Ren

di Bellamy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12. ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13. ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14. ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15. ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16. ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17. ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18. ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19. ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20. ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21. ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22. ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23. ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24. ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25. ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26. ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27. ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28. ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29. ***
Capitolo 31: *** Capitolo 30. ***
Capitolo 32: *** Capitolo 31. ***
Capitolo 33: *** Capitolo 32. ***
Capitolo 34: *** Capitolo 33. ***
Capitolo 35: *** Capitolo 34. ***
Capitolo 36: *** Capitolo 35. ***
Capitolo 37: *** Capitolo 36. ***
Capitolo 38: *** Capitolo 37. ***
Capitolo 39: *** Capitolo 38 - Prima Parte ***



Capitolo 1
*** Introduzione. ***


Più passava il tempo, più i suoi respiri si facevano pesanti, più le sue mani stringevano forte il pelo di quel licantropo dalla pelliccia castana sotto di lei, più il nervosismo la mordeva dentro. Il tempo non passava, era fermo. Le lancette non continuavano più il loro giro, il sole non si muoveva più per indicare che stava per arrivare il pomeriggio, la notte, il mattino.
I fiocchi di neve pizzicavano le sue guance per cadere poi nel terreno già ghiacciato. 
Guardava i suoi genitori accanto stringersi la mano, guardava la sua famiglia e il resto di quei vampiri sconosciuti pronti a combattere per una come lei.
Gli occhi di tutti erano puntati sul bianco della neve, nel vuoto. In attesa. 
Non ne valeva la pena. Era la verità. Lei non doveva neanche esistere. 
Fu poi tutto veloce, come un battito di ciglia. La sua visuale roteava tra volti e neve, sentiva grida e il suo nome urlato disperatamente, ululati.
Poi il buio, non sapeva per quanto tempo rimase in balia dell’oscuro ma si risvegliò, all’oscuro di tutto.

 

 
 
 
Mise la collana con quello stemma con dolore, sentire il metallo pesante appoggiato nel petto era un pugno dritto al cuore, senza niente che lo proteggesse.
Se fosse stato possibile per una come lei, avrebbe pianto per tutto il tempo che la sua eternità le regalava.
Appoggiò le sue mani vuote nel suo stomaco, vuoto anch’esso. Sapere che l’aveva tenuta per un breve ma intenso periodo dentro di lei al sicuro, era l’unica cosa che la confortava ma la sofferenza era immensa.
Strinse la mano del suo amato, pronto a guardare in faccia la bramata libertà che li stava abbandonando.
Lo stavano facendo per una giusta causa.









 
 
 
 
 
Salve a tutti!
Ren è la versione riscritta e rivisitata de Il Mio Nome è Renesmee, sempre postata nella categoria Twilight tre anni fa.
Spero tanto che vi piaccia questa nuova versione! Grazie!
Bellamy. 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1. ***


Sbagliai l’ennesima nota e lo stridore acuto del violino echeggiò per la casa fino a vibrarsi per tutto il bosco, rizzandomi i peli delle braccia. 
Guardai l’orologio poggiato nel comodino accanto al letto: segnava le cinque del mattino passate. Fra due ore dovevo alzarmi per andare a scuola. Il primo giorno di scuola. 
Ero sola in casa, tutti erano andati a caccia. Non potevo seguirli, io al buio non potevo vedere, non vedevo come loro, vedevo come gli umani. Le mie iridi erano color del cioccolato. E poi quella sera mi ero arresa al giorno del cibo umano. 
Non dormii quella notte, feci sempre quel sogno. Quel sogno che mi tormentava la vita a cui non sapevo darmi risposta o a cui nessuno cercava di darmi almeno una minima plausibile spiegazione.  
Al solo pensarci mi venivano i brividi di freddo, sentivo il gelo ghiacciarmi la carne delle braccia e la neve fredda che bruciava tra le dita. 
Era un sogno ricorrente ormai, le figure nere che incombevano su di me con le loro mani affilate come artigli pronti a toccarmi, a sfiorarmi, a sventrarmi. 
Quasi ogni notte quell'incubo apriva il mio sonno.  
Abbandonai il violino ai piedi del letto con un sospiro profondo e mi stesi verso il comodino per prendere foglio e penna.
 
Neve.
Montagne.
Pelliccia (Animali?)
Una radura?
Uomini e donne con mantelli scuri, parlavano.
Non era sera, il sole era coperto dalle nuvole.
Non ero sola.

 
Guardai per un attimo quel foglietto stropicciato rendendomi conto che non avevo scritto niente di nuovo rispetto ai foglietti precedenti. Provai anche a disegnare quello che mi ricordavo, era un sogno sbiadito, a spezzone, senza un filo logico. Riuscivo a fare solamente bozzetti che non rispecchiavano ciò che sognavo.
Lo misi accanto ai suoi compagni nella lavagna di sughero appesa al muro accanto alla porta, poi li coprii mettendoci sopra un poster di un paesaggio.
Sapevo che era un atto disperato quello ma per me era quasi un enigma, più che un enigma. Sembrava una scena di quei telefilm polizieschi che trasmettevano in tv ed io ero un detective che non dormiva giorno e notte per risolvere il caso della sua vita.
I detective della tv avevano sempre degli aiutanti con loro.
Forse nessuno mi poteva veramente aiutare, se non solamente il mio subconscio.
Forse era solo un sogno senza un significato specifico, forse un messaggio per me per il futuro.
Forse solo il ritorno di quella memoria che avevo perso.
Era una parte di me, probabilmente era solo questo. Dovevo mettermi l’anima in pace.
  
Presi in mano il mio medaglione sdraiandomi di nuovo nel letto e provai: il primo, il secondo, il terzo tentativo, non riuscivo ad aprirlo. Non sapevo cosa conteneva dentro, era sempre stato con me, sempre stato con me da quando mi risvegliai.  
E non avevo intenzione di usare la forza per aprirlo, ne chiesi agli zii o ai nonni di provare loro ad aprirlo, non volevo che con una minima pressione si rompesse. Non me lo sarei mai perdonata.  
Non sapevo chi me lo avesse donato o se era veramente di mia proprietà. Mi sentivo a disagio se non lo indossavo, se non sentivo la sua pesantezza su di me.
I miei famigliari non avevano mai avuto l'idea di parlarne, non sapevo se era un loro regalo o meno. Niente. 
Accarezzai la bordatura in oro e le linee curve delle piante rampicanti che abbracciavano il medaglione, poteva contenere di tutto. Poteva aiutarmi a completare il puzzle. 
Sospirai e mi misi sotto le coperte calde tirandomele fino alla testa. Non avevo voglia di rovinarmi l’umore, già ci stava pensando il primo giorno di scuola. Non volevo andarci.  
Era la seconda volta nella mia vita che frequentavo la scuola, sempre la media e questo mi stava annoiando un po’.  
Così decisi di prendere la via per il fatidico liceo.
Prima che iniziassi la scuola fu la mia famiglia ad insegnarmi tutto, avevo anche il vantaggio che dopo tre settimane di vita sapevo già leggere e scrivere, così mi avevano detto, e con dei multi laureati in casa, sapevo già un po’ di cose in più rispetto alla mia classe.  
Di questo ne ero certa al cento per cento. 
Non sopportavo che la gente mi fissasse per tutto il giorno parendo ai loro occhi la ragazzina strana con i capelli infinitamente lunghi. Si tenevano a distanza da me, come se avessero paura. Erano intimiditi da me.  
Non mi sentivo vicina ai miei coetanei, loro erano un mondo a parte, io un altro.
La mia crescita si fermò quando compii quattro anni. Le ricerche di Carlisle dicevano che la crescita di un mezzo vampiro finiva intorno ai sette anni.
Questa precocità era troppo strana, non riuscimmo a darci una spiegazione.  
Fui costretta da Carlisle ed Esme per avvicinarmi meglio alla razza umana. Non ne sentivo il bisogno anche se dovevo ammettere che gli umani un po’ mi affascinavano, in qualche modo. 
Ero un ibrido ma non mi sentivo molto umana. 
Feci poche apparizioni in pubblico: per i cittadini di Forks, ero la figlia naturale dei nonni Esme e Carlisle, mentre gli zii facevano la parte dei figli addottati prima che io arrivassi al mondo –per le pettegole di Forks era un miracolo. Loro frequentavano l'ultimo anno di college invece. Tutto ben calcolato. 
I due anni precedenti io interpretavo la parte della sorella minore di Alice, i nostri genitori erano morti in un incidente stradale e così i nostri amati zii Esme e Carlisle ci presero con loro.
 
Spensi la sveglia prima che suonasse e saltai fuori dal letto, furono le due ore più riposanti che io avessi mai fatto. C’era silenzio in casa, si sentiva lo scorrere del fiume vicino, ma sapevo che non ero sola.  
Era proprio come vivere da soli quando si abitava in una casa infestata di vampiri, era fin troppo silenziosi, a volte mi chiedevo se mi avessero abbandonata o meno. 
In mezz’ora fui pronta e mentre le prime gocce di pioggia bagnavano le finestre, scesi le scale e mi trascinai in cucina, dove trovai tutti: Esme era intenta a prepararmi la colazione; Carlisle stava leggendo il giornale; Emmett stava facendo qualcosa al portatile e Rosalie era seduta al bancone, teneva in mano un cellulare, l’espressione concentrata. Mancavano Alice e Jasper. 
“Buongiorno.” Sussurrai salutandoli con un gesto di mano tenendomi a distanza per un attimo, analizzando la situazione. Sembrava tutto tranquillo.  
Mi arrampicai nello sgabello del bancone accanto a Zia Rose che mi sorrise accarezzandomi i capelli, Esme mi mise davanti la solita abbandonate colazione regalandomi uno dei suoi calorosi sorrisi. 
“Primo giorno di scuola oggi! Il liceo! Stai diventando grande!” sbraitò Emmett ridendo. 
Lo guardai per un attimo prima di tirargli la forchetta che lui prontamente prese “Anche io ti voglio bene, Nessie.” 
Risi e continuai a mangiare senza iniziare di nuovo il discorso della scuola, sapevo che Carlisle era irremovibile su questo e non volevo riaprire la discussione. Era stata già troppo animata in precedenza.
La mia risata era l’unica cosa che si sentiva in cucina, l’aria che girava in quel momento era diversa da quella giocosa.
“E’ successo qualcosa?” bofonchiai.
Mi rispose Carlisle posando il giornale nel bancone “Il Clan di Denali ci ha informato di una presenza negativa nelle loro vicinanze. Temono che potrebbero arrivare fino a noi.”
“Chi sono?”  
“Vampiri neonati.” Sospirò lui.
Non era la prima volta che sentivamo notizie riguardo ai neonati. Si facevano sentire spesso, al contrario non si faceva sentire spesso il creatore senza freni. Nessuno sapeva chi fosse.
Li vidi i vampiri neonati: erano spietati, presi dalla fame accecante, senza sosta, senza ragione né autocontrollo. I primi passi di una natura a cui la famiglia Cullen aveva voltato le spalle. 
Carlisle mi raccontò che una volta tutta la nostra famiglia partecipò ad una battaglia contro i vampiri neonati per salvare la stessa Forks e la vinsero. Capii che per loro ogni minaccia non era impossibile e questo mi rendeva in un certo senso forte ma soprattutto orgogliosa.
“In questo momento dove sono?” domandai.
Di solito non m’interessavo di queste cose, guardavo come spettatore e ascoltavo se presenziavo alle discussioni. La mia famiglia non amava molto rendermi partecipe, preferivano non dirmi niente, proteggermi come se fossi una bambina. Alla fine sapevo tutto.
Alice e Jasper fecero la loro apparizione in cucina. Alice metteva in atto passi di danza roteando per tutta la cucina con in mano i miei libri per la scuola che appoggiò al bancone continuando poi a danzare e a vorticare, i piedi non toccavano terra. Aveva lo sguardo perso, gli occhi vuoti, la fronte aggrottata. Sembrava un fantasma tormentato che non dava tregua a chi viveva nella casa. 
Si avvicinò a me e mi diede un bacio nella fronte canticchiando con voce acuta "Buon primo giorno di scuola Nessie! Non posso vedere il tuo futuro ma sono sicura che andrà tutto bene!"
Cercai di afferrarle la mano per ringraziarla ma fu troppo veloce: continuò a volteggiare lasciando tutti noi di stucco.
Jasper era appoggiato sullo stipite della porta, concentrato a guardare ogni movimento di Alice, era perplesso. Forse lui sapeva cosa avesse.  
Alice sparì con dei passi di danza improvvisati.  
Non capii. Non mi ero accorta di tenere ancora la forchetta sospesa in mano. Guardai Rosalie, stava fissando Emmett che a sua volta fissava Carlisle. Le appoggiai una mano nel suo braccio. 
"Che succede?" domandai. 
Rosalie scosse la testa mentre scambiò un'occhiata con Esme. Cadde un silenzio di tomba.
“Che succede?” ripetei.
Quelle espressioni non mi erano familiari, avevamo vissuto sempre una vita tranquilla, conoscevamo i nostri limiti e in questi trovavamo la nostra armonia che non minacciava noi, gli umani o gli altri clan di vampiri. 
Come se uno specchio, liscio e perfetto, si frantumasse in milioni di piccoli cristalli.
Sentii poi la tranquillità pervadere ogni fibra del mio corpo fino al cervello e capii che fu lo stesso dalle espressioni tranquille di tutti. 
Mi voltai verso Jasper, mi fece l'occhiolino e ci lasciò. Anche lui sembrava confuso solo che non lo diede a vedere. 
Carlisle si alzò "Andiamo Renesmee, farai tardi." 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2. ***


Presi la mia borsa a tracolla dal divano e ci misi i libri, corsi in macchina dove Esme e Carlisle mi aspettavano. 
Nell'auto regnava il silenzio, i nonni continuavano a guardare la strada davanti a loro ed io mi presi la libertà di osservarli. Si notava da chilometri che erano turbati dal comportamento di Alice di quella mattina, come lo ero io.
Sentivo lo stomaco sottosopra e non capivo se era per la scuola o per Alice. 
Rivedevo le immagini in slow motion nella mia mente e un senso di inquietudine mi pervase tutta. Il mio cervello faticava a capire cosa potesse essere successo ma non aveva nessun indizio per poterci capire qualcosa, se c'era veramente qualcosa. Era davvero per via dell’ondata di vampiri neonati senza controllo? Potevano essere fermati, potevamo fermarli. Davvero Alice aveva avuto una visione su di loro? Cosa aveva visto da squilibrare gli umori dei Cullen? Se già avevano avuto che fare con dei neonati, perché tutto quel timore? Strinsi forte il mio medaglione, incapace di darmi una risposta.  
La macchina si fermò, eravamo arrivati. Feci un respiro profondo. “Solo cinque ore, tutto qui.
Mi sporsi in avanti per dare un bacio sulla guancia ai nonni che mi augurarono buone lezioni. 
Scesi dalla macchina e m'incamminai verso l'entrata gremita di ragazzi. Come sempre a Forks faceva freddo ed io cercai di farmi piccola piccola sotto il mio cappotto, oltre a scappare dalle occhiate della gente che iniziò ad osservarmi, curiosa. 
Misi a bada la mia sete che fu messa a dura prova, i corridoi erano popolati da decine di umani. Tutti delle possibile vittime, il sangue che scorreva in quella debole pelli che proteggevano il loro fragile collo. Scossi la testa per rimuovere le immagini cruente che la mia mente stava per creare. 
Arrivai in segreteria dove mi diedero le mie ore di lezione: la prima ora era Matematica. Odiavo Matematica.  
La segretaria, tutta rugosa e con dieci chili di rossetto, mi guardò da sotto gli occhiali decorati da fiori -aveva tanto l'aria da pettegola- e mi accolse con un imbarazzante: "Oh! Assomigli tanto ai tuoi genitori, cara!" 
Dalla mia bocca fuori uscì un impercettibile “Grazie.” Volevo sprofondare.    
Scappai dalla segreteria, spiazzata. Appena girato l’angolo sentii i primi mormorii della segretaria e delle sue college, scossi la testa.
Fui la prima ad arrivare in classe e presi il banco più lontano. Presi i libri delle materie di quel giorno: gli argomenti li sapevo già tutti, repressi un lamento.   
Sperai che qualcuno fosse così avventuroso da sedersi accanto a me, ma accantonai la speranza quando tutti gli altri arrivarono e presero posto senza contare il mio banco.  
Tutti a Forks si conoscevano e in classe ognuno si conosceva ovviamente, riuscivo a sentire il mio nome sussurrato da chiunque presente. I Cullen erano ancora oggetto di gossip ma nessuno si azzardava di avvicinarsi a loro. 
Poi arrivò Nina.  
La guardai stralunata quando si sedette tutta a sua agio nella sedia accanto alla mia. Pensai non si fosse accorta di me. 
Posò il suo zaino nel banco, si voltò verso di me con un grande sorriso e mi porse la mano. 
"Piacere Nina." 
Era bassa e un po' robusta, gli occhi castano chiaro, capelli biondi ricci raccolti in una treccia disordinata e le lentiggini. Portava dei jeans troppo grandi per lei, delle scarpe da ginnastica molto vecchie e una maglietta di Star Wars. 
"Renesmee, lei non è cibo." mi ripetei come un mantra. 
Guardai la sua mano , le unghia colorate di verde fosforescente, per un millesimo di secondo, poi la strinsi. "Piacere mio, sono Renesmee."
Lei annuì "Renesmee Cullen, lo so già! Wow! Sei caldissima! Hai la febbre?" 
Sapeva pure che ero una mezza vampira? Strappai la mia mano dalla sua stretta. "No, tranquilla, sto benissimo. Come fai a sapere il mio nome?" Sussurrai, il cuore in gola. Non sapevo perché, ma quella ragazza iniziava a piacermi da subito, anche se mi stava spaventando un po’. 
"Che nome strano Renesmee..." borbottò alzando poi le spalle "Si parla praticamente solo di voi per ora, cara. Da quanto che siete qua?" 
"Strano è bello." borbottai di rimando io "Siamo qui solo da due settimane, se non mi sbaglio." 
Cambiavamo città quasi ogni due anni, per non dare sospetti a quei cittadini fin troppi curiosi - alcuni notavano che non invecchiavamo mai e così, in meno di un giorno, i Cullen avevano dovuto lasciare la città improvvisamente. Quando gli abitanti di qualche città erano troppo vecchi per ricordarci o addirittura morti, noi ritornavamo interpretando la parte dei nuovi arrivati decidendo i rispettivi ruoli che dovevamo incarnare.
Nina annuì "Ancora troppo presto per farli smettere di parlare." 
Continuai a guardarla, stralunata. "Che dicono?" 
Lei fece spallucce guardando la finestra dietro di me. "Che siete arrivati qui di punto e in bianco, che tuo padre, molto giovane, è diventato medico del nostro ospedale. Sai mia madre lavora lì, fa l’infermiera. Che siete tanti figli. Ah! E nessuno sa dove abitate!" 
Nina mi guardò, voleva saperlo. Perché? 
Mi aspettavo di peggio comunque. "Be'…. Si, siamo tanti. E' vero." risposi, tralasciando il fattore casa. 
"Tu vivi da sempre qui?" 
Sbuffò, annoiata. "Si." 
"Non ne sembri tanto contenta." 
"Be', guardati! Piove ogni santo giorno." 
Non le potevo dare torto, pioveva in continuazione. Era snervante. Odiavo la pioggia ma Forks era la città perfetta per la mia famiglia, non ce n'erano tante come questa.
“Non posso darti torto.” Sussurrai guardando la pioggia battere nei vetri delle finestre.
 
Le cinque ore di lezione passarono velocemente per la mia felicità. Tutti il resto degli alunni della scuola mi evitarono come sempre, preferivano parlottare tra loro.  
Quel giorno, ogni volta che uscivo da una classe, trovavo Nina ad aspettarmi fuori nel corridoio. Era inquietante ma mi piaceva, riuscivo ad interagire con gli umani, provare a fare amicizia come si soleva dire.
Mi piaceva Nina perché non sembrava minimamente intimidita da me, continuava a raccontarmi di sé, della sua vita e delle sue passioni e a me piaceva ascoltarla, mi rendeva allegra. In un giorno solo presi conoscenza di tutta la sua esistenza.
Scoprii che io e la mia nuova amica avevamo solo un‘ora insieme, quella di Matematica. Al suono dell’ultima campanella mi strinse in un abbraccio forte, mi prese in contropiede, il suo profumo fu uno schiaffo per me. E la mia bocca era a pochi centimetri di distanza dal suo collo, il sangue pompava caldo sotto quella sottile protezione che era la vena... 
La campanella salvò sia me che Nina. 
 
Mi misi comoda in macchina, nei sedili posteriori. Appoggiai le mie mani nelle guance dei nonni. Non sopportavo usare la voce per parlare, meglio mostrare. "Salve!" 
Carlisle sorrise, mi rispose Esme "Come è andato il tuo primo giorno di scuola, tesoro?" 
"Normale." non riuscii a trattenermi, la domanda uscì di sua spontanea volontà "Stamattina zia Alice era strana, c’entrano i vampiri neonati? Si sente bene?" 
Esme si voltò verso di me per guardarmi, lo sguardo vuoto. Carlisle strinse più forte il manubrio. 
Trattenni il respiro, non me ne accorsi neanche. Che cosa stava succedendo? Qualcuno di più pericoloso di un gruppo di vampiri neonati? Capitava l'arrivo di qualche vampiro... che proprio da vampiro si comportava. E questo mi terrorizzava. Non tutti erano civili. Quando si parlava di visite di vampiri nomadi, gli zii e i nonni erano tendenti ad essere un po' iperprotettivi con me. Anzi, erano sempre iperprotettivi con me.
Tendevano sempre a proteggermi, anche dalla loro stessa razza. Preferivano tenermi sotto una campana di vetro, al sicuro. Zia Rose mi diceva che ero la cosa più importante per loro, che era loro scopo proteggermi perché mi volevano bene. Ero grata di quelle parole ma spesso mi chiedevo se sotto quelle parole ce n’erano altre sepolte.
Perlopiù erano curiosi quelli che ci facevano "visita". Curiosi di sapere se davvero un umana e un vampiro potevano procreare insieme –era abbastanza imbarazzante. Curiosi di vedere me. 
A quanto pare ero l'unica nel mio genere... e questo mi faceva sentire un po' speciale. Eppure mi sentivo un oggetto da esposizione, un prototipo di qualche cosa andata male e poi esposto in un museo dove tutti erano liberi di osservarmi, con i loro occhi grandi, stupefatti.
Uno dei miei progetti per il futuro era quello di girare il mondo e cercare qualcuno come, metà umano metà vampiro. Volevo sapere di più del mio essere, sapere come vivono gli altri ibridi come me, come si approcciavano alle due realtà a cui eravamo destinati.
Carlisle mi parlò delle leggende del Sud America riguardo demoni che si nutrono di belle donne e di ibridi terrificanti nati da quelle unioni.  
Infine, Esme mi sorrise e scosse la testa "Niente, amore. Le solite visioni, alcune confuse. Alice non può capirle tutte. Sta bene."
Sentii il nervosismo nel sua voce e questo mi destabilizzò, decisi di non indagare più.
Portai le mie mani strette in grembo, guardai Carlisle, gli occhi puntati nella strada, e poi Esme.
Non sembrava convinta ed era raro che Alice si comportasse in quel modo per via di una visione. Andava di matto se non capiva nulla, si, anche se era raro che lei avesse delle visioni confuse. Diceva sempre che erano limpide e chiare, solo un po' sfocate dalla mia presenza. Che niente avrebbe scalfito la nostra tranquillità e sicurezza. 
Ma quella mattina non era la Alice di tutti i giorni. 
E la storia dei neonati non mi sembrava tanto vera. 
Guardai fuori il finestrino, mi sembrò di vedere delle mantelle nere come la notte, di fronte alla mia visuale. 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3. 
 
 
 
Affondai i miei canini nel collo del cervo immobilizzato dalle mie braccia mentre le mie gambe serravano le zampe, vietandogli di poter divincolarsi.  
Ruppi la vena più grossa e il sangue caldo scese velocemente nella mia gola arsa e secca. Il resto del branco scappò alla mia vista spaventati ma la fine fu uguale al loro compagno. 
Dopo scuola pregai la mia famiglia di andare a caccia, ne avevo bisogno. Sentivo ancora l’odore squisito di Nina tra le mie narici e questo non andava bene.
Ne feci fuori otto più un orso che mi lasciò Emmett dopo averci giocato un po’ -sotto lo sguardo spaventato di Rosalie-, fu il mio primo orso quello. 
Mi sentivo ogni volta in colpa quando cacciavo ma la parte vampira di me, quella che predominava sulla parte umana, era sempre smaniosa di sangue, era il suo pensiero fisso e il sangue d'animale non gli bastava. Sangue umano solamente nelle emergenze, purtroppo, ma potevo resistere.   
Non mi nutrivo di sangue da quattro giorni, solo cibo umano per mia sfortuna ma potevo sopravvivere solo anche di quello, potevo sopravvivere di cibo umano per tutta la mia esistenza. Ma la gola bruciava, come se avessi ventiquattro ore su ventiquattro un ferro rovente che ardeva nella gola. Era doloroso.  
A volte mi chiedevo cosa spingesse la mia famiglia a solo cibarsi di sangue animale invece di quello umano. Ero più naturale per loro. Per me potevo sorvolare la situazione, ero per metà umana. Un po' di rispetto a quella parte di mondo a cui appartenevo. 
Poi arrivavo sempre all'unica conclusione che ci accomunava: il rispetto. 
Lasciai cadere la carcassa del cervo tra la terra bagnata del bosco, la mia maglietta era tutta sporca di sangue e avevo i capelli arruffati e pieni di nodi. Zia Alice mi avrebbe fatto dormire fuori casa quella notte. 
Mi guardai intorno, circondata dagli alti abeti, ero sola, si sentiva il frastagliare delle foglie causato dal vento.
Mi misi a correre a cercare il resto del gruppo. 
Saltai da un tronco d'albero all'altro con il vento che soffiava e accarezzava i miei capelli lunghi lasciati liberi, senza costrizioni. 
Era bello correre: mi sentivo libera, libera da tutto. Il mio cervello vagava, tra i suoi pensieri, incurante di dove stessi andando. A quello ci pensavano le mie gambe. 
Seguivo il sole in procinto di tramontare e nascondersi nelle acque fredde dell'oceano Pacifico, che illuminava la strada con la sua luce piena di sfumature rosse e arancioni rendendo così il castano ramato dei miei capelli una fiaccola ambulante.  
Vidi Rosalie correre diretta verso casa, dall'altra parte del bosco, a molti metri di distanza da me. 
Sotto ai miei piedi sentivo dei ringhi feroci e dei passi pesanti che solcavano il terreno.  
Oh no, i lupi.   
Capii il perché: mi stavo avvicinando al loro territorio. Stavo facendo il giro largo per tornare a casa: mi ero fermata a cacciare troppo lontana dal solito perimetro. I licantropi mi avranno sentita. 
Arrivai al precipizio, la fine della selva, dove solo l'oceano limitava la parte di bosco da quella dei Quileute.  
Saltai sapendo che era vietato per me. Dovevo. 
Toccai piede in terra proibita e sentii subito i primi ululati. Avevo il cuore a mille, mi rialzai dalla mia posizione accovacciata ed iniziai a correre, usando tutta l'energia che avevo appena assunto.  
I Quileute erano la tribù indiana della riserva di La Push e avevano un segreto: alcuni di loro erano dei licantropi.  
Quando spuntavano i vampiri, spuntavano pure loro. Carlisle mi raccontò che tanto tempo fa, lui e il capo del branco stipularono un accordo: non avvicinarsi nella loro terra e divieto assoluto di cibarsi di umani o farli diventare vampiri. 
Questo patto fu sempre solido e sempre rispettato, da decenni. 
Erano dietro di me, in dieci, e mi seguivano. Sentivo l'aria spostata dalle loro zampe che cercavano di acchiapparmi.  
Saltai, il mare sotto di me. Arrivai in uno spiazzo pieno di rocce dove la mia famiglia mi stava aspettando, preoccupati.  
"Scusatemi." dissi con il fiatone, i polmoni mi bruciavano e vedevo tutto vorticare intorno a me.  
Rosalie si avvicinò e mi strinse forte a sé "Nessie, mi hai fatta preoccupare. Potevano farti del male, devi stare più attenta la prossima volta." 
 “Colpa mia.” Sussurrai, guardai Carlisle che guardava oltre la mia spalla.  
"Non credo avessero intenzione di farle del male." disse calmo, "Penso ci vogliano comunicare qualcosa."  
Mi voltai, un lupo color nero come il petrolio era fermo sulla scogliera, dietro di lui c'erano i lupi che lo avevano seguito prima e che mi avevano inseguito precedentemente. Ulularono, i musi all'insù, verso il cielo grigio e nuvoloso. Il vento aveva iniziato a tirare forte. 
Cosa volevano? Un avvertimento? 
"Andiamo." disse alla fine Carlisle.
 
 
Ci fermammo in una radura dove l'erba era alta e i fiori appassiti e trovammo lì i Quileute, in forma umana, ad aspettarci. Erano in quattro: capelli scuri, pelle scura ma non troppo, olivastra, alti e muscolosi ma non quanto Emmett. Mi chiesi se almeno uno di loro aveva provato a darmi la caccia prima. 
Rimasi accanto a Rosalie che si avvicinò di più ad Esme e Alice. 
Emmett e Jasper affiancarono Carlisle. Sperai non fosse un rimprovero per me per quello che ci stavano per comunicare. Arrossii sotto gli occhi dei giovani Quileute.
"Salve." salutò gli ospiti. 
Il ragazzo al centro, il capo branco, era Julian. Zio Jasper mi disse che fu eletto capo branco e non diventandovi per via di ereditarietà. Mi raccontò che l'ultimo capo branco, diretto discendente dell'ultimo capo branco -colui che stipulò con la mia famiglia l'accordo- morì molto tempo fa in una battaglia contro dei vampiri. Ma che loro in quella guerra non furono coinvolti, arrivarono dopo.
Mi disse che si chiamava Jacob Black e che era una presenza fissa a casa nostra, questo mi suonò molto fuori luogo.
Li guardai ad uno ad uno. Come era vivere dentro un corpo di un lupo? 
Julian si avvicinò a Carlisle. Non aveva un'aria minacciosa ma molto seria e attenta. "Da un paio di giorni stiamo controllando tutto il perimetro, anche il vostro. Ci sono dei vampiri in zona. Sentiamo la loro puzza, fanno delle brevi apparizioni e non siamo ancora riusciti a raggiungerli. Hanno usato pure dei trucchi accecandoci e rendendoci sordi."
Mi guardai attorno, che fossero i neonati di cui tutti i clan parlavano?
“Sapreste descriverli?” domandò Carlisle.
 
Jasper si avvicinò a Carlisle e gli disse qualcosa all’orecchio. Lui annuì e si voltò verso di me, aveva un’espressione neutra.
“Renesmee, perché non vai a casa? Si sta facendo buio, noi arriveremo subito.”
Lo guardai ma non gli risposi, la testa era vuota ma piena di domande allo stesso tempo. Perché? Cosa era successo che non potevo sapere? I licantropi perché non avevano ucciso direttamente i vampiri neonati, come la loro natura pretendeva, e basta? Perché informarci?
“Carlisle!” chiamò Rosalie, aveva i pugni chiusi, gli occhi di fuoco puntati su di lui.
Guardai Carlisle e poi tutta la mia famiglia. Ricambiarono il mio sguardo ma non dissero nulla. Alice aveva l’espressione sofferente. Il sole ormai era quasi sparito dietro le montagne alte.
Un impeto di rabbia mi colpì come un treno. Ero stufa di tutta quella protezione e di quei segreti, stufa che ancora mi trattavano come se fossi una bambina di cinque anni.
Ecco l’altra faccia della medaglia: il silenzio.
Il silenzio che seguivano le mie domande: perché non ricordavo nulla, cosa mi era successo, perché ero una mezza vampira…
Chi erano i miei genitori.
Queste erano une delle poche domande che mi torturavano , che mi rendevano incompleta, che rendevano le mie notti insonni. Le odiavo, mi odiavo. Perché ero io la causa di quelle domande.
Perché se non fosse successo quello che era accaduto – chissà che cosa -, io avrei avuto ancora la memoria integra. Nessun scoccio della mia vita passata, neanche un volto, una frase, un evento. Non ricordavo nulla. Il vuoto.
Se non mi rispondevano, cambiavano argomento. Se io cercavo di riportare l’attenzione alle mie domande, loro mi dicevano di non pensarci.
Ma io ci pensavo, ogni notte. Era impossibile non pensarci o chiedersi il  perché.
M’immaginavo il come, il quando e il perché. Chi erano i miei genitori/creatori, se sapevano a cosa stavano andando incontro, se già conoscevano i Cullen. Cosa li aveva spinti ad andare via.
Perché mi avevano abbandonata.
Se erano morti oppure no. Dove si trovavano in quel momento. Che aspetto avevano.
Perché avevo perso la memoria e come.
Mi ricordavo solo di essermi svegliata in un grande letto, con i volti della mia famiglia attorno. Non ricordavo neanche chi fossero. Non ricordavo neanche il mio nome. Ero totalmente fuori dal mondo.
Ero sempre grata ai Cullen. Sin da subito mi avevano fatta sentire parte integrante della famiglia. Ed io mi sentivo una Cullen, ne ero orgogliosa. Mi avevano aiutato a completare il puzzle che ero diventata. Quasi del tutto, almeno.
Il mio passato era un taboo. Mai chiedere, mai sapere. Sapevo solo che mi ero svegliata dopo tanto tempo da un lungo sonno, simile al coma per gli umani. Cosa era successo prima?
L’unico elemento che poteva aiutarmi a capire qualcosa era il mio medaglione, forse. Da quando mi ero svegliata l’avevo sempre con me. Ma anche una semplice collana m’impediva di sapere.
“L’accompagneranno i miei fratelli.” Offrì Julian indicando i due ragazzoni dietro di lui.
Lo guardai, lui ricambiava il mio sguardo. La sua espressione era strana. Come se mi conoscesse da sempre.
Non dissi nulla, con addosso le occhiate di tutti, seguii i due ragazzi che iniziarono a fare strada nel bosco.
“Ci vediamo dopo.” Sussurrai, la voce carica di rabbia.
Mi voltai di spalle mentre camminavo, Rosalie mi osservava come se si volesse accertare che io stessi seguendo i due Quileute. Aveva la fronte aggrottata, sembrava affranta.
Gli altri le voltavano le spalle, concentrati com’erano nella conversazione segreta con Julian. Ma ero troppo lontana per sentire cosa si stessero dicendo.
Mi voltai e guardai i due giovani davanti a me: guardavano dritto davanti al bosco, diretti verso casa mia.
Chissà se sapevano qualcosa loro, se sapevano il segreto che i Cullen non volevano che io sapessi. Ovvio che sapevano, erano un gruppo unito loro. E si leggevano nella mente.
Oltre a questo, mi vennero tante domande relative alla loro natura. Li guardavo, erano dei ragazzi normali. Forse andavano ancora al liceo.
Ragazzi normali capaci di trasformarsi in lupi grandi più di un cavallo.
 Mi affascinavano: c’era qualcosa di magico in loro. Non erano solo una leggenda. Tutto era vero.
Mentre camminavamo attraversando le piccole rocce dei sottili torrenti, presi un respiro profondo, mi schiarii la voce e domandai.
“Voi sapete che è successo?”
Loro si fermarono davanti a me ed io mi arrestai, mi guardarono, interrogativi.
Il ragazzo alla mia destra, quello con una lunga cicatrice che partiva dall’angolo della bocca e finiva fino al suo stomaco, scosse la testa. “Dei puzzolenti succhiasangue ci stanno solo rompendo le scatole. Tutto qui.”
Dalla sua voce trasparivano disgusto e indignazione, lo stesso dai suoi occhi neri.
Detto questo iniziarono di nuovo a camminare. Questo lo avevo capito, io volevo sapere altro.
“Sono i vampiri neonati? Da dove vengono? Sapete chi li ha creati? Quanti sono?”
Mi rispose sempre il ragazzo con la cicatrice continuando a camminare “No, ci interessa solo che se ne vadano.”
Continuammo a camminare, non feci più domande. Avevo capito ormai che da loro non potevo cavare nessuna informazione, forse davvero non sapevano quali vampiri fossero. E poi non volevo mettere a dura prova la loro pazienza.
Non so quanto ci stavamo mettendo: stavamo camminando a piedi, a passo umano, e non credevo potessero gradire vedere me correre per raggiungere casa facilmente.
Mentre stavamo prendendo una stradina per raggirare il fiume e andare dall’altra parte del bosco, i miei occhi vagavano annoiati osservando la natura che mi circondava.
Ormai era calato il buio e la luna illuminava la nostra strada. Io a poco non vedevo nulla ma non dissi niente, non sentii nessuna lamentela da parte dei licantropi.
Mi fermai un attimo, incuriosita da una strana forma nascosta dagli alberi e dai cespugli, i raggi della luna lo illuminavano a poco. Sembrava una casa.
Mi fermai e mi avvicinai scostando i rami che mi vietavano di guardare con chiarezza. Era una casetta abbandonata. Un cottage.
“Che stai facendo lì?” mi sentii urlare.
Tornai di nuovo indietro, i due ragazzi scuri fecero dei passi in avanti verso di me, sospettosi.
Non potevo vederlo ma sapevo che stavo arrossendo. “Potete andare, grazie mille per avermi accompagnata.”
Il secondo, quello che ancora non aveva parlato, scosse la testa in segno di diniego “Abbiamo promesso che ti avremmo accompagnata fino a casa tua. Il tuo clan ti starà aspettando.”
Sinceramente, non m’interessava se  i Cullen erano preoccupati della mia assenza, se erano già a casa. Forse stavano confabulando su i loro fatti segreti. Che continuassero tranquilli. Tanto non potevo sapere.
Ero ancora arrabbiata con loro, e un bel spavento poteva andare meglio.
“E l’avete fatto. Davvero, potete andare. E ringraziate il vostro capo da parte mia.” Dissi loro torturandomi le mani e pregandoli di andarsene.
Si guardarono negli occhi, come per valutare la situazione. Poi fecero spallucce. “Fatti tuoi.” Disse uno dei due e si misero a correre per il bosco. Sentii poi dei ruggiti, segno che si erano trasformati.
Appena fui certa di essere completamente sola, ritornai tra il fogliame che circondava il cottage.
Era piccolino e molto antico, delle piante verdi rampicanti circondavano tutte le mura di pietra esterna fino ad arrivare al tetto. L’odore era forte.
Sembrava una di quelle casette che si vedevano nei racconti illustrati per bambini.
Non c’era nessun segno di infrazione o di danneggio. Era intatta.
Le finestre erano chiuse, i vetri impolverati, le tendine erano serrate. Le rose che si trovavano nelle mensole esterne erano secche, nere ed appassite.
Era disabitata da anni.
Mi avvicinai alla porta di legno, appoggiai la mano alla maniglia impolverata e feci forza per aprire: era chiusa a chiave.
Feci il giro della casa da fuori e arrivai nel dietro dell’abitazione. Si trovava ancora un laghetto limpido circondato dall’erba alta.
Nel dietro della casa si apriva un piccolo recinto che dava accesso ad un laghetto e a tutto il bosco, si poteva vedere l’intero fiume.
Mi avvicinai, una porta finestra era aperta. C’era un silenzio desolante all’interno. Fui titubante per un attimo chiedendomi se entrare o meno ma la curiosità ebbe la meglio.
Scostai le tende lunghe, setose e bianche e mi ritrovai in una camera da letto.
Le pareti erano color azzurro cielo con sfumature di bianco in alto, il parquet era color della sabbia.
Al centro c’era un grande letto a baldacchino, le lenzuola bianche disfatte. Alcuni cuscini ai piedi del letto. Era circondato da un arredamento ottocentesco quasi, i mobili bianchi con decorazioni di fiori abbellivano senza troppo sfarzo la stanza.
Mi aggirai per la stanza, in sovrappensiero, incantata, sfiorando gentilmente le lenzuola, la spazzola per i capelli appoggiata su un mobile di fronte al letto. Sopra padroneggiava un enorme specchio ornato d’oro.
Le poltrone che circondavano il letto erano ricoperti di vestiti: femminili e maschili. Capii che i proprietari non erano molto ordinati. Li capivo.
Uscii da lì ed entrai in una cabina armadio due volte più grande della stanza da letto. Ovviamente era piena di vestiti, soprattutto femminili. C’era poca traccia di vestiti maschili.
Non sapevo perché ma guardavo tutto con una divorante curiosità e attenzione. Era la prima volta che vedevo quella piccola casetta abbandonata. Non sapevo della sua esistenza prima d’ora, era ben nascosta dagli alberi, invisibile. Ed io il bosco di Forks lo conoscevo bene.
Dedussi che i proprietari fossero una coppia, credevo. Chissà se la mia famiglia li conosceva. Forse quando ci trasferimmo qui, la coppia era già andata. La mia mente ritornò a loro, chissà se si erano accorti della mia assenza da casa. Zia Alice non poteva vedere il mio futuro, non sapevano dove potessi essere. Se i lupi avevano fatto la spia…
Uscii dalla cabina armadio e seguii per il corridoio che terminava con un salottino molto accogliente che si apriva ad una stanza da pranzo, il camino spento e polveroso di fronte al divano rosso. Dei libri messi alla rinfusa nel piccolo tavolino basso che divideva il camino e il divano. C’erano tante candele e dipinti di paesaggi. Una scrivania teneva una macchina da scrivere di circa cento anni fa. I fiori nel vaso al centro del tavolo erano appassiti.
Le tende ormai giallastre erano serrate. All’interno della stanza c’era un forte odore di chiuso, quasi nauseante.
Ritornai indietro, la cucina era rustica e molto piccola. Il bagno tutt’altro.
Arrivai all’ultima camera. Era più piccola rispetto alla camera da letto patronale. I muri erano color panna così come le tendine, i mobili, una culla in ferro battuto accanto alla finestra ed un letto che prendeva quasi tutta la stanza. Le lenzuola disfatte, i cuscini nel letto.
Era la stanza di una bambina. Nei muri erano appesi dei disegni, ma erano troppo complicati per una bambina che poteva avere al massimo cinque anni, vedendo dalla stanza. I disegni raffiguravano delle persone, dei paesaggi, dei lupi? Erano ben disegnati e colorati, con una seria attenzione nei dettagli.
A vedere i lupi, trasalii.
C’era pure un computer portatile e tanti libri, di poesia soprattutto, ma anche dei gialli. Non solo in Inglese, ma anche in altre diverse lingue.
Nel comodino c’era un bracciale ornato da perline tutte colorate con motivi triangolari. Accanto c’era un MP3, non se ne vedevano più al giorno d’oggi.
Sospirai. Tutto qui. Mi sentii triste per quella casa e un po’ inquieta. Triste perché era un peccato abbandonare una dimora come quella, inquieta perché ero a casa di estranei e mi sentivo gli occhi addosso. Mi sentivo colpevole. Il silenzio della sera, della casa e del bosco non aiutavano di certo.
Guardai l’orologio nel mio polso. Erano le undici di sera e avevo già sonno.
Uscii dal retro, prendendo dalla camera da letto. La temperatura era scesa ancora, mi coprii la testa con il cappuccio della mia felpa e mi strinsi forte con le braccia.
Calcolai la rotta più breve per tornare a casa da dove mi trovavo, almeno il fiume l’avevo saltato. Era buio e faceva freddo, meditai sulla possibilità di dormire lì, nella casa della famiglia sconosciuta. Con quel gesto potevo spaventare veramente la mia famiglia, beccandomi direttamente il rimprovero di nonno Carlisle. Cioè di tutti poi.
Ritornai indietro, nella camera della bambina. Mi tolsi le scarpe e mi misi sotto le coperte. Fui percorsa da dei brividi per via delle lenzuola fredde. Mandai un messaggio ad Esme:

Sono sana e salva. Sono nel bosco. Tutta colpa mia. Ci vediamo domani.
Vi prego non arrabbiatevi.
Nessie : )

Misi il cellulare nel comodino accanto a me e spensi la luce dell’abat-jour. Mi coprii bene con le coperte fredde portandomele fino alla testa coprendomi tutta.
Mi addormentai subito. Ma fu un altro sonno turbolento. 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4. ***


Aprii gli occhi districandomi dagli strati di coperte e cuscini che avevo con me, cercando di svegliare i miei arti e me stessa.
Riconobbi il soffitto di casa mia.
Mi alzai di scatto con un gran senso di confusione e di disorientamento. Ero nella mia stanza. Uguale a come l’avevo lasciata l’ultima volta. Mi dovevano aver presa mentre dormivo, perché non mi ero svegliata? Come avevano capito dove mi trovavo? Conoscevano il posto? O avevano girato a vanvera?
Avevo voglia di urlare.
La casa era silenziosa. Brutto segno. Arrossii e mi nascosi sotto il letto, maledicendomi per l’avventura di ieri. La testa mi girava forte.
Scesi dal letto non sapevo quanto tempo dopo, la parte codarda di me si teneva nel letto con gli artigli infilzati su di esso. Tutto sommato dovevo andare a scuola.
Mi preparai velocemente cercando di fare il meno rumore possibile ma sapevo che loro sapevano che ero sveglia. Questo mi fece piccola piccola. Già sentivo le urla di tutti e pure le mie.
Tutto ad un tratto la rabbia che avevo prima era sparita lasciando il posto alla vergogna e all’imbarazzo.
Mi ero comportata da bambina. Che senso aveva avuto quella fuggita?
Ero solamente arrabbiata e volevo fare i capricci.
La mia mente ritornò al cottage fiabesco in mezzo al bosco, aveva una aura incantata intorno a sé. Volevo ritornarci. Poteva essere il mio rifugio segreto.  
“Sei stupida, Renesmee Carlie Cullen.”  Mi dissi davanti allo specchio, litigando con i miei capelli. Arrivavano quasi alle ginocchia e non li sopportavo più ma zia Alice e Rosalie non mi permettevano di tagliarli ed io, in fondo, non avevo tutto quel coraggio.
Guardai in cagnesco la spazzola, prendendomela con lei.
Non li tenevo mai sciolti, era impossibile. Mi piacevano le trecce, ogni tipo di trecce. Ma per quel giorno decisi di fare uno chignon veloce.
Scesi in cucina dove trovai Esme intenta a cucinare la colazione per me, era sola. Appena mi vide nella soglia della porta, spense i fornelli e appoggiò le mani sull’isola della cucina. Gli occhi bruciavano.
Aiuto.
“Non farlo mai più, signorina. Ti rendi conto di cosa hai fatto?”
Guardai fuori la finestra. Non avendo il coraggio di guardarla negli occhi, sentendomi così più stupida. “Ero nel bosco.”
Esme strinse le braccia al petto “Nel bosco quando noi ti avevamo detto di ritornare a casa. E non l’hai fatto.”
La rabbia ritornò in me “Non l’ho fatto perché era ormai troppo buio per me, potevo combinare altri guai. Vi avevo anche avvertiti.”
Mi rispose, con un espressione di disappunto mescolato con rabbia “E perché avresti mandato via i giovani Quileute? Ti dovevi far accompagnare da loro!”
La guardai, mi avevano trovata loro. Sapevano perché mi ero fermata. “Perché mi ero incuriosita di quella casa e avevo deciso di vederla. Non l’avevo mai vista prima.”
Mia nonna, che era veramente una madre per me, chiuse gli occhi e appoggiò le sue dita nelle tempie.
“Renesmee…”
La guardai non capendo il perché di quella reazione. Nel bosco c’eravamo solo noi, di notte soprattutto, chi potevo mai incontrare? Sapevo anche difendermi da sola, ero un po’ più forte rispetto agli umani.
Quella casetta era nascosto da quel profondo fogliame e dimenticata da tutti, chi poteva mai avvicinarsi o conoscerla?
“Conoscete il cottage? Sapete di chi é?” sussurrai.
Scosse la testa “Non parliamone ora, parliamo di te. Hai idea di quello che poteva succederti? Non ora che.” Si fermò, non finendo la frase. “Mangia la tua colazione, Renesmee.”
Strinsi le mani in pugno “Non ora che cosa?”
“Devi andare a scuola, mangia o faremo tardi.”
“Non ora che cosa?!” gridai con tutta l’aria che avevo nel polmoni.
Seguì un minuto di silenzio interminabile. La tensione tra me ed Esme si poteva tagliare con il coltello. Non era mai successo prima.
In quel urlo c’era lo sfogo di molti anni, ancora lo sentivo riecheggiare nel mio orecchie. Dentro di me sentivo l’adrenalina scorrere nelle vene. Il senso di colpa, però, m’invase ma lo scacciai subito. Non potevo continuare in quel modo, dovevo sapere, volevo sapere la verità.
Vedevo negli occhi di Esme sofferenza mista ad indecisione, perché?
Esme non sembrava colpita dal mio urlo, era rimasta impassibile. “Ci sono dei vampiri in giro. Non sono come noi, e non sono affatto amichevoli. Non sono i vampiri neonati.”
La sua espressione cambiò subito: da furiosa a metà come se si fosse levata un peso dallo stomaco dopo tanto tempo.
Ora capii il collegamento con i licantropi. Li avevano avvertiti, o li avrebbero uccisi direttamente.
Per quale motivo il Clan di Denali ci aveva avvertiti di un avvistamento di vampiri neonati? Che si fossero sbagliati?
“Chi sono?”
Lei chiuse di nuovo gli occhi, una espressione di dolore le colpì forte il viso ed io mi sentii mancare il fiato.
In quel preciso momento non riuscivo a pensare niente, mi sentivo sospesa nell’aria, i secondi passavano tirandomi ancora in alto con lentezza. Tutto questo seguito dal viso preoccupato di mia nonna che mai mi aveva fatto più male.
Non era la prima volta che la vedevo triste o preoccupata. Quando succedeva pensavo fosse per nostalgia, nostalgia della sua vita da umana, nostalgia di suo figlio. Per qualcos’altro forse.
Ma quella Esme era dilaniata dalla paura.
“I Volturi. Sono qui.” Sussurrò alla fine.
Annuii. Capii. Carlisle mi aveva raccontato di loro. Nei primi anni della sua vita era stato in Italia a studiare, ospitato proprio da questo potente clan, forse il più potente di tutti.
Li consideravamo i protettori della nostra razza. Nessuno, però, si azzardava a sfidarli perché la fine sarebbe stata certa e uguale per tutti. Tutti ne parlavano bene ma nessuno si azzardava ad avvicinarsi alle Alpi o al Mediterraneo. I nostri tre Signori avevano nella loro Guardia i vampiri più potenti e più capaci, potevano distruggere un clan in pochi secondi.  
Io non li vidi mai di presenza, solo tramite quadri, nella stanza dei quadri che era presente in ogni nostra casa, che raccontavano un po’ la storia della nostra famiglia.
Avevano un aspetto molto regale, erano degli intellettuali, appassionati di scienze, cultura e di tutto ciò che era nuovo. Erano dei bravi trovatori di doni.
“Dove sono gli altri?” domandai.
Esme guardò fuori la finestra, stranamente quel giorno c’era il sole. “Carlisle è in ospedale. Gli altri sono nelle loro proprie case, verranno presto.” L’espressione perplessa non le lasciò pace.
Mi avvicinai a mia nonna e le strinsi la mano “Sarà solo una visita. Non c’è niente di cui preoccuparsi.” La rassicurai con un sorriso, forzato.
Ricambiò la stretta ma non il sorriso “Si, ma non farmi più uno scherzo del genere, mi hai fatto prendere un colpo. Mangia.” Mi ordinò.
 
Scesi dalla macchina. Mi aveva accompagnata Esme e questo era insolito. Nelle giornate soleggiate non mi accompagnavano mai, andavo da sola a scuola. La luce del sole non mi causava problemi, solo un leggero bagliore inosservato all’occhio umano in confronto alla pelle di diamante dei vampiri colpiti dai raggi solari.
Non feci obbiezione quando Esme mi spinse in garage e prese la sua Audi, forse era un modo per essere sicura che io arrivassi a scuola sana e salva con i Volturi nei paraggi, pronti a non sapevo cosa.
I Volturi potevano essere pericolosi, se veniva messa a dura prova la loro pazienza ma non capii il terrore che colpì mia nonna al solo pronunciare il loro nome.
Non avevamo fatto niente di grave, nessun umano aveva scoperto la nostra reale identità o tantomeno eravamo usciti di casa quando il sole era alto prepotente nel cielo.
Non avevamo fatto niente. Carlisle era un loro grande amico, parlava sempre bene di loro.
Forse l’inquietudine di Esme era solo ingiustificata, forse era la prima volta che capitava questa visita da parte dei vampiri italiani e lei non sapeva cosa aspettarsi. Speravo.
 
Nina mi aspettava seduta nel marciapiede, alle sue spalle la scuola. Indossava delle scarpe da ginnastica, pantaloncini e una maglietta a maniche corte, come se per lei l’estate non era ancora finita. Il vento tirava le sue lunghe ciocche bionde dietro, come faceva con le mie.
Le tesi la mano per aiutarla ad alzarsi e lei la prese con gratitudine. “Buongiorno!” esclamò.
“Buongiorno a te! A cosa è data tutta questa allegria?” l’invidiavo.
Nina guardò in alto il cielo facendo un gridolino di gioia, subito dopo mi strinse forte con tutte e due le braccia. Risi.
Ricambiando il suo abbraccio, vidi qualcosa di strano negli alberi del bosco, non lontano dall’istituto. Per niente lontano dalla scuola.
Erano delle figure nere, tanto simili a quelle del mio incubo. Tutto ad un tratto il cielo divenne grigio. Sentii il ghiaccio bruciare nei palmi delle mie mani. Sentii la confusione. Fui scossa da dei brividi freddi che cercai di scacciare immediatamente. Sbattei le palpebre e tutto era tornato come prima, non c’era nessuno in mezzo agli alberi. Nessuna ombra, nessun mantello nero.
“La storia delle farfalle allo stomaco è vera.” Mi rispose Nina sprizzante di gioia, continuando a stringermi.
Mi sentii cadere dalle nuvole, mi schiarii la voce. “Chi è il fortunato?”
Sciolse la stretta e mi strinse la mano “Te lo farò vedere in una delle prossime lezioni!”
Le sorrisi ma sapevo che ero poco convincente, i miei occhi vagavano ancora tra gli alberi, la strada e le macchine. Mi sentivo osservata, chiusa in una stanza senza finestre né porte.
La mia amica mi guardò aggrottando la fronte “Che succede?” si girò per capire cosa stessi guardando ma ritornò a guardare me, non capì nulla.
Le presi di nuovo la mano e la trascinai con me dentro l’edificio “Niente, sono solo molto stanca. Non ho dormito questa notte. Ma soprattutto sono felice per te!” Per quella volta il sorriso era sincero.
Nina iniziò a saltellare, il buon umore era ritornato. Per tutto il tragitto fino in classe mi raccontò di quanto bella la vita fosse.
Le ore di lezione passavano lente e non ci fu un attimo a cui avessi prestato attenzione a ciò che dicevano i professori o a quello che mi diceva Nina.
Non riuscivo a staccare gli occhi dalla finestra e da quello che c’era fuori. Tutto scorreva con tranquillità ma io avevo visto qualcosa. Non era stato un brutto scherzo dei miei occhi.
Mi sentivo strana, inquieta, avevo una brutta sensazione che mi camminava sopra le braccia come un ragno pericoloso.
Non mi sentivo sicura, non sentivo sicura la mia famiglia. Avevo intenzione di usare la scusa dei dolori mestruali – che io assolutamente non conoscevo -, correre in infermeria e chiamare qualcuno che potesse venirmi a prendere, solo per assicurarmi che la mia famiglia stesse bene.
“Mi vuoi dire che hai?!” mi chiese Nina opprimendo un urlo. Eravamo a mensa ed io guardavo davanti a me la mia insalata, la mia bottiglia d’acqua e la mia mela, completamente intatte. Io ero completamente nel mio mondo, continuavo a stropicciare l’orla della mia maglietta.
La guardai e mi sentii in colpa, aveva ragione a lamentarsi. “Scusami.” Sussurrai.
Fermo le mie mani nervose e me le strinse “Che c’è che non va?” sussurrò, era così tenera che ebbi l’impulso violento di abbracciarla.
Scossi la testa “Niente, problemi a casa.” Volevo mordermi la lingua, dovevo stare attenta a ciò che dicevo e dove lo dicevo.
Lei annuii, comprensiva. “Se vuoi parlarne, io sono sempre qui.”
Mi alzai dalla sedia di plastica e l’abbracciai “Grazie. Non c’è niente di cui preoccuparsi, tutto va bene, tutto è al suo posto.”
  
Quando l’ultima campanella suonò, strinsi velocemente Nina in una abbraccio e scappai fuori. Presi una grande boccata d’aria e chiusi gli occhi. Il malessere interiore non cessò, si amplificò.
 
Era pomeriggio, mi trovavo seduta a terra nel salone di casa, la tv stava trasmettendo un documentario sull’Antica Grecia. Stavo facendo i compiti di Inglese mentre mi gustavo il mio sangue umano, rigorosamente zero negativo. Lo zero negativo aveva un sapore diverso dagli altri tipi di sangue, era il mio preferito. Non capii il perché ma Esme me lo offrì ed io non riuscii a dire di no.
Tutti erano a casa: Alice e Rosalie erano elettrizzate dalle nuove spese che avevano fatto per me. Mi mostravano i nuovi capi come se fossero roba da vendere all’asta. Emmett e Jasper stavano giocando a poker, bisticciavano animatamente e scommettevano cose grosse.
Esme e Carlisle erano dietro di me, seduti tranquillamente nel divano, accoccolati.
Tutto era perfetto, nessuna ansia, nessuna paura, nessuna preoccupazione.
La paura sia mia che di Esme era irrazionale. Dentro me feci un respiro di sollievo, grata. Grata che tutte quelle paura erano infondate. Dovevo scusarmi con Nina per averla spaventata, non se lo meritava.
 Nessuno aveva fatto cenno riguardo i Volturi o di imminenti visite di vampiri.
Ma dentro di me sentivo quella sensazione martellante che picchiava il mio petto.
 
Stavo imparando un nuovo spartito, il mento appoggiato al violino. Prima di dormire mi sgranchivo le mani in quel modo. Esme adorava sentirmi suonare, la commuoveva. Avevo un repertorio esclusivamente dedicato a lei.
Bussarono alla porta e fecero capolino Esme e Carlislie. “Possiamo entrare?” chiese lui.
Annuii facendo segno di sedersi nel letto. Posai violino e archetto accanto a me.
Non mi aspettavo visite. Chiusi gli occhi, quasi li strizzai. Ecco un nuovo rimprovero in arrivo.
“Tranquilla, il rimprovero l’avrai dopo, se ti aspetti questo.” Disse Carlisle in tono scherzoso, mi diede un bacio nella fronte.
Non riuscii a decifrare la loro espressione, divennero immediatamente concentrati. Soprattutto il nonno.
Gli strinsi la mano e gli chiesi. “Tutto bene?”
Si sedette insieme a sua moglie davanti a me, gli occhi dorati liquidi. “Dobbiamo dirti una cosa.” Iniziò lui. “Ti sembrerà non molto piacevole. Non è piacevole per nessuno di noi.”
Cercai di sorridere per alleviare la tensione che si era creata ma il sorriso non fece in tempo ad arrivare alle mie labbra che morì subito.
Strinsi di più la sua mano. “Che cosa?”
Mio nonno mi guardò negli occhi. “Devi lasciarci, Renesmee.”
“No.” 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Mancava solo un giorno alla data di partenza. Non preparai neanche una valigia, mi veniva da ridere anche al solo pensarci. Per il dispiacere di Nina non venni più a scuola negli ultimi giorni ma rimanemmo sempre in contatto, la invitai pure a dormire a casa mia. Ne fu felicissima.
Usai una scusa, ovviamente, le dissi che dovevo raggiungere dei parenti in Italia di punto in bianco e non sapevo quando tornavo. Nina reagì male, mi pregò di restare, non fece molte obbiezioni, capì che c’era qualcosa che non andava ma preferì non chiedere ulteriori informazioni. Mi sarebbe mancata. Non ero molto brava a creare relazioni con gli umani, Nina era la mia prima vittoria.
Quei ultimi giorni di libertà li passai a casa, ad oziare, a nutrirmi in continuazione visto che i Volturi non erano vegetariani ed io non sapevo proprio come nutrirmi in Italia. Girovagavo per la casa, avendo la mia famiglia tra le calcagna con l’intenzione di non lasciarmi neanche per un minuto, senza un pensiero fisso in testa.
Non sapevo cosa pensare a riguardo di quella visita, pensavo fosse un passo nel vuoto, pronta a cadere nel buio, in qualcosa di ignoto.
Esme e Carlisle cercarono di tranquillizzarmi, diventai incredibilmente nervosa, un fascio di nervi: non li avevo mai conosciuti quei Volturi, non sapevo che persone fossero oltre alle descrizioni dei miei familiari, non ero mai andata in Italia – avevo girato tutto il mondo ma mai l’Italia e i paesi vicini. E più di tutte, non sapevo cosa aspettarmi.
Ero nervosa ma non avevo paura, sapevo che al ritorno avrei ritrovato la mia famiglia e meglio ancora, qualsiasi cosa mi fosse capitata, loro sarebbero corsi da me. Soprattutto, contavo su me stessa. Con questo viaggio volevo dimostrare alla mia famiglia che da sola potevo cavarmela benissimo. Ero stata coccolata fin troppo a lungo, dovevo farmi le ossa da sola.
I nonni, la sera stessa in cui mi avevano avvisata della partenza, mi rassicurarono che dovevo soggiornare a Volterra per soli pochi giorni, che mi avrebbero tratta bene, avrebbero rispettato la mia dieta, che erano tutti molto gentili.
Non riuscii molto a credere alle loro parole, non ce la facevo. Vedevo, dietro le loro espressioni rassicuranti, una maschera di ostentazione, di perplessità. Neanche loro sapevano veramente cosa i Volturi volessero, tutto era successo in pochi minuti.
La preoccupazione e i segreti della mia famiglia erano loro: i Volturi vennero a Forks per richiedermi.
Ad un ordine dei nostri Signori si obbediva subito.
Era per questo che i Quileute ci chiamarono per allertarci. Non volevano altri sporchi succhiasangue in mezzo.
Ma non immaginavo proprio che la causa fossi io.
Per il resto dei vampiri, io ero il mezzo vampiro del Clan dei Cullen, la loro mascotte. I mezzi vampiri non erano molto soliti ed averne uno in un clan era qualcosa di veramente insolito. Ero la nota stonata della melodia, un carico in più che i Cullen dovettero prendersi nelle loro mani per cause ancora a me maledettamente sconosciute. Non conoscevo nessun clan, oltre al mio, con un ibrido incluso.  
I Volturi mi volevano nella loro patria per conoscermi. Volevano conoscere un essere vivente diviso tra due mondi, Aro era molto affascinato da queste nuove scoperte, mi dissero Esme e Carlisle, le loro espressioni contrite. Non sembravano apprezzare le sue parole.
Il fenomeno dei mezzi vampiri stava spopolando negli ultimi anni, mi disse Carlisle come spiegazione, e Aro voleva studiarli, conoscerli.
Quindi scelse me. Uno dei membri del clan del suo carissimo amico Carlisle.
“Solo pochi giorni e dopo ritornerai a casa.” dissi a me stessa, la stessa cosa che mi ripetevano sempre i miei familiari in quei ultimi tre giorni.
Tre giorni in cui non mi lasciarono solo nemmeno per un attimo. Sembrava che volessero gustarsi gli ultimi attimi con me. Mi piaceva ma era preoccupante, non stavo andando in guerra o altro. Come continuavano a ripetermi, dovevo stare via solo per pochi giorni, non capii tutto quel attaccamento ma non feci obbiezione.
Come i nonni, nemmeno i miei zii riuscirono a nascondere la perplessità unita a confusione, soprattutto Rosalie.
Alice cercava di vederci qualcosa, la sentii dire una notte quando ero a letto, ma disse che non riusciva a captare nulla, vuoto. Non sapevano se credere a quello che avevano annunciato gli scagnozzi di Aro o meno. Letteralmente, i Cullen vedevano solo buio in quella faccenda.
“Se entro una settimana non la vedo a casa, la vado a prendere io.” Disse prontamente Rosalie.
 
Quella notte non dormii. Perché non potevano accompagnarmi loro? Nessuno di noi era sicuro di quello poteva succedere: perché buttarmi in pasto agli squali in quel modo?
 
 
 
 
Era il giorno della partenza ed io non riuscii a muovermi dal letto. Il cuore mi batteva forte nel petto, le mie mani tremavano. Non ero pronta.
Era un passo nel vuoto, lo era, ne avevo avuto la certezza. Non avevo nessuna garanzia.
Ma, dall’altro canto, che cosa poteva capitarmi mai?
Non mi diedi nessuna risposta, dovevo solo soggiornare un paio di giorni nella intoccabile dimora dei Volturi, i nostri signori. Non mi sarebbe capitato nulla. Speravo.
C’era silenzio nella zona. Solo lo scorrere del fiume vicino e il fruscio del vento tra gli alberi. Il suono del silenzio mi inquietava, dava maggior carico alla giornata quale era.
Non era un viaggio di piacere, poteva accadere di tutto in un certo senso, i miei familiari non erano ben proprio sicuri e fiduciosi. Tutto questo non era da aiuto e non calmava i miei nervi. Stavo facendo la cosa giusta?
E se mi fossi opposta? Come avrebbero reagito i Volturi? Il nonno era tendente ad obbedire a quella richiesta di ricevermi e, malgrado le preoccupazioni, mi stava lasciando andare.   
Potevo ritirarmi a far mangiare la parola già data di Carlisle? Ci sarebbero state punizioni?
Forse era per quel che ci stavo andando senza fiatare. Mi stavano… sacrificando per evitare il peggio? Non volevo proprio pensarci, non ci riuscivo, mi rifiutavo.
Ed io non sapevo cosa pensare ma mi fidavo ciecamente della mia famiglia. Una battaglia interna fatta di contraddizioni mi torturava. Mi sentivo di fare un passo in avanti e dieci indietro.  
Dalla porta spuntò Alice, mi fece un sorriso timido, le ciocche nere sparate ovunque. “Buongiorno, posso?”
Le sorrisi e le feci segno di entrare, si mise a sedere nel letto accanto a me, accarezzandomi i capelli.
Rimanemmo in silenzio. Le strinsi la mano.
“Cosa c’è, zia?”
Lei afflosciò le spalle all’ingiù e puntò gli occhi sul copriletto. “Non riesco a vedere nulla.” Mormorò mortificata.
Alzai gli occhi verso di lei e le strinsi maggiormente la mano. “Tranquilla zia, andrà tutto bene.”
Alice mi strinse forte la mano, in quel gesto lessi le sue scuse.
Mentre pensavo a quella frase, venivo attaccata dalla consapevolezza che non avevo le prove che tutto sarebbe andato bene. Nessuna certezza, e nemmeno Alice ne aveva e per questo motivo un po’ era colpa mia: non poteva vedere il futuro degli ibridi e vedeva poco e niente se qualche ibrido era protagonista di qualcosa nelle sue visioni.
Trattenni di farle la domanda del perché allora mi stavano lasciando andare, decisi di non rovinarle ulteriormente il suo umore già basso.
 Ma continuavo a rassicurarmi, ci provavo.
 
 
In macchina nessuno parlò, ero seduta nei sedili posteriori, Esme e Carlisle davanti, il silenzio padroneggiava.
Lasciai gli altri a casa. Sentivo ancora le strette forti dei miei zii. Sentii una stretta a cuore quando li abbracciai, la mia mente viaggiava in pensieri catastrofici che scacciai immediatamente, preferii concentrarmi sulle loro parole calorose. 
Stava piovendo e le nuvole erano grigie, quasi nere, come il mio umore. Improvvisamente la mia spavalderia mi lasciò per prendere posto la confusione. Mi sentivo spaesata, un pesce fuor d’acqua ed ancora non mi trovavo a Volterra. Volterra, una cittadina piena di incognite.
L’aeroporto di Seattle erano enorme, gremito di gente e bambini che andavano a destra e a sinistra: chi andava e chi tornava, chi diceva addio e chi risalutava i proprio cari. Tante emozioni, tante situazioni quante le valigie che circolavano. Ognuno perso nei propri pensieri, persi in quei attimi veloci, incuranti del vero mondo che li circondava.
Camminai stretta a i miei nonni con una mano di Esme appoggiata alla mia spalla destra, come se avesse paura che potessi perdermi. Saltammo tutti i gate e check-in ed entrammo in un lungo tunnel nascosto da tutti i negozi presenti nel plesso, qualche minuto dopo ci trovammo fuori, nella pista di decollo, davanti a me c’erano ad aspettarmi due hostess con uniformi eleganti e con sorrisi cordiali. Dietro di loro un jet pronto a partire.
Non avrei preso un normale volo di linea.
Fui percorsa da brividi interminabili. Mi voltai verso i miei nonni, si stringevano la mano. Se fosse stata in grado, Esme si sarebbe messa a piangere, ne ero sicura. Non volevo lasciarla.
“Ci vediamo presto.” Sussurrai.
Li abbracciai, forte, i miei genitori. Carlisle mi diede un bacio nella fronte e mi lasciò con uno “Stai attenta.”
Esme mi baciò nelle guancie e mi accarezzò i capelli. “Ti vogliamo bene, tesoro mio. Ci vediamo presto.”
Cercai di farle un sorriso, dentro di me stavo morendo.
 
L’abitacolo del jet era piccolo e confortevole ma non m’ interessai all’estetica.
Mi gettai nel primo sedile che vidi ed allacciai le cinture di sicurezza facendo finta di ascoltare le hostess.
Appiccicai il viso nell’oblò dell’aereo: sotto di me vidi allontanarsi Esme e Carlisle, lei si voltava sempre verso il jet. Ebbi un tuffo al cuore.
Chiusi gli occhi e feci un respiro profondo.
 
 
Caddi addormentata. Feci un sogno strano, non il solito dei uomini con i mantelli neri.
No, mi trovavo in un labirinto. I muri di foglie gelide e secche alti metri e i corridoi stretti, quasi da togliere il respiro.
Era notte, il buio profondo ed io ero totalmente cieca. Cercai di aggrapparmi ai rami pieni di spine per potermi alzare dal terreno freddo e roccioso, la testa mi martellava ed ebbi un forte senso di vertigini.
C’era silenzio, un silenzio pesante, nessun suono tranne per quello del mio respiro affannato.
Faceva freddo ed io mi sentivo nuda, scoperta. Senza protezione.
Barcollando, iniziai a camminare senza una meta precisa, la speranza di poter uscire dal quel labirinto minaccioso non scalfiva la me del sogno. Ero tranquilla in preda al buio totale, al silenzio e al freddo.
Man mano che passavo tra un corridoio all’altro, i muri divennero ancora più stretti al punto di stringermi come in una morsa.
E in quel momento un urlo. Qualcuno mi chiamò. Un urlo forte e chiaro, consapevole. Una voce femminile.
“Renesmee!”
Guardai in alto, la luce delle stelle lontane e sfocate era la mia unica guida. Passarono dei secondi ma ci fu solo silenzio.
Feci altri passi veloci e gridai “Sono qui!”
L’interlocutrice sconosciuta rispose immediatamente alla mia risposta, la voce ora era disperata e strozzata.
“Renesmee!”
“Renesmee!”
“Sono qui!” gridai con tutto il fiato che avevo nei polmoni ed iniziai a correre vedendo nero davanti a me, scostandomi i rami che graffiavano il mio viso, sentivo il sangue colarmi nelle labbra.
Correvo, correvo, correvo. “Sono qui!”
Le gambe mi bruciavano e caddi a terra. Mi presi la testa fra le mani. Sentivo troppo caldo, le tempie mi pulsavano.
Davanti mi trovai un incendio indomato. Lingue di fuoco zampillavano fino ad irritare le mie guance.
Era un cerchio di fuoco che da piccolo sembrava diventare sempre più grande. Dentro c’erano due ragazzi ma non riuscii a focalizzare i loro volti di quanto alte erano le fiamme.
Vidi solamente un paio di mani stringersi, forte. 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Scritto in collaborazione con Alice, grazie : )
 
 
 
Guardavo fisso davanti a me il pallino rosso che indicava l’aereo e il suo tragitto nello schermo sopra la mia testa. Avevamo superato l’Oceano Atlantico e ora stavamo sorvolando le Alpi. Mancava solo un’ora all’atterraggio ed io volevo solamente buttarmi dall’aereo in alta quota e sparire in mezzo la roccia e la neve delle montagne.
Stavo per varcare la soglia della tana del lupo, mi stavo buttando in una piscina piena di squali, saltare un cerchio di fuoco strettissimo, andare in pasto ai leoni, tutto questo contemporaneamente.
Volevo fare marcia indietro, minacciare il pilota di cambiare la rotta e ritornare in America.
Maledii me stessa di non essermi imposta a non andare, mi maledii di essere salita in quel jet, mi odiai quando accettai senza esitazioni la richiesta di quei vampiri.
Non dormii, non riuscii più a dormire. Dormii poco e male, avevo sognato qualcosa ma non mi ricordavo che cosa, non ne diedi molta importanza. In quel momento, il mio corpo era costituito principalmente da ansia e nervosismo, mi sentivo lo stomaco attorcigliato e il cuore in gola.
I miei occhi frenetici inseguivano quel pallino rosso che velocemente si avvicinava a destinazione che diventava sempre più vicina.
Le Hostess, sempre silenziose, notarono il mio cambiamento di umore improvviso ma non dissero nulla, forse lo scambiarono solamente come paura dell’altezza. Si limitarono solamente ad offrirmi cibo che io prontamente non accettai. Mi trovavo in un profondo stato confusionale e nervoso.
Che cosa volevano da me? Perché me?
 
Dieci ore dopo, strinsi forte le mani nel sedile di pelle marrone scuro. Eravamo arrivati, eravamo arrivati all’aeroporto di Firenze.
Era notte, la pista di atterraggio e di decollo vuota tranne per me, le Hostess, i due piloti e i pochi impiegati dell’aeroporto. Respirai a pieni polmoni e mi stupii quando notai che l’aria che stavo respirando era diversa da quella che respiravo normalmente a casa: era più calda e umida rispetto a quella di Forks, ma allo stesso tempo fredda per via della notte. Non c’era nessuna nuvola, si vedevano le stelle scintillanti nel cielo scuro.
Quando scesi gli scalini del jet, ai piedi di essi mi aspettava una donna  molto alta interamente vestita di nero con cappello e guanti pure neri, si poteva confondere con l’oscurità della notte. L’espressione seria in volto.
“Benvenuta in Italia, signorina Cullen. Sono Alessandra, mi è stato affidato l’incarico di accompagnarla a Volterra. Mi segua per favore.” Aveva uno strano accento francese e nel suo volto non c’era nessuna espressione cordiale che traspariva invece la sua voce.
Dopo la presentazione, si voltò di scatto e iniziò a camminare a passo accelerato, il picchiettio costante dei suoi tacchi era l’unico suono che si poteva udire.
In pochi minuti uscimmo dal semivuoto aeroporto della città di Firenze. All’uscita, appena pochi metri di distanza dalle porte di entrata, si trovava un’auto scura di grossa cilindrata.
La donna mi aprì la portiera come se fosse la mia autista personale e vi salii nell’abitacolo enorme della macchina, eravamo solo noi due. Notai con divertimento che i finestrini erano oscurati.
Salì subito dopo la donna e premette con forza l’acceleratore, il tachimetro segnava i centoquaranta.
Aveva fretta di arrivare a destinazione, io volevo solamente che andasse piano. Io non avevo tutta quella premura. Assolutamente no. Ebbi di nuovo l’ansia da pallino rosso.
Questo mi fece venir voglia di ridere, tutto era assurdo. Stavo arrivando all’isteria.
Avvertii un leggero imbarazzo. Chi era quella ragazza? Faceva parte del Clan dei Volturi? Sapeva chi realmente loro fossero? Lavorava per loro?
Mi presi la libertà di guardarla, lei non sembrò accorgersi: teneva gli occhi fissi davanti all’autostrada solamente illuminata dai fari dell’auto e le sue mani stringevano forte il manubrio.
Era umana, il viso pallido, capelli biondi e occhi azzurri, il volto spigoloso, le labbra in tensione premute tra loro. Mi chiesi perché i Volturi oltre a cibarsi  di umani se li tenevano pure. Era crudele. Tenni a freno la mia lingua dal chiederle come aveva fatto a conoscere i Volturi. Non sembrava propensa a parlare, e nemmeno io d'altronde.
Se conosceva il segreto dei Volturi, a cosa aspirava? Lei era umana, poteva solamente aspirare a diventare immortale.
Mi stranii, c’era davvero gente che smaniava di diventare un vampiro? Per quale motivo?
Man mano che i chilometri diminuivano verso Volterra, io divenni fredda dall’ansia e dallo spavento.
Non volevo farlo ma sapevo che ogni parola o gesto che poteva essere contro i nostri Signori mi si poteva ritorcere contro con tranquillità rimettendoci la pelle io e la mia famiglia, ed io non volevo mettere a rischio l’esistenza dei miei nonni e dei miei zii.
Esme e Carlisle avevano detto qualche giorno, ma sapevo che per un vampiro il tempo era relativo, specie per dei vampiri come i Volturi che non si muovevano mai dal loro palazzo a Volterra.
Neanche il meraviglioso paesaggio della Toscana con le sue colline verdi oscurate dalla notte e le luci delle tante case all’orizzonte riuscirono a calmarmi.
Mi tremavano le mani e il cuore batteva più forte del normale. La mia testa fu invasa da paranoie che facevano girare la mia testa, avevo voglia di urlare per scacciarle via.
Facendomi piccola piccola, sprofondando nel sedile di pelle nera e liscia, cercai nel mio piccolo zaino – l’unica cosa che portai con me - il mio telefono. Non lo uscii neanche con la paura che Alessandra potesse notarlo.
Lo accesi: lo schermo non diede nessuna notifica di chiamata persa.
Strinsi i denti, triste. Volevo sentirli, mi mancavano. Mi aspettavo una chiamata, massimo un messaggio. Non ricevetti nulla. Forse ancora pensavano fossi in aereo. Mi diedi questa giustificazione che non alleviò per niente il mio stato umorale ma non lo peggiorò. Riposai il telefono nello zaino e guardai fisso davanti a me. Mancava veramente poco, strinsi il mio medaglione.
 
Riaprii gli occhi, mi addormentai ma non ricordavo quando. Mi guardai attorno, disorientata. Ero ancora in macchina, tutto era buio tranne per la luce dei fari e del cruscotto.
“Siamo arrivate a destinazione.” Annunciò Alessandra con voce atona.
L’auto si fermò in mezzo ad una piazza circolare che capii fosse quella principale di Volterra. Al centro spiccava una grande fontana di marmo dove zampillava l’acqua splendente sotto la luce della luna.
Sopra la mia testa si stagliava l’alta e centenaria torre campanaria con l’enorme orologio incastonato del palazzo dei Priori. Era qui che risedevano i Volturi. Uguale a come l’avevano descritto Carlisle e i dipinti.
Feci un respiro profondo continuando a stringere forte il mio medaglione d’oro.
Tutto intorno a me gridava storia ma anche scappa fin che puoi. L’antico palazzo incuteva paura, sembrava un gigante pronto a divorarmi.
Come facevano i Volturi a passare inosservati? I cittadini di Volterra non avevano mai notato nulla? Alessandra poteva essere quel piccolo gruppo di umani un po’ troppo curiosi che sapevano o sospettavano del loro piccolo segreto se esisteva?
Erano domande che mi sarei sempre posta.
“Mi segua.” Disse Alessandra facendo strada camminando non verso la porta principale del palazzo, ma andando nella parte posteriore, verso destra.
Facemmo quasi tutto il giro e ci trovammo davanti ad una enorme porta di legno antica abbellita da dettagliati e gentili ornamenti intagliati nel legno che un occhio umano non lo avrebbe mai notato, neanche di giorno.
La donna diede un colpo debole al portone che si aprì subito e il cigolio prodotto mi fece venire la pelle d’oca. Entrò. Io non ci riuscii. Guardai Alessandra, quando capì che non ero dietro di lei si voltò per controllare cosa stesse succedendo.
“C’è qualcosa che non va, signorina?”
La guardai, mordendomi il labbro inferiore. Avevo la gola secca, sentivo freddo, le gambe mi tremavano e mi sentivo leggera. In quel momento Alessandra mi sembrava lontanissima ed io ero troppo debole per raggiungerla.
Scossi la testa, avevo dimenticato come si parlava usando la voce.
Costrinsi le mie gambe a fare un passo avanti e mi ritrovai dentro il palazzo, il portone dietro di me si chiuse con un tonfo secco che echeggiò per un paio di secondi.
Ed io mi sentii ufficialmente spacciata.
Davanti me si trovava un lungo, lunghissimo corridoio, le mattonelle del pavimento erano di marmo bianche e nere, alternate. Il muro sinistro era arredato con enormi dipinti di grandissimo valore e di mobili antichissimi senza nessuna imperfezione intaccata dal tempo.
Alla destra il muro era alternato da una serie di finestre altissime e strette in stile gotico che ricordavano quelle delle suggestive cattedrali europee, la luce della luna che filtrava dalle finestre rendeva luminoso tutto il corridoio.
Il soffitto era altissimo decorato con affreschi perfetti dove pendevano degli enormi lampadari di cristallo e oro.
Era una gioia per gli occhi.
Rimasi per un attimo meravigliata e a bocca aperta da tutta quella sfarzosità e bellezza.
“Mi segua per favore, la condurrò nella sua camera.” Fece la ragazza umana prendendo per un vicoletto alla destra, salimmo delle scale molto strette e quasi claustrofobiche dove in mezzo alle mura di pietra antica c’erano scritte delle frasi in latino che facevano rabbrividire, arrivammo in un altro corridoio uguale e meraviglioso a quello precedente.
Camminammo lungo la stanza dove alla fine vi si trovarono tre porte ognuna per le due pareti, Alessandra si diresse per la seconda alla destra.
Si fermò di fronte alla porta di legno rustico e si girò verso di me, la mani strette tra di loro.
“Questa è la vostra stanza. Vi avviso che i nostri signori la vogliono ricevere alle ore dieci di questo stesso giorno. Le consiglio di riposare e, soprattutto, di essere puntuali all’appuntamento.”
Mi lasciò da sola in maniera brusca, iniziò a camminare velocemente, quasi a correre, come se volesse scappare da quel posto. Lei viveva lì o i Volturi le permettevano di andare a casa?
Aprii la porta e mi ritrovai senza parole.
Era una stanza lunga e rettangolare: alla sinistra si trovava un enorme letto con la tastiera di legno e le coperte color dell’oro, accanto c’erano dei comodini ed un armadio –contenente dei vestiti femminili- di legno pregiato.
Nella parte sud si trovavano una serie di poltrone dall’aria molto antica con un tavolino al centro che sorreggeva delle tazze di the e una teiera, avanti si trova una tavola sempre in legno levigato e delle sedie che sembrava più troni che sedie da tavolo. C’era pure un camino acceso che emanava calore per tutta la stanza.
La parete di pietra color sabbia destra era occupata da due grande finestra lunghe e strette a dalle loro pesanti tende color rosso. La vista dava alla piazza addormentata di Volterra e alla sua fontana.
Alla sinistra si trovavano delle librerie contenenti dei libri antichissimi scritti in tutte le lingue, tra cui l’arabo, il greco e il latino, ed una scrivania di legno occupata da una pila di fogli bianchi e da penne stilografiche.
 Chiusi la porta dietro di me e appoggiai il mio zaino nel letto che risultò morbidissimo.
Vi frugai immediatamente dentro in cerca del cellulare e lo accesi, nessuna notifica, neanche da parte di Nina.
Composi il numero di Carlisle e aspettai, contando i secondi. Non mi rispose nessuno.
Feci un lamento stridulo che feci morire subito in gola e riposi il cellulare di nuovo nello zaino. Con me avevo il cellulare, la musica, il portatile, dei libri e alcune sacche di sangue.
Li mise dentro Carlisle, ma non seppi come interpretare il gesto.
Non potevo portarmi sempre con me lo zaino, dovevo nasconderlo da qualche parte, non volevo lasciarlo incustodito mentre ero impegnata a non sapevo cosa con i miei signori.
Mi guardai intorno valutando il posto migliore dove nasconderlo ed optai per il dietro del camino.
Una vocina dietro di me mi diceva che con dei vampiri era inutile nascondere qualcosa, non quando esisteva un vampiro che grazie al solo tocco della mano poteva leggere tutta la tua vita ma decisi di nasconderlo lo stesso. 
C’era silenzio nel palazzo e in tutta Volterra, dove erano tutti gli altri? Mi sentivo dentro una casa infestata da fantasmi.
Sentivo che non ero sola. Era inquietante e spaventoso, metteva i brividi.
Guardai l’orologio: erano quasi le cinque del mattino, fra altre cinque ore dovevo presenziare all’appuntamento con Aro e i suoi fratelli.
Sciolsi i miei capelli dalla treccia e li lascia liberi, sentii tutto il peso dei miei capelli cadere nelle mie spalle.
Mi avvicinai ad una delle finestre e guardai fuori il cielo blu scuro e le tante stelle.
L’ansia e la paura se n’erano andate lasciando posto al vuoto più totale.
Ormai l’avevo fatto, ero a Volterra, alla mercé dei nostri signori. Ero andata volontariamente in pasto ai leoni, non c’era niente di cui preoccuparsi.
Ero stanca ma non volevo dormire. Non volevo fare nulla.
Continuai a guardare il cielo, poi il sole sorgere aspettando che arrivasse l’ora dell’appuntamento. 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***



 
 
Erano le nove e cinquanta minuti del mattino e mancava veramente poco al mio appuntamento, solamente dieci minuti. Ed io non avevo la più pallida idea di dove si sarebbe svolto il mio incontro con Aro e i suoi fratelli.
Passai la maggior parte del mio tempo davanti al mostruoso armadio presente in camera dopo aver notato la presenza di un bigliettino appoggiato nel comodino che diceva:
 
“Sii presentabile, usi uno dei capi presente nel guardaroba.”
 
La mia t-shirt e i miei jeans non andavano bene? E poi, era sempre stato lì quell’avviso? Non lo notai prima.
Quando aprii l’armadio, mi aspettavo che ci fossero dentro dei vestiti da principessa medievali considerando il luogo in cui mi trovavo e invece trovai solo nero, solamente dei vestiti moderni totalmente neri.
Ed io non sapevo che vestito scegliere, mi sentivo a disagio con indosso dei completi, non riuscivo neanche ad immaginarmi indossare qualcosa all’infuori di maglietta e pantalone. Per l’infelicità di Alice e Rosalie, si arresero alla battaglia durata molti anni che vinsi, vittoriosa, io.
Alla fine pescai un vestito molto aderente con scollo a barchetta che faceva risaltare il pallore della mia pelle, il medaglione e le ciocche di capelli che lasciai libere, accarezzavano la mia figura in maniera sinuosa.
Scelsi di mettere i miei stivaletti, non degnai neanche di uno sguardo quelle scarpe con i tacchi vertiginosi, posti nella parte bassa del guardaroba…Chi pretendeva quei costumi in quella dimora? Erano così attenti a tutto, anche all’estetica? Era assurdo, ma faceva ridere e preoccupare allo stesso tempo.
Bussarono alla porta, due tocchi secchi sul legno duro e spesso.
Guardai un attimo la porta davanti a me come se fosse la prima volta che la vidi e poi corsi ad aprire con esagerata forza.
Mi ritrovai davanti una ragazzina dalla altezza più bassa della mia, potevamo essere coetanee parlando di età di apparenza. Capii era Jane la bambina davanti a me, i quadri la ritraevano molto più adulta.
Sembrava una bambola di come era vestita: simile a me ma con dei merletti bianchi sparsi un po’ ovunque, neanche lei indossava le scarpe con i tacchi.
Dietro il viso da bambola di porcellana si nascondeva una vampira da un dono spietato, il dolore più puro.
Jasper, durante uno di quei pomeriggi noiosi d’inverno, mi raccontò che lui stesso provò il dono di Jane. Con una espressione dolorante in volto, disse che era la cosa più dolorosa che qualcuno potesse mai provare.  Un viso angelico come il suo, poteva veramente provocare un dolore terribile?
Aveva i capelli biondi scintillanti corti ma raccolti lo stesso da una crocchia in testa, la pelle pallida come la luna, le labbra carnose e gli occhi enormi che presentavano delle iridi color rosso sangue. Aveva una fisionomia molto androgina, per un umano era molto facile scambiarla per un ragazzino.
La ragazzina mi squadrò dalla testa ai piedi con una espressione scettica e annoiata stampata in viso e in quel momento il mio nervosismo salì ai livelli cosmici. Istantaneamente iniziarono a prudermi le mani ma l’istinto di sopravvivenza e di conservazione mi dicevano che era meglio starmene tranquilla.
“Seguimi.” Disse, la sua voce trillava proprio come quella di una bambina piccola ma non era rovinata dall’accento italiano o di un altro paese.
Chiusi la porta dietro di me e la seguii. Aveva la camminata leggera e sinuosa come quella di Alice ma Jane emanava un’aura di superiorità e vanità tipica di quelle bambine troppo viziate.
Mi condusse in un lungo e stretto corridoio dove non mancò lo sfarzoso arredamento, poi salimmo una serie di scale a chiocciola interamente in marmo che parvero interminabili, queste ci condussero in un ascensore scavato in un grosso buco nella pietra color sabbia antica.
Le volevo chiedere dove eravamo dirette ma decisi di rimanere zitta e seguirla, non trovavo più la mia lingua e mi pareva di aver dimenticato pure come usare il mio dono. Non sapevo neanche se c’era una etichetta ben precisa da seguire con i Volturi. Se pretendevano un certo vestiario, potevano pretendere di tutto. Ricominciai a tormentare di nuovo il mio medaglione.
Si infilò dentro senza curarsi che io la seguissi o meno, premette un tasto che non indicava né i piani inferiori né quelli superiori. La guardai, stranita, chiedendole mentalmente dove diavolo stavamo andando.
Lei ricambiò il mio sguardo, fissandomi intensamente negli occhi, facendo dondolare le sue esili braccia lungo il suo altrettanto esile corpo. La sua smorfia annoiata e apatica non la lasciò per tutto il tragitto.
Durante quel lungo, eterno e imbarazzante viaggio, il mio cuore –già veloce di natura – iniziò a battere impazzito, le gambe iniziarono a tremare di nuovo. L’indecisione per il vestito, che per un breve momento aveva calmato il mio sistema nervoso, sparì lasciandomi vuota come un contenitore da riempire.
Chiusi gli occhi, facendo un respiro profondo.
Quando l’ascensore si fermò senza far nessun rumore o disturbo, ci trovammo davanti ad una specie di sala d’aspetto posizionata in mezzo ad un museo.
C’erano una serie di poltrone e divanetti di color rosso, un televisore ultra piatto in cui trasmettevano un programma in italiano, un documentario sulla storia di Volterra e della Toscana.
In un angolo era presente una gigantesca croce in legno di noce. Rabbrividii, metteva soggezione, quella croce era assolutamente fuori posto e fuori contesto. Non doveva stare lì. Perché la tenevano lì?
C’era pure una scrivania e con mio stupore trovai Alessandra dietro di essa. Quando arrivammo si alzò in segno di saluto, calando anche la testa. Vidi che le sue mani, appoggiate nella enorme scrivania di legno, stavano tremando.
In quella sala-museo padroneggiava una enorme porta alta più o meno cinque metri, decorata in maniera impeccabile, vegliata da due vampiri da gli occhi rosso acceso, grossi quanto zio Emmett.
Al nostro arrivo, i due aprirono le porte senza proferire parola, come se si aspettassero il nostro arrivo. Rimasi impietrita.
La stanza che mi trovai davanti era circolare, non eccessivamente grande, spoglia di qualunque arredamento ma non per questo ricca. In ogni singolo centimetro di muro, anche quello interamente in marmo, vi erano dei quadri, bassorilievi, scritte in latino ed affreschi.
Sopra la mia testa si trovava una altissima cupola, illuminata dal potente sole italiano, che dava un forte senso di smarrimento e faceva sentire la persona sotto di sé minuscola. Per quasi ogni metro si trovavano dei grossi vampiri a fare la guardia, e non capii il perché. I loro signori erano dei vampiri pure loro, potevano difendersi pure da soli. Capii, però, perché Volterra era il posto più protetto al mondo.
Davanti a me, sopra una scalinata in marmo, al posto di quello che probabilmente prima era un altare cristiano, si trovavano tre troni. I tre troni di legno e oro erano occupati da tre vampiri.  
Marcus, Aro e Caius.
Accanto e dietro di loro erano presenti un altro gruppo di vampiri tra cui Jane, che si mise ai piedi della piccola scalinata che portava ai troni, accanto al ragazzo dai capelli scuri e dal volto angelico che riconobbi essere suo fratello Alec. Appena Jane si avvicinò al suo fianco, Alec l’abbracciò stringendola a lui con fare molto fraterno per qualche manciata di secondi.
Oltre ad esserci presente la guardia intorno ad Aro, Marcus e Caius, c’erano pure due donne ai rispettivi lati di Caius ed Aro. Erano di una bellezza vergognosa, giovanissime –l’età massima poteva essere ventanni-, con i tratti tipici mediterranei.
Non le vidi mai rappresentate nei quadri ma ero sicura che si trattavano delle mogli di Aro e Caius.
Ebbi un moto di nausea, erano troppo belle per stare con due uomini del genere.
I dipinti e le descrizioni di Carlisle, però, non rendevano giustizia a ciò che stavano vedendo i miei occhi.
La pura bellezza e l’atteggiamento regale che caratterizzavano quei vampiri, come se fossero delle sculture del più bravo scultore greco o dei dipinti del più bravo pittore al mondo. In tutta la loro armonia e sinuosità dei loro corpi, trasmettevano forti sensazioni a chi li osservava rimanendo però immobili, nella loro immutata perfezione.
Lo scatto forte della porta che si chiuse dietro di me mi riportò con i piedi per terra. Sbattei le palpebre e continuai a guardare dritto senza focalizzare niente di preciso, non muovendomi di un passo.
Aro, dove sedeva nel trono di mezzo, fece un sorriso a trentadue denti che illuminava tutto il suo pallido volto.
Alzandosi, spalancò le sue braccia in un gesto cordiale e caloroso ed esclamò: “Renesmee Cullen! Che piacere rivederti cara mia piccola amica!”
Mi sentii scossa, presa in contropiede, confusa. Rivedermi?
In meno di un secondo me lo ritrovai davanti, il suo sorriso non aveva abbandonato quel volto felice ed estasiato. Sembrava un bambino durante il giorno di Natale, felice di aver ricevuto il regalo tanto desiderato.
Mi prese la mia mano destra e la strinse tra le sue. La sua pelle non aveva la stessa consistenza di un vampiro normale, dura e fredda. La sua pelle era traslucida e fragile, al contatto sembrava stessi toccando della filigrana, la stessa cosa per la pelle del suo viso che alla luce del sole sembrava trasparente. Era strano.  
“Sono lieto tu sia venuta qui a Volterra. Hai reso tutti noi felici della tua presenza. Spero che il viaggio sia andato bene.” La sua voce cantilenava dalla gioia.
Volevo staccare la mia mano dalle sue. Conoscevo il suo dono: poteva leggere i pensieri o l’intera vita di una persona attraverso il contatto della mano. Io non volevo, non volevo che guardasse.
Non ero sicura che la mia presenza a Volterra era accettata di buon grado comunque: Alec e Jane, i Gemelli Stregati come li chiamava Jasper, stavano zitti con uno strano ghigno su i loro volti.
Caius, il vampiro incredibilmente magro e dai lunghi capelli biondi quasi bianchi, era seduto nel trono alla destra con l’indice appoggiato alla bocca e le gambe accavallate, in ascolto. Sua moglie al suo lato, indossava una lunga tunica nera, gioielli in oro, i capelli castani raccolti in una difficile acconciatura che faceva ricadere dei boccoli nella pelle diafana del collo. Sembrava avesse appena fatto un salto temporale nella civiltà greca e ritornata subito nel giorno corrente; era molto simile alla moglie di Aro, in piedi accanto al trono di suo marito. Aveva le braccia piegate al petto, in posizione di ascolto.
Dietro di loro si trovava in piedi un vampiro di bassa statura ma con un dono molto potente, Felix.
Marcus, il vampiro dai lunghi capelli castani, era seduto di lato, aveva lo sguardo assente, gli occhi vagavano tra me, i suoi fratelli e gli altri componenti della guardia. Muoveva la mano destra appoggiata al trono leggermente, come se stesse ascoltando musica classica e volesse imitare i virtuosismi degli strumenti. Accanto a lui c’era Demetri, un altro spaventoso vampiro.
Ritrovai la mia voce ed allontanai la mia mano tra quelle di Aro e l’appoggia nel mio stomaco.
“E’ un piacere conoscervi Aro, Caius, Marcus e a tutti voi. Si, grazie, il viaggio è andato molto bene.”
Frugai tra i miei ricordi, non li vidi prima di quell’incontro, ne ero sicura. Ironicamente avevo la memoria di vampiro, ricordavo tutto. Ma Aro aveva detto che lui era felice di rivedermi. Lo avevo conosciuto prima che perdessi la memoria? Nessuno mi aveva parlato di un incontro prima di questo. Aro e i suoi fratelli sapevano che l’avevo persa?
Gli occhi di Aro si illuminarono meravigliati e guardarono in alto sopra di noi, le sue mani era legate e strette al suo petto.
“Cara mia giovane amica! La tua educazione mi ricorda quella del mio caro amico Carlisle! Quanto mi manca!”
Alzai la mano pronta ad usare il mio dono ma la ritrassi nello stesso istante in cui il mio corpo involontariamente fece alzare il mio braccio e tenderlo verso il volto di Aro.
In quel momento, due vampiri, un uomo ed una donna, si mossero velocemente accanto ad Aro, ai suoi lati. Non vidi da dove arrivarono, non c’erano prima. Era stato tutto molto veloce.
Credevo di aver già visto la perfezione nei miei quasi cento anni ma evidentemente mi sbagliai.
Ai lati di Aro si materializzarono due vampiri dalla bellezza sconvolgente, inimmaginabile.
La donna aveva lunghi capelli castano mogano che arrivavano fino alla vita, il colore faceva contrasto con il pallore della sua pelle. Due grandi occhi rosso scuro, le labbra rosse ma non c’era nessuna traccia di rossetto o altro. Il suo volto stupendo somigliava tanto a quello di Esme ma la sua bellezza superava quella di mia nonna e anche quella di Rosalie.
La coincidenza volle che indossassimo lo stesso vestito –che portava cento volto meglio di me- ma lei indossava pure le scarpe con i tacchi che io evitai come la peste, slanciandole quelle lunghe e pallide gambe di marmo.
Il volto della vampira divenne più che pallido, livido. I suoi occhi vagavano confusi da me a Aro e poi all’altro vampiro accanto. Le labbra erano schiuse, sembrava quasi una smorfia di orrore. Teneva le mani ben presse sul suo stomaco, nel suo anulare sinistro brillava un anello di diamanti.
La guardai con la coda dell’occhio, incuriosita dal suo comportamento. Cosa aveva che non andava?
Il vampiro alla mia sinistra era l’uomo più bello del mondo, forse dell’universo. Non trovavo parole adatte per descrivere la sua perfezione.
Aveva i capelli castano ramato, alcuni ciuffi gli accarezzavano la nuca e la fronte, il volto spigoloso e perfetto, una mascella importante, il collo possente. Gli occhi rossi sangue erano profondi.
Indossava dei pantaloni e delle scarpe nere ed una camicia dello stesso colore appallottolata fino agli avambracci mostrando così le braccia muscolose e toniche ma ero sicura che sarebbe stato perfetto anche se indossasse degli stracci o un sacco di iuta.
I suoi occhi, due fari rossi, erano puntati su di me e sul mio medaglione che io cercai di coprire con i miei capelli. Lo guardai negli occhi, mi incenerì, mi fulminò, fece della poltiglia il mio cervello.
Rimasi scioccata, aveva una espressione cattiva che rovinava quel bellissimo volto, come se la mia persona non era degna di presenziare in quel posto e lui mi volesse a distanza di chilometri o che fossi la persona più pericolosa del mondo.
Riposi i miei occhi su Aro che a sua volta guardava i due strani vampiri, con il benevole sorriso nel suo volto e i palmi della mano all’insù.
“Signore.” Mormorò velocemente la ragazza, la sua voce era melodiosa ma sfumata da una nota d’isteria.
“Tranquilla, Bella.” Rispose Aro accarezzando pesantemente il nome della vampira. Bella. “Renesmee non ci farà mai del male, te lo posso assicurare. E’ nostra amica.” I suoi occhi erano illuminati. “E poi Edward ci direbbe subito, leggendo la mente di Renesmee, se la nostra ospite ha pensieri che potrebbero disturbare la nostra quiete. Lo posso confermare io stesso che non corriamo nessun rischio.” Aro mi rivolse un sorriso che diceva chiaro e tondo: “Un solo pensiero o gesto e sei spacciata.”
Questo mi spiazzò. Allora il vampiro poteva leggere i pensieri delle persone. Mi faceva sentire colpevole e colta in fallo anche se non avevo fatto o pensato nulla di male, mi sentivo a disagio. Come faceva la gente a stare accanto a qualcuno che sapeva ogni singola e significante cosa che la tua mente poteva creare? Era meglio stargli lontano.
 “E’ innocua.” Disse il vampiro, Edward, a denti stretti. Perché? Cosa avevo fatto di male per causare quel comportamento? Era proprio il suo carattere in quel modo?
Edward e Bella si allontanarono a velocità di vampiro e si stanziarono dietro il trono di Aro.
Aro, invece, si chinò verso di me. “Se vuoi, puoi parlare usando il tuo dono se ti mette a disagio usare la voce.”
Guardai nervosamente Edward e Bella temendo un altro loro attacco ma, dietro il trono di Aro, sembravano essere dentro una bolla, lontani da tutti.
Si guardavano negli occhi. Lei era disperata, i suoi occhi disperati cercavano quelli di Edward, freddi, lontani e cattivi.
Erano incuranti di essere in mezzo a tanta altra gente e di dar spettacolo. Visti da lontano si poteva pensare che erano impegnati in uno scambio di battute silenzioso ma non vidi mai le loro labbra muoversi.
Appoggiai la mia mano destra nella guancia di Aro e mi sembrò di affondarla nella sabbia o qualcos’altro di polveroso. Mi chiesi se poi avrei trovato dei granellini nelle mie mani.
Chiusi i miei occhi e mi concentrai: gli mostrai come cacciavo, come mi comportavo con la mia famiglia e con gli umani in quei rari contatti con loro a scuola o in altri posti.
Soprattutto sottolineai la mia più che buona condotta che non aveva mai creato problemi né al mondo dei vampiri né a quello degli umani.
Intorno a noi tutto era silenzioso, tutti prestavano attenzione al mio scambio di informazioni con Aro senza dire nessuna parola. Non erano infastiditi come a volte capitava. Chissà se Edward stava ascoltando i miei pensieri.
Feci cadere la mia mano sul fianco. Aro rimase chino su di me, nessun sentimento però scalfì la sua faccia di polvere.
“Affascinante!” esclamò raddrizzandosi dalla posizione china.
Si rivolse ai suoi fratelli e alle mogli “Un dono così affascinante. Non è niente di che ma potrebbe servire alla nostra famiglia in tante situazioni.”
Corse velocemente nel suo trono mettendosi comodo e continuò “Ma parliamo di te Renesmee. Sono così stregato dalla razza ibrida, ammaliato che qualcuno in bilico tra umano e vampiro potesse mai esistere.”.
Aro continuò “E’ per questo che ho reclamato la tua presenza. Vorrei conoscerti, te Renesmee Cullen metà vampira e metà umana, molto meglio. Mi affascini.”
Io? Io affascinavo Aro?
Ebbi un veloce attacco di nausea che se ne andò con la stessa velocità con cui era venuto.
Era un capriccio farmi venire qui perché lo affascinavo. Potevo prenotarmi un biglietto per Washington e ritornarmene a casa se era quello il vero motivo.
Aveva seminato il terrore tra la mia famiglia aspettandoci il peggio dopo la sua chiamata solo perché era affascinato da me.
Era assurdo e mi fece diventare furiosa tanto da dover stringere i pugni e puntarmi con i piedi.
In cosa potevo risvegliare il suo interesse? Non c’era niente di interessante su di me o sul mio essere metà umano e metà vampiro. L’unica cosa che mi differenziava da un immortale era il mio apparato circolatorio, la mia tolleranza al cibo umano che poteva essere anche la mia unica fonte di sostentamento, che avevo bisogno di dormire e che la mia palle non aveva nessuna reazione al sole come i vampiri.
Tutto qui. Aro sarebbe rimasto deluso da queste rivelazioni.
Come i vampiri avevo un dono, un dono inutile in confronto ad altri doni impressionanti che possedevano tanti altri vampiri. Io potevo solo trasmettere i miei pensieri ad altre persone attraverso il tatto.
Non era niente di così potente ed eclatante. Come potevo servigli nella sua guardia?
Anzi, doveva cancellare assolutamente dalla sua testa il pensiero di avermi ai suoi servigi.
“E’… Troppo gentile.” Sussurrai, gli occhi puntati al marmo lucido sotto i miei piedi.
“Vorremo farti una serie di domande se tu acconsenti.” Parlò per la prima volta Caius dal suo trono.
Annuii.
Si ricompose e cominciò: “Stai molto in contatto con gli umani?”
“Non molto.” risposi con voce atona, meccanica.
“Hanno mai sospettato di qualcosa?”
“No.”
Al contrario dei miei familiari, ero convinta che gli umani non erano intimiditi da me ma dalla idea che si erano fatti dei Cullen come se un sesto sento li avvertisse di star lontano da loro ma non da me, avvertendo l’umanità che avevo acquisito per metà.
Non ero certa di quella teoria perché io stessa mi mantenevo alla larga dagli umani per sicurezza.
“Quanto sei forte?”
“Non sono forte quanto un vampiro, ma sono decisamente più forte di un umano. E la mia velocità, sono più veloce di un comune vampiro.”
“Hai mai praticato la tua forza su di loro?”
“Mai.”
“Su dei vampiri?”
Corrugai la fronte. “No.”
“Qualche vampiro  ha mai tentato di morderti? Qualcuno è mai stato attratto dal tuo odore?”
Quelle domande mi mandavano dei trilli di allarme di cui non trovai il senso, mi sentivo in allerta. Prima di rispondere pensavo bene alla risposta e le parole giuste con cui rispondere.
“Non è mai successo qualcosa del genere.” Risposi a denti stretti.
“Il tuo corpo contiene veleno?”
“No… Ma alcune leggende del Sud America parlano di alcuni ibridi che lo hanno.”
Carlisle fece molte ricerche su i mezzi vampiri ma non scoprimmo niente di che. In Brasile c’erano molte leggende sugli ibridi descritti come demoni malefici che portavano solo morte.  
“Quanti anni hai?”
“Settantasei anni, mi sono fermata alla età di quattro anni. La mia crescita è stata molto repentina.” Era meglio dirlo subito.
“Quali sono i tuoi bisogni umani?”
“Ho bisogno di dormire. E il mio cuore batte. Posso sopravvivere anche solo di cibo umano ma preferisco il sangue.”
“Che tipo di sangue?”
Trattenni un ghigno. Come se non lo sapessero. “Sangue animale.” Lo dissi con un tono orgoglioso e affilato “Ma a volte mi cibo pure di sangue umano, nei momenti di vero bisogno.”
Aro con un gesto della mano fragile fermò suo fratello che stava continuando con un’altra domanda: “Non ti senti obbligata da questo stile di vita che non hai scelto di tua spontanea volontà?” i suoi occhi brillarono di una luce strana.
Lo guardai negli occhi. “No.”
Lui sorrise. “Chi sono i tuoi creatori?”
Mi sentii cadere, non sentivo più le mie ginocchia. Mi mancava l’aria.
Intorno a me tutto era immobile e silenzioso. Edward e Bella erano ritornati alla posizione iniziale. Fissavano me, in attesa che rispondessi. L’espressione di lei di puro dolore mi angosciava. Quella di Edward era una lastra di ghiaccio. Rabbrividii.
Cacciai indietro le lacrime che minacciavano di straripare.
“Non li conosco.”
Lui sembrava confuso “Non li conosci?”
“No.”
Non diedi tempo ad Aro di rispondere “Ho perso la memoria. Loro, chiunque siano, non li ho mai visti.”
 
