Nostos

di Clockwise
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cuori irrequieti ***
Capitolo 2: *** Baker Street ***
Capitolo 3: *** Almeno un milione di scale ***
Capitolo 4: *** London Calling ***
Capitolo 5: *** Sonetto 116 ***
Capitolo 6: *** Private Investigations ***
Capitolo 7: *** Mycroft ***
Capitolo 8: *** Didn't he ramble? ***
Capitolo 9: *** Nodus Tollens ***
Capitolo 10: *** Dalle ceneri ***
Capitolo 11: *** Burrasca ***
Capitolo 12: *** De profundis ***
Capitolo 13: *** Star to every wandering bark ***
Capitolo 14: *** To Build a Home ***



Capitolo 1
*** Cuori irrequieti ***



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Cuori irrequieti
 
Tutti i cuori irrequieti del mondo cercano tutti la strada di casa.
Patch Adams
 
 
 
Chissà quanti sono i libri che nessuno ha mai sfogliato – delle migliaia di libri che coprono gli scaffali, ce ne sono sicuramente alcuni che nessuno ha mai toccato. Gli occhi hanno scorso il titolo colorato sulla costa sbiadita, e sono passati oltre. Le pagine, bianche e lisce, ora staranno annerendo agli angoli. La polvere avrà costruito grattacieli e palazzi, sulle loro pagine bianche. Chissà quei libri come si sentono. Magari, stanno anche vicino a quelli più consultati, quelli che rimangono sullo scaffale per pochi giorni alla volta prima che mani curiose li tirino giù di nuovo. Magari, ecco, sentono i passi del nuovo avventore sul tappeto bluastro della biblioteca, ovattati. Ecco, si avvicina. Fremono, trepidanti. Forse questa è la volta buona! Le dita saltellano di costa in costa, ecco ci siamo quasi, esitano. E afferrano un altro libro.
«Amanda? Amanda? Amanda
Non è buffissimo quando la gente grida sussurrando? Ad Amanda ha sempre fatto ridere. È talmente inutile – tanto vale alzare la voce e parlare normalmente.
«Amand– ma che stai facendo?»
Di nuovo, quel buffo sussurro gridato. I tre ragazzi intorno all'altro tavolo alzano lo sguardo, infastiditi. Merry non sembra accorgersene, troppo occupata a strabuzzare gli occhi e fare facce sbalordite in direzione dell'amica.
Amanda sorride.
«Medito.»
«Ti salirà il sangue alla testa, scema! Torna giù.»
«Sarà salito da un pezzo. È un po' che sto così.»
Merry sgrana gli occhi ancora di più dietro gli enormi occhiali “vintage” – Amanda non gliel'ha mai detto perché sa bene quanto sia suscettibile, ma la fanno sembrare un po' una casalinga disperata rimasta bloccata agli anni '80.
«Tu sei matta! Scendi subito.»
Uno dei ragazzi al tavolo si gira di nuovo, fulminando Merry con un'occhiata di cui lei non si cura minimamente. Amanda rotea gli occhi e, lentamente, abbassa le braccia e torna con i piedi a terra. Deve tenersi alla parete con la mano mentre strizza gli occhi per far sparire quelle macchioline nere – un leggero capogiro, normale, considerata la posizione e la rapidità con cui è tornata su. Merry scuote la testa.
«Ti farai del male sul serio, un giorno.»
Amanda si limita a stiracchiare un sorriso sghembo mentre raccoglie i suoi libri. Quando Merry le dice così – e lo dice più spesso di quanto vorrebbe – le sembra che la sua vita sia così fragile e trasparente da poter essere spazzata via con un soffio. Si chiede con quale forza rimanga attaccata al suolo.
Un altro dei ragazzi al tavolo si gira al suo passaggio e Amanda gli lascia il suo sorriso e uno sguardo luminoso; lui arrossisce.
«Finnegan mi ha chiamato quattro volte in cinque minuti. Ha detto che ieri sera l'hai trattato di merda e voleva parlare con te ma non gli rispondevi. Dice che te ne sei andata di punto in bianco senza dirgli niente.»
Il sole del pomeriggio le ferisce di striscio, mentre escono dalla biblioteca e attraversano rapide il cortile. Sole infingardo, lascia sperare in un calore che in realtà non esiste – Merry rabbrividisce nel suo cappotto troppo leggero.
«Ha ragione, l'ho trattato da cani.»
«E lo dici così? Neanche un filo di rimorso, vergogna, niente? Sembri quasi contenta!»
Il sorriso di Amanda si allarga e raggiunge l'altra guancia.
«Sono contenta.»
Si ferma in mezzo al cortile e si volta verso l'amica. Il sole morente rende trasparenti i suoi occhi chiari. Una nuova baldanza, uno spirito di iniziativa sembra ardervi dietro – raddrizza la sua schiena e colora le sue gote. A Merry sembra quasi una nuova donna, nel sole freddo del tramonto.
«Ho trovato mio padre.»
Merry sbatte le palpebre un paio di volte.
«E dove, in biblioteca?»
«No.»
Si volta e si incammina verso i dormitori.
«Finnegan.»
 
Finnegan le morse il labbro, e Amanda represse un conato.
Distrattamente, si chiese perché mai Finnegan fosse così convinto del suo reciproco interesse e perché, soprattutto, fosse attratto da lei: non gli aveva mai mostrato il minimo accenno di simpatia da quando era entrato nella sua cerchia di amici, gli parlava a malapena. Almeno fino a quando era accidentalmente venuta a sapere che il padre di Finnegan era stato nell'esercito con il fratello della madrina di Finnegan, un certo John Watson, un tempo noto per essere stato il fedele blogger del famoso investigatore privato, Sherlock Holmes di Londra.
 
«Quel Sherlock Holmes?»
Merry sgrana gli occhi ancora di più.
«Quel Sherlock Holmes.»
Amanda sorride compiaciuta. Negli ultimi tempi c'è stato un fiorire di detective privati che girano con cappelli improponibili e si offrono di indagare anche sul gatto fuggito di casa, millantando sperticate abilità di deduzione e sciocchezze simili. A dirla tutta, lei non è nemmeno una fanatica dell'originale: troppo si è detto e troppo si è scritto su di lui, e separare la vera immagine da quella costruita dai posteri è diventato praticamente impossibile. Inoltre, da diversi mesi a questa parte, di lui si è persa traccia: dopo un frettoloso annuncio di ritiro a vita privata, Sherlock Holmes si è dissolto nel nulla. Alla fine, non gliene importerebbe niente, né di John Watson né tantomeno di Sherlock Holmes, se non fosse che Sherlock Holmes è suo padre.
 
Il motivo per cui, durante tutta la settimana, si era impegnata a lanciare lunghe occhiate languide al povero Finnegan, a sbattere le ciglia e abbassare lo sguardo al momento giusto, a posare la mano sulla sua spalla una volta di troppo, a mormorare una parolina soave ogni tanto, a fingersi interessata per due interminabili ore alla noiosissima partita di calcio era, essenzialmente, il suo cellulare. Doveva senz'altro avere un indirizzo e-mail o un numero di telefono o qualsiasi cosa...
Se non altro, i suoi sforzi non erano stati vani.
 
Merry contorce il viso in una smorfia di disgusto.
«Come ti sei ridotta. Almeno bacia bene?»
«Da cani.»
 
Finnegan era totalmente distratto.
Quando le sue mani si addentrarono sotto la sua maglietta e si posarono sui fianchi, Amanda passò al contrattacco. Si staccò – con piacere, quel fiato di pop-corn e birra iniziava ad essere insopportabile – dalla bocca di Finnegan e si spostò sulla sua mandibola, scendendo piano fino quasi alla clavicola. Lo sentì gemere e represse un moto di disgusto. Piano, avvicinò la mano destra alla tasca posteriore dei suoi pantaloni, mentre con l'altra gli carezzava la schiena. Con lentezza esasperante, fra un bacio e l'altro, sfilò il cellulare dalla tasca. Si accertò che fosse in silenzioso e lo sbloccò – niente codice, è fortunata.
Cercò fra le mail. Il suo cuore sobbalzò quando ebbe trovato quella giusta:
 
Da: godfreynorton@gmail.com
a: fno31@cam.ac.uk
 
Ciao Finnegan.
Come stai?
Ti ricordi di Harry Watson? La tua madrina? È il suo compleanno sabato prossimo. Io e tua madre andremo, e anche tu sei invitato. Perché non fai un salto? Facci sapere.
L'indirizzo è questo:
10 Northumberland Street, vicino Charing Cross Station.
E perché non scrivi due righe anche a John? Gli farebbe piacere sentirti. Ci sarà anche lui. Ce l'hai l'indirizzo? In ogni caso, è questo: johnhwatson@yahoo.co.uk
Facci sapere.
Ti saluta la mamma.

 
«E quindi? Vuoi partire? Ti imbuchi alla festa?»
Amanda fa spallucce, centellinando i fondi del suo tè. Il sole tramonta lentamente, inondando la piccola stanza di luce dorata.
«No, alla festa no. Però, ora ho l'indirizzo di John, posso contattarlo. E lui può dirmi dov'è Holmes. E poi posso incontrarlo, e conoscerlo, e... Avere delle risposte.»
Merry annuisce.
«Il tuo piano geniale fa acqua da tutte le parti.»
L'altra sospira.
«Lo so.»
Fa di nuovo spallucce, aprendo il portatile e cercando gli orari dei treni.
«Non ho niente da perdere. E devo allontanarmi da Finnegan il più possibile. Ho rifiutato l'invito del padre e poi cancellato le mail, non verrà mai a Londra.»
Merry ridacchia.
«Un genio del crimine, signore e signori!»
 

 
•••
Il cellulare trillò, ridestandolo dai suoi pensieri. Allungò un braccio e lo prese, accettando la chiamata dopo un rapido sguardo al mittente. John. Strano che chiamasse, sapeva che preferiva i messaggi...
«Sherlock?»
«John.»
«Mary non c'è. Non è in casa, il cellulare è irraggiungibile, non ci sono biglietti, non so dove sia, io...»
Sherlock si alzò in un unico movimento fluido e si mosse verso la sua giacca, abbandonata su una sedia.
«Ci sono segni di effrazione, violenza, costrizione? Controlla gli stipiti delle porte, le finestre, l'ingresso...»
«Niente, niente, è tutto come al solito...»
La voce di John si alzava e si abbassava in ondate di panico.
«Ok, controlla la vostra camera da letto. Qualcosa fuori posto?»
«N-no, niente di strano...»
Sherlock scese gli scalini due a due, precipitandosi fuori. Mrs Hudson fece capolino dal suo appartamento mentre il portone sbatteva dietro di lui.
«Oh, aspetta. L'anta dell'armadio, ecco, è un po' aperta.»
«Apri, controlla.»
C'era un taxi fermo proprio davanti a Speedy's, un uomo vi stava salendo. Sherlock non perse tempo in convenevoli: lo strattonò fuori per un braccio e si chiuse dentro al posto suo. Diede l'indirizzo di John al tassista continuando a parlare al telefono. Doveva avere un'aria piuttosto minacciosa, perché il tassista ignorò il pover'uomo che batteva i pugni sul finestrino, deglutì una protesta e partì sgommando.
«Manca qualcosa? Indumenti particolari, borsoni da viaggio?»
«S-sì, manca il mio borsone, n-non c'è più... E uno dei giacconi di Mary. Anche un paio di scarponcini, credo.»
«Bene, vuol dire che è partita di sua spontanea volontà – o più probabilmente è stata costretta, in ogni caso non con la forza. Potrebbe esserci qualcuno che tiene d'occhio la casa, chiudi tutte le tapparelle, le porte e le finestre.»
Sentì John inalare dei grandi respiri. Poteva quasi immaginarlo, fermo al centro della sua camera da letto, gli occhi serrati e una mano sulla bocca, cercando di contare i battiti del suo cuore. Avrebbe dovuto evitare tutto questo, aveva giurato, maledizione...
«Sto arrivando, John.»
Sistemerò tutto.
John rimase in silenzio. Probabilmente aveva annuito. Sherlock chiuse la chiamata, inviò un messaggio a Mycroft e uno a Lestrade.
Cercò disperatamente di ricordare qualche segno, qualche avvisaglia – Mary aveva avuto intenzione di andarsene? Da quanto? Qualcuno la stava minacciando? Ricattando? Chi, da quanto?
Si ritrovò a pregare, irrazionalmente, che non fosse troppo tardi.
•••
 

Il treno sferraglia nella campagna inglese lasciandosi dietro casette a schiera, prati verdi, cieli grigiastri, cani di razza e auto di seconda mano. La giovane ragazza bionda siede nella quinta carrozza, nel posto tredici B. Accanto e davanti, un ragazzo in tenuta sportiva, una giovane madre ansiosa e una signora avanti negli anni dall'aria distinta. La ragazza ha un romanzo in grembo, ma non gli presta attenzione, lo sguardo continuamente rivolto al finestrino. Nella cronologia delle ricerche sul suo telefono figurano vecchi forum, blog, chat room. Parola chiave: il detective col cappello.
«Abbiamo un problema.»
Può quasi vederlo roteare gli occhi.
«Com'era la Nigeria, Mycroft?»
«Non cambiare argomento.»
«Hai ripreso a fumare? Hai la voce arrochita.»
«Un principio di influenza, probabilmente. Non cambiare argomento
«Sai, mi hai stupito, col tuo viaggio, muoverti dalla tua poltrona non è mai stato il tuo forte...»
«La mia presenza in Nigeria era indispensabile, ora smetti di tergiversare. Fra quarantadue minuti il problema sarà a Londra.»
Sospira.
«E la cosa mi riguarda?»
«Più di quanto immagini.»












Sì, sono tornata.
Hola!
Grazie a chi è arrivato fin qui :)
-Clock


EDIT del 21/06: Ho cambiato il titolo da "Nodus Tollens" a "Nostos" – in greco, "il viaggio di ritorno". Chissà perché non ci avevo pensato prima.

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Capitolo 2
*** Baker Street ***


Baker Street
 
Way down the street there's a light in his place
He opens the door, he's got that look on his face
And he asks you where you've been
You tell him who you've seen
And you talk about anything
Gerry Rafferty, Baker Street
 
 
 
Marylebone. Potrebbe aspettare e scendere alla prossima, ma preferisce camminare.
Esce dalla fermata della metropolitana e continua dritta. Baker Street è la terza a sinistra. Sono le undici di mercoledì mattina, e la strada pullula di ragazze in giro per spese, turisti, madri con i passeggini, patiti del fitness in tuta aderente. Un ragazzo davanti a lei cammina – ed è un miracolo che la folla non l'abbia fagocitato – con il naso sepolto in una cartina e un deerstalker in testa. Amanda sente un fiotto di orgoglio nel petto, al fugace pensiero di essere – probabilmente – figlia di un personaggio tanto importante, con un seguito ancora così fedele – e un po' fuori di testa, si rende conto, quando il ragazzo prende in pieno una di quelle buffe cassette per le lettere rosse.
Gloucester Place arriva e se ne va. Un uomo la supera correndo e la urta leggermente, tenendo alto in mano un mazzo di rose, che perdono petali nella brezza di città. Chissà per chi sono, e perché tanta urgenza.
Glentworth Street. Lo stomaco si annoda, il passo si fa più rapido. È la prossima. Forse avrebbe dovuto portare qualcosa, tipo un dolce. Forse fa ancora in tempo... No, ma chi vogliamo prendere in giro? Non ha mai visto quest'uomo, e se le chiudesse la porta in faccia? Potrebbe benissimo farlo. È entrata nella mail di Finnegan – indovinare la password è stato davvero semplice, è bastato provare con tutti i giocatori del Leicester City, la sua squadra preferita – e ha inviato una mail a John Watson chiedendogli se gli faceva piacere prendere un tè. John aveva risposto dopo due giorni, accettando l'invito – con una certa riluttanza, a giudicare dalle frasi brevi e nervose e dal tono freddo – e invitandolo a casa sua, il 221b di Baker Street. Amanda non aveva voluto crederci. Lo stesso appartamento in cui Sherlock Holmes era vissuto. Tutti parlavano di questo appartamento, nei blog a lui dedicati, come di una specie di tempio, di posto sacro: il luogo che aveva visto Sherlock Holmes in tutto il suo splendore e la sua eccentricità, in cui il suo genio veniva alla luce. Secondo molti, anche il nido della sua storia d'amore con John Watson.
Amanda non sapeva che pensare a riguardo. Probabilmente erano solo dicerie – sempre secondo il web, Sherlock Holmes aveva avuto storie con il suo acerrimo nemico, con il suo ispettore di Scotland Yard preferito, con un medico del Bart's e con svariati altri uomini tenebrosi e femme fatales. Per il momento, almeno, non le interessa: prima riesce a contattare Sherlock, prima potrà fargli tutte le domande che vuole.
Baker Street arriva e lei per poco non la manca. Svolta a sinistra e continua a camminare, tenendo d'occhio i numeri civici. Fra la folla, si fanno sempre più numerosi i cappelli da caccia, le sciarpe blu e i lunghi cappotti scuri – con questo caldo, la loro tenacia sorprende Amanda sempre di più.
Non ha bisogno di guardare il numero civico per riconoscere il 221b. Una piccola folla è assiepata davanti al portone, armata di cellulari e macchine fotografiche. Quasi tutti hanno un deerstalker. Qualcuno deposita fiori sui gradini, animali di pezza, disegni. Amanda si avvicina, chiedendosi come fare ad entrare, quando il portone si apre di uno spiraglio. Non riesce a vedere chi è, ma sente una voce burbera cacciare via i ragazzi, che tentano invano di rispondere. Nel giro di pochi secondi, la folla si disperde. Amanda riesce a cogliere un lampo dell'uomo che ha aperto – di bassa statura, in veste da camera, con corti capelli e barba grigia e l'aria poco amichevole. È lui, dice la sua testa.
Fulminea, salta i gradini e ferma la porta con un piede, reprimendo un verso di dolore quando l'uomo insiste nel chiuderla. La inchioda con occhi freddi come acciaio. Amanda deglutisce a vuoto, chiedendosi per la prima volta se è stata una buona idea.
 
 
•••
«Nanny, mi racconti una storia?»
La donna sembrò non averla sentita, e continuò a rassettare la stanza. Amanda si tirò a sedere nel suo lettino.
«Nanny! Per favore?»
La donna sbuffò scherzosamente, raddrizzandosi con le braccia piene di giocattoli.
«Ah, come siamo esigenti stasera.»
Amanda intuì la vittoria dal suo tono e sorrise, contenta. Greta ripose i giocattoli nella cesta e si sedette sul letto della bambina, spingendola giù con dolcezza e rimboccandole le coperte.
«Il mio lavoro non è raccontarti storie, sai? Io sono solo la tua tata.»
Un sorriso birichino attraversò il viso della bambina, prima che lo nascondesse sotto la coperta.
«Una piccola piccola.»
«E va bene.»
La donna inclinò il capo di lato, pensandoci su.
«Ah, ecco. C’era una volta, in un posto molto molto lontano…»
«Nanny, il signor M. è mio papà?»
«No, cara.»
«Oh. E allora chi è?»
Greta sospirò, carezzandole la testolina bionda con una mano.
«Quando sarai grande, un giorno, capirai. Il signor M. è solo un uomo molto gentile che si occupa di te.»
«Ma non c’è mai!»
La donna sorrise.
«Per questo ci sono io!»
Risero entrambe.
«Che mi racconti le storie! E mi dai le ciambelle di nascosto!»
«Sssh, è un segreto! Non lo deve sapere nessuno, altrimenti ti faccio il solletico…» scherzò la donna, agitando le dita come tentacoli.
«No, no, no, no!»
Amanda si contorceva come un’anguilla, mentre Greta la solleticava teneramente, ridendo.
«Basta, basta, basta!»
Smise e il suo sorriso divenne quasi malinconico, vedendola ridere. Le carezzò di nuovo i capelli e sistemò le coperte.
«Dormi adesso. Buonanotte.»
Si alzò e si diresse verso la porta.
«‘Notte. Domani me la racconti la storia, però?»
«Forse, chissà.»
Sorrise un’ultima volta, poi spense la luce. Nel buio, poté lasciar cadere quel sorriso e permettere al suo volto di contorcersi in un unico momento di sofferenza.
•••
 
 
«Cosa vuoi?»
La voce è roca, altera, di chi non ama parlare.
«Il mio nome è Amanda...»
L'uomo alza gli occhi al cielo.
«Se è per Sherlock Holmes, non abita più qui. Quindi puoi anche andare.»
«Lo so.»
Deglutisce di nuovo. Sente l'uomo spazientirsi sempre di più, il suo cuore battere sempre più veloce.
«Il mio nome è Amanda Holmes.»
Gli occhi dell'uomo si spalancano, due vuoti specchi d'argento.
«Sono sua figlia.»
Avviene una strana trasformazione nell'uomo. Amanda vede sconcerto, sorpresa, perplessità susseguirsi rapidi negli occhi divenuti limpidi. Quindi tornano a scurirsi, mentre le linee del volto si ammorbidiscono. C'è un accenno di blu che lo fa sembrare più giovane, ora, e una linea profonda fra le sopracciglia. Si fa da parte senza una parola, lasciandola entrare. Sempre in silenzio, la precede su per le scale scricchiolanti.
Il soggiorno è un delirio di libri, fogli, incarti di take-away, lattine vuote, vestiti alla rinfusa e scatole di medicine. L'aria sa di chiuso, lo specchio sopra il caminetto è opaco per la polvere – Amanda pensa ad uno stagno, o una palude.
John si guarda intorno come se vedesse il soggiorno con i suoi occhi e stiracchia un sorriso di scuse.
«È strano, ma quando c'era Sherlock era più ordinato.»
Il suo sorriso di John si fa amaro. Amanda vorrebbe sapere cosa dire per consolare il dolore che è tornato a galla negli occhi di nuovo plumbei.
«Tè?»
«Volentieri.»
John annuisce e fa un gesto vago con la mano, poi sparisce in cucina. Stamattina la gamba gli fa più male del solito. Sarà la sorpresa. Amanda. Dopo tutti questi anni...
Un fiotto di emozioni gli invade il petto, gli fa girare la testa. Si aggrappa al lavello e strizza forte gli occhi. Quegli occhi... Non l'ha mai vista, in vent'anni, ed ora eccola lì, bella, bionda, con quegli occhi...
E crede di essere la figlia di Sherlock Holmes.
Scuote la testa, soffocando le lacrime fra le ciglia bionde, e riempie il bollitore. Gli tremano le mani. Dei passi leggeri si fermano sulla soglia della cucina.
«Serve aiuto?»
John scuote il capo, voltandosi a guardarla per un istante.
«Non preoccuparti. Eh, siediti dove vuoi.»
Amanda sorride, e il cuore di John si crepa un po' di più. Gli sembra quasi di poterla vedere bambina, immaginare il suo viso, il suo passo leggero... Si volta, rapido.
«Allora...» si schiarisce la voce. «Di dove sei?»
«Ora studio Psicologia a Cambridge.»
«Psicologia? Interessante. Io sono un medico.»
Si alza in punta di piedi, ma le tazzine del servizio buono rimangono troppo lontane. Ci riprova, aggrappandosi al lavello, finché non sente la sedia stridere sul pavimento.
«Lasci, ci penso io.»
Si fa da parte mentre Amanda prende le tazzine senza troppo sforzo – è più alta di quanto avrebbe immaginato, lui non ci è mai arrivato a quelle tazzine.
L'armonia silenziosa con cui i loro gesti si accordano è disarmante.
«È la prima volta a Londra?»
«Sì. Sono arrivata ieri.»
Si siedono con le rispettive tazzine. Amanda soffia sul suo tè, gonfiando le guance – è buffa, John abbassa il capo, trattiene un sorriso, assaporando la meraviglia di quell’istante rubato, dolce dell’innocenza dell’infanzia.
«È una città caotica. È facile perdere sé stessi, nel turbine.»
«O trovare sé stessi, nel flusso della vita.»
John la studia, sorpreso, al di sopra della sua tazza. Lei gli sorride, esitante, in attesa, trepidante. John può sentirla vibrare di energia.
«Ti hanno... adottato, immagino» dice, simulando indifferenza.
«In realtà è una storia strana. Sono cresciuta a Dresda, in Germania, a casa di un... Non ho mai veramente capito che lavoro facesse, non l'ho mai nemmeno veramente conosciuto. Credo che lavorasse per l'ambasciata britannica, o forse il governo, non ne ho idea. Fatto sta che aveva una casa enorme, in mezzo alla campagna, non c'era mai e io potevo fare praticamente quello che volevo. L’ho sempre chiamato il signor M. Avevo una tata inglese, non ho mai imparato il tedesco.»
Sorseggia il suo tè, sentendosi più a suo agio.
«Poi a sei anni mi ha mandata in collegio, da lì in un altro collegio, stavolta in Inghilterra, poi in un altro ancora, e infine a Cambridge. Ogni tanto mi manda una cartolina, credo sia un tipo simpatico.»
John abbassa lo sguardo sul suo tè, le sopracciglia aggrottate. L’intera storia puzza. E soprattutto, come è potuto accadere? Come era potuta arrivare in Germania? E crescere nell’agio e nella ricchezza? È più di quanto abbia mai sperato. Aveva sempre pensato che fosse finita in un orfanotrofio, o qualcosa di simile – aveva scartato subito l'ipotesi che non fosse viva, si era rifiutato di crederci. Beve un lungo sorso e fa un grande sospiro. La polvere sembra sospendersi a mezz'aria.
«Cosa sai dei tuoi veri genitori?»
«Non molto. So che il mio cognome è Holmes, e nient'altro. Non ho mai avuto nessuno con cui parlare, o a cui chiedere.»
«Cosa ti fa credere di essere figlia proprio di Sherlock Holmes?»
«Non ci sono molti Holmes in giro. È un cognome piuttosto raro.»
«E come hai trovato me?»
Amanda si chiede se mentire valga la pena – avrebbe già una storia pronta...
«Finnegan Norton. Ho usato la sua mail per scriverle. Non verrà alla festa di sua sorella, temo, perché ho cancellato l'email in cui veniva invitato. Mi dispiace, ma non potevo rischiare di incontrarlo qui. Sono sicura che la saluta con affetto.»
John annuisce, sempre con quel suo sorriso amaro.
«Non so nemmeno che faccia abbia, quel ragazzino.»
Amanda si lascia scappare un risolino, finendo le ultime gocce di tè. John si chiede se mentire valga la pena – gli si spezzerà il cuore, lo sa.
«Purtroppo, non credo ci sia molto che io possa fare per te. Come vedi, Sherlock Holmes non abita più qui.»
«Ma lei l'ha conosciuto, avete vissuto insieme per anni. Hatman e Robin, il detective e il suo blogger. Sicuramente saprà dov'è andato. No?»
John vede il sorriso della ragazza incrinarsi di delusione.
«Hai letto le storie? I giornali, i blog? Le leggende su Sherlock Holmes?»
Lei annuisce.
«Bene. Per tua sfortuna, la realtà non c'entra niente. Sherlock... nessuno è mai riuscito a farne un ritratto decente, nemmeno io. Sì, l'ho conosciuto, ho vissuto con lui per buona parte della mia vita... Non ho sue notizie da sette anni.»
Amanda stringe i pugni, sporgendosi in avanti sul tavolo.
«La prego. Se può fare qualcosa, anche un piccolo indizio... Un numero di telefono, un indirizzo... Potrei essere completamente fuori strada, magari un'infermiera a caso mi ha messo questo nome perché era fan delle sue storie, ma io devo sapere.»
John alza gli occhi su di lei, trovandoli pieni di speranza, di aspettativa.
«E sento di essere sulla buona strada.»
Più di quanto immagini, bambina mia.
 

 





Eccoci di nuovo. Grazie a chi segue e ha letto fin qui, e grazie a chi ha voluto lasciarmi due parole :) 
A presto!
-Clock
PS: come la pensereste su capitoli un po' più corposi?

