, avvicinandosi di poco alla bambina. – Cosa ci fai sveglia?
Lei non rispose. Continuò a stare ferma, senza muovere un muscolo.
Samara – la chiamò di nuovo.
Fu un attimo.
Bastò un veloce contatto per dar vita all’incubo.
Samara si voltò con velocità disumana verso di lei e uno strillo agghiacciante scaturì dalla sua piccola bocca di bambina. Un suono alieno, che le si insinuò nella mente come per rimanerci in eterno. I capelli le fluttuavano intorno alla testa emanando una strana luce bluastra. Gli occhi erano di un grigio denso e nebbioso, come se non avessero neanche più né iride né pupilla.
Durò poco più di un secondo, ma a Liza sembrò il secondo più lungo di tutta la sua vita.
Non riuscì nemmeno ad urlare. Quando Samara tornò al suo aspetto normale, era crollata a terra, scossa dai tremiti.
Scusami! È stato il buio! – esclamò la sua compagna.
E si rinchiuse nella sua stanza.
 
 
Quando la porta venne sfondata da quella che le parve una forza inumana, impossibile, non se ne accorse neanche. Era diventata sorda ad ogni rumore: le orecchie sembravano imbottite di ovatta.
Samara avanzò verso di lei con la sua solita andatura esitante, che però in quel momento le parve minacciosa.
– Eccoti – sorrise. – Ti ho trovata, Liza.
Non rispose. Tremava. Più guardava la sua faccia, più si rendeva conto che c’era un motivo se gli altri la evitavano. Aveva un’espressione così... così cupa.
Così seria, anche se sorrideva. Così inspiegabilmente carica d’odio che faceva paura.
– Vattene – pigolò la bambina.
Samara le si avvicinò e si sedette per terra, in modo che la potesse guardare negli occhi.
– Non avere paura – le disse, dolcemente. – Io sono qui per aiutarti.
Le scostò una delle sue trecce biondo grano dietro la schiena.
– Io sono qui per farti vedere – aggiunse.
Artigliò il braccio della sua compagna, e nella testa di Eliza sfrecciarono immagini che l’avrebbero tormentata per sempre.
 
 
****
 
 
– Dunque, Eliza, giusto?
McDoyle si trovava nella stanza vicina a quella della misteriosa bambina della registrazione.
Dopo aver ascoltato la registrazione, era più determinato che mai a cavare fuori qualcosa da quella storia. La signorina Nichols aveva ragione: il caso doveva essere concluso. Ma Henry McDoyle non era il tipo che lascia le cose a metà, né che si dà per vinto facilmente.
Si era ripromesso che avrebbe risolto il caso, e lo avrebbe fatto, a tutti i costi.
– Sono Henry McDoyle, e mi trovo qui per... beh, per lavoro. Devo solo farti qualche domanda, tranquilla – rassicurò la sua piccola interlocutrice, cercando di utilizzare un tono caldo e accomodante.
Ma la bambina parve non averlo nemmeno sentito. Stava ferma e rigida sulla sua sedia, in un costante stato di tensione che angosciava persino lui.
– Eliza – la chiamò, quasi in un sussurro. – Tu lo diresti se ci fosse qualcosa che non va, vero?
La piccola sollevò lo sguardo. Una lacrima le rotolò sulla guancia morbida.
– Cosa vuole sapere?
– Vorrei sapere... – non trovava le parole. Come si faceva a chiedere ad una bambina di sei anni se avesse assistito ad un omicidio?
– Vorrei sapere che cosa sai di quello che è successo – disse infine, mantenendosi sul vago. – Io ho bisogno di sapere chi è coinvolto in questa faccenda, va bene? Così risolveremo tutto quanto, te lo prometto.
Eliza non mosse un muscolo.
– È stata lei. Lo so.
L’ispettore provò un brivido di inquietudine.
– Lei chi?
Ci fu un attimo di esitazione, poi la piccola rispose:
– Samara.
Pausa.
– Vuole ucciderci tutti. Me lo ha fatto vedere.
Un’altra lacrima fece il suo percorso sul viso della bambina. McDoyle avvertì una fitta al cuore: cosa poteva essere successo per spaventarla in quel modo? Cercava di immaginarlo, ma non ci riusciva. La bimba sembrava paralizzata.
– Chi è Samara?
Eliza sbatté i grandi occhi azzurri in un gesto convulso, poi riprese:
– Sta nella stanza accanto.
Ecco come ti chiami.
– Vuole ucciderci tutti. Lo so – ripeté, parlando piano.
– E questa Samara ha la tua età? – chiese l’uomo.
La bambina non rispose.
– Lei me lo ha fatto vedere.
Era quasi come se non stesse parlando neanche con lui, come se il suo discorso avesse un filo proprio che non doveva essere in alcun modo interrotto.
– È stata lei.
Pausa.
– È stata lei ad ucciderli.
Silenzio.
McDoyle si avvicinò ad Eliza, che indietreggiò, spalancando gli occhi.
– Questa Samara... è qui? Ci posso parlare? – chiese, mentre fremeva alla sola idea di poter parlare con la bambina che tanto aveva incuriosito e al tempo stesso terrorizzato la signorina Nichols.
Lei annuì con la testa.
– Sì. Lei è qui.
Il terrore che Liza provava verso la sua vicina era così tangibile che, per un attimo, sembrò attaccarsi anche a lui, come un parassita dalle zampe lunghe e affilate.
– Allora posso andare a parlarci – tentò.
La bambina si fece seria, poi disse:
– No. Le diranno che sta dormendo. Ma non è vero, signor McDoyle. Lei non dorme mai.
 




