Il Giardino dei Peccatori e dei Dannati

di Black Angel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0. The Garden ***
Capitolo 2: *** Nobody can understand my art ***
Capitolo 3: *** Dark Alice ***
Capitolo 4: *** Demons' nature ***
Capitolo 5: *** Bad Wendy ***
Capitolo 6: *** Last Hero ***
Capitolo 7: *** A call in the night ***



Capitolo 1
*** 0. The Garden ***


IL GIARDINO DEI PECCATORI: PROLOGO

 

Entrate coraggiosi viandanti, se possedete la chiave.

Entrate e incontrerete coloro che uccisero e che se stessi uccisero, coloro che furono dannati e che altri dannarono, coloro che son morti e vivono in terra e coloro che son vivi e muoiono in terra.

Incontrerete i peccatori e i demoni della notte, che si son riuniti in questo banchetto.

Ascolterete le loro storie: oscure come la notte che vi ha accolto in questo luogo, dannate e peccatrici come coloro che ve le narreranno.

Ma non temete, poiché se inizierete ad aver paura l’oscurità mangerà anche voi…

 

Questi i versi che son scritti su una lapide, posizionata al fianco del cancello in ferro battuto, che segna il confine del nostro mondo con il Giardino dei Peccatori e dei Dannati.

Esso non è un luogo delimitato da mura, non è un luogo dove tutti possono accedere, non è un luogo “normale” (ma in fondo cos’è la normalità?). E’ solo un rifugio della mente, una dimensione, se così desiderate definirla, dove Dannati e Peccatori liberano i propri oscuri pensieri.

Voi, stranieri, avete la possibilità di varcare il confine del nostro mondo con quello della loro mente. Voi, stranieri, avete la possibilità di varcare il Cancello e di ascoltare le loro storie…

Ascoltare…ascoltare…fino ad addormentarvi, forse…per l’eternità…

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Capitolo 2
*** Nobody can understand my art ***


Nobody can understand my art

Nobody can understand my art

 

Il pittore, che immerge il pennello nel colore.

Lo scrittore, che intesse parole.

Lo scultore, che crea ciò che vede intorno a se.

Arte e artista. Artista e arte. L’una non può vivere senza l’altra.

Nulla sarebbe l’arte senza l’anima dell’artista, e nulla sarebbe l’artista senza l’anima dell’arte.

Cos’è l’Arte?

L’Arte è colei che crea

L’Arte è colei che comunica

L’Arte è la vita...o…la morte….

 

 

TIC TAC TIC TAC

Il passare del tempo…lento…inesorabile...

Il suo fastidioso ticchettare riempie la mia mente, ricordandomi in ogni momento che lui è lì, che scivola su ogni cosa, lasciandone i suoi segni…anche su di me lo farà, lo so…

Lo odio!

Non lo posso fermare, non lo posso piegare alla mia volontà, non lo posso sovrastare…e per questo lo odio. Lui, così diverso dalle mie bambole…le mie care, dolci, bambole….

Esse…così ubbidienti a piegarsi al mio volere, così fragili a cadere sotto di me…

Esse…sono creta sotto le mie mani esperte, che da quel cumulo di materia inutile le trasformano in splendide creature. Da viscidi bruchi intrappolati nella loro seta, esse diventano splendide farfalle libere.

Le mie bambole…amate bambole…

Mie opere, che io creo e io solo posso distruggere…

Loro sono la mia arte!

A ognuna di loro ho donato un pezzo della mia forma, come lo scultore fa con le sue statue.

A ognuna di loro ho donato una mia frase, come lo scrittore con i suoi romanzi.

A ognuna di loro ho donato un pezzo della mia anima, come il pittore fa con le sue tele.

E come lo scultore ha il suo scalpello, come lo scrittore ha la sua penna, come il pittore ha il suo pennello, io ho…il mio coltello…

Esso ha modellato tutte le mie bambole. Lui e le mie mani, nessun’altro.

Non potrei permettere a qualcun altro di toccare le mie opere.

Credete che non ricordi il loro numero? Stupidi, ogni artista ha impressa nella mente ogni sua opera, e mai potrà dimenticarla, come mai un padre potrebbe dimenticare i suoi figli.

Ricordo ancora la prima tra esse…tre anni fa…

Il cielo piangeva i suoi angeli caduti, quel giorno. Li piangeva con foga disperata, urlando il suo dolore con potenti tuoni, che facevano tremare le creature in terra. Si disperava senza accorgersi che uno di essi l’aveva già trovato…

Lì, a pochi passi da me, sostava un giovane, che, dal suo aspetto, non poteva superara i 15 anni: uno degli angeli caduti! Nei capelli biondi s’intrecciavano le lacrime del suo padrone, nella pelle chiara vi era il ricordo delle celestiali volte, nelle sue labbra rosee il ricordo del nettare divino, ma nei suoi occhi…solo l’oblio, in cui anch’egli sembrava essere caduto.

“Lui dev’essere il primo” mi dissi non appena lo vidi. Lui doveva essere la mia prima bambola. Lui e nessun altro.

Non fu difficile avvicinarmi a quell’eterea creatura, che sostava sotto la pioggia. Mi limitai a offrirgli un riparo sotto il mio ombrello. Un gesto così semplice, così innocuo…

- Ti potresti ammalare – gli dissi, allargando il mio volto in un sorriso. I suoi occhi bui mi guardarono spenti.

- Ormai non m’interessa più – rispose, abbassando il volto, offrendomi, così, il suo perfetto profilo da ammirare: la fronte coperta da quelle ciocche d’oro bagnate, la curva del naso che rientrava per incontrarsi con le sue labbra, la curva delicata del mento che terminava contro il suo collo, alta e esile torre di alabastro.

Non potei resistere oltre. Feci scorrere le mie dita tra le sue ciocche bagnate di pianto, le feci scivolare sulla sua gota di pesca, e, infine, le feci cadere lungo il suo collo, in cui potevo sentir battere la vita.

- Vieni con me…ti libererò – promisi.

Egli accolse, illuminato di speranza, le mie parole, e non esitò molto a seguirmi.

Ricordo ancora le sue grida, musica soave alle mie sensibili orecchie d’ascoltatore.

Ricordo ancora la sua pelle bianca intinta di rosso, dolce accostamento di colori ai miei occhi.

Ricordo ancora il suo corpo toccato dal mio coltello, perfetta visione nella mia mente.

Ricordo ancora il suo nome…Joshua

Lui fu il primo. *Solo* il primo delle mie opera, perché come artista non potevo privarmi della mia arte.

E così, liberai le farfalle imprigionate nella loro seta…

La loro morbida carne è la mia creta e ogni volta che il mio coltello vi sprofonda, un brivido di piacere mi perlustra la schiena.

Le loro grida sono le mie parole e ogni volta che le mie orecchie le sentono, ansimi leggeri sovvengono sulla mia bocca.

Il loro sangue è la mia tempera e ogni volta che v’intingo le mie labbra, freddo e caldo si mischiano nella mia bocca.

E’ come se danzassi con loro…come se le amassi non solo con la mente ma anche con tutto il mio fisico.

Perché loro sono la mia arte…bella, perfetta, meravigliosa. Come potrei non amarle, allora?

Ogni giorno, dopo che un’altra bambola si è aggiunta alle mie opere, mi capita di sfogliare il giornale, cercandovi quello che i miei critici personali dicono sulla mia ultima opera. Non ho bisogno di cercare molto: le mie opere sono sempre in bella vista tra le prime pagine.

<< Un nuovo omicidio del neo- Jack lo Squartatore >>

Mi paragonano a un killer! A un inutile killer senz’anima! A un killer psicopatico, mentre io son solo un’artista!

<< Il neo-Jack lo Squartatore ha mietuto un’altra delle sue vittime. Un altro corpo straziato è stato trovato stamane in un appartamento di Whitecapel. La vittima è stata identificata quasi subito dagli agenti, che ne conoscono già il nome: Alexandra McOwen, 20 anni, era sparita da tre giorni e la polizia era stata incaricata di ritrovarla. Sfortunatamente il neo-Squartatore, ha preso anche lei, trasformando il suo corpo in un abominio.>>

Abominio?! Osate definire le mie opere abominio?! Stolti! Credete di conoscere tutto, di avere una risposta per tutto, di essere sempre nel giusto, senza pensare che voi stessi siete i giudici.

Stolti! Non potrete mai capire la mia arte!

<< Diamo tutte le nostre condoglianze alla famiglia McOwen, che ha perso una figlia ancora in giovanissima età, quando il suo tempo non era ancora giunto >>

Stolti! Dunque così la pensate? Il suo tempo non era ancora giunto? *Io* l’ho fatto giungere, per non far appassire le mie bambole nella vecchiaia, *io* l’ho fatto giungere per liberarle da quel mondo che voi avete creato, *io* l’ho fatto giungere per renderle felici. Ma voi come potreste capire?

Non potete comprendere la mia arte! Stolti!

<< E ora noi ci chiediamo perché. Perché una giovane nel fiore dell’età è stata uccisa così crudelmente? Perché una ragazza piena di vita è stata privata della sua virtù più grande? Chi può darci una risposta per tutto questo?>>

E voi potete definirvi intellettuali? Uomini, il cui vanto sugli animali è il cervello? Bestie stolte! Stolte bestie! Null’altro siete! Nulla siete di fronte a geni che nominate solo grazie ai libri, di cui studiate le gesta, ma per nulla l’anima, lo spirito!

Allora lasciate che vi dia io un piccolo seme…

Il compito dell’arte non è quello di dare risposte, bensì di porre delle domande, diceva Henry James

Iniziate a capire, mie care bambole?

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Capitolo 3
*** Dark Alice ***


2

2.Dark Alice

 

E Alice inseguì il Bian Coniglio. << E’ tardi! E’ tardi! E’ tardi! >> egli esclamava saltellando, preso da gran fretta. << Aspettate! Ve ne prego! >> chiamava la fanciulletta, cercando di raggiungere il bell’animale parlante. Ma esso fuggiva, saltava veloce. Fino a giungere dinanzi a una porticina. L’aprì e dietro essa sparì, sempre in gran furia, guardando il suo grande orologio dorato. E anche Alice giunse a quella porticina, grande pochi metri, così che solo un nano poteva passarci comodamente. Si fermò a osservare la porticina e la curiosità la spronava ad aprirla. Ma di lontano, giungeva la voce della buona sorella << Alice! Dove sei? Alice! >>. Ella la chiamava, ma Alice, curiosa di natura propria, non avrebbe ascoltato quel saggio richiamo. Trattenne il respiro, mentre girava la piccola maniglia dorata, aprendo, infine, piccola porta. Un buio sconfinato si vedeva oltre a essa, dove una lucina splendeva lontana. Si chinò, per passare comodamente nello stretto passaggio, e si addentrò dentro quel mondo a lei sconosciuto…il Paese delle Meraviglie…

 

Alice nel Paese delle Meraviglie…storia deliziosa, vero? Deliziosa in tutta la sua fantasiosa semplicità: una ragazzina che incontra il Bian Coniglio, dalle favolesche forme antropomorfe, e con tutta la sua ingenuità, lo segue cadendo in un mondo fatto di stramberie e magie, colorato di allegria e pazzia.

Ricordo che, quando ero ancora una bambina, era la mia favola preferita: rimanevo affascinata ogni volta che mi veniva raccontata, nonostante il finale mi fosse, ormai, ben noto. Ma non era il finale ad attrarmi tanto, bensì il bel Paese dove Alice cadeva. Sognavo sempre di essere come quella fanciulla, che da un casuale e strambo incontro, si trovò catapultata in un mondo sconosciuto.

Lo desideravo…lo desideravo con tutta me stessa, senza sapere che, in un futuro neanche tanto lontano, la mia storia si sarebbe avvicinata tanto a quella delle fanciulla di carta e inchiostro.

Un giorno, infatti, anch’io incontrai il mio Bian Coniglio, e, come Alice, che da sempre invidiavo, lo seguì, persa nell’ingenuità e nella curiosità. E infine caddi. Caddi nel Paese delle Meraviglie.

Ma esso nulla aveva di somigliante a quello della fanciulletta: non vi erano colori, ne, tanto meno, quell’aria di festa, che riempiva tutte le strade nel libro.

Il mio, era un Paese buio, per le strade vi era solo oscurità e…dannazione…eterna dannazione…

Ma è inutile accelerare i tempi, o tu, mio povero e buon ascoltatore, ben poco capirai. E quindi, raccontiamo questa favola dal principio…circa 12 anni or sono…

Nel presentarmi usavo ancora il nome di Zaira McGray, che poi si sarebbe privato del cognome, e a quei tempi non ero altro che una normale sedicenne che si preoccupava più dei suoi voti a scuola che dei veri problemi del mondo, che s’agitava come un’oca davanti ai problemi che non riusciva ad affrontare, che si chiedeva perché a lei capitava tutto quello, che, senza saperlo, succedeva a tutti i suoi coetanei.

In poche e semplici parole, ero nel bel mezzo della tormenta del mio ego! Ero contaminata da quel “virus”, di cui mai si troverà cura, poiché è un nemico dal sapore troppo dolce per privarcene; quel “virus” che colpisce tutti i giovani che non sanno se definirsi bambini-cresciuti, o adulti-immaturi...in una parola, l’adolescenza!

E’ ben noto, che uno dei sintomi di questa “malattia” sia vedere i propri problemi come fossero montagne insormontabili, mentre in realtà sono poco più che collinette di paglia. Ovviamente, di questo me ne sarei resa conto molto tempo più avanti, quando avrei ricordato questo genere di problemi con un certo rimpianto, confrontandoli a quelli che mi avrebbero assalito! Ma procediamo con calma…

L’inizio di questa favola, come vi dicevo, avvenne in un giorno qualunque della mia vita…almeno quello mi sembrò al mio risveglio…

Come era mia consuetudine, appena sveglia, spalancai la finestra della mia camera, infischiandomene del gelo che entrò prepotente nel mio piccolo rifugio, e che si ostinava a pungermi il corpo ancora intorpidito dal sonno. Mi strofinai gli occhi, per prepararli a quello squarcio del mondo, che ogni volta potevo osservare dall’occhio indiscreto del mio rifugio: il cielo di quella mattina, aveva una tinta grigio-bianca, che sembrava il colore adatto alla malinconia ingiustificata del mio animo; quel colore, che trovavo così intimo nonostante il freddo del suo vento, sovrastava la città ammantata di bianco, come una sposa pronta al grande giorno. Ma che grande giorno poteva esserci per quella città, che da tempi immemori continuava la sua monotona vita?

Pigramente, poggiai i gomiti sul davanzale di marmo, rabbrividendo al contatto della mia pelle nuda con il freddo della pietra. Avrei potuto restare così per tutto il giorno…come sarebbe stato bello! Lontano dai voti che faticavo a tenere su una media decente, lontano da quelle arpie che continuavano a sibilarmi cattiverie, lontano da tutte quelle litigate con mia madre, lontano da quel mondo che mi appariva come un severo giudice di ogni mia piccola azione…lontano…da quella routine che mi stava uccidendo.

Avrei voluto, avrei potuto…non fosse stato per il secco richiamo di mia madre, che mi riportava bruscamente alla normalità

- Zaira, spicciati! Farai tardi a scuola! – si rincorse la sua voce sulle scale. Dopo tutte quelle litigate, che erano state tutt’altro che rare nei giorni precedenti, quella voce quasi nasale, mi irritava terribilmente, arrivando, persino, a nausearmi. Quella stessa voce, che, nei miei ricordi d’infanzia, mi raccontava la mia favola preferita.

- Per quello che m’importa…- sbottai, richiudendomi, controvoglia, la finestra alle spalle e lasciandomi trascinare in quel mondo di cruda realtà. E nulla sembrava potermi convincere del contrario…

Che fossi a scuola o a casa, che fossi in mezzo ai miei amici o ai miei parenti, non mi sentivo più a mio agio, come una volta. Mi sentivo estranea da tutto e tutti. Lontana…

- Ehi, Zaira, stai bene? – mi chiese Kathy, agitandomi davanti agli occhi, una delle sue manine inguantata con una stoffa tappezzata di vivaci bande colorate.

- Eh?! Cosa…? – chiesi frastornata, quasi fossi stata svegliata da una secchiata d’acqua gelida

- Ti chiedevo se va tutto bene…- ripeté pazientemente la mia amica, passandosi una mano tra i corti capelli, tinti di un blu elettrico da qualche settimana, che componevano il suo vivace caschetto – E’ da un paio di giorni che non sembri più sulla terra! –

- E’ solo…- esitai alla ricerca di una buona scusa, che potesse liberarmi dalla preoccupazione della mia amica – E’ solo che non sto più dormendo ultimamente…-

A conti fatti, questa non era nemmeno una scusa. In realtà, già da un paio settimane, coltivavo seri problemi con il sonno: dormivo qualche ora a notte, e al mio risveglio tutte le mie energie sembravano svanire. Non era raro, infatti, che dovessi stare sdraiata a letto per qualche minuto, prima di tornare in piedi, se non volevo cadere dopo due passi. Ma di questo, ovviamente, non feci parola a Kathy

- Dovresti prendere qualcosa – mi disse, mentre attraversavamo il cancello della scuola che delimitava il confine della nostra scuola – O prima o poi ci sverrai in classe -

- Non essere assurda! – ribattei, tirando a sforzo un sorriso. Effettivamente mentirei dicendoti che non nutrivo tale preoccupazione: la mia forza vitale sembrava estinguersi ogni giorno di più, e la forza per reggermi in piedi, sembrava sparire con essa.

