Hello Monster

di Spartaco
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** EPISODIO 1 - 2 – Hello Monster ***
Capitolo 2: *** EPISODIO 3 - The Arrival ***
Capitolo 3: *** Episodio 4 – Presentable Liberty ***
Capitolo 4: *** Episodio 5 – I’ve found something and I don’t know what to do ***
Capitolo 5: *** Episodio 6 – HELLO MONSTER ***
Capitolo 6: *** Episodio 7 – I’LL RISE LIKE THE BREAK OF DAWN ***



Capitolo 1
*** EPISODIO 1 - 2 – Hello Monster ***


EPISODIO 1 – Hello Monster

Nonostante fosse primavera inoltrata il sole quella mattina era basso sull’orizzonte, ed una luce fredda inondava la città. Il palazzo abbandonato ricordava i vecchi condomini newyorkesi, un parallelepipedo di mattoni che una volta erano stati rossi ed ora erano anneriti dall’inquinamento. Le scale antincendio si arrotolavano sul fianco sinistro dell’edificio, che faceva angolo tra una strada principale ed uno stretto vicolo polveroso. All’interno il silenzio fu interrotto dai passi pesanti di Jack che scendeva a balzelloni l’ultima rampa di scale che conduceva al secondo piano, trasportando una sega elettrica. Dietro di lui lo seguiva River, guardandosi indietro per controllare che nessuno li stesse seguendo. I due attraversarono una grande stanza vuota, dal pavimento di vecchie piastrelle marrone chiaro si sollevavano granuli di polvere resi ancora più visibili dai fasci di luce che penetravano dalle finestre. Si avvicinarono alla porta scura e sbirciarono dal rettangolo di vetro blindato la stanza adiacente. Qualcosa si mosse nell’ombra. “Hohoho” rise Jack, una risata abbondante come abbondante era il premio che si aspettava “Come sai che Jack è passato di qua?” aggiunse con la sua voce stridula. River ebbe solo il tempo di aprire la bocca per rispondere, ma venne preceduta da lui stesso: “perché sono tutti morti!”.

Con un gesto accese la sega e, ridendo, irruppe nella stanza successiva.

 

 

“AAAAH! Di nuovo una tempesta!” esclamò Kit, a metà tra lo scocciato ed il divertito. Si rifugiò con River in un pub poco distante mentre le prime gocce di pioggia iniziavano a cadere pesanti. ”Appena in tempo!” River adorava i temporali, poteva stare a guardarli per ore. Era affascinata dalla potenza del vento e dal vorticare delle nubi, e stare in un posto buio ed accogliente mentre fuori pioveva le dava un senso di soddisfazione. Si sedettero ad un tavolino rotondo accanto al bancone ed ordinarono due pumpkin spice latte e dei muffin, i più cioccolatosi del menù. Nonostante il clima, nel pub c’era un’atmosfera festosa e rumorosa, gruppi di ragazzi giocavano a freccette o a biliardo. Una voce si stagliava però sopra le altre, un ragazzo seduto al bancone, poco distante da loro, strepitò: “mi ha rubato la birra!! Era mia la birra!!” si mosse però con troppa enfasi sul seggiolino, che suo malgrado gli fece fare un giro di 180 gradi, ed i suoi occhi azzurri incontrarono lo sguardo di River e Kit. Ancora instabile dopo l’inaspettato tour, cercando di aggrapparsi al bancone soggiunse calmo: “Era mia la birra.”. River e Kit risero così forte che quasi il latte gli entrò nel naso. Era un ragazzo sorridente, più o meno della loro età, indossava una felpa grigia troppo grande per lui ed un basco. Aveva un accenno di barba e dei buchi alle orecchie larghi qualche millimetro, probabilmente ciò che rimaneva di dilatatori ormai tolti. “Ciao, io sono Sean, ma mi chiamano Jack.” “Questo qua è tutto un programma” pensò Kit, guardandolo con sospetto. River invece era interessata e divertita da tutto ciò che si poteva definire strambo, e Jack (o Sean?) sembrava l’essere più curioso che avesse mai visto. Dopo aver recuperato l’equilibrio con un movimento fluido, si alzò e si diresse verso l’uscita, fermandosi per un secondo a guardare il tavolo da biliardo, come se stesse pensando a qualcosa. Prese poi una delle stecche e colpì una palla, fallendo miseramente la buca. “Questo era un colpo … DA CAMPIONI!!!!” esclamò, e mettendo le mani in tasca uscì sotto la pioggia.

 

 

Ken si appoggiò al bancone della cucina, sorseggiando una tazza di caffè americano bollente. Asciugando con la mano le gocce di caffè che gli erano cadute sulla folta barba, si guardò intorno. La sua nuova casa era finalmente sgombra dagli scatoloni del trasloco, era pulita e luminosa grazie alla vetrata che dava sul giardino, sulla parete davanti a lui. Era a piedi nudi e indossava ancora il pigiama nonostante fosse metà pomeriggio, aveva passato tutta la giornata a cercare di sistemare tutto il contenuto degli scatoloni negli armadi, maledicendosi per aver comprato così tanta roba con il suo ultimo aumento di stipendio. Lucy, il suo cucciolo di corgi color miele, passò trotterellando davanti a lui ed iniziò a scodinzolare ed abbaiare dirigendosi verso la porta di ingresso. “Chi arriva? Oh chi sta arrivando?” chiese Ken in motherese, fatto abbastanza curioso per un ragazzone muscoloso e barbuto di un metro e novanta. In quel momento bussarono alla porta e Ken, sorridendo per l’eccitazione di Lucy, disse senza pensarci “è aperto!”. “Oooh ma ciao! Io non credo di poterti fare uscire però” il visitatore era nascosto dalla porta, tenuta socchiusa per non permettere a Lucy di uscire in giardino, e cercava di occupare tutto lo spazio restante con le sue stesse gambe. “No, infatti” rispose Ken, avviandosi verso la porta per scoprire chi fosse venuto a trovarlo. “Hey Ken! Che bello vederti!” dalla porta si affacciò un giovane entusiasta, non molto alto ma ben piantato.  Ken ebbe la prontezza di trasformare il suo sospiro di sconforto in un “heeeey come procede?”. “Non hai più risposto alle mie chiamate” rispose l’altro ragazzo con un sorriso titubante. Ken pensò in fretta ad una spiegazione plausibile e con una risata nervosa rispose: “Ah sai ho cambiato numero, nuova casa nuovo numero”. Il visitatore sembrava confortato e, riguadagnata l’allegria, propose a Ken un giro in città. “Oh santa cacca” pensò Ken, “Mmmh, mi dispiace, ma ho tante cose da fare sai, con il trasloco…” “Posso aiutarti?” “No, no, grazie, non vorrei disturbarti!” disse Ken, riuscendo a stento a muovere le labbra per mantenere il suo sorriso di cortesia, mentre chiudeva lentamente la porta. “è stato bello vederti, ho ancora il tuo numero e ti farò uno squillo appena possibile! Ciao Mark! Ciao. Ciao.” Finalmente riuscì a chiudere la porta.  “In che cosa mi sono cacciato” si disse Ken. I due si erano incontrati un paio di settimane prima ad una conferenza stampa, erano entrambi giornalisti, e Mark si era appena trasferito da un’altra città. Non conosceva nessuno, e Ken si era offerto di fargli da guida. Non l’avesse mai fatto! Dopo le prime uscite, Mark si era talmente affezionato da chiamarlo più e più volte al giorno per invitarlo al karaoke, al cinema, a fare una partita a casa sua, facendo diminuire esponenzialmente la pazienza di Ken. Si sedette sul divano tra la porta e la vetrata, giusto in tempo per scorgere Mark in giardino, che lo salutava con la mano. “Ciao piccolo rompipalle, ciao, ciao” disse tra sé e sé, ricambiando il saluto.

Mark entrò nella sua nuova villetta a due piani, gettando le chiavi nella ciotola all’ingresso. Il suo sguardo cadde immediatamente sul computer nell’angolo della stanza e non poté fare a meno di sorridere. Si tolse i jeans e rimase in boxer, indossò la sua camicia di flanella rossa preferita e aprì un sacchetto di caramelle.  Mangiandone cinque alla volta accese il computer ed iniziò a giocare a Turbo Dismount.

 

 

“Whoa, guarda qui”. Wesley era seduto in una stanza al buio, davanti al computer. Scostò i suoi capelli rossi dagli occhi, e premette il tasto “Replay”. “Cosa?” chiese Evan distratto. Si trovava nella stanza accanto a cucinare dei pancake. Da quando la sua ragazza l’aveva cacciato di casa viveva con il suo collega Wes, e faceva di tutto per rendersi utile cucinando e facendo le pulizie, seppure borbottando quando l’amico lasciava qualcosa fuori posto. “Ho trovato qualcosa d’interessante” proseguì calmo Wes, attirando finalmente l’attenzione del coinquilino, che si diresse verso di lui. Evan, come faceva sempre, si sistemò con due dita gli occhiali sul naso e si avvicinò allo schermo per osservare il video che Wes aveva appena fatto ripartire. L’immagine era disturbata, poco stabile, e si sentiva in sottofondo un respiro pesante. Chi stava registrando aveva un passo veloce, camminava in un corridoio buio ed era evidentemente spaventato. Guardandosi indietro inquadrò qualcosa che strisciava sul pavimento dietro di lui, una massa nera, sinuosa, che sembrava avere troppi arti. All’inizio si muoveva lenta, circospetta, per poi improvvisamente acquistare velocità. Dopo un urlo terrorizzato la telecamera inquadrò il pavimento oscillando sincronizzata con i passi dell’autore, per poi spegnersi. Wes ed Evan rimasero in silenzio per qualche secondo. “Sono troppo vecchio per queste cose” si decise a dire Evan fissando lo schermo. Nonostante fosse stato il suo lavoro per molti anni, aveva rinunciato da qualche mese a fare l’investigatore del paranormale. Aveva incominciato molto presto, quando non aveva ancora 18 anni, e ne era rimasto segnato. Wes era arrivato qualche anno dopo, come tecnico d’immagine. Era una persona molto tranquilla e faceva uno strano effetto vederlo davanti al monitor in luoghi abbandonati, quasi come intorno a lui ci fosse un’aura di calma. Evan invece, con il suo fare da spaccamontagne, era sempre stato troppo orgoglioso per ammettere di essere spaventato da ciò che vedeva quelle notti, ma alla fine era riuscito ad accettarlo  ed aveva deciso di smettere. “Non farmi questo” pensava Evan in quel momento. Ma Wesley stava già digitando alla velocità della luce sulla sua tastiera, cercando maggiori informazioni sul luogo dell’avvistamento. “Here we go!” esclamò Evan ostentando entusiasmo e dando una pacca sulla spalla dell’amico, ma dentro di lui il dubbio cresceva.

 “Ce la posso fare. Era il mio lavoro. So come usare le mie armi.” Evan si sistemò ancora gli occhiali e guardò fuori dalla finestra, sfiorandosi con le dita il petto, per sentire per una frazione di secondo il suo cuore battere. “Hello, Monster.”

 

 

 

EPISODIO 1

-FINE-

 

 

 

 

 

EPISODIO 2 – How did we come to this?

River era concentratissima. In biblioteca non funzionavano né il cellulare né internet, e sospettava che fosse stata fatta una schermatura ad hoc. Il silenzio venne interrotto da una voce squillante: “Hey, salve a lei!” “SSSSSHHHHH!” una decina di teste si sollevarono all’istante dai libri per zittire l’ospite sgradito. “….whoopsie” Jack abbassò la voce, o almeno ci tentò per quanto gli fosse possibile. “Ciao!” rispose River, sorpresa e contenta di rivedere quello strano ragazzo. “Cosa la conduce qui?” River sentiva ancora gli occhi degli studenti puntati su di lui, e prima di rispondergli gli propose di spostarsi in area relax. Lì Jack le offrì un caffè, ma River rifiutò e optarono entrambi per un tè. “Se bevessi caffè sarei insopportabilmente iperattivo” aggiunse Jack. Buffo da dire, dato il suo modo di fare. River non poté fare a meno di immaginare Jack ancora più rumoroso di quanto già fosse, e pensò che la sua astinenza dal caffè fosse un’idea più che saggia. River indossava un abito verde chiaro dalle forme morbide, stretto in vita da una sottile cintura di cuoio intrecciato. Aveva i capelli lisci, erano scuri e le ricadevano sulle spalle. Non era molto alta, ma essendo piuttosto proporzionata – ed indossando spesso scarpe dalla suola alta - non si notava. Lavorava in ospedale e si sentiva un po’ il jolly della situazione o, forse più realisticamente, il tappabuchi. “Abbiamo bisogno di lei alla stroke unit”, “La cerca il dott. Burke nella stanza 306”, “Dovrebbe andare a controllare cos’ha da lamentarsi il paziente 526 in ambulatorio”, il cercapersone era bollente. Sapeva fare un po’ di tutto, correva tutto il giorno su e giù per l’ospedale con quelle orrende scarpe mediche che tentava in tutti i modi di rendere più colorate applicandoci di volta in volta coccinelle, farfalle e fiorellini di plastica, specialmente quando aveva a che fare con i bambini. Già, i bambini. River si divertiva un mondo con loro e cercava di farli divertire altrettanto: mentre li visitava dava le spalle al dottore e faceva sbucare dal taschino del camice la testolina di un piccolo lemure di peluche, facendo l’occhiolino al piccolo paziente che tratteneva le risate a stento. Di nascosto li faceva uscire dalle loro camere e li riuniva in una stanza per fare ascoltare loro qualche bella canzone. Fortunatamente non lavorava a tempo pieno, aveva del tempo a diposizione per condurre una ricerca su un particolare tipo di epilessia. Così particolare che sembrava non soffrirne nessuno nel raggio di chilometri… così un paio di volte alla settimana trascorreva del tempo nella biblioteca dell’Università per ripassare e tenersi aggiornata. E in uno di quei pomeriggi ecco che ricomparve il ragazzo del pub. Jack aveva qualche mese più di River ed indossava il suo solito basco da cui, apparentemente, non si separava mai. Era sempre avvolto in abiti troppo grandi per lui, il che lo faceva sembrare più esile di quanto in realtà non fosse. Questa volta si era infagottato in una felpa blu e sorseggiava soddisfatto la sua tazza di tè fumante. “Bisogna sempre iniziare la giornata con del buon tè, o in questo caso, proseguirla” disse tra un sorso e l’altro. “E tu di cosa ti occupi?” chiese River. “Oh sai, un po’ di cose, suono la batteria in una band, sto finendo l’università, ho mollato qualche corso per strada. Facevo sound management. Sono affascinato dai suoni: amo la loro diversità, specialmente i toni bassi, sentirne le vibrazioni. Forse per questo amo andare al cinema. Ho studiato per due anni da tecnico del suono, poi ho deciso di cambiare e ora studio per diventare il manager di un hotel.” “Oh” commentò River confusa. Evidentemente Jack era un fiume in piena anche nei suoi discorsi. I suoi pensieri dovevano toccare la velocità della luce. “Come mai hai deciso di cambiare strada dopo due anni?” “Oh, non riuscivo a prestare attenzione in classe. Pensavo solo ai videogiochi a cui avrei giocato una volta tornato a casa!” Ammise Jack con non-chalance. Questo ragazzo aveva una sincerità disarmante ed un che di estremamente interessante per River. Le metteva allegria al solo guardare i suoi occhi azzurri che guizzavano senza sosta da un angolo all’altro della stanza. E poi anche lui sembrava avere la passione dei videogiochi, come lei e Kit. A River venne spontaneo proporgli di incontrarsi a casa sua per qualche partita alla playstation, così si scambiarono i numeri di telefono.