Sono consapevole di essere terribilmente in ritardo, e mi dispiace davvero tanto. Scusatemi. 
Comunque, eccomi qui. So che a volte sparisco, ma almeno poi ritorno :)
Eccoci, ad ogni modo, al capitolo, che è nientemeno che quello che ho citato nell'introduzione della storia!
Le circostanze si stanno facendo sempre più inquietanti, Samara incute terrore a tutto l'orfanotrofio, ma McDoyle è determinato a scoprire la verità. Che ve ne sembra di questo personaggio? Spero vi sia piaciuto, perché io scrivendo di lui un po' mi ci sono rivista. Insomma, chiunque si sentirebbe ben deciso a risolvere un caso del genere ;)
Come sempre, sono curiosissima di vedere cosa ne pensate voi. E scusatemi ancora per il ritardo :')
Alla prossima,
Stella cadente




 

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Capitolo 7
*** 1973 ***


1973

 

– Ashley, vieni qui!
Lucy, la donna che si occupava di lei, la chiamò gentilmente.
La piccola Ashley camminò velocemente verso la sua balia, rivolgendole un dolce sorriso. I capelli rossi erano legati in due trecce che oscillavano continuamente e gli occhi nocciola sembravano esplorare tutto ciò che le stava intorno.
– Dimmi, Lucy – disse.
– Ascoltami tesoro – fece la donna. – Una bambina piccola, arrivata qui da poco, ha perso da poco la balia e ci sta molto male.
– La signora Holly? – chiese lei.
– Proprio così. C’è la signora Nancy, ma non può fare tutto da sola. E questa bambina ha bisogno di qualcuno. È piccolissima, ha bisogno di un’amica.
Fece una pausa.
– Ho pensato a te quando me lo hanno detto. Sei una bambina intelligente e buona, e credo che saresti l’ideale per lei.
Gli occhi di Ashley si illuminarono e la sua boccuccia si aprì in un sorriso felice.
– Davvero pensi questo di me? – chiese, al colmo della contentezza.
– Certo – le rispose la balia. – So che ci riuscirai, perché ti conosco e so che ti piacciono molto i bambini più piccoli.
Ashley non poté fare a meno di annuire.
– Posso andare da lei subito?
Lucy sorrise.
– Certo. La sua stanza è l’ultima a sinistra, al primo piano.
E la bambina si avviò lungo le scale, allegra.
 
 
****
 
 
 
Quando arrivò di fronte alla porta della stanza della bambina piccola, sentì che dall’interno lei stava cantando una canzone con delle strane parole.
 
Round we go, the world is spinning
When it stops it’s just beginning
Sun comes up, we live and we cry,
Sun goes down, and then we all die…
 
 Per un attimo quella melodia le dette l’ansia, ma poi decise che non c’era niente di cui aver paura. Si sentiva, dalla voce, che era molto più piccola di lei.
Bussò. E la voce smise di cantare.
– Ciao – disse, contro la porta. – Sono Ashley. La tua nuova amica. Tu come ti chiami?
Sentì dei passi sul pavimento, poi la porta si aprì, rivelando una bambina piccolissima, con dei lunghi capelli scuri raccolti in due codine. Gli occhi color caffè la guardavano come a volerla studiare.
– Samara – disse poi, con una voce finissima che fece intenerire Ashley.
Era così seria. Ashley non credeva che una bambina della sua età potesse esserlo – avrà avuto tre anni, ad occhio e croce. Ma del resto, Lucy le aveva detto che stava molto male per la signora Holly.
Poi, dal nulla, sul suo viso – così pallido, così bianco da sembrare quello di un fantasma – apparve un sorriso entusiasta.
– Vuoi giocare con me? – chiese, contenta.
– Certo – disse Ashley, felice che la bambina si fosse finalmente sciolta con lei.
Le sorrise ed entrò nella stanza, seguendo la sua nuova amica.
 
 
****
 
 
– Lucy!
Chiamava la sua balia, ma lei non rispondeva.
Non le voleva rispondere.
Intorno a lei c’era il buio. E delle immagini, delle immagini strane. Una luna calante, un cielo scuro, un cerchio.
Ashley stava sognando e lo sapeva, ma era come se fosse sospesa a metà tra sogno e mondo reale, come se fosse in uno strano universo parallelo in cui non esisteva né spazio né tempo.
Si vide entrare in una specie di tunnel, un buco nero che andava sempre più in profondità.
Poi vedeva delle ossa. Ossa bianche e scricchiolanti, che venivano mosse sommessamente dallo sciacquio dell’acqua.
Era finita in fondo ad un pozzo.
– Lucy!
Nessuno rispondeva.
 
 
 
****
 
 
– Ti senti bene, Ashley? – le chiese Lucy quella mattina. – Se vuoi ti faccio un tè caldo, sei un po’ pallida.
Ashley scosse la testa.
– Tesoro – la chiamò la sua balia. – Se c’è qualcosa puoi dirmelo, lo sai.
Le accarezzò i capelli rossi, mentre li legava nelle due trecce, e ad Ashley quel gesto fece venir voglia di piangere.
Si girò d’improvviso e abbracciò la sua balia, singhiozzando.
Lucy la strinse forte.
– Ho fatto un brutto sogno stanotte – disse la bambina.
– Non è niente – la rassicurò la donna. – Tutti facciamo brutti sogni, ma poi svaniscono. Cosa c’era nel sogno? – aggiunse poi, dopo una breve pausa.
Ashley alzò la testa.
– Ero in un posto molto buio – cominciò. – Ti chiamavo, ma tu non mi rispondevi.
L’immagine di quello scheletro bianco e piccolo le balenò di nuovo in mente, e sentì una fitta di gelo nelle ossa.
Lucy le dette un bacio sulla fronte.
– Dai, non ci pensare. È passato, ora.
– Ashley!
Una vocina rimbombò nel corridoio, e Lucy sorrise nel sentirla, ma lei si raggelò. Non seppe perché, ma quella voce l’aveva fatta immobilizzare dalla paura.
– Vuoi giocare con me?
 

 

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Capitolo 8
*** 1977 – Aprile: Ashley ***


1977
Aprile



Ashley
 
 
Il caso si faceva sempre più complicato, come una matassa intricata con nodi invisibili.
McDoyle aveva intervistato brevemente tutti coloro che, all’orfanotrofio, avevano a che fare con Samara, e tutti avevano dato la colpa di quello che era successo alla bambina.
Non aveva mai assistito ad un fenomeno simile.
Non aveva altra scelta. Doveva parlare con lei.
In mezzo a tutti i suoi appunti, spiccava un post-it giallo con su scritto il suo nome, con le lettere ripassate più e più volte.
 
