Classe 1994

di Drops of Neverland
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #idiots ***
Capitolo 2: *** #normal ***
Capitolo 3: *** #still ***
Capitolo 4: *** #morning ***



Capitolo 1
*** #idiots ***




Classe 1994
Chapter 1 - #idiots

 
Riunione di Classe
Londra, 27 Novembre 2014


 
Sherlock si chiedeva come Mike Stamford fosse riuscito a convincerlo. Lui, quella gente, non la sopportava, Non l’aveva mai sopportata. Perché aveva deciso di tornare tra le fiamme dell’inferno?
Guardò con disprezzo lo striscione  con la scritta “ Classe 1994“  che era stato appeso nel soggiorno di un tale con cui a quanto pare era andato a scuola.
Inutile, pensò alzando gli occhi al cielo. Era inutile ricordare informazioni tipo i nomi dei suoi vecchi compagni di classe, aveva rimosso quelle informazioni dal suo cervello tanto tempo fa.
Lui nel 1994 aveva diciotto anni, si era appena diplomato, ed aveva iniziato l’università alla facoltà di Chimica. Ricordava il liceo. Il continuo mettersi nei guai, il sentirsi incompreso (sensazione mai sparita, d’altronde), le continue prese in giro, le risse nei corridoi. L’unica persona che gli piaceva ricordare di quegl’anni, l’unica persona di cui veramente gli fosse importato, l’unica persona di cui ricordava solo cose buone, attualmente, non era lì con loro. Sperò che fosse semplice ritardo. Era sempre stato un ritardatario.
« Vero, Sherlock? » disse Mike, ridendo.                       
Sherlock si rese improvvisamente conto che Mike lo stava chiamando.
Sherlock si risvegliò dallo stato in cui di solito entrava quando una conversazione non gli interessava, come faceva con la signora Hudson, su cui teneva sempre impostato il muto. Sapeva cosa fare in quell’occasione. Mike lo stava guardando con uno sguardo complice, divertito, di chi ricorda i bei vecchi tempi andati. Sherlock si attenne semplicemente alle convenzioni sociali, che imponevano un sorriso rilassato e una frase d’assenso  « Giusto, Mike » disse con una risata profonda, falsa, facendo finta di sapere esattamente di cosa stessero conversando con il gruppo di ex-compagni di classe posizionato a cerchio attorno a loro. Un trucco imparato con il passare degli anni; le persone venivano conquistate  dal suo sguardo carismatico, (così l’aveva definito Molly Hooper), e lui poteva tranquillamente entrare nel suo palazzo mentale senza che nessuno se ne accorgesse. Doveva solo ripetere un « certo » e annuire automaticamente, e nessuno l’avrebbe disturbato con la propria idiozia.
Cercava in tutte le stanze del palazzo un ricordo collegato ai visi che lo circondavano,  uno straccio di informazione, ma nulla di quello che trovava sembrava minimamente interessante. Si rese conto di non avere nessun ricordo su suoi ex compagni di scuola; nella sua mente erano sempre stati confinati a fare da sfondo, ad esaltare una persona sola, quella persona,  il centro del quadro dei ricordi liceali, il punto in cui tutta la luce convergeva.
Sherlock era terribilmente annoiato. Cos’altro poteva essere quella stupida riunione, se non l’ennesima perdita di tempo? L’unica cosa che l’aveva convinto ad andare a quella serata era stata la curiosità. Del resto, sapere se quella persona sarebbe venuta quella sera, era tutto ciò che gli occupava la mente da quando Mike lo aveva avvisato della riunione di classe, tre giorni prima. E nel momento in cui avrebbe saputo se sarebbe venuto o no, la sua mente sarebbe stata di nuovo libera di pensare alla sola cosa davvero importante: il lavoro.
« Dimmi, Sherlock, come sei orientato nel mondo del lavoro? » domandò un donna che sorseggiava alcol da un bicchiere di carta. Era evidentemente frustata dal fatto che suo marito avesse un’amante, dedusse Sherlock, dal movimento rapido e incostante della gamba della donna, e dalla forma circolare di un anello riposto nella sua giacca. Poco prima, inoltre, l’aveva vista rifiutare una chiamata da un certo Bob.
Si chiese chi mai parlasse così formalmente, se non un datore di lavoro che cerca l’ennesimo disperato da poter sottopagare. Era probabilmente abituata ad un linguaggio professionale, essendo una donna d’affari.
« Sono un consulente investigativo ».
« Consulente investigativo? Non ne ho mai sentito parlare, prima d’ora ».
« Ovviamente. È una figura professionale che ho inventato io stesso » rispose Sherlock, dandola come una risposta scontata.
Sentì i suoi vecchi compagni ridacchiare, cercando di non dare nell’occhio « E dimmi », disse un altro, un uomo che nutriva un’insana passione per la pulizia, a giudicare dai due pacchetti di salviette nelle sue tasche e dal spiacevole odore di amuchina che le sue mani emanavano « quanto guadagni facendoil consulente investigativo? ».
Le persone ormai non cercavano neanche più di trattenere le risate, e Sherlock sentì una spiacevole sensazione nello stomaco. Non la sentiva da tanto, quella sensazione. Dal 1994, quando la scuola era il suo inferno giornaliero, ed i suoi compagni godevano nel farlo sentire un escluso.
« Decisamente più di te, che cerchi di farti passare per medico, quando pulisci i bagni di un ospedale » rispose Sherlock « Ora, se volete scusarmi, vado a cercare qualcuno con cui fare una conversazione più stimolante. Sento che parlare con voi sta lentamente uccidendo il mio quoziente intellettivo. Siete tutti così idioti».
Avevano tutti un’espressione alquanto vuota sul viso. Sherlock si chiese se li avesse offesi in qualche modo. Fece per andarsene, e si girò appena prima di abbandonare la stanza « Non fate quella faccia » disse, annoiato « lo sono tutti ».*
Sherlock uscì dalla stanza affollata in cui un gruppo di persone di cui non gli importava beveva cose che non gli piacevano e parlavano di argomenti che gli importavano ancora di meno. Così si sedette sulla moquette su cui, dedusse, prima di uscire il figlio adolescente dei padroni di casa aveva fumato una sigaretta. Si sedette al buio, con le gambe rannicchiate al petto e la testa tra le ginocchia.
Lui. Lui non verrà.
 