River, recuperate le sue cose in biblioteca, tornò verso casa sua. Aprì la serie di porte che separavano il suo appartamento dalla strada, “Più blindato di così c’è solo l’appartamento di Tony Stark” mormorò mentre girava con due mani la chiave della sbarra di ferro che chiudeva la porta di casa. “’Giorno!” Sylvie era accovacciata sul divano come suo solito, con un e-book appoggiato sulle gambe incrociate. I lunghi capelli rossi erano legati strettamente in una treccia. “Ciaaaaaaaao” rispose River, mentre un sorriso scalpitava per uscire allo scoperto. “Cosa c’èèèèèè?” Sylvie si ricompose immediatamente, tornando in posizione eretta per l’occasione. “Devo assolutamente raccontarti una cosa” rispose River ridendo.

 

 

“Da soli non ce la faremo mai” sbuffò Evan. “Hai presente quanta attrezzatura serve per un’impresa del genere?” “Abbiamo tutto il necessario” tagliò corto Wesley. “Ah sì certo, tanto tu sei quello che sta comodamente seduto a fissare i monitor, sono io quello che gira con una luce sulla testa, neanche fossi un pesce degli abissi, e una telecamera sulla spalla. E poi sono anche più grasso e saporito.” Wesley scoppiò in una risata fragorosa. Evan aveva un modo di parlare tutto suo, si prendeva in giro da solo per vincere le discussioni. Ricordò di quando, qualche settimana prima, lo aveva battuto a Mario Kart 8, e per tutta risposta si era sentito dire “Ah, certo, bella storia battere il tizio cieco!”. Evan infatti portava degli spessi occhiali da vista che si toglieva solo quando doveva fare attività fisica per paura di romperli, il che in realtà si rivelava controproducente il più delle volte, dato che non riusciva a vedere dove diavolo stesse mettendo i piedi. Era bruno, alto, anche se non come Wes, ed era sempre stato piuttosto ben messo, ma aveva acquistato qualche chiletto in più da quando la ragazza l’aveva lasciato. Wesley conosceva il passato di Evan e non aveva esitato ad accoglierlo in casa sua. Nonostante l’apparente confidenza in se stesso, era in effetti solo un gran pasticcione. Era bravo e coraggioso a parole, si buttava a capofitto in qualsiasi progetto al grido di battaglia “Certo che lo so fare”, per poi però impantanarsi nel’impresa pochi attimi dopo. Chi gli stava vicino lo aiutava con un sospiro di rassegnazione, a cui Evan solitamente rispondeva “Ah. Ora dovrei ringraziarti, immagino”. Questo suo modo di fare gli aveva procurato dei guai più di una volta, come quando anni prima aveva cercato di riparare da solo la batteria della sua macchina, prendendo una scossa talmente forte da fermagli il cuore per qualche istante. Wes l’aveva conosciuto sul lavoro, durante una delle loro cacce ai fantasmi. Lui era in un certo senso l’opposto del suo nuovo coinquilino. Era riflessivo, cauto, concentrato. Ma era anche di facili entusiasmi, e ogni volta che qualcosa lo esaltava alzava le braccia al cielo urlando “wiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!”, per poi ricomporsi e risistemarsi dietro le orecchie i folti capelli rossi.

“Se sei proprio sicuro” disse Wesley “cerco di contattare qualche giornalista interessato che ci accompagni e che porti qualche telecamera in più”. “Oh, così va meglio. Magari più grasso di me. E già che ci sei, che ci veda un po’ meglio!”.

 

 

Ken sentì bussare alla porta. Radunò le forze per uscire dal letto, ancora impastato di sonno cercò gli occhiali a tastoni e si avviò verso il toc toc. Mugugnò qualcosa mentre evitava all’ultimo minuto di inciampare sulla pancetta tonda di Lucy ed aprì la porta. “Keeeeeeen!” “…….Ciao Mark.” Mark entrò in casa con un tablet malridotto sotto braccio, approfittando della momentanea lentezza di riflessi di Ken. “Non immagini che scoop ho trovato per noi” “…noi?....Cosa?” “Guarda!” Mark mostrò a Ken un’inserzione che aveva trovato girovagando su internet. “Investigatori paranormali? Ma sei serio?” “Certo! Pensa quanto ci divertiremo! Dai! Ken! Chiama! Dai!”. Ken esaminò la situazione. O chiamava in quell’istante o Mark sarebbe rimasto con lui per il resto della giornata. La scelta fu semplice.

Ken premette il tasto di chiamata e con la coda dell’occhio teneva Mark sotto controllo. Era alto non più di un metro e settantacinque, ma aveva braccia muscolose per la sua costituzione. Quando non aveva la telecamera in spalla passava metà del tempo al computer e metà del tempo in palestra. Mentre il telefono squillava dall’altra parte Ken si sentì in dovere di riempire quel silenzio imbarazzante e chiese a  Mark se avesse provato la nuova XBox. “Oh no, io sono sempre stato un pc gamer, anche da bambino.” Rispose Mark. “Oh. Quindi sei cresciuto con Commander Keen” “A dire la verità no, non ci ho mai giocato.”“….Allora credo tu abbia un bel problema. Sì, pronto? Sono Ken Morrison. Chiamo per l’inserzione che avete…. Sì. Saremmo interessati a partecipare, a quanto sembra.”

 

 

 

“Wow, hai più fegato di me” ammise Jack togliendosi le cuffie. “Mi tremano le mani” disse per tutta risposta River, cercando di riportare i suoi capelli ad un aspetto vagamente umano. “4 a 6, hai trovato più pagine tu prima che Slenderman ci facesse a pezzi” disse Jack tra le risate. Avevano tutti e due le lacrime agli occhi e il cuore a mille. Un’iniezione di adrenalina, pensò River soddisfatta. “Perché non lo portiamo al prossimo livello?” “Cioè?” chiese River curiosa. “Cosa c’è di più terrificante di una casa abbandonata di notte? Una casa.. vera. Non Outlast o roba del genere.” “Ma tu sei matto! Morirei di paura.” River gli tirò un cuscino, ma Jack stava per dire qualcosa e non si spostò di un millimetro. Il cuscino lo colpì in piena faccia, causandogli un’esplosione di ilarità che quasi lo fece cadere dalla sedia; “Ma se ridi appena accendi un horror!” riuscì a dire appena riprese fiato, e concluse: “Io stasera inizio a leggermi qualche creepypasta, e poi ti faccio sapere”.

 

“Fammi almeno fare una prova con l’Oculus Rift!” protestò River, ma inutilmente, perché Jack era già uscito dalla porta dicendo “Ti faccio sapere!” e, mani in tasca, si avviava verso casa sua. River scosse la testa guardando Sylvie, che sorrise. Pensarono entrambe la stessa cosa: era proprio tutto matto.

 

 

 

“Io non credo tu debba andare.” disse Kit seccamente, stringendo i suoi occhi azzurro chiaro. “Non so neanche se sia fattibile, se troverà qualcosa” River cercò di ridimensionare la situazione mentre porgeva un bicchiere di coca a Kit, ma senza risultato. “Ma quello è totalmente scemo! Secondo me si droga. O quantomeno beve! Lo conosci da una settimana, sarà di sicuro un malintenzionato, e toccherà a me fare la guardia.” River sorrise, perché andava spesso a finire così. Ormai lei e Kit si conoscevano da tempo e si incontravano quasi tutti i giorni. Quel giorno indossava una polo a righe e dei jeans, i capelli biondi scompigliati dal gel. Pur essendo più giovane superava River in altezza di una decina di centimetri e aveva sempre un comportamento dolcemente protettivo nei suoi confronti. Erano spesso complici nelle loro avventure, e nei loro acquisti impulsivi che venivano nascosti a casa di uno o dell’altro. “Vedrai che non troverà niente di interessante, quelle storie sono tutte inventate” disse River, che in effetti era ancora dubbiosa riguardo al grado di serietà di quanto avesse affermato Jack pochi giorni prima “Se ne sarà anche dimenticato, con tutte le cose che fa in ventiquattro ore!”

 

 

“Ok! Penso che abbiamo raggiunto il numero adeguato” dichiarò Wesley appoggiandosi soddisfatto allo schienale della poltrona. “Siamo ben in sei.” “Sei? Come hai fatto a trovare tutta questa gente? Chi sono?” chiese dubbioso Evan. “A quanto sembra, due giornalisti ed un appassionato di videogiochi che ha detto che avrebbe portato un’altra persona.” “Oh beh allora siamo a cavallo.” commentò Evan a bassa voce, togliendosi gli occhiali e sfregandosi gli occhi. “Come dici?” “Oh, nulla. Sono almeno grassi e ciechi?” “I due giornalisti portano gli occhiali.” “Ok, due punti per te. Magari questa volta vengono mangiati loro al posto mio.”

Evan si afflosciò sul divano, dopo aver pulito la casa per la terza volta quella settimana. Wesley era la persona più disordinata che avesse mai conosciuto. Si guardò intorno, valutò l’intreccio di eventi che lo aveva portato a quel punto della sua vita, e sospirò.

 

 

EPISODIO 2

-FINE-

 

------------------------------ Angolino Finale

Benvenuti innanzitutto! Per prima cosa voglio precisare che questa storia non è stata scritta da me, ma da una mia amica che mi ha concesso l'onore (o l'onore) di pubblicarla, visto anche che non possiede un account efp. (Le recensioni le verranno trasmesse da me ^^)
Come avete visto sono presenti sia il primo che il secondo episodio in un capitolo per il semplice fatto che il primo era un po' corto (al tempo era stato una sorta di prova generale), ma di seguito si procederà normalmente..! E non temete! La fic è già finita quindi non ci saranno nè incompiute nè cose lasciate e abbandonate per mesi!
I personaggi non sono tutti tutti originali, ma sono di universi talmente sconosciuti (soprattutto per il pubblico italiano) che dubito che li riconoscerete xD! Quanto al contesto quello invece lo è!

Detto questo, spero la possiate apprezzare così come ho fatto io! Aspettatevene delle belle e preparatevi! :)
Recensioni, critiche e quant'altro sono ovviamente ben accette, soprattutto dato che è la prima volta che la mia amica si cimenta in qualcosa del genere! ^^ P.s. Si, è vero, all'inizio è un po' nerdeggiante, ma spero non per questo vi fermiate qui!
Grazie ancora
A presto!

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Capitolo 2
*** EPISODIO 3 - The Arrival ***


EPISODIO 3 - The Arrival


"Cos'è che hai fatto??" Chiese River. Dall'altra parte del telefono Jack sembrava serissimo. "Ho trovato delle guide che ci portino in una casa infestata!" "Kit mi ammazza. Lo sai questo vero?" "Oh non preoccuparti, probabilmente prima ammazzerà me con un'occhiata glaciale." Questa volta River non rise, era perplessa e non aveva una risposta pronta. Sì certo, andava matta per gli horror, ma da lì a viverlo in prima persona ce ne passava. E Jack non sembrava esattamente il massimo dell'affidabilità in caso di pericolo. Era un primo pomeriggio soleggiato come al solito, River era in piedi in camera sua e teneva il cellulare premuto contro l’orecchio sinistro, come faceva sempre quando riceveva notizie importanti, come se potesse capire meglio ogni parola tenendo il telefono il più possibile vicino al timpano. "Dobbiamo incontrarli domani pomeriggio e ci spiegheranno tutto quello che dobbiamo sapere. Non preoccuparti, sono degli esperti" concluse Jack con semplicità.

Terminata la chiamata, River si passò una mano sulla fronte. “Ma che sto facendo?” Certo, l’idea era stranamente allettante. Anni prima cambiava canale appena percepiva un’atmosfera di terrore nei film che davano in tv, ma passando dal leggere creepypasta sempre e rigorosamente di mattina era riuscita alla fine ad abituarsi a guardare horror gameplay a notte fonda, cercando di soffocare con le mani gli urletti che le uscivano spontanei. Non solo si era abituata, ma andava matta per quel brivido, quella sensazione mista di terrore ed adrenalina, quei momenti in cui non sapeva se ridere o piangere e finiva per fare entrambe le cose. Era anche vero però che sentiva ancora i brividi quando ascoltava un qualsiasi episodio di “Cry reads”, complice la sua voce così espressiva, tanto da essere costretta a fare numerose pause nell’ascolto per prendere fiato, e questo la preoccupava. Eppure sapeva che Jack sarebbe stato lì. Poteva anche essere spericolato, ma ormai lo conosceva e se fosse rimasta incollata a lui le avrebbe dato un senso di sicurezza, per quanto precaria. Forse il suo modo di fare si sarebbe ancora una volta rivelato utile nello smorzare la tensione.

"IO non vengo." Sylvie aveva ascoltato dalla stanza adiacente, ed era irremovibile "mi è bastato sentire i racconti delle colleghe su Dublino, e ti ricordi quando stavamo guardando quello stupido splatter e ho lanciato in aria la tazza di tè per lo spavento? Nononono. Dovrai chiedere a Kit." A dire la verità non era stato nemmeno necessario chiedere, River non aveva neanche fatto in tempo a terminare di scrivere il messaggio su whatsapp – di parlare di persona non se ne parlava, non ne avrebbe avuto il coraggio - che Kit aveva già capito e risposto: "Oh ovvio che ci vengo anche io” scrisse, “Non so che diavolo vi siete messi in testa ma non ci piove che venga anche io. Dove è questo famoso appuntamento?"