- Insisto che dovresti farti dare qualcosa, sia anche un sonnifero! – esclamò con cocciutaggine, la mia amica, mentre intraprendevamo la strada, costeggiata d’alberi spogli, che ci avrebbe riportato verso casa. Anche per quel giorno la tortura d’interrogazioni e compiti in classe era finita! E, strano a dirsi, ero riuscita a garantirmi più di un discreto sei in tutto; e, magari, anche per quell’anno sarei riuscita a passare per pura fortuna o bontà d’animo dei professori.

I miei occhi, vacui e perduti, osservarono le scheletriche sagome brune che si levavano verso il cielo grigio-bianco. Non so come mi trovai a paragonare quegli alberi privi di bellezza alle anime dannate dell’Inferno dantesco. Anime perdute che lambivano al Paradiso, che non avevano raggiunto. Anime che lambivano alla fine di tutto quel tormento, ma che ben sapevano, che nel luogo nel quale erano cadute non esisteva la parola fine ma solo la parola eternità.

Mentre mi perdevo in tali grotteschi pensieri, nuovamente Kathy mi riportò alla realtà, separandomi dal mio mondo fra le nuvole…

- Guardati! Sei pallida come un lenzuolo. Non penso che sia un buon segno! – mi fece osservare, scalciando un grumo bianco, che s’infranse contro la punta arrotondata dei suoi anfibi neri

- Oh, è questo freddo – trovai una nuova scusa – Vedrai che quando arriverò a casa assumerò un colore più umano –

- Se lo dici tu –. Con un’alzata di spalle, si rassegnò al mio desiderio di non dirle nulla di quello che realmente m’affliggeva. Sapeva che ero depressa per quanto riguardava la scuola, ma sapeva anche che non era l’unica cosa che mi stava distruggendo in modo così evidente.

Kathy non era una stupida e, soprattutto, mi conosceva da una vita! Aveva capito immediatamente che dietro ai miei sorrisi, alla mia allegria, alle mie parole di scusa, nascondevo qualcosa di molto più profondo che i stupidi voti scolastici. Ma anche se mi chiedeva di parlargliene, io mi rifiutavo di confidarglielo, e tutt’ora credo, che questo, le lasciasse un po’ d’amaro in bocca. In fondo era comprensibile. Probabilmente credeva che non mi fidassi di lei

In realtà, però, io mi fidavo ciecamente della mia stramba amica dai capelli colorati. Le avrei dato in mano anche la mia stessa vita, se fosse stato possibile. Insomma, la mia ritrosia nel confidarle le mie pene, non era data da una questione di fiducia. Temevo, più che altro, d’infastidirla con le mie stupide lagne infantili, che, a dire la verità, erano veramente tante: non c’era solo il sonno a togliermi la forza vitale, ma anche le furiose litigate che scattavano con mia madre erano abbastanza stancanti per il mio corpo e, soprattutto, per la mia mente. Senza parlare del fatto che mio padre era completamente sparito dalla mia vita da circa un paio di mesi, ma in fondo questo era solo l’ultimo dei problemi che affligevano il mia anima. Oltre i problemi con i voti scolastici, sempre troppo bassi, persistevano, anche, anche i problemi con il mio fisico: invidiavo tutto delle ragazze che mi circondavano! Le vedevo tutte più belle di me, più magre, più formose, più alte…insomma, nessuna cosa del mio aspetto esteriore aveva, secondo me, motivo d’esser lodato. Odiavo tutto di me stessa…e questo mi portò a pensare spesso al suicidio. Troppo spesso…

Ma amavo troppo la vita per fare una sciocchezza del genere! Non volevo fuggire dai miei problemi, io volevo risolverli!

Ma, è inutile continuare ad appesantire il mio racconto con tutte le problematiche che mi ero creata in più di tre anni. In realtà, questo mio narrare, è puntato a presentarti colui che mi portò nel mio Paese delle Meraviglie: il mio Bian Coniglio…

Dopo aver salutato Kathy, la quale era venuta a casa mia per studiare le lunghe pagine che componevano il capitolo di storia dedicato al ‘700 (gli anni della luce che dovevo studiare nel mio periodo buio, ironia della sorte), rimasi in casa, sola con mia madre. Da un paio di giorni, l’atmosfera che si respirava, quando eravamo sole, era molto più che tesa. Sembrava che ogni minima cosa ci potesse portare a un litigio, e quella sera non fu un’eccezione.

Non ricordo neanche cosa fece scattare la scintilla, talmente era banale come causa, ma ricordo ancora le sprezzanti parole che rivolgemmo l’una all’altra, cattive come mai, le nostre urla che aumentavano man mano di volume, e, infine, la porta che si sbatteva dietro le mie spalle. Mi appoggiai qualche secondo alla porta, per sentire, dall’interno, mia madre che scoppiava in lacrime. E, per la prima volta in vita mia, non ebbi alcuna pena per lei…

A ridirlo, ora, mi vengono i brividi. Non posso credere che una semplice litigata avesse tirato fuori la parte più crudele di me, che un semplice scambio di battute, per quanto cattive, avesse nascosto il mio cuore in una teca ghiacciata…

Fatto sta, che allora, non vi diedi peso. Affondai le mani nelle tasche dei miei pantaloni a vita bassa e scesi in strada, immergendomi nel buio, costellato di luci artificiali, della città. Solitamente avrei avuto il timore di aggirarmi da sola per le strade buie (chissà chi mai potevo incontrare?), ma quel giorno non sembrava importarmi. Mentre camminavo, il ricordo della litigata si faceva vivo nella mia mente. 

“ Perché tutto a me?” mi trovai a chiedermi, mentre le lacrime iniziarono a pungermi gli angoli degli occhi, prima che le cacciassi cocciutamente indietro. Eppure un bel pianto liberatore mi avrebbe fatto bene. Da quanto non ne facevo uno? Da tanto, troppo tempo per essere ricordato…

Mi lasciai cadere sulla prima panchina che trovai libera, stingendomi le ginocchia al petto e cercando un po’ di calore in quel freddo secco d’inverno. Nella foga della rabbia non avevo preso neanche il giaccone, e ora mi ritrovavo per strada con indosso un semplice maglioncino blu a collo alto, un paio di pantaloni neri a vita eccessivamente bassa, e un paio di scarpe da ginnastica. Non mi sarei stupita se la gente iniziasse a pensare che ero una “fuggitiva” (una scappata di casa, tanto per intenderci). Ma in fondo non ero quello?

Ma, a quanto pare, non tutti dovevano aver avuto questa impressione. Meno tra tutti il mio Bian Coniglio.

Non so quanto tempo passò da quando ero uscita da casa mia sbattendo la porta, fatto stava che ora la luna brillava alta nel cielo, con la sua pallida falce giallognola quando qualcuno si adagiò sulla mia stessa panchina: lui! Il suo aspetto era tra i migliori che avessi mai visto: era un giovane sulla ventina, corte ciocche nere (almeno quello sembravano al buio) cadevano morbidamente l’une sopra le altre, lasciando immacolato quel volto imberbe e incredibilmente liscio, dove s’erano incastonati due gemme ammaliatrici. Solo dopo, quando si sarebbe accostato maggiormente a me, avrei notato il loro colore verde scuro. Se il suo volto poteva essere talmente delicato, da farlo apparire un moccioso, il suo fisico, modellato da chissà quali sport, cancellava subito quest’ipotesi: le spalle erano ampie, e la maglia che portava fasciava fin troppo bene i suoi pettorali, per poi cadere larga su una parte dei jeans scuri, che costituivano il suo abito. Il tutto, poi, era coperto da un lungo soprabito nero.

Dopo aver notato tutta questa sua bellezza, tornai a osservare la volta celeste, per far sì che non si accorgesse del mio sguardo, troppo indagatore, su di lui. Ma, a quanto pare, il danno era fatto: lui mi aveva notata!

- Che ci fa una ragazzina sola per queste strade? – mi chiese, mentre poggiava, cautamente, la schiena contro lo schienale di legno

- Evita casa sua – risposi evasivamente, continuando a guardare il cielo

- Beh, ma le strade a quest’ora sono pericolose. Non si sa mai che incontri potresti fare – mi disse, pronunciando con una certa malizia l’ultima frase. Ma anche di quella malizia non m’accorsi, e fu un altro dei miei errori.

- Non m’importa. Ormai tutto ha perso importanza per me – mormorai tristemente, abbassando il capo sul petto.

 

E’ strano come ci è più facile parlare dei nostri tormenti a perfetti sconosciuti, piuttosto che a persone che ci conoscono da una vita. E’ strano, eppure succede…

 

- Neppure la tua vita? –

Rialzai, di scatto, il volto su di lui, trovandomelo molto più vicino di quanto ricordassi.

- La…mia vita?! – ripetei dubbiosa

- La monotonia, tutta questa routine con cui gira la tua vita, ha ancora importanza per te? –

Lo osservai cercando di comprendere ciò che passava nella sua mente: nulla...assolutamente nulla…

- No – risposi sincera, distogliendo i miei occhi su di lui – Non più -. Per la prima volta, davanti a uno sconosciuto, avevo risposto negativamente a quella domanda che molte e molte volte mi ero fatta.

 

E’ strano che, ogni volta che siamo depressi, nulla sembra avere più il suo effettivo valore. E’ strano, eppure succede…

 

Due delle sue dita s’insinuarono, delicate, sotto il mio mento, costringendomi a portare nuovamente il mio sguardo sul suo

- Lo dici davvero? – mi chiese, a un soffio dal mio volto. Annui…ed avevo aperto il mio contratto con il Diavolo

- Vorresti che tutto questo non fosse più ciò che fa ruotare la tua vita? E’ vorresti cambiare tutto questo?-

Non puoi immaginare, buon straniero attento, quanto furono seducenti quelle semplici parole per me.

Erano come l’acqua, per colui che non l’ha assaporata da giorni; erano come la vista, per colui che l’aveva persa; erano come il ritorno alla vita, per colui che è caduto nel baratro della morte…

Annui.

 

E’ strano il fatto che quando siamo sconfitti non temiamo nulla di quello che ci sta intorno. E’ strano, eppure succede…

 

- Io ti posso dare ciò che desideri, se tu realmente lo vuoi – mormorò, facendo scendere, con lentezza estenuante, il suo profilo sul mio collo, eccezionalmente tirato. – Lo vuoi? -

- Sì – sussurrai decisa. E il mio contratto fu firmato.

- Bene – sussurrò conto la mia vena, che pulsava rabbiosa tra le sue labbra.

Quello che successe dopo è, tutt’ora, confuso nella mia mente, appannato da una grigia nebbia che mi offre solo piccoli flash, leggere sensazioni…

Riesco a ricordare due piccole punture di spillo, alla base del mio collo, punture insignificanti che erano in grado di succhiare avidamente la mia forza vitale. Ma, stranamente, non vi era in me alcuna forma di stanchezza, anzi, sembrava che mi venisse iniettata dell’adrenalina, che circolava tra le mie vene con una velocità impressionante, raggiungendo il cuore e facendolo battere follemente tra le mie ossa…TU-TUM TU-TUM TU-TUM TU…fino a farlo fermare.

Ero entrate nel Paese delle Meraviglie.

E il benvenuto non mi fu dato dal rubicondo gatto parlante, bensì da un bacio intinto del mio sangue. E non provai alcun ribrezzo. Io che, da sempre, svenivo davanti a una goccia di sangue, provavo piacere immenso per quel bacio bagnato del mio rosso liquido di vita.

- Benvenuta nel mondo della notte, Zaira – mi disse il Bian Coniglio, prima di allontanarsi lungo la strada e confondersi con l’oscurità che era l’essenza del suo essere e…anche del mio…

Son passati 12 anni da quel giorno. Dodici lunghi anni da creatura della notte, che non sono nulla di fronte ai 100 anni di Matheus. Chi è Matheus? Oh, già, non ti ho detto il suo nome, prima, oh acuto ascoltatore. Lui era colui che ho definito “il mio Bian Coniglio”.

Dopo avermi abbandonato su quella panchina, con tutti i dubbi e le incertezze che mi affliggevano, lo incontrai tre notti successive, in quella strada dove avevo trovato rifugio ai raggi del sole, che ora erano terribilmente dannosi per il mio corpo. Lì, lungo quella strada, dove mi ero rannicchiata, ci rincontrammo nuovamente, e lui mi diede una nuova casa, poiché la mia l’avevo persa.

Da quella notte fatale, infatti, non rimisi mai più piede in casa mia… 

- Non rimpiangi nulla della tua vita passata? – mi chiese improvvisamente, qualche giorno fa, mentre ci beavamo dello spettacolo del cielo estivo, cullati dalla fresca brezza

- Rimpiangere?! – ho ripetuto, quasi ricordassi improvvisamente una parola da me a lungo obliata – Dovrei, forse? -

- Beh, se rimpiangi qualcosa di quello che hai lascito, significa che una parte della tua anima umana è rimasta in te…- mi ha spiegato, mentre il volto si piegava in un sorriso malinconico -…e questo, credo sia un bene – ha concluso, passando affettuosamente una mano tra i miei capelli. E’ solito regalarmi queste dolcezze, che, in fondo, sembra volere donare a qualcun altro, ormai lontano…forse alla sua defunta sorella, che, dice, io tanto gli ricordo…

Ma torniamo al nostro discorso, prima che mi perda per altri sentieri…

- In realtà…c’è qualcosa che rimpiango…- ho ammesso, timidamente, mentre un nodo mi stringeva la gola

- Ah sì?! E che cosa? –

- Le mie ultime parole dette a mia madre…- ho sussurrato.

Lacrime sono scese dai miei occhi, ignorando il comando di tornarsene indietro. Lacrime fredde come la morte, che solcarono le mie guancie, che accarezzarono la linea della mia mascella, cadendo poi sulle mie mani. Ho pianto. Ho lasciato libere tutte quelle lacrime che da tempo immemore custodivo.

- Ti odio…quella è stata la mia ultima parola. E, ormai, non potrò mai dirle il contrario…mai…-

 

Free Talk

Salve e benvenuti nelle mie personali lande degli incubi ^^ Allora, questa one-shot ha preso ispirazione da Alice nel Paese delle Meraviglie (ma dai! Non l’avrei mai detto -.- NdWhite), favola che adoro ^^ Spero possa piacervi il personale adattamento della mia mente malata.

Grazie mille a Mia e Samira che hanno gentilmente commentato i capitoli precedenti */me inchin*

Alla prossima favola ^^ (oh oh, mi sento tanto una nonnina ^^ - I tuoi nipoti s’ammazzerebbero piuttosto che ascoltare le tue favole NdWhite – Questo è proprio il modo migliore per presentarsi, White -.- NdBlack)

 

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Capitolo 4
*** Demons' nature ***


DEMON’S NATURE

3. Demons’ nature

Din Don, Din Don

Suonan le dodici campane della morte

Din Don, Din Don

Si china il vampiro ad assaggiare della nuova vittima la sorte

Din Don, Din Don

La sua anima si sporca di quella sua nuova consorte

Din Don, Din Don

E poi se ne va, come anima dannata, a raggiungere la sua corte

Din Don, Din Don

Din Don, Din Don

Din…Don…

 

 

Il lontano scampanare di una chiesetta mi annuncia che la mezzanotte ha fatto il suo trionfale ingresso, in questa notte che mi appare come la più bella tra le notti. E di certo, di queste ne ho viste tante nella mia vita di mortale e, molte più, in quella di non-mortale.

Le stelle sembrano preziosi diamanti, caduti casualmente su quel drappo intinto di un blu chiaro, che evidenzia in tutta la loro bellezza quelle luminose gemme, così grandi che mi sembra che basti allungare una mano per sfiorarne una, intrappolando tra le mie dita il suo etereo splendore.

Ma la Regina dei diamanti, questa notte è stata detronizzata. Al suo posto vi rimane solo un flebile cerchio più scuro, come a ricordare che presto vi sarà il suo discreto ritorno: prima come timida falce, poi come soddisfatto profilo e, infine, come cerchio perfetto in tutta la sua natura splendente. Ma, stanotte, lei non c’è, e non posso che trarre un basso sospiro di sollievo per questo.

