Hello Monster di Spartaco (/viewuser.php?uid=58742)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** EPISODIO 1 - 2 – Hello Monster ***
Capitolo 2: *** EPISODIO 3 - The Arrival ***
Capitolo 3: *** Episodio 4 – Presentable Liberty ***
Capitolo 4: *** Episodio 5 – I’ve found something and I don’t know what to do ***
Capitolo 5: *** Episodio 6 – HELLO MONSTER ***
Capitolo 6: *** Episodio 7 – I’LL RISE LIKE THE BREAK OF DAWN ***
Capitolo 1 *** EPISODIO 1 - 2 – Hello Monster ***
EPISODIO
1 – Hello Monster
Nonostante
fosse primavera inoltrata il sole quella mattina era basso
sull’orizzonte, ed
una luce fredda inondava la città. Il palazzo abbandonato
ricordava i vecchi
condomini newyorkesi, un parallelepipedo di mattoni che una volta erano
stati
rossi ed ora erano anneriti dall’inquinamento. Le scale
antincendio si
arrotolavano sul fianco sinistro dell’edificio, che faceva
angolo tra una
strada principale ed uno stretto vicolo polveroso.
All’interno il silenzio fu
interrotto dai passi pesanti di Jack che scendeva a balzelloni
l’ultima rampa
di scale che conduceva al secondo piano, trasportando una sega
elettrica.
Dietro di lui lo seguiva River, guardandosi indietro per controllare
che
nessuno li stesse seguendo. I due attraversarono una grande stanza
vuota, dal
pavimento di vecchie piastrelle marrone chiaro si sollevavano granuli
di
polvere resi ancora più visibili dai fasci di luce che
penetravano dalle
finestre. Si avvicinarono alla porta scura e sbirciarono dal rettangolo
di
vetro blindato la stanza adiacente. Qualcosa si mosse
nell’ombra. “Hohoho” rise
Jack, una risata abbondante come abbondante era il premio che si
aspettava “Come
sai che Jack è passato di qua?” aggiunse con la
sua voce stridula. River ebbe
solo il tempo di aprire la bocca per rispondere, ma venne preceduta da
lui
stesso: “perché sono tutti morti!”.
Con
un
gesto accese la sega e, ridendo, irruppe nella stanza successiva.
“AAAAH!
Di nuovo una tempesta!” esclamò Kit, a
metà tra lo scocciato ed il divertito.
Si rifugiò con River in un pub poco distante mentre le prime
gocce di pioggia
iniziavano a cadere pesanti. ”Appena in tempo!”
River adorava i temporali, poteva
stare a guardarli per ore. Era affascinata dalla potenza del vento e
dal
vorticare delle nubi, e stare in un posto buio ed accogliente mentre
fuori
pioveva le dava un senso di soddisfazione. Si sedettero ad un tavolino
rotondo
accanto al bancone ed ordinarono due pumpkin spice latte e dei muffin,
i più
cioccolatosi del menù. Nonostante il clima, nel pub
c’era un’atmosfera festosa
e rumorosa, gruppi di ragazzi giocavano a freccette o a biliardo. Una
voce si
stagliava però sopra le altre, un ragazzo seduto al bancone,
poco distante da
loro, strepitò: “mi ha rubato la birra!! Era mia
la birra!!” si mosse però con
troppa enfasi sul seggiolino, che suo malgrado gli fece fare un giro di
180
gradi, ed i suoi occhi azzurri incontrarono lo sguardo di River e Kit.
Ancora
instabile dopo l’inaspettato tour, cercando di aggrapparsi al
bancone soggiunse
calmo: “Era mia la birra.”. River e Kit risero
così forte che quasi il latte
gli entrò nel naso. Era un ragazzo sorridente,
più o meno della loro età,
indossava una felpa grigia troppo grande per lui ed un basco. Aveva un
accenno
di barba e dei buchi alle orecchie larghi qualche millimetro,
probabilmente ciò
che rimaneva di dilatatori ormai tolti. “Ciao, io sono Sean,
ma mi chiamano
Jack.” “Questo qua è tutto un
programma” pensò Kit, guardandolo con sospetto.
River
invece era interessata e divertita da tutto ciò che si
poteva definire strambo,
e Jack (o Sean?) sembrava l’essere più curioso che
avesse mai visto. Dopo aver
recuperato l’equilibrio con un movimento fluido, si
alzò e si diresse verso
l’uscita, fermandosi per un secondo a guardare il tavolo da
biliardo, come se
stesse pensando a qualcosa. Prese poi una delle stecche e
colpì una palla,
fallendo miseramente la buca. “Questo era un colpo
… DA CAMPIONI!!!!” esclamò, e
mettendo le mani in tasca uscì sotto la pioggia.
Ken
si appoggiò al bancone della cucina,
sorseggiando una tazza di caffè americano bollente.
Asciugando con la mano le
gocce di caffè che gli erano cadute sulla folta barba, si
guardò intorno. La
sua nuova casa era finalmente sgombra dagli scatoloni del trasloco, era
pulita
e luminosa grazie alla vetrata che dava sul giardino, sulla parete
davanti a
lui. Era a piedi nudi e indossava ancora il pigiama nonostante fosse
metà pomeriggio,
aveva passato tutta la giornata a cercare di sistemare tutto il
contenuto degli
scatoloni negli armadi, maledicendosi per aver comprato così
tanta roba con il
suo ultimo aumento di stipendio. Lucy, il suo cucciolo di corgi color
miele,
passò trotterellando davanti a lui ed iniziò a
scodinzolare ed abbaiare
dirigendosi verso la porta di ingresso. “Chi arriva? Oh chi
sta arrivando?”
chiese Ken in motherese, fatto
abbastanza curioso per un ragazzone muscoloso e barbuto di un metro e
novanta.
In quel momento bussarono alla porta e Ken, sorridendo per
l’eccitazione di
Lucy, disse senza pensarci “è aperto!”.
“Oooh ma ciao! Io non credo di poterti
fare uscire però” il visitatore era nascosto dalla
porta, tenuta socchiusa per
non permettere a Lucy di uscire in giardino, e cercava di occupare
tutto lo
spazio restante con le sue stesse gambe. “No,
infatti” rispose Ken, avviandosi
verso la porta per scoprire chi fosse venuto a trovarlo. “Hey
Ken! Che bello
vederti!” dalla porta si affacciò un giovane
entusiasta, non molto alto ma ben
piantato. Ken ebbe
la prontezza di
trasformare il suo sospiro di sconforto in un “heeeey come
procede?”. “Non hai
più risposto alle mie chiamate” rispose
l’altro ragazzo con un sorriso
titubante. Ken pensò in fretta ad una spiegazione plausibile
e con una risata
nervosa rispose: “Ah sai ho cambiato numero, nuova casa nuovo
numero”. Il
visitatore sembrava confortato e, riguadagnata l’allegria,
propose a Ken un
giro in città. “Oh santa cacca”
pensò Ken, “Mmmh, mi dispiace, ma ho tante cose
da fare sai, con il trasloco…” “Posso
aiutarti?” “No, no, grazie, non vorrei
disturbarti!” disse Ken, riuscendo a stento a muovere le
labbra per mantenere
il suo sorriso di cortesia, mentre chiudeva lentamente la porta.
“è stato bello
vederti, ho ancora il tuo numero e ti farò uno squillo
appena possibile! Ciao
Mark! Ciao. Ciao.” Finalmente riuscì a chiudere la
porta. “In
che cosa mi sono cacciato” si disse Ken. I
due si erano incontrati un paio di settimane prima ad una conferenza
stampa, erano
entrambi giornalisti, e Mark si era appena trasferito da
un’altra città. Non
conosceva nessuno, e Ken si era offerto di fargli da guida. Non
l’avesse mai
fatto! Dopo le prime uscite, Mark si era talmente affezionato da
chiamarlo più
e più volte al giorno per invitarlo al karaoke, al cinema, a
fare una partita a
casa sua, facendo diminuire esponenzialmente la pazienza di Ken. Si
sedette sul
divano tra la porta e la vetrata, giusto in tempo per scorgere Mark in
giardino, che lo salutava con la mano. “Ciao piccolo
rompipalle, ciao, ciao”
disse tra sé e sé, ricambiando il saluto.
Mark
entrò nella sua nuova villetta a due
piani, gettando le chiavi nella ciotola all’ingresso. Il suo
sguardo cadde
immediatamente sul computer nell’angolo della stanza e non
poté fare a meno di
sorridere. Si tolse i jeans e rimase in boxer, indossò la
sua camicia di
flanella rossa preferita e aprì un sacchetto di caramelle. Mangiandone cinque alla
volta accese il
computer ed iniziò a giocare a Turbo Dismount.
“Whoa,
guarda qui”. Wesley era
seduto in una stanza al buio, davanti al computer. Scostò i
suoi capelli rossi
dagli occhi, e premette il tasto “Replay”.
“Cosa?” chiese Evan distratto. Si
trovava nella stanza accanto a cucinare dei pancake. Da quando la sua
ragazza
l’aveva cacciato di casa viveva con il suo collega Wes, e
faceva di tutto per
rendersi utile cucinando e facendo le pulizie, seppure borbottando
quando
l’amico lasciava qualcosa fuori posto. “Ho trovato
qualcosa d’interessante”
proseguì calmo Wes, attirando finalmente
l’attenzione del coinquilino, che si
diresse verso di lui. Evan, come faceva sempre, si sistemò
con due dita gli
occhiali sul naso e si avvicinò allo schermo per osservare
il video che Wes
aveva appena fatto ripartire. L’immagine era disturbata, poco
stabile, e si
sentiva in sottofondo un respiro pesante. Chi stava registrando aveva
un passo
veloce, camminava in un corridoio buio ed era evidentemente spaventato.
Guardandosi indietro inquadrò qualcosa che strisciava sul
pavimento dietro di
lui, una massa nera, sinuosa, che sembrava avere troppi arti.
All’inizio si
muoveva lenta, circospetta, per poi improvvisamente acquistare
velocità. Dopo
un urlo terrorizzato la telecamera inquadrò il pavimento
oscillando sincronizzata
con i passi dell’autore, per poi spegnersi. Wes ed Evan
rimasero in silenzio
per qualche secondo. “Sono troppo vecchio per queste
cose” si decise a dire
Evan fissando lo schermo. Nonostante fosse stato il suo lavoro per
molti anni,
aveva rinunciato da qualche mese a fare l’investigatore del
paranormale. Aveva
incominciato molto presto, quando non aveva ancora 18 anni, e ne era
rimasto
segnato. Wes era arrivato qualche anno dopo, come tecnico
d’immagine. Era una
persona molto tranquilla e faceva uno strano effetto vederlo davanti al
monitor
in luoghi abbandonati, quasi come intorno a lui ci fosse
un’aura di calma. Evan
invece, con il suo fare da spaccamontagne, era sempre stato troppo
orgoglioso
per ammettere di essere spaventato da ciò che vedeva quelle
notti, ma alla fine
era riuscito ad accettarlo ed
aveva
deciso di smettere. “Non farmi questo” pensava Evan
in quel momento. Ma Wesley
stava già digitando alla velocità della luce
sulla sua tastiera, cercando
maggiori informazioni sul luogo dell’avvistamento.
“Here we go!” esclamò Evan ostentando
entusiasmo e dando una pacca sulla spalla dell’amico, ma
dentro di lui il
dubbio cresceva.
“Ce la posso fare.
Era il mio lavoro. So come
usare le mie armi.” Evan si sistemò ancora gli
occhiali e guardò fuori dalla
finestra, sfiorandosi con le dita il petto, per sentire per una
frazione di
secondo il suo cuore battere. “Hello,
Monster.”
EPISODIO 1
-FINE-
EPISODIO 2
– How did we come to this?
River
era
concentratissima. In biblioteca non funzionavano né il
cellulare né internet, e
sospettava che fosse stata fatta una schermatura ad hoc. Il silenzio
venne
interrotto da una voce squillante: “Hey, salve a
lei!” “SSSSSHHHHH!” una decina
di teste si sollevarono all’istante dai libri per zittire
l’ospite sgradito.
“….whoopsie” Jack abbassò la
voce, o almeno ci tentò per quanto gli fosse
possibile. “Ciao!” rispose River, sorpresa e
contenta di rivedere quello strano
ragazzo. “Cosa la conduce qui?” River sentiva
ancora gli occhi degli studenti
puntati su di lui, e prima di rispondergli gli propose di spostarsi in
area
relax. Lì Jack le offrì un caffè, ma
River rifiutò e optarono entrambi per un
tè. “Se bevessi caffè sarei
insopportabilmente iperattivo” aggiunse Jack. Buffo
da dire, dato il suo modo di fare. River non poté fare a
meno di immaginare
Jack ancora più rumoroso di quanto già fosse, e
pensò che la sua astinenza dal
caffè fosse un’idea più che saggia.
River indossava un abito verde chiaro dalle
forme morbide, stretto in vita da una sottile cintura di cuoio
intrecciato.
Aveva i capelli lisci, erano scuri e le ricadevano sulle spalle. Non
era molto
alta, ma essendo piuttosto proporzionata – ed indossando
spesso scarpe dalla
suola alta - non si notava. Lavorava in ospedale e si sentiva un
po’ il jolly
della situazione o, forse più realisticamente, il
tappabuchi. “Abbiamo bisogno
di lei alla stroke unit”, “La cerca il dott. Burke
nella stanza 306”, “Dovrebbe
andare a controllare cos’ha da lamentarsi il paziente 526 in
ambulatorio”, il
cercapersone era bollente. Sapeva fare un po’ di tutto,
correva tutto il giorno
su e giù per l’ospedale con quelle orrende scarpe
mediche che tentava in tutti
i modi di rendere più colorate applicandoci di volta in
volta coccinelle,
farfalle e fiorellini di plastica, specialmente quando aveva a che fare
con i bambini.
Già, i bambini. River si divertiva un mondo con loro e
cercava di farli
divertire altrettanto: mentre li visitava dava le spalle al dottore e
faceva
sbucare dal taschino del camice la testolina di un piccolo lemure di
peluche,
facendo l’occhiolino al piccolo paziente che tratteneva le
risate a stento. Di
nascosto li faceva uscire dalle loro camere e li riuniva in una stanza
per fare
ascoltare loro qualche bella canzone. Fortunatamente non lavorava a
tempo
pieno, aveva del tempo a diposizione per condurre una ricerca su un
particolare
tipo di epilessia. Così particolare che sembrava non
soffrirne nessuno nel
raggio di chilometri… così un paio di volte alla
settimana trascorreva del
tempo nella biblioteca dell’Università per
ripassare e tenersi aggiornata. E in
uno di quei pomeriggi ecco che ricomparve il ragazzo del pub. Jack
aveva
qualche mese più di River ed indossava il suo solito basco
da cui,
apparentemente, non si separava mai. Era sempre avvolto in abiti troppo
grandi
per lui, il che lo faceva sembrare più esile di quanto in
realtà non fosse.
Questa volta si era infagottato in una felpa blu e sorseggiava
soddisfatto la
sua tazza di tè fumante. “Bisogna sempre iniziare
la giornata con del buon tè,
o in questo caso, proseguirla” disse tra un sorso e
l’altro. “E tu di cosa ti
occupi?” chiese River. “Oh sai, un po’ di
cose, suono la batteria in una band,
sto finendo l’università, ho mollato qualche corso
per strada. Facevo sound
management. Sono affascinato dai suoni: amo la loro
diversità, specialmente i
toni bassi, sentirne le vibrazioni. Forse per questo amo andare al
cinema. Ho
studiato per due anni da tecnico del suono, poi ho deciso di cambiare e
ora
studio per diventare il manager di un hotel.”