 
Samara
 
 
 
****
 
 
C’era una tra i bambini più grandi, che si chiamava Ashley. Una pallida ragazzina di undici anni dai capelli rossi e il viso coperto di efelidi. Aveva dei lineamenti particolari, ma belli, con due occhi nocciola liquidi e profondi che esprimevano una maturità inaudita.
Ashley, gli aveva detto la signora Nancy – la sua balia – giocava con Samara, quando era più piccola. In seguito aveva smesso, senza che nessuno ne capisse il perché.
Ora lui era determinato a svelare il mistero.
Tutto l’orfanotrofio era in subbuglio. Tra le balie si diceva che Samara avesse degli strani poteri, che emanasse energia negativa o qualcosa del genere. Ma era davvero da prendere in considerazione un’ipotesi del genere?
Ovviamente no.
Doveva esserci una spiegazione razionale.
E se nessuno l’aveva ancora trovata, beh, voleva dire che ci avrebbe pensato lui.
 
 
– Ciao Ashley – esordì, quando la ragazzina gli si sedette di fronte.
– Salve – disse lei, con un sorriso gentile.
– Sono Henry McDoyle, sto lavorando al caso di Nate Embry e Victoria Neal. Ti dispiace se ti faccio qualche domanda?
La ragazzina fece segno di no con la testa.
– Faccia pure – disse solo.
– Riguardano una tua amica più piccola, Samara.
Appena pronunciò quel nome, il viso di Ashley si incupì. Non disse niente, e McDoyle lo interpretò come un incoraggiamento a continuare.
– Dicono che sia stata lei ad uccidere la giovane coppia che è venuta qui. Tu la pensi come loro?
Ashley sprofondò nel silenzio. L’uomo sospirò: ma perché le persone si paralizzavano ogni volta che parlava di quella maledetta bambina? Che cos’aveva che non andava?
– Ashley – la chiamò. – Devi dirmelo, o questa cosa non finirà mai.
La ragazzina ebbe un tremito. Deglutì, poi si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Si guardava le mani mentre parlava.
– Io volevo allontanarmi da lei. Ma lei non me lo ha permesso.
– Che vuol dire?
– Vuol dire che mi ero accorta di cos’è, già da prima.
– E cos’è esattamente?
Ashley deglutì di nuovo. Sembrava che ogni parola le costasse una fatica enorme, come se si vergognasse di quello che stava dicendo. Come se qualcuno potesse sentirla.
– Non lo so – disse poi. – Io non posso...
I suoi occhi avevano un’espressione terrorizzata. Il respiro era così affannato che lui stesso si sentì soffocare.
Quando lei alzò gli occhi dalle sue mani, avvenne tutto nell’arco di un secondo.
La ragazzina balzò in piedi dal tavolo e indietreggiò, mentre i suoi arti erano scossi da violenti tremiti. D’improvviso la sua faccia era diventata di un pallore malaticcio e un velo di sudore le ricopriva la fronte.
Era nel panico più totale.
– Ashley – cercò di richiamarla l’uomo.
– Si volti! Si volti! – urlò lei, terrorizzata.
– Calmati, che succede?
– SI VOLTI!
Il modo in cui lo aveva urlato, con quella disperazione che gli gelò il sangue nelle vene, lo costrinse a voltarsi davvero.
Ma quando lo fece, vide che non c’era niente.
 
 
****
 
 
Henry McDoyle cominciava a preoccuparsi. Tutto l’orfanotrofio sembrava essere nelle stesse condizioni di Ashley, e tutti riconducevano quello stato d’animo alla piccola Samara.
Aveva un senso? No. Ma ora l’uomo cominciava a capire perché la signorina Nichols non aveva più voluto occuparsi di quel caso; era troppo per lei.
C’era qualcosa di anormale in tutta quella faccenda. E doveva assolutamente parlare con Samara. La registrazione non gli bastava più. Si era stufato di vagare a vuoto, mentre la risposta gli stava praticamente sotto il naso. Eppure un lato nascosto di lui temeva quell’incontro; sembrava che la bambina esercitasse sui suoi coetanei – e non solo – una paura profonda, intangibile, e proprio per questo impossibile da aggirare.
Ma è l’unico modo per mettere un punto a questa storia.
Si avviò nella sala principale, determinato a capire chi – o cosa – fosse la bambina che aveva gettato nel panico tutto il King County Orphanage.
 
 
L’aveva vista.
Ashley sapeva che non l’avrebbe mai perdonata per averla abbandonata all’improvviso. Era da un po’ che non aveva più amici, che se ne stava sempre sola. Lei non le permetteva di parlare con altri bambini.
Avvicinarsi a lei era stata la sua condanna, e lo aveva capito quando aveva visto la sua sagoma – la sagoma di quello che sarebbe diventata, un fantasma con lunghi capelli neri – materializzarsi dietro l’ispettore che le stava facendo delle domande.
Ma l’uomo non l’aveva vista.
Non aveva visto i suoi occhi che la guardavano minacciosi.
Non aveva visto.
 
 
– Salve, sono l’ispettore McDoyle. Vorrei parlare con Samara, la bambina che è stata coinvolta nell’incidente.
Dietro la scrivania c’era una giovane ragazza che non aveva mai visto. Gli rivolse un sorriso un po’ forzato.
– Buongiorno, signore, sono Emily Watson. Mi occupo di Samara da poco, ma se vuole delle informazioni io posso...
– Vorrei parlare direttamente con lei, signorina. Ma ovviamente delle informazioni supplementari non potrebbero far altro che fornirmi un quadro più chiaro – disse professionalmente l’anziano ispettore.
– Bene – fece la ragazza. – Venga, la accompagno.
 
 
Ashley...
La ragazzina si voltò, senza vedere niente.
Ma sapeva benissimo a chi appartenesse quella voce.
Passarono alcuni secondi, in cui ci fu il silenzio più totale. Lo stomaco le si chiuse, le gambe le si fecero molli, il cuore le andò a palpitare in gola talmente forte che temette di vomitarlo e di vederlo pulsare sul pavimento.
Aveva paura.
Sembrava che qualcuno l’avesse rinchiusa in una specie di bolla e resa insensibile a qualunque cosa che fosse proveniente dalla realtà esterna. Un sibilo acuto le riempì le orecchie, costringendola a coprirsele con le mani per non impazzire.
Poi iniziarono le immagini.
Iniziò di nuovo l’incubo che la tormentava da anni.
 