No, non fraintendetemi! Quella Dama notturna è la cosa più bella che queste notti maledette possono offrirmi, la cosa più luminosa, come lo è il sole per voi mortali…

Difficile da credere, hn?! Ma se anche voi foste degli esseri della notte, iniziereste a pensarla proprio così. E non riesco a trattenere un leggero sogghigno, pensando a questo paradosso che ha tracciato anche la mia vita…una volta mortale come voi. Ma d’allora tante, troppo cose sono cambiate…

Ma continuando a parlare della bella Signora, non pensate che ella mi sia nemica…ma lo è del povero Will! Lui e la Luna non sono mai andati tanto d’accordo e l’ultima cosa che vorrei, in questo momento, sarebbe sprecare questa bella notte per tentare di ficcarlo in una gabbia, tenendolo, così, fuori dai guai: l’ultima volta che gli abbiamo lasciato libero, quando era impossessato dall’altra sua forma oscura, per poco non rimaneva ucciso!

E non è strano che quella piccola mortale ci abbia costretti a chiuderlo in gabbia, ogni volta che la bella Dama mostra tutto il suo volto pallido. E, inutile dire, che abbiamo acconsentito…

Mi secca ammetterlo, ma a volte quella strega riesce a fare più paura di tutti noi messi insieme, e pensare che basterebbe affondare i miei canini bianchi nella sua giovane carne, e far defluire dolcemente il suo succo vitale nella mia bocca, per farla appassire come una rosa privata d’acqua.

Ma non potrei mai fare un torto del genere a Will, che, chissà come e chissà quando, a quella stupida mortale si è affezionato, almeno quanto lei si è affezionata a lui.

E così mi tocca sopportare un’altra piccola piaga! Come se non bastassero già quei due che mi tiro appresso da una vita! Eppure, quando li guardo, riesco a percepire un po’ di quel legame che lega il lupo mannaro a quella megera. Anche se non potrei mai ammetterlo, forse per paura…paura di perderli, come già, una volta, nel mio passato, è successo…

Christof il suo nome risuona come un eco lontano nella mia mente, ma esso non ha perso neanche un po’ della sua sublime dolcezza. E come in un lampo, torno a sentire le sue mani che mi sfiorano, con una tale delicatezza che solo i petali di rosa potrebbero eguagliare; torno a percepire le sue parole, calde e interrotte da profondi sospiri, battere sulla mia bocca dischiusa e bagnata dal suo ultimo bacio; torno a sentire quelle labbra roventi, che divorano ogni centimetro del mio corpo, portandomi lentamente alla pazzia…la sua pazzia…  

Scuoto vigorosamente il capo, così che le mie corte ciocche nere mi accarezzino leggermente il volto, per liberarlo da quei tormenti, che da troppo tempo, ormai, arrovellano la mia anima.

Credete che l’eternità sia un dono? Non sapete neanche quanto siate lontani dalla realtà! L’eternità è una crudele punizione, in cui i ricordi più oscuri tormentano l’anima, divorandola finché essa non si estingue, lasciando solo un corpo ambulante, privato anche di ciò che lo tiene vivo anche da morto: i sentimenti, l’emozioni…

Poggiò, ancora una volta, le mie labbra sulla sigaretta, aspirandone il suo acre sapore. Ed essa, per tutta risposta, si accorcia ancora di più, abbandonando i suoi polverosi residui a fianco delle mie scarpe.

Reclino indietro la testa, lasciando che i miei occhi grigi di perdano in quel cielo infinito, mentre un leggero filo di fumo grigiastro esce lentamente dalla mia bocca, come il lento scorrere del sangue fuori da una ferita.

Lento eppur mortale…

Rialzo brutalmente la testa, e con la stessa brutalità mi separo da quei pensieri, che mi stanno distruggendo.

Pensate che gli esseri come me non abbiano anima? Tsk…quanto vorrei che fosse vero…

Intanto cerco di auto-convincermi di smetterla di inferirmi quelle sofferenze da solo, come se non bastasse Dancor a ricordarmele a ogni nostro incontro. Quel figlio…

- Mark!!! – urla, allora, una figura, interrompendo il mio turbine di riflessioni. Quella stessa figura che, dalla parte opposta del parco, agita la mano come una fossennata, mentre le sue gambe si muovono di corsa verso la panchina dove sono seduto. Una volta arrivatami dinanzi, si blocca, poggiando le mani sulle ginocchia e iniziando a respirare profondamente, come voler ficcare a forza l’aria nei suoi polmoni. Così concentrata sul suo respiro, che tenta di regolarizzare, neanche si accorge dei miei occhi che scrutano ogni centimetro del suo essere: gli alti anfibi, che le fasciano le piccole caviglie fino a metà polpaccio, li posso notare solo grazie a una gamba che, gli scuri jeans, lasciano scoperta fino alla coscia, contrastando con la gemella che viene coperta con assurda castità; il top che indossa, di un vivace arancio, non riesco bene a intravederlo tra quella cascata di boccoli biondi, che nascondono, anche, il suo volto. Finché lei stessa non lo rialza, mostrandomi due splendide, quanto vivaci, iridi violette, striate di un leggero nero, insieme a un brillante sorriso, che per qualche attimo riesce a far sminuire quelle gemme, di cui, fino a pochi minuti prima, decantavo le dolci bellezze. 

Quello è il sorriso che, ormai, non ha più abbandonato il suo volto da quando la trovai sotto la gelida pioggia di novembre, raggomitolata e tremante come un gattino, tra le radici di un albero di un bosco della Romania.

Nei suoi occhi fiumi di lacrime, nel suo cuore un’eterna paura. Paura che la portò, inizialmente, ad allontanarsi anche dalla mia mano, offerta come saldo appiglio.

Erano passati poco più che un paio d’anni da quando Christof mi aveva abbandonato per cadere tra le incantevoli braccia della morte, e non so dire, ancora ora, cosa mi spronò a raccogliere quel pargoletto simbolo della vita che si rinnova, mentre la mia era sprofondata in un turbine d’oscurità e dannazione eterna. Pietà, compassione, non saprei dargli un nome…fatto sta, che alla fine quella piccola creatura raccolse la mia offerta: afferrò la mia mano che fin’ora non ha ancora lasciato…

Come se stesse leggendomi nel pensiero (anche se so che è impossibile penetrare il gelo che mi avvolge) allarga il suo sorriso, buttandosi, poi, senza alcun preavviso, tra le mie braccia e per poco non si brucia con la sigaretta che stringo tra le dita. Mi costringo, così a spegnerla, per evitare di marchiarla inevitabilmente a fuoco. Ovviamente lei, di tutto questo, non si è accorta minimamente, e continua a ridere con quella risata cristallina che solo un bambino o Riky (che in fondo è un bambino), potrebbero riprodurre.

Una risata che ogni volta non fa che stupirmi (anche se, naturalmente, nulla di me lo da a vedere) per quanta reale gioia e felicità ci sia in essa. Gioia e felicità che non abbandonano mai neanche lei, nonostante la sua vita sia stata, ed è tutt’ora, un completo inferno in terra: costantemente inseguita da tutti coloro che ne conoscono la natura di ibrida, o, come amano chiamarla loro, di *mezza-mortale*, e da tutti quelli che a lei collegano quella stupida leggenda del “Figlio Impuro”, che sembra attrarre l’odio e, paradossalmente, il desiderio di tutti.

Furono quegli stupidi motivi a obbligarla a scappare dal suo villaggio, dopo che madre-mortale e padre-vampiro furono uccisi barbaramente. Si nascose, così, nel bosco, nella speranza che nessuno la trovasse per segnare la sua morte. Ma colui che la trovò, lei lo rinominò *il mio angelo*…e il suo angelo ero io…

Quando in verità era lei il mio angelo, colei che mi aveva fatto uscire da quel turbine oscuro in cui il mio animo stava, lentamente, sprofondando. Dopo aver perso la mia luce nel buio, avevo trovato il primo dei miei due angeli…

- Amelia diceva che saresti stato l’ultimo a venire, se avessi avuto tanta bontà d’animo da abbassarti al nostro umile livello – mi dice, riportandomi alla realtà, staccando le braccia dal mio collo, ma rimanendo comunque seduta sulle mie ginocchia.

- Non dovresti credere alla parole di quella stupida mortale, che si diverte a vestirsi da fattucchiera – le dico, indifferente come al solito, lasciandola leggermente contrariata

– La maggior parte delle volte ci azzecca con i tarocchi – ribatte, ripensando, evidentemente, alle carte che quella strega si porta sempre dietro

- La fortuna del principiante dev’essersi estinta, finalmente – dico, accendendomi una nuova sigaretta – A proposito di principianti, dov’è Riky? – chiedo, notando che stranamente non sono giunti insieme

- Oh…sarà qui tra poco – mi risponde, aggiustandosi meglio i polsini scuri che nascondono le cicatrici del suo passato. Cicatrici di un tentato suicidio, che già portava quando la raccolsi e che, molto probabilmente, ora si sono rimarginate. Ma non posso averne alcuna certezza, finché si ostina a tenerli celati a tutti, persino a me…Ma, dopotutto, ognuno di noi ha dei segreti talmente profondi da non poter essere svelati a nessuno.

- Non riusciva a trovare una cosa…- continua, alzando gli occhi al cielo, come cercandovi l’ispirazione

- Tsk…il solito cretino…- sbotto, soffiando fuori nuvolette di fumo

- Non devi offenderlo! – mi ammonisce, fingendosi imbronciata per l’appellativo che ho rivolto al suo “fratellino”, ovvero l’altra piaga che mi segue da una vita insieme a Mariann, con la quale è subito nato un rapporto di affetto reciproco, simile a quello di due fratelli nati da stessa madre e padre (anche se nel nostro mondo notturno e dannato questi legami di parentela sono ben poco considerati…).

- Hn…non lo sto mica offendendo… - controbatto, non rinunciando a quella impeccabile impassibilità che mi contraddistingue. Dopo quell’ultima frase, rivolgo, nuovamente, il mio sguardo alla volta stellata e, ben presto, anche quello violetto di Mariann, la quale, per non cadere, si aggrappa al mio esile collo bianco.

Stiamo così, in un miracoloso silenzio, a contemplare il cielo, finché una voce conosciuta non interrompe quell’attimo di pace…

- Sorellina!!! Mark!!! – esclama la fresca e allegra voce di Riky, così opposta alla sua reale natura. Dopotutto credo non sia ancora completamente consapevole di quello che è diventato da una ventina d’anni o poco più.

Con un impeto, che solo lui possiede, afferra le spalle della ragazza seduta sulle mie gambe, stringendosela affettuosamente al petto. Le loro risate cristalline risuonano nelle mie orecchie, mentre i miei occhi vengono inondati da quei volti ridenti che mi stanno dinanzi. Volti, le cui fattezze, li fanno sembrare dei semplici, per quanto stupendi, ragazzi di 17 anni, mentre molti più anni si evidenziano nelle linee dei loro occhi: quasi un secolo per lei, e a malapena una trentina per lui…un bambino in confronto ai miei due secoli d’esistenza…

Un bambino…il mio secondo angelo, venuto a salvarmi…

Li osservo, mentre ancora le risate toccano i loro volti, così simili che a volte mi chiedo se non siano realmente fratelli. Ridono nonostante entrambi abbiano un oscuro passato bagnato dal sangue…proprio come me…E forse è anche per questo che mi sono affezionato tanto a queste due piaghe della natura.

Le loro risate, man mano, sfumano, lasciando solo due volti sorridenti che mi guardano

- Sei stato il primo a venire?! Non ci credo! – esclama Riky, guardandomi con i suoi occhioni neri che, a volte, temo possano leggermi fin dentro l’anima

- Non dirmi che anche tu credi alle parole di quella strega da quattro soldi – sbuffo, e la sua unica risposta è un nuovo sorriso.

Si alza, lasciando le spalle di Mariann, e permettendomi di ammirare tutta la sua figura: il suo fisico asciutto, ma comunque tonico e muscoloso, è fasciato da una maglia bianca a lunghe maniche, alla quale è stata sovrapposta una maglietta nera, che riprende il colore dei suoi jeans e dei suoi occhi, in cui una fiamma viva è sempre accesa…nonostante nulla di vivo ci possa essere in lui…

- WIll e Amelia non sono ancora arrivati? – mi chiede, sedendosi di fianco a me, così che io possa assaporare il suo fresco profumo, che si miscela a quello più dolce della sorellina

- Li vedi? – ribatto con il mio solito tono poco gentile, a cui entrambi sono abituati

- Giusto! Però avevo pensato che Amelia fosse tra le prime, visto che aveva criticato la tua puntualità – mi dice, lasciando cadere il suo capo, coperto di corti spuntoni dorati, sulla mia spalla. Lo guardo, come per chiedergli il perché di tutta quella confidenza, pur sapendo già la risposta: ne ha bisogno!

Ne ha sempre avuto bisogno, oggi più che mai…oggi, che ricorre il suo triste anniversario, oggi che i suoi ricordi di sangue imbrattano la sua memoria. I ricordi di quel giorno…anzi, di quella notte…quando anch’egli diventò una creatura della notte e gustò la sua prima cena come tale: il suo stesso sangue. Il sangue di quella donna che l’aveva messo al mondo, il sangue di quell’uomo che l’aveva cresciuto, il sangue di quel ragazzo che l’aveva sempre difeso, il sangue di quella creatura di appena qualche anno…

Immerso in quel lago rubino, con lacrime di disperazione che sfociavano dagli occhi bui, tra le mani stringeva la piccola bambina dai lunghi capelli biondi, di cui solo la testa era stata risparmiata, mentre il corpo era stato del tutto sventrato dalla folle fame di un neo-nato delle ombre…così lo trovammo, io e Mariann, quella notte di vent’anni orsono. E così trovai il mio secondo angelo…offrendogli la mia mano come appiglio...

Quella stessa mano che, ora, scivola dolcemente sulle sue spalle, cingendogliele con sicurezza, mentre il volto della seconda piaga s’incastra nell’incavo del mio collo. Non sono il tipo che offre carezze o gesti d’affetto, ma stanotte…stanotte tutti e tre abbiamo bisogno l’uno dell’altro…io ho bisogno dei miei due angeli, dopo che la mia unica luce si è eclissata, giusto un secolo e mezzo fa…

E’ strano, ma proprio in questa notte estiva, così bella e romantica, ricorrono molti anniversari, forse troppi: la morte di Christof, l’atroce uccisione dei genitori di Mariann, la follia omicida di Riky, ma anche l’anniversario del mio incontro con le mie due uniche gemme…

Sento le loro mani artigliarsi sulla mia leggera camicia nera, mentre le mie sono poggiate cautamente l’una sul capo di Mariann, l’altra sulla spalla di Riky. Nessuno di noi parla. Nonostante questi due abbiano sempre qualcosa da dire, ora, sanno, che le parole sarebbero del tutto futili e che rovinerebbero questa leggera atmosfera che si è creata. Leggera eppur piacevole…nel nostro dolore…

Non so quanto tempo trascorriamo fermi in questa posizione, ma devono essere passati una buona manciata di minuti, perché è la voce, troppo acuta, di Amelia a riscuoterci…

- Ma guarda che bel quadretto! Non me lo sarei mai aspettato da Mr. Cuor-di-ghiaccio – ride, facendomi irrigidire – Non pensavo che saresti venuto -

- Di piuttosto che lo speravi – ribatto secco, sciogliendomi dall’abbraccio a tre e lasciando liberi i miei due vampirelli di andare a salutare i due ultimi arrivati

- Beh, a essere sincera sì – mi dice sogghignando la strega dalle corte chiome nere, mentre il suo ragazzo accentua un’espressione di finta esasperazione.

- Quando la smetterete voi due? – dice, con quel suo classico tono dolce, giocando distrattamente con la lunga coda bruna che gli ricade su una spalla.

E’ difficile credere che dietro quel volto cordiale e quegli atteggiamenti gentili e un po’ impacciati si nasconda, in realtà, una terribile bestia figlia della luna. Una bestia la cui ferocia e il cui aspetto riportando immediatamente ai lupi di montagna, che da secoli sono spariti da queste contrade…

Peccato che i lupi non attacchino i propri amici, al contrario dei Lupi Mannari, i quali perdono ogni controllo sul proprio raziocinio, attaccando ogni cosa li capiti a tiro. L’ultima volta fui proprio io a capitargli a tiro e non fosse stato per la forza di Mariann e Riky e, mi scoccia ammetterlo, e le magie di quella megera, ora non so se potrei ancora essere qui a raccontare la mia storia.

Ma poi, con la morte della Luna Piena, Will torna a essere il buon amico e confidente di sempre: una persona a cui affiderei la mia stessa vita, una persona di cui mi fido ciecamente…

Non sono molte le creature che possono vantare tale privilegio da parte mia, ma tra queste Mariann, Riky e Will sono certamente presenti. E, ebbene sì, anche lei…Amelia…L’unica Mortale del gruppo è, in compenso, la più anormale, con le sue previsioni, letture dei tarocchi e magie.