“Oh” commentò River confusa.
Evidentemente Jack era un fiume in piena anche nei suoi discorsi. I
suoi
pensieri dovevano toccare la velocità della luce.
“Come mai hai deciso di
cambiare strada dopo due anni?” “Oh, non riuscivo a
prestare attenzione in
classe. Pensavo solo ai videogiochi a cui avrei giocato una volta
tornato a
casa!” Ammise Jack con non-chalance. Questo ragazzo aveva una
sincerità
disarmante ed un che di estremamente interessante per River. Le metteva
allegria al solo guardare i suoi occhi azzurri che guizzavano senza
sosta da un
angolo all’altro della stanza. E poi anche lui sembrava avere
la passione dei
videogiochi, come lei e Kit. A River venne spontaneo proporgli di
incontrarsi a
casa sua per qualche partita alla playstation, così si
scambiarono i numeri di
telefono.
River,
recuperate le sue cose in biblioteca, tornò verso casa sua.
Aprì la serie di
porte che separavano il suo appartamento dalla strada,
“Più blindato di così
c’è solo l’appartamento di Tony
Stark” mormorò mentre girava con due mani la
chiave della sbarra di ferro che chiudeva la porta di casa.
“’Giorno!” Sylvie
era accovacciata sul divano come suo solito, con un e-book appoggiato
sulle
gambe incrociate. I lunghi capelli rossi erano legati strettamente in
una
treccia. “Ciaaaaaaaao” rispose River, mentre un
sorriso scalpitava per uscire
allo scoperto. “Cosa
c’èèèèèè?”
Sylvie si ricompose immediatamente, tornando in
posizione eretta per l’occasione. “Devo
assolutamente raccontarti una cosa”
rispose River ridendo.
“Da
soli non ce la faremo mai” sbuffò Evan.
“Hai presente quanta
attrezzatura serve per un’impresa del genere?”
“Abbiamo tutto il necessario”
tagliò corto Wesley. “Ah sì certo,
tanto tu sei quello che sta comodamente
seduto a fissare i monitor, sono io quello che gira con una luce sulla
testa,
neanche fossi un pesce degli abissi, e una telecamera sulla spalla. E
poi sono
anche più grasso e saporito.” Wesley
scoppiò in una risata fragorosa. Evan
aveva un modo di parlare tutto suo, si prendeva in giro da solo per
vincere le
discussioni. Ricordò di quando, qualche settimana prima, lo
aveva battuto a
Mario Kart 8, e per tutta risposta si era sentito dire “Ah,
certo, bella storia
battere il tizio cieco!”. Evan infatti portava degli spessi
occhiali da vista
che si toglieva solo quando doveva fare attività fisica per
paura di romperli,
il che in realtà si rivelava controproducente il
più delle volte, dato che non
riusciva a vedere dove diavolo stesse mettendo i piedi. Era bruno,
alto, anche
se non come Wes, ed era sempre stato piuttosto ben messo, ma aveva
acquistato
qualche chiletto in più da quando la ragazza
l’aveva lasciato. Wesley conosceva
il passato di Evan e non aveva esitato ad accoglierlo in casa sua.
Nonostante
l’apparente confidenza in se stesso, era in effetti solo un
gran pasticcione.
Era bravo e coraggioso a parole, si buttava a capofitto in qualsiasi
progetto
al grido di battaglia “Certo che lo so fare”, per
poi però impantanarsi
nel’impresa pochi attimi dopo. Chi gli stava vicino lo
aiutava con un sospiro
di rassegnazione, a cui Evan solitamente rispondeva “Ah. Ora
dovrei
ringraziarti, immagino”. Questo suo modo di fare gli aveva
procurato dei guai
più di una volta, come quando anni prima aveva cercato di
riparare da solo la
batteria della sua macchina, prendendo una scossa talmente forte da
fermagli il
cuore per qualche istante. Wes l’aveva conosciuto sul lavoro,
durante una delle
loro cacce ai fantasmi. Lui era in un certo senso l’opposto
del suo nuovo
coinquilino. Era riflessivo, cauto, concentrato. Ma era anche di facili
entusiasmi, e ogni volta che qualcosa lo esaltava alzava le braccia al
cielo
urlando “wiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!”, per poi
ricomporsi e risistemarsi dietro
le orecchie i folti capelli rossi.
“Se
sei proprio sicuro” disse Wesley “cerco di
contattare qualche
giornalista interessato che ci accompagni e che porti qualche
telecamera in
più”. “Oh, così va meglio.
Magari più grasso di me. E già che ci sei, che ci
veda un po’ meglio!”.
Ken
sentì bussare alla porta. Radunò le forze per
uscire dal letto,
ancora impastato di sonno cercò gli occhiali a tastoni e si
avviò verso il toc
toc. Mugugnò qualcosa mentre evitava all’ultimo
minuto di inciampare sulla
pancetta tonda di Lucy ed aprì la porta.
“Keeeeeeen!”
“…….Ciao Mark.” Mark
entrò in casa con un tablet malridotto sotto braccio,
approfittando della
momentanea lentezza di riflessi di Ken. “Non immagini che
scoop ho trovato per
noi” “…noi?....Cosa?”
“Guarda!” Mark mostrò a Ken
un’inserzione che aveva
trovato girovagando su internet. “Investigatori paranormali?
Ma sei serio?”
“Certo! Pensa quanto ci divertiremo! Dai! Ken! Chiama!
Dai!”. Ken esaminò la
situazione. O chiamava in quell’istante o Mark sarebbe
rimasto con lui per il
resto della giornata. La scelta fu semplice.
Ken
premette il tasto di chiamata e con la
coda dell’occhio teneva Mark sotto controllo. Era alto non
più di un metro e
settantacinque, ma aveva braccia muscolose per la sua costituzione.
Quando non
aveva la telecamera in spalla passava metà del tempo al
computer e metà del
tempo in palestra. Mentre il telefono squillava dall’altra
parte Ken si sentì
in dovere di riempire quel silenzio imbarazzante e chiese a Mark se avesse provato la
nuova XBox. “Oh no,
io sono sempre stato un pc gamer, anche da bambino.” Rispose
Mark. “Oh. Quindi
sei cresciuto con Commander Keen” “A dire la
verità no, non ci ho mai
giocato.”“….Allora credo tu abbia un bel
problema. Sì, pronto? Sono Ken
Morrison. Chiamo per l’inserzione che avete….
Sì. Saremmo interessati a
partecipare, a quanto sembra.”
“Wow,
hai più fegato di me” ammise Jack togliendosi le
cuffie. “Mi tremano le mani”
disse per tutta risposta River, cercando di riportare i suoi capelli ad
un
aspetto vagamente umano. “4 a 6, hai trovato più
pagine tu prima che Slenderman
ci facesse a pezzi” disse Jack tra le risate. Avevano tutti e
due le lacrime agli
occhi e il cuore a mille. Un’iniezione di adrenalina,
pensò River soddisfatta.
“Perché non lo portiamo al prossimo
livello?” “Cioè?” chiese River
curiosa.
“Cosa c’è di più terrificante
di una casa abbandonata di notte? Una casa..
vera. Non Outlast o roba del genere.” “Ma tu sei
matto! Morirei di paura.” River
gli tirò un cuscino, ma Jack stava per dire qualcosa e non
si spostò di un
millimetro. Il cuscino lo colpì in piena faccia, causandogli
un’esplosione di
ilarità che quasi lo fece cadere dalla sedia; “Ma
se ridi appena accendi un
horror!” riuscì a dire appena riprese fiato, e
concluse: “Io stasera inizio a
leggermi qualche creepypasta, e poi ti faccio sapere”.
“Fammi
almeno fare una prova con l’Oculus Rift!”
protestò River, ma inutilmente,
perché Jack era già uscito dalla porta dicendo
“Ti faccio sapere!” e, mani in
tasca, si avviava verso casa sua. River scosse la testa guardando
Sylvie, che
sorrise. Pensarono entrambe la stessa cosa: era proprio tutto matto.
“Io
non credo tu debba andare.” disse Kit seccamente, stringendo
i
suoi occhi azzurro chiaro. “Non so neanche se sia fattibile,
se troverà
qualcosa” River cercò di ridimensionare la
situazione mentre porgeva un
bicchiere di coca a Kit, ma senza risultato. “Ma quello
è totalmente scemo! Secondo
me si droga. O quantomeno beve! Lo conosci da una settimana,
sarà di sicuro un
malintenzionato, e toccherà a me fare la guardia.”
River sorrise, perché andava
spesso a finire così. Ormai lei e Kit si conoscevano da
tempo e si incontravano
quasi tutti i giorni. Quel giorno indossava una polo a righe e dei
jeans, i
capelli biondi scompigliati dal gel. Pur essendo più giovane
superava River in
altezza di una decina di centimetri e aveva sempre un comportamento
dolcemente
protettivo nei suoi confronti. Erano spesso complici nelle loro
avventure, e
nei loro acquisti impulsivi che venivano nascosti a casa di uno o
dell’altro.
“Vedrai che non troverà niente di interessante,
quelle storie sono tutte
inventate” disse River, che in effetti era ancora dubbiosa
riguardo al grado di
serietà di quanto avesse affermato Jack pochi giorni prima
“Se ne sarà anche
dimenticato, con tutte le cose che fa in ventiquattro ore!”
“Ok!
Penso che abbiamo raggiunto il numero adeguato”
dichiarò Wesley
appoggiandosi soddisfatto allo schienale della poltrona.
“Siamo ben in sei.”
“Sei? Come hai fatto a trovare tutta questa gente? Chi
sono?” chiese dubbioso
Evan. “A quanto sembra, due giornalisti ed un appassionato di
videogiochi che
ha detto che avrebbe portato un’altra persona.”
“Oh beh allora siamo a
cavallo.” commentò Evan a bassa voce, togliendosi
gli occhiali e sfregandosi
gli occhi. “Come dici?” “Oh, nulla. Sono
almeno grassi e ciechi?” “I due
giornalisti portano gli occhiali.” “Ok, due punti
per te. Magari questa volta
vengono mangiati loro al posto mio.”
Evan
si afflosciò sul divano, dopo aver pulito la casa per la
terza
volta quella settimana. Wesley era la persona più
disordinata che avesse mai
conosciuto. Si guardò intorno, valutò
l’intreccio di eventi che lo aveva portato
a quel punto della sua vita, e sospirò.
EPISODIO 2
-FINE-
------------------------------
Angolino Finale
Benvenuti innanzitutto! Per prima cosa voglio precisare che questa
storia non è stata scritta da me, ma da una mia amica che mi
ha concesso l'onore (o l'onore) di pubblicarla, visto anche che non
possiede un account efp. (Le recensioni le verranno trasmesse da
me ^^)
Come avete visto sono presenti sia il primo che il secondo episodio in
un capitolo per il semplice fatto che il primo era un po' corto (al
tempo era stato una sorta di prova generale), ma di seguito si
procederà normalmente..! E non temete! La fic è
già finita quindi non ci saranno nè incompiute
nè cose lasciate e abbandonate per mesi!
I personaggi non sono tutti tutti originali, ma sono di universi
talmente sconosciuti (soprattutto per il pubblico italiano) che dubito
che li riconoscerete xD! Quanto al contesto quello invece lo
è!
Detto
questo, spero la possiate apprezzare così come ho fatto io!
Aspettatevene delle belle e preparatevi! :)
Recensioni, critiche e quant'altro sono ovviamente ben accette,
soprattutto dato che è la prima volta che la mia amica si
cimenta in qualcosa del genere! ^^
P.s. Si, è vero, all'inizio è un po' nerdeggiante, ma spero non per questo vi fermiate qui!
Grazie ancora
A presto!
|
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Capitolo 2 *** EPISODIO 3 - The Arrival ***
EPISODIO
3 - The Arrival
"Cos'è che hai fatto??" Chiese River. Dall'altra parte del
telefono
Jack sembrava serissimo. "Ho trovato delle guide che ci portino in una
casa infestata!" "Kit mi ammazza. Lo sai questo vero?" "Oh
non preoccuparti, probabilmente prima ammazzerà me con
un'occhiata
glaciale." Questa volta River non rise, era perplessa e non aveva una
risposta pronta. Sì certo, andava matta per gli horror, ma
da lì a viverlo in
prima persona ce ne passava. E Jack non sembrava esattamente il massimo
dell'affidabilità
in caso di pericolo. Era un primo pomeriggio soleggiato come al solito,
River
era in piedi in camera sua e teneva il cellulare premuto contro
l’orecchio
sinistro, come faceva sempre quando riceveva notizie importanti, come
se
potesse capire meglio ogni parola tenendo il telefono il più
possibile vicino
al timpano. "Dobbiamo incontrarli domani pomeriggio e ci spiegheranno
tutto quello che dobbiamo sapere. Non preoccuparti, sono degli esperti"
concluse Jack con semplicità.
Terminata
la chiamata, River si passò una
mano sulla fronte. “Ma che sto facendo?” Certo,
l’idea era stranamente
allettante. Anni prima cambiava canale appena percepiva
un’atmosfera di terrore
nei film che davano in tv, ma passando dal leggere creepypasta sempre e
rigorosamente di mattina era riuscita alla fine ad abituarsi a guardare
horror
gameplay a notte fonda, cercando di soffocare con le mani gli urletti
che le
uscivano spontanei. Non solo si era abituata, ma andava matta per quel
brivido,
quella sensazione mista di terrore ed adrenalina, quei momenti in cui
non
sapeva se ridere o piangere e finiva per fare entrambe le cose. Era
anche vero
però che sentiva ancora i brividi quando ascoltava un
qualsiasi episodio di
“Cry reads”, complice la sua voce così
espressiva, tanto da essere costretta a
fare numerose pause nell’ascolto per prendere fiato, e questo
la preoccupava.
Eppure sapeva che Jack sarebbe stato lì. Poteva anche essere
spericolato, ma
ormai lo conosceva e se fosse rimasta incollata a lui le avrebbe dato
un senso
di sicurezza, per quanto precaria. Forse il suo modo di fare si sarebbe
ancora
una volta rivelato utile nello smorzare la tensione.
"IO
non vengo." Sylvie aveva ascoltato dalla stanza adiacente, ed era
irremovibile "mi è bastato sentire i racconti delle colleghe
su Dublino, e
ti ricordi quando stavamo guardando quello stupido splatter e ho
lanciato in
aria la tazza di tè per lo spavento? Nononono. Dovrai
chiedere a Kit." A
dire la verità non era stato nemmeno necessario chiedere,
River non aveva neanche
fatto in tempo a terminare di scrivere il messaggio su whatsapp
– di parlare di
persona non se ne parlava, non ne avrebbe avuto il coraggio - che Kit
aveva già
capito e risposto: "Oh ovvio che ci vengo anche io” scrisse,
“Non so che
diavolo vi siete messi in testa ma non ci piove che venga anche io.
Dove è
questo famoso appuntamento?"
Quando
Ken e Mark si presentarono
all’appuntamento, Evan aprì la porta con un
sorriso smagliante: "Benvenuti!
