Haley - In Morte Ultima Veritas

di Collyn
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno - Non plus ultra ***
Capitolo 2: *** Capitolo due - Oculum pro oculo ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre - Salve me ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro - Fortuna vitrea est ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque - Omnia cum tempore ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno - Non plus ultra ***


"And the freedom of falling
And the feeling I thought was set in stone
It slips through my fingers

And I'm trying hard to let go
But it comes and goes in waves
It comes and goes in waves
And carries us away"

Waves - Dean Lewis
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Il verde e l'arancione sono i miei colori preferiti. Questi mi riportano alla mente un'immagine che vidi su un libro di animali da piccola, che mostrava una volpe, splendida nel suo manto aranciato illuminato dalla luce del giorno, immersa nell'erba altissima. Ora, però, mentre con la forchetta li mischio in un'immangiabile poltiglia di verdure, mi fanno solo pensare al vomito, facendomi passare definitivamente l'appetito; il tutto a discapito dello stomaco che, ignorando i miei pensieri assillanti e senza un filo logico, continua a brontolare imperterrito.

Distolgo lo sguardo dal piatto, sperando di trovare un soggetto più interessante a cui dedicare le mie riflessioni insensate dettate dalla noia, notando così i minuscoli granelli di polvere che si muovono davanti a me, illuminati dalla luce pigra di un sole che, nonostante sia a malapena mezzogiorno, sembra non vedere già l'ora di tramontare. Ospiti invisibili che danzano nell'aria in infinite piroette improvvisate, sospinti dal mio respiro lento e annoiato e da quello controllato e calmo di mio padre, seduto proprio di fronte a me. Quest'ultimo è, come sempre, perfettamente composto e vagamente rigido, come se questa situazione non piacesse particolarmente nemmeno a lui. E, sinceramente, la cosa non mi stupirebbe affatto.

Ha gli occhi concentrati sul suo pranzo e non fa molto caso al mio sguardo su di lui, che lo studia proprio come era abituato a fare quando, da piccola, lo guardavo ancora come qualsiasi bambino osserva il proprio genitore, ovvero come l'esempio che bisognerebbe seguire. Pensa al lavoro, come sempre. Nonostante questa sia la prima volta che ci vediamo dopo due settimane, non mi degna minimamente della sua attenzione. Lo vedo da come mima impercettibilmente delle parole con le labbra tra un boccone e l'altro, da come ogni tanto si blocca con la forchetta a mezz'aria e lo sguardo aggrottato e attento, ma non a ciò a cui dovrebbe prestare davvero attenzione in questo momento.

"Non hai fame, rêveur*?"

Il mio sguardo si sposta dalle sue mani ferme ai suoi occhi, ora puntati con fin troppa attenzione su di me, come se soltanto ora si fosse accorto della mia presenza all'interno della stanza. Nonostante il tono apparentemente dolce nella sua voce, riconosco senza sforzo il sarcasmo di cui sono impregnate le sue parole, reso evidente anche dal nomignolo appena affibbiatomi, che utilizza spesso per rimproverarmi.

Quando ero piccola e ancora potevo affermare di ricevere un minimo di affetto paterno da parte sua, usava chiamarmi così a causa della mia abitudine di perdermi fra le mie fantasie da bambina. Tuttavia, nei miei ricordi la sua voce era carica di una cadenza calda e mielosa che non ha niente a che vedere con il tono tagliente che mi ha appena rivolto e che sono ormai abituata ad incassare; quello che una volta era un dolce nomignolo carico d'affetto, infatti, ora non è altro che un brutale schiocco di dita davanti alla faccia che mi urla di svegliarmi.

"Sai bene quanto io odi gli sprechi, quindi, se hai proprio intenzione di fare lo sciopero della fame per qualche motivo a me ignoto, fammi almeno il piacere di non giocare con il cibo" risponde infine al mio silenzio, sospirando con esasperazione e tornando a pensare ai suoi affari.

Abbassando gli occhi sul mio piatto, noto che la poltiglia vomitosa di mia creazione, prima esiliata in un angolo del piatto, in quei pochi minuti di disattenzione era riuscita, aggrappandosi ai denti della forchetta che continuo a far roteare ritmicamente, ad espandersi nei territori della bistecca, sporcandola con il suo orribile e poco invitante colore. A questa vista, lo stomaco mi si contorce lievemente, accompagnato dal sussurro di un brontolio che tradisce il mio reale appetito.

Prima che possa rendermene conto, un'espressione vagamente schifata si disegna sul mio viso nel guardare il pezzo di carne sulla ceramica bianca, mentre il mio labbro superiore si arriccia verso l'alto, scoprendo leggermente i denti. Non mi è mai piaciuta la bistecca al sangue. Non so perché, ma la vista della bistecca ancora rossa all'interno mi ha sempre suscitato un irrefrenabile moto di disgusto e lui, questo, l'ha sempre saputo bene. Eppure, non so se per semplice distrazione o se per ripicca per la freddezza con cui l'ho accolto al suo ritorno, nel cucinarla lui ha pensato bene di fregarsene totalmente di questo dettaglio.

"Non hai nulla da dire?" mi richiama nuovamente all'attenzione, mentre i suoi occhietti verdissimi, così simili ai miei, mi guardano nervosi.

Non più abituata ad un'attenzione tanto prolungata da parte sua, rimango interdetta per qualche attimo, mentre le mie sopracciglia si aggrottano a tal punto che riesco senza problemi ad immaginarle dare vita all'unica domanda che ora riesce ad aleggiarmi nella testa: che diamine vuoi ora?

"Tipo cosa?" gli chiedo allora, pronunciando per la prima volta qualcosa dall'inizio del pasto.

"Non so, magari chiedermi come sto, dirmi come stai tu, aggiornarmi su cosa hai fatto durante le mie due settimane di assenza. Fai tu, hai l'imbarazzo della scelta!" mi risponde sbuffando spazientito e non cercando minimamente di nascondere il sarcasmo, cosa che mi fa infuriare.

Senza preoccuparmi di contenermi, lascio che il rancore impregni le mie parole, pur continuando a mantenere un distacco glaciale."Esattamente come tu ti sei preoccupato di aggiornarmi del fatto che saresti sparito per l'ennesima volta, senza nemmeno informarmi, non dico del tuo ritorno o del luogo in cui ti saresti recato, ma nemmeno della tua partenza?" gli chiedo retoricamente, guardandolo nei suoi occhi spalancati per lo stupore o per la rabbia, non so dirlo con certezza.

"Smettila subito, Cara. Non sono proprio in vena di discutere con te oggi."

"Certo, tu hai già i tuoi problemi, no?" lo interrompo, guardandolo negli occhi e rendendomi conto che il mio sguardo, più che essere furioso, deve sembrare quello di una bambina che fa i capricci.

Mi schiarisco la gola, ascoltando il mio battito cardiaco cominciare a calmarsi, mentre intorno a me il silenzio regna sovrano. "Cosa vuoi sentirti dire, papà? Come sono stata quando la mattina mi sono alzata e ho scoperto della tua partenza grazie ad un post-it sulla porta? Sarebbe uno stupido cliché stare qui a spiegartelo, non trovi?"

Nonostante ora la mia voce e la mia espressione sembrino quasi pacate, le provocazioni che continuo a lanciargli addosso sono così violente che, per un momento, anche quei granelli di polvere che aleggiano fra di noi mi paiono spostarsi più velocemente, come disturbati da quell'improvviso astio. Il solo ricordo di quella mattina, del silenzio che mi avvolgeva e insieme la consapevolezza che iniziava a farsi spazio dentro di me, mi fa andare in bestia. Lui non risponde, rimane immobile ad incassare, contraendo la mascella; se non fossi così arrabbiata, darei più peso alla vena che gli pulsa sul collo, segno inequivocabile che è ormai vicino a perdere totalmente le staffe.

"Dopotutto, se non hai dato ascolto ai pianti e alle suppliche di una bambina di sette anni, perché dovresti ascoltare le mie parole ora?" continuo imperterrita, approfittando del suo silenzio.

"Basta!" urla, guardandomi duro e pieno d'ira.

Con uno scatto repentino, lascia cadere senza grazia la forchetta sul suo piatto ancora mezzo pieno, mentre il rumore dello scontro inaspettato fra l'acciaio e la ceramica mi fa sussultare. Appoggia entrambi i gomiti sulla superficie di legno del tavolo, facendo il gesto a me ormai familiare di portare le mani a massaggiarsi il retro del collo e abbassare la testa, cosa che mi fa capire che sta cercando di trattenersi dall'urlarmi contro. Il suo petto, quasi ansimante, esala lentamente due respiri profondi nel tentativo di fermare l'affanno provocato dalla rabbia, mentre io cerco di rilassare la schiena, ancora rigida per lo spavento.

"Puoi andare" pronuncia con tono basso dopo mezzo minuto, tornando composto e riprendendo in mano la forchetta, come se non fosse successo nulla, come se mi stesse congedando da un colloquio di lavoro.

Stringo forte il pugno e mi ficco in bocca a forza un po' di verdura, cercando di ignorare il groppo che mi ha preso improvvisamente la gola. Mastico con fatica il cibo ormai freddo, trattenendo a stento l'impulso di risputare tutto nel tovagliolo al mio fianco. Voleva che mangiassi? Benissimo.

All'improvviso, però, un forte botto mi fa saltare sul posto, mentre l'acqua dentro al mio bicchiere si agita ed esce dai bordi per andare a bagnare la tovaglia bianca. Quando i miei occhi incontrano quelli spalancati e furiosi di mio padre, un brivido mi percorre velocemente le braccia; avevo dimenticato quanto fossi brava a farlo infuriare, nonostante la sua abituale calma. 

"Ho detto che puoi andare, Cara."

 

*sognatrice in francese.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo due - Oculum pro oculo ***


"No one can unring this bell
Unsound this alarm 
Unbreak my heart new"

Mercury - Sleeping At Last
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Con la mano mi sposto velocemente i pochi ciuffi di capelli ricaduti davanti al viso, non trattenendo uno sbuffo infastidito. E' come avere tanti piccoli ragni che mi corrono sul collo, poi sulle guance, sulla fronte, sul naso, solleticandomi la pelle. Butto la testa all'indietro, liberandomi da quella sensazione fastidiosa, le braccia inizialmente tese e premute sul copriletto azzurro che si piegano su se stesse, lasciandomi cadere supina sul morbido materasso, forse fin troppo grande per una sola persona.

Il cielo fuori dalla finestra ha assunto un colore a metà fra l'azzurro e il blu notte, una sfumatura quasi tranquillizzante che mi fa intuire che il sole deve essere ormai già tramontato. Mi stiracchio, rendendomi conto, senza troppe preoccupazioni, di aver dormito più di quanto volessi e ricordando a malapena la discussione avuta con mio padre qualche ora fa, così come il doloroso martellio alla testa che ne è conseguito. Dopo quell'ennesima lite, mi sono semplicemente ritirata in camera, mentre sentivo chiaramente la mia testa spaccarsi. Ho immaginato che questa si aprisse e che dal cervello sanguinolento nascessero dei fiori. Forse l'ho sognato. Così come immagino di aver sognato anche Alfred, un gatto verde vomito con i baffi fucsia e gli occhi enormi a spirale, che mi ha svolazzato per un po' intorno recitando una reinterpretazione dell'Amleto.

Al leggero brontolio del mio stomaco non posso fare a meno di ridacchiare, consapevole di essermela cercata, ma respingendo qualsiasi senso di colpa. Mangerò qualcosa fra poco, se proprio mi va. Sperando che mio padre sia già uscito, ovviamente; infatti, mentre lui probabilmente avrà già accantonato la nostra litigata di poco fa tra le cose di poco conto, il mio nervosismo mi porterebbe soltanto ad iniziarne un'altra e, sinceramente, non credo di avere la forza psicologica e fisica necessaria per saltare un altro pasto.

Sbuffo rumorosamente, osservando il soffitto sopra di me. Sono sveglia da appena qualche minuto, ma già mi annoio. Non ho nulla da fare per passare il tempo e, me ne rendo conto, ultimamente questa cosa capita sempre più spesso. Non perché non abbia interessi, sia chiaro, ma semplicemente perché non mi va di farli fruttare. Credo di essere ancora abbastanza giovane da poter non avere troppe aspettative senza dovermene preoccupare, eppure è come se sentissi questo insetto nella testa che mi punzecchia in continuazione il cervello, rendendo i miei sporadici momenti di ozio quasi dolorosi. Come se a diciotto anni dovessi sentirmi in colpa per questo.