Per quanto io e lei decantiamo di essere eterni nemici e per quanto continuiamo a stuzzicarci è inutile tradire la realtà. E cioè che ogni volta che quella strega, dai strambi modi, è in lacrime, è sulla mia spalla che viene a piangere e che ogni volta che io sono confuso è da lei che vado a cercare le mie risposte. Ma, ovviamente, le nostre continue sfrecciatine sono giochi a cui non potremmo mai rinunciare…

- Smettere? Ma se non abbiamo neanche cominciato! – ride beffardamente la megera, scoccando un leggero bacio sulla guancia del suo ragazzo, il quale non può fare a meno di scuotere la testa rassegnato, facendo, così, ciondolare la sua coda sull’attillata maglietta beige che indossa.

Quel gesto mi riporta alla mente, con un flash, le dolci effusioni che ho perso con la mia luce, strappatami dal traghettatore dei morti, o meglio strappata da Dancor…quel demonio che ha rovinato tutte le nostre vite…

Fece uccidere, dagli abitanti del villaggio, i genitori della piccola Mariann, per avere tra le mani il prodigioso “Figlio Impuro”; trasformò Riky in un vampiro, per il divertimento di rovinare la vita a un giovane Mortale; costrinse i genitori di Will ad abbandonarlo in una foresta, per poter tenere sotto il suo potere un Lupo Mannaro; uccise il fratellino di Amelia, per la fame di una notte; uccise il mio Christof, per folle gelosia…

E, paradossalmente, dobbiamo ringraziare proprio questo bastardo se ora, tutti e cinque, ci troviamo qui, insieme, in questa notte…perché noi ci unimmo per uccidere colui che aveva intrecciato i nostri destini…

Due Vampiri, un Lupo Mannaro, una Mezza-Mortale, una Strega Mortale…non potrebbe esistere gruppo più strano, eppure è in tutta questa stranezza che sta la nostra vera unità, perché, inutile nasconderlo, nessuno di noi potrebbe fare a meno degli altri, anche se io stesso non l’ammetterei nemmeno sotto tortura…

- Allora dove si va? – chiede Riky, prendendo sulle spalle la sua sorellina

- Al Heal&Hetan’s Club, ovviamente – dice convinta la strega, poggiando mollemente un braccio sulla spalla del Lupo Mannaro

- In quel locale da strapazzo!? Vuoi scherzare? – faccio impassibile, alzandomi in piedi e accendendomi una nuova sigaretta

- Mark è già la terza che fumi!!! – mi rimprovera severamente la biondina, offrendomi un altro dei suoi teneri bronci

- Di certo non morirò – le faccio osservare

- Uh, ma che spiritoso sta notte! – ironizza la fastidiosa moretta

- Allora, dove si va? – torna a chiedere il Vampiro più giovane

- Di certo non in quel locale da strapazzo, proposto dalla megera – affermo io

- Megera?! Senti, Vampiro dei miei stivali…-

- Che ne dite di andare al Demon’s Club? – propone Will, interrompendo sul nascere ogni lite. Per qualche miracolosa magia, la sua parola ci mette sempre tutti d’accordo

- Oh sì! E’ da una vita che non ci vado! – esclama gioiosa Amelia, stringendo in un abbraccio il Lupo, mentre gli occhi neri di Riky si muovono a cercare il mio consenso, insieme a quelli ambrati del ragazzo che la strega sta stritolando. Un consenso che, ovviamente, viene, facendo tirare un sospiro di sollievo a tutti…

- Hn…sì, perché no?! –

E così i nostri passi iniziano a muoversi verso il locale sotto il grido trionfante di Mariann – ANDIAMO!!! –

Andiamo…nelle tenebre…gustandoci quest’eternità maledetta….

 

Free Talk

Questa volta mi è toccato parlare di creature a me molto care: i Vampiri ^^ I personaggi di questa breve favola stanno collaborando (contro la loro volontà, ovviamente NdWhite) a creare una storia a più capitoli dedicata interamente a loro, che spero vada presto in porto (quindi se avete idee, critiche o aggiunte in mente saranno tutte ben accette ^^). Spero sia stata di vostro gradimento */me inchin*

Ringrzio Sindy90 per aver commentato il mio scorso capitolo. Sono contenta che queste storie, per quanto brevi, siano un piacevole passatempo per voi ^^

Alla prossima favola…

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Capitolo 5
*** Bad Wendy ***


4

4. Bad Wendy

 

Non appena i suoi piedi tornarono a terra una sensazione dolce le invase il cuore: sono tornata a casa, si disse. Sentì i due fratelli giungere poco dopo di lei, e sui loro volti ben chiara era la gioia del ritorno, anche se un po’ di malinconia serpeggiava ancora nei loro cuori. L’Isola CheNonC’è sarebbe rimasta sempre nella loro memoria e con lei tutte le avventure meravigliose che in essa avevano passato.

Facendo meno rumore possibile, John e Michel si nascosero sotto le coperte, per allietare la mamma al suo arrivo. Chissà quanto sarebbe stata contenta a vederli lì, di nuovo nei loro letti, come se nulla fosse successo in quei giorni...come se tutto fosse stato un sogno.

< Wendy, mettiti anche tu sotto le coperte > le disse John, a bassa voce

< Sì, ora arrivo > rispose lei, andando incontro alla finestra.

Doveva salutarlo…ancora un volta prima di lasciarlo.

Il vento danzava dolcemente con le tende azzurre che coprivano la finestra aperta; buone carezze toccavano il suo vestito da notte, logorato e sporco come non mai; freschi sospiri allietavano il suo viso, stravolto per il lungo viaggio in volo che avevano appena compiuto.

Cautamente scostò le tende, trovandosi davanti il volto fanciullo che mai sarebbe invecchiato.

< Peter… > sussurrò, accostando una mano alla sua gota, ma egli si scostò bruscamente, indietreggiando di un poco. I suoi occhi, splendenti come il cielo del suo mondo lontano, la guardavano con astio, trafiggendole il cuore ancora immaturo, ma già segnato da tante emozioni.

< Peter… > ripeté, con voce tremante di sofferenza. Non voleva salutarlo così: voleva conservare un ultimo ricordo felice < Mi dimenticherai, Peter? > chiese, timorosa della risposta.

Gli occhi del ragazzo parvero raddolcirsi un poco < No… > rispose secco, girando, poi, il viso da un lato

< Sono contenta > disse Wendy, con un sorriso pieno di tristezza < Perché neanch’io lo farò >

Il volto, di solito sempre arrogante, del fanciullo tornò a guardarla: nei suoi occhi, l’astio era scomparso, mettendo a nudo la sua fragilità. Con movimenti fluidi si avvicinò alla giovane, che ancora sostava davanti alla finestra. Una delle sue mani si posò sulla lunga chioma bruna, in cui s’intrecciavano fili d’erba e terriccio ancora fresco.

< Non ci sarà un’altra Wendy nel mio cuore > le disse, per poi allontanarsi velocemente < Andiamo Campanellino > esclamò, trovando il suo solito tono da capitano < Terza stella a destra e poi dritto…fino al mattino >.

E Wendy vide allontanarsi quel giovane volante, che mai più avrebbe rivisto, ma che sempre avrebbe vissuto nella sua memoria e nel suo cuore…

Avrebbe raccontato la sua storia ai suoi figli, ed essi l’avrebbero raccontata ai loro figli, ed essi ai loro figli, e così via…tramandata di generazione in generazione. E tutti avrebbero iniziato la storia con…

< Tutti i bambini crescono. Tutti tranne uno…>

 

Chiudo il libro e con un sospiro mi sciolgo nell’abbraccio gentile della poltrona. La mia mano ancora indugia sulla copertina di cuoio di questo manoscritto, che è il mio più prezioso tesoro, e le mie dita giocano con le lettere dorate che compongono il nome di questo mio scrigno.

Il fuoco scoppietta allegro nel camino, diffondendo un caldo protettivo per tutta la stanza, e illuminando, con luci e ombre, ogni angolo di questo luogo, per me paradisiaco: la mia personale Isola CheNonC’è.

Qua, in compagnia della favola che ho sempre amato, del fuoco caldo e di lui…il mio Peter Pan.

Ora dorme, tra le pieghe della mia gonfia gonna rossa, con un sorriso soave sul suo volto di eterno fanciullo.

Si addormenta sempre quando leggo la sua storia. Crolla prima di poter udire la fine: la separazione tra Wendy e Peter…lei crescerà, mentre lui rimarrà un eterno bambino.

 

“Ma la nostra favola finirà in modo diverso, vero Peter?

La tua Wendy non tornerà da quegli adulti cattivi…lei rimarrà bambina…con te…”

 

Tolgo le ciocche platino dal volto del mio bell’addormentato, e il suo respiro mi solletica le dita, come volerle accarezzare per un tacito ringraziamento. Mi chino e poggio un leggero bacio sulla sua guancia diafana, ora tinta di fuoco grazie ai riflessi del camino. Appena mi stacco lui s’immerge di più tra le pieghe del tessuto, con un mugolio soddisfatto ed io continuo ad accarezzare i suoi capelli, coccolandolo come dal nostro primo incontro continuo a fare. Non ricordo quanto tempo è passato da quel giorno…so che è tanto, tanto tempo.

Anche allora, come tutt’oggi, avevo tredici anni e lui aveva, e ha, la mia stessa età.

Anche allora eravamo chiusi in quest’orfanotrofio, dove i nostri genitori ci abbandonarono per poi non tornare mai più…entrambi…

Ignoravo di avere un fratello quando c’incontrammo la prima volta, e ignoravo che mio fratello fosse il medesimo ragazzo che sgattaiolò nel dormitorio femminile nel cuore della notte. Coraggiosamente sfidò le rigide regole imposte dalle suore, che proibivano l’accesso in quest’ala dell’orfanotrofio da parte dei fanciulli (la stessa cosa valeva per le fanciulle, per quanto riguardava il dormitorio maschile, che comunque erano meno ardite sulla questione). Una volta all’interno di quella sala, per lui territorio proibito, si mise a girovagare in mezzo ai letti alla ricerca di una fanciulla: io.

Mi svegliai grazie al suo respiro che batteva sul mio volto, e mi ritrovai il suo volto a pochi centimetri di distanza dal mio. Non reagii: stetti immobile a osservare quei due occhi azzurri, che curiosi mi osservavano.

- Tu sei Wendy? – mi chiese, in un flebile sussurro. Annuì, involontariamente.

- Io sono Peter – si presentò – Proprio come il protagonista della storia che racconti di più – mi disse con un sorriso compiaciuto sul volto

- Conosci le storie che racconto? – chiesi meravigliata

- Certo! Io e i ragazzi ci fermiamo spesso ad ascoltarle – saltò in piedi sul mio letto, provocando brusche onde del materasso – Sono belle e avventurose e…- fui costretta a interromperlo, premendo una mano sulla sua bocca. Se le suore ci avessero scoperto…oh, quante frustate avrebbero dato a entrambi!

- Non parlare a voce alta - gli dissi, mentre lo costringevo a sedersi nuovamente - O le suore ti scopriranno -

Egli annuì, e io lo liberai da ciò che gli fermava le parole, costrette in bocca

- Dimmi, ora, perché sei venuto qui? - chiesi

- Non riesco a dormire! – mi rispose, sincero – Raccontami una storia –

Fu la prima volta che me lo chiese…ma non sarebbe stata l’unica…

Dal giorno successivo io e Peter diventammo inseparabili: lui m’insegnava a tirare di fionda, a giocare con le biglie, ad arrampicarmi sugli alberi e io, in cambio, raccontavo favole a lui e ai nostri bimbi sperduti.

Ovviamente le suore non vedevano di buon’occhio questa amicizia tra una fanciulla e una marmaglia di ragazzi, così provarono più volte a dividerci, ma tutti i loro sforzi furono vani: per quanto ci punissero, ci separassero, ci sgridassero, io e Peter tornavamo sempre insieme, e continuavamo a essere felici in compagnia dei bimbi sperduti.

Quest’ultimi, però, iniziarono a lasciarci, uno per uno. Essi non potevano più rimanere bambini per sempre: ora, gli obbligavano a crescere! Li obbligavano diventare adulti…

 

“Cos’hanno di così speciale gli adulti, Peter? Essi sono crudeli, cattivi, meschini…

Sono proprio loro che ci hanno portato via i nostri bimbi: quelle dame, dai sontuosi abiti, pronte a regalare dolci biscotti, a noi proibiti dalle suore; accompagnate da gentiluomini carichi di buoni sorrisi.

Loro li hanno portati via per farli crescere! Loro…li hanno obbligati a crescere…

Ma noi non cresceremo, vero Peter? Noi rimarremo sempre bambini, perché noi siamo gli ultimi rimasti…”

 

Piano piano, infatti, tutti i nostri bimbi sperduti ci abbandonarono per diventare adulti, mentre io e Peter rimanevamo sempre fanciulli.

Piano piano, le suore presero a rimproverarci più severamente, urlando che ormai eravamo grandi e che non dovevamo più comportarci come bambini.

Piano piano, vedevamo gli altri bambini farsi sempre più piccoli e minuti…

Poi, un bel giorno, di punto in bianco, le suore ci trascinarono in questa stanza e ci chiusero qui dentro.

All’inizio eravamo confusi: non capivamo il motivo di quell’improvvisa scelta, non capivamo perché ci avessero privato della possibilità di correre per i prati. Però eravamo felici: eravamo ancora insieme, in questa nuova Isola CheNonC’è! Eravamo ancora insieme…

 

“Tu non mi abbandonerai mai, vero Peter? Mi resterai sempre vicino…”

 

Iniziarono a pulirci con attenzione, a farci curare da veri dottori, a vestirci con abiti che avevamo visto solo indosso a quelle dame e a quei signori che venivano a rapire i nostri bimbi sperduti, a nutrirci con ogni leccornia, a viziarci con ogni giocattolo e libro che desideravamo.

Non riuscivamo a capire perché, ora, venivamo trattati da piccoli lord. Finché non arrivò quel giorno, in cui la verità ci fu sbattuta davanti agli occhi, senza alcun preavviso, senza alcuna dolcezza…

 

“Gli adulti sono tutti meschini, vero Peter? Ma noi non lo diventeremo. Noi saremo sempre buoni, perché saremo per sempre bambini…”

 

Ricordo che era una bella giornata: luminosa, fresca, profumata come una delle tante giornate di primavera. Gli altri bambini giocavano allegramente per il giardino, mentre io e Peter eravamo costretti a restare in quella piccola stanza, rimpiangendo le dolci carezze della verdeggiante erba di Maggio. Ma presto ci lasciammo alle spalle quei rimpianti, e ci mettemmo a giocare.

Giocavamo ai pirati e Peter era in netto vantaggio, anche a causa dei vestiti tanto comodi che indossava, al contrario di me, costretta in un sontuoso abito carico di pizzi e merli. Saltavamo da un letto all’altro, brandendo le nostre spade di legno, gridando – All’erta marrano! – o – Ti ucciderò vile canaglia! -.

Ridevamo, cadevamo, ci rialzavamo, ci colpivamo a vicenda, gridavamo e poi ancora ridevamo.

Eravamo felici, perché ancora eravamo insieme…

Proprio mentre saltavamo da una parte all’altra della stanza, evitando con maestria le pile di libri e di giocattoli sparsi per la stanza, ecco aprirsi la pesante porta di quercia, che ci divideva dal resto del mondo: sull’uscio sostava l’esile figura della Madre Superiora dell’orfanotrofio.

In rarissime occasioni i bambini potevano vederla, eppure chi aveva avuto la fortuna di avere anche un solo breve incontro, ricordava a lungo quel volto gentile, cosparso di aura fatata, che si distaccava nettamente dai volti duri e spigolosi delle altre donne. Io stessa la incontrai un’unica volta, e ancora ricordavo la bellezza del suo volto e la profonda dolcezza che esso emanava, anche se quel giorno il velo di zucchero dei suoi occhi, azzurri come frammenti rubati al cielo, era stato mischiato con un pizzico di tristezza.

I suoi capelli erano perpetuamente coperti dal velo nero, che contraddistingueva le donne del Signore, ma due ciuffi sbucavano sbarazzini da quella prigionia, mostrando il colore dorato di quella chioma celata.

Ci si avvicinò con una camminata talmente sinuosa, che fu in grado d’ipnotizzarci. Sia io che Peter, infatti, ci sedemmo immediatamente su uno dei letti, come mossi da un muto ordine, mentre le altre suore abbandonavano la nostra Isola, lasciando solo la Superiora.

Essa si fermò solo quando ci fu dinnanzi, permettendoci di scoprire quelle profonde linee che le rigavano il volto. Stava invecchiando…

Ci sorrise mitemente, aumentando il numero di linee che deturpavano il suo bel viso fatato.

- Buongiorno – ci salutò, donando una carezza a entrambi. Quanto buone erano le sue mani! Quanto caldo era il suo gesto…materno…

 

“E’ stata furba, vero Peter? Prima ci ha donato bianchi granelli di zucchero, per poi avvelenarli con l’acido di un limone. Crudele! Ci ha ingannato!”

