Negli occhi la fame.

di La Chiave di Do
(/viewuser.php?uid=145783)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** FLORENCE (Parte prima) ***
Capitolo 2: *** FLORENCE (Parte seconda) ***
Capitolo 3: *** MITCHELL (Parte prima) ***
Capitolo 4: *** MITCHELL (Parte seconda) ***



Capitolo 1
*** FLORENCE (Parte prima) ***


FLORENCE
(Parte prima)

 

 

Per il mio sangue è già
già dipendenza.

 

Come previsto, la serata si prospettava essere la più noiosa della sua intera esistenza: per qualche strana ragione la concezione di divertimento di Nathalie era sempre radicalmente opposta alla sua. Non che fosse cattiva o disonesta nel giurarle che quella volta sarebbe stata finalmente quella giusta, che sarebbe stato uno sballo assoluto. Era disattenta, questo sì, ma non era volontariamente cattiva.

O forse non era neppure disattenta. Forse era solo autenticamente stupida.

 

***

 

Avrebbe dovuto capirlo dal primo momento: quando aveva varcato la soglia dell'appartamento e quella sconosciuta le si era gettata fra le braccia strillando prima ancora di presentarsi, stritolandola fra due ali di stoffa fucsia prima di chiocciarle in un orecchio: «Tu devi essere Flora!».

«È Florence» riuscì a bofonchiare non appena riuscì a incamerare abbastanza aria per parlare.

Nathalie aveva alzato le spalle avvolte nel foulard fucsia allontandosi di un passo da lei, spostando una quantità di profumo dolciastro abbastanza lontano da permettere a Florence di respingere la nausea: «Pensavo fosse una città francese!» aveva detto. Ecco, lì avrebbe dovuto capirlo.

Nathalie era di un biondiccio da tinta scadente, con una carnagione scura quanto la sua era bianca, decisamente troppo truccata per accogliere la nuova coinquilina.

Tutto sommato però l'appartamento era pulito e ordinato, il bagno e la cucina dovevano essere stati sistemati da poco, le pareti erano tinteggiate di un panna caldo, accogliente; il salotto brillava alla luce aranciata delle candele.

«Ti ho aspettata per cenare!» aveva cinguettato la sconosciuta portandola in cucina per mano «penserai dopo alle borse!». Nathalie aveva preparato pasticcio di carne con purè di patate, pomodori arrosto, pane tostato e insalata di cavolo; dal forno saliva l'aroma del crumble di mele. No, una persona del genere non poteva essere cattiva.

 

***

 

Eppure seduta sul divanetto del pub, con Nathalie avvinghiata a un perfetto sconosciuto come un calamaro gigante alla prua di un galeone alla sua sinistra e Jason, suo prolisso e mediocre compagno di corso alla destra, non era in grado di formulare pensieri propriamente affettuosi sulla sua coinquilina. Probabilmente la sua mente vagava fra i propositi omicidi e le possibilità di abbattere la parete alle sue spalle con il solo ausilio del lobo occipitale.

«Non credi sia semplicemente fan-ta-sti-co!?»

In qualche modo quella domanda le permise di riemergere dagli abissi della sua mente.

«Ma certo Jason, certo» sibilò «fantastico quasi come starmene in questo posto inutile con due moscardini in amore e una persona che non è in grado di capire che se dopo cinquantatré minuti che mi sta parlando del teorema di Fermat io non do segni di vita è probabile che non mi interessi l'argomento». Si alzò, raccattando borsa e giacca.

Non poteva neppure andare a casa: Nathalie era riuscita a spezzare la sua chiave dell'appartamento usandola come leva per la porta del freezer, bloccato dal ghiaccio. Per un momento pensò di prendergliela dalla borsa e chiuderla fuori -impegnata com'era non se ne sarebbe neppure accorta- ma erano andate lì con la sua auto, e l'ultimo autobus era partito venti minuti prima.

Per un momento captò le note di quella stessa canzone che Nathalie cantava da quasi due settimane e si chiese se dandosi un pizzicotto sarebbe riuscita a svegliarsi da quell'incubo.

Si abbandonò allo sgabello più remoto del bancone, in una postazione strategica per fissare la porta del locale che tanto anelava di imboccare.

«Un bloody Mary, per favore».

 

La serata più noiosa della sua intera esistenza.


