Border of love

di FireFistAce
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


BORDER OF LOVE

Capitolo I

La sera era calata da un pezzo sulla città di Sabaody ed Ace si tirò su il cappuccio del giubbino per coprirsi meglio, aumentando il passo e stando attento a non beccare tutte le pozzanghere in strada. Se non fosse arrivato all’Harem in tempo si sarebbe preso una non indifferente strigliata da Lucci, il responsabile della struttura situata in quella parte della città, e sebbene Ace fosse in possesso di una pistola e fosse più che in grado di utilizzarla, la possibilità di far incazzare Lucci riusciva comunque a farlo rabbrividire e lo costringeva a rinunciare a dormire quanto avrebbe voluto.

Lui odiava quel posto, era uno dei Groove più malfamati della città e non c’era nemmeno l’ombra lontana di qualcuno che facesse le veci di giustizia.
Non che a gli dispiacesse molto, aveva avuto alcuni spiacevoli passati con la polizia.

Una volta giunto al vecchio e fatiscente edificio sospirò, poi entrò e si tolse la giacca, lasciandola nel mobile del quale solo loro lavoratori avevano accesso.
Tempo nemmeno dieci minuti che Rufy gli saltò addosso per abbracciarlo.

"Ace! Finalmente sei arrivato, aspettavamo solo te per aprire!"

Il più grande sbuffò appena e cercò di liberarsi dall’abbraccio del ragazzino, con scarsi risultati, mentre si guardava intorno. Nami lo salutò cordialmente mentre se ne stava dietro al bancone, il posto al quale sarebbe dovuto rimanere anche Rufy, e Trafalgar fece un cenno del capo verso la sua direzione a mo' di saluto, ed era probabilmente il massimo che avrebbe potuto ricevere da lui.
Di Marco non c’era traccia.

Il lavoro di Ace consisteva nel fare da buttafuori, se ne stava appoggiato al muro vicino l’entrata dell’edificio sperando che il freddo non fosse troppo e stando pronto a scattare in caso dentro si creassero casini. Come quando un grassone ubriaco e sdentato, con i capelli ispidi, si era messo ad urlare che a lui, il grande Barbanera, tutto era dovuto e aveva cercato di portarsi a letto Nami che non faceva parte delle puttane che lavoravano lì. Certo, in quel caso il problema era stato bloccare Rufy prima che spaccasse la faccia a quel tipo a suon di pugni, ma quello era un altro discorso.

In sostanza, il suo lavoro faceva schifo; doveva starsene al freddo e all’umido, al bagnato se pioveva, a sperare che nessuno spaccasse la faccia a nessuno e attendendo impaziente l’ora in cui sarebbe potuto andar via, ovvero verso le cinque di mattina. Anche più tardi se i clienti si addormentavano con le ragazze e non volevano andarsene.

L’unica cosa che riusciva a risollevare l’umore nero del ragazzo era la presenza di Marco, amico fidato e silenzioso, che si affacciava ogni tanto per porgergli un caffè, una sciarpa o anche solo per una chiacchierata, rassicurandolo che dentro andava tutto bene e che potevano anche rilassarsi un po’.

Amico. Già.

Il problema era che Ace ne era innamorato, e non poco.
Si era riscoperto geloso quando il biondo era stato trascinato via da una ragazza un po’ troppo disinibita e vogliosa, aveva provato a far finta di niente per i giorni a seguire ma alla fine aveva dovuto fare i conti con sé stesso e da lì a scoprire i suoi veri sentimenti, beh, il passo era stato breve, e questa cosa andava avanti da quasi tre anni ormai.
Erano stati tre lunghi anni di silenzi e sorrisi tirati su al momento, era sempre stato discretamente bravo a nascondere i suoi reali stati d’animo.

"Certo che stasera fa proprio freddo, mi chiedo come tu faccia a stare qui fuori tutte le sere."

Ed ecco che l’oggetto dei suoi pensieri si materializzava al suo fianco, lasciando che la porta si chiudesse alla sue spalle e porgendo una tazza di caffè bollente al giovane corvino.

Un sorriso gli si disegnò in volto, dando animo alle lentiggini che gli tempestavano le guance, mentre prendeva la bevanda calda tra le mani coperte dai guanti.