 

Dopo averci incantato con la sua polvere luccicante, iniziò a raccontarci una storia…una strana storia…

Ci spiegò che lei, ancora giovane, s’era presto sposata con il Signore, che aveva dovuto rinunciare all’amore terreno per mantenere puro quello spirituale. Ma lei non era stata una buona sposa…aveva tradito il suo buon marito con un affascinante giovane scrittore: lo incontrò casualmente la prima volta, e poi, senza che neanche se ne accorgesse, cominciò a incontrarlo con sempre maggior frequenza, finché non era diventata una sporca peccatrice, unendosi a quel corpo dalle sembianze angeliche.

Sentivo la voce della Madre Superiora sempre più sofferente, mentre le sue mani pallide stringevano tremanti quelle mie e di Peter, ancora intenti ad ascoltare la sua strana favola…

Continuò dicendo che il Signore l’aveva punita e allo stesso tempo benedetta per quel tradimento: dopo mesi erano, infatti, venuti alla luce i due frutti della sua peccaminosa unione. Due bellissimi frutti dai capelli dorati come quelli degli angeli, e dagli occhi azzurri come il cielo di primavera, stagione in cui avevano aperto gli occhi quei figli del male. Ma anche se erano figli del male, lei non poteva fare a meno di amarli perché erano suoi figli! I suoi adorati figli…

Chiese alla Madre Superiora di quel tempo di accettarli tra i bambini dell’orfanotrofio, così che potesse almeno vederli crescere da lontano.

- E sono cresciuti… - ci aveva sussurrato con voce roca, mentre lacrime rigavano il suo volto – Sono cresciuti, splendenti come il sole, belli come la luna…- continuò, accarezzando con le mani tremanti i nostri visi, mascherati d’incredulità. Avevamo saputo la verità…

 

“Siamo fratelli Peter, figli di una donna che non ci ha voluto…Lei è cattiva, vero Peter? Ma io non sarò mai cattiva, non ti preoccupare. Perché io rimarrò sempre bambina”

 

Peter sconvolto mi guardava, mentre cacciavo in malo modo quella donna che ci aveva rivelato di essere la nostra comune genitrice, la stessa donna che ci aveva privato dell’amore di una reale famiglia. Quando fu sulla soglia della porta si voltò a guardarci e quello che disse ci colpì…dritto al cuore…

- Vi prego, bambini miei…crescete -

 

“Crescere? Perché dobbiamo crescere, Peter? Si sta così bene da bambini…”

 

Nei giorni successivi la vitalità di Peter si spense: rimaneva sempre più spesso nascosto sotto le coperte in un silenzio sommerso nelle lacrime. Lentamente smise di giocare, di ascoltare le mie favole. Iniziò a rifiutare il cibo, diventando sempre più pallido e consumato, aumentando la sua somiglianza con uno spettro tormentato. Anche quando m’infilavo nel suo letto, accarezzandolo dolcemente nel dormiveglia, le sue lacrime non si placavano, e, a poco a poco, iniziò a staccarsi completamente da me, rifiutando ogni mio più piccolo gesto.  

E io soffrivo…soffrivo perché non potevo salvarlo da quell’abisso nero in cui aveva scelto di cadere.

Ma alla fine…alla fine Peter si risvegliò. Un giorno, così, d’improvviso, lui era tornato il Peter di sempre: sorridente, allegro, pronto a giocare, mangiare, ascoltare le mie storie, ad accettare di nuovo le mie carezze.

E ora, lui è qui con me, che si muove per uscire dal sonno. Presto i suoi occhi di cristallo si aprono incontrando il mio volto, piegato premurosamente sul suo

- Peter? – lo chiamo, togliendogli dal volto le ciocche dorate

- Wendy sei qui – mi sussurra lui, accarezzandomi le gote, arrossate per l’eccessivo calore della stanza.

Mi sfiora delicatamente, come se stesse toccando un sogno, ma poi sorride notando che non il mio corpo non è inconsistente.

- Ho fatto uno strano sogno…- mi spiega, scuotendo vigorosamente la testa – Noi due…ecco…beh, non fa niente…- lascia cadere il discorso, con un nuovo sorriso che gli piega il volto.

 

“Vuoi lasciarmi, Peter? Vuoi abbandonarmi per andare in quel mondo che odiamo?…il mondo degli adulti…”

 

- Non mi lascerai mai, vero Peter? –

Quella domanda esce spontanea dalla mia bocca, mossa dalla paura di separarmi da quell’eterna creatura immortale, come me…

I suoi occhi mi guardano interrogativi, quasi non capisse ciò che gli ho appena chiesto. L’ansia deve aver storpiato il mio volto, perché presto la sua risata riecheggia nell’aria, come a volermi risollevare

- Non potrei mai lasciarti, Wendy – mi rassicura, tornando a posare le mani sulle mie gote.

Tiro a forza un sorriso, per dirgli che la sua risposta mi ha soddisfatto. Ma quella teatrale piega del mio volto sparisce quando le labbra di Peter sfiorano, con delicata innocenza, le mie, per poi ritirarsi intimorite.

- Resterò sempre qui con te, Wendy – mi dice, tornando a poggiare la testa sulle mie gambe e spargendo

i suoi fili dorati sulla mia gonna bordò, per poi immergersi nuovamente tra le pieghe di rosso velluto

- Resterò per sempre bambino insieme a te. E tu, Wendy? -

Con lentezza la mia mano, poggiata ancora sulla rilegatura del libro che mi ero deliziata a leggere, prende ad accarezzare quel volto che rilassato s’appoggia sul mio grembo.

- Resterò per sempre bambina…con te…-

*

Non riesco a trattenere le lacrime, che, impetuose, si sciolgono dai miei occhi, fissi a osservare quella dama, ormai ventenne. Ma nonostante il suo corpo sia quello di una donna pronta a nozze, la sua mente è rimasta quella di una fanciulletta di tredici anni.

Le lacrime accarezzano le mie guance, mentre i miei occhi s’appannano, privandomi di quell’immagine per me tanto dolorosa, che sono costretta a osservare solo attraverso una piccola finestrella che si apre su questa spessa porta di quercia. So che se mi vedrebbe, la sua fragile mente crollerebbe del tutto. E allora la guardo da lontano, rattristandomi di quell’illusione in cui è caduta la mia bambina.

I lunghi capelli dorati cadano morbidi sulla sua schiena, coperta del nero pizzo del lutto; i suoi occhi, una volta splendenti come diamanti, ora sono vuoti, privati d’anima, fissi a guardare un punto vuoto sulle sue ginocchia, e su quel punto continua a danzare la sua mano, in ritmiche e dolci carezze, dedicate al nulla. E infine il suo sorriso, quello che storpia mostruosamente quel volto, facendolo sembrare quello di una folle.
Ma in fondo non è questo che è diventata la mia bella bambina?

Da peccatrice creai quei due bellissimi frutti, e il Signore mi punì rendendoli folli, proibendo alle loro menti di crescere, seguendo i loro corpi. Quando raggiunsero i 16 anni, fui costretta a separarli dagli altri bambini, chiudendoli in questa stanza, che loro rinominarono l’Isola CheNonC’è…

Oh, Johnatan, in loro si è riversata tutta la tua dolce fantasia! Quella fantasia che mi spinse ad amarti e che ora ha maledetto i nostri due splendidi figli!

Per due anni interi li tenni chiusi in questa stanza, senza alcun contatto con l’esterno, nella speranza che guarissero da questa loro pazzia. Ma la mia speranza era del tutto vana: loro continuavano a rimanere due bambini, e come tali continuavano a comportarsi.

Disperata e distrutta da quella situazione, tanto dannosa per le mie due creature, decisi di raccontarli tutto: raccontai a entrambi la mia, la loro storia e…feci il mio primo errore: sconvolsi le loro menti, delicate come cristalli. Gli avevo spaventati rivelandoli che la loro peggiore paura si era trasformata in realtà: stavano crescendo!

Con quelle mie parole in testa, i miei due bambini, reagirono in maniere completamente differenti: mentre, infatti, Wendy rinnegava con forza l’evidenza, nel cuore di Peter il seme del dubbio aveva piantato le sue radici, sospendendolo in una dimensione che sostava tra follia e sanità mentale. Immerso in quella confusione, però, iniziò a perdere tutta la sua vitalità, arrivando a rifiutare sonno, cure, cibo e le attenzioni che la dolce sorella era solita dedicargli.

Così facendo, Wendy si disperava dalla sofferenza, sentendosi impotente davanti alla “malattia” del gemello. Impotente…come una bambina!

E, nel contempo, il dolore dei miei due piccoli, mi straziava il cuore, me lo lacerava lentamente, me lo stracciava con perverso piacere. Così, mi vidi costretta a intervenire una seconda volta, mossa, questa volta, dal desiderio di placare quell’auto-distruzione, a cui i miei figli si erano dedicati. E sbagliai, per la seconda volta…questa volta fatalmente…

Nuovamente cercai di essere persuasiva, usando il comune tono che una madre usa con i frutti del proprio ventre, spiegandoli di nuovo tutto, con maggiore calma e pazienza, come se realmente mi trovassi davanti a due bambini.

Questa volta, quando terminai, non venni cacciata in malo modo dalla mia bella fanciulla, la quale fu preceduta dall’annunciò che Peter decise di darci:

- Io voglio crescere…mamma…-

Se in me, quelle quattro semplici parole, avevano fatto nascere una nuova e splendente gioia, le stesse avevano distrutto definitivamente il cuore della sorella, e, peggio ancora, la sua mente, già instabile.

Ricordo ancora la felicità infantile che custodivo nel cuore, quando quella notte m’immersi nel sonno.

Ma il lustro della gioia tramontò su un mare rosso di sangue…

La mattina seguente fui svegliata dalle urla di alcune giovani novizie, incaricate di portare la colazione ai miei due fanciulli. Non compresi cosa esse balbettassero tra le grida e le lacrime, ma capì all’istante che qualcosa di terribile era successo…qualcosa che nemmeno la Confessione avrebbe potuto lavare dal mio cuore.

Corsi verso l’ Isola CheNonC’è, senza curarmi minimamente di essere ancora in veste da notte. L’immagine straziante, che lì mi accolse, mi colpì in pieno stomaco, con la stessa forza di un calcio: i muri, i pavimenti, i letti, i giocattoli…tutto era imbrattato di uno scuro liquido rubino: sangue!

Lo stesso che s’allargava, come un lago, attorno alle uniche due figure presenti all’interno: vi era Wndy, i capelli dorati imbrattati con quel liquido denso, che le macchiava anche il volto diafano; tra le braccia reggeva il corpo inerme di Peter, sommerso dal suo stesso sangue, a cui era stato aperto completamente il torace, mostrando gli organi interni, ormai non più pulsanti. Poco più in là, vicino alla mano riversa del mio bambino, un coltello annegava nel rosso.

Eppure non era tutto quel sangue a rendere così straziante quella scena, di per se raccapricciante: era quello sguardo azzurro, privo d’anima, fisso a guardare l’altro sguardo zaffiro, privo di vita.

Tre giorni dopo fu celebrato il funerale. Chiesi esplicitamente che fosse il mio bambino fosse seppellito con degna cerimonia funebre, nonostante egli fosse nato dal peccato e fosse morto da un altro peccato. A quella cerimonia io e poche suore, che s’erano affezionate ai miei due gioielli proibiti, eravamo presenti. Neanche Wendy era lì con noi, poiché, nonostante lei stessa abbia martoriato quel corpo, posseduta da una cieca furia diabolica, ancora vede la figura del fratello, come s’egli non l’avesse mai abbandonata.

Anche se il suo corpo è qui, infatti, la sua mente è persa in altri luoghi…proprio come se fosse morta…

E di nuovo le lacrime prendono a scivolare sul mio volto, mentre il mio corpo cade in ginocchio, oppresso dalle pene e dai Mea Culpa che aleggiano su di me.

Li amavo…amavo entrambi…

I miei due frutti del mio ventre, figli di un tradimento peccaminoso, eppure belli e splendenti come angeli. Come potevo non amarli? 

E loro sono morti…morti per causa mia, poiché volevo strapparli da quel loro mondo, troppo perfetto per essere reale; poiché volevo farli crescere per farli fuggire al più presto da questo orfanotrofio, che, anche se non dovrei mai dirlo, da solo sofferenza alle piccole creature abbandonate; poiché volevo sentire l’egoistico sentimento della soddisfazione, che una madre prova per il proprio figlio…

Ti ho tradito, mio Signore…ho sporcato con il peccato il Nostro Sacro Matrimonio, e, peggio, ho amato follemente quel peccato…

E tu mi hai punito! Mi hai punito facendomi macchiare del sangue di quell’amato peccato! Mi hai punito facendomi assistere, impotente, alla fine dei miei due figli, che avrei dovuto odiare poiché creature di un atto malefico…Ma come può una madre odiare i propri figli?

Dimmelo, Signore, perché in te ancora io confido!

Dimmelo, Signore, perché io, anche dopo tutto questo, continuo ad amarli!

Dimmelo, Signore…ti prego, dimmelo…

 

Pater Noster

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Capitolo 6
*** Last Hero ***


5

5. Last Hero

 

Hai creduto fermamente in qualcosa, dal giorno in cui sei nato…

Ti sei battuto e hai sofferto anni e anni per sostenere il tuo ideale…

Hai perso amici, compagni e fratelli nell’attesa della risposta…

Anche nel momento di maggior sconforto hai mantenuta salda la tua fede…

Hai scoperto di aver…sbagliato…(1)

 

- Notizia dell’ultima ora: la Nona Torre di Jirohu è stata abbattuta proprio pochi minuti fa dalle forze armate del Keithat. Delle Dieci Barriere che proteggevano il nucleo principale della città di Jirohu ne sono rimaste a malapena due. Nelle prossime ore vi daremo notizie più aggiornate…- premendo un semplice pulsante, il giovane barista fa tacere l’attrezzo luminoso che brilla alle sue spalle, ponendo termine al suo continuo chiacchierare. La notizia che la bella giornalista ha appena dato non sembra colpirlo molto, al contrario di me…ognuna di quelle Barriere aveva un significato per me, e ora, man mano che vanno giù, che si sgretolano come castelli di sabbia, ogni mia fede va perduta con esse, sbriciolandosi e facendomi rimanere senza nulla in cui riporre il mio credo. No, non ci voglio pensare!

Batto il bicchiere, stretto nella mia mano, sul bancone, indicando il mio desiderio di bere ancora. Sarà il quattordicesimo o il quindicesimo che bevo sta sera? Beh, non m’importa…ormai più nulla m’importa

Nonostante il mio capo sia chino, pesante sotto il peso dell’alcool, posso notare lo sguardo rassegnato che il barista mi rivolge, prima di riempire, con un profondo sospiro, il mio bicchiere fino all’orlo. Ormai non ha più la forza per ribattere, per incitarmi ad andare avanti, come inizialmente era solito fare. Ora la sente, la sente bene quell’aura suicida che sempre mi accompagna, senza mai trovare la propria vittoria.

Non posso accontentare, infatti, quella sensuale signorina chiamata Morte, la quale continua a invocare il mio nome con voce suadente, poiché io stesso non posso privarmi della mia vita.

Buffo, vero? Dopotutto quando ci definiamo possessori di una cosa, pretendiamo che essa sia completamente guidata dalle nostre mani, pretendiamo che essa non abbia né la forza né la volontà di decidere per se stessa e questo nostro sentimento è il medesimo, sia che la “cosa” sia un oggetto inanimato o che essa sia un essere animato…a noi è indifferente.

- Sumei-san?! – mi chiama cautamente il ragazzo dietro il bancone, mentre io lascio scivolare il bollente liquido giù per la mia gola. I miei occhi, appannati dalla leggera sbronza, che ha iniziato a giocare nella mia testa, si alzano pesantemente su di lui, dandogli cenno che lo sto ascoltando

- Non credete sia troppo per sta sera? – mi chiede gentilmente, fissandomi con quei suoi grossi occhi verdi. Abbozzò un sorriso, intenerito per l’apprensione che mostra per me, un completo sconosciuto…va beh, sconosciuto forse è dire troppo! In fin dei conti sono qui ogni sera…

E poi, in un breve attimo, in un gioco tra luci e ombre, ecco che all’immagine del ragazzo che mi sta dinanzi se ne sovrappone una molto simile…un fantasma, un ricordo del mio passato: Elya

Scuoto la testa, ritrovandomi di nuovo di fronte al barista, che continua a guardarmi con quei suoi occhi smeraldo, piegati in quel medesimo sguardo che lei mi dedicò al nostro primo incontro. Il mio sorriso, allora, si tinge d’amaro: nonostante tutto questo tempo, nulla si è cancellato dalla mia memoria, rimanendo vivido, impresso a fuoco nella mia mente…

Stanco, poggio il capo sulle mani, abbandonate mollemente sul bancone. Sono stanco di vivere!

Non avrei mai pensato di dirlo, ma lo sono…tanto stanco di questa misera vita da ubriacone. L’immagine che ogni mattina vedo nello specchio mi disgusta, mi da la nausea e in essa stento a riconoscere quel giovane pieno di vita e ideali che ero tempo addietro. Già, gli ideali! Quegli ideali che esaltavo come perfetti, e che sono stati la causa della mia trasformazione in quest’abominevole mostro gonfio d’alcool.