Mi avete salvato la pelle!" "Non fate caso a lui” - lo
interruppe
Wesley, scostandolo “delicatamente” dalla porta con
uno spintone - “Buongiorno
a tutti, mettetevi comodi". L’appartamento dei due ragazzi
era spazioso,
dalle pareti chiare, ed Evan aveva probabilmente cercato di mettere
ordine
anche se negli angoli della stanza facevano capolino scatoloni dal
contenuto
ignoto. La porta d’entrata dava su un ampio salotto alla cui
destra si trovava
il grande bancone della cucina, al centro un divano e sulla sinistra un
tavolo
di legno scuro. River, indossando una camicetta di jeans ed una lunga
gonna
chiara, era seduta sul divano, mentre Kit aveva deciso di rimanere in
piedi,
dando le spalle ad una grande finestra. Appena Ken e Mark ebbero
raggiunto il
centro della stanza, Jack emerse da dietro il bancone della cucina: "Ho
trovato una Guinness, mi sono servito. Salute!" sollevò la
bottiglia in
direzione del salotto e ne bevve un gran sorso. "Che figure"
pensarono River e Kit (o forse Kit pensò qualcosa di
peggio). Il trio era
arrivato pochi minuti prima, ed il secondo incontro tra Jack e Kit non
era
stato dei migliori, come si poteva prevedere. Kit aveva da allora
assunto un
atteggiamento prevenuto, e stava sulla difensiva. Anche se, per dire la
verità,
la sua migliore difesa era l’attacco. “Comunque
è maleducazione portare il
cappello in casa.” Sibilò. Jack si
fermò nel bel mezzo del sorso, abbassò la
bottiglia e per un secondo rimase immobile. Alla fine si decise a
deglutire, e
con un gesto secco si tolse il basco grigio mostrando una capigliatura
rossiccia, corta e leggermente brizzolata, per poi sedersi poco
elegantemente
sul divano, tenendo sulle gambe il suo fedele cappello. Ora che erano
tutti
presenti (e visibili!) iniziarono le presentazioni. Mark era un tipo
particolare, dai tratti leggermente orientali. I suoi capelli neri
erano folti
e disordinati, e portava la barba lunga di qualche giorno. Al primo
impatto, River
non poté fare a meno di pensare che sembrasse avere qualcosa
di fuori posto.
Tanto per cominciare aveva una voce molto profonda, in assoluto
contrasto con
la sua statura - era alto appena qualche centimetro più di
lei -. Nonostante
ciò sembrava un concentrato di energia: era allo stesso
tempo potente e minuto.
Quando si presentò si notò da subito la sua
indole, educata e cordiale. Non
somigliava a nessuno che River avesse mai incontrato. La coppia di
amici Wes ad
Evan era decisamente ben assortita: mentre Wes parlava poco, Evan
prendeva la
parola appena c’era un momento di silenzio, ridendo di gusto
ai suoi stessi
giochi di parole, che non erano proprio di alta qualità.
Come Jack, era
esuberante e self confident, forse meno sguaiato ma con la stessa alta
considerazione di se stesso. Quello che interessò
maggiormente River fu che
Evan non era esattamente la perfezione fatta a persona: per leggere i
messaggi
sul cellulare doveva avvicinare lo schermo a pochi centimetri dal
volto, aveva
qualche chilo di troppo e si vedeva che i suoi capelli, una volta
corti, erano
cresciuti troppo, acquistando una forma indefinibile e disordinata.
Buffo, data
la cura che Wes sembrava avere per i suoi lisci capelli rossi! Eppure
non si
poteva definire un perdente, perché il suo modo di fare
sicuro compensava
qualsiasi sua caratteristica negativa. Tra tutti, Ken rimaneva la
persona più
indecifrabile: era silenzioso, ma avanzava timidi sorrisi a chi
incrociava il
suo sguardo. Era seduto curvo sul divano e rigirava nervoso il
cellulare tra le
mani. “Allora, di cosa si tratta esattamente”
chiese infine. In fondo non aveva
idea di che cosa avesse accettato di fare e per la verità
nemmeno aveva idea di
chi fosse davvero Mark. Tutto ciò che sapeva era che si era
trasferito di
recente e che aveva una passione smodata per la palestra ed i
videogiochi. Del
suo passato non conosceva una virgola. Ken sentì un brivido
percorrergli la schiena.
“Sono un giornalista sportivo, per la miseria. Il massimo del
rischio è cercare
di non farmi tirare sotto da giocatori di football alticci a bordo
delle loro
macchine sportive” si disse, e guardò Mark, che
era seduto accanto a lui.
Indossava una maglietta rossa con sopra stampata una M a caratteri
cubitali, e
sfoggiava un sorriso bianchissimo e smagliante. "Sembra quasi un
supereroe, con quei muscoli e quel ciuffo di capelli fluenti."
Lo
strano gruppo venne riunito intorno al
grande tavolo di legno scuro al centro del salotto, dove Evan e Wes,
rimanendo
in piedi, iniziarono a spiegare il funzionamento degli "attrezzi da
lavoro": videocamere ad infrarossi, torce, registratori.
“Posso dire una cosa?” Chiese Ken dopo qualche
minuto, alzando la mano. Aveva
evidentemente riflettuto sulla possibilità di fare quella
domanda dal primo
momento in cui aveva messo piede in quella casa. “Sssh,
lasciali finire” Mark
gli diede una gomitata sul braccio, e si rimise in posizione di
ascolto, le
braccia in grembo, occhi e bocca spalancati. “Giuro che se
non gli do’ un pugno
in testa adesso...” Il pensiero assassino di Ken venne
interrotto dalla voce
calma di Wes, che lo pregava di proseguire. Ken era titubante, ma alla
fine,
lisciandosi la folta barba, riuscì a fare uscire di bocca
queste parole,
accompagnate da gesti nervosi della mano: “Ecco ma
noi..esattamente..cosa ci
dovremmo trovare in quella casa?”
Gli
sguardi prima puntati su Ken si spostarono tutti contemporaneamente
sui due ragazzi. Evan si sedette, inclinò la testa dubbioso
e si sistemò gli
occhiali con il suo famoso gesto. Infine appoggiò una mano
sulla sua gamba e
disse rivolto a Wes: “eh sì..questo non lo so
neanche io.”
Wes
temeva che non sarebbe passato molto tempo prima di dover
rispondere ad una domanda simile, e per questo si era preparato a
dovere. “Si
tratta di un palazzo di quattro piani, compreso il piano
terra” iniziò
“apparteneva ad una coppia. Pare che lei fosse una pittrice,
ed i suoi quadri sono
particolarmente..inquietanti” disse con gli occhi bassi.
“In che senso?” chiese
Evan, che non poté nascondere un fievole tremito nella sua
voce. Wes dapprima
non disse niente, si sistemò i capelli dietro le orecchie e
iniziò a digitare
qualcosa sulla tastiera del suo portatile, che si trovava
anch’esso sul tavolo
insieme al resto dell’attrezzatura. Quando Wes
girò il computer in direzione
del gruppo rimasero tutti senza parole. Rosso. Questo è
quello che si poteva
dire di quell’opera. Il colore era denso, corposo, quasi
carnoso, come fosse
stato steso con le mani. La sola vista dava un senso di disagio. Non
rappresentava nulla, non si riusciva a coglierne il disegno, ma si
poteva quasi
vedere il gesto della donna che stendeva il colore a piene mani, con
forza e
rabbia. Wes proseguì: “Voci dicono che questi
quadri fossero il frutto della
sofferenza della donna che non poteva avere figli. Quello che
è certo è che
dopo pochi anni di matrimonio il marito impazzì, e della
donna non si seppe più
nulla”. Nessuno disse nulla, perché i loro
pensieri facevano troppo rumore.
Stavano iniziando a toccare con mano quello che avrebbero affrontato da
lì a
pochi giorni. Evan si portò istintivamente la mano al cuore,
per una frazione
di secondo, per poi riportarla sulla sua gamba, sperando che nessuno
avesse
notato il suo gesto. Anni prima lo aveva sentito smettere di battere, e
quella
sensazione non lo aveva mai più abbandonato. Anche se era
successo nel suo
garage e non sul lavoro, non poteva fare a meno di pensare a come aveva
sfiorato la morte molte volte in luoghi freddi e bui. Ma non avrebbe
mai
dimenticato l’evento che, una volta per tutte, lo aveva
portato a prendere la
decisione definitiva di abbandonare quel
mestiere. Chiuse gli occhi e si trovò di nuovo
in una nave da poco
recuperata dagli abissi. Quando Evan si era addentrato nel ventre della
nave
aveva subito percepito che qualcosa quel giorno non andava. Accese il
registratore
e chiese nel silenzio: “Non ti piaccio?”.
Aspettò qualche secondo, rimandò
indietro il nastro e premette “play”. Quello che
sentì gli raggelò il sangue
nelle vene. “Non ti
piaccio?---Ti-----ucciderò----“. Evan spense il
registratore, e non lo accese mai più. In un battito di
ciglia rivisse tutto
questo, e le sue mani iniziarono a tremare.
River
guardò Jack in cerca di conforto. Il
ragazzo guardava fisso davanti a sé pensieroso, stringeva
nella mano destra il
suo cappello e nell’altra la bottiglia di birra, da cui non
aveva più bevuto un
solo sorso. Accortosi dello sguardo di River le sorrise, ma non come
sempre.
Persino Mark aveva perso la sua aria festosa, ed aveva ora
un’espressione
indefinibile, a metà tra il “no grazie”
ed il “voglio assolutamente sapere
cos’è successo”.
Ken
chiuse la portiera con forza.
“Heeey è già abbastanza distrutta
quest’auto!” si lamentò Evan dal posto
di
guida. In effetti l’intera fiancata destra era segnata da
un’unica riga priva
di vernice, che la attraversava completamente. Evan adorava guidare, ed
anche se
la sua vista non rendeva semplice l’impresa lui non era uno
che si faceva
fermare facilmente. Il minivan, carico dei sette avventurieri, si
diresse sotto
il sole pomeridiano in direzione del palazzo. La compagnia, tutto
sommato, era
allegra. Sembrava che Mark e Jack avessero la stessa lunghezza
d’onda: si erano
seduti vicini, ed essendo il mezzo affollato erano praticamente uno in
braccio
all’altro. “Com’è romantico!
Un po’ come una luna di miele” commentò
Mark
ridendo, e Jack rispose prontamente: “eh ma che schifo di
luna di miele!” “Perché?”
chiese Mark ironico, non aspettandosi alcuna risposta, ma Jack
guardandosi
intorno, sbuffò: “tanto per cominciare,
è un po’ troppo affollata”. Nemmeno Kit
aveva potuto fare a meno di ridere, coprendosi la bocca con la mano.
Pochi
minuti dopo arrivarono alla strada della meta e le risate lasciarono
spazio
alla tensione. Evan parcheggiò l’auto in un vicolo
a destra dell’alto palazzo
di mattoni rossi. Una scala antincendio arrugginita, con qualche
gradino
mancante, saliva fino al tetto. Nonostante la casa fosse evidentemente
diroccata, le finestre erano molto sporche, ma sembravano tutte
intatte. Il
cielo era ancora chiaro, ed avevano ancora un po’ di tempo
per prepararsi: scesi
dalla macchina seguirono le istruzioni di Evan, e ciascuno si
munì di torcia da
cintura e ricetrasmittente. Wes poi consegnò a tutti una
piccola telecamera da
fissare sulla spalla. “Ora dovremmo dividerci i ruoli. Come
vi ho detto a casa
è necessario fissare quante più telecamere
possibile in punti strategici, così
che io possa tenere sotto controllo la situazione da una stanza sicura.
O
almeno, relativamente vicina all’uscita. Squadre?”
Evan, senza parlare, si mise
in spalla senza indugio uno dei due zaini che contenevano le
telecamere. “Penso
che sarebbe una buona idea andare con lui”
sussurrò Jack a River. River esaminò
la situazione: Wes sarebbe rimasto all’entrata per monitorare
la situazione, ed
effettivamente l’unico che sapeva cosa stava facendo era
Evan. Si guardò in
giro: Mark aveva percorso i dieci passi dall’automobile al
cancello ripetendo
“non mi piace..ooooh non mi piace per niente..non mi
piace..”, Ken teneva le
mani sui fianchi, la testa inclinata in avanti coperta dal cappuccio
della
felpa e non aveva detto una parola da quando erano arrivati. Per quanto
riguarda Kit, si vedeva che si trovava in quel luogo controvoglia, ma
d’altra
parte se aveva preso questa decisione era per controllare la
situazione, per
proteggere lei. River era più che mai dubbiosa: Evan era
sicuro, ma cosa era
giusto fare? Ovviamente scegliere Kit, ma come dirlo a Jack? Come
lasciarlo da
solo? Inaspettatamente, Mark uscì dal suo stato paranoide e
risolse il
problema: afferrò il secondo zaino inforcandolo sulla spalla
destra ed agganciò
Ken con un braccio e Kit – che era più vicino a
lui degli altri componenti del
gruppo - con
l’altro, trascinandoli
verso l’entrata a passo di marcia ed urlando
“Avaaaaaanti!”. “Oh beh, immagino
che abbiamo deciso” commentò Wes perplesso, ed
allungarono il passo per
raggiungere Mark. Ormai
si stava facendo
buio, e se volevano avere una chance di vantaggio su qualunque cosa
abitasse
quel palazzo dovevano muoversi. Attraversarono il piccolo giardino
inselvatichito, a stento individuando il passaggio che si snodava tra
l’erba
ormai alta. Pochi passi, un paio di scalini, ed arrivarono davanti alla
piccola
porta principale. Lo
slancio di Mark era
durato ben poco e non aveva avuto il coraggio di aprire. Fu Wesley,
carico di
zaini e valigette di attrezzatura, a passare avanti. Allungò
una mano per abbassare
la maniglia, ed il portone si aprì silenzioso.
Li
accolse un ampio atrio, quasi completamente vuoto.
All’interno,
solo due grandi vasi blu nell’angolo, una bassa cassettiera
in legno sulla
parete di sinistra accanto ad una porta aperta, e davanti a loro una
rampa di
scale che conduceva ai tre piani superiori. L’ultima luce
della giornata
penetrava dalle finestre nonostante fossero coperte da uno spesso
strato di
polvere. River aveva il cuore a mille, e Jack si fece più
vicino a lei. Anche
lui era nervoso e si mordeva il labbro. Il silenzio era quasi
assordante, e si
sentivano solo i loro passi mentre, titubanti, esploravano la prima
stanza, sempre
rimanendo compatti. Wesley, con la valigetta in mano e lo zaino in
spalla, sbirciò
attraverso la porta aperta, trovando davanti a lui solo quello che
rimaneva di
una cucina. “Ok..si sale”. La stanza superiore era
una copia pressoché identica
all’ingresso, solo più piccola perché
questa volta erano due i corridoi che si
aprivano, uno da ciascun lato. “Penso che questo possa essere
un buon posto”
disse alla fine Wes, appoggiando per terra i suoi pesanti fardelli.
Spostò
verso il centro della stanza un tavolo polveroso prima appoggiato al
muro e si
mise immediatamente al lavoro per collegare i monitor. Era tempo per le
due
squadre di partire: “tutti pronti?” chiese Evan
impaziente. Voleva terminare il
suo compito prima che la luce del giorno sparisse dietro le colline.
“No,
aspetta” disse Kit “Voglio andare con
loro” affermò guardando Evan, Jack e River.