Non dovrei iniziare nuove storie.
ma lo faccio comunque.

Salve! Benvenuti in questo
posto sicuro, qui siete liberi
di recensire e sclerare a
vostro piacimento.

Una nuova johnlock in occasione
del setlock, ovviamente. 

Cercherò di pubblicare un capitolo
almeno una volta al ,mese, ed i
capitoli saranno decisamente più lunghi,
promesso.

Vi auguro una buona permanenza!

Miss Neverland


 
* frase che Sherlock rivolge a John nella 01x01, "A Study In Pink", qui usata alla seconda persona plurale, anziché alla prima singolare

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Capitolo 2
*** #normal ***



Classe 1994
Chapter 2 - #normal
Ultimo anno di scuola
16 ottobre 1994, Hamilton College
 
 
Sferrò un altro pugno, e ancora un altro, appena prima di abbassarsi per evitare la grossa mano tozza che cercava di colpirlo. Ci era abituato, ormai, e aveva capito come mettere a frutto la sua intelligenza in quelle situazione. Idiota, pensò, mentre quello perdeva l’equilibrio e cadeva contro il muro. L’aveva mancato. Sherlock si pulì il rivolo di sangue che gli scendeva da una ferita sullo zigomo con una mano. Squadrò colui che l’aveva aggredito, un ragazzo alto e imponente, che lo guardava con disprezzo, accasciato contro un muro. Non riuscì a spiccicare parola che si sentì strattonato per un braccio, e venne tirato via dal centro della folla che si era creata attorno ai due ragazzi rissosi.
Non cercò di opporsi. Conosceva la presa stretta di John Watson.
Fu liberato soltanto quando ebbero svoltato l’angolo del corridoio, e furono fuori, nel cortile interno della scuola.
« Dio, Sherlock. Ne abbiamo già parlato. Due volte. Devi smetterla di fare a botte, o non potrai a superare i test per la facoltà di Chimica » esordì John, stropicciandosi il volto, esasperato.
« Mi serve fare a pugni, John. In qualche modo dovrò pur imparare, no? E non ho nessuna intenzione di frequentare uno di quei corsi » pronunciò l’ultima parola con un certo disprezzo « E poi, la facoltà di Chimica ha bisogno di me più di quanto io abbia bisogno di lei. Mi daranno una borsa di studio » disse Sherlock mentre si puliva la ferita con un fazzoletto stropicciato che soleva portare nelle tasche dei pantaloni.
« Non te la daranno, se continui a fare a pugni nei corridoi e ad essere mandato dal preside e a non studiare Letteratura ».
« La Letteratura è così inutile. Dimmi, John, per quanti casi mi potrebbe servire sapere che Oscar Wilde ha scritto… quell’opera lì di cui non ricordo il nome? A nessuno! ».
« Hai un palazzo mentale! Teoricamente dovresti ricordarti tutto ».
« Teoricamente, appunto. Ma elimino le cose inutili. Tipo il tuo compleanno ».
« Ehi! ».
Sherlock iniziò a camminare, a passo svelto, tirandosi su il coltello bianco della camicia dell’uniforma scolastica. « Dove vai? » chiese John, affrettandosi dietro di lui « abbiamo la lezione di filosofia, ora ».
« Filosofia, una materia inutile, come pensavo. Non ho intenzione di imparare l’orario scolastico, grazie per  tenermi sempre aggiornato. Comunque, stiamo andando nella nostra stanza » rispose Sherlock, salendo le scale che portavano nel dormitorio maschile. Non sentì John fare domande. Sorrise, perché sapeva che John Watson, studente modello, un tempo anche decisamente popolare, era pronto all’ennesima avventura in compagnia del suo migliore amico.
« Siamo giovani, John. Abbiamo diciassette anni e tutta la vita davanti. Non ti sembra meraviglioso?  Tutto il tempo che vogliamo per infrangere più regole possibile. Mi sembra davvero una bella prospettiva ».
« Ce ne pentiremo, prima o poi » mormorò John, mentre affiancava l’amico, che aveva la brutta abitudine di partire in quarta e lasciarlo dietro.
« Non provo rimorso o senso di colpa, Watson. Ricordi? Sociopatico iperattivo » Sherlock fece un sorriso compiaciuto, e John alzò gli occhi al cielo « Non perdonerò mai il medico della scuola. Diagnosticandoti la sociopatia ti ha praticamente dato una giustificazione per qualsiasi cosa tu faccia. E ci vado sempre di mezzo io, perché “Mister Watson” » scimmiottò, facendo una grottesca imitazione del preside « “lei è uno studente modello, non dovrebbe averecerte compagnie, e non dovrebbe farsi coinvolgere in certe faccende ».
Sherlock rideva di gusto.
Aveva perso il conto delle volte in cui aveva sentito pronunciare quelle parole dal preside Atkins. Le ripeteva a John ogni volta che venivano mandati in presidenza (ovvero mediamente tre volte al mese), come se Sherlock non fosse lì o non potesse sentirli conversare. Non che a lui importasse. Aveva altro, a cui pensare. Cose importanti, come il caso delle  mutande che prendono fuoco spontaneamente durante la lezione, o il tragico caso del ragazzino del secondo anno che sostiene di vedere delle cose ogni terzo giovedì del mese, puntualmente alle 23.14.
E poi, John ignorava ogni volta i consigli del preside Atkins, quindi Sherlock credeva che non ci fosse niente di cui preoccuparsi. John non avrebbe ascoltato il preside, e non avrebbe smesso di frequentare certe compagnie. 
Sherlock non avrebbe perso John per colpa delle stupide raccomandazioni del preside.
Scosse leggermente la testa.
Sociopatico iperattivo, Sherlock, ricorda quello che seiNon c’è spazio per i sentimenti, quando il tuo obiettivo è diventare il primo consulente investigativo al mondo.
Sentiva quasi la voce di suo fratello Mycroft nella testa, la sua voce dura, che lo spingeva a dare il massimo, a concentrarsi su un unico, grande obiettivo.
« Adoro il medico scolastico » disse Sherlock, cacciando quei pensieri dalla sua mente, racchiudendoli nelle segrete del suo palazzo mentale « è meravigliosamente influenzabile. L’ho persino convinto a prescrivermi delle dose di morfina a scopo curativo ».
John si fermò di botto dietro di lui « Sherlock » La voce fredda, ferma lo richiamò e lo spinse a girarsi « Avevi detto che non sarebbe diventata un’abitudine ».
« Le persone mentono, John. Come faremo noi alla prossima ora per giustificare la nostra assenza » disse Sherlock, con un’alzata di spalle. John era ancora fermo nel bel mezzo del corridoio vuoto, con la borsa piena di libri penzoloni dalla sua spalla « Sherlock » ripeté, cercando di mantenere la calma.
« Cosa c’è? Dicono tutti di essere più normale. Non è questo che fanno i ragazzi normali della nostra età? Sesso, alcol e droga? ».
« Non è così che funziona. ».
Sherlock si portò le mani al viso e se lo stropicciò, irritato. Non gli interessava come funzionassero le cose per le persone normali. Voleva solo trovare una scusa per liberarsi dal Cane Da Guardia John e riavere con sé il solito John Watson. Cercò di sviare il discorso.
« E dimmi,  John Hamish Watson, come funzionano le cose nel mondo degli adolescenti normali? ».
« Si va alle feste, Sherlock, una di quelle a cui ero riuscito miracolosamente a farti invitare, e che tu hai definito come perdita di tempo ».
« Rimango della stessa idea ».
« Si va alle feste » ripeté John, mentre cercava di tenere i nervi saldi. La sua mano sinistra stretta a pugno, in una silenziosa irritazione « e si balla. Con la ragazza più carina con cui riesci a parlare. Si beve qualche cocktails. Ci si diverte con gli amici. Si parla. Si scherza ».
Sherlock piegò la testa « Mi sembra noioso, essere un ragazzo normale. Terribilmente noioso ».
« Per te è tutto noioso ».
« Non essere ridicolo. Per me la maggior parte delle cose sono noiose » rispose con un’alzata di spalle. Si chiedeva cosa ci fosse di necessario nell’essere normale. Nell’essere stupidi.
« So cosa stai pensando » disse John. Sherlock riuscì a cogliere un’incrinatura inusuale nella sua voce. Era arrabbiato? « che tu sei intelligente e gli altri stupidi, che tu sei l’unico con un po’ di materia grigia, che nessuno ti capisce. Ma sai una cosa? Le cose fuori dal normale rimangono fuori dal normale. Non interessano a nessuno. ».
Sherlock non rispose. Sentiva solo il solito dolore lancinante nel petto, quello che alloggiava in mezzo alle sue costole da fin quando riusciva a ricordare, crescere a dismisura.  Cresceva, cresceva, cresceva.
« John » disse, a bassa voce, rifiutandosi di capire. John non avrebbe mai detto una cosa del genere, ne era sicuro. Doveva aver capito male. Gli succedeva spesso, con le persone, con quello che volevano intendere. Dicevano qualcosa, volevano che lui capisse cosa quelle parole significavano davvero. Non era bravo in queste cose. Non era bravo con le persone. Conosceva l’animo umano, eppure non riusciva a comprenderlo.
« Lasciami finire » disse John, con un sospiro « Non interessano a nessuno, tranne me. A me interessano » sorrise, voltandosi verso Sherlock per guardarlo negli occhi. Quello era il suo John, e lui voleva renderlo felice « Mi comporterò da persona normale » le parole gli uscirono di bocca incontrollate « per una sera » aggiunse in fretta. Gli sembrava un compromesso accettabile.
« Davvero? Quindi… possiamo uscire normalmente? ».
« Già » Non era un concetto difficile da capire.
« Intendi… uscire senza dover seguire nessuna traccia che hai trovato con la scienza della deduzione? O frequentare qualche gruppo di amici? Uscire dal college e andare in qualche discoteca? ».
« Se è così che ci si comporta da persone normali » disse Sherlock.
John era senza parole. I suoi occhi si illuminarono « C’è una festa, venerdì sera. Cioè, venerdì sera tra due settimane. Giù alla Grande Quercia del parco della scuola ».
« Non starai mica a parlando…? ».
« Di quella del  tizio che hai appena picchiato, esatto ».