___________________________________________

Torno dopo quasi tre anni di assenza da  EFP  in un fandom  tutto nuovo,
spero degnamente. Nella mia sciocca abitudine di accompagnare le mie
sciocchezze  da citazioni musicali  di livello decisamente più alto,  ho qui
scelto due brani italiani: il primo è Ossigeno degli Afterhours. Ve la lascio
qui
.  Il titolo della storia è invece tratto da  Tanca  di iosonouncane, la tro-
-vate qui.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** FLORENCE (Parte seconda) ***


FLORENCE
(Parte seconda)

 

 

Chi ami è un angelo
che uccide se lo tocchi

 

Perfino il drink faceva pietà: era insipido e quasi analcolico. Ordinò una vodka e ce la rovesciò dentro per provare a renderlo almeno passabile. Sorseggiò: pessimo. Ne buttò giù un paio di sorsate abbondanti per provare a finirlo più in fretta, poi si ruotò sullo sgabello in direzione del divano appena abbandonato: Jason se n'era andato, e per un momento solo provò la stretta del senso di colpa.

“Al diavolo” pensò continuando a bere “non è colpa mia. Vuole solo scoparmi e la sola tecnica che conosca è quella dello sfinimento”. Si sentì rimbombare in testa il fiume di parole che il ragazzo le aveva gracchiato nel corso della serata, non ricordando realmente i contenuti ma solo suoni sconnessi, pronunciati in una voce troppo acuta da una bocca con denti troppo storti. La sua mente si scosse di dosso quei discorsi vani come un cane appena rientrato dopo una giornata di pioggia.

Tornò a fissare la porta con nostalgia, sperando che potesse uscirvene almeno con il pensiero.

Niente uscì, ma qualcosa, improvvisamente, entrò.

 

Fu come un fulmine a ciel sereno, un rombo di tuono, un cadere dal letto.

Era il suono di una risata, una risata calda e squillante.

«Beh, ci vediamo allora! Fammi sapere, ci conto!». Ed era una voce, una voce profonda, eppure incredibilmente fresca, una voce di miele tuffato nel tè bollente.

 

«Tutto bene?»

Florence si riebbe come da una trance, sbattendo gli occhi un paio di volte prima di realizzare.

«Come?»

Di nuovo quella risata. Rideva con l'anima che gli avvolgeva la voce, gettando la testa un po' all'indietro.

«Ti ho chiesto se ti senti bene» ripeté con tono gentile «sembri giù di corda».

Era un ragazzo con una birra in mano. Tutto sommato un ragazzo qualunque, comune, eppure nei suoi tratti brillava una suadente tipicità, come se ogni suoi tratto fosse perfetto, nella sua normalità. Alto, ben formato, vestiva di scuro con gusto tipicamente inglese. Aveva la pelle bianca, di un bianco luminoso e incorrotto, e i suoi capelli erano neri, e ogni riccio si muoveva nella sua perfetta definizione appoggiato dietro le orecchie; una singola ciocca ricadeva delicatamente sulla fronte, spezzando la continuità di due sopracciglia dritte e scure, quasi severe. Naso dritto, labbra turgide e rosate.

Sono dopo qualche secondo alzò gli occhi nei suoi: erano scuri, dalla mandorla delicata e sensuale, leggermente allungata, come se le ombre che naturalmente gli di dipingevano sul viso ne definissero l'espressione languida e indagatrice.

«Sono solo...» provò a dire, notando che lui non distoglieva lo sguardo dalla sua espressione più stupida che stupita «arrabbiata».

Il ragazzo sorrise di un sorriso che gli illuminava il viso, ma non era beffardo. Appoggiò la birra sul bancone: «Spero non con me!»

Lo guardò confusa, alzando un sopracciglio per sottolinearlo: «Come potrei? Neppure ti conosco!» scosse la testa e tornò a finire il suo pessimo drink.

«Qualcosa di serio?» lo vide agguantare una sedia e sedervisi al contrario, a gambe aperte, coi gomiti sulla spalliera e il viso fra le mani «Hai bisogno di parlarne? Non necessariamente con me, si intende, magari posso trovarti qualcuno di più adatto, tipo...» alzò la testa lasciando ciondolare le mani giù dalla spalliera, guardandosi intorno con quel suo sguardo indagatore; allungò un dito inanellato verso un punto in fondo alla sala «quello!».