 
 
 
 
Ancora grazie ad Alice per la sua pazienza e i suoi importanti aiuti. 

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Divennero delle statue, impietriti. Nei volti di tutti i Volturi presenti padroneggiava la confusione. Jane lanciava occhiate dietro di sé mentre Caius le lanciava a suo fratello Aro.
 I miei respiri si fecero pesanti sui miei polmoni come se stessi respirando del piombo tanto da sentirmi ingrassata di una tonnellata in un colpo.
Una serie di domande mi oltrepassarono il cervello come una freccia. Guardavo quei volti confusi, quasi sconvolti. Non lo sapevano?
No, non lo sapevano.
Mi veniva da ridere.
Aro si ricompose, si strinse nel suo trono. “Non li hai mai conosciuti?” chiese sussurrando.
“No.” Dissi con voce alta e ferma.
“E non hai nessuna idea di chi possano essere?”
Dietro Aro, Bella si mosse rumorosamente. Iniziava a darmi i nervi. Edward la strinse al suo corpo avvolgendole un braccio nei fianchi, con fare possessivo.
Feci finta di pensarci su e poi risposi come prima: “No.”
Aro fece un sorriso tenebroso “Penso che hai molto da raccontarci, mia cara Renesmee.”
Alzai una mano, un invito per utilizzare di nuovo il mio dono. Lui la osservò un attimo e un sorriso furbo gli coprì tutto il volto illuminando gli occhi.
“Non sono solo io che ti ho voluto nella nostra umile cittadina, Renesmee. E’ giusto che sappiano tutti e che non diventi una conversazione intima solamente tra me e te. Non vediamo l’ora di ascoltarti.”
Analizzai le sue parole. Io non volevo che la mia vita diventasse di dominio pubblico. Ero sicura che se quel dettaglio non fosse sbucato fuori prima mi sarei risparmiata un bel po’ di domande ma ero altrettanto sicura che quel piccolo dettaglio che era la mia vita passata e dimenticata sarebbe sempre saltata fuori prima o poi.  Ed ero stata io stessa a farla sbucare fuori. Mi rassegnai e feci un respiro profondo.
“Certo.” Mormorai, cercai di slacciare il nodo alla gola che a poco mi strozzava.
Riscese di nuovo il silenzio in sala, si sentiva il vento sibilare ma in quella grande sala delle Udienze non c’era nessuna finestra, solamente un’alta cupola luminosa.
Ebbi un veloce riassunto in testa della mia vita che non durò neanche un secondo. Nella mia mente scelsi con cura le parole da utilizzare, non volevo che apparisse triste e soprattutto non volevo la compassione o la pena di nessuno. Tantomeno quelle dei Volturi.
Perché la mia vita lo era, triste e penosa per metà.
I Volturi in quel momento sembravano tanti spettatori seduti nei sedili dei cinema, in silenzio mentre guardavano la parte più importante e intensa del film mentre io ero l’attrice proiettata nel grande schermo.
Strinsi forte le mani tra di loro e presi aria “Sono caduta in coma. Durò due settimane. Carlisle pensa sia stato indotto dal veleno di vampiro, alcune antiche leggende dicono che il veleno è mortale per gli ibridi sprovvisti. Dopo il mio risveglio non ricordavo più nulla, nemmeno il mio nome. Fu grazie alla mia famiglia che ho ritrovato me stessa. Fu come crescere un neonato, un bambino. Dovettero ricominciare quasi tutto daccapo. Il mio clan non mi ha mai detto molto sul mio passato, non ne sanno molto neanche loro. I miei creatori, i miei genitori, chiamateli come volete, non li ho mai conosciuti. Non si sono mai fatti vivi ma poco importa. Penso siano morti.  All’età di quattro anni, anziché di sette, la mia crescita si è fermata e ho continuato a vivere con i Cullen nutrendomi soprattutto di sangue animale. E ora sono qui.”
Chiusi gli occhi, mi sentii libera da tutti quei cento chili presi prima. Cercai di essere più composta e ferma che mai mentre parlavo, non volevo far trapelare nessuna emozione, non ora.
Mentre la mia lingua creava i suoni delle parole che il mio cervello mandava, il mio cuore perdeva il ritmo frenetico del suo battito facendo diventare debole e freddo il mio corpo.
 La maggior parte di quelle parole erano bugie.
I Cullen sapevano ma non volevano dirmi nulla.
E a me importava dei miei genitori. Volevo sapere la verità.
Ero quasi sicura che fossero morti ma volevo conoscere le loro storie, almeno i loro nomi, che cosa li spinse ad abbandonarmi, perché non si unirono ai Cullen.
I miei occhi percepirono la fulminea stretta di mano tra Marcus e Aro che dopo si rivolse a me.
“Marcus vede un forte legame con la tua famiglia, sono felice che tu abbia trovato una persona così gentile come Carlisle.”
“Pure io.” Sussurrai grondante di orgoglio e fierezza per quel brav’uomo che era veramente Carlisle.
Aro continuò “Non mi spiego come tu sia potuta essere a contatto con il nostro veleno. Potrebbe essere stato uno dei membri della tua famiglia? Tu non ricordi nulla e per loro sarebbe facile mentirti.”
Fu un colpo basso, la mia bocca si spalancò d’orrore. Mi rifiutai di poter dubitare della mia famiglia. No, non era possibile. Impossibile. Nessuno dei Cullen era in grado di mordermi o farmi minimamente del male. Non riuscivo neanche ad immaginarmi Alice o Emmett con iridi rosse e cattive pronti a dissanguarmi. O Esme. Non ce la facevo. Era offensivo.
Fulminai Aro con lo sguardo e continuai a farlo quando mi vidi placcata da due guardie che spuntarono dietro di me.
“Se vuole indagare su colui o colei che ha tentato di mordermi tempo fa, credo lei sia fuori pista se pensa a qualcuno della mia famiglia, Aro.”
Lui sorrise e alzò le mani in alto “Era solo un pensiero mia cara amica, non c’è bisogno di reagire così. Di questi tempi non c’è da fidarsi nemmeno dei propri familiari.”
Detto questo, i due grandi vampiri dietro di me si allontanarono per ritornare ai loro posti ma i miei occhi non si spostarono di un centimetro dagli occhi traslucidi di Aro.
Sua moglie, al lato destro del suo trono, strinse la mano di Aro per un breve momento ed quando la ritrasse suo marito fece: “Può darsi che siano stati i tuoi genitori a morderti.”
Avvertii una leggere insistenza sull’argomento genitori. Che Aro rimase molto colpito da questa rivelazione?
Io non avevo mai pensato a chi potesse essere stato a mordermi, non fino a quel momento. I Cullen erano fuori discussione. I miei genitori…
 “Si, forse. Lo sa solo chi mi ha morso.”
Il volto di Aro prese una colorazione che passò dal pallido al verdognolo, gli occhi si fecero vitrei, batteva le mani nel suo ginocchio piegato.
“Bella.” Chiamò la tormentata vampira dietro il suo trono, si voltò verso di lei. “Perché non porti la nostra Renesmee nella sua stanza? Edward tu stai qui, dobbiamo parlarti.”
Bella parve in trance per un attimo, fissò con occhi vuoti prima Aro e poi me. “Si, signore.” Rispose lei con voce candida ma atona.
Aro ritornò da me “E’ stato un piacere parlare con te Renesmee ma ora io e miei fratelli ci dobbiamo riunire. E penso proprio che Heidi sta per arrivare però se vuoi unirti a noi al nostro… banchetto, sei la benvenuta.” Terminò la frase con un sorriso cordiale.
“No, grazie.” Risposi in fretta, avevo un brutto presentimento riguardo al banchetto e non vedevo l’ora di andarmene da quel posto. Le labbra di Aro caddero ingiù, dispiaciute.
“Allora ci rivedremo molto presto.” Disse Caius che si fu alzata e tendeva la mano verso sua moglie.
Mi ritrovai Bella accanto che aspettava di farmi strada. Bianca come la neve, aveva le labbra rosse socchiuse, gli occhi rossi brillavano di una luce strana.
Le porte si aprirono ed io la seguii. Quando uscii dalla sala delle Udienze volevo sprofondare solamente nel pavimento lucido e freddo di marmo e crogiolarmi su me stessa. Ero sfinita, non mi sentivo le forze necessarie per ripercorrere il lungo percorso per ritornare nella mia stanza.
Alessandra era ancora seduta nella sua postazione dietro la grande scrivania di legno lucido. Appena ci vide balzò in piedi dalla sua poltrona di pelle, gli occhi sgranati. Ci fissò per un attimo.
“Posso esservi utile?” trillò, fremeva di rendersi utile. La guardai sconcertata. Faceva sul serio?
Bella le fece un sorrisetto timido. “Ciao Alessandra. No, grazie.”
Alessandra rimase incantata da quel sorriso tutto rivolto a lei. Passarono dei secondi prima che si schiarisse la voce e disse “Heidi sta per arrivare.”
Bella sembrava ora spazientita “Lo so ma io oggi non sono in vena. Ci vediamo.”
Si girò verso di me e con gli occhi mi pregò di seguirla, l’accontentai immediatamente.
Mentre ripercorrevamo i lunghi corridoi e le strette scale a chiocciola cercai di mandarle delle occhiate cercando di studiarla. Era estremamente bella, di nome e di fatto, e l’espressione che aveva nel viso davano un senso di instabilità, irrequietezza. Anche nei movimenti del suo corpo: controllava sempre che fossi dietro di lei e la sua andatura era veloce e nervosa.
E non staccava gli occhi da me.
A volte sembrava che volesse parlarmi ma poi si fermava e premeva le mani al petto candido come successe dentro l’ascensore durante un altro interminabile silenzio imbarazzante.
Mi guardava, si mordeva il labbro e si muoveva irrequieta nel suo angolo di ascensore.
Io mi mantenevo appiccicata all’altro antipodo dell’ascensore e mi guardavo le mani strette in grembo, mi sentivo osservata, studiata, scrutata proprio come nella sala delle Udienze. Che aveva da guardarmi?
Appena le porte dell’ascensore si aprirono non aspettai che uscisse prima Bella ma praticamente corsi via ricordandomi la strada. Bella mi si avvicinò di fianco neanche un secondo dopo  e camminava lentamente senza alcuna fatica.
Nell’ultimo corridoio che ci divideva davanti a noi si avvicinava un’altra vampira bellissima mora con occhi violacei causati dalle lenti a contatto. Era vestita uguale a Bella ma lei indossava un cappello, dei guanti e una giacca nere.  
Si sentiva un vociare concitato, dietro di lei la seguiva una ordinata fila di persone con libricini e macchine fotografiche alla mano che si guardavano attorno meravigliati e cercavano di fotografare ogni singolo centimetro della lunga sala. Turisti di tutte l’età e di tutte le nazioni, pure dei bambini tenuti stretti dai genitori per paura che potessero combinare qualcosa.
Venivano proprio all’ora del banchetto. Rallentai il passo.
“Scappate.” Dissi in italiano mimando con la bocca. “Scappate da qui. Andate via, ora!” sussurrai guardandoli in cerca di qualcuno che avesse captato il muto grido di aiuto. Nessuno sembrò accorgersi di me.
“Ciao Bella!” disse la vampira davanti a noi con un grande sorriso.
“Heidi.” Ricambiò il saluto Bella accanto a me che osservava la fila dietro Heidi.
“Voglio sapere tutto.”
Bella non rispose. Ed io mi sentivo in uno stato catatonico. Non capivo nulla.
Guardavo davanti il gruppetto di gente. Dei bambini scapparono dalla presa della loro madre e si avvicinarono a me rivelandomi il loro sorriso sdentato. Erano un maschio ed una femmina, potevano avere massimo sei anni.
“Ciao bambina! Tu abiti qui?” mi domandarono loro, in italiano.
Guardai la loro madre che mi mandava sorrisi di scuse e chiamava i due bambini con dei bisbigli, per non farsi sentire dagli altri.
Guardai i bambini che mi arrivavano a metà coscia: “No.” Risposi io. “Non dovreste essere qui. Dovete andare via da qua. Ditelo alla mamma.”
Mi sentii appoggiare una mano fredda nella spalla ed io mi sentii colpita da una scarica elettrica.
“Andiamo.” Sussurrò Bella con tono grave guardando anche lei i bambini e poi me. Era completamente seria ora, quasi arrabbiata, una ruga le si era formata in mezzo alle sopracciglia.
“Lei è la tua mamma?” mi chiese la bambina con i capelli legati da lunghe trecce indicando Bella dietro di me.
Non ebbi il tempo che Bella stessa mi spinse a camminare lasciandoci alle spalle la fila di persone ignare che di lì a poco sarebbero morte.
Mi girai: i due fratellini mi salutavano con un gesto della mano, la bambina tirava la borsa stretta al braccio della madre, richiedeva la sua attenzione e nel frattempo indicava me.
Mi sentii morire dentro, mi sentivo colpevole. Tutte quelle persone innocenti, quei bambini. Stavano andando a morire alla loro insaputa ed io non stavo facendo nulla.
Mi sentivo una criminale ma non ero tanto sicura di essere d’aiuto per loro se mi fossi messa contro i Volturi, sarei diventata loro pasto insieme agli umani. Volevo fare qualcosa, creare un pretesto per fermarli.
La violenza mi colpì con un pugno allo stomaco. Volevo distruggere tutto. Non era giusto eliminare delle vite. C’era una via di uscita, quella che i Volturi non vedevano ma che io vedevo benissimo. Potevano fare a meno di distruggere vite innocenti, dei bambini.
Continuammo a camminare mentre io bollivo di rabbia. Bella non mi rivolse più lo sguardo e mi fece strada in silenzio.
Fui grata quando vidi la porta di legno della mia stanza.
Bella mia aprì la porta e si fece da parte.
“So cosa hai fatto.” Disse quando entrai.
Mi fermai di scatto e mi voltai verso di lei. Era dentro la mia stanza, appoggiata alla parete accanto alla porta, le braccia incrociate. Voleva per caso sgridarmi?
“Che cosa?” le chiesi.
“Quello che cercavi dire a quelle persone, con Heidi.”
“Era un vano tentativo di salvarli dalla loro imminente e ignara morte. Perdonatemi, lo andrete a dire ai vostri signori?”
Bella si avvicinò a me ma io non arretrai, si fermò a pochi centimetri dal mio viso. “Stai attenta.”
 “Perché mi dice questo?” sussurrai guardandola negli occhi e mi sembrò di cadere nell’oceano profondo.
Non mi rispose, fece cadere gli occhi nel mio medaglione. Girò i tacchi e uscì fuori dalla mia camera chiudendosi la porta dietro le spalle che fece uno strano rumore meccanico.
Guardai per un attimo la porta poi il mio medaglione stretto in mano, poi di nuovo la porta.
Quel posto era una gabbia di matti. Ero sicura di stare iniziando ad impazzire, ed ero in quel posto da sole poche ore. Sembrava tutto uno strano sogno, di quelli che si dimenticavano subito ma che lasciavano il segno e ci si sforzava di ricordarli anche solo un particolare.
Guardai l’orologio d’oro appeso al muro di pietra color sabbia. Segnava l’una passate.
Mi gettai a peso morto nel comodo letto con la tastiera di legno e chiusi gli occhi cacciandomi dei morbidi cuscini ai lati della guance.
Con un rewind, la mia testa ripercorse le mie prime ore a Volterra, dal mio arrivo in aeroporto all’incontro con i Volturi.
Non sapevo se mi aspettavo di peggio o meno da quel incontro. Non mi aspettavo nulla. Sapevo solo che era stato estenuante essere in perenne pressione davanti ai vampiri più pericolosi del mondo che potevano decidere della tua sorte con la stessa tranquillità in cui sceglievano se cibarsi o meno.
Ma non mi aspettavo la loro sorpresa quando seppero della mia perdita di memoria.
Se dicevano di conoscermi già da tempo prima, allora dovevano sapere pure del mio grande difetto, no? O mi conobbero prima che io perdessi la memoria?
Io, ovviamente, non ricordavo di averli visti prima di quel giorno e i Cullen non mi dissero nulla a riguardo. Sapevo che Carlisle era grande amico di Aro e che per un breve periodo aveva vissuto qui a Volterra. Mi suonava strano che non avesse avvisato l’amico.
Convinsi il mio cervello che forse i Volturi mi conobbero prima che perdessi la memoria durante uno dei tanti incontri di Aro e Carlisle e che non ci fu più altro modo di avere contatti fino a quel giorno.
Il mio subconscio, dentro di me, urlava “Altre bugie!”
Lo zittii addormentandomi dopo due notti insonni.
 
 
Mi sveglia di soprassalto, con le mani e il collo freddi. Per un attimo rimasi disorientata. Tutto intorno a me era buio tranne per la luce della luna che filtrava dalla finestra di pietra e che illuminava il ciottolato della piazza e la fontana al centro di essa.
Sopra il letto, ero ancora vestita di tutto punto con tanto di scarpe. Mi alzai e mi avvicinai alla finestra.
Era un silenzio calmo, tranquillo, sereno, un silenzio che si trovava di solito nel bosco fitto di Forks dove nessuno poteva mai trovarti o disturbarti.
All’orizzonte si trovavano le casette buie tutte incastonate tra loro che dava un’aria fatata. Volterra stava ancora dormendo.
Nella piccola piazzetta non c’era nessuno, i negozietti e i bar erano tutti chiusi. Non volava neanche una mosca, neanche il rumore di un passo, un suono, niente.
Notai che c’era un piccolo balcone accanto alla mia finestra che non notai prima. Chi ci stava lì?
Guardando il cielo nero fui fulminata da qualcosa che dovevo fare molto prima.
Corsi a prendere il mio zainetto di pelle nero dietro il camino spento e polveroso. Repressi un gridolino di sollievo quando lo trovai ancora lì, segno che nessuno era entrato nella mia stanza a ficcarci il naso.
Estrassi il cellulare e lo accesi. Nervosa, non riuscii a stare ferma e quindi iniziai a fare avanti e indietro per tutta la camera incitando il cellulare ad accendersi più velocemente. Quasi non notai neanche le invitanti sacche di sangue dentro lo zaino.
Feci il numero di Carlisle… chiamava!
“Ti prego, ti prego, ti prego, ti prego.” Pregai mentalmente.
Non capii se Carlisle mi rispose o meno. Pochi secondi dopo che appoggiai il telefono all’orecchio udii un grande boato che mi fece cadere il cellulare a terra e battere forte il mio cuore.
Ci furono altri rumori, degli stridori però non capivo da dove provenivano.
Presi il cellulare da terra e lo riposi nello zaino che nascosi immediatamente dietro il camino.
Controllai la piazza di Volterra: era uguale a come l’avevo lasciata prima.
Ci fu un altro tonfo sordo. Che diavolo stava succedendo?
Mi avvicinai alla porta e appoggiando la mano nella maniglia mi chiesi se era prudente uscire o aspettare che qualcuno dei Volturi intervenisse.
Non si sentì più nulla. Feci capolino dalla porta per controllare la situazione: il corridoio aveva un’aria sinistra ma tutto era apposto, non c’era nessuno nei paraggi tranne me.
 Si sentì il frastuono di vetri che si spaccava in mille frantumi contro il pavimento. Mi fece rizzare i peli delle braccia e della nuca e stringere gli occhi e denti.
Era normale tutto quel trambusto di notte al Palazzo dei Priori? Non lo sembrava molto.
Ero più convinta che quel posto era una gabbia di matti.
La cosa che mi sconvolse ancora di più era che non sentii nessun passaggio o accenno di qualcuno che si fosse curato di quello che stava accadendo. Era impossibile che lo stavo sentendo solo io tutto quel baccano, non avevo l’udito così affinato come quello di un vampiro. Era ovvio che avevano sentito.
Mi allontanai dalla mia stanza e iniziai a camminare guardandomi intorno, c’erano solo quadri e mobili antichi tutti ai loro posti.
Arrivai ad una delle scale a chiocciola e guardai giù: c’erano un gruppo di sei vampiri coperti da capo a piede da pesanti mantelli color nero pece.
Erano immobile, forse stavano parlando in modo tal da non farsi sentire da me. Si erano accorti di me? Avevano sentito quello che avevo sentito io? Avevano sistemato tutto?
Si mossero ed io indietreggiai ritornandomene ai miei passi. Era meglio non fare mosse azzardate, concordai con la Renesmee avventurosa.
“Che cosa ci fai tu qui?”
La sua voce era glaciale e affilata come la lama preferita del più spietato killer mi raggelarono sul posto.
“Sono nei guai.” Mi dissi.
Mi girai e davanti a me torreggiava il vampiro dallo sguardo cattivo, Edward.
Indossava pure un mantello nero ma il cappuccio era appoggiato nelle sue spalle. Si mise a debita distanza da me.
“Allora?” tuonò.
Strinsi i pugni “Ho sentito dei rumori, forti, e sono uscita un attimo per vedere cosa stava succedendo.”
Lui mi fissò dritto negli occhi, la mascella serrata. “Ritorna nella tua camera.”
Senza dire nulla, lo superai e a velocità da vampiro arrivai subito nella mia stanza.
Capii che il problema l’avevano risolto. 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9. ***


 
“Che ci fa lei qui?!” urlò Bella con tutto il fiato che aveva nei polmoni. In quel momento si sentiva dentro di sé un mostro che smaniava di uscire fuori e uccidere chiunque si mettesse davanti al suo campo visivo.
Era arrabbiata, felice, furiosa, meravigliata, infuriata ma erano anni che non si sentiva così piena e in vita.
Sembravano che le sue silenziose preghiere si fossero avverate, che qualche forza lassù abbia avuto troppa pietà di lei e abbia deciso di realizzarle l’ultimo suo più grande desiderio.
Renesmee era viva e sana davanti a lei. Era perfetta, l’aspetto da giovane fanciulla con i suoi lunghi capelli che potevano essere scambiati come delle grandi onde di cioccolato, lo stesso colore dei suoi grandi occhi, il pallore che caratterizzava la sua appartenenza ai vampiri, il suo corpo slanciato ma allo stesso tempo fragile.
E la cosa più importante di tutte era la sua grande somiglianza con lei che parve aver preso il posto della somiglianza di Edward ma negli atteggiamenti si notava ancora suo padre presente nel suo volto.
Si trovava in una piccola biblioteca, era letteralmente circondata da libri, poltrone, servizi da tè, lampade da lettura e camini.
Era davanti ad Aro pronta a sputare fuoco.
Il vampiro seduto, che per anni aveva obbedito ai suoi ordini, davanti a lei le fece un sorrisetto e disse: “Sorpresa!”
Bella scattò in avanti ma venne fermata da Felix che la tenne per le spalle. Dietro di lei Edward la strinse per un polso e disse a denti stretti al vampiro “Non toccarla.”
Isabella stava bollendo dalla rabbia, nelle sue vene scorreva della lava incandescente pronto a schizzare ovunque. La follia stava prendendo il sopravvento, non riusciva a stare ferma. Lei non doveva essere lì.
“Perché lei è qui? Perché non ce l’avete detto?”
Era cosciente di sembrare un animale pericoloso ma non le importava nulla. L’unica cosa che le importava era avere Renesmee fuori dalla portata di Aro.
Aro alzò gli occhi al cielo “Mi sorprende che tu non sia felice di questo…regalo, diciamo.”
“Non è divertente!” gridò Bella scrollandosi di dosso Edward che la serrava tra le sue braccia e mandando in frantumi le prime cose che trovava.
“Edward!” Bella chiamò suo marito in cerca di aiuto e supporto contro quella pazzia. Edward, contrariamente a Bella, sembrava distante, freddo, gelido come nella Sala Delle Udienze.
Era ancora dietro di lei e fissava Aro, poi i suoi occhi indugiarono su Bella.
Perché non diceva nulla? Perché non si opponeva? Perché si comportava come niente gli importasse?
“Gli avete fatto il lavaggio del cervello!” gridò la vampira, le mani sulla testa. Il mondo stava girando nel senso sbagliato, tutto stava andando in maniera diversa da come doveva andare veramente.
“Bella” fece Aro seccato “perché la stai prendendo così male?”
Bella lo guardò per un istante, lo fulminò con lo sguardo. Era impazzito. Lui non poteva capire cosa stava provando in quel momento. Non poteva mai capirlo.
“Aro, abbiamo stretto un patto noi tre.” disse indicando Edward dietro.
Aro si alzò e si avvicinò lentamente a Bella “E non lo sto infrangendo.”
“Perché l’hai portata qui?”
“Ero curioso di com’è ora.” Una pausa “Non c’è nulla di male.”
Bella ringhiò “Che cosa te ne importa di com’è ora?!”
Aro fece spallucce ed un sorriso furbo spuntò nel suo volto di filigrana “Che cosa importa a te. Io il permesso l’ho chiesto… alla sua famiglia. E loro hanno accettato. Credi ancora di avere qualche potere su di lei?”
Bella si sentì mancare l’aria, ricevere un pugno in pieno stomaco, stringersi con forza la gola ed essere buttata da uno scoglio come anni fa, quando ancora era umana.
Edward e Bella avevano affidato le cure di Renesmee a Carlisle ed Esme nonché agli altri fratelli pregando loro di proteggerla a tutti i costi. Quel gesto era l’unica cosa che li tranquillizzava al solo pensiero di Renesmee. Era al sicuro sapendola insieme ai Cullen.
 Era dalla fine di quella guerra che non la videro più. Bella sentiva ancora le labbra fredde appena appoggiate nella fronte fredda di sua figlia senza sensi, addormentata.
Aro era vittorioso ora vedendo che aveva colpito nel segno “Non si ricorda neanche di voi, ha perso la memoria. Devo ammettere che ci ha sorpreso tutti. Non credevo che quel incidente potesse causare quei danni. Un’altra materia di studio.”
Bella si vide scattare contro di lui senza dare il tempo agli altri di prevedere le sue mosse.
Si scagliò contro Aro gettandolo a terra, bloccandolo giù con una mano nel suo collo pronta a mozzargliela con i denti.
In pochi attimi fu scagliata contro l’altra parte della stanza vicino alla porta.
“Andiamo.” Ruggì Edward prendendola per i polsi e strattonandola fuori.
La vampira lo seguì, ancora stretta dalla presa di Edward. Si sentiva vuota, gli occhi vagavano alla cieca nel corridoio bianco e nero.
Si fermarono, davanti a loro c’era un drappello di vampiri incappucciati. A loro arrivo  fermarono la conversazione animata iniziata prima e si girarono verso Edward e Bella.
“Da dove venite?” chiese Edward al più alto degli incappucciati che scoprì subito dopo il suo volto, era un giovane alto ragazzo africano.
“Dall’ India.”
“Per ordine di Aro.” Disse una donna bionda a poca distanza dall’alto ragazza.
“Per quale motivo?” sussurrò Edward.
“Controllare.” Replicò la bionda.
“Cosa?” Edward aveva perso la pazienza, iniziò a stringere con più forza il polso di Bella ma lei non sembrò preoccuparsi.
“Saprai dopo, Aro ci incontrerà fra poco.”
Edward fece un gesto di assenso e salì le alte scale a chiocciola con Bella silenziosa dietro di lui, lasciando il gruppo di vampiri.
“Aspettami qui.” Disse ad un certo punto, prima di varcare un altro corridoio.
Era lì appoggiata alla ringhiera della scala di pietra e marmo, piccola piccola per non farsi notare dai vampiri giù da lei dove poco prima si trovavano Edward e Bella.
Avanzò verso di lei “Che cosa ci fai tu qui?”
Sua figlia si irrigidì porgendogli la schiena, divenne di ghiaccio.
“Allora?” incalzò Edward.
Renesmee si voltò verso di lui e ad Edward parve di vedere il suo riflesso e Bella allo stesso tempo.
Aveva l’espressione di qualcuno che fosse stato preso nel momento del misfatto ma si ricompose subito.
“Ho sentito dei rumori, forti, e sono uscita un attimo per vedere cosa stava succedendo.”
La guardò negli occhi, i suoi occhi color del cioccolato.
“Ritorna nella sua camera.”
Senza proferire nulla, Renesmee Cullen lo superò arrivando velocemente nella porta della sua camera.
“Vieni.” Disse Edward e nemmeno in un battito di ciglia Bella era accanto a lui, gli occhi sempre vuoti e vitrei. Era assente, anche il suo corpo era assente. Era un fantasma.
Edward la condusse nella stanza vicina a quella di Renesmee. Bella indugiò nella porta dove dietro stava sua figlia che non vedeva da quasi cento anni.
“Entra.” La invitò dolcemente Edward accarezzandole una guancia.
Entrarono ed uscirono immediatamente fuori, nel piccolo terrazzino di pietra dove il vento era freddo e sfiorava le nuche dei due vampiri.
Nella stanza accanto non si sentiva nessun rumore.
Edward abbracciò da dietro Bella che era appoggiata al balcone, appoggiò il mento tra i suoi soffici capelli color mogano e guardò in alto nel cielo. “E’ ancora sveglia.” Disse con un tono di voce che non poteva nemmeno essere riconosciuto come sussurro.
 Bella iniziò a singhiozzare e si voltò verso il petto di Edward appoggiandogli sopra una guancia e stringerlo maggiormente a sé.
“Perché lei è qui? Perché l’abbiamo saputo solo ora?”
“Non lo so.” Rispose Edward, dentro di lui nacque un turbine violento.
“Sono stati bravi a tenerlo segreto davanti a te. Tu non hai letto niente nelle loro menti, vero?” la voce di Bella era un misto tra lamento e innocenza.
“No. Niente.” Rispose il vampiro.
Bella alzò il volto verso suo marito, arrivava a metà del suo petto di quanto era alto, un cipiglio nella fronte, confusa. “Che c’è Edward?”
 Lui la guardò senza provare nulla “Che devo avere?”
Bella uscì dal suo stato di vuoto, buio ed ombre ed una serie di immagini le spuntarono in mente.
“Perché non hai detto niente ad Aro?”
“Che cosa dovevo dire Bella?”
“Che non vuoi tua figlia qui!” rispose lei a denti stretti cercando di non urlare.
Edward allentò la stretta su di lei “Hai fatto solo una scenata, Bella!”
Bella si scansò da Edward con un ruggito che non riuscì a trattenere “Io non ho fatto una scenata! Non voglio mia figlia tra le mani di Aro mentre io guardo impotente!”
Edward si passò una mano tra i capelli “Non puoi fare nulla!”
Bella rimase a bocca aperta. Sentì freddo dentro il suo corpo, le vene e gli organi interni si erano ghiacciati come iceberg. “A te non importa niente di lei.”
“Per favore…”
“Vattene via.” Ringhiò Bella.
“Bella.”
“Vattene.”
 
Dopo ore, prima ancora che il sole sorgesse, la trovò dove era sicuro trovarla. Aprì la porta di legno lentamente e la trovò a terra, il suo viso era a pochi centimetri di distanza da quello di Renesmee.
Erano due gocce d’acqua. Bellissime, perfette. Le due cose più preziose che possedeva.
Bella neanche si voltò verso Edward e non disse neanche una parola. Guardava incantata sua figlia in silenzio, non la toccava per paura che si potesse svegliare, cosa improbabile, ma non volle rischiare.
Poteva solamente immaginare Renesmee trovarsi nel cuore della notte due vampiri che la vegliavano nel sonno.
Renesmee dormiva tranquilla e serena sopra le lenzuola del letto, ancora vestita. Il viso coperto dalla spessa matassa di capelli, il medaglione regalato da Bella prima della battaglia era legato molto stretto al suo collo.
“Cosa sta sognando?” chiese Bella seduta a gambe incrociate nel tappeto, anche in quella posizione risultava sempre elegante e sensuale.
Edward si stava guardando attorno con fare annoiato “Cose molto confuse.”
Si fermò davanti al camino e vide qualcosa di scuro dietro di esso. Allungò la mano e trovo uno zaino di pelle nera.
Lo aprì e trovò una serie di libri, un computer portatile, delle sacche di sangue 0 negativo e un cellulare.
Lo richiuse e rimise lo zaino dietro il camino.
“Che cosa pensava durante l’incontro con Aro?” sussurrò Bella allungando una mano verso i suoi capelli ma mai toccandoli veramente.
Edward si sedette nella poltrona di pelle davanti a letto dove ebbe una intera visione di sua figlia che dormiva beata ignara che i suoi genitori erano entrati nella sua stanza e la stavano guardando dormire.
“Analizzava la situazione, cercava le parole giuste con cui rispondere. Stava attenta ad ogni cosa.”
“Non ci ricorda.” Aggiunse Bella, le labbra le tremavano, voleva tanto piangere e dare sfogo al dolore che in quel momento la stava tormentando in maniera innaturale.
“No.” Affermò Edward.
Alla fine Bella appoggiò lentamente la sua mano tra i capelli di Renesmee e iniziò ad accarezzarla.
Avvicinò il volto al suo e fu pervasa dal buon profumo che emanava, lo stesso di quasi cento anni fa.
“Ti amo tanto, mia piccola Renesmee. Mi dispiace tanto. Ti manderò via da qui. Te lo giuro.”
 
 
 
 
 
Salve a tutti! Grazie per essere arrivati fino a qui.

Ne “Il mio nome è Renesmee”, cioè la versione originale di “Ren”, erano presenti molti POV di tanti personaggi oltre a Renesmee tra cui Bella e Edward.
Quando ho deciso di riscrivere la fan fiction, avevo deciso di presentare la storia solamente dal punto di vista di Nessie e rendere i capitoli con i punti vista degli altri personaggi degli extra da postare alla fine della fan fiction.
Ma, andando avanti con i nuovi capitoli, ho capito che era impossibile eliminare dei capitoli con altri POV dalla storia e renderli degli extra perché avrebbero fatto perdere alla fan fiction quella essenza che definiva proprio il racconto e sarebbe stato pure difficile spiegare delle situazioni che Renesmee non vive in prima persona ma che sono essenziali mettere in bianco.
Questo è uno dei capitoli con il punto di vista diverso da quello di Renesmee che io però ho deciso di scrivere in terza persona, ne troverete tanti altri se continuerete a leggere i prossimi aggiornamenti. Spero di sì.
Spero anche che questo capitolo vi sia piaciuto come vi stia piacendo l’andamento della storia.
Ci sentiamo al prossimo capitolo!

Bellamy.
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10. ***


Il sole picchiava forte nelle mie palpebre, aprii febbrilmente gli occhi e vennero attaccati dalla luce abbagliante del sole che filtrava dalla finestra vicina al letto. Repressi un lamento e ficcai il mio volto nel cuscino morbido e caldo borbottando parole. Chiusi gli occhi e mi riaddormentai.
 
Fui svegliata da uno spasmo improvviso che ebbe inizio dal mio cervello e si espanse in tutto il mio corpo come un elettroshock o da un defibrillatore usati senza nessun preavviso e motivo.
Col fiato corto mi misi a sedere. Accaldata mi guardai attorno, ero sola ovviamente, tutto sembrava apposto. Il silenzio pesante avvolgeva tutto il palazzo. L’orologio segnava le cinque del pomeriggio. Avevo dormito così tanto? Nessuno eravenuto a cercarmi?
Mi stropicciai gli occhi, il sonno fu pesante quanto un mattone e freddo come il ghiaccio.
Sentivo caldo, i capelli appiccicati alla fronte, ero ancora vestita di tutto punto.
Mi sentivo oppressa, toccata, osservata e non ne capii il perché. Forse era per qualcosa che sognai ma che non ricordavo. Anzi non ricordavo proprio cosa sognai quella notte ma non credevo fosse niente di diverso dai soliti sogni.
Mi alzai dal letto e guardai fuori la piazza dove la gente seduta nei tavolini dei bar sorseggiavano tranquilli il loro caffè nelle tazzine bianche e assaggiavano stuzzichini nei piattini che servivano i camerieri. Dei bambini giocavano con una palla al centro della piazza, accanto alla fontana che sgorgava acqua fresca.
Non smettevo di stupirmi della loro ignoranza e innocenza.
Guardandoli mangiare e bere, la mia gola arse urlando invidiosa. Da quanto che non bevevo?
Mi allontanai dalla finestra e corsi verso il camino e cercai dietro. Presi il mio zaino e mi sedetti in una poltrona, gettai a terra tutto quello che non mi serviva ed esultai prendendo le cinque sacche di sangue che si trovavano nel fondo dello zaino.
Mi fermai un attimo e un grande punto interrogativo si posò pesante sopra la mia testa: e se le scoprivano? Se sentivano l’odore di sangue umano?
Non avevano niente da obbiettare, no? Era sangue umano, loro stessi mi avevano proposto di farmi avanti.
In quel preciso istante una siringa annientò dentro le mie vene una dose fredda di incoerenza e disgusto verso me stessa: io stessa avevo negato con fermezza ad Aro di non partecipare a quel banchetto, non volevo assolutamente uccidere delle persone e bere il loro sangue tanto meno bere il sangue di qualche sconosciuto nascosta da tutti in una stanza antica millenni della Toscana.
Strinsi i denti e rimisi le sacche di sangue di nuovo al loro posto.
Guardai il cellulare e il computer sotto ai miei piedi accigliata. Ero delusa e triste, mi sentivo dimenticata da loro, dai Cullen. Non provarono a cercarmi, ero sempre stata io fin a quel momento.
Mandarmi a Volterra era un loro modo per sbarazzarsi di me? Era successo qualcosa?
Presi il computer e lo appoggiai tra le gambe, quando fu completamente acceso posai la freccetta nell’icona della posta elettronica. Non c’era nulla, decisi di scrivere io, a Carlisle.
 
Ciao nonno! Come state?
 
Mi fermai, non sapevo come continuare. C’erano tante cose da dire ma non trovavo le parole e il mio cervello cercava di nascondere il giusto motivo per scrivere una email, si era svuotato capovolgendosi come una borsa.
Sapevo cosa volevo scrivere: che ero arrabbiata, che volevo tornare a casa, che volevo ritornare da loro. Sbuffai,  già immaginavo la risposta di Carlisle al mio capriccio. Dovevo stare attenta per la mia sicurezza e restare buona.
Guardai in cagnesco lo schermo del computer per una manciata di minuti. Alla fine premetti il tasto invio e infine lo spensi. Rimisi a posto tutte le mie cose e lo zaino ritornò dietro il camino.
Con un turbinio di pensieri negativi in testa che non riuscivo nemmeno a decifrare entrai nel piccolo bagno di marmo della stanza, mi spogliai e con un broncio mi immersi nella vasca d’acqua più o meno gelata.
 
 
Erano le sette di sera ed io ero seduta rigidamente in una poltrona a fissare il camino spento, ad aspettare.
Ai suoi piedi si trovava un violino di legno lucido, non lo presi. Era il mio strumento preferito ma non mi azzardai a toccarlo, non ero in vena di suonare. Era lì, che pregava di essere usato, distolsi lo sguardo.
Fuori la gente si era fatta più chiassosa e più felice, alcuni uomini alzavano in alto calici stracolmi di birra, alcuni ragazzini si baciavano seduti sopra la fontana, donne che tenevano dei microfoni in mano e stonavano note di una canzone italiana.
Io aspettavo, empatica, scacciando il forte desiderio di sangue che mi tormentava da quando le mie mani toccarono quelle sacche.
Bussarono, un solo deciso tocco, alla porta ed io ne fui quasi grata.
Mi aspettavo che dietro la porta ci fosse ancora Jane ma mi ritrovai davanti una tormentata Bella. Quando fui faccia a faccia con lei, la vampira strabuzzò gli occhi e si morse il labbro inferiore indugiando sul mio volto e quel senso di oppressione aumentò di livello. Sembrava spaventata.
“Ciao.” Fece lei, esitante.
La guardai chiedendomi cosa volesse “Buonasera.”
“Dobbiamo andare.” Mormorò lei indicando le scale in fondo al corridoio.
“Va bene.” Sussurrai chiudendomi la porta alle spalle. Bella mi guardò fare quella operazione e poi cominciò a farmi strada, la seguii mettendomi accanto al suo fianco, guardando dritto davanti a me.
Sentivo i suoi occhi fissi su di me e mi innervosii. Avevo voglia di urlarle cosa diamine aveva e perché mi fissava come una bambina che guardava una vetrina di un negozio pieno di bambole edizione limitata. Era maniacale, non se ne rendeva conto?
“Perché a quest’ora?” domandai per rompere il silenzio e farle distogliere il suo sguardo dal mio medaglione.
Bella non mi rispose. Stavamo scendendo delle scale di granito e arrivammo in un ingresso molto più piccolo rispetto a quello della Sala delle Udienze. Seduta in una poltrona c’era Alessandra, con delle grandi violacee occhiaie sotto gli occhi, che scartava frettolosamente dei fogli.
Appena ci vide alzò gli occhi su di noi e si fermò per un attimo ad osservarci, gli occhi si trasformarono in due fessure.
“E’ arrivato?” balbettò Bella verso Alessandra.
Le mani di Alessandra iniziarono a tremare facendo cadere altri fogli “S-si.”
“Tutto bene?” le domandai, non stava bene. Sembrava fosse sul punto di avere una crisi nervosa. Sentii Bella mandarmi una occhiataccia alle mie spalle, non m’importava nulla.
Alessandra mi guardò e mi sorrise cercando di sistemarsi i capelli già ordinati “Si, si, sto bene. Grazie per aver chiesto, signorina Renesmee.”
“Sicura? E non chiamarmi signorina!”
La mano fredda di Bella mi premette forte la mia spalla e mi spinse verso la porta dove molto probabilmente si trovavano Aro e tutto il resto della combriccola.
Mentre le porte si aprivano, la guardai e mi scrollai la sua mano di dosso. Lei ricambiò il mio sguardo, triste.
La voce perennemente felice di Aro trillò “Oh! Eccoti Renesmee!”
Era un atrio circolare, circondato da alberi di frutto, un piccolo pozzetto per l’acqua e delle panchine di marmo che la circondavano. Sopra le nostre teste c’era il cielo che a poco a poco diventava sempre più scuro facendo apparire le prime stelle.
 Rimasi un attimo di stucco: non pensavo che nel palazzo ci fosse uno spazio all’aperto così grande e bello.
Quel posto mi dava uno strano senso di pace e tranquillità che non sentivo da quando avevo messo piede in quell’aereo a Seattle.
Dopo tutto non ebbi tempo e modo di calmarmi, Aro, i suoi fratelli, Edward, Alec e Jane erano posti accanto al primo, vicino alle panchine. Bella corse verso Edward.
Aro schioccò le dita molto pigramente e dei lampioni riccamente decorati d’oro si accesero nello stesso istante.
“Ora va maglio.” Affermò Aro “Come stai, Renesmee?”
Distolsi lo sguardo dai lampioni “Io bene, lei?”
Lui mi sorrise “Io bene. Sai, io e i miei fratelli abbiamo passato tutta la giornata a fare ricerche, molto più espanse dopo le tue utilissime dichiarazioni e aiuti.”
Gli feci un cenno “Niente di che! Quando volete!” e lui continuò.
“Abbiamo contattato dei nostri cari e vecchi amici da tutto il mondo chiedendo loro se hanno mai incontrato una come te, una mezza vampira.”
“La risposta?”
Per un attimo sperai che lui rispondesse di sì, che c’era qualcun altro oltre me, che non ero sola a dover sottostare ai mezzi esperimenti di Aro diventando così sua cavia.
“No, non hanno mai incontrato nessun ibrido. A quanto pare siete molto rari e ben nascosti.” Fece una pausa, pensando alle parole che aveva appena detto “Ovviamente conoscono te, probabilmente sei conosciuta a livello mondiale, l’unica mezza vampira cresciuta insieme a dei vampiri per tutto questo tempo.”
“Che cosa ne pensi?”
Lo guardai. Che cosa ne pensavo io? Assolutamente niente.
“Non mi aspettavo di avere così tanta fama.” Sussurrai.
“Renesmee ne hai molta invece!” disse Aro come se fosse così tanto ovvio.
Non mi trattenni dal chiederlo “E ora?”
Vi prego lasciatemi andare. Per favore.
Lui iniziò a girarmi intorno, guardandomi con attenzione. “Ora vorremo conoscere un altro tratto di te.”
Confusa, seguii il suo cerchio intorno a me. “Che cosa?”
“La tua forza.”
Dietro di me comparve un vampiro che più un uomo era una torre alta centinaia di metri. Era di carnagione scura e i capelli fini lunghissimi. La giacca nera minacciava di strapparsi per il troppo eccesso di massa muscolare. Metteva soggezione in tutta la sua altezza.
Non poteva fare sul serio. Non avevo mai provato veramente la mia forza, non avevo mai avuto un vero motivo per usarla –tranne in quei pochi momenti con Emmett ma m’immobilizzava in pochi minuti.
Sapevo di essere un po’ più veloce rispetto ad un vampiro normale ma non pensavo fosse così importante.
“La mia forza?” ripetei. Quel mostro dietro di me era lì per quel motivo. Mi sentii rimpicciolire e fragile allo stesso tempo. Tutte le forze che avevo in corpo erano svanite lasciandomi vuota.
“Si.” Rispose lui come se la cosa fosse più ovvia della mia popolarità. “Fa parte dei nostri studi. Per capire se sei più simile a noi che agli umani.”
“Questo non ha senso. Certo che lo sono! Sono un po’ più forte rispetto agli umani ma non quanto voi!”
Carlisle non mi aveva parlato di questo genere di cose, pensai, in allerta, guardando nervosamente Aro.
“E se non volessi?” la domanda mi uscì di bocca libera come aria, senza controllo né padrone.
Aro guardò dietro le mie spalle e fece un cenno.
Una mano fredda e grande il doppio della mia faccia strinse la mia spalla sinistra e tirò.
Fu tutto veloce: non sentii più i miei piedi toccare terra, ero pesante nell’aria mentre mi scagliavo contro una panchina di marmo a pochi metri di distanza da me, sbattendo la testa.
Vidi buio intorno a me e poi a poco a poco più nitido ma tutto vorticava, gli alberi giravano come una giostra. Non capivo cosa stava succedendo, come se mi fossi appena svegliata da un sonno durato cento anni.
Un vampiro enorme si stagliò davanti a me alzandomi per le spalle. Con i capelli davanti agli occhi, gli posai le mani al collo e calciai un colpo di piede dritto nel suo petto facendolo cadere nella pietra levigata, io lo tenni fermo appoggiandogli sopra le spalle le mie ginocchia.
Alzai gli occhi verso Aro lanciandogli un’occhiata che gridava “Contento?!”
Aro mi sorrideva, estasiato, gli altri mi fissavano come se si aspettassero che il vampiro sotto di me reagisse.
Bella, invece, era una maschera di terrore. Un suo polso era stretto alla mano di Edward.
“Signore” pregò lei “Per favore.”
Sentendola, il mio cuore fu invaso da un calore estraneo, che non avevo mai provato prima d’ora.
Perché lei era l’unica che si opponeva a ciò che Aro mi stava facendo fare? In fondo, cosa le poteva interessare mai? Era forse lei quella strana? Una vampira della guardia dei Volturi che andava contro il pensiero adottato dai Volturi stessi?
Era una voce che urlava ma che nessuna si degnava di ascoltare.
Perché aveva quell’espressione di dolore che squarciava quel suo bel volto?
Socchiusi gli occhi e non vidi più. Era buio, non era possibile, non era ancora notte ed eravamo circondati dalla luce. Era buio pesto, profondo e infinito.
Allo stesso tempo le mie orecchie non captarono nessun suono, nessun rumore, nessun respiro.
Dentro di me il mio cuore batteva forte contro la gabbia toracica mentre io mi perdevo in quel universo buio e silenzioso.
Il dolore che si irradi per tutto il corpo rifece scattare la mia vista e il mio udito. Mi ritrovavo a terra e la mano del vampiro che mi ringhiava a pochi centimetri dal viso stringeva forte il collo.
Averlo vicino accanto a me, con una rabbia immotivata ma solo stimolata dal suo padrone, mi faceva ridere. Era una marionetta.
Strinsi la mano del vampiro scuro e l’allontanai da me alzandomi, spingendolo. Strinsi il suo pugno e con le unghia lo graffiavo facendo cadere della polvere dalla sua pelle.
Le sue braccia mi presero per i fianchi alzandomi e mi premette contro il suo petto, stringendomi, stritolando le mie ossa. Non riuscivo a respirare.
Aro!” sentii dire qualcuno ma era una voce lontana.
Il vampiro continuava a stringere intorno a me, le sue dita stringevano contro la carne della mia pancia. Ero una bambolina in confronto a lui, mi poteva prendere in un palmo di mano. Non gli era difficile farmi fuori in pochi secondi.
Repressi un grido e gli diedi un calcio negli stinchi che lo fece cadere a terra, mi voltai immediatamente e con un braccio gli avvolsi il collo stringendolo a me con l’altro gli staccai definitivamente il braccio sinistro con un sordo rumore di pietra che si rompe coperto poi dalle urla del vampiro.
Ricominciai a respirare. Caddi a terra e  lasciai immediatamente quell’arto dalle mie mani che cadde rumorosamente a terra.
Che cosa avevo fatto?
“Strabiliante! Fratelli! Avete visto?!”
Non badai neanche ad ascoltare Aro che parlava, ammirato, di me o di qualcos’altro.
I miei occhi guardavano quel vampiro che si attaccava il suo braccio alla spalla coprendoli di veleno. Ricambiava il mio sguardo, uno sguardo assassino, e ringhiava come le preda più pericolosa al mondo.
Mi alzai da terra e sentii delle forte fitte allo stomaco che mi fecero gemere.
Non mi occupai di Aro, dei suoi fratelli e degli altri, con una spinta aprii le porte ed uscii dall’atrio.
Alessandra era ancora lì ma senza scartoffie in mano, indietreggiò appena sbucai io e vedendomi si spaventò. Si portò una mano alla bocca.
“Ciao Alessandra.” Feci io, tenendomi un braccio stretto alla pancia e iniziai a camminare veloce. Ad ogni passo i fianchi bruciavano, trattenni rantoli fino a quando arrivai nella mia stanza e chiusi la porta dietro di me.
Urlai e mi strappai la maglietta che avevo scelto quella mattina con cura. Corsi in bagno e mi misi davanti alla lunga specchiera di legno celeste con intagliate delle volute.
Una lunga cicatrice che partiva da sotto il seno destro e scendeva fino al fianco sinistro per poi posarsi tra le fossette di venere era una parte di me che c’era sempre stata, come un talismano contro il male o una etichetta, un marchio.  
La cicatrice sembrava tanto una crepa contro il marmo più raffinato e trattato. Carlisle aveva provato a chiuderla in tutti i modi possibili eppure i metodi umani non funzionavano. Provò anche con dei fili di ferro e con tanti altri materiali che non si vedevano spesso o che non erano legali. Niente per aveva funzionato, ogni tre mesi dovevo cambiare i fili di sutura perché la ferita si riapriva.
Come me la procurai non lo sapevo, era sempre stata con me, come per il medaglione e l’amnesia.
Toccai la linea discontinua rossastra, al tocco bruciava dolorosamente ma non era sul punto di riaprirsi.
 Mi spogliai, girai la specchiera per non vedermi mentre ero nella vasca, e mi rifeci un altro bagno. L’acqua traboccava dalla vasca ed io mi vi immersi tutta e rimasi in apnea fino a quando i polmoni protestarono. E pensai.
Ripercorsi tutti i movimenti nella mia testa in una velocità impressionante. Quello scontro sembrò durare un anno intero, invece durò solo pochi secondi, poco più del tempo che si impiega per sbattere le ciglia.
Tre domande si posero dentro di me.
Mi ero pentita di ciò che avevo fatto? No, era pura difesa personale, non ero stata io ad attaccare, mi ero opposta a quella richiesta pazzoide di Aro.
Ero scioccata da ciò che avevo appena fatto? Cioè aver staccato un braccio ad un vampiro? Si, lo ero. Non credevo fosse possibile che sarei stata capace di questo. Ero leggermente compiaciuta di questa rivelazione.
Ma la mia famiglia cosa avrebbe pensato? Avrebbero disapprovato? O mi avrebbero applaudita per il mio coraggio e forza?
Quel nuovo lato di me stessa mi destabilizzava o mi inebriava allo stesso tempo. Il fatto che potevo proteggermi dagli altri grazie solo a me stessa, con solo la mia forza, mi dava fiducia e allo stesso illusioni troppo concrete.
Ero arrabbiata? Si, stavo impazzendo dalla rabbia ma si era… assopita. Ero arrabbiata con tutti: con la mia famiglia, con Aro, con Bella, con la ferita che non smetteva di bruciare.
Un moto di violenza, voluta dalle mie nuove abilità, si espanse in tutto il mio corpo pregando di distruggere tutto ci che aveva incontro.
Dovevo uscire da lì, immediatamente. Abbandonare l’Italia.
 
Rientrai nella camera da letto - vestita di nuovo di tutto punto e sempre di nero- e gridai, il cuore a mille.
“Ssshh.” Fece lei.
“Che ci fa lei qua?” dissi a denti stretti tenendomi a debita distanza da Bella.
Lei sembrava lacerata dalla distruzione più totale. Si avvicinò a me e i suoi occhi esaminarono tutto il mio corpo.
“Che guarda?!”
Si passò una mano tra quei capelli lunghi color mogano. “Voglio sapere solo se stai bene.”
Mi strinsi tra le braccia dove sentivo ancora la cicatrice pulsare. “Se sto bene?”
Bella si mise a sedere nel mio letto ma non la smise di fissarmi. “Si.”
“Sto bene. Può andare.” Le risposi con freddezza.
Lei non parve ascoltarmi e continuò “L’avevo detto ad Aro. L’avevo detto a tutti che era una pazzia! Renesmee credimi! Ma loro erano tutti estasiati. Di cosa?!
Iniziò a singhiozzare e lo strano calore riavvolse il mio cuore dandomi alla testa. Era davvero l’unica a cui importavo qualcosa? Non mi conosceva neanche ma sembrava che mi conoscesse da anni. Mi parlava come se fossi una sua vecchia amica.
Indugiai vicino alla porta del bagno e poi mi misi a sedere nel letto accanto a lei, rigidamente.
“Non lo so.” Le risposi, sussurrando. Perché era ancora qui? Aveva il permesso? Se ne fregava?
Si voltò verso di me ed io mi vidi riflessa in quei grandi occhi rossi. “Ti… Ti sei fatta tanto male?”
Mi strinsi le braccia più forte a me “No, non tanto.”
Lei guardò il mio gesto “Che cosa ti sei fatta?”
La guardai di traverso “Niente.”
“Per favore, Renesmee.”
“Perché lei è qui? Per favore, se ne vada!”
Bella si alzò, aprì la porta e se la chiuse alle sue spalle.
Io mi gettai nel letto e chiusi gli occhi.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11. ***


No, non mi sono dimenticata di aggiornare! Scusate il ritardo!
Buona lettura!
Bellamy.
 
 
 
 
Ero seduta nel letto disfatto, le gambe incrociate. La mia attenzione era tutta per un antico libro molto misterioso: non vi era scritto nessun titolo o nome dell’autore, le pagine erano quasi sbiadite per via del passare del tempo e la lingua era quasi indecifrabile ma ero quasi sicura che era latino, forse greco.
Nella pagine sbiadite, quasi umidicce, vi erano disegnate delle figure raccapriccianti con i canini e peluria in tutto il corpo. Sembravano dei personaggi allegorici di carnevale ma era ovvio che rappresentavano i vampiri.
Non masticando bene le lingue classiche, rimasi a fissare il libro per un po’ di tempo. Sarebbe stato interessante per Carlisle.
La cicatrice bruciava ancora, come lava che scorreva nel mio stomaco. Trattenevo il respiro per sostenere il dolore e le fitte che mi procurava, ero in un totale stato di apnea.
Era ormai pomeriggio e stava piovendo forte, le gocce pesanti picchiettavano contro il vetro della finestra appannata. Il cielo era grigio scuro illuminato però dai fari bronzei della piazza, il vento sferzava i grandi abeti attorno.
Lasciai il libro nel letto e mi avvicinai alla finestra a dare un’occhiata: il temporale era minaccioso e in piazza ovviamente non c’era nessuno, le case vicine erano illuminate, gli abitanti erano tutti riuniti davanti alla televisione con una bevanda calda e qualche dolce.
In un piccolo palazzo al primo piano c’erano un bambino che stava giocando con dei camion giocattolo proprio davanti alla finestra di fronte alla mia. Il maschietto stava facendo vorticare in aria il camion giallo facendo con le mani delle grandi giravolte. Facendo quel gesto i suoi occhi si scontrarono con i miei. Verdi contro castano.
Gli sorrisi.
In teoria dovevo coprirmi e far credere a quel bambino che ciò che aveva visto l’aveva immaginato. In pratica mi fece piacere che quel maschietto con i capelli biondo oro posò gli occhi su di me. Mi diede quella sensazione di ordinario che tutti gli umani vivevano che io non avevo mai vissuto veramente.
Il bambino ricambiò il mio sorriso e si voltò verso qualcuno indicandomi con una mano. Era il momento giusto per allontanarsi dalla finestra.
Sospirai e mi strinsi con le mie braccia. Sentivo freddo e il camino era spento ed irradiava ancora più freddo.
Mi sedetti in una poltrona e presi il violino lucido tra le mani. Ero annoiata, potevo sgranchirmi le mani. Iniziai a suonare. Una sinfonia tranquilla e armoniosa di qualche antico compositore di cui non ricordavo il nome.
Sembrava che le note fossero l’unica cosa che potevano dare vita a Volterra, addormentata tra la nebbia e la pioggia.
La musica riecheggiava tra la mia stanza, la piazza, nei lunghi corridoi del castello, forse anche nelle case degli abitanti.
La musica occupava il vuoto che quella cittadina irradiava interminabile. Il vuoto che avevo dentro di me.
La melodia prese un’altra svolta: pian piano divenne più triste, più nostalgica, adatta proprio al mio corrente stato umorale e al tempo fuori la finestra.
Toc toc.
Presa dalla frenesia provocata dalla musica che stavo suonando, il violino mi cadde tra le gambe appena fui interrotta dal richiamo alla porta.
Toc toc.
Frettolosamente rimisi a posto il violino accanto al camino e corsi alla porta.
Trattenni un verso di lamento. Era ancora lei.
La poco gradita visita clandestina che mi fece la sera precedente la dimenticai subito ritornando con la stessa velocità con cui se n’era andata.
Mi sentii cattiva a pensarlo, ma non la volevo accanto me. Mi sentivo più che a disagio.
Malgrado tutto, dovevo ammettere che nessuno era più bella e perfetta quanto Bella stessa. Era una dea scesa in terra. Indossava un vestito di seta e veli lunghi che ricordava tanto un macabro vestito da sposa color nero anziché bianco o color avorio. Mi chiedevo ancora se era quello il codice di abbigliamento per i Volturi o erano solamente gusti della vampira.
“Dobbiamo andare?” le domandai prima che lei potesse dire qualcosa, senza aria nei polmoni.
Lei si destò dai suoi pensieri: “No.”
La guardai, confusa, senza capire. E allora?
“Posso entrare?” mi chiese lei, le braccia dietro la schiena.
Potevo dirle di no? Si sarebbe offesa? Era una qualche prova di Aro? Cosa voleva?
“C-certo.” Feci facendomi da parte per farla entrare.
“Grazie.” Mormorò lei sbattendo le lunghe ciglia nere. Padrona della situazione, come se fosse a casa sua (in effetti lo era), si mise a sedere in una poltrona davanti al camino, muovendosi con grazia tra la stanza.
I veli lunghi del vestito parevano galleggiare nell’aria presi da vita propria come tanti demoni che le roteavano attorno. Scossi la testa per rimuovere il pensiero.
Io rimasi un attimo davanti alla porta, sconcertata per la sua sfacciataggine. Volevo pizzicarmi il braccio per vedere se stavo sognando o meno.
“Il camino è spento.” Disse Bella corrucciata “Non senti freddo? Nessuno è venuto ad accendertelo?”
Sbuffai e mi misi comoda nella poltrona accanto: “Non mi sembra tanto strano che qualcuno non si prenda la briga di accendere un fuoco per riscaldarsi quando si è in un castello infestato di vampiri.”
Bella mi guardò, gli occhi sgranati, non disse nulla.
Continuai “Tranquilla, non ho quarantadue gradi corporei per niente.” Era tutta questione di genetica ibrida.
Scosse la testa, contrita “Non è giusto che la tua stanza rimanga al freddo però, sei comunque nostra ospite.”
Mi abbracciai le gambe e feci spallucce “Sei molto carina ma non cambia molto.”
“Provvederò.” Affermò sicura Bella toccandosi nervosamente le mani. “Stai bene?”
Feci una risata sarcastica “Mai stata meglio!”
“Sei sicura che non ti sei fatta male ieri?” chiese apprensiva.
In quel momento la cicatrice brucio “Non mi sono fatta nulla.” Tutte quelle attenzioni non mi piaceva, mi mettevano in allerta. Non era convincente. O ero troppo scettica io?
Annuì velocemente, nervosa, continuando a torturarsi le mani.
La guardai per un attimo “Invece lei? Sta bene?’”
Iniziò a giocherellare con il suo anello con tanti diamanti incastonati in un ovale. Si afflosciò pesantemente nella poltrona e guardò in alto verso il tetto.
Era… giovane. A quanti anni poteva essere stata trasformata?
“No.” Sussurrò alla fine, come sfinita.
La guardai, incuriosita, “Perché?”
Si voltò verso di me, il grigio del cielo che filtrava dentro la camera la rendeva ancora più pallida, i suoi occhi rossi erano diventati neri. Il suo volto era stanco, sfinito.
“Per quello che sta succedendo. Non dovresti essere qui, Renesmee.”
Scattai in piedi “Finalmente qualcuno che l’ha capito! Ti prego, parli con Aro. Dica di mandarmi via.”
Iniziai a tremare e a sentire freddo, mi rimisi seduta nella poltrona mentre le mie lacrime minacciavano di straripare dai miei occhi.
Bella si sporse verso di me, gli occhi tristi. “Ho provato. Me lo impediscono.”
Ma lei era Bella! Era il fantasma di Aro! Sempre dietro le sue spalle! Si muoveva lui, si muoveva lei. Possibile che non lo influenzasse nemmeno un po’?
Mi sentii cadere da un pozzo infinito, senza fondo. Una porta chiusa a chiave. Una faccenda chiusa. Un discorso dimenticato.
Questa volta fui io ad accasciarmi nella poltrona.
Non hai provato abbastanza. Le volevo dire. Non glielo potevo dire: non la conoscevo e non potevo pretendere nulla da lei. Anche se fosse, era sempre tra le mani di Aro.
Tutta quella sincerità non mi andava bene. Perché sedersi in una poltrona della mia momentanea camera ed esporre un certo argomento? Perché si preoccupava di me? Perché? A quale scopo? Potevo crederle? Veramente non voleva che io stessi a Volterra?
Volevo crederle ma fallii.
Rimanemmo zitte. Non sapevo per quanto tempo ma il silenzio era l’unica cosa di cui avessi bisogno in quel momento.
“Perché è qui?” le sussurrai.
“Non voglio che tu soffra, Renesmee. Non te lo meriti.”
Il mio cuore perse un battito e il mio stomaco si chiuse. Sentii un calore strano dentro di me, mai provato.
“Non dovrebbe. Non ne ha motivo.”
“Non mi conosce.” Continuai fissando il tappeto rosso porpora sotto di me.
Una sua mano fredda come il ghiaccio prese la mia “Quanto ti vorrei conoscere.”
Guardai le nostre mani intrecciate e le slacciai immediatamente. La mano bruciava e bramava di nuovo il suo tocco. Mi sentii a disagio, volevo che se ne andasse. Ti prego, va’ via!
“Quanto vorrei sapere perché sono qui.” Dissi di rimando.
Bella si alzò dalla poltrona e abbracciandosi iniziò a camminare avanti e indietro davanti al camino.
“Io ho provato. E continuo a provare!” si fermò per guardare fuori la finestra, verso la parte interna del castello. Dopo si voltò verso di me.
“Renesmee, credimi. Io mi oppongo a ciò che ti fa Aro.”
Mi alzai e andai verso di lei, eravamo quasi la stessa altezza.
“Perché questo? A quale scopo?”
Bella mi guardò, affranta e sofferente. “Credo proprio per conoscere meglio la tua razza, Renesmee.”
“Solo? Non sembra.”
“Cercherò di evitare ciò che mi è possibile. Promesso.”
Mi allontanai di qualche centimetro “Perché lo fa? Perché vuole conoscermi?” E’ una trappola!
Fece un gesto veloce con la mano “Dammi del tu.”
“Rispondi alle mie domande.”
“Perché voglio una amica.”
Ricadde il silenzio in stanza, di nuovo, più pesante. Non ero pronta a questo. Una vampira, del clan più potente al mondo, chiedeva ad una improbabile mezza vampira di diventare amiche.
Tutto questo era assurdo ma qualcosa dentro di me aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno, di parlare, di dar voce ai propri pensieri.
“Hai bisogno di un’amica.” Mormorai.
“Tutti ne hanno bisogno.” Rispose.
Mi ritornò in mente Nina, non la sentivo da tempo e mi mancava davvero tanto. Avevo davvero bisogno di parlare con Nina. Non mi ero fatta sentire. Era offesa? Era una reazione normale e comprensibile. L’avrei più rivista? Speravo ardentemente di si.
Fissai gli occhi rossi scuro di Bella e vedevo in lei una donna immortale sola, nostalgica, triste.
“E’ vero.” Concordai io.
Iniziò a mordersi il labbro inferiore come se si fosse accorta di dire una parola di troppo. Si mosse verso la porta “Ti lascio sola. Spero di non doverti disturbare più.”
Con lo sguardo puntata al pavimento sotto ai nostri piedi, sparì dietro la porta che si chiuse senza far rumore.
Arrivederci. Pensai e mi gettai nel letto.
Con tanti pensieri angoscianti in testa.
 
 
“Svegliati.”
Aprii gli occhi e seduta accanto a me si trovava di nuovo Bella con uno sguardo tranquillo in volto.
Balzai nel letto e mi misi seduta, mettendomi a debita distanza dalla vampira. Cosa voleva ancora? E perché non aveva bussato?
“Scusa.” Disse con un piccolo sorriso “Ho bussato ma non hai sentito. Dormivi sodo.”
“Che succede?” domandai stropicciandomi gli occhi.
Bella fece un sospiro, il suo umore cambiò. “Dobbiamo andare.”
“Okay.” Dissi e scesi dal letto.
Ci dirigemmo verso la sala delle Udienze a detta di Bella che non mi disse nient’altro ed io non chiesi altro.
Era calata la sera ed aveva smesso di piovere e nell’aria c’era quell’odore di pioggia di cui ero tanto abituata a sentire, per un attimo mi sentii a casa.
Alessandra era ritornata a sedersi dietro la sua scrivania. Si stava rifacendo il trucco che ripose immediatamente nel cassetto quando ci vide arrivare..
“Ciao.” La salutai sussurrando facendole un gesto della mano. Mi misi a ridere perché era buffa.
“Renesmee!” disse lei sorridendomi.
Sentii gli occhi di Bella fissi su di me, non dissi nulla. Si aprirono le porte.
Di sera, la sala diventava molto sinistra, molto più fredda e poco confortevole.
C’erano tutti, tranne le mogli. Al centro c’era un ragazzo, umano, il volto terrorizzato. Si guardava intorno senza sosta. Appena mi vide notai che fece un respiro di sollievo. Negli occhi vedevo il terrore ma cercava di nasconderlo cercando di avere un atteggiamento tranquillo e sicuro.
Mi misi accanto al ragazzo: ero molto più alto di me, poteva avere sedici o diciassette anni. Era magro, portava i capelli castano scuro, abbastanza lunghi e spettinati, aveva gli occhi azzurri.
Mi guardò negli occhi ma non disse nulla. Era spaventato, attraverso un mio sguardo cercava una rassicurazione. Si avvicinò a me, il suo braccio toccava la mia spalla.
Bella si mise accanto ad Edward. Lui le strinse la mano e lei si mise dietro di lui. Edward fissava a terra, come se stesse ascoltando qualcosa molto attentamente. La mascella rigida.
“Buonasera.” Dissi a denti stretti mentre i miei occhi passavano dal ragazzo, totalmente e normalmente umano, al totalmente e anormalmente vampiro Aro.
“Mia cara Renesmee! Sono felice di vederti sempre splendente! Anche quando il giorno prima hai battuto un vampiro molto più grande di te! Sono ancora stupefatto e ammirato!”
Il ragazzo accanto a me mi guardo a bocca aperta. I suoi occhi vagavano nel mio corpo.
Al contrario, Aro lo guardava ancora perplesso “Ancora non credi che sei circondato da vampiri?”
Il ragazzo non disse nulla.
Aro continuò subito “Bè, Renesmee è mezza vampira.” Lo disse come se fosse qualcosa di così ovvio.
Guardai il ragazzo sconosciuto davanti a me “Mi dispiace.” Gli dissi con gli occhi sperando che capisse. Lui mi guardava e scosse la testa.
Aro ritornò a sedersi nel suo solito trono “Renesmee, giorni fa hai rifiutato il nostro invito a… nutrirti.”
La fame si fece risentire, dando colpi violenti nel mio stomaco. Avevo completamente dimenticato che stavo morendo di fame.
Strinsi i denti “Si.”
Aro fece un’espressione strana, non seppi decifrarla. Pose avanti le mani e continuò “Sei una mia ospite. Una parente di un mio grandissimo amico. Non voglio che tu sia assetata.”
Sgranai gli occhi. La mia gola si chiuse all’instante. La presenza del ragazza accanto a me si fece più grande.
“Nutriti Renesmee.”
Feci un passo indietro, allontanandomi da quella figura slanciata che avevo accanto “No.”
Aro fece una espressione addolorata, offesa. “Renesmee, per favore.” Disse indicando con un elegante gesto della mano il ragazzo.
I miei occhi puntarono verso la sua giugulare pallida, il mio naso captò il suo odore dolce. Avevo fame e già pregustavo il dolce calore del sangue che scendeva attraverso la mia gola.
Lui si girò verso di me, i suoi occhi azzurri imploravano pietà. “Ti prego, non farlo. Non uccidermi.”
“Renesmee.” Riprese Aro con voce dura.
“Non ucciderò nessuno!” urlai e vidi Bella che scuoteva la testa, dietro Edward.
“Va bene.” Sussurrò Aro sorridendo. “Alec, vorresti tu?”
“No!” urlai.
Il vampiro si mosse come una nube nera sopra il ragazzo che era caduto a terra. Urlò e si contorse per un paio di secondi per poi smettere.
Alec, impeccabile, si mise in posizione eretta. “Grazie, signore. Credo che lo stia rendendo immortale.”
Aro guardò il ragazzo a terra, aveva gli occhi chiusi e non faceva nessun rumore. Era pallido in viso. Impossibile, era morto.
“Non preoccuparti, mio caro. Penso proprio che questo giovane ci riserverà tante sorprese.” 

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Capitolo 13
*** Capitolo 12. ***


Non mi sono dimenticata di postare, spero non vi siate dimenticate di questa storia : )
 
 
 
 
Perché?!” urlai con tutto il fiato che avevo il corpo, i polmoni bruciavano e il sangue batteva forte, faceva male nel petto.
Rimasi in piedi ad assistere all’omicidio di un povero ragazzo innocente e indifeso. Ed io non avevo fatto niente per fermare tutto ciò.
Era colpa mia, potevo fermarli, avevo dimostrato di saper fronteggiare un vampiro, perché non avevo mosso un dito?
Non sapevo darmi risposta, tutto era stato molto veloce, fulmineo. Alec si mosse come un serpente veloce pronto ad attaccare la sua preda disattenta. Veloce e silenzioso, il ragazzo non urlò né si lamentò. Ma questa non era una giustificazione.
Il ragazzo dagli occhi azzurri teneva ora le palpebre chiuse, era pallido in volto, il suo bianco stava diventando simile a quello del marmo chiaro del pavimento.
Stava immobile. Era morto? Si stava trasformando come aveva detto Alec? Era già programmata la sua trasformazione? Sapevano che io, a differenza dei vampiri, non avevo veleno?
Mi avvicinai a lui e mi misi sulle ginocchia, gli passai una mano nella fronte ancora imperlata di sudore freddo. Era bello.
Non avevo mai visto un vampiro trasformare un umano, io conoscevo solamente la parte teorica ma mai avevo visto con i miei occhi come avveniva la procedura.
Mi accostai al suo petto per sentire il battito del suo cuore: era lento e debole. Segno che si stava trasformando, alla fine della trasformazione il suo cuore sarebbe corso a tutta furia… prima di smettere di battere per sempre.
“Potevate lasciarlo andare, lasciarlo vivere.” Sussurrai, rivolgendomi a nessuno in particolare.
Dal tono di voce che usò, Aro sembrava molto annoiato: “Suvvia! Vivrà!”
“Se la chiami vita questa.” Risposi.
Fui alzata da una folata di vento. Andai di peso contro l’ingresso di legno massiccio, sentii le decorazioni intagliate nel legno premermi nella schiena, la testa vorticava davanti a me ed un forte senso di nausea mi colpì. Ero abituata ormai.
Di fronte vidi la figura sfocata di Caius che ringhiava come un cane rabbioso, mi teneva sollevata con una mano ancorata nel mio collo e stringeva, forte, annaspavo in cerca d’aria.
Dentro di me risi, colpito ed affondato.
Aprii gli occhi e li puntai in quelli di Caius, lanciavano una sfida muta, senza significato, non sapevo perché lo stavo facendo, forse per difendermi forse per stuzzicarlo ancora di più. Era inutile tutta quella messa in scena ma mi sentii potente. Caius ringhiò ancora più forte e strinse la sua mano ancor più.
“Signore non pensa che la sua reazione sia troppo… eccessiva?”
Caddi dalle nuvole, pure Caius che allentò un po’ la presa su di me.
Si voltò verso Edward che fece un passo avanti, ora era proprio accanto ad Aro, lasciò il polso di Bella, era totalmente concentrato su Caius, gli occhi fissi su di lui.
Tutti gli occhi dei presenti erano fissi su Edward, evidentemente nessuno si aspettava un suo intervento.
“Che cosa?” riuscii a chiedermi solo questo. Edward prendeva le mie parti? Avevo capito che fosse un odio quello tra noi due. Un odio educato.
Caius rispose solo con un sorrisetto tutto indirizzato ad Edward che io non seppi come interpretarlo. Edward rispose con un sorriso enigmatico. Era il ritratto della freddezza ma dovevo ammettere che era affascinante.
Scossi la testa togliendomi quei pensieri dalla mente e il vampiro biondo mollò la presa sul mio collo lasciandomi cadere di sedere a terra.
Aro, spaparanzato nel suo trono, diede ragione alla lastra di ghiaccio: “Caius, fratello mio, Edward ha ragione: ognuno di noi ha una filosofia diversa e la nostra Renesmee è palesemente influenzata dal nostro amico Carlisle. Mi stupirei se fosse il contrario.”
Mi alzai ma mi mantenni vicina al maestoso portone “Mi stupirei se Carlisle avesse influenzato voi, durante la sua permanenza qui a Volterra.” Risposi.
Aro mi sorrise con fare tenero, mi vennero i brividi. “Sei sicura di non volerti nutrire?”
I miei occhi ritornarono sul ragazzo apparentemente morto lasciato a terra. “No, grazie. Mi avevate chiamato per questo? Non dovevate.”
Aro si alzò e si avvicinò al ragazzo “Non toccarlo.”
 “Ci riserverà tante sorprese, insieme a te Renesmee. Lo so, sarete una coppia formidabile.”
“Che sorprese?”
“Portatelo via.” Disse a denti stretti Aro guardando il giovane a terra. Due uomini dietro di me lo presero velocemente e sparirono dietro i troni, non sapevo dove portava quella direzione.
“Non avete risposto alla mia domanda.” Ripresi.
Aro unì le sue mani “Renesmee, vampiri di tutto il mondo stanno per arrivare qui a Volterra. Non deludermi.”
E allora? “Cosa dovrei fare?”
“Mostrarti.”
 
 
Chiusi la porta della camera dietro le mie spalle e mi sedetti a terra, la pietra sotto le gambe era fredda.
Il cammino era acceso. Sbuffai. Era stata Bella ad ordinare di accenderlo? O era stata lei stessa a farlo?
 Un gesto amichevole?
Ancora non mi spiegavo perché ero lì. Perché ancora nessuno era venuto a prendermi. Cosa aspettavano?
Cosa aspettavano i Volturi? Cosa aveva in mente Aro? Perché dovevo mostrarmi? A chi poi?
Ero stufa di quel gioco. Ero stupida a giocare a quel gioco. Aro era un pazzo ed io stavo dandogli corda… come tutti gli altri nel palazzo.
Sembrava tanto una acquisizione dei Volturi. I Cullen mi avevano data ad Aro ma erano troppo codardi a dirmelo, troppo codardi per dirmi che non mi volevano più.
D'altronde, li capivo: ero spuntata nella loro vita improvvisamente, quasi pretendendo da loro di accudirmi e farmi diventare ciò che ero. Potevano anche non farlo.
Avevano preso il ruolo di genitori, fratelli, nonni, zii senza se senza ma. Sembravano felici di questo, non li vidi mai lamentarsi, mai dire qualcosa contro di me o contro chi mi abbandonò.
A volte, con tutte le mie forze, cercavo di ricordare tutto ciò che mi successe prima che mi risvegliassi nella mia camera da letto a Forks. Vuoto.
Non ricordavo assolutamente niente della mia vita passata.
Potevo aver fatto di tutto. Potevo essere un esperimento riuscito male. Potevo essere un esperimento di qualche vampiro andato male con una umana. Potevo essere uno sbaglio.
Forse i miei genitori mi abbandonarono appena si resero conto di ciò che avevano fatto. Forse mia madre non era sopravvissuta al parto. Mio padre? Chissà. Forse avevo pure dei fratelli, dispersi nel mondo, accolti da tante altre benevoli famiglie di vampiri anche se mi sembrava molto improbabile.
Pensavo a quel ragazzo. La sua famiglia lo stava cercando per tutta la Toscana, era ovvio. Genitori disperati alla ricerca del figlio incoscienti che non lo avrebbero visto mai più. Loro avrebbero continuato sempre a cercarlo o avrebbero gettato la spugna? Speravo nella seconda opzione.
Ero indolenzita, mi facevano male gli arti. Mi alzai, andai in bagno e aprii l’acqua facendo riempire la vasca di tante bollicine profumate.
Mi misi davanti allo specchio: al collo avevo dei lividi violacei, i segni delle dita di Caius, in pratica avevo la radiografia della sua mano impressa nel mio collo.
“Brutto bastardo.” Dissi fra me e me mentre mi spogliavo.
Nuda, mi specchiai davanti al grande specchio ovale presente nel bagno, accanto alla vasca.
La lunga cicatrice nella pancia minacciava ancora di aprirsi, i fili di ferro ostentavano ad opporre resistenza. La mia pelle, molto più simile a quella vampira che a quella umana, era troppo dura e pesante anche per il ferro. Mi guardai le spalle: là le cicatrici erano apposto.
Mi immersi nell’acqua bollente che tracimò fuori la vasca.
“Forse le cicatrici sono i segni dell’esperimento riuscito male.”
 
 
“Ciao!”
Ero appena uscita dalla vasca, con solamente un asciugamano addosso ed ecco Bella seduta in una poltrona, con il camino calorosamente acceso.
Divenni rossa quanto un pomodoro. Okay, eravamo amiche, ma fino a quel punto?
Bella mi sorrise, un sorriso raggiante, più bello del sole. “Sapevo di trovarti lì. Per un attimo volevo entrare a controllare per accertarmi ma non l’ho fatto per rispettare la tua privacy. Mi sono spaventata per qualche secondo. Ti sei addormentata nella vasca?”
La guardai un attimo, intontita.“Non so che mettermi.” Sussurrai.
“Posso aiutarti io se vuoi! A d’occhio sembra che abbiamo la stessa taglia. Arrivo!”
Sprizzava energia da tutti i pori, sbucò via dalla mia stanza per ritornare subito tre secondi dopo, con in mano del’abbigliamento.
“Non penso tu sia tipa da vestitini come Jane.”
La mia espressione di disgusto fu la mia risposta.
Mi diede i capi in mano. “Arrivo subito.” Sussurrai. Stavo per caso sognando? Sembrava di essere a casa.
Mi vestii in meno di cinque minuti. Aveva ragione Bella: avevamo la stessa taglia. Mi diede dei jeans neri ed una maglietta semplice bianca ed un cardigan nero.
“Gli italiani spuntano sempre nelle camere delle persone senza permesso? Vi piace fare le sorprese?” domandai quando finii di vestirmi, mi misi a sedere nella poltrona accanto a quella dove era seduta Bella.
Bella mi guardò confusa “Oh! Io non sono italiana. E se le mie apparizioni improvvise ti danno fastidio posso anche evitarle.”
Feci un gesto di mano sciatto: “Lascia perdere. Di dove sei, allora?”
Bella per un attimo titubò, non si ricordava da dove veniva? Alla fine rispose “Sono inglese, Londra.”
“Wow! Bella Londra, ci sono stata una volta.” Dissi io. Quasi venti anni fa.
Curiosa la vampira chiese “Con chi ci sei andata?”
“C-con i miei… nonni. Esme e Carlisle. E’ importante?”
Bella mi sorrise come per scusarsi “No, era solo per chiedere. Tutto qui. Vivi sola con i tuoi nonni?”
Il turno dell’interrogatori era mio, mi toccava rispondere. Mi sentivo a disagio. “No, in famiglia siamo in sette: io, i miei nonni e i miei zii. C’è sempre movimento.” Risposi sorridendo. Fui attaccata da una potente nostalgia, mi mancavano.
Bella aveva una espressione dolce nel volto come se volesse ascoltarmi parlare per ore, era strano vederla.
“Sarà bellissimo.” Sussurrò, una mano appoggiava il suo mento scolpito da non sapevo quale artista.
“Si, sono fortunata se devo essere sincera. Tu facevi parte di un clan prima?”
Bella guardò per qualche secondo il tappeto porpora sopra di noi, la sua voce divenne febbrile “No… ero solo io. Io ed Edward.”
L’odio educato ritornò a galla. “Anche lui è di Londra?”
“Si.”
Le guardai l’anello ovale di diamanti. “Siete sposati.”
Anche lei guardò il suo anello “Si.”
Era triste.
“Ho detto qualcosa che non va?” domandai. Ero brava a sentirmi in colpa immediatamente.
Bella si ridestò da chissà quali pensieri le perturbavano la mente “No, certo che no. E’ bello parlare con te, Renesmee.”
Sorrisi “Posso chiederti una cosa?”
“Certo.”
“Anzi tre.”
Bella rise, un suono cristallino e chiaro che poteva riscaldare anche i cuori più freddi. “Vai pure, spara.”
“Posso usare il mio dono con te? Odio parlare con la voce.”
Bella continuò a ridere e mi offrì la sua mano. La strinsi ed una calda scarica elettrica colpì il mio cuore. L’aveva percepita pure lei?
“Aro aveva intenzione di trasformare quel ragazzo già dal principio?”
Bella annuì “Si, l’ha notato un vampiro che glielo portò subito ad Aro. A quanto pare ha un potere micidiale, perfetto per Aro. Ormai si può definire parte della Guardia. ”
“A chi vuole mostrarmi? A cosa gli servo? Quando potrò andarmene da qui?”
“Stanno arrivando dei vampiri. So solo questo. Spero te ne andrai presto, Renesmee. Lo spero tanto.”
“Anche Aro vi ha notati? O avete abboccato all’amo di vostra spontanea volontà?”
Ero cosciente di essere sembrata scortese e sfacciata ma Bella non sembrava tanto felice e orgogliosa di far parte della combriccola dei Volturi, a differenza di Edward. Ero curiosa di sapere.
“E’… E’ una storia complicata.” Rispose.
Annuii, avevo toccato un tasto delicato. “Scusami. E’ colpa mia.”
Bella scosse la testa “No, non è colpa tua. Passo ogni minuto della mia vita a maledire il giorno in cui misi piede qui a Volterra.”
Avevo ragione “Pure io. Che è successo?”
Gli occhi di Bella luccicavano come se fosse in punto di piangere “Prima… prima di far parte della Guardia, vivevo a Londra con mia sorella umana.”
“Cosa?”
Bella mi guardò incerta “Si, il suo nome era Vanessa.”
“L’hai trasformata?” chiesi.
“No, non so se sia viva o morta.”
“E i tuoi genitori?”
La gamba destra di Bella iniziò a tremare, era nervosa. “Sono morti… me ne occupavo io di Vanessa.”
Le strinsi forte la mano “Mi dispiace per i tuoi genitori.”
Lei fece un sorriso che non accese i suoi occhi “Tranquilla è passato tanto tempo.”
“Come hai conosciuto Edward? E Vanessa?”
“Edward era già un vampiro quando ci incontrammo a scuola. Fu amore a prima vista. Mi trasformò dopo che ci sposammo. I Volturi scoprirono che un umana sapeva del nostro segreta. Vanessa sapeva, era intelligente. Anche se piccola, aveva capito tutto. Forse per i troppi racconti dell’orrore che le raccontavo prima di andare a dormire. Aro ci diede una opportunità: unirci a lui e lasciare viva Vanessa. Ovviamente Aro non si poteva scappare l’opportunità di acchiappare due vampiri con dei doni come quelli miei e di Edward. Ed eccomi qui.”
“E’ orribile.”
“Mi manca tanto Vanessa.” La sua voce si ruppe.
L’abbracciai.
 

 
 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13. ***


Continuammo a parlare fino a quando Bella decise di andarsene e lasciarmi da sola a riposare. Quando lasciò la stanza era già notte inoltrata.
Tenni sempre una mano sopra la sua ma non parlai molto: ero sempre restia a rispondere riguardo argomenti personali. Bella lo capì. Capì che quando non le irradiavo nulla con il mio dono significava che aveva fatto una domanda che andava oltre il consentito e alla fine ne formulava un’altra che rispettava i miei limiti.
Parlammo di tante cose, soprattutto Bella mi fece tante, troppe domande: che viaggi avevo fatto, che tipi di libri leggevo, che musica ascoltavo, se mi piaceva il cibo umano, che genere di film guardavo, com’era la mia famiglia e tante altre.
Neanche per un secondo sembrò essere annoiata, anzi, ad ogni domanda carica di dettagli lei era ancora più avida di sapere. Glielo chiesi una volta se si annoiava o meno, lei mi rispose velocemente dicendomi offesa: “Assolutamente no!”
Mi sentii spiazzata dalla piega che aveva preso quella situazione, non impaurita perché Bella non mi faceva paura. Ma dall’altro lato mi faceva piacere. Interpretai la sua curiosità come una disperata voglia di parlare con qualcuno per non sentirsi più sola. Mi rattristai pensandolo ma ero sicura che era quello il vero motivo.
Bella non era felice. Lo si capiva dal tono della sua voce, dall’espressione del suo volto, dal nervosismo che irradiava il suo corpo. Mi chiesi da quanto tempo sopportava in silenzio e di come fosse il suo rapporto con Edward, suo marito. Non avevo mai vissuto una relazione amorosa con qualcuno ma a casa avevo ben tre coppie e certe cose le notavo. Bella non avrebbe dovuto vedere Edward come un porto sicuro? Sembrava di no ma io che ne sapevo.
Non face parola di lui, lo nominò quasi una volta quando le chiesi come fece parte della Guardia dei Volturi.
Io non domandai niente su di lui. Pensarlo mi faceva venire i brividi. Mi domandai come una persona come Bella fosse sposata con una lastra di ghiaccio come Edward. Non seppi darmi risposta.
Chissà da quanto tempo Bella non vedeva Vanessa, sua sorella umana. Se era viva o meno. Se era felice e soddisfatta della sua vita. Bella aveva fatto un sacrificio enorme per il bene di sua sorella, si era sacrificata per dare una vita a lei. Non potevo biasimarla. Potevo impazzire al solo pensiero di stare lontana dai miei nonni o dai miei zii.
Prima di andarsene, con fare autoritario, Bella mi accompagnò a letto, mi rimboccò le coperte tutte stropicciate e mi diede un bacio nella fronte. Era strano quel cameratismo e quella confidenza che si era creata tra noi ma non dissi nulla per non rovinare il momento o far credere qualcosa di male a Bella. Ed io mi addormentai subito dopo che chiuse la porta dietro di sé.
 
 
Mi svegliai accaldata sotto una coltre pesante di coperte e con gli strilli dei bambini che giocavano giù in piazza nei timpani.
Rimasi un buon pezzo sotto le coperte cercando di indovinare cosa sarebbe capitato quel giorno, sperai nel nulla. L’orologio appeso alla parete segnava le undici del mattino.
Dalla finestra si intravedeva un cielo del più azzurro senza una traccia di nuvola e il sole era caldo con i suoi raggi che davano il buongiorno alle case degli abitanti di Volterra.
Guardando l’azzurro del cielo stesa nel letto, una forte sensazione di prigionia mi fulminò sul posto e l’aria si fece poca e pesante. Ero in gabbia.
Strinsi i denti per non scoppiare in lacrime. Stavo raggiungendo la crisi di nervi. Volevo la mia famiglia, non ero in grado di cavarmela da sola. Dovevo mettere da parte la mia testardaggine. Il test era fallito ma che potevo fare ora? Sottostare ai voleri di Aro? Facevo prima a far parte della Guardia. Non volevo diventare come Bella. No, in un modo o nell’altro sarei riuscita a scappare da Volterra.
Decisi di alzarmi e lasciare il morbido letto e le lenzuola sporche di sangue diedero conferma ad un pensiero che accantonai per tutta la notte.
Continuavo a sanguinare dalla cicatrice, il filo di argento stava allentando la sua presa ogni giorno di più. Non avevo gli attrezzi giusti per poter rimediare e non sapevo a chi rivolgermi. Avevo bisogno di Carlisle.
Mi alzai e disfai i letto dolorante. Corsi in bagno e riempii la vasca.
Andai verso il camino e presi il mio zaino nascosto. Scovai il cellulare e lo accesi. Feci il numero di Carlisle.
Per favore.
Pochi squilli a vuoto. “Pronto?”
“Nonno!” urlai mordendomi subito la lingua poi, maledicendomi.
La voce di Carlisle era allarmata e sollevata allo stesso tempo. “Renesmee! Stai bene?”
“Nonno… Si io sto bene, mi mancate.” La mia testa si era svuotata, non sapevo che dire.
“Renesmee, sei sicura?” la voce di Carlisle era spaventata ma nascosta da un tono indagatore e sicuro.
No! Non sono sicura! “Ho bisogno di aiuto… la cicatrice. Si sta aprendo e non so che fare. Ho bisogno di te.” Vi prego venite a prendermi.
La voce di Carlisle si fece più sicura “Renesmee, stai calma, indossa qualcosa di stretto. La pelle di vampiro cercherà di unirsi da sola.”
Annuii “O-Okay.” balbettai.
“Renesmee sei sicura di stare bene?” domandò Carlisle. Era solo? Era in ospedale? Era a casa? Perché non sentivo le voci degli altri?
Mi morsi il labbro “Quando verrete a prendermi?” domandai.
Carlisle pazientò prima di darmi una risposta “Presto. Faremo di tutto pur di fare presto.”
Cosa? “Che succede?”
“Nulla. Stai attenta e fai la brava. Ti vogliamo bene.”
Chiusi la chiamata senza salutarlo e tirai il cellulare verso il muro davanti a me salvandosi dalla rottura in mille pezzettini atterrando nel letto.
Corsi in bagno e mi tuffai nella vasca bollente sotterrando in qualche parte di me stessa la rabbia che stava crescendo.
 
 
Scelti i vestiti, il solo colore che trovai era il nero ma mi andava bene, strappai un lembo di un lenzuolo pulito e lo avvolsi stretto per tutto il mio busto. Cercai in tutti i modi di non urlare per via del dolore ma era impossibile. Non era giornata.
La bella giornata qual era mi seduceva a uscire fuori dalla stanza e sgranchirmi le gambe. Era una scelta troppo invitante. E rinchiusa in quattro pareti che era la mia camera mi stava facendo impazzire.
E avevo troppo sete.
Mi affacciai alla finestra. Non se ne parlava di bere il sangue –né il sangue offertomi da Carlisle né quello che avevo conservato - per motivi sia di orgoglio che di senso di colpa. Vedevo davanti a me una dieta umana, scacciai il pensiero immediatamente.
Guardai la fontana al centro della piazza che gorgogliava acqua fresca. Potevo berne un po’, nessuno se ne sarebbe accorto, avrei fatto velocemente. Solo per colmare la mia sete, per riempire il mio stomaco di qualcosa. Sì, potevo farlo.
Allungai un braccio verso fuori dove venne subito colpito dal sole: nessuna reazione, nessuna luminescenza. Sorrisi. Via libera.
Uscii un attimo fuori la mia stanza: il corridoio era vuoto e silenzioso. Ritornai in camera, andai verso la finestra e guardai verso terra: neanche lì c’era nessuno.
Scavalcai la finestra e saltai per tre piani, atterrando silenziosamente, il vento mi frustava nella faccia e scompigliava i miei capelli. Nessuno mi notò.
Camminai lentamente verso la fontana in piazza facendo il giro del palazzo, nessuno sembrò guardarmi con fare incuriosito ed io cercai di risultare più umana e più disinvolta che potevo.
Venni abbracciata dal sole che mi scaldò subito. Arrivai davanti alla fonte d’acqua e mi guardai attorno con la coda degli occhi. I bambini stavano ancora giocando, alcune ragazze si stavano scattando delle foto, altre persone erano seduti stretti sui tavolini del bar.
Mi chinai verso il getto d’acqua e bevvi assetata raffreddando tutto il mio corpo. Bevvi come non avevo bevuto prima.
“Ha tanta sete, signorina?”
Alzai lo sguardo e davanti a me vidi un uomo sulla trentina che mi guardava con un’espressione divertita e perplessa. Era alto e magro, moro con gli occhiali da intellettuale. Era vestito troppo pesante per una giornata di quel genere. Da dove diavolo era spuntato?
Feci di no con la testa e gli voltai le spalle. Ero nel panico. Che danno che avevo fatto.
“Hey! Aspetta!” urlò dietro le mie spalle. Accelerai il passo.
Lo ritrovai al mio fianco. Mi fermò posando una sua mano nella mia spalla. Mi fermai e mi voltai verso di lui troppo velocemente. I miei occhi fiammeggiavano.
L’uomo si spaventò. Gli occhi sgranati e la bocca aperta. Senza proferire parola ritornò ai suoi passi, aumentando di molto il passo.
Feci un respiro profondo. Il cuore mi batteva forte. Corsi sotto la finestra della mia camera e saltai arrampicandomi nella pietra.
Uscii fuori dalla stanza: non c’era ancora nessuno. Nessuno mi aveva vista ma sentivo ancora tutta l’adrenalina causata dalla paura e dalla eccitazione che scorreva forte nelle mie vene.
“Ferma!”
Cosa? Travolta da un masso, venni scaraventata lontana dalla stanza lungo il corridoio, guancia e spalla sinistra strisciarono contro il marmo freddo bruciando.
Ero costretta tra due braccia fredde di pietra che mi tenevano appiccicata al pavimento. Non riuscii a divincolarmi. Chiunque esso fosse era troppo forte per me.
Rimanemmo qualche minuto a lottare, poi mi sentii alcune ciocche di capelli spostarsi lasciando il mio collo e la spalla destra nude e due labbra fredde che stavano facendosi strada verso il collo.
“No!” cercai di dire. “Lasciami!” urlai. Cercai di spingere le mani contro il pavimento per spingerlo via ma lui mi aveva bloccato la schiena con un ginocchio. Non potevo muovermi, ero bloccata.
Due canini affilati irruppero nella mia giugulare ed io mi sentii la carne strapparsi e distaccarmi dal mio essere. Sentivo il mio sangue fluire da me verso la gola del vampiro che mi teneva ancora stretta. Feci per urlare ma mi blocco la bocca con una mano, gliela morsi. In risposta il vampiro morse più forte nel mio collo.
Trattenni il fiato pregando che non mi avvelenasse. Fallo ma non avvelenarmi. Non avvelenarmi.
Non contai per quanto tempo si nutrì del mio sangue ma mi sembrò una eternità. Riuscii ad alzare un braccio e portai la mano destra verso la nuca del vampiro, capii che era maschio, tirai, tirai forte e gli diedi una gomitata nelle costole. Il vampiro fece un balzo e cadde a cinque metri da me.
Mi accasciai sfinita di lato, facendo respiri profondi. Mi strinsi su me stessa. Pregai di non aver fatto danni con la cicatrice e il collo mi doleva. Ma soprattutto pregai di non essere stata avvelenata. Non volevo cominciare tutto daccapo.
Mi alzai non preoccupandomi di star piangendo e mi fiondai verso il vampiro che era ancora a terra prendendolo alla sprovvista.
Non lo vidi neanche in faccia. Iniziai a picchiarlo e a schiantarlo contro il marmo. Lui cercò di opporre resistenza, mi alzai portandolo con me e lo spinsi verso il muro, si schiantò verso uno specchio frantumandolo.
Era lui. Il ragazzo umano dai capelli castani. Era diventato un vampiro e mi aveva appena morso.
“Tu!” esclamai in preda allo shock. Non ci potevo credere.
Due occhi socchiusi facevano intravedere due iridi rosse, che presero posto di quelli azzurri, mi guardarono affamati e con rimorso.
Non mi rispose ed io continuai. “Sei pazzo! Perché l’hai fatto?!”
“Hai una bella presa.” Farfugliò massaggiandosi la spalla.
Mi avvicinai a lui e gli diedi un calcio nello stomaco. Mi prese una caviglia facendomi stendere a terra sbattendo la testa. Si posizionò sopra di tenendomi ferma. I suoi occhi guardavano ancora ingorde la mia gola.
Ci guardammo negli occhi ed io mi persi, la testa iniziò a vorticare ma non capii se era per via della botta o per altro. Il cuore intraprese un ritmo troppo accelerato per chiunque.
“Mi hai avvelenata?” domandai.
Lui aggrottò la fronte “Cosa? No! Non mi è permesso.”
Sospirai sollevata “Perché l’hai fatto? Io non volevo ucciderti. E’ stato Caius!” Che stavo facendo? Mi stavo mettendo a discutere pure?! Ero per caso impazzita?
I suoi occhi strabuzzarono di sorpresa, poi il ragazzo mi fece un sorrisetto ammiccante: “Il tuo sangue è buonissimo. Ne voglio ancora.”
Vedendo che non riscontrava nessuna reazione da parte mia – vedevo tutto girare e le mie orecchie fischiavano – il vampiro mi prese in braccio con facilità e mi portò nella mia camera. Dovevo spostarmi, scendere dalle sue braccia ed ucciderlo ma non ci riuscivo e forse non m’importava neanche. Mi sentivo le vene svuotate.
Stendendomi nel letto, prese una coperta e me l’avvolse attorno. “Hai sanguinato tanto. E’ impossibile che sia stato io.” Mormorò cercando di trovare con una mano la causa di tutto quel sanguinamento. Intanto il morso sul collo si stava per rimarginare.
“Si…. Si che sei stato tu.” Dissi arrancando l’aria. Allontanai la sua mano che era arrivata allo stomaco e stava per scoprirla. “Lasciami!” urlai con tutto il fiato in corpo, gli occhi mi lacrimarono per il troppo sforzo.
Lui mi guardò. Nei suoi occhi rossi vedevo ancora i suoi occhi celesti e solo in quel momento mi ricordai quanto erano belli.
“Vattene.” Dissi a denti stretti alzandomi “E ringrazia che sei ancora vivo.”
Sbuffò, la sua mascella si fece rigida. “Sei solo una piccola umana.” Lasciò la camera sbattendo la porta.
“Idiota.” Dissi “Sei solamente un vampiro da un giorno. Ieri ancora pregavi la mamma per sbucciarti la frutta.”
Scelsi un altro paio di vestiti, strappai un altro lembo di lenzuolo e mi feci un altro bagno.
Piansi tutto il tempo.
Rifeci il letto e mi addormentai immediatamente. Era il primo pomeriggio ma per me la giornata era già finita.  