Spesso mi capita di saltare le ore di sonno notturne, preferendo concentrarmi su tutte le attività che non trovo mai il tempo - o semplicemente non ho voglia - di fare: ad esempio, giusto settimana scorsa ho appeso finalmente al muro quei poster che avevo comprato in occasione del trasferimento, ormai risalente ad un anno fa, quando ero ancora emozionata dall'idea di poter arredare la camera a mio piacimento. Quell'entusiasmo, tuttavia, si smorzò abbastanza velocemente e tutto ciò che riuscii a concludere fu tinteggiare le pareti. E nemmeno tutte, se devo essere sincera, nonostante di fronte agli altri ci tenga a specificare che è stata una scelta artistica quella di dipingere soltanto un muro su quattro, di un orribile lilla di cui ora mi pento, oltretutto.

Quando ci trasferimmo qui, a mio padre piaceva pensare, forse illudendo sia me che se stesso, che saremmo tornati ad essere una famiglia normale. O forse che, cambiando aria, sarei stata troppo impegnata a ricostruirmi una vita per avercela con lui, e credo che all'inizio sia stato davvero così. Lui era così preso da questo nuovo progetto che sembrava aver dimenticato totalmente tutto il resto: i suoi impegni, il suo lavoro, i suoi viaggi continui, perfino la sua macchina fotografica. Fra di noi aleggiava un'atmosfera di antico affetto che avevo dimenticato con il tempo, ma l'effetto che tutto questo ebbe su di lui lo rese, più che felice, malinconico. Come se qualcosa mancasse.

Infilo la mano nella federa del cuscino, finché le mie dita non arrivano ad accarezzare con sicurezza la superficie lucida di una fotografia, che tiro fuori velocemente, avvicinandola al mio viso. Mio padre me la diede quando avevo sette anni, ovvero quando iniziai ad essere abbastanza grande da notare di essere una dei pochi bambini a non avere una madre che la andasse a prendere a scuola, sebbene fossi ancora troppo piccola per capirlo pienamente. Spesso gli chiedevo di raccontarmi di lei e fu proprio quel giorno, lo stesso in cui mi diede la foto, che mi parlò della sua fuga, risalente a quando io avevo soltanto pochi mesi, sperando che quella confessione soffocasse le mie pretese di risposte. E vorrei tanto che l'avesse fatto, mi dico, perdendomi per la milionesima volta a fissare l'oggetto che ora stringo gelosamente fra le dita.

La donna nella foto è bionda, sorridente, con gli occhi socchiusi che mi impediscono di capirne il colore. Del viso risaltano in particolare la pelle abbronzata e le labbra rosee, mentre una spruzzata di lentiggini quasi invisibili le sporca il naso e le guance. La fotografia inquadra solamente il suo viso, ma, appena dietro la sua testa, uno sfondo verde e sfocato mi fa intuire che dev'essere stata scattata all'aperto, magari in un parco o in un giardino. A volte mi piace pensare che, come me, fosse una persona amante dell'aria aperta e, avendo mio padre distrutto o buttato ogni ricordo di lei, questa è l'unica fantasia a cui posso aggrapparmi. Ma forse sarebbe meglio dire che questa sarebbe l'unica fantasia a cui potrei aggrapparmi, se non fosse per il fatto che la donna nell'immagine, così diversa da me, non è affatto mia madre; il falso ricordo che stringo fra le dita, infatti, non è altro che una di quelle fotografie che si trovano nelle cornici appena comprate.

Mi resi conto che mio padre non mi avrebbe mai fatto avere una sua vera fotografia a quattordici anni, durante una litigata. Quella fu la primissima volta che la nominò volontariamente, anche se per sottolinearne gli aspetti negativi: mi disse che ero tale e quale a lei, testarda e menefreghista, e che sarei finita a fare la sua stessa vita. Cosa intendesse realmente com quell'ultima frase, in realtà, non l'ho mai capito, ma il motivo per cui lui aveva sempre cercato di tenermi lontano anche soltanto dal suo più piccolo ricordo mi fu subito chiaro, come se me l'avesse appena confessato: temeva che me ne andassi come aveva fatto lei, che lo lasciassi.

Con gli anni, le cose che mi accumunavano a lei cominciarono ad aumentare sempre di più e io iniziai lentamente a conoscerla tramite le discussioni con mio padre e le cose che, a suo dire, avevamo in comune. Stronza come lei. Bugiarda come lei. Egoista come lei. Iniziai a pensare che le sue continue e prolungate assenze fossero soltanto un modo per allontanarsi da ciò che più gli ricordava la moglie scomparsa, quell'unico ricordo che non poteva buttare o distruggere insieme alle fotografie.

Ancora persa in questi pensieri martellanti, mi alzo meccanicamente, con la stanchezza nelle membra che sembra pronta a chiedermi ancora qualche attimo di tregua e, allo stesso tempo, il bisogno di impiegare costruttivamente il tempo. Dopo un intero pomeriggio passato a dormire, non ho intenzione di perdere totalmente la giornata, anche se mi rendo conto di non avere molte attività utili in cui spendere le poche ore di buio che mi rimangono. Per questo motivo, con il passo svelto e strascicato, mi dirigo verso la cucina, rabbrividendo appena per il contatto fra le piante dei piedi nudi e il freddo pavimento e sperando di trovare qualcosa da mettere finalmente sotto i denti.

Varcata la soglia della stanza, un pensiero si materializza improvvisamente nella mia mente, anzi,direi una gradita constatazione, più che un pensiero: papà è uscito. Lo so perché non sento il vociferare insopportabile e continuo proveniente dalla televisione, perennemente accesa su uno di quei canali di televendite che lui si ostina a guardare senza una ragione ben precisa e, soprattutto, senza mai comprare alcunché. Il sollievo, tuttavia, dura ben poco; nell'aprire lo sportello del frigorifero,infatti, una smorfia si dipinge automaticamente sul mio viso nel constatare che le uniche cose che stanziano sui ripiani sono un barattolo sigillato di maionese e una bottiglia di succo d'arancia, mezza vuota oltretutto. Fantastico.

Mi affretto ad andare verso l'ingresso, dove, con veloci gesti stizziti, infilo il giubbotto, le scarpe e prendo la mia piccola borsa a tracolla semivuota appesa all'attaccapanni, sperando di avere ancora dei soldi nel portafoglio e già pregustando la pizza surgelata che ho intenzione di comprare per cena. D'altronde non mi sono mai distinta per le mie doti culinarie: le uniche volte in cui sono riuscita a cucinare qualcosa senza bruciarlo, per qualche misterioso motivo c'era sempre fin troppo sale.

Solo una volta che mi ritrovo fuori casa, con il vento gelido che mi sferza contro il collo nonostante la presenza dei capelli, mi accorgo, sfilando la chiave dalla serratura e mettendola in tasca, di aver lasciato le luci del soggiorno accese, oltre che essermi dimenticata di cambiarmi. Muovo comunque i primi passi sulla strada asfaltata, sapendo perfettamente che la mia non è altro che un'uscita di pochi minuti, eppure rivolgo di tanto in tanto qualche sguardo scettico ai pantaloni grigi del mio pigiama, che da stamattina non mi sono ancora tolta. Ciò che mi preoccupa di più, oltre alle tante piccole Minnie disegnate sulla stoffa, è il pensiero che, con questo freddo, le gambe andranno in ipotermia prima ancora di poter essere di nuovo a casa.

La strada fino al supermercato, anche se molto breve, è abbastanza inquietante di sera, soprattutto per quelle povere persone che, come me, non hanno un'auto per spostarsi. Nonostante questo, però, non mi preoccupo affatto: non devo camminare molto e, inoltre, segretamente mi affido ancora a quanto imparato al corso di difesa personale. Anche se, pensandoci bene, quest'esperienza risale a più di cinque anni fa e ricordo che, alla fine, avevo rinunciato per passare ad un più versatile e meno impegnativo spray al peperoncino.

Nonostante siano le sette di sera, il parcheggio è sorprendentemente pieno, sia di persone che hanno limitato la propria spesa a della zuppa preriscaldata e qualcosa da bere per la cena, sia di famiglie con il carrello pieno. Il cielo è ormai scuro e le uniche luci presenti sono quelle dei lampioni, che a malapena mi impediscono di inciampare nelle varie buche che punteggiano disordinatamente l'asfalto; o almeno questo è ciò di cui mi convinco per evitare di ricordarmi del mio disastroso equilibrio, decisamente lontano da quello di una ballerina di danza classica. Forse è per questo che mi sono ritirata da quel corso, da piccola. Di certo non mi distinguevo dalle altre per grazia o compostezza.

"Cara.

Mi paralizzo sul posto, sentendo una voce fin troppo familiare rimbombare alle mie spalle. È una sensazione strana quella che provo, a metà fra la speranza di essere in un sogno e la consapevolezza che nessun gatto verde vomito con i baffi fucsia mi volerà davanti agli occhi recitando qualche opera di Shakespeare. Eppure, in questo momento, sto sperando con tutta me stessa che la bambina che ora mi sta passando davanti inizi a starnutire bolle di sapone, a perdere olive dalle orecchie o qualsiasi altro indizio che mi faccia capire che tutto questo non ha nulla a che vedere con il mondo reale. Le mie preghiere, però, non vengono ascoltate, come testimoniano anche le occhiate della mocciosa, la quale, stranita e spaventata proprio come se avesse percepito i miei pensieri, si aggrappa più forte alla manica della giacca della madre, continuando a sbavarsi sulle dita grassocce.

Disgustoso.

Non appena mi giro, Cole Jensen mi sorride freddamente, un sorriso che non si addice per nulla a quello che illuminava il suo viso da bambino nelle vecchie fotografie con la sorella. Sopra di lui, la luce fioca e tremolante di un lampione gli illumina appena il viso, rendendo i suoi tratti più spigolosi e quasi estranei alla mia memoria, tanto che non posso fare a meno di tacere per un paio di secondi, limitandomi a guardarlo. Di fronte al mio momentaneo silenzio, alimentato dalla sorpresa e dall'incertezza, il suo sorriso tremola appena, tradito da un breve guizzo della guancia destra, ma non cede.

"Cole..." rispondo titubante, rivolgendogli un cenno del capo.

Dopo l'incidente di Haley, ho avuto modo di vederlo soltanto al funerale, ma allora le circostanze erano troppo tragiche per riuscire a parlargli, mentre adesso... Mentre adesso sono passati sette mesi e ancora mi sembra di rivedere un fantasma. Vorrei dire qualcosa, così ci provo, dischiudendo le labbra e pregando in mille lingue che una qualsiasi frase di senso compiuto lasci la mia bocca, ma invano. Il mio cervello, scioccato e ancora proiettato verso la lunga dormita di poco fa, non è ancora abbastanza lucido per fare una cosa del genere.

Lui tace per qualche secondo, a malapena respirando, ma quando torna a parlare il suo tono sembra quasi lo stesso di una volta. "Per un momento ho pensato di averti confusa con qualcun altro" ridacchia, socchiudendo appena gli occhi. "È così strano incontrarci qui, non trovi? Dopo così tanto tempo, intendo."

"Sì, sì, decisamente. È quasi... come dire..."

"Irreale?"

Annuisco appena. "Sì. Irreale, esattamente" affermo, la voce involontariamente fredda e ostinatamente distaccata.

Nonostante il suo atteggiamento bendisposto, non posso fare a meno che sentirmi con le spalle al muro. È più forte di me. È come se ci fosse una nota stonata che risuona nell'aria ad ogni sua parola, facendo attorcigliare il mio stomaco a tal punto che l'idea della pizza che avrei voluto comprare inizia a non sembrarmi più così allettante. Il silenzio, però, non migliora affatto le cose; non appena la conversazione torna ad estinguersi, infatti, questo non fa altro che restituirmi il suono snervante delle auto che passano e delle mie unghie che grattano l'interno delle tasche della giacca per l'agitazione.

"Hai cambiato colore di capelli. Stai bene."