 
– Samara non ha mai parlato molto con i suoi coetanei – esordì Emily, mentre salivano le scale fino al piano di sopra. – È sempre stata una bambina riservata, da quel che mi hanno detto. Fino a qualche mese fa se ne è occupata Nancy Johnson, non so se la conosce...
– Sì – la interruppe lui. – Come mai ha smesso di occuparsi della bambina?
Emily fece spallucce. Si vedeva che era giovane, anche nei modi di fare; non doveva aver più di una ventina d’anni. Eppure c’era qualcosa di strano nei suoi occhi, come un’ombra che li faceva apparire in qualche modo tristi e malinconici.
– Non lo so. E a quanto pare non sono l’unica, qui dentro.
 
 
Un cerchio, una scala. Un faro. Bambini che corrono, un’immagine sfumata ed evanescente che se ne va via e che sembra intrappolata dentro una televisione. Bambini che sembrano ombre e che sussurrano tra di loro con vocine spettrali.
E al centro, lei.
Lei che sembra l’unica cosa che abbia dei contorni in quell’inquietante quadro di indefinitezza.
Guarda in alto. Guarda il cielo nuvoloso di quella giornata.
Alza la mano, e con uno scrocchio e un sibilo fastidioso, un cerchio compare e si dibatte di fronte a quegli occhi che lo guardano.
Vacui, irreali.
 
 
McDoyle aggrottò le sopracciglia.
– E scusi, lei è qui?
Emily scosse la testa.
– No. Se ne è andata nell’isola di Moesko, non ha voluto dire perché.
L’ispettore trattenne a stento un sospiro frustrato. Non aveva mai analizzato un caso simile, in quarant’anni di carriera. Era come un puzzle di cui si perdevano continuamente i pezzi. Quando il quadro sembrava un po’ più chiaro, ecco che veniva fuori un nuovo punto interrogativo.
Rimase in silenzio.
– Comunque, la descrizione che la signora Johnson mi ha fatto prima che io cominciassi, corrispondeva perfettamente a Samara. È molto dolce, ma anche molto solitaria. Forse è questo che ha fatto incupire il clima, qui all’orfanotrofio.  Mi creda, ho fatto la babysitter quando ero al liceo, e credo che lei sia la bambina più seria ed ermetica che io abbia mai visto. Ho saputo anche del caso di cui si sta occupando lei, signore, ma secondo me è impossibile che una bambina di sette anni abbia fatto tutto questo. È, come potrei dire... paranormale. Assurdo. Non credo a queste cose, io – aggiunse, con una vaga risatina.
McDoyle sorrise. Quella ragazza aveva una bella mente, lo aveva già capito. Era loquace, preparata e sapeva quello che diceva. Un’ottima persona con cui parlare.
Ma quegli occhi...
Lo condusse fino ad una delle porte in legno massiccio dell’orfanotrofio.
Che cos’hanno?
– Questa è la sua stanza – fece, abbassando la voce. – Una cosa importantissima da sapere: Samara è molto sensibile. Non alzi la voce con lei, potrebbe spaventarsi e chiudersi in se stessa – lo avvertì, prima di bussare.
– Samara – disse poi dolcemente, affacciandosi alla porta socchiusa. – Hai visite. Posso far entrare questo signore?
Dopo la domanda di Emily ci fu un lungo silenzio, che per McDoyle fu quasi insopportabile.
Poi una vocina delicata lo interruppe.
– Sì.
È lei, è la bambina della registrazione!
– Bene – si rivolse a lui, di nuovo sottovoce. – Faccia attenzione – aggiunse poi, prima di sparire.
Faccia attenzione.
McDoyle immaginò che quello fosse una specie di consiglio.
Ma se davvero lo era, perché invece gli sembrava più un avvertimento?

 

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Capitolo 9
*** 1974 ***


1974
 
 
 
– Ashley, guardami!
La voce esile di Samara arrivò insidiosa nella testa di Ashley.
Erano in giardino, e la bambina si divertiva a volteggiare tra gli alberi alti e frondosi. Le foglie rosse dell’autunno si accendevano come se bruciassero, e sembravano accompagnare la danza di Samara tra i loro rami.
Ashley stava a guardarla, impassibile. Aveva provato a parlare a Lucy degli incubi, della paura, ma non aveva detto la cosa più importante.
Non aveva detto che era Samara a farle tutto questo.
Non le avrebbe creduto, e l’avrebbe rassicurata facendole un tè caldo e raccontandole una storia.
– Posso raccontarti una storia, Ashley? Posso raccontarti una storia come fa Lucy?
Di nuovo lei.
Di nuovo lì.
Di nuovo, sembrava aver trafitto il suo cervello con la mente ed essersi appropriata dei suoi pensieri.
La guardava con occhi contenti, e un’espressione felice le illuminava il visetto pallido. Aveva compiuto quattro anni da qualche mese; Ashley le aveva fatto una torta – alla crema, la sua preferita – ed aveva festeggiato insieme a lei, quando nessun altro bambino lo avrebbe fatto.
Lucy era stata molto contenta e le aveva detto che non se ne trovavano tante, di bambine come lei.
Sono così fiera di te.
– Va bene, Sam – le disse.
Samara sorrise. Da quando erano amiche, la chiamava sempre così, e la bambina ogni volta sembrava felice come una pasqua quando sentiva quel soprannome.
Si avvicinò praticamente saltellando, con un sorrisino dolce che giocava sul suo volto delicato.
– Questa storia – cominciò – parla di una bambina di nome Sam. Lo sai che me la sono sognata?
– Sì? – chiese Ashley. Si voltò per un attimo, e vide che un gruppo di bambine della sua età stava giocando con la corda dall’altro lato del giardino.
Le guardò con invidia. Mavis, una sua coetanea dai lunghi, bellissimi capelli color noce, la ricambiò con un sorrisetto cattivo. L’aveva sempre odiata; aveva sempre odiato il modo in cui la prendeva in giro perché stava con Samara. Ma del resto, il sentimento era reciproco; si punzecchiavano continuamente.
– E che cosa c’era nel sogno? – si rivolse di nuovo a Samara, che la guardava perplessa.
Così fiera.
La bambina sembrò rianimarsi.
– Allora – riprese. – In questo sogno c’era anche un’altra bambina, che si chiamava Ash.
Se fosse stata un’altra, se non fosse stata proprio lei, probabilmente Ashley avrebbe sorriso e l’avrebbe abbracciata. Lucy le aveva detto di stare con Samara proprio per il suo istinto materno, come diceva lei. Ed era vero: Ashley era stata entusiasta di occuparsi di una bambina più piccola.
Ma non sapeva come sarebbe stata lei.
– Vuoi vedere?
La vocina di Samara la riscosse di nuovo.
– Sam... – tentò lei.
Sono così fiera di te.
Ma lei le aveva preso il braccio, ed ormai non poteva più sottrarsi.
 