 

sono stata veloce, applausi.
che dire? un capitolo un po'
noiosetto ma necessario,
in quanto primo capitolo
ambientato nel 1994.
non che potesse succedere
più di tanto, alla fine.
questo Jawn è un po' meno 
paziente e comprensivo
rispetto a quello della serie tv,
ma del resto si matura col tempo, no?
spero vi sia comunque piaciuto,
recensite

miss neverland


ps. grazie a tutte le meravigliose 
persone che hanno recensito e 
preferito/seguito/ricordato.
siete fantastici.

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Capitolo 3
*** #still ***


Classe 1994
Chapter 3 - #still
Riunione di Classe
Londra, 27 Novembre 2014
 
Sherlock svoltò l’angolo di uno dei numerosi corridoi che conosceva così bene. Dall’ultima volta che era stato lì era passato così tanto tempo. Si ritrovò davanti alla solita maniglia di legno lucida. Tutto lì dentro era pulito e lustrato fino all’ultimo dettaglio. Almeno quel posto era ordinato, e con estrema cura, a dirla tutta. Sherlock avrebbe saputo ritrovare qualsiasi cosa lì in poco tempo. Ovviamente, il tempo era relativo. Quelli che per lui erano pochi secondi, al massimo pochi minuti, scopriva sempre essere ore per gli altri.
E lo scuotevano urlando il suo nome, con rabbia, tristezza, paura, perché c’erano state delle volte in cui non era riuscito a trovare l’uscita di quel posto.
In quel momento chiuse gli occhi e afferrò la maniglia, entrando di getto nella stanza, non pensando a cosa ci avrebbe trovato. Eppure eccoli lì tutti quei ricordi, un tornado che lo avvolse, gettandolo a terra, quasi cercando vendetta per tutto il tempo in cui Sherlock aveva fatto finta di dimenticarlo, chiudendo i suoi ricordi del liceo nell’anfratto più buio e lontano del suo Palazzo Mentale. Ma ecco che si ribellavano, si rinfrescavano, ecco che tutti quei volti familiari lo costringevano a scendere laggiù, a ricordare. Il dolore che lo colpì nel petto non era neanche paragonabile ad una pallottola, che aveva già sperimentato una volta in vita sua. Era più profondo, più aggressivo. Era un dolore emotivo che non riusciva a contrastare, che lo sommergeva e lo annegava, e i polmoni esplodevano, il cuore implodeva.
John, resta, ti prego, resta, resta, resta…
 
