young killer

di Lettrice_del_mondo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. Ti conosci, Yennelle? ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. Non ci saremo più. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3. È ancora all'inizio ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Le luci sfarfallavano, la vista di un elettricista era solamene un lontano miraggio ormai da settimane. Lo stidulo sottofondo di mille api pungenti richiamava gli squilli insistenti dei telefoni, poggiati sulle scrivanie o attaccati alle pareti grigie e poco rassicurative. L'abitacolo era colmo di uomini e donne, lavorandi o richiedenti, chi si sedeva, gli occhi abbandonati, chi preparava pratiche e continua lo strazziante lavoro. Un'uomo, dietro la scrivania, leggeva alcune informazioni sul grosso portatile sporco, era bianco, tempo prima, quando era stato acquistato, oramai, però, era ricco di tutti i  colori tranne il bianco, lindo e pulito bianco.

L'uomo grassotto cercava di leggere l'e-mail che li era appena arrivata ma, con tutto quel rumore che lo accompagnava come in un valzer, sembrava avesse davanti agli occhi un turbine di venti focosi, il terreno smembrata da un terremoto sperdeva le lettere, facendole sparire, o prendendo esempio dall'uragando Catrina, divorava le lettere come ombrelloni della California. Quando, però, sembrava, ormai , giunta la quiete, ecco che Catrina attaccò, di nuovo. La porta aperta per il troppo vento, un alto vento distruttivo. Le lacrime si diffondevano come pioggie interminabili, gonfie nubi grigiastre macchiavano il suolo di nero mascara, gelido ghiaccio, macchie scure e taglienti come vetri estivi, spiaggiati tra le rive marine, scurite da frequenti raggi solari, unici compagni d'avventura.

No, quella non era un'avventura. Era tutt'altro. Sofferenza.

《 Paul. 》 la donna sussurrava quel nome tra le lacrime forzate, come se una parte di lei non volesse che piangesse ma, l'altra, ne avesse bisogno per sopravvivere. 《 Paul. Paul. 》 L'uomo cicciottello acchiappò la donna, la sorresse. 《 Non ce la faccio. Non ho retto. 》 singhiozzava aspre parole, dolci suoni taglianti come mille corde di violino suonate da bottigilie rotte.  《 Pa... Paul.Lui... 》 L'uomo portò la donna in un ufficio, una donna più magra li seguì dopo, chiudendosi la porta dietro le spalle.

《 Devi raccontarmi cosa è successo. Tutto. Non tralasciare nulla, nessun dettaglio. 》 La donna minuta, i capelli legati in una treccia stretta come mille fili elettrici, pulì le mani della vittina in lacrime, silenziosa, piano, come carezze, per calmarla. 《 Devi dirmi tutto. Tutto ciò che ha fatto. Okay, Lola? 》

Lola, silenziosa, iniziò a raccontare. L'altra agente, veloce, sfuggì dalla chiusura della porta, la mano strettaa alla pistola.

Le parole di Lola sussurrate come un segreto, quella sera. La finestra aperta faceva entrare una fresca breccia d'aria, promessa di tacere gli oscuri segreti. Segreti racchiusi fino alla morte.

La pioggia scendeva, il terreno diveniva fangoso, la lacrime erano assenti, come la lapide, solo una piccola pietra.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1. Ti conosci, Yennelle? ***


Il pulman sarebbe partito e Yennelle avrebbe perso la possibilità di arrivare a scuola in comodità. Indossava ancora il pigiama sgualcito, i capelli spettinati, gli occhi rossi per l'insonnia. In pochi secondi non sarebbe riuscita ad arrivare neanche alla porta della sua camera. I piedi iniziarono a strisciare, come quelli di uno zombie, barcollava nei piccoli passi che faceva. Le scoppiava la testa, stordita. Cosa aveva fatto ieri sera? Non se lo ricordava. Forse aveva bevuto troppe birre davanti al televisore, ma come poteva far tacere le urla di gioia della sua vicina Margot? Aveva urlato, per tutta la sera, le luci della casa accese, le finestre che nascondevano cosa stesse facendo. Prima bottiglia, ma la voce non svaniva; aveva provato ad alzare il volume, nulla, il volume elevato non battevano le sue corde vocali. Seconda bottiglia, ed era ancora lì, divertita e presente, orribilmente presente. Terza bottiglia. Quarta. Quinta. Aveva smesso di contarle. La luce accecante della casa De Mark