- Sumei-san, si sente poco bene? – mi chiede allarmato il mio giovane interlocutore

- Sono stanco – mi limito a mormorare, in risposta

- Volete che chiami qualcuno perché vi porti a casa? –

- No, non è di quel tipo di stanchezza che parlo – spiego, alzando il volto su di lui e permettendo al suo sguardo d’indugiare su di esso: i miei tratti sono ancora giovani, eppure già così stremati…

- Sono stanco di vivere – chiarisco, guardandolo fisso negli occhi, in modo che possa capire quanto sono serio. E questa dev’essere stata una bella botta per lui! I suoi occhi, infatti, si sono allargati stupiti, insieme alla sua bocca…dio mio, è così simile a lei che mi fa male guardarlo.

Per farlo riprendere dallo shock, lo riscuoto con una domanda del tutto innocua

- Come ti chiami, bouya(2)? -

- Hiro-Hiroyuki, signore -

- E mi faresti un favore, Hiroyuki? -

I miei occhi, neri come il mio animo perso chissà dove, lo osservano, penetranti, da quelle misere fessure che riesco, faticosamente, a tenere aperte. Il giovane che mi sta dinanzi sembra essere, comunque, stato messo in soggezione dal mio sguardo, in cui sono impressi tutti quei volti morenti di coloro che chiamavo fratelli.

- Sì, signore. Di che si tratta? – mi chiede dubbioso, tentennando il capo bruno da un lato.

Mi do un veloce sguardo intorno, rilassandomi non appena noto che nel locale io e Hiroyuki siamo gli ultimi rimasti, in qualche modo i sopravvissuti a quella lunga serata…

Scuoto nuovamente la testa, cercando di scacciare quei pensieri. Possibile che ogni cosa mi debba ricondurre con violenza al mio passato, che, per ironia della sorte, desidero tanto dimenticare?

Con un secco rumore metallico, poggio la mia fidata katana sul bancone, sotto lo sguardo preoccupato di quei smeraldi.

Oh Elya, se tu fossi qui…di certo me la tireresti in testa questa katana, urlandomi un tuo sonoro – Sei forse ammattito? -, che tanto dicevo d’odiare. Ora, pagherei tutto l’oro del mondo per sentirlo di nuovo, anche solo sottoforma di un sospiro…

- Su-Sumei-san?! -

- Uccidimi – dico deciso, con la voce ridotta a un sussurro

- C-come? – balbetta incredulo Hiroyuki, allargando maggiormente le iridi di giada.

- Uccidimi – ripeto, con un tono leggermente più alto, così che il barista non creda di sentire male – Liberami da questa esistenza insensata –

- Sumei-san, credo che lei abbia bevuto troppo sta sera – dice scuotendo pazientemente il capo, e tentando di andarsene, magari per chiamare qualcuno che mi riporti nella mia lurida casa. Ma prima che possa farlo, la mia mano afferra il suo polso, obbligandolo a restare qui, davanti a me

- Non è l’alcool che mi fa parlare così. Io voglio davvero morire – lo trafiggo da parte a parte con i miei occhi neri come pece, e lui indietreggia finché la mia stretta glielo permette, quasi come intimorito dalla decisione del mio sguardo

- Lo desidero davvero - ripeto, abbassando il capo, per impedirgli di leggere il dolore che, so, è vivo nei miei occhi. La mia mente si ostenta a usare il solito atteggiamento da fiero guerriero, nonostante quel tempo sia ormai finito

- E perché? – mi riscuote la sua domanda

Il mio sguardo si alza su di lui – Mh?! – mi limito a fare, sott’intendendo che desidero risentire la sua richiesta

- Perché vuole morire, Sumei-san? –

- Ah, se dovessi raccontarti tutta la storia resteresti dietro questo bancone per ore – gli rispondo, ridendo istericamente. E’ una risata che stento a riconoscere come la mia, quella penetrante e schernitrice che ero solito usare e che ora è un pallido particolare di quel tempo in cui potevo definirmi vivo.

- Come vede non sono impegnato - ribatté lui, indicando vagamente lo spazio intorno a noi – Mi racconti la sua storia, Sumei-san

Nel pronunciare il mio nome, i suoi occhi tornano sul mio volto permettendomi di vedere quanta onestà e decisione e racchiusa in essi. Soprafatto da uno sguardo del genere mi rassegno ad assecondare quella richiesta e, con un profondo sospiro, mollo la presa sull’esile braccio di Hiroyuki, tornando a sedermi sullo sgabello che ho occupato per tutta la sera. Non ci vuole molto prima che il ragazzo scivoli sul bancone, per poi sedersi sullo sgabello posto al mio fianco, puntando le sue gemme verdi su di me. Lo sento così bene il suo sguardo…così bene…

Le mie dita prendono a giocherellare sul bordo del bicchiere che mi sta dinanzi e la mia pelle si bagna delle ultime gocce di quell’elisir che ho ingurgitato per tutta la sera. Questo futile gesto sembra smorzare un po’ la tensione che mi avvolge, dandomi la forza d’iniziare

- Sai cosa sono le Dieci Torri di Jirohu, bouya? – esordisco, continuando a tenere i miei occhi fissi sul bicchiere vuoto

- Sono le Dieci Barriere che proteggono il nucleo centrale della città di Jirohu…- sembra un po’ incerto sulla risposta, così mi costringo ad annuire per dargli la conferma che ciò che ha appena detto è esatto

- E sai cosa c’è nel nucleo di Jirohu? –

- Mia madre una volta mi disse che vi erano imprigionate le fonti vitali di tutto il pianeta, in modo che solo Hamatazi ne avesse il domino, ma anche che esse andarono perdute con l’inizio della guerra -

- Andarono perdute a causa della guerra. Ma non tutte fecero quella fine…- lo correggo con un mormorio confuso, prima di porgli un’altra domanda, su un argomento del tutto differente – Sai cos’è l’Esercito dei Horyu? -

Al nome che ho appena nominato, vedo la sua mano, abbandonata sul bancone, stringersi in un pugno e iniziare a tremare, mentre a fatica, quasi gli costasse un enorme sforzo, mi da la risposta che ho chiesto

- E’ il gruppo armato messo a difesa delle Dieci Barriere…- risponde e non posso fare a meno di notare una nota furiosa che gli piega la voce, prima così cordiale e gentile

- Non solo – lo correggo nuovamente, ignorando volutamente il suo tono di voce, mentre le mie dita smettono di danzare sul bordo del bicchiere – Era… – uso più che volutamente il passato, visto che prevedo già da tempo la disfatta di questo temuto Esercito - un gruppo che creò lo stesso Hamatazi, inculcandogli degli ideali tanto splendidi quanto fasulli: la pace, la prosperità, una vita serena per tutti…- la mia voce si è velata di un profondo rancore, che mi trascino dietro dal mio passato.

- Consoli al loro nome(3), portavano fiamme e distruzione a chiunque li sfidava, ma non perché questo li divertisse. No, non si divertivano affatto…- le mie parole vengono interrotte bruscamente dal mio ascoltatore

- Si sono divertiti molto ad ammazzare mia sorella, però – dice, con un fremito di rabbia che gli fa tremare la voce, non ancora completamente matura a causa della giovane età.

Sospiro pesantemente – Mi dispiace per tua sorella. Ma gli Horyu non si sono mai divertiti ad ammazzare la gente, Hiroyuki -

- A no?! – ribatte, ancora impigliato nella rete della furia – E lei come fa a dirlo? -

- Perché io ero uno di loro – sussurro pacamente, non degnandomi nemmeno di sfidare quegli splendidi occhi verdi, che, so già, si sono allargati all’inverosimile per la sorpresa. Incurante di ciò che il ragazzo possa aver pensato, continuo imperterrito la mia presentazione – Ero il Generale messo a capo delle truppe a difesa della Terza Torre di Jirohu -

- Co..cosa?! – è l’unica parola che riesce a balbettare quella bocca dalle linee lievemente femminee

- Lasciami spiegare tutto dall’inizio.

Come saprai già, Hamatazi é colui che fece costruire le Dieci Barriere per proteggere il nucleo di Jirohu e per proteggere, soprattutto, le preziosissime fonti vitali. Il suo scopo, come ti avranno già detto, era sfruttarle a suo piacimento, guadagnando mucchi di quattrini nel venderle a coloro che si trovavano al di fuori delle Dieci Torri. Persino l’acqua fu venduta a prezzi esorbitanti, a cui molte persone spesso non potevano accedere…- un’espressione disgustata mi storpia il volto, prima che esso torni alla normalità – Il fatto è che, a coloro che vivevano all’interno del nucleo di Jirohu, la storia raccontata era del tutto differente: Hamatazi era un eroe -

Il giovane brunetto scatta in piedi furioso, urlando – Come si può definire eroe una bestia del genere?! -

Finalmente i mie occhi si osano ad alzarsi sul suo volto, che è coperto da una maschera rabbiosa e infuocata. I miei frammenti di carbone indugiano su di lui per lungo tempo e sembrano, stranamente, avere il potere di calmarlo. Mitemente, infatti, torna a prendere posto, mormorando delle scuse imbarazzate

- Non preoccuparti. E ‘ normale reagire così - lo tranquillizzo, prima di ritornare alla mia storia – Hamatazi, ci raccontavano, aveva costruito quelle Torri per salvare almeno una porzione della popolazione dalla devastante guerra che stava corrodendo tutto il nostro pianeta. Neanche nei nostri sogni più lontani avevamo immaginato quanta crudeltà e perversione, in realtà, ci fossero nelle sue azioni.

Puoi immaginare che, con tali idee per la testa, non era difficile trovare reclute, sia maschili che femminili, per l’Esercito dei Horyu. Tra questi c’eravamo anch’io, i miei futuri compagni e una giovane ragazza, che si faceva chiamare Elya, ovvero colei che sarebbe stata la mia compagna di unità…

Tutti noi eravamo pronti a lottare per mantenere la pace al di qua delle Torri, per difendere il nostro mondo dal resto del pianeta…questi erano i nostri ideali…-

Un sorriso amareggiato sfiora le mie labbra, ancora imbrattate dal acre odore dell’alcool, al ricordo della ragazzina piena di vita che aveva iniziato a infastidirmi fin dal primo giorno d’addestramento

- Non capisco – ammette piano Hiroyuki, distogliendo la mia mente dalla figura femminea dei miei ricordi –Non vi siete mai chiesti perché quegli uomini volevano conquistare il nucleo di Jirohu? -

- Certo che ce l’eravamo chiesto! – esclamo, abbozzando una mezza risata, per niente gioiosa – La risposta fu che essi volevano le nostre fonti vitali e che se fossero riusciti a ottenerle il nostro pacifico mondo sarebbe crollato come un castello di carte – vedo il ragazzo tentare di ribattere qualcosa, ma prima che possa riuscirci lo blocco con una repentina spiegazione – Ricorda che noi non avevamo mai visto il mondo esterno – lo ammonisco dolcemente – Non potevamo vederlo, perché se l’avessimo fatto avremmo compreso la realtà delle cose e questo sarebbe stato un danno per Hamatazi.

La verità è che noi abbiamo vissuto in un teatrino per anni, senza mai accorgercene…-. In un assurdo teatrino di cui noi eravamo semplici marionette, vorrei aggiungere, ma mi limito a respirare profondamente prima di riprendere – Fatto sta che diventai uno dei Horyu, con forti ideali che mi motivavano a battermi contro gli uomini della guerra. Così venivano chiamate le persone che vivevano al di fuori delle Dieci Torri.

Venni messo in coppia con una ragazza, il cui nickname era Elya…- torno a guardarlo e un sospiro sfugge, involontariamente, alle mie labbra – Sai, tu le somigli proprio…la stessa vitalità, lo stesso sorriso, gli stessi occhi verdi…- dico, tirando un sorriso incerto sulle labbra, che ha il potere di fare adombrare le sue gote imberbi di rosso. Mi riscuoto da quel momentaneo attimo di debolezza, continuando a raccontare quell’orribile passato da cui vorrei tanto fuggire ma…non posso…

- Presto, a soli vent’anni, diventai Generale delle truppe che difendevano la Terza Torre. Non immagini neanche la gioia che mi esplose nel cuore quando me lo annunciarono: ero diventato Generale, una delle più alte cariche in rango, e per questo dovevo ringraziare solo me stesso, i miei sforzi e…i miei ideali…- esito un attimo, mentre un sorriso privo di felicità si scioglie sulle mie labbra – Ero solo un ragazzo…- mormoro come se quella fosse stata una mia colpa – E come tale ero curioso, desideravo conoscere ogni cosa, soprattutto quelle a cui era stato imposto il veto della conoscenza…

Così un giorno, stimolati da tutta questa curiosità, io, accompagnato da un gruppo ristretto di compagni, tra cui Elya, uscimmo dal nucleo di Jirohu per andare a visitare il resto della città, decaduta sotto le mani della guerra. Ci andammo in incognito ovviamente, ma…ecco, lì…vedemmo e sentimmo cose che distrussero completamente i nostri ego: la nostra forza, la nostra fede, i nostri ideali…tutto ciò su cui avevamo basato le nostre vite…- m’interrompo di botto, incapace di continuare. Le parole si rifiutano di uscire a causa del forte dolore che esse stesse mi provocano. Serro le palpebra, tentando di nascondere quanto i miei occhi siano pericolosamente sull’orlo del pianto, ma esse si riaprono incredule, quando sento la calda e morbida mano del mio ascoltatore stringere la mia.

- Cosa vi raccontarono? – chiede, timidamente, Hiroyuki, spronandomi ad andare avanti

Perché? Perché continua a essere così gentile con me anche dopo che ha scoperto che ero un compagno di coloro che hanno ucciso sua sorella? Perché si ostina ad ascoltare questa storia, pur sapendo che uccidendomi la farebbe finita? Non riesco a rispondere a nessuna di queste domande e mi rassegno ad assecondare il suo incomprensibile, per me, volere

- Ci dissero come stavano realmente i fatti: che Hamatazi non era altro che un uomo dedito ai soldi, un uomo a cui importava più una moneta d’oro che la vita di cento uomini, un uomo che dava un prezzo esorbitante persino all’acqua, la fonte primaria della vita…Il nostro eroe non era altro che un ributtante essere assetato di ricchezza, un essere privo di cuore…

Ma la cosa che più traumatizzò le nostre menti non furono quelle parole, ma bensì la vista di una scena…sai, la ricordo ancora così bene! C’era una donna: aveva lunghi capelli biondi, imbrattati di sangue, occhi rossi e gonfi di lacrime, che continuavano a scivolare sulle sue guance, un’espressione disperata sul volto, ancora nel fiore più bello dell’età. Era chinata su un corpo, un corpo completamente immerso nel sangue, fuoriuscito dal taglio che l’attraversava dalla spalla sinistra al fianco destro…era il corpo di un uomo e su questo…stava un bambino… – mi fermo un secondo, cercando di riprendere il fiato che sento mancarmi - Avrà avuto due anni al massimo e con la sua vocina sottile chiamava l’uomo < Papà, papà > continuava a ripetere, mentre la madre piangeva in preda dalla disperazione, maledicendo un nome tra i singhiozzi. Non capivamo quel nome, ma lo realizzammo quando notammo che l’uomo stringeva in una mano un ciondolo rubino…il segno caratteristico di coloro che appartenevano agli Horyu…-

- Era stato ucciso da uno del vostro Esercito -

- Come credi che ci sentimmo? – ribatto alla sua calma osservazione – Cosa credi che pensammo? Noi…noi che ci eravamo auto-nominati difensori della pace, stavamo distruggendo mille vite umane!!! Le stavamo sgretolando e con loro anche quelle delle persone a loro vicine! Eravamo dei mostri…delle bestie della guerra!!! Noi eravamo gli uomini della guerra – urlo, prendendomi la testa tra le mani e in esse scoppia il mio pianto, ormai da troppo tempo respinto. Piccole lacrime scendono sulla barba, che ho lasciato incolta da un paio di giorni, mentre tento d’immergermi il più possibile nella protezione dei miei stessi arti, per non farmi vedere in questo stato dal giovane che mi sta accanto, il quale, dal canto suo, non sa cosa dire o fare, preso totalmente alla sprovvista dal mio sfogo. 

Rimaniamo in silenzio, finché le mie lacrime non si placano, lasciandomi libero di proseguire con la mia storia, di cui Hiroyuki sta ancora attendendo il finale.