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Capitolo 3
*** Almeno un milione di scale ***


Almeno un milione di scale
 
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
E. Montale, Satura
 
 
 
Cicatrici. Sherlock ne aveva diverse.
Ne aveva una sotto lo zigomo destro – piccola, tonda, di quelle che lascia la varicella da bambini. L'aveva notata un giorno mentre gli versava il tè – erano vicini, così vicini che Sherlock aveva tossicchiato e si era seduto un po' più rigido, e John si era raddrizzato ed era probabilmente arrossito. Ma, da allora, ogni volta che si trovava abbastanza vicino al detective, quella piccola cicatrice gli balzava agli occhi come se avesse avuto una freccia luminosa. E si chiedeva a quanti anni avesse avuto la varicella, come avesse potuto resistere senza fare niente per tutto il tempo della convalescenza, che tipo di bambino era stato.
Ne aveva una, piuttosto brutta, sul ginocchio – John l'aveva notata una volta che Sherlock si era infagottato in una polo e calzoncini corti per mascherarsi da turista americano. Non era mai riuscito a farsela spiegare – si vergognava di chiedere a Sherlock, come se avesse invaso la sua privacy guardando quella cicatrice di solito nascosta.
Ne aveva parecchie, sulla schiena, sottili e pallide come pennellate di acqua su una tela bianca – la prima volta le aveva viste di sfuggita, per sbaglio, quando era arrivato al 221b e Sherlock era ancora in camera sua, la porta socchiusa, a rivestirsi nel sole della mattina. Erano un retaggio della rete di Moriarty, John ne era certo, ma non aveva mai osato chiedere spiegazioni – per quanto avesse visto innumerevoli ferite e cicatrici nella sua vita, pensare che Sherlock avesse sofferto sotto tortura gli toglieva il respiro e gli faceva montare una rabbia indicibile.
Ne aveva un'altra, a forma di stella, sul petto, sotto il cuore. John non aveva mai avuto bisogno di vederla per sapere che era lì: ogni volta che guardava Sherlock sentiva dolore, senso di colpa e rabbia attanagliarlo al cuore e togliergli il respiro, neanche avesse lui una pallottola fra le costole. Quella cicatrice, era come se gliel'avesse ricamata lui.
•••
 
 
«Mi dispiace, ma non posso aiutarti. Io e Sherlock... Non abbiamo più niente in comune ormai.»
Amanda chiude gli occhi e annuisce. Un buco nell'acqua, a quanto pare.
«Potrebbe dirmi qualcosa su di lui? Com'era veramente?»
Un lieve sorriso si forma inaspettatamente sulle labbra di John, tutto il suo viso viene illuminato da una luce soffusa. Ma è solo un lampo, prima che il dolore torni ad offuscare i suoi occhi. Deglutisce, apre e chiude i pugni, le labbra una ferita sottile in mezzo alla barba grigia.
Com'era veramente.
Scintille di una vita lontana.
Occhi curiosi sopra il giornale. Afghanistan o Iraq? Shampoo solo ed esclusivamente alla lavanda. Gli eroi non esistono, John. Earl Grey zuccherato senza latte. Ti ho deluso. Il silenzio complice della domenica mattina. Sarei perso senza il mio blogger. Spartiti scarabocchiati. Il mio biglietto. Spari, corse, risate. Ti ho sentito. Il violino nel mezzo della notte. Le due persone che ti amano di più al mondo. Le sigarette rubate. L'uomo che hai salvato. I baci nascosti. Sherlock è un nome da femmina. Le parole assassine, le ferite. Le cicatrici.
John deve chiudere gli occhi e prendere un bel respiro. Troppe emozioni tutte in una volta, ora capisce Sherlock...
«Forse ho qualcosa.»
Amanda lo osserva alzarsi e zoppicare verso il soggiorno. Lo segue, esitante. John si muove a fatica, come invischiato nelle sabbie mobili dei suoi stessi ricordi.
«Ecco qua.»
Le porge un album polveroso, dalla discreta copertina nera.
«Gliel'ha regalato Molly, per i quarant'anni. Lui non pensava ci sarebbe mai arrivato.»
Lei lo guarda emozionata e quasi timorosa; lui le accorda il permesso con gli occhi.
«Non gli piaceva farsi fotografare. Per trovare queste foto ci abbiamo messo mesi...»
Amanda volta una pagina dopo l'altra, attenta, scrutando il volto di quell'uomo, cercandovi tracce, sfumature, somiglianze. Non è quasi mai solo: ovunque c'è una versione più giovane e più ridente di John, oppure un uomo dai capelli brizzolati e l'aria affabile, una signora anziana, una ragazza dai capelli castani.
«Lei è Molly» spiega John, indicandogliela. Quasi contro la sua volontà, ha la testa piegata di lato per vedere bene le fotografie, ma senza osare avvicinarsi troppo. I suoi occhi saettano da Amanda a Sherlock, cercando tracce, sfumature, somiglianze – contro ogni logica, e lo sa bene. Sa che lei sta facendo lo stesso.
«Lei è Mary. Mia moglie.»
Amanda sente la sua voce scivolare appena sull'ultima sillaba e lo guarda interrogativa, ma lui ha gli occhi fissi sulla foto: una bella donna bionda, in abito da sposa, sorride felice accanto a John e, pochi passi più indietro, Sherlock sta dritto e impettito con il cilindro sotto il braccio. John vede gli occhi della ragazza allargarsi per la sorpresa. Può quasi sentire il suo cuore battere più rapido, le domande accavallarsi nella sua testa.
Sta quasi per dirle la verità, si trattiene appena in tempo.
«È morta vent'anni fa.»
Lei scuote la testa. Non è possibile. Probabilmente sbaglia, forse è solo una strana coincidenza. Eppure ha la sensazione di aver già visto quel volto, di averlo conosciuto…
«Mi dispiace.»
Anche a me.
John annuisce, fa qualche passo indietro, riacquista compostezza.
«Puoi tenerlo, se vuoi. A lui non è mai servito. Ha una memoria fin troppo buona.»
Lei annuisce ancora, la gola improvvisamente secca. Sente che è ora di andare, la polvere la sta soffocando.
«Io... è meglio che vada. È stato molto gentile, signor Watson. Mi perdoni se l'ho disturbata. Grazie per il tè e... questo.» Lo solleva appena. Tiene gli occhi bassi, non riesce a guardarlo in viso. Lui annuisce, le mani dietro la schiena.
«Ti accompagno alla porta.»
«Non si disturbi, io...»
«Andiamo.»
C'è una sorta di ruvida dolcezza nel suo tono, che aggiunge un'altra domanda al cumulo che Amanda ha già in testa.
Scendono le scale in silenzio, lentamente, John aggrappato al corrimano.
 
 
•••
«Devo vederla.»
Sherlock aggrottò le sopracciglia, continuando a picchiettare sul suo laptop.
«Vedere cosa?»
«La tua cicatrice.»
Il sopracciglio di Sherlock ebbe un furtivo scatto all'insù, impercettibile ad un occhio non allenato come quello di John.
«Perché questo interesse? È il segno lasciato da una ferita ricucita da un medico poco competente, niente di più. Non vederci altro, John.»
«Per questo ho bisogno di vederla.»
Finalmente, il detective si voltò. John era in piedi dietro di lui, dritto e rigido, il mento all'infuori, l'aria risoluta; gli ricordava il piccolo medico militare appena tornato a Londra che aveva ucciso un uomo per salvargli la vita due giorni dopo averlo conosciuto. Quanta acqua è passata sotto i ponti – e quanti proiettili, e fuoco, e dolore.
Lo sguardo di John era quello di chi non ammette replica – altrimenti crollerebbe. Sherlock sospirò. Se è quello che vuole.
Con lentezza ed eleganza esasperanti, si alzò in piedi, sbottonò la giacca e l'appoggiò sullo schienale della sedia, quindi passò alla camicia. I suoi occhi erano piantati in quelli di John; quelli del medico sembravano voler incitare e al contempo fermare le dita dell'altro, che scendevano di bottone in bottone, inesorabili.
Sherlock non provava particolare pudore nei confronti del suo corpo: per lui, era un mero contenitore, uguale a quello di tanti altri uomini. Non si era mai fatto troppi problemi a girare per casa con addosso solo un lenzuolo, o un asciugamano, o i pantaloni del pigiama – un po' perché, lo ammette, lo divertiva un mondo vedere la reazione spropositata di John. Ma, in quel momento, sentì un certo calore affluirgli intorno al collo e alle orecchie, un certo turbamento dalle parti del ventre – mai successo prima, con John. Si rese conto che c'era stato un prima, in cui avrebbe potuto dire qualunque cosa a John, se gliel'avesse chiesta: con fatica, certo, con riluttanza, ma l'avrebbe fatto e ne sarebbe stato sollevato, perché si fidava di lui senza riserve. Ma c'era un ora, in cui avvertiva come una tenda sottile dividerlo da lui, rendergli più difficile rivelarglisi, quasi impossibile.
Aprì la camicia quel tanto che bastava a mostrare la cicatrice. John deglutì e avanzò d'un passo, esitante. Strinse i pugni, deglutì di nuovo.
«Sono stato io a farti quella cicatrice, Sherlock.»
«John...»
«Sono stato io. Dopo tutti questi anni, l'unica cosa che hai ottenuto da me è una cicatrice.»
Sherlock sentiva come se la ferita si stesse riaprendo.
«Non dire così, John...»
Lui scosse il capo, irremovibile. Apriva e stringeva i pugni, come ogni volta che veniva travolto da una valanga di emozioni.
«Ma è così, Sherlock. È esattamente così. E ora che quella cicatrice è lì, non posso più ignorarla.»
Sherlock rimase in silenzio per qualche secondo. Fece per richiudere la camicia, ma le dita di John volarono sulla sua pelle, per un istante. Il medico se le portò alle labbra, chiudendole a pugno.
«Hai una famiglia a cui pensare.»
«Lo so. Ed è questo che mi uccide, vedi? Se mi fossi accorto prima di quella cicatrice, avrei potuto rimediare.»
«La tua è un'ipotesi un po' anacronistica.»
John sorrise del sorriso dei disperati.
«No, Sherlock. Quella ferita è sempre stata lì» mormorò con voce strozzata. Sherlock abbassò le palpebre, colto in fragrante.
«Come fai a dirlo?» sussurrò, sconfitto.
«Sono stato cieco per molto tempo; poi qualcuno mi ha insegnato ad osservare, a mettere insieme i dettagli e a trarne una conclusione. Ti suona familiare?» spiegò, con tranquillità, mentre gli abbottonava la camicia, in un gesto tenero e intimo, doloroso per entrambi.
«Non si può dire che tu sia stato un allievo brillante.»
«Ho avuto un maestro criptico.»
Le mani di John si posarono sul suo petto. Sherlock indietreggiò di un passo.
«È soltanto una cicatrice.» 
John annuì. Che altro potevano fare, ora?
Una identica ferita gli si era aperta nel petto.
•••
 
 
Il Tamigi scorre placido sotto di lei, la brezza salmastra le solletica i capelli. Getta indietro la testa, inspirando profondamente. Il cellulare squilla facendola sobbalzare. Lo tira fuori dalla tasca e controlla il mittente.
«Salute a te, Londinese dei miei stivali.»
«Ciao, Merry.»
«Mi raccomando, non preoccuparti della tua migliore amica. In fondo, se non rispondi ai suoi quindici messaggi, cosa importa? È soltanto la tua migliore amica che si preoccupa per te.»
Amanda si guarda i piedi. Può quasi immaginare i penetranti occhi scuri della ragazza redarguirla attraverso le lenti spesse.
«Scusa. Per farmi perdonare, ti comprerò un servizio da tè» scherza. Ma sa bene che con Merry serve a poco.
«Ritenta, sarai più fortunata... In ogni caso, come stai? Come sta andando? Hai trovato questo tipo, come si chiamava?»
«John Watson.»
«Sì, quello. Che tipo è?»
Amanda le racconta brevemente del loro incontro di poco fa. In grembo, sfoglia lentamente l'album di fotografie. 
Incontrare John l’ha svuotata, drenata, come un fiume in estate. La stagnante aria di rinuncia, rimpianto e depressione del 221b l'hanno come infiacchita, spenta. Si sente più pesante e più confusa di quando è partita.
«C'è una donna. Mary.»
Sente Merry trattenere il fiato, dall'altra parte. Amanda non ha quasi il coraggio di dirlo ad alta voce, di renderlo possibile.
«Ho la sensazione di averla già vista, da qualche parte. Mi assomiglia un po’.»
«Oh, Amanda...»
Forse è solo suggestione, ma ad Amanda sembra di aver già visto quegli occhi, le linee e le sfumature di quel viso nel proprio riflesso. E deve ammettere con sé stessa che non trova nessuna somiglianza con l'investigatore, invece. Il suo viso algido e altero fa capolino fra le pagine, accanto a quello bonario e confortevole di John.
«Era la moglie di John.»
«John? Aspetta, ma tu non eri figlia dell'altro?»
«Non lo so! Potrei, forse... Se solo sapessi qualcosa di più su di lui. John deve saperlo sicuramente, ma perché me lo tiene nascosto?»
Il tono di Merry è dolce, materno.
«Forse non è così semplice.»
No, forse non è così semplice.
Sospira, chiudendo l’album.
«E c’è qualcosa che non mi quadra, su quella donna… Io l’ho già vista…»
«Forse è solo una coincidenza…»
Scuote la testa.
«Puoi farmi un favore? In camera mia, nell’armadio, c’è uno scatolone con dentro delle fotografie e gli annuari. Se ti mando una foto di questa donna, puoi controllare che… non so, magari è stata una mia insegnante, o qualcosa del genere… Ma io l’ho vista…»
Sente Merry sospirare. Sta per dirle che è una perdita di tempo, che farebbe meglio a tornare a Cambridge e lasciar perdere.
«Come vuoi.»
 
 
John si asciuga gli occhi con una mano, guardandola andare via. Più si allontana, più gli sembra di essersi immaginato tutto.
Amanda. È stata lì, nel suo soggiorno, gli ha parlato.
E lui l'ha lasciata andare.
Perché diamine l'ha lasciata andare senza dirle niente? Non ha nemmeno chiesto dove alloggiasse, o il suo numero...
Con una stretta al cuore, vede la sua testa bionda sparire nel nero delle scale della metro. E sente il cuore farsi di pietra e crollargli fin sotto le scarpe – l'ha lasciata andare. Sua figlia è venuta a parlargli, l'ha vista per la prima volta nella sua vita, e lui l'ha lasciata andare, come sabbia fra le dita.
La paura, si rende conto, la paura di cui è fatta la polvere che ricopre il 221b, che lui inala ad ogni respiro, l'ha inchiodato al suo posto, e l'ha lasciata andare via.  
Sherlock non l'avrebbe fatto.
Strizza gli occhi, come punto da un insetto.
Prega per una seconda opportunità, ma sa che è tardi.










•••
Grazie a chi è arrivato fin qui, a chi segue in silenzio e ad emerenziano e alle sue belle parole :) 
Qualunque critica/ commento è più che benvenuto! 
-Clock
 

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Capitolo 4
*** London Calling ***




London Calling
 
London calling, yes, I was there, too
An' you know what they said? Well, some of it was true!
London calling at the top of the dial
And after all this, won't you give me a smile?
The Clash, London Calling
 
 
«Sono occupato.»
«Anche per me è un piacere sen-sen…»
Un accesso di tosse lo interrompe bruscamente.
«Sentirti.»
«Sono. Occupato. Hai il mal di gola?»
«E dire che speravo che gli anni ti avrebbero addolcito.»
Un altro attacco di tosse, più lungo del precedente. Si schiarisce la gola un paio di volte, prima di riprendere a parlare. La sua voce è roca, ora.
«Un principio di influenza, temo.»
«O di bronchite. Sei a casa?»
«Sì» soffia, cercando di soffocare un altro attacco di tosse.
«Cosa ti serve?»
Sospiro. Riacquisire compostezza.
«Lei è da John.»
Pugno stretto.
«Bene.»
Silenzio.
«Hai intenzione di farti vivo?»
«È richiesta la mia presenza?»
«Sarebbe preferibile.»
«No, non credo.»
«Sherlock...»
«Mycroft, francamente, hai sempre lasciato a desiderare in quanto a rapporti umani. Il tuo parere in questo campo non gode della mia migliore stima.»
Altro sospiro.
«Come vuoi.»
Pausa.
«Non sei nemmeno curioso?»
Esitazione.
«Non hai nemmeno un po' di nostalgia?»
Respiro spezzato. Beccato.
«Buona giornata, Mycroft.»
«A te, fratellino caro.»
Cellulare scagliato via, rimbalza sul divano.
 
 
Amanda ha sempre ritenuto di avere una buona qualità: la tenacia. Merry dice che è solo cocciuta come un mulo, ma Amanda scrolla le spalle e continua a chiamarla determinazione. Perciò, dopo una nottata in bianco in preda di dubbi e domande, non perde altro tempo in vaneggiamenti: è venuta a Londra per un motivo, e John sta ponendo troppi silenzi fra lei e il suo obbiettivo.
Attende in strada per un po', prima che il portone si apra. Chissà perché non ha un citofono, si chiede distrattamente.
John è evidentemente sorpreso di vederla.
«Cosa ci fai qui?»
Amanda nota che si appoggia ad un bastone, occhiaie più profonde del giorno prima ed evidenti segni di stanchezza, ma anche capelli pettinati e camicia stirata – anche se intravede, sul pollice, una sottile striatura rossa. John non ha riposato a dovere, qualcosa lo turba profondamente – ma qualcosa lo spinge anche a pettinarsi e stirarsi le camicie – senza troppa attenzione, però, tant’è che si è ustionato.
«Le propongo un patto.»
«Un patto?»
John solleva un sopracciglio, cercando di resistere al sorrisetto divertito che gli sta nascendo sulle labbra – credeva che non l’avrebbe mai più rivista.
«Sì. Lei mi fa da guida turistica per Londra e mi dà una mano a rintracciare Sherlock Holmes.»
John solleva anche l’altro sopracciglio.
«E dove sarebbe la mia parte vantaggiosa del patto?»
Amanda scrolla le spalle.
«A parte divertirsi e passare del tempo con una ragazza fantastica con me?» scherza, strappando a John un risolino.
«Beh, se riesco a mettermi in contatto con Holmes, posso provare ad aiutarvi a ricostruire un rapporto.»
La postura di John si fa subito più rigida, sull’attenti; un’ombra passa sul suo viso – Amanda teme di aver osato troppo.
«Cosa ti fa credere che ne abbia bisogno?»
«Nessuno è fatto per vivere da solo, dottor Watson.»
«Non ho bisogno di un terapeuta.»
«Lo so, è solo che… io…»
Si morde le labbra ed esita, a disagio. Ha sbagliato, doveva girarci intorno, non essere così diretta, ora le chiuderà la porta in faccia…
John sospira, alzando lo sguardo al cielo. Deglutisce, mentre sente l’ondata di delusione e risentimento che l’aveva invaso scemare e allontanarsi. In fondo, sta cercando di aiutarlo – dovrebbe essere il contrario, in effetti.
«Non sembravi tanto impertinente ieri.»
Amanda sgrana gli occhi, incredula, e sorride.
«Oh, beh...» fa spallucce, fingendo modestia. Vorrebbe esultare, il sorriso si allarga sempre di più.
«È merito della maglia» scherza, voltandosi ed abbassando la giacca di jeans abbastanza perché l'uomo possa leggere la scritta bianca sulla schiena: go Freud yourself. Si gira in tempo per cogliere il risolino divertito di John.
«Davvero impertinente.»
«Le piace? Ho intenzione di indossarla alla laurea, sotto la toga.»
«Mi pare appropriato.»
Amanda sorride felice – negli occhi di John, per quelle brevi battute, è brillato un raggio di sole.
«Il mio turno inizia fra tre ore» annuncia lui, allungando un braccio per prendere una giacca dall'attaccapanni. Amanda vorrebbe battere le mani dalla contentezza.
«Diamoci una mossa.»
John avanza di qualche passo e si chiude il portone alle spalle. Amanda tiene il labbro inferiore fra i denti, come a voler intrappolare il suo sorriso – gli ricorda lei più che mai, in questo momento.
«Da dove iniziamo?» chiede l'uomo, avviandosi verso la fermata della metropolitana.
«Ah, non so. La guida è lei.»
«Camden, allora. E dammi del tu, mi fai sentire vecchio.»
«Beh, se vuoi saperla tutta, non è che quella barba ti ringiovanisca.»
«Oh, beh, grazie
«Figurati.»
Gli sorride e John non può fare a meno di ridere.
 
 
La guarda camminare con il naso per aria, fotografando ogni dettaglio della strada con gli occhi. Non gli è difficile immaginarla bambina, con quell'espressione di spontanea meraviglia che porta in viso. Abbassa gli occhi sul bastone che accompagna il suo passo.
A Sherlock piacerebbe, si ritrova a pensare, e subito se ne pente, tenta di zittire la vocina nella sua testa. Sherlock si sarebbe mostrato freddo e distante all'inizio, ma poi l'avrebbe lasciata avvicinare, continua imperterrita.
Come hai fatto tu.
John scuote la testa e torna a guardare la ragazza al suo fianco.
«Cosa ne dici? È un quartiere particolare, non trovi?»
Lei ha gli occhi che brillano. I palazzi colorati, le insegne multiformi che balzano via dai muri, i negozietti minuscoli che stendono le braccia fin sui marciapiedi affollati di gente variopinta quanto la strada.
«È fantastico. È così... non c'è alcuna regola. Potrei mettermi a camminare sulle mani e nessuno avrebbe niente da ridire.»
John ridacchia. La ragazza non ha tutti i torti.
«Hai fame? Ricordo un posto qui dietro che faceva ottimi panini...»
Amanda sorride contenta.
«Volentieri.»
Nel locale, in una stradina secondaria affacciata su Camden Road, c'entrano giusto il bancone e due tavolini, ma il panino al tacchino ed avocado è il più buono che Amanda abbia mai mangiato.
«Non ho idea di che cosa ci sia dentro, ma cavoli se è buono...»
John annuisce, piluccando la porzione di patatine che condividono.
«Sherlock mi ci ha portato, una volta. Il proprietario era coinvolto in un giro di vendita di organi sul mercato nero.»
Amanda smette di masticare. John corruga le sopracciglia, pensoso.
«Erano quasi quindici anni fa, ormai sarà uscito di prigione. I panini sono rimasti ottimi, però. Penso sia a gestione familiare.»
Amanda manda giù a fatica, aiutandosi con un sorso di Sprite.
«È quasi più macabro degli addetti alla mensa del collegio in Germania.»
John solleva un sopracciglio in segno di interesse.
«Sono stati imputati per avvelenamento colposo e occultamento di prove da una scena del crimine.»
John sgrana gli occhi inorridito.
«In un collegio! È ridicolo!»
«Il collegio però ha chiuso.»
Si guardano per un istante, prima di scoppiare a ridere entrambi.
We can't giggle, it's a crime scene!
«Sai... Erano anni che non venivo a Camden. Dio, non so nemmeno da quanto tempo non uscivo più di casa solo per il gusto di farlo, a dire il vero...» mormora John, portandosi il suo panino alla bocca. Il sorriso di Amanda sfuma appena.
«Sherlock lo faceva sempre. Ridere quando nessuno se lo aspettava» Si ferma, pensoso. «Trovare e tirare il bandolo della matassa, che tirava via la parte di te più nascosta e segreta.»
Amanda abbassa gli occhi, poggia il panino sul piatto.
«Eravate molto uniti?»
John chiude le palpebre.
«Più di quanto due persone dovrebbero mai essere» sussurra, quasi contro la sua volontà. Amanda non osa chiedere altro, lui sembra combattere una battaglia dentro di sé. Alla fine, riemerge.
«In ogni caso. C'è Madame Tussaud's, qui vicino, ci sei mai stata?»
Amanda scuote la testa. Per un momento, ha colto un lampo negli occhi di John che non aveva mai visto prima – un raggio luminoso di nostalgia, rimpianto e, innegabilmente, amore. John continua a mangiare il suo panino. Il momento è passato, come un'onda.
 
 
•••
«Signora Watson.»
La donna si voltò, una mano sulle reni doloranti. Mancava poco, ormai. Sbuffò, sorridendo amaramente.
«Ancora per poco, purtroppo. È tutto pronto?»
L’altro annuì. Non si curò di mascherare i suoi pensieri come al solito: il suo viso lasciava trapelare tutta la sua preoccupazione e i suoi dubbi.
«C’è ancora tempo per tirarsi indietro.»
Mary scosse le spalle.
«E a che servirebbe? Renderebbe soltanto le cose peggiori.»
Indossò un cappotto nero, prese la sua borsa, si guardò intorno per l’ultima volta.
«Andiamo. Questa piccolina ha voglia di uscire» disse, con un tono allegro che stonava terribilmente con tutta la situazione. Mycroft sospirò, ma non commentò oltre: si limitò ad aprirle la porta e scortarla fuori, dentro la macchina che li avrebbe accompagnati all’ospedale.
Il viaggio trascorse per lo più in silenzio. D’un tratto, Mary gli strinse una mano.
«Spero tu sappia quanto apprezzo quello che stai facendo per me… per noi. Sarò eternamente in debito.»
Mycroft chinò appena il capo.
«Dovere.»
«Oh!»
Mycroft voltò la testa, sorpreso di vederla ridere.
«Dio, sei così uguale a Sherlock! Anche lui è tutto preso da queste galanterie, questi voti, questi doveri…»
Scosse la testa, strizzando brevemente le dita inguantate dell’altro.
«E poi ci sono quelli come me, che non fanno altro che scappare, promettere e non mantenere… Ormai non so più nemmeno fino a dove è caso e fino a dove è colpa mia.»
Mycroft ricambiò la stretta, lieve.
«Non c’è bisogno di essere così duri con sé stessi, Mrs Watson.»
La donna gli lanciò un’occhiata ammonitrice.
«Mary
Gentilmente, lasciò la mano della donna e unì le proprie in grembo, intrecciando le dita.
«Spero solo che John starà bene. So che è in buone mani» disse Mary, sorridendo con lo sguardo fuori dal finestrino.
«Nulla vieta un eventuale ritorno, un giorno, quando la situazione sia più tranquilla.»
«Oh, no.»
Scosse di nuovo il capo.
«Ho chiuso con Londra. Ho causato già abbastanza guai. Noi due ce la caveremo anche da sole» mormorò, accarezzandosi distrattamente la pancia prominente. Mycroft annuì, si chinò ed estrasse un fascio di fogli dalla sua valigetta.
«Qui, tutta la documentazione di cui avrai bisogno. Il nuovo passaporto, i certificati, le lettere…»
«Grazie.»
La donna li prese e li sistemò nella sua borsa. Mancava poco all’ospedale, ormai. Sentiva avvicinarsi aria di fine.
«Ogni tanto non ti stanchi di fare da Padreterno, Mycroft?»
L’uomo piegò appena il capo di lato, indirizzandole un’occhiata insieme d’avvertimento e di domanda. Mary scosse le spalle.
«Era tanto per chiedere.»
•••
 
 
Alla fine, hanno rinunciato a Madame Tussaud's e sono arrivati alla Tower of London, invece. Amanda sperava di vedere i corvi, ma non ne ha avvistato nemmeno uno.
«Come mai Psicologia?» chiede John, mentre passeggiano sul Tower Bridge. Amanda scuote le spalle.
«Sento che è l'unica strada che fa per me. Non so dipingere, con i numeri faccio schifo, il sangue mi fa senso. Non rimaneva molta scelta, oltre a Geologia.»
John ridacchia. Amanda si stringe nelle spalle, guardando i riflessi pallidi del sole sul Tamigi sotto di loro. Si avvicinano al parapetto.
«La mente delle persone mi ha sempre affascinato. Studiare i meccanismi dietro le nostre azioni, cercare di capire i nostri impulsi più segreti... è affascinante, anche se a volte è deludente sapere che c'è una spiegazione dietro qualunque cosa. Toglie un po' di magia al mondo.»
John sorride.
«Oddio, penserai che io sia una bambina...»
«No.»
Penso che mi è mancata mia figlia.
«In fondo, non è quello che facciamo tutti? Cercare di scoprire cosa c'è dietro a tutto quanto?»
Questo, riflette, è quello che anche loro avevano fatto: indagare le cause, risalire alle origini, svelare i misteri, guarire le ferite. E la magia, almeno per Sherlock, stava nel gioco stesso.
«Sì, ma a volte vorresti solo prendere la vita per quella che è. Accettare il mistero.»
«Hai mai pensato a Filosofia?»
Amanda ride gettando indietro la testa, mentre riprendono a camminare.
«Certo, e fra vent'anni mi ritroveresti qui, sotto il ponte. O peggio, a insegnare.»
Ora è il turno di John di ridere, mentre scendono sulla sponda Sud. Si fermano, ammirando la Torre dall'altra parte del fiume.
«Sai, una volta un uomo ci è entrato, si è seduto sul trono e si è messo in testa la corona. Ha aspettato la polizia lì, con lo scettro in mano.»
Amanda sgrana gli occhi.
«E perché mai avrebbe dovuto fare una cosa del genere?»
«Per tendere una trappola a tuo padre.»
Amanda sobbalza lievemente. John corruga la fronte e scuote il capo.
«V-volevo dire... Sherlock. Sherlock, volevo dire Sherlock.»
La ragazza abbassa gli occhi, annuendo lievemente.
Spiegami questo, Amanda. Spiegami perché ho detto che lui è tuo padre.
«Sì è fatto tardi, forse è meglio andare.»
Lei annuisce. Si separano poche fermate di metro più in là. John la guarda sparire tra la folla, senza sapere cosa pensare.