*
Casa Watson
Londra, 27 novembre 2014
 
John Watson si accorse subito di quanto fosse cambiata la sua casa nel corso degli anni. L’aveva ereditata dai suoi genitori, quando si erano trasferiti anni fa. Sembrava che l’abitazione avesse deciso di smettere di rincorrere il tempo,  che si fosse semplicemente arresa alla verità: il mondo andava avanti senza di lei. John in cuor suo sapeva come ci si sentiva.
Il bastone stretto in mano, a sorreggerlo nonostante non avesse neanche un quarantina d’anni, ne era la prova. Era sempre lì per ricordargli che il mondo era andato avanti mentre lui era in guerra, a farsi sparare per delle persone di cui preferiva il ricordo che aveva di loro durante la guerra. In battaglia, la vita da civile sembrava così… semplice. Aveva scordato i continui litigi con sua sorella Harry, le persone scortesi per strada e la noia che puntualmente lo assaliva alla sera, dopo un’altra lunga, estenuante giornata di quotidianità.
Sedeva sul letto, lo sguardo perso nel vuoto. Lui non pensava a niente di particolare, ma i pensieri  lo travolgevano, come sempre.
Eccolo lì, l’ennesimo cadavere, sporco di terra e di sangue nero. Il caschetto mimetico a pochi metri da lui, rotolato lì probabilmente dopo la caduta del cadavere. Un solo foro, una sola pallottola. Aveva avuto sfortuna, e John non era arrivato lì in tempo. Avrebbe potuto fermare l’emorragia e salvare quella vita umana. Invece era stato troppo lento, e ora la famiglia del soldato piangeva lacrime amare, rimpiangendo le ultime parole mai dette e il cadavere tenuto nascosto alla loro vista. Eppure era solo uno dei numerosi caduti di guerra. La storia si ripeteva sempre, inesorabilmente. E John si era chiesto più di una volta se la sua famiglia l’avrebbe rimpianto così, se a qualcuno sarebbe mancato, se qualcuno si sarebbe mai strutto sopra il suo cadavere senza vita.
Scosse la testa, piano. Si stropicciò il viso sbuffando, doveva necessariamente allontanare quei pensiero, o avrebbe ricevuto una lavata di capo dalla sua psicanalista. Guardò l’orario sul cellulare. Le 19.30.
John sapeva che riunione di classe era quella sera – lo aveva avvertito Mike Stamford qualche giorno prima, incontrato per caso in un parco. Lo aveva accusato di non aver mantenuto i contatti con nessuno dei suoi vecchi compagni di classe. John si chiese come poteva biasimarlo.
Fino a quel momento non aveva avuto intenzioni di andarci. Non ne aveva voglia e non si sentiva in vena. E poi, rivedere i suoi compagni di scuola? No, grazie. Aveva chiuso per sempre quel capitolo della sua vita, inutile ritentarci. Nonostante fosse sempre stato considerato uno popolare non aveva ricordi troppo piacevoli. O meglio sì, erano piacevoli, ma confusionali. Erano passati vent’anni, e lui non aveva fatto altro che scappare dai quei ricordi, cercando di non dover mai fare i conti con tutto quello che era successo. La sua mente si era ormai abituata a non pensarci. In guerra, aveva completamente rimosso quei ricordi. Non aveva tempo per il suo io interiore in Afghanistan, ed era riuscito a passare mesi senza che certi pensieri gli tornassero in mente. Da quando era tornato alla vita civile lì a Londra cercava di pensare a cosa succedeva nel mondo esterno, e non cosa succedeva dentro di lui, i pensieri erano tornato a tormentarlo.
Vent’anni. Dio, lottava davvero con quei pensieri da venti, lunghissimi anni? Certo, c’erano stati dei periodi di stacco (la guerra, e qualche fidanzata) durante i quali quei pensieri non si azzardavano neanche a disturbarlo. Ma tornavano sempre a bussare, ad alloggiare nella sua mente cercando di attirare l’attenzione. Niente era stato mai alla sua altezza. In tutti i sensi possibili. E John non vedeva l’ora di tornare in cima.
“Al diavolo” pensò “andrò a quella dannata riunione di classe”.
 