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Capitolo 15
*** Capitolo 14. ***


Avevo perso la cognizione del tempo a Volterra. Non scherzavo. Non ero più sicura di che giorno era, solo se era mattina, pomeriggio o sera.
Ma la cosa più importante non era quella. A Volterra il tempo si era fermato, forse neanche esisteva. Forse Volterra non esisteva nemmeno più in nessuna cartina.
Un secondo durava un minuto, un minuto un giorno, un giorno una settimana. A volte pioveva, a volte il sole spaccava quasi le pietre guadagnandosi le lamentele delle signore anziane che s’incontravano in piazza, pronte per il pettegolezzo giornaliero. La gente si trascinava stanca contro il tempo che non ne voleva sapere di avanzare. Ogni mattina il lamento di un’altra nuova giornata, ogni sera il sollievo che questa sia finita.
Le mie giornate erano così: vuote, silenziose e noiose anche se io ero una persona a cui piaceva stare a casa nella calma del proprio letto e con un buon libro da leggere.
Stavo rinchiusa nella mia stanza e non mi azzardavo ad uscire, i polmoni chiedevano nuova aria da respirare e le mie gambe prudevano pregandomi di muoversi. Fui tentata ad uscire di nuovo ma non lo feci, mi limitavo ad osservare invidiosa la gente umana di Volterra. Una bambina di massimo cinque anni stava giocando con i suoi giovani genitori. I suoi urletti deliziosi quando il padre la prendeva sulle spalle e girava intorno sé  e la madre sempre accanto che guardava attenta ma con il sorriso estasiato in volto.
Li guardai con invidia perché io non avevo mai avuto quei momenti con i miei genitori, non ne sapevo nulla e ormai era troppo tardi. Troppo tardi perché avevo già una certa età, stavo raggiungendo i cento anni. Troppo tardi perché consideravo i miei genitori morti, inesistenti. Pensando a loro –pensavo al concetto di essere genitore- m’infuriava. A volte non tolleravo che si prendesse il discorso. Per fortuna mia, a casa l’argomento non si trattava mia. Io avevo gettato la spugna per sapere qualcosa di loro ed iniziai pensare che anche i miei familiari ritenevano i miei genitori ufficialmente morti. Con una nota malinconica mescolata con rabbia concordai che andava bene la consapevolezza della morte degli artefici della mia esistenza. Una famiglia già l’avevo.
Il Palazzo dei Priori era terribilmente silenzioso come se fossi l’unica persona vivente a risiedervi. Nessuno venne a chiamarmi, non sentii nessun frastuono o altro, nemmeno Alessandra si fece viva.
L’unico fattore che mi faceva dubitare di non essere sola erano le lunghe file compatte di turisti che entravano dalla porta principale del castello per poi non uscire più. Qualche volta arrivavano più di due gruppi di poche persone al giorno. La guida di quei gruppi era però sempre umana.
Mi stupii che neanche Bella si fece più vedere. Un grande senso di vuoto si creava dentro di me quando un giorno si concludeva e lei non era venuta a trovarmi  o ad informarmi che dovevamo andare da Aro.
Capii che mi ero affezionata a Bella. Ora ero io che avevo bisogno di parlare con qualcuno. E l’unica persona di cui potevo fidarmi all’un percento era proprio Bella.
La cicatrice sullo stomaco stava cercandosi di rimarginare da sola ma non ci riusciva per via della pelle umana.
L’altra cicatrice, nella gola, era totalmente sparita ma io sentivo ancora le sue labbra sulla mia pelle.
Mi capitò più volte di ritrovarmi a pensare a lui senza nessun buon motivo. I suoi occhi rossi e le sue mani lunghe, pallide e ossute, ma poi mi ricordavo che luì bevve il mio sangue ed iniziavo a maledirlo.
 Avevo letto alcuni romanzi che mi diedero alcune frecciatine in un certo campo che io non avevo intenzione di intraprendere. No, non può essere.  
Comunque, i Cullen sparirono di nuovo.
 
 
Era notte fonda ed ero seduta davanti al camino spento da giorni a suonare una sinfonia al violino durante un momento d’insonnia. Era il mio unico svago.
Mi fermai sul più bello, presa dall’ennesimo attacco di noia. Appoggiai il violino in una poltrona e mi avvicinai al letto sbuffando. La porta mi gridava di aprirla e uscire fuori. Potevo uscire per bere un po’…
Preso da un ordine involontario, il mio corpo si alzò e uscì da quella stanza dopo degli interminabili giorni.
“Ma sì!” mi dissi aprendo la porta.
Il lungo e largo corridoio era al buio, illuminato solamente da una serie di candelabri appoggiati in tavolini sparsi tra un quadro all’altro. Il cielo era coperto da nuvole scure che coprivano la luna che non dava nessun segno della sua presenza. Faceva molto freddo.
Mi avvicinai alla porta accanto alla mia. Non era mai entrato nessuno o almeno io sapevo così, era sempre stata vuota. Sarà così per sempre? Arriverà un altro ibrido come me?
Il cortile interno era vuoto, gli alberi si muovevano dal fruscio del vento gelido che mia accarezzava la nuca facendomi venire la pelle d’oca.
Mi sentivo come quei personaggi dei film dell’orrore che facevano il contrario di tutto ciò che dovevano fare realmente: proteggersi. Decisi di scendere le scale, magari trovavo Alessandra.
Arrivata al primo piano, anch’esso vuoto e lugubre, continuai scendendo un’altra rampa di scale di granito. Man mano che mi abbassavo di quota l’umidità si faceva più pungente e gli spazi più claustrofobici. Dovevo ritornarmene nella mia stanza, sotto le coperte.
Arrivai in un sotterrano spudoratamente arredato bene. Mi trovavo in una pseudo sala d’attesa con poltrone in pelle, quadri appesi alla pietra, illuminazione di ultima generazione e dei libri dall’aria antica sparsi in tavolini bassi. Erano lì che si riunivano la notte i Volturi?
Era una stanza circolare circondata da sei porte in legno possente. Che dovevo fare?
In una delle sei, arrivava uno strano odore di sangue. Ma era troppo confuso, come tanti tipi di sangue mischiati tra loro. Non era tanto un odore succulento.
Il sentore arrivava dalla quarta porta a destra. La mia gola ripresa ad ardere di nuovo, ancora offesa di aver bevuto della semplice insapore acqua. Mi avvicinai e abbassai la manopola scoprendo che la porta era aperta.
Mi trovai in una stanza piccola e rettangolare priva di finestre e spoglia di arredamento. L’aria era pesante e impregnata da un odore troppo familiare che mi fece venire l’acquolina in bocca. I miei occhi caddero a terra dove le suole delle mie scarpe vennero sporcate da un liquido rosso. Sangue.  
Vidi rosso. Fui percorsa da una serie di urla di aiuto e venni investita da tre persone adulte, due donne e un uomo, in lacrime e pallidi in volto.
“Chiama la polizia! Per favore! Aiutaci! Chiama la polizia!” mi gridò l’uomo scuotendomi le spalle, le due donne continuarono a piangere e a dire preghiere in italiano.
In un angolo a destra c’era un piccolo cumolo di persone senza vita, nell’angolo opposto due ragazzine si tenevano abbracciate e guardavano a terra singhiozzando.
Al centro della stanza c’era lui, il vampiro che mi morse, troppo indaffarato per notarmi, preso a nutrirsi da un ragazzo.
Il mio cervello non ebbe tempo di realizzare la situazione che mi stava capitando davanti agli occhi. I tre umani continuavano ad urlarmi richiamando la mia attenzione.
Io continuavo a guardare quel ragazzo che prima era lui stesso l’umano spaventato dai vampiri e che pregava di non essere ucciso. I ruoli si erano capovolti.
Non avevo parole o sentimenti per poter esprimere ciò che stavo sentendo in quel momento. Mi sentii morire, affondare, accoltellare. Tutto questo mentre qualcuno mi stava strozzando. Ero…delusa.
Scansai gli umani davanti a me ed allungai il polso destra verso il vampiro che stava di fronte me. Fece cadere l’umano dalle sue mani e alzò gli occhi su di me. Il rosso delle sue iridi m’incatenarono sul posto e allo stesso tempo mi spingevano verso di lui.
“Me.” Sussurrai “Non loro.” Cosa stavo facendo? Ero impazzita? Di nuovo? Per salvare degli umani? Dovevo andarmene di là. Non mi riconoscevo più.
Lui mi guardò per qualche secondo, delle ciocche scure di capelli cadevano nella sua fronte, e poi si mise a ridere: “Una piccola umana e pure martire.”
Non lo feci finire di continuare la frase che un ringhio che graffiava i miei polmoni fuoriuscì dalla mia bocca. Con leggerezza mi scagliai contro il vampiro stendendolo a terra accompagnata dalle altre urla disperate e colpi contro la porta.
Sorrise stupefatto studiandomi il volto “Se vuoi essere trasformata, sappi che non posso.” La sua voce era bassa ma chiara, limpida.
Io continuai a tenerlo fermo nella pietra a cavalcioni ma lui non diede segno di resistenza.
“Mi sta bene il cinquanta percento che già possiedo.” Risposi io. “Liberali. Mandali via. Ci sono io. Ti può bastare.”
Riprese a ridere di gusto “Ora vediamo. E comunque accetto di buon grado la tua offerta. Il sapore del tuo di sangue è indimenticabile e ineguagliabile.”
“Sei molto lusinghiero.” Dissi facendo più forza per tenerlo fermo.
Mi accarezzò un braccio e mi venne la pelle d’oca e le palpitazioni. Cosa?!
Le due donne e l’uomo di colpo si fermarono e si ritirarono in un angolino. Avevano il viso assente. Perché non scappavano? Erano salvi! Potevano andare!
“Spostati.” Sussurrò.
Lasciai la presa sulle sue braccia e mi alzai da terra. Una ragazza si avvicinò a me con le mani giunti “Ti prego! Ti prego! Sei anche tu una come lui? Per favore non uccideteci!”
Non le risposi perché non l’ascoltai veramente. Rimasi immobile. Pochi secondi dopo la ragazza era distesa a terra, dissanguata.
Lui, non sapevo neanche il suo nome, si avvicinò mettendosi davanti a me. Non mi ero mai accorta di quanto fosse alto o di quanto fossi piccola io.
Mi fece un sorriso tenero e rassicurante che però stonava con i tratti spigolosi del suo volto ma rimaneva comunque bellissimo come nessun’altro. Mi prese con una mano fredda il mio polso, con movimenti lenti se lo avvicinò al petto per poi fargli raggiungere la bocca. Le sue labbra prima accarezzarono l’incavo tra la mano e il polso, mi guardò per l’ultima volta negli occhi, e morse.
Mi svegliai. Mi sentivo disorientata. Non capivo. Un pizzicore doloroso mi colpiva il braccio e la sensazione di prosciugamento era ritornata.
Ero avvolta da due braccia, intorno a me era buio e una serie di cadaveri mi circondava. Mi ritornò tutto in mente.
“Li hai uccisi. Lasciami!” gli urlai.
Ringhiò staccandosi dal mio polso “Hai promesso!”
Fui troppo veloce per lui. Sfondai la porta di legno pesante e corsi su per le scale vuote del palazzo.
“Ferma! Renesmee, ferma!” mi sentii urlare e mi fermai voltandomi verso il vampiro che era dietro di me. Rimasi ferma in attesa.
Fece gli ultimi passi e mi prese in braccio ed io mi sentii subito cullata. Qualche istante dopo mi ritrovai distesa nella mia stanza avvolta tra le sue braccia. Si mise comodo pure lui dietro di me, mi prese il braccio e continuò ciò che iniziò prima.
“Fai qualcosa!” la mia mente mi urlava, un’ombra oscura la contrastava, la sua voce era più forte. Il mio corpo non si ribellava, non rispondeva ai miei comandi. Come in un coma. Come tanto tempo fa. Aspettai che finisse come in un trance. Muoviti!”
Si staccò dal mio polso, leccò la ferita e si ricompose. Il morso si stava già rimarginando. Mi risvegliai.
Mi strinse a sé e mi sussurrò nell’orecchio facendomi rabbrividire “Ho assolutamente ragione: il tuo sangue è ineguagliabile. Potrei bere solamente il tuo per l’eternità.”
Mi allontanai subito da lui mettendomi accanto al camino pronta a scattare ed attaccarlo. “Che cosa mi hai fatto?” gli domandai con i pugni stretti.
Avevo paura, non era normale. Non ero io. Per dei minuti non ero stata in me. C’era solo il mio corpo ma era vuoto dentro.
Lui si stese nel mio letto. Era vestito con camicia e pantaloni neri e con delle sneakers dello stesso colore. Era magro ma la camicia rivelava dei muscoli appena scolpiti nel marmo.
Si mise comodo nel mio letto e disse “Nulla. Mi hai chiesto tu di bere il tuo sangue ed io non ho saputo dire di no. Semplice.”
No! La rabbia divampò in me. “Non ero in me! Il mio cervello, il mio corpo, erano assenti. Ero annullata! Non potevo fare nulla! Potevi farmi di tutto ed io non potevo difendermi!” urlai, delle lacrime caddero nelle mie guance fredde.
Il divertimento nei suoi occhi scomparve, si fecero freddi. “Sono un vampiro da pochi giorni. Fammi allenare.”
“Cosa?”
Lui mi guardò annoiato: “A quanto pare ho un dono. Manipolo la gente.”
Mi girava la testa “Quindi… tu… hai manipolato la mia mente?” Ecco perché Aro l’ha voluto trasformare a tutti i costi!
Andrew annuì.
Caddi in una poltrona. Appoggiai la testa nello schienale e chiusi gli occhi. Avevo bisogno di riposare… e di scappare. Ero appena stata manipolata, ero stata costretta a fare qualcosa che non avevo assolutamente intenzione di fare. Mi sentivo strana, vuota, non più me stessa. Sapere di poter essere controllata in qualsiasi momento senza il mio volere era spaventoso. Mi ero davvero comportata da martire. Questa volta mi maledii da sola.
Mi prese entrambe le mani e mi accompagnò verso il letto avvolgendomi nelle coperte. Mi sciolse i capelli dalla crocchia in testa e coprirono quasi tutto il letto. Mi strinse ancora a sé e annusò i miei capelli.
Dovevo spostarmi, urlare, ucciderlo ma non volevo. Mi piaceva stare in quella posizione con lui. Stretta nelle sue braccia fredde in contrasto con le mie calde. Mille volte meglio di essere manipolati.
Avrei pagato tutto l’oro del mondo per prolungare quel momento. Mi sentivo bene.
Il guaio era che non lo stavo pensando perché ero manipolata.
“Come sai il mio nome?” domandai distesa nel suo petto. lui continuava ad accarezzarmi i capelli.
“Lo sanno tutti.” rispose.
“Come ti chiami?”
“Andrew.”
Andrew. “Io sono Renesmee.”
“Lo so ma preferirei chiamarti… Ren. Ren mi piace di più.”
Ren… si, era molto meglio di Nessie.
“Quanti anni hai?” domandai.
“Fai tante domande Ren.” Disse Andrew senza mascherare un sorriso.
“Ho diciotto anni.” Sussurrò.
“Sembri molto più grande.” Dissi io a bassa voce. Fece spallucce.
“Siamo soli?”
Andrew sembrava volesse chiudere l’interrogatorio ma non disse nulla.
“No, c’è pure quella umana…Non posso ucciderla.”
Alessandra. “Dove sono gli altri?”
Mi strinse maggiormente a sé e mi accarezzò la nuca. “Non posso dirtelo questo. Vuoi sapere troppo.”
“Sei felice di essere diventato un vampiro?”
Temporeggiò prima di rispondermi. Io non capii il perché. “Sempre meglio di quando ero umano.”
“Perché?”
Andrew mi diede un bacio nella fronte e mi fece accomodare meglio nel letto senza mai lasciarmi andare. “E’ ora di andare a letto. Non credi?” Anche lui alla fine si mise sotto le coperte. Petto contro schiena.
“Penso di preferire i mezzi vampiri ai vampiri.” Disse Andrew prima che potessi addormentarmi del tutto.
Sorrisi.
 
 
“Renesmee! Sveglia!” mi sentii delicatamente sussurrare nel mio orecchio.
Aprii gli occhi controvoglia e a pochi centimetri di distanza dal mio viso trovai quello dolce di Bella che mi sorrideva serena.
Mi misi a sedere di scatto e abbracciai Bella con tutte le mie forze. Lei rise e ricambiò il mio abbraccio stringendomi ancora più forte.
“Non mi aspettavo questo benvenuto!” disse lei quando sciogliemmo la stretta.
“Mi sei mancata.” Ammisi toccando lo spazio vuoto del letto accanto a me. Quando se n’era andato Andrew?
Gli occhi di Bella divennero lucidi, mi strinse un mano e mi sorrise. “Anche tu, tanto.”
“Dove siete stati?”
Bella si morse il labbro. “A fare…commissioni.” Mormorò.
“Aro ha intenzione di lasciarmi andare ora?” domandai.
Gli occhi di Bella si sgranarono. “No.” Rispose in tono sommesso.
 
 
 
 
Edward scaraventò il giovane vampiro contro un muro di pietra nei sotterranei. Vedeva ombre scure attorno a lui. La rabbia lo rendeva cieco.
“Stai lontano da lei!” ringhiò. Il ragazzo con una bella faccia tosta gli sorrise in maniera sfacciata: “L’ha voluto lei!”

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Capitolo 16
*** Capitolo 15. ***


Forse questo è l’ultimo capitolo che posterò prima del nuovo round di studio sfrenato. Io spero di no ma voi per adesso godetevi questo capitolo. Spero vi piaccia. Ci sentiamo!
Grazie Alice : )
Bellamy.
 
 
 
Era pieno giorno a Forks. Stranamente il tempo era uno dei migliori, da fare invidia ai paesi del Sud. Il caldo era insostenibile ma questo non scalfiva chi era un vampiro e il loro corpo freddo come il ghiaccio.
Forti raggi del sole accarezzavano la pelle pallida di Rosalie e il risultato fu una stanza illuminata da tanti piccoli diamanti.
Rosalie stava dedicandosi un piccolo minuto solo per se stessa come soleva fare tutti i giorni. Da un paio di mesi a quel giorno, il momento solo per lei diventava sempre più lungo che dei pochi soliti dieci minuti.
La casa era ritornata alla sua calma originale da quando Renesmee la lasciò. La percezione era quasi estranea ormai, dopo quasi cento anni. Rivoleva la sua bambina, la pretendeva.
Renesmee era ormai l’unico discorso che si trattava a casa Cullen. Rosalie era la prima ad iniziarlo e l’ultima a terminarlo per poi trovare altri pretesti per ricominciarlo il giorno dopo.
Non avevano nessuna notizia di lei, tranne per pochissime e brevissime chiamate, non sapevano realmente che cosa le stesse capitando, se stava bene, se aveva bisogno di aiuto.
In quei pochi contatti avuti, Renesmee aveva detto di stare bene ma che voleva ritornare a casa. “Perfetto!” disse Rosalie “Andiamo a riprendercela!”
Era qualcosa di così ovvio da fare che passava inosservato agli occhi dei suoi familiari causandole una rabbia che mai aveva provato prima.
Le pareva non riconoscerli più. Non erano più gli stessi. Non entravano in azione, come erano soliti fare, quando qualcuno della famiglia era in pericolo  o situazioni del genere. Si accontentavano di insulse e inutili chiamate e questo la faceva impazzire.
Rosalie sbuffò. Con Bella era tutto diverso invece. Quando Edward decise di rimanere accanto a lei, forse l’umana più comune e anonima fra tutti gli altri comuni e anonimi umani, impose agli altri di mettere quasi al primo posto delle loro vite Bella e non loro. Bella si tagliava un dito? Di corsa a salvarla! Tutto pur di proteggere la piccola attira disgrazie.
 “Troppo importante per me, Bella.” Disse a denti stretti e con rabbia Rosalie, posando pesantemente un pettine in una piccola credenza di legno.
Renesmee era meno importante di salvare Bella? Continuava a domandarsi Rosalie. Quella domanda era in loop nella sua testa e non smetteva di riprodursi come un disco rotto.
La nascita di sua nipote le diede un attimo di respiro da quella opprimente consapevolezza di non poter mai diventare una madre.
Con Renesmee aveva capito come ci si sentiva ad essere una mamma. Fortuna che lei non poteva mai provare realmente, fortuna che forse era capitata alla persona sbagliata.
Non si era comportata da zia con Renesmee. No. Si era comportata da madre. Era un’ombra per lei. Sempre pronta ad aiutarla a rialzarsi alla minima caduta.
Non poteva lasciare quel ruolo proprio in quel momento. Rivoleva sua nipote, o meglio, figlia, di nuovo con sé. Se voleva essere onesta, Rosalie si sentiva una valida sostituta di Bella, forse più brava di lei.
Quel giorno erano tutti a casa. Tutti erano sempre a casa. La lasciavano solamente per andare a caccia. Decisero di posticipare la data del trasferimento in un giorno ancora da stabilirsi e annullarono le iscrizioni alle università. Carlisle non si fece più vedere in ospedale, solo per qualche visita a casi urgenti che chiedevano il suo aiuto. Tutto si era fermato.
Non erano soli, i Denali erano ospiti in casa da qualche giorno portandosi con loro una vaga notizia di un certo stravolgimento nel mondo dei vampiri. Nessuno poté dare una vera risposta perché nessuno era al corrente di nulla ma la tensione si sentiva, qualcosa sotto si stava muovendo.
Questa informazione venne riportata ai Cullen anche da un coppia nomade di passaggio a Forks diretti verso il Canada. Erano un uomo ed una donna di origini neozelandesi, Amy e Karl. I due avevano un’aria molto selvatica ma erano entrambi vestiti con abiti eleganti essendo pur sempre dei nomadi. Entrambi alti e biondi, il loro corpi erano nervosi, pronti ad attaccare ad ogni evenienza. Ma non erano ostili, tutt’altro.
Il loro racconto risultò molto fantasioso e confuso alle orecchie dei Cullen:
Parlò Karl con una forte partecipazione. La donna si limitava ad annuire confermando ogni singola parola che diceva l’uomo: “Si dice che ci coinvolgerà tutti” cominciò “Ci chiameranno a combattere. I Volturi ci chiameranno. Qualcuno dice che stanno preparando un’arma segreta. Altri dicono che l’arma segreta sono i Figli della Luna. A quanto pare sono ritornati. Quei italiani non fanno trapelare nulla ma sono sicuro che non hanno niente in mano. Stanno perdendo le redini della situazione se tutto questo è vero.”
Udendo menzionare i Volturi, i Cullen ebbero attenzione da vendere per quei due nomadi. Carlisle chiese: “Avete altre notizie su i Volturi?”
“Assolutamente. Nessuno sa nulla. E nessuno si può avvicinare a Volterra. Si dice che neanche loro siano lì.”
“Cosa?!” esclamò Rosalie. E se i Volturi non erano in Italia, Renesmee dov’era? La domanda parve spontanea a tutti i Cullen e a i Denali.
Karl fece spallucce con fare rassegnato: “Alcuni vampiri del Nord Europa dicono che in tutto questo c’entrano pure i Rumeni, che hanno preso di nuovo loro il potere, ma chi lo sa?”
 
 
 
Erano tutti riuniti in salotto, fermi come statue, a meditare. Era vero quello che aveva detto Karl? O erano tutte fantasie per ammazzare il tempo?
La prima parola la prese Rosalie: “Dobbiamo andare.”  Disse sicura e guardando con altrettanta sicurezza i vampiri intorno a lei. Terminando la frase sperò che qualcuno si risvegliasse da quel sonno profondo in cui si erano cimentati, prenotasse il primo biglietto aereo e andasse a riprendersi Renesmee.
“Se Karl ha detto la verità, Renesmee potrebbe non essere più a Volterra ma da qualche altra parte.” Fece Carlisle, appoggiato vicino al camino spento.
Rose si sentiva ribollire dentro: “Possiamo provare! Non ci costa nulla! Non è così difficile!”
Tanya, seduta rigidamente del divano, domandò: “Non ti ha detto dov’era l’ultima volta che ti ha chiamato? Carlisle?”
Il dottore scosse la testa sconsolato: “No, ha detto solo che vuole ritornare a casa.”
“Carlisle!” urlò Rosalie “Ti rendi conto? Ha bisogno di noi!”
Nessuno parlò dopo la sfuriata di Rose perché sapevano che aveva ragione. Dovevano attivarsi, un’aria strana si respirava in quel periodo e nessuno buon presagio era visto all’orizzonte.
Ma dove e come cominciare? Pensò Carlisle. Aveva una grande responsabilità su Renesmee. Aveva promesso e non voleva commettere passi falsi per danneggiarla ulteriormente. Voleva Renesmee al sicuro ed era più che sicuro che Edward e Bella l’avrebbero protetta in tutti i modi possibili.
“Non ha mai accennato nulla riguardo ad Edward e Bella.” Constatò Esme in un sussurro, un po’ assente da ciò che la circondava. Era vicina la finestra e guardava verso la foresta color verde scuro.
Garrett, in piedi accanto a Kate, sgranò gli occhi: “Davvero? Non vi ha detto nulla?”
“Forse non li ha mai incontrati.” Disse Carmen.
Emmett, seduto anche lui nel divano, fece segno di diniego: “Non credo. Edward e Bella sono sempre con Aro. E se Aro avrà visto almeno una volta Renesmee, c’erano pure loro.”
“E non si saranno lasciati perdere l’opportunità di vederla almeno una volta.” Terminò Esme.
“E se l’hanno vista” cominciò a dire Rosalie fremendo di rabbia “perché non fanno qualcosa?!”
“Forse lo stanno già facendo.” Rispose acido Carlisle.
Rosalie non fu colpita da quel tono di voce “Se hanno fatto qualcosa, perché Renesmee non è ancora qui con noi? L’hanno convinta ad unirsi ai Volturi? Quest’atto di egoismo me lo aspetterei da loro.”
“Adesso basta Rosalie!” la rimproverò Esme provata “Non ti permetto di offendere così Edward e Bella. Hanno sacrificato la loro vita per darne una a Nessie. Tutti i genitori farebbero questo per i propri figli ed Edward e Bella l’hanno fatto per cento anni, senza fiatare.”
Rosalie guardò per un attimo Esme, colpita. Esme si che era una madre, lo era da umana e lo era da vampira. Lei era una madre a tutti gli effetti. Lei poteva capire meglio di Rosalie e forse anche meglio di Bella. Fu come ricevere uno schiaffo in pieno volto. Rosalie si sentiva di nuovo sopraffatta da quella terribile consapevolezza che la fece zittire.
Strinse una mano di Emmett e si sedette nel divano accanto a lui, poi disse alla fine: “Io rivoglio mia nipote indietro. A tutti i costi.”
“Lo vogliamo tutti.” Sussurrò Carmen stretta ad Eleazar “Come lo vorranno Edward e Bella.”
Il silenzio ritornò per una decina di minuti. Alla fine Tanya si voltò verso Alice seduta nelle scale accanto a Jasper e chiese: “Alice, vedi qualcosa?”
Alice, più che essere un vampiro o un fantasma, era una povera anima dannata all’inferno. I suoi occhi scuri erano vitrei e velati. Non guardavano più la realtà che la circondava. Ventiquattro ore su ventiquattro concentrata sul futuro, sul futuro di tutti. Ma non riusciva a vedere nulla. Nemmeno i futuri di Edward e Bella, nemmeno Aro, per via della presenza nelle loro vite di Renesmee.
Ma lei non demordeva, continuava a stare concentrata, impaurita di perdere qualche visione. Sperava in una qualsiasi, anche la più inutile. Le sue giornate erano ormai dedicate a questo fino a scordarsi della presenza degli altri.
Alice non rispose subito. Io suoi occhi, prima concentrati su un punto fisso del parquet sotto di lei, ora girovagavano per il salotto. Dopo si fermarono verso gli alberi della foresta. I suoi occhi si sgranarono.
Gli altri vampiri la guardavano in apprensione come se le loro vite dipendessero esclusivamente dalla vampira.
Alice era sbalordita e sconcertata da quello che aveva previsto, e non lo credeva possibile davvero.
“Alice.” La incalzò Rosalie con il cuore in gola.
Non reagì come quell’ultima volta, facendo cadere un vaso di cristallo. Anzi, risultò troppo calma per via dello stupore: “I Volturi stanno arrivando.” Sussurrò.
“Alice!” esclamarono tutti i Cullen e i Denali. Tante domande ore balenavano in testa a tutti i vampiri presenti: Erano venuti a riportare Renesmee? Erano presenti pure Edward e Bella? Perché venire senza avvisare?
La speranza che insieme ai Volturi ci fosse Renesmee era presente in tutti, soprattutto in Rosalie. Il petto le si era gonfiato, risentiva le sue braccia calde stringerla forte in un abbraccio.
“Quando?” chiese Jasper.
Alice si alzò “Sono ormai vicini. Entro stanotte arriveranno qui. Non capisco se vogliono farci una sorpresa o meno.”
Eleazar scosse la testa “Nessuna sorpresa, loro contano che li avrai visti in qualche visione.”
“Renesmee sarà con loro?” chiese Esme, con una mano stretta al petto.
“Lo spero tanto!” sbottò Rosalie pronta alla carica “Non so come potrei reagire se non ci fosse.”
“Carlisle” fece Emmett “Dovremmo avvisare i lupi.”
Carlisle annuì “Si, va’ ad informarli. Dì loro che si tratta sempre di Renesmee. Vai anche tu, Jasper.” Poi si rivolse ad Alice: “Dove ci incontreremo?”
Aggrottò per un attimo la fronte: “Nella radura dopo il fiume.”
 
 
Era passata da poco mezzanotte, i Cullen e i Denali erano in fermento. Non riuscivano a stare fermi. Alice non riusciva a prevedere le loro intenzioni e quindi non sapevano cosa aspettarsi da quella visita più che inaspettata. Inaspettata e anche un po’ sospetta.
I Quileute vennero avvisati e promisero ai Cullen massima protezione in caso di bisogno, circoscrivendo il bosco sottoforma di lupi. Dopo la battaglia, dopo la morte di Jacob in battaglia, il rispetto e la tolleranza tra i Cullen e i Quileute aumentò concedendosi tra loro aiuti, se l’emergenze li richiedevano.
I membri del vecchio clan, Sam, Quil, Seth e gli altri, ormai non c’erano più, deceduti a causa della vecchiaia provocata dalle trasformazioni che man mano si facevano più rare.
I nuovi giovani membri della tribù erano cresciuti con il racconto della battaglia e vedevano Jacob come esempio da imitare. Vedevano in lui una persona coraggiosa che preferì morire pur di salvare la persona amata. Volevano essere come Jacob per i loro oggetti degli imprinting.
La morte di Jacob fu l’ultimo potente colpo che la famiglia Cullen subì. Il coma di Renesmee e l’abbandono di Edward e Bella non erano stati abbastanza.
Jacob Black riposava nel cimitero della riserva, vicino al mare. I Cullen avevano il permesso di visitare la sua tomba. Non vi portarono mai Renesmee.
Ormai Jacob faceva parte della famiglia a tutti gli effetti. I Cullen si erano abituati alla sua puzza, Edward stava iniziando a vederlo come un fratello, era rimasto il migliore amico di Bella, ed era solamente di Renesmee.
Come si sarebbe comportato Jacob con Renesmee in queste situazioni? Si chiedevano spesso i Cullen. Probabilmente sarebbe stato molto più bravo di loro.
 
 
“Credo sia ora di andare.” Sussurrò Alice guardando fuori la finestra, il buio pesto.
Lasciarono la casa e un fruscio di rami interruppe il silenzio della notte. Erano alcuni lupi che stavano proteggendo la casa.
“Altri stanno circondando la radura.” Informò Jasper guardandosi attorno. Strinse la mano di Alice.
“Spero ci sia almeno la mia bambina.” Sperò in tono sommesso Esme ricevendo un abbraccio da suo marito.
Arrivarono in pochi secondi e li trovarono lì, con fare disinvolto. L’illuminava solamente la luna.
Tutti gli occhi dei Cullen e dei Denali correvano veloci attraverso le file del piccolo gruppo che formavano i Volturi. Stranamente c’era solo Aro senza i suoi fratelli, con vampiri a loro sconosciuti.
Renesmee non era lì. Nemmeno Edward e Bella.
La delusione e la rabbia fu collettiva e l’aria calma della notte si fece pesante e cattiva. Rosalie fece un passo avanti ringhiando, pronta ad attaccare. Emmett la fermò, ringhiando anche lui.
Iniziò a parlare Aro, dopo aver visto le reazioni di Emm e Rose, con un tono di voce amichevole “I metamorfa intorno a noi. Come tanto tempo fa.”
Carlisle lasciò la mano di Esme, avanzò di qualche passo mettendosi di fronte ad Aro. Ora erano faccia a faccia.
“Si.” Disse Carlisle “Le abitudini sono dure a morire.”
Aro rispose con un sorrisetto, unendo le sue mani vicino al  petto.
Carlisle era troppo impaziente e stanco di quelle messe in scena tipiche del vampiro di fronte a lui. Voleva risposte. Ora.
“Dov’è Renesmee? Come sta?” chiese con voce rigida.
Aro non smise di sorride “Oh! Renesmee è fantastica!” la sua espressione era estasiata “Non ho mai conosciuto un soggetto come lei così interessante. E’ affascinante. Con tante sorprese.”
Rosalie rispose con un ringhio: “Che intendi?”
Il vampiro la guardò torvo: “Non dirmi che dopo tutti questi anni non avete notato le potenzialità di Renesmee. Stento a crederci.”
“Ora basta Aro!”  lo incalzò Carlisle stringendo i pugni “Girano tante voci su di voi in questo momento. Più confuse che altro. Dicci dov’è Renesmee e come sta. O ce la riprenderemo. Senza convenevoli.”
Aro non rispose subito. Era visibilmente colpito dalle parole di Carlisle che straripavano rabbia e impazienza. Gli occhi sgranati e la bocca socchiusa. Guardò per un attimo i suoi compagni, invisibili dal cappuccio, che rimasero muti per tutto l’incontro. Poi disse con un sussurro:
“Beh, avete notato che non ci sono… Edward e Bella.”
 A sentire i loro nomi, tutti i Cullen e i Denali trasalirono. Non vederli di presenza dopo anni era una cosa, sentirli nominare da Aro era un’altra.
Esme avanzò di un passo mettendosi vicina a suo marito “Come stanno?” chiese senza nascondere l’ansia e l’apprensione che la opprimeva da troppo tempo.
Aro sembrò non aver sentito la domanda di Esme. Soppesò le parole e prese un altro argomento: “Non sapevo che… l’accaduto avesse causato a Renesmee una perdita di memoria così considerevole.”
Adesso fu Alice che alzò il tono di voce “Lo capisci ora?! Ti rendi conto a che vita l’hai condannata?!”
L’urlo rimbombò per tutto il perimetro della radura e nei suoi limiti si alzò un ruggito unanime dei lupi.
Aro reagì in maniera fredda alla domanda urlata di Alice. Strinse gli occhi e li puntò dritti verso la piccola vampira. La voglia di averla nella sua guardia era ancora viva.
“Renesmee ha riconosciuto i suoi genitori. L’hanno convinta a restare a Volterra.”
“Cosa?!” urlarono all’unisono i Cullen e i Denali. Era una notizia scioccante. Era impossibile. Stentavano a crederci. Mai Edward e Bella avrebbero voluto la loro figlia a Volterra, tantomeno vicina ad Aro.
“Sono sicuro che vi avrà detto che vorrà ritornare a casa con i suoi genitori.” L’espressione di Aro era un misto tra dispiacere e ilarità.
“Ha solo detto di tornare a casa. Senza nessuno.” Rispose Carlisle.
Aro fece un grande sorriso: “Forse perché i suoi genitori non possono andarsene da Volterra. Mi hanno promesso totale fedeltà.”
Rosalie aveva ragione.

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Capitolo 17
*** Capitolo 16. ***


Essendo ancora notte fonda, le tre, io ero sveglissima, forse per via di tutta quell’adrenalina, dallo shock causatomi da Andrew o dal ritorno di Bella. Non riuscivo più a dormire.
Bella rimase nella mia stanza, distesa accanto a me nel letto, come se fossimo due migliori amiche durante il sabato sera a casa di una delle due, a mangiare pizza e guardare film. Invece noi preferivamo di gran lunga un po’ di sangue, umano e animale, e guardavamo la luna anziché un film.
Parlavamo circondate dal silenzio assonnato della notte. Gli umani continuavano a dormire, i vampiri a rimanere svegli a fare chissà cosa ed io e Bella sdraiate comodamente in un morbido letto.
Prima la sua presenza in una certa maniera m’infastidiva. Ora ero felice che lei avesse la premura di venirmi a farmi visita e compagnia. In Bella avevo trovato una persona su cui fidarmi e con cui parlare, anche se quella che parlava di più era sempre lei. Sembrava avesse acquisito tanta confidenza con me che mi chiesi se le veniva naturale o meno. Sembrava mi conoscesse da sempre. Mi sentivo cattiva per aver pensato male di lei perché non se lo meritava. Agiva in quel modo perché voleva il mio bene ed io l’avevo capito in ritardo. Poteva comprendere mai il mio star sempre sulla difensiva? Senza manipolatori mentali attorno?
 In me stava crescendo una fiducia e un affetto per la vampira che era molto diversa da tutti gli altri che avevo incontrato, escludendo la mia famiglia. Bella era buona, si poteva notare anche dai sui tratti docili, dalle sue labbra carnose e dai capelli color mogano. Mi ricordava tanto Esme.
Parlammo di tante cose. Di tanti argomenti. Le chiesi perché tutti quei giorni di assenza. Prima Bella esitò a rispondermi guardandomi con la coda dell’occhio e mordendosi il labbro inferiore. Quell’atteggiamento le toglieva almeno dieci in anni da quel suo bellissimo volto.
Ad un tratto poi sbottò: “Ah! Non m’importa!”. Io la fissai in silenzio, chiedendomi quale conflitto interiore stesse combattendo. La sua fronte era corrucciata formandole delle piccole rughe in mezzo agli occhi. Le mani erano strette a pugni così bianchi che si potevano facilmente scambiare con le lenzuola.
Alla fine rispose, con la voce carica di rabbia: “Abbiamo raggiunto la Cina. Lo so, è lontanissimo. Io non ti volevo lasciare sola. Non con quel ragazzo in preda dalla smania di sangue e non solo. Avevo chiesto ad Aro di poter rimanere qui, a badare a voi due, diciamo. Non me lo permise. Non me lo permise neanche Edward. Usai la scusa dell’incapacità di Alessandra e di alcuni vampiri che controllavano il palazzo da fuori. Non servì a nulla. Ogni metro più lontana da Volterra, più diventava grande la mia voglia di ritornare e saperti al sicuro.”
Senza controllo, i miei occhi s’inondarono di lacrime. Non le diedi tempo di comporsi, che l’abbracciai, ero quasi sopra di lei ma non si lamentò. Non avevo parole per descrivere come mi sentivo in quel momento. Mi sentivo bene e amata.
Sentii che a Bella mancò il respiro ma non disse nulla, mi strinse a sé.
Quando sciogliemmo l’abbraccio, la domanda fu inevitabile: “Perché siete andati fino in Cina?”
 “Dovevamo trovare più clan e vampiri possibili. Li vuole incontrare Aro.” Bella aveva gli occhi spalancati d’orrore.
“Perché?”
Si mise a sedere ed io la imitai sparando che non cambiasse argomento. Lei sembrava essere molto a disagio.
Tenne le mani premute contro il materasso facendolo quasi toccare con il pavimento. Guardava davanti a sé combattuta. Io rimasi in silenzio a fissarla senza sapere cosa potevo fare per lei.
Dopo si alzò cogliendomi alla sprovvista e iniziò a fare avanti indietro, dalla porta fino alla finestra di fronte. Sembrava stesse parlando con un’altra persona, ma oltre a me non c’era nessuno con lei.
Le sue parole uscirono ferme e decise. La loro profondità mi lasciarono impietrita sopra il letto.
“Ti prometto.” Iniziò “Che non permetterò a nessuno di farti del male. Ti veglierò e ti proteggerò sempre. Con me sarai sempre al sicuro, te lo prometto. Ho come dono uno scudo ma se servirà ti farò da scudo anche con il mio corpo. Non importa. Non m’importa neanche se la mia presenza ti stanchi o che Edward tenti di fermarmi. Io ci sarò, Renesmee. Questa è la mia missione. E’ chiaro?”
Rimasi a bocca aperta. Non sapevo se risponderle, non sapevo neanche cosa dirle, o starmene zitta. Ad un tratto mi ricordai un detto che diceva: chi tace, acconsente.
“Cosa sta succedendo?” domandai sussurrando non potendo usare il mio dono.
 Bella mi guardò con aria stanca “Non lo so con certezza ma ho paura che in tutto questo centri anche tu. Edward non mi dice nulla. Afferma che non legge nulla in quella mente malsana di Aro ma io so che mi sta mentendo.” Era arrabbiata. Arrabbiata con Edward?
Cadde un freddo silenzio. L’aria gelida che proveniva da fuori gonfiava la seta delle tende.
Non sapevo per quanto tempo rimanemmo in silenzio. Decisi di rompere io quel momento di mutismo: “Perché Edward ti dovrebbe mentire?” le domandai.
Le spalle di Bella si afflosciarono mentre lei si sedeva nel letto accanto a me. “Non lo so. Non è più quello di prima.”
Ah. “Com’era?”
“Era la mia ancora. Il mio punto fermo, il mio posto sicuro.” Sussurrò lei febbrilmente. I suoi occhi brillavano innamorati ma erano velati di tristezza.
“E poi?”
“Sei arrivata tu.” Disse, la sua voce era smorzata, un misto tra rabbia, tristezza e qualcos’altro che non capivo. Bella era una bomba pronta a scoppiare in qualsiasi momento. Nel suo volto si leggevano troppi sentimenti contrastanti.
Non potei non chiederlo a Bella, lei forse poteva rispondermi. Chiederlo direttamente a suo marito mai.
“Cosa ho fatto a…tuo marito?” domandai.
 Bella posò lo sguardo sulle sue mani poggiate nel letto, ciocche di capelli le coprirono il viso. “E’ quello che sto cercando di capire.”
Quindi non lo sapeva neanche lei. Aveva notato il comportamento che Edward aveva riservato solo per me. “Perché ti sei imposta questa missione?” domandai.
Ero grata, onorata e lusingata che Bella decise di proteggermi senza una precisa richiesta da parte mia. Io non le avevo mai chiesto nulla del genere e mai glielo avrei chiesto. Rimanevamo pur sempre delle sconosciute e non mi sembrava neanche il caso. Ero curiosa della motivazione che la spinse a dirmi quelle parole. Davvero era intenzionata a proteggermi con il suo corpo se il caso lo richiedeva? Era troppo per me.
Bella temporeggiò prima di rispondermi ed io mi sentivo di più sulle spine.
“Perché mi ricordi Vanessa.” Rispose “Mia sorella.”  Si morse il labbro inferiore “Per la maggior parte della mia vita non l’ho mai avuta con me. L’ho lasciata al suo destino. Ho deciso di far parte dei Volturi per proteggerla. Ma continuerò a proteggerla, ti proteggerò perché vedo Vanessa in te.”
Mi guardò intimorita, ma i suoi occhi erano carichi di una speranza che non riuscivo a decifrare.
Annuii. All’improvviso mi sentii stanca, sentivo le ossa pesare tonnellate dentro di me.
Mi misi sotto le coperte, dando le spalle a Bella. Lo stomaco mi punzecchiava. Non era per la sete, quella c’era sempre. Era per tutte quelle informazioni ricevute dalla vampira. E da Andrew.
Bella non si mosse ma mi chiese: “Vuoi riposare? Vuoi che ti lasci sola?”
Scossi la testa anche se probabilmente non mi poteva vedere. “Voglio chiederti un’altra cosa.” Lei non mi rispose, aspettò finché io continuassi. “Perché hai paura di lasciarmi con quel nuovo vampiro?”
La domanda era così ovvia e forse lei ne era più informata di me, ma volevo sentire una risposta.
“E’ incontrollabile. Essendo un neonato, il sangue è sempre nei suoi pensieri. Farebbe di tutto pur di bere anche l’ultima insignificante goccia. E ti ricordo che nelle tue vene ne scorre, di sangue.”
Come avrebbe reagito se le avessi detto che già lui aveva assaggiato il mio sangue affermando che era il più buono fra tutti? Avrebbe reagito male? Era molto probabile.
Non risposi aspettando che lei continuasse a parlare. Dentro di me stavo già covando un macigno che a malapena potevo sorreggere. Non ero brava a raccontare bugie o mantenere dei segreti in queste situazioni. Non era giusto.
Sentii lo stomaco diventare un mattone e la gola la sentii chiudersi.
Bella non si accorse di nulla e continuò a parlare disgustata “Il suo dono è tremendo. E ho paura che prima o poi lo userà su di te.”
“Bella! L’ha già fatto!” le volevo gridare. Aveva già sperimentato su di me il suo dono subdolo e cattivo rendendo il mio corpo vuoto del mio essere e facendone ciò che voleva.
“Che dono?” domandai, senza voce.
“Manipola le menti delle persone. Io, per fortuna, ne sono immune. Anche Edward ovviamente. E pure tu.” Disse sicura, si voltò verso di me sorridendomi. Ricambiai ma quel sorriso non era sentito.
“Perfetto per Aro.” Mormorai a denti stretti.
“Si.” Fece Bella. “Spero non ti abbia dato fastidi quando non c’eravamo.” Ora lei mi guardava con uno sguardo indagatore e apprensivo ed io mi armai di abilità recitative e tentai di apparire disinvolta.
“No.” Dissi sicura. “Ha provato a entrare ma l’ho cacciato.”
Perché stavo mentendo? Perché lo stavo comprendo? Dovevo urlarlo, andare da Aro e pregare di tenerlo lontano da me per tutta la mia eterna permanenza a Volterra. E invece no, lo stavo proteggendo e non se lo meritava. Aveva ucciso delle persone, aveva bevuto il mio sangue senza il mio consenso, aveva preso il controllo della mia mente facendone ciò che più gli gradiva.
Perché lo stavo facendo? Perché, sfortunatamente, avevo perso la testa per un vampiro con un potere che solo i pazzi e gli assetati di potere potevano desiderare.
Il volto di Bella per un attimo divenne una maschera d’orrore per poi diventare una maschera d’orgoglio.
“Brava.” Disse sorridendo “Ho sentito il suo odore appena entrata nella stanza” si rabbuiò. Si chinò e mi diede un bacio nella fronte. “Ora puoi dormire tranquilla, mia cara Renesmee, ci sono io con te.” Mi sussurrò nell’orecchio.
 
 
Dormii poco e male. Feci il solito incubo. Ero sola, accerchiata da macchie nere, coperta da fiocchi di neve. Non riuscivo a muovermi, le braccia e le gambe erano legate da corde invisibili e le ombre scure stavano avanzando veloci per risucchiarmi…
 
 
Il problema della cicatrice sembrava migliorare. Il sangue non usciva più ma i lembi erano divisi. Pelle umana e vampira non collaboravano insieme.
Mi ricordai che una volta Carlisle disse che l’assunzione di sangue poteva indurre più velocemente la rimarginazione delle mia pelle ma non  n’era molto sicuro. Meglio provare. No?
Corsi verso il camino e presi il mio zaino. Scavai dentro e uscii le tre sacche di sangue ancora intatte. Per fortuna mia non erano ancora andate a male. A malapena contenevo la gioia. La mia gola urlava di felicità. Strappai la linguetta di tutte e tre le sacche e bevvi tutto il contenuto in un solo sorso dimenticandomi tutti i principi e l’orgoglio di cui mi ero obbligata prima.
Il sangue era ancora corposo, ed era caldo. Quando bevvi l’ultima goccia, mi sentii già più forte e vigorosa. Sentivo la vitalità scorrere nelle mie vene e pompare i miei muscoli. Quella stanchezza mentale permanente stava per affievolirsi per lasciare il posto alla lucidità.
Quando stavo per rimettere le sacche nello zaino, non sapevo proprio dove buttarle, la mia mano venne fermata da un’altra, più fredda e forte della mia. Ebbi un colpo al cuore, per un attimo pensai fosse di nuovo Bella e invece:
“Le hai tenute nascoste e non mi hai detto nulla?” domandò Andrew con sguardo divertito “Devo ammettere, però, che è una visione molto triste.” Continuò fingendo una espressione delusa.
Lo guardai e dentro di me l’ira iniziò a farsi sentire. Quel ragazzo riusciva ad irradiare solamente odio e sembrava potesse ricevere solo odio, nient’altro e non sembrava neanche turbato all’idea.
“Vattene.” Dissi mentre mi alzavo e mi avvicinavo alla porta per aprirgliela.
Lui fu più veloce e chiuse la porta nello stesso momento in cui io la stavo aprendo. Si appoggiò con le spalle alla porta e continuò a sorridermi. Gli occhi rossi brillanti.
I miei occhi, invece, fiammeggiavano. “Che cosa vuoi?” domandai esasperata.
Lui fece finta di pensarci “Tante cose. Prima di tutto perché Isabella è sempre qui, nella tua stanza? E’ inquietante. Secondo: perché stavi bevendo del sangue da delle sacche d’ospedale? Fa schifo. E terzo: sto morendo dalla voglia di azzannare il tuo collo ma dobbiamo andare da Aro.”
Come risposta, lo presi per le spalle e lo scaraventai a terra. Aro poteva aspettare, prima dovevo uccidere Andrew. Il letto strisciò stridendo contro il pavimento di legno, spinto dal peso di Andrew e dal mio.
Gli bloccai il collo con un ginocchio e con le mani feci per staccargli la testa. Trattenni un grido di sforzo, nonostante mi sentivo più forte di prima, grazie al sangue appena bevuto.
Andrew, essendo un vampiro neonato, era più forte di chiunque altro, solo per un breve periodo però. I denti erano serrati e scoperti mentre tentava di spingermi via. Piantò le sue unghie dentro la mia carne, nei fianchi, ed io urlai di dolore, gli occhi mi lacrimavano ma non lasciai la mia presa sul suo collo e sulla sua testa.
“Lasciami!” ordinò a denti stretti, durante un mio momento di distrazione, ed io gli obbedii. Tolsi le mani dalla sua testa e caddi di peso sopra di lui. Era come schiantarsi con un muro di cemento. Più che sfinita dallo sforzo, ero stanca dal poco sonno della notte. Volevo addormentarmi. Aveva di nuovo usato il suo dono su di me.
Ero quasi stesa del tutto sopra Andrew, la testa appoggiata al suo petto. Lui mi strinse a sé e insinuò il suo volto nel mio collo nascondendosi con i miei capelli. Inspirò forte.
“Ti conviene fare così? Ti potresti fare male.” Bofonchiò, pareva si stesse addormentando pure lui.
Sbuffai “Preferirei che non usassi il tuo diabolico potere con me.”
Andrew sorrise “Se tu ti comporti bene.”
Non gli risposi.
Continuò a parlare, io volevo solamente che si zittisse. “Non hai risposto alle mie domande.”
Per un attimo non capii di quali domande stesse parlando, il mio cervello aveva solo registrato il momento dopo, dove io lo attaccavo, poi ricordai. “Non mi va di darti giustificazioni.” Gli risposi.
“Ma tu mi hai chiesto cosa volevo.” Era furbo!
Sbuffai di nuovo e gli risposi tenendo premuta la mia fronte contro il suo petto.
“Primo: Bella è forse l’unica persona normale in questo palazzo e solo lei può entrare in questa camera.” Lo linciai con lo sguardo “Secondo: non sono affari tuoi. Terzo: te lo scordi.”
Andrew fece una smorfia “Non è normale quella vampira. Si comporta con te come se fosse tua madre. Il suo ragazzo mi ha minacciato di uccidermi se mai io dovessi avvicinarmi a te, addirittura. Riguardo agli altri due punti non sono d’accordo.”
Cosa aveva appena detto? Avevo sentito bene? Mi alzai e mi misi in piedi “Andrew, cosa ti ha fatto?” domandai.
Edward? Che prendeva le mie difese? Non era possibile. Doveva esserci un altro Edward a Volterra.
 Anche lui si alzò, aveva un’espressione strana. “Sei preoccupata per me? Non devi. Verrò da te sempre.” Disse avvicinando il mio collo a sé con un suo lungo braccio. Sembrava un ubriaco che pregava per un’ultima bottiglia di vino o di liquore da bere.
Lo allontanai da me, pretendendo la sua attenzione. “Andrew, cosa ti ha detto Edward?”
Lui sospirò e si passò una mano tra i capelli “Mi ha dato un po’ di botte urlandomi che devo stare lontano da te. Che esagerazione. Sicura che non li conoscevi prima di arrivare qui?”
“No!” sbottai “Edward mi odia. Ed io non provo simpatia per lui.” Continuai. “Impossibile.” Mi ripetevo.
“Strano.” Fece lui, guardando i miei fianchi sotto lo strato della maglietta nera. “Mi dispiace averti fatto male.” Fece per alzarmi la maglietta ed io lo fermai, non volevo che vedesse la mia cicatrice “Andiamo.” Gli dissi avvicinandomi alla porta, intontita.
Andrew non mi condusse verso la solita Sala delle Udienze ma dove avevamo avuto il nostro terzo tragico incontro, nei sotterranei. Mi chiesi se i corpi delle sue vittime fossero ancora in quella lugubre cella, pregai davvero di no.
Arrivammo in quel salottino che faceva un po’ da bivio. Andrew scelse la porta al centro e non mi aspettai di trovare una grande e lunga grotta.
Era una grotta nuda e fredda, l’umidità punzecchiava e dava la sensazione di soffocamento. Il suo unico arredo era delle candele accese in più punti, una molto vicina all’altra per fare più luce nelle pareti e per illuminare il pavimento di terreno sterrato.
Là trovai Aro, con i suoi fratelli e le mogli, insieme alla guardia. Edward e Bella, come sempre, erano dietro ad Aro. Loro erano solo di lui.
Bella mi lanciava occhiate ansiose. Invece Edward mi mandava occhiate di ghiaccio e di ammonimento. Non potevo credere che uno come lui aveva provato a difendermi.
Oltre a loro c’era un numeroso gruppo di vampiri disposti in maniera casuale nella lunga grotta, davanti a noi. Ognuno di ogni etnia diversa, c’erano anche alcuni ragazzini.
“Eccola qui, Signore.” Fece Andrew ad Aro dandomi una spintarella verso il vampiro dai capelli scuri.
“Grazie caro.” Sorrise. Poi, guardandomi, i suoi occhi s’illuminarono, a rivederlo sembrava ancora più vecchio “Renesmee, mia cara, spero non ti sia annoiata durante la nostra assenza.”
Andando contro le sue aspettative, non gli porsi una mia mano per fargli vedere i miei pensieri. Le tenni tutte e due dietro la schiena e dissi: “Avrei preferito un’avvertenza ma non fa niente.”
Aro rise di gusto e tutti lo fissarono chiedendosi cosa c’era di così tanto divertente “Hai ragione, piccola amica, la prossima volta t’informerò. Hai già fatto la conoscenza di Andrew? E’ un nuovo membro della nostra… famiglia.”
Mi voltai verso Andrew, dietro di me, e lui mi fece un inchino di riconoscenza, trattenendo un sorriso. “Si.”
Aro sorrise a tutti e due “Bene!” mi posò una mano nella spalla e mi spinse verso il centro del posto, in bella vista di tutti quei ospiti vampiri. Alcuni mi riservavano delle occhiate curiose, altri borbottavano con altri vampiri. Io mi sentivo un fenomeno da baraccone.
“Amici miei provenienti da tutti i paesi del mondo, vi presento Renesmee. Unica nel suo genere. Voi vi starete chiedendo perché tengo nella mia casata un’umana, ancora viva. In effetti, il suo cuore batte e nelle vene scorre sangue caldo ma lei, cari ospiti, non è del tutto umana. Lei, signori, è una mezza vampira.”
Il volume dei borbottii aumentò ed io iniziavo a innervosirmi. Con un brusco movimento, scansai la mano fredda e di carta vetrata di Aro dalla mia spalla e mandai sguardi sinistri ai vampiri davanti a me.
“Com’è possibile?” chiese un uomo scuro con un accento francese, un palmo della mano teso verso di me.
Aro sembrò cercare le parole più adatte “Dati gli studi miei e dei miei fratelli, abbiamo appurato che i vampiri possono procreare con le femmine umane. Il risultato, come vedete accanto a me, è un ibrido. Sono molto simili a noi: hanno le stesse nostre capacità intellettive, hanno la nostra stessa sete di sangue. E, soprattutto, hanno la nostra stessa forza fisica.”
“Non dire cose insensate Aro!” sbottò un vampiro che mi ricordava tanto mio zio Emmett. Era grande quanto un armadio, i muscoli delle braccia e delle spalle minacciavano di strappare la camicia dell’uomo.
Aro gli sorrise “Amico?”
“Kerykos, vengo dalla Grecia.” Una donna riccia, accanto a lui, sorrideva orgogliosa. Forse era la compagna.
Aro continuò a sorridere “Amico Kerykos, dubiti della forza fisica di Renesmee?”
Kerykos rise e se non fosse stato per la sua risata avrei creduto che c’era un terremoto. “Ovviamente, Aro.”
“Bene! Ti darò la prova del contrario. Andrew” lo chiamò dietro di noi “puoi venire un attimo qui per favore?” Andrew ci raggiunse subito, e si mise al mio fianco, mi sorrise. Non era rassicurante.
“Andrew è un vampiro neonato. Mi sembra un candidato perfetto per provare il test.” Disse Aro.
Kerykos a sua volta fece di no con la testa “Chi ci dice che stai bluffando?”
Aro era colpito da quel vampiro greco “Allora partecipa al test pure tu.”
Ad un tratto rimasi da sola e brividi freddi percorsero tutta la schiena. Tutti i vampiri si misero ai lati, più lontano possibile per fare diventare più grande il campo di scontro.
Davanti a me, due vampiri pronti a dare il meglio di loro. 

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Capitolo 18
*** Capitolo 17. ***


Iniziai a indietreggiare e per quanto era grande il posto in cui mi trovavo in quel momento, potevo indietreggiare all'infinito.
Feci un respiro strozzato, la gola era secca e ardeva. Il mio corpo dava segni di resa. Non potevo confermarmi un'altra volta.
Davanti a me si trovavano due vampiri: uno grande e molto probabilmente forte quanto Emmett Cullen, ed un altro, neonato, più forte momentaneamente di chiunque altro e con un dono tremendo.
Indietreggiare non mi sembrava poi una così tanto cattiva idea dopotutto.
Era calato un silenzio tombale, tutti erano concentrati su di me, Andrew e Kerykos, desiderosi e curiosi riguardo allo spettacolo che di lì a poco si sarebbe svolto.
Mi guardavo attorno e sapevo che non potevo chiedere aiuto a nessuno e che non potevo oppormi. Nessun vampiro si era imposto a quello spettacolo da circo, il loro silenzio era smanioso di vedere.
Un vero vampiro cercava quello.
Cercai con gli occhi Bella invece. Mi guardava da lontano, vedevo che dentro di lei stava lottando per fermare tutto ciò ma non poteva fare nulla ed io lo sapevo e non ero arrabbiata di certo con lei. Vederla mi rincuorò, non ero completamente sola.
Aro sussurrò piano: "Ora."
Il vampiro greco mi sorrise, un sorriso cattivo e beffardo, e con uno scatto veloce assestò un pugno proprio al centro del mio petto, cogliendomi impreparata.
I bordi della mia visuale iniziarono a diventare scuri, il respirò si smorzò e potevo giurare che per un attimo il cuore non aveva compiuto un battito.
Girai più volte su me stessa e caddi a peso morto sulla sabbia dura e fredda della grotta. Sentii i passi pesanti dei due vampiri avvicinarsi e andai al contro attacco: strinsi i denti, senza respiro, e corsi verso di loro. Quando fui abbastanza vicina, allacciai le mie mani ai loro colli portandoli a terra, creando un rumore simile a quello di un crollo di un edificio e da lì iniziò una danza infinita di attacchi, colpi, cadute e di nuovo attacchi, colpi e cadute mentre i vampiri guardavano ammaliati lo scontro e il loro luccichio sorpreso negli occhi chiedevano altri minuti di spettacolo. Con la coda dell'occhio, in quei pochi attimi in cui me lo potei permettere, vedevo Aro il più affascinato di tutti, con un vago sorriso orgoglioso in viso.
Andrew sembrava volere essere lui il protagonista dello scontro. Era la creatura più agile e leggera che io avessi mai visto, come Alice. Il suo corpo longilineo e sinuoso rendeva il più rozzo movimento di attacco il più elegante possibile. I suoi movimenti, visti da un occhi umano, sembravano passi di danza. Ma Andrew aveva le sembianze di un angelo ma l'animo di un diavolo.
Cercava in tutti i modi di allontanare Kerykos da me: il gioco era per due soli giocatori, in tre eravamo troppi e ora Kerykos doveva occuparsi, oltre di me, anche del vampiro che aveva collaborato con lui ma per Andrew non sembrava fosse un problema. Questo aumentò la bellezza dello scontro per i vampiri presenti.
Ad ogni sguardo che ci lanciavamo, negli occhi di Andrew vedevo la figura di un valoroso eroe epico che andava contro al più temibile mostro.
"Arrenditi." mi sussurrò all'orecchio. Rimase inerme davanti a me ed io, con le mani contro il suo petto, lo spinsi verso Kerykos che, con un ringhio, lo mise subito a terra regalandogli una serie di attacchi alla quale Andrew rispose pesantemente.
"No!" gli urlai in risposta, con il mio dono.
Kerykos si rifece contro di me assestandomi un pugno in faccia, colpendomi le labbra e la mandibola destra, e un calcio nel ventre. Provai a difendermi allacciandomi alle sue spalle, cercando di tirare contro il suo collo ma lui mi scrollò da sé, facendomi cadere a vari metri di distanza lontano.
Mentre vedevo girare tutto intorno a me, l'unica cosa chiara e nitida che vedevo era una luce d'oro che fluttuava, illuminata dalle candele della grotta.
Caddi nella sabbia strisciando con le ginocchia, causando uno stridore quasi metallico. Mi portai le mani contro il petto ed era vuoto. Il medaglione.
"No!" urlai di nuovo. Non era un'altra risposta per Andrew quella volta.
Il medaglione cadde nella sabbia sparendo. No, il mio medaglione. Immediatamente mi sentii vuota. Dovevo recuperarlo al più presto. Entrai nel panico.  Ora l'unica cosa che m'importava era di recuperare il mio misterioso dono. Costrinsi le mie gambe ad usare tutta la forza che avevano con sé per riprenderlo in fretta. Eravamo solo cinque metri distanti all'incirca e nello stesso momento in cui io stavo mirando verso il punto dove il medaglione era caduto, Andrew fece lo stesso, Kerykos andò contro Andrew ed Aro diede termine alla dimostrazione con un "Basta! Fermateli."  
Afferrai il medaglione scavando nella sabbia, facendomi piccola contro quattro vampiro che stavano inveendo contro di me: Andrew, Kerykos, Felix ed Edward.
Davanti a me vidi Bella, che aveva assistito alla scena come gli altri. Il suo volto era spaventato, gli occhi sbarrati e la bocca aperta dall'orrore. Specchio del mio.
Le lanciai il mio medaglione sapendo che con Bella era al sicuro, non avrebbe fatto nulla che io non volessi.
Guardò il medaglione scagliarsi verso di lei che lo agguantò con una presa ferrea e se lo portò verso il petto, stringendolo e poi sparì. Alcuni vampiri cercarono di richiamarla ma lei non fece caso a loro e scomparve. Quel gesto mi colpì molto, in una maniera molto strana.
Feci per alzarmi ma venni fermata e costretta in una morsa d'acciaio tra due braccia lunghe e sode. Cercai di divincolarmi ma la stretta aumentava la sua forza. Tutto era finito, perché mi bloccavano allora?
"Allontanateli da qui." sussurrò quella voce fredda e distaccata, riconoscibile da tutte le altre. Ero stretta tra le braccia di Edward.
Felix, aiutato da un altro vampiro, riuscì a mandare via Kerykos ed Andrew, che lanciava occhiate infuocate ad Edward mentre il vampiro greco si dimenava come un orso impazzito. Sentii Edward ringhiare dietro di me in risposta ad Andrew, mi fece rabbrividire.
Alla fine mi lasciò andare, solo quando Kerykos ed Andrew se n'erano completamente andati, ed io mi allontanai da lui. Finalmente riuscii a respirare, le membra sembravano avere la stessa consistenza di una medusa e dolevano. Mi abbracciai non facendo caso al fastidioso dolore provocato dalla cicatrice.
Mi guardai attorno e non vi era nessuno, solo io ed Edward.
Mi voltai verso di lui che rimase in silenzio a fissarmi. Sembrava arrabbiato e m'impauriva.
"Grazie." gli sussurrai.  
"Per cosa?" domandò.
"Per avermi aiutata." risposi.
Edward alzò il mento: "Mi hanno ordinato di farlo."
Non gli risposi. Non fui colpita dalla sua risposta. Da una persona come Edward potevo aspettarmi solo risposte del genere ma la sua maledetta sincerità faceva male.
"Ti accompagno nella tua stanza." disse con quell'aria gelida che dava la sensazione di avere tutto l'Universo sotto il suo controllo.
Iniziò a fare strada ad un passo incredibilmente veloce, quasi correva. Feci fatica a stargli accanto, oltre ad essere stanca e dolente, ero pure affamata. Non sapevo cosa avevo prima.
Per fortuna mia arrivammo subito di fronte alla porta della mia camera. Edward non si fermò ma continuò dritto, senza degnarmi di uno sguardo, neanche la porta sembrò notare. Io continuavo a sentire dei ringhi, non capii se era ancora Edward a ringhiare o se mi stavo immaginando tutto io.
Io rimasi ad indugiare fuori la porta, non sapendo che fare. Avevo paura di quel vampiro.
Feci un respiro profondo e lo richiamai, prima che questo sparisse. "Un attimo!"
Edward si voltò di scatto e si girò verso di me con aria interrogativa. Ma il gelo nel suo volto non lo abbandonò mai. "Cosa?" domando, infastidito.
Ero paralizzata. Mi ero pentita, ero stata una stupida. Gli occhi di Edward ostentavano odio ogni volta che questi si posavano su di me.
Deglutii "Potreste chiedere a Bella se..." non riuscii a terminare la frase, mi portai una mano al petto.
Terminò lui la mia domanda: "di riportarti il tuo medaglione?". Riuscii solo ad annuire.
"Vedrò di fartelo mandare." mi disse e sparì.
I miei occhi iniziarono straripare, non ci feci caso, entrai in stanza, facendo un gran fracasso, e mi misi sotto le coperte.
"Perché piangi?"
Andrew era seduto in una poltrona vicino al caminetto acceso, non me ne resi neanche conto prima. Il cuore batteva forte, preso dallo spavento. Che ci faceva lui qui?
Si alzò dalla poltrona e si avvicinò al letto, lentamente come se stesse studiando la situazione.  Tenni ostinata la testa nel cuscino mentre altre lacrime fuoriuscivano. “Vai via.” dissi a denti stretti cercando di non far sentire i miei singhiozzi.
Andrew non mi ascoltò e si mise sotto le coperte, dietro di me stringendomi forte.
"Perché piangi?" domandò di nuovo, questa volta più impaziente, spostandomi la grande massa di capelli dal viso.
"Oh Andrew!" dissi singhiozzando "Vattene!" spingendolo via dal letto.
"No! Voglio sapere!" insistette. Si mise a sedere nel letto e mi costrinse a guardarlo negli occhi. Parve non essersi accorto dei miei vani tentativi di cacciarlo via.
Secondo te?! Indizio: c’eri anche tu!” gli urlai incurante di essere stata sentita probabilmente da tutta Volterra.
Andrew rimase in silenzio, senza dire niente. Abbassò gli occhi sulle lenzuola, lo sguardo colpevole.
Rimase in silenzio per un po’ mentre io davo sfogo alla mia rabbia e malinconia.
La mia vita, per la maggiore, era la più bella che chiunque altro al mondo poteva vivere. Ma per un semplice ordine, perché di ordine si trattava, la mia tranquilla vita venne spazzata via per appagare capricci di vampiri annoiati. Era come parlare ad un muro. Leggi non scritte non ti permettevano di andare contro a quei vampiri annoiati, accontentandoli in tutto.
“Mi dispiace.” disse alla fine Andrew con un sussurro.
Lo guardai sottecchi e sbuffai. Sinceramente non me ne facevo nulla delle sue scuse.
“Non è vero. Non ti dispiace.” gli dissi.
Ebbe abbastanza coraggio da guardarmi negli occhi “No, non mi dispiace.”
Il cuore divenne rigido come pietra e mi mancò il respiro sentendolo ammettere che non gli dispiacque affatto andare contro di me. Mi sentivo una stupida in quel momento.
“Non c’è altro da dire allora. Vattene.” gli dissi. Il mio tono assunse un’aria minacciosa.
Andrew non si mosse. Rimase seduto accanto a me nel letto, guardando fuori la finestra. Era pomeriggio e pioveva.
“Rimango qua. Sei ridotta male.” mi rispose, offeso, mandandomi una occhiata quasi di rimprovero.
“Mi hai fatto del male e ora non vuoi lasciarmi perché sono ridotta male?” gli domandai dando sfogo ad altre violente lacrime.
Andrew divenne una pietra. La mascella era contratta e i muscoli erano in tensione. I pugni stretti,le nocche sembravano strappare la palle marmorea.
“Non capisci.” disse alla fine, la voce ferma. In quel momento sembrava più grande dei suoi diciotto anni. Non mi guardò in faccia, continuò imperterrito a fissare la pioggia
“Non hai usato il tuo dono.” sussurrai io. Mi aspettavo di fare tutto ciò che voleva lui giù in grotta ma avvenne il contrario per mia fortuna e sorpresa. Quale momento migliore per controllare mentalmente una persona? Perché non l'aveva fatto?
La risposta la ricevetti da sola, come un colpo improvviso di vento. Sorrisi.
Andrew si alzò dal letto, visibilmente colpito. Iniziò a girare per tutta la stanza facendo ancora più crescere la mia ilarità.
“E’ stata Bella. Il suo scudo.” dissi, non smettendo di ridere. Andrew era seccato. Il suo orgoglio era stato colpito nel profondo. Non era così invincibile quanto credeva. C’era qualcuno che gli dava testa.
Lui si fermò in mezzo alla stanza, guardandomi come se fossi pazza. Una smorfia rovinava il bel viso “Non c’è nulla da ridere.”
“Si invece.” feci io “Chissà quante volte ci avrai provato!”
Lui sembrò non ascoltarmi.  “Si comporta in una maniera quasi morbosa con te. E non solo lei.”
Quella sua affermazione mi fece ridere di più. Era assurdo. Come poteva pensarlo? “Andrew non dire stupidaggini!”
Andrew sbottò “Non aveva motivo di proteggerti allora.”
Smisi di ridere. A quanto pare il tempo dello scherzo era finito per me. “Andrew ma che stai dicendo? Bella si è solo affezionata a me. E’ l’unica qui con un minimo di buon senso e compassione. Sto iniziando a volerle bene.” sussurrai.
Andrew mi lanciò una occhiataccia, dopo si affacciò alla finestra, incurante di bagnarsi il volto e i capelli dalla pioggia.  “Le hai dato quella collana.” disse a bassa voce, facendosi sentire solo da me.
Scesi dal letto e lo raggiunsi mettendomi al suo fianco. Lo odiavo, odiavo quelle sensazioni nuove che mi tormentavano ogni volta che era nelle mie vicinanze. In quel momento provavo un forte odio verso tutti e tutto ed una smania di scappare, impossibile da domare.
Mi sentivo in trappola, bloccata da tante forze opposte a me. Andrew mi faceva sentire in trappola.
Mi toccai il collo e mi sentii incredibilmente nuda “Il mio medaglione.” dissi sospirando. Quando me l’avrebbe portato Bella? L’ansia cresceva, speravo al più presto.
“Perché è così importante?” domandò lanciando una occhiata veloce verso la mia mano tenuta a coppa sul mio collo.
“Lì dentro potrebbe esserci tutto come potrebbe esserci niente.”
“Tutto cosa?”
“La mia vita.”
Andrew non fece altre domande, continuò insieme a me a guardare la pioggia.
Poco tempo dopo mi accompagnò a letto. Ero stremata.
Si liquidò dicendo: “Ti porterò qualcosa per la tua cicatrice e qualcosa da bere, sei affamata.” ma io ero già addormentata.



 

“Renesmee, svegliati.”
Venni scossa bruscamente, svegliandomi dal mio sonno senza sogni né incubi.
“Renesmee ora!”
Venni spogliata dalle mie coperte lasciandomi infreddolita. Delle mani fredde iniziarono ad accarezzarmi la testa. Aprii gli occhi e
vidi Andrew raccogliere i miei lunghi capelli in uno chignon spettinato.

“Avevo una sorella.” disse lui come per giustificarsi. Scese subito dal letto e si avvicinò alla piccola scrivania presente della mia stanza dove trafficò con delle piccole scatolette scure.
"Cosa vuoi fare?" domandai "Che ore sono?" Aveva smesso di piovere e il cielo era scuro ma limpido, non c'erano tracce di nuvole.
“Non abbiamo molto tempo.” bisbigliò pensieroso.
“Per fare cosa?” domandai. Nel frattempo lui scomparve nel bagno ed io andai verso la scrivania.
“Andrew.” lo chiamai “Cosa vuoi fare?”
Nella scrivania vi erano appoggiati degli aghi in acciaio e spessi fili di ferro. Li riconobbi perché ne avevo visti molti in vita mia.
Andrew riapparve con un asciugamano e un bacinella di ceramica piena d’acqua, li appoggiò nel comodino al lato del mio letto.
“Levati la maglietta.” disse
Mi abbracciai e diventai rossa come un pomodoro, ne ero certa.
“Sei pazzo.” gli dissi mettendomi a debita distanza da lui.
Andrew si portò indietro i capelli con fare esasperato “Ren, sei stata coraggiosa fino ad ora, non fare la bambina.”
“Mi può curare solo una persona.” dissi io, guardando quei aghi e nastri di ferro.
“Chi? Bella?” domandò.
“Non nominare Bella!” lo ripresi io.
Il suo volto si addolcì, forse comprese di aver sbagliato. Fece un respiro pesante e si avvicinò a me. Mi prese entrambe le mani e le baciò “Non lo farei se non fossi sicuro.”
Io mi allontanai subito “Se lo vuoi fare davvero basta che usi il tuo dono, no?”
Andrew ringhiò e si chinò verso di me facendomi rabbrividire “Vuoi che lo usi davvero? Non c'è nessuno ora che potrebbe fermarmi.”
Non gli risposi ma lo fissai negli occhi con tutta la rabbia che avevo in serbo per lui.
Andrew si fece da parte e mi fece segno di andare a letto: “Levati la maglietta e stenditi.”
Meglio farlo di propria volontà o di qualcun altro? Mi domandai. Andrew voleva solo aiutarmi ed io mi stavo comportando da bambina ma io mi fidavo solo di Carlisle. Era lui che stava studiando il modo migliore per risolvere il mio problema. Ma Carlisle non era con me in quel momento, c'era Andrew.
Feci un respiro profondo, mi tolsi la maglietta e mi stesi sopra il letto.
Anche Andrew si sedette nel letto, concentrato, e bagnò l'asciugamano dentro la bacinella passandolo poi sopra il mio stomaco, pulendolo dal sangue. Rimanemmo in silenzio, tutti e due stavamo guardando quella operazione.
Dopo tolse via l'asciugamano e la bacinella sporche di sangue e prese ago e filo pronte per lavorare.
Feci un respiro profondo e il cuore iniziò a battere forte.
“Fidati Ren.” sussurrò guardandomi negli occhi ed iniziò il suo lavoro.
Tolse via i vecchi fili pregni di sangue secco con una delicatezza estrema. Non sembrò essere minimamente colpito dall’odore o dalla vista. Era ancora un neonato e poteva perdere il controllo da un momento all’altro. Oh! Ma che stavo facendo?! Ero impazzita per averglielo lasciato fare  ma dovevo ammettere che non avevo mai visto nessun vampiro neonato così talmente padrone di sé davanti alla presenza del sangue.
Gemetti dal dolore un paio di volte mentre Andrew infilzava l'ago nella mia carne e richiudeva i due lembi divisi con forza. Mi rispondeva sempre con un “Scusa.” o con un “Stai ferma.” ad ogni mio lamento.  Quelli furono gli unici suoi momenti di distrazione e di conversazione.
La mia pseudo operazione, anche con Carlisle, richiedeva sempre un bel po’ di tempo e la stessa cosa fu con Andrew. Io cercai di distrarmi: guardando fuori la finestra o le fiamme che illuminavano l’interno del camino. Non ci riuscii. La mia testa gravitava intorno ad Andrew chino su di me, il suo volto era concentrato ma sereno allo stesso tempo. Questo rendeva più corposo il miscuglio di sensazione che tuonavano dentro di me.
Finimmo quando ancora la luna era alta in cielo anche se passò molto tempo. Alla fine Andrew. dopo aver bucato la mia pelle con l’ago per l’ultima volta per far passare il ferro, diede un bacio sulla mia cicatrice prendendomi alla sprovvista. Tante scariche elettriche partirono dal punto dove mi baciò verso il mio cervello.
“Ora devo andare.” disse riprendendosi le scatolette e mettendole dentro il mio zaino. Lo chiuse con attenzione e lo rimise dietro il camino. Si avviò velocemente verso la porta.  
Prima di uscire disse: “Spero che tu davvero possa perdonarmi.”

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Capitolo 19
*** Capitolo 18. ***


Erano ritornate le solite giornate noiose, vuote, cariche di solitudine. Il palazzo dei Priori era ritornato ad essere vuoto. I Volturi se ne erano andati tutti via. Bella, ancora aveva il mio medaglione. O almeno speravo l’avesse ancora lei. Senza mi sentivo completamente vuota, come se una parte molto importante del mio essere fosse stata spazzata via. Ad essere  sincera, aspettavo di rivedere Bella solo per riavere il mio medaglione. Ma mi mancava, come mi mancava Andrew.
Fece un lavoro strabiliante con la mia cicatrice, quasi alla pari di Carlisle. Non mi faceva più male e non avevo più perdite di sangue. Quello di Andrew fu un gesto molto carino, inaspettato allo stesso tempo. Insomma, non aveva nessuna ragione di dovermi aiutare. Lui era il nemico, lui, in pratica, mi aveva picchiata. Mi salutò dicendomi di perdonarlo. E lo era. Davvero era tutta questione di perdono?  SI era davvero pentito?
Oltre ad essere sola a Volterra, pochi giorni dopo da quando Andrew mi lasciò, accaddero degli eventi degni di un film horror.
Una sera, tutti nello stesso preciso istante, si registrarono cinque suicidi: un uomo si gettò dalla finestra della propria casa, al secondo piano; un cuoco si tagliò la gola davanti a dei commensali in un ristorante di fronte alla piazza; due giovani si schiantarono con la macchina contro un muro di cinta ed una donna, trovata impiccata con una corda da accappatoio nel proprio appartamento, di fronte al Palazzo.
Volterra sembrava non esistere più, aveva perso la sua vitalità, i turisti non venivano, le strade erano vuote, le persone non si azzardavano ad uscire di casa, salvo per andare ai funerali delle cinque vittime o per andare a fare la spesa (fuori Volterra).
Le uniche anime vive che padroneggiavano le strade della cittadina erano gli agenti della Polizia. Erano appostati ovunque, armati fino ai denti, e qualche giornalista alla ricerca di tirare anche la più insignificante  parola dalla bocca dei cittadini che proprio non volevano parlare. Il caso era aperto e ancora non si era capito il movente.  Cosa aveva indotto cinque persone normali, sconosciuti tra di loro, ad uccidersi nello stesso preciso istante? Perché?
Mi morsi il labbro e l’inquietudine mi pervase tutta e scacciai immediatamente un pensiero insistente dalla testa.
I poliziotti erano anche appostati davanti alla entrata della dimora dei Volturi. Ogni giorno provavano a chiedere di qualcuno, ma i portoni non si aprivano mai. Sospettavano di loro? La Polizia era a conoscenza  del segreto dei Volturi?
Neanche la mia porta si aprì, era stata chiusa dall’esterno. Non sapevo da quando. Mi avevano rinchiusa.
Era notte, ero più sveglia che mai e pronta ad andare all’azione. Ero completamente sola. I Volturi erano così talmente sicuri di loro stessi da lasciare il loro territorio completamente scoperto? Davvero nessun vampiro si azzardava ad irrompere e a ribellarsi a loro?
Io, comunque, ero pronta a fuggire via. Ero determinata e intenzionata ma allo stesso tempo ero anche poco sicura di me stessa: quando ripresi il mio zaino da dietro il caminetto i miei cellulari e il mio portatile erano spariti via. Qualcuno me li aveva rubati. Ma chi? Andrew? Bella? Solamente loro potevano sapere del mio bagaglio. Arrivai alla conclusione che forse Aro voleva tagliare qualsiasi ponte tra me e i Cullen e man mano che il tempo passava ne ero più convinta. Ma tutto questo non mi fermava un attimo di più a Volterra.
Uscire dalla finestra, purtroppo, era fuori discussione. Proprio sotto la mia finestra, cinque metri più a sinistra, si trovavano appostati due agenti. Come potevo spiegare la mia comparsa? Non mi andava di essere rinchiusa in qualche cella o che sapevo io. Mi era bastata quella dei Volturi.
Così mi avvicinai alla porta della mia camera e accarezzai il legno liscio ma ruvido allo stesso tempo con la mano destra fino a falla cadere verso il pomello.
Lo strinsi con forza e con uno scatto brusco ma fermo sentii i cardini e la serratura della porta rompersi e questa si aprii con un cigolio da farmi rizzare i peli della nuca.
Il cuore batteva freneticamente, uscii fuori verso il grande corridoio: tutto era buio, freddo e silenzioso. Rimasi per un attimo ad indugiare mentre decidevo da dove parte andare mentre cercavo di regolare il mio respiro pesante e i battiti del mio cuore.
Alla fine decisi di prendere la strada che percorsi quando trovai Andrew nei sotterranei. Scesi al primo piano, anch’esso vuoto, le candele spente, e camminai alla ricerca di una via di uscita notando con angoscia che le porte erano tutte chiuse. Per i miei occhi umani era difficile vedere al buio e per questo avanzavo arrancando, con passi più leggeri dell’aria, stretta al muro che grattava contro la mia schiena, con il cuore in gola e il respiro corto e pesante.
Gli unici suoni udibili erano quelli del vento e l’ironico sbattere d’ali di pipistrelli. Trattenni una risata isterica.
Feci quasi tutto il giro dell’atrio quando venni fermata da una mano che si posò sulla mia spalla.
Mi girai violentemente di scatto emettendo un ringhio animalesco. Una figura illuminata da una torcia cadde a terra e imprecò in italiano, spaventata.
Presi da terra la torcia rimasta accesa e la puntai verso la figura.
“Alessandra!” urlai e mi misi in ginocchio aiutandola ad alzarsi. Era visibilmente spaventata: aveva gli occhi lucidi e gonfi e stringeva i denti come a trattenersi dal piangere. Aveva i capelli raccolti da una coda, era struccata e indossava una tuta blu scuro.
Lei non mi rispose, così la tenni per le spalle sorreggendola e la feci sedere su una panchina sotto il portico in cui ci trovavamo.
Alessandra fece dei respiri profondi e disse “Scusami.” sorridendomi imbarazzata.
“Scusami tu. Pensavo fossi da sola qui.”
Scosse la testa “No. Io sono sempre qui. A badare a te.” Violentemente stava trattenendo i singhiozzi ed io non sapevo come comportarmi. Mi sentivo male e avevo la nausea dalla troppa adrenalina.
Le strinsi una mano , ma non usai il mio dono perché pensavo la potesse spaventare. “Non era mia intenzione spaventarti. Come ho detto pensavo fossi sola.” Le dissi.
Annuì “Ho sentito un rumore provenire dalla porta della tua stanza così sono corsa a vedere. Hai rotto la serratura.”
“Tu vivi qui?”
Alessandra si strinse a sé “Quando i miei Signori non ci sono ma è così difficile certe volte!”
Al Signori rabbrividii. Come accettava di farsi comandare da mostri come i Volturi?
“Chi ha chiuso la porta?” domandai io allora.
Alessandra mi guardò, colpevole. “Scusa, io non lo avrei mai fatto.”
L’abbracciai prendendola alla sprovvista “Stai tranquilla. Non è colpa tua.”
Quando ci staccammo le feci un’altra domanda: “Dove sono tutti?”
Alessandra tentennò a rispondermi e prese del tempo, poi: “Mi dispiace ma non posso risponderti.” Si morse il labbro inferiore, ancora spaventata “Potrei soffrire delle conseguenze se rivelassi qualcosa.”
“Oh andiamo!” sbottai io alzandomi e mettendomi davanti a lei, gli occhi di fuoco  “Alessandra, sei una giovane ragazza, perché vai dietro a questi mostri?! Non rovinare la tua vita così!”
Sbatté gli occhi, scioccata, e aprì la bocca senza dire nulla. Dopo balbettando disse: “Io voglio essere bella e immortale, come voi. E i miei Signori  me l’hanno promesso. Diventerò una vampira e farò parte della Guardia.”
Ero scioccata: “Davvero… Davvero vuoi questo? Puoi puntare al meglio Alessandra, non a questo! Non vedi cosa sono in grado di fare? Sono malvagi! Quelli della Guardia… la loro consideri vita?”
Non rispose subito, mi guardava fisso negli occhi però “Se solo sapessi…”
Mi portai le mani ai capelli, la piega che aveva preso quella notte mi stava facendo impazzire. “Cosa?!”
 Alessandra scosse la testa, più decisa: “Voglio essere come voi.”
Le volevo dire che io ero per metà umana ma preferii mettere a freno la mia lingua e andai al contro attacco: “Io ho intenzione di andarmene da qui. Puoi venire con me.” Dissi stringendo le cinghie del mio zaino praticamente vuoto.
Alessandra scattò in piedi “No! Non puoi!” urlò.
Fui impassibile e non mi mossi neanche di un centimetro. “Non ho la minima intenzione di perdere altro tempo qui. Sono stata usata abbastanza e non voglio neanche sapere lo scopo di questo. Voglio solo dimenticare questi terribili giorni ed inizierò da stanotte.” Continuai “Alessandra, sei una ragazza giovane e puoi avere tutto dalla vita. Vai via da qui, via dall’Italia. Creati una nuova vita. Non condannarti a questo!”
Alessandra mi guardava come se fossi pazza, sembrava spaventata più delle mie parole che altro. “No! Ho promesso che ti avrei sorvegliata! Non puoi andare! Te la faranno pagare! Non solo a te!” Ora era più che terrorizzata. Gli occhi sbarrati e una smorfia d’orrore nel volto. Una mano era stretta alla mia spalla destra. I suoi occhi andavano verso destra e sinistra e poi verso di me, paurosa che io potessi scappare da un momento all’altro. Cosa che potevo fare?
Sentivo la testa terribilmente vuota e non riuscivo a seguire ciò che diceva. Captavo la sua voce come se fossi sotto acqua, a molti metri di profondità dalla superficie.
La mano di Alessandra cadde dalla mia spalla e si voltò con tutto il corpo verso la nostra sinistra. I suoi occhi ancora più spalancati dalla paura.
Io caddi a terra, ma non potevo fare nulla per fermarmi o attenuare la caduta. Avevo perso il controllo.
Caddi andando incontro al pavimento di marmo colpendo la testa in pieno.
Mille frecce incandescenti iniziarono ad infilzarsi dentro la mia schiena mentre pugni di acciaio colpivano infiniti il mio petto.
Iniziai a divincolarmi e ad urlare pregando qualcuno di far smettere il supplizio. Era indescrivibile, insostenibile.
Aprii gli occhi dove iniziarono a sgorgare delle lacrime. Alessandra era sparita e al suo posto c’erano Aro, Marcus e Caius, ma non riuscivo a focalizzare i loro volti, e altre giubbe rosse indistinguibili.
Tutto ad un tratto la tortura terminò lasciandomi in uno stato di totale dolore. Non vedevo né sentivo nulla. Il fuoco mi pervadeva.
Le mani, come prese da una autonomia propria, si allacciarono alla mia gola ed  iniziarono a stringere, a stringere forte. Mi stavo strangolando con le mie proprie mani e non potevo fare nulla per potermi fermare, il mio cervello non rispondeva.
Sbattei le palpebre e chino davanti a me trovai Aro, seriamente dispiaciuto, mentre le mie mani stringevano con più  forza il mio collo facendomi arrancare l’aria.
“Gita notturna?” domandò, affranto. “Non ti aggrada più la nostra ospitalità, Renesmee?” domandò di nuovo vedendo che io non gli rispondevo. I miei occhi lacrimavano e la bocca era spalancata all’inverosimile, cercando anche la minima bolla d’aria. Le mani, intorno al collo, continuavano a stringere.
Una sua mano liscia e fragile come la filigrana mi accarezzò una guancia ed io cercai di allontanarmi dal suo  tocco, stringendo i denti. Le mie stesse mani mi tenevano ferma, piantata a terra.
“Non hai idea di quanto tu sia legata a noi.” Sussurrò guardandomi negli occhi con senso di rammarico e tristezza. Si alzò e mi oltrepassò insieme ai suoi fratelli e agli altri.
Le mie autonome mani lasciarono la presa. Iniziai di nuovo a respirare e i miei polmoni si riempirono come palloncini, bruciavano e il collo mi doleva.
Aprii gli occhi e davanti a me inginocchiata si trovava Bella, con gli occhi lucidi, le braccia tese per alzarmi il capo e mettermi seduta sul pavimento.
“Mi dispiace tanto.” Sussurrò velocemente, mi fece appoggiare la testa nel suo grembo e pose con delicatezza le sue mani nel mio collo credevo per vedere se fosse tutto okay. Fu una bella idea perché il freddo delle sue mani in qualche modo andava contro il dolore. Respirai profondamente e richiusi gli occhi.
“Riesci ad alzarti?” domandò “Ti prendo in braccio?”
“No…No… Ce la faccio.” Farfugliai mettendomi in piedi, le gambe molto traballanti. Sudavo freddo. Bella venne subito in mio aiuto cingendomi la vita con il braccio esile ma possente, mi strinsi a lei. Ci muovemmo.
“Bella.” La voce glaciale di Edward apparve dietro di noi. Era così talmente vestito di scuro che era difficile distinguerlo dal buio della notte. Avanzò verso di noi e sembrò non accorgersi di me, aveva gli occhi esclusivamente per Bella, illuminati da una strana luce, venerazione e rimprovero misti insieme.
Bella, dal canto suo, fece finta di non vederlo e continuò a camminare tenendomi stretta a sé. Io volevo sparire, eclissarmi.
Edward era rigido come la pietra e guardava con ira Bella mentre la seguiva di fianco. Prendendo tutte e due alla sprovvista, scansò Bella via da me con un gesto brusco,lei  fece per inveire contro di lui ma si fermò vedendolo prendermi in braccio e camminare a passo spedito.
“No!” urlai, la gola era secca, raschiata dalle corde vocali. Mi divincolai ma la sua stretta era troppo forte. Guardavo Bella accanto, mi teneva una mano e mi rassicurava con gli occhi. Io guardavo davanti a me. Ero spaventata, spaventata da Edward che in quel momento mi stringeva fra le sue braccia. Non ci potevo credere. Ero tra le braccia di Edward, mai l’avrei immaginato. Volevo correre via.
“Contenta ora?” domandò con quella sua voce di fuoco. Io non mi voltai, tremavo al solo ascoltare la sua voce appena sopra la mia testa, ma capii che si riferiva a Bella dallo sguardo che lei gli aveva lanciato.
Edward continuò: “Hai smesso di insultarmi…? Oh! Ora incominci il gioco del non farmi più leggere i tuoi pensieri.” Sorrise, beffardo e sicuro di sé stesso.
I nervi stavano cedendo, io stavo cedendo. “Lasciatemi per favore, posso andare da sola. Lasciatemi vi dico!” I miei nervi non stavano reggendo più.
Bella mi strinse più forte la mano “Tranquilla Renesmee, ti ospitiamo nella nostra camera. Noi non la usiamo mai e lì sarai al sicuro.”
Cosa? Nella loro stanza? Erano pazzi? “No! Io devo andare via! Non posso stare un attimo di più qui!”
Loro fecero finta di non ascoltarmi mentre li pregavo di lasciarmi andare e di dimenarmi tra le braccia di Edward. Arrivammo alla fine di un corridoio e Bella aprì una porta uguale a quella della mia camera, si fece da parte per fare entrare prima me ed Edward, poi si chiuse la porta alle sue spalle.
Mi pareva di essere passata dal Palazzo dei Priori ad una suite di un hotel extralusso. Era diversissima e grandissima dalla camera a cui mi ero abituata e molto più arredata. Era un vero e proprio appartamento.
Rimasi a bocca aperta. Quanto era grande il Palazzo?
Anche quando entrammo nell’appartamento Edward non mi lasciò, entrammo in un corridoio totalmente illuminato da fari incavati sia nei muri che nel pavimento, passando da porte chiuse. Ci mostrava la strada Bella, aprì delle porte scorrevoli ed entrammo in una camera matrimoniale. Arrossii dalla punta delle dita dei miei piedi fino alle punte dei capelli.
Edward mi fece sedere sul letto soffice e candido e si mise da parte, dall’altro lato della camera, appoggiato al muro, furioso, fissava ardentemente sia me che Bella.
Bella si sedette accanto a me e mi abbracciò ma io non la ricambiai. “Mi dispiace tanto.” Mi sussurrò all’orecchio, provata. Perché?
“Devo andare via. Per favore.” Dissi io, la voce rotta da un pianto che minacciava di sfociare.
“Non puoi.” Rispose Edward.
“Non m’importa!” sbottai io.
Bella mi posò una mano nella spalla “Renesmee, per favore, è troppo rischioso.”
Mi scrollai violentemente di dosso la sua mano e mi alzai – Edward fece dei passi avanti verso di me – “Il mio medaglione? L’hai ancora tu?!”  le domandai, cambiamo argomento.
Bella rimase ferma seduta a letto, la mano ancora sollevata in aria, annuì “Sì.” e con le mani si portò tutti i lunghi capelli su un lato del volto per poi prendere il mio medaglione appeso al suo collo. Me lo porse.
Aveva il mio medaglione agganciato al suo collo.
Lo presi subito e lo indossai di nuovo stringendolo a me. “L’hai… aperto?” domandai.
Prima di rispondermi Bella mi fissò a lungo “No.”
Aveva ragione: il medaglione era come l’avevo lasciato.
Non dissi nulla e mi stesi in quel letto accanto a Bella facendo finta di essere sola. Di nuovo prigioniera in una nuova cella.
“Lo facciamo per il tuo bene.” Fece Edward, da qualche parte all’infuori dal mio campo visivo. Continuò: “Uscire fuori da Volterra è troppo pericoloso per te in questo momento. “
“Qui non sono in pericolo?” mi domandai tra me e me.
“Credimi, non lo sei.” Mi rispose Edward in tutta la sua spavalderia e sicurezza.
Bella riavvicinò la sua mano alla mia e la strinse brevemente  “Andai via di qui. Te lo prometto.” mi sussurrò. Si alzò e si avvicinò ad Edward che le cinse la vita con un braccio. Si chiusero la porta alle spalle lasciandomi nuovamente sola.
“Perché fanno questo per me?” mi domandai e sperai ardentemente che quella volta Edward non stesse leggendo i miei pensieri perché in quel momento una pesante consapevolezza stava prendendo piede nella mia mente.  Strinsi più forte il mio medaglione.
 
 

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Capitolo 20
*** Capitolo 19. ***


Appoggiata sopra alle candide lenzuola del letto c’era una grande scatola in legno, non molto lavorata ma che di sicuro era antica millenni.
La trovai sopra il comodino, di quanto era grande prese tutto lo spazio in superficie. 
Trovai la lampada e alcuni cimeli, che prima erano appoggiati  al mobile, nel pavimento sotto il letto.
Qualcuno me la portò quando io stavo dormendo. Probabilmente Bella. Dormivo nella sua camera, più grande di una suite presidenziale, perché mi aveva ospitata dopo il mio non riuscito tentativo di fuga da Volterra.
All’interno della scatola trovai una ventina di piccoli contenitori di gomma con cannucce annesse.
Dentro c’era un liquido denso e rosso, che macchiava la gomma di striature rosate.
Mi avevano mandato del sangue.
Affamata com’ero, mi tuffai a capofitto dentro la scatola, finendo la scorta di sangue in meno di mezz’ora, riempiendo il corpo di linfa fino all’orlo.
Estasiata, ne volevo ancora di più. Il suo effetto fu rigenerativo per il mio corpo, instillando in me il sentimento di beatitudine.
Non sapevo per quanto tempo dormii e non sapevo che giorno fosse. Potevano essere passati settimane o mesi da quando Aro fece crollare del tutto il mio muro di certezze e sicurezze.
Ormai non me ne importava più nulla. Non potevo fare più nulla.
Perché continuare una battaglia invano? Perché lottare, da sola, contro un nemico troppo potente?
Un detto diceva: se non puoi batterli, unisciti a loro. Avevo deciso di intraprendere quella politica.
La consideravo la meno nociva per la mia incolumità e per la mia sicurezza.
Infondo non era stato lo stesso Aro a dire che la mia vita era legata alla loro? Perché non credergli?
Decisi di accogliere una nuova vita fatta di abusi, terrore e scontri. Ormai ero abituata a tutto questo.
Decisi di dire addio anche ai Cullen, coloro che si presero il disturbo di tenermi con sé, di rendermi parte della loro vita per poi abbandonarmi.
Li comprendevo, si erano stancati di me e trovarono il pretesto perfetto per lasciarmi. Erano stati bravi.
Assumendo un atteggiamento stoico, scesi dal letto, raccolsi qualche indumento da un armadio scelto a caso, riempii la vasca d’acqua calda, sciolsi i miei lunghi capelli, e mi feci un bagno.
 