"Abitudine."

Rispose semplicemente, dando la falsa impressione che il freddo pungente, segno dell’imminente termine dell’autunno e arrivo dell’inverno, non lo scalfisse minimamente, sebbene la realtà fosse diversa.

Il silenzio che adesso era calato lo fece fremere e rabbrividire, facendolo tendere per l’ansia che gli trasmetteva, perché nel silenzio i suoi pensieri si soffermavano su come potesse essere baciare le labbra di Marco. Erano screpolate per il freddo? Oppure erano morbide e ancora calde per il tepore di cui aveva goduto finché era rimasto all’interno dell’Harem? Avrebbe voluto scoprirlo, ma probabilmente avrebbe solo scoperto cosa si provava nel ricevere un pugno dal proprio migliore amico, perché Marco andava spesso a letto con le clienti che richiedevano i suoi servigi e questo stava a significare che fosse etero.

Le cose si complicavano sempre di più.

"La situazione dentro com’è?"

Chiese poi per rompere il silenzio, guadagnando uno sbuffo annoiato dall’altro.

"Solita noia, sembra che per stasera nessuno creerà problemi."

Ace scrollò le spalle e bevve il caffè, godendo del tepore che si irradiò dalla sua gola e che lo riscaldò per qualche misero secondo prima che una folata di vento portasse via quella piacevole sensazione.

Odiava il freddo, ed il silenzio era calato ancora una volta.

Prima che Ace potesse dire qualunque cosa, Marco si congedò con un sorriso appena accennato e tornò dentro.

Ancora una volta solo con i suoi pensieri per una notte intera.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


BORDER OF LOVE

Capitolo II

L’inverno si era ormai insinuato tra le case della città, aveva tinto le strade di bianco e aveva lasciato che spessi nuvoloni bianchi carichi di neve transitassero nei cieli, sopra gli edifici e le persone.

Era quasi natale, i ragazzini erano in vacanza per qualche giorno e sembrava che essi si fossero riversati tutti per le strade a giocare con la neve ancora fresca e bianca.

L’umore di Ace era ogni giorno più grigio, artificialmente dipinto di mille colori dalle mani del ragazzo che continuava ad ostentare quell’allegria che lo aveva sempre contraddistinto, e lavorare con quel tempo non era affatto di aiuto.
Aveva dovuto sorbirsi gli schiamazzi dei mocciosi che giocavano per strada mentre lui avrebbe voluto solo un po’ di silenzio e, come se non bastasse, aveva litigato con Marco. Niente di serio, ma quel minimo avvenimento si era sommato a tutti gli altri e avevano abbattuto quella voglia che tutte le mattine tirava fuori per mentire alle persone sul proprio stato d’animo.

Per colorare quel grigiore che faceva parte della sua vita.

Con un ennesimo sospiro, il giovane si mise ad osservare distrattamente le nuvolette bianche che si condensavano ad ogni suo respiro, rendendosi conto del fatto che era quasi una settimana, una settimana che Marco non si affacciava a portargli il caffè, lasciando il compito a suo fratello Thatch.

"Sai Ace, penso che dovresti andare da Marco per chiarire il malinteso."

Stava dicendo il sopra nominato fratello del biondo mentre si sistemava meglio il codino basso che gli teneva i capelli legati dietro il collo. Ora che ci pensava, l’aveva visto una volta sola a capelli sciolti e non capiva come mai non li tenesse più spesso, secondo Ace guadagnava un sacco di carisma e bellezza in più.

"Ma non c’è niente da chiarire, Thatch. Marco ha espressamente detto che può benissimo stare senza me e le mie paranoie, senza che io fulmini ogni donna che gli si avvicina perché, secondo lui, sono geloso del successo che riscuote."

Quante cazzate in una sola frase. Lui geloso delle donne che si porta a letto? Sì, ma non certo perché voleva farsele lui!

"E poi non ha tutti i torti, senza la mia presenza starà certamente meglio."