 



Grazie a chi legge, segue e, sopratutto, recensisce! Siete preziosi.
A presto!
-Clock

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Capitolo 5
*** Sonetto 116 ***


 
Sonetto 116
 
 
Yes, there’s love if you want it
Don’t sound like no sonnet, my lord.
The Verve, Sonnet
 
 
«Love is not love
which alters when it alteration finds,
or bends with the remover to remove
John si fermò sulla soglia, le orecchie tese. Quella era senza dubbio la voce di Sherlock. E, senza dubbio, quello era un sonetto di Shakespeare.
«O no, it is an ever-fixèd mark
that looks on tempests and is never shaken.»
Gli dava uno strano brivido ascoltare la notte della voce di Sherlock modularsi docile in parole d'amore.
«It is the star to every wand'ring bark,
whose worth's unknown, although his height be taken
Chiuse gli occhi, colpito. Era come venire inghiottiti da un mare di seta scura, di soffice velluto. Si sentiva vibrare come una corda di violino.
«Quanto ancora hai intenzione di restare lì impalato dietro la porta?»
Trasalì, come se una secchiata d'acqua l'avesse svegliato dal più placido dei sogni. Arrossendo impercettibilmente, spinse la porta ed entrò.
«Devi ammettere che non è uno spettacolo comune, sentirti declamare a voce alta uno dei più grandi poeti di tutti i tempi. Non avevi cancellato la letteratura dal tuo hard-disk?»
Sherlock lo guardò sollevando un sopracciglio. In piedi davanti al camino, combatteva con una cravatta. John aggrottò le sopracciglia. Era ormai un anno che erano coinquilini, e l'aveva sempre visto arringare deciso contro quei “ridicoli strumenti di costrizione”, quando John ne metteva una per un appuntamento a cui teneva particolarmente.
«William Shakespeare è uno dei pochi poeti che abbia mai scritto qualcosa di sensato, quando non scriveva per accontentare qualcuno o per fare soldi. Sai che ha inventato più di 1700 parole che usiamo ancora oggi? Anche se non tutte sono veri e propri neologismi, ma per lo più sostantivi diventati verbi e viceversa.»
Guarda accigliato il riflesso del groviglio di stoffa che ha intorno al collo. Si volta verso John con una muta domanda in volto.
«E perché recitavi a voce alta? Era un sonetto, vero?»
«Il 116. L'unico modo per apprezzare veramente la poesia è leggerla ad alta voce» disse, come se fosse una verità universalmente accettata. John ridacchiò, annodandogli con delicatezza la cravatta. Poteva sentire i suoi occhi vitrei sul suo viso, il suo fiato sui capelli.
«Ecco fatto.»
Fece un passo indietro, per allontanarsi da Sherlock e dal miscuglio di emozioni che ribollivano nel suo stomaco. Aveva ancora i suoi occhi puntati su di sé.
«Ehi... Quella non è la mia cravatta?»
Sherlock sollevò un sopracciglio, sarcastico.
«E te ne sei accorto solo ora?»
John arrossì, rifiutandosi di palesare i pensieri che l'avevano distratto dalla cravatta, come il candore del collo di Sherlock, il profumo del suo dopobarba, la sua voce di violoncello che declamava versi d'amore – perché, perché provava queste cose? Era il suo coinquilino, santo Dio! Un uomo. Sposato con il suo lavoro e interessato a John quanto John era interessato all'uncinetto.
«Non sgualcirla. Dove devi andare?»
«A cena da Miss Southerland. Mi servono prove che abbia un amante.»
Sherlock sparì dopo essersi infilato la giacca ed aver appuntato un garofano all'occhiello. John rimase a fissare il caminetto, rimuginando.
•••
 
 
Si gira e rigira il foglietto fra le mani, indecisa. Lo chiamo o non lo chiamo? Fa un gran sospiro e inizia a comporre il numero.
John risponde dopo tre squilli, il cardigan abbottonato per metà. Lancia un occhio all'orologio. Deve fare in fretta, o arriverà tardi all'ambulatorio.
«Pronto?»
«Ciao! Sono Molly.»
«Molly? Molly Hooper?»
La donna sorride un po' di più, rigirandosi la fede al dito.
«La signora Lestrade, ormai.»
«Che cosa? Dio, sì, hai ragione... Ne è passato di tempo.»
«Fanno quattordici anni, fra due mesi.»
Quattordici anni.
Sherlock è andato via sette anni e quattro mesi fa.
Ricorda, vagamente, il matrimonio di Molly e Greg – una cerimonia tranquilla, senza sfarzo, in un piccolo cottage appena fuori Londra. Ricorda che Sherlock l’aveva costretto a ballare – doveva essere un po’ brillo.
«Già. Come stai? Come sta Greg?»
«Bene, stiamo molto bene, grazie. È passato tanto tempo...»
«Già.»
Il silenzio di sette anni pesa sul filo del telefono.
Si rende conto che la sua vita, in questi anni, è rimasta esattamente la stessa, ogni giorno uguale all'altro – solo, più polveroso.
«Lavori ancora al Bart's?»
«Sì, io sono sempre all'obitorio. Arriverà il giorno in cui sarò dall'altra parte del tavolo!»
Ridacchia, imbarazzata, con voce un po' stridula. John fa una smorfia. Non è cambiata affatto.
«Già... Ora insegno, anche. Agli studenti che fanno tirocinio. È molto divertente.»
«Immagino. E Greg?»
«Oh, lui è andato in pensione il mese scorso. Mi fa diventare matta, non sa mai che cosa fare... L'altro giorno l'ho trovato coperto di terra che si era messo in testa di fare l'orto!»
«Ah, immagino...»
«Tu lavori ancora?»
«Oh, sì, sì, ancora per qualche anno. Mi tiene occupato.»
«Già, certo.»
Silenzio, di nuovo. John sa cosa sta per chiedergli, può sentirla provare e riprovare le parole giuste.
«Greg non sa che ho chiamato.»
Poteva immaginare. L’ultima volta che aveva sentito Lestrade risaliva a quasi due anni prima.
«Io volevo solo... Ho ritrovato il tuo numero, e ho pensato...»
«No, hai fatto bene. Mi fa piacere chiacchierare con te.»
«Sì, ecco...»
Fa un sospiro. Si prepara. Eccola.
«E Sherlock?»
Bella domanda.
«Sherlock? Oh, suppongo stia bene. Dovrebbe essere nel Sussex, a quanto mi ha riferito Mycroft qualche mese fa. Si occupa di api.»
«Oh. Sì, sì, Greg mi aveva detto che se n'era andato da Londra, ma pensavo... Ecco voi due...»
«Pensavi che l'avrei seguito?»
Molly non ha il coraggio di rispondere.
«Perché avrei dovuto? Sono anni che non ci parliamo, Molly.»
Sente un nodo stringersi nel suo stomaco al solo pensiero della sua voce – non l'ha dimenticata, nonostante il silenzio.
«Si era trasferito dall'altra parte di Londra. Io ormai avevo la clinica, e Mrs Hudson ci aveva lasciato il 221b nel testamento, così sono rimasto. Non lo vedo da allora. Ho letto sul Guardian che si era ritirato, qualche mese fa, e Mycroft mi ha detto che è in Sussex.»
«Oh.»
Il tono asettico con cui ha parlato deve aver ferito anche lei.
«Capisco.»
John si chiede se sia il caso di raccontarle di Amanda. Scoppia dalla voglia di parlarne, ma ha paura – e se poi lo dicesse a Sherlock?
«Ecco, io volevo solo...»
La sua voce scivola, trae un respiro tremulo.
«John, Greg ha avuto un incidente. Era in taxi quando u-un'altra auto gli è venuta addosso.»
Silenzio, mentre Molly rimette insieme la sua voce.
«Dio, mi dispiace.»
«Ora è al St Thomas'. Ecco, credo gli farebbe piacere se venissi a trovarlo. Ora sta bene, sì, ma... Ha rischiato molto, ecco.»
«Certo. Sì, io... Purtroppo sono molto impegnato, in questi giorni. Alla clinica sono tutti in ferie o in malattia, sto coprendo i turni di tutti...»
Si chiede se Molly riconosca le bugie.
«Oh, sì, certo, capisco.»
Sì, le riconosce.
«Beh, non fa niente. Magari quando uscirà.»
«Sì, magari.»
Silenzio.
«Beh, io devo proprio andare. Inizio il turno fra poco, devo scappare. Mi ha fatto piacere parlarti, Molly.»
«Oh, anche a me.»
«Saluta Greg. Ciao.»
«C-ciao.»
Rimane a fissare il cellulare con un latente senso di disgusto. Ha respirato l'aria fresca del presente insieme ad Amanda soltanto qualche ora fa, e già il passato ritorna ad ostruirgli i polmoni. Scuote la testa, affrettandosi ad uscire.
 
 
•••
Sherlock capì chi era non appena sentì aprirsi il portone. Non si scompose e voltò una pagina del giornale.
«Ehi, Sherlock. Buongiorno.»
«Buongiorno.»
John mosse impacciato qualche passo verso di lui, guardandosi attorno nel salotto disordinato.
«Mrs Hudson è in sciopero?» tentò di scherzare, con un tono forzato che non gli apparteneva, che stonava con le mura familiari del 221b.
«Suppongo che pensi di avere diritto allo sciopero, sì.»
John annuì un paio di volte, dondolandosi leggermente sulle punte dei piedi. Appurato che Sherlock non gli badava la minima attenzione, si sfilò la giacca e la appoggiò sullo schienale della sua vecchia poltrona. Sedendosi, lanciò un'occhiata alla cucina. La indicò con il pollice.
«Avuto qualcuno per cena?»
La cortese curiosità, il malcelato stupore e la sottile gelosia giunsero a Sherlock come un prurito fastidioso. Tamburellò con le dita sul giornale e voltò pagina.
«Janine. Chiedeva consulenze sull'apicoltura.»
In realtà, era stato Sherlock, per una volta, a chiedere consulenze. John annuì, mostrandosi impressionato. Sherlock si ritrovò a stringere la mascella, lo sguardo inchiodato sulla stessa insulsa didascalia ad una foto del nuovo bambino reale – come se non ci fossero già abbastanza eredi al trono – da almeno cinque minuti. Sentiva gli occhi di John perforarlo attraverso i sottili fogli di carta.
«Sherlock, abbiamo bisogno di parlare.»
«No, non ne abbiamo alcun bisogno.»
«Sherlock...»
«Non abbiamo nulla da dirci, John.»
Si alzò e chiuse il giornale con lo stesso movimento fluido. Lanciando appena una breve occhiata a John, lasciò il giornale sul tavolo e si diresse alla finestra.
«Io sono sposato con il mio lavoro, tu con Mary.» Con un filo di voce, tanto che John pensò di esserselo immaginato, aggiunse: «È troppo tardi.»
John fece per replicare, ma Sherlock lo precedette.
«Londra è in pericolo. Per il bene di tutti, tu e Mary fareste meglio a starmi lontano.»
«No.» John si alzò in piedi, puntandogli un dito contro. «Non puoi chiedermi questo. Non puoi pretendere...»
«Siete il mio punto debole, John, e al momento non posso permettermelo.»
«Io non sono il punto debole di nessuno!» urlò l'altro, avvicinandoglisi a passo di marcia. Sherlock non si voltò. «Io voglio essere il tuo punto di forza, il tuo braccio destro, non una cazzo di damigella in pericolo! Non ho mai chiesto questo, non ho mai...»
«Let me not to the marriage of true minds...»
«No. Non provarci.»
Il dito di John gli pungolava il petto e lui fu costretto a voltare la testa verso di lui, gli occhi bassi. John riuscirà a sentire il suo cuore impazzito attraverso la stoffa?
«Non farmi questo, Sherlock. Non ora, non qui, non–»
Chiuse gli occhi e respirò profondamente.
Sherlock riusciva a sentire il suo dito pulsare, lì, al centro del suo petto, bruciante.
«Io non ho mai voluto che si arrivasse a questo. Mai. Se tu... Se prima di... Una parola, Sherlock, una parola sarebbe bastata.»
Lasciò cadere il dito, improvvisamente svuotato di tutte le energie, lo sguardo al pavimento.
«Una parola, e io sarei caduto ai tuoi piedi...»
Non appena le parole gli sfuggirono dalle labbra, si coprì la bocca con una mano. Gli occhi, scuri, guardavano Sherlock gravidi d'accusa, di rimprovero. Perché mi hai fatto dire questo?, sembravano gridargli. Sherlock lo guardò tremare, accanto a sé davanti alla finestra, incapace di raggiungerlo, di avvicinarglisi in qualunque modo – e non era forse sempre stato questo, il suo problema con il mondo?
John scosse la testa, come per cancellare la conversazione dalla sua mente, e si diresse a passo di marcia verso la porta. Esitò sulla soglia.
«Io sono prima di tutto tuo amico, Sherlock. Cerca di non dimenticarlo» mormorò con voce strozzata, poi sparì giù per le scale.
Sherlock appoggiò la fronte alla finestra. Lo vide uscire, voltarsi verso destra e procedere spedito verso la metropolitana. Non guardò indietro, né alla finestra.
Quando Mrs Hudson venne a portargli la cena e a chiedergli perché John fosse andato via senza nemmeno salutarla, lo trovò ancora lì.
•••
 
 
Spegne il portatile e lo chiude con un gesto seccato. Lestrade avrebbe dovuto capire immediatamente che quel tassista non aveva riflessi abbastanza veloci – aveva i polsini sporchi di ketchup, chiunque se ne sarebbe accorto. Se non altro, il St Thomas' è un buon ospedale, ottimi medici, vista sul Parlamento e il Big Ben. Molly è appena arrivata, dieci minuti prima dell'orario delle visite, come suo solito, portando una cioccolata calda e un dolce. C'è da stupirsi che Greg sia ingrassato così poco, in tanti anni di matrimonio.
Sospira e stiracchia le braccia, alzandosi. Riempie il bollitore e accende il fornello. Sbatacchia tutte le ante finché non trova il tè – lo mette sempre in un posto diverso, soprappensiero – John lo rimproverava sempre, per questo. Non a caso Sherlock non preparava mai il tè, se non quando estremamente necessario.
Non ha ancora indovinato la ricetta perfetta: il suo tè è sempre troppo leggero o troppo forte, troppo zuccherato o troppo aspro. Era diverso, quello che prendeva a casa.
L'acqua è pronta, vi lascia cadere dentro una bustina.
Sa perfettamente che è assurdo: ha cronometrato John migliaia di volte, sa che toglieva la teiera dal fuoco non appena sentiva il fischio, lasciava in infusione per tre minuti esatti e non metteva più di due cucchiaini di zucchero bianco, radi non pieni. È la stessa identica marca di tè, gli stessi identici tempi e modi.
Forse l'acqua è diversa, si ritrova a pensare, rifiutandosi di lasciar entrare nella sua mente l'altra, disgustosamente sentimentale opzione che gli si è presentata (era il tè preparato da John e preso nel soggiorno di casa).
Impreca a bassa voce. Ha di nuovo dimenticato il tè in infusione, ora sarà disgustoso. Lo versa velocemente in una tazza e vi aggiunge due cucchiai di zucchero.
John lo prendeva sempre nero, invece, con una goccia di limone, ogni tanto – quando nel loro frigo sopravviveva un limone, caso più unico che raro.
Corruga le sopracciglia, la tazza alle labbra, mentre il vapore gli riscalda il viso.
Pensava di non saperlo, di non averci mai fatto caso – è sicuro che sia così, però.
Si chiede quante altre cose sappia di John, quanto altro la sua mente ha registrato senza che lui ne fosse nemmeno consapevole.
Spinge la porta a vetri e si affaccia sul patio. Il prato ondeggia lieve al tiepido venticello della sera, gli insetti ronzano e qualche uccello ancora cinguetta. Che pace snervante.
Torna dentro sbattendo la porta dietro di sé.
È in isolamento da quasi sei mesi, ormai. La situazione a Londra si era fatta troppo scottante, e Mycroft aveva deciso che era meglio per lui ritirarsi dalle scene, almeno per un po'. Le minacce di morte che riceveva iniziavano a farsi preoccupanti.
Non sa come abbia fatto a resistere così a lungo senza far saltare in aria niente.
Si avvicina di nuovo al tavolo, sorseggiando il tè. In una della foto sparpagliate sulla superficie, una ragazza bionda sorride a un John grigio e stanco, nella colorata Camden High Street. Ne segue il profilo con il dito.
«Mary, Mary, Mary…» mormora. «Che cosa ci hai fatto?»
 
 
•••
Non c’era un preciso motivo che giustificasse quel gesto, in realtà. Nessuno aveva detto o fatto nulla di particolare, di diverso dal solito. Era più la somma di tanti gesti e tanti giorni passati, un fiume che ritrovava il suo corso dopo dighe e scogli e ostacoli e cascate.
John ricevette il bacio di Sherlock in silenzio, ma senza riuscire a sopprimere un verso di sorpresa. La luce fioca del mattino li avvolgeva in un tepore soffuso, come un manto dorato, lì in piedi davanti al bancone della cucina. Durò un istante, eppure a Sherlock parvero anni, ma quando John si tirò indietro non era sazio, non ne aveva abbastanza.
Il viso di John era scavato da rughe profonde.
«Sherlock…»
«Mi dispiace. Mi ci sono voluti anni, e ti ho fatto soffrire più di quanto meritavi, e probabilmente ora tu non…»
John chinò il capo e parlò piano, quasi fra sé e sé.
«Love's not time's fool, though rosy lips and cheeks
within his bending sickle's compass come.»
Gli occhi di Sherlock si fecero liquidi di una speranza e di una gioia che non osavano traboccare. Vivo come non si sentiva da anni, John proseguì.
«Love alters not with his brief hours and weeks,
but bears it out even to the edge of doom.»
Allora qualcosa, nel profondo di Sherlock, si ruppe ed esplose, svuotando la sua mente, ostruendogli la gola, riempiendogli i polmoni di nuova aria.
Baciò John senza chiedergli il permesso, con impeto, con euforia. Rise e pianse sulle sue labbra, lasciando che John leccasse le sue lacrime e riflettesse le sue risa. Si lasciò condurre e si abbandonò all'altro, donandogli tutta la sua fiducia – più di quanto avesse mai potuto fare per chiunque. Sapeva che John l'avrebbe accolto nelle sue mani gentili e ruvide, che ora gli accarezzavano i capelli come si fa con le piume di un pulcino, con dolcezza dilaniante.
Sherlock tenne gli occhi chiusi a lungo, quando si furono separati, mentre John lo stringeva a sé e lo ricopriva di baci soffici.
«Allora è questo che si prova» mormorò, quasi senza rendersene conto. Aprì gli occhi e il sorriso di John era lì, a un battito di ciglia. Dopo tutto quello che era successo, tutto quello che avevano patito, il sorriso di John era lì, fermo e luminoso ad un soffio dal suo.
Li chiuse di nuovo e baciò il suo sorriso, leggero, con reverenza. Concluse il sonetto piano, un sussurro della consistenza del mattino.
«If this be error and upon me proved,
I never writ, nor no man ever loved.»

 





Grazie ancora a chi legge/segue e alle belle persone che recensiscono!
-Clock

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Capitolo 6
*** Private Investigations ***




Private Investigations
 
And what have you got at the end of the day?
What have you got to take away?
A bottle of whisky and a new set of lies
Blinds on the windows and a pain behind the eyes
Dire Straits, Private Investigations
 
 
Victoria ha la faccia di chi è estremamente soddisfatto di sé e sta per ottenere un pasto gratis.
John la fa sedere in cucina e le serve un piatto di zuppa di pomodoro. Aspetta in silenzio che la ragazza si sazi per bene, prima di parlare.
«Novità?»
Victoria annuisce, sollevando la scodella per bere fino all'ultima goccia. Si ripulisce con il dorso della mano e sorride.
«Sta partendo.»
John sgrana gli occhi.
«Che cosa?»
«Mosca mi ha detto che Robin le ha detto che Jeremiah lo ha visto dalla casa di suo nonno – è lì perché il vecchio sta morendo, o qualcosa del genere, gli abita tipo di fronte. Cioè, non proprio di fronte, ma vicini insomma. Cioè, il cancello della casa del nonno di Jeremiah è di fronte al cancello della casa di Holmes, poi certo, uno non è che vede proprio le case, sono tipo sommerse negli alberi, non so se mi spiego, no? E insomma, Jem era uscito per farsi, sai, due tiri, no?, e ha visto Holmes con un borsone che entrava in una macchina – un taxi, secondo lui. Siccome da suo nonno si stava rompendo le palle, ha preso a seguirlo. Secondo me era un po' fatto, perché insomma, chi si metterebbe a seguire una macchina in bicicletta?» prende fiato, sorseggiando un po' d'acqua. John non l'ha notato prima, ma le sue treccine virano al rosa, adesso, e ha un nuovo piercing sul sopracciglio. Victoria segue il suo sguardo e sorride orgogliosa, indicandolo.
«Ti piace? L'ho fatto ieri. Un tipo che conosco me l'ha fatto gratis, in cambio di un po' d'erba.»
John si costringe a simulare un sorriso.
«Carino.»
«Grazie. Non è che hai un altro po' di pane?»
John annuisce e si alza per tagliare altro pane. Victoria, intanto, continua a raccontare, dondolandosi sulla sedia.
«E insomma, Jem è stato fortunato perché, alla fine, ha ritrovato il taxi in paese, in piazza, vuoto. Ha chiesto al tipo dov'è che era andato Holmes, ed è riuscito a farselo dire. Stava in stazione. Jem dice che l'ha anche visto, ma poi l'ha perso perché è salito su un treno. Non sa quale, però.»
John ferma il suo dondolio e le mette davanti dell'altro pane e del formaggio spalmabile. Victoria se lo mangia direttamente a cucchiaiate, riempiendosi la bocca di pane con l'altra mano.
«Questo è tutto quello che sappiamo. È roba forte, eh?»
«Lui sa niente?»
«Nah. Jeremiah è stato attento, che ti credi? Oddio, forse dopo l'ultima volta potrebbe avere dei sospetti, ma insomma...»
«Perché, che è successo l'ultima volta?»
Victoria si stringe nelle spalle, giocherellando con una mollica di pane.
«Beh, Mosca, che era di turno a sorvegliare, è entrata nel giardino.»
John spalanca gli occhi.
«Ma come le è venuto in mente? Vi ho detto che dovete rimanere a distanza...»
«Lo so, lo so, gliel'abbiamo detto, che ti credi?, però lei è entrata lo stesso. Che ne so, diceva che voleva vederlo da vicino, qualcosa così. Lo sai che ha una cotta per lui.»
John rotea gli occhi, incrociando le braccia al petto.
«In ogni caso, è inciampata nei bidoni della spazzatura. Lui si è girato ma non è uscito. Lei ha aspettato lì finché non se n'è andato.»
«Mh. Potrebbe essersene accorto.»
«Lo so. Infatti abbiamo proibito a Mosca di andare ancora.»
«Bene.»
Ha lasciato il Sussex. Per dove? Una flebile, speranzosa vocina sussurra Londra!, ma la scaccia via prima che diventi troppo forte. Probabilmente Mycroft gli ha assegnato qualche incarico chissà dove, una missione sotto copertura. Ovvio, dev'essere così. Non avrebbe altro motivo per allontanarsi. Giusto?
Lo squillo del campanello lo desta dai suoi pensieri. Lancia un'occhiata all'orologio.
«Torno subito» mormora, mentre Victoria addenta un'altra fetta di pane, annuendo distratta. Nota con sorpresa e soddisfazione, mentre si pulisce il mento dalle briciole, che il Dottor Watson si è di nuovo scordato il bastone.
«Dormito bene? Dov'è che alloggi?»
«Oh, in un Bed&Breakfast, la zona... Vauxhall, mi pare.»
Sente la voce del Dottor Watson e quella di una ragazza avvicinarsi su per le scale.
«Mh, è una bella strada fino qui.»
«Ho fatto quella carta, com'è che si chiama?»
«Oyster?»
«Sì, quella.» 
«Tè? Caffè?»
«Non scomodarti, sto bene così, grazie. Oh.»
La ragazza si blocca sulla soglia della cucina. Victoria, di fronte a lei, le sorride con uno sbaffo di formaggio cremoso sul labbro. John se ne accorge, mentre si mostra indaffarato davanti al lavandino.
«Oh, sì... Victoria, lei è Amanda. Amanda, lei è Victoria. Lei, hum...»
Come spiegarle che Victoria è una ragazzina senzatetto dell'ex rete degli Irregolari di Baker Street che lo aiuta a tenere d'occhio Sherlock in cambio di soldi e qualche pasto caldo? Per uno che ha conosciuto Mycroft Holmes, questo è niente. A chiunque altro sembrerebbe stalking.
«Aiuto il Dottor Watson a tenere d'occhio il suo vecchio amico in caso, sa, ricada in vecchie abitudini, si butti da una scogliera o diventi matto.» Scuote le treccine con aria compita. «Succede anche nelle migliori famiglie.»
Amanda corruga appena le sopracciglia, voltando poi il viso verso John, in cerca di spiegazioni. Lui sorride appena, dissimulando l'imbarazzo. Fa un gesto vago con la mano, scuotendo appena la testa.
«Oh, non... farci troppo caso. Siediti pure.»
Amanda obbedisce, leggermente confusa.
«Tu chi sei?» domanda Victoria, spingendo da parte il piatto, finalmente sazia.
«Oh, io...»
Alza gli occhi su John, in cerca di aiuto, ma rispondono solo le sue spalle rigide. La figlia di Sherlock Holmes? Non ne è certa, sente di non avere il diritto di appropriarsi di questo titolo, e teme la reazione di John. E allora chi? La figlia di Mary, la defunta moglie del Dottor Watson, a cui assomiglia? Con quale certezza? Tu chi sei?
«Amanda. Per ora, soltanto Amanda.»
John si volta a guardarla, e Victoria piega la bocca in una smorfia di approvazione.
«Mi piace il tuo atteggiamento, Amanda figlia di nessuno. Pace e amore, sorella» dice, allungando un pugno verso di lei. Amanda lo guarda per un paio di secondi interdetta, prima di ricordarsi cosa deve fare. Stringe il pugno destro e lo batte leggermente contro quello di Victoria. La ragazza tira indietro la sedia e si alza, spazzando via le briciole dalla maglietta con la mano. Infila una giacca verde oliva tappezzata di spille e toppe colorate e si porta la mano alla fronte, simulando un saluto militare.
«Capitano.»
John le rivolge un breve sorriso, annuendo.
«Stammi bene. Non fumare e non metterti nei casini.»
«Puoi giurarci. Ci si vede!»
Sparisce giù per le scale con passo saltellante, fischiettando.
John si asciuga le mani in uno strofinaccio.
«Andiamo in soggiorno, qui è un po’ un disastro» dice, accennando ai resti del pranzo di Victoria e della sua colazione.
«È una ragazza particolare, ma è la più trattabile del gruppo, dammi retta...» chiacchiera, mentre si siedono – lei sceglie, senza saperlo, la sua poltrona. John esita. Amanda lo guarda un po’ perplessa mentre prende una sedia. La poltrona nera li fissa quasi dispiaciuta.
«Perché tieni d'occhio Sherlock Holmes? Avevi detto di non avere sue notizie da anni.»
La sua espressione è al limite della rabbia. John abbassa gli occhi sulle mani callose che si stringono l’una all’altra nel suo grembo.
«La storia fra me e Sherlock... non è stata semplice. Abbiamo avuto un rapporto complicato, molti non capirebbero e non hanno capito...»
«Io non sono una qualunque.»
John scuote appena il capo, stringendosi la radice del naso con due dita.
«Oh, dimenticavo, studi Psicologia, ne sai sicuramente di più, tu...»
Strizza gli occhi e si morde la lingua non appena si rende conto di quello che ha detto. E a chi lo ha detto. Diamine, è sempre stato Sherlock quello diretto e sgarbato, da quando anche lui–?
«Scusami. Non volevo dire questo.»
Amanda ha le braccia incrociate sul petto e una ruga leggera fra le sopracciglia.
«Invece è esattamente quello che volevi dire. Il tuo super-io ha ceduto per un momento, grazie allo stress emotivo degli ultimi giorni, e hai finalmente detto quello che pensavi. Ma non mi interessa. Prendimi in giro, insultami, quello che vuoi: io sono venuta qui per sapere la verità, e tu me la stai tenendo lontana. Mi hai mentito.»
John non riesce a sostenere quegli occhi a lungo – sono gli occhi di Mary, furenti e delusi, quando ha capito che non era mai stata la prima.
 