 
“Mi dispiace interrompere il tuo momento dedicato alla bellezza ma hai delle visite!”
Andrew urlava dando colpi violenti alla porta di legno del bagno che ci divideva.
Volevo sprofondare nell’acqua e fingermi morta. Visite? Visite da parte di chi? E perché c’era Andrew? Bella dove era?
“Non dare libero sfogo alla  tua immaginazione Renesmee, non abbandonarti alle speranze.” mi ripetevo, la testa confusa in un tornado di pensieri, come un mantra mentre saltai fuori dalla vasca e iniziai a vestirmi velocemente.
No, era impossibile. Le visite a cui si riferiva Andrew erano unicamente per Aro. Io ero solamente il gioiellino da mostrare. Sicuro.
Uscii in meno di un minuto. Andrew, sfortunatamente bellissimo, fece un passo indietro per scrutarmi dalla testa ai piedi. Dopo si avvicinò e chinò il suo capo nel mio collo in modo tale che potesse annusare il mio odore.
Ringhiai e mi allontanai da lui “Non ti avvicinare.”
Lui mi sorrise, come un bambino colto a rubare delle caramelle, poggiò una mano sulle spalle spronandomi a camminare. “Non capisco perché stai qui ora. Questa è la stanza di quei due vampiri impazziti. Nessuno può entrarvi.”
Non gli risposi. Sinceramente non lo sapevo nemmeno io. Cominciammo a camminare, Andrew mi faceva da guida.
“Da quanto tempo sono stata rinchiusa?” gli domandai, guardando fisso la strada davanti a me.
“Da quanto tempo hai dormito come un ghiro, intendi? Tranquilla, solo ventiquattro ore.” mi rispose il vampiro sfiorandomi la guancia. Mi scostai.
“Chi sono questi visitatori?” gli domandai in seguito.
“Sorpresa!” fece lui con finto entusiasmo.
“Non ispiri neanche un minimo di fiducia” gli dissi a denti stretti. Man mano che raggiungevamo la Sala delle Udienze, il fiato cominciava a mancarmi, un nodo si intrecciava dentro di me e il mio cuore iniziava a battere più forte del dovuto.
“Renesmee. Stai calma.”
Davanti l’enorme porta c’erano sempre due vampiri alti come montagne e sorvegliare. Alessandra non c’era. Rispetto a quei due vampiri, lei non serviva molto pensai a malincuore.
La porta si aprì come un sipario in un teatro. Una serie di odori, molto familiari, invasero le mie narici. Trattenni il fiato.
Andrew mi fece un sorrisetto, si chinò, indicò la strada davanti a noi e fece: “Prima le signore.”
La Sala delle Udienze era, come sempre, illuminata dai raggi solari. Vidi i tre troni al centro occupati e tutta la Guardia dietro e accanto Aro, Marcus e Caius.
Stranamente, a completare il solenne quadro, non c’era Bella ad occupare il posto di fianco ad Edward. C’era Renata.
Renata era una vampira, anch’essa uno scudo, ma, la sua funzione, era quella di proteggere Caius e Marcus. Era esclusivamente Bella che, con il suo scudo, proteggeva Aro. Dedussi che quel giorno sostituiva Bella.
La grande porta dietro di noi si chiuse con un boato secco. Andrew non si mise accanto ad Aro ma rimase dietro di me, come un’ombra. 
Non eravamo soli. Alla mia sinistra, uno accanto all’altro, c’erano sei persone. I Cullen.
Carlisle, Esme, Alice, Jasper, Rosalie e Emmett. La mia famiglia.
Rimasi impietrita e a bocca aperta. Il cuore batteva frenetico minacciando di cessare i battiti. Un turbine di emozioni mi trafisse come una lama incessantemente.
La vista divenne sfocata poiché delle lacrime iniziarono a sgorgare dai miei occhi.
Volevo abbracciarli tutti ma non riuscivo a muovermi. Il corpo non rispondeva ai miei comandi per via dello shock che mi fulminò.
I Cullen ebbero quasi la mia stessa reazione. Fremevano per andarmi incontro ma rimanevano al loro posto.
Eccetto per Esme che non volle rispettare le formalità e corse ad abbracciarmi forte. “La mia Renesmee.”
L’abbracciai ma era un abbraccio freddo, vuoto, non sentito. Cercai di abbracciare mia nonna in maniera più forte possibile ma il mio corpo era come un cavallo imbizzarrito, non rispondeva ai miei ordini.
Si avvicinarono gli altri Cullen, tutti con sguardi felici misti a sollievo. Carlisle si mise di fianco a me poggiando una mano nella mia spalla sinistra, stringendola forte.
Aro  era meravigliato da quel ricongiungimento familiare. I suoi fratelli mantenevano sempre quella espressione diabolica. La Guardia era totalmente indifferente. Ma dov’era Bella?
“Che meravigliosa visione!” disse sognante, nessun velo di ironia nella sua voce.
Aro si alzò e si avvicinò a Carlisle stringendogli una mano. Mio nonno non era tanto convinto ma gliela strinse lo stesso. Capii dalla sua fronte corrugata che stava analizzando la situazione. Di solito guardava dietro le spalle di Aro, verso la Guardia.
Dopo Aro strinse la mano a tutti i miei familiari con fare molto amichevole e sorriso gioioso in volto. I Cullen, invece, erano tutti sospettosi.
Quando salutò Alice, Aro aveva gli occhi luminosi e stracolmi di desiderio. “Alice! Che piacere rivederti!”
Alice gli strinse le mani ma la allontanò immediatamente prendendo alla sprovvista il vampiro italiano. Non sembrava presente a se stessa ma allo stesso tempo concentrata. I suoi occhi erano persi nel vuoto, verso un’altra dimensione.
Dopo si rivolse di nuovo a Carlisle, la luce nei suoi occhi non l’abbandonò. “Carlisle! E’ piacevole questa tua visita! Devo ammettere che è stata un po’ una sorpresa ricevervi oggi.”
Carlisle gli sorrise ma il sorriso non illuminò il suo volto. Era un sorriso forzato. “Era tempo che non venivo in Italia. Sapendo Renesmee qui ho voluto cogliere la possibilità di farti visita.”
Aro annuì, sembrava un padre che capiva i drammi di un altro padre.
Poi si rivolse a me “Renesmee! Non sei contenta di rivedere la tua famiglia?”
Lo guardai per un attimo, poi annuii e sussurrai “Si, sono contenta.” con voce atona.
Aro si portò le mani vicino al petto e con sguardo davvero ammirato disse “Renesmee è fantastica. Una creatura fantastica e affascinante. Il nostro studio procede a gonfie vele e la vostra Renesmee si sta mostrando molto lieta di aiutarci.”
“Davvero?” domandò Rosalie a denti stretti, una sopracciglia inarcata.
Aro non le rispose, come se non l’avesse neanche sentita, continuò l’elogio su di me: “Anche se avevamo programmato il soggiorno di Renesmee qui a Volterra solo per pochi giorni, non possiamo fare più a meno di lei.” posò lo sguardo intenerito su di me ma io non lo ricambiai, guardai fisso in avanti in nessun determinato punto. Mi sentivo vuota,assente.
Carlisle si irrigidì e strinse i pugni “E’ passato troppo tempo Aro, Renesmee deve ritornare nel mio clan.”
Aro lo guardò, visibilmente colpito “Carlisle…”
Il nonno scosse la testa “Aro, non tollero più che Renesmee sia lontana dalla mia famiglia. Se ne andrà oggi. Con noi.”
Aro chinò il capo, sconfitto. Caius inveì contro Carlisle ma il fratello lo fermò con un gesto della mano: “Aspetta Caius. Questa è una visita pacifica e non deve terminare nella maniera peggiore.” poi si rivolse di nuovo a Carlisle “Caro mio amico, forse è meglio chiedere alla stessa Renesmee se vuole rimanere o meno.”
Aro si voltò verso di me “Renesmee?”
Io lo guardai poi guardai la mia famiglia. Mi era mancata tantissimo e rivederla mi stava rendendo la persona più felice del mondo.
Con loro mi sentivo me stessa dopo tanto tempo di angoscia. La mia anima si era di nuovo svegliata ma il mio corpo era assopito, spento come se qualcuno avesse staccata la spina dalla presa. Non funzionava.
“Andate.” dissi alla mia famiglia. “Voglio rimanere qui.”
“No! Non credete a quello che sto dicendo! Non sono io che parlo!” volevo urlare a squarciagola.
Mi girai, tremando di paura. Dietro le mie spalle, oltre Carlisle, c’era ancora Andrew che, con un sorriso, mi salutò con la mano.
“Non voglio tornare. Voglio rimanere qui. A Volterra. Andate.” continuai a dire sempre con voce atona, meccanica.
“Che cosa le avete fatto?!” urlò Rosalie scagliandosi contro Aro ma io, presa come da una scossa elettrica, mi mossi in avanti e la fermai a pochi centimetri da Aro.
“Andate.” dissi “Per favore, andate!”
I Cullen erano sbalorditi, non riuscivano a proferire parola.
“Re...Renesmee ma che stai facendo?” mi chiese Rosalie, ancora più pallida del solito. Eravamo strette quasi in un abbraccio.
“Per favore.” le risposi io. “Aiutami! Portami via da qui!” cercai di dirle con gli occhi ma questi non trasparivano nulla se non vuoto.
Rosalie sciolse l’intreccio di braccia che si era creato e si allontanò da me. Era spaventata.
Tutti i Cullen non credevano allo spettacolo che stavano assistendo.
Aro si avvicinò a me e si voltò verso Carlisle “Renesmee ha deciso.”
“No! No! No! No!”
Carlisle ringhiò e si avvicinò a me e ad Aro affiancato da Jasper e Emmett. “Non ti permetterò di tenerla ancora un minuto di più qui, Aro.”
In cambio, il vampiro sorrise e alzò le mani come se lui non ne sapeva nulla della mia insolita e sbalorditiva scelta “Carlisle, io non sto costringendo nessuno a rimanere. E’ tutta una scelta di Renesmee.”
Carlisle era distrutto in volto. Non credeva a ciò che stava vivendo. Il mondo aveva cominciato a girare nella direzione opposta.
“Girano voci di una guerra, Aro, e che in causa ci siete voi. Non voglio che mia figlia sia coinvolta nelle vostre sporche faccende.”
Aro gli sorrise “Renesmee è totalmente al sicuro qui.”
Carlisle per un attimo rimase in silenzio poi, come se si stesse giocando l’ultima carta, guardò in alto, verso la Guardia posizionata tra le scalinate. “Edward.” chiamò. Si conoscevano?
Edward ruppe il blocco di ghiaccio che si era creato rimanendo nella stessa posizione, impassibile.
Il suo sguardo di ghiaccio era attento alla situazione drammatica che si era creata.
Il vampiro fissò per un lungo intervallo Carlisle, in silenzio.
“Non so cosa lei vuole da me.” disse alla fine, assolutamente disinteressato, quasi arrogante. 
“Edward!” esclamarono all’unisono tutti i Cullen, chiaramente provati e scioccati.
“Dov’è Bella?!” domandò Carlisle con voce di rimprovero, sempre rivolgendosi ad Edward.
Bella?
Edward non rispose.
“Andate.” Feci io. “Fatelo per me.”
“Renesmee…” singhiozzò Esme.
“Per favore.”
La grande porta si aprì nuovamente, pronta a far uscire i Cullen dalla Sala delle Udienze.
Questi si dileguarono in un secondo, senza dire nulla.
Dentro di me stavo morendo. Il mio cuore, come un fiore, stava appassendo.
Dopo mesi avevo rivisto la mia famiglia e in un veloce scambio di battute l’avevo vista voltarmi le spalle, battuti, a causa di parole, pronunciate da me stessa, non dette volontariamente.
Aro mi sorrise “Ottima scelta, Renesmee.” poi si mise a ridere, trattenendosi.
Si voltò verso Andrew “Ottimo lavoro. Vai via con Renesmee.”
“Si, signore.” Fece lui, strattonandomi una spalla e trascinandomi verso l’uscita. “Cammina.”
Appena usciti, Andrew, spazientito, mi prese dalla vita e mi mise sopra una sua spalla iniziando a correre alla massima velocità.
Mi risvegliai da quel maligno incantesimo ed iniziai ad urlare spaventata, dimenandomi dalla ferrea stretta di Andrew che, in risposta, mi ringhiò contro. “Stai ferma.”
“Lasciami! Ti odio! Lasciami!” urlai scoppiando in lacrime.
Nella mia testa si ripeteva di continuo la scena che avevo appena vissuto causandomi profondo dolore, inconcepibile.
“La mia famiglia! La mia famiglia!”
Andrew continuò a ringhiare “Ma non capisci che l’hai persa? Sei proprio ottusa!”
“Aah!”
Aprì un porta e ci trovammo in una stanza, una camera da letto antica ma di modesto arredamento.
Mi gettò sopra un letto a baldacchino e disse “Ora stai ferma!”
Rimasi distesa supina, a fissare il tetto costituito da assi di legno, mentre le lacrime non smettevano di scendere. Ero di nuovo incapace di muovermi.
Andrew si mise accanto a me, mi fece sedere e appoggiare alla testiera del letto.
Mi asciugò il volto dalle lacrime. “Non ha senso piangere.”
“Ti odio! Odio il tuo potere! Manipolatore! Odio Aro! Vi odio!”
Andrew continuò: “Non ha senso piangere per una famiglia che presto si dimenticherà di te. Dimenticare è una parola troppo grossa per un vampiro, lo so, ma hai capito cosa intendo.”
Sedendosi ,appoggiato alla tastiera del letto, mi abbracciò e mi strinse a sé.
Io provai solamente disgusto.
“Lo sai? Io ho ucciso il mio patrigno perché picchiava mia madre. E’ stato di notte. Lui dormiva. Ho utilizzato un coltello. Non sono pentito.”
Nascose il volto nel mio collo, annusando il mio odore. “Penso di stare iniziando a provare qualcosa per te, cara mia Renesmee. Ma non ne sono sicuro.”
Iniziò a darmi dei piccoli baci per poi appoggiare del tutto le labbra, aprirle, e mordere il mio collo.
“O forse adoro solamente il tuo sangue. E’ squisito. Sono da poco un vampiro ma, a quanto pare, ho già trovato la mia cantante.”
Mi risvegliai, di nuovo, da quel sonno manipolatore.
 
 
 
 
 
 
Dopo quasi un anno dall’ultima volta che ho aggiornato la storia, eccomi di  nuovo qua!
La scorsa settimana mi sono diplomata e uno dei primi obbiettivi che mi ero prefissata di fare durante questa estate era proprio quella di continuare Ren.
Spero che non vi siate dimenticate di questa fan fiction. Io no e, anche se durante l’anno non ho aggiornato più, non ho smesso di pensare a come svilupparla e a rivisitarla (Vi ricordo che Ren è la rivisitazione di una mia vecchia ff Il mio nome è Renesmee).
Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento e ci sentiamo alla prossima! : )
 
Bellamy. 

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Capitolo 21
*** Capitolo 20. ***


Il corpo senza vita di Irina stava ancora bruciando nel terreno ghiacciato.
Le sue sorelle, Tanya e Kate, urlarono di dolore e si scagliarono contro il battaglione italiano.
Il conflitto ebbe inizio.
Tutto accadde velocemente. Nello stesso istante, Bella si voltò  verso Jacob e Renesmee seduta sopra la sua schiena. 
“Via!” urlò. Nello stesso momento si mise a correre inseguendo Edward che già era corso all’azione.
Jacob guaì voltandosi e iniziando a correre nelle direzione sbagliata. Andava contro mano, scontrandosi con gli altri lupi. Veloci occhiate tra di loro erano come parole di addio.
Renesmee si strinse forte al pelo del suo Jacob. Anche se il vento picchiava forte nel suo viso, le lacrime scorrevano nel suo volto  irrefrenabili e i violenti singhiozzi non davano tregue al suo petto.
Si voltò, la battaglia ormai stava diventando un puntino nero sfocato.
“Mamma! Papà!” urlò Renesmee la sua voce, consapevole ma sempre da bambina, era spezzata dal pianto e dai singhiozzi.
Non poteva scappare via. Non poteva essere l’unica, insieme a Jacob, a salvarsi.  Non poteva rispettare la promessa fatta a suo madre nella tenda, prima che i Volturi arrivassero.
Era colpa sua. Se lei non fosse nata tutto questo non sarebbe mai accaduto. La sua potenziale famiglia avrebbe continuato a vivere pacificamente. La sua potenziale madre non avrebbe sofferto così tanto a causa della gravidanza che, per colpa di Renesmee, la portò quasi alla morte.
Era lei la colpevole ed era suo dovere essere nel campo di battaglia.
Renesmee strinse ancora più forte la pelliccia di Jacob e si chinò verso il suo orecchio “Jacob! Torniamo indietro!”
Il lupo scosse il capo e ringhiò. Continuò a correre.
Definitivamente Renesmee si abbandonò al dolore e allo scorrere delle lacrime. Non sapeva dove Jacob la stesse portando ma di sicuro in un posto lontano da Forks, forse fuori dall’America.
Tutte le informazione che Bella aveva dato loro erano nello zaino di Renesmee.
Scappavano disperati, voltando le spalle alla propria famiglia, al proprio branco, a tutti quei vampiri che avevano deciso di sacrificare la propria vita per testimoniare a favore di una mezza-vampira.
Ma nella corsa non erano soli. Renesmee sentì dei passi veloci dietro le sue spalle.
Si voltò e il suo sangue si raggelò.
Un vampiro dai capelli neri, incappucciato dalla mantello nera tipico dei Volturi, li stava raggiungendo.
“Jacob! Più veloce!” urlò la bambina senza staccare gli occhi di dosso dal vampiro dietro di loro.
Ma questo non fu necessario abbastanza.  La mano fredda del vampiro bloccò Renesmee, prendendola dal colletto della sua maglietta e la tirò via, gettandola nel terreno ghiacciato, mentre Jacob continuava a correre.
Il lupo se ne accorse subito e tornò indietro. Vedere Renesmee a terra e la paura di una  possibilità che si possa essere fatta male lo paralizzarono ma queste alimentarono la sua adrenalina e la sua rabbia.
Si scagliò contro il vampiro che era pronto a riceverlo.
Ma mentre Jacob caricava contro il Volturo, questi prese sempre Renesmee dal colletto con estrema facilità – confrontata al vampiro sembrava veramente una bambina di appena tre mesi –e sempre con estrema facilità la lanciò, ad una velocità inimmaginabile, dietro le sue spalle, verso la grande radura dove si stava tenendo la battaglia.
Jacob vide nero e in pochi secondi di scontro uccise il vampiro, staccandogli il collo dal resto del corpo.
Nessuno poteva fermarlo in quel momento. Nessuno poteva fermare un lupo quando il soggetto del suo imprinting era in pericolo.
Renesmee fluttuava, volava, in una condizione di semi coscienza. Il vento picchiava contro la sua schiena fino a quando, agli inizi della raduna, toccò terreno colpendo la schiena e la testa, causandole una grave sofferenza.
 Jacob raggiunse  Renesmee nello stesso istante che lei picchiò la testa nel terreno ma, allo stesso tempo, arrivarono altri tre vampiri, seguiti poi da altri tre, della Guardia di Aro.
Renesmee aprì gli occhi, la testa le girava e le pulsava ai lati. Fece per alzarsi e vide Jacob bloccato da sei vampiri.
Nello sfondo, un blocco ammassato di vampiri si scontravano senza pietà.
Trattenne un urlo di disperazione e si avvicinò a Jacob ma venne bloccata da un vampiro che la strinse a sé in una morsa e con lei si allontanò  da Jacob, preso in quel momento da uccidere i restanti cinque vampiri.
Renesmee cercò di dimenarsi da quella stretta ma non potette fare nulla se non urlare il nome di Jacob e chiamare i suoi genitori, disperata.
Ma ad un tratto non vide niente se non il buio e non sentì nulla se non il silenzio. Renesmee si sentì cadere in un buco nero.
Tutti i Cullen, insieme al loro gruppo di testimoni, erano presi dalla battaglia. Sapevano che non c’era una minima possibilità di vincita ma loro continuavano a combattere, credendo sempre a quella piccola speranza che non abbandonò mai il loro proprio animo.
 Edward schivava ed uccideva ogni singolo vampiro che si fronteggiava con lui, cieco di rabbia.
Nonostante tutto non levava gli occhi di dosso da Demetri. Doveva essere lui ad ucciderlo e nessun’altro.
Lo doveva per Alice.
Bella, dal canto suo, era la ombra di Edward. Non tollerava stargli lontano. Mentre combatteva cercava di estendere il suo scudo a più alleati possibili senza mai lasciare scoperto Edward.
Se mai Edward dovesse essere scoperto dal suo scudo e quindi vulnerabile ai colpi psichici dei Volturi, non se lo sarebbe mai perdonata.
Mentre la coppia era presa da uccidere più vampiri possibile, più ne uccidevano più sembravano arrivassero dei nuovi, la loro attenzione, nello stesso istante, venne catturata da un dettaglio che li raggelò.
Un vampiro si stava avvicinando ad Aro. Renesmee era tra le sue braccia che, persa, si dimenava.
Edward e Bella, con gli occhi sbarrati, attirando a loro volta l’attenzione degli altri vampiri, urlarono all’unisono: “Renesmee!”
I due non pensarono a nulla se non alla loro figlia in balia dei Volturi. Mollarono tutto, Bella riportò il suo scudo solamente su se stessa, su Edward e su Renesmee, lasciando scoperta la sua famiglia e i testimoni.
Corsero verso Renensmee che, nel frattempo, aveva ripreso l’udito e la vista.
Si ritrovò tra le braccia di un vampiro e, continuando a dimenarsi dalla quella stretta asfissiante,riuscì a liberarsi e a cadere in piedi. In un attimo corse verso i suoi genitori e in quel momento fu la persona più felice del mondo.
Ma l’illusione durò pochi secondi. Una mano di marmo fredda strinse una spalla di Renesmee, bloccandola.
Era Aro.
A Resnesmee si smorzò il respiro e lanciò una sguardo di paura ai suoi genitori, davanti a lei.
“Aro.” Fece Edward “Per favore, non lei.”
Aro gli sorrise, maligno: “E voi che mi date in cambio?”
Mentre Aro domandava, Jacob irruppe nella scena con un ringhio, diretto verso il vampiro.
Aro, che vide attraverso i ricordi di Renesmee l’importante rapporto che c’era tra lei e il licantropo, utilizzò la ragazza come scudo per proteggersi e proprio Renesmee fu la vittima di Jacob.
Jacob non ebbe i riflessi abbastanza pronti per notare che davanti a lui non c’era più Aro ma Renesmee.
I lunghi artigli della sua zampa non squartarono Aro ma bensì il petto dell’oggetto del suo imprinting, Nessie.
Era troppo tardi ormai per sottrarre la zampa.
Nello stesso istante, Aro morse l’ibrido.
In quel momento nessuno sapeva che il veleno dei vampiri era fatale, come per i licantropi, ai mezzi-vampiri come Renesmee.
Renesmee era sconvolta. Sconvolta da tutte quel dolore provocato dal graffio, tutto il suo busto era squarciato da una lunga linea di pelle e da un bruciore come acido che iniziò a propagarsi dal suo collo.
Non ci volle molto a Renesmee per capire che stava morendo.
Cadde a terra, faccia contro il terreno ghiacciato. La neve sotto di lei stava per colorarsi di un rosso scuro ma intenso.
L’aria le mancava, non riusciva a respirare. Qualcosa di pesante come petrolio appena versato nei suoi polmoni le impediva di respirare.
L’acido aveva iniziato a propagarsi in tutto il suo corpo immediatamente, bruciandole ogni singola cellula e organo del suo essere. Sconvolgendola dal dolore.
La sofferenza che Renesmee Cullen stava subendo in quel momento era indescrivibile.
Quel veleno, che per alcuni poteva essere anche una fonte di salvezza, era il biglietto da visita della morte.
Continuava a dimenarsi nel terreno e stringersi la pelle come se volesse levarsi quel macigno incandescente da sola.
Il veleno scorreva nel suo corpo come fuoco, carbonizzandole i muscoli. 
Preferiva morire immediatamente pur di far smettere quella tortura.
Infondo, a causa sua, Bella aveva subito la stessa sofferenza. Era giusto ripagarla nello stesso modo.
In quanto a Jacob. Lui morì nello stesso istante in cui ferì Renesmee.
Jacob Black non esisteva più. La sua vita non esisteva più. Aveva ferito la sua fonte di felicità, l’unica sua ragione di vita.
Interiormente era morto. Doveva morire anche esteriormente.
Rimase a fissare Renesmee sofferente a terra. Jacob era totalmente inerme, alla mercé dei Volturi, che non tardarono ad ucciderlo.
Jacob Black morì stroncato da un vampiro qualsiasi della Guardia. Non oppose resistenza.
Senza vita, cadde nel terreno provocando un grande fracasso, accanto della sua amata.
Tutto si fermò, tutti si fermarono. La battaglia venne sospesa. Si sentivano solamente le urla disperate di Bella che si scagliò contro Aro, seguita dalla sua famiglia.
“Vai tu!” le disse Edward “Ci serve il tuo scudo! Penserò io a Renesmee, non è morta!”
Mentre era sovrastato dai suoi compagni, Edward Cullen prese in braccio sua figlia senza coscienza. Ma era ancora viva. Il suo cuore, lentissimo batteva, ma stava per cedere. Riusciva a sentire i suoi pensieri che man mano si facevano più assurdi e deliranti ma non si arrendevano dal morire.
Si alzò e si sentì male a vedere suo fratello, Jacob, morto ai suoi piedi, ma doveva salvare sua figlia.
 Lo faceva anche per lui.
Strinse sua figlia a sé e la portò ai lati della radura, sotto ad un grande albero. La stese, la maglietta, tutta stracciata, era zeppa di sangue.
Pochi secondi dopo, Edward venne raggiunto da Carlisle.
“Edward. Renesmee?”
“Aro l’ha morsa.” Gli rispose a denti stretti.
Alzò quel che rimaneva della maglietta di sua figlia e scoprì un taglio che partiva dalla sua spalla destra e terminava nel bacino sinistra, tagliandola totalmente in due.
Si tolse il giubbotto e la camicia, strappo l’indumento di sua figlia e le mise i suoi. Erano troppo grandi per la bambina ma in quel momento non importava.
Renesmee non se ne accorse, guardava davanti a sé, gli occhi sbarrati, i denti stretti tra di loro, digrignava. Tutto questo durò due secondi. 
“Il veleno la sta uccidendo” continuò a dire “Dobbiamo fare qualcosa!” urlò Edward a sua padre.
“L’unica cosa che possiamo fare è estrarre il veleno direttamente dal suo corpo.”
Edward non diede il tempo a Carlisle di terminare la frase che già si mise all’opera.
Posizionò la bocca nel collo di sua figlia dove era stata morsa e a sua volta la morse lui, succhiando via tutto il veleno.
Passarono tre minuti ma Renesmee non dava segni di miglioramento, il suo cuore continuava a rallentare sempre più.
Edward rialzò il voltò dalla figlia e sputò il veleno, un liquido denso trasparente.
“Credo di averlo tolto tutto. Ho iniziato a sentire il suo sangue.”
Nonostante ciò Edward non era sicuro. La morse nei polsi e nelle braccia, lì c’era ancora veleno.
Carlisle fece la stessa  cosa. La morse nelle caviglie e nei polpacci. Anche là c’era ancora del veleno.
I due vampiri si fermarono quando constatarono che non c’era più veleno in circolo. Ancora nel suo cuore non era giunto.
Edward strinse sua figlia a sé “Ti prego Renesmee. Ti prego amore mio. Non morire. Renesmee. No. Per favore. Ti prego, ti prego.”
Renesmee non gli rispose. Gli occhi vitrei sbarrati non davano nessun segno di risposta.
Edward prese di nuovo in braccio sua figlia e, insieme a Carlisle, si avvicinò al centro della battaglia. Arrivarono Jasper ed Alice.
Nuovamente tutti si fermarono, guardando i due vampiri che si stavano avvicinando.
Bella non poteva credere ai suoi occhi. Si sentì morire.
“No! Renesmee!”
Corse verso suo marito e sua figlia “Renesmee! La mia bambina! Renesmee ascoltami! Svegliati!”
Non ricevendo nessuna risposta, Bella continuò ad urlare, disperata, aggrappandosi senza forze ad Edward e a Renesmee.
La famiglia si avvicinò ad Aro. Anch’esso totalmente sconvolto dalla visione posta davanti ai suoi occhi.
A Bella non importava più nulla. Aveva perso il suo migliore amico. Stava perdendo la sua bambina.
Voleva morire anche lei e far finire tutto.
“Ci arrendiamo” disse Edward ad Aro, tenendo sempre in braccio Renesmee.
“Puoi avere qualsiasi cosa in cambio. Basta che non interromperai mai la vita di nostra figlia, della nostra famiglia e di tutti i vampiri che sono corsi in nostro aiuto.”
Aro non rispose. Edward continuò.
“In cambio avrai me e Isabella nella tua Guardia ma ripeto: non devi mai più intralciare la vita dei vampiri qui presenti.”
Aro era impassibile. “Accetto. Avrete solamente ventiquattro ore di tempo per poter dire addio alla vostra famiglia.”
Si voltò verso i suoi seguaci, tacque sua fratello Caius pronto a protestare, e disse: “Cari amici. La battaglia termina qui. Siamo noi i vincitori.” Si voltò di nuovo verso Edward e Bella “Ventiquattro ore.” E sparì.
Cadde il silenzio. Aveva ricominciato di nuovo a nevicare.
Edward e Bella, il loro volto era il ritratto della morte. Si voltarono e si avvicinarono a Jacob, nudo in forma umana, steso nel terreno.
Bella si chinò verso di lui e l’abbracciò e singhiozzando disse: “Jake. Ti vorrò sempre bene. Grazie mille per ciò che hai fatto.”
Seth, seguito da altri Quileute tutti in forma umana, presero Jacob. Sam disse “Lo portiamo da Billy.”
Non serviva dire altro.
 I Cullen girarono i tacchi e, sconfitti, tornarono a casa. Esme e Carlisle rimasero nella radura e ringraziare tutti coloro che avevano rischiato la propria vita per salvare la loro famiglia.
Arrivati a casa, Edward e Bella portarono Renesmee in bagno. Mentre una vasca si riempiva, dovevano levarle via tutto quel sangue, la spogliarono di tutti i vestiti e la vista di quel corpo nudo martoriato fu troppo dolorosa e inaccettabile per entrambi i genitori.
Nello stesso momento, Alice e Rosalie prepararono lo stesso letto da ospedale utilizzato da Bella quando era incinta, preparando l’occorrente per una trasfusione di sangue. Emmett e Jasper circondavano la casa per eventuali attacchi da parte dei Volturi.
 Quando Esme e Carlisle ritornarono, trovarono Nessie distesa nel letto. Le palpebre ora chiuse. Carlisle si attivò immediatamente per iniziare la trasfusione di sangue.
“Si riprenderà?” domandò Bella e Carlisle, aggrappandosi di peso ad Edward.
Carlisle Cullen fu assolutamente sincero con sua figlia: “Non lo so. Non sappiamo che danni abbia potuto causare il veleno, nonostante io ed Edward gliel’abbiamo estratto tutto. Non avrei mai pensato che fosse fatale per i mezzi-vampiri. Possiamo solamente sperare. Questa non sarà l’ultima trasfusione. Ha perso molto sangue.”
Bella iniziò a singhiozzare. Si gettò a terrà e strinse forte a sé la sua bambina. “Ti prego. Svegliati. Fallo per la tua mamma. Svegliati amore mio, mi senti? Non abbandonarmi. Non devi abbandonarmi!
Nessuno osò parlare. Nessuno osò iniziare discorsi. Nessuno osava pensare all’imminente affiliazione di Edward e Bella ai Volturi, nessuno osava parlare della morte di Jacob e della mancata morte di Renesmee.
Era un macigno troppo grande e doloroso da affrontare ma la consapevolezza era un ombra che non aveva intenzione di abbandonare nessun Cullen.
Edward e Bella dovettero lasciare per poco tempo la loro Renesmee.
Andarono a La Push. A casa di Billy gremita di persone. Da fuori si sentiva il suo pianto.
Edward e Bella in un primo momento non si sentivano all’altezza né adeguati ad entrare e chiedere perdono a Billy per avergli strappato un figlio.
Nonostante tutto, Jacob non se lo sarebbe mai perdonato un tale gesto, avrebbe sempre preferito la morte come punizione.
Entrarono e tutti gli occhi erano puntati verso di loro, alcuni vuoti altri carichi di rabbia.
Billy, nella sedia a rotelle, era accanto ad un Jacob senza vita disteso nel suo lettino. Quasi non si accorse della presenza di Edward e Bella.
Entrambi si misero in ginocchio davanti a quel padre tormentato dalla perdita del proprio figlio ma Billy era il riflesso dell’animo di Edward e Bella e potevano capire alla perfezione ciò che stava provando.
“Billy.” Iniziò Bella con voce tremolante “Perdonaci. Non avremmo voluto mai questo per Jacob.”
Billy si voltò verso i due vampiri, gli occhi nascosti da una patina di lacrime. Accarezzò il volto di Bella e posò una mano nella spalla di Edward.
Billy sapeva che Edward e Bella non avevano nessuna colpa. Sapeva bene cosa implicava l’imprinting.
Due ore dopo, Jacob Black venne fatto riposare nel cimitero della riserva.
Edward e Bella lo salutarono per l’ultima volta, sempre grati per ciò che aveva fatto per loro.
Fecero un salto a Forks. A casa di Charlie. Arrampicata ai rami di un albero vicino, Bella vide e salutò per l’ultima volta suo padre, cosciente che non l’avrebbe mai più rivisto.
Charlie, incurante della situazione tragica che si era riversata nella vita di sua figlia, era beato a tavola mentre Sue gli stava riempiendo un piatto pieno di lasagne.
“Ciao papà.”
Ritornarono a casa e si raccolsero intorno a Renesmee per tutta la notte, distesi nel letto accanto a lei.
Il medaglione che Bella aveva regalato a Renesmee la mattina precedente era aperto e scheggiato.
All’interno il vetro che proteggeva la piccola foto di lei, Bella e Edward era per metà danneggiata.
Bella sospirò, baciò il medaglione e lo chiuse stando attenta a non danneggiarlo ulteriormente.
Si domandò cosa Renesmee potesse provare all’aprire il suo regalo e vedere la foto di lei con i suoi genitori.
Non parlarono con nessuno.
Renesmee non si riprese per l’ultimo saluto ai suoi genitori. Avrebbero dovuto aspettare altre due settimane ma era troppo tardi.
Era l’alba, un nuovo giorno. Le ventiquattro ore concesse stavano per terminare.
Edward e Bella salutarono la loro famiglia, la ringraziarono all’infinito. Gli abbracci non erano mai troppo lunghi.
Edward si rivolse a Carlisle mentre Bella era stretta tra Esme, Rosalie ed Alice.
“Carlisle, l’affidiamo a te. Ora è tua figlia. Proteggila per noi.”
Si strinsero la mano ma poi si abbracciarono “Sarà l’unico scopo della nostra vita.”
“Fratelli.” fece Edward unendosi a Jasper e Emmett.
“Tranquillo fratello, Nessie non verrà toccata da nessuno. Voi pensate a ritornare!”
Edward avvolse un braccio nella vita di Bella e la strinse a sé. Lei era persa nel suo oceano di dolore.
Era un sacrificio fattibile. Avrebbe fatto di tutto per la sicurezza e la felicità della sua piccola brontolona.
E poi c’era Edward con Bella. Non era sola a sopportare quell’eterno supplizio.
Senza Edward sapeva che non ce l’avrebbe mai fatta.
“Avremo modo di sentirci?” domandò Esme, anche lei sofferente. Stava dicendo addio a due suoi figli.
Edward scosse la testa “No. Ho letto le intenzioni di Aro. Non è una di queste.”
“Oh!” Esme gemette.
“E con Nessie?” domandò Emmett “E’ testarda la piccoletta. Sapendovi a Volterra nessuno la potrà fermare da venire da voi.”
“Non possiamo permetterci di mettere in pericolo Renesmee. Tanto meno avvicinarla ai Volturi.” disse Bella.
“Sono questi i patti.” terminò Edward.
“Spiegatele le ragione per cui ce ne siamo andati.” continuò Bella  “Nessie capirà. O non ditele nulla. L’importante è proteggerla.”
I Cullen non erano d’accordo sull’ultima opzione ma non si azzardarono a contestare. Fondamentale era proteggere Renesmee anche dai demoni del suo passato.
Mancava mezz’ora alla partenza. Edward e Bella salirono nella camera di Edward, lì avevano trasferito Renesmee.
L’accarezzarono e la baciarono in volto sperando che in quel breve tempo Renesmee si risvegliasse per dire loro addio. Ma Renesmee non si svegliò.
“Ti voglio bene bambina mia. Sarai sempre nei nostri pensieri.” fece Bella, dandole l’ultima bacio nella fronte.
 Edward le diede due baci nella guancia e uno nella fronte come aveva fatto prima, in battaglia.
Uscirono da quella casa, ambientazione di tante loro avventure, per non tornarci mai più.
Erano a Volterra nella nuova veste di protettori personali di Aro e di nessun’altro. Per l’eternità.
Per la gente di Forks, Edward, Isabella  e Jacob Black morirono di notte, in un incidente stradale.
Renesmee Cullen riportò una serie di complicate e gravi  ferite ma fu l’unica a salvarsi.
Si tennero i funerali. Era presente tutta Forks. Presenziò anche Renée Dwyer, la madre di Bella.
Nessuna delle tre bare era aperta.
A Charlie fu negato di vedere Renesmee. Anche a Renée, che venne a sapere dell’esistenza di una nipote solo quel giorno, fu negato vederla.
Il giorno dopo, i Cullen abbandonarono Forks.  
Due settimane dopo, Renesmee Cullen si svegliò. 

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Capitolo 22
*** Capitolo 21. ***


“Bella! Ci devi spiegare!”
“Renesmee… ha detto che vuole rimanere qui.”
“Bella, Nessie è in pericolo?!”
“Io non me ne vado finché Renesmee viene con noi.”
“Dovete lasciare Volterra. E’ troppo pericoloso per voi rimanere qui. Aro vi ha lasciati andare con tranquillità ma, di sicuro, manderà qualcuno a controllarvi. Andate via dall’Italia, ritornate a casa. La vostra vicinanza da Volterra o dall’Italia sarà sospetto per Aro.”
“Renesmee?”
“Presto sarà di nuovo con voi. Ve lo prometto.”
 
 
 
 
 
 
Spalancai gli occhi e grossi cerchi neri si allargavano nella mia visuale, occupandola. Ai margini tutto era sfocato, confuso, miope.
La testa vortica in un giro senza fine e, nonostante mi resi conto che ero avvolta da coperte leggerissime, sentivo freddo come se mi fossi gettata sulla neve, alta più di un metro, congelandomi tutta.
Mi guardai intorno, ogni movimento consisteva ad un pugno in faccia. Osservai con occhi socchiusi, in silenzio, cosciente di dove mi trovavo. 
Il buio sovrastava l’ambiente, le tende spesse erano tirate rigidamente e in maniera tale che nessun spiraglio di luce potesse rovinare l’atmosfera oscura, tranne per una lampada che irradiava tenui raggi rossi in tutta la piccola stanza, mostrando l’arredamento antico ma semplice.
 “Ben svegliata!” disse Andrew, disteso sul letto sopra le lenzuola, la voce era calma, pacifica, quasi tenera.
Mi diede un buffetto nella guancia e mise un braccio sotto il mio collo a mo’ di cuscino.
M’irrigidii e non fiatai. Il contatto fece aprire nella mia testa l’archivio dei ricordi.
Era vividissimo nella mia mente. Era stato lui, attraverso me, a cacciare la mia famiglia da Volterra.
Le parole che pronunciai, a causa sua, alla mai famiglia rimbombavano all’infinito nelle mie orecchie come se le avessi detto appena pochi secondi prima.
 Andrew sorrise imbarazzato, le ciglia toccavano le guance pallide, colore diverso dalle mie, rosso fuoco.
“Ho bevuto troppo sangue da te. Hai perso i sensi. Mi dispiace.” Sussurrò leggero.
Lo guardai, i miei occhi lampeggiavano e illuminavano di rosso il volto del vampiro, come un allarme.
Non gli risposi perché tutto ciò che poteva uscire dalla mia bocca poteva ritorcermi contro. Andrew aveva già dimostrato cosa poteva farne di me e io non volevo proporgli altre possibilità.  
Decisi di non parlare, neanche urlargli contro, rimasi rigida come un statua e lasciai ardere il fuoco  nei miei occhi.
Che gli dovevo dire? “Non ti preoccupare.” ???  Farlo nutrire da me era troppo, rassicurarlo ancora peggio.
La totale libertà di azione di Andrew mi sconcertava e infuriava: grazie al suo potere si sentiva libero e padrone del mondo. Tutto il pianeta Terra correva e obbediva ai suoi comandi silenziosi.
Come me o tutti gli innocenti che, sfortunatamente, si erano trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, in balìa di Andrew.
Andrew era un vampiro con un dono troppo grande, forse troppo grande anche per lui stesso.
 Era consapevole di ciò che era in grado di fare? Aveva mai analizzato gli aspetti negativi e positivi? La maniera migliore per utilizzare il suo dono?
Non mi seppi  dare risposta, con Andrew non si poteva mai sapere ed io non lo conoscevo abbastanza per tirare via conclusioni ma la prima impressione era quella che il vampiro era ben cosciente del suo potere e lo utilizzava come meglio gli pareva.
Lo guardai e lui guardava me, negli occhi, in una maniera molto diversa dal solito, non affamata. I suoi erano magnetici, elettrizzavano il mio cuore, spronandolo a battere più velocemente, riscaldando il mio petto.
Come se fosse l’ultima cosa sensata da fare rimasta al mondo, mi aggrappai alle iridi rosso scuro di Andrew, promettendomi di non lasciare mai la presa. Era la cosa più facile di sempre.  Naturale.
Non badai al fatto che il volto di Andrew si stava avvicinando sempre più al mio. Ero incatenata al suo sguardo e, pian piano una bolla si modellava intorno a me, allontanandomi da tutto, anche da Andrew.
Si mosse nel letto in maniera brusca, non affine ad un vampiro, e si distese di lato, completamente rivolto verso di me.
Andrew appoggiò le sue mani delicatamente nel mio viso, senza far pressione, e mi tirò verso di sé.
Per un secondo gli balenò in volto una espressione sorpresa e compiaciuta: si aspettava che opposi resistenza ma non fu così. 
Senza riflettere o analizzare cosa stava accadendo, gli avvolsi le braccia intorno al collo e lo strinsi forte.
Sapevo chi avevo davanti: un manipolatore, un assassino, colui che aveva distrutto la mia unica chance di scappare via con la mia famiglia, colui che aveva spento l’unica debole luce di speranza rimasta.
Ma i miei occhi interpretavano i suoi in un’altra maniera. Dietro quel minaccioso pozzo di sangue scuro, c’era qualcos’altro alla quale però non si poteva accedere. Inaccessibili e imperscrutabili.  
Ed io ero spinta ad avventurarmi nell’ignoto dei suoi occhi, con i suoi rischi e i suoi pericoli, alla scoperta dei segreti e della vera personalità di Andrew.
Sentivo il suo alito dolce e freddo accarezzare le mie guance e le mie labbra.
“Renesmee. Finalmente.” Sussurrò piano.
Avevo visto e letto milioni di baci, tra uomo o donna o tra due donne oppure tra due uomini, in film e rappresentazioni teatrali, nei libri.
Non avevo mai considerato che un momento del genere potesse capitare anche a me. Non avevo mai pensato ad un eventuale scambio di effusioni con qualcun altro. Le probabilità, in pratica, erano pari a zero.
Invece, a Volterra, la malefica trappola dei Volturi costruita da cattiveria, potere e dolore, le probabilità si stavano rivelando totalmente errate. Si stava verificando l’impensabile.
Un vampiro e una mezza-vampira.
Ed io non ero costretta, obbligata da lui. Lo volevo.
I minuti passavano, il bacio non era più incerto e timido, come all’inizio, ma cominciava a farsi sempre più forte e consapevole.
La morsa d’acciaio di Andrew mi avvolgeva completamente, raccogliendomi tutta nelle sue braccia di pietra sbarrate. Faceva male ma non m’importava. Volevo che mi stringesse così forte. Era ancora un vampiro neonato, era più forte di tutti gli altri vampiri. I suoi baci, però, erano balsamo per il dolore che mi causava in tutto il busto, nello stomaco, nei fianchi, nella cicatrice.
Ci staccammo, non sapevo dopo quanto tempo, e ci guardammo negli occhi, senza parlare. Io presi fiato e appoggiai il volto nel suo petto, lui mi strinse. Dal suo torace non sentivo nessun battito cardiaco. Dal mio sembrava si stesse tenendo  un concerto con una enorme orchestra.
“Renesmee.” Sussurrò di nuovo Andrew, serio, dopo poco tempo.
Allarmata da quel tono di voce, alzai lo sguardo verso di lui appoggiandomi ai gomiti.
Aveva la fronte corrugata e mi guardava attentamente, quasi tormentato. I primi bottoni della sua camicia erano aperti, facendo scorgere il petto marmoreo.
Mi accarezzò una guancia delicatamente per poi stringerla debolmente.
“Non posso prometterti nulla.” Sussurrò.
Ci guardammo attentamente, infine annuii e mi riposizionai nel suo petto.
Capii cosa intendeva: i sentimenti che un vampiro provava verso una persona erano più forti di quelli provati da un umano. Nonostante tutto, Andrew non mi assicurava di stare sempre dalla mia parte.
E questo lo faceva soffrire.
Andrew era la nuova arma letale di Aro, sempre al suo servizio e doveva obbedire ad ogni suo comando, anche contro di me.
Mi sentii risvegliare come da un sogno. La mia mente era un centrifuga di pensieri. Come in un loop, davanti ai miei occhi si ripeteva la scena del mio primo bacio, ogni singolo istante.
Gli strinsi una mano e l’appoggiai al mio volto. Era la prima volta che utilizzavo il mio dono con lui.
Non gli feci vedere nulla se non un sentimento del tutto nuovo che, man mano, stava nascendo in me e le mille domande che mi stavano tormentando.
Questa sensazione sconosciuta, non sapevo darle un nome, da quando c’era Andrew la sentivo sempre presente ma lontana, come se aspettasse di fare la sua trionfale entrata. Stava rinnovando la mia esistenza, il mio punto di vista e il mio essere.
Questo cambiamento drastico e improvviso mi faceva paura.  
Accantonai per un attimo i miei tormenti interiori. Sorsero spontanee alcune domande:  che dovevo fare? Che dovevamo fare?
L’unica opzione logica era quella di comportarsi agli occhi dei Volturi come avevamo sempre fatto.
Lui faceva parte della Guardia, uno dei gioielli più preziosi della collezione. Io ero…il nemico? Solamente un giocattolo nelle mani di Aro che aspettava che lui si annoiasse di lei e decidesse di mandarla via.
I membri della Guardia, tranne Bella, erano totalmente indifferenti nei miei confronti e così Andrew si doveva comportare: indifferente.
Non c’era nessuna possibilità per noi due e non dovevamo illuderci che questa potesse esistere.
Non riuscii ad immaginare le potenziali conseguenze che potevo subire se i Volturi avessero mai saputo della relazione tra me ed Andrew.
E Andrew? Poteva subirne anche lui? Aro gli avrebbe mai vietato di stare con me? L’unica cosa sicura è che non l’avrebbe mai mandato via e che Andrew doveva obbedirgli.
Andrew sentiva tutto lo scorrere dei miei pensieri, resi volontariamente chiari da me ma non parlò. Non rispose alle mie domande. Forse nemmeno lui sapeva le risposte.
Forse era d’accordo con me.
 “Devo parlare con Aro.”  Dissi.
“Perché?” domandò, guardandomi incuriosito.
“Se sono destinata a rimanere qui voglio almeno chiarire alcune cose.”
“Non puoi.” sbottò secco.
Di scatto mi alzai e mi sedetti accanto a lui, gli stringevo ancora la mano.
“Perché?”
“E’ troppo rischioso e poi non è qui.” Mi rispose sbrigativo.
Non gli credevo. “Lui può chiamarmi quando vuole e io, in teoria sua ospite, non posso parlargli quando mi va? Che ospitalità!” domandai con tono sarcastico.
Andrew mi lanciò un’occhiataccia ma io non ci feci caso, mi voltai e mi alzai dal letto. Andrew fece la stessa cosa, in allerta, e mi guardava attento. “Che stai facendo?”
Sistemai la maglietta nera un po’ malconcia e gli risposi: “Vado da Aro.”
Sospirò, esausto. “Ti ho detto che non c’è.”
Feci spallucce “Parlerò con Marcus e Caius.” dissi di rimando e avanzai verso la porta con passo sicuro. Non ero molto convinta di voler parlare con i fratelli di Aro.
“Non costringermi a fermarti!” esclamò Andrew parandosi davanti alla porta.
Strabuzzai gli occhi “Perché? Prima eri stato costretto?!” domandai.
Nello stesso istante in cui la mia voce si affievoliva al termine della mia domanda, mi raggelai. Il volto di Andrew divenne di ghiaccio come i suoi occhi. Io ero il suo riflesso.
Non avevo intenzione di dire quelle parole ma le avevo dette. Il mio inconscio aveva preso il sopravvento e il controllo della mia bocca.
Mi sentii male. Il suono delle parole appena pronunciate sembrava, per le mie orecchie, il rumore di  pallottole appena sparate. Non sentivo i piedi ben piantati a terra mentre i miei occhi erano puntati su Andrew. I suoi occhi rimanevano di ghiaccio e non riuscii a decifrare quali emozioni provò in quel momento.
Silenzio. Un silenzio pesante calò tra di noi.
Aprì la porta e mi ordinò: “Vai. Cerca Aro.”
Obbedii e uscii dalla stanza. Non sapevo dove andare ma le mie gambe avanzavano da sole.
Mi allontanai dalla porta solo per pochi metri, mentre Andrew mi osservava dalla soglia della stanza, e arrivai accanto ad una delle tante scale di marmo a chiocciola.
Le scesi lentamente e dei brividi percorsero tutto il mio corpo. Ero scesa di un piano, non c’era nessuna luce o candela accesa. I muri di pietra antica trasudavano freddo e umidità che si incollava al corpo.
Entrai nel panico e delle lacrime calde bruciavano il mio volto freddo. Tutto intorno a me era nero ma le mie gambe continuavano ad avanzare, a muoversi.
Non riuscivo a fermare, a parlare, pregare Andrew di fermarsi. Ero costretta ad avanzare.
Scesi altre scale e trattenni il respiro, timorosa di cadere. Il buio era padrone e io non sapevo dove diavolo stavo andando.
Ancora altri metri in profondità, i miei occhi scorsero una luce incastonata nella pietra che illuminava uno spazio nascosto. Continuai a scendere ma ad un certo punto mi fermai. Ripresi di nuovo potere delle mie gambe. Andrew si era fermato? Il suo dono non andava oltre certe distanze?
Mi guardai intorno non sapendo ora che strada fare per ritornare da Andrew.
“Renesmee?”
Bella apparve ai piedi della scala. Un fantasma, pallidissima, che indossava un elegante ma semplice vestito nero e stivaletti dello stesso colore. Era bellissima.
Feci gli ultimi scalini di corsa, muovendo le mie gambe per mia volontà, e mi avventai sopra Bella, abbracciandola.
“Bella!” esclamai, felice di rivederla.
Mi accolse pronta al mio attacco e mi strinse forte ma allo stesso tempo delicatamente.
 

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Capitolo 23
*** Capitolo 22. ***


Le labbra di Bella tremarono, impaurite da dover pronunciare determinate parole.
“E’ inutile per te?”, domandò a Edward. La voce, triste e abbattuta, ritornò.
Volevo spostare Bella e mettermi tra di lei e suo marito. Avevo bisogno di picchiarlo ma non riuscivo a muovere un solo muscolo. Era come in un sogno: si assisteva ma non si poteva fare nulla.
Non sopportavo vederla in quel modo. Edward era fonte di sofferenza per Bella, una sofferenza causatole volontariamente.
Edward non sembrava minimamente scosso dal cambio di registro di voce di Bella e dalla sua espressione toccata, ferita.
Edward era una persona cattiva, incurante, egoista. Avevo appena avuto la conferma.
“Si.”
Bella si voltò verso di me, gli occhi socchiusi, le labbra contrite in una smorfia.
Voltandosi di nuovo verso Edward disse laconica: “Non era inutile decenni fa.”
Quella frase sembrò colpire Edward. Un fulmine colpì i suoi occhi, risvegliandolo, ma il suo passaggio fu istantaneo come la conseguente reazione.
 “Bella. Edward. Renesmee è con me.”
Andrew apparve dal fondo del lungo corridoio per raggiungerci in un secondo preciso. Lo cercai con gli occhi ma lui mi lanciò solamente una fugace occhiata, disinteressato. Nel suo volto non c’era nessuna traccia del ghiaccio che si era formato nei suo tratti quando avevo pronunciato quella sarcastica domanda.
“Scordatelo.”, sbottò Bella, spingendomi dentro l’ascensore. Gli occhi di Bella lanciavano fulmini al vampiro appena arrivato.
Andrew non azzardò a fare neanche un movimento. “Me l’ha affidata Aro, quando tu non c’eri.”
“Ora ci sono.”
Bella entrò nell’abitacolo dell’ascensore e chiuse l’ascensore con furia, premendo il tasto che non segnava né la salita né la discesa.
Io ed Andrew ci scambiammo un altro sguardo prima che le porte si chiudessero. Erano di fuoco.
“Perché stiamo prendendo l’ascensore?”, domandai, quando eravamo da sole. Le parole mi uscirono di bocca da sole.
“Stai male Renesmee.”, mi disse, gli occhi preoccupati, accarezzandomi una guancia con le mani di seta. Non era una domanda, ma una affermazione.
Male? Io mi sentivo normale. Oltre il dolore alla cicatrice, la fame e una grossa perdita di sangue, stavo benissimo.
“Neanche tu stai molto bene.”, le feci notare, guardandola negli occhi attraverso lo specchio dell’ascensore.
Lei aveva ancora l’aspetto di un vampiro sano ma nei tratti e nei suoi movimenti si potevano ben notare il nervosismo effervescente  che si scaricava in tutto il suo corpo.
Non rispose e mi trascinò fuori dall’ascensore. Percorremmo altri due brevi corridoi e ci trovammo davanti alla sua mega suite. No, non volevo entrare.
Quando Bella aprì la porta, intuì che ero restia.
“Renesmee, per favore, fallo per me. Entra.”, fece esasperata.
“Perché fai questo?”, le domandai, tenendo i piedi ben piantati a terra.
Sembrava sconvolta da quella domanda, non se l’aspettava e non sapeva come rispondere.
“Lo sai: perché tengo a te.”
Eravamo e meno di un metro di distanza, una di fronte all’altra e fissarci negli occhi.
“Per favore, entra.”
Sospirai e mi arresi a non sapevo nemmeno io cosa. Bella si chiuse la porta dietro di noi e mi fece sedere in una comoda poltrona in un piccolo salotto. Un orologio con una cornice d’oro indicava la sette e mezzo del mattino.
Bella sparì per poi riapparire pochi minuti dopo con in mano una grande scatola scura (l’avevo già vista una simile) e una coperta nera nella piega del braccio.
Appoggiò la scatola in un tavolino in legno di fronte alla mia poltrona e l’aprì: dieci lunghe bottiglie in acciaio. Sangue.
“Bevile tutte.”, disse mentre mi avvolgeva la coperta intorno alle spalle. “Non hai forze. Sembri un fantasma.”
Nei suoi gesti c’era nonna Esme. Al solo pensarla sentii i miei occhi inumidirsi.
Non riuscivo a vedermi nella sua descrizione. Io continuavo a immaginarmi con le guance in fiamme. Non avevo il coraggio di guardarmi allo specchio se la mia immaginazione non corrispondeva alla realtà.
Non me lo feci dire due volte e in meno di cinque minuti avevo già finito tre contenitori. Bella, nel frattempo, trafficava con degli oggetti in una vetrina estraendo poi della carta, che ricordavano delle pergamene, e un accendino dall’aria antica.
Si avvicinò ad un camino, di cui non mi ero accorta prima di quel momento, bruciò la carta con l’accendino e buttò il pezzo in fiamme nel camino.
Infine si sedette accanto a me e mi guardò in silenzio mangiare. Nella stessa poltrona. Era grande anche per due persone.
“Ne vuoi?”, le domandai. Io ero già alla settima bottiglia.
Mi sorrise, “No, grazie.”
“Ma non ti tenta?”
“Per adesso ho molti pensieri importanti in testa per essere tentata dal sangue.”, disse cupa, “Se ne vuoi altro, basta chiedere. Ho tutto il sangue che desideri. Cercherò di portarti anche qualcosa di umano se vuoi.”
Scossi la testa, “Va bene il sangue.”
“Come vuoi.”
“Grazie.”
“Non ringraziarmi Renesmee. Lo faccio con piacere.”
“Penso che tutto questo non ti giova.”,ammisi.
“Cosa?”, il tono della sua voce aumentò di almeno tre toni.
Presi la nona bottiglia, svitai il largo tappo e presi un sorso. “Il resto della guardia non si cura di me. Sono totalmente indifferente per loro. Neanche Aro e i suoi fratelli lo fanno. Forse neanche spunto nella loro visuale. Non capisco perché ti ostini a comportarti diversamente.”
Bella mi fissò per una dozzina piena di secondi, cercando di trattenere la bocca dallo spalancarsi. Eravamo strette nella poltrona e avvertii che si era irrigidita. L’avevo colta di sorpresa.
“Ti ho spiegato il motivo.”, sussurrò.
Perché le ricordavo sua sorella. Le ricordavo Vanessa, ma io non ero lei.
 “Lo so e ne sono molto lusingata. Forse neanche merito questo trattamento, molto grande, da parte tua.”, dissi senza allontanare il collo della bottiglia dalle mie labbra, “Ma non posso non pensare a te, Bella. Non voglio che, a causa mia, tu abbia dei problemi.”
Gli occhi di Bella ardevano, “Se pensi ad Edward non…”
“Anche! Lui si comporta come gli altri.” Lui, in più, mi odia.  “E ho capito che tra di voi le cose non stanno bene. E la colpa è mia.”
Svuotai la nona bottiglia, la posai nel tavolino e continuai: “Ma non parlo solo di… tuo marito. Parlo in generale. Non voglio che ti succeda qualcosa, che ti metta nei pasticci a causa mia.”
Senza che glielo chiedessi, Bella prese la decima bottiglia e me la porse, “Perché pensi che mi stia mettendo nei guai?” domandò, la sua voce era sfumata dalla curiosità e dall’ansia.
La guardai negli occhi, occhi rosso scuro, profondi, “Non lo so ma sento che è così.”
 Iniziò ad accarezzarmi leggermente i capelli, la sua mano era una piuma. “Non mi sto mettendo nei guai e anche se fosse così, non m’importerebbe. L’importante è che tu sia al sicuro. Te l’ho detto. L’ho promesso. Mandarti via da qui è la mia missione. Tutto ciò che importa veramente.”
Delle lacrime ribelli sgorgarono dai miei occhi. Feci finta di stropicciarmi gli occhi pur di nascondere a Bella che stavo piangendo ma ero sicuro che il dettaglio non le era sfuggito.
“Bella”, iniziai, le labbra mi tremavano, “il punto sta proprio qui. Io mi sono arresa. Rimarrò qui fino a quando Aro vorrà. Per questo voglio parlare con lui.”
La mano di Bella rimase sospesa sopra la mia testa. “No!” esclamò. Mi guardava come se fossi impazzita.
Mi girai completamente verso di lei e le ricambiai lo stesso sguardo. Perché? Perché era tanto ostinata?
“Bella, ieri la mia famiglia era a Volterra! Sono venuti qui! Tutti! Io li ho cacciati! Ho detto loro di andarsene! Non torneranno mai più!”, i miei occhi lampeggiavano come fari ad intermittenza. Dovevo sembrare una matta vista da fuori.
Bella era paralizzata. Mi fissava con occhi vitrei. Poi sembrò svegliarsi e mi abbracciò stretta. Il suo odore, sembrava cioccolato, mi travolgeva. Era familiare ed io mi avvolsi in quell’aroma.
“Oh, Renesmee.”, fece appoggiando una guancia sulla mia testa, cullandomi, “Mi dispiace tanto.”
“Tu non c’eri.”, continuai, il tono era accusatorio ma involontario. “Dopo che ho detto loro di andare via, come potrei ritornare?”
“E’ stato Andrew.”, la voce profonda di Bella rimbombava nei miei timpani. Potevo avvertire l’odio nella sua voce e questo mi causò un certo fastidio. “Aro gli ha ordinato di farti mentire. Non avresti mai detto una cosa del genere di tua spontanea volontà.”
Ovvio, pensai. Rimasi zitta, fissavo il camino dove ormai il fuoco aveva cominciato ad ardere vivace.
Sentii Bella alzarsi in un soffio per poi ritornare in un millesimo di secondo seduta accanto a me. Nel tavolino apparve un’altra scatola. Altro sangue. Non mi ero accorta che avevo una bottiglia in mano ancora.
“Bevi.” Mi ordinò ma il suo impegno per imporsi non ebbe buon esito a causa del dolce tono di voce.
Ma l’ascoltai lo stesso. Ero affamata e stavo riacquistando forze. Rimanemmo zitte. Interessata, mi guardava mangiare, l’espressione triste.
“Di che cosa vuoi parlare con Aro?”, domandò quando posai una bottiglia vuota nel tavolo.
Mi raggomitolai nella poltrona e appoggiai la testa nella spalla di Bella, lei mi strinse le spalle.
“Voglio chiedergli che intenzioni ha con me.”, risposi. Oltre a farmi azzuffare con i vampiri, non avevo capito molto del motivo per cui ero a Volterra.
Per conoscermi meglio. Si, certo.
“Aro non è a Volterra.” Ah. Aveva ragione Andrew, allora. L’indice della mia vergogna aumentava.
“E dov’è? Non vive qui”?
“No.”, rispose come se fosse ovvio, “Lui e i suoi fratelli, insieme alle mogli, vivono in un altro palazzo, molto simile a questo. Vi si può arrivare solo da qui, attraverso i sotterranei, ed è molto più protetto.”
“E allora perché avete questo palazzo?”
“Questo edificio viene utilizzato solamente per le udienze, gli incontri, e per adescare turisti.”, la sua voce si riempì di imbarazzo e vergogna a termine della frase.
“E tutta la Guardia, poi, si trasferisce lì?”
Bella si strinse nelle spalle. “Non tutta.”
“Tu?”
“Sì, ma la situazione rimane la stessa:  tu andrai via. E’ una promessa.”,  Bella era risoluta, guardava il fuoco davanti a sé come un soldato guardava il suo generale.
Non le dissi nulla. Non le volevo dire che non ponevo molta fiducia nella sua promessa. Ferirla era l’ultima cosa che volevo fare. Così cambiai discorso.
“Posso domandarti una cosa?”
“Certo, chiedi pure.”, sorrise.
“Cosa intendeva tuo marito con incontro clandestino?”
Bella sbuffò e iniziò tormentarsi delle ciocche di capelli, “Avevo solo incontrato dei vampiri di passaggio. Vecchi amici.”
Okay, okay ma non era questa la domanda che mi premeva di più.
“Perché Edward ti ha detto che io non sono più affare tuo?”
Bella diede tregua per un attimo ai suoi capelli. Si morse il labbro inferiore e cercava di scappare dal mio sguardo inquisitorio.
Allora? Mi doveva rispondere. Lei e il suo maritino avevano parlato di me come se fossi un oggetto, un oggetto troppo piccolo per essere notato al momento.
“Bella?”,  la chiamai.
Si voltò verso di me, scontrosa, e si alzò dalla poltrona. “Lascia perdere ciò che dice Edward. E’ molto cambiato negli ultimi tempi.”
Le mandai un’occhiataccia. Mi sentivo strana, quasi tradita da quel suo comportamento. 

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Capitolo 24
*** Capitolo 23. ***


Ciao a tutti i lettori!
Prima di tutto, vi ringrazio per continuare a leggere la mia storia.
Vi vorrei informare di una cosa: il capitolo 22 è stato tagliato, non so per quale motivo, dall’editor di EFP. Quindi avete letto solamente un pezzo del capitolo 22 e non il capitolo intero.
Mi dispiace essermene accorta in ritardo, cercherò di modificare il capitolo aggiungendo la parte mancante.
Ora vi auguro buona lettura del nuovo capitolo!  : )
Bellamy :D
 
 
 
 
 
Bella ed io continuammo a guardarci in cagnesco, in silenzio. Io seduta nella poltrona, lei appoggiata in uno scrittoio di legno intagliato, in quella posizione sembrava una modella durante un servizio fotografico.
“Continua a bere.”, ordinò, indicandomi la seconda scatola semivuota, appoggiata nel tavolino.
Le mandai un’altra occhiataccia. Adesso gli ordini! Sorse l’istinto di comportarmi da bambina e fare i capricci – infondo avevo sempre quattro anni -  ma la sete di sangue era troppa e così l’assecondai e afferrai un’altra bottiglia.
Mi raggomitolai nella poltrona e continuai a nutrirmi cercando di assimilare più calore, proveniente dal camino, possibile. Sentivo gli occhi di Bella puntati su di me, sulle mie spalle, ma io feci finta di non farci caso. Mi sentivo un po’ a disagio.
Il silenzio fitto che si era creato venne interrotto da una suoneria acuta di un cellulare.
Bella ruppe l’equilibrio della sua posizione e sbuffò. Prese da una tasca del suo jeans scuro un tipo di cellulare strano, mai visto prima.
Prima di aprire la conversazione guardò chi era il mittente, alzò gli occhi al cielo e sibilò un lamento.
“Cosa?!”, sbottò e si mise in ascolto. Man mano che il suo interlocutore nell’altra parte del telefono parlava, lei diventava sempre più pallida. Tratteneva il fiato, le labbra socchiuse.
“Va bene. Arrivo.”, sussurrò, la voce incredula.
Si ricompose e si avviò in direzione della porta senza dire una parola, gli occhi spalancati. “Devo andare. Spero di fare presto. Tu se vuoi ti puoi riposare e farti un bagno. Io ritornerò con altro sangue.”
 Appoggiò una mano sulla maniglia ma, prima di tirarla giù, si voltò verso di me e disse: “Non essere arrabbiata con me, Renesmee.”, sussurrò febbrile, “Io ti voglio bene e voglio saperti al sicuro.”
Spalancai la bocca, incapace di poter proferire parola e rispondere a quella confessione, mentre Bella mi lasciava sola, chiudendosi la porta dietro di sé.
Intontita, ritornai a sedermi nella poltrona. La mia mente era stata messa a tacere dalle parole di Bella e adesso non riuscivo a formulare una frase di senso compiuto.
L’intensità delle parole di Bella mi colpirono. Erano cariche di un significato profondo, impenetrabile. Avevano avuto uno strano effetto su di me. Nonostante avessi sentito tante volte dire dai miei familiari che mi volevano bene, sentirselo dire da Bella era come sentirlo per la prima volta nella vita e la conseguente reazione era un impatto indimenticabile per l’animo.
Anche i Cullen mi ripetevano sempre che la cosa più importante per loro era proteggermi. Sentirselo dire da Bella, però, era tutt’altra cosa.
Mi sentivo frastornata e la sete, tutto ad un tratto, era passata.
Bella mi voleva bene. Non le importava di mettersi contro tutti pur di proteggermi.  Aveva promesso che mi avrebbe portata via da Volterra e non intendeva non rispettare la promessa.
Non sapevo come sentirmi a riguardo.
Ovviamente ero grata e rincuorata che qualcuno, in quel covo di pazzi millenari, avesse a cuore il mio stato e si battesse così tanto per farmi mandare via.
Dall’altra parte, però, il suo comportamento mi inquietava, mi spaventava.
Ero io la causa delle sue azioni -insolite dal punto di vista dei Volturi- ma non capivo il perché.
Bella diceva che ricordavo sua sorella, Vanessa, la sorella che aveva abbandonato per proteggerla dai Volturi.
Ma io non ero sicura che il motivo fosse veramente quello.
La ragione forse era un’altra o poteva essere molteplice. La cosa curiosa era il vantaggio: tutto mio.
Una spiegazione o un’altra, Bella voleva che io andassi via da Volterra. L’aveva promesso.
Ma come poteva mandarmi via? Aro e i suoi fratelli se ne sarebbero accorti immediatamente e la Guardia, sicuramente, non si sarebbe messa dalla parte della vampira e non l’avrebbe coperta, aiutata nel suo intento. Non lo avrebbe fatto neanche suo marito.
Bella rischiava di avere decine di vampiri contro di lei. Per cosa, poi? Aiutare me. Per Bella, non ne valeva la pena. Cosa guadagnava a farlo? Nulla, assolutamente nulla.
“E’ inutile per te?”
“Sì.”
“Non era inutile decenni fa.”
La breve ed enigmatica conversazione fra Edward e Bella, quando stavamo aspettando l’ascensore, ritornò ad occupare la mia mente.
I due parlarono di me come se mi conoscevano  già prima che io arrivassi a Volterra.
Si erano riferiti a me come un affare.  
In quel  momento volevo chiarire che io non ero un loro affare perché non li conoscevo e perché, nonostante fossi un ibrido, ero pur sempre una persona.
Ma rimasi agghiacciata di fronte alla scena che si era riversata davanti a i miei occhi per poter parlare: Bella triste, visibilmente scossa, Edward totalmente disinteressato.
Bella aveva chiarito che io non ero più affare di Edward.
Ero stata, quindi, un affare di Edward, il vampiro che mi odiava, tempo fa.
E che l’obbiettivo di Bella, di cui, apparentemente, ero protagonista io, era inutile.
“Non era inutile decenni fa.”
Non era inutile decenni fa.
Decenni fa.
Bella aveva in programma di fare qualcosa con me decenni prima?
Il mio cervello urlava: “ERRORE!”
Impossibile.
Prima che io arrivassi a Volterra, non conoscevo nessuno dei Volturi, tantomeno Edward e Bella.
Non li avevo mai visti prima. I Cullen non avevano mai fatto riferimento a loro conoscenze che facevano parte della Guardia dei Volturi, oltre Eleazar però lui aveva lasciato la Guardia per unirsi al clan di Denali, molto tempo fa.
Se Edward e Bella conoscevano me, conoscevano anche i Cullen.
Prima di partire, Carlisle me l’avrebbe detto che, ad aspettarmi a Volterra, c’erano alcuni suoi amici oltre ad Aro, no?
Forse…forse li avevo conosciuti prima che perdessi la memoria. Chi può dirlo? Io non ricordavo nulla, non avevo mai sentito la mia famiglia menzionare i nomi dei due vampiri quindi era improbabile che io avessi conosciuto Edward e Bella prima che mi capitasse il triste evento.
Forse…forse era tutto un piano di Aro. Un piano per trattenermi a Volterra fino a quando lui voleva. Il piano era già stato programmato anni prima ed io e i Cullen eravamo cascati nella trappola. Ma Alice, con il suo dono, avrebbe visto che i Volturi stavano tramando qualcosa,no?
Un piano… Edward e Bella, soprattutto Bella, erano dei bravi attori.
Probabilmente anche Andrew ne faceva parte.
La stanza girava velocissima intorno a me ed io insieme a lei. La gravità si era annullata ed io lasciai la poltrona, elevandomi, girando intorno a me stessa, in un circolo senza fine.
Gli oggetti iniziavano a librarsi in aria e a vorticare mentre uno  scenario, incatenandomi, si apriva davanti a me: cappucci neri e giubbe rosse, neve, una foresta, freddo.
Il mio incubo ricorrente. Il mio respiro venne mozzato.
“Renesmee! Renesmee, rispondimi! Ora!”
Spalancai gli occhi ma volevo richiuderli subito. Avevo paura che tutta la stanza, gli oggetti cominciassero di nuovo a girare e che io ricominciassi a fare strane supposizioni e avere altre visioni.
Ma non li chiusi. Non potevo. Misi a fuoco l’immagine davanti a me e scoprii che il soggetto era Andrew, chino su di me, che copriva tutta la visuale del camino. Il viso leggermente allarmato.
 “Ma che ti ha preso?”, domandò a denti stretti. Si alzò, appoggiò le mani sulle mie braccia e mi mise di nuovo seduta nella poltrona e prese posto accanto a me. Non mi ero accorta che mi ero distesa, quando l’avevo fatto?
Mi scrollai di dosso la sua presa e lui non fece resistenza. “Quando sei arrivato?”, domandai.
“Sono sempre stato qui.”, bofonchiò tranquillo. “Ti ho visto fissare il caminetto e poi sei crollata. Quindi sono entrato.”, continuò a denti stretti.
Non me lo ricordavo. “Cosa?! Dove? Come?”, esclamai in un millesimo di secondo, senza voce.
Andrew mi guardò come se fosse ovvio: “Tetto. Ho ascoltato tutto.”
Dopo indico una finestra aperta dietro di noi. Era entrato da lì.
“Andrew! Non puoi!”, esclamai di nuovo ma a bassa voce. Balzai in piedi, lo presi per una mano e tirai per farlo alzare. Lui si alzò, rigido in volto, io lo spinsi verso la finestra.
“Non puoi stare qui. Bella verrà al più presto e sentirà il tuo odore. Sarà la fine per tutti e due.”
Non volevo neanche immaginare la reazione di Bella a vederci insieme.
Andrew strabuzzò gli occhi. Il suo volto era un misto di sorpresa, curiosità e nervosismo.
“Ho sentito la tua frase due volte. L’hai pronunciata a voce ma l’ho sentito anche… nella testa.”
Mi guardò e fece un sorrisetto imbarazzato. Evidentemente non capiva e si sentiva stupido.
Gli indicai le nostre mani strette. “Il mio dono: posso mostrare i miei pensieri agli altri attraverso il tocco della mano.”
Fece un sorrisone, divertito. “Fallo di nuovo.”
Ricambiai il suo sorriso, divertita. Era da tempo che non trovavo più divertente il mio dono. Crescendo era diventato il mio unico e speciale modo di comunicare, qualcosa conosciuto solo da me e dai Cullen.
Da piccola mi divertivo un mondo a giocare con Jasper ed Emmett, mostrando loro immagini di animali feroci mentre loro mi raccontavano le loro avventure contro quelle bestie, imitando le loro movenze.
“Andrew, devi andare!Bella starà per arrivare!”, gli dissi, immaginandomi Bella aprire violentemente la porta e scovarci insieme, mentre mostravo il mio dono.
Andrew scoppiò in una risata fragorosa ma non si spostò neanche di un centimetro. Anzi, il suo volto si ombreggiò di nero.  “Ren, quella donna si comporta in maniera strana con te.”, disse a bassa voce, con calma.
Scossi la testa e cercai di non ascoltarlo. “Si comporta in maniera normale. Ora vai!”, mormorai in fretta. Non era il momento per parlare di questo. Lo spinsi e riuscii a fargli fare qualche passo fino a quando non arrivò di fronte la finestra.
Prima di saltare si voltò verso di me e disse: “Un comportamento del genere l’ho visto solamente in mia madre… quando non era in camera da letto con il mio patrigno. Una forte somiglianza tra te e Bella…”
Lo spinsi. “Io non ho una madre… adesso vai via!”, urlai con la voce mozzata. Ti prego, vai.
Andrew mi guardò dritto negli occhi, scuro in volto. “Vado. Anche Aro mi ha chiamato.”, mi sorrise ma gli occhi erano cupi, come se si fosse ricordato di un ricordo spiacevole. 
“Ci vediamo, piccola Ren!”, sussurrò sul mio orecchio e sparì, uscendo dalla finestra.
“Ciao, Andrew.”, lo salutai. Sospirando mi misi a sedere a terra, spalle al muro.
Anche Andrew si era accorto dello strano comportamento di Bella. Se l’avevano notato Andrew e Edward allora anche Aro e i suoi fratelli l’avevano notato? Jane e Alec?
Bella. Mia madre. Impossibile.
Mi alzai e andai alla ricerca di uno specchio. Vagai per i corridoi della suite ma quasi tutte le stanze erano chiuse a chiave e quelle aperte erano per lo più piccole biblioteche.
Infine trovai uno specchio appeso nel muro, all’ingresso.
Feci un respiro profondo e mi specchiai come se lo facessi per la prima volta e non sapessi cosa aspettarmi.
Era sempre io. La solita Renesmee.
Un po’ più pallida del solito, ma non mi distanziavo dal mio colorito naturale. Le labbra erano pallide, il rosa le aveva abbandonate. Occhiaie violacee erano un po’ accentuate.
Le guance erano un po’ scavate ma colorate da una sfumatura rosa, sbiadita, data dalla recente assunzione di sangue.
I capelli, sciolti, arrivavano oltre la vita, erano scuri ma non erano illuminati dai reggi del sole. Il loro colore era castano ramato. Tutto normale.
Iniziai a perlustrare il mio volto, alla ricerca di qualche tratto che indicasse la mia somiglianza con Bella…
Mi sentivo stupida. Lanciai uno sguardo perplesso e spazientito al mio riflesso sullo specchio.
Bella non era mia madre. Era una vampira. Le vampire non potevano portare in grembo dei bambini.
 Zia Rose soffriva molto per questo motivo.
Una antica, non conformata, leggenda latino americana diceva che le umane, che portavano in grembo dei mezzi vampiri, morivano durante il parto poiché il feto si apriva un varco nell’utero della madre per poter uscire alla luce del sole. Non c’era nessun tipo di speranza, per la madre, di salvarsi.
Se la leggenda era vera, io avevo ucciso mia madre e il vampiro, con il quale mi concepì, se ne lavò le mani e mi lasciò in quelle dei Cullen. Se la leggenda era vera, anche io ero un assassina.
Mi ripetevo questa teoria da anni. Ormai era l’unica cosa a cui credevo veramente.
Sospirai e tornai in salotto, a sedermi nella poltrona. Fissai il camino e continuai a bere sangue, aspettando Bella.
 
 
 
“Nessie! Spiegati meglio! Usa il tuo dono o non ti capiremo!”
“Bella!”
“Per caso Nessie ha imparato il linguaggio dei segni? Edward, gliel’hai insegnato tu?”
“MAMMA HO FAME!”
“Prepotente come suo padre.”
 
 
 
La porta venne aperta esattamente un’ora dopo e fece capolino Bella.
“Renesmee, devi venire con me.”
Il suo tono di voce mi fece venire i brividi. La sua voce era morta, come se fosse appena tornata da un funerale. Il suo viso era ritratto della sua voce.
Annuii ma non dissi nulla. Mi alzai dalla poltrona e la raggiunsi, ci chiudemmo la porta alle nostre spalle.
Bella camminò a passo svelto, quasi correvamo. Irradiava nervosismo e paura da ogni singola parte del corpo. Iniziai a sentire freddo.
Bella non mi rivolse nessun sguardo. Guardava dritto davanti a sé.
Arrivammo in meno di un minuto nella Sala delle Udienze, a vederci le guardie aprirono subito le due grandi porte, come se non vedessero l’ora di aprirle.
Aro, Caius e Marcus era seduti comodamente nei loro trono, come se non si fossero mai mossi da lì.
Aro, vedendoci entrare, si illuminò in un sorriso.
Bella mi lasciò e si mise nel suo solito posto, dietro Edward, accanto al trono di Aro.
Nonostante fosse coperta da suo marito, si notava sempre la sua presenza dietro Aro, un fantasma pronto a proteggere il suo signore.
La guardavo e notavo che… era diversa.
Lo spazio sotto i tre troni era già occupato da altre tre persone.
Riconobbi un vampiro e due ragazze, non erano vampire.
Il vampiro, vestito tutto di bianco, capelli corti anch’essi bianchi, si voltò verso di me e iniziò a scrutarmi dalla testa ai piedi con attenzione. Era un grande sagoma bianca, una nuvola. La sua carnagione si confondeva con il suo abbigliamento. Gli occhi rossi, però, erano scintillanti e si distinguevano da quel complesso monotono.
Quando finì di studiarmi, il vampiro assunse un’aria perplessa.
“Bé, sicuramente lei non è mia.”

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Capitolo 25
*** Capitolo 24. ***


“Sai, Andrew, qual è il dono di Chalsea?”.
“Rafforzare o indebolire i legami tra persone”.
Proprio così, mio caro ragazzo”.
“Prima Edward, poi tu, mio caro abile ragazzo. Triste ma inevitabile, necessario”.
 
 
 
 
 
 
Mi pietrificai, sconcertata dall’affermazione di quel vampiro che non smetteva di ronzarmi attorno.
Ero riconoscente a chiunque di non provenire da lui. La sua vicinanza mi faceva venire la pelle d’oca e suscitava in me una brutta impressione, una sensazione di scomodità.
Forse era tutto quel bianco, dai capelli all’abbigliamento, quel rosso lucente nei suoi occhi – diverso da quello spento di Aro e dei suoi fratelli – o quei tratti spigolosi che scandivano il suo viso. Sembrava fosse uscito da un dipinto di genere macabro.
La sua espressione si fece incuriosita e si voltò verso Aro, teso, seduto nel suo trono: “Dove l’hai trovata?”.
Gli lanciai una occhiataccia e, istintivamente, feci due passi indietro per mettere distanza tra a me e quell’essere. Al mio movimento involontario, tutti gli occhi della Guardia puntarono su di me, circondandomi, ma non prestai loro attenzione.
Aro sembrava sollevato quando aveva ascoltato la domanda. Si sistemò nel suo trono e rispose: “Renesmee è una nostra cara amica”.
Il vampiro rimase in silenzio come se si aspettasse che Aro continuasse a spiegare e così fece.
Aro sembrava un po’ spazientito. Fece un debole sospiro e si alzò per raggiungerci.
“Renesmee”, continuò “Non fa parte della nostra casata, purtroppo”.
Purtroppo. Purtroppo? Aro aveva delle grandi doti recitative: espressione sconsolata, il tono di voce rammaricato. Ma i suoi occhi lo tradivano, c’era qualcos’altro che Aro aveva omesso dalla sua frase.
“Allora?”, lo incalzò il vampiro.
Risposi io al posto di Aro, proprio quando stava aprendo bocca. La voce mi uscì debole.
“Il mio clan è uno dei pochi permanenti in America del Nord”. Parlai velocemente, utilizzando tutta l’aria che avevo nei polmoni. Mi sentivo incredibilmente esposta ma a questo non dovevo esserne oramai abituata?
E poi non volevo rivelare al vampiro il nome del mio clan. Anzi, il nome del clan, Olympia, non lo consideravamo minimamente.
Ci definivamo Cullen perché eravamo tutta una famiglia e Carlisle era il nostro patriarca. Dire il mio cognome era fuori discussione: non volevo esporre i miei familiari in qualche rischio evitabile. Quell’uomo non mi piaceva.
Il vampiro annuì, come se la sapesse lunga. Si rivolse di nuovo ad Aro: “Non vuoi dirmi altro?”.
Aro strinse la mani in pugno e se le avvicinò al mento “Sei tu che devi tenere informato me, Liev!”, esclamò come se fosse ovvio.
Liev non lasciò la sua posizione dritta. Bianco com’era sembrava una colonna.
“E’ troppo piccola. Sembra non abbia completato la sua maturità”, disse. Sembrava annoiato ma i suoi occhi luccicavano, interessati da questo fatto.
Non potevo dargli torto: stando a quelle poche ricerche che nonno Carlisle era riuscito a compiere, a quanto pare non avevo raggiunto la mia maturità.
Io mi ero fermata circa ai quattro anni d’età in vista dei sette anni che equivalevano al raggiungimento della maturità per un mezzo vampiro ma tutto questo era da verificare ancora.
Ed io non avevo idea del perché mi fossi fermata ma ricollegavo tutto alla grande ferita che mi aveva squarciata a metà.
“Come?”, fece Aro, sorpreso.
Liev tese la mano verso Aro che non se lo fece dire due volte e la strinse, avidamente.
Passarono qualche secondo e questi bastarono per far innervosire il resto della compagnia a causa di quel muto e privato scambio di informazioni. in effetti volevo sapere pure io cosa Liev stesse dicendo ad Aro.
Altri dieci secondi e Aro lasciò ferma in aria, come ghiacciata, la mano di Liev.
“Capisco”, disse Aro “E’ estremamente interessante”.
“E’ la prima volta che vedo un mancato sviluppo”, fece Liev, guardandomi come un medico guardava una lastra.
“Signore?”, chiamo Edward dall’alto, accanto al trono di Aro, affiancato da Bella. Il tono di voce sempre glaciale, specchio del suo volto.
Aro si voltò immediatamente verso Edward. Potevo giurare che gli occhi di Aro si illuminarono quando misero a fuoco Edward. “Sì, Edward?”
Edward non si scompose “Posso spiegare agli altri presenti ciò che le ha mostrato Liev?”.
Era ovvio che lo domandasse. Forse aveva letto il fastidio nelle menti di tutti e quindi voleva spiegare.
Avrà letto anche la mia mente e questo mi fece sentire a disagio. Come facevano gli altri a girargli attorno, sapendo che lui conosceva ogni loro minimo pensiero?
Edward era diverso da Aro. Aro aveva accesso alla mente di una persona solo tramite il tocco della mano (stesso mezzo che utilizzavo io per mostrare i miei pensieri) mentre Edward non era limitato da nessun ostacolo fisico, lui poteva ascoltare chiunque.
L’abilità di Edward era molto più telepatica di Aro.
Arrivai alla conclusione che il mio dono era totalmente inutile se utilizzato con Edward: che cosa dovevo dimostrargli se già lui sapeva?  Anche le altre persone potevano evitare di parlargli, già sapeva. Snervante.
Guardai per un millesimo di secondo Bella, accanto ad Edward. Era ritornata la Bella tormentata che avevo visto poco tempo fa: occhi inquieti e spenti, postura nervosa.
Bella era uno scudo. Mi chiesi se Edward potesse leggerle la mente, se Bella glielo lasciasse fare…
Notai che si stringevano la mano, più che altro quella di Bella sembrava ancorata a quella di suo marito, nascosta dietro la schiena di Edward. I miei occhi saettarono sui loro bellissimi volti.
Erano… giovani, giovanissimi. Sembrava sbagliato: erano belli e giovani, dei ragazzini, fuori dal contesto in cui sembravano essere costretti vivere.
 Almeno Bella, Edward sembrava perfetto per il contesto in cui era costretto a vivere.
Ebbi l’impressione che quel quadretto fosse molto essenziale in quel momento, come se fosse carico di vitale importanza. Ma le mie memorie mi ricondussero ad un giorno prima, quando Edward e Bella discussero davanti ai miei occhi. Li strabuzzai e fui riportata alla realtà. Le mie riflessioni durarono solo tre secondi. 
Aro si illuminò “Certo Edward!”.
“Gli ibridi umano-vampiri terminano di formarsi all’età di circa sette anni. Crescono molto più velocemente rispetto agli umani, compensando vari mesi in giorni. Compiuti  sette anni, la loro crescita si ferma. A quell’età hanno le sembianze simili ad adolescenti. E sono immortali, come noi”, spiegò Edward.  
Liev indicò le due ragazze alle quali davamo loro le spalle “Loro sono due dei miei figli e tutti hanno raggiunto la maturità”.
Gli occhi di tutti i presenti puntarono sulle due ragazze in piedi, una accanto all’altra come se fossero cucite assieme.
Prima che Liev le indicasse non mi ero accorta di due cuori che battevano frenetici, oltre al mio, e dello strano odore dolciastro, tipico umano, misto a quello vampiro.
Le due ragazze erano altissime, almeno dieci centimetri più alte di me,  come lo erano i loro capelli, biondi scintillanti. I loro tratti erano uguali a quelli di Liev: dritti e spigolosi.
La loro carnagione era pallida, labbra rosse, occhi verdi e leggermente ambrati. Le loro guance erano la dimostrazione che sotto la loro pelle erano presenti innumerevoli vene dove il sangue scorreva veloce.
Le due sorelle ricambiarono il mio sguardo incuriosito.
Forse anche per loro era la prima volta che vedevano un altro loro simile.
Ero sorpresa, turbata, rassicurata e ancora, di nuovo, sorpresa, turbata e rassicurata.
Sorpresa e rassicurata perché non ero l’unica nel mio genere. Non ero sola. Non ero un anomalo episodio all’interno di una storia dove il mondo umano e quello vampiro si erano intrecciati.
Turbata perché esistevano vampiri che si divertivano a sperimentare con delle povere umane, spezzando le loro vite.
“Sono stupende!”, gongolò Aro, il voltò adorante. “Posso?”, domandò a Liev, tamburellando con i polpastrelli le guance di filigrana.
“Certo”, borbottò Liev e i suoi occhi si riposarono su di me ma i miei non incontrarono quelli del vampiro.
I miei occhi erano concentrati sulle due ibrido. La loro attenzione passò da me ad Aro che chiese loro come si chiamassero – Anastasia e Tatiana – e poi domandò loro di leggere la mente. Le due ragazze, con riluttanza, accettarono.
Passò qualche minuto, Aro ascoltava ammirato e nessuno della sua combriccola, questa volta, si lamentò.
“Meraviglioso”, disse con un sospiro. Dopo si voltò verso Liev come un indaffarato agente di borsa.
“Dunque, i tuoi figli sono disposti a fare ciò che ti ho proposto?”.
“Loro fanno quello che io ordino, Aro.”
Aro gli sorrise “Naturalmente. E poi è per la nostra sicurezza”.
Cosa stava succedendo? Qual era la proposta fatta da Aro a Liev? Aro era in pericolo? I vampiri, tutti, erano in pericolo?
Oh no, pensai e la mia testa fu collegata immediatamente alla mia famiglia, malamente cacciata da me.
“Ma”, iniziò Liev, “Non è detto che gli altri accetteranno. Di questo ne dovrai parlare con loro, personalmente”.
Altri?
Aro sospirò e parlo Caius a posto del fratello “Li stiamo aspettando. Arriveranno presto.”
Aro non fece caso a Caius e fece un’altra domanda a Liev “Quanti figli hai?”.
Liev fece spallucce, un ghigno orgoglioso si formò ai lati della bocca “Circa una cinquantina”.
Spalancai la bocca.  Cosa?! Oltre a me, Tatiana e Anastasia, c’erano altri quarantasette mezzi vampiri sparsi per il mondo?!
Aro notò la mia reazione ed io cercai di ricompormi immediatamente. “Tutto bene, Renesmee?”.
“Sì”, balbettai, “Posso sapere cosa sta accadendo?”.
Aro mi fece un sorrisetto sinistro, la sua versione di tenero sorriso. “Niente di cui tu ti debba preoccupare adesso, mia carissima.”
“Meglio temporeggiare, giusto?”, domandai.
Il sorriso di Aro si raggelò e senza staccarmi gli occhi di dosso disse: “Andrew porta via Renesmee. Abbiamo finito qui”.
Andrew fu immediatamente accanto a me ma non lo aspettai, iniziai ad indietreggiare prima ancora che lui arrivasse. 
“Muoviti”, mi ordinò, a denti stretti e con una mano sul braccio, spingendomi.
In un batti baleno fummo dentro una stanza, in una frazione di secondo riuscii a scorgere Alessandra, l’umana che aspirava a diventare una immortale, che mi mandò occhiate preoccupate. Andrew mi depositò in una poltrona, davanti al camino spento, rimase in piedi, davanti a me. Notai che non eravamo nella stanza personale di Bella.
“Sei matta”, constatò, guardandomi in cagnesco.
Feci spallucce, una insolita tranquillità mi pervase,e  decisi di non rispondere.
In fondo cosa avevo da perdere? La mia famiglia? Inconsapevolmente l’avevo cacciata e la parte più melodrammatica di me aveva preso il sopravvento, facendomi credere che i Cullen non mi volevano più.
La mia vita? Ah! Se Aro voleva giocare con la mia vita, perché non partecipare? In fondo era la mia esistenza. Stiamo al gioco e vediamo che succede.
Rude, Andrew tirò una mia mano verso di sé e la strinse. Si aspettava che gli mostrassi qualcosa ma non lo feci. Non avevo nulla da dimostrargli.
“Mi spieghi cosa sta succedendo?”, gli domandai con un sussurro.
Andrew sospirò e lasciò cadere la mia mano. Si inginocchiò accanto a me e mi strinse le mani. Solo in quel momento mi resi conto che le sue erano fredde, in confronto alle mie e lontane, molto lontane.
“Ho visto per la prima volta qualcuno come me oggi, Andrew”, gli mormorai ma non mi sentivo come se stessi parlando con lui ma più con un mio alter ego, un mio riflesso sulle specchio.
“Pensavo di essere l’unica al mondo”, mormorai, “E invece ce ne sono almeno altri cinquanta come me. Non so come sentirmi a riguardo”, gli confessai.
Con un dito gli accarezzai i contorni del suo stupendo viso e il mio cuore si riempì come un palloncino si riempiva d’aria.
“Tu lo faresti mai?”, gli domandai di’impatto.
Andrew fece un sorriso tirato, gli occhi socchiusi mentre io continuavo ad accarezzarlo.
“E comunque”, iniziò, “Io sono un vampiro neonato ovvero ho altri pensieri in mente, adesso”.
Prese il mio dito che roteava intorno al suo volto e se lo portò alla bocca.
Lo morse ed io sentii un leggero fastidio, l’odore del mio stesso sangue irruppe immediatamente. Fu attento a non rompermi l’osso,  perlomeno.  
“Non vuoi dirmi nulla, vero?”, gli domandai, saltando alle conclusioni.
Andrew sospirò e allontanò la mia mano da lui. La ferità era così piccola che si stava rimarginando velocemente, diventando via via una quasi invisibile riga color alabastro.
Si mise a sedere a terra, la sua testa alla stessa altezza delle mie ginocchia.
“No, non voglio dirti nulla”, ammise alla fine.
“Perché?!” esclamai, stringendo i pugni.
Mi sedetti a terra, accanto a lui e mi curvai per guardalo meglio. “Andrew”, lo pregai.
“Aro sta architettando qualcosa e quelli come sono coinvolti”, continuai, “Merito di sapere. Non credi?”.
Andrew alzò il mento e guardò davanti a sé “Non sono io a doverti dare spiegazioni”.
Lo guardai per un attimo: sembrava… distante, come se volesse andarsene da quella stanza.
“E chi me le dovrebbe dare? Aro? Caius? Ah sì, Marcus mi spiegherà tutto”.
 “Allora non domandare”, concluse lui.
Chiusi gli occhi. La testa mi girava e decisi di lasciar perdere.
Andrew si alzò ed io con lui. E mi lasciò da sola.
Il cuore batteva fortissimo e una triste costatazione stava facendo breccia nella mia testa.
Mi sedetti di nuovo sulla poltrona e chiusi gli occhi.
 
 
 
“Renesmee?”
Qualcuno mi chiamava, una voce simile a quella di un angelo, ma io non avevo intenzione di aprire le mie palpebre che si erano fatto pesantissime.
“Renesmee, ti prego, è importante”, continuò l’angelo.
Non potevo far disperare quella voce angelica e così mi decisi ad aprire gli occhi. L’angelo aveva le sembianze di Bella.
Mi guardai attorno. Ero ancora seduta nella poltrona e il sole stava calando.
Bella era china su di me, anche lei inginocchiata, come Andrew prima.
“Bella”, feci io, “Che succede?”, le domandai.
Aveva il volto estremamente allarmato: gli occhi sbarrati così come la bocca, c’era qualcosa che la preoccupava.
Bella mi prese per mano e mi portò via dalla stanza. “Ti spiego fra poco”, mi sussurrò all’orecchio.
Il mio cervello si mise all’attenti, attivo e sveglio. I miei sensi tutti si accesero. Bella trasmetteva un’aria di pericolo e di urgenza che influenzò anche me. Lo stomaco si chiuse così come la gola, creando un nodo.
Arrivammo nella sua stanza e la chiuse attentamente dietro di sé. Nonostante la gravità che emanava, sembrava molto teatrale nei suoi gesti.
“Bella?”, la chiamai, anche la mia voce era carica di tensione, come la sua.
Mi guardò intensamente e poi fece un respiro profondo, sembrava sfinita.
“Bella, per favore, potresti spiegarmi che cosa sta succedendo?”, la pregai. Se mettersi in ginocchio e pregarla di spiegare avesse servito, l’avrei fatto immediatamente.
Bella non mi rispose e mi condusse nel divano, dove mi fece sedere.
“Hai sete?”, mi domandò quando si mise a sedere pure lei.
“No!”, le risposi con troppa forza. In realtà avevo tanta sete ma c’erano cose più importanti.
“Renesmee”, iniziò Bella, tormentandosi le mani, “Al più presto ci sarà una guerra”.
Una guerra! Contro chi? Dove? Pensai subito alla mia famiglia, dovevo in qualche modo informali, dire loro di allontanarsi, di mettersi al sicuro.
“E tu?”, le domandai, “Tu andrai in guerra?”.
Anche se Bella era un scudo, non me la immaginavo combattere nel campo di battaglia. La mia immaginazione si rifiutava.   
Bella scosse la testa. “No, non io.”
“Allora chi?”.
Bella mi guardò negli occhi che si erano fatti imploranti, urlavano scuse, tutte dirette a me.
“No!”.
No! No! No! No! No!
Aro era un pazzo? Perché non combatteva lui? Perché doveva utilizzare da scudo altri… altri innocenti?! Perché?! Era un vigliacco!
Guardai Bella, senza dire una parola. Ero sotto shock.
Ecco perché ero a Volterra.
Bella mi strinse a sé “Mi dispiace, Renesmee”.
Non mi ero accorta che stavo piangendo ma non ci feci caso. La mia testa era così vuota che non riuscivo a pensare. Mi sentivo una marionetta, pronta ad aspettare la prossima decisione del burattinaio.
Non so per quanto tempo rimanemmo in quella posizione, forse per ore.
Bella rimase in silenzio, non mi disse nulla né mi confortò e un senso di freddezza mi colpì.
 Si limitava a cullarmi mentre io guardavo il buio davanti a me. Si era fatta sera e nessuna luce era stata accesa.
Ad un tratto si alzò e trascinò anche me. La imitai come un automa mentre la mia mente esplorava scenari che a malapena riuscivo a decifrare e comprendere.
Mi portò verso una stanza dove accese, questa volta, la luce. Era una piccola camera vuota , arredata solamente da un grande e possente armadio in legno.
“Manca poco”, sussurrò fra sé e sé.
Aprì le ante dell’armadio e vi tuffò le mani dentro. Mi appoggiai allo stipite della porta, senza alcun minimo interesse su cosa Bella stesse facendo.
Bella riemerse dall’armadio e nelle sue mani teneva un maglione e una giacca a vento. Me le porse.
Fui riportata alla realtà e battei le palpebre. “Cosa?”, domandai.
“Indossali”, disse, “Passerai una lunga notte”.
Mi raggelai e il panico ebbe la meglio. Cosa? Dovevamo andare a combattere adesso? Mi stava preparando? Dandomi degli abiti nuovi?
“Perché?”, sussurrai, senza voce.
“Presto capirai”, gli occhi di Bella si fecero di nuovo supplicanti.
Con mani tremanti, presi i vestiti dalle sue mani, le diedi le spalle – non volevo farle vedere le mie cicatrici - e mi tolsi la maglia che già indossavo, facendola cadere a terra.
Velocemente indossai i nuovi capi.
Mi voltai e Bella si avventò su di me, abbracciandomi, prendendomi alla sprovvista “Renesmee”.
La sua voce era carica di profonda angoscia e altre lacrime minacciavano di straripare.
“Perché sembra che tu mi stia dicendo addio?”, le domandai, ancora ancorata al suo abbraccio.
“Perché è così”, rispose in maniera molto tranquilla.
La guardai negli occhi ed ero sicura che Bella stesse leggendo le mille domande, riflesse nei miei occhi.
Una suoneria di cellulare ruppe il silenzio. Bella estrasse il cellulare dalla tasca dei suo pantaloni e chiuse la chiamata, senza guardare chi la stesse chiamando.
“E’ ora”, disse. Mi prese la mano e mi trascinò via, fuori dalla sua camera.
Silenziose, scendemmo varie scale. Eravamo affogate nel buio e nel silenzio della notte e dell’antico palazzo. Sembrava stessimo scendendo verso il centro della terra.
Io continuavo a guardarmi intorno, impaurita che qualcuno ci stesse seguendo. Bella continuava a guardare davanti a sé e mi trascinava con forza.
Bella, poi, prese per un varco. Il varco terminava con un arco che dava ad una strada sterrata, colline buie oltre noi.
Bella mi strinse le spalle con un braccio e poi ci fermammo, qualche centimetro prima di varcare l’arco di pietre e rocce.
Si voltò verso di me. Il suo viso era addolorato, carico di dolore, ansia e tristezza. Rimasi di nuovo a bocca aperta, sorpresa dalla sua reazione. Non potemmo che abbracciarci.
Tutto era così surreale, incredibile.
Appena ci staccammo, Bella fece capolino. L’aria fresca della notte le frastagliavano i lunghi capelli bruni.
“Renesmee. Vieni”.
Guardai oltre di lei ed erano lì.
Carlisle, Esme, Alice e Jasper.
 

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Capitolo 26
*** Capitolo 25. ***


Incredibile ma vero: sono riuscita ad aggiornare la fan fiction a distanza di due settimane dall’ultimo aggiornamento! Spero che questo nuovo capitolo vi piaccia, non nego che mi sono un po’ commossa scrivendolo.
Bellamy.
 