*
Riunione di Classe
Londra, 27 Novembre 2014
 
Sherlock non aveva idea di dove si trovasse, o di che giorno fosse, o di come fosse arrivato lì. Non gli importava granché, a dire il vero. Avvertiva qualcosa di molto comodo e morbido sotto di lui. Un materasso? Una coperta? Forse era in uno di quei covi dove le persone come lui si incontravano. Era decisamente possibile, a pensarci bene. Non sarebbe stata la prima volta, e probabilmente neanche l’ultima. A volte gli succedeva: si risvegliava in uno di quei posti, magari un magazzino abbandonato o un vecchio edificio di cui nessuno si curava più, in mezzo a persone che non conosceva, nella sua stessa condizione, se non peggiore, senza avere la minima idea di come ci fosse arrivato. Era quasi abituato. Quasi. Del resto, era maledettamente inglese, e non avrebbe mai rinunciato al suo lungo cappotto scuro e alla sua sciarpa blu, alla sua poltrona e al 221B di Baker Street. Il suo lavoro veniva prima di tutto, era la sola cosa che davvero amasse, insieme al suo intelletto. Qualche volta, però, una pausa da Londra e dalla  sua vita gli serviva, per ragionare su qualche caso, o per dimenticarsi della sua costante tristezza.
Decise che non avrebbe aperto gli occhi. Di solito era la prima cosa che faceva, per rendersi conto della situazione e cercare di ricordarsi qualcosa. Normalmente la memoria gli tornava dopo un quarto d’ora o giù di lì. Sherlock la reputava una cosa totalmente inutile: deduceva cos’era successo sempre prima che la memoria gli tornasse, e non sbagliava mai.
Si sentì chiamare da una voce lontana, ovattata. Chi poteva essere? Raramente altri drogati avevano voglia di fare due chiacchiere, a meno che non fossero per racimolare qualche altro grammo di sostanze stupefacenti, e finivano sempre tutti per fare a botte.
Sherlock decise che non avrebbe risposto.
« Sherlock? Sherlock Holmes? ».
Aveva detto Sherlock. Quello lì non era il nome che usava normalmente in quelle occasioni. Shesar. Avrebbe dovuto chiamarlo Shesar. Ebbe paura, per un attimo, che Mycroft o che Lestrade l’avessero trovato, e sperò vivamente di no, perché non era proprio in vena di una ramanzina.
Quando decise finalmente di aprire un occhio, dopo quella che gli sembrò un’eternità, tutta la verità gli piombò addosso, e si ricordò improvvisamente ciò che era davvero successo. Si agitò per un attimo, rendendosi conto che in effetti quello non era un materasso buttato per terra in qualche edificio abbandonato, ma il divano nella casa di un qualche suo ex compagno di scuola. Perse l’equilibrio, e cadde malamente dal sofà, atterrando sulla schiena. Il colpo gli tolse il fiato.
L’unica cosa che riuscì a pensare  fu che lui era Sherlock Holmes, e aveva appena fatto la più idiota delle cadute difronte a qualche suo compagno di classe infinitamente più idiota.
Si risollevò sul divano su cui pochi secondi prima giaceva a fatica. Era decisamente frustrato, non gli andava giù che qualche imbecille, vedendolo dormire, l’avesse svegliato. E per cosa, poi? Perché andavano a scuola insieme, vent’anni prima.
“Forse vuole semplicemente prendermi in giro” pensò, mentre  si lasciava cadere sul divano a occhi chiusi, con un certo sollievo “Mi prenderà in giro per un po’, e poi se ne andrà. Come hanno sempre fatto”.
Sherlock non rimaneva mai spiazzato, mai. Tranne che quella volta, quando alzò lo sguardo, e vide John Watson, vent’anni più  vecchio, con un bastone a sorreggerlo, con un sorriso timido sul volto.
« Sto sorridendo, ma solo perché sono ancora, terribilmente arrabbiato con te, nonostante siano passati troppi dannati anni ».
Il suo volto, solcato dalle lievi rughe di chi ha visto troppo, era un tornado di emozioni, che si susseguivano l’una dopo l’altra veloci: gioia, malinconia, rabbia. Sherlock non poteva biasimarlo; lui stesso non sapeva cosa provare, o come sentirsi.
« John Watson, sei invecchiato senza di me » disse, lanciandogli uno sguardo scrutatore. Vent’anni prima non avrebbe mai immaginato che sarebbe potuto succedere, e solo ora si accorgeva che era una realtà. Durante quel lasso di tempo, aveva sempre immaginato che avrebbe rincontrato John, un giorno, e lui sarebbe stato ancora un ragazzino con l’uniforme, i capelli biondi pettinati con il solito ciuffo a destra e gli occhi marroni pieni di vita.
« Tu non sei cambiato di una virgola. E neanche le tue abitudini, a quanto vedo » lo squadrò da capo a piedi, con il solito vecchio sguardo preoccupato.
« Il mio dottore preferito si è preso una pausa, negl’ultimi vent’anni ».
« Oh, non fare il sentimentale » rispose John.
« Sei tu quello ancora arrabbiato ».
« Ti ho mandato delle lettere, Sherlock, per anni. Ti ho chiesto di incontrarci. Ho scritto data e luogo, e tu non sei mai venuto » il rancore nella sua voce spinse Sherlock a spostare lo sguardo. Sperava vivamente che si fosse dimenticato di tutto quello che era successo.
« Ti ho scritto delle lettere per i primi cinque anni di servizio militare. E tu non mi hai mai risposto. Ti ho cercato, quando sono tornato a Londra, ma nessuno sapeva dove fossi. Non sei mai venuto agli incontri di cui ti avevo scritto e lo sapevi, lo sapevi, dannazione, che potevo tornare a Londra raramente. E che volevo poter passare quei pochi giorni all’anno con te. Non hai mai voluto vedermi ».
« Potrei non aver mai ricevuto quelle lettere, per quanto ne sai » Non avrebbe dovuto comportarsi così. Stava rovinando tutto, di nuovo. Lui rovinava sempre tutto.
« Non devi dire - » John si fermò, cercando di calmarsi « so che le hai ricevute ».
Sherlock fece l’unica cosa che gli sembrò ragionevole: si alzò dal divano e con un pardon uscì dalla stanza, attraversò il corridoio e tornò in salotto, in mezzo alla gente.
Immaginò che John lo stesse seguendo, per chiedere spiegazioni, o magari per fermarlo e cercare di continuare la conversazione.
Si affiancò a Mike, che sembrò alquanto sollevato nel vederlo « Sherlock! » esclamò « Sei sparito per quaranta minuti, pensavamo che te ne fossi andato senza dire niente ».
« Pensavamo? » Ripeté lui, scettico.
« Be’, pensavo. Comunque, non mi avrebbe sorpreso ».
« Ovviamente ».
Mike spostò il peso da un piede all’altro, altalenante. Sherlock dedusse che era nervoso e, da come lo guardava, quasi non vedeva l’ora di chiedergli qualcosa. Era evidentemente stato lui a dire a John Watson che sì, Sherlock era lì quella sera ma che no, non sapeva dove si trovasse in quel momento. Doveva averlo mandato a cercarlo. Del resto, Mike si ricordava dell’amicizia che c’era stata tra lui e John ai tempi della scuola, dei migliori amici che finivano nei guai insieme, e che puntualmente venivano umiliati dal preside davanti a tutta la scuola.
“Oh, non prendiamoci in giro”, pensò Sherlock “nessuno si dimenticherà del divertimento quotidiano fornito da quel bastardo del preside Atkins a spese di noi due… di me e Watson”.
« Prima che tu mi chieda qualunque cosa » sospirò, frustrato « ho parlato con John ».
« E? » chiese Mike, la voce tesa.
Sherlock non rispose, aspettando di veder comparire la bassa immagine di John di lì a poco. Le sue aspettative non vennero deluse, e John fece il suo ingresso nella stanza, zoppicante, con il bastone in mano e un’espressione contrariata sul viso. Si diresse verso di loro.
« Ammetto di averle ho ricevute » disse Sherlock, mentre il suo sguardo si poggiava su di lui « e smettila di utilizzare quel bastone, è solo una ferita psicosomatica. Anche se forse, in un certo senso, ne avresti il diritto, essendo stato sparato in Afghanistan. Ma oh, tu hai sempre amato questo genere di cose, come dimostra il fatto che il tuo migliore amico è un sociopatico iperattivo ».
« Lo era. Vent’anni fa ».
« Lo è tutt’oggi ».
« Come fai a sapere che non ne ho uno nuovo? Un soldato, magari? ».
« Lo so e basta. E lo sai anche tu ».