"Grazie" mi limito a rispondere, afferrandomi istintivamente una piccola ciocca bionda. "Li ho anche accorciati; prima erano troppo lunghi."

"Lo vedo. Sembri quasi un'altra persona."

Sorrido appena, come se ci fosse un motivo per sorridere. Non so che ore siano e, di conseguenza, non so quanto tempo ancora io abbia per comprarmi la cena prima che il supermercato chiuda, ma non è questo il problema. Il vero problema è che preferirei correre a casa e finirmi a cucchiaiate tutto il barattolo di maionese diluito con il succo d'arancia piuttosto che rimanere ancora qui per un solo secondo. Questa situazione, il tono della sua voce, il tono della mia, ogni cosa sembra fuori posto in modo irreparabile, eppure noi siamo ancora qui a cercare di mandare avanti una conversazione che non può far altro che ferire entrambi ancora di più. E allora perché continuare? Perché continuare a pugnalarci a vicenda in questo modo?

"Io... dovrei andare, Cole" riesco a pronunciare con difficoltà, sentendomi appena un po' più leggera. Lui non parla, non si muove, perennemente pietrificato nella stessa posizione da infiniti minuti. Per un momento, il pensiero che tutto questo sia solo frutto della mia immaginazione torna a infestarmi il cervello, ma, alla vista della sua espressione, stranamente bloccata a metà tra il fastidio e la determinazione, sparisce in fretta

"In realtà, sai, dovevo proprio parlarti di una cosa" afferma lui, cogliendomi di sorpresa.

"Oh, ehm... Certo, dimmi pure."

"Non qui" risponde duramente, il tono autoritario e fermo, velato da qualcosa che non riesco a riconoscere, ma che mi mette i brividi.

Uno sguardo incerto si dipinge pian piano sul mio viso. "Sto proprio andando a comprare qualcosa, se vuoi possiamo..."

Prima che riesca a finire la frase, Cole mi interrompe. "No, c'è troppa gente. Preferirei farlo in un posto un po' più tranquillo, ti dispiace?" mi chiede, inclinando la testa di lato.

I suoi capelli, una volta tagliati a spazzola, sono decisamente cresciuti, andando a creare una frangia che gli copre la fronte e un po' gli occhi, cosa che, insieme al buio, mi impedisce di leggere l'espressione che si nasconde dietro a quelle sue parole falsamente amichevoli. Ha le mani nelle tasche della giacca pesante con sicurezza, ma le spalle, una volta sempre alte e dritte quasi con arroganza, sono ingobbite in un gesto di quella che credo essere rassegnazione, come se stesse reggendo da solo tutto il peso del mondo e non ce la facesse più.

Quest'immagine mi colpisce con la violenza di uno schiaffo. Non so perché, né so che direzione stiano prendendo i miei pensieri tutto ad un tratto, ma guardarlo ora, vedere come il lutto lo abbia cambiato, mi fa capire quanto, in realtà, le nostre realtà siano vicine. E' proprio per questo che, seppur titubante, annuisco, seguendolo senza esitare quando lui si gira per dirigersi verso il parco proprio di fianco al supermercato, nascosto dai rami fitti di un piccolo gruppo di alberi.

Quella che prima era solo bassa illuminazione man mano che ci allontaniamo dal parcheggio si trasforma in buio quasi totale, tanto che fatico a distinguere i contorni della figura di Cole, anche se è proprio davanti a me. Ha la camminata strascicata e svelta, cosa che, essendo le sue gambe più lunghe delle mie, mi porta quasi a corrergli dietro, mentre le mie labbra pronunciano ogni tanto qualche Aspetta, ma invano. Superiamo l'ingresso e, con la stessa velocità, anche i giochi arrugginiti e il quadrato di sabbia su cui di solito giocano i bambini, finché non arriviamo ad un piccolo e basso laghetto artificiale, dove ci fermiamo. L'acqua è scura e un paio di mozziconi che vedo galleggiarci dentro mi fanno intuire che questo non dev'essere soltanto colpa del buio.

"Cole" pronuncio con un accenno di affanno nella voce. "Perché mi hai portata qui?"

Lui si guarda intorno, come se non capisse il motivo della mia inquietudine, e poi scrolla le spalle. "Qui non ci disturberà nessuno" dice dopo qualche secondo, avvicinandosi di qualche passo.

Cole è sempre stato il tipico bravo ragazzo, con la testa sulle spalle e il sogno di diventare avvocato. Nel periodo di tempo in cui frequentai Haley, si era sempre dimostrato un buon fratello, nonostante i battibecchi continui e le frecciatine sarcastiche fra i due. Lui la adorava, la amava in un modo che proprio non riuscivo a comprendere, essendo io figlia unica, in un modo che a volte mi intimidiva. Avrebbe fatto di tutto per lei. Non l'ho più visto molto da quando lei è morta, ma credo di non averlo nemmeno voluto: il solo pensiero di guardarlo e trovare in lui lo stesso colore degli occhi di Haley, la stessa forma delle labbra, lo stesso modo strano di pronunciare la r... Sarebbe stato troppo, sarebbe stato come credere di rivederla e rendersi conto che non esiste più la possibilità di farlo.

"Beh, come stai?" mi chiede, piegando il collo in avanti. "La famiglia, gli amici...?"

"Io sto bene" rispondo con un po' di esitazione, ripetendo meccanicamente le stesse parole che la cortesia impone di dire ogni volta che qualcuno ti porge una domanda del genere. Non capisco proprio dove voglia andare a parare.

Apro la bocca più volte, indecisa se chiederglielo a mia volta, per poi lasciare andare quelle parole che mi erano rimaste bloccate in gola, anche se molto più lentamente di quanto sperassi. "E tu come stai?"

"Oh io sto benone, sei gentile a chiedermelo" risponde tranquillamente lui, come se fosse davvero così, accarezzandosi le guance ispide per colpa della barba sfatta. "Certo, devo prendere degli antidepressivi e i miei mi vogliono sbattere in uno schifo di istituto psichiatrico perché il mio psichiatra mi crede troppo instabile."

Ancora faccio fatica a vedergli il volto vividamente, ma dal suo tono sembra proprio che stia sorridendo, cosa che mi lascia basita. È la prima volta dall'inizio della conversazione che mi rendo conto che, effettivamente, qualcosa non va, come in un puzzle con alcuni pezzi mancanti: potrei osservarlo da lontano e pensare che sia tutto normale, ma avvicinandomi, passo dopo passo, gli spazi vuoti inizierebbero a saltarmi agli occhi sempre più nitidamente, facendomi notare che quando sorride non lo fa mai abbastanza da lasciare intravedere le fossette o che spesso si gratta il braccio sempre nello stesso punto.

"Ah" pronuncia poi come se gli fosse appena venuto in mente un dettaglio importante. "E mia sorella è morta."

È la prima volta dall'inizio della conversazione che mi rendo conto che forse sarebbe meglio per me se non fossi qui con lui. E non pronuncio parola.

"Ed eccoci giungere al punto in cui volevo che arrivassimo" continua, mentre, con il passare dei secondi, la mia inquietudine cresce sempre di più. "Sai, pensavo che ci avremmo messo di più, qualche altro minuto di chiacchiere futili, ma vedo che tu sei una persona che va dritta al punto e questo lo apprezzo, Cara."

Sembra quasi che stia scherzando e, in questo momento, c'è davvero un angolino del mio cervello che lo crede, che si aggrappa a questa convinzione, forse perché non ho la più pallida idea di cosa stia parlando, forse perché le note stonate che, insieme alla sua voce, risuonano in questo dialogo unilaterale mi rendono fin troppo inquieta. Ed è la prima volta dall'inizio della conversazione che mi rendo conto che il solo pretendere che questa sarebbe stata una cosa normale era semplicemente una pazzia, una bugia che ho raccontato a me stessa con ingenuità.

"Raccontami un po', non sono ancora riuscito a chiedertelo: com'è morta?"

A quella frase, spalanco gli occhi, guardandolo come se fosse impazzito. Lui però è serio, terribilmente e schifosamente serio, tanto che inizio a pensare che deve essere davvero masochista. Masochista e sadico. Come può chiedermi una cosa simile?

"No" rispondo prontamente. "Sai com'è andata, non puoi chiedermelo sul serio."

"Vorrei solo" si interrompe ridacchiando, lasciandomi sempre più stupita. Avvicina un dito alla testa, picchiettandolo sulla tempia delicatamente per poi guardarmi con aria divertita. "Vorrei solo un piccolo promemoria."

"Perché me lo stai chiedendo?" non posso fare a meno di domandargli, sentendo il senso di colpa iniziare a ribollire dentro di me e a liquefare tutti i miei organi interni. Lui non sa, continuo a ripetermi, cercando di calmare i battiti sempre più veloci del mio cuore. Ti prego, fai che non sappia nulla.

Con gli occhi illuminati da una scintilla di curiosità, lui piega appena il capo di lato, osservandomi in silenzio per qualche secondo. Poi, come se gli avessi appena raccontato una barzelletta, scoppia a ridere, tenendosi la pancia con le mani e lasciandomi basita e terrorizzata a guardarlo. Dopo una decina di secondi, mi ritrovo addirittura a pregare, dentro di me, affinché la smetta, affinché interrompa quella risata folle a cui riesco a rispondere soltanto rimanendo impalata dove sono, in silenzio, troppo pietrificata dalla paura per fare qualsiasi cosa.

"Sei brava, sai? Mi avevi quasi convinto. Forse è meglio se riproviamo: com'è morta mia sorella, Cara?" mi chiede duramente, abbandonando definitivamente il finto divertimento di poco prima.

"Smettila. Ormai è morta" mi lascio sfuggire con voce tremante, per poi crollare a terra quando un forte colpo mi prende la mascella, gemendo per il dolore e la sorpresa. Ancora stordita, mi tocco il punto colpito con la mano gelata e il dolore mi immobilizza e mi fa tremare come una scossa elettrica, mentre un altro lamento mi esce dalle labbra. Mi ha appena tirato un pugno. Cole, il tipico bravo ragazzo, con la testa sulle spalle e il sogno di diventare avvocato, mi ha appena tirato un pugno.

Appena prima che possa rendermi conto sul serio delle sue intenzioni, con una stretta salda lui mi afferra i capelli, strattonandomi la testa fino a che i miei occhi non incontrano i suoi, minacciosi e adirati. Sono terrorizzata a morte.

"E perché è morta?" mi sussurra a pochi centimetri dal viso. La cosa che più mi sorprende, che più mi disgusta, è che il suo tono è quello amichevole di qualche secondo fa.

Mi fischiano le orecchie e a questa distanza posso finalmente notare le profonde occhiaie scure che gli circondano gli occhi come trucco sbavato, mentre le pupille, dilatate e spaventose, corrono da una parte all'altra del mio viso, come se volesse gustarsi la mia condizione pietosa fino alla fine. Poi mi colpisce di nuovo, sul naso, stavolta. Me ne rendo conto soprattutto grazie al sangue che sento iniziare ad uscire, bagnandomi le labbra, poiché è come se il dolore si fosse esteso a tutto il viso. Questa volta il colpo è stato più forte, forse a causa della vicinanza o al fatto che nel mentre non ha smesso un solo secondo di tirare forte i miei capelli, tanto che sento la cute perdere sensibilità.

Con una mano cerco di fare forza sulla sua spalla, nella speranza, forse stupida, di spostarlo, mentre l'altra conficca le unghie nella carne delle stesse dita che ora mi bloccano la testa, cercando di fargli mollare la presa. Nel frattempo, lui continua a colpire sempre più forte, finché, all'improvviso, non mi molla velocemente i capelli, lasciandomi cadere pesantemente a terra. Prima che io riesca a rendermi conto di poter provare a scappare, mi sferra un forte calcio nello stomaco, che mi fa piegare. E così fa ogni singola volta che provo ad alzarmi, e così fa ogni singola volta che nota che il dolore inizia, anche se di poco, ad affievolirsi.

"Basta" sussurro, sperando all'ultimo che lui non mi senta, ma, vedendo la sua mascella irrigidirsi, immediatamente mi rendo conto di quanto chiara la mia preghiera gli sia arrivata all'orecchio.