Quanti significati nascosti si possono mettere in poche parole? Ace si portava dietro il nome di suo padre, gli pesava sulle spalle e sulla coscienza, e l’unico che ne era a conoscenza all’interno del bordello era proprio Marco. Lui, che lo aveva abbracciato e confortato ripetendogli che non importava, che a lui non importava, ed Ace ci aveva creduto fino alla fine, perché Marco non gli avrebbe mai mentito.

No?

"Se vuoi posso raccontarti un aneddoto divertente della sua infanzia, così saprai come zittirlo la prossima volta!"

Thatch, piccolo e povero ingenuo che aveva candidamente proposto una cosa alquanto allettante per Ace, ma quello che attirò il giovane fu una nuova consapevolezza: quanto ne sapeva lui di Marco? Era a conoscenza della sua età e del fatto che sua madre era morta di parto, ma poi? Poi niente, Marco non si era mai aperto con lui. Non riusciva a decifrare le sue azioni o le sue parole. Non riusciva ad allontanarlo come avrebbe voluto, perché preferiva soffrire rimanendogli amico che straziarsi completamente smettendo di stare con lui. Non conosceva il suo passato.

Marco sapeva tutto di Ace.

Era lui, oppure il freddo si era fatto ancor più spietato e pungente?

"Non importa. Torna dentro adesso, Thatch."

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


BORDER OF LOVE

Capitolo III

Le vacanze natalizie erano passate ormai da qualche settimane, il freddo adesso arretrava lentamente per lasciare spazio ad una più piacevole brezza primaverile mentre i primi boccioli spuntavano timidamente sui rami degli alberi spogli.

Ace, ancora una volta, si stava dirigendo a lavoro, costruendo la sua allegra personalità per la via.
Aveva fatto pace con Marco, alla fine, chiarendo il malinteso che si era creato e facendogli credere che no, non era geloso né invidioso delle donne che si portava a letto, ma da quel giorno aveva cominciato ad evitarlo ogni volta che poteva.

E ci era riuscito bene fino a quel giorno. Fino a quella sera, quando Marco gli portò il solito caffè, Ace stava per dirgli che poteva rientrare senza preoccuparsi di fargli compagnia quando si ritrovò i suoi occhi chiari come il cielo estivo a fissarlo.

"Si può sapere che ti prende, eh Ace? Sembra che tu voglia evitarmi da un po’ di settimane a questa parte."

Panico. E ora? Non poteva certo dirgli la verità!

Ace distolse lo sguardo e lo puntò sull’asfalto mezzo rotto.

"Non ho idea di cosa tu stia parlando, io non ti sto evitando."

Era teso, e Marco lo vedeva benissimo, qualcosa non andava ma gli sfuggiva il cosa.

"Non dirmi cazzate, da quando abbiamo litigato l’ultima volta sei cambiato nei miei confronti. Perché ti vuoi allontanare da me?"

Il giovane deglutì, poi prese un sospiro e infine lo rilasciò.

"Sai."

Cominciò il corvino, ostentandosi a tenere lo sguardo ovunque tranne che sul biondo affianco a lui.

"Durante la settimana in cui non mi ha parlato Thatch mi portava il caffè e una sera mi ha chiesto se avessi voluto ascoltare un racconto divertente sulla tua infanzia per poterti zittire in futuro."

Marco incrociò le braccia al petto e lo fissò in silenzio, aspettando che continuasse a parlare perché davvero non capiva come la domanda di Thatch potesse entrarci in tutta la questione.

"Io ho rifiutato, ed è stato in quel momento che mi sono reso conto di una cosa a cui non avevo mai fatto caso."

Alzò lo sguardo nero e lo portò, finalmente, sul volto di Marco.

"Tu non mi hai mai parlato del tuo passato, Marco."

E quella consapevolezza ad Ace aveva fatto molto, molto male. Si era sentito in qualche modo tradito per l’ennesima volta.

"Tu sai tutto di me, sei l’unico a conoscere il mio passato e l’identità di mio padre perché per me sei importante, molto più di quanto credi, e... scoprire che tu non hai mai fatto come me, che non ti sei mai fidato di me al punto da aprirti, ecco... mi ha fatto capire che probabilmente non sono abbastanza importante per te."