Mike seguiva quello scambio di battute così familiare, nascondendo un sorriso.
salve!
non so se si capisca qualcosa,
ma ce l'ho fatta. che bella la vita.

sono senza internet, per giunta,
sto rubando hotspot a mio padre
(con il computer già).

sarò veloce: spero che siate riusciti
a capire qualcosa, che vi sia

piaciuto e che recensirete!
risponderò a tutte le recensioni

non appena avrò wifi
sono senza 3G, tra l'altro, sigh.

miss neverland

 

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Capitolo 4
*** #morning ***


Classe 1994
Chapter 4 - #morning
Ultimo anno di scuola
21 novembre 1994, Hamilton College

 
Un familiare rumore metallico ruppe il silenzio che aleggiava nella stanza. Era forte e decisamente sgradevole. Sherlock mugugnò e, dopo aver alzato leggermente la testa dal cuscino, buttò a terra la sveglia che cadde fracassandosi.
« È la terza che rompi questo mese » mugugnò John, assonnato, dall’alto del suo letto a castello, sopra il compagno di stanza « Tanto le fornisce la scuola » biascicò quest’ultimo. John ridacchiò mentre cominciava a scendere la scala. Una delle cose che più odiava in assoluto era scendere dal letto la mattina, poggiando i piedi ancora caldi sul freddo metallo. Quando fu finalmente in piedi, la prima cosa che fece fu guardare fuori dalla finestra, solo per posare lo sguardo sulle nuvole scure e sulle gocce che si poggiavano veloci sul vetro; l’ennesima, inglese, uggiosa giornata di scuola.
Prese un cuscino dal divano  appoggiato sulla parte opposta al letto a castello dove dormivano lui e Sherlock, e glielo lanciò per buttarlo giù dal letto. Per essere un iperattivo, dormiva davvero tanto, e ogni mattina farlo alzare era un’impresa. John ancora non capiva esattamente perché si preoccupasse di farlo arrivare a colazione in tempo. Lui era completamente indipendente: aveva gente con cui mangiare a tavola e persone con cui passeggiare per i corridoi, persone che quando camminava con Sherlock non lo salutavano neppure. E allora perché si ostinava a girare con lui? Con un drogato, un sociopatico?
John scosse la testa.  Doveva evitare di fare certe riflessioni di prima mattina, o gli sarebbe esploso il cervello. Si limitò invece a richiamare Sherlock un’altra mezza dozzina di volte, finché il diretto interessato non decise che forse sarebbe stato meglio alzarsi. A quel punto, John si era già  lavato e sostava davanti allo specchio cercando di fare il nodo alla cravatta dell’uniforme. Ogni mattina era la stessa storia.
« Imparerai mai ad allacciarti la cravatta? » urlò Sherlock dal bagno.
« Abbassa la voce! » sbuffò John « O avremo un altro richiamo dal preside per rumori molesti ».
« Se tu non avessi iniziato a sbraitare non avremmo mai ricevuto quel richiamo! ».
« Avevi rubato le prove dell’unico caso d’importanza mai accaduto alla Hamilton e le hai sistemate sul tappeto della nostra camera, certo che ho iniziato a sbraitare ».
John arrangiò il nodo della cravatta rossa alla bell’e meglio, in quel momento non gli importava granché. Durante la colazione avrebbe chiesto a qualche ragazza carina di fargli il nodo; non sapeva perché, ma le ragazze non rifiutavano mai a quella richiesta.
John ripensò a due giorni prima quando, dopo le lezioni, era rientrato nella sua camera, la 221B, ed aveva trovato Sherlock seduto sul polveroso tappeto rosso a gambe incrociate, curvo sopra qualcosa. La prima impressione che diede a John fu quella di un bambino chino sul suo giocattolo preferito, seduto a terra nonostante tutti i rimproveri della madre.
« Sherlock ?» lo aveva chiamato per attirare la sua attenzione. Sapeva che non si sarebbe accorto di lui se non lo avesse richiamato. Poteva concentrarsi su qualcosa per ore « Che stai facendo? ».
« Oh, John » si era girato, e John aveva potuto constatare con sommo orrore che Sherlock aveva in mano il diario di Kaitlyn Harvey, prima suicida nella storia della Hamilton. Kaitlyn era stata ritrovata sul tetto dell’edificio dell’Aula Magna qualche  giorno prima, morta. La scuola non aveva fatto trapelare nulla delle cause di quello che era stato definito un incidente, aveva messo presto tutto a tacere e sequestrato tutti i beni di Kaitlyn Harvey per ridargli alla famiglia, trattenendo solo alcuni quaderni e il suo diario personale. Il preside Atkins aveva intimato agli studenti di far continuare la propria vita regolarmente. A quanto pareva, Sherlock non era della stessa opinione « Sto leggendo il diario della Harvey » disse, con un scrollata di spalle « Noioso. Racconta solo le sue giornate con commenti offensivi rivolti a svariate persone. Terribilmente banale ».
John aveva perso il controllo, aveva urlato che si dovrebbe portare rispetto per una ragazzina suicidata appena tre giorni prima e che non bisognerebbe rubare le prove che la polizia scolastica stava esaminando. Era arrivato poi uno dei professori a bussare alla loro porta ed erano stati portati dal preside che li aveva richiamati per rumori molesti. John aveva scoperto in seguito che era stato Gil Ivanov a lamentarsi con il professore per le urla provenienti dalla 221B.
“Chissà cosa stanno facendo quei due, prof, per gridare tanto. In pieno pomeriggio, poi. Magari potrebbe sorprenderli in flagrante”.
John si era ormai abituato alle frecciatine che riceveva da quando girava con Sherlock. Per lo più, si limitava a un non sono gay, quando le persone facevano allusioni di quel genere. Non gli dava particolarmente fastidio, ma gli era capitato un paio di volte di perdere la pazienza, alzare il tono di voce, e andarsene sbattendo la porta. Riflettendoci su, forse, era capitato più di un paio di volte. Non era comunque mai successo che un loro compagno di scuola arrivasse a tanto. E John iniziava a non poterne più.
Sherlock uscì dal bagno in una nuvola di vapore. I capelli neri bagnati gli coprivano la fronte e non sembravano volersi staccare dalla pelle bianca, a cui aderiva anche la camicia bianca dell’uniforme scolastica appena inumidita dal vapore acqueo del bagno.
« Ti ammalerai prima o poi, se tutte le mattine lasci i capelli bagnati » disse John, mentre cercava per l’ultima volta di allacciarsi la cravatta in maniera decente. Generalmente riusciva ad arrangiarsi e ad aggiustarla alla bell’e meglio. Quella mattina proprio non gli usciva.
« Teoricamente mi prenderei solo un raffreddore, in quanto l’influenza è una malattia infettiva virale. Cavolo, John!, vuoi fare il medico, dovresti sapere queste cose. E comunque, stare male sarebbe una vera fortuna. Non dovrei frequentare le lezioni o vedere i nostri compagni. Inoltre potrei usufruire del tempo in più per cose davvero utili, come fare esperimenti e bere tè e fare esperimenti sul tè ».
« Esperimenti sul tè? ».
« Quando vincerò il Premio Nobel per gli esperimenti sul tè capirai ».
John ridacchiò. Erano rari i momenti in cui Sherlock faceva certe battute, e quando capitavano cercava sempre di gustarli con calma. Sherlock si stava specchiando, girandosi e rigirandosi per ammirarsi  meglio con la sua solita egocentricità. John constatò con una certa invidia che il nodo della sua cravatta era perfetto, stretto al punto giusto e per niente sformato. Lui ancora ci litigava e Sherlock, ovviamente, l’aveva notato. Improvvisamente, Sherlock abbandonò il contatto visivo che manteneva con la sua copia nello specchio e si avvicinò a John. Lo prese di spalle, girandolo verso di sé e avvicinandolo. Puntò gli occhi sulla sua cravatta sformata dalla sua formidabile altezza - lo superava di almeno quindici centimetri. John si sentiva andare a fuoco, in imbarazzo, perché solitamente Sherlock non era il tipo di persona che amava il contatto umano. Ritrovarselo a pochi centimetri da sé, di prima mattina, con i suoi occhi azzurri puntati su di sé, piegato per rifargli il nodo della cravatta era qualcosa di davvero insolito.
« Quella cosa che tu definisci cravatta mi stava urtando i nervi » mormorò piano, mentre le sue dita  definivano un nodo perfetto.
 