Il dito puntava verso un enorme omaccione pelato, ricoperto di tatuaggi e infilato in un giubbotto di pelle di almeno un paio di misure troppo piccolo.

«Direi di no».

«Beh, allora quello là!» esclamò lui indicando un tipo smilzo, abbastanza ubriaco da gracidare come una rana semisdraiato sul suo tavolo.

Le venne da ridere, ma stette al gioco: «Mi pare poco adatto» ammise.

Il ragazzo allargò le braccia in segno di resa: «Allora mi tocca, temo!»

Florence accennò un mezzo sorriso: «In realtà non c'è nulla da dire» ammise con un'alzata di spalle «solo una coinquilina stupida e un tizio noioso».

«Diamine, speravo di starti simpatico!»

Finalmente rise: «Ma no, il ragazzo che era con me prima! Una noia cosmica!»

Il ragazzo la scrutò dal basso, come cercando di studiare l'autenticità della sua reazione: «Non sembri più arrabbiata» concluse con un'ombra di soddisfazione nel tono della voce.

«Lo sono, ma non con te…?»

«Mitchell, chiamami Mitchell».

«Florence».

«Firenze!» fece eco Mitchell, ammirato «ai tuoi piace l'Italia?»

“Un punto per te, Mitchell”, pensò lei in un sorriso “se sei stupido lo sei meno di Nathalie”. Finì il drink con un'espressione disgustata.

«Non buono?»

«Atroce».

Lui scosse la testa: «Se vogliamo che ti passi la rabbia, non puoi bere qualcosa di cattivo» sentenziò alzandosi. Le porse una mano «Andiamo!»

«E dove?»

«Nei soliti posti» disse con noncuranza «a prendere una buona bottiglia di vino e a berla senza musica e gente di merda attorno».

«Ci stai provando?»

Mitchell ritrasse la mano come se fosse stato ustionato «Mi offendi!»

“Ci sta provando. Ma almeno in un modo più carino del teorema di Fermat. Ed è bello come una stella”. Si infilò la giacca, avvolse la sciarpa al collo, raccolse la borsa: «Andiamo!»

Quegli occhi neri la trapassarono: sorridevano. 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** MITCHELL (Parte prima) ***


MITCHELL
(Parte prima)

 

 

Fra le lenzuola sudicie a leccarci le ferite,
proteggi i nostri impeti nostra signora della dinamite.

 

 

Improvvisamente si sentì l'essere più idiota sulla faccia della terra. Dove sperava di trovare una bottiglia di vino decente all'una e mezza di notte? Ne aveva in casa qualcuna, residuo dell'ultima spesa fatta con un po' di criterio prima di cedere ai biscotti, allo scatolame e ai Doritos. Florence diede voce ai suoi pensieri: «Senti Mitchell, dove pensi di trovare “una buona bottiglia di vino” a quest'ora? Sono quasi le due e fa un freddo schifoso...»

Faceva freddo. Lo infastidiva sempre meno via via che la sua temperatura corporea si allineava a quella ambientale, e nell'arco di un paio d'ore non ci avrebbe neppure più fatto caso, ma percepiva chiaramente la differenza fra il calore del corpo di Florence e il gelo dell'aria invernale: era come una scia di profumo in movimento in un ambiente asettico. Si strinse nel trench nero come per darle ragione.

«Sono un'idiota...» disse più a sé stesso che alla ragazza.

«Come?»

«Sono un idiota!» ripetè più chiaramente «Non c'avevo pensato. Voglio dire, ho sempre una bottiglia in casa, ma casa mia non è un locale dove portare una…» indugiò.

«Sconosciuta» completò lei.

Una sconosciuta coi capelli neri e la pelle d'avorio. Una sconosciuta con due occhi tanto verdi da sembrare dorati come quelli di un gatto.

«Ascolta Mitchell» disse lei con calma, parandoglisi di fronte con calma, alzando lo sguardo dalla punta delle sue scarpe fino agli occhi di lui «sono praticamente chiusa fuori casa. Quel posto faceva schifo, musica, drink, gente e tutto il resto: di tornarci non ci penso neppure. Ma qui fa un freddo maledetto ed è buio, buissimo. O conosci un posto carino, o casa tua va benissimo: se devo morire almeno non sarà per assideramento».