 
 
Risate. Risate che le risuonavano nella testa.
Un sorriso.
Il suo sorriso.
Il sorriso di Ashley che appariva come una cosa strana ed insolita.
Un cerchio. Un cerchio, un urlo, delle trecce bionde.
La luna era nuova.
Una scena sfocata.
Una bambina piccola sorrideva, e la bambina grande la prendeva per mano.
 
 
 
Ashley si sentì morire quando tutte quelle immagini svanirono. Ne era certa già da un po’ di tempo: era lei. Era lei che provocava quelle cose. Era lei che non la faceva dormire la notte.
Rimasero per un po’ a guardarsi, poi Samara le corse tra le braccia. La più grande la strinse debolmente.
– Non te ne andrai mai, vero, Ash? – le chiese.
Ed era tenera, con quella vocina delicata e implorante. Eppure Ashley non ci vide niente di tenero.
Ormai lo sapeva.
Era in trappola.
Il cerchio le balenò di nuovo nella mente, come a ribadirglielo.

 
 

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Capitolo 10
*** 1977 – Aprile: Emily ***


1977
Aprile



Emily
 
 
Emily aveva da poco chiuso la porta quando accadde.
Un sibilo le colpì la testa, insistente, martellante. Il dolore la costrinse a sedersi per terra, tenendosi una mano sulla fronte.
Emily...
La paura la aggredì, e cercò di dimenarsi per fuggire. Ma qualcosa la costringeva lì a terra.
Che sta succedendo?
Era come se il suo corpo non riuscisse a ricevere gli impulsi dati dal cervello, come se le due cose fossero totalmente separate.
Di nuovo quel sibilo. Emily temette che la potesse uccidere. Voleva liberarsene, voleva che andasse via, ma quel rumore restava lì, a riempirle le orecchie e ad iniettarle la paura nelle vene. Un sibilo forte, insistente, che non le lasciava pace. E dietro, in sottofondo, una voce.
Riusciva a distinguerla con chiarezza.
Una voce che ben conosceva.
Emily...
 
 
Samara, tu ti senti coinvolta in tutto questo?
Perché, secondo te, i tuoi compagni hanno paura di avvicinarsi?
E lei non lo guardava nemmeno, senza dare risposta, i lunghi capelli neri a nasconderle metà del volto pallido e delicato. I suoi occhi erano fissati su un punto indefinito, come se in quel punto ci fosse qualcosa che solo lei era in grado di vedere e di percepire.
Non posso dirlo.
Quella voce che sembrò farlo sprofondare. Non c’era nulla di strano, il timbro era quello di una voce infantile come tante altre... era il modo in cui le parole venivano pronunciate che era fuori dal normale. E quel timbro dolce e sottile trasmetteva d’un tratto inquietudine. L’aria si era caricata di tensione.
Perché no? – chiese l’ispettore. – Non lo dirò a nessuno.
Samara spostò gli occhi scuri sull’ispettore, lentamente. Ci fu un momento in cui il silenzio sembrò talmente teso da risultare insopportabile, poi disse solo:
No.
Silenzio.
Samara – continuò l’ispettore. – Sono sicuro che capirai quello che sto per dirti, perché mi hanno detto che sei una bambina intelligente. Io devo risolvere questo caso, e per aiutarmi devi dirmi che cos’hanno gli altri bambini contro di te. Devi dirmelo, Samara, devi dirmi perché pensano che sia stata tu.
Gli occhi della bambina apparvero grandi e insolitamente osservatori.
Poi tutto si interruppe.
 
 
La ragazza si sentì raggelare; che cosa stava succedendo? Che cos’era quella visione che aveva appena avuto?
Il suo corpo era tutto un tremito; non riusciva a crederci. Si era addormentata ed aveva sognato? Come accidenti aveva fatto a vedere quelle cose?
Si sentiva spossata. Da quando aveva cominciato ad occuparsi di Samara aveva cominciato a soffrire di disturbi depressivi; cercava di fare del suo meglio, ma nonostante la bambina le piacesse, sentiva di non aver più le forze di fare niente – specie nell’ultimo periodo.
Si passò una mano sulla fronte e si accorse di avere i capelli sudati, appiccicaticci. Sentiva le braccia formicolanti e la testa pesante, come se l’avessero appena presa a botte.
Provò a rialzarsi, ma tremava insopportabilmente. Cercò di reggersi in piedi; aveva la bocca secca.
Bussò, forse con troppa veemenza.
Ho paura...
Si sentiva sempre così, ultimamente, e non riusciva a spiegarne il perché. Sospesa, come se fosse caduta in un buco buio e freddo e come se nessuno accennasse a volerla tirare fuori.
– Signor McDoyle... – provò, con voce flebile. – Samara...
Nessun suono trapelava da quella dannata porta. C’era il silenzio più assoluto, come se dentro quella stanza non ci fosse anima viva.
– Samara, aprimi – disse, cercando di mantenere un tono di voce fermo.
Il silenzio fece da padrone per qualche secondo; poi la porta, lentamente, si aprì.
– Samara – disse di nuovo Emily, sentendo di nuovo il vigore tornare in lei.
Quando entrò nella stanza, la bambina la guardava con quei suoi occhi innocenti. Sul faccino pallido apparve subito un sorriso contento.
– Ciao – disse, con voce leggera.
E McDoyle?
Emily si guardò intorno; l’uomo non c’era. Possibile che se ne fosse andato senza che lei se ne fosse accorta?
– Dov’è l’ispettore? – chiese infatti, perplessa.
La bambina fece spallucce.
– È andato via. Non te ne sei accorta?
Emily scosse la testa.
– Devo sentirmi poco bene – disse solo. – Forse non me ne sono neanche resa conto.
– È vero – assentì Samara. – Devi rilassarti, Emily – sorrise, disegnando l’ennesima linea dolce su quel visino angelico.
Poi le si avvicinò e l’abbracciò teneramente; Emily non poté fare a meno di sciogliersi, e ricambiò l’abbraccio circondando il corpicino di Samara. Le fece una carezza sulla testa, poi si chinò per guardarla negli occhi.
– Ti dispiace se oggi stai un po’ con Lucy? – le disse.
– Va bene – fece la piccola. – Tu però riprenditi – aggiunse poi, con quegli occhi improvvisamente affettuosi.
Poi saltellò via, ed Emily si lasciò cadere sul letto della stanza.
E fu allora che lo vide.
Un registratore appoggiato a terra, vicino alla cassettiera.
Intorno all’oggetto – chissà in che modo – qualcuno aveva intagliato un cerchio nel legno del pavimento.
No, non era intagliato.
Sembrava che il legno fosse stato direttamente bruciato.
 