ormai non la infastidiva, le urla non erano neanche un problema, come se non avesse mai parlato, come se fosse stata in silenzio, da sempre. La televisione era accesa, ma, quella mattina, non si ricordava cosa stesse vedendo, perché era davanti al televisore. Le mani strette intorno alla testa. Un martello pneumatico acceso nel suo cranio, solo, a torturarla. Tentò di vestirsi. Indossò l'orrida divisa della scuola. Calze color pelle, gonna a metà coscia verdognola, con linee rosse e nere, una camicia panna, una giacca beige, una cravatta nera e delle scarpe nere lucide. La voce della signora Seville risuonò dal piano inferiore, urlava ormai da un'ora, in attesa di veder scendere la figlia. Yennelle raccolse di corsa la borsa, se la mise sulle spalle e scese. I corti capelli neri che venivano legati in una coda alta, la mano che copriva la bocca assonnata. La statua ornata di rune, un'età di 40 anni e un sorriso quasi perso, aspettava davanti alle scale, un cucchiaio di legno tra le mani, gli occhi simili a due falò ardenti, le vene delle mani visibili per la forzata stretta e l'intento di non gridare. Ormai Yennelle conosceva bene la madre, sapeva che la rabbia, col passare dei giorni non sarebbe sbollita, sapeva cosa sarebbe successo. Aprì la bocca, ma non parlò, richiuse le labbra e salì le scale, senza fare rumore. Le gambe di Yennelle si mossero velocemente, scese le scale e, diretta fuori dalla porta, prese il sacchetto per il cibo sul bancone nella cucina, preparato da sua madre, come tutte le mattine. La porta sbatté non appena lei la chiuse. Fuori dalla casa c'era gente. Le loro voci erano uno sciamare di parole, grida. Dannazione, pensò Yennelle, abbassando ancora di più il cappuccio sulla testa e alzando il volume del Mp3, non possono starsi zitti a prima mattina? Stronzi. Accelerò il passo, per la prima volta desiderosa di arrivare a scuola, il prima possibile. Si fermò affianco al semaforo, dove una coppietta si stava sbaciucchiando, affianco a lei. Senza pudore!! Il semaforo risplendeva le sue rosse fiamme infuocate, le macchine attraversavano mentre i pedoni aspettavano il verde. I clacson iniziarono a suonare, senza fermarsi, finestrini abbassarsi, mani agitarsi chiusi in pugni, insulti lanciati per poi ripartire. << Idiota. >> Una Fiat Qubo grigia era ferma, la macchina che toccava la gamba di Yennelle, il braccio semi abbronzato dell'uomo che sventolava fuori, il viso corrugato dalla rabbia nell'interno dell'abitacolo. << E' rosso! Ci vedi? >> Con l'altra mano spingeva il clacson. I grandi occhi grigi di lei fissi sull'uomo, sbalordita. Senza molto interesse oltrepassò l'auto e si fermò sul marciapiede opposto, il traffico ormai fluido. Arrivò a scuola. All'entrata un gruppetto di ragazze in cerchio a parlare, intorno a loro erano tutti silenziosi. Una graziosa ragazzetta, bassa e minuta, dalla lunga chioma rossa legata in una treccia, cercò di avvicinarsi, l'esile mano tesa in avanti, vicino alla spalla di un membro del cerchio, tremava, con l'altra stringeva la manica nera dello zaino. Cadde. I polmoni smisero di respirare. La mano penzolante, la testa bassa, triste. Yennelle si diresse in classe, pensierosa. Il professore non era ancora lì. La lavagna ancora pulita, la classe ancora vuota. La classe si riempì poco dopo. Il professore entrò, i libri buttati sulla scrivania, il computer traballò per l'eccessivo peso inaspettato. La sedia venne spostata rumorosamente, creando delle strisce nere sul pavimento, il segno dei gommini neri sotto le gambe metalliche, quasi arrugginite. Sopra la sedia di legno poggio' la giacca. Il corpo direzionato verso la lavagna, il gesso bianco stretto nella mano destra, la polvere bianca incisa sulla lavagna nera: Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Il gesso posato insieme agli altri. Gli occhi del professore cupi su tutti i suoi alunni. << Alter ego. >> Era serio, qualcuno stava prendendo già appunti. << Voi piccole creaturine forse non avete mai sentito parlare del signor Hyde o del dottor Jekyll o dell'alter ego. Che paroloni!! >> ci scherzò su. Le mani dietro la schiena, silenzioso diretto tra i banchi. Fissava i ragazzi tra i banchi alla sua destra