Mitchell gettò indietro la testa, liberando dalla gola una risata calda, piena. Di gusto.

 

***

 

Una voce melliflua risuonò come una eco nella sua testa: «Oh Mitchell, sei un uomo dopo tutto, hai delle necessità: non vorrai passare l'eternità solo! Non si confà a un vampiro per bene...» gli parve di ricordare un sorriso beffardo «Capisco che l'idea di legarti a qualcuno fino alla fine dei tempi possa sembrarti prematuro, ma… nessuno ti impone la fedeltà quanto tu insensatamente ti imponga la castità» aveva marcato quella parola con un sibilo di disprezzo, accentuandola come una pubblica colpa «Siamo gente aperta, Mitchell, progressisti: puoi avere tutte le amanti che ti aggradano, scegliendole da ora fra tutti coloro che nasceranno da qui all'eternità, più giovani o vecchie di uno, dieci, cento, mille anni. Ma ti serve una compagna per superare il tedio, per sfogarti oltre il semplice nutrimento. O un compagno, se preferisci: come ti ho detto, siamo progressisti» aveva riso, una risata gelida, priva di gioia, e alzato la mani «Oh, non guardare me, mio caro… non fraintendermi, ti ho preso perché mi piacevi ma… ho altre predilezioni».

Si era infilato i guanti poco prima di imboccare la porta: «Tutti ti vogliono, Mitchell: donne, uomini, vampiri e non. Scegli, ti divertirai».

 

“Ce l'avevo una compagna, Herrick” pensò a pugni stretti “una compagna che tu volevi come spuntino”.

Il ricordo di Josie era come una vecchia frattura che stride anticipando i cambi di stagione, una vecchia cicatrice guarita, ma ben visibile sulla pelle.

«Bella casa, è più piccola ma più graziosa della mia» la voce di Florence lo ridestò dai suoi ricordi «Quanto paghi?»

«Duecento a settimana» rispose senza enfasi; stava leggendo distrattamente l'etichetta della bottiglia appena ripescata dal mobile della cucina. Si sentì osservato con attenzione mentre pescava l'apribottiglie dal cassetto.

«E sei solo?»

Il tappo fu strappato dal collo della bottiglia con un sonoro rumore di risucchio, il vino gorgogliò rosso in due calici: «Si tratta di una sistemazione provvisoria».

Florence accettò il bicchiere maldestramente, uno schizzo vermiglio ruzzolò dalle dita fino al polso: «Cristo, che idiota» si maledisse.

Mitchell guardò prima il bicchiere, poi il polso: si sentì colto da una brama inumana, percepì il sudore che iniziava a imperlargli la fronte e il respiro farsi irregolare, come quello di una fiera affamata che fiuta l'aria. Raccolse fra entrambe le mani quel polso candido, gemmata di rosso e con urgenza lo portò alla bocca, suggendo la rossa goccia fuggitiva; al di sotto intuì i torrenti placidi e ansimanti delle sue vene.

Le liberò la mano, affondando le labbra oltre l'orlo del proprio bicchiere, riempiendosi la bocca di vino quasi con foga, cercando di ingannarsi la lingua con il gusto dell'alcool. Le guance di Florence si erano tinte di un rosa acceso, i suoi occhi brillavano di imbarazzata eccitazione: tossì.

«Porti… le lenti a contatto!»

«Uh?» gnugnì Mitchell tornando alla realtà.

«Forse dovresti toglierle» consigliò premurosa «le ho viste spostarsi e rischi di perderle… o era solo un'ombra?».

«Un'ombra» ammise in sussurro.


________________________________________

Apro con una citazione di Nostra signora della Dinamite 
di Giorgio Canali e Rossofuoco. La trovate qui.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** MITCHELL (Parte seconda) ***


MITCHELL
(Parte seconda)

 

 

Vene che esplodono, piogge rosse, grida distorte:
sento il mio cuore che si ferma e poi riparte.

 

 

Un bacio duro, di labbra tese contro i denti e mascella rigida, affannoso e irregolare; un bacio rude, primitivo. Un bicchiere in frantumi giaceva a terra in uno sputo di beaujolais.

«Le tue labbra… sono così fredde...»

Lei invece era morbida e tiepida, come un'albicocca matura; l'aveva baciata per impedirsi di pensarci, per gettarsi con foga in un altro tipo di eccitazione, più innaturale e… più umana. Ci stava riuscendo solo in parte.