Dirlo ad alta voce, concretizzare quel pensiero e quella nuova consapevolezza faceva molto più male che lasciare che rimanesse tutto nella sua testa.

Marco, a quelle parole, sgranò di poco gli occhi cerulei e lo fissò incredulo. Era quello che Ace pensava? Era quello che lui gli aveva fatto credere? Si sentiva uno stupido, ma la verità era che Ace aveva ragione e Marco non aveva niente da ribattere per potersi difendere.

Non c’era niente da difendere.

"E questo vuol dire che avevi ragione quando mi hai detto che puoi vivere benissimo senza di me. Io posso vivere benissimo senza di te."

E fu con quel tono basso che Ace entrò nel bordello, chiedendo a Lucci il permesso per tornarsene a casa dicendogli di sentirsi poco bene.

La sua fronte scottava, da quanto non si riposava decentemente?

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


BORDER OF LOVE

Capitolo IV

L’estate era giunta con calma, portandosi dietro il caldo e il cielo terso, ed Ace aveva continuato a lavorare come tutte le sere.

Ormai non aveva più bisogno del giubbotto, la notte era calda e si stava bene a maniche corte, ma lui aveva continuato a portare una giacchetta di jeans che copriva le braccia muscolose e che recludevano la vista dei suoi pettorali fasciati da una maglia nera attillata che usava sempre a lavoro.

Da quando aveva avuto quel diverbio con Marco non ci aveva più parlato, dopo quella notte era rimasto a casa una buona settimana con un febbrone che non si decideva a scendere, complice anche il fatto che Ace non voleva starsene a letto a poltrire e si era riposato poco.

Nessuno gli aveva più portato un caffè, tranne Thatch ogni tanto quando gli andava, e Marco evitava Ace così come Ace evitava Marco. Era una situazione che gli faceva male e che gli insinuava uno strano freddo dentro, che lo faceva rabbrividire e stringersi nella giacca nonostante soffiasse un vento caldo.

Era così intento a rimuginare sui suoi pensieri che degnò di appena uno sguardo i clienti che entravano nel bordello, non rendendosi conto che Barbanera, che aveva già causato molteplici casini da loro, era sgusciato all’interno dell’edificio.

"Ace!"

Lo richiamò Marco, spalancando la porta di colpo e afferrandogli un braccio, lui lo guardò e adocchiò appena l’interno della sala.

"Teach è tornato a fare casini, sbrigati ad entrare! Stasera non c’è Rufy a riprendersi Nami!"

Già, perché Rufy non c’era quella sera? Oh, forse aveva avvertito che non avrebbe potuto esserci.

Formulato quel pensiero, la sua mente si concentrò su Teach mentre seguiva Marco nell’atrio dell’Harem e lanciava su una sedia il giacchetto, dato che così aveva maggior possibilità di movimento.

Il suo sguardo sondò con attenzione la situazione, soffermandosi sul grassone sdentato che si stava tenendo il polso destro con la mano sinistra, mentre Nami aveva tirato fuori da sotto il bancone il lungo bastone di ferro che utilizzava solo in casi estremi, come ad esempio un cliente che insisteva e non voleva darsi una bella calmata.

Ace sospirò e le si avvicinò, mettendole una mano sulla spalla per farle capire che poteva rilassarsi mentre invece lui adesso si scrocchiava le nocche. Era arrivato al limite massimo di sopportazione, e la cosa certa era che Marshall D. Teach non avrebbe mai più messo piede nel loro Harem.

"Adesso faremo così: tu vieni fuori con me senza fare storie, ti aiuto a farti passare la colossale sbornia che hai, poi ti allontano da qui a calci e la prossima volta che ti vedo non ti faccio entrare, che ne dici eh?"

Si allontanò da Nami, che nel frattempo aveva rimesso il suo bastone a posto, e si avvicinò a Teach per poterlo afferrare per un polso, trascinandoselo poi verso l’uscita.

Il gridolino di Nami fu la prima cosa che gli fece capire che qualcosa non andava come avrebbe dovuto, la seconda fu la faccia di Marco, diventata improvvisamente dello stesso colore dei fogli che si trovavano sul bancone, la terza fu Thatch che scattò verso di lui.