e alla sua sinistra. << Alter ego. Alla fine tutti noi ne abbiamo uno, forse non lo sappiamo neanche noi. >> Il professore di psicologia viaggiava tra le alte chiome giovanili. << 1646. Paracelso. Diagnosticò il primo caso di disturbo dissociativo, come Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. >> Ormai era vicino alla cattedra. Affianco al computer una sacca beige. Si avvicinava ai ragazzi e, pian piano, poggiava dei libri sui banchi. << Ovviamente vorrei che leggeste l'intero libro. Tutto. >> sottolineò quella parola. Tutto. Si fermò davanti ad un banco vuoto, sospirò. La voce quasi smorta. Era un estranea alle successioni di avvenimenti nel mondo. Solamente rannicchiata in un angolo oscuro del mondo, sperando che un esile raggio la catturarasse, rendendola, per un solo istante, presente tra gli imponenti grattaceli, le vite di chi circondava il suo corpo. << Ci sono diversi libri, autori. Di tutto. Voglio che, entro la fine del mese, voi conosciate il dottor Jekyll e il signor Hyde come voi stessi. >> Sempre se vi conosciate realmente, una vocina, in fondo alla testa di Yenelle sussurrò quelle parole. Il professore continuò a spiegare, gli occhi di Yenelle fissi al muro. Il pallido grigiore dei suoi occhi persi ad ascoltare quella stridula vocina. Ti conosci, Yenelle? Il pullman si fermò bruscamente al fianco della casa Seville. C'erano ragazzi affacciati all'altro lato del pulman, le voci basse, gli occhi fissi, dritti in un buco oscuro. La porta di vetro dello scuolabus arancione si aprì, un rumore stridente. Le suole degli stivaletti neri scesero i pochi scalini. Le chiavi nella toppa della porta. Questa si aprì e la ragazza oltrepassò la soglia. Non appena entrò sentì il suo telefono squillare. Stefanie. La ragazza rispose alla chiamata, il telefono vicino all'orecchio. Sentiva un sottofondo di musica dall'atra parte del telefono. 《 Che succede?》 L'amica, una ragazza bassina dai capelli biondi, esultò. Dio.... Prese un bel respiro. 《 Oggi non eri a scuola. Come mai? 》 Sembrava stesse bevendo, la musica sempre più alta. Una sinfonia unica, reale, conosciuta, una sfrenetica danza di musica e alcol. 《 Amore. 》 Era ubriaca. I piedi barcollavano sul pavimento di legno. 《 La vita è favolosa! Dobbiamo festeggiare. 》 Rideva, non si fermava. Silenzio. Silenzio mortale. Un silenzio straziante. 《 Ops. Si è rotta. Si, si è rotta. 》 Una risata singhiozzante. I piedi sopra i vetri della bottiglia. 《 Vieni stasera, ci sarà anche Venye. 》 L'assente sottofondo, il vuoto presente. I raggi del sole si spergevano tra le nuvole pallide e rassicuranti, le fredde lacrime tetre non sarebbero scese, sarebbero rimaste imprigionate in aria, penzolanti, in attesa, a fissare l'infinito vuoto sotto di esse, le gambe a mezz'aria, gli occhi spenti. Il corpo senza vita, era immobile, gli occhi fissi al televisore, una successione interminabile di ciò che era solo invenzione, le gocce di gioia mutate in aspra dolcezza. Yennelle cercava di guardare la televisione, vedere alcuni nuovi post su Facebook. " Il mio amore. " indicava una foto di Tori. Conati di vomito, poteva pensare solo a ciò. Lanciò il telefono sul divano. Come possono solamente pensare di essere felici, felici a ricevere dei like per una stupida foto in cui limonano con il proprio fidanzato. Solo uno scambio di germi, forse anche malattie. Come possono, minimamente, pensare di poter, finalmente, morire di gioia? Gli occhi trasparenti come vetro fissi sul suo corpo, lo specchio davanti, in attesa di vederlo, trasformare in uno specchio che, ai suoi occhi e alla visione di chiunque provasse a guardarla, la facesse diventare bella. Perché non possiamo essere lì, noi, al suo posto? << No. >> gridò. Yennelle? Non lo sai? Sì, lo vuoi. Vuoi essere al suo posto. Vuoi avere tutte quelle notifiche. Vuoi essere come Tori. Come Barbara. Come Laura. Come Margot. Come.... << Margot... >> Non erano parole, non erano dei movimenti, un sussurro sarebbe stato profondo, intenso, udibile. Il tremolio di mille paure intensificate e unite in due sottili labbra rosee, sole, in attesa di un aiuto, di un'ancora di salvataggio. Si. Si. Lei. Il suo nome è ciò che regge il tuo cuore, ciò che