 
 
Uno, due, tre, quattro.
Uno, due, tre, quattro.
Carlisle, Esme, Alice, Jasper.
I miei occhi saltavano da un volto all’altro mentre la mia ragione si rifiutava di esprimersi. Il vento freddo che mi colpiva aveva raffreddato le mie corde vocali, incapaci di produrre suoni.
Oltre me, nessuno parlò. Tutti stavano aspettando una mia reazione.
Ero ancora dietro Bella, dietro alle sue spalle, protetta dal suo corpo.
E, questa volta, a darmi le spalle non c’era Andrew che poteva alterare le mie decisioni o le mie azioni.
L’unico gesto che riuscii a fare era quello di spostare i piccoli riccioli caduti davanti ai miei occhi. Semplicemente non riuscivo a muovermi. Non riuscivo a fare un passo verso la mia famiglia, ad abbracciarli, dire loro che mi erano mancati e che mi dispiaceva tanto di quel malinteso che non era farina del mio sacco.
Rimasi accanto a Bella, pose una mano nelle mie spalle e cercò di spingermi verso i Cullen. Io rimasi ferma dove stavo, ferma e immobile come una roccia, come incollata al suolo dal più forte cemento creato al mondo.
Troppe domande stavano affollando la mia testa, rischiando di farla mandare in sovraccarico e spegnerla. Troppo, infinite domande e non riuscivo a formularne neanche una.
Tutto ad un tratto, come se fossi caduta dal ramo di un albero dopo essermi addormentata, mi risvegliai da quello stato di semicoscienza e feci un passo verso i miei familiari.
Ma una parte del mio corpo tendeva sempre verso Bella, come se non la volesse lasciare.
Due poli opposti: i Cullen, la mia famiglia, e una vampira, poco più che sconosciuta alla quale mi ero affezionata. In certi aspetti, Bella era il nemico.
Ed ero tremendamente preoccupata per lei. Ritornai al mio posto e mi accostai di più al suo fianco.
 “C-come… come avete fatto?”, domandai, la voce mi uscì un sospiro profondo come l’oceano. Non mi ero accorta di star trattenendo il respiro. La domanda era rivolta a tutti e nessuno in particolare.
Come fece all’interno della Sala delle Udienze, Esme si avvicinò a me e mi abbracciò rigorosa ma con qualche impiccio perché io non avevo intenzione di staccarmi da Bella “Oh, Nessie!”. Ricambiai l’abbraccio ma con poca convinzione.
“Non ve ne siete andati?”, continuai a domandare, in totale stato di shock, mentre la nonna continuava ad abbracciarmi. Anche Carlisle, Alice e Jasper si avvicinarono a me, stringendomi quando Esme sciolse l’abbraccio.
“Certo che no!”, fece Alice, sorridendomi.
“Non ve ne siete andati”, ribadii, annuendo ma non mi sentivo sicura, ancora.
“Allora non mi odiate?”, domandai.
“Certo che no!”, ripeté Jasper con la stessa intonazione di Alice, dandomi un buffetto nelle guance.
“Ohh!”, riuscii a fare solo questo verso. Le gambe stavano minacciando di non reggermi più.
Nel frattempo Bella si era allontana da quel quadretto e si appoggiò alle mura di pietra. La notte la rendeva ancora più pallida ed incredibilmente lontana.
Le sue mani erano strette in pugni contro il suo ventre. La luce della luna, ormai sorta in cielo, rifletteva tutti i piccoli diamanti incastonati del suo anello ovale, indossato nell’anulare della sua mano sinistra.
Un sorriso malinconico dipingeva il suo volto e i suoi occhi erano scuri, cupi… tristi.
Bella era triste.
Un lunga falcata e mi gettai su di lei, abbracciandola, stritolandola quasi. Le poggiai con forza una mano nella sua guancia destra, lei portò la sua mano verso la mia e la strinse, guardandomi negli occhi.
“Grazie mille”.
“Te l’ho detto che era una promessa”, mi rispose, un sussurro leggero nell’orecchio.
Staccai la mia mano da lei e mi voltai di nuovo verso i Cullen -non fecero nessuna obiezione riguardo la confidenza tra me e Bella però sembrarono molto sorpresi- ma, già, il mio corpo voleva ritornare dalla vampira.
E così feci. “Come hai fatto a rintracciarli?”, le domandai.
“Mentre tu dormivi…”, cantilenò Bella, dondolandosi coi piedi. Sembrava aver riacquistato il buono umore.
“Pensavo ve ne foste andati!”, esclamai non controllando il tono della mia voce, rivolgendomi ai Cullen.
Carlisle fece un passo avanti, lentamente, come se avesse a che fare con un animale selvatico.
“Bella ci ha contattati immediatamente”, mi rispose tranquillo Carlisle.
Bella. “Come? Vi conoscete?”, domandai, una punta di isteria nel mio tono di voce.
Bella si avvicinò a me e iniziò ad accarezzare i miei capelli. Mi sussurrò all’orecchio, con voce calma:  “Renesmee, non ti soffermare su queste domande. Adesso puoi andare con la tua famiglia, come hai sempre voluto”.
“No!”, urlai.
Bella sgranò gli occhi, come li sgranarono i miei familiari.
“Renesmee… non capisco”, sussurrò Bella, evidentemente confusa.  Le poggiai di nuovo una mano sul suo volto.
“Bella, sono preoccupata per te”.
Lei batté le palpebre, sempre più confusa e agitata. Lanciò una occhiata nervosa verso i Cullen.
“Non capisco di cosa tu stia parlando, Renesmee”, mormorò alla fine.
“Ho paura che ti accada qualcosa”, continuai io.
Bella scosse la testa e tolse la mia mano dal suo viso. Mi spinse verso Carlisle che allargò le braccia quando i miei occhi puntarono su di lui.
“Renesmee non mi succederà niente. Non devi preoccuparti di me”, disse alla fine.
Riuscì a farmi spostare tanto da essere in mezzo a Carlisle ed Esme che non perse tempo a stringermi le spalle.
Ai miei occhi sembrava facesse parte di una opposizione, Bella stava dietro una linea che non poteva oltrepassare, una linea che ci divideva. Quella visione, di lei da sola di fronte a me con la mia famiglia, mi terrorizzava. Presa dal panico, il cuore iniziò a battere ancora più forte.
Terrore, panico e preoccupazione. Ero preoccupata. Avevo paura che potesse capitare qualcosa a Bella, mentre io ero assente. Sentivo uno strano senso di responsabilità nei suoi confronti. Una responsabilità che volevo rispettare.
Stavo affrontando la realtà: Bella apparteneva ad Aro, faceva parte di un mondo diverso da quello a cui ero abituata io. La consapevolezza arrivò come uno schiaffo. Arrivò troppo tardi.
Ma dalla consapevolezza stava derivando anche la delusione di quella triste realtà.
Davvero ero tanto affezionata a Bella da rifiutarmi a partire con la mia famiglia e ricominciare la mia vita da dove l’avevo lasciata?
“Jasper”, sentii Carlisle sussurrare il nome di mio zio e una ondata di tranquillità pervase in me.
 “Aspettate”, dissi ansimante. E cinque paia di occhi puntarono su di me.
Ma i miei erano tutti rivolti verso Bella, in piedi davanti a me. Una persona contro cinque. Ma quello non erano uno scontro.
“Bella, vieni con noi”, proposi.
Nessuno fiatò. Bella spalancò la bocca, gli occhi sbarrati, sbalordita da quella mia proposta.
Ritornai accanto a lei e le diedi uno strattone, cercando di riprenderla. “Per favore, vieni con noi. Noi ci nutriamo di sangue animale ma tu puoi continuare a nutrirti di quello umano. Anche io a volte lo faccio, puoi stare tranquilla”, continuai, “Può venire vero?”, domandai a Carlisle, incapace di rispondermi, sbalordito tanto quanto Bella.
Le strinsi la mano e la guardai negli occhi: “Per favore, stai con me. Ho paura.”
I suoi occhi mi risposero con la stessa intensità dei miei e con altrettanto fervore mi rispose: “Renesmee, no”.
“No tu!”, la rimbeccai.
Bella era spazientita, come se fosse delusa dalle mie scenate. Per questo mandò uno sguardo di scuse verso i Cullen ma io non mi interessai di guardare come loro le risposero.
“Renesmee, ti stai comportando in maniera infantile. Non c’è nessun motivo per cui tu ti debba preoccupare per me”.
E invece si sbagliava. Non lo sapevo nemmeno io il perché ma, dentro di me, nelle viscere, stava nascendo una ingiustificata paura nei confronti dell’incolumità di Bella.
Infine, sapevo di starmi comportando come una bambina ma, se questo serviva a qualcosa, stavo utilizzando la giusta carta da giocare.
Simile ad un sesto senso, qualcosa mi faceva presagire che, in futuro, Bella sarebbe stata in pericolo. Ed io dovevo evitarlo. Qualunque cosa fosse stata, Bella non se lo meritava.
Non mi arresi: “Può venire anche Edward”.
Fu colpita da quella proposta, batté le palpebre due volte, ma la sua voce uscì ancora più gelida: “Renesmee, no”, ripeté.
La sua risposta suonò dentro di me come un eco profondo, interminabile, e la realtà si ripresentò di nuovo. Le due opposizioni, le due realtà.
Annuii e lasciai la sua mano.
I miei occhi si focalizzarono sui miei piedi, coperte delle scarpe, piantati sul terreno umido.
Mi resi conto di star respirando aria fresca. Mi resi conto che ero fuori dall’ambiente opprimente del palazzo dei Priori. Ero fuori da un mondo fatto di un tempo immobile, di poteri fenomenali e piani di guerra.
Davanti a me c’era più della metà della mia famiglia e, vedendoli, non reagii come loro si aspettavano.
Si aspettavano me buttarmi a capofitto tra le loro braccia. Invece, avevano visto me incollarmi ad un vampira con le quale, in teoria, non aveva nulla da condividere.
Avevo deciso di preoccuparmi per una vampira alla quale, effettivamente, non dovevo preoccuparmi  invece di dimostrare felicità e sollievo di fronte alla vista della mia famiglia, finalmente ricongiunta.
Cacciai immediatamente un lacrima, scivolata sopra la mia guancia pizzicandola, prima che qualcuno la potesse notare.
Strinsi di nuovo la mano fredda di Bella.
“Sei sicura di non correre nessun rischio?”, le domandai.
“Non devi preoccuparti di me”, rispose. La sua voce si era fatta più calma.
Io non mi ero calmata affatto. “Non posso permettere che tu ti cacci in qualche guaio per colpa mia!”.
Bella sciolse la stretta “Se mi caccio nei guai è per un bellissimo motivo”, disse, la voce leggera come una piuma.
“Adesso vai”, continuò prima che io potessi di nuovo aprire bocca, “Addio”, la voce incrinata, inspirò sommessamente, in maniera pesante.
“Cercherò Vanessa”, le promisi. Vanessa, sua sorella alla quale dovette rinunciare perché sapeva troppo sui vampiri.
Belle fece un sorriso stupendo, limpido, genuino, innocente. “Ci conto”, mi rispose e mi abbracciò.
Mi feci avvolgere dalle sue braccia, strinsi forte i denti cercando di trattenere le lacrime. Quell’abbraccio durò una eternità.
Fu Bella ad allontanarsi da me e a sciogliere la stretta che si era fatta ferrea.
Fece un passo indietro e disse: “Addio Renesmee”.
Lanciò un’altra occhiata verso i Cullen, salutandoli.
Non le staccai gli occhi di dosso. Non le risposi. Non riuscivo a dirle addio. Non volevo dirle addio. Mi rifiutavo. Sarebbe significato che quel volto non l’avrei mai più rivisto, solo una protagonista di un breve episodio della mia vita. Una protagonista che, inconsapevolmente, aveva acquisito una forte importanza per me. E il perché non lo comprendevo.
Carlisle mi strinse a sé e voltai le spalle a Bella. Gli altri lo fecero in una maniera tale, così semplice, che mi fece innervosire ulteriormente, come se non avessero minima  considerazione dei rischi che Bella avrebbe potuto subire se fosse saltato fuori che è stata lei l’artefice della mia scomparsa. Nessuno osò parlare, comunque. Forse si stavano chiedendo perche avessi reagito in quel modo. Forse erano sorpresi per quella mia reazione. Chi, oltre me, era stato sul punto di piangere perché non voleva lasciare uno dei Volturi? Nessuno.
Camminammo per un sentiero sterrato, allontanandoci sempre di più da Volterra e dalla mura del Palazzo dei Priori, intorno a noi solo alberi di frutta. In lontananza le palazzine illuminate dai lampadari, la gente stava ritornando a casa e proseguire la serata con i propri cari. 
Camminammo per una manciata di minuti fino ad arrivare ad un tratto di autostrada buio e desolato.
Accostata si trovava una grande auto nera, con i vetri oscurati. Senza dire una parola, Carlisle ed Esme presero posto nei sedili anteriori, Jasper –lo sguardo tenero e comprensivo che non capii-  mi aprì la portiera posteriore della macchina per farmi entrare mentre Alice entrava dall’altra.
Appena ci sedemmo mi strinse a sé ed io ricambiai. Mi era mancata, mi erano mancati tutti e mi odiavo per non averlo espresso chiaramente quando li avevo visti. Carlisle accese subito il motore dell’auto e partimmo fulminei.
Nessuno si decise ad aprire bocca, ancora. Forse non sapevano che dire, spiazzati o scioccati dal siparietto che avevo appena terminato. Li capii e l’odio verso me stessa aumentava.
Ingrata, mi dissi.
“Dove andiamo?”, domandai spezzando il silenzio, il volto compresso tra il petto di Alice. Jasper mi strinse la mano e mi calmai di nuovo.
“All’aeroporto tesoro”, mi rispose Esme, “Partiamo subito”.
“Dove sono Rosalie ed Emmett?”, domandai.
“Ci stanno aspettando a casa”.
Annuii e non feci più domande. Mi misi a fissare il panorama scuro, dove il cielo e la terra si mescolavano, fuori il finestrino. Alice, intanto, continuava a cullarmi, come se meritassi quel trattamento.
Di quanto fu tempestivo, nemmeno riuscii a percepire il tragitto da Volterra a Firenze così come non percepii il volo Firenze-Roma, dove imbarcammo immediatamente.
Quello per Roma-New York fu un bel paio di maniche: passammo la notte in aeroporto, aspettando il primo volo per l’America che era atteso per le sei del mattino.
Mentre aspettavamo, Esme non poté non stringermi a sé, singhiozzando. Io non avevo neanche il minimo coraggio di rivolgerle la parola a causa della vergogna che provavo.
“Oh Nessie”, piagnucolò, “Sono così stata in pena per te, piccolina mia”.
Le risposi stringendola meglio a me.
Mi scrutò il viso attentamente e poi giudicò, l’ansia nella sua voce: “Sei troppo pallida, tesoro. E molto stanca. Hai sete?”, domandò.
Annuii. In effetti avevo molta fame, lo stomaco era praticamente vuoto però ero così giù di morale che la fame e l’idea di compiere degli omicidi passarono in secondo piano.
“Se vuoi possiamo trovare una soluzione”, mormorò Esme apprensiva. “Carlisle!”, chiamò con un sussurro.
“No, no”, feci io, “Sto bene. Posso farcela”, rassicurai.
“Sei sicura?”, domandò Esme, non era convinta. “Bevevi a Volterra?”
“Certo!”, la rassicurai ancora, le feci un sorriso. Almeno, negli ultimi tempi, qualche litro di sangue l’avevo bevuto, grazie a Bella, e tant’altro l’avevo perso, per colpa di Andrew.
Carlisle mi domandò riguardo lo stato della cicatrice. La mia espressione gli fece capire che andava molto male e che faceva molto male, soprattutto.
Purtroppo non c’era nessun antidolorifico che tenesse: la mia temperatura corporea, superiore a quella umana di circa quattro gradi, bruciava immediatamente qualsiasi medicinale entrato nel mio organismo.
Chiusi in una delle stanze private della lounge della compagnia aerea, nonno poté solamente pulirmi al meglio le ferite e fasciarmi il fusto, irrigidendomi. Cambiare il finissimo -ma resistente- filo d’argento, una operazione molto complicata, lo avrebbe fatto appena ritornati a casa.
In tanto Alice, entusiasta dai tanti negozi presenti dentro l’aeroporto, aveva trovato un modo per far passare il tempo: shopping.
In un primo momento non ero stata molto entusiasta all’idea di entrare ed uscire per negozi ma, travolta dalla vergogna, non volevo risponderle di no e, così, mi feci trascinare fino al primo di una lunga serie di negozi d’alta moda.
“I miei occhi non possono reggere la vista di quel maglione”, borbottò, mentre perlustrava capi d’abbigliamento alla stessa maniera di un critico che guardava per la prima volta una nuova opera d’arte.
In un primo momento mi offesi sentendo le sue parole. Quel maglione me l’aveva dato Bella. Era stato un gesto carino da parte sua e, poi, era l’unica cosa che mi ricordava lei.
Ma non feci obiezione.
Dopo circa due ore Alice, Jasper ed io –fresca di capi nuovi e all’ultima moda- terminammo la nostra sessione di acquisti, richiamati dalla voce annoiata di una signora che avvisava che il gate per il prossimo volo per New York stava aprendo.
In prima classe vi eravamo solamente io, la mia famiglia e altre cinque persone.
I Cullen, per tutte le ore di viaggio, non mi lasciarono gli occhi di dosso, preoccupati che potessi combinare qualche pasticcio e uccidere il resto dei passeggeri, compresi gli assistenti di volo.
Mi chiesi come apparivo ai loro occhi, quali differenze avevano trovato in me, se risultavo una persona totalmente diversa da quella che avevano lasciato. Mi chiesi se erano delusi o se erano felici.
Per tutto il viaggio non parlarono molto: alcune volte mi chiesero se stessi bene con la sete, altre mi dicevano che ero mancata loro infinitamente.
Forse non sapevano che dire oltre a quelle poche parole, forse aspettavano di varcare la soglia di casa e travolgermi tutti i loro pensieri. Ma io non ero pronta a ciò che mi aspettava a casa.
Mi raggomitolai sul sedile, chiesi una coperta, una bibita e delle patatine –per il grande stupore dei miei familiari- presi le cuffie in dotazione e scelsi uno degli artisti che vagamente si avvicinava ai miei gusti musicali.
Per circa nove ore ascoltai musica e guardai fuori l’oblò. A Roma lasciammo le nuvole chiare, sfumate dall’arancione del sorgere del sole. A New York le nuvole erano pozzi scuri, era ancora notte.
Prendemmo un altro aereo per Seattle che fu altrettanto veloce.
Dopo aver convinto i Cullen di essere perfettamente in grado, decidemmo di utilizzare le nostre stesse gambe per ritornare a casa, a Forks, visto che Emmett e Rosalie ci stavano aspettando lì e non avevamo nessuna macchina a disposizione.
La corsa durò circa quindici minuti e mi sentii la persona più libera del mondo: le gambe erano libere di muoversi, libere di fare grandi falcate da un ramo all’altro. Sentivo l’aria che , furiosa, frustava il mio volto e dava maggiore potenza di movimento al mio corpo. Mi sentii, dopo tanto tempo, me stessa.
Come Roma, anche Forks si stava colorando dell’arancione dell’alba. Il sole, sorgendo, seguiva la nostra corsa.
Intravidi la casa, casa mia, illuminata dai raggi del sole riflessi dalle tante finestre. Sorrisi.
Fuori, nel portico, Rosalie ed Emmett ci stavano aspettando, sorridenti. Non puntai verso il terreno come fecero gli altri Cullen, puntai su una roccia, mi diedi una ultima spinta e mi tuffai come un razzo nelle braccia di zio Emmett.
“Ed eccola qui!”, esclamò, ridendo. Lo abbracciai.
Mi dovettero staccare di forza dalla braccia di Rosalie, che non aveva intenzione di lasciarmi andare.
“E’ stanca”, disse Esme a Rosalie, la voce apprensiva, “E’ meglio che la portiamo nel suo letto”.
Le parole di Esme erano le uniche che avevo compreso in quel turbine di voci e alle quali concordavo.
Emmett mi prese in spalla e, sballottandomi per le scale, mi gettò nel mio morbido e mancato letto.
Ma io ero già addormentata. Ero tornata a casa.  

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Capitolo 27
*** Capitolo 26. ***


Visto sottosopra il mondo aveva tutt’altro aspetto e suscitava un strano effetto di errore e insicurezza a vederlo. L’unica certezza era l’albero sul quale ero appoggiata, sottosopra anche io, le gambe agganciate al tronco. Ma certezza significava sempre sicurezza?
Io non lo sapevo più.
 
 
 
 
 
Erano passate quattro settimane da quando ero ritornata a casa, dalla mia famiglia. Una settimana dopo il mio arrivo salutammo i Denali e lasciammo Forks per raggiungere Willinston, nel Nord Dakota, una cittadina abitata da poche e schive anime, praticamente disabitata in inverno e con una modesta fauna. Tutto ciò era perfetto per noi. Esme comprò una piccola ma accogliente e calda, particolare che importava di più a me che agli altri, casetta nelle vicinanze di un lago ghiacciato. A quanto pare Willinston era solo una fermata: i Cullen avevano intenzione di spostarsi altrove e quindi il nuovo acquisto non subì molte modifiche e decori. Proprio per questo motivo non ci presentammo alla piccola comunità e rimanemmo confinati nel bosco perennemente innevato.
La versione di Forks del nostro trasferimento era: Carlisle aveva ricevuto una importante offerta di lavoro altrove, offerta che, a malincuore, non poteva rifiutare per poter campare cinque figli. Indiscutibilmente Carlisle era una grave perdita per la città.
La nostra versione: la scuola aveva contatto Esme e Carlisle, formalmente i miei genitori, per domandare della mia improvvisa assenza. La voce iniziò a girare per tutta la città. Le signore tutte rossetto della segreteria del liceo avevano proposto, tra di loro, anche di interpellare la polizia locale ma i nonni rassicurarono che mi ero beccata solo un brutto malanno. Dopo le rassicurazioni arrivò, veloce come un fulmine, l’irrinunciabile offerta di lavoro dall’altra parte del continente che ci avrebbe portato via dallo stato di Washington.
In realtà era ora di cambiare aria. Emmett e Jasper convennero che era stupido rimanere dove i Volturi sapevano trovarci. Esme e Carlisle, restii ad andarsene, erano convinti che non avremmo avuto più problemi con l’Italia ma accettarono la proposta. Per loro io ero ufficialmente tornata a casa e non avevano nessuna intenzione di riconsegnarmi nelle mani di Aro né di ascoltare una simile proposta in futuro. Il caso era chiuso e sigillato, si doveva voltare pagina.
Ritornare a casa era come ritornare a respirare e a vedere dopo mesi passati al buio rinchiusa in una stanza. Ritornare alla normalità e ricominciare a fare azioni automatiche come svegliarsi la mattina nel proprio letto avevano preso tutt’altro volto. Rivalutai tutto, anche le piccole cose. Capii che, da un momento all’altro, tutto ciò accanto a sé poteva scivolare via.
Recuperai l’abitudine in poco tempo perché questa era l’unica che desideravo ardentemente: ritornare a fare le solite cose con la mia famiglia. Mi meravigliavo di tutto anche quando aprivo la finestra e annusavo l’aria che gelava i polmoni.
I primi giorni a casa furono abbastanza destabilizzanti, come una convalescenza dopo essere stati per giorni incoscienti.
I Cullen non mi lasciarono sola neanche per un attimo, i loro occhi sempre puntati su di me e su ogni mio minimo movimento. Erano provati dalla mia assenza e impauriti che potessi sparire sotto ai loro occhi da un momento all’altro. A volte mi guardavano come se davanti a loro ci fosse stato un fantasma anziché me. Questo riscaldava il mio petto di quel calore che tanto mi mancava. Ed ero felice che ancora mi volessero con me e che non mi avevano dimenticata.
Erano anche preoccupati per la mia salute: non ero ritornata da loro come mi avevano salutata prima di partire e i chili persi lo dimostravano. Il mio corpo era già molto magro e tonico ma le ossa sembravano forare la palle più del solito, le gambe e le braccia sembravano due steli. Il mio corpo stava assumendo le sembianze di quello di Alice.
Per questo motivo Carlisle mi costrinse a bere soprattutto sangue umano, sforzo che a me non dispiaceva per niente, e a mangiare, cosa che potevo benissimo evitare, ma decisi di non fare capricci e mangiai tutte le gigantesche portate che Esme mi serviva. Quando i miei muscoli si riempirono di nuovo, dopo due settimane dal mio arrivo ricominciai a cacciare.
La loro apprensione raggiunse i massimi livelli quando iniziarono a farmi l’interrogatorio, ognuno aveva le proprie domande alle quali non volevo rispondere. Volevano essere a conoscenza di ogni singolo dettaglio, mi ripetevano che se mi fosse capitato qualcosa a Volterra loro non se lo sarebbero mai perdonato.
“Tesoro, sei troppo importante per noi quando lo capirai?”, mi domandò una volta Esme.
Il problema era che qualcosa veramente era successo a Volterra e non riuscivo ad ammetterlo di fronte ai loro occhi preoccupati. Non volevo angosciarli ulteriormente, non volevo richiamare alla mente ricordi che speravo dimenticare, invano, per sempre.
Il primo ad iniziare, comunque, fu Carlisle.
Eravamo nel suo studio, luogo che poteva essere scambiato tranquillamente per una biblioteca. Era una grande stanza, ne poteva contenere almeno due. I muri erano quasi ricoperti da librerie, dipinti realizzati già quando nonno era vivo o ancora più antichi – storsi il naso quando sotto ai miei occhi passò una opera raffigurante Aro, Caius, Marcus e Carlisle durante il suo soggiorno in Italia -  e tanti manufatti provenienti dal tutto il mondo.   
Nello studio era presente anche una piccola scrivania, di lato al divano al centro, in legno ricoperta da carte e progetti di Esme, una lampada era appoggiata sopra.
A completare l’arredamento c’erano un materassino in pelle e in un lato più lontano della stanza delle apparecchiature d’ospedale, oggetti che non erano soliti trovarsi a casa di un medico. Carlisle era più che un medico ma, in una casa piena di vampiri, a chi potevano servire? Forse a me???? Carlisle non mi aveva mai fatto lastre…. o ecografie.
Mi svegliai alcune ore dopo il mio arrivo a casa. Esme e Rosalie, rimaste nella mia camera a vegliarmi, avevano notato che le lenzuola delle letto in cui ero distesa si stavano macchiando di sangue. L’odore che stava impregnando la stanza era inconfondibile. Io mi svegliai qualche secondo dopo per lo stesso motivo: le varie cicatrici nel mio busto si stavano aprendo e fiumiciattoli di sangue stavano straripando.
Dopo avermi fatta distendere nel materassino, Carlisle mi diede una bicchiere di sangue da bere e si mise a lavoro. Quando vide lo stato del problema fece una espressione perplessa.
“Quando eri a Volterra le ferite si sono aperte?”
Io balzai sentendo la domanda “Sì.” mormorai, facendomi piccola piccola.
“E”, iniziò a domandare, la voce atona non traspariva nessuna emozione, “come hai trovato una soluzione?” domandò, estraendo dalla pelle un filo di ferro. Strinsi i denti, cercando di non pensare al dolore.
“Sono riuscita a trovarli, i fili.” risposi, la foce flebile.
 Carlisle si chinò verso il mio stomaco e iniziò a fare il suo lavoro. Mi chiese: “E come hai fatto?”
“Cosa?”, domandai io.
“A ricucire le ferite”, rispose Carlisle sempre chino su di me, “non l’hai mai fatto da sola.”, mi ricordò.
Ah. Era vero, non l’avevo mai fatto da sola. Era sempre stato Carlisle. Ma cosa gli potevo rispondere? Non volevo dirgli che mi ero affidata ad un vampiro neonato armato di filo di ferro e acciaio. Non volevo, la paura di qualsiasi reazione di Carlisle mi frenava.
“Da qualcuno avrò imparato guardando.”, risposi alla fine, abbozzando un sorriso.
Carlisle sorrise alla mia battuta ma capii che non se l’era bevuta.
Alzò gli occhi verso di me, non esprimevano nessun sospetto o disappunto, erano sereni. “Non vuoi dirmi come è andata?”
Io, invece, mi misi nella difensiva. “Non c’è niente da dire: sono riuscita a trovare i fili, mi sono messa davanti ad uno specchio e mi sono ricucita tutta.”
Mi coprii gli occhi con un braccio così da non vedere l’espressione di Carlisle che continuò a ricucirmi come se fossi un capo da rattoppare.
Dopo il nonno fu il turno di tutto il resto della famiglia. Ad alcune domande risposi…. cambiando un po’ versione alle cose.
Mi chiesero di Aro e i suoi fratelli e come mi avevano trattata essendo loro ospite. Non avevo che belle parole per loro - dentro di me però bollivo - e giustificai il motivo del mio drastico cambiamento di peso e di forze solo perché avevo rifiutato l’idea di cambiare dieta, preferendo digiunare.
“Aro me lo proponeva sempre ma io rifiutavo. Vedere come chiamano a sé gli umani è agghiacciante.”, dissi ed Esme mi abbracciò.
“Ma potevi fare un eccezione!”, protestò lei, abbracciandomi più forte.
Riguardo gli umani non mentii, ogni volta che vedevo le file di turisti entrare nel Palazzo dei Priori il mio cuore perdeva battiti. Riguardo la dieta a volte Bella mi portava del sangue umano ma non volevo riportare questo dettaglio.
Sapevo di non essere stata completamente onesta nei confronti della mia famiglia. Non mi piaceva mentire ma soprattutto non mi piaceva mentire a loro, non lo meritavano. Non volevo dire loro la verità perché non volevo causare reazioni che potevano avere delle conseguenze spiacevoli.
Una loro probabile reazione sarebbe stata andare a Volterra e chiedere ragione ad Aro. Come poteva reagire lui? Non ne avevo idea e questo mi spaventava. I Cullen si sarebbero messi nei guai e questo lo volevo evitare.
Ero ben cosciente che erano in grado di difendersi ma perché sfidare la sorte? Preferivo proteggere la mia famiglia anziché rivederla a Volterra, come l’altra volta. Solo ricordare quella giornata mi struggeva. Fra tutti era il ricordo che di più volevo dimenticare.
“Da quanto tempo eravate a Volterra?”, domandai quando, una sera, Carlisle decise di far riaffiorare quel giorno nella memoria di quasi tutti i presenti.
“Poco meno di una settimana”, rispose Carlisle, “quando tu non c’eri giravano voci di una imminente guerra che coinvolgeva anche i Volturi e, non sapendo nulla, eravamo preoccupati e abbiamo deciso di venirti a prendere, per ogni evenienza.”, concluse.
La guerra… La guerra con gli altri mezzi vampiri. I Cullen lo sapevano? Erano a conoscenza che esistevano altri come me? Il cuore inizio a battermi veloce.
Erano venuti a Volterra, preoccupati per me e per il mio coinvolgimento nella battaglia e, attraverso Andrew, le uniche cose che potei dire a loro furono che io volevo rimanere in Italia. I miei occhi si sbarrarono e si fissarono sul pianoforte, terrorizzati.
“Io…”, iniziai.
“Tranquilla Nessie”, fece Jasper che avvertì il mio cambiamento d’umore e con il suo dono mi calmò immediatamente. “Bella ci ha spiegato tutto.”
Cosa?! Bella? Spiegato tutto?
Intontita dall’ondata di tranquillità che mi circondava, non reagii di fronte alla piega che stava assumendo la situazione.
“Cosa?”, esordì Emmett.
“Quando andammo a Volterra”, iniziò a spiegare Jasper, “Renesmee ci disse che voleva rimanere lì.”
Arrossii e mi coprii il volto con i capelli. Volevo sprofondare negli abissi.
Questa volta Emmett si voltò verso di me: “In che senso non volevi andartene?” mi domandò, il suo volto era confuso e sorpreso mentre i suoi occhi sprizzavano sia ira che incredulità.
“Aspetta Emm”, lo fermò Rosalie, “fai continuare Jasper e lascia in pace Nessie!”
Anche Rosalie era incredula ma cercava di contenersi e aspettare che il fratello continuasse a spiegare.
Dopo che Jasper iniettò una dose di tranquillità anche ad Emmett, il suo racconto continuò: “Renesmee non intendeva sul serio”, disse sicuro e rassicurante, “aveva risposto in quel modo perché Bella le aveva detto di farlo.”
“Bella?!”, esclamò Emmett. Io e lo zio esclamammo la stessa cosa solo che dalla mia bocca non usciva alcun suono. Cosa stava succedendo? Cosa sapevano i Cullen? Cosa aveva detto Bella che io non sapevo?
Jasper chiuse per un millisecondo gli occhi “Sì, Bella, lo scudo personale di Aro. Renesmee aveva detto che non voleva tornare a casa con noi solo perché Bella le aveva detto di dirlo.”
“E’ vero, Renesmee?”, mi domandò Rosalie. Io annuii, incapace di dire qualcosa. Preferii appoggiarmi alla versione di Bella che dire la verità: un vampiro con il potere della manipolazione mi costrinse a dire ciò che Aro desiderava.
“Perché l’ha fatto?”, domandò Emmett.
“Perché ci stava aiutando a portare via Renesmee da Volterra. Dovevamo convincere Aro che, dopo la decisione di Nessie, ci saremmo arresi.”
Da quel momento ero entrata in uno stato catatonico.
“E la guerra?”, domandò Emmett.
Jasper scosse la testa “Ne sappiamo quanto voi.”
Dodici paia di occhi si voltarono contemporaneamente verso di me, pretendendo risposte.
Continuai a guardare fisso davanti a me e feci spallucce. Non era necessario informarli di qualcosa che non importava. In quel momento non erano i Cullen ad organizzare una guerra contro dei licantropi servendosi dei mezzi-vampiri come pedine. Erano affari che non riguardavano loro.  
Ci fu un breve, pesante silenzio che circondò tutti poi, ripresa dallo stato comatoso, domandai: “Voi conoscevate già Bella?”
I Cullen non mi risposero subito, per qualche secondo mi fissarono, intensamente. I miei occhi e le mie orecchie erano spalancate, pronte a captare qualsiasi informazione.
“No”, rispose Alice, il tono di voce inespressivo. Emmett sbuffò, Rosalie alzò gli occhi al cielo.
“Ma è stata molto gentile nei nostri confronti.”, disse Carlisle, “Non tutti i Volturi sono come vengono di solito descritti, come Eleazar.”
“Le siamo debitori.”, aggiunse Esme.
Aggrottai la fronte e mi misi comoda nel divano, gli occhi sempre puntati sul mio pianoforte.
“Già”, concordai, alla fine.
I Cullen mi guardarono, in attesa che io continuassi.
“Bella non voleva far parte della Guardia.”, iniziai a spiegare, “L’ha fatto solo per salvare… sua sorella.”
Non riuscii più a continuare la mia spiegazione, la voce si affievolì. Un nodo si era formato nella mia gola impedendomi di respirare mentre il mio cervello faceva collegamenti i quali mi rifiutavo di analizzare, entrando in tilt.
I Cullen non chiesero altro quella sera e mi lasciarono riposare.
 
 
Intenta a voltare pagina, chiesi alla mia famiglia di non riprendere mai più come temi di conversazione né Volterra né i Volturi in mia presenza.
La mia cartella Volterra era stata sigillata e messa in archivio ma Alice non vedeva ancora con chiarezza il futuro dei Volturi non escludendo che io, purtroppo, ero ancora nei loro prossimi piani. Alice e Jasper, Emmett e Rosalie non erano certi che le incomprensioni con i Volturi fossero ufficialmente conclusi e le visioni di Alice davano loro ragione e li spingevano ad allontanarsi da Forks il più presto possibile.
Carlisle ed Esme non ebbero come contraccambiare. Una sera dissero che loro ponevano fiducia in Bella, lei avrebbe fermato qualsiasi piano di Aro che includeva me e i Cullen.
Ma gli zii non ponevano la stessa fiducia sulla vampira che, comunque, era un pezzo grosso della Guardia e quindi ci spostammo a Willinston.
Essere consapevole di un probabile ritorno dei Volturi nella mia vita suscitava in me l’infantile voglia di correre sotto al letto e proteggersi dal mostro cattivo.
Neanche il pensiero di Andrew o di Bella stessa mi convincevano a ritornare. Io non volevo ritornare, là non c’era nulla che mi chiamasse a sé.
Non avevo avuto nessun motivo, dal principio, per andare a Volterra. L’avevo fatto solo per Carlisle e l’amicizia che lo legava ad Aro, discutibile quanto fosse.
E il desiderio di rivedere Andrew e Bella non era tanto forte da convincermi a tornare.
Loro facevano parte di un mondo totalmente diverso dal mio. Indifferentemente dai loro punti di vista e, anche se erano stato le persone più vicine a me durante il mio soggiorno in Italia, non c’era nessun legame che mi tenesse a loro. Non negavo che pensavo a Bella e a Andrew spesso ma per di più mi chiedevo come passassero le loro giornate, se pensavano a volte a me. Per loro, probabilmente, ero solo una persona di passaggio e i miei pensieri su di loro duravano pochi secondi.
E nonostante la pensassi come gli zii per me il viaggetto in Italia era una questione chiusa come lo era per Esme e Carlisle. 
A volte i Cullen si dimenticavano che il mio udito era più simile a quello di un vampiro che a quello di un umano. Ascoltai l’intera conversazione una notte, ancora a Forks, quando i Cullen erano convinti di essere protetti dall’incoscienza che regalava il mio sonno.
“Possiamo sempre far ritornare Renesmee a scuola.”, iniziò Esme, “Tutti credono che è stata male e un suo ritorno sarebbe normale. Non voglio farle saltare il suo primo anno di liceo così.”
“Può sempre ricominciare l’anno prossimo”, propose Emmett.
“E’ troppo pericoloso rimanere”, disse la sua Rosalie.
“Non c’è nessun motivo per cui dovremmo lasciare Forks.”, fece Carlisle, “Renesmee è tornata a casa e non ce la porterà via nessuno. Possiamo trasferirci quando i cittadini iniziano a sospettare di qualcosa, come abbiamo sempre fatto.”
“Non ne sono sicura… continuo a vedere tutto sfocato accidenti!”, piagnucolò Alice.
“Questo è un buon motivo per andarsene”, borbottò Rosalie.
“E se le visioni di Alice non c’entrassero nulla con Renesmee? Se fosse qualcun altro?”, domandò Esme.
“Questo non lo potremo mai sapere.”, rispose Emmett, “Dovremmo andarcene. Solo per precauzione, possiamo ritornare a Forks quando vogliamo.”
“Forse è come dice Esme”, iniziò conciliante Jasper, “che le visioni di Alice non riguardino Renesmee. Forse hanno problemi con i lupi in Europa ma….”
“E’ troppo rischioso rimanere qui, Jasper!”, lo interruppe Rosalie.
“… ma è imprudente restare. Come dice Emmett sarebbe solo per precauzione, non sappiamo cosa hanno in mente i Volturi adesso.”, terminò Jasper.
“No.”, disse con voce ferma Alice, “Renesmee ha lasciato Volterra senza il consenso di Aro e se avesse lasciato andare Nessie, di sicuro avrebbe voluto essere a conoscenza di ciò che stava accadendo. Bella non ha reso partecipe il suo signore al piano che stava architettando con noi e, facendo così, lei ha messo a rischio se stessa. Non sappiamo quale sia stata la reazione di Aro quando ha capito che Renesmee non era più dove pensava essere.”
“Aro sapeva che volevamo Renesmee indietro. Qualsiasi reazione abbia avuto, quella sorpresa dovrebbe essere l’ultima nella lista.”, disse Esme, la voce cupa.
“Aro sapeva che Renesmee voleva restare a Volterra.”, rispose Alice.
“E’ un bel casino”, commentò borbottando Emmett.  
Carlisle sospirò: “In ogni caso Bella e Edward non avrebbero fatto tutti questi sforzi senza assicurassi che Nessie fosse realmente al sicuro una volta a casa.”
Qualcuno sbuffò. Rosalie forse?
Dopo qualche minuto: “Per tutto il tempo in cui siamo stati a Volterra non abbiamo mai visto Edward.”, fece notare Jasper.
“Forse stava tenendo il gioco a Bella.”, suppose Esme.

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Capitolo 28
*** Capitolo 27. ***


Li seguì con lo sguardo allontanarsi fino a quando, una volta entrati in macchina, non sparirono totalmente dal suo raggio visivo.
Nessuno si voltò verso Bella per l’ultimo, finale sguardo. Sembrava che tutti avessero fretta di andare via. Nemmeno Renesmee si voltò. Stretta tra Esme e Carlisle, Nessie camminò a passo veloce e si mise a sedere nell’autovettura. Era notte, i vetri erano oscurati ma gli occhi di Bella erano in grado di vedere oltre la barriera di vetro: lo sguardo vacuo di Renesmee, la testa appoggiata alla spalla di Alice, le spalle strette e spigolose come se si volesse proteggere dal mondo.
Andarono via.
Bella espirò rumorosamente come se dall’aria fuoriuscita dalla sua gola fossero uscite tutte le tensioni degli ultimi mesi.
Renesmee era andata via. La missione di Bella era compiuta. Sua figlia era in salvo, presto lontana dall’Italia, con la sua famiglia.
Si sedette nel terreno freddo pesantemente, come se un sacco di cemento fosse stato gettato improvvisamente, e si appoggiò alle mura di pietra. Guardò dritto a sé, il cielo era nero come la pece.
Sentiva un grande vuoto dentro di sé. Non un vuoto causato dalla partenza di Renesmee.
Sentiva un grande vuoto dentro di sé perché non riusciva a provare nessun preciso sentimento a riguardo.
Bella prospettava di sentirsi sollevata, felice una volta saputo che, grazie a lei, Renesmee non era più in pericolo.
Bella avrebbe rifatto qual gesto altre cento volte pur di tollerare il soggiorno di Renesmee a Volterra un altro giorno di più.
Sapeva di aver fatto la cosa giusta. Qualsiasi madre avrebbe fatto la stessa cosa. Nessuna madre avrebbe tollerato ciò che aveva tollerato Bella.
Renesmee era e sempre sarebbe stata la sua bambina. La sua piccola brontola. Insieme a suo padre, Renesmee era l’unico motivo per la quale Bella era ancora in vita. Solo guardarla il suo petto si gonfiava di amore e il suo cuore ricominciava a battere, i suoi occhi si inebriavano della sua bellezza. Tutto in lei le ricordava qual era il prezzo del suo sacrificio e cosa ci fosse in gioco: la persona più importante della sua vita. Per sua figlia avrebbe fatto di tutto, avrebbe posto il suo benessere al primo posto, prima di tutto e di tutti, prima di Edward stesso.
Ma questo non bastava per farla stare meglio. Il benessere e la salute di Renesmee al centro di tutto erano un dato di fatto per Bella, una legge universale che doveva essere rispettata a tutti i costi, l’unico scopo della sua esistenza. Non lo considerava un conforto, bensì un dovere.
Bella guardava il cielo sopra di lei illuminato da tante stelle ma i suoi occhi proiettavano in quello schermo scuro una sola immagine: Renesmee… e la sua famiglia. Bella ed Edward non erano più previsti nel quadretto.
Loro due non facevano parte della sua vita, lo erano stati  per poco più di tre mesi. Non la conoscevano, non conoscevano i suoi interessi, non conoscevano i suoi punti di vista, non sapevano più se le piaceva ancora cacciare o se le piacevano le cose luccicanti, come da bambina.
Era indubbio il fatto che Edward e Bella avessero lasciato loro figlia in ottime mani. Non potevano immaginare persone migliori, la loro famiglia. Una famiglia che non sentiva, ormai, neanche più sua.
Era passato troppo tempo, quasi un secolo.
Bella non era riuscita ad adottare ancora la percezione del tempo che avevano adottato  tutti i vampiri.
Per lei, un giorno, un mese e un anno avevano lo stesso peso che avevano per un umano. Riusciva a sentire tutta la loro pesantezza.
Un senso di solitudine  e tristezza pervase Bella: le mancava il ricordo di sua figlia, le mancava stringerla forte tra le braccia, le mancava metterla nel suo lettino in ferro (era troppo forte per un semplice lettino in legno e i suoi sogni, seppur innocui, erano spesso movimentati), le mancava la beatitudine di vederla tra le braccia di Edward (di quanto erano simili era come se una persona si guardasse contemporaneamente in due specchi accostati). Le mancavano i Cullen. In quel momento era invidiosa di loro. A differenza di Bella ed Edward, loro conoscevano Renesmee, loro vivevano la sua quotidianità, loro sapevano tutto di lei.
Apparentemente non vi era più niente che legasse ormai Renesmee a Bella e ad Edward.
Lei aveva perso la memoria, non ricordava i suoi genitori, i Cullen non le avevano raccontato nulla della loro esistenza (come avevano consigliato gli stessi Edward e Bella) e Renesmee, a Volterra, non li aveva riconosciuti.
Bella non poteva negare le sue speranze in qualche riacquisizione della memoria da parte di Renesmee. Aveva sognato ad occhi aperti sua figlia correre da lei ad abbracciarla, dicendole che si ricordava di nuovo tutto.
Le mancava Forks, le mancavano i suoi genitori, le mancava il suo migliore amico, Jacob. Adesso ai suoi occhi niente aveva più senso. Si sentiva prosciugata di tutte le forze presenti in corpo, di tutto il suo essere e della sua anima. Si sentiva un automa, senza natura.
In quel momento avrebbe urlato, disperata, chiedendo di ritornare a casa o di avere un minimo di pace.
Sentì passi leggere dietro di lei, contro il terriccio umido. Sapeva chi era, ogni fibra del suo corpo andava in allerta ogni volta che Edward si avvicinava a lei.
Edward, il suo abbigliamento nero si mimetizzava con lo sfondo scuro del varco, era appoggiato alla parete rocciosa, di fronte a Bella. Guardava il punto in cui prima era parcheggiata l’auto dei Cullen. Lo sguardo impassibile ma le mascelle erano serrate.
Bella si alzò di scatto e, senza esaminare la sua espressione, gli avvolse le braccia intorno appoggiando il volto nel suo petto. Edward ricambiò l’abbraccio ma fu un movimento meccanico.
Bella si strinse più forte a lui come se avesse paura che le sue gambe da un momento all’altro potessero cedere. Voleva piangere, sentiva un grande bisogno di piangere ma l’unica cosa che riusciva a fare era stringere forte i denti, il veleno le sgorgava dalla bocca.
“E’ stato un gesto stupido, Bella”, disse Edward.
Bella ringhiò e spinse le sue mani con forza contro il suo petto. Edward non oppose resistenza e andò contro il muro dietro di sé che si sgretolò.
Ovviamente, pensò Bella.
“Cosa dovevo fare?” domandò, con la voce rotta “Cosa avresti fatto?!”
Edward non si scompose dall’attacco di Bella. Passò solamente un secondo da quando Bella aveva posto quelle domande e rispose lei per lui: “Tu non avresti fatto nulla!”
Edward strinse le labbra in una linea, gli occhi luccicavano, però, di rabbia “Non l’avrei mai messa in pericolo come hai fatto tu” rispose, la voce gelida.
“Edward” iniziò Bella, la voce esasperata, “Renesmee è in pericolo da quando ha messo piede qui, a Volterra!”
“E tu hai complicato la situazione”, aggiunse Edward, glaciale. I suoi occhi questa volta erano lastre di ghiaccio.
Bella si appoggiò al muro, varie scariche le percorrevano il corpo, smanioso di sfogare la rabbia.
Cercò di controllare il tono della voce “Tu cosa avresti fatto?”, ripeté.
“Avrei aspettato”, rispose Edward.
Un altro getto di rabbia colpì Bella “Aspettato?! Una battaglia è imminente e tu avresti aspettato!?”
Non credeva alle sue parole. Alle orecchie di Bella suonava tutto così surreale. Quell’Edward che stava di fronte a lei non avrebbe mai risposto in quel modo, avrebbe fatto qualsiasi cosa  pur di mettere al sicuro sua figlia.
Era questo l’ Edward che amava.
Edward strinse le braccia al petto e guardò Bella con rimprovero “Mandarla via, come hai fatto tu adesso, non serve a nulla. Sai che ritornerà”.
Bella fece una lunga falcata fino a quando non si trovò faccia a faccia con Edward “Non permetterò ad Aro di riportarla qui”.
Edward, sempre fermo nella sua rigida posizione, non fu colpito dalla veemenza di Bella “E come?”
Bella non vacillò di fronte alla sicurezza di Edward e rispose: “Gli ricorderò il patto”.
Edward alzò gli occhi al cielo, in quel frangente mostrava tutti i suoi diciassette anni.
“Non sarà sufficiente: non si tratta del patto”. 
“Sì!” sbottò Bella “Ne sta abusando! Renesmee non avrebbe dovuto mai mettere piede a Volterra!”
“Carlisle ha accettato che Renesmee venisse qui”, ricambiò Edward.
A Bella crollò il mondo addosso e l’esasperazione la penetrò fino alle viscere. Non riusciva a credere alle parole di Edward: stava dalla parte di Aro? Ora era colpa di Carlisle? Lui aveva le mani legate, non poteva fare altro che accettare.
“Carlisle poneva tutta la sua fiducia in noi!” urlò Bella. Per un attimo vide rosso, presa da una ondata di violenza. Non aveva mai immaginato di poter far del male ad Edward.
“Siamo stati noi stessi ad aver messo Renesmee in pericolo” continuò.
Fece dei passi indietro, strinse i pugni e fece dei respiri profondi anche se non le servivano ma la convinsero di essersi calmata.
Edward, dal canto suo, rimase impassibile. Aspettò che sua moglie si calmasse e poi le parlò.
“Non credo sia necessario dirlo” iniziò “ma Aro già lo sa”.
Bella lo sapeva, era semplicemente questione di tempo prima che lo scoprisse.
“Gliel’hai detto tu?” domandò.
Edward strinse i denti ostentando un certa innocenza e una sorta di neutralismo: “Ha solo voluto sapere cosa ne pensassi”.
“Cosa ne pensassi…” ripeté Bella, ancora più incredula e incapace di comprendere.
“Mi hai lasciata sola, Edward”.

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Capitolo 29
*** Capitolo 28. ***


C’era caldo. Molto caldo. I raggi del sole si infiltravano nel mio corpo con estrema facilità mandando in autocombustione i miei organi. Avevo la gola arsa e sembrava che una lastra di ferro arrugginito la stesse carezzando. Il cuore batteva frenetico e i polmoni seguivano il suo stesso ritmo minacciando di scoppiare in mille pezzi dentro la cassa toracica.
E c’era caldo ancora. Troppo caldo.
Le mie ginocchia cedettero e caddi su una superficie morbida e instabile ma allo stesso tempo dura. Era sabbia ed era rovente.
Mi stesi supina sulla sabbia e rivolsi il volto verso la luce accecante del sole incandescente. Nonostante la situazione sgradevole in cui mi ero ritrovata senza sapere neanche il perché, mi sentivo… rassegnata. Quasi tranquilla.
Non ricordavo quanto tempo rimasi in quella posizione ma, all’improvviso, iniziai a sentire freddo. La mia schiena si stava inzuppando di acqua fredda e la superficie in cui ero appoggiata era diventata, questa volta, gelida. Aprii gli occhi e tutto, intorno a me, era bianco, innevato.
Battei le palpebre velocemente e misi a fuoco: non era sola. C’erano altre persone con me ma non riuscivo a riconoscerle o a vedere i loro volti. Erano coperti dalla testa ai piedi da mantelli neri e spessi.
Mi misi a sedere nel terreno ghiacciato.
 
 
 
 
“Ah!”, dal momento in cui aprii gli occhi e balzai a sedermi sul letto come una molla passò solo un millisecondo. Portai la mano sinistra verso il comodino ma non trovai carta e penna.
Ah, vero. Non siamo a Forks, pensai. Accesi la lampada appoggiata sul comodino, mi misi comoda e mi appoggiai alla tastiera del letto, stringendomi  tra le coperte.
Erano passati mesi dall’ultima volta che feci lo stesso, identico sogno. Il primo impulso era quello di scrivere ciò che mi ricordavo di aver sognato: sempre le stesse cose, sempre gli stessi elementi. Ma era una abitudine, non mi trovavo nella mia stanza di Forks e non c’erano carta e penna accanto a me per poter scrivere ciò che ricordavo.
Dopo qualche secondo di riflessione feci spallucce. Non ci volevo pensare. Non volevo analizzare il sogno: non sarei arrivata e nessun conclusione, dopotutto. Avevo dato tantissime interpretazioni ma rimanevano sempre semplici sogni. Tutti gli umani avevano sogni ricorrenti. Forse quello era il mio. E basta.
L’orologio digitale al muro segnalava le sette dal mattino ma la finestra dimostrava tutt’altro orario: il cielo era ancora buio. In casa regnava un silenzio religioso. Da quando ero ritornata dai Cullen, mi svegliavo un po’ più tardi del solito quindi nessuno si sarebbe preso la briga di controllare se a quell’ora fossi già sveglia anche se, grazie al loro udito acutissimo, potevano sentire qualsiasi mio movimento.
Da quando ero ritornata negli Stati Uniti avevo sempre sonni profondi e senza sogni. Li giustificavo come un recupero di tutte le notti insonni passate a Volterra. Inoltre avevo preso un po’ più di peso: avevo passato un mese intero solo a nutrirmi perché Carlisle mi mandava sempre a caccia.
Rimuginando non potei non notare una analogia tra Volterra e i miei sogni: le persone incappucciate dei miei sogni  erano simili ai Volturi, a Bella, ad Andrew. Almeno erano vestiti uguali, erano costantemente coperti da quei mantelli, come se fossero cuciti sulla loro pelle.
Facendo quella analisi mi sentii a disagio e il mio umore cambiò. Avrei passato tutta la giornata a tenere il muso solo per aver pensato. Capitava ogni volta che pensavo a qualsiasi cosa inerente ai Volturi e a Volterra. Mi intristivo e diventavo irritabile ma, davanti ai Cullen, mi frenavo e cercavo di reagire ed apparire in tutt’altro modo.
Avevo detto loro, ribadito tante volte, che per me era già un capitolo chiuso e lo doveva essere anche per i Cullen, poco intenzionati ancora. Volevo dimostrare di essere ancora la Renesmee di prima.
Scesi dal letto, presi i vestiti nuovi di zecca acquistati da Alice e iniziai ad indossarli. Mi misi davanti allo specchio e iniziai a sistemare le due trecce alla francese fattemi da Rosalie. Le trecce raggiungevano quasi i miei polpacci.
Quando finii, fissai il mio riflesso allo specchio come per la prima volta: il volto pallido, le labbra carnose, le sopracciglia folte, le ciglia lunghe, i zigomi appena pronunciati, i capelli color castano così come le iridi dei mie occhi, non più cerchiati di viola.
Fissai gli occhi del mio riflesso con insistenza. Il mio umore peggiorò.
Decisi di rimettermi a letto ma una serie di voci familiari, dei passi veloci e il rumore della porta principale di casa aprirsi e chiudersi di nuovo mi fecero cambiare idea. Aspettavamo ospiti?
 
 
 
 
Nonostante cercassi di fare buon viso a cattivo gioco di fronte agli occhi dei miei familiari, i Cullen non fecero altrettanto. Tutti erano molto nervosi e, insieme, facevano fatica a mostrarsi diversamente: lo spettro del dubbio nei confronti di Aro era sempre alto così come lo era lo stato d’allerta. Erano sempre pronti a qualsiasi evenienza e si perdevano sempre in congetture.
Diversamente da come avevo deciso io, per loro il mio capitolo Volterra non era chiuso. Si aspettavano un contro attacco da parte di Aro ignaro, a quanto sapevano i Cullen, della mia fuga clandestina facilitata da una sua fedelissima. Tutti i Cullen si aspettavano, da un momento all’altro, una sua reazione ma era già passato un mese e non ricevemmo nessun segnale proveniente dall’Italia. Che Aro avesse rinunciato a me? Probabile. Almeno preferivo pensarla in quel modo perché non sapevo cosa pensare. Vedevo la situazione come un semplice dato di fatto: Bella aveva trovato un modo per farmi mandare via dall’Italia all’insaputa di Aro.
Il motivo del suo gesto poteva essere chiaro a qualcun’altro ma non era ancora ben definito per me. Anzi, lo era ma una parte oscura di me non era intenzionata ad approfondire l’argomento.
Alice aumentava il clima di tensione: non riusciva a vedere il futuro e questo le causava forti mal di testa e incrementava lo stato di agitazione della famiglia. Provai a ricordare ai Cullen che, molto probabilmente, la causa delle poche e confuse visioni di Alice ero io, come lo era sempre stata, ma non mi diedero ascolto, preferendo entrare nella paranoia totale.
Infine decisi di andare a vedere cosa stava succedendo in casa. Arrivata in salone fui sorpresa di trovare i Denali: Tanya, Kate, Garrett, Carmen ed Eleazar. I Denali e i Cullen erano tutti vicini tra di loro e occupavano tutti i posti a sedere a disposizione. Guardando i volti dei Cullen capii che anche per loro fu una sorpresa l’arrivo improvviso dei cugini.
“Buongiorno!”, augurai a tutti, sfoggiando il mio miglior sorriso. I Denali tutti si alzarono e mi salutarono con affetto.
“Giusto in tempo! Tesoro, stai benissimo”, mi disse Carmen stringendomi. Le risposi con un sorriso e, quando sciogliemmo l’abbraccio, mi appollaiai nel bracciolo del divano dove erano seduti Emmett e Rosalie.  
Dopo i saluti, l’atmosfera nella stanza si fece immediatamente calma. Capii che fu Jasper a calmarci, utilizzando il suo dono. A quanto pare qualcuno, tra di noi, non era esattamente tranquillo.
Tanya si agitò sul divano, si sporse in avanti e disse con voce grave: “Carlisle, siamo venuti qui senza preavviso perché dobbiamo dirvi una cosa”.
L’effetto di Jasper non durò molto perché tutti drizzammo le spalle, in attesa di scoprire cosa i Denali avessero da dirci.
Carlisle rispose con un muto sguardo attento. Tanya ricambiò e continuò: “Stanotte siamo stati raggiunti da un vampiro. Noi non lo conoscevamo prima di quel momento. Presumiamo nemmeno voi. Si è presentato col nome di Andrew. Noi non conosciamo nessuno con questo nome. Ha chiesto di voi”.
Andrew? Quel Andrew? Sentii raggelare il sangue nelle vene. Il cuore iniziò a battere all’impazzata e pregai che nessuno ci facesse caso in quel momento. I miei occhi si posizionarono su ogni volto dei Cullen e videro in tutti la stessa cosa: sguardi confusi.  Il mio, sicuramente, era diverso dal loro. Feci un respiro profondo.
No, non poteva essere quel Andrew.
Alice si portò le mani alle meningi, chiuse gli occhi e aggrottò la fronte.
“Non abbiamo mai incontrato nessuno che si chiamasse Andrew”, disse Emmett burbero guardando Carlisle che confermò annuendo.
“Come pensavamo”, disse Garrett.
“Cosa ha chiesto?”, domandò Esme.
“Ha domandato dove foste. Non vi ha trovato a Forks”, rispose Tanya.
Non poteva essere Andrew.
“Chiunque lui sia sapeva che ci poteva trovare lì”, fece Jasper, la mascella serrata, gli occhi brillavano di una luce pericolosa.
“Abbiamo fatto bene ad andarcene, allora!”, esclamò Emmett facendomi quasi cadere dal bracciolo del divano su cui era seduta in bilico.
“Vi ha detto perché ci cercava?”, domandò Carlisle.
Tanya esitò un attimo e poi rispose: “Ha detto che vi doveva dare un messaggio urgente. Gli abbiamo detto che ve lo potevamo mandare noi da parte sua ma ha rifiutato”. Detto questo, il silenzio si inoltrò nella stanza per qualche interminabile secondo.
Non poteva essere Andrew.
“Secondo voi…?”, Rosalie iniziò la domanda ma non concluse capendo che tutti avevano capito cosa intendesse.
“Forse”, rispose Carlisle, “oppure qualche clan in difficoltà e con un nuovo membro appena acquisito?”
L’ipotesi di Carlisle era probabile ma nessuno sembrava convenire con lui. I volti di tutti si fecero scettici, alcuni scossero la testa.
“Se qualche clan avesse aggiunto un nuovo vampiro l’avremmo già saputo. Le notizie circolano. E’ dei nomadi che non si sa nulla”, disse Garrett con un ghigno. Forse si era appena ricordato dei suoi trascorsi da nomade.
“Forse è un nomade, appunto”, disse Esme. Esme, come me, non ne voleva più sapere dei Volturi.
“Quale nomade ha l’urgenza di mandarci un messaggio?”, domandò Rosalie, nella sua voce c’era un filo di sarcasmo.
“I Volturi”, fece Emmett, “Per forza”, continuò. Emmett era sicurissimo. Tutti lo guardammo: l’unico motivo probabile era quello. Chi altro poteva essere? Non eravamo famosi per crearci nemici ogni qual volta ci spostavamo per gli stati americani.
“Tanya non ha finito di parlare”, disse Eleazar guardando la vampira. Il suo sguardo la spronava a continuare. Tanya si fece titubante. Noi Cullen riportammo gli occhi su di lei.
Tanya non continuò il suo discorso subito. Sembrava stesse cercando nel suo lessico personale le parole adatte da utilizzare. Persi un battito: non avevo intenzione di ascoltare il continuo.
“Gli abbiamo detto dove vi trovate. Gli abbiamo detto che adesso siete qui, a Willinston. Sono mortificata e dispiaciuta. Perdonatemi.”
Nel salone la temperatura scese incredibilmente, toccando gradi glaciali e nessuno aprì bocca. Tutti cercammo di ingoiare la pillola, sotto gli occhi sgranati dei Denali. Erano intimoriti.
Nessuno si aspettava questa sorta di tradimento. Sapevamo che non avrebbero mai fatto nulla contro di noi ma, per un attimo, fu difficile metabolizzare considerando lo stato paranoico in cui tutti i Cullen riversavano.
Solo Alice rimase nella stessa posizione, come se non fosse in quel momento lì, con noi.
Tanya guardò Carlisle rivolgendogli sguardi di scuse e capii che ancora il peggio doveva arrivare.
Non poteva essere quel Andrew.
“Perché?!”, ruggì Emmett alzandosi. In quel momento sembrò essere alto tre metri, stringeva i pugni e ringhiava. Scattando in avanti, Emmett mi travolse facendomi battere la schiena contro il pavimento.
“Emmett!”, urlò Rosalie tenendolo per un braccio. Stessa cosa fece Jasper. “Basta!”.
Alla reazione di Emmett rispose Garrett nella stessa maniera, mettendosi di fronte a lui, ma venne fermato da Eleazar e costretto a fare marcia indietro.
“Emmett, calma!”, ruggì Carlisle, “Si è scusata!”.
Jasper e Rosalie costrinsero Emmett a rimettersi seduto sul divano e un’altra ondata, da parte di Jasper, di calma ci investì tutti. Mi rimisi in piedi immediatamente e mi affiancai ad Esme, gli occhi ancora spalancati per la scena appena vista, che mi diede una carezza sulla guancia. Kate riportò Garrett a sedere.
I volti che avevo davanti erano tutti molto provati. Solo Alice continuò a non scomporsi: non sembrava essersi accorta di nulla.
La reazione di Emmett fu solo la prova di ciò che poteva comportare il nervosismo che coinvolgeva tutti i Cullen. Al quel pensiero il mio umore peggiorò ulteriormente: non tolleravo vedere la mia famiglia subire qualsiasi cosa. Per me erano invincibili, senza di loro io non ero nessuno. Vederli in quello stato, con le difese abbassate, mi faceva sentire vulnerabile. 
Dopo essersi assicurata che gli animi si fossero almeno assopiti,  Tanya si voltò verso Eleazar e gli chiese in un soffio: “Potresti spiegare tu?”.
Eleazar strinse la mascella e annuì. Prima di aprire bocca e spiegare, si strinse più vicino a Carmen.
“Mentre tentavamo di capire quali fossero le intenzioni del ragazzo, ho notato che lui ha un dono. Un dono molto particolare e potente:è un manipolatore. Molto forte. In vita mia ho conosciuto solamente un altro vampiro come lui”.
Ansimai. Mi mancò il respiro. La bocca spalancata. No.
Mi stava cercando. Mi stavano cercando. Stavo mettendo la mia famiglia in pericolo. No, non potevo permetterlo. No.
Jasper posò il suo sguardo verso di me e mi scrutò attentamente. Notò il mio cambiamento d’umore: la mia reazione alla notizia fu più grave rispetto a quella degli altri. Si avvicinò a me ed Esme e mi cinse le spalle con un braccio e utilizzò di nuovo il suo dono su di me. Ma non sembrò funzionare. E lo capì.
Sentivo i miei polmoni pompare freneticamente in cerca d’aria ma non trovavano nulla. Non riuscivo a respirare, presa da un attacco di panico. Davanti a tutti.
Eleazar continuò a spiegare ma questa volta si rivolse a Carlisle: “Ci ha manipolati. Gli abbiamo detto la vostra posizione perché ci ha obbligato a farlo. E’ stata una esperienza terribile non essere padroni della propria volontà”, la sua voce, alla fine, si fece febbrile.
La calma mi travolse come una valanga ma venne neutralizzata immediatamente, sostituita dall’agitazione che mi bloccava la gola. Sentivo lo sguardo di Jasper fisso su di me.
Non tollerando il suo sguardo inquisitore fisso su di me, mi allontanai da Jasper ed Esme e mi appoggiai alla scrivania accanto alla finestra. Jasper seguì ogni mio movimento. Il suo sguardo era sorpreso, sorpreso da tutta quella mia agitazione.
“Ci dispiace tanto, Carlisle”, disse Tanya addolorata.
Carlisle si sporse in avanti per appoggiare una mano sulla spalla della vampira “Non preoccuparti, cara”. La sua espressione era gentile, come sempre.
Garrett sprofondò nel divano e disse: “Dopo che è andato via, noi siamo partiti per raggiungervi. Come avete notato prima non siamo venuti qui in macchina. Abbiamo corso. Pensavamo che saputo dove siete adesso sarebbe partito immediatamente ma nel tragitto non abbiamo visto nessuno”.
“Aro di certo non si farebbe mai scappare un vampiro con un dono come questo. L’altro che conosco faceva parte della sua Guardia ma, tempo dopo, l’ha lasciata. Per Aro fu una grande perdita. Eclissava sia Alec che Jane”, disse Eleazar.
Emmett disse: “Dobbiamo andarcene da qui”.
“Ma Bella”, iniziò Esme interrompendo Rosalie che stava per parlare, “ci aveva garantito che Aro non avrebbe più interferito”. La sua voce era un miscuglio di dolce, tristezza e ingenuità. Guardandola ebbi il fulmineo moto di scoppiare a piangere e scappare con lei.
Rosalie, le sue mani appoggiate ancora sulla spalle di suo marito, disse: “Se quel tizio non verrà oggi qui, forse verrà domani. O dopodomani. Ora che sa dove stiamo non possiamo perdere tempo a capire perché Bella o chi so io non ha fermato questo vampiro”, disse, la voce fredda. Esme abbassò gli occhi, sconfitta. Mandai una occhiataccia a Rosalie.
“Aspettiamolo, invece”, iniziò Emmett, “aspettiamolo e vediamo cosa vuole da noi”, dal tono della sua voce, tutti noi avevamo intuito che già stava pregustando un eventuale scontro.
Rosalie lo guardò come se stesse scherzando: “Emmett, il vampiro è un manipolatore! Non riusciremmo neanche ad avvicinarci a lui! Non senza….”, non concluse la frase, sigillò le sue labbra.  
Zia Rose aveva ragione: sarebbe stato inutile. Andrew poteva fare di noi ciò che voleva, senza darci il tempo di reagire.
Ad un tratto Alice ci prese alla sprovvista: si alzò di scatto, con irruenza. La fronte sempre aggrottata, lo sguardo concentrato. Gli occhi fissavano su un punto fisso nella pavimento.
“Jasper, vieni con me. Ho bisogno di uscire”, disse. Dalla sua voce traspariva rabbia. Non l’avevo mai vista in quel modo.
“Alice?”, fece Carlisle.
Alice, già di fronte alla porta di casa, seguita da Jasper, disse: “Non riesco a vedere nulla con Nessie!”.
Tanya spalancò gli occhi “Alice, non penso sia…”
Alice la interruppe, scuotendo la testa: “Ho bisogno di vedere. E necessito farlo lontana da Renesmee”.  Il suo sguardo dava segni di intransigenza. Alice sembrava tutt’altra persona.
 “NO!”, le urlai con tutta l’aria che avevo a disposizione nei polmoni. Tutti i presenti si voltarono verso di me, scossi e sorpresi dalla veemenza che avevo usato.
Non me ne curai e continuai a rivolgermi ad Alice e Jasper: “Non potete allontanarvi. Andrew è un membro della Guardia di Aro ed è un manipolatore. Non posso permettervi di andare via sapendo che lui è là fuori che mi cerca”, dissi tutto d’un fiato.
Nessuno aprì bocca. Alice sbarrò gli occhi. Continuai: “Potrebbe farvi del male, farvi fare azioni contro la vostra volontà. Non voglio questo. Per favore ascoltatemi”. 
Alice e Jasper rimasero fermi. Entrambi puntarono i loro occhi fissi su di me.
Strinsi i pugni, continuando a sostenere gli sguardi di Alice, Jasper e del resto dei presenti.
“Il piano di Bella è fallito”, dissi a denti stretti. “Lo cercherò io” terminai. Era l’unica mossa sensata.
 
 
I Cullen e i Denali rimasero in silenzio, senza parole. Non mi aspettavo risposte, né proteste. Non ne volevo.
Dopo la mia entrata ad effetto nella conversazione, mi sentivo un po’ impacciata. Avevo sconvolto tante volte la mia famiglia ma mai in una situazione del genere. Fu una sensazione strana.
Carlisle spezzò il silenzio: “Renesmee, no”.
“Assolutamente no!”, dissero all’unisono Rosalie ed Esme.
Fu ovvio che la reazione sarebbe stata quella. Mi schiarii la voce. In quel momento trovai difficile utilizzare le corde vocali: sembravano meccanismi arrugginiti che non riuscivo ad ingranare.
Feci un passo in avanti, in direzione dei Cullen: “Sappiamo tutti perché Andrew è qui ed è solo questione di tempo prima che sia lui a trovarci. Come ha detto Eleazar, Andrew è molto forte e nessuno di noi potrà proteggersi contro di lui”, feci un pausa, gli occhi dei Cullen sgranati e un fantasma di tristezza li colpì per un secondo.
Continuai: “Sono certa che utilizzerà il suo potere su di voi se opponiamo resistenza. Non lo permetterò”.
Rosalie fece per parlare ma la fermai: non volevo sentire obiezioni, avevo già deciso.
“Renesmee”, fece Carlisle, “non possiamo lasciarti da sola”. In quello stesso momento Emmett e i Denali si alzarono.
Strinsi i pugni “Non voglio che vi veda! Potrebbe farvi del male!”.
“Nessie”, disse Rosalie, il volto colto dalla rabbia, “No”. Si voltò verso Alice e, brusca, le chiese: “Vedi qualcosa?”.
“Niente”, sbottò Alice. La sua fronte si era distesa ma aveva una espressione scocciata.
“Non. Potete. Difendervi.”  Dissi a denti stretti. “Con voi o senza di voi riuscirà ad avere quello che vuole!”.
“Renesmee ha ragione”, disse Eleazar.
Dall’esterno udimmo un colpo sordo, secco, contro il terriccio freddo.
Mi voltai e guardai oltre la finestra. Era lì, fermo. Non gli volle molto intercettare il mio sguardo.
Prima che qualcuno potesse aprire bocca, aprii la porta ed uscii. Il vento freddo mi diede uno schiaffo in faccia.
Andrew non distolse lo sguardo su di me e sorrise. “Andiamo?”, domandò.
Non gli risposi. Gli diedi le spalle. Come mi aspettavo, trovai i Cullen dietro di me. Tutti i loro occhi puntati su Andrew.
“Tornerò presto. Promesso. Non mettetevi in pericolo”, dissi loro.  
Girai i tacchi e raggiunsi Andrew che non smetteva di sorridere.

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Capitolo 30
*** Capitolo 29. ***


Perdonatemi il ritardo. Spero che questo capitolo vi piaccia. Vi auguro una buona lettura!
Bellamy.
 
 
 
Una falcata veloce, un umano non sarebbe riuscito a cogliere con lo sguardo il mio spostamento, e mi misi accanto a Andrew. I suoi occhi si erano spostati sui Cullen e li fissava interessato, con una strana ombra sul viso.
Io, d’altro canto, continuai a porgere loro le spalle. Non avrei mai potuto tollerare o reggere il peso dei loro sguardi, le reazioni impresse nei loro volti. Erano sbigottiti? Sgomenti? Furiosi? Delusi? Ero troppo debole per potermi girare e controllare da me stessa. Troppo vigliacca.
Sapevo che, se mi fossi girata verso la mia famiglia, sarei corsa verso di loro pregandoli di andare via, di mettersi al sicuro. Avrei continuato a promettere loro che sarei ritornata. Per sempre.
Ma non mi avrebbero ascoltato e si sarebbero messi in pericolo, inutilmente, e questo non lo avrei potuto accettare. Erano, eravamo, disarmati di fronte al dono di Andrew. Il vampiro poteva fare di noi ciò che voleva senza che noi potessimo opporre resistenza e precederlo. Nessuno era abbastanza forte fisicamente per poterlo fermare. La forza fisica non poteva battere la capacità di controllare la mente e la volontà altrui.
Strinsi la mano destra di Andrew, prendendolo alla sprovvista. Nello stesso momento dei ruggiti stavano nascendo dai petti di Jasper ed Emmett.  
“Fermali. Per favore.” Lo pregai. Guardai Andrew dritto negli occhi e lui ricambiò il mio sguardo: sembrava sorpreso della mia richiesta ma la sua espressione immediatamente si oscurò e nel suo viso spuntò un ghigno.
Si voltò verso la mia famiglia e con un sussurro, quasi inudibile, malizioso e subdolo ordinò: “Tornate indietro.”
Tremai a sentire il suono della sua voce, al modo in cui si era rivolto alla mia famiglia: c’era qualcosa di cattivo in lui, come se provasse piacere ad utilizzare il suo dono sapendo che le persone erano totalmente inermi ai suoi occhi. Forse gli era sempre piaciuto, gli era sempre piaciuto abusare del suo potere, probabilmente aizzato dai Volturi stessi.
Non passò neanche un secondo dall’ordine di Andrew che sentimmo il suono di tanti passi leggeri. Stavano arretrando.
Non mi voltai. Non ne avevo il coraggio, provavo troppa vergogna verso me stessa. Non volevo che vedessero il mio volto: il volto di una vigliacca, di una codarda. Non mi avevano educata in quel modo e questo non era il modo giusto per ripagarli.
Ma che potevo fare? Metterli a sicuro era l’unica, sensata soluzione.
Non curandomi di Andrew, iniziai a correre senza una direzione precisa. Ovviamente mi avrebbe raggiunta. Corsi sfiorando a malapena il terreno innevato e gli alberi ghiacciati. Mi chiesi dove fossero i Cullen in quel momento, se erano ancora sotto i sortilegi di Andrew e cosa avrebbero fatto dopo essersi ripresi.
Il panico arrivò come un meteorite caduto all’improvviso rallentando la mia corsa: cosa avrebbero fatto?
Sarebbero ritornati a Volterra? Si sarebbero arresi? Mi avrebbero aspettato in America? Di tutto ciò che io avevo chiesto di fare – proteggersi – i Cullen avevano fatto il contrario.
Sentii Andrew correre dietro di me e, un secondo dopo, mi mostrava la strada. Superandomi mi fece un sorriso sarcastico, lo ricambiai con uno sguardo glaciale e aumentai il passo per raggiungerlo.
Per tutto il tragitto, verso dove non sapevo precisamente, non gli parlai. Non avevo nulla da dirgli. Neanche lui, a dire il vero, prese parola. A volte si voltava verso di me, per studiare la mia espressione. Nel suo volto si trovava stampato un sorriso divertito. I suoi occhi continuavano a brillare, diabolici.
A malapena mi curavo di dove stessimo dirigendo. I miei occhi guardavano davanti a loro o Andrew ma la mia attenzione era rivolta altrove, verso la mia famiglia. Lo stomaco si chiuse e una forte nausea mi spingeva a fermare la mia corsa ma sapevo fosse una questione più mentale che fisica.
Mi sentivo una criminale e il mio reato era il tradimento. Avevo tradito la mia famiglia. Li avevo abbandonati di nuovo. Il pensiero di ritornare da loro mi travolgeva di vergogna. L’emozione era come le sabbie mobili: mi sentivo affogare dalla sabbia, viscosa, man mano che sprofondavo giù, nelle viscere della terra, e qualsiasi mio intento per risalire in superficie si rivelava inutile.
Per un momento pregai che i Cullen mi rifiutassero, che decidessero di cacciarmi via dalla loro famiglia.
Corremmo per tutto il pomeriggio mentre il sole ci accompagnava nella sua quotidiana corsa. Presto avrebbe dato il posto alla luna. Ci muovemmo sempre inoltrati nei boschi che costeggiavano le autostrade. Nonostante fosse coperto da un cappotto e da una felpa, il corpo di Andrew continuava ad emanare dei fasci luminosi al contatto con i raggi del sole. Era troppo rischioso muoversi in mezzo agli umani e l’obbiettivo principale dei Volturi era quello di mantenere intatta la segretezza che intaccava i vampiri.
Il sole, per me, non era mai stato un problema. Il mio corpo non diventava di diamante a contatto con i raggi solari. La mia pelle emanava un febbrile e debole bagliore, facendola diventare ancora più diafana, quasi sfocata. L’effetto era praticamente invisibile agli occhi miopi degli umani e ciò mi permetteva di girare in mezzo a loro con tranquillità.
Al tramonto il nostro passo si fece più lento e la folta popolazione di alberi sempre più rada così come la neve. Ci stavamo avvicinando a grandi spazi vuoti con poca vegetazione o nulla, ricca di parcheggi ed auto.
Eravamo diretti verso l’aeroporto.
Ci fermammo in un parcheggio, il via vai di macchine e persone era costante così come il vocio. Molti ci passavano accanto, scrutandoci per qualche secondo, perplessi. Uno schermo segnava le otto di sera.
Andrew si tolse il cappuccio della felpa dalla testa e si guardò intorno. Era molto concentrato e posava gli occhi su ogni singola persona che entrava nel suo campo visivo. Inspirò in maniera pesante per tre volte e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, scuri e determinati, capii cosa aveva intenzione di fare. Conoscevo bene quello sguardo. Tutti avevano quello sguardo quando dovevano andare a caccia.
“Seguimi.” Mi ordinò e così feci. Le mie gambe si mossero da sole. Attraversammo le lunghe file di auto parcheggiate per raggiungere il termine del grande parcheggio. Molti posti a disposizione erano vuoti, solo poche macchine vi sostavano.
Ogni singola cellula del corpo di Andrew emanava minaccia. Il suo sguardo era affilato e pericoloso. Avrei voluto mettermi ad urlare. Urlare a tutti gli umani presenti di scappare, di allontanarsi dall’aeroporto. Ognuno di loro era una potenziale vittima e io non potevo tutelare, proteggere nessuno. Riuscivo solo a camminare, a seguire Andrew. Avevo perso la capacità di utilizzare la mia bocca, di parlare.
Al nostro passaggio, la gente si fermava permettendoci di superarli. Ci lanciavano sguardi spaventati ma allo stesso tempo strabiliati. Ringraziai, comunque, il loro istinto e il loro buonsenso: riuscivano a percepire il pericolo che irradiava Andrew – e il mio nervosismo? – e quindi capirono bene di non avvicinarsi a lui.
Ci fermammo sotto un porticato vuoto. Non c’era nessun’altro testimone se non io stessa. A centocinquanta metri da noi, c’era una famiglia composta da madre, padre e due bambini che stava scaricando i bagagli a terra. La loro auto era isolata dalle altre.
Andrew fece un ghigno: aveva trovato la sua cena. Prima di avvicinarsi e mettere fine alla vita di quella povera e innocente famiglia, Andrew staccò tutte le videocamere a circuito chiuso presenti nel perimetro in cui avrebbe attivato il suo piano. Questa operazione durò solo due secondi. Nessuno si sarebbe accorto di lui, troppo veloce, se non io. Le autorità se ne sarebbero accorte solo qualche minuto dopo.
Il padre stava ancora scaricando le cinque grandi valigie a terra mentre la madre stava cercando di calmare i figli, troppo su di giri per il viaggio che non si sarebbe mai compiuto.
“Non ti muovere.” Mi sussurrò all’orecchio ed io mi irrigidii, diventando una statua, inanimata. Gli occhi fissi sulla scena che sarebbe avvenuta davanti a me tra pochi secondi.
“No!” Avrei voluto urlare. “Scappate!” Ma non trovavo né le mie corde vocali né le mie labbra, erano sparite dalla mia anatomia. Ero costretta solo a guardare.
“Salve, scusate.” Disse Andrew con voce cordiale e dolce. I due adulti si voltarono verso il ragazzo e sgranarono gli occhi, sorpresi dalla bellezza non comune paratasi davanti a loro.
Visto che i due umani non gli risposero, Andrew continuò con la sua farsa, la voce dolce e gentile: “E’ la prima volta che prendo un aereo qui a Seattle…”, la sua voce si fece incerta, “… per il check-in si va in quella direzione?”
Andrew indicò un luogo che non riuscii a vedere a causa della posizione in cui mi trovavo. I lati della mia visuale erano coperti da imponenti colonne di cemento.
La donna rispose cordialmente, balbettando: “Proprio così! Se vuoi andiamo insieme…”
Andrew non le diede tempo di terminare la sua frase. Chiusi gli occhi, incapace di poter assistere a tale ingiustizia. La famiglia non riuscì neanche ad emettere un grido di aiuto.
 
 
 
Stavamo salendo le scalette di un aereo privato, le dimensioni erano quelle di uno di linea, pronto a decollare. I due piloti ci diedero il benvenuto. Ci informarono che la partenza era prevista fra mezz’ora. Delle assistenti di volo nessuna traccia.
Entrammo nell’abitacolo, uno dei due piloti si dileguò immediatamente. I lati erano occupati da lunghi divani scuri, in mezzo vi era un tavolo rettangolare con bevande e snack. In fondo due poltrone e un tavolino con altro cibo e vasi di fiori.
Andrew andò alla ricerca di un borsone nero. Notai solo in quel momento delle macchie di sangue sui suoi vestiti, confusi con il colore cupo dei suoi capi. Se i due piloti se ne fossero accorti, sarebbero andati fuori di testa. Gettò il cappotto e la felpa a terra e indossò una camicia nera.
Mi gettai nel divano a sinistra e mi coprii gli occhi con un braccio. Non mi sentivo stanca né provavo nulla in quel momento. Apatia totale.
Andrew fece la stessa cosa: sentii il tonfo sordo causato dallo scontro tra il suo corpo e il divano a destra. Lo spostò di qualche centimetro.  Di sottecchi guardai il secondo pilota chiudere il portellone e assicurarlo per poi dileguarsi velocemente come il collega.
Scese nuovamente il silenzio.
Dopo un tempo che mi sembrava interminabile, mi ricordai che avevo nella tasca degli jeans il cellulare. Mi misi comoda nel divano e guardai l’orologio sopra la tv di fronte: mancavano dieci minuti alla partenza.
Incurante delle reazioni di Andrew, chiamai Carlisle. “Al diavolo!”, mi dissi.
Non attesi molto. “Renesmee?” Domandò Carlisle. La sua voce era carica di apprensione e una nuova ondata di vergogna mi travolse come una onda improvvisa. Andrew si mise a sedere, in ascolto.
Non ci feci caso. “Sì”, risposi con un sussurro,  “sto prendendo un aereo. Non seguitemi. Non mettetevi in pericolo per me.”
“Renesmee”, la voce di Carlisle si fece seria, “sai che faremo di tutto per proteggerti. Qualsiasi cosa.”
Il mio respiro si smorzò. Lo sapevo. Sapevo che avrebbero fatto di tutto pur di proteggermi, per tenermi al sicuro. Ma questa volta non l’avrei permesso. Il presentimento sinistro, paranoia o meno, che covavo da molto tempo era troppo grande per permettermi di mettere in pericolo la mia famiglia.
Ero tornata dai Cullen. Sì.
Bella, l’ombra di Aro.
Era stata lei stessa ad aiutarci a pianificare la mia fuga da Volterra. Cos’altro avremmo dovuto fare prima di scatenare la furia di Aro? Lui e i Volturi erano troppo pericolosi. Loro erano quelli che facevano rispettare la legge. Per quale motivo avrei dovuto permettere alla mia famiglia di infastidirli? Il rischio era troppo grande. La Guardia contava vampiri dotati di poteri pericolosi e dolorosi. Primi tra tutti Alec e Jane. Andrew.
Noi eravamo in sette: troppo pochi per potersi confrontare contro i Volturi.  
Non ne valeva la pena rischiare la propria vita per me.
“Sì”, risposi alla fine, “lo so.” Sapevo che non mi avrebbero ascoltata. Sapevo che non sarebbero rimasti a Willinston. Sapevo sarebbero stati aggrappati a qualsiasi visione di Alice, speranzosi di poter vedere il mio futuro.
“Aspettate una mia chiamata.” Dissi alla fine. “Vi chiamerò e tornerò a casa. Non mettetevi in pericolo. Per favore. Mi dispiace.”
Terminai la chiamata. E mi gettai di nuovo nel divano e chiusi gli occhi. Sentivo quelli di Andrew fissi su di me.
L’aereo iniziò a muoversi. Stavamo partendo.
Aprii gli occhi e incontrai quelli di Andrew. Il suo volto era concentrato ma, allo stesso tempo, perplesso. Sembrava aver già dimenticato lo spuntino di qualche minuto prima.
“Sono sempre stati così?” Domandò.
“Così come?” Borbottai.
“Così protettivi nei tuoi confronti?”
“Sì.” Risposi. “Tengono molto a me ed io a loro. I nostri rapporti sono molto diversi da quelli tra gli altri vampiri.” Andrew era un neonato. Quanto poteva sapere delle dinamiche del suo mondo? Forse quello era il suo primo viaggio al di fuori dall’Italia.
“Ci consideriamo una famiglia.” Conclusi.
“Siete in tanti.” Considerò Andrew. Non capii se era ammirato o se la sua era una semplice constatazione.
“Te l’ho detto: siamo diversi da tutti gli altri clan. Siamo il più grande dopo quello vostro.” Gli lanciai una occhiata per controllare la sua reazione ma lui non reagì. Aveva notato una punta di orgoglio nella mia voce?
Si limitò a fare spallucce. “Io mi trovo bene con Aro… Ha il suo fascino. Forse sono di parte perché io ero destinato a far parte della Guardia, in qualche modo.”
Rimasi di stucco. “Cosa?” Domandai. Personalmente non trovavo i Volturi affascinanti. Né i racconti di Carlisle né l’esperienze vissute con loro mi diedero motivo per apprezzarli. Forse Bella. Lei sembrava l’unica persona normale… nella maggior parte dei casi.
Riconoscevo l’autorità nei Volturi. Tutto qui. Per me, erano dei vampiri che tramavano nel buio, immobilizzati dal tempo e della torre campanaria che li proteggeva.
Il volto di Andrew era sereno quando mi rispose: “Sapevano, quando ero umano, che avevo del potenziale. Girano il mondo alla ricerca di vampiri con doti che fanno girare la testa ad Aro, Caius e Marcus. Hanno pagato i miei genitori affinché io andassi con loro. A quanto pare con gli umani fanno così. Dopo avermi trasformato li hanno uccisi. Nonostante il breve incontro sapevano già troppo. Alla fine mi sono assicurato che il denaro rimanesse alle mie sorelle.”
Ero senza parole. Sentii la mia bocca aprirsi in due, incapace di proferire parole o realizzare un pensiero.
E trovava i Volturi affascinanti?
“Non provi nemmeno un po’ di ira nei loro confronti?” Gli domandai. Alle mie orecchie sembrava tutto così assurdo. Non avrei mai immaginato che, per il potere, i Volturi sarebbero andati così lontano.
Andrew si ristese sul divano, le mani dietro la testa. “No. Possono uccidermi da un momento all’altro.” Continuò, ancora più tranquillo: “Basta chiamare Bella o Renata. Loro bloccano il mio dono … e mi uccidono. Manipolare qualcuno protetto dagli scudi più potenti in circolazione non è molto utile.” Mi lanciò uno sguardo divertito. Spiegò tutto come se fosse qualcosa di ovvio, logico, matematico.
“Ma… i tuoi genitori…” farfugliai.
Andrew sbuffò: “Hanno preferito i soldi a me. Se dovessi essere arrabbiato con qualcuno, lo sarei con loro.”
Ammutolii. Non potevo dargli torto. I vampiri, con il loro fascino, potevano fare degli umani ciò che più desideravano.
Ero visibilmente sotto shock ma Andrew fece finta di niente. Forse lui si era rassegnato. D’altronde aveva ragione: cosa poteva fare per rimediare? Nulla.
L’aereo era già decollato e aveva preso quota. Mi misi comoda sul divano e acchiappai un pacco di qualche snack salato. Non mi piaceva molto il cibo salato degli umani. Preferivo i dolci. Decisi di mangiare perché non sapevo quando sarebbe stata la prossima volta in cui avrei potuto nutrirmi di sangue.
“Quindi”, iniziai mentre sgranocchiavo, “quanto tempo avete impiegato per capire dove mi trovavo?”
Andrew mi guardò e il suo volto ritornò perplesso.
“Cosa?” Domandai mentre finivo il primo pacchetto e prendevo l’altro.
Aggrottò la fronte. “Nessuna lamentela? Nessun piagnisteo?” Domandò .
Capii quello che intendeva e se non fossi stata così arrendevole mi sarei offesa, cadendo nella trappola della sua ironia. Avrei urlato, elencando tutti i futili motivi per cui mi ero ritrovata, ad un certo punto della mia vita, a Volterra.
Era stato del tutto inutile piangere, pregare di poter tornare a casa. Ero a tornata a casa. Ed ora mi trovavo in un aereo di ritorno verso coloro da cui volevo tanto essere lontana. Di nuovo.
Perciò era inutile opporre resistenza. Non volevo scatenare la furia di Aro e mettere in pericolo la mia famiglia inutilmente, non quando non sapevo come aveva reagito Aro stesso alla mia fuga.
“Nessuna lamentala.” Affermai.
“Bene”, fece Andrew guardando il mio volto che presumevo essere tranquillo, “perché a Volterra eri costantemente terrorizzata.”
Feci una smorfia ma rimasi in silenzio. Aspettavo che rispondesse alla mia domanda.
Mi lanciò una occhiata veloce e poi guardò davanti a sé. “Che stavi scappando via l’avevamo scoperto subito. Edward ha fatto la spia.”
“Ovvio!” Sbottai e la rabbia che quel vampiro provava, senza una valida giustificazione, nei miei confronti mi fece ribollire il sangue. C’era da aspettarselo. A differenza di Bella, Edward non aveva mai mostrato simpatia nei miei confronti. Anzi, tutto il contrario. Non che io cercassi le sue simpatie, certamente. Era ovvio che avrebbe fatto di tutto per mettere i bastoni fra le ruote a Bella. 
Andrew rise ma io non trovai nulla di così divertente. Ero sconcertata.
“E’ incredibile quanto tu gli asso-“.
“E’ incredibile il suo comportamento.” Lo interruppi. “Non sembrano neanche sposati.” Continuai.
Andrew aggrottò la fronte: “Sono sposati? Lui e Bella?”
Feci spallucce: “A quanto pare.” Più che sposati, sembravano nemici.
“Quando Bella si è scontrata contro Felix e Demetri, Edward non si è precipitato subito a proteggerla.”
Rimasi di nuovo esterrefatta. Era ingiusto. Nel mia mente passarono le immagini di Carlisle ed Esme, Alice e Jasper, Rosalie ed Emmett. Non era mai capitato che ci dovessimo scontrare con qualcuno, ma ero sicura che il nonno e gli zii avrebbero protetto le rispettive compagne.
Chiusi gli occhi e poi li riaprii.  Feci un respiro profondo. “Perché Bella ha combattuto contro Felix e Demetri?”
“Minacciava Aro.” Rispose Andrew. Cercai di leggere il suo volto ma era indecifrabile.
“Gli urlava che doveva starti lontano… e che non avrebbe mai detto dove ti stavi dirigendo con il tuo clan.” Fece una pausa. “Cosa strana perché Edward aveva sentito dalle menti della tua famigliola dove eri diretta.” La sua voce vibrava ilarità.
Mi portai le mani al volto e un sibilo uscì dal profondo della mia gola. Lo sapevo. L’avevo avvertita. Tutti i suoi sforzi per liberarmi l’avrebbero solo messa nei guai.
“Sei arrabbiata?” Domandò.  
Allontanai le mani dal mio viso e le strinsi in pugno “Sì! Le avevo detto che non doveva mettersi nei guai!” Urlai in un unico respiro. Mi domandai quanto stavano captando i piloti dalla cabina di pilotaggio.
Andrew sbuffò:  “Questa donna è strana con te. Nessuno della Guardia si è mai curata di te e invece lei ha con te un approccio… strano.”
Non prestai molta attenzione alla prima parte del suo discorso. “E’ solo molto… buona.” Dissi alla fine, in sua difesa.
“Secondo me è pazza.”  
Guardai l’oblò davanti a me: era calata la notte e la luna era coperta da nuvole scure. Eravamo stati inghiottiti dal buio. La mia mente ritornò alla mia famiglia ma, come un lampo, passò a Bella.
Cercai di immaginarmela: il suo volto sfigurato dalla furia mentre cercava di divincolarsi dalla presa di Felix e Demetri per attaccare Aro. O forse stavo esagerando?
Nonostante tutto mi sentivo riconoscente verso Bella. In quel momento non riuscii a non interpretare i suoi gesti se non come atti di amore. Un atteggiamento del genere potevo comprenderlo da parte dei Cullen. O dei Denali.
Ammettevo che, a volte, Bella era risultata strana anche ai miei occhi. Ma, riguardando indietro nel tempo, riuscivo solo a ricordare i momenti di gentilezza nei miei confronti. Bella mi faceva sentire amata.
Edward. Amava Bella? Non potevo dirlo ma sembrava di no. Non accettavo che Bella, che donava tante attenzioni ed amore, non ricevesse altrettanto amore in cambio. Strinsi i denti e un moto di ira mi mosse contro quel vampiro. 
Sospirai e portai la mia mente verso un altro argomento: “Non stiamo andando a Volterra, vero?” Domandai ad Andrew.
Il nero del cielo, le stelle erano le grandi assenti, che ci accompagnava nel nostro viaggio fece attivare il mio sesto senso. Qualcosa mi diceva che stavamo andando altrove, che non eravamo diretti in Italia. I due piloti non diedero indicazioni sul viaggio e tantomeno sulla destinazione.
La paranoia, dentro di me, aumentò.
Scosse la testa come svegliato da qualche strano sogno ad occhi aperti. “No.” Rispose alla fine.
In testa vorticarono i volti di Liev, il vampiro che procreava con le umane, e le sue due figlie. Due mezze vampire. Ricordai il giorno in cui le vidi. Come Liev mi scrutava, mi studiava. Gli occhi curiosi delle due ragazze. E, infine, ricordai il momento in cui Bella mi diceva che sarei andata in guerra.

 

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Capitolo 31
*** Capitolo 30. ***


C’era caldo. Molto caldo. La temperatura era torrida, asfissiante e non permetteva ai polmoni di funzionare adeguatamente. Facevano male, li sentivo premere sulla gabbia toracica. Annaspavo aria fresca invano mentre volate di sabbia rovente schiaffeggiavano il mio viso. Granelli caldi e salati toccarono le mie labbra.
Arrivammo in Italia, a Roma, alle nove del mattino del giorno successivo. Come immaginavo, non ci dirigemmo verso Volterra. Non abbandonammo nemmeno l’aeroporto.
Andrew, incappucciato e con indosso dei guanti scuri, mi trascinò fuori dal jet e mi condusse in un altro pronto a partire. Anche lì, non c’era nessuna assistente di volo ad aspettarci, solo altri due piloti che ci informarono che l’aereo sarebbe partito fra mezz’ora.
Per tutta la durata del nuovo tragitto Andrew non proferì parola. Una espressione concentrata non l’abbandonò neanche un attimo, come se fosse stata incavata sulla pietra che era il suo volto.
Provai a parlargli, a domandargli dove fossimo diretti, ma non degnò di voltarsi e rispondermi. Fissò dritto davanti a sé per tutto il tempo.
Solo due volte dimostrò di essere ancora presente a sé stesso, quando si nutrì del mio sangue. Mi morse sul collo e sul polso, annullando ogni mia volontà con il suo potere. Sfiancata e spossata dall’eccessiva perdita di sangue, dormii per quasi tutto il viaggio.
Non sapevo dove mi trovavo. Quando l’aereo atterrò, ero ancora molto debole e non riuscii a capire quale fosse la nostra destinazione finale. Andrew non mi diede opportunità di capire: fu lui stesso ad aprire il portellone dell’aereo con una fretta che faceva bollire le vene, incurante delle proteste dei piloti.
Prima che potessi guardarmi intorno e capire dove mi trovassi, Andrew mi prese in braccio ed io mi agganciai alle sue spalle. Venni accecata dalla luce del sole che, prepotente, inondava tutta la mia visuale di lampi bianchi.
“Chiudi gli occhi.” Mi ordinò. Serrai le palpebre e dalla pista degli aerei partimmo. Andrew corse velocissimo. Avendo gli occhi chiusi, cercai di captare più suoni e conversazioni possibili per poter comprendere dove ci trovavamo e dove eravamo diretti.
Riuscii a sentire dei dialoghi tenuti in Indiano. Erano tante voci concitate che si coprivano a vicenda. Inoltre colsi pure delle conversazioni in Arabo, forse? Ma mi sembrava più una sorta di dialetto.
Comunque, non sentii nessuna conversazione in Inglese o in qualsiasi altra lingua di mia conoscenza. Ad un tratto del nostro cammino, le uniche cose che riuscivo a sentire erano i passi veloci di Andrew e il suono del vento in contrasto con il silenzio più puro.
Andrew non mi aveva permesso di guardare ma ancora potevo utilizzare il mio dono. Allungai una mano verso la guancia del vampiro.
“Dove stiamo andando?” Gli domandai. Mi rispose scuotendo il viso, cacciando via la mia mano.  
Dal suono dei passi di Andrew capii che non stava camminando su una superficie solida, il suono che proveniva dai suoi anfibi era troppo sordo. Continuai ad avere le palpebre chiuse, impossibilitata ad aprirle.
Non le sentivo incollate o altro, le sentivo semplicemente chiuse. Cercai di aguzzare meglio il mio udito e non riuscii a sentire nulla se non il silenzio più desolante e il frusciare del vento.
Andrew si fermò e mi fece scendere dalla sua schiena. Mi permise di aprire gli occhi dopo un tempo che mi parve infinito. Battei le palpebre più volte cercando di adattarmi alle luci forti che entravano prepotenti nel mio capo visivo: giallo, arancione, bianco e blu.
Mi guardai intorno: eravamo nel deserto. Sotto ai miei piedi c’era della sabbia, ovviamente. Sopra, il sole ci intrappolava in qualsiasi direzione. Attorno a noi non c’era nulla di utile all’uomo per poter sopravvivere.
Solo una grande distesa di sabbia, vaste dune e colline dove il cielo si confondeva con le miriadi di granelli color beige scuro.
Si sarebbe tenuta qui la battaglia? In mezzo al nulla? Di certo era il posto migliore.
Istintivamente cercai il mio cellulare nelle tasche posteriori dei miei jeans ma non lo trovai. La mia famiglia non mi avrebbe mai potuto trovare e io non avevo la più pallida idea di dove fossi, esattamente, nel mondo.
Andrew mi guardò e sbuffò: “Non ti servirà.” Disse arrogante. Una sua mano strinse il mio braccio e mi spintonò, spronandomi a camminare.
“Dove stiamo andando?” Gli domandai nuovamente. “Dove siamo?” Nella mia mente passarono tutti i deserti presenti sulla Terra. Potevamo essere ovunque.
“Stai zitta e cammina Ren.” Rispose Andrew a denti stretti. Era sempre molto concentrato. Guardava fissò davanti a sé, verso l’orizzonte. Davanti a noi non c’era nulla se non sabbia. Stavamo andando in una oasi?
Camminammo per vari minuti, forse una ventina. Mi domandai perché Andrew non si mise a correre, avremmo potuto raggiungere la meta prima, ma decisi che, infondo, non mi importava.
Non mi sentivo in me in quel momento. Mi sentivo risucchiata dagli ultimi eventi, come se avessi dormito per secoli e ora stavo rivivendo ogni singolo anno perso. Tutto in un solo minuto.
Mi guardavo attorno e avevo la sensazione di non guardare con i miei occhi ma con quelli di qualcun altro. Avevo, inoltre, una forte sensazione di déjà-vu.  
All’orizzonte cominciò ad apparire una macchia scura che esaltava dallo sfondo del deserto. Man mano che ci avvicinavamo, la macchia diventava un gruppo distinto di nove persone. Erano tutti incappucciati dalla testa ai piedi con un mantello nero pesante. Il cuore iniziò a battermi ancora più forte e trasalii.
Andrew sbuffò e scosse la testa. Non fece nessun ulteriore commento sulla mia reazione.  
Quando eravamo a due metri di distanza dal gruppo, Aro, Caius e Marcus, Alec e Jane, Felix, Demetri ed Edward si voltarono verso me ed Andrew.
Bella non c’era. Renata aveva preso il suo posto. Notai che Renata aveva il compito di proteggere Marcus e Caius. Bella era solo di Aro. Perché non c’era? Dov’era? La sua assenza era un brutto segno?
“Signori.” Salutò Andrew lasciandomi il braccio.
Aro avanzò verso di noi. Nonostante il suo viso fosse coperto più della metà dal cappuccio, il mento e la bocca irradiavano tanti diamanti al contatto col sole.
Guardò Andrew, i suoi occhi sprizzavano ammirazione, gratitudine e qualche forma perversa di amore.
“Te ne sono grato, mio diligente Andrew.” Disse guardandolo per qualche secondo. Infine si voltò verso di me e, vigoroso, mi abbracciò forte, prendendo alla sprovvista tutti.
Mi irrigidii e non ricambiai l’abbraccio. In quel momento avevo paura di Aro e di tutti gli altri Volturi presenti. I battiti del cuore aumentarono di una velocità mai raggiunta prima.
Sciolse l’abbraccio ma continuò a tenere le sue mani, strette come una morsa di ferro, sulle mie spalle.
Mi fece un sorriso, un sorriso rammaricato. “Renesmee…” iniziò contemplativo “sai, mi è dispiaciuto sapere che te ne volevi andare da Volterra. Potevi dirmelo. Avremmo risolto. Potevi chiedere direttamente a me, o ai miei fratelli, invece di rivolgerti a Bella.”
La sua voce era una minaccia caramellata di zucchero. Faceva venire i brividi.
Non gli risposi, continuai a sostenere il suo sguardo. I suoi occhi erano due pozzi profondi di cattiveria. All’apparenza sembrava gentile ma sapevo che, in realtà, non era così.
“Allora?” Mi esortò. Continuai a non rispondergli. Sigillai le mie labbra. La sua era tutta una messa in scena e io non volevo farne ulteriormente parte. Dovevo combattere? Va bene! Ma ero stanca di quello spettacolo.
Aro sorrise e velocemente strinse una mia mano. Chiuse gli occhi mentre leggeva le ultime settimane della mia vita. Cercai di divincolarmi dalla sua stretta ma Demetri si materializzò dietro di me e mi tenne ferma al suo petto.
Cercai nuovamente Bella dietro le spalle di Aro ma non c’era. Non era lì. Andrew aveva detto che si era scontrata con Felix e Demetri. Stava bene?
Era viva?
Cercai gli occhi di Edward e i suoi mi trovarono in fretta.
Sembrava combattuto. La sua postura era ben diversa dagli altri.
Tutto il suo corpo era in tensione. La sua ansia era palpabile. Edward tentava di mascherare il nervosismo con scarso successo. Le sue mascelle erano contratte, i suoi occhi scuri saettavano tra me ed Aro, le sue mani erano strette in pugno e la bocca semi aperta come pronto ad urlare.
In quel momento non era più l’Edward sicuro di sé ed arrogante che mostrò essere per tutta la mia permanenza a Volterra. Era sofferente.  
Aro aprì gli occhi di colpo ma, comunque, tenne ancora la mia mano tra le sue. Fece un sorriso bonario.
“Sei così coraggiosa Renesmee.” Iniziò. “Molto coraggiosa. Affidarsi totalmente alle mani di uno sconosciuto... accettare qualsiasi destino.”
Lo guardai dritto negli occhi e serrai le mascelle. Avrei tanto voluto avventarmi contro di lui e staccargli il collo a morsi. Continuai a non sostenere quella conversazione.
Tenendo ancora le mie mani, Aro lesse i miei ultimi pensieri e le mie intenzioni. Mi sorrise e continuò a parlare: “Hai paura di morire, hai paura per Bella. Sta benone, ti assicuro.”
“Hai paura per Carlisle… per la tua famiglia. Hai chiesto loro di non seguirti. Che cara.” Terminò, c’era del sarcasmo nella sua voce.
Strinsi i denti e dal profondo dei miei polmoni crebbe un ringhio. Cercai di divincolarmi dalla stretta di Demetri per scattare contro Aro ma il vampiro capì le mie intenzioni e mi tenne ancora più stretta. Felix venne in suo aiuto.
“Non avvicinatevi a loro! Non vi hanno fatto nulla! Me ne sono andata io!” Urlai. Non fate del male a Bella. Non era solo una minaccia rivolta ad Aro ma a tutti. Dietro di lui, Caius stava pregustando la scena.
Aro avvicinò il mio viso al suo. Solo pochi centimetri ci dividevano. Continuai a fissarlo negli occhi e mi sentii sprofondare in un vortice infinito. Il cuore batteva così forte che lo sentivo salire su tutta la gola fino alla bocca.
Si mise a ridere e il suo alito freddo colpì tutto il mio volto. “No, non faremo del male alla tua famiglia Renesmee. D’altronde è sempre stato Carlisle a mettere in gioco la nostra pazienza.”
Cercai di muovermi in risposta e un altro ringhio uscì dalla mia bocca. Era difficile muoversi, riuscivo solo a strattonarmi tra le mani di marmo e acciaio di Felix e Demetri.
“Cosa intendi?!” Domandai. Carlisle non aveva fatto mai niente di male, tantomeno ai Volturi.
Il sorriso e l’ilarità sparirono dal volto di Aro. Il vampiro tornò serio, grigio, le labbra strette.
“Jane.” Chiamò.
Un pugno in viso, un calcio nello stomaco e negli stinchi, un colpo al collo e nelle orecchie.
Peggio ancora: pelle strappata, polmoni in fiamme, scariche elettriche nel cervello e negli occhi.
All’improvviso provai tutti quei dolori contemporaneamente ma nessuno mi aveva toccata. Non mi resi conto che mi trovavo ora a terra, a divincolarmi sulla sabbia e a urlare, e non più stretta tra Felix e Demetri. Perché riuscivo solo ad urlare, non riuscivo a dare un senso e a mettere a parole quello che stavo provando in quel momento.
Chiunque altro avrebbe chiesto aiuto. Pure io ma sembrava una azione troppo difficile da fare in quel momento. Impensabile quasi.
Un dolore lancinante, straziante, indescrivibile. Assurdo. Sembrava impossibile provare una sofferenza tale.
Cercai di alzarmi ma quello che ottenevo era sprofondare nella sabbia mentre tante bocche mordevano inarrestabili la mia carne.
Sentivo Aro parlarmi ma le mie urla coprivano la sua voce.
“Carlisle non li avrà mai indietro!” Sentii ma non sapevo se avevo capito bene.
Riuscivo solo ad ascoltare le mie grida. Ero troppo concentrata ad urlare, unico modo per mandare via il dolore che tornava più forte di prima.
 “Non sarà mai più potente di me!” Continuò. Avrei voluto ribattere ma non potevo. Tante domande inondarono la mia mente mentre centinaia di frecce si conficcavano nel mio corpo. 
“Aro!” Sentii ammonire qualcuno ma non riuscii a capire chi. Ero sfinita. Il dolore non terminava. Era incessante. Avevo davvero paura di morire, morire prosciugata da me stessa e dalla mia sofferenza.  
Il male che stavo provando coinvolgeva ogni singola particella del mio corpo.
In fin dei conti, poteva un cuore umano reggere tutto ciò? Per quanto?
“Non sarai tu a portare via Edward e Bella da me. Loro sono miei!” Continuai a sentir dire da Aro ma il mio cervello si rifiutava di capire, di comprendere cosa intendesse. Volevo solo che la tortura terminasse in fretta. Urlai.
“Aro!” La seconda voce ripeté.
Le scariche elettriche e i morsi cessarono, così come i pugni nella stomaco e sul volto.
Le orecchie mi fischiavano. La bocca era così spalancata in cerca d’aria che mi facevano male le mandibole. I denti dolevano perché li avevo stretti troppo. Tutto il mio corpo pulsava in risposta a tutte le percosse ricevute. La testa girava fortissimo, vorticava, impedendomi di aprire gli occhi.
Sentii qualcuno avvicinarsi e, in seguito, la voce di Aro direttamente nel mio orecchio sinistro: “Se avessi avuto un dono davvero interessante, ti avrei preso con me Renesmee. Ma sei solo d’intralcio. Che peccato.”
“Ch-che” iniziai gemendo “che senso ha avuto, allora?”
Farmi fuori.
Lo sentii sorridere “Oh, il senso ce l’ha. Te lo garantisco Renesmee.” Fece una pausa. “Ma il significato di tutto questo deve essere compreso da qualcun altro, non da te.” Terminò.
“Basta” Iniziai a dire ansimando. “Basta con questi enigmi, Aro.”
Girai la testa verso di lui e il dolore fu lancinante. Cercai di aprire gli occhi ma le palpebre sembravano essere pesanti una tonnellata.
Sentii la mano di Aro accarezzarmi i capelli e un senso di nausea mi colpì. Volevo allontanarmi da quel gesto ma non ci riuscii: il mio corpo era incatenato alla sabbia.
“Enigmi, Renesmee? Hai ragione.” Disse con tono conciliante ma, allo stesso tempo, contemplativo. “Però io sto rispettando l’ordine che mi hanno dato.”
Non capii, ovviamente, quello che intendeva e lasciai perdere. Ero stanca ed esausta. Dopotutto, forse era meglio non sapere i dettagli. Volevo che tutto finisse.
Aro sembrò aver ascoltato i miei pensieri, si mise in posizione dritta e ordinò: “Andrew, portala al più presto dagli altri.”
“Sì, signore.”
Otto corpi vibrarono in aria e si allontanarono, confondendosi con l’orizzonte. Chiusi di nuovo gli occhi e grosse gocce sgorgarono da questi. Perché piangevo? Non c’era nessun ragionevole motivo per piangere, in quel momento. Il dolore era stato sostituito da un indolenzimento generale e non meritava, di certo, le mie lacrime.
Andrew si sedette di fianco a me, fissandomi. Non riuscii a leggere nessuna espressione nel suo volto. Mi guardava e basta, come se stesse valutando la situazione.
Perché era con me? Non lo volevo. La sua presenza mi disturbava adesso. Una piccola, illusa parte di me aveva sperato che Andrew prendesse le mie difese. Pura illusione.
“Riesci a camminare?” Mi domandò.
Lo guardai, scontrosa, per un attimo e mi alzai di scatto, non curandomi della protesta silenziosa della mia schiena.
Andrew mi imitò e si voltò verso la parte opposta di quella che aveva preso Aro e i suoi seguaci.
Si chinò di qualche centimetro e mi prese tra sue braccia.
“No!” Protestai dibattendomi contro il suo petto. Non fece resistenza e mi lasciò andare, senza dire nulla. Iniziammo a camminare. Arrivò il tramonto, presto sarebbe calata la notte.
“Probabilmente metterò in gioco la mia vita per un guerra della quale io non c’entro nulla.” Gli dissi. “Penso di poter camminare da sola, grazie.” Conclusi acida.
Andrew si avvicinò a me. Il suo braccio toccava il mio. “E’ il mio modo per dirti che mi dispiace.” Disse burbero, sottovoce.
Mi voltai verso di lui ma non si girò per guardarmi. Teneva gli occhi fissi sulla sabbia.
“Non ti deve dispiacere. Stai dalla sua parte.”
Non sarei mai riuscita a prendere per autentico il suo dispiacere. C’era qualcosa, in me, che mi diceva di essere diffidente nei confronti di Andrew. Dovevo ascoltarla?
Annuì. “Hai ragione. Io sto dalla sua parte.” La nostra conversazione si concluse.
Camminammo fino a quando il sole sparì del tutto e tante stelle luminose, insieme alla notte, presero il suo posto. Andrew strinse di nuovo un mio braccio per condurmi verso l’altra, ignota, destinazione.
In lontananza scorgevo del fuoco, un falò, nascosto da tanti corpi che lo circondavano da seduti. Un altro falò era acceso a pochi metri di distanza con altrettante persone.
Andrew si fermò frenando il mio passo.
“Mi dispiace veramente, Renesmee.”
Mi guardava negli occhi, sembrava sincero. Ricambiai il suo sguardo ma non gli risposi. Mi limitai ad annuire.
Lasciò andare la sua presa dal mio braccio e fece un passo indietro. “Vai.” Mi ordinò, facendo un cenno verso il gruppo di persone più vicino a noi. Notai che avevamo una serie di occhi puntati su di noi, curiosi.
Sfiorai una sua guancia fredda: “Ciao Andrew.” Mi appariva tanto un addio.
Lo era? Lo avrei rivisto? Quando sarebbe arrivato il fatidico giorno?
“Ren” Disse e sparì nella notte.
Feci un respiro profondo e mi voltai verso la piccola colonia. Più mi avvicinavo e più il mio udito scorgeva tanti cuori che battevano frenetici. Come il mio.
Mi arrestai. Tutto ora era più chiaro e nitido.
Mezzi vampiri, deserto, guerra.
Aro avevo creato un battaglione personale.
Come in trance, sgomenta più che altro, incapace di reagire alla mia ultima epifania, feci gli ultimi passi che mi allontanavano dal gruppo.
I battiti di trenta cuori rimbombavano nelle mie orecchie e trenta paia di occhi erano fissi su di me. Notai che c’erano le figlie di Liev, Anastasia e Tatiana.
In piedi, come qualcosa fuori luogo, dissi: “Buonasera ragazzi.”
Mi stesi sulla sabbia e misi le mie mani dietro la testa a mo’ di cuscino. Chiusi gli occhi mentre il freddo della sera mi abbracciava. Ero stanca, volevo dormire.
“Sei nuova. Come ti chiami?” Disse una voce maschile ma non aprii gli occhi per indagare il suo volto. “Non eri all’allenamento oggi né gli altri giorni.”
Sospirai: “Il mio nome è Renesmee.” Mi presentai. “Sono arrivata poco fa.” Gli risposi.