L'ultima, e la più significativa, fu rendersi conto di avere una lama piantata all'altezza delle costole, appena di fianco la fondina con dentro la pistola, e poi il dolore acuto che arrivò all’improvviso appena il bastardo strinse la presa sull’elsa dell’arma e girò la lama nella sua carne, facendolo gemere, quasi urlare di dolore ed accasciare sul pavimento.

"Ace!"

Marco si precipitò al suo fianco, e lui fu l'unica persona a cui riuscì a dedicare l'attenzione, mentre tutto intorno si faceva tutto più confuso: c'erano grida, pugni, insulti.
Era tutto troppo lontano al momento.

"Sto bene."

Farfugliò Ace a fatica, e l'attimo dopo si era lascia andare contro di lui, la fronte contro la sua spalla e la ferita che gli mandava continue stilettate di dolore; si sentiva stanco e senza forze, i rumori attorno a lui erano diventati un insieme indistinto di suoni e l’unica cosa che riusciva a mettere vagamente a fuoco era la camicia viola di Marco.
Quella camicia così bella. Sarebbe rimasta sporca di sangue.

"Resisti Ace, resta con me."

Lo sentì dire, e mugolò dal dolore quando le sue mani premettero sulla ferita, probabilmente cercando di fermare l'emorragia. Ma Ace aveva già gli occhi socchiusi, e quella fu l'ultima cosa che sentì prima di perdere coscienza.

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


BORDER OF LOVE

Capitolo V
 
Appena riaprì gli occhi, Ace ci mise un po' a raccogliere tutti i pezzi e a rimetterli assieme, aveva dei ricordi sparsi e confusi che andavano dal momento in cui si era accasciato a terra fino all'arrivo in ospedale: c'erano Nami e Thatch che lo tiravano su, la voce di Marco che continuava a chiamarlo, gli infermieri, la sala operatoria, poi il buio.

Facendo uno sforzo non indifferente, almeno in quelle condizioni, alzò il braccio sinistro e fece scivolare la mano all'altezza delle costole. Il tessuto ruvido della garza che copriva la ferita fu ciò che il suo tatto incontrò ed una domanda sorse spontanea nella sua mente che, pian piano, andava schiarendosi: quanto aveva dormito? Perché gli sembrava di essersi svegliato da un sonno durato secoli.

Si tirò a sedere, trattenendo un gemito e facendo comparire una smorfia di dolore sul proprio volto, e si guardò intorno: era la solita anonima stanza d'ospedale, puzzava di cloro e disinfettanti, ma sembrava quanto di più lontano potesse esserci dall'asettico, con l'intonaco scrostato alle pareti e le macchie di muffa nell'angolo sul soffitto, il pavimento sporco.

A parte lui, c'erano altri tre pazienti che dormivano nei loro letti con l'aria abbastanza tranquilla, le flebo attaccate al braccio ed i contenitori con le pillole sul comodino. Ace degnò loro di appena un'occhiata disinteressata e poi guardò la finestra per cercare di capire che ore fossero, ma le tende tirate oscuravano la sua vista e non fu in grado di dirlo.
Si passò una mano sul viso, si sistemò meglio contro il cuscino, percependo una nuova e dolorosa fitta alla ferita, poi richiuse gli occhi e sospirò.

Lui odiava gli ospedali, non gli erano mai piaciuti in tutta la sua vita. Certo, non ci era finito molte volte, soprattutto mai per cose troppo gravi: qualche vaccinazione, qualche frattura alle ossa o ferita riportata dopo una rissa oppure la febbre troppo alta, da quando si era trasferito, invece, non gli era mai capitato di finirci.

Odiava gli ospedali perché, nonostante tutte le volte che ci fosse stato non si trovasse in fin di vita, l'odore dei disinfettanti ed il pallore cadaverico dei pazienti, il silenzio tombale e i volti stanchi dei visitatori gli erano sempre parsi come un presagio di morte, come se la sala d'attesa fosse il punto in cui Dio lo avrebbe giudicato, decidendo se aprirgli le porte del Paradiso o spingerlo giù all'Inferno.
Si rendeva conto che non ci fossero molti dubbi circa il posto che lo avrebbe accolto.