ora farà muovere le tue gambe, ciò che ti farà fare ciò per cui sei nata, per cui sei stata creata. Non sei qui per gioire. L'orrida paura sul suo volto, la voglia di scappare, rifugiarsi, la possibilità di trovare la più veloce ed efficace via di uscita. << NOOOO. >> urlò terrificata. Il pugno contro il vetro. Lo spacco, finalmente, le faceva vedere chi era realmente. Il volto chiaro, gli occhi due sottili fessure. Un ghigno. Solo un ghigno. Lei. Solo lei. Passo dopo passo, unendosi in un veloce sfociare di camminate. Piano, piano. Gli occhi chiusi in se. Più veloci, veloci. Alla ricerca di una via di sfuggita. La gente sparpagliata, mille pezzi di gocce diverse e uguali, bianche, nere, blu, colori vasti dell'arcobaleno, sfocati, grandi, piccini, persi, ma, pur sempre, uguali, i raggi inebrianti conficcati in ognuno di loro, diversi ma uguali, trasparenti, vuote. I raggi solari trafiggevano le diversità, le risucchiavano, se ne cibavano, se ne impadronivano, e rendevano quelle gocce tutte uguali, identiche, copie senza fine. I piedi veloci cercavano di schivare i colpi degli avversari, ganci, montanti, volevano cambiarla, renderla come loro, senza vita. Gli occhi vitrei inebriati dalla grigia e inespressa nebbia grigia fissavano la grande casa davanti a lei, oscurata dalla luna, uguale nella sua diversità temporale. La nebbia. Il grigiore. Le nuvole. La pioggia. Non saresti capace di attraversare la soglia. Le sussurrò qualcuno nell'orecchio. Il silenzio cigolante delle assi della porta d'ingresso ruppero il bagliore lunare, gli occhi speranzosi di una clamorosa ritirata. Cercava di parlare. Urlava. La mano serpeggiante, silenziosa, letale. Sarebbe finita la sua vita se avrebbe oltrepassato la porta. Se avesse solo inebriato quell'aria. Yennelle non sarebbe più stata Yennelle. Non sarebbe stata lei. La luna pianse. Urlava sperando che non entrasse in quella casa. << Si. >> Gioiosa. No. Sussurrava la luna, vogliosa della sua piccola amica. Speranzosa nel suo ritorno.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2. Non ci saremo più. ***


Il grigiore ammuffito saliva, su, su, con mille funivie urlanti per il terrore, gracchianti come mille corvi. Mattoni grondanti di odio, terrore, visione di corse di gente impaurita, urla inserite tra le taglienti pietre oscure come il cuore della notte, la luna inalzata. Uragani di devastazione rialzavano la polvere, la più inconscia voglia di sfuggire, di scappare, di poter respirare, finalmente. Scriccoli di crudele pazzia. Yennelle si fermò, il piede alzato, intenta a scoprire cosa dovesse fare. No, no. Si urlava contro, un silenzioso alveare di grida pungenti come mille pungiglioni di api assassine. Yennelle. Era lei, solo lei. Unica, preziosa, rara, cara Yennelle. Si, si, lei. Vuoi, realmente oltrepassare quella porta, far sparire la tua vita. Morirai, non ci saremo più. Non ci saremo, mai. Sarà il nostro ultimo momento di vita, l'ultimo momento di gloria. << No. non mi succederà nulla. >> Il chiarore lunare riversato sulle corte braccia asiatiche dal più antico lamento. Invece sì , Yennelle . Ti prenderanno, ti risucchieranno. Non ci sarai più . Loro.... loro faranno di te. << Non mi succederà nulla. Nulla. >> Nulla? Non è vero. Saranno i tuoi burattinai, le braccia non altro che striduli accenni di vita intrisi in orridi antichi pezzi di legno, ogni movimento sarà solo un sussurro di dolore e perdite. Le tue braccia, la tua mente, uccis.... << No. Loro non lo faranno. >> Il piede si poggiò, sicuro. No, Yennelle. E le dolci pupille risplendenti di dolore, cercarono di ricordare le urla di gioia, le mille cadute foglie negli autunni più freddi, i sospiri cercati e mai persi, i sorrisi, gli abbracci. Lei. Lei. Lei. Lei era... Lei era morta. Non era altro che un orrido sacco ammuffito di abiti intrisi in ricordi non suoi. Ricordi stracciati. Addio. La voce di una bambina che riviveva le sue paure. Quelle paure. Addio Yennelle. Una mano tremolante, un sussurro disperato. Per l'ultima volta quel demone. Quel demone... Un labirinto quadrimensionale di minuscole farfalle nere d'oblio. Luccichi insignificanti di bagliore argenteo, la cupola divina di ciò che