Continua ad infierire sul mio corpo immobile senza il minimo di esitazione, sul torace, sul ventre, sulla schiena. E io sono rannicchiata a terra. Il dolore è dappertutto, perché non c'è parte del mio corpo che lui abbia risparmiato."Perché, Cara? Perché?" continua a chiedermi, ripetendo le stesse parole come se fosse una filastrocca, mentre io inizio a cadere in una specie di stato di trance.

"Mi dispiace" rispondo allora in un sussurro appena udibile a quell'ennesima domanda, con la voce rotta e tremante. "Mi dispiace tanto..."

Lui si ferma, finalmente. Non so dire se mi stia guardando o se se ne sia andato. So soltanto che non ho la forza di muovere la testa per controllare se la sua ombra troneggi ancora su di me. Tutto ciò su cui riesco a concentrarmi è il mio respiro affaticato, ormai più simile ad un rantolo, mentre cerco di ignorare le forti fitte che sento alle costole ogni volta che il mio petto si alza per inspirare.

"Sai una cosa? Non me ne faccio proprio un cazzo delle tue scuse" pronuncia lui, sputando ogni parola sul mio viso con disgusto.

Ed è il dolore che mi prende le braccia a farmi capire che ora mi sta trascinando.

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Capitolo 3
*** Capitolo tre - Salve me ***


"I'm scared of what's inside my head
What's inside my soul
I feel like I'm running
But getting nowhere
Fear is suffocating me
I can't breathe
I feel like I'm drowning
I'm sinking deeper

White light fades to red
As I enter the City of the Dead

Rex tremendae majestatis
Qui salvandos salvas Gratis
Salve me, Fons Pietatis
Salve me, Fons Pietatis"

City of The Dead - Eurielle
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Devo respirare.

Ho bisogno di respirare, adesso.

Non riesco a pensare ad altro; è come se ogni singola parte del mio corpo, ogni cellula, ogni organo, mi stessero urlando la stessa cosa all'unisono. Provo ancora a ribellarmi, cercando di tirare su la testa e liberarmi dalla grossa mano del ragazzo che mi stringe il retro del collo con violenza, cercando di tenermi ferma con la testa nell'acqua, ma questo non serve a molto se non a triplicare il suo divertimento o, magari, le sue imprecazioni.

Mi blocco, i polmoni ancora contratti nel tentativo di trattenere il più possibile l'aria precedentemente inspirata. Non riuscirò mai a liberarmi; è troppo forte, troppo grosso. E, in ogni caso, anche se ci riuscissi, lui non perderebbe certo tempo prima di ributtarmi la testa in quella che inizio a credere sarà la mia tomba, con ancora più forza e violenza di adesso. Che senso ha prolungare questa tortura?

E, mentre queste parole mi rimbombano nella mente, davanti ai miei occhi si fermano poche immagini, pochi ricordi sfocati. Vedo zia Viola, la sorella di mio padre, sorridermi mentre la me bambina le intreccia i capelli, con le piccole rughe che man mano le si formano ai lati degli occhi e i denti un po' ingialliti per colpa delle troppe tazze di caffè. Vedo i pomeriggi infantili passati con Mathilde a giocare sulla sua casa sull'albero, fingendo di essere delle principesse in un castello sulle nuvole. Vedo mio padre che mi sorride e mi asciuga le lacrime dopo essere caduta dalla bicicletta, la prima volta che provai ad andarci senza le rotelle. Vedo Haley che mi abbraccia, con la testa premuta sui miei seni e gli occhi chiusi. Vedo così tanti colori estranei a questa oscurità che finisco per domandarmi se mi trovo davvero qui e non in un sogno, un bellissimo e spaventoso sogno.

Continuo tenere lo sguardo puntato sul fondo del piccolo lago, fin troppo vicino al mio viso, mentre, ogni tanto, lascio uscire un po' della mia ultima aria dal naso tramite piccole bolle, che non perdono tempo a tornare in superficie quasi con scherno, con derisione. Intorno a me non vedo assolutamente nulla, a causa dell'acqua scura ed inquinata, tranne che qualche ciocca dei miei capelli, che mi accarezza il viso quasi impercettibilmente. Se mi concentro a sufficienza riesco anche a sentire la voce di Cole, attutita e quasi rimbombante, pur non riuscendo a comprendere il suo folle discorso con chiarezza, eccetto alcune parole confuse. Ma, a parte questo, nulla di più.

Poi, all'improvviso, succede. I miei polmoni, quasi presi da uno spasmo involontario, mi portano ad aprire la bocca in cerca d'aria, non trovando, però, quello che cercano. Al suo posto, una quantità d'acqua indefinita inizia ad invadermi il petto senza pietà, in una sensazione tanto orribile che non posso fare a meno di ricominciare ad agitarmi e ribellarmi, con ancora più forza di prima.

Immediatamente cerco di richiudere la bocca, impedendo all'acqua di entrare, ma i miei polmoni, traditori, non sono d'accordo, quasi non si rendessero conto che non c'è alcuna aria che si possa respirare qui sotto. Continuano testardi a contrarsi in cerca di ossigeno, portandomi a pochi passi da quella che, ne sono certa, sarà la mia morte. I miei occhi, prima aperti per il terrore, iniziano allora pian piano a chiudersi e il mio cervello a spegnersi, forse per sempre. Non avrei mai pensato che sarei morta in questo modo.

Quando gli occhi si chiudono, capisco, senza alcuna emozione in particolare oltre alla pura e semplice rassegnazione, che è finita, mentre la mano che prima mi stringeva il collo con forza ora sembra essere svanita, come una carezza. Mi ha lasciata. Devo essere già morta.

Ma poi le sento, altre due mani che mi afferrano per la vita, tirandomi su a fatica. Le sento, ma non le percepisco appieno, come un'eco ormai lontana, come da dietro una campana di vetro. Non riesco a pensare a nulla, mentre provo con le ultimissime forze ad estraniarmi da quei gesti così lontani, da quel tocco estraneo, consapevole che, se mi ha tirato fuori dall'acqua, l'ha fatto solo per il colpo finale, per un ultimo sadico divertimento.

E non respiro.

È strano non sentire i polmoni contrarsi ritmicamente al passaggio dell'aria, ormai totalmente pieni dell'acqua putrida del laghetto. È come se tutto ciò che sto provando ora fosse una voce fuori campo, mentre il corpo ha totalmente perso ogni sensibilità, lasciandosi andare nell'ultimo abbraccio fatale, il più vero, il meno dolce.

Poi, però, ecco altri rumori, una voce lontana, lontanissima, accompagnata da una ritmica pressione sul petto, e subito inizio a tossire convulsamente, senza riuscire a fermarmi, lasciando uscire tutta l'acqua e abbandonandomi in profondi respiri, mentre una mano va a stringere forte la gola per il bruciore.

Sono viva.

Immediatamente la stessa mano inizia a tastare il petto, come per assicurarsi che si stia davvero muovendo. È incredibile, una cosa che prima consideravo abituale, quasi banale, adesso mi sembra miracolosa.

Con il respiro ancora affannato, apro velocemente gli occhi, concentrandomi sul terreno di sabbia sporca e ciuffi d'erba bruciata proprio sotto di me, ora bagnato dal liquido che ho appena buttato fuori. Proprio ai lati della mia visuale, le mie braccia sono tese e le mani aperte sul suolo, mentre le dita iniziano a piegarsi, tastandolo e dando occasione al tatto di riacquistare nuovamente sensibilità. Non mi ero nemmeno accorta di essermi accovacciata.

Ruotando il viso verso destra, non posso fare a meno di notare gli alberi che, nonostante le tonalità aranciate delle foglie, non riescono ancora a perdere il loro aspetto quasi sinistro, aiutati dal buio della notte, arrampicandosi gli uni sugli altri con agilità. Di fianco a quest'immagine, una figura cattura la mia attenzione. D'istinto indietreggio verso l'acqua, con il cuore che pompa fin troppo velocemente, socchiudendo gli occhi per cercare di distinguere i tratti del suo viso e rendendomi conto di non aver mai visto quella persona.

È un ragazzo. Deve avere all'incirca una ventina d'anni, gli occhi grandi, anche se non saprei dire di che colore, e i capelli spettinati e scuri. Mi guarda con una luce che non riesco a decifrare negli occhi e le mani tese verso di me, che non osano, tuttavia, avvicinarsi.

"Cara, stai bene?"

A quelle parole, sussulto. La sua voce è dolce e roca, come se lui avesse passato gli anni ad uccidere il suo respiro con delle sigarette al lampone, e accarezza il mio nome con rassicurazione, quasi come se fosse sempre stato lì, sulle sue labbra. Tuttavia, quando prova ad avvicinarsi, i miei occhi si spalancano nuovamente, mentre velocissimamente indietreggio strisciando, stringendomi le braccia al petto e ignorando il dolore, come se questo gesto potesse proteggermi, con la consapevolezza che, se solo fossi una persona di buon senso, sarei già scappata.

"Non ti avvicinare!" urla allora quella che riconosco come la mia voce, ma molto più stridula e gracchiante del normale.

Lentamente e con gli occhi fissi nei miei, anche lui fa lo stesso, ponendo comunque le mani davanti a sé, come per discolparsi. "Bel ringraziamento per averti salvata da morte certa."

Alla sua affermazione, aggrotto la fronte, socchiudendo la bocca. Lo vedo subito mostrare un leggero sorriso compiaciuto, mentre apre le braccia, invitandomi a guardarlo. Come spinta da chi sa quale forza sovrannaturale, lascio vagare il mio sguardo sulla sua figura, senza lasciarmi indietro alcun dettaglio, dal respiro ansimante ai vestiti bagnati a chiazze, mentre lo stesso piccolo ghigno aleggia ancora sulla sua bocca.

"Dov'è?" chiedo allora con rabbia e paura, due sentimenti che mi destabilizzano al punto di spingermi ad allontanarmi ancora un po'. "Lui... Dove... Non capisco."

"Scappato" risponde semplicemente e questo mi basta. Mi basterebbe da qui fino alla fine dei miei giorni.

Abbasso lo sguardo sulle mie scarpe fradice, forse per l'imbarazzo, forse per la gratitudine, quando finalmente mi accorgo di essere completamente bagnata, esposta al freddo clima autunnale. Il mio labbro inferiore trema leggermente, mentre il respiro si concretizza in piccoli sbuffi che attraversano i miei denti e colorano l'aria di bianco. I capelli, caduti davanti al viso e ancora gocciolanti, mi si attaccano alla pelle come freddi artigli di ghiaccio, mentre i vestiti mi appesantiscono e causano brividi continui sulla pelle.

"Come sai il mio nome?" chiedo con la voce ancora strascicata, senza il coraggio di guardarlo negli occhi, benché percepisca chiaramente che il suo sguardo non ha alcuna intenzione di spostarsi dal mio viso, che, rivolto a terra, è ormai quasi completamente coperto dai capelli scuri.

Non so perché la mia mente mi abbia spinto a chiedere un dettaglio del genere, così insignificante e inutile al momento che non me ne sarei nemmeno dovuta accorgere. Lui, però, senza tanti giri di parole, fa un cenno verso la mia borsa a tracolla abbandonata per terra, dove poco prima Cole mi aveva pestata, sulla quale una piccola targhetta di stoffa ricamata mostra le quattro lettere del mio nome in un blu scuro un po' sfilacciato. E allora annuisco, stringendo le mani in due pugni e cercando di fermare i tremori continui.

"Tieni" dice allora, avvicinandosi piano e allungandomi una giacca di jeans leggera, anche fin troppo per l'inverno ormai imminente, ma perfettamente asciutta, che non avevo nemmeno notato. "Non è molto, ma almeno non morirai assiderata."

"Devo chiamare mio padre. Voglio tornare a casa" sussurro con sguardo vacuo e basso, ignorando la sua proposta. Non voglio la sua giacca, non voglio il suo aiuto. Voglio mio padre, voglio casa mia. Voglio cancellare il suono dei miei lamenti, la sensazione del freddo dell'aria in contrasto con il sangue bollente, il terrore che mi ha attanagliato lo stomaco e che ancora non mi abbandona. Voglio solo sdraiarmi sul mio letto e dormire, dormire per sempre.