A John non piaceva l’atmosfera che si era creata nel corso dei quattro giorni successivi al suicidio. Per niente. I corridoi solitamente pieni di vita, dove i ragazzi passavano il loro tempo libero in maniera energica e caotica, si erano trasformati in locali vuoti, attraversati di  tanto in tanto dalle silenziose figure in cui si erano trasformati gli studenti. Le amiche di Kaitlyn Harvey erano buie presenze costanti, ogni volta che una di loro entrava in una stanza tutti tacevano istintivamente, lanciando loro lunghe occhiate malinconiche. Più di una volta era successo che una di loro scoppiasse a piangere durante le lezioni o nelle ore dei pasti, e John sentiva sempre la voglia di alzarsi e precipitarsi ad abbracciarle; Sherlock si limitava a distogliere lo sguardo, o continuare a fare ciò che stava facendo. Se John non l’avesse conosciuto così bene, avrebbe detto che non provava alcun sentimento davanti alla vista di quelle ragazze distrutte dal dolore; coglieva invece la sensazione di profondo imbarazzo che provava a stare a contatto con i nudi sentimenti umani. Riusciva a percepire l’agitazione che s’impossessava di Sherlock quando le vittime del lutto facevano la loro entrata da una mano passata tra i riccioli scuri o dal ticchettio della penna sul banco; la vedeva quando piegava un po’ la testa di scatto mentre scriveva, o dalla gamba che muoveva velocemente sotto il banco.
Quando quella mattina John nella sala mensa per fare colazione, l’atmosfera era ancora la stessa dei giorni precedenti. Fu contento che Sherlock non fosse sceso con lui; si sarebbe probabilmente innervosito, e sarebbe stato ancor più irritante di quanto non fosse tutti i giorni, tutto il tempo.
John si avvicinò al bancone dove la signora della mensa distribuiva il cibo a tutti gli studenti. Non era la stereotipata signora della mensa: non era grassa brufolosa o scontrosa; al contrario, era una minuta donna sulla quarantina, con lunghi capelli di un biondo sporco che teneva sempre raccolti in una coda alta, che le scopriva il viso rigorosamente struccato e le faceva mettere in risalto i grandi occhi marroni. Con i ragazzi della Hamilton era sempre sorridente, ed aveva sempre qualche parola gentile per John e, incredibilmente, aveva una predilezione per Sherlock, che ricambiava le simpatie di Rita Murray con sorrisi carismatici.
« Buongiorno, John! » gli sorrise Rita « cosa ti andrebbe stamattina? » chiese con la sua solita gentilezza.
« Oh, il solito caffè, grazie » John non era molto in vena di fare conversazione quella mattina, e non riusciva a comprendere come Rita potesse continuare a sorridere con l’atmosfera che c’era quei giorni, ma le era infinitesimamente grato, perché era rincuorante vedere un sorriso nel buio della morte.
« Sherlock? » domandò la donna.
« Oh, ancora in camera a fare chissà cosa » borbottò in risposta, nonostante sapesse che non era quello che gli stava chiedendo . dopo un attimo di silenzio John alzò gli occhi al cielo, rassegnato « Sherlock vuole un tè ai frutti di bosco con una fetta di pane e marmellata. E sì, prendo io la sua colazione ».
Rita annuì soddisfatta « Ora sì che ci siamo, John ».
 