caccia, contrae, cattura. Tutto. Tutto, lì. Solo lì. L'interno della casa non era altro che la dominazione dell'oscurità, la tana degli amanti del putrefatto, dei corpi smembrati, dei sorrisi lacerati, delle vite sfratte. Le scale quasi invisibili ad occhio umano, una possibile apparizione alle torridi lampadine giallognole delle torce arrugginite, sconosciute. << Enni? >> disse Stefani dalle alte scale abbandonate alla memoria di stracci bagnati o scope. << Sei tu Enni? >> Le finestre chiuse da anziani, troppo anziani, sbarre di legno rinsecchite, rigonfiate dalla muffa e dall'umido tetro. Al lato delle scale una piccola finestra faceva oltrepassare ciò che Yennelle conosceva, quegli urli di perdita, quegli strazzianti lamenti di ricerca senza fine, senza riposo, senza sussurrare un " aspetta " o " un secondo ". Morire fino alla fine. Arrivare, raggiungere l'obbiettivo. E, dall'immenso Paradiso, lugubre di sorrisi, lacrime di sole, gocce di gioia, ricerche di felicità, un solo raggio conficcato nel baratro dell'inferno, sfigurando come acidità il volto del demone. Gocce. Gocce. Gocce. Nulla, niente. Secchi. Ancora secchi. Cannonate .... E.... Nulla. Il diavolo rosso vivo, in piedi, trionfante. Il sorriso splendente da quel raggio. Uno tsunami di nere onde profumate di vaniglia e incremate si alzò in aria, le gambe in direzione delle scale. Il corpo immobile come una statua greca, gli zigomi perlacei ben definiti, le spalle dritte, il corpo regolare ricoperto da tessuto. << Sei solo tu? >> L'altra scosse la testa. Si girò ed oltrepassò la porta , una porta vecchia, rovinata, la parete distrutta nel tempo, crepe, spazi, fessure colme d'assenza. Oltrepassò la porta, scomparsa, i piedi ululanti facevano echegiare la sua assenza. Devi seguirla. Le suggerì qualcuno, in fondo alla sua testa. Lei è come te. Le suole delle converse nere correvano, leggere, come se stesse volando, come se i suoi piedi toccassero grige, tetre, assassine, nuvole. Le scale salivano, salivano ancora. E lei era lì. Si, si. Una mano tesa, in aiuto. Le loro dita s'intrecciarono, come se fossero state sempre insieme. Lei ti vuole. Le dita strette, le gambe flesse in un movimento continuo: corse dopo corse. Un turbine di movimenti. La stanza in cima era alta, il corridoio tempestato di schegge di tempo e vetro, il parquet bagnato di una strana macchia rossa, maleodorante e visiva, molto visiva. La bruna puntò i piedi. 《 Stef. 》 disse, sembrava impaurita, la voce di una bambina, di una bambina la cui vista era stata accecata da un genocidio. 《 Cos'è questo? 》 Il dito indicava la macchia. L'altra alzò le spalle, girandosi. 《 Prima sono inciampata e si è rotta la bottiglia di vino. 》 Il rimbombo di vetri era insinuato nella sua testa, ricordandosi la chiamata di quel pomeriggio, i piedi che schiacciavano i vetri, senza pensare al dolore.《Quando mi hai chiamata? 》 L'amica accennò un si. 《 E non hai pensato a pulire? 》 Era arrabbiata, infuriata. La voce alta. Stefanie stava indietreggiando, quasi cadde nel tentativo di allontanarsi. Orrore sul suo volto. La mano toccava il pavimento di legno rovinato. 《 Enni. Che hai? 》 Yennelle guardò l'amica, i piedi tesi cercavano di scalaciare l'aria per allontanarsi, le mani graffiate dai pezzettini di legno. Gli occhi sembravano voler scappare, non vedere, andarsene. 《 Cosa? Che ci fai a terra? 》Stefanie, quasi sbalordita fece un balzo e si alzò. 《 Su, andiamo. 》 La bruna asiatica avanti, come se nulla fosse accaduto. Il corridoio, pian piano, si riempiva di colore, le pareti costeggiate da tavolini ricchi di vasi con fiori rinsecchiti, i vasi decorati poggiati su tovagliette di pizzo lavorate ai ferri. I fiori non erano gli unici ad arrichire la stanza, ricordando che, anche le cose più belle muoiono, hanno una fine. I muri gli aiutavano, ricordavano la vecchia carta da parati, strappata e stracciata penzolante dai muri, un richiamo di fiori confinati con lo sfondo panna, a volte ricoperti da vecchie foto polverose, così polverose da far venire interesse a chiunque le guardasse. Stefanie era ormai davanti a Yennelle di almeno un metro, era sicura mentre camminava, non esitava, come se conoscesse tutti i segreti di quelle piccole mura. Lei, però si era fermata, non perché non conoscesse la strada ma, più che altro, perché aveva voglia di sapere, conoscere, racchiudere nella propria testa i volti dei vecchi abitanti o, forse, quelle foto erano vuote, la polvere abitava solo un vetro lugure e depresso dalla solitudine, le larve ne avevano fatto il nido, creando una leggera compagnia. Oppure mancava anche il vetro. Quella casa era troppo vecchia per poter annunciare che ci abitasse qualcuno, che qualcuno, realmente, avesse deciso di appendere delle proprie foto, che qualcuno si ricordasse di quei volti incorniciati. 