Quest’ultima cercò di rassicurare Kit, dicendo che
quella era solo la fase
preliminare, che in fondo era ancora chiaro e che sarebbe andato tutto
bene.
Kit avanzò qualche dubbio, ma alla fine si fece convincere.
Le due squadre si
salutarono e partirono ciascuna per un corridoio diverso, da cui si
dipartivano
scale indipendenti che portavano ai piani superiori.
Mentre
Ken, Mark e Kit erano partiti istintivamente di corsa, in modo
tale da coprire tutti i punti di riferimento nel minore tempo possibile
- cioè
prima che facesse buio - Evan guidava la spedizione con
professionalità, ma
dentro di sé stava tremando. Lui, Jack e River procedevano
con calma ed
attenzione, l’atmosfera era ancora relativamente tranquilla,
e tutti, complice
la luce del sole, sentivano quella piacevole dose di adrenalina ed
euforia,
come prima di una corsa sulle montagne russe. Avventurandosi
nell’edificio
sconosciuto, River fu contenta di vedere negli altri ragazzi la sua
stessa
reazione: ad ogni rumore seguivano risolini agitati, che si
trasformavano in
timide risate genuine al sentire i commenti degli altri. La voce di
Jack si
faceva sempre più acuta ad ogni stanza che esploravano, fino
ad arrivare, dopo
uno scricchiolio particolarmente forte, ad uno strozzato “ooohohoho
smettilaaa”, che a dire di Jack
era stato udibile solo dai cani. In tutto questo Evan cercava di
mantenere una
parvenza di calma sbirciando dalle porte aperte e commentando
“mmmh non mi fido
di questa stanza..e nemmeno di questa..qua credo non
toccherò niente..” mentre
avanzavano nella polvere seguendo
traballanti la mappa consegnata da Wesley.
Nel
frattempo Kit si stava maledicendo per non aver protestato
abbastanza: Mark guidava sorridente la spedizione, e proseguiva a passo
di
marcia ondeggiando le braccia mentre, con la sua voce da baritono,
cantava a
squarciagola una allegra canzoncina.
Ken, in una tale situazione surreale, non riusciva a
smettere di ridere, tanto che aveva dovuto
fermarsi un paio di volte per riprendere fiato. A quel punto
l’unica soluzione
era quella di finire in fretta il lavoro, ed in effetti
mentre
Jack, sostenuto da Evan, si arrampicava su una sedia per
montare la seconda telecamera del terzo piano, la seconda squadra si
trovava al
quarto ed ultimo piano, e Ken aveva piazzato l’ultima
telecamera nella
posizione stabilita. Appena fatto ciò, Mark urlò
nella ricetrasmittente
“fattofattofattofatto”, ed il trio, accese le
torce, iniziò a correre a perdifiato
verso la stanza di Wes, perché il sole era ormai tramontato.
Gli
occhi di Wes stavano guizzando da una telecamera all’altra,
non sarebbe stato
tranquillo finché gli altri non fossero tornati nella stanza
centrale. Pochi
secondi dopo qualcosa attirò la sua attenzione: una sagoma
scura, un movimento
brusco che attraversò velocissimo tre telecamere. “Merda”
disse Wes alzandosi di scatto. Nessuno
aveva ancora raggiunto la sua postazione quando afferrò la
ricetrasmittente ed
iniziò a ripetere “Corridoio ovest, corridoio
ovest, chi c’è in corridoio
ovest??”. Jack, Evan e River, sentito Wes, si girarono
istantaneamente, ma
l’intero edificio venne avvolto
nell’oscurità. Nel silenzio della stanza scura,
anche la luce dei monitor che si rifletteva negli occhi chiari di Wes,
improvvisamente, svanì.
EPISODIO
3
-FINE-
|
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Capitolo 3 *** Episodio 4 – Presentable Liberty ***
Episodio
4 – Presentable Liberty
River
cercò immediatamente la mano di Jack, e stringendola si mise
davanti a lui, in modo da avere le spalle protette. Jack le mise
l’altra mano
sulla spalla: “Cosa facciamo? Cosa facciamo?” disse
guardando davanti a sé. In
quella oscurità riuscirono ad individuare Evan solo quando sussurrò
“seguitemi” e, basandosi sul suo
senso dell’orientamento acquisito in anni di esperienza,
iniziò a dirigersi
verso la stanza di Wes, addentrandosi nei corridoi. Era buio pesto,
nessuna
fonte di luce sembrava funzionare, e ci volle qualche minuto
perché i loro
occhi si abituassero all’oscurità. Eppure, appena
prima di non vedere più
niente, ad Evan era sembrato di intravedere qualcosa sul soffitto, come
fosse
un denso fumo nero, ma decise di non dire nulla. Non era sicuro di
ciò che
avesse visto, e non c’era alcun bisogno di peggiorare la
già precaria
situazione. River, anche in un momento del genere, si sentiva in
qualche modo
sollevata. Le era già capitato di trovarsi in situazioni di
emergenza, come
quando anni prima si era trovata in un deserto montuoso con un gruppo
di amici,
e avevano perso di vista la loro guida. Ognuno aveva messo a
disposizione le
proprie qualità, si erano divisi in gruppi ed avevano
mantenuto la calma
ritrovando poi la strada di casa. Camminando verso il pick up, River
non aveva
potuto fare a meno di dire ad alta voce: “sono contenta di
essere qui con voi”.
Aveva fatto un passo indietro,
affidando a quelle persone la sua vita. Aveva avuto
un’intuizione: fare finta
di potersela cavare senza aiuto quando non era così
può diventare pericoloso,
così aveva accettato ed ammesso di non avere
capacità che potessero essere
d’aiuto in quel frangente, e si era sentita automaticamente
protetta. Quel
momento aveva risvegliato in lei la stessa sensazione familiare: aveva
il cuore
a mille, ma era con persone di cui si fidava. Jack non le aveva mai
lasciato la
mano, e avrebbe seguito Evan ovunque. Mentre camminavano, lentamente le
torce
ricominciarono a funzionare, ma le ricetrasmittenti e le telecamere
portatili
non davano ancora segni di vita.
“Sapete”
disse Jack ad un certo punto, rompendo il silenzio “io..a
casa non ho nessuno con cui parlare. Ed in effetti, neanche fuori sono
molte le
persone con cui vado d’accordo. Ho sempre questo maledetto
mondo nella mia
testa che si fa continuamente strada per uscire e finisce per
sovrastare quello
che c’è fuori. Per cui..non sembra il momento
più adatto, ma..grazie per essere
qui. Voi potreste pensare che io sia un tipo forte ma..non lo sono,
sono un
tipo come tutti gli altri. Non ho niente di speciale.
Quindi..grazie.” River
guardò Jack, non l’aveva mai visto così
serio. Il suo tono di voce era sempre
quello ed i suoi occhi sempre vivaci, ma c’era in quel
momento qualcosa di
diverso in lui. Doveva avergli richiesto un grande sforzo dire quelle
poche
frasi, così gli sorrise e strinse la sua mano più
forte. “Non preoccuparti di
questo, giovanotto” disse Evan girandosi verso di lui.
Sorridendo, continuò a
guidarli verso l’uscita, sentendosi più che mai
responsabile dell’intero
gruppo. Eppure questo per lui non era un peso. Certo era spaventato,
come
sempre quando certi vividi ricordi si affacciavano alla sua mente, ma
questa
confessione gli aveva dato energia, che cercava di mantenere
ripetendosi “è il
mio lavoro. Nessuno può toccarmi. Mi chiamano il pirata del
paranormale. Questo
è il mio campo”.
Giunti al momento di
attraversare una delle stanze interne della casa per raggiungere il
lato
opposto del piano, dove si trovavano le scale per scendere, si fermarono tutti e tre
sulla soglia. Doveva
essere la stanza più grande della casa dopo
l’atrio all’ingresso, e la quasi
totale assenza di mobili la faceva sembrare enorme. I soffitti erano
molto
alti, e due lampadari di cristallo ondeggiavano silenziosamente sul
soffitto. “Entrare
qui sembra una pessima idea” disse Jack guardando in alto. Il
pavimento, a
differenza del resto della casa, era in legno e scricchiolava ad ogni
loro
passo: più cercavano di essere silenziosi più
sembravano attirare l’attenzione
su di loro. Erano ormai quasi arrivati alla porta di uscita quando
sentirono
dei rumori provenire dal piano di sopra, un alito di vento dal tono
stranamente
umano..“cos’è questo suono
cos’è questo suono??” Jack
afferrò River per la
vita, impedendole di muoversi, mentre Evan continuava a camminare,
allungando la
mano per tirare la maniglia della porta. River non aveva la minima
intenzione
di lasciare l’abbraccio sicuro di Jack, ma Evan era il loro
punto di
riferimento, la loro guida, e senza di lui non sarebbero potuti andare
da
nessuna parte. Cercò di fermarlo -
“Evan!” – ed in quel momento un frammento
di
legno cadde dal soffitto, a pochi centimetri da lui. Quando si
avvicinarono il
ragazzo si era seduto a terra, e videro che stava tremando, ed era
sudato
fradicio. Quasi a cercare conforto, la sua mano strinse la gamba di
River. Era
insanguinata. Una scheggia di legno appuntita l’aveva colpito
al braccio, ed
anche se la ferita non sembrava profonda sanguinava copiosamente.
“Come ti
senti?” disse River accovacciandosi e pensando a cosa poter
usare per pulire il
taglio “sto bene, sto bene..torniamo da Wes..”
disse Evan con il filo di voce
che gli restava.
Wes,
nonostante ricevesse solo un
fastidioso rumore elettrico dalla sua radio, non aveva smesso di
cercare di
comunicare con gli altri, ma non aveva ricevuto alcuna risposta. Seduto
sulla
sua sedia di fronte ad i monitor spenti, non aveva modo di sapere in
che
situazione fossero i suoi compagni. Per evitare di continuare a
guardarsi le
spalle ad ogni movimento d’aria si sedette per terra, spalle
al muro, e si mise
in ascolto alla ricerca di voci familiari. Non era prudente muoversi da
lì da
solo, nessuno avrebbe saputo dove era andato, ed oltre a cercare di
fare
ripartire i computer, stare seduto lì era tutto
ciò che potesse fare. Sospirare
ed aspettare, nel silenzio della notte.
Jack
indossò di nuovo la sua felpa blu, ora sporca di sangue.
“Questo è quello che
possiamo fare per ora” disse River studiando il braccio
sinistro di Evan. Le
sue conoscenze di primo soccorso, acquisite osservando il lavoro dei
suoi
colleghi in ospedale, si erano rivelate utili. “Wesley
indossa sempre una
fascia di stoffa annodata al polso, per un qualche motivo
estetico..” rispose
Evan accennando un sorriso, “una ragione in più
per andarlo a recuperare”
aggiunse Jack sistemandosi il cappello. Avrebbero voluto rimanere in
quella
stanza qualche minuto per riprendere fiato, ma sapevano tutti che non
sarebbe
stata una buona idea. Si guardarono negli occhi: loro tre erano tutto
quello
che avevano in quel momento. Non ne erano certi, ma doveva ormai essere
tarda
serata e qualche stella faceva timidamente capolino, illuminando
debolmente il
pavimento scuro. “Credo sia meglio se proseguiamo”
disse River. Jack aiutò Evan
ad alzarsi ed uscirono dal salone trovandosi in un altro corridoio,
apparentemente identico al precedente. Alla seconda svolta a destra
capirono
che qualcosa non andava: sembrava stessero girando in tondo o meglio,
che il corridoio si stesse
ripiegando su se
stesso in un cerchio infinito. Dopo un tempo indefinibile raggiunsero
la fine
del passaggio, e Jack aprì la porta aspettandosi di aver
raggiunto, finalmente,
la rampa di scale. Quello che si trovarono davanti invece li fece
fermare,
ancora una volta senza parole. La porta dava su un altro corridoio,
identico.
La disperazione stava prendendo il sopravvento, ma non ebbero neanche
il tempo
di pensare che sentirono un rumore sordo alle loro spalle, come
qualcosa fosse
caduto dal soffitto. No, non caduto giù, saltato
giù. “Mai guardarsi indietro”
pensò istintivamente River, ma non poté fare a
meno di buttare lo sguardo oltre la spalla di Jack. Una donna pallida,
con un
logoro abito azzurro, li fissava con la testa reclinata su un lato, gli
occhi
sbarrati erano tutto ciò che potevano vedere del suo viso,
coperto da lunghi
capelli neri e lisci. Jack urlò ed Evan spinse i compagni al
di là della porta,
chiudendola dietro di lui. Non riusciva a controllare il tremito delle
sue
mani, con cui cercava di tenere chiusa la porta, come se delle assi di
legno
potessero essere di ostacolo ad uno spirito. “Wes
perché, perché mi hai portato
qui” pensava “io ne ero
uscito..perché..”. River questa volta non era
riuscita
a trattenere le lacrime e cercava inutilmente di riprendere fiato,
mentre Jack
le stava accanto, visibilmente scosso. Ansimava ed i suoi grandi occhi
azzurri
erano spalancati a fissare nel vuoto. Poco più avanti sulla
destra, nel
silenzio interrotto solo dai loro respiri, una porta si aprì
da sola,
lentamente. Non si era spalancata, solo aperta di una decina di
centimetri,
come non fosse stata chiusa adeguatamente e la serratura fosse saltata.
Rivolsero tutti lo sguardo verso quella fenditura nera.
Dall’interno proveniva
il pianto di un neonato.
“Dove
siamo?” chiese Mark. Stavano camminando da svariati minuti
per
corridoi che sembravano tutti uguali. Kit aveva preso il comando e
stava
cercando di guidare il gruppo verso l’uscita ricordandosi
ogni svolta che
avevano preso all’andata, anche non sembravano fare molti
progressi. Era
bastato qualche potente scossone di Mark alle torce perché
riprendessero a
funzionare, e se prima Kit non aveva una grande opinione di lui, dopo
quanto
era accaduto notò come il ragazzo fosse in grado di
mantenere la
concentrazione, e più di una volta le aveva suggerito la
strada giusta. Ken, invece,
non aveva detto una sola parola da quando si trovavano in quella
situazione. “Beh?
Certo che potresti anche aiutarci, ce l’hai tu la mappa,
no?” sbottò Kit ad un
certo punto, ma Ken ancora non rispose, tenendo lo sguardo basso.
“Sto parlando
con te!” proseguì, irritandosi per la sua mancanza
di collaborazione. “Dammi
tempo, ok?” rispose allora Ken alzando la voce
“Io..potrò sembrare anche grande
e grosso ma non sono forte, né coraggioso.. la mia fama, il
mio lavoro..sono
dove sono solo perché ho trovato le persone giuste con cui
collaborare..ma ora
tutti si aspettano grandi cose da me, e io non ho niente! Tutto questo
non
viene da me! Non so come fare, non so cosa vuole la gente da
me!” Ken, con gli
occhi spalancati e lucidi, rimase a fissare i due compagni. Kit non
poteva
accettare una cosa del genere. Ken era alto, forte, muscoloso. Come
poteva non
avere un briciolo di stima in se stesso? Cosa lo aveva condotto
lì? Non aveva
avuto nemmeno il coraggio di dire no ad un piccolo invadente quale era
Mark,
cosa pensava che avrebbe ottenuto in un posto del genere? Kit aveva
fatto un
passo verso di lui per costringerlo ad affrontare la realtà
dei fatti quando
Mark prese la parola. “Mi dispiace Ken.” disse
dolcemente “non immaginavo..”