 

 

Quando Ken e Mark si presentarono all’appuntamento, Evan aprì la porta con un sorriso smagliante: "Benvenuti! Mi avete salvato la pelle!" "Non fate caso a lui” - lo interruppe Wesley, scostandolo “delicatamente” dalla porta con uno spintone - “Buongiorno a tutti, mettetevi comodi". L’appartamento dei due ragazzi era spazioso, dalle pareti chiare, ed Evan aveva probabilmente cercato di mettere ordine anche se negli angoli della stanza facevano capolino scatoloni dal contenuto ignoto. La porta d’entrata dava su un ampio salotto alla cui destra si trovava il grande bancone della cucina, al centro un divano e sulla sinistra un tavolo di legno scuro. River, indossando una camicetta di jeans ed una lunga gonna chiara, era seduta sul divano, mentre Kit aveva deciso di rimanere in piedi, dando le spalle ad una grande finestra. Appena Ken e Mark ebbero raggiunto il centro della stanza, Jack emerse da dietro il bancone della cucina: "Ho trovato una Guinness, mi sono servito. Salute!" sollevò la bottiglia in direzione del salotto e ne bevve un gran sorso. "Che figure" pensarono River e Kit (o forse Kit pensò qualcosa di peggio). Il trio era arrivato pochi minuti prima, ed il secondo incontro tra Jack e Kit non era stato dei migliori, come si poteva prevedere. Kit aveva da allora assunto un atteggiamento prevenuto, e stava sulla difensiva. Anche se, per dire la verità, la sua migliore difesa era l’attacco. “Comunque è maleducazione portare il cappello in casa.” Sibilò. Jack si fermò nel bel mezzo del sorso, abbassò la bottiglia e per un secondo rimase immobile. Alla fine si decise a deglutire, e con un gesto secco si tolse il basco grigio mostrando una capigliatura rossiccia, corta e leggermente brizzolata, per poi sedersi poco elegantemente sul divano, tenendo sulle gambe il suo fedele cappello. Ora che erano tutti presenti (e visibili!) iniziarono le presentazioni. Mark era un tipo particolare, dai tratti leggermente orientali. I suoi capelli neri erano folti e disordinati, e portava la barba lunga di qualche giorno. Al primo impatto, River non poté fare a meno di pensare che sembrasse avere qualcosa di fuori posto. Tanto per cominciare aveva una voce molto profonda, in assoluto contrasto con la sua statura - era alto appena qualche centimetro più di lei -. Nonostante ciò sembrava un concentrato di energia: era allo stesso tempo potente e minuto. Quando si presentò si notò da subito la sua indole, educata e cordiale. Non somigliava a nessuno che River avesse mai incontrato. La coppia di amici Wes ad Evan era decisamente ben assortita: mentre Wes parlava poco, Evan prendeva la parola appena c’era un momento di silenzio, ridendo di gusto ai suoi stessi giochi di parole, che non erano proprio di alta qualità. Come Jack, era esuberante e self confident, forse meno sguaiato ma con la stessa alta considerazione di se stesso. Quello che interessò maggiormente River fu che Evan non era esattamente la perfezione fatta a persona: per leggere i messaggi sul cellulare doveva avvicinare lo schermo a pochi centimetri dal volto, aveva qualche chilo di troppo e si vedeva che i suoi capelli, una volta corti, erano cresciuti troppo, acquistando una forma indefinibile e disordinata. Buffo, data la cura che Wes sembrava avere per i suoi lisci capelli rossi! Eppure non si poteva definire un perdente, perché il suo modo di fare sicuro compensava qualsiasi sua caratteristica negativa. Tra tutti, Ken rimaneva la persona più indecifrabile: era silenzioso, ma avanzava timidi sorrisi a chi incrociava il suo sguardo. Era seduto curvo sul divano e rigirava nervoso il cellulare tra le mani. “Allora, di cosa si tratta esattamente” chiese infine. In fondo non aveva idea di che cosa avesse accettato di fare e per la verità nemmeno aveva idea di chi fosse davvero Mark. Tutto ciò che sapeva era che si era trasferito di recente e che aveva una passione smodata per la palestra ed i videogiochi. Del suo passato non conosceva una virgola. Ken sentì un brivido percorrergli la schiena. “Sono un giornalista sportivo, per la miseria. Il massimo del rischio è cercare di non farmi tirare sotto da giocatori di football alticci a bordo delle loro macchine sportive” si disse, e guardò Mark, che era seduto accanto a lui. Indossava una maglietta rossa con sopra stampata una M a caratteri cubitali, e sfoggiava un sorriso bianchissimo e smagliante. "Sembra quasi un supereroe, con quei muscoli e quel ciuffo di capelli fluenti."

Lo strano gruppo venne riunito intorno al grande tavolo di legno scuro al centro del salotto, dove Evan e Wes, rimanendo in piedi, iniziarono a spiegare il funzionamento degli "attrezzi da lavoro": videocamere ad infrarossi, torce, registratori[1]. “Posso dire una cosa?” Chiese Ken dopo qualche minuto, alzando la mano. Aveva evidentemente riflettuto sulla possibilità di fare quella domanda dal primo momento in cui aveva messo piede in quella casa. “Sssh, lasciali finire” Mark gli diede una gomitata sul braccio, e si rimise in posizione di ascolto, le braccia in grembo, occhi e bocca spalancati. “Giuro che se non gli do’ un pugno in testa adesso...” Il pensiero assassino di Ken venne interrotto dalla voce calma di Wes, che lo pregava di proseguire. Ken era titubante, ma alla fine, lisciandosi la folta barba, riuscì a fare uscire di bocca queste parole, accompagnate da gesti nervosi della mano: “Ecco ma noi..esattamente..cosa ci dovremmo trovare in quella casa?”

 

 

Gli sguardi prima puntati su Ken si spostarono tutti contemporaneamente sui due ragazzi. Evan si sedette, inclinò la testa dubbioso e si sistemò gli occhiali con il suo famoso gesto. Infine appoggiò una mano sulla sua gamba e disse rivolto a Wes: “eh sì..questo non lo so neanche io.”

Wes temeva che non sarebbe passato molto tempo prima di dover rispondere ad una domanda simile, e per questo si era preparato a dovere. “Si tratta di un palazzo di quattro piani, compreso il piano terra” iniziò “apparteneva ad una coppia. Pare che lei fosse una pittrice, ed i suoi quadri sono particolarmente..inquietanti” disse con gli occhi bassi. “In che senso?” chiese Evan, che non poté nascondere un fievole tremito nella sua voce. Wes dapprima non disse niente, si sistemò i capelli dietro le orecchie e iniziò a digitare qualcosa sulla tastiera del suo portatile, che si trovava anch’esso sul tavolo insieme al resto dell’attrezzatura. Quando Wes girò il computer in direzione del gruppo rimasero tutti senza parole. Rosso. Questo è quello che si poteva dire di quell’opera. Il colore era denso, corposo, quasi carnoso, come fosse stato steso con le mani. La sola vista dava un senso di disagio. Non rappresentava nulla, non si riusciva a coglierne il disegno, ma si poteva quasi vedere il gesto della donna che stendeva il colore a piene mani, con forza e rabbia. Wes proseguì: “Voci dicono che questi quadri fossero il frutto della sofferenza della donna che non poteva avere figli. Quello che è certo è che dopo pochi anni di matrimonio il marito impazzì, e della donna non si seppe più nulla”. Nessuno disse nulla, perché i loro pensieri facevano troppo rumore. Stavano iniziando a toccare con mano quello che avrebbero affrontato da lì a pochi giorni. Evan si portò istintivamente la mano al cuore, per una frazione di secondo, per poi riportarla sulla sua gamba, sperando che nessuno avesse notato il suo gesto. Anni prima lo aveva sentito smettere di battere, e quella sensazione non lo aveva mai più abbandonato. Anche se era successo nel suo garage e non sul lavoro, non poteva fare a meno di pensare a come aveva sfiorato la morte molte volte in luoghi freddi e bui. Ma non avrebbe mai dimenticato l’evento che, una volta per tutte, lo aveva portato a prendere la decisione definitiva di abbandonare quel  mestiere. Chiuse gli occhi e si trovò di nuovo in una nave da poco recuperata dagli abissi. Quando Evan si era addentrato nel ventre della nave aveva subito percepito che qualcosa quel giorno non andava. Accese il registratore e chiese nel silenzio: “Non ti piaccio?”. Aspettò qualche secondo, rimandò indietro il nastro e premette “play”. Quello che sentì gli raggelò il sangue nelle vene. “Non ti piaccio?---Ti-----ucciderò----“. Evan spense il registratore, e non lo accese mai più. In un battito di ciglia rivisse tutto questo, e le sue mani iniziarono a tremare.

River guardò Jack in cerca di conforto. Il ragazzo guardava fisso davanti a sé pensieroso, stringeva nella mano destra il suo cappello e nell’altra la bottiglia di birra, da cui non aveva più bevuto un solo sorso. Accortosi dello sguardo di River le sorrise, ma non come sempre. Persino Mark aveva perso la sua aria festosa, ed aveva ora un’espressione indefinibile, a metà tra il “no grazie” ed il “voglio assolutamente sapere cos’è successo”.

 

 

Ken chiuse la portiera con forza. “Heeey è già abbastanza distrutta quest’auto!” si lamentò Evan dal posto di guida. In effetti l’intera fiancata destra era segnata da un’unica riga priva di vernice, che la attraversava completamente. Evan adorava guidare, ed anche se la sua vista non rendeva semplice l’impresa lui non era uno che si faceva fermare facilmente. Il minivan, carico dei sette avventurieri, si diresse sotto il sole pomeridiano in direzione del palazzo. La compagnia, tutto sommato, era allegra. Sembrava che Mark e Jack avessero la stessa lunghezza d’onda: si erano seduti vicini, ed essendo il mezzo affollato erano praticamente uno in braccio all’altro. “Com’è romantico! Un po’ come una luna di miele” commentò Mark ridendo, e Jack rispose prontamente: “eh ma che schifo di luna di miele!” “Perché?” chiese Mark ironico, non aspettandosi alcuna risposta, ma Jack guardandosi intorno, sbuffò: “tanto per cominciare, è un po’ troppo affollata”. Nemmeno Kit aveva potuto fare a meno di ridere, coprendosi la bocca con la mano. Pochi minuti dopo arrivarono alla strada della meta e le risate lasciarono spazio alla tensione. Evan parcheggiò l’auto in un vicolo a destra dell’alto palazzo di mattoni rossi. Una scala antincendio arrugginita, con qualche gradino mancante, saliva fino al tetto. Nonostante la casa fosse evidentemente diroccata, le finestre erano molto sporche, ma sembravano tutte intatte. Il cielo era ancora chiaro, ed avevano ancora un po’ di tempo per prepararsi: scesi dalla macchina seguirono le istruzioni di Evan, e ciascuno si munì di torcia da cintura e ricetrasmittente. Wes poi consegnò a tutti una piccola telecamera da fissare sulla spalla. “Ora dovremmo dividerci i ruoli. Come vi ho detto a casa è necessario fissare quante più telecamere possibile in punti strategici, così che io possa tenere sotto controllo la situazione da una stanza sicura. O almeno, relativamente vicina all’uscita. Squadre?” Evan, senza parlare, si mise in spalla senza indugio uno dei due zaini che contenevano le telecamere. “Penso che sarebbe una buona idea andare con lui” sussurrò Jack a River. River esaminò la situazione: Wes sarebbe rimasto all’entrata per monitorare la situazione, ed effettivamente l’unico che sapeva cosa stava facendo era Evan. Si guardò in giro: Mark aveva percorso i dieci passi dall’automobile al cancello ripetendo “non mi piace..ooooh non mi piace per niente..non mi piace..”, Ken teneva le mani sui fianchi, la testa inclinata in avanti coperta dal cappuccio della felpa e non aveva detto una parola da quando erano arrivati. Per quanto riguarda Kit, si vedeva che si trovava in quel luogo controvoglia, ma d’altra parte se aveva preso questa decisione era per controllare la situazione, per proteggere lei. River era più che mai dubbiosa: Evan era sicuro, ma cosa era giusto fare? Ovviamente scegliere Kit, ma come dirlo a Jack? Come lasciarlo da solo? Inaspettatamente, Mark uscì dal suo stato paranoide e risolse il problema: afferrò il secondo zaino inforcandolo sulla spalla destra ed agganciò Ken con un braccio e Kit – che era più vicino a lui degli altri componenti del gruppo -  con l’altro, trascinandoli verso l’entrata a passo di marcia ed urlando “Avaaaaaanti!”. “Oh beh, immagino che abbiamo deciso” commentò Wes perplesso, ed allungarono il passo per raggiungere Mark.  Ormai si stava facendo buio, e se volevano avere una chance di vantaggio su qualunque cosa abitasse quel palazzo dovevano muoversi. Attraversarono il piccolo giardino inselvatichito, a stento individuando il passaggio che si snodava tra l’erba ormai alta. Pochi passi, un paio di scalini, ed arrivarono davanti alla piccola porta principale.  Lo slancio di Mark era durato ben poco e non aveva avuto il coraggio di aprire. Fu Wesley, carico di zaini e valigette di attrezzatura, a passare avanti. Allungò una mano per abbassare la maniglia, ed il portone si aprì silenzioso.

 

 

Li accolse un ampio atrio, quasi completamente vuoto. All’interno, solo due grandi vasi blu nell’angolo, una bassa cassettiera in legno sulla parete di sinistra accanto ad una porta aperta, e davanti a loro una rampa di scale che conduceva ai tre piani superiori. L’ultima luce della giornata penetrava dalle finestre nonostante fossero coperte da uno spesso strato di polvere. River aveva il cuore a mille, e Jack si fece più vicino a lei. Anche lui era nervoso e si mordeva il labbro. Il silenzio era quasi assordante, e si sentivano solo i loro passi mentre, titubanti, esploravano la prima stanza, sempre rimanendo compatti. Wesley, con la valigetta in mano e lo zaino in spalla, sbirciò attraverso la porta aperta, trovando davanti a lui solo quello che rimaneva di una cucina. “Ok..si sale”. La stanza superiore era una copia pressoché identica all’ingresso, solo più piccola perché questa volta erano due i corridoi che si aprivano, uno da ciascun lato. “Penso che questo possa essere un buon posto” disse alla fine Wes, appoggiando per terra i suoi pesanti fardelli. Spostò verso il centro della stanza un tavolo polveroso prima appoggiato al muro e si mise immediatamente al lavoro per collegare i monitor. Era tempo per le due squadre di partire: “tutti pronti?” chiese Evan impaziente. Voleva terminare il suo compito prima che la luce del giorno sparisse dietro le colline. “No, aspetta” disse Kit “Voglio andare con loro” affermò guardando Evan, Jack e River. Quest’ultima cercò di rassicurare Kit, dicendo che quella era solo la fase preliminare, che in fondo era ancora chiaro e che sarebbe andato tutto bene. Kit avanzò qualche dubbio, ma alla fine si fece convincere. Le due squadre si salutarono e partirono ciascuna per un corridoio diverso, da cui si dipartivano scale indipendenti che portavano ai piani superiori.