John si sedette ad un dei grandi tavoli circolari della sala mensa. Il suo vassoio con la colazione era davanti a lui, ed un altro simile occupava il posto vuoto alla sua destra. Tutti gli studenti seduti con lui lanciarono un’occhiata derisoria alla sedia vuota.
« Non sapevo che fossi anche l’assistente dello psicopatico, Watson » commentò uno di loro, un tipo tozzo che frequentava la sua stessa classe di fisica, a cui Sherlock si era riferito come stupido provincialotto di strette vedute.
« Va’ a farti fottere, Brad » rispose John.
Guardò il vassoio piegando un po’ la testa. Non era il suo assistente e, per quanto ci provasse, non riusciva a resistere alla sensazione di dovere quando Sherlock tutte le mattine gli diceva « John, ti raggiungo. Prendi tu la mia colazione ».
Ricordava quando glielo aveva chiesto la prima volta, durante la loro prima mattinata insieme da compagni dii stanza. John gli aveva detto sì per fare un gesto carino. All’ora non aveva idea che sarebbe diventata un’abitudine.
Sherlock si buttò scompostamente sulla sedia accanto a lui, risvegliandolo dal flashback « Niente! Ti rendi conto? Assolutamente niente! » esclamò, gesticolando come un pazzo. Lui gesticolava sempre, finendo per colpire qualche povero passante innocente o gente seduta vicino a lui. Tutti gli occhi del tavolo erano puntati su Sherlock.
« Abbassa la voce e cerca di calmarti» borbottò John con gli occhi bassi. Chiedeva troppo forse? Voleva solo fare colazione in pace.
« Il caso della settimana scorsa non ha portato a niente, John, come potrei calmarmi? Merda! Eppure c’ero così vicino. Se solo le persone non fossero così banali. Dovrebbero smetterla di lasciare in giro le proprie cose, è ovvio che le scambi per degli indizi! E si lamentano pure, in continuazione! Loro non si annoiano, almeno. Sono io ad annoiarmi. Neanche quest’omicidio riesce a tirarmi su di morale, la polizia del college non mi vuole lasciar partecipare ».
« Stai dicendo che la settimana scorsa ho saltato filosofia e mi sono beccato una punizione perché tu avevi sbagliato a capire quali fossero degli indizi per il tuo caso e quali no? ».
« Be’, di sicuro non è stata colpa mia! ».
« Oh, smettila! Sei un idiota. E poi quello di Kaitlyn Harvey è stato un suicidio, non un omicidio ».
« Ma per favore!  E poi sarei io l’idiota. Quello lì è stato chiaramente un omicidio, ma nessuno si degna di ascoltarmi. Le prove sono così ovvie. Devo solo capire chi è stato ».
In quel momento, John si rese conto che tutti li avevano sentiti e che li stavano fissando, con la mascella a terra e negli occhi la paura e lo stupore di chi non sa, e la rassegnazione di chi era consapevole che non avrebbe mai saputo. E si rese conto di quanto fosse fortunato ad essere una delle poche persone a cui sarebbe stato spiegato il genio di Sherlock Holmes. Ma ciò non gli impedì di provare profondo imbarazzo e dispiacere quando si rese conto che un’amica di Kaitlyn Harvey era seduta a quel tavolo. La ragazza si sciolse in un pianto disperato, che ricordava l’infrangersi di un milione di bicchieri di cristallo, ancora e ancora e ancora. Una sua amica si precipitò ad abbracciarla, nonostante fosse anche lei sul punto di scoppiare a piangere. Tutta la mensa aveva gli occhi puntati su di loro.
Quando John si girò, vide Sherlock scribacchiare qualcosa freneticamente, mentre scuoteva la testa per riuscire a non far cadere i ricci neri davanti agli occhi. Si era sentito fortunato ad essere amico di Sherlock Holmes, eppure quella sensazione svanì subito a quella vista. La mensa era nel più totale silenzio, interrotto solo dai singhiozzi della ragazza, e a Sherlock non importava. John si sentì crollare il mondo a dosso. Lanciò un’occhiata piena di sensi di colpa alla ragazza prima di alzarsi e lasciare  la mesa nello stupore di tutti.
*
 
Ora mi dici perché te ne sei andato così dalla sala mensa?
 
E me lo chiedi pure?
 
Certo che te lo chiedo pure. Non vuoi sapere nulla sull’omicidio? So che muori dalla voglia di farmi tantissime domande. Tu adori farmi delle domande e adori me.
 
Hai ferito quella ragazza con la tua presunzione, Sherlock. E non te ne è importato niente. E ora vuoi che parli con te solo perché ti senti adulato. Ed io non ti adoro! E mandarsi i bigliettini durante la lezione è da ragazzine!
 
Tu sei la regina delle ragazzine, John. A proposito, dobbiamo portare qualcuno alla festa di venerdì prossimo? Nei film adolescienziali fanno così. Mi sto informando.
 
Perché non rispondi al mio biglietto? Sei molto scortese. E dai, su, una piccola domanda. Sarò felice di rispondere anche ad una domanda ovvia. Tipo perché è un omicidio e non un suicidio.
 
Okay. Dimmi un’informazione a casaccio, così riesco a farti stare zitto.

E comunque sì, generalmente si porta qualcuno alle feste.
 
Così non c’è gusto a spiegarti tutto, se ti dico un'informazione a mia scelta o casuale. Non mi piace vantarmi del mio fantastico cervello in questa maniera.
 
Oh, andiamo. Tu ami di vantarti del tuo cervello in qualsiasi maniera.
 
Hai ragione.
 
Allora, quale sarebbe l’informazione?
 
Non farti pregare!
 
È molto semplice. Talmente semplice da essere riassunta in una sola parola.
 
…ovvero?
 
Popolarità.
 
« Holmes! Watson! Non è permesso scambiarsi bigliettini durante l’ora di letteratura, non tollero un simile comportamento! Entrambi in presidenza, subito ».

lo so che sono sprita per 
quasi due mesi, e mi merito
i pomodori. Non scriverò 
neanche colorato. Ma sono
stata molto presa dalla scuola
dalle serie tv, da fiere del fumetto e dal setlock.
ma ora che è state aggiornerò
più spesso spero!
le recensioni sono ancora ben accette!
si torna in pista
the game is never over

 
miss neverland
 

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