《 Oh signore. 》Le spalle contro il muro, la mano polverosa si ripuliva sul vestito indossato dalla ragazza, gli occhi fissi al volto. Non ci credeva. Non poteva. Era impossibile. Un urlo soffocato graffiava la trachea, le unghie conficcate nella carne risalivano, come un mostro rinchiuso in un pozzo cercava di sfuggire alla sua eterna gabbia. Stefanie era sulla soglia, in lontananza delle suole di scarpe si avvicinavano alle due ragazze, eppure sembravano così lontane, come se non potessero mai arrivare, come se quei passi, in realtà, non cercavano di correrle incontro ma di scappare via. 《 Ste..ef.. 》 la voce balbettante, il corpo tremante, gli occhi lucidi. Forse era la polvere. Forse lo spavento. 《 Stef... que-quella ragazza. 》 Fissava solamente quella foto, quella terrificante foto. Come poteva succedere qualcosa del genere? Come poteva essere vero? Forse era solo una visione, forse era solamente una finzione. 《 Quella ragazza. 》 Ripeté di nuovo. Due grandi occhi grigi erano fissi verso chiunque avesse catturato quell'immagine, le labbra leggere sembravano segnati da un colore roseo per risaltarle, le guance rosse tentavano di emettere un sorriso, la pelle quasi chiara, come se non avesse mai visto il sole, i capelli scuri raccolti in un'acconciatura alta lasciava liberi qualche ciuffo, uno di essi sulla fronte, quasi arrivava all'occhi sinistro, sembrava non darle fastidio, altri fuoriuscivano per trovare la libertà. Un cappello grande sulla testa, le mani ricoperte da due guanti corti di pizzo bianco arrivavano fino al polso, un bracciale di perle sul polso sinistro, il corpo coperto da un vestito, il petto completamente coperto, il tessuto di un leggero celeste , una collana di perle pendeva, una collana più piccola ricordava una croce, le maniche del vestito coprivano i bicipiti, la base ricoperta da altro pizzo, partendo dal seno si poteva notare un insieme di pizzo e ghirigori neri sul tessuto chiaro, la gonna quasi visibili mostrava tutta la sua grandezza, la sua eleganza. Una ragazza dai capelli biondi, alta, i fianchi esaltati, il seno abbondante, le cosce più grosse coprivano i polpacci magri, un paio di scarpe bianche ai piedi, un paio di pantaloncini di jeans insieme ad una maglietta gialla, corta davanti e lunga dietro, ciò che non era coperta dalla maglietta gialla era stata coperta da una camicia denim. Passava lo sguardo da Yennelle al presunto quadro dell'orrore. Si avvicinò all'orecchio di Stefanie e le sussurrò qualcosa all'orecchio, l'altra rispose nello stesso modo, chi ascoltava non toglieva mai lo sguardo dal corpo terrorizzato. Le unghie di Yennelle si erano conficcate tra i suoi capelli, la testa le scoppiava, come quella stessa mattiva. Sapeva, sapeva qualcosa ma non ricordava. 《 Quella ragazza. 》 sussurrava, un disco rotto, nessuno aveva voglia di aggiustarlo o toglierlo, far smettere l'agonia. 《 Quella ragazza. 》 la voce si abbassava, la frase si allungava. 《 Quella ragazza. 》 Venye si avvicinò all'amica, voleva che si alzasse, i suoi occhi grigi facevano paura, sembravano fuoco ardente, alimentato dalla paura e dalle brutte sorprese. 《 Vieni qui, tesoro. Andiamo. 》 L'altra si perse nelle braccia dell'amica. Gli occhi delle due s'incrociarono. 《 Quella ragazza. 》 Una lacrima, una lacrima di terrore. Avrebbe preferito scappare. 《 Quella ragazza sono io. 》

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Capitolo 4