Mentre Ken, Mark e Kit erano partiti istintivamente di corsa, in modo tale da coprire tutti i punti di riferimento nel minore tempo possibile - cioè prima che facesse buio - Evan guidava la spedizione con professionalità, ma dentro di sé stava tremando. Lui, Jack e River procedevano con calma ed attenzione, l’atmosfera era ancora relativamente tranquilla, e tutti, complice la luce del sole, sentivano quella piacevole dose di adrenalina ed euforia, come prima di una corsa sulle montagne russe. Avventurandosi nell’edificio sconosciuto, River fu contenta di vedere negli altri ragazzi la sua stessa reazione: ad ogni rumore seguivano risolini agitati, che si trasformavano in timide risate genuine al sentire i commenti degli altri. La voce di Jack si faceva sempre più acuta ad ogni stanza che esploravano, fino ad arrivare, dopo uno scricchiolio particolarmente forte, ad uno strozzato  “ooohohoho smettilaaa”, che a dire di Jack era stato udibile solo dai cani. In tutto questo Evan cercava di mantenere una parvenza di calma sbirciando dalle porte aperte e commentando “mmmh non mi fido di questa stanza..e nemmeno di questa..qua credo non toccherò niente..”  mentre avanzavano nella polvere seguendo traballanti la mappa consegnata da Wesley.

Nel frattempo Kit si stava maledicendo per non aver protestato abbastanza: Mark guidava sorridente la spedizione, e proseguiva a passo di marcia ondeggiando le braccia mentre, con la sua voce da baritono, cantava a squarciagola una allegra canzoncina. Ken, in una tale situazione surreale, non riusciva a  smettere di ridere, tanto che aveva dovuto fermarsi un paio di volte per riprendere fiato. A quel punto l’unica soluzione era quella di finire in fretta il lavoro, ed in effetti

mentre Jack, sostenuto da Evan, si arrampicava su una sedia per montare la seconda telecamera del terzo piano, la seconda squadra si trovava al quarto ed ultimo piano, e Ken aveva piazzato l’ultima telecamera nella posizione stabilita. Appena fatto ciò, Mark urlò nella ricetrasmittente “fattofattofattofatto”, ed il trio, accese le torce, iniziò a correre a perdifiato verso la stanza di Wes, perché il sole era ormai tramontato.

 

 

Gli occhi di Wes stavano guizzando da una telecamera all’altra, non sarebbe stato tranquillo finché gli altri non fossero tornati nella stanza centrale. Pochi secondi dopo qualcosa attirò la sua attenzione: una sagoma scura, un movimento brusco che attraversò velocissimo tre telecamere. “Merda” disse Wes alzandosi di scatto. Nessuno aveva ancora raggiunto la sua postazione quando afferrò la ricetrasmittente ed iniziò a ripetere “Corridoio ovest, corridoio ovest, chi c’è in corridoio ovest??”. Jack, Evan e River, sentito Wes, si girarono istantaneamente, ma l’intero edificio venne avvolto nell’oscurità. Nel silenzio della stanza scura, anche la luce dei monitor che si rifletteva negli occhi chiari di Wes, improvvisamente, svanì.

 

 

EPISODIO 3

-FINE-



[1] I registratori vengono utilizzati nell’ambito del paranormale per fissare su nastro un particolare rumore, detto rumore bianco, che ha la stessa ampiezza di suono per qualsiasi frequenza. Nel rumore bianco si può a volte riuscire ad ascoltare parole intellegibili, che si pensa siano la voce dei morti.

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Capitolo 3
*** Episodio 4 – Presentable Liberty ***


Episodio 4 – Presentable Liberty

 

 

 

River cercò immediatamente la mano di Jack, e stringendola si mise davanti a lui, in modo da avere le spalle protette. Jack le mise l’altra mano sulla spalla: “Cosa facciamo? Cosa facciamo?” disse guardando davanti a sé. In quella oscurità riuscirono ad individuare Evan solo quando  sussurrò “seguitemi” e, basandosi sul suo senso dell’orientamento acquisito in anni di esperienza, iniziò a dirigersi verso la stanza di Wes, addentrandosi nei corridoi. Era buio pesto, nessuna fonte di luce sembrava funzionare, e ci volle qualche minuto perché i loro occhi si abituassero all’oscurità. Eppure, appena prima di non vedere più niente, ad Evan era sembrato di intravedere qualcosa sul soffitto, come fosse un denso fumo nero, ma decise di non dire nulla. Non era sicuro di ciò che avesse visto, e non c’era alcun bisogno di peggiorare la già precaria situazione. River, anche in un momento del genere, si sentiva in qualche modo sollevata. Le era già capitato di trovarsi in situazioni di emergenza, come quando anni prima si era trovata in un deserto montuoso con un gruppo di amici, e avevano perso di vista la loro guida. Ognuno aveva messo a disposizione le proprie qualità, si erano divisi in gruppi ed avevano mantenuto la calma ritrovando poi la strada di casa. Camminando verso il pick up, River non aveva potuto fare a meno di dire ad alta voce: “sono contenta di essere qui con voi”. Aveva fatto un passo indietro, affidando a quelle persone la sua vita. Aveva avuto un’intuizione: fare finta di potersela cavare senza aiuto quando non era così può diventare pericoloso, così aveva accettato ed ammesso di non avere capacità che potessero essere d’aiuto in quel frangente, e si era sentita automaticamente protetta. Quel momento aveva risvegliato in lei la stessa sensazione familiare: aveva il cuore a mille, ma era con persone di cui si fidava. Jack non le aveva mai lasciato la mano, e avrebbe seguito Evan ovunque. Mentre camminavano, lentamente le torce ricominciarono a funzionare, ma le ricetrasmittenti e le telecamere portatili non davano ancora segni di vita.

“Sapete” disse Jack ad un certo punto, rompendo il silenzio “io..a casa non ho nessuno con cui parlare. Ed in effetti, neanche fuori sono molte le persone con cui vado d’accordo. Ho sempre questo maledetto mondo nella mia testa che si fa continuamente strada per uscire e finisce per sovrastare quello che c’è fuori. Per cui..non sembra il momento più adatto, ma..grazie per essere qui. Voi potreste pensare che io sia un tipo forte ma..non lo sono, sono un tipo come tutti gli altri. Non ho niente di speciale. Quindi..grazie.” River guardò Jack, non l’aveva mai visto così serio. Il suo tono di voce era sempre quello ed i suoi occhi sempre vivaci, ma c’era in quel momento qualcosa di diverso in lui. Doveva avergli richiesto un grande sforzo dire quelle poche frasi, così gli sorrise e strinse la sua mano più forte. “Non preoccuparti di questo, giovanotto” disse Evan girandosi verso di lui. Sorridendo, continuò a guidarli verso l’uscita, sentendosi più che mai responsabile dell’intero gruppo. Eppure questo per lui non era un peso. Certo era spaventato, come sempre quando certi vividi ricordi si affacciavano alla sua mente, ma questa confessione gli aveva dato energia, che cercava di mantenere ripetendosi “è il mio lavoro. Nessuno può toccarmi. Mi chiamano il pirata del paranormale. Questo è il mio campo”.

 Giunti al momento di attraversare una delle stanze interne della casa per raggiungere il lato opposto del piano, dove si trovavano le scale per scendere,  si fermarono tutti e tre sulla soglia. Doveva essere la stanza più grande della casa dopo l’atrio all’ingresso, e la quasi totale assenza di mobili la faceva sembrare enorme. I soffitti erano molto alti, e due lampadari di cristallo ondeggiavano silenziosamente sul soffitto. “Entrare qui sembra una pessima idea” disse Jack guardando in alto. Il pavimento, a differenza del resto della casa, era in legno e scricchiolava ad ogni loro passo: più cercavano di essere silenziosi più sembravano attirare l’attenzione su di loro. Erano ormai quasi arrivati alla porta di uscita quando sentirono dei rumori provenire dal piano di sopra, un alito di vento dal tono stranamente umano..“cos’è questo suono cos’è questo suono??” Jack afferrò River per la vita, impedendole di muoversi, mentre Evan continuava a camminare, allungando la mano per tirare la maniglia della porta. River non aveva la minima intenzione di lasciare l’abbraccio sicuro di Jack, ma Evan era il loro punto di riferimento, la loro guida, e senza di lui non sarebbero potuti andare da nessuna parte. Cercò di fermarlo - “Evan!” – ed in quel momento un frammento di legno cadde dal soffitto, a pochi centimetri da lui. Quando si avvicinarono il ragazzo si era seduto a terra, e videro che stava tremando, ed era sudato fradicio. Quasi a cercare conforto, la sua mano strinse la gamba di River. Era insanguinata. Una scheggia di legno appuntita l’aveva colpito al braccio, ed anche se la ferita non sembrava profonda sanguinava copiosamente. “Come ti senti?” disse River accovacciandosi e pensando a cosa poter usare per pulire il taglio “sto bene, sto bene..torniamo da Wes..” disse Evan con il filo di voce che gli restava.

 

Wes, nonostante ricevesse solo un fastidioso rumore elettrico dalla sua radio, non aveva smesso di cercare di comunicare con gli altri, ma non aveva ricevuto alcuna risposta. Seduto sulla sua sedia di fronte ad i monitor spenti, non aveva modo di sapere in che situazione fossero i suoi compagni. Per evitare di continuare a guardarsi le spalle ad ogni movimento d’aria si sedette per terra, spalle al muro, e si mise in ascolto alla ricerca di voci familiari. Non era prudente muoversi da lì da solo, nessuno avrebbe saputo dove era andato, ed oltre a cercare di fare ripartire i computer, stare seduto lì era tutto ciò che potesse fare. Sospirare ed aspettare, nel silenzio della notte.

 

 

Jack indossò di nuovo la sua felpa blu, ora sporca di sangue. “Questo è quello che possiamo fare per ora” disse River studiando il braccio sinistro di Evan. Le sue conoscenze di primo soccorso, acquisite osservando il lavoro dei suoi colleghi in ospedale, si erano rivelate utili. “Wesley indossa sempre una fascia di stoffa annodata al polso, per un qualche motivo estetico..” rispose Evan accennando un sorriso, “una ragione in più per andarlo a recuperare” aggiunse Jack sistemandosi il cappello. Avrebbero voluto rimanere in quella stanza qualche minuto per riprendere fiato, ma sapevano tutti che non sarebbe stata una buona idea. Si guardarono negli occhi: loro tre erano tutto quello che avevano in quel momento. Non ne erano certi, ma doveva ormai essere tarda serata e qualche stella faceva timidamente capolino, illuminando debolmente il pavimento scuro. “Credo sia meglio se proseguiamo” disse River. Jack aiutò Evan ad alzarsi ed uscirono dal salone trovandosi in un altro corridoio, apparentemente identico al precedente. Alla seconda svolta a destra capirono che qualcosa non andava: sembrava stessero girando in tondo o meglio, che il corridoio si stesse ripiegando su se stesso in un cerchio infinito. Dopo un tempo indefinibile raggiunsero la fine del passaggio, e Jack aprì la porta aspettandosi di aver raggiunto, finalmente, la rampa di scale. Quello che si trovarono davanti invece li fece fermare, ancora una volta senza parole. La porta dava su un altro corridoio, identico. La disperazione stava prendendo il sopravvento, ma non ebbero neanche il tempo di pensare che sentirono un rumore sordo alle loro spalle, come qualcosa fosse caduto dal soffitto. No, non caduto giù, saltato giù. “Mai guardarsi indietro” pensò istintivamente River, ma non poté fare a meno di buttare lo sguardo oltre la spalla di Jack. Una donna pallida, con un logoro abito azzurro, li fissava con la testa reclinata su un lato, gli occhi sbarrati erano tutto ciò che potevano vedere del suo viso, coperto da lunghi capelli neri e lisci. Jack urlò ed Evan spinse i compagni al di là della porta, chiudendola dietro di lui. Non riusciva a controllare il tremito delle sue mani, con cui cercava di tenere chiusa la porta, come se delle assi di legno potessero essere di ostacolo ad uno spirito. “Wes perché, perché mi hai portato qui” pensava “io ne ero uscito..perché..”. River questa volta non era riuscita a trattenere le lacrime e cercava inutilmente di riprendere fiato, mentre Jack le stava accanto, visibilmente scosso. Ansimava ed i suoi grandi occhi azzurri erano spalancati a fissare nel vuoto. Poco più avanti sulla destra, nel silenzio interrotto solo dai loro respiri, una porta si aprì da sola, lentamente. Non si era spalancata, solo aperta di una decina di centimetri, come non fosse stata chiusa adeguatamente e la serratura fosse saltata. Rivolsero tutti lo sguardo verso quella fenditura nera. Dall’interno proveniva il pianto di un neonato.

 

 

“Dove siamo?” chiese Mark. Stavano camminando da svariati minuti per corridoi che sembravano tutti uguali. Kit aveva preso il comando e stava cercando di guidare il gruppo verso l’uscita ricordandosi ogni svolta che avevano preso all’andata, anche non sembravano fare molti progressi. Era bastato qualche potente scossone di Mark alle torce perché riprendessero a funzionare, e se prima Kit non aveva una grande opinione di lui, dopo quanto era accaduto notò come il ragazzo fosse in grado di mantenere la concentrazione, e più di una volta le aveva suggerito la strada giusta. Ken, invece, non aveva detto una sola parola da quando si trovavano in quella situazione. “Beh? Certo che potresti anche aiutarci, ce l’hai tu la mappa, no?” sbottò Kit ad un certo punto, ma Ken ancora non rispose, tenendo lo sguardo basso. “Sto parlando con te!” proseguì, irritandosi per la sua mancanza di collaborazione. “Dammi tempo, ok?” rispose allora Ken alzando la voce “Io..potrò sembrare anche grande e grosso ma non sono forte, né coraggioso.. la mia fama, il mio lavoro..sono dove sono solo perché ho trovato le persone giuste con cui collaborare..ma ora tutti si aspettano grandi cose da me, e io non ho niente! Tutto questo non viene da me! Non so come fare, non so cosa vuole la gente da me!” Ken, con gli occhi spalancati e lucidi, rimase a fissare i due compagni. Kit non poteva accettare una cosa del genere. Ken era alto, forte, muscoloso. Come poteva non avere un briciolo di stima in se stesso? Cosa lo aveva condotto lì? Non aveva avuto nemmeno il coraggio di dire no ad un piccolo invadente quale era Mark, cosa pensava che avrebbe ottenuto in un posto del genere? Kit aveva fatto un passo verso di lui per costringerlo ad affrontare la realtà dei fatti quando Mark prese la parola. “Mi dispiace Ken.” disse dolcemente “non immaginavo..” “lascia stare” Ken aprì la mappa e dopo averle dato una rapida occhiata indicò la strada.