 
Un cerchio.
Un cerchio che brillava di una fredda luce bluastra in una distesa buia.
E quel sibilo, lo stesso che aveva sentito lei...
 
 
Emily si ritrovò ad ansimare dalla paura. L’aveva visto solo per un istante, eppure aveva instillato in lei un’ansia atroce.
Prese il registratore in mano, come guidata da qualcun altro; la ragione le diceva che tutto doveva fare tranne sentire cosa aveva registrato quel maledetto aggeggio, ma una parte malsana di lei smaniava dalla voglia di scoprirlo. Anche se sapeva che le avrebbe fatto del male.
Mi farà del male.
La ragazza si rigirò l’apparecchio tra le mani più volte; poi, in un gesto di cui si pentì subito...
Non voglio. Non voglio!
... premette su play.
 
Il segnale risultò un po’ disturbato, all’inizio.
 
– Ciao, Samara. Sono l’ispettore McDoyle, e sono qui per farti qualche domanda; poi non ti infastidisco più, promesso.
Un respiro lieve, dolce, inquietante.
– Va bene.
La vocina di Samara, nell’ascoltarla, le fece venire una fitta alla testa.
Bene. Senti Samara, andrò dritto al punto: tu ti senti coinvolta in tutto questo? Perché, secondo te, i tuoi compagni hanno paura di avvicinarsi?
Un silenzio agghiacciante, poi:
Non posso dirlo.
Perché no? Non lo dirò a nessuno.
No.
Silenzio.
Samara... Sono sicuro che capirai quello che sto per dirti, perché mi hanno detto che sei una bambina intelligente. Io devo risolvere questo caso, e per aiutarmi devi dirmi che cos’hanno gli altri bambini contro di te. Devi dirmelo, Samara, devi dirmi perché pensano che sia stata tu.
Emily ebbe paura. Paura di quello che avrebbe sentito, paura perché quello era il suo sogno accidenti, era quello che aveva visto nel sogno!
Le sembrò di sentire i battiti del suo cuore impazzito anche nelle tempie, provocandole una forte emicrania.
E quello che sentì dopo le fece venir voglia di scappare. Ma era inchiodata lì, ad ascoltare. Ad imprigionarsi da sola in una gabbia di terrore da cui non poteva liberarsi.
Rantoli. Rantoli lievi, strani, e agghiaccianti.
Che diavolo sta succedendo?
Poi, di nuovo il segnale venne disturbato da qualcosa.
E la voce di McDoyle. Ma appariva strana, diversa; era vaga, ovattata, come se parlasse sotto ipnosi.
– C’è un altro mondo che noi non conosciamo. C’è un altro mondo che noi non conosciamo.
Vai via, per amor del cielo!
– Un mondo che si raggiunge attraverso l’acqua...
Spegni quell’affare!
– L’acqua... l’acqua è un veicolo di morte. Morte. Morte.
Dio...
– Figlia piccola nella vasca da bagno.
Stava trattenendo il fiato.
– Lei ce lo farà vedere. Prima o poi ce lo farà vedere. Quando morirà.
Il registratore traballò tra le sue mani.
Silenzio.
Cosa? Dannazione, dimmi cosa!
– Un altro mondo.
Pausa.
– Un altro mondo dove si vede il cerchio.
And then we all die...
Conosceva quella canzone.
Samara...
Che cosa ci fa Samara nella registrazione?
– Emily!
Si voltò di scatto, e vide che lei era lì, sul ciglio della porta.
– Ciao Samara.
La sua voce uscì fuori ruvida e flebile.
E poi ci fu la sua voce. La voce della bambina nella sua testa, che riecheggiava e la confondeva...
Morirai...
...mentre lei avanzava.
– Samara – fece la ragazza. Tremava.
La connessione con lei fu immediata. Immagini, immagini che si susseguivano l’una dietro l’altra.
– Emily. Devi aiutarmi, ti prego Emily.
Morirai...
– Allontanati!
Era lei.
– Emily... scusa.
Era sempre stata lei, sin dall’inizio.
Sin dall’inizio di questo incubo.
Ma ormai era troppo tardi.
– Va’ via!
La bambina piangeva, con la testa china.
– Mi dispiace. Mi dispiace se ti faccio del male.
Un singhiozzo di terrore le risalì nella gola creandole un sapore disgustoso, come di un qualcosa di denso e scuro che si diramava in tutte le direzioni e la contaminava.
– Lasciami in piace, ti prego... – supplicò, senza più forze.
Quella sensazione che la allarmava, la sensazione di essere in quel buco freddo e oscuro e umido.
Non cercò nemmeno di chiedersi che cosa significava o se anche la bambina riuscisse ad avvertirla. La paura divenne insopportabile, così intensa che le fece perdere la cognizione del tempo.
Vide il suo braccio che si tendeva verso terra e che prendeva il registratore.
Poi fu il buio, e sprofondò del tutto nel posto freddo.
Nessuno sarebbe venuto a tirarla fuori.