Provava una pesantezza generale agli arti che lo faceva sentire sfinito e voglioso di assopirsi e risvegliarsi chissà quando, ma si sforzò di non addormentarsi di nuovo: non avere il controllo su quello che gli succedeva era destabilizzante, e lo innervosiva.

L'infermiera entrò dopo una mezz'ora che si era svegliato, una donnina minuta e dal volto stanco che gli diede bruscamente il buon pomeriggio, controllò la sua ferita, la flebo, e gli lasciò sul comodino quello che sarebbe dovuto essere il suo pasto e che aveva tutta l'aria di essere cibo per cani. Un pasto che Ace di sicuro non avrebbe toccato.

"Che ore sono?"

Fu la prima cosa che, con voce roca, domandò alla donna, lei mandò un'occhiata distratta all'orologio che aveva al polso prima di porgergli un bicchiere d’acqua.

"Le due e mezza del pomeriggio."

Rispose brusca, poi sembrò ricordarsi di un particolare

"Qui fuori c'è un uomo."

Disse, ed Ace la guardò confuso, lei alzò gli occhi al cielo prima di continuare.

"Alto, biondino e con una capigliatura discutibile. Sta dormendo, lo sveglio per farlo entrare?".  

Ace rimase stupito, perché quella descrizione poteva condurre ad una sola persona, poi annuì e si tirò su di scatto, gemendo tra i denti per il dolore che il movimento gli aveva causato.

La donna lo rimproverò malamente ed uscì, dicendogli che non avevano tempo da perdere e che lo avrebbero lasciato a sanguinare se gli fossero saltati i punti.

Ace avrebbe volentieri dedicato cinque minuti della sua vita ad insultarla, ma la sua attenzione era incentrata su tutt'altro.
Marco varcò la soglia della porta con urgenza, ma con l'espressione assonnata e lo sguardo intontito, e ci mise un po' per realizzare che sì, Ace si era davvero svegliato.

Ace si sarebbe aspettato che fosse in compagnia, oppure che lì fuori ci fosse Rufy, che sembrava essersi affezionato davvero molto a lui, ma non la presenza di Marco, e il fatto che lui fosse lì voleva pur dire qualcosa.

Lui, però, rimase lì immobile a fissarlo, come se lo vedesse per la prima volta dopo anni. In quel momento, Ace si chiese di nuovo per quanto tempo avesse dormito, ma adesso la domanda era posta con molta più preoccupazione di prima, ed anche più sconcerto.
Non seppe cosa dire o cosa fare, e allora semplicemente imitò Marco: rimase in silenzio a fissarlo, trattenendo il respiro nei polmoni.

Lo sguardo, dopo una titubanza iniziale, si spostò con attenzione su tutto Marco e si rese conto che stava indossando gli stessi vestiti di quella sera, una macchia di sangue, seppur non molto grande, si era seccata sull’orlo della camicia e un po’ sui pantaloni e questo significava che quel sangue era quello di Ace; aveva l'espressione stanca, i capelli sembravano quasi più spettinati del solito e si rese conto che per quanto tempo fosse stato lì, per tutto il tempo che aveva dormito dopo l'operazione, Marco doveva essere rimasto con lui senza mettere piede a casa neanche per un attimo.  

Dopo quel lungo silenzio, Marco gli si avvicinò mandando un'occhiata vaga agli altri pazienti, anche se non realmente interessato e forse lo faceva solo per non dover guardare lui, poi afferrò una vecchia sedia di legno sistemata fino a quel momento sotto la finestra e la trascinò fino al letto per potersi sedere vicino a lui.

La sua mano andò a scostargli una ciocca nera dalla fronte, rivolgendo poi al giovane un leggero sorriso, perché adesso che lo vedeva sveglio si sentiva molto più sollevato di prima.

"Come stai?"

Fu la prima cosa che gli domandò, anche se sapeva benissimo che una persona appena ripresasi da un’operazione che lo aveva salvato da una coltellata non poteva certo stare a meraviglia.

"Potrei stare meglio."

Rispose infatti.

"Quanto ho dormito?"