“lascia stare” Ken aprì la mappa e dopo
averle dato una rapida occhiata indicò
la strada.
Mentre
proseguivano il loro cammino in silenzio, Ken in testa e Kit
che controllava ogni sua svolta, passarono accanto ad uno sgabuzzino da
cui
proveniva una fievole luce. Attirato da questa stranezza Mark si
fermò per
affacciarsi alla porta aperta, e vide una torcia abbandonata che
giaceva sul
pavimento. Pensò potesse essere utile, ed entrò
velocemente nella stanza.
Ma
la
porta si chiuse dietro di lui.
Mark
si girò e cercò di aprirla,
ma la maniglia non si mosse di un millimetro, quasi fosse stata finta.
Iniziò a
battere i pugni sulla porta, con tutta la sua forza dei suoi muscoli,
ma non
successe nulla. Guardò fuori dalla finestrella che si apriva
nella parte
superiore della porta e vide solo un corridoio deserto. Eppure era
certo che Kit
e Ken lo stessero precedendo di qualche metro..
“Kit! Ken mi senti? Dove sei
finito?!”. Pensò che fossero corsi via per
cercare aiuto e si guardò intorno per la prima volta,
ansimando. La stanza era
minuscola, non più grande di un ascensore. Al suo interno
c’erano un tavolo di
legno scuro ed una brandina. Mark aveva non più di un paio
di metri quadri per
muoversi, ed una stretta apertura nell’angolo in alto a
destra sembrava dare
sull’esterno. Ma era troppo in alto per essere raggiunta e
troppo piccola anche
solo per farci passare una mano. Tutto era stranamente silenzioso. Mark
aspettò
per quelli che gli sembrarono minuti interminabili, finché
improvvisamente
sentì la voce di Ken, chiara e forte, che lo chiamava.
“Io vi sento! Ken!” Mark
non capiva. Sembrava che la voce provenisse da pochi centimetri di
distanza,
come se Ken fosse appena al di là della porta, ma non c’era. Mark poteva vedere
chiaramente il corridoio
dall’apertura, ma il suo amico non
c’era. “Mark..Mark
io spero tu sia qui da qualche
parte..Mark? Mi dispiace amico..” -la voce di Ken si
allontanò. “NO! NON ANDARE
VIA, KEN! KEN! TI SENTO!” “è
inutile..non credo sia qui..anche se non so dove
possa essersene andato da solo” commentò Kit.
Nessuno l’aveva visto entrare in
quello sgabuzzino. “No!
Sono qui, ma non
posso parlare!! Ken! ....Siete lì?”
improvvisamente, silenzio. “Tutto questo
non ha senso.”
Mark,
nella penombra, si sedette sulla brandina, tenendosi la testa tra le
mani ed
affondando le dita nei folti capelli corvini. Il senso di solitudine,
complice
il buio, si faceva sempre più forte, pesante,
insopportabile. La sua mente
iniziò a vagare, sfiorando tutto ciò che gli era
capitato negli ultimi anni.
Pensò a sua madre ed a suo fratello, che aveva dovuto
lasciare per trasferirsi
in un’altra città. Certo, il lavoro lì
andava molto meglio, ma non era abituato
a stare lontano da loro, specialmente da suo fratello minore. Erano
sempre
stati inseparabili, anche e specialmente dopo il divorzio dei loro
genitori. I
loro genitori.. “Papà..a volte vorrei che fossi
qui per vedermi” mormorò tra sé
e sé, una lacrima gli solcò il viso. Suo padre
era morto anni prima, di tumore.
Ricordava ancora quando gli aveva dato la notizia della sua malattia,
Mark era
solo un bambino all’epoca e suo padre, con il distacco tipico
del suo passato
da militare, gli fece semplicemente leggere il referto medico, senza
dirgli una
parola. Ora bastava che Mark abbassasse lo sguardo per ricordarsi di
quella
sofferenza. Una cicatrice verticale, lunga più di venti
centimetri, segnava il suo
corpo muscoloso, dal petto all’ombelico. Era stato operato
per lo stesso male
un paio di anni prima, e sembrava che lui, per ora, ce
l’avesse fatta. Aveva
dovuto vendere tutto ciò che possedeva, mobili compresi, per
potersi permettere
quell’operazione. Tutto ciò che gli era rimasto
erano il suo fedele computer ed
un divano. Ma ce l’aveva fatta. Fino a quel momento almeno.
Mark si alzò, gli
occhi annebbiati dalle lacrime, e si diresse verso la porta, per
guardare fuori
ancora una volta, verso il corridoio deserto dove aveva sentito per
l’ultima
volta la voce del suo amico.
EPISODIO 4
-FINE -
|
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Capitolo 4 *** Episodio 5 – I’ve found something and I don’t know what to do ***
Episodio
5 –
I’ve found something and I don’t know what to do
Erano
pietrificati. I
singhiozzi di un neonato provenivano chiaramente dalla porta che si era
appena
socchiusa alla loro destra. Non era il pianto di un bambino affamato o
assonnato, ma di un bambino disperato che lottava per respirare tra le
lacrime.
Non avevano scelta: non avrebbero certo potuto tornare indietro dopo
ciò che
avevano visto nel corridoio precedente, dovevano per forza passare
accanto a
quella porta. Evan fece un passo avanti. Aveva solo due anni
più di Jack e
River, ma sentiva il dovere di essere protettivo nei loro confronti.
Era
terrorizzato, un turbinio di ricordi affollava la sua mente, ad ogni
passo
sentiva una voce che, dal passato, lo minacciava. Da un po’
di tempo a quella
parte ogni suo passo si era fatto pesante, come si portasse sulle
spalle una
folla di persone disperate che gli urlava nelle orecchie, ogni singolo
spirito
che aveva incontrato in 8 lunghi anni di investigazioni. Sentiva la sua
vita
appesa ad un filo, ma il suo orgoglio gli impediva di ammetterlo.
“Sono il
pirata del paranormale e nessuno può toccarmi”
ripeteva tra sé e sé come un
mantra, la voce tremante.
Il corridoio era
stretto, stranamente illuminato di una luce soffusa proveniente da
lampade a forma
di fiore, fissate al muro. Le pareti erano dipinte di una
tonalità di marrone
chiaro, c’erano quadri alle pareti e mobili di legno scuro
ornati con centrini
di pizzo: era maltenuta e l’intonaco si stava scrostando, ma
quella era l’unica
area del palazzo che non sembrasse disabitata. Poco più
avanti, sul lato
sinistro, si trovavano due finestre dagli infissi bianchi, come due
occhi che
si affacciavano su un cielo ormai deserto e di un nero quasi denso.
Evan pensò
che la soluzione migliore sarebbe stata attraversare il corridoio
mantenendosi
al centro: di certo voleva evitare che qualcosa – o qualcuno
– saltasse fuori
all’improvviso da dietro il vetro.
Durò
una frazione di
secondo. Mentre Evan pianificava in silenzio, Jack si stava avvicinando
alla
porta. Dubbioso ed intenerito aveva iniziato a chiamare piano:
“piccolo? ..piccolo?”
- “Allontanati da lì” gli
intimò Evan, a metà tra un sussurro ed un urlo.
Ma
Jack si girò tranquillo verso di loro dicendo
“C’è qualcosa là dentro,
sembra
un bagno..”. Gli bastò un altro singolo passo
verso la stanza perché una mano
putrefatta uscisse dal buio e richiudesse con violenza la porta che si
era
aperta poco prima. Il ragazzo per lo spavento si gettò
all’indietro, urlando e
cadendo rovinosamente. A terra, gli occhi sbarrati, si reggeva con il
braccio
destro mentre il sinistro era alzato a proteggersi il volto. River
corse
immediatamente da lui e gli si inginocchiò accanto
preoccupata. “L’hai vista?
L’hai vista??” “Sì Jack.. Stai
bene?” rispose River aiutandolo ad alzarsi. Jack
non rispose, ma sembrava rincuorato dal fatto che River gli stesse
ancora
stringendo il braccio. Evan, come al solito, li riportò alla
realtà toccando
loro le spalle, e fecero gli ultimi metri del corridoio quasi di corsa.
Arrivati
alla fine, Evan spalancò la porta: davanti a loro, una
ripida rampa di scale
scendeva nell’oscurità.
Ken e Kit erano
confusi. Mark era lì un attimo prima, ed in una frazione di
secondo sembrava
sparito nel nulla. Dove poteva essere andato, così senza
avvisare? Se fosse
stato preso da qualcuno..ma non avevano sentito una parola, non un
urlo. Erano
fermi in quel corridoio debolmente illuminato, senza sapere cosa fare.
Kit si
guardò indietro. Non una porta si apriva sulle pareti di
quel luogo, non esisteva alcun
percorso alternativo
che Mark avrebbe potuto prendere. Era un
corridoio. Dritto.
“Non
sono un opportunista, sai’’ disse
all’improvviso
Ken, alle spalle di Kit “Ho avuto fortuna ma non vivo di
rendita. Mi impegno
ogni giorno a fare il mio lavoro anche se i risultati non sono niente
di speciale.
Scrivo i miei articoli..brevi e stupidi, per la verità. Ma
quando cerco di fare
qualcosa di più serio nessuno mi segue più e sono
costretto a lasciare le cose
a metà. I miei lettori non sono più di un
centinaio. I grossi numeri me li
hanno portati le collaborazioni...gli articoli con il suo
nome insieme al mio. Quello che cercano è lui, non
sono io. La
gente che mi segue..io non la conosco e loro non conoscono
me.” Erano soli, Ken
si ergeva in tutta la sua altezza ad un paio di metri di distanza. Si
sforzava
di guardare Kit negli occhi, ma inevitabilmente il suo sguardo si
abbassava,
per l’imbarazzo forse. A Kit quella conversazione in quel
preciso momento
sembrava fuori luogo, ma intuì che Ken aveva bisogno
di dire qualcosa, e lo lasciò proseguire. “Mark mi
è
capitato tra capo e collo. Avevo letto qualche suo lavoro e, cavolo,
lui sì che
aveva potenziale. La prima volta che lo incontrai e mi fermai a
parlargli, con
quel suo fare spaesato ci ha messo 10 minuti per realizzare che gli
stavo
parlando perché sapevo chi fosse. Penso che con la sua
estrema semplicità sia
quello che vorrei essere io. Per questo certe volte lo evito: io non lo
sopporto..”
Ken era scosso,
irriconoscibile, e non aveva mai parlato così tanto in vita
sua probabilmente.
Kit a questo punto si trovò nella condizione di cambiare
idea o, per meglio
dire, di non sapere più cosa pensare. Ken poteva essere un
codardo, poteva aver
approfittato della situazione o anche solo esserci rimasto incastrato
dentro.
“Poveraccio” pensò. Ma non solo non
aveva avuto il coraggio di crearsi una sua
personalità, ma nemmeno di ammettere i suoi veri sentimenti
per Mark. E quello
che è peggio è che Mark lo considerava una
certezza, un amico, forse il suo
unico amico in una città sconosciuta. E tutto questo si
basava su fatti
taciuti. Kit non poteva passarci sopra. Poteva anche avere una
mentalità
rigida, ma questo gli permetteva di sapere cosa fosse giusto e cosa
sbagliato, e
Ken stava sbagliando.
Tante persone
guardavano a Mark per ricevere conforto in
momenti difficili, e lui trovava sempre il tempo di rispondere alle
lettere di
tutti, ringraziandoli poi per il loro sostegno. Questo era quello che
rendeva
Mark così speciale agli occhi di tutti: “Io non
sarei niente senza di te”
diceva ai suoi lettori. Era dedito al suo lavoro, giorno e notte, e
quando si
ammalava –il che accadeva piuttosto spesso per la
verità, era infatti di salute
cagionevole- si scusava pubblicamente, perché sarebbe
riuscito a scrivere un
solo articolo giornaliero invece dei canonici due. La sua simpatia, la
sua
intelligenza, illuminavano le giornate di chi gli stava vicino.
Possedeva
qualcosa che attirava la gente a lui, qualcosa che Ken non possedeva.
Ma nessuno
dei due aveva alcuna colpa..
“..torniamo
indietro. Deve essere qui
da qualche parte.” disse Kit con decisione.
Le scale erano
ripide,
ogni gradino strettissimo, tanto da costringerli e scenderle in
diagonale.
River si reggeva alle spalle di Jack, che essendo un gradino
più avanti fungeva
da solida base per la discesa.
“Dove
diavolo siamo??”
sentirono esclamare Evan sconsolato, che era arrivato a destinazione
qualche
secondo prima di loro. Sceso l’ultimo scalino River si
guardò intorno: sembrava
un seminterrato. Le pareti erano in cemento grezzo, la stanza
completamente
vuota, fatta eccezione per un angolo della grande stanza, occupata da
un cumulo
di attrezzi impolverati e, lì accanto, sulla destra,
l’ennesima porta. Evan si
passò le mani tra i capelli. Non
c’era
un seminterrato quando erano entrati - chissà quanto tempo
prima ormai. Ognuno
di loro ricordava chiaramente di avere esplorato in lungo ed in largo
il
pianterreno, seguendo Wesley mentre cercava un luogo adatto e fissare
le sue
attrezzature. Non avevano trovato nessuna scala che conducesse ad un
piano
inferiore. Iniziavano ad essere stanchi, avevano camminato per ore
probabilmente, e non avevano chiuso occhio. “Fermiamoci un
attimo, devo
pensare” disse Evan rassegnato, e si sedette a terra con un
tonfo, a gambe
incrociate, i gomiti puntati sulle ginocchia. Jack e River lo
raggiunsero, appoggiandosi
al muro gelido. Jack teneva la bocca serrata, assumendo
un’espressione seria,
quasi perplessa. I suoi occhi grandi persi nel vuoto, come a cercare di
afferrare il filo di quella notte priva di senso. River si sedette
accanto a
lui, erano così vicini da sfiorarsi. Aveva bisogno di
sentire che c’era
qualcuno con lei, la loro presenza era la sua salvezza. C’era
qualcuno su cui
avrebbe potuto contare se fosse stata in difficoltà,
qualcuno che non l’avrebbe
lasciata indietro. Guardando gli occhi blu del ragazzo pensò
a quanto fosse
contenta che lui fosse lì. Sapeva che probabilmente
affidarsi a Jack non era la
migliore delle idee: era impulsivo, sprovveduto, eppure in qualche modo
la sua
presenza la rassicurava più del povero Evan, che di fatto li
aveva portati fino
a lì. River non riusciva a comprendere Evan fino in fondo:
sembrava ostentare
fiducia in se stesso, sembrava sapere cosa fare. Eppure a volte era
certa di
vedere in lui un sorriso tirato, come se dovesse difendersi da
qualcosa,
rifiutando di mostrare qualsiasi altra emozione che non fosse la sua
forza.
C’era qualcosa che Evan non aveva detto, ma qualsiasi cosa
fosse per il momento
sembrava riuscire a tenerlo sotto controllo.
Non era il
momento di fare domande scomode, riportare alla luce i loro
dubbi e le loro debolezze avrebbe potuto causare un danno irreparabile.
Dovevano mantenere la calma.