 
•••
Faceva freddo, per essere aprile.
«Amanda! Vieni qui, mettiti una giacca!»
L’ultima cosa che voleva era che prendesse il raffreddore. Diventava intrattabile quando era costretta a letto.
«Ma Nanny! Ho caldo!»
«Non fa così caldo, vieni qui…»
La bambina saltellò verso di lei, le braccia tese, pronte per essere infilate nelle maniche della giacca. Greta provvide a vestirla, chiudendole la zip fino al mento e spingendole il cappuccio fino sugli occhi, per gioco. La bambina, infatti, rise e cercò di spingere via le sue mani, ma Greta strinse la presa, fino a trovarsela fra le braccia, sull’erba fredda di aprile. Amanda rideva ancora, le braccine tonde intorno al suo collo. Che dolore, vederla felice e non poter essere felice con lei, dover mascherare tutto quanto, non poterla abbracciare e baciare quanto voleva, quanto le spettava.
Le carezzò la testa, quasi in automatico. Gli somigliava, vagamente, quando rideva: la sua stessa risata aperta, che coinvolgeva tutto il viso.
Incredibile quanto gli mancasse. Non credeva di averlo amato così tanto, dopotutto… Non credeva di esserne stata capace.
«Giochiamo a nascondino, Nanny?»
La fissò per qualche istante senza capire, ancora immersa nei suoi ricordi.
«Nascondino! Per favore?»
«Sì, certo.»
In fondo, doveva essere grata di trovarsi lì, in quel momento, con Amanda. A lui aveva negato questa possibilità – ma l’aveva fatto per il suo bene, per il bene di tutti, e non sarebbe tornata indietro.
«Io inizio a contare! Tu vai a nasconderti, ok? Uno, due, tre…»
Si chiese quanto ancora le rimaneva, in quell’angolo di paradiso rubato, quanto ancora avrebbe dovuto nascondersi.
•••
 
 
Amanda lascia vagare lo sguardo per il soggiorno, tamburellando nervosamente le dita sul bracciolo della poltrona. Usa una ragazzina per tenere d'occhio Sherlock Holmes... E cos'ha detto lei? Non ricada in vecchie abitudini, si butti da una scogliera o diventi matto. Internet le aveva mostrato uno Sherlock Holmes di granito, imperturbabile e invulnerabile, dalla mente superba, alieno a qualunque debolezza. È vero, qualcuno parlava di droga e di qualcosa che aveva a che fare con le cascate del Reichenbach – cosa c'entrasse la Svizzera non era proprio riuscita a spiegarselo – ma Amanda aveva sempre pensato fossero voci o leggende nate per alimentare una visione eroica e romantica dell'eccentrico investigatore. E invece...
«Avevo una tata, quando stavo in Germania, si chiamava Greta. È rimasta con me fino a quando ho compiuto cinque anni, più o meno. Un giorno, mi disse che andava a trovare i suoi genitori in Inghilterra. Non tornò più.»
John corruga le sopracciglia e deglutisce, con uno strano presentimento che non riesce bene a quantificare.
«Credo sia la persona più vicina ad una madre che io abbia mai avuto. Per il resto, ho conosciuto soltanto maestre, professori. Non ricordo nemmeno il suo viso. Non ho nemmeno una foto.»
John scuote piano la testa, come a chiederle di non continuare – come se non riuscisse a sopportarlo. Lentamente, si porta una mano tremante alla bocca. Serra gli occhi. Non può essere… Rimane in silenzio per lunghi minuti, inspirando ed espirando attraverso le dita chiuse, come per calmarsi. Alla fine, torna tranquillo.
«Mi dispiace davvero, per quello che ti è successo.»
Non sembra quasi la sua voce, sicura e decisa e cadenzata – come se stesse recitando.
«Come ti ho già detto, non c’è molto che io possa fare…»
Amanda non riesce a trattenere un moto di stizza, nelle mani e nelle spalle che scattano verso l’alto, nella testa che scuote appena.
«Va bene. Capisco.»
Un buco nell’acqua. Neanche Merry ha trovato nulla, nei suoi vecchi album. Le conviene prenotare il biglietto del treno il prima possibile.
John sembra percepire la sua rassegnazione e qualcosa lo spinge a trattenerla, a riprovare.
«Domani è il compleanno di Harry. Fa sessant'anni.»
Amanda stringe gli occhi per un momento, poi ricorda: la donna della mail di Norton, la sorella di John. Annuisce appena, quasi involontariamente, perplessa.
«Festeggia al The Rising Sun, a Soho. È un bel posto. Se non sei ancora partita, mi farebbe piacere–»
Si interrompe, raddrizza la schiena. Ha sentito girare una chiave nella toppa del portone. Nessuno ha le chiavi di casa sua. Tranne una persona.
Inconsapevolmente, trattiene il respiro. Amanda se ne accorge e gli lancia un'occhiata interrogativa.
«John? Tutto bene.»
Si accorge quindi dei passi. Lenti, misurati, cadenzati come il ticchettare di un orologio.
«John, perché non hanno suonato?»
L'uomo non si muove, fissa la soglia quasi in apnea. Amanda si alza e gli si accosta. Anche lei trattiene il respiro quando l'uomo entra; John lo rilascia.
«John. Scusami se non ti ho avvisato, non ne ho avuto il tempo. Mycroft è morto.»
Si guarda intorno, scannerizzando la stanza. Fa qualche passo avanti, allungando una mano verso la ragazza, ammutolita.
«Tu devi essere Amanda. Sherlock Holmes, onorato.»
 
 
 




Grazie di cuore a chi è arrivato fin qui e a chi ha voluto lasciare due parole :)
Un piccolo avviso: per il prossimo mese, sarò piuttosto impegnata, dubito di riuscire a pubblicare con questa frequenza. La storia è tutta (o quasi) scritta, è solo da revisionare, quindi prima o poi la finirò. Vi chiedo solo un po' di pazienza.
Grazie, se continuerete a sopportarmi :)
A presto!
-Clock

 

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Capitolo 7
*** Mycroft ***




Mycroft
 
So we beat on, boats against the current, borne back ceaselessly into the past.
F. Scott Fitzgerald, The Great Gatsby
 
 
Parlano tutti contemporaneamente.
«Mycroft? Cosa, come–?»
«Il ritratto di Mary.»
«Io sarei tua figlia?»
Amanda tiene gli occhi puntati su Sherlock, che le stringe ancora la mano. Lui assottiglia gli occhi, corruga appena le sopracciglia. Si volta verso John, lascia andare la mano della ragazza.
«Mycroft è morto ieri sera, l’ho saputo mentre ero in treno. Ha contratto la febbre gialla mentre era in Nigeria, o almeno, questa è la versione ufficiale: in realtà è stato avvelenato per ordine di un piccolo funzionario del governo britannico, ma sto ancora cercando di capire chi e con che cosa, appena Molly farà l'autopsia ne saprò di più e potrò dare adito ad uno scandalo nazionale.»
Amanda sbatte le palpebre, stordita dal flusso di parole. John si passa una mano sul volto.
«Gesù, Sherlock, è terribile. Mi dispiace.»
Sherlock solleva il mento e assume una postura più rigida, stringendo appena le labbra.
«Se lo aspettava. Non credevo mi avrebbe preceduto, comunque.»
John non riesce a staccare gli occhi dal suo profilo granitico, dai suoi occhi troppo liquidi, dalle pupille troppo grandi – occhi di bambino. Non è cambiato affatto, negli anni – è anche più bello di come lo ricordasse, misterioso e sfuggente come la prima volta che l’ha visto.
«Perché dici di essere mia figlia?» domanda Sherlock, tornando a guardare la ragazza. Lei si riscuote, passandosi una mano fra i capelli.
«Oh, io... Mi chiamo Amanda Holmes, e ho sempre pensato...»
«Falso. Mary ti ha dato quel nome perché sarebbe stato certamente più semplice, per te, rintracciare un Holmes piuttosto che un Watson: è un cognome piuttosto raro.»
Amanda sente il suo cuore palpitare più veloce, il sangue turbinarle nelle orecchie. John chiude gli occhi e deglutisce. Ha temuto questo momento da quando ha visto Amanda sulla soglia di casa tre giorni prima.
«Cosa... Cosa vorrebbe dire? Watson, non capisco...»
Sherlock piega il capo di lato, un sorriso a un tempo sornione e indulgente.
«Oh, sono certo che capisci benissimo, invece.»
Quindi si volta verso John, assumendo un cipiglio sorpreso e quasi infastidito.
«Non gliel'hai detto?»
Amanda sposta lo sguardo dall'uno all'altro, agitata.
«Detto cosa? Chi di voi due è mio padre? Dottor Watson, John, perché non mi hai detto niente?»
Nello sguardo scuro di John c'è vergogna e paura. Scuote appena la testa – non ha parole da darle. Lei si volta verso Sherlock, in cerca d'aiuto.
«Mary e John Watson sono i tuoi genitori biologici.»
Il petto di Amanda si alza e si abbassa al ritmo del suo respiro accelerato. Sente un groppo di lacrime ostruirle la gola, un grumo di delusione e rabbia e confusione riempirle la bocca.
«I-io non... John?»
Diamine. È stato padre per tre giorni e già sua figlia lo guarda così.
Solleva le spalle, sentendosi improvvisamente piccolo e rattrappito, come prosciugato.
«Amanda. Non hai mai voluto me come padre.»
Lei scuote la testa, coprendosi la bocca con una mano. Lo guarda, ma non riesce a parlare. Sherlock le posa una mano sulla spalla e, gentilmente ma con fermezza, la fa sedere sulla poltrona di John. Quindi si volta verso la cucina, non prima di aver fatto segno a John di seguirlo.
 
 
•••
Era una strana forma di terrore, quella che lo attanagliava per alcuni brevi momenti, di notte o quando guardava il profilo calmo di John. Sherlock non poteva, in tutta onestà, dirsi infelice, tutt'altro: non ricordava di aver mai provato tanta gioia per così tanto tempo.
«Sherlock, mi passeresti il telecomando, per favore?»
La voce di John era morbida, calda, come tutto il suo essere: dolcemente adagiato sulla spalla di Sherlock, sembrava immerso in una bolla di calore e serenità, pacifico e sonnolento come un gatto sazio. La facilità con cui si appoggiava a lui, si lasciava andare contro di lui, fisicamente e non, era disarmante. Sherlock non pensava che qualcuno avesse mai potuto affidarglisi così tanto, fidarsi di lui a tal punto.
Gli porse il telecomando e lo guardò cambiare canale pigramente, gli occhi socchiusi, pronti per il sonno. Si sarebbe probabilmente addormentato sul divano e a Sherlock sarebbe toccato il gramo – no, affatto – compito di portarlo in camera da letto.
John gli strinse un braccio e si sistemò meglio sul divano scricchiolante, spingendoglisi di più addosso. Sherlock non si mosse, né reagì in alcun modo. Non aveva mai accettato che neppure sua madre lo abbracciasse o lo accarezzasse, da una certa età in poi, eppure John non gli dava alcun fastidio, al contrario. Spostò il braccio destro, che iniziava a formicolare, schiacciato contro il fianco di John, e glielo poggiò sulle spalle, timido. John sorrise e districò il suo braccio sinistro per passarglielo intorno alla vita, stringendolo a sé senza timore.
Sherlock poggiò la testa all'indietro sul muro e chiuse gli occhi, lasciandosi pervadere dal calore familiare e confortevole diffuso dalla pelle di John.
Non aveva mai provato una felicità così completa, così perfetta, se non nei suoi sogni o quando era bambino. Per questo, abbassando gli occhi sulla testa biondo-argento, fu assalito dal sottile terrore che quella felicità, come gli era stata concessa, così sarebbe potuta sparire, lasciandogli un vuoto e un dolore come non ne aveva mai provati prima. Certo, ricordava bene quando quanto era stato difficile, quando aveva dovuto fingere il suicidio e vivergli lontano per due anni, quando John aveva sposato Mary, quando Mary se n’era andata e loro non sapevano che fare di sé stessi, e John era così distante. Ma se fosse dovuto succedergli qualcosa di simile ora, ora che si erano trovati… Una morsa di terrore cieco gli ghermì le viscere, gli tolse il respiro.
John gli si fece più vicino, mormorò qualcosa, già a metà strada per il sonno. Sherlock lo strinse a sé.
•••
 
 
L'acqua scroscia con violenza dentro la teiera.
«Perché non gliel'hai detto?»
John scuote la testa, coprendosi gli occhi con le mani.
«E come potevo?» sussurra, in un misto di furia e rimpianto. «È arrivata qui, tutta felice, “la figlia di Sherlock Holmes”, era... sembrava così orgogliosa di poter anche solo ipotizzare di essere tua figlia.»
Lo guarda, una nuvola di disperazione sul volto.
«Non potevo deluderla. Non volevo. E poi...»
Sherlock non ricambia il suo sguardo, ma lo tiene d'occhio nel riflesso capovolto della teiera, mentre la mette sul fornello.
«Oh, andiamo, guardami, Sherlock. Ho cinquantaquattro anni. Negli ultimi sette non ho fatto altro che andare e venire dalla clinica, la mia vita è rimasta piatta e uguale per sette anni. Sono un accumulo di polvere!»
Sherlock si volta, ora, e il dolore negli occhi di John lo colpisce in pieno volto.
«Come potevo dirle che un disastro del genere era suo padre? Sarebbe mai potuta essere orgogliosa di me? Pensare che il famoso investigatore fosse suo padre sembrava renderla felice, io non volevo deluderla.»
«Non pensavi di dirglielo affatto? Di lasciarla andare e basta?»
John si prende la testa fra le mani.
«Non lo so, non ci ho veramente pensato. Magari, speravo che, conoscendomi, avrebbe potuto, non so... Non trovarmi troppo deludente. Magari le sarei andato bene anch'io.»
Sherlock torna a rivolgersi ai fornelli, lasciando che John nasconda di nuovo il viso dentro i palmi delle mani. La teiera fischia, richiamandoli all'attenti.
«Tu saresti stato un bravo padre, John» mormora, senza guardarlo.
«Certo, come no» sbuffa John, scuotendo la testa in un'amara risata. «Guarda che bel lavoro che ho fatto...»
Sherlock versa il tè in tre tazze, le posa su un vassoio mentre John prende latte, zuccheriera e cucchiaini. Si aspettano, coordinano i movimenti, in armonia anche dopo tanti anni.
John lo ferma con una mano sul suo braccio mentre sta per aprire la porta.
«Mycroft? Voglio dire, sapevi niente, come…»
Il volto di Sherlock si irrigidisce e al contempo i suoi occhi si fanno morbidi, liquidi, trasparenti.
«Sembrava un’influenza, al telefono. Non mi ha detto nulla. Mi ha chiamato la sua assistente quando era già troppo tardi.»
John scuote appena il capo, rafforzando la presa sul suo braccio.
«Gesù, Sherlock…»
Non sa come continuare. Ti starò vicino? Ci sono qui io? Ti aiuterò a superare anche questo? Suonano tutte promesse vuote, ora. Lascia cadere il braccio e segue Sherlock in soggiorno.
Amanda è lì dove l'hanno lasciata, nella poltrona di John, con lo sguardo perso nel vuoto. Solleva appena gli occhi quando entrano.
«Voglio la storia, ora. Tutta la storia.»
John guarda Sherlock, che tiene gli occhi sul suo tè. Ricambia brevemente l'occhiata, prima di parlare.
«È tutta opera di Mycroft.»
 
 
•••
18 Aprile
 
Sherlock.
 
Quello che sto per dirti potrebbe farti infuriare. Ti prego di non volermene: tutto è stato fatto per il bene tuo e di John, e dell’Inghilterra stessa.
 
Diciannove anni fa, Mary ricevette l’ennesima minaccia. Esponenti della mafia russa, con cui una volta lei aveva avuto a che fare, erano riusciti a rintracciarla. Mary aveva tentato di negoziare, ma avrebbe dovuto pagare un prezzo troppo alto: te e John.
Chiese il mio aiuto; glielo concessi.
Non potevamo agire diversamente: Mary doveva allontanarsi subito, aspettare la nascita della bambina sarebbe potuto essere pericoloso. Senza un soggetto da ricattare, i russi erano innocui – come avrai ben capito, il loro obiettivo eri tu, cercavano di costringere Mary a venderti.
So cosa obbietteresti: avremmo potuto “combattere” per lei, sconfiggere i cattivi. Purtroppo, non è così che funziona il mondo: non esistono eroi né dei che salvano la situazione in extremis; il mondo è fatto di compromessi, di sacrifici, di do ut des.
Una mia conoscenza mi doveva un favore: possiede un podere nei pressi di Dresda, in Germania, a malapena utilizzato, isolato nel mezzo della campagna. Mary e la bambina, Amanda, hanno vissuto lì per cinque anni. Ovviamente, la bambina non doveva sapere nulla: credeva di essere stata adottata da un funzionario del governo – nella fattispecie, io – e che Mary fosse la sua governante inglese. Lo ammetto, è stato terribilmente tedioso dover partire per la Germania così spesso, sebbene non mi trattenessi a lungo – un paio di giorni al massimo, dubito che Amanda saprebbe riconoscere il mio viso, ora (nonostante, ormai, sia altamente improbabile che io la incontri nel prossimo futuro). È stato difficile soprattutto tenerlo nascosto a te – ma tu sembravi occupato altrimenti, per nostra fortuna.
Mary non è riuscita a fuggire per sempre, tuttavia: l’hanno trovata, prima che io potessi intervenire.
La sua morte è un rimorso che mi tormenta costantemente.
 
Amanda ha avuto diverse istitutrici, frequentato ottimi collegi, in Germania prima, in Inghilterra poi. Ora studia felicemente a Cambridge.
In tutta onestà, sono sorpreso che tu ci abbia messo così tanto a rintracciarla e, se proprio vuoi saperlo, sono stato io a fare quella soffiata ai tuoi informatori – stavi impiegando troppo tempo, quasi diciotto anni, Sherlock, il dottore è riuscito a distrarti davvero a lungo.
 
Forse sarà difficile per te, ma spero tu capisca le mie – le nostre – ragioni. Non potevamo agire diversamente, né potevamo dirvi nulla – il vostro equilibrio era troppo fragile, ma tu lo sai meglio di me. Dopotutto, il Dottor Watson ha pianto la tua morte per due anni.
 
Forse, avrei potuto rivelarvi tutto dopo la vera morte di Mary, ridarvi Amanda. Non l’ho fatto. In parte, temevo che, scoperto il mio coinvolgimento nella faccenda, i nostri rapporti si sarebbero potuti inasprire – ho già tanto da farmi perdonare da te, Sherlock. In secondo luogo, e te lo dico in tutta franchezza, non credevo sareste stati in grado di crescerla – conducevate una vita tanto fuori dall’ordinario, la vostra meccanica era ancora così instabile. Inoltre, provavo un incomprensibile senso di protezione, verso quella creatura: in collegio si trovava bene, era circondata da ragazze e ragazzi della sua età, studiava diligentemente e aveva buoni rapporti sociali. Mi mandava addirittura cartoline. Non credevo che portarla a Londra sarebbe stato un bene, per lei: in quell’età delicata, sarebbe potuto essere destabilizzante. Col passare degli anni, è diventato sempre più difficile. In fondo, continuavo a ripetermi, non sta passando un’adolescenza troppo diversa da quella che ho passato io, dentro e fuori da collegi e scuole private. Ora mi rendo conto dell’errore che ho fatto, e della grande forza d’animo di Amanda: io ho ricevuto l’amore dei nostri genitori, e guarda cosa sono diventato; lei è cresciuta da sola, ed è – e sarà – infinitamente migliore di me. Ma non serve che te lo dica io.
 
Venendo a materia di più immediata importanza – mi dispiace, Sherlock. Ho commesso più di un errore, nella mai vita, primo fra tutti non essermi fidato abbastanza di te. Ti ho sempre protetto troppo, invischiato nel mio affetto troppo radicato per essere espresso correttamente – non sono mai riuscito a vederti per quello che eri, che stavi diventando. Me ne rincresce. Ho fatto del mio meglio. È stato difficile togliermi dagli occhi l’immagine di te bambino, le spalle curve e il viso triste, furioso, disperato. Sei sempre stato così fragile, Sherlock. O meglio: io ti ho creduto – e in parte, reso – tale, al punto da non accorgermi mai della tua forza, del tuo sconfinato amore.
Perdonami, un giorno.
 
Mycroft
•••
 
 
John ha chiuso gli occhi durante tutto il racconto, scuotendo lievemente la testa – non può crederci; Amanda li ha tenuti spalancati, fissi su Sherlock, sempre più lucidi.
Il silenzio si dilata per lunghi minuti, innalzandosi fra loro come le volute di vapore dal tè. È John, improvvisamente, a romperlo.
«Non posso credere che Mary…»
«Vuol dire che Greta… Mia madre… E non l’ho mai saputo…»
Guarda in alto, verso gli altri due. Sherlock le restituisce uno sguardo muto; John sembra accartocciarsi su sé stesso.
«Da quanto lo sai, Sherlock?»
«Anthea mi ha consegnato la lettera stamattina.»
John scuote la testa.
«Da quanto sai di Amanda?»
La ragazza tiene i suoi occhi fissi sul detective, tremanti. Quasi preferirebbe non saperlo. Sherlock abbassa il capo – sa bene che John l’ha capito dalla lettera di Mycroft, ma vuole farglielo ammettere ad alta voce.
«Un paio di anni. L’ho scoperto poco dopo essere tornato da Parigi.»
John annuisce, deglutendo. La delusione e il rancore sono evidenti sul suo viso. Con un gesto secco, volta la testa verso Amanda, escludendo Sherlock dalla sua visuale.
«Amanda, se non ti ho detto nulla è perché...»
Vorrebbe chiudere gli occhi, non sopporta il suo sguardo risentito, ma si impone di resistere.
«È difficile. Amavo Mary.»
Sherlock trattiene appena il respiro, come tutte le volte.
«E amavo te, che non c'eri. Mi dispiace, davvero.»
Amanda annuisce, il viso adombrato.
«Posso capirlo, credo.»
«Grazie.»
Sherlock posa la tazza vuota sul vassoio.
«Bene, ora che questo è chiarito, passiamo oltre.»
John e Amanda lo guardano entrambi perplessi e sconvolti.
«Nessuno deve sapere che sono qui, o ricominceranno con le minacce di morte, le ultime sembravano serie, non vorrei doverle affrontare, troppo seccante. Per quanto riguarda Mycroft, i funerali si svolgeranno domani, a Highgate, alle due. I miei genitori arriveranno in mattinata con il treno delle dieci, dovrò andare a prenderli, John spero vorrai farmi compagnia. Ora devo andare, Molly mi aspetta al Bart's, spero che abbia già concluso l'autopsia, o quanto meno iniziato.»
Si alza in piedi, lisciandosi le pieghe della giacca, e si avvia verso il divano, dove ha lasciato il cappotto.
«Andiamo John» comanda, quasi automaticamente, mentre lo indossa. «Oh, Amanda, ovviamente puoi venire anche tu, se non hai altro da fare, ma ti avverto, il Bart's–»
«Non sono più il tuo blogger.»
Sherlock si blocca con metà braccio fuori. Si sistema lentamente e si volta verso John. Lui scuote la testa, gli occhi stanchi, abbattuti.
«Sette anni, Sherlock. Non posso dimenticare.»
Il detective abbassa gli occhi, annuisce una volta, incassa il colpo.
«Arrivederci, John. Amanda?»
«Eccomi.»
La ragazza balza in piedi, affrettandosi verso la sua giacca di jeans, abbandonata anch'essa sul divano. Sherlock ha già superato la soglia, ma lei esita un secondo.
«Io... Ciao, John.»
Ha scelto lui, pensa John, con rammarico e rassegnazione. Di nuovo.



 

Buonasera!
Sono finalmente riuscita ad aggiornare – per il prossimo capitolo, però, temo dovrete aspettare di nuovo.
Spero la spiegazione di Mycroft sia stata all'altezza delle aspettative e di non aver deluso nessuno. Ci stiamo avvicinando ai capitoli clou
Ho modificato leggermente gli avvertimenti (grazie Koa!) in Angst e Drammatico – a questo punto, si sono resi necessari.
Grazie di cuore a chi è arrivato fin qui e a chi segue/recensisce/preferisce!
A presto!
-Clock
 

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Capitolo 8
*** Didn't he ramble? ***


 
Didn’t he ramble?
 
 
Didn't he ramble?
Didn't he roam?
Didn't he wander
So far from his home?
Didn’t teach us?
And didn’t we learn?
Didn’t he reach out
Beyond all return?
Glen Hansard, Didn't He Ramble?
 
 
Curiosamente, Amanda trascorre tutto il tragitto in taxi in silenzio. Sherlock si era preparato ad un lungo interrogatorio, e invece si ritrova a dover guardare la strada fuori dal finestrino, senza sapere cosa dire. La ragazza sembra concentrata in una importante battaglia interiore, dove lui non può intervenire.
È incredibile quanto assomigli a Mary: il modo in cui sporge leggermente in fuori il labbro inferiore mentre pensa, l'arco delle sopracciglia aggrottate. Il tamburellare ritmico delle dita sul sedile, invece, è tipico di John: irrequietezza, adrenalina, energia imbottigliata nel corpo minuto.
Chissà come sarebbe stato crescerla insieme.
Si meraviglia del suo stesso pensiero. Un tempo se ne sarebbe vergognato, l'avrebbe considerato una falla della sua mente geniale: ora non prova che rammarico. Perché sì, gli sarebbe piaciuto vederla diventare la giovane donna che oggi è – insieme a John.
«Siamo arrivati.»
Il Bart's è rimasto esattamente uguale, negli anni: solo qualche schermo in più e qualche apparecchiatura nuova, più crepe e vernici diverse alle pareti – sempre di colori deprimenti, come in ogni ospedale che si rispetti.
Anche Molly non è cambiata molto: capelli più corti e piccole rughe intorno agli occhi e alla bocca nascondono appena la ragazza sorridente e amichevole con fotografie di gattini sul cellulare e la suoneria di Grease.
«Buongiorno, Molly.»
La donna è china sul microscopio, sobbalza e si raddrizza quando Sherlock e Amanda entrano. Sorride del suo vecchio sorriso imbarazzato ed entusiasta.
«Ciao, Sherlock! Come, hum… Mi dispiace per quello che è successo, io… Ho appena finito l'autopsia, sto analizzando un campione di fegato, aveva un colorito strano...»
Amanda tossicchia e Molly si accorge di lei.
«Oh. Ciao. Chi–?»
«Lei è Amanda. È con me. Amanda, lei è Molly» presenta sbrigativo Sherlock, liberandosi del cappotto e avvicinandosi a Molly. Lei annuisce, ancora perplessa, e gli fa spazio al microscopio. Riflette che se Sherlock non si è dilungato in spiegazioni, vuol dire che non ce n'è bisogno oppure che la sua identità deve rimanere segreta. In ogni caso, sorride alla ragazza e tende una mano.
«Molto piacere.»
«Piacere mio.»
È quando sorride che la somiglianza le si palesa chiaramente.
«Ma tu sei...?»
Sherlock le lancia un'occhiata ammonitrice, vietandole di fare altre domande.
«Sì.»
E torna a chinarsi sul microscopio. Amanda abbassa lo sguardo, mentre quello di Molly rimane fisso su di lei, sempre più sbalordito.
«Non avevo idea che... Pensavo...»
«Quella molecola blu, la catena. È una proteina secondo te?»
Molly si accosta di nuovo al microscopio, regolando lo zoom.
«Potrebbe, sì. Il sistema non la riconosce, però, serve un altro campione, questo è molto deteriorato.» Si raddrizza e si dirige verso le porte del laboratorio. Sherlock annuisce appena, allontanando il microscopio da sé.
«Ah. Molly.»
La donna si volta, una mano sulla porta.
«Cause del decesso?»
«Shock, ittero ed insufficienza renale acuta. Inoltre ci sono segni di diverse emorragie, interne ed esterne, e gravi crisi emolitiche.»
Sherlock annuisce, abbassando le ciglia. Mycroft deve aver sofferto molto, nei suoi ultimi giorni – e Sherlock non era lì con lui, non sapeva nulla delle sue condizioni. Molly si porta una mano alla bocca, chiedendosi se forse non sia stata troppo diretta. Con Sherlock, era abituata ad andare subito al sodo, a non perdersi in convenevoli né giri di parole – non era mai capitato che sul tavolo dell'obitorio ci fosse qualcuno a cui lui teneva così tanto.
Vorrebbe dire qualcosa, ma peggiorerebbe la situazione. Sparisce oltre la porta, silenziosa.
Sherlock deglutisce un paio di volte, cercando di scacciare la sensazione di nausea che gli riempie la bocca. Caring is not an advantage, Sherlock. Una benda sull'occhio e una spada di cartone; un violino stentato; un gioco da tavolo troppo semplice; un sorrisetto sardonico e una ruga di preoccupazione fra le sopracciglia. Your loss would break my heart.
«Sherlock? Tutto bene?»
Sbatte le palpebre, focalizzando Amanda, davanti a lui, con una mano sulla sua spalla. Non appena i suoi occhi la trovano, lei ritira la mano, come scottata.
«Certo, certo.»
Si schiarisce la voce. Chiude gli occhi e apre la mente.
Don't be smart, Sherlock, I'm the smart one.
«Mycroft Atherton Holmes. Sessantun anni. Sovrappeso, lievi problemi cardiovascolari. Morte quattro giorni dopo una visita diplomatica in Nigeria. Presunta causa della morte: febbre gialla acuta. Sintomi tipici: disfunzione renale ed epatica, emorragie violente, nausea, shock. Delle molecole del virus non c'è traccia sui tessuti. Ipotesi: avvelenamento da ricina.»
«Arsenico.»
Sherlock volta la testa verso di lei.
«Prego?»
La ragazza sobbalza: non credeva di essere stata ascoltata.
«Oh, ho parlato sovrappensiero, non credevo stessi...»
«Hai detto arsenico. Perché?»
«Oh, io... Una mia amica, Merry, una volta, doveva scrivere un racconto in cui uno dei personaggi moriva per avvelenamento da arsenico. L'avevo aiutata a fare ricerche e ricordo che i sintomi erano gli stessi: shock, disfunzioni e tutto quello che avete detto voi.»
È vero.
What do we say about coincidence?
«Avvalori l'ipotesi dell'avvelenamento, dunque?»
Lei si stringe nelle spalle, presa in contropiede. Per tutti i santi, non vuole accusare nessuno!
«N-non lo so, magari è qualcos'altro. E poi, perché qualcuno avrebbe dovuto avvelenare tuo fratello?»
Sherlock sbuffa, un sorrisetto amaro sulle labbra.
«La domanda è come ha fatto ad arrivare a sessant'anni senza mai essere stato avvelenato.»
Molly rientra in quel momento con un contenitore metallico.
«Eccomi qui, non si era mosso nessuno, di là.»
Amanda si chiede distrattamente se chi lavora in obitorio debba sentirsi costretto a fare battute macabre ogni due per tre.
Mentre prepara i vetrini insieme a Sherlock, Molly sorride in direzione della ragazza.
«Non sei di Londra, vero?»
«No. Ora studio a Cambridge, ma sono di Dresda.»
A questo punto, è diventata una bugia, ma non saprebbe che altro dire.
«Oh, Germania! Che bello. Io e Greg siamo andati a Zurigo, qualche anno fa.»
Sherlock le lancia un'occhiataccia al di sopra del microscopio.
«Quella è Svizzera.»
«Oh, oh già. Beh, parlano sempre tedesco, no?» ridacchia, stringendosi nelle spalle. Amanda, quasi senza rendersene conto, si ritrova a sorridere. In fondo, Molly non le dispiace.
«Allora, hem... Come sta John?»
Amanda si irrigidisce, Sherlock non si scompone affatto.
«Bene.»
Molly annuisce, sfilandosi i guanti mentre Sherlock sistema un vetrino sotto la lente.
«Oh, ecco, l'ho sentito l'altro giorno... Mi sembrava un po' giù, sai. L'hai visto, da quando sei tornato?»
«Vengo da Baker Street, certo che l'ho visto. E no, Molly, il nostro rapporto non è miracolosamente migliorato e non verremo mai a prendere il tè da te e Greg come una qualunque delle attempate coppie di sposini di cui è costellata la tua vita coniugale.»
Il tono sarcastico non maschera del tutto una sottile sofferenza che fa tacere le due donne; abbassano entrambe gli occhi. Molly sente di avere valicato un tacito limite.
«Mi dispiace. Non volevo essere invadente.»
Sherlock non mostra segni di averla sentita, mentre si allontana dal tavolo, raddrizzando la schiena. La sua voce, quando parla, ha la freddezza del metallo.
«Ricinus communis. Pianta diffusa nell'Africa tropicale, dai semi altamente tossici a causa della presenza di ricina, una citotossina naturale.»
Molly si avvicina al microscopio da sopra la sua spalla.
«Dove la vedi?»
Lui si alza in piedi, lasciandola libera di guardare.
«La molecola blu, la catena.»
«Oh, eccola. Sì, potrebbe essere.»
Amanda si mordicchia il labbro, stringendo il cellulare in mano, chiedendosi se sia il caso di parlare. Sherlock si raddrizza, le mani dietro la schiena.
«Amanda, hai qualcosa da dire?»
«Oh, oh, io... Mah, di sicuro sbaglio, però... Secondo Wikipedia... Ecco, la ricina ha due catene.»
Sherlock solleva appena un sopracciglio. John incrocia le braccia al petto, con un sorrisetto sarcastico sulle labbra.
«Ti fai battere da Wikipedia, Sherlock?»
L'uomo trasalisce, quando si ricorda che non c'è nessun John nella stanza, prima di prendere con malagrazia il cellulare dalle mani di Amanda.
«Una sola catena potrebbe essere semplicemente orzo» gli fa notare la ragazza, timidamente.
Rimane l'arsenico, allora.
Balance of probability, little brother.
Ma come?
Si siede di nuovo al microscopio, girando furiosamente le manopole, quasi pretendendo di trovare la risposta scritta sul vetrino. All’improvviso, la realtà di quello che sta esaminando lo colpisce come un pugno nello stomaco – è il sangue di suo fratello, quello sotto al microscopio, suo fratello che giace su un tavolo metallico nell’obitorio dall’altra parte del corridoio, suo fratello che…
Si alza bruscamente e fa qualche passo indietro, coprendosi gli occhi con le mani, cercando di respirare regolarmente e ricacciare indietro un’ondata di nausea. Molly e Amanda sono subito in piedi, al suo fianco.
«Sherlock?»
«Sherlock, va tutto bene…»
Amanda gli stringe un braccio, Molly gli carezza esitante la schiena. Sherlock riesce solo a respirare e tremare. Lentamente, lascia scivolare le mani giù dal suo viso, gli occhi bassi. Si scosta dalle due donne e inizia a passeggiare su e giù per il laboratorio. Evita i loro occhi, mentre le congeda con un gesto frettoloso.
«Sto bene, ho bisogno di pensare. Molly, Amanda ha sicuramente voglia di caffè, introducila alla deliziosa caffetteria del Bart’s.»
Amanda corruga le sopracciglia perplessa, Molly sospira rassegnata. La prende gentilmente per un braccio e la spinge verso la porta, senza altre parole.
 