*** Capitolo 3. È ancora all'inizio ***


《 E ora? Non avrebbe dovuto... 》 La voce di Venye era lontana, quasi impercettibile, non poteva neanche essere definita una voce, ma un brivido freddo, gelato, senza anima, che, come un serpente, si inalzava, strisciava per avvicinarsi alla sua vittima e nutrirsene, dissanguarla. La vista di Yennelle era offuscata dalle lacrime e dal mascara penzolanti dalle ciglia: asciugarle non sarebbe servito a nulla. Ora, solamente l'udito l'aiutava a capire cosa stessero facendo le sue amiche nel salotto del piano terra mentre lei era vicino alla porta del primo piano, nascosta. L'orecchio poggiato al muro, l'età era udibile, percettibile, piccoli segreti sussurrati insieme ai discorsi e ai pensieri. 《 Lo so, lo so, Venye. C'è ancora bontà in lei. 》 Stefanie camminava avanti e indietro, le mani tra i capelli, un nido di preoccupazioni. Le scarpe rimbombavano contro il pavimento di legno, i sospiri e gli urli scacciati un udibile eco silenzioso. 《 Lei non avrebbe mai voluto questo, lei avrebbe preferito che i suoi piani si seguissero. È ancora all'inizio. 》 Venye si era poggiata al muro, le dita trotterellavano sul ginocchio, come se quell'intrigato codice potesse aiutarla a pensare. Forse era veramente così. Un'assurda soluzione. 《 Manca ancora molto perché la rispecchi. 》 I passi ora erano muti, fermi, in attesa. 《 Però ho visto uno spicchio di luce in Yennelle. Lei st.... 》 le voci erano ormai lontane, la distanza gli annegava nell'acqua, solo le onde del silenzio la trasportavano, l'allontanavano dalla sicurezza della riva, la trasportavano verso il profondo oceano, nella bocca degli squali, tra i denti dei predatori, rendendola non altro che schiava della morte. Un lugubre corpo zuppo d'acqua. Neanche Yennelle sapeva perché avesse deciso di dirigersi nel sinistro corridoio, il ridente sorriso del buio pronto a cibarsene con prelibatezza, un succulente banchetto. Il corpo minuto perso nell'ombra. I passi che si sperdevano nell'aria, i piedi leggeri come ossigeno nel corridoio polveroso. Il sussurro di vita e morte, l'unione di acido e cioccolato. Come un arido fuoco intrappolato in una cupola di vetro, nemici vitali. Il buio iniziava ad aumentare nel corridoio, le voci di Venye e Stefani ora non erano altro che un ricordo, la loro strana discussione rimasta nascosta in un angolo della sua mente, sola, senza importarsene di far parte della vita di Yennelle, senza che sia al centro dell'attenzione, il punto centrale della vita, le pupille di quegli occhi grigi inespressivi. La pelle violacea di un tulipano in piena primavera svoalzzava nell'aria, il sorridente polline sparso su ogni suo passo, lo stelo bianco in risalto contro i ciuffi neri ricadenti sulle spalle. Le risate in sottofondo erano accompagnate da un venticello di foglie ed erba verde smeraldo e risate rimbombanti, ricordi di vite passate. La bambina correva, il vestito svolazzava, si guardava dietro di se mentre percorreva la sua strada, gli occhi vispi di una bambina di otto anni, gli occhi celesti sorridevano al mondo. Il vento pian piano aumentava, la bambina correva sempre più piano, come se fosse un rallentatore, e un sussurro docile attirava Yennelle, chiamandola. 《 Di qui. 》 Le sussurrava. Come una mano versata ad un uomo steso dal dolore. 《 Si, lei è qui. Lei ti vuole. 》 E mentre Yennelle seguiva quei consigli, la voce famigliare svaniva insieme al vento, alla corsa ormai veloce, gli occhi vispi d'infanzia lontani nella galassia, un ricordo invisibile. La stanza in cui fu accompagnata era buia, illuminata solamente da qualche lunga e magra candela bianca, l'apice infiammato. Non appena Yennelle fu dentro la porta si chiuse dietro le sue spalle, un tetro e stridente strisciare. La musica iniziò ad aumentare, le fiammelle delle pallide candele tremolare, le tende chiuse delle finestre muoversi, si alzavano, ma la luce non entrava, dietro di essere si trovavano solo delle travi, il pavimento si muoveva, passi pesanti di persone incise sul parquet vecchio, la polvere si alzava unendosi all'aria poco respirabile. Le fiamme delle candele si muovevano, ancora e ancora più veloce, aumentavano, divoravano le cere, i tavolini bruciavano per il troppo calore, i vasi di ceramica loro vicini ricordavano la manodopoera e il tempo sprecato nella lavorazione, l'innato bisogno di ritornare alla propria natura, all'origine