Mentre proseguivano il loro cammino in silenzio, Ken in testa e Kit che controllava ogni sua svolta, passarono accanto ad uno sgabuzzino da cui proveniva una fievole luce. Attirato da questa stranezza Mark si fermò per affacciarsi alla porta aperta, e vide una torcia abbandonata che giaceva sul pavimento. Pensò potesse essere utile, ed entrò velocemente nella stanza.

Ma la porta si chiuse dietro di lui.

 

 

Mark si girò e cercò di aprirla, ma la maniglia non si mosse di un millimetro, quasi fosse stata finta. Iniziò a battere i pugni sulla porta, con tutta la sua forza dei suoi muscoli, ma non successe nulla. Guardò fuori dalla finestrella che si apriva nella parte superiore della porta e vide solo un corridoio deserto. Eppure era certo che Kit e Ken lo stessero precedendo di qualche metro..  “Kit! Ken mi senti? Dove sei finito?!”. Pensò che fossero corsi via per cercare aiuto e si guardò intorno per la prima volta, ansimando. La stanza era minuscola, non più grande di un ascensore. Al suo interno c’erano un tavolo di legno scuro ed una brandina. Mark aveva non più di un paio di metri quadri per muoversi, ed una stretta apertura nell’angolo in alto a destra sembrava dare sull’esterno. Ma era troppo in alto per essere raggiunta e troppo piccola anche solo per farci passare una mano. Tutto era stranamente silenzioso. Mark aspettò per quelli che gli sembrarono minuti interminabili, finché improvvisamente sentì la voce di Ken, chiara e forte, che lo chiamava. “Io vi sento! Ken!” Mark non capiva. Sembrava che la voce provenisse da pochi centimetri di distanza, come se Ken fosse appena al di là della porta, ma non c’era. Mark poteva vedere chiaramente il corridoio dall’apertura, ma il suo amico non c’era.  “Mark..Mark io spero tu sia qui da qualche parte..Mark? Mi dispiace amico..” -la voce di Ken si allontanò. “NO! NON ANDARE VIA, KEN! KEN! TI SENTO!” “è inutile..non credo sia qui..anche se non so dove possa essersene andato da solo” commentò Kit. Nessuno l’aveva visto entrare in quello sgabuzzino.  “No! Sono qui, ma non posso parlare!! Ken! ....Siete lì?” improvvisamente, silenzio. “Tutto questo non ha senso.”

Mark, nella penombra, si sedette sulla brandina, tenendosi la testa tra le mani ed affondando le dita nei folti capelli corvini. Il senso di solitudine, complice il buio, si faceva sempre più forte, pesante, insopportabile. La sua mente iniziò a vagare, sfiorando tutto ciò che gli era capitato negli ultimi anni. Pensò a sua madre ed a suo fratello, che aveva dovuto lasciare per trasferirsi in un’altra città. Certo, il lavoro lì andava molto meglio, ma non era abituato a stare lontano da loro, specialmente da suo fratello minore. Erano sempre stati inseparabili, anche e specialmente dopo il divorzio dei loro genitori. I loro genitori.. “Papà..a volte vorrei che fossi qui per vedermi” mormorò tra sé e sé, una lacrima gli solcò il viso. Suo padre era morto anni prima, di tumore. Ricordava ancora quando gli aveva dato la notizia della sua malattia, Mark era solo un bambino all’epoca e suo padre, con il distacco tipico del suo passato da militare, gli fece semplicemente leggere il referto medico, senza dirgli una parola. Ora bastava che Mark abbassasse lo sguardo per ricordarsi di quella sofferenza. Una cicatrice verticale, lunga più di venti centimetri, segnava il suo corpo muscoloso, dal petto all’ombelico. Era stato operato per lo stesso male un paio di anni prima, e sembrava che lui, per ora, ce l’avesse fatta. Aveva dovuto vendere tutto ciò che possedeva, mobili compresi, per potersi permettere quell’operazione. Tutto ciò che gli era rimasto erano il suo fedele computer ed un divano. Ma ce l’aveva fatta. Fino a quel momento almeno. Mark si alzò, gli occhi annebbiati dalle lacrime, e si diresse verso la porta, per guardare fuori ancora una volta, verso il corridoio deserto dove aveva sentito per l’ultima volta la voce del suo amico.

 

 

 

 

EPISODIO 4

-FINE -

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Episodio 5 – I’ve found something and I don’t know what to do ***


Episodio 5 – I’ve found something and I don’t know what to do

 

 

 

Erano pietrificati. I singhiozzi di un neonato provenivano chiaramente dalla porta che si era appena socchiusa alla loro destra. Non era il pianto di un bambino affamato o assonnato, ma di un bambino disperato che lottava per respirare tra le lacrime. Non avevano scelta: non avrebbero certo potuto tornare indietro dopo ciò che avevano visto nel corridoio precedente, dovevano per forza passare accanto a quella porta. Evan fece un passo avanti. Aveva solo due anni più di Jack e River, ma sentiva il dovere di essere protettivo nei loro confronti. Era terrorizzato, un turbinio di ricordi affollava la sua mente, ad ogni passo sentiva una voce che, dal passato, lo minacciava. Da un po’ di tempo a quella parte ogni suo passo si era fatto pesante, come si portasse sulle spalle una folla di persone disperate che gli urlava nelle orecchie, ogni singolo spirito che aveva incontrato in 8 lunghi anni di investigazioni. Sentiva la sua vita appesa ad un filo, ma il suo orgoglio gli impediva di ammetterlo. “Sono il pirata del paranormale e nessuno può toccarmi” ripeteva tra sé e sé come un mantra, la voce tremante.

Il corridoio era stretto, stranamente illuminato di una luce soffusa proveniente da lampade a forma di fiore, fissate al muro. Le pareti erano dipinte di una tonalità di marrone chiaro, c’erano quadri alle pareti e mobili di legno scuro ornati con centrini di pizzo: era maltenuta e l’intonaco si stava scrostando, ma quella era l’unica area del palazzo che non sembrasse disabitata. Poco più avanti, sul lato sinistro, si trovavano due finestre dagli infissi bianchi, come due occhi che si affacciavano su un cielo ormai deserto e di un nero quasi denso. Evan pensò che la soluzione migliore sarebbe stata attraversare il corridoio mantenendosi al centro: di certo voleva evitare che qualcosa – o qualcuno – saltasse fuori all’improvviso da dietro il vetro.

Durò una frazione di secondo. Mentre Evan pianificava in silenzio, Jack si stava avvicinando alla porta. Dubbioso ed intenerito aveva iniziato a chiamare piano: “piccolo? ..piccolo?” - “Allontanati da lì” gli intimò Evan, a metà tra un sussurro ed un urlo. Ma Jack si girò tranquillo verso di loro dicendo “C’è qualcosa là dentro, sembra un bagno..”. Gli bastò un altro singolo passo verso la stanza perché una mano putrefatta uscisse dal buio e richiudesse con violenza la porta che si era aperta poco prima. Il ragazzo per lo spavento si gettò all’indietro, urlando e cadendo rovinosamente. A terra, gli occhi sbarrati, si reggeva con il braccio destro mentre il sinistro era alzato a proteggersi il volto. River corse immediatamente da lui e gli si inginocchiò accanto preoccupata. “L’hai vista? L’hai vista??” “Sì Jack.. Stai bene?” rispose River aiutandolo ad alzarsi. Jack non rispose, ma sembrava rincuorato dal fatto che River gli stesse ancora stringendo il braccio. Evan, come al solito, li riportò alla realtà toccando loro le spalle, e fecero gli ultimi metri del corridoio quasi di corsa. Arrivati alla fine, Evan spalancò la porta: davanti a loro, una ripida rampa di scale scendeva nell’oscurità.

 

 

Ken e Kit erano confusi. Mark era lì un attimo prima, ed in una frazione di secondo sembrava sparito nel nulla. Dove poteva essere andato, così senza avvisare? Se fosse stato preso da qualcuno..ma non avevano sentito una parola, non un urlo. Erano fermi in quel corridoio debolmente illuminato, senza sapere cosa fare. Kit si guardò indietro. Non una porta si apriva sulle pareti di quel luogo, non esisteva alcun percorso alternativo che Mark avrebbe potuto prendere. Era un corridoio. Dritto.

 “Non sono un opportunista, sai’’ disse all’improvviso Ken, alle spalle di Kit “Ho avuto fortuna ma non vivo di rendita. Mi impegno ogni giorno a fare il mio lavoro anche se i risultati non sono niente di speciale. Scrivo i miei articoli..brevi e stupidi, per la verità. Ma quando cerco di fare qualcosa di più serio nessuno mi segue più e sono costretto a lasciare le cose a metà. I miei lettori non sono più di un centinaio. I grossi numeri me li hanno portati le collaborazioni...gli articoli con il suo nome insieme al mio. Quello che cercano è lui, non sono io. La gente che mi segue..io non la conosco e loro non conoscono me.” Erano soli, Ken si ergeva in tutta la sua altezza ad un paio di metri di distanza. Si sforzava di guardare Kit negli occhi, ma inevitabilmente il suo sguardo si abbassava, per l’imbarazzo forse. A Kit quella conversazione in quel preciso momento sembrava fuori luogo, ma intuì che Ken aveva bisogno di dire qualcosa, e lo lasciò proseguire. “Mark mi è capitato tra capo e collo. Avevo letto qualche suo lavoro e, cavolo, lui sì che aveva potenziale. La prima volta che lo incontrai e mi fermai a parlargli, con quel suo fare spaesato ci ha messo 10 minuti per realizzare che gli stavo parlando perché sapevo chi fosse. Penso che con la sua estrema semplicità sia quello che vorrei essere io. Per questo certe volte lo evito: io non lo sopporto..”

Ken era scosso, irriconoscibile, e non aveva mai parlato così tanto in vita sua probabilmente. Kit a questo punto si trovò nella condizione di cambiare idea o, per meglio dire, di non sapere più cosa pensare. Ken poteva essere un codardo, poteva aver approfittato della situazione o anche solo esserci rimasto incastrato dentro. “Poveraccio” pensò. Ma non solo non aveva avuto il coraggio di crearsi una sua personalità, ma nemmeno di ammettere i suoi veri sentimenti per Mark. E quello che è peggio è che Mark lo considerava una certezza, un amico, forse il suo unico amico in una città sconosciuta. E tutto questo si basava su fatti taciuti. Kit non poteva passarci sopra. Poteva anche avere una mentalità rigida, ma questo gli permetteva di sapere cosa fosse giusto e cosa sbagliato, e Ken stava sbagliando.

Tante persone guardavano a Mark per ricevere conforto in momenti difficili, e lui trovava sempre il tempo di rispondere alle lettere di tutti, ringraziandoli poi per il loro sostegno. Questo era quello che rendeva Mark così speciale agli occhi di tutti: “Io non sarei niente senza di te” diceva ai suoi lettori. Era dedito al suo lavoro, giorno e notte, e quando si ammalava –il che accadeva piuttosto spesso per la verità, era infatti di salute cagionevole- si scusava pubblicamente, perché sarebbe riuscito a scrivere un solo articolo giornaliero invece dei canonici due. La sua simpatia, la sua intelligenza, illuminavano le giornate di chi gli stava vicino. Possedeva qualcosa che attirava la gente a lui, qualcosa che Ken non possedeva. Ma nessuno dei due aveva alcuna colpa..

“..torniamo indietro. Deve essere qui da qualche parte.” disse Kit con decisione.

 

 

Le scale erano ripide, ogni gradino strettissimo, tanto da costringerli e scenderle in diagonale. River si reggeva alle spalle di Jack, che essendo un gradino più avanti fungeva da solida base per la discesa.

“Dove diavolo siamo??” sentirono esclamare Evan sconsolato, che era arrivato a destinazione qualche secondo prima di loro. Sceso l’ultimo scalino River si guardò intorno: sembrava un seminterrato. Le pareti erano in cemento grezzo, la stanza completamente vuota, fatta eccezione per un angolo della grande stanza, occupata da un cumulo di attrezzi impolverati e, lì accanto, sulla destra, l’ennesima porta. Evan si passò le mani tra i capelli. Non c’era un seminterrato quando erano entrati - chissà quanto tempo prima ormai. Ognuno di loro ricordava chiaramente di avere esplorato in lungo ed in largo il pianterreno, seguendo Wesley mentre cercava un luogo adatto e fissare le sue attrezzature. Non avevano trovato nessuna scala che conducesse ad un piano inferiore. Iniziavano ad essere stanchi, avevano camminato per ore probabilmente, e non avevano chiuso occhio. “Fermiamoci un attimo, devo pensare” disse Evan rassegnato, e si sedette a terra con un tonfo, a gambe incrociate, i gomiti puntati sulle ginocchia. Jack e River lo raggiunsero, appoggiandosi al muro gelido. Jack teneva la bocca serrata, assumendo un’espressione seria, quasi perplessa. I suoi occhi grandi persi nel vuoto, come a cercare di afferrare il filo di quella notte priva di senso. River si sedette accanto a lui, erano così vicini da sfiorarsi. Aveva bisogno di sentire che c’era qualcuno con lei, la loro presenza era la sua salvezza. C’era qualcuno su cui avrebbe potuto contare se fosse stata in difficoltà, qualcuno che non l’avrebbe lasciata indietro. Guardando gli occhi blu del ragazzo pensò a quanto fosse contenta che lui fosse lì. Sapeva che probabilmente affidarsi a Jack non era la migliore delle idee: era impulsivo, sprovveduto, eppure in qualche modo la sua presenza la rassicurava più del povero Evan, che di fatto li aveva portati fino a lì. River non riusciva a comprendere Evan fino in fondo: sembrava ostentare fiducia in se stesso, sembrava sapere cosa fare. Eppure a volte era certa di vedere in lui un sorriso tirato, come se dovesse difendersi da qualcosa, rifiutando di mostrare qualsiasi altra emozione che non fosse la sua forza. C’era qualcosa che Evan non aveva detto, ma qualsiasi cosa fosse per il momento sembrava riuscire a tenerlo sotto controllo.

Non era il momento di fare domande scomode, riportare alla luce i loro dubbi e le loro debolezze avrebbe potuto causare un danno irreparabile. Dovevano mantenere la calma.