Molly è silenziosa davanti ad un budino poco convincente. Tamburella con il piede sotto il tavolo, Amanda può sentirla nella caffetteria semideserta. Non smette di lanciarle occhiatine furtive da sopra il suo dolce. Non ne può più – perché non le parla, se è così curiosa?
«Da quanto conosci Sherlock?»
Molly nasconde presto la sorpresa e ci pensa su.
«Oh, beh… Secoli. Almeno venticinque anni. Forse addirittura di più.» Sorride, inconsciamente.
«L’ho incontrato qui, per la prima volta. Cioè, in realtà lo conoscevo anche prima, ma lui no, nel senso…»
Trae un profondo respiro e abbassa gli occhi.
«Veniva alla mia stessa università. Lui si stava laureando in Chimica, io in Medicina… Abbiamo fatto qualche corso in comune. Lui… era famoso in tutta l’università. Si è laureato in metà del tempo, correggeva i professori, faceva esperimenti non del tutto… legali, ecco. Si cacciava nei guai di continuo, ma la passava sempre liscia. Era un po’… Un mito, ecco.»
La donna china il capo, ma ad Amanda non sfuggono le guance rosate.
«E insomma, ecco, tutti lo conoscevano m-ma… lui era un tipo molto solitario, n-non… Io ero troppo timida per parlargli, quindi… Ci siamo conosciuti per davvero quando ho iniziato a lavorare qui. L’ho trovato in laboratorio con Mike che discutevano di rane, o qualcosa del genere…»
Scuote la testa al ricordo.
«Ha subito iniziato a comprarsi i miei favori… S-sai, anche John e Sherlock si sono conosciuti qui. Grazie a Mike.»
Amanda abbassa le ciglia sulla sua crème caramel, lasciando a Molly il tempo di riacquisire compostezza. Buffa, la vita, a volte: chissà come sarebbero andate le cose, se Mike non avesse mai presentato Sherlock e John, se Sherlock e John fossero stati persone diverse, a causa di chissà quale minimo cambiamento nelle loro vite dalle conseguenze imprevedibili – chissà come sarebbero andate le cose se l’universo non li avesse portati ad essere esattamente quei John e Sherlock in quel preciso momento al laboratorio del Bart’s. Molly sembra pensare la stessa cosa.
«Conoscevi Mary?»
La donna si riscuote dai suoi pensieri, sbattendo rapidamente le palpebre.
«Mary? Sì, certo» risponde, addolcendosi. «Era una donna coraggiosa, forte.»
Amanda china il capo, giocherellando con il suo budino.
«Lei… Lei e John… Voglio dire…»
Sente un grumo di lacrime ostruirle la gola, impedendole di parlare. È una domanda troppo profonda, per dirla ad alta voce. Molly, per fortuna, sembra capire.
«John conobbe Mary in un momento molto particolare, quando ne aveva più bisogno. Sherlock aveva finto il suicidio, ed è stato via per due anni, forse ne avrai sentito parlare…»
Amanda annuisce, anche se non sa molto di questa storia – al momento, è secondaria.
«In ogni caso, John e Mary si sono fidanzati e sposati poco dopo il ritorno di Sherlock. Erano molto felici. Lui ha aiutato ad organizzare tutto quanto, ha fatto da testimone, ha fatto un discorso, ha composto un valzer per loro… Dev’essere stato terribile, per lui.»
«Perché John gliel’ha fatto fare? Non si è accorto di… non ha visto che…»
Il sorriso di Molly è dolceamaro, pieno di comprensione – assomiglia al sorriso di una madre.
«John amava Mary. Forse è crudele dirlo, e sicuramente non dovrei essere io a farlo, ma… probabilmente, in quel momento, Sherlock non era… la sua priorità.»
Amanda annuisce, sbattendo rapidamente le palpebre per dissipare delle lacrime impudenti. Molly le prende una mano e la stringe, comprensiva. Finiscono di mangiare in silenzio.
 
«Arsenico, dunque. Inalato, non ingerito, come mostra lo stato dei suoi polmoni. L'avvelenamento è durato diversi giorni. Ma come? Doveva essere contenuto in qualcosa, ma cosa?»
Molly solleva gli occhialini protettivi sulla fronte, guardandolo con il mento appoggiato a una mano. Amanda tende appena il collo per vedere bene a cosa sta lavorando, dall'altra parte del tavolo rispetto a lei e Sherlock, e subito se ne pente: sta sezionando un intestino, santo cielo.
«Sai chi altro è morto con l'arsenico?»
Sherlock scuote la testa, roteando appena gli occhi. Si alza dallo sgabello, iniziando a camminare su e giù per il laboratorio.
«Chi?»
«Madame Bovary.»
Il tono di Molly è fin troppo entusiasta. Sherlock si ferma e la guarda accigliato da sopra le mani giunte sulle labbra. Amanda si chiede se quella buffa posa, come in preghiera, gli sia usuale.
«Dovrei conoscerla?»
«Oh, andiamo! Nel romanzo di Flaubert! Ingoia una manciata di arsenico in polvere e muore dopo qualche giorno di agonia atroce.»
Gli occhi di Sherlock sono saette gelide al di sopra del tavolo.
«È un romanzo, Molly. Non credo che chiunque abbia ucciso mio fratello si sia ispirato ad un libro
Molly fa una buffa smorfia contrariata e imbarazzata allo stesso tempo, e torna al suo intestino.
«Non lo fanno mai, i criminali? Ispirarsi ad una morte famosa, o letteraria? Ho letto un libro dove dei monaci venivano uccisi come nell'Apocalisse, o una cosa del genere...» interviene Amanda.
«Certo, e in “Dieci piccoli indiani” seguono una filastrocca. Non è raro che si verifichino casi simili anche al di fuori dei libri, ma si tratta per lo più di psicopatici o serial killer. La morte di Mycroft è una morte sicuramente premeditata, organizzata e preparata nei minimi dettagli, curata affinché lui non si accorgesse di niente, ma non abbiamo né un serial killer né uno psicopatico. L'assassino sapeva sicuramente che avrebbe attirato la mia attenzione, sa che mi divertono i rompicapo, altrimenti gli avrebbe rifilato un qualunque veleno nella cena e adieu. No, ha voluto essere più sottile...»
Amanda alza le spalle.
«Era un politico, no? Magari è morto come un altro uomo politico del passato.»
Sherlock agita una mano in segno di stizza, impaziente.
«Non è stato pugnalato alle spalle come Cesare, non gli hanno sparato come Kennedy, non è morto in esilio come Napoleone...»
Trattiene il respiro mentre pronuncia le ultime parole.
«Morto in esilio come Napoleone... Mycroft detestava uscire dal suo club, figuriamoci dall'Inghilterra, odiava lasciare i suoi ambienti...»
Sorride, ferino, mentre realizza.
«Verde di Parigi.»
All lives end.
Amanda e Molly si scambiano un'occhiata, confuse. Sherlock scuote piano la testa, il sorriso diventa una smorfia amara. Ora, la morte di suo fratello acquista più consistenza, così come il suo dolore e la sua pena. Non meritava una fine del genere.
All hearts are broken.

 





E anche stavolta ce l'ho fatta. Capitolo un po' di passaggio e forse un po' superfluo, ma mi sembrava necessario.
Grazie, come sempre, a chi è arrivato fin quaggiù, a chi segue e recensisce! 
Potrei aver scritto delle enormi sciocchezze, per quanto riguarda la parte medica – putroppo, non ci capisco un'acca e Wikipedia aiuta finché può. Se così fosse, non esitate a rimproverarmi!
Non dovrei metterci tantissimo per il prossimo capitolo – almeno spero. Quindi, a presto!
-Clock

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Capitolo 9
*** Nodus Tollens ***


 
Nodus Tollens
 
Forgive me Lover,
For I have sinned
For I have loved you wrong.
The Swell Season, I Have Loved You Wrong
 
 
Amanda è esausta. Crolla sul sedile posteriore del taxi e chiude gli occhi all’istante, appoggiando la fronte al finestrino. Sherlock si getta sul sedile accanto al suo, ancora vibrante di adrenalina. Le lancia un’occhiata divertita, mentre tira fuori il cellulare. Il taxi parte lentamente per Vauxhall.
«Bandiera bianca dopo solo una serata di investigazioni? Viva la gioventù.»
Amanda grugnisce, poco elegantemente.
«La gioventù, adesso, è troppo abituata a Internet per sopportare tutto questo correre in giro.»
Manca poco alla mezzanotte. Sherlock l’ha trascinata per mezza Londra, nei posti più disparati: un vecchio negozio di vernici, un museo, tre biblioteche diverse, due club privati e Buckingham Palace. Le aveva impedito di fare foto, però.
«Alla fine? Chi credi possa essere stato? Il tipo con i baffi?»
«Probabile.»
Sherlock non alza gli occhi dallo schermo.
«Sto mandando un messaggio a Lestrade perché mi faccia accedere agli archivi di Scotland Yard, devono sicuramente avere un fascicolo su di lui. Altrimenti controllerò a casa di Mycroft, ma dubito che vi tenesse documenti di rilievo.»
«Chi è Lestrade?»
«Detective Ispettore, in pensione. Vecchio collega.»
Amanda annuisce, socchiudendo appena gli occhi. Sono fermi a un semaforo, ma non riconosce la zona. Li richiude.
L’adrenalina sta lentamente scorrendo via anche da Sherlock. Inizia a sentire la stanchezza della giornata gravargli sulla schiena, sulle ginocchia. Per un istante, chiude gli occhi e allunga le gambe, sospirando.
«Mi piacerebbe venire ai funerali. Sempre se vuoi, ovviamente.»
Sherlock apre gli occhi e li volta sulla ragazza, che ha ancora il viso appoggiato al finestrino.
«Una cerimonia come un'altra, la più insopportabile fiera delle vanità. A Mycroft non dispiacevano, io non le tollero.»
Amanda volta appena il capo verso di lui.
«Aveva un lavoro molto importante?»
«Era il Governo Britannico in persona. Chissà quale fantoccio avranno messo al suo posto, sarà molto più difficile ottenere tutti quei privilegi, adesso. Addio jet privati.»
Amanda coglie il tono leggero, ma non si lascia ingannare.
«Mi dispiace.»
Sherlock ringrazia con gli occhi. Risuona un momento di dolce armonia, una bolla scintillante di intesa totale.
È come se fosse davvero mio padre, si ritrova a pensare, prima che se ne renda conto. E allora, pervasa di malinconia, arrischia la domanda che si era tenuta fra i denti tutto il giorno.
«Che rapporto c'era fra te e John? Cos'è successo fra voi?»
Sherlock non si scompone: se lo aspettava.
«Siamo stati coinquilini, colleghi, amici.»
Affonda gli occhi, plumbei, nei suoi – negli occhi di Mary, multicolori sotto le luci dei semafori, delle insegne e dei lampioni. Esita a lungo.
«Amanti» mormora, come se dirlo a voce più alta profanasse la bellezza di quello che avevano condiviso. Chiude gli occhi per un istante, inspirando forte.
«Ora, estranei.»
 
«Sei sparito per una settimana senza dirmi niente. Una settimana, Sherlock.»
«Ero impossibilitato a comunicarti la mia posizione, ma Lestrade era al corrente di tutto e inoltre sarebbe bastato collegare gli indizi…»
«Smettila immediatamente, Sherlock. Ho parlato con Lestrade, certo che l’ho fatto. Ma devi smetterla di trattarmi come se fossi parte della tappezzeria, io tengo a te, devo sapere che cosa ti succede! Non pretendo di accompagnarti ovunque, se tu non vuoi, ma devi farmi sapere che stai bene! Me lo devi! Me lo devi perché... perché...»
«Dillo. Dillo, forza, John, andiamo, dillo. O ti spaventa, forse, la parola?»
«Sherlock...»
«Non riesci nemmeno ad ammetterlo. Tutto questo tempo e siamo ancora a questo punto, John.»
 
Amanda abbassa il capo. Si chiede se lui continuerà a parlare, ma ne dubita: gli occhi, trasparenti nel buio colorato del taxi, sono distanti, ormai persi. Forse non la riguarda, forse è una ferita ancora aperta.
 
«Sherlock, possiamo parlarne, per favore? Che ci sta succedendo?»
«John, non credo che possiamo continuare così.»
«Sherlock...»
«È evidente che tu non abbia ancora superato la scomparsa di Mary e veda la nostra relazione come un tradimento nei suoi confronti, inoltre provi senso di colpa verso vostra figlia, di cui ancora non sappiamo niente, senso di colpa che condivido e la cui profondità tu non immagini nemmeno...»
«Non provarci. Questa cosa ha a che fare con noi due, noi due e basta.»
«E cosa siamo noi due, John? Forza, dimmelo. Coinquilini? Colleghi?»
«Sherlock, non è così semplice, lo sai...»
«Tu sai benissimo che cosa siamo, ma hai paura di ammetterlo. Siamo amanti, John, amanti
«L'amore è basato sulla fiducia, Sherlock.»
La delusione e il rammarico e il dolore, a quelle parole, li avevano inghiottiti entrambi.
 
«Psicologia non è la tua strada.»
Amanda scuote la testa, come riemergendo da un sogno, sbattendo velocemente le palpebre per scacciare le lacrime che, quasi senza che se accorgesse, le hanno riempito gli occhi.
«Cos–, come sai che studio Psicologia?»
Sherlock le lancia uno sguardo da “per chi mi hai preso”, e torna a digitare sul telefonino.
«Tendi a lasciarti coinvolgere.»
Lei fa spallucce.
«Un po' di empatia non è un male, soprattutto in psicologia, no?»
«Lo è, quando non ti lascia lo spazio di vedere con chiarezza.»
Il taxi rallenta e si ferma davanti al Bed&Breakfast di Amanda. La ragazza sospira, una mano sulla maniglia, esita. Teme che, uscendo da quel taxi, Sherlock Holmes svanirà nella notte e tutto quanto si rivelerà essere nient’altro che un grottesco sogno.
«A che ora, domani?»
L’uomo alza gli occhi dal cellulare, come per sincerarsi che lei glielo abbia chiesto veramente.
«Alle due. Passerò a prenderti mezz’ora prima.»
Amanda annuisce. Apre la portiera e fa per uscire, ma all’ultimo secondo torna indietro e stringe Sherlock in un breve abbraccio – ne hanno bisogno, entrambi. Quindi salta fuori e richiude la portiera dietro di sé.
«Buonanotte, Sherlock.»
«Buonanotte.»
Ci sono ancora tante cose che vorrebbero dirsi – in tutta la giornata, non ne hanno avuto il tempo. Chissà, forse domani.
Il taxi svanisce nero nella notte.
 
Prevedibilmente, John non riesce a dormire. È sprofondato nella vecchia poltrona di Sherlock, un paio di lattine vuote e i resti di un piatto di riso ai suoi piedi, la televisione accesa a volume troppo basso per ascoltare e troppo alto per essere completamente ignorata.
Non si è mai seduto nella poltrona di Sherlock, in quasi venticinque anni da che lo conosce – diamine, venticinque anni, un quarto di secolo da quando quell’uomo è entrato per la prima volta nella sua vita, e niente è più stato lo stesso. È sorprendentemente morbida, accogliente, nonostante i suoi angoli aguzzi e il rivestimento di pelle scricchiolante. Si sente al contempo in colpa, seduto lì, e a suo agio. Come se avesse perso il diritto di sedersi su quella poltrona, fatta per un corpo diverso dal suo – eppure, è l’unico modo che ha per sentirlo vicino.
Con Sherlock, aveva dovuto ricominciare da capo, ogni volta. Con Sherlock, si era trovato a muoversi nell’ignoto, ad addentrarsi in acque sempre più profonde senza sapere bene dove andare o se avrebbe sopportato la pressione o cosa lo attendesse sul fondo. Con Sherlock, John era nudo e più vulnerabile che mai, come una tartaruga senza guscio, perché Sherlock lo conosceva ed era in grado di sondarlo più a fondo di chiunque altro, più a fondo di John stesso – era sempre stato così.
Quando i suoi sentimenti per Sherlock avevano acquistato forma e consistenza, quasi un anno dopo la scomparsa di Mary, il suo primo istinto era stato ricostruirsi la corazza, nascondersi sotto la sabbia. Quando Sherlock gli aveva palesato il proprio affetto, il bisogno di nascondersi, di proteggersi, era diventato anche più forte, contemporaneamente al desiderio di lasciarsi andare, di buttarsi e rischiare. Eppure, qualcosa in lui si era indurito, seccato, pietrificato – tanti, troppi dolori che non riusciva a dimenticare. Si fidava di Sherlock con tutta l’anima, non avrebbe esitato un istante ad affidargli la sua vita – però non riusciva a dirlo. In tanti anni, John non riuscì mai ad esprimergli distintamente, a parole chiare e forti, quanto l’amasse. Perché lo amava, davvero. Ma rimaneva una vecchia testuggine dal cuore arrugginito.
I primi anni erano stati quasi idilliaci, nonostante tutto. John riusciva a zittire la maggior parte dei suoi dubbi e a superare le sue paralisi, e si lasciava andare a Sherlock totalmente e assolutamente. E Sherlock ricambiava con un’intensità che gli faceva girare la testa e rubava tutto l’ossigeno dai suoi polmoni.
Poi, come edera che si arrampica su un muro, una foglia per volta, erano iniziati ad arrivare le discussioni, i dubbi, le scaramucce, i litigi, le accuse, gli errori. Finché l’edera non aveva inghiottito tutto quanto.
 
Casa di Mycroft è silenziosa e spettrale. Sherlock è tentato di andarsene e cercare un hotel, ma poi scuote le spalle e si impone di non fare il bambino. Quindi si dirige in soggiorno, si versa un bicchiere di scotch e sprofonda nella poltrona in pelle di Mycroft. È orribilmente scomoda e rumorosa – squittisce, per la miseria, come faceva Mycroft a sopportarla? Manda giù un sorso di liquore, fissando il caminetto spento. È tutto così freddo, qui dentro, così ordinato, pulito, maestoso, tutto marmi e legni scuri. Che noia – lo pensa con affetto, però, e con una dolorosa morsa allo stomaco. Non gli piace stare in questa casa. Potrebbe bussare alla porta di… In fondo è anche casa sua…
No – era.
Sospira profondamente e piega la testa all’indietro, desiderando ardentemente una sigaretta. Mycroft ne aveva sicuramente qualcuna nascosta in giro, ma non ha la forza di cercarle.
L’ultima parola è stata la sua, lo sa bene. Inoltre, andarsene a Parigi neanche un anno dopo non aveva certo aiutato a ricostruire i ponti. Non gli era mai nemmeno piaciuta, Parigi – ma Mycroft doveva un favore all’ispettore francese e Sherlock voleva solo stare più lontano possibile da Londra. E poi, i francesi avevano una fantasia tutta loro per gli omicidi.
Perché aveva allontanato John? Lo sa, sa che l’inizio dei loro problemi è stato questo. E allora perché?
Frances Carfax era morta. I ballerini erano morti. John Openshaw era morto. Tre grandi fallimenti nel giro di pochi mesi. Certo, aveva risolto il caso, alla fine, tutte le volte, ma aveva perso la partita, indubbiamente.
Ed era tutta colpa di John.
John e i suoi sorrisi. John e il suo tè, John e le sue carezze, John e i suoi morbidi abbracci, John e la sua sempiterna, dorata, totalizzante presenza nella mente di Sherlock. Iniziava a perdere colpi, a perdere lucidità, a perdersi dietro dettagli che non portavano da nessuna parte. Declinava inviti a scene del crimine se poteva passare quel tempo con John e anche quando effettivamente le visitava, faticava ad analizzarle candidamente come un tempo, la mente illanguidita, intorpidita. John stava inglobando tutta la sua essenza, lo stava distruggendo senza volere – Sherlock Holmes senza un caso da risolvere non era Sherlock Holmes. O almeno, così credeva.
La verità è che non è il lavoro o il successo a definire una persona, quanto l’importanza delle relazioni che costruisce – e questo lui l’aveva capito troppo tardi.
 
 
•••
Sherlock capì cos'era successo non appena valicato il portone del 221b: un borsone era stato gettato con poca grazia giù per le scale. Si era aperto nella caduta; Sherlock riconobbe un paio dei maglioni di John.
Salì i gradini con lentezza inesorabile, girandosi e rigirandosi in mente le parole che avrebbe dovuto dire. John gli dava le spalle, sulla sua poltrona rossa. Quando si portò una mano al viso per asciugarsi gli occhi, Sherlock dimenticò tutte le sue parole.
«Mi fa piacere ti sia trovato un nuovo assistente.»
Sherlock rimase in silenzio.
«Victor Trevor. Dimmi, è snob quanto il suo nome?»
«John…»
Si alzò in piedi, senza lasciarlo parlare. Gli si avvicinò con le mani in tasca e uno sguardo tanto rassegnato quanto deluso e furente.
«Sicuramente è più bello di me. Niente cicatrici, per lui, niente mogli fantasma, figlie sparite, niente drammi, sbaglio?»
Sherlock chinò il capo, sentendo la delusione di John strisciare dentro di lui.
«Come lo sai?»
«Lestrade. Mi ha chiamato per chiedermi perché mai mi avessi rimpiazzato.»
«Non ti ho rimpiazzato, Victor è una vecchia conoscenza…»
«Oh, certo. Ad Eton insieme. Ora avvocato di successo, laurea in legge ad Oxford, squadra di canottaggio, chissà che bicipiti…»
«Ho incontrato Victor per caso al Temple Bar, mentre stavo investigando, e gli ho offerto di venire con me, anche ad Eton noi… Come sai di Eton? Non te l’ha detto Lestrade.»
Bastò un movimento rapido delle pupille di John verso la libreria, automatico e involontario. Sherlock sentì la bocca riempirsi di delusione.
«Hai letto i miei fascicoli.»
«Hai fascicoli per qualunque cosa.»
Gli occhi di Sherlock si assottigliarono.
«Hai frugato fra le mie cose piuttosto che parlarmi.»
Il medico raddrizzò la schiena, con l'intenzione di mantenere uno sguardo risoluto, ma fallì quando si accorse della delusione cocente negli occhi dell'altro.
«Oh, non fare quello tradito, non provarci nemmeno, se c’è qualcuno che ha il diritto di essere ferito, qui, quello…»
«I miei complimenti.»
Gli occhi di John capitolarono, la sua voce tacque. Sherlock distolse lo sguardo.
«Dove andrai?»
«Da Harry, per qualche giorno.»
«Buona permanenza.»
Guardò il suo riflesso uscire. Le sue parole lo fermarono sulla soglia.
«Sai, avevi ragione. Alla base dell'amore c'è la fiducia.»
John sbatté la porta.
•••
 
 
Sherlock si era allontanato. Lavorava sempre di più, faceva di tutto per tenersi impegnato, spesso non metteva più John a parte dei suoi piani. John sapeva di non essere mai stato di fondamentale importanza, sulle scene del crimine, eppure adorava guardare Sherlock, correre con lui in giro per Londra. Quando Sherlock aveva iniziato ad investigare senza di lui, senza fornirgli alcuna spiegazione, per altro, John si era sentito orribilmente tradito e più ferito di quanto avesse voluto ammettere. E quando era saltato fuori quel Victor… Aveva accompagnato Sherlock solo saltuariamente in un paio di casi, ma John non avrebbe potuto sentirsi più tradito. Chi era John, se Sherlock non lo voleva più con sé? Sentiva di non valere più nulla, di essere stato privato di un pezzo della sua identità.
Eppure, Sherlock diventava sempre più famoso, sempre più un personaggio pubblico, il blog di John sempre più popolare. John si sentiva quasi in dovere di continuare a scrivere – paradossalmente, gli dava l’illusoria speranza di avere ancora Sherlock con sé, in qualche modo. Ma alla fine, aveva creato uno Sherlock che non esisteva, che cercava e mancava di riconoscere nel vero Sherlock. Arrivava ad alterarsi – si aspettava di ritrovare anche fra le mura di casa il mitico supereroe che forgiava sulla tastiera. E Sherlock si librava sempre più lontano – arrivava ad ignorare John per giorni. Aveva avuto due ricadute, nel giro di un anno. John avrebbe voluto morire, si detestava per lo stato in cui era finito Sherlock – ma non sapeva cosa fare. Dopo la seconda volta, Sherlock era rimasto l’ombra di se stesso.
 