- Tornammo al nucleo di Jirohu con l’anima ormai distrutta – dico, con ancora il volto nascosto tra le mani. La mia voce si fa improvvisamente più roca e malinconica, come il suono di un vecchio carillon rotto

- Lentamente tutti i ragazzi che erano usciti con me in quella scappatella al di fuori delle Dieci Torri si auto-distrussero…uno ad uno: Ichino, il più sensibile tra noi, s’impiccò nella sua stanza due notti dopo la nostra uscita, ormai completamente morto sul piano psicologico; Satoru e Nakono caddero in ginocchio durante una battaglia, facendosi uccidere volontariamente dai nostri nemici; Rin diventò pazza e fu chiusa in un ospedale psichiatrico; Mito si fece cadere dal ventunesimo piano di un grattacielo…ogni piano equivaleva a ogni vittima che aveva mietuto sul campo; Katanabe chiese al proprio padre di decapitarlo ed egli…lo fece…; Azuki si chiuse nella propria stanza e da lì non volle più uscire. Gli ultimi rimasti fummo io e Elya…i sopravvissuti che assistettero impotenti alla morte di tutti i loro amici…i nostri fratelli…- mi fermo ancora una volta. Nella mia mente le immagini di tutti i loro volti, ancora illuminati da vivi sorrisi, scorrono come in un filmato di cui non riesco a trovare la fine.

Sento lo sguardo del ragazzo che ancora indugia su di me, impotente, incapace di tirarmi fuori da quel baratro nero in cui ancora una volta sto cadendo…chissà se sta volta sarà per sempre…

- EElya…-balbetta, dopo breve tempo, il mio ascoltatore. La sua voce esce a fatica, quasi come se avesse improvvisamente la gola secca – Cosa successe a Elya? -

- Lei…lei fu giustiziata – rispondo atono

- Come…perché fu giustiziata? -

- Secondo il Tribunale Supremo era una spia. Ricercarono su di lei per anni a alla fine trovarono abbastanza prove per incriminarla. Fu processata in un solo giorno, senza…senza alcuna possibilità di ricorrere in appello…- un nodo mi lega la gola, ma imperterrito continuo a parlare – Era una limpida mattina estiva quanto fu giustiziata. Il sole era caldo nel cielo azzurro e i passerotti cantavano gioiosamente. Nell’aria l’odore delle pesche mature si faceva strada…Una mattina così bella chiazzata del sangue di un fiore di altrettanta bellezza…

Io fui l’ultimo a parlarle…ammise di essere una spia, ammise di essere stata mandata nel nucleo di Jirohu dal Keithat e ammise che aveva vissuto tutti quegli anni passando informazioni al Keithat. Ma il suo amore…il suo amore per me e i miei compagni non era fasullo…come l’amore che nutriva per la sua famiglia, in fin di vita fuori dalle Dieci Barriere.

Mi disse di continuare a vivere, di vivere una vita vera e non all’ombra di ideali artificiali, costruiti per mascherare la perversione di Hamatazi. E infine mi fece fare una promessa: mi fece promettere che le mie mani non si sarebbero più macchiate di sangue, nemmeno del mio medesimo…e io glielo giurai.

E’ per quella promessa che continuo a rimanere in vita…solo per quella promessa…

L’ultima immagine che ho di lei è…la sua condanna: aveva le mani legate dietro la schiena ed era stata costretta a inginocchiarsi per terra; i suoi abiti erano laceri, la sua pelle sporca in più punti eppure lei rimaneva a testa alta, fiera e mai pentita di ciò che aveva fatto. Chiuse gli occhi e alzò il volto verso il sole, lasciando che i suoi raggi la baciassero per l’ultima volta, e poi…i suoi occhi, verdi come non mai, si puntarono su di me. Un sorriso, bello, luminoso, splendente, le illuminò il volto per l’ultima volta, prima che la spada del boia le troncasse via la testa…- il mio respiro si è fatto nuovamente roco e irregolare, segno che le lacrime vogliono ancora uscire dai miei occhi, già lucidi – Ero l’ultimo rimasto…il sopravvissuto…

Dopo aver visto l’ultimo dei miei compagni morire uscì dal nucleo di Jirohu e non ci rimisi più piede, neanche quando le forze armate del Keithat riuscirono ad abbattere la prima delle Dieci Barriere: la Terza Torre, la Torre a cui io ero incaricato…-

Pesantemente il mio sguardo si alza sull’orologio, appeso al muro di fronte a me, dandomi la possibilità di identificare l’ora: le lancette segnano le tre meno dieci. Sospiro profondamente, e le mie dita tornano a giocherellare sul bordo del bicchiere, ora appiccicaticcio.

- Il crollo di quella Barriera ha segnato la fine di una battaglia, per voi…ma per me…per me ha segnato la fine di tutto ciò in cui avevo creduto.

L’uomo non è nulla se non crede in qualcosa…da quel giorno io mi trasformai nel nulla…- concludo, lasciando che il silenzio ci avvolga entrambi. Passano lunghi attimi, e io non alzo ancora lo sguardo sul mio interlocutore…non voglio vedere l’espressione che ha sul volto…

Che sia paura? Davvero ho paura del giudizio di questo ragazzo? Io, che ho perso la mia dignità, che ho perso ogni cosa con la quale mi potevo definire uomo, ora…ora ho paura del giudizio di un bouya che fino a cinque minuti fa continuava a servirmi dell’alcool…Perché?

- L’uomo è nulla se non crede in qualcosa…- ripete pensieroso. Vedo il suo volto abbassarsi, e appoggiarsi sulle sue braccia, incrociate sul bancone. I suoi occhi verdi si puntano sui miei, ancora piantati sul bicchiere con cui sto giocando

- L’uomo è nulla se non crede in qualcosa…chi gliel’ha detto, Sumei-san? – mi chiede, con un tono dolce e caldo

- Ce lo dicevano durante l’addestramento. Bene o male, quelle idee si sono piantate nella mia testa…-

- Gli ideali, la fede…non sono altro che sicurezze che l’uomo crea attorno a se, offuscando i propri occhi e privandoli della vista della realtà…- quelle parole mi spronano a cercare il suo sguardo e non appena lo incontro, nuovamente la sua voce calda si libra nell’aria – Lo diceva spesso mia sorella…- un sorriso malinconico gli colora le labbra scarlatte – L’unica cosa che rende un uomo degno di tale titolo sono le emozioni: l’amore, la compassione, il dolore, il pentimento, l’affetto. Questo rende un uomo tale…non gli ideali…Anche questo lo diceva spesso mia sorella…Seguendo questo ragionamento lei, Sumei-san, è un uomo a tutti gli effetti: ama, e ha amato, i suoi compagni; ama, e ha amato, Elya. Ha provato compassione. Ha sofferto quando ha visto quella donna e quando ha visto la morte dei suoi fratelli…Lei è un uomo, Sumei-san…un uomo completo…-

Il suo sorriso malinconico si trasforma in un sorriso gioioso, che rende il suo volto ancora più bello di quanto già sia, e per un attimo mi riscalda il cuore, che inizia a battere di una nuova speranza…

- Credi a queste parole, Hiroyuki? Ci credi? – gli chiedo. Un’espressione corrucciata incrina la sua fronte, come se stesse pensando a una risposta davvero complicata. Poi il suo sorriso gioioso torna a illuminargli il viso, e nuovamente il mio cuore si scioglie nel caldo tepore che questo ragazzo mi sta fornendo

- Certo che ci credo! – esclama, felicemente – E lei, Sumei-san? –

Sono spiazzato. Questo ragazzino mi ha spiazzato del tutto: con le sue parole, con i suoi gesti, con i suoi sorrisi, con i suoi occhi…

Cosa s’aspetta che risponda? Pretende davvero che io mi senta un uomo dopo tutto quello che ho fatto, dopo quello che sono diventato?

- Allora, ci crede Sumei-san? – mi chiede nuovamente, con il tono più dolce che conosca

- Beh, forse posso provare a crederci…- borbotto, abbozzando un sorriso sincero. Nuovamente la sua mano si muove a cercare la mia, e non appena la trova la stringe teneramente, quasi fosse di delicata porcellana

- Vuole ancora morire? – mi domanda, guardandomi serio – Vuole morire, nonostante non abbia ancora una risposta certa alla mia domanda? –

Non rispondo. Il mio sguardo scivola sulla mia katana, ancora poggiata sul bancone. La prendo, la mano mi trema e l’arma con lei, e lentamente me l’allaccio alla mia cintura. Titubante, rialzo il mio viso su quello del mio interlocutore, per notare che un’espressione realmente felice ha iniziato a tingerglielo. Poi, un lieve rossore prende a sciogliersi sulle sue gote, mentre timidamente tenta di dire qualcosa

- Mi…mi permetterà di starle accanto finché non troverà la risposta, Sumei-san? -

Spalanco gli occhi, stupito da una richiesta tanto genuina…nonostante tutto questo ragazzino vuole restarmi vicino? Nonostante tutto?

- Dov’è la tua casa, Hiroyuki? – gli chiedo, mostrandogli un largo e ampio sorriso. Il primo dopo tanto tempo…troppo tempo…

Lui ricambia, e una soffusa risata si libera dalla sua bocca, mentre scende dallo sgabello trascinandomi con se, senza alcuna parola…

Chissà se insieme a questo bouya riuscirò a trovare una risposta…chissà…

 

Le due ultime sagome presenti nel locale uscirono, accompagnati unicamente dal dolce suono della risata del più giovane. Non appena la porta si chiuse alle loro spalle, il locale sprofondò nel buio e nella solitudine. L’unico rumore che si poteva udire era il lento ticchettare dell’orologio appeso al muro. Sul bancone ancora sostava il bicchiere dell’ultimo cliente. Proprio questo fu afferrato con cautela da una mano, spuntata dal vuoto tenebroso di quel luogo. La mano apparteneva a una giovane ragazza: gli abiti erano di colori vivaci, il viso ancora velato di giovinezza, i lunghi capelli bruni sparati in tutte le direzioni, gli occhi verdi piegati in un’espressione intenerita…Essi erano l’unica cosa che risaltava nettamente dal resto del corpo, i cui colori sembravano vecchi e appassiti, quasi essa provenisse da un vecchio film degli anni ’40.

Avvicinò il bicchiere al suo volto, scrutantolo attentamente con le sue due gemme, quasi fosforescenti al buio

- Finalmente hai trovato qualcuno, Shin…- mormorò, ancora concentrata sulla sagoma di vetro – Chissà se Hiroyuki ti farà felice…o forse…- le sue dite, lunghe e affusolate lasciarono la persa sul minuto oggetto, il quale cadde a terra frantumandosi in mille pezzi che attraversarono incuranti la sagoma della giovane –…o forse vorrà vendicarmi, il mio fratellino? – chiese al vuoto, mentre le sue dita accarezzavano sinuose un tatuaggio che le colorava la spalla sinistre. Esso raffigurava una scritta, tinta di un vivace color blu, contornato da strisce di rosso rubino. Le lettere, composte da deliziosi ed eleganti ghirigori, componevano un nome: Elya

 

Note

(1) Queste bellissime parole non sono mie (sono troppo belle per esserlo NdWhite). Le ho copiate spudoratamente dalla presentazione di Andrea BariKordi fatta al fumetto “KamiKaze”

(2) Bouya = ragazzino

(3) Horyu è un nome di mia invenzione, nato dall’unione delle parole Ho (fuoco) e Ryu (drago). In conclusione il nome finale dovrebbe significare Draghi di Fuoco

 

Free Talk

Salve a tutti, sono nuovamente qui tra voi a raccontarvi un’altra delle mie favole ^^ Spero che anche questa sia stato di vostro gradimento nonostante la sua brevità (raramente riesco a portare a termine delle storie a più capitoli. Sono troppo Lunatica ^^ - Ma nessuno te lo ha chiesto -.- NdWhite).

Volevo ringraziare sandy90 sperando di aver accontentato la tua richiesta e lella80, novella viaggiatrice in queste lande. Non posso fare a meno di sentirmi onorata dei vostri gentilissimi commenti (la gente è davvero troppo buona NdWhite).

Ah, un ultima cosa: visto che alcune mi sembrano confuse sul mio sesso, chiarisco una volta per tutte di essere una fanciulla (una mocciosa, vorrai dire NdWhite – Quello che è >_< NdBlack).

Arrivederci alla prossima favola

 

 

 

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Capitolo 7
*** A call in the night ***


6

6. A call in the night

 

Una strada. Luci, troppo nitide perché possano essere naturali, si riflettono su ogni superficie vetrata, tingendole di giallognoli colori, che fanno brillare maggiormente le gocce di pioggia che ne accarezzano la lunghezza. Un ombra si staglia solitaria, fradicia di pioggia che ha iniziato a insinuarsi anche all’interno della sua carne, che scivola sui suoi capelli corvini, accarezzandone poi il volto giovane e di bell’aspetto.

Davanti a lui una strada s’allunga come un serpente, figlio dell’oscurità…deserta…

Non c’è nessuno, o almeno, i suoi occhi non riescono a vedere nessuno. Perché una presenza c’è: la sente bene…viva, vicina a lui…fatalmente vicina. Una presenza che è in bilico tra il suo disgusto più profondo e la sua simpatia più sincera…odi et amo

Muove qualche passo incerto, per poi voltarsi nella speranza d’intravedere quell’ombra che continua a turbare i suoi sogni, tramutandoli in incubi, e la sua realtà, tramutando anch’essa in un incubo.

Scosta bruscamente i capelli dai suoi occhi, ma non riesce comunque a sorprendere ciò che cerca: la strada alle sue spalle è il vuoto…il nulla…

Eppure un moto dentro di se gli dice che qualcuno c’è e lui, quel qualcuno, lo sente…sente il suo respiro accelerato, febbricitante, che quasi si confonde con il proprio, talmente è simile il loro sincronismo.

Torna a voltarsi, rinunciando a vedere quell’ombra nelle ombre. Sa che colui che sta cercando non ci metterebbe tanta pena per pugnalarlo, lì in mezzo alle scapole, eppure nutre una perversa fiducia in quel Vuoto…sa che non gli farà nulla…

E’ allora che inizia a camminare…uno, due…tre, sei…otto, dieci passi prima che un urlo glaciale squarci il silenzio, cullato unicamente dal tetro ticchettio della pioggia sull’asfalto.

E’ un urlo straziante, prolungato come un’eco lontano, che si spegne in un sordo gemito…è l’ultimo urlo della Vita…è il benvenuto per la Morte…

Lo blocca, lo gela, lo soffoca…

E, allora, le gocce fredde del cielo si trasformano in bollenti lacrime, che scivolano vischiose sul suo bel corpo scolpito. Lo bruciano, gli corrodono la pelle, ma non riesce a sbarazzarsene, non riesce a sottrarsi ad esse…sono troppe…

I suoi occhi, blu come la notte che cupa copre il cielo, si alzano verso le nubi tinte di tempesta, e finalmente riesce a identificare il liquido corrosivo: sangue…una pioggia di sangue…

Il sangue di quegli innocenti che ora lo indicano, lo accusano, lo incolpano della loro morte, avvenuta per mano di quel Vuoto.

Ora, tutto è dipinto con la loro linfa vitale, che si è sparsa (giorni, settimane, mesi prima) sulle strade contaminate di Los Angeles…

Al rumore delle gocce si mischiano le loro ultime grida, i loro ultimi pianti, le loro ultime parole…

< T…ti prego…> un sussurro smozzato serpeggia tra le colonne di sangue, giungendo direttamente alle sue orecchie. E’ una voce femminile quella che parla, ancora fresca di giovinezza eppure rabbuiata da un tono cupo di rimpianto per la vita che non potrà mai vivere  < …non voglio morire…>

E poi…la sua risata…la risata del Vuoto riecheggia dappertutto!

E lui non resiste più!!!

Crolla in quel lago rubino, premendo i palmi delle mani contro le orecchie, nella speranza di scacciarvi quei strazianti rumori che lo fanno sentire peggio di un misero assassino. L’odore dolciastro del sangue lo stordisce, scivolando nauseante lungo tutta la sua gola e provocandogli la sensazione sgradevole di dover vomitare. Ma l’unica cosa che esce dalla sua bocca è una bassa mantrana, che solo lui sembra sentire…

< Basta! Basta! Basta! >

 

Mi sveglio di soprassalto, sbarrando gli occhi e uscendo dall’incubo che stava tormentando la mia notte.

Istintivamente volto il mio sguardo a destra e a sinistra, per poi rilassarmi quando scopro che il luogo in cui sono non è altro che la mia camera da letto. Sospiro e i miei muscoli si sciolgono dallo stress che li ha attanagliati durante tutto il sonno, lasciandomi libero di sollevarmi a sedere con una fluidità che si può definire umana.

Scosto un poco le leggere lenzuola dal mio corpo, madido di sudore. Nonostante sia più rilassato rispetto al momento del mio risveglio, il mio respiro è ancora veloce, e rimbomba forte nel mio petto, contrastandosi nettamente con il lento scendere delle gocce di sudore, sulle mie tempie e sul mio torso nudo.

Col dorso della mano asciugo quelle gocce che infastidiscono il mio volto, mentre i miei occhi vengono rapiti da quella sfera pallida che brilla alta nel cielo blu, drappeggiato di brillanti stelle. Nessuna nuvola minaccia il suo volto flebilmente luminoso e così perfettamente rotondo da sembrare fatto da un compasso.

Con quell’immagine dell’astro notturno, cerco di riprendere un po’ di controllo e d’ignorare quei frammenti dell’incubo che mi ha svegliato e che ancora inondano il mio cervello.