 

Il sonno doveva aver preso il sopravvento perché si svegliarono tutti di soprassalto all’udire il fischio del vento notturno. “Che ore sono?” chiese Jack con un sobbalzo, ancora praticamente nel dormiveglia. Possibile che nessuno ci avesse pensato prima di allora? Quante ore di buio rimanevano ancora? Evan avvicinò il viso al suo orologio da polso finché la sua debole vista gli permise di scorgere le lancette. “Le..otto di mattina?” disse infine, a metà tra un’affermazione ed una domanda. Non era possibile. Era primavera inoltrata, come poteva essere ancora buio a quell’ora? Probabilmente qualsiasi cosa abitasse quel luogo aveva messo fuori uso qualsiasi strumento, anche il più semplice. Questa ultima scoperta risvegliò in loro un ulteriore senso di smarrimento profondo. Ci fu un attimo di silenzio, interrotto da un’esclamazione di sorpresa di Jack: si alzò un istante dopo, dirigendosi deciso verso gli oggetti abbandonati accumulati poco lontano.  “Questa me la prendo” disse Jack deciso, caricandosi sulle spalle una motosega. “E a che cosa ti servirebbe” disse Evan, appoggiando la testa al muro. “..non me ne frega un cazzo.” disse Jack dopo qualche secondo di riflessione. Poi si sistemò il cappello, aprì la porta con un calcio ed uscì dalla stanza senza dire parola.

 

I due ripercorsero il corridoio in senso opposto fino all’atrio precedente. Non avevano smesso un attimo di chiamare Mark, sottovoce, quasi non volessero disturbare chi abitava quelle stanze. “Così non funziona, non può funzionare” disse Kit “Questo posto è enorme, non possiamo tornare indietro ad oltranza. Ci metteremo un’eternità a ripassare da ogni sala”. Ken sapeva che Kit aveva ragione, ma non poteva accettarlo. Il senso di colpa lo divorava: dopo tutto quel tempo non aveva mai detto una parola sincera a Mark, che lo considerava un amico, un fratello, che gli voleva bene sinceramente. Mai una volta ciò che aveva pronunciato era stato uguale a ciò che aveva pensato. Non poteva abbandonarlo. Non ora. “Solo questo piano” disse infine Ken. Kit fece un cenno di assenso, e si diressero verso il corridoio precedente. Quando aprirono la porta ciò che si mostrò ai loro occhi fu raccapricciante. Avrebbero dovuto trovarsi ad un piano relativamente basso, certamente non all’ultimo, dato che erano proprio partiti da lì ore prima. Ed invece si trovarono in un sottotetto. O meglio, in una soffitta adibita a studio pittorico. Una fievole luce filtrava dalle finestre, e piccole particelle di polvere galleggiavano nell’aria. Poteva quasi sembrare un luogo pacifico, se non fosse stato per il contenuto della stanza. Le pareti erano ingombre di tele, la maggior parte incorniciate, altre appese semplicemente con delle puntine, storte e lacere. Erano senza alcun dubbio quelle stesse tele di cui Wes giorni prima aveva parlato, e che aveva mostrato loro: i grumi di colore rosso scuro erano in rilievo sulla tela scurita dal tempo, ed il pavimento era appiccicoso. Evidentemente quello sulle tele non era colore. Era indubbiamente sangue, carne, materia. I pezzi del puzzle si stavano lentamente incastrando. La pittrice che sembrava non riuscire ad avere figli, i testimoni che invece raccontarono di aver sentito dei pianti di bambino, ed il marito che all’improvviso impazzì. Il silenzio era assordante. La storia era lì davanti a loro ma nessuno dei due osava collegare le ultime tessere. Non entrarono nemmeno in quella stanza. Richiusero la porta ed indietreggiarono di qualche passo, il respiro pesante, nemmeno in grado di sbattere le palpebre. Quando finalmente furono abbastanza lontani si voltarono. Non osarono nemmeno correre, solo camminare a passo spedito verso il corridoio in cui si erano fermati poco prima ed arrivati nel punto esatto in cui Ken aveva confessato i suoi sentimenti, proseguirono verso il termine del corridoio. “..Mark” era tutto quello che Ken riusciva a pensare “..dove diavolo sei..ho bisogno di te..” ma non dissero una parola finché non aprirono la porta davanti a loro, pronti ad affrontare l’ennesimo passaggio scuro. Ed invece per la prima volta dopo ore non poterono fare a meno di spalancare la bocca per la sorpresa. “….Wes??”

 

 

Jack stava correndo a balzelloni giù per le scale, seguito da River ed Evan, che faticavano a stargli dietro. In lui scorreva una rinata energia, e chissà da dove veniva. “Jack aspetta!” lo chiamò River “dove stai andando?” “Giù!” rispose Jack aspettando finché non poté afferrarle la mano “andiamo!” disse, incrociando lo sguardo di Evan per un secondo. Lì Evan capì: Jack doveva aver intuito, in qualche modo, che stava perdendo le forze, e lo stava aiutando a prendersi una pausa. Sapeva che Evan si sentiva responsabile delle loro vite, e che allo stesso tempo c’era qualcosa che gli pesava enormemente. Gli stava dando tempo per occuparsi di quel qualcosa prendendo in mano la situazione. Quello che Jack non poteva sapere era che quell’ombra oscura che Evan si portava dietro non era nient’altro che le minacce ricevute nelle sue passate escursioni, il ricordo del suo cuore che smetteva di battere per qualche interminabile secondo, e che si faceva ad ogni passo, ad ogni rumore sempre più presente e terrificante. Scesero un’altra rampa di scale, pronti a proseguire il loro cammino nei meandri di quella casa, quando guardando al centro della stanza scorsero ciò che non speravano più di vedere: i computer di Wes.

 

 

Wes si alzò da terra e corse verso Evan, stringendolo a sé. “Hey amico” disse lui dandogli delle pacche sulla schiena ed a stento trattenendo le lacrime. Pensò che forse se la sarebbe cavata anche quella volta. River si diresse velocemente verso Kit, che si trovava in piedi accanto ai monitor, e si scambiarono un abbraccio caloroso, mentre Ken non riusciva a stare fermo e chiedeva con insistenza a tutti “avete visto Mark? Qualcuno ha visto Mark??!”, ma nessuno aveva avuto sue notizie.

Wes ascoltò attentamente i racconti dei due gruppi mentre, seduto a terra, medicava il braccio ferito di Evan. La storia iniziava a prendere corpo: la donna doveva aver avuto dei figli, come testimoniavano i pianti sentiti dai vicini - e, a questo punto, come sapeva bene anche Jack - ma doveva essere impazzita ed averli uccisi. Questa scoperta aveva condotto anche il marito alla pazzia, ma di cosa ne fosse stato della donna nessuno lo immaginava. I monitor di Wesley non trasmettevano nessuna immagine, ma lo schermo scuro era retroilluminato. Wes era riuscito a far funzionare anche il piccolo riflettore che aveva portato con sé e, sistemato poco lontano e puntato a dovere, la stanza era relativamente ben illuminata. Nessuno di loro sapeva che ora fosse, e niente sembrava quadrare: Kit e Ken ricordavano chiaramente come la luce entrasse dalle finestre della soffitta, mentre Evan, Jack e River non vedevano la luce del sole da quando erano entrati in quell’edificio per la prima volta. Ken e Kit avevano forse visto il ricordo di qualcuno che abitava in quella casa? L’orologio di Evan, l’unico disponibile, segnava ora le 13, ma fuori il cielo era buio come a notte fonda.

Tutti sapevano che la porta, la salvezza, si trovava al piano inferiore. Così vicina eppure.. quanto tempo ci avrebbero impiegato per arrivarci? L’edificio sembrava cambiare a suo piacimento, guidarli verso ciò che voleva vedessero. “Abbiamo vagato per ore..non siamo arrivati qui insieme per caso” realizzò River seguendo quel pensiero “ci hanno permesso di arrivare qui insieme. Vogliono qualcosa”. “E allora insieme andremo a cercare Mark” disse Wesley deciso, dispiegando sul pavimento la mappa dell’edificio che portava nella tasca dei pantaloni “ho bisogni di tutti, cerchiamo di trovare un pattern”

 

“è inutile, Wes.” disse Evan da un angolo dell’atrio “ogni volta che viene aperta, ogni porta dà su una stanza diversa”.

-EPISODIO 5-

FINE

 

 

 

------------------------Angolino!

E così eccoci al 'capitolo' 5!
Nei lontani giorni in cui ebbi modo di leggere questa fanfic ad un certo punto ci fu una specie di pausa tra due capitoli,
dovuta a varie problematiche personali, e non ricordo se si trattava del 4/5 o del 5/6, sembra come esserci una sorta
di raffreddamento, di cambiamento nel tono di scrittura ma può darsi che fosse solo una mia impressione.
Ad ogni modo, spero che qualcuno faccia davvero lo sforzo di scrivere qualcosa e ci dia un giudizio..! Vi fa davvero così schifo? .-.
O la considerate noiosa? Boh, ditelo!
Non sto 'pregando' per delle recensioni, solo che, non so, credo di aver scritto cose molto peggiori e di aver comunque ricevuto un parere!
Va beh, liberi..!
Alla prossima

 

 

 

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Capitolo 5
*** Episodio 6 – HELLO MONSTER ***


Episodio 6 – HELLO MONSTER



La debole luce delle stelle illuminava uno stretto rettangolo sul pavimento gelido. Sdraiato sulla piccola branda, un braccio sollevato a coprirsi gli occhi, mille pensieri affollavano la sua mente, ma sembrava non riuscire ad afferrarne neanche uno. Decise di sollevarsi lentamente, poiché non aveva la minima idea di quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che si era alzato in piedi. Prima si sedette lentamente sul bordo del letto, i gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani abbandonate in grembo, poi alzò gli occhi, prese coraggio, e fece quei due passi che lo separavano dalla porta. Quella piccola apertura era la sua finestra sul mondo: un corridoio vuoto e silenzioso. Appoggiò una mano sulla porta, gelida anche quella, come a cercare un contatto con ciò che c’era dall’altra parte. Si trovava in un limbo e non aveva modo di uscirne. Poi accadde qualcosa di inaspettato: per la prima volta dopo un tempo interminabile sentì qualcosa. Un rumore...dei passi che provenivano dal corridoio, sempre più vicini.. finché sembrarono fermarsi a poca distanza dalla porta. Fu un attimo: un’ombra scura apparse silenziosa al di là delle sbarre, a qualche metro da lui. Mark accennò un gemito di spavento che gli morì in gola. Si trovò immediatamente incapace di distogliere lo sguardo da quella figura che, pur non possedendo occhi, sembrava stare ad osservarlo. In un misto tra sorpresa e timore, i suoi intensi occhi a mandorla si strinsero ancora di più ed istintivamente si fece più vicino all’apertura. Bastò una leggera pressione della sua mano perché la porta si aprisse da sola, verso l’esterno. Mark non poteva credere ai suoi occhi: era un inganno? O poteva fidarsi? Alla fine il suo coraggio prevalse e diede un ulteriore colpetto alla porta, che si aprì con un cigolìo. “Grazie..credo.” Come fosse un’interferenza, la figura sparì dalla sua vista, e Mark si trovò nel corridoio dove aveva visto Kit e Ken l’ultima volta. Lo percorse in lungo ed in largo, eppure non solo non trovò alcuna scala per scendere ai piani inferiori, ma nemmeno sembravano esserci delle porte che conducessero ad altre stanze. Tranne una, proprio in fondo al corridoio. Quando Mark la aprì si trovò davanti un buio più denso di quello che avesse mai visto, quasi come se la porta desse su un vuoto eterno, cosmico. Richiuse la porta senza esitazione, appoggiandoci sopra entrambe le mani. Mark ripeté più volte lo stesso percorso, sperando che la pianta dell’edifico cambiasse misteriosamente come aveva fatto tante volte, ma nulla accadde. “Hey dove sei? Cosa devo fare? Perché l’hai fatto?” chiedeva lentamente, cercando di mantenere la calma. Studiò a lungo, con lo sguardo e con le mani, ogni centimetro delle pareti per cercare indizi, incongruenze, qualcosa che gli desse un appiglio su cui basarsi. Anche solo l’idea di rimettere piede in un’altra stanza sconosciuta gli dava nausea. Ma dopo aver visitato ogni angolo dello spazio a sua diposizione sembrava l’unica cosa rimasta da fare, l’unica porta rimasta da attraversare. Aprì la porta, fissò quell’oscurità per qualche secondo stringendo i pungi agitato, il respiro che si faceva pesante..poi fece spazio nella sua mente per la determinazione. Quella determinazione, quella forza che non lo aveva mai abbandonato neanche nei momenti più bui della sua vita. In realtà, come lui stesso aveva ammesso una sera con Ken dopo una lunga chiacchierata, l’idea di morire non lo spaventava più così tanto. Ci era andato vicino dopotutto, ed aveva avuto il tempo per accettarlo. Appena messo piede nella stanza la porta si chiuse con un tonfo dietro di lui. Mark chiuse gli occhi. Poi sentì il pavimento muoversi sotto i suoi piedi.

 

 

“E allora insieme andremo a cercare Mark” disse Wesley deciso, dispiegando sul pavimento la mappa dell’edificio che portava nella tasca dei pantaloni “ho bisogno di tutti, cerchiamo di trovare un pattern”.

“è inutile, Wes.” disse Evan da un angolo dell’atrio “ogni volta che viene aperta, ogni porta dà su una stanza diversa”.


Per la verità non ci fu bisogno di andare a cercare Mark, perché Mark cadde, letteralmente, dal cielo. Con un tonfo. “…..ooowwwiee.” disse lamentoso, sfregandosi il fondoschiena con la mano. Alzò poi gli occhi, l’espressione ancora sofferente, per incrociare altri sei sguardi perplessi e sei bocche spalancate. “Ma cos..dove. COME” Jack scoppiò in una risata fragorosa, come suo solito. La sua allegra rumorosità era tornata, per qualche minuto almeno. Ken corse verso di lui: “eheey amicoo!” disse, e lo abbracciò scompigliandogli i folti capelli, praticamente sommergendolo. Ken infatti era un ragazzone alto, mentre Mark era più basso di lui di quasi una ventina di centimetri. Ken non sembrava volerlo lasciare, tanto che River se lo immaginò mentre portava Mark in braccio per il resto del tempo, ed un sorriso apparve sul suo volto. Erano di nuovo tutti insieme. In una pessima situazione, ma erano di nuovo insieme.