 
•••
Sentì i passi di John affrettarsi su per le scale come se venissero da molto lontano – o come se John fosse scalzo.
«Sherlock? Sherlock?»
Sbattere di una porta; altri passi; altra porta.
«Sherlock…»
Delusione, rabbia a malapena trattenuta. Pugni aperti e richiusi. La sua percezione era annebbiata, ma sentì comunque i propri occhi riempirsi di lacrime.
«Mi dispiace… John…»
Non riusciva a vedere il suo viso, ma sentiva la sua irritazione nei suoi respiri, brevi e nervosi.
«John…»
Probabilmente scuoteva la testa – se solo fosse riuscito a dissipare quel velo davanti ai suoi occhi…
«Avevi promesso, Sherlock. Credevo che… contasse di più per te, la tua… io…»
Altro respiro.
«Avevi promesso. Cosa, cosa c’è che non va? Dov’è il problema, Sherlock? Perché–» John cadde in ginocchio sul tappeto della loro camera davanti a lui, prendendogli le mani fra le sue. «Perché io non sono abbastanza?»
Sherlock scosse la testa, cercando inutilmente di dissipare la densa nebbia nella sua testa.
«Non capisci.»
Gli prese il capo fra le mani, avvicinandosi, e strinse appena, come per volergli imprimere bene il concetto nella mente.
«Tu sei fino troppo, John!»
Sentì la sua mascella contrarsi sotto le sue dita, ma continuò.
«Tu, soltanto tu sei il problema! E io che sono stato così stupido da innamorarmi di te, da perdere la concentrazione, da… Sono morti, John! Cinque clienti e cinque morti, John, non capisci?»
Percepì la sua voce alzarsi di tono, la pressione dei suoi palmi sulle tempie di John aumentare, mentre lui gli afferrava i polsi.
«Ho fallito, tre volte! Ho fallito come uomo, John, se non sono più un detective, non sono più niente! Cinque morti, John, cinque! E la cosa peggiore è che un tempo non me ne sarebbe importato nulla, un tempo non me ne importava nulla, perché non ero un eroe e mi andava bene così!»
I respiri di John erano sempre più pesanti e misurati mentre faceva forza per spingere le mani di Sherlock via dalle sue tempie. Sherlock si divincolò e lo prese per le spalle, scuotendolo. John chiuse gli occhi per un istante, cercando di ignorare gli occhi iniettati di sangue, il viso pallido e stravolto, le chiazze rosse di rabbia sul collo e sulle guance, le lacrime perlate sulle lunghe ciglia – invano.
«Tu mi hai reso un eroe, John, tu! Tu e il tuo blog, tu e le tue stupide storie su di me, solo storie, nient’altro che storie! Mi hai fatto diventare un personaggio in un racconto, John, mi hai reso debole! Tu–tu…tu…»
L’energia che l’aveva trascinato fino adesso sembrò abbandonare il suo corpo come l’aria da un palloncino, lasciandolo ad accartocciarsi su se stesso. John osservò il relitto dell’uomo che amava scosso da una tempesta, ascoltò ondate di dolore sciabordare nel proprio petto. Quindi si alzò in piedi, prese Sherlock per le spalle e lo aiutò a tirarsi su. Lasciò che si appoggiasse su di lui e lo guidò verso il letto, adagiandovelo sopra. Gli sfilò le scarpe, allentò il colletto e i polsini della camicia e lo avvolse in una coperta. Rimase a guardarlo, una mano sulla sua schiena, l’altra sui suoi capelli, mentre le lacrime si asciugavano sulle sue guance scavate.
«Mi dispiace, John.»
Scosse la testa.
«Di esserti innamorato di me?»
Sherlock non rispose; lo fecero i suoi occhi, trasparenti come acqua. John sentì il suo autocontrollo cedere, la marea nel suo petto innalzarsi pericolosamente.
«Perdonami» mormorò a sua volta, prima di chinarsi e posargli un bacio sulla tempia sudata. Quindi si alzò e uscì più in fretta che poteva. Riuscì a resistere fino al pianerottolo – poi l’onda prese il sopravvento.
•••
 
 
Sherlock ruota leggermente il polso, fissando i fondi del suo scotch. Mycroft è morto. Mycroft, che aveva consacrato la sua vita al lavoro, a machiavellici giochi di potere. Mycroft, che aveva consacrato la sua vita a proteggere lui, Sherlock, da quel crudele mondo di cui ogni giorno sbrogliava e intrecciava i fili. Mycroft, che era stato il porto sicuro a cui tornare, sempre e comunque, per quanto umiliante o difficile la situazione potesse essere. Mycroft, che era stato la sua unica famiglia per tanto tempo.
Non gli è rimasto nulla. Non ha più una casa, un posto a cui appartenere, a cui tornare – o sì? (perché, perché ancora non riesce a soffocare quella tenace fiammella di speranza? Causerà solo altro male.)
Dall’altra parte di Londra, John guarda la polvere accumularsi intorno, sopra e dentro di lui, sommergerlo e avvilupparlo come fa con il teschio sulla mensola, gli scaffali della libreria, le finestre, le tende, i tappeti. Ridacchia, quasi – potrebbe benissimo diventare un pezzo d’arredamento, ormai, nessuno noterebbe la differenza.
Chiudono gli occhi, entrambi, uniti e lontani ad un tempo. Lo stesso sospiro – tornare a casa. 

 




Ed eccomi di nuovo qui. 
Non è stato un capitolo affatto semplice, e sono davvero nervosa a riguardo – spero di non avervi deluso. 
Il titolo, mi sembra giusto spiegarlo, è latino e significa "il nodo che si scioglie, si disfa" – ho trovato l'espressione su internet per indicare "la sensazione che hai quando ti accorgi che la tua vita ha perso di significato". 
I tre casi che cita Sherlock sono riferimenti a "La scomparsa di Lady Frances Carfax", "L'avventura degli uomini danzanti" e "I cinque semi d'arancio".
Come sempre, grazie infinite a chi è arrivato fin quaggiù, a chi segue e recensisce! 
A presto,
-Clock

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Capitolo 10
*** Dalle ceneri ***



 
Dalle ceneri
 
 
A person is, among all else, a material thing, easily torn, not easily mended.
I. McEwan, Atonement
 
 
Mrs Hudson se ne era andata una notte, silenziosa e discreta. Sia lui che Sherlock si erano accorti delle sue cattive condizioni di salute, qualche tempo prima; l'avevano aiutata, portata in ospedale a fare controlli, comprato le medicine. Non era stata una lunga battaglia.
John sospira, mentre si spalma con attenzione la schiuma da barba sul viso. Povera Mrs Hudson. Per John, era stato come perdere di nuovo sua madre; Sherlock non aveva parlato per giorni.
Apre il rubinetto e bagna il rasoio sotto il getto d'acqua. Sospira, guardando il suo riflesso. Non ha chiuso occhio, stanotte, ed è piuttosto evidente.
 
«Sai, John, se c'è una cosa di cui sono contenta è che prima di andarmene avrò visto Sherlock felice. E non fare quel sorriso compiaciuto!»
John aveva ridacchiato dietro la sua tazza di tè.
«Lo hai fatto penare per anni, povera anima!»
«Beh, deve ammettere che non è mai stato un tipo semplice.»
«No, è vero. Mi dispiace così tanto, però, per la povera Mary, e per quella creaturina, ogni tanto ci ripenso...»
Lui aveva abbassato gli occhi, una familiare morsa al petto – non c’era giorno che non ci pensasse.
«Già.»
«Per voi due dev'essere stato tremendo. Però sono contenta che alla fine vi siate trovati. Io l'ho sempre detto, fin dall'inizio...»
 
Il rasoio scorre rapido sulla sua pelle, come pattini sul ghiaccio. Ad ogni riquadro di pelle scoperta, John sente un anno scivolargli dalle spalle.
 
«Giusto cielo, mi sembra ieri che siete venuti in questo appartamento per la prima volta, te lo ricordi? Tu con quel bastone...»
«Sì, ricordo bene.»
«Alla fine vi siete anche decisi ad usare una camera sola, come avevo sempre suggerito.»
John aveva sollevato gli occhi al cielo, divertito e imbarazzato.
«Mrs Hudson...»
«John, non so cosa credi tu, ma sono stata giovane anch'io, ho avuto tante di quelle esperienze...»
Sherlock aveva fatto trasalire entrambi.
«Mrs Hudson, smetta di estrapolare informazioni a John sulla nostra vita sentimentale, non le dirà mai niente. Ne parla a malapena con me.»
«Non sono il vostro consulente matrimoniale, ma se avete qualche problema nell'altra stanza...»
«Mrs Hudson!»
«Siamo a posto, grazie. Non ha una spesa da sistemare?»
«Non ho fatto la spesa.»
«John, vai a fare la spesa per Mrs Hudson.»
 
Sorride, nonostante tutto, al ricordo. Posa il rasoio e si sciacqua il viso con acqua fredda. Lo tampona con l'asciugamano e applica appena una goccia di dopobarba. Quindi, con un pettine appena bagnato, passa ai capelli, pettinandoli diligentemente all’indietro, per cambiare. Piega la testa di lato, prima a destra poi a sinistra. Le rughe rimangono al loro posto e i capelli sono sempre grigi, ma non può fare a meno di pensare che John Watson ha un'aria decisamente più viva, adesso.
Ora, è il turno del 221b. La sua camera è relativamente a posto, deve solo dare una passata di aspirapolvere. In quella di Sherlock non entra da anni, ma non ha il coraggio di farlo oggi.
Decide di iniziare dalla cucina. C'è una pila di piatti sporchi vergognosa, alcuni armadietti di cui non ricorda il contenuto e il frigorifero non ha per niente un buon odore. E non è nemmeno colpa di organi in decomposizione.
 
 
•••
«Dottor Watson, la sua pausa è finita da un pezzo.»
John si voltò, colto di sorpresa. Una donna bionda dai grandi occhi azzurri risplendeva di un affascinante sorriso, divertita.
«Non ho appuntamenti questo pomeriggio, soltanto la signora Emerson con le sue malattie immaginarie.»
Mary ridacchiò, sedendosi accanto a lui sulla panchina fuori del piccolo bar di fronte alla clinica.
«Cos'era l'ultima volta? Amnesia?»
«Alzheimer.» Scosse la testa, mentre Mary rideva. «Gesù. Se usasse il tempo che passa su Internet a inventarsi malattie a studiare rimedi per quelle esistenti, curerebbe il cancro.»
Il bel sorriso di Mary si spense poco a poco, lasciando una vaga luce sul suo viso.
«Sai, a volte le persone hanno bisogno di dare un nome al malessere che sentono. La dignità di una diagnosi, qualcosa che dica “tu hai questo e devi fare così e così e poi starai meglio”.»
John corrugò le sopracciglia, guardandola.
«Non ti seguo.»
Mary volse la testa quanto bastava per rivolgergli il sorriso di chi ha capito tutto.
«Mi segui più che bene, invece. Hai una zoppia psicosomatica post-traumatica, che non è altro che un nome altisonante per dire che c'è qualcosa, qui dentro,» disse, picchiettando gentilmente l'indice sul petto di lui, «che non funziona ancora bene.»
John annuì, più colpito di quanto avrebbe ammesso.
High-functioning sociopath, do your research.
«Non dicevi che anche il tuo amico si era “autodiagnosticato” un sociopatico?»
Come tutte le volte, John raddrizzò la schiena e inspirò bruscamente.
«Sociopatico ad alta funzionalità, stai attenta.»
Il sorriso di Mary virò su toni più caldi, confortevoli, dolci.
«Già. Non è un po' la stessa cosa? Un nome, una diagnosi, una spiegazione dietro cui rifugiarsi, in tutta l'autorevolezza della scienza medica.»
John annuì di nuovo, lasciando che Mary gli strofinasse gentilmente un braccio, il tempo necessario a dissipare il pesante grumo scuro che gli opprimeva il petto.
•••
 
 
Chiude il sacchetto nero e lo deposita sul pianerottolo. La cucina tira un sospiro di sollievo. Controlla l'orologio: quasi l'una. Deve muoversi se non vuole arrivare in ritardo al funerale. Sale le scale due a due.
 
La luce verdastra che sommerge Highgate e il caldo soffocante, fuori stagione, gli danno la strana sensazione di trovarsi sott'acqua. La piccola folla è raccolta intorno ad una lapide solitaria, davanti a cui stanno scavando una buca sempre più profonda.
John è ai margini della comitiva, si guarda intorno. Distingue i signori Holmes, accanto alla bara; Lestrade e Molly, il capo chino fra la folla; Amanda e Sherlock in disparte, quasi spettatori capitati per caso. Si avvicina, senza esitare.
«Ehi.»
Sherlock si limita a guardarlo e ad annuire, Amanda gli sorride. Passano diversi momenti prima che Sherlock si schiarisca la voce e parli.
«Non pensavo saresti venuto.»
«Nemmeno io» risponde John, la voce chiara e ferma. Rimangono in silenzio, tutti e tre vicini, osservando la bara di Mycroft scendere giù e coprirsi di terra. Sherlock ha occhi di bambino, grandi e pallidi, spaventati; John gli si fa più vicino, gli stringe il braccio. Amanda china il capo, smarrita, incerta su cosa fare; quando incontra il suo sguardo, John le sorride con gli occhi, la tranquillizza.
La folla sciama via in silenzio come granelli di sabbia in una clessidra. John e Amanda rimangono indietro mentre Sherlock viene abbracciato da sua madre – non ha accettato che nessun altro gli facesse condoglianze o gli si avvicinasse. Alla fine, rimangono solo loro tre davanti al cumulo di terra. Sherlock lo guarda con occhi vitrei, che riflettono tante emozioni violente, contrastanti. John lo prende per la mano – dopo tanti anni, prova il brivido di ritrovare qualcosa di conosciuto ma a lungo dimenticato.
«Andiamo.»
Sherlock si lascia guidare, docile, verso Baker Street.
 
 
•••
Strinse la radice del naso fra due dita, strizzando gli occhi. Si concentrò sul suo respiro, cercando di calmarsi. Il passo deciso di Sherlock risuonò su per le scale; John strinse a pugno la mano che teneva il giornale, accartocciandolo. Si chiese da quanto tempo il rumore di quei passi non lo faceva più sorridere (Sherlock era finalmente a casa, insieme a lui) ma gli faceva stringere i pugni e serrare le mascelle. Non appena uno dei due entrava nell'appartamento si instaurava una tensione logorante – i muscoli si tendevano e i nervi scottavano, bastava una scintilla a far esplodere liti furibonde.
«Bello vederti, ogni tanto.»
Sherlock non rispose, nascondendosi direttamente in cucina. John tamburellò per qualche istante le dita sui braccioli, rapide e nervose. Quindi si alzò, stringendo i fogli di carta che aveva nascosto nel giornale.
Sherlock si accigliò, quando lo vide sulla soglia: c'era una sicurezza militare, nella sua schiena rigida, una sorta di dolorosa baldanza nelle sue spalle troppo dritte, le mani dietro la schiena.
«Cosa succede?»
Quel sorriso ferino, mero piegamento di labbra che lasciava gli occhi freddi e scuri, lo faceva rabbrividire.
«Dovresti dirmelo tu. Ci trasferiamo?» chiese, con finta innocenza, porgendogli i fogli ripiegati. Sherlock sentì un peso precipitargli nello stomaco, le dita diventargli fredde, la pelle ricoprirsi di sudore nervoso. Non rispose, si costrinse a rimanere attaccato ai suoi occhi neri.
John annuì più volte, chiudendo gli occhi.
«Bella zona, vicino al Bart's. Sicuro di potertela permettere da solo? Non ti servirà un coinquilino?»
Il sarcasmo nella sua voce era come acido nella gola di Sherlock.
«John, le cose fra noi non vanno più bene da diversi mesi, la soluzione più semplice è che io mi allontani per un po'...»
«Fai pure. Ovviamente non c'è bisogno che tu mi metta a parte dei tuoi piani, sei libero di buttarmi via come un vecchio paio di calzini, certo...»
«John...»
«Pensavo che dopo tanti anni almeno ti saresti degnato di spiegare...»
«John, è esattamente perché tengo a te che me ne vado.»
John tacque, scosse la testa, mordicchiandosi il labbro.
«Abbiamo bisogno di tempo. Di risolvere... le nostre questioni.»
John chiuse gli occhi, tornò in soggiorno.
«Non farti più vedere, Sherlock.»
Fu appena un mormorio stanco; Sherlock quasi si stupì di non vedersi addosso nessuna ferita – eppure il dolore c'era.
•••
 
 
John li fa sedere in cucina e inizia ad armeggiare fra gli armadietti per preparare il tè. Amanda prende posto chiedendosi distrattamente perché mai gli inglesi si sentano in dovere di bere tè ogni volta che qualcosa va storto – non è esattamente una pozione magica che sistema tutto, è acqua calda e foglie secche. Medita di farci una battuta su, ma ci ripensa: John è un ex-soldato inglese, potrebbe cacciarla via.
«Ti sei fatto la barba» commenta Sherlock, lo sguardo inchiodato sul tavolo. John si ferma per un momento, le mani sospese a mezz'aria; sorride appena. Anche Amanda se n’era accorta, ma le sembrava inopportuno farglielo notare.
«E hai anche pulito la cucina.»
John annuisce, continuando a voltargli le spalle, occupato con i fornelli.
«Cosa puoi dedurre dal mio comportamento?» lo punzecchia, girandosi per un attimo a guardarlo. Sherlock alza gli occhi per incontrare i suoi, ma Amanda risponde prima che possa farlo lui.
«Determinazione, buoni propositi, rinascita. Hai deciso di prenderti cura della tua persona, darti un nuovo aspetto, costruire un nuovo personaggio per iniziare da capo. Così è anche per la casa: hai iniziato dalla cucina, probabilmente non sei andato avanti per mancanza di tempo o perché altre stanze richiedevano un impegno emotivo più profondo, essendo legate ad un bagaglio di esperienze più vasto, forse. Tutto indica rinnovamento, volontà di andare avanti. Stai grattando via il vecchi e il superfluo per far riemergere il vero te.»
Sono orgogliosa di te, dicono i suoi occhi, luminosi. John le sorride, la ringrazia con un cenno del capo. Si rivolge di nuovo a Sherlock, incrociando le braccia al petto con fare divertito.
«È d'accordo con la diagnosi, detective?»
Sherlock rimane in silenzio per lunghi istanti, guardandolo da sotto in su. Non sa come accogliere tutte queste informazioni, come analizzare il comportamento di John. Cosa gli sta veramente dicendo?
«Ottimo lavoro, Amanda. Psicologia non è affatto la tua strada.»
John ridacchia suo malgrado. Cerca di rispondere a Sherlock come può, recuperando un'antica danza di sguardi e gesti che gli era diventata così familiare, un tempo, ma gli occhi del detective rimangono dubbiosi, incerti.
Amanda alza le mani al cielo.
«Come sarebbe? Ho fatto un'ottima analisi!»
Non riceve risposta. John e Sherlock continuano a studiarsi come un astronomo e una supernova, in silenzio reverenziale. Finché la teiera fischia.
Per qualche minuto, sono tutti impegnati a versare il tè nelle tazze, passarsi lo zucchero e il latte, mescolare. Quindi, John azzarda la sua domanda.
«Ieri… Per Mycroft, cos’è successo?»
Sherlock non alza gli occhi, ipnotizzati dai movimenti circolari del cucchiaino dentro la tazza.
«Verde di Parigi. È un pigmento particolare che contiene un’elevata concentrazione di arsenico. L’esposizione prolungata può portare all’avvelenamento. Le pareti della camera d’albergo di Mycroft, in Nigeria, erano di questo colore, ritinteggiate di fresco. Curiosamente, gli addetti dell’albergo erano stati pagati profumatamente perché il sistema d’areazione risultasse fuori uso. Mycroft passava più di quattordici ore, in quelle stanze, complici il caldo e la sua scarsa propensione al turismo. È rimasto lì quattro giorni, più che sufficienti perché l’arsenico entrasse nel suo organismo.»
John scuote la testa. Senza pensarci, allunga una mano sopra il tavolo e gli stringe l’avambraccio, massaggiando delicatamente con il pollice. Sente Sherlock sospirare sotto le sue dita.
«Siamo riusciti a risalire al colpevole, se ne sta occupando l’MI6. Un suo sottosegretario. Mi sono premurato di assicurarmi che non metta più piede in Inghilterra. O in nessun altro paese civilizzato, se per questo.»
Sherlock manda giù un lungo sorso di tè. Storce le labbra, pensieroso. «Si dice che anche Napoleone sia morto allo stesso modo.»
Bevono in silenzio per lunghi minuti.
«Ti serve una mano per il soggiorno, immagino?» domanda quindi il detective, in un tono leggero che non inganna nessuno. John non osa rispondere – la sola idea di rovistare fra le cianfrusaglie del loro passato, insieme, dopo tanti anni, lo fa tremare non sa bene se di terrore o di silenzioso sollievo.
«Oh, credo che qualunque aiuto sarebbe bene accetto» si intromette Amanda, cercando di scherzare. Sherlock annuisce e finisce i rimasugli del suo tè.
«Iniziamo, allora.»
Si alza e si dirige in soggiorno; John lancia un'occhiata di ringraziamento alla ragazza e lo segue. Lei sparecchia e lava tazze e teiera, mettendoci molto più tempo del dovuto.
«Iniziamo dalla libreria, direi?»
Sherlock annuisce e vi si avvicina, John va dall'altro lato.
«Molte nuove aggiunte, vedo» commenta Sherlock, scorrendo i titoli dei volumi. John alza le spalle.
«Molto tempo libero, tanti libri che avevo sempre voluto leggere.»
Sherlock lo studia con un'occhiata, ma non commenta oltre. Si allunga in punta di piedi e afferra il primo libro sullo scaffale più alto. Ci sono decine di vecchi libri, fogli sparsi, cartacce, fascicoli –non si era portato dietro molto quando se n’era andato.
Procedono in silenzio, prendendo un libro per volta e decidendo se metterlo nella pila dei “da tenere” o in quella degli scartati, esaminando le carte e i fascicoli, buttandone la maggior parte in un sacco nero.
«Oh, guarda.»
È una vecchia foto, incorniciata. Qualcuno l'aveva infilata tra due tascabili, chissà perché – John non ne ha il minimo ricordo. Sherlock si avvicina, curioso, e anche Amanda si affaccia alla soglia della cucina.
Ci sono solo loro due. Sono seduti sulle loro poltrone davanti al caminetto; a giudicare dalle luci colorate sulla mensola, dev'essere Natale, o giù di lì. John ha un giornale davanti a sé e sembra catturato nel mezzo di un’accesa discussione, che tuttavia lo diverte – si vede nella piega degli occhi, nell'angolo delle sopracciglia. Sherlock, invece, ha il viso rivolto verso l'obiettivo, che lo ha immortalato in un momento del tutto spontaneo: sta ridendo.
John alza gli occhi sul profilo marmoreo di Sherlock. Dove è andato a finire tutto questo? L'affetto, la complicità, l'armonia, l'amore – sì, l'amore, ora che è troppo tardi John riesce a chiamarlo con il suo vero nome. Da dove è arrivato il dolore che ha scavato quelle rughe sulle loro fronti – o meglio, perché glielo hanno lasciato fare?
«Bella foto. L'ha scattata Molly, sicuramente.»
Sherlock raddrizza le spalle e fa qualche passo indietro – John riconosce quei gesti, i fremiti impercettibili del suo viso, non è cambiato tanto: fugge, si trincera dietro la sua fedele maschera di algida compostezza.
John annuisce.
«Ci serviranno degli scatoloni» annuncia, avviandosi verso le scale. Si accorge di avere ancora la foto in mano solo quando entra in camera sua. La spolvera con la manica della camicia e la appoggia sul comodino.
 
Un bip inaspettato.
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Apocalisse.
Corruga le sopracciglia, fissando lo schermo del cellulare. Amanda lo nota e gli si avvicina.
«Tutto bene?»
«Indovinello» risponde Sherlock, girando il telefono affinché anche lei possa leggere. Lancia uno sguardo alle scale, temendo che John torni. Amanda spalanca gli occhi, perplessa.
«Cos’è, gallese? Perché qualcuno dovrebbe mandarti roba simile? È la prima volta?»
Sherlock rotea gli occhi, girando di nuovo il cellulare.
«Ma per favore. Faccio questo lavoro da quasi trent'anni, ne ho ricevuti a centinaia.»
Assume la sua posa meditativa preferita, il cellulare fra le mani in preghiera sotto il mento.
«È un messaggio in codice, usa il cifrario di Vigenère, per codificarlo è fondamentale la parola chiave.»
«Apocalisse?»
«“Y-H-X-R-J-S…”. Dubito.»
«Apocalisse, Apocalisse... Se ne parla nella Bibbia, no? Vangelo di Giovanni.»
Sherlock si ferma, guarda il telefono.
Giovanni. John.
P-E-C-C-A-T-O-R-I P-A-G-H-E-R-A-N-N-O.
«“Peccatori pagheranno”. Molto originale.»
Ne ha ricevuti a decine, di simili, per posta o per messaggio, mesi fa, prima di andare in Sussex, sa di non doverne tenere troppo conto. Lo turba, però, che abbiano usato il suo numero di cellulare – a pochissimi ha permesso di averlo in rubrica – e soprattutto, che abbiano menzionato John.
Lui torna in quel momento, con un paio di scatoloni. Si ferma, guardando le loro facce inquiete.
«Che succede?»
Amanda guarda Sherlock, che fa un lieve cenno di no con la testa.
«Risolviamo indovinelli» risponde, nascondendo il cellulare in tasca e assumendo la sua migliore aria spensierata. «A cosa servono le scatole?»
«Per i libri che non vogliamo tenere, posso donarli a qualche scuola...»
«Alle scuole interessano trattati di tossicologia forense e cronache della vita di Jack lo Squartatore?» chiede Sherlock, sbattendo le palpebre con finta innocenza.
«Ok, magari non proprio quelli, ma…»
Torna accanto alla libreria, il capo piegato per leggere i titoli.
«Oh, forse ti riferivi a Guida intergalattica per autostoppisti? Oppure Lo Hobbit? Questo cos’è, Espiazione…»
«Ehi, quelli sono bei libri, rimettili dov’erano…»
«“Storia di un amore travolgente, e di una passione letteraria assoluta, Espiazione è stato salutato nel mondo anglosassone come il capolavoro di McEwan”…»
John rotea gli occhi, mentre Amanda ridacchia divertita alle sue spalle. Sherlock si gira il libro fra le mani, ne scorre le pagine con il pollice, tornato improvvisamente serio.
«Sottolinei ancora i passaggi che ti piacciono?»
John incrocia le braccia al petto ed annuisce. Sherlock continua ad accarezzare il libro, senza osare aprirlo – scoprirebbe un altro pezzo di John, del John solitario di questi ultimi anni, che è entrato in libreria a comprare questo libro, senza dubbio attratto dal titolo più che dalla fama dell’autore o dal prezzo speciale dell’occasione del giorno; il John che ha riletto quel libro almeno tre volte, a giudicare dallo stato della costa, ne ha sottolineato le frasi e piegato gli angoli. Espiazione.
Oh, John.
«E questi invece? Storia del crimine in Gran Bretagna dal XVI al XIX secolo, Trattato sulla decomposizione dei tessuti, Mummie e altri segreti, Santo cielo…» Amanda storce il naso, scorrendo i titoli. John e Sherlock sembrano sollevati di poter rivolgere la loro attenzione a lei e Sherlock fa scivolare il libro nella sua giacca.
«Queste sì che sono letture ricreative» commenta lei, asciutta. John ride e Sherlock sorride di riflesso, quasi in automatico. Se ritagliasse quel momento e lo sistemasse sotto un microscopio potrebbe affermare con sicurezza che si tratta di una tranquilla mattina di pulizie al 221b, corredata di battute scherzose e sorrisi affettuosi. Ma non potrebbe mai cacciare Amanda dal vetrino e con lei la consapevolezza che niente è più come prima e che c’è ancora tanto da sistemare, tanti nodi ancora da sciogliere – tanto fango e tanta neve da grattare via dalle loro scarpe, prima di poter entrare in casa.