 

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Capitolo 32
*** Capitolo 31. ***


I trenta ibridi davanti a me non davano segni di reazione: erano fissi nelle loro posizioni intenti a scrutarmi. L’altro gruppetto, a pochi metri da quello in cui mi trovavo, si stringeva intorno al fuoco lanciandoci, a volte, veloci sguardi. Aguzzando gli occhi verso l’orizzonte notai tantissime altre luci rosse: altri falò. Altri mezzi vampiri? Battei la palpebre come se dovessi destarmi.
Mi stesi di nuovo sulla sabbia, al di fuori del cerchio di corpi attorno alla pira, mentre il vento freddo della notte andava contro il mio corpo adattandosi alle mie forme. Il vento portava delle nuvole che coprivano la luna e le stelle rendendo l’ambiente ancora più scuro, ombroso.
Passò soltanto un minuto quando la stessa voce maschile di prima mi pose un’altra domanda: “Da dove vieni? Chi è il tuo creatore?”
Aprii gli occhi ed osservai il ragazzo: era a petto nudo, carnagione ambrata, occhi scuri così come i capelli corti e le iridi. Indossava solo un pantalone logoro, i piedi erano scalzi.
“Creatore?” mi domandai tra me e me più che al ragazzo. Non capivo se ero sconcertata dal termine o meno ma non era la prima volta che lo sentivo. Lui aggrottò la fronte, confuso dalla mia reazione e aspettò la mia risposta. Tutti gli altri mezzi vampiri continuarono a fissarmi ma non erano incuriositi. Seguivano la conversazione perché non c’era nient’altro da fare.
“Stati Uniti.” Risposi dopo qualche secondo alla domanda più semplice. Per quanto riguardava la domanda su chi fosse il mio creatore, risposi con verità e senza dilungarmi in particolari: “Non so chi sia il mio creatore. Non lo conosco.”
“Non lo conosci?” domandò scettico. Gli altri cercarono di rimanere impassibili ma la loro curiosità li tradiva.
Scossi la testa a destra e a sinistra. La sabbia, sotto la mia testa, seguiva i miei movimenti. Mi sentivo in un sogno e avevo bisogno di risvegliarmi ma non sapevo come fare. Risposi con un tono basso di voce: “No. E’ un problema?”
Il ragazzo ghignò e chiese: “Allora come sei arrivata qui?”
Mi misi a sedere sulla sabbia e il giovane, forse interpretando il mio gesto come una richiesta silenziosa, spinse il compagno accanto a sé per farmi spazio e inserirmi nel gruppetto. L’ibrido, imperturbabile, si scostò, stessa cosa fece il ragazzo delle domande.
Guardai quel piccolo posto creato a posta per me: non volevo far parte della combriccola. Nonostante fossi in prossimità di persone della mia stessa razza, umana e vampira, non m’interessava approcciarmi a loro. Se le circostanze fossero state diverse sarei impazzita, li avrei inondati di domande cui risposte l’avrei riportate, poi, a Carlisle.
Vedevo tutto intorno a me con tale pessimismo e indifferenza che questi strozzavano anche la mia fervida curiosità oppure qualsiasi cosa che potesse risaltare alla mia attenzione. Inoltre, mi sentivo come sotto effetto di qualche sostanza soporifera.
Riguardai quella pozione di sabbia e l’occupai, avvicinandomi di più al calore del fuoco. Dentro o fuori il gruppo non aveva molta importanza, eravamo destinati a fare la stessa cosa in un momento all’altro.
“Oh!” feci con tono ironico rispondendo alla domanda, “Sono arrivata qui grazie ad Aro.”
“Aro?” fece il ragazzo alla sinistra.
“Sì, lui.” Risposi accarezzando la sabbia fredda con i polpastrelli senza indagare il volto di nessuno, per non studiare la loro espressione. Non avevo voglia di farlo, tantomeno dilungarmi ancora in quella conversazione.
“Come ti ha trovata?” domandò Anastasia, la figlia di Liev, con un forte accento russo ma col tono della voce molto pacato. “Io e mia sorella ci ricordiamo di te. A Volterra.” I suoi capelli biondi, illuminati dal fuoco, sembravano bruciare.
“Aspetta.” Fece il mezzo vampiro delle domande alzando le mani davanti a sé, “Sei sua figlia?” domandò.
Mi irrigidii e sentii i miei occhi uscire dalle orbite.
“No.” Risposi immediatamente a denti stretti, “Conosce il mio clan e sapeva già che io ne faccio parte.”
“E voi?” domandai senza dar loro la possibilità di formulare altri quesiti da rivolgermi, continuando a toccare i granelli di sabbia fredda. “Come siete arrivati qui?”, li guardai di sottecchi.
Rispose Anastasia con una tranquillità disarmante: “Aro ha chiesto a nostro padre se potevamo combattere per lui. Nostro padre ha accettato.” La sorella, Tatiana, annuiva silenziosamente.
Sgomenta, cercai di trattenere il mio mento dal cadere come accadeva ai personaggi dei cartoni animati. Ripetei la sua risposta nella mente mille volte nel giro di tre secondi.
“Voi?” chiesi agli altri cercando di sembrare più disinvolta possibile, provando a nascondere il turbinio di pensieri che si arrovellavano nella mia testa. Nel gruppo, notai, c’erano più ragazze che ragazzi.
“Padre.” Rispose il ragazzo delle domande accanto a me.
“Padre.” “Padre.”
“Padre.” Risposero tutti con tanti accenti diversi.
Avrei tanto voluto avere, in quel momento, qualcuno che fotografasse le mie reazioni, le mie espressioni. Se ci fosse stato Emmett con me avrebbe riso per tre giorni, ne ero sicura. Tanti pensieri indefiniti, non ancora espletati, venivano scagliati nella mia testa ad una velocità impressionante rendendomi confusa. Non riuscivo a mettere in ordine i sentimenti che provavo o i pensieri che si accavallavano uno sopra l’altro.
In quel vortice interiore riuscii solo a ricordare Carlisle, le sue ricerche e teorie sui mezzi vampiri. Nonno sosteneva che l’origine di tutto fosse il Brasile dove dei vampiri intraprendenti si univano a delle donne umane per poter procreare dei piccoli ibridi. Le umane erano troppo deboli per poter sopravvivere al parto, troppo deboli per sostenere la forza del feto ed erano tutte destinate a morire.
Cercando di essere più presente a me stessa e consapevole di ciò che ero, sia umana che vampira, domandai: “Le vostre…madri sono morte?”
Fallii nel mio intento nel momento stesso in cui posi il quesito. Ero intimorita dalla domanda, di più farla. Forse nel bon ton dei mezzi vampiri una domanda del genere non si poteva porre, forse era considerata maleducato. Chi lo sa? Avevo vissuto la mia vita, fino a quel momento, lontana sia dalla vita che intraprendevano i vampiri normali che gli umani, salvo alcune eccezioni. Non sapevo nulla degli ibridi, delle persone come me.
Avevo vissuto in una bolla e questa consapevolezza diventava più pesante ogni minuto che passavo con loro.
Il ragazzo delle domande, accanto a me, rispose sicuro: “Morte. Nessuno di noi ha mai conosciuto la propria madre. Non conoscerai tuo padre ma tua madre è morta. Sicuro.”
Smorzai un respiro e mi voltai a guardarlo: era così tranquillo, così sereno con sé stesso. Come se non aver mai conosciuto la propria madre ed essere l’artefice della sua morte fossero cose che meritassero poca importanza e attenzione.
Guardai gli altri, tutti intorno al fuoco, e nessuno sembrava essere scosso da quel dato di fatto.
Un ragazzo sbuffò e si appoggiò ai gomiti, stendendosi un po’ “La mia è sopravvissuta quasi una giornata intera. La ricordo ancora.”
L’osservai: il volto era tranquillo, pallido ma con i tratti molto marcati. I capelli erano biondi e gli occhi verdi, le labbra carnose.
Cercai in lui qualche traccia di tristezza oppure rimpianto. Non trovai nulla. Lui ricambiò il mio sguardo con uno vacuo e interrogativo.
“Cosa ne pensi?” gli domandai e poi, voltandomi, posi la domanda a tutti gli altri “Cosa ne pensate?”
“Di cosa?” domandò il ragazzo della domande.
“Di questo!” feci ad alta voce indicando con le mani niente di preciso. Non potevo credere che tutta questa insensibilità fosse reale davanti ai miei occhi.
Continuai con fare psicotico, dovevo sembrare pazza agli occhi degli altri. “Non avete mai pensato che quelle  donne potevano amarmi? Che potevano diventare qualsiasi cosa? Non siete dispiaciuti? Non avete un po’ di rimorso? Non avete mai immaginato la loro figura accanto a voi? Nella vostra vita?”
Nessuno rispose. Guardavano me come se avessi parlato in una lingua aliena. Ero incredula.
“In che razza di mondo vivi?” domandò il ragazzo dagli occhi verdi. “Da dove salti fuori? Sei sicura di essere un mezzo vampiro?”
Feci un respiro profondo e annuii: “Lo sono e hai ragione. Non so niente… di tutto questo.”
“Davvero?” domandò.
“Davvero.” Confermai guardandolo. “E’ la prima volta che incontro qualcuno come voi. Ho sempre vissuto con altri sei vampiri senza mai incontrare nessun mezzo vampiro prima di questa notte.”
Nessuno pareva credermi.
Non sapevo nulla. Era vero. Il mondo dei mezzi vampiri mi era totalmente estraneo. Per molti anni mi ero domandata se esistessero altre persone come me, quale fosse il loro stile di vita. Forse avevo immaginato tutto adattandolo alla mia routine con i Cullen e tale illusione non stava rispettando le mie aspettative.
“Non ci credo.” Disse il ragazzo dagli occhi verdi, scuotendo la testa. “Voglio vederti uccidere un umano.”
Risi. Una risata genuina, squillante, sentite poche volte, da parte mia, nell’ultimo anno. Avevo gli occhi di tutti addosso, le espressioni stranite.
“Va bene!” dissi. Immaginai i loro volti quando avrei annunciato che non mi nutrivo, principalmente, di sangue umano ma di altro. Sarebbero impazziti.
“Comunque” continuò il ragazzo dagli occhi verdi. “Ho tanti fratelli e sorelle.” Con i pollici indicò le due ragazze ai suoi lati. I tre erano identici. “E altri ancora in altrettanti gruppi qui. Stessa storia per tutti gli altri in questo gruppo. Non abbiamo mai pensato alle nostre madri come fai tu perché non ci hanno mai dato l’opportunità. Siamo cresciuti con la concezione che gli umani vivono per servici. Tutto qui. Le umane servono per portare in grembo creature come noi. Stop.”
Gli altri ragazzi annuirono. Concordavano tutti.
“Nostro padre”, iniziò Anastasia, “ci ha cresciute insegnandoci che noi siamo esseri assoluti. Migliori dei vampiri stessi.”
“Non dobbiamo preoccuparci del come e del perché.” Continuò la sorella Tatiana. “Dobbiamo solo essere molti.
“Molti?” domandai.
Tatiana annuì ma non spiegò cosa intendesse.
Rimasi in silenzio, metabolizzando le informazioni appena ricevute. Strinsi le ginocchia al petto e vi appoggiai il mento. I capelli, mossi dal vento, mi coprivano il viso. Sentivo trenta paia di occhi su di me.
Ricambiai lo sguardo di alcuni e domandai loro sussurrando: “Da dove venite?”     
“Brasile.” Fece il ragazzo delle domande accanto a me.
“Russia.” Risposero Anastasia e Tatiana. “Australia.” Rispose il ragazzo dagli occhi verdi.
“Giappone.” “Cina.” “Sud Africa.” “Egitto.” Risposero altri ancora.
Quindi sparsi per il mondo esistevano dei vampiri con una concezione degli umani ancora più estrema di quella che pensavo fosse normale, naturale. Era una mentalità, a quanto pare, radicata: dei vampiri utilizzavano gli umani non solo per nutrirsi bensì per creare una nuova, massiccia, razza.
Ero interdetta. Senza parole.
Guardavo quei ragazzi che, all’apparenza, sembravano nel pieno della loro adolescenza ma, in realtà, non avevano più di sette anni. Li guardavo e non riuscivo a capire se il passato che avevo vissuto coi Cullen e il presente che stavo vivendo adesso fossero giusti o sbagliati. Erano due poli opposti che collidevano: la vita passata con i Cullen sembrava, ai miei occhi, qualcosa di anormale, in contrasto con il vero mondo dei vampiri e degli ibridi che stavo conoscendo.
“Io penso a mia madre. Spesso.” Disse il ragazzo delle domande.
Mi voltai verso di lui così come fecero gli altri, aspettando che continuasse a parlare.   
Si guardò intorno e disse: “Non vivo con i miei fratelli e con mio padre. Vivo con mio zia, la sorella di mia madre. L’ho trasformata subito dopo essere nato.”
Fece una pausa, dopo riprese: “Mia zia amava mia madre e, nonostante non approvasse la gravidanza, l’ha sostenuta fino alla fine, fino alla sua morte. Cacciava animali per lei affinché potesse nutrirsi e continuare a vivere.”
Il ragazzo delle domande fece un respiro profondo smorzato alla fine e terminò dicendo: “Mi parla sempre di lei, mi ricorda sempre che l’ama, che le manca e che le dispiace di non essere riuscita a salvarla. La guardo e mi chiedo come poteva essere mia madre. Mi dispiace.”
Silenzio. Tutti noi guardavamo quel ragazzo che sembrava essere sprofondato in una forte malinconia e tristezza. Lo guardavo e capivo cosa provava perché lo provavo pure io: impotenza e tristezza, consapevolezza di essere la causa e non poter fare nulla a riguardo.
Oh! E quante volte avevo immaginato mia madre.
“Non possiamo vivere col senso di colpa per l’eternità”, iniziò il ragazzo dagli occhi verdi, ora con le mani dietro la testa, “gli esseri umani sono deboli e noi, in qualche modo, dobbiamo nascere. Il passato non si può cambiare.”
Nessuno controbatté alle sue parole e non capii se quel silenzio fosse d’assenso o ci fosse qualcos’altro.
Una ragazza asiatica con dei capelli neri molto lisci e lunghissimi sbadigliò e appoggiò una mano sulla sabbia, premendo forte contro fino a quando la mano era del tutto coperta dai granelli.
Mentre la mano spariva sotto la sabbia, le fiamme del fuoco si fecero più vive e alte. Il calore colpì tutti senza preavviso e con grande forza. Anche la sabbia sotto di noi si fece molto calda.
“Buonanotte.” Bofonchiò la ragazza sbadigliando e stendendosi sulla sabbia. Molti la imitarono.
Feci la stessa cosa, raggomitolandomi su me stessa, ma ero sveglissima e il mio corpo non aveva intenzione di addormentarsi. La mia mente viaggiava ad altissima velocità.
 
 
 
 
 
Mi svegliai. Non ricordavo quando mi ero addormentata, il sonno aveva preso il sopravvento. Il sole era già abbastanza alto ma non ancora nel pieno della sua forza. L’aria era tiepida ma tendeva a scaldarsi ogni secondo di più. Il fuoco del falò era ancora acceso, le fiamme alte e vivaci, intaccate dalla notte.
Del gruppo alcuni erano già svegli: altri erano seduti, distesi oppure facevano qualche passo attorno. Altri dormivano ancora. Notai che dei gruppi si erano avvicinati al nostro.
Mi alzai, stiracchiandomi, senza sapere dove andare, cosa fare o cosa aspettarmi. Eravamo nel bel mezzo del deserto, forse erano le otto del mattino, più o meno. L’unica cosa da fare era attendere.
Mi sedetti di nuovo sulla sabbia, portandomi le gambe a petto. La mia gola stava iniziando a diventare arsa.
Si svegliò la ragazza con i tratti asiatici, stropicciò gli occhi, stiracchiò le braccia e poi riportò la mano sotto la sabbia come fece qualche ora prima. Il fuoco si spense in un battibaleno.
Lei, notando la mia espressione stupita, mi fece l’occhiolino e si presentò: “Mi chiamo Nao.”
Le sorrisi. “Piacere di conoscerti.”
“Io sono Nahuel.” Il ragazzo delle domande si presentò, si stiracchiò e si alzò. “Vado dai miei fratelli.” Fece un cenno ad una ragazza e andarono insieme nel gruppo più vicino.
“Anche tu hai dei fratelli qui?” domandai a Nao sussurrando perché alcuni, ancora, dormivano.
Nao annuì: “Sì ma non molti. Sono sparpagliati qua e là.” Disse con estrema tranquillità.
Questo approccio calmo mi mandava alla follia. Non riuscivo a capacitarmi del fatto che non trovassero niente di strano nella situazione che stavano vivendo.
“Cosa succederà oggi? Cosa faremo?” domandai. Un ragazzo si svegliò.
Nao fece spallucce e si morse il labbro inferiore guardandosi intorno: “Mi auguro che ci portino qualche spuntino. Ieri non l’hanno fatto e sto morendo di fame.” Disse borbottando più a sé stessa che a me. Continuò dicendo: “Per la giornata aspettati degli allenamenti.”
“Allenamenti?” sussurrai.
“Sì.” Rispose Nao alzandosi, gli occhi puntati verso l’orizzonte. “I Volturi riescono a prendere qualche licantropo un po’ troppo avventuroso e ce lo danno per fare pratica in vista della battaglia. Sono tosti.” Mentre parlava mimava la loro grandezza e furia.
Lupi. Gli unici con i quali avevo avuto a che fare erano stati gli schivi, seri e rispettosi Quileute. Con loro, e con nessun altro, non eravamo mai stati costretti ad uno scontro.
Venni colta da un brivido su tutta la mia schiena nonostante la temperatura calda dell’ambiente.
Tutto era così sbagliato.
“Eccoli!” esultò Nao. Indicò un punto dell’orizzonte: una larga massa nera e colorata allo stesso tempo si muoveva veloce verso di noi. Alle mie spalle, i vari gruppi ci raggiunsero in un solo secondo e il numero dei mezzi vampiri aumentò in maniera considerevole. Eravamo più di cento. Nahuel ritornò con la sorella e si mise a mio fianco.
Riconobbi i Volturi nella macchia nera che, man mano, si avvicinava. Le varie forme colorate erano delle persone stanche, malate. Erano sia uomini che donne, di tutte le etnie ed età. Erano essere umani.
Nonostante fossero ancora lontani, camminavano ad una velocità insostenibile per un umano: alcuni cadevano e, alzandosi, lamentavano dolori. Altri piangevano e chiedevano di fermarsi. I loro vestiti erano stracciati, i corpi sporchi.
Mi guardai intorno, cercando di contare quanti ibridi erano presenti. In una prima occhiata sembravamo in minoranza rispetto agli umani che stavano raggiungendoci. Il respiro si smorzò nella mia gola.
Non potevo sostenere tutto questo. Il cuore batteva forte incalzato dallo shock, dal disgusto e dallo sbigottimento. Volevo muovermi, fare un passo avanti, fermare quello che stava accadendo: una carneficina.
Ma ero ferma, lo stress e l’ansia mi mantenevano ancorata alla sabbia.
L’orda umana era guidata da Andrew, il volto e la mani coperti per sfuggire al sole ma riuscii a riconoscerlo. Lo sentii dare agli umani degli ordini, stava obbligando loro a camminare verso di noi. Le lamentele, incessanti, diventavano sempre più forti.
Erano arrivati, i passi stavano rallentando. I rumori sordi dei piedi contro la sabbia cessarono, le lamentele no. 
“Fermi!” ordinò Andrew con voce gelida ed autoritaria e gli esseri umani fecero come comandato. Notai che pure io non riuscivo a muovermi.
Andrew si rivolse a noi: “Buon appetito. E non trasformate nessuno questa volta.” Il tono di voce era simile a quello di un automa ma percepii un filo di ironia.
Tutti i mezzi vampiri non diedero tempo ad Andrew di terminare la frase. Con una forza sovraumana, tutti gli ibridi si mossero all’unisono verso gli umani impauriti, accompagnati da urla selvagge e ringhi inferociti. La sabbia si alzò creando una nebbia fitta color ocra. Rimasi ferma al mio posto, sulla sabbia, mentre gli altri mi spingevano in avanti per farsi spazio e conquistare una preda.
Cercai Andrew ma divenne invisibile in mezzo alla grande massa che si era formata davanti ai miei occhi: creature sia celestiali che selvagge, durante la caccia l’istinto vampiro predominava, che si scontravano per trovare qualcuno da cui nutrirsi, per cercare anche l’ultima goccia di vita rimasta. Molti si scontravano, litigando per chi andava la preda appena presa.
“Andrew!” lo chiamai e mi mossi ai lati dello scontro ma questo si faceva sempre più grande inglobandomi. La sabbia riempiva il mio capo visivo.
“Andrew!” lo richiamai e finalmente lo notai, si stava allontano insieme ad altri vampiri che non avevo mai visto prima. Scansai alcuni ragazzi che, per raggiungere gli umani, andarono contro di me, spalla contro spalla.
Uscii dalla mischia e lo raggiunsi. Cercai di fare un respiro profondo, la gola era piena di sabbia.
Fece segno agli altri di proseguire senza di lui e si voltò verso di me, scrutandomi “Dovresti mangiare.” Disse indicando la carneficina che stava accadendo di fronte ai nostri occhi. “Domani sarà una giornata impegnativa.”
Il suo tono di voce era strano, indecifrabile, incomprensibile.
“Domani? Sarà domani?” domandai, la voce mi uscì squillante.
Andrew annuì “Sì, i Figli della Luna stanno avanzando sempre di più. Aro ha programmato di attaccarli domani, di giorno, perché crede che non se lo aspettino. Questi mostri sono più deboli durante la giornata e più forti la notte.”
Adesso aveva voglia di snocciolare informazioni? “I lupi.” Ripetei sussurrando.
“Ne abbiamo catturato qualcuno questa notte. Fra poco li porteranno.”
“Pratica?” domandai.
Il vampiro rise “Pratica.”
“Ti stai divertendo? Hai fatto amicizia?” domandò con un tono che riuscii a captare: divertito. Le sue iridi rosse scintillavano contro i raggi del sole che, ormai, si era fatto altissimo e caldo nel cielo.
Sbuffai “Molto.”
Guardammo gli ibridi, persone come me, combattere tra di loro per accalappiarsi gli ultimi umani rimasti vivi i quali chiedevano aiuto e pietà. Il resto era a terra, sulla sabbia, morto. Alcuni, con gli occhi vitrei aperti, guardavano l’orizzonte.
La visione era agghiacciante, il senso di colpa opprimente.
“Dovresti nutrirti.” Ripeté Andrew. “Prima che non rimanga più nessuno.”
Scossi la testa “Sto bene così.” Risposi.
Mi voltai verso lui “Voi non parteciperete, vero?” domandai.
Andrew scosse la testa guardando l’ammasso di corpi davanti a noi “No, farete tutto voi purtroppo. Poi Aro farà una cernita e si porterà a Volterra quelli che ha adocchiato.”
“Quanta fiducia sta riponendo in noi!” dissi ironica. “Secondo te accetteranno?” domandai in seguito, scettica. Pareva tutto già stabilito.
“Perché non dovrebbero?” domandò a sua volta.
Meditai qualche secondo: aveva ragione. Nessuno di loro aveva vissuto la mia stessa esperienza con i Volturi e quindi, dal momento che combattere per loro non sembrava costituire qualcosa di grave, mi rendevo conto che la proposta di far parte del loro clan appariva allettante.
“Ciao Renesmee” disse Andrew facendo un passo verso la direzione opposta “cerca di non farti mangiare dai lupi.  Dovresti farcela, siete maledettamente forti e veloci.”
Sparì.
“Grazie.” Gli risposi ma non c’era più.
Sentii dei passi leggeri dietro di me e mi voltai: era Nahuel. Il colore dei suoi occhi era vivo. Il collo e il petto erano sporchi di sangue.
“Sai qualcosa? In questi giorni non ci hanno detto molto.” Chiese.
Annuii. “La battaglia sarà domani, non di sera, e fra poco ci porteranno i lupi che hanno catturato.”
“Domani?” domandò Nahuel e incominciammo a dirigerci verso il fuoco spento. Cercai di non guardare i cumuli di cadaveri sparsi nel deserto ma non ci riuscii. Il senso di colpa e il terrore portavano i miei occhi a guardarli tutti come se volessero infliggermi una punizione. La sabbia era scura, tinta di sangue.
Camminavamo in mezzo ad altri ibridi. Alcuni, coloro che non facevano parte del gruppo, mi fissavano incuriositi. Lo spirito selvaggio ancora non aveva abbandonato i loro corpi ma tutti, ora, erano estremamente vivaci e nel pieno delle loro energie.
“Sì.” Confermai sedendomi di fronte alla pira spenta. Notai Nao, lontana dalla piccola comunità, accarezzare prima la sabbia e poi battere un pugno contro. Sentii della vibrazioni sotto le gambe e, improvvisamente, i cadaveri scivolarono giù, prosciugati dalla sabbia, come se fossero un tutt’uno con l’elemento. il deserto riprese il suo aspetto originario, desolato e silenzioso. Ero meravigliata dal dono di Nao la quale stava facendo il pieno di complimenti.
“Sentite!” fece Nahuel riuscendo ad attirare l’attenzione di tutti i mezzi vampiri, “La battaglia sarà domani. Il manipolatore l’ha detto a Renesmee.”
Dalla colonia si levarono tantissime voci, commenti circa la notizia. Capii che tutti erano in trepidazione per domani. Smisi di ascoltarli, avevo mal di testa. 
“Era ora.” Disse annoiato il ragazzo dagli occhi verdi.
“Ritorneranno con qualche lupo a breve.” La notizia aumentò in positivo l’animo di tutti, l’aria era diventata frizzante.
Sbuffai, mi alzai e mi misi a camminare, passi piccoli, rimanendo sempre vicina al falò spento. La nebbia si era diradata e i raggi del sole picchiavano prepotenti illuminando i corpi di tutti, compreso il mio. Dalla nostra pelle scaturiva un bagliore leggerissimo.
Ero un fascio di nervi. La rabbia e l’impazienza bollivano nel mie vene. I denti, stretti, digrignavano. Le mie mani si muovevano nell’aria come se volessero aggrappare con forza qualcosa. Avevo voglia di urlare e scappare via.
“Ti prenderanno, stupida!” disse una vocina nella mia testa e non potei darle torto.
Fermai la camminata convulsa e mi abbracciai. In confronto agli altri mi sentivo immatura, codarda.
Feci un respiro profondo, guardai il cielo e tornai indietro. Si erano formati tanti piccoli gruppetti ed io mi aggregai a quello con Nao e Nahuel.
La calma del deserto venne di nuovo disturbata. Ulteriori vibrazioni si alzarono dal terreno ma queste erano molto più forti rispetto a quello scaturite da Nao. I tremiti andavano pari passo a forti colpi sordi contro il terreno.
Centinaia di teste si voltarono verso la direzione dalla quale il suono assordante proveniva, un eco di zampe contro la sabbia, ululati, guaiti, sibili e ringhi. Impallidii. In quasi cento anni, non avevo mai visto creature del genere.
Erano enormi, più grandi rispetto ai lupi Quileute, ed erano delle mostruose caricature dei lupi. Anche da lontano si poteva notare la loro stazza. Erano alti almeno tre metri e larghi due. Tutti avevano il manto grigio con striature nere. Gli occhi, minacciosi, avevano le iridi gialle. Le zanne erano lunghe e affilate.
Avanzarono velocemente e le loro lunghe falcate alzavano molta sabbia. A differenza dei Quileute, i Figli della Luna erano scoordinati nella loro corsa come se non avessero una guida alla quale affidarsi.
“Tenetevi pronti.” Mormorò il ragazzo dagli occhi verdi. Dal suo tono di voce si capiva che il ragazzo stava pregustando il momento in cui avremmo attaccato.
“Ce la puoi fare Renesmee.” Mi dissi, “Non vanificare le lezioni di Emmett e Jasper.”
I lupi ormai erano vicini, ci dividevano poco più di cinquanta metri.
ORA!
Le mie gambe scattarono. Il mio corpo spingeva quelli che mi precedevano mentre, a sua volta, veniva spinto in avanti dai mezzi vampiri alle mie spalle. Dal gruppo si alzarono urla e ringhi, in risposta a quelli dei lupi.
Sapevo dove dirigermi, sapevo quale fosse il target ma non sapevo come attaccare. Non c’era tempo di analizzare l’obiettivo, di capire quali fossero i suoi punti deboli. Sapere che i licantropi erano più deboli durante il giorno era già qualcosa.
Non potevo permettermi altre riflessioni quando la distanza tra me e i Figli della Luna si stava accorciando. Dovevo avere in mente solo un unico scopo: sopravvivere.
Il gruppo si aprì sia a sinistra che a destra in maniera tale da poter rispondere all’offensiva da più parti possibili. Io rimasi nel gruppo al centro. I lupi avevano già attaccato ai lati ma gli ibridi avevano risposto bene contro attaccando.
Avvenne il mio turno.
PUNTA AL COLLO E ALLA SCHIENA!” mi consigliò Nahuel urlando. Seguii il suo suggerimento.
Un lupo si avventò su di me e su Nahuel, scivolai sulla sabbia, passando sotto lo stomaco per poterlo schivare mentre puntava sull’ibrido. Feci opposizione con le mani per fermarmi sul terreno e scattai di nuovo in avanti. Riuscii a mettere un piede sulla schiena del licantropo e camminarci di sopra aggravando tutto il mio peso e la mia forza. Vedendo Nahuel occuparsi del collo, pensai alla schiena: mi aggrappai al dorso con le braccia e feci forza. Sentii le costole del lupo, il quale guaì di dolore, rompersi sotto di me. Strinsi con maggiore forza costringendo l’animale a chinarsi a terra, gli ruppi la schiena, mentre Nahuel era in procinto di strangolarlo.  
Scesi dalla schiena del Figlio della Luna e raggiunsi Nahuel, feci un salto di due metri e con un pugno colpii il collo della creatura. Morto.
Ero sconvolta e senza fiato.
“Non perdere tempo!” disse Nahuel prendendomi per un braccio, “Andiamo!”
Diedi una occhiata veloce a ciò che stava succedendo intorno a me: due o tre mezzi vampiri insieme contro un licantropo, brandelli di carne che cadevano pesanti sulla terra, schizzi di sangue macchiavano la sabbia e corpi altrui. Il silenzio travolgente del deserto era stato sostituito dal caos assordante di urla e ruggiti.
Io e Nahuel aiutammo una ragazza, che non avevo visto prima, sola contro la creatura. Questa aveva dei tagli sia nel volto che nelle braccia. 
“Sali sul dorso!” le dissi mentre Nahuel puntò sempre al collo. Io tenni fermo il lupo stringendo la sua lunga coda con la mano destra e questo si mosse con violenza, ululando. Con la mano sinistra gli bloccai la zampa  e tirai verso di me aumentando la violenza dei movimenti del licantropo. Venni colpita al petto e al volto, il Figlio della Luna utilizzò la zampa libera lasciandomi senza fiato e stordita. Strinsi e tirai con più forza.
Sentii le sue ossa rompersi e vidi Nahuel mordergli il collo. Il lupo tremò, si fermò instabile e cadde. Morto.
Raggiunsi la ragazza e Nahuel. “State bene?” domandai.
Guardai i tagli della ragazza, erano profondi. Nahuel annuì e si guardò intorno forse per cercare altra azione ma cadde un silenzio tombale.
“Tranquilla, si rimargineranno presto.” Fece la mezza vampira con un piccolo sorriso. “Vado a raggiungere i miei fratelli. Ciao!”
La guardai dileguarsi. Quella ragazza mi sembrava molto piccola.   
“Credo sia finita.” Sentii Nahuel sussurrare e anche io mi guardai intorno. Si ripresentò la scena di poco fa solo che al posto dei cadaveri umani, c’erano quelli dei Figli della Luna e molto più sangue e contaminare la sabbia.
“Oggi erano molto pochi rispetto ai giorni passati.” Rifletté Nahuel il quale si voltò verso di me e con un sorriso disse: “Sei stata molto brava!”
“Grazie. ” Borbottai. Il complimento mi turbava, non mi piaceva. Mi guardai le mani e in loro vedevo cosa aveva appena fatto qualche minuto fa. Non ero orgogliosa, ero furibonda e disgustata.
“Tutto bene?” domandò Nahuel.
Annuii sorridendo e fingendo una tranquillità che, in realtà in me, non c’era. “Sì, certo! Semplicemente non mi è mai capitato di andare contro delle creature del genere.” Gli risposi. Non facendolo notare a Nahuel, misi le mani sotto la maglietta per toccare la mia cicatrice e verificare se aveva subito dei danni. Feci un respiro di sollievo: tutto a posto. Mi doleva solo il collo, dove il lupo mi aveva colpita.
Ci avvicinammo agli altri. Nao fece di nuovo la sua magia e i lupi sparirono sotto la sabbia. Avevo tante domande a riguardo.
Ritornammo al nostro ritrovo, di fronte al fuoco spento, e molti fecero la stessa cosa, ripristinando i gruppi della notte scorsa. Si aprirono vivaci conversazioni circa i licantropi, come affrontarli nel modo migliore e cosa aspettarsi il giorno dopo. Se prima i mezzi vampiri erano elettrizzati, dopo la pratica erano su di giri.
Mi stesi sotto al sole e ascoltai i loro dialoghi in silenzio.
 
 
 
 
 
Calò di nuovo la sera e Nao accese il fuoco. Per tutto il pomeriggio i Volturi non fecero nessuna visita, nemmeno per sapere se l’allenamento era andato a buon fine. A quanto pare questo comportamento era sospetto perché, a detta di tutti, Aro mandava sempre qualcuno a controllare. L’episodio aveva lanciato dei dubbi sui mezzi vampiri.
“I vostri padri non sono mai venuti?” domandai dopo essere stata silenziosa per un paio di ore. Una stella cometa apparve nel cielo.
“Si fidano di noi.” Rispose il ragazzo dagli occhi verdi il quale scoprii chiamarsi Noah. La sua sicurezza mi metteva a disagio, era sconsiderata, pomposa.
Sbuffai e mi stesi di lato, la testa puntava verso il fuoco. Anastasia, durante il pomeriggio, mi aveva fatto un traccia, appoggiata ora nella sabbia.
“Vorrei sapere una cosa.” Iniziai giocherellando con il mio medaglione, “Davvero volete partecipare a questa battaglia? Non avete avuto un po’ di ripensamento in tutto questo tempo? I Volturi non si sono degnati di vedere come state, perché dovreste sporcarvi le mani per loro? D'altronde, voi non c’entrate nulla in tutto questo.”
La piccola colonia rimase in silenzio per qualche minuto, meditando le mie parole.
“Noi siamo invincibili.” Disse Noah sicuro e fiducioso. “Possiamo affrontare tutto.”
“Neanche tu c’entri qualcosa in questa faccenda.” Fece Nao. “Ma il tuo clan ti ha mandato qui e tu non ti sei opposta, no?”
Quella insinuazione mi tramortì, il sangue dentro le mie vene si gelò.
Mi stesi di nuovo sulla schiena, ritornando a fissare le stelle. “Sì, mi ha mandato qui.” Le risposi alla fine.
“E tu non hai fatto niente per opporti. Stesso principio.” Disse Nao tranquilla.
Non risposi per controbattere all’affermazione. Nao non sapeva, nessuno sapeva.
La risposta era tutta nella mia testa. Tutti i mesi passati a Volterra, tutti i silenzi, tutti i segreti, sia quelli dei Volturi che i miei per proteggere i Cullen, tutte le domande e i pochi perché ricevuti, le fughe e i ritorni. La frustrazione, la rabbia e il rancore.
Nessuno di loro sapeva.
Pensai alla mia famiglia e la pura paura mi travolse. Avevo paura di non poterli vedere mai più. Per quanto tempo potevano essere pazienti con me? Li avevo delusi troppo, ero imperdonabile.
Avevo paura di non poterli vedere mai più perché non sapevo se sarei sopravvissuta alla battaglia. I Figli della Luna battuti quel giorno erano nulla in confronto a quelli che si prospettavano fra poche ore. Potevo fidarmi delle mie capacità? Alla paura si aggiunse l’insicurezza e l’angoscia. Sentivo di avere solo poche ore da vivere a disposizione, come un condannato prima dell’esecuzione.  
Riportai indietro le lacrime. Dovevo farcela.
Mentre il panico prendeva il sopravvento, una idea scoccò nella mia mente. Non era una idea nuova, ciò a cui stavo pensando aveva tentato di sedurmi per tutta la mia vita ma io ero sempre stata restia ad assecondarla.
Aprire il medaglione.
Nei confronti di quel ornamento che indossavo avevo un timore inspiegabile, inconcepibile. Un timore che era sempre stato con me fin dal momento in cui mi svegliai a casa dei Cullen.
Però quel medaglione con delle piante rampicanti incise era, allo stesso tempo, sia fonte di timore che parte integrate di me stessa. Non me ne separavo mai, non riuscivo ad immaginarmi senza.
La paura o il timore erano causate, principalmente, dall’ignoto, dal non sapere cosa si cela dietro una porta oppure dietro uno ostacolo. Il mio ostacolo era il medaglione.
Perché non aprirlo ora? Questo era l’attimo perfetto dal momento che temevo per la mia vita. Farlo, aprirlo, una volta e per tutte.
Feci un respiro profondo e mi misi a sedere, dando le spalle al fuoco e ai ragazzi. Il cuore iniziò a correre e mi stupii di quella reazione.
Strinsi il medaglione tra le mie mani, tremavano. Potevo farlo, era un semplice medaglione, un semplice gioiello. All’interno poteva contenerci qualsiasi cosa: una scritta, una foto, un orologio, nulla.  
Con l’indice e il pollice della mano destra feci una leggera pressione per aprirlo ed evitare di danneggiarlo ulteriormente.
Click. I due scomparti si aprirono.
In quello sinistro vi era incisa una frase in francese: “Plus Que Ma Propre Vie.”
Più della mia stessa vita.
Nello scomparto destro c’era una foto: io, piccola. Riuscii a riconoscermi perché quando mi svegliai avevo quei tratti, più o meno. Ma nella minuscola foto non ero l’unica ad essere stata immortalata.
Ai lati ero stretta da Edward e Bella, inalterati dal passare del tempo. I volti erano felici e pure il mio.

 

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Capitolo 33
*** Capitolo 32. ***


Vi auguro una buona lettura!
Ci sentiamo alla prossima! : )
Bellamy.
 
 
 
 
 
Ecco cosa avevo custodito gelosamente e con riverenza per quasi un secolo della mia vita: una foto.
“Era ovvio, Renesmee” disse cinica la parte razionale di me che, in quel momento, predominava su tutte le altre emozioni, sia buone che cattive.
“Il medaglione poteva anche non contenere nulla”, mi risposi con lo stesso cinismo. Non era obbligatorio che tutti i medaglioni dovessero contenere delle piccole e rotonde foto.
Nella mano destra tenevo la faccia del pendente che conteneva l’immagine; nella sinistra quella dove vi era incisa la frase francese “Plus Que Ma Propre Vie”.
I due scomparti non erano più uniti dai piccolissimi bulloni, già danneggiati precedentemente, i quali si spezzarono definitivamente a causa della pressione che imposi per aprirli. Se le circostanze fossero state diverse mi sarei maledetta per aver rotto il mio medaglione: la mia più grande paura, seconda solo a perdere la mia famiglia.
Misi la piccola casella rotonda con la frase sotto quella con la foto e la fissai. Il tempo, intorno a me, pareva essersi fermato oppure il piccolo ritratto davanti ai miei occhi mi aveva prosciugata in un’altra dimensione distante anni luce.
La scrutai, analizzandone ogni suo singolo millimetro, con distaccata emozione, quasi indifferenza, intorpidita e incapace di provare nulla di concreto in quell’instante.
Nonostante questo mio approccio lontano, pensai che la foto, almeno, suscitasse amore e protezione, intrappolate nel tempo dal medaglione e ora libere di mostrare la loro forza inalterata. Mi sentii a disagio.
Era come guardare tre persone estranee, fittizie, inesistenti, le quali non avessero nulla a che fare con me e la mia vita che era stata fino a quel momento. Tutto sembrava troppo lontano e astratto per essere colto ed essere considerato reale.
Il passato, tramite una minuscola immagine, stava cercando di imporsi in un presente incerto e precario. Un passato di cui non avevo nessun ricordo né reminiscenza.
Non riuscii a comprendere dove era stata scattata la foto: la catena formata da mezzi busti, spalle e chiome coprivano lo sfondo ma credevo che la luce bianca a destra fosse artificiale e quindi, probabilmente, il ritratto era stato immortalato di sera.
A sinistra c’era Bella, incantevole, che guardava dritto verso la camera mostrando un timido sorriso il quale accentuava la forma a cuore del suo viso. I suoi capelli lunghi color mogano coprivano il suo petto e le sue braccia che sembravano stringere qualcosa. Gli occhi erano di un color rosso acceso, uguali a quelli di adesso.
Al centro del quadretto mi trovavo io. Mi riconoscevo: i lunghi ricci ancora color bronzo (nel corso del tempo erano diventati più scuri, castani, ma il rame era rimasto nelle loro punte); il viso avorio piccolo e rotondo; gli occhi, un po’ socchiusi, fissi verso l’obiettivo e, poi, un grandissimo sorriso che mostrava tanti piccoli dentini bianchi lucenti incorniciati da labbra piene e rosa come quelle di Bella.
Ero raggiante, totalmente a mio agio. Il ritratto della felicità.
I tratti che costituivano la mia faccia erano lo sconcertante risultato dell’unione di quei due volti ai miei lati, uno predominava di più sull’altro però.  
C’era qualcosa che non quadrava: quando mi svegliai, i Cullen mi dissero che non avevo ancora compiuto il mio primo anno di vita perciò nella foto dovevo avere solo pochi mesi. L’altra cosa che non quadrava era Bella stessa: tutti i mezzi vampiri non avevano le proprie madri, morte perché troppo deboli per riuscire a sopravvivere al parto di una creatura per meta sovrannaturale.
Come aveva fatto a sopravvivere? Come era riuscita a diventare una eccezione a quella che sembrava essere la regola?    
Impossibile… Ma la foto dimostrava il contrario… Eppure i mezzi vampiri erano cosi sicuri… Ma Bella era viva.
Avevo il mio braccio destro agganciato al collo della donna, nascosto dietro i suoi capelli e capii che ero tenuta stretta tra le sue braccia. Il braccio sinistro, invece, era steso più in alto, appoggiato sulla spalla di Edward, la manina dietro la sua nuca.
Edward si trovava alla destra della foto, immortalato quasi di profilo lasciando metà del volto in ombra. Indubbiamente bellissimo e giovanissimo, il colore dei suoi capelli era uguale al mio il quale risaltava grazie alla luce e alla camicia bianca che indossava. I suoi occhi non erano rosso acceso come quelli di Bella ma dorati come quelli dei Cullen.
Inoltre era l’unico che non aveva posato a favore di camera.
Il volto era inclinato verso me e Bella. Gli occhi erano posati su di lei, carichi di dolcezza. Il suo viso spigoloso e di ghiaccio, come lo avevo sempre visto, era ammorbidito qui da un sorriso sghembo. Il suo sguardo sembrava totalmente incatenato al volto di Bella. Non era indifferente.
Dovetti constatare la forte somiglianza tra me e lui, più di quanta ce ne fosse con Bella: la forma degli occhi, la forma del naso e della bocca, gli zigomi alti.  
Le sue braccia sembravano tendersi verso di noi, come per abbracciarci, ma il taglio della foto era troppo piccolo per dirlo con certezza.
Ero raggiante, totalmente a mio agio. Il ritratto della felicità.
Chiusi di nuovo il medaglione invano.
 
 
 
“Tu!” Una voce mi svegliò dallo stato di trance in cui ero caduta, riportandomi nel presente da un passato indefinito. Stavo dando ancora le spalle alla luce e al calore del fuoco, davanti a me solo l’oscurità.
A me si avvicinò un ragazzo che non avevo visto prima. Era alto e molto magro, esile e, nonostante si fosse messo in ginocchio sulla sabbia, la sua statura era sempre considerevole. La sua carnagione era pallida e i capelli lunghi neri. Nella mano destra stringeva un involucro.
Non dissi nulla. Lo guardai interrogativa aspettando che svelasse le sue intenzioni, cercando di porre tutta la mia attenzione su di lui.
Il ragazzo non fece contatto visivo, sembrava voler sfuggire al mio sguardo incuriosito. La sua testa era china verso le sue gambe e l’involucro che teneva ora tra le mani e le cosce.
“Stamattina” iniziò, il suo accento era strano, “durante l’esercitazione ho notato che hai una cicatrice.”
Con un lungo e affusolato dito indicò il mio busto e alzò lo sguardo verso di me schivo. Strinse le labbra in una linea attendendo che io parlassi.
“Sì.” Riuscii solo a farfugliare. Dove voleva andare a parare? Inconsapevolmente mi abbracciai. La catenina del medaglione tintinnò a causa dell’improvviso movimento.  
Non disse nulla e si voltò, alzò la sua fine maglia color panna mostrandomi una schiena protetta da una fasciatura nera. “Ho una serie di cicatrici lungo tutta la schiena, fino alle spalle.” Continuò. Ritornò alla posizione iniziale e alzò il jeans logoro fino al ginocchio destro. “E sulla gamba.” Terminò indicando il polpaccio anch’esso fasciato di nero. Vi avvicinò le mani e iniziò a sciogliere la benda scura velocemente.
Appena fu libero, mi mostrò una lungo taglio profondo e rossastro che partiva dal ginocchio e terminava fino alla caviglia, girandoci attorno. Nel giro di pochi secondi già il sangue minacciava di straripare. Era proprio come la cicatrice che squarciava in due tutta la parte superiore del mio corpo.
“So quanto dolore ti può provocare.” Disse alla fine.
Dolore? Di più! Annuii convenendo con lui. “Come è successo?” Sussurrai, osservando il profondo taglio.
Il ragazzo fece spallucce e abbassò di nuovo gli occhi: “Mio padre. Sono l’unico dei suoi figli a non essere velenoso.” Terminò brusco. “E non si sa perché.” Ricominciò dopo qualche secondo. Ci fu un’altra pausa, alzò gli occhi per studiare la mia espressione che, sicuramente, era sbigottita.
Mentre ricompattava la sua pelle, l’azione richiedeva sempre abbastanza forza, proseguì la sua spiegazione: “Per questo motivo voleva vedere come la mia pelle si sarebbe rimarginata senza il veleno, come fa con tutti gli altri mezzi vampiri maschi. E così mi ha tagliato in due con i suoi denti.”
Ero inorridita, le mie orecchie fischiavano. Strinsi le mani in pugno ed esclamai: “E’ crudele!”
Lui fece sempre spallucce, sembrava che quella frase l’avesse già sentita più e più volte. “E’ vero”, ammise, “ma almeno è riuscito a rimediare.” Indicò la fasciatura sulla gamba.
Lo guardai, allucinata, in silenzio poi avvicinai una mano: “Posso?”
Annuì ed io sfiorai la fasciatura con delicatezza. Aveva una consistenza strana: dura, viscosa, viscida e ruvida, compatta e slegata allo stesso tempo.
Ritirai la mano. “Di che materiali è fatta?” domandai. Era impossibile capirlo. Dovevo parlarne con Carlisle. Questa soluzione sembrava più semplice e meno intrusiva rispetto alla mia.
Il ragazzo sospirò: “Non lo so. Non l’ha detto mai a me né a nessun altro. I suoi segreti li tiene per sé. Lui è uno dei sostenitori della nuova razza superiore e roba del genere.”
Fece una pausa che non interruppi. Scrutai la sua espressione: riflessiva e un po’ triste, scura dalla notte. Entrambi continuavamo a dare le spalle al fuoco, dietro di noi sentivamo gli altri perdersi in vivaci conversazioni. Anche se avevamo scambiato poche frasi, sentii che, per certi aspetti, eravamo sulla stessa lunghezza d’onda.
“Tu come tieni ferma la tua cicatrice?” domandò interessato. Forse ero la prima persona che incontrava con la sua stessa deformazione.
“Oh. Così.” Feci alzando la mia maglietta fino sotto al seno, mostrandogli maggior parte dello stomaco. Il ferro e l’argento, i quali formavano una lunga trincea che partiva dalla spalla destra e terminava al fianco sinistro, brillavano alla luce della luna con fare minaccioso. La lunga cicatrice metallica tinta di sangue secco era seguita parallelamente da altre più piccole, rimarginate da sole e che non avevano bisogno di nessun sostegno.
Notai che, in alcune parti, alcuni frammenti si stavano alzando verso l’alto, allontanandosi dalla carne, la presa allentata. Oh no. Di nuovo.
Il mezzo vampiro, sorpreso, spalancò la bocca e disse: “E’ peggio di quanto pensassi.”
“Già.” Borbottai tenendo ancora gli occhi ancorati sul mio stomaco, terrorizzata. “Non so cosa mi sia successo.” Continuai anticipando la potenziale domanda che mi avrebbe potuto porre. “L’ho sempre avuta.”
Dalla sua gola scoppiò una risata febbrile la quale morì immediatamente come se si fosse pentito di aver reagito in quel modo. Scosse la testa come per scacciare un pensiero.
“Penso proprio che questa ti darà un aiuto in più per domani, allora.” Disse, il tono di voce più elettrico e vivace, aprendo il piccolo pacchetto di stoffa che conteneva la stessa fasciatura nera che aveva nel suo corpo.
“Non credo che il ferro e l’acciaio oppongano molto resistenza alla pelle di vampiro.” Tese la sua mano verso di me, porgendomi la spessa carta dai materiali ignoti.
Lo guardai, stordita da quel gesto di solidarietà. La proposta era troppo allettante per essere rifiutata e la paura che i fili di metallo potessero cedere durante gli scontri era costantemente presente nella mia testa. Aspettava in un angolo, in attesa del momento migliore per ricordarmi la situazione precaria del mio corpo.
“Sei…” farfugliai “Sei sicuro? Può servire anche a te domani. Non voglio privartene.”
Il giovane rise di nuovo, questa volta spensierato, e per un attimo il suo sorriso venne illuminato dal fuoco. Notai che aveva gli occhi verdi e somigliava a qualcun altro che avevo già visto.
“Prendi. Non mi servirà, la mia è ancora abbastanza resistente da poter affrontare la battaglia di domani. Penso che tu ne abbia più bisogno.”
Presi la protezione dalla sua calda mano. Arrossii e chinai la testa per nascondermi, destabilizzata da quell’azione gentile che mai mi sarei aspettata in quell’ambiente.
“Grazie.” Gli dissi in seguito. “Come ti chiami?”
“Erik. Piacere di conoscerti.” Si alzò ergendosi in tutta la sua statura. “Tu?”
“Renesmee. Grazie mille Erik, ti sono debitrice.”
Erik sorrise di nuovo e mi porse una mano. “Ti aiuto?”
“Sì, grazie.” Risposi alzandomi in piedi. Erik riprese la fasciatura tra le mani e l’aprì tutta. Era più o meno larga trenta centimetri e lunga sessanta.
Attirammo l’attenzione di tutti mentre io alzavo la maglia ed Erik iniziava a girarmi intorno coprendomi con lo strano materiale. Nessuno parlò, preferendo guardare. Noi non facemmo caso a loro.
La sensazione che provai quando Erik poggiò la fasciatura fu quella di tante ventose che diventavano un tutt’uno con la mia pelle. Una sensazione scomoda che irrigidì immediatamente tutto il mio busto.
“Aspetta!” Lo fermai dal suo giro. Avevo ancora il mio medaglione stretto nella mano e, avendolo rotto, non sapevo dove conservarlo al sicuro durante la battaglia. Non potevo permettermi di perderlo. Non ora.  
Di scatto, mi liberai dalla fasciatura e poggiai il pendente rotondo sul mio fianco destro, sotto le costole. Erik non commentò il mio gesto e ricominciò da lì.
“Fratello” Sentimmo dire da Noah, il ragazzo arrogante dagli occhi verdi, il quale ruppe il silenzio che era caduto pochi minuti prima: “Sei proprio un gentiluomo.”
 
 
 
Sarebbero arrivati di mattina. Così mi aveva confidato Andrew e la stessa cosa aveva annunciato Nahuel. I Figli della Luna erano più deboli di giorno e questo si sarebbe rivelato un grande vantaggio per noi.
La notte era calata da molto tempo ormai ma l’alba ancora tardava a mostrarsi. Le ore non sembravano trascorrere mai. Un minuto ne durava dieci.   
Tutti noi eravamo svegli, vicini intorno al fuoco, vigili. Nessuno si concedeva qualche momento di riposo. L’aria era pesante, carica di aspettativa, domande e dubbi. Questa atmosfera rallentava di più le lancette dell’orologio.  
Molti si domandavano quale sarebbe stato il momento specifico in cui i lupi avrebbero attaccato; altri si chiedevano quanto potessero essere in numeri; altri, più cruenti, si chiedevano se qualcuno di noi non sarebbe sopravvissuto alla battaglia. Altri ancora davano consigli su come meglio attaccare. Ognuno aveva le proprie opinioni e tattiche.  
Tutti erano in trepidante attesa, non vedevano l’ora. Gli assaggi che erano stati le varie esercitazioni non erano bastati per placare la loro voglia di violenza. Anzi, l’avevano aumentata. Volevano il piatto intero.
Avevo il mento appoggiato sulle ginocchia e guardavo le mie mani illuminate dalla pira. Una fresca brezza mi faceva rizzare i peli del collo. Sentivo il leggero peso del medaglione sotto le costole.
Non sentivo la benda intorno a me. Era come se non avessi nulla a coprirmi, a tenere compatto il corpo tagliato a metà. Molto meglio rispetto al crudo metallo infilato dentro la pelle.
Erik mi domandò come stessi con una timidezza che capii far parte del suo carattere. Gli risposi che andava alla grande e non mi lasciai sfuggire l’opportunità di ringraziarlo di nuovo.
Non ascoltavo i dialoghi instaurati intorno a me. Quello che credevo lo avevo già espletato.
L’unica cosa che mi importava ora era quello di sopravvivere, scampare all’inevitabile che molti ipotizzavano potesse accadere ad alcuni. Questo non aiutava la mia già presente e pesante paura di morire. Rabbrividii.
Non avevo fatto nessun piano nel caso in cui sarei riuscita ad uscire viva dalla battaglia. Era inutile, ancora di più senza sapere i progetti di Aro.
Aro che, insieme ai suoi fratelli, faceva fare il lavoro sporco agli altri prendendosi, dopo, tutti i meriti probabilmente.
Decisi di non illudermi. L’illusione era stata la causa di tutti i miei problemi e non volevo compiere lo stesso errore per l’ennesima volta. Mi ero totalmente abbandonata agli eventi futuri senza nessuna aspettativa.  
Mentre i miei occhi saltavano da un dito ad un altro, la mia testa vagava altrove. Pensavo alla mia famiglia, pensavo ad Andrew, pensavo che dovevo essere abbastanza forte e resistente da dover scansare dei mostruosi e anomali lupi.
Pensavo alla foto. Una immagine che aveva avuto in me un potere illimitato per troppo tempo.
Nonostante la tragicità della situazione, riuscii a trovarvi l’ironia e a riderne.
Proprio nel momento più oscuro e incerto della mia vita avevo trovato la risposta alla domanda che l’aveva oppressa per un tempo che era apparso essere infinito. Avevo avuto tantissime opportunità per scoprire la soluzione all’enigma che costituiva la mia esistenza. Praticamente ogni giorno, ogni ora prima del mio arrivo a Volterra.
Era stato necessario lo stravolgimento della mia vita affinché scoprissi che entrambi i miei genitori erano vivi e vegeti in Italia.  
Le mie considerazioni, in quel momento, si fermavano là, all’ironia. Non riuscivo ad andare oltre, non volevo né avevo la forza mentale di metabolizzare, di ragionare, affrontare me stessa e gli altri. Non ora. Il luogo e il tempo erano sbagliati ed io avevo appena fatto esplodere una bomba.
Non era questione di irriconoscenza: la mia epifania richiedeva la mia totale attenzione e me tutta, libera. Libera da questo deserto, libera da Aro, libera da tutti quei mezzi vampiri intorno a me, libera dai lupi, libera dai Cullen.
Era una scoperta troppo grande per essere trattata in quel momento, sia mentalmente che sentimentalmente. E non ero l’unica e doverne fare i conti, non si trattava solo di me. I soggetti del ritratto all’interno del mio medaglione erano tre, non uno.  
Sapevo. Questo era l’importante. Sapevo e avevo un altro motivo che mi obbligava ad uscire incolume dal conflitto con i Figli della Luna.   
Le mani iniziarono a prudermi, muovendosi meccanicamente mentre la mia gola si faceva sempre più secca a causa della divorante sete e dall’impazienza. All’improvviso pure io non vedevo l’ora di scontrarmi al più presto.  
Appoggiai la guancia sinistra sulle ginocchia e mi abbracciai le gambe stringendomi. Scoprii Nahuel fissarmi e distogliere lo sguardo immediatamente dopo che i miei occhi si posarono su di lui.
 
 
 
Chiusi gli occhi, una mano copriva la gola, e mi concentrai sul suono assordante dei battiti dei centinaia di cuori che mi circondavano, compreso il mio.
Ero in piedi, il sole sopra di me era così forte che pensai che la temperatura stesse raggiungendo gradi così alti da essere capace di bruciarmi viva e polverizzarmi. Il vento soffiava molto forte facendo alzare la sabbia che colpiva la faccia ed entrava tra le labbra. Avevo sete, i miei polmoni respiravano sabbia, c’era caldo e la luce era accecante.  
Ebbi un déjà-vu: avevo fatto un sogno uguale a ciò che stavo vivendo. Era stato premonitore?
Le gambe mi tremavano ma non sapevo se era per l’adrenalina che sentivo scorrere nelle vene oppure per la paura. Forse tutte e due. Il cuore batteva impazzito e i polmoni si comprimevano ed espandevano velocissimi.
“Oh!” Sbottai tra me e me. “Quando arrivano? Perché non avanziamo noi?”
Ero impaziente. Volevo che tutto si risolvesse in fretta, nel tempo di uno schiocco di dita, istantaneo. Dondolavo tra le gambe mentre le braccia oscillavano nel vano tentativo di soddisfare la voglia di movimento.
I Figli della Luna erano davanti a noi all’orizzonte ma avanzavano lentamente. Correvano scoordinati, non in equilibrio, collidendo tra loro a destra e a sinistra. In lontananza sentivo i loro guaiti di dolore e i loro ruggiti d’ira.
Sembrava esserci una forza invisibile opporsi all’avanzare dei lupi. Qualcosa che non recava danno ai mezzi vampiri. Compresi il motivo per cui noi non avanzavamo verso di loro: più faticavano sotto il sole, più deboli sarebbero stati una volta sotto la nostra mira. La lentezza del loro andamento li rendeva delle prede facili da vincere.
Al mio fianco arrivò Nahuel che guardava dritto davanti a sé come tutti gli altri. L’ambra della pelle del suo petto nudo era diventata oro sotto la luce del sole. Mi fece un sorrisetto fiducioso che non riuscii a ricambiare.
Eccoli. Erano qui, a pochi metri di distanza da noi con la loro stazza imponente che occupava tutta la visuale a dava un forte senso di claustrofobia e oppressione.
“Ricorda Renesmee.” Disse Nahuel “Punta al collo e alla schiena!”
Qualcuno nelle prime file, all’improvviso, iniziò a contro attaccare seguito poi da tutti gli altri. Si levarono delle urla.
Non mi feci trovare impreparata quella volta e scattai quando trovai la strada davanti a me libera. Puntai verso sinistra, Nahuel dietro di me, e mirai verso un lupo disorientato che ringhiava. Vedendomi con i suoi grandi occhi gialli ringhiò ancora più forte e alzò la grande zampa anteriore destra verso l’alto per puntarla, subito dopo, giù su di me.
Riuscii a scansarla ma sentii la ruvidità di un lungo artiglio accarezzarmi la mandibola. Salii nelle spalle, larghe almeno tre metri, e feci pressione con i piedi verso il robusto collo servendolo a Nahuel il quale lo spezzò mentre io spezzavo la schiena.
Scesi dal lupo, mi toccai il viso e notai che la mia mano era sporca di sangue. L’animale era riuscito a graffiarmi. Tolsi il sangue con il dorso della mano sperando che la ferita si rimarginasse immediatamente.
Io e Nahuel ci scambiammo una occhiata veloce e notammo che due dei nostri erano contro tre lupi, in svantaggio. Andammo in loro soccorso. 
“Su Renesmee, ce la puoi fare.”
Corsi e scivolai sotto un lupo scansando il mezzo vampiro il quale era incastrato tra le sue zampe. Mi allacciai al collo e venni issata in aria mentre l’animale si dimenava dalla mia morsa. Sentivo le sue fauci nello stomaco mentre io gli spezzavo le ossa del collo e del muso. La maggior parte della maglietta che indossavo finì a brandelli. La fasciatura regalatami da Erik era rimasta intatta. Strinsi i denti mentre facevo forza nella braccia e, nel frattempo, l’ibrido che avevo aiutato stava spezzando le zampe. Il lupo cadde a terra senza vita. Nahuel ed altri ragazzi riuscirono a far fuori gli altri due lupi.
“Attenta Renesmee!” Mi avvertì puntando un dito dietro le mie spalle. Non mi girai per controllare e mi avventai a terra, faccia in giù. Il lupo saltò superandomi, alzai immediatamente la testa e tesi la mano in avanti riuscendo ad agguantare la coda grigia e spinosa. Tirai, il lupo guaì e sentii uno stridore provenire dagli artigli che cercavano di aggrapparsi profondi nella superficie solida al di sotto la sabbia.
Salii nella schiena e diedi un pugno al centro e un altro tra le scapole. Sentii le costole e altre ossa frantumarsi fragili sotto le mie nocche. Il lupo ululò disperato e Nahuel gli ruppe il collo.
Feci un respiro profondo e mi accorsi che stavo trattenendo il respiro. Per quanto tempo lo stavo facendo? I polmoni mi bruciavano.
Mi guardai un attimo intorno: la visibilità era compromessa da un spesso velo di sabbia, cadaveri dei Figli della Luna a terra e altri ancora che si muovevano come mossi da convulsioni per difendersi dagli ibridi i quali si spostavano fluidi e veloci. Il sole illuminava il palco che era il deserto. Notai Erik battersi da solo contro un lupo: non ebbe nessun problema e passò presto ad un altro.
Schiena, collo, schiena, collo, schiena, collo. Continuò così per ore. La battaglia non dava nessun segno di voler terminare. Gli unici suoni che si udivano erano le nostre urla e i latrati dei lupi. Il loro numero sembrava aumentare anziché diminuire – non avevamo nessuna idea di quanto erano - ma noi ibridi rispondevamo bene agli attacchi. Nessuno sembrava dimostrare segni di stanchezza o, perlomeno, non lo davamo a vedere. Era estenuante e il primitivo istinto di sopravvivere causava stress nei nostri corpi, mescolato con l’altrettanta adrenalina che già circolava nelle vene. Potevamo mascherare il nostro sfiancamento ma i nostri corpi non tradivano che eravamo molto provati dalla battaglia: tutti rappresi di sangue e coperti di tagli causati dagli artigli e dalle fauci.
E noi, comunque, avevamo un asso nella manica. Grazie a Nao avevamo gli elementi della natura dalla nostra parte: creava fuochi e terremoti oppure rendeva i Figli della Luna delle statue di ghiaccio pronte per essere spezzate.
Pensai che lei aveva già un posto d’onore nella Guardia di Aro.
Nahuel divenne il mio compagno d’armi. Non mi lasciò mai. Era sempre al mio fianco. In due riuscivamo e mettere KO quattro o cinque lupi contemporaneamente e ciò era possibile grazie alla loro repentina fragilità.
Altri, però, avevano in serbo ancora un po’ di titanica forza.
Ero in groppa ad un lupo intenta a spezzargli il collo facendolo ruotare con un colpo secco delle mani. Il gesto, ormai, era diventato meccanico ed involontario quasi. Nahuel, dietro di me, stava spezzandogli la schiena.
Improvvisamente sentimmo un forte e potente ruggito provenire dietro le nostre spalle. Vedevo l’ombra sulla sabbia diventare sempre più larga e lunga davanti ai miei occhi. Non c’era tempo per reagire.
Sentii le mani di Nahuel spingermi in avanti facendomi scivolare dal lupo. Caddi a terra battendo la testa così come Nahuel cadde sopra di me e il suo peso mi fece sprofondare ulteriormente nella sabbia rovente.
Spinsi le mani contro la superficie morbida per alzarmi ma Nahuel mi riportò di nuovo giù a terra con un colpo sordo. Cosa?
Lo sentivo respirare pesantemente dietro di me. “Scusa.” Iniziò. “Non porto nessun rancore nei tuoi confronti. Non ti conosco nemmeno. Voglio che tu sappia che mi hanno incaricato di farlo, di ucciderti.”
Uccidermi.
Inizia a dimenarmi, il respiro si smorzò in gola mentre Nahuel serrava le mie braccia dietro la schiena. Tenevo le mani in pugno e riuscii ad agganciarle ai suoi avambracci e a tirare cogliendolo alla sprovvista. Feci pressione nelle gambe cercando di alzarmi in piedi e spinsi Nahuel qualche metro avanti.
Cercai di rimanere in piedi ma sentivo le gambe troppo deboli. Cedetti in ginocchio.
“Perché non lo lasci fare ai lupi? Perché dovresti sporcare le mani?” gli domandai senza abbassare la guardia. Strinsi i pugni e i denti. Per questo motivo Nahuel era diventato la mia ombra.
Fu come vedere la luce per la prima volta: Aro voleva farmi fuori così. La battaglia contro i Figli della Luna si era rivelata l’occasione perfetta. Tutti quei mesi passati a Volterra erano solo un pretesto per mantenermi viva e avere, poi, una buona giustificazione per la mia… morte. Perché?
Portai una mano nel mio fianco destro, dove il mio medaglione era ancorato. Era questo ciò che Bella voleva evitare mandandomi via da Volterra? Lo sapeva? Oppure lo temeva? 
Nahuel non sembrò scomporsi e, in silenzio, avanzò verso di me. Mi alzai, allargai le braccia, pronta a riceverlo. Riuscii a scansarlo e dargli un calcio nel petto che lo fece nuovamente cadere. Feci la stessa cosa che fece lui: serrare le braccia dietro la sua schiena mentre facevo pressione con un ginocchio.
“Sai… non sei costretto.” Gli dissi mentre Nahuel opponeva resistenza e ringhiava. Gli ringhiai in risposta. Con quanta felicità discutevo della sorte della mia vita! Sarà lo shock. “Possiamo trovare un compromesso.” Conclusi. Quale compromesso? Non lo sapevo ma volevo temporeggiare.  
Nahuel si issò con forza portandomi con sé ed entrambi librammo in aria. Mi aggrappai alle sue braccia e feci pressione per cercare di riportarlo a terra ma non ci riuscii. Mi diede un calcio nello stomaco, la forza impiegata si propagò su tutto il corpo facendomi tremare, e fui io quella a cadere.
Sferrò un pugno in faccia e mi voltai seguendo il movimento. Annaspai in cerca d’aria, il naso e lo zigomo bruciavano mandando segnali d’allarme al cervello. Sentivo il sangue in bocca.
Afferrò il mio collo con entrambe le mani, mi alzò e strinse le mie spalle contro il suo petto. Avevo il viso costretto tra le sua braccia ora. Cominciò a stringere. Forte e stretto. Mi mancava l’aria e mi pulsavano le tempie. Iniziai a dimenarmi e, nel frattempo, Nahuel stringeva ancora più forte. Il suo respiro si fece accelerato dallo sforzo.
“No…No…” Riuscii a far scivolare le mie braccia sotto le sue e a portare le mani sul suo viso. Affondai le unghia sulla sua pelle e tirai verso il basso. Nahuel urlò e strinse di più la sua presa. Misi il polpaccio dietro il suo ginocchio destro e con un sforzo estenuante lo feci cadere in entrambe le ginocchia insieme a me.
Ero stremata e lui era più forte di me. Mi sentivo debole come i Figli della Luna sotto il sole. Non ti fermare, Renesmee. Non ora.
Tirai il viso di Nahuel verso di me tentando di scansarlo dalle mie spalle ma più tiravo, più lui si agganciava al mio collo stringendolo e portandolo verso di sé. Vedevo tutto offuscato. Buchi neri si erano formati nella mia visuale. Il mio cuore rischiava di esplodermi dentro il petto.
Affondò la sua gamba libera sinistra sulla mia e spinse giù. Scendemmo per qualche centimetro nella sabbia.
Nahuel affondò il suo viso sul mio collo intrecciato dalle nostre mani. I nostri corpi erano scossi da due forze che andavano in due direzioni diverse: la mia avanti, la sua indietro.
Sentii la sua bocca aprirsi vicino la mia pelle.
No.  
Cercai di coprirmi il volto e tirare in avanti per spingerlo via da me ma eravamo entrambi incatenati dai nostri stessi arti, la tensione dei nostri corpi stava esplodendo.
No. No. No. No!
I suoi denti accarezzarono rudi il mio polso che tentava di salire su per coprire il collo e il volto. Morse ed io urlai.
Lasciò la presa ed io caddi a terra battendo la testa, il polso destro ancora agganciato tra le sue labbra. Gridai di nuovo e un oceano di lava invase le mie vene.
Nahuel alzò il volto e si liberò della mia mano. Sentii i suoi canini fuoriuscire dalla mia carne. La bocca sporca di sangue. Si chinò e tirò un altro pugno dritto nella mia faccia. Arrancai in cerca d’aria mentre il fuoco stava bruciandomi le ossa. 
Gli diedi un calcio negli stinchi che lo fece cadere di nuovo giù a terra. Urlai perché questa era l’unica cosa che mi importava fare in quel momento: denunciare il mio dolore. Il male mi stava inondando improvviso senza pietà ed io non avevo nessun mezzo per fermarlo.
“Arrenditi Renesmee. E’ finita.” Disse la mia parte logica.
No!
Mi appoggiai con tutte le ginocchia sulla sua schiena. Lui iniziò a divincolarsi furioso e animalesco. Il fuoco stava spezzando ogni singolo osso dentro di me. No, dovevo resistere. Costrinsi Nahuel ad aprire la sua gola con tutte e due le mani, mentre premevo le ginocchia sulle sue costole, e gli gettai di nuovo il viso sulla sabbia una, due, tre, quattro volte. Il suo sangue stava sporcando la sabbia sotto di lui.  
“Fa…rò cc…cco…me… mi…hai inse…gn…ato N…Nahu…el: punta alla schiena e al collo.” Gli dissi.  
Con un ginocchio gli ruppi la schiena, le ossa scrosciarono, e, allo stesso tempo, il collo con il gesto secco delle mani appreso da lui.
Lo lasciai andare, troppo presa dai pugni che stavo ricevendo sul petto però non c’era nessuno davanti a me a colpirmi.
Era troppo, troppo da sostenere.
Fiotti di sangue caldo iniziarono ad uscire dal mia bocca come un rubinetto rotto. Crollai sopra il cadavere di Nahuel.
 
 
 
Il fuoco… Il fuoco… Il fuoco mi sta bruciando… Qualcuno sta strappando i miei polmoni… Qualcuno sta maciullandomi il cuore… Fa male… Qualcuno spenga le fiamme… Il fuoco… nelle vene… Brucia… Non respiro…
“Renesmee!”
…Qualcuno mi sta strappando gli occhi…
“Renesmee! Sono Erik!”
…Spegnete il fuoco…
“Noah! Raoul! Ramin!”
…Il petto è diventato una fiamma…
Noah! Alexander! Adrian! Venite! ORA!”
…Le gambe… qualcuno sta spezzando le mie gambe…
“Erik! Che succede!”
…Fa male… quando finisce? Fa tanto male...
“L’hanno avvelenata! Tieni! Il morso è qui! LEVALE IL VELENO!”
…Qualcuno mi sta strappando la pelle… Sto affogando…
“Erik, credo sia troppo tardi ormai!”
…Quando spengono l’incendio?…Non respiro… Dov’è l’aria?...
“Sento solo il veleno, Erik!”
Brucia… Brucia… Incandescente…
“CONTINUA! Raoul! Ramin! Alexander! Adrian! Joseph!”
…Qualcuno mi dica che sta finendo… No… Non sta finendo…

 

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Capitolo 34
*** Capitolo 33. ***


Che sofferenza. Ero senza parole.
Senza parole perché credevo che l’entità del dolore che stavo provando non poteva esistere veramente. Ciò andava oltre i massimi livelli di sopportazione e realtà. Nemmeno un vampiro, neanche il più forte, avrebbe potuto resistere a quel fuoco ed io stavo cedendo...
 
La vide lì, il vento le scagliava la sabbia addosso. Sotto di lei un cadavere cui spalle erano bagnate di sangue rosso vivo. Lo stesso sangue che continuava ad uscire imperterrito dalla sua bocca spalancata.
 
La cosa che mi doleva di più era essere cosciente, consapevole che dei tentacoli incandescenti si erano aggrappati ai miei arti e al mio petto e tiravano, tiravano, tiravano…
 
La mise a pancia insù e un ringhio rabbioso tuonò dalla parte più recondita ed oscura del suo petto. Non c’era più nulla dei suoi vestiti, sostituti da graffi e lividi su tutto il corpo macchiato di sangue.
 
Mi sentivo un fiammifero usato più volte, costretto ad accendersi ogni volta che si spegneva. Ma un fiammifero, normalmente, si consuma in fretta. Quando sarebbe toccato a me? Non vedevo l’ora di spegnermi…
 
Era stata investita da un serie di morsi non ancora rimarginati del tutto. Erano ovunque nelle braccia e nelle gambe. Gli occhi, vitrei, riflettevano la luce della pallida luna che splendeva in cielo.
 
Volevo chiedere aiuto – se solo chiedere aiuto sarebbe servito a qualcosa in mezzo a tutte quelle fiamme! – ma ero intrappolata tra due muri ardenti che mi schiacciavano in entrambi lati. E poi, non riuscivo a trovare la mia bocca. Probabilmente si era sciolta…
 
Non sentiva il suo cuore battere. Non udiva nulla. Niente. Era morta. Ma la sua pelle era caldissima, bollente.
Appoggiò un orecchio sul suo petto: … … … … … … … …. … … … … … … … … … tump … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … tump … … … … … … … … … … …
Due battiti.
 
Oltre alla mia bocca, non sentivo materialmente tutto il mio corpo.  Sapevo che era martoriato contemporaneamente dal fuoco, da spade e da frecce ovunque senza sosta. Delle corde stringevano la mia gola spezzandola. Oh, che male…
 
“RENESMEE!”
 
Perché nessuno si era accorto che stavo ardendo? Perché nessuno spegneva l’incendio e finirla una volta per tutte? Non chiedevo di essere salvata…
 
... tump … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … tump
 
I muri mi stringevano. La testa, schiacciata, minacciava di esplodere sotto la pressione e il calore mentre mille spille si conficcavano ovunque dentro di me. Non volevo essere cosciente. Non ne volevo sapere nulla. Se dovevo soffrire, volevo esserne totalmente inconsapevole…
 
Avendo ancora la testa vicino al suo corpo, sentì un odore strano, pungente. Non era il suo. Sembrava provenire dai morsi. Dopo essersi assicurato che il suo cuore batté sordo dopo cinquanta secondi dall’ultima volta, appoggiò i canini su una ferita.
C’era del veleno nelle sue vene e aveva un sapore strano. Ancora più strano era il fatto che il veleno dei vampiri era insapore. Guardò nuovamente Renesmee: nonostante il volto inespressivo teneva i denti stretti, le labbra violacee erano scoperte, dai quali dei piccoli fiotti di sangue continuavano ad uscire.
Era in agonia. I suoi occhi vuoti e ciechi incutevano una sinistra paura. Il suo corpo era abbandonato tra le sue braccia come una bambola di pezza. Si decise a succhiare via tutto il veleno.
 
Forse ero già morta e, dopo la morte, forse, avevamo sempre l’opportunità di pensare, di vagare con la mente e trovare un senso a ciò che aveva posto fine alla nostra vita. Forse. Ma la morte non indicava la fine di tutte le sofferenze? Di tutto? Che dolore, non terminava mai. Volevo che finisse immediatamente. Anzi lo pretendevo. Volevo dormire…
 
… … … … … … … … tump … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … …
“Di’ ad Aro che è morta.”
“Dove vai?”
“A darle una sepoltura.”
… … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … tump … … … … … … … … … … … … … … …
 
Non riuscivo ad abituarmi alla fiamme. Mi opponevo al muro di lava cercando di spingerlo via ma questa mi inglobava a sé. Una volta, un’altra ancora e di nuovo…
 
La liberò da quella fascia scura che aveva intorno al busto. Tra le sue braccia Renesmee sembrava essere una semplice corda, manovrabile con facilità. La cicatrice pareva essere in buone condizioni. La pulì solamente e riavvolse la ragazza in quella benda dai curiosi materiali.
Il suo pendente cadde a terra, tra le loro gambe, producendo un forte rumore metallico a contatto con il pavimento. Non aveva prestato attenzione, prima, al particolare che non lo stava indossando al collo come l’aveva sempre vista.
Tenendo Renesmee in un braccio, si chinò e prese il medaglione. Non si era rotto a causa dell’impatto, i suoi formidabili occhi da vampiro videro che, durante la caduta, il medaglione era già rotto.
Il vetro che proteggeva la piccola foto all’interno si era incrinato. Osservò l’immagine per qualche secondo.
 
Quanto tempo era passato? Un giorno? Un mese? Un secolo? Le ossa e i muscoli erano diventati poltiglia e avevo tanta, moltissima sete…
 
La stese nel suo letto. Lei, supina e con gli occhi spalancati verso il soffitto, era diventata, purtroppo, una visione raccapricciante e inquietante. I lunghi e ricci capelli castano ramato coprivano, sia in lunghezza che in larghezza, tutte le lenzuola.
Aveva perso parecchio peso. Del suo corpo snello e tonico era rimasto solo lo scheletro coperto da un fine velo di pelle pallida. Quanto era fragile a volte aveva paura anche solo sfiorarla. Di quello che era stata Ren ora era rimasto solo un fantasma, un reperto antico.
I graffi che la ricoprivano si erano tutti rimarginati ma i grossi ematomi sulle gambe, sembrava che le vene fossero completamente scoppiate all’interno, erano rimasti. I lividi nel viso sparirono dopo la prima settimana ma i suoi occhi erano contornati da profonde occhiaie. Di certo non dormiva, tenendo perennemente le palpebre aperte, e, probabilmente, doveva avere sete.
 
Non riescivo più a tollerarlo. Il dolore era troppo potente da poterlo resistere…
 
Si inginocchiò e strinse le calde mani tra le sue: non proiettavano nulla. Strinse più forte, non curandosi per un momento della probabilità di poterle fare male: la sua testa non venne pervasa da nessuna immagine né voce.
“Renesmee! Svegliati! ORA!” Le urlò furioso ma, in risposta, ricevette solo un immobile, inanimato silenzio.
Si sentì stupido ma veramente sperava che, tramite il suo dono, obbedisse al suo ordine. Non batteva neanche le palpebre però, almeno, aveva smesso di vomitare sangue. Le labbra, gonfie, erano ancora viola.  
Le diede un bacio in fronte e altri nel resto del volto. Era rovente, come fuochi ardenti, e si chiese se il suo corpo era capace di tollerare una temperatura così alta ancora per molto.
Quella che stava osservando inerme era pura autocombustione. Erano passate già due settimane. Due settimane nella stessa condizione.
Si malediceva. Si malediceva perché lo aveva permesso e non si era opposto. Si malediceva perché non conosceva nessuna soluzione a quello stato semi funebre in cui lei riversava.
Si malediceva perché non sapeva se Renesmee sarebbe mai ritornata in sé. In caso contrario, era disposto anche a vivere la sua vita da immortale con lei in quello stato. Era lì con lui, al sicuro. Nessuno le avrebbe potuto più fare del male. Mai più. 
L’osservava e sguazzava nel senso di colpa. Voleva rimediare in qualsiasi modo.
 
Volevo che finisse. Per quale motivo doveva continuare? Era finita, non c’era più niente di me. Cosa era rimasto da bruciare? Neanche la cenere. Il fuoco continuava a divampare vivo…
     
Le toccò il braccio, la gola e la fronte. Ogni punto del suo corpo era in fiamme. Il calore si espandeva tutto sulla sua pelle fredda. La differenza di temperatura era spiacevole e fastidiosa al tatto.
La spostò e prese il suo posto nel letto appoggiandosi alla tastiera di legno. La riprese e, a mo’ di sedia, la mise sopra di sé, le sue spalle appoggiate deboli e involontarie contro il suo petto. I suoi capelli avvolsero tutti e due come uno scudo. La sua testa, appoggiata nella spalla, puntava in alto, verso di lui, ma io suoi occhi non guardavano nulla e nessuno.
Strinse Renesmee delicatamente, con la speranza di darle sollievo attraverso il ghiaccio della sua pelle.
Il suo cuore diede segni di vita dopo un minuto e quattordici secondi dall’ultimo battito. Il ritmo del suo respiro seguiva quello del suo cuore: ad ogni battito, un respiro smorzato. L’interruzione faceva fermare il petto dall’alzarsi di scatto, impedendole di respirare completamente.
Quelli erano gli unici segnali che dava per informargli che era, in qualche modo, ancora viva.
Sospirò, sollevato e preoccupato allo stesso tempo, e continuò ad aspettare speranzoso in un suo risveglio.
 
 
 
 
 
 
 
Avevo un forte fastidio alle palpebre. Che strano. E il cuore galoppava veloce nella cassa toracica. Sentivo le ossa e i muscoli della stessa consistenza della gelatina. La bocca, aperta, cercava di acchiappare più ossigeno possibile producendo dei fischi. La testa vorticava rapidissima ed io insieme a lei.
Ma ciò che mi premeva di più era l’assurda e urgente sete che provavo. Dovevo nutrirmi al più presto. Tutto il resto andava in secondo piano.
La mia visuale era tutta scura e offuscata come se fosse coperta da uno spesso velo nero di garza. Era abbastanza fastidioso. Costrinsi le mie palpebre a chiudersi ma sembravano essere di pietra. Il muro che mi teneva schiacciata mentre combattevo l’incendio dentro di me sembrava essere ancora presente.
Riprovai e ci riuscii guadagnandomi due fitte dolorose alle tempie. Chiusi e riaprii più volte mentre gli occhi, piano piano, mettevano a fuoco ciò che avevano davanti.
Andrew.
Andrew?
Il suo volto pallido, illuminato da una debole luce calda, era a pochi centimetri dal mio e mi osservava come se fosse in trepidante attesa di qualcosa. Era scioccato e in apprensione.
Sinceramente, non mi aspettavo di vederlo. Era morto pure lui? E come?
“Ren?” mi chiamò cauto, il tono della voce mal celava l’ansia e la sorpresa.
Ero io, l’avevo sentito chiamare il mio nome. Sgranai gli occhi: ero viva? Viva, viva? Per davvero? Wow. Volevo darmi un pizzicotto per verificare ma le braccia non rispondevano ai miei comandi.
Gli occhi girarono veloci intorno a me e notai che ovunque mi trovassi, in quel momento, era al buio tranne per la luce che illuminava, di lato, Andrew.
Cercai di concentrarmi su determinati punti della mia visuale così da poter mettere fine a quelle vertigini. Ero stesa in un letto, delle coperte ai suoi piedi, ed Andrew aveva le ginocchia appoggiate nel materasso, tra le mie gambe, a cavalcioni. Era a petto nudo e teso in avanti, verso di me. Mi guardava allibito, stupito.
“Renesmee?” mi chiamò di nuovo.   
Non riuscii a rispondergli, non riuscivo a muovere la bocca. Provai ad alzare una mano per dirgli che dovevo nutrirmi al più presto però questa cadde pesantemente nel letto e una forte fitta partì da lì fino ad arrivare alle spalle. Andrew prese la mano, la strinse e se la portò vicino al volto. La sua pelle fredda come il ghiaccio fu cosa graditissima per quella fiamma che era la mia. 
“Sangue. Ho bisogno di sangue.” Gli dissi.
Andrew non sembrò avermi ascoltato. Lasciò andare la mia mano, afferrò con le sue i due lati del mio viso e premette le sue gelide labbra contro le mie.
Ahia. La sua presa era stata troppo forte per me ma provai a non pensarci. Fu come battere contro una parete.
Mi alzò la testa di qualche centimetro dal cuscino e il collo protestò ma cercai di non farci caso lo stesso. Preferii, comunque, concentrarmi su di lui e sul suo improvviso, dolce saluto. Le sue labbra inumidirono le mie aride. 
Quella era stata la seconda volta che mi aveva baciata. Potevo anche non averci pensato, ma quante volte avevo desiderato che lo facesse di nuovo dal nostro primo scambio!
Si staccò da me violentemente e dalla mia bocca scappò un gemito di dolore mentre il mio cuore sfarfallava vivace. Con le mani continuò a tenermi i lati della faccia, il dolore sulla nuca si fece più intenso, puntò i suoi scintillanti occhi rossi contro i miei e disse furioso: “Mi hai fatto morire.”
Lo fissai, sconcertata. Che cosa gli avevo fatto per farlo morire? Perché era arrabbiato con me?
Per un breve momento pensai al fuoco, a me arsa viva. Chiusi gli occhi cercando di scacciare via quel pensiero. Ormai sembrava essere passato. Stavo osservando, stavo respirando, il cuore batteva…
Obbligai la mia mano destra ad alzarsi e toccare il braccio di Andrew: “Andrew, sangue. Ti prego.”
Lui mi guardò come se fossi un animale selvatico e dovesse anticipare le mie mosse per evitare improvvisi attacchi da me. Di nuovo, sembrò non avermi ascoltata.
Scelse dal letto leggiadro, livido in volto, fece scivolare le sue braccia sotto di me e mi prese in braccio. Nonostante fosse stato delicato, ebbi male alla schiena quando mi raccolse. Eravamo in penombra ma potei vedere lo stato delle mie braccia e gambe. Dalla gola mi uscì un lamento arrugginito.
Gli avvolsi un braccio intorno al collo, appoggiai la testa sulla spalla di Andrew e ringraziai i vampiri per essere così glaciali. Erano utilissimi quando ci si sentiva la febbre. Ero caldissima, più del normale. Pensai di nuovo a quel calore…
Andrew non ebbe nessun problema a muoversi nel buio. Sentii una porta cigolare ed entrammo in un’altra stanza. Un rubinetto venne aperto lasciando l’acqua uscire fuori.
“Nonostante tu sia sempre bellissima.” Iniziò a dire burbero, la frase suonava tanto essere una accusa. “E’ meglio che non ti guardi allo specchio.”
Non osai obiettare. Non volevo vedermi, non desideravo vedere in che condizioni mi trovavo, non dopo aver visto lo stato più che scheletrico dei miei arti. Inoltre, il sottile attacco di Andrew mi aveva destabilizzata.
“Molto gentile.”  Gli dissi comunque, premendo una mano nella sua spalla nuda che veniva sfiorata dai suoi capelli ad ogni movimento. Evitò nuovamente di rispondermi, come se non mi avesse sentita. Cosa gli prendeva?
L’acqua continuò a scorrere e, all’improvviso, il mio volto venne accarezzato da una sua mano fredda e bagnata. La passò gentile tra le palpebre, il naso, gli angoli della bocca e le tempie. La freschezza dell’acqua e la sua mano altrettanto fredda furono un balsamo, un antidolorifico.
Andrew chiuse il rubinetto e uscì da quello che presumevo fosse un bagno. Rimanemmo sempre circondati dal buio e mi chiesi perché non c’era nessuna luce accesa. Io vedevo poco e male.
Stavamo scendendo delle scale. Dove eravamo?
“Dove siamo?” Gli domandai sempre tramite il mio dono. Non mi rispose.
Si fermò, accese un interruttore e la mia vista si inondò di luce portandomi a battere le palpebre più volte. Eravamo in una cucina.
La stanza era abbastanza grande e abbondantemente arredata. A sinistra c’erano delle tavole di legno bullonate al muro. In mezzo alla cucina, occupando la maggior parte dello spazio, c’era un’isola circondata da sgabelli.
Il fattore più curioso era la presenza di tre frigoriferi: uno a muro e due ai lati dell’isola come se qualcuno si fosse dimenticato di posizionarli correttamente e li avesse abbandonati lì. Inoltre il pavimento, nero e bianco, era sporco di sangue.
Andrew, tenendomi sempre tra le sue braccia, si sedette in uno sgabello a destra e aprì con un braccio lo sportello del frigorifero accanto. Guardando il suo interno spalancai la bocca in due.
Ogni piano era occupato da tanti bicchieri contenenti un liquido rosso scuro. Non volevo immaginare come se lo ero procurato, m’importava bere e fui contenta che, in qualche modo, avesse pensato che avrei potuto avere bisogno di sangue.
Allungò una mano e afferrò un bicchiere, il suo volto era concentrato e determinato. Me lo porse e senza esitare lo presi famelica.
L’effetto che fece il sangue, linfa vitale, fu immediato nel mio organismo: sentii una improvvisa carica di energia scorrermi nelle vene, i muscoli iniziarono a rilassarsi e la mia attenzione si fece più acuta.
Terminavo i bicchieri in pochi secondi ed Andrew, pazientemente, prevedeva a porgermene altri. In meno di cinque minuti prosciugai tutto quello che conteneva il frigorifero ed Andrew passò all’altro.
Andrew rimase in silenzio tutto il tempo, preferendo passarmi i bicchieri o le tazze e ad osservarmi. Il volto era più tranquillo e steso.
A volte baciava la mia mano libera, le dita oppure il polso e con le sue labbra, o i denti, lo sfiorava. Anche lui aveva sete, si capiva dal viola leggero che circondava i suoi occhi. E non sembrava essere interessato a tutto quel sangue che ci circondava ma a quello che le mie vene nascondevano.
Come un lampo, l’immagine di Nahuel aggrappato al mio polso inondò la mia mente. Venne accostata a quella di Andew che si nutriva da me contro la mia volontà. Le scacciai con la stessa velocità con le quali erano arrivate.
Gli offrii la tazza da tè che, in quel momento, conteneva tutt’altro che tè.
Lui scosse la testa, lasciò andare via la mano e disse: “No, prima tu.”
Appoggiai una mano nella sua guancia, era diventato più facile e meno doloroso manovrare le braccia.
“Posso condividere, Andrew.” Gli dissi con il mio dono. Io ero già sazia, il sangue mi stava facendo diventare euforica, ma ad ogni bicchiere vuoto, la fame e la bramosia aumentavano.
Ancora una volta non mi rispose.
Mi sforzai a parlare, ad utilizzare le corde vocali: “Pe…rché non… mi rispondi?” Gli domandai infastidita, il tono di voce era basso, alieno e graffiato dal poco utilizzo.
Andrew sgranò gli occhi, turbato da quel mio cambio di umore. “Rispondere a cosa?”
Gli mostrai la mano libera, sventolandola davanti al suo viso. Lui corrucciò la fronte.
“Io non sento nulla.” Disse tranquillo ma confuso.
Cosa? In che senso non sentiva nulla?! Per questo non mi aveva risposto prima?
Appoggiai la tazza nel banco dietro di me, mi sistemai meglio tra le sue gambe e appoggiai entrambe le mani nelle sue tempie.
“Andrew. Andrew. Andrew. Andrew.” Lo chiamai.
Lui mi guardò e scosse la testa. “Non ho sentito nulla, Ren.”
Impossibile. Appoggiai le mani nelle sue spalle e feci forza, concentrandomi. Non avevo mai impiegato energie o concentrazione nell’utilizzare il mio dono. Era una parte naturale di me, come respirare. Semplicemente appoggiavo la mia mano su qualcuno e i miei pensieri venivano trasmessi.
Invece di dirgli qualcosa, gli trasmisi una immagine: lui dal mio punto di vista.
“Hai visto?” Gli domandai ansiosa.
“No.” Rispose confuso. “Cosa mi hai fatto vedere?”
“Te!” Sbottai furiosa.
Impossibile. Impossibile. Aveva sempre funzionato, non avevo mai mancato un colpo. Il mio dono aveva il pilota automatico: funzionava sempre, anche quando dormivo. Decidevo io quando non utilizzarlo.
Sbuffai e mi venne in mente una idea. “Obbligami!” Chiesi ad Andrew il quale mi guardò come impazzita. “Obbligami a mostrarti qualcosa! A dirti qualcosa!”
Andrew si mise a ridere, non sembrava credere a ciò che gli avevo appena chiesto. Io mi lamentai, non c’era nulla di divertente. Il mio dono. Cosa avrei fatto senza il mio dono? Come avrei comunicato? Il panico mi stava invadendo.
“Andrew!” Lo ripresi. Lui smise brusco e la sua espressione si fece più seria quando si rese conto che il mio umore era diverso dal suo. Come avrebbe reagito se foste stato lui a perdere la sua abilità di manipolare le persone?
Sospirò e puntò lo sguardo verso il pavimento. Tutto ad un tratto la mia mano, autonoma, puntò verso la sua guancia. Nella mia testa avevo l’obiettivo di perdonarlo. Perdonarlo? Di cosa?
I miei polpastrelli premettero contro la sua pelle di marmo.
“Andrew, ti perdono.”
Passò qualche secondo ed Andrew non disse nulla.
“Allora?” La mia voce si fece più acuta dall’ansia.
 Lui mi guardò, gli occhi tristi: “Non mi hai detto niente.”
“Andrew, ti perdono.”
Lo guardai cercando nel suo viso un cenno positivo. I suoi occhi erano vuoti.
“MA COME E’ POSSIBILE?!” Urlai con tutta l’aria che avevo nel polmoni, in preda al panico e alla paura. Perdere la capacità del mio dono coincideva a perdere una parte di me, letteralmente. L’idea era la stessa di quella che qualcuno, con una motosega, mi tagliasse a metà. La testa ricominciò a pulsarmi e gli occhi mi prudevano.
Andrew batté le palpebre e scosse la testa. Mi prese entrambe le mani e disse: “Ren, sei molto debilitata. Probabilmente, quando acquisirai nuove energie, riuscirai a parlare di nuovo.”
Lo guardai: il suo bel volto era tranquillo così come il tono della voce.
Era possibile? Era possibile essere così tanto deboli da avere annullato il proprio potere? Non avevo mai sentito una cosa del genere prima di quel momento. Sapevo che si poteva sviluppare il proprio dono – cosa che ancora non ero riuscita a fare nonostante ci avessi provato più volte – ma perderlo? Definitivamente, magari?
Andrew mi guardò perdermi nei pensieri. Poi mi porse un’altra tazza di sangue e mi ordinò: “Continua a bere.”
Annuii ed obbedii docile, provando a convincermi che avesse ragione: si trattava solo di riprendermi in forze. Odiavo utilizzare la bocca e le corde vocali per parlare. Erano un filtro povero e debole per poter trasmettere in maniera chiara i nostri pensieri ed intenzioni.  
Quando finii l’ultimo bicchiere di sangue rimasto in tutta la cucina, abbracciai Andrew avvolgendogli il collo con le braccia.
“Grazie.” Gli dissi mentre il suo profumo mi avvolgeva.
Non sapevo esattamente per cosa lo stessi ringraziando. Per il sangue, per avermi rassicurata, per avermi mostrato affetto, per il fatto di essere ancora viva, per essere con me… i motivi erano tanti.
Ricambiò l’abbraccio delicatamente: “Non mi devi ringraziare.” Disse cupo.  
“Cosa intendevi quando mi hai chiesto di dirti che ti perdono?” Gli domandai.
Andrew sbuffò e si alzò in piedi di scatto portandomi con sé. “Devi riposare, Renesmee. Non credo tu abbia dormito per tutto questo tempo: hai tenuto gli occhi perennemente spalancati. Eri inquietante.”
Prima di svegliarmi neanche ero a conoscenza di dove fossero i miei occhi. Mi scostai per guardarlo. “Dobbiamo parlare, Andrew.”
Aveva già iniziato a marciare senza ricambiare il mio sguardo. Mi stava evitando apertamente. La mia mente era piena di domande che urgevano risposte e man mano che il tempo passava, il loro numero aumentava.
“Parleremo dopo che ti sarai riposata per bene.” Disse, alla fine, duro mentre mi deponeva nel letto. La conversazione che ci aspettava non presagiva nulla di buono.
“Molte questioni riguardano anche te!” Gli dissi sfidandolo.
Lui scoppiò a ridere ma l’ilarità non raggiunse i suoi che brillavano sinistri.
“Anche io ho tante questioni che riguardano te, se la mettiamo su questi termini.”        
Strinsi i denti e mi misi a sedere. “Perché non iniziamo ora?”
Andrew, spazientito, si posizionò nel bordo del letto. “Hai seriamente bisogno di riposarti, Ren. Abbiamo tantissimo tempo per poter parlare.”
Tantissimo tempo. “Tu cosa farai?”
Lui mi guardò, corrugando la fronte: “Starò con te.”
Gli feci posto nel letto e lui si stese accanto a me cingendomi con un braccio, appoggiai la testa sul suo petto.
Da quella posizione potei osservare il suo viso: teneva le labbra strette in un linea, la fronte sempre corrugata e fissava davanti a sé. Era arrabbiato o estremamente pensieroso. 
Prima che potessi aprire bocca, lui mi anticipò: “Dormi.” Ordinò, mi diede un bacio nella fronte e le mie palpebre ubbidirono, chiudendosi.
 