Quando avverto la sua presenza, in ginocchio proprio davanti a me, e le sue mani, che, quasi a tradimento, sistemano la stoffa sulle mie spalle ingobbite, mi irrigidisco, tanto che neanche i tremori continui riescono a sbloccarmi. La vicinanza mi permette di notare dei dettagli sul suo viso che prima non potevo vedere, come il colore chiaro delle sue pupille, il naso piccolo e un po' all'insù e gli zigomi resi sporgenti dalle guance leggermente scavate di chi non mangia abbastanza. Anche in questa posizione riesce a superarmi di parecchi centimetri.

"Non sono io il nemico" dice a quel punto, catturando i miei occhi. Sento ancora il peso delle sue mani sulle spalle, come se mi stessero spingendo verso il centro della terra.

"Ma neanche un amico."

E questa è l'ultima frase che pronuncio. I restanti minuti sono una lotta disperata contro i capogiri e il dolore, che sembra essersi irradiato ben oltre ai punti colpiti, e, quando arrivano la polizia e l'ambulanza, io ho ormai quasi perso la sensibilità agli arti; nonostante quel ragazzo mi abbia offerto la sua giacca, infatti, non posso dire che questa abbia migliorato la situazione più di tanto. Mentre vengo messa sulla barella, faccio appena in tempo a vedere i poliziotti dirigersi verso di lui, probabilmente per fargli qualche domanda, come il perché si trovasse lì e un'altra sfilza di cose che forse avrei dovuto chiedergli anche io prima, se solo avessi avuto la sanità mentale per farlo.

Le porte dell'ambulanza sono aperte. Ogni tanto noto uno dei paramedici o dei poliziotti lanciarmi qualche sguardo, troppo fugace affinché io riesca a notare cosa vi si nasconda dentro, ma abbastanza frequentemente da sbattermi in faccia il ruolo che sto interpretando in questa specie di Cluedo malato, un vestito fin troppo appariscente che in questo momento vorrei soltanto strapparmi via di dosso.

Quando l'ambulanza si lancia a massima velocità verso l'ospedale, è il rumore delle sirene che mi riporta alla realtà, anche se solo per un secondo; appena mi rendo pienamente conto di dove mi trovo, di dove sto andando, infatti, semplicemente scollego tutto e mi chiudo in me stessa, contando a mente il numero di volte che, anche solo per pochi secondi, ci fermiamo.

È alla seconda che mi addormento.

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro - Fortuna vitrea est ***


"I can't save us, my Atlantis, we fall
We built this town on shaky ground
I can't save us, my Atlantis, oh no
We built it up to pull it down"

Atlantis - Seafret
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Solitamente nei film durante i funerali piove sempre e le persone si radunano intorno alla tomba con i loro grandi ombrelli neri e gli occhi che dicono "Ho conosciuto questa persona, l'ho amata, ma questo non è bastato a tenerla in vita". Solitamente è così, ma questa è la realtà. Questo non è un film e il cielo non piangerà, oggi. Questo non è un film e tutto ciò a cui riesco a pensare è "Ho conosciuto questa persona, l'ho amata e forse è stato questo a trascinarla sotto terra".

Quando la gente comincia a dileguarsi, capisco che la cerimonia è terminata. Posso tornare a casa. Mi avvicino alla tomba e gli sguardi di tutti si posano automaticamente su di me, mentre i loro pensieri mi pesano su ogni arto, su ogni cellula, in ogni goccia di sudore che mi cola sulla fronte. Piccole pietre appuntite mi si conficcano nelle ginocchia quando mi inginocchio sul bordo della tomba per sistemare le piccole margherite che ho raccolto lì attorno. Le poso piano, una per volta. Non c'è bisogno di fare in fretta.

Distanzio i fiori, ma non mi piacciono gli spazi vuoti tra uno e l'altro, così cerco di riavvicinarli. Per un momento penso di allontanarmi per coglierne altri, ma cambio subito idea. Ho paura che, se mi allontanassi, anche quest'ultima sfumatura che mi è rimasta di lei svanisca per sempre.

Il sole sta tramontando proprio di fronte a me, illuminando il retro della lapide e lasciando che il suo sorriso nella foto si oscuri leggermente. L'erba ne accoglie i raggi, come a cercare di assorbire più colore possibile per prepararsi all'oscurità imminente, mentre il silenzio è interrotto ogni tanto dal sussurro di una preghiera o dal pianto di quello che non sarà mai veramente un ultimo addio. Nonostante la serenità, riesco a respirare la disperazione ovunque mi giri, una morte smussata agli angoli e addolcita dai sorrisi sbiaditi di amori che hanno ormai perso il loro calore.

E non mi alzo quando le ultime persone presenti si allontanano, lasciando sulla tomba qualche fiore. Non mi alzo, neanche quando le ginocchia iniziano a farmi male, neanche quando l'aria comincia a farsi pungente, non mi interessa.

Poi, all'improvviso, l'ambiente inizia a sfumare, come se questa strana fotografia fosse stata immersa di colpo in un forte acido. I colori colano e scivolano via come da un dipinto ad acquerelli e tutto si fa così confuso che a malapena distinguo i contorni di ciò che ho intorno. Lo scenario sta cambiando. Intorno a me, l'azzurro del cielo lascia il posto al colore più scuro di quattro pareti, che mi chiudono all'interno di uno spazio che ho già avuto modo di conoscere. Sono stesa su un letto a due piazze, con le lenzuola colorate e decorate con ogni tipo di fiore di cui non conosco il nome, ma non sono affatto sola; davanti a me, infatti, qualcuno dorme immobile.

Haley.

Vorrei avere abbastanza voce per pronunciare il suo nome ad alta voce, ma non me la sento e lei continua a dormire. Mi dà la schiena e nel buio fatico quasi a distinguere il punto esatto in cui i suoi capelli si confondono con la federa del cuscino. Ho le dita fredde, temo che, se ora la accarezzassi, lei si sveglierebbe, quindi non mi muovo. Nel frattempo, nella mia testa non ho ancora smesso di pronunciare il suo nome, assaporandone parzialmente il suono e desiderando sempre di più di lasciarlo scontrarsi fra i miei denti, cosa che, di conseguenza, mi rende insoddisfatta.

Mi alzo e rabbrividisco quando i miei piedi nudi si scontrano con il pavimento freddo, mentre con lo sguardo cerco la felpa grigia che ricordo di essermi tolta la sera prima. Il parquet è nascosto sotto numerosi resti di vestiti abbandonati disordinatamente a terra, mentre le superfici della scrivania, del comodino e della libreria sono ricoperte da libri di ogni tipo, sia chiusi che aperti, come se il desiderio di consultare il loro sapere fosse troppo grande per essere soppresso. Una luce soffusa proviene dall'abat-jour vicino alla radiosveglia ed illumina appena il viso dormiente della ragazza al mio fianco, coperto parzialmente dai capelli scuri; di esso distinguo a malapena le labbra piene e la linea scura delle ciglia abbassate, che le sfiorano delicatamente le guance.

Poi, così improvviso da farmi sussultare, un tocco mi distrae, debole come una carezza, ma senza lo stesso calore. Lo sento, ma non lo percepisco appieno, come se i miei sensi fossero imprigionati all'interno di una palla di vetro sottile ed infrangibile. Ed ecco che un respiro mi accarezza piano l'orecchio, con una delicatezza che però mi sembra estranea.

"Che rumore fa la verità?" sento pronunciare da quel fiato caldo, che ancora mi colpisce nello stesso punto insensibile.

Un movimento troppo veloce mi stordisce e a malapena mi rendo conto di due mani che mi afferrano gli avambracci con forza, perché in un battito di ciglia mi ritrovo di fronte ad un viso fin troppo familiare. La testa gira veloce quando ne riconosco i tratti, resi ancora più spaventosi dalla luce soffusa che rischiara a fatica la stanza.

"Cole..." sussurro appena, con la bocca che si apre con difficoltà, come se la lingua e il palato fossero incollati fra di loro. Lui sorride al mio richiamo involontario, come se il solo fatto di sentirmi pronunciare il suo nome lo compiacesse nel profondo, mentre nei suoi occhi una piccola scintilla di follia divampa pian piano. Poi una spinta, forte ed indolore, mi sorprende nel momento esatto in cui la mia schiena tocca il duro materasso, tanto che il fiato si mozza per un secondo. Stordita, guardo il soffitto per un po', aspettando un colpo di grazia che non arriva mai.

Allora mi giro.

Haley riposa immobile, come se quel breve scontro non avesse minimamente intaccato il suo sonno. Con mano leggera, affondo le dita fra i suoi capelli scuri che si aprono a ventaglio davanti al mio viso, facendole scorrere avanti e indietro in una sorta di carezza incontrollata, mentre distrattamente lascio vagare il mio sguardo sulla sua figura, dalla linea morbida dei suoi fianchi fino alle gambe piegate. Profuma di miele e vaniglia, un odore leggero e quasi impercettibile che mi ha sempre dato alla testa.

Un oggetto estraneo, tuttavia, raggiunge il mio palmo, interrompendo lo scorrere del mio sguardo e delle mie fantasie; così, con la fronte aggrottata, avvicino piano la mano al viso, ignorando tutto il resto. Fra l'indice e il medio, un piccolo fiore con i petali piegati, forse a causa della mia stretta, fa la sua apparizione, facendomi spalancare gli occhi. È una margherita.
Sbatto le palpebre, veloci quanto il battito d'ali di una farfalla, e solo ora che riesco a mettere a fuoco la realtà che mi circonda mi rendo conto che Haley, immobile e rannicchiata su se stessa sulle lenzuola spiegazzate, non sta affatto dormendo. Non sta dormendo perché, semplicemente, non sta neanche respirando.

Una realtà di cui non avevo tenuto conto mi raggiunge, spaventosa come un fulmine troppo vicino, ma senza che il cielo possa avvisarmi prima del suo arrivo. È un silenzio che mi prende all'improvviso nel rumore troppo forte del sangue che mi scorre velocemente nelle vene, delle particelle invisibili che si spostano nell'aria, del respiro inesistente nei suoi polmoni vuoti. Ed è assordante.

"Che rumore fa la verità?"

 

*****

 

Mi fa male la testa. In realtà, non è la sola cosa che mi fa male, ma la velocità con cui questo martellio insopportabile colpisce il mio cervello, proprio dietro gli occhi, mi fa quasi dimenticare tutto il resto.

Aggrotto la fronte, o almeno ci provo. Sento la luce forte raggiungermi anche attraverso le palpebre abbassate e dei rumori indistinti e ovattati penetrare oltre la mia barriera di incoscienza. Acuisco i miei sensi quanto più possibile, cercando di capire dove mi trovo, ma i pochi rumori che sento sono troppo distanti per essere in qualche modo riconosciuti, o forse sono io che sono ancora troppo stordita per comprenderli.

La forza che devo impiegare per riuscire ad aprire gli occhi è sfiancante, ma è come se, in qualche modo, sentissi di doverlo fare, in una sorta di sveglia silenziosa che mi ricorda che devo alzarmi, che sono in ritardo. Provando a muovere le dita, sento l'intorpidimento che mi raggiunge gli arti con un formicolio, mentre la luce del mondo reale mi fa bruciare gli occhi fra le palpebre leggermente appiccicose a causa del sonno appena abbandonato.

"Tesoro..." sento all'improvviso pronunciare, quasi in un sospiro trattenuto. Quel suono, però, non fa altro che aumentare il ritmo dei rimbombi nella mia testa, facendo piegare la mia bocca in una specie di broncio.

Lentamente, giro la mia testa verso la fonte di quella voce, mentre la vista cerca ancora di mettere a fuoco ciò che mi circonda, ma tutto ciò che riesco a distinguere è il biancore di un lenzuolo, di un muro e di un viso dai tratti familiari. È quasi ironico il fatto che, in questo malessere, io mi trovi circondata proprio dal colore che ho sempre odiato di più. Una carezza fredda mi sfiora pianissimo la guancia, dandomi una sorta di sollievo momentaneo; appena mi rendo pienamente conto di quel tocco, però, la velocità con cui provo a ritrarmi mi strappa un gemito di puro dolore.

"Scusa" dice allora quella stessa persona, con una nota realmente mortificata nella voce. "Non volevo spaventarti."