Il sonno doveva
aver
preso il sopravvento perché si svegliarono tutti di
soprassalto all’udire il
fischio del vento notturno. “Che ore sono?” chiese
Jack con un sobbalzo, ancora
praticamente nel dormiveglia. Possibile che nessuno ci avesse pensato
prima di
allora? Quante ore di buio rimanevano ancora? Evan avvicinò
il viso al suo
orologio da polso finché la sua debole vista gli permise di
scorgere le
lancette. “Le..otto di mattina?” disse infine, a
metà tra un’affermazione ed
una domanda. Non era possibile. Era primavera inoltrata, come poteva
essere
ancora buio a quell’ora? Probabilmente qualsiasi cosa
abitasse quel luogo aveva
messo fuori uso qualsiasi strumento, anche il più semplice.
Questa ultima
scoperta risvegliò in loro un ulteriore senso di smarrimento
profondo. Ci fu un
attimo di silenzio, interrotto da un’esclamazione di sorpresa
di Jack: si alzò
un istante dopo, dirigendosi deciso verso gli oggetti abbandonati
accumulati
poco lontano. “Questa
me la prendo”
disse Jack deciso, caricandosi sulle spalle una motosega. “E
a che cosa ti
servirebbe” disse Evan, appoggiando la testa al muro.
“..non me ne frega un
cazzo.” disse Jack dopo qualche secondo di riflessione. Poi
si sistemò il
cappello, aprì la porta con un calcio ed uscì
dalla stanza senza dire parola.
I due
ripercorsero il corridoio in senso opposto fino
all’atrio precedente. Non avevano smesso un attimo di
chiamare Mark, sottovoce,
quasi non volessero disturbare chi abitava quelle stanze.
“Così non funziona,
non può funzionare” disse Kit “Questo
posto è enorme, non possiamo tornare
indietro ad oltranza. Ci metteremo un’eternità a
ripassare da ogni sala”. Ken
sapeva che Kit aveva ragione, ma non poteva accettarlo. Il senso di
colpa lo
divorava: dopo tutto quel tempo non aveva mai detto una parola sincera
a Mark,
che lo considerava un amico, un fratello, che gli voleva bene
sinceramente. Mai
una volta ciò che aveva pronunciato era stato uguale a
ciò che aveva pensato.
Non poteva abbandonarlo. Non ora. “Solo questo
piano” disse infine Ken. Kit fece
un cenno di assenso, e si diressero verso il corridoio precedente.
Quando
aprirono la porta ciò che si mostrò ai loro occhi
fu raccapricciante. Avrebbero
dovuto trovarsi ad un piano relativamente basso, certamente non
all’ultimo,
dato che erano proprio partiti da lì ore prima. Ed invece si
trovarono in un
sottotetto. O meglio, in una soffitta adibita a studio pittorico. Una
fievole
luce filtrava dalle finestre, e piccole particelle di polvere
galleggiavano
nell’aria. Poteva quasi sembrare un luogo pacifico, se non
fosse stato per il
contenuto della stanza. Le pareti erano ingombre di tele, la maggior
parte
incorniciate, altre appese semplicemente con delle puntine, storte e
lacere.
Erano senza alcun dubbio quelle stesse tele di cui Wes giorni prima
aveva parlato,
e che aveva mostrato loro: i grumi di colore rosso scuro erano in
rilievo sulla
tela scurita dal tempo, ed il pavimento era appiccicoso. Evidentemente
quello
sulle tele non era colore. Era indubbiamente sangue, carne, materia. I
pezzi
del puzzle si stavano lentamente incastrando. La pittrice che sembrava
non
riuscire ad avere figli, i testimoni che invece raccontarono di aver
sentito
dei pianti di bambino, ed il marito che all’improvviso
impazzì. Il silenzio era
assordante. La storia era lì davanti a loro ma nessuno dei
due osava collegare
le ultime tessere. Non entrarono nemmeno in quella stanza. Richiusero
la porta
ed indietreggiarono di qualche passo, il respiro pesante, nemmeno in
grado di
sbattere le palpebre. Quando finalmente furono abbastanza lontani si
voltarono.
Non osarono nemmeno correre, solo camminare a passo spedito verso il
corridoio
in cui si erano fermati poco prima ed arrivati nel punto esatto in cui
Ken
aveva confessato i suoi sentimenti, proseguirono verso il termine del
corridoio.
“..Mark” era tutto quello che Ken riusciva a
pensare “..dove diavolo sei..ho
bisogno di te..” ma non dissero una parola finché
non aprirono la porta davanti
a loro, pronti ad affrontare l’ennesimo passaggio scuro. Ed
invece per la prima
volta dopo ore non poterono fare a meno di spalancare la bocca per la
sorpresa.
“….Wes??”
Jack stava
correndo a balzelloni giù per le scale, seguito da
River ed Evan, che faticavano a stargli dietro. In lui scorreva una
rinata
energia, e chissà da dove veniva. “Jack
aspetta!” lo chiamò River “dove stai
andando?” “Giù!” rispose Jack
aspettando finché non poté afferrarle la mano
“andiamo!” disse, incrociando lo sguardo di Evan
per un secondo. Lì Evan capì:
Jack doveva aver intuito, in qualche modo, che stava perdendo le forze,
e lo
stava aiutando a prendersi una pausa. Sapeva che Evan si sentiva
responsabile
delle loro vite, e che allo stesso tempo c’era qualcosa
che gli pesava enormemente. Gli stava dando tempo per
occuparsi di quel qualcosa
prendendo in
mano la situazione. Quello che Jack non poteva sapere era che
quell’ombra
oscura che Evan si portava dietro non era nient’altro che le
minacce ricevute
nelle sue passate escursioni, il ricordo del suo cuore che smetteva di
battere
per qualche interminabile secondo, e che si faceva ad ogni passo, ad
ogni
rumore sempre più presente e terrificante. Scesero
un’altra rampa di scale,
pronti a proseguire il loro cammino nei meandri di quella casa, quando
guardando al centro della stanza scorsero ciò che non
speravano più di vedere:
i computer di Wes.
Wes si
alzò da terra e
corse verso Evan, stringendolo a sé. “Hey
amico” disse lui dandogli delle
pacche sulla schiena ed a stento trattenendo le lacrime.
Pensò che forse se la
sarebbe cavata anche quella volta. River si diresse velocemente verso
Kit, che
si trovava in piedi accanto ai monitor, e si scambiarono un abbraccio
caloroso,
mentre Ken non riusciva a stare fermo e chiedeva con insistenza a tutti
“avete
visto Mark? Qualcuno ha visto Mark??!”, ma nessuno aveva
avuto sue notizie.
Wes
ascoltò
attentamente i racconti dei due gruppi mentre, seduto a terra, medicava
il
braccio ferito di Evan. La storia iniziava a prendere corpo: la donna
doveva
aver avuto dei figli, come testimoniavano i pianti sentiti dai vicini -
e, a
questo punto, come sapeva bene anche Jack - ma doveva essere impazzita
ed
averli uccisi. Questa scoperta aveva condotto anche il marito alla
pazzia, ma
di cosa ne fosse stato della donna nessuno lo immaginava. I monitor di
Wesley
non trasmettevano nessuna immagine, ma lo schermo scuro era
retroilluminato. Wes
era riuscito a far funzionare anche il piccolo riflettore che aveva
portato con
sé e, sistemato poco lontano e puntato a dovere, la stanza
era relativamente
ben illuminata. Nessuno di loro sapeva che ora fosse, e niente sembrava
quadrare: Kit e Ken ricordavano chiaramente come la luce entrasse dalle
finestre della soffitta, mentre Evan, Jack e River non vedevano la luce
del
sole da quando erano entrati in quell’edificio per la prima
volta. Ken e Kit
avevano forse visto il ricordo di qualcuno che abitava in quella casa?
L’orologio
di Evan, l’unico disponibile, segnava ora le 13, ma fuori il
cielo era buio
come a notte fonda.
Tutti sapevano
che la
porta, la salvezza, si trovava al piano inferiore. Così
vicina eppure.. quanto
tempo ci avrebbero impiegato per arrivarci? L’edificio
sembrava cambiare a suo
piacimento, guidarli verso ciò che voleva
vedessero. “Abbiamo vagato per ore..non siamo arrivati qui
insieme per caso”
realizzò River seguendo quel pensiero “ci hanno permesso di arrivare qui insieme.
Vogliono qualcosa”. “E allora insieme
andremo a cercare Mark” disse
Wesley deciso, dispiegando sul pavimento la mappa
dell’edificio che portava
nella tasca dei pantaloni “ho bisogni di tutti, cerchiamo di
trovare un
pattern”
“è
inutile, Wes.” disse Evan da un angolo dell’atrio
“ogni
volta che viene aperta, ogni porta dà su una stanza
diversa”.
-EPISODIO
5-
FINE
------------------------Angolino!
E così eccoci al 'capitolo' 5!
Nei lontani giorni in cui ebbi modo di leggere questa fanfic ad un
certo punto
ci fu una specie di pausa tra due capitoli,
dovuta a varie problematiche personali, e non ricordo se si trattava
del 4/5 o
del 5/6, sembra come esserci una sorta
di raffreddamento, di cambiamento nel tono di scrittura ma
può darsi che fosse
solo una mia impressione.
Ad ogni modo, spero che qualcuno faccia davvero lo sforzo di scrivere
qualcosa
e ci dia un giudizio..! Vi fa davvero così schifo? .-.
O la considerate noiosa? Boh, ditelo!
Non sto 'pregando' per delle recensioni, solo che, non so, credo di
aver
scritto cose molto peggiori e di aver comunque ricevuto un parere!
Va beh, liberi..!
Alla prossima
|
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Capitolo 5 *** Episodio 6 – HELLO MONSTER ***
Episodio 6
– HELLO MONSTER
La debole luce
delle stelle
illuminava uno stretto rettangolo sul pavimento gelido. Sdraiato sulla
piccola
branda, un braccio sollevato a coprirsi gli occhi, mille pensieri
affollavano
la sua mente, ma sembrava non riuscire ad afferrarne neanche uno.
Decise di sollevarsi
lentamente, poiché non aveva la minima idea di quanto tempo
fosse passato
dall’ultima volta che si era alzato in piedi. Prima si
sedette lentamente sul
bordo del letto, i gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani
abbandonate in
grembo, poi alzò gli occhi, prese coraggio, e fece quei due
passi che lo
separavano dalla porta. Quella piccola apertura era la sua finestra sul
mondo:
un corridoio vuoto e silenzioso. Appoggiò una mano sulla
porta, gelida anche
quella, come a cercare un contatto con ciò che
c’era dall’altra parte. Si
trovava in un limbo e non aveva modo di uscirne. Poi accadde qualcosa
di
inaspettato: per la prima volta dopo un tempo interminabile
sentì qualcosa. Un
rumore...dei passi che provenivano dal corridoio, sempre più
vicini.. finché
sembrarono fermarsi a poca distanza dalla porta. Fu un attimo:
un’ombra scura
apparse silenziosa al di là delle sbarre, a qualche metro da
lui. Mark accennò
un gemito di spavento che gli morì in gola. Si
trovò immediatamente incapace di
distogliere lo sguardo da quella figura che, pur non possedendo occhi,
sembrava
stare ad osservarlo. In un misto tra sorpresa e timore, i suoi intensi
occhi a
mandorla si strinsero ancora di più ed istintivamente si
fece più vicino all’apertura.
Bastò una leggera pressione della sua mano perché
la porta si aprisse da sola,
verso l’esterno. Mark non poteva credere ai suoi occhi: era
un inganno? O
poteva fidarsi? Alla fine il suo coraggio prevalse e diede un ulteriore
colpetto alla porta, che si aprì con un cigolìo.
“Grazie..credo.” Come fosse
un’interferenza, la figura sparì dalla sua vista,
e Mark si trovò nel corridoio
dove aveva visto Kit e Ken l’ultima volta. Lo percorse in
lungo ed in largo, eppure
non solo non trovò alcuna scala per scendere ai piani
inferiori, ma nemmeno
sembravano esserci delle porte che conducessero ad altre stanze. Tranne
una,
proprio in fondo al corridoio. Quando Mark la aprì si
trovò davanti un buio più
denso di quello che avesse mai visto, quasi come se la porta desse su
un vuoto
eterno, cosmico. Richiuse la porta senza esitazione, appoggiandoci
sopra
entrambe le mani. Mark ripeté più volte lo stesso
percorso, sperando che la
pianta dell’edifico cambiasse misteriosamente come aveva
fatto tante volte, ma
nulla accadde. “Hey dove sei? Cosa devo fare?
Perché l’hai fatto?” chiedeva
lentamente, cercando di mantenere la calma. Studiò a lungo,
con lo sguardo e
con le mani, ogni centimetro delle pareti per cercare indizi,
incongruenze,
qualcosa che gli desse un appiglio su cui basarsi. Anche solo
l’idea di
rimettere piede in un’altra stanza sconosciuta gli dava
nausea. Ma dopo aver
visitato ogni angolo dello spazio a sua diposizione sembrava
l’unica cosa
rimasta da fare, l’unica porta rimasta da attraversare.
Aprì la porta, fissò
quell’oscurità per qualche secondo stringendo i
pungi agitato, il respiro che
si faceva pesante..poi fece spazio nella sua mente per la
determinazione.
Quella determinazione, quella forza che non lo aveva mai abbandonato
neanche
nei momenti più bui della sua vita. In realtà,
come lui stesso aveva ammesso
una sera con Ken dopo una lunga chiacchierata, l’idea di
morire non lo
spaventava più così tanto. Ci era andato vicino
dopotutto, ed aveva avuto il
tempo per accettarlo. Appena messo piede nella stanza la porta si
chiuse con un
tonfo dietro di lui. Mark chiuse gli occhi. Poi sentì il
pavimento muoversi
sotto i suoi piedi.
“E
allora insieme andremo a cercare Mark” disse Wesley
deciso, dispiegando sul pavimento la mappa dell’edificio che
portava nella
tasca dei pantaloni “ho bisogno di tutti, cerchiamo di
trovare un pattern”.
“è
inutile, Wes.” disse
Evan da un angolo dell’atrio “ogni volta che viene
aperta, ogni porta dà su una
stanza diversa”.
Per la verità non ci fu bisogno di andare a cercare Mark,
perché Mark cadde,
letteralmente, dal cielo. Con un tonfo.
“…..ooowwwiee.” disse lamentoso,
sfregandosi il fondoschiena con la mano. Alzò poi gli occhi,
l’espressione
ancora sofferente, per incrociare altri sei sguardi perplessi e sei
bocche
spalancate. “Ma cos..dove. COME” Jack
scoppiò in una risata fragorosa, come suo
solito. La sua allegra rumorosità era tornata, per qualche
minuto almeno. Ken corse
verso di lui: “eheey amicoo!” disse, e lo
abbracciò scompigliandogli i folti
capelli, praticamente sommergendolo. Ken infatti era un ragazzone alto,
mentre
Mark era più basso di lui di quasi una ventina di
centimetri. Ken non sembrava
volerlo lasciare, tanto che River se lo immaginò mentre
portava Mark in braccio
per il resto del tempo, ed un sorriso apparve sul suo volto. Erano di
nuovo
tutti insieme. In una pessima situazione, ma erano di nuovo insieme.
L’entusiasmo
non durò a lungo: dovevano elaborare un piano, e
l’unica possibilità era quella di capire cosa
fosse successo in quella casa,
per trovare la chiave che li avrebbe fatti uscire da quella situazione.