 
 

SCUSATEMI
E' da un mese e passa che non aggiorno, causa scuola e altri impegni non ho potuto entrare su EFP.
Ma ora che sono finalmente libera e mi sono tolta tutti i compiti e le interrogazioni, finalmente eccomi qui!
Allora... Questo capitolo mi entusiasma molto; raggiungiamo l’apice del terrore – o almeno, l’intento era quello – Samara dà libero sfogo ai suoi poteri e il primo a risentirne è proprio McDoyle, che come era prevedibile ha fatto una brutta fine. Che ve ne è sembrato, poi, della scena con Emily? Ebbene sì, avete visto bene, è proprio quella che in “Lei voleva solo essere ascoltata” vediamo in un flashback. E adesso la figura di questa ragazza, che nella prima storia è solo accennata, è decisamente molto più chiara.
Secondo voi come proseguirà ora la storia? Scrivetemi tutto quello che volete :)
Alla prossima,
Stella cadente

 

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Capitolo 11
*** 1975 ***


1975
 
 
Ashley, tu lo sai dov’è la mia mamma?
Samara si lanciò addosso alla sua amica, che stava giocando con Mavis e le altre, e le tirò una manica della giacchetta come per attirare la sua attenzione.
Ashley fece un’espressione infastidita. Si sentì raggelare. Sentì le risatine cattive di Mavis e delle altre bambine; tutte avevano fermato la loro partita di pallavolo, e la stavano guardando.
Si sentiva osservata. Ed era solo colpa di Samara.
Sam, non adesso. Finisco questa partita e poi me lo dici.
Ma io voglio saperlo ora! – protestò la piccola.
Risatine.
Ti prego, Ash, è importante! Ho visto il quaderno, i disegni... ho visto tutto!
Dove l’hai visto? – intervenne Mavis.
Samara si incupì. Quando si voltò verso Mavis, era serissima. Di una serietà impossibile, che fece indietreggiare la bambina più grande.
L’ho visto e basta.
La più grande sembrò per un attimo colpita, poi scoppiò in una fragorosa risata.
Avete sentito? – fece, rivolgendosi alle altre. – Ecco perché la nostra Ash – disse poi, calcando con sarcasmo sul nome della bambina – è così schizzata. Perché sta con la strega, con il mostro!
Puntò il dito su Samara, mentre le altre bambine ridevano sotto ai baffi.
Ma è vero, non me lo sto inventando! – continuò la piccola. Poi si rivolse all’amica. – Mamma mi diceva che per passare all’altro mondo doveva buttarmi in acqua.
Le risate aumentarono. Due bambine si spaventarono e si allontanarono di corsa, sussurrando tra di loro.
Ashley sentì la rabbia ribollire dentro di sé. Allontanò Samara con un gesto rabbioso, poi urlò:
Non potete trattarmi così solo perché sto con lei!
Indicò Samara, che sembrò farsi piccola piccola.
Lucy mi ha chiesto di starle dietro, perché non ha nessuno. Ma io non voglio stare con lei!
A quelle parole gli occhi di Samara si riempirono di lacrime.
Scappò via, prima che Ashley potesse aggiungere qualcos’altro.
Non la voleva.
Non voleva vedere.
Come tutti gli altri.
 
 
****
 
 
Ashley non tornò a cercare Samara. Anzi, era contenta di essersi liberata di lei; finalmente Mavis e le altre sembravano aver apprezzato ciò che faceva, e l’alone negativo che la circondava cominciava a diradarsi.
Perché non si era allontanata prima da lei? Perché non aveva posto fine prima a quella tortura? Perché non aveva capito in tempo che cos’era Samara? O meglio, che cosa non era. Perché di lei si poteva dire tutto, tranne che fosse una bambina normale.
Mamma mi diceva che per passare all’altro mondo doveva buttarmi in acqua.
Ashley si ritrovò a sentire un peso su di sé, forte, inspiegabile. Forse era pentimento, forse era tristezza, perché vedere la piccola Samara scappare con gli occhi scuri rigonfi di lacrime era stato in qualche modo lancinante.
Che cosa avrebbe detto Lucy?
Ho visto tutto...
...l’ho visto e basta.
 
 
Un singhiozzo.
Una lacrima che cadeva a terra.
L’acqua contro il pavimento produsse un suono liquido, bagnato, riecheggiante.
E poi lo sentì.
Un urlo. Un urlo nel buio e nel freddo.
Mamma!
Che cos’era?
Mamma! Mamma! MAMMA!
Era rauco. Disperato. Agghiacciante.
E la voce era familiare.
Era la sua voce.
Samara...
L’incubo non sarebbe mai finito.

Forse era appena cominciato.

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Capitolo 12
*** Epilogo ***


Epilogo


1977
Ottobre

 
King County Orphanage, ore 17:00
 
 
Samara fissò assorta i disegni sul quaderno di sua madre. Se ne stava nella sua stanza, guardando gli altri bambini che giocavano in cortile. Tranquilli, gioiosi, allegri. Tutto quello che lei non sarebbe mai stata.
L’aveva letto tante volte, ma non smetteva mai. Sentiva come se la sua mamma, la sua vera mamma, fosse lì con lei, e non voleva separarsene. Anche se non l’aveva mai conosciuta, e probabilmente non l’avrebbe mai fatto.
D’altra parte, non era neanche poi così interessata ad interagire con gli altri bambini. Da quando aveva scoperto il quaderno in un angolo nascosto del suo armadio, pensavano tutti che quello fosse il suo libro di incantesimi malvagi. Le balie ormai non intervenivano neanche più nella sua situazione; non sarebbe servito a niente, tanto.
Gliene avevano assegnata un’altra di recente, dopo Emily. Si chiamava Evie; aveva dei begli occhi dorati, ma erano sempre freddi. Ostili. Come se la volessero allontanare.
Evie non avrebbe visto.
Nessuno più avrebbe visto.
Il Buio non era fatto per gli altri. Lei non era fatta per gli altri. E doveva reprimere il Buio, perché altrimenti avrebbe fatto le cose brutte.
Samara sospirò; dopo la morte di Emily aveva cominciato a diventare più consapevole di quello che faceva. Aveva capito che era destino che stesse sola, senza nessuno intorno.
Nessuno voleva vedere.
Nessuno la voleva ascoltare.
Lucy mi ha chiesto di starle dietro, perché non ha nessuno. Ma io non voglio stare con lei!
Era da tanto che non giocava con Ashley. Da anni ormai.
Ma non si era mai dimenticata di quella volta, né aveva dato modo all’altra di farlo. Perché non era così che dovevano andare le cose.
Abbassò di nuovo gli occhi sul diario di sua madre.
 
 
25 marzo 1970
 
Carissima Samara,
se non riesco a rimandarti indietro, che cosa succederà?
Che cosa accadrà, se non riesco a rimandare indietro la cosa che è venuta dall’aldilà per prenderti?
Tu mi hai detto che devo farlo;  ma come, bambina mia, come?
Come posso fare, sapendo già che vivrò con questo rimorso per tutta la vita?
Devi promettermi che cercherai il veicolo dell’acqua, Samara.
Devi promettermelo.
Non voglio fallire, amore mio. Ti voglio bene.
 