 
 
 
 
Per le prime ore dormii male. Il petto mi doleva acuto, bruciava, e non riuscivo a respirare. Aspirare aria, calda, richiedeva un grande sforzo. Il cuore batteva forte in gola.
La mia temperatura corporea, a peggiorare tutto, era altissima. Il calore asfissiante premeva contro ogni singolo centimetro del mio corpo. Il fuoco era ritornato.
Sentii le braccia di Andrew stringermi contro il suo petto, un muro freddo al quale non volevo staccarmi per poter contrastare quel caldo incollato intorno a me.
Nel dormiveglia percepivo le sue mani accarezzarmi i capelli o le braccia. Mi stringeva forte a sé quando tentavo di allontanarmi da lui, riflesso inconscio della mia volontà di scappare dalle fiamme.
Almeno credevo, i ricordi di quelle ore erano irrazionali e confuse. Lo udii anche parlare ma, in quella afa delirante, non ascoltavo cosa diceva. Forse tentò di destarmi del tutto.
Mi svegliai, finalmente, non sapevo dopo quanto tempo. Era buio intorno a me eccetto per quella luce calda e fiacca a lato del letto. Ero sola nella stanza. Dov’era Andrew?  
Feci un respiro profondo. Il dolore al petto era svanito ma mi sentivo ancora accaldata.
Questi sintomi, tutti quei dolori, il calore insopportabile e asfissiante non erano una novità per me.
Li avevo già provati tantissimo tempo fa. Ebbi le stesse crisi dopo che mi svegliai e mi ritrovai a casa, circondata dai Cullen, da una origine a me tutt’ora oscura.
Lo stesso dolore alle gambe e alle braccia, stessa incapacità di respirare bene, stessa sete – il pianto disperato per la fame -  e uguale fuoco che mi attanagliava.
I Cullen non mi dissero mai il motivo di quel piccolo coma, la ragione per cui ero stata molto male.
Ero una bambina a quei tempi, spaventata e sola. Non ricordavo neanche il mio nome né di far parte sia del mondo degli umani che dei vampiri. Mi ero totalmente affidata a sei persone sconosciute. Quelle che, poi, sarebbero diventate la mia famiglia.
Non pensavo mai a quei giorni, li tenevo relegati in una parte nascosta della mia già compromessa memoria. Al solo pensiero, l’angoscia e lo spavento prendevano il sopravvento.  
Ricordai Nahuel e i suoi artigli dentro il mio collo. Il suo veleno, lava incandescente, che scorreva tossico nelle mie vene. Puntai gli occhi verso il polso, dove il mezzo vampiro aveva morso perché incaricato di farlo.  
Mi alzai di scatto dal letto e caddi in ginocchio sul pavimento accanto: le gambe non avevano retto.  
“Andrew?” Lo chiamai ansimando. Dov’era? Aveva detto che restava con me.
“Andrew?” Lo chiamai di nuovo. Nessuna risposta.
Appoggiandomi al materasso, mi alzai con difficoltà. Non avevo proprio forze nella gambe. Ritornai nel letto e, nell’oscurità, puntai verso destra, alla ricerca di qualche comodino e una lampada. Li trovai.
La stanza venne invasa dalla luce.
Mi trovavo in una camera di medie dimensioni, le pareti erano rosse e coperte da manifesti e poster di vari tipi e temi. Il letto occupava tutto lo spazio. A sinistra si trovava un grande cassettone e una bicicletta, la ruota anteriore era appoggiata al muro in alto. Sempre a sinistra, nel muro, c’erano fissati dei paletti di legno.
Per il resto, la stanza era vuota. Il pavimento era coperto da consolle di videogiochi, moderni computer e libri senza la copertina.
“Andrew?” Chiamai mentre mi rialzavo in piedi e, a passi incerti, entravo nella camera dentro a quella in cui mi trovavo: era un piccolo ma moderno bagno. Evitai di passare davanti allo specchio sopra il lavandino.
Uscii dalla camera da letto, cercai l’interruttore e lo accesi. Mi trovai in un lungo corridoio sporco da lunghe strisce di sangue. Nel piano in cui mi trovavo c’era una scala che portava al piano di sotto e altre due stanze.
Una porta era chiusa a chiave. L’altra, quella di fronte alla camera dalla quale ero appena uscita, presumevo appartenesse ad una bambina. Era bianca e molto femminile, piena di giocattoli e disegni. Notai che, anche là dentro, c’erano dei tasselli di legno fissati al muro coperte da tende. Per quale scopo servivano?
Lentamente e rimanendo aggrappata al muro, ogni passo equivaleva ad una fitta lungo tutta la schiena, mi avvicinai ai pezzi di legno. Aggrappai le mani in entrambi i lati e tirai con tutta la forza, cioè quasi nulla, che avevo.
“Che cosa stai facendo?” domandò furioso Andrew il quale si materializzò accanto a me e strappò secco le mie mani dal legno. Il gesto brusco mi fece barcollare indietro ma venni prontamente presa dal ragazzo.
“A cosa servono?” gli domandai mentre lui schizzava fuori da quella cameretta tenendomi tra le braccia.
Lui scese le scale in silenzio. Riprese ad evitarmi. Poteva farlo quanto voleva ma, prima o poi, doveva rispondere alle mie domande. Notai che le sue iridi ora erano di un rosso acceso e i suoi occhi non erano più circondati da occhiaie. Era andato via per nutrirsi.
Ritornammo in cucina dove ad aspettarci c’erano due uomini, umani, entrambi robusti, seduti sui sgabelli dell’isola uno accanto all’altro. Avevano la testa china sul bancone e tenevano gli occhi chiusi.
Sentii il loro odore impregnare la stanza e la mia bocca iniziò a riempirsi di saliva. La fame era ritornata.
“Non penserai che io…” Iniziai.
Andrew sbuffò, si avvicinò agli uomini e mi fece scendere dalle sue braccia. Appoggiò le mani sulle mie spalle per tenermi ferma ed in equilibrio.
“Nel bicchiere oppure direttamente nelle vene. Cosa ti cambia, Renesmee? Smettila e bevi.”
Rimasi ferma sul posto, a fissare quei incoscienti per metà distesi sul ripiano. Cambiava, c’era la differenza. Lui, semplicemente, non capiva.
Andrew, vedendomi immobile, continuò: “Il sangue che hai bevuto ieri proveniva da tre persone che io ho ucciso qualche giorno fa. Se è questione di coscienza sporca, già ce l’hai, Ren. Ora bevi.”
Fu un ordine, sentii le trame subdole del suo dono svilupparsi nella mia mente mentre mi chinavo su primo umano e affondavo i miei canini sul collo tenendolo stretto a me. Sentivo le sue vene e il suo cuore pulsare per l’ultima volta.
Qualche minuto dopo finii pure il secondo, altra energia iniziò a scorrere dentro ogni mia fibra, ed Andrew mi riprese in braccio. Ritornò verso le scale lasciando quei poveri innocenti a terra.
“Non farlo mai più, Andrew.” Gli dissi mentre si recava verso la camera da letto.
Il suo volto era sprezzante e arrogante, poi si fece scuro. “Non m’interessa. Devi nutrirti ed è questo il modo. Stanotte ho temuto che fosse ricominciato tutto daccapo.”
Mi sedetti nel letto e lui si stese a suoi piedi. Chiuse gli occhi, la mascella contratta, le braccia oltre la sua testa.
Rimanemmo in silenzio per molti minuti. All’ennesima trafitta alle costole e alla schiena, gli domandai: “Sapresti procurarmi della morfina?”
Andrew spalancò gli occhi e si voltò verso di me, incredulo: “A cosa ti serve?”
Mi morsi un labbro e risposi: “Mio nonno mi aveva dato della morfina quando, molto tempo fa, avevo gli stessi problemi che ho adesso.”
Andrew si mise a sedere e mi incatenò con i suoi occhi. “Perciò sei stata già avvelenata? Prima?”
Aveva dato voce alla domanda che io rifiutai di pormi.
Scossi la testa. “Non lo so.”
Onestamente: non lo sapevo, non lo ricordavo. Poteva essermi successo di tutto prima del mio incontro con i Cullen. Sapevo che il veleno equivaleva alla morte per gli ibridi ma non avevo idea se sopravvivervi comportasse una dolorosa disfunzione dell’intero corpo.
Carlisle, bombardandomi di sangue umano e morfina - mi informava sempre riguardo a cosa mi somministrava - era riuscito a mettermi in riga.
Ci volle più di un mese ma, poi, non ebbi più problemi… fino ad ora.
Con un balzo, Andrew saltò in piedi ed uscì fuori nel corridoio. Sentii forzare una porta e, in seguito, un gran trambusto.
Ritornò qualche secondo dopo. Rovesciò nel letto, davanti a me, quindici scatolette anonime.
Fece un passo indietro e disse disgustato: “I miei genitori si facevano di tutto ma non sapevo si facessero pure di Morfina. Non sono scadute.”   
Lo guardai e la sua espressione mi avvertii che era meglio non indagare su quell’aspetto della sua vita familiare passata.
Ogni pacchetto conteneva dieci pillole. Ottimo.
“Aspetta.” Soffiò Andrew e sparì. Tornò un secondo dopo con un bicchiere d’acqua. “Non so se ti possa servire.”
Era indifferente ma accettai lo stesso. “Grazie.”
Ingoiai dieci pasticche in un colpo solo accompagnandole con l’acqua. Assumerne una sola non aveva senso: sarebbe stata smaltita immediatamente a causa della mia alta temperatura corporea.
Misi tutto nel comodino accanto e puntai gli occhi su Andrew il quale continuava a rimanere in piedi.
“Possiamo parlare?” Gli domandai.
Lui sprofondò di nuovo nel letto. “Avanti.”
“Dove siamo?”
“Stiamo insieme.” Rispose, tenendo, come prima, gli occhi chiusi.
Un improvviso moto di ira mi investì. Chiusi le mani in pugno e sospirai.
Perché era sempre così evasivo? Mi faceva impazzire. Avevo il diritto di sapere, almeno, dove mi trovassi. Tempo prima – quanto prima? – mi trovavo nel bel mezzo del deserto. Ora mi trovavo comodamente seduta in un letto con lui.
Gli domandai di nuovo: “Dove, geograficamente parlando, siamo?”
“A casa mia. A Londra. Benvenuta. Fa come se fossi a casa tua, principessa.”
“A Londra?!” Esclamai. “Come ci siamo finiti a Londra?”
Mi lanciò una occhiata traversa: “Con le mie gambe?” Fece sarcastico.
“Dove si è tenuta, esattamente, la battaglia?”
Andrew scrollò le spalle “Da qualche parte in Medio Oriente. E per dovere di cronaca: abbiamo vinto. Nessun lupo lasciato vivo.” Disse incolore.
Avete vinto. Quella precisazione fece scattare in me un’altra domanda che richiedeva la massima priorità: “Tu perché sei qui? Con me? Aro lo sa?”
Andrew sospirò cercando di nascondere un sorriso. Si mise a sedere di fronte a me.
“Aro non sa che sono con te. Per lui, e per tutti gli altri, sei ufficialmente morta.”
Mi raggelai, divenni una pietra, immobile. Le parole di Nahuel che annunciavano che doveva uccidermi perché gli avevano affidato tale incarico rimbombavano nelle mie orecchie.
“Continua.” Riuscii solo a mormorare. “Parla.”
Andrew, violentemente, balzò in piedi ed iniziò a camminare per tutta la stanza, avanti e indietro.
“Io”, iniziò furioso e frenetico, “devo farti delle scuse. Anzi, di più!”
Ero confusa: stava cambiando argomento? “Andrew di cosa stai…”
“Zitta”, sbottò, “Fammi parlare!” Esclamò continuando a camminare come un forsennato. Teneva i denti stretti e le mani chiuse in pugno.
“Renesmee, devi sapere che sono stato… deviato. C’erano momenti nei quali… stravedevo per te. Ed altri in cui non me ne sarebbe importato nulla se Aro, o chiunque altro, avesse deciso di farti fuori in un attimo.”
Si fermò e puntò un dito verso di me, guardandomi truce: “Non guardarmi in quel modo! Non lo posso tollerare!”
Come lo stavo guardando? In quel momento avevo perso tutte le mie facoltà di reagire e ragionare.
Riprese a muoversi come un forsennato. “Un giorno ti odiavo e l’altro non mi dispiacevi. Era sempre così, un circolo vizioso, alti e bassi. Ma è stata tutta opera di Aro e di Chalsea. Lei può influenzare le relazioni tra le persone, distruggerle o crearle.”  
Chalsea? Influenzare le relazioni? Non avevo visto nessuno a Volterra chiamarsi Chalsea.
Fece un pausa così come fermò la sua marcia. I suoi occhi erano puntati verso il basso, le mani in alto come se volessero aggrapparsi ai suoi pensieri. Calò il silenzio.
Ricominciò il suo monologo esplicativo: “E l’ho capito tardi. Troppo in ritardo. Tu eri già in balìa dei Figli della Luna. Sapevo che Aro aveva intenzione di ucciderti durante la battaglia. Lo sapevo. E non ho fatto nulla. Niente di niente. L’ho lasciato fare, non mi sono opposto. Perché dovevo oppormi? Non m’importava.”
“Mi sono reso conto di essere caduto nel tranello di Aro solo dopo che ti ho visto in una pozza di sangue, in mezzo al deserto.”
Portò il volto verso di me, provato da quella confessione.
“Perdonami.” Disse ma non sembrava né una imposizione né una richiesta. Veloce si mise accanto a me, i suoi occhi cercavano i miei mentre il mio cervello scattava alla massima velocità.
Prese una mia mano e la strinse. Se era per vedere se gli stessi dicendo qualcosa si sbagliava: non stavo pensando a nulla. E, comunque, non sapevo se avevo già riacquisito il mio potere.
Rimasi in silenzio mentre, dentro di me, bolliva una strana forza fatta di tante emozioni.
Andrew con un dito alzò il mio mento per portare il volto alla stessa altezza del suo. “Avevi detto che dovevamo parlare.” Disse con voce grave.
Feci un respiro profondo. “Mi dispiace per quello che hai passato.” Dissi alla fine, la voce atona.
Lui si alzò di nuovo in piedi, il movimento fece spostare il letto. “Ti dispiace?! Non ti deve dispiacere Renesmee! E’ colpa mia!”
No. “Andrew, non è colpa tua. Non potevi saperlo.”
Mi guardò, valutando se avessi capito la sua rivelazione o meno. L’avevo capita.
“Ren, lo sapevo. Sapevo tutto. Potevo fermare Aro in tempo.” Il suo tono di voce divenne acido.
Mi mossi, le gambe contro il petto, i capelli mi nascondevano. Mi sentivo intorpidita: effetto della morfina.
“Saperlo o meno non ha importanza.” Iniziai a dirgli. “Non è colpa tua ed io non ho nulla da perdonarti.”
“Renesmee!” Urlò disperato e furioso Andrew. “Diamine! Comprendi!”
“Ho capito cosa intendi dire Andrew!” Gli risposi alzando lo sguardo. Il suo viso era sfigurato dall’ira, io continuai a mantenere un tono di voce pacato. “Credimi quando ti dico che non hai nessun motivo per sentirti in colpa! Tempo fa mi avevi detto che non potevi promettermi nulla, che non mi assicuravi di stare sempre dalla mia parte. Ovviamente lo ricorderai!”
Mi aveva avvertita di ciò dopo che ci eravamo scambiati il primo bacio. Ero costantemente consapevole che Andrew stava dalla parte di Aro nonostante avessi sperato, più volte, che stesse dalla mia.
Continuai: “Non ho mai dimenticato questo avvertimento perciò, indipendentemente dal modo in cui ne eri consapevole, non è colpa tua se Aro voleva uccidermi.”
Lo vidi scuotere la testa, continuava a pensare che io non avessi capito cosa intendesse. Decise di rimanere zitto e non controbattere ma era visibile quanto fosse arrabbiato con sé stesso, con me e la mia tranquillità.
Chiusi gli occhi. Cosa si aspettava? Urla? Pianti? Accuse? Non sarebbero arrivate.  
“Ti ringrazio per esserti preso cura di me.” Mormorai scoccandogli un bacio sulla guancia. Lui reagì sorpreso, non si aspettava quel gesto. Si allontanò dal mio contatto velocemente.
I lati della mia bocca scesero giù. “Per favore non fare così. Senza di te non sarei qui ora.”
“Sì.” Rispose immediatamente. “Non saresti qui viva e con me.” La sua mascella si indurì così come la sua espressione che si trasformò minacciosa. “E non devi ringraziarmi. Era il minimo che potessi fare. E’ stato frustrante non sapere cosa fare, vedere te con gli occhi aperti, a vomitare sangue, debole e incosciente.” Fece un pausa e un respiro profondo. “Il tuo cuore non batteva, Ren.”
Suonò di nuovo come una accusa. Oh, ben sapevo che il mio cuore non batteva: era diventato cenere.
“Per quanto tempo?”
“Cosa?”
“Per quanto tempo sono stata… per i fatti miei?” Come potevo descriverlo? Coma? Cosa si provava durante un coma? Non ne avevo idea. Non credevo neanche fosse un coma ed ero certa che le persone in quella situazione non erano pervase dal fuoco.
L’unico termine che potevo utilizzare per descrivere lo stato in cui mi ero trovata era incendio.
“Un mese e cinque giorni.” Rispose Andrew a denti stretti.

 

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Capitolo 35
*** Capitolo 34. ***


Un mese e cinque giorni.
“Aro non sa che sono con te. Per lui, e per tutti gli altri, sei ufficialmente morta.”
Era passato troppo, troppo tempo. Mi ero, involontariamente, concessa un lasso di tempo che non potevo permettermi, lasciando dietro le mie spalle questioni aperte e da risolvere. Mi sentivo, letteralmente, l’acqua alla gola.
Potevo essere morta per Aro ma non per qualcun altro. Quella piccola rassicurazione mi teneva tesa come una corda di violino anziché calmarmi.
Morsi forte il labbro inferiore mentre tentavo di mantenere la calma e ragionare lucidamente.
I miei occhi iniziarono di nuovo a vagare nella stanza: non mi permetteva di riflettere bene. L’aria che respiravo non era pulita ed era pregna di sangue. Dovevo pensare, farlo in fretta, e avevo bisogno di aria fresca. Dentro la mia testa c’erano tante informazioni che pretendevano di essere elaborate immediatamente.
Feci attenzione a qualcosa che non avevo fatto dopo il mio risveglio: il mio abbigliamento. Indossavo solo un lunga e larga t-shirt bianca che nascondeva, sotto di sé, della biancheria femminile pulita. La benda regalatami da Erik continuava a fasciarmi. Andrew mi aveva pulita, vestita però necessitavo, pure, un paio di pantaloni e delle scarpe al più presto.
Andrew, il quale era sparito dai miei pensieri e dal mio campo visivo per un attimo, liberò il labbro dai miei denti e fermò le mie gambe le quali stavano seguendo i movimenti veloci dei miei ragionamenti confusi. Si appoggiò al cassettone di fianco a letto e incrociò le braccia al petto.
“A cosa stai pensando?” Mi domandò brusco.
“Siamo stati a Londra per più di un mese?” Domandai con un sussurro.
“Sì.” Rispose sempre brusco. “Non ti ho mai lasciato. Mi sono preso cura di te.” Terminò. La sua voce era affilata come la lama più tagliente al mondo. La sua era una semplice constatazione, nella sua voce non c’era nessuna accusa o qualsiasi altro sentimento.
Nonostante la trasparenza delle sue parole, fu inevitabile per me darne una interpretazione diversa, tutta mia.
Avrei potuto ringraziarlo per l’eternità, ripetergli all’infinito la mia gratitudine per avermi rubata da morte certa. Senza di lui avrei continuato a bruciare tra la sabbia fino a quando il mio cuore non si sarebbe fermato per sempre.
Convenni che era meglio non farlo: avrebbe reagito accusandosi di essermi ritrovata in quella situazione a causa sua, di nuovo, ma non mi davo per vinta perché ero abbastanza determinata a fargli cambiare idea. Preferii esprimerglielo in un altro modo e in silenzio.
Il mio pianificato scontro con Nahuel non era assolutamente colpa sua e non dipendeva da lui, diversamente da come sosteneva. Entrambi eravamo stati due pedoni di un subdolo gioco di scacchi.
Lui lo aveva capito in ritardo ma io no e lo avevo accettato. Avevo tenuto il gioco ad Aro pur non sapendo i motivi, avevo deciso di vedere a che punto voleva arrivare. Ovviamente, non avevo mai considerato l’opportunità che lui volesse uccidermi nonostante abbia avuto, in passato, tantissimi indizi da notare.
Tra i due, l’unica alla quale si doveva puntare il dito ero io. Ero stata troppo ingenua.   
Allungai le braccia verso Andrew e lui accolse il mio invito, aggrottando la fronte. Si inginocchiò davanti a me e ci abbracciammo. Fui io, questa volta, a cercare le sue labbra, timidamente. Rispose incerto e freddo al mio tocco: era ancora arrabbiato con se stesso, con me e con quello che mi era successo. Strinsi il suo volto tra le mie mani, carezzandolo, ma lui oppose resistenza.
Andrew si staccò dal mio bacio rudemente dopo qualche secondo, lasciandomi prendere fiato. Senza fare contatto visivo, affondò la sua faccia sul mio collo ed iniziò a prendere grandi boccate d’aria. Mi era così accanto e avevo la sensazione che mi stesse rubando le particelle di ossigeno più vicine alle narici. Il suo peso mi fece stendere sopra il letto, sotto di lui.
Schiacciò il naso e le sue labbra semi aperte tra l’incavo del collo e delle spalle. Sentivo i suoi canini affilati appoggiati sulla mia pelle. Mi strinse forte a sé come se fossi un’ancora di salvezza, nascondendosi tra i miei capelli.
Continuava a respirare forte sulla mia pelle mentre io tentavo di calmare il mio cuore, il suo battito era l’unico suono che si poteva udire, e liberare la mia mente dalla nebbia che si era appena creata, confusa dalla piega che la conversazione stava prendendo.
“Ho avuto tanta paura.” Lo sentii borbottare, la voce ovattata dai miei capelli, ma riuscii a captare dell’angoscia e del tormento.
Spalancai gli occhi ed ebbi un tuffo al cuore. Era così… vulnerabile. Diverso dall’Andrew che avevo imparato a conoscere: sicuro di sé e prepotente.
Cacciai indietro una lacrima e gli strinsi le spalle. “Mi dispiace tanto, Andrew.” Sussurrai.
Non aggiunse null’altro. Fece un ulteriore forte respiro e strinse in altrettanta maniera i denti. Un brivido percorse la mia schiena e l’istinto di allontanarmi da lui prese il sopravvento. Questa inconscia necessità cozzava contro la mia volontà di stringerlo a me e consolarlo.
Senza riflettere, cercai di liberarmi dal suo corpo che mi sovrastava. Il suo peso fece destare i miei muscoli, resi intorpiditi dalla morfina e dalla stanchezza. Le gambe e le braccia esprimevano in caratteri cubitali tutto lo stress al quale erano sottoposti.  
Fui più che felice sapere che si stava trattenendo dal nutrirsi da me, lo apprezzavo. Poteva farlo in qualsiasi momento, obbligandomi, ed io non potevo rifiutarmi. Avere la propria autonomia annullata era pauroso e mortificante. Nello stato in cui riversavo non avrei potuto tollerarlo – non che lo avessi fatto prima – e lo sapeva.
Infilò un mano sotto la t-shirt che indossavo. Sentii le sue dita fredde tra le mie costole, il contatto gelido fu potente come uno schiaffo in faccia, al di sopra della fascia.
“La tua pelle è diventata più morbida.” Borbottò tra i miei capelli. “Hai bisogno di altro sangue. Devi riprendere tutto il peso che hai perso.” Disse a denti stretti, sembrava rivolgersi a se stesso piuttosto che a me.
Battei le palpebre e ritornai in me stessa e alle urgenze che allarmavano la mia testa. La vulnerabilità mostrata da Andrew venne sostituita da una fredda rabbia. Sentendo nominare il sangue, la mia sete fece capolino di nuovo. Non ora.
Andrew fece per alzarsi, ma io lo fermai posandogli una mano sul volto. “Dopo, dobbiamo parlare.”
“Non ho sentito nulla.” Sussurrò mentre si allontanava.
Riuscii ad aggrapparmi a un suo braccio e a fermarlo mentre mettevo da parte la voglia di prendermela con me stessa. Stavo recuperando in forze, perché non ero ancora capace di utilizzare il mio dono?!
“Dobbiamo parlare, Andrew. Non abbiamo finito.” Lo avvisai.
“Possiamo fare una pausa.” Disse lui, improvvisamente stanco, guardandomi negli occhi. “Devi mangiare e abbiamo tutto il tempo per parlare, te l’ho detto.”
No! Non avevamo tutto il tempo per parlare! Non io almeno. Avevo una famiglia che mi aspettava, se ancora potevo considerarla tale, se non si erano veramente stufati di me.
Dovevo, inoltre, affrontare qualcosa che avevo sempre immaginato non sarebbe arrivato mai. A Londra non potevo fare nulla.  
“Per favore!” Lo pregai ponendo maggiore pressione sul suo braccio di pietra. “Parliamo e poi farò quello che vuoi tu.”
Riuscii a convincerlo: il suo volto si illuminò di un sorriso sinistro e il suo braccio si rilassò sotto la mia mano. Lo lasciai andare e lui sospirò, sprofondando nuovamente nel letto.
“Non hai risposto alla mia domanda, Andrew.”
“A quale?” sbottò scontroso.
Lo guardai. “Hai deciso di abbandonare Aro? I Volturi? Te ne sei andato.”
Aro mi credeva morta. Si era chiuso un capitolo, per lui. Se davvero pensava che si fosse liberato di me, questo poteva solamente essere un vantaggio.
Ma Andrew? Lo aveva lasciato andare? Aveva deciso lui di andarsene? Mi aveva salvata, mi aveva portato via dal deserto. Aveva intenzione di ritornare? Prima di quel momento, non si era mai lamentato di nulla e continuava e non farlo. Anzi, gli piaceva essere un membro dei Volturi ed era a suo agio in quell’ambiente. Era destinato a essere di Aro. Lo affascinava. Parole sue.
Andrew non si scompose. Si limitò a rispondere con un: “Sì.”
“Sì?” Ripetei, non certa di aver capito bene.
“Sì.” Fece di nuovo Andrew sicuro. “Non l’ho annunciato ad Aro né a nessun altro. Ti ho presa e me ne sono andato. L’ho deciso quando il tuo cuore batteva ogni due minuti.”
Terminò la frase fulminandomi con lo sguardo: mi stava accusando, un’altra volta. Come se lo avessi voluto io!
Chiusi gli occhi, li riaprii e feci un respiro profondo sonoro. “Andrew, ho provato a difendermi ma Nahuel è riuscito comunque a mordermi. E’ stato furbo e io non abbastanza forte da fermarlo.”
“Sì.” Ripeté di nuovo e in quella mono sillaba era nascosta tutta la sua rabbia e il suo senso di colpa. “Non abbastanza forte.”
Strinsi i denti e le mani in pugno, trattenendomi dallo strattonarlo e rilasciargli tutto il fastidio che provavo a causa di quella sua convinzione. Lo preferivo quando cercava rifugio.
Non ci sarei riuscita comunque, non sarei arrivata nemmeno a sfiorarlo, era più forte di me. Aveva ragione: dovevo nutrirmi.
Andrew mi guardò come se si aspettasse qualcosa ma non si scompose. Forse si aspettava davvero che lo attaccassi.
Decisi di riportare la conversazione all’argomento principale: lui, con me, lontano da Volterra.
“Pensi che Aro ti lasci andare così facilmente?” Gli domandai, sinceramente incredula. Non potei non notare e ricordare gli sguardi di ammirazione e inquietante desiderio che Aro poneva su Andrew ogni volta che li vedevo insieme. Era sbagliato e perverso quasi. Andrew, in quei momenti, non aveva dato segni di esserne infastidito, come se non ci avesse fatto nemmeno caso.
Aro poteva aver acquisito nuovi membri dopo la battaglia, ma ero totalmente sicura che questi non compensavano la perdita di un vampiro come Andrew.
Lui fece un sorrisetto che morì immediatamente. “No.” Iniziò. “Mi sta cercando, sta mobilitando tutti i vampiri che ha in giro per il mondo più gli ibridi che si è portato a Volterra. Ho uccisi due vampiri qui, a Londra. Mi hanno trovato per un mio errore di distrazione.” Borbottò l’ultima frase, non si perdonava neanche quella.
Quindi lo stava cercando, era ovvio. Quale superiore accetterebbe di perdere qualcuno dotato come lui? Nessuno. Andrew aveva un dono troppo grande, importante e spaventoso. 
Lo guardai un’altra volta: era ancora arrabbiato ma il suo volto si era disteso, la sua fronte di marmo era liscia ora. Non dimostrava di essere minimamente preoccupato che il più potente clan di vampiri al mondo lo stava cercando.
“Oh, Andrew!” Feci, il tono di voce si trasformò in un lamento. “Così non va! No!”
Sentendomi, i suoi occhi si illuminarono come un allarme.
“Non ti importa solo sapere che sei viva?” Chiese infastidito. “Cosa t’importa se Aro mi sta cercando o meno?”
Sgranai gli occhi. Era impazzito? Non aveva pensato alle conseguenze che la sua improvvisa scomparsa poteva comportare? Scomparsa che coincideva con la mia presunta dipartita?
Era troppo, troppo sospetto. Aro, o nessun altro, si sarebbe perso quel dettaglio. Non mi capacitavo del fatto che lui non avesse pensato a questo.  
“Sono preoccupata per te, stupido!” Sbottai. “Non hai pensato, almeno una volta, che potresti metterti nei guai? O, visto che ti stanno cercando, già lo sei! Non hai paura di quello che potrebbe farti Aro?”
Andrew mi guardò in silenzio, il volto ora limpido e innocente, e dopo iniziò a ridere fragorosamente facendo vibrare il letto sotto di noi.
Lo fissai, stupita dalla sua reazione. Non aveva pensato a nulla. Almeno questo lo faceva divertire.
“Andrew, ti prego. Sono seria.” Dissi mentre lo guardavo sobbalzare, una risata dopo l’altra.
Riaprì gli occhi e cercò di darsi un contegno. Mi rispose con un sorriso divertito: “Non ho paura di Aro. E’ totalmente terrorizzato di perdermi e non immagina neanche di farmela pagare in qualche modo. Suppongo che dovrei farla veramente grossa per meritarmi qualche punizione. Pure Alec e Jane hanno paura di me.”
Un respiro si smorzò al centro della mia gola. “Potrebbe farlo… se scoprisse che sono con te.”
L’aura divertita intorno ad Andrew svanì nel momento esatto in cui terminai di parlare. Si fece incredibilmente serio, i suoi occhi si aguzzarono e le sue labbra si fusero insieme in un linea.    
“Non succederà. Non glielo permetterò. Non gliene daremo motivo.” La sua voce autoritaria mi inchiodò sul posto, facendomi accapponare la pelle ovunque. I suoi occhi rossi brillavano, più lucenti della luce che ci circondava.
Oh, io avrei dato motivo ad Aro di scoprire che ero ancora viva. Mi chinai verso Andrew.
“Andrew, non puoi esserne così certo.” Iniziai a dire balbettando. “Se dovesse succedere… qualcosa, sarebbe solo colpa mia. Non ho intenzione di metterti nei guai.”
Mi pietrificò con lo sguardo: aveva capito che stavo tramando qualcosa sotto.
Si alzò in piedi e ringhiò e io rabbrividii di nuovo. “Che intenzione hai di fare? Non succederà nulla. Aro e nessun altro scoprirà qualcosa.”
Scossi la testa. Eccoci, ci siamo.
Iniziai ad alzarmi e affrontarlo, incerta che le gambe mi avrebbero sorretto. Poggiai rapidamente un piede sul pavimento, ma Andrew fu più veloce di me: afferrò la caviglia con una mano e mi spinse di nuovo verso il letto che si spostò con me, andando contro la parete a destra. Dal punto in cui aveva premuto scoccò una fitta che salì su fino ai fianchi.
Presi fiato e cercai i suoi occhi. “Andrew, devo andare. Lo sai questo. Chi mi crede, oltre i Volturi, morta?”
I Cullen. Immaginai Aro annunciare loro la triste notizia: lui con una finta espressione addolorata che celava, in realtà, il suo compiacimento. Non riuscivo a immaginarmi come avrebbero potuto reagire i Cullen.
Lo sapevano? Erano ritornati a Volterra per chiedere di me? Oppure erano rimasti negli Stati Uniti come aveva loro chiesto?
La paranoia si impossessò di me. Neanche potevo affidarmi ad Alice: non poteva avere notizie di me, non riusciva a vedere il mio futuro!
“No!” Urlò, furioso in volto, i muscoli delle braccia flessi. I peli nella nuca mi si rizzarono. “Non c’importa chi ti crede morta ormai!”
Non gli importava! “Andrew, la mia famiglia! Ho promesso loro che sarei ritornata! Eri con me, lo hai sentito pure tu!” Urlai ricambiando la sua reazione.
Avevo promesso a Carlisle che sarei ritornata da lui. Avevo fatto la stessa promessa, a me e ai Cullen, infinite volte e intendevo mantenerla. Glielo promisi prima di partire insieme ad Andrew quando sabotò la mia fuga progettata da Bella.
Aro mi credeva morta e non potevo perdermi la possibilità di utilizzare questa informazione a mio vantaggio: riprendere a vivere la mia vita con i Cullen nella totale segretezza.
Inoltre, il mio piano, del quale ero consapevole fosse tanto fragile, prevedeva anche di andare immediatamente a Volterra. Ero obbligata a ritornare.
Andrew fece una smorfia disgustata e fermò un ringhio nel petto. “Non m’interessa nulla della tua famiglia! Non andrai da nessuna parte. Tu starai con me.” La sua voce era furiosa e autoritaria allo stesso tempo, mi tramortiva.
Strinsi con forza le mani intorno alle ginocchia e sentii le spalle incredibilmente pesanti. “Sei davvero fuori di testa se pensi che io possa causare un così grande dolore alla mia famiglia. Mi stanno aspettando.” Dissi a denti stretti.
Lui fece spallucce. “Non m’interessa.” Ripeté. “Se ne faranno una ragione. Non vai da nessuna parte.”
Lo guardai, il suo volto era disinteressato ma furioso allo stesso tempo. Non vidi in lui nessuna propensione ad ascoltarmi. Cosa voleva che facessi? Rispettare i suoi voleri?
Dovevo mantenere la calma e parlargli in maniera cauta, farlo ragionare nonostante il desiderio di staccargli la testa. Ero sinceramente spaventata che potesse utilizzare il suo dono su di me e porre fine alla discussione. Quel sincero timore mi causò tristezza e rabbia.
“Andrew, rifletti.” Iniziai, tutto ad un tratto l’aria era sparita dai miei polmoni. Mi avvicinai a lui appoggiandomi alla colonna in legno del letto. “Sei sparito lo stesso giorno in cui Aro aveva ordinato di uccidermi. Potresti anche non averlo contemplato, ma è troppo sospetto.” Gli strinsi una mano, la ritirò immediatamente come colpito da una scossa elettrica.
Sospirai. “Se Aro venisse a scoprire che te ne sei andato con me? Viva? E se fosse una delle cose che non ti perdonerebbe? Non voglio metterti in pericolo.”
Ricordai le parole che mi disse una volta in aereo: “No. Possono uccidermi da un momento all’altro.”
Mi inchiodò sul posto con le sue iridi rosse e serrò la mascella. “Aro non scoprirà nient’altro di nuovo su di noi. Non gli daremo nessuna occasione. E poco m’importa se me la perdona o meno. Non abbiamo più nulla a che fare con lui o con chiunque altro.”
…O con chiunque altro. Voleva tagliare tutte le persone a me care via dalla mia vita?
Iniziò ad allontanarsi verso il corridoio. “Dove vai?” Gli domandai seguendolo con lo sguardo.
Lui non si voltò. “A uccidere qualche mal capitato per te… e per me.” Rispose.
Era già sparito ma riuscii a percepire ancora la sua presenza nella casa. Sentii dei cardini cigolare.
Poggiai le mani sulle cosce. “Andrew, hai tu il mio medaglione?” Chiesi piano.
Quando controllai la fascia di Erik notai che il mio medaglione, costretto tra la resistente benda e il mio fianco destro, mancava.
Mi aveva sentita, ovviamente. Andrew ritornò subito nella stanza e, come facevano i giocatori di rugby, tirò verso la mia direzione le due facce del mio pendente.
Le afferrai al volo. Il metallo freddo. Il vetro si era incrinato. Diedi una occhiata veloce al piccolo ritratto con lo stesso atteggiamento distaccato che usai la prima volta che lo vidi.
Amore e protezione. Io raggiante e felice. Edward e Bella.
Portai il mio sguardo verso Andrew, in piedi nello stipite della porta, che mi fissava, il volto imperscrutabile.
“Andrew, devo ritornare a Volterra.”
Alzò gli occhi verso il tetto, nel suo volto saltò fuori un sorriso stupito.
“Non vuoi davvero.” Disse scuotendo la testa, i suoi occhi cercavano i miei per una conferma nonostante la sua affermazione.
Essendo più vicina a lui, mi alzai in piedi tenendomi stretta tra il muro alle mie spalle e la barriera del letto. Me lo lasciò fare. Le gambe erano sottili e fragili come un foglio di carta.
“Sì, lo voglio.” Dissi stringendo il medaglione tra le mani. “Sono i miei genitori.”
Nel dirlo, il tono della mia voce uscì alquanto strano: incerto, incredulo e ironico. Aveva lui il medaglione, sicuramente avrà visto cosa conteneva. Cosa si aspettava facessi?
Si passò una mano in testa, portandosi i capelli scuri indietro.
“E vuoi tornare a Volterra per…?” Lasciò la domanda in sospeso. Voleva che la terminassi io, come se il mio precedente motivo non lo avesse già fatto intendere. I suoi occhi inquisitori m’intimidivano. Guardando Andrew avevo la sensazione che quello che stavo per dire risultasse stupido anche alle mie stesse orecchie. 
No, non lo era. Dovevano sapere.
Cercando di raccogliere una sicurezza in me che non credevo avere, dissi: “Voglio dire loro che io so. Tutto qui.”
In quel momento, il mio piano consisteva solamente in quello: guardare loro negli occhi e annunciare la mia epifania.
Non riuscivo a pensare ad altro. Far presente loro che sapevo cosa fossero per me era l’unica cosa sensata. Cos’altro potevo fare? Non avevo ancora realizzato la mia rivelazione e mi domandavo quando avrei potuto farlo. Non avevo ancora chiaro in me cosa pensavo e provavo a riguardo, avevo troppi quesiti senza risposta. Nulla mi era chiaro.
Come potevo anticipare le reazioni di Edward e Bella, una volta incontrati di nuovo, quando nemmeno io sapevo come sentirmi? Potevano reagire in tantissimi modi...
Sarebbe stato un incontro tenuto civilmente. Sarebbe durato poco. Non mi aspettavo né abbracci o dichiarazioni di alcun tipo. Non mi aspettavo nemmeno determinate prese di posizioni o future decisioni.
Erano liberi. Edward e Bella. Desideravo solo comunicare loro che io sapevo. Non avrei rappresentato, per loro, nessuna sorta di costrizione.
Andrew iniziò di nuovo a ridere. Una risata bassa, gutturale.
Rivolsi lo sguardo verso le mie gambe, verso terra, combattendo l’infantile voglia di piangere. Ebbi una fitta calda al petto, come avvenne la notte passata, la quale mi tolse via tutta l’aria dai polmoni. Portai un mano sul seno cercando di smorzare un gemito di dolore dal nascere. L’effetto della morfina era già svanito, era stato così breve.
Andrew si chinò su di me e cercò i miei occhi. “Stai bene?”
Lo guardai: era preoccupato e questo mi faceva ridere. Teneva in considerazione la mia salute ma non altri aspetti, per me, vitali. Lui aveva già deciso, lo aveva fatto senza tener conto delle mie opinioni.
Aggrappata intorno a quel piccolo cerchio di calore, annuii in risposta, distogliendo lo sguardo.
“Guardami.” Ordinò e miei occhi corsero subito verso i suoi. Erano carichi di fredda determinazione. Un muro. “Non andremo a Volterra. Non ne hai bisogno.”
Parlava al plurale, come se fossimo un tutt’uno. Lui era libero di non seguirmi, non glielo avrei mai imposto.
E sì, avevo bisogno di incontrare Edward e Bella così come avevo intenzione di ritornare dai Cullen. Ero aggrappata a quell’intento come un salvagente e nessuno era in grado di farmi cambiare idea. Nemmeno Andrew, nemmeno il suo potere.
“Devo. Andare.” Gli ripetei a denti stretti, stringendomi ancora di più contro il muro dietro di me.
Andrew ringhiò ma io rimasi immobile a fissarlo. “Non prenderti in giro! Non prendere in giro me!” Il suo urlo vibrò per tutto il mio volto. “Già sapevi che erano i tuoi genitori, Renesmee!”
Spalancai la bocca. “Cos…Cosa stai dicendo?” Gli domandai, scuotendo la testa. Ciò che aveva appena detto era una assurdità.  
Si mise in posizione dritta. Le sue iridi brillavano violenti. “Oh, finiscila!” Continuò a urlare, allontanandosi da me. “Lo hai sempre saputo! Semplicemente non lo avevi accettato!”
Le tempie cominciarono a pulsarmi, non riuscivo a credere a ciò che stava dicendo. Stava improvvisando, stava cercando di trattenermi dal non andare.
“Prima non ne volevi sapere nulla!” Continuò, il suo corpo vibrava di rabbia. “Adesso hai visto quella dannata foto e ora vuoi ricongiungerti con mamma e papà! Molto, molto carino!”
“Smettila! Smettila! Non è vero!” Avrei tanto voluto gridargli, ma la paura che lui potesse terminare il litigio con il suo dono, in un battibaleno, mi desisteva dal farlo. Feci due passi in avanti e mi appoggiai al muro di fronte, sotto lo stipite della porta.
“Stai dicendo solo sciocchezze.” Gli dissi mentre delle lacrime iniziarono a straripare dagli occhi e correre nelle guance. “Come potevo saperlo? Come potevo capirlo? Loro non mi hanno detto niente!”
Andrew scoppiò a ridere. Si appoggiò alla ringhiera in legno che dava al piano inferiore. Ne ruppe un pezzo con un leggero tocco della mano.
Si voltò verso di me. L’espressione divertita e malvagia contemporaneamente. Mi catturò il fiato.
“Tutte le attenzioni che ti dava Bella? Come le interpretavi? Solo una madre si comporta in quel modo. Nessuno dei Volturi si preoccupava per te. Nessuno. Ogni volta che io notavo la somiglianza tra te e quei due? Tu cambiavi immediatamente discorso. Lo leggevo nei tuoi pensieri, tramite il tuo tocco, quando sognavi oppure quando eri così tanto presa dai tuoi pensieri da non accorgerti che ero accanto a te.”
Sogni? Pensieri? Cosa aveva visto? Quando si era appropriato delle mie mani per frugare nelle mia testa? Il mio soggiorno a Volterra era caratterizzata da notti senza sogni…  
Il mondo si stava sgretolando ai miei piedi e lui stava velocizzando il processo. “No…” Sussurrai, risultando poco convinta. “Non è vero. L’ho capito quando ho deciso di aprire il medaglione per la prima volta. Quando avevo paura di non sopravvivere alla battaglia! Solo in quel momento mi ero decisa a vedere cosa conteneva!”
Andrew alzò le mani. “Oh, per favore! Non avevi bisogno di uno stupido medaglione! Hai davvero vissuto tutta la tua vita senza aprirlo? Nemmeno una volta? E’ incredibile Renesmee, incredibile. Nessuno ti crederebbe.”
“Devi credermi!” Gli dissi avanzando di altri tre passi, avvicinandomi a lui. Ogni passo era uno stilettata alle gambe. Le braccia tremavano a causa della furia che mi percorreva. “Pensi davvero che le cose sarebbero andate in questa maniera se lo avessi scoperto prima? Non credo proprio.”
Quanti giorni, notti, avevo trascorso chiedendomi cosa contenesse il mio medaglione. Quanta era la mia curiosità ma, allo stesso tempo, una irrazionale paura di sapere. Andrew non lo sapeva.
Lui mi rivolse un sorriso furbo e oscuro. Avanzò verso di me e io arretrai.
“Sì, sarebbero andate proprio in questa maniera.”
“No, non starei con te, qui e ora, adirato.”
Scossi la testa, continuando ad arretrare. “No, non sarebbero andate così.”
Continuò a sorridermi. “Ti sbagli e sai perché? Perché i tuoi cari genitori non hanno fatto nulla per evitarlo.”
Toccai di nuovo il muro con la schiena. Portai le mani dietro di me, strette in pugno, per sorreggermi. Non sarebbe servito a nulla attaccarlo, ero troppo debole. Dovevo controllarmi e non credere alle sue parole. Voleva solo farmi cambiare idea. Le stava provando tutte, ne ero convinta.
“Sei tu che sbagli.” Gli risposi controbattendo, i denti digrignavano. “Bella mi ha mandato via da Volterra! Lei non voleva che partecipassi alla battaglia!”
Andrew venne colto da un altro moto di risate. “Sì! Il suo, permettimi, patetico tentativo di salvarti.”
Mi raggelai. La furia, che mi percuoteva tutta come adrenalina, mi pietrificò sul posto.
“Lei ha fatto quello che poteva.” Dissi a denti stretti. I vuoti muscoli delle braccia erano in tensione dietro le mie spalle.
“Sì, sì.” Disse sbrigativo Andrew, portandosi entrambe le mani dietro la testa. “Almeno lei… ha fatto qualcosa. Tuo padre? Zero. No, aspetta! Una volta, sì. Quando mi ha minacciato di uccidermi se tentavo di avvicinarti a te. Ho dato retta alla sue parole? No. A lui è importato qualcosa, alla fine? No.”
La sua voce era così fastidiosa, acuta e persuasiva. Entrava nelle mie orecchie come se fosse la padrona della mia mente. Colei che decideva cosa ascoltare e credere. Mi chiesi se non stesse già utilizzando il suo dono con me.
Istintivamente coprii le mie orecchie con le mani, tentando di bloccare la sua subdola voce.
“Smettila.” Gli sussurrai. “Basta.”
Portò le sue mani ai fianchi. Mi rivolse uno sguardo sorpreso, la testa piegata di lato. “Come? Non eri tu quella che voleva parlare? Io espongo la mia opinione e tu la tua.”
Mi voltai, dandogli le spalle, e mi diressi verso le scatole di morfina appoggiate nel comodino, dall’altra parte della stanza. Mi avviai lentamente, aggrappata alla barriera di legno. Il petto pulsava, seguiva frenetico i ritmi dei miei polmoni.
“A te non importa cosa… ne penso io… o cosa io voglio fare.” Gli risposi. “Tu hai già deciso per me.”
Mi sedetti nel bordo del letto e ingoiai altre dieci pillole. Mi portai alcune ciocche di capelli dietro le orecchie. La camera da letto era diventata improvvisamente piccola, claustrofobica. Volevo andarmene subito.
“L’ho fatto per il tuo bene.” Rispose Andrew dietro di me.
Mi voltai, era appoggiato al muro, accanto alla porta.
“Per il mio bene?” Gli domandai, l’indice puntava verso la mia persona. “Tu non sai di cosa ho bisogno per il mio bene.”
Andrew sgranò gli occhi e batté le palpebre. Increspò le labbra, alzò gli occhi al cielo e disse: “La tua famiglia, ho capito.”  
“Vai al diavolo, Andrew.”
“Cosa hanno fatto loro per te? Niente, peggio di Edward e Bella. Se davvero si fossero preoccupati per te, come lo sono io, a quest’ora, forse, davvero non saresti qui. Invece…”
Mi alzai di scatto, incurante del dolore. e mi voltai totalmente verso la sua direzione. Persi l’autocontrollo.  
SMETTILA! SMETTI DI DIRE BUGIE!” Gli urlai con tutta l’aria che avevo a disposizione. Sentivo gli occhi fuori dalle orbite. Appoggiai le mani nel materasso davanti a me, facendo grandi respiri.
Lui non reagì, rimase impassibile alla mia reazione. Continuava a rimanere fermo come una statua di marmo.
“Nemmeno i Cullen volevano che restassi a Volterra. Si erano accordati con Bella per portarmi via! Io li ho mandati via! Tramite te, Andrew! Tu mi hai fatto dire loro di andare via! Cosa ne pensavi, in quel periodo? T’importava o non t’importava di me? A quei tempi?!”
La mia sfuriata venne interrotta da un altro colpo infuocato nel petto. Rantolai e sprofondai tra le lenzuola.
Con la coda dell’occhio vidi Andrew, la sua espressione di nuovo dannatamente preoccupata, avvicinarsi. Io lo fermai e mi alzai di forza. Non volevo che mi toccasse.
“Quando sei venuto a prendermi.” Continuai. “Loro volevano affrontarti. Nonostante i miei avvertimenti sul tuo dono, loro avevano intenzione di combattere per me. Si preoccupano per me. Non. Dire. Menzogne.”
Andrew rimase in silenzio. Non respirava, non si muoveva, superava una statua.
“E per quanto io ti sia grata per quello che hai fatto e stai facendo per me, Andrew. Tu non hai nessun diritto di scegliere per me, decidere per me. Tu sei libero di fare ciò che vuoi: tornare  a Volterra, mettermi pure i bastoni fra le ruote, se lo desideri. Io devo raggiungere Edward e Bella, poi la mia famiglia. E’ quello che desidero, da sempre. Qua non c’è nulla che mi trattiene.”
Calò un silenzio di tomba. Io e Andrew ci fissammo negli occhi, nessuno osava distogliere lo sguardo. Nei suoi non riuscivo a leggere nulla. Vedevo il mio riflesso rosso: inginocchiata e con le spalle curve. Mi domandai cosa leggeva nei miei, se comunicavano qualcosa.
Nella mia testa si ripetevano le parole che gli pronunciai, come un disco rotto. Fui completamente onesta con lui: a Londra non c’era nulla che mi tratteneva. Io volevo ritornare dai Cullen, volevo andare da Bella ed Edward. Volevo la mia vita indietro.
Dopo un tempo infinito, Andrew aprì finalmente la bocca: “Non vuoi stare con me, quindi.”
Mi mancò il fiato, il cuore riprese a martellare. “Andrew, io…”
Cosa intendeva? Voleva passare il resto dell’eternità con me? Era una sorta di dichiarazione, quella?
Si stese nel letto, accanto a me, a pancia in giù. “Non vuoi stare con me.” Ripeté.
“Io vorrei che stessimo insieme.” Continuò, interrompendomi.
Lo guardai, le spalle rivolte verso di me, il voltò contro un cuscino bianco.
Non sapevo che dire.
Le mie priorità, in quell’esatto momento, erano altre. Non prevedevano lui. Lui non c’era. Questa era la schiacciante verità.
“Andrew.” Riuscii solo a dire. Le lacrime cominciarono di nuovo a uscire come una onda grandissima.
Appoggiai il volto tra le sue scapole, le mani nella sue spalle, vicino al collo. Fu come stendersi in una lastra di ghiaccio. Lui non si mosse.  
“Mi sento davvero in colpa per quello che ti è successo, Ren. Mi dispiace non averlo capito prima. Volevo rimediare…”
Nonostante la sua bocca fosse costretta tra il tessuto del cuscino, la sua voce suonò chiara, nitida.
“Lo so, ma…” Dissi.
“Non vuoi che stiamo insieme.” Concluse lui, erroneamente, la mia frase.
Lo volevo davvero? Non lo sapevo. Il tema era arrivato con lo stesso preavviso di un terremoto. Non avevo mai pensato che per me e Andrew potesse esserci una opportunità.
Non avevo mai valutato, in profondità, cosa io provavo per lui o cosa Andrew provava per me. Nessuno di noi due aveva iniziato l’argomento prima d’allora.  
Gli eventi mi avevano completamente annegata, impedendomi di riflettere. Inoltre, non volevo che Aro sapesse ma, a quanto pare, lui era già consapevole dello strano legame che si era creato tra me e Andrew.
“Potresti venire con me, dai Cullen. Noi ci nutriamo di sangue animale, ma tu potresti continuare a nutrirti di quello umano. Nessuno ti direbbe nulla, nessuno ti obbligherebbe a fare qualcosa che non vuoi. Te lo prometto.”
“No.” Rispose sicuro Andrew.
“Mi dispiace, Andrew.”
“Spostati. Vado a prendere qualcuno. Sto morendo di fame.”

 

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Capitolo 36
*** Capitolo 35. ***


I vampiri non esistono. Non ero finito in Italia per dei vampiri perché non esistono.
Mi avevano rapito. Quei due bastardi e drogati dei miei genitori erano a corto di denaro e avevano preferito farmi rapire così loro non avrebbero speso un centesimo. Oppure la famiglia del mio patrigno aveva scoperto che lo avevo ucciso io e aveva deciso di vendicarsi. Chissà perché avevano preso la scusa dei vampiri, come se avessi cinque anni.
Bizzarra vendetta se questa consisteva nel portarmi in Italia da una strana combriccola di persone. Erano terrificanti e disumani: non parlavano, non si muovevano, non dormivano, non bevevano né mangiavano, non uscivano di giorno.
I vampiri non esistono. Forse questi facevano parte di qualche setta o di qualche esperimento segreto del governo.  
Ma io avevo paura e non riuscivo a nasconderlo. Odiavo mostrarmi vulnerabile.
Le massicce porte si aprirono ed entrarono due persone: una donna e una ragazzina. Non le avevo mai viste prima. La donna sembrava come tutte le altre che avevo visto in quel posto: terrificante e mozzafiato.
La ragazzina… era una ragazzina normale. Finalmente! Non ero solo! Mi avrebbe potuto spiegare cosa diamine stava succedendo oppure confermarmi che era stata rapita pure lei.
Si mise accanto a me e mi fissò: era mia coetanea; era molto magra, ma con le forme al punto giusto, e aveva dei lunghissimi capelli castani, legati in una treccia spettinata, e i riccioli nelle punte sfioravano il pavimento. Altri ricciolini le incorniciavano il volto come una cornice di legno pregiato.
La sua pelle era molto pallida, come quella di tutti gli altri tizi ma con una curiosa sfumatura lavanda, e le sue guance erano macchiate di rosa. I suoi occhi erano enormi e marroni, con lunghe ciglia, e non indossava le lenti a contatto rosse. Le labbra erano troppo carnose. Il suo viso era simmetrico però non risultava strano.
Il cuore iniziò a battere forte.
Era impossibilmente bellissima. Non avevo mai visto nessuna così bella al liceo o nei locali notturni, da nessuna parte.
La sua presenza era quasi astratta, eterea. La sua bellezza era lontana, inumana, intoccabile, inconcepibile ma c’era e rubava il fiato e qualsiasi capacità di ragionare.
Ebbi il violento impulso di coprirla, di proteggerla e di baciarla. La sua faccia era buona, positiva.   
Mi rivolse uno sguardo spaventato e ansioso, neppure lei sapeva cosa stava succedendo.
Il tipo strano con i capelli lunghi e le iridi rosse iniziò a parlare di nuovo, così velocemente che non riuscii a captare nemmeno una lettera. Si stava rivolgendo alla ragazza la quale non sembrava avere nessun problema a stargli al passo. Teneva la bocca semi aperta e sgranò gli occhi: era impaurita.
Vedendola così spaventata, iniziai ad avere ancora più paura.
“Nutriti, Renesmee.”
Che razza di nome era?
Ma soprattutto, di cosa si doveva nutrire?
La ragazza chiamata Renesmee si allontanò da me come un soffio leggero di vento. Fu velocissima proprio come lo furono tutti gli altri in quella sala.
“No.” Disse, la voce tremante, scuotendo la testa. Continuava a guardarmi spaventata. I suoi occhi puntavano sulla mia faccia e sul mio collo e la sua bocca, prima tenuta stretta, si ammorbidì e si schiuse.
Le chiesi di non uccidermi, in qualsiasi modo lo stesse per fare.
“No!” Sentii gridare per l’ultima volta.
 
 
 
 
 
 
 
 
Non potei attuare il mio piano immediatamente.
Il processo di guarigione era lentissimo e io non avevo tanta pazienza.
La prima volta mi volle un mese, non potevo concedermi tutto quel tempo anche per la seconda, non in quel momento. Avrei potuto farlo quando sarei ritornata definitivamente a casa, con calma e senza nessuna fretta.
Casa. Questa volta sarebbe stato sul serio.  
L’impazienza mi contorceva lo stomaco e metteva in subbuglio il mio umore. Mi rendeva sia elettrizzata che nervosa, euforica e furiosa.
Non vedevo l’ora di andare a Volterra, la Renesmee di quasi un anno prima non l’avrebbe mai detto. Per lo più, non vedevo l’ora di relegarla nel mio passato per sempre. Se fosse stato possibile estrapolare specifici momenti della vita dalla memoria, avrei preso quelli passati in Italia, dar loro fuoco e ballare intorno alla pira.
Meglio ancora: avrei felicemente barattato i miei ricordi di Volterra con quelli che avevo perso molti anni fa.
Erano le dolorose fitte al petto e quella strana febbre, che mi travolgevano in qualsiasi momento della giornata, che mi fermavano. Non davano nessun segno di sparire e la morfina sembrava avere nessun effetto su di loro.
Per questo motivo feci scorrere, con mio disappunto, un’altra settimana. Ero sparita da un mese e due settimane ormai. Troppo tempo.
Ogni ora che scoccava, io ero sicura di star perdendo il controllo sulla mia vita, sul mio destino e sulla realtà. Mi sentivo estraniata, da me stessa e dalle vicende che avevano dato luogo a quel senso di alienazione. Mi sentivo in balia dell’oceano, a galleggiare nell’acqua profonda, senza nessun appiglio a cui appoggiarmi.
Quel senso di perdita e caos era destabilizzante e travolgente.
L’altro motivo che mi indusse a posticipare l’avvio del mio piano era Andrew: mi aveva chiesto di aspettare per riprendere un po’ di forze.
Andrew.
Dopo il nostro litigio, cambiò atteggiamento nei miei confronti: divenne molto più tranquillo e mi aiutava nei momenti di maggiore difficoltà. In quei pochi attimi in cui ci rivolgevamo la parola, lui non si mostrava più adirato e non tentava più di evitarmi.
Anzi, era sempre dolce e premuroso con me. Durante le mie fastidiose crisi febbricitanti, mi stringeva sempre in un abbraccio perché sapeva che il freddo del suo corpo mi dava sollievo, e mi consolava. Io ero tanto egoista da approfittarmene e m’incollavo a lui. 
Per quasi tutta la giornata mi lasciava sola, rimaneva con me solo quando stavo male, perché andava alla ricerca di qualche sfortunato che sarebbe finito sotto i miei e i suoi canini. Portava sei o sette persone ogni ora, stava svuotando una città.
Io provavo a rifiutarmi: mi sentivo una assassina – non solo di umani ma anche di mezzi vampiri, ormai -  ed estremamente colpevole. Non era quella l’educazione che avevo ricevuto e stavo tradendo i miei principi. Poco importava se ero uno straccio, non era giusto sacrificare degli innocenti per il mio benessere, strapparli alle loro vite, ai loro cari. Infondo anche io ero umana, come loro. Uccidendoli voltavo le spalle alla mia natura.  
In ogni volto impaurito e implorante vedevo Carlisle e tutti gli altri Cullen. Le loro espressioni erano deluse e furiose. Fui felice che non ero con loro in quei momenti caotici, che non potessero vedere il lato peggiore di me stessa. Mostrarmi in quello stato selvaggio e oscuro era l’ultima cosa che desideravo.  
Tentai più volte di fermare Andrew, piangendo pure, pregandolo, ma lui mi costringeva. Gli spiegai che non era quello il tipo di sangue di cui io, di solito, mi nutrivo. Lui prese me e i Cullen per pazzi. 
“Se vuoi andartene il più presto possibile, questo è l’unico modo.” Mi diceva sempre, prima di offuscare le mie volontà.
In effetti, non potei non ammettere, purtroppo, che ogni ora trascorsa, io diventavo sempre più forte grazie al sangue che stava riprendendosi il pieno possesso del mio organismo. Ritornai a essere più agile e reattiva, forte. Riuscivo a tenermi in piedi e in equilibrio, i muscoli si stavano di nuovo riempiendo, le profonde occhiaie che circondavano i miei occhi erano sparite e io avevo ripreso colore nelle guance. Andrew lo aveva notato e questa evoluzione lo spingeva a portare ancora più persone.  
Nonostante fosse grottesca, io non meritavo quella cura da parte di Andrew, come se non lo avessi ferito. Io lo avevo ferito e lui non ne faceva mistero. Lo aveva ammesso e il mio cuore terminò di spezzarsi definitivamente, come se dovesse essere il mio a farlo e non il suo.
Non me lo ricordava ma il suo assurdo  comportamento mi faceva sentire male, cattiva, perfida e immeritevole. Non aveva nessun motivo di comportarsi in quel modo così reverenziale con me, non lo meritavo.
Spesso mi abbracciava anche quando stavo bene o, ancora peggio, mi baciava. Non lo meritavo, non meritavo il suo tocco e non rispondevo mai alla sua vicinanza, farlo sarebbe stato irrispettoso. Lui non insisteva, però il mio atteggiamento lontano non sembrava essere sufficiente da fermare quello suo amorevole. 
Mi aspettavo un atteggiamento freddo e distaccato, mi aspettavo che mi abbandonasse, che mi insultasse. Per quale motivo continuava a stare con me dopo avergli esplicitamente detto che lui non c’era nel mio futuro?
Non glielo domandai, non ero abbastanza forte emotivamente da poter tollerare una sua risposta, bella e brutta che fosse. Probabilmente non avevo neanche il diritto di domandarglielo.
Andrew non mi era indifferente, ovviamente. Gli auguravo il meglio, lo volevo felice. Iniziò a far parte di me dal primo momento in cui posò i suoi occhi azzurri nei miei, prima che venisse trasformato in vampiro.
Il suo tocco, la sua presenza intorno mi erano, da subito, risultati familiari. Era stato facile e naturale accettare la sua vicinanza, i suoi abbracci. Era come se lo conoscessi da sempre. Visto da un punto di vista esterno, mi rendevo conto che le dinamiche del nostro rapporto erano state tutt’altro che normali. Furono contorte.   
Con Andrew mi sentivo sempre sotto effetto di un incantesimo perché lui era costantemente nella mia testa. Non sentivo mai la sua mancanza. Nemmeno quando ero ritornata, per poco tempo, dai Cullen provai le conseguenze dell’assenza di Andrew. Era sempre con me, non c’era ragione per cui dovessi soffrire la sua lontananza. Ed ero sicura che, in futuro, avrei continuato a non soffrire la sua mancanza.
Come potevo spiegarglielo senza creare incomprensioni e in maniera chiara? Non avrebbe capito, era quasi incomprensibile a me. Per lui sarebbe stata un’altra scusa.
E quando lo vedevo, il cuore rischiava sempre di scoppiarmi e un proiettile di felicità mi colpiva improvviso. Mi sentivo a mio agio con lui, sicura e forte.  
Era questo l’amore? Ci si sentiva così? Anche Andrew provava le stesse cose?
Non sapevo darmi nessuna risposta. Non ne sapevo nulla di cuori e amori, di relazioni.
Mi odiavo, odiavo questa mia mancata consapevolezza. Seguii l’esempio di molte eroine che lessi nei romanzi: aprire e far parlare il mio cuore. Lo avevo fatto e il mio cuore dava per scontato ciò che provavo nei confronti di Andrew ma non lo definiva.
Eppure avevo così tanti esempi viventi per comprendere se fosse amore o meno, i miei nonni e zii, ma il caso che costituivamo io e Andrew era così lontano da loro, il polo opposto. Eravamo una coppia improbabile o la rendevo io tale?
Andrew e io continuammo a non esprimere esplicitamente i nostri sentimenti. I suoi motivi erano comprensibili: perché manifestarli quando si era certi che non sarebbero stati ricambiati?
Io non mi esprimevo perché non volevo fare dichiarazioni delle quali non ero sicura al cento per cento. Sarebbe stato oltraggioso, non volevo mentirgli e io odiavo le bugie. 
Lui, almeno, lo faceva, a gesti. Io no. Io continuavo a rubare quello che mi mostrava ogni volta.
Dovevo stargli lontana, un altro motivo per cui avevo così tanta fretta di andare in Italia. Avrei smesso di farlo soffrire. Non era corretto, nei suoi confronti, comportarsi in quella maniera così sconsiderata e insensibile. Non volevo prendere per i fondelli nessuno.
Cercavo sempre di rimanergli lontana, in quei brevi momenti in cui si presentava a casa sua, ma era Andrew stesso a cercare il mio tocco facendo crollare i miei propositi.
Non parlavamo molto. Io mi chiusi in un mutismo mezzo obbligato: non riacquisii ancora il mio dono, la mia unica e naturale facoltà di comunicare. Questo aumentava il mio stress e il mio panico di averlo perso definitivamente.
Prima la memoria… ora il mio dono? Questo era auto sabotaggio, un tradimento auto inflitto. Che fosse una sorta di punizione?
No, non potevo perderlo. Preferivo diventare muta per l’eternità anziché perdere la mia stramba capacità di trasmettere i miei pensieri, di parlare.  
Inoltre mi vergognavo troppo di me stessa da mostrarmi indifferente intavolando conversazioni con Andrew, come se nulla fosse successo.
Ad Andrew non sembrava disturbare quel silenzio. Lui era quasi sempre essente, forse lo faceva volontariamente, con la scusa di portare gente da assassinare nelle mura sicure della sua abitazione.
Non lo biasimavo. Ma se si allontanava volontariamente, perché voleva essere sempre vicino a me, una volta ritornato? Era una comportamento strano.
Spesso cercava di farmi cambiare idea, se ne usciva sempre con nuovi pretesti. Continuava a propormi di stare con lui ma nella sua voce non c’era rabbia o implorazione. Rendeva la sua una semplice e comune richiesta. Io replicavo sempre con la stessa, onesta risposta. Gli proponevo di venire con me, ma pure lui rispondeva sempre allo stesso modo: “No.”
“E se a loro non importasse nulla?” Mi chiese, un giorno. Lui era ancora convito che io sapessi già che Edward e Bella fossero i miei genitori biologici. Non si rendeva conto quanto la sua fosse una assurdità, una sciocchezza. Andrew sarà stato pure più veloce e perspicace di me, ma sicuramente non si era servito dei miei sogni e dei miei pensieri. Era assurdo, semplicemente assurdo.   
Quella che mi aveva fatto era una ottima domanda, me l’ero posta pure io. D’altronde dovevano avere pur un motivo per cui si erano allontanati da me. Magari davvero non importavo loro nulla.
“Ti sbagli e sai perché? Perché i tuoi cari genitori non hanno fatto nulla per evitarlo.”
Scacciai quelle parole dalla mia mente. Gli risposi con una scrollata di spalle: “Nessun problema.”
Fui estremamente tranquilla in quella risposta ma ero consapevole che quella indifferenza nascondeva qualcos’altro da me stessa. Qualcos’altro che, in quel momento, era dormiente, assopito.
“Allora” continuò Andrew con il suo interrogatorio, “Perché disturbarsi così tanto?”
Eravamo in salotto. Andrew aveva portato via gli ultimi cadaveri. L’appartamento moderno a due piani era diventato un mattatoio nel pieno centro di Londra.
“Andrew, immagina di vivere ottanta anni della tua vita consapevole di non ricordare nulla del tuo passato. Condividi la stessa casa con altri sei vampiri che chiami nonno oppure zio. C’è un motivo e, qualsiasi sia, significa che, prima che tu perdessi la memoria, c’erano una madre e un padre con loro e con te. Se il motivo non ci fosse stato, i Cullen si sarebbero presentati con te semplicemente con il loro nome. Non avrebbero definito in maniera così dettagliata i rapporti tra te e loro. Non credi?”
I nostri ruoli familiari non erano solamente motivati per salvare le apparenze di fronte agli umani.
Veramente gli zii consideravano Esme e Carlisle come dei genitori, davvero Emmett considerava Jasper un fratello e viceversa. Anche io potevo finire di considerare i nonni come i miei genitori – e lo erano per me – ma loro mi consideravano una nipote nonostante più volte mi avessero detto che ero, per loro, una figlia.
Feci una pausa ma ripresi immediatamente. “Ho passato la mia vita intera a chiedermi chi fossero, che volto avessero, perché se ne fossero andati. E adesso so chi sono e, credimi, non sai quale sollievo sia per me, che peso immenso mi sia tolta dalle mie spalle. Finalmente posso andare avanti. Mi sentirò solamente libera, però, da questo macigno solo quando li vedrò negli occhi e dirò loro: indovinate un po’, ragazzi? L’ho capito! Addio!” Calcai la mia voce nell’ultima parte, scimmiottandomi.
Realizzai tutto questo solo quando lo pronunciai a voce. Davvero mi sentivo più libera, leggera e tranquilla. Tale sensazione prevaleva su tutte le altre emozioni, le sopprimeva, le ammutoliva. Non mi sarebbero aspettate più notti insonni, dubbi e domande. Sapevo, potevo anche sorvolare sulle inquisizioni nonostante queste continuavano a premere numerose contro le pareti del mio cervello sovraccaricato.
Il mio piano consisteva di non inondare Edward e Bella di domande ma la curiosità mi affogava. Non ero tanto convinta di poter resistere alla tentazione. Dentro di me un dissidio era in corso: cedere alle infinite domande o no? Dopotutto, meritavo delle risposte, no?
No, mi sarei tenuta al piano. Sarebbe stato breve e indolore, di pochi secondi. Non avrei posto nemmeno i Cullen al mio interrogatorio.     
Andrew corrugò la fronte e si guardò il petto e la braccia sporchi di sangue. Gli avevo dato sicuramente elementi su cui pensare e lo dimostrava la sua espressione pensierosa. Le basi dalle quali partivano le mie intenzioni erano a prova di bomba.
“Secondo te, perché ti hanno lasciata?” Domandò.
Sospirai. “Non lo so.” Le ragioni potevano essere migliaia oppure zero. Tutte quelle che avevo ipotizzato nel corso degli anni, ora, mi sembravano stupide.
Edward e Bella erano membri della Guardia dei Volturi e supponevo lo fossero da molto tempo. C’era una ragione, una motivazione.
Pensai a Eleazar, cugino di Denali: lui scelse di far parte della Guardia perché non c’era nulla e nessuno che si opponesse a quella scelta. Non esisteva nessuna specifica ragione dietro quella decisione. Molti vampiri erano affascinati dai Volturi e tale fascinazione li portava a unirsi a loro.
Chissà, forse il caso era stato lo stesso per Bella ed Edward.  
Poi Eleazar conobbe Carmen e capì che Volterra non era più il posto adatto per lui, la lasciarono insieme e si unirono a Tanya e Kate.
“E non si sono mai fatti vivi?”
Assolutamente no. “No.” Risposi soltanto. Non ero cieca e i miei istinti erano gli stessi dei vampiri. Se Edward e Bella avessero deciso di fare un salto dai Cullen, in mia assenza, lo avrei potuto capire facilmente. Avrei potuto ricordare semplicemente il loro odore una volta a Volterra.
Magari lo avevano fatto! Ma non a casa, in spazi aperti. In quel modo non avrei mai potuto intercettare il loro odore con tanta facilità…
Andrew piegò la testa di lato, c’era qualcosa che non gli quadrava. “E… i Cullen, non ti hanno mai detto nulla?”
“No.” Ripetei, facendo una brevissima risata amara. “Ma loro sanno, ovviamente.”
Eccolo di nuovo, il dissidio interiore. Chiedere o no? D'altronde, sapevo! Non c’era nessun motivo per cui dovessero nascondermelo ancora. Mi avrebbero potuto dare la loro versione dei fatti…
Andrew mi rivolse uno sguardo confuso, non capiva. “E perché non gliel’hai chiesto?”
“Non sai quante volte l’ho fatto!” Gli risposi, improvvisamente esausta. Infinite volte.
Non potei evitare di sentirmi stupida. Sentii la presa in giro dietro le parole di Andrew. E la sua incredulità.
“Non mi hanno mai risposto, a volte cambiavano proprio discorso. E poi, non è facile impuntarsi su qualcosa quando sei accanto a un vampiro che può farti perdere interesse in qualsiasi cosa.”
Jasper. Ogni volta che io insistevo troppo con le domande, i Cullen si giocavano la carta Jasper e la mia attenzione volava altrove.
I tratti di Andrew si indurirono. “Ti hanno mentito per tutto questo tempo, Ren, e tu vuoi ritornare da loro.”
Lui non li conosceva, non sapeva nulla di loro. Andrew aveva un percezione strana dei Cullen, risultato della distorta immagine che gli eventi passati, e io stessa probabilmente, avevano trasmesso.
“Sicuramente hanno avuto i loro motivi.” Dissi io, a denti stretti. Non potei immaginare persone più oneste dei Cullen. Se lo avevano fatto, c’era senz’altro una ragione.  
“Certo, certo.” Disse Andrew e mi lanciò una occhiataccia. “Questo non significa nulla, comunque. Potevi sempre aprire quel medaglione.”
Mi portai le ginocchia vicino al petto e mi abbracciai. “Hai ragione.” Risposi. Aveva più che ragione. Se lo avessi fatto tempo prima, mi sarei risparmiata un sacco di pene, sicuramente. Ma non ero pentita di non averlo fatto, avevo i miei motivi e non mi aspettavo che qualcuno li comprendesse.
Ma se avessi aperto il mio pendente tantissimo tempo prima, i Cullen mi avrebbero spiegato tutto? Mi avrebbero portata da loro? Pensai di no, non l’avrebbero fatto. Mi avrebbero fermata in tutti i modi. Non avrei potuto porre le mie speranze neanche nella fuga: Alice non era in grado di vedere il mio futuro, ma Emmett era capace di acchiapparmi immediatamente. E poi, ero costantemente sotto la supervisione di qualcuno.
Andrew sbuffò e disse, divertito, rispondendo ai miei pensieri: “Se lo avessi fatto prima, avresti creato l’effetto sorpresa quando hai messo piede per la prima volta a Volterra.”
Scoppiai a ridere. “Sì, forse.”
Se davvero fosse andata in quella maniera, cosa sarebbe successo? Sarebbe successo tutto quello che, alla fine, era successo? Oppure sarebbe accaduto tutt’altro?
Il giorno successivo, dopo avermi nuovamente proposto di restare con lui, Andrew mi domandò: “Secondo te, ti stanno cercando?”
“Chi?” Domandai dopo aver ingoiato le pillole di morfina, mi ero appena svegliata dopo una estenuante crisi ardente. Andrew rubava la morfina da tutti gli ospedali di Londra.
“I Cullen e i tuoi.” Rispose distendendosi nel divano e appoggiando la sua pesante testa nel mio ventre. Per un breve momento mi immobilizzai e portai le mani vicino ai fianchi.
Rimasi in silenzio, indugiando sulla risposta. Aveva posto un altro quesito che mi ero posta pure io. Per quanto riguardava Edward e Bella i casi potevano essere due. Per quanto concerneva i Cullen, mi auguravo che non fossero a conoscenza di nulla.
“Magari Bella, ma non so fino a quanto si stia spingendo.” Risposi, incerta. L’idea che si potesse mettere nei guai a causa mia mi innervosì, come lo fece tempo fa. Non volevo che si preoccupasse per me. Cos’altro poteva inventarsi?
Non avevo neanche considerato la possibilità che Edward fosse sulle mie tracce. Edward mi odiava. Non mi avrebbe mai cercato.
Oppure nessuno dei due mi stava cercando perché convinti che fossi morta. Probabilmente si erano liberati di me nella maniera assoluta.
“Spero davvero che tutti i Volturi abbiano creduto alla tua parola, Andrew.” Dissi. In quel modo mi sarei potuta muovere di soppiatto a Volterra e andarmene senza far intendere ad Aro niente di niente.
Era estremamente importante, per me e per il mio piano, che Edward e Bella collaborassero. Una volta ritornata negli Stati Uniti, i miei genitori biologici dovevano tenere la bocca chiusa, per sempre. Non dovevano far sapere che io ero ritornata a Volterra, anche solo per tre secondi. Me lo dovevano, era la mia unica richiesta.
Se Aro e i suoi fratelli erano convinti che fossi morta, lo dovevano essere per l’eternità.
Su Bella potevo contare, mi fidavo. Su Edward no.
“Certo che credono alla mia parola.” Andrew alzò gli occhi verso di me, offeso. Non considerava minimamente sospetta la sua scomparsa.
Non gli risposi e distolsi lo sguardo dal suo volto, lo puntai verso i muri bianchi macchiati di sangue davanti a me.  
“I Cullen?” M’incalzò.
“Spero davvero che non sappiano nulla. Racconterò tutto quando ritornerò.” La mia risposta uscì sia come una preghiera che come un lamento. La notizia della mia morte, se era già arrivata a loro, li avrebbe distrutti, fatti impazzire… non volevo pensarci. Ero ben consapevole di cosa dovevo aspettarmi una volta tornata a casa: mi avrebbero fatta a pezzettini per un anno intero, forse due, ed Esme mi avrebbe chiusa in una gabbia. Non mi sarei opposta, me lo meritavo.  
Avrei voluto tanto contattarli ma li avrei solo allarmati. Non avevo intenzione di ripetere gli stessi errori che feci prima. Chiamarli li avrebbe solo fatti preoccupare ma era difficile starsene fermi sapendo che, probabilmente, erano in pensiero per me.
Era crudele però volevo attenermi al mio piano e questo non prevedeva nessun’altra persona eccetto me, Bella ed Edward. Nessuna intromissione, nessuna influenza esterna. Li avrei chiamati dopo, quando tutto sarebbe finito.
A volte continuavo a desiderare che i Cullen non volessero avere più niente a che fare con me, che rinunciassero a me, per la loro sanità mentale.
 
 
 
 
 
 
 
 
Era passato un altro giorno. Non potevo più aspettare. Dovevo andare.
Dopo essermi vestita con gli abiti che Andrew aveva rubato per me, assicurato il medaglione nella tasca interna della mia giacca a vento, aver preso le ultime pillole di morfina rimaste, salii sopra il tetto del palazzo.
Andrew, insieme alle vittime, non entrava mai dalla porta di casa ma da una scaletta che portava direttamente al tetto. Lui mi proibì di utilizzarla.
Mi sedetti sul cornicione del tetto e lo aspettai, i piedi ciondolavano nel vuoto. Erano le quattro del mattino passate e il cielo era nuvolo. La città era più che viva, vibrava di gente e attività e né l’ora né il tempo la potevano arrestare. La pioggia aveva dato posto al vento che spingeva via qualche nuvola per dare posto ad altre. Il petricore entrava prepotente nelle narici. Era estate, Agosto ed era ancora presto per l’alba.
Sotto di me c’erano uomini e donne che andavano e venivano. Mi domandai se c’erano altri vampiri in città, se c’erano i Cullen. Sicuramente c’era qualcuno.
Mi aspettavo di tutto, qualsiasi interruzione del mio piano. Non escludevo la possibilità che Aro avesse mandato altre persone a Londra per cercare Andrew ma lui non aveva fatto riferimento ad altre escursioni.
Inspiegabilmente ebbi la voglia di scontrarmi con qualcuno, di confrontarmi tramite la lotta come se avessi bisogno di confermare la mia forza non del tutto ristabilita. Ero molto guardinga e leggermente paranoica quella sera. Un ringhio venne soppresso nel mio petto.
Perlustrai la zona intorno a me più volte, la casa di Andrew era collocata tra Buckingham Palace e i giardini di Kensington. Da quella postazione così alta non avevo rivelato nulla di strano, niente di sospetto ma non abbassai la guardia e tenni gli occhi aperti ovunque.   
Sentii il suo arrivo leggero, rimase alle mie spalle.
“Ren?”
Mi misi in piedi, balzando sulle punte. Con il cielo scuro come sfondo e illuminato dalle innumerevoli luci della città, Andrew sembrava più alto, un gigante. I suoi occhi rossi erano lucidi, luminosi. Il suo corpo era in tensione, pronto a scattare.
Vedendomi lì pensai si arrabbiasse, invece mi rivolse una espressione comprensiva e calma.
“E’ ora.” Gli dissi solamente. Il mio tonò di voce non riuscì a nascondere la mia fretta.
Andrew annuì e si avvicinò a me. “Sei sicura?”
Annuii di rimando. “Sì.”
“Ti senti bene?” Domandò. Poggiò un dito sotto il mio mento e alzò la mia testa verso di lui, mi scrutò attentamente. Non poté che vedere solo determinazione nei miei occhi.  
“Sì, davvero.” Lo rassicurai ricambiando il suo sguardo. Due ore prima avrei risposto diversamente ma ora mi sentivo a posto.
“Va bene.” Concesse Andrew e mi lasciò andare.
Prendendolo alla sprovvista, eliminai quei pochi centimetri che ci dividevano e lo abbracciai forte, portandolo alla mia altezza, curvandolo. Non mi chiesi, in quel caso, se potevo permettermi o meno quel gesto. Lo feci e basta. Quella era l’ultima volta che potevo farlo.
“Grazie di tutto, Andrew. Ti sarò grata per l’eternità.”
Lui ricambiò l’abbraccio e mi strinse a sé, sollevandomi da terra. Lo sentii annusare il mio profumo tra i miei capelli. “Non devi ringraziarmi.”
Sì, dovevo. Aveva fatto moltissimo per me. Io lo avevo solo ferito.
“Grazie.” Ripetei. Lo sentii sbuffare e io sorrisi. Nelle ultime ora aveva ripetuto spesso, più a se stesso che a me, quanto fossi testarda. Pensavo l’avesse capito già da tempo.
Sciogliemmo l’abbraccio. Riportai i piedi in superficie e feci un passo indietro.
Dovevo dirgli addio. Per me non sarebbe stato veramente un addio. Andrew sarebbe stato sempre con me, ovunque andasse. La sicurezza in questa consapevolezza mi disarmava ma l’avevo.
Non riuscii a non chiedermi come avrebbe reagito al momento: sarebbe stato calmo oppure la sua reazione sarebbe stata diversa?
Andrew era ancora un vampiro neonato, anche se non lo si notava molto, e aveva l’infinito davanti a sé. Avrebbe incontrato tantissima gente, sarebbe riuscito ad andare oltre quella breve parentesi, costituita da me, della sua vita da immortale. 
Mi sentii cattiva a pensarlo ma era meglio così. Meglio l’onestà che incertezze.  
“Sei pronta?” Mi domandò.
Mi morsi il labbro e annuii. “Sì. Andrew…”
Mi interruppe. “Andiamo.”
Cosa? Sarebbe venuto pure lui?
Battei le palpebre e fermai il corpo pronto a voltarsi verso la destinazione. “Vieni pure tu?”
Andrew mi guardò torvo mentre si alzava il cappuccio della sua felpa e chiudeva la cerniera della sua giacca di pelle fino al collo. Infine indossò dei guanti scuri e un paio di occhiali. Sembrava appena uscito da qualche rivista di moda. Si stava difendendo dalla luce del sole che, di lì a poco, avrebbe fatto la sua comparsa in cielo.  
“Certo.” Borbottò.
L’osservai. “Hai detto che non volevi ritornare dai Volturi.”
Portò le mani dietro la testa. “Infatti, ma non ho nessuna intenzione di lasciarti attraversare l’Europa con la febbre, Ren.”
Era una rischio che volevo correre, avrei resisto fino a quanto potevo tollerare. Se mi fosse capitato di nuovo, mi sarei nascosta da qualche parte e avrei aspettato che finisse.  
“E cosa farai dopo?”
Andrew fece un sorrisetto, si chinò su di me e scoccò un bacio freddo sulla mia guancia.
“Non t’importa più.”
Aveva ragione: non m’importava, prossimamente le nostre vite si sarebbero separate. Però non smettevo di preoccuparmi. Stava ritornando nel luogo da cui partivano potenti vampiri per cercarlo. E se gli avessero fatto del male? Bella non era l’unico scudo presente a Volterra…
Scossi la testa, pronta a obbiettare: “Andrew…”
La mia bocca si serrò da sola, interrompendomi. Andrew mi prese per mano e disse: “Andiamo.”
 
 
 
 
 
 
 
 
Eravamo sotto un albero in un immenso campo, diventato biondo dal sole e dalla stagione cocente, che si alternava con l’asfalto della strada dove le macchine sfrecciavano veloci e chiassose. 
Erano le nove del mattino ma sembrava essere già mezzogiorno, il sole era altissimo e altrettanto caldo.
Protetti dall’ombra degli alti rami, Andrew e io osservavamo la collina dalla quale la cittadina di Volterra si ergeva. Eravamo a undici chilometri di distanza dalle sue porte ma la vedevamo chiaramente.
La medievale facciata, bella e innocua, nascondeva la sua sinistra origine. Dalle rustiche casette che componevano la città proveniva solo un debole brusio. Gli abitanti stavano ancora riposando, era ancora troppo presto per l’arrivo dei turisti e visitatori.
“Li troverai all’interno del Palazzo dei Priori, probabilmente staranno aspettando i turisti insieme ad Aro, i suoi fratelli, le moglie e tutto il resto. Non so, però, se aspettano turisti oggi. Se non vedi nessuno lì, scendi nei sotterranei e percorri qualsiasi tunnel fino alla fine.”   
Annuii, avrei seguito le sue indicazioni. La sua voce era sempre calma, non traspariva nessun’altra emozione.
Gli davo le spalle e quindi non potei vedere quale fosse la sua espressione. I miei occhi erano fissi sull’obiettivo.
“Devo aspettarmi qualcuno in strada?”
“Se stanno cercando turisti, sì. Potresti trovare Heidi. In questo caso, cammina alla luce del sole. Lei ci penserà due volte prima di fare qualcosa davanti agli umani.”
Come potevo muovermi sotto a una fonte di luce così potente quando dovevo muovermi in totale segretezza?
Non posi la domanda ad Andrew. Mi girai verso di lui.
“Mi prometti una cosa?” Domandò inespressivo.
Annuii, riuscii a rispondere solo tramite quell’impercettibile movimento della testa. In quel momento tutta la mia esistenza era aggrappata alle parole che stava per pronunciarmi. Trattenni il respiro e sgranai gli occhi, in attesa.
“Fatti passare la febbre… e tornatene a casa.”
Velocemente, Andrew si chinò verso di me, avvolse il mio viso con le sue fredde mani e mi diede un bacio leggero e breve sulle labbra. Mi aggrappai ai suoi polsi per trattenerlo.
“Ai tuoi ordini.” Gli risposi in un soffio. “Non metterti nei guai.” Aggiunsi stringendomi di più alla sua pelle di marmo.
Lui si allontanò da me con una risata spensierata. Il bianco dei suoi denti splendeva alla luce del sole.
Lo vidi riprendere la stessa strada che avevamo percorso per raggiungere Volterra. Divenne un puntino in lontananza e poi sparì completamente.
Quello era stato il nostro addio.
Mi appoggiai al tronco dell’albero e guardai verso l’orizzonte dove il cielo, la campagna e l’asfalto nero si confondevano.
“Ciao Andrew.” Sussurrai al silenzio davanti a me. Se n’era andato, come volevo.  
Feci un respiro profondo e mi girai di nuovo verso Volterra. Posta in alto sembrava stesse aspettandomi. 
Controllai la tasca interna della mia giacca a vento: il medaglione era ancora lì.
Mentre le mie gambe iniziarono a muoversi verso le porte di Volterra, il mio cervello elaborava il piano.
Non sarei entrata direttamente dall’ingresso principale del Palazzo dei Priori. Troppo rischioso. Avrei potuto trovarvi qualcuno, soprattutto Heidi se era in giro alla ricerca di persone da farvi entrare per non farli uscire da lì mai più. Potevano esserci delle sentinelle, o qualcosa del genere per quanto potevo saperne, acquattati all’ombra, protetti dalla luce solare e da occhi indiscreti.
Dovevo dirigermi nella parte laterale del Palazzo, quella ben nascosta e isolata, dalla quale si affacciava la stanza di Bella ed Edward e quella che avevo utilizzato io. Con attenzione mi sarei arrampicata sul muro di pietra per entrare in sicurezza all’interno dell’antico stabile. Se la fortuna era un po’ con me, potevo trovare i miei genitori biologici direttamente là.
Cinque secondi dopo varcai l’arco etrusco e mi fiondai dentro Volterra. Le stradine tortuose erano leggermente affollate, i negozietti stavano appena dando il benvenuto ai primi clienti, e ancora adombrate per la maggior parte. 
Rallentando di mezzo passo il mio andamento, annusai l’aria: captai solamente l’odore dolce del sangue e l’acre del sudore umano. Nessun vampiro.
Poco più di due chilometri mi separavano dalla mia meta. Camminavo lentamente e cautamente, come se passeggiassi, unendomi alla mischia che si stava per formare nelle strade. Nel frattempo i miei occhi perlustravano qualsiasi angolo e il mio naso cercava qualsiasi essenza che mi urlasse di scappare.
Cercavo sempre di camminare al sole. In mezzo agli umani e alla luce, nessuno dei Volturi si sarebbe azzardato a esporsi.  
Arrivai alla piazza principale, la fontana al centro zampillava tranquilla. L’ingresso del Palazzo dei Priori, di lato, era chiuso.
Mi guardai intorno e inspirai: niente. Forse non c’era veramente nessuno in quel momento. Era giorno, dopotutto.
Il cuore iniziò a pompare veloce e venni colpita da una scarica di adrenalina. Avvertii una strana sensazione di vittoria ma sapevo che era troppo prematuro cantarla. Ero solo arrivata a Volterra, non avevo fatto niente ancora.
Velocizzando il passo, indirizzai i miei piedi verso la stretta stradina a destra, dove a malapena vi potevano passare le auto. Era totalmente in ombra e protetta da orecchie e occhi umani. In fondo avrei trovato le camere. Feci, prima, il giro della piazza per assicurarmi che fossi l’unica vampira, anche solo a metà, presente.
Ci fu un particolare che catturò la mia attenzione: una Ferrari, rosso fiammeggiante e con i finestrini oscurati, era parcheggiata in quella limitata frazione di pietra dalla quale dovevo passare. Non avevo mai visto quel modello, forse era nuova.
Addentrandomi nello stretto viale, tenevo costantemente gli occhi aperti verso l’alto, avanti e dietro le mie spalle.
I finestrini neri di quell’auto sportiva erano inaccessibili alla vista umana. Tuttavia non lo erano per me.
Mi bloccai.
“Renesmee Carlie Cullen!”

 

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Capitolo 37
*** Capitolo 36. ***


Lo sportello rosso del passeggero anteriore si aprì di scatto, come un colpo di frustra, verso l’alto.
Una mano esile e coperta da un guanto di pelle nera afferrò il mio polso e mi trascinò verso di sé.
Fui tirata all’interno del piccolo ed elegante abitacolo della Ferrari. Lo sportello si chiuse dietro le mie spalle, in silenzio.
Mi catapultai tra le gambe di Alice, un foulard nero le fasciava la testa e un grosso paio di occhiali le copriva maggior parte del piccolo viso. Nel posto del guidatore, a sinistra, era seduto Jasper, pure lui nascosto da un cappello da baseball, guanti e occhiali da sole.
I loro volti, anche se coperti, erano un mix di emozioni che si muovevano senza sosta tra i loro tratti: sorpreso, felice, sollevato. Il mio doveva essere l’esatta fotocopia: non avevo assolutamente previsto una cosa del genere.
Alice e Jasper erano a Volterra.  
“Siete qui?” Riuscii a farfugliare, incredula dopo lunghi secondi silenziosi e sbigottiti. Le mie parole suonarono più come una domanda che una affermazione. Erano lì, con me! La felicità mi catturò il fiato e qualsiasi capacità di poter analizzare lucidamente la situazione.
Fu come ricevere un pugno dritto in faccia, forte e improvviso. Senza pensarci, allargai le braccia e strinsi Alice e Jasper a me, non curandomi della scomodità in cui eravamo costretti, strappandoli quasi dai loro sedili. Entrambi ricambiarono vigorosi, stritolandomi.
Oh! Quanto era bello riabbracciare i loro corpi di granito, sentire di nuovo il loro buonissimo e familiare odore, i miei zii! Erano con me!
Sciolsi il goffo abbraccio per guardarli di nuovo, come se dovessi accettarmi che fossero davvero davanti ai miei occhi e non qualche sorta di allucinazione. Perché diavolo erano a Volterra? Alice e Jasper, erano davanti a me! Tantissime domande venivano scagliate come sassi all’interno della mia testa, una dopo l’altra.
Alice strappò via gli occhiali dalla faccia. I suoi occhi topazio m’infiammarono sul posto ma, allo stesso tempo, riflettevano le mille domande e visioni che turbavano la sua mente.
Jasper era ancora visibilmente sorpreso, come lo ero io. Non lasciava mai gli occhi su me e Alice ma neanche sull’ambiente circostante l’auto sulla quale eravamo. Iniziai a percepire una debole aura di sorpresa diffondersi nell’abitacolo.
“Nessie!” Esclamò Alice, turbata. Agganciò le sue esili mani alle mie braccia ancora troppo vuote. “Stai bene?” Domandò, i suoi occhi mi scrutarono dalla testa ai piedi annusando, per un breve momento, la mia pelle. Sicuramente, aveva notato delle differenze in me. Aveva sentito qualche altro odore, oltre al mio? Quello di Andrew, forse? Lo aveva riconosciuto?
“Sì, sto bene!” Balbettai, ancora troppo scossa per dare una risposta più completa. Alice batté le palpebre come colpita da una rivelazione.  
“Perché voi siete qui?” Domandai subito dopo. La lucida ragione si riappropriò della mia mente, rapida come un fulmine. Non dovevano essere lì, a Volterra. Era sbagliato che fossero là. No, no, no! Alice e Jasper non dovevano stare là!
Né Alice né Jasper risposero alla mia domanda. Come un’arma, Alice iniziò a dar fuoco a una raffica di domande: “Dove sei stata? Perché non ci hai contattati? Perché tutto questo tempo? Perché sei tornata qui?”
Alice non provò a nascondere la rabbia e la frustrazione, le quali si fecero eco anche nel volto di Jasper. Quelli erano sentimenti trattenuti per molto tempo e che ora erano liberi, finalmente, di sfogarsi.
Era questo il motivo per cui speravo, pregavo, che i Cullen fossero totalmente ignoranti di ciò che mi era capitato nelle ultime settimane. Non volevo, non riuscivo neanche a tollerare, sostenere di vedere quei volti stravolti e affranti a causa mia. Non lo meritavano.
Non volevo i Cullen protagonisti principali delle mie sfortune. Avrei raccontato tutto loro dopo, probabilmente avrebbero reagito alla stessa maniera, ma i Cullen dovevano essere il pubblico, non personaggi della storia che stavano ascoltando.
Inspirai con forza, come se dovessi trovare il coraggio nelle molecole d’aria.  
“Sono stata a Londra.” Risposi, spaventata dalla reazione che avrebbero potuto avere i miei zii. “Al sicuro.” Aggiunsi immediatamente dopo.
Jasper sgranò gli occhi, allibito. “Londra? Ti abbiamo cercata nel Regno Unito, Nessie…”
Lo fermai. “Mi avete cercata?”
Erano stati a Londra? Quando? Magari avevano pure sondato la zona in cui ero stata reclusa per più di un mese? Andrew li aveva trovati? Se la mia domanda aveva una risposta affermativa, Andrew non me lo avrebbe mai detto.
Alice mi lanciò una occhiataccia avvelenata. “Certo che ti abbiamo cercato, Nessie!” Urlò, strattonandomi per un braccio. “Ti stiamo ancora cercando!”
Sentendola, Jasper prese velocemente il cellulare – quelli modificati da noi, impossibili da rintracciare per il governo o per chiunque altro- poggiato sul tecnologico cruscotto: “Avverto Carlisle.”
Carlisle rispose al primo squillo, un secondo dopo. Carlisle!
“Jasper? Tutto bene?”
“Carlisle, Renesmee è qui, a Volterra.” Disse, rivolgendomi uno sguardo di rimprovero misto a confusionaria sorpresa e sollievo. Stavo pregustando quello che mi sarebbe aspettato una volta a casa.
“A Volterra?!” Come tutti noi, anche nonno reagì sorpreso. Il fatto che ero in Italia stava iniziando a sorprendere anche me. Dov’era Carlisle, in quel momento?
“Sì. Contatta Emmett e Rosalie.” Rispose deciso Jasper nonostante lo stupore doveva essere ancora smaltito. O forse era pure arrabbiato? C’era qualcos’altro dietro il suo sbigottimento.  
Dov’erano? Non erano con lui? Perché erano separati?
Con la coda dell’occhio vidi Alice battere le palpebre e socchiudere la bocca.
“Carlisle, riunitevi ma non tornate Volterra.” Disse a denti stretti, entrando in una dimensione diversa da quella in cui io e Jasper ci trovavamo. “Ci faremo sentire noi.” Concluse.
Carlisle rimase un attimo in silenzio. “Alice…” Iniziò. “Va bene.” Disse alla fine.
Sembrò costargli molto acconsentire all’ordine di Alice. Decise, però, di non opporsi e fare ciò che diceva. Io approvai: già c’erano Alice e Jasper in Italia, non ci voleva anche il resto della famiglia.
Il tono di voce di Carlisle sembrava nascondere qualcos’altro, come la reazione di Jasper, ma, forse, fu solo una mia suggestione.  
“Aspettiamo vostre istruzioni… Nessie?”
“Sì, nonno?” Chiesi, la voce tirata, ruvida.  
“Stai bene?”  La sua voce trapelava preoccupazione.
“Sì.” Risposi velocemente. Ancora nessun colpo infuocato al petto, nessuna crisi febbricitante. Speravo che quella calma perdurasse. Sapevo che, nella domanda, Carlisle intendesse pure la mia cicatrice: aveva bisogno di una controllatina ma era al sicuro nella fascia regalatami da Erik. E per terminare l’inventario, ancora ero incapace di utilizzare il mio dono.
“Ha bisogno di nutrirsi ma sembra stare bene.” Borbottò Jasper a denti stretti. Lo guardai: non aveva la pallida idea di quante persone avevo sgozzato prima di arrivare in Italia.
“Questo lo potrà fare al più presto.” Fece Carlisle. “Vero, Alice?”
La domanda di Carlisle era carica di aspettative. Alice era ancora lontana da noi, persa nel futuro, e lontana suonò la sua voce ma, allo stesso tempo, autoritaria: “Aspetta una nostra chiamata, Carlisle. Tu ed Esme dovete riunirvi con Emmett e Rosalie. Subito.”
“State attenti e fate presto.”   
“Anche voi.” Disse Jasper chiudendo la chiamata, riposò il cellulare sul cruscotto. Alice ritornò ad allontanarsi da noi. Ero letteralmente seduta sopra di lei, probabilmente, anzi sicuramente, non stava vedendo nulla a causa mia. 
Jasper spostò lo sguardo da Alice a me: “Nessie, perché non hai provato a metterti in contatto con noi? Ti stiamo cercando in lungo e in largo da più di un mese.” La sua voce era soffice e calma, la sua intenzione non era quella di agitare ulteriormente me e Alice. Ci riuscì, ovviamente. Mi calmò un po’.  
“Dove sono gli altri?” Domandai anziché rispondere. Guardai davanti a me: la stradina laterale era vuota, nessuno aveva motivo di attraversarla. Dalla mia visuale non potevo vedere la piazza principale ma ero convinta si stesse riempiendo: molti umani vi stavano entrando dalla strada che presi io pochi minuti fa.
“Emmett e Rosalie sono in Scandinavia. Carlisle ed Esme in Romania.”
Scandinavia, Romania. Mi stavano cercando da più di un mese per tutta Europa. Forse avevano già battuto la pista in Medio Oriente ma, non trovandomi, optarono per il Vecchio Continente. Feci un grosso sforzo per non immaginarmeli: i Cullen, disperati, alla mia ricerca quando io ero troppo presa dal fuoco, e nel lato opposto del continente, per rendermi conto di tutto.
“Voi perché siete qui?” Domandai guardando sia Alice, troppo immersa nelle sue visioni per prestare attenzione alla conversazione, che Jasper.
“Renesmee, rispondi alla mia domanda.” Fece Jasper, le iridi dorate brillavano impazienza.
“Prima rispondi alla mia.” Insistetti io.
Ritornata al presente, rispose Alice:  “Quando te ne sei andata con quel manipolatore, abbiamo preso il primo aereo per l’Italia. E non eri qui. Nessuno era qui, almeno non le persone che cercavamo. Bella ci ha impedito di andare oltre, non ci ha detto dove ti trovavi, e ci aveva promesso che ti avrebbe riportata da noi, dopo la guerra contro i Figli della Luna.” Fece un pausa, sospirò e chiuse gli occhi. “La guerra è stata l’ultima notizia che avevamo su di te, ti rendi conto, Renesmee? Sono stati giorni terribili. Abbiamo temuto il peggio. Vedevo della sabbia… un deserto?” Domandò, la voce gorgogliava ansia a discapito del dono di Jasper.
Incassai il colpo. Come avevo ipotizzato, Bella aveva cominciato a tramare con i Cullen un altro piano per salvarmi la vita. Anche quest’ultimo, purtroppo, non andò a buon fine. Bella sapeva del piano di Aro? Sapeva chi aveva designato per attuarlo? Pensava di poterlo fermare in qualche modo? Magari anticipando le sue mosse?
Pensai che i suoi tentativi, in qualche modo, dovevano rincuorarmi: non solo i Cullen stavano facendosi in quattro per me. C’erano pure Bella e Andrew.
Tuttavia, ciò mi causò la reazione opposta: mi fece infuriare. Inspiegabilmente, il fastidio che provavo sommergeva totalmente la gratitudine.
“Sì, un deserto.” Confermai e flash di quei giorni apparvero davanti ai miei occhi.
“Quindi? Perché voi siete qui?” Incalzai. Se sapevano che non mi trovavo a Volterra, se non sapevano dove si era tenuta la battaglia,e il resto dei Cullen era in giro per l’Europa a cercarmi, per quale motivo Alice e Jasper rimasero lì? A Volterra? Non volevano perdere nessuna informazione da Bella? E che tipo di informazioni poteva dare Bella, poi? Non era mica tornata dal Medio Oriente con chi si aspettavano.
Questa volta rispose Jasper: “Bella ci ha detto che eri sparita e che Aro sosteneva fossi morta.” Disse a denti stretti, continuando il racconto di Alice, una strana luce attraversò i suoi occhi. “Bella non gli credeva e nemmeno noi. Io e Alice siamo rimasti qui perché vede molto confuso il futuro di Edward e Bella.” Concluse e sembrò pentito di essersi lasciato andare nell’ultima parte, come se avesse detto troppo, ma, almeno aveva risposto alla mia domanda.
Non ci feci tanto caso, non mi sconvolse. Non aveva senso trattenersi ormai: sapevo che Edward e Bella erano i miei genitori, potevano smettere di recitare.
Rimanere a Volterra per dei futuri incerti significava che Alice e Jasper tenevano a Bella ed Edward, no? Un antico rapporto di amici, magari. Lo avrei rispettato, io non c’entravo nulla.   
Se Alice vedeva il futuro dei miei genitori biologici confuso, forse la ragione ero sempre io. Anzi, lo ero. D’altronde avevo pianificato di avere un faccia a faccia con loro e, quindi, la mia decisione aveva influenzato il loro futuro. Con la mia presenza macchiavo di incertezza e confusione il futuro di chiunque.
E, quindi, forse, magari, non sapendo dove mi trovassi, rimasero in Italia perché speravano proprio che la causa di tali interferenze nel futuro di Edward e Bella fossi proprio io e riacchiapparmi. E tornare a casa.    
Annuii, facendo capire ai miei zii di aver incassato la loro spiegazione, ma la mia mente continuava a puntare altrove, verso il mio obiettivo. Mi stavo distraendo e stavo perdendo tempo inutilmente. Potevamo raccontarci tutto dopo.
La fretta di concludere ciò che volevo fare si fece più impellente, moltiplicato, ora che Alice e Jasper erano con me. Dovevamo andare via subito.
“Nessie?” Mi chiamò di nuovo dolce Jasper, posando una mano sopra la mia. Io strinsi la mia in un pugno. Jasper aspettava che parlassi. Forse pensava che gli mostrassi qualcosa?  
Sentivo una pesante roccia poggiata sul petto. “Non potevo mettermi in contatto con voi, mi dispiace. Lo so, è passato più di un mese e l’ultima notizia che avevate di me era inerente alla battaglia. Mi dispiace tanto ma mi era impossibile darvi alcuna mia notizia. Per tutto questo tempo sono stata bene e al sicuro, credetemi.”
Ero estremamente sicura che non sapessero nulla riguardo ad Aro e il suo tentativo di uccidermi, tantomeno che mi avessero avvelenata mettendomi KO per tanto tempo. E se Bella era sicura – sapeva di Andrew? -  che non fossi morta, era altamente probabile che non sapesse che Nahuel mi aveva morsa iniettandomi il suo veleno.
Se Alice e Jasper avessero saputo tutto questo, mi avrebbero tempestato di domande e reagito con violenza, probabilmente.
Meglio così: non erano il luogo e il momento adatto per una confessione del genere, avrei perso solamente altro tempo prezioso.
“Cosa è successo?” Chiesero Alice e Jasper contemporaneamente. Non avevano tratto nulla di sensato dalle mie parole.  
Scossi la testa. “Ve lo dirò dopo, per favore. Avremo tutto il tempo per parlare.” Li pregai. Mi voltai verso la parte posteriore della vettura: la strada era vuota anche dall’altro lato. Bene.
“Nessie.” Mi rimproverò Alice.
Non l’ascoltai. “Sapete se c’è qualcuno, là dentro?” Domandai a bassa voce, indicando con la testa Palazzo dei Priori e interrompendo Alice.
“Non c’è nessuno.” Rispose lei, ora completamente concentrata su di me. Anche il suo tono di voce era basso, disturbato.
Se non c’era nessuno a Volterra, dovevo entrare all’interno di Palazzo dei Priori e percorrere uno dei tunnel sotterranei che mi avrebbero condotto alla seconda dimora segreta dei Volturi, come mi aveva consigliato fare Andrew.
Nonostante fossi felice di avere i miei zii con me, loro mi erano d’intralcio. Continuavo a non volevo nessuno impedimento nella conduzione del mio piano e loro lo avrebbero costituito. Oppure potevano aiutarmi e basta.
“Chiamate Bella e chiedetele dove posso incontrarla insieme a Edward, lontano da Aro. Aro non deve saperlo.” Chiesi guardando il cielo azzurro che faceva capolino dal parabrezza.
“Lo sai.” Disse Alice con voce grave, non suonava sorpresa ma certa di quello che aveva appena detto.
Annuii. “Sì.” Sospirai, sentii il mio medaglione, all’interno della tasca, bruciare, scottare.
“Da quando?” Domandò lei.
Alzai le spalle, strette come se dovessi proteggermi. “Prima che scoppiasse la guerra. Ho aperto il medaglione e ho visto la foto.” Risposi sbrigativa.
Percepii Alice e Jasper, dietro le mie spalle, scambiarsi una occhiata. Avrei tanto voluto leggere le loro espressioni ma i miei occhi piombarono sul cruscotto: il cellulare di Jasper era ancora lì.
Lo afferrai: prima di chiamare Carlisle, l’ultima chiamata era stata proprio con Bella quarantacinque minuti prima. Feci partire una nuova chiamata. Alice e Jasper mi lasciarono fare.   
Otto squilli dopo, sentii la sua voce vibrare tesa e ansiosa: “Alice?”
La sua voce. Il mio cervello si svuotò di tutti i pensieri che lo affollavano. Ingoiai un groppone che si formò in gola.
“Bella, ciao, sono Renesmee. Possiamo vederci, per favore? Con Edward.”
Bella non rispose immediatamente. “Sei qui?” Domandò alla fine.  
“Sì, con Alice e Jasper. Allora?” Il mio tono di voce si ruppe a causa dell’impazienza, risultando involontariamente aspro e incalzante, prepotente. Non solo Alice e Jasper, dovevano collaborare pure lei e suo marito. Vi prego, venite.
“Sei qui.” Sussurrò nuovamente Bella prima di chiudere la chiamata, senza aggiungere null’altro.
Guardai in cagnesco il cellulare che tenevo in mano. Quindi? Avrebbe fatto come le avevo richiesto? O mi stava ignorando? Magari non poteva allontanarsi in quel momento.
Sbuffai irritata. Non volevo essere lì, a Volterra, me ne volevo andare subito, scappare.
Portai le mani nel volto e mi coprii. Volevo un po’ di silenzio.
Se non vedevo l’ora di andarmene da quel posto, allo stesso tempo desideravo sparire dalla faccia della Terra. Ero stanca, non solo fisicamente ma anche mentalmente. Ogni singola cellula del mio corpo era sfinita e scarica di energia. Volevo solo crogiolarmi da qualche parte, al buio e in silenzio.
L’attesa. Non riuscivo a tollerare l’attesa. Il tempo scorreva veloce, come se sapesse che andavo contro di lui.
Se Bella non poteva fare nulla, avrei raggiunto lei ed Edward da sola. Non avevo intenzione di aspettarli.
Aprii lo sportello, il quale schizzò in alto, e poggiai il piede sul pavimento di pietre lucide.
Alice mi fermò: “Cosa fai?”
“Raggiungo Edward e Bella. Dirò che so di loro. Poi andremo.”
Alice mi trattenne per la giacca. “Bella è qui, Nessie. Aspetta.” Sussurrò.
Dallo specchietto retrovisore vidi Bella, incappucciata dalla testa ai piedi per proteggersi dalla luce solare, una macchia scura in contrasto col sole.
Era, come sempre, bellissima. Il volto ovale, luogo dei suoi grandi occhi rossi e delle carnose labbra, perfetti contrasti con la carnagione pallida.
Camminava a passo sostenuto, forse per non destare sospetti in qualche umano curioso.
Uscii dalla Ferrari lasciando libera Alice la quale, insieme a Jasper, saltò fuori dall’auto come feci io.
Il volto cereo di Bella si illuminò di stupore e sensazionale ed estasiante felicità. Aumentò il passo, i tacchi dei suoi lunghi stivali ticchettavano sordi contro la pavimentazione, accorciando notevolmente la distanza che ci separava.
Io, vedendola, mi pietrificai ma costrinsi le mie gambe a muoversi, ad andare avanti, verso Bella. Vedendomi avvicinarmi a lei, lei aumentò ulteriormente la velocità del suo passo.
Era qui. Eliminata totalmente la distanza che ci separava, Bella si gettò letteralmente su di me, stringendomi e avvolgendomi con le sue braccia. Il suo volto si tuffò tra il mio collo e la mia scapola e una sferzata del suo dolce e fresco odore mi colpì prepotente.
M’irrigidii sotto il corpo della vampira che mi sovrastava e stringeva forte.
Ero tra le braccia di mia madre.
Fu come se del piombo iniziasse a scorrermi nelle vene. Posai debolmente le mie mani sulle sue spalle e non dissi nulla. Mi concentrai sul peso delle sue braccia intorno a me.  
Appoggiò la sua guancia fredda contro la mia, stringendomi le spalle, e iniziò a farfugliare frenetica e con poco fiato nei polmoni: “Renesmee, la mia cara Renesmee. La mia Renesmee! Sei viva, sei viva! Sapevo che non eri morta, non potevi essere morta. Sono così felice. Ho temuto il peggio, è stato terribile, terribile. Oh, Renesmee! La mia Renesmee!”
Strinsi Bella ancora più forte, mi obbligai a stringerla più forte.
Ero tra le braccia di mia madre, per la prima volta da quando ne ero consapevole. Quante volte avevo immaginato questo momento? Quante volte mi ero immaginata come sarebbe stato un incontro con lei?
Ma quella non era la prima volta che la vedevo. Lo aveva fatto tantissime volte prima.
Cercai di ritrovare quella familiarità, quel calore, che percepii tutte quelle volte che abbracciai Bella tempo prima a Volterra.
Tra le mie braccia trovai una persona nuova, una Bella nuova. La consapevolezza, la verità, ritornò come una doccia gelata, ancora più fredda di quella che ebbi quando aprii il mio medaglione per la prima volta e vidi cosa conteneva dentro. Ero nuova io, era nuova Bella, ora vedevo tutto da un’altra prospettiva. Una prospettiva ancora più distante, scettica, estraniata.
Era Bella, era mia madre, davanti a me.
Ma perché io la vedevo sotto un’altra, differente, luce?
Non potevo lasciare, per un attimo, almeno per una volta, la razionalità alle spalle e abbandonarmi alla felicità di stringere mia madre? Era perché volevo attenermi a tutti i costi al mio piano? Nessun sentimentalismo? Era questo il motivo?
Dovevo sentirmi felice, dovevo sprizzare di gioia, no? Dovevo essere la persona più felice dell’universo. Giusto?
Allora perché mi sentivo tradita?
Bella allentò la presa per potermi guardare: i suoi grandi occhi rossi sembravano minacciare l’esplosione, pareva fosse sul punto di piangere, e un enorme sorriso di sollievo ma intriso d’ansia spuntò nel suo bellissimo volto. Tra le sue sopracciglia si formò una v, la fronte era corrucciata.
Con una mano accarezzò il lato del mio volto. “La mia Renesmee.” Disse. La voce carica, pesante come risultò fuoriuscire il suo respiro.
La sua mano, a contatto con la mia pelle, stranamente sembrava bruciare di quanto era fredda.
La guardai e non dissi nulla, le mie labbra si paralizzarono e le mie corde vocali sparirono. La mia Renesmee.
Vedendomi intontita, Bella riprese a parlare come se volesse svegliarmi: “Mi dispiace tanto.” Disse, la voce ora rotta, mortificata, e riprese ad abbracciarmi. “Mi dispiace tanto.” Ripeté.
Si scostò per guardarmi negli occhi ed ebbi la sensazione che volesse prosciugarmi tutta e, allo stesso tempo, rovesciarmi tutte le scuse che riusciva a formulare.
Le sue iridi rosse erano due vortici che giravano velocissimi, caleidoscopici. Battei le palpebre, chiusi le labbra e portai lo sguardo verso terra.
“Perdonami Renesmee.” M’implorò Bella. “Puoi farlo?”
Perdonarla? Cosa dovevo perdonarle? Di non essere riuscita a farmi scampare al mio destino?
La mia testa si svuotò di nuovo, le sue pagine diventarono di nuovo di un bianco immacolato.
“Non devo perdonarti nulla, Bella.” Le risposi laconica.  
Mi tirò di nuovo verso di sé e mi strinse per qualche secondo. Mi lasciò andare e disse: “Sei la cosa più importante che ho.”
Avvampai.   
“Devi andare via da qui, Renesmee.” Fece Bella con voce grave. Il suo sguardo si spostò da me ad Alice e Jasper, alle mie spalle. “Dovete andare. Dovete raggiungere Carlisle. Ora.”
“Dov’è Edward? Ti ho chiesto di venire con Edward.” Le sussurrai. Ero contenta di sapere che Bella la pensava alla mia stessa maniera cioè che dovevamo lasciare Volterra il prima possibile. Ma prima di andare, dovevo vedere anche Edward.  
Bella sgranò gli occhi e si morse il labbro inferiore. Appoggiò una mano sulla mia spalla e disse: “Mi ha detto che ci raggiungerà fra poco.” Si era rivolta a me ma la sua espressione esasperata parlava ad Alice e Jasper.
Non sembrava tanto convinta delle sue parole. Non si fidava di Edward, glielo leggevo negli occhi e leggevo, inoltre, sconfitta.
“Dove sei stata per tutto questo tempo, Renesmee?” Domandò Bella.
Scossi la testa, non lo sapeva. Quindi sapeva tanto quanto sapevano i Cullen.
Guardai dietro le sue spalle: le pietre piane e lucide non indicavano la strada a nessuno. Edward non arrivava. L’impazienza si fece più impellente, prepotente, oppressivo e ossessivo.
“Al sicuro.” Le risposi, cupa. “Tranquilla.” Aggiunsi cercando di sistemare e rendere più calmo il mio tono di voce. Interpretai il mio stesso atteggiamento come scortese.
Nel frattempo la mia mano agguantava il medaglione all’interno della giacca a vento.
Con la coda dell’occhio, vidi Bella mordersi di nuovo il labbro e scrutare il movimento delle mie mani. Con le lunghe dita, spostò una ciocca di capelli d’intralcio al mio volto.  
La sua reazione alla mia replica non era stata insoddisfatta come lo erano state quelle di Alice e Jasper. La mia risposta sembrava bastarle, come se fosse l’unica cosa che le importasse e non avesse interesse a prolungare la sua curiosità.
Come un automa, estrassi il mio pendente rotto, le sue facce separate, e lo porsi nelle mani di Bella che, prontamente, mise a coppa davanti a me. Bella sgranò gli occhi.
Era arrivato il momento e io non stavo aspettando Edward.
Nella mano di marmo di Bella, il vetro rotto che proteggeva la nostra foto sembrava brillare nonostante il posto in cui ci trovavamo non era ben illuminata dai raggi del sole.
Il viso di Bella si illuminò adorante.
Lei, Edward, io raggiante, il ritratto della felicità. Un altro tempo, realtà probabilmente diverse.
Avvicinò le mani al suo volto come se avesse bisogno di più vicinanza per vedere bene le peculiarità del medaglione, una vicina all’altra, come se i suoi occhi non potessero vedere da chilometri distanza.
Le sue labbra si curvarono verso l’alto formando un sorriso beato. I suoi occhi brillavano lucidi. Davvero pensai che si stesse mettendo a piangere, sarebbe stato il primo caso di pianto riscontrato in un vampiro.
I ruoli si invertirono e fu lei a non aprire più bocca. Arretrò di qualche passo, pochi centimetri, come se volesse avere un momento privato tra lei e il medaglione.
Mi avvicinai a lei per vedere l’immagine. Oltre alla grandissima verità e qualche supposizione, la foto non mi suscitava nient’altro.
Probabilmente per Bella era diverso. Dietro quella immagine, forse, c’era una storia, un aneddoto. Cosa suscitava in lei?
“Sono ritornata qui per dirvelo. Siete i miei genitori.” Le dissi, rompendo il silenzio.
Bella alzò la testa di scatto e puntò gli occhi verso di me. “Sei la cosa più bella  e incredibile che ci sia capitata. Ti amiamo tanto.”
Strinse i due corpi del maglione nelle mani, si avvicinò e disse: “Non abbiamo mai smesso di amarti, Renesmee. Mi dispiace tanto, abbiamo sbagliato e tu hai pagato le conseguenze.”
La sua voce risultò bassa, asciutta, non addolcita. Le parole erano uscite pesantemente, come macigni, ma erano vere, non nascondevano altri significati, altri motivi.
Annuii solamente. Non sapevo che dirle. Guardavo le sue mani stringere il mio pendente.
Poggiò un dito sotto il mio mento. “Renesmee, guardami negli occhi.” Ordinò.
Le ubbidii e la guardai: era una donna spezzata in due, distrutta.
“Non abbiamo mai smesso di amarti, mai. E mai smetteremo, intesa?” Disse decisa come se le sue ultime parole fossero le uniche cose che contavano davvero e alle quali credeva solamente.
Sentimmo dei passi leggeri, Bella mi diede le spalle.
Eccolo, mio padre.
Questa volta non potei non notare la strabiliante somiglianza che ci legava.
Edward, i capelli ramati scintillavano sotto quei pochi raggi di sole che riuscivano a filtrare dagli stretti palazzi, aveva il capo scoperto e camminava a passo sicuro e svelto verso di noi.
Era il ritratto del controllo, della gelida determinazione, dell’indifferenza.
Mentre compieva gli ultimi passi, i suoi occhi attenti saettavano da Bella, a me e ad Alice e Jasper e viceversa. Strinse le lebbra in una rigida linea, queste si appiattirono. 
Mentre Bella si avvicinava a Edward, stringendo ancora più forte il medaglione al petto, sentii Alice bisbigliare: “Edward.”
Edward si fermò. Era davanti a me ma la sua attenzione gravitava su Bella la quale si strinse a lui porgendogli il medaglione.
“Amore mio.” La sentii sussurrare piano. Come tempo prima, continuava a sembrare totalmente dipendente da lui, come se si aggrappasse a qualcosa presente in Edward che conosceva esclusivamente lei.
Bella era avida, disperata, bramosa della sua totale attenzione. Non pareva importarle molto il particolare che non era ricambiata alla stessa, tormentata maniera.
Era sua moglie e cercava di farsi notare dal suo stesso marito.  
A Edward non importava nulla di Bella.
“Edward, amore.” Lo richiamò Bella. Appoggiò la testa sul suo petto e gli offrì il lato del mio medaglione che teneva l’immagine.
Edward lo tenne tra l’indice e il pollice e l’osservò per un brevissimo momento, tenendo le palpebre socchiuse. Le lunghe ciglia costituivano una protezione in più.
Edward prese anche l’altra parte di pendente dalle mani di Bella, le unì e me le restituì, appoggiandole sul palmo della mia mano. Non ci scambiammo nessuno sguardo. Il cuore stava per esplodermi.
“Perché Aro, Edward?” Domandò all’improvviso Alice, rompendo quel silenzio che si era instaurato a forza. Mi voltai per guardala, la sua espressione si rifece lontana: aveva avuto una nuova visione. Feci due passi indietro.
“Andiamo.” Disse lui, calmo, rivolgendosi a me e facendomi un cenno con la testa. Strinse la mano di Bella.
Dove voleva andare? Da Aro? E perché mai? Perché voleva scoprirmi così? Aro già sapeva che ero viva? Glielo aveva detto?
Continuai ad arretrare, avvicinandomi ad Alice e Jasper. “No.” Sussurrai.
“Dopo potrai andare. Te lo prometto.” Mi assicurò Edward conciliante.
Non gli credevo, non mi fidavo, non mi aveva dato mai motivo di fiducia. Oggi non sarebbe andata diversamente.
Cercai Bella, ma lei era totalmente incatenata al viso di Edward. Sembrò non accorgersi di nulla.
“Non temere.” Disse il vampiro, i tratti del suo volto si addolcirono ma io non cedetti.
“Alice, Jasper, potete venire pure voi. Aro vuole solo parlare.” Continuò Edward.
Aro sapeva. Glielo aveva detto!
“Bene.” Iniziò Alice dietro le mi spalle, “Gli ricorderò qualcosa.” Terminò a denti stretti.
Edward annuì, forse aveva letto nella sua mente cosa intendeva Alice. Cosa intendeva?
Avendo Alice con sé, Jasper non l’avrebbe lasciata mai, Edward iniziò a camminare, seguito da Bella.
Riposi il mio medaglione al sicuro e li seguii.
Ero arrabbiata, furiosa e non avevo la più pallida idea con chi o che cosa. Ero furiosa di tutto e niente.
“Sta’ tranquilla, Nessie.” Mi sussurrò piano Jasper. Aveva notato il mio cambio di umore e, subito dopo, ricevetti una dose di tranquillità direttamente nelle vene ma la mente era troppo lontana per essere raggiunta presto da quella calma appena iniettata.
Guardai Edward e Bella, davanti a me. Bella letteralmente aggrappata, come un koala, al vampiro. Non lo perdeva di vista, come se temesse che scappasse da un momento all’altro.
Perché li stavamo seguendo? Stavamo sbagliando tutto! Non li dovevamo seguire!
Perché Alice e Jasper erano intenzionati ad assecondare i capricci di Aro? Non avevamo imparato nulla dagli ultimi eventi? Dovevamo recitare la parte fine alla fine? No, non avevo intenzione.
Si fidavano così tanto di Edward e Bella da fare quello che chiedevano? Io no. Non volevo stare un minuto di più lì. Poco importava se Alice doveva rinfrescare la memoria ad Aro, non m’interessava. Cosa doveva ricordargli, poi? L’unica cosa che importava era andarsene.
Avevo la strada spianata: avrei continuato a vivere la mia vita serenamente sapendo che Aro mi credeva morta. Certo, avrei dovuto prendere le mie adeguate precauzioni per nascondermi, ma questo non mi spaventava: eravamo dei maestri nel nasconderci. Lo avevamo fatto prima.
Edward, mio padre biologico, aveva rovinato la mia unica via possibile, la mia unica speranza.  
Aro cosa aveva pianificato, questa volta? Un altro tentativo per uccidermi? Lo voleva fare in grande stile? Davanti a tutti? Oppure aveva cambiato idea?  
Camminammo in silenzio, nessuno fiatò, verso la parte posteriore del Palazzo dei Priori. La zona era totalmente in ombra, coperta da fitti alberi.
Da quella parte c’era solo un piccolo spiazzale vuoto, ciottoli facevano da pavimentazione. Davanti a noi si stagliava una semplice e umile porta di legno che stonava con il pomposo e superbo arredamento all’interno del palazzo.
Presi Alice e Jasper per le braccia e li trascinai verso la direzione opposta. “Andiamo!” Li pregai. “Vi prego, andiamo!” Dissi con un soffio di voce. Gli occhi mi pungevano, segno che le lacrime stavano arrivando.
Edward si voltò verso di me, imitato da Bella.
Alice e Jasper mi guardarono sconvolti e questa reazione mi portò a chiedermi quale espressione dovevo avere io. Strinsi più forte i loro avambracci.
“Per favore, andiamo. Stiamo facendo un grande errore!” Dissi mentre le lacrime iniziarono a scorrere. “Non c’è più niente che ci trattiene qui. Vi prego, andiamocene!”
 “Mi hanno avvelenata! Aro voleva uccidermi! Mi hanno avvelenata! Mi hanno avvelenata!” Pensai, rivolgendomi, mentalmente, a Edward. Sperai si prendesse la briga di ascoltarmi.
Cosa speravo di ottenere dicendogli, privatamente, questo dettaglio? Forse già lo sapeva! Se fosse stato diversamente, avrebbe cambiato idea? Avrebbe cambiato la sua visione sulle cose? La mia disperazione sperava che cambiasse idea, desistere alla sua volontà di andare da Aro, ubbidirgli, e lasciarci in pace.
Edward sgranò gli occhi. Fu il primo significativo cambiamento nel suo portamento.
“Bella!” La chiamai, liberandola dall’incantesimo in cui era caduta. “Per favore!” La pregai sperando di avere, almeno da lei, appoggio.
Ero sicura che non avrebbe tollerato un altro incontro tra me e Aro. Perché, allora, lo stava permettendo? Perché lo voleva Edward? Quale senso avevano avuto tutti quei sotterfugi per sottrarmi da Aro stesso?
Alle spalle di Edward e Bella, la porta si aprì con un rumore sordo di cigoli.
Uscì Andrew.
 