E’ pur vero che questo è solo l’ultimo di una lunga serie, che mi tormentano ogni notte, ma la mia mente non sembra ancora essersi abituata alle accuse che quelle vittime mi addossano, non a torto. So, infatti, che tali accuse sono fin troppo reali ed è proprio questa mia consapevolezza che mi fa dimenare così sia nel pensiero che nel corpo.

L’aria, ora, entra ed esce da me con una velocità più accettabile e il silenzio si fa più pressante…più chiaro...

Una delle mie mani scivola tra le mie ciocche corvine, allontanandole dai miei occhi blu, in un gesto che assomiglia terribilmente a quello già compiuto nel mio incubo. Le dita, poi, scendono a massaggiare il mio collo, indolenzito e irrigidito, cercando di farlo sciogliere dolcemente. E paino piano esso cede alle lusinghe dei miei polpastrelli, muovendosi come un gatto che fa le fusa e lanciandomi brividi di piacere lungo tutta la colonna vertebrale. Ora, quell’incubo mi sembra solo ciò che è in realtà: un brutto sogno di cui dimenticarsi presto.

Le mie labbra, mosse da chissà quale volontà, sorridono amaramente, lasciandomi un retrogusto aspro sul fondo della bocca, che non sparisce neanche quando scuoto vigorosamente la testa.

E allora cerco di concentrarmi su dell’altro: questa notte splendente, ad esempio, di cui la mia finestra me ne offre un limpido scorcio. La luna, con le sue lunghe dita pallide, accarezza il mio corpo nudo, come un’abile amante, e io cerco di fare il possibile per rilassarmi sotto quell’esperte carezze di luce.

Mi lascio cadere all’indietro, tornando nel morbido abbraccio del materasso. E proprio mentre le mie palpebre si sono fatte terribilmente pesanti da tenere su, ecco che il fastidioso trillo del mio cellulare mi ridesta del tutto. Sbuffo stanche imprecazioni mentre cerco a tentoni il mio fastidioso attrezzo elettronico.

Appena lo trovo, annodato alla camicia, che ho gettato a terra prima di andare a letto, premo il pulsante verde, accostandolo, poi, al mio orecchio. Spero vivamente, per il bene della persona che si nasconde all’altro capo della cornetta, che non sia una chiamata di lavoro…altrimenti non rispondo più di ciò che potrei dire…

- Pronto?! – biascico, togliendo qualche ciocca che è tornata ad infastidire i miei occhi. Qualche secondo di silenzio precede l’angusta scoperta di colui che ha disturbato la mia quiete

- Ti ho svegliato…ispettore?! -.

Nient’altro che un sussurro, freddo e sprezzante come il vento impetuoso di dicembre. Un sussurro che s’intrufola nelle mie orecchie, scivolando lungo tutta la mia spina dorsale, che ora non rabbrividisce più per il piacere, ma per la meraviglia , che si legge, anche, nei miei occhi spalancati

- T…tu…- è l’unica cosa che esce dalla mia bocca

- Oh suvvia, ispettore! – esclama irrisoriamente la voce – E’ questa l’unica cosa che riesci a dirmi? Mi ero aspettato una bella scarica d’insulti! –

Guardo di sfuggita la sveglia digitale che brilla di rosso elettronico, prima di rispondere nel mio solito tono

- Si può sapere che cazzo vuoi alle 3 del mattino? -

Immagino che se il dottor Dottel (il psicologo criminale che collabora con la nostra unità, per la cattura del novello Jack The Ripper) fosse presente, non esiterebbe a lasciar cadere casualmente uno dei suoi fascicoli sulla mia testa, sibilando uno dei suoi - Irresponsabile che non sei altro! - e guardandomi infuriato da dietro i suoi occhiali. A suo parere i serial-killer, come quello con cui sto parlando al telefono in questo momento, sono da trattare con i guanti…peccato che io non sono proprio il tipo per questo genere di cose.

E il novello The Ripper sembra essersene accorto da subito, e pare, per giunta, che questa mia dolcezza lo diverta follemente.

- Ora ti riconosco! – ride quella dannata voce, con quel suo sussurro naturalmente gelido e sensuale, che riesce a far salire alle stelle la mia irritazione – Allora: indovina un po’ che ho fatto oggi? -

Oh cazzo, ci mancava solo uno dei suoi stupidi giochino! Odio doverli risolvere quanto lui ama farmeli

- Non so! Hai fatto una passeggiata? – mormoro, passandomi una mano sul volto, in un chiaro gesto di esasperazione

- Anche, ma non credo t’interessi sapere che nuovi negozi ci sono in città…- sogghigna

- Senti, te lo dico chiaro e tondo: mi sono stancato dei tuoi fottuti giochi! – esclamo, ormai al limite.

Cala il silenzio tra i due capi del telefono, un silenzio che ha la forza di raggelarmi e mi maledico mentalmente per la mia irruenza. Se non mi chiamerà più…se non sentirò quel telefono suonare di nuovo…io..io…mi sentirei vuoto, forse?

Ma che diavolo sto dicendo?! Come posso pensare una cosa del genere di un lurido bastardo come quello che sta dall’altro capo della cornetta?

- Ne ho presa un’altra…- sussurra quella voce, interrompendo le mie egoistiche paranoie.

Il sangue mi si gela nelle vene nel giro di mezzo secondo. Odio ammetterlo, anche se solo a me stesso, ma lui ha sempre questo effetto ambiguo su di me…

- U…un’altra… – ripeto, sperando vivamente di aver sentito male. Ma quella mia speranza si rivela del tutto vana. Lo sento annuire con un vago mugolio, prima che riprenda a parlare con quel suo tono deliziato, che caratterizza sempre un suo stato di sovreccitazione

- Avresti dovuto sentire le sue grida…era la Morte stessa a usare le sue labbra! –

- Maledetto bastardo!!! – ringhio a denti stretti, stringendo i pugni sul lenzuolo, come a voler sfogare la mia rabbia su quel povero straccio

- Mi pare si chiami Lily…o forse è il nome della sorella, della madre, della figlia o, che so, dell’amante…-.

Quel suo tono irrisorio, che sfiora il malizioso, è sempre in grado di farmi perdere quel minimo di autocontrollo che ho coltivato nei lunghi anni d’accademia. E anche sta volta non è un’eccezione…

- Piantala con questi giochi del cazzo, stronzo! – urlo, non provando nemmeno a trattenere la mia furia, che rabbiosa, la mia bocca vomita

- Però ti piacciono i miei giochetti, vero ispettore Aberline? -

Mi blocco. La forza per controbattere non riesco a trovarla, così mi trovo muto davanti a quella cornetta e senza alcuna parola da rimandare a quel maledetto figlio di puttana.

Maledizione, so che ha ragione ed è proprio per questo che mi danno miseramente come uno spettro, morto in una guerra non sua. Ma, di certo, non posso ammetterlo…non posso perché la mia coscienza me lo vieta, quella piccola, insistente presenza che continua a infestare il mio ego e a distruggerlo nella colpa…

- Chi tace acconsente – sussurra lui, dopo qualche lungo minuti di silenzio

- Io…io non…- cerco di ribattere, inutilmente

- Non, Aberline? Eppure non senti l’adrenalina pulsare ogni volta che la mia voce ti giunge dalla cornetta? Non provi un’irrefrenabile frenesia ogni volta che ti metti sulle mie tracce?

Dillo, ispettore: senza di me la tua vita sarebbe solo routine. Monotona e senza alcuna via di fuga. Ma io…io sono la tua via di fuga!

Quindi, ti piace questo mio gioco, non è vero? – conclude con un sussurro lento e caldo.

E io, ancora una volta, non riesco a rispondere, consapevole che ciò che sta dicendo è la pura e semplice verità, proprio come quelle accuse che i miei incubi m’incollano addosso.

- Sì, ti piace da impazzire…- la sua voce ha assunto una lieve piega divertita, che s’incastra perfettamente con la sensualità del suo tono – Lo so bene. So bene come ti senti…perché è proprio quello che sento anch’io…-

Quel paragone, così netto e brutale, mi scuote dal mio silenzio, dandomi la forza di ribattere – Io non sono te! – esclamo, con un tono che vorrebbe essere deciso e sicuro, ma che esce lievemente tremante. So già che questa poca sicurezza che mi rimane crollerà presto, come un castello di carte, davanti alle sue acute sensazioni. Perché, nonostante quello che noi tutti diciamo, nonostante, secondo il senso comune, lui non sia altro che un pazzo amante del macabro, io so bene che quel dannato bastardo ha una mente invidiabile.

Perché per riuscire a fregare polizia, scientifica, FBI e compagnia bella ci vuole proprio un’intelligenza fuori dal comune e Madre Natura è stata così caritatevole da donarla a uno schizzato come lui.

- Beh sì, non hai tutti i torti – ammette dopo un po’, come se ci avesse riflettuto su – Quando tu vedi le mie belle vittime non sei eccitato quanto lo sono io nel ridurle così…-

- Co…cosa? -

La sua flebile risata accoglie il mio stupore – Credevi forse che sparissi dalla circolazione una volta completato il mio lavoretto? Come sei ingenuo, mio caro ispettore. No, no…io rimango lì, a vedere le vostre reazioni davanti alla mia nuova opera. E’ un po’ come l’attore che attende gli applausi finali del pubblico, per comprendere se la sua serata è stata un fiasco o un vero successo. E io rimango soprattutto per ascoltare il tuo applauso, ispettore…-

- Tu, maledetto…- cerco di partire con una serie infinita di appellativi che gli calzerebbero a pennello, ma prima che ci possa riuscire lui m’interrompe, dicendomi ciò che io non voglio sentire

- Adoro vedere la tua espressione, lo sai? I tuoi occhi blu diventano come quelli di un bambino spaventato per una storia di spiriti e mostri…-

- Brutto figlio di put…- nuovamente non riesco a terminare ciò che vorrei dire, poiché la sua voce mi supera di nuovo

- Ma la sai una cosa? Con quel faccino sei ancora più eccitante. Riesci a scuotermi meglio di quelle assurde troiette. Ma anche loro sanno mandarti in estasi…quando ti chiedono di lasciarle in vita, con le lacrime agli occhi e il sangue in gola. E sai come ti senti in quel momento? Ti senti Dio in persona! –

- Tu non sei Dio! – urlo, sputando fuori quel nodo che mi si era fermato in gola e che m’impediva di ribattere alle sue precedenti parole – Chi cazzo sei per decidere chi vive e chi muore?

- E tu? – bastano quelle due semplici parole per placare di botto i miei bollori – Potrei farti la stessa domanda, e tu lo sai -

Ha ragione. Ha maledettamente ragione! Ma come potrei ammetterlo?

Con che forza potrei affermare che, in fondo, io, il cacciatore, e lui, la preda, non siamo altro che la medesima essenza? Con che coraggio potrei dire che questo gioco, di cui io e lui siamo gli unici partecipanti, mi piace, mi fa impazzire? Come potrei farlo?

Non posso, ecco l’unica risposta. Perché io…io sono il buono, quello che deve far fermare tutto questo…

- Io non ho mai preso queste decisioni – ribatto, cercando di credere nelle mie parole

- No? – mi domanda in tono di sfida – Eppure notti fa avresti potuto prendermi, ci saresti riuscito. Avresti potuto prendermi e portarmi in cella, magari nel braccio della morte, e far finire questa strage e invece…mi hai lasciato andare…-

Di nuovo ha colpito nel segno! Di nuovo ha detto cose vere, e, di nuovo, io lo so bene. Ma ancora mi ostino a negare questa chiara evidenza, rimanendo in silenzio, riflettendo su cosa sia meglio ribattere per scacciare quelle accuse, che non solo lui mi rivolge…

- Che succede, ispettore? Ho detto qualcosa che non va? – chiede provocante, riscuotendomi dai miei pensieri

- Ti ho lasciato andare, perché, anche se mi rode ammetterlo, non sono riuscito a prenderti – ringhio faticosamente tra i denti

- Ah, Aberlaine! La tua mamma non te l’ha mai detto che non si dicono le bugie? – ride lui, sprezzante

- E la tua non ti ha insegnato che solo Dio ha il potere di decidere sulla sorte di noi uomini, fottuto bastardo?!- ribatto, furente di rabbia, che sembra divertirlo maggiormente

- Su, su mio caro ispettore! Non c’è bisogno di arrabbiarsi! E poi la mia mamma non credeva nel tuo Dio tanto buono con tutti i suoi figlioli… – esclama, continuando a ridere. Ma presto le sue risa cadono per lasciare spazio alla sua solita voce languida e sensuale, che è capace d’incantare con la stessa maestria di un ipnotizzatore. A volte mi chiedo se non sia proprio questa sua dote a fargli fare tante conquiste tra le donne, anche se poi, queste, diventano tutte delle bambole, rotte con malagrazia e perversione.

- A me potresti dirla la verità, Aberlaine. Sai che sono l’unico in grado di capirti, perché noi due siamo uguali: arranchiamo nel nostro divertimento macchiandoci del sangue d’innocenti, danziamo su corpi straziati, giochiamo su sangue fresco, ci svegliamo ogni mattina sperando che l’altro abbia fatto una mossa decisiva sulla scacchiera. E l’attesa…ci piace. Hai il coraggio di negarlo, ispettore? – attende qualche secondo, come aspettando una mia risposta che entrambi sappiamo non giungerà – Sì, siamo proprio uguali. La differenza è che io uccido direttamente le tue dolci donzelle, mentre tu ti limiti a guardarle morire…Però, anche se tu non ti macchi del loro sangue, sei comunque colpevole della loro morte quanto me. E questo lo sai bene, non è vero? -

Certo che lo so! Lo so e con me lo sanno tutte quelle innocenti vittime, cadute per un’eccitante partita di cui solo io e lui siamo i protagonisti: una partita a scacchi, così l’ha definita. Ma anche se so che questa è la cruda realtà del mio egoismo, della mia smania di divertimento, della mia fuga via dalla realtà, non posso fare a meno di soffrire se tale realtà mi viene sbattuta in faccia con tanta brutalità.

- Ti odio – questo sussurro esce involontario dalle mie labbra, tanto più che è velato di una sofferenza ben udibile

- Lo so. Ed è per questo che sarà più divertente prenderti…quando farò scacco matto –

- Se sono io il tuo obbiettivo, perché non mi prendi subito? – gli chiedo, stanco di quella conversazione che mi ha tanto scosso, come, del resto, tutte le conversazione che divido con lui

- E che divertimento ci sarebbe? – ribatte, quasi offeso da una richiesta tanto semplice e poco arguta – Il divertimento della caccia sta nell’inseguimento – sussurra – Non è paradossale?! Tu, che dovresti essere il cacciatore, sei diventato la mia preda…ma per adesso mi accontenterò delle pedine. Una buon giocatore elimina pian piano le pedine, facendo sentire il re sempre più braccato, finché…- fa una pausa di qualche secondo, che ha la forza di tenermi in sospeso, per poi concludere – Non cade –

- Come fai a parlare così? Dannazione, le tue pedine erano ragazze!!! Ragazze che avevano una vita, una famiglia, un futuro…- grido, come alla disperata ricerca di una risposta a quella domanda, che in realtà non voglio sentire perché…mi farebbe solo male.

- Sì, lo so…E ce ne sono così tante la fuori! – ride lievemente – La caccia continua, ispettore…Goditi il sonno, perché domani una nuova pedina sarà stata mangiata e tu…sentirai giungere lo scacco matto…-

Quelle sono le sue ultime parole, prima che vengano sostituite dal ripetitivo suono del telefono che è stato riattaccato. Lentamente, ancora scosso dalle sue parole, spengo il mio cellulare, posandolo, successivamente sul comodino.

I miei occhi continuano a guardare il paesaggio notturno che s’intravede dalla finestra, con un’espressione vacua e spenta. E lì, in lontananza, tra i vicoli di quella città che non dorme mai mi pare di sentire un urlo…

E’ un urlo straziante, prolungato come un’eco lontano, che si spegne in un sordo gemito…è l’ultimo urlo della Vita…è il benvenuto per la Morte…

La mia…forse…

 

Free Talk

Bentornati nelle mie folli lande, cari viaggiatori ^^ Abbiate un po’ di pietà per questa…ehm…storia (sarebbe meglio definirla come cosa -.- NdWhite). Non è di certo una delle più decenti che io abbia scritto ^^’’’ E’, più che altro, una trasposizione ai giorni nostri della figura enigmatica (e per me assai affascinante) di Jack the Ripper (Jack lo Squartatore qua in Italia) e dell’ispettore che lavorava al caso all’epoca: Aberline ^^

I miei ringraziamenti vanno a samira, che gentilmente continua a seguirmi dall’inizio di questo viaggio, a giulietta, che ringrazio molto per la sua definizione a me poco consola sfortunatamente ç_ç, a cloe89 (a cui dovremmo dare un pacchetto premio per essersi subita tutte le tue schifezze tutte in un botto NdWhite – La gentilezza è sempre con te, eh? -.- NdBlack) e a tutti quelli che hanno semplicemente letto ^^

Alla prossima fiaba ^^

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