Sudava freddo, e iniziò ad ansimarle fra le labbra quando si lasciò ricadere alle spalle la camicetta; serrò la bocca con una violenza tale da temere per i propri denti nello staccarsi da lei per sfilarsi la maglietta.

Le affondò le dita nel costato, stringendola: un brivido caldo gli percorse la schiena quando percepì il galoppare del suo cuore contro il petto. Due bramosie opposte s'intrecciarono lottando nel fondo della sua anima come le loro lingue: un delizioso desiderio di morte e un catastrofico impulso alla vita. La mano di Florence contro la patta dei pantaloni lo gettò con furia fra le braccia del secondo.

«Nel comodino...» balbettò. Premura inutile, lo sapeva: la sua capacità di generare era morta con lui, non poteva contrarre o trasmettere malattie; era un semplice vezzo, un'abitudine, un banale residuo di umanità.

Stavolta ci sarebbe riuscito, lo sapeva, ci contava: era pulito da settimane, lindo e innocente come un angelo, come la maledetta Vergine Maria. La fame di sesso avrebbe vinto sulla sete di sangue. Si sentì blasfemo e onnipotente a quel pensiero, una specie di divinità pagana con una femmina sudata a cavalcioni sull'inguine: “iconografico” pensò in un impeto di superbia. Rimpianse quasi di non potersi specchiare da qualche parte.

La riversò sul letto sfatto, l'incontro di labbra si fece più morbido, meno famelico, più erotico. Scivolò in lei con forza, tanto da sospettare di averle fatto male, ma la sentì sciogliersi all'istante: erano più di trent'anni che non si sentiva così intensamente vivo… o forse più di cento, quando fare l'amore con una donna era un gioco alla pari? Forse era solo l'astinenza a parlare nella sua testa.

 

E forse furono le unghie lungo la schiena, forse l'aritmia del suo cuore contro il proprio, forse il profumo del suo collo, forse il suo pulsare isterico. Avvertì l'ombra della fame attraversargli gli occhi, sentì i denti premere contro le labbra. Vide con chiarezza il terrore sostituirsi al piacere sul viso di Florence, ansimante e paralizzata fra le sue braccia.

La potenza di quel fiume gli irruppe fra le labbra non appena i canini si schiantarono contro la carotide, riempiendogli la bocca fino a rendere quasi difficoltoso inghiottire; bevve con foga, come un assetato nel deserto. Venne all'improvviso, ancora dentro di lei, soddisfacendo insieme due delizie; si lasciò sfuggire un gemito, e un rivolo d'un rosso quasi nero gli colò lungo il mento.

Sentì le unghie di lei configgersi dolorosamente nella carne, ma non respingendolo, stringendolo più forte a sé, in un rantolo che sembrava assai distante dal dolore: gli venne da sorridere, probabilmente in un moto di assurdo orgoglio virile.

Sentì il suo battito farsi frenetico in bocca, la pressione diminuire lentamente, permettendogli di berne a piccoli sorsi, quasi fosse quel vino costoso rovinato a terra meno di un'ora prima. Allentò il morso, prima rigido e potente come quello di una belva, lasciando che il sangue gli defluisse da solo fra le labbra.

Florence respirava a fatica, affamata d'aria quanto lui di vita; le passò le dita fra i capelli, delicatamente, in una carezza pietosa, poi sul viso: era sudata, e sempre più fredda. La presa sulle spalle si fece molle. Gli svenne fra le braccia.

Il cuore iniziò a rallentare, permettendogli di indugiare in quel gioco perverso di baci lascivi alla fonte di quel nettare di vita, di affondarci il mento, sporcandosi il viso di rosso come un guerriero o uno stregone.

Si abbandonò al suo fianco sulle lenzuola innaffiate di rosso, a occhi chiusi, ansante, cercandosi sulle labbra le ultime gocce di quel sapore.

“Non sei morta per assideramento” pensò cinicamente, senza neppure guardarla.

Poi pianse.



__________________________________________________
Amo molto sentire commenti su quanto scrivo,  ne l bene e nel  male,
sapere quale emozioni e trasmesso. Se siete arrivati a leggere fin qui
vi chiedo l'onore di farmi sapere che siete passati con un  commento,
una breve opinione.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3465774