La tua mamma
 
 
La bambina guardò quella lettera – l’ultima lettera – con perplessità mista a malinconia.
Sotto alle annotazioni, vi era disegnato un cerchio nero a carboncino.
Rabbrividì nel vedere quell’immagine, ma sentì come se la sua mamma avesse voluto passarle un messaggio. Un messaggio importante, che avrebbe dovuto tenere a mente sempre, qualunque cosa fosse successa.
Devi prometterlo.
– Samara.
La bambina chiuse di scatto il quaderno e si voltò, incrociando gli occhi di Evie che la guardavano, sempre con quell’aria dura e severa.
– Samara, c’è qualcuno che vuole prenderti con sé – fece la balia, prima che potesse dire qualcosa.
La piccola spalancò gli occhi; com’era possibile?
– Davvero?
– Sì. Hanno telefonato poco fa, per chiedere informazioni su di te. Hanno detto che in inverno verranno a prenderti.
Samara non ci credeva. Qualcuno aveva chiesto di lei? E come si sarebbe dovuta comportare con loro, quando sarebbero venuti all’orfanotrofio?
Voleva chiederlo ad Evie, ma era già sparita.
Cosa avrebbe dovuto fare?
Devi promettermi che cercherai il veicolo dell’acqua, Samara.
Guardò un’altra volta il quaderno di sua madre.
Non voglio fallire, amore mio. Ti voglio bene.
Chi era la sua vera mamma?
Voleva saperlo, ma voleva anche sapere che cosa si provasse ad averne una, ad averne una per davvero.
La tua mamma.
Mamma...
– Evie! – gridò, alzandosi e correndo fuori dalla stanza. – Aspetta!
Doveva saperlo.
Doveva sapere chi sarebbe venuto per portarla via e farla ricominciare a vivere.
 
 
 
 
Moesko Island, ore 17:00
 
– Allora, quando passiamo a prenderla? – chiese Anna al marito, emozionata.
Era da due anni che lei e Richard chiedevano di quella bambina, ed ora che le era appena stato detto che a breve avrebbe potuto prenderla con sé non le sembrava vero.
– Io direi in dicembre – rispose l’uomo. – Ma dobbiamo fare tutto con la massima discrezione. Non dobbiamo dire niente a nessuno. Non finché non avremmo la bambina, almeno.
Sul viso di Anna prese forma un grande sorriso.
– Sono così felice, Richard – disse, illuminandosi.
Lui le sorrise con affetto.
– Lo so. Anche io.
 
 
 
****
 
 
 
Bruce Cox si passò una mano sul viso e sospirò quando scese dalla sua barca. Negli ultimi due anni il pesce sembrava essere sparito a Moesko Island. C’era poco raccolto, il bestiame non era più sfruttabile come un tempo, e tutti i banchi, a quanto pareva, avevano migrato altrove, inspiegabilmente – senza contare che per due inverni di fila aveva fatto talmente freddo che nessuno aveva potuto più uscire di casa per tre mesi.
Anche adesso la situazione non sembrava essere molto diversa; gli sembrava quasi di essere tornato in tempo di guerra, quando si faceva la fame. Cosa molto insolita, dal momento che a Moesko Island il mercato del pesce era sempre stato fiorente.
Il pescatore guardò l’orizzonte: delle grosse nuvole avevano oscurato il cielo, facendolo apparire pesante come piombo. Era come se un’oscurità venuta dal nulla fosse calata sull’isola.
Cox ormeggiò la barca e si avviò verso la sua casa, poco distante dalla spiaggia sassosa.
Fu allora che avvenne.
Un’onda si infranse sui ciottoli. Un’onda piccola, silenziosa, leggera, che si ritirò velocemente. Ma lui non l’avrebbe mai dimenticata.
Un odore marcescente si sollevò dall’acqua, costringendo l’uomo a voltarsi.
Capì troppo tardi che sarebbe stato meglio non farlo.
La spiaggia era invasa da cadaveri di pesci ammassati l’uno sull’altro. I corpi erano intatti. Gli occhi non avevano più pupilla.
Erano grigi, morti, ma sembravano comunque osservarlo, scrutarlo, avvertirlo.
In quel momento, in quel momento in cui sentiva che le sue gambe si muovevano da sole per l’orrore, Bruce Cox capì che qualcosa di brutto si sarebbe abbattuto su Moesko Island.
E che lo avrebbe fatto molto presto.

 


Non so perché, ma sono particolarmente fiera di questa storia. L’ho scritta tutta quest’inverno, a ritmi vertiginosi, come mi è capitato poche volte di fare, completamente risucchiata nel mondo a cui avevo dato vita, ed è stato bellissimo. È stato come un viaggio nelle tenebre più assolute, ho esplorato la mente di Samara ed ho romanzato la sua storia, e d’un tratto questo personaggio a cui sono così legata ha sembrato prendere un po’ più di vita – come se adesso fosse una persona reale, per me. Questo prequel e “Lei voleva solo essere ascoltata” sono le storie che mi hanno permesso di conoscerla un po’ meglio e di vederla più da vicino; le prossime due saranno completamente diverse, ma proprio per questo mi sento soddisfatta e anche un po’ emozionata nel mettere un punto a questa “prima parte” della mia serie su The Ring.
Come sempre – come potrei non farlo, alla fine? – ringrazio i miei amatissimi lettori, specialmente quelli che ci sono stati sin dalla prima storia:
Frenzthedreamer, grandissimo appassionato di horror e di The Ring, e anche mio grandissimo amico, pronto a molestarmi sempre e a tirarmi su nei momenti di sconforto sebbene tra noi ci siano 400 chilometri.
Skystorn, che mi ha sempre dato il suo parere, nonostante tutti gli impegni e nonostante i miei ritardi.
StellaandEleonora, che commenta sempre ogni cosa che scrivo, anche le storie horror, sebbene sia tutt’altro che appassionata del genere. Ti voglio bene <3
E da ultima, ma non meno importante, fly90, che ha letto la prima storia tutta d’un fiato e mi ha seguita nel prequel, con una costanza che è difficile da trovare, regalandomi sempre bellissime parole. Grazie.
 
Siete fantastici, ragazzi!
Alla prossima storia,
Stella cadente






 

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