 

 

L’entusiasmo non durò a lungo: dovevano elaborare un piano, e l’unica possibilità era quella di capire cosa fosse successo in quella casa, per trovare la chiave che li avrebbe fatti uscire da quella situazione.
Si sedettero tutti in cerchio, nella piccola zona illuminata dal riflettore che Wes aveva saggiamente portato con sé. Il ragazzo era rimasto separato dal gruppo per quelle che sembravano ore e, dato che né le telecamere portatili né i monitor non avevano mai ripreso a funzionare dovettero raccontargli tutto ciò che avevano visto e passato durante quel lasso di tempo.

Ken e Kit raccontarono cosa avevano visto nella soffitta, e Jack del pianto sentito nella stanza prima che la porta gli venisse chiusa in faccia: bastò questo perché Wes confermasse quello che tutti avevano sospettato sin dai primi segnali: la donna impazzì ed uccise suo figlio. Rimaneva però misteriosa la figura del marito della donna, che nessuno di loro aveva visto né percepito. Tranne Mark.
“Io..credo di averlo visto” disse, cercando di evitare lo sguardo dei compagni. Voleva parlare il meno possibile di ciò che era successo nel tempo che aveva passato da solo, troppi ricordi dolorosi gli erano tornati alla mente. “Ci aiuterà ad uscire di qui: è stato lui a portarmi da voi” soggiunse, sperando che tale breve spiegazione bastasse a risparmiargli altre domande. Non amava suscitare compassione, anche perché non ne aveva bisogno: nonostante tutto ciò che gli era accaduto era rimasto forte e saldo, e sapeva di potersela cavare da solo. “Allora non rimane che cercare quest’uomo” concluse Wes, non trovando soluzione migliore.

Impacchettata l’attrezzatura e sistemata in un angolo, presero le torce e tutto ciò che poteva essere loro utile per addentrarsi di nuovo nelle profondità della casa: abbandonarono le telecamere e portarono con sé solo le torce e le ricetrasmittenti, per  viaggiare leggeri. Questo fatta eccezione per Jack, il quale aveva rifiutato con decisione di abbandonare la sega elettrica che aveva trovato poco prima, e ora incedeva soddisfatto e saltellante, sebbene rallentato da quel peso sulle spalle. Iniziarono dunque la loro salita verso  i piani superiori, senza alcuna direzione o guida, semplicemente camminando ed aspettando che succedesse qualcosa. La spedizione era guidata in testa da Wes ed Evan, che avevano ripreso il comando, seguiti da Kit, River e Jack, che cercavano di mantenersi più vicini possibile, nei limiti della distanza di sicurezza dall’arma del maldestro Jack. Chiudevano la fila Mark e Ken, quest’ultimo diviso tra l’entusiasmo ed il timore: riusciva a togliere gli occhi di dosso al suo amico ritrovato solo per guardarsi le spalle ogni pochi minuti. Il bizzarro gruppo proseguì l’esplorazione per qualche tempo, finché si ritrovarono nella grande stanza dove Evan era stato ferito all’inizio della loro avventura. Entrarono nell’atrio esitanti, con passi lenti e silenziosi, per tendere l’orecchio verso il più piccolo suono. Arrivati al centro della stanza si guardarono intorno per decidere il da farsi, in cerca di un’indicazione sulla direzione da prendere, ma qualcosa attirò la loro attenzione: una donna, immobile e silenziosa, li guardava dall’alto, le mani appoggiate sulla balaustra di un piccolo soppalco in legno. Chissà da quanto era lì a fissarli, e ciò che li inquietava ancora di più era l’idea che se non si fossero fermati a guardarsi intorno non l’avrebbero neanche notata. Rimasero in silenzio a studiarsi, lei, dall’espressione corrucciata, e loro, senza sapere cosa fare. Non avevano ancora avuto il coraggio di muovere un muscolo che successe qualcosa: un’ombra nera apparve e colpì Mark alle spalle, passandogli attraverso, e lui cadde a terra spinto da quella forza.

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Mark, disteso a terra, ebbe solo la forza di alzare la testa e guardarsi intorno, ma nonostante gli sforzi riusciva solo ad intravedere delle scene sfocate: sembrava trovarsi in un piccolo pianerottolo, nella penombra, una porta chiusa davanti a lui e una rampa di scale dietro. All’improvviso qualcuno gli passò accanto, spaventandolo: un paio di passi affrettati, poi la figura iniziò a battere i pugni sulla porta, con tanta forza da spostarla, così che Mark poteva vedere una luce intensa filtrare dagli stipiti ad ogni colpo. Nonostante il tutto accadesse e meno di un metro da lui, ogni rumore sembrava lontano, ovattato. Con un calcio l’uomo riuscì ad aprire la porta, ma la luce era troppo intensa e Mark troppo stordito per vedere con esattezza quello che c’era dentro. Vide solamente l’uomo mettersi le mani nei capelli e cadere in ginocchio, mentre una donna dai lunghi capelli si girava verso di lui, il lungo abito azzurro pastello macchiato di rosso sangue.   
In quel momento tutto gli fu chiaro: un figlio che perde il padre, un padre che perde il figlio..un dolore condiviso che si trasformava in malinconia sotto i suoi occhi pieni di lacrime.

Per questo lo aveva aiutato ad uscire da quella stanza: lui sapeva.

Fu un attimo: Mark si risvegliò fra le braccia di Ken, che lo scuoteva con fin troppa forza. “La pianti di fare casini??” gli urlò Ken appena aprì gli occhi, e a dire il vero ci mancò poco che gli tirasse uno schiaffo. “Ma mica è colpa mia” farfugliò Mark, cercando di orientarsi nello spazio e nel tempo. Aiutato da Ken si sollevò fino a sedersi per terra, infilando le dita sotto le lenti degli occhiali e sfregandosi gli occhi con un gemito.  “Ho visto tutto” disse poi, lo sguardo basso, senza avere il coraggio di guardare nessuno negli occhi. Non voleva spiegare il perché era stato scelto lui, e temeva che ogni sua parola avrebbe spinto qualcuno a fare domande che avrebbero portato alla luce argomenti che non si sentiva ancora di affrontare. “Avevamo ragione” disse semplicemente, alzando gli occhi ma continuando ad evitare lo sguardo degli altri, “l’uomo ci aiuterà”. Pronunciate queste parole la figura amica riapparve nell’angolo più vicino della stanza, ed iniziò a piangere. Lo stesso pianto che Jack, Evan e River avevano sentito in quell’angusto corridoio tempo prima: il pianto del bambino che dovevano cercare. Senza interrompere i suoi singhiozzi, la figura si mosse lentamente fino a scomparire dietro una porta alla sua sinistra, e fu allora che il gruppo capì che era il suo modo per guidarli: seguendo il pianto avrebbero potuto raggiungere suo figlio. Forse voleva che lo liberassero? Rincorsero quindi l’uomo per ogni stanza della casa, attraverso rampe di scale e corridoi sempre uguali, per un tempo che sembrava interminabile.
 La debole luce che avvolgeva le stanze, prima fredda ed asettica, stava assumendo man mano una tonalità diversa, tendente al blu ma stranamente calda e tranquillizzante. I ragazzi proseguirono nella loro ricerca, seguendo quel pianto sempre più vicino e sempre più calmo finché scorsero sulla loro destra una porta aperta, di legno bianco. In quel momento il pianto cessò. Il gruppo si affacciò titubante alla soglia, Mark per primo, e videro una stanza illuminata da una luce notturna. Le pareti erano scure, delle tende lunghe ma leggere coprivano una finestra chiusa e, accanto ad un lettino di legno chiaro, c’era un bambino biondo, dell’età di più o meno due anni. L’avevano trovato. Il silenzio piombò sui ragazzi, che quasi temevano che un loro movimento brusco lo avrebbe spaventato. Mark sospirò e fece un passo verso la stanza, sicuro che anche quel compito spettasse a lui, ma Jack appoggiò la sua arma fuori dalla porta, attento a non mostrarla, e si fece avanti prima di lui. Il piccolo, in una tutina azzurra, si sfregò gli occhi con il dorso della mano, mentre Jack gli parlava dolcemente per tranquillizzarlo. Si accovacciò all’altezza del bambino ed allungò una mano verso di lui, mentre la manica della felpa troppo grande gli scivolava quasi a coprirgli le dita. Jack in effetti sembrava essere la persona più adatta a comunicare in questa situazione: era, in fondo, lui stesso un bambino, avvolto in quegli abiti troppo grandi, nascosto da quel cappello da cui non si separava mai. Eppure, rispecchiata in quei riflessi argento che gli illuminavano i capelli, c’era un’anima antica ed attenta a ciò che accadeva intorno a lui. Aveva passato molto tempo da solo, viveva infatti in una casetta ai margini di un bosco ed i suoi contatti con altre persone per lungo tempo si erano limitati ai convenevoli con i proprietari dei negozi dove acquistava il necessario per vivere. In mezzo alla natura aveva sviluppato una grande capacità di osservazione ed il silenzio aveva amplificato la sua sensibilità verso anche la più piccola vita. Passava anche giorni senza aprire bocca con nessuno se non con i suoi amici on line, e forse era proprio per questo che quando parlava usava tutto il fiato che aveva in corpo. “Avanti, vieni qui, avvicinati..” mormorava, i grandi occhi azzurri guardavano con dolcezza quelli del bambino, che alla fine, esitante, mise la sua manina su quella di Jack. Un sorriso illuminò il volto di quest’ultimo, mentre il bambino diventava sempre più trasparente, fino a che la sua mano attraversò quella di Jack, e scomparve del tutto. Un urlo di donna squarciò il dolce silenzio di quel momento. E fu allora che divenne improvvisamente giorno.

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Nonostante la luce improvvisa li avesse abbagliati, tutto il gruppo sentì l’animo più leggero. Bastarono pochi minuti perché i loro occhi si abituassero alla nuova situazione, minuti che furono occupati da pacche sulla schiena alla cieca e dagli acuti urletti di gioia di Wes, mentre Jack uscì a tentoni dalla stanza per trovare un abbraccio di River. “Se non l’aveste notato, non ho idea di cosa sto facendo ahahahah” fece in tempo a dire, prima di essere colpito da un’affettuosa quanto energica mano sulla spalla da parte di Ken. “Ora cerchiamo di uscire da qui” disse poi Evan, non riuscendo a contenere un sorriso. Gli ultimi avvenimenti, insieme alla presenza dell’amico Wes, avevano infuso in lui una nuova forza. Era stato per lungo tempo spaventato, eppure aveva impedito a se stesso di mostrarlo ad alcuno, sempre fedele alla recitazione della sua parte di uomo indipendente, che non ha bisogno dell’aiuto di nessuno. Era stato costretto ad assumere quell’atteggiamento da lungo tempo, riconoscendo le proprie difficoltà sia fisiche sia psicologiche: goffo, imbranato, la vista debole..doveva in qualche modo proteggersi dalle malelingue. Era proprio per questo che aveva intrapreso la carriera di investigatore: doveva dimostrare a tutti che nonostante i suoi problemi lui poteva fare tutto. Di solito, infatti, si buttava a capofitto nelle situazioni più impossibili, rimanendo però sicuro che accanto a sé ci fosse qualcuno che potesse fornire un aiuto “non richiesto”. I suoi amici lo conoscevano bene, ed evitavano di offrire a parole alcuna assistenza, nonostante con i fatti fossero quasi sempre loro a risolvere la situazione. Evan doveva essere sicuro di avere una spalla in caso le cose fossero andate male per essere così sicuro da tenere in piedi la sua commedia, a cui ormai non credeva nessuno tranne lui. Quando si era diviso da Wes aveva perso la sua rete di sicurezza, ed era stato costretto ad indossare la sua maschera sapendo che se avesse fatto un errore la responsabilità sarebbe stata solo sua. Ora si sentiva di riprendere il controllo della situazione, e si portò velocemente in testa al gruppo.

Avevano fatto un passo avanti ma sapevano che la donna non li avrebbe lasciati andare così facilmente: dovevano prepararsi ad affrontare il peggio. Rimanendo uniti, iniziarono di corsa la loro discesa.

 

 


Nonostante fosse primavera inoltrata il sole quella mattina era basso sull’orizzonte, ed una luce fredda inondava la città. il silenzio fu interrotto dai passi pesanti di Jack che scendeva a balzelloni l’ultima rampa di scale che conduceva al secondo piano, trasportando la sega elettrica. Dietro di lui lo seguiva River, guardandosi indietro per controllare che nessuno, a parte gli altri membri del gruppo, li stesse seguendo. I due attraversarono una grande stanza vuota, dal pavimento di vecchie piastrelle marrone chiaro si sollevavano granuli di polvere resi ancora più visibili dai fasci di luce che penetravano dalle finestre. Si avvicinarono alla porta scura e sbirciarono dal rettangolo di vetro blindato la stanza adiacente. Qualcosa si mosse nell’ombra. “Hohoho” rise Jack, se avesse avuto le mani libere se le sarebbe sfregate per la soddisfazione. “Come sai che Jack è passato di qua?” aggiunse con la sua voce stridula. River ebbe solo il tempo di aprire la bocca per rispondere, ma venne preceduta da lui stesso: “perché sono tutti morti!”. Con un gesto accese la sega e, ridendo, irruppe nella stanza successiva.

Il ragazzo studiò la stanza in silenzio, pronto ad ogni evenienza. Un rumore alle loro destra, non più intenso di un rapido fruscio, ruppe il silenzio surreale, mentre una figura umana, dai lunghi capelli, usciva accovacciata dall’ombra. Jack strinse ancora più saldamente la presa sulla sua arma.
“E così.. sei tu”

“Hello Monster” sussurrò Evan, arrivato nella stanza, per la prima volta dopo anni sentendosi di nuovo un investigatore.

 

-EPISODIO 6-

FINE

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Capitolo 6
*** Episodio 7 – I’LL RISE LIKE THE BREAK OF DAWN ***


Episodio 7 – I’LL RISE LIKE THE BREAK OF DAWN

Jack, River ed Evan vennero raggiunti immediatamente dal resto del gruppo, che si fermò appena dentro la stanza. La donna sembrava studiarli a distanza, le sue movenze erano quasi animalesche. Accovacciata su se stessa, si muoveva avanti ed indietro, tenendo la testa bassa. In quel momento i pensieri si affollarono nella testa di Jack alla velocità della luce: sapeva che River era in grado di difendersi. Sapeva muoversi silenziosamente e nascondersi velocemente, per quanto i ricordi delle loro guerre simulate potessero valere in questo contesto. Ma questa volta non poteva funzionare. E non poteva neanche lasciarla sola. In pochi secondi fece due passi indietro e spinse River e Ken fuori dalla stanza, chiudendo immediatamente la porta a chiave. Al tonfo della porta seguì un sibilo minaccioso della donna. River fece in tempo a scorgere l’espressione di Jack: era spaventato, ma non disse una parola. Accendendo la sega elettrica diede le spalle alla porta, mentre ognuno si preparava a combattere con il poco che aveva a disposizione: Mark faceva affidamento sui suoi muscoli, Wes e Kit sui detriti che avevano trovato per terra. River e Ken non potevano fare nulla se non assistere alla scena attraverso il vetro che ornava la parte superiore della porta, la mano protettiva del ragazzo sulla spalla di lei. Ancora una volta era stato scelto per la sua supposta forza, ma questa volta sarebbe andata diversamente: non aveva intenzione di farsi bloccare dai suoi timori.