 







Ehilà!
Per vostra somma gioia (?), da oggi in poi sarò libera come l'aria e riuscirò ad aggiornare in tempi umani. Intanto, grazie come di consueto a chi ha letto fin qui, a chi segue e soprattutto alla cara emerenziano, per tutte le belle parole :)
I primi due romanzi che Sherlock cita (li avrete riconosciuti) sono anche film in cui Martin Freeman ha recitato, mentre in Atonement (Espiazione) ha recitato Benedict (e aveva una parte orribile, fra parentesi!). Il resto me lo sono inventato :)
A presto!
-Clock
 

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Capitolo 11
*** Burrasca ***




Burrasca
 
ODISSEO: Quello che cerco l’ho nel cuore, come te.
C. Pavese, Dialoghi con Leucò
 
 
John non sa esattamente come sia successo, ma si sono ritrovati tutti alla festa di Harry. Lui compreso, nonostante non avesse avuto la minima intenzione di andarci. Se non fosse stato per Amanda, che li aveva costretti a fermarsi in una gioielleria lungo la strada, non avrebbe nemmeno un regalo. Sherlock, ovviamente, non aveva perso tempo a puntualizzare come il prezzo spropositato pagato per gli orecchini d'argento fosse un tentativo maldestro di appianare anni e anni di sensi di colpa, con grande imbarazzo di John. Amanda si era limitata a ridacchiare.
John ed Harry si sono riavvicinati, negli ultimi anni, e lei si è rimessa in sesto. Ha perso peso, non tocca una goccia di alcol – ma John sospetta che abbia iniziato a fumare – ha trovato un buon lavoro e ha una discreta vita sociale, con un circolo di amiche ridacchianti che non la lasciano sola un minuto. Di Clara, nemmeno l'ombra.
«Johnny!»
È sempre stata una ragazza corpulenta, Harry, e John uno troppo piccolo per la sua età. Di abbracci stritolanti come quelli ne ha vissuti un'infinità – questo va a classificarsi come uno dei più imbarazzanti, comunque, con gli occhi divertiti di Amanda e quelli indagatori e beffardi di Sherlock puntati addosso.
«Auguri, Harry» bofonchia, il viso immerso nell'ampio petto della donna. Sherlock tossicchia, Amanda nasconde un risolino dietro la mano.
«Sono secoli che non ti fai vedere! Sono così contenta che tu sia venuto...»
Allenta la presa, e John recupera l'uso dei suoi polmoni. Fa in tempo a fulminare Sherlock e Amanda con uno sguardo prima che Harry si accorga anche di loro.
«Oh, ma c'è anche Sherlock!»
È tentata di abbracciare anche lui, ma ci ripensa all'ultimo istante e gli stringe una mano, invece, con un sorriso che va da un orecchio all'altro.
«Ma allora siete tornati insieme! Oh, lo sapevo, ho sempre tifato per voi...»
«Io e John siamo due entità separate e per ora preferiamo che il nostro status rimanga tale. Sono qui semplicemente perché stamattina si sono celebrati i funerali di mio fratello e John ha ritenuto opportuno che io mi “distraessi” partecipando ad un evento sociale, conoscendo le tendenze poco salubri che manifesto quando sono annoiato o di “cattivo umore” – sono sicuro che mi capisci. Questo e il fatto che aveva bisogno di qualcuno che lo accompagnasse qui perché non voleva venirci da solo ma si sentiva troppo in colpa per disdire, e addurre come scusa il funerale di mio fratello avrebbe implicato il dover rimanere con noi, soprattutto con me, tutta la serata, situazione che evidentemente non è ancora in grado di affrontare.»
I due Watson sbattono le palpebre, processando la valanga di informazioni che Sherlock ha sputato fuori a raffica, come suo solito.
«Oh, e lei è Amanda.»
Lo sguardo di John non è niente affatto amichevole, mentre Harry stritola Amanda e la sommerge di domande. Sherlock sogghigna – ah, i bei vecchi tempi.
 
«Tutto bene?»
Sherlock sbuffa una nuvoletta di fumo, ma non si volta.
«Definisci “bene”.»
Amanda sorride mesta, sedendosi accanto a lui sui gradini. È una serata insolitamente mite, è piacevole anche stare fuori.
«Hai ragione, scusa, domanda stupida.»
Sherlock inspira un'altra boccata dalla sua sigaretta e la espira lentamente.
«John?»
«Si nasconde dalle amiche di Harry, ce n'è una che lo perseguita da tutta la sera, fa quasi paura, sembra la Medusa. Credo sia in bagno, al momento, probabilmente scappa dalla finestra.»
Sherlock piega le labbra in un sorriso. Un’altra nuvoletta di fumo riempie il silenzio.
«Cosa credevi di ottenere, venendo a Londra?» chiede. Amanda si stringe nelle spalle e si allunga all’indietro, appoggiandosi sulle mani, le gambe distese davanti a sé.
«Risposte. Sai, ho conosciuto molti ragazzi con storie simili alla mia, adottati, o cresciuti in orfanotrofi o case famiglia, o comunque lontano dalle loro famiglie d’origine. Molti le ricordavano ancora, altri affatto. Ad alcuni non importava nulla di loro, altri erano ossessionati dal desiderio di ritrovarle. Io… non ho mai avuto una vera famiglia, Sherlock» mormora, lanciandogli un’occhiata fuggevole. «Mi sono dovuta costruire un’identità partendo da zero, senza nessun punto di riferimento. E sono stata anche abbastanza brava» sorride, scherzosa. «E non avevo mai veramente pianificato di venire a cercarvi, non avevo mai fantasticato incontri strappalacrime o simili, tranne quando ero più piccola e avevo scoperto chi eri. Sai, il famoso investigatore… Ai miei occhi eri una specie di supereroe» ridacchia, guardando le automobili correre sulla strada davanti a loro. Gli occhi di Sherlock sono scuri, insondabili, ma lei non se ne accorge. «Ho avuto un periodo in cui leggevo soltanto gialli, l’opera omnia di Agatha Christie, gialli svedesi, di tutto…» Solleva le spalle, guardandolo. «Poi però sono cresciuta. Di tutto questo è rimasto solo il fascino per la psicologia umana. E anche il sogno di risolvere crimini con il grande Sherlock Holmes è svanito presto. Non ci ho pensato più per anni, finché non ho sentito per caso uno dei miei compagni menzionare John Watson, dire che l’aveva conosciuto e allora… Ho deciso di tentare.»
Sherlock schiaccia il mozzicone sul marmo, impiegandoci una quantità di tempo e di impegno del tutto superflua.
«L’esito della tua ricerca non è stato quello che speravi.»
Amanda sorride e Sherlock si chiede come abbiano fatto a farne a meno per tanti anni.
«È un punto di partenza.»
Il pensiero di Sherlock corre ai suoi genitori, a Mycroft, a Mrs Hudson, a Lestrade, a John, a Mary, a John – tutti i suoi punti di partenza e ripartenza, tutti i suoi nuovi inizi, tutte le persone che lo hanno costretto a chiudere il capitolo e voltare pagina, ricominciare. E ora lui è stato un punto di partenza per qualcuno, ha significato un cambiamento nella vita di questa giovane donna – Dio, è questo che significa essere padre? È questo che significa amare ed essere amati incondizionatamente?
Amanda deve avere un qualche dono o terzo occhio – altrimenti non si spiega come riesca a leggere Sherlock così bene. Lascia che lui seppellisca il viso fra le mani e gli circonda le spalle in un abbraccio leggero, morbido e non invadente. Lo lascia tremare, poi scuotersi e rialzare la testa con un sorriso sommesso. Certo che sa leggere Sherlock – ha il sorriso di John.
 
Prova una dolceamara fitta allo stomaco, nel vederli lì, in un abbraccio appena sciolto, ma subito la inghiotte e si fa avanti.
«Ehilà.»
Sherlock e Amanda si voltano al suo saluto sommesso. La ragazza gli sorride, facendogli cenno con la testa di sedersi accanto a loro.
«Sei riuscito a sfuggire alla Medusa?»
John fa finta di rabbrividire.
«Ho combattuto fino all’ultimo, è un osso duro.»
Nasconde le mani in tasca, incerto su dove sedersi – accanto a Sherlock o dal lato di Amanda? Lei gli sorride ancora, mentre Sherlock ha già voltato la testa verso la strada. Si avvicina alla ragazza.
«Come ne sei uscito?»
Scuote le spalle, sedendosi con una smorfia.
«Le ho detto che in realtà sono una donna.»
Amanda ride e John si sporge appena per cogliere la reazione di Sherlock – nulla. Amanda nota il movimento. Raccoglie le ginocchia al petto e si prepara ad alzarsi.
«Sembra che Harry si diverta a fare da cupido, allora… Avrà qualcosa anche per me?»
John corruga le sopracciglia.
«Signorina, cos’è tutto questo interesse? I ragazzi non servono a niente, soprattutto quelli che potrebbe trovarti Harry…»
La ragazza ride di nuovo. Sherlock–? Nulla.
«Oh, è così riprovevole che una giovane donna cerchi la compagnia dei suoi coetanei?»
John non si lascia ingannare dall’aria innocente e le punta un dito contro, nel suo miglior cipiglio militare.
«Alquanto, se la ragazza in questione è…» Apre e chiude la bocca un paio di volte, imbarazzato e mortificato, gesticola. Non riesce ancora a dirlo. Amanda sembra capire, ma non si cruccia e si alza in piedi, usando le spalle di entrambi come sostegno. Saltella via e, prima che se ne rendano conto, sono soli.
 
Il silenzio si dipana pesante e scomodo. John si mordicchia il labbro, fissando le macchine sulla strada; Sherlock si accende un’altra sigaretta. La reazione di John è prevedibile: un’occhiata ammonitrice – Quella roba ti ucciderà e Pensavo avessi smesso. Per tutta risposta, Sherlock sbuffa una voluttuosa boccata di fumo; John scuote la testa con un sorrisetto incredulo. La sigaretta è finita quasi per metà quando John parla.
«Non avrei dovuto portarti qui, Sherlock. Mi dispiace.»
«Non ha importanza» mormora l’altro, soffiando via il fumo. Si volta a guardarlo. «Almeno non sono solo.»
John scuote piano la testa, gli occhi allacciati a quelli dell’altro. Ascoltano in silenzio l’uno i respiri dell’altro per un po’, la sigaretta dimenticata, finché non arriva troppo vicina alle dita del detective e rischia di bruciarle. Lui distoglie lo sguardo, scuote via la cenere e tira l’ultima boccata, per poi schiacciarla sul gradino. Sente John sospirare.
«Amanda è una meraviglia, non è così?»
Sherlock sorride appena, mesto.
«Ricorda Mary.»
John annuisce. L’altro volta il capo per studiare il suo profilo. Gli anni non sono stati gentili con lui, la morbidezza dei sui tratti temprata da rughe profonde sulla fronte, intorno alla bocca. Il soldato di stagno ha avuto la meglio sul buon dottore.
«Sei arrabbiato? Che ti abbia mentito, intendo?»
John si stringe nelle spalle.
«Dovrei essermi abituato, ormai, alle persone che mi mentono.»
Gli occhi di Sherlock lo pregano di non accusarlo, stanchi – John capisce e non va oltre.
«Mi dispiace, perché avrei voluto crescere mia figlia, e non potrò più tornare indietro, e questo mi fa rabbia. Ma capisco la sua scelta e non posso essere arrabbiato con lei. Ha sacrificato molto. E ci ha lasciati soli.»
I suoi occhi sono densi di rimpianto, di rammarico.
«Avremmo potuto fare uso migliore del sacrificio di Mary» commenta Sherlock, perso nei meandri di linee che circondano gli occhi di John – non osa avvicinarsi alle pupille. John annuisce, distogliendo lo sguardo. Un altro momento, un’altra possibilità sfumata.
Sherlock torna a fissare le macchine che sfrecciano davanti a loro.
«Sono stato a casa di Mycroft, ieri sera.»
John lo guarda con aspettativa, in attesa che prosegua. Sherlock scuote il capo, lo sguardo lontano.
«Non c’erano foto. Da nessuna parte, nemmeno una foto incorniciata o un album di fotografie. Nemmeno lettere o… Era una casa così vuota, John. Sembrava un albergo.»
Nulla, a casa di Mycroft, gridava l’assenza del suo proprietario, nulla gli ricordava con prepotenza che suo fratello non c’era più – sembrava che dovesse tornare da un momento all’altro, tanto impalpabile era stata la sua impronta su quella casa. Mentre Sherlock ricorda con vivida chiarezza lo sgomento e lo sconcerto dei primi tempi in cui era tornato a Baker Street e John era sposato con Mary: lo spazzolino solitario in bagno, l’assenza del solito shampoo 2 in 1 in offerta al supermercato, della terribile acqua di colonia regalata da Harry, la sua tazza preferita relegata in fondo alla credenza, il latte che nessuno comprava più, il tè di una marca diversa, la poltrona vuota, così dolorosamente vuota. Casa di Mycroft non era così: sembrava non essere mai stata abitata.
«Ho paura di piangere per mio fratello, John.»
Ho paura di scoprire che ho amato e che sono ancora in grado di farlo, perché ho paura di farmi male di nuovo. Ho paura di ammettere che sono spaventato, che Mycroft mi mancherà, che mi sento una barca alla deriva con l’albero spezzato – Mycroft era il mio albero, John, tu il mare su cui navigavo. Ho paura, John, non ho più forza.
Il dottore allunga una mano verso di lui, ma non ha il coraggio di prendergliela. Sherlock guarda quello spazio fra le loro mani, sentendolo riecheggiare sordo nel vuoto del suo petto.
Uno scroscio di musica e risate li raggiunge, li risveglia bruscamente – una donna ha aperto la porta e ora è ferma sulla cima dei gradini, incerta su dove passare. John scivola veloce accanto a Sherlock, lasciando libero un corridoio per la donna, che lo ringrazia con un sorriso mentre scende. La osservano fermare un taxi e salirvi, storditi dall’improvvisa vicinanza.
«È successo tutto all’improvviso, Sherlock, lo shock non ti ha permesso di venire a patti con tutto quanto, e…»
Sherlock si è irrigidito contro il suo fianco, la schiena dritta e tesa, le sopracciglia aggrottate sopra agli occhi trasparenti. John vorrebbe dirgli che l’aiuterà, che non lo lascerà solo – si maledice, non ci riesce. D’un tratto, la vicinanza si fa soffocante, scomoda; si scambiano uno sguardo e subito si allontanano.
«Forse dovremmo…»
«Sì, sì, Amanda…»
«Si starà chiedendo…»
«E Harry…»
Si alzano in piedi entrambi, spolverandosi i pantaloni e raddrizzandosi le giacche, senza guardarsi.
 
Dentro, il locale è gremito; la testa bionda di Amanda non si scorge da nessuna parte. Sherlock assottiglia gli occhi, scandagliando la folla, mentre John si agita sempre di più.
«Vado da Harry, forse lei l’ha…»
«Nel retro.»
John osserva un po’ frastornato Sherlock dirigersi deciso verso il bancone, scivolare fra le ombre fino alla porta di servizio. Si lancia un’occhiata circospetta alle spalle – riflesso incondizionato – prima di affrettarsi a seguirlo, come altre centinaia di volte.
«Sherlock, cosa…»
L’altro scatta in avanti nel buio viottolo dietro il locale.
«Sherlock!»
John lo segue, ma Sherlock arresta presto la sua corsa. Una piccola berlina verde riparte sgommando.
«Sherlock, cosa…»
«Harry frequenta una chiesa?»
John scuote la testa, confuso, iniziando ad avvertire una leggera ondata di ansia. Lo sguardo di Sherlock è intenso ed agitato, il suo intero corpo teso e pronto a scattare.
«No, non le è mai interessato particolarmente, no… Ma perché?»
«Esattamente. Perché c’era un uomo di chiesa fra gli invitati, questa è la domanda.»
Gli da le spalle, mettendosi le mani nei capelli. John deglutisce, cercando di non farsi prendere dal panico – e di non allarmare ulteriormente Sherlock.
«Clara andava in chiesa, mi pare, anche mentre era sposata con Harry, ma insomma… Credo che Harry mi abbia detto qualcosa sul fatto che ci si era riavvicinata dopo il divorzio, o qualcosa del genere…»
«Qual era la chiesa di Clara?»
«Non lo so, Sherlock…»
La porta si apre mentre il detective chiude gli occhi e si preme i palmi sulle tempie.
«Che sta succedendo qui fuori, John, Sherlock?»
«Harry!»
John si affretta verso di lei; Sherlock riapre gli occhi.
«A che chiesa andava Clara?»
La donna corruga le sopracciglia, incrociando le braccia al petto.
«Non lo so, io non…» Sherlock emette un verso frustrato, a cui lei si acciglia ancora di più.
«Credo… Beh, quando vivevamo a Clapham andava a quella nel parco, Trinità o come è chiamata… Credo che viva ancora da quelle parti, quindi forse…»
«L’hai invitata qui, oggi?» domanda John. Harry si stringe nelle spalle, Sherlock emette un verso esasperato.
«Sì.»
«Ovvio, John, c’è mezza Londra qui, oggi.»
Le dita di Harry si stringono sulle sue braccia, mentre John si volta verso l’altro per lanciargli un’occhiata ammonitrice. Sherlock alza gli occhi al cielo.
«Non abbiamo tempo per questo, John! Grazie Harry, bella festa, tanti auguri, addio. John!»
Ruota sui tacchi e corre via, verso la strada principale, prima che gli altri due abbiano tempo di battere ciglio. John non ha altra scelta che seguirlo, dopo un frettoloso saluto ad Harry.
«Mi vuoi spiegare che sta succedendo?» domanda, mentre Sherlock ferma imperiosamente un taxi e vi sale.
«Il motivo per cui sono stato costretto a ritirarmi in Sussex.»
John sbatte le palpebre, mentre Sherlock tira fuori il cellulare. Si accorge dopo qualche istante che il medico non è al corrente di tutti i suoi vagabondaggi e rialza il capo verso di lui.
«Mesi fa, stavo indagando su un caso di omicidio, un bambino, per la precisione, e c’erano indizi che indicavano il coinvolgimento di alcuni religiosi, che inoltre continuavano ad ostacolare le mie indagini, mi mandavano minacce e cercavano di ricattarmi. Non esattamente una mossa intelligente, visto che non ha fatto altro che aumentare la mia curiosità e mi ha spinto ad indagare più a fondo, anche una volta risolto il caso – e credimi, John, se ti dico che persino io sono rimasto disgustato da quello che ho scoperto. Il problema è che non avevo prove a sufficienza, quindi non avrei potuto fare nulla, mentre le loro minacce si facevano sempre più pesanti…»
«Scusa, come facevano a minacciarti? Dei preti
Sherlock gli lancia un’occhiata eloquente.
«Cosa vuoi che ti dica, le vie del Signore sono infinite.»
«Cristo…»
John si copre il viso con una mano, scuotendo il capo.
«E mi stai dicendo che questa gente, ora, ha preso Amanda? Come facevano a sapere che era qui? O che è legata a te, come…»
«Non lo sapevano. Chiunque fosse, era venuto per te, ho ricevuto un altro messaggio questo pomeriggio. Probabilmente hanno sentito parlare Harry o qualcun altro, si sono trovati in una situazione vantaggiosa e hanno approfittato della pedina più debole.»
John lo guarda solo per scuotere il capo, incredulo. Sherlock piega le labbra in un sorriso aspro.
«Sono tornato da nemmeno due giorni, ed eccoci ancora qui, con la vita di qualcuno a cui teniamo a rischio… Scommetto che non ti era mancato tutto questo, John.»
Lui chiude gli occhi e lascia andare il capo contro il poggiatesta. La verità è che no, sapere che una persona che ama è in pericolo non gli era mancato affatto, ma quel fiotto di adrenalina che parte dagli occhi di Sherlock e investe lui fino alle punte dei piedi, quel luccichio negli occhi del detective, quella tensione nei muscoli longilinei sotto il cappotto scuro, sì, questo gli è mancato.
«È una ragazza in gamba. Se la caverà» mormora, cercando di rassicurare soprattutto sé stesso. Sherlock lo guarda. Vorrebbe potergli credere, come una volta. 


 




Grazie, come sempre, a chi ha letto/recensito/seguito fin qui. 
A presto!
-Clock

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Capitolo 12
*** De profundis ***




De profundis
 
Yet each man kills the thing he loves.
O. Wilde, The Ballad of Reading Gaol
 
 
«Sei sicuro che sia il posto giusto? Io non vedo nessuna chiesa…»
«Non potevo certo farci lasciare di fronte al portone, tu che dici? Dovrebbe essere laggiù, oltre quegli alber–»
La mano di John sulla sua bocca lo zittisce. Gli lancia un’occhiata inquisitoria, ma gli occhi dell’altro si guardano intorno spalancati e attenti.
«C’è qualcuno» sussurra, continuando a tenere la mano sulla bocca di Sherlock. Dal buio ovattato intorno a loro, emergono dei suoni: due serie di passi sull’erba, una decisa e affrettata, l’altra recalcitrante, discontinua. Mugugni lievi, gemiti. Un grido più acuto – voce di donna.
John non si controlla: scatta in avanti, in direzione della voce, mandando all’aria tutte le precauzioni. Sherlock trattiene un’imprecazione e lo segue.
Gli altri due, sorpresi, esitano per un istante, prima che l’uomo afferri l’altra per un braccio e la trascini via, costringendola a correre verso gli alberi. Sono distanti un centinaio di metri da loro, ma Sherlock può giurare che quelli siano i capelli biondi di Amanda, che schiaffeggiano l’aria mentre lei si gira, cercando di opporre resistenza e fare dietro-front verso John, che corre con quanto fiato ha in corpo, e Sherlock, qualche metro dietro.
«Ottima mossa, John, davvero geniale!» grida, affrettando il passo ed affiancandosi al medico. Lui si limita ad emettere un verso che ricorda da vicino un ringhio.
«È mia figlia, quella lì! Ma dubito tu sappia cosa vuol dire, tenere veramente a qualcuno!»
Amanda e l’uomo che la trascina via sono sempre più vicini ora, ma si addentrano fra gli alberi lontano dal vialetto pavimentato. L’uomo apparentemente conosce bene la strada, mentre Sherlock e John sono costretti a rallentare per evitare ostacoli.
«Oh, ti prego non venire a farmi la predica! Sai benissimo qual è stato il nostro problema!»
Sherlock spicca un salto per superare un tronco caduto, John lo scavalca.
«Te ne sei andato! Tu! Sei sparito di nuovo, per l'ennesima volta!»
«Era una soluzione temporanea! Litigavamo da mesi, John!»
«Non sto parlando dell'appartamento, per la miseria!»
Sherlock si ferma, costringendo l’altro a fare lo stesso – inutile inseguirli ancora, sa che li aspetteranno nella chiesa. John sembra intuire il suo ragionamento e non protesta, limitandosi a riprendere fiato con una mano sulla milza dolorante.
«Te ne sei andato molto prima. C'erano giorni in cui mi parlavi a malapena, sparivi senza dirmi nulla, ti chiudevi in te stesso e non c'era verso di tirarti fuori. Non riuscivo più a raggiungerti, Sherlock, eri troppo lontano e non mi volevi con te. E Trevor? È allora che ti ho perso – l'appartamento è stato solo l'inevitabile conseguenza.»
Sherlock deglutisce a vuoto.
«Non mi hai mai veramente avuto, John.»
Il medico spalanca gli occhi, con l’aria di chi ha appena ricevuto un pugno. Sherlock sente il sangue divenirgli fiele, ma ormai è tardi per rimangiarsi quello che ha detto.
«Non hai mai veramente lasciato andare Mary e Amanda.»
John scuote la testa e i suoi occhi sono insopportabili per Sherlock; si volta e continua a correre, l’altro lo segue poco dopo. I loro passi rimbombano nel sottobosco, ma degli altri due non c’è traccia.
«La chiesa! Di là.»
Gli alberi si diradano per lasciare spazio ad una piccola costruzione in marmo e mattoni. I due si arrestano davanti al portone, chiuso. Sherlock tenta di forzarlo mentre John prova con una porta più piccola sulla destra, che cede facilmente alla sua spinta.
«Sherlock!»
L’uomo intasca i suoi grimaldelli e lo segue all’interno. Con un fruscio di metallo contro stoffa, estrae una pistola dalla giacca e la posa contro il pugno chiuso di John, che istintivamente si apre e si richiude contro l’arma. Si scambiano una breve occhiata e un cenno d’assenso, avanzando in un buio anticamera. C’è un portone che presumibilmente conduce all’interno della chiesa, e una porta più piccola sulla sinistra; John si accosta al portone mentre Sherlock spalanca l’altra, che si rivela un ripostiglio. Silenzioso, si avvicina a John. Insieme, aprono i battenti ed avanzano lungo la navata.
 