Chiese poi, osservando come lo sguardo ceruleo di Marco si perdesse ad osservare la tenda bianca e spessa che copriva la finestra.

"Due giorni interi, più metà del terzo."

Disse infine, riportando le sue iridi sul volto di Ace e accarezzandogli una guancia piena di lentiggini.

"Ci hai fatto preoccupare un sacco, Ace. Mi hai fatto preoccupare, hai idea di cosa io abbia provato nel vederti qui inerme, con il dubbio che le tue condizioni potessero peggiorare?"

Abbassò poi la testa, poggiando la fronte contro la sua spalla sinistra.

"Non lo fare mai più, Ace. Mi sei svenuto tra le braccia, ed io... io ho avuto paura di perderti."

Mormorò poi, sospirando contro la sua pelle appena coperta dalla veste dell’ospedale mentre Ace, ancora incredulo, alzava la mano per portarla tra i capelli di Marco.
Erano morbidi al tatto, affondarci le dita era un piacere che non avrebbe mai creduto di poter provare.

"Sono felice che tu sia rimasto."

Sussurrò il corvino a sua volta.

Non capiva come mai solo lui avesse deciso di rimanere lì, perché dopo quello che gli aveva detto non credeva di meritare tanta preoccupazione da parte sua, ma ne era felice. Il suo cuore batteva decisamente troppo forte e aveva paura che Marco potesse sentirlo, forse anche troppo nitidamente.

Rimasero in quella posizione per una manciata di minuti, poi Marco si allontanò da lui e gli prese il volto tra le mani per evitargli di distogliere lo sguardo.

"Quella sera, quando ti ho detto che senza di te potrei vivere senza problemi, mentivo Ace. Quando ti ho visto perdere conoscenza tra le mie braccia, e il tuo volto era così pallido e perdevi un sacco di sangue, io... mi sono pentito di quelle parole ed ho avuto paura. Paura di non vederti più aprire gli occhi. Paura di non sentire più la tua voce o vedere il tuo sorriso. Paura di averti perso per sempre."

Il respiro di Ace si bloccò, trattenuto nei polmoni mentre quello di Marco s’infrangeva contro le sue labbra. Così vicino, così bello e anche così spiazzante.

Marco era stato sincero, Ace poteva esserlo a sua volta?

Deglutendo, il giovane abbassò lo sguardo per quanto le mani di Marco glielo permisero, poi schiuse le labbra per parlare e le richiuse, compì questo gesto un paio di volte, alla ricerca delle parole giuste per esprimere tutto quel groviglio di sentimenti che si muovevano nel suo stomaco e nel suo cuore, poi sospirò e riportò nuovamente le iridi pece in quelle cerulee dell’amico.

"Perché? Perché mi dici queste cose, eh Marco? Tu... tu non sei innamorato di me, vai a letto con le donne che vogliono stare con te e dai tuoi racconti devo dedurre anche che ti piaccia. Tu non provi niente per me, giusto?"

Voleva certezze, Ace, perché se adesso si fosse illuso inutilmente, beh, probabilmente sarebbe andato in pezzi una volta per tutte e niente questa volta lo avrebbe rimesso in piedi.

Un sospiro divertito sfuggì dalle labbra del più grande, che gli accarezzò le guance con i pollici

"Non è una questione di cosa piaccia al mio corpo, Ace, ma di cosa brami il mio cuore."

Spiegò poi dolcemente.

"Ed il mio cuore brama te."

Fu una questione di attimi, le loro labbra si unirono in un bacio dato con urgenza, ma anche con dolcezza e amore. Le mani di Marco rimasero ben salde a circondare il volto di Ace, mentre quelle di Ace si chiusero attorno al colletto della camicia di Marco.
Quando si separarono, Ace piangeva.

"Ho sognato così tante volte una cosa del genere che non credevo si sarebbe mai avverata."

Singhiozzò mentre Marco lo abbracciava, facendo sì che il corvino potesse nascondere il viso contro la sua spalla. Sorrideva, era felice, e quella volta per davvero. Non erano sentimenti grigi colorati artificialmente, erano veri ed era stato Marco a donar loro colore.

Niente sarebbe mai potuto andar male adesso che erano insieme.

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