 La donna si alzò e corse veloce verso il gruppo: dopo un’occhiata di intesa, Mark si fece avanti e la allontanò con tutta la sua forza, spingendola nella direzione di Jack, che era pronto a colpirla. Ma la lama non la scalfì, anzi rimbalzò sulla pelle della donna, quasi fosse fatta di metallo. Nessuno se lo aspettava, e Jack venne spinto a terra dallo spirito; grazie alla prontezza di Kit e Wes, che le lanciarono contro ciò che avevano trovato sul pavimento della stanza, la donna si ritirò e Jack poté rialzarsi, leggermente ferito al volto. Continuarono a lanciarle contro frammenti di muro, calcinacci, ma così non poteva funzionare: nonostante i loro sforzi, i loro colpi sembravano solo respingerla, rallentarla, ma non danneggiarla.
Evan era rimasto in disparte fino a quel momento, senza sapere cosa fare: “mostro” l’aveva chiamata, e quella parola gli riecheggiò nella mente. Non era un semplice spirito, era un demone. Evan si mise una mano in tasca e tirò fuori il suo cellulare. Non c’era segnale, non funzionava: ma la fotocamera sì. Senza dire una parola puntò la camera verso di lei e scattò una foto. Con un urlo di dolore, la donna si coprì gli occhi e si allontanò da loro, correndo fuori dalla stanza. Il gruppo si voltò confuso verso Evan, che sembrava lui stesso sorpreso del risultato della sua azione. Kit cercò di tornare sui suoi passi per aprire la porta, ma Wes glielo impedì: “non è ancora finita” disse, afferrando le sue spalle “Scendiamo!”. Kit non poté opporsi, e l’ultima cosa che River vide fu Jack girarsi verso lei e Ken e, dopo un’esitazione, correre via verso le scale.

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“Andiamo” disse Ken, toccando delicatamente il braccio di River “li raggiungeremo di qua”. La ragazza lo seguì immediatamente, rimanendogli vicino. Non osava guardarlo in volto, dopotutto Ken era un uomo alto e robusto, e la sua figura metteva soggezione. Eppure, anche nella paura per quello che stava succedendo, River era contenta di essere con lui: oltre i muscoli e la barba incolta c’era un animo paterno e rassicurante, che si rifletteva nei suoi gesti delicati. Scesero insieme le scale che avevano percorso poco prima, per attendere il gruppo al piano inferiore, dove li accolse la visione tranquillizzante dell’attrezzatura che avevano lasciato nell’angolo della stanza. “Aspettiamo qui” suggerì Ken “Non allontanarti” aggiunse esitante, mentre River si sedeva per terra a pochi metri da lui, in una posizione adatta a tenere sotto controllo le rampe di scale che conducevano ai piani superiori. I due aspettarono in silenzio, troppo intenti a prestare attenzione a qualsiasi rumore ed ai propri pensieri. River rimase in ascolto, non potendo fare a meno di pensare a come fosse la gentilezza il tratto che più contraddistingueva Ken. La sua voce calda aveva un tono confortante, forse perché di per sé non era molto espressiva, forse perché aveva fiducia nei suoi amici e, per la prima volta, in se stesso e nel compito che gli era stato affidato. Era stato in balia dello stress e dell’ansia per tutta la vita, cercando ogni volta di vivere all’altezza di quello che gli altri si aspettavano da lui, senza mai prendere una decisione secondo la propria volontà. Ma questa volta sarebbe stato diverso: avrebbe avuto fiducia in se stesso e avrebbe preso il controllo della situazione. Rimase in piedi accanto a River, come per controllarla dall’alto, alternando nervosamente lo sguardo tra lei e le scale.

Aspettarono a lungo, ripensando a quella porta che era stata chiusa loro in faccia, al perché si trovavano in quel luogo. River sedeva a terra, le spalle appoggiate al muro e le gambe incrociate, non riuscendo a distogliere lo sguardo dai gradini di fronte a sé. Non aveva bisogno di un fidanzato, ma di un compagno di avventure. Una persona tanto speciale da trasformare l’amicizia in affetto profondo. Qualcuno con cui condividere ogni aspetto della sua vita e delle sue passioni. Jack era rumoroso, tanto da infastidire molte persone, ma tutto ciò che River vedeva in lui era una grande gioia di vivere, una confidenza in se stessi che copre qualsiasi suo difetto, un’accettazione completa di sé che lei aveva sempre visto come la chiave della felicità. River aveva vissuto troppo a lungo nel timore di mostrare i suoi lati più bizzarri, mentre Jack era capace di risvegliare in lei la voglia di tornare bambini, e lo ammirava per questo. I suoi pensieri corsero veloci da Jack, a Mark, così sensibile e forte allo stesso tempo, a Kit. A tutte le loro avventure, le difficoltà, i litigi, i silenzi; era responsabilità sua se si trovava a combattere contro forze sconosciute, e lei invece non stava facendo niente, stava semplicemente seduta in silenzio, accanto a Ken. I suoi occhi si riempirono di preoccupazione.

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Scesero le scale correndo, le loro voci e le loro domande si accavallavano come un fiume in piena: “Secondo la tradizione orientale, gli spiriti possono venire esorcizzati se gli viene scattata una fotografia” urlò Evan, ansimando in parte per la sua scarsa forma fisica, in parte per lo sforzo di sovrastare le urla di tutti. A metà della rampa, nella confusione generale, una mano afferrò la felpa di Jack e lo spinse contro al muro. “Cosa credi di fare?” gli sibilò contro Kit “la lasci con quell’incapace?” “è più al sicuro con Ken che qui“ rispose lui secco, cercando di liberarsi dalla presa. “Piantatela, voi” disse Wes separandoli, con la sua vocetta che si era fatta ancora più acuta per la rabbia “vi pare il momento?” sistemandosi i lunghi capelli dietro le orecchie spinse i due giù per le scale, verso il piano inferiore.

Trovarono la donna al centro della stanza, indebolita ma ancora combattiva. “Dove vuoi che la spingiamo?” chiese piano Mark – “..verso sinistra” rispose Evan con un filo di voce, prima che Mark si scagliasse contro di lei, seguito da Kit. La afferrarono per le spalle e la spinsero verso l’angolo indicato da Evan, mentre lui puntava la camera. Wes stava accanto a lui per proteggerlo, e la donna venne colpita da altri due flash prima di sfuggire verso destra. Jack era lì, pronto a respingerla: la colpì con un sasso, mentre Kit, con un calcio, la riportò a poca distanza da Evan. Con un ultimo flash della camera, la donna sembrò frantumarsi in mille pezzi, scomparendo dalla loro vista.

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Dopo un lungo silenzio Ken e River sentirono uno scalpiccio di passi in lontananza, e pochi secondi dopo   Jack fece la sua comparsa, correndo – praticamente rotolando – giù per le scale: era ferito in volto ma stava bene. Corse incontro a River e la abbracciò stretta a sé, i suoi grandi occhi azzurri lucidi per la stanchezza e lo spavento. Accarezzò i capelli di River fino a sfiorarle il volto e la baciò dolcemente. “Ragazzi state bene?” chiese affannato Mark, giunto in quel momento nella stanza, piegato in due con le mani appoggiate alle ginocchia per riprendere fiato. “Tutto bene” rispose Ken, mentre un sorriso faceva capolino da sotto la sua folta barba. “Ce l’abbiamo fatta” proseguì Mark, mentre il resto del gruppo si univa a loro “beh.. Evan ce l’ha fatta” si corresse, allargando le braccia e sorridendo a sua volta, facendo sembrare i suoi occhi a mandorla ancora più piccoli.

In effetti, Evan non solo aveva salvato la situazione, ma era stata probabilmente la sua impresa più grande. L’aver sentito quelle parole provenire proprio da Mark avevano riempito Evan di soddisfazione: “quel novellino” sembrava, per Evan, aver preso il comando della situazione troppo spesso negli ultimi tempi, e lui mal sopportava di non essere al centro dell’attenzione in un campo che riteneva appartenergli. Di solito, quando si trovava a dover lavorare in squadra, si limitava a fare il meno possibile, a non rimanere indietro, dando il suo contributo con piccoli gesti, quasi come se tenesse un punteggio delle sue azioni. L’ultima cosa che voleva era sentirsi un peso per gli altri, non per amore verso di loro, ma per proteggere il suo orgoglio. Questa sua motivazione, per di più, era palese per tutti coloro che lo osservavano abbastanza a lungo, e per questo era mal visto da molti. Ma non da Wes: Evan era per lui una persona importante, anche se comprendeva come altre persone lo odiassero così tanto. I due erano andati d’accordo sin dal primo momento che si erano incontrati: Wes era paziente e comprensivo, qualità assolutamente necessarie per la convivenza con Evan, che invece costituiva un grande motivo di intrattenimento per Wes con la sua goffaggine ed il suo modo di fare poco attento. Ognuno dei due aveva un ruolo ben preciso in questa amicizia fraterna, e per questo si era mantenuta stabile negli anni: a differenza del suo amico, il modo di fare di Wes, così come il suo viso, erano delicati. La sua voce era acuta ma non fastidiosa, tanto che, a dire di Evan, tutto quello che diceva sembrava “evocare caramelle e zuccherini”. Se si fosse dovuto utilizzare un aggettivo, più che solare, Wes era cristallino. Nonostante ciò, Evan non riusciva a comunicare ciò che realmente provava nemmeno al suo amico più caro: Wes lo capiva e non insisteva. Anche quando Evan ebbe quello che definiva “l’incidente”, quando il suo cuore si fermò, Wes era accanto a lui. Le loro parole, semplicemente, dicevano cose diverse dai loro sguardi: in quell’occasione Evan aveva riso, dicendo di aver acquisito poteri da supereroe, e Wes aveva sorriso di rimando. Ma quello che realmente dicevano era “grazie per essere qui” e “ci sarò sempre”. In quel momento lo sguardo di Wes diceva “sei stato grande, amico”.

Kit scese le scale dietro a tutti gli altri, portando sulle spalle con soddisfazione la sega elettrica abbandonata da Jack. Aveva mantenuto la calma, aveva usato tutte le sue forze, ed avevano vinto la battaglia, ma i suoi pensieri si erano fermati su River, rimasta sola con Ken. Nonostante la sua buona volontà, non si poteva fidare delle capacità del ragazzo. Appena giunse nella stanza, pochi secondi dopo Wes ed Evan, andò incontro a River e, scostando Jack in malo modo, la abbracciò. I festeggiamenti non furono che qualche sorriso e delle risate esitanti: tutti non vedevano l’ora di uscire da quel luogo, e la stanchezza stava prendendo il sopravvento su di loro.

 

I ragazzi caricarono sulle spalle i loro zaini per lasciare finalmente quel posto, per lasciarsi alle spalle quella notte infinita. Nel silenzio di quegli attimi Mark rivolse lo sguardo verso un punto della stanza, mentre i suoi occhi assumevano un’espressione di malinconia mista a gratitudine – “Grazie” sussurrò, per poi afferrare una delle borse e dirigersi da solo verso l’uscita, precedendo tutti gli altri.

 

 

 

 

 

 

EPILOGO

Le portiere del van vennero chiuse con un rumore secco, come a segnare la fine di quel capitolo delle loro vite: alcuni ne erano usciti cambiati, altri rinsaldati.

Wes guidava tranquillo verso casa, perso nei suoi pensieri indecifrabili, la strada che si rifletteva nei suoi occhi. Al suo fianco Evan respirava profondamente, una mano sul petto a sentire il suo cuore battere rassicurante, mentre prometteva a se stesso per l’ennesima volta di non farsi più coinvolgere. Eppure non sapeva se avrebbe mai mantenuto quella promessa: quel mondo per lui rimaneva equamente terribile e bellissimo. Lo terrorizzava, ma gli dava anche la possibilità di dimostrare a se stesso che, al di là delle apparenze e delle facciate, in fondo lui valeva davvero qualcosa.

Dietro di loro, River sedeva accanto a Kit, che le teneva la mano. Per Kit era stata un’esperienza surreale: River era l’unica ragione per cui aveva accettato di parteciparvi, ma alla fine aveva ottenuto più di quanto si aspettasse. Dopo tante battaglie sognate, immaginate, desiderate, era protagonista di un’avventura reale, che aveva toccato con mano. Aveva sempre avuto fiducia in sé e nelle sue capacità, e ora aveva avuto conferma che era davvero in grado di vincere. Alla sinistra di River c’era Jack, un braccio attorno alla sua vita. Erano salvi, ed erano di nuovo tutti insieme: il legame tra i tre, in un modo o nell’altro, si era stretto ancora di più. Il loro respiro era tranquillo, ed erano pronti a ritornare alla loro vita di tutti i giorni. Jack appoggiò le labbra sui capelli di River, e pensò che era pronto ad abbandonare la solitudine della sua casa nel bosco.

Per Ken l’oscurità di quella notte aveva portato con sé una luce inaspettata. Dopo lungo tempo era finalmente riuscito ad accettare i suoi sentimenti, ed aveva aperto gli occhi riguardo a quello che provava e che aveva sempre rifiutato di accettare: Mark era più importante per lui di quanto avesse osato ammettere. Lui era tutto ciò che Ken voleva essere, ma al di sotto di questa emozione non c’era odio, come aveva detto a Kit in quel corridoio: era un sentimento prorompente, sì, ma non odio. Diceva di lamentarsi ogni volta che veniva a trovarlo, eppure in cuor suo sapeva che quando tardava ne sentiva la mancanza. Ken guardò Mark, seduto accanto a lui: non poteva permettere che gli accadesse ancora qualcosa. Sapeva che era forte e poteva affrontare qualsiasi ostacolo che la vita gli avrebbe posto, ma non meritava di versare anche solo una lacrima in più.


Ken gli mise silenzioso un braccio intorno alle spalle, mentre Mark guardava fuori dal finestrino, perso nei suoi pensieri, nei suoi ricordi.

-EPISODIO 7-

HELLO MONSTER

 

FINE

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