Si sedettero tutti in cerchio, nella piccola zona illuminata dal
riflettore che
Wes aveva saggiamente portato con sé. Il ragazzo era rimasto
separato dal
gruppo per quelle che sembravano ore e, dato che né le
telecamere portatili né
i monitor non avevano mai ripreso a funzionare dovettero raccontargli
tutto ciò
che avevano visto e passato durante quel lasso di tempo.
Ken e Kit
raccontarono cosa avevano visto nella soffitta, e
Jack del pianto sentito nella stanza prima che la porta gli venisse
chiusa in
faccia: bastò questo perché Wes confermasse
quello che tutti avevano sospettato
sin dai primi segnali: la donna impazzì ed uccise suo
figlio. Rimaneva però
misteriosa la figura del marito della donna, che nessuno di loro aveva
visto né
percepito. Tranne Mark.
“Io..credo di averlo visto” disse, cercando di
evitare lo sguardo dei compagni.
Voleva parlare il meno possibile di ciò che era successo nel
tempo che aveva
passato da solo, troppi ricordi dolorosi gli erano tornati alla mente.
“Ci
aiuterà ad uscire di qui: è stato lui a portarmi
da voi” soggiunse, sperando
che tale breve spiegazione bastasse a risparmiargli altre domande. Non
amava
suscitare compassione, anche perché non ne aveva bisogno:
nonostante tutto ciò
che gli era accaduto era rimasto forte e saldo, e sapeva di potersela
cavare da
solo. “Allora non rimane che cercare
quest’uomo” concluse Wes, non trovando
soluzione migliore.
Impacchettata
l’attrezzatura e sistemata in un angolo,
presero le torce e tutto ciò che poteva essere loro utile
per addentrarsi di
nuovo nelle profondità della casa: abbandonarono le
telecamere e portarono con
sé solo le torce e le ricetrasmittenti, per
viaggiare leggeri. Questo fatta eccezione per Jack, il
quale aveva
rifiutato con decisione di abbandonare la sega elettrica che aveva
trovato poco
prima, e ora incedeva soddisfatto e saltellante, sebbene rallentato da
quel
peso sulle spalle. Iniziarono dunque la loro salita verso i piani superiori, senza
alcuna direzione o
guida, semplicemente camminando ed aspettando che succedesse qualcosa.
La
spedizione era guidata in testa da Wes ed Evan, che avevano ripreso il
comando,
seguiti da Kit, River e Jack, che cercavano di mantenersi
più vicini possibile,
nei limiti della distanza di sicurezza dall’arma del
maldestro Jack. Chiudevano
la fila Mark e Ken, quest’ultimo diviso tra
l’entusiasmo ed il timore: riusciva
a togliere gli occhi di dosso al suo amico ritrovato solo per guardarsi
le
spalle ogni pochi minuti. Il bizzarro gruppo proseguì
l’esplorazione per
qualche tempo, finché si ritrovarono nella grande stanza
dove Evan era stato
ferito all’inizio della loro avventura. Entrarono
nell’atrio esitanti, con
passi lenti e silenziosi, per tendere l’orecchio verso il
più piccolo suono.
Arrivati al centro della stanza si guardarono intorno per decidere il
da farsi,
in cerca di un’indicazione sulla direzione da prendere, ma
qualcosa attirò la
loro attenzione: una donna, immobile e silenziosa, li guardava
dall’alto, le
mani appoggiate sulla balaustra di un piccolo soppalco in legno.
Chissà da
quanto era lì a fissarli, e ciò che li inquietava
ancora di più era l’idea che
se non si fossero fermati a guardarsi intorno non l’avrebbero
neanche notata.
Rimasero in silenzio a studiarsi, lei, dall’espressione
corrucciata, e loro,
senza sapere cosa fare. Non avevano ancora avuto il coraggio di muovere
un
muscolo che successe qualcosa: un’ombra nera apparve e
colpì Mark alle spalle, passandogli
attraverso, e lui cadde a terra spinto da quella forza.
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Mark, disteso a
terra, ebbe solo la forza di alzare la testa
e guardarsi intorno, ma nonostante gli sforzi riusciva solo ad
intravedere
delle scene sfocate: sembrava trovarsi in un piccolo pianerottolo,
nella
penombra, una porta chiusa davanti a lui e una rampa di scale dietro.
All’improvviso qualcuno gli passò accanto,
spaventandolo: un paio di passi
affrettati, poi la figura iniziò a battere i pugni sulla
porta, con tanta forza
da spostarla, così che Mark poteva vedere una luce intensa
filtrare dagli
stipiti ad ogni colpo. Nonostante il tutto accadesse e meno di un metro
da lui,
ogni rumore sembrava lontano, ovattato. Con un calcio l’uomo
riuscì ad aprire
la porta, ma la luce era troppo intensa e Mark troppo stordito per
vedere con
esattezza quello che c’era dentro. Vide solamente
l’uomo mettersi le mani nei
capelli e cadere in ginocchio, mentre una donna dai lunghi capelli si
girava
verso di lui, il lungo abito azzurro pastello macchiato di rosso
sangue.
In quel momento tutto gli fu chiaro: un figlio che perde il padre, un
padre che
perde il figlio..un dolore condiviso che si trasformava in malinconia
sotto i
suoi occhi pieni di lacrime.
Per questo lo
aveva aiutato ad uscire da quella stanza: lui
sapeva.
Fu un attimo: Mark si risvegliò fra le braccia di Ken, che
lo scuoteva con fin
troppa forza. “La pianti di fare casini??” gli
urlò Ken appena aprì gli occhi,
e a dire il vero ci mancò poco che gli tirasse uno schiaffo.
“Ma mica è colpa
mia” farfugliò Mark, cercando di orientarsi nello
spazio e nel tempo. Aiutato
da Ken si sollevò fino a sedersi per terra, infilando le
dita sotto le lenti
degli occhiali e sfregandosi gli occhi con un gemito.
“Ho visto tutto” disse poi, lo sguardo
basso,
senza avere il coraggio di guardare nessuno negli occhi. Non voleva
spiegare il
perché era stato scelto
lui, e temeva
che ogni sua parola avrebbe spinto qualcuno a fare domande che
avrebbero
portato alla luce argomenti che non si sentiva ancora di affrontare.
“Avevamo
ragione” disse semplicemente, alzando gli occhi ma
continuando ad evitare lo
sguardo degli altri, “l’uomo ci
aiuterà”. Pronunciate queste parole la figura
amica
riapparve nell’angolo più vicino della stanza, ed
iniziò a piangere. Lo
stesso pianto che Jack, Evan e River avevano sentito
in quell’angusto corridoio tempo prima: il pianto del bambino
che dovevano
cercare. Senza interrompere i suoi singhiozzi, la figura si mosse
lentamente
fino a scomparire dietro una porta alla sua sinistra, e fu allora che
il gruppo
capì che era il suo modo per guidarli: seguendo il pianto
avrebbero potuto raggiungere
suo figlio. Forse voleva che lo liberassero? Rincorsero quindi
l’uomo per ogni
stanza della casa, attraverso rampe di scale e corridoi sempre uguali,
per un
tempo che sembrava interminabile.
La debole luce che
avvolgeva le stanze,
prima fredda ed asettica, stava assumendo man mano una
tonalità diversa, tendente
al blu ma stranamente calda e tranquillizzante. I ragazzi proseguirono
nella
loro ricerca, seguendo quel pianto sempre più vicino e
sempre più calmo finché
scorsero sulla loro destra una porta aperta, di legno bianco. In quel
momento
il pianto cessò. Il gruppo si affacciò titubante
alla soglia, Mark per primo, e
videro una stanza illuminata da una luce notturna. Le pareti erano
scure, delle
tende lunghe ma leggere coprivano una finestra chiusa e, accanto ad un
lettino
di legno chiaro, c’era un bambino biondo,
dell’età di più o meno due anni. L’avevano trovato. Il
silenzio piombò
sui ragazzi, che quasi temevano che un loro movimento brusco lo avrebbe
spaventato. Mark sospirò e fece un passo verso la stanza,
sicuro che anche quel
compito spettasse a lui, ma Jack appoggiò la sua arma fuori
dalla porta,
attento a non mostrarla, e si fece avanti prima di lui. Il piccolo, in
una
tutina azzurra, si sfregò gli occhi con il dorso della mano,
mentre Jack gli
parlava dolcemente per tranquillizzarlo. Si accovacciò
all’altezza del bambino
ed allungò una mano verso di lui, mentre la manica della
felpa troppo grande
gli scivolava quasi a coprirgli le dita. Jack in effetti sembrava
essere la
persona più adatta a comunicare in questa situazione: era,
in fondo, lui stesso
un bambino, avvolto in quegli abiti troppo grandi, nascosto da quel
cappello da
cui non si separava mai. Eppure, rispecchiata in quei riflessi argento
che gli
illuminavano i capelli, c’era un’anima antica ed
attenta a ciò che accadeva
intorno a lui. Aveva passato molto tempo da solo, viveva infatti in una
casetta
ai margini di un bosco ed i suoi contatti con altre persone per lungo
tempo si
erano limitati ai convenevoli con i proprietari dei negozi dove
acquistava il
necessario per vivere. In mezzo alla natura aveva sviluppato una grande
capacità di osservazione ed il silenzio aveva amplificato la
sua sensibilità verso
anche la più piccola vita. Passava anche giorni senza aprire
bocca con nessuno
se non con i suoi amici on line, e forse era proprio per questo che
quando
parlava usava tutto il fiato che aveva in corpo. “Avanti,
vieni qui,
avvicinati..” mormorava, i grandi occhi azzurri guardavano
con dolcezza quelli
del bambino, che alla fine, esitante, mise la sua manina su quella di
Jack. Un
sorriso illuminò il volto di quest’ultimo, mentre
il bambino diventava sempre
più trasparente, fino a che la sua mano
attraversò quella di Jack, e scomparve
del tutto. Un urlo di donna squarciò il dolce silenzio di
quel momento. E fu allora
che divenne improvvisamente giorno.
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Nonostante la
luce improvvisa li avesse abbagliati, tutto il
gruppo sentì l’animo più leggero.
Bastarono pochi minuti perché i loro occhi si
abituassero alla nuova situazione, minuti che furono occupati da pacche
sulla
schiena alla cieca e dagli acuti urletti di gioia di Wes, mentre Jack
uscì a
tentoni dalla stanza per trovare un abbraccio di River. “Se
non l’aveste
notato, non ho idea di cosa sto facendo ahahahah” fece in
tempo a dire, prima
di essere colpito da un’affettuosa quanto energica mano sulla
spalla da parte
di Ken. “Ora cerchiamo di uscire da qui” disse poi
Evan, non riuscendo a
contenere un sorriso. Gli ultimi avvenimenti, insieme alla presenza
dell’amico
Wes, avevano infuso in lui una nuova forza. Era stato per lungo tempo
spaventato, eppure aveva impedito a se stesso di mostrarlo ad alcuno,
sempre
fedele alla recitazione della sua parte di uomo indipendente, che non
ha
bisogno dell’aiuto di nessuno. Era stato costretto ad
assumere
quell’atteggiamento da lungo tempo, riconoscendo le proprie
difficoltà sia
fisiche sia psicologiche: goffo, imbranato, la vista debole..doveva in
qualche
modo proteggersi dalle malelingue. Era proprio per questo che aveva
intrapreso
la carriera di investigatore: doveva dimostrare a tutti che nonostante
i suoi
problemi lui poteva fare tutto. Di solito, infatti, si buttava a
capofitto
nelle situazioni più impossibili, rimanendo però
sicuro che accanto a sé ci
fosse qualcuno che potesse fornire un aiuto “non
richiesto”. I suoi amici lo
conoscevano bene, ed evitavano di offrire a parole alcuna assistenza,
nonostante con i fatti fossero quasi sempre loro a risolvere la
situazione.
Evan doveva essere sicuro di avere una spalla in caso le cose fossero
andate
male per essere così sicuro da tenere in piedi la sua
commedia, a cui ormai non
credeva nessuno tranne lui. Quando si era diviso da Wes aveva perso la
sua rete
di sicurezza, ed era stato costretto ad indossare la sua maschera
sapendo che
se avesse fatto un errore la responsabilità sarebbe stata
solo sua. Ora si
sentiva di riprendere il controllo della situazione, e si
portò velocemente in
testa al gruppo.
Avevano fatto un
passo avanti ma sapevano che la donna non li
avrebbe lasciati andare così facilmente: dovevano prepararsi
ad affrontare il
peggio. Rimanendo uniti, iniziarono di corsa la loro discesa.
Nonostante fosse primavera inoltrata il sole quella mattina era basso
sull’orizzonte, ed una luce fredda inondava la
città. il silenzio fu interrotto
dai passi pesanti di Jack che scendeva a balzelloni l’ultima
rampa di scale che
conduceva al secondo piano, trasportando la sega elettrica. Dietro di
lui lo
seguiva River, guardandosi indietro per controllare che nessuno, a
parte gli
altri membri del gruppo, li stesse seguendo. I due attraversarono una
grande
stanza vuota, dal pavimento di vecchie piastrelle marrone chiaro si
sollevavano
granuli di polvere resi ancora più visibili dai fasci di
luce che penetravano
dalle finestre. Si avvicinarono alla porta scura e sbirciarono dal
rettangolo
di vetro blindato la stanza adiacente. Qualcosa si mosse
nell’ombra. “Hohoho”
rise Jack, se avesse avuto le mani libere se le sarebbe sfregate per la
soddisfazione. “Come sai che Jack è passato di
qua?” aggiunse con la sua voce
stridula. River ebbe solo il tempo di aprire la bocca per rispondere,
ma venne
preceduta da lui stesso: “perché sono tutti
morti!”. Con un gesto accese la
sega e, ridendo, irruppe nella stanza successiva.
Il ragazzo
studiò la stanza in
silenzio, pronto ad ogni evenienza. Un rumore alle loro destra, non
più intenso
di un rapido fruscio, ruppe il silenzio surreale, mentre una figura
umana, dai
lunghi capelli, usciva accovacciata dall’ombra. Jack strinse
ancora più
saldamente la presa sulla sua arma.
“E così.. sei tu”
“Hello
Monster” sussurrò Evan,
arrivato nella stanza, per la prima volta dopo anni sentendosi di nuovo
un
investigatore.
-EPISODIO 6-
FINE
|
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Capitolo 6 *** Episodio 7 – I’LL RISE LIKE THE BREAK OF DAWN ***
Episodio 7 –
I’LL RISE LIKE THE BREAK OF DAWN
Jack,
River ed Evan vennero
raggiunti immediatamente dal resto del gruppo, che si fermò
appena dentro la
stanza. La donna sembrava studiarli a distanza, le sue movenze erano
quasi
animalesche. Accovacciata su se stessa, si muoveva avanti ed indietro,
tenendo
la testa bassa. In quel momento i pensieri si affollarono nella testa
di Jack
alla velocità della luce: sapeva che River era in grado di
difendersi. Sapeva
muoversi silenziosamente e nascondersi velocemente, per quanto i
ricordi delle
loro guerre simulate potessero valere in questo contesto. Ma questa
volta non
poteva funzionare. E non poteva neanche lasciarla sola. In pochi
secondi fece
due passi indietro e spinse River e Ken fuori dalla stanza, chiudendo
immediatamente la porta a chiave. Al tonfo della porta seguì
un sibilo
minaccioso della donna. River fece in tempo a scorgere
l’espressione di Jack:
era spaventato, ma non disse una parola. Accendendo la sega elettrica
diede le
spalle alla porta, mentre ognuno si preparava a combattere con il poco
che
aveva a disposizione: Mark faceva affidamento sui suoi muscoli, Wes e
Kit sui
detriti che avevano trovato per terra. River e Ken non potevano fare
nulla se
non assistere alla scena attraverso il vetro che ornava la parte
superiore
della porta, la mano protettiva del ragazzo sulla spalla di lei. Ancora
una
volta era stato scelto per la sua supposta forza, ma questa volta
sarebbe
andata diversamente: non aveva intenzione di farsi bloccare dai suoi
timori.