Il mio sguardo è ancora rivolto verso di lui e, pian piano, tutto inizia a farsi più nitido, dalla forma un po' allungata degli occhi, così simili ai miei, alla barba permanentemente sfatta. Gli occhiali gli sono caduti sulla punta del naso, come se, addormentandosi, si fosse dimenticato di toglierli, mentre la bocca è stretta in una linea sottile, trattenendo forse troppe parole che vorrebbe dirmi.

"Papà" pronuncio appena con voce roca e strascicata, per poi provare ad alzarmi con il busto dal letto.

Una sua mano mi afferra con delicatezza il braccio, spingendomi di nuovo nella precedente posizione. "Non sforzarti, stai giù" dice. "Non riesci mai a stare ferma. È così da quando eri piccola."

"Ti tengo in forma" dico allora io, ridacchiando appena e ignorando a fatica il dolore che mi prende le costole.

"In forma? È un miracolo se per colpa tua non mi sono già preso un infarto."

Nonostante la sua risata, nulla mi distrae dalla visione dei suoi occhi, che, pian piano, si fanno lucidi, forse impregnati dalle mille immagini che, se fosse andata male, temeva di perdere per sempre. È una sorta di sollievo malinconico, una sensazione che non capisco appieno, ma che risveglia fra i miei ricordi una serie di immagini che speravo, illudendomi, di aver già rimosso. Le ripercorro velocemente, aggrappandomi al dolore e alla paura provati, le uniche emozioni che riescono a collegarmi davvero alla realtà di questo momento. Perché certe cose marchiano, anche se non le vediamo, anche se non vediamo la loro mano entrarci dentro e spegnerci una sigaretta sul cuore. E allora un assaggio non ci basta, abbiamo bisogno di averne sempre di più, in quantità sempre più grande, finché la sensazione data dall'ustione non diventa quanto di più normale possiamo avere. E questa, per me, è ormai normalità.

È il leggero cigolio della porta che si apre a distrarmi, seguito subito dopo dalla voce stridula di quella che capisco essere la dottoressa, che, vedendomi sveglia, sorride appena. "Finalmente ti sei svegliata."

Pronuncia queste parole con una delicatezza fin troppo controllata, quasi come se io fossi un gattino ferito e lei avesse paura di spaventarmi. Immagino che sia proprio questa l'impressione che devo dare alle persone in questo momento.

"Come ti senti?" mi chiede, raggiungendo i piedi del mio letto.

Come dovrei sentirmi? Sto cadendo a pezzi.

"Un po' dolorante" rispondo però, cercando anche di farle un mezzo sorriso. Più che dolorante, mi sento completamente rotta.

Lei si avvicina ancora, sorridendo sempre di più man mano che avanza verso di me. Come se ci fosse un motivo per cui sorridere. Tira velocemente fuori una pila dal taschino del suo camice, liberandomi per mezzo secondo dal peso del suo sguardo fisso sul mio viso. È quasi inquietante. Faccio appena in tempo a sperare che non mi punti quella luce negli occhi che il clic della pila mi coglie di sorpresa. D'istinto, socchiudo gli occhi, ancora poco abituati alla luminosità, ma alle sue parole di ammonimento li apro meglio, sperando che questa specie di tortura finisca prima che inizino a lacrimare.

"Segui la luce" mi dice, continuando a spostare la pila da una parte all'altra. Finita quest'operazione, torna dritta e sorridente, lasciandomi con la vista appannata a sbattere le palpebre come un'idiota.

"Rispondi bene agli stimoli, il che è un bene. Sei fortunata: il naso non è rotto e le costole sono solo incrinate, ma, purtroppo, non possiamo fare molto. Il labbro superiore, invece, è spaccato e gonfio e hai un'emorragia sottocongiuntivale all'occhio destro, anche se non dovrebbe crearti problemi alla vista o di dolore; passerà da sola nel giro di un paio di settimane."

Sei fortunata. Fortunata ad essere viva, fortunata ad essere stata solo picchiata e quasi affogata. Eppure, nonostante io stessa capisca che sarebbe potuta finire molto peggio, faccio comunque fatica a capire cosa esattamente, in tutta questa situazione, mi renda fortunata. Il fatto che il mio naso non sia rotto? Che Cole non sia riuscito ad ammazzarmi? Che non dovrò passare più altro tempo fra i muri deprimenti di questa stanza, stando relativamente e fortunatamente bene? Perché, sinceramente, non trovo che ci sia nulla, in questo momento, che sia dalla mia parte, figuriamoci questa controversa fortuna che lei ha appena chiamato in causa.

Rimango in silenzio, la testa persa in pensieri malsani e fin troppo duri, recependo a malapena le parole che escono dalla bocca di mio padre e della donna ancora di fronte a me. In questo momento più che mai vorrei essere sola. Soltanto me e i miei pensieri, in una realtà lontana dalla notte appena trascorsa, senza le carezze inusuali e le parole dolci di una versione di mio papà troppo lontana da quella reale, senza la compassione e le vuote parole di conforto di persone che, se tutto questo non fosse successo, probabilmente non avrei mai conosciuto.
Sento la voce di mio padre raggiungermi quando la porta si richiude dietro la figura della dottoressa, ma le parole arrivano confuse e distorte. Incomprensibili.

"Cosa?" chiedo.

"Ho detto che ti ho portato dei vestiti e di cambiarti, così possiamo andarcene. Io, nel frattempo, vado a prenderti qualcosa da mangiare: non tocchi cibo da quasi due giorni."

I suoi occhi non hanno ancora perso quella dolcezza e delicatezza così strane, così lontane dalla persona che ho ormai imparato a conoscere. Annuisco appena, indirizzando lo sguardo verso gli abiti che ha appoggiato sul letto, senza metterli a fuoco, finché il rumore della porta che si chiude non riempie l'ambiente intorno a me, facendomi sospirare.

Scosto le lenzuola bianche dal mio corpo e, in questo semplice gesto, sono numerosi i lividi scuri che mi saltano agli occhi come ammaccature su una mela, sia sulle braccia che sulle gambe ormai scoperte. Rabbrividisco non appena il calore della coperta mi abbandona e, stringendo i denti, provo ad alzarmi; un fortissimo dolore al torace, tuttavia, mi colpisce nel solo gesto di sollevare il busto, mentre le gambe urlano pietà quando mi ritrovo finalmente in piedi.

Mi vesto molto lentamente, emettendo delle smorfie o dei versi di dolore ogni tanto. Non si può dire che mio padre abbia prestato particolare attenzione agli abiti da prendere, anzi, direi che non ne ha nemmeno controllato le condizioni; mi ritrovo costretta ad indossare, infatti, un paio di larghi pantaloni della tuta sbiaditi che a volte utilizzo per dormire e una camicia a quadri vecchia e sfilacciata, con due bottoni saltati in prossimità dell'ombelico, ma abbastanza lunga da coprire un piccolo buco che si era aperto, tempo fa, proprio sul retro dei pantaloni. Il risultato finale è totalmente disastroso, tanto che, se io stessa mi vedessi per strada, probabilmente mi confonderei per una senzatetto.

"Mi piace il tuo look. Decisamente provocante."

Al suono di questa voce, immediatamente mi giro, non capendo perché io non abbia sentito il rumore della porta che si apriva, né i passi dell'intruso. Sulla sedia su cui prima stava mio padre, un ragazzo è seduto comodamente, con le mani ossute abbandonate sul ventre e le gambe allungate, come se si sentisse completamente a suo agio in questa situazione. I capelli, scuri e leggermente spettinati come se si fosse appena svegliato, faticano a coprire gli occhi, attraversati momentaneamente da un bagliore a malapena visibile, mentre un sorrisetto appena accennato gli abbellisce il viso.

"Chi ti ha fatto entrare?" gli chiedo sorpresa ad alta voce, provvedendo il più velocemente possibile e chiudere gli ultimi bottoni della camicia.

Lui alza le spalle. "Nessuno. Mi piace prendermi le libertà che voglio."

Lo fisso per infiniti secondi con gli occhi spalancati, domandandomi da quanto sia qui e, soprattutto, cosa esattamente abbia visto di quello spettacolo di spogliarello involontario. Non che solitamente sia dotata di molto pudore, ma il fatto è, più che altro, che mai come ora mi sono vergognata del mio corpo, la pelle maculata come quella di un dalmata.

"Oh, non preoccuparti" dice, come se mi avesse letto nel pensiero. "Non sono qui da molto. Avevi già la camicia quando sono entrato: una fortuna per te, ma una sfortuna per me."

"Che ci fai qui?" gli chiedo allora senza troppi giri di parole, cercando di ignorare il rossore che, lentamente, mi sta prendendo le guance.

Ridacchia appena per il mio tono brusco, cosa che fa crescere ulteriormente la mia diffidenza nei suoi confronti: sotto quegli occhi mi sento come una rara specie animale dietro una gabbia dello zoo, di fronte a decine di spettatori muniti di macchine fotografiche, pronte ad accecarmi con i loro flash improvvisi.

"Dato che sono stato io a salvarti la vita, volevo vedere con i miei occhi come stavi. Le persone la chiamano cortesia, di solito." risponde con tono tranquillo, guardandosi intorno con aria curiosa, come se non avesse mai visto una stanza d'ospedale.

"Oh" mi limito a pronunciare con un sussulto incontrollato, mentre il ricordo della sua parte in questa specie di spettacolo malato inizia a farsi strada dentro di me in modo sempre più prepotente, sgomitando ogni altro pensiero. "Io... Beh, grazie."

"Beh, grazie? Sul serio?" mi riprende, scimmiottando, insieme alla mia voce, anche altri versetti precedentemente usciti dalla mia bocca e facendomi immediatamente sbuffare.

"TI ringrazio per quello che hai fatto. Infinitamente. Mi hai salvato da morte certa" riprendo allora a parlare stizzita, ascoltando con attenzione la mia voce monocorde e controllata, mentre i suoi occhi non smettono un secondo di studiarmi con interesse. "Ma non ho bisogno della tua pietà, quindi preferirei che entrambi tornassimo alle nostre vite. Grazie per la visita, grazie per l'interessamento, ma ora vorrei che tu te ne andassi, per favore."

"Devi essere incredibilmente forte o incredibilmente ingenua per pensare che, dopo tutto questo, la tua vita rimarrà la stessa."

Questa volta, il suo volto ha totalmente perso l'ombra di quel mezzo sorriso che prima lo colorava, seppur di poco. Ora i suoi occhi sono serissimi e, nonostante il colore chiaro, così scuri da sembrare neri.

"Non ho bisogno di uno psicologo, né tantomeno dei pareri non richiesti di una persona che non conosco e che spera di riuscire a psicoanalizzarmi" rispondo con falsa indifferenza. Eppure, nonostante la mia voce ostenti sicurezza, dentro di me vorrei urlare, piangere, fare tutte quelle cose che qualsiasi persona normale, nella mia situazione, avrebbe già dovuto fare.

La mia risposta sembra suscitare il suo divertimento, lasciandomi stranita per la velocità dei suoi cambi d'umore così frequenti. Si alza in piedi con grazia, la testa alta e fiera come quella di un leone, e, lentamente, si dirige verso di me, bloccandosi a circa un metro di distanza. Ora che è più vicino, posso notare quanto la sua altezza mi sovrasti e, soprattutto, quanto sia magro: le braccia, lasciate scoperte dalle maniche corte, sono sottili, con le vene in rilievo che le percorrono fino alle mani grandi, mentre le gambe sono troppo magre per i suoi jeans scuri e le guance, leggermente scavate, creano delle ombre leggere sotto i suoi zigomi.

"Sai, c'è un dubbio che mi stuzzica il cervello da qualche ora" inizia a parlare, socchiudendo appena gli occhi chiari. "Insomma, perché una ragazza come te avrebbe dovuto trovarsi in un parco del genere di notte, se non per seguire una richiesta? È improbabile, dato che vi eravate abbastanza inoltrati, che lui ti abbia trascinata di peso e, anche se ti avesse aggredita lì, questo non spiega il perché ti ci trovassi."

Da questa distanza, posso finalmente definire il colore dei suoi occhi: una tonalità che varia fra l'azzurro e il verde acqua e che mai ho visto in nessun'altro. Un colore tanto bello quanto inquietante.