Amanda è ridotta ad un fagotto gettato ai piedi dell’altare; accanto a lei, un uomo incappucciato in una lunga tonaca nera sgrana un rosario. Non dà segno di essersi accorto di John e Sherlock, mentre i due si avvicinano, i loro passi echeggianti sul marmo colorato.
Sherlock percepisce John farsi sempre più preoccupato e nervoso al suo fianco, teso come la corda di un arco pronto a colpire. La sua mente, nel frattempo, corre fra i suoi fascicoli di quel vecchio caso, la storia di questa parrocchia, i messaggi ricevuti, quel poco che ricorda del catechismo – eppure in un angolo c’è lo spazio per ricordare John che attraversava una simile navata, il suo sorriso e il suo passo sicuro, il suo nervosismo del tutto naturale, il suo viso radioso mentre la sposa incedeva verso di lui, i suoi occhi burrascosi mentre guardava verso di lui un’ultima volta, lui che resisteva stoico mentre perdeva tutto quanto. Sbatte le palpebre ed allontana quelle immagini, costringendosi a tornare al presente.
«Ben arrivati. Io sono padre Jefferson. È pronto alla sua confessione, Mr Holmes?»
La voce dell’uomo è morbida e melodiosa, ma viscida come le spire di una serpe. John non riesce a staccare gli occhi da Amanda, che non si muove. La sua voce suona come un ringhio.
«Cosa le hai fatto?»
L’uomo piega il capo di lato, guardando John con un sorriso mieloso.
«Che modi, Dottor Watson! Non le hanno insegnato a portare rispetto ad un padre?»
Gli occhi di John sono neri, la mascella serrata, le nocche bianche sui pugni stretti, ondate di rabbia sgorgano da tutto il suo corpo.    
«Forse non ti prenderò a pugni quando sarò certo che non hai fatto del male a mia figlia. È tutto il rispetto a cui puoi ambire, per ora.»
Il prete scuote il capo, indietreggiando fino all’altare. Vi è posato sopra un candelabro acceso; ne estrae una candela e torna ad avvicinarsi ad Amanda.
«Sa, Mr Holmes, le sue azioni verso dei poveri uomini di chiesa, qualche mese fa, non sono state affatto gentili. Minacce, ricatti, quei disgustosi poliziotti nelle nostre sacre dimore…»
Schiocca più volte la lingua contro i denti in segno di disapprovazione.
«Ma sa qual è il peggio? Il fatto che provenissero da un uomo come lei… un deviato
I suoi occhi scivolano significativamente su John.
«E dire che lei sembrava una persona dabbene… E ha generato una creatura così graziosa, che peccato…»
John solleva il braccio sinistro, impugnando l’arma. Il prete spalanca gli occhi per la sorpresa, Sherlock gli posa una mano sulla spalla.
«Dammi un solo buon motivo per cui io non debba farti del male, adesso.»
«Non è decisamente il luogo più appropriato, non credi?» La sua voce rimane amabile e zuccherosa. «E poi, io volevo soltanto parlare con il signor Holmes. Ascoltare la sua confessione, aiutarlo a ripulirsi dai suoi peccati.»
«Dovrei chiedere perdono per aver amato?»
I passi di Sherlock riecheggiano cupi. Amanda sta riprendendo i sensi, ma nessuno degli altri due se n’è ancora accorto. Deve prendere tempo.
«Per anni, mi sono illuso di non esserne capace. Altre volte, ho rimpianto di non potermi più mascherare dietro quella finta sicurezza. Sarebbe stato tutto così semplice e indolore. Avrei risparmiato molta sofferenza, a me e a chi amavo. Ma sa una cosa, padre?»
John, dietro di lui, trattiene il respiro.
«È il prezzo da pagare per vivere veramente: i mondi debbono penare perché possa sbocciare un fiore. Lo ha detto Oscar Wilde, possiamo fidarci.»
Volta appena il capo; John vede il suo profilo, ma non incontra i suoi occhi.
«Non ho ancora smesso di amare.»
L’aria torna a riempirgli i polmoni, che bruciano. Sente la gola stringersi e seccarsi.
«E non chiederò perdono per questo. Né tantomeno perché l’oggetto del mio amore è un altro uomo.»
Sa che Sherlock sta solo cercando di prendere tempo, in attesa che arrivi la polizia che ha avvertito mentre erano in taxi, ma non può illudersi che stia mentendo. Sherlock è un ottimo attore, ma non davanti a John – non più.
Jefferson scuote il capo, indossando un’aria contrita. Si inginocchia accanto ad Amanda e inclina appena la candela ancora accesa che tiene in mano.
«Un vero peccato, signor Holmes, davvero un peccato che lei sia così testardo, così ostinato… Eppure qualcuno deve pagare. Espiazione, ne ha mai sentito parlare? Un sacrificio. E quale agnello migliore…»
John osserva come al rallentatore una goccia di cera bollente staccarsi dalla fiamma e planare lentamente verso la guancia pallida della ragazza, gli sembra quasi di poter sentire sulla sua pelle il dolore lancinante, ma al contempo è paralizzato dall’orrore, quasi si trovasse in un incubo. Quando decide di agire è ormai troppo tardi.
Il volto del prete si trasforma prima in una maschera di assoluta sorpresa, quindi di dolore, mentre il calcio di Amanda lo raggiunge sul costato. La candela rotola a terra, spegnendosi, mentre la ragazza fa leva sulle mani e si rimette in piedi, sfregandosi la guancia.
«Amanda!»
Il calcio di Jefferson la colpisce sugli stinchi, facendole perdere l’equilibrio e rovinare in avanti. Sherlock è rapido ad afferrarla, mentre John si avventa sull’uomo, colpendolo sul viso con il calcio della pistola. Inavvertitamente, scivola sulla candela rotolata fin lì e l’altro non perde tempo a spingerlo a terra e disarmarlo. Solo allora John si accorge del suo considerevole peso e della massa muscolare inusuale. Fa leva con le ginocchia per toglierselo di dosso, e Sherlock lo aiuta da dietro, prendendolo per il colletto della veste. Lo tira in piedi e lo blocca contrò di sé con un braccio sulla sua gola, mentre Amanda si china a raccogliere la pistola e gliela punta contro con mani tremanti. Tende una mano verso John, che però la ignora e si rialza in piedi da solo, per poi prenderle l’arma ed avvicinarsi agli altri due.
«Ora direi che è un buon momento per iniziare a dire le tue preghiere.»
Non c’è celia nel suo tono, solo la collera cieca di una fiera a cui abbiano sottratto i cuccioli e devastato la tana. 
«John
«John, ti prego.»
Lentamente, la sua mano smette di tremare e i suoi occhi tornano a schiarirsi, mentre le voci accorate di Sherlock e Amanda lo tirano a riva dall’abisso d’ira in cui era sprofondato.
«Ha amato anche lui, John.»
Alza gli occhi su Sherlock con l’aria di chi ha davvero poca voglia di stare a sentire storie. Amanda si avvicina, esitante, e gli posa una mano sul braccio – il bacio di una farfalla. Sherlock stringe la presa sul collo dell’uomo ma continua, imperterrito.
«Ha amato una donna, a lungo e profondamente. Si era già promesso alla chiesa però, sbaglio?»
L’uomo annuisce come può, ansante, rinunciando a divincolarsi.
«Sarebbe stato disposto a rinunciare ai suoi voti, per lei, tuttavia, non è così? Peccato che lei non lo avesse aspettato e si fosse rifatta una vita. Si è sposata. Non lo ha mai perdonato per non averla scelta, e lui si è roso nel dubbio e nella vergogna per tutta la vita, non ha mai smesso di amarla. Ha tentato in tutti i modi di espiare il suo peccato: guardalo, John, ha fatto il cammino di Santiago e quello di Lourdes, porta dei bracciali in ricordo, dorme su un pagliericcio e spegne tutte le candele con le dita, ogni sera, anzi, spesso si ustiona da solo, guarda le sue mani e il suo viso, si fustiga con dei rami secchi, ne vedo i segni qui sotto il colletto, e una volta l’ha fatto addirittura con una frusta, ma le ferite erano troppo gravi per poterlo ripetere e sperare che nessuno se ne accorgesse, vedo le cicatrici. Quest’uomo, John, è sull’orlo della pazzia. E mi assomiglia più di quanto mi faccia piacere ammettere.»
Il suo volto si contrae in una smorfia amara, sembra quasi vicino alla nausea.
«Anch’io, padre, ho scelto una scienza superiore davanti all’amore di un uomo. Un amore così forte e impetuoso che minacciava di distruggere tutto quello che avevo sempre conosciuto, tutto quello che ero. Ma l’aveva già fatto, e non aveva più senso opporvisi – me ne sono accorto troppo tardi. Così mi sono rifugiato nella mia scienza, ma ormai ero perduto – lei mi capisce, vero, padre? Forse, non ero pronto per quel tipo di amore.»
Gli occhi di Sherlock sono indescrivibili – stelle implodono e stelle nascono, la loro luce ed energia filtra prepotente attraverso le cortine iridescenti, viene inghiottita dalle pupille senza fondo. Il suo intero viso riflette quella contraddizione: luce pura si libra dalla sua pelle eburnea e viene catturata dai ricci scuri, dalle ombre sotto gli occhi e gli zigomi, dalla linea tremante delle labbra morbide.
Per un istante, John considera la situazione come se la vedesse dall’esterno. Ci sono lui e Sherlock in una chiesa, più sua figlia e un prete. In un universo parallelo, quel prete potrebbe essere lì per unire le loro mani, Amanda per fare da testimone silenziosa e sorridente, e lanciare chicchi di riso. Potrebbe esserci anche Mary, con lei – perché no? – può quasi vederle, in piedi l’una di fianco all’altra, vestite di fiori, belle come mattine di primavera. Ci sarebbe Mycroft, col suo fido ombrello e una rosa appuntata all’occhiello. E la signora Hudson, che darebbe loro la sua benedizione con due baci tremolanti. Greg e Molly, e Harry e Clara, e Mike, e perfino Sally Donovan e Anderson, solo per vedere lo sguardo di orrore sul viso di Sherlock…
Sherlock. John scuote la testa, aggrappandosi al suo viso per tornare alla realtà.
Forse non è ancora troppo tardi.
Amanda, silenziosa come una brezza, gli prende la mano non armata fra le sue, finché John non smette di tremare. Prende un grande respiro e la sua mano torna ferma.
«Non è tormentando Sherlock Holmes che si libererà dai suoi peccati, padre.»
L’uomo solleva il mento, parlando a scatti, il viso paonazzo.
«Il mondo… va liberato… dagli impuri… e i peccatori…»
John scuote il capo, abbassando l’arma. Le sirene della polizia si fanno largo oltre le vetrate.
«Perché non ci insegna come essere uomini migliori, piuttosto? Non dovrebbe essere questa la sua missione?»
Jefferson chiude gli occhi, accasciandosi contro Sherlock, che allenta impercettibilmente la presa. Il portone viene spalancato senza tante cerimonie e la navata invasa da agenti e ordini gridati e paramedici.
Un sospiro rinfranca all’unisono Sherlock, John e Amanda, mentre dei poliziotti portano via il prete. John e Amanda, le mani ancora intrecciate, si lasciano andare ad un abbraccio. La ragazza trema come un pulcino bagnato e John fa del suo meglio per rassicurarla, carezzandole i capelli scompigliati, stringendola forte a sé – come il padre di cui lei ha bisogno.
Quando si allontanano, Amanda sorride appena, sollevata, salvo poi spalancare gli occhi, preoccupata. John si volta in direzione del suo sguardo: pochi passi dietro di loro, nel punto in cui l’avevano lasciato, Sherlock piange.
Più che un vero e proprio pianto, è un grido muto, soffocato, che si riversa dalle sue palpebre serrate e lo scuote tutto in un unico tremito. John esita ad avvicinarsi: sa che ha bisogno di stare da solo, c’è già abbastanza chiasso nella sua mente – o nel suo cuore.
Ma quando Sherlock si accascia su sé stesso, premendo forte i palmi sugli occhi, come se gli avessero improvvisamente sfilato la spina dorsale, John manda all’aria tutti i suoi ragionamenti e gli si accosta in due passi, sorreggendolo e proteggendolo in un abbraccio lieve, non invadente – l’ombra ai rami di un salice. Ancora non si incastrano perfettamente, però.



 






Grazie a chi legge/segue/recensisce, come sempre :)
A presto!
-Clock

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Capitolo 13
*** Star to every wandering bark ***


 
Star to every wand’ring bark
 

 
But you know he'll always keep moving
You know he's never gonna stop moving
'Cause he's rolling, he's the rolling stone
And when you wake up, it's a new morning
The sun is shining, it's a new morning
And you're going, you're going home.
Gerry Rafferty, Baker Street
 
 
 
Amanda si scuote la coperta di dosso.
«Ho detto che sto bene! Sono cintura nera di karate, per la miseria, non basta uno sgambetto a mettermi fuori gioco!»
Il giovane paramedico che la assiste arrossisce e raccoglie la coperta.
«Per favore, signorina, lo shock…»
«Quale parte di “cintura nera di karate” non ti è chiara? Non sono in shock, sto benissimo.»
Il paramedico inclina il capo in segno di velato rimprovero. Amanda incrocia le braccia sul petto e dondola i piedi avanti e indietro, seduta sul lettino dell’ambulanza.
«Una tazza di tè mi farebbe molto piacere, se proprio vuoi renderti utile. Sospetto sia un effetto placebo, ma sembra essere veramente d’aiuto in queste situazioni, forse voi inglesi non avete tutti i torti…»
Le orecchie del ragazzo diventano scarlatte mentre ripiega la coperta.
«Niente tè, mi dispiace. Ma è sicura di non volere nient’altro per quell’ustione? Posso chiedere qualcosa perché non rimanga la cicatrice…»
Amanda agita una mano con noncuranza.
«Non importa, che rimanga pure. E poi non è tanto grave, su. E c’è sempre un qualcosa di affascinante nelle cicatrici, non trovi? In fondo, raccontano tutte una storia, per quanto dolorosa possa essere.»
Fa spallucce, saltando giù dal lettino.
«E poi, sono troppo carina perché una cicatrice mi sfiguri… Anzi, potrebbe addirittura aumentare il mio fascino…» chiacchiera con nonchalance, mentre le guance del paramedico si ricoprono di violente chiazze rosse. Scende dall’ambulanza sventolando la mano in segno di saluto e si guarda intorno alla ricerca di John e Sherlock in quel mare di poliziotti. Perché ne siano venuti tanti, poi, non riesce a spiegarselo. Che ogni volta che Sherlock Holmes chiama, accorrano a frotte, abituati a chissà quali situazioni impossibili in cui il detective si è cacciato negli anni? Probabile.
«Signorina?»
Un uomo, dall’aspetto poco più giovane di John e Sherlock, le tende una mano.
«DI Dimmock, Scotland Yard, devo chiederle di seguirmi in centrale per rilasciare una dichiarazione…»
Amanda si sente improvvisamente troppo stanca per stare a sentire ordini e il solo pensiero di dover raccontare tutta la storia in una squallida centrale di polizia le è intollerabile.
«Oh, è davvero indispensabile? Sono sicura che possiate aspettare domattina, in fondo il prete l’avete preso, e sono certa che se lo interrogate per bene, vi rivelerà qualunque sporco affare di cui sia a conoscenza, è piuttosto scosso, per cui…»
L’uomo raddrizza la schiena e le indirizza un’occhiata niente affatto amichevole.
«Signorina, non è nella posizione di discutere, io sono un ufficiale di polizia…»
«Fino a prova contraria, io sono la vittima! Ho diritto a un po’ di riposo, no?»
«Non mi costringa a trasformare una richiesta in un ordine…»
«Oh, andiamo…»
«Mi segua in centrale senza fare altre storie, non abbiamo tutta la notte…»
«EHI TU!»
Si voltano entrambi per trovarsi una Harry Watson piuttosto arrabbiata che marcia verso di loro. Punta l’indice contro il petto dell’ispettore, sovrastandolo di buoni cinque centimetri.
«Lascia in pace mia nipote, sono stata chiara?»
Dimmock rimpicciolisce nel suo impermeabile scuro. Amanda, dietro Harry, sogghigna divertita e nota, nel frattempo, John e Sherlock che si avvicinano a loro.
«Signora…»
«Signorina, per te, grazie tante!»
Dimmock indietreggia di qualche passo. Harry fa un passo di lato e circonda le spalle di Amanda con un braccio.
«E ora, se vuoi scusarmi, mia nipote ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di lei!»
John e Sherlock si accostano al gruppo in quel momento, entrambi con le stesse espressioni al contempo perplesse e divertite, giusto in tempo perché Harry li noti e diriga la sua violenza verso di loro.
«…Visto che questi due idioti troppo cresciuti sembrano non esserne capaci!» continua a gridare, mentre Dimmock, non visto, si dilegua. John indietreggia, istintivamente; Sherlock si limita a sollevare un sopracciglio.
«Fino a prova contraria, padre Jefferson è riuscito a rapire Amanda mentre lei si trovava alla tua festa di compleanno ed era venuta a cercare te. Inoltre, non sono stato certo io ad invitarlo…»
John chiude gli occhi non appena Sherlock tace. Riconosce fin troppo bene i segni di una sfuriata imminente, Harry non è cambiata affatto da quando aveva sedici anni e John rubava le sue cassette o i suoi dischi, possibilmente è solo peggiorata. 
«Non provare nemmeno ad accusare me, damerino che non sei altro! Se non fosse stato per te e per il tuo caratteraccio, a quest’ora voi tre stareste cenando come una normalissima famiglia felice, dopo esservi inventati una scusa qualsiasi per saltare il mio compleanno come tutti gli anni! E se non fosse per la tua brutta abitudine di ficcare il naso dove non dovresti e di non imparare quando è il caso di chiudere la bocca, non ti troveresti affatto in situazioni del genere!»
Sherlock apre la bocca per protestare; ci ripensa; la richiude. Harry sembra soddisfatta del risultato che ha ottenuto. Si aggiusta la giacca con una mano, stringe le spalle di Amanda con l’altra e raddrizza la schiena, impettita.
«E ora, se volete scusarci, noi due andiamo a prenderci un tè come si deve e a fare due chiacchiere. Lei resta da me, voi due avete fatto abbastanza per una sola serata. Non voglio vedervi né sentirvi fino a domattina, e non prima delle nove.»
Fa per girare sui tacchi, Amanda salda nella sua presa, ma la ragazza esita. Harry le lancia uno sguardo inquisitorio, a cui l’altra replica con uno di scuse e di muta richiesta, accompagnato da un’alzata di spalle. La donna rotea gli occhi e la lascia andare.
«Va bene. Ti aspetto in macchina, sono lì giù.»
Punta un dito contro John, che smette di ridacchiare e si fa serio tutto d’un tratto.
«Con te faccio i conti domani.»
Si allontana impettita, senza ulteriori saluti.
John si volta verso Sherlock. Lontana dalla vulnerabilità di poco prima, la sua espressione è così simile a quella di un bambino a cui abbiano ingiustamente rubato la merenda che non può fare a meno di scoppiare a ridere – una risata liberatoria che parte dalla pancia e lo sconquassa tutto, come non succedeva da anni. Amanda lo segue a ruota. Sherlock volta lo sguardo dall’uno all’altra, senza sapere bene come interpretarli.
«Oh, Dio... Non dovrei ridere, è una scena del crimine...»
Anche Sherlock sogghigna, allora, intrecciando le mani dietro la schiena.
«Tua sorella è riuscita a mettere in fuga Dimmock in meno di due minuti. Avresti dovuto farmela conoscere anni fa, John, sarebbe potuta tornarci utile, pensa solo a tutto il tempo perso a discutere con Dimmock, Anderson, Donovan o Lestrade nei suoi momenti più testardi quando sarebbe bastato sguinzagliare Harry.»
John scuote la testa, smettendo di ridacchiare. Si volta verso Amanda, sollevandole il mento con una mano per controllarle la guancia.
«Tutto bene, qui? Cosa ti hanno dato?»
La ragazza scrolla le spalle, senza sottrarsi dal suo esame.
«Ci ha messo una pomata, ora non ricordo… Ma sto bene, tranquillo.»
«È una karateka, John, e una discreta ginnasta, non hai mai notato la struttura delle spalle e i muscoli delle braccia e delle gambe? Ci vuole ben altro per metterla a tappeto.»
John aggrotta la fronte, perplesso, mentre Amanda ride. Sherlock solleva un sopracciglio.
«Non male come scelta, fra parentesi, ma il judo è molto più utile nel corpo a corpo ed abitua a una maggiore disciplina.»
La ragazza rotea gli occhi.
«Spero proprio di non dovermi più servire né dell’uno né dell’altro, grazie tante.»
Lo sguardo di John si fa preoccupato, le stringe un braccio.
«Non saresti mai dovuta finire in una situazione del genere, io… Che razza di padre–»
La ragazza ricambia la stretta, sorridendogli fiduciosa.
«Va tutto bene. Ce la siamo cavata, no?»
«Non sei venuta fin qui per finire in ostaggio ad un…»
«Io direi che la serata è stata un successo, invece.»
Padre e figlia si voltano a guardarlo, rivolgendogli pressoché identiche smorfie basite. Sherlock non si scompone.
«Amanda ha dimostrato ottimi riflessi e ammirevole sangue freddo, capacità di lavorare in squadra – per una volta, la tua empatia ti è stata utile – e trarre vantaggio da una situazione sfavorevole. Se fossi ancora nella posizione di farlo, ti assumerei.»
La ragazza ridacchia, incrociando le braccia al petto. Si rivolge a John, i cui occhi sono fissi sul detective, indecifrabili.
«Che dici, la paga è buona?»
John scuote la testa, deglutisce, impacciato. Incrocia le braccia a sua volta, sulla difensiva.
«Se sei disposta a… beh…»
Gli occhi di Sherlock sono fiduciosi, divertiti, ma nascondono una domanda, un dubbio. John prende un grande respiro e raddrizza le spalle, sciogliendo le braccia.
«Non vedresti una lira. Ma ne vale la pena.»
Il sorriso di Sherlock guizza rapido come un pesce fra le onde, ed è sparito. I suoi occhi scintillano ancora, tuttavia, quando si rivolge ad Amanda.
«Verremo a salvarti domattina alle nove in punto. Cerca di resistere.»
Lei ridacchia.
«Farò del mio meglio.»
Abbraccia per primo Sherlock, forte e a lungo. Il detective ricambia la stretta, e per un istante il suo viso torna vulnerabile e stanco, seminascosto nella spalla di Amanda. Lei sembra percepirlo, perché lo stringe più forte. Quando lo lascia andare, la ragazza ha gli occhi leggermente lucidi, che si affretta a mascherare rintanandosi fra le braccia di John.
«Grazie» mormora, sciogliendo l’abbraccio; John si stringe nelle spalle e scuote la testa.
«Grazie di avermi trovata e avermi spiegato e aiutato a capire» continua lei, rivolgendosi a Sherlock; lui sorride.
«Grazie a te» risponde, anche per John. Lei annuisce, sbattendo rapidamente le palpebre, improvvisamente commossa – c’è molto di più nella voce di Sherlock, nello sguardo di John. Senza altre parole, si volta e si allontana rapidamente, agitando una mano in segno di saluto.
John e Sherlock rimangono a guardarla sparire fra gli agenti, senza parlare. Si sentono improvvisamente esposti, indifesi – è la fine dei giochi.
Lo sguardo di Sherlock si china sull’altro, e parla senza rifletterci troppo.
«Mi è mancato, tutto questo.»
Gli occhi di John scintillano nel suo viso segnato. A Sherlock sembra di essere tornato indietro nel tempo, a quando c'erano solo loro due, il detective e il suo blogger, e nulla aveva ancora turbato la loro armonia.
«Tu mi sei mancato.»
Il cuore di John salta un battito – per la miseria, non lo credeva ancora capace di certe cose. Sherlock fa un passo verso di lui, senza curarsi di paramedici, poliziotti e curiosi che si affannano intorno a loro. In fondo, è sempre stato questo il loro posto, il posto in cui si sono trovati e ritrovati centinaia di volte – il caos, fra le lampeggianti delle volanti e delle ambulanze, sotto i lampioni e con l'eco della corsa nelle orecchie.
«Che cosa sono per te, John? Che cosa sono stato?»
Il sorriso di John si tinge di malinconia e di una consapevolezza profonda – è il momento del tutto per tutto, il dito premuto sul grilletto, un unico colpo.
«Sherlock.»
Gli posa le mani sulle braccia, gli si fa più vicino.
«Tu sei stato il mio inizio, innumerevoli volte: mi hai preso per mano e mi hai mostrato la vita, quando pensavo che tutto fosse un cimitero, sei stato la stella che ha guidato i miei passi. E pian piano ti sei infiltrato dentro di me, ti sei scavato un angolo nel mio petto, hai scavato e scavato finché non è diventato una caverna, finché non hai raggiunto le orecchie e le dita dei piedi, ti sei preso tutto lo spazio. C’erano momenti in cui soffocavamo, Sherlock, e io ho creduto invano di poter continuare a vivere, una volta che ti avessi estirpato dal mio petto – sono solo sopravvissuto, ma tu mi ricordi cosa vuol dire vivere, di nuovo, veramente. Sei il mio inizio, Sherlock, e la mia fine.»
Non dice nulla di tutto ciò ad alta voce, non può – è un sentimentale, è vero, ma quando si tratta dei suoi sentimenti, delle sue emozioni, diventa un soldato di stagno – inarrivabile. Ed è per questo che Sherlock si è allontanato da lui.
«Ti amo.»
Lasciarti andare via da me era la mia punizione – non era giusto che io fossi felice con te se Mary non c’era più e non sapevo nulla di mia figlia.
Gli occhi di Sherlock sono morbidi, vibrano di luce soffusa.
Non era giusto che noi fossimo felici, non ne avevamo il diritto, se entrambi avevamo mancato alle nostre promesse, John.
A John sembra di poterli finalmente decifrare: come se, per tutto questo tempo, si fosse sforzato di riprodurre una melodia ad orecchio, e solo ora riesca a leggere lo spartito.
Per questo non sono mai riuscito a lasciarmi del tutto a te, per questo mi sono impedito di amarti come meritavi – non eravamo completi, Sherlock.
Il sorriso di Sherlock è squillante come un flauto, straziante come un violino.
Portavamo addosso ancora troppe tare e troppe ferite non rimarginate, John, ferite che non potevamo curarci a vicenda.
Il viso di Sherlock è un allegro vivace e un andante cantabile.
Non eravamo pronti.
John alza le spalle e le scuote appena, mentre gli occhi gli si riempiono di lacrime. Sente come una crepa, all'altezza del petto – scoppia dalla voglia di parlare, dire, spiegare, ma non riesce a ripetere che quelle due parole.
«Ti amo, Sherlock.»
Sherlock riesce a sentire tutto quello che non ha detto, lo legge nei suoi occhi e nelle sue rughe,
e il suo viso si illumina di una meraviglia e di una felicità tanto a lungo dimenticate e insperate da sembrare un miracolo. Sembra avere dieci, venti, venticinque anni di meno – è la parte di lui più segreta e intima che John vede nel suo sorriso, nei suoi occhi stellati, nelle sue mani tremanti, una parte di lui che temeva di aver perso per sempre.
«Avrei dovuto dirtelo tanto tempo fa.»
«Avrei dovuto capirlo.»
John sbuffa appena, sorridendo, il corpo vibrante di serenità, di un sollievo che lo fa sentire leggero, coraggioso. Ha un sorriso antico come il mare e giovane come la stella del mattino – rifulge.
«E sei famoso per le tue doti deduttive.»
«Mi occupo solo di cadaveri e serial killer, per fortuna.»
Ridono di nuovo, ma piano, per timore di svegliarsi da un momento così bello che sembra un sogno. Le loro dita si cercano, si trovano, si intrecciano.
«Andiamo» suggerisce John, senza staccare gli occhi da quelli luminosi di Sherlock, la voce morbida, la testa leggera. Sherlock annuisce, posandogli l’altra mano sulla guancia in una carezza vellutata, per assicurarsi che sì, è veramente John quello sotto le sue dita.
«Andiamo a casa.»
 
 
 

 

Grazie, come sempre, a chi mi ha seguito fin qui :) 
Il titolo è un verso dal sonetto 116 di Shakespeare.
A presto,
-Clock

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Capitolo 14
*** To Build a Home ***


A B., senza la quale nulla di ciò sarebbe mai stato scritto, o sarebbe stato decisamente peggiore - perché è B. e io le voglio bene :)
 
 
Where the doors are moaning all day long,
Where the stairs are leaning dusk 'till dawn,
Where the windows are breathing in the light,
Where the rooms are a collection of our lives,
This is a place where I don't feel alone
This is a place that I call my home.
The Cinematic Orchestra, That Home
 
 
È nel bel mezzo di un febbrile ripasso mattutino, quando Merry bussa alla sua porta. Le apre, prosciugando le ultime gocce del suo caffè.
«Caffè numero?»
«Due, non commentare. Vieni.»
Merry entra scuotendo la testa – le avrà fatto la predica sul consumo smodato di caffeina almeno un migliaio di volte, nell’ultimo anno.
«Anche tu sei in modalità ripasso furioso?» chiede Amanda, stropicciandosi gli occhi. Merry scuote la testa.
«Ho finito ieri. Stavo andando a correre e ho preso la posta.»
Le consegna un piccolo pacco piatto con un grazioso movimento del polso. Amanda non l’aveva nemmeno notato.
«Oh, grazie. Chi è che mi manda…»
«Viene da Londra.»
John e Sherlock. La ragazza sorride, scorrendo con affetto il dito sull’indirizzo del mittente scarabocchiato sul retro: 221b Baker St, Marylebone, London NW1 6XE.
«Grazie.»
Merry sorride e l’abbraccia brevemente, felice per lei, quindi si ritira in silenzio. Amanda sorride, grata di avere un’amica che la comprende così bene, e apre il pacchetto. Le scivolano in mano una busta bianca e una chiave. Deve sedersi e deglutire un paio di volte, prima di riuscire ad aprire la busta.
 
Ciao Amanda,
Sherlock dice che sto toccando l’apice del sentimentalismo scrivendoti questa lettera, ma io l’ho ignorato – ora è qui che mi tiene il broncio dall’altra parte della stanza. Il fatto è che non mi sembrava abbastanza scriverti due righe di messaggio o una mail. Così è più… personale.
Sì, quella è la chiave del 221b. La chiave di casa.
Sherlock si è trasferito ufficialmente la settimana scorsa, con tutto il suo disordine e i suoi esperimenti puzzolenti – ha una certa età, ma ancora nessun senso della decenza, giuro.
Ci stiamo aggiustando l’uno all’altro, di nuovo. È una strana sensazione, dolceamara – Sherlock dice che è come riprendere a suonare dopo molto tempo: le dita fanno male perché i calli si sono ammorbiditi, ma ricordano tutti i passi della loro danza, si muovono in automatico – memoria muscolare (questa è una cosa che è cambiata: uno Sherlock così filosofico e poetico era estremamente raro, prima. Non posso dire che mi dispiaccia). Ed ha ragione, è esattamente così che sta andando: stiamo imparando a suonare di nuovo una vecchia melodia, amata e provata milioni di volte, ancora da finire, da perfezionare. Ci vorrà un po’, ma ce la faremo. Ora, siamo pronti e non abbiamo nessuna intenzione di arrenderci.
A questo proposito, devo (anzi, dobbiamo) ringraziarti: se siamo qui, oggi, è merito tuo.
Sherlock mi ha appena sgridato perché dice che sto tergiversando. Dice che riesce a capirlo dal modo in cui tengo la penna. Esibizionista.
Quel che volevo dirti è che hai le chiavi di casa, ora. Non ti servirà più bussare né inventarti stratagemmi vari, non avrai nemmeno bisogno di telefonare. La teiera è sempre sul fornello, noi due sempre sulle nostre vecchie poltrone.
 
In bocca al lupo per gli esami.
 
Un abbraccio,
John.
 
PS. Sherlock non vuole ammetterlo, ma è molto contento della tua scelta di iniziare il progetto di ricerca l’anno prossimo e integrare il corso di Antropologia, e ritiene che il dipartimento di Antropologia della UCL sia migliore. Io non gli darei retta, fossi in te, secondo me vuole solo controllarti più da vicino.
 
PPS. Il portachiavi è un’idea sua. Pensava fosse divertente. Io ne ho uno con un teschio. Gli ho detto che non tutti condividono la sua concezione di “divertente”. Ha detto che io sono vecchio e tu hai sicuramente più senso dell’umorismo di me. In che mondo ti stai cacciando...
 
Amanda ride sommessamente, stringendo il tremendo portachiavi di gomma a forma di cervello umano.
Come una bussola impazzita che abbia finalmente trovato il suo polo magnetico – hanno vagabondato per anni, tutti e tre, prima di ritrovare la strada giusta.
Gira il foglio, senza cercare niente, in realtà. Invece, in un angolo, scarabocchiato: ti voglio bene. Ripiega la lettera e la ripone nella busta. Torna ai suoi libri, guardando il prato del campus fuori dalla sua finestra e il sole che combatte timido contro le nuvole.
Ora, sono liberi di ricominciare daccapo, viaggiare in lungo e in largo, senza paura di perdersi – l’ago rimane fermo in direzione di casa.
 

 
Home is where one starts from.
T. S. Eliot, Four Quartets
 

Fine




 



Ed è finita.
E' una storia che tenevo a raccontare, ha significato molto per me e mi ha accompagnato in questi lunghi mesi. 
Grazie di cuore a chi mi ha seguita fin qui, a chi ha voluto lasciare due parole – siete stati di grande incoraggiamento :)
Il titolo è tratto da un brano dei "The Cinematic Orchestra", ed ha ispirato un po' tutta la storia – ve lo consiglio, anche se probabilmente lo conoscete.

Ci rivediamo in giro (sempre se la s4 non ci uccide prima – quel trailer! Dovrebbe essere illegale, troppa ansia!)

A presto!
Avanti tutta.
-Clock

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