La donna si alzò
e corse veloce verso il
gruppo: dopo un’occhiata di intesa, Mark si fece avanti e la
allontanò con
tutta la sua forza, spingendola nella direzione di Jack, che era pronto
a
colpirla. Ma la lama non la scalfì, anzi rimbalzò
sulla pelle della donna,
quasi fosse fatta di metallo. Nessuno se lo aspettava, e Jack venne
spinto a
terra dallo spirito; grazie alla prontezza di Kit e Wes, che le
lanciarono
contro ciò che avevano trovato sul pavimento della stanza,
la donna si ritirò e
Jack poté rialzarsi, leggermente ferito al volto.
Continuarono a lanciarle
contro frammenti di muro, calcinacci, ma così non poteva
funzionare: nonostante
i loro sforzi, i loro colpi sembravano solo respingerla, rallentarla,
ma non danneggiarla.
Evan era rimasto in disparte fino a quel momento, senza sapere cosa
fare: “mostro”
l’aveva chiamata, e quella parola gli riecheggiò
nella mente. Non era un
semplice spirito, era un demone. Evan si mise una mano in tasca e
tirò fuori il
suo cellulare. Non c’era segnale, non funzionava: ma la
fotocamera sì. Senza
dire una parola puntò la camera verso di lei e
scattò una foto. Con un urlo di
dolore, la donna si coprì gli occhi e si
allontanò da loro, correndo fuori
dalla stanza. Il gruppo si voltò confuso verso Evan, che
sembrava lui stesso
sorpreso del risultato della sua azione. Kit cercò di
tornare sui suoi passi
per aprire la porta, ma Wes glielo impedì: “non
è ancora finita” disse,
afferrando le sue spalle “Scendiamo!”. Kit non
poté opporsi, e l’ultima cosa
che River vide fu Jack girarsi verso lei e Ken e, dopo
un’esitazione, correre
via verso le scale.
_________________________________________________________________________
“Andiamo”
disse Ken, toccando
delicatamente il braccio di River “li raggiungeremo di
qua”. La ragazza lo seguì
immediatamente, rimanendogli vicino. Non osava guardarlo in volto,
dopotutto
Ken era un uomo alto e robusto, e la sua figura metteva soggezione.
Eppure,
anche nella paura per quello che stava succedendo, River era contenta
di essere
con lui: oltre i muscoli e la barba incolta c’era un animo
paterno e
rassicurante, che si rifletteva nei suoi gesti delicati. Scesero
insieme le
scale che avevano percorso poco prima, per attendere il gruppo al piano
inferiore, dove li accolse la visione tranquillizzante
dell’attrezzatura che
avevano lasciato nell’angolo della stanza.
“Aspettiamo qui” suggerì Ken
“Non
allontanarti” aggiunse esitante, mentre River si sedeva per
terra a pochi metri
da lui, in una posizione adatta a tenere sotto controllo le rampe di
scale che conducevano
ai piani superiori. I due aspettarono in silenzio, troppo intenti a
prestare
attenzione a qualsiasi rumore ed ai propri pensieri. River rimase in
ascolto, non
potendo fare a meno di pensare a come fosse la gentilezza il tratto che
più
contraddistingueva Ken. La sua voce calda aveva un tono confortante,
forse
perché di per sé non era molto espressiva, forse
perché aveva fiducia nei suoi
amici e, per la prima volta, in se stesso e nel compito che gli era
stato
affidato. Era stato in balia dello stress e dell’ansia per
tutta la vita,
cercando ogni volta di vivere all’altezza di quello che gli
altri si
aspettavano da lui, senza mai prendere una decisione secondo la propria
volontà. Ma questa volta sarebbe stato diverso: avrebbe
avuto fiducia in se
stesso e avrebbe preso il controllo della situazione. Rimase in piedi
accanto a
River, come per controllarla dall’alto, alternando
nervosamente lo sguardo tra
lei e le scale.
Aspettarono
a lungo, ripensando a
quella porta che era stata chiusa loro in faccia, al perché
si trovavano in
quel luogo. River sedeva a terra, le spalle appoggiate al muro e le
gambe incrociate,
non riuscendo a distogliere lo sguardo dai gradini di fronte a
sé. Non aveva
bisogno di un fidanzato, ma di un compagno di avventure. Una persona
tanto
speciale da trasformare l’amicizia in affetto profondo.
Qualcuno con cui
condividere ogni aspetto della sua vita e delle sue passioni. Jack era
rumoroso, tanto da infastidire molte persone, ma tutto ciò
che River vedeva in
lui era una grande gioia di vivere, una confidenza in se stessi che
copre
qualsiasi suo difetto, un’accettazione completa di
sé che lei aveva sempre
visto come la chiave della felicità. River aveva vissuto
troppo a lungo nel
timore di mostrare i suoi lati più bizzarri, mentre Jack era
capace di
risvegliare in lei la voglia di tornare bambini, e lo ammirava per
questo. I
suoi pensieri corsero veloci da Jack, a Mark, così sensibile
e forte allo
stesso tempo, a Kit. A tutte le loro avventure, le
difficoltà, i litigi, i
silenzi; era responsabilità sua se si trovava a combattere
contro forze
sconosciute, e lei invece non stava facendo niente, stava semplicemente
seduta
in silenzio, accanto a Ken. I suoi occhi si riempirono di
preoccupazione.
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Scesero
le scale correndo, le loro voci e le loro domande si
accavallavano come un fiume in piena: “Secondo la tradizione
orientale, gli
spiriti possono venire esorcizzati se gli viene scattata una
fotografia” urlò
Evan, ansimando in parte per la sua scarsa forma fisica, in parte per
lo sforzo
di sovrastare le urla di tutti. A metà della rampa, nella
confusione generale,
una mano afferrò la felpa di Jack e lo spinse contro al
muro. “Cosa credi di
fare?” gli sibilò contro Kit “la lasci
con quell’incapace?” “è
più al sicuro
con Ken che qui“ rispose lui secco, cercando di liberarsi
dalla presa. “Piantatela,
voi” disse Wes separandoli, con la sua vocetta che si era
fatta ancora più
acuta per la rabbia “vi pare il momento?”
sistemandosi i lunghi capelli dietro
le orecchie spinse i due giù per le scale, verso il piano
inferiore.
Trovarono
la donna al centro della stanza, indebolita ma ancora combattiva.
“Dove vuoi che la spingiamo?” chiese piano Mark
– “..verso sinistra” rispose
Evan con un filo di voce, prima che Mark si scagliasse contro di lei,
seguito
da Kit. La afferrarono per le spalle e la spinsero verso
l’angolo indicato da
Evan, mentre lui puntava la camera. Wes stava accanto a lui per
proteggerlo, e
la donna venne colpita da altri due flash prima di sfuggire verso
destra. Jack
era lì, pronto a respingerla: la colpì con un
sasso, mentre Kit, con un calcio,
la riportò a poca distanza da Evan. Con un ultimo flash
della camera, la donna
sembrò frantumarsi in mille pezzi, scomparendo dalla loro
vista.
______________________________________________________________________________
Dopo
un lungo silenzio Ken e River sentirono uno scalpiccio di passi
in lontananza, e pochi secondi dopo
Jack
fece la sua comparsa, correndo –
praticamente rotolando – giù per le scale: era
ferito in volto ma stava bene.
Corse incontro a River e la abbracciò stretta a
sé, i suoi grandi occhi azzurri
lucidi per la stanchezza e lo spavento. Accarezzò i capelli
di River fino a
sfiorarle il volto e la baciò dolcemente. “Ragazzi
state bene?” chiese
affannato Mark, giunto in quel momento nella stanza, piegato in due con
le mani
appoggiate alle ginocchia per riprendere fiato. “Tutto
bene” rispose Ken,
mentre un sorriso faceva capolino da sotto la sua folta barba.
“Ce l’abbiamo
fatta” proseguì Mark, mentre il resto del gruppo
si univa a loro “beh.. Evan ce
l’ha fatta” si corresse, allargando le braccia e
sorridendo a sua volta,
facendo sembrare i suoi occhi a mandorla ancora più piccoli.
In
effetti, Evan non solo aveva salvato la situazione, ma era stata
probabilmente la sua impresa più grande. L’aver
sentito quelle parole provenire
proprio da Mark avevano riempito Evan di soddisfazione: “quel
novellino”
sembrava, per Evan, aver preso il comando della situazione troppo
spesso negli
ultimi tempi, e lui mal sopportava di non essere al centro
dell’attenzione in
un campo che riteneva appartenergli. Di solito, quando si trovava a
dover
lavorare in squadra, si limitava a fare il meno possibile, a non
rimanere
indietro, dando il suo contributo con piccoli gesti, quasi come se
tenesse un
punteggio delle sue azioni. L’ultima cosa che voleva era
sentirsi un peso per
gli altri, non per amore verso di loro, ma per proteggere il suo
orgoglio.
Questa sua motivazione, per di più, era palese per tutti
coloro che lo osservavano
abbastanza a lungo, e per questo era mal visto da molti. Ma non da Wes:
Evan
era per lui una persona importante, anche se comprendeva come altre
persone lo
odiassero così tanto. I due erano andati d’accordo
sin dal primo momento che si
erano incontrati: Wes era paziente e comprensivo, qualità
assolutamente
necessarie per la convivenza con Evan, che invece costituiva un grande
motivo
di intrattenimento per Wes con la sua goffaggine ed il suo modo di fare
poco
attento. Ognuno dei due aveva un ruolo ben preciso in questa amicizia
fraterna,
e per questo si era mantenuta stabile negli anni: a differenza del suo
amico,
il modo di fare di Wes, così come il suo viso, erano
delicati. La sua voce era
acuta ma non fastidiosa, tanto che, a dire di Evan, tutto quello che
diceva
sembrava “evocare caramelle e zuccherini”. Se si
fosse dovuto utilizzare un aggettivo,
più che solare, Wes era cristallino. Nonostante
ciò, Evan non riusciva a
comunicare ciò che realmente provava nemmeno al suo amico
più caro: Wes lo
capiva e non insisteva. Anche quando Evan ebbe quello che definiva
“l’incidente”, quando il suo cuore si
fermò, Wes era accanto a lui. Le loro
parole, semplicemente, dicevano cose diverse dai loro sguardi: in
quell’occasione Evan aveva riso, dicendo di aver acquisito
poteri da supereroe,
e Wes aveva sorriso di rimando. Ma quello che realmente dicevano era
“grazie
per essere qui” e “ci sarò
sempre”. In quel momento lo sguardo di Wes diceva
“sei stato grande, amico”.
Kit
scese le scale dietro a tutti gli altri, portando sulle spalle con
soddisfazione la sega elettrica abbandonata da Jack. Aveva mantenuto la
calma,
aveva usato tutte le sue forze, ed avevano vinto la battaglia, ma i
suoi
pensieri si erano fermati su River, rimasta sola con Ken. Nonostante la
sua
buona volontà, non si poteva fidare delle
capacità del ragazzo. Appena giunse
nella stanza, pochi secondi dopo Wes ed Evan, andò incontro
a River e,
scostando Jack in malo modo, la abbracciò. I festeggiamenti
non furono che
qualche sorriso e delle risate esitanti: tutti non vedevano
l’ora di uscire da
quel luogo, e la stanchezza stava prendendo il sopravvento su di loro.
I
ragazzi caricarono sulle spalle
i loro zaini per lasciare finalmente quel posto, per lasciarsi alle
spalle
quella notte infinita. Nel silenzio di quegli attimi Mark rivolse lo
sguardo
verso un punto della stanza, mentre i suoi occhi assumevano
un’espressione di
malinconia mista a gratitudine – “Grazie”
sussurrò, per poi afferrare una delle
borse e dirigersi da solo verso l’uscita, precedendo tutti
gli altri.
EPILOGO
Le
portiere del van vennero chiuse con un rumore secco, come a segnare
la fine di quel capitolo delle loro vite: alcuni ne erano usciti
cambiati,
altri rinsaldati.
Wes
guidava tranquillo verso casa, perso nei suoi pensieri
indecifrabili, la strada che si rifletteva nei suoi occhi. Al suo
fianco Evan respirava
profondamente, una mano sul petto a sentire il suo cuore battere
rassicurante,
mentre prometteva a se stesso per l’ennesima volta di non
farsi più coinvolgere.
Eppure non sapeva se avrebbe mai mantenuto quella promessa: quel mondo
per lui
rimaneva equamente terribile e bellissimo. Lo terrorizzava, ma gli dava
anche
la possibilità di dimostrare a se stesso che, al di
là delle apparenze e delle
facciate, in fondo lui valeva davvero qualcosa.
Dietro
di loro, River sedeva accanto a Kit, che le teneva la mano. Per
Kit era stata un’esperienza surreale: River era
l’unica ragione per cui aveva
accettato di parteciparvi, ma alla fine aveva ottenuto più
di quanto si
aspettasse. Dopo tante battaglie sognate, immaginate, desiderate, era
protagonista di un’avventura reale, che aveva toccato con
mano. Aveva sempre
avuto fiducia in sé e nelle sue capacità, e ora
aveva avuto conferma che era
davvero in grado di vincere. Alla sinistra di River c’era
Jack, un braccio
attorno alla sua vita. Erano salvi, ed erano di nuovo tutti insieme: il
legame
tra i tre, in un modo o nell’altro, si era stretto ancora di
più. Il loro
respiro era tranquillo, ed erano pronti a ritornare alla loro vita di
tutti i
giorni. Jack appoggiò le labbra sui capelli di River, e
pensò che era pronto ad
abbandonare la solitudine della sua casa nel bosco.
Per
Ken l’oscurità di quella
notte aveva portato con sé una luce inaspettata. Dopo lungo
tempo era
finalmente riuscito ad accettare i suoi sentimenti, ed aveva aperto gli
occhi
riguardo a quello che provava e che aveva sempre rifiutato di
accettare: Mark
era più importante per lui di quanto avesse osato ammettere.
Lui era tutto ciò
che Ken voleva essere, ma al di sotto di questa emozione non
c’era odio, come
aveva detto a Kit in quel corridoio: era un sentimento prorompente,
sì, ma non
odio. Diceva di lamentarsi ogni volta che veniva a trovarlo, eppure in
cuor suo
sapeva che quando tardava ne sentiva la mancanza. Ken guardò
Mark, seduto
accanto a lui: non poteva permettere che gli accadesse ancora qualcosa.
Sapeva
che era forte e poteva affrontare qualsiasi ostacolo che la vita gli
avrebbe
posto, ma non meritava di versare anche solo una lacrima in
più.
Ken gli mise silenzioso un braccio intorno alle spalle, mentre Mark
guardava
fuori dal finestrino, perso nei suoi pensieri, nei suoi ricordi.
-EPISODIO
7-
HELLO
MONSTER
FINE
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