"Quindi ecco la domanda: tu lo conoscevi" termina, appoggiandosi al letto dietro di sé e incrociando le braccia al petto. Nonostante l'abbia presentata come una domanda, il suo tono è tutt'altro che interrogativo, come se una mia risposta affermativa fosse solo la prova del nove per confermare le sue sicurezze.

Sto perdendo la calma, me ne rendo conto perfettamente. Il nervosismo sta prendendo il controllo dei miei pensieri, mentre i miei gesti sono soffocati dalla rabbia, rigidi e veloci. Nonostante questo, però, lui sorride fastidiosamente, come se io fossi il suo spettacolino preferito, un burattino che si sta esibendo esclusivamente per il suo divertimento.

"E tu? Non c'è nessuna ragione che giustifichi la tua presenza lì, in quel momento. Proprio come ti sei premurosamente sentito in dovere di puntualizzare, ci eravamo inoltrati troppo ed è improbabile che tu mi abbia sentito urlare dalla strada."

Lui butta fuori il respiro velocemente in quella che capisco essere una piccola risata, anche se non riesco a dire se la situazione lo diverta sul serio o se stia solo ostentando sicurezza. "Molto furba, ma non si risponde a una domanda con un'altra domanda, è maleducazione" se ne esce allora, inclinando la testa da un lato come un cane. Sì, proprio come un fottuto cane che non capisce.

"Perché, entrare in una stanza senza bussare mentre una ragazza si sta cambiando e assillarla con domande inopportune e fastidiose non equivale, nel tuo vocabolario, a maleducazione?"

Mentre pronuncio queste parole, mi avvicino inconsapevolmente con passi piccoli e lenti, ignorando il dolore alle gambe, che ancora mi sorprende come se i pugni li stessi ricevendo ora, e alzando la testa per riuscire a guardarlo negli occhi e dimostrargli che, nonostante tutto quello che è successo, non mi intimorisce affatto. Lui, man mano che io avanzo, si allontana sempre di più, indietreggiando verso la porta a ritmo dei miei passi. Non riesco leggere alcuna emozione sul suo viso oltre a quella maschera di indifferenza, ma la sua ritirata mi fa capire una cosa in più su di lui: non ama la troppa vicinanza, anche se non so se sia la mia in particolare ad infastidirlo o se sia un rifiuto che riguardi in generale ogni persona.

"Sai, Cara non ti si addice come nome. Ti starebbe meglio, non so, un nome tipo Cass" pronuncia, continuando a battere in ritirata verso la porta. "Cara è una ragazza tranquilla, che fa danza classica e suona il pianoforte. Cass si fa quasi ammazzare in un parco per motivi di vendetta personale."

Mi blocco. Già la sua precedente affermazione aveva fatto annidare in me diversi dubbi, ma ora capisco che le alternative possono essere soltanto due: o è incredibilmente intelligente o sa qualcosa che non dovrebbe sapere. E, per quanto mi infastidisca anche solo ipotizzarlo, l'espressione compiaciuta che gli si dipinge sul viso in risposta al mio stupore mi rende più facile pensare che sia la prima. Inoltre, io non ricordo assolutamente di aver mai conosciuto o anche solo visto questo ragazzo, quindi non avrebbe senso pensare che sappia. L'unica cosa che non riesco proprio a capire, però, è il motivo di questo suo fastidioso interessamento nei miei confronti.

Prima che io possa anche solo chiedergli spiegazioni, però, la porta si apre proprio dietro di lui, che si scosta velocemente per far entrare mio padre. Quest'ultimo indirizza immediatamente il suo sguardo verso il ragazzo, ma, al contrario di quanto pensassi e forse sperassi, non con diffidenza o dubbio; appena i loro occhi si incontrano, infatti, un sorriso di gratitudine nasce in modo spontaneo sul viso dell'uomo che mi ha cresciuta, lasciandomi basita: deve esserselo lavorato per bene prima che mi svegliassi, raccontandogli del suo eroico gesto nei miei confronti.

"Andiamo, Cara, dobbiamo andare alla stazione di polizia. Mangerai il tuo panino in macchina."

Annuisco con veemenza, seguendolo fuori da quella stanza che spero di non rivedere mai più, oltre questi corridoi così soffocanti, al di là di questo insopportabile odore di disinfettante, così forte che sembra che i muri ne siano impregnati. E, soprattutto, lontano dalle domande incomprensibili di quel ragazzo così strano, di cui mi rendo conto solo ora di non conoscere nemmeno il nome.

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque - Omnia cum tempore ***


"I knock the ice from my bones
Try not to feel the cold
Caught in the thought of that time
When everything was fine, everything was mine
Everything was fine, everything was mine

All the king's horses and all the king's men
Couldn't put me back together again
All the king's horses and all the king's men
Couldn't put me back together again"

All The King's Horses - Karmina
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Quando arriviamo alla stazione di polizia, mi rendo conto di essere fin troppo intorpidita a causa del Demerol per poter essere considerata totalmente sveglia. Lancio un'ultima occhiata a mio padre, che, con le braccia incrociate rigidamente al petto e l'espressione incerta, si sta probabilmente chiedendo se abbia fatto bene a sottostare alla mia richiesta di non entrare, di aspettarmi fuori. Credo che pensi che sia stato più che altro un momentaneo bisogno di indipendenza (d'altronde, ormai ho diciotto anni) a farmi prendere una decisione simile, o un astio nei suoi confronti che, anche in una simile situazione, continua a cercare di allontanarlo, quindi ha semplicemente accettato la mia decisione a testa bassa.

Non è mai stato quel tipo di persona che dà troppa importanza ai pensieri e ai sentimenti degli altri, se non presentano analogie con i suoi: diciamo che, secondo lui, se una volta le mie azioni erano giustificate dall'adolescenza, ora che sono cresciuta e mi ritrovo sulla soglia dell'età adulta, queste possono soltanto essere generate o da un comprensibile bisogno di allontanarmi da lui e dalla vita famigliare o dal mio malanimo. Ma, per quanto io abbia realmente bisogno di staccarmi da lui, posso dire con certezza che la mia richiesta non sia nata da questo. Non avrebbe senso. E, in realtà, non sono affatto sicura di poter capire io stessa i ragionamenti che mi stanno vorticando in testa come un tornado. So solo che, se lui entrasse, diventerebbe tutto troppo reale per poter essere sopportato.

Dopo aver seguito gli agenti oltre la porta, incontro un poliziotto in borghese del reparto investigativo, con i capelli castani unti e la tipica pancetta da alcolizzato con una moglie troppo stanca dalla propria vita per riprenderlo. O, in alternativa, addirittura senza. Credo che il suo turno stesse per finire, perché, per il tempo in cui rimaniamo insieme, lui sbuffa così spesso che, se gli chiedessi di lasciarmi da sola e prendersi una pausa-caffè, penso che lo farebbe senza porsi troppi problemi riguardanti le sue mansioni obbligatorie.

Mi porta a farmi scattare una serie di fotografie, quasi per il puro gusto sadico di sbattermi in faccia l'aspetto terribile che devo avere in questo momento, in un mix di vestiti sgualciti, viso pesto e andamento zoppicante, con un pizzico di Demerol per completare il tutto con stile. Le prime pose sembrano andare a catturare ogni singolo livido e graffio, che prima avevo cercato, in qualche modo, di nascondere, mentre l'ultima, in piedi con il numero identificativo, mi fa quasi pensare che, in realtà, tutto questo non sia altro che uno di quei film polizieschi che mi annoiano da morire. Posso solo immaginare quanto debba essere importante la cosmesi di un tentato omicidio per dimostrare la tesi davanti al giudice, e sicuramente il mio abbigliamento aiuta ad avvalere la tesi che mi abbiano malmenata.

Dopo quest'operazione, mi affida al detective Doyle, che, nonostante la sua stazza e il suo sguardo corrucciato, incute ben poca paura, forse a causa del suo modo quasi maniacale di strofinarsi le mani sudate e dei pochissimi capelli spettinati come una vecchia spazzola usata. Mi porta in quella che capisco essere la stanza degli interrogatori, dalla pianta quadrata e i muri bianchi rivestiti da uno strato insonorizzante, deprimenti quasi quanto quelli dell'ospedale, per raccogliere la mia dichiarazione. La stanchezza fisica, però, che fino a questo momento sono riuscita a controllare abbastanza abilmente, inizia a darmi una sensazione agrodolce di intorpidimento alle gambe, rendendo difficile anche solo la semplice operazione di tenere gli occhi aperti. Non sono affatto lucida, me ne rendo conto, e, sinceramente, dubito di riuscire a fornire un resoconto dei fatti abbastanza dettagliato.

Lui è cortese. Non gentile, quella è un'altra cosa, ma cortese. Mi chiede come mi sento, se voglio qualcosa da bere, si interessa (o forse fa finta di interessarsi) della mia condizione fisica e mentale. Credo stia cercando di stabilire una sorta di rapporto di fiducia con me, anche se non mi è ben chiaro il motivo: non sono io l'indagata e sicuramente non c'è nulla che potrebbe mai fermarmi dal raccontare ogni dettaglio di ciò che quel pazzo figlio di puttana non è riuscito a portare a termine.

"Allora, Cara, ora voglio che tu racconti ciò che è successo l'altra sera, okay? Io registrerò tutto. Sei pronta?"

Ha la voce strascicata e stanca di chi con la mente si trova ancora a riposare nel letto prima che la sveglia suoni, ma lo sguardo è attento e non si fa problemi a fermarsi ogni tanto su qualche livido che mi decora il viso e il collo. Credo che provi soggezione nel guardarmi dritto negli occhi, ma non so esattamente se per colpa delle emozioni che potrebbe scorgervi o per il rosso sangue assolutamente innaturale della sclera del mio occhio destro. Faccio un veloce cenno d'assenso, intrecciando le dita sotto il tavolo di freddo metallo lucido, ancora stranita dall'idea di raccontare l'accaduto ad un estraneo.

"Ero uscita per andare a comprare qualcosa al supermercato. Il frigorifero era vuoto e io stavo morendo di fame perché a pranzo non avevo mangiato nulla a causa di una litigata avuta con mio padre..."

Mi blocco quando noto l'occhiata burocratica che Doyle mi lancia, come per ammonirmi. Attieniti ai fatti sembra dire con rimprovero.

Giusto. Devo attenermi alla mia parte di vittima, no? Non mi sto confidando con il mio diario segreto, dopotutto. Qui sicuramente a nessuno fregherebbe niente di come io mi sia sentita mentre riuscivo a percepire la vita scivolarmi via dalle vene o di come mi senta ora, mentre, imbottita di antidolorifici e salva per una casualità, sono costretta a ricordare cose che vorrei avere già dimenticato. Dopotutto è giusto che sia così. Non gli interessano i vari dettagli della mia vita, dal suo punto di vista totalmente irrilevanti rispetto a ciò che mi è successo. Ma il fatto è che non posso fare a meno di pensare a quell'incontro/scontro come a un qualcosa di totalmente casuale, un qualcosa che, se solo mi fossi svegliata poco più tardi, se solo mio padre non fosse uscito, se solo non si fosse dimenticato di fare la spesa, se solo non avessi saltato il pranzo, probabilmente non sarebbe mai successo.

"Sai dire che ore fossero più o meno?"

"Le otto, credo. Era già buio fuori quando sono uscita."

Lui annuisce, prendendo la sedia ancora vuota e accomodandocisi rigidamente, con la schiena dritta e le gambe allungate. Tutta questa situazione è così paradossale che per un momento ho pensato che ci si sarebbe seduto a cavalcioni, con i gomiti appoggiati sullo schienale e lo sguardo indagatore tipico dei detective nei telefilm. Il suo, però, è soltanto stanco.

"Quindi intorno alle otto sei uscita per comprare la cena per te e tuo padre..."

"Oh, no" lo interrompo. "Mio padre non era in casa. C'era la sua mostra, quella sera."

Per un momento si blocca, guardandomi. Posso quasi sentire gli ingranaggi del suo cervello iniziare a lavorare, a fare collegamenti che io non riesco a vedere. "Giusto. Fa il fotografo, se non sbaglio" afferma, senza tuttavia aspettare una mia risposta affermativa.

"Sei andata a piedi?" chiede allora, sorvolando su quel dettaglio.

"Sì. Il supermercato è vicino a casa, e poi non ho una macchina mia."

"E il parco?"