dei tempi. La cera sciolta sussultava e rispecchiava, le dita graffianti gocciolavano sul pavimento annoso, le dita congelanti in un volatile comunione di dolore, polvere e ricordi smarriti. Il cielo chiaro abbracciava il sole estivo dei primi giorni di Giugno. L'armadio era spalancato, i vestiti fuoriuscivano dal loro ordine, accasciandosi sul pavimento o sul letto, arricciandosi e rovinando la stiratura attenta della madre. Una ragazza dai capelli castani, stirati, i capelli curati con attenzione, ore passate a curarli. Il viso, ricco di attenzione, uscì fuori dall'armadio, gli occhi celesti fissi in direzione di quelli grigi di Yennelle, intensi. Minuti alla ricerca di un tesoro nascosto, sotterrato sotto la sabbia fredda: l'anima. E, per quanto lo spirito, il soggetto di ricerche infinite di uomini tristi, la base di storie d'amore, di rotture e ritrovamenti, di leggende infinite, insinuate tra le colline e le montagne dei territori del mondo, insinuate nei mari, nei sotterranei e nei cieli riscaldati o gelati, nuvole al centro dell'attenzione o nascosti nei ranghi bui, quei due erano diversi, eppure erano uguali, solamente due gocce d'acqua di differenti colori, uno nero e l'altro trasparente. La stessa persona, la coscenza differente. << Yenny? >> Una voce femminile veniva dalla porta della camera della ragazza. Chi mi chiama? si chiese Yennelle, girandosi. I fluidi capelli rossi corti sotto le orecchie, un vestitino azzurrino accompagnato da un paio di scarpe alte beige, due perle come orecchini, fissava dritta l'armadio. Solamente quando tutto il busto nascosto dall'anta fuoriuscì, Yennelle capì. Quella ragazza, quegli occhi celesti, quei ciuffi di capelli castani, un reggiseno blu e un paio di slip abbinato. << Non so cosa mettermi. >> La ragazza, Amanda, attraversò Yennelle. Una fitta intensa partì nello stomaco di Yennelle, si infittì nelle vene rosse, ricoprendo le molecole di sangue e arrivando al cuore intrigandolo di dolore e sofferenza, strappando ogni pezzo di muscolo striato. Avrebbe urlato, espulso il suo dolore, se non fosse che non riusciva a parlare, solamente provare ad aprire la bocca era un dolore ancora più fittizio, un urlo demoniaco, insinuato, solamente, nel suo corpo. Il dolore dell'abbandono. << Non sei ancora vestita? Sta arrivando. >> Come risposta solamente uno sbuffo. << Non so c.... >> la vista si annebbiò, i vestiti sul terreno iniziarono ad alzarsi, un uragano aveva catturato Yennelle, l'aveva inalzata e scaraventata contro un muro di legno, un muro freddo, la schiena conficcata contro la parete, sporca. Oddio. Le mani vicino alla bocca, i piedi, non appena Yennelle fu in piedi, iniziarono ad indietreggiare. La bocca aperta in un urlo. Le scarpe contro il corpo. Non credeva realmente che fosse accaduto qualcosa del genere. Non poteva. Era impossibile. Inimmaginabile. Le mani dietro la schiena di lei furono tirate verso l'ombra, finalmente riuscì a parlare, le urla non erano più silenziose e pericolose, ma, nessuno nella stanza - una donna lacrimante, un uomo in divisa che abbracciava la prima donna e un'altra, china su un corpo , lo stesso corpo sul quale era caduta - la sentirono. Lo stesso corpo che conosceva troppo bene. Il suo Era sempre stato il suo corpo. Era lei che cercava un abito nell'armadio, coperta solamente dall'intimo, era lei distesa in una pozza di sangue, esanime. La camera era ricca di candele, nessuna di loro era usurata, nessun tavolo cenere, solo il suo corpo era scomposto, caduto sul parquet, gli occhi dritti verso un lato della parete. Il muro non era molto decorato, solamente un vecchio telo lercio copriva un mobile. Il telo, un tempo bianco, iniziò a muoversi, delle dita ossute cercavano di allontanare il telo, prima una mano, poi un'altra. Il telo cadde, alzando la polvere e l'aria. Lo specchio sorrideva, una figura alta, magra, ossuta. Indossava un paio di stivaletti, una maglietta color salmone e un paio di Jeans, la giacca aperta, il cappuccio abbassato. << Ciao ciao, Yennelle. >> << Tu. >> Disse la ragazza china << Tu sei uguale a me. >> Un ghigno parve sul volto chiaro e macchiato dall'età.

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