 

 

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Capitolo 38
*** Capitolo 37. ***


Ben ritrovati! Spero stiate bene.
Perdonatemi l’assenza, la difficoltà a scrivere questo capitolo e gli impegni universitari non mi hanno permesso di postare prima.
Scrivo per ringraziare chi aprirà questa pagina per la prima volta, chi è arrivato a questo capitolo adesso, o chi, silenzioso, aspettava questo nuovo aggiornamento da tempo. Grazie, grazie, grazie!
Spero che questo capitolo vi piaccia, buona lettura!
Bellamy.










Andrew sbucò fuori da quella stretta porta di legno chiaro, troppo bassa per lui.
Scambiò una veloce occhiata con Edward, il quale si era voltato verso di lui, per niente sorpreso della sua comparsa, poi gettò uno sguardo verso Bella, Alice e Jasper e infine me.
Sentii le mie lacrime asciugarsi sulle guance. Il calore che inondava il mio corpo sparì improvviso dalla testa fino a piedi e, sotto questi, il terreno divenne un vortice pronto a prosciugarmi via.
La mia mente si bloccò per un attimo e si riavviò di forza.
Cosa ci faceva Andrew all’interno del Palazzo dei Priori? Perché non era scappato via? Perché era ritornato dai Volturi? Me lo aspettavo già fuori dai confini italiani.
Nel frattempo Jasper si parò davanti a me e Alice in nostra difesa, i denti scoperti. Edward lo scrutò un attimo ma non disse nulla, per nulla impressionato dalla sua reazione.
“Aro vi aspetta.” Borbottò Andrew a nessun in particolare e non curandosi degli ammonimenti che Jasper gli lanciava con i suoi occhi minacciosi.
Ero lì, in piedi, tra Alice e Jasper, piantata sul ciottolato come se avessi fatto le radici. Ero incapace di muovermi, nemmeno di battere ciglio. Le mie pupille erano totalmente fisse su quel vampiro neonato il quale sembrava non essersi mai spostato da Volterra in vita sua.
Ero sconvolta, lo shock era arrivato peggio di qualsiasi imprevisto.
Inoltre potei giurare di aver sentito il mio cuore incrinarsi. Crac.
Se c’erano tante cose della mia vita e degli ultimi eventi che non mi erano chiari, questa le superava tutte e faceva ancora più male. Ebbi la sensazione che le mie guance stessero per andare fuoco nonostante non sentissi più calore dentro il mio corpo.
Perché Andrew mi aveva tradita. Andrew mi aveva mentito.
Voleva che io tornassi a Volterra, lui non voleva abbandonare i Volturi.
Andrew doveva riportarmi a Volterra, riportarmi ad Aro. Tutte quelle parole...sapeva che io non lo avrei ascoltato, sapeva che avrei fatto diversamente, sapeva che non c’era nessun modo di convincermi.
La sua proposta di stare insieme era solo un pretesto per rafforzare la mia decisione di ritornare a Volterra.
Tutte quelle attenzioni che mi rivolgeva erano state fatte semplicemente per guadagnarsi la mia fiducia. La sua fu tutta una farsa.
"Tranquilla Alice, fidati di me." Disse all'improvviso Edward guardando negli occhi la vampira. Supposi che stava tentando di tranquillizzarla. Dunque neanche Alice si fidava di lui.
Alice annuì e guardò Jasper il quale si avvicinò a lei.
Andrew si mise di lato per farci passare senza proferire parola. I primi a entrare furono Edward e Bella, ovviamente, seguiti da Alice e Jasper i quali mi lanciarono delle occhiate veloci per spronarmi a seguirli. Entrambi erano ancora intenzionati a incontrare Aro nonostante le mie preghiere e i miei avvertimenti.
“Non fidatevi.” Dissi rivolgendomi direttamente a Alice e Jasper. “Vi prego, ascoltatemi, non fidatevi di loro tre.” Conclusi, con la voce spezzata, indicando Edward, Bella e Andrew con un cenno del mento.
Nell’espressione obliqua di Alice e Jasper potei notare che le loro certezze stavano vacillando. Non sapevano cosa fare: ascoltare Edward e Bella o me.
Alice si voltò verso Edward: “Devi dirci qualcosa che dovremmo sapere?” La sua voce era seria, severa e tagliente.
Edward non batté ciglio. “No. È una pura formalità. Poi potrete andare via.”
“Andiamo.” Fece Andrew, la foce neutra, senza sfumature nel tono. Alice e Jasper ripresero il cammino.
Ero sola.
Guardai le mie gambe: che senso aveva, ormai? Che senso aveva partire per una battaglia quando i tuoi cari e coloro di cui ti fidavi ti voltano le spalle? Che senso aveva tentare di imporsi, di far cambiare idea, quando nessuno aveva intenzione di ascoltarti e credere alle tue parole? La lotta, anche solo considerarla ormai, non valeva la pena.
Feci un breve, veloce respiro e anch’io varcai la porta con la morte nel cuore.
Aro avevo già tentato di uccidermi una volta. Chi mi assicurava che non avrebbe tentato una seconda volta? Stavo per scoprirlo, volontariamente.
Gli occhi erano puntati verso i miei zii, sulle loro schiene. Non avevo la minima intenzione di guardare Andrew in faccia oppure chiedergli cosa diavolo ci facesse lì in quel momento. Non c’era bisogno, lo sapevo, potevo arrivarci da sola quella volta.
Perché dovevo farlo? Perché mai dovevo prestare attenzione a un traditore? Perché dovevo andare dietro a qualcuno che aveva finto per tutto quel tempo? Che mi aveva presa per i fondelli?
La rabbia e la delusione non presero il sopravvento, come sarebbe stato normale, ma sfociarono insieme nell’indifferenza. Pensavo di star riprendendo il controllo della mia vita in mano, ma si rivelò essere solo una illusione. Non era di certo la prima volta dopotutto. Che senso aveva continuare ad arrabbiarsi?
Ero indifferente.
Andrew, rimanendo sempre in silenzio, chiuse la porta dietro di sé e mi raggiunse velocemente. Sbuffai.
Continuai a ignorarlo, i miei occhi seguivano Alice, Jasper e i miei genitori biologici che ci precedevano. Sentivo però gli occhi di Andrew su di me.
Ci inoltrammo in un lunghissimo canale diramato in tantissimi corridoi, alcuni altrettanto lunghi mentre altri più corti, tutti ricchi di specchi e antichi, preziosi mobili e cimeli. Alcuni passaggi erano illuminati dalla corrente elettrica, altri da candele che rendevano l’ambiente spettrale. Il silenzio regnava, non si sentivano nemmeno i nostri passi o il mio respiro.
A volte gli zii si voltavano per guardarmi e lanciare un'occhiataccia ad Andrew. Stessa cosa faceva Bella, apprensiva e confusa. Forse nemmeno lei si aspettava di vedere Andrew oppure c’era qualcos’altro. Stava tentando di fare dei collegamenti, per caso? Anche a lei sembrava strano la comparsa di Andrew a seguito della mia? Non lo sapevo e decisi che non m’importava. Vedendo che non stavo tentando di darmela a gambe e la mia espressione totalmente spenta, si voltò di nuovo verso Edward.
I suoi occhi erano puntati su di lui e notai che le sue labbra si mossero, ma da queste non uscì nessun suono.
Io, contro ogni mia intenzione, mi voltai verso Andrew e lui si voltò verso di me, come se non aspettasse altro.
Il suo sguardo era limpido: la gravità delle sue azioni non lo aveva neanche sfiorato. Ma lui era così, no? Faceva ciò che voleva – in questo caso ordinato – senza curarsi degli altri. Lui aveva sempre la coscienza pulita in qualsiasi caso.
Si chinò su di me, le sue labbra direzione orecchio sinistro: "Se sarà il caso, vai, scappa, io riuscirò a trovarti." Il suo fu meno di un sussurro, la sua voce fu impercettibile, resa così bassa da far modo che potessi sentirlo solo io.
Che cosa intendeva dire con quel consiglio? Perché mi stava dicendo una cosa del genere? Perché si ostinava a fingere che gli importavo? Non aveva buoni presentimenti per l'incontro con Aro? Non prospettava nulla di nuovo se non la minaccia di veder la mia vita terminare? Non potei non trovarlo patetico.
Mi voltai verso di lui, il suo viso a pochi centimetri dal mio. "Pensi che continuerò a fidarmi di te?" gli domandai, le labbra si aprirono a malapena.
Mi guardò dritta negli occhi e le sua espressione mi disse chiaramente che non era il momento di opporsi. La sua apparente compostezza nascondeva qualcos'altro: rabbia.
Non m’importava, non m’importava se era arrabbiato o se era soddisfatto dei suoi gesti. Lui era diventato il mio boia, insieme ai miei genitori biologici e ai miei zii.
"Se arriverà il momento, vai." Ripeté e si rimise in posizione eretta, gli occhi puntati davanti a sé questa volta.
Gli lanciai un'occhiataccia sperando di fargli capire attraverso le mie pupille che non avrei seguito il suo consiglio, che non mi sarei nuovamente fidata di un traditore come lui. Fidarsi o meno, Andrew mi avrebbe portata sempre da Aro, non mi avrebbe mai fatta scappare via da lui comunque.
“Carlisle ci aspetta, Edward.” Disse Alice e l’attenzione di tutti, ovunque essa fosse in quel momento, si spostò su di lei.
Edward non si voltò verso la vampira per risponderle, lo fece guardando il percorso che si apriva davanti a sé: “Lo so, Alice.”
Non riuscii a vedere il volto di Alice, ero curiosissima di vederlo, ma lei continuò a parlargli: “Non vedo il futuro. Sono completamente cieca.” La sua voce era ferma e decisa.
“Sì, Alice, so cosa intendi.” Disse il vampiro con voce monocorde, né infastidita né annoiata.
Bella si voltò verso la vampira, le due si guardarono per qualche secondo e poi la prima, con una espressione disperata stampata sul volto, lanciò uno sguardo su di me e dopo ritornò alla posizione iniziale.
Alice e Jasper si stavano completamente affidando a Edward e Bella nonostante avessero dei dubbi e delle preoccupazioni. Alice aveva chiarito che non poteva prevedere il futuro, a causa mia, che non poteva organizzare, insieme a Jasper, una qualche via d’uscita se le cose fossero andate male. Erano pronti a buttarsi nel vuoto.
Allora perché avevano accettato di vedere Aro?
Mi portai la mano destra sulla bocca e l'altra sulla testa, cercando di controllare l'agitazione e il desiderio di andare via e abbandonare tutti che imperversavano brutali dentro di me. Sì, abbandonare tutti, perfino Alice e Jasper, gli unici che mi facevano restare in Italia.
Stavamo per voltare l'ennesimo angolo ed eccolo lì: l'ultimo, lungo e sfortunatamente familiare corridoio dai pavimenti di marmo che portava alla Sala delle Udienze. L'immensa e imponente porta di legno intagliata, sorvegliata da due vampiri, nascondeva cosa conteneva al suo interno e padroneggiava su tutto l'ambiente circostante.
Ebbi la sensazione che le pareti ai miei lati si stessero restringendo e mi chiesi perché stavamo camminando a passo umano quando potevamo seguirne uno più consono alla nostra natura. Ma mentre io cercavo di occupare la mia mente con queste osservazioni superficiali, iniziai a rallentare il mio, di passo, e Andrew fece la stessa cosa, lanciandomi uno sguardo interrogativo.
Poggiò una mano fredda sotto il mio mento, rabbrividii e la scacciai.
Sapeva, probabilmente meglio di me, quando un'altra crisi stava per iniziare, ma si sbagliava e mi stavo sbagliando pure io. Risposi ad Andrew scuotendo la testa.
Cercai di fare dei respiri profondi e rallentare il battito frenetico del mio cuore. Non stava arrivando una nuova crisi, non potevo permetterlo in quel momento e in quel luogo. Era la mia ansia che, man mano che ci avvicinavamo alla non desiderata meta, aumentava vertiginosamente.
Dall'interno della sua giacca di pelle, Andrew fece uscire fuori una piccola scatola di metallo. La coprì con un pugno e l'avvicinò alla mia mano aperta lungo il mio fianco, la lasciò andare sul mio palmo.
Non sentì la necessità di specificare cosa conteneva: morfina.
Lo guardai, confusa, e strinsi forte il piccolo contenitore. Quando abbandonai Londra, non avevo lasciato nessuna scatola del medicinale ancora piena. Ero convinta di aver preso tutta la morfina che Andrew era riuscito a trovare. Mi ero sbagliata di nuovo.
Sentii il mio volto raggiungere le stesse temperature che poteva raggiungere un vulcano.
Non gli dissi nulla, non lo ringraziai perché tutto ciò che provavo in quel momento era odio. Odio nei suoi confronti, odio nei miei perché avevo accettato quella sua forma di aiuto.
Posai il piccolo tesoro nella tasca posteriore dei miei pantaloni.
Perché non mi hai uccisa prima? Perché ti comporti così? Volevo chiedergli.
I due mastodontici vampiri aprirono la porta anticipandoci di qualche centimetro. Eravamo arrivati.
"Fai parlare me, Bella." Sentii Edward mormorare. Bella non replicò.
"Ricordati cosa ti ho detto." Mi sussurrò invece Andrew all'orecchio.
Quando sarebbe arrivato il momento, dovevo scappare via.
Annuii velocemente, ma non sapevo effettivamente perché reagii in quel modo. Forse per non rimuginare su quale tipo di momento Andrew intendesse; forse perché, nonostante il gentile gesto di darmi altre pillole di morfina, continuavo a non fidarmi di lui; forse perché me ne volevo andare a gambe levate proprio in quell'istante.
Alice si voltò verso di me, fece un cenno col mento indicandomi di avvicinarmi a lei e Jasper. Obbedii lasciando solo Andrew.
La parte rialzata della Sala delle Udienze, dove si trovavano i tre troni di legno e oro, era parecchio affollata.
Aro, Caius, e Marcus erano seduti. Ognuno aveva una espressione diversa: Aro sembrava sollevato e meravigliato, trepidante; Caius era scuro in volto; Marcus guardava intensamente le due donne - le quali sembravano arrivate direttamente dall'epoca della Grecia antica - che si trovavano ai lati dei due fratelli. Erano le mogli di Caius e Marcus.
Intorno a loro gravitavano i pezzi forti della Guardia dei Volturi: Jane, Alec, Demetri, Felix, Renata, Santiago, Heidi e molti altri. Insieme sembravano creare una grande nube nera all'interno dell'immensa stanza.
"Aro." Salutò Edward, stranamente impaziente.
Il vampiro non prestò attenzione a Edward. Si alzò e fece alcuni passi per fermarsi tra i tre scalini che portavano ai troni.
"Alice, Jasper! Che gioia rivedervi di nuovo! Perdonatemi la sfrontatezza, ma non mi aspettavo una visita a così poca distanza dall'ultima. Non è così, fratelli?"
Marcus rispose pressoché indifferente. Caius si alzò e fece per avvicinarsi ad Aro il quale scese gli ultimi scalini per tagliare ancora più distanza tra di noi.
Mi misi accanto a Jasper, Andrew mi superò per mettersi dietro ad Aro, occupando il posto precedentemente occupato dalla moglie. Notai che Bella ed Edward rimasero fianco ad Alice. Non spalleggiarono il loro padrone.
“Va’ al diavolo, Aro.” Risposi io, interrompendo qualsiasi cosa Alice stesse per dire. Il mio nervosismo, la mia ansia e la mia impazienza mi annunciarono.
Aro non reagì come mi aspettavo: si voltò verso di me con un sorriso furbo. I suoi occhi brillavano come due rubini, la pelle sembrava carta trasparente al contatto coi raggi del sole che penetravano dagli alti tetti in vetro.
Notando la sua espressione divertita, la mia visuale divenne tutta rossa, come i suoi occhi.
Dal mio petto nacque un ruggito che graffiò i polmoni e tutte le ossa che componevano la mia gabbia toracica. Scoprii i denti, digrignanti.
Le mie gambe si mossero da sole, autonome.
“Renesmee...” Sussurrò debole Edward, ma era già troppo tardi: avevo appena scacciato, con un schiocco, la mano di Jasper pronta ad afferrarmi per la vita.
Dalla mia bocca uscì un sibilo mentre le mie dita si agganciavano al collo rigido di Aro.
Il violento urto lo fece cadere indietro, contro i gradini di marmo che portavano al suo trono, ai piedi dei suoi fratelli. Io mi avventai sopra di lui, le ginocchia premute contro il suo petto.
“Uccidimi ora!” Gli urlai con tutta la voce che avevo in corpo, stringendogli il collo, le unghie aggrappate alle sue guance di pietra, pronte a scavarci dentro. “Ora! Davanti a tutti! Adesso! Codardo! ORA! QUI! CODARDO! CON LE TUE MANI!”
“Maledetta!” Aro ringhiò, portando le sue mani sulle mie spalle, spingendomi verso l’alto mentre la mia vista periferica si riempì di ombre e pallide, forzute braccia. Venni scagliata verso la cupola, con uno schianto la schiena batté pesante contro il marmo e il vetro.
Quando precipitai sul pavimento, la scena che si rivelò davanti ai miei occhi era totalmente diversa da quella iniziale. Era cambiata nel giro di pochi secondi: il volto di Aro era in mezzo alla morsa di Bella sotto tiro di Caius, l’espressione della vampira era demoniaca; Edward e Dimitri, appoggiato da altri sei vampiri, si ringhiavano contro a vicenda; Alice e Jasper si guardavano le spalle da Alec, Jane, Felix e altri cinque vampiri.
Era questo il momento che Andrew tanto temeva?
Avevo fatto scoppiare la bomba. Nella sala riecheggiavano solo stridori e ringhi in contrasto con il silenzio che di solito contraddistingueva l’ambiente. La tensione era palpabile così come l’adrenalina le quali iniziarono a scorrere veloci nelle vene e nei muscoli.
Venni immediatamente raggiunta da due vampiri che non avevo mai visto prima. Mi tennero stretta ai lati obbligando a mettermi in ginocchio. Un terzo vampiro, il quale si posizionò di fronte, mi diede un calcio nello stomaco dal quale si propagarono un dolore sordo e dei brividi freddi.
NON LA TOCCATE!” Bella urlò, ricevendo uno schiaffo in faccia da Caius. Aro non riuscì a liberarsi, però, dalla presa di ferro della vampira.
“Bella!” Chiamò Edward, non riusciva a trovare una via d’uscita perché veniva continuamente assalito da tanti vampiri quanti ne metteva KO. Notai che dalle porte, quelle dietro ai troni, stavano iniziando ad arrivare altri membri della Guardia, pronti a dare una mano. Vi erano, inoltre, molti mezzi vampiri che parteciparono alle battaglia contro i Figli della Luna.
Non potevamo resistere ancora per molto, pensai, perché eravamo chiaramente in inferiorità numerica.
Molti vampiri iniziarono a cadere a terra come foglie secche, comunque, vittime dell’esperienza in battaglia di Jasper. Come tutti gli altri, Jasper non si fermava un attimo, in pochi millisecondi metteva fuori un immortale e replicava la stessa azione con un altro. Non dimenticava mai, però, di fare da scudo ad Alice.
Aggrappandomi alla presa dei due vampiri che mi tenevano ferma, con tutta la forza che avevo feci due passi in avanti per quanto la costrizione mi permetteva. Con un salto, diedi un calcio al vampiro, mi spinsi indietro facendo una capovolta e portando con me i due vampiri che bloccavano le mie braccia. Questi vennero schiantati uno contro l’altro verso il vampiro rimasto al centro, sgretolandosi come grandi blocchi di gesso. Ora ero libera di muovermi e pronta ad aiutare i miei zii... ed Edward e Bella.
Ma le mie vere intenzioni puntavano ad altro: Aro.
Era riuscito a liberarsi da Bella e si proteggeva, insieme ai fratelli, alle mogli, a Jane e Alec, dietro ai vampiri che si avventavano su Bella ed Edward. Codardo. Codardi.
Iniziai a girare intorno alla grande Sala non mollando mai lo sguardo sul vampiro. Gli occhi di Aro, però, incontrarono i miei e capì cosa intendevo fare. Si spostò nella mia direzione e avanzò verso di me. Io ringhiai e accelerai il passo, non curandomi dell’inferno che stava accadendo intorno a me o alle voci che mi chiamavano. Lo avrei ucciso con le mie mani.
Andrew, il quale non si era scomposto per partecipare a quella lotta iniziata dalla sottoscritta, s’intromise tra me e Aro.
FERMI!” Urlò e il fracasso si smorzò improvvisamente. Tutta la Guardia si fermò, s’irrigidì al suo ordine, immobili come statue. Gli unici ancora liberi di movimento eravamo io, Alice e Jasper, Bella ed Edward i quali si allontanarono dai corpi pronti ad attaccare dei Volturi. Il dono di Andrew non aveva avuto nessun effetto su di noi. Eravamo protetti dallo scudo di Bella.
“Lasciami!” Esclamai a denti stretti, scoperti, cercando di divincolarmi dalle braccia di Andrew che mi stringevano. Il mio sguardo non abbandonava Aro, sentivo i miei occhi pulsare e la bocca salivare. “Lasciami andare! Lasciami!”.
“Mandale via, Aro.” Disse Edward a qualche metro di distanza da noi. Nonostante tutto, continuava a sostenere un atteggiamento indifferente, distaccato.
“Non avresti chiuso occhio se fosse morta in battaglia, Edward.” Disse Aro, tranquillo.
Edward rimase impassibile, composto, per nulla scalfito dalle parole del vampiro. Rabbrividii: si riferiva a me.
“Cosa significa?!” Esclamò Bella, rivolgendosi prima ad Aro e poi a Edward, appoggiandogli una mano sulla spalla. “Cosa vuol dire?!”
“Mandale via, manda via tutti, Aro.” Disse Edward.
Aro, il corpo immobilizzato, fece un piccolo sorrisetto, ancora a pochi centimetri di distanza da me, divisi solo dal braccio di Andrew.
“Diglielo, Edward.”
“Cosa?” Fece isterica Bella. “Edward!”
“Cosa hai fatto?” Sibilai rivolgendomi ad Aro, lui girò gli occhi verso di me, come un serpente.
Non aspettò che spiegasse Edward, lo fece direttamente lui e io non ero sicura di voler ascoltare: “Tempo addietro, Edward e io facemmo un patto.”
Bella si voltò nuovamente verso Edward, la fronte corrugata, il suo volto era il riflesso di quelli di Alice e Jasper.
Edward, le sue spalle erano un po’ curvate, si voltò verso Bella, Jasper e Alice, la sua mascella era rigida così come le sue labbra, premute in una linea finissima.
“Volevo mandare via Bella da Volterra e farvi continuare a vivere una vita tranquilla... ho spezzato i miei legami con voi... Tramite il dono di Chalsea.” Disse continuando il racconto di Aro.
Detto questo, Edward si voltò verso di me: “Sei arrivata tu... e ho spezzato il mio legame con te.” Terminò.
Bella, Alice e Jasper impallidirono, il loro colorito divenne ancora più bianco e cereo di quello che solitamente era.
I miei occhi iniziarono a prudere, battei le palpebre e solo in quell’istante mi resi conto che avevo il respiro affannato.
Aveva fatto spezzare i suoi legami tra lui e Bella? Tra lui e i Cullen?
Tra lui stesso e me?
Ebbi la stessa sensazione di quando si tratteneva l’aria. Prima o poi, si necessitava di riprendere fiato, si iniziava a sentire i polmoni bruciare.
In un primo momento, le parole di Edward avevano un significato confuso per me, quasi incomprensibile nonostante, dentro di me, c’era un campanello d’allarme che squillava forte.
Dopo, ricordai cosa mi disse, a Londra, Andrew: “Un giorno ti odiavo e l’altro non mi dispiacevi. Era sempre così, un circolo vizioso, alti e bassi. Ma è stata tutta opera di Aro e di Chalsea. Lei può influenzare le relazioni tra le persone, distruggerle o crearle.”
Chalsea, quella vampira che non avevo mai visto, che non sapevo neanche se fosse insieme a noi in quel momento. Chalsea aveva il dono di eliminare e creare le relazioni tra persone. Eliminare o creare, creare o eliminare.
Tenni ancora il mio sguardo su Edward.
Edward, il vampiro che avevo imparato a odiare fin dall’inizio. Edward, il vampiro che non si era mai fatto scrupoli a manifestare il suo disprezzo nei miei confronti. Forse, tanto tempo fa, la realtà era molto diversa...
Quello stesso Edward, uno mai visto prima d’allora, aveva preferito sacrificare i sentimenti, forti o deboli che fossero, che provava per Bella, per me e per il resto della famiglia solo per poterci permettere di vivere serenamente.
Lui sarebbe rimasto a Volterra, solo, mentre Bella sarebbe dovuta ritornare dai Cullen, da noi.
Si era sacrificato per noi?
Si era sacrificato per noi.
Ricordai le parole di Bella, quando mi confidava che Edward era cambiato, che non era più lo stesso uomo di cui si era innamorata. Edward non era cambiato, i sentimenti verso di lei erano cambiati.
Dunque i legami tra loro due erano già deboli fin dall’inizio, prima ancora che io arrivassi? Da quanto tempo i loro rapporti erano andati in declino per volere di Edward?
Perché voleva che i Cullen continuassero a condurre una vita serena? I Volturi rappresentavano una minaccia per noi? Temeva questo? Oppure c’era altro?
L’atteggiamento freddo e distaccato di Edward non era stato dettato, quindi, da chissà quali sentimenti di odio, antipatia o insofferenza nei confronti di Bella o di me. L’aveva fatto per... proteggerci?
Non sapevo come reagire né cosa pensare, dopo quella veloce riflessione la mia testa era completamente vuota.
Riconobbi, comunque, di stare provando un sentimento al quale non riuscivo a dare un nome, non lo riconoscevo ma ero cosciente che non era qualcosa di positivo e pesante, molto pesante.
Rimasi immobile nella presa di Andrew. Il mio sguardo saltava da Edward e Bella e viceversa. Il volto della vampira era scioccato, frantumato, rotto, a pezzi, vuoto. Probabilmente lei si sentiva proprio in quel modo. Vedendola mi sentii annegare nel bel mezzo dell’oceano, disperata.
Ad un tratto la voce di Aro cominciò a riecheggiare per tutta la Sala: “Come se io decidessi di lasciarvi veramente! Voi siete miei! Carlisle non sarà mai più potente di me!”
Questa volta fu Alice a far esplodere la sua rabbia la quale aveva deformato il suo bellissimo volto. Mi mancò il fiato.
Venne trattenuta da Jasper. Il gesto mi diede fastidio come diede fastidio ad Alice perché anche io avevo il desiderio impellente di uccidere Aro e i Volturi tutti.
LA MIA VISIONE, ARO! RICORDA COSA TI HO FATTO VEDERE!” Urlò Alice strattonandosi da Jasper.
Cosa? Cosa aveva previsto Alice?
Nonostante Aro fosse ancora sottomesso al dono di Andrew, la sua espressione tradì il suo cambio d’umore, le sue pupille si dilatarono e le sue labbra si aprirono.
“Ah!” Fece Caius, dietro le nostre spalle. “Conosciamo già la conclusione!” Disse divertito.
Quale conclusione? Di cosa stavano parlando?
“Sono anni che tiri troppo la corda, Caius.”
“E allora?” Sfidò Caius.
“Hai avuto un’altra visione?” Chiese Aro, la sua curiosità era quella tipica dei bambini. Non sembrava avere intenzione di restare sulla stessa lunghezza d’onda del fratello.
Il suo volto era illuminato dall’impazienza, dalla voglia di sapere cosa Alice avesse mai visto, dalla voglia di possedere Alice e il suo dono. Al pensiero un’altra dose di rabbia venne iniettata nelle mie vene. Mi sporsi in avanti per fermarlo, ma Andrew strinse la presa intorno a me.
Alice allungò la mano verso Aro.
“Alice, no!” Le proibì Jasper.
“Deve sapere a cosa va incontro.” Disse decisa Alice guardando Aro.
“Andrew.” Sibilò Aro e un secondo dopo fu libero di avvicinarsi ad Alice. Io tentai di nuovo di divincolarmi dalla presa di Andrew e lui mi lasciò andare questa volta.
Aro prese tra le sue la mano di Alice con delicatezza, come se avesse a che fare con qualcosa di prezioso.
Il contatto durò pochi secondi. Aro lasciò cadere la mano di Alice non dimostrando la stessa gentilezza di prima.
“È confuso.” Disse lui, turbato. Cosa aveva visto?
“Cosa ti ha fatto vedere?” Domandò Caius.
“Però ogni giorno si fa più certo.” Disse Alice, in risposta ad Aro.
“Rifletti, Aro.” Fece Edward a qualche centimetro dietro ad Alice. “Sarai solo.”
“Cosa hai visto questa volta, Aro?” Ripeté Caius, in seguito si rivolse ad Andrew e gli ordinò: “Liberaci”. Il vampiro obbedì.
Aro si voltò verso Caius, senza dire nulla, meditabondo. Dopo si voltò verso Marcus e, infine, verso Andrew alle mie spalle. Aro continuò a non dire nulla.
Lo vidi stringere le mani in pugno, il suo sguardo ora rivolto verso il basso. Poi lo alzò rivolgendosi ad Alice.
CARLISLE NON DIVENTERÀ PIÙ POTENTE DI ME! NON AVRÀ QUELLO CHE DEVO AVERE IO!”
LASCIA ANDARE EDWARD, BELLA E RENESMEE! E NON VIVRAI CIÒ CHE HAI VISTO!” Urlò Alice, i denti scoperti, china e pronta all’attacco. La tensione era salita di nuovo alle stelle. Feci un passo avanti, rimanendo sempre dietro ad Aro, pronta a scattare.
“NO!” Ruggì Aro, afferrando il collo di Alice con entrambe le mani. Immediatamente, Jasper si fiondò verso Aro per liberare la compagna, ma Alice fermò lui, me, Edward e Bella, tutti pronti all’attacco, con un gesto della mano. Anche la Guardia, anch’essa pronta a rispondere al nostro contro attacco, si bloccò al suo gesto.
Alice guardò negli occhi Aro, tranquilla in volto nonostante avesse ancora le mani del vampiro su di lei.
“Se mi uccidi o mi obblighi a rimanere con te, succederà lo stesso, Aro.” Disse lei, a denti stretti.
“Leva. Le. Tue. Mani. Da. Lei.” Ammonì Jasper, scandendo le parole. Il suo volto bruciava dalla rabbia. Felix e Demetri si avvicinarono verso di lui e ringhiò. Alice si staccò da Aro con uno strattone, con forza.
“Carlisle non rappresenterà una minaccia per te.” Disse Edward. “Non lo è mai stato. Lasciali andare.”
“No.” Fece Bella, debole. “Edward...”
“Lasciali andare, Aro.” Disse Andrew, ripetendo le parole di Edward. Tutti ci voltammo verso di lui, sorpresi da quella presa di posizione. I suoi occhi erano puntati su Aro. La sua espressione era serissima.
“Dai gli ordini?” Domandò Aro, ironico. “Vuoi unirti a loro, caro Andrew? Non mi stupirebbe.”
Andrew non si scompose e preferì non soffermarsi su cosa Aro intendeva veramente con quelle parole. “No. Io ti servo, lo sai.” Rispose.
Aro non disse nulla, ma la sua espressione parlava per lui: i suoi occhi erano sgranati, la bocca socchiusa. Era incastrato tra la visione di Alice, l’ordine inaspettato di Andrew e la verità che lui, senza vampiri con poteri speciali, non era nulla.
“Possiamo ucciderti seduta stante, Andrew. Ricordatelo.” Minacciò Caius, avvicinandosi di qualche passo verso me e lui. Aro lo fermò.
“La perdita sarebbe troppo grande, Caius. Non avete mai trovato qualcuno come me.” Rispose Andrew, senza modestia ma aveva ragione. Dopo si rivolse, di nuovo, verso Aro: “Mandali via, Aro e, in cambio, avrai i miei servigi. Per sempre. ”
Mi voltai verso di lui. “Cosa?” Sussurrai.
Che intenzioni aveva? Perché aveva fatto questa proposta?
“No, Andrew.” Gli dissi. “No.” Ripetei. Se fosse stato possibile, avrebbe dovuto dimenticare cosa aveva appena detto.
Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Cosa pensava? Non avrei mai permesso ad Andrew di fare una cosa del genere. Poco importava se mi aveva tradita. Non avrei mai fatto questo ad Andrew. Mai.
Quello che la sua mente aveva escogitato era incredibile, inconcepibile. Non gli avrei mai permesso di sottoporsi ad un impegno così grande, non per causa mia. Non potevo sapere che, nella mia vita, un’altra persona stava sacrificando la propria per me. Era un gesto cattivo, egoista. Andrew non doveva condannarsi a tale pena.
Io e Andrew avevamo deciso di separare le nostre vite. Io non dovevo determinare il suo futuro. Avevo molte volte proposto di seguirmi e unirsi ai Cullen, avevo accettato la sua decisione di non farlo. Mai avrei pensato di fargli sacrificare la sua vita per la mia.
Come potevano Alice e Jasper, Bella ed Edward permetterlo? Perché non stavano protestando?
“Quale gesto magnanimo.” Disse Aro, incantato, totalmente dimentico del precedente atteggiamento sfrontato di Andrew. “Prima la salvi, disobbedisci ai miei ordini e ora... questo.”
Mi voltai verso i miei zii ed Edward e Bella. Solo in quel momento mi resi conto che stavo tremando. Notai Edward scrutare sia Aro che Andrew.
“Non posso permetterlo.” Dissi, a nessuno in particolare ma indirizzato a tutti.
Aro batté le mani. Il drastico cambio d’umore era stato immediato: “Bene! Bella! Edward! Ringraziate il vostro benefattore! Ringraziate Andrew se vostra figlia è ancora qui! Sana e salva! Ringraziate Andrew se siete liberi!”
Aro aveva accettato la proposta. Ovviamente. Dopo aver accettato il patto con Edward, era certo che accettasse quello con Andrew. Maledetto.
“No!” Urlai. Mi voltai verso Andrew, furiosa: “Cosa ti è saltato in mente?!” Esclamai.
“Non ti preoccupare.” Disse, sereno. “Fidati di me.”
Non dovevo preoccuparmi? Si era bevuto il cervello?
Fidati di me. Fidati di me.” Ripeté Aro. Il tono della sua voce era un misto di sorpresa e scherno, derisione.
Andrew strinse le labbra e, tutto ad un tratto, Aro, Caius, Marcus e tutta la guardia, compresi Jane e Alec, si immobilizzarono. I loro occhi erano inquietanti: vuoti, vitrei, rosso scuro.
“Cosa è successo?” Domandai.
“Non possono né sentirci né vederci. Sto obbligando Alec a utilizzare il suo dono.” Mi rispose Andrew. Poi, si rivolse a Edward e Bella: “Andate. Aro non sarà più un problema per voi.”
“No! Non così!” Protestai io. Era pazzo.
“Ren, io voglio stare qui. Fa’ come ti dico, almeno una volta.” Disse esasperato.
“Non perché ti obbligo io!” Mi voltai verso i quattro vampiri alle mie spalle. “Non potete permetterglielo!”
“Non sto rimanendo per te, Ren.” Bofonchiò tranquillo Andrew. “Non sei il centro dei miei pensieri.”
Lo guardai, stupita: “Cosa c’entra questo, adesso?” Perché non riusciva mai a cogliere il punto? Perché tutto sembrava così surreale?
“Nessie,” mi chiamò Alice, “io l’ho previsto.”
“Cosa? Quando?”
“Cinque minuti fa. Andrew... a capo dei Volturi. A posto di Aro.”
“Come è possibile?” Domandai.
Andrew? Capo dei Volturi? Al posto di Aro? L’immagine che si era appena creata nelle mia testa era orribile, terrificante: Andrew, con un completo nero, la giovinezza lo aveva abbandonato da molto tempo, i suoi occhi erano diventati aridi, la pelle del suo volto increspato, fine e trasparente al sole…
Ero senza parole, inorridita.
“Fico.” Disse divertito Andrew.
Bella si avvicinò al vampiro, per nulla interessata alla conversazione o alla sconcertante visione di Alice. Con un atteggiamento umile disse: “Grazie Andrew, grazie per aver salvato la mia Renesmee. In qualsiasi modo tu l’abbia fatto. Non riuscirò mai a ringraziarti abbastanza.”
“Potevate dirglielo.” Lui le rispose, con tono arrogante. Bella divenne ancora più pallida, più addolorata. Abbassò lo sguardo. Guardandola m’immobilizzai, incapace di reagire allo scambio di battute appena creato.
“Hai ragione, Andrew.” Fece Edward, grave. Sospirai. No…
“Andrew.” Lo chiamai voltandomi verso di lui. “Vieni con noi. Per favore.”
Ci doveva essere una soluzione, c’era una soluzione e non era quella di Andrew.
Lui sembrava irremovibile nella sua decisione. Per me era inconcepibile voler rimanere a Volterra. Inconcepibile era rimanere a Volterra per colpa mia e dei miei genitori biologici. Ancora più inconcepibile era sostituire Aro nel suo ruolo di guardiano dei vampiri tutti.
Andrew sorrise. Ancora una volta sembrava non percepire la gravità e l’importanza delle sue azioni. “No! Guarda!” Mi disse divertito.
I Volturi ritornarono nuovamente in sé: liberi di muoversi, sentire e vedere.
Aro, furioso, inveì contro Andrew il quale mi spinse verso Bella per non cadere nel mirino del vampiro.
“Hai sbagliato, Andrew.” Minacciò Aro.
“Non credo.”
Felix e Demetri erano pronti a difendere il loro padrone, ma vennero prontamente bloccati come venne bloccato Aro, il suo collo era fermo tra le mani di Andrew.
Andrew mosse i polsi con un colpo secco producendo uno schianto.
La testa di Aro cadde pesantemente a terra insieme al resto del corpo. Il mio respiro si smorzò in gola.
Era morto. Andrew l’aveva ucciso.
Due secondi dopo si sentì un altro schianto. Questa volta fu il corpo di Caius a cadere contro il pavimento di marmo. La sua testa era nelle mani di Marcus.
“Tutti, in questa stanza, sono liberi di andare o rimanere.” Disse Andrew con tono chiaro e forte dopo aver lanciato una occhiata a Marcus, sempre impassibile.
Si voltò verso di me. “Voglio rimanere qua, Ren. Vai. Sei libera.”
Non riuscivo a staccare lo sguardo dai cadaveri di Caius e Aro: fermi, immobili, senza vita, senza possibilità di difendersi né attaccare o minacciare le vite altrui.
Pensavo di star vivendo la scena fuori dal mio corpo, da una prospettiva diversa, da una dimensione diversa, estraniante: tutta la Guardia, intorno a noi, era ferma, cieca, totalmente ignorante di ciò che era successo mentre due dei tre vampiri più potenti erano morti, ai nostri piedi.
Tutti erano immobili tranne Marcus che, in silenzio, contemplava solennemente quei due corpi a terra, davanti a sé.
Quando Andrew li avrebbe liberati da quella stasi, come avrebbero reagito? Pensandoci, venni travolta da una ondata di paura.
La mia mano destra venne stretta da quella di Bella, alle mie spalle, prendendomi alla sprovvista.
“Ti prego, Renesmee, andiamo.Per favore.” M’implorò con gli occhi sgranati e le mascelle contratte, il viso pallido incorniciato da lunghe ciocche di capelli castani. Tremava e il suo corpo pareva minacciare il crollo.
La guardai e poi mi voltai verso Andrew.
“Addio, Andrew.” Dissi, senza pensarci. Nonostante mi rifiutassi di lasciarlo, fu istintivo dirgli addio dopo aver osservato le condizioni in cui Bella riversava in quel momento.Fu scioccante vederla in quello stato e questo mi fece decidere. Non potevo causarle ulteriore sofferenza, non se lo meritava.
Da quanto tempo aspettava quel momento? Per quanto tempo aveva sofferto in silenzio? Per quanto tempo aveva desiderato di scappare via? E chi ero io per negarglielo? Non volevo certo vietarle la libertà, era il modo in cui questa libertà veniva concessa che non accettavo.
Delle lacrime calde iniziarono a cadere sulle mie guance e fin giù sul collo. Potevo stare solo da una parte, i fatti già si erano formati davanti a me.
“Ciao, Ren.” Sorrise lui.
Bella tirò la mia mano verso la sua direzione, costringendomi a seguirla. Prese per mano Edward e cominciammo a dirigerci fuori la Sala dell’Udienze, ora inondata dal silenzio.
Mi voltai ancora indietro: Andrew mi sorrise e mi fece l’occhiolino.
Jasper aprì le grandi porte con violenza e fu l’ultima volta che vidi Andrew.
Uscimmo dal Palazzo dei Priori velocemente, in pochi secondi, correndo questa volta. Al nostro passaggio vedemmo alcuni vampiri fermi, ancora vittime del potere di Andrew.
Ritornammo nel piazzale. Il sole estivo, nonostante fosse pomeriggio, era ancora caldo e cocente.
Ci fermammo perché Alice si fermò improvvisamente. Si girò verso Edward e gli diede un forte schiaffo in faccia.
“Non farmi più una cosa del genere!” Rimproverò, fumante di rabbia. “Come hai potuto?! Non hai pensato a Bella?! Sai quanto ha sofferto?! No! Non hai idea di cosa ha passato! Non hai pensato a Nessie?! Nessie, Edward! Tua figlia! Non hai pensato a noi?!”
Edward, in silenzio, si ricompose dalla reazione violenta di Alice. “L’ho fatto perché ho pensato a voi. Mi dispiace.” Rispose tranquillo, gli occhi socchiusi.
“Sei un fottuto idiota, Edward!” Gli gridò in faccia. “E non devi scusarti con noi, ma con loro!” Gli rimproverò puntando un dito verso me e Bella, lei strinse più forte la mia mano.
“Andiamo a casa, per favore.” Singhiozzai. Avevo voglia di tapparmi le orecchie, come facevano i bambini. Ero stanca, stanca di tutto. Non ero pronta a sostenere litigi o conversazioni che richiedevano tutte le mie energie, cosciente che, prima o poi, avrei dovuto sostenerle. Ero stremata e pronta a piangere.
Non volevo rimanere in quel posto un secondo di più perché sapevo che avrei potuto cambiare idea in fretta e ritornare da Andrew.
Alice afferrò il cellulare dalla tasca interiore della giacca che indossava.
“Carlisle…lo so, l’ho visto. Senti, Edward e Bella tornano con noi.”
“Edward e Bella?” Domandò Carlisle, la voce commossa.
“Sì.” Rispose Alice truce, senza ricambiare la stessa emozione di Carlisle. Lanciò uno sguardo di rimprovero a Edward. “Prenderemo un aereo il prima possibile. Cambiate i vostri biglietti: Bella vuole tornare a Forks e pure io. Ci vediamo lì.” Chiuse la chiamata.
Corrugai la fronte. Pensavo ritornassimo a Willinston, nel Nord Dakota. Mi chiesi, inoltre, perché Alice evitò di fornire a Carlisle un piccolo dettaglio: la morte di Aro e Caius.
Dopo aver posato il cellulare, Alice guardò me, Bella ed Edward, l’espressione disgustata.
“Dovete cambiarvi.”
Arrivammo a Forks la sera del giorno dopo. Pioveva e faceva freddo.
In aeroporto, a Seattle, trovammo Esme e Carlisle.
“Non riuscivo ad aspettare.” Si giustificò Esme. Non l’avevo mai vista così commossa e felice in vita mia. Stritolò Edward e Bella in lungo abbraccio attraendo la curiosità di tutti i presenti. Dopo stritolò me, tempestandomi di baci.
“Voglio tornare a casa.” Bella sussurrò, tra le braccia di Carlisle.
Quando la fitta foresta che proteggeva la nostra casa iniziava a presentarsi ai nostri occhi, Bella cambiò radicalmente.
Non parlava ma era visibile quanto fosse più serena. Sorrideva.
Continuava a stringere per mano sia me che Edward.

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Capitolo 39
*** Capitolo 38 - Prima Parte ***


Ciao a tutti!
Spero stiate bene e che vi stiate godendo questa estate. 
Questo nuovo aggiornamento non era in programma perché, in realtà, ancora sto scrivendo il capitolo!
Però, visto che l’ultima volta che ho aggiornato è stato a Gennaio, ho deciso di postare la prima parte del capitolo 38. 
Mi dispiace tanto del ritardo, ma gli impegni universitari sono tanti e quello che sto scrivendo è un capitolo molto importante e un po’ difficile da rendere a parole.
Spero mi perdoniate, vi auguro una buona lettura!
Bellamy.










Il viaggio da Seattle a Forks fu molto breve, brevissimo, ma, nonostante tutto e in un certo senso, liberatorio. 
Non fu una corsa verso una meta che presentava più incertezze che sicurezze, ma una rotta verso casa. 
Era arrivato il momento, finalmente. Non mi sembrava vero. Non vedevo l’ora di circondarmi da tutti i miei familiari e dalle accoglienti mura domestiche, senza nessuna soffocante preoccupazione premuta sul petto, senza nessun se ne chissà.
Senza ulteriori addii o estremi, distruttivi gesti.
Dovevo iniziare ad abituarmi all’impossibile idea che quei giorni oscuri erano ormai dietro alle mie spalle. Tutto, però, pareva così surreale, quasi finto, come se dietro una candida nuvola, la quale anticipava tranquillità, si nascondesse una nube nera.
Era calata la notte: Forks era solamente illuminata dalla luce artificiale dei lampioni e delle insegne. La foresta era buia, l’autostrada era troppo lontana per illuminarla. 
Sebbene fossimo ad Agosto, l’aria era fredda e il vento della sera mi frustavano il volto e i capelli.
Io l’accoglievo di buon grado. Mi era mancato quel leggero freddo umido che si incollava alla pelle sul collo, sui polsi e sulle guance. Mi sentivo viva. Era il miglior benvenuto che potessi ricevere. 
A ogni chilometro che percorrevamo io mi entusiasmavo della velocità di cui ero dotata, dell’adrenalina che pompava gioiosa nelle mie vene. Le gambe scattavano veloci, felici di rispondere ai miei comandi, toccando a malapena i rami bagnati degli alberi per spiccare verso i prossimi. A volte dalle mie labbra scoccava un sorriso estasiato, su di giri dopo aver passato l’ultimo anno della mia vita orribilmente.
Bella, vedendomi così felice - e con il pretesto di dover guidarmi nell’oscurità della notte perché io non vedevo molto bene -  mi sorrideva e stringeva ancora più forte la mia mano, rallentando la mia scatenata corsa nel buio.





Per ritornare negli Stati Uniti, Alice aveva affittato tre aerei privati, pilotati da Jasper, così da poter averli tutti per noi. Si giustificò dicendo che le occhiaie di Edward e Bella non la convincevano. Forse aveva previsto qualcosa e voleva prevenire qualche inutile danno.
In effetti, fu meglio non aver avuto altri passeggeri perché io ebbi un’altra crisi cocente che prese tutti alla sprovvista. Tutti tranne me ed Edward. 
Maledii il tempismo: cercai in tutti i modi di nasconderla, di nascondere i gemiti e i lamenti, di sopprimerla dentro di me. Non volendo dare spettacolo davanti agli zii e a Bella ed Edward, usai tutte le mie forze per fermare il fuoco che cresceva velocemente nel mio sterno, pronto a propagarsi su tutto il corpo. Ovviamente tutti i miei sforzi furono inutili.
Vedendomi, Alice, Bella e Jasper si allarmarono. Alice e Jasper mi fissarono, aspettando una conferma se fosse quello che pensavano. 
“Ha già preso la morfina.” Sussurrò leggero Edward, al di fuori della mia visuale, rassicurando gli altri tre vampiri attorno a me.
“Passerà.” Dissi io, raggomitolandomi sul sedile, lo sguardo puntato forzatamente verso cosa presentava l’oblò, evitando, di proposito, gli sguardi ansiosi di Bella, Alice e Jasper. 
Occupando il sedile vuoto, Bella si mise a sedere accanto a me. “Appena atterreremo, avvertiremo immediatamente Carlisle.” Sussurrò, allarmata. 
Mi accarezzò prima la fronte, poi i capelli. Io m’irrigidii e continuai a fissare il cielo nero, ostinata. Dovetti ammettere, però, che quel suo tocco freddo fu un toccasana per me, proprio quello di cui avevo bisogno. 
Stavo iniziando a innervosirmi e avevo voglia di piangere e rimanere da sola. Volevo soffrire per conto mio, senza dovermi preoccupare della preoccupazione stessa di altri tre vampiri.
Sentivo la gola prudermi, pronta, insieme agli occhi, a dare inizio a un’altra crisi, quella di pianto isterico. 
“La mia bambina.” Fece Bella, continuando ad accarezzarmi la lunga treccia e le tempie. La sua voce era angosciante, addolorata, sofferente. Cercai di ritrarmi da quel gesto, schiacciandomi contro il sedile.  
“Sei bollente.” Osservò, la voce piena di scioccante sorpresa, incurante delle mie reazioni, mentre premeva nuovamente la sua mano ghiacciata sulla fronte. Nel frattempo sentivo le mie guance bruciare.  
“Ho detto che passerà." Ripetei, le labbra mi tremavano, scuotendo la testa e guardando sempre il vuoto davanti a me. La sua voce mi suscitava gli stessi sentimenti che provava lei e questo mi agitava ancora di più. Perché nessuno la tranquillizzava? Il panico che stava provando non era abbastanza evidente?
“Carlisle non potrebbe fare nient’altro di quello che ho già fatto io.” Aggiunsi facendo un respiro pesante con la bocca.
Bella abbassò lo sguardo e corrugò la fronte, formando una v tra le sopracciglia. “Chi è stato?” Farfugliò.
Non le avrei, di certo, risposto in quel momento. L’unico che, in quel momento, sapeva era Edward. Alice e Jasper ancora non sapevano nulla della mia sventata morte da avvelenamento. Bella era sempre stata accanto a me e non aveva mai preso quel tipo di conversazione né con Edward né con gli zii.
Appoggiai la testa contro l’oblò. “Non ne voglio parlare adesso. Non voglio sentirvene parlare.” Minacciai io, a denti stretti, mentre le immagini di Nahuel aggrappato al mio polso scheggiavano nella mia mente. “Passerà in fretta.” Conclusi di dire quando una fitta incandescente colpì il mio petto, lasciandomi senza fiato e china in avanti.
Bella accarezzò di nuovo i miei capelli, le mie tempie e fin giù le guance. Cercai di combattere la necessità di appoggiare il viso sul suo palmo, alla ricerca di fresco sollievo. All’ennesima fitta al petto, fallii nel mio intento. Delle lacrime iniziarono a bagnare gli angoli degli occhi. 
“Posso fare qualcosa?” Chiese, appoggiando la mano sulla mia spalla e riportandomi la schiena sul sedile. La sua voce rifletteva in toni il panico che stava provando. 
Perché doveva, per forza, sentirsi in dovere di fare qualcosa? Mi faceva stare ancora più male. Socchiusi gli occhi, girandomi verso di lei, sempre raggomitolata. “Puoi starmi accanto.” Concessi, sperando che la mia risposta la calmasse una volta per tutte. 
“Certo.” La voce di Bella diventò miele, ma rimase, allo stesso tempo, incerta. Si posizionò meglio nel sedile, circondandomi le spalle con un braccio. Incastrata in quella posizione, dovetti appoggiare la testa sulla sua spalla fredda. Lei appoggiò il volto sul mio capo. M’irrigidii ancora di più, diventando una statua, ma Bella, stranamente, sembrò non preoccuparsi o domandarsi del mio atteggiamento. 
Nonostante il fiato corto e il dolore, il mio umore si trasformò, divenne calmo e concentrato a combattere il fuoco sul petto, effetto del dono di Jasper. Anche Bella si fece più quieta perché il suo corpo non era più teso come prima.
“Ne parliamo dopo, Alice.” Disse improvvisamente Edward. Alice non contraccambiò, forse stava formulando delle domande nella sua testa, pronta a esprimerle, ma Edward la fermò. 
Passai l’intero viaggio in quel modo, tra le braccia di Bella, aspettando che la febbre mi passasse, guardando il cielo cambiare colore davanti ai miei occhi e ascoltando, non continuamente, la conversazione tra Alice, Jasper, Edward e Bella. Alice aveva tanta voglia di raccontare ai due vampiri cosa si erano persi in tutto questo tempo. Edward non parlava molto. A volte Bella scoppiava a ridere, risate che, quando si voltava per controllarmi, faceva morire immediatamente di fronte alla mia catatonica partecipazione alla conversazione. Per quanto avevo ascoltato, capii che Alice stava facendo un riassunto degli ultimi ottanta anni circa, cioè da quando mi ero svegliata a casa dei Cullen senza nessun ricordo.




La casa dei Cullen era illuminata sia al pianterreno che al primo piano, come se anche lei volesse darci il benvenuto. 
Rosalie ed Emmett ci aspettavano sotto il portico. Emmett era euforico. Rosalie sfoggiava un sorriso tirato, ma i suoi occhi splendenti la tradivano.
“Oh, no!” Tuonò lui melodrammatico. “Ci sono Edward e Bella, ora è finita la festa in casa!” Scherzò lui, stringendo i due vampiri tra le sue possenti braccia, stritolandoli.
“Fratelloni che bello avervi di nuovo a casa!” Urlò alle orecchie di Edward e Bella. 
“Emm!” Esclamò Bella sfoderando un sorriso luminoso.
Rosalie non mi abbracciò, mi assalì. 
“Nessie! Sono stata così in pena per te, piccola mia!” Disse, la voce sommersa, tra i miei capelli. 
“Mi sei mancata tanto, zia.” Le dissi, stringendo il suo corpo freddo a me.
“Non quanto tu sei mancata a me!” Rispose, scoccandomi tanti baci sulle guance.
“Mi dispiace tanto.” Mi sussurrò all’orecchio. 
La sua voce nascondeva qualcosa, non era gioiosa quanto lo era quella di Emmett. Decisi di non preoccuparmene in quel momento. Dopo Edward e Bella, toccò a me essere stritolata dall’abbraccio di Emmett, il quale sfoggiava un sorriso smagliante e contagioso, e dalla sua felicità incontrollabile e infantile. Persi il conto di quante volte mi fece volteggiare in aria. 
“Nessie, Nessie, Nessie!”
“Ciao, zio Emmett!” Lo salutai io, ridendo. 
“Quante ne hai combinate in mia assenza, eh?” Domandò giocoso, stringendomi.
Gli feci un gran sorrisone. “Senza di te è stato molto noioso.” Sdrammatizzai pure io. 
Quando Emmett mi mise a terra, entrambi ci voltammo verso gli altri: Esme, Carlisle, Alice e Jasper, Rosalie ed Emmett, il quale si era appena unito a lei, gravitavano tutti attorno a Edward e Bella, scambiandosi abbracci e sorrisi. 
Bella era stretta tra Esme e Carlisle, al settimo cielo; Edward, il quale mostrava un sorriso sghembo e timido, era avvolto dalle esili braccia di Alice e cingeva, con un braccio, le spalle di Esme.
“Adesso devo trattenere di nuovo i miei pensieri!” Lamentava Emmett dando una pacca alla spalla di Edward.
“Non l’hai mai fatto, Emmett.” Gli fece notare tranquillo lui. 
Tra me e quel gruppo ci divideva poco meno di due metri, ma non potei non notarlo: davanti ai miei occhi si era appena ricostituita una bolla di realtà che si era frantumata, presumevo, tantissimo tempo addietro. 
Una realtà, una storia, dei ricordi che io non conoscevo, che non potevo condividere, che non avrei mai potuto comprendere o immedesimare.
Non potevo evitare di vedere i loro sorrisi, i loro occhi illuminati da una gioia mai vista prima in loro. Una sorta di calma, pace, tranquillità e sollievo gravitava intorno a loro, come se si alimentassero di queste. I Cullen avevano la stessa espressione stampata sul volto: una di gioia che, però, non nascondeva cosa avevano vissuto insieme in passato.
Davanti a me delle memorie si erano appena incontrate di nuovo. I Cullen si erano finalmente riuniti. 
Io non avevo memoria, non potevo partecipare a quella riunione. Era la loro, non la mia. 
Voltai le spalle ai vampiri ed entrai a casa mia, liberandomi dalle scarpe e dalla giacca che indossavo. Estrassi il medaglione dalla tasca e lo tenni in pugno.
Mi ritrovai nel salone, dopo tanto tempo, e fu un'esperienza sconvolgente tanto estranea: riscoprii i dettagli che caratterizzavano l’ampia stanza, individuando velocemente il tocco di Esme e Alice. Tutto, i quadri, i vasi, le decorazioni artistiche, sembravano volteggiare intorno a me come se mancasse la gravità. 
In qualche modo, mi sentivo fuori posto, non sapevo come muovermi. Stranamente sentivo il bisogno di riadattarmi quando credevo che questa sarebbe stata la cosa più facile da fare, qualcosa neanche da considerare.
Mi sentivo fuori posto, non sapevo che fare. Ero ritornata in uno dei tanti posti che consideravo la mia dimora. Pensavo che avrei abbracciato pure i muri, ma questo non avvenne.
Al mio fianco c’era il pianoforte, sopra di questo vi era appoggiato il mio violino, notai che i miei spartiti erano ancora messi alla rinfusa come li avevo lasciati. Mi sedetti sullo sgabello e mi misi a sistemarli con cura mentre una strana adrenalina bolliva nelle mie vene insieme alla necessità di tenere occupata la mia mente. Mi chiesi se Rosalie avesse tenuto il pianoforte accordato in mia assenza, quando erano ancora a Forks. 
La porta si aprì, sentii dei passi leggeri. “Nessie?” Mi chiamò Esme, alle mie spalle. 
Mi voltai verso di lei e sbattei le palpebre: un massiccio muro formato da otto persone si era sviluppato davanti a me. Bella fece un passo avanti, superando Esme, ma non disse nulla, lo sguardo perplesso. 
La mia testa si svuotò, divenne un secchio vuoto. Con voce monocorde, e fissando il parquet a terra, dissi: “Vado a letto.”
“Proprio ora?” Domandò Bella, la voce era incerta, mordendosi il labbro inferiore. Teneva le dita intrecciate vicine allo stomaco. “Siamo tornati adesso.” Mi fece notare, quelle parole facevano sottintendere altri significati.  
Mi alzai dallo sgabello e iniziai a dirigermi verso le scale. “È notte.” Le feci notare.
“Nessie, potresti restare un altro po’?” Domandò Carlisle con voce calma, quasi diplomatica, come se avesse avuto davanti a sé qualcuno con cui contrattare. “Vorrei controllare te e la tua cicatrice, sono preoccupato.”
Come aveva promesso in aereo, quando mettemmo piede a terra, a Seattle, Bella avvisò prontamente Carlisle sul mio avvelenamento. Lui ne fu sconvolto, così come lo fu Esme. Fu ancora più sconvolto quando gli dissi che le crisi continuavano da quasi un mese ormai. 
Misi un piede sul primo gradino. “Domani, ora sono stanca.”
Carlisle strinse le sue labbra in una linea. Non nascose il fatto che era contrario, ma decise di non obiettare e questo mi sorprese.
“Possiamo accompagnarti?” Domandò Bella, dal tono della voce tirato capii che aveva esitato a domandarmelo e che, utilizzando il verbo al plurale, si riferiva anche a Edward.
La guardai negli occhi. “No, una buona serata.” Risposi e salii le scale a passo pesante, trascinandomi e ciondolando. 
Superai il corridoio con due lunghe falcate, scappando dal silenzio dietro alle mie spalle, e mi chiusi dentro la mia stanza, falciata dalla luce della luna. Dal piano di sotto sentii del movimento, ma nessuno parlava.
Mi gettai sul mio letto morbido, la faccia premuta contro il copriletto, gettai il medaglione accanto. 
Avevo mal di testa, non pensavo a nulla, la mia mente sembrava una TV che non riusciva a trasmettere nulla. Rimasi in quella posizione per qualche minuto, in allerta, attenta a captare qualsiasi cosa che i Cullen ed Edward e Bella, al piano di sotto, potessero dire. Mi aspettavo che parlassero, no? Che si raccontassero qualcosa, che continuassero i loro festeggiamenti o che si dicessero quanto si erano mancati.
Non ero tranquilla, non ero tranquilla a casa mia e questo mi rendeva ancora più tesa. 
Mi alzai nello stesso momento in cui la mia mente mi ricordava una cosa. Accesi il paralume sopra il comodino e lo aprii. Al suo interno conteneva tutti i fogli dove ero solita riportare il mio incubo ricorrente: montagne, pelliccia (animali?), una radura, uomini e donne con mantelli scuri, parlavano.
Adesso tutte quelle immagini che il mio subconscio mandava mi risultavano solo senza senso, senza nessun significato importante del quale valeva la pena cogliere. 
Non avevo più bisogno di ricorrere ai miei incubi per trovare il mio passato, passato cercato quando vivevo un presente di bugie. 
Strappai tutti i fogli con forza, riducendoli in polvere che cadeva ai miei piedi.  
Dai fogli all’interno del comodino, passai alla lavagna di sughero nascosta dietro al poster di un paesaggio accanto alla porta. Da lì strappai tutti gli altri foglietti che avevo attaccato, rendendo anch’essi polvere. Distrussi pure la lavagna, digrignando i denti con rabbia, piegandola più volte come se fosse un libro e lasciandola cadere a terra producendo un tonfo sordo. 
Mi sedetti anch’io a terra, in mezzo alla carta e al sughero, portandomi le gambe al petto. Appoggiai la fronte sulle ginocchia, mi coprii la testa con le mani, tremavano, e iniziai a piangere.
Dal piano di sotto, sentii dei rumori leggeri di passi farsi sempre più vicini mentre, lentamente, avanzano sulla scala. 
Mi avevano sentita, ovviamente, e un’onda di vergogna mi investì. “No.” Gemetti, la voce sommersa dalle lacrime. 
Il rumore si quietò.





Il canticchiare allegro degli uccellini e il rumore di pneumatici contro la ghiaia mi svegliarono. 
Mi ero addormentata a terra. Piansi fino a quando non crollai per la stanchezza. 
Mi avvicinai alla parte della mia stanza che era costituita da alte finestre anziché da muri e guardai in basso: dal grande fuoristrada uscirono Julian, il capo branco dei licantropi Quileute e due signori, anziani, mai visti prima. Dal colorito scuro e baciato dal sole, supposi che anche loro facessero parte della tribù.
Li accolse Carlisle, i palmi verso l’alto, insieme a Esme. Con mio grande stupore, vidi Carlisle abbracciare i due anziani e loro ricambiare. Questi, dopo, salutarono con affetto Esme.
“Siamo felici di rivedervi.” Disse uno dei signori. Non era guardingo: aveva un sorriso sincero e contento, gli occhi erano contornati da profonde rughe che, però, non stonavano con la presenza giovanile che l’uomo ancora aveva. L’altro, accanto a lui, sembrava ricambiare il sentimento. 
“Anche noi siamo molto felici di ritornare qui, Seth, amico mio, dove tutto è iniziato: Bella ed Edward sono tornati.” Annunciò Carlisle, al settimo cielo.
Il signore, che capii chiamarsi Seth, spalancò la bocca e sgranò gli occhi, stupito e meravigliato.
“Tornati?” Ripeté Julian. 
“Sono qui?” Domandò l’altro anziano, lanciando occhiate dietro le spalle di Carlisle, all’interno della casa. 
“No, hanno sentito la necessità di allontanarsi per stare da soli. Sono partiti questa notte stessa, non sono lontani, torneranno presto.”
Non potei vedere l’espressione di Carlisle, ma il suo tono di voce, che divenne improvvisamente cupo, mi suggerii che questa si allineò all’umore che la sua voce suscitava. I Cullen erano stati informati dei sentimenti alterati di Edward. 
“Nessie?” Domandò l’altro anziano. Sobbalzai. Come faceva a sapere il mio soprannome? Sentendolo nominare, mi allontanai dalla finestra per evitare di farmi notare. 
“Qui con noi. Sta riposando.” Rispose Carlisle, la voce si rese più leggera. Ero sicura che già Carlisle, e tutti gli altri, avessero capito che ero sveglia. 
“Siamo contenti che la nostra Nessie si sia ricongiunta almeno con i suoi genitori.” Sospirò Seth, triste e malinconico. “Siamo contenti che i nostri amici sono ritornati. Carlisle, di’ a Bella ed Edward che li aspettiamo alla riserva, a braccia aperte. E anche Nessie, ovviamente.”
“Certamente. Grazie mille, Seth, per vegliare sempre su di noi.” Disse Carlisle, era commosso.
“Siete parte della famiglia, Carlisle. Ci vediamo presto, amico mio.” Si congedò Seth. 
“Esme, Carlisle.” Salutò l’altro anziano.
Sentii le portiere della vettura aprirsi e chiudersi. Avviarono il motore e partirono. 
Parte della famiglia? Noi? Avevo tantissime domande per la testa, ovviamente, ma non sentivo l’impellente bisogno di dover trovare loro una risposta immediatamente.
Fissai per qualche minuto il punto in cui i Quileute sparirono dalla mia visuale. Poi la mia attenzione venne catturata dal verde sgargiante degli alberi, il sole splendente che l’illuminava e il leggero suono del fiume in lontananza.
Prima di raggiungere i Cullen, decisi di farmi una doccia, avevo bisogno di sciacquare via tutta l’angoscia dei mesi passati, e indossare qualcosa di più estivo, che riflettesse la vivacità della stagione. Dopo aver scelto un vestito giallo che Alice aveva disegnato per me, scesi in salone dove non trovai, stranamente, nessuno.
“Nessie, siamo qui.” Chiamò Rosalie dalla sala da pranzo. M’irrigidii: perché erano lì? La sala da pranzo, dove si trovava un grandissimo tavolo ovale realizzato con il legno più pregiato, si utilizzava solo per discutere o, peggio, litigare.
Li raggiunsi: erano tutti in piedi tranne Esme la quale era china su delle planimetrie. Si era già messa a lavoro? 
Mi fissavano, cauti, in attesa che dicessi qualcosa. 
“Ciao.” Salutai. 
“Ciao, piccola.” Salutò Emmett. 
Rosalie si avvicinò e mi strinse a lei per qualche secondo: “Dormito bene?” 
Non fece riferimento al mio momento di debolezza precedente al mio sonno e, per questo, le fui grata. “Sì, grazie, perché siete qui?” Indagai. 
“Esme sta lavorando a un nuovo progetto e stavamo dando un’occhiata in attesa che tu ti svegliassi.” Disse Alice, contenta. 
“Quale progetto?”
“Sorpresa!” Esclamò Esme, all’unisono con Alice, giuliva, giocherellando con la matita tra le dita. Le sorrisi perché il suo umore era contagioso. Chissà cosa stavano tramando.
“Oh, okay. Aspetterò.” Feci io, guardandomi attorno e giocherellando con le pieghe del vestito corto. 
“Se stai cercando i tuoi genitori, non ci sono.” Mi Informò Rosalie, con una punta di acidità. 
L’atmosfera nella stanza si fece improvvisamente fredda, polare.
“Rose!” La richiamò Emmett, passandosi una mano tra i capelli. 
“Cosa c’è?” Domandò lei, sistemandosi meglio i capelli sulle spalle. “Le ho solo detto che se ne sono andati.”
Esme le lanciò un’occhiataccia di rimprovero, Alice alzò gli occhi al cielo e incrociò le braccia: “Non se ne sono andati.” Sospirò. “Torneranno presto, Nessie.” Mi rassicurò.
Scossi la testa e strinsi le mani in due pugni. “Possono fare quello che vogliono. Dopotutto, non è la prima volta che se ne vanno, no?” Dissi io, sarcastica, guardando i miei piedi nudi sul parquet. 
“Renesmee Carlie!” Questa volta Esme rimproverò me.  
“Ha ragione però.” Ammise Emmett con una leggera sfumatura di ilarità nella voce. 
“Emm!” Fece Esme, era indignata. 
Sospirai. “Vi hanno raccontato tutto?” Domandai. 
“Sì, Edward ci ha informati di tutto.” Rispose Carlisle, alle mie spalle. 
“Tutto, tutto?” 
“Tutto, tutto.” Ripeté Jasper.
“Pure che Aro e Caius sono morti? Finiti? Stecchiti?”
“Sì.” Rispose di nuovo Carlisle, un po’ turbato, ma i suoi tratti erano irrigiditi da una rabbiosa freddezza. 
“Bene.” Borbottai. “Sappiate solo che volevo proteggervi.” Sussurrai, nascondendomi il volto con i capelli, ancora chino verso terra. 
Carlisle appoggiò una mano sulla mia spalla la quale strinse delicatamente. “Lo sappiamo. Sei stata molto coraggiosa e forte, Nessie.”
“Molto, tesoro.” Concordò Esme, l’indignazione l’aveva subito abbandonata.
“Devi dire a me e Jasper come hai ucciso quei lupi.” Disse Emmett, pregustandosi il momento in cui gli avrei fornito tutti i dettagli.
“Emmett!” Esclamò Esme. “Basta!”
Emmett la guardò, la fronte corrugata. “Ho scommesso con Jazz duecentocinquantamila dollari su quale tecnica Nessie ha utilizzato, la mia o la sua.”
Il volto di Esme, il quale si fece viola, fece capire a Emmett che non era meglio continuare. 
“Non è qualcosa di cui mi vanto, io non volevo farlo. È stato terribile.” Ammisi, il tono di voce si fece cupo e una nuvola di tristezza spuntò sopra la mia testa. Partecipando alla battaglia contro i Figli della Luna aveva semplicemente dato man forte alla vigliaccheria di Aro. 
Rosalie, accanto a me, mi strinse a sé nuovamente, non dicendo nulla. All’abbraccio si unì velocemente anche Esme.
“Ci dispiace tanto, tesoro.” Disse. 
Quando l’intreccio di braccia si sciolse, dissi: “Non cerco spiegazioni da voi… ma voglio chiedervi una cosa.”
“Qualsiasi cosa, Nessie.” Concesse Alice. 
“Non mi avete mai detto nulla perché l’hanno voluto loro?” Domandai. 
Tutti i volti dei Cullen si trasformarono in grandi fogli bianchi. Tutti eccetto quello di Rosalie la quale mi rispose prontamente: “Sì. Sappi, Nessie, che io non sono mai stata d'accordo."
"Sì, Rose, non sei mai stata d'accordo. Sei stata la più brava qui. Complimenti." Disse ironica Alice, stizzita, non nascondendo il fastidio che stava provando.
"Non voglio incolparvi…" iniziai, "avete fatto quello che vi è stato chiesto." Conclusi a voce bassa, cercai di nascondere un mugugno che nacque dalla mia bocca. 
Calò il silenzio, sembrava che tutti noi stessimo riflettendo, persi nei nostri pensieri.
"Chi vuole andare a caccia?" Domandai, mettendo fine a quel silenzio che stava diventando troppo imbarazzante per me. 
"Nessie." Mi chiamò Carlisle alle mie spalle. 
Annuì al silenzioso appunto di Carlisle. Non potevo più posticipare la visita dal dottore. 
"Oh, va bene, certo." Farfugliai mentre salivo le scale insieme a Carlisle. 
"Ci andiamo dopo, Nessie!" Urlò Emmett dalla sala da pranzo.
Subito dopo aver fatto una piccola sosta nella mia camera, Carlisle chiuse la porta del suo studio.
“Devo farti vedere questo.” Gli dissi, porgendogli la fascia scura che il mezzovampiro Erik mi aveva gentilmente regalato. Ora erano i vecchi, precari fili di acciaio e ferro a evitare che il mio stomaco si dividesse in due parti.
Carlisle prese la fascia scura tra le sue mani, girandosela tra le dita, scrutandola con la fronte aggrottata, gli occhi concentrati divennero due pozzi scuri. Mi mandò uno sguardo interrogativo. 
“Prima della guerra”, iniziai a spiegare, “me l’ha dato un altro ibrido. Lui non è velenoso, stranamente. Mi ha detto che l’ha creata suo padre dopo che l’ha aperto in due per pura curiosità.”
“Curiosità?” Domandò Carlisle, i suoi occhi luccicavano di incredulità. 
“Sì, Erik mi ha detto che suo padre vuole creare una razza superiore di mezzivampiri o una cosa del genere.”
Carlisle sospirò. “Questa è l’ennesima dimostrazione che neanche i vampiri sono immuni alle manie di grandezza.” Continuò a esaminare la grande fascia. “Non capisco di quale materiale sia fatta.” 
“È un segreto, purtroppo, ma vorrei continuare a utilizzarla. È molto resistente.”
Carlisle mi sorrise. “Certo. Vorrei solo prendere un campione per fare qualche ricerca sui materiali, se per te va bene.” 
“Ok.” Concordai. 
Mentre misurava il mio peso, controllava lo stato della mia pelle e delle ossa, passava un fascio di luce negli occhi, Carlisle mi poneva delle domande circa le conseguenze dell’avvelenamento. 
Quando gli risposi, non reagì ai miei insistenti riferimenti e analogie con l’avvelenamento precedente, quello di molti anni fa. Procedeva con altre domande: “Sei riuscita sempre ad assumere la morfina?”
“Sì, fortunatamente.” Risposi, smorzando un sospiro pesante.
“Tuo padre mi ha detto che sei stata aiutata.” disse Carlisle, apparentemente tranquillo, invitandomi a sdraiare sul lettino. Avvicinò accanto a sé un carrellino con tutto il materiale per sostituire i fili di metallo. 
Mi irrigidii ascoltando le parole di Carlisle. “Sì, sono stata molto fortunata.” Dissi. 
“Ha pure detto che non riesco più a utilizzare il mio dono?” Lo rimbeccai. 
Carlisle s’immobilizzò e i suoi occhi saettarono verso i miei. “Cosa?” Domandò. 
Appoggiai una mano sul dorso della sua e rimasi in attesa di una sua reazione. 
Il silenzio della casa coincideva con il silenzio della mia mente: Carlisle non sentì nulla.
“Da quando non riesci a utilizzare il tuo dono?” I suoi occhi tornarono a essere scuri come il fondo di un pozzo. 
“Da quando mi sono svegliata.” Risposi, mentre lui iniziò minuziosamente a estrarre gli spessi fili in acciaio e ferro. Ansimai, faceva un po’ male. 
“Edward non te l’ha detto?”
Carlisle scosse la testa. “No, Nessie.” Mi rispose, lo sguardo interrogativo, come se si stesse chiedendo perché Edward non glielo avesse comunicato. 
“Forse non lo sa nemmeno lui.” Feci io, ma mi sembrava molto improbabile. Era uno dei miei pensieri fissi, lo avrò sicuramente letto nella mia mente. Carlisle non mi rispose, perso nei suoi pensieri e nel suo lavoro. 
“Secondo te è possibile che sia colpa del veleno?” Domandai infine, spezzando una quiete che si era formata per qualche attimo. 
“Riflettendoci velocemente, lo sospetto.” Sospirò Carlisle, teneva la fronte aggrottata e i suoi occhi inseguivano le sue dita che fluttuavano sopra il mio stomaco macchiato di rosso scuro. 
“Sospetti?”
Carlisle aspettò di allontanare gli ultimi centimetri di acciaio dalla mia pelle per rispondere, i suoi occhi e il suo volto limpido e sincero incontrarono i miei. 
“Sei stata già avvelenata, Nessie, quando eri molto piccola. Quando ti sei svegliata, non ricordavi nulla. Temo ci sia un collegamento.” Rispose. Notai una certa rilassatezza nei suoi tratti quando parlò, come se adesso si sentisse libero di parlare quando prima era impossibilitato. 
Spalancai la bocca. Come sospettavo già da molto tempo prima, le parole di Carlisle mi portarono a confermare le mie supposizioni: avevo perso il mio dono. Solo il tempo poteva dimostrarmi diversamente e questo non mi aveva ridato tutti i ricordi persi. Le poche speranze che mi rimanevano si sbriciolarono del tutto.
“Ma perché è successo? Quando è successo?” Esclamai, la voce stridula. “No!” Continuai subito dopo, impedendo a Carlisle di darmi una risposta, “Non voglio saperlo da te!” Gli dissi coprendomi il volto con un braccio. 
"Renesmee, pensi che siano stati i tuoi genitori ad avvelenarti?" Domandò Carlisle.
Rimasi in silenzio.
“Renesmee, non è come pensi.” Disse estremamente serio.
“Sì, sicuramente.” Concordai, sarcastica. “Chissà cosa mi è successo.” Borbottai.
“È comprensibile che tu voglia parlare prima con i tuoi genitori. È comprensibile che tu ti senta frustrata, ma non lasciare che sentimenti come la rabbia o il risentimento alterino ciò che pensi di loro, come li vedi.” 
Colpita e affondata. Lo sfogo della sera precedente era stato così evidente da permettere a tutti i Cullen di collegare tutti i puntini? Oppure erano stati Edward e Bella che, compresi i miei ultimi stati emotivi, avevano versato i loro dubbi sugli altri?
Decisi di non porre a Carlisle queste domande.  
Sbuffai cercando di cacciare via il fastidio che stavo provando. “È più facile a dirsi che a farsi, sai? Loro non ti hanno mentito.” Avevo voglia di incrociare le braccia, ma non potevo. 
“No.” Ammise Carlisle. “Ma anche noi ti abbiamo mentito, Renesmee. Abbiamo tenuto il loro gioco.” Continuò Carlisle, tranquillo. I suoi occhi erano puntata in maniera ostinata sul mio stomaco, i grandi e lunghi aghi e i metalli sporchi di sangue.
Scossi la testa. “Non è la stessa cosa.”
“Come sarebbe, allora?”
“Voi… avete solo rispettato un impegno… Rosalie era contraria, a quanto pare, no? Ma l’ha fatto comunque.” Risposi. “Loro… è tutto partito da loro, presumo… Lo hanno sempre fatto. Non so perché mi hanno mentito.”
“Per il nostro stesso motivo.” Disse Carlisle, mi regalò uno sguardo affilato.
Puntai i miei occhi verso la chioma bionda di Carlisle. “Lo stesso?” Domandai. “Sicuro?”
Nonostante il mio crescente nervosismo, la pacatezza non abbandonò mai Carlisle, come sempre. “Sì, la ragione è stata proteggerti.”
Sbattei le palpebre. Questa proprio non me l’aspettavo. “Proteggermi?”
“Proteggerti.” Ripeté Carlisle. 
“Da chi? Da loro?”
Carlisle sorrise e scosse la testa. “I tuoi genitori sono le ultime persone dalle quali dovremmo proteggerti, Nessie.”
“Menomale.” Dissi io, ironica.
Carlisle mi accarezzò la guancia con il dorso di una mano e mi fece un sorriso pieno di affetto paterno. “Hanno sbagliato, è vero, Nessie. Hai ragione. Tutti noi abbiamo sbagliato. Sai quanto è importante per noi tenerti al sicuro e non l’abbiamo fatto. Abbiamo fallito. Hai tutte le ragioni di essere arrabbiata, ma non è come pensi. Per favore, fallo per me. Dai ai tuoi genitori la possibilità di spiegarsi.” L’ultima parte della sua frase uscì come una supplica. La sua onestà mi colpì, ma non dovevo esserne sorpresa.
Ad ascoltarlo mi sentii in colpa, ma non sapevo perché. Non ero io a dovermi sentire in colpa. 
Volevo credergli, avrei tanto voluto credergli. 
“È difficile.” Ammisi. 
“Lo so. Ma se non la pensassi così, Nessie, non avrei motivo di dirti questo.” 
“Vi sono mancati tanto.” Constatai. 
Carlisle mi guardò fisso negli occhi per qualche attimo. “Sì.” Ammise. “Molto. Per noi, sono dei figli, dei fratelli. Hanno rinunciato a loro stessi, hanno abbandonato tutto e tutti per assicurare la tua sicurezza. Non solo la tua, anche quella nostra.”
Volevo credergli, avrei tanto voluto credergli, ma non ci riuscivo. 
Rimanemmo per qualche secondo in silenzio. Io ero persa nei miei struggimenti interiori, Carlisle perso in quelli che presumevo fossero amari e tristi ricordi. 
Dopo aver raccolto, direttamente dal mio ventre, del sangue in una provetta e ripulito i lembi di pelle, Carlisle mi disse: “Non vuoi essere più cucita.”
Feci un sorriso imbarazzato “Io preferirei di no, ma lascio decidere a te.”
Anche Carlisle ricambiò il sorriso con lo stesso sentimento. “La fascia sembra essere una soluzione meno scabrosa ai fili di ferro. Se dovesse iniziare ad allentarsi, dimmelo subito. Io farò delle ricerche sui materiali.” Disse mentre mi aiutava ad alzarmi. Una sua mano, sporca di sangue, era premuta sullo stomaco per tenere ferma la cicatrice. Mi diede un bacio sulla fronte prima di avvolgermi con la fascia.




Carlisle m’impose di riposare fino a quando la serie di crisi non sarebbe terminata - visto che quest’ultima si stava protraendo più a lungo della prima, non riusciva a dare una previsione di quanto sarebbe durata - e, per poter velocizzare l’aumento di peso e la ripresa di tutte le mie forze, dovevo andare a caccia ogni giorno. 
Non mi riposai nel vero senso del termine: incominciai a plasmare la mia nuova routine come quella vecchia che avevo creato con i Cullen tempo addietro. Anche loro sembravano voler ricominciare dalla vita che avevano lasciato in sospeso da quando partii per Volterra la prima volta.
Cercavo di non rimanere mai da sola: avevo troppo paura di abbandonarmi al ricordo degli eventi passati e rimuginarci sopra. Dopotutto, ero stata in solitudine per molto tempo, avevo bisogno di compagnia e di distrarmi. Non volevo perdermi nei meandri della mia mente. 
Occupavo le mie giornate con le attività più disparate e fantasiose insieme agli zii; avevo ripreso a suonare il pianoforte, il violino e il theremin riempiendo di musica l’intera casa e parte del bosco di fronte; ripresi a dipingere con Esme e ad assecondare tutte le frivolezze di Rosalie e Alice. 
Due giorni dopo il mio arrivo, i Denali vennero a farci visita, troppo elettrizzati dal nostro ritorno e da quello di Edward e Bella.
Anche loro sapevano che i miei genitori, per tutti quegli anni, erano vivi e vegeti a Volterra.
Anche loro avevano mantenuto il segreto a mio discapito. Quando lo venni a sapere, dovetti trattenere a stento la mia rabbia. Una rabbia della quale consideravo Edward e Bella colpevoli. Jasper percepì il mio cambio d’umore e con il suo dono mi calmò.
Arrivarono soprattutto per dare il bentornato ai due vampiri e non nascosero la delusione quando videro che non erano a Forks con noi. Ma l’agghiacciante shock prese il posto della delusione nei loro volti quando seppero della alienante situazione di Edward. 
“Impossibile…” Disse Tanya. “Assurdo, no. Come ha potuto fare una cosa del genere?”
“L’ha chiesto lui? Ha fatto un patto con Aro? Senza dire nulla a Bella o Renesmee? Cosa credeva di fare così?” Domandò Kate, scioccata.  
“È stato sconsiderato.” Borbottò Esme, ancora provata dagli ultimi eventi. “Il mio ragazzo.”
“È tipico di Edward.” Sbuffò Rosalie, parve dire la cosa più ovvia esistente al mondo. 
“È un gesto così estremo.” Commentò Carmen, sconvolta, cercando l’approvazione nello sguardo di Eleazar. “Un patto con Aro?” Ripeté. 
“Solo una persona che ama profondamente qualcun altro potrebbe fare qualcosa del genere. Edward l’aveva già dimostrato, quando Bella era ancora umana.” Rifletté Eleazar. Eleazar, ex componente della Guardia dei Volturi. Era molto toccato dalla notizia della morte di Aro e Caius. Notizia che si diffuse a macchia d’olio in poco tempo.
Si perse con Carlisle in una lunga conversazione circa il futuro dei Volturi come guardiani di tutti i vampiri e dell'ingombrante consapevolezza che una piccola cerchia, tra loro, creava degli ibridi con gli umani. Eleazar stava già borbottando un prossimo viaggio a Volterra, una visita al vecchio amico Marcus, per saggiare la situazione corrente. Considerati gli ultimi eventi, non prospettava un futuro roseo per i Volturi. 
“Continuo a credere che abbiamo bisogno di una autorità. Se non lo sono i Volturi, dovrà diventarlo qualcun altro.” Disse Eleazar. 
“Chi?” Domandò Carlisle. “Quello che hai appena detto è musica per le orecchie dei Rumeni.”
Eleazar annuì. “I Rumeni sono ancora più antichi dei Volturi e altrettanto autorevoli.”
“Pensi che Marcus non sia dello stesso livello?”
“A Marcus piace il potere, ma non è pratico come lo erano Caius o Aro. A lui non importa l’azione. Rimaneva con i suoi fratelli solo perché era obbligato. Aro uccise la sua compagna, sua sorella, per costringerlo a restare. Non è così dispotico.”
“Vorresti un altro despota?” Domandò Carlisle.
Eleazar scosse con forza la testa. “No, assolutamente no. Ma qualcuno che faccia rispettare le regole. Cosa ne sappiamo di questi vampiri che creano eserciti di ibridi? Pensi che Marcus riesca gestire tutto, indipendentemente dalla Guardia? Cosa sappiamo del suo nuovo adepto? Quel vampiro neonato? Si dice che il suo dono è molto potente…”
“Un gesto del genere…” Iniziò Tanya, profondamente toccata, “non me lo sarei aspettata neanche da Edward.” Scandì pesantemente il suo nome. Poi mi lanciò un fastidioso sguardo compassionevole.
“Edward è sorprendente, in tutte le circostanze.” Concordò Carlisle, ancora nel vivo della discussione con Eleazar, il suo sguardo era puntato su di me. Spostai il mio verso il camino spento. 
Non ero a mio agio. Non seppi come contribuire alla conversazione: non potevo che ripetere che avevo solo scoperto che loro due fossero i miei genitori e che, per una serie di violenti eventi, riuscirono a liberarsi dalle catene di Aro e ritornare a casa con me, Alice e Jasper.
Non potevo neanche dichiararmi favorevole o contraria alle parole dei Cullen e dei Denali. Loro conoscevano Edward e Bella, io no. Io conoscevo una versione di loro, brutta o bella che fosse, falsa o vera. Mi limitavo ad ascoltare le loro parole con grande scetticismo.  
“Vedrai,” mi disse Carmen cingendomi le spalle, “i tuoi genitori sono sensazionali, due figure incredibili che hanno sorpreso, con la loro storia, tutto il mondo dei vampiri.”
Le risposi con un sorriso incerto, dispiaciuta di non crederle veramente. 
Non era la prima volta che sentivo degli elogi nei confronti dei miei genitori biologici. I Cullen ne parlavano in continuazione e ognuno voleva raccontarmi cosa pensavano di Edward e Bella: i loro pregi, cosa amavano di loro, come avevano influenzato le loro vite e tanti aneddoti. Capii che si sposarono quando ancora Bella era umana e che il matrimonio venne celebrato proprio a Forks, nel boschetto dietro casa nostra. Dopo qualche mese, inaspettatamente, nacqui io ed Edward - Alice e Rosalie assistettero al parto e confermarono che fu proprio Edward a farmi nascere - decise di iniettare a Bella il suo veleno direttamente nel cuore per salvarla dal parto mentre faceva gli ultimi battiti umani. La sua fu una scelta estrema. Fu per questo motivo che, a differenza di tutti gli altri, io avevo ancora una madre.
Chiesi a Esme come potevano cambiare le cose dal momento che Edward non provava più niente nei suoi confronti e in quelli degli altri. 
“Sono certa che, nel suo cuore, ci ama ancora. Credo che non ha mai smesso di amare te e tua madre. È mosso dall’amore che prova per voi due. Non può farlo, basta guardarvi. Semplice.” Rispose, sicura di sé, accarezzandomi la guancia. 
I Cullen erano entusiasti quando si perdevano nei loro ricordi. Lo erano ancora di più quando riportavano questi in parole, rendendoli come eventi che erano stati appena vissuti, tangibili.
Non vedevano l’ora, erano impazienti che pure io conoscessi Edward e Bella così come li avevano conosciuti loro. 
I Cullen erano convinti, erano fiduciosi che tutte le tessere del puzzle, in tutti gli ambiti, si sarebbero ricomposte perfettamente.


 

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