"Scusi?" chiedo confusa.

"Mi risulta che sei quasi stata annegata nel laghetto del parco giochi, sbaglio?"

"Sì, cioè no, non si sbaglia."

Ha le sopracciglia aggrottate e la bocca arricciata in una smorfia buffa, così strana sul suo faccione arrossato simile a un cartello dello stop. Sembra che la questione lo scocci più di quanto dovrebbe. Teoricamente, essendo questa una piccola cittadina in cui, diciamocelo, non succede assolutamente nulla, una cosa del genere dovrebbe suscitare un minimo di scalpore o, in alternativa, di eccitazione, soprattutto a chi, come lui, ha passato gran parte della sua carriera a occuparsi di casi di furto di borsette. Lui, però, non si perde in troppi dettagli, si limita a chiedermi ciò che vuole sapere; il resto è solo un inutile cornice senza valore.

"Io... glielo stavo per dire. Quando sono arrivata nel parcheggio, l'ho incontrato e mi ha... beh sì, mi ha salutata. Ha detto che voleva parlarmi, ma voleva farlo in un posto più tranquillo, così l'ho seguito."

"Puoi dirmi il suo nome?"

Nonostante l'avessi ripetuto più di una volta agli agenti, lo dissi comunque, immaginando servisse per la registrazione. "Cole. Cole Jensen."

"Con la J?"

"Sì."

Man mano che rispondo alle domande che mi porge, vedo il suo busto e insieme la sua testa allungarsi verso di me, quasi dimenticandosi del bordo del tavolo che lo ostacola. Mi ricorda una tartaruga. "Avevi un qualche tipo di relazione con lui o l'hai mai avuta?"

Scuoto la testa con veemenza, quasi divertita da quanto il detective Doyle si trovi lontano dalla verità. "Assolutamente no."

"E avete avuto qualche litigio prima? Qualcosa di non risolto."

"No. Lo conoscevo, ma non eravamo amici."

"E allora perché seguirlo? Insomma, se non eravate amici, perché fidarsi e seguirlo in un luogo isolato a tarda sera?" chiede, improvvisamente interessato ai miei pensieri e non solo ad un rigido e impersonale resoconto sintetico dei fatti.

Fisicamente, sono sempre stati uguali Haley e Cole. Stessi tratti, stessa corporatura slanciata, stessa parlantina strana. Spesso, però, lei tendeva a lamentarsi di come cose come la pelle lattea che avevano in comune desse a lui un aspetto addirittura affascinante agli occhi delle ragazze e a lei le sembianze di un cadavere. Lo faceva spesso, ma non mi ha mai dato fastidio. Al contrario, ammetto che mi piaceva sentirla lamentarsi del suo aspetto, almeno quanto a lei piacesse farlo per sentire poi i miei complimenti.

La verità, però, è che non ho idea del perché io mi sia fidata. Forse la vera domanda sarebbe: perché non farlo? Perché non fidarsi di qualcuno così maledettamente simile alla persona a cui, una volta, avresti affidato la tua vita? Mi sono lasciata ingannare, è vero. Sono caduta nella sua trappola, adescata come un animale dal bisogno di sopravvivere, una sopravvivenza che una volta era determinata dalla presenza di Haley. Una sopravvivenza che, ora, si accontenta delle briciole lasciate dai ricordi che mi restano di lei. E il ricordo che Cole mi offriva era così vivido, così vicino alla concretezza corposa della realtà.

Ma come puoi spiegare a qualcuno una cosa del genere?

"Non lo so" rispondo alla fine, dopo un lungo silenzio.

Un'espressione contrariata si dipinge immediatamente sul viso del detective, che si schiarisce la gola e abbassa lo sguardo sul tavolo. "Non voglio metterti in difficoltà, Cara, capisci? Voglio solo capirci qualcosa, così come immagino lo voglia anche tu. Vedi, è molto strano che ti abbia aggredito senza l'intenzione di derubarti o di approfittarsi sessualmente di te. E, anche se fosse, un ragazzo di appena diciannove anni non arriva a tanto per qualche dollaro. Mentre, se avesse voluto violentarti, non avrebbe cercato prima di ucciderti."

"E quindi rimane solo l'ipotesi della vendetta, immagino" pronuncio, puntando lo sguardo sul piccolo registratore vicino alla sua enorme mano. Immagino che potrebbe farmi fuori con un niente, se solo volesse.

"Capisco che tu possa essere ancora scioccata per quanto accaduto, ma se vuoi che quello stronzo finisca in prigione devi cercare di collaborare" continua, non prestando ascolto alle mie ultime parole. "Ti viene in mente un qualsiasi motivo per cui avrebbe dovuto avercela con te?"

Che domanda stupida. So benissimo perché ce l'avesse con me, anche se non pensavo che ne sarebbe mai venuto a conoscenza. Ma una cosa è saperlo, un'altra è ammetterlo ad alta voce di fronte a qualcun altro. Ammetto che, per un momento, mentre ero con la testa immersa nell'acqua e pregavo Dio per un po' di ossigeno che alleviasse la mia agonia, ho sperato che riuscisse a farlo, che riuscisse ad uccidermi; almeno avrei smesso di vivere con quel senso di colpa continuo ed assillante. Ma quando ho respirato quella prima boccata d'aria, mi sono resa conto che forse era quella la mia punizione: continuare a vivere con quell'enorme macigno sul petto. E ho pensato che fosse giusto così.

"Lui..." comincio a fatica, puntando lo sguardo su un punto lontano e indistinto. "Lui ha detto che è colpa mia."

Non riesco a vedere l'espressione di Doyle , ma immagino che i suoi occhi riflettano un'emozione simile al trionfo. "Per cosa?"

"Per sua sorella. Lei è morta per colpa mia."

Dopo questa confessione, mi sembra quasi che tutta la pressione che sentivo prima nel petto si sia trasferita all'esterno, ma solo per qualche secondo: questa, infatti, torna a infestarmi i polmoni con ogni boccata d'aria. Nel frattempo, lui non parla e neanche io. Ci limitiamo a concentrarci entrambi su quello che diremo dopo: lui su quello che potrebbe chiedermi, io su come potrei rispondere alle sue eventuali domande. Sembra un'insana variante del gioco del silenzio, in cui vince chi riesce a trovare per primo la cosa più giusta da dire.

"In che senso è morta per colpa tua?"

Sono sempre stata una persona che ama irrimediabilmente essere al centro dell'attenzione, ma questa mia caratteristica non mi ha mai impedito di essere molto riservata. Amo suscitare la curiosità delle persone che mi circondano, per compiacere un desiderio misantropo di essere guardata, studiata, analizzata, ma solo superficialmente: ho sufficiente fiducia nell'egocentrismo umano da essere sicura che quasi nessuno di quegli sguardi potrebbe mai oltrepassare la mia barriera corporea. Mi espongo per proteggermi, è sempre stato così, e, con l'esperienza, ho imparato che è anche il modo migliore di tutelarmi.

Le occhiate superficiali che mi ricoprono mi nascondono dalle persone come Haley. Mi nascondono da chi potrebbe, con il tempo, imparare a leggermi. Ma Doyle non vuole scoprirmi, no. Lui vuole solo delle risposte. Ma come può pretendere da me delle risposte, le stesse che credevo di aver custodito così bene da non accorgermi che, nel tragitto, avevo le tasche bucate?

"Non voglio rispondere a questa domanda" enuncio allora, terminando sul nascere quella curiosità troppo pericolosa.

Lui sospira, passandosi le dita sotto gli occhi, proprio dove due visibili ombre scure li scoloriscono. Probabilmente vede, in questo dettaglio, un'importanza che, per quanto io mi sforzi, non riesco proprio a cogliere. Non mi interessa sapere perché Cole abbia fatto quello che ha fatto. Voglio solo che venga preso e tenuto a quanta più distanza possibile da me: le sue ragioni più recondite se le può tenere per sé o confessarle agli altri carcerati.

"Hai notato in lui dei comportamenti strani ultimamente?" mi chiede infine, appoggiando i gomiti sul tavolo in un gesto carico di pesantezza.

"No" rispondo immediatamente. "L'altra sera è stata la prima volta che l'ho visto dopo sette mesi."

La sua domanda puzza di marcio, ma più mi guardo intorno, oltre la fastidiosa coltre di mosche che mi ronza intorno, e più faccio fatica a capire dove sia nascosto il cadavere. Eppure analizzo ogni angolo, ogni asse di legno scricchiolante, ogni macchia di muffa che ricopre le pareti, ma nulla sembra portarmi sulla strada giusta da seguire. "Perché?"

I suoi occhi rimangono fermi e determinati nei miei mentre mi risponde, quasi in un rimprovero sottinteso. "Abbiamo ragione di credere che ti tenesse d'occhio da almeno qualche settimana."

Ed eccolo, lo schiaffo, così forte da far rimbombare dentro di me sensazioni antiche che credevo di essermi lasciata indietro. Immediatamente, riesco solo a pensare che sia impossibile. Me ne sarei accorta se un pazzo si fosse messo a spiarmi e a pedinarmi di punto in bianco. Un dettaglio del genere non passa inosservato. Non a me.

"Cosa sai dirmi dei signori Landerwood? Vivevano di fianco a te, giusto?"

Confusa, faccio un segno d'assenso, ancora stravolta dalla precedente rivelazione. Con la mente richiamo velocemente le poche immagini che ho della piccola casa e dei due giovani coniugi, ripenso a quanto sembrino sempre così fastidiosamente felici e al loro ancora più fastidioso pastore tedesco, che non fa altro che abbaiare ogni qualvolta qualcuno si avvicini al marciapiede di fronte al giardino.

Vivevano già lì quando mi sono trasferita, anche se non credo da molto tempo: sono entrambi molto giovani, probabilmente intorno ai venticinque anni, e non è raro vederli impegnati in vari lavoretti di ristrutturazione durante i weekend. Dei due, potrei riconoscere la moglie, ma solo se vista da una particolare prospettiva, in una determinata posizione e, possibilmente, da lontano. Quando esco di casa, vedere la sua figura perennemente accovacciata sui fiori delle aiuole del suo giardino è diventato come una sorta di incontro intimo e segreto, che osa però spingersi solo fino ad un saluto accennato e di pura cortesia. Il marito, al contrario, non l'ho mai visto oltre ad un paio di rarissime occasioni, ma comunque se mi capitasse davanti non saprei riconoscerlo.

"Non li conosco. Io non ci ho mai parlato" affermo allora. "Anche se non capisco..."

Mi fermo, all'improvviso, come se fossi un giocattolo a cui si sono appena scaricate le batterie. Mi rimbomba nelle orecchie la domanda del detective, come in un'eco alla rovescia che risuona sempre più forte nel mio cervello, fino a diventare un vero e proprio urlo:"Vivevano di fianco a te, giusto?"

Perché ha usato il passato?

La signora Landerwood non ha mai vissuto nella casa di fianco alla mia, lei vive nella casa di fianco alla mia, la stessa con quel giardino sempre così perfettamente curato e quelle aiuole piene di fiori coloratissimi. Ci vive insieme al suo giovane marito, al suo pastore tedesco che sembra non stancarsi mai di prendersela con i passanti... lo stesso pastore tedesco di cui, quella sera, non ricordo però di aver sentito l'abbaio, quando sono passata davanti al loro cancello.

"Siamo riusciti a contattarli e ci hanno confermato che stavano affittando la casa a un certo Cole Jensen, da poco più di un mese."

Acqua fredda: questa è l'unica cosa a cui potrei paragonare un'informazione del genere. Non una semplice secchiata, no. È la stessa sensazione che potresti provare in una lenta immersione nell'oceano, gelido e imprevedibile. La stessa identica sensazione che potresti provare mentre stai annegando in un laghetto ghiacciato, con una mano che ti tiene ferma la testa e i polmoni allagati. Ed è proprio con la stessa paura che, improvvisamente, una serie di immagini si ferma davanti ai miei occhi spalancati, immagini che il mio stupido cervello aveva pensato bene di archiviare. Un grande furgone fermo di fronte al cancello aperto. Un cartello affittasi, così statico e silenzioso da sfuggire ai miei occhi impazienti. Un alone di mancanza che circonda l'erba alta. I fiori appassiti, scuri, morti: